Silvia Avallone
Acciaio Rizzoli – la scala
Proprietà letteraria riservata © 2010 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-8...
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Silvia Avallone
Acciaio Rizzoli – la scala
Proprietà letteraria riservata © 2010 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-03763-1 Prima edizione: gennaio 2010 Seconda edizione: gennaio 2010 Terza edizione: febbraio 2010 Quarta edizione: febbraio 2010
Questo libro è frutto esclusivo dell'immaginazione dell'Autore. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio.
Acciaio a Eleonora, Erica e Alba le mie migliori amiche e a tutti quelli che fanno l'acciaio
Le cose migliori risplendono di paura. Don De Lillo, Libra
L'adolescenza è un'età potenziale.
Parte prima Amiche del cuore
1
Nel cerchio sfocato della lente la figura si muoveva appena, senza testa. Uno spicchio di pelle zoomata in controluce. Quel corpo da un anno all'altro era cambiato, piano, sotto i vestiti. E adesso nel binocolo, nell'estate, esplodeva. L'occhio da lontano brucava i particolari: il laccio del costume, del pezzo di sotto, un filamento di alghe sul fianco. I muscoli tesi sopra il ginocchio, la curva del polpaccio, la caviglia sporca di sabbia. L'occhio ingrandiva e arrossiva a forza di scavare nella lente. Il corpo adolescente balzò fuori dal campo e si gettò in acqua. Un istante dopo, riposizionato l'obiettivo, calibrato il fuoco, ricomparve munito di una splendida chioma bionda. E una risata così violenta che anche da quella distanza, anche soltanto guardandola, ti scuoteva. Sembrava di entrarci davvero, tra i denti bianchi. E le fossette sulle guance, e la fossa tra le scapole, e quella dell'ombelico, e tutto il resto. Lei giocava come una della sua età, non sospettava di essere osservata. Spalancava la bocca. Cosa starà dicendo? E a chi? Si iniettava dentro un'onda, riemergeva dall'acqua con il triangolo del reggiseno in disordine. Una puntura di zanzara sulla spalla. La pupilla dell'uomo si restringeva, si dilatava come sotto l'effetto di stupefacenti. Enrico guardava sua figlia, era più forte di lui. Spiava Francesca dal balcone, dopo pranzo, quando non era di turno alla Lucchini. La seguiva, se la studiava attraverso le lenti del binocolo da pesca. Francesca sgambettava sul bagnasciuga con la sua amica Anna, si rincorrevano, si toccavano, si tiravano i capelli, e lui lassù, fisso con il sigaro in mano, sudava. Lui gigantesco, con la canotta fradicia, l'occhio sbarrato, impegnato nella calura pazzesca. La controllava, così almeno diceva, da quando aveva cominciato ad andare al mare con certi ragazzi più grandi, certi elementi che gli ispiravano nessuna fiducia. Che fumavano, che di sicuro si facevano anche le canne. E quando lo diceva alla moglie, di quegli sbandati che frequentava sua figlia, gridava come un ossesso. Si fanno le canne, si fanno di coca, spacciano le pasticche, quelli là si vogliono scopare mia figlia! Quest'ultima cosa non la diceva esplicitamente. Tirava un pugno sul tavolo o nel muro. Ma forse aveva preso l'abitudine di spiare Francesca da prima: da quando il corpo della sua bambina si era come desquamato e aveva assunto gradualmente una pelle e un odore preciso, nuovo, forse, primitivo. Aveva, la piccola Francesca, cacciato fuori un culo e un paio di tette irriverenti. Le ossa del bacino si erano arcuate, formando uno scivolo tra il busto e l'addome. E lui era il padre. In quel momento osservava sua figlia dimenarsi dentro il binocolo, slanciarsi con tutta se stessa in avanti per acchiappare una palla. I capelli zuppi aderivano alla schiena e ai fianchi, alla distesa della pelle intarsiata di sale. Gli adolescenti giocavano a pallavolo in cerchio, intorno a lei. Francesca slanciata e in
movimento, in un unico clamore di grida e schizzi dove l'acqua era bassa. Ma Enrico non si occupava del gioco. Enrico stava pensando al costume di sua figlia: Cristo, si vede tutto. Costumi del genere andrebbero proibiti. E se solo uno di quei bastardi fottuti si azzarda a toccarla, scendo in spiaggia con un randello. «Ma cosa fai?» Enrico si voltò verso la moglie che lo stava osservando in piedi, al centro della cucina, con un'espressione avvilita. Perché Rosa avviliva, rinsecchiva, a vedere suo marito alle tre del pomeriggio con il binocolo in mano. «Controllo mia figlia, se permetti.» Sostenere gli occhi di quella donna a volte non era facile neppure per lui. C'era un'accusa costante, conficcata dentro le pupille di sua moglie. Enrico increspò la fronte, deglutì: «Mi sembra il minimo…». «Sei ridicolo» sibilò lei. Lui guardò Rosa come si guarda una cosa fastidiosa, che fa imbestialire e basta. «Ti sembra ridicolo tenere d'occhio mia figlia, coi tempi che corrono? Non lo vedi con che gente va al mare? Chi sono quei tipi là, eh?» A quell'uomo, quando dava in escandescenze – e succedeva molto spesso – gli si congestionava la faccia, si gonfiavano le vene del collo in un modo che faceva paura. Quando aveva vent'anni, prima che si lasciasse crescere la barba e mettesse su tutti quei chili, non ce l'aveva la rabbia. Era un bel ragazzo appena assunto alla Lucchini, che fin da bambino si era scolpito i muscoli a forza di zappare la terra. Si era fatto un gigante nei campi di pomodori, e poi spalando carbon coke. Un uomo qualunque, emigrato dalla campagna in città con uno zaino in spalla. «Non ti rendi conto di quello che combina, alla sua età… E come cazzo va in giro conciata!» Poi, negli anni, era cambiato. Giorno dopo giorno, senza che nessuno se ne accorgesse. Quel gigante che non aveva mai varcato i confini della Val di Cornia, che non aveva mai visto nessun altro straccio d'Italia, si era come congelato dentro. «Rispondi! Lo vedi come cazzo va in giro tua figlia?» Rosa si limitò a stringere più forte lo strofinaccio con cui aveva appena asciugato i piatti. Rosa aveva trentatré anni, le mani piene di calli, e dal giorno del suo matrimonio si era lasciata andare. La sua bellezza di ragazza meridionale era finita in mezzo ai detersivi, nel perimetro di quel pavimento lavato tutti i giorni da dieci anni. Il suo silenzio era duro. Uno di quei silenzi fermi, d'attacco. «Chi sono quei ragazzi, eh? Li conosci?» «Sono dei bravi ragazzi…» «Ah, allora li conosci! E perché non mi dici niente? Perché in questa casa non mi si dice mai niente, eh? Francesca con te parla, vero? Sì, con te sta ore e ore a parlare…» Rosa gettò lo strofinaccio sul tavolo.
«Chiediti il motivo» soffiò, «perché con te non parla.» Ma lui non la stava già più a sentire. «A me non viene detto niente! A me non mi si dice mai niente, maremma cane!» Rosa si chinò sulla bacinella con l'acqua sporca. Alcune sue coetanee, d'estate, andavano ancora in discoteca. Lei non ci era mai stata. «E cosa sono, io? Scemo? Ti sembro scemo? Che va in giro come una puttana! E tu come la cresci, eh? Brava! Ma io un giorno o l'altro…» Sollevò la bacinella e la vuotò nell'acquaio del balcone, gli occhi fissi sui grumi neri nel vortice dello scarico. Avrebbe voluto vederlo morire, stramazzare al suolo agonizzante. «Vi mando in culo io, a te e a lei! Lavoro per cosa? Per te? Per quella puttana?» E passargli sopra con l'auto, triturarlo sull'asfalto, ridurlo a una poltiglia, al verme che era. Anche Francesca avrebbe capito. Ammazzarlo. Se non lo avessi amato, se mi fossi cercata un lavoro, se dieci anni fa fossi uscita di qui. Enrico le voltò le spalle e protese il corpo gigantesco dalla balaustra, nel sole che alle tre del pomeriggio pesa come l'acciaio e calpesta tutto. La spiaggia, dall'altra parte della strada, si affollava di ombrelloni e di grida. Un carnaio, pensò. E riaccese il mozzicone di toscano che teneva fra le dita. Dita tozze, rosse e callose. Le dita di un operaio che non usa i guanti, neppure quando deve misurare la temperatura della ghisa. Da una parte c'era il mare, invaso di adolescenti in quell'ora bestiale. Dall'altra il muso piatto dei casermoni popolari. E tutte le serrande abbassate lungo la strada deserta. I motorini allineati sui marciapiedi erano parcheggiati di traverso, ciascuno con il suo adesivo, con la sua scritta di Uniposca: "France ti amo". Il mare e i muri di quei casermoni, sotto il sole rovente del mese di giugno, sembravano la vita e la morte che si urlano contro. Non c'era niente da fare: via Stalingrado, per chi non ci viveva, vista da fuori, era desolante. Di più: era la miseria. Un balcone più sopra, al quarto piano, un altro uomo si sporgeva dalla ringhiera arrugginita e guardava verso la spiaggia. Lui ed Enrico erano le sole figure umane affacciate. Il sole tramortiva. E l'intonaco se ne cadeva a pezzi. L'ometto, a torso nudo, aveva chiuso in quel momento lo sportellino del cellulare. Un nano, in confronto al gigante con il binocolo del terzo piano. Durante l'intera telefonata aveva gridato: non perché fosse arrabbiato, ma perché quello era il suo tono di voce. Aveva parlato di soldi, di cifre astronomiche, e non aveva distolto un attimo gli occhietti vispi dalla spiaggia, cercando qualcosa che da quella distanza, senza occhiali, non poteva trovare. «Un giorno di questi ci vado anch'io al mare. E chi me lo vieta? Dopotutto sono stato licenziato» ridacchiò fra sé e sé, a voce alta. Dall'interno della casa si senti un urlo.
«Cosaaa?» «Niente!» rispose lui, dopo essersi ricordato di avere una moglie. Sandra comparve sul terrazzino con il mocio grondante di ammoniaca. «Artù!» gridò brandendo il mocio. «Cos'è, sei impazzito?» «Ma scherzavo!» fece un gesto con la mano. «Ti sembrano scherzi da fare? In questo momento, che dobbiamo pagare la lavastoviglie, le rate dell'autoradio di tuo figlio… Un milione e passa per un'autoradio!, dico io, e questo si mette anche a far battute…» Non era una battuta. Si era fatto sgamare sul serio alla Lucchini a rubare taniche di gasolio. «Spostati, vai. Che devo passare il cencio.» Da quando era stato assunto, Arturo fotteva il gasolio al signor Lucchini, così, tanto per fare il pieno e rivenderne un po' ai contadini. Non se n'era mai accorto nessuno, per tre anni. E adesso, porca puttana… «T'ho detto spostati, che 'sto pavimento fa pena.» Si levò di torno fischiettando. Entrò in cucina. Era un ometto allegro, espansivo: aveva un sacco di amici. Lo licenziavano, era pieno di debiti e lui fischiettava. Afferrò una nespola dal cesto sul tavolo, l'addentò trasognato. Fruttificava nella sua testa incredibili affari: di quelli zero stress – tutto guadagno. «Finiscila di pulire. Sempre a pulire stai!» «Eh… Perché? Sennò pulisci tu?» Arturo aveva conosciuto, saltuariamente, le fatiche del lavoro: quelle che sua moglie testava con rigore dall'età di sedici anni e che, per esempio, avevano permesso loro di pagare ogni mese l'affitto e di allevare due figli. Era stato, in ordine cronologico: borseggiatore, operaio alla Lucchini, alla Dalmine, alla Magona d'Italia, e poi caporeparto ancora alla Lucchini. Nato a Procida, a diciannove anni era emigrato a Piombino per lavorare in fabbrica, una nuova esistenza: finalmente legale, onesta. Riteneva gli iscritti alla FIOM degli sfigati. Una sola certezza nella vita: lavorare stanca. «Anna? È al mare?» «Sì, con Francesca.» «E Alessio?» Sì: domani avrebbe vinto a poker e poi, con i soldi vinti, avrebbe fatto affari. Se lo sentiva. Come si dice? È il destino. E a Sandra, con gli affari, avrebbe comprato un diamante, un… Come si chiama? Un De Beers… un "per sempre". «Penso sia al mare pure lui.» «Gli devo fare un discorso, a tuo figlio. Vuole comprarsi a tutti i costi la Golf GT… Che bisogno c'è della Golf GT?» Sandra sollevò la testa dal pavimento già asciutto, e rimase così, nella luce – «Lascialo parlare, tanto i soldi non ce li ha» – a sudare per qualche istante.
Rientrò in casa e si sedette al tavolo di cucina. Prese a osservare attentamente suo marito: in tanti anni non era cambiato. «Da domani…» diceva sempre, e lei ogni volta ci cascava. «Tuo figlio vota Forza Italia» disse Sandra facendo finta di sorridere, «vuole il macchinone, mica la giustizia sociale. Vuole apparire, fare lo sborone… Ma tu da che pulpito parli, scusa, che c'hai una macchina da cinquanta milioni. A proposito, l'hai pagato il bollo?» «Il bollo?» Il sorriso finto le passò subito dal viso: «Prima di pensare ai soldi di tuo figlio, pensa a non giocarti i tuoi». «Mo' ricominciamo?» Arturo gonfiò le guance e sbuffò come un toro. «Sì, proprio: mo' ricominciamo.» Sandra schizzò in piedi e prese a turbinare le braccia nell'afa che ristagnava in cucina. «È inutile che fai lo scocciato, sai. Non mi prendi per il culo. Che fine ha fatto il tuo ultimo stipendio?» «Sandra!» «Non ci è manco arrivato in banca! Te lo sei giocato, dillo! Ancor prima di metterlo in banca, lui se l'è giocato… Non c'ho mica scritto "gioconda" qui, sai?» Si batté l'indice sulla fronte sudata, con i ricci arrotolati nei bigodini e le sopracciglia mal depilate. Arturo allargò le braccia. «E dammi un bacio…» Faceva sempre così, quell'uomo. Quando non sapeva più dove aggrapparsi, diventava affettuoso. I due scomparvero nel ventre della casa. Adesso anche la tapparella dei coniugi Sorrentino era rotolata giù come le altre del palazzo (tutte eccetto una). Era rotolata giù inceppandosi a metà. «Quando la aggiusti la tapparella, Artù?» Silenzio. Poi dal bagno si sentì scorrere l'acqua dal rubinetto, il rumore di una lametta sul bordo del lavandino. E Arturo cominciò a cantare. La sua preferita: Maracaibo, mare forza nove, fuggire sì ma dove? Za-zà. Alle tre del pomeriggio, a giugno, gli anziani e i bambini si mettevano a letto. Fuori la luce arroventava tutto. Le casalinghe, i pensionati in tuta acetata sopravvissuti all'altoforno, chinavano il capo asfissiati davanti al televisore. Dopo pranzo la facciata di quei casermoni tutti uguali, uno attaccato all'altro, assomigliava alla parete dei loculi impilati in un cimitero. Donne coi polpacci gonfi e le chiappe ballonzolanti sotto il grembiule scendevano in cortile e sedevano all'ombra intorno a tavoli di plastica. Giocavano a carte. Sventolavano i ventagli furiosamente e parlavano perlopiù di niente. I mariti, se non erano al lavoro, non mettevano il naso fuori di casa. Se ne stavano svaccati a petto nudo a grondare sudore, cambiavano canale con il telecomando. Manco li ascoltavano, gli stronzi della televisione. Guardavano solo le veline, le sgualdrine che erano l'esatto contrario delle loro mogli. Il prossimo anno lo metto il condizionatore, almeno in salotto. Se
domani non mi pagano lo straordinario, giuro che mi incazzo. Arturo si radeva il mento e cantava una canzonetta della sua infanzia, quando l'edilizia popolare aveva costruito i casermoni davanti alla spiaggia per gli operai delle acciaierie. Anche i metalmeccanici, secondo le idee della giunta comunista, avevano diritto a una casa con vista. Vista mare, non vista fabbrica. Dopo quarant'anni tutto era cambiato: c'erano i prezzi in euro, la tv a pagamento, i navigatori satellitari, e non c'erano più né la DC né il PCI. Era tutta un'altra vita adesso, nel 2001. Ma restavano in piedi i casermoni, la fabbrica, e anche il mare. La spiaggia di via Stalingrado, a quell'ora, era gremita fino all'orlo di ragazzini urlanti, borse frigo, ombrelloni accatastati uno sull'altro. Anna e Francesca prendevano la rincorsa sulla riva, cadevano in acqua con un grido vittorioso schizzando ovunque. Intorno, sciami di adolescenti si lanciavano con tutti i muscoli tesi verso un frisbee o una pallina da tennis. Molti dicevano che quella spiaggia era brutta perché non c'erano stabilimenti, la sabbia si mescolava alla ruggine e alle immondizie, in mezzo ci passavano gli scarichi, e ci andavano soltanto i delinquenti e i poveri cristi delle case popolari. Cumuli e cumuli di alghe che nessuno dal Comune dava l'ordine di rimuovere. Di fronte, a quattro chilometri, le spiagge bianche dell'isola d'Elba rilucevano come un paradiso impossibile. Il regno illibato dei milanesi, dei tedeschi, i turisti satinati in Cayenne nero e occhiali da sole. Ma per gli adolescenti che vivevano nei casermoni, per i figli dei nessuno che colavano sudore e sangue alle acciaierie, la spiaggia davanti casa era già il paradiso. L'unico veramente vero. Quando il sole scioglieva l'asfalto, l'afa ammorbava e le tossi espulse dalle ciminiere della Lucchini ristagnavano sopra la testa, quelli di via Stalingrado andavano al mare scalzi. C'era solo da attraversare la strada, e si gettavano in mare di pancia. Anna e Francesca nessuno le aveva mai viste uscire dall'acqua. Faceva impressione guardarle, come nuotavano parallele fino all'ultima boa. Sarebbero arrivate all'Elba un giorno – a nuoto, dicevano loro – e poi non sarebbero più tornate. I ventenni, prima di bagnarsi, si radunavano al bar in larghi cerchi. Si spostavano in branchi, e il branco si coagulava di solito intorno a qualcosa di elementare: il numero civico del palazzo, il grado di violenza dell'attività lavorativa, la qualità delle sostanze stupefacenti e, infine, il tifo per la squadra di calcio. Loro non smaniavano di tuffarsi in mare come i tredicenni. Prima lo spritz, il cicchino, una partita a poker. Avevano pettorali e addominali, oppure enormi panze trasbordanti. Erano come divinità olimpiche. E mentre i loro fratellini andavano in delirio per una marmitta truccata, per la discoteca in cui non potevano entrare, quelli spadroneggiavano con la voce e con le botte, su bolidi dotati di alettoni che il sabato sera – i finestrini abbassati e il gomito fuori – sfioravano i centonovanta chilometri orari. Anche le femmine menavano. Menavano soprattutto se c'era in ballo un maschio figo tipo Alessio. L'estate era l'occasione, la passerella tra le cabine con i capelli sciolti. Per chi poteva
permetterselo, per chi aveva l'età e il corpo per farlo. L'amore dentro la cabina buia. Senza ragionarci, senza preservativo, e chi restava incinta e lui se la teneva, aveva vinto. «Manca poco ormai» si bisbigliavano Francesca e Anna. Quando una ragazza grande arrivava in spiaggia in sella a uno scooter fiammante, la sbalzavano via con l'immaginazione e si mettevano a cavalcioni al suo posto. «Manca poco», quando il sabato sera le altre uscivano con i brillantini sulle guance, il lucidalabbra e i tacchi alti, e loro restavano in casa a provarsi i vestiti con lo stereo a tutto volume. Il mondo doveva ancora venire. Il mondo arriva con i quattordici anni. Si fiondavano dentro la schiuma dell'onda, insieme, se un traghetto passava e la pelle del mare si increspava sul serio. Di loro si parlava già da un paio d'anni, al bar, intorno ai tavoli dei ragazzi più grandi: si diceva che non erano male per niente. Aspetta che crescano e vedrai. Anna e Francesca, tredici anni quasi quattordici. La mora e la bionda. Laggiù, in mezzo a tutti quei maschi, quegli occhi, quei corpi, che nell'acqua retrocedevano allo stato indifferenziato, di corpo muto ed entusiasta. Giocavano a rubare il pallone, proprio quando un ragazzo lo stava per calciare in porta. Una porta fatta con due pali di legno conficcati nel bagnasciuga. E una fiammata che vuole affermare il gol. Correvano nella folla, si voltavano a guardarsi, si prendevano per mano. Sapevano di avere la natura dalla loro parte, sapevano che era una forza. Perché in certi ambienti, per una ragazza, conta solo essere bella. E se sei una sfigata, non fai vita. Se i ragazzi non scrivono sui piloni del cortile il tuo nome e non ti infilano bigliettini sotto la porta, non sei nessuno. A tredici anni vuoi già morire. Anna e Francesca schizzavano sorrisi di qua e di là. Nino, che se le portava a cavalcioni sulle spalle, sentiva il loro sesso caldo dietro la nuca. Massimo, prima di scaraventarle in acqua, le assediava con il solletico e i morsi. Davanti a tutti. E loro si facevano fare tutto dal primo che passa, senza il minimo scrupolo, senza la minima cognizione. Cosi, con il mondo a portata di mano, alla faccia di chi restava a guardare. Ma non erano le sole, a provare certe cose nuove nel corpo. Anche le sfigate, le racchie come Lisa rintanata nel suo asciugamano, avrebbero voluto rotolarsi sul bagnasciuga davanti a tutti e correre a perdifiato nell'acqua. Nella corsa di Anna e Francesca, che urtavano braccia, sorrisi e palline da tennis, con il sopra del costume mezzo sciolto, c'era una sfida. E chi le stava a guardare gli invidiava quel seno, il culo, il sorriso spudorato che diceva: io esisto. La sabbia nell'acqua bassa si mescolava alle alghe, diventava una polpa. Correvano, la bionda e la mora, nel mare. Si sentivano frugare dagli occhi maschili. Era quello che volevano, essere guardate. Non c'era un perché preciso. Giocavano, si vedeva, ma facevano anche sul serio. La mora e la bionda. Loro due, sempre e solo loro due. Quando uscivano dall'acqua si tenevano per mano come i fidanzati. E al bagno del bar entravano insieme. Sfilavano su e giù per la spiaggia, voltandosi prima una poi l'altra quando ricevevano un apprezzamento. Te la
facevano pesare, la loro bellezza. La usavano con violenza. E se Anna, ogni tanto, ti salutava anche se eri sfigata, Francesca non salutava mai, non sorrideva mai. Tranne ad Anna. L'estate del 2001, nessuno la può dimenticare. Anche il crollo delle Torri fu, in fondo, per Anna e Francesca, parte dell'orgasmo che provarono nello scoprire che il loro corpo stava cambiando. Ormai, una sola tapparella era rimasta sollevata. Un solo uomo sudava affacciato al balcone con il binocolo in mano. Enrico si ostinava a cercare la testa bionda di sua figlia tra le onde, in mezzo ai corpi degli altri adolescenti che giocavano a pallavolo, a calcio, a racchette. In quel garbuglio di braccia, seni e gambe, isolava il busto di Francesca dentro la lente, lo metteva a fuoco, ne fissava in uno stato di allerta animale i movimenti a contatto con il mare. La schiena di Francesca, coperta dai capelli biondi inzuppati d'acqua. Il sedere rotondo: una cosa che non si dovrebbe guardare, che nessuno dovrebbe guardare mai. E invece guardava, Enrico, grondando di sudore. Quel corpo slanciato e perfetto che sua figlia aveva cacciato fuori, di punto in bianco, alla vista di tutti.
2
Al posto dell'elmetto indossava un cappellino liso dei Chicago Bulls, con due borchie infilate ai lati della visiera. Gli aveva appena ficcato un pugno, a quel coglione. Si era slacciato le bretelle della tuta apposta per dare al suo destro maggiore libertà. Il carico sospeso, agganciato all'argano gigante del carroponte, ciondolava nell'afa come un pendolo. Il suo bicipite restava in tensione, come tutto il viso sporco di ghisa. «Ripeti quello che hai detto» gridò Alessio al di sopra del frastuono, «ripetilo, cazzo!» Il pischello si tastò il livido che lui gli aveva stampato in faccia. «La vedi questa?» batté la mano sul dorso ruvido di una siviera da sedici tonnellate. Non aveva neppure sedici anni, il pischello. «Cos'hai detto che fa, mia sorella?» Sputò un grumo di catarro. «La prossima volta che ti azzardi… La vedi bene questa?» e indicò di nuovo la siviera. «Qua dentro ti ci affogo.» Millecinquecentotrentotto gradi, è questa la temperatura di fusione della lega. L'acciaio non esiste in natura, non è una sostanza elementare. La secrezione di migliaia di braccia umane, contatori elettrici, bracci meccanici, e a volte la pelliccia di un gatto che ci finisce dentro. Il ragazzo abbassò lo sguardo. Era stato appena assunto, gli erano appena spuntati una decina di peli sul mento. Lo guardavano tutti, i colleghi contenti della scazzottata. «Ti ci affogo» ripeté Alessio, ringhiando. Poi si accese una sigaretta. Un uomo anziano, uno della manutenzione, si arrampicò sul carroponte per controllare le funi e insultò Alessio che aveva lasciato la siviera sospesa, senza nessuna precauzione. Un altro uomo girò la pagina del calendario Maxim che era rimasto a maggio. Sostituì una mora in perizoma girata di schiena con le tette enormi di una bionda a cavalcioni di una moto. Alessio si sfilò la canottiera fradicia di sudore. Nessuno, neanche il suo migliore amico, poteva azzardarsi a dire di sua sorella… La parola pronunciata dal pischello gli tornò in mente. Dovette ingoiare un bolo grosso così di saliva e limatura di ferro, per restare calmo. Stavano al centro di uno spiazzo di erba secca, una steppa compresa tra le vergelle e la torre nera del quarto altoforno. Alessio gettò il mozzicone a terra, lo pestò subito con il piede: qualsiasi cosa avrebbe preso fuoco alle due del pomeriggio. Spense la tastiera che comandava il sistema dei pesi e contrappesi, nel carroponte alto dodici metri e largo ventiquattro. Un intero zoo: nel cielo svettavano torri merlate, gru di ogni genere e specie. Animali arrugginiti dalle teste cornute. «Cornuto!» gli gridò quello della manutenzione. Alessio aveva bloccato le funi di colpo e gli aveva quasi tranciato via un piede. La melma densa e nera del metallo fuso ribolliva nelle siviere, barili panciuti trasportati dai treni siluro. Cisterne munite di ruote che assomigliavano a creature primordiali. Alessio
staccava il turno, si rovesciava una bottiglia d'acqua addosso. Il metallo era ovunque, allo stato nascente. Ininterrotte cascate di acciaio e ghisa lucente e luce vischiosa. Torrenti, rapide, estuari di metallo fuso lungo gli argini delle colate e nelle ampolle dei barili, travasato nei tundish, riversato nelle forme dei forni e dei treni. Se sollevavi lo sguardo, vedevi vapori grassi e suoni robotici impastarsi. A ogni ora del giorno e della notte la materia veniva trasformata. Arrivavano minerali e carbone dal mare, attraccavano al porto industriale in gigantesche navi mercantili: carburante trasportato su nastri sospesi, cavalcavia e autostrade aeree che correvano e percorrevano i chilometri infiniti dal molo alla cokeria all'altoforno. Ti sentivi il sangue circolare a ritmo pazzesco, là in mezzo, dalle arterie ai capillari, e i muscoli aumentare in piccole fratture: retrocedevi allo stato animale. Alessio era piccolo e vivo in questo smisurato organismo. Diede un'occhiata alla bionda del calendario Maxim. Perenne desiderio di scopare, là dentro. La reazione del corpo umano nel corpo titanico dell'industria: che non è una fabbrica, ma la materia che cambia forma. Ha un nome e una formula. Fe 26C6. La fecondazione assistita avveniva in un'ampolla alta come un grattacielo, l'urna rugginosa di Afo 4 che ha centinaia di braccia e pance, e un tricorno al posto della testa. Ma non basta. Ci volevano altre pance: i convertitori, i laminatoi, dozzine di sacche calde e vertiginose, le tube, i follicoli gassosi del dovere. Si avviò seminudo verso l'uscita Sud, il ragazzo biondo che dopo otto ore di carroponte se ne sparava due di pugilato, e il martedì, il venerdì e il sabato in discoteca. Pensava ad Anna, sua sorella. A come lei e la sua amica Francesca stavano esagerando: con il rossetto, il costume da bagno trasparente, i pomeriggi di nascosto coi maschi… Era il caso di tenerle d'occhio, o meglio: a freno. Attraversò a piedi il parco vergelle: muraglie di tondi d'acciaio, e lui in confronto era un nano. Nessuno lo sapeva fuori, ma dentro c'erano caselli e autostazioni, svincoli, piazze e incroci. Alessio scavalcò una coppia di binari senza curarsi dei treni siluro che spuntavano ogni quarto d'ora. Salutò i camionisti in fila sotto la calura, i finestrini abbassati e le gambe stese sul cruscotto. Aspettavano di caricare le barre, i blumi, le billette. Si sarebbero diretti in tutte le città d'Europa con TIR simili a elefanti e il Gesù Cristo luminoso, verde o fucsia, bene in vista sulla motrice. Calciò con il piede il cadavere putrefatto di un topo. Raggiunse il vialone secondario, quello dove Cristiano amava fare le gare con i Caterpillar. Se la sentiva premere sulla nuca, la torre nera di Afo 4, il gigantesco ragno che digerisce, rimescola, erutta. Le sentiva incombere sopra la testa, le ciminiere semidistrutte e quelle ancora vive, che sbuffano fuoco come draghi. Fluorescenze azzurrognole, nubi tossiche in quantità sufficiente ad ammorbare non solo la Val di Cornia, ma la Toscana intera. Si lasciava alle spalle il cuore: il gasometro che se esplodeva saltava tutta Piombino, le carcasse postume dei tre altoforni non ancora smantellati, e laggiù, in fondo, la cokeria dove
si spalava con le braccia come nell'Ottocento. Non c'era il cielo. C'era una voliera. Le fiamme viola dei forni, i bracci delle gru, le tonnellate dei metalli imbragati ai becchi dei paranchi. La serie sterminata dei capannoni, delle officine, dei bunker. È un'ossessione autosufficiente. Le ciminiere, quelle attive e quelle spente. Sopra la sua testa crepitavano costanti: fiamme viola, rosse, nere. Giravano i bracci delle gru, gialle, verdi, tonnellate di metallo vorticavano come uccelli, nuvole gialle di carbonio, nere dalle bocche delle ciminiere. Si chiama ciclo continuo integrale. Alessio calpestava ortiche e resti di mattoni refrattari. Il metallo saturava il terreno e la sua pelle. Arrivavano altri camionisti, altri autocarri. Un lombrico enorme di TIR in attesa, e come al solito qualcosa non funzionava. Il tempo allungava, liquefaceva. Spegnevano i motori. Se conti le falle nel sistema, non ti bastano le dita delle mani e dei piedi. Alessio camminava a passo spedito, bruciava liquidi e chilometri nell'arsura della città parallela. Milioni di stantuffi nei motori a eccitazione in serie – sì, l'eccitazione e la serie – si muovevano in sincronia a un ritmo vorticoso, il movimento elementare della macchina che è uguale alla vita. A volte, per resistere alla noia o alla paura, ti dovevi sedere in un angolo e sbottonare la patta. Alessio era nervoso e pensava a sua sorella, alla Golf GT da sballo. Se c'era qualcuno che veramente non poteva soffrire erano quei bavosi sfigati di Sinistra. DS, Rifonda, tutti quanti quei banfoni comunisti: come si atteggiavano loro, come snocciolavano i paroloni. Alle politiche del 13 maggio, lui aveva votato Forza Italia. Ne era convinto: le parole non servono a niente. C'erano cartelli ritorti agli svincoli. Gli operai li torcevano apposta per prendere per il culo i camionisti e i controlli. Lo aveva fatto anche lui, una volta, con Cristiano: avevano spedito i visitatori al parco rotaie anziché al parco billette. Uno dei tanti divertimenti nel luna park arrugginito, mezzo smantellato adesso, ma trent'anni fa ci lavoravano ventimila persone, il mercato in piena espansione, l'Occidente che riproduce il mondo e lo esporta. Adesso erano rimasti in duemila, comprese le ditte in appalto. La spostavano a Est, i padroni. Alcuni rami della fabbrica morivano, ciminiere e capannoni venivano fatti saltare con il tritolo. Se ne stava andando tutto a puttane. Ma loro, gli operai della settima generazione, si divertivano a cavalcare gli escavatori come tori, con le radioline portatili a palla e una pasticca di anfetamina sciolta sotto la lingua. Ci si adatta. E chi si adatta meglio sono i gatti. Ce n'erano a centinaia, negli scantinati sotto la mensa, tutti malati, tutti bianchi e neri a forza di incrociarsi sempre tra loro. Alessio attraversava le lande desolate degli ultimi capannoni, verso la fine del ciclo produttivo. Quando arrivavi a plasmare una rotaia, lo spazio diradava: cominciavano i canneti, le paludi, e tu potevi tirare un sospiro di sollievo. Io non li voto gli sfigati, mi rifiuto. Al bocciodromo se ne devono andare. I comunisti sono mezze seghe.
Alessio timbrava il cartellino, salutava la donna appassita nel gabbiotto, sgusciava fuori. C'era il mare, fuori. Al cambio turno, uno sciame di operai si disperdeva nel parcheggio. Prima di salire in macchina, una Peugeot con due alettoni laterali e uno posteriore, Alessio si fermò un istante a guardarlo. L'altoforno. Chiamatelo con il suo nome: Afo 4. Storpiatelo in Ufo, lo fanno tutti. L'oggetto non identificato. Anche se intorno impazza la guerra mondiale (era successo davvero nel '44, con la fabbrica invasa dai nazisti), lui resta lì, imperturbabile e operoso. E il sorriso te lo strappa sempre, di paura e stupore. Come adesso sorrideva Alessio e lo guardava. La sua lunga proboscide aspira-carbone, i testicoli dove cuoce l'acciaio, il muso di tricorno, lo scheletro possente di cattedrale brutale al cominciamento. L'inizio. Come stava iniziando il corpo rosa e lanoso di sua sorella, a sviluppare i seni, i fianchi, ad attrarre. La peluria bionda dell'inguine, sotto le ascelle. L'odore animale, quando tornava dal mare e si slacciava il costume per fare la doccia. Non poteva credere che Anna si appartasse già nelle cabine coi maschi. E chissà che cristo combinavano.
3
Era un gioco, e non era un gioco. Sopra il lavandino, nello specchio macchiato di dentifricio, la bionda e la mora si riflettono nella loro versione più sfacciata. Sono immobili e in trepidazione. Il labbro imbronciato per finta, i capelli sciolti. C'è un piccolo stereo portatile in bilico sulla lavatrice, il volume al massimo. Spara un vecchio cd di Alessio degli anni Novanta. Anna e Francesca, quando in casa di Anna non c'è nessuno. I due corpi pulsano come il suono, insieme al suono. Aspettano l'attacco della canzone per slacciarsi. La finestra è aperta. Si sono chiuse a chiave nel bagno. Lo fanno ogni lunedì mattina, d'estate, quando è finita la scuola e tutti sono al lavoro. Tirano su la tapparella, scostano la tenda. Restano seminude al centro della stanza. E nel palazzo di fronte sono a casa solo i pensionati e i fancazzisti. Si sono truccate il viso, esagerando. Il rossetto sbava fuori dai contorni, il rimmel cola per il caldo e impiastra le ciglia, ma a loro non importa. Questo è il loro piccolo carnevale privato, la provocazione da lanciare fuori dalla finestra. In fondo lo sanno che qualcuno potrebbe anche spiarle e sbottonarsi i pantaloni. Appena la voce della cantante attacca, Anna e Francesca si dimenano feroci a piedi nudi. Improvvisano balletti alla Britney Spears. E ci riescono da Dio, a giudicare dagli occhi che le fissano dalle case di fronte. The summer is magic, is magic. Oh, Oh, Oh… The summer is magic… Anna, nel rettangolo della finestra, è lei che si vede per prima. Ha messo il reggiseno di pizzo di sua mamma. Un reggiseno da donna, che fa a cazzotti con le mutande rosa a fiorellini. Francesca resta in ombra dietro di lei. Indossa una canottiera bianca che lascia intravedere i seni piccoli solo in trasparenza. Azzarda, ma è vestita. Non sorride. I bordi del perizoma escono dai pantaloncini di jeans a vita bassa: che si capisca che il perizoma c'è, quello che suo padre non vuole. La voglia di fare una cosa che non si deve fare, che il mondo deve guardare. The summer is magic. Oh, Oh, Oh… The summer is magic… In realtà non cantano. Muovono solo le labbra. E quando il ritornello si ripete per la centesima volta, Anna si slaccia il reggiseno. Balla. O meglio, agita il bacino selvatico. Gioca con il bordo delle mutande. Scuote il vapore dei capelli, soffiando sui ricci che ricadono sulla fronte. Le restano i seni e la pancia nello specchio, nudi dentro la finestra, nel sole del mattino che batte su quel lato della casa. L'aria afosa cuoce nel cemento. Fanno finta di non sapere che uomini incontrati per le scale le stanno osservando.
Francesca la segue. Si sfila la canottiera. Resta a torso nudo, un nudo quasi maschile. È pallida e spigolosa. Tutto in lei è chiaro, anche d'estate. Non si abbronza, non sembra neppure italiana. Balla a modo suo: lenta e dura. Francesca non si scioglie. Il suo viso è serio, vuole provocare, ma resta chiuso. Guarda la sua amica del cuore, le va dietro. Cerca le sue mani, ne afferra una, la bacia. This is the rhythm of the night, the night… Oh, yes. The rhythm of the night… La musica rimbomba tra le piastrelle, si somma al grumo di rumori che provengono dal cortile, dai balconi. Le piastrelle del bagno sono verdi, la ceramica è scrostata in più punti. Lo zio di Lisa si accende una sigaretta appoggiato al davanzale. E le guarda. Hanno un'idea assurda dello spogliarello. Mixano i video in onda su MTV con gli stacchetti delle veline di Striscia. Ma hanno tredici anni, non hanno idea. E in un complesso di quattro edifici che si guardano l'uno con l'altro, almeno da cento finestre possono ficcare il naso dentro quel bagno. È quello che vogliono. Il giochino del lunedì mattina alle dieci e mezzo. E la voce di quello che fanno corre – attraverso i corridoi, le scale, gli ascensori. C'è gente che fa colazione a quell'ora. C'è gente che si sveglia apposta, ormai. Francesca volta le spalle allo specchio, si raccoglie la vampa di capelli biondi sopra la nuca. Lo specchio sporco, arrugginito ai bordi, riflette una schiena e un seno adolescenti, posti uno accanto all'altro, in equilibrio perfetto. La colonna vertebrale si arcua leggermente. Francesca si piega per sbottonarsi i pantaloncini. Se li sfila. E Anna la lo stesso con le mutande. Se lo sapesse mio padre. Si muovono come due tentacoli, hanno smesso di guardarsi. Dall'altra parte ci sono donne sposate che sbattono i tappeti dai balconi. Le stesse pulsazioni del bacino, le stesse carezze dall'ombelico al seno, e in basso infilano un dito, poi un altro. Si abbracciano, aderiscono perfettamente come serpi. Pelle su pelle. A occhi chiusi. Francesca appoggia il viso sulla spalla di Anna, fra le sue braccia. Le passa lentamente le labbra sul collo, dietro l'orecchio. E Anna rovescia la testa. Ha un sorriso che inquieta. La prima cosa che ti veniva da dire era: ma chi cazzo si credono di essere? La seconda: sono perverse. Si abbracciano davanti allo specchio. Non ballano più, adesso. Si abbracciano e basta, si muovono piano. E non si capisce dove finisce una e comincia l'altra. Si accarezzano il viso, scorrono le mani sui fianchi, lungo la spina dorsale. E forse hanno paura. Si scavano con naso e labbra, diventano tenere e assenti. This is the rhythm of the night, the night… Oh, yes. The rhythm of the night… Qualcuno le sta spiando da dietro una tenda del palazzo di fronte. E a loro non importa assolutamente niente. Sono indifferenziate, sono nude. Quella specie di furia che c'è all'inizio nel corpo, quando hai tredici anni e non sai cosa farne. C'è la tua amica del cuore davanti, che strofina la sua
pancia alla tua. Si allacciano e restano così, a coccolarsi. Cadono in uno stato lento e animale, una dimenticanza. Anna ha gli occhi chiusi, sorride. Si sfregano i nasi, le guance, i musi. Anna sfiora Francesca. Francesca apre gli occhi. Anna l'accarezza e Francesca la tiene. Il viso le trema appena. Affonda un poco le unghie nella pelle della sua migliore amica. Anna le posa le labbra sulle labbra. Oh, yes. The rhythm of the night… Ma l'incanto cessa di colpo. A un certo punto, si separano. Spengono lo stereo e tirano la tenda della finestra. Era sempre Anna a svincolarsi. Non potevano, non sapevano andare avanti. Ma gli uomini che le avevano guardate non si fermavano. Lo zio di Lisa si svegliava apposta per masturbarsi sulle tredicenni del palazzo di fronte. E anche Lisa tirava la tenda, con il petto in subbuglio, chiudeva le ante e a volte le veniva da piangere. Anna si affacciò, nuda com'era, nel rettangolo della finestra, con i gomiti sul davanzale. Osservò un mestolo di legno girare nella pentola, in una cucina a caso del numero otto, e una donna robusta armeggiare con lunghi rami di sedano. Nel palazzo di fronte, dall'altra parte del cortile infestato da piccole pesti, molte donne cominciavano già a preparare il pranzo: il sugo da queste parti inizia a bollire a metà mattinata. Anna guardava i ragazzini di sotto giocare a pallone, una giovane coppia litigare sul balcone e lui prendere a calci un vaso di basilico. Poi, c'era il cielo limpido. Voleva bene a quel luogo. Vedeva i casermoni, il casino, Emma che tornava con le buste della spesa incinta a sedici anni, e sentiva di appartenere a tutto questo. «Certo è pazzesco. Ci pensi? Andiamo a scuola in motorino! Facciamo la discesa di Montemazzano… Sai come spingi? Mio fratello ha detto che me lo lascia a me l'SR, tanto lui non lo usa più.» Francesca stava rintanata nell'ombra, seduta sul bidet. «Non ci romperanno più le palle, non potranno più dirci di non uscire!» Francesca teneva le gambe scomposte e gli occhi bassi. «Voglio vedere se ti beccano, col motorino. Il babbuino ti dice: non esci stasera. E tu acchiappi il motorino, vai fuori Piombino e non ritorni più!» Era radiosa, Anna. Francesca invece no. Aveva paura. «A te non te ne frega niente che ci separiamo» sbottò. Si alzò di colpo e guardò Anna a muso duro: «Non te ne frega». L'afa ristagnava dentro i casermoni, s'insediava in ogni appartamento e lo trasformava in palude.
«Cazzo dici?» Francesca si voltò verso lo specchio. Le dava fastidio che Anna si galvanizzasse tanto all'idea del futuro, anzi: la urtava proprio che saltasse di gioia al pensiero di andare in una scuola che non era la sua stessa scuola, in una classe che non era la sua stessa classe. E che non potessero più vedersi durante l'intervallo, dividersi la merendina. Poi c'era che Anna sarebbe andata al classico, che Anna era uscita dalle medie con ottimo e le piaceva studiare. Anna non aveva problemi a lasciarsi baciare dai maschi, non aveva ematomi sulla schiena e sulla pancia. A Francesca studiare non piaceva per niente. «Ti ricordo che l'IPS è davanti al classico» le disse Anna, «che la mattina ci andiamo insieme a scuola, e che torniamo anche insieme.» «Bello!» rise Francesca, passandosi lo struccante sugli occhi. «Quanto ti odio quando fai così… La finta stronza. Non pensi a tutti i cambiamenti, pensi alle stronzate.» «Spostati, fammi pisciare.» Era mezzogiorno passato. Le mamme cominciavano a chiamare i figli dalle finestre. «Non ti viene?» rise Anna. «No, se mi fissi.» Cosa significa crescere in un complesso di quattro casermoni, da cui piovono pezzi di balcone e di amianto, in un cortile dove i bambini giocano accanto a ragazzi che spacciano e vecchie che puzzano? Che genere di visione del mondo ti fai, in un posto dove è normale non andare in vacanza, non andare al cinema, non sapere niente del mondo, non sfogliare il giornale, non leggere i libri, e va bene così? Loro due, in questo posto, si erano trovate e scelte. Adesso Francesca abbassava lo sguardo, ascoltava il fiotto zampillare nella pozza del water, e le veniva da ridere. Anna aveva ripreso a guardarla. Francesca strappava un pezzo di carta igienica, lo appallottolava, glielo lanciava addosso. E l'altra glielo rilanciava ridendo. «Doccia?» chiese Anna aprendo il rubinetto. Si erano già rappacificate. Francesca sorrise ed entrò nella cabina con l'anta inceppata. La vista, l'udito si annebbiavano sotto il getto. Restava solo il tatto, il sedere di una contro quello dell'altra. Non parlavano più, adesso. Le parole non servono a niente, fanno litigare il più delle volte. Si passavano la spugna con cura e si stupivano delle differenze: un neo, la forma stondata o oblunga delle unghie. Se ne stupivano come di una cosa che non ha senso. Perché Anna aveva i fianchi più larghi e il seno più grosso? E perché Francesca aveva il sedere più tondo e più alto? E l'ombelico più profondo? «Perché non siamo uguali?» chiese Francesca massaggiando i ricci di Anna. «Perché siamo diverse, però siamo uguali.»
«E perché?» «Perché siamo nate insieme, abitiamo insieme, moriremo insieme e faremo tutte le cose insieme.» «E come facciamo a morire insieme?» «Non lo so.» Si asciugarono in fretta e furia. Non volevano farsi beccare da Sandra che poteva rientrare da un momento all'altro. Quando uscirono sul pianerottolo con i capelli ancora umidi, Francesca si fermò sull'orlo delle scale. Aveva cambiato faccia. Guardò l'amica con due occhi che adesso si erano fatti più grandi. «Non ho voglia di andare a casa. Oggi c'è il babbuino a pranzo…» Francesca, nella semioscurità delle scale polverose e maleodoranti, stava in bilico sul bordo del primo gradino, e non piangeva perché non le era mai piaciuto piangere. Anna si avvicinò e cercò di farle coraggio con una carezza. «Tanto ci vediamo dopo, alle due in punto…» La sua voce era diventata più morbida. «Ok» disse Francesca. Però non si muoveva. Restava lì e sembrava assottigliarsi. Dalle scale, dal buio dei grandi corridoi, ogni cinque minuti sbucavano botti e urla. Un bambino scoppiava a piangere. Una mamma rincorreva il figlio sul pianerottolo e gli strappava dalle mani il super-liquidator con cui l'aveva appena schizzata. Gli dava una sculacciata, poi richiudeva la porta. E non si capiva perché questi genitori dovessero incazzarsi in continuazione: in fondo quei ragazzini stavano solo giocando a guardia e ladri per le scale. «Ti passo a chiamare appena ho finito di mangiare, andiamo subito al mare.» «Sì, però entra. Non fermarti sulla porta.» «Non puoi restare da me a pranzo?» «Figurati!» tentò di sorridere Francesca, ma non ci riusciva. «Quello s'incazza duro…» Le urla dei bambini, i pallini delle pistole ad aria compressa che sbeccavano i muri. E i tonfi delle cose, i tonfi delle mani. C'era un uomo che stava strillando a sua moglie: «Sei una puttana!».
4
Rientrò in casa. Anna sapeva. Passò il mocio in bagno, asciugò il pavimento allagato e tolse i capelli dallo scarico della doccia. Non aveva voglia di sentire le urla di sua madre. Anna sapeva, ed era l'unica. Ma non sapeva cosa fare. Cominciò ad apparecchiare la tavola, mise su l'acqua per la pasta. Voleva far contenta sua mamma, farle trovare tutto pronto. Dispose i tovaglioli con ordine, a destra dei piatti. Ma il pensiero restava fisso su Francesca. Impugnò il telecomando e pigiò il primo. Puntuale, era partita la sigla del Tg1. Un boato di sigle del telegiornale da tutti i televisori, da tutte le finestre aperte dei mille appartamenti di via Stalingrado. Le piaceva un sacco quella sigla, la faceva sentire adulta, parte di qualcosa di grande. Roma, Milano: l'Italia che lei, anche se ci abitava, non aveva mai visto. «Sei un tesoro» disse Sandra quando aprì la porta e vide sua figlia che girava la pasta. «Se non ci fossi tu… Con quel deficiente di tuo padre e quel disgraziato di tuo fratello!» Era stanca. Posò le borse, stiracchiò un attimo la schiena che le faceva male. Poi corse al cestello della lavatrice che aveva azionato la mattina, prima di andare al lavoro. Anna amava sua madre: era una donna che lavorava tanto, ma che trovava le energie anche per volantinare e organizzare la festa dell'Unità. E poi leggeva i giornali, "la Repubblica" e "Liberazione", e le diceva sempre di studiare, ché avrebbe fatto il deputato un giorno, l'onorevole, il parlamentare. Anna un po' ci credeva. «Scolala pure, la pasta» le gridò sua madre, «tanto quei due non vengono a pranzo.» Sandra si caricò su una spalla il cesto delle lenzuola, calzini e mutande, e uscì sul pianerottolo per chiamare l'ascensore. Mentre aspettava si guardò intorno. Su e giù per la tromba delle scale era tutto un ciabattare e smadonnare. Non erano facili i rapporti con il vicinato. Potevano farti la guerra anche per un calzino volato nel loro balcone. Ma Sandra un po' aveva studiato e non mollava: si ostinava a distribuire, a ogni campagna elettorale, volantini che ben pochi leggevano. Quando arrivò sul tetto, all'undicesimo piano, il cielo era tanto potente da farle male. Lì per lì chiuse gli occhi. C'era l'estate che friniva in milioni di insetti nascosti. Li riaprì lentamente: uno sterminio d'azzurro, del cielo e del mare insieme. C'era tanto colore da barcollare. Il silenzio limpido del sole, i profili blu delle isole lontane, un sorriso di smarrimento, di liberazione, te lo strappavano davvero. Anche se non avevi voglia di sorridere, anche se l'Elba, Capraia, il Giglio, non le avresti mai raggiunte.
Qui, tra i fili tesi e il bucato appeso, Sandra riconobbe la mamma di Francesca. La vide intenta a stendere tra il bianco di un lenzuolo e l'altro, nel vento che le scompigliava i capelli e le faceva volar via i fazzoletti. «Rosa» la chiamò. Quella si voltò piano, con timore. Indossava ciabatte invernali sfondate sui talloni e un grembiule macchiato sopra una vestaglia nera. Si veste come mia nonna, pensò Sandra, però è giovane. In effetti aveva dieci anni meno di lei e un paio di orecchini vistosi. «Anche tu stendi a quest'ora?» le chiese per attaccare bottone. Gli occhi di Rosa, più neri dei capelli, si fecero vivi. Non le andò incontro, rimase dov'era. Ma si vedeva che aveva voglia di fermarsi a parlare. «Mi dispiace che non ci vediamo mai…» disse Sandra. «Perché qualche volta non vieni a prendere un caffè da me? Il sabato non lavoro.» Rosa si irrigidì leggermente. «Mi piacerebbe…» La donna di partito e quella di casa si studiavano, tentavano un approccio come due animali di specie diversa. E una tirava e l'altra indietreggiava, mentre un odore di cavolo bollito saliva fin lassù. «Allora ti aspetto!» la incitò Sandra. Lei sapeva come rivolgersi alle persone: era una donna che sognava di parlare ai comizi, anche se aveva sempre e solo distribuito volantini. «È un peccato, siamo vicine di casa, le nostre figlie sono così amiche, e noi ci conosciamo appena.» «Hai ragione» sorrise Rosa, «verrò. Passo a trovarti uno di questi giorni…» Poi ricominciò a piegare le lenzuola, evitando di incontrare il suo sguardo. Sandra considerava la piccola figura di quella donna. Non sapeva quasi niente di lei eppure, senza saperlo, qualcosa sapeva. «Se vuoi ti porto un dolce» azzardò la mamma di Francesca, illuminandosi un poco. Era così diversa da sua figlia, non le assomigliava per niente. «Brava, portami un dolce, che io non li so fare. Anna mi sgrida sempre. Dice che una mamma che non fa le torte non è una mamma come si deve» rise. Rosa provava un misto di attrazione e paura per quella donna così energica, che si truccava ogni giorno e indossava sandali con il tacco anche per andare al lavoro. Una simpatia istintiva, come ai tempi delle scuole. Non aveva più amiche da quando si era trasferita dalla Calabria in Toscana, a diciotto anni. E poi si era sposata. Vinse la timidezza: «Si è fatta bella Anna». «Speriamo che non se ne accorga troppo, sennò mi diventa antipatica…» sbuffò l'altra. «Anche Francesca si è fatta bella. La guardavo ieri tornare dal mare in costume, e ho proprio
pensato: accidenti com'è cresciuta!» A Rosa brillarono gli occhi. Anche l'Elba brillava, e la Corsica e Capraia in lontananza. Le due donne stendevano le lenzuola sui pochi fili liberi del tetto. «Tuo marito? Tutto bene?» A Rosa cadde la cesta delle mollette dalle mani. Si sparpagliarono per terra. «Sì» disse. Aveva cambiato faccia. Sandra se ne accorse, intravide un segno sul collo della donna. Silenzio. Dal mare si levò il vento. E scompigliò il bucato. Rosa stava piegata a raccogliere le mollette. Aveva fretta di andarsene, adesso. «Allora ti aspetto, mi raccomando» ripeté Sandra. Rosa annuì rialzandosi, ma si avviò subito verso le scale e quasi evitò di salutarla. La sua figura esile si muoveva insicura. Sembrava temere di essere aggredita a ogni passo. Guardava in terra, stringeva i pugni. Era pallida. Ma su quel tetto, l'estate nel pieno della sua potenza, quella donna per un attimo si rese conto di essere ancora giovane e, forse, addirittura bella. Allora si fermò, rimase per un istante sospesa sulla porta. Poi si voltò con decisione verso Sandra. «Ciao!» le gridò. «Allora vengo a trovarti!» L'altra sorrise mentre finiva di appendere gli ultimi calzini. «Ci conto!» le rispose a voce piena. Rosa era felice. Dopotutto, che male c'era a desiderare un'amica?
5
Alle due in punto Anna suonò il campanello di casa Morganti. Venne ad aprire la madre. Dischiuse la porta quel tanto che permetteva di vedere chi c'era dall'altra parte, e rimase sulla soglia. «Salve, Francesca è pronta o sta ancora mangiando?» Rosa restò un attimo interdetta. Giocherellava con il catenaccio della porta, e non si decideva a toglierlo. Dita sottili e malferme. Evitava di guardare negli occhi la ragazzina impaziente che le stava davanti. «Sennò ripasso dopo…» Anna affondò lo sguardo nel buio per vedere meglio la porzione di donna, rigida come una sentinella, tra lo spigolo del muro e lo spigolo della porta. Ebbe l'impressione che Rosa volesse sbarrarle il passo e la vista. Non era mai entrata in quella casa. Erano amiche da quando erano nate, e non l'avevano mai lasciata entrare. Notò che la donna aveva un che di strano nel viso. Un'ombra violacea su una guancia, sotto l'occhio che adesso la stava fissando. Un occhio liquido, di petrolio. «Francesca oggi non viene al mare.» «E perché?» Rosa sussultò al suono di quel "perché" detto così: con la bocca e il viso spalancati, da una ragazzina in costume, gli zoccoli ai piedi, le mollette in testa e il lucidalabbra alla fragola che si sentiva fin lì. Vide incarnato nel corpo di Anna, lo zaino in spalla pieno di creme, asciugamani e il retino per catturare le bavose, il mondo che sua figlia avrebbe avuto il diritto di abitare. Allora sorrise, un attimo solo, disarmata. «Non si sente tanto bene, è meglio che stia in casa.» «Ma è giugno! Cosa c'ha?» Anna non se le lasciava raccontare. «Domani… Domani sono certa che Francesca starà bene.» Dall'interno della casa, intanto, neppure il ronzio del televisore. Da come serrò le labbra e appuntì le pupille, Rosa intuì che Anna aveva capito. Tagliò corto: «Ti prometto che domani viene». Poi richiuse la porta e pensò che la sua non era una promessa, ma una giustizia da compiere. Si disse che, non appena il mostro se ne fosse andato, lei e sua figlia avrebbero parlato. Le avrebbe detto che meritava di uscire come tutte le ragazze della sua età. Che adesso basta, avevano sopportato abbastanza. Lei la forza ce l'aveva: avrebbe trovato un lavoro e
denunciato il mostro. Senza dubbio. E chiesto il divorzio. Il problema era il lavoro, Francesca doveva capirlo questo. Il problema erano i soldi e nient'altro. Che lei suo marito lo odiava, e non avrebbe permesso mai più quel male. Anna era rimasta in attesa per alcuni istanti, impalata davanti alla porta chiusa come un gatto impietrito contro i fanali di un'auto. E adesso cosa faccio? Non ho più voglia di andare al mare. Quel babbuino di merda… Avrebbe voluto tirargli un pugno. Ma perché devono esistere i padri? Da dietro la porta intanto neanche un rumore, anzi: silenzio tombale. Allora scese in cortile, prese a calci un sassolino. Poi buttò lo zaino a terra e si piantò su uno scheletro di panchina. Finché France non esce, io non mi muovo. Poco più in là alcune vecchie giocavano a tressette con entusiasmo, sventolavano veloce i ventagli. Parlavano dell'ultima puntata dell'Ispettore Derrick. Anna le guardò torva. Non poteva bussare di nuovo. L'aveva vista in faccia quella donna, e aveva capito: le botte e tutto il resto. Strinse forte i pugni. Era sola dentro la calura, nel bel mezzo di un cortile di cemento. Avrebbe voluto non sentirsi impotente. Agire in qualche modo, arrampicarsi su per la grondaia fino alla finestra di Francesca. Ma quell'uomo le faceva paura. Prese a osservare i muri: pareti alte dieci piani che le sbarravano lo sguardo da ogni lato. A lei piaceva guardare le cose. Le piaceva soffermarsi sui particolari. I davanzali erano zeppi di roba: piante rinsecchite, scarpe, pentole appena lavate e messe ad asciugare. Non si vedeva il mare, da qui. Si vedevano i pezzi d'intonaco scrostati, gli spunzoni di ferro arrugginiti che venivano fuori come unghie dai piloni di cemento armato. Mamma glielo aveva spiegato: esistono due classi sociali. E le classi sociali sono in lotta fra loro perché c'è una classe bastarda e nullafacente che opprime la classe buona che si dà da fare. Così andava il mondo. Mamma era di Rifondazione Comunista, apparteneva al 5% della popolazione italiana. E Alessio, per questo, le dava della sfigata. Suo padre aveva il mito di Al Capone e del Padrino, quello di Francis Ford Coppola. Suo fratello era iscritto alla FIOM, ma votava Berlusconi. Perché Berlusconi di sicuro non è sfigato. Anna esaminava il cortile con attenzione. Era il suo mondo. Vide Emma passare col pancione: si era sposata in fretta e furia a sedici anni con Mario che ne aveva diciotto. Quel giorno loro dei palazzi, tutti insieme, avevano fatto una grande festa con le patatine, la Coca Cola e i coriandoli, un po' come a scuola quando c'è un compleanno. Pensò che non era convinta né di quello che diceva sua madre, né di quel che sbraitava suo fratello, e men che mai delle cazzate del babbuino. Era convinta del suo cortile, e basta. Era convinta delle travi, dei piloni, del cemento armato. A lei piaceva l'architettura di quei cassoni fatti a loculo. E non invidiava quelli che stavano in centro o nelle villette a schiera: li ignorava del tutto. Perché non scendi, France?
Non era la prima volta: «Non si sente bene…». Uno spiazzo senza uno sputo di verde. Ci giocavano a calcio, ci spacciavano, ci prendevano il fresco. Era sempre un bordello, a qualsiasi ora, tranne nei pomeriggi d'estate. Allora assomigliava al deserto, il più arido che si possa immaginare. Anna ci era nata, ma si rendeva conto che le cartacce, le cicche e a volte le siringhe per terra, erano un brutto segno. Che sotto i piloni ci pisciavano tutti: cani, bambini e tossici. Che c'era una puzza da turarsi il naso. Che un uomo che si inietta una dose di eroina nel braccio o nel collo, davanti ai bambini, non è un bello spettacolo. Ma sputare su quelle cose era come sputarsi addosso. E lei, con certi tossici dei palazzi, a volte si fermava a parlare. Anna sapeva che nessun uomo è un mostro. Tranne il padre di Francesca. Perché non esce? Cosa le ha fatto? Prese a leggere le scritte sulla panchina. Una stratificazione geologica di amori e litigi fra i quali c'erano anche i suoi. "Francesca sei stratopa by Nino" fu la prima incisione fatta con il temperino che decifrò. Poi riconobbe la sua grafia con l'Uniposca: "Anna e France forever together". Il brusio delle nonne in ciabatte corrodeva ai bordi il silenzio asfissiante del cubo. Anna adesso era completamente assorta nella lettura della panchina. "Marta + Aldo = amore", "Sonia sei una grandissima troia" (troia cancellato), "Jennifer e Cristiano tre metri sopra il cielo". Sorrise fiera nel constatare una nuova scritta: "Anna 6 discreta, peccato sei la mia migliore amica… By Massi 84". Scoppiò a ridere quando vide: "Alessio = 24 cm" e poi, subito sotto, "Ti amo, tua Sonia". Mio fratello è un grande, pensò. Certo Sonia, che si guardava i film porno con Alessio in camera sua, non è che le andava molto a genio. Avessero almeno messo su un po' di musica in sottofondo… invece niente: si sentiva tutto. E lei doveva andarsene in cucina e aspettare che finissero. Ma questo era il prezzo da pagare per avere un fratello fico. Pensa se fosse stato uno sfigato: per carità! Lei era orgogliosa di Alessio. Poteva camminare a testa alta con un fratello biondo e muscoloso come quello. Sonia, Jessica e tutte le altre ragazze grandi la salutavano sempre, la chiamavano a fare i giri in motorino con loro, le mettevano lo smalto sulle unghie e le insegnavano pure a passarsi l'eye-liner sulle palpebre. Tutto questo, ovvio, per estorcerle informazioni su Alessio. «Cia-o A-nna.» Anna si voltò di colpo nella direzione della voce. Donata, tentando con immane fatica di sollevare una mano per fare ciao, si avvicinava sulla sedia a rotelle spinta da Lisa. La mano, che non rispondeva ai comandi, penzolò nell'aria come un artiglio sconclusionato. «Ciao Donata» rispose Anna senza la minima naturalezza. «Che fai?» Non ci cascava nessuno: il suo sorriso era pieno di disagio. Con Lisa non si salutarono neppure.
«Pre-endo-o il fr-fresco-o.» Per dire una parola, una parola soltanto, di due sillabe, concentrava tutta la sua energia come se si apprestasse al lancio del giavellotto. La parte sinistra della bocca e della mandibola le si era intorpidita per sempre, non permetteva sorrisi. Le gambe non le muoveva più per niente. E da un anno a questa parte neanche il braccio sinistro. Si era raggomitolato su se stesso, quel braccio. La mano stretta a pugno non afferrava gli oggetti, non salutava, non accarezzava i gatti né le persone. Tremava soltanto, con scatti duri, come il resto del corpo. Anna cercava di non guardarlo, quel corpo di quindici anni che non era un corpo di quindici anni. «Tu-u cosa fa-ai? P-p-erché no-o-on sei a-al ma-re?» Eppure, nonostante il corpo offeso, si vedeva a occhio nudo: Donata aveva voglia di vivere. Di andare in giro, di parlare con gli altri, di capirci qualcosa del mondo negli anni che le restavano ancora, prima che tutti i muscoli si intorpidissero per sempre. Tutti: da quelli delle dita a quelli del sopracciglio, fino a quelli dell'addome, gradualmente, fino al cuore. Anna ne era certa: se fosse stata al suo posto, non sarebbe mai uscita di casa. Appena possibile, si sarebbe buttata giù dalle scale con la carrozzina. «Non avevo voglia di andare al mare oggi…» Gettò uno sguardo verso la finestra di Francesca, poi aggiunse cupa: «Ho bisogno di pensare». «Se-ei u-una filo-sofa a-allora!» Donata scherzava, aveva anche tentato di ridere. E la bella Anna, con il nome sul pilone di cemento scritto da Massi, si sentiva presa a sculacciate. «Non esageriamo… Però la studierò anch'io la filosofia, da settembre sarò nella tua stessa scuola.» Se uno guardava attentamente gli occhi di Donata, non poteva dire di non vederci il male. «A-allora sei i-in cla-asse con Li-isa!» Anna fece una smorfia. «Assi?» La degnava appena di uno sguardo, quella sfigata di Lisa. Pensò che in classe, quella lì, non ce la voleva. Il sole picchiava. La gente cominciava a uscire dalle case, portava sedie e tavolini in cortile. Era un'ora ostile. La gente si rifugiava all'ombra e faceva conversazione. Decine di radioline portatili in sottofondo. Non era facile insediarsi nel cemento bollente, ma sempre meglio di stare chiusi in quegli appartamenti che d'estate diventavano forni. Donata forzava le labbra, la lingua, la gola per riuscire a buttar fuori le parole che aveva dentro. Dentro le parole erano infinite: complete, sonanti, dirette a tante belle persone in salute come Anna. Solo che i muscoli della bocca le storpiavano, le rendevano brutte e dolorose. Donata se ne rendeva conto: la sua era una guerra. Adesso stava spiegando per sommi capi cos'erano la filosofia, il greco e il latino, le materie che di lì a poco Anna avrebbe studiato. Il mito della caverna di Platone, con i servi incatenati. E poi l'Iliade e l'Odissea, le cose grandiose dell'uomo: tutto questo in mezzo al baccano di via
Stalingrado. Ma Anna un po' la capiva, un po' no. E vederle colare il sudore lungo le tempie per la sola fatica di parlare, era un pugno allo stomaco. La interessava quel che Donata stava spiegando, le piaceva Donata, però… Una così non può stare al mondo. Era già difficile per lei, con le tette e la spudoratezza che si ritrovava. Era difficile per lei, che aveva tutti i coetanei ai piedi e un'amica fantastica come Francesca. Doveva sempre far male a qualcuno per non prenderlo lei, il male. Donata non sarebbe dovuta esistere. Fu così che, non appena vide Nino trascinare il suo scooter fiammante all'ombra dei piloni e fermarsi, aprire la cassetta degli attrezzi, estrarne una chiave inglese, Anna in mezzo secondo salutò Donata, non salutò Lisa, e fuggì via verso il sedicenne biondo da paura. Se ti fosse capitata una sorella come Donata, la cresta l'avresti abbassata eccome, pensò Lisa guardandola saltare addosso a Nino con la coda dell'occhio. Intanto spingeva la sedia a rotelle. Anche Lisa si guardava allo specchio, a lungo, chiusa nel bagno. Se sorprendeva un brufolo sulla fronte, avvertiva una fitta al petto. Se realizzava che la pancia e i fianchi e le cosce grassottelle non si sarebbero assottigliate facilmente, le veniva una rabbia… Si sentiva brutta. Lo era, brutta. Con quel muso appuntito, da topo, il naso troppo grande, all'ingiù, e i capelli fini, sbiaditi e radi. Poi pensava a sua sorella. Distoglieva gli occhi dallo specchio e si sentiva in colpa. Adesso portava Donata in giro per il cortile e un po' la odiava. No: non lei, la malattia. E se pensava che sarebbe morta nel giro di pochi anni, si sentiva bruciare dentro l'ingiustizia. Cosa ne sapeva Anna? Quella non ne sapeva un tubo di cos'è il dolore, quello vero. Avrebbe voluto prendere a pugni il mondo, tutto intero. Era difficile spingere quella carrozzina, far parte della malattia, davanti a tutti: davanti a due stronzette come Anna e Francesca, che si divertivano con i ragazzi, si strusciavano ai ragazzi, e si lasciavano anche baciare, dai ragazzi. Quelle due stronze. Lisa si mordeva le labbra, si teneva stretta la rabbia. Quelle due stronze di merda, che quando gli veniva il ciclo sembrava che ce l'avevano solo loro. E Maria, e Jessica, e quell'altra idiota di Sonia: piselli di qui e di là, pompini di qui e di là. Pompini? Non sapeva neanche cosa fossero 'sti famosi pompini. Sapeva soltanto che non era giusto. Che nel mondo c'è chi ha tutto e chi non ha niente. Niente di niente. Li vide da lontano, Nino e Anna: stesi a terra sotto il motorino, intenti a smontare la marmitta. Li sentì ridere come lei non aveva mai riso. E imboccò a gran velocità il portone del suo palazzo, il numero otto: di fronte alla finestra del bagno di Anna, da cui si vedeva tutto. Nella sala d'aspetto dell'ambulatorio, padre e figlia sedevano muti senza guardarsi. I loro corpi erano rigidi e gelidi nella luce ferma dei neon. Enrico aveva insistito con Rosa per accompagnare lui Francesca dal medico. Non aveva
voluto sentire ragioni. Sapeva che se ci fosse andata Rosa, le sarebbe scappata una parola di troppo. Sarebbe scoppiata a piangere, chissà cosa si sarebbe inventata. E di parole, invece, ne dovevano uscire poche. Poche, e soprattutto convincenti. Gli occhi di Francesca erano vuoti. Fissava un punto astratto dello spazio e non si smuoveva da lì. Premeva forte la mano destra sul tampone applicato alla bell'e meglio al polso sinistro. E il cotone, lentamente, si saturava di sangue. Dal medico, non al pronto soccorso. In ospedale avrebbero fatto troppe domande. Aspettavano da un'ora, davanti a loro avevano ancora sette o otto persone. Né Enrico né Francesca avevano fretta. Sembravano, piuttosto, del tutto assenti. Il dottor Satta lo conosco. Non s'impiccerà, si farà i cazzi suoi. Farà quello che deve fare e basta. Questo, nella testa di Enrico, più o meno. I pensieri si concentravano sulle questioni pratiche, rigorosamente pratiche, base: i punti, il disinfettante, le garze, e Francesca non deve togliersi la maglietta. Non la deve visitare. Di colpo la porta dello studio si aprì, e ne uscì un vecchietto con gli occhiali da sole, abbracciato a una signora bionda, diafana, con un chiaro accento dell'Est. Il vecchio sorrideva e la mostrava agli altri vecchi seduti a semicerchio nella sala. «Oh» fece uno, «ma lui non era sposato?» Il vecchio non aveva fatto in tempo ad andarsene, che i rimasti cominciarono. «Gli è morta la moglie saranno due anni…» «Ah, ho capito!» Alcuni si alzarono addirittura in piedi. Un altro chiuse "il Tirreno" e lo posò da una parte. «Le bionde, de', non son mica come quest'altre di Piombino…» «Mancasse la mi' moglie, facciamo le corna» si toccò i coglioni, «io una bionda me la piglierei!» Padre e figlia, immobili, continuavano a guardarsi la punta delle scarpe. «Per forza. Le italiane vogliono esse' portate a cena, al cinema, ma poi in casa non ti ci vengono mica, non te li lavano mica i calzini.» «C'è da dire che le russe bevono, bevono parecchio…» «Ma c'hanno i culi sodi!» «E non rompono i coglioni.» «E ti fanno pure il bisse, e il trisse… Le ucraine.» Enrico non ascoltava. Stava ripassando maniacalmente le tre frasi da dire al dottore, le stava architettando, limando, riprovando fino all'ossessione. Francesca, invece, ascoltava. Fissava un punto in mezzo al niente con gli ocelli sbarrati, ma ci sentiva bene. E provava un senso di vomito, fisico, lancinante, all'idea che uno di quei vecchi lì, con le camicie sudicie e gli aloni sotto le ascelle, potesse montare una ragazzina immigrata da chissà quale miseria. «Le russe son discrete. A Piombino ce n'è a sfare.» Quando era entrata, l'avevano squadrata tutti. Poi era entrato suo padre e avevano tutti distolto lo sguardo.
