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ROBIN COOK ALTERAZIONI (Acceptable Risk, 1994) A Jean, «la luce guida» Il diavolo ha il potere di prendere una forma piacente. WILLIAM SHAKESPEARE, Amleto Prologo Sabato 6 febbraio 1692 Stimolata dal freddo pungente, Mercy Griggs fece schioccare il frustino sulla groppa della sua puledra, che accelerò il trotto, trainando senza sforzo la slitta sulla dura neve ghiacciata. Mercy si strinse nel soffice collo della sua pelliccia di foca e strofinò le mani dentro il manicotto, tentando invano di proteggersi dall'aria gelida. Era una giornata limpida e senza vento, con un pallido sole invernale. Confinato dalla sua traiettoria stagionale nella parte più a sud del cielo, il sole doveva lottare per illuminare il paesaggio nevoso, prigioniero del crudele inverno del New England. Anche a mezzogiorno lunghe ombre violette, proiettate dai tronchi degli alberi spogli, si allungavano verso nord, mentre nubi di fumo condensate dal freddo erano sospese sui camini delle fattorie disseminate nella campagna. Mercy era in viaggio da quasi mezz'ora. Dalla sua casa alla base della Leach's Hill sul Royal Side, era scesa verso sudovest lungo Ipswich Road, aveva superato i ponti sui fiumi Frost Fish, Crane e Cow House, e ora stava entrando in Northfields, una frazione di Salem Town. Ormai mancavano solo poco più di due chilometri per raggiungere il centro della città. Ma Mercy non era diretta in città. Oltrepassata la fattoria dei Jacobs, scorse la sua destinazione, la casa di Ronald Stewart, mercante di successo e armatore. Ciò che aveva spinto Mercy a lasciare il suo caldo focolare in una giornata così rigida era un atto di premura da buona vicina, misto a una forte dose di curiosità. In quel periodo, infatti, la famiglia Stewart era oggetto di ghiotti pettegolezzi.
Mercy fermò la puledra proprio davanti alla casa e osservò l'edificio, che era indiscutibilmente una testimonianza del successo di Ronald Stewart nel campo del commercio. Era una costruzione imponente, con un tetto spiovente in tegole di ardesia e rivestita di assi di legno. Alle numerose finestre rilucevano costose vetrate a losanghe, ma le decorazioni più suggestive erano i ricchi fregi agli angoli del cornicione del secondo piano. Nel complesso, la casa appariva più adatta al centro cittadino che alla campagna. Sicura che lo squillare dei campanelli appesi ai finimenti della cavalla avesse già annunciato il suo arrivo, Mercy rimase ad aspettare. A destra del portone, un altro cavallo con la relativa slitta stava aspettando, segno che in casa c'erano già altri ospiti. Sull'animale era stata gettata una coperta e dalle sue narici uscivano intermittenti sbuffi di vapore che si dissolvevano immediatamente nell'aria secca. Mercy non dovette attendere a lungo. Quasi subito, infatti, la porta si aprì e comparve una donna di circa ventisette anni, dai capelli corvini e gli occhi verdi. Mercy intuì che doveva essere Elizabeth Stewart. Imbracciava con disinvoltura un moschetto. Dietro di lei si affacciarono diversi visetti curiosi di bambini: l'arrivo di visitatori inaspettati non era cosa frequente in quell'ingrata stagione. «Sono Mercy Griggs», si presentò la nuova arrivata, «la moglie del dottor William Griggs. Sono venuta a salutarvi.» «È davvero un piacere», rispose Elizabeth. «Entri a bere un po' di sidro caldo per togliersi questo gelo dalle ossa.» Appoggiò il moschetto contro l'interno della porta e ordinò al figlio maggiore Jonathan, di nove anni, di uscire a coprire il cavallo della signora Griggs e a mettergli le pastoie. Con vero piacere, Mercy entrò nella casa e, seguendo l'indicazione di Elizabeth, girò a destra e si diresse verso la grande stanza comune che era insieme cucina e soggiorno. Passando vicino al moschetto, non poté fare a meno di lanciargli un'occhiata. Elizabeth se ne accorse e spiegò: «Sa, io sono cresciuta nella regione selvaggia di Andover. Dovevamo stare all'erta per gli indiani a ogni ora della giornata». «Capisco», assentì Mercy, benché la vista di una donna armata di moschetto fosse per lei decisamente nuova. Esitò un attimo sulla soglia della cucina a contemplare la scena: pareva più una scuola che una casa, c'erano sei o sette bambini. Nel caminetto scoppiettava un fuoco vivace, che diffondeva un piacevole calore, e nella stanza aleggiava un misto di aromi appetitosi: alcuni da un tegame di stufato di maiale che bolliva sul fuoco, altri da una grande
terrina di pudding messo a raffreddare. Ma era soprattutto dal forno costruito a destra del caminetto che si sprigionava il delicato profumo delle pagnotte che cominciavano a colorarsi di un bel bruno dorato. «Spero proprio di non recarvi disturbo», si scusò Mercy. «Oh, cielo, no», rispose Elizabeth prendendo la sua pelliccia e accompagnandola a una sedia dallo schienale rigido accanto al fuoco. «Lei è un piacevole diversivo dal chiasso di questi irrequieti ragazzi. Ma è arrivata proprio nel momento in cui si cuoce il pane e devo togliere le pagnotte dal forno.» Così dicendo, afferrò un pala dal manico lungo e, con gesti rapidi ed esperti, tolse a una a una le otto pagnotte e le depose a raffreddare sulla lunga tavola a cavalletto che occupava il centro della stanza. Mercy osservò Elizabeth mentre lavorava. È proprio una bella donna, pensò, con quegli zigomi alti, la carnagione di porcellana e la figura flessuosa. E doveva essere anche molto abile in cucina, a giudicare dal modo in cui maneggiava le pagnotte, attizzava il fuoco e aggiustava il gancio che reggeva il paiolo. Nello stesso tempo, Mercy ebbe anche la sensazione che ci fosse qualcosa di strano nella personalità di Elizabeth, qualcosa che la metteva a disagio. Le mancava quella mitezza, quell'umiltà cristiana che erano requisiti della donna. Elizabeth, infatti, dimostrava una sicurezza e uno spirito di iniziativa decisamente sconvenienti in una donna puritana il cui marito era lontano, in Europa. Mercy cominciò a pensare che le voci che aveva udito in giro fossero qualcosa di più di un pettegolezzo. «L'aroma del suo pane ha qualcosa di particolare che è nuovo per me», osservò chinandosi sulle pagnotte che si stavano raffreddando. «È pane di segale», le spiegò Elizabeth accingendosi a introdurre altre otto pagnotte nel forno. «Pane di segale?» ripeté Mercy. Solo i contadini più poveri delle terre acquitrinose mangiavano pane di segale. «Io sono cresciuta con il pane di segale e mi piace il suo sapore forte. Ma forse lei si sta domandando perché preparo tante pagnotte: la ragione è che vorrei convincere tutto il villaggio a utilizzare la segale per risparmiare le riserve di frumento. Come lei di sicuro sa, il tempo umido e freddo della primavera e dell'estate, e adesso questo terribile inverno, hanno danneggiato il raccolto.» «È certamente una nobile intenzione la sua, ma forse è un argomento che dovrebbero discutere gli uomini nell'assemblea cittadina.» Elizabeth sorprese la sua ospite scoppiando in una risata e, notando l'espressione di Mercy, spiegò: «Gli uomini non si occupano di questioni pra-
tiche di questo genere, si preoccupano piuttosto della polemica fra Salem Village e Salem Town. E poi c'è un'altra cosa, oltre al raccolto scarso: noi donne dobbiamo pensare ai profughi vittime delle incursioni degli indiani. Siamo già al quarto anno della guerra voluta da Re Guglielmo e non se ne vede ancora la fine». «Il ruolo della donna è nella sua casa...» obiettò Mercy, ma si fermò, sconcertata dall'atteggiamento deciso di Elizabeth. «Io ho cercato anche di convincere le altre famiglie ad accogliere i profughi nelle loro case», proseguì Elizabeth passandosi le mani sul grembiule ricamato per ripulirle dalla farina. «Noi abbiamo accolto due ragazzine dopo l'incursione di Casco, nel Maine, nel maggio dell'anno scorso.» Elizabeth chiamò i bambini e interruppe i loro giochi, insistendo perché venissero a salutare la moglie del dottore. Dapprima presentò a Mercy Rebecca Sheaff, di dodici anni, e Mary Roots, di nove anni. Entrambe avevano perduto i genitori durante l'incursione di Casco, ma ora apparivano sane e allegre. Poi le presentò Joanna, di tredici anni, figlia di primo letto di Ronald, quindi i suoi figli, Sarah di dieci anni, Jonathan di nove e Daniel di tre. Infine toccò ad Ann Putnam, di dodici anni, Abigail Williams, di undici, e Betty Parris, di nove, che erano venute in visita da Salem Village. Quando ebbero educatamente salutato, tutti i ragazzi ricevettero il permesso di ritornare ai loro giochi e Mercy notò che si stavano divertendo con alcuni bicchieri pieni d'acqua e delle uova fresche. «Sono sorpresa di trovare qui delle ragazzine del villaggio», osservò Mercy. «Sono stata io a chiedere ai miei figli di invitarle; sono amiche che frequentano con loro la Royal Side School. Sa, ho preferito non mandare i miei figli a scuola a Salem Town, con tutta quella gentaglia.» «Capisco.» «Manderò le ragazzine a casa con una bella pagnotta di pane di segale», continuò Elizabeth con un sorriso allegro. «Sarà più efficace che dare alle loro famiglie un semplice consiglio.» Mercy annuì senza fare commenti, ma Elizabeth le pareva un po' invadente. «Non vuole portarsi via anche lei una pagnotta?» «Oh, no, grazie», rispose Mercy. «Mio marito, il dottore, non mangerebbe mai pane di segale. È troppo rustico per lui.» Mentre Elizabeth tornava a occuparsi della seconda infornata, Mercy si
guardò intorno. Notò una forma di formaggio che sembrava appena fatta e, in un angolo del grande caminetto, una brocca di sidro. Poi vide qualcosa che stimolò la sua curiosità: sul davanzale della finestra era allineata una serie di figurine di legno dipinto, con abiti di stoffa cuciti con molta cura. Ognuna indossava il costume caratteristico di un mestiere particolare: c'era un mercante, un fabbro, una locandiera, un falegname e persino un medico, vestito di nero con il colletto di pizzo inamidato. Mercy si alzò e si avvicinò alla finestra. Prese il pupazzo vestito da medico e vide che nel petto era infilato un grosso ago. «Che cosa sono questi fantocci?» domandò con malcelata apprensione. «Bambole che ho fatto per le orfanelle», le rispose Elizabeth senza alzare gli occhi dal suo lavoro. Toglieva dal forno le pagnotte, le spalmava di burro e le rimetteva a cuocere. «È stata la mia defunta madre, Dio benedica l'anima sua, che mi ha insegnato a farle.» «E perché questo povero dottore ha un ago infilato nel cuore?» chiese ancora Mercy. «Perché il suo vestito non è finito», le rispose Elizabeth. «Dimentico sempre in giro gli aghi, e sono così costosi.» Mercy Griggs rimise a posto il pupazzo e involontariamente si asciugò le mani sulla gonna. Tutto quello che aveva a che fare con la magia e l'occulto la metteva a disagio. Lasciò le bambole e si rivolse alle ragazzine, osservandole per un attimo, poi chiese a Elizabeth che cosa stessero facendo. «È un gioco che mi ha insegnato mia madre», rispose la donna sistemando l'ultima pagnotta nel forno. «È un modo di indovinare il futuro interpretando le forme del bianco d'uovo versato nell'acqua.» «Oh, dica loro di smettere subito!» esclamò Mercy allarmata. Elizabeth sollevò lo sguardo e guardò la sua ospite. «E perché?» chiese. «Questa è magia bianca», ammonì Mercy. «È un gioco innocente; serve solo a dare qualcosa da fare ai ragazzi che sono chiusi in casa con questo tempo. Mia sorella e io lo abbiamo fatto cento volte per cercare di indovinare il mestiere dei nostri futuri mariti.» Elizabeth fece una risatina. «Naturalmente, il gioco non mi ha mai rivelato che avrei sposato un armatore e mi sarei trasferita a Salem; ho sempre creduto che sarei diventata la moglie di un povero agricoltore.» «La magia bianca genera la magia nera, e la magia nera è aborrita da Dio. È opera del demonio.» «Non ha mai fatto niente di male né a mia sorella né a me», replicò Eli-
zabeth. «E neppure a mia madre, se è per questo.» «Sua madre è morta», ribatté severamente Mercy. «Sì, ma...» «È stregoneria», continuò Mercy, mentre il suo viso diventava rosso. «E nessuna stregoneria è innocua. Ricordi quali sofferenze dobbiamo patire per la guerra e la peste che è scoppiata a Boston solo l'anno passato. Proprio sabato scorso, nel suo sermone, il reverendo Parris ci ha detto che queste orrende piaghe ci colpiscono perché la gente non tiene fede al patto con Dio e pecca di negligenza nell'osservanza degli obblighi religiosi.» «Non credo proprio che questo gioco infantile violi il patto, e noi non siamo mai stati negligenti nei nostri obblighi religiosi.» «Ma praticare la magia è contrario alla religione», insistette Mercy. «Proprio come la tolleranza verso i quaccheri.» Elizabeth fece un cenno con una mano, come per liquidare la questione. «Questi problemi sono al di fuori della mia portata. Per conto mio, non vedo alcun male nei quaccheri, sono gente pacifica e laboriosa.» «Lei farà bene a non esprimere queste sue opinioni», l'ammonì Mercy. «Il reverendo Increase Mather ha detto che i quaccheri sono preda degli inganni del diavolo. Forse dovrebbe leggere il libro del reverendo Cotton Mather, Precauzioni da osservare riguardanti stregonerie e persone possedute dal demonio. Posso prestarglielo, perché mio marito lo ha comprato a Boston. Il reverendo Mather sostiene che le sventure che ci stanno capitando nascono dal desiderio del diavolo di restituire il New England, la nostra Terra Promessa, ai suoi figli, i pellerossa.» Il chiasso dei ragazzi era andato crescendo ed Elizabeth li richiamò, ma lo fece più per interrompere la predica di Mercy che per frenare la loro vivacità. E, tornando a rivolgersi a lei, disse cortesemente che la ringraziava dell'offerta e che sarebbe stata lieta di leggere il libro. «A proposito di religione», aggiunse ancora Mercy, «suo marito non ha mai pensato di entrare a fare parte della chiesa del villaggio? Poiché è un proprietario terriero, nel nostro paese sarebbe il benvenuto.» «Non saprei», rispose Elizabeth, «non ne abbiamo parlato.» «Abbiamo bisogno di sostegno», riprese Mercy. «La famiglia Porter e i loro amici rifiutano di pagare la loro parte per le spese del reverendo Parris. Quando tornerà suo marito?» «In primavera.» «Per quale motivo è andato in Europa?» «Fa costruire un nuovo tipo di nave chiamata fregata», spiegò Elizabeth.
«Dice che sarà veloce e capace di difendersi contro i corsari francesi e i pirati dei Caraibi.» Sfiorò con il palmo delle mani le pagnotte messe a raffreddare, poi chiamò i ragazzi e annunciò loro che era ora di pranzo. Quando i ragazzi corsero per mettersi a tavola, domandò se volevano un po' di quel pane fresco, appena sfornato. I suoi figli arricciarono il naso all'offerta, ma Ann Putnam, Abigail Williams e Betty Parris accettarono volentieri. Elizabeth aprì una botola in un angolo della cucina e mandò giù Sarah a prendere del burro dalla dispensa dei latticini. Mercy fu incuriosita alla vista della botola. «È stata un'idea di Ronald», le spiegò Elizabeth. «Funziona come il boccaporto di una nave e permette di scendere in cantina senza uscire di casa.» Quando i ragazzi ebbero ricevuto le loro porzioni di stufato e delle grosse fette di pane, se lo desideravano, Elizabeth versò per sé e per Mercy due boccali di sidro caldo. Quindi, per sfuggire al chiacchierio dei ragazzi, si portarono il sidro in salotto. «Caspita!» esclamò Mercy. Il suo sguardo si era posato su un grande ritratto di Elizabeth appeso sopra la mensola del caminetto ed era rimasta sconcertata dal suo suggestivo realismo, soprattutto dai lucenti occhi verdi. Per un attimo, rimase immobile al centro della stanza, mentre Elizabeth si chinava a ravvivare il fuoco che si era ridotto a un mucchietto di brace incandescente. «Il suo vestito è molto scollato», osservò Mercy, «e in testa non porta il velo.» «Già. In principio questo dipinto non mi piaceva neppure a me», ammise Elizabeth rialzando la testa e disponendo due sedie di fronte al fuoco, che ora fiammeggiava. «È stata un'idea di Ronald. Gli piace questo ritratto. Quanto a me, ora non mi fa né caldo né freddo.» «È così pomposo», continuò Mercy Griggs con un risolino di disprezzo, girando la sua sedia in modo da escludere il quadro dal suo campo visivo. Sorseggiando il sidro caldo cercò di mettere ordine nei propri pensieri. La visita non era andata come si era immaginata; Elizabeth era una persona piuttosto sconcertante e lei non aveva ancora affrontato l'argomento per cui era venuta. Si schiarì la voce. «Ho sentito dire in giro...» cominciò. «Sono sicura che non ci sia nulla di vero, ma dicono che voi avete in progetto di acquistare la proprietà di Northfields.» «Non sono solo voci», replicò vivacemente Elizabeth, «lo faremo. Così
diventeremo proprietari delle terre su entrambe le rive del fiume Wooleston. Quel terreno si estende fino a Salem Village, dove confina con altri che appartengono già a Ronald.» «Ma i Putnam avevano intenzione di comprare quelle terre», obiettò Mercy indignata. «È importante per loro. Hanno bisogno di avere accesso all'acqua del fiume per le loro imprese, soprattutto per la ferriera. Il loro problema è trovare i fondi, per cui devono aspettare fino al prossimo raccolto. Saranno furiosi, se voi insisterete in questo progetto, e faranno di tutto per impedire la vendita.» Elizabeth si strinse nelle spalle. «Io ho il denaro adesso e voglio quel terreno perché abbiamo intenzione di costruire una casa nuova per poter accogliere altri orfani.» Il suo volto si accese di entusiasmo e i suoi occhi brillarono. «Daniel Andrew è disposto a fare il progetto e a costruire la casa. Sarà una grande casa di mattoni come quelle di Londra.» Mercy non riusciva a credere a ciò che udiva; l'orgoglio e l'avidità di Elizabeth non avevano limiti. Mandò giù con difficoltà un'altra sorsata di sidro. «Lei sa che Daniel Andrew è sposato con Sarah Porter?» chiese a Elizabeth. «Certo. Prima che Ronald partisse, sono stati entrambi ospiti qui da noi.» «E, se posso domandarlo, come fa lei a disporre di una tale somma di denaro?» «Con la richiesta di prodotti che abbiamo a causa di questa guerra, la ditta di Ronald sta andando a gonfie vele.» «Ma questo vuole dire sfruttare le sventure altrui», sentenziò Mercy. «Ronald preferisce dire che sta fornendo materiali di cui c'è estremo bisogno.» Mercy fissò per un attimo i luminosi occhi verdi di Elizabeth, doppiamente sorpresa che quella donna non si rendesse conto del proprio errore. Ma Elizabeth sorrise e ricambiò lo sguardo di Mercy sorseggiando contenta il suo sidro. «Io lo avevo sentito dire, ma non potevo crederlo», continuò Mercy. «Questa faccenda è così strana, con suo marito che è assente... Non rientra nei piani del Signore, e devo avvertirla: la gente del villaggio chiacchiera. Si dice che lei vada al di là della sua condizione di figlia di contadini.» «Io sarò sempre la figlia di mio padre», affermò Elizabeth, «ma adesso sono anche la moglie di un mercante.» Prima che Mercy potesse rispondere, dalla cucina arrivò l'eco di un vio-
lento schianto e un coro di grida. Al rumore improvviso, le due donne balzarono in piedi atterrite. Elizabeth si precipitò in cucina, seguita da Mercy, e passando afferrò il moschetto. Il lungo tavolo a cavalletto era stato ribaltato e sul pavimento erano sparse le ciotole di legno, ormai vuote. Ann Putnam correva freneticamente per la cucina, si strappava le vesti e urtava contro i mobili gridando che qualcuno la mordeva. Gli altri ragazzi si erano addossati alla parete, sconvolti e terrorizzati. Deposto il moschetto, Elizabeth corse da Ann e l'afferrò per le spalle. «Che cosa succede, figliola? Chi ti morde?» Per un attimo, Ann rimase immobile e muta. I suoi occhi avevano un aspetto vitreo, assente. «Ann!» gridò Elizabeth. «Che cosa ti succede?» La bocca della ragazza si aprì e ne uscì la lingua in tutta la sua lunghezza, mentre il suo corpo cominciava a essere scosso da fremiti convulsi. Elizabeth cercava di tenerla ferma, ma Ann si dibatteva con forza sorprendente e si portò le mani alla gola. «Non posso respirare», disse rantolando. «Aiuto! Soffoco!» «Portiamola di sopra», gridò Elizabeth a Mercy, e insieme, un po' portandola, un po' trascinandola, trasferirono al secondo piano la ragazzina, che continuava a dimenarsi. Non appena l'ebbero messa a letto, Ann fu presa da violente convulsioni. «Ha un attacco terribile», osservò Mercy. «È meglio chiamare mio marito, il dottore.» «Sì, per favore! Faccia in fretta!» la pregò Elizabeth. Mercy Griggs scuoteva la testa, sgomenta, mentre scendeva le scale. Si era ripresa dal trauma iniziale e la sventura che era capitata non la sorprendeva affatto. Ne conosceva la causa: era stregoneria. Elizabeth Stewart aveva fatto entrare il diavolo nella sua casa. Martedì 12 luglio 1692 Ronald Stewart aprì la porta della cabina e uscì sul ponte nella fresca aria del mattino. Indossava i suoi migliori calzoni alla zuava, il giustacuore scarlatto con le gale inamidate e persino la sua parrucca incipriata. Era fuori di sé per l'eccitazione: avevano appena doppiato Naugus Point, al largo di Marblehead, e facevano rotta in direzione di Salem Town. Si scorgeva già, oltre la prua, il molo Turner.
«Non ammainiamo le vele fino all'ultimo istante», disse al capitano Allen, che era al timone. «Voglio che la gente in città veda la velocità di questa nave.» «D'accordo, signore», replicò il capitano. L'alta e robusta figura di Ronald si appoggiò al parapetto del ponte superiore, mentre la brezza marina accarezzava il suo viso abbronzato e scompigliava le ciocche di capelli biondi che sfuggivano da sotto la parrucca. Guardava felice i familiari tratti del paesaggio. Era bello tornare a casa, anche se non poteva fare a meno di provare una punta di ansietà. Era stato lontano quasi sei mesi, due più di quanto aveva previsto, e non aveva ricevuto una sola lettera. La Svezia gli era sembrata il lembo più estremo della Terra e non sapeva nemmeno se Elizabeth avesse ricevuto le lettere che le aveva spedito. Non aveva nessuna garanzia che le fossero state consegnate, poiché non aveva trovato nessuna nave che facesse rotta direttamente alla Colonia, e neppure a Londra, del resto. «È ora!» gridò il capitano Allen mentre si avvicinavano a terra. «Altrimenti questa barchetta salirà sul molo e non si fermerà fino a Essex Street.» «Da' gli ordini!» gli gridò a sua volta Ronald. Gli uomini salirono sull'alberatura al comando del capitano e in pochi minuti le vele furono ammainate e legate ai pennoni. La nave rallentò. A un certo punto, quando si trovava a un centinaio di metri dal molo, Ronald osservò una piccola barca a remi che scendeva in acqua e si dirigeva rapidamente verso di loro. Quando fu abbastanza vicina, riconobbe il suo commesso, Chester Procter, in piedi a prua. Allora gli fece cenno allegramente con la mano, ma lui non rispose al gesto. «Buongiorno!» gridò, quando l'imbarcazione fu a portata di voce, ma Chester rimase in silenzio. Non appena la barca accostò la murata, Ronald vide che il magro viso del suo commesso era teso e la bocca serrata. Il suo entusiasmo svanì e subentrò un'improvvisa apprensione. C'era qualcosa che non andava. «È meglio che lei venga subito a riva», gli comunicò Chester, quando la barca fu assicurata alla fiancata della nave. Venne calata una scala e, dopo essersi rapidamente consultato con il capitano, Ronald scese, sedette a poppa e la barca si allontanò, puntando verso il molo. Chester prese posto accanto a lui e due marinai al centro della barca, si piegarono sui remi. «Che cosa è successo?» chiese Ronald, con il timore di udire la risposta.
Ciò che di peggio poteva temere era un'incursione degli indiani nella sua casa. Quando era partito, sapeva che erano arrivati già nelle vicinanze di Andover. «Sono accaduti fatti terribili a Salem», cominciò Chester, agitato e chiaramente nervoso. «La Provvidenza l'ha portata a casa appena in tempo. Eravamo sgomenti e angosciati al pensiero che lei arrivasse troppo tardi.» «Si tratta dei miei bambini?» chiese Ronald allarmato. «No, non sono i suoi figli; loro sono al sicuro e stanno bene. Si tratta di sua moglie: è in prigione da parecchi mesi.» «E di che cosa è accusata?» «Di stregoneria», rispose Chester. «Voglia perdonarmi, se le porto così cattive notizie. Sua moglie è stata condannata da una corte di giustizia speciale, che ha fissato la sua esecuzione per martedì prossimo.» «Ma è una cosa assurda!» mormorò Ronald. «Elizabeth non è una strega!» «Lo so», replicò Chester, «ma, a partire dal mese di febbraio, in città si è scatenata una frenetica caccia alle streghe, con quasi cento persone accusate. C'è già stata un'esecuzione: Bridget Bishop, il 10 giugno.» «La conoscevo», ammise Ronald. «Era una donna di carattere forte e focoso. Gestiva una taverna, senza licenza, in Ipswich Road. Ma era una strega? Mi sembra assolutamente improbabile. Che cosa è mai successo, per provocare una così grande paura delle arti diaboliche?» «È a causa degli 'attacchi'», rispose Chester. «Alcune donne, perlopiù molto giovani, sono cadute in preda ad attacchi spaventosi.» «E tu hai visto con i tuoi occhi qualcuno di questi attacchi?» «Oh, sì. Tutta la città li ha visti durante le udienze, di fronte ai magistrati. È uno spettacolo terribile. Le donne colpite urlano per la sofferenza e delirano, diventando di volta in volta o cieche o sorde o mute, in qualche caso tutte queste cose insieme. Tremano e si scuotono peggio dei quaccheri, gridando che esseri invisibili le mordono. Le loro lingue escono dalla bocca e poi sono come inghiottite. Ma il peggio è che le loro articolazioni si piegano come se si spezzassero.» Ronald venne travolto da un turbine di pensieri. Gli eventi avevano preso una piega inaspettata. La sua fronte si coprì di sudore sotto i raggi del sole mattutino e lui si strappò irosamente la parrucca dalla testa e la gettò sul fondo della barca, facendo uno sforzo per schiarirsi le idee e pensare al da farsi. «Ho una carrozza che ci aspetta», avvertì Chester quando attraccarono al
molo, rompendo il penoso silenzio. «Ho pensato che lei volesse recarsi direttamente alla prigione.» «Già», ribatté Ronald seccamente. Sbarcarono e si diressero rapidamente verso la strada, dove salirono in carrozza. Chester prese le redini, fece schioccare la frusta e il cavallo partì. Mentre la carrozza percorreva sobbalzando l'acciottolato del lungomare, nessuno dei due parlava. «Come mai hanno deciso che questi attacchi sono stati provocati da stregoneria?» chiese Ronald quando raggiunsero Essex Street. «È stato il dottor Griggs a dirlo per primo. Poi lo ha confermato il reverendo Parris, del villaggio, quindi tutti in città, anche i magistrati.» «E che cosa li ha resi tanto sicuri?» «È risultato evidente alle udienze. Tutti hanno potuto vedere come le accusate tormentavano le vittime e come queste provavano immediato sollievo dalle loro sofferenze quando venivano toccate dalle accusate.» «Allora le accusate non le toccavano per torturarle.» «No, erano gli spettri delle accusate che operavano il crimine», spiegò Chester, «e nessuno poteva vedere gli spettri, tranne le vittime. È stato per questo che le vittime hanno potuto denunciare le accusate.» «E mia moglie è stata denunciata in questo modo?» «Proprio così. Da Ann Putnam, figlia di Thomas Putnam, di Salem Village.» «Conosco Thomas Putnam», disse Ronald, «è un piccolo ometto bilioso.» «Ann Putnam è stata la prima vittima», aggiunse Chester con voce esitante. «Proprio in casa sua, signor Stewart. Il primo attacco si è verificato nel suo soggiorno, agli inizi di febbraio. La ragazza è ancora malata, e anche sua madre.» «E i miei bambini?» domandò Ronald. «Anche loro sono stati colpiti?» «I suoi figli sono stati risparmiati.» «Grazie a Dio», borbottò Ronald. Svoltarono in Prison Lane senza più parlare, e Chester fermò la carrozza di fronte alla prigione. Ronald gli disse di aspettarlo e scese. Cercando di dominare l'ansia, andò in cerca del carceriere, William Dounton, e lo trovò nel suo disordinato ufficio mentre mangiava pane di granoturco appena arrivato dal forno. Era un uomo obeso con una massa arruffata di capelli sporchi e un naso rosso e bitorzoluto. Ronald lo disprezzava. Tutti sapevano che era un individuo sadico che si divertiva a tormentare i prigionieri a lui affidati.