«Ragazzi, qui c'è da metter via i soldi! Che la pensione mica ci basta. E c'hai da pagarla, da farle i gioielli, i vestiti, le scarpe…» «Per ora, spero tiri avanti la mi' moglie.» Francesca non era né lì né altrove. Sfogliava distrattamente vecchi numeri di "Novella 2000". Si soffermava sulle foto, quelle che ritraevano le veline a Formentera, ragazze seminude con la messa in piega, in posa nei locali chic di Milano, davanti alle vetrine scintillanti di New York… Ma lei non ce l'avrebbe mai fatta a fuggire. Gliel'avrebbe impedito lui, l'avrebbe cercata ovunque. A diciott'anni, forse. Sì, a diciott'anni avrebbe potuto partecipare a Miss Italia, essere notata da qualcuno, e andare via. Con Anna. Ma adesso? Non riusciva a sognare, non ne aveva la forza. Anzi, adesso aveva solo un desiderio: la morte di suo padre. La morte dei vecchi schifosi che le stavano davanti, che puzzavano e pretendevano una donna per farsi fare il bidet, una ragazzina ucraina portata via da casa sua. Era sicura: non si sarebbe mai sposata. Le facevano schifo, gli uomini. Ecco, questo riusciva a pensarlo distintamente: che gli uomini le facevano schifo, che da nessuno si sarebbe lasciata toccare, mai in tutta la sua vita. Sarebbe partita, un giorno, con Anna. Loro due e basta, per sempre. Enrico adesso aveva smesso di pensare. Aveva imparato le tre frasi a memoria, e si sentiva a posto. Lo sguardo bovino. Lui si incastrava le cose nel cervello come si incastrano le fasi del ciclo di produzione, la temperatura dell'acciaio, i tempi di raffreddamento, il rullo che pialla, la rotaia che esce. Come le fasi della pesca: montare la canna, avvolgere il mulinello, legare l'amo, infilarci il verme. Il binocolo. Sua figlia. Che non deve diventare una puttana. Che oggi pomeriggio ha afferrato un coltello da cucina, di quelli grandi da carne, e si è tranciata un polso davanti ai suoi occhi. Bisognerà dire che è caduta sul filo di ferro. Il metallo era pulito: non può farle infezione. Il taglio è profondo, ha perso molto sangue, ma le vene sono illese. Questo è l'importante. I vecchietti si erano chetati. Uno dopo l'altro erano entrati a farsi prescrivere i medicinali che dovevano assumere ogni giorno. La pastiglia per il cuore, quella per la pressione, quella per tenere la glicemia sotto controllo. Uscendo, ciascuno aveva salutato piano, con un filo di voce, stringendo nella mano malferma la ricetta. Quel corpo, lo sapevano anche loro, non funzionava più bene, faceva acqua da tutte le parti. E non valeva l'illusione di una donna ucraina a rimettere a posto le cose: era già tanto poter camminare senza dolori fino alla farmacia. Francesca: l'unica cosa bella che aveva fatto nella sua vita. Ne ricordava ogni minuto, da che era nata. La prima volta in cui balbettò "papà". Quando vinse la gara di nuoto della scuola. Il visino impossibile da dire, grande come un pugno di riso, appena affacciato
dall'incubatrice. Ma aveva le mani troppo grosse, troppo dure, e non riusciva a maneggiarla con cura. Quando fu il loro turno, si alzarono in perfetta sincronia ed entrarono insieme, senza indugi. Il medico gli sorrise. Enrico sorrise a sua volta. Francesca non mosse le labbra. Fissò l'uomo con due occhi che dicevano soltanto: cucimi. Poi Enrico cominciò a spiegare, a modo suo, come poteva. Era un rozzo, e aveva timore dei dottori. Ma sapeva come convincere, all'occorrenza, con i gesti delle mani. Il medico intese, non fece domande. Prese il polso di Francesca, tolse il cotone marcio di sangue, passò l'alcol. Cominciò a suturarle un lembo di pelle con un grosso ago di metallo. Francesca lo osservava, senza espressione, riunire pelle e pelle. Senza interesse, la sua carne aperta, il sangue che andava tamponato in continuazione. Immobile nel silenzio irreale, si lasciava ricucire, buona buona, nell'ambulatorio del dottor Satta. «Non è il caso che la visiti, dottore. Non ce n'è bisogno.» Il medico intese, non fece domande. Non era la prima ragazza con i lividi addosso che gli capitava. Non gli piaceva portare alla luce ematomi. Non voleva confondersi con quella gente. Si sa, sono animali. E lui era solo un medico di base, non un assistente sociale, non un poliziotto. Tanto, non sarebbe cambiato niente lo stesso. «Tra una settimana togliamo i punti, va bene signorina?» Francesca annuì, impassibile. Quando uscirono, una nube di monossido di carbonio venne espulsa dalla ciminiera più alta della fabbrica. Restò così, ferma nel cielo limpido. Poi il vento dall'altra parte del promontorio soffiò forte e ripulì il cielo. Niente era accaduto. Dal finestrino dell'auto, scendendo giù dalla panoramica e poi sul lungomare Marconi, Francesca guardava l'isola brillare. Così vicina, eppure irraggiungibile. Basta un traghetto, eppure non ci sono mai andata, non l'ho mai vista. Soltanto quattro chilometri. Con Anna, li possiamo fare a nuoto. Enrico guidava sereno, rispettando i limiti di velocità e le leggi della strada. Se c'era scritto cinquanta, lui faceva cinquanta, se c'era scritto trenta, lui faceva trenta. E poi aveva questo dono: dimenticare di cosa fossero capaci le sue mani. Non pensare mai alle cose complesse, pensare a una cosa sola, separatamente, senza legarla nel tempo e nello spazio alle altre. La luce cominciava a reclinare. E i paesini dell'Elba diventavano tanti piccoli presepi che, visti da lontano, non sembravano di questo mondo. Oggi mi sono ribellata. Oggi, per la prima volta. Come dice Anna: tu ti devi ribellare, glielo devi far capire che non sei un oggetto di sua proprietà, che sei una persona. Anna le sa usare bene le parole. Ribellione. Oggetto di proprietà. Persona. Ma io non le so usare, le parole. Io mi volevo ammazzare. Col cazzo: volevo ammazzare lui. E cosa è successo? Niente. Siamo vivi entrambi. Adesso entriamo in garage, lui parcheggia l'auto, sbattiamo le portiere. Anna, perché non sei qui con me? Perché non andiamo via insieme? Adesso lui chiude a chiave il
garage, non ci guardiamo, saliamo le scale in silenzio, salutiamo la mamma e ci sediamo a tavola per la cena.
6
Arturo era lì, affacciato, alle sei del mattino. Era solo. Si appoggiava al muretto del porticciolo. Si tastava il polso, cercava il Rolex che non c'era più. Gli occhi gonfi e la bocca impastata di nicotina. Si meravigliò del suo portafogli: ieri c'erano due milioni, adesso ci sono diecimilacinquecento lire in monete e pezzi da mille. Come è possibile? In una notte. Me lo sono bruciato tutto in una notte. Cazzo, era l'ultimo stipendio. I lampioni dell'isola vibrarono ancora una volta, poi si spensero alle sei e trenta. Non credeva ai suoi occhi, Arturo. Contava e ricontava i soldi, li disponeva ordinatamente sul muretto, vuotava il portafogli vuoto. Si tolse l'impermeabile estivo, faceva già un caldo boia. Si sbottonò la camicia e restò a petto nudo, con la catenina d'oro e il crocifisso scintillante tra i peli. Improvvisamente sentì qualcuno fischiare. Si voltò come una belva morsicata. «Cazzo fischi a quest'ora? Dormono tutti, cretino!» Il pensionato appena uscito di casa si fermò di colpo, squadrò lo strano ceffo che doveva aver fatto nottata e adesso gli sbraitava addosso. Il vecchio allargò le braccia: «'Briaco! Ma se c'è un sole grosso così!». Arturo guardò il cielo. Cazzo, è giorno! Che giorno è? Devo andare al lavoro? No, è vero: al lavoro non ci devo andare più. Devo chiamare Pasquale, ecco cosa devo fare. I falsi dovevano arrivare oggi, giusto? Oggi, sì: è sabato. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni sgualciti i suoi due cellulari e si accorse che erano entrambi spenti. «Scusi, può dirmi che ore sono?» Questo è matto, pensò l'anziano. Era uscito di casa per comprare il pane e "il Tirreno", e si era trovato davanti questo individuo che prima grida, poi è gentile, e c'ha due occhi da drogato. «Un quarto alle sette.» Arturo deglutì: adesso Sandra apre gli occhi, si volta verso il mio cuscino e vede che non c'è nessuno. Per alcuni istanti restò così, muto e sbilenco. La sua faccia esprimeva il concetto: mia moglie mi strozza. «Scusi eh, ma lei mi pare scemo» rise il vecchio in canottiera. Arturo era in piedi con il portafogli rivoltato in una mano, i due cellulari scarichi nell'altra, e diecimilacinquecento lire ordinatamente disposte sul muretto. Non riusciva a muovere un muscolo, non poteva. Questo perché stava pensando alla moglie. E alla lavastoviglie, all'autoradio di suo figlio, ai debiti con quel bastardo del Monte dei Paschi.
«Hai fatto bagordi?» «Macché. Mi sono rovinato…» «Ti ha sgamato la moglie con la ganza? Oppure hai perso a poker?» Arturo si meravigliò: è perspicace, il nonno. «La seconda… Però alla fine» le guance riprendevano colore, «mi sono rimasti i soldi per la colazione.» Intanto sulle banchine del porticciolo si accumulavano casse di totani, spigole e orate. I pescatori facevano la conta del pesce a voce alta, e il pesce mezzo vivo diventava merce. I grossisti si accalcavano sui moli, i bottegai si gridavano in branco uno sull'altro, e i ristoratori controllavano con attenzione le branchie dei tonni. In meno di un quarto d'ora, c'era il bordello. I furgoni frigo parcheggiati ovunque di traverso. Le motorette degli spazzini per le vie del centro, e maghrebini con lo sguardo sperso e la ramazza in mano. Rasentando certi muri, lungo le viuzze della città vecchia, e certe finestrelle aperte con i gerani sui davanzali, si sentivano le moke sbuffare sul fuoco e cucchiaini tintinnanti nelle tazzine. Adesso che Sandra stava smattando per casa, e tirava calci alle porte, alle pareti con la carta da parati scollata e sfilacciata da anni, Arturo rivolgeva a lei un pensiero carico di tenerezza. «Dove cazzo è andato quel bastardo?» stava gridando come un'ossessa al figlio rientrato in quel momento dalla discoteca. «Non è tornato stanotte, lo sai? Lo sai che non è tornato? Dov'è? Dove cazzo è?» Arturo sapeva che lei stava mandando in culo la Omnitel perché le diceva che i cellulari di suo marito erano spenti, che stava smadonnando perché suo marito aveva bruciato a poker l'ennesima fraccata di soldi. Entrò al Nazionale con il suo nuovo amico ottantenne. «Due caffè e due cornetti. Ah, corretti i caffè, mi raccomando.» «Solito?» chiese il barista alla sua vecchia conoscenza. «Sì, sambuca.» Si rivolse al pensionato: «Ti piace la sambuca, vero?». Per Arturo era un'arte fare amicizia. Riusciva a raccattare per strada chiunque. La piega dei pantaloni storta, la brillantina incrostata fra i capelli, faceva subito simpatia. «Mi piace tutto» rispose il vecchio, «quando è offerto.» Era convinto, Arturo, di essere il più furbo. Gli bastava sfoderare i Ray-Ban, snocciolare una barzelletta, appoggiato con il gomito al bancone: era il re di Piombino. Sandra, effettivamente, stava smadonnando. E Alessio, appena rientrato a casa, nella fase calante degli stupefacenti, non aveva idea di dove fosse suo padre, né tanto meno voglia di ascoltare sua madre. «Ti cheti, Dio Cristo? Vai al lavoro e sta' un po' zitta!» «Lo ammazzo. Giuro che lo ammazzooo!»
Vagava per la casa, furibonda. Un po' preparava le cose che le servivano per andare al lavoro: il grembiule, la cuffietta per i capelli… e il mascara dov'è finito? Un po' le scaraventava per aria: i calzini, i rossetti, tutto quello che trovava, dritto contro i muri. Una figura seminuda comparve in corridoio, sullo spigolo della porta. Si stropicciava gli occhi assonnati. «Mamma, che è successo?» miagolò. «Torna a dormire.» «Mamma…» biascicò Anna con il viso gonfio, i piedi scalzi sulle piastrelle fredde. Aveva tutti quei ricci in disordine sulle spalle nude, gli occhioni lucidi e sgombri da qualsiasi accusa. Si era svegliata di soprassalto eppure era calma, in mutande, pronta a rendersi utile. «Tuo padre è un deficiente» sbottò Sandra sul muso della figlia. «E adesso che lo sai, puoi anche tornare a dormire.» Anna rientrò in camera sua senza dire una parola. Guardò suo fratello togliersi la maglietta e le catene che portava al collo. Si vedeva lontano un miglio che era distrutto, figuriamoci a distanza ravvicinata. Si era devastato, come al solito, il venerdì sera. I capelli impiastrati di gelatina non tenevano più: ricascavano un po' dritti un po' flosci, ognuno nella sua direzione. Anna lo guardava come si guarda una scimmietta allo zoo dietro le sbarre, tra il curioso e il penoso. Cosa avrà mai fatto tutta la notte? Era nata sì, l'altro ieri, ma non era scema. A vivere in certi posti dove vige la legge del più forte, senza sconti, e con il padre che si ritrovava in aggiunta, lei il mondo lo conosceva già, e di brutto. Si avvicinò, gli schioccò un bacio sulla guancia sollevandosi sulle punte dei piedi. Alessio ricambiò con un sorriso martoriato. Stanco morto. Alle due gli iniziava il turno, e al solo pensiero gli veniva da piangere. Non aveva le forze di bestemmiare come suo solito, dopo dieci ore di musica assordante, pasticche e botte. Si slacciò i jeans, guardò Anna che gli stava di fronte seminuda. Non se n'era ancora reso conto che sua sorella era cresciuta, non era più una bambina, e si era fatta anche una gran topa. Se ne accorgeva solo adesso, in mezzo ai rigurgiti delle anfetamine. E nel casino che era la sua famiglia, con quel padre di merda, a sua sorella d'ora in poi avrebbe dovuto pensarci lui. Fu il pensiero di un attimo. Giusto il tempo di togliersi gli anfibi dai piedi e di scaraventarli dall'altra parte della stanza. Crollò sul letto in mutande. Hai cinque ore di tempo per dormire, farti la barba, farti una canna, e poi: lo spasso del carroponte! Si lasciò cadere di pancia, con il grande corpo abbronzato, temprato dall'acciaio, in un tonfo da cadavere. Anna tirò giù la tapparella, accese il ventilatore che faceva già caldo da morire. Rimase anche lei a torso nudo, sospesa, a guardare il suo lettino rosa e la grande schiena di suo fratello sull'altro letto. La mamma continuava a urlare, là fuori, e sbatteva tutte le porte. Forse non è il caso, si disse, non va più bene. Ma poi scacciò con la mano quel pensierozanzara. Sì, rise. E si catapultò sul letto di Alessio. Gli si andò a cacciare di lato, con la testa
incastonata sotto l'ascella, il naso appiccicato alla pelle. Quello era il corpo di suo fratello: il suo scoglio. E a volte ci si abbarbicava sopra, proprio come una tellina. I due rimasero così, incastrati una contro l'altro, sul letto disfatto da sempre, il materasso sfondato a una piazza. Si abbracciarono nonostante il caldo e la luce che filtrava dalle persiane, e piombarono nel sonno. Sandra sbatté la porta violentemente per andare al lavoro. I vetri delle finestre tremarono, ma loro non se ne accorsero neppure. Dopotutto, ci avevano fatto il callo. E anche per questo, alla loro età, ogni tanto dormivano insieme. «E cosa hai detto che fai nella vita, Arturo?» «Io?» «Eh, tu!» «Io… Be'…» Arturo neutralizzò in mezzo secondo la confusione che aveva in testa, si schiarì la voce prima di dire: «Sono un uomo d'affari… un mercante d'arte». Davanti al Nazionale passavano uomini vestiti di bianco, portavano le ceste del pane. Se tu sei un mercante d'arte, pensò il vecchietto, io sono Rockefeller. Le saracinesche si aprivano in corso Italia, prima una poi l'altra, con un gran stridore di ferro. Il giornalaio, il meccanico all'angolo. Quello che aggiusta le biciclette, il napoletano che occupa tutto il marciapiede con i carrelli di cianfrusaglie. Avrebbe parlato con tutti, l'uomo d'affari, il mercante d'arte. Si sarebbe fermato a discutere del più e del meno, avrebbe scroccato il pranzo in qualche modo, e si sarebbe tenuto lontano dalla banca e da sua moglie. Avrebbe vagato in lungo in largo, senza soldi, senza orologio. Si sarebbe rintanato dentro la vecchia cabina telefonica di piazza Bovio, dove c'era ancora scritto "Sip". E con le ultime mille lire rimaste avrebbe sfidato la sorte con il Gratta e Vinci.
7
La mattina seguente, di buon'ora, mentre Sandra era al lavoro e i ragazzi di sicuro dormivano, Arturo attraversò il cortile pieno di circospezione. Sgattaiolò furtivo dentro il portone del numero sette. Era casa sua, sì, ma lui a regola non poteva entrarci. Soprattutto: nessuno doveva scoprirlo, mentre si intrufolava nel suo appartamento per trafugare alcune cose indispensabili come il caricatore dei cellulari e magari, se le trovava, centomila lire. Salì le scale guardandosi alle spalle a ogni gradino. Non gli piaceva fare quella cosa, intendiamoci, ma doveva farla per forza. Con il cuore in gola, i sensi di colpa. Ancora qualche giorno, il tempo di sistemare alcuni affari, e sarebbe tornato a casa sua a testa alta, avrebbe parlato a sua moglie, riabbracciato i suoi figli. Adesso però gli toccava rasentare il muro, confondersi con il buio delle scale e trattenere il respiro. Sovrappensiero com'era, teso allo spasimo, raggiunse la volta del pianerottolo al terzo piano. Quando Enrico gli si parò davanti, Arturo quasi cacciò un urlo. Si scontrarono. Non se lo aspettavano, nel deserto tombale del condominio a quell'ora. Restarono un attimo interdetti nell'oscurità, con gli occhi spalancati. A Enrico non era mai piaciuto. Sapeva chi era per sentito dire, e sapeva che era il padre di Anna. Uno poco raccomandabile. Uno che ha traffici loschi. E anche sua figlia era una poco di buono, una puttanella che cercava di traviare la sua Francesca. Si accorse che Arturo era agitato, che si guardava intorno come un ladro, e gli lanciava un sorriso ridicolo come dire: sono innocente, te lo giuro. Ma lui non ne voleva sapere. Lui stava andando al lavoro, come ogni giorno, e voleva solo arrivare in tempo e fare l'acciaio come si deve. Disse: «Salve». E passò oltre. Anche Arturo disse: «Salve». Era da una vita che si dicevano «Salve». E basta. Riprese a salire le scale, il cattivo padre di famiglia, e quando arrivò al quarto piano, a pochi metri dalla porta, si fermò a cercare le chiavi nel marsupio. In realtà prendeva tempo e coraggio, perché quello che stava per fare non lo entusiasmava per niente. Prima di inserire le chiavi nella toppa, pensò che quell'Enrico non gli era mai piaciuto. Era un uomo stupido, si vedeva dagli occhi: tondi e piatti come quelli delle galline. Non aveva un filo di cervello, anche se era un gigante. Si ricordò quella volta, che lo aveva sentito parlare con l'idraulico: ripeteva cento volte la stessa cosa per spiegare che il contatore non andava bene. L'idraulico annuiva sfavato,
sorpreso che una persona potesse essere così scema. Era un fatto elementare, un minuscolo ritardo nel contatore. Eppure ripeteva di continuo quella medesima frase, che non riusciva a legare alla cosa, la cosa guasta che gli sfuggiva e la parola che non reggeva. Enrico, che stava girando la chiave nel riquadro della Uno bianca, invece non pensava assolutamente a niente. Se non al tragitto che doveva fare, passando per tre semafori e due rotonde. Lasciare la macchina nel parcheggio grande, davanti all'ingresso di via della Resistenza, timbrare il cartellino, cambiarsi negli spogliatoi, arrivare a destinazione: la cokeria. Aveva qualcosa di immobile nello sguardo, come l'animale quando fissa la gola della preda. La natura che compie il suo dovere quotidiano: la fatica dell'acciaio, le mani ferme sul volante. Se c'era da spalare, lui spalava. Se lo mettevano ai controlli, lui controllava. Annotare le temperature sul taccuino, ficcare la pala nel carbone e sollevarlo: per lui non faceva differenza. Si credevano furbi. Quell'Arturo che non si capiva come fosse diventato caporeparto, e non muoveva mai un dito tranne che per rubare il gasolio. Quegli altri deficienti, quelli giovani, quelli di vent'anni, si appendevano alle funi come fossero liane. Anziché occuparsi della produzione, facevano i Tarzan. Ma non è così che va bene. Enrico lo sapeva, come andavano fatte le cose. E infatti lui ci stava attento, alla temperatura dell'acciaio. Controllava il termometro anche tre o quattro volte. Per essere sicuro. Per svolgere bene il suo lavoro. Respirava il coke a pieni polmoni, con attenzione, senza distrarsi, compiva lo stesso gesto per otto ore. Mentre guidava, la sola immagine che aveva nella testa era Francesca. Non il viso congestionato di quando si era ficcata il coltello nel polso. Ma il corpo seminudo sulla spiaggia, quello che sfuggiva al suo controllo, quello che doveva essere disciplinato. Doveva farla rientrare nei contorni, la sua bambina. Non andava bene. Gliel'avrebbero messa incinta, se continuava. Uno di quei bastardi. Incinta. La sua bambina. Questo non sarebbe mai dovuto accadere.
8
Francesca si voltò indietro, gridò ad Anna qualcosa che venne ingoiato dal frastuono delle marmitte. Qualcosa tipo: sono felice. Senza casco, i capelli le finivano in bocca. Rideva perché sentiva il solletico del vento sotto la canottiera, fra le gambe a cavalcioni sullo scooter. Si voltò di nuovo, stretta al corpo di Nino, e appoggiò il viso sulla sua spalla strofinando la guancia. Massi dava gas come un forsennato per cercare di raggiungerli, ma l'SR di Nino volava a novanta all'ora e il suo Typhoon non spingeva tanto. Anna, poco abituata ad arrivare seconda, lo incitava con schiaffetti sulla nuca, pugni sulla schiena. Anziché abbracciarlo, lo picchiava. I quattro ragazzi sfrecciavano sulla panoramica. Direzione: fuori Piombino. Nell'ora in cui le madri sono a casa, i padri al lavoro e i coetanei al mare. Anna e Francesca guardavano la strada perdersi fra le colline dure di lecci e le ciminiere della Lucchini. La fabbrica assediava il cielo. Ma loro sorridevano in silenzio. Si sentivano potenti, abbracciate a due uomini bellissimi. Quando furono all'incrocio della statale, il mare era già scomparso, come le case, le spiagge, i negozi chiusi. Adesso la fabbrica giganteggiava davanti ai loro occhi, esalava una vibrazione remota nelle tubature e nei gasdotti, tendeva i suoi bracci, i suoi forni ricoperti di fuliggine. Nino svoltò a sinistra, Massi lo seguì a ruota. La meta non era lontana. Senza casco, chiavi, soldi, portafogli. Se restavi a casa, n i uno sfigato. Se uscivi, il massimo era correre in sella a un motorino truccato verso un luogo segreto. Nino svoltò ancora a sinistra, Massi gli stava dietro. E adesso erano dentro. Il Cotone, il quartiere dell'acciaio. Nudo come una tomba. Non una panetteria, un alimentari, un'edicola. Forse la serranda abbassata di un'officina. Lo spolverino prodotto dal carbone te lo sentivi entrare nei polmoni, appiccicarsi addosso, annerire la pelle. I due scooter schizzavano senza rallentare fra le case fatte a pezzi dal tempo. Erano di inizio Novecento, quei ruderi spaccati, abitati ormai solo da extracomunitari. A un metro, il confine. Due bambini di pelle scura, affacciati a un balcone con una palla in mano, erano le sole presenze umane. I gatti randagi erano ovunque invece, ti sbucavano dalle pareti marce e dai prati retrocessi a discariche, e tu dovevi stare attento a schivarli. Un tempo sarà stato anche pieno di vita quel luogo, ma adesso era ridotto a una maceria. I pochi panni stesi alle finestre erano grigi. Pesava, nelle strade, nei cortili, un silenzio di fantasmi. Una memoria muta. E topi e rovi ovunque, una preistoria. Nino e Massi rasentarono la rete della fabbrica per quattro chilometri. Non era più il mostro di trenta anni prima: ventimila dipendenti, una città. Avevano ridotto il personale, smantellato alcune ciminiere, e il mostro si era un po' rinsecchito. Via della Resistenza
numero due, l'ingresso principale. Qualcosa come dieci milioni di metri quadrati. In stampatello: LUCCHINI S.p.A. Francesca e Anna allargarono gli occhi, perché due non bastavano a tenere insieme il mare di bunker, escavatori, ciminiere, gole, binari morti, rulli autotrasportatori. Il corpo batteva forte insieme ai metalli nei forni. Le barre, i blumi, le billette: insieme al cuore, le arterie, l'aorta. Era impossibile trovare un ordine, un senso. E loro avevano solo tredici anni. Nino frenò in prossimità di uno squarcio nella rete. Spensero i motori. Balzarono giù dagli scooter e rimasero tutti e quattro in silenzio. Il lamento rauco, perenne delle acciaierie, te lo sentivi vibrare nelle ossa. Provarono qualcosa fra il timore e la meraviglia per quel luogo ai margini di tutto. Un luogo di terra arida e rossa, mutato, alle due del pomeriggio, in fornace. Dove neppure un filo d'erba poteva spuntare. Neppure un topo qui, solo rettili. Quel suolo prosciugato nel tempo assomigliava a un pavimento d'asfalto. Il piombo, l'odore pesante del ferro bruciava i polmoni e le narici. Non volava una mosca. Nino si infilò per primo. Gli altri lo seguirono nello squarcio della rete arrugginita. Sarà stata la centesima volta. Ci andavano quando volevano stare soli, o quando facevano sale a scuola. Erano gli unici, in tutta Piombino, a spingersi oltre la soglia. Gli unici che avevano le palle di farlo. Adesso, varcato il confine, erano dentro sul serio. Quel ramo morto della fabbrica si era ridotto a una carcassa di ruggine. Restarono lì, tutti e quattro, impalati per un istante. Abbagliati dalla luce riflessa dai metalli. La gola asciutta. Il corpo bagnato di sudore, il corpo piccolo e vivo. Ansimanti contro i giganti di cemento. Era un po' come stare dentro un acquario. La colata dell'altoforno laggiù infiammava il cielo, lo infettava di nebbie e veleni, e ti sentivi liquefare. Sudavi, il cuore pulsava all'impazzata. Di fronte, i resti di una ciminiera. Più in là, un capannone dismesso. E al centro un escavatore con il braccio torto e la pala rovesciata. Morti e roventi. Nino cacciò un urlo, così, per il gusto di farlo. E tutti e quattro si lanciarono nel cimitero industriale, presero a correre a più non posso in ogni direzione, come animali appena liberati. Tutto era permesso lì. Schizzarono da una parte all'altra, salirono sulla benna dell'escavatore, sui blocchi crollati della ciminiera, e saltarono giù. Non avevano paura di ferirsi con la ruggine o di inciampare nei resti di rotaie e pneumatici. Gridavano sopra il ronzio colossale della fabbrica e per un attimo erano più forti loro. Nino afferrò Francesca per un braccio e la trascinò nel buio, dentro il capannone dismesso. «Adesso mi dici cosa hai fatto al polso.» «Ti ho detto niente.»
In quel ventre i respiri e i contorni si distinguevano appena. Non potevi vedere dove mettevi i piedi, cosa calpestavi. «Sei una cretina» disse Nino. Avvicinò il corpo al corpo che gli respirava di fianco. «Può darsi» bisbigliò lei, retrocedendo di un passo. Nino immaginò la faccia da schiaffi, la smorfia d'insofferenza che piegava le labbra di Francesca così spesso, e si sentì avvampare. «Sei una cretina… Ma devo darti un bacio.» Le prese la mano. A quel contatto avvertì un incendio, lento, risalire insieme al sangue nelle arterie. La attrasse con la dolcezza di chi non sa aspettare. Non c'era luce, neppure un filamento lunare. Francesca si ritrasse. Svincolandosi da quel corpo maschile, troppo grande e prepotente, rimase rigida e chiusa, come un uovo. In silenzio. «Perché fai così?» «Perché sì.» «E perché sei venuta, se non volevi?» Non la sentiva quasi respirare. Il battito impercettibile nel fondo del petto, come fosse in letargo. Nino le afferrò di nuovo il polso, quello avvolto dalla garza. Ansimava e il suo corpo era un tumulto. Le fece male, stringendolo. Lo fece apposta. E lei questa volta emise un breve suono come sott'acqua, senza opporre resistenza. Scomparve fra le grandi braccia di Nino. Tremavano entrambi, ma di tremori diversi. «Che hai?» «Niente.» «Non puoi dire sempre niente, mi fai incazzare. Voglio sapere cosa hai fatto al polso.» Era più forte di lei. Quella morsa, le mani, il corpo del ragazzo più bello che avesse mai visto, che era cresciuto con lei e aveva giocato e nuotato con lei, le faceva paura. Le dava fastidio toccarlo. Le faceva schifo il contatto. Avvertiva il cuore di Nino battere forte, così forte da entrare, sconquassare il suo torace vuoto, e si sentiva inadeguata. La sua bellezza era inutile, non la poteva muovere. Ora lui posava le labbra umide sulle sue labbra. E lei non poteva fare a meno di provare disgusto. Nino le piaceva: quando rientrava dall'officina con la tuta blu e le mani sporche di grasso, quando faceva le impennate con il motorino per attrarre la sua attenzione. Ma quando la baciava come adesso dentro il capannone, si sentiva gelare gli organi, i muscoli la immobilizzavano. Si scatenava una guerra, dentro, nella pancia. E doveva resistere, fare uno sforzo: sciogliere le labbra e lasciarlo entrare, almeno un poco. Perché così era giusto. Anna lo faceva, con Massi: si baciavano in bocca.
Ma Nino questa volta non tentò di forzarle le labbra. Si fermò sull'orlo. Le prese il viso tra le mani e lo sollevò appena. Lui era innamorato perso. Come non lo sarebbe stato mai più in tutta la sua vita. Prima di diventare lo stronzo che tutti conoscono, nel capannone della Lucchini, prendendo il viso di Francesca tra le mani era stato sul punto di piangere. Non vedeva quasi nulla di quel viso. Impenetrabile, pallido viso, che avrebbe voluto mangiare, consumare. Vedeva solo le due lame bollenti degli occhi. «France…» Lei, le braccia morte lungo i fianchi. Nino avrebbe voluto non dirlo, ma stava impazzendo. Si sentiva respinto e non poteva accettarlo. Lui era perso di lei. Doveva fare qualcosa, qualcosa di grande. Era agitalo, doveva esplodere. Non si teneva. Ecco, adesso. No, non posso. Sì che posso. Ecco, adesso lo dico, lo sto dicendo… «Ti amo.» Francesca sussultò. Non se lo aspettava, non se lo era mai sentito dire. Per un istante tornò in vita: vita piena di sangue e carne. Tornò calda in viso. Ma non poteva rispondere niente a quella parola. Nino ormai l'aveva detta. Gli era costata uno sforzo immane e adesso non ammetteva fughe, reticenze, barricate. Premette forte il corpo caldo contro quello chiuso di lei. Lasciò correre le mani dal viso alle spalle, e dalle spalle al seno, il cotone del vestito, l'odore che gli faceva male. Di cosa sapeva? Di pelle, la sua. Gli partiva il cervello. «Ti aspetterò sempre… Sono disposto ad aspettare» rise, «fino al matrimonio!» Rise anche Francesca. Aveva voglia di ridere, di sentirsi normale. Si lasciò abbracciare dal ragazzo buono che l'aveva guardata crescere dalla finestra di fronte, attraverso i piloni di cemento del cortile e le sbarre dei cancelli a scuola. Le aveva detto: «Ti amo». Lui che avrebbe voluto trapassarlo, quel corpo. Nino poteva fare mille cose adesso, e invece la baciò sulla fronte. Francesca ficcò il muso nel suo petto e finalmente riuscì a non fingere. Si lasciò scappare un pianto, quasi muto. Lui non cercò più spiegazioni. Solo, abbracciandola, aveva avuto un'erezione. Non poteva sapere. Non doveva vedere: i segni sotto il vestito, le ombre viola degli ematomi, delle botte. Francesca lo sapeva bene, non avrebbe potuto mai innamorarsi di un uomo. Fuori intanto, in pieno sole, Anna e Massi avevano giocato a rincorrersi e a nascondersi, tra le dune di ghisa e carbone. Drogati di luce, con i corpi sudati, si erano esibiti in salti dalla ciminiera diroccata.
Adesso, di colpo, si erano fermati. Anna si lasciò cadere sulla pala rovesciata dell'escavatore. Era sporca di terra e respirava forte. Massi si tolse la maglietta, la gettò sul braccio del Cat ridotto a uno scheletro e si piegò sulle ginocchia. Avrebbe voluto buttarsi a terra, impastarsi di polvere, e morire quasi, che i polmoni gli esplodevano nel petto. Rimasero così, per un po', a riprendere fiato e a guardarsi. Era bello Massi. Moro, assomigliava a un talebano. Le ginocchia leggermente storte e i muscoli delle gambe in rilievo come i calciatori professionisti. Diciassette anni, quasi diciotto. Lo sguardo tagliente, nero, di chi sogna la serie A. E il viso duro, meridionale. La luce bianca convertiva la terra, e il ferro, e l'aria irrespirabile, in placenta. Dovevi stringere gli occhi a fessura per non farti male. Anna sollevò la testa, gli ficcò le iridi nelle iridi e scoppiò a ridere di punto in bianco. Era il suo modo di provocare. Anche Massi rise. Intuì cosa stava per accadere e si sollevò in piedi, senza staccarle gli occhi di dosso. Lui nella vita faceva finta di studiare. Frequentava saltuariamente l'ITIS. E quell'anno era stato bocciato. Le lentiggini, questo particolare di Anna lo faceva impazzire. La massa di riccioli bruni, sempre spettinati. Si era truccata un poco, oggi. Si era passata la matita nera intorno agli occhi. Ma restava una bambina, e anche questo gli piaceva. La luce li stordiva. C'era il rumore basso e costante della fabbrica che si irradiava dal sottosuolo. E l'odore secco, organico, del carbone. L'odore di ruggine, di ferro, di bagnato – come quando inizia a piovere. Anna si distese sul dorso della benna e si sentì sull'orlo di qualcosa che non aveva nome. Massi non era il suo fidanzato, era un po' come un fratello maggiore. Lei lo stuzzicava e lui stava al gioco. Non lo faceva apposta a provocarlo, le veniva. Solo che i pensieri, adesso, si confondevano e le sfuggivano. Sentiva i muscoli sciogliersi e tutto il corpo accelerare. Si sfilò la canottiera, si slacciò il reggiseno. Era sempre stato così, da quando erano bambini e giocavano in cantina a spogliarsi. Restavano nudi nel buio. La porta dello sgabuzzino chiusa a chiave, l'odore forte della polvere, dell'abbandono delle cose. Si guardavano, s'indicavano con le dita le parti del corpo, le nominavano ad alta voce. E ogni parte li faceva ridere: la patatina, il pisello, le tette. Poi si rivestivano e tornavano a giocare con gli altri. Massi era lì. Anna lo sentiva avvicinarsi, respirare. E un terrore tranquillo s'irradiava attraverso le arterie, penetrava in ogni capillare, le intorbidiva gli occhi. La luce scioglieva lei, i cumuli di pneumatici, le montagne di limatura di ferro. Le piaceva stare così a torso nudo, in attesa, con le braccia incrociate dietro la testa e gli occhi chiusi. Sapeva che lui la stava guardando adesso. Erano cambiate molte cose negli anni, e soprattutto nelle ultime due settimane, senza che loro potessero capire o reagire. Non gli veniva più da ridere se si spogliavano. Avevano cominciato a provare imbarazzo mentre si cambiavano il costume nelle cabine al mare. Era successo qualcosa di nuovo, che era più forte di loro.
I seni nudi di Anna, Massi non li poteva sopportare. Li guardava fermi alla luce, e non c'era niente di più tirannico. Doveva stringerli per forza, affondarci il viso. Il sudore gli colava dietro la nuca, inzuppava i capelli e scendeva in un rivolo lungo la colonna vertebrale. Non poteva farci niente. Gli succedeva e non poteva nasconderlo. Si tolse la cintura che gli dava fastidio. Si avvicinò fino a farle ombra. Chissà se Anna provava lo stesso… Non si muoveva. Distesa, con le gambe in disordine e la gonna un poco alzata. Gli sorrise soltanto, come a dire: puoi. Le calò sopra lentamente con tutto il corpo. E chiuse gli occhi. Adesso era buio per entrambi. Tutto cadeva nell'indistinto, in un sapore acre, di nido. Si lasciò andare fra le ginocchia di Anna, sul seno caldo. E lei si richiuse con le braccia e le gambe intorno a lui, come un marsupio. Accadeva che in tutto il mondo c'era un unico luogo in cui Massi stava bene davvero, e quel luogo era Anna. La vicina di casa, la ragazzina stronza che gli tirava i gavettoni dal balcone. Non aveva sempre voglia di fare la guerra: con i professori, i coetanei, i genitori. E fare il duro con lei, con i gesti, lo sguardo, le bravate. Sbattersi per fare gol ogni domenica, sbattersi per potenziare lo scooter allo spasimo. A volte aveva voglia di rintanarsi e cadere, nudo, in quella bambina. Lo aveva scoperto da poco, il corpo di Anna. Troppo conosciuto, così cambiato, poteva essere quello di sua sorella, tanto non aveva spine. Anna lo baciava, e non riusciva più a pensare. Non sono innamorata, non è vero. È un gioco, però è più di un gioco. Si aggrappava alle sue spalle, voleva fare qualcosa, ma non sapeva cosa. Lasciò che una mano di lui s'intrufolasse. Non doveva farlo, ma lo faceva. Perché lui la toccava proprio come faceva lei, da sola, prima di addormentarsi. La prima volta che si erano baciati con la lingua era stata due settimane fa. Lui era andato a prenderla l'ultimo giorno di scuola con lo scooter. Si era fermato sulla panoramica e si erano seduti sulla panchina davanti al mare. Era mezzogiorno. Massi le aveva aperto le labbra, ci si era infilato dentro, e Anna aveva avuto una gran paura. Poi l'aveva abbracciata più forte, e abbracciandola l'aveva sfiorata in mezzo alle gambe. Lei aveva sentito il desiderio, fortissimo, di fare pipì, e gli aveva tirato uno schiaffo. Ma adesso, non sapeva perché, aveva voglia di lasciarsi sfiorare. Un pochino, proprio solo un pochino. La paura non era più così forte. Voleva conoscere la cosa strana, che le piaceva ma le faceva anche male. E Massi le scostò i bordi delle mutande, con le dita soltanto, con un dito appena. Perché lei tremava, aveva aperto gli occhi, e quegli occhi chiedevano: adesso cosa succede? Quando si sentirono chiamare a voce alta, s'interruppero di colpo. Si rivestirono in fretta senza guardarsi e ricomparvero sgualciti da dietro la scavatrice. Francesca e Nino facevano loro dei segni con le mani. Prima di salire sui motorini, Francesca guardò Anna in un modo che faceva spavento. Una
specie di incendio cupo. Anna non lo resse e si voltò dall'altra parte.
9
«Cosa c'hai fatto con Massi?» «France, che palle! Non sono innamorata di lui, stai tranquilla.» «Sì, ma cosa avete fatto?» Prima di rientrare si erano sedute una accanto all'altra su un gradino delle scale. Francesca, torva, la assillava di domande, e Anna rideva così forte che la sentivano in tutto il palazzo. «Ti odio quando fai la scema.» Anna si riscosse istantaneamente. Non le piaceva essere chiamata scema. «Abbiamo fatto quello che avete fatto voi.» «Cioè vi siete baciati.» «Sì.» «E basta?» «E basta.» «E lui ti ha toccata?» «No!» «E tu non sei innamorata?» «No, cazzo! Non me ne frega niente di Massi. Lo conosco da una vita.» Fu presa da un moto di insofferenza. «Siamo amici, giochiamo…» alzò la voce, «e tu sei gelosa!» Si alzò in piedi per far passare uno sciame di ragazzini urlanti con i mitra spianati in mano. Ma quelli si erano fermati e glieli puntavano contro. Aspettavano un segno di resa. «Non sono gelosa» scattò in piedi anche Francesca, gli occhi indecisi se fulminare o piangere. «Lo sei! Ce l'hai con me. Perché? Cos'è, ti dà fastidio se bacio Massimo?» Quattro bambini con le ginocchia sbucciate aspettavano in piedi, seri e muti, che quelle alzassero le mani e dicessero qualcosa tipo: ci arrendiamo. Ma Anna e Francesca non li guardavano neppure, anzi, sembravano impegnate a fissarsi con sguardi incandescenti. Delusi, i bambini ritrassero i mitra e passarono oltre. Era evidente che ce l'aveva a morte con Anna. Avrebbe voluto picchiarla. Perché l'aveva capito, da come si erano presentati mezzi svestiti, che Anna con Massi ci aveva fatto qualcosa di pesante. «Guarda» attaccò Anna con sicurezza, «che anche se tu baci un ragazzo, e io bacio un altro ragazzo, non cambia proprio niente fra noi.» Si fermò un attimo. Pausa tattica.
Un rigagnolo gocciolava dal pianerottolo di sopra, dove una bambina stava acquattata, le mutande tese contro le ginocchia e la gonna alzata. Fare la pipì per le scale era la norma. «Capiterà un giorno che noi, tutte e due, ci fidanzeremo. Non dico con Nino o con Massi, ma in generale ci fidanzeremo. E faremo l'amore con i nostri fidanzati, e passeremo molto tempo con loro, e andremo in discoteca, mano nella mano, e poi ci sposeremo, faremo molti figli, io andrò a studiare lontano, tu vincerai Miss Italia, e per forza di cose, magari per un certo tempo, ci divideremo.» Francesca ascoltava, offesa. «Potrà capitare, Fra, dovrà capitare. Ma noi non saremo mai veramente divise. Non possiamo perderci, capito?» L'altra restava sulla difensiva, ma qualcosa in quel muso aveva cominciato a disfarsi. Anna se ne accorse. «Siamo diverse, ma siamo una cosa sola» sorrise, «siamo sorelle!» Francesca si lasciò andare di colpo. Non le era piaciuto il discorso sui fidanzati, sullo stare lontane, di Anna. Anzi, dentro di lei aveva tremato. Ma quando alla fine le aveva sentito pronunciare quella parola piena di elle, aveva provato un'esplosione nel petto. Le era saltata addosso. Non aspettava altro, in verità, aveva bisogno di abbracciarla. La rivoleva sua. E poi Anna non era innamorata di Massi, non le fregava un tubo di lui. «France, seriamente… Adesso ascoltami.» Le prese le mani e le strinse fra le sue. «Primo: a togliere i punti ti ci accompagno io. Secondo: ti prometto e ti giuro che quel mostro non ti farà più male. E se te lo farà, tu verrai a vivere da me. E se mio padre farà un'altra stronzata e mia madre non lo sbatterà fuori di casa, ce ne andremo via.» Francesca si stava impegnando per non piangere. «Perché non è giusto» gridò Anna. «Non è giusto che la nostra vita sia rovinata da due stronzi!» Che la sentissero, in quel palazzo di merda. «Due stronzi che fanno solo stronzate e non sono nessuno!» Che la sentisse, il padre di Francesca. Quando entrò in cucina, cosa inaudita, seduto al tavolo di cucina c'era… suo padre. «Babbo!» esclamò Anna istintivamente. A dire il vero, c'era aria di maretta. Sandra trafficava fra i mestoli con scatti rigidi e non si era neppure voltata a guardarla. Arturo, vedendo la figura riccia di sua figlia, si riscosse dall'imbarazzo e le spalancò le braccia. Scattò la sigla del Tg1. Per un istante Anna ebbe l'impressione che casa sua fosse una casa normale. C'era mamma, che finalmente la salutava con le presine in mano, pronta a scolare la pasta. C'era papà, latitante da tre giorni, che le sorrideva. E non c'era suo fratello, vabbe', ma
era giusto: stava imprimendo a pezzi di acciaio rovente la forma lunga di una rotaia. La tavola apparecchiata con cura, le notizie scandite dalla voce di una bella signora. Non voleva vedere i nervi a fior di pelle di sua madre. Non voleva accorgersi del modo nervoso con cui suo padre si torturava le unghie sotto il tavolo. Andò a dargli un bacio e si sedette davanti a un piatto fumante di fusilli. Arturo ingoiò la prima forchettata, poi si prodigò in complimenti per il sugo. Apparentemente allegro e a suo agio, commentò qualche notizia ridendo, così, a casaccio, senza che gli importasse veramente di chi era stato arrestato, di chi era morto in un cantiere. Anna si aggrappò con tutta se stessa a quell'apparenza. Disse che il sugo era buono. E Sandra rimase in silenzio, gli occhi bassi sul piatto. «Allora? Cosa mi racconti, dove sei stata?» chiese Arturo quando ebbe finito di masticare. «In giro» rispose Anna. «Sandra, per favore, il sale.» Lei, il viso contrito, prese il sale vicino al suo piatto e lo posò, sgarbatamente, davanti al piatto del marito. «Grazie.» Arturo deglutì, poi si rivolse di nuovo a sua figlia: «Ma oggi non sei stata al mare?». Anna guardò il viso sorridente del suo papà e le sembrò proprio di volergli bene. Nonostante tutto. Era contenta di quella cena a tre. La degna conclusione, pensò, della mia giornata. «No, al mare non avevamo voglia. Siamo stati in giro, così, con Francesca.» Arturo osservò meglio il viso di sua figlia, allora cambiò espressione. Si oscurò di colpo e non le lasciò neppure il tempo di finire. «Cos'è quel nero sugli occhi?» Anna ammutolì. «Cos'è? Hai già cominciato? Adesso vai in giro truccata?» Gettò con violenza il tovagliolo sul tavolo e si voltò infiammato verso sua moglie. «Sandra!» tuonò. «Ma la mandi in giro così?» La pace era durata quattro minuti. Bene, pensò Anna. Le era passato l'appetito. Il babbuino si è già alterato. Era sempre così con suo padre, un terno al lotto. E lei, con lo stomaco contorto per la rabbia, la delusione, il desiderio di mandarlo a cagare, non ne poteva più. «Ma la vedi, Sandra, l'hai vista? Con due dita di trucco in faccia! Sembra una puttana, cazzo!» Si alzò in piedi, furibondo. Sandra si rizzò sulla sedia con uno scatto. «Non ti azzardare mai più a dire una cosa del genere di mia figlia!» Anna rimase seduta, gli occhi sgranati e il cuore che le batteva all'impazzata. Sembravano due bombe a orologeria, quei due, pronti a distruggere la casa. E la pasta nei piatti ormai si era gelata.
Avrebbe voluto gridargli in faccia: ma potevi non tornare proprio, stronzo, potevi restartene dov'eri, no? Ogni volta che torni si scatena l'inferno. Cazzo fai? Te la prendi con me perché ho quasi quattordici anni? Tu, stronzo, che non fai altro che disastri, con quale diritto rompi le palle? Rimase, naturalmente, in silenzio. Il padre che c'era e non c'era, che sorrideva e poi perdeva le staffe: ne aveva abbastanza delle sue sceneggiate. Perché ce l'aveva lui, il potere? Non si mosse dalla sedia. «Anna!» eruttò. «Fila a lavarti la faccia. E guai a te, guai!, se ti becco ancora una volta conciata…» Afferrò il sale alla cieca, inferocito, e lo schiantò contro la parete. «Ti giuro che non esci mai più!» Anna si alzò, contenta di avere il permesso di tagliare la corda. Sbatté forte la porta del bagno, e quando fu con la faccia davanti allo specchio, le mani sul lavandino, digrignò i denti. Non aveva neppure mangiato. Guarda 'sto stronzo che una sera spunta dal nulla e vuole fare il padre. E pensa che fare il padre sia rompermi le palle per un filo di trucco. Ma vaffanculo! Ficcò la testa sotto il rubinetto e lasciò che l'acqua le entrasse nelle orecchie. Non lo voleva più sentire, il babbuino di merda che continuava a urlare: «Finché non hai diciotto anni, tu quella merda in faccia non te la metti! Non te la metti, capito?». «Abbassa la voce» sibilò Sandra cominciando a sparecchiare, «e abbassa pure le corna. Che tua figlia un po' di matita sugli occhi se la può pure mettere. Non sono questi i problemi.» Anna non ci pensò neppure a tornare in cucina. Era troppo incazzata. Si chiuse in camera sua e accese lo stereo a tutto volume. Pensò a Francesca. Pensò che forse era il caso di andare via sul serio. Loro due, in incognito, con l'impermeabile da detective e un fazzoletto in testa, il fagotto come quello dei cartoni animati e gli occhiali da sole, su una banchina del porto ad aspettare il primo traghetto per l'Elba. Ma non era lei che se ne doveva andare, era lui. Perché mamma non lo sbatte fuori a calci nel culo? Se fosse tornata di là adesso, avrebbe visto suo padre calmo e buono, in poltrona, intento a fissare divertito lo schermo del televisore. Arturo era fatto così: dopo le sue sceneggiate, dopo aver rotto un po' di cose, tornava subito allegro e mansueto. Non Sandra. Andò sul balcone a scuotere la tovaglia. Riempì d'acqua calda e detersivo l'acquaio. Strofinò bene i piatti e le pentole, li risciacquò, li mise ad asciugare. Tutto questo nel più religioso silenzio, senza degnare d'uno sguardo il marito esilarato da Striscia la Notizia. Passò la scopa a terra, raccolse le briciole. Chiuse il sacco del pattume e addirittura scese in strada a buttarlo. Devo fare due passi, sennò lo strozzo. Rientrò.
Arturo era sempre là, in poltrona. Non muoveva mai un dito, lui. «Senti» pronunciò calma, sedendosi lentamente di fronte al marito, quella parola così carica di sciagure. Arturo la guardò con inequivocabile espressione: sono pronto, ci siamo. «Adesso mi spieghi» cominciò Sandra, «perché sono tre giorni che non vieni a casa a dormire, perché da tre giorni la banca mi assilla di telefonate, minacciando cose che tu sai e che io non sapevo, e perché sul conto mancano tre milioni.» Respirò profondamente. «Soprattutto, mi devi spiegare come facciamo a pagare la lavastoviglie, l'autoradio di tuo figlio e quattordici milioni di debiti, senza che ci tolgano il tetto da sopra la testa.» Arturo, per un attimo, si sentì una fitta al petto che poteva anche assomigliare a un attacco cardiaco. Per una frazione infinitesimale di tempo, guardando il volto impassibile e stanco di sua moglie, si sentì una merda. Ma appunto, fu solo una frazione infinitesimale di tempo. «Va bene, Sandra. Te lo dico. Adesso, se mi lasci parlare e non mi interrompi dopo tre secondi, ti spiego tutto e ti renderai conto che i problemi non esistono.» Sua moglie non cambiò espressione. Con pazienza sovrumana, e sovrumana stanchezza, nel piccolo salotto di casa si apprestava ad ascoltarlo ancora, dopo vent'anni di matrimonio, e a fare finta di credergli. «È vero, mi sono licenziato.» Lei avvertì un pugno allo stomaco. «Ma Sandra, oggettivamente… Guardami!» Arturo si alzò in piedi, mise una mano avanti. «Oggettivamente, non potevo mica continuare a spaccarmi le mani là dentro, sopportando ogni genere di sopraffazioni, per percepire uno stipendio da fame… Cioè…» deglutì per prendere tempo, cercare parole migliori, «mi si sono presentate delle occasioni… delle signore occasioni! Un nuovo lavoro, Sandra, un lavoro valido, te lo giuro, e ti assicuro che è un signor lavoro!» «Quale sarebbe esattamente questo signor lavoro?» «Il commercio, Sandra! Pezzi d'antiquariato, opere d'arte. Un campo sicuro, guadagni fondati» esaltandosi, «sai che mi sono sempre interessato a queste cose, che il commercio è sempre stato il mio forte… e adesso ho avuto l'occasione.» Ci crede, pensò Sandra, lui crede veramente a quello che dice. «Un caro amico mi ha offerto di diventare suo socio. Antiquariato, Sandra. È un mercato in crescita, in netta espansione.» «Antiquariato» ripeté Sandra con un filo di voce. «E chi sarebbe questo tuo amico?» Arturo si schiarì la voce, tossicchiò un poco. «Pasquale.» Sua moglie sbiancò del tutto. «Pasqualeee?» gridò. «Pasquale chi? Quello che fa dentro e fuori tutti gli anni? Quello che sta più in galera che a casa sua?»
Arturo si mise le mani fra i capelli. Per un attimo, per un solo attimo, si sentì di nuovo una merda. Poi si riscosse. «Nooo! Ma non hai capito. Pasquale è una brava persona, una pasta d'uomo, è solo che…» E stava per ricominciare a spiegare, e la rava e la fava, quando Sandra gli fece cenno di non parlare più, esausta. Si sollevò a fatica dalla sedia. «La realtà, Artù» disse toccando il tavolo. «C'è una bella differenza tra la realtà e le stronzate.» Quella notte Sandra dormì abbracciata a suo marito. Si tennero per mano nel grande letto, come quando si erano conosciuti e sognavano una vita insieme: una casa, i figli, le vacanze in Sardegna o anche solo all'isola d'Elba. Prima di addormentarsi, accarezzò a lungo i capelli dell'uomo che aveva sposato e che nessun altro, né ora né mai – purtroppo – avrebbe potuto sostituire. In realtà stava pensando seriamente al divorzio. Aveva la responsabilità dei suoi figli, della casa, delle cose concrete della vita. Se la sentiva tutta sulle spalle, la responsabilità. Avrebbe chiesto la separazione senza aspettare troppo. Senza negare, almeno questa notte, il sentimento che nonostante tutto provava per quell'uomo. Si lasciò affondare nel cuscino. Avrebbe chiesto la separazione. Così non poteva più andare avanti. Chiuse le palpebre. Fuori gli schiamazzi ferivano il silenzio della notte. Un clacson, un'auto che passa a velocità folle. Sarebbe bello poter azzerare tutto. Avere ancora nove o dieci vite davanti. Le venne in mente suo padre: un uomo medagliato dal Presidente della Repubblica, un eroe della Resistenza, uno che aveva lavorato per tutta una vita, che ci aveva perso una gamba nella fabbrica dove suo marito era stato licenziato. Ritornò con la mente a quella famosa notte di Ferragosto, più di vent'anni prima, nella pineta di Follonica: era lì che aveva incontrato Arturo la prima volta. E lo aveva capito subito da come si atteggiava, da come si accendeva la sigaretta e parlava di imprese fantasmagoriche, che quello era un uomo inconcludente. Sandra pensò che ci sono cose che non decidi tu. Che decide il Capitalismo Mondiale, la Storia delle Nazioni, la Repubblica Italiana al posto tuo. E poi ci sono cose che decidi tu. Che dipendono soltanto da te. È quello che fai, è quello che hai scelto di essere. Uno, se è nato dove sono nata io, può fare il ladro o l'operaio, lavorare al banco della gastronomia della Coop o prostituirsi. Uno può scegliere di pensare con la propria testa, può votare x o y. Può leggere "la Repubblica" o guardare un reality show. Infine, ci sono le cose che non decide nessuno. Come adesso che sto qui sotto le lenzuola, con quest'uomo che mi ha sempre fatta dannare, e io lo abbraccio e mi sento a casa, mi sento nella terra, e domani, lo giuro, telefono all'avvocato, giuro che lo faccio. Le cose che sono e le cose che vorrei essere.
10
Alessio sfrecciava a velocità folle sulla strada deserta del porto industriale, illuminata da un filare rado di lampioni. Erano le undici di sera. L'hi-fi pompava nel deserto. La Peugeot di Alessio si riconosceva da lontano, questo perché ci aveva montato sopra tre alettoni stile Batman. L'aveva addirittura abbassata di dieci centimetri per renderla più aggressiva. Ma il suo sogno era la Golf GT. Sul sedile accanto c'era Cristiano, l'amico di una vita, senza cintura e con il gomito fuori dal finestrino. Non potevano parlarsi: la musica era troppo alta. Del resto quando restava solo con una persona, Alessio era di poche parole. Alle dieci, finito il turno, si era fatto una doccia veloce, scartavetrandosi via il nero del coke dalla pelle, aveva timbrato il cartellino ed era schizzato in macchina. Era stanco, dopo otto ore filate al carroponte a scaricare carri siluro colmi di acciaio nelle siviere dirette alle colate continue. Ma non esiste che vado a letto, è sabato sera, è estate. E le discoteche sono strapiene di fica. Era passato a prendere il suo amico, poi si era fermato in una pizzeria da asporto per consumare in piedi, al bancone, due tranci di pizza e una birra. E adesso si fiondava nel deserto della provincia. Fiancheggiava il perimetro della Magona, superava i quartieri operai e i primi cantieri del porto industriale. Guidava con la solita concentrazione spettrale. «Perché non andiamo al Gilda?» gridò Cristiano per sovrastare le casse in eruzione. Si sentiva terribilmente potente, Alessio, quando affondava il piede sull'acceleratore. Ventitré anni, da sette trafficava in acciaieria. Prima portava la ghisa dall'altoforno ai convertitori, per un certo periodo lo avevano messo a spalare carbone, alla fine lo avevano sistemato al carroponte. Si sentiva pompare il sangue nelle arterie, quando guidava con quella musica pazzesca e forzava le casse fin quasi a spaccarle. Spesso l'ascoltava anche in fabbrica, l'hardcore, con il lettore mp3. Guardava le colate continue, l'acciaio quando ha il colore del sangue, e il tunz tunz ossessivo nelle orecchie lo faceva sentire in guerra. «Ale! Ti ho detto se andiamo al Gilda!» Svoltò in una stradina laterale, prese a salire i tornanti sbriciolati. Adesso i lampioni non c'erano più, e per vincere il buio occorreva accendere gli abbaglianti. «No, andiamo al Tartana» rispose dopo un certo tempo. I treni sono la cosa più pericolosa che esista. Perché non c'è mai sintonia tra chi li comanda dalla centrale e chi li guida. È tutto disorganizzato. È un attimo finirci sotto spiaccicati. Sulla carta d'identità gli avevano scritto: "Conduttore mezzi industriali". Raggiunse la cima, inchiodò sotto le antenne paraboliche e i ripetitori di segnale. Erano arrivati a destinazione. Chiunque a Piombino non sia un bravo ragazzo, sa cos'è la Tolla. Da lassù, come da nessun altro luogo, si può stringere nel pugno la fabbrica intera e anche il porto.
Quella sera, per fortuna, non c'erano coppiette appartate in macchina né vetri appannati. Non c'erano i soliti pischelli intenti a fumare marijuana. Per fortuna erano soli. Con disappunto di Cristiano, Alessio spense lo stereo. E un silenzio irreale, scavato nel fondale dal ronzio della Lucchini, invase l'abitacolo. «Perché non vuoi andare al Gilda?» «Non ho voglia di pagare una puttana.» «Come sei drastico!» Cristiano c'era rimasto male. «E al Tartana stasera cosa c'è? Non c'è un cazzo di sicuro…» «Non me ne fotte cosa c'è. Se vuoi si va al Tartana, sennò ti lascio a piedi.» L'altro si chetò. Conosceva il suo amico, sapeva che con quel tono di voce non era il caso di insistere. Estrasse dalla tasca una dose, staccò dal vetro lo specchietto retrovisore e cominciò le operazioni rituali del sabato sera in silenzio religioso. Alessio non lo degnava di uno sguardo. Era affondato nel sedile e aveva preso a fissare il mare artificiale di luci e fuochi viola attraverso il parabrezza. Di notte, vista dall'alto, la fabbrica era un'altra cosa. E lui adesso ci precipitava dentro con lo sguardo, indifferente e muto. Era stanco, e anche incazzato. Cristiano si chinò sullo specchio con una banconota da dieci arrotolata nel naso. Prima di tirare realizzò che aveva investito tutto il suo stipendio di maggio in cocaina, ma questa volta gli sarebbe andata bene: doveva andargli bene, per forza. Era stato un azzardo, è vero, un grosso azzardo. Ma era talmente buona che almeno seicentomila lire di cresta ce le avrebbe fatte. Aveva un terribile bisogno di musica adesso, Cristiano, a palla nelle orecchie, nella testa. Ma non osò chiederlo ad Alessio. Quando sollevò la testa e tirò di nuovo su con il naso, vide con la coda dell'occhio il suo amico pietrificato, con gli occhi sbarrati e fissi su un punto astratto. Quel punto, in realtà, era la torre dell'altoforno. Alessio non si era voltato, non era scattato, famelico, sulla sua striscia di coca. Se ne stava là, assente, senza muovere un muscolo. Di sicuro gli era successo qualcosa. Di sicuro era molto incazzato. Ma sarebbe stato assurdo chiedergli cosa c'è. Non era il tipo da confidenze. Cristiano gli passò lo specchietto, lui lo afferrò, ma non si mosse. È pieno di gatti. A questo pensava Alessio. Nessuno fuori lo sa, ma sotto, in certi capannoni, specialmente alle mense, ci sono comunità di gatti enormi, centinaia di gatti. Non hanno mai visto la luce del sole, non hanno idea di cosa sia un filo d'erba. Sono delle specie di mutanti, senza coda, con un occhio solo, tutti uguali. È assurdo. Questa cosa dei gatti lo aveva sempre colpito. Gli sembrava incredibile che nel ferro, nella ghisa, potessero vivere i gatti. Che si ammalavano, poveracci. Ce n'erano certi tutti rognosi,
senza il pelo, che facevano quasi spavento. A guardarli nel muso, parevano umani. E c'era qualcuno, Alessio compreso, che gli portava anche da mangiare. A Cristiano invece non gliene fregava niente: né dei gatti né della Lucchini che vedeva ogni santo giorno. A lui, semplicemente, giravano le palle. La droga cominciava a fare effetto e aveva un solo pensiero in testa: la bionda in perizoma sul cartellone pubblicitario all'entrata di Piombino. Voleva andare al Gilda stasera. Aveva voglia di concludere subito, all'istante, con la bionda mozzafiato a pagamento, e non sbattersi dietro a una ragazzina viziata sulla pista del Tartana. Non te la danno, quelle stronze. Se la stratirano, non si lasciano neanche baciare. Aveva voglia di toccare un paio di tette enormi. Pagando di più, nel privé, sarebbe andato fino in fondo. E quest'altro qua, 'sto pazzo, chissà a cosa cazzo pensa. In realtà Alessio stava lottando per non pensare. Ma quella scena maledetta gli ritornava nella testa come un messaggio registrato, riavviato all'infinito. Quel pomeriggio, verso le quattro, uno di quei gatti del cazzo, uno piccolo, gli era finito sotto il treno siluro, e lui non aveva potuto farci niente. Lo aveva spiaccicato in un grumo di sangue e pelo. Era sceso e aveva cominciato a prendere tutto a calci. Sono scemo, pensava adesso, sono un deficiente. Perché poi, giustamente, il caporeparto lo aveva ripreso. Era corso verso di lui, urlandogli: «Che cazzo fai? Testa di cazzo!». E lui, d'istinto, al caporeparto gli aveva ficcato un pugno in piena faccia. Sono un cretino, continuava a dirsi. Ho perso la testa per un gatto. Ma quel gatto gli ricordava troppo un suo amico, schiacciato sotto un rullo due anni prima. Lui, l'amico sfracellato sotto i suoi occhi, non se lo voleva ricordare. Non voleva ricordare la faccia dell'uomo che era sul treno e non aveva potuto fermarlo. Adesso il gattino, il suo amico, la faccia sconvolta dell'uomo sul vagone, erano una cosa sola dentro la sua testa. Cristiano era sceso a pisciare tra i rovi. E lui ancora non si decideva a tirare. Fissava il cuore: la torre illuminata dove fondono la ghisa e l'acciaio, sperava che non lo licenziassero mai, che non gli capitasse mai, guidando un treno, di radere al suolo una persona. Quello che realmente, da fuori, uno non potrà mai immaginare è l'interno. Uno lo sa, lo dà per scontato, che dentro la Lucchini, nelle viscere, si muove la carne di gambe, braccia, teste umane. Lo sa, eppure non riuscirà mai a misurare questa mastodontica fatica. Uno da fuori non può capire cosa significa trasformare tonnellate e tonnellate di materia. La materia più dura che esiste. E non potrà immaginare nemmeno la quantità spropositata di calendari sexy e poster di donne nude appesi da tutte le parti. Avevano appiccicato una tettona anche sulla motopala. Di colpo si chinò sulla striscia di coca e l'aspirò a piene narici. Cristiano rientrò in macchina e lo guardò come dire: allora, che te ne pare? «Cri» fece Alessio, «tu l'hai mai vista la volpe in cokeria?» Cristiano inarcò le sopracciglia. Lui lavorava per una ditta esterna, ai margini, con
l'escavatore. Portava via l'inerte da riciclare. «No. Perché? C'è pure una volpe?» Rise. «Renditi conto…» Rise anche Alessio. «Una volpe nella fossa! L'ho vista spesso, ma esce solo alle sei del mattino.» L'hanno sempre chiamata così la cokeria: la fossa. Rende parecchio l'idea. E questo nome è una delle poche cose che si è tramandata di generazione in generazione. «Ti sei ripreso?» azzardò Cristiano. «Oggi ho fatto a botte col capo.» «Ah, però!» C'era anche un tabellone con una lavagna e un grafico degli infortuni, ma non era mai aggiornato. La gente ci scarabocchiava sopra, ci faceva le scritte a scazzo: tipo che qualcuno era morto, e invece non lo era. Ci scrivevano: sono morto, i rulli mi hanno triturato le palle. E ci ridevano un sacco tutti. «Vista da qui è quasi bella.» «Cosa?» Alessio indicò l'oceano di luci. «Un bijou!» fece Cristiano. Alle cinque sarebbe uscito dalla discoteca, e alle sei sarebbe rientrato direttamente in Lucchini. «Allora Tartana? Niente Gilda, sei sicuro?» «Che palle, Cri, ti ho detto di no!» Una luce rossastra invase il cielo nero per qualche minuto, come un'apocalisse. Era la colata. «Secondo te ha senso?» «Cosa?» Cristiano smise di giocherellare con il display del cellulare e guardò l'amico. «Lavorare tutta la vita là dentro.» «Se ci pagassero cinque, sei milioni al mese, sì. Ne avrebbe un sacco di senso!» Cristiano ormai era su di giri. Scalpitava, voleva muoversi, andare incontro al suo sabato sera, al suo momento di gloria. Alessio se ne accorse e mise in moto. Cominciava a fare effetto anche a lui la coca. Accese lo stereo. Ricacciò l'immagine del grumo di sangue, di pelo, l'immagine del suo amico spiaccicato, e il viso incredulo dell'uomo che lo aveva ucciso e che era suo zio. Si scaraventò giù dalla Tolla. No, non lo avrebbero licenziato mai. Giù verso l'Aurelia, insieme a migliaia di altre auto in corsa nel sabato sera, verso il Tartana preso d'assalto dalle tedesche, verso il seno caldo e bianco di una ragazza, di una ragazza qualsiasi, dove appoggiarsi e terminare la corsa. Alessio guidava come un pazzo, e Cristiano muoveva la testa a ritmo di tunz.
Sorpassava le auto, pensava alle ragazze. Quelle che venivano a trovare i mariti al lavoro, con i bambini piccoli in braccio. Restavano al di là della rete, indicavano ai figli i loro papà sporchi neri di ghisa. Quei bambini andavano pazzi per gli escavatori e le motopale. Battevano le mani come al circo. Anche lui avrebbe applaudito, se avesse avuto un padre su quelle motopale, ne sarebbe stato orgoglioso. E le ragazze con i bambini in braccio, magari non erano belle come quelle in discoteca, però avevano un sorriso, un viso struccato, pallido, un qualcosa che era come un incantesimo. Elena, se non lo avesse lasciato, se non fosse andata all'università, sarebbe andata anche lei a trovarlo, di là dalla rete, e lui avrebbe fatto vedere al loro bambino com'è cattivo un escavatore. Stringeva forte nel pugno il volante. Quel pugno che gli veniva più facile di qualsiasi parola. Un seno bianco dove appoggiare la testa. Questo sì, aveva un senso.
11
Appena vedeva l'acqua, Anna impazziva. Mollava zaino e asciugamano dove capitava, prendeva la rincorsa e correva. Correva fino a che l'acqua non diventava troppo alta, i polmoni le esplodevano nel petto, allora si tuffava. Strusciava la pancia sul dorso ondulato del fondale, riemergeva molti metri più avanti, dove non toccava con le punte dei piedi. Le piaceva da matti quel dorso, ruvido e morbido insieme. Toccarlo con le mani, infilarci le dita dentro. Sott'acqua, dove i rumori del mondo diventano placenta, il sale brucia le cornee, e l'unico suono che senti è il tuo respiro, non più tuo. Francesca invece prendeva tempo. Il suo profilo netto in controluce era il punto più luminoso della spiaggia. Si lasciava brucare dagli sguardi, dorando nella luce. Indugiava a lungo sul bagnasciuga, scavando la sabbia con la punta del piede. Entrava per gradi, bagnandosi con le mani prima la pancia, poi le braccia. Infine, quando Anna aveva quasi raggiunto le boe, si tuffava con la perfezione di una sirena. Adesso Anna si stava rotolando sulla riva, impastandosi i capelli di melma e riempiendosi di sabbia il costume. Francesca la guardava divertita, ma non si azzardava a imitarla. «Dai, Fra, buttati!» Anna non se ne rendeva conto. Camminava a gattoni tutta sporca di alghe, il costume sparito in mezzo alle chiappe. Come se fosse la cosa più naturale del mondo. E rideva per niente. I ragazzi invece se ne rendevano conto. Schizzavano verso di lei, Massi la prendeva per le braccia, Nino per le gambe. «Uno, due, tre…» E la buttavano a mare. Lei gridava, felice. Beveva un po' d'acqua salata. E si rialzava in un baleno, ansimante, indecisa se tornare a rotolarsi o raggiungere le boe in apnea in venti secondi. Quando i ragazzi piantavano i pali nel bagnasciuga, e uno di loro lanciava il pallone in alto decretando l'inizio della partita, Anna e Francesca si scatenavano. Nino, Massi e gli altri diciottenni di via Stalingrado, mentre giocavano non cagavano nessuna. Li vedevi tutti presi dalla partita, urlavano: «Passa, passa! A me, a me!» e non avevano occhi che per il pallone. Ma Anna e Francesca non potevano accettare di essere lasciate da parte. Si infiammavano e saltavano addosso a tutti. Chi invece, come Lisa, era rimasto in spiaggia a sudare sull'asciugamano, a sperare in una carta decente giocando a scala quaranta, si sentiva montare dentro il nervoso. Le seguiva con la coda dell'occhio correre in mezzo ai ragazzi, lasciar penzolare il sopra del costume davanti ai maschi con una mano mentre con l'altra facevano finta di coprirsi, come giocassero a
bandierina. Era difficile divertirsi, a carte. Poi uno si chiede perché, due così, non le sopportava nessuno. Le loro coetanee, quelle sfigate in crisi totale di fronte allo specchio, non le potevano proprio soffrire. Anna e Francesca te lo sbattevano in faccia che erano belle. Dovevano sempre, ogni sacrosanto minuto, dimostrarti che erano meglio di te, che loro avevano vinto, a priori, per sempre. Lisa realizzava che lei in mezzo ai maschi, al centro della loro attenzione, non ci sarebbe mai stata. Si rinserrava dentro il suo asciugamano, con il mazzo di carte in mano. Sibilava: «Sono due puttane». Donata invece si godeva lo spettacolo del mare, e sia pure di quelle due saltellanti fra i ragazzi. Non poteva far altro che guardare dalla sua sedia a rotelle. Era difficile che qualcuno si adoperasse per farle fare il bagno. La dimenticavano sotto l'ombrellone, ma lei non si sentiva dimenticata. Lei osservava, rifletteva. E non voleva male né ad Anna né a Francesca. Se non avesse avuto quella malattia, avrebbe voluto essere esattamente come loro. Anna uscì dall'acqua. Passò davanti a Lisa e alle racchie senza degnarle di uno sguardo. Però fece un sorrisino stronzo quando pestò un loro asciugamano, come dire: poveracce. Poi salutò Donata con la mano. Non è automatico, pensò Lisa, che se sei bella devi essere anche crudele. Se adesso Anna cadesse dalla scogliera e si sfregiasse il viso per sempre, sarebbe cosa buona e giusta. Sarebbe la giustizia, se a Francesca di colpo impazzisse il metabolismo e si ritrovasse con due cosce enormi e cellulitiche. A forza di strusciargli il culo addosso, a forza di montargli in collo e mettergli le tette davanti, il maschio che ci casca lo trovi. Nino abbandonava il pallone per correre dietro a Francesca verso gli spogliatoi. «Brava, France, brava» soffiò Lisa. «Un applauso per France! Cosa dirai a Miss Italia? "Sono una ragazza semplice, la ragazza della porta accanto…"» «Ma tiratela di meno!» bofonchiò un'altra ragazzina, anche lei con l'asciugamano in vita per coprire le cosce troppo grosse. Francesca, ignara dei veleni, s'infilava sotto la doccia e dava spettacolo. «Non puoi fare così» rideva Nino, ma rideva fino a un certo punto, «queste cose agli uomini non si fanno…» «Guarda l'imbecille» commentavano impuzzolite Lisa e le altre, «come una pera ci casca!» Francesca si sciacquava i capelli, si massaggiava le gambe per raschiare via il sale e intanto guardava Nino attraverso il getto dell'acqua. Nino cercava di controllarsi, ma non ci riusciva. A un certo punto saltò anche lui sotto la doccia, la prese fra le braccia e le azzannò dolcemente la nuca. «Sei pazzo! Ci vedono tutti…» lo spintonò via Francesca che però rideva. Era quello che voleva, l'aveva ottenuto: Nino implorante ai suoi piedi. Gli schioccò un bacio sulle labbra come premio. Era come stare su un palcoscenico in spiaggia, si sentiva un milione
di occhi puntati addosso. Davanti a tutti vinceva ogni timidezza. Poi corse via, di nuovo nell'acqua, raggiunse Anna. E quel poveraccio di Nino di nuovo dietro, come un cane. Tutti i giorni, tutti i sacrosanti giorni era la stessa storia. Il perenne viavai di Francesca e Anna dal mare alle cabine, dalle cabine al mare. Sotto la doccia, dietro il bar. E poi di nuovo in acqua. Un su e giù costante, Anna e Francesca davanti e i maschi dietro. E le racchie a guardare. Lisa e quelle povere sfigate che, tra le varie cose, avevano anche loro un corpo che cominciava a cambiare. Ma non erano le sole a guardare. C'era qualcuno, al terzo piano del condominio numero sette, che le fissava senza distogliere lo sguardo. Il bar a quell'ora cominciava a gremirsi. Intorno ai tavoli di plastica dell'Algida, sotto gli ombrelloni sfilacciati, i ragazzi grandi si spaparanzavano sorseggiando qualcosa di alcolico. Maria, che teneva le gambe sul tavolo in una posa non esattamente fine, osservò Anna e Francesca per qualche minuto, poi si accese una sigaretta. «Quelle due» le indicò agli altri, «se continuano così, tra un anno si fanno mettere incinta.» «Seee!» rise Jessica. «Suo fratello l'ammazza.» «Qualcuno dovrebbe dirglielo. Guarda come fa la deficiente con Massimo…» Cristiano staccò le labbra dal suo Southern Comfort. «Oh, streghe!» gridò divertito. «Ma la finite? Lasciatele vivere, no? Voi cosa facevate qualche anno fa? Io me lo ricordo…» Scoppiarono a ridere tutti. C'era anche Sonia, la diva, quella che aveva inciso il nome di Alessio sulla panchina e a volte si piazzava in camera di Anna a guardare i film porno con lui. Si era seduta accavallando le gambe e il minuscolo pareo lasciava intravedere molto. Era una specie di exFrancesca di via Stalingrado. Adesso lavorava come commessa da Calzedonia, e nessuno si ricordava più del tempo in cui era bella. Lo aspettavano tutti. E lui alla fine comparve. Alle quattro e mezza del pomeriggio, con i capelli biondi sparati e gli occhi azzurri nascosti dietro i Ray-Ban. Jessica e Maria andarono in visibilio. Sonia abbassò lo sguardo sorridendo. E Cristiano si alzò per tirargli una pacca sulla spalla, con il suo solito atteggiamento da bullo. Si presentò a torso nudo, Alessio, con due catene d'acciaio al collo, i jeans mezzi sbottonati, l'orlo degli slip bene in vista. Si lasciò cadere su una sedia. Sollevò gli occhiali, guardò in faccia il suo branco. Disse: «La vita mi devasta». Era il suo atteggiamento da re della foresta. Aveva il fisico e lo sapeva. Aveva la grana, quella che ricavava dalla coca e dal rame. E poi disponeva di molte donne nel quartiere. Anna lo riconobbe dalla boa. Attraversò a nuoto, in mezzo minuto, il mare. Corse a più non posso fra gli ombrelloni e le borse frigo. Grondante d'acqua, gli si gettò al collo. Dietro, come sempre, c'era Francesca.