William, ovviamente, non fu contento di vedere Ronald. Balzò in piedi e si rifugiò dietro la sua sedia. «A nessun visitatore è permesso vedere le condannate», berciò con la bocca piena. «È un ordine del giudice Hathorne.» Cercando di controllare l'ira, Ronald avanzò d'un passo e afferrò la camicia di flanella del carceriere. «Se hai maltrattato mia moglie, farai i conti con me», ringhiò. «Non è colpa mia», mugolò William, «sono le autorità. Io devo obbedire agli ordini.» «Portami da lei», disse Ronald in tono perentorio. «Non...» cercò di protestare William, ma lui aumentò la presa schiacciandogli la gola. Quando l'uomo emise un rantolo, Ronald allentò la stretta e il carceriere, tossendo, tirò fuori le chiavi. Ronald lo lasciò andare e seguì l'uomo che, aprendo una robusta porta di quercia, protestò: «Le farò rapporto!» «Non c'è bisogno», ribatté Ronald. «Appena esco di qui vado direttamente dal magistrato e gli riferisco tutto io stesso.» Al di là della porta di quercia, passarono davanti a diverse celle, tutte piene. Le carcerate fissavano Ronald con occhi vitrei e lui ne riconobbe alcune, ma non rivolse la parola a nessuna. Nella prigione gravava un pesante silenzio e Ronald dovette prendere un fazzoletto per proteggersi il naso dal tanfo. In cima a una scala di pietra, William si fermò per accendere una candela protetta da un paralume. Quindi, dopo avere aperto un'altra massiccia porta di quercia, scesero nella parte peggiore della prigione, dove il tanfo era insopportabile. Si trovarono in un sotterraneo diviso in due grandi ambienti. Dalle pareti di granito trasudava umidità e numerose prigioniere erano incatenate al muro o al pavimento, per le caviglie, per i polsi o in entrambi i modi. Ronald dovette scavalcare alcuni corpi per seguire il carceriere. Difficilmente si sarebbe trovato posto per un'altra persona. «Aspetta un momento», ordinò Ronald. William si voltò verso di lui, che si era inginocchiato. Ronald aveva riconosciuto una condannata e sapeva che era una donna buona e pia. «Rebecca Nurse?» domandò. «Che cosa ci fai qui, in nome di Dio?» Lei scosse lentamente il capo. «Solo Dio lo sa», balbettò. Ronald si rialzò, le ginocchia tremanti. Era come se la città fosse stata travolta da un'ondata di follia.
«Laggiù», disse William indicando l'angolo più lontano del sotterraneo. «Finiamola con questa storia.» Ronald lo seguì. La sua collera taceva, sopraffatta dalla pietà. Quando il carceriere si fermò, Ronald abbassò gli occhi e, al lume della candela, riuscì a malapena a riconoscere sua moglie. Elizabeth, coperta di sudiciume, era ammanettata e legata con una grossa catena e aveva appena la forza di scacciare gli insetti che giravano liberamente nella penombra. Ronald prese la candela dalle mani di William e si chinò sulla moglie che, nonostante le sue condizioni, gli sorrise. «Sono felice che tu sia tornato», mormorò con voce debole. «Ora non dovrò più preoccuparmi per i bambini. Stanno bene?» Ronald deglutì a fatica, aveva la bocca asciutta. «Sono venuto direttamente dalla nave alla prigione», rispose. «Non ho ancora visto i bambini.» «Ti prego, vai subito da loro, saranno felici di vederti. Temo che siano sconvolti.» «Stai tranquilla, avrò cura di loro», le promise Ronald. «Ma prima devo cercare di tirarti fuori di qui.» «Dio lo voglia», esclamò Elizabeth. «Perché hai tardato tanto a tornare?» «L'allestimento della nave ha richiesto più tempo di quanto avevamo previsto. La novità del progetto ci ha causato molte difficoltà.» «Ti ho spedito diverse lettere», continuò Elizabeth. «Non ne ho ricevuta nessuna.» «Be', almeno ora sei a casa.» «Tornerò presto.» Ronald si alzò, scosso dal panico e dall'angoscia, e fece cenno a William e lo seguì fuori del sotterraneo fino al suo ufficio. «Ho fatto soltanto il mio dovere», borbottò il carceriere umilmente, temendo che Ronald non fosse del tutto in sé. «Mostrami le carte», chiese lui. William si strinse nelle spalle e, dopo avere frugato per qualche istante nel mucchio di carte e oggetti che ingombravano la scrivania, porse a Ronald il mandato di arresto di Elizabeth e il decreto della condanna a morte. Lui li lesse e li riconsegnò al carceriere, poi frugò nella borsa e prese alcune monete. «Voglio che Elizabeth esca di lì e abbia una sistemazione migliore.» William fu ben lieto di prendere le monete. «La ringrazio, signore», rispose, facendo rapidamente sparire il denaro nella tasca delle sudice braghe. «Ma non posso trasferirla: le condannate a morte sono sempre siste-
mate al livello inferiore. E non posso neppure toglierle i ferri, perché sono specificamente indicati nel mandato di arresto affinché impediscano al suo spettro di lasciare il suo corpo. Però posso migliorare il trattamento, in risposta alla sua gentile offerta.» «Fai tutto quello che puoi», concluse Ronald. Uscito dal tetro edificio, tardò qualche momento a risalire in carrozza. Si sentiva le gambe deboli e malferme. «Portami dallo sceriffo Corwin», ordinò a Chester, che subito fece schioccare la frusta. L'uomo aveva voglia di chiedere notizie di Elizabeth, ma non osava. L'angoscia di Ronald era fin troppo evidente. Proseguirono in silenzio e, quando raggiunsero l'angolo fra Essex e Washington Street, Ronald smontò. «Aspettami», ordinò brevemente. Bussò al portone e, quando gli venne aperto, provò un subitaneo sollievo nel vedere l'alta e scarna figura del suo vecchio amico Jonathan Corwin in piedi sulla soglia. Appena lui lo riconobbe, la sua espressione adirata sparì e sorrise. Lo fece subito entrare nel suo salotto e chiese alla moglie, che stava filando il lino al suo arcolaio in un angolo della stanza, di lasciarli soli a parlare. «Sono molto addolorato», disse subito Jonathan quando furono soli. «Questa è una triste accoglienza per uno stanco viaggiatore.» «Ti prego, dimmi che cosa posso fare», lo supplicò Ronald debolmente. «Temo proprio di non sapere che cosa dirti», rispose lo sceriffo, «siamo in tempi burrascosi. C'è uno spirito di odio e rancore in città, una specie di follia collettiva. Io stesso non sono più sicuro dei miei pensieri, perché recentemente persino mia suocera, Margaret Thatcher, è stata accusata. Mia suocera non è una strega, e questo mi fa dubitare della veridicità delle accuse pronunciate dalle ragazze colpite e delle loro motivazioni.» «In questo momento, i motivi delle ragazze non mi interessano affatto», replicò Ronald. «Quello che ho bisogno di sapere è che cosa posso fare per la mia amata moglie, che viene trattata con la peggiore brutalità.» Jonathan sospirò tristemente. «Temo ci sia ben poco da fare. Tua moglie è già stata condannata da una giuria presso uno speciale tribunale penale riservato ai casi di stregoneria.» «Ma hai appena detto che dubiti della veridicità dell'accusa.» «Sì», confermò Jonathan, «ma la condanna di tua moglie non è dipesa dalle testimonianze delle ragazze né dalle prove della presenza degli spettri in tribunale. Il processo contro tua moglie è stato più breve degli altri, persino più breve di quello contro Bridget Bishop. La colpa di tua moglie era
evidente agli occhi di tutti, perché la prova contro di lei era reale e decisiva. Non c'era possibilità di dubbio.» «Tu credi che mia moglie sia una strega?» gli chiese Ronald incredulo. «Sì, lo credo», rispose Jonathan. «Mi dispiace. È una dura verità per un uomo.» Per un attimo, Ronald fissò in viso il vecchio amico, mentre il suo cervello cercava di assimilare quella nuova, sconvolgente notizia. Aveva sempre apprezzato e rispettato le sue opinioni. «Ma ci dev'essere qualcosa che posso fare», insistette ancora. «Anche soltanto rinviare l'esecuzione, perché possa rendermi conto dei fatti.» Jonathan posò una mano sulla spalla dell'amico. «Come magistrato locale non c'è nulla che io possa fare. Forse faresti meglio a tornare a casa e occuparti dei tuoi figli.» «Non mi arrenderò così facilmente», affermò Ronald. «Allora tutto quello che posso suggerirti è di andare a Boston a parlare con Samuel Sewall. So che siete amici e vecchi compagni di scuola dell'Harvard College. Forse Samuel, con le sue conoscenze presso il governo coloniale, potrà darti qualche consiglio. Sono sicuro che si interesserà della cosa. È uno dei giudici del tribunale penale e mi ha anche espresso certe sue apprensioni, certi suoi dubbi sull'intera procedura, come del resto ha fatto Nathaniel Saltonstall, che ha persino presentato le sue dimissioni dalla magistratura.» Ronald ringraziò lo sceriffo Jonathan Corwin e si affrettò a uscire. Quindi, annunciò a Chester le sue intenzioni e gli fu ben presto fornito un cavallo sellato. Un'ora dopo, affrontava i ventisei chilometri che lo separavano da Boston. Passò per Cambridge, attraversò il fiume Charles sul Great Bridge e si avvicinò alla città sulla grande strada per Roxberre. Percorrendo lo stretto istmo della penisola di Shawmut, sentiva crescere la sua ansia. Si tormentava chiedendosi che cosa avrebbe fatto se Samuel non avesse voluto o potuto aiutarlo. Non aveva altri a cui rivolgersi, lui era la sua ultima risorsa. Quando oltrepassò la porta della città con le sue fortificazioni in mattoni, il suo sguardo fu involontariamente attratto dal patibolo, da cui pendeva il corpo di un impiccato. Quella vista gli ricordò bruscamente la situazione e sentì un brivido corrergli lungo la spina dorsale. In risposta spronò il cavallo ad accelerare il passo. Il traffico pomeridiano a Boston, con i suoi oltre seimila abitanti e più di ottocento edifici, rallentò la sua corsa. Era quasi l'una quando arrivò alla
casa di Samuel, nel quartiere sud della città. Smontò e legò il cavallo alla palizzata. Trovò Samuel nel suo salotto, che fumava tabacco con la sua pipa dal lungo bocchino, dopo il pranzo. Notò che si era fatto piuttosto corpulento negli ultimi anni e certo era molto diverso dal giovane snello e scattante che andava a pattinare con lui sul fiume, durante i loro anni di università. Samuel fu lieto di rivedere Ronald, ma la sua accoglienza fu piuttosto fredda. Intuì la ragione della sua visita prima che affrontasse l'argomento della condanna di Elizabeth e, rispondendo alle sue domande, confermò la versione di Jonathan Corwin. Spiegò che la colpevolezza di Elizabeth era fuori dubbio, data la prova concreta che lo sceriffo Corwin aveva prelevato nella casa stessa di Ronald. Questi abbassò le spalle e sospirò cercando di trattenere le lacrime. Aveva perduto ogni speranza. Chiese al suo ospite un boccale di birra e, quando Samuel tornò con la bevanda, si era in parte ripreso. Bevve un lungo sorso, poi gli domandò la natura della prova fatta valere contro sua moglie. «Mi ripugna parlarne», disse Samuel. «Ma perché?» chiese Ronald. Fissando in viso l'amico e vedendolo imbarazzato e avvilito, sentì crescere la sua ansia di conoscere la verità. Non aveva pensato di interrogare Jonathan a proposito della prova. «Ho il diritto di saperlo.» «Già», assentì Samuel, ma esitava ancora. «Ti prego», insistette Ronald. «Mi aiuterà a capire questa sciagurata faccenda.» «Forse sarà meglio andare a parlare con un mio buon amico, il reverendo Cotton Mathen», propose Samuel e si alzò. «Lui ha più esperienza di me per quello che riguarda il mondo invisibile. Saprà come consigliarti.» «Ti sono grato, seguirò il tuo consiglio», replicò Ronald alzandosi a sua volta. Presero la carrozza di Samuel e si recarono direttamente alla Old North Church. Da una domestica seppero che il reverendo Mather si trovava a casa sua, all'angolo fra Middle Street e Prince Street. Poiché la canonica era vicina, vi si recarono a piedi. Era anche più comodo lasciare la carrozza e il cavallo in Charles Square, di fronte alla chiesa. Samuel bussò e vennero accolti da una giovane domestica, che li fece entrare nel salotto. Il reverendo Mather arrivò quasi subito e li salutò con grande cordialità, quindi Samuel gli spiegò il motivo della loro visita. «Capisco», commentò il reverendo laconicamente. Accennò alle sedie e
tutti sedettero. Ronald osservò il sacerdote, che già conosceva. Era più giovane di lui e di Samuel, poiché si era diplomato ad Harvard nel 1678, sette anni dopo di loro, tuttavia, già rivelava le tracce dell'età che Ronald aveva notato in Samuel. Anche lui, infatti, si era fatto corpulento, il suo naso era rosso e leggermente allargato e il viso era flaccido e dal colorito terreo. I suoi occhi, però, brillavano di intelligenza e risolutezza. «Hai tutta la mia comprensione per le tue sventure», cominciò rivolto a Ronald. «Le vie del Signore sono spesso imperscrutabili per noi mortali. Oltre che per il tuo dolore personale, io sono profondamente afflitto per le vicende che si sono svolte a Salem Town e a Salem Village. La plebaglia è stata travolta da un'ondata di paura e di sospetto e temo che gli eventi stiano sfuggendo al nostro controllo.» «In questo momento mi preoccupo soltanto di mia moglie», obiettò Ronald. Non era venuto per ascoltare un sermone. «Questo è naturale», continuò il reverendo Mather, «ma devi anche capire che noi, il clero e le autorità civili, dobbiamo preoccuparci della comunità nel suo insieme. Io mi aspettavo che il diavolo comparisse in mezzo a noi e la mia unica consolazione in questa vicenda è che adesso, grazie a tua moglie, sappiamo dov'è.» «Vorrei conoscere la prova avanzata contro mia moglie», affermò Ronald. «E io te la mostrerò», replicò il reverendo Mather. «Purché tu serbi il segreto sulla sua natura, perché temiamo che la divulgazione possa infiammare i disordini e il turbamento a Salem ancora di più.» «Ma se volessi appellarmi contro il giudizio?» chiese Ronald. «Quando avrai visto la prova, deciderai di non farlo, credimi. Ho la tua parola?» «Le do la mia parola, reverendo», confermò lui, «purché non significhi rinunciare al mio diritto di appello.» Si alzarono tutti e tre e il reverendo Mather li condusse a una scala di pietra. Accese una candela e scesero nel sotterraneo. «Ho discusso a lungo questa prova con mio padre, Increase Mather», aggiunse il reverendo voltando leggermente la testa. «Abbiamo raggiunto la conclusione che ha una straordinaria importanza per le generazioni future, come prova dell'esistenza del mondo invisibile. Per questo riteniamo che il suo giusto posto sarebbe l'università di Harvard. Come saprai, mio padre è attualmente il rettore dell'istituto.»
Ronald non rispose. In quel momento la sua mente non era in grado di prestare attenzione a tali questioni accademiche. «Sia io sia mio padre riteniamo che i processi di stregoneria a Salem si siano basati troppo sulle sole prove riguardanti gli spettri», continuò Cotton Mather. Giunsero ai piedi della scala e, mentre Samuel e Ronald aspettavano, il reverendo cominciò ad accendere i candelabri fissati alle pareti continuando a parlare. «Siamo molto preoccupati che questo procedimento possa trascinare persone innocenti nella tempesta.» Ronald fremeva dalla voglia di protestare. In quel momento non sopportava di ascoltare certe osservazioni generiche, ma Samuel lo trattenne ponendogli una mano sulla spalla. «La prova contro Elizabeth è proprio il genere di prova concreta che noi vorremmo avere in ogni causa», spiegò il reverendo facendo cenno a Ronald e a Samuel di seguirlo verso un armadio chiuso. «Ma è anche sconvolgente. Per mia decisione è stata portata qui da Salem dopo il processo. Non ho mai visto una prova più evidente della presenza del demonio e del suo potere di operare il male.» «La prego, reverendo», lo interruppe infine Ronald. «Io vorrei tornare al più presto a Salem. Se mi mostra semplicemente questa prova, me ne vado subito.» «Abbi pazienza, buon uomo», gli rispose il reverendo tirando fuori una chiave dalla tasca del panciotto. «La natura di questa prova è tale che devi essere preparato. È una cosa spaventosa. Per questa ragione ho suggerito che il processo contro tua moglie fosse tenuto a porte chiuse e che la giuria s'impegnasse con giuramento a mantenere il segreto. È stata adottata questa precauzione non per negare all'accusata un giusto processo, ma per evitare reazioni isteriche nel pubblico, che avrebbero solo fatto il gioco del demonio.» «Sono preparato», affermò Ronald con una punta di esasperazione. «Cristo Redentore sia con te», salmodiò il reverendo infilando la chiave nella serratura. «Fatti forza.» Quindi aprì l'armadio e, con entrambe le mani, spalancò le due ante facendosi da parte perché Ronald potesse vedere. Lui guardò e il respiro gli morì in gola con un rantolo. Per un istante parve che gli occhi volessero uscirgli dalle orbite e si portò involontariamente una mano alla bocca, travolto dall'orrore e dallo sgomento. Deglutì penosamente e cercò di parlare, ma gli mancò la voce. Tossì per schiarirsi la gola.
«Basta!» articolò con fatica e distolse lo sguardo. Il reverendo Cotton Mather richiuse le ante dell'armadio e girò la chiave nella serratura. «È sicuro che questa sia opera di Elizabeth?» chiese Ronald con voce debole. «Senza alcun dubbio», rispose Samuel. «Non soltanto il tutto è stato sequestrato dallo sceriffo George Corwin nella tua proprietà, ma la stessa Elizabeth ha ammesso liberamente la sua responsabilità.» «Buon Dio!» esclamò Ronald. «Sicuramente questa è opera del demonio, tuttavia, io so nel profondo del mio cuore che mia moglie non è una strega.» «È difficile per un uomo credere che sua moglie sia in combutta con il diavolo», replicò Samuel, «ma questa prova, unita alla testimonianza di molte delle ragazze colpite, che hanno asserito di essere tormentate dallo spettro di Elizabeth, è assolutamente irrefutabile. Mi duole, caro amico, ma tua moglie è una strega.» «Sono veramente sconvolto», mormorò Ronald. Samuel Sewall e Cotton Mather si scambiarono uno sguardo di pietosa comprensione, poi il primo si avviò verso la scala. «Sarà meglio che torniamo in salotto», propose il reverendo Mather. «Un boccale di birra farà bene a tutti.» Dopo che si furono seduti ed ebbero sorseggiato le loro birre, il reverendo Mather parlò di nuovo: «Sono tempi di tribolazione per tutti noi, ma dobbiamo tutti fare la nostra parte. Ora che sappiamo che il demonio ha scelto Salem, dobbiamo, con l'aiuto di Dio, rintracciare e bandire dalla nostra comunità le serve di Satana e i loro famigliali per proteggere gli innocenti e i pii, che sicuramente il diavolo disdegna». «Mi spiace», replicò Ronald, «ma io non posso essere di nessun aiuto. Sono stanco e disperato. Non posso ancora credere che Elizabeth sia una strega, ho bisogno di tempo. Ci sarà qualche modo di ottenere per lei un rinvio, anche solo di un mese.» «Solo il governatore Phips potrebbe concedere un rinvio dell'esecuzione», intervenne Samuel, «ma un'istanza in tal senso sarebbe inutile. Concederebbe un rinvio solo se ci fosse una ragione incontrovertibile.» Calò nella stanza un pesante silenzio. Dalla finestra aperta entravano i rumori lontani della città. «Forse potrei presentare io un'istanza di rinvio», disse all'improvviso il
reverendo Mather. Il viso di Ronald si illuminò di un raggio di speranza, mentre Samuel pareva confuso. «Credo che potrei giustificare l'istanza presso il governatore», continuò il reverendo, «ma basandola su una condizione: la piena collaborazione di Elizabeth. Lei dovrebbe promettere di volgere le spalle al Principe delle Tenebre.» «Posso assicurarle fin d'ora la sua collaborazione», affermò Ronald. «Che cosa volete che faccia?» «Per prima cosa, deve confessare davanti a tutta la congregazione, nella sala del culto di Salem», dichiarò il reverendo. «E nella sua confessione deve ripudiare i suoi rapporti con il diavolo. In secondo luogo, deve rivelare l'identità delle persone appartenenti alla comunità che hanno firmato analoghi patti satanici. Questo sarebbe un buon servizio per la nostra causa. Il fatto che i tormenti delle vittime continuino con immutata violenza è una dimostrazione che i servi del demonio sono ancora all'opera a Salem.» Ronald balzò in piedi. «La convincerò a confessare questo stesso pomeriggio», affermò tutto eccitato. «La prego di andare immediatamente a parlare con il governatore Phips.» «Preferisco aspettare una parola da Elizabeth», obiettò il reverendo Mather. «Non vorrei disturbare sua eccellenza senza avere una conferma.» «Avrà la sua parola», assicurò Ronald. «Entro domattina al più tardi.» «Dio ti ascolti», concluse il reverendo Mather. Samuel fece fatica a tenere dietro a Ronald, quando i due uomini si affrettarono a tornare alla carrozza che aspettava di fronte alla Old North Church. «Puoi risparmiare quasi un'ora di viaggio prendendo il traghetto per Noddle Island», suggerì Samuel mentre attraversavano la città per andare a prendere il cavallo di Ronald. «Bene, prenderò il traghetto, allora», rispose lui. Come aveva detto Samuel, il viaggio di ritorno a Salem fu decisamente più rapido di quello di andata. A metà pomeriggio, Ronald svoltava in Prison Lane e legava il cavallo davanti alla prigione. Aveva spronato l'animale senza pietà e dalle narici della bestia esausta uscivano sbuffi di schiuma. Ronald, altrettanto stanco e coperto di polvere, aveva la fronte imperlata di sudore. Era sconvolto, sfinito dalla fame e dalla sete, ma faceva tacere le sue esigenze personali. Il raggio di speranza che Cotton Mather aveva fatto balenare lo teneva in piedi.
Si precipitò nell'ufficio del carceriere e fu deluso di trovarlo vuoto, allora bussò forte alla porta di quercia che portava alle celle. Si aprì uno spiraglio e ne fece capolino la grassa faccia di William Dounton. «Voglio vedere mia moglie», sbottò Ronald senza fiato. «Ma questo è il momento della cena», ribatté William. «Ritorni fra un'ora.» Ronald inserì il piede nello spiraglio e aprì con violenza la porta, facendo quasi cadere William. Una parte della brodaglia che portava in un secchio traboccò dall'orlo. «La voglio vedere adesso!» ringhiò Ronald. «Riferirò questo sopruso ai magistrati!» si lamentò il carceriere, che però depose a terra il secchio e lo accompagnò alla porta del sotterraneo. Pochi minuti dopo, Ronald era seduto accanto a Elizabeth. La scosse gentilmente per una spalla e lei sbatté le palpebre, aprì gli occhi e chiese subito dei bambini. «Non li ho ancora visti», le rispose Ronald, «ma porto buone notizie. Sono andato a parlare con Samuel Sewall e con il reverendo Cotton Mather: pensano che si possa ottenere un rinvio.» «Sia ringraziato Dio», mormorò Elizabeth. I suoi occhi brillarono al lume della candela. «Ma tu devi confessare», aggiunse Ronald, «e devi fare i nomi delle altre donne che conosci e che sono in combutta con il diavolo.» «Confessare che cosa?» chiese Elizabeth. «La stregoneria!» sbottò Ronald esasperato. Lo sfinimento e la tensione rischiavano di fargli perdere il controllo. «Non posso confessare», rispose Elizabeth. «E perché no?» incalzò lui con una stridula nota di esasperazione nella voce. «Perché non sono una strega.» Per un attimo, Ronald fissò muto la moglie, stringendo i pugni per la frustrazione. «Non posso smentire me stessa», continuò poi Elizabeth rompendo il penoso silenzio. «Io non confesserò di avere praticato stregonerie.» Nel suo stato di sfinimento, Ronald non riuscì a controllare la collera. Picchiò il pugno contro il palmo dell'altra mano, poi si avvicinò al viso della moglie. «Devi confessare!» ruggì. «Ti ordino di confessare.» «Caro marito», rispose Elizabeth senza farsi intimidire dalla sua furia, «ti hanno parlato della prova utilizzata contro di me?»