«Anna, porca puttana! Non mi andava di fare il bagno oggi…» «Ale!» lo stritolava Anna. «Dimmi che stasera posso uscire!» «Hai capito perché fa la ruffiana?» sbuffò rivolgendosi agli altri. «C'è la festa al pattinodromo, me l'avevi promesso…» «No, stasera sono al lavoro. Non esiste.» «Ma me l'avevi detto!» si fece implorante. «Dai, Ale…» «No» ripeté secco. «E lasciala andare… Che vuoi che succeda?» intervenne Sonia. «La teniamo d'occhio noi.» Anna la guardò storto come a dire: tu non ti intromettere, scema. «Ho detto di no. Ci vai a Ferragosto alla festa, tanto ne fanno un'altra. Almeno sono sicuro di esserci.» «Ma Ferragosto è fra un secolo!» protestò lei incattivita. «Senti, sono devastato, ho dormito un'ora, sono appena arrivato. Non rompermi i coglioni e levati di culo.» Anna si levò di torno con il muso. Francesca, sempre dietro, era sollevata perché la sua amica sarebbe rimasta a casa come lei, quella sera, e non altrove con chissà chi a fare chissà che. Io non devo romperti i coglioni?, rimuginava Anna calpestando gli asciugamani della gente, rovesciando secchielli e distruggendo coi piedi i castelli di sabbia dei bambini. E tu, allora? Sei tu che rompi i coglioni a me. Camminava senza guardare dove metteva i piedi, un bambino vide la sua pista per le biglie distrutta e scoppiò a piangere. Ma Anna era furiosa. Vuoi tenermi in gabbia? A me che ho quasi quattordici anni! Ma tra un mese prendo il motorino e poi voglio vedere! Voglio proprio vedere che fai se scappo in motorino, se mi fidanzo con uno il doppio di te. Voglio vedere che cazzo fate, tu e quel babbuino di tuo padre. Non si rendono conto che sono grande, che ho un cervello così e faccio il culo a tutti. «Come sei duro, Ale» sorrise Sonia. «Non sono duro. So come vanno le cose. Se stasera non ero al lavoro, ci andavo anch'io al pattinodromo. Ma siccome non posso controllarla, sta a casa.» «Cosa vuoi che faccia di male?» chiese Jessica. «Lei niente, ci manca. Ma mi conosci… Se vengo a sapere che uno le ha messo le mani addosso, lo gonfio di botte. E siccome suo padre a queste cose non ci pensa… Devo dirle di no per forza.» Stavano in cerchio, a stonarsi di canne e di alcol, sotto un ombrellone sbilenco. A destra e a sinistra altri cerchi di ragazzi svuotavano birre, si passavano i cylum, allungavano le mani sulle cosce delle ragazze che sfilavano apposta tra i tavoli succhiando il Calippo. «Cazzo, se è figa Francesca!» esordì Cristiano di punto in bianco. Si voltarono tutti a guardarla. In effetti il suo corpo pallido, il modo in cui lo muoveva nella
calca, in mezzo ai bambini con i braccioli, le tavolette da surf, i vecchi flaccidi con il cappellino in testa che si voltavano anche loro stupiti al suo passaggio. Il modo in cui allacciava il corpo affusolato e pieno di grazia a quello di Anna, passandole un braccio sul fianco, appoggiandole il viso sulla spalla. Era l'incanto di via Stalingrado, una bellezza che accade una volta ogni tre, quattro generazioni. «Sai cosa facciamo, Ale?» disse Cristiano. «Andiamo a Baratti a rastrellare i portafogli dei tedeschi! Pù» sputò, «quei turisti del cazzo…» A Stalingrado, naturalmente, l'ombra di un turista nemmeno per sbaglio. Ma ad Alessio, che intanto massaggiava l'inguine di Sonia sotto il tavolo, si stavano formando tutt'altri programmi nella testa. Non gli rispose neanche. Prese Sonia per mano, la convinse ad alzarsi tirandola appena per il braccio. E Cristiano capì immediatamente. Non gliene fotteva un cazzo di Sonia. La questione è che bisogna avere molte donne nel quartiere per essere il numero uno. Segnare il territorio, farsi rispettare. E quella si lasciava tirare, si lasciava portare dietro le cabine mentre gli altri gridavano le solite battutine al vetriolo. «A troncamacchia, Ale! Vi vogliamo sentire!» Alessio la addossò alla parete scricchiolante di una cabina, nella luce, tra i passanti. Si rintanarono in un nido d'ombra. Il pareo scostato, giusto la cerniera abbassata in una frazione di secondo, e lei lo lasciò scivolare dentro. Una manciata di bambini con le pistole ad acqua li sorprese. Nessuno si scompose. Girarono in fretta l'angolo e li lasciarono finire. Quel pomeriggio scese in spiaggia anche Sandra, in compagnia di altre donne del quartiere. Era un giovedì, ma per lei era di festa. Molte mamme avevano portato una sedia pieghevole, una rivista di gossip, e si erano messe a chiacchiera. Rosa no. Rosa era rimasta a casa come sempre, seduta in poltrona di fronte al televisore, a pensare e a tormentarsi le unghie. Il volto bianco come un cencio, i piedi gonfi nelle ciabatte, sigillata nel loculo afoso del terzo piano. Intanto suo marito si era affacciato al balcone, e lei lo sapeva cosa stava facendo. Sandra cercò Rosa con gli occhi tra gli ombrelloni, registrò con dispiacere la sua assenza. Non le aveva suonato alla porta. Nonostante fossero passati giorni, non le aveva ancora portato la torta. E lei non era scema, il perché lo intuiva. Adesso apriva orgogliosa "la Repubblica" di oggi. Era forse l'unica donna dei palazzi a leggere un quotidiano ogni giorno, e per questo veniva guardata con diffidenza. Scorreva vorace i titoli e le colonne. "Berlusconi ottiene la fiducia in Senato. Berlusconi cita Alice di Lewis Carroll." Aggrottò le sopracciglia. "Il presidente del Consiglio ricorda che questo non è il paese delle meraviglie, e soprattutto che lui non è Alice…" Sandra stava leggendo avidamente le pagine di politica interna, quando Anna la raggiunse, le si piantò di fronte con il broncio e le strappò il giornale di mano. Avrebbero fatto un'opposizione dura. Avrebbero fatto cadere questo governo in meno di un anno. Anna, intanto, le stava dicendo che lei al pattinodromo stasera ci andava lo stesso, con o senza il
consenso di suo fratello. «Vediamo un po' se ti tiro uno schiaffo!» Si riprese il giornale spazientita. Lasciò che sua figlia sparasse cinque o sei parolacce, poi affondò di nuovo la testa fra le pagine. Prese a sfogliarle inumidendosi il dito. Con i pugni alzati, quand'era bambina, cantavano canzoni di battaglie sfumate nel secolo scorso. Anna guardava sua mamma e si sentiva in guerra col mondo. Lo vedranno. Oh, se lo vedranno!, di cosa sono capace… Scappo di casa, pensò allontanandosi, tiro su un casino, non potete più temermi: mi dovete lasciare andare. Ma poi Francesca le fece lo sgambetto sul bagnasciuga, la prese per una caviglia e cominciò a trascinarla in acqua ridendo. Francesca… Sott'acqua, abbracciata alla sua migliore amica, la migliore del mondo e dell'universo, Anna si scordò di colpo del pattinodromo e della sua famiglia stronza. Adesso aveva ricominciato a correre in mezzo ai maschi che giocavano a pallone. Con Francesca metteva in pratica tutta una serie di azioni di disturbo ben collaudate. Tipo saltare addosso a Massi, da dietro, farlo cadere proprio quando stavano per passargli la palla. Per un attimo si fermò a riprendere fiato. Gli occhi grandi, spalancati sul suo mondo. Vide Donata immobile sotto l'ombrellone, contorta nel suo male. Avrebbe voluto portarla nell'acqua ma non poteva, non ne aveva il coraggio. Vide quella sfigata di Lisa che mangiava il gelato. E sua madre posare il giornale, gesticolare animatamente con le altre donne. Suo padre chissà dov'era: meglio se non tornava. Al bar la seggiola di Alessio era vuota, e Cristiano stava cercando di intortarsi una tipa. Vide tutta la spiaggia affollata. E alla fine vide Francesca. La cosa più bella. La sua amica del cuore. Aveva fatto la ruota con l'acqua alle caviglie, e adesso le sorrideva radiosa. Sua sorella, sì. Più che sorella. Se Anna avesse sollevato la testa e gettato lo sguardo lontano, verso la parete grigia del suo casermone, forse si sarebbe accorta di un uomo affacciato al balcone del terzo piano. Enrico, il binocolo in mano, osservava la scena. Aumentava il fuoco sul costume di sua figlia. Sudava. Aveva visto tutto, questa volta. Sua figlia che montava in collo a un ragazzo, quel lurido bastardo del palazzo di fronte. Lui che l'abbracciava sott'acqua, fuori dall'acqua, ovunque. Li aveva visti correre verso gli spogliatoi, nascondersi fra le cabine. Le mani gli tremavano, le vene gli esplodevano sul collo. Era pronto a fiondarsi giù, in spiaggia. Ma poi li aveva visti tornare, dopo pochi minuti, in mezzo agli altri. E per questo non era intervenuto. Non voleva fare scenate inutili. L'avrebbe aspettata a casa. E prima del turno delle dieci le avrebbe fatto capire con le buone, o con le cattive, che non doveva fare la puttana. Glielo avrebbe fatto capire per bene questa volta, a lei e a quella stronzetta della sua amica, quella che la stava traviando. Guarda come cazzo si abbracciano. Ma cosa fanno? Cosa cazzo fanno? Il binocolo cadde a terra. E fu buio dentro le lenti.
Parte seconda Alghe
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Il 13 agosto del 2001, a mezzanotte, Alessio si issò in cima a un palo arrugginito della vecchia linea elettrica assicurandosi con l'imbracatura. Ci si era arrampicato sopra come un gatto. Indossava la tuta da lavoro e il solito berretto dei Chicago Bulls. Da quell'altezza vedeva tutto il promontorio e il mare, poco distante, nero e caldo. Due tralicci più in là, in calzoncini e maniche corte, Cristiano sfoderava il tranciacavi e gli faceva segno di cominciare. Aveva arrotolato le gambe intorno al palo, non si era portato neppure una fune per agganciarsi. Lui non aveva paura di niente. Nel petto il battito alterato e la solita emozione, tredicenne, della bravata. La notte era pulita, E deserta. Si fissarono negli occhi, decisi a non lasciare impunito neppure un traliccio. Il cuore di Alessio pompava sangue e cocaina: come sempre con Cristiano, quando si intrufolavano in una proprietà privata per rubare qualcosa. Erano dentro il recinto spinato della Dalmine-Tenaris, al centro di una distesa rada di canneti, di fronte all'oasi del WWF. Accanto, il gigante dell'Enel proiettava le sue torri in verticale, emetteva luci bianchissime uguali alle stelle. Erano le cose più alte della costa. La luna filtrava i vapori degli acquitrini, diventava una bava. Poi solo sterpaglia, lecci bassi e roveti. Poi il mare, più niente. C'erano soltanto loro, al lavoro, in mezzo agli impianti. Forse un paio di volpi, qualche cinghiale e tante, tante zanzare. Non si erano portati dietro le torce. L'argento della luna bastava e avanzava: non allarmava le guardie della Dalmine. Anche da qui, da ovunque, Afo 4 era visibile. La torre dell'altoforno baluginava tranquilla sul promontorio. Faceva la sentinella. E una nave da crociera, illuminata a festa, passava ogni tanto come un sogno. Poco più avanti, branchi di ragazzi si erano radunati sulle spiagge, come ogni anno, in larghi cerchi intorno al fuoco. Era la settimana di Ferragosto, quasi tutti erano in ferie, e ogni gruppo aveva organizzato la sua spiaggiata lungo la Principessa, con birre e canne. C'erano anche quelli di via Stalingrado, i più tamarri. C'erano Sonia e Jessica che si chiedevano dove fossero finiti quei due, e non potevano immaginare. Alessio arrotolò il primo fascio di rame e fece ok con le dita. Ci siamo. Cristiano gli rispose lanciando un enorme cavo nell'aria a mo' di lazo, fingendo di cavalcare il palo come un toro o qualcos'altro. È un vero cretino, pensò Alessio scuotendo la testa. Qualche giorno prima, alla mensa della Lucchini, un tale particolarmente furbo si era lasciato scappare che dentro il parco della Dalmine era pieno di rame. L'aveva detto facendo l'occhiolino, a voce alta, senza sapere che chi ascoltava in silenzio, con il rame, aveva parecchia confidenza. «Non l'hanno smantellata tutta, la vecchia linea elettrica.» E loro avevano afferrato il concetto. Di più: lo avevano bruciato sul tempo.
Quella sera, a fari spenti, avevano costeggiato la fabbrica di tubi lungo la strada sterrata del quagliodromo. Avevano cercato il punto esatto, dove il canneto è rado e la palude bassa. Avevano squarciato la rete e si erano inoltrati dentro come animali notturni. Il mercato nero del rame: questo sì che era in piena espansione. Adesso, ogni tanto alzavano la testa per accertarsi che dalla Dalmine non uscisse nessuno. Era tutto deserto e silenzio. Lo fu per un'oretta buona. Poi Cristiano notò qualcosa muoversi nella vegetazione. Si irrigidì. Veniva verso di loro. Anche Alessio si fermò. Un'auto procedeva lenta in mezzo al canneto con gli abbaglianti spianati. La polizia!, fu il primo pensiero di entrambi. Seguirono il rumore dei pneumatici sulla ghiaia e il profilo dell'auto che parcheggiava non troppo distante. Trattennero il fiato. Il motore si spense, ma nessuno usciva. Trattennero il fiato per altri due minuti. Tesi, acquattati. Altri due minuti. Si spensero i fari. Ecco: adesso l'auto cominciava a ondeggiare. Piano, come una culla. Avanti e indietro, come una sedia a dondolo. Alessio sorrise, sentendosi sciogliere la tensione di colpo. Cristiano li mandò a cagare con la mano. Ma proprio stasera? Con tutto il mare che c'è, proprio qui? Poco male. Di sicuro non erano sbirri e nemmeno li avrebbero chiamati. Avevano ben altro da fare, beati loro. L'auto pulsava tranquilla, il parabrezza cominciava ad appannarsi. Era una strana compagnia. Intanto, Alessio e Cristiano ripresero a tranciare e a sudare. La maglietta gli si appiccicava addosso. L'umidità saliva dal mare, impastava bocca e narici, trasformava l'aria in acqua. Laggiù, sulla statale, file di auto incolonnate avanzavano a passo d'uomo verso il porto. Da quell'altezza Cristiano poteva vederle: un serpente di fari gialli e motori accesi. I turisti ansiosi di imbarcarsi per l'Elba con la prima nave del mattino. Non li invidiava per niente, quegli sboroni di città che domani avrebbero raggiunto l'isola per festeggiare il Ferragosto in albergo, sotto l'ombrellone di un lido bianchissimo. Quello dei turisti era un altro mondo, un'altra vita, affollata e normale. Qui c'era l'adrenalina, c'erano persino due che facevano l'amore. E le guardie in agguato, le zanzare, chili e chili di rame, ovvero un sacco di soldi da fare. Cristiano guardò il suo amico di sempre, il suo migliore amico, che balzava giù e arrotolava un grosso cavo con la melma alle ginocchia. Lo guardò con un sorriso speciale. Perché sì. Perché, quando avevano dodici anni, s'infilavano nei cantieri sull'Aurelia e aspettavano che un operaio si allontanasse. Dicevano: «Vai a pisciare, stronzo». E se quello si allontanava sul serio, dicevano: «Uno, due, tre». Poi schizzavano dentro la cabina incustodita di una motopala o di un escavatore, quegli arnesi mastodontici che avrebbero guidato per tutta la vita. Alessio sollevò la testa e lanciò un'occhiata all'auto. «Sempre là stanno?» Li indicò. «Complimenti!» Si asciugò con il braccio il sudore sulla fronte e respirò a pieni polmoni una boccata di
salmastro. Gli veniva da ridere. Rubare il rame in piena notte: è una cosa da raccontare alle ragazze. Alessio sapeva com'erano fatte, sapeva che a un certo punto del racconto sarebbe spuntato sul loro volto quel sorriso particolare. Le labbra severe, ostinatamente chiuse eppure, in filigrana, già pronte al bacio. Per quel bacio lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, per quel genere preciso di ragazze che si innamorano dei farabutti, e poi sposano un impiegato di banca. Lui comunque – tentò di sorridere – era in cima a un traliccio e, francamente, si divertiva come un bimbo. Quanto si diverte, allo sportello, un impiegato di banca? E se un giorno, per caso – ma quel giorno doveva pur arrivare – avesse incrociato Elena per strada, glielo avrebbe detto davvero: «Brava, fai bene, sposati il rospo bavoso dell'Unicredit. Sai, io sono fiero di quello che sono. Perché mi spacco il culo, però sono vivo». Finalmente l'auto accese il motore, poi i fari, e lentamente scomparve scricchiolando sul selciato. «È stato un piacere!» rise Cristiano. Alessio fece finta di applaudire. Si guardarono in faccia: facevano schifo. Guardarono l'orologio. C'era poco da scherzare. Allora giù a tranciare con le mani spaccate, le gambe atrofizzate, la soddisfazione assoluta di aver già accumulato una quantità industriale di rame. Andarono avanti così, appesi con le cesoie in mano, per cinque ore. All'alba avevano una tale voglia di urlare che si sentivano scoppiare i polmoni. Non avevano quasi fiatato, per paura delle guardie, per paura che uno dei camionisti addormentati sul volante, nel parcheggio d'ingresso della Dalmine, si svegliasse e cominciasse a suonare il clacson. Quando smontarono erano un bagno di sudore e avevano le braccia a pezzi. Ormai, neppure più i fari di un'auto dispersa. Il niente del niente. Tra poco gli operai di turno sarebbero usciti e altri, da tutta la Val di Cornia, sarebbero arrivati con i pullman, le auto, per il turno successivo. Guadarono la melma con gli stivali di gomma e sulle spalle gli ultimi cavi arrotolati. Raggiunsero la macchina e riempirono il bagagliaio, i sedili posteriori, ovunque ci fosse un buco, fino all'orlo. Poi, a fari spenti e con gli ammortizzatori compressi dal peso, costeggiarono di nuovo la statale. Un cartello nero a caratteri arancioni indicava la "zona artigianale". Indicava. Perché di recente qualcuno, un genio, aveva annerito la "a", la "r", la "t", la "g" e la "i". L'indicazione era più fedele al reale, adesso. Alessio guidava con calma, attento alle buche e ai sassi. Rumore di ranocchi, di insetti simili a elicotteri, e quelle maledette zanzare che entravano dai finestrini abbassati insieme alla polvere. Era tutto un grattarsi i polpacci. Quando finalmente superarono la Dalmine, Alessio ingranò la quarta e poi la quinta. Sollevò un gran polverone di terra e si voltò verso Cristiano con un sorriso galattico.
Cristiano gli rispose tirando un pugno contro il parabrezza. Un pugno felice, di vittoria. Accese lo stereo: I'm blue, da ba dee da ba die, a palla, l'm blue, if I was green I would die. Le casse tornarono a ruggire, e allora cacciarono la testa fuori dai finestrini, insieme. E insieme gridarono forte, sull'Aurelia deserta, contro le colline. «Cinquemila lire al chilo, moltiplicato per?» «Qualcosa come…» Alessio diede un'occhiata nello specchietto retrovisore. «Qualcosa come mezza tonnellata!» esultò l'altro voltandosi a controllare il malloppo. A conti fatti, in una notte, si erano intascati lo stipendio Lucchini di un mese. «Gli abbiamo smantellato anche il culo, e manco una sirena è scattata!» «Quelli dormivano, o si sparavano un porno…» «Ale, guardami.» Al semaforo si fissarono negli occhi stanchi e lucidi. «Domani sera si va al Gilda, non sento seghe.» Quella di Alessio era la sola auto a vagare nella città addormentata. Si sentirono un po' ladri, quando scesero in via Stalingrado e le portiere fecero un gran fracasso, chiudendosi. Non risero per niente quando, con lo sguardo attento alle finestre nel timore di vederne una accesa, stivarono il rame in garage. Sgattaiolarono attraverso il cortile, poi ciascuno s'infilò in punta di piedi nel proprio condominio. Su per le scale si sentivano solo uomini russare, e un neonato piangere. Era come invadere un regno straniero. E quello che piangeva era il figlio di Cristiano, nell'appartamento della sua ex ragazza. Si fermò alla porta, vi accostò l'orecchio: fin tanto che lei non si fosse alzata per prenderlo in braccio, lui sarebbe rimasto lì ad ascoltarlo piangere. Sentì qualcosa nel petto di forte e di sciolto. Forse avrebbe voluto bussare. Ma non ne era capace. E scivolò nel buio divorando di corsa altre tre rampe di scale. Alessio ci mise tutto l'impegno possibile per non fare rumore. Si era preoccupato di togliersi le scarpe e aveva preferito non accendere la luce. Tentò di raggiungere la sua stanza a tentoni. Ma gli andò male. Sbatté contro una sedia in cucina. Il rumore era rimbombato, irreale, in tutte le stanze dell'appartamento. Tempo zero, il clic di un interruttore della luce si era sentito fin lì. Bestemmiò dentro di sé. E sua madre si presentò, la faccia gonfia di sonno, proprio di fronte a lui. Sandra stava in piedi, rigida come il bastone di una scopa, davanti alla figura immobile di suo figlio alle sei del mattino. In tuta da lavoro, sporco in faccia, in condizioni paragonabili solo a un soldato nel Vietnam in Apocalipse now. «Adesso mi spieghi» cominciò. Staccò le labbra incollate dal sonno, e sotto la pelle trasparente della fronte un muscolo si tese. Le uscì una voce non sua, e non riuscì a completare la frase.
Alessio guardava sua madre: la donna in vestaglia, le spalle incurvate, era invecchiata, sì, era pallida e sfibrata, quella donna con gli occhi pieni di tristezza, che adesso chiudeva le palpebre per non vedere. Non se ne era ancora accorto, che sua madre era una donna con troppe preoccupazioni e troppo stanca per reggere anche le sue cazzate. Bastava quel disgraziato di suo padre, bastava il mondo bastardo a farle male. Lui avrebbe dovuto, forse, renderla felice. «Mamma» trovò il coraggio, «torna a letto e per favore non chiedermi niente. Ti giuro che non devi preoccuparti.» Sandra continuava a tenere gli occhi chiusi, in silenzio. «Mamma» disse, «scusami se sono sporco…» Prese fra le braccia quel corpo, lo strinse a sé come un bimbo o una fidanzata. Le fece sentire, nonostante la schiena rotta, tutta la sua forza. «Non ti chiedo niente» disse Sandra scuotendo la testa, «ma tu promettimi…» «Sssh!» fece Alessio che non voleva sentire. «Promettimi» ripeté Sandra mentre il volto le tornava bello, «che questa è l'ultima volta che vai a fare non so cosa di notte.» Alessio rise. Risero insieme, abbracciati e stanchi, alla luce della lampadina che pendeva dal soffitto e dell'alba che stava sorgendo. In quel momento, da dietro lo spigolo della porta, apparve Anna. Non disse niente. Rimase lì, pulita e scalza. Li guardava, non vista, come un piccolo angelo in pigiama estivo. Nel suo alfabeto, quella era una cosa molto bella. La sua mamma con il viso nell'incavo tra il collo e la spalla di suo fratello, era forse la cosa più bella. Quella per cui valeva la pena, nella vita, non barare.
13
Minuscole uova di zanzara galleggiavano sulla superficie dell'acqua. Un brodo tiepido e denso, che pullulava di animali appena vivi. Francesca e Anna attraversavano il canneto a piedi nudi, emettendo risolini poco umani. Ogni passo era un attacco di solletico alle caviglie, e a loro piaceva da morire. I pantaloni della tuta arrotolati alle ginocchia, le scarpe da ginnastica legate in vita. Il musetto di Anna spiava quello di Francesca fra le canne. Giocavano a nascondersi e a trovarsi, tra i vapori e i tragitti degli insetti. «Sei sicura che mi vuoi ancora bene il prossimo anno?» «Che palle, France!» Erano due escrescenze di quel luogo. A ogni ventata la palude nevicava polline. Anche la luce ristagnava. Il sole era rimasto a mezz'aria, gonfio e infiammato. Non tramontava. Perché si ostinavano a fare la doccia, se tanto lo sapevano che si sarebbero sporcate? I capelli umidi, odorosi di shampoo, a poco a poco si impregnavano di un altro odore. Sudore misto a linfa. La peluria delle piante pruriginava a contatto con la pelle. Sembrava di camminare nella lana. Ci andavano ogni sera, dopo cena, da anni. E alle dieci dovevano già essere a casa. Non c'era altro modo di arrivarci: occorreva scavalcare il muro, superare turandosi il naso lo scarico delle fognature, inoltrarsi negli acquitrini fitti di filamenti, di bave. Ma quando sbucavi e il mare ti si parava davanti, ti prendeva una smania di correre senza pari. Non c'era nessuno laggiù, c'era il deserto. Potevi anche spogliarti nuda e gridare le peggio cose, le parole oscene, senza vergognarti. La spiaggia era un cumulo di alghe. E tronchi rovesciati, e barche arenate con lo scafo coperto di lanugine. I pescatori ci venivano a gettare le carcasse per non pagare la tassa dei rifiuti. Era bello affondare nella pasta molle delle alghe fino ai polpacci, sentire i gusci vuoti di conchiglia che spuntano come denti e pungono i piedi. Posidonie brune a milioni, riversate dal mare tutte lì. Sulla riva si sfibravano in una mucillagine nera, una poltiglia che sapeva di pipì e di pane. Questa era la loro spiaggia segreta. Anna stringeva fra le mani il suo cartoccio con gli avanzi della cena e camminava spedita sul bagnasciuga. Era radiosa: pensava a Ferragosto, a domani. Fissava dritto davanti a sé il disco rosso, allargato del sole. La sensazione che tutto fosse in suo potere. Francesca restava indietro, oscillava sulle gambe lunghe e sottili. Covava dentro il petto una promessa, da mantenere forse. Una promessa a se stessa, che si era fatta a tavola in silenzio, mentre cenava fra i suoi genitori. Ma adesso non era più tanto sicura di poterla esaudire. Al momento opportuno, ne era certa, le sarebbe mancato il coraggio.
Quando raggiunsero il punto esatto, Anna si mise due dita in bocca e fece un fischio acuto, da maschio. Restarono in attesa. «Vedrai che ne manca uno…» Si erano impegnate a non portare nessun altro laggiù. Non lo sapevano neanche loro il perché, ma c'era qualcosa di nudo in quel luogo che le faceva sentire a casa. Francesca, forse erano in quinta elementare, lo aveva proposto: «Qui sarà solo nostro». E Anna aveva detto subito sì. Aveva giurato: «Solo io e te». Dopo qualche istante, da ogni parte, i gatti sbucarono dai pori delle barche e dalla macchia poco distante, fedeli al segnale delle ragazze. «Uno, due, tre, quattro…» contò Francesca. «Non manca nessuno!» Portare loro da mangiare, snidare le bestiole dai ventri dei cespugli e degli scafi prima che facesse notte, prima di infilarsi nel letto e ripensare alla giornata trascorsa, le faceva regredire a uno stato infantile. Masticavano le alghe. Affondavano il muso nelle pellicce umide e ruvide dei gatti. Che erano brutti. A uno mancava un occhio. A un altro la coda. E non contavi le pulci. Era stato un porto un tempo, forse più di un secolo fa. E adesso, per loro, era un nido. Anna posò a terra il cartoccio, lo aprì, e fu sommersa dai miagolii. Quel punto morto della costa era ridotto a un brodo primordiale di cose. A Francesca piaceva cercare fra i ruderi le prove che qualcuno c'era stato, prima di loro: un mestolo, una piastrella di ceramica. Si chinava a scavare e gridava, se dissotterrava qualcosa di umano. Anche quel giorno si accovacciò presso un cumulo di edere e sassi. Solo che questa volta era distratta. Scavava con la mano senza criterio, e intanto soppesava e rovesciava da tutti i lati la sua promessa. Di una cosa era certa: che quello era il luogo adatto. Quanto al momento, domani sarebbe stato troppo tardi. Sollevò la testa, si fermò a osservare Anna, la sua migliore amica, al centro di un rimescolio di code e zampe. Doveva dirglielo adesso, doveva decidersi a farlo. Una quindicina di gatti si strusciava fra le sue gambe e lei li lasciava fare, si chinava su di loro, li rivoltava sulle pance e poi li accarezzava dove il pelo si faceva rado e rosa. Francesca rimaneva lì, in fermento. Sottopelle sentiva scorrere qualcosa come un succo caldo, vibrante, che la irradiava e spaventava. Anna avvicinava il naso al naso umido di quelle bestie e Francesca notava quanto fosse cambiata, nel tempo o improvvisamente. Si era come liquefatta nei gesti, negli occhi. Era diventata femminile. La voce più roca, abbassata di un tono, adesso che parlava e Francesca non capiva le parole. Qualcosa si slacciava in fondo al suo spigoloso, muto organismo. L'effetto misterioso. L'effetto lanuginoso che Nino non riusciva a farle. Doveva trovare il coraggio: doveva dirglielo, ormai non poteva più nasconderlo. Odiava il tempo perché metteva distanza tra loro. Quando erano bambine, erano una cosa sola. Invece adesso cominciavano le distinzioni. E mentre si scindevano, e Anna rincorreva i suoi sogni galattici – «Divento magistrato, avvocato, senatore» – Francesca restava indietro, indecisa. Se
la abbracciava, o anche solo la sfiorava, il suo corpo reagiva in modo nuovo. E Francesca non era scema. Era piena di ematomi, ma non era scema. Quando Anna si sedette sullo scheletro arrugginito di una barca, e prese a fissare il mare in controluce buio e rosso, Francesca andò a sedersi accanto a lei e si prese le ginocchia fra le braccia. «France» disse Anna senza guardarla, «mia madre è una frustrata. Lei pensa che non me ne accorgo, e invece io la vedo. Ti sembrerò stronza, però… io voglio andarmene da qui. Voglio diventare famosa!» Francesca deglutì: «Ti devo dire una cosa». Era ispirata, la sua amica. Fissava l'orizzonte, il profilo dentato dell'isola, con gli occhi di chi desidera conquistare tutto e ha una fretta pazzesca. «Non voglio diventare una fallita» continuò. «Sonia, Jessica. Anche mio fratello… Lavorano da mattina a sera, si stonano il fine settimana. Poi si sposano, fanno un bambino, e alla fine muoiono. Cos'è successo? Niente. Nessuno si è accorto di loro.» «Allora uno dovrebbe andare in televisione…» «Ma non è vero! Con tutto il rispetto per le veline, le ballerine, gli show men… Fabrizio Frizzi mica ha fatto la storia!» Tirò un pugno nell'aria. «Mica è una persona seria!» Si riscosse. «Volevi dirmi qualcosa?» Francesca l'aveva ascoltata, le pupille dilatate e pronte a catturare ogni variazione di quel profilo: ogni minima, bellissima espressione di quel viso. Una parola precisa le invadeva le tempie, bruciava, ma lei non riusciva a pronunciarla. «Niente, niente di importante.» Il viso di Francesca era pallido. «Però… Uno nasce qui, non c'è neanche un cinema decente, cresce in questo quartiere di merda, e poi secondo te fa la storia?» «Non capisci. Tu sei pessimista alla radice. Metti che divento sindacalista e mi incazzo con Lucchini, e magari indico uno sciopero così peso che spengono anche l'altoforno, sarebbe una figata, no?» No, Francesca non credeva che una cosa del genere fosse possibile. L'unico pensiero che aveva, riguardo alla Lucchini, era che se suo padre ci fosse morto lei avrebbe tirato un sospiro di sollievo. Anna parlava di Roma, di Milano, di giurisprudenza, tutte le cose lontane che avrebbe voluto fare e conoscere, forse senza di lei. E lei sentiva il suo corpo freddo farsi tiepido e senza forma. Avrebbe voluto soffocarla, non lasciarla parlare più, tenerla con sé e premerla forte. Si voltò anche lei a guardare l'Elba, i profili giganti dei monti, le cave di ferro. In una cava, ecco, dentro una montagna avrebbe voluto nasconderla. «Io sento, Fra, che voglio diventare qualcuno e non ce n'è» sorrise, «quasi non ci credo che domani ci lasciano andare alla festa, finalmente… Tutto sta cambiando.» Sarebbe andata via. L'avrebbe lasciata sola. E lei, da sola, cosa avrebbe fatto?
Anna: la prima parola che aveva imparato a scrivere, dopo mamma. Non la stava ascoltando, in realtà: la stava solo guardando. E non riusciva a frenare quella cosa che aveva un nome solo. Era inutile cercarne un altro, dissimulare. È inutile, Francesca, che continui a trattenerti: nei giorni, nei mesi, negli anni. Quanto può durare ancora? Non lo puoi più fare: il tuo organismo ha deciso per te. «Voglio diventare qualcuno, però voglio che lo diventi anche tu.» In quel tu, fatto con la lingua netta contro il palato, Francesca si sentì esplodere e definitivamente sciogliere. «Tu» un sorriso magnifico, lentigginoso, con il labbro leggermente morsicato e umido di saliva, «sei la persona più speciale del mondo.» Bum. Il mondo. Francesca chiudeva gli occhi. Lo devi dire. Lo devi fare. Schiudeva la bocca e sentiva il retrogusto di pelo misto ad alghe che c'era in quel posto denso. Sentiva, diventava un sentimento. Devi dire quella parola. Stava cedendo. La devi pronunciare intera, prima il pronome poi il verbo. Altrimenti muori. Una volta rientrata, Anna si infilò subito il pigiama. Corse in bagno a lavarsi i denti e se li strofinò così forte da farsi uscire il sangue dalle gengive. Alzò gli occhi dal lavandino allo specchio, si fissò così com'era: il muso impiastrato di dentifricio e gli occhi sgranati. Si implorava da sola: dimmi che sono normale, dimmi che non è successo niente di male, ti prego, io sono normale! Francesca è malata. Non è vero. Mica ho perso… Via, lo sai benissimo che non si perde così. E allora perché sei agitata? È una cazzata. Adesso calmati, vai a dormire. Domani è Ferragosto, c'è la festa. È tutta colpa di suo padre, del mostro. Fece un lungo gargarismo con il colluttorio e poi lo sputò con violenza. Si asciugò la faccia, e con la bocca profumata di menta tentò di sorridersi allo specchio. Tutto passato, ecco. Ma quando si infilò nel letto, le implorazioni e le false rassicurazioni ripresero a tormentarla. Il cuore le martellava nel petto, sentiva la testa surriscaldarsi. Adesso basta, devi piantarla. Da fuori arrivavano le grida e gli schiamazzi dei grandi, insieme alla luna e ai clacson. La notte era piena di vita, e lei non ne sapeva ancora niente. Ancora per poco: tra qualche ora, domani tutto sarebbe cambiato… Ma allora perché (cazzo!) non riusciva più a essere felice in attesa della festa, come prima di cena? Perché non trepidava più al pensiero del pattinodromo e dei ragazzi e della musica da discoteca, e altre cose invece non la lasciavano dormire? Lo sapeva benissimo il perché. Brava, sembra che spacchi il mondo, vuoi diventare il presidente della Repubblica, e poi ti
cachi sotto. Nel frattempo, nel buio della sua stanza, Francesca chiudeva le palpebre, tratteneva il respiro e pensava forte a lei. Teneva stretto al cuscino il corpo caldo e vivo. Caldo e vivo come mai era stato. È vero, glielo aveva tacitamente giurato: non è successo niente e non ne parleremo mai più. Però… Però adesso, nel segreto della sua stanza, poteva anche farlo: ritrovare, rivivere, nominare quel niente. Almeno qui, dentro di sé. Perché quel niente era successo. E Anna si era arrabbiata dopo, le aveva dato anche uno spintone. Ma prima… Francesca spalancò gli occhi e proiettò sul soffitto, a ripetizione infinita, quel prima. Si udì un piatto o un bicchiere infrangersi. Suo padre cominciò a gridare. Non era tipo da combattere, lei. Non ci teneva a conquistare il mondo come Anna. Lei non era Anna. Era diversa dalle ragazze del quartiere, dalle ragazze in generale. E si era arresa da sempre, già dalla prima elementare. Lei questo mondo non lo amava. Però amava Anna. Cercava di non prestare attenzione alle grida, alla sporcizia. Al rumore che le mani di suo padre facevano contro il corpo di sua madre, e il pianto basso, continuo di lei. Non poteva essere così tremendo, quello che aveva fatto. Non poteva essere veramente sbagliato se almeno di notte, nel chiuso di se stessa, prima di addormentarsi… Lo avrebbe negato e represso, il sentimento che provava, lo avrebbe nascosto come gli ematomi, le botte, l'orrore. Buia, selvatica Francesca. Ma anche lei era capace di un minuscolo calore. I suoi pori, i suoi follicoli vibravano. Quando fu silenzio, una serie luminosa di immagini prese ad affollarle la mente: il latte freddo con la menta, anzitutto, nel bicchiere lungo con il cucchiaio che girando tintinnava. La merenda con Anna, un pomeriggio di tanti anni prima. La prima volta che avevano scoperto la spiaggia delle alghe, e Anna aveva detto: «Oooh!», La tartaruga di terra. La macchia bianca nelle mutande da nascondere. Ecco, si stava quasi addormentando. La conchiglia che Anna si portava all'orecchio a otto anni, e faceva finta di telefonare: «Stai zitta! Il mare mi sta dicendo una cosa importante». Non erano le sfilate di moda il suo vero sogno. Era prendere la Toremar per l'Elba, la prima del mattino. Sporgersi a prua e stringersi forte ad Anna guardando l'isola avvicinarsi. Avrebbe indossato il vestito più bello quel giorno. Avrebbe messo in valigia la maschera, le pinne e anche i pattini. Avrebbe pensato lei a tutto: a cucinare, a lavare, a ballare. Nella piccola casa dentro la cava di ferro. Ma Anna non riusciva a dormire. Si girava e rigirava nel letto sudato, e implorava: basta. La testa ronzava come un ventilatore al massimo. Allora lei se la prendeva con le lenzuola, si accaniva con il cuscino. A un certo punto, disperata, accese la lampadina dell'abat-jour, afferrò un libro qualunque fra quelli suoi di scuola: Leggere il testo. Storia della letteratura italiana 3. Aprì a caso e cominciò: Giovanni Pascoli. Voleva bene a Francesca, sia chiaro, anche adesso. Forse non avrebbe mai voluto così bene a un'altra persona in tutta la sua vita, perché… Be', ci era cresciuta insieme, avevano fatto tutte
le cose insieme e sapevano tutto l'una dell'altra. Però. C'era un però. Digitale purpurea. Da Primi poemetti, versi liberi. Anna si sforzava di leggere, di non ripercorrere con la mente quanto era accaduto un'ora prima alla spiaggia segreta. Eppure bagliori, filamenti di quel minuto, o cinque, o dieci minuti, s'insinuavano nella lettura e le facevano male. Ricordare. Il sole nascosto per metà dietro l'isola, e l'isola nera e viva. Le era mancato il respiro. Si era trovata le narici piene dell'odore di lei, di nocciola, di mandorla e insieme di gatto. Il vapore che saliva dal mare. Sentiva l'acqua levigare le cose, respirando. Analisi dello stile. Analisi del testo. Siedono. L'una guarda l'altra. L'una / esile e bionda, semplice di vesti / e di sguardi; ma l'altra, esile e bruna, / l'altra… Non può succedere davvero, aveva pensato mentre succedeva. Francesca aveva detto quella parola, aveva fatto quella cosa, e lei si era arresa. Non riusciva a capire. O meglio: capiva benissimo. Però era curiosa. Ricordava gli occhi verdi di Francesca, Non era innocente, anzi. I gatti, quelli che erano rimasti, si erano distesi sulle pance fra le barche e avevano socchiuso gli occhi malati, le cataratte. Poi si era resa conto. E allora aveva cominciato a correre a più non posso. E anche lei – l'altra – aveva preso a correre scalza in direzione opposta. Si erano dimenticate entrambe le scarpe da ginnastica tra le alghe e le assi della barca. Correndo con gli occhi chiusi, il vento, il buio che si addensava tra loro, e tutti quei cocci di vetro che le tagliuzzavano i piedi, Anna aveva pensato di tutto e di più. Che la odiava, che l'amava, che non le avrebbe parlato mai più. Alla fine però, spuntando nella strada asfaltata, aveva visto Francesca addossata al muro, contro un lampione, piegata a riprendere fiato. L'aveva aspettata. Novembre fu scritta da Giovanni Pascoli nel millenovecento… Al ritorno, avevano camminato in silenzio lungo i muri scrostati dei garage. Sopra le loro teste il profilo gigante dei casermoni diceva: siete al sicuro. Le finestre accese a centinaia si chiamavano l'una con l'altra. Gonfie di grida e odori di cucina, le finestre del mondo sovraffollato e consueto. Avevano evitato di guardarsi. Erano entrate nel cortile un poco stordite. C'era Nino in sella al suo scooter, che le salutava. E Cristiano, come al solito esagitato, che gridava «Al Gilda! Al Gilda!», facendo un gesto osceno con la mano. In fondo, sulla panchina, Sonia e le altre stavano in cerchio, in un parlare fitto e puntellato di occhiolini. Le stelle invadevano il cielo come lentiggini, e loro due – insudiciate, umide e infreddolite – camminavano una accanto all'altra senza guardarsi. «Allora domani, alle due…» Voce neutra, calma come la superficie di un lago, a stento udibile nel fracasso che usciva da una portiera spalancata e un'autoradio al massimo. «Alle due, ma niente mare. Facciamo la prova dei vestiti.»
Sorriso difficile, occhi dilatati e tremuli. Non sarebbero più tornate a dar da mangiare ai gatti, di questo Anna era certa. Chiuse il libro e gli occhi. Pensò che alla fine quei gatti se la sarebbero cavata benissimo da soli. Le facevano male i piedi tagliuzzati. Peccato per le scarpe da ginnastica, erano quasi nuove.
14
Era più o meno mezzanotte quando Francesca e Anna si addormentarono. Il mondo trafficava intorno alle loro stanze. Rosa si fissava nello specchio del bagno e con un batuffolo di cotone imbevuto di alcol si tamponava una ferita sullo zigomo. Aveva due occhiaie cosi nere che a mala pena si distingueva il sangue coagulato. Nella stanza accanto, Enrico il gigante, comodamente sdraiato, guardava una replica di Super Quark su Rai Uno. Non aveva, nel viso largo e incolto, espressione alcuna. Teneva i piedi su un cuscino, il telecomando poggiato sulla pancia. Le grandi mani riposavano innocue lungo i fianchi. Anche Sandra guardava un programma alla televisione: un'inchiesta sulle morti bianche. Il ventilatore acceso puntato contro. Tamburellava le dita sul bracciolo della poltrona. Aveva voglia di telefonare a qualcuno, ma non sapeva a chi. E si stupiva di come già a quarantatré anni, di sabato sera, fosse costretta a rimanere a casa da sola. Ce l'aveva a morte con lui, ma le mancava. Quasi ci sperava che domani, almeno per Ferragosto, Arturo sarebbe tornato. Appoggiato al bancone di un locale a San Vincenzo, intanto, in mezzo a una folla di piccoli imprenditori, venditori di barche e proprietari di concessionarie, suo marito parlava al cellulare. Gli era spuntato un nuovo orologio al polso e, a giudicare da com'era vestito, se la passava piuttosto bene. Era un bell'uomo, pieno di fascino nonostante la piccola statura. Avrebbe potuto avere molte donne, volendo. Ma non voleva. Anzi, anche adesso, avrebbe voluto tornare a casa con un regalo per Sandra. Dirle: «Vestiti, avanti». E portarla a ballare. Ma non era il momento, non ancora. E non aveva voglia di litigare. Un signore versò altro spumante nel suo bicchiere, e lui bevve sorridendo. Aveva grossi affari per le mani: la sua vita, questa volta, stava cambiando davvero. E Sandra, anziché presentargli il divorzio da firmare, gli avrebbe chiesto di sposarlo ancora. A Capri, o a Positano. Quel che adesso però aveva più desiderio di fare, quel che proprio non poteva rimandare, era telefonare a suo figlio. Gli era presa una smania di sentire la sua voce, di accertarsi che stesse bene. Non lo dimostrava granché, ne era consapevole, ma ci teneva così tanto a quel ragazzo testardo che si ostinava a lavorare come un mulo alla Lucchini, in quel posto di merda. E poi c'era la sua bambina, la sua piccola Anna… ma lei di sicuro dormiva. Aprì lo sportellino ormai usurato di uno dei due cellulari che teneva nel taschino interno della giacca e compose il numero di Alessio. Un sorriso bello, di papà speciale, comparve sul suo volto in attesa. Solo che il telefono di Alessio squillava a vuoto. Abbandonato com'era sul sedile posteriore, sovrastato dall'impianto hi-fi della Peugeot in corsa, si illuminò appena nel buio per qualche istante. Poi si spense.
Parcheggiarono davanti alla pineta di Follonica. I jeans attillati al sedere e nella tasca posteriore il portafogli gonfio, nutrito dai proventi del rame. Uscirono dall'auto sbattendo le portiere. Attenzione, siamo arrivati. Cristiano aveva esagerato, con l'alcol e nei vestiti. Indossava una camicia arancione, fotonica, che avrebbe notato chiunque. Come un supereroe!, si diceva lui, da solo. Avrebbe voluto dare un bacio a suo figlio prima di uscire, perché la sua ex non era in casa. Ma non aveva trovato il coraggio, e adesso aveva azzerato il pensiero di quel minuscolo essere umano. Fischiettava e intanto prendeva a calci una pigna. Alessio era bello e buio. Camminava inquieto dietro Cristiano. La camicia bianca ben stirata, il colletto rialzato e gli occhi quasi grigi. Gli avevano detto, al bar di Piombino, due poliziotti: «Perché non fai un provino per Canale 5, anziché vendere il rame sottobanco? Cosa pensi, che siamo scemi?». Frotte di ragazzi attraversavano a zig zag la pineta. Tante fiammelle crepitanti, odorose di after shave misto a whisky, e urla simili a ululati lanciati in verticale fra gli alberi. Dove i pini si infittivano e gli aghi cadevano a pioggia, faceva freddo. Affrettarono il passo, inoltrandosi tra le resine e le nebbie della notte gonfia. Tra i rami si intravedeva un punto luminoso, che a poco a poco assumeva i contorni di un'insegna. Alcune lettere erano spente, ma la parola risultava leggibile comunque. Man mano che si avvicinavano, potevano distinguere la figura stilizzata di una pin up che invitava da quella parte. E due capezzoli al neon brillare. C'era da fare la fila. Cristiano sbuffò rumorosamente. Alessio si tastò la tasca posteriore dei jeans e si accorse di aver dimenticato il cellulare da qualche parte. Fila è una parola civile. Nella realtà era un ingorgo. Una bolgia di maschi accaldati e sbronzi che si prendevano a spintoni, e si abbracciavano un momento dopo, e non si capiva dove volessero andare a parare. Nel disordine generale, un pischello si era piegato in due sul marciapiede a vomitare. E un altro, che non dimostrava neppure quattordici anni, con le mutande abbassate gridava: «Sono Rocco Siffredi!». Nessuno lo filava. C'erano tanti ragazzini rumorosi come lui mescolati ai grandi, forse a caccia della prima volta. Soltanto un vecchio, ma fu una scena quasi indistinguibile, si era voltato a guardarlo con una punta di invidia guizzante nelle pupille. Era l'unico "sexy disco sexy" tra Grosseto e Livorno. All'ingresso un cartello avvertiva del contenuto erotico del locale: sconsigliava di entrare a chiunque si sentisse offeso nel pudore. Alessio e Cristiano lo lessero e si fecero, come tutti gli altri, una risatina. Dopo trenta minuti di fila, e trentamila lire di ingresso, spalancarono finalmente la porta. L'impatto fu un bolo umidiccio di fumo, grida, puzza. Prima ancora di riuscire a vedere qualcosa, il Gilda alitò loro in faccia quel suo fiato caldo e nauseante. L'aria tanto densa che sembrava di stare compressi dentro la cesta dei panni sporchi. Dava alla testa il retrogusto di disinfettante, vomito e sudore che trasudava da ogni
poro di quel luogo. Impenetrabile, la muraglia di uomini accaldati. I soffitti bassi, le luci bluastre: come in un sottosuolo, quasi una bara. The summer is magic. Oh, Oh, Oh… The summer is magic… diceva la canzone, pompata dalle casse a tutto volume. Ma laggiù, in fondo – Cristiano lo presentiva sciolto in bocca – c'era uno stacco vertiginoso di coscia. A pochi passi il bagliore lanoso, pubblico, di un pube. Guadagnarono il bar a forza di gomitate. Intravidero tra due teste calve i contorni di una figura nuda semovente. Avanzando ancora un poco, distinsero i cerchi bruni di due capezzoli e il luccichio di un perizoma metallico. Infine, sbucando sull'orlo della pista, eccola intera: una splendida bruna si contorceva mollemente, agganciata a un palo d'acciaio. Accanto una bionda minuta e semitrasparente lavorava anche lei il suo palo, attorcigliandosi vestita di squame. Fu con piena soddisfazione che presero posto, sedendosi a un tavolino traballante, ma con vista. Allungarono bene le gambe e ordinarono due Negroni. Cristiano assestò alcune occhiate violente in direzione delle due che avevano volti assenti e astratti. Misurò loro la circonferenza dei fianchi e dei seni. Due carni appese al macello. Ma ne concluse che sì, erano da sballo! E si unì al coro d'entusiasmo. Ordinarono altri due Negroni, e poi altri due. Nessuno notava che l'intonaco del soffitto era scrostato, e agli angoli proliferava una muffa nera. Nessuno, eccetto Alessio, prendeva in considerazione lo stato di abbandono dei divani sfondati, le fodere usurate da centinaia di ginocchia, cosce, gomiti intrecciati e premuti. Il grande lampadario a sfera ridotto a un ramo nudo, con solo una decina di cristalli appesi. Chissà quante volte a settimana, o forse al mese, le imprese di pulizia nettavano quel buco afoso. Alessio se lo domandava sorseggiando piano. Senza fare commenti, si soffermò sul volto della bruna visibilmente stanca. Ne dedusse che no, non era affatto splendida. La sua era una lap dance svogliata, scontata. Quella donna doveva avere più di trent'anni, le guance rovinate dall'acne sotto il fondotinta. Alessio non faticava a immaginare, dietro i suoi movimenti, una pasticca sciolta sotto la lingua nel camerino, prima di cominciare. Più difficile invece era immaginare il resto della sua vita: l'arredamento della sua stanza, i suoi hobby, come impiegasse il tempo illuminato dalla luce del giorno. Non poteva forzarsi, quel posto non gli era mai piaciuto. Erano tristi i sorrisi delle conigliette che giravano tra i tavoli a caccia di cinquantamila lire. Gli estraevano dallo stomaco tutta la tristezza che in ventitré anni aveva accumulato. Pure cercava di dissimulare, accennava qualche commento vuoto, una risata, e lo faceva soltanto per il suo amico. Bell'amico… Cristiano infatti, sovraeccitato, a un certo punto aveva riconosciuto nella bolgia il suo datore di lavoro. Era balzato in piedi e si era messo a sbracciare. Il capo, un uomo sulla sessantina, che indossava una camicia hawaiana da cui sporgeva un'enorme pancia, era impegnato a infilare un dollarino nel perizoma della ragazza bionda. Cristiano lo aveva
chiamato per nome e l'uomo si era voltato. Gli aveva gridato: «Ehi, mezza sega!». E quello era accorso come un cretino. Rimasto solo, Alessio guardava e taceva. La scena vergognosa di Cristiano che rosicchiava le briciole del suo datore di lavoro. Gli avanzi di una coscia, di un seno. «Il bastardo che mi sottopaga, il bastardo che mi sfrutta», così diceva. Alessio seguiva i movimenti della mano di quel grosso uomo peloso sul corpo fragile, forse anoressico, della ragazza bionda. Ebbe l'impressione che da un momento all'altro quel corpo si sarebbe sgretolato come un biscotto. Era giovane, giovanissima. Aveva qualcosa di straniero nel viso. Alessio si stupì di quanto quell'adolescente assomigliasse a Francesca. Era identica: perfetta e oscura come lei. Gli stessi occhi d'acqua verde, le stesse labbra tese. Gli si accapponò la pelle al solo pensiero. Posò il bicchiere e si sentì finalmente libero di essere triste. Triste fino in fondo. Mentre Cristiano conduceva la sosia di Francesca verso la tenda sporca di un privé, Alessio si alzò di scatto dal tavolo rovesciando la sedia. Lo vide ficcare una banconota nella mano di quella – no, non ha neanche diciotto anni – creatura sintetica; vide il vecchio disgustoso seguirli dietro la tenda, la tana dove lei avrebbe dato spettacolo. Un numero prevedibile a pagamento. Loro si sarebbe lasciati cadere sopra il puff di finta pelle, e lei si sarebbe lasciata convincere a venire più vicino. Un senso grandioso di schifo e di ribellione lo fece procedere netto verso l'uscita. Li avrebbe denunciati volentieri, quei figli di puttana che trafficavano minorenni dall'Est Europa. Ma siccome non era un eroe, anzi, era un povero stronzo che aveva bevuto troppo e doveva vomitare, una volta fuori si accasciò sul marciapiede. Quando sollevò la testa dalla chiazza melmosa, si sentì come un quattordicenne alla prima festa di classe. Rialzatosi in piedi, sorrise di se stesso. Il piazzale era vuoto adesso, la notte cigolava di cicale e di stelle. Appoggiò il viso al vento fresco che saliva dal mare. E debolmente avanzò a piccoli passi fino alla pineta. Qui si adagiò sopra una panchina. La notte era ampia e pulita fra i rami aperti come lunghe dita e il crollo improvviso, innocuo di una pigna. Intendeva riprendersi un momento, ripulirsi, prima di raggiungere la macchina e andare via. Da solo. Quell'altro stanotte tornava a piedi o aspettava il primo autobus del mattino, era un problema suo. Gli avrebbe fatto ribrezzo rivederlo con addosso i pigmenti luridi di quella ragazza. Lo stomaco era un ribollire di succhi gastrici arrabbiati, e la testa gli girava un poco. Nel cuore umido della pineta si sentì piano piano riavere. L'odore di resina era tonificante. Chiuse gli occhi e chiamò dentro di sé, come per purificarsi, un'immagine bella, un'immagine qualsiasi ma bella. E una, in effetti, emerse da un recesso oscuro della memoria e gli invase, calda e candida, le tempie. Si rivide: i capelli arruffati e il viso sporco di ghisa, in piedi sotto un cielo terso e forse più azzurro di quanto non fosse in realtà quel giorno. Portava le scarpe del lavoro imbrattate e le
braghe arancioni a tre quarti, quelle con le strisce fosforescenti. Era sgattaiolato via dalla mensa durante la pausa pranzo. Ricordava perfettamente il battito esagerato del suo petto e come tutto in lui sorridesse. Alle sue spalle corso Italia brulicava di passanti. Stava impalato davanti alla vetrina della gioielleria Scognamiglio. Era mezzogiorno. Una giovane mamma lo aveva sfiorato con le ruote del passeggino e lui si era voltato di scatto, aveva detto «Mi scusi», anche se non toccava a lui scusarsi. Era il 12 luglio del '98. Il sole non bruciava ma illuminava a piene mani le cose. I gioielli rifulgevano quasi vivi dietro la vetrina del negozio. E lui restava lì incapace e ipnotizzato, con lo storico berretto dei Chicago Bulls torturato fra le mani. Era emozionato come un bambino, sembrava un ritardato. Fino a quando una donna, la proprietaria della gioielleria, era uscita sulla soglia e gli aveva chiesto sorridente, amichevole: «Ha bisogno?». Avrebbe avuto bisogno di una stampella in quel momento, per reggersi in piedi. E di un bicchiere di whisky per calmarsi. Era entrato così, vestito da Lucchini, rosso in viso e pieno di soggezione. Si era affidato a quella signora, le aveva detto a mezza voce: «Vorrei un anello». La pineta ora stormiva piano, come un animale addormentato o qualcuno che volesse tenergli compagnia senza disturbarlo. Guardava dritto di fronte a sé un punto preciso dello spazio. Sapeva di doverlo affrontare, quel ricordo che gli raschiava l'esofago, la gola, il palato. Elena. Seduta di fronte a lui, al ristorante La vecchia marina. I capelli castani raccolti dietro la nuca, un filo di ombretto azzurro sulle palpebre. Aveva appena finito il liceo e alla maturità aveva preso sessanta. Indossava un vestito bianco di cotone come li portava lei, non troppo scollati. Gli stava raccontando per filo e per segno la cronaca del suo esame: come avesse letto bene in greco fino a quel verso e poi si fosse inceppata su quell'aoristo (aoristo! perfino questo si ricordava). E mentre lei parlava e a lui del suo esame non gliene fotteva niente, si era chiesto per l'ennesima volta come avesse fatto, uno stronzo come lui, a beccare una come lei, che parlava complicato e senza consonanti smangiucchiate. Perché lei non era una del quartiere. Elena era la figlia del primario dell'ospedale di Piombino. Facevano l'amore sempre e ovunque, anche nei bagni della scuola in terza media, e tra gli armadietti degli spogliatoi in palestra. E lui era stato l'unico e il primo. Lei continuava a parlare e non si aspettava… Non poteva aspettarselo. Parlava quelle sue parole piene, senza spezzare le frasi, senza interruzioni… E lui a un certo punto l'aveva interrotta. «Senti» aveva detto. Non lo sapeva ancora che lei di lì a poco si sarebbe iscritta all'università, Economia aziendale, e avrebbe cercato casa a Pisa con le sue amiche del liceo, e lo studio le avrebbe consentito di tornare a Piombino solo di quando in quando. Non le aveva lasciato il tempo di
dirlo. «Cioè» aveva deglutito, «ti volevo dire…» Lei lo aveva guardato sorpresa, arcuando le sopracciglia. Forse cominciava già a intuirlo, che sarebbe diventata qualcuno e lui sarebbe rimasto operaio, figo sì, ma sempre due milioni al mese sono. «Io è da tanto… Magari è peso… Però, cioè… Io e te stiamo insieme da tanto, cioè, è dalle medie che stiamo insieme, e allora io ho pensato che forse… Se te sei d'accordo, cioè, io volevo dirti… Che cazzo…» Aveva sorriso. «Nel senso, te hai finito la scuola» un leggero imbarazzo, «io non ho finito un cazzo, vabbe'…» Elena restava in silenzio e lo lasciava parlare. «Te lo devo dire.» Si era infilato una mano in tasca e ne aveva estratto un cofanetto di velluto. Lo aveva aperto, il cofanetto. E lei aveva sussultato. Pensava che non ce l'avrebbe mai fatta, che non l'avrebbe mai pronunciata quella frase idiota. E invece sì, era stato veramente coglione. Elena virgola mi vuoi sposare? Si sentì bussare dietro la schiena e si riprese di colpo. Il pensiero si ritirò fulmineo. Alessio disse, immobile, in preda al nervoso: «Non ti voglio neanche vedere». «Ah, allora sei proprio tu!» disse una voce che non era quella di Cristiano. «Cosa fai? Il poeta solitario del Gilda?» Alessio si voltò di scatto. Rimase di stucco. Incredulo, per un attimo fece fatica a muovere i muscoli della bocca. Poi fiorì nel suo primo vero sorriso della serata. «Non ci credo! Non ci posso credere!» si slanciò ad abbracciarlo, lo stritolò, quasi piangeva. «Non lo sai quanto ti ho cercato, brutto bastardo!» «Ehi» rise l'altro, «sei diventato sensibile… Cosa ci fai in pineta? Ti hanno consumato là dentro?» «Dove cazzo sei stato tutto 'sto tempo, eh? Ti eri dimenticato di me… figlio di puttana!» «Ma se ti ho riconosciuto da laggiù, di spalle! Ma renditi conto.» Si separarono e si guardarono bene in faccia. «Non sei cambiato per niente» si dissero, quasi contemporaneamente. «Dov'eri finito?» «Se te lo dico non ci credi.» «Avanti, andiamo, sputa!» Alessio quasi saltava. «In Russia. Nel mar Nero, sulle navi.» «Cazzo! Tu stai male…» «Un po'» rise, «ma adesso sono tornato. A proposito, ci lavori sempre alla Lucchini?» «Per forza.»
«Dove?» «Carroponte.» «Complimenti» gli tese la mano, «sono il nuovo addetto alle vergelle… Dalla prossima settimana!» «Nooo!» Alessio gli si lanciò al petto, felice come una Pasqua. «Fino a un attimo fa era una serata di merda, credimi, ma talmente di merda che ho pure vomitato, e adesso spunti tu! E sei pure mio collega! Ma perché sei sparito così? Ti ho mandato in culo miliardi volte.» L'altro fece un gesto con la mano. «Lasciamo stare, brutte storie. Tu piuttosto… Elena? Lo sa che sei qui a fare lo stronzo?» Alessio cambiò faccia di colpo: «Non nominare…». «Dio invano. Ok, non voglio sapere, sono ateo.» «Non rovinarmi anche tu la serata, per piacere» sbuffò Alessio, «ci ha già pensato Cristiano.» «Uh, Cristiano! È sempre vivo quel coglione?» sdrammatizzò l'altro. Ma Alessio era troppo eccitato per intristirsi. Non lo vedeva dal '98. Erano spariti tutti e due dalla sua vita, lui ed Elena, di punto in bianco e contemporaneamente: lì per lì avrebbe voluto spararsi. Adesso però, almeno uno lo aveva ritrovato. «Ascoltami bene, bastardo» gli disse, «ora vieni via con me, non sento seghe. E ci dormi pure, da me. È il minimo, dopo tutto quello che mi hai fatto passare.» «Ok capo, sono anche a piedi.» Si guardò intorno. «Ma sei venuto da solo o sei insieme al coglione?» Alessio gettò un'occhiata furtiva all'ingresso: «Andiamo, corri!». L'amico, che Alessio afferrò per il braccio e con cui corse a perdifiato per la pineta fino alla macchina, si chiama Mattia e all'epoca era un mezzo disgraziato. Ma erano cresciuti insieme, anche lui era di Stalingrado. Mattia era il classico ragazzo figo e maledetto. A sedici anni aveva avuto qualche guaio con la giustizia per furto con scasso. Poi nel '98 l'aveva combinata un po' più grossa ed era dovuto scappare all'estero. Anche perché ormai era maggiorenne e questa volta non l'avrebbero spedito al centro anziani a pulire i cessi, ma dritto dritto al carcere di Livorno. Tramite un giro abbastanza losco di amicizie si era imbarcato sulle navi e aveva trovato lavoro presso una ditta russa di trasporti. Quegli enormi bastimenti mercantili che dall'Ossezia riforniscono di gas l'Europa, e lui era dovuto andare fin laggiù per imparare a lavorare. Non che fosse cattivo, sia chiaro. «Sei sicuro che vuoi lasciarlo a piedi?» chiese Mattia salendo in macchina. «Quello si incazza duro…» «Che si incazzi allora!» Alessio ingranò la retromarcia. «Doveva pensarci prima lo stronzo. Ma uno che si scopa una minorenne con il suo datore di lavoro, e ti lascia lì da solo come un cane? È già tanto se non gli ho spaccato il muso.»
Guardando lo specchietto retrovisore, Alessio vide una luce lampeggiante sul sedile posteriore e finalmente si accorse del suo cellulare. Allungò la mano per prenderlo e vide: otto chiamate senza risposta. Papà. Ingranò la marcia e partì a tutta velocità.
15
Al principio mosse soltanto la testa, appoggiata di lato sul cuscino. I ricci scomposti vibrarono. Poi stiracchiò le gambe sotto le lenzuola, ruotando le punte dei piedi. Piccoli piedi affusolati, con le unghie smaltate di fucsia, che sbucarono nudi sul bordo del letto. Allungò le braccia, la peluria bionda che le ricopriva baluginò appena. Afferrò i bordi delle lenzuola a occhi chiusi e se le rovesciò dal petto, scoprendosi. Indossava un pigiama estivo di cotone bianco, con su stampate tante fragoline rosse. Dalla canottiera le spuntava uno spicchio di seno. Era troppo cresciuta per quel pigiama, le stava stretto. Le forme quasi adulte dei fianchi cozzavano con le fragoline rosse, o forse ci andavano troppo d'accordo. I minuti trascorrevano e lei non si accorgeva di niente. Qualcuno la stava osservando da molto vicino. C'era nella sua stanza un intruso, un uomo, e lei non lo sapeva ancora. Si era voltata su un fianco verso la finestra. Il sole filtrava soffice dalle persiane, impastandosi di pulviscolo: sembrava zucchero. Erano le nove del mattino. Mattia la stava guardando da più di mezz'ora. Attento a non fare rumore, catturava con la massima attenzione ogni minimo movimento di lei. E non riusciva a distrarsi. Le sarebbe stato benissimo un babydoll, aveva pensato. Pizzo nero semitrasparente. Ma poi aveva pensato anche che con un babydoll non sarebbe stata così bella. Fragrante e pulita nella quiete della prima luce. Profumava. Ma non di profumo sintetico o di deodorante. Emanava un sapore di latte. E lui lo respirava piano. Qualcosa evidentemente le prudeva, perché si infilò le dita sotto il pigiama e si grattò in un punto, poi in un altro dietro le spalle. Sorrise, chissà perché. E infine aprì un poco gli occhi assonnati. Anna staccò le labbra umide di saliva. Sorrise ancora, un sorriso pieno di tutti quei suoi dentini bianchi e diritti. Si alzò a sedere di scatto, si ravviò il vapore dei capelli volgendo gli occhi al soffitto, poi alla sveglia. E quando li sgranò bene di fronte a sé, cacciò un urlo. Occhi nocciola screziati di giallo. Occhi lentigginosi come gli zigomi, pensò Mattia. E le sorrise per niente imbarazzato, abbagliato piuttosto da tanta bellezza. Uno sconosciuto stava seduto comodamente sulla sedia della sua scrivania, e la fissava con occhi beffardi. C'era di che allarmarsi. «E tu chi sei?» gridò Anna, e si coprì fulminea con il lenzuolo. Ma si coprì male, e lo spicchio di seno rimase nudo. Lui lo notò e sorrise di più. Tatticamente esitò a risponderle. Voleva godersi tutto il suo allarme.
Anna si voltò verso il letto di suo fratello e vide che non c'era nessuno. Fissò con occhi pieni di sconcerto ora lo sconosciuto, ora il letto vuoto, e non riusciva a capacitarsi. «Mi chiamo Mattia» disse divertito, «piacere di conoscerti.» Lui le tese la mano e lei la guardò brutto senza azzardarsi a toccarla. «In verità ci siamo già conosciuti, ma eri una scricciola di otto o nove anni… Forse non ti ricordi.» Continuava a tenderle la mano e gli veniva da ridere. Anna arrossiva a vista d'occhio, ma non si accorgeva di avere mezza tetta di fuori. «Mammaaa!» gridò. «Non c'è» scosse il capo lui, «sei in trappola.» Vedendo che la prendeva in giro, e soprattutto che restava buono buono dov'era, Anna si tranquillizzò un poco. «E dov'è andata? Dov'è Ale? E tu perché sei qui?» Mattia ritirò la mano, se la passò fra i ricci bruni e poi si schiarì la voce accavallando le gambe. Non aveva bisogno di darsi un tono: ce lo aveva già di natura. Ma si divertiva a fare effetto su quella donna-bambina e prendeva tempo, si alzava in piedi, osservava con finto interesse il poster di Britney Spears appeso alla parete. Era un uomo di teatro. «Tua madre è uscita, e si dà il caso che mi abbia anche invitato a pranzo. È stata molto gentile con me…» Distolse gli occhi da Britney e li posò su Anna: stava a bocca aperta e torturava l'orlo del lenzuolo. «Tuo fratello è giù che fa a botte con Cristiano. E io sono un suo vecchio amico da poco ricomparso sulla scena.» «Come "fa a botte con Cristiano"?» «È un modo di dire… Però stanno discutendo» rise, «animatamente, credo.» Mattia si spostava da un punto all'altro della stanza in penombra e Anna lo seguiva muovendo la testa come i personaggi dei cartoni. «E tu quando sei arrivato?» «Verso le cinque del mattino.» «E dove hai dormito?» «Qui. Precisamente su quella sedia.» Mattia la indicò con la massima serietà. «Ma allora mi hai visto dormire!» Anna avvampò di vergogna. Mattia se ne accorse, si avvicinò un poco, e sorridendo malizioso bisbigliò: «Te lo assicuro, eri meravigliosa…». Grandi occhi verde smeraldo, labbra carnose e dure. Erano entrambi ricciolini. Anna balzò fuori dal letto, corse scalza alla finestra. Tirò su l'avvolgibile delle persiane fino in cima e fece luce nella stanza. Poi si voltò a guardare inebetita il volto illuminato del ragazzo nuovo che adesso si stava sdraiando sul suo letto. Adagiandosi, Mattia aveva respirato forte l'odore di lei fra le lenzuola. «Forse è vero che ti conosco… Non mi ricordo bene, ma ti ho già visto» disse Anna restando in piedi di fronte a lui, e gesticolando più del normale.
Mattia pensò che le sue gambe erano davvero belle, e che per avere tredici anni era molto alta. Molto ben sviluppata. Disse: «Mi avrai visto un milione di volte. Soltanto che eri troppo impegnata con le Barbie e le tue amiche per accorgerti del sottoscritto.» Anna arrossì. Insieme al sole, il calore aveva invaso la stanza e lei avrebbe voluto spogliarsi. C'era agosto bollente là fuori, e un tizzone incandescente dentro di lei. Nessun uomo che non fosse suo fratello o suo padre l'aveva mai vista in pigiama. Si sentiva nuda e imbarazzata come in quei sogni in cui si cammina in mutande in mezzo a un viale gremito di gente. Lentamente realizzava quanto quel ragazzo fosse bello. E forte e adulto, e sicuro di sé. Il volto bruno, con la mascella squadrata e gli zigomi alti, sembrava scolpito nel marmo. Aveva qualcosa di prepotente negli occhi. E qualcosa di invitante nelle labbra un po' femminili. Le mani nodose e grandi non gesticolavano come quelle dei ragazzi nervosi. Doveva essere alto quasi un metro e novanta. Spalle come se avesse trasportato l'intero pianeta per giorni. «Dove abiti?» Anna si faceva, suo malgrado, curiosa. «Da solo, qui vicino.» «E perché da solo?» «Perché mi piace stare solo.» Non era vero, tossì per fare effetto. Aggiunse: «Sono un lupo di mare». Anna cadde folgorata. Le sembrò di avere davanti la versione ringiovanita di Santiago del Vecchio e il mare, il suo mito. «Sono tornato da poco a Piombino. Per tre anni sono stato in Russia, nel mar Nero.» Finalmente Anna si accorse che la canottiera era messa male, di essere praticamente mezza nuda e di avere addosso un pigiama ridicolo. Cercando di dissimulare l'imbarazzo, avanzò vagamente verso l'armadio e ne estrasse una maglia a caso. Una felpa invernale, che con quel caldo non era proprio il caso. Ma ormai non capiva più niente e se la infilò. Lui ovviamente lo notò, trattenne una risata fragorosissima che gli solleticava la gola. Non voleva metterla in soggezione, almeno più di quanto non fosse già. E poi gli piaceva, così inesperta, così carina. «Tu? Cosa fai di bello nella vita?» «Vado a scuola.» Non sentiva più né caldo né freddo. Solo, le ginocchia le tremavano. Decise di sedersi sul letto anche lei. A una certa distanza da lui… Lui, che aveva dieci anni di più, decifrava tutti i suoi movimenti con estrema facilità. Però doveva ammetterlo: quella recita lo divertiva più del previsto. Quando Anna si lasciò cadere vicino al cuscino, Mattia guadagnò un paio di centimetri nella stessa direzione. Era una guerra segreta di posizione, e la stavano giocando ad armi impari. «Anzi, a settembre vado alle superiori. Comincio il liceo… il classico.» «Azz… Sei brava, allora!»