Ronald si raddrizzò e gettò un rapido sguardo imbarazzato a William, che stava ascoltando il colloquio. Gli ordinò bruscamente di allontanarsi e il carceriere andò a riprendere il suo secchio per proseguire il solito giro per il sotterraneo. «Sì, ho visto la prova», rispose, quando William non fu più a portata di voce. «Il reverendo Cotton Mather la custodisce nella sua casa.» «Devo essere colpevole di avere trasgredito in qualche modo la volontà del Signore», sussurrò Elizabeth. «Questo potrei confessarlo, se sapessi in che cosa ho peccato. Ma non sono una strega e sicuramente non ho tormentato nessuna delle giovani donne che hanno testimoniato contro di me.» «Confessa per il momento, almeno per ottenere il rinvio», la pregò Ronald. «Voglio salvarti la vita.» «Non posso salvare la mia vita e perdere la mia anima», ribatté Elizabeth. «Se rinnego me stessa, finisco nelle mani del diavolo. E poi non conosco altre streghe e non denuncerò persone innocenti per salvarmi.» «Devi confessare!» gridò concitatamente Ronald. «Se non confessi, io ti abbandonerò.» «Tu farai quello che la tua coscienza ti detta, ma io non farò confessione di stregoneria.» «Ti supplico», la scongiurò allora, cambiando tattica. «Fallo per i bambini.» «Dobbiamo avere fiducia nel Signore.» «Ma Lui ci ha abbandonato», gemette Ronald, mentre le lacrime gli rigavano le guance incrostate di polvere. Con difficoltà, Elizabeth sollevò una mano ammanettata e la appoggiò sulla spalla del marito. «Fatti coraggio, mio caro. Il Signore opera per vie imperscrutabili.» Perdendo del tutto il controllo, Ronald balzò in piedi e corse fuori della prigione. Martedì 19 luglio 1692 Ronald Stewart, in piedi su un lato di Prison Lane, a poca distanza dalla prigione, spostava nervosamente il peso del corpo da un piede all'altro, mentre gocce di sudore gli imperlavano la fronte sotto la larga tesa del cappello. Era una giornata calda e caliginosa e l'afa insopportabile era aumentata dal silenzio innaturale che pesava sulla città, malgrado la folla di
gente in attesa. Persino i gabbiani tacevano: tutti aspettavano l'arrivo del carro. Un'angoscia senza nome opprimeva la mente di Ronald, paralizzato dal terrore, dal dolore e dal panico. Non riusciva a capire che cosa avessero fatto lui o Elizabeth per attirarsi quella catastrofe. Per ordine dei magistrati, gli era stato vietato di entrare nella prigione fin dal giorno prima, quando aveva tentato per l'ultima volta di convincere sua moglie a collaborare. Ma né le preghiere né le lusinghe né le minacce avevano potuto smuoverla dalla sua decisione. Elizabeth rifiutava di confessare. Dal cortile interno giunse il rumore metallico delle ruote cerchiate di ferro che passavano sopra i ciottoli di granito e, quasi immediatamente, comparve un carro, sulla cui parte posteriore stavano in piedi cinque donne, strette l'una contro l'altra nel piccolo spazio. Erano ancora in catene. Dietro il carro camminava William Dounton, che sfoggiava un largo sorriso nell'attesa di consegnare le prigioniere al carnefice. Un clamore improvviso di urla e applausi salì dagli spettatori, creando un'atmosfera quasi da carnevale. I bambini ricominciarono i soliti giochi, mentre gli adulti ridevano e si davano pacche sulla schiena. Doveva essere un giorno di festa e divertimento, come avveniva di solito in occasione di un'impiccagione. Ma per Ronald, come per le famiglie e gli amici delle altre vittime, era invece un giorno di lutto. Avvertito dal reverendo Mather, Ronald non provò né sorpresa né speranza quando non vide Elizabeth nel primo gruppo. Era stato infatti informato che sua moglie sarebbe stata giustiziata per ultima, dopo che la folla si fosse saziata del sangue delle prime cinque prigioniere. Si voleva così attutire il possibile impatto sulla gente, specialmente su quelli che avevano visto la prova avanzata contro di lei o ne avevano sentito parlare. Quando il carro gli passò davanti, Ronald alzò gli occhi per fissare il volto delle vittime, che apparivano tutte sfinite e provate dai maltrattamenti subiti e dalla consapevolezza della morte imminente. Riconobbe soltanto due donne, Rebecca Nurse e Sarah Good, entrambe di Salem Village. Le altre venivano dalle città vicine. Vedendo Rebecca Nurse portata al patibolo e conoscendone l'animo pio, Ronald ricordò la sinistra osservazione del reverendo Mather, e cioè che la faccenda delle streghe di Salem minacciava di sfuggire al controllo. Quando il carro raggiunse Essex Street e svoltò, la folla ondeggiò e si mise a seguirlo. Nella massa spiccava il reverendo Cotton Mather, l'unica persona a cavallo.
Circa mezz'ora dopo, Ronald udì nuovamente quel sinistro sferragliare sull'acciottolato della prigione e un secondo carro comparve. Sul fondo era rannicchiata Elizabeth, a testa china, il peso delle catene che le impediva di stare in piedi. Mentre il carro passava accanto a Ronald, Elizabeth non alzò gli occhi né il marito la chiamò. Nessuno dei due aveva qualcosa da dire. Ronald seguì il carro a distanza, pensando che era come vivere un incubo. Lacerato da emozioni opposte, avrebbe voluto fuggire e nascondersi agli occhi del mondo, ma nello stesso tempo voleva restare accanto a Elizabeth fino alla fine. Poco a occidente di Salem Town, dopo avere attraversato il Town Bridge, il carro lasciò la strada principale e cominciò a salire sul Colle del Patibolo. La strada si inerpicava in mezzo a un folto di arbusti spinosi per poi sbucare su una squallida e inospitale cresta rocciosa, disseminata di poche querce o robinie. Il carro di Elizabeth andò a fermarsi accanto al precedente, ora vuoto. Asciugandosi il sudore dalla fronte, Ronald uscì da dietro i carri. Davanti a sé vedeva la folla rumorosa raccolta intorno a una delle querce più grandi e, poco oltre, c'era Cotton Mather, sempre a cavallo. Ai piedi dell'albero, in piedi, la condannata. Un boia incappucciato di nero, che era stato fatto venire appositamente da Boston, aveva fatto passare una fune sopra un ramo robusto, legando un capo alla base dell'albero e annodando l'altra estremità in un cappio che aveva passato intorno al collo di Sarah Good. La donna, in quel momento, stava in precario equilibrio su un piolo di una scala di legno appoggiata all'albero. Ronald vide il reverendo Noyes della chiesa di Salem Town avvicinarsi alla condannata con una Bibbia in mano. «Confessa, strega!» urlò il reverendo. «Io non sono più strega di quanto lei sia uno stregone», gli gridò Sarah di rimando. Poi cominciò a lanciare maledizioni al sacerdote, ma Ronald non poté afferrare le sue parole, perché dalla folla si levò un coro di grida, seguito dall'urlo di qualcuno che spronava il boia ad affrettarsi. L'uomo, obbediente, diede una spinta a Sarah Good, che fu sbalzata lontano dalla scala. La folla lanciò grida di giubilo intonando in coro «Muori, strega», mentre Sarah lottava contro la corda che la strangolava. La sua faccia si fece purpurea, poi nera. Appena cessò di agitarsi, il boia procedette con le altre condannate. Ormai l'eccitazione della folla stava scemando e, quando l'ultima vittima
fu calata a terra, la folla aveva perduto interesse. Anche se qualcuno andava a vedere i corpi gettati in una fossa comune scavata poco profonda fra le rocce, la maggior parte cominciava già a prendere la via del ritorno verso la città, dove la baldoria sarebbe continuata. Fu a questo punto che Elizabeth fu consegnata al boia. L'uomo dovette aiutarla a camminare fino alla scala, dato il peso eccessivo delle sue catene. Ronald deglutì a vuoto e si sentì tremare le gambe. Voleva gridare di rabbia, implorare pietà, ma non fece nulla. Non riusciva a muoversi. Il reverendo Mather lo vide e guidò il cavallo verso di lui. «È la volontà di Dio», gli disse, lottando per tenere tranquillo l'animale, che pareva percepire il tormento di Ronald. Lui non riusciva a distogliere gli occhi da Elizabeth e sentiva l'impulso di correre a uccidere il boia. «Devi ricordare che cosa ha fatto Elizabeth», lo ammonì il reverendo Mather. «Devi ringraziare Dio che la morte sia intervenuta a salvare la nostra Sion, il nostro popolo. Ricordati che hai visto con i tuoi occhi la prova.» Ronald annuì a fatica, lottando per trattenere le lacrime. Aveva visto la prova, indubbiamente era opera del demonio. «Ma perché?» gridò all'improvviso. «Perché proprio Elizabeth?» Per un attimo, vide gli occhi di sua moglie che si alzavano a incontrare i suoi. Le sue labbra si mossero come se volesse parlare ma, prima che potesse farlo, il boia le diede la spinta decisiva. A differenza di quanto aveva fatto con le altre donne, aveva lasciato più lenta la fune intorno al collo di Elizabeth, in modo che, quando si staccò dalla scala a pioli, il suo corpo ricadde per qualche metro, prima di arrestarsi bruscamente con un estremo sussulto. Diversamente dalle altre, non si dibatté e il suo viso non cambiò colore. Ronald si prese la testa fra le mani e scoppiò in lacrime. 1 Martedì 12 luglio 1994 Kimberly Stewart, oltrepassando il cancelletto e uscendo dalla stazione della metropolitana di Harvard Square a Cambridge, nel Massachusetts, diede un'occhiata all'orologio. Mancavano pochi minuti alle diciannove. Sapeva di essere puntuale o appena di pochi minuti in ritardo, ma affrettò
ugualmente il passo. Aprendosi a fatica un varco fra la folla accalcata intorno all'edicola in mezzo alla piazza, percorse quasi correndo la breve distanza lungo Massachusetts Avenue, prima di svoltare a destra in Holyoke Street. Si fermò per riprendere fiato davanti all'edificio dell'Hasty Pudding Club e alzò gli occhi a osservarlo. Era una costruzione in mattoni con finiture bianche, come la maggior parte degli edifici di Harvard, ma Kimberly conosceva il club di Harvard solo per fama, per il premio che ogni anno conferiva a un attore e a un'attrice. Non vi era mai entrata, anche se ospitava un ristorante chiamato Upstairs at the Pudding, il pudding del piano di sopra. Quella era la sua prima visita. Quando sentì il proprio respiro tornare quasi normale, Kim aprì la porta ed entrò, trovandosi subito di fronte diverse scalinate. Era ancora un po' accaldata e chiese al maìtre dove fosse la toilette delle signore. Poi, lottando con la massa di capelli neri che si rifiutava di piegarsi ai suoi desideri, ripeté a se stessa che non era assolutamente il caso di essere così nervosa. Dopotutto, Stanton Lewis era uno di famiglia. Il problema era che suo cugino non le aveva mai telefonato all'ultimo momento per dirle che «era assolutamente necessario» che lei venisse a pranzo e che si trattava di un'«emergenza». Rinunciando ad aggiustarsi la chioma ribelle e sentendosi alquanto agitata, Kim si presentò di nuovo al maître. Questa volta annunciò che aveva appuntamento con il signore e la signora Lewis. «La maggior parte del suo gruppo è già arrivata», si sentì rispondere. Kim seguì una cameriera attraverso il grande ristorante, sentendo crescere l'ansia. Non le era piaciuto il termine «gruppo». Chi altri doveva essere presente a quella cena? Venne condotta in una terrazza ombreggiata da un fresco pergolato, già affollata di ospiti. Stanton e sua moglie Candice erano seduti a un tavolo d'angolo apparecchiato per quattro. «Mi dispiace di essere in ritardo», si scusò subito Kim quando arrivò. «Ma non sei affatto in ritardo!» Stanton balzò in piedi e la strinse in un abbraccio tale da toglierle il respiro, piegandola addirittura all'indietro. Le guance di Kim si fecero rosso fuoco, mentre aveva la sgradevole sensazione che tutti i presenti li osservassero. Quando riuscì a sciogliersi da quell'abbraccio insistente, raggiunse in fretta la propria sedia e si sedette, cercando di farsi piccola piccola. Si era sempre sentita un po' a disagio vicino a Stanton. Benché fossero
cugini, avevano caratteri nettamente diversi. Mentre lei si considerava piuttosto timida e talvolta persino un po' goffa, il cugino era un tipo estroverso e spigliato, sempre estremamente cortese, ma con una certa tendenza a imporsi. Aveva l'alta e agile figura di un campione di sci e si teneva dritto, guardando dall'alto gli altri con il piglio del conquistatore. Ma anche con Candice, la moglie di Stanton, Kim si sentiva alquanto a disagio e inadeguata. Si guardò rapidamente in giro e, così facendo, urtò inavvertitamente la cameriera che stava cercando di deporle il tovagliolo sulle ginocchia. Entrambe si scusarono nello stesso tempo. «Rilassati, cugina», l'ammonì Stanton, che allungò un braccio attraverso il tavolo e le versò un bicchiere di vino. «Come al solito, sei tesa come la corda di un violino.» «Dicendomi di rilassarmi non fai che rendermi più nervosa», ribatté Kim cominciando a sorseggiare il suo vino. «Sei una ragazza strana», aggiunse lui con tono vivace. «Non ho mai capito perché tu debba sempre essere così dannatamente in imbarazzo, specialmente qui seduta con i tuoi parenti, in una sala piena di gente che non ti capiterà più di vedere. Lascia sciolti i tuoi capelli.» «Non ho nessuna autorità sui miei capelli, fanno quello che vogliono», scherzò Kim. Nonostante tutto, cominciava a sentirsi più calma. «Quanto al fatto che non riesci a capire il mio imbarazzo, ti dirò che è perfettamente comprensibile. Tu sei così sicuro di te che non puoi immaginare come si possa non esserlo.» «Perché non mi dai la possibilità di capire?» replicò Stanton. «Ti sfido a spiegarmi perché, in questo momento, tu ti senta a disagio. Mio Dio, ragazzina, la tua mano trema.» Kim posò il bicchiere e si mise le mani in grembo. «Sono nervosa soprattutto perché mi sento in disordine e non a posto. Dopo che mi hai telefonato, stasera, ho avuto appena pochi minuti per fare una doccia, ma non ho avuto il tempo di scegliere che cosa mettermi. E devi sapere che queste dannate ciocche mi fanno diventare matta.» Cercò affannosamente di aggiustarsi i capelli sulla fronte. «A me sembra che il tuo vestito sia bellissimo», intervenne Candice. «Senza dubbio», aggiunse Stanton. «Kimberly, sei davvero uno splendore.» La ragazza non poté fare a meno di ridere. «Ho abbastanza buonsenso da capire che i complimenti sollecitati di solito sono falsi.»
«Sciocchezze», replicò Stanton. «L'ironia di questa discussione è che tu sei una donna molto bella e molto sexy, anche se ti comporti sempre come un pesce fuor d'acqua. Il che, credo, ti attira tutte le simpatie. Quanti anni hai, venticinque?» «Ventisette.» Kim bevve un altro sorso di vino. «Ventisette, e migliori ogni anno.» Stanton sogghignò maliziosamente. «Hai degli zigomi che ogni donna ti invidierebbe, la pelle come il sederino di un neonato e la figura di una ballerina, per non parlare dei tuoi occhi di smeraldo che riuscirebbero a stregare una statua greca.» «La verità è un po' diversa», obiettò Kim. «La mia ossatura facciale non è niente di eccezionale, anche se nel complesso può andare. La mia pelle si abbronza poco o niente e, per quanto riguarda la mia figura da ballerina, dev'essere un modo gentile per dirmi che non sono una cicciona.» «Sei ingiusta con te stessa», osservò Candice. «Penso che sia meglio cambiare argomento», concluse Kim, «questa conversazione non mi aiuta certo a rilassarmi. Anzi, mi mette ancora di più in imbarazzo.» «Mi scuso per i miei sinceri complimenti», scherzò Stanton con un altro dei suoi sorrisetti maliziosi. «Di che cosa preferiresti parlare?» «Che ne diresti di spiegarmi perché la mia presenza qui era così urgentemente necessaria?» «Ho bisogno del tuo aiuto.» Stanton si chinò verso di lei. «Il mio aiuto? Mi fai proprio ridere. Il grande finanziere ha bisogno del mio aiuto! È uno scherzo?» «Al contrario. Fra pochi mesi conto di lanciare un'emissione pubblica per una delle mie aziende di biotecnica, la Genetrix.» «Io non ho fondi da investire», replicò sbrigativa Kim. «Hai scelto la parente sbagliata.» Stanton scoppiò a ridere. «Non sto cercando denaro. È qualcosa di molto diverso. Oggi stavo parlando con zia Joyce e...» «Oh, no!» lo interruppe lei nervosamente. «Che cosa ti ha detto mia madre?» «Mi ha casualmente accennato che hai rotto da poco con il tuo fidanzato», rispose lui. Kim impallidì e il disagio che aveva provato all'arrivo tornò a invaderla. «Vorrei che mia madre la smettesse di spettegolare», esclamò irritata. «La zia Joyce non mi ha fornito nessun particolare scabroso», la rassicurò Stanton.
«Questo non conta», protestò ancora Kim. «Sta divulgando informazioni personali su me e su mio fratello Brian da quando avevamo sedici anni!» «Mi ha detto soltanto che Kinnard non era l'uomo giusto per te», spiegò Stanton. «E sono d'accordo anch'io, se non fa che andare in giro con gli amici a sciare e a pescare.» «Queste mi sembrano appunto informazioni personali», insistette Kim, «e sono anche esagerate. La pesca è una passione recente e lo sci si fa una volta all'anno.» «A dirti la verità, io la ascoltavo a malapena. Almeno finché non mi ha domandato se potevo trovare qualcuno che fosse più adatto a te.» «Signore Iddio!» sbottò Kim con crescente irritazione. «Non posso crederci! Ti ha chiesto davvero di trovarmi un fidanzato?» «In effetti, devo dire che questo non è il mio forte», replicò Stanton con un sorriso di autocompiacimento. «Ma ho avuto un lampo di genio. Subito dopo avere messo giù la cornetta, mi è venuto in mente a chi posso presentarti.» «Non dirmi che è per questo che mi hai fatto venire qui stasera!» Kim sembrò subito allarmata e sentì i battiti del polso accelerare. «Non sarei mai venuta, se solo avessi sospettato...» «Calma, calma, non ti agitare. Andrà tutto bene, credimi.» «È troppo presto», protestò lei. «Non è mai troppo presto.» «Stanton, sei un individuo impossibile! Non sono pronta a incontrare nessuno, e inoltre sono in disordine.» «Ti ho già detto che hai un aspetto splendido, fidati di me. Edward Armstrong cadrà ai tuoi piedi come un sacco di patate. Se uno guarda quei tuoi occhi di smeraldo, si sente subito le gambe molli come gomma.» «Questo è ridicolo!» «Devo ammettere una cosa, però, ho anche un altro motivo», aggiunse Stanton. «Sto cercando di coinvolgere Edward in una delle mie industrie di biotecnica fin da quando sono diventato un imprenditore. Con la Genetrix in procinto di presentarsi in borsa, questo è il momento adatto, e spero di attirarmi la sua riconoscenza presentandoti a lui, Kim. Dopo, forse, riuscirò a convincerlo, per amore o per forza, a entrare nel comitato scientifico della Genetrix. Il suo nome varrà un buon quattro o cinquemila dollari sull'emissione pubblica iniziale. E potrò fare di lui un milionario.» Per un attimo, Kim non aprì bocca e si concentrò sul vino. Avvertiva un senso di ansia e si sentiva strumentalizzata, oltre che imbarazzata, ma non
manifestò la sua irritazione. Aveva sempre avuto difficoltà a esprimersi in situazioni di conflitto. Stanton, come al solito, l'aveva colta di sorpresa, con il suo modo di comportarsi egoista, sempre pronto a manipolare le persone e tuttavia così franco nell'ammetterlo. «Forse, Edward Armstrong non ha voglia di diventare milionario», si decise infine a dire. «Sciocchezze», ribatté Stanton. «Tutti hanno voglia di diventare milionari.» «So che per te è difficile capirlo», ribatté Kim, «ma non tutti la pensano come te.» «Edward è un tipo simpatico», intervenne Candice. «Questa è una definizione sospetta, come se per un appuntamento con una donna che non si conosce, la si descrivesse come una personcina simpatica.» Stanton schioccò le labbra. «Sai, cara cugina, può darsi che ti manchi una rotella, ma non manchi di senso dello humour.» «Quello che volevo dire», spiegò Candice, «è che Edward è una persona molto gentile, e credo che questo sia importante. Ti confesso che ero contraria all'idea che Stanton fissasse un appuntamento per te, ma poi ho pensato che sarebbe stato un bene se avessi conosciuto qualcuno che fosse premuroso e garbato. Dopotutto, la relazione con Kinnard è stata piuttosto tempestosa e io credo che meriti di meglio.» Kim fu sorpresa da quelle parole. Candice, ovviamente, non sapeva nulla di Kinnard, ma non la contraddisse. Invece spiegò: «Dei problemi fra me e Kinnard siamo responsabili entrambi». Lanciò un'occhiata nervosa alla porta, mentre i battiti del suo cuore acceleravano. Avrebbe voluto alzarsi e andarsene, ma non poteva. Non era nella sua natura, anche se in quel momento desiderava intensamente di esserne capace. «Edward è molto più che un tipo simpatico», aggiunse ancora Stanton, «è un genio.» «Ma guarda un po'!» esclamò Kim in tono sarcastico. «Non solo il vostro signor Armstrong mi troverà insignificante, ma anche noiosa. Io non brillo proprio, quando si tratta di fare conversazione con un genio.» «Fidati di me», replicò Stanton, «voi due marcerete benissimo insieme. Avete molto in comune, per ambiente e per cultura. Edward ha una laurea in Medicina, eravamo compagni ad Harvard. Da studenti abbiamo partecipato insieme a molti esperimenti e ricerche di laboratorio, finché lui, dopo
il terzo anno, ha scelto il dottorato in biochimica.» «E fa il medico di professione?» chiese Kim. «No, si dedica alla ricerca. Il suo campo specifico è la chimica del cervello, un campo oggi particolarmente all'avanguardia. In questo momento è una celebrità nel settore; Harvard è riuscita a rubarlo a Stanford. E quando si parla del lupo, eccolo che arriva.» Kim si voltò di colpo e vide un tipo alto e robusto, ma con qualcosa di fanciullesco, che si avvicinava al loro tavolo. Sapendo che era stato un compagno di scuola di Stanton, immaginò che dovesse avere circa quarant'anni, ma sembrava molto più giovane, con i capelli biondi e lisci, il viso abbronzato privo di rughe e senza quel pallore che Kim associava alla vita accademica. Si teneva leggermente curvo, come se avesse sempre paura di sbattere la testa contro una trave sporgente. Stanton si alzò immediatamente e abbracciò Edward con tanto entusiasmo quanto ne aveva dimostrato per Kim. Per un attimo, lei provò simpatia per lui. Intuì che si sentiva a disagio, come si era sentita lei di fronte alla troppo espansiva accoglienza del cugino. Stanton fece brevemente le presentazioni ed Edward strinse la mano a Candice e a Kim prima di sedersi. Kim notò che la sua mano era umidiccia e la sua stretta esitante, esattamente come la propria. Osservò anche che aveva un lieve accenno di balbuzie e l'abitudine di scostarsi i capelli dalla fronte. «Sono terribilmente spiacente di essere in ritardo», esordì Edward. Aveva qualche difficoltà a pronunciare la «t». «Due anime gemelle», osservò allegramente Stanton. «La mia splendida cugina, non meno sexy che piena di talento, ha detto la stessa cosa quando è arrivata, circa cinque minuti fa.» Kim si sentì arrossire. Minacciava di essere una serata molto, molto lunga; Stanton non poteva fare a meno di essere sempre se stesso. «Rilassati, Ed», continuò Stanton, versandogli un bicchiere di vino. «Non sei in ritardo. Io avevo detto intorno alle sette, e sei perfettamente in orario.» «Intendevo dire che voi siete già qui ad aspettare», si corresse Edward. Fece un breve sorriso imbarazzato e sollevò il bicchiere come per un brindisi. «Buona idea», intervenne subito Stanton e, accogliendo l'invito, alzò anche lui il suo bicchiere. «Lasciate che proponga un brindisi. Prima di tutto,
vorrei brindare alla mia diletta cugina Kimberly Stewart, in assoluto la migliore infermiera del reparto chirurgico del Massachusetts General Hospital.» Mentre tutti alzavano i bicchieri seguendo il suo esempio, Stanton guardò direttamente Edward in viso. «Se devi farti aggiustare le condutture della prostata, prega Dio che Kim sia disponibile. È favolosa con il catetere!» «Stanton, ti prego!» protestò lei. «D'accordo, d'accordo», concesse il cugino, e protese la mano sinistra come per tacitare un uditorio. «Torniamo al mio brindisi per Kimberly Stewart. Mancherei al mio dovere, se non facessi presente all'attenzione del gruppo che la sua autentica genealogia risale quasi all'epoca del Mayflower. In linea paterna, naturalmente. In linea materna, risale solo fino alla guerra d'Indipendenza e questo, posso aggiungere, è il ramo decisamente inferiore a cui appartengo io.» «Stanton, tutto questo non è necessario», protestò Kim, che si sentiva già mortificata. «Ma c'è anche di più», continuò lui con il tono leggero e piacevole di un esperto oratore postconviviale. «Il primo parente di Kimberly che si è laureato presso la nostra cara vecchia università di Harvard lo ha fatto nel 1671. Era sir Ronald Stewart, fondatore della Maritime Limited e dell'attuale dinastia Stewart. Ma, cosa forse ancora più interessante, una bisnonna di ottavo grado di Kimberly è stata impiccata come strega a Salem. Come vedi, Edward, veri americani!» «Stanton, tu riesci a essere un vero castigo,», disse Kim alzando quasi la voce. In lei la collera finì per superare la timidezza. «Queste non sono notizie da diffondere in pubblico.» «E perché no?» chiese lui con una risata. Poi tornò a guardare Edward e aggiunse: «Gli Stewart hanno la ridicola fissazione che questa vecchia storia sia una macchia sul nome della famiglia». «Che tu lo giudichi ridicolo o no, la gente ha diritto ai propri sentimenti», ribatté Kim con veemenza. «Del resto, è mia madre che si prende più a cuore questa faccenda, e mia madre è tua zia, nata Lewis. Mio padre non ha mai detto una sola parola sull'argomento con me.» «Comunque», riprese Stanton con un gesto conciliante della mano, «io personalmente trovo la storia affascinante. Sarei felice di essere al tuo posto. Sarebbe come avere avuto un antenato sul Mayflower o sul vascello con cui Washington attraversò il Delaware.» «Penso che sia meglio cambiare argomento», insistette Kim.
«D'accordo», acconsentì Stanton, l'unico che aveva tenuto alto il bicchiere per tutta la durata del lungo brindisi. «E questo mi porta a Edward Armstrong. Abbiamo qui il più affascinante, fecondo, creativo e intelligente neurochimico del mondo, anzi, dell'universo! Un brindisi all'uomo che è venuto dai marciapiedi di Brooklyn, ha compiuto i suoi studi e ora è al vertice della carriera che ha scelto. A un uomo che dovrebbe già prenotare il volo per Stoccolma per ricevere il premio Nobel, che gli spetta senza dubbio per i suoi lavori sui neurotrasmettitori, sulla memoria e sulla meccanica quantistica.» Stanton tese il bicchiere e tutti lo imitarono toccando i bicchieri a vicenda e bevendo. Deponendo il suo calice sul tavolo, Kim lanciò un'occhiata furtiva a Edward e si rese subito conto che non era meno imbarazzato e confuso di lei. Stanton depose il proprio bicchiere ormai vuoto sul tavolo e lo riempì di nuovo, poi diede un'occhiata circolare agli altri bicchieri e infilò la bottiglia del vino nel secchiello del ghiaccio. «Ora che vi siete conosciuti», sentenziò, «mi aspetto che vi innamoriate, vi sposiate e mettiate al mondo una nidiata di adorabili marmocchi. Tutto quello che vi chiedo, per ringraziarmi di avervi fatti incontrare, è che Edward consenta a fare parte del comitato scientifico della Genetrix.» Quindi, scoppiò in una sonora risata, anche se fu l'unico a ridere. Si ricompose e chiamò: «Ehi, dove diavolo è il cameriere? Vogliamo mangiare». Fuori del ristorante il gruppo si fermò. «Potremmo prendere un gelato da Herrell. Ci andiamo a piedi, è appena dietro l'angolo», propose Stanton. «Non posso mangiare più neanche una briciola», rispose Kim. «Neppure io», fece eco Edward. «Io non prendo mai il dessert», dichiarò Candice. «E allora, chi vuole un passaggio per tornare a casa?» chiese Stanton. «Ho la macchina qui al garage dell'Holyoke Center.» «Per me va benissimo la metropolitana», rispose Kim. «Il mio alloggio è qui a pochi passi», spiegò Edward. «Allora voi due vi arrangiate da soli», concluse Stanton. Promise a Edward di tenersi in contatto, prese Candice sottobraccio e si diresse al garage. «Posso accompagnarti fino alla stazione della metropolitana?» domandò
Edward a Kim. «Grazie, mi fa piacere.» Si allontanarono insieme e, mentre camminavano, lei intuì che Edward voleva dirle qualcosa. Poco prima di arrivare all'angolo disse, lottando un po' con la «t»: «È stata una piacevole serata». La sua lieve balbuzie era tornata. «Che cosa ne dici di fare una piccola passeggiata in Harvard Square, prima di tornare a casa?» «Buona idea.» A braccetto si diressero verso la caotica piazza dove sboccano Massachusetts Avenue, la sezione JFK Drive di Harvard Street, Mt. Auburn Street e Brattle Street. Nonostante il nome, Harvard Square non era esattamente una piazza, ma piuttosto una serie di facciate curve e di aree aperte dalla forma curiosa che, nelle notti estive, si trasformavano in una sorta di spontaneo circo medievale, con giocolieri, suonatori, lettori di poesie, maghi e acrobati. Quella sera d'estate era calda e dolce, con qualche uccello che gorgheggiava nel cielo buio. Si vedevano anche delle stelle, nonostante il riflesso delle luci della città, e Kim ed Edward fecero a lenti passi il giro della piazza, indugiando ogni tanto presso i gruppi fermi a osservare e ad ascoltare. La tensione che li aveva accompagnati per tutta la serata si sciolse e finirono per divertirsi. «Sono contenta di essere uscita questa sera», concluse Kim. «Anch'io», le fece eco Edward. Sedettero su un basso muretto di cemento. Alla loro sinistra c'era una donna che cantava una malinconica ballata, mentre alla loro destra un gruppo di indios peruviani suonava dei flauti primitivi. «Stanton è proprio un bel tipo», osservò Kim. «Non sapevo per chi sentirmi più a disagio», disse Edward, «se per me o per te, visto il modo in cui si comportava.» Lei sorrise annuendo. In effetti, si era sentita in imbarazzo sia quando Stanton proponeva il brindisi in onore di Edward sia quando brindava a lei. «Quello che trovo davvero sorprendente in mio cugino», aggiunse Kim, «è che riesce a manipolare la gente e al tempo stesso a essere tanto simpatico.» «È incredibile quello che sa ottenere», convenne Edward. «Io non ci riuscirei neppure in un milione di anni. In effetti, ho sempre avuto l'impressione che si servisse di me per mettere in luce se stesso. L'ho invidiato spesso e ho desiderato sempre avere almeno la metà della sua sicurezza; in
società, io mi sento sempre in imbarazzo, a volte anche un po' goffo.» «È proprio quello che capita a me», ammise Kim. «Ho sempre desiderato essere più disinvolta, ma non ci sono mai riuscita. Sono sempre stata timida, da quando ero bambina. Quando sono in mezzo alla gente, in qualche occasione mondana, non riesco mai a trovare la cosa giusta da dire al momento giusto. Cinque minuti dopo mi viene in mente, ma è troppo tardi.» «Siamo due anime gemelle, come appunto ha detto Stanton. Il guaio è che lui capisce al volo le nostre debolezze e sa come metterci in imbarazzo. Io mi sento morire ogni volta che tira fuori quella storia sul fatto che sto per ricevere il premio Nobel.» «Mi scuso a nome dei miei parenti», replicò Kim. «Comunque, Stanton non è cattivo.» «Che parentela c'è fra voi?» «Siamo cugini di primo grado. Mia madre è sorella del padre di Stanton.» «Anch'io dovrei scusarmi», aggiunse Edward, «non dovrei parlare male di lui. Eravamo compagni di corso ad Harvard: io lo aiutavo in laboratorio, lui ma aiutava alle feste. Eravamo una squadra vincente, e da allora siamo rimasti amici.» «Come mai non ti sei mai associato a lui in qualcuna delle sue avventurose imprese?» chiese Kim. «Veramente, a me non è mai interessata l'attività imprenditoriale. Io amo lo studio accademico, la ricerca svolta per amore della ricerca. Non che io sia contro la scienza applicata, ma non è altrettanto affascinante. Sotto certi aspetti, la ricerca accademica e l'industria sono in conflitto fra loro, soprattutto per l'esigenza di segretezza dell'industria. La libera comunicazione è la linfa vitale della scienza, la segretezza è la sua rovina.» «Stanton sostiene che potrebbe farti diventare milionario», osservò Kim. Edward rise. «E questo cambierebbe forse la mia vita? Faccio già quello che voglio: una combinazione di ricerca e insegnamento. Aggiungere un milione di dollari alla mia vita non farebbe che complicarmi le cose e creare confusione. Io sono felice così.» «Ho cercato di spiegarlo anch'io a Stanton, ma non ha voluto ascoltarmi. È piuttosto ostinato.» «Ma è pur sempre divertente e simpatico», affermò Edward. «Certo, ha esagerato parlando di me in quel brindisi interminabile, ma dimmi di te. È vero che la tua famiglia risale all'America del diciassettesimo secolo?»
«Fin qui è vero.» «Che cosa affascinante!» esclamò Edward. «Ed eccitante, anche. Io sarei già fortunato se potessi risalire con la mia almeno di due generazioni, ma forse sarebbe imbarazzante.» «Credo sia più eccitante e gratificante seguire tutto il corso di studi e avere successo in una carriera come la tua», ribatté Kim. «E tutto con le tue sole forze. Quanto a me, non ho fatto altro che nascere Stewart. Non c'è stato nessuno sforzo da parte mia.» «E quella storia delle streghe di Salem?» domandò Edward. «Anche quella è vera?» «Sì, è vera, ma non è una cosa di cui mi piaccia parlare.» «Oh, mi dispiace molto», si scusò Edward, e la sua leggera balbuzie ricomparve. «Perdonami, ti prego. Non capisco perché dovrebbe turbarti, ma mi rendo conto che non avrei dovuto fare domande.» Kim scosse il capo. «Ora dispiace a me di averti messo in imbarazzo. Suppongo che la mia reazione all'episodio delle streghe di Salem sia stupida e, a dire la verità, non so neppure perché mi metta così a disagio. Dev'essere a causa di mia madre. Mi ha inculcato l'idea che sia una faccenda da passare sotto silenzio. So che la ritiene una macchia sull'onore della famiglia.» «Ma è successo più di trecento anni fa!» «È vero.» Kim alzò le spalle. «Non è molto ragionevole.» «Tu conosci bene quell'episodio?» chiese ancora Edward. «A grandi linee, come qualsiasi altro qui in America.» «Be', è una cosa curiosa, ma io ne so un po' più degli altri», replicò Edward. «L'Harvard University Press ha pubblicato un libro sull'argomento, scritto da due eminenti storici. Il titolo è Le possedute di Salem. Uno dei miei studenti ha insistito perché lo leggessi, dato che ha vinto un premio di letteratura storica. Allora l'ho letto e mi ha incuriosito. Vuoi che te lo presti?» «Con piacere», rispose Kim, solo per educazione. «Dico sul serio, ti piacerà e forse ti farà cambiare idea su tutta la faccenda. Gli aspetti sociali, politici e religiosi sono del massimo interesse e io ho imparato più di quanto mi aspettassi. Per esempio, sai che pochi anni dopo i processi alcuni dei giurati, e persino alcuni dei giudici, hanno fatto una pubblica ritrattazione perché si sono resi conto che avevano fatto giustiziare delle persone innocenti?» «Davvero?» disse Kim, sempre desiderando essere cortese.
«Ma il fatto che siano state impiccate delle persone innocenti non è la sola cosa che mi ha interessato», proseguì lui. «Sai che spesso un libro ti stimola a leggerne altri. Bene, ho letto anche Veleni del passato, che presentava una teoria affascinante, soprattutto per un neurologo come me. Avanzava l'ipotesi che almeno alcune delle giovani donne di Salem colpite da strani 'attacchi' e responsabili di avere accusato le condannate fossero state in realtà avvelenate. La sostanza in causa era l'ergotina, che proviene da un fungo chiamato Claviceps purpurea. Questo fungo attecchisce sui cereali, in particolare sulla segale.» Nonostante lo scarso interesse che provava per l'argomento, a questo punto l'attenzione di Kim si risvegliò. «Avvelenate dall'ergotina?» chiese. «Che effetti ha l'ergotina?» «Oh, andiamo!» esclamò Edward ammiccando. «Non ricordi quella canzone dei Beatles, Lucy in the Sky with Diamonds? Be', doveva essere qualcosa di simile, perché l'ergotina contiene ammide dell'acido lisergico, che è il componente principale dell'LSD.» «Vuoi dire che quelle donne avrebbero avuto delle allucinazioni?» «È possibile», rispose Edward. «L'ergotismo può produrre o una reazione cancrenosa, che può essere rapidamente fatale, o una convulsiva e allucinogena. A Salem dev'essersi verificata questa seconda reazione.» «Che teoria affascinante! Potrebbe interessare anche mia madre. Forse le sue reazioni emotive nei confronti della storia dei nostri antenati sarebbero diverse, se conoscesse questa spiegazione. Non si potrebbero certo biasimare i singoli individui, in queste circostanze.» «È quello che pensavo anch'io», replicò Edward, «ma la storia non può essere tutta qui. L'ergotina dev'essere stata la scintilla che ha acceso il fuoco. Ma una volta scaturito, l'incendio si è sviluppato per conto suo. Da quello che ho letto, credo che qualcuno abbia sfruttato la situazione per motivi economici e sociali, anche se, forse, non a livello conscio.» «Hai proprio stuzzicato la mia curiosità. Ora mi sento a disagio per non avere mai provato abbastanza interesse per i processi di stregoneria di Salem da andarmi a leggere qualcosa di più oltre a ciò che ho imparato al liceo. E mi vergogno ancora di più al pensiero che la proprietà di quella mia antenata condannata a morte fa ancora parte dei beni della mia famiglia. Per essere precisi, a causa di una lite fra mio padre e il mio defunto nonno, mio fratello e io l'abbiamo ereditata proprio quest'anno.» «Incredibile!» osservò Edward. «Vuoi dirmi che la tua famiglia è in possesso di quelle terre da trecento anni?»
«Be', non più l'intera area», spiegò Kim. «La proprietà originaria comprendeva le terre dove ora sorgono Beverly, Danvers e Peabody, oltre Salem. E anche la parte della proprietà di Salem è solo una porzione di quella di un tempo, ma è sempre un'estensione considerevole. Non so esattamente quanti ettari siano, ma devono essere parecchi.» «È straordinario», disse Edward. «L'unica cosa che io ho ereditato dalla mia famiglia è stata la dentiera di mio padre, insieme a qualche suo utensile da muratore. E pensare che tu puoi camminare sulla terra dove marciavano i tuoi antenati del diciassettesimo secolo! È un'idea che mi stordisce. Credevo che una simile esperienza fosse riservata solo ai monarchi europei.» «Posso fare anche di meglio che camminare semplicemente su quella terra, posso anche entrare nella casa dei miei antenati. L'edificio è ancora in piedi.» «Adesso vuoi prendermi in giro! Non penserai che io sia così credulone.» «Non sto affatto scherzando», replicò Kim. «Non è poi una cosa tanto insolita. Ci sono molte case del diciassettesimo secolo nella zona di Salem, comprese quelle che appartenevano ad altre vittime giustiziate come streghe, per esempio quella di Rebecca Nurse.» «Non l'avrei mai immaginato.» «Dovresti visitare la zona di Salem, qualche volta.» «In che condizioni è la casa?» chiese Edward. «Piuttosto buone, credo, anche se è molto tempo che non ci vado. Da quando ero bambina. Ma sembra che sia in discrete condizioni, per essere un edificio costruito nel 1670. Era stata acquistata da Ronald Stewart, ed è proprio sua moglie Elizabeth che è stata condannata e giustiziata.» «Ricordo il nome di Ronald dal brindisi di Stanton. Il primo laureato ad Harvard della stirpe degli Stewart.» «Questo non lo sapevo.» «Che cosa contate di fare della proprietà tu e tuo fratello?» «Niente, per adesso, almeno finché Brian non torna dall'Inghilterra, dove gestisce la compagnia di navigazione della famiglia. Penso che torni a casa probabilmente fra un anno, e allora decideremo. Sfortunatamente, la proprietà è estremamente dispendiosa a causa delle tasse e delle spese di manutenzione.» «Tuo nonno viveva nella vecchia casa?» «Oh, buon Dio, no! La casa è disabitata da un sacco di anni. Ronald
Stewart aveva comperato un grande terreno che confinava con la proprietà originaria e vi aveva costruito una casa più grande, riservando l'edificio originario ai fittavoli o ai domestici. Nel corso degli anni, la casa più grande è stata demolita e ricostruita diverse volte, l'ultima fra la fine del secolo scorso e gli inizi del nostro. In quella casa viveva mio nonno. Si trascinava, per meglio dire. È un vecchio edificio pieno di spifferi.» «Scommetto che la vecchia casa ha un valore storico», osservò Edward. «Il Peabody-Essex Institute di Salem, come pure la Società per la conservazione delle antichità del New England di Boston si sono entrambi dichiarati interessati ad acquistarla, ma mia madre è contraria all'idea. Probabilmente teme che venga rivangata la storia delle streghe.» «È proprio un peccato», mormorò Edward. Gli era tornata la leggera balbuzie. Kim lo guardò. Pareva a disagio e si muoveva nervosamente, mentre fingeva di osservare i peruviani. «C'è qualcosa che non va?» gli chiese. Le pareva di avvertire in lui un certo malessere. «No, no», replicò Edward con eccessiva veemenza. Rifletté qualche minuto e poi aggiunse: «Mi spiace, so che non dovrei chiederlo, ma tu puoi rispondere tranquillamente di no, se non lo ritieni opportuno. Voglio dire, io ti capirò». «Di che cosa si tratta?» chiese Kim con una punta di apprensione. «È che ho letto quei libri di cui ti ho parlato e... Voglio dire, insomma, mi piacerebbe vedere quella vecchia casa. So che sono indiscreto a chiederlo...» «Ma no, anzi, sarò ben lieta di mostrartela», affermò lei con visibile sollievo. «Ho il sabato libero, questa settimana. Potremmo andarci in macchina, se per te va bene. Mi farò dare le chiavi dagli avvocati.» «Non ti sarà di troppo disturbo?» «Ma neanche per sogno!» «Sabato andrà benissimo. In cambio, forse, potresti venire a cena con me venerdì sera.» Kim sorrise. «Accetto, ma ora è meglio che torni a casa. Il turno delle sette e mezzo all'ospedale comincia terribilmente presto!» Scesero dal muretto e si avviarono verso l'ingresso della metropolitana. «Dove abiti?» chiese Edward. «A Beacon Hill.» «Dicono che sia un gran bel quartiere.»
«È molto comodo, perché è vicino all'ospedale e ho un gran bell'appartamento. Purtroppo dovrò lasciarlo a settembre, perché l'amica con cui abito si sposa, ed è a lei che è intestato il contratto d'affitto.» «Anch'io ho un problema simile. Vivo in un appartamento molto comodo, ma i proprietari aspettano un figlio e hanno bisogno di spazio. Così anch'io dovrò a traslocare entro il 1° settembre.» «Mi dispiace che ti trovi in questo guaio.» «Non è poi un gran guaio. Sono diversi anni che penso di trasferirmi, ma continuavo a rimandare.» «Dov'è il tuo appartamento?» chiese Kim. «Qui vicino, ci si può andare a piedi.» E aggiunse con tono esitante: «Non vorresti venire a vederlo?» «Magari un'altra sera. Come ti ho detto, domani vado a lavorare molto presto.» Quando arrivarono all'entrata della metropolitana, Kim si voltò per guardare gli occhi azzurri di Edward, e quello che vide le piacque. Quegli occhi erano lo specchio di un animo molto sensibile. «Voglio dirti che mi ha fatto molto piacere che tu mi abbia chiesto di vedere la vecchia casa», gli disse. «So che non è stato facile per te. Lo so perché sarebbe stato altrettanto difficile per me. Anzi, io forse non ce l'avrei neanche fatta.» Edward arrossì, poi sorrise. «Certo, non sono Stanton Lewis. La verità è che mi comporto proprio come un babbeo.» «Credo che ci siano molte somiglianze fra noi due, a questo proposito, e penso anche che tu sia molto più abile a destreggiarti nella vita sociale di quanto tu stesso creda.» «È merito tuo», sorrise Edward. «Mi fai sentire a mio agio, e questo vuol dire molto, dato che ci conosciamo da così poco.» «La sensazione è reciproca», affermò Kim. Si strinsero la mano e restarono un attimo a guardarsi. Poi Kim si voltò e si affrettò verso i binari della metropolitana. 2 Sabato 16 luglio 1994 Edward parcheggiò in seconda fila in Beacon Street, di fronte al Boston Common, e corse nell'atrio del palazzo di Kim. Suonò il campanello conti-
nuando a tenere d'occhio l'auto per vedere se arrivava un vigile. Conosceva la reputazione della polizia municipale di Boston per esperienza personale. «Mi spiace averti fatto aspettare», si scusò Kim appena comparve nell'atrio. Indossava un paio di pantaloncini color cachi e una semplice maglietta bianca, e i suoi folti capelli neri erano raccolti sulla nuca in una coda di cavallo. «Mi scuso io per essere in ritardo», disse Edward di rimando. Quasi per tacito accordo, indossava abiti sportivi simili ai suoi. «Sono dovuto anche passare dal laboratorio.» Si guardarono per un attimo e scoppiarono a ridere. «Stiamo davvero esagerando», ammise Kim. «Io non posso farne a meno», rispose Edward. «Sono sempre pronto a scusarmi, anche se non è il caso. È ridicolo, ma sai una cosa? Non me n'ero mai accorto finché tu non me l'hai fatto notare a cena, ieri sera.» «E io l'ho notato perché capita anche a me», spiegò Kim. «Dopo che mi hai accompagnato a casa, ci ho pensato. Credo che succeda perché entrambi abbiamo un eccessivo senso di responsabilità.» «Forse hai ragione. Quando ero ragazzo, pensavo sempre che fosse colpa mia quando qualcosa andava male o qualcuno si arrabbiava.» «Le somiglianze fra noi sono sconcertanti», rifletté Kim sorridendo. Salirono sulla Saab di Edward e puntarono verso nord. Era una giornata limpida e luminosa e, anche se era ancora mattina presto, il sole prometteva la solita calura estiva. Kim abbassò il finestrino e sporse allegramente il braccio. «Questa ha tutta l'aria di una minivacanza», osservò. «Soprattutto per me», replicò Edward. «Mi vergogno quasi a dirlo, ma passo quasi tutte le mie giornate in laboratorio.» «Anche i fine settimana?» «Sette giorni la settimana», ammise Edward. «Di solito, mi accorgo che è domenica quando vedo intorno a me poca gente. Credo di essere proprio un tipo noioso!» «Direi piuttosto laborioso, e anche pieno di premure. I fiori che mi mandi ogni giorno sono splendidi, ma io non sono abituata a tali galanterie, e certo non le merito.» «Oh, non è nulla!» Kim intuì il suo imbarazzo. Vide che si scostava più volte con gesto nervoso i capelli dalla fronte. «Non è così per me», replicò. «Voglio ringraziarti ancora.»
«Hai avuto delle difficoltà per procurarti le chiavi della casa?» chiese Edward per cambiare argomento. Kim scosse la testa. «No, per niente. Sono andata dagli avvocati ieri dopo il lavoro.» Si diressero a nord, sulla statale 93, poi svoltarono a est sulla 128. Il traffico era piuttosto scarso. «Mi ha fatto molto piacere cenare con te, ieri sera», soggiunse Edward. «Anche a me, grazie. Ma pensandoci questa mattina, volevo scusarmi per avere monopolizzato la conversazione. Temo di avere parlato troppo di me e della mia famiglia.» «Ecco che ti scusi di nuovo», esclamò Edward. Kim si diede uno schiaffetto sulla guancia, come per castigarsi. «Ho paura di essere un caso disperato!» affermò ridendo. «E, per di più, dovrei essere io quello che si scusa. In fondo è stata colpa mia, perché ti ho bombardata spietatamente di domande che forse erano troppo personali.» «Io non mi sono sentita minimamente disturbata», obiettò lei. «Spero solo di non averti turbato parlandoti degli attacchi di ansia che avevo quando ho cominciato a frequentare il liceo.» «Ma no, figurati! Credo che, più o meno, tutti li abbiano avuti, specialmente chi è molto nervoso. Io avevo attacchi di ansia al liceo prima di ogni interrogazione, anche se a scuola sono sempre andato bene.» «Ma i miei attacchi erano un po' più intensi del solito», disse Kim. «Per qualche tempo, ho avuto persino dei problemi a guidare la macchina. Temevo che mi potessero capitare quando ero al volante.» «Non hai mai preso qualche medicinale per combatterli?» domandò Edward. «Sì, lo Xanax per qualche tempo.» «Hai mai provato il Prozac?» Kim si voltò a guardarlo. «No, mai. E perché dovrei prendere il Prozac?» «Proprio perché hai detto che avevi sia attacchi di ansia sia di timidezza. Il Prozac poteva essere efficace per entrambi.» «Non me lo hanno mai consigliato e, anche se l'avessero fatto, non lo avrei preso. Sono contraria a usare farmaci per disturbi della personalità così lievi come la timidezza. Credo che si dovrebbe ricorrere ai farmaci solo nei casi più gravi, non certo per le difficoltà quotidiane.» «Scusami, non volevo offenderti.»
«Non sono offesa, ma sono molto sensibile in proposito. Come infermiera, vedo persone che prendono troppe medicine. Le industrie farmaceutiche ci hanno abituati a pensare che esista una pillola per risolvere qualsiasi problema.» «Sì, in linea di massima sono d'accordo con te», convenne Edward, «ma come neurologo, vedo il comportamento e l'umore come fatti biochimici, e ho cambiato idea riguardo ai farmaci psicotropi puliti.» «Che cosa intendi per 'puliti'?» «Che sono privi, o quasi, di effetti collaterali.» «Tutti i farmaci hanno effetti collaterali.» «D'accordo, ma alcuni sono trascurabili, un rischio accettabile di fronte ai potenziali benefici.» «Penso che questo sia il punto cruciale dell'argomentazione.» «Mi viene in mente una cosa», esclamò Edward. «Ecco i due libri che ti avevo promesso.» Allungò il braccio verso il sedile posteriore, prese i volumi e li fece scivolare sulle ginocchia di Kim, che li sfogliò distrattamente, lamentandosi in tono scherzoso perché non c'erano illustrazioni. Edward si mise a ridere. «Ho cercato il nome della tua antenata nel libro che riguarda i processi alle streghe di Salem», precisò Edward, «ma non c'è nessuna Elizabeth Stewart nell'indice. Sei sicura che sia stata giustiziata? Quegli autori hanno fatto ampie ricerche.» «Per quanto ne so io...» rispose Kim. Guardò l'indice di Le possedute di Salem, lesse da «Spettri, (testimonianze di)» fino a «Stoughton, William», ma la voce «Stewart» non c'era. Dopo circa mezz'ora, entrarono a Salem. Il loro itinerario li portò a passare davanti a una vecchia costruzione e l'interesse di Edward si destò immediatamente. Accostò l'auto al marciapiede e si fermò. «Che cos'è questo edificio?» chiese. «Lo chiamano la 'Casa delle Streghe'. È una delle principali attrazioni turistiche della zona.» «Autentico diciassettesimo secolo?» domandò Edward osservando il vecchio edificio. «O un'imitazione tipo Disneyland?» «È autentico», rispose Kim, «ed è ancora nella sede originale. C'è un'altra casa del diciassettesimo secolo qui vicino, presso il Peabody-Essex Institute, ma è stata portata qui da un'altra località.» «Incredibile!» mormorò Edward. L'edificio sembrava provenire da un racconto di fiabe. Era affascinato dal modo in cui il secondo piano sporge-
va sul primo e dalle vetrate a losanghe. «Più che incredibile direi suggestivo», lo corresse Kim. «D'accordo, è suggestivo.» «È anche straordinariamente simile alla vecchia casa che ti mostrerò nella tenuta degli Stewart», continuò Kim. «Ma in realtà non è una Casa delle Streghe, poiché nessuna strega ci è mai vissuta. Era l'abitazione di Jonathan Corwin, uno dei magistrati che hanno condotto alcune delle udienze preliminari.» «Ricordo il nome, l'ho letto sul libro. Certo che vedere i luoghi dove si sono svolti i fatti, riporta in vita la storia. Quanto dista da qui la proprietà degli Stewart?» «Non è lontana. Ci vorranno al massimo dieci minuti.» «Hai già fatto colazione?» «Ho bevuto solo un po' di succo di frutta.» «Che ne dici, allora, di fermarci a prendere un caffè e una brioche?» «Mi pare una buona idea», approvò Kim. Poiché era ancora presto e la massa dei turisti doveva ancora arrivare, non fecero fatica a trovare parcheggio. Dall'altra parte della strada c'era un bar dove presero caffè e brioche al banco, poi fecero un giro nel centro della città, dando un'occhiata al Museo delle streghe e ad alcune altre attrazioni turistiche. Mentre percorrevano la zona pedonale lungo Essex Street, videro numerosi negozietti e bancarelle che vendevano souvenir delle streghe. «I processi alle streghe hanno creato una vera industria, qui», commentò Edward. «Un po' di cattivo gusto.» «Già, involgarisce l'antica storia. Ma è anche una dimostrazione del vivo interesse che la vicenda suscita.» Entrando nel centro informazioni del National Park, Kim si trovò davanti un'intera biblioteca di libri e opuscoli sui processi. «Non avevo idea che ci fosse una così grande letteratura sull'argomento», osservò. Cercò per qualche minuto, poi acquistò diversi libri. Se un argomento la interessava, spiegò a Edward, di solito si sentiva spinta ad approfondirlo. Tornarono alla macchina, ripassarono davanti alla Casa delle Streghe e svoltarono a destra in Orne Road. Mentre passavano accanto al cimitero di Greenlawn, Kim spiegò a Edward che una volta faceva parte delle terre degli Stewart. Quindi gli indicò di svoltare a destra, su una strada sterrata e, mentre la percorrevano sobbalzando, Edward dovette combattere con lo sterzo. Era
impossibile evitare tutte le buche. «Sei sicura che siamo sulla strada giusta?» chiese. «Assolutamente.» Dopo diverse curve, si trovarono davanti un imponente cancello in ferro battuto. Una robusta inferriata sormontata da punte aguzze spariva nella fitta foresta da entrambi i lati del cancello. «È questo?» chiese Edward. «È questo», confermò Kim scendendo dalla macchina. «Davvero imponente», osservò Edward mentre lei armeggiava con le chiavi'per aprire il pesante lucchetto. «E non troppo invitante.» «Era lo stile dell'epoca», gli spiegò Kim. «Le persone dotate di mezzi volevano offrire di sé un'immagine autorevole.» Tolse il lucchetto e, spalancando il cancello, i cardini emisero un acuto cigolio. Quindi Kim tornò alla macchina e oltrepassarono il cancello. Dopo altre svolte e tornanti, la strada si aprì in un largo spiazzo erboso, dove Edward fermò la macchina. «Buon Dio!» esclamò. «Adesso capisco perché hai detto autorevole.» Il vasto spiazzo era dominato da un enorme edificio in pietra a più piani, completo di torrette, merlature e piombatoi. Sul tetto di ardesia erano visibili stravaganti decorazioni e gli abbaini erano sormontati da ornati goticheggianti. I comignoli spuntavano come funghi da ogni angolo della vecchia struttura. «È un'interessante mescolanza di stili», osservò Edward, «in parte fortezza medievale, in parte maniero Tudor e in parte castello francese. Straordinario.» «La famiglia lo ha sempre chiamato 'il castello'.» «Capisco perché. Quando tu me lo descrivevi come un vecchio ed enorme edificio pieno di spifferi, non lo immaginavo di certo così.» «La costa nord di Boston ha ancora alcuni di questi enormi vecchi edifici», osservò Kim. «Naturalmente, alcuni sono stati demoliti, altri trasformati in condomini, ma questo è un mercato fiacco, al momento. Così puoi capire perché il castello sia un peso economico per mio fratello e per me.» «E dov'è la vecchia casa?» chiese Edward. Kim indicò alla sua destra. Da lontano si scorgeva un edificio marrone scuro annidato in un folto di betulle. «Che cos'è quella costruzione in pietra a sinistra?» domandò ancora Edward. «Una volta era un mulino, ma un paio di secoli fa è stato trasformato in
stalla.» Edward si mise a ridere. «È curioso sentirti parlare di secoli come se fossero noccioline. Per me ogni cosa che abbia più di cinquant'anni è un'anticaglia.» Rimise in moto l'auto, ma poco dopo si fermò all'altezza di un muretto di pietre grezze, quasi interamente ricoperto da erbe selvatiche. «Che cos'è questo?» chiese, indicando il muro. «È il vecchio cimitero di famiglia.» «Nientemeno! Si può dare un'occhiata?» «Ma certo.» Scesero dall'auto e scavalcarono il muretto, poiché non potevano servirsi dell'entrata, bloccata da un fitto cespuglio di more. «Sembra che molte pietre tombali siano state spaccate», osservò Edward. «E di recente, direi.» Raccolse un frammento di marmo. «Vandalismo», osservò tristemente Kim. «Non c'è molto che noi possiamo fare, perché il posto è disabitato.» «Che vergogna!» esclamò Edward. Guardò la data: 1843. Il nome era quello di Nathaniel Stewart. «La famiglia ha usato questo cimitero fino alla metà del secolo scorso», spiegò Kim. Lentamente, proseguirono attraverso il cimitero invaso da una disordinata vegetazione e, a mano a mano che avanzavano, potevano osservare che le pietre tombali erano sempre più semplici e antiche. «Anche Ronald Stewart è sepolto qui?» chiese Edward. «Sicuro.» Kim lo condusse a una semplice pietra tombale su cui era scolpito un teschio con le ossa incrociate. L'iscrizione diceva: QUI GIACE SEPOLTO IL CORPO DI RONALD STEWART, FIGLIO DI JOHN E LYDIA STEWART, MORTO IL 1° OTTOBRE 1734 ALL'ETÀ DI 81 ANNI. «Ottantun anni?» si meravigliò Edward. «Che salute aveva il vecchio! Per arrivare a così tarda età, deve avere avuto il buonsenso di stare lontano dai medici. A quei tempi, con l'abuso dei salassi e con quella farmacopea primitiva, i medici erano non meno letali delle malattie.» Vicino alla tomba di Ronald c'era quella di Rebecca Stewart, indicata sulla lapide come sua moglie. «Credo che si sia risposato», spiegò Kim. «Anche Elizabeth è sepolta qui?» chiese Edward. «Non lo so. Nessuno mi ha mai indicato la sua tomba.»