«Mi piace studiare…» «Fai bene, non seguire l'esempio di Alessio.» Guardò l'orologio. «Mi sa che Cristiano se l'è mangiato.» Quando lo vide leggere l'ora, Anna avvertì uno strano brivido lungo la schiena. «E tu hai studiato?» si affrettò a chiedere, come per trattenerlo. «Ho un diploma.» Mattia non aveva bisogno di essere trattenuto, «ma non credo di avere studiato. Scaldavo il banco, più che altro… Però ho sempre letto un botto di poesie…» Lo disse, evidentemente, per fare colpo. Lui, la poesia? Figuriamoci. Ma lei era completamente ottenebrata. «Come Pascoli?» sorrise. «Esatto! Pascoli. Poi anche Carducci, Baudelaire, Dante…» sciorinò un po' di nomi a casaccio. «Sulle navi, prima di addormentarmi, li leggevo spesso…» Anna immaginò Mattia nella penombra di una stiva, sdraiato su un cumulo di sacchi, con una candela accesa a fianco, il mare in tempesta, e un libro letto avidamente a filo di voce. Il petto prese a batterle sul serio. Stavano tutti e due sul letto. Anna seduta a gambe incrociate, Mattia disteso con le braccia dietro la nuca. Si guardavano, si studiavano. E lei si stupiva di come tutto il suo corpo palpitasse, e lui si stupiva di come la sorellina del suo amico gli facesse effetto. E lei pensava che avrebbe voluto toccarlo con un dito per sentire se era vero. E lui pensava che avrebbe voluto baciarle la nuca. Questo è un colpo di fulmine, realizzò Anna, cavolo! Ma non fece in tempo a realizzarlo un'altra volta che suo fratello irruppe nella stanza gridando: «Quello è pazzo!». Alessio non notò minimamente come stavano quei due: sul letto a fissarsi e a parlarsi vicini, sorridendo in continuazione. Andò dritto da Mattia, lo fece alzare e gli mostrò l'occhio nero. «Guarda!» urlava. «Guarda che cazzo mi ha fatto! Se torno giù lo spezzo, giuro che lo ammazzo!» Mattia ispezionò il muso inviperito di Alessio: «Mettici un po' di ghiaccio… Via, tanto stasera vi chiarite…». «Ma cosa devo chiarire? Tu vuoi scherzare! Lo scarrozzo di qua e di là tutti i sacrosanti giorni, e per una volta che lo lascio a piedi, lui che fa? Mi prende a pugni.» Anna seguiva la scena, spaesata. Non capiva un accidente di quel che stava succedendo. E al contempo si scopriva irritata: era tornato troppo presto, Alessio. E adesso? Si sarebbe portato via Mattia? «Sai cosa mi ha detto? Che io non l'ho mai preso un autobus alle sei del mattino… Nooo, figurati! L'avrò preso un miliardo di volte!» Anna si ricordò che la mamma lo aveva invitato a pranzo e si rianimò di colpo. Alessio uscì dalla stanza in cerca del ghiaccio, Mattia lo seguì. Ma prima di chiudere la porta, da vero marpione, si voltò verso di lei e le fece l'occhiolino.
Non appena la porta fu chiusa, Anna elettrizzata si mise le mani fra i capelli e cominciò a bisbigliare: «Cazzo cazzo cazzo cazzo». Prese a saltare. Non ci credeva. Si tolse quell'orribile felpa invernale. La prima cosa razionale che riuscì a pensare fu: devo dirlo subito a Francesca. Un attimo dopo, però, mentre si stava infilando le scarpe per correre da lei, un rigurgito fastidioso le bloccò le dita che allacciavano le stringhe. Ci ripensò. No, non devo affatto dirlo a Francesca. Si lasciò cadere sul letto. Era l'uomo più bello che avesse mai visto. Sorrise al soffitto. Era l'uomo della sua vita. Da qui all'ora di pranzo doveva chiudersi in bagno, provarsi tutti i trucchi e i vestiti del mondo, presentarsi in cucina bellissima. Chissà se sarebbe venuto anche lui, stasera. Per forza, sarebbe venuto per forza! La vita era meravigliosa, e lei dalla gioia impazziva. Francesca. Certo. Ma adesso non voleva pensarci. Guardò l'orologio: erano le dieci e mezza. Si fiondò dentro l'armadio, rovesciò i cassetti, prese tutto. Impossibile che un ragazzo del genere, un ragazzo grande, l'avesse guardata in quel modo… L'avesse guardata dormire. Oddio, e se russava? Mentre Alessio e Mattia parlavano fitti tra loro in cucina fumando gran sigarette, Anna fece la spola fra camera sua e il bagno almeno una decina di volte. E ogni volta che attraversava il corridoio gettava un'occhiata in cucina. Facendo finta di niente, lo guardava. E poi, se lui la notava, schizzava via a piedi scalzi trattenendo un risolino. «Cazzo fa mia sorella?» Alessio aggrottò le sopracciglia. «Ci spia?» «Mat-ti-a» sillabò Anna davanti allo specchio del bagno. Si era chiusa a chiave. Sono scema, si disse. Poi cominciò: attaccò la musica a palla. Me and you… La la la la, la la la. Provò almeno una quindicina di espressioni del viso: dall'imbronciato al divertito al sensuale. Decise che era giunto il momento di assottigliarsi le sopracciglia, e si provocò con la pinzetta un gran dolore. Senza smettere un momento di ballare, e di ripetersi mentalmente lo spelling di quel nome, si colorò le labbra di rosso, rosa, mattone, fucsia. Le palpebre di verde, dorato, celeste, viola. Sottrasse il mascara dalla pochette di sua madre. Si guardò la faccia impiastrata e ne dedusse che era oscena. Si fiondò dentro la doccia. In tutta la sua vita non aveva mai provato una gioia simile, una gioia tanto affilata. Prima di pranzo aprì il diario e cerchiò insistentemente la data di oggi: 15 agosto 2001. Ci scrisse a tutta pagina, grande come una casa: "MATTIA". Con l'Uniposca rosa, quello che non va via. E sotto ci fece un metro e mezzo di puntini di sospensione. Incredibile: dopo le dieci e mezza di quel mattino, le sembrava di vivere un'altra vita. Alle due in punto Francesca suonò il campanello. Entrò. Salutò Sandra, Alessio e un ragazzo che non aveva mai visto. Ma prima di entrare e di salutare, già sul ciglio della porta, aveva notato l'abitino scollato di Anna, una cosa da festa, non certo da casa, e gli occhi truccati di lei.
Nessuno al mondo poteva anche solo lontanamente immaginare quanto Francesca avesse atteso quel momento. E con quale agitazione. Si era svegliata più volte in piena notte. Verso le quattro era stata costretta ad alzarsi per aprire la finestra e lavarsi il sudore della fronte con l'aria fresca. Dopo aver fatto colazione era rimasta nella sua stanza per ore senza fare niente. Passandosi lo smalto sulle unghie, aveva provato a immaginare, non senza paura, cosa Anna adesso pensasse di lei, e come l'avrebbe accolta quel pomeriggio, con quale espressione del viso, quale tono di voce. E le dita le tremavano, e lo smalto sbavava fuori dai contorni. Non le importava niente di Ferragosto, della loro prima notte a ballare. Si figurava Anna gelida e distante. Forse avrebbero dovuto chiarirsi, ma lei non avrebbe trovato le parole e come con suo padre sarebbe rimasta muta. Magari Anna le avrebbe detto: «France, tu sei malata». Oppure l'avrebbe abbracciata, come ieri, e si sarebbero baciate di nuovo… Niente di tutto questo. Anna era normale. La prese per un braccio come sempre, se la trascinò in camera ridendo, bisbigliandole le solite cose all'orecchio: la gonna, la maglia, il fermaglio. Come se niente fosse. Però aveva quel vestito rosa, troppo corto, troppo bello per starci in casa. E si era colorata le palpebre per cosa? Per pranzo? Francesca non era scema. Avrebbe potuto fare due più due. Chiederle qualcosa, vagamente: «Come mai 'sto look oggi?». Ma non fece nessuna domanda. Anzi, non volle accorgersi di niente. Del resto, aveva degnato appena di uno sguardo il nuovo ospite. Del resto, segretamente sperava che quel cambiamento, quell'eccitazione, fossero per lei. Trascorsero l'intero pomeriggio insieme, chiuse nel bagno a chiave, a fare le prove dei vestiti e delle moine più efficaci per cuccare. La finestra spalancata come sempre. La pipì insieme come sempre. E neppure l'ombra di uno screzio. Neppure l'accenno di una novità. Ma la novità c'era eccome. Trasudava da ogni poro di Anna, affettuosa e assente. Gradualmente, Francesca si rese conto che aveva la testa altrove. E mentre il giorno capitolava verso l'ora tanto attesa, Francesca si chiedeva se potesse davvero sopportare un'intera vita così: senza essere né A né B. Era più difficile di quanto pensasse. E fece una fatica enorme, a un certo punto, per non piangere.
16
Non appena Anna fu uscita, Sandra si sfilò i guanti di gomma, vuotò nel water il secchio con l'acqua sporca e andò ad affacciarsi sul balcone. Si accese una sigaretta con calma e prese a guardare l'Elba. Un traghetto passava. Uno stormo lo seguiva disegnando ampi cerchi intorno. E la luce si sfaceva insieme alla nuvolaglia e alle scie degli aerei, coagulava nei lumini dei pescherecci che punteggiavano debolmente l'acqua. A un tratto, nell'isola, una manciata di lampioni si accese. Crepitarono come fuochi vivi. Sandra, quasi rispondesse a un invito, cominciò a immaginare le passeggiate che quei lampioni illuminavano. Le vetrine dei negozi aperti di sera, il viavai dei turisti sul lungomare. Doveva essere deliziosa Porto Ferraio in agosto, con i mercatini estivi, le orchestrine, i ristoranti crepitanti di posate, di brindisi. Pensò a quelle signore dei salotti milanesi o romani che si intravedono dai finestrini delle auto in coda verso il porto. Pensò che doveva essere bello vivere quel genere di vita. Andare in villeggiatura, affittare una stanza con veranda, con vista, e la colazione servita. Lei all'Elba c'era stata una volta sola, a vent'anni. Appena sbarcati, Arturo si era fissato con un suo amico, un certo Pasquale, che doveva rivedere per forza. E non c'era stato verso: avevano trascorso il pomeriggio nel retro di un magazzino, poi seduti in un caffè zeppo di videopoker. Questo fino alla nave del ritorno, e lei zitta in un angolo. Non aveva visto niente, neanche la casa di Napoleone. Scagliò il mozzicone in strada. Il cielo si scuriva e lei aveva una montagna di panni da stendere. Lei aveva quarantatré anni. Rientrò in casa, il rumore delle sue ciabatte strascicate sul pavimento la fece sorridere. Chinandosi sul cestello della lavatrice scacciò via quei pensieri futilissimi. Accumulava le lenzuola nella cesta. L'età in cui si pensa che il mondo è una miniera d'oro, che basta crescere, uscire di casa… Quell'epoca per lei era finita da un pezzo, e dove l'aveva portata? Basta: aveva ben altro a cui pensare. C'era la festa di Rifondazione da organizzare, la prossima settimana, c'era da invitare l'onorevole Mussi a parlare dello stato sociale. Mancava un quarto alle nove. Francesca e Anna camminavano in silenzio, una di fianco all'altra, nella città deserta. La maggior parte delle famiglie sedeva ancora a tavola per cena. Dalle finestre spalancate si intravedevano le macchie azzurre dei televisori accesi, e un gran trafficare di pentole e posate sorprendeva le ragazze ogni volta che ci passavano sotto. Attraversarono il parcheggio vuoto della Coop e si lasciarono alle spalle il quartiere di Salivoli. Un altro quartiere simile al loro cominciava: anche qui enormi casermoni grigi e cortili di cemento si alternavano senza logica a baracche di legno e orti mal tenuti. Dalle reti
divisorie premevano grappoli rossi di pomodori e albicocche dai rami sporgenti, belle arancioni. Anna ne afferrò una, poi un'altra e la offrì a Francesca. Da quando erano uscite di casa non si erano praticamente scambiate parola. Passando davanti all'asilo comunale, però, Anna aveva sorriso a Francesca e lei le aveva preso la mano. Entrambe custodivano i propri pensieri senza voler conoscere quelli dell'altra, mentre il sole esauriva i suoi raggi sui viali, allungando le ombre degli alberi. Nessuna auto, nessun passante. Era dolce quel silenzio, la sensazione che le strade e il quartiere fossero uno spettacolo privato, per loro due soltanto. Quando arrivarono all'angolo di un parco giochi arrugginito, Francesca si fermò di colpo e lo indicò all'amica. Un sorriso lieve, prodotto da un ricordo inatteso, era comparso sulle sue labbra. «Te lo ricordi?» C'era tempo prima che la festa iniziasse. Le due ragazze entrarono nel fazzoletto di prato, circondato quasi per intero da una siepe. L'erba era tenera in certi punti, in altri ingiallita dal sole. I due alberi gemelli stavano in piedi a fatica: un'edera vi si attorcigliava intorno e li soffocava. Le altalene e lo scivolo erano in un tale stato di abbandono, come se esistessero da secoli. Quanti anni sono passati?, si chiese Anna avanzando con cautela. Passò una mano sulla ruggine screpolata del girello, diede una spinta leggera, e quello cominciò a girare scricchiolando, smuovendo appena il grande silenzio. Poi Francesca la chiamò. C'era la piccola capanna di legno laggiù, in fondo. Le due ragazze si avvicinarono quasi in punta di piedi. Dentro era tutta sporca di terra, tra un'asse e l'altra doveva essersi insidiato un formicaio. Ma c'era sempre quell'odore umido, di legna bagnata, che a loro piaceva tanto. Avrebbero voluto entrare, accucciarsi sotto il tetto spiovente come facevano una volta, ma erano cresciute e non ci riuscivano. Presero a ridere a crepapelle per le contorsioni che si vedevano fare. Ormai lo spazio era diventato troppo stretto e così rincantucciate, con le ginocchia al petto, non potevano starci. Risbucarono alla luce, con due o tre formiche arrampicate sulle gambe. «Meno male che doveva essere la nostra casa futura!» rise Anna. «Non me la ricordavo mica così piccina» ammise Francesca. «O siamo noi che siamo diventate il doppio…» Si scambiarono uno sguardo complice e duraturo, che stava a significare le tante cose perdute, che forse non erano perdute davvero. Poi corsero alle altalene. Presero ciascuna il posto di sempre sui sedili cigolanti. Francesca si dondolò appena, con la tempia appoggiata ora su una catena ora sull'altra. Anna, staccando forte le ginocchia, si diede una spinta netta verso il cielo ancora chiaro. Tutto era immobile in quel luogo, quasi sepolto in un acquario. Le due ragazze, di gioco in gioco, lo animavano come le bambine che erano state. Quando il padre di Francesca le faceva troppa paura, e il padre di Anna la sgridava in continuazione, avevano deciso di scappare di
casa. Allora si erano avventurate fino al quartiere di Diaccioni. Era la prima volta che si spingevano così lontano, e poi avevano scoperto quel giardino. Era sempre stato così: vuoto. Era sempre stato il piccolo paradiso in onore di Anna e Francesca. Ci erano tornate ogni pomeriggio dopo la scuola, per mesi. Ci andavano a giocare alla casa: facevano finta di cucinare, di lavare, di stendere panni come due sposi immaginari nella capanna di legno. Ma poi i babbuini se n'erano accorti, che non giocavano più in cortile, che chissà dove cazzo si andavano a cacciare, e facevano sempre le otto di sera: così mica andava bene, con tutti questi pedofili in giro. Si erano prese un fracco di botte. «Fa effetto» disse Anna. «Guarda la siepe, quanti rovi… Anche i luoghi diventano vecchi.» Francesca si lasciò cadere su una macchia d'erba, bucherellata qua e là dai soffioni. Ne strappò uno e soffiò via i semi nell'aria tiepida, «Non è che è invecchiato…» sorrise, «ma è più nascosto… e a me piace più così. Mi piace pensare che in tutti questi anni non c'è passato nessuno, che è rimasto solo nostro.» Anna andò a sdraiarsi accanto a lei. Puntò gli occhi dove li teneva lei: sulla scia bianca di un aereo che si dissolveva in mezzo al cielo, come la nuvolaglia tra i raggi obliqui e i semi fra le dita di Francesca. «Sono passati tanti anni.» Francesca si mise su un fianco e prese a solleticarle la guancia e il naso con la punta di uno stelo. «Il tempo è una cosa troppo strana.» «Dici?» Anna la guardò divertita. «Però mi stai facendo il solletico!» E sollevandosi per strapparle lo stelo, finì con il naso a un centimetro dal suo. «Io non voglio crescere, A'» disse Francesca. Per qualche istante rimasero così: con grandi occhi spalancati una sull'altra, con i capelli confusi tra loro, i fili d'erba e la lanugine dei fiori. Le narici piene dell'odore luna dell'altra. Sapore di albicocca e odore di castagna, inconfondibili. Come inconfondibili erano la forma delle orecchie, e l'arco delle sopracciglia e perfino la curvatura e il colore delle ciglia. Poi c'erano i buchini sulle guance in una, e la fossetta sul mento nell'altra. E l'incarnato della pelle, e i nasi piccini, le labbra a forma di cuore, le lentiggini! Francesca aveva giocato più volte a contare quei puntini sugli zigomi e sul naso di Anna. Lei sola poteva testimoniare ogni variazione di quel viso. E distinguerne i pigmenti che il tempo non aveva toccato. Lei lo aveva visto schiudersi, lo aveva accarezzato e aiutato a sbocciare. Lo aveva sentito palpitare, mettere insieme una dopo l'altra le parole, le frasi, i sogni. Lei era l'unica in tutto quel mondo che stava al di là della siepe a sapere quel che in Anna era rimasto identico. «A'» bisbigliò, «ho voglia che ci sfreghiamo i nasi come facevamo da bambine…» Anna, che era tutta in quel presente, e aveva dimenticato la festa e la notte che stava per sopraggiungere, sfregò il suo naso su quello di Francesca sorridendo del suo stesso sorriso.
Lo sentiva suo in ogni fibra, quel corpo, mentre lo sfiorava e si avvicinava ancora e ancora, fin quasi a tenerlo tutto presso di sé. Anche l'ombra viola di un ematoma sotto il seno, anche quella sentiva sua. E provava un amore esagerato, sì: proprio amore per quell'essere che la guardava in modo così complice, che sentiva infinitamente prossimo e confortevole e cedevole e tiepido e oscuro… Si macchiavano i vestiti di terra ed erba, non badavano a sporcarsi, l'odore di bucato lasciava il posto a quello della ruggine. «A'» sussurrò Francesca nell'umidore delle bocche vicine, «non so com'è, ma ho voglia di baciarti.» Anna si chinò sul viso dell'amica, appoggiò appena la bocca sulla bocca. Era bello sentire il fiato caldo di lei nel suo, era bello sentire il velo di saliva umida che le bagnava le labbra. Era bello. E niente e nessuno poteva farci qualcosa. Francesca chiuse gli occhi. «Non possiamo» disse Anna senza allontanarsi, «è una cosa che non va bene.» Francesca riaprì di colpo i suoi verdi occhi cupi. «Perché?» «Perché non siamo più bambine. Se ci baciamo, non è più come alle elementari, non ha lo stesso significato.» Esitò un istante. «Mi succedono delle cose… che con te non dovrebbero succedermi.» «Ma a me succedono solo con te!» Francesca sorrise, come non aveva mai sorriso. «A me non piace Nino, a me piaci tu!» Quel nome, Nino, precipitato di colpo dentro il loro piccolo paradiso, riscosse Anna che si ricordò di Mattia, della festa, degli altri, e si mise a sedere. Anche Francesca si mise a sedere. Poi, prendendole la mano con occhi pieni di paura, fece ad Anna quella domanda che non aveva osato farle nel pomeriggio. «A te piace quel ragazzo nuovo, vero? Il ragazzo che era a pranzo da te.» Anna fece un'espressione buffissima. «Ma se non lo conosco neppure!» Francesca si aggrappò tutta a quella bugia. Timidamente si avvicinò ancora alla sua amica del cuore. «Però io non ti piaccio, vero? Cioè, non ti piaccio in quel senso…» Sarà stato l'effetto di quel luogo, l'impressione di tutta quella luce dorata e morente sul viso bellissimo di Francesca, ma Anna si sentiva disarmata e si lasciò trasportare. Una gioia sottile filtrava attraverso l'aria, le nuvole, i giochi del piccolo parco dov'erano sepolte le bambine che erano state, e si iniettava in lei come una droga. «France, io forse ti amo. Ma non è una cosa possibile da vivere. È una cosa che va contro tutto il mio futuro. E anche se adesso che lo dico è vero, poi, appena usciamo di qui, io so che non può esserlo, e me ne pento subito, e mi vergogno da morire…» La luce non c'era più. Dalla strada venivano i primi rombi di motorini in corsa e i soliti schiamazzi, le solite parolacce dei ragazzi che si avviavano alla festa. Anna, che si era morsa
le labbra per quel che aveva detto, fu presa da una smania di andare e al contempo di non andare. Francesca avrebbe voluto raggiungere il porto, prendere un traghetto per l'Elba e non tornare mai più. Si abbracciarono. Nascondendosi i musi fra i capelli l'una dell'altra, stringendosi forte una all'altra. Perché quello era un addio. Quando si sciolsero, il buio era calato nella piccola conca del giardinetto e rosicchiava i bordi delle altalene, dello scivolo, dei due alberi. Non c'erano lampioni laggiù, non si vedeva quasi più niente. Si alzarono in piedi, uscirono da quel luogo con il rimpianto di qualcosa impossibile a definirsi, con gli steli e i fili d'erba fra i capelli. Non dissero più niente. Al pattinodromo i cancelli erano presi d'assalto. File di motorini in disordine si ammassavano una contro l'altra, e le auto che continuavano ad arrivare facevano fatica a trovare un buco. Tutta quella gente tutta insieme aveva qualcosa di ostile. C'era anche un'autoambulanza, con due tizi della pubblica assistenza appoggiati sul cofano a sbuffare. C'era un tipo contro un tronco che pisciava. Eccola, la svolta. Il momento fantasticato da anni, descritto per ore in mille particolari inventati. Mentre sdraiate sullo scafo di una barca si divertivano a immaginare il futuro – insieme. «Quando saremo grandi» bisbigliavano, «verremo a vivere qui.» E si stringevano raggomitolate nel buio, nella piccola capanna di legno. Era tutto lì. Procedettero a piccoli passi, sballottate da braccia e gambe sconosciute, contro schiene e nuche sconosciute. Furono costrette a fermarsi, a un certo punto, per lasciare che il gorgo fluisse. C'erano camicie sbottonate, magliette inzuppate di sudore. C'erano parole che non avevano mai sentito dire. La luce bianca dei riflettori pioveva su tutte quelle teste, come un diserbante. E la musica pulsava dal terreno, si mescolava alle chiacchiere vicine, produceva su Anna e Francesca un gran stordimento. Erano gli ultimi minuti, ormai. Poi ciascuna sarebbe andata incontro al suo futuro, ciascuna per conto suo. E già cominciavano ad avvertire quella sensazione strana che è scoprirsi, improvvisamente, soli. Quando varcarono la soglia, qualcuno trattenne il fiato. Mattia, per esempio, non visto, si incantò per un attimo e perse il filo del discorso. Un occhio esperto avrebbe subito intuito che quel genere di bellezza dura giusto un attimo nell'arco di una vita. Ma in quella folla non c'erano occhi esperti. C'erano tutti. Massi insieme a Nino. In disparte, su una panchina, Sonia, Maria e Jessica. C'erano quelle sfigate di Lisa e le sue amiche sedute sugli spalti. Donata no. C'era Emma con il marito, e il corpo sfigurato dal pancione a sedici anni. C'erano, al bar, in fondo, Alessio, Cristiano e Mattia. C'era una marea di gente sconosciuta che si addensava e si confondeva fino a
diventare materia indistinta. Anna e Francesca ci piombarono dentro, in quel magma. Si precipitarono al baracchino che affittava i pattini e sbuffarono perché c'era una fila lunga così. Volevano crederci, che quello era il massimo. Si convincevano, ognuna nella sua testolina, che quella era la vita perfetta. Nella realtà, era un pattinodromo sverniciato da decenni allestito con i soldi della Pro Loco. Gli amplificatori per la musica erano gli stessi, usati e riusati, della Festa dell'Unità. Il baretto scalcagnato, che vendeva birre e aranciate a duemila lire, i superalcolici a tremila, era giusto una baracca prefabbricata. E i festoni, appesi alle ringhiere, avevano tutto il sapore di una vecchia festa di classe. Alessio era appoggiato col gomito al bancone. Ogni tanto dava un sorso alla birra che da freddina era diventata tiepida. Questo fu il suo unico movimento per una buona mezz'ora. La gente continuava ad affluire, si riversava a pattinare in pista o si coagulava intorno. Anche gli spalti erano presi d'assalto, anche il gazebo dov'era stata allestita una specie di discoteca. Al bar invece non c'era quasi nessuno. Le poche decine di tavoli erano semivuote. Solo qualche adulto sedeva svogliato, giocava a carte, e qualche altro disgraziato, anziché partecipare, osservava. C'era persino un vecchietto senza denti, e la vista di quell'elemento esasperava Cristiano. «Sono le dieci» sbuffò, «possiamo andarcene adesso?» Ne aveva piene le palle di star fermo lì ad aspettare. E poi si era calato due pasticche di anfetamina. Alessio faceva finta di non sentirlo: aveva un suo scopo preciso, che non aveva rivelato a nessuno. Stava lì, impalato, ritto come un fuso in attesa. Cristiano lo fissava torvo, si sentiva derubare del suo Ferragosto. Dimmi te se nell'unica settimana di ferie mi tocca star qui a guardare i dodicenni che pattinano. E domani mi spacco la schiena di nuovo, su quell'escavatore di merda. «Te lo ridico: possiamo muovere il culo?» Alessio fece ancora una volta finta di niente. Più che uno scopo, il suo era un presentimento. Non perdeva di vista un secondo Maria, Jessica e Sonia sedute su una panchina sotto un albero. E di alberi non ce n'erano altri. E Cristiano vuotava un whisky dietro l'altro. E Mattia cominciava a capire che la situazione poteva anche diventare pesante. In quello stesso momento, sull'ultimo gradino degli spalti, qualcun altro guardava e si rodeva il fegato in silenzio. In realtà c'era un sacco di gente che era uscita pensando di trovare l'America in un pattinodromo, e che poi si era trovata più sola che a casa. Contano le ragazze e i ragazzi che roteano, si lanciano in salti e piroette prodigiose, gareggiano fra loro e filano come razzi a velocità folle. Ragazze magre e slanciate, che poco importa cosa combineranno nella vita, perché nell'istante giusto dell'adolescenza sono lì: al centro della pista, nel pieno della festa, sotto i riflettori. È un istante impagabile di gloria. C'erano ragazzi con i capelli sparati dal gel, gli addominali in rilievo sotto le camicie svolazzanti e collane di conchiglia intorno al collo. Ragazzi che chiunque avrebbe voluto
baciare, che non si sarebbero mai trovati soli come adesso si trovava Lisa, sull'ultimo gradino degli spalti, in disparte, a osservare il divertimento degli altri. Stava seduta a gambe incrociate nell'ombra più totale, era in compagnia di due messe peggio di lei. E la sensazione di perdersi qualcosa di colossale, di sprofondare. Anche per Lisa era la prima sera a una festa. Anche lei aveva trascorso un intero pomeriggio davanti allo specchio, ma ne aveva guadagnato solo in complessi. Alla fine si era infilata il solito paio di jeans lunghi e larghi, la solita t-shirt sformata. E adesso il timido velo di matita con cui si era bistrata gli occhi, sciogliendosi, peggiorava soltanto le cose. Gettò un'occhiata di traverso alle sue compagne: le sembrava di stare ai confini non solo del pattinodromo, ma dell'intero regno vivente. Io non sono una sfigata, si disse. Anche se tutti glielo ripetevano, anche se all'ingresso uno stronzo le aveva dato della racchia e lei si era sentita morire. Anche se, ecco, non era proprio bellissima, però era viva: e aveva voglia di pattinare, e di ballare, e di baciare qualcuno. Anche se era vestita come un fungo, lei però, dentro, era come Anna. Anna che in quel momento, a una decina di metri di distanza, si avvicinava alla pista fasciata nel suo centimetro quadrato di canottiera, nel suo mezzo centimetro di gonnellina rosa. A un tratto le venne in mente sua sorella: Donata di sicuro non avrebbe fatto tutte quelle scene. Donata, se lei avesse trovato il coraggio di portarcela, si sarebbe divertita un mondo. Avrebbe cantato, mosso le braccia e la testa per quanto poteva, ballato anche sulla sedia a rotelle. E lei non ce l'aveva portata, si era vergognata ancora una volta di avere una sorella malata. Come se quella malattia fosse sua. Come se adesso poi, senza Donata, il mondo fosse meno difficile. Lisa fissava la gonna di Anna, le lunghe gambe di Anna. E Donata era a casa, parcheggiata davanti al televisore. E lei, che era nel bel mezzo di una festa, anziché pattinare o fare qualcosa di sano, se ne stava lì a marcire, a fissare il corpo slanciato di Francesca che raggiungeva il corpo radioso di Anna sul bordo della pista. E nessuno di quei due corpi era il suo. Anche se il mondo intero era ingiusto, Lisa per la prima volta capiva che questa non poteva essere una giustificazione. In preda a un accesso di ribellione scattò in piedi. Era dalle nove che faceva la muffa su quel gradino e adesso erano le dieci e mezza: poteva bastare. Adesso insorgeva. Contro il mondo bastardo, contro il figlio di puttana che l'aveva scazzata all'ingresso, contro se stessa un po' gobba e meschina, ma in fondo… mica era solo questo! Racimolando tutto il suo coraggio, sbocciando in un sorriso trionfale, guardò dall'alto le sue compagne rachitiche e rannicchiate: «Sapete che c'è? Io vado a pattinare». Per la prima volta in vita sua si mise a correre a più non posso, proprio a correre. Verso il centro della luce e del clamore, verso il centro – si illudeva – della vita. Sciolse l'elastico che le teneva raccolti i capelli, si allacciò in fretta i pattini per non perdere neppure un grammo di quel suo improvviso, sorprendente coraggio. Si avviò verso l'ingresso della pista dove stavano, inarrivabili ma un poco più vicine, Anna
e Francesca. Mattia, anche lui non vedeva l'ora di raggiungere la pista, e invece era costretto a star lì fermo in quel bar sfigato, a inventarsi le peggio battute e a sparare le peggio stronzate per distrarre Alessio da quella cazzo di sua fissazione, e soprattutto per tenere buono Cristiano. Salvare la situazione, sì, una parola! Il viso di Alessio era scuro, di più: era un muro. E quello di Cristiano era paonazzo. Alla noia di adesso si aggiungeva il rancore per la notte scorsa. E Mattia alla fine non aveva nessuna colpa. Stavano come tre cowboy in un saloon. Intanto, forse attratte da quel loro atteggiamento muto e incazzato, ragazze e ragazzine cominciavano ad aggirarsi da quelle parti e a passar loro ripetutamente davanti. Lanciando la solita serie di mugolii e risolini, indugiavano nei paraggi speranzose, quasi scodinzolanti. I tre, naturalmente, non le vedevano neppure. E ciascuno con il suo nervoso diventava sempre più nervoso. «Pieno di figa, sì… da lontano!» Cristiano ricominciava. «Da vicino gli metteresti a tutte un sacchetto in testa. Questa festa è uno schifo.» Mattia posò il secondo bicchiere sul bancone, lanciò un'occhiata disperata ad Alessio: quello stava sempre lì, impalato, a fissare Sonia, Maria e Jessica e chissà cosa gli frullava nel cervello. «Ale…» fece per intervenire in tono diplomatico, «ascolta, forse è il caso…» Ma Cristiano con meno diplomazia gli rubò la parola. «Dobbiamo restare qui ancora per molto? Diccelo, tanto noi siamo ai tuoi ordini… Tanto noi siamo con la tua macchina!» Alessio fissò per l'ultima volta la panchina in cui non succedeva assolutamente niente. Maria e Jessica continuavano a parlottare fitte tra loro e ormai Sonia aveva smesso di lanciargli occhiate preoccupate, che gli erano sembrate un segnale e una prova. Semplicemente, si era illuso. Distolse lo sguardo e andò a posarlo sulla faccia congestionata di Cristiano. Una colossale faccia da culo in questo momento. Insieme alle speranze, perse definitivamente anche la pazienza. «Perché non te ne vai affanculo?» L'altro, scrocchiandosi le dita, gli lanciò un sorrisino di sfida. Ma non era la sfida, era l'anfetamina. C'è sempre un'aspettativa tale nelle teste di ognuno a un certo genere di feste. Era logico che la situazione precipitasse. Cristiano al pattinodromo non ci voleva neanche andare, come al solito lui voleva andare al Gilda, E Alessio si era fissato da più di un'ora con quella cazzo di panchina. Era logico. Però Mattia non sapeva più cosa inventarsi, li guardava imbufalirsi, alzare la voce, attaccare con gli insulti, e pensava: che si menino pure. A me che me ne importa? I miserabili seduti ai tavoli avevano tutti alzato le teste e girato gli occhi da quella parte.
Compiaciuti, fumavano e si godevano lo spettacolo. Mattia scosse il capo avvilito: non cambia mai un cazzo in questo posto, non cambia la gente, non cambia la fabbrica che frantuma le palle alla gente, non cambiano questi due stronzi esauriti. Era tutto come l'aveva lasciato prima di fuggire. Tutto schifosamente uguale, pensò a un tratto, eccetto Anna. «Ti avviso, mi stai facendo incazzare.» Cristiano scoppiò a ridere, proprio sul muso di Alessio. «E allora scazzati, tanto quella non viene.» Quella chi? Mattia non capiva. Alessio non ci vide più. «Vattene» sibilò a denti stretti. Il volto trasfigurato. «E dove devo andare? La macchina ce l'hai tu!» «Vattene!» ruggì. Cristiano stava lì, non accennava a sloggiare, con la sua bella faccia da impasticcato. Il vecchietto senza denti, particolarmente divertito, dai tavoli gridò: «Su, picchialo!». Ma c'era poco da scherzare. C'era poco da star allegri in quella scena, pensò Mattia, da ultima periferia dello spirito. La bandiera italiana sbrindellata, che tutto sommato resisteva all'ingresso del pattinodromo, gli parve l'emblema azzeccato. «Quella mica viene!» sbraitava adesso Cristiano. «Io non mi posso rovinare il Ferragosto perché quella puttana non viene! Starà venendo con qualcun altro, fattene una ragione.» Prima ancora che avesse finito la frase, Alessio afferrò Cristiano per il collo. Gli rispose con una, due, tre testate. Probabilmente lo avrebbe ucciso, se Mattia non si fosse ficcato in mezzo con tutti i suoi novanta chili per un metro e ottantasette di altezza. Probabilmente qualcuno avrebbe chiamato i carabinieri se quei due, fuori dalla grazia di Dio, a un certo punto non si fossero staccati. E Cristiano, con un bernoccolo gigantesco sulla fronte, non avesse fatto per andarsene. «Bravo! Nessuno ti trattiene» gli gridò Alessio come un pazzo. «Magari, anziché andare a puttane… Anziché mettere incinta un'altra quindicenne, stasera fai un'azione da uomo, fai una cosa decente in tutta la tua merdosissima vita» come un pazzo, «Cri, anziché andare al Gilda, vai a vedere che razza di faccia ha tuo figlio!» Figlio. Mattia si sentì gelare il sangue. Cristiano, che aveva compiuto qualche passo, si voltò incredulo. Passò un momento di stupore generale in cui nessuno sapeva più cosa dire. I curiosi, sorpresi anche loro da un esito così pesante, abbassarono lo sguardo e tornarono in fretta ai mazzi di carte. Alessio, di fronte alla faccia cadaverica del suo amico che lo fissava con due tizzoni al posto degli occhi, si era già pentito di quel che mai, in un momento di lucidità, si sarebbe sognato di dire.
Cristiano invece non disse niente. Contrasse le labbra in una smorfia di disgusto e poi, continuando a conficcare le pupille bene in fondo a quelle di Alessio, concentrò tutta la saliva che aveva a disposizione e la sputò a terra. Allora scomparve sul serio. Va detto subito che se Alessio non avesse attaccato briga con Cristiano, si sarebbe accorto già da un pezzo che una figura sottile dai lunghi capelli castani si era aggiunta alle tre ragazze sulla panchina, quella sotto l'albero. Va detto anche, a onor di cronaca, che la quindicenne che Cristiano aveva messo incinta si chiama Jennifer, e quella sera non era alla festa come tutte le ragazze della sua età, bensì a casa a svezzare il piccolo James, che non voleva proprio saperne del biberon al posto della tetta. In effetti Sonia, Maria e Jessica aspettavano proprio la persona che credeva Alessio. Sotto l'albero; era il luogo stabilito via sms. Stavano per rinunciare anche loro, quando Maria si sentì bussare dietro la schiena. Era venuta davvero. Nonostante il posto e la folla provinciale che ci sudava dentro, alla fine era venuta sul serio. Adesso le guardava sorridendo, educata e scostante. Lei, infatti, non aveva niente a che fare con loro. Non le aveva mai indossate quelle minigonne di jeans che arrivano all'inguine, e le cinture con le borchie, e soprattutto le patacche di bigiotteria scadente in generose quantità intorno al collo. Lei, quando si sedeva, non divaricava le gambe. Le parolacce evitava di urlarle. E già soltanto la stoffa del suo tubino lilla scavava un fossato invalicabile tra il suo mondo e il loro. Sonia, Maria e Jessica rimasero un attimo sospese a guardarla, con un misto di attrazione e diffidenza. Lei, prima ancora di entrare alle scuole elementari, conosceva l'alfabeto e sapeva contare fino a cento. I suoi genitori le avevano insegnato a leggere, le avevano spiegato che cos'è un libro e quanti mestieri ci sono al mondo – cose che in via Stalingrado non tutti hanno occasione di sapere. Lei non aveva mai scorrazzato a cinque anni in mezzo alle strade dei quartieri operai, non si era nascosta negli scantinati per provare a fumare, e non si era lasciata toccare tra i piloni di cemento armato: nessuno le aveva sollevato la gonna a undici anni. Pure era lì, l'ovale del suo viso sorrideva disarmante. E loro, tutto sommato, ne erano soddisfatte. Si scusò di non avere molto tempo: fuori la stavano aspettando, Ma non poteva partire senza salutarle. Voleva bene davvero a quelle tre ragazze, che però a lei potevano voler bene solo fino a un certo punto. La prima volta che lui l'aveva portata a casa, se la ricordavano ancora tutti. Faceva parte della leggenda. Come lei camminava attenta a non incastrare i tacchi nelle fessure dei tombini, schizzinosa fra i palazzoni di cemento. L'avevano presa brutalmente per il culo. Quando si era presentata, aveva teso la mano cordialmente e aveva detto: «Buonasera, piacere di conoscervi». Buonasera? Piacere? Manco il postino, manco il dottore faceva tutte 'ste manfrine.
Adesso, in confidenza da anni, le quattro ragazze nascoste dietro il tronco dell'albero parlavano di vacanze, di lavoro, dell'impiego che avrebbe cercato lei appena laureata, forse a Pisa, forse a Piombino, a partire da settembre; dei lavoretti sottopagati delle altre, la licenza media è già tanto, che si sbattevano tra la cassa della Coop e quella di Intimissimi, ferie escluse. Maria alla fine si sentì in dovere di bisbigliarle all'orecchio che lui c'era. Glielo indicò in cima alla collinetta artificiale. Lei guardò con un misto di stupore e allarme in quella direzione. Distinse subito la figura bionda in lontananza e rimase come sospesa, senza emettere suono per qualche istante. «Come sta?» chiese infine, distogliendo lo sguardo. «Come vuoi che stia…» rispose l'altra sarcastica. «E Anna?» «Lei bene! Ha già le sue tresche…» «Assì?» Tentò di sorridere, ma le venne fuori una smorfia stonata. «Si è iscritta al liceo, come te.» Ci aveva sempre tenuto a quella ragazzina, che non si perdesse per strada, che non finisse come le altre dietro il bancone di un pub a farsi palpare il sedere. «Dev'essere qui, da qualche parte.» Jessica si guardò intorno. «A proposito, dovremmo andare a darle un'occhiata, sennò suo fratello ci spara.» «Vieni con noi, così la saluti…» Lei si scansò: «No, davvero, non posso. Salutatemela voi». «Neanche lui saluti?» azzardò Sonia. Lei abbozzò un sorriso amaro. Non disse niente. Le abbracciò una dopo l'altra. «Ci vediamo a settembre, quando torno da Parigi.» «Sì, e tu mandaci una cartolina!» Finalmente, nell'attimo in cui se ne stava andando, nell'istante preciso in cui si voltava verso il cancello, per puro caso e senza la minima speranza Alessio tornò a guardare da quella parte. Sbiancò. Aguzzò le pupille. Vacillò. Mattia, pensando che si sentisse male, prese addirittura a scuoterlo. Quello non rispondeva, sembrava gli avessero sparato. Ma si riprese subito. Tranne naturalmente la diretta interessata, lo videro tutti: precipitarsi giù dalla collinetta come punto da una vespa, correre come un forsennato, come un pazzo, Sonia si sentì morire. Maria sorrise: altro che film… Mattia, rimasto solo, tirò un calcio a una pietra e pensò che dovevano andarsene tutti affanculo.
Alessio dava gomitate a destra e a sinistra, senza chiedere scusa a nessuno. Aveva il terrore di perderla di vista. Guadagnava a fatica altro spazio in avanti, e per forza di cose doveva prendere a spintoni la gente. Voleva gridare il suo nome. Ma non riusciva a farlo. Voleva pensarla. Ma non riusciva a fare neanche questo. Avanzava con la carica di una bestia dentro una foresta. Voleva vederla, adesso. Vederla in faccia, viva, intera, di fronte a lui dopo tre anni. Aveva un tale casino nel petto che a un certo punto disse a voce alta: «Mi viene un infarto». Ma andava avanti, passo dopo passo, gomitata dopo gomitata, e insulto dopo insulto. Lei era là, al cancello. Non l'avrebbe persa. Aveva caldo, anzi: grondava sudore e cominciava a sentire una sete pazzesca. Ma raggiunse il cancello, e raggiunse anche il parcheggio. Qui era fresco, i suoni arrivavano a stento e un grande silenzio notturno premeva dai tronchi fitti della pineta. Si sentivano le cicale e le pigne cadere. Lei camminava avanti a lui di qualche passo, ed era veramente lei. Quella era la sua camminata. Quelli erano i suoi polpacci. La sua vita sottile, la sua schiena, le sue spalle. Il sedere no, non poteva guardarglielo. Un'auto con il motore e i fari accesi di sicuro stava aspettando lei. Perché lei si dirigeva in quella direzione, e quando si fu avvicinata abbastanza, la portiera destra si aprì. Tese il braccio per afferrare la maniglia, stava per salire. «Elena!» Un boato: il nome esplose nel buio come un petardo. E lei si fermò. La "a" stentò a dissolversi per qualche attimo. Ritrasse il braccio, restò immobile. «Elena…» ripeté Alessio a filo di voce. E come trattenuta, lentamente si voltava. Si voltò: profilo noto e illeso dal tempo. Tiepidissimo profilo castano dai lunghi capelli, più lunghi di come Alessio li ricordava. Appena ondulati, tenuti da un fermaglio. Sembrava più vecchia, forse. Sembrava la creatura più alta del regno vivente. Alessio era senza forze. Non si sentiva più il corpo, solo il tumulto feroce degli organi. Stava lì come uno scemo, pietrificato nel bel mezzo di un parcheggio vuoto, e le ginocchia non vedevano l'ora di cedere. Le parole gli si erano tutte volatilizzate dalla testa. Si sentiva nel cranio il muscolo del cuore che pompava e rimbombava, e la gola più secca di un deserto. Cosa poteva dire… Era tutto un cuore e un polmone che stavano andando a puttane. Era un istante impossibile da vivere e da sostenere. Anche per lei. Che non sentiva le voci dalla macchina, e non accennava a un passo né indietro né in avanti. Restava ferma, come lui, e sentiva le sue ginocchia sbriciolarsi. Pensò a tredicimila cose contemporaneamente. Che era magnifico. Che erano passati tre anni. Che aveva scelto. Che aveva preso una decisione del cazzo. Che era giusto. Che era ingiusto. E non riusciva a muovere neppure la punta di un polpastrello. Si guardarono per una frazione di tempo assolutamente insignificante e prossima allo zero. Poi Alessio sorrise. E quel sorriso era talmente bello, felice, incredulo, infantile, che Elena
sorrise a sua volta. E le sembrò che tutti quegli anni non avessero significato niente. Si udì un colpo di clacson, il proverbiale stramaledetto colpo di clacson. Elena si riscosse. Il tempo esisteva. E lei domani doveva partire, e adesso doveva andare. Non voleva farlo, le costò uno sforzo enorme: fare finta di niente. Eppure sollevò la mano in un cenno misero di saluto. Entrò nell'auto che subito, neanche fosse un jet, partì. Una nebbia di terra si sollevò nell'aria, e una fitta nuvolaglia andò a sfilacciare la luna. Poi tutto tornò come prima. La pineta riprese a stormire. Il vento ripulì l'aria e i rami. Alessio, dopo aver fatto qualche passo cieco, si lasciò cadere su un tronco rovesciato e si prese la testa fra le mani. Non era il solo. Poco distante, nascosto tra gli alberi, Cristiano si teneva la testa allo stesso modo. Pensava a James, suo figlio, e fissava con ostinazione un sasso. Piombino si riversava febbrilmente al pattinodromo. Le casse sparavano Rhythm is a dancer. Francesca e Anna l'avevano ballata mille volte in bagno chiuse a chiave, insieme davanti allo specchio. You can feel the, you can feel the… Adesso c'erano tribune zeppe di gente al posto della finestra di fronte. Le ruote dei pattini a centinaia, a migliaia, graffiavano il lastricato. E sotto il getto del riflettore principale, ogni adolescente risaltava, risplendeva, inzuppato di luce bianca. Francesca rovesciava indietro il mare dei capelli e non poteva sapere a chi assomigliava mentre si attorcigliava sinuosa intorno all'asta della sbiadita bandiera italiana. Lift your hands and voices, free your mind and join us… You can feel it in the air Gridarono insieme: Ooh, it's a passion. Per un istante, si illusero che la loro amicizia fosse salva.
17
C'era un tale al bar, che non si capiva se fosse un prete o un volontario della misericordia. Probabilmente era solo un insegnante di religione delle scuole medie. Ebbene, questo tale scuoteva la testa e diceva: «Cosa diamo a questi ragazzi? Cosa gli insegniamo?». E intanto guardava il bacino del pattinodromo, tutti quei corpi mossi di qua e di là come su un Tagadà. «Non hanno niente! Non pensano più a niente!» Mattia, rimasto solo come uno scemo, gli toccava anche starlo a sentire. «Si drogano e basta. Era quasi meglio quando c'era il Partito Comunista.» «Boia!» sbottò qualcuno. Mattia, disgustato, ordinò un'altra sambuca. Andassero affanculo insieme ad Alessio e Cristiano, che è da un quarto d'ora che li aspetto. Poi si disse che francamente non aveva voglia di andarli a cercare, tanto meno di sorbirsi le menate dei vecchi. S'arrangiassero tutti: lui per questa sera aveva dato. Così, fischiettando, discese dalla collinetta artificiale. E adocchiando qualche bella ragazza, gli tornò velocemente il buonumore. Non era tipo da covare rancori o da star lì cupo a rimuginare. Era uno che se ne frega altamente di Dio e dello Stato. Neppure una volta era andato alle urne a votare, e quando a cena gli capitava il telegiornale, con i morti, le guerre, le stragi, lui cambiava subito canale. Mattia era fatto così, e non era per niente cattivo. Certo, se gli altri avessero saputo il motivo della sua fuga tre anni prima, lì per lì avrebbero accusato il colpo. Ma non è una rapina a mano armata alle Poste, due o tre autovelox centrati da una pallottola, che possono fare di un uomo tout court un criminale. Adesso trotterellava qua e là intorno alla pista in cerca di ispirazione. A pattinare non ci pensava proprio, a ballare meno ancora. A lui piaceva osservare le cose. Il diavolo sta nei dettagli, aveva sentito dire, e quella frase gli era proprio piaciuta. Si appoggiò alla ringhiera, nel punto meno affollato, e prese a seguire con lo sguardo i circuiti dei pattinatori. Fece giusto in tempo ad accendersi una sigaretta e a darsi una ravviata ai capelli, che già, nel casino totale, l'aveva individuata. Gli passò davanti volando. Una, due, tre volte. E ogni volta, in quel passaggio arioso, la minuscola gonnellina rosa si alzava scoprendo un tratto nudo, vellutato, di coscia; un tratto chiaro, soffice, di inguine. E un sederino delizioso scattava in qua e in là, mentre le gambe davano spinte energiche in avanti. Ogni volta, in questa sequenza, lei passava. Passavano le parti luminose di lei. Gamba destra, gamba sinistra, braccio, massa di capelli in corsa, spicchio di naso. Sorriso. Lui contava fino a dieci, e lei aveva già bruciato mezza pista. Anna non si accorse che Mattia c'era e la stava guardando. Se n'era quasi dimenticata,
troppo impegnata a battere in velocità tutti quanti. Appena uno azzardava una giravolta, lei lo imitava con più grazia. Appena un altro si cimentava in un salto, lei lo ripeteva più alto. E in quella sua smania agonistica del tutto fuori luogo, non dava corda neppure ai corteggiatori che tentavano di prenderle la mano o, meno cavallerescamente, di toccarle il culo. Mattia confrontava quella specie di amazzone con la ragazzina vergognosa che quella mattina aveva sorpreso in pigiama. Erano le somiglianze a incantarlo, a inchiodarlo alla ringhiera rugginosa davanti a cui lei ogni minuto sfilava. Ogni volta che quella gonnellina si alzava, lui si sentiva di colpo, in tutto il corpo, tredici anni. Fulminato da una fresca di licenza media: se qualcuno glielo avesse detto prima, non ci avrebbe mai e poi mai creduto. In Ossezia aveva addirittura convissuto con una donna più grande. Lui aveva realmente dormito in fondo a una stiva, duellato nel giardino di una villa non sua con un mastino napoletano, ed era abilmente sfuggito a quattro carabinieri nel bel mezzo di una retata. Quei ricordi gli attraversavano la mente a intermittenza come spezzoni di un film di Tarantino, mentre l'immagine viva di lei, la sua microgonna di stoffa leggera, vinceva e stravinceva su tutto. Come se la sua vita fosse adesso. E prima: tabula rasa. Mattia consumò la sigaretta in tre boccate. Ce l'aveva in testa da dodici ore. E adesso non si teneva. Gli facevano quasi male gli occhi a forza di fissarla, studiarla, anticiparla… Cos'aveva di tanto straordinario? A chi assomigliava? A sua madre no di sicuro, alla sua ex slovena neppure. Cosa gliene fregava di chi assomigliava a chi? Bando alle spiegazioni. Gli faceva un effetto fisico istantaneo, un effetto che gli tendeva visibilmente i pantaloni. Che fare? Domandone. Non sapeva se chiamarla, raggiungerla, o telare in fretta e chiudere con quella storia assurda. Se invitarla a bere qualcosa, se portarla a fare un giro in pineta… Seee, in pineta! Figuriamoci se quella viene in pineta. Poi c'era un problema. Un grosso problema: Alessio. Lo avrebbe fracassato di legnate. Di più: lo avrebbe affogato in una siviera. Vabbe', non esageriamo. In ogni caso si sarebbe incazzato. E un pugno glielo avrebbe mollato. E poi gli avrebbe intimato di girare alla larga da sua sorella. Era un casino. Sì, se lui adesso la chiamava, se andava a ficcarsi da qualche parte da solo con lei, era un gran casino. Ma intanto Alessio chissà dov'era, e lei invece si stava stancando di pattinare e cominciava gradualmente a rallentare… Gli piaceva troppo. Gli faceva un effetto, cazzo, inspiegabile. E poi si disse che non aveva cattive intenzioni. Si convinse che voleva solo conoscerla un poco, parlarci, scoprire cosa c'era in quella testolina, e magari tenerla un minuto fra le braccia. Non voleva davvero niente di più da quella piccola, esageratamente figa e insolente… «Riccia!» gridò. Anna rallentando si voltò da quella parte e prese a guardare nella folla. Cazzo: era stupenda.
Quel musino che cercava curioso chi l'aveva chiamato… era fantastico! Sì, avrebbe retto la scazzottata, gli avrebbe spiegato, e poi avrebbe incassato il resto dei cazzotti. Avrebbe ricominciato a spiegare… Anna lo vide. Lo riconobbe. E frenò bruscamente. Mattia. Mat-ti-a. Affacciato alla ringhiera, bello come Brad Pitt in Thelma e Louise, bello come Scamarcio sulla copertina di "Cioè". Passò un secondo di spaesamento, di gioia folle allo stato brado. Poi Anna si riebbe. Tentò di raggiungerlo, ma non era affatto facile: decine e decine di pattinatori venivano giù come saette, e Anna doveva stare ben attenta a schivarli se non voleva essere travolta e sbucciarsi le ginocchia proprio davanti a… Mattia! Per circa tre o quattro minuti rimasero così: uno di qua e l'altra di là, a scambiarsi facce buffe, a ridere per l'imbarazzo, la situazione assurda, la voglia che avevano di raggiungersi… E ancora niente, ancora bolidi umani all'orizzonte. Anna era così carina mentre azzardava un passo e poi si ritraeva gonfiando le guance, sbuffando fuori tutta l'aria. E lui, con il mozzicone acceso tra le labbra, si chiedeva il perché di tutto questo. Quando lo raggiunse, si appoggiò anche lei alla ringhiera. «Ce l'abbiamo fatta» disse con il fiatone. «Certo che sei inserita quando pattini!» rise lui. Anna non sapeva cosa dire. Ti rendi conto di quello che ti sta capitando? C'è gente che una cosa del genere non gli è mai successa in tutta la vita. Anna non sapeva cosa dire, perché lo avrebbe voluto baciare all'istante e al contempo niente la terrorizzava come l'eventualità di quel bacio. «Ho una sete pazzesca.» «Vuoi che ti accompagno al bar?» Aveva quel sorrisetto da schiaffi in faccia, come i criminali nei film gangster. I criminali buoni, s'intende. Anna scavalcò la ringhiera, quasi fosse la cosa più ovvia del mondo, e Mattia non poté fare a meno di sbirciarle le mutande. «No, non mi piace il bar» disse sedendosi su un gradino, indaffarata a sfilarsi i pattini dai piedi, «non ho più voglia di stare qui.» «E dove vuoi andare?» chiese lui sorpreso. Anna stava tutta contorta per terra, i pattini non ne volevano sapere di uscire, e intanto quella sua gonnellina micidiale si sollevava per l'ennesima volta, per la milionesima volta. Mattia si domandava cosa avesse potuto fare e sapere, a quell'età, una ragazza italiana dei quartieri. Perché le slovene e le russe, si sa, sono sveglie… «Allora? Dove vuoi andare?» «Fuori!» esclamò Anna alzandosi in piedi.
Adesso, scalza, gli arrivava a mala pena alle spalle. «E tu ti fidi così del primo che passa?» «Ma tu non sei il primo che passa…» Anna fece un risolino dei suoi. Mattia scosse la testa divertito: non si aspettava tanta intraprendenza. Ma lo sapeva anche lui che non era intraprendenza quella, era poco più che una bambina. «Tanto se fai lo stronzo… lo dico a mio fratello!» Era evidente che scherzava, eppure lui fece un sorriso tirato, proprio tirato. «Ma secondo te? Vado a dirgli qualcosa?» scoppiò a ridere Anna. Si senti sollevato. E rigirato, accalappiato, contagiato dall'entusiasmo di quella ragazzina, che per essere una ragazzina, di fatto, aveva due tette enormi. Così, mandando ogni scrupolo a farsi fottere, preso da un'improvvisa voglia adolescenziale di giocare, le porse il braccio e disse: «Andiamo, principessa… La porto dove vuole!». Anna scoppiò a ridere di nuovo, fece così con le mani per scansarlo. Ma lui già la prendeva sottobraccio. Di colpo era tornato indietro di dieci anni. «Aspetta, sono senza scarpe!» Mattia si fermò, notò i piedi nudi di Anna sulla terra, e in sovrabbondanza di energie e fantasie, prima ancora che lei potesse dire ba, la prese fra le braccia e la sollevò: «Non sia mai che un sasso attenti ai suoi piedini, madame…». Fu così che Anna si ritrovò fra le braccia di Mattia come una sposa, aggrappata alle sue spalle e intontita, portata in trionfo in mezzo alla folla esagitata, fino al baracchino dei pattini, fino all'armadietto dov'erano riposti i suoi sandali. Durante il tragitto, Anna non riuscì a pensare a niente. Si lasciò cullare dal movimento di quel corpo sulla ghiaia, dal calore che emanava, dall'odore bruno di nicotina e alcol e di qualcos'altro, quasi… di alghe. Ne avvertiva con un misto di incanto e spavento i muscoli in tensione, le arterie al lavoro e il sangue in circolo. Ne sorprendeva con un misto di stupore e repulsione i ciuffi di peli bruni sul petto. E sprofondava tutta in quel contatto. Poi Mattia di colpo disse: «Cosa hai fatto?». Con voce stupita: «Hai dei fili d'erba fra i capelli!». Il diavolo è nei dettagli. Francesca li aveva visti. Aveva visto tutto. Anna rallentare coi pattini, andare incontro a quel ragazzo, il ragazzo. Allora aveva frenato immediatamente, e per qualche minuto si era dovuta sostenere alla ringhiera per regolarizzare il respiro. Si era avvicinata senza farsi notare, si era confusa nella folla. Era arrivata a due passi da
loro. E aveva visto: Anna scavalcare la ringhiera, sfilarsi i pattini dai piedi, entrare nelle braccia di quell'uomo. Non si era sentita più le gambe, né le braccia, né il cuore. Solo lo stomaco aveva cominciato a contorcersi, come se fosse aspirato e poi pompato e poi di nuovo azzerato in un volo vertiginoso. Li aveva seguiti. Li aveva spiati di nascosto fino al baracchino, reggendosi miracolosamente in piedi sulle rotelle che slittavano nella ghiaia, tenendosi a mala pena in vita sotto il martellare furioso di quel cuore che lavorava a un ritmo da non potersi sostenere. Infatti non si poteva sostenere: la vista di quei due che scherzavano nel baracchino, di lui che le infilava i sandali ai piedi, che fingeva di infilarglieli, perché poi le faceva il solletico e Anna rideva in un modo… che le aveva fatto schifo. Erano usciti. Lei li aveva seguiti ancora, fino alla fine. Fino a quando non furono del tutto scomparsi nel buio della pineta. Ed è a questo punto che si era sentita male. Contro le grate del cancello l'aveva scossa un primo conato di vomito. Poi un altro, e un altro. Si era messa una mano davanti alla bocca e, racimolando tutte le forze, aveva cominciato a correre verso i bagni. Qui c'era una fila pazzesca. Aveva dovuto scavalcare sei o sette persone e prendersi anche gli insulti. Aveva fatto la posta disperata a una porta. E quando questa finalmente si era aperta, Francesca aveva rovesciato la testa nel vespasiano. Aveva vomitato. Tirato su rumorosamente con il naso. Pianto a dirotto, chiusa nel metro quadrato di cesso intasato di piscio. Qualcuno da fuori bussava, le intimava di far presto. Un pazzo da fuori prendeva a calci la porta, e gridava: «Troia, datti una mossa!». Ma lei per dieci minuti era rimasta in quel buco, intontita. E solo quando finalmente si era svuotata lo stomaco e gli occhi, quando dei suoi sentimenti le parve non fosse rimasto più niente, uscì. Andò a sedersi sugli spalti, si rincantucciò nell'angolo che le sembrò più buio e isolato. Si prese le ginocchia fra le braccia e affondandoci in mezzo la testa decise che da quel preciso momento Anna era morta. Alessio sbandava a destra e a sinistra. Si trascinava a casaccio con le braccia lungo i fianchi e il mento basso. Avanzava come un disperso. Continuò così, a spostare il suo corpo in mezzo ai pini, per mezz'ora, un'ora, chi lo sa. Finché inciampò in un ramo, cadde di muso. E quando rialzò gli occhi riconobbe Cristiano. Era raggomitolato su un sasso. L'occhio dilatato e torvo. Si guardarono: non si capiva chi dei due stesse peggio. Passò un minuto pieno di tensione, perché entrambi erano sorpresi e contenti di ritrovarsi lì, nel medesimo stato pietoso, ma non volevano ammetterlo.
Alessio si sollevò, prese a pulirsi i jeans. «Avevi ragione, è una puttana» disse guardando da un'altra parte. Lui, adesso, il primo passo lo aveva fatto. Cristiano, quasi non aspettasse altro, non tardò a fare il secondo. Gli andò incontro, gli mise una mano sulla spalla: «Non lo dire, non lo dire neanche per scherzo. Elena è una ragazza… è la migliore che ti potessi trovare». «Che mi potesse lasciare, vuoi dire.» «Tornerà, te lo giuro» si mise una mano sul cuore, «e se ti ho detto quelle cose…» «Lascia stare.» Tornati amici. Tempo tre minuti. «Sono un padre di merda.» Cristiano prese a calci furiosamente una pigna. «Ci devi ancora provare, come fai a saperlo?» Si abbracciarono, si stritolarono. Erano soli in tutta quella pineta, erano due disgraziati. Erano soli e disgraziati, ma insieme. Come sempre. Cristiano allineò con il bancomat su una superficie non meglio identificata la pista della riconciliazione. «Giuro che è l'ultima della mia vita. Da domani divento un padre!» «Anch'io, lo giuro. Da domani…» Alessio ci pensò su. «Torno al carroponte e vaffanculo.» Si chinarono sulla coca, aspirarono con la solita banconota da dieci inserita nella narice. «Però James è proprio un nome del cazzo» disse Cristiano sollevando la testa. Aveva un sorriso pieno di tenerezza adesso. Tirò su prepotentemente con il naso e pensò che laggiù, in mezzo al punteggiare luminoso dei lampioni, c'era una piccola creatura che dipendeva da lui. Un esserino piagnucoloso a cui avrebbe potuto insegnare a stare in piedi, a camminare, e poi a fare le sgommate col motorino. In realtà non erano affatto soli, in quella pineta. E se Alessio avesse immaginato cosa accadeva a una cinquantina di metri, non se ne sarebbe stato lì a ridere come un imbecille. Proprio per niente. Se avesse anche solo lontanamente sospettato chi c'era nascosto fra gli alberi, con gli aghi dei pini fra i capelli, con sua sorella. Mancava meno di mezz'ora allo scoppio dei fuochi d'artificio. Francesca era rimasta rannicchiata per tutto quel tempo su un gradino. Si era addormentata. Un sonno brusco misto a veglia, in cui suoni reali si confondevano a suoni immaginari, e ogni tanto era costretta ad aprire gli occhi di soprassalto. Erano incubi confusi e monotoni. C'era suo padre muto, seduto in poltrona, che d'improvviso si alzava e andava a rovistare nel cassetto della cucina. Era a questo punto, la zoomata sulla lama del coltello, che spalancava di colpo le palpebre.
Rimase semicosciente in posizione fetale sul cemento armato della tribuna, fino a quando sentì qualcuno vicino che le parlava e la scuoteva. La testa le scoppiava. Aprì gli occhi. Occhi grumosi e arrossati. A poco a poco le pupille cominciarono a mettere a fuoco i contorni di una persona di sesso femminile, contorni noti ma ignoti. Sbatté le ciglia più volte. Lisa le stava passando una mano sulla fronte per sentire se aveva la febbre. Le afferrava il polso per contare i battiti. Lisa? Quando era tornata a sedere sugli spalti, aveva notato subito qualcosa di biondo raggomitolato sull'ultimo gradino, così abbandonato e ignorato che aveva pensato si trattasse di un malore. Si era avvicinata, e con il massimo stupore si era accorta che quella persona incosciente e maleodorante era Francesca. Francesca, irriconoscibile, che adesso si metteva a sedere, stropicciandosi debolmente le palpebre. Era debole, era come una che ha appena fatto un brutto incontro o sta emergendo dall'effetto tenebroso di chissà quale stupefacente. «Ehi… Ti senti bene?» Non rispose. Continuava a stropicciarsi gli occhi, a sistemarsi i capelli e i vestiti. Ripeteva gli stessi gesti, meccanicamente. Una bava sottile all'angolo delle labbra. «Vuoi che chiamo il dottore? Ho visto un'ambulanza qui fuori…» Francesca sembrò riemergere. «No» disse. Cominciò a considerarla: la guardava con grandi occhi vuoti, senza espressione. A Lisa parve incredibile che una ragazza così bella, bella anche in questo momento, con i capelli arruffati, il viso stravolto, il rimmel colato sotto gli occhi, potesse soffrire. Assomigliava a uno di quei bambini appena scampati a un'alluvione, che sbattono le ciglia attoniti contro uno sfondo di macerie e le telecamere inquadrano fino al primo piano. Lisa avrebbe quasi voluto abbracciarla. «Vado a prenderti qualcosa… Un bicchiere d'acqua?» Ma era imbarazzata. «No, sto meglio» disse Francesca. Anche nella sua voce c'era un po' di imbarazzo: tornava al mondo, le sue guance riprendevano colore e realizzava di essersi fatta sorprendere in uno stato miserabile. «Vado a chiamarti Anna?» Per Lisa era la domanda più logica del mondo. Si era già alzata in piedi, si era messa a cercare con lo sguardo in mezzo alla folla dei pattinatori la figura riccia in gonnellina rosa. Ma sentì Francesca dire, con un tono che aveva del glaciale, e dell'indifferente, e quindi dello straordinario. «No» secco. Lisa si voltò stupita a guardarla. Francesca era immobile e calma.
«È successo qualcosa con Anna?» non poté fare a meno di chiederle. Ma collegare quello stato di malattia con un litigio fra amiche era troppo anche per Lisa. «Se la vedi, avvisami.» Francesca lo disse senza emozioni particolari. «Non voglio incontrarla.» «No, non la vedo…» Tornò a sedersi. Stavano una accanto all'altra, senza sapere bene cosa dire e fare. «Che ore sono?» chiese Francesca. «È quasi mezzanotte. Devi tornare a casa?» «No, mio padre è al lavoro.» Era solo una breve informazione. Ma era anche una confidenza, un piccolo particolare della vita intima di Francesca. E Lisa provò un'emozione quasi fisica. Erano insieme, erano vicine e sole sul gradino più alto e deserto delle tribune. La gente laggiù saltava e ballava distratta, pattinava ignara di tutto. Quella gente ignorava che Lisa sedeva accanto a Francesca, con il ginocchio che le sfiorava il ginocchio. Quella prossimità le dava un senso di vertigine. Sperava ardentemente che Francesca non decidesse di alzarsi e andare via. Ma anche Francesca, tornata in sé, non era affatto indifferente a quella situazione. A tratti spiava la strana compagna che le si era posata a fianco, e si sorprendeva lei stessa di non provarne fastidio. Come se fosse riemersa in una vita del tutto nuova, e Lisa fosse la prima novità. «Lo so che non siamo mai state molto amiche» disse Lisa di punto in bianco, «ma comunque se vuoi parlare, io sono qui.» Deglutì: era il gesto più coraggioso che avesse mai tentato. «Alla fine, ci conosciamo dall'asilo…» azzardò. Francesca non si aspettava una simile dichiarazione. Si voltò di scatto verso di lei e sbatté le ciglia con sorpresa, quasi con un briciolo di gioia. Minutissima scheggia di gioia, seguita da un timido sorriso. Lisa dovette pensare che forse un momento simile era stato oggetto dei suoi sogni più sfrenati e inconfessabili, se adesso, al suono di quel sorriso, si era sentita vibrare di felicità. «Francesca, sei sicura di non voler parlare? Hai litigato con Anna?» «Non siamo più amiche» disse semplicemente, «ma non voglio parlarne.» Lisa annuì. Ci doveva essere una ragione grande se quella ragazza così dura, e anche francamente stronza, che non l'aveva mai degnata di uno sguardo, adesso se ne stava lì con lei in disparte. Rimasero in silenzio per qualche istante. Lisa era come dentro un innamoramento. Francesca misurò da capo a piedi, in ogni piega del viso, quello strano surrogato di Anna, quel buffo essere vivente che non le era mai stato a significare niente, dove Anna aveva significato tutto. La fissò per un intero minuto.
Lisa: una che non se la fila nessuno, che ha una sorella sulla sedia a rotelle. Lisa: naso grosso, cosce grosse, foruncoli. Era lì, che a stento conteneva l'emozione. Una secchiona che si è iscritta al classico, che passerà tutta la vita nel grigio di una biblioteca, su una scrivania, dietro una cattedra. Lisa a settembre sarebbe stata in classe con Anna. Fu questo il pensiero decisivo. «Siamo amiche» Francesca si risolse all'improvviso, a voce alta. Anna l'aveva sostituita con un ragazzo grande e bello. Lei adesso la sostituiva con questo cesso. Era tutto perversamente esatto. Intanto Lisa era sconvolta, non riusciva a crederci: io? Io amica sua? Rimasero sedute lassù fin quasi allo scoppio dei fuochi d'artificio. Si scambiarono qualche timida osservazione sulla festa. Lisa disse che non aveva mai visto tanta gente tutta insieme, e Francesca rispose che le erano piaciute le canzoni. Lisa spiegò che lei quelle canzoni non le aveva mai ascoltate, e non disse che in realtà le conosceva perché aveva spiato lei e Anna dalia finestra di fronte. Parlarono di scuola, sempre timidamente. Lisa non vedeva l'ora di iniziare e chiese a Francesca dove si fosse iscritta. Francesca rispose che si era iscritta all'IPS, che non sapeva neppure cosa si studiava là dentro e che non gliene fregava niente. Allora Lisa cambiò argomento. Ma non c'erano molti argomenti. Per otto anni erano state compagne di classe, e non si conoscevano per niente. Lisa, ogni volta che calava il silenzio, si spremeva le meningi per trovare la prossima cosa da dire. La troppa emozione, alla fine, faceva sempre sì che tirasse fuori la cosa sbagliata. Francesca del resto la ascoltava appena. A mezzanotte e cinque, un po' in ritardo, un artificiere sparò in aria sei o sette fuochi che fecero giusto in tempo a esplodere per poi morire subito. Fu allora che comparvero Nino e Massimo. Lisa si fece subito rossa. Loro si stupirono non poco di trovarla insieme a Francesca. Come al solito non fecero neppure finta di salutarla. Chiesero cosa fosse successo e dove fosse andata a finire Anna. Francesca rispose placida che Anna era con "altra gente" e che adesso, a mezzanotte passata, potevano anche andare a ballare. Massimo e Nino fecero due facce basite, lì per lì si scambiarono un'occhiata come dire: ma è vero? Poi ciascuno saggiamente decise di non indagare. Si precipitarono giù dai gradoni. Francesca balzò in piedi, afferrò Lisa per un braccio e la trascinò in pista. Sembrava rinata, sembrava sincera. A mezzanotte e un quarto del 16 agosto 2001, Lisa Cavini, la sfigata, ballava in discoteca al centro della pista con Francesca Morganti, Massimo Righi e Nino Greco.
A mezzanotte e un quarto del 16 agosto 2001, Lisa, con ogni empirica evidenza, aveva preso il posto di Anna. Li cercarono dappertutto. Alessio era fuori di sé, gridava: «Dove cazzo è?». Se la prendeva con Sonia che avrebbe dovuto controllarla. Intanto Cristiano faceva e rifaceva il numero di Mattia, e il telefono continuava a dire: «Tim, il numero da lei selezionato non è al momento raggiungibile». Alessio sembrava un pazzo. E non aveva ancora fatto due più due. Era l'una. Il pattinodromo si svuotava. Sonia continuava a ripetere ad Alessio di calmarsi, che di sicuro Anna era lì da qualche parte e tra poco sarebbe arrivata. Ma quello non si calmava, strillava piuttosto. «Francesca! Ma è possibile che non hai visto niente? Era con te, porca puttana!» Francesca, seduta sulla panchina accanto a Lisa, si degnò appena di scuotere il capo in senso negativo. «Vado io» disse Massi alzandosi in piedi, «vado a dare un'occhiata in pineta.» Oltre al fatto che non tollerava più l'assenza di Anna, ci teneva a fare bella figura con Alessio che era pur sempre, anche fuori di testa, il ragazzo più rispettato del quartiere. «In pineta? E che cazzo è andata a farci in pineta? Se gli è successo qualcosa… Se gli hanno torto anche un solo capello, giuro…» Non finì la frase. Anna sbucò dagli alberi, spettinata e sorridente. Come se niente fosse, come se non fosse sgualcita e in disordine. Disse: «Non giurare, sono viva». E dietro di lei c'era… Ammutolirono tutti. Anna sorrideva. Alessio non sorrideva. Mattia, che prima sorrideva, adesso non sorrideva più. Dalla panchina Lisa cominciava a capire un po' di cose. Nino pensò che forse adesso sarebbe scoppiata una rissa e lui stava dalla parte di Alessio, senza dubbio. Massimo ebbe la conferma che Anna non sarebbe mai diventata la sua fidanzata. Sonia, Maria e Jessica pensarono che Anna l'avesse combinata enorme, e al contempo che aveva fatto un gran bel colpo. Cristiano, sbigottito, disse soltanto: «Merda». «C'è qualcosa che mi devi dire, Mattia?» Il tono di Alessio era inequivocabile. Come la sua faccia, del resto. Mattia con la massima dignità rispose: «Non qui. Andiamo in macchina». E s'incamminò per primo verso la Peugeot.