«Ma sei sicura che Elizabeth sia proprio esistita?» «Credo di sì», rispose lei, «ma non potrei giurarlo.» «Vediamo se riusciamo a trovarla», le propose Edward. «Dovrebbe essere pressappoco in questa zona.» Cercarono per qualche minuto, in silenzio, Kim da una parte ed Edward dall'altra. «Edward!» chiamò lei. «L'hai trovata?» «Forse.» Lui la raggiunse davanti a una pietra tombale simile a quella di Ronald. Apparteneva a Jonathan Stewart e l'iscrizione lo indicava come figlio di Ronald ed Elizabeth Stewart. «Almeno sappiamo che è esistita», osservò Kim. Cercarono ancora per un'altra mezz'ora, ma non trovarono la tomba di Elizabeth, allora rinunciarono e tornarono alla macchina. Pochi minuti dopo, arrivavano davanti alla vecchia casa e scesero entrambi. «Be', non scherzavi, quando mi hai detto che era simile alla Casa delle Streghe», osservò Edward. «Ha lo stesso massiccio comignolo centrale, lo stesso tetto aguzzo a due spioventi, lo stesso rivestimento di assi di legno e le stesse finestre con i vetri a losanghe. Cosa ancora più curiosa, il secondo piano sporge nello stesso modo sul primo. Mi domando perché costruissero le case in questo modo.» «Non credo che qualcuno lo sappia con precisione. La Ward House e il Peabody-Essex Institute hanno lo stesso aspetto.» «I fregi sotto la parte sporgente sono molto più decorativi di quelli della Casa delle Streghe», osservò Edward. «Chiunque li abbia fatti aveva buon gusto», convenne Kim. «Sì, è una casa incantevole», approvò lui, «ha molta più classe del castello.» Lentamente girarono intorno al vecchio edificio osservandone i dettagli. Sul retro, Edward osservò una costruzione più piccola che si ergeva isolata, e chiese se fosse della stessa epoca. «Così credo», rispose Kim. «Doveva essere per gli animali.» «È come un piccolo fienile», osservò Edward. Tornando all'entrata principale, Kim dovette provare diverse chiavi prima di trovare quella giusta e, quando spinse la porta, i cardini stridettero come quelli del cancello di entrata. «Sembra una casa abitata dagli spiriti», mormorò Edward.
«Non dire queste cose!» protestò Kim. «Non crederai negli spiriti, spero!» «Diciamo solo che li rispetto», rispose lei ridendo. «Perciò, vai avanti tu.» Edward varcò la soglia ed entrò in un piccolo atrio. Si trovò davanti una scalinata che saliva a spirale e ai lati due porte. Quella a destra portava in cucina, quella a sinistra in un salotto. «Da dove si comincia?» chiese Edward. «Sei tu l'ospite.» «Allora, il salotto.» La stanza era dominata da un enorme caminetto, intorno al quale erano quasi ammucchiati alcuni mobili in stile coloniale, attrezzi agricoli e altre suppellettili. Il pezzo più interessante era un letto a baldacchino, che esibiva ancora qualcuno degli originali tendaggi ricamati. Edward si diresse verso il caminetto e sollevò lo sguardo verso la canna fumaria. «È ancora in buone condizioni», sentenziò. Poi diede un'occhiata alla parete sopra la mensola, fece un passo indietro e osservò più attentamente. «Vedi anche tu quel rettangolo più chiaro?» Kim lo raggiunse in mezzo alla stanza e scrutò la parete. «Sì, lo vedo. Forse, una volta, lì era appeso un quadro.» «Lo penso anch'io.» Edward si inumidì la punta dell'indice e cercò di cancellare il contorno, ma non ci riuscì. «Il quadro dev'essere rimasto appeso molti anni, perché il fumo ha lasciato un contorno molto netto.» Quindi uscirono dal salotto e, salendo le scale, raggiunsero un piccolo studio proprio sopra l'atrio. In corrispondenza del salotto e della cucina, invece, c'erano le camere da letto, ognuna con il caminetto. Il mobilio era costituito solo da alcuni letti e da un arcolaio. Tornando al pianterreno, entrarono in cucina e rimasero colpiti dalle dimensioni del caminetto. Edward calcolò che fosse largo almeno tre metri. Alla sua sinistra c'era un sostegno con il gancio per il paiolo, a destra un forno. C'era persino un assortimento di vecchi tegami, padelle e paioli. «Ehi, Kim, ti vedresti a cucinare qui?» chiese Edward in tono scherzoso. «Nemmeno per sogno!» esclamò lei. «Faccio già abbastanza fatica in una cucina moderna.» «Le donne dei primi coloni dovevano essere molto esperte a sorvegliare il fuoco», osservò Edward. Si chinò a sbirciare nel forno. «Mi domando come facessero a calcolare la temperatura; è di importanza essenziale per
la panificazione.» Passando per un'altra porta, si trovarono in un capanno addossato alla casa, dove Edward fu sorpreso di trovare una seconda cucina. «Forse la usavano durante l'estate», suggerì Kim. «Avrebbero scaldato troppo tutta la casa, se avessero acceso quell'enorme camino per cucinare con il caldo estivo.» «Mi pare un'ipotesi attendibile», replicò lui. Tornarono nella parte centrale dell'edificio ed Edward si soffermò nella cucina, mordicchiandosi il labbro inferiore. Kim lo osservò e le parve che stesse pensando a qualcosa. «Che cosa ti frulla nella mente?» chiese. «Non hai mai pensato di venire a vivere qui?» domandò lui di rimando. «Veramente no. Sarebbe come vivere accampati.» «Non intendevo dire abitare questa casa così com'è», precisò Edward. «Ma non ci vorrebbe molto a riadattarla.» «Vuoi dire rimodernarla? Sarebbe un peccato distruggere il suo valore storico.» «Certo, ma non sarebbe necessario distruggerlo. Si potrebbe installare una cucina moderna e un bagno nel capanno addossato alla casa, che comunque costituisce un'aggiunta posteriore. Così non si danneggerebbe l'integrità della parte principale.» «Lo pensi davvero?» Kim si guardò intorno. Senza dubbio, era un edificio incantevole e sarebbe stato stimolante, e anche divertente, arredarlo. «Inoltre», aggiunse Edward, «tu devi pure lasciare l'appartamento dove abiti ora, ed è un peccato lasciare disabitato questo posto. Presto o tardi arriveranno i vandali e faranno chissà quali danni.» Fecero allora un altro giro per l'edificio, considerando l'idea di renderlo abitabile. Edward si dimostrava sempre più entusiasta e Kim si trovò a poco a poco interessata. «Sarebbe un'ottima occasione per conoscere più a fondo la storia della tua famiglia», insistette Edward. «Io lo farei senza pensarci due volte.» «Dammi il tempo per rifletterci; la notte porta consiglio», replicò Kim infine. «Potrebbe essere un'idea interessante, ma devo prima parlarne con mio fratello. Dopotutto, questa tenuta appartiene anche a lui.» «C'è qualcosa in questa casa che mi incuriosisce», aggiunse Edward, guardandosi attentamente intorno. «Mi domando dove riponessero le scorte di cibo.» «Immagino che le mettessero in cantina.»
«Non credevo che ce ne fosse una. Avevo cercato appunto un'entrata, quando siamo arrivati e abbiamo fatto un giro intorno alla casa, ma non ho visto nessuna porta. E non ci sono neppure delle scale che scendono.» Kim girò intorno al lungo tavolo a cavalletto e scostò una logora stuoia di fibra. «Ecco l'accesso, attraverso questa botola», annunciò. Si chinò, infilò un dito in un foro nel pavimento e sollevò lo sportello della botola, che fece scivolare da una parte. Una scaletta scendeva nel buio locale sottostante. «Ricordo benissimo questa botola», spiegò Kim. «Una volta, quando eravamo bambini, mio fratello ha minacciato di chiudermi in cantina. Era affascinato da questo locale.» «Che caro fratellino!» commentò Edward ridendo. «Non c'è da stupirsi, se avevi paura di essere rinchiusa laggiù. Chiunque ne sarebbe atterrito.» Si chinò a sua volta è cercò di dare un'occhiata nella cantina, ma poté vederne solo una piccola parte. «Ma non aveva intenzione di farlo seriamente!» protestò Kim. «Voleva solo scherzare. Quel giorno non avremmo dovuto essere qui, e lui sapeva che io ero già impaurita. Sai come i ragazzini amano farsi paura l'uno con l'altro.» «Ho una torcia elettrica in macchina», disse Edward. «Corro a prenderla.» Quando tornò con la torcia, scese la scaletta e, arrivato in fondo, alzò gli occhi e propose a Kim di scendere. «Devo proprio?» chiese lei in tono scherzoso. Scese la scaletta e si fermò vicino a lui. «Freddo, umido e odore di muffa», osservò Edward. «Appunto», commentò Kim. «Allora, perché stiamo qui?» La cantina era piccola, occupava soltanto l'area sotto la cucina. Le pareti erano di pietra tenuta insieme da un po' di malta e il pavimento in terra battuta. Contro la parete di fondo si scorgeva una serie di recipienti in pietra o in legno ed Edward si avvicinò dirigendo su alcuni di essi il raggio della torcia. Kim si teneva stretta al suo fianco. «Avevi ragione tu», annunciò Edward. «È qui che tenevano il cibo.» «Che tipo di cibo, secondo te?» «Direi mele, mais, frumento e segale. Forse anche latticini. I tranci di pancetta dovevano essere appesi di sopra, invece, probabilmente nel capanno.» «Interessante», ribatté Kim senza entusiasmo. «Be', hai visto abbastan-
za?» Edward si chinò su uno dei recipienti e grattò un po' del terriccio indurito che conteneva, sbriciolandolo fra le dita. «Questo terriccio è umido», osservò. «Non sono un botanico, ma direi che dev'essere ottimo per coltivare la Claviceps purpurea.» Incuriosita, Kim chiese se fosse possibile provarlo. Edward si strinse nelle spalle. «Suppongo di sì, se si potessero rinvenire spore di Claviceps. Se preleviamo qualche campione, posso chiedere a un mio amico botanico di dare un'occhiata.» «Immagino che potremmo trovare qualche recipiente al castello», suggerì Kim. «Andiamo a vedere.» Lasciarono la vecchia casa e, dal momento che era una splendida giornata, decisero di andare a piedi. L'erba arrivava loro alle ginocchia e cavallette e altri insetti innocui saltavano da tutte le parti. «Di tanto in tanto intravedo dell'acqua attraverso gli alberi», osservò Edward. «È il fiume Danvers. Una volta, questo campo arrivava fino alla riva.» Più si avvicinavano al castello, più Edward si sentiva pervaso da ammirazione e timore reverenziale. «Questo edificio è ancora più grande di quanto mi era sembrato all'inizio. Ha persino un finto fossato difensivo.» «Mi hanno detto che si ispirava al castello di Chambord, in Francia. Ha la forma della lettera U, con le camere degli ospiti in un'ala e quelle della servitù in un'altra.» Attraversarono un finto ponte levatoio su un fossato asciutto e, mentre Edward ammirava la decorazione gotica della porta, Kim si affannava con le chiavi: ce n'era almeno una decina. Finalmente trovò quella che apriva la porta. Percorsero un atrio rivestito di pannelli di quercia e passarono sotto un arco che portava nel salone. Era un ambiente di dimensioni monumentali, con un soffitto che si elevava per l'altezza di due piani e caminetti gotici alle estremità. Di fronte alla porta, fra due enormi finestre simili a quelle di una cattedrale, c'era un imponente scalone, alla cui sommità un grande rosone di vetri istoriati riempiva la sala di una particolare luce giallo pallido. Edward emise un suono inarticolato, a metà fra il gemito e il riso. «Incredibile!» esclamò quasi senza fiato. «Non avrei mai immaginato che fosse ancora ammobiliato.» «Non è stato toccato nulla», confermò Kim.
«Quando è morto tuo nonno? Questo arredamento sembra risalire agli anni Venti.» «È morto la primavera scorsa. Era un uomo eccentrico, specialmente dopo la morte della moglie, avvenuta una quarantina di anni fa. Credo che non abbia cambiato proprio niente nella casa, rispetto a quando la occupavano i suoi genitori. È suo padre che l'ha costruita.» Edward gironzolava nel salone, mentre il suo sguardo indugiava sui mobili, sugli oggetti decorativi, sui dipinti dalle cornici dorate. Davanti a un'armatura medievale, Edward chiese a Kim se fosse davvero antica. Lei si strinse nelle spalle. «Non ne ho la minima idea.» Edward si avvicinò a una finestra e toccò il tessuto delle tende. «Non ho mai visto tanti drappeggi in tutta la mia vita. Ci devono essere chilometri quadrati di tessuto.» «È un damasco di seta molto vecchio», osservò Kim. «Posso vedere il resto della casa?» chiese Edward. «Ma certo, come desideri.» Dal salone passarono nella biblioteca, rivestita di pannelli di legno scuro. Tutt'intorno correva una balconata interna, a cui si accedeva grazie a una scala a chiocciola di ferro battuto, e una scaletta che si muoveva su rotaie permetteva di arrivare ai piani più alti. Tutti i libri erano rilegati in pelle. «Questo è ciò che io chiamo una vera biblioteca!» esclamò Edward. «Qui potrei davvero leggere in pace.» Dalla biblioteca passarono poi nella sala da pranzo che, come il salone, aveva un soffitto che si elevava per due piani e due caminetti alle estremità. Dalle pareti sporgevano lunghe aste con bandiere piene di stemmi. «Dal punto di vista storico, questo posto potrebbe essere più interessante della vecchia casa», osservò Edward. «È quasi un museo.» «L'interesse storico sta piuttosto nella cantina e nella soffitta», replicò Kim. «Sono entrambe zeppe di carte.» «Giornali?» «Anche giornali, ma perlopiù corrispondenza e documenti.» «Diamo un'occhiata.» Percorsero lo scalone principale fino al secondo piano e di lì salirono un'altra scala per altri due piani, prima di arrivare alle soffitte. Kim dovette faticare per aprire la porta, che doveva essere rimasta chiusa per anni. L'ampiezza del solaio era enorme, poiché si estendeva per tutta la pianta a U dell'edificio, esclusa l'area occupata dalle torrette, che erano di un piano
più alte rispetto al resto dell'edificio e avevano l'attico di forma conica. Il solaio principale, discretamente illuminato da numerosi abbaini, aveva un soffitto che faceva pensare a una cattedrale e seguiva la linea del tetto. Kim ed Edward si avviarono per un vasto passaggio centrale fiancheggiato su entrambi i lati da innumerevoli armadietti, canterani, bauli e scatoloni. Ogni tanto, Kim si fermava qua e là per mostrare a Edward che erano tutti pieni di registri, cartelline, album di ritagli, fasci di lettere, foto, libri, giornali e vecchie riviste. Un vero tesoro di antichi documenti. «Qui ci dev'essere abbastanza materiale da riempire diversi vagoni merci», commentò Edward. «A che epoca risalgono tutte queste carte?» «All'epoca di Ronald Stewart», rispose Kim. «È lui il fondatore dell'azienda. La maggior parte delle carte riguarda i suoi affari, infatti, ma non tutte. Ci sono anche lettere personali. Mio fratello e io, quando eravamo ragazzi, avevamo l'abitudine di sgattaiolare qui e facevamo a gara a chi trovava le date più antiche. Il fatto è che questo non ci era permesso e, quando il nonno ci scopriva, diventava furioso.» «Ci sono altrettante carte in cantina?» chiese Edward. «Altrettante, se non di più. Vieni, te le mostrerò. Comunque, vale sempre la pena di vedere la cantina; si può dire che è in stile con la casa.» Tornarono sui loro passi e, scendendo le scale, entrarono nella sala da pranzo. Qui aprirono una pesante porta di quercia che dava su una scala di granito che portava alla cantina. Edward capì immediatamente che cosa aveva voluto dire Kim dicendo che era in stile con la casa: aveva l'aspetto di una prigione medievale. Le pareti erano tutte di pietra, i portalampada alle pareti avevano la forma di torce e le rastrelliere per il vino erano disposte intorno alle pareti di stretti locali che potevano avere avuto la funzione di celle, con le porte di ferro e le aperture munite di sbarre. «È stata costruita da qualcuno che aveva uno strano senso dell'umorismo», commentò Edward mentre percorrevano l'ampio passaggio centrale. «L'unica cosa che manca sono gli strumenti di tortura.» «Mio fratello e io non la trovavamo per niente divertente, e non occorreva che il nonno ci ordinasse di stare lontani di qui. Non avevamo nessuna voglia di venirci. Questo ambiente ci terrorizzava.» «E tutti questi bauli e contenitori sono pieni di carte? Come in solaio?» «Tutti, dal primo all'ultimo.» Edward si fermò e aprì la porta di una delle celle, dove le rastrelliere dei vini erano quasi tutte vuote. Armadietti, scrittoi e bauli erano spinti contro le pareti. Edward prese una delle poche bottiglie.
«Buon Dio!» esclamò. «Vendemmia del 1896. Potrebbe avere un grande valore!» Kim sbuffò in tono sprezzante. «Ne dubito. Il sughero del tappo probabilmente si è disintegrato. Nessuno se ne cura da mezzo secolo.» Edward rimise a posto la polverosa bottiglia e aprì il cassetto di uno scrittoio, da cui prese a caso un foglio di carta, un documento doganale del diciannovesimo secolo. Poi ne prese un altro: una polizza di carico del diciottesimo. «Ho l'impressione che qui non ci sia molto ordine», osservò. «Purtroppo è così. Non c'è ordine da nessuna parte. Ogni volta che si costruiva una nuova casa, e la cosa dev'essere avvenuta abbastanza di frequente finché non hanno edificato questa mostruosità, tutte le carte venivano trasferite e, nel corso dei secoli, tutto si è mescolato.» Per dimostrarlo, Kim aprì un armadietto e tirò fuori un terzo documento, un'altra polizza di carico. La porse a Edward e gli disse di guardare la data. «Be', che io sia dannato!» esclamò lui. «È del 1689! Appena tre anni prima dei processi alle streghe.» «È una prova di ciò che ti ho detto. Abbiamo tirato fuori solo tre documenti e sono di tre secoli diversi!» «Credo che questa firma sia di Ronald Stewart.» Edward le mostrò il documento e lei annuì. «Mi è venuta un'idea», esclamò Kim. «Tu hai suscitato il mio interesse per questo fenomeno della stregoneria e in particolare per la mia antenata Elizabeth. Forse potrei apprendere qualcosa in più su di lei, con l'aiuto di queste carte.» «Per esempio, la ragione per cui non è sepolta nel cimitero di famiglia?» «Questo e altro. Sono sempre più incuriosita dalla segretezza che l'ha circondata nel corso degli anni e mi domando se sia stata davvero giustiziata. Come mi hai fatto osservare, il suo nome non compare nel libro che mi hai prestato. La cosa è piuttosto misteriosa.» Edward diede un'occhiata alla cella in cui si trovavano. «Non sarebbe un compito facile, data l'enorme quantità di materiale. E in fondo, forse, sarebbe una perdita di tempo, poiché per la maggior parte si tratta di documenti d'affari.» «La sfida mi tenta», replicò Kim, che si andava appassionando all'idea. Tornò a guardare nell'armadietto dove aveva trovato la polizza di carico del diciassettesimo secolo, per vedere se vi fosse altro materiale dell'epoca. «E magari finirei per divertirmi. Sarà un'esercizio di scoperta di me stessa
o, come hai detto parlando della vecchia casa, un'occasione per ricollegarmi alla mia storia.» Mentre Kim frugava neH'armadietto, Edward uscì dalla cella e si addentrò nell'immensa cantina. Aveva sempre la sua torcia elettrica e, avvicinandosi al fondo del locale, l'accese, poiché alcune delle lampadine nei portalampada alle pareti erano rotte. Fece capolino nell'ultima cella e vi fece girare il raggio di luce: il solito assortimento di armadietti, bauli e scatoloni, finché dal buio emerse un quadro appoggiato a rovescio contro la parete. Ricordando tutti i dipinti che aveva visto sulle scale, Edward si chiese perché quello avesse meritato un simile trattamento. Con qualche difficoltà riuscì ad aprirsi la via fino al quadro, lo sollevò, lo raddrizzò, lo appoggiò alla parete e diresse il raggio della torcia sulla sua superficie polverosa. Apparve così il ritratto a olio di una giovane donna. Decise di togliere il dipinto dall'ignominioso esilio e, tenendolo alto sulla testa, lo portò fuori della cella e lo depose a terra nel corridoio. Era una giovane donna con una scollatura che non si intonava all'epoca in cui il ritratto doveva essere stato fatto. Lo stile era rigido e primitivo. Con la punta del dito tolse la polvere da una targhetta fissata alla base del quadro e vi diresse il raggio di luce, poi lo afferrò e lo portò nella cella dove si trovava Kim. «Guarda un po' qui!» Appoggiò il quadro a uno scrittoio e illuminò la targhetta. Kim si voltò a guardare e, avvertendo la sua eccitazione, seguì il raggio della torcia e lesse il nome. «Mio Dio!» esclamò. «Ma è Elizabeth!» Elettrizzati dalla scoperta, portarono il quadro su per le scale e poi nel salone, dove c'era abbastanza luce, lo appoggiarono alla parete e arretrarono di qualche passo per osservarlo. «Quello che è più straordinario», osservò Edward, «è che ti assomiglia in modo impressionante, specialmente per gli occhi verdi.» «Sì, forse il colore degli occhi sarà lo stesso», obiettò Kim, «ma lei era molto più bella di me, e certamente più in gamba.» «La bellezza sta nell'occhio di chi guarda», sentenziò subito Edward. «E, personalmente, io sono convinto che sia tutto il contrario.» Kim stava fissando, immobile, il viso della sua infelice antenata. «C'è qualche somiglianza», convenne. «Nei capelli e, forse, nella forma del viso.»
«Potreste essere sorelle», insistette Edward. «Mi pare un bel dipinto. Perché diavolo l'hanno nascosto in fondo alla cantina? È certo più gradevole della maggior parte dei quadri che sono appesi alle pareti di questo castello.» «Sì, è strano», confermò Kim. «Mio nonno doveva sapere che esisteva e quindi non può essere stata una dimenticanza. Per quanto eccentrico fosse, non credo che si preoccupasse dei sentimenti degli altri, specialmente di mia madre, con cui, del resto non andava molto d'accordo.» «Le dimensioni sono all'incirca quelle che abbiamo osservato sulla mensola del caminetto, nella vecchia casa», aggiunse Edward. «Tanto per divertimento, perché non lo portiamo là e vediamo?» Così dicendo, sollevò il quadro ma, prima che potesse muovere un passo, Kim gli ricordò che erano venuti al castello per cercare i recipienti. Edward la ringraziò e depose nuovamente il quadro, poi andarono insieme in cucina dove trovarono nella dispensa tre contenitori di plastica con i relativi coperchi. Ripresero il quadro e si diressero verso la vecchia casa. Kim insistette per portare lei il dipinto che, con la sua sottile cornice nera, non era pesante. «Il ritrovamento di questo ritratto mi dà una sensazione strana ma piacevole», disse Kim. «È come trovare un parente da lungo tempo perduto.» «Devo ammettere che è davvero una coincidenza interessante», disse Edward, «soprattutto perché è proprio Elizabeth la ragione per cui ci troviamo qui.» All'improvviso, Kim si fermò, tenendo il quadro davanti a sé e fissando il viso di Elizabeth. «Che cosa c'è?» chiese Edward. «Mentre pensavo che lei e io ci assomigliamo, mi sono ricordata di ciò che, a quanto pare, le è capitato. Oggi è inconcepibile che una persona sia accusata di stregoneria, processata e giustiziata.» Con gli occhi della mente si vide davanti a un cappio appeso a un albero, sul punto di morire. Rabbrividì e fece un salto indietro quando sentì la fune che la toccava. «Kim, stai bene?» le chiese Edward mettendole una mano sulla spalla. Lei scosse la testa e respirò profondamente. «Ho avuto una visione terribile», mormorò. «Ho immaginato che cosa avrei provato se fossi stata condannata a essere impiccata.» «Kim, porta tu i contenitori, io porterò il quadro», propose Edward.
Si scambiarono i carichi e ripresero a camminare. «Dev'essere il caldo», commentò Edward per dissipare quel senso di tragedia, «o forse cominci ad avere fame. La tua immaginazione lavora troppo.» «Trovare quel ritratto mi ha molto impressionata», ammise Kim. «È come se Elizabeth cercasse di parlarmi attraverso i secoli, forse per riabilitare la sua memoria.» Edward le lanciò un'occhiata mentre camminavano in mezzo all'erba alta. «Stai scherzando?» «No. L'hai detto tu stesso che era una coincidenza che avessimo trovato il quadro. Io credo che sia stata più che una coincidenza. Voglio dire che è sorprendente; non può essere solo un caso, deve avere un significato.» «È un attacco improvviso di superstizione oppure sei sempre così?» chiese Edward. «Non so. Cerco solo di capire.» «Credi nello spiritismo o nelle percezioni extrasensoriali?» «Non saprei, non ci ho mai pensato. E tu?» Edward rise. «Sembri uno psichiatra quando rilanci in questo modo le domande. Be', io non credo nel soprannaturale, sono uno scienziato. Credo in ciò che può essere razionalmente dimostrato e riprodotto sperimentalmente. Non sono religioso né superstizioso, e tu forse penserai che sia cinico, se affermo che le due cose sono connesse.» «Neanch'io sono molto religiosa, ma devo confessare di avere una vaga forma di fede nell'esistenza di forze soprannaturali.» Raggiunsero la vecchia casa e Kim tenne aperta la porta per fare entrare Edward con il quadro. Quando lui lo sollevò e lo appoggiò sulla parete sopra il caminetto, videro che si adattava perfettamente. «Avevamo ragione», disse lui appoggiandolo sulla mensola. «Lo farò riappendere al suo posto», decise Kim. «Elizabeth merita di tornare nella sua casa.» «Questo significa forse che hai deciso di rimettere a posto questo vecchio edificio?» «Può darsi, ma prima devo parlare con gli altri, soprattutto con mio fratello.» «Personalmente, penso che sia un'idea eccellente», esclamò Edward. Tolse i contenitori di plastica dalle mani di Kim e le disse che voleva scendere in cantina a prelevare qualche campione di terriccio. Giunta sulla porta del salotto, si fermò.
«Se troverò la Claviceps purpurea», aggiunse con un sorriso malizioso, «questo avrà almeno l'effetto di spogliare della sua aura soprannaturale la storia dei processi di Salem.» Ma Kim non rispose. Era perduta nei propri pensieri, quasi ipnotizzata dal ritratto di Elizabeth. Edward alzò le spalle, poi entrò in cucina e scese nel buio umido e fresco della cantina. 3 Lunedì 18 luglio 1994 Come al solito, il laboratorio di Edward Armstrong, nel centro medico di Harvard, in Longfellow Avenue, ferveva di frenetica attività. Un caotico andirivieni di camici bianchi in mezzo a un futuristico spiegamento di apparecchi di alta tecnologia dava un senso di disordine solo ai non iniziati. Gli esperti sapevano perfettamente che la scienza era in continuo progresso. In definitiva, tutto dipendeva da Edward, anche se non era l'unico scienziato a lavorare nel laboratorio soprannominato il «feudo di Armstrong». Data la sua fama di genio e la sua celebrità come scienziato nel campo della chimica sintetica e della neurologia, le richieste di lavorare o di svolgere con lui il dottorato superavano di gran lunga il limitato numero di posti che Edward era riuscito a ricavare nella cronica scarsità del suo spazio e del suo bilancio. Di conseguenza, aveva la possibilità di scegliere fra gli elementi migliori e più brillanti. Gli altri professori lo definivano un insaziabile cacciatore di talenti. Non soltanto aveva il maggior numero di studenti già laureati, ma insisteva a tenere un corso di chimica elementare per i non laureati, anche durante l'estate. Era l'unico professore ordinario che lo facesse, e dichiarava che sentiva l'obbligo di stimolare le giovani menti il più presto possibile. Tornando da una delle sue famose lezioni di chimica elementare, Edward entrò nel suo regno da una delle porte laterali. Come il custode di uno zoo che porta il cibo agli animali, fu immediatamente circondato dagli studenti del corso di dottorato, tutti impegnati a lavorare ai diversi aspetti del programma generale impostato da Edward per studiare i meccanismi della memoria a breve e a lungo termine. Ciascuno aveva da sottoporgli un problema o una richiesta a cui lui rispondeva con rapidità e precisione, rimandandoli poi ai banchi a continuare le loro ricerche.
Dopo avere risposto alle ultime richieste, Edward si diresse verso la sua scrivania. Non aveva un ufficio privato, che giudicava un frivolo spreco di spazio, ma si accontentava di un angolo con un tavolo da lavoro, due o tre sedie, un terminale e uno schedario. Era accompagnato dalla sua prima assistente, Eleanor Youngman, che aveva fatto il dottorato con lui e lavorava al suo fianco da quattro anni. «Hai una visita», gli annunciò Eleanor quando arrivarono alla scrivania. «È in attesa al banco della segreteria.» Edward depositò sul tavolo il materiale utilizzato durante il corso e cambiò la sua giacca di tweed con il camice bianco da laboratorio. «Non ho tempo per i visitatori, ora», protestò seccamente. «Temo che questo dovrai riceverlo», insistette Eleanor. Edward diede un'occhiata alla sua assistente, che lo fissava con un sorrisetto malizioso e sembrava sul punto di scoppiare a ridere. Eleanor era un'intelligente e vivace bionda di Oxnard, in California, una vera bellezza. Aveva preso la laurea in biochimica a Berkeley alla tenera età di ventitré anni ed Edward la considerava preziosa, non solo per la sua intelligenza, ma anche per la sua serietà e il suo impegno. Eleanor lo ricambiava con una venerazione particolare, convinta che il ricercatore fosse destinato a compiere il prossimo grande passo nella comprensione dei neurotrasmettitori e del loro ruolo nell'emozione e nella memoria. «E chi diavolo è, in nome del cielo?» «Stanton Lewis», rispose l'assistente. «Ogni volta che viene mi fa la corte. Questa volta mi ha detto che vorrebbe che io investissi in una nuova rivista di chimica che avrà un poster centrale con la 'Molecola del mese'. Non riesco mai a capire se parla sul serio.» «Non è serio. Civetta semplicemente con te.» Edward diede una rapida occhiata alla posta senza trovare niente di importante. «Qualche problema al laboratorio?» «Temo di sì. Il nuovo sistema di elettroforesi capillare per la cromatografia elettrocinetica capillare fa di nuovo i capricci. Devo chiamare il tecnico di Bio-rad?» «Darò un'occhiata io, prima. Ora fai entrare Stanton. Mi occuperò di entrambi i problemi nello stesso tempo.» Applicò il suo dosimetro al bavero del camice e si diresse verso l'unità di cromatografia, dove cominciò a trafficare con il computer che azionava l'apparecchio. Effettivamente c'era qualcosa che non andava, perché la macchina non rispondeva al menu prefissato. Assorbito in questo lavoro,
Edward non sentì avvicinarsi Stanton e non si accorse della sua presenza finché l'amico non gli diede una pacca sulle spalle. «Ehi, buontempone», lo salutò allegramente. «Ho una sorpresa per te!» esclamò porgendogli un opuscolo sottile dalla copertina plastificata. «Che cos'è?» chiese Edward prendendo il libretto. «Quello che stavi ansiosamente aspettando: il progetto della Genetrix.» Edward scosse la testa. «Sei proprio un bel tipo!» Mise da parte il prospetto e tornò a dedicarsi al computer. «Com'è andato il tuo appuntamento con Kim?» gli domandò Stanton. «Sono contento di avere incontrato tua cugina. È veramente una donna in gamba.» «Siete andati a letto insieme, voi due?» Edward si voltò di scatto. «Non è una domanda opportuna.» «Oh, buon Dio», ribatté Stanton con un gran sorriso, «sei un po' permaloso, direi. Tradotto in parole povere, questo significa che andate d'accordo, altrimenti non saresti così sensibile.» «Salti troppo presto alle conclusioni», ribatté Edward mentre gli ricompariva la leggera balbuzie. «Oh, andiamo, ti conosco troppo bene! È proprio come quando eravamo all'università. Per quello che riguarda il laboratorio o la scienza sei un Napoleone, ma quando si tratta di donne, sembri un mucchio di spaghetti bagnati. Non capisco perché, comunque veniamo al punto. Voi due andate d'accordo, no?» «Ciascuno di noi apprezza la compagnia dell'altro», ammise Edward. «Abbiamo cenato insieme, venerdì sera.» «Perfetto. Per conto mio, questo equivale ad andare a letto insieme.» «Ma non essere così volgare!» «Bene», aggiunse Stanton allegramente. «La mia idea era di renderti debitore verso di me, e ora lo sei. Il prezzo, caro amico, è che ora devi leggere questo prospetto.» Prese il fascicoletto che Edward aveva messo da parte e glielo porse di nuovo. Lui si lasciò sfuggire un mugugno rendendosi conto di avere le mani legate. «Va bene», borbottò, «leggerò quel dannato libretto.» «Bene. È necessario che tu sappia qualcosa dell'azienda, perché io sono anche in grado di offrirti settantacinquemila dollari l'anno più i diritti di sottoscrizione sulle azioni, purché tu faccia parte della commissione consultiva scientifica.» «Io non ho tempo di andare a nessuna dannata riunione», protestò E-
dward. «E chi ti chiede di andare alle riunioni? Io voglio soltanto il tuo nome sull'emissione pubblica iniziale.» «Ma perché? La biologia molecolare e la biotecnica non sono il mio campo.» «Cristo!» imprecò Stanton. «Come fai a essere così ingenuo? Tu sei una celebrità scientifica. Non importa che tu non sappia un fico secco di biologia molecolare. È il tuo nome che conta.» «Non ho detto che non ne so un fico secco», ribatté Edward irritato. «Adesso non prendertela con me», ribatté Stanton conciliante. E, additando l'apparecchio a cui Edward stava lavorando, domandò: «Che cosa diavolo è?» «Un'unità di elettroforesi capillare.» «E a che cosa serve?» «Si usa per separare e identificare i composti. I principi su cui si basa sono in fondo gli stessi dell'elettroforesi convenzionale, ma il diametro piccolissimo dei capillari...» Stanton lo interruppe esclamando: «Basta così! Mi arrendo. Mi hai stroncato, dimmi solo se funziona». «Funziona egregiamente.» Edward diede uno sguardo attento alla macchina. «Almeno di solito. In questo momento c'è qualcosa che non va.» «La spina è inserita?» chiese Stanton. Edward gli lanciò uno sguardo esasperato. «Volevo solo rendermi utile.» Edward alzò il coperchio della macchina e, scrutando fra gli ingranaggi, vide immediatamente che una delle fialette di campione bloccava il movimento. «Be', non è un piacere?» esclamò. «Ecco una veloce diagnosi positiva del problema.» Edward sistemò la fiala e l'ingranaggio si mise immediatamente in moto. Quindi chiuse il coperchio. «Allora, posso essere sicuro che leggerai il progetto?» insistette Stanton. «E rifletterai sull'offerta che ti ho fatto?» «L'idea di ricevere del denaro senza fare niente non mi piace», ribatté Edward. «Ma perché? Se i campioni sportivi possono fare pubblicità per le marche di scarpe da tennis, perché gli scienziati non dovrebbero fare qualcosa di equivalente?» «Ci penserò», promise Edward. «È tutto ciò che ti chiedo. Dammi un colpo di telefono dopo avere letto
il prospetto, puoi guadagnare una bella somma.» «Sei venuto qui in macchina?» chiese Edward. «No, a piedi da Concord», scherzò Stanton. «Che domanda! Certo che sono venuto in macchina. O questo è soltanto un debole tentativo di cambiare argomento?» «Allora, potresti darmi un passaggio fino al campus principale di Harvard?» Cinque minuti dopo, s'infilavano nella Mercedes di Stanton, che mise subito in moto ed effettuò una rapida inversione a U. Aveva parcheggiato in Huntington Avenue, vicino alla biblioteca medica Countway. Girarono intorno alla Fenway, poi si diressero verso Storrow Drive. «Lascia che ti chieda una cosa», iniziò Edward rompendo il silenzio. «L'altra sera, a cena, hai nominato un'antenata di Kim, Elizabeth Stewart. Tu sai con sicurezza che è stata impiccata come strega o è solo una voce che è girata nella famiglia tanto a lungo che tutti hanno finito per crederci?» «Be', non potrei giurarci. Ho solo ripetuto quello che ho sentito dire.» «Non riesco a trovare il suo nome in nessuno dei libri sull'argomento. E non sono pochi.» «Io ho sentito la storia da mia zia. Secondo lei, gli Stewart l'hanno tenuta segreta da tempi immemorabili. Non è una cosa di cui si vantino.» «Bene, ma ammettendo che sia vera, che male potrebbe fare oggi? Risale a tanto tempo fa. Capisco se si trattasse di una generazione, ma sono passati trecento anni!» Stanton si strinse nelle spalle. «Non so che cosa dirti. Forse non avrei dovuto parlarne. Mia zia non mi rivolgerà più la parola, se verrà a sapere che ho chiacchierato.» «Anche Kim era restia a parlarne, da principio.» «Probabilmente a causa di sua madre. Ha sempre tenuto molto alla reputazione della famiglia e a tutte quelle scemenze sociali. È una dama piena di spocchia.» «Kim mi ha accompagnato a vedere la tenuta di famiglia», proseguì Edward. «Siamo entrati anche nella casa dove si dice che vivesse Elizabeth.» Stanton gli lanciò un'occhiata e scosse la testa. «Ti ammiro!» esclamò. «Tu vai forte, mandrillo.» «È stata una cosa del tutto innocente», protestò Edward. «Non lasciarti trasportare dalla tua sporca immaginazione. Ho trovato quei vecchi edifici
affascinanti e ho destato l'interesse di Kim per Elizabeth.» «Ho paura che questo non piacerà per niente a sua madre», commentò Stanton. «Io forse potrei contribuire a modificare l'atteggiamento verso questa storia», affermò Edward. Aprì un sacchetto che aveva sulle ginocchia, prese uno dei contenitori di plastica che avevano portato da Salem e spiegò a Stanton che cosa conteneva. «Devi essere proprio innamorato», lo punzecchiò lui, «altrimenti non ti prenderesti tutto questo disturbo.» «Ho pensato una cosa. Se riuscissi a provare che alla base delle presunte stregonerie di Salem c'era un fenomeno di ergotismo, questo eliminerebbe ogni residuo di disagio nelle persone collegate con quella triste faccenda, e in particolare nella famiglia Stewart.» «Io continuo a pensare che tu sia davvero innamorato», insistette Stanton. «La tua è una giustificazione troppo teorica per tutto il disturbo che ti stai prendendo. Se penso che io non riesco a farti lavorare per me neppure con la promessa di un lauto guadagno!» Edward sospirò. «E va bene. Devo ammettere che, come neurologo, sono attirato dalla possibilità che tutta le faccende di stregoneria di Salem siano state provocate da un allucinogeno.» «Adesso capisco. La storia delle streghe di Salem esercita un fascino irresistibile anche su chi non è un neurologo.» «L'imprenditore filosofo!» osservò Edward ridendo. «Cinque minuti fa l'avrei considerato un ossimoro. Spiegami questa storia del fascino irresistibile.» «Voglio dire che esercita un'attrazione quasi diabolica, e la gente ama questo genere di storie. È come per le piramidi egizie. Devono essere qualcosa di più che un semplice mucchio di pietre; sono una finestra aperta sul soprannaturale.» «Non sono sicuro di seguirti», replicò Edward mentre riponeva il suo campione di terriccio. «Come scienziato, cerco solo una spiegazione scientifica.» «Oh, buon Dio!» sospirò Stanton. Fece scendere Edward a Cambridge, in Divinity Avenue. Prima che chiudesse la portiera, gli ricordò ancora una volta il prospetto della Genetrix. Edward passò davanti alla Divinity Hall ed entrò nel laboratorio biologico di Harvard. Ottenne da una segretaria le indicazioni per raggiungere il
laboratorio di Kevin Scranton e trovò il suo magro e barbuto amico tutto indaffarato nel suo ufficio. Kevin ed Edward erano stati al college insieme, ma non si erano più visti da quando Edward era tornato ad Harvard con un incarico di insegnamento. Passarono cinque minuti ricordando i vecchi tempi, prima che Edward esponesse la ragione della sua visita. Depose i tre contenitori su un angolo della scrivania di Kevin. «Vedi se puoi trovarvi tracce di Claviceps purpurea.» Kevin prese uno dei contenitori e sollevò il coperchio. «Vuoi spiegarmi perché?» chiese, sbriciolando fra le dita una piccola quantità di terriccio. «Non potresti mai immaginarlo», ribatté Edward. Poi raccontò a Kevin come si era procurato i campioni e accennò alla storia dei processi alle streghe di Salem. Non fece il nome della famiglia Stewart, per riguardo a Kim. «Interessante», commentò Kevin quando Edward finì di parlare. Si alzò e cominciò a preparare il vetrino con una piccola quantità di terriccio inumidito. «Pensavo che si poteva ricavarne un saggio interessante per Science o Nature», aggiunse Edward. «Purché vi si trovino spore di Claviceps.» Kevin fece scivolare il vetrino sotto il microscopio e cominciò a esaminare il campione. «Bene, contiene una grande quantità di spore, il che non è cosa insolita.» «Quale sarebbe la maniera migliore per accertare se sono di Claviceps?» chiese Edward. «Ci sono tanti sistemi. Per quando vuoi la risposta?» «Il più presto possibile.» «Il DNA richiederebbe un certo tempo. Ci sono probabilmente da tre a cinquemila specie diverse di funghi in ogni campione di terra. Ma il metodo più sicuro sarebbe coltivare un po' di Claviceps. Non è tanto facile, ma farò qualche prova.» Edward si alzò. «Bene, ti sarò grato di tutto ciò che potrai fare, Kevin.» Concedendosi un minuto per riprendere fiato, Kim sollevò la mano guantata per scostarsi i capelli dalla fronte con l'avambraccio nudo. Era stata una giornata particolarmente impegnativa nell'unità chirurgica di cura intensiva. Il suo era un lavoro gratificante ma piuttosto stressante, e Kim, esausta, sognava il momento in cui avrebbe terminato il suo turno, venti minuti dopo. Sfortunatamente, il suo breve riposo fu interrotto da Kinnard
Monihan che entrava nel reparto con un nuovo paziente. Kim e le altre infermiere momentaneamente libere diedero una mano per l'accettazione. Mentre lavoravano, Kim e Kinnard evitavano di guardarsi, ma lei era acutamente consapevole della sua presenza, specialmente quando si trovavano a fianco a fianco per necessità. Kinnard era un giovane alto e snello, di ventotto anni, con tratti duri e angolosi e un fisico agile e scattante, più da pugile in allenamento che da chirurgo. Preparato il paziente, Kim si diresse al banco centrale. Sentì una mano posarsi sul suo braccio e, voltandosi, si trovò a fissare gli occhi neri e intensi di Kinnard. «Non sarai ancora in collera!» esclamò lui. Con un senso di ansietà, Kim distolse lo sguardo, mentre la sua mente si dibatteva in un turbine di emozioni. «Non dirmi che ti rifiuti di parlare con me», esordì Kinnard. «Non stai andando troppo oltre con il tuo risentimento?» «Ti avevo avvertito», replicò Kim quando ritrovò la voce. «Ti avevo detto che le cose sarebbero cambiate se tu avessi insistito ad andartene a pescare mentre avevamo progettato di andarcene a Martha's Vineyard.» «Non avevamo mai fatto un piano definitivo per Martha's Vineyard», protestò Kinnard. «E non potevo sapere che il dottor Markey mi avrebbe offerto di partecipare alla battuta di pesca.» «Se non avessimo fatto progetti, come mai io avevo chiesto un periodo di ferie? E come mai avevo telefonato agli amici di famiglia perché mi cedessero il loro bungalow?» «Ne avevamo parlato solo una volta.» «Due volte», precisò Kim. «E la seconda volta ti avevo anche detto del bungalow.» «Senti», incalzò Kinnard, «per me era importante partecipare a quella battuta di pesca. Il dottor Markey è il numero due al dipartimento. Forse fra noi due c'è stato un piccolo malinteso, ma non è il caso di prendersela tanto.» «E quel che è peggio è che tu non sei minimamente dispiaciuto», replicò Kim e il suo viso arrossì. «Io non mi scuso quando so di non avere fatto niente di male», obiettò Kinnard. «Sta bene», ribatté lei in tono secco, muovendosi di nuovo in direzione
del banco centrale. Ma Kinnard la trattenne ancora. «Mi dispiace di vederti tanto in collera», le disse, «credevo che ormai ti fossi calmata. Parliamone sabato sera, non sono di turno. Potremmo cenare insieme e andare a teatro.» «Mi dispiace, ma ho già degli impegni», rispose Kim bruscamente. Non era vero e si sentiva una morsa allo stomaco. Detestava le liti e sapeva che non era in grado di reggere uno scontro. Ogni genere di scontro la faceva soffrire. Kinnard dischiuse le labbra in una smorfia seccata. «Oh, vedo», mormorò. Kim inghiottì a fatica rendendosi conto che lui era furioso. «Questo è un gioco che possiamo fare tutti e due», ribatté Kinnard. «C'è qualcuno a cui anch'io ho pensato per un appuntamento, e questa è la mia buona occasione.» «Chi è?» chiese Kim. Un attimo dopo avere pronunciato la domanda rimpianse di avere aperto bocca. Kinnard le rivolse un sorrisetto malizioso e si allontanò. Non volendo mostrarsi sconvolta, Kim si ritirò nella solitudine del guardaroba. Tremava ma, dopo avere tratto qualche respiro profondo, si sentì più tranquilla e pronta a tornare al lavoro. Stava per tornare all'unità di cura intensiva quando la porta si aprì ed entrò Marsha Kingsley, l'amica con cui divideva l'appartamento. Kim e Marsha erano state compagne di studi all'istituto superiore. «Quello è proprio un asino», sentenziò Marsha, che conosceva meglio di chiunque altro la storia della loro relazione. «Non lasciare che quell'egoista ti faccia perdere le staffe.» Alla comparsa improvvisa dell'amica, Kim perse il controllo e scoppiò in lacrime. «Io detesto gli scontri», gemette. «Secondo me, ti sei comportata bene», la confortò Marsha, porgendole un fazzoletto. «Non si è nemmeno scusato», si lamentò ancora Kim, asciugandosi gli occhi. «È un insensibile mascalzone», aggiunse Marsha per confortarla. «Non so proprio che cosa ho fatto di male. Fino a poco fa ero convinta che il nostro rapporto fosse dei migliori.» «Tu non hai fatto niente di male, il problema è suo. È troppo egoista. Prova a paragonare il suo comportamento con quello di Edward, che ti sta mandando fiori ogni giorno.» «Io non ho bisogno di fiori ogni giorno.»
«Naturalmente no, ma è il pensiero che conta. Kinnard non ha nessun riguardo per i tuoi sentimenti. Tu meriti di meglio.» «Be', non saprei...» Kim si soffiò il naso. «Ma una cosa è sicura: devo fare qualche cambiamento nella mia vita. E sai che cosa ho pensato? Di trasferirmi a Salem. Voglio sistemare una vecchia casa nella tenuta di famiglia che ho ereditato con mio fratello.» «Ottima idea», approvò Marsha. «Ti farà bene cambiare un po' ambiente, soprattutto con Kinnard che abita a Beacon Hill.» «È quello che pensavo. Andrò là subito dopo avere finito il mio turno. Verresti con me? Mi piacerebbe avere compagnia, e poi potresti darmi qualche buona idea.» «Sarà per un'altra volta, oggi aspetto visite a casa.» Terminato il lavoro e fatto il suo rapporto, Kim lasciò l'ospedale, salì in macchina e puntò verso la periferia. C'era traffico, che però si diradò una volta passato il Tobin Bridge. La sua prima tappa fu la casa paterna in Marblehead Neck. «C'è qualcuno?» chiamò, entrando nell'atrio dell'edificio, che ricordava un castello francese. La costruzione si affacciava sull'oceano e aveva qualche superficiale somiglianza con il castello, ma era molto più piccola e più di buongusto. «Sono nel solarium, cara», rispose da lontano la voce di sua madre Joyce. Kim passò oltre lo scalone e, percorrendo il lungo corridoio centrale, giunse nella stanza dove sua madre trascorreva la maggior parte delle sue giornate. Era veramente un solarium, con grandi vetrate su tre lati che guardavano a sud sul prato a terrazze e a est su una stupenda vista sull'oceano. «Hai ancora addosso l'uniforme», osservò Joyce con un tono di disapprovazione che solo sua figlia poteva avvertire. «Sono venuta direttamente dall'ospedale», replicò Kim. «Volevo evitare il traffico.» «Bene, spero che tu non abbia portato qui dei microbi. Non vorrei proprio tornare ad ammalarmi.» «Ma non lavoro nel reparto malattie infettive. Nella mia unità ci sono probabilmente meno batteri che qui.» «Non dire così!» sbottò Joyce. Le due donne non si somigliavano affatto. Kim aveva la struttura del viso e i capelli del padre, mentre Joyce aveva un volto affilato, gli occhi pro-
fondamente infossati e il naso leggermente aquilino. I suoi capelli, un tempo neri, ora erano grigi e per nulla curati, e la sua pelle era pallida come il marmo, malgrado si fosse già a metà estate. «Ho notato che sei ancora in vestaglia», osservò Kim sedendosi su un divano di fronte alla poltrona della madre. «Non avevo nessun motivo per vestirmi», ribatté lei. «Inoltre, non mi sento troppo bene.» «Penso che questo significhi che papà non è in casa.» Nel corso degli anni, Kim aveva imparato a conoscere sua madre. «Tuo padre è partito ieri sera per un breve viaggio d'affari a Londra», rispose Joyce. «Mi dispiace», disse Kim. «Oh, non importa. Quando è qui, comunque, mi ignora. Volevi parlare con lui?» «In effetti, speravo di trovarlo.» «Tornerà giovedì, se gli fa comodo.» Kim riconobbe il tono da martire nella voce di sua madre. «Grace Traters è andata con lui?» Era la segretaria privata del padre, l'ultima di una lunga serie di segretarie private. «Certo che Grace è andata con lui», rispose Joyce con amarezza. «John non sa neppure allacciarsi le scarpe senza Grace.» «Ma se ti irrita tanto, perché non la fai finita, mamma?» domandò Kim. «Non posso farlo», mormorò Joyce. Kim si morse la lingua, ma provava una sorda collera. Da una parte, le dispiaceva per sua madre e per quello che doveva sopportare, dall'altra era furiosa con lei per quel suo atteggiarsi a vittima. Suo padre aveva sempre avuto avventure extraconiugali, alcune più sbandierate di altre. Era una vecchia storia che andava avanti da quando lei era bambina. Cambiando argomento, Kim chiese alla madre di Elizabeth Stewart. Gli occhiali di Joyce caddero dalla punta del naso, dove stavano in precario equilibrio mentre lei leggeva, e rimasero a dondolare sul suo petto appesi a una catenella che portava al collo. «Che strana domanda», protestò Joyce. «Perché mai ti interessi a lei?» «Mi è capitato di imbattermi nel suo ritratto nella cantina del nonno», spiegò Kim. «Mi ha fatto impressione, soprattutto perché mi sembra di avere gli occhi dello stesso colore dei suoi e mi sono resa conto che di lei non so quasi nulla. Davvero fu impiccata per stregoneria?» «Preferirei non parlarne», affermò Joyce.