Nessuno fiatava. Qualcuno fece addirittura finta di guardare da un'altra parte. Mentre Mattia si allontanava, Alessio fece un cenno a Cristiano come dire: tu stai qui. Praticamente restava a piedi un'altra volta. Ma non ebbe il coraggio di protestare. Alessio fece alcuni passi in direzione dell'auto, poi si voltò di colpo verso Anna. «Tu» pronunciò, «adesso vai a casa e mi aspetti sveglia finché non torno. Capito?» Anna non mosse ciglio. «Capitooo?» ruggì. Anna fece sì con la testa. Sonia e le altre si avvicinarono a lei per accompagnarla a casa. Alessio le guardò malissimo. Poi raggiunse la macchina. I due entrarono. Si accesero i fari, il motore. E tutti videro la Peugeot con gli alettoni fare una retromarcia che assomigliava a un decollo, per poi scomparire in un gran polverone di terra. Francesca non si era avvicinata, non si era mossa. Anna si voltò verso di lei: era seduta accanto a Lisa, mano per la mano con Lisa, e la stava fissando con una specie di lurido sorriso. Anna fece giusto in tempo a schiudere le labbra, a impallidire, a restituirle uno sguardo incredulo e disarmato. Poi Sonia la strattonò via.
18
Una settimana dopo, alle tre del pomeriggio, Rosa suonò il campanello della famiglia Sorrentino. E Sandra andò ad aprire. Una settimana dopo era il 22 agosto, il compleanno di Anna. Ma Anna non era in casa e Sandra, mentre si sfilava i guanti di gomma e si avviava verso la porta, si aspettava tutto fuorché quella visita. Rosa non era mai, in tutti quegli anni, passata a trovarla, nonostante gli inviti e le premure. Adesso era lì, sul pianerottolo, sullo zerbino con scritto "Welcome", ma sembrava indecisa se varcare o meno la soglia. Non aveva fatto neppure una telefonata per avvisare, e questo non era da lei. Sandra la accolse con un sorriso, le disse: «Vieni, entra e scusa per il disordine». Non tardò a capire dal suo contegno che quella non era una visita di piacere. «Siediti.» Le indicò una sedia entrando in cucina. «Faccio il caffè?» Rosa annuì e, un po' impacciata, prese posto a tavola. In effetti c'era un gran disordine intorno. «Scusa, sai. È che sono tornata alle due dal lavoro e tra una cosa e l'altra non sono riuscita neanche a lavare i piatti… Abbi pazienza.» Rosa fece un cenno con la mano che significava: figurati, non ha importanza. Lei non lavorava, non aveva mai lavorato, e casa sua era sempre perfettamente in ordine. Enrico non faceva in tempo a spaccare le cose che lei aveva già raccolto con la scopa i cocci e li aveva buttati nel secchio. Sandra mise la moka sul fuoco. Si affrettò a lavare due tazzine fra quelle accumulate nel lavello. Anche se le dava le spalle, non stentava a immaginare l'espressione di Rosa e a intuire il motivo per cui era venuta. Si sapeva, dopotutto. Nel palazzo era una cosa di cui, sottovoce, si chiacchierava. Sandra non le fece nessuna domanda. Si limitò a rivolgerle un sorriso di rassicurazione quando, voltandosi, incrociò il suo sguardo. Apparecchiò alla bell'e meglio, con due tovaglioli di carta e sopra due cucchiaini. Posò il barattolo dello zucchero al centro della tavola e, vista la tensione, mentre versava il caffè nelle tazzine si accese anche una sigaretta. «Grazie» bisbigliò Rosa posando la tazza. Era la prima parola che diceva. Sandra sorseggiava il caffè e intanto fumava la sigaretta. Si domandava se non fosse stato il caso di intervenire, di chiederle qualcosa. Ma non ce ne fu bisogno. Rosa volse gli occhi alla finestra spalancata: entrava un gran sole, e gli schiamazzi dei bambini sulla spiaggia si sentivano fin lì. Allora cominciò a parlare. Parlò con calma, senza giri di parole, quasi senza interruzioni. Parlò per dieci minuti buoni. E probabilmente, da che era nata, non aveva mai parlato così tanto.
«Sandra» cominciò, «tu sai perché sono qui, te lo puoi immaginare… Il fatto è che non ce la faccio più, E oggi ho deciso che dovevo parlare con qualcuno… Devo affrontare la situazione, non posso più rimandare. E non lo faccio per me stessa. Credimi, io ho trentatré anni e al mio paese sono considerata vecchia. Di me non mi importa, lo faccio per mia figlia.» Rivolse un lungo sguardo a Sandra, di muta disperazione. E Sandra si sentì piena di comprensione e di rispetto per quella donna che, con grande sforzo, stava cercando di tirare fuori il male. «Sono andate alla festa, lo sai…» Rosa parlava, rigida, senza muovere le mani né altro. «Ho dato a Francesca il permesso, senza dire niente a suo padre. Perché Enrico non le avrebbe mai dato il permesso. Lui era di notte a Ferragosto. Faceva il doppio turno per lo straordinario e non sarebbe tornato neanche per cena. Ho detto a Francesca di andare, di non preoccuparsi, che la coprivo io, che suo padre non lo sarebbe mai venuto a sapere…» Si voltò di nuovo verso la finestra, socchiuse gli occhi per distrarsi un momento nel calore della luce estiva, il suono illeso e vivo dei bambini che si tuffavano nel mare. «Io non voglio che Francesca diventi come me… Non voglio che faccia la mia fine. Voglio che esca, che si diverta come tutte le ragazze normali… Voglio che continui a studiare, che un giorno possa andare via, lontano da qui. Voglio che si trovi un lavoro dignitoso, un uomo che le voglia bene. Io non sono mai andata a una festa, lo sai?» Sandra annuì. Le si gelava il sangue a sentire la calma di quella donna, la forza sotterranea di quella donna che adesso, staccando piano le parole, si ribellava. «E lui questa mattina lo è venuto a sapere. Non so come abbia fatto. Qualcuno deve averglielo detto. Perché è tornato alle sei del mattino dal lavoro e ci ha svegliate. A me non mi ha neanche voluto parlare. Mi ha chiuso dentro, a chiave. Poi l'ho sentito che andava nella stanza di Francesca…» serrò i pugni in grembo, «e io non potevo fare niente.» Sandra fece per avvicinarsi, ma Rosa si scansò. «Sentivo i tonfi delle cose. Sentivo i tonfi delle mani. Francesca non piange, sai? Non piange più, non dice neanche una parola… È diventata come me. Sentivo i tonfi delle cose, Sandra, li ho sentiti fino alle sette di questa mattina. E non ho sentito mai la voce di Francesca… Poi lui mi ha aperto, si è rimesso la giacca ed è uscito.» C'erano le grida dei bambini, giù in strada, e il vento che gonfiava a tratti la tenda bianca. «Quando sono andata in camera sua, ho visto mia figlia per terra. Aveva il sangue in faccia, le ha rotto il naso. L'ho raccolta da terra. Lei non mi voleva neanche guardare. Sandra» si fermò, «tu non immagini come mi sono sentita a raccogliere mia figlia da terra per la centesima volta.» Sandra le prese la mano, e Rosa questa volta non la ritrasse. «Alle otto abbiamo preso l'autobus. Al pronto soccorso ci hanno fatto un sacco di domande. Io gliel'ho detto: "Questa volta lo denunciamo, questa volta lo denunciamo". Ma lei continuava a ripetermi: "No, no, ci uccide". Era troppo spaventata. Ma al pronto soccorso sono sicura che non ci hanno credute. Ci manderanno i servizi sociali… Ci manderanno i
servizi sociali e te lo devo dire…» alzò lo sguardo verso Sandra, adesso i suoi occhi erano vivi, «se ce li mandano io sono contenta.» «Devi denunciarlo, Rosa. Ti accompagno io se vuoi. Andiamo adesso, domani, quando preferisci…» «Francesca era troppo spaventata, non me la sono sentita di andare alla polizia. Ma voglio farlo, Sandra. E se mi deve uccidere…» «Non dirlo neanche per scherzo. Ti proteggeranno!» «Al mio paese» sorrise, «quelle come me non le proteggono.» Sandra ebbe un moto di rabbia. Lo sapeva anche lei che andava così, che le donne si fanno ammazzare dai mariti e nessuno dice niente. Perché è vero che siamo in Italia, ma è un paese di merda. «Di me non mi interessa, io voglio solo che Francesca sia al sicuro. Per questo sono venuta a chiederti… Quando vado a denunciarlo, perché ci vado, questa volta giuro che lo faccio. Ecco, quando vado, Francesca può stare qui da te? Ci può stare qui se succederanno dei problemi?» «Non devi neanche chiedermelo, Rosa.» «Grazie, Sandra.» I suoi occhi si velarono di un leggero tremore. «Non devi ringraziarmi.» Rosa si alzò dalla sedia. Era ancora bella. Alla sua età molte donne non sono ancora sposate: lavorano, fanno viaggi, vanno al cinema, al ristorante, a ballare. Sandra si avvicinò per abbracciarla e lei si lasciò abbracciare. «Sei coraggiosa» disse Sandra. «Ti accompagno io in Questura, vedrai che le cose cambieranno…» Le accarezzò la testa. Rosa la guardò negli occhi. C'era quasi una gioia, adesso, nel suo volto. «Sai» ammise, «è strano dirlo a questa età, ma tu sei la prima vera amica che ho…» Sandra, con tutto che era una donna con le spalle robuste, fece fatica a trattenere la commozione. «Cercami a qualsiasi ora, mi raccomando. Quando vuoi, io ti accompagno» le ripeté sul ciglio della porta. Rosa annuì. E scomparve. Chissà se lo avrebbe fatto davvero. Andare davanti a un poliziotto, sedersi, sporgere denuncia contro la persona più importante della sua vita dopo suo padre. Raccontare cose a uno sconosciuto che per anni non aveva raccontato a nessuno, forse nemmeno a se stessa. Lasciare la casa, cercarsi un lavoro, badare a Francesca da sola. E magari, un giorno, trovare un altro uomo, vivere qualcosa di simile a un amore. Era necessario, pensò Sandra. Alla sua età era davvero necessario. Ma da che pulpito parlava lei? In tutti questi anni… Cosa aveva fatto lei? Si lasciò cadere sulla poltrona.
Per me è tardi, ormai. Non se la sarebbe più rifatta una vita, lo sapeva. Sarebbe semplicemente invecchiata sola. Non se la sentiva di lavare i piatti. Andò ad affacciarsi a quella finestra dove c'era luce e il trillo confortante dei bambini arrivava insieme al sole, uguale al sole. Per oggi sarebbe rimasto tutto in disordine. Alzò la cornetta, digitò il numero dell'avvocato il più veloce possibile. Era quella la cosa giusta, la sola cosa dignitosa. Non farlo per se stessi, farlo per i propri figli. Per il futuro, per quei bambini che giocano in spiaggia e non hanno la minima idea di quanto sia difficile fare le cose giuste.
19
Il 22 agosto Anna compiva quattordici anni. Mattia le guardava il sedere, come lo muoveva sotto il pareo bianco. Scostava le foglie del canneto, si chiedeva dove lo stesse portando. La luce era assillante. Si erano dati appuntamento nel sottoscala alle due, l'ora in cui tutti dormono. Anna lo aveva aspettato nascosta, i piedi nudi sul pavimento sporco. Sapeva di polvere e di polline. Gli aveva bisbigliato all'orecchio: «Lo so io un posto». Adesso era un ripetersi ritmico e costante. Lo stridore degli insetti, le zanzare dietro l'orecchio. Mattia camminava a torso nudo, i jeans arrotolati al ginocchio. Lo assillava la linea curva, calda dei fianchi. Il sedere di lei in movimento gli martellava netto dentro i lombi. Sudava, affondava i polpacci nella polpa. Il sole macerava i cumuli di alghe. Dove cazzo mi starà portando? Si aspettava il chiuso di una cabina, o una cantina, e la chiave girata due volte. Il sole colava a picco sulla sabbia. La seguiva in quel deserto che non aveva mai visto. Una specie di cimitero per barche e cisterne vuote di gasolio. Un silenzio assordante e gatti annidati dentro le ombre. Mattia si aspettava un posto riparato e buio. Pensava che le ragazzine la prima volta avessero paura di vedere, di farsi vedere nei dettagli. Quella era la giornata più calda, secondo il meteo. Umidità al novantacinque per cento, il cielo gonfio d'acqua. Anna si sfilò il pareo bianco, lo lasciò cadere sulla sabbia. «C'è una membrana all'inizio» aveva detto. «Una membrana semitrasparente che può avere tante forme. La mia ho provato a guardarla, ma non ci sono riuscita.» Si impiastrava le gambe di mota sul bagnasciuga. Scavava buche con la punta del piede che subito l'acqua riempiva. Lo aspettava. «Ho cercato il verbo sul vocabolario», aveva detto, «si dice deflorare. Rimuovere il fiore.» Come se lui non sapesse quelle cose. «È un verbo strano, vero?» Aveva sorriso, infantile e maliziosa. Anna entrò nel mare fino alle ginocchia. Aveva il sotto del costume infilato in una chiappa, i capelli bagnati e inzaccherati di sabbia. Ferma in controluce, nera, assorta a fissare l'Elba con una mano davanti agli occhi. Mattia si sfilò i jeans, li buttò su un sasso. L'odore di ruggine, il sole in faccia. Alle due del pomeriggio la gente resta rintanata nelle case, fa ciondolare la testa madida di sudore sul divano. La raggiunse. Si lasciò cadere nell'acqua scura e terrosa in quel punto sconosciuto di costa. «Arriviamo alla boa» propose Anna.
Mattia la guardò tuffarsi e poi lasciarsi galleggiare in superficie con il corpo aperto. Era inquieto. Come da ragazzino dentro il sacco a pelo, quando era scivolato tra le gambe di una donna per la prima volta. Ma era notte all'epoca, non aveva visto niente. C'era il gruppetto dei suoi amici a poca distanza, fumavano marijuana e aspettavano che finisse. Ora nuotavano insieme, lui e Anna. Raggiungevano il largo. E il mare era caldo e fermo, come il dorso di un animale addormentato. Erano passati otto o nove anni dalla sua prima volta. Anni di gambe dilatate contro le piastrelle dei cessi, nei ristoranti; contro gli armadietti delle palestre, nei letti matrimoniali di altri, tra i vestiti sparsi. Tutte cose che Anna non sapeva ancora, cose che avrebbe fatto un giorno, forse con lui. Negli autogrill, studentesse in gita scolastica. Donne di una certa età contro il cruscotto della macchina. Il privé rossastro e nauseante del Gilda. Possibilità che Anna non sospettava. Nuotavano insieme, a bracciate parallele. Ondeggiavano dentro la spuma bianca, le correnti ora fredde ora calde. Mattia la spiava sott'acqua, come liberava gambe, braccia e bacino nel nudo del mare. Sapeva farlo bene, sgusciare giù nel fondale, fino a toccare con le dita le laminarie simili a una barba. Raggiunsero la boa, si aggrapparono forte. Gli aveva confidato, come se fosse una cosa immane, che prima di andare a dormire si infilava le dita nelle mutande. Tutte le sere si provocava il suo piccolo, muto orgasmo. Si guardarono negli occhi arrossati dal sale, le ciglia addensate d'acqua. Intrecciarono le gambe sotto la boa gialla. «Dimmi una cosa: con chi ci venivi qui?» Anna gettò lo sguardo verso la spiaggia, dov'erano i resti di un pavimento. Dove venivano i gatti, non a quest'ora, più tardi… Chissà chi gli portava da mangiare adesso. Chissà se le aspettavano ancora, dopo cena. I cartocci di pasta arrotolati dentro la tasca. «Con nessuno» rispose. «Non ci credo.» Quello non era il genere di posto in cui si va a giocare a guardia e ladri o a nascondino. La luce lo assillava. Andava a cercare le sue gambe sott'acqua, i piedi minuscoli. La frugava con gli occhi. Sapeva stanare i polpi da sotto gli scogli, sapeva ucciderli con la fiocina anche da una certa distanza. Sapeva fare piano, all'occorrenza. «Ti piace pescare?» Anna disse: «Sì». «E poi cosa ti piace?» Stava fiorendo. Aveva qualcosa di indecifrabile negli occhi. Semplicemente, non era né una cosa né l'altra. Le andò vicino, le afferrò i capelli. Adesso che la teneva ferma, lei si lasciava accarezzare
vicino all'inguine. Sorrideva, schiudeva appena le labbra. Mattia le scostava il bordo delle mutande sott'acqua e lei chiudeva gli occhi. «Aspetta» disse scostandosi, «mi scappa la pipì.» Mattia la guardò, stordito, allontanarsi. «Non devi venirmi vicino» rideva, «sennò non mi viene…» Quando uscirono dall'acqua, Mattia andò a sdraiarsi sullo scafo rovesciato di una barca. Il corpo bruno, appoggiato e impaziente. Si lasciava gocciolare al sole, si aspettava che da un momento all'altro Anna si sarebbe avvicinata. Era stata lei a volerlo, lei a portarlo in questo luogo, in questo brodo. Ma Anna restava dov'era. Anziché andare da lui, si era messa a scovare le lucertole da sotto i sassi. Si aggirava fra i resti di un pavimento e si chinava a raccogliere qualcosa. Lo faceva apposta. Mattia aveva le narici piene di ferro arrugginito e alghe marce. Si voltò su un fianco per guardarla. Raccoglieva un ramo, adesso. Aveva quel cristo di costume annodato sui fianchi, che le entrava in mezzo e le lasciava il culo del tutto scoperto. L'afa era insopportabile, la luce intera e fissa. Una specie di martello pneumatico che sfonda le tempie. Era insopportabile vederla muoversi a piedi scalzi, aggirarsi come un predatore di piccola taglia. Lo faceva apposta. «Vieni qui» le disse. Alessio era di turno, due-dieci. Cristiano era dall'altra parte di Piombino, a Torre del Sale. E quella stronza raccattava con il ramo una medusa dal mare, la portava in mezzo ai sassi e la guardava sciogliersi. Faceva finta di non sentirlo. Voleva essere guardata, non c'era altra spiegazione: le piaceva essere guardata. Anna torturava il corpo liquefatto della medusa e intanto spiava Mattia con la coda dell'occhio. Tratteneva a stento quel suo micidiale sorriso. Si era sfatto di seghe su quel sorriso. Aveva punito in modo assolutamente violento e sadico, la mattina appena sveglio, il suo sorriso strafottente. Per lei era un gioco, come imparare a guidare il motorino, come gareggiare sui pattini a velocità folle. Voleva arrivare prima tra le sue amiche. Mattia non era scemo, lo aveva capito. Aveva dieci anni di vita più di lei, meno romanzi nella testa. Sapeva maneggiare armi, gestire la tensione, farsi prendere letteralmente per il culo da un costume mezzo slacciato sul corpo incandescente di una ragazzina che gioca. «Lasciala stare, è sciolta.» Lei non sospettava minimamente che poteva anche farle male. Aveva l'aria di chi, del mondo, conosce solo il lato migliore. L'aria di chi si è rotolata nella bambagia fino adesso. Adesso basta però. «Vieni qui» le disse, con il tono di chi non intende ripeterlo un'altra volta. Anna si avvicinò di qualche passo, gli indicò il rilievo che aveva preso il suo costume da bagno. E scoppiò a ridere.
C'era un'aria irrespirabile, domani sarebbe venuto a piovere. C'era il sole delle due e mezza del pomeriggio a picco sulla testa, e domani toccava a lui nella fabbrica di merda. Caricare e scaricare vergelle, tonnellate d'acciaio appena uscite dai forni, ancora infiammate, rosse, incandescenti. «Dai» disse, «lascia stare i gatti, vieni qui.» Anna questa volta ubbidì. Andò a sdraiarsi. Lo guardava con grandi occhi screziati di giallo. Le era passata la voglia di giocare. Restava muta e ferma sull'orlo della barca. Mattia le slacciava il pezzo di sopra, le scioglieva i nodi del pezzo di sotto. Glielo sfilava dalle gambe. Percepiva adesso tutto il suo allarme. Non era pronta. Doveva tenerla ferma mentre le montava sopra con il corpo bruno e pesante. Il sole gli colava sulla schiena. La teneva ferma e la inumidiva piano. Si vedevano i dettagli adesso. La peluria castana di lei, il suo rosa interno. Le vene scure e dilatate di lui. Si sentiva l'odore, adesso, dei dettagli – più acre di quello delle alghe. Le dilatò le gambe, sentì con la mano sulla pancia tutto il suo spavento. Doveva tenerla ferma e accarezzarla. Sudava, le sudava addosso. Il sole in faccia, il cielo bianco, i gatti annidati dentro le ombre. Aveva l'età e il corpo per farlo. Ma non era pronta. Come dal medico, sul lettino. Si lasciava toccare e aspettava qualcosa di sconosciuto. Forzava piano, faceva piano. Era il suo compleanno. Era il suo momento. Non serviva a niente cercare le parole sul vocabolario. Togliere il fiore. Era reale, era molto più semplice. Faceva male come una spina, come un oggetto contundente che non ferisce, affonda soltanto. E la membrana si spacca a metà, come un frutto. Anna teneva gli occhi aperti, lo guardava come un bambino che chiede rassicurazioni alla persona sbagliata. Non era mai stata così insieme. Precipitava piano, sorrideva piano, cedeva a quella cosa indistinta e piena. Una culla. Un moto uguale a mille altre cose del mondo. Caldo e costante. Mattia aveva giurato, una mano sul cuore, un labbro spaccato, accasciato sul cofano della Peugeot la notte di Ferragosto. Aveva giurato. Ma Alessio non poteva sapere, non lo avrebbe mai saputo, come si agitava il corpo di sua sorella, come muoveva il bacino al sole. I suoi punti morbidi. Non lo avrebbe mai conosciuto, quel suo odore marino e acre. Come sapeva muoversi e cedere e venire con un sorriso infantile. Non era più di suo fratello, non era di nessun altro. L'aveva vista crescere nel cortile di via Stalingrado, giocare con le Barbie insieme alla sua amichetta bionda. Se la ricordava con la cartella sulle spalle e il grembiule a quadretti rosa. L'aveva guardata fare il bagno nella piscina di plastica sul tetto del palazzo, in mezzo a mille altri bambini. E adesso la guardava venire.
Sollevare la testa, avvicinarla alla sua. Gli occhi sgualciti, il sudore sul viso, la luce incandescente sul viso bagnato, e quel micidiale, meraviglioso sorriso. Venirle dentro, sfiorirla. Anna avvertiva come un dilagare improvviso di formiche dal sottosuolo. E ricadeva indietro con la testa. Mattia si tolse all'ultimo momento, eiaculò sulla sua pancia. Si lasciò cadere, il cuore esploso, sul seno bianco di Anna. Un elemento che torna nel suo luogo. Alessio era sul carroponte adesso, sollevava siviere d'acciaio fuso con la schiena china e la fronte madida di sudore. Mentre Mattia e Anna si alzavano, si scuotevano la sabbia e le alghe di dosso, Rosa suonava il campanello di Sandra e si aggiustava i capelli per prendere coraggio. Mentre Anna si guardava intorno spaesata e andava a lavarsi via dalla pancia il liquido bianco, Alessio si sparava un'altra pista di coca dentro la cabina di comando con un suo collega appena assunto. Anna si rannicchiava tutta dentro le braccia di Mattia. Si erano nascosti sotto una barca, come i gatti. Il sole era così torrido, si era alzato il vento. E una parte dell'Elba bruciava, come sempre in estate, in un punto nero del monte Capanne. Anna tempestava Mattia di domande, e Mattia rideva anziché rispondere. Cristiano, lui guardava l'incendio e il fumo nero che si alzava da un punto non meglio identificato dell'isola. Lui non conosceva il nome dei monti e detestava gli elbani: che bruciassero vivi. Stava seduto su una seggiola di plastica, sotto l'ombrellone. Erano andati a Torre del Sale, la spiaggia tra l'Enel e la Dalmine-Tenaris. La sua prima gita famigliare. C'erano altre famiglie intorno. Gli uomini commentavano l'incendio con fare concitato e gesticolante. Cristiano distolse gli occhi dall'isola e alzò il volume della radio per ascoltare le ultime notizie di calcio mercato. Jennifer era sdraiata sull'asciugamano a prendere il sole, un po' sformata sui fianchi e sul sedere. Era decisamente peggiorata, non assomigliava quasi più alla ragazzina filiforme di quindici anni, che si lasciava fare l'amore in piedi nel sottoscala o nella cabina buia dei genitori. Cristiano teneva in braccio il bambino che mugugnava. Gli aveva regalato un paio di scarpine da ginnastica dorate della Nike, quelle che andavano di moda. Aveva speso una fraccata di soldi per quelle scarpine da ometto che gli stavano assolutamente larghe, ma cosa ne sapeva lui delle misure dei bambini. Aveva detto alla cassiera: «Faccia lei». Cristiano guardava ora Jennifer distesa con le cuffie del walkman nelle orecchie, ora il moccio che colava sul viso di suo figlio. E non sapeva bene cosa dire e cosa pensare. Prendeva un fazzoletto dalla borsa, asciugava il naso del minuscolo James che sembrava volergli dire qualcosa, ma non sapeva ancora parlare. Cristiano non ci capiva un accidente dei suoi mugugni. Quegli occhietti lo mettevano in imbarazzo. Era difficile, era una cosa pesante. Non voleva ridursi come quei quarantenni
appanzati, la borsa frigo a portata di mano, che perdono un'ora a parlare di come brucia l'Elba d'estate. Ma cosa poteva diventare? Che razza di fine poteva fare lì, a Piombino, a respirare merda sopra l'escavatore della Lucchini, la domenica al mare con la famigliola… Una rapina. Doveva parlarne con Mattia. Un ufficio postale, una piccola filiale. L'arma spianata. L'adrenalina. E poi sparire, andarsi a sbragare in un posto fico. Sorrise. Accarezzò la testolina spelacchiata di James. «Papà ti porta in Brasile» gli bisbigliò, «a vedere il carnevale!» Ma James era nato da sei mesi, non capiva le parole. E scoppiò a piangere di punto in bianco come un ossesso, costringendolo a chiamare Jennifer, a urlare per farsi sentire attraverso gli auricolari del walkman.
20
Appena rientrata a casa, Anna sgusciò nel bagno senza neppure salutare sua mamma. Andò dritta a sedersi sul water, si abbassò le mutande del costume e prese a ispezionarle con attenzione. In effetti, una traccia c'era. Si accanì nel lavandino con il sapone, contro la macchia che nessuno doveva scoprire. E un poco le dispiaceva vederla sbiadire. Però ecco: sbiadiva soltanto, non spariva. E lei non aveva nessuna voglia di star lì mezz'ora a insaponare. Appallottolò le mutande e andò a nasconderle sotto il letto. Quando sbucò in cucina, si capiva benissimo che c'era qualcosa di nuovo. Sandra, fosse stato un altro giorno, magari ci avrebbe fatto caso. Avrebbe sommato il casino nel bagno, le mutande sparite, le voci su quel ragazzo tornato dalla Russia e il contegno aggressivo e sorridente di sua figlia. Avrebbe fatto due più due, in un altro momento. Adesso stava seduta in poltrona, la testa affondata dentro "Liberazione". Ma non leggeva. Quando sentì i passi scalzi di Anna avvicinarsi, sollevò la testa e chiuse il giornale. Vide un metro di sabbia mista ad altre porcate sul pavimento appena spazzato. «Quante volte te l'ho detto di lavarti i piedi?» Anna afferrò una pesca dal cesto della frutta e ci affondò il muso dentro. «Sei un disastro» disse Sandra scuotendo la testa. «Pure la buccia ti mangi?» «È pelosa» rispose Anna masticando, «è buona!» Sputò il nocciolo direttamente dalla bocca nel lavandino. Sandra si alzò dalla poltrona visibilmente alterata: sono modi questi, i modi che ti ho insegnato? Ma prima che potesse dirle qualcosa, Anna le puntò gli occhi addosso: «Tuo marito quando torna?». L'aveva presa in contropiede, la furba. Classico faccino supponente che a Sandra faceva venire i nervi. «Non lo so tuo padre quando torna.» E sbatté il giornale per terra. «Ha telefonato ieri, ha farfugliato qualcosa… Ha detto di salutarti e di tenerti d'occhio.» Si sforzò di ridere. «Alla grande, mi tenete d'occhio…» Sandra prese in mano la scopa e cominciò a raccogliere la sabbia da terra. Anna la guardava sovrappensiero. «Ma sta bene?» Sua madre si accaniva con la scopa negli angoli e sotto i mobili. «Sta bene… Cosa ne so io! È vivo» sibilò, «c'ha gli affari lui, c'ha le opere d'arte… Come no? Lui è un uomo impegnato eh! Ma io non voglio neanche sapere cosa fa, non lo voglio sapere! Comunque dice che torna domani.» Anna, alla parola domani, provò una sorta di gioia improvvisa che tentò di nascondere. Sandra invece mollò lì la scopa, ribaltò una mensola e un cassetto in cerca delle sigarette.
«Io non ci credo mica che torna… Fa la bella vita, cosa credi? L'hanno visto a San Vincenzo, me l'hanno detto…» Si fermò di colpo, non stava bene dire quelle cose a sua figlia. «Spero che torni» tentò di correggere il tiro, «spero che torni in fretta perché sennò…» ma non riusciva a correggerlo. «Tuo fratello è un cretino, ecco! È andato a dare l'anticipo per la Golf, ha fatto un mutuo per la macchina! E perché sempre io mi devo fare il culo? Un minimo di cervello dico io, e che Cristo!» Anna, ogni volta, a sentir parlare di quei problemi di soldi, provava un senso di fastidio, quasi di mortificazione. Non aveva voglia di intristirsi proprio oggi, però si intristiva lo stesso. Speriamo che domani ci sia davvero a pranzo… Fece per andarsene nella sua stanza. Aveva bisogno di ragionare, di pensare, non sapeva ancora esattamente a cosa: se a Mattia, alle mutande appallottolate, o a suo padre che a casa da più di un mese telefonava soltanto. Stava per andarsene e chiudere la porta quando Sandra le disse: «Aspetta, ti devo parlare». Anna si voltò allarmata a guardare sua madre negli occhi. Le era presa una paura improvvisa adesso, del tutto irrazionale, di essere scoperta: le mutande e tutto il resto. «Oggi è venuta la madre di Francesca…» Anna restò di sasso. «Ci sono delle cose che devo dirti. Siediti.» Sedette meccanicamente, con il cuore a mille. «Io non so se Francesca ti ha parlato, ti ha detto…» espirò forte, «di suo padre.» Anna fece una faccia bianca come dire: sì, ma vai avanti. «Comunque, Enrico ha saputo che siete andate alla festa e ha picchiato Francesca. Le ha rotto il naso. Pare che sia l'ennesima volta, che sia un'abitudine per quel porco…» Le mani di Anna cominciarono a torturare il bordo del tavolo. «Rosa vuole denunciarlo. Sono più che d'accordo. Sono disposta ad accompagnarla, a testimoniare, qualunque cosa.» Sandra alzava la voce, di fronte alle ingiustizie. Avrebbe dovuto parlarne al partito, sollevare il problema della violenza sulle donne. Non quella dei rumeni per le strade, ma quell'incubo lì, al piano di sotto. Si calmò. «Rosa vuole che Francesca venga a stare qui da noi per un po'… Ha paura, è comprensibile. Pensa che dopo la denuncia Enrico possa fare qualche pazzia. Io la capisco.» Si accese la sigaretta finalmente, e succhiò forte la nicotina. «Questa mattina ha dovuto portare Francesca al pronto soccorso…» Non ci fu bisogno che aggiungesse altro. Anna balzò in piedi. Aveva le mani, gli occhi, le labbra che tremavano di rabbia. Un senso di colpa immane. Il viso incredulo, pallidissimo, una voragine al posto del petto. Guardò sua madre per qualche istante. Si faceva schifo. Corse di scatto verso la porta, la spalancò senza neppure richiuderla. Si fiondò giù per le scale a più non posso. Stronza! Se lo ripeteva in continuazione. Faceva i gradini due alla volta. Avrebbe voluto
prendersi a schiaffi, cadere e sbattere la testa. Come aveva potuto cazzo lasciarla sola? Fare finta di non vederla per una settimana… Soltanto perché le aveva tenuto il muso, soltanto perché era diventata amica di Lisa. E poi aveva fatto quella cosa con Mattia, lo aveva portato in quel posto… L'aveva tradita, tradito tutto! E Francesca era piena di lividi adesso. L'aveva presa a botte, il mostro. Anna era convinta di essere la sola a poterla salvare. La sola a sapere, ad avere il potere… Di cosa? Avrebbe voluto sfracellarsi al suolo, provare un dolore fisico immenso che superasse quello che adesso le masticava i polmoni, lo stomaco, il cuore. Si precipitò giù per le scale a piedi nudi, era sporca di sabbia, aveva gli occhi pieni di rabbia, pieni di disperazione, e giurava, mille volte giurava: al diavolo Mattia, rinuncio a lui, rinuncio a tutte le cose… Ma adesso devo abbracciare Francesca, adesso nessuno deve farle più male. Arrivò di fronte alla porta. Porta buia e chiusa, sempre, oltre la soglia della quale non si poteva andare. Non me ne frega, io adesso entro. E tenne l'indice a lungo premuto sul campanello. Non me ne frega, mi dovete aprire. E nessuno veniva ad aprirle. Porca puttana. E si accaniva. Una, due, dieci volte contro quel campanello di merda, contro l'inferno che teneva chiusa la sua Francesca e che adesso doveva finire. Basta. Francesca veniva a vivere da lei adesso. Come una sorella vera, com'è giusto che sia. Avrebbe dormito nel letto con lei. Si sarebbero strette. Avrebbero fatto colazione insieme ogni mattina, sarebbero andate a scuola in motorino. E lei sarebbe andata ad aspettarla all'uscita davanti al cancello dell'IPS. Non me ne frega, gridò dentro se stessa, con il dito incollato al campanello. Io non mi schiodo, io non mi muovo di qui finché non la vedo. E viene via con me. E quel mostro non la vede più. Va in galera e ci marcisce. Lo sbattono in galera, a muffire, a diventare la muffa che è. Lo ammazzo se non vengono ad aprirmi. Sentì dei passi. La serratura scattare. E la porta si aprì, giusto lo stretto necessario a vedersi in faccia. Due occhi lucevano in penombra, di una luce buia e fredda. Non erano gli occhi di Francesca, non erano gli occhi di Rosa. Enrico la fissava senza dire niente. Era un gigante. Una faccia congestionata di carne rossa, muta ed enorme. Anna oscillò appena facendo un passo indietro. Fu con uno sforzo enorme che riuscì a dire, balbettando piano: «Cercavo Francesca…». L'uomo non batté ciglio. Forse percepì il terrore della ragazzina che gli stava davanti. Forse no. Sembrava un grande involucro vuoto, un corpo pesante, un'arma da fuoco. Sembrava non provasse alcun sentimento, alcun pensiero. Sembrava non fosse capace di parlare. «Francesca non c'è» disse. «Francesca non frequenta più cattive compagnie.» Chiuse la porta. Anna si mise una mano davanti alla bocca. Per non gridare, per non singhiozzare, per
trattenere la furia e la paura che provava. Si voltò e fuggì via, di corsa, giù per le rimanenti tre rampe di scale. Quando sbucò in cortile, erano le sei di sera. C'era ancora luce. Scoppiò a piangere disperata. Le andarono vicino, le chiesero cosa c'era. Anna singhiozzava come se le fosse morto qualcuno, tirava deboli pugni contro Sonia e Maria che tentavano di calmarla. Ma Anna non si calmava, si dimenava e singhiozzava forte. Fece così per una decina di minuti buoni. Poi spintonò via le altre, andò ad accasciarsi sulla panchina, quella dove c'erano scritti i loro nomi con l'Uniposca rosa. Piangeva piano. Piangeva in silenzio. I capelli sporchi di sabbia, le alghe appiccicate ai polpacci, il copricostume fradicio e sporco. Sembrava la piccola fiammiferaia scalza della fiaba di Andersen. Dalla sua finestra, da dietro la tenda, Francesca la guardava piangere e piangeva. Aveva sentito quando Anna aveva suonato alla porta. Aveva sentito suo padre che andava ad aprirle. E sua madre lavorava a maglia in salotto. E lei era chiusa dentro, nella sua stanza. Francesca era piena di lividi addosso. Il naso le faceva ancora male. Aveva provato una fitta tremenda quando aveva riconosciuto la voce di Anna. Ma adesso, mentre la spiava da dietro la tenda, non piangeva più per suo padre, per gli ematomi e le botte. Piangeva perché era tutta colpa di Anna.
21
L'estate finiva, la luce del giorno si abbreviava. Cominciava settembre. Anna andava a fare l'amore a casa di Mattia, un appartamento piccolo e buio in perenne disordine, in fondo a via Stalingrado. Alessio alla fine aveva ceduto. Li aveva presi uno per uno, il suo amico e sua sorella, e gli aveva fatto un bel discorsetto. «Avete la mia benedizione, ragazzi. Ma niente stronzate finché lei non diventa maggiorenne» li aveva avvertiti con il tono di un padre. E Mattia si era subito affrettato: «Ovvio, ma scherzi?». Adesso Anna andava ad aspettare il suo fidanzato fuori dall'ingresso della Lucchini o si faceva passare a prendere sotto casa. Alessio non era scemo, ma preferiva pensare che si guardassero negli occhi tutto il tempo. Invece quei due facevano l'amore ovunque: sul letto matrimoniale sfatto, con le tapparelle chiuse, in bagno, sul cesso o dentro la doccia, e perfino in corridoio, contro la porta. Alessio osservava Anna salire sulla macchina del suo amico, tutta truccata e giuliva com'era: gli dava un bacio, armeggiava un po' con l'autoradio, girava il volume al massimo e sgommavano via. Allora lui smadonnava in silenzio e si rollava una canna. Mattia un giorno raccontò ad Anna che sua madre era morta, un tumore al cervello. Che suo padre era da qualche parte nel mondo, ma non lì. E questa confidenza li aveva uniti molto. Mattia fumava una sigaretta dopo l'amore, le raccontava i pezzi della sua vita. Le disse anche che aveva fatto degli errori, delle cose illegali, ma adesso non aveva più intenzione di farle. Anna lo ascoltava piena di ammirazione. E aveva cominciato anche lei, di nascosto, a fumare. Francesca, ogni volta che si era trovata Anna davanti, aveva tirato dritto con gli occhi bassi e un sorrisino finto. Per una decina di giorni infatti, Anna si era ostinata ad aspettarla in cortile, sulla loro panchina, e aveva cercato di parlarle, a volte l'aveva addirittura presa per il braccio e strattonata. Ma Francesca non si era mai fermata, non voleva ascoltarla. Tirava dritto, entrava nel numero otto e suonava il campanello di Lisa. Fino a quando, dopo pranzo al solito posto non l'aveva trovata più. E allora, anche se non lo avrebbe ammesso mai, aveva provato una fitta allo stomaco. Francesca passava ogni pomeriggio da Lisa, come Anna passava ogni pomeriggio da Mattia. Solo che Francesca non faceva l'amore, non le interessava affatto farlo, e aveva chiuso i rapporti anche con Nino. Stava in camera di Lisa, si faceva ammirare, giocavano a scala quaranta e a ramino. Lei le aveva insegnato a truccarsi, l'aveva accompagnata al mercato a comprarsi dei vestiti decenti. E Lisa le aveva parlato a lungo di Donata, che stava nella stanza a fianco, sotto il lenzuolo, le pastiglie sul comodino e le tapparelle perennemente abbassate. Era peggiorata, la sorella di Lisa. Adesso non muoveva più né le braccia né la bocca. Era
incapace anche di quel suo strano sorriso. Non sorrideva più, biascicava solo qualche parola incomprensibile. Nessuno in quella casa accennava ad Anna. Nessuno in quella casa voleva ammettere che Donata stava morendo. Un giorno di settembre, il 2 o il 3, Anna era andata con sua madre alla Coop a comprare il diario, l'astuccio e i quaderni per l'anno scolastico nuovo. Mattia stava seduto da Aldo, il bar di Salivoli, a bere una cosa fuori. Fumava, guardava il cielo terso preautunnale e sorseggiava con calma il suo negroni. A quell'ora del mattino non c'era quasi nessuno. Il biliardino era fermo. Un vecchio leggeva "il Tirreno" con gli occhiali sul naso e mezzo sigaro in bocca. Un magrebino faceva andare la leva del videopoker senza ottenere niente. Anche la radio era spenta. Poi Mattia si vide venire incontro Cristiano. Che due coglioni, pensò. Quello camminava come suo solito, allampanato nei jeans larghi da pischello. I capelli sparati dal gel e un nuovo piercing sotto il labbro. Aveva tutta l'aria di dirigersi verso di lui: questa non ci voleva. Cristiano si sedette proprio al suo tavolo e ordinò un whisky. Mattia non aveva nessuna voglia di parlare con lui. Non per altro, ma voleva starsene un po' in pace, così, a pensare alle sue cose. Invece Cristiano attaccava bottone, ed era evidente che si era calato un'anfetamina. «Sono di notte oggi» gli rispose, «mi hanno messo alle vergelle, ma ci sta che mi spostino ai convertitori…» «Troppo meglio i convertitori!» fece l'altro, convinto. «Non si fa un cazzo là dentro!» Mattia, già non aveva voglia di parlare, meno che meno della Lucchini. «Come va col pupo?» chiese distrattamente, giusto per cambiare argomento. Cristiano si mise le mani in faccia: «È un delirio, Mattia. Quello piange ogni sacrosanta notte, attacca a piangere mentre sto scopando, capito? Ogni volta, cazzo. E quell'altra si alza sempre. Ma lascialo piangere un attimo, no?». Mattia non lo stava ascoltando, lo guardava e basta. «Ma alla fine non è il pupo che mi irrita. Quello cresce, si farà i cazzi suoi… È anche divertente, a volte. È Jennifer che mi scassa le palle. Ho fatto male a trasferirmi da lei, con i suo genitori poi! Non hai capito i suoi genitori che rottura di cazzo…» Parlò per un quarto d'ora. Mattia finiva il negroni, guardava le facce di chi entrava. Ragazzini in ciabatte che volevano i gettoni per il biliardino. Operai in tuta, vecchi che sostenevano di non avere bisogno del Viagra. Mattia posava il bicchiere, controllava il risultato del magrebino sul videopoker. E intanto l'altro parlava esagitato. Non era cattivo, era pesante. E Mattia si era quasi deciso a pagare e andarsene. «Ascolta» lo trattenne Cristiano, abbassò la voce e il mento sul tavolino. «Sono venuto qui perché ti devo parlare di una cosa…» Cristiano aveva preso un'aria quasi seria adesso.
Andiamo bene, pensò Mattia. Poi però decise che poteva anche farlo, questo sforzo, e rimase. Prese a giocherellare con una cannuccia. «Di me ti puoi fidare, lo sai… Io sono muto come una tomba, e poi non sono esattamente…» sorrise, «immacolato. Lo sai, le partite di coca, le storie varie…» «Parla» si stava già scocciando. «No, insomma… So che sei in contatto con alcune persone di Follonica…» Mattia cambiò espressione. «So che quelle persone sono dei professionisti, e so che tu ci sai fare abbastanza… Me l'hanno detto, della rapina nel '98, una robina proprio fatta bene… Ne ho pieni i coglioni di questa vita, Mattia, ne ho i coglioni pieni della Lucchini e di Gianfranco che mi scassa la minchia per un minuto di ritardo e non mi sta più pagando gli straordinari, insomma… Io sarei interessato, ecco, a fare qualcosa. E so che tu puoi darmi una mano.» «Non esiste.» «Via, Mattia… Lo sanno tutti che… Non fare lo stronzo. Ti chiedo solo di poter fare un lavoretto con te… Non sono uno sprovveduto, so come muovermi.» «Non faccio quel genere di lavoretti, ti hanno informato male.» «Cazzo, ti ho detto che ti puoi fidare!» «Non conosco nessuna persona di Follonica.» Mattia parlava piano e duro, ma tradiva una certa agitazione. «Ho solo bisogno di una pistola e di un numero di telefono…» Una pistola? È pazzo, pensò Mattia, si è completamente bruciato il cervello. Questo qua è l'ultimo cretino sulla Terra che potrebbe fare una rapina decente. «Lascia perdere» gli disse con il tono di chi vuole concludere. «Non sai di cosa parli.» «Invece lo so benissimo» sembrava esaltato, «sono molto bene informato. Forse a te adesso ti tira il culo, ma io ci sono dentro, Mattia, e so molte cose. So anche che il padre della tua fidanzatina… È lui il gancio di Piombino.» Mattia rimase allibito con la cannuccia in mano. «Non devi dire niente ad Alessio però, mi raccomando. Quello fa un macello se lo viene a sapere.» Era sbiancato e adesso faceva a pezzi la cannuccia. «Pensavo che tu lo sapessi. Ero convinto…» Mattia si alzò dal tavolo, andò a pagare. «Te lo dico da amico» gli fece poi, passandogli davanti, «lascia perdere.» Cristiano rimase seduto, come i bambini che l'hanno sparata grossa e se ne rendono conto solo dopo, e si vergognano anche un poco. Mattia entrò in macchina e sbatté forte la portiera. Voleva andare dritto a casa, ad aspettare Anna. Non avrebbe mai immaginato. Sperava sinceramente che fosse, quella su suo padre, una delle tante cazzate di Cristiano.
Anna girava tra gli scaffali, accumulava cose nel carrello che Sandra sistematicamente valutava nel costo e nell'utilità, per poi rimetterne molte al loro posto. Anna si avventava frenetica nei cestoni degli astucci, era presa da una sorta di entusiasmo. Era convinta di poter sistemare tutto in qualsiasi momento. Cominciava la scuola adesso. Si aspettava solo cose belle. Aveva imparato a guidare l'SR di suo fratello. Mattia le aveva dato lezioni in un parcheggio periferico, e lei sapeva andarci da Dio. Era stata al consultorio di nascosto per farsi prescrivere la pillola. Era convinta che tutto da un momento all'altro sarebbe tornato come prima. Che era solo un momento. Che Francesca le avrebbe suonato al campanello, era solo questione di giorni, e si sarebbe fiondata fra le sue braccia. Anna faceva la fila alla cassa, ed era convinta di essere la stessa di sempre.
22
Il meteo stava annunciando temperature superiori alla media di quattro o cinque gradi, quando si sentì il campanello suonare. Era domenica mattina, l'ultima domenica d'estate. Interruppero la colazione, rimasero con il biscotto in mano e si guardarono interrogativi. La voce del colonnello annunciava sole su tutta la penisola italiana. Un presentimento comune. Sandra si alzò e andò ad aprire. Rumore di suole gommate sul pavimento. Passi energici e regolari. Arturo entrò, fasciato da un memorabile gessato nero che odorava di tintoria. I pasticcini avvolti nella carta, un soprabito grigio perla sotto il braccio. «Buongiorno» disse. Erano rimasti, i suoi figli, impietriti sulle sedie. La moglie emerse in vestaglia dietro le sue spalle e andò ad appoggiarsi allo stipite della porta. «Vi vedo bene!» Come se non li avesse piantati, soli e in mezzo alle grane, per quasi un'intera estate. Li vedeva bene: erano muti e incazzati. Arturo lasciò cadere il soprabito sul divano, si accomodò accavallando le gambe. Un talento mancato al teatro. Era mancata perfino una scusa campata per aria, quel minimo di pudore che ci vuole. «Avanti, scartate i pasticcini…» Era emozionato come un pischello che ha appena rubato un motorino, e quasi non ci crede che ci è riuscito, si sente da Dio anche se sa che ha sbagliato. Dove aveva dormito? Si era fatto l'amante? Arturo sorrideva da canaglia. Sandra doveva fare uno sforzo enorme per controllarsi, per nascondere l'imbarazzo, il disagio che provava di fronte ai vestiti nuovi, la piega impeccabile dei pantaloni (chi glieli aveva stirati?) di suo marito che comunque, anche tirato a lucido, restava un disgraziato. Anna addentò timidamente il suo biscotto. Non c'era parentela, neanche lontana, tra il tessuto di sartoria che indossava lui e il tessuto del divano, della tovaglia, della sgualcita vestaglia di sua moglie. Il sole entrava alto e chiaro attraverso la tenda bianca, e Sandra si aggiustava i capelli, tentava invano di metterli in ordine e tenere a bada i nervi. Attaccò la sigla del telegiornale. «Sono tornato» deglutì, «per restare.» Ad Alessio era passata la fame. «Insomma, è ancora casa mia?»
Silenzio tombale. Allora Arturo infilò la mano nella giacca. Questa volta li avrebbe stupiti davvero. Era il gesto che aspettava da una vita, la scena clou del film che aveva in testa. Estrasse dalla tasca un cofanetto di velluto rosso. Aveva quel sorriso lampante stampato in faccia, un bel colorito sulle guance, che strideva in modo colossale con le labbra sigillate di sua moglie, con la gelida sorpresa di suo figlio. E Anna tratteneva il respiro davanti al cofanetto rosso. Lo aprì. Ne sfilò il contenuto. Lo mostrò a Sandra. L'anello che Arturo teneva fra le mani era la cosa più preziosa che lei avesse mai visto. «Sono tornato per restare» ripeté, «per darvi la vita che meritate.» Sandra rimase, suo malgrado, folgorata. Non avrebbe voluto cedere, ma stava cedendo. Contro tutte le convinzioni maturate in una vita di partito, di riunioni al sindacato, scarpe rotte e pur bisogna andar, si infilava il diamante al dito. Era ben rasato suo marito, il foulard imbevuto di profumo. Alessio si alzò da tavola strisciando rumorosamente la sedia. La commedia aveva raggiunto il livello di saturazione. «Dove vai?» gridò allarmato suo padre. «Al cesso» rispose suo figlio, disgustato. Era sempre stato così, diffidente e scontroso. Arturo non lo aveva mai capito. Suo figlio gli aveva sempre tacitamente rimproverato qualcosa. Ma cosa? Non aveva mica la palla di vetro, lui. «Ascolta. La tua macchina è di sotto» si affrettò a dire, con la sicurezza di chi ha un asso nella manica e sta per scoprirlo. «Qui ci sono le chiavi.» Posò con energia un portachiavi con il simbolo enorme della Volkswagen. «È finita di pagare» sorrise trionfale. «È tua.» Alessio si voltò a guardarlo. Incredulo, questa volta. Potere incredibile dei soldi. «Te l'ho parcheggiata qui sotto, vicino ai cassonetti.» Alessio aveva cambiato faccia. Lo odiava, eppure aveva cambiato faccia. Suo padre gli sorrideva entusiasta. Alessio rimase fermo per alcuni istanti, combattuto come poche altre volte. Non voleva dargli soddisfazione, non si fidava. Arturo lo fissava un po' bullo e un po' tenero, di colpo diventava il padre generoso che immaginava di essere. «Dai, vai almeno a vederla…» Lo implorava con gli occhi. E suo figlio non poté fare a meno di andare. Afferrò il mazzo di chiavi, uscì direttamente in pigiama. Gli stava facendo i conti in tasca, Sandra. Lui scartava i pasticcini disinvolto, faceva un giro per la stanza. E lei gli faceva i calcoli addosso. Sommava cifre ipotetiche a più zeri, la sua testa
lavorava come un forno, arrotondava ora per eccesso ora per difetto. Non aveva la più pallida idea di quanto potesse costare un diamante. Ammesso che lo avesse comprato… Non voleva saperlo. Non le interessava. Nei giorni seguenti Arturo avrebbe tirato fuori dalla tasca della giacca, come un prestigiatore, i soldi per l'affitto, anche gli arretrati, i soldi per saldare il conto della lavastoviglie e dell'autoradio. E lei ogni volta avrebbe guardato le mazzette spuntare e non avrebbe fatto nessuna domanda. Lei, la moglie, avrebbe intascato quei soldi, spuntati come conigli dal cilindro senza formulare, neppure a se stessa, la domanda più ovvia. «Sei felice?» le chiese, invitandola ad alzarsi e abbracciandole il fianco. Avrebbe richiamato l'avvocato, avrebbe lasciato cadere la pratica del divorzio, e in tutto questo avrebbe provato una sottile vergogna. Lo faceva per i soldi. Non solo. La volontà di credere in qualcosa a cui non si può credere. Sandra affondava fra le braccia di suo marito. Era un effetto Valium, le campane automatiche della chiesa che segnavano l'ora. La messa finita, la messa a cui non era andato nessuno. Anna era rimasta in silenzio per tutto il tempo. «Ma a me» reclamò a un certo punto, «non mi hai regalato niente?» Dopo pranzo Alessio portò suo padre a fare un giro sulla Golf nuova. C'era un Arbre Magic, appeso allo specchietto retrovisore, che profumava di anni Ottanta. Alessio non superava i cinquanta chilometri orari. Suo padre affondava la schiena sul sedile anatomico, il nodo della cravatta allentato e gli occhiali da sole. Parlarono di donne e motori, con un filo di imbarazzo nella voce. Alessio guidava, accarezzava il volante, accarezzava il motore con l'udito attento. Guidava assorto, il sole di lato, il vetro posteriore oscurato che hanno solamente i fighi. Le gomme sull'asfalto scivolavano con grazia impercettibile e la moquette dei rivestimenti assorbiva qualsiasi rumore. Un abitacolo protetto e climatizzato. Arturo guardava il paesaggio disteso, come scintillavano al sole i colori di settembre. Era quello che voleva. I giardinetti vispi di ragazzini gli passavano di fianco, le coppie sedute sulle panchine o con il cane a passeggio. Era anche lui nel giusto, adesso. Il paesaggio terso, un poco mosso, delle famiglie nella domenica pomeriggio. È questo che conta. L'auto nuova tirata a lucido, con le nuvole, gli alberi, le case che si specchiano sul cofano. È questo che segna il compimento. L'aria condizionata. Salutare i passanti attraverso il vetro del finestrino rallentando in viale Marconi. Costeggiare il marciapiede: siamo gente che non ha nulla da temere. Alessio guidava, misurava le prestazioni del suo sogno in silenzio. Imboccava la statale che fiancheggiava per dieci chilometri il perimetro della fabbrica. Erano padre e figlio adesso, era una cosa imbarazzante. Accese lo stereo Clarion e tenne la musica bassa, in sottofondo. Una musica anonima, una stazione radio a caso. Scorrevano a destra le ciminiere bordate di rosso, i fuochi semitrasparenti dei convertitori. E al di sopra di tutto, tetra e arrugginita, si stagliava la torre di Afo 4, la cosa che non si ferma.
«Perché continui a lavorare in questo posto di merda?» «Perché non ho alternative.» Suo padre si voltò a guardarlo attraverso le lenti scure dei Ray-Ban. «Io non ti capisco… Hai le carte in regola per fare ben altro!» Si lasciava superare dalle auto più grosse. C'erano Suv targati MI e FI che sorpassavano con una certa violenza. «Mi assicurano la cassa integrazione.» C'erano gli ultimi turisti sbarcati dall'Elba, avevano fretta di tornare a casa. «Mi assicurano lo stipendio ogni mese» disse Alessio ingranando la marcia. Gli era venuta voglia di far incazzare un Cayenne che gli stava incollato al culo e sfarettava. Arturo si accese una sigaretta, abbassò il finestrino, e lo stridore della fabbrica invase il piccolo regno ottuso. «Qualsiasi cosa» disse guardando fuori con disprezzo, «è meglio di fare l'operaio.» «Non so cos'altro potrei fare.» «Ti manca l'iniziativa, ti manca la voglia di rischiare…» La radio trasmetteva Fotoromanza di Gianna Nannini. Quello che gli mancava era Elena, e gli mancava da morire. Evitava di dire a suo padre che perdonarlo gli costava fatica. «Io all'età tua avevo le idee, i sogni. Avevo voglia di svoltarla…» Sorrise. «Se è per questo ce l'ho ancora! E comunque qualsiasi cosa è meglio della Lucchini.» Alessio prese per San Vincenzo, si lasciarono alle spalle la fabbrica. La traduzione esatta dei sogni di suo padre era stata questa: un appartamento di ottanta metri quadri al terzo piano di un casermone popolare, due pignoramenti. Cominciarono le colline. I cartelli sul bordo della strada: "Poponi e cocomeri a 1 euro/2000 lire". Arturo gettò il mozzicone fuori dal finestrino, abbassò il parasole e si diede un'occhiata nello specchio. Era diventato un operaio, suo figlio, gli era venuta la mentalità dello sfigato che paga le tasse e lo prende nel culo. Alessio si lasciò sfuggire un sorriso amaro. «Andiamo a Baratti» disse per cambiare argomento. «Se io fossi in te ci proverei.» «Ma a fare cosa?» «A cambiare lavoro!» alzò la voce suo padre. «Entra nel commercio, prendi una cazzo di iniziativa! Oppure fai l'inculato come stai facendo, ti verrà un cancro, invecchierai a quarant'anni, ammesso che ci arrivi a quarant'anni…» Arturo aveva tirato un pugno sui cruscotto. Alessio stava ingoiando bile. Girò a sinistra, prese per Populonia. Le tombe degli Etruschi erano sassi presi d'assalto dai turisti. Era settembre e c'era ancora un sacco di gente in fila per visitare la necropoli di stronzi vissuti tremila anni prima.
«Io e te non siamo uguali» disse Alessio staccando bene le parole. «Mettiti l'anima in pace. Mi piace farmi inculare, mi piace travasare l'acciaio nelle siviere e avere il ruolo dello sfigato nel mondo. Ma non mi piace inculare gli altri.» La lancetta del contachilometri balzò dai sessanta ai novanta chilometri orari. Suo padre restava in silenzio adesso, chiuso dietro le lenti scure. Ma le sue mani avevano cominciato a torturare un lembo di sedile. «Tu invece cosa hai fatto, eh? Mi hai comprato la macchina?» sputò Alessio. «Tu sì che sei furbo.» Arturo non rispose. La marea di cose taciute che gli ribolliva dentro. Quella sera avrebbe seguito con attenzione l'edizione notturna del Tg regionale. Avrebbe aspettato una notizia precisa, e quella notizia sarebbe arrivata. Avrebbe fatto una telefonata nel cuore della notte. Avrebbe fatto un'altra telefonata al cardiopalma. E poi non sarebbe più riuscito ad addormentarsi.
23
Francesca sbriciolava una fetta di pane, non aveva nessuna intenzione di mangiarla. Appallottolava le molliche minuziosamente fino a ridurle a piccole palline simili al pongo. Intanto osservava le mani di suo padre, come sapevano fare piano adesso con gli ingranaggi, come sapevano quasi accarezzarli. Gesti composti e precisi, ma del tutto slegati dal cervello che non riusciva a capire, per quanto si sforzasse, dove stava il guasto e dunque la soluzione. Enrico era intento a riparare lo spremiagrumi. Teneva di fronte a sé la cassetta degli attrezzi dove ogni utensile era accomodato nell'apposito scomparto. Ne estraeva un cacciavite, una chiave. Li rimetteva subito al loro posto. Francesca lo spiava da sotto le ciglia. Con gli occhiali sembrava più vecchio. Gli era seduta accanto nella cucina fredda. In quella stanza non batteva mai il sole, a nessuna ora del giorno. Almeno quella mattina si aspettava una frase dai suoi genitori, qualcosa come: "Buon primo giorno di scuola". Non era arrivata. Erano arrivati i soliti cenni muti del capo. Suo padre si alzò, andò a infilare la spina nella presa. Non funzionava. Si rimise seduto, smontò di nuovo lo spremiagrumi. Aveva una pazienza infinita, per certe cose. «Lascia stare, ne compriamo uno nuovo…» La voce di Rosa era un flebile miagolio sperso nel tintinnare delle chiavi a stella. Quello non fiatava, ricominciava. Francesca odiava la colazione, il modo in cui era impeccabilmente distribuita sulla tovaglietta floreale. Era un odio tranquillo e ordinato. Il tovagliolo inserito nel portatovagliolo, la tazzina nel piattino coordinato, il bicchiere nel sottobicchiere. Ma Francesca non aveva l'età per sorridere di certe cose. Le passava la fame quando iniziava la scuola e suo padre non era di turno sei-due. La televisione trasmetteva Uno Mattina: Luca Giurato illustrava come disossare un pollo. Era l'unica voce vivente. Francesca teneva gli occhi bassi mentre consumava la porzione di marmellata, e spiava suo padre e sua madre. Non accadeva niente. Rosa stava in poltrona, come sempre. Però aveva voluto un gattino. Già. Si era svegliata una mattina con questa idea, e per la prima volta nella sua vita aveva fatto i capricci. Aveva continuato a farli ogni giorno, per l'intero arco delle giornate. Questo fatto era risultato così singolare che Enrico alla fine glielo aveva portato: un gattino bianco e nero, raccolto in fondo a un capannone della Lucchini. Era tornato a casa con quella bestia avvolta in un asciugamano. L'orco dentro la pubblicità della Barilla. Rosa stava lavorando a una sciarpa. L'animale tenuto in grembo. Non se ne staccava più ormai. Era questa la novità principale. Forse, se due settimane prima anziché dal medico fosse
andata in Questura, non lo avrebbe voluto il gatto che lascia i peli per casa e graffia le fodere del divano. Enrico montava lo spremiagrumi per la quarta, quinta volta. Non si faceva la barba da giorni. Francesca non abbassava la guardia, addentava scaglie minuscole di biscotto per poi masticarle con la massima lentezza. C'era un tempo necessario, aveva imparato a calcolarlo, per fare colazione senza offendere nessuno. Doveva mangiare tutto, o nasconderlo nelle tasche, tenere a bada la nausea e gli occhi bassi, doveva far finta di ascoltare la televisione, aspettare almeno un quarto d'ora, e poi alzarsi facendo attenzione a non strisciare la sedia. Non si erano mai decisi a comprare quei cosini che si mettono sotto le gambe dei mobili. Francesca non poteva prendersi uno schiaffo per questo. Se sua madre fosse andata in Questura, anziché dal medico di base… Francesca guardò l'orologio e si pulì gli angoli della bocca sporchi di aranciata. Il medico era lo stesso stronzo che le aveva ricucito il polso. Ma nella testa di Rosa, che veniva da un paesino sperduto sull'Aspromonte, è il dottore che sa le cose veramente. I poliziotti cosa ne sanno? È il medico che ha la laurea e lo stipendio alto. Un lunedì mattina si era fatta coraggio, aveva indossato il suo unico vestito decente e si era recata nello studio medico affollato. Aveva atteso il suo turno per molte ore, si era preparata mentalmente il discorso. Se lo era ripetuto da capo una dozzina di volte annuendo con la testa, come si ripassa il compito in classe. Ma al momento di dirlo a voce alta davanti alla scrivania del dottore, si era impappinata, e poi era scoppiata a piangere, e poi si era addirittura messa a ridere. Una crisi depressiva, aveva concluso il medico. Le aveva prescritto Prozac e pillole per dormire. Francesca andò a posare la tazza nel lavello, scosse le briciole dalla tovaglia. Enrico era riuscito finalmente a far funzionare lo spremiagrumi e aveva sorriso appena, timidamente, come un bambino insicuro che risolve una moltiplicazione. Avrebbe potuto contattare gli assistenti sociali, consigliare un avvocato. Ma Satta, il dottore, non era deputato a risolvere i problemi delle famiglie, i problemi irrisolvibili delle famiglie. Rosa sorrideva sempre a quel modo adesso, vago e assente. Sorrideva indistintamente alla finestra, a sua figlia, al gatto, a qualunque cosa. E Francesca aveva cominciato a odiarla. Aveva cominciato a fare lei i lavori di casa perché sua mamma era sempre stanca. Però li sentiva, di notte. Il rumore sordo e regolare attraverso la porta, attraverso il corridoio buio e stantio. L'accelerazione dei colpi. Le vocali rauche. Erano troppo sottili, quelle pareti, erano cave al loro interno. Francesca rimaneva ferma, la testa nascosta e il lenzuolo tirato, immobile come un animale braccato. Per non sentire i rumori, l'accelerazione, il rantolo orrendo che veniva dai suoi genitori. Effetto del Prozac. Francesca si infilò la giacca, afferrò la cartella e fece ciao con la mano sulla soglia della porta. Un senso infinito di schifo per quelle due bestie. Richiuse la porta accostandola piano.
Alle otto aveva appuntamento con Lisa in cortile. Avrebbero pedalato insieme fino a Montemazzano, tutta salita, verso il complesso delle scuole superiori. E sulla cartella dell'anno scorso c'erano ancora le scritte di Anna con l'Uniposca. La campanella suonò alle otto e un quarto. Dieci anni prima le scuole superiori erano tutte in centro, vecchi edifici a tre piani con le finestre sul mare, e a ricreazione si scappava al porticciolo per un bacio o una sigaretta. Adesso le avevano trasferite sulla statale, tra un campo di calcio spelacchiato e un distributore di benzina. Quattro blocchi quadrati di cemento. Davanti torreggiava la Lucchini con i suoi forni. Francesca salutò Lisa sulla soglia dell'edificio numero uno, il liceo classico. Aveva intravisto parcheggiato al cancello l'Aprilia di Anna. La salutò facendo attenzione a sfiorarle solo la guancia, senza baciarla. Poi corse all'ingresso del numero quattro, l'IPS. Le campanelle suonavano tutte contemporaneamente. Non fece in tempo a entrare nella nuova classe che sentì ululati da tutte le parti. «Ammazza che topa!» in coro mentre sfilava fra i banchi. Un manipolo di deficienti. Andò a sedersi in fondo, vicino alla finestra. Facce conosciute e interscambiabili, corpi svaccati sulla cattedra. Erano quasi tutti maschi, molti ripetenti, molti di via Stalingrado. Gente che andava lì a fare casino, a scaldare il banco perché la legge obbligava a scaldarlo. Tempo due anni e sarebbero finiti tutti in fabbrica. A sollevare siviere, a perdere un braccio, a fare l'acciaio. Francesca aprì lo zaino, sistemò un quaderno e una penna sul banco. Ignorava i commenti dei maschi, le parole oscene dei maschi con il giornalino porno in tasca. Non sapeva dire perché si trovasse lì. La legge non era una motivazione sufficiente, un decreto del governo non ha senso se la realtà è un'altra. Non si voltò a controllare la faccia della persona che le si era seduta accanto. Non le importava: chiunque fosse non era Anna. Si ostinava a guardare fuori dalla finestra, invece, con grandi occhi cupi. Non rispondeva alle domande: «Come ti chiami? Oh, parlo con te, t'ho detto come ti chiami?». Non le interessavano le cartine geografiche appese ai muri, né la tavola periodica degli elementi. Non le interessava conoscere il nome della sua nuova compagna di banco. Le interessava l'edificio di fronte. Erano identici: il cubo di cemento dove stava lei e il cubo di cemento dove stava Anna. Ma in mezzo c'era una rete divisoria, una rete malconcia rattoppata qua e là. Evidentemente qualcuno aveva cercato di passare dall'altra parte. Non è una cosa possibile. Non sono due mondi comunicanti. Non basta fare un buco in una rete e infilarci dentro la testa per avere una vita diversa. Anna stava dall'altra parte. Anna era nascosta dietro una di quelle finestre.
Non sapeva ancora quale, ma più tardi Lisa le avrebbe svelato il piano e la posizione. Allora lei avrebbe guardato in quella direzione ogni mattina nella speranza di vederla: uno spicchio di testa, una spalla, una vampa di ricci nel riflesso del vetro. Non le avrebbe più rivolto parola, questo era certo. Anzi, l'avrebbe odiata con costanza e per sempre. Ogni tanto si divertiva a immaginare la sua reazione se lei fosse morta, fantasticava di impiccarsi per il gusto d'indovinare la faccia di Anna che la scopriva appesa a un pilone del cortile, il suo tremendo senso di colpa. Avrebbe fissato la sua finestra ogni giorno per l'intera durata delle lezioni, senza mai distogliere lo sguardo, decifrando tutte le ombre, e prima o poi l'avrebbe vista. La sagoma di un morto. Dall'altra parte. Per cinque ore nette Francesca sarebbe rimasta incollata al vetro della finestra in attesa di Anna. Quello stesso giorno Elena si svegliava nella sua casa di Campiglia. Osservava dalla grande finestra del salotto la distesa dei campi, degli uliveti, dei vigneti che si susseguivano fino al mare, agli impianti colossali. Da lassù, da quella posizione privilegiata, la Val di Cornia era un luogo sereno e ordinato. I contadini da una parte, i metalmeccanici dall'altra e i pescatori laggiù, al porto. Dalla sua villa si vedeva anche la sagoma dell'Elba, uno scoglio circondato da foschie. Elena vagliava per l'ennesima volta le opzioni possibili e intanto sorseggiava il caffè. Non c'era ragione di spingersi a Pisa o a Firenze se quei campi, quel mare, la linea dolce delle colline fino alla torre di Populonia, erano la sua casa. Allora si era vestita e pettinata, aveva inserito le chiavi con decisione nel cruscotto dell'auto e aveva guidato verso Piombino, pronta a sostenere il colloquio di lavoro. Stanze di legno lucido e ottone. La principale azienda della zona. La Lucchini. Una laurea in Economia aziendale con il massimo dei voti. Era perfettamente conscia delle opportunità dischiuse da un titolo simile. Era la giovane, volenterosa, bella figlia del primario dell'ospedale. Elena guidava serena verso la grande fabbrica di acciaio senza sapere ancora, ma in fondo presentendolo, che avrebbe di lì a poco selezionato il personale per l'industria che produce rotaie per tutta Europa e anche per gli Stati Uniti. Alessio nel frattempo dormiva beato, sfiancato da otto ore notturne alle prese con Afo 4 il ribelle, Afo 4 il mitico, funereo forno. Acciaio fuso che cola nelle siviere, acciaio incandescente che diventa prodotto per il mercato, profitto, salario, connessione per le città, i luoghi, il tempo. Eterogenesi e palingenesi dei fini. Qual è il fine, veramente? Non poteva immaginare che, tra qualche settimana, il suo grande amore avrebbe occupato un ufficio nella torre dirigenziale. E avrebbe assunto e licenziato, valutato e calcolato sulla vita, le ore, i giorni di quelli come lui. Non poteva davvero immaginare che tra pochi mesi l'ennesimo suo collega sarebbe morto e lui avrebbe agitato la bandiera della FIOM contro di lei che stava ormai, a tutti gli effetti, dall'altra parte.
Elena guidava tranquilla, parcheggiava all'ingresso della grande fabbrica. Era sicura che l'avrebbero assunta, era sicura che Alessio ne sarebbe stato felice perché lei una siviera non l'aveva vista mai, non aveva idea di come fosse fatta, e nella sua testa via Stalingrado era una specie di fumetto. Il sole irradiava i suoi raggi attraverso la città che lavora, i mille vetri che nascondono persone piegate sui banchi, sulle scrivanie ricoperte di fogli, a fare calcoli, a fare scarabocchi con la penna, le duemila persone che producono i blumi, le barre, le billette, e per fare questo devono stare attente a non cadere, a non distrarsi, a non bruciare sotto la colata continua dei metalli. Vetro, ferro e cemento. 2001. Quel giorno era il 10 settembre.
24
Il giorno dopo sembrava estate. Mattia era andato ad aspettarla all'uscita da scuola. Stava appoggiato alla portiera della Panda parcheggiata in doppia fila, come decine di genitori in attesa. Era di festa e voleva portarla al mare per l'ultimo bagno della stagione. La vide sbucare da una folla variopinta di pischelli con lo zaino enorme e il righello che veniva fuori. Anna entrò in macchina sbatacchiando lo zaino sui sedili posteriori. Abbassò del tutto il finestrino a manovella e allungò le gambe sul cruscotto. Si stava bene. Ripassava mentalmente l'alfabeto greco mentre Mattia con una mano guidava e con l'altra le accarezzava il ginocchio. Il paesaggio fluiva accanto al finestrino: una terra di colline e impianti riluceva sotto i raggi ancora caldi. Andarono a Torre del Sale, la spiaggia bianca tra l'Enel e la Dalmine-Tenaris. La trovarono quasi deserta. C'era l'argilla nel fondale. C'erano due o tre impiegate distese a prendere il sole, con gli abiti da ufficio appallottolati di fianco. Pausa pranzo: ultima occasione per l'abbronzatura. Il sole era intenso e bruno. Splendeva come se fosse l'inizio, come se stesse per ricominciare tutto: l'estate, i giochi, Francesca distesa sul bagnasciuga… Un sole ingannevole. L'acqua si era raffreddata di qualche grado. Anna intinse la punta del piede e la tirò via con i brividi addosso. Ma Mattia veniva correndo e la buttava in acqua. Mattia voleva fare il bagno e l'amore nel mare. Si baciarono a lungo, come fanno i fidanzati, nella melma, nel moto piano e regolare delle onde. Mangiarono un panino e un frutto. Poi tornarono a baciarsi, la sabbia fragrante si appiccicava addosso. Erano le 14 e 49. Le impiegate si rivestivano per tornare al lavoro. I due ragazzi si premevano uno contro l'altra sotto il sole, l'odore di gasolio che veniva dallo scarico della fabbrica lì accanto. «Quando mi porti all'Elba?» gli chiese. «Presto» rispose lui. Adesso, dopo il bagno e l'orgasmo, la vita era rientrata nella norma. Settembre. Tutta la gente rintanata negli uffici. La settimana scandita dal nome dei giorni: il ritmo costante del mondo che deve produrre. C'era un vuoto adesso. Anna e Mattia lo percepivano appena. Era accaduto qualcosa dentro la norma. Nella spiaggia deserta si avvertiva la mancanza dei bambini che giocano a palla, la palla che rotola fino al tuo asciugamano. I bambini erano tornati all'asilo. E il mare scivolava in letargo. Era accaduto qualcosa di straordinario nel silenzio. Una nave mercantile procedeva lentamente all'orizzonte verso la Sardegna, lentamente perdeva i contorni nell'azzurro. Al ritorno Mattia guidava lungo la strada sterrata del quagliodromo. Anna guardava fuori dal finestrino il perimetro della Dalmine-Tenaris. Le balle di fieno, i tralicci. «Perché non ci sono più i fili?» Anna li indicò.