«Oh, mamma, e perché?» «È un argomento tabù, ecco.» «Dovresti ricordarlo a tuo nipote Stanton», replicò Kim. «Me ne ha parlato lui, poco tempo fa, durante una cena.» «Dovrò sgridarlo. È imperdonabile da parte sua, lo sa bene.» «E come mai è un argomento tabù, dopo tanti anni?» «Non è una cosa di cui si possa andare orgogliosi», affermò Joyce. «È stata una sordida faccenda.» «Proprio ieri ho letto qualcosa a proposito dei processi alle streghe di Salem. C'è una quantità di materiale sull'argomento, ma Elizabeth Stewart non è mai menzionata. Comincio a chiedermi se sia stata davvero implicata.» «A quanto ne so, era implicata», confermò Joyce, «ma non voglio dire altro. Come mai ti è capitato fra le mani il suo ritratto?» «Sono stata al castello», spiegò Kim. «Sabato mi sono recata alla tenuta perché penso di rimettere a posto la vecchia casa e di andare ad abitarci.» «Ma per quale ragione, in nome del cielo, ti è venuta questa idea?» chiese Joyce. «È una casa così piccola.» «Potrebbe diventare molto carina, e dopotutto è più grande dell'appartamento in cui abito adesso. Inoltre, ho voglia di andarmene per un po' da Boston.» «Dovrai fare molti lavori per renderla abitabile.» «Questa è una delle ragioni per cui volevo parlare con papà. Ma naturalmente non c'è. Devo dire che non è mai stato presente quando avevo bisogno di lui.» «Non potrebbe darti consigli su questo progetto. Invece, dovresti parlare con George Harris e Mark Stevens. Sono il capomastro e l'architetto che hanno appena terminato i lavori di ristrutturazione in questa casa, e il loro progetto era ottimo. Lavorano insieme e hanno un ufficio a Salem. L'altra persona con cui dovresti parlare è tuo fratello Brian.» «Naturalmente», ammise Kim. «Puoi telefonargli da qui e, nel frattempo, io cercherò il numero di telefono del capomastro e dell'architetto.» Joyce balzò in piedi e scomparve. Kim sorrise mentre prendeva il telefono e se lo sistemava sulle ginocchia. Sua madre non cessava mai di stupirla; un momento pareva la quintessenza dell'immobilità contemplativa, e il momento dopo era un turbine di attività e si gettava a capofitto nei progetti di qualcun altro. Kim intuiva quale fosse il suo problema: sua madre non
aveva mai niente da fare. Diversamente dalle sue amiche, non si dedicava ad alcuna attività di assistenza volontaria. Mentre componeva il numero del fratello, Kim diede un'occhiata all'orologio domandandosi che ora fosse a Londra. Non che questo importasse molto. Suo fratello era un nottambulo, lavorava di notte e si concedeva brevi sonni durante il giorno, come gli animali notturni. Brian rispose al primo squillo e, dopo che si furono scambiati i saluti, Kim gli espose la sua idea di andare a vivere nella vecchia casa vicina al castello. La risposta di suo fratello fu decisamente positiva, anzi incoraggiante. Pensava che sarebbe stato vantaggioso che qualcuno abitasse nella proprietà. Fece qualche domanda sul castello e i suoi arredi. «Non conto di toccarlo», gli assicurò Kim. «Al castello penseremo quando tu tornerai.» «Benissimo», approvò Brian. «Dov'è nostro padre?» chiese Kim. «John è sceso al Ritz.» «E Grace?» «Non chiedermelo», rispose Brian. «Torneranno giovedì.» Mentre stava salutando il fratello, Joyce ricomparve e, senza dire nulla, le porse un foglietto con un numero di telefono. Non appena Kim riappese, sua madre le disse di chiamare quel numero. Lei obbedì. «Di chi devo chiedere?» domandò. «Mark Stevens. Sta aspettando la tua telefonata. Io l'ho già chiamato sull'altra linea mentre tu parlavi con Brian.» Kim provò una punta di risentimento per l'intromissione della madre, ma non disse nulla. Sapeva che Joyce cercava solo di esserle di aiuto, ma non poté fare a meno di ricordare quando era alle scuole medie e doveva lottare per impedire alla madre di scriverle i compiti. La conversazione con Mark Stevens fu molto breve. Avendo saputo da Joyce che Kim si trovava già in zona, l'architetto propose che s'incontrassero alla tenuta una mezz'ora dopo. Aggiunse che doveva vedere la proprietà per darle un consiglio valido. Lei fu ben lieta di acconsentire. «Se proprio decidi di rimodernare la vecchia casa, almeno sarai in buone mani», osservò Joyce quando Kim ebbe riappeso. Lei si alzò. «È meglio che vada», disse. Malgrado cercasse di controllarsi, finiva sempre per irritarsi con la madre. Quel suo modo di intromettersi senza rispetto per la sua volontà, la esasperava. Ricordò che proprio la madre aveva chiesto a Stanton di invitarla a cena, dopo avergli detto che ave-
va rotto la sua relazione con Kinnard. «Ti accompagno alla macchina», propose Joyce. «Non ce n'è bisogno, mamma.» «Ma mi fa piacere», insistette Joyce. Si avviarono per il lungo corridoio. «Quando parlerai a tuo padre della vecchia casa», aggiunse Joyce, «ti consiglio di non fare cenno a Elizabeth Stewart. Non faresti che irritarlo.» «E perché mai dovrebbe irritarlo?» ribatté Kim. «Calma, figlia mia, io cerco solo di mantenere la pace in famiglia.» «Ma è ridicolo!» sbottò Kim. «Non capisco.» «Io so soltanto che Elizabeth veniva da una povera famiglia di contadini di Andover», spiegò Joyce. «Non era neppure un membro ufficiale della chiesa.» «Che cosa vuoi che importi oggi?» replicò Kim. «La cosa curiosa è che, pochi mesi dopo i processi, alcuni membri della giuria e i giudici si scusarono pubblicamente perché si erano resi conto di avere condannato delle persone innocenti. E oggi, trecento anni dopo, noi addirittura ci rifiutiamo di parlare della nostra antenata. È una cosa assurda e irrazionale. E perché poi il suo nome non compare in nessun libro?» «Ovviamente, perché la famiglia non voleva che fosse citato. Io non credo che la famiglia la ritenesse innocente, e per questo la faccenda dovrebbe essere lasciata nel cassetto.» «Per me non c'è nulla di vergognoso», affermò Kim. Quindi salì in macchina e lasciò Marblehead Neck. Quando fu sulla superstrada dovette fare uno sforzo per rallentare; in preda a quel vago senso di irritazione e disagio, aveva guidato troppo velocemente. Mentre passava davanti alla Casa delle Streghe, a Salem, dovette ammettere che la curiosità per la sua antenata e i processi di stregoneria era ancora aumentata, malgrado gli ammonimenti della madre, o forse proprio per questo. Quando arrivò al cancello della tenuta di famiglia, vide una Ford Bronco parcheggiata sul bordo della strada e, mentre scendeva dalla sua vettura con in mano le chiavi del cancello, due uomini uscirono dall'automobile. Uno di loro era robusto e muscoloso come se passasse le sue giornate a trasportare pesi, l'altro era tanto grasso da essere quasi obeso e pareva fosse rimasto senza fiato per il semplice sforzo di scendere dalla macchina. Il grasso si presentò come Mark Stevens e il nerboruto come George Harris. Kim strinse la mano a entrambi, quindi aprì il grosso lucchetto, spalancò il cancello e tornò alla macchina. Le due vetture si rimisero in
moto, quella di Kim in testa, e andarono a fermarsi davanti alla vecchia casa. «Favoloso», esclamò Mark, affascinato dalla visione dell'edificio. «Le piace?» chiese Kim, compiaciuta per la sua reazione. «È incantevole.» Innanzitutto fecero il giro intorno alla casa per esaminare l'esterno. Kim spiegò che pensava di installare una nuova cucina e un nuovo bagno nel capanno addossato alla casa, lasciando la parte principale dell'edificio sostanzialmente intatta. «Occorrerà un impianto di riscaldamento e di aria condizionata», osservò Mark. «Ma non dovrebbe costituire un problema.» Dopo avere fatto il giro all'esterno, passarono all'interno e Kim mostrò loro tutta la casa, anche le cantine. I due uomini furono particolarmente interessati dalla robusta intelaiatura di travi maestre e traverse. «È una struttura solida e ben costruita», commentò Mark. «Quali interventi sarebbero necessari per renderla abitabile?» chiese Kim. «Non dovrebbero esserci difficoltà», rispose Mark lanciando un'occhiata a George, che annuì a sua volta. «Credo che ne faremo una casetta deliziosa», aggiunse quest'ultimo. «Senza alterare la struttura e l'aspetto originale dell'edificio?» chiese ancora Kim. «Ma certamente», rispose Mark. «Nasconderemo tutte le tubature, i condotti e l'impianto elettrico nel capanno e in cantina. Non si vedrà niente.» «Faremo uno scavo profondo per sistemarci le tubature», aggiunse George. «Passerà sotto le fondamenta preesistenti e non saremo costretti a intaccarle. L'unica cosa che raccomando è una gittata di cemento per il pavimento del seminterrato.» «Sarà possibile terminare i lavori per il 1° settembre?» chiese Kim. Mark guardò George, che annuì e confermò che non ci sarebbero stati problemi. «Vorrei dare un suggerimento», intervenne Mark. «La stanza da bagno principale sarà giustamente situata nel capanno, come lei ha proposto. Ma potremmo installare un piccolo bagno anche al piano superiore, fra le due camere da letto, senza fare nessun danno. Penso che sarebbe comodo.» «Mi sembra una buona idea», confermò Kim. «Quando potete cominciare?» «Immediatamente», rispose George. «Per poter terminare ai primi di set-
tembre dovremo cominciare domani.» «Abbiamo già lavorato per suo padre», aggiunse Mark. «Anche per questo incarico ci regoleremo come per gli altri. Le metteremo in conto materiali e tempo impiegato, più un tanto come nostro profitto.» «D'accordo», esclamò Kim, ormai decisa. «Il vostro entusiasmo mi ha tolto ogni dubbio. Che cosa dobbiamo fare per dare l'avvio ai lavori?» «Cominceremo subito in base a un accordo verbale», propose Mark. «Poi stileremo un contratto che potrà essere firmato in seguito.» «Benissimo», concluse Kim e tese la mano per stringere quella dei due uomini. «Noi ci fermiamo un po' per prendere delle misure», spiegò Mark. «Fate pure», rispose Kim. «Quanto ai mobili che si trovano nella casa, potrete immagazzinarli per il momento nel garage della casa grande. Il garage è aperto.» «E il cancello?» chiese George. «Se cominciate subito, lasciamolo pure aperto», rispose Kim. Mentre i due uomini erano impegnati nelle loro misurazioni, Kim uscì all'aperto e si fermò a una quindicina di metri a contemplare la casa. Dovette convenire che era veramente deliziosa. Immaginò quanto sarebbe stato divertente arredarla e si chiese in quali colori tinteggiare le stanze. Questi particolari accrebbero la sua eccitazione, ma questo entusiasmo evocò immediatamente il nome di Elizabeth. Di colpo si trovò a domandarsi che cosa avesse provato la sua antenata quando aveva visto la casa per la prima volta e vi era entrata come giovane sposa. Chissà se aveva mostrato altrettanto entusiasmo. Tornò in casa e avvertì Mark e George che si recava al castello. L'avrebbero trovata là, se avessero avuto bisogno di lei. «Per adesso abbiamo molto da fare», rispose Mark, «ma dovremo parlare con lei domani. Può lasciarci il suo numero di telefono?» Kim diede loro il numero dell'appartamento e anche quello dell'ospedale, poi lasciò la vecchia casa, salì in macchina e si diresse al castello. Il pensiero di Elizabeth le aveva fatto venir voglia di passare un po' di tempo a frugare fra le vecchie carte. Aprì il portone principale e lo lasciò semiaperto, nel caso Mark o George venissero a cercarla. Quando si trovò all'interno esitò un attimo, incerta se cominciare dalle soffitte o dalla cantina. Ricordando la bolla di carico del diciassettesimo secolo che aveva trovato nella cantina, decise di tornare là. Attraversò il grande salone e la sala da pranzo e spinse la pesante porta
di quercia. Mentre scendeva gli scalini di granito la porta si chiuse con un tonfo sordo alle sue spalle. Kim si fermò di colpo rendendosi conto che trovarsi sola nell'antico castello era ben diverso che esserci in compagnia di Edward. Sentiva nel silenzio scricchiolii e gemiti della vecchia struttura in legno. Si voltò a guardare la porta, presa dalla paura irrazionale che in qualche modo si fosse bloccata imprigionandola nel sotterraneo. «Ma questo è ridicolo», si disse ad alta voce. Tuttavia non riusciva a liberarsi dal timore di quella porta chiusa, così risalì la scala e la spinse. Come si era aspettata, si riaprì, e allora lasciò che si richiudesse. Rimproverandosi per la sua eccessiva immaginazione, scese di nuovo le scale e si addentrò nelle profondità della cantina, canticchiando per darsi coraggio. Ma la sua disinvoltura era solo esteriore. Dentro di sé, malgrado ogni sforzo, era in preda a un profondo sgomento. Nell'enorme edificio pareva che l'aria fosse pesante e la respirazione difficile e, come aveva già osservato, il silenzio era pieno di rumori sinistri. Si sforzò di ignorare quel senso di disagio e, sempre canticchiando la stessa canzone, entrò nella cella dove aveva trovato la bolla di carico del diciassettesimo secolo. Il sabato precedente aveva frugato nel cassetto dove aveva rinvenuto il documento e ora cominciò a cercare negli altri scaffali dell'armadio. Ben presto si rese conto di quanto fosse difficile la ricerca dei documenti di casa Stewart. Vi erano decine di armadi come quello che aveva davanti, e ogni cassetto era stracolmo di carte. Doveva analizzare scrupolosamente un documento dopo l'altro. Molti erano interamente scritti a mano e difficili da decifrare, in altri era impossibile individuare la data. E per peggiorare le cose, la luce dei portalampada infissi alle pareti era ben lungi dall'essere adeguata. Decise che in futuro avrebbe fatto installare un'illuminazione più forte. Dopo avere esaminato il contenuto di un solo cassetto dovette arrendersi. La maggior parte dei documenti su cui riuscì a trovare una data risalivano alla fine del diciottesimo secolo. Sperando che ci fosse un certo ordine in quella confusione, prese ad aprire i cassetti a caso e a tirare fuori qualche carta, in cerca di qualcosa di più antico. Fu nel primo cassetto di un vecchio scrittoio vicino alla porta che fece la sua prima scoperta. La sua attenzione era stata all'inizio attratta da alcune bolle di carico che risalivano al diciassettesimo secolo ed erano antecedenti a quella che aveva mostrato a Edward il sabato precedente. Poi ne trovò un intero pacchetto lega-
to con una cordicella. Erano scritte a mano con una calligrafia chiara ed elegante e tutte recavano la data. Perlopiù trattavano di pelli, legna, pesce, rum, zucchero e grano, ma in mezzo al pacchetto c'era una busta indirizzata a Ronald Stewart. E la scrittura era diversa, rigida e irregolare. Kim portò la busta nel corridoio dove la luce era migliore, estrasse la lettera e l'aprì. Era datata 21 giugno 1679 ed era difficile da leggere. Signore, diversi giorni sono passati da quando è arrivata la vostra lettera. Io ho parlato molto con la famiglia riguardo alla vostra proposta per la nostra amata figlia Elizabeth, che è una fanciulla di alti sentimenti. Se tale sarà la volontà di Dio, voi potrete avere la sua mano, purché mi diate la vostra parola di trasferire la famiglia a Salem Town. La minaccia di incursione degli indiani costituisce sommo pericolo per le nostre vite qui ad Andover, e ci ha causato molte ambasce. Vostro umile servitore James Flanagan Kim rimise lentamente la lettera nella sua busta. Era sgomenta, anzi sdegnata. Non si riteneva una femminista, ma quella lettera la offendeva. Elizabeth era stata un oggetto di scambio in un contratto! Sentì più che mai simpatia per la sua antenata. Tornando nella cantina, posò la lettera sul ripiano dello scrittoio dove l'aveva trovata e cominciò a esaminare con maggior cura il contenuto del cassetto. Dimentica del tempo e dell'ambiente in cui si trovava, scrutò attentamente ogni foglio di carta. Le passarono fra le mani diverse bolle di carico della stessa epoca, ma non trovò altre lettere. Senza scoraggiarsi, passò al secondo cassetto, e fu allora che sentì sopra di sé un inconfondibile rumore di passi. S'irrigidì. Il vago senso di inquietudine che aveva avvertito scendendo in cantina si fece più intenso, rafforzato da un senso di colpa che le veniva dall'impressione di violare un passato oscuro e vietato. Di conseguenza, mentre i passi risonavano direttamente sopra la sua testa, la sua immaginazione sfrenata le suscitò la visione di qualche pauroso spettro. Kim pensò persino che potesse essere il nonno defunto che non aveva gradito quella sua intrusione in un passato ormai morto e sepolto. Il suono dei passi si allontanò e si confuse con gli scricchiolii e i gemiti della vecchia casa. Non sapeva che cosa fare. Avrebbe voluto fuggire dalla
cantina e al tempo stesso nascondersi fra gli scaffali e i tavolini. Incapace di decidere, non fece né l'una né l'altra cosa, ma si avvicinò in punta di piedi alla porta della cella e sbirciò da uno spiraglio nel lungo corridoio. In quel momento, sentì aprirsi con uno scricchiolio la porta di quercia della cantina. Non poteva vederla, ma era sicura che fosse la porta. Paralizzata dalla paura, rimase impotente a osservare mentre un paio di scarpe nere e di pantaloni neri comparivano al sommo della scala e scendevano inesorabilmente i gradini. A metà il visitatore si fermò, poi una figura si chinò e in controluce apparve confusamente una testa. «Kim?» chiamò la voce di Edward. «Sei laggiù?» La sua prima reazione fu un sospiro profondo. Fino a quel momento non si era resa conto di trattenere il respiro. Appoggiandosi alla parete perché le tremavano le gambe, rispose a Edward per fargli sapere dove si trovava. Dopo qualche istante la sua alta figura si stagliò nel vano della porta. «Mi hai spaventata!» protestò la ragazza con tutta la calma che riuscì a imporsi. Adesso che sapeva che il misterioso visitatore era Edward, si sentiva molto stupida per avere provato tanto terrore. «Mi dispiace», si scusò lui balbettando lievemente. «Non volevo farti paura.» «Perché non hai chiamato prima?» «L'ho fatto diverse volte. Prima quando sono arrivato al portone e poi entrando nella sala grande. Credo che questa cantina sia isolata acusticamente.» «Lo penso anch'io», ammise Kim. «Ma tu, che cosa fai qui? Non ti aspettavo.» «Ti ho telefonato e Marsha mi ha detto che ti avrei trovato qui. E così ho deciso di venire. Mi sento responsabile perché sono io che ti ho suggerito di rimettere a posto la vecchia casa.» «Un'idea affascinante», replicò Kim. Sentiva ancora il cuore batterle forte. «Mi dispiace davvero di averti spaventata», ripeté Edward. «Oh, non importa. È colpa mia, mi lascio trascinare troppo dall'immaginazione. Ho sentito dei passi e ho creduto che fosse un fantasma.» Edward fece una smorfia e allungò le mani ad artiglio. Kim gli diede un pugno scherzoso su una spalla e gli disse che non era affatto divertente. Si sentirono entrambi sollevati e la tensione si dissolse. «Così hai cominciato la ricerca di Elizabeth Stewart», osservò Edward, dando un'occhiata al cassetto aperto dello scrittoio. «Hai trovato qualco-
sa?» «In effetti, ho trovato davvero qualcosa.» Fece un passo verso lo scrittoio e gli porse la lettera di James Flanagan a Ronald Stewart. Edward estrasse con cura il foglietto dalla busta e lo avvicinò alla luce. Gli ci volle per leggerlo tanto tempo quanto ne era occorso a Kim. «Incursioni di indiani ad Andover!» esclamò. «Te lo immagini? La vita doveva essere proprio diversa, allora!» Terminò di leggere la lettera e la riconsegnò a Kim. «Interessante», commentò. «Non ti senti sconvolto?» chiese Kim. «Non particolarmente. Perché dovrei?» «Io sono sconvolta. Quella povera Elizabeth non ha potuto decidere nulla del suo destino. Suo padre l'ha usata come merce di scambio in una transazione d'affari. È deplorevole.» «Credo che tu salti troppo presto alle conclusioni. La libertà di scelta, come la intendiamo noi, non esisteva nel diciassettesimo secolo. La vita era più dura e più precaria. Gli uomini dovevano unire i loro sforzi per sopravvivere; gli interessi individuali non potevano avere la priorità.» «Ma questo non giustifica il fatto di barattare la vita di una figlia. Pare che suo padre la considerasse come una cavalla o un oggetto di sua proprietà.» «Secondo me, stai esagerando. Il fatto che ci sia stato un accordo fra James Flanagan e Ronald non significa necessariamente che Elizabeth non abbia potuto esprimere il proprio parere e dire se voleva o meno sposare Ronald. Inoltre, devi considerare che per lei doveva essere una ragione di conforto e soddisfazione provvedere al benessere della sua famiglia.» «Già, può darsi che sia così», ammise Kim. «Il guaio è che io so che cosa le è successo alla fine.» «Ma finora tu non sai di sicuro se sia stata impiccata o no», le ricordò Ronald. «È vero, ma questa lettera suggerisce almeno una ragione per cui in seguito la poveretta ha dovuto essere accusata di stregoneria. Da quello che ho letto, nell'epoca puritana si pensava che le persone non dovessero cambiare il loro stato sociale e, se lo facevano, si deduceva che non seguissero la volontà di Dio. Il fatto che Elizabeth, figlia di un povero contadino, sia diventata di colpo la moglie di un ricco mercante rientra certamente in questo quadro.» «Essere suscettibile di accusa ed essere realmente accusata sono due co-
se ben diverse», osservò Edward. «E poiché non ho trovato il suo nome in nessun libro, io resto in dubbio.» «Mia madre mi ha detto che la ragione per cui il suo nome non compare è che la famiglia ha fatto di tutto per cancellarlo. Mi ha fatto anche capire che questo è avvenuto perché la famiglia la riteneva colpevole.» «Questo è molto strano, ma in un certo senso ha una spiegazione. Nel diciassettesimo secolo la gente credeva nella stregoneria e può darsi anche che Elizabeth la praticasse.» «Aspetta un momento», protestò Kim. «Vuoi forse dire che Elizabeth era una strega? La mia idea è che fosse colpevole in un certo qual modo di avere cambiato la sua condizione sociale, ma non certo che si considerasse una fattucchiera.» «Voglio dire che forse praticava qualche forma di magia. A quel tempo esisteva la magia bianca e la magia nera. La differenza era che la magia bianca operava effetti positivi, per esempio la guarigione di una persona o di un animale. La magia nera aveva scopi malvagi e veniva chiamata stregoneria. Ovviamente, ci saranno stati dei casi in cui era difficile decidere se qualche pozione o qualche incantesimo rientrava nella magia bianca o in quella nera.» «Be', forse hai ragione», ammise Kim. Pensò un attimo, poi scosse la testa. «No, non sono convinta. Il mio intuito mi dice diversamente. Ho la sensazione che Elizabeth fosse una creatura assolutamente innocente colpita da un'orribile tragedia per qualche maligno tiro del destino. Qualunque esso sia stato, dev'essere stato spaventoso, e il fatto che la sua memoria sia stata così calpestata segna il culmine dell'ingiustizia.» Diede un'occhiata agli armadi, agli scrittoi e agli scatoloni. «La questione è: la spiegazione può essere in questo mare di documenti?» «Direi che il rinvenimento di questa lettera personale è di buon auspicio», osservò Edward. «Se ce n'è una, dovrebbero essercene altre. E se è possibile trovare una risposta, bisognerà cercare nella corrispondenza personale.» «Vorrei proprio che ci fosse una specie di ordine cronologico in tutte queste carte», sospirò Kim. «E a proposito della vecchia casa?» chiese Edward. «Hai deciso se rimodernarla o no?» «Ho deciso. Vieni, ti spiego tutto.» Lasciarono la macchina di Edward parcheggiata al castello e con quella di Kim si recarono alla vecchia casa. Con entusiasmo, lei lo condusse a fa-
re un giro e gli spiegò che contava di seguire il suo suggerimento e installare le comodità moderne nel capanno annesso. La novità più interessante riguardava il piccolo bagno da sistemare fra le due camere da letto. «Penso che il risultato sarà splendido», affermò Edward mentre uscivano dall'edificio. «Ti invidio.» «Anch'io ne sono entusiasta», confermò Kim. «Pregusto già il piacere di arredarla. Cercherò di prendermi qualche giorno di ferie in settembre, per dedicarmi a questo a tempo pieno.» «Pensi di fare tutto da sola?» «Ma certamente.» «Ti ammiro. Io so che non ne sarei capace.» Ritornarono alla macchina di Kim, che indugiò a mettere in moto. Osservavano entrambi la casa attraverso il parabrezza. «Devo dire che ho sempre desiderato fare l'arredatrice di interni», mormorò pensosamente Kim. «Davvero?» «È stata un'occasione perduta. Il mio principale interesse da adolescente, soprattutto alla scuola superiore, è sempre stato l'arte, in tutte le forme. Allora, devo ammetterlo, ero un'artista un po' eccentrica, non mi inserivo in nessun gruppo.» «Neppure io riuscivo a inquadrarmi in un gruppo», commentò Edward. Kim mise in moto e girò la macchina, dirigendosi verso il castello. «E perché non sei diventata un'arredatrice d'interni?» chiese Edward. «I miei genitori mi hanno dissuaso, soprattutto mio padre.» «Non capisco», obiettò Edward. «Venerdì, a pranzo, mi hai detto che tu e tuo padre non siete mai andati molto d'accordo.» «Non andavamo molto d'accordo, ma lui aveva molta influenza su di me. Io pensavo che fosse colpa mia se il nostro rapporto non era più affettuoso, perciò facevo ogni sforzo per cercare di piacergli, ed è per questo che sono diventata infermiera. Lui desiderava per me il lavoro di infermiera o l'insegnamento, perché riteneva che fossero professioni 'adatte' a una donna.» «I padri possono avere molta influenza sui loro figli», rifletté Edward. «Anch'io ricordo che cercavo in tutti i modi di compiacere il mio. Quando ci penso adesso, capisco che ero stupido. Avrei dovuto ignorarlo. Il fatto è che lui mi derideva per la mia balbuzie e la mia mancanza di abilità negli sport competitivi. Credo di essere stato una delusione per lui.» Arrivarono al castello e Kim fermò la macchina. Quando stava per scen-
dere, Edward cambiò idea e tornò a sedersi. «Hai già mangiato?» chiese. Lei scosse la testa. «Neanch'io. Perché non andiamo a Salem e cerchiamo un ristorante un po' decente?» «Ci sto», rispose Kim. Uscirono dalla tenuta e si diressero verso la città. Kim fu la prima a rompere il silenzio. «Io attribuisco la mia mancanza di disinvoltura nei rapporti sociali direttamente al rapporto con i miei genitori. È stato così anche per te?» «Non ne dubito affatto.» «È sorprendente quanto sia importante la fiducia in se stessi», osservò Kim, «ed è così facile minarla nei bambini.» «Anche negli adulti», aggiunse Edward. «E una volta perduta, è finita. La mancanza di fiducia influisce sul comportamento, che, a sua volta, influisce sull'autostima. È un circolo chiuso. Ecco allora lo scopo dei farmaci: rompere il circolo vizioso.» «Parli ancora del Prozac?» chiese Kim. «Indirettamente. Il Prozac può influire positivamente sul comportamento di alcuni pazienti.» «E tu avresti preso il Prozac quando eri al liceo, se fosse stato disponibile?» «Probabilmente sì», ammise Edward. «Avrebbe certo cambiato la mia esperienza di vita.» Kim gli lanciò una rapida occhiata. Aveva la sensazione che il giovane le avesse detto qualcosa di molto personale. «Non sei obbligato a rispondermi», proseguì, «e forse io non dovrei chiederlo, ma hai mai provato a prendere il Prozac?» «Non ho nessuna difficoltà a risponderti», replicò Edward. «L'ho usato per qualche tempo un paio di anni fa. Mio padre era morto e io attraversavo un periodo di depressione. Era una reazione che non mi aspettavo, considerati i miei rapporti con lui. Un collega mi ha consigliato il Prozac e io l'ho provato.» «E ti ha curato la depressione?» «Senz'altro. Non immediatamente, ma con il tempo. Ma la cosa più importante è che mi ha dato una certa dose di sicurezza. Io non me l'aspettavo, per cui non è stato un effetto placebo. E mi ha fatto molto piacere.» «Effetti collaterali?» chiese Kim.