Mattia stava mettendo a dura prova le sospensioni della sua vecchia Panda tra buche e sassi, sollevava un gran polverone di terra. Sorrise. «Perché non funziona più quella linea elettrica?» insisté Anna. «Diciamo pure che tuo fratello gli ha dato la mazzata finale…» Erano le 15 e 30. Mattia guidava calmo sulla statale, nel promontorio tranquillo del martedì dopo pranzo. Capannoni da cui uscivano ed entravano camion. Le saracinesche sollevate per le pulizie dei negozi prima di ricominciare il commercio. «Facciamo un salto da Aldo?» Anna annuì controvoglia: era un posto triste e sporco, c'erano troppi uomini adulti là dentro. Ma quella era l'ora del bar per gli anziani in pensione, per i giovani nullafacenti. È una cosa normale in periferia, cazzeggiare in un bar di quartiere dove si conoscono tutti. Mattia parcheggiò di traverso sul marciapiede. Uscirono dall'auto con i capelli bagnati, le infradito e i piedi pieni di sabbia. «Vi godete la vita, accidenti a voi» disse un vecchio vedendoli entrare. Mattia appoggiò il gomito sul bancone, ordinò una sambuca e un succo di frutta. «A' stronzo» gli gridò Alessio ridendo. Era seduto a un tavolo con Cristiano e altre persone che giocavano a carte. C'era un padre con due bambini al seguito, che comprava una manciata di lecca lecca per loro e ordinava un Fernet Branca per sé. C'era il solito marocchino che si accaniva al videopoker senza cavarne neppure un centesimo. Il bigliardino preso d'assalto, e la palla che rimbalzava contro le porte facendo un gran casino. Un poliziotto in borghese fumava. C'erano metalmeccanici con la tuta da lavoro ancora addosso, e altri che dovevano cominciare il turno. Erano quasi le quattro. In fondo alla sala c'era il televisore sintonizzato su Rai Uno. Anna si era seduta sulle ginocchia di Mattia e beveva tranquilla il suo succo di frutta. La gente parlava senza fine. Anna osservava suo fratello che discuteva allegramente di cose a lei oscure. Parole come: bamba, rimbalzavano da una bocca all'altra, progetti chiamati storie da concretizzarsi nelle prossime settimane, per ottenere grana a sufficienza. Indicibile puzza di fumo. Era fiera di suo fratello, era fiera del suo ragazzo. Era in pace. Gli uomini che conosceva la salutavano con un pizzicotto sulla guancia. Era fiera del suo mondo, anche se era sporco e puzzava. Dopo qualche minuto arrivarono anche Maria e Jessica. Sì, il suo mondo solido ed elementare: ne era fiera. «Oggi è venuta una cliente che volevo ammazzare» disse Jessica. Cercarono due sedie per sedersi insieme a loro. «Voleva un perizoma, io le ho detto: "Signora, non abbiamo la sua taglia".» Gente andava e veniva. «E quella si è offesa, se l'è presa con me! "Mi dispiace" le ho detto, "provi a rivolgersi al negozio di fronte." Ma cosa ci posso fare io se sei grassa?, volevo dirle. Che stronza!» I vecchi parlavano di donne ucraine. Nessuno ascoltava Jessica e la storia del perizoma. Nessuno ascoltava nessuno, se non c'erano di mezzo sesso e soldi. Irruppe la sigla del telegiornale.
A quest'ora? Aldo indicò lo schermo del televisore e intimò a tutti di fare silenzio. Edizione straordinaria. I mazzi di carte sbattevano sulle superfici macchiate dei tavoli. Gran quantità di sigarette spente nei posacenere colmi. Nessuno ci fece caso. «Cazzo! Fatemi sentire!» gridò il gestore che aveva arrotolato lo straccio per pulire e si era avvicinato al televisore. Alzò il volume con il telecomando. Il giornalista era uno di quelli che si vedono poco, uno di quelli che sostituiscono i colleghi a Pasqua e a Natale. Edizione straordinaria. Uno dopo l'altro cominciarono ad ammutolire e a girare le teste da quella parte. Il giornalista biascicò qualcosa di incomprensibile per alcuni secondi. Poi lo schermo fu invaso dall'immagine di due grattacieli e una colonna di fumo denso. Comparve la scritta: "Live. World Trade Center, New York". «Cos'è?» Il videopoker continuava ad andare. «Ma è in America…» Qualcuno posò il bicchiere. Qualcun altro lo tenne in mano senza bere. E i bambini continuavano a urlare «Del Piero!» e «Pippo Inzaghi!». «Sssh!» fece Aldo. «Fatemi sentire.» Adesso si erano fermati tutti. Anna finiva di masticare una Big Babol panna e fragola, per poi appiccicarla, non vista, sotto la superficie del tavolo. «Cos'è? Hanno ammazzato il presidente?» Le partite interrotte stavano in mazzi di carte sparpagliate, alcune erano cadute per terra insieme alla cenere e agli scontrini. I bambini continuarono a giocare a biliardino fino a quando intuirono che c'era troppo silenzio e doveva essere successo qualcosa. Allora lasciarono cadere le braccia lungo i fianchi, e la pallina rotolò ancora per pochi istanti prima di fermarsi. La voce dello speaker inceppava. L'immagine si oscurava e poi tornava a riproporsi, uguale a se stessa. Due grattacieli e una colonna di fumo. Zoom sui grattacieli: erano due colonne di fumo che venivano fuori da due buchi. Li per li nessuno riuscì a capire che la superficie sventrata, in realtà, erano finestre di uffici. Nessuno poteva immaginare che i puntini neri che cadevano nel vuoto erano esseri umani. Cristiano si voltò verso l'ingresso. Stavano entrando due carabinieri in divisa. «Che succede?» «Boh. C'è l'edizione straordinaria dagli Stati Uniti.» I due carabinieri si appoggiarono al bancone e presero anche loro a guardare, ma prima ordinarono due caffè corretti sambuca.
«I due aerei si sono schiantati questa mattina» diceva la voce. «Un boeing 757 appena dirottato e poi evidentemente…» Non era evidente niente. «Diciotto minuti dopo un altro aereo si è schiantato sempre sopra la torre.» Nessuno ci capiva un accidente. L'immagine era ferma. Si muoveva solo il fumo. «Ma è in diretta?» chiese qualcuno. «Alcuni aggiornamenti, Borrelli?» chiese il giornalista. Comparve Giulio Borrelli in diretta da New York, una faccia familiare che da quel luogo lontanissimo del mondo si rivolgeva all'Italia nel tentativo di spiegare. «Be'» titubò, «questa è la più grossa catastrofe, il più grosso attacco terroristico portato nel cuore dell'America.» Silenzio generale, silenzio pesante da sostenere e brividi da film d'azione. Cristiano disse: «Secondo me è Real Tv». Prese a mescolare il mazzo. «Sai quelle americanate del cazzo…» Ma era il telegiornale. Ricominciarono a parlare fra loro, a bassa voce. Qualcuno rinunciò a capire e tornò alla sua partita di poker, riprese a incolonnare monete da mille lire. Anna aveva la sabbia anche dentro il costume e le dava fastidio. Alessio fissava attento lo schermo, ma ormai era uno dei pochi. La gente tornava ai suoi fatti, e alcuni tornavano a casa. Passarono quarantadue minuti così, con le immagini live e le inquadrature monotone, i giornalisti che dicevano di corti islamiche, di un terzo aereo schiantato sul Pentagono. Aldo non serviva i clienti, si sforzava di connettere la notizia al tessuto del mondo, il suo mondo. Alla gente non gliene fotteva assolutamente di quel che succedeva in America. Boeing 757 che si schiantano nei palazzi dell'alta finanza, centodieci piani di gente negli uffici al lavoro, è una cosa da Hollywood a cui nessuno crede. Mattia faceva il solletico ad Anna dietro le orecchie. E Anna diceva che doveva imparare l'alfabeto greco e i sostantivi latini per domani. «Mi porti a casa?» I due carabinieri chiamarono in caserma per sapere qualcosa. Ma nella caserma di Piombino, un palazzetto scrostato con due palme davanti, gli impiegati ne sapevano meno che al bar. Dopo quarantadue minuti l'immagine nello schermo si animò di colpo. Videro il grattacielo che veniva giù. Veniva giù come la colonna di sabbia dentro la clessidra. E poi veniva giù anche l'altro grattacielo. Tutto giù al grado zero. Allora al bar di Salivoli qualcuno cominciò a gridare, a gridare di meraviglia e di stupore, mentre le grida in diretta degli americani venivano a chiedere aiuto fin lì. «Boia!» Ma era una cosa assurda dall'altra parte dell'oceano e del mondo. Forse era fuori dal mondo. Alessio e Cristiano si guardarono in faccia. Tutti si guardavano in faccia increduli adesso che gli americani urlavano come bestie e i grattacieli non c'erano più. «Ma è in diretta?»
«Succede davvero o si drogano?» Decine di persone a Piombino, da Aldo, cominciarono a mandare sms e si precipitarono a telefonare. «Oh! Accendi il televisore!» dicevano alle mogli, ai figli. «Sbrigati, c'è il mondo che cade!» Anche Francesca a casa di Lisa era davanti al televisore. Anche lei guardava le Torri cadere, la caduta mandata in onda decine di volte. La ripetizione dello straordinario ha qualcosa di incomprensibile, e Francesca ci mise un attimo a capire che era la storia. Aldo posò un bicchiere sul banco. «Gente» gridò, «agli americani gli hanno fatto un culo così!» Alcuni applaudirono. Mattia sorrise ad Anna come a dire: hai visto? Siamo insieme durante un avvenimento importante. «Gli hanno aperto il culo 'sto giro, ragazzi!» Alessio scosse il capo stordito: «Cioè, hai capito? Si son schiantati, come se adesso arriva un aereo e si schianta sull'altoforno… È un macello, salta la Lucchini…». C'era aria di esaltazione adesso, come in uno sciopero della FIOM-CGIL. Non era possibile credere che in quell'immagine assurda c'era gente che stava morendo. «Ma oggi ci fanno lavorare lo stesso?» «Vedrai è quello» rise uno. «Succede una roba negli Stati Uniti e Lucchini chiude!» Ridevano in molti adesso. «Capitalisti di merda!» Era un fatto che non era un fatto. Era un film. Anna, fissando per l'ennesima volta i giganti di cemento crollare nel cuore di Manhattan, sentì che c'era la storia, la storia che è una cosa smisurata e incomprensibile eppure lei ne faceva parte. Anna scopriva di fare parte della storia e se ne meravigliava, ma soprattutto si rendeva conto che le mancava Francesca. E che adesso la voleva lì, con lei, come se quello mandato in onda all'infinito fosse un matrimonio o un funerale, uno di quegli eventi per cui si deve stare vicini per forza, e non importano più le litigate. Francesca a casa di Lisa provava la stessa cosa, cioè le mancava Anna, la piccola mano di Anna, mentre le Torri crollavano per la decima volta. E stare separate non aveva senso. Il titolo del "Manifesto" fu questo: Apocalisse. Quella sera a Piombino le strade erano deserte. Tutti erano rimasti a casa a fissare il televisore. Raccolti sui divani, intorno al tavolo di cucina, con l'adrenalina di assistere a qualcosa che sarebbe rimasta nei libri di storia. Sandra era esagitata, telefonava in continuazione al Partito. Elena era sconvolta, avrebbe voluto mandare un sms ad Alessio. Ma per scrivergli cosa?
E Anna e Francesca, ciascuna nel suo letto, non potevano fare a meno di pensarsi e di avere voglia di vedersi, e di odiarsi anche un po'. Così Anna si era alzata, aveva acceso l'abat-jour e si era messa a sfogliare il diario dell'anno scorso, si era riletta tutte le frasi di Francesca, con gli errori ortografici e i cuoricini al posto dei puntini sulle i. Erano così significativi quegli scarabocchi, le lettere piene di svolazzi, almeno quanto il fatto che a Manhattan adesso c'era un buco e stava per cambiare la direzione del mondo. Alessio dal carroponte ascoltava la radio. Centinaia di radio e televisori accesi nei capannoni della Lucchini, sintonizzati sulla medesima frequenza. L'attacco alle Torri Gemelle, il terrorismo che ha vinto nel giro di poche ore sull'Occidente, tra i fuochi, i treni-cisterna, le siviere incandescenti, migliaia di piccoli uomini in tuta fondevano ferro e carbonio, acciaio e ghisa per fare le rotaie, i bastimenti, le armi d'Europa e degli Stati Uniti. Solo Enrico, inerte sulla poltrona, aveva cambiato canale. Si era imbattuto in uno strano cartone animato, poi in un western con Clint Eastwood. Pensava ad altro. Pensava al corpo di sua figlia nel binocolo da pesca. Tagliato netto nella lente, dentro. La schiena, la punta del seno in controluce, nell'acqua. L'estate era finita e lui aveva riposto lo strumento in un luogo sicuro della casa. I lontanissimi Stati Uniti, la caduta. La sua bambina tenuta nel palmo di una mano. L'aveva tenuta intera, odorosa, nel palmo della sua mano quando era uscita dall'incubatrice. E si era addormentato, da solo.
Parte terza Ilva
25
Piove a dirotto. È un fatto. Arturo fissa il movimento dei tergicristalli, mozziconi di pensieri gli attraversano il cervello. È in uno stato di tensione straordinario, è dentro l'abitacolo dell'auto. Svolta a sinistra, imbocca la statale. Forse è in salvo. Erano in borghese, hanno spianato le pistole. Arturo guida piano per passare inosservato, sente le scariche di adrenalina lungo braccia e gambe. Gli hanno mandato a monte un affare da cento milioni, forse anche di più, ma non lo hanno beccato. Adesso succede qualcosa. La macchina davanti frena e inserisce le quattro frecce. Si aggiunge un ulteriore fatto che impone di rallentare e poi fermarsi. Stop. Arturo è fermo. Cos'è, un incidente? Non ci voleva proprio. Piove a dirotto da questa notte. Pioveva prima, sulla banchina del porto all'alba quando è esplosa la retata. E piove adesso. Il traffico è fermo. L'acqua batte sui cofani delle auto in coda. È gente che va a lavorare, gente che suona il clacson perché deve timbrare il cartellino. Sono le otto e mezza del mattino. L'acqua ingorga i tombini. Scivola lungo i piccioli delle foglie, le poche rimaste. Scuote i rami nudi degli alberi a lato della strada. Arturo non riesce a pensare. Deve decidere dove andare, trovare una sistemazione, un escamotage – poi, forse, telefonerà a Sandra. Arturo fissa i tergicristalli e pensa che ci sono milioni di fatti nel mondo, collegati fra loro, estranei e connessi. Lui è uno di questi, uno dei tanti. Un fatto vivente e pensante nella catena illimitata e indifferente. L'acqua scivola lungo i piccioli delle foglie, nelle grondaie dei capannoni sulla statale all'uscita di Piombino. È un attimo perdere il controllo. L'acqua intasa i tombini e forma pozzanghere sull'asfalto crepato. È un attimo scivolare sul dorso della catena, finire in una costellazione ignota di eventi. Non c'è tempo. Piove sul motorino rovesciato, e sul corpo di un uomo riverso a terra. Arturo fissa i tergicristalli, poi getta uno sguardo nello specchietto retrovisore e impallidisce: c'è un'auto della polizia giusto dietro di lui. Accende il riscaldamento. I vetri si stanno appannando. Pasquale… povero cristo. Di sicuro lo staranno portando a Livorno, a sirene spiegate su un'auto della polizia come quella, lo avranno ammanettato… E io per un pelo non ho fatto la stessa fine. Fissa il movimento dei tergicristalli da sinistra a destra, da destra a sinistra. Non si sa se è vivo o morto, il corpo disteso a un centinaio di metri sull'asfalto. La gente non sa guidare quando piove, pensa Arturo, la gente viene presa alla sprovvista. Aquaplaning si dice. Si dice che quando perdi il controllo e ti schianti sul guardrail, ti fai
male. Ma ci sono migliaia di modi per farsi male. Incidente si dice. Chiamiamo i fatti contro cui ci schiantiamo con questo nome. Non si capisce se l'uomo disteso fra le lamiere è un cadavere oppure respira. Piove sui capannoni della Lucchini S.p.A., sulle ciminiere bordate di rosso e sui nastri trasportatori carichi di ghisa. Arturo fissa il movimento automatico dei tergicristalli, sa che alla sua destra si svolge lo spettacolo dell'industria per ben dieci chilometri quadrati. Ma non lo vuole guardare. Stanno passando solo pochi minuti. Devono ancora fare le opportune telefonate. Devono rendersi conto che qualcuno è riverso in un cumulo di lamiere, e occorre digitare il numero del pronto soccorso. Arturo cerca di spannare i vetri con il riscaldamento, pensa che l'uomo disteso per terra è morto, e lui invece è vivo. Oppure è esattamente il contrario. Alla sua destra, la Lucchini è fradicia e brucia carburante. Lui lo sa, ma non vuole guardarla. Piove da questa notte sull'altoforno. La cosa che non si ferma. L'acqua batte sui metalli senza interruzione: le billette e le barre disposte nei parchi ad aspettare, i camion fermi in coda e gli operai al riparo sotto teloni improvvisati. I Caterpillar sono tutti fermi adesso, come le auto sulla statale e il corpo dell'uomo steso a terra. «Cristiano, torna a casa» gli dice il capo. «Oggi non se ne fa di niente.» Tanto non smette. La pala raccatta solo fango e non riesci a separare la materia da riciclare dall'inerte. Tra pochi minuti arriverà l'autoambulanza. Alessio e Mattia si danno il cambio sul vagone motore del treno siluro. Sono fradici da far schifo e stanno bestemmiando. Sulla statale, loro non possono vederlo, c'è un cristo volato giù dal motorino e non si sa se è vivo o morto. Poteva essere mio figlio, pensa Arturo. Ma non vuole pensare, vuole fissare i tergicristalli – il dato più semplice nel tessuto del mondo. Piove sul cofano dell'auto. Quella dietro di lui è un'Alfa 147 della polizia con i lampeggianti accesi. Blu dei lampeggianti sotto un cielo scuro che sembra notte. Ma è mattina. Arturo li guarda e va in fibrillazione. Quei poliziotti di sicuro stanno discutendo della retata al porto, di sicuro stanno dicendo: c'era un quinto uomo, ma il bastardo l'ha fatta franca. Alessio sta scaricando siviere dal treno siluro e non sa che il quinto uomo è suo padre. Suo padre pensa: se Pasquale fa il mio nome è la fine. Gli altri li hanno presi all'alba, proprio mentre scaricavano la nave. E lui è in salvo, forse. Piove sul cadavere di un gatto che nessuno ha raccolto. L'autoambulanza tarda ad arrivare. Cristiano sale sul suo scooter e guarda annoiato la coda che si è formata sulla statale. Alessio e Mattia si fermano a chiacchierare sotto un telone, con la tuta sporca e la sigaretta accesa. «Che tempo di merda» ridono. Movimento regolare dei tergicristalli, un ritmo rassicurante. L'auto è ferma nell'ingorgo ma i tergicristalli vanno. Potevo essere io, quello morto sull'asfalto. Invece sono dentro un'auto che per fortuna non è
la mia, e respiro. Soffermarsi sui dati essenziali, sulla catena minima dell'esistenza. I cellulari li ho spenti? Sì. Ho buttato via le schede. E quello riverso a terra, che non si sa se è vivo o morto, è troppo grosso per essere mio figlio. Arturo sbircia di nuovo nello specchietto retrovisore. Ci sono due uomini davanti e uno sui sedili posteriori. Nell'auto della polizia ferma nel traffico, l'uomo al volante parla, quello accanto cerca di accendersi una sigaretta. Il terzo uomo telefona con il cellulare, sembra giovane e su di giri. Forse c'era anche lui stamattina all'alba, forse era fra quelli che hanno spianato le pistole… e magari 'sto successo gli varrà pure la promozione! Il gorgo non si scioglie. Il gorgo di lamiere e di clacson. Il gorgo dell'acqua. Allora il poliziotto alla guida si scoccia, caccia la sirena e apre un varco in mezzo alle auto. Arturo si sposta, ha una mano che gli trema sul cambio. Se Pasquale non parla… Arriva l'autoambulanza. Arturo si affianca alla corsia di emergenza. Stanno caricando il corpo su una barella. Ancora due minuti, poi potrà fare centosettanta, centonovanta se necessario. Prenderà l'autostrada per Firenze, anzi no, quella per Genova. A Viareggio c'è Sandrini, il suo avvocato, e poi c'è quel suo amico che gli deve un favore… Sandra tutto questo non lo capirà mai. La coda si scioglie, adesso finalmente può partire. C'è una domanda che a rigore dovrebbe porsi: «Che cazzo sto facendo?». Ma non ne ha il coraggio. Piombino scompare velocemente nello specchietto retrovisore. Le ciminiere, i capannoni, i tetti dei casermoni popolari, tutto via, le cose domestiche e familiari. Forse andranno a fargli una perquisizione, ma lui è pulito. Forse vorranno interrogarlo, ma che prove hanno? Pasquale, ti prego, non fare il mio nome! La Lucchini gli corre vicino con i suoi operai fradici di pioggia. Forse – ma è il pensiero di un attimo – aveva ragione mio figlio. Anna osserva il cielo dalla finestra della sua classe. È uno strato gonfio e appesantito di condensa. Piove indistintamente sul tetto piatto della scuola e sui cumuli di alghe marce battute dall'inverno. Piombino diventa una città per morti, a novembre. Fa buio presto, e nel freddo soltanto i soliti escono. Cristiano e Alessio si buttano sui divanetti di Aldo, aspettano il turno alla Lucchini. La vita scandita dai pasti caldi dentro casa e le funzioni minime essenziali. Ma Mattia fa l'amore con lei sotto la coperta di lana che punge, lo fanno per l'intero arco del pomeriggio. E quando è buio torna a casa spettinata, con l'odore e il sudore sotto il giaccone. La professoressa sta spiegando la terza declinazione. Fa segni con il gesso sulla lavagna, disegna vocali a tutto tondo. Un colore per la radice, uno per la desinenza, Anna non ascolta. Fissa il vetro della finestra, osserva la caduta regolare dell'acqua. Non è venuta a scuola nemmeno oggi, pensa. Allora si volta a guardare Lisa che prende appunti sul lato opposto dell'aula. Cerca nel suo volto concentrato le tracce di una qualche spiegazione. Perché la bicicletta di Francesca non è
insieme alle altre parcheggiate al cancello. Perché da più di una settimana non viene a scuola, e chissà cosa cazzo fa, se è malata. Li ha contati, i giorni. Se li è segnati sul diario. Lisa sa, Lisa deve sapere per forza. E Anna la guarda con insistenza, la prof declina i sostantivi per gruppi d'appartenenza, finché Lisa si sente osservata e alza la testa. Hanno sempre evitato accuratamente di guardarsi e salutarsi. Hanno sempre evitato di incrociarsi all'uscita da scuola. Ma Anna sa che Lisa la spia allo stesso modo in cui lei spia Lisa. Sa che ogni particolare verrà registrato e riferito a Francesca. La sua media scolastica aggiornata, cosa indossa e come si pettina, quando è imbronciata, quando si capisce che ha litigato con il fidanzato, persino lo snack che sceglie al distributore automatico: tutto verrà riportato fedelmente. La professoressa spiega a vuoto la terza declinazione e Anna pensa che non ha più voglia di fare finta. Si china sul quaderno e scrive in alto a sinistra: "Nomi imparisillabi che hanno due consonanti prima dell'uscita del genitivo in -is. Esempio: mens mentis, pons pontis". Il genitivo è il caso dell'appartenenza, ripete la prof, è il caso della generazione come dice la parola stessa. Anna pensa che forse dovrebbe decidersi a fermare Lisa all'intervallo per chiederle cosa è successo a Francesca. Il genitivo indica la materia. Cosa è successo a Francesca? Di cosa sono fatte le cose, da dove provengono: l'indicazione è nel come le parole finiscono. Poi suona la campanella e la prof di latino raccoglie i libri, chiude il registro. Anna pensa che per pura strategia dovrebbe decidersi a diventare amica di Lisa anche se Lisa le fa schifo. Poi entra il professore giovane, quello di storia, e le solite idiote fanno finta di cadere dalle sedie. C'è una cosa che Anna si è ricordata e potrebbe essere un appiglio. Potrebbe essere meglio che ricorrere a Lisa. Farle un regalo, scriverle un bigliettino, suonare il suo campanello e resistere anche se viene ad aprirle Enrico. «È il 22 novembre, ragazzi» dice il professore fico. «Vi dice niente questa data?» La classe è muta e assonnata, eccetto le solite che indossano jeans e magliette attillate quando c'è l'ora di storia. «Quasi quarant'anni fa, ragazzi, in Texas è stato assassinato John Fitzgerald Kennedy. Vi dice niente?» Facce assenti, della serie: no, non ci dice un cazzo. «Texas, ragazzi. La terra del petrolio, enormi affari dietro il petrolio. Tutto torna. La storia si ripete. Era il presidente degli Stati Uniti, era il 1963, ragazzi. Guerra fredda. Anche oggi, come avrete dedotto dall'attentato alle Torri Gemelle, siamo in guerra.» Il prof bello s'infervora. «E importante. Gli Stati Uniti hanno sempre ucciso i loro presidenti…» Battutina prevedibile in fondo alla classe: «E perché in Italia no?». Anna apprende la storia del presidente assassinato dall'operaio Oswald, e calcola che
ventiquattro anni dopo all'ospedale di Piombino, provincia di Livorno, nasce Francesca Morganti sottopeso e con pochi capelli. 22: lo stesso numero di Anna. La metà è 11, i topi. Il doppio è 44, la prigione. E 22 è il pazzo, è chiaro. Gliel'aveva insegnata suo padre, la smorfia napoletana. «Ragazzi, è importante» dice il professore giovane e fico. «Tenete a mente le date e gli eventi. Esercitate il sospetto. C'è sempre un complotto dietro una semplice data e un semplice evento. Isolate la parte giusta da quella sbagliata. Ma sappiate che entrambe fanno la storia allo stesso modo.» Anna trova che i dieci minuti di riflessione, i dieci minuti per fare il punto sugli eventi, siano una gran cazzata. Aspetta solo di aprire il libro a pagina 30, "la battaglia di Salamina", e scarabocchiarlo in pace. «Bin Laden e Oswald» dice il professore di ventisei anni. «Chi può dirci veramente chi sono? Sono loro, il male? O c'era un complotto che coinvolge il governo, il capitale, l'intero sistema?» «Poi?» ridacchia qualcuno. Ma il professore ormai è partito: «Il sistema, ragazzi… Voi che idea vi siete fatti dell'11 settembre?». 11: i topi. Decine di Big Babol appiccicate sotto i banchi e sotto le sedie. «Vi ho portato "la Repubblica", bisogna leggerli i giornali.» I ragazzi fanno la faccia storta. Anna detesta i dieci minuti di riflessione in classe sull'attualità che ci riguarda. E mentre quello legge l'ennesimo articolo sul mondo che va a scatafascio, Anna pensa che il 22 novembre è il giorno in cui è nata Francesca, e l'11 settembre è il giorno in cui al bar da Aldo gli era mancata Francesca. E si chiede perché da più di una settimana non viene a scuola. E dice a se stessa che c'è una parte giusta e una sbagliata. E continuare a fare finta di niente è la parte sbagliata. E suonare il campanello della sua migliore amica è la parte giusta. E a lei di Bin Laden e dei complotti non gliene fotte niente. Tutto sommato, oggi potrebbe anche accadere qualcosa di bello.
26
Per ben due ore Anna girò con il motorino sotto la pioggia in cerca del negozio. Un negozio che coincidesse non con un'idea, ma con un sentimento. Non lo trovava. Ci voleva una cosa straordinaria, una cosa che significasse: siamo amiche. Siamo amiche per sempre e nonostante tutto. Anche se non ci parliamo più, anche se è inverno e fa buio presto, oggi è il tuo compleanno e io vengo a regalarti questa cosa. Accettala, perché non trovo le parole. Anna guidava inzuppandosi il giubbotto e i pantaloni. Non la smetteva di piovere, oggi. E lei imboccava le stesse strade del centro per l'ennesima volta, accostava sempre davanti agli stessi negozi, imbottigliata nel traffico, non si decideva a fermarsi. Guidare l'aiutava a pensare, a fare mente locale su Francesca e sulla cosa straordinaria da regalarle. Faceva buio e i lampioni si accendevano di colpo alle cinque e mezza del pomeriggio. La gente si affollava fra le luci delle vetrine, gli ombrelli gocciolanti e il passo veloce dentro le pozzanghere. Mancava un mese a Natale, il Comune aveva già appeso le luminarie. Anna non si decideva a parcheggiare. Voleva una cosa simbolica, una cosa possibilmente eterna. Possibilmente, con diecimila lire. Alle sette si fermò dal fioraio. Non era quello che voleva. Decisamente, stava sbagliando tutto. Ma non trovò di meglio e ormai era l'ora di tornare a casa. Entrò e prese a osservare i fiori: le sembravano tutti uguali e ben misera cosa. Perlomeno erano vivi. Un fiore. Anche se muore, è vivo. Ne vide uno diverso da tutti gli altri. Lo indicò alla negoziante e questa le disse che era una calla. Glielo avrebbe consegnato di persona, questa sera, dopo averle scritto un bigliettino pieno d'amore. Fece applicare un grande fiocco rosa sul vaso e bruciò la paghetta settimanale. Tornò con la calla sulle ginocchia, in motorino, la calla martoriata dalla pioggia. Tentava di difenderla con il giubbotto, ma l'acqua veniva giù a dirotto e sul lungomare tirava vento. Quando entrò in casa lo stelo si era curvato visibilmente, c'erano due foglie spezzate. E sua madre che preparava la cena per prima cosa le disse: «Hai sentito tuo padre?». «No» rispose, e filò dritta in camera sua. Aveva ben altro a cui pensare. Rovesciò il giaccone grondante d'acqua sul letto e salutò a mala pena suo fratello che si pettinava davanti allo specchio mentre il cellulare vibrava di sms. «Che è? Il vostro anniversario?» Alessio rise indicando la pianta. Anna si sedette alla scrivania. Prese a rovistare i cassetti in cerca di un foglio decente. «Sembra un pisello!» «Ti fai i cazzi tua, deficiente?» Era nervosa e non vedeva l'ora che suo fratello si togliesse
dai coglioni. Cara Francesca, come vedi non mi sono dimenticata che oggi è il tuo compleanno. E anche se abbiamo litigato, io voglio farti gli auguri lo stesso Suo fratello rispondeva alle chiamate, urlava e rideva dentro la stanza. Anna non sapeva come andare avanti. Ma perché abbiamo litigato? Lo so che questo è solo un fiore, ma in realtà ha un grande significato. Significa che nella vita, quando due sono veramente amiche, non importano i litigi Suo fratello urlava al telefono e Anna mordicchiava la penna blu, batteva la punta della penna sul tavolo. Si sforzava di trovare una cazzo di frase che non si decideva a venire. Perché io in realtà non ho mai smesso di volerti bene «Ale, ti levi dal cazzo?» «Scusa, sai» disse Alessio al telefono, «ma c'è mia sorella che ha portato a casa un fiore a forma di pene…» Cara France, questo è un fiore e tu sei la mia amica del cuore Non aveva idea di cosa scrivere. Cara France Come si fa a trovare le parole? Per dire cosa, esattamente? Buttò la penna, appallottolò il foglio e andò a cena con il magone. «Anna» le disse Sandra, «tuo padre ha il telefono staccato da questa mattina…» Anna addentò un grissino e rispose masticando: «Boh, l'avrà perso». «Sono preoccupata» le disse sua madre. Erano le otto, la pasta era quasi pronta. E Arturo non tornava. È strano, pensava Sandra, è troppo strano, mentre afferrava le presine. «Io vado un attimo da Francesca» disse Anna voltandosi di colpo. Andò in camera, prese la calla. Lasciò sulla scrivania l'aborto del bigliettino appallottolato e si fece coraggio respirando forte. «Dove vai? Sto scolando la pasta!» Chiuse la porta e scese le due rampe di scale che la separavano dalla sua migliore amica, dalla sua ex migliore, dalla sua perennemente per sempre. Teneva la pianta fra le mani, ma non si decideva a suonare. E se viene l'orco ad aprire? Non poteva sapere che in casa non c'era nessuno. Non poteva avere idea di cosa fosse successo quella mattina. Neppure lontanamente. Fece la cosa più idiota: posò la pianta sullo zerbino davanti alla porta, suonò il campanello e scappò via di filato. Gli spaghetti restarono nello scolapasta per venti minuti. Erano diventati fili gelidi e collosi, simili a capelli. Eppure Sandra non si decideva a buttarli. «Tuo padre ha il telefono spento.»
Erano le otto e mezza passate, era finito il telegiornale. Anna fissava lo schermo del televisore e pensava a quanto era stata idiota a non metterci neppure il nome, sulla pianta, neanche un pezzo di carta con scritto "Buon compleanno". Sandra cominciava a preoccuparsi sul serio: da che Arturo era tornato, non era mai mancato per cena. Era successo qualcosa, se lo sentiva. Alle nove, Anna aveva finito i grissini e si lamentava che aveva fame. Alessio aveva finito di telefonare e di spararsi i capelli con il gel. Si presentò in cucina tutto agghindato e sorridente. «Hai sentito tuo padre?» gli chiese Sandra. «È tutto il giorno che ha il telefono spento…» «E a me che me ne frega?» uscì sbattendo la porta. Fuori continuava a piovere a dirotto, è un tempo che mette addosso presagi. Sandra componeva e ricomponeva il numero di suo marito e sistematicamente dall'altra parte venivano tre brevi suoni, seguiti da un silenzio tombale. Neppure la voce della Omnitel. Il niente più assoluto. La pioggia mette addosso presagi. «Non è solo spento, non dice irraggiungibile… È come se avessero tolto la scheda dal telefono.» Erano le nove e mezzo. «Dammi qua, fammi fare a me.» Anna provò a telefonare a suo padre ed era vero: non c'era il solito messaggio della Omnitel. Tre brevi suoni, poi il nulla. Guardò sua madre spaesata. Erano in cucina da sole, Avevano abbassato il volume del televisore. E fuori continuava a piovere e tirava vento. Sandra cercò nel cassetto le sigarette, e quando lo trovò le cadde dalle mani l'accendino. «È successo qualcosa. È successo un incidente, di sicuro!» Anna era calma, non aveva voglia di agitarsi. Non aveva voglia di incidenti. Non voleva nel modo più assoluto cose brutte. «Chiamo l'ospedale.» «Ma cosa chiami?» gridò sua figlia indispettita. «Smettila per favore, vedrai che adesso viene!» Sandra stava in piedi, pallida, con il ricevitore del telefono in mano. C'era un'aria in casa, un'aria di presagio. Il tavolo apparecchiato e gli spaghetti gelati, una poltiglia di vermi al centro dello scolapasta. Intanto il vento sbatteva le tapparelle, scuoteva gli alberi delle barche producendo rumori ostili. Alle dieci passate suonarono alla porta. «Oh! Finalmente!» sospirò Sandra sorridendo. «S'è dimenticato le chiavi un'altra volta…» Anche Anna sorrise. «Vedi? Che ti dicevo? Sempre catastrofica tu!» «Artù, mi hai fatto prendere uno spavento!» gridò andando ad aprire. «Sei un disgraziato!» felice, sollevata, sollevando il chiavistello della porta. C'erano tre poliziotti. Due uomini e una donna.
«Signora Sorrentino?» Il sorriso le era rimasto appeso alla bocca come una cosa senza senso. Non rispose. Non distingueva alcuna delle linee e dei colori in quella visione. «Suo marito è in casa? Abbiamo un mandato di perquisizione.» La donna mostrò a Sandra un foglio con degli sgorbi sopra. «Mamma?» la chiamò sua figlia dall'interno. Sandra non parlava, non si muoveva, non respirava. Lentamente le passava il sorriso dal volto, ma non riusciva a capire cosa stesse accadendo. «Signora, le ho chiesto se c'è suo marito.» «Non c'è…» riuscì a spiccicare. Sandra restava lì impietrita, e i tre poliziotti si erano già scocciati. «Non abbiamo tempo, ci faccia entrare.» Come essere prelevati all'improvviso dalla propria vita e gettati in una fiction poliziesca di Rai Uno. Sandra non è che non volesse scansarsi, è che non ci riusciva. Guardò prima uno, poi l'altro, poi l'altra dei tre poliziotti. Si mise una mano davanti alla bocca, si appoggiò allo stipite della porta ed emise un suono soffocato e impastato che non aveva niente di umano, mentre quelli la spingevano bruscamente di lato. Anna se li vide arrivare in cucina, con la divisa e tutto il resto. Il resto era una specie di cassetta degli attrezzi con dentro torce, strumenti di rilevazione, strumenti di misurazione. La pistola nella fondina, a distanza ravvicinata, le fece estrema impressione. Rimase in piedi, muta e allibita. «Signorina» disse un poliziotto, «cerchiamo di fare veloce. Lei è la figlia?» Annuì. Non siamo assistenti sociali, pensò il poliziotto. Poi disse secco: «Dobbiamo perquisire la casa. Dov'è la camera dei tuoi genitori?». Anna sentiva sua madre singhiozzare piano in corridoio. «Di qui» rispose facendo strada. Non che ce ne fosse bisogno: erano solo ottanta metri quadri. Come quando qualcuno muore. Tu all'inizio cosa fai? Ti stacchi dalla vita e fai le cose che devi fare. Pensi alle cose che è necessario e indispensabile fare. Come quando qualcuno ti dice che la tua casa deve essere perquisita e tu capisci che tuo padre l'ha fatta enorme. Tu dici al poliziotto dov'è la camera da letto e dov'è il bagno. Rispondi meccanicamente alle parole del poliziotto senza neppure decifrarle. Tu non sei assolutamente in grado di decifrare la frase: «Dobbiamo perquisire la casa». Sentì sua madre che ciabattava fino in cucina. Aveva smesso di singhiozzare e aveva cominciato a parlare da sola. Un poliziotto stava rovesciando i cassetti della credenza e rovistando tra i pacchi di cereali e di biscotti. «Cassaforte o roba simile?»
«No» rispose Anna. «Oggi non è tornato, eh?» «No.» Il poliziotto fece un sorrisino assorto, poi si riscosse: «Lo hai mai visto uscire con una pistola o riporre una pistola da qualche parte?». Anna scosse la testa frastornata. «A che ora esce di casa normalmente?» «Alle nove.» «E torna sempre a dormire?» Anna non poteva sapere che i poliziotti lo tenevano d'occhio da mesi. Non poteva immaginare che quella gente ne sapesse cento, mille volte più di lei. Si sforzava di rispondere in modo veritiero alle loro domande. Supponeva che suo padre e il padre che diceva il poliziotto fossero due persone diverse. «Sì» rispose. «Non è mai mancato? Per una settimana, un mese?» Anna si confuse, mentre i poliziotti le scombinavano la casa. Se i due padri erano la stessa persona, forse lei avrebbe dovuto proteggerla… «Non è mai mancato» disse, dopo un certo tempo. «Tuo padre, non ti sei mai accorta di qualcosa di strano? Una strana telefonata? Strani movimenti?» Il poliziotto che stava rovesciando il materasso la guardò e sorrise in un modo ammiccante. Come se lui e Anna fossero complici. «No» secco. La donna farfugliò qualcosa che Anna intese: «Con un padre del genere…». Ma non sapeva se lo aveva detto sul serio, la poliziotta, o se era solo un'allucinazione acustica. Guardava la camera da letto dei suoi genitori sventrata e aperta. Vedeva volare le mutande di sua madre, i calzini di suo padre, e quelle cose intime allo scoperto le facevano male. «Qui non c'è niente.» La donna richiuse le ante dell'armadio. «Guarda se ci sono doppi fondi» le ordinò l'altro. Intanto il poliziotto che era in cucina entrò nel bagno. Anna lo sentì e pensò che forse era rimasto un suo assorbente usato sulla lavatrice. Corse a vedere allarmata. Non c'era nessun assorbente sulla lavatrice. Solo il lavandino era un po' sporco di dentifricio. Era una cosa normale, ma Anna ne provò ugualmente vergogna, mentre l'uomo in divisa svuotava l'armadietto dei medicinali. Sentì sua madre bestemmiare. Anna stava ferma al centro del corridoio come un animale all'erta, le era venuto improvvisamente un udito da topo e percepiva anche i rumori minimi, il fruscio dei vestiti nella cesta dei panni sporchi. Sandra si affacciò in camera sua e vide come gliela stavano ribaltando. C'erano cassetti tolti
dalla cassettiera, indumenti sparsi sul pavimento e un poliziotto arrampicato sulla scala che sembrava studiare la cima dell'armadio. «Lui non c'entra niente!» gridò. Era fermamente decisa, adesso, a farsi valere. «Signora» disse la donna, «ci rincresce ma è il nostro lavoro…» «Non ha fatto niente!» gridò come sgozzata. «Senza dubbio…» rise il poliziotto in cima alla scala. «Ma a noi un uccellino ci ha detto che suo marito traffica quadri rubati, e smercia pure banconote false.» Sandra registrò l'informazione come si registrano le informazioni pubblicitarie. Poi sbottò: «Non è vero!» con quanta forza aveva. «Lei non ne sa niente, signora, dei traffici di suo marito? Ne è sicura?» La prendevano per scema. «Sorrentino è una nostra vecchia conoscenza, le conosciamo bene le sue gesta… Sa per caso quando torna?» Sandra sbatteva gli occhi incredula. Non riusciva ancora a crederci che c'erano tre poliziotti in casa sua. «Ci avete messo il telefono sotto controllo?» chiese indignata. Uno le sorrise come a dire: signo', questa è una domanda da cretini. Poi aggiunse: «Se si facesse sentire… gli dica di fare un salto in Questura… e che è meglio se viene lui di sua spontanea volontà». «I suoi amici non li conosce?» intervenne l'altro. «Magari sono loro che lo hanno messo in mezzo… Lei cosa ci può dire?» Sandra tacque in un angolo. Non era un incubo. Era una cosa reale. Suo marito non era tornato e tre poliziotti le stavano insudiciando casa. «Qui non c'è un cazzo, porca miseria!» gridò uno degli agenti dopo aver finito di smontare la stanza. «È furbo, il figlio di puttana… Questo ce la fa un'altra volta, vuoi vedere?» Sandra ripensava ai quadri rubati, ai soldi falsi… Tutte ipotesi di reato perfettamente in linea con suo marito. Ecco da dove venivano il diamante e la Golf… «È un disgraziato!» Sandra se lo lasciò scappare a denti stretti. Aveva voglia di spaccare qualcosa, adesso. Se ne andarono a mezzanotte passata, a mani vuote. Dopo aver richiuso la porta, sua moglie corse a controllare la filigrana verde delle centomila lire che aveva nel portafoglio. Sembravano vere, meno male… Poi andò a sedersi in cucina dove stava sua figlia in piedi, di sasso. Passarono alcuni minuti di silenzio. Si guardarono negli occhi. Anna fece per aprire bocca, ma sua madre la zittì subito: «Non dire niente, per favore non dire niente!». Si alzò furiosa.
«Vai a letto, che domani devi andare a scuola.» Anna non si muoveva. «T'ho detto vai a dormire! Smamma che c'ho da mettere in ordine, non lo vedi?» E indicò l'uragano che era appena passato nelle loro stanze. Anna la guardò come a dire: sei matta, siete tutti matti. Poi pensò: ma che colpa ne ho io? Non resse e scoppiò a piangere. «Ma lo arrestano?» biascicò tra i singhiozzi. Sandra tornò in sé e abbracciò sua figlia. «No che non lo arrestano, non preoccuparti…» cominciò a dirle con tenerezza per tranquillizzarla. Ma poi il pensiero dei soldi falsi, e del diamante comprato coi soldi falsi, e i quadri rubati – e le erano pure venuti a mettere a soqquadro la casa – le iniettò gli occhi di sangue. Perse di nuovo le staffe. «Quel pezzo di merda! Disgraziato! Basta, vai a dormire…» Si guardava intorno, i cassetti, le stoviglie, le lenzuola sparse dappertutto sul pavimento. «In galera lo devono mettere! Se non ce lo mettono loro, ce lo metto io! Che non si azzardi a tornare, che non si azzardiii!» Gridava e la sentivano al piano di sopra e di sotto. Lo avrebbero saputo tutti, domani nel palazzo non si sarebbe parlato d'altro. Anna osservava, con i lucciconi agli occhi, sua madre che smadonnava e adesso prendeva in mano il modo, poi lo posava, poi afferrava la scopa e la posava di nuovo, e non sapeva da che parte cominciare. La vide impugnare lo sgrassatore come fosse una pistola e spruzzarlo ovunque sui tavoli, sulle ante, dentro gli armadi, sopra le mensole. A questo punto, Anna decise che era il caso di andare a letto. Erano rimasti gli spaghetti ghiacci nello scolapasta. Quando fosse tornato suo fratello dalla discoteca, domani mattina… E chi lo sentiva Alessio? Avrebbero ricominciato a volare le cose. Intanto sull'A12 Arturo rallentava, metteva la freccia a destra, entrava nell'autogrill. Aveva appuntamento qui con il suo avvocato di Viareggio. Scese dalla macchina, si guardò intorno nella piazzola buia. Stava fifando. Aspettava Sancirmi impaziente, quasi che Sandrini fosse il mago Otelma. Lui di sicuro, con i soldi che gli aveva dato, avrebbe appianato tutto. Ma l'attesa lo snervava. Entrò nell'autogrill e ordinò un caffè corretto sambuca. C'erano un paio di camionisti che divoravano enormi panini con la cotoletta. C'era una ragazzetta succinta che di certo era una prostituta. E poi c'era una cabina telefonica. È un attimo scivolare dalla via dritta in una tutta storta. Però, pensava Arturo, è impagabile avergliela fatta alla polizia e sorseggiare un caffè nell'autogrill di notte… Basta che Pasquale stia zitto e sono salvo. La via storta, ci vuole la vocazione per intraprenderla. E il suo amico che gli doveva un favore, faceva affari anche all'estero… Un paio di mesetti e torno a casa alla grande! Non uno, ma due diamanti porto a Sandra!
Arturo raggiunse la cabina telefonica, sollevò la cornetta e compose il numero di casa. Poi, al primo squillo, vide entrare l'avvocato e riagganciò di colpo.
27
Lo stavano operando d'urgenza. Costole e vertebre fratturate. Una mano fracassata. Un ematoma al cervello che stavano cercando con tutte le forze di far riassorbire. L'uomo era rimasto per troppo tempo disteso sull'asfalto a prendere pioggia e a perdere sangue. Sangue e sensi dispersi nell'acqua dei tombini in mezzo ai clacson. L'autoambulanza ci aveva messo un'infinità di tempo, e il pronto soccorso di Piombino è quello che è. Sala operatoria numero 3, terzo piano. Era arrivato come un sacco di carne, Enrico. Amore mio, diceva la donna seduta in corsia. Era una donna con la faccia gonfia di sonno e di Valium, la cantilena soffocata di chi è poco abituato a reagire. Una donna del Sud, tutta vestita di nero. La gonna sotto il ginocchio, rigorosamente, e i piedi sudati nei mocassini. Amore mio. Rosa era invecchiata e ingrassata sotto la luce al neon, mentre le stavano operando il marito. Rosa faceva schifo a sua figlia che le sedeva accanto composta. La madre piccola e nera. La figlia altissima e bionda. «Dottore» mugugnò la madre. Si era portata appresso una specie di rosario che teneva fra le dita. Il medico disse che non c'era niente da dire. L'odore di disinfettante e varechina. Il colore smorto delle piastrelle. Il muro della corsia senza finestre. Il rumore gracile delle barelle. A Francesca piaceva l'odore del disinfettante, perché sotto una cosa che uccide ce n'è una viva che allarma. Francesca era muta e ferma. Avrebbe voluto strappare il rosario dalle mani di sua madre e farglielo ingoiare insieme a quindici, venti boccette di Valium. In gola. Tutte, una per una. Rosario, Valium e Prozac. Sei grassa, stava pensando. Fai schifo. La corsia era semivuota e le ore ci passavano attraverso con estrema lentezza. Rumore di barelle con sopra corpi incapaci di trattenere i liquidi. Francesca sfolgorava in tutto questo. Se possibile, era più bella del solito: perché c'era una luce nel suo viso, un lucore lattile nel cupo degli occhi. La pupilla tesa e serenamente fissa. La pupilla viva e fiduciosa. La gioia implacabile di chi è forte, sano e meraviglioso. Un millisecondo in cui la luce veniva a galla. La spia intermittente della parola in circolo fra i suoi neuroni. Muori muori muori muori muori. Andò in bagno. Si addossò al muro di piastrelle. Le dava l'orgasmo essere lì. Nel cuore del suo compleanno che nessuno si era ricordato. Fammi questo regalo, fammi questo regalo: muori. Tornò in corsia. Rosa passava le dita attraverso il rosario e cantilenava a voce bassa. Le
veniva fuori l'educazione calabrese, in queste circostanze. La vita è fatta di due sentimenti, pensò Francesca, la schiavitù e la libertà. Si ricordò di sua nonna che non conosceva l'italiano, che menava schiaffi a sua madre anche dopo sposata. Si ricordò il tugurio in Calabria da cui venivano, intanto che i medici gettavano uno sguardo penoso su Rosa. Era una donna che cantilenava inceppandosi perché non ricordava l'Ave Maria. Ma poi cosa vuol dire ave? Una parola senza senso, una parola rituale. L'aveva fatta a diciannove anni. Si era praticamente rovinata la vita per partorire lei. Lo aveva sposato solo perché quel porco l'aveva messa incinta. E adesso guarda come ti sei ridotta. Le portò un bicchiere d'acqua, e un caffè della macchinetta. Diceva: «Se lavoravo anch'io, aggiustavamo la macchina e lui non prendeva il motorino. Se lavoravo anch'io. Gliel'ho detto, prima di uscire. Non lo prendere il motorino, che piove. Se lavoravo anch'io, avevamo i soldi. I soldi. Ave Maria». Francesca spiava attraverso le ciglia lo sguardo mobile di due infermieri. Se lo sentiva formicolare dalle caviglie ai polpacci. E non si teneva. Le aveva detto: «Te a scuola non ci vai più!». Le aveva detto: «Resti a casa e aiuti tua madre a fare le pulizie». Era convinto che non esistesse obbligo scolastico. Era convinto che non esistesse una legge al di fuori della sua. Era vero, non esisteva una legge. E lei non era più andata a scuola. Ma se adesso muore… Il mondo si spalanca in un ventaglio di possibilità infinite. Gli stanno ficcando pezzi di ferro nella carne. Bisturi, forbici. Lo stanno cucendo e disossando. Gli stanno pompando ossigeno e iniettando sostanze. La differenza che passa tra la schiavitù e la libertà è una differenza magnifica. Francesca se lo immaginava come in certi telefilm su Italia 1. Disteso in un lettino della sala operatoria con molte luci rotonde addosso. E si appassionava. Passavano le ore e lei immaginava nei dettagli tutto quel che avrebbe potuto fare se suo padre fosse morto. Concorsi da modella. Roma, Cinecittà, Canale 5. Anna l'avrebbe vista attraverso lo schermo del televisore. E non riusciva più a stare ferma. Non riusciva a stare seduta. Fino a quando Anna avrebbe capito che non potevano vivere separate e avrebbe lasciato il suo fidanzato. Solo io e te, le avrebbe detto. Bum: non esiste più. In nessun luogo della terra, in nessun momento del tempo. Ti svegli al mattino e sai che lui non esiste. Francesca faceva su e giù per la corsia, tratteneva a stento la luce, la smania, la voglia. Fino a quando il medico uscì e disse: «Gli abbiamo dovuto amputare un dito». Passarono la notte in ospedale. La calla era rimasta sul pianerottolo. Lo stelo, già provato dal vento e dalla pioggia, si era curvato fino a piegarsi su se stesso. Trascorsero un'altra notte in ospedale senza tornare a casa neppure per prendere le cose essenziali. La calla appassiva rapidamente, appoggiava il petalo concavo sul bordo del vaso, il cono oblungo di polline anneriva. Trascorsero una terza notte in ospedale, senza lavarsi i denti né le ascelle. La calla non reggeva il peso della polvere e delle ore. La mattina dopo, gli addetti delle pulizie la
presero e la gettarono nel sacco nero.
28
Né in casa Sorrentino né in casa Morganti, quell'anno, festeggiarono il Natale. Il 2001 scivolò nel 2002 senza bottiglie di spumante stappate né botti esplosi. Le imposte al terzo e al quarto piano di via Stalingrado numero sette, la notte di Capodanno, rimasero chiuse mentre intorno il quartiere esultava. Una lavatrice scaraventata in cortile, una decina di feriti al pronto soccorso e un bambino senza una mano. In casa di Anna c'era una sedia vuota. Alessio uscì per andare a ballare e neppure chiamò a mezzanotte per fare gli auguri. Arturo si azzardò a telefonare, ma sua moglie gli urlò qualcosa di indecifrabile nella cornetta e poi la riabbassò di colpo. Sandra e Anna, sole, si spensero davanti al televisore mentre Fabrizio Frizzi faceva il conto alla rovescia. In casa di Francesca andarono a letto ben prima di mezzanotte. Enrico si coricò già alle sette, dopo aver succhiato un cucchiaio di brodo. Doveva essere imboccato e pulito, adesso. Voleva essere accudito, ma solo da sua figlia. Francesca si chiuse in camera sua e scarabocchiò a lungo sul diario. Disegnava i vestiti che avrebbe indossato un giorno, in prima serata. Ascoltava distratta Rosa che coccolava il gatto in salotto, i bambini che sparavano miniciccioli giù in cortile e giocavano alla guerra. «Sono Bin Laden!» gridava qualcuno. «Vi faccio neri!» Entrambe fantasticarono di sgusciare via, arrivare fino al pianerottolo e incontrarsi nel buio lampeggiante dei fuochi d'artificio. Guardarli insieme, strette contro la vetrata. Nessuna delle due lo fece. Lo immaginarono soltanto, sotto le coperte, e affondarono la testa nel cuscino per premere giù quel pensiero. C'era un padre latitante, adesso. L'altro padre era raffermo in poltrona. E ormai erano passati mesi. La loro amicizia era diventata una cosa inesplosa, come i petardi difettosi rinvenuti il giorno dopo. Quelli che ti cavano un occhio se li raccogli dal marciapiede. Anna sedeva al tavolo di cucina, era un giorno qualsiasi di febbraio. Il quaderno spalancato e il dizionario di latino davanti. Aveva come un tarlo, dentro. Cercava le parole senza cercarle. E il tempo non passava mai. Non si amano le parole, non ti cambiano. Le parole non aggiustano le cose. Anna si annoiava. Era la prima volta. Il fatto è che non era mai rimasta sola così a lungo, a guardare le cose inerti intorno, come le cose sono morte nel presente che se ne frega di te e delle tue rogne. Il fatto è che a Piombino d'inverno non c'è un cazzo. Nessuno esce di casa, le strade sono vuote, la gente è rintanata in tuta davanti alla PlayStation. Le sembrava che i pomeriggi estivi sui tetti, in mezzo alle lenzuola stese, a far vedere le tette ai vicini di casa, si fossero estinti per sempre. Il seno nudo di Francesca, sbocciato alla finestra. Estinto.
Si alzò di colpo dalla sedia. Quand'è che una cosa diventa irreversibile? Andò ad aprire il frigorifero, ci sbirciò dentro. Afferrò una confezione di macinato, sbriciolò un pezzo di pane dopo averlo bagnato e mescolò tutto. Le stava capitando di detestare il tempo e quella era la sua azione contro. Confezionò la pappa accuratamente, in un triangolo di carta stagnola. Se la infilò nella tasca della giacca. Vai a vedere cosa c'è là fuori, cosa è rimasto… Uscì di casa. Il fatto è che tu da sola non ti basti. Fuori. C'è una poesia famosa che dice: Febbraio è sbarazzino. / Non ha i riposi del grande inverno, / ha le punzecchiature, i dispetti / di primavera che nasce. Fuori non nasce un accidente. Gliela facevano recitare a memoria davanti alla cattedra, a lei e a Francesca, in terza o in quarta elementare. Le mancava, non poteva farci niente. Scendeva le scale a precipizio, schivava una bambina accucciata a fare pipì mentre i maschi la sfottevano dal piano di sotto. Le mancava Francesca, le mancava qualcosa come essere due anziché una. Allora planava sul marciapiede deserto. Neanche uno scooter truccato parcheggiato di traverso. Attraversava la strada di corsa. Il mare aveva depositato sulla riva ogni genere di spazzatura. Cisterne vuote, assorbenti usati, bottiglie di plastica e di vetro. Anna ci passava sopra con la suola delle scarpe, si abbottonava la giacca perché tirava vento e faceva freddo. Quel che rimaneva della sua spiaggia. La serranda del bar era abbassata, i tavoli e gli ombrelloni legati insieme da una parte, marci di pioggia. Il muso di Anna spuntava dal cappuccio della giacca a vento, incorniciato da una pelliccetta finta. Passava accanto ai cadaveri delle cose. C'erano cocci e cartoni di succo di frutta. C'erano posate e piatti di plastica sventrati. Le docce arrugginite lassù, e qui un secchiello rotto. Voleva pensare che tra qualche mese sarebbe tornato tutto come prima. I ragazzini a piedi scalzi con gli asciugamani arrotolati sulla spalla. Lisa e le altre che giocano a carte. Nino e Massi che giocano a pallone. Perché non dovrebbe funzionare? Ha sempre funzionato. Ricomincia la stagione. Il bar riapre la serranda, tutti si accalcano a chiedere i ghiaccioli. All'inizio di giugno si va al mercato a comprare il costume nuovo, quello più slacciato, quello che diventa trasparente quando è bagnato. Non avrebbe funzionato. Anna si toglieva le scarpe, i calzini, e si arrotolava i jeans alle ginocchia. L'acqua della palude era gelata, ma lei ci affondava i piedi dentro. Si apriva attraverso le canne. Un abbandono, cumuli di ruggine. Questa è la barca rossa dove ho fatto l'amore la prima volta. Quella è la barca azzurra dove mi sedevo con Francesca. Erano presenti, ma erano carcasse. Anna passava le mani su tutto questo. I luoghi ti impastano. I luoghi ti diventano estranei. Si infilò due dita in bocca e fece un fischio. Il fischio lungo e cadenzato. Non ci credeva neppure lei, non ci sperava affatto che sarebbero venuti. Quando qualcosa si rompe, è per
sempre. Suo padre non tornava da novembre, ogni tanto si faceva vivo per telefono e sua madre manco glielo passava, gli buttava giù la cornetta in faccia. Un disgraziato, un incosciente… Non suo, tuo, vostro padre. Mio padre. Invece sbucarono. Uno per uno e a branchi. Da sotto le barche, da dietro i cespugli, da dentro i barili vuoti di petrolio. Erano tanti. C'erano tutti. Erano esattamente ventuno gatti. Anna si chinò per scartare il pacchetto al centro dei miagolii e delle code alzate. Le cose che ritornano e le cose che non possono tornare. Non riusciva a sorridere, non poteva farlo. Tu sei convinto che devi avere di più, di più, ogni giorno che passa. Che questa è la logica delle cose. Invece capita che hai di meno, di meno, ogni giorno che passa. I gatti erano vivi e storpi. Anna contò i mesi da che lei e Francesca non erano più andate a trovarli e a portargli da mangiare. Erano cinque. Ma quelle bestie resistevano a tutto. Quelli s'infilavano dentro le tubature, sotto le macerie, cacciavano gli artigli e le fauci. Perché Francesca non è qui? Perché sono da sola a guardare i gatti puzzolenti che si soffiano contro per accaparrarsi un pezzo di carne? Oggi l'Elba era coperta. C'era così tanta umidità nell'aria che da qui a lì non si vedeva niente. Neppure il profilo del monte Capanne, il contorno spezzato delle cave di ferro. Anna tornò indietro e non riuscì a distinguere chi c'era, seduto su un masso a picco della scogliera. Perché qualcuno c'era, laggiù, a poche decine di metri. Ma stava calando il sole, la nebbia saliva dal mare, era inutile guardare. Volle immaginare che fosse Francesca. Un suo pallido spettro, accoccolato sulla scogliera dove battono le onde. Come nelle leggende. Era una troia, Francesca. Lei l'aveva chiamata subito, appena aveva saputo di Enrico, ma quella stronza non le aveva risposto. Allora era andata a suonarle il campanello, e lei non aveva aperto la porta. Ma perché si ostinava così tanto? Era una gelosa morbosa di merda. Lesbica! L'idea che fosse lei, la sagoma seduta sull'ultimo scoglio, le scioglieva il petto in un rigagnolo caldo. Tanto, cosa avrebbe potuto dirle? Le parole non aggiustano un tubo.
29
Si incontrarono un sabato mattina nell'alimentari in fondo a via Stalingrado. Era un negozio piccolo, di quelli destinati a scomparire nel giro di pochi anni, composto da una stanza sola, con le cassette della verdura sparse per terra, le confezioni di merendine e di biscotti così pressate sugli scaffali che da un momento all'altro poteva cadere giù tutto. Sandra stava chiedendo un paio di rosette e una baguette, quando sentì il campanello della porta suonare si voltò per curiosità. Vide Rosa emergere attraverso la tenda di perline. Lì per lì rimase di stucco. Nel giro di qualche mese quella donna era diventata una vecchia. Se la ricordava vestita male, questo sì, ma il viso ancora fresco, i capelli neri ben pettinati… Adesso le erano spuntati fili grigi sulle tempie e zampe di gallina intorno agli occhi. Le guance gonfie, rilasciate all'altezza del collo, avevano un colorito giallognolo che non prometteva niente di buono. Si trascinava dietro un carrellino a fiorami, di quelli con il manico e le rotelle di gomma, che manco sua zia ci andava più a fare la spesa. Appena la riconobbe, Rosa abbassò lo sguardo. «Ciao» le disse Sandra, con un filo di imbarazzo nella voce. L'altra rispose con un cenno del capo e prese subito a controllare le foglie dei sedani. Era evidente che voleva evitarla. Sandra afferrò il concetto, chiese altri due panini, «Basta così, grazie», mise tutto nella sporta e pagò in fretta. Ma una volta fuori, pensò che si era comportata da vigliacca e si fermò. Si sedette su un muretto e aspettò che Rosa uscisse. Se lo ricordava bene quel giorno, quando le era piombata in casa e le aveva raccontato di Francesca. Sandra non le poteva soffrire le ingiustizie. Era per questo che militava in Rifondazione Comunista, distribuiva volantini, appendeva manifesti, cucinava le salsicce alla festa dell'Unità e di Liberazione. A dire il vero, da quando i compagni avevano saputo di suo marito, avevano cominciato a guardarla storto e a inviarle frecciatine velenose. Anche se non c'erano capi d'imputazione precisi o un mandato di cattura, lo capiva anche un bambino che Arturo era un poco di buono. E lei lo aveva sposato. Rosa uscì dopo pochi minuti, la vide seduta sul muretto ad aspettarla. Fece una faccia spaventata, all'inizio. Non aveva voglia di parlare, né con Sandra né con nessuno. Rosa era una donna che non aveva più niente da dire, almeno così credeva. Però, dopo alcuni istanti di titubanza, le andò incontro e le si sedette di fianco. Le ginocchia, dopo pochi passi, avevano già cominciato a farle male. «Come va, Rosa?» Sandra evitò i giri di parole. «Non lo so, come va» rispose l'altra. «Prendo dei troiai adesso, delle medicine… che in teoria dovrebbero farmi stare bene.»
«Non dovresti prenderle, danno assuefazione.» «Lo so.» Entrambe guardavano fisso di fronte a sé. «Ho saputo di tuo marito, dell'incidente… Volevo passare a trovarti, ma poi non sapevo… Sta meglio adesso?» «Sta come un morto» rispose Rosa, nessuna emozione nella voce. «Sempre sulla poltrona, non muove più un dito. E mia figlia lo deve servire e riverire, la chiama in continuazione, gli fa da balia…» Silenzio. «Almeno non ci picchia più» aggiunse. «Sei sempre in tempo a lasciarlo.» Sandra si fece improvvisamente energica. Si voltò verso Rosa, le afferrò un braccio, la scosse. «Sei in tempo a piantarlo e a chiedere il divorzio. Il Comune la lascia a te, la casa…» Rosa sorrise. «Sai, a volte ci penso. Mi dico: telefona a Sandra, chiedile se vuole fare una passeggiata. Mi dico: perché non andate a fare un giro in centro? Ma poi non faccio niente, e il telefono non squilla mai…» Sandra la interruppe: «Credimi, dai retta a me. Vai a chiedere in Comune, sono sicura che te la danno la casa, e lui lo sbattono fuori, fuori!», Si stava scaldando: «Hai capito? La casa e gli alimenti… Devi trovare il coraggio!». Rosa si voltò e la guardò fisso. «Mi sarebbe piaciuto davvero, sai, andare a fare le compere in centro con te.» Nei suoi occhi c'era una specie di accusa, adesso. «Volevo un'amica, Sandra, una persona che ci parli un po' e dopo stai meglio. Lo so che è anche colpa mia, sono ignorante. Io non le so tutte le cose che sai tu…» Sandra restò un attimo interdetta. Non capiva dove volesse andare a parare. «Però so» Rosa fece per alzarsi, «che tu parli parli, ma il divorzio intanto non lo chiedi. E tuo marito si fa la bella vita a Massa, a Viareggio. Metti che ti fa le corna? E tu sei qui con le grane… Sei rimasta da sola.» Non se l'aspettava. Sandra ascoltava esterrefatta. «Tu parli, ma i fatti sono un'altra roba. E io da sola come te non ci voglio restare. Preferisco tenermi il morto in casa e prendere le medicine. Una donna da sola, Sandra, al mio paese fa una brutta fine.» Se ne andò trascinandosi dietro il carrellino della spesa. Le gambe gonfie già a trentaquattro anni. E Sandra avrebbe voluto picchiarla, adesso, ma restava dov'era, sul muretto davanti all'alimentari.
30
Nino e Massi lo ascoltavano attenti, fissandolo dritto negli occhi. «Ma te non le devi mandare i fiori! Te la devi prende', e rigira' direttamente sul cofano!» stava dicendo Cristiano a Nino. Urlava così forte che qualcuno dai tavoli vicini si voltò divertito dalla sua parte. Alessio fumava e guardava dall'altra, il corso che cominciava a gremirsi di adolescenti. «Perché le donne le devi tratta' male! Sui sedili posteriori a pecora…» «Sì, ma io la macchina non ce l'ho!» obiettò Nino con una punta di disperazione. «Vabbe', cosa c'hai? L'SR?» sbuffò Cristiano. Lui ne sapeva a pacchi, era un uomo che aveva vissuto, e adesso gli toccava pure perdere tempo con questo pischello innamorato della vicina di casa. Un po' si scocciava, ma si galvanizzava anche a spiegare a quei due come funziona il mondo. Un giorno lo avrebbe spiegato a James, e questo pensiero lo pompava di orgoglio. «Allora basta! La pieghi sul sellino, la rufoli in un pratino, in un parcheggio, fai te. Ma non le mandare i fiori, cazzo!» Nino si fece pensieroso. A Massi il Jack Daniel's alle quattro del pomeriggio cominciava a dare alla testa. «Ma France… te non la conosci.» Nino scosse la testa. «Quella non l'ha mai fatto, è difficile… Manco mi considera. Non è una che ci sta, capito? È un casino…» Cristiano perse la pazienza, posò il bicchiere sul tavolo con un tonfo a effetto. Era da un'ora che cercava di far capire a quelle due capre come si fa a trombare. Si abbassò gli occhiali da sole comprati dal marocchino e disse. «Cedo! Ma mi hai visto a me quanti anni c'ho? A me» si batté il pugno sul petto, «le donne mi durano come i gatti sull'Aurelia!». Alessio si alzò per ordinare un altro spritz. Ne aveva sentite abbastanza. Nino e Massi rimasero in silenzio a riflettere. Nel loro cervello c'erano gatti titubanti sul ciglio del guardrail, che a un certo punto prendevano coraggio, si fiondavano in mezzo alle corsie della SS1 e proprio in quel momento spam! Spiaccicati da una macchina. Per quanto si sforzasse, Nino non riusciva a connettere quest'immagine a quella di un'eventuale trombata con Francesca. Tutti e quattro aspettavano qualcosa – che il sabato pomeriggio riempisse le strade di motorini e belle ragazze, che scoppiasse una rissa, che arrivasse Francesca vestita da urlo, e Sonia, Jessica, magari Elena, che si facessero vivi Mattia e Anna, che era da una settimana che se ne stavano chiusi in casa, e che insomma qualcosa accadesse nella primavera appena iniziata, in quel cristo di posto. Se ne stavano sbragati a un tavolino del Nazionale in corso Italia, le schiene affondate sulle sedie, le gambe allungate sotto il tavolo. Ogni tanto lanciavano sguardi feroci e gratuiti ai
passanti, della serie: tu non sai chi sono io. Intorno, agli altri tavoli del bar, gruppi di pensionati esageravano con i grappini e le MS senza filtro. Ragazzine in jeans attillati e l'ombelico scoperto gli passavano davanti sculettando, si tenevano a braccetto e ridevano forte. Camminavano spedite nelle ballerine dorate a caccia del più bello della classe. E loro, i vecchi, voltandosi dalle sedie per guardarle, si illudevano di essere ancora in pista. I quattro ragazzi rimasero seduti per una buona mezz'ora nel dehors del Nazionale. Se si può chiamare dehors una specie di gazebo frusto, montato sbilenco tra la strada e il marciapiede. Di fronte, in piazza Gramsci, un gruppetto di bambini giocava a pallone centrando puntualmente i cofani delle auto, altri prendevano a sassate il monumento eretto in memoria di Antonio. Alessio osservava tutto questo, e Cristiano snocciolava consigli su come posizionare una donna dentro una macchina o sopra uno scooter. Intanto, sulla panchina accanto allo sportello dell'Unicredit, sostavano come parcheggiate tre vecchie con i capelli tinti e le facce impiastrate di trucco. Tre vedove, o tre zitelle, che ogni pomeriggio si sedevano lì e aspettavano non si sa bene che cosa. «Eccola, eccola!» Nino fece quasi un balzo dalla sedia quando la avvistò. «Ma cosa gridi? Non gridare!» gli sibilò Cristiano. «Adesso che passa fai finta che nemmeno esiste.» Nemmeno esiste… Una parola. Francesca veniva come una dea dal fondo di via Pisacane, attraversava la strada in minigonna e tacchi alti, il giubbotto di jeans legato in vita, e Nino si sentiva martellare il cuore dai talloni alle tempie. Francesca emergeva, netta e bionda, tra la gente che affluiva in corso, e neanche quel rospo bitorzoluto di Lisa, che si teneva a braccetto, poteva incrinare la sua bellezza. Nino, Massi, Cristiano, Alessio e tutti i pensionati bavosi che bivaccavano al Nazionale si erano voltati a guardarla, anzi, a scavarla con gli occhi infiammati e fissi. Non ci faceva caso. Lei passava leggera, sospesa in un'aura tutta sua. Solo Lisa aggrottava la fronte, misurava stupita l'effetto esagerato che la sua amica produceva nei maschi. «Ciao!» gridò Nino dai tavoli alzando una mano insicura. Francesca si voltò appena nella sua direzione. «Ciao» rispose annoiata con un filo di voce. Un "ciao" comprensibile solo attraverso il labiale, glielo aveva buttato lì come un'elemosina schifata. Ma lui si era lo stesso esaltato e si agitava nella sedia. «Manco tra dieci anni, te lo giuro, manco tra venti te la scopi quella» commentò Cristiano ridendo. Ma Nino ormai non ascoltava più niente, guardava ipnotizzato il marciapiede dove
Francesca si apriva un varco. Adesso si era fermata di fronte alla vetrina di Intimissimi. Indicava a Lisa reggiseni e perizomi. Quella vetrina doveva interessarla proprio tanto, perché ci rimase più di cinque minuti lì davanti. E in quei cinque minuti Nino le pensò tutte. Raggiungerla, baciarla lì sul momento senza chiederle il permesso. Meglio ancora: sgusciare nel negozio e uscirne con una decina di mutande impacchettate, due buste piene che l'avrebbero fatta svenire per la sorpresa. Nino si era arrovellato intensamente su questa opportunità, ma tanto non aveva un soldo. Quando la vide staccarsi dalla vetrina e scomparire nella folla, si alzò di scatto dalla sedia. «Andiamo» disse a Massi. Se ne andarono senza salutare e soprattutto senza pagare. Cristiano e Alessio li guardarono fiondarsi in mezzo al corso a caccia di Francesca e scossero la testa. «È troppo scemo per concludere» sogghignò Cristiano, «e Francesca è troppo fica.» «Già…» Alessio si era fatto pensieroso. «Da quando mia sorella si è messa con quel deficiente, non si parlano più, lo sai?» «Lo so. Ma tua sorella con Mattia… eh? Che fanno quei due?» «Cazzo ne so!» sputò Alessio. «Non farmici pensare…» Cristiano scoppiò a ridere: «Eh, la sorellina…». «Francesca è strana…» riprese Alessio sovrappensiero. «L'ho sempre vista a casa mia, capito? È da quando hanno due anni che sono amiche. Mi dispiace. E poi non mi torna…» «Sarà gelosa di Mattia, le passerà.» «Le passerà.» Alessio finì lo spritz e guardò fisso Cristiano. «Però adesso, con la storia di suo padre…» Enrico era uno di quei mariti e di quei padri di famiglia che, anche prima dell'incidente, al bar non ci andavano mai. Enrico, quando non era al lavoro, restava a casa a guardare la televisione, oppure lavava la macchina, oppure smontava e rimontava gli elettrodomestici. «È uno schifoso» disse Cristiano, improvvisamente serio. «Ale, ricordati questo. Quell'uomo è veramente schifoso e ci metterei la mano sul fuoco che fa finta di essere ritardato per metterla nel culo a Lucchini.» Alle quattro e mezza del pomeriggio le scuole medie e superiori di Piombino si erano già riversate in centro, a fare le vasche. Plotoni di ragazzini, con le Nike argentate e i jeans strappati all'altezza delle chiappe, avanzavano decisi verso piazza Bovio, il passo veloce come se avessero fretta. Poi, arrivati in piazza Bovio, facevano dietro front e tornavano in piazza Gramsci, Un su e giù instancabile, da Gramsci a Bovio e da Bovio a Gramsci. Fino a quando non gli veniva fame, allora si pigiavano urlando nello stambugio della friggitoria. Davanti al Rivellino o alla sala giochi Excelsior, tentavano in branco un approccio alle compagne di classe. Teenagers vestite come Britney Spears, l'ombretto e il rossetto spalmati di
nascosto dai genitori, davanti agli specchietti retrovisori degli scooter. Alcune, conciate in quel modo, erano pure carine. I pischelli si accalcavano intorno a loro, sparavano le parolacce più eclatanti per cercare di abbordarle. Uno sforzo inutile, perché queste non li calcolavano proprio: puntavano a quelli più grandi. Alle abbordabili invece, che di solito brufolose e sovrappeso, appiccicavano le gomme masticate in testa. Lisa le guardava provando compassione per loro e per se stessa, che camminava inutile e invisibile accanto a Francesca. Un accessorio brutto, una borsa della spesa: così si sentiva. E non capiva perché ogni sabato dovesse sottoporsi a quella tortura: passeggiare al fianco della più bella di via Stalingrado. Chi glielo faceva fare? Francesca non se ne perdeva una, di vetrina: e Replay, e Rinascente, e Benetton, e pure il Semaforo Rosso che vende roba da vecchie. Lisa si sentiva in colpa perché, come sempre, aveva lasciato Donata a casa. «Ti dai una mossa?» urlò scocciato. «Un attimo…» Anna era seduta sul 125 metallizzato di Mattia, in mezzo a una fila esponenziale di Phantom, Typhoon e Ciao parcheggiati di traverso sul marciapiede. Era intenta a passarsi la matita nera intorno agli occhi, piegata sullo specchietto tondo. Mattia la fissava spazientito. «Sembri Moira Orfei» le disse quando alzò la testa. «Vaffanculo.» Anna si mise a cercare il rimmel nella borsa, e per trovarlo tirò fuori una quantità industriale di cose. «Ma c'hai da farti vedere da chi? Sono io il tuo ragazzo!» Anna sbuffò e non rispose, impegnata com'era a isolare dal caos il tubetto del rimmel. «Pure il sapone ti sei portata!» gridò Mattia esasperato. «E sennò come mi strucco, scusa? Metti che stasera per caso c'è mio padre… Mi vede così e sai che succede?» «A legnate ti dovrebbe prendere!» rise Mattia. Poi aggiunse serio: «Ma si è fatto vivo?». «Chi? Il babbuino? Meglio!» Anna trovò il rimmel e si impiastrò bene bene le ciglia. «Ha chiamato l'altra settimana: promette sempre che torna. Ma mamma dice che è scappato a Santo Domingo, e adesso mentre noi siamo qui, lui è lì fra le palme che se la gode…» Mattia ascoltava in silenzio. «Però io lo conosco, lo so com'è fatto» continuò Anna. «Quel coglione è capace di presentarsi da un momento all'altro, così, puf! Lui arriva, spara le sue cazzate, ci porta i pasticcini… e poi mi tira una sedia in testa perché c'ho il trucco in faccia!»
«Dai, che tuo fratello ci aspetta.» «Un attimo!» Anna richiuse la borsa, si sistemò i ricci, bloccò lo sterzo e balzò giù dallo scooter. «Però facciamo un giro, non ci stiamo tanto da Alessio, che non c'ho voglia…» Mattia si avviò veloce e scocciato. Anna aveva in testa tutt'altri programmi che starsene al Nazionale a respirare fumo passivo e a tormentare cannucce. Anna, anche se non lo ammetteva con se stessa, sperava di vederla. Quando arrivarono davanti a Calzedonia, Francesca volle di nuovo fermarsi. Lisa non aveva altre opzioni se non ubbidire. Proprio in quel momento Mattia e Anna attraversavano la strada. Solo Lisa se ne accorse, ma non lo disse a Francesca. «Madonna che topa!» Un bifolco svaccato all'Ice Palace (un altro bar piombinese dotato di gazebo e di fauna speciale) fissava entusiasta la bionda intenta a confrontare le calze esposte in vetrina. «De'. Sei parecchio topa, bimba, lo sai?» Francesca non ce li aveva i soldi per le calze, quindi si staccò dalla vetrina e riprese la sua passerella senza degnare di uno sguardo gli spettatori, i morti di seghe del bar con l'odore del Martini addosso che si sentiva fin lì. «Non ce l'hai mica solo te! Da quanto te la tiri ti si strappa…» Francesca passeggiava sigillata trascinandosi dietro Lisa. Accettava di fermarsi a parlare solo con i ragazzi grandi e ben vestiti, solo per passare il tempo. La annoiavano persino i complimenti. Lo scorso inverno, al sabato pomeriggio, in corso Italia ci andava con Anna, e si tenevano strette per la vita, si infilavano la mano l'una nei jeans dell'altra come i fidanzati, e prima si fermavano dal tabacchino per comprare le Big Babol e l'Estathé, poi facevano tappa dallo zonzellaio e si divoravano mille lire di zonzelle. E alla fine andavano alla Gardenia a rubare i rossetti. Francesca era la più felice del mondo, quando succhiava dalla cannuccia dell'Estathé insieme ad Anna, e intanto si sorridevano e si bisbigliavano, e tutti i ragazzi le guardavano, gridavano: «Ma come le succhiate bene quelle cannucce!». Provava una rabbia acuta adesso. Quella stronza non si era neanche ricordata del suo compleanno, non le aveva fatto gli auguri di Natale, non le aveva infilato neppure un bigliettino sotto la porta in tutto questo tempo. E adesso le toccava legare il bavaglino al collo di suo padre e imboccarlo. Odiava tutto e tutti. Anche Anna, che in questo momento era seduta al Nazionale, costretta a sorbirsi suo fratello e quell'altro idiota di Cristiano – che ruttavano, rollavano le canne sotto il tavolo e parlavano del rame, della bamba, sempre le stesse cose – avrebbe voluto riavvolgere il nastro magnetico del tempo, fermare sull'istantanea di lei e Francesca davanti allo stand di L'Oréal alla Gardenia, e poi all'infinito il rewind.
Si divertivano troppo a rubare i rossetti, le matite per gli occhi. Montavano su tutta una scena prima di allungare la mano… Anna se lo ricordava bene. Giocavano alle signore: «Prova questo, Francesca, non è magnifico? Oh! Trovo che ti sta benissimo! Ma no, Anna, non vedi come mi sbatte il viso? No, davvero non mi soddisfa!». E in mezzo a tutta questa manfrina, anziché posare l'ombretto dove l'avevano preso, se lo ficcavano in tasca. Anna ci ripensava e sorrideva. Se l'avesse incontrata oggi, per caso, magari le avrebbe proposto subito un furto. E magari Francesca avrebbe detto sì e sarebbero scappate insieme verso le profumerie, gli scaffali della Coop… Insieme, come sempre, come se non fosse mai successo niente. Impossibile. Azzerare il tempo non si può. Ma alla fine, stringi stringi, che colpa ne aveva lei? Anna osservava le tredicenni sfilare nel corso, addobbate di patacche come alberi di Natale. Osservava il suo Mattia che dava due tiri di canna prima di passarla a Cristiano, e Cristiano che rideva come uno scemo. Che palle. Non voleva ammetterlo che tutto era più bello prima, quando erano amiche. Intanto le casse dello stereo, assicurate male con le funi agli angoli del gazebo, trasmettevano Renato Zero. Sarà che noi due siamo di un altro lontanissimo pianeta. E Anna ascoltava. Ma il mondo da qui sembra soltanto una botola segreta. Tutti vogliono tutto. È vero, pensava Anna. Noi non faremo come l'altra gente… «Oh bimbi, c'ho uno sbrano!» Cristiano improvvisamente colto da fame chimica. «De', anch'io…» fece Mattia. «Che si fa? Si va a Pizza più?» «Nooo, mi va un gelato…» «Allora andiamo al Topone» disse Alessio alzandosi. Il topone, per la cronaca, è la gelateria Top One. «Che fai Anna, pensi?» la strattonò Mattia. «Su, muovi il culo!» Anna si alzò dalla sedia scocciata mentre Renato Zero cantava I migliori anni della nostra vita. Nel frattempo, dopo più di un'ora, un pensionato del Nazionale aveva ceduto e si era deciso: era andato a offrire una caramella digestiva a una delle tre vecchie, le zitelle appollaiate davanti all'Unicredit. E lei, la prescelta, si era di colpo animata e, nascondendo il bastone dietro la schiena, era scoppiata in una fantastica risata. «France… Sai cosa pensavo?» azzardò Lisa davanti alla vetrina del Semaforo Rosso. Una persona normale avrebbe risposto perlomeno: «Cosa?». Ma Francesca non rispose un accidente. «Pensavo» deglutì, «che il prossimo sabato potremmo portare anche Donata con noi.» Francesca continuava a confrontare i prezzi, muta e indifferente. «Non mi va più di lasciarla a casa.»
Silenzio. Francesca si staccò e prese a camminare. «È mia sorella.» protestò debolmente. L'altra si fermò all'istante. Si voltò verso Lisa e le ficcò due pupille roventi negli occhi. «Sentimi bene» disse, «io quell'aborto con me non ce lo voglio. Non esiste.» Ricominciò a camminare, dritta come un fuso e a passo spedito. Lisa rimase un attimo indietro. Aveva sentito qualcosa che si incrinava e poi si spaccava nel petto. Qualcosa che era dolore sì, allo stato brado, ma anche rabbia. Questa volta no, non gliela poteva perdonare. «Mi va un gelato» disse Francesca come se niente fosse. Lisa le andò dietro, ma questa volta se l'era presa sul serio. Del resto, non immaginava cosa ci fosse dietro quella camminata spigliata e strafottente, dietro il viso da diva cinematografica. A casa di Francesca, non ci era mai stata. Quando entrarono al Topone, si fecero largo nella ressa al banco dei gelati. Pistacchio, Kinder Bueno, Puffo, Amarena… Francesca li prese in esame tutti prima di scegliere. Poi andò a fare la fila alla cassa per lo scontrino, e qui incontrò Jessica e Sonia. «Oh, France! Che si dice?» le chiese Sonia. «Nulla» rispose Francesca. Non aveva voglia di parlare con loro. Se avesse girato la testa a sinistra, avrebbe visto Mattia con Alessio che si prendevano a testate per finta. «Come va la scuola?» «Non ci vado più a scuola.» «Ah!» fece Jessica. «Lavori?» Aveva mollato Lisa da una parte, non ricordava dove, nella gelateria strapiena di gente. «Lo sto cercando» tagliò corto Francesca. I cazzi suoi a quelle due di sicuro non andava a raccontarli. Fece per andarsene. Si voltò. E d'improvviso, quando meno se l'aspettava, se la ritrovò davanti. Si sentì il cuore balzarle in gola e sbiancò di colpo. Anna, sbatacchiata al pari di lei nella ressa, aveva quasi fatto un salto. Anche lei si era voltata e se l'era ritrovata, la sua amica del cuore, a due centimetri di naso. Era così logico incontrarsi in corso Italia di sabato. A dirla tutta: entrambe non aspettavano altro. Però, adesso che era reale, avevano quell'espressione assurda in faccia. Stavano così, a un palmo dentro la calca. E ora che cazzo faccio? Passò un istante, niente di più, in cui si toccarono con i gomiti e le ginocchia ed era un solletico pazzesco. Passò un istante in cui si guardarono incredule. Nella loro testa c'erano così tante cose da dire e da fare che alla fine non c'era niente. Anna le avrebbe voluto gridare, tutto insieme di filato: «France mi dispiace vieni a vivere
da me basta scappiamo insieme Mattia è un coglione tuo padre è un orco ti aiuto io a legarlo e a imbavagliarlo andiamo a rubare i rossetti a che gusto lo vuoi il gelato?». Però stava zitta con la gola secca. Francesca, intanto, pensava che avrebbe voluto abbracciarla e menarla e baciarla e strapparle tutti quei ricci. Perché quando erano amiche – anzi, non amiche: sorelle – era tutto bello e giusto, e invece adesso era una merda, e suo padre era un mostro e doveva pure imboccarlo, ed era tutta colpa di Anna. Anna neanche se ne accorgeva che le era spuntato un sorriso grande come una casa. Francesca stava quasi per cedere e sorriderle a sua volta, quando comparve Mattia e si scurì di colpo. «Bah! Chi si vede!» esclamò Mattia. Anna impallidì. Lo fucilò con lo sguardo. Spuntarono anche Cristiano e Alessio, e Sonia e Jessica, tutta l'allegra combriccola con le palpebre a mezz'asta e il sorriso sbilenco da ebeti. «France, quanto tempo!» gridò Cristiano. «Cazzo se è fica, oh!» e tirò una gomitata ad Alessio. Francesca cominciò a voltarsi da tutte le parti. Anna, istintivamente, fece per prenderle la mano, ma proprio in quel momento Lisa comparve e Francesca le si lanciò addosso. Di fronte al banco frigo dei gelati, tra la gente che alzava la mano, gridava: «Un cono! Una coppetta! Due gusti, no tre… Mi scusi! Al latte lo voglio, non fondente…». Di fronte a tutto questo, Anna aveva provato a toccare la mano di Francesca, e Francesca non se ne era accorta. Adesso si era abbarbicata a Lisa, non la mollava. E Lisa in realtà era incazzata nera, guardava Anna con occhi fiammeggianti. «Era meglio se te la tenevi te, 'sta stronza» avrebbe voluto dirle. Francesca se la squagliò in fretta senza salutare nessuno. Ordinò il gelato, trascinò Lisa per un braccio e scomparve. Voleva andare subito a casa adesso. Camminava verso la fermata dell'autobus in piazza Verdi. Era emozionata. Si erano sfiorate! Francesca era in subbuglio e correva. No, non l'avrebbe mai perdonata. Alla pensilina perse l'equilibrio e inciampò sul marciapiede. «Certo sei deficiente!» gridò Anna inviperita a Mattia. Quello sghignazzava e manco se ne rendeva conto. «Cazzo! Lo vedevi che eravamo da sole… Che cazzo sei venuto a fare?» Era furiosa. Ridacchiavano tutti. «Siete dei drogati stronzi…» La voce le si incrinava. Sonia le allungava un cono al pistacchio e alla crema. «Non lo voglio più il gelato!» Anna prese il cono e lo sbatacchiò a terra nel mezzo della
gelateria presa d'assalto. «E tu…» Anna si rivolse a Mattia, «tu…» aveva le lacrime agli occhi, «hai rovinato tutto!»
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Lisa raggiunse Francesca alla pensilina dell'autobus. Camminava piano con i pugni chiusi. Non era scema, adesso le capiva le cose. Decisamente, aveva sbagliato tutto: avrebbe dovuto scegliere Anna come amica, non Francesca. L'altra si stava rialzando dal marciapiede su cui era appena scivolata. «Uffa, mi sono smagliata la calza…» «Cazzi tua!» rispose Lisa. Francesca la guardò sorpresa, ma dopo un istante si scurì: «Bimba, stai calmina…». Della serie: comando io, non te lo scordare. Ma Lisa questa volta non ci stava: «Mi hai rotto le palle, France. Cos'è, credi che non lo so che ti servo solo a fare ingelosire Anna?». Francesca restò basita. «Mi sono rotta, hai capito? E l'autobus lo prendi te! Io me ne torno a piedi…» sbottò. «Anzi, sai che c'è? Da oggi io e te non siamo più amiche.» Si voltò per andarsene. Francesca aveva cambiato colore: nessuno si era mai permesso di trattarla in quel modo, figuriamoci una sfigata brufolosa. «Ma chi ti vuole? Chi ti caca?» le gridò dietro. «Ti sei vista? Sei una balena di merda! Brava, vai a piedi… Magari dimagrisci!» Lisa si fermò di colpo al centro della piazzola degli autobus. Tornò indietro a tutta velocità. Non lo sapeva neanche lei, da dove le veniva quel coraggio. Le si parò davanti e le sputò nel muso: «Tu non vali nemmeno un mignolo di Donata». E questa volta se ne andò davvero, la lasciò sola alla pensilina. Quando svoltò in via Petrarca sotto i portici, la tensione le scese di colpo. Grande Lisa, si disse sorridendo, uno a zero. Francesca era rimasta di ghiaccio. Per qualche istante non fu capace di muovere un muscolo. Vattene a fanculo, Lisa, andate a fanculo tutti. Sì, era davvero sola adesso, la più sola del mondo. L'autobus non arrivava, e aveva pure una calza smagliata. Ma tanto, dove doveva andare, a casa? Allora era meglio se l'autobus non arrivava mai. Si sedette su una panchina e si prese la testa fra le mani. Come faceva male… Con tutta quella sua bellezza non riusciva a farci niente. Lei lo odiava,
il mondo. Non c'era neanche uno stronzo, in quel pianeta del cazzo, che le voleva bene. Questo pensava e, anche se non voleva, piangeva a dirotto. In realtà, qualcuno che le voleva bene c'era. Anzi, c'era un povero cristo innamorato perso che l'aveva cercata tutto il pomeriggio e adesso, quando la notò – sola e in lacrime sulla panchina – quasi non ci credeva. Le corse incontro a rotta di collo, arrivò tutto trafelato ed emozionato. «Vattene!» gli gridò Francesca quando lo vide. Nino indietreggiò di un passo. Possibile che fosse sempre così difficile? «Che è successo?» provò a chiedere. «Niente» biascicò lei che si teneva le mani in faccia. «È da quando ti conosco che piangi e dici "niente"…» «E allora vattene e lasciami stare!» «Ma io non ce la faccio a vederti così…» Nino era abbattuto e non sapeva che fare. Prese coraggio e si sedette sulla panchina accanto a lei. «Ti ho detto che mi devi lasciare» cominciò Francesca con la bocca impastata di pianto. Ma Nino non la fece finire, d'impulso l'abbracciò forte. E Francesca ci restò un po', dentro quelle braccia, perché è bello avere qualcuno vicino che ti stringe e ti scalda. Non ci voleva tornare a casa, non ne poteva più di via Stalingrado, di Piombino, di pulire gli angoli della bocca a suo padre. Si riscosse. «Nino, veramente…» e fece per allontanarlo. «Ma France… Perché non vuoi stare con me? Perché ti vuoi male così?» Lui non ne poteva più di tenersi quella domanda dentro. «Io te l'ho detto in tutti i modi, ma te non lo vuoi capire…» Era giunta l'ora: «Ci mettiamo insieme?». In quel momento arrivò l'autobus. Francesca si alzò di scatto. «Non puoi farmi sempre così!» disse Nino trattenendola. «Non andartene…» «Nino» gli disse lei divincolandosi. «Nino…» ripeté calma, «a me non mi piacciono i maschi.» Salì sull'autobus e l'autobus ripartì. Se gli avesse tirato una mazzata in testa, lo avrebbe rimbambito di meno. Mentre tutto questo succedeva, Anna attraversava piazza Verdi senza accorgersi di niente. Svoltava in via Petrarca, se la faceva a piedi a passo spedito. Basta!, si ripeteva nella testa, Mattia lo lascio, 'sto giro lo mollo. È troppo deficiente. Mi ha rovinato tutto! Era incazzata e disperata. Rivoleva Francesca. Adesso basta fingere. Adesso andava a casa e l'aspettava in cortile sulla panchina con le scritte, dove c'era ancora in stampatello "Anna e France together forever". L'avrebbe affrontata una volta per tutte.
«Allora? Cosa c'è?» le avrebbe detto. «Il problema è Mattia? Ti sta sul culo? Benissimo, l'ho lasciato.» Ma quando arrivò in piazza Costituzione, davanti al bar Pinguino, notò una macchina nera parcheggiata in seconda fila con le quattro frecce e si fermò. Era una grossa Mercedes lustrata a specchio, una classe E targata Livorno. Si avvicinò, lesse bene tutte le cifre. Cazzo. Era l'auto di suo padre. Anna restò impietrita. Sbirciò attraverso i finestrini oscurati: dentro non c'era nessuno. Eppure doveva essere lì, da qualche parte, il babbuino. Doveva essere per forza nei paraggi: la macchina aveva le quattro frecce… Anna si nascose dietro un pilone dei portici e rimase in attesa. Era tutto assurdo, certo. Ma perlomeno quel babbuino di merda non era in Brasile o a Santo Domingo. Aspettava, con il cuore in gola, e spiava da dietro il pilone in direzione della macchina. Dopo cinque minuti lo vide. È lui! Arturo uscì allegro dal bar, camminando allampanato come sempre. Teneva in mano qualcosa, una specie di pacco indecifrabile, e intanto rideva forte. Era un disgraziato e rideva. Non tornava a casa da quattro mesi e se ne andava placido in giro per Piombino… Non era un pacco quello che teneva in mano: era una bottiglia di spumante! Questo è scemo, pensò Anna, è veramente stronzo. In quel momento avrebbe voluto uscire allo scoperto, prenderlo per la giacca e gridargli: «Stronzo! Perché non torni a casa? Perché sei una merda!». Ma non era solo. C'era un altro uomo con lui. Erano entrambi ben vestiti: pantaloni e giacca nera, camicia bianca con il colletto slacciato. Entrambi con fare strafottente e occhiali da sole. Anna guardò suo padre entrare in macchina insieme a quell'uomo, far manovra e partire. Le venne un groppo in gola, si sentì i lucciconi agli occhi. Allora non resse. Alla prima cabina telefonica inserì la scheda e fece il numero di Mattia. «Mio padre è una merda!» gridò fra le lacrime nella cornetta. E Mattia, che era stordito dalle canne, non ci capiva un accidente. «Mattia! L'ho visto! Hai capito, è in Piombino! E a noi non ci caca… Mamma sbotta se glielo dico… Mattia, cosa devo fare?» e giù lacrime e singhiozzi e pugni sul vetro della cabina telefonica.
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Te lo ricordi, Cri? Quando aveva nevicato. Cos'era? Il '94, il '95? Roba grossa, avevi detto, roba potente. Quanti cazzo di anni avevamo? Quindici, sedici al massimo. E tu eri veramente coglione, ma coglione forte. C'erano tutti quei cazzo di fiocchi. La neve la neve, gridavi, la bamba! Scivolavamo sui marciapiedi perché nessuno aveva le scarpe adatte. La neve. E chi cazzo l'ha mai vista? Abbiamo visto la coca, mica la neve. E tu a un certo punto l'avevi presa in mano, te l'eri portata fin quasi al naso e avevi detto: Ale, cazzo! Ale, prendi la neve, guarda! Cosa ci vedi dentro? No, non così, guarda proprio dentro il fiocco. E io ti stavo pure a sentire. Non vedo un cazzo, Cri. No, stai attento, guarda il segno, il geroglifico che c'è dentro. Non vedo… Ma come? C'è il simbolo dell'Uva! Ti eri voltato a guardarmi sotto il cielo bianco con un sorriso magico. E intorno – la strada, il cortile, i piloni di cemento – tutto respirava piano. Cos'era, Cri? Una battuta che voleva far ridere? O qualcos'altro. Le spiagge erano tutte bianche, avevamo fiocchi tra i capelli e sulla punta delle ciglia. Non sentivamo freddo. Era tutto di farina e latte, tutto muto, soffocava piano. Un altro mondo. Ora Alessio stava in piedi, al centro della piazzola deserta nel parco billette, e teneva un cellulare di ultima generazione in mano. Intanto ripensava a tutto questo. Si chiamava Uva, nel '94 o nel '95. E sua nonna si chiamava Uva, e la nonna di Cristiano pure. Le nonne di un sacco di gente, quelle nate dopo il 1918: tutte Ilva. Invece la fabbrica aveva cambiato nome. Lei poteva permetterselo. Sgusciare tra le parole con disinvoltura, evitare il battesimo finale. «Sai cosa vuol dire?» gli aveva chiesto Elena un giorno, dopo aver fatto l'amore. Stavano sdraiati tra i peluche e le lenzuola nella stanzetta di lei. Perché, vuol dire qualcosa? Elena aveva riso, al suo solito, un po' per sfotterlo e un po' perché era innamorata. Come sapeva ridere lei, come sapeva dire: tutto vuol dire qualcosa. Ilva, aveva detto ridendo, seminuda. È il nome antico, il nome etrusco dell'isola d'Elba. Boia! Come dire che il paradiso e la merda si chiamano uguale, aveva sbottato, sorpreso. Teneva il corpo sottile di lei nel suo, ruvido e grezzo. E sai come si chiamava all'inizio, all'inizio inizio? Dai, spara. Nel 1865, alla fondazione, si chiamava Officine Perseveranza. 'Sti cazzi! Perseveranza… Sa di poesia di Carducci. Quando era stato assunto lui, nel '98, era diventata Lucchini. Che non si capisce neanche se è maschile o femminile. Ma perlomeno, il paradiso e la merda non avevano più lo stesso nome. Te lo assicuro, "acciaio" l'ho cercato e non vuol dire un cazzo. È una lega, aveva detto lei increspando la fronte. Sì, ma io l'ho cercato sul vocabolario e non vuol dire un cazzo. Cioè, non è una parola che nasconde un'altra parola. Vuol dire la cosa. E basta.
È la storia, Ale, è che ci sono le cave di ferro all'Elba e tutto è cominciato da lì. Ora Alessio stava al centro della piazzola, con il sole in faccia e il cellulare in mano, e non sapeva neanche lui perché gli ritornava in mente tutto questo. Cristiano gli spiegava, gridando, come doveva fare per registrare il filmato. «Pigia sopra!» urlava. «Non adesso, dopo! Ma pigia il tasto di sopra!» Quei cellulari che fanno le foto e i filmati erano nuovi, e Alessio non ci capiva un accidente. Intanto Cristiano si metteva nudo e faceva lo scemo. Montava tutto nudo su un enorme Caterpillar e si sbracciava. «Adesso, Ale! Adesso!» Alessio pigiò il bottone e nello schermo del cellulare apparve l'immagine. Immagine in movimento di un corpo rosa che si muove, con il pisello di fuori, dentro una gabbia gialla e nera che sembra un fantascientifico animale. «Dai, che lo mettiamo su YouTube!» Due o tre operai si erano fermati e stavano in disparte a guardare: la scena demenziale di uno stronzo che filmava e un altro stronzo che andava avanti e indietro con l'escavatore e la pala alzata. Fece una manovra, come se prendesse la rincorsa con quel coso di non so quante tonnellate. Si alzò su due ruote. «Guarda! Fa le impennate con il Caterpillar!» Alessio, intanto che filmava, scuoteva la testa divertito. Cristiano gridava come un pazzo scatenato. Si esaltava, lui, quando rischiava la vita sulla motopala, e alzava tutta quanta la benna fino in cima, come l'antenna di una cavalletta gigante. C'era meraviglia intorno. Gli operai smettevano di lavorare, lasciavano sciolti e incustoditi i macchinari, le gru, i ponti. Alzavano la testa per godersi la scena e si chiamavano a raccolta. «Ma quanto sei deficiente» disse uno. «Guarda quanto cazzo è stronzo!» Accorse Mattia. «Vai, ribaltati!» Cristiano continuava a impennare sulle due ruote posteriori, non si ribaltava, non si maciullava al suolo sotto l'escavatore. Lo governava come un toro, e la gente cominciava ad applaudire. «Se si ribalta rido» disse Mattia raggiungendo Alessio. «Lo fa per suo figlio» disse l'altro. «Lo fa per caricarlo su un sito porno.» Ma a un certo punto Cristiano fece molto di più che stare su due ruote con il Cat. Girò su se stesso: una, due, tre volte. Girò veloce come una trottola, la polvere si alzava, si alzavano cumuli di limatura di ferro nel cielo azzurro. Girò ancora, sulle enormi ruote del bestione metallico, tirò di netto il freno a mano una quarta volta. E tutti andarono in delirio. Allora arrivò il caporeparto che voleva spaccargli la faccia.
Ilva è il nome segreto dell'Elba, Il segreto che tiene in pugno la fabbrica. Alessio vide il caporeparto che prendeva Cristiano per la collottola, come fosse un gatto. Vide l'enorme distesa di capannoni e ciminiere, con il frantumatore dell'inerte in mezzo. Una specie di scorfano robotico che frantumava i resti delle ciminiere e i semilavorati venuti male attraverso una proboscide dentata e seghettata. Non riusciva davvero a collegarlo, tutto questo, a una decina di zattere etrusche che trasportano il ferro, piccoli uomini che fondono asce da guerra. Qualcosa come un millennio. E Cristiano, nudo come un verme, che faceva a botte col caporeparto, il pugno ben assestato al centro dell'occhio. «Giuro che ti licenzio, testa di cazzo!»
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Alle nove lo fece alzare dal letto. «Piano», gli disse. Aveva ossa che scricchiolavano e pelle flaccida lungo le braccia. Le lenzuola, quelle del corredo nuziale con le iniziali ricamate sull'orlo, emanavano cattivo odore. Lei non aveva nessuna intenzione di lavarle. Lo sorresse fino in cucina. Lo fece sedere e gli sistemò il tovagliolo sopra il pigiama. Erano mesi che ingoiava solo brodo, a pranzo e a cena. La sua massa muscolare era implosa. «Ti devo aiutare?» gli chiese, vedendo come teneva il cucchiaino. Non si era ancora abituato a gestire gli oggetti con quattro dita anziché cinque. Fece no con la testa. Sollevò gli occhi verso sua figlia e poi li abbassò sulla tazza. Constatava il livello del latte nel recipiente. Con la punta della lingua controllava che non fosse acido. Avrebbe voluto muoverlo, infilarlo nel manico della tazza. È un movimento semplice, la differenza che passa tra una mano prensile e una zampa. Ma il dito medio non c'era. C'era un buco, con la pelle raggrinzita dentro. A marzo gli avevano mandato un team di psicologi. Alle loro domande aveva opposto la faccia smagrita e pallida. Il fatto è che non capiva cosa volessero. La fabbrica andava a trovarlo, gli inviava medici della mutua. Lucchini S.p.A. stava perdendo la pazienza e voleva vederci chiaro in questa storia. Vedere chiaro dentro un grumo di geroglifici: era impossibile per lui decifrare il questionario che gli avevano dato da compilare. Sua figlia stava in piedi accanto alla tavola, monitorava tutti i suoi movimenti. Era penoso, e confortevole, mostrarle che non riusciva a zuccherare il latte. La perdita del dito è una perdita simbolica per il paziente. Depressione, ma è soltanto un'ipotesi. Il gigante si era assottigliato, si era sepolto vivo dentro il suo appartamento scrostato, che poi non era suo, ma del Comune. Gli altri, quelli che gli abitavano intorno, lo avevano sfottuto nei primi tempi. Poi, non era più neanche un nome e cognome. Coso, era diventato. Tolse il cucchiaino dalla mano monca di suo padre e zuccherò lei il latte. Il soggetto rifiuta le terapie. Il soggetto è affetto da analfabetismo di ritorno. Afo 4. Perché 4? Enrico allacciava fili sottilissimi tra un segmento e l'altro della sua memoria. Perché è il quarto di quattro altoforni ma è anche l'unico rimasto. Enrico era diventato una pratica da risolvere e una cartella clinica. La flessione dell'acciaio sul mercato, nel giro di due decenni, aveva costretto a smantellare Afo 1, 2 e 3. Non c'erano più. Come il suo dito. Un buco enorme nel terreno saturo di veleno. Enrico succhiava il latte dalla tazza. «Tutto, bevilo tutto.» Perdeva capelli al centro della testa.
Francesca gli pulì gli angoli della bocca. Lo accompagnò in bagno dove lo aiutò a sedersi sul water. Strappò lei la carta igienica dal rotolo. E quando ebbe finito lo portò in salotto. Lo posò sul divano dove stava sua madre a finire un centrino, il gatto acciambellato sulle ginocchia. Davanti al televisore Enrico affossava il cranio nella testiera e abbassava le palpebre. Che non faceva finta lo capirono agli inizi di aprile. Enrico era realmente regredito in quello stato pietoso, per cui sua figlia doveva nutrirlo e pulirlo. Uno stato biologico marcescente. Forse esiste un gene infido in cui c'è scritto che tu sei marcio. Fu Elena a farlo. Aveva trasferito più volte, in quei mesi, la pratica di Enrico Morganti da un cassetto all'altro della scrivania. Importava, all'azienda, appurare che non fosse loro la responsabilità del caso. Cos'è esattamente uno zero che va in depressione. Un uomo che può essere sostituito da ventimila marocchini, rumeni, italiani in fila là fuori. Un giorno entrarono nell'ufficio di Elena e le dissero di preparare il modulo di pre-pensionamento. Uno zero nel sistema depresso. Quella mattina Francesca rigovernò la cucina con più fretta del solito. Lavò male le tazze, evitò di asciugarle, ficcò dentro i cassetti anche i tovaglioli macchiati. Raccolse le briciole da terra tanto per dare un'idea di pulizia, ché a lei non importava un tubo che fosse pulito quello schifo. Corse a rifare i letti. Il tempo, in quella casa, passava attraverso i canali misteriosi della polvere ammonticchiata sotto i mobili. I gatti, si dice: la lana grigia dove si insediano nidi di parassiti. Il tempo incrostava di calcare e di muffa gli angoli della doccia, del soffitto. Sorrideva adesso, Enrico, quando il gatto gli veniva in braccio e gli faceva le fusa. Non era difficile trovare una scusa. Dire che era stata via mezz'ora quando invece stava via due. «Manca il latte» bastava dire, oppure: «È finita l'aspirina. Vado a pagare il bollo, l'assicurazione, la bolletta del gas». Non era difficile uscire, specialmente di notte, specialmente da che suo padre prendeva le pillole per il sonno e si addormentava alle sette. Quando ebbe finito di rassettare i letti, andò in bagno e ci si chiuse dentro. Si chinò sul bidet e si rasò il pube. Era la prima volta che lo faceva. Pensò, senza un motivo preciso, che fosse opportuno. Si depilò gambe, ascelle e braccia. Si passò gran quantità di crema idratante sul corpo bianco. Quella mattina esagerò con la matita intorno agli occhi, il rossetto rosso le ingigantiva le labbra. Indossava sempre, adesso, tacchi alti. Sfiorava il metro e ottanta. Camminava come le figure sottili dei circhi di strada. I trampoli che si usavano per raccogliere le ciliege fra i rami. Ogni mercoledì mattina, al mercato, comprava gonne corte, magliette attillate e completini intimi in un banco che vendeva anche oggetti erotici. Bastava portargli il caffè, bastava tenergli la tazzina alle labbra e passargli una mano sopra la testa, che lui cedeva, come masturbato, in uno stato di torpore. Quella mattina Francesca uscì alle undici e mezza. Di fretta e con un sorriso astuto sul viso impiastrato di trucco. Le piaceva ripetere a se stessa che ad Anna non ci pensava, che era
diventata come il pacco dei biscotti lasciato aperto per molte notti. Una pasta rafferma che attira le tarme. Uscì fuori, nel mondo assolato, prese per via Marconi. Alla sua sinistra la superficie del mare era mobile e viva. La luce ci pioveva sopra e creava argento, movimento, stato nascente. Comprava le minigonne con i soldi delle medicine. Risparmiava sui cibi per acquistare guêpière e perizomi di strass che poi indossava da sola davanti allo specchio. Adesso camminava spedita verso il bar di Aldo sui tacchi alti che le facevano male ai piedi. Era una di quelle giornate in cui l'Elba risalta e si staglia fra i due azzurri. Puoi distinguere i paesi nelle insenature, le rocce a strapiombo e le macchie di vegetazione verde ombroso. L'isola illesa, in questa stagione, cade nelle mani degli animali, degli anziani, delle radici e dei semi, Francesca non guardava in quella direzione. Si stava convincendo, voleva convincersi. Si voltava quando un camioncino di idraulici o di elettricisti accostava per dedicarle un clacson, e sorrideva. Tornava il caldo. In sordina, ma tornava. Poteva anche sfilarsi la giacca e restare con le spalle nude. Aprile è davvero il mese più crudele. Prima di entrare si sistemò i capelli davanti al riflesso della vetrina. Una ciocca non voleva saperne di stare ordinata dietro l'orecchio. La capanna di legno, l'odore di legna bagnata. Non voleva pensarci. Francesca rimase a pettinarsi davanti alla vetrina del bar, con il sole a picco di mezzogiorno e cose morte che si disseppellivano da sole. Doveva essere la nostra casa… Alle sue spalle, la strada si gonfiava di gas e di clacson. Un ricordo è una merda morta. Voleva entrare, ma restava sulla soglia. La terra tiepida sotto la schiena e l'umidore dell'erba, anche se non voleva li ricordava. È una cosa impossibile da vivere, aveva detto Anna quel giorno. È una cosa che va contro il mio futuro… Vaffanculo. Entrò e fu squadrata da capo a piedi dalla mezza dozzina di nullafacenti che bivaccavano nel tanfo buio delle sigarette. Dimostrava diciotto anni. Dimostrava che non la si poteva più guardare come prima. Il futuro non è un tempo, è un egoismo. Non me ne fotte un cazzo del futuro e dell'egoismo di Anna. Ieri aveva fatto quella telefonata, con la scheda inserita nella cabina telefonica. Aveva digitato il numero scritto sull'inserzione del giornalino gratuito, e aveva deglutito forte quando le avevano risposto. La voce nascosta dentro il ricevitore era stata gentile. Aveva ascoltato pazientemente le sue informazioni, i dettagli, le misure gonfiate 90, 60, 90. E poi, addirittura, aveva acconsentito a recarsi dove diceva lei, perché per lei era un problema venire a Follonica. Francesca sedeva su uno sgabello vicino al bancone, batteva il tacco con ritmo regolare contro il pavimento. Aveva una gran paura che l'uomo non si presentasse. Guardava fisso in direzione della porta e ogni tanto sbirciava Aldo da sotto le ciglia. Aldo era il tipico gestore di bar mal frequentati, fermamente deciso a non fare domande. C'era una minorenne seduta al bancone, che era lì anziché essere a scuola, e per giunta non aveva ordinato niente.
Non era la prima volta. Era già da un po' di tempo che veniva, negli orari più svariati, e chiacchierava con questo e con quello. Aldo l'aveva vista, a volte, entrare nel bagno in compagnia di uomini adulti. Da quando suo padre non poteva più picchiarla. Non gli riusciva più neppure di andare in bagno da solo. E non c'era un motivo fisiologico. Nessuna spiegazione logica. La piccola capanna adesso, dopo questo inverno, sarà sommersa dalle ortiche e dal fango… Adesso tamburellava le dita sul marmo del bancone. Fissava ostinatamente la porta contando fino a dieci. Poi ricominciava a contare fino a dieci. L'uomo arrivò. Francesca sussultò e si alzò in piedi, così che lui poté vederla bene a figura intera. Era vestito in modo distinto, indossava giacca e pantaloni neri. Il viso lampadato e un paio di vistosi Ray-Ban. Le andò incontro, le tese la mano con fare professionale e disinvolto allo stesso tempo. «Roberta? No. Francesca… Francesca, giusto?» Sorrise generosamente. L'uomo diede un'occhiata al posto squallido e ordinò un cocktail analcolico alla fragola. «Due» aggiunse subito dopo. Il viso di Francesca si diffuse di un sano rossore. Le si intravedevano le mutande, ma lei non ci faceva caso. Teneva le gambe scomposte davanti a un uomo adulto, e non aveva nemmeno mai fatto l'amore. «Allora?» disse l'uomo sedendosi. Non gli interessava capire – non faceva parte del suo mestiere – perché una ragazza così giovane e carina gli avesse dato appuntamento in un bar così marcio. «Scusami, non ho troppo tempo… Dimmi cosa sai fare esattamente. O meglio» sorrise, «cosa vorresti fare…» Francesca si sorprese impacciata. Non se l'era mai cavata bene con le parole, e adesso la lingua si impappinava sul palato, le mani le tremavano sul bicchiere. Non è buon segno, pensò l'uomo. Francesca si corresse molte volte, una sfilza di "cioè", "dunque", "praticamente" lunga un minuto e mezzo, prima di cominciare il discorso. «Solo la notte posso lavorare» riuscì alla fine a dire. L'uomo succhiò rumorosamente, attraverso la cannuccia, la melma di fragole e latte che Francesca non riusciva a ingoiare. «Questo non è un problema» si asciugò la bocca, «anzi.» Voleva dire qualcosa, si spremeva le meningi: qualcosa che lo conquistasse, qualcosa per cui lui, dopo, non le avrebbe offerto un posto da cameriera o da sguattera. Era così elegante, così composto. Voleva essere salvata, presa e adorata da quell'uomo, dallo sconosciuto, da chiunque. «Il Tartana è il mio sogno» le scappò dalla bocca. La frase uscì vuota. Si morse le labbra e si vergognò immediatamente di aver detto una tale
cazzata. L'uomo la ispezionava, la perquisiva da dietro le lenti. E lei, perlomeno, sapeva di poter contare sul suo corpo. «Vorrei fare la ragazza immagine» corresse il tiro, «vorrei ballare sul cubo, nel privé. Insomma, dove vuole lei. Ma ballare.» Aveva quell'espressione nel viso, di piccolo animale braccato. Non gli era mai capitato un caso così penoso. Ma era parecchio bella. «Sei maggiorenne, naturalmente…» Francesca fece sì con la testa. Tutto in lei era cedevole e scivoloso. Nessuna difesa, pensò l'uomo. Questa qui la prendi, la sbatti al muro, e dopo ti dice pure grazie. «Sei graziosa» le disse senza togliersi gli occhiali, «molto graziosa» con voce vellutata e cartavetrata allo stesso tempo. «Tartana, hai detto. È un bel locale… Ci conoscono tutti in Italia, e anche all'estero.» Francesca sorrise, imbarazzata. «A dire il vero, non ci sono mai stata. Però ho visto le foto…» Una così lo prende ovunque, e ti ringrazia scodinzolando. L'uomo rise con i denti bianchi, due leggeri baffi di latte sopra le labbra. «Ho solo il problema della macchina, non ho ancora preso la patente.» «Di questo non devi preoccuparti. A queste cose… pensiamo noi a tutto.» Notevole. Figa al di là di ogni aspettativa. Belle gambe, bel culo. Solo i seni, magari un po' piccoli. Ma su questo si poteva anche soprassedere. Una ragazza italiana, evidentemente minorenne, è una roba che la fai salire sugli yacht di Punta Ala, la fai passare per cinquecentomila lire a botta, ai pezzi grossi, nei festini, sulle barche che contano. L'uomo posò il bicchiere e si tolse le lenti nere per guardarla bene in faccia. Aveva due rigonfiamenti sotto gli occhi, due borse tumefatte. «Il fatto è che ho molte ragazze al Tartana, non ne posso assumere un'altra. Spero non ti dispiaccia» fece un sorriso bastardo. Francesca vacillò sullo sgabello. Si sforzò di trattenere il coagulo melmoso che sentiva alla bocca dello stomaco. «Però ho un altro locale, sempre a Follonica…» Si attaccò tutta a quella frase. Non avrebbe saputo dire perché le stava tanto a cuore quel lavoro che non sapeva neanche cos'era. Neanche lei riusciva a leggere dentro se stessa, il grumo di desideri indecifrabili che la teneva lì, aggrappata al bancone. L'uomo in giacca e cravatta del resto pensava tutt'altro. Pensava che una così magari vorrebbe anche baciarti mentre lo prende. «È un locale molto bello, credimi, molto conosciuto… Più del Tartana.» La ragazza crollava letteralmente ai suoi piedi. «Ci viene gente che conta, hai capito, gente che finisce nei rotocalchi tutte le settimane. "Novella 2000", hai presente, mica uno scherzo…»
«Mi piacerebbe» raggiò Francesca, «mi piacerebbe fare televisione un giorno…» «Giusto!» fece l'uomo alzandosi. «La strada è lunga, ma tu devi crederci e io ti assicuro che ti darò una mano… Sei graziosa, come hai detto? Francesca…» l'uomo pensava palesemente ad altro, «sei meravigliosa, Francesca. Nei miei locali, ricordatelo, viene solo gente che conta. Facciamo entrare in giacca e cravatta. Gente di Milano, di Roma, un sacco di agenti televisivi… e li conosco tutti personalmente.» Si era alzato dallo sgabello e la invitava con una mano ad alzarsi. La squadrò un'ultima volta: «Potresti essere notata». Francesca sorrise nel pieno del suo sorriso, bello e vergine. «Allora è un sì?» L'uomo tirò fuori un grosso portafoglio di coccodrillo e pagò con un pezzo da cento. «Ti faccio fare un provino.» Si rimise gli occhiali, finì di brucarla attraverso le lenti scure. «La prossima settimana. Ti chiamiamo noi, Francesca. Francesca come?» «Morganti.» «Bene Francesca Morganti, mi piaci. Hai talento. Io queste cose le sento a pelle. Faremo grandi cose, io e te. Ma abbiamo bisogno di vederti ballare, prima. Vedere come te la cavi in generale. Mi dai il telefono?» Francesca titubò. Il numero di casa. Peggio che dargli un paio di mutande sporche. «Perfetto, meraviglia. Sei una meraviglia. Ricordati che la gavetta è lunga, ma alla fine vedrai, arriverai… Sarai la bionda di Striscia la Notizia!» Prima che scomparisse dietro il riflesso dei vetri, Francesca lo chiamò timidamente. «Scusi, come ha detto che si chiama il locale?» Non lo aveva detto. L'uomo si voltò un'ultima volta prima di scomparire dentro una nerissima Mercedes SLK. «Gilda. Si chiama Gilda.»
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Il prato davanti al liceo era puntinato di margherite, la siepe di oleandri era fiorita, e anche le due betulle sbilenche davanti alla finestra della classe si erano riempite di foglie. Le metteva il buonumore guardarle. Lisa prendeva atto che la primavera era esplosa, e questo fatto le infondeva coraggio. Stamattina Anna non era venuta a scuola in scooter. Forse era un'occasione. L'aveva notata, dai finestrini dell'autobus, a piedi sulla salita di Montemazzano. La testa riccia gonfia di sole e lo zaino enorme sulle spalle. Mentre la prof spiegava la consecutio temporum, e nessuno la stava a sentire, Lisa aveva preso la sua decisione. Una decisione irrevocabile. Appena suonò la campanella dell'intervallo, si raschiò la voce più volte. Poi uscì in cortile. Anna era lì, intenta a fare la scema coi maschi. Aspettò il momento opportuno. La guardò a lungo civettare al centro di un gruppetto molleggiato, con le mutande fuori dai pantaloni, e pensò che era davvero insopportabile quando faceva l'oca. Eppure tenne duro. Quando la vide staccarsi dal branco per accendersi una sigaretta, si disse: uno, due, tre… E le si parò davanti. Si era preparata un sacco di discorsi nella testa, se li era anche scritti sul quaderno durante la lezione, ma poi se l'era ritrovata a un palmo di naso, accigliata e indispettita, e si dimenticò tutti i giri di parole. Le chiese di botto: «Facciamo la strada insieme per tornare a casa?». Anna, lì per lì, appuntì il muso lentigginoso in un'espressione di sorpresa. Non se l'aspettava proprio quella proposta da Lisa la sfigata. La gobba, la balena, l'apparecchio per i denti. Senza pensarci rispose: «Va bene». Lo disse come se non aspettasse altro. Rientrando in classe, entrambe si spiarono con la coda dell'occhio e una certa agitazione sottopelle. Fu strano trovarsi all'una al cancello. Erano sempre state in classe insieme, si erano sempre ascoltate durante le interrogazioni sperando che l'altra facesse cilecca. Ci erano voluti nove anni per arrivare al punto di sorridersi timidamente fuori da scuola. Lisa sorrideva dietro l'apparecchio per i denti, i capelli fini raccolti in un codino scarso sulla nuca. Anna, vaporosa, le andava incontro. Stranita, ma anche un po' curiosa, nel viavai di motorini, fidanzati e genitori in attesa, impegnati a riconoscere nella folla degli studenti il loro amore. Si incamminarono insieme per la discesa panoramica di Montemazzano. La luce chiara tergeva il mare, le colline e anche la fabbrica, iniettando un anticipo di estate. Camminavano una a fianco dell'altra a passo spedito, la tracagnotta e la slanciata. L'Elba impossibile e radiosa, ferma sulla linea dell'orizzonte. Anna restava in silenzio, in attesa. Lisa era indecisa su come cominciare. In basso si estendevano chilometri di cemento armato, i quartieri operai di Salivoli e
Diaccioni, sovietici, squadrati, brulicanti di persone affacciate, puntini di donne che stendevano i panni sui tetti e in mezzo il centro commerciale Coop. Anna osservava dall'alto tutto questo. «A te com'è andato il compito?» Lisa ci aveva pensato su parecchio, poi aveva optato per la verifica di storia sulle guerre puniche. Un inizio neutro, in sordina. «Penso bene» rispose Anna. «Sapevo anche con quanti elefanti è partito Annibale dalla Spagna…» rise, «trentasette!» Neppure una vocale ostile nella voce. Lisa poteva continuare. «Tutte dicono che Mazzanti è fico… Secondo me è un coglione patentato.» Anna si voltò a guardarla divertita: «Anche secondo me! Quando ci fa commentare gli articoli su Berlusconi e dice: "Allora, cosa ne pensate?". Ma cosa devo pensare, stronzo! Spiegaci Scipione l'Africano, che poi restiamo indietro col programma». Avevano rallentato il passo. Si scambiarono uno sguardo allegro. Poi ripresero a guardare i profili dei casermoni popolari, e quelli di via Stalingrado più alti di tutti. «Ma tu ci vuoi andare dopo, all'università?» Anna si voltò con occhi lucidi e vivi. «Credo proprio di si. E voglio andare lontano… A Torino, a Milano. Andare via mille chilometri da qui.» «Anch'io» disse subito Lisa, «non vedo l'ora.» Mentre scendevano giù per la panoramica, ogni tanto una macchina suonava il clacson rallentando e si voltava solo Anna. Lisa la spiava ammirata da sotto le ciglia. Era bello tornare a casa con lei. «E tu cosa vuoi fare da grande?» Lisa, vergognosa, gesticolante, fece un po' di facce buffe. «Mi piacciono le poesie, i romanzi… Vorrei diventare una grande scrittrice da grande!» Anna allargò gli occhi. «Ma non è mica un lavoro! E cosa scriverai?» Il volto di Lisa si illuminò per un istante. Nonostante i brufoli, l'apparecchio, le labbra screpolate, le sopracciglia folte e unite al centro, sembrò quasi bella. «La so già, la storia. L'ho anche incominciata… Ma è un segreto che non ti posso dire.» Quando arrivarono all'incrocio con Villa Marina, si fermarono al semaforo dentro un nido di silenzio cristallino. Aspettavano che il rosso diventasse verde. Anna disse: «Io invece… Non lo so bene cosa voglio fare, ma voglio fare una cosa importante. Magari architettura, così poi disegno palazzi belli, tipo con i giardini pensili e i balconi con le verande… Magari quando butteranno giù i nostri, io costruirò quelli nuovi…». «Magari!» esclamò Lisa. Attraversarono la strada. «Oppure mi iscrivo a Economia, e poi divento ministro del lavoro.» Anna era un fiume in piena. «Mamma dice che stanno portando via tutte le fabbriche, in Thailandia e in Polonia…
E qui rimaniamo col culo per terra. Ecco, divento ministro del lavoro o del… come si dice, welfare? Così impedisco tutto questo.» «Io» ripeté Lisa, «voglio raccontare una storia.» È buffo. A volte ci vuole un terremoto, un cataclisma. Come quando durante l'eclisse di sole tutto si sovverte, e gli animali scappano, la natura impazzisce. Gli elementi estranei fanno amicizia. Arrivate di fronte alla Coop zeppa di gente coi carrelli e le buste della spesa, Anna ebbe un moto sorprendente. D'improvviso prese Lisa per il braccio, svoltò in una laterale anziché continuare dritto, disse: «Vieni, voglio farti vedere una cosa…». Lisa non aveva idea di dove Anna la stesse portando, ma si lasciava portare curiosa e quasi felice. Perché la temperatura si era alzata, si erano tolte le giacche, e intorno a loro era una folla di mamme con i bimbi per mano, scolaresche in fila per due che uscivano dall'asilo. Anna si fermò davanti a una siepe, trattenendo il respiro. «Di qui» disse. E s'infilò dentro una fessura tra il verde. Le foglie lisce e odorose di alloro, moltiplicate fra i rami in disordine. Lisa la seguiva, sbucava meravigliata in un minuscolo parco giochi con due alberi al centro, uno scivolo, un girello e due altalene arrugginite. Anna scoppiò a ridere felice. «Vedi, può cambiare tutto quello che vuoi, può succedere qualsiasi cosa, ma qui non cambierà mai niente!» Lasciò cadere lo zaino sull'erba. «Questo posto resterà sempre com'è.» Lisa osservava intorno, il rettangolo verde nascosto nel cuore di cemento armato. Non poteva capire, ovvio, non poteva immaginare. Una piccola tenera cosa, una manciata di puntini gialli tra l'erba alta fino alle ginocchia. Si sedettero insieme su una panchina. Lisa si aspettava che Anna adesso le svelasse il mistero di quel posto abbandonato che non aveva assolutamente niente di speciale, ma l'altra si accese una sigaretta e restò come sospesa. «È tutto uguale, te lo giuro» ripeteva a bassa voce. Era come se Francesca fosse lì distesa, sul prato incolto coi forasacchi. Come se quello fosse il suo incarnato, il sole ci pioveva in mezzo, tra i giochi cigolanti a ogni folata. Francesca era rimasta illesa e intatta in questo posto che adesso faceva ridere Anna, e Lisa non capiva cosa stesse succedendo, perché non stava succedendo niente. «Quella è la capanna!» Anna la indicò col braccio e l'indice teso, una sorta di entusiasmo nella voce come fosse allo stadio. «C'è un formicaio dentro! Tu non hai idea di quanto tempo ci ho passato nascosta…» Francesca faceva capolino dal nido odoroso di legna. «E allora vuoi diventare ministro…» riprese Lisa il discorso di prima, perché era spiazzata e non sapeva come comportarsi. «Sì» annuì l'altra, decisa, «ministro, onorevole, legislatore.» «E vuoi salvare anche la fabbrica di Piombino?»
«Tutto, voglio salvare tutto! Anche questo parco giochi, anche la Lucchini!» Lisa avrebbe voluto dirle molte cose. Che Donata stava tanto male, che con Francesca non erano più amiche. Ma adesso, con lei su questa panchina, stava bene. Non c'era bisogno di nominarla. Anna la riconosceva tra i cespugli, seduta sul girello. La cosa bionda. La cosa più bella. «E di che parla la tua storia?» Le diede una piccola spinta. «Adesso me lo devi dire. Se ti ho portato qui, me lo devi dire per forza!» Lisa abbassò lo sguardo. Erano in mostruoso ritardo, e a casa c'erano due mamme furenti con la pasta scolata da un pezzo. «Parla di un'amicizia» bisbigliò Lisa. «Un'amicizia tra due ragazze, una bionda e una mora, che a un certo punto litigano.» Anna cambiò espressione. «Ma poi si ritrovano» si affrettò l'altra, «alla fine si ritrovano e scoprono…» «Non dirmelo» fece Anna, si alzò in piedi e afferrò lo zaino. «Ti prometto che lo leggo, quando lo hai finito.» «Ma lo finirò chissà quando!» arrossì Lisa. «Ho scritto solo l'inizio… Lo finirò all'università…» «Allora ci andiamo insieme» sorrise Anna, «all'università. Però adesso muovi il culo, sennò mia madre s'incazza.» In effetti, quando Anna rientrò, sua madre era incazzata e la pasta era scotta. Suo fratello stava sbragato, con i piedi sulla sedia di fronte, e cambiava canale in continuazione. Sandra fece i piatti e li portò in tavola. «A'» disse Alessio masticando, «comunque Francesca è messa male…» Ingoiava le penne in un boccone e intanto parlava. «Ho saputo delle cose, marò, se sono vere! Girano delle voci veramente pese, io non so…» alzò la testa dal piatto, «ma secondo me dovresti andare a parlarci.» Anna era rimasta con la forchetta in mano. Non toccava cibo. Sandra ascoltava in silenzio, ripensava a Rosa, come aveva alzato la cresta l'altro giorno… Da che pulpito! «A'» riprese Alessio, «l'ho vista da Aldo… Non volevo dirtelo però, te lo giuro, si veste come una bagascia.» La sua migliore amica. Una bagascia. Anna aveva lo stomaco piccolo ma piccolo, tutto rinserrato su se stesso. «Credi a me» disse Alessio, «vacci a parlare…» Poi finì d'un fiato la lattina di Coca Cola e ruttò come se niente fosse. «È diventata proprio una baldracca.»
Anna si sentì avvampare di colpo, lo avrebbe ucciso all'istante. «E allora» gridò furiosa, «visto che non ti fai mai i cazzi tua, io adesso te lo dico e poi vediamo! Che due settimane fa, quand'era? L'altro sabato… Ho visto papà in piazza Costituzione!» Sandra sbiancò di colpo. Alessio diventò verde. «Ho visto papà!» Anna si alzò dalla tavola al culmine dell'esasperazione. «Aveva una bottiglia di spumante in mano! E adesso impari a farti i cazzi tua, deficiente, che tu Francesca manco la devi nominare.» Anna scomparve nella sua stanza sbattendo la porta. Si buttò sul letto a piangere, mentre in cucina si scatenava il finimondo. La sua Francesca vestita da bagascia… Non è vero! Enrico non era umano. Enrico era l'unico uomo al mondo che non aveva un uomo dentro.
35
Finito il turno era lercio, l'uomo nero che spaventa i bambini. Si infilò nelle docce, dove c'erano vecchi e adolescenti nudi uno accanto all'altro. Dovette raschiarsi via lo spolverino dalla pelle con la spugna esfoliante che usano le donne. Questa merda ti si ficca in fondo, non riesci a capire come fa a entrarti nelle mutande. Si pettinò con cura prima di uscire. Scambiò qualche battuta con gli altri sulla valanga di licenziamenti. Due o tre bestemmie infilandosi i calzini, ma ridendo, nello spogliatoio Lucchini rimasto identico agli anni Settanta: le ante degli armadietti cadevano a pezzi e i rubinetti perdevano acqua. Fuori era una magnifica giornata di maggio. Alle due del pomeriggio, la temperatura superava già i trenta gradi. Era cominciata la stagione: le spiagge ripulite dalle alghe quasi ovunque, gli stabilimenti aperti nelle coste gettonate dai turisti. Erano ricomparsi gli ombrelloni, le sdraio, e i tizi che gridano in bermuda: «Cocco, cocco bellooo!». Alessio stava timbrando il cartellino di uscita, salutava cordialmente l'anziana donna nel gabbiotto. Non si accorse di essere seguito. Scavalcò la sbarra d'accesso per mezzi industriali. Non gli erano mai piaciuti i turisti. Camminava tra i cofani arroventati nel parcheggio semideserto sotto il sole cocente. C'era il frastuono della fabbrica che incombeva ovunque, e non poteva distinguere i passi della persona che lo stava seguendo. Tacchi netti sull'asfalto bollente. Aprì la portiera della Golf GT lustrata a specchio. Buttò sul sedile posteriore lo zainetto con il bagnoschiuma e la tuta oleosa appallottolata. Sentì le voci di alcuni colleghi che lo stavano salutando: «Ciao merda!». Ma gli erano cascate le chiavi sotto il sedile e si era dovuto chinare per raccoglierle. «Cosa fai a pecora? Oh! Ricchioncello!» Poi udì un "ciao" di tutt'altra fatta. Sollevò lo sguardo. La vide attraverso il parabrezza. Sorrideva educatamente, stretta nel tailleur nero. Con quella roba addosso, fuori dal raggio d'azione dell'aria condizionata, Alessio indovinò che stava morendo di caldo. Uscì a rallentatore dall'abitacolo (Non fare scherzi, dice Tom a Jerry, voltati lentamente e metti le mani sopra la testa). Si era attivato nelle sue gambe un formicolio istantaneo, tipo cane di Pavlov. Prendi Alessio, mettigli davanti Elena, e stai certo che lui, qualsiasi cosa gli passi per la testa, avrà il formicolio alle gambe, la salivazione alterata, il battito cardiaco accelerato, e maledirà dentro di sé tutto questo. «Posso rubarti cinque minuti?» La guardò con diffidenza. Quel suo tono formale degli ultimi tempi, le rare volte che si incrociavano nel parcheggio, riusciva sempre a indisporlo. C'erano delle minuscole gocce di sudore sulla sua fronte, il fondotinta parzialmente sciolto agli angoli del naso e della bocca.
Era bella lo stesso, certo. Modi da top manager a parte. «Stavi andando a casa? Hai da fare?» Elena non aspettò la risposta. «Devo parlarti, Ale, è urgente.» Ale. Che effetto sentirsi chiamare da lei con il nome abbreviato, il nome confidenziale. «Dimmi pure.» «Ecco, magari spostiamoci…» Si ripararono in una striscia d'ombra miserrima sotto il muro d'ingresso "Lucchini S.p.A. Piombino" a caratteri cubitali nero su bianco. Alessio lasciò la macchina aperta, con il portafogli e il cellulare dentro bene in vista. Elena, intanto, si stava slacciando i bottoni della giacca e con un senso palese di sollievo restava in camicetta semitrasparente. Si misero uno davanti all'altra. Il pizzo del reggiseno le pizzicava la stoffa della camicia, rendendo visibili nei contorni le forme note, ricordate, ritornate in piena evidenza. Alessio distolse lo sguardo. «Si tratta dei licenziamenti. I trecentocinquanta che abbiamo mandato in cassa integrazione non verranno riassunti, e dobbiamo licenziarne altri. La partecipazione russa sta ponendo delle condizioni molto pesanti. Hanno intenzione di diversificare i prodotti, di dislocare parte della produzione a Est, una parte considerevole devo dire… E noi non possiamo impedirlo.» Parlare con lei di produzione e di licenziamenti. Una cosa nuova che lo infastidiva al massimo grado. «L'Italia è cara. Lo sai: costo della manodopera, costo dei trasporti e dei materiali…» «Va bene» Alessio prese a giocherellare con il portachiavi, «e a me?» Elena cambiò faccia. «A te, Alessio» eccola che tornava in punta di forchetta, «dovrebbe interessare eccome» la maestrina, la manager-maestrina, «perché non sto certo facendo il mio interesse, né tanto meno il mio dovere, svelandoti le future manovre dell'azienda.» «Grazie mille!» esclamò con la faccia da schiaffi che lui sapeva sfoderare e a lei faceva andare in bestia. «Le manovre dell'azienda, mica cazzi!» Elena non rise affatto. Lo guardò di traverso, innervosita e spazientita. Ma rigida com'era dentro la sua camicetta, dentro la gonna lunga fino al ginocchio che le fasciava cosce e fianchi, e poi tutta quella roba da tenere in braccio: la giacca, le cartelline, i fascicoli, la ventiquattrore, poteva solo alzare le sopracciglia e sbuffare quando provava fastidio per qualcosa. «Ale» sforzandosi senza successo di risultare comprensiva, «qui si tratta del tuo futuro, non del mio. Voglio parlarti chiaro. Ho bisogno di sapere quanto sei realmente intenzionato a continuare con noi, nella nostra azienda…» la loro azienda, addirittura, «detto altrimenti, in parole semplici… Vuoi restare con noi fino alla pensione, oppure hai intenzione di trovarti qualche altro impiego?» «Perché me lo chiedi?» «Perché è importante. Perché sono io che mi occupo delle assunzioni e dei licenziamenti, e
posso decidere in quale rubrica inserirti. Cancellare il tuo nome da una lista, scriverlo in un'altra, you understand?» I condannati e i salvi. Faceva anche la spiritosa. Che donna potente, ragazzi… Attenzione! La rubrica dove mettere il mio nome, cancellarlo, riscriverlo. Lo decide lei, capito? Era meglio se sposava il rospo dell'Unicredit. «'Sto paradiso? E chi lo lascia?» Alessio si fece una risata amara. Rifulgeva di ostilità pura, di pura incazzatura. «Vedo che ti sei inserita bene, in the paradise…» Elena incassò la frecciata, e andò avanti: «Il tuo nome è tra i prossimi cassaintegrati. Voglio solo aiutarti». Cassaintegrati. Aiutarti. «Senti, Elena, parliamoci chiaro. Io non li voglio i tuoi favori. Non ne ho bisogno.» Lei si morse le labbra: «Sono stata scortese? Se ti ho offeso, ti chiedo scusa. Non era mia intenzione…». «Cos'è? Salvi me e ficchi al mio posto un altro stronzo, solo perché non lo conosci, uno che magari ha figli?» si stava alterando. Era chiaro come il sole che lui si stava alterando, e lei avrebbe dovuto pensare fino a cento, non fino a tre, prima di parlare. «Ho saputo di tuo padre…» se ne uscì all'improvviso, «So che il tuo stipendio è importante adesso per la tua famiglia, e ho pensato…» «Hai pensatooo? Ma cosa cazzo hai pensato?» ruggì Alessio. «Te non devi pensare un cazzo, hai capito? Ma che coraggio hai, stronza! Mio padre?» come un pazzo, «Cosa c'entra mio padre? Dimmi che cazzo c'entra mio padre con me?! Troia!» Elena chiuse gli occhi: oddio cos'ho detto, oddio cos'ho fatto. «Non hai capito, Ale…» cercò di dire. «Scusami.» Ma lui era rosso fuoco in faccia. Avrebbe potuto scagliarsi da un momento all'altro contro un cartello stradale, contro i cassonetti della spazzatura o un'auto parcheggiata, qualsiasi cosa, e farla a pezzi: lei lo conosceva bene Alessio. Allora si avvicinò per prendergli le mani, tentò di calmarlo come aveva fatto milioni di volte fino a quattro anni prima. «Lasciami stare» ringhiò ferito, divincolandosi. «Mi sono espressa male, te lo giuro.» Si mise una mano davanti alla bocca, poi con un filo di voce: «Volevo solo aiutarti…». «E io non voglio essere aiutato, cazzo!» gridò furioso contro il muso di lei, rovinato dall'afa e dallo spavento. Poi tacque. Si voltò. «Ti saluto» e fece per andarsene. Elena lo trattenne. Gli afferrò il gomito con la mano, lo strinse forte. E lui sentì la presa di quella mano in tutto il corpo. Non si mosse. «Il posto fico ti ha dato alla testa» disse. Elena fece un passo avanti fino a coprire la decina di centimetri che li dividevano, fino ad azzerarli per imprimersi con la guancia, il seno, la pancia contro la schiena forte di lui.
Fu una cosa spontanea che irrigidì entrambi. «Il posto fico non ti autorizza a trattare gli altri come poveracci. Tu non sai un cazzo, ricordatelo.» Istante d'incredulità per essersi trovati cosi dopo anni, nel bel mezzo di un litigio, nel pieno della consapevolezza di essere ormai due estranei impermeabili, inaccessibili uno all'altra e con un muro di bile in mezzo. Il contatto era bello e caldo. Sentiva il cuore di lei battergli contro la schiena. Sentiva l'agitazione e il tremore, e tutta la presenza di lei insinuarsi sotto pelle, andare a spasso per la circolazione sanguigna. «Per favore» gli disse. Senza lasciarlo, lo costrinse a voltarsi e a guardarla. «Sei veramente cambiata, sei diventata una pettina.» «Per favore» gli teneva le mani e lui se le lasciava tenere, «è tanto difficile parlare con te… Non sapevo come prenderti, e allora ho sbagliato. Quando oggi ho visto il tuo nome in quella lista, mi sono spaventata. Credimi, mi è venuta la tachicardia… E ti assicuro che ho pensato a tutto, in quel momento, tranne che al mio posto fico.» Alessio si staccò dopo un secondo da quell'abbraccio assurdo. «Ok, Elena» disse con il tono più neutrale possibile, «fai quello che vuoi, fai quello che ti fa sentire meglio con la tua coscienza. Adesso ti saluto» si voltò verso la macchina, «buona giornata» e prese a camminare. «Aspetta!» Alessio procedeva spedito verso la Golf GT, e lei gli stava dietro incredula. Continuavano a caderle fogli dai fascicoli, svolazzavano dappertutto, e lei li lasciava cadere e svolazzare. «Non voglio che ci salutiamo così.» Mise una mano sul cofano con decisione. «Aspetta un attimo. Non voglio che finisca così, dopo tutti questi anni…» Alessio aprì la portiera, controllò che il portafogli e il cellulare fossero al loro posto. «Posso invitarti a pranzo?» lo stava pregando. «Pranziamo insieme, per favore, parliamo un po'…» Parliamo un po'? Cos'è, una pubblicità progresso per padri e figli, il verso di una canzone di Zarrillo? Elena stava snocciolando banalità immani in un tono implorante che risultava ridicolo. Se ne rendeva conto e si vergognava da morire. Eppure non mollava. «Sono gli uomini che invitano a pranzo le donne, a casa mia» ringhiò Alessio. Il finestrino era abbassato e lui lo tirò su. Chiudere subito quella scena patetica, sigillarla ermeticamente fuori. Evitava di guardarla in faccia. «Allora invitami a pranzo tu!» Si era addossata alla carrozzeria, adesso, stava gridando contro il finestrino che si alzava. «Non ci siamo capiti, Ale, ti prego. Non te ne puoi andare. Non può finire così!» Mise in moto. Pum: netto e incisivo. Chiavi girate nel cruscotto, frizione, acceleratore.
Ingranò la seconda, la terza e la quarta nel raggio di trecento metri, emise un rombo tremendo che però non riusciva a esprimere abbastanza la sua rabbia. Non può finire così dopo tutti questi anni. Dovevi pensarci prima, troia! Stronza del cazzo che sei diventata. Con tutto il tuo cazzo di valigetta, di camicetta, ma vaffanculo! Mi fa l'elemosina, lei. Figlia di papà del cazzo. Ma ficcatela su per il culo la tua elemosina di merda. «Ficcatela su per il culooo!» gridò da solo dentro l'abitacolo. Elena era rimasta al centro del parcheggio sotto il sole, nell'asfalto che bolliva. Si era messa una mano sulla fronte e aveva fatto in modo di non gridare. Era rimasta impalata con lo sguardo fisso nel punto dove l'auto di Alessio era scomparsa. I dipendenti che entravano e uscivano la guardavano incuriositi. Puttana puttana puttana! A che cazzo ti è servita tutta quella scuola, a diventare un pallone gonfiato? Il potere di cambiarti rubrica. Lei prende il mio nome, lo sposta, capito? I cassaintegrati. Le operazioni di mercato. «I russi ci impongono condizioni pesanti» la scimmiottò in falsetto a voce alta. «Ma andate a farvi fottere, deficienti!» Inchiodò all'incrocio. L'automobilista che era dietro di lui fu costretto a sterzare, e per poco non gli andava addosso. Alessio fissò il semaforo giallo per una frazione di secondo, giusto il tempo che diventasse rosso. Poi, quando diventò rosso, partì e fece inversione a U in mezzo al traffico. Alessio scatenò l'inferno davanti al bar Elba, aizzando le ire più profonde degli automobilisti costretti a frenare di colpo, a tamponare un lampione, un'indicazione stradale. Clacson impazziti e gente a guardare fuori dal bar. Prese la strada contromano, tornò indietro, entrò sparato nel parcheggio dove Elena era rimasta immobile nel tailleur Gucci, la ventiquattrore aperta e il volto da madonna postmoderna, tipo scultura di Cattelan. «Avanti, monta» disse spalancando la portiera. Una madonna sfigurata, travestita da top manager, proprio come alla Biennale di Venezia. «Monta, che ho fame.» Stava facendo il duro con una mano sul cambio e l'altra sul volante, che non ti guarda e spinge sull'acceleratore per farti sentire la rabbia del motore. Elena si lasciò cadere sul sedile, si smagliò una calza, e Alessio partì prima che lei potesse chiudere la portiera. Il parcheggio in una folata si tappezzò di moduli di licenziamento. Adesso erano muti e seduti, dentro l'abitacolo che profumava di Arbre Magic. All'uscita dal parcheggio Alessio tirò il freno a mano, come ai vecchi tempi. L'auto fece un giro su se stessa ed Elena non poté trattenere il sorriso – incosciente, affermativo. Affermativo di cosa? Non lo sapeva, non voleva saperlo, mentre si allacciava in fretta la cintura perché lui spingeva come un toro e si fiondava a troncamacchia nelle strade, negli svincoli, in mezzo agli incroci intasati di traffico. Stavano rischiando un tamponamento ogni venti metri, stavano rischiando ben altro. Alessio guidava e non la guardava. Anche lei non lo guardava, ma aveva una voglia matta di
gettargli le braccia al collo. Un desiderio pazzoide di mandare a fanculo tutto quanto. Aveva una calza smagliata, il trucco colato, la camicetta sbottonata. Che me ne frega? Lui aveva lei accanto mentre guidava, avrebbe anche potuto schiantarsi di colpo. La città, le case, i negozi, le edicole, i balconi, mamme con il passeggino, vecchi con il cane, bambini, scolaresche all'uscita da scuola: il mondo zigzagava contro i finestrini, balzava da un vetro all'altro, dal parabrezza allo specchietto retrovisore. Tutto un casino. Alessio svoltava sbandando con le ruote posteriori, e Piombino diventava Guernica. Elena tratteneva il respiro, ma solo perché si divertiva un mondo. Alessio lo sapeva, che lei sorrideva sul sedile del passeggero. Che era lei, il passeggero. Il cuore faceva quello che voleva, i polmoni pure, i muscoli delle gambe completamente a puttane. Quanto sarebbe durato? Un quarto d'ora, mezz'ora, un pomeriggio intero? Non importa. Il tempo è fuori dalla portiera, il profitto, il capitalismo, le siviere. Passato, futuro: ciao. «A che ora ti devo riportare?» «Oggi è festa.» Alessio si voltò a guardarla. Si guardarono sorridendo in un modo assolutamente complice mentre il sole irradiava con tutti i suoi raggi l'abitacolo al profumo di Arbre Magic. «Andiamo alla Vecchia Marina» azzardò lei. Era sovraeccitata, era troppo viva per badarci. «Stai scherzando?» le chiese lui. «No, per niente.» Alessio azionò la chiusura automatica, gettò uno sguardo di superiorità verso il cartello bianco e rosso dove c'era scritto grosso come una casa ZTL, poi si soffermò su di lei… C'era silenzio nella città vecchia. Un silenzio di reti da pesca abbandonate sui moli, fontanelle incise nel marmo e piccole barche di legno oscillanti. La Rocchetta era il rifugio antico dei pescatori e delle coppiette adolescenti il sabato pomeriggio. In piazza Padella, una piazza grande come uno sgabuzzino, Alessio e Elena si erano baciati la prima volta. Entrarono nel ristorante che la cucina stava chiudendo. «Faremo un'eccezione» disse il cameriere. Intorno, sui tavoli vuoti, c'erano avanzi di pane, tovaglioli spiegazzati e caraffe con dentro due dita di vino. Un uomo sulla sessantina finiva il pasto da solo, tagliando diligentemente qualcosa con forchetta e coltello. Presero posto: non al tavolo dove lui le aveva chiesto di sposarlo, un altro… ma sempre affacciato sull'isola. Elena aveva i capelli in disordine, tormentava un grissino. Alessio afferrò il menù e cominciò a leggere senza capirci niente. Non c'era nessun argomento, neppure uno in tutto il regno sconfinato dei discorsi, di cui potessero parlare.