«Qualcuno», ammise Edward, «ma niente di terribile, e certamente accettabile, in rapporto all'efficacia del farmaco.» «Interessante», osservò Kim sinceramente. «Spero che la mia confessione di avere usato psicofarmaci non turbi il tuo puritanesimo farmacologico.» «Non dire sciocchezze! Al contrario, apprezzo la tua sincerità. E poi, chi sono io per giudicare? Non ho mai preso il Prozac, ma sono stata in psicoterapia durante il liceo. Direi che questo è un altro punto in comune fra di noi.» Edward si mise a ridere. «Giusto! Siamo matti tutti e due.» Trovarono un piccolo ristorante che serviva pesce fresco, ma era molto affollato e dovettero aspettare seduti sugli sgabelli del bar. Quando si liberò un tavolo, si fecero portare merluzzo al forno e due boccali di birra alla spina ben gelata. Per dessert ordinarono un pudding tipico del luogo, preparato secondo una vecchia ricetta indiana, e gelato alla crema. Dopo la chiassosa atmosfera del ristorante, si godettero un po' di silenzio mentre in macchina tornavano alla tenuta. Tuttavia, mentre varcavano il cancello, Kim si accorse che Edward era diventato visibilmente nervoso. Si agitava e si scostava con gesto meccanico i capelli dalla fronte. «C'è qualcosa che non va?» chiese Kim. «N-no», le rispose, balbettando. Kim andò a fermarsi accanto alla sua macchina, ma innestò il freno a mano, senza spegnere il motore. Aspettava, intuendo che Edward aveva in mente qualche cosa. Infine lui ruppe il silenzio. «Vorresti venire a casa mia, ora che torniamo in città?» Quell'invito la mise in imbarazzo. Sapeva che Edward aveva dovuto fare appello a tutto il suo coraggio per invitarla, e non voleva che si sentisse respinto. Ma, nello stesso tempo, pensava alle esigenze dei pazienti di cui avrebbe dovuto occuparsi il mattino dopo. Infine, il senso di responsabilità professionale ebbe la meglio. «Mi dispiace, Edward», rispose, «è un po' tardi, stasera, e io sono sfinita dalla stanchezza. Sono in piedi dalle sei del mattino.» E in un ultimo tentativo di alleggerire la tensione aggiunse: «Inoltre, sono giorni di scuola e non ho ancora finito i compiti». «Potremmo tornare presto», insistette Edward. «Sono appena passate le nove.» Kim fu insieme sorpresa e imbarazzata. «Penso che forse stiamo correndo troppo», osservò. «Mi sento molto a mio agio con te, ma non voglio
precipitare le cose.» «Certo, certo», disse Edward. «Naturalmente anch'io sto molto bene con te.» «Mi piace la tua compagnia», continuò Kim. «E sono libera venerdì e sabato, questa settimana, se a te va bene.» «Allora possiamo ceniamo insieme giovedì sera», propose Edward. «Così non sarà la sera di un giorno di scuola.» Kim si mise a ridere. «Con piacere», accettò, «e farò in modo di avere già fatto tutti i compiti.» 4 Venerdì 22 luglio 1994 Kimberly aprì lentamente gli occhi. Dapprima si sentì disorientata, non sapeva dove si trovava. Le imposte che chiudevano le finestre non le erano familiari. Poi voltò la testa e vide accanto a sé Edward addormentato, allora tutto le tornò alla mente. Si tirò il lenzuolo sulle spalle, fino al collo, sentendosi a disagio e fuori posto. «Ipocrita», si rimproverò sussurrando. Ricordava che appena pochi giorni prima aveva detto a Edward che non voleva precipitare le cose, e ora si svegliava nel suo letto. Non aveva mai avuto una relazione che fosse arrivata all'intimità così rapidamente. Cercò di scivolare fuori del letto il più silenziosamente possibile, per vestirsi prima che Edward si svegliasse, ma non ci riuscì. Buffer, il piccolo fox terrier bianco e piuttosto bruttino, accoccolato in un angolo, le ringhiò mostrando i denti. Edward si alzò a sedere e zittì il cane, poi con un lieve borbottio si lasciò ricadere sul guanciale. «Che ora è?» chiese. Aveva già richiuso gli occhi. «Sono appena passate le sei.» «E come mai sei sveglia così presto?» «Sono abituata così», rispose Kim. «Questa è l'ora in cui di solito mi sveglio.» «Ma era quasi l'una quando siamo venuti a letto!» «Be', non importa. Mi dispiace, non avrei dovuto fermarmi.» Edward aprì gli occhi e la guardò. «Ti senti a disagio, Kim?» chiese. Lei annuì.
«Mi dispiace», disse Edward, «non avrei dovuto spingerti a farlo.» «Non è colpa tua.» «Ma tu avevi intenzione di andartene», ribatté lui. «È stata colpa mia.» Si guardarono per un attimo, poi scoppiarono a ridere. «Facciamo sempre a gara a scusarci l'uno con l'altra», osservò Kim. «Sarebbe comico se non fosse così penoso. Ormai avremmo dovuto fare qualche progresso.» Kim gli si avvicinò e si abbracciarono in silenzio. Fu Edward a rompere il silenzio. «Ti senti ancora a disagio?» le chiese. «Oh, no! Qualche volta il semplice parlare delle cose è di grande aiuto.» Più tardi, mentre Edward faceva la doccia, Kim telefonò a Marsha, che a quell'ora doveva essere in procinto di uscire di casa per recarsi al lavoro. L'amica fu lieta di sentirla e le disse di essersi preoccupata non avendola vista tornare la sera prima. «Già, avrei dovuto telefonare», ammise Kim. «Credo di capire che la serata è stata un successo», insinuò Marsha maliziosamente. «Un vero successo», confermò lei. «Ma avevo fatto tardi e non volevo rischiare di svegliarti.» «Oh, ma certo!» replicò l'altra con una punta di sarcasmo. «Vuoi farmi il favore di dare da mangiare a Sheba?» chiese Kim per cambiare argomento. Marsha la conosceva fin troppo bene. «La tua gatta ha già pranzato», rispose. «L'unica notizia che ho da darti è che ieri sera ti ha telefonato tuo padre. Vuole che lo richiami appena puoi.» «Mio padre? Ma non mi telefona mai!» «Non c'è bisogno che tu me lo dica. Abitiamo insieme da anni e questa è la prima volta che gli ho parlato al telefono.» Quando Edward ebbe fatto la doccia e si fu vestito, propose a Kim di andare a fare colazione in Harvard Square. Lei aveva pensato che volesse invece recarsi subito al suo laboratorio. «Mi sono alzato due ore prima del solito», spiegò Edward, «il laboratorio può aspettare. E poi, è stata la serata più piacevole dell'anno e non voglio che finisca.» Sorridendo, Kim lo abbracciò e lo strinse forte a sé. Per farlo, dovette alzarsi sulla punta dei piedi e lui rispose all'abbraccio con una stretta non meno espansiva. Presero la macchina di Kim perché era necessario spostarla: si trovava infatti abusivamente nel parcheggio privato fuori dell'appartamento di E-
dward. Giunti ad Harvard Square, lui la condusse in una piccola caffetteria frequentata da studenti, dove si fecero servire uova strapazzate, pancetta e caffè. «Che progetti hai per oggi?» chiese Edward. Dovette alzare la voce, per farsi sentire nel chiasso dell'affollato locale. La sessione estiva all'università era in pieno svolgimento. «Conto di recarmi subito a Salem», rispose Kim. «Hanno già cominciato i lavori alla villa e voglio controllare i progressi che hanno fatto.» Aveva deciso di chiamare la vecchia casa «la villa», per distinguerla dal castello. «Quando pensi di tornare?» «Verso sera.» «Vogliamo incontrarci questa sera all'Harvest Bar verso le otto?» propose Edward. «D'accordo.» Quando ebbero finito di fare colazione, Edward chiese a Kim di dargli un passaggio fino ai laboratori di Harvard. «Non vuoi che ti riaccompagni a casa a prendere la tua macchina?» chiese lei. «No, grazie, non ci sarebbe posto per parcheggiarla nel campus. Per andare al laboratorio prenderò la navetta che porta alla zona degli istituti medici come faccio piuttosto spesso. Fa parte dei vantaggi di abitare a poca distanza. È un tragitto che si può fare a piedi.» Si fece condurre all'angolo fra Kirkland Street e Divinity Avenue, dove scese e si fermò sul marciapiede a salutarla con la mano finché non si fu allontanata. Sapeva di essere innamorato e questa sensazione lo riempiva di gioia. Si voltò e si avviò per Divinity Avenue. Aveva voglia di cantare. Quello che lo rendeva così felice era il pensiero che Kim cominciasse a provare dell'affetto per lui. Tutto quello che poteva fare era sperare che durasse. Pensò ai fiori che le aveva mandato ogni giorno e si domandò se non avesse esagerato: aveva così poca esperienza in questioni del genere. Arrivato ai laboratori, Edward controllò l'ora: non erano ancora le otto. Salendo le scale si domandò preoccupato se Kevin Scranton si sarebbe fatto aspettare, ma i suoi dubbi risultarono infondati. Kevin era già lì. «Sono lieto che tu sia già arrivato», lo accolse. «Stavo per telefonarti.» «Hai trovato la Claviceps purpurea?» «No», rispose Kevin, «niente Claviceps.» «Maledizione!» imprecò Edward lasciandosi cadere su una sedia. Un acuto senso di delusione gli strinse lo stomaco. Aveva sperato in un risul-
tato positivo e ci contava, soprattutto per Kim. Voleva offrirglielo come un dono della scienza che avrebbe cancellato l'infamia che macchiava il nome degli Stewart. «Non fare quella faccia avvilita», riprese Kevin. «Non c'era traccia di Claviceps, ma c'era una quantità di altre muffe. Una somiglia morfologicamente alla Claviceps purpurea, ma è una specie finora sconosciuta.» «Davvero?» esclamò Edward, illuminandosi all'idea che almeno avevano fatto una scoperta. «Naturalmente non è straordinario», replicò Kevin, e il viso di Edward tornò a rabbuiarsi. «Attualmente si conoscono circa cinquantamila specie di funghi. E alcuni ritengono che ne esistano in natura da centomila a duecentocinquantamila specie.» «Insomma, quello che vuoi dirmi è che questa non è una scoperta memorabile», commentò Edward depresso. «Io non do giudizi di valore, ma è una muffa che potresti trovare interessante. È un ascomiceto, come la Claviceps. E, come la Claviceps, forma degli sclerozi.» Kevin allungò la mano e lasciò cadere sulla palma di Edward diversi minuscoli granelli scuri che lui sfiorò con la punta dell'indice. Parevano grani di riso. «Sarebbe meglio che tu mi dicessi subito che cosa sono questi sclerozi», disse Edward. «Un tipo di spore vegetative prodotte da certi funghi. Sono diverse dalle semplici spore unicellulari perché gli sclerozi sono pluricellulari e contengono filamenti di miceli, o ife, insieme con riserve di sostanze nutritive.» «Che cosa ti fa pensare che sarebbero interessanti per me?» chiese Edward, a cui pareva che somigliassero ai semi contenuti nel pane di segale. Ne annusò uno: era del tutto inodore. «Perché negli sclerozi della Claviceps è appunto contenuto l'alcaloide bioattivo che provoca l'ergotismo», spiegò Kevin. «Perdinci!» esclamò Edward. Poi si chinò e studiò più attentamente il minuscolo granello che aveva fra le dita. «Che probabilità ci sono che contenga gli stessi alcaloidi della Claviceps purpurea?» «Questa è una domanda da mille dollari. Personalmente penso che le probabilità siano piuttosto buone. Non esistono molti funghi che producano sclerozi. Ovviamente questa nuova specie è affine in qualche modo alla Claviceps purpurea.» «Perché non la proviamo?» chiese Edward.
«Che diavolo vuoi dire?» ribatté Kevin, guardandolo con sospetto. «Perché non facciamo un infuso con questi granelli e lo assaggiamo?» «Tu scherzi, spero.» «Veramente non scherzo affatto. Mi interessa scoprire se questa muffa produce un alcaloide che abbia effetti allucinogeni. E il miglior modo per scoprirlo è assaggiarla.» «Sei fuori di testa», esclamò Kevin. «Le micotossine possono essere potentissime, come dimostrano le innumerevoli vittime dell'ergotismo. La scienza ne scopre di nuove ogni momento. Sarebbe troppo rischioso.» «Ma dov'è finito il tuo spirito avventuroso?» lo punzecchiò Edward alzandosi. «Posso usare il tuo laboratorio per questo piccolo esperimento?» «Non sono sicuro di dovertelo permettere», replicò Kevin. «Insomma, fai sul serio o no?» «Sono serissimo.» Kevin lo condusse nel suo laboratorio e gli domandò che cosa gli occorresse. Edward chiese un mortaio e un pestello o qualcosa di equivalente, acqua distillata, un acido debole per fare precipitare l'alcaloide, un po' di carta filtrante, un'ampolla da un litro e una pipetta da un millilitro. «Questa è pura follia», protestò Kevin, ma gli procurò il materiale richiesto. Edward si mise al lavoro. Triturò alcuni sclerozi, ne estrasse la polpa con l'acqua distillata e, con l'acido debole, fece precipitare una minuscola quantità di sostanza biancastra. Quindi, con l'aiuto della carta filtrante isolò qualche granello del precipitato bianco. Kevin, intanto, continuava a osservarlo con un misto di incredulità e stupore. «Non dirmi che vuoi mangiarti quella roba!» esclamò sempre più allarmato. «Oh, andiamo! Non sono stupido.» «Magari vuoi prendermi in giro.» «Quello che mi interessa è l'effetto allucinogeno. Se questa sostanza produce davvero un tale effetto, lo farà anche ingerendone dosi minime. Ne prenderò meno di un microgrammo.» Raccolse una briciola del precipitato sulla punta di una spatolina e la sciolse in un litro di acqua distillata nell'ampolla millimetrata, che scosse vigorosamente. «Potremmo darci da fare per sei mesi con questa roba senza riuscire a sapere se può provocare allucinazioni», spiegò. «Quello che occorre è un cervello umano, e il mio è appunto disponibile, al momento. Quando si
tratta della scienza, io sono un uomo di azione.» «E se avesse un effetto tossico sui reni?» chiese Kevin. «Suvvia!» esclamò Edward quasi irritato. «A questo dosaggio? Diavolo, no! Siamo molto al di sotto del livello di tossicità della tossina botulinica, che è la sostanza più tossica conosciuta. Inoltre, non solo si parla di microgrammi, ma tieni presente che si tratta di una miscela di sostanze, per cui la concentrazione di ciascuna risulta molto più bassa.» Chiese a Kevin di porgergli la pipetta da un millilitro e questi, pur riluttante, lo accontentò. «Sei sicuro di non volere partecipare all'esperimento?» chiese Edward. «Potresti perdere la possibilità unica di collaborare a un'interessante scoperta scientifica.» Rise mentre riempiva la minuscola pipetta. «Grazie, no», ribatté Kevin. «Ho fatto un vantaggioso accordo con le mie cellule renali con cui ci impegniamo a vicenda a evitare abusi.» «Alla tua salute», brindò Edward sollevando la pipetta per un attimo prima di deporre quell'unico millilitro sulla punta della lingua. Bevve poi una sorsata d'acqua e, dopo averla tenuta per un attimo in bocca, la inghiottì. «Ebbene?» chiese Kevin nervoso, dopo un istante di silenzio. «Appena una punta di amaro», rispose Edward. Aprì e chiuse la bocca più volte per assaporare il gusto. «E nient'altro?» chiese ancora Kevin. «Comincio appena a sentirmi girare un po' la testa.» «Diavolo, tu avevi la testa confusa ancora prima di cominciare!» «Ammetto che questo piccolo esperimento manca dei dovuti controlli scientifici», borbottò Edward. «Qualunque cosa io senta, potrebbe essere un effetto placebo.» «Non avrei dovuto assecondarti», protestò Kevin. «Insisto affinché tu faccia subito, questo pomeriggio, un'analisi completa delle urine.» «Ehi, ehi», esclamò Edward. «Sta succedendo qualcosa.» «Oh Dio! Che cosa?» «Vedo un fluire di colori che mi scorrono intorno in forme amebiche, come in una specie di caleidoscopio.» Kevin si lasciò sfuggire un'esclamazione e fissò il volto di Edward, che aveva assunto l'espressione di chi cade in trance. «Ora sento dei suoni, come di un sintetizzatore, e ho la bocca un po' asciutta. E c'è un'altra cosa: avverto un principio di parestesia nelle braccia, come se mi mordessero o mi pungessero. È strano.»
«Devo chiamare qualcuno?» chiese Kevin. Con sua grande sorpresa, Edward tese le braccia e lo afferrò alle spalle stringendolo con forza inaspettata. «Ho l'impressione che la stanza si muova», mormorò. «E ho un leggero senso di soffocamento.» «Sarà meglio chiamare aiuto», ripeté Kevin, piuttosto preoccupato. Si voltò verso il telefono, ma Edward rafforzò la sua stretta. «Va tutto bene», gli disse, «i colori si stanno attenuando. Sta passando.» Chiuse gli occhi e rimase immobile, sempre tenendo stretto l'amico. Infine aprì gli occhi e sospirò. «Oh!» Solo allora si rese conto che stava stringendo le braccia di Kevin. Lo lasciò andare, respirò a fondo e si lisciò la giacca. «Credo che abbiamo ottenuto la nostra risposta», affermò. «È stata una cosa idiota!» lo rimproverò Kevin. «Questa tua pagliacciata mi ha proprio spaventato. Stavo per chiamare il pronto soccorso.» «Calmati», replicò Edward, «non è stato così terribile. Non è il caso di agitarsi tanto per una reazione psichedelica di sessanta secondi.» Kevin additò l'orologio. «Non sono stati sessanta secondi», protestò. «Sono stati quasi venti minuti.» Anche Edward diede un'occhiata all'orologio. «Che strano! Anche il mio senso del tempo era distorto.» «Ma ora, in generale, ti senti bene?» chiese Kevin. «Benissimo! In realtà mi sento meglio di prima. Mi sento...» esitò, cercando di esprimere in parole le sue sensazioni. «Mi sento pieno di energia, come dopo un lungo riposo. E vedo tutto più chiaro, come se la mia mente fosse particolarmente acuta. Direi persino che provo una leggera euforia, ma questo potrebbe essere dovuto alla soddisfazione di avere ottenuto un risultato positivo. Abbiamo accertato, dunque, che questo nuovo fungo produce una sostanza allucinogena.» «Non esageriamo con questo 'noi'», obiettò Kevin. «Sei tu che l'hai accertato, non io. Rifiuto di condividere qualsiasi merito per questa follia.» «Mi chiedo se gli alcaloidi siano gli stessi della Claviceps», rifletté Edward. «Non mi sembra di avvertire il minimo sintomo di riduzione della circolazione vascolare periferica, che è un frequente indizio di ergotismo.» «Almeno promettimi che farai un'analisi completa delle urine, questo pomeriggio. Tu non sei preoccupato, ma io sì.» «Se è per farti dormire tranquillo stanotte, lo farò», acconsentì Edward. «Intanto vorrei che tu mi procurassi altri sclerozi. È possibile?» «È possibile, adesso che ho scoperto la coltura necessaria al fungo per
crescere, ma non posso prometterti una grande quantità di sclerozi. Non è sempre facile ottenere che il fungo li produca.» «Bene, cerca di fare del tuo meglio. Ricorda che da tutto questo potremmo tirarne fuori una bella pubblicazione.» Mentre si affrettava attraverso il campus per prendere la navetta, Edward si sentiva eccitato e soddisfatto dei risultati raggiunti. Non vedeva l'ora di riferire a Kim che la sua teoria dell'intossicazione riguardo alle streghe di Salem era valida e poteva essere dimostrata. Per quanto fosse ansiosa di vedere come progredivano i lavori alla tenuta, Kim era ancora più curiosa di sapere perché mai suo padre le avesse telefonato. Sperando di trovarlo in casa prima che uscisse per recarsi al suo ufficio a Boston, si diresse a Marblehead. Entrò e si avviò direttamente in cucina. Come si era aspettata, John era al tavolo della prima colazione e sorseggiava il caffè sfogliando i giornali. Era un uomo alto e robusto ed era stato un atleta durante gli anni di università ad Harvard. Il suo viso largo era coronato da folti capelli che una volta erano stati neri e lucenti come quelli di Kim. Adesso che erano diventati grigi, gli conferivano un'aria paterna, almeno esteriormente. «Buongiorno Kimmy», la salutò John senza staccare gli occhi dal giornale. Kimberly si servì un caffè e fece schiumare un po' di latte caldo per prepararsi un cappuccino. «Come va la tua macchina?» le chiese suo padre. Si udì il fruscio del giornale mentre voltava pagina. «Spero che tu provveda regolarmente alla manutenzione, come ti ho consigliato.» Kim non rispose. Era abituata a essere trattata dal padre come una ragazzina e ne provava un leggero risentimento. John non faceva che darle istruzioni su come regolare la sua vita, ma più cresceva, più Kim si convinceva che lui non aveva il diritto di dare consigli a nessuno, soprattutto considerando quello che aveva fatto della sua vita e del suo matrimonio. «Ho sentito che mi hai telefonato a casa, ieri sera», cominciò Kim. Prese posto su una sedia accanto alla finestra della veranda che dava sull'oceano. John abbassò il giornale. «Già, ti ho chiamato perché Joyce mi ha detto che ti stavi interessando di Elizabeth Stewart e facevi domande su quella faccenda. La cosa mi ha sorpreso. Ti ho telefonato per domandarti come mai avessi deciso di turbare così tua madre.» «Io non volevo affatto turbarla», ribatté Kim. «Mi interessava la storia di
Elizabeth e volevo conoscere alcuni fatti fondamentali. Per esempio, se Elizabeth era stata veramente impiccata per stregoneria o se si trattava solo di una diceria.» «È stata veramente impiccata», confermò John, «te lo posso assicurare. E posso anche assicurarti che la famiglia si è data molto da fare per cancellare il ricordo di questa storia. Date le circostanze, credo che sia meglio che tu smetta di parlarne.» «Ma perché mantenere un tale segreto dopo trecento anni? Non ha senso.» «Non ha importanza che abbia o non abbia senso per te», ribatté John. «È stata un cosa umiliante allora e lo è ancora oggi.» «Vuoi forse dirmi che sei turbato anche tu?» chiese Kim incredula. «Che anche tu ti senti umiliato?» «Be', no, non particolarmente», ammise il padre, «ma è così per tua madre. Lei si sente umiliata, e quindi non è il caso che tu insista. Non dobbiamo accrescere le sue pene.» Kim si morse la lingua. Era difficile a questo punto trattenersi dal dire qualcosa di pungente a suo padre. Invece dichiarò che non solo s'interessava alla sorte di Elizabeth, ma provava anche una certa simpatia per lei. «E per quale dannato motivo?» chiese John, irritato. «Anzitutto, ho trovato il suo ritratto nascosto in fondo alla cantina del nonno», rispose Kim, «e guardandolo ho sentito ancora più vivamente che Elizabeth è stata una persona reale. Aveva anche gli occhi dello stesso colore dei miei. Poi ho pensato a quello che le era accaduto. Certamente non meritava di essere impiccata. Non si può fare a meno di provare simpatia per lei.» «Io sapevo dell'esistenza del ritratto», affermò John. «Ma tu, che cosa ci facevi in cantina?» «Niente di particolare, davo soltanto un'occhiata. Mi è parsa una strana coincidenza trovare il ritratto di Elizabeth, perché recentemente avevo letto qualcosa sui processi alle streghe di Salem. E quello che avevo letto ha accresciuto la mia simpatia per lei. Poco tempo dopo quella tragedia, molti si sono ricreduti e hanno ammesso di avere sbagliato. Fin da allora era evidente che erano state condannate delle persone innocenti.» «Non tutte erano innocenti», obiettò John. «La mamma mi ha detto la stessa cosa. Ma che mai può avere fatto Elizabeth perché voi riteniate che non fosse innocente?» «Ora tu mi metti in imbarazzo. Non lo so di preciso, ma ho sentito dire
da mio padre che aveva a che fare con l'occultismo.» «In che modo, per esempio?» «Ti ho detto che non lo so, ragazza mia», esclamò in tono irritato John. «Mi hai già fatto abbastanza domande!» E adesso vai in camera tua, aggiunse in silenzio Kim fra sé. Si chiese se suo padre avrebbe mai ammesso che lei era divenuta adulta e se l'avrebbe mai trattata come tale. «Kimmy, ascolta», aggiunse il padre in tono più conciliante e paternalistico. «Per il tuo stesso bene, non scavare nel passato su questo argomento. Non ne verranno che guai.» «Con tutto il rispetto, papà, vuoi spiegarmi come la cosa potrebbe danneggiarmi?» John borbottò qualcosa. «Lascia che ti dica quello che penso», continuò Kim con una nuova sicurezza. «Io credo che la storia di Elizabeth potesse essere imbarazzante e umiliante a quei tempi. E posso anche credere che fosse considerata dannosa per gli affari poiché Ronald, suo marito, è il fondatore della Maritime Limited, che ha mantenuto generazioni e generazioni di Stewart, compresa la nostra. Ma il turbamento per la storia di Elizabeth adesso è assurdo ed è un insulto alla sua memoria. Dopotutto, è una nostra antenata. Se non fosse per lei, nessuno di noi sarebbe al mondo. Quello che mi sorprende è che nessuno, in questi anni, abbia mai contestato questa ridicola reazione, che diventa un vero riflesso condizionato!» «Se non vuoi capirlo dal tuo egoistico punto di vista», ribatté John irritato, «almeno pensa a tua madre. Questa faccenda umilia Joyce, e non importa perché. È così, e basta. E se vuoi una buona ragione per lasciare in pace la memoria di Elizabeth, può essere quella di non procurare una pena a tua madre.» Kim sorseggiò lentamente il suo cappuccino ormai freddo. Rinunciava a tenere testa a suo padre; cercare di avere uno scambio di opinioni con lui non era mai stato gratificante. La cosa funzionava soltanto quando la conversazione era unilaterale, quando lui le impartiva istruzioni su cosa fare e come farlo. Era come se scambiasse sempre il suo ruolo di padre con quello di istnittorc. «Tua madre mi ha anche detto che ti sei imbarcata in un progetto di ristrutturazione alla tenuta», continuò John, desumendo dal silenzio di Kimberly che la figlia avesse abbandonato l'idea di sostenere la causa di Elizabeth. «Che cosa ti proponi esattamente?»
Kim gli parlò della sua decisione di rimodernare la vecchia casa e di abitarvi. Mentre parlava, John tornò a leggiucchiare i suoi giornali e, quando la figlia ebbe finito, si limitò a chiederle del castello e degli oggetti che erano appartenuti a suo padre. «Non intendo toccare il castello», assicurò Kim. «Almeno finché Brian non torna a casa.» «Bene», disse John voltando una pagina del suo Wall Street Journal. «A proposito, dov'è adesso la mamma?» chiese Kim. «Di sopra», rispose John freddamente. «Non si sente bene e non vuole nessuno.» Pochi minuti dopo, Kim lasciava la casa con una penosa sensazione di sconforto, un misto di pietà, collera e disgusto. Salendo in macchina considerò fra sé che il matrimonio dei suoi genitori era veramente intollerabile per lei e, accendendo il motore, giurò a se stessa che non si sarebbe mai lasciata intrappolare in una simile situazione. Scese per il viale d'accesso e si diresse verso Salem. Mentre guidava non poté fare a meno di pensare che, malgrado il disgusto ispiratole dal rapporto fra i suoi genitori, lei aveva rischiato di ricreare una situazione molto simile. Quella era una delle ragioni per cui aveva reagito con tanta violenza quando Kinnard aveva cambiato i programmi. E all'improvviso sorrise. I suoi cupi pensieri furono immediatamente fugati dal ricordo dei fiori che Edward le mandava ogni giorno. Da una parte si sentiva in imbarazzo, dall'altra erano una prova della premura e dell'affetto di Edward. Di una cosa era sicura: lui non sarebbe mai stato un donnaiolo. Secondo lei, un donnaiolo doveva essere più autoritario, più competitivo, come suo padre o come Kinnard