Ordinarono due piatti di spaghetti alle vongole e una bottiglia di Greco di Tufo. Un po' si guardavano, un po' guardavano il profilo dell'Elba e come il sole a quell'ora la inargentava. La tensione diluiva nell'alcol, il signore solitario posava il bicchiere vuoto del limoncello e si alzava raccogliendo la giacca. C'era pace adesso, nel ristorante vuoto. Sentivano la calma e la resa. I camerieri si slacciavano la divisa, la cuoca riponeva il grembiule: la calma e la resa delle ore pomeridiane, in un luogo del passato affacciato sul mare. In effetti, una cosa da dire c'era. Ma nessuno dei due la disse. Si alzarono quasi contemporaneamente. Alessio andò a pagare il conto, Elena restò indietro senza osare fermarlo. Uscirono e camminarono uno a fianco dell'altra verso il faro, il punto di maggiore vicinanza fra l'Elba e Piombino. La Golf era sempre là, non gliel'avevano rimossa. Però c'era una multa bene in vista sotto il tergicristallo. La donna che gli passeggiava di fianco adesso, in tailleur nero e camicetta di raso, era la dirigente del personale Lucchini. L'uomo che le camminava di fianco era un metalmeccanico specializzato, con i jeans larghi e cascanti sul culo. Eppure dovevano esserci ancora, da qualche parte su quelle panchine, i loro nomi incisi. Si sporsero dalla balaustra di granito. La piazza dedicata a Giovanni Bovio, insigne repubblicano, uomo risorgimentale votato all'idea di un mondo giusto, era diventata nel tempo una terrazza per innamorati. Le onde si infrangevano sui tre lati. Sembrava di toccarla, sembrava che bastasse allungare il braccio per afferrarla… Ilva. Il nome segreto, si disse Alessio sottovoce, il significato.
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Le luci si spensero di colpo. «Topa topa topa topa topa!» Al coro da stadio un po' rauco, a sinistra della sala, fece eco uno a destra: «Fica fica fica fica fica!». Li sentiva agitarsi da dietro la porta. Il bestiame che preme il recinto. Li sentiva battere i pugni sui tavoli, sbattere i soldi sul banco. Uno, due, tre… Contava. Teneva l'orecchio incollato alla porta. Udì un paio di bicchieri infranti, un cominciamento di rissa. Poi l'intervento del buttafuori stile Bud Spencer. Al dieci, sgattaiolò fuori dal camerino, attraversò i tavoli in punta di piedi. Uno spostamento d'aria leggera, facendo attenzione a non inciampare. Entrò nella pista. Il pubblico impaziente distinse il suo profilo in movimento nel buio denso e maleodorante. Cominciarono a chetarsi. Il baluginare tenue del suo perizoma alla luce dei display accesi dei cellulari li ammaliava. Cessarono i cori. Prese posto sul piedistallo. Afferrò con le braccia tese l'asta metallica e sgusciò nella posizione di partenza. Rhythm. Rovesciò indietro la testa. Rhythm. Divaricò le gambe. Il riflettore posto al centro del soffitto si accese di colpo, materializzandola. You can feel the, you can feel the… Inzuppata di luce bianca. Ammassate, sudate. C'erano più di duecento persone. Emisero un grugnito di sorpresa. Dopo un istante, la musica esplose. Rhythm is a dancer. La canzone. E lei era nuda, e guardata. Se fosse stato l'anno scorso, se fosse stata affacciata alla finestra del bagno al quarto piano del numero sette, allora Lisa l'avrebbe spiata da dietro la tenda con il batticuore, e suo zio avrebbe interrotto apposta la colazione. Ma qui siamo da tutt'altra parte, ci sono metalmeccanici ubriachi che battono le mani e schiantano i bicchieri. È davanti a questi uomini, adesso, che lei si avvera. Volteggia dischiusa intorno al palo d'acciaio, in tacchi a spillo e perizoma. Nient'altro. Lei non è come le altre. Lei è viva. Imprime colpi secchi con il bacino sciolto. Non ha briglie. Il candore di una bambina sotto le ciglia. Quando porta la gamba in alto, fino a toccarsi la tempia con la caviglia, allora è davvero tua figlia snodata sul tappeto morbido durante il saggio di ginnastica artistica. Scostare il bordo del perizoma col dito indice. Si vede che ha paura di farlo. Sorride imbarazzata. È il suo imbarazzo che spaventa, è la sua grazia che scatena gli operai della Lucchini e della Dalmine. Ed è commovente vedere un nonno a bocca aperta, la mano
malferma sul bicchiere, perché lei sostanzialmente non sa fare il suo lavoro. E si inceppa sul più bello, sul perizoma. Si aggancia all'asta, si lascia roteare spiovendo i capelli soffici. E arrivano gli applausi. Lei è felice, ha tutta l'aria di una puttana felice. Strofina le natiche sul palo, piegandosi sulle ginocchia. Una, due, tre volte. Gli operai perdono la testa, si alzano in piedi, tirano fuori i soldi. È la loro vacanza. C'è una furia in lei mentre balla. C'è l'impegno e l'insicurezza del primo saggio di danza. Le scappa da ridere a volte, quando sbaglia: è qualcosa che in tutto il mondo, in uno spettacolo di lap dance, non vedrai mai fare. Bisogna arrivare qui, in questa periferia del cazzo, in un buco stagnante del sottosuolo per vedere una cosa simile che si muove, una cosa vera che a volte cade, si risolleva, agita il culo in modo animale. Lo sa anche lei: non lo vedrà mai, il talent scout di Canale 5. Non ci vengono qui. È una tana. Ci sono quelli che faticano otto ore, e si lavano male, e hanno una famiglia, uno schifo di casa. La visuale strategica dietro la tenda. Le piace essere guardata. Ma non da uno soltanto. Conosce il rantolo dietro la porta, la mano che si infila nella tasca e si sfrega il sesso. Sa di esserne la causa. Sa di essere la colpa. Ma qui, sul palco del Gilda, si diverte. Lo zio di Lisa moltiplicato per cento. L'uomo nascosto nel palazzo di fronte, dietro la porta… Lei non è come l'altra. Lei non gioca. Lei attira duecento persone nel locale ogni venerdì sera, e spilla più soldi dai portafogli gonfi di tutte le altre messe insieme. Il broncio volgare nel viso pulito della liceale. Non è solo questo. È la perla nel tessuto limaccioso, bavoso del mollusco. You can feel it everywhere. L'uomo nascosto. La cosa inconfessabile che ha la faccia congestionata e si abbassa la cerniera. Erano tutti immensamente fieri, orgogliosi, paterni. Il gestore, il proprietario, il consigliere comunale addetto al turismo, e la folla allucinata dei turisti, dei metalmeccanici, dei pensionati a un passo dalla fossa. Il primo sale sul palco, rompe il ghiaccio. Lei si abbassa e gli strofina le natiche in faccia. Vuole il dollarino. Lui glielo infila. Si piega di nuovo. Ne vuole un altro. Il vecchio deficiente, forse Gianfranco forse un altro, non capisce più niente. Le infila dollarini su dollarini nelle mutande. La cassa tintinna. Fioccano gli applausi. E lei è la regina incontrastata del Gilda. Le gambe lunghe, vertiginose. Il busto sottile, spigoloso. Quel viso da diva del cinema anni Trenta, incorniciato da una cascata d'oro vaporosa. Non ci vuole la laurea per capire. Il rigagnolo del suo odore, il moto adolescenziale del corpo che si dimena contro il palo. L'errore, il rossore della piccola vicina di casa maliziosa. Lei è universale. L'accompagnano ai party, a volte, sugli yacht ormeggiati a Punta Ala. Le comprano vestiti raffinati perché faccia bella figura, che non si capisca da dove viene. L'aveva sverginata il suo datore di lavoro in un motel un pomeriggio di aprile, e lei era rimasta impassibile sotto di lui,
gli occhi sgranati contro il soffitto. Ma sul palco è un'altra cosa. La canzone la riempie. Rhythm is a dancer è il suo trionfo. Il solletico la inarca, la incarna, e lei scodinzola. Guardala. Sta ridendo. Sta cavalcando e cantando a voce piena. Ooh, it's a passion. Guarda come gioca… come una qualsiasi adolescente che balla davanti allo specchio, e imita Britney Spears e si spoglia chiusa a chiave nel bagno. A metà esibizione entrò Cristiano. Camminò nel buio e nel casino, gli occhi irritati per il fumo. Non ci vedeva un accidente. Raggiunse a tentoni la prima fila dove stava Gianfranco, dopo aver sbattuto contro cinque o sei tavolini. Il negroni gli si era versato tutto fuori dal bicchiere. «Ehi, mezza sega» ridacchiò il capo quando si accorse di lui. Cristiano si stava sedendo. C'erano altri sei o sette operai della sua ditta, sbronzi come pischelli. E lui era lucido, cazzo. Aveva dovuto fare i salti mortali per sgusciare via dal letto di Jennifer senza svegliarla. E chiedere in prestito la Golf ad Alessio, non era stato facile. «Questa è una bomba» gli fece il capo indicandola. Cristiano le gettò un'occhiata distratta, stava ancora pensando a dove aveva parcheggiato la macchina, se era o no divieto di sosta. Non poteva permettersi di far rimuovere la Golf di Alessio: sarebbe stato un cataclisma. «Questa me la chiavo, porca puttana. Me la sbatto in piedi!» gridava Gianfranco su di giri, la camicia a quadretti rosa e la stessa pancia enorme dell'anno prima. «Perché ha proprio quell'espressione che ti dice "scopami", vero? Ha proprio quel musetto lì, da cagna assetata…» Risero tutti. Cristiano rimuginava, cercava di ricordare esattamente se il posto dove aveva infilato la macchina di traverso era o no divieto di sosta. Il cartello c'era, o non c'era? Intanto intravedeva, sfocate, un paio di gambe che si agitavano a ritmo inconsueto. «Ha classe» disse qualcuno, «non so dove l'hanno pescata, ma fa le scarpe a tutte.» «Finirà dritta dritta a Canale 5!» Cristiano alzò gli occhi. «Guarda come spinge… Altro che Canale 5, questa la voglio in Parlamento!» Osservò il culo che gli si muoveva di fronte. «Ministro! Ministro!» Due chiappe tonde, sode e agitate come è raro vederne. E una schiena meravigliosa, una pelle bianca e uniforme appena arricciata lungo la spina dorsale. La marea dei capelli le spiovevano ora su una spalla ora sull'altra. Cristiano cominciò a sorridere come un'ebete. Avevano ragione. Questa qui ci sapeva fare, muoveva il corpo a un ritmo strepitoso e di sicuro ti poteva stare sopra a cavalcioni, veloce e
dura, anche per un'ora intera. Lei si voltò. Ruotò il busto filiforme, i fianchi accennati, il seno piccolo e muscoloso. Il suo viso. Cristiano restò paralizzato. Un rigagnolo di succhi gastrici gli risalì l'esofago. Non è possibile… Restò con il Negroni in bocca senza avere il coraggio di ingoiarlo. Aveva voglia di sputarlo, sputare fuori tutto. Il sentimento chiaro della paura. «Francesca» balbettò a bassa voce. Un filo di voce che nessuno poté sentire.
37
«Siamo andati a Milano giovedì scorso, per la manutenzione» stava dicendo Mattia tanto per parlare, «Una fabbrica più piccola della nostra, ma tenuta meglio. E dopo siamo andati a fare un giro in centro. C'era un bordello… Sai cos'ho visto?» «Cosa?» domandò Anna senza interesse. Era sdraiata di schiena, non fece neppure lo sforzo di alzare il viso. «C'era di tutto, dentro i locali. Anfetamina, chetamina, MDMA, un delirio di roba a prezzi assurdi! Una marea di gente, anche per strada… Non come qui, che vanno a letto alle undici e mezza» Anna lo ascoltava e non lo ascoltava, intontita dal sole, «e insomma a un certo punto arriviamo in una grande piazza, con la chiesa, il campanile e tutto il resto. C'erano ragazzi sdraiati per terra, gente con la chitarra e i bonghi all'una di notte… E cosa vedo? Non puoi capire!» «Cosa?» sbadigliò lei. Mattia esplose: «Due ragazze che si baciano!». 2 giugno, festa della Repubblica Italiana. La spiaggia era infestata di bambini e famiglie grasse sotto l'ombrellone. C'erano resti di lasagne dentro teglie di alluminio, e altre scorie come torsoli di mela buttati sulla sabbia. C'erano tutti, quelli di via Stalingrado. Tutti tranne una. Anna sgranò le palpebre dietro gli occhiali da sole, lo schermo nuovo che le dava un tono da signorina. Si girò su un fianco, rimase sospesa a guardarlo. «Due ragazze, due femmine!» si esaltava. «Dovevi vederle, A', sedute sotto una fontana, abbracciate al chiaro di luna… e la lingua in bocca!» Restò ferma in quella posizione, come se qualcuno ce l'avesse inchiodata. Le era cominciato un assurdo, ingiustificabile batticuore. «Solo là possono succedere 'ste cose. Sono fuori, te lo giuro, sembra Amsterdam. Ma due ragazze che si baciano davanti a tutti… Questa è davvero pesa.» L'aveva cercata con gli occhi, subito. Mentre scendeva le scale, mentre attraversava la passerella tra le cabine, e poi mentre stendeva l'asciugamano e si sfilava il copricostume. Trovarla lì, sull'orlo del mare, dov'era sempre stato il suo posto. Mattia le stava dicendo di come fosse assurda Milano, con tutti quei soldi, tutti quei trans allineati sui marciapiedi, e come la gente ce l'avesse a morte coi rumeni alla fermata dell'autobus, come morisse un ragazzo in discoteca per una pasticca sola, una coltellata sola, la cronaca nera, e per lei era assurdo soltanto che Francesca non c'era. Ma forse non aveva guardato bene. Forse in quei dieci minuti che era stata sdraiata a prendere il sole, lei era arrivata.
Anna si rimise a sedere. Riprese a setacciare sotto ogni ombrellone, sopra ogni sdraio, in ogni angolo del bar dove potesse essersi cacciata. Come se le due ragazze di Milano c'entrassero qualcosa. Come se si fosse risvegliato di colpo, in lei, l'animale. Mattia è uno qualunque. Sì, è uno che non si pone domande. Abbi il coraggio di guardare davanti. Non tra gli asciugamani, non dove marciscono i vecchietti, le sfigate, le coppiette fra le quali ci sei anche tu, adesso. Guarda davanti a te, il mare. I cerchi di adolescenti che giocano a pallone. Prendine atto. L'isola continuava a dormire, illibata, sulla linea sfocata dell'orizzonte. Distinse Nino e Massi. Giocavano nell'acqua come l'anno scorso. Le teste bagnate e arruffate, i muscoli in tensione. Vide Nino tirare una fiammata verso il cielo, il pallone disegnare una parabola precisa che terminò sul tallone di Massi. Poteva sentirli gridare «A me! A me!», anche se le voci arrivavano così lievi da laggiù. Il sole a picco sulle teste, sulle spalle. Avevano occhi arrossati per il sale e pupille a fessura. Era perfetto. Il movimento nitido dei corpi appena sviluppati, le ragazzine in corsa allo stato nascente. Anna ne vide una che gridava perché le era entrata la sabbia nelle mutande del costume e si chinava sotto il mare per sfilarle. Cerchi larghi, composti e ricomposti. La palla rimbalza sulle punte delle dita, le braccia tese, vittoriose sulle schiacciate di pallavolo. E quel clamore, tipico delle semibambine che prendono la rincorsa per tuffarsi. Si tuffano, riemergono. Si erano fidanzati, Nino e Massi, ma non sul serio. Si erano presi due ragazzine di seconda o terza media, che li indicavano dal bagnasciuga e li applaudivano se facevano gol. Anna le vide bisbigliarsi qualcosa all'orecchio. Erano affusolate. I capelli inzuppati, lunghi fino al sedere. I seni ancora piccoli e i fianchi inesistenti. Anna notò in una il triangolo scomposto, il sedere rotondo quasi del tutto scoperto. Le vide lanciarsi di punto in bianco. Buttarsi nella mischia e aggrapparsi alle spalle dei maschi. Mattia aveva smesso di parlare, aveva cominciato a sfogliare "La Gazzetta dello Sport". Forse le aveva chiesto qualcosa. Ma lei non aveva nessuna intenzione di rispondere. Nessuna intenzione di interrompere quella tortura che era rimanere lì a guardare il regno di cui Francesca non faceva più parte. Di cui lei e Francesca non facevano più parte. E nessuno se ne era accorto. Anna fissava la linea dell'orizzonte, l'Elba maledetta che non aveva mai raggiunto. E sentiva una gran rabbia, e le veniva da guardarle in cagnesco, quelle due ragazzette più piccole, che tenevano le gambe dritte mentre facevano le verticali sott'acqua. Sbalzata fuori. Estromessa. Come quando all'asilo ti puntano il dito e ti dicono secco: «Tu non giochi». Un'esperienza che Anna non aveva mai vissuto. Un'esperienza che non sapeva neppure cosa fosse. Perché lei non era uno, era due. Lei non era tu, era voi. Voi non giocate. Annafrancesca non gioca. E a loro, sai cosa gliene fregava: avevano spiagge segrete, capanne di legno, cantine, panchine, la costa intera di Salivoli da monopolizzare.
Sono crudeli, pensò Anna. Le adolescenti che venivano adesso nella sua direzione, mano nella mano, impegnate a fare la loro passerella idiota, la loro meravigliosa camminata per mostrare il culo, i seni, tutto quanto in loro possesso scatenasse invidia e ormoni. Facciamo le capriole, facciamo a chi sta più tempo in apnea! Il tempo è una cosa tremenda, aveva ragione Francesca. E adesso dov'è? Cosa starà facendo? Mattia tirava fuori il mazzo di carte. «Ci facciamo una partitina?» con il sorriso scemo. Stare al centro della vita e non saperlo. Anna raccolse le tredici carte, le sistemò con criterio tra le dita. Cominciò a giocare con il suo fidanzato a scala quaranta. Non è qualcosa che perdi. È qualcosa che perde te. Mattia continuava ad aprire sull'asciugamano: tris di jack, scala di quadri, tris di regine. E lei restava lì a guardare i granelli di sabbia scivolare tra le carte, la distraevano le urla delle nuove puttanelle, e non si decideva a scartare. Forse, se fossero nate a Milano… Se si fossero trasferite a Milano, forse anche loro si sarebbero baciate davanti a tutti, al centro di una grande piazza, con la luna che fa capolino dietro il campanile. «Tre a zero» esultò Mattia. E da lontano si sentì gridare: «Gol!». «Non ho più voglia di giocare.» Anna gettò le carte e tornò a sdraiarsi. «Eddai, cosa ti prende?» Le montò sopra, cominciò a farle un massaggio alla schiena: un pretesto qualunque per poterle infilare le dita nel costume. «Smettila» sibilò Anna. «Stai diventando puritana…» Si sollevò, tornò al suo posto, ma per altri cinque minuti continuò a palparla fischiettando. Lui sì che era contento. Lui era in pace col mondo. «Andiamo a fare il bagno!» Una frase che un anno fa non c'era neanche bisogno di dirla. Mattia scattava in piedi, si metteva a correre sulla sabbia bollente, poi si voltava e la chiamava di nuovo. Anna non aveva voglia di alzarsi. Non aveva voglia di niente. Era meglio se restavano a casa con le tapparelle chiuse, allora forse non lo avrebbe odiato. Cominciò a camminare svogliata verso il bagnasciuga. Quello nuotava beato, come se niente fosse. Anna entrò nel mare. Si bagnò prima la pancia, poi le spalle, e sentiva freddo. Diede due bracciate per sgranchirsi. Raggiunse Mattia: l'uomo qualunque, l'uomo in pace col mondo che adesso voleva scopare sott'acqua. Gli fece no con il dito. Si lasciò galleggiare in superficie. Giocare al morto. Dilatare gambe e braccia nel mare come
un cadavere senza peso. Dov'era finita? Dove finiscono le cose che perdi? Le scarpe da ginnastica sotto lo scafo della barca, nella spiaggia delle alghe… Anna chiuse gli occhi. Se si impegnava, poteva distinguerla la voce di Francesca che indica la boa laggiù, un puntino giallo oscillante, una meta microscopica ma per loro, nel 2001, immensa… Francesca che spicca il volo nell'acqua, infila la testa e riemerge gridando: «Dai, andiamo all'Elba!».
38
Alessio camminava spedito, in controluce, alle sei del mattino. È questa l'ora bestiale, l'ora dei musi puntuti. Sbucano dai tombini, risalgono le tubature, le creature segrete della Lucchini che brulicano sotto i capannoni. Alessio ne vide una, sopravvissuta, uscire da un cespuglio rinsecchito, e si fermò all'istante. Non aveva niente da dargli. Si piegò sulle ginocchia. Gli piaceva il naso di quelle bestie, il triangolo umido e rosa. Il gatto maculato restò impietrito a guardarlo con grandi occhi gialli. Aveva la coda mozzata. Alessio avvicinò la mano fin quasi a toccarlo, ma quello arcuò il dorso e scomparve. Il sole si alzava, proiettava dieci chilometri quadrati di impianti. Alessio raggiungeva il carroponte, la sua bestia personale, e pensava che oggi, forse, suo padre sarebbe tornato a casa. Salutò il collega che staccava per andare a dormire. Impugnò la tastiera, controllò che ogni ingranaggio della gru fosse al suo posto. Ok, soldato Ryan, puoi cominciare. Sollevare siviere, spostarle, mandarle a fanculo mentalmente. Alessio si ficcò gli auricolari del lettore mp3 nelle orecchie. L'hardcore gli mandò quasi a puttane il timpano. Non è semplice regolare il tempo della tua esistenza con quello che impiega l'acciaio a fondere, solidificare, ricevere una forma. Ci vuole una striscia di coca, per forza. Si chinò in un angolo, sfoderò lo specchietto tattico, arrotolò una banconota da cinque e si iniettò per vie respiratorie la dose quotidiana e lo stipendio. Prendeva posto nella guerra permanente, di fatto ne era orgoglioso. Di fatto, riusciva anche a divertirsi con l'hardcore che pompa a ritmo di siviere. Ci sarebbe riuscito anche oggi, se Elena non avesse cominciato a torturargli il cervello. A un chilometro e mezzo di distanza, Mattia arrivava trafelato al treno vergelle: il laminatoio che fa di una billetta un fascio di fili d'acciaio e tondi dal peso specifico esponenziale. A lui toccava caricarli sul carrello del mulo, appena sfornati, e portarli al capannone dei controlli di superficie. Salutò Eva Henger del mese di giugno. Salì sul muletto parcheggiato apposta per lui, perché lui ci si potesse accomodare e tirare avanti comodamente otto ore. La luce schizzava calda e feconda attraverso le ciminiere e i ponti. Mattia pensava ad Anna, la sua bambina, che dormiva beata, affondava le lentiggini e i ricci nel cuscino. Il pigiama estivo, quello della prima volta. L'inguine chiaro. Mattia pensava ad Anna tiepida, vaporosa sotto il lenzuolo. E il suo corpo reagiva. Succede, succede sempre quando stai caricando tonnellate d'acciaio, che il tuo corpo insorge dentro la tuta. Ti senti risalire la linfa grumosa dal fondale, le arterie si dilatano e
pompano. Il muscolo nascosto, il meno civilizzato. Ti tocca cercare un bagno, un angolo dietro un cespuglio. Ti tocca abbassarti la cerniera e ribellarti. Da tutt'altra parte, ai confini occidentali della fabbrica, Gianfranco sgridava Cristiano perché anche questa mattina era venuto in ritardo. «Non ci devi andare al Gilda!» gridava. «Guardati in che condizioni… Guarda che cazzo di casino!» Indicava una montagna di ciarpame. «E vai a lavarti la faccia, porca puttana!» Cristiano sbadigliava, si strofinava le palpebre cispose. «Fly down, capo…» riuscì a biascicare. «L'altra sera ci sono stato, mica ieri.» «Sei un morto di seghe, allora!» Il pensiero di Francesca non lo aveva fatto dormire per due notti di fila. Se la rivedeva nuda, fluorescente sotto il riflettore, e non si dava pace. Perché lui lo sapeva che aveva quattordici anni e non diciotto. Era la sua vicina di casa, cazzo. L'aveva vista in grembiule a quadretti mentre andava a scuola, mano nella mano con Anna. Bambine minuscole con lo zaino colorato sulle spalle. Però adesso c'era un magnifico Caterpillar che lo stava aspettando. Un mucchio di detriti alto cinque o sei metri, fresco di frantumatore. Gli toccava pensare a questi problemi: i frantumi. Puntò la pala dell'escavatore, tirò su di tutto e di più. Resti di ciminiere demolite, spunzoni di ferro, mattoni refrattari consumati, topi morti, e anche qualche pezzo di rame. Rame: in questi casi l'imperativo categorico impone di spegnere il motore, scendere con calma, raccogliere le cinquemila lire al chilo dalla pala e nasconderli in un luogo sicuro per poi trafugarli all'uscita. Cristiano realizzava l'imperativo con zelo, kantianamente. Questa mattina, come sempre, dopo appena un quarto d'ora di lavoro, si scopriva sentimentale. Il sudore sulle tempie, la terra che ti entra in bocca e quel caratteristico sapore di ferro trucioloso sulla lingua, gli facevano questo effetto. Telefonò a Jennifer, la fece alzare dal letto e le disse di portargli il bambino. Chilometro cinque, dove c'è il distributore di benzina. Alessio smaniava. Mattia aveva sonno. Cristiano non vedeva l'ora di fare le giravolte con il Caterpillar davanti a suo figlio. Ore sette del mattino, 3 giugno 2002. Era una vera fortuna che si trovassero insieme, lo stesso turno di mattina. Si sarebbero incontrati alle due nello spogliatoio vintage, sotto le docce a singhiozzi. E poi sarebbero andati al mare in via Stalingrado, l'ingresso potente tra le cabine: attenzione gente, ci siamo! Una bella siviera: 19,6 tonnellate. Alessio la caricava, l'alzava, la spostava, così fino a mezzogiorno, poi la pausa pranzo, poi un'altra oretta di frantumazione di palle. Giugno: morbida bruna di Striscia la Notizia piegata di schiena su uno scoglio. Il sole si alzava rapidamente sul promontorio. Da qui non si vede l'Elba. Si vede il golfo che dalla fabbrica inclina verso Follonica, i profili della Dalmine e dell'Enel in mezzo. La fila dei
tralicci nudi: come Cristiano e Alessio possono, da soli, modificare un paesaggio. "Va bene, domani ti chiamo e ti faccio sapere." Così Elena nel messaggio di ieri. Perché non mi chiami? Perché devi ancora alzarti dal letto e fare colazione… Ma lui non poteva aspettare. La sera prima si era fatto coraggio, le aveva chiesto se pranzavano insieme oggi, e ci aveva messo un'ora a digitare quel cazzo di messaggio. Alessio sollevava lo sguardo, lo disperdeva tra le cisterne di gasolio, i vapori rossi e viola che surriscaldano l'atmosfera. Poi tornava alla sua leva, il movimento elementare. Qualcosa che fa pressione su qualcosa. Qualcosa che fa perno. Sudava, respirava piombo, malediceva i millecinquecentotrentotto gradi a cui fonde il metallo. Gli passavano accanto cisterne incandescenti. Se si avvicinava troppo, la tuta poteva prendere fuoco. È solo quando vai alla stazione che godi. Sali sull'Intercity, guardi fuori dal finestrino e senti lo stridore dell'acciaio, la sua frizione, la scintilla crepitante del tuo viaggio. Ripercorri a memoria tutti i passaggi: dalla cokeria all'altoforno, dall'altoforno in acciaieria, e di qui ai convertitori, ai forni siviera, ai laminatoi… La rotaia su cui stai correndo: sei tu che l'hai fatta. Alessio aspettava con ansia la risposta. Il sole gli picchiava sulla testa. Il cellulare non vibrava. L'afa si addensava in una palude rugginosa tra gli impianti. Suo padre chissà dov'era adesso, chissà se ci tornava davvero a casa quel farabutto. E con che faccia tosta si presentava? No, decisamente non poteva perdonarlo. Sono le otto del mattino. Le siviere continuano a premere. Le ombre si accorciano di un paio di centimetri. E tu hai cazzi tuoi in testa. La mano spinge nervosa sulla tastiera, hai un bisogno folle di sapere se quel cornuto di tuo padre oggi torna a casa, se a mezzogiorno Elena pranzerà con te in mensa. I minuti si contano nei passaggi delle siviere. Tu li detesti, i minuti. Ti parte uno scatto incazzato con la mano. E allora la fai sobbalzare, la siviera stronza. E allora le funi d'acciaio si accavallano, le guardi accavallarsi… Ti ritrovi a cristonare come un pazzo. «Cazzo cazzo cazzo!» Alessio gridò e scaraventò la tastiera per terra. Calma. Può capitare. Che una siviera sobbalzi, che le funi si accavallino, e sei costretto a spegnere tutto se non vuoi fare danni. Può capitare quando ti pare. Ma non oggi. Bestemmiava. La coca in circolo nel sangue, tuo padre che ieri ha telefonato e forse oggi si presenta e tu hai un bisogno fottuto di perdonarlo. Si strappò con rabbia gli auricolari. Non ci voleva: un'ora aggiuntiva, forse due, di lavoro. Le puttanate che ti mandano in bestia. Perché tu vuoi vedere Elena a pranzo, ne hai bisogno, e non ti vuoi fottere questa occasione per una siviera del cazzo. Gli toccò abbassare il carico sospeso, sganciarlo dall'argano, e poi andare in giro imprecando alla ricerca del capoarea. In qualsiasi situazione, anche se stai sfiorando l'esaurimento, occorre applicare il protocollo di sicurezza. Alessio stava applicando il
protocollo. Stava cercando imbufalito il capoarea. Lo trovò dopo venti minuti, un bestione peloso che andava spesso da Aldo, seduto in un morso d'ombra su uno sgabello pieghevole. «Mi si sono inceppate le funi» disse. «Che due coglioni» si lamentò l'altro. La pancia comodamente appoggiata sulle gambe divaricate. Grondava sudore restando fermo. «Cerchiamo di fare veloce.» Alessio cocainizzato. «Cedo» ruttò il bestione, «stai calmino che adesso ti mando la manutenzione.» Ci impiegò almeno tre minuti per alzarsi. Tutto quel grasso colante nella calura doveva essere difficile da gestire. L'uomo indicò il calendario Maxim appeso alla porta del suo capannone. Un culo e dei capelli rossi. «Bellina, eh?» sorrise sdentato. Alessio avrebbe voluto fucilarlo. Jennifer si presentò assonnata con il bambino in braccio alle otto e mezza. Cristiano li vide, balzò giù dall'escavatore e corse loro incontro saltellando. James ebbe un rigurgito di latte sulla camicetta della mamma. Si parlavano attraverso le grate di ferro. «È tutta la mattina che vomita» sibilò lei. «Uomo! Omaccione!» gli faceva Cristiano. «Guarda guarda…» Il bambino era verde in faccia. I suoi occhi, qualsiasi cosa stesse pensando, chiedevano solo pietà e di andare a dormire. All'ennesima boccaccia di suo padre, era lì lì sul punto di piangere. Cristiano entusiasta: «Lo vuoi vedere il mastino di papà?». Flautato: «Lo vuoi vedere il toro di papà?». Né Jennifer né James avevano voglia di vedere "il toro di papà". Ma Cristiano, ormai si sa, corse alla motopala, sparò una radiolina portatile a tutto volume, e attaccò con i numeri da circo che conoscevano tutti a memoria. «Le gare, le gare!» gridò al suo collega. «Facciamo la gara, così mio figlio ci vede!» «Tu stai male» gli rispose il collega. Intanto James rigurgitava sulla camicetta di Jennifer. E Jennifer un po' si scazzava, un po' si schifava dei rigurgiti, un po' aveva anche lei mal di pancia. Dopo cinque minuti se ne tornarono a casa, Cristiano li guardò scomparire e spense il motore. Non lo avevano neppure salutato. Due vecchi, due decrepiti. Ecco cosa gli stavano mandando dopo più di mezz'ora che aspettava, e si era divorato tutte le pellicine delle mani callose. «Cerchiamo di fare alla svelta» gli intimò subito Alessio.
«Eh» disse uno salendo, «mica l'ho fatto io il danno!» Guardò i due della manutenzione arrampicarsi sul carroponte con occhi larghi e frementi. Tempo che questi srotolano i cavi, li sistemano e li riavvolgono nel tamburo, io mi sparo. Rischiava di fottersi la pausa pranzo, la possibilità di stare al tavolo con Elena alla mensa e sentirsi bisbigliare dietro le spalle: «Te la fai col capo, brutto bastardo». «Allora?» I manutentori si erano appena abbassati su un tamburo per sbullonarlo. «Stai buono bimbo…» Sto buono un corno. Non aveva nessuna intenzione di trangugiare il tramezzino sul carroponte per recuperare i ritmi. Nessunissima intenzione di perdersi Elena tailleur-vestita alla mensa dei cristi. Li osservava frustandoli idealmente. Una falla nel sistema, una sola. E tutto va a puttane. Perché non mi chiami, stronza? Sono quasi le nove e mezza. «Quanto c'avete ancora?» Si sollevarono cigolando sulle ginocchia: «Ehhh… Un'oretta tutta». «Anche due…» «Dueee?» Alessio si mise le mani tra i capelli. Lo stava chiamando Anna. Mattia rispose tenendosi il cellulare incastrato tra la spalla e la mascella. Guidava il mulo a zig zag tra i capannoni. I tondi d'acciaio fin sopra il parabrezza. E non ci vedeva un cazzo. Mattia, c'ho troppa paura. Di cosa? Che se non prendo otto è un casino. Ma cosa dici, sai tutto… Non è vero! Ma se non abbiamo scopato per una settimana perché c'avevi da imparare quei verbi del cazzo. Cosa dici? Dico. Non puoi capire… Che sarà mai? La terza coniugazione… Preferisci guidare un mulo in questo casino? Amore, ti sento male. Sono vicino ai convertitori… Torno in classe che sta entrando la strega. In bocca al lupo. Crepi. Sfolgorava di rabbia. Sfolgorava di smania. E non riusciva a stare fermo. «Io mi vado a fare un giro…» gridò Alessio con le mani a conca. «Bravo» gli risposero i due, «e drogati meno.» Il sole era diventato un disco di cemento armato sopra il cranio. L'elmetto è solo un optional. È come il casco: sei sfigato se te lo metti. Ammesso che te lo diano, certo. Che abbiano voglia di sottrarre tre o quattromila lire alla fantastica montagna del profitto. Duemila corpi pulsanti a ritmo di impianti. Alessio ci camminava in mezzo, torturato, il cellulare a portata di mano. Elena non lo chiamava. Una sete boia. Si diresse al treno vergelle. Aveva bisogno di sfogarsi. È uno stronzo, nella vita non ha mai combinato un cazzo… Però mi ha comprato la Golf, capito? È andato a rubare per comprarmi
la Golf. Mattia lo avrebbe capito per forza. Di sicuro si stava grattando. Stava fumando sbragato nell'ombra. Di sicuro stava sfogliando una di quelle riviste miserabili: come far godere una donna, dove trovare a colpo sicuro il punto G e provocare un orgasmo multiplo. Di sicuro stava facendo tutto, ma non lavorando. Alessio scavalcava le rotaie dei treni siluro, passava sotto le gru onnipotenti e i nastri trasportatori carichi di coke, Mattia distava solo un chilometro e mezzo. La tuta fradicia di sudore, il sole che ti fonde e ti calpesta. Ma Alessio aveva una tale furia nel petto che camminare, correre, sudare… Mattia, senti, ti devo dire una cosa. Hai presente Elena, la stronza, quella che ci salva e ci licenzia. Ecco. Hai presente? Io la odio. Io la detesto, ma sono perso di lei, porca puttana, mi sento un tredicenne! Andiamo a farci una birra, avrebbe detto lui. C'è il distributore di benzina qui a fianco che le vende. Perché non ci spariamo una rapina? Se poi ti si accavallano le funi, e i russi ti smantellano il posto di lavoro, tu mica puoi andare in Polonia a lavorare! Ci stava pensando seriamente, o meglio semi-seriamente. Stava pensando al carroponte in manutenzione, a suo padre disgraziato, e alla sua ex fidanzata che in questo momento avrebbe voluto addossare in un angolo, contro una siviera incandescente, e strapparle la sua bella camicetta, la sua bella valigetta, ridurla tutta nuda in suo possesso. Arrivò al capannone dei controlli. C'erano mucchi di tondi alti come il suo palazzo. E c'era uno che fumava una sigaretta. Uno che forse conosceva. «C'è Mattia?» «È sul mulo» rispose l'altro guardando l'orologio. «È andato al treno a caricare, mezz'ora fa… Dovrebbe tornare a momenti.» «Non mi dire che sta lavorando!» L'altro rise. Lo osservò meglio: «Ma io a te ti conosco…». «Sì?» fece Alessio, sollevò un istante lo sguardo dal cellulare che teneva in mano come uno scemo in attesa che vibrasse. «Non andavi al Body Gym l'anno scorso?» «Sì.» Non gliene fregava niente del Body Gym. «Ci andavo anch'io, abbiamo fatto un incontro di kick-boxing insieme!» Sorrise. «Sei l'amico di Mattia, certo. Ci siamo incrociati al Gilda, mi sa… Alessandro?» «No, Alessio.» Non riusciva a stare fermo, non riusciva a sostenere quella conversazione del menga. «Ok, devo fare una telefonata.» Lo salutò. «A dopo.» Prese a camminare come un ossesso intorno al capannone dei controlli, a guardare ossessivamente il display del cellulare. E chiama. Eddai. Cosa ti costa? Mi fai morire, porca puttana. Chiama! La chiamo io. Alessio digitò il numero di Elena, il numero dell'ufficio così era sicuro che gli avrebbe
risposto. Il sole di giugno in mezzo ai forni, anche alle dieci del mattino, ti trivella la testa. Come stare in una fornace, uguale uguale. Soltanto che adesso la voce di Elena affiorava dal microfono del cellulare. Pronto? Elena sono Alessio. Ale… Ti avrei chiamato io più tardi. Adesso ho un mare di cose… Ma io non ho tempo! Cosa? Non ti sento bene… Aspetta che mi sposto… Ma dove sei? Sono alle vergelle e c'è un casino immondo. Alessio stava urlando, si stava accucciando nel terreno per sottrarsi all'apocalisse di rumore che si alzava di continuo verso il cielo blindato di fumo. Ci sei? Ci sono. Guarda che non posso stare tanto al telefono, se mi beccano mi fanno fuori… Ma ci sei? Certo che ci sono. Mattia stava pensando che dopodomani, quando sarebbe stato di festa, avrebbe potuto fare una sorpresa ad Anna e portarla all'Elba. Era da un anno che ci volevano andare. Avrebbe comprato due biglietti della Toremar oggi stesso. Intanto si accese una sigaretta. A dire il vero, non ci vedeva un cazzo. Aveva caricato quattordici tonnellate di tondi anziché dodici per fare in fretta e poi spaparanzarsi all'ombra. Il pigiammo morbido di Anna… Mattia guidava, pensava, e intanto si vuotava una bottiglia d'acqua in testa. Il sole ti fa a brandelli, l'acciaio fuso, l'acciaio incandescente sotto il sole a picco. Ti fa a pezzi. Allora ci sei oggi? Ale volevo chiederti scusa… Scusa per cosa? Per l'altro giorno, quando ti ho detto dei licenziamenti… Aspetta, che non sento… Licenziamenti? Che cazzo dici? No, non tu! Cioè, volevo dire… Non ti licenziamo! Ah! Meno male… Ma allora ci sei oggi? A dire il vero… non posso. Come non puoi?! Ale, ti sento malissimo… Aspetta che mi sposto… Mattia guidava verso il capannone dei controlli, col fiuto della memoria, e intanto aspirava a pieni polmoni la sua Pall Mall blu. Non ci vedeva un cazzo, ma la sapeva a memoria. La giungla d'acciaio, lo stridore continuo, ruggiti, eiaculazioni di impianti. Alessio si spostava, andava ad accucciarsi da un'altra parte. Dicevi? Dicevo che oggi è un casino, ho troppi moduli da compilare e devo finire per forza entro stasera… Alessio si piegava sulle ginocchia e si tappava l'altro orecchio per sentire la voce di Elena nel cuore del frastuono, nello spiazzo di terra secca in mezzo ai titani. Ma che burocrate che sei diventata, ma mandali a fanculo no? Per una volta, quei capi di merda… Dai, ci tengo. Trova mezz'ora, anche cinque minuti… Elena prendeva tempo dietro la cornetta. Elena, cazzo, mi rispondi? Ok, adesso vedo… Eddai, cosa ti costa? Ti devo dire una cosa importante… Mattia accelerava perché voleva spaparanzarsi all'ombra e succhiare un litro d'acqua fresca. Dimmi che ci vediamo a pranzo…
Alessio torturava un ciuffo d'erba spelacchiato con la mano fremente che avrebbe voluto toccare ben altro. Ale, ascolta… Elena con il cardiopalma. Anzi… Senti questa! Invece di andare a pranzo in quella mensa di merda, potremmo prendere il traghetto e andare all'Elba! All'Elba? Ale, cosa stai dicendo? Non lo so cosa sto dicendo. Rise. Mattia spingeva l'acceleratore e pensava che Anna all'Elba si sarebbe divertita un mondo… Ce ne andiamo all'Elba, in giornata… E perché? Non lo so. Vabbe', vedremo, magari dopodomani. E a pranzo ci vediamo? Non lo so. E perché non lo sa… Qualcosa come un rumore. Ma non un rumore identificabile. Non una voce. Un tonfo. Un errore. Ecco. Una specie di interferenza… Ale, pronto… Alessio? Alessio? Pronto? Pronto! Pronto pronto pronto pronto pronto… Quante volte puoi dire, per quanto tempo puoi ripetere questa parola senza senso sapendo che dall'altra parte non ti stanno ascoltando. Puoi farlo per un minuto intero, prima di riattaccare male il ricevitore e impallidire. Perché tu non sei pronto. Un minuto intero: il cellulare di Alessio trasmise la voce di Elena ancora per un minuto, quella mattina, tra le 10.06 e le 10.07. Anna felice sul traghetto per l'Elba… Mattia avvertì qualcosa di duro e voluminoso sotto il cingolato che lo costrinse a incepparsi. Non capì immediatamente. Spense il motore solo dopo qualche istante. Scese dal mulo, intontito dal caldo. Stava per incazzarsi, quando vide un rigagnolo rosso serpeggiare sotto i cingoli. Il sole batteva all'esasperazione. Mattia restò così, con le braccia lungo i fianchi a guardare. Una rabbia cieca mista a stupore, perché si aspettava un sasso, una trave, qualcosa di bastardo che col parabrezza oscurato dai tondi non aveva visto. Restò così per alcuni minuti, asciugandosi il sudore della fronte con l'avambraccio. Poi, si sentì chiamare alle spalle. «Mattia!» Qualcuno stava uscendo dal capannone e gli stava gridando: «È venuto quel tuo amico a cercarti…». Qualcuno si avvicinava a passo spedito, e poi rallentava il passo. Gli stava dicendo: «C'era Alessio qui da qualche parte…». Silenzio. «Cos'è successo…?» Una folata di vento. Nevicava limatura di ferro insieme ai soffioni delle piante. «Credo di aver messo sotto un gatto.» Un gatto. Uno di quegli aggeggi pelosi, senza coda, senza orecchie. Una di quelle bestie di
merda con gli occhi pieni di cataratte, che vivono nelle tubature, sotto i capannoni, e a volte, a forza di stare dentro il veleno, nascono senza una zampa. Un gatto. Solo che il rigagnolo rosso si stava espandendo, formava una pozza sotto il sole cocente. «Sposta il mulo, per favore» la voce sgozzata del collega. Mattia, senza dire una parola, salì sul mulo, lo accese, fece marcia indietro. Ridiscese. Un gatto quando si spappola non rilascia tanto sangue. Una suola. Qualcosa come: una scarpa umana. E filigrana riarsa di capelli. Vide tutta quella roba informe. Non riusciva davvero a capire. Vide il suo collega sbiancare, cominciare a guardarsi intorno, cominciare a chiamare: «Alessio! Alessiooo!». Dietro, davanti al capannone. «Ale, Alessiooo!» Telefonare al caporeparto. Tornare indietro, tornare da lui che era in piedi, impalato, accanto al mulo. Dire: «Dio mio». Dire: «Che cosa hai fatto. Dio mio». Non un pensiero. Una buccia di pensiero fluttuante nel cervello, come dentro lo scarico della doccia. Questo, questa poltiglia qui, è un gatto. Che cosa hai fatto. Balbettava qualcuno, qualcosa, sempre più sottovoce. Gli occhi spalancati, fissi sulla pozza di sangue baluginante sotto il sole incandescente. Grumi, trucioli di ossa sparsi insieme ai tondi d'acciaio, le tonnellate rifulgenti, inargentanti. Impossibile che fosse un uomo. Elena era rimasta seduta alla scrivania, con il ricevitore del telefono in mano e lo sguardo vuoto contro la parete dell'ufficio refrigerato dal condizionatore. Poi, a rallentatore, si era alzata in piedi. Si era fiondata giù per le scale. Correva sempre più forte, inciampava sui tacchi. Aveva cominciato a gridare ai colleghi, a chiunque. Urlava, rischiando di cadere: mandatemi una macchina vi prego. Urlava, cadeva sulle scale. Subito, vi prego. Si rialzava, urlava. Il treno vergelle, vi prego. Impietrito, Mattia fissava il vuoto rosso baluginante. La pozza, i detriti, i residui che di sicuro appartenevano a un gatto. Una di quelle bestie maculate piene di rogna, che sono tutte uguali perché si incrociano sempre fra loro, e hanno la rogna, l'AIDS, la rabbia. La volpe, quella che spunta alle sei del mattino, la volpe della fossa di cui parlava sempre Alessio. Alessio che stavano cercando dappertutto. Non lui, gli altri. Lui non aveva bisogno di cercarlo, perché sapeva che era al carroponte, che si sarebbero incontrati alle due nello spogliatoio, e che forse avrebbero fumato una sigaretta dopo pranzo davanti alla mensa, e sapeva che quella scarpa, che quella pozza. Il suo cervello continuava a dire "gatto". Il suo cervello continuava a ripetere solo e soltanto "gatto". Il collega era andato a chiamare il carroponte. Al carroponte Alessio non c'era perché c'erano quelli della manutenzione. L'avevano visto allontanarsi una mezz'ora prima. Il collega l'aveva visto tre, quattro minuti prima. Era qui, cazzo! Dio, stava telefonando! Gridava convulso al caporeparto. Dio, non nominarlo. Non perdonarci – avrebbero scritto sulla quinta pagina del "Tirreno",
domani, i colleghi del treno vergelle. Ciao Alessio, e non ci perdonare. Gli misero una mano sulla spalla. Ma Mattia era fermo a sudare come un torsolo di mela che si scioglie. Mattia si era incantato sulla parola "gatto". E il collega correva a chiamare aiuto. Stavano correndo in dieci, in venti a chiedere aiuto, a chiamare Alessio, a fare l'appello come si fa in gita con le scolaresche quando qualcuno si perde. Gradualmente, ogni operaio alzava la testa. Spegneva la macchina, lasciava il lavoro, accorreva nello spiazzo tra il treno vergelle e il capannone dei controlli dove c'era qualcuno che stava telefonando e adesso non c'era più. «Che cazzo stai dicendo?» ringhiò Cristiano a Gianfranco. Spense il motore del Caterpillar. Gradualmente, l'intero reparto del treno vergelle cessava di funzionare. La voce correva, raggiungeva gli altri reparti. E tutti accorrevano sul posto dove Alessio aveva cessato di esistere, e cessato di essere un corpo, ed era diventato, Alessio, una pozza di sangue allargata tra i tondi, una polla abbacinante. Non Alessio. Un gatto. Chi è? Lungo l'intero processo del lavoro, il ciclo produttivo, la mastodontica fatica. Arrivavano trafelati, in tuta, da ogni parte della Lucchini. Arrivavano in branchi o da soli. A piedi, sui treni, sulle auto. Il nome. Abbiamo bisogno del nome. Elena scese dall'auto e si fece largo sbracciandosi nella calca. Quando fu arrivata a destinazione, emise un grido disumano. Un momento senza durata. I lavoratori in cerchio con le mani in faccia. Mattia il perno fisso. Qualcosa che fa pressione su qualcosa. Ne basta una, è sufficiente una sola falla nel sistema, una sola distrazione. Chiamare l'obitorio. Il medico legale. Avvisare la torre dirigenziale. I sindacati. La polizia. Il sindaco di Piombino. «Il nome. Vogliamo il nome.» E il suo nome scoccava di bocca in bocca, rimbalzava da muro a muro, toccava le cime delle ciminiere e ricadeva al suolo, tra i grumi, i resti irricomponibili di un corpo che per forza, per forza doveva appartenere a un gatto. «Che cazzo dici?» Cristiano scese dalla motopala. «Ce ne sono un fottio di Alessio. Il cognome, voglio sapere il cognome!» «Non lo so» balbettò Gianfranco. «Dov'è successo?» «Al treno vergelle.» «Alessio non lavora al treno vergelle. Ci lavora Mattia.» Si mise le mani in faccia. «Gianfranco, cazzo! Cosa mi stai dicendo? Alessio lavora al carroponte!» «Per favore, andiamo a vedere. Il carroponte era in manutenzione…» Tu lo sai dall'inizio. Lo hai sempre saputo, nelle viscere, nel sangue. E allora ti metti a correre. Allora non sali sulla macchina con gli altri. Ti metti a correre a rotta di collo, e ti ripeti mentalmente un monosillabo solo, la tua ultima parola, quello che veramente gli devi dire,
non lo sai a chi, ma lo devi dire. No. Cristiano gridava e correva sul viale sterminato dominato da Afo 4. Il nome martellante. Il nome sibilante lungo tutto il perimetro delle acciaierie. Telefonarono alla polizia. In che stato è il cadavere? Non c'è, il cadavere. Aveva bisogno di abbracciarlo, di accertarsi che stesse bene. Che cazzo di spavento mi hanno fatto prendere quei bastardi… Una pacca sulla spalla. Aveva bisogno solo di questo. Operai a fiotti. Il capoarea, il caposquadra, hanno chiamato l'autoambulanza. Hanno chiamato il responsabile regionale per la sicurezza sul lavoro, il rappresentante della FIOM. Hanno già telefonato alla CGIL, CISL e UIL. A che cazzo serve l'autoambulanza, cretino! Chiamate i controlli dell'USL. Non toccate, non toccate niente. La zona sarà posta sotto sequestro. Arrivano la polizia, i carabinieri. Il magistrato viene questa sera da Livorno. Non vi ammassate, fate passare, fate largo… Qualcuno deve avvisare i parenti. Mattia era in piedi. Non si era mosso di un centimetro. Non fategli domande per favore, non adesso. È l'unico testimone oculare. Era lui che guidava? Ma non lo vedete che è sconvolto! Cristiano arrivò ansimante. C'erano una decina di agenti tra polizia e carabinieri. La torre dirigenziale non fece passare il responsabile regionale per la sicurezza sul lavoro. Cristiano si fece largo a spintoni. Alessio. Dov'è Alessio? Si voltava a destra e a sinistra. Passava in rassegna i volti della gente con gli occhi sbalzati dalle orbite. Te lo ricordi, Cri? Cos'era? Il '94, il '95… Stava nevicando. Te lo ricordi? I fiocchi di neve e dentro, se guardi bene, c'è il geroglifico dell'Uva. Lo vide: Mattia in piedi. Voleva raggiungerlo. Cristiano tirò un cazzotto a un carabiniere che stava cercando di fermarlo. Riuscì a raggiungere il mulo. Prese Mattia per le spalle, lo scosse, gli ficcò la faccia contro. Mattia, dov'è Alessio? Ascoltami, dimmi dov'è Alessio, così adesso ce ne andiamo a casa. Mattia vacillò appena. Fissava qualcosa che non può avere nome. «Un gatto» disse. Cristiano si sentì aprire una crepa nel petto. Portatelo via. Dategli un sedativo. Portatelo via. Cristiano abbassò lo sguardo e si accorse solo adesso della polla, della poltiglia, della cruda realtà che si coagulava sotto il sole cocente. Allora cacciò un urlo. «Non è lui!» indicando la carne maciullata. A voce spiegata: «Non è lui!». Con quanta forza aveva nel corpo e fuori di lui, con quanta forza avevano quei volti sconvolti incrostati di ghisa e i carabinieri in divisa che sgomberavano lo spiazzo. «Non è lui. Non esiste, non può essere. Non è lui. Non avete capito niente.» Stavano portando via Mattia. Lo stavano portando come un tronco. Telefonate in Comune, in Regione, in Provincia. Cristiano aveva in gola il suo nome. Lo Stato Italiano, la procura, la
magistratura. Non è lui. Dovettero intervenire. Dovettero tenerlo fermo in due, poi in tre. Ma Cristiano si divincolò. Si avventò contro il mulo a fronte bassa. Si avventò contro il mulo a calci. Lo prese a calci, a pugni, a testate. Dieci, venti testate, fino a quando non si sentì aprire la fronte e un fiotto di sangue colare sugli occhi. Nessuno aveva fatto il suo nome, neanche Pasquale. L'avvocato gli aveva detto: «Complimenti, anche 'sta volta te la sei cavata alla grande!». Arturo tornava a casa pulito, e contento. Saliva le scale due gradini alla volta, ci credeva: da domani… Infilava la chiave nella toppa, la girava. Da domani tutto sarebbe cambiato… Gli tremava la mano. Era da mesi che aspettava questo momento. D'ora in poi… si convinceva. Sandra, io te lo giuro… Si ripeteva mentalmente il discorso, e si galvanizzava da solo, e apriva la porta, ed era così felice di ritrovare il suo pavimento, il suo corridoio, sua moglie in piedi con il ricevitore del telefono in mano… Arturo si fermò di colpo, gli passò il sorriso strampalato dal volto. Sandra lasciava cadere la cornetta, gli stava dicendo: «Alessio è morto». Il giorno dopo, il sindaco e il consiglio comunale avrebbero annullato i fuochi d'artificio previsti per la festa d'estate del 21 giugno. I sindacati avrebbero proclamato uno sciopero dello stabilimento dalle 16 alle 22, rivolto anche alle ditte d'appalto. Uno sciopero generale di sei ore, da cui era escluso solo l'altoforno.
Parte quarta Elba
39
L'isola galleggiava al centro dell'acqua come un biscotto. Anna la guardava sporgendosi dal balcone, con i gomiti appoggiati alla ringhiera. C'era un gruppetto di bambini, giù in strada, che giocava con un Super Santos nuovo. Un isolato più in là, cigolando, apriva la saracinesca dell'alimentari. Anna guardava, appena sveglia, in pigiama. I piedi nudi sulle mattonelle fredde, si stropicciava gli occhi. L'Elba era così vicina adesso, nell'aria tersa. I piccoli paesi raccolti nelle insenature, e le scogliere a picco sul mare, le imbarcazioni che veleggiavano intorno. Qui, Stalingrado inondata di luce cominciava a svegliarsi. Da una finestra del numero otto il volume al massimo del televisore parlava di guerre in Afghanistan e in Medio Oriente. Tintinnare di tazzine e stoviglie sul terrazzo accanto. Anna seguì con lo sguardo la parabola del pallone sfiorare un davanzale e poi cadere in mezzo a un cespuglio di agavi. Quello compreso tra via Nenni e via Togliatti era tutto il suo mondo. Vide i bambini correre insieme, tutti d'un fiato, a recuperare il pallone. «Nooo» si sentì gridare un attimo dopo, «si è bucato!» Tra poco quelle strade e quei cortili si sarebbero riempiti fino all'orlo di adolescenti con l'asciugamano sulle spalle, e motorini cavalcati in due senza casco, donne con le buste della spesa, e auto con i finestrini abbassati. C'era una canzone di Laura Pausini che veniva da qualche parte, forse dal furgoncino della frutta che stava passando. Occorreva fare pace. Era davvero necessario, perché non c'era un'altra soluzione. Carlo Pisacane, i fratelli Rosselli, Carlo Marx, avevano persiane spalancate adesso, e tappeti battuti alle finestre, scorribande di ragazzetti impegnati a fare scherzi ai citofoni. Anna vide il camion dei rifiuti sostare davanti ai cassonetti, due magrebini scendere in tuta arancione fluorescente. La realtà esige. La realtà vince comunque, qualsiasi cosa fai o pensi. I bambini avevano ricominciato a giocare con il pallone sgonfio. Adesso Jennifer attraversava la strada con James in braccio. Si sedeva sulla panchina alla fermata dell'autobus. Anna osservava la scena affacciata alla balaustra. E tutto sommato non aveva voglia di andarsene. Sentiva sua madre trafficare in cucina, il minuscolo James battere le mani e gridare con tutta la forza l'unica parola che era capace di dire. La immaginava. Da qualche parte, non importa dove. Seduta al tavolino di un bar a fare colazione, oppure sotto le coperte addormentata. Al piano di sotto con il ventilatore acceso sul comodino, le palpebre chiuse. O in qualche viale alberato di Follonica, in bilico sui tacchi alti. Non importa. Quando giocavano a catturare i granchi sugli scogli, Francesca li afferrava con uno scatto fulmineo e sapeva come non farsi male con le chele. Avevano un secchiello in comune quando erano bambine: prima ci mettevano dentro l'acqua e la sabbia, poi, dopo la caccia, lo
riportavano a casa pieno di telline, di bavose, ed erano convinte di farci la pasta. Le importava questo, adesso. Che quei bambini giocassero a calcio in mezzo alla strada, in mezzo alle auto, con il pallone sgonfio. Le importava che Francesca fosse qui, da qualche parte. Presente e viva. Era una mattina qualunque. Sandra dava il cencio. Rosa, un piano sotto, annaffiava le piante. E Anna restava ferma, affacciata al terrazzo del casermone numero sette. Sulla provinciale Grosseto-Livorno, intanto, un autobus procedeva cigolando. In fondo, rannicchiato nell'ultima fila, l'unico passeggero guardava fuori con la tempia appoggiata al finestrino. C'era un trattore sul ciglio della strada, carico di balle di fieno. Tra i filari di cocomeri e di pomodori si intravedevano giovani uomini del Ghana. L'autista diede un'occhiata nello specchietto retrovisore: temeva che il passeggero si fosse addormentato. Se ne stava accoccolato su un sedile con le ginocchia al petto, assorto in un silenzio tutto suo. Procedendo da Follonica verso Piombino, la campagna diventava acquitrino e poi sterpaia. Arbusti bassi e secchi. C'erano cadaveri di ricci lungo il guardrail. Francesca guardava assonnata. L'Enel e la Dalmine-Tenaris torreggiavano in quel tratto disabitato di costa. Tra un canneto e l'altro, tra una pineta e l'altra di Torre Mozza, Riva Verde, Perelli, intercettava il mare navigato a quest'ora dai pescherecci di ritorno. Una nave da crociera scivolava lenta verso il centro del Tirreno. Adesso che superavano il Gagno e si avvicinavano al Cotone, Francesca poteva distinguere le gru e le ciminiere. I grandi bracci di lamiera e la ruggine dei forni, quelli attivi e quelli spenti. Cominciavano già a parlare di bonifiche, di smantellamento. Convertire l'economia locale, puntare al turismo e al terziario. Francesca seguiva con gli occhi il profilo sdentato della fabbrica. Come il Colosseo, come gli scafi arenati sulla spiaggia, anche l'altoforno, nel giro di un decennio, se lo sarebbero preso i gatti. Aveva tanto sonno. Stropicciava gli occhi gonfi, il viso contro il finestrino appannato di condensa. Tornava a casa. Allo svincolo per il porto, una fila di auto incolonnate procedeva a passo d'uomo. Era la coda per imbarcarsi. Le biciclette assicurate con le funi ai tettucci, le moto d'acqua, i windsurf trainati ai carrelli. Francesca distolse lo sguardo. C'erano così tante cose, ovunque. Era così gonfio ogni angolo tra i capannoni, i distributori di benzina e il Campetto di calcio dove qualcuno si stava allenando e forse c'erano anche Nino e Massi. Se ne stava chiusa fra i sedili vuoti, nel corpo stropicciato. I jeans strappati al ginocchio, le scarpe da tennis e una t-shirt larga. Sobbalzava a tratti, sul Menarmi arancione degli anni Ottanta. Si teneva accanto lo zainetto con le cose del Gilda, la trousse dei trucchi, i perizomi, i vestitini corti di strass che lasciano la schiena nuda.
Le cose indifferenti, appallottolate, da infilare in lavatrice, da riportare a casa, nell'appartamento al terzo piano dove mamma e papà trascorrono la giornata sul divano, la pastiglia sciolta nel bicchiere. La città emergeva, con il suo dominio di comignoli e antenne paraboliche. Se il tempo potesse scivolare inavvertito dentro le stanze, sotto le porte. Se ogni cosa potesse concludersi in quella posizione sbilenca della testa sulla poltrona, le mani riposte in grembo, dimentiche di tutto quello che hanno fatto, senza traccia, come se non avessero mai cementato una casa, e plasmato rotaie, e percorso corpi, e inciso in profondità i figli. Francesca sbadigliava, spannava il finestrino con la manica della maglietta. I lunghi capelli biondi raccolti sulla nuca, lo smalto rosso scrostato sulle unghie. Non aveva nessuno spettatore, adesso. Eccetto l'autista che ogni tanto la guardava riflessa nello specchietto e si domandava cosa ci facesse, quell'incrocio tra bambina e ragazza, sperduta in un autobus vuoto a quell'ora del mattino. Non aveva che lei al mondo. Poteva girarlo tutto quanto, da Milano a Palermo, poteva gridare e ribellarsi, fare casino e fare finta di niente. Non era stato facile spiarla da dietro un cipresso nel cimitero operaio, quello vicino ai macelli. Non era stato facile addossarsi nel sottoscala, una volta che l'aveva sentita uscire. Anche se fosse scappata, anche se non fosse tornata mai più nella piccola Stalingrado: il luogo dove erano nate. E non c'era altro luogo. L'autobus frenò al semaforo, davanti alla concessionaria Piaggio. Quando fu verde, svoltò a destra verso Salivoli. Francesca si alzò in piedi, prenotò la fermata. Guardò il lungomare Marconi correre sul finestrino, la siepe di oleandri rosa, le cabine telefoniche prese a sprangate. La luce irradiava impietosa il suo viso sgualcito. La strada si snodava in discesa in due tornanti prima di arrivare a Stalingrado sul confine del promontorio. Scese dall'autobus. Si fermò un attimo alla pensilina, stordita dal sole e dal viaggio. Vide un gruppo di bambini che giocavano a calcio in mezzo alla strada con un pallone sgonfio. Vide Jennifer che saliva sull'autobus con il bambino in braccio, e James che rideva nel suo unico dentino. Ripeteva forte battendo le mani la prima parola che dicono tutti i bambini. I netturbini risalivano sul camion dei rifiuti e il camion ripartiva. Alzò lo sguardo. Affacciata al balcone del quarto piano, vide Anna. Le passarono davanti due auto, le passò davanti una bicicletta, prima che potesse attraversare la strada. Prima che potesse capire. Anna era appoggiata alla ringhiera del terrazzo, limpida come un lenzuolo steso. Era l'unica figura nella parete grigia e scrostata. Era piccola e riccia. Si guardarono per un lungo istante. Nella luce del mattino presto, nelle grida dei bambini che calciavano la palla. E la palla rimbalzava sul muro, finiva sulla panchina della fermata, e uno cadeva e si sbucciava il ginocchio, e un altro tirava una spinta a un altro, ed era così reale che Anna fosse affacciata, come una fidanzata che aspetta, mentre lei stava rientrando a casa.
Fu un istante. A Francesca sembrò che Anna, a un certo punto, riconoscendola avesse sorriso. Allora le fece un cenno con la mano. Alzare il braccio, farle ciao: le venne spontaneo. E accadeva che Anna rispondeva con lo stesso gesto. Accadeva a quest'ora, così, di punto in bianco. Francesca attraversò la strada e il cortile. Senza accorgersene stava correndo. Aveva fretta, adesso. Di entrare nella sua stanza, di buttarsi sul letto e trattenere nel corpo quel momento. Era un giorno qualunque. Non ha importanza la data. Non era successo niente, era nell'ordine delle cose: scendere dall'autobus, vedere Anna, salutarla… Intanto correva. Correva per tenere a freno lo scompiglio. Si erano soltanto guardate e salutate da un capo all'altro di via Stalingrado. C'era un gruppetto di mocciosi che rompeva le palle: era la norma che i ragazzini suonassero ai citofoni e poi scappassero. Francesca saliva le scale due gradini alla volta. Al pianerottolo del terzo piano, quando ebbe trovato tra i vestiti sporchi il mazzo delle chiavi di casa, si fermò di colpo. Aveva già una mano sulla maniglia, sentiva il crepitare assente del televisore dietro la porta. Non ci voleva molto. Una rampa di scale è composta di trentacinque gradini. Un anno di trecentosessantacinque giorni. Non sono numeri enormi. Francesca si avvicinò in punta di piedi alla ringhiera, guardò in su nella tromba delle scale. Qualcuno stava gridando «Troia!» a qualcuna. Si udì uno schiaffò secco, e subito dopo un bambino che scoppiava a piangere. Francesca trattenne il respiro. Un miagolio. Il fruscio di una scopa sul pavimento. Le cose che rimangono identiche. La schiuma bianca del mare, la schiuma nelle arterie, ed era così limpido ed esatto pensarlo. Non ci voleva molto. Salì la rampa di scale fino al quarto piano. Arrivò davanti alla porta, vide il campanello con l'adesivo attaccato e Sorrentino in corsivo. Suonò il campanello. Era reale, quel suono. Era reale lo zerbino di vimini su cui appoggiava i piedi, e c'era scritto "Welcome". Anna restò sospesa in cucina. Fu giusto un attimo di smarrimento, un momento pieno di stupore e paura in cui lei e sua madre si guardarono negli occhi. Sandra stava apparecchiando la tavola per la colazione. Rimase così, con una tazzina in una mano e la zuccheriera nell'altra. Il sole irradiava la stanza di luce bianca, e la stanza era fragrante di biscotti e latte caldo. In un angolo in ombra del salotto, Arturo sedeva muto in vestaglia. Sfogliava assorto "la Repubblica", non parlava più da un mese. Il campanello suonò una seconda volta. «È France» disse Anna. Quella parola le era rimasta incastrata in gola per troppo tempo, e adesso le usciva dalle labbra in una specie di incredulo sorriso. Perché non poteva essere che lei, e lei non aspettava altre persone.
Anna attraversò il corridoio a piedi scalzi, come ogni giorno. Sganciò il chiavistello. Spalancò la porta. Non fu semplice. Nessuna cosa, nessun tratto del suo viso, era semplice. Le sue lentiggini asimmetriche sul naso, i suoi occhi screziati di giallo. Guardarli, ritrovarli scalfiti sì, ma presenti. E le fossette sulle guance, i capelli soffici come uova montate a neve e adesso un poco spettinati. Il viso pallido e scheggiato. Siamo alte uguali. Fu il primo pensiero di entrambe. Siamo alte uguali e abbiamo i capelli lunghi quasi uguale. Mentre Francesca entrava, oscillando appena sul ciglio della porta, si sfiorarono con le braccia e i vestiti. Anna richiuse la porta. Si voltò a guardarla, come attraversava il corridoio timida e però slanciata. Il contorno della schiena, un accenno di colonna vertebrale attraverso il cotone della maglietta. Spuntarono in cucina, con i musi spauriti delle scolare colte in flagrante dalla maestra. Sandra aveva posato la tazzina e la zuccheriera in tavola. Le guardava allargando gli occhi. Le si erano imbiancati i capelli sulle tempie. Era così invecchiata, Sandra, aveva le mani malferme. Ma era ancora capace di sorridere. «Ciao, Francesca» disse, «hai già fatto colazione?» Francesca restava in silenzio accanto ad Anna, guardava la dispensa, il frigorifero con le calamite attaccate, le fotografie appese insieme alle pentole di rame – Alessio con Cristiano sulla motopala, Arturo che teneva in braccio Anna minuscola, e loro, tutti insieme giù in spiaggia – guardava la disposizione dei soprammobili sulla mensola, i ganci a forma di fungo e le presine attaccate, l'ordine dei mestoli sopra il lavello: era tutto esattamente come doveva essere. Scosse la testa. «Allora siediti.» Sandra le indicò la sedia. «Lo sai qui com'è, siamo un po' arrangiati…» Aprì un cassetto, prese un altro tovagliolo. Si era un po' curvata sulla schiena, questo sì. Aveva aggiunto una foto di Alessio in prima comunione sulla cappa dei fornelli. Adesso aggiungeva una tazzina e un cucchiaino sulla tovaglia. Francesca si sedette accanto ad Anna. Non voleva guardarla, voleva solo sentire il suo gomito contro il suo, e il suo ginocchio sotto il tavolo. E i movimenti di lei di fianco ai suoi mentre immergevano i biscotti nel latte. Anche Anna non si girava a guardarla. Ma avvicinava il polpaccio contro il suo polpaccio, sotto il tavolo. Un brivido fulmineo di solletico. Le dava un colpetto col ginocchio. E sapeva che a lei, adesso, un po' veniva da ridere. «È una bella giornata» esordì Sandra all'improvviso, e le guardò negli occhi. «Andate al mare?» Sia Anna che Francesca rimasero immobili, con il biscotto in mano. La faccia di chi è
appena stato preso in contropiede. «Anzi» disse Sandra cominciando a sparecchiare, «perché non andate all'Elba?» Smisero addirittura di masticare. Entrambe si voltarono a guardarsi, nello stesso momento. E poi si voltarono a guardare Sandra, zitte, basite, con le sopracciglia arcuate. Sandra rise e indicò l'orologio: «Guardate che siete in tempo. Basta che tornate per cena. Ci mettete un'ora ad arrivare a Porto Ferraio. A tre passi dal porto c'è la spiaggia delle Ghiaie, è proprio lì dietro. Vi fate un bagno, poi tornate… Mica è una roba trascendentale!». Continuarono, mute, a fissarla per qualche istante. Stavano ragionando. In effetti uno si mette il costume, il copricostume, infila un asciugamano dentro lo zaino, due succhi di frutta, due merendine ed è pronto a partire. In effetti se prendevano l'autobus in un quarto d'ora erano al porto. Poi facevano i biglietti, salivano sul traghetto. E alle dieci e mezza erano all'Elba. «Io il costume non ce l'ho» disse Francesca. «Te lo presto io» si affrettò Anna. Si alzò di scatto dalla sedia e si fiondò in bagno. «Mamma, preparaci lo zaino!» gridò mentre apriva il rubinetto, afferrava lo spazzolino e il dentifricio. Intanto Francesca le veniva vicino e si affacciava sulla porta del bagno. Anna sollevò la testa dal lavandino, smise per un attimo di lavarsi i denti. Francesca stava in bilico appoggiata allo spigolo, era il più radioso fra gli elementi. Adesso partivano. Andavano a nuotare all'Elba. Come i tedeschi, come i turisti di Milano e di Firenze. Di sicuro anche lì c'era una piazza con la chiesa, il campanile e tutto il resto. Sorridevano, non si dicevano niente. E una aveva la bocca impiastrata di dentifricio, l'altra le labbra dischiuse e un poco screpolate. Combaciavano perfettamente.
Silvia Avallone Bologna, 22 settembre 2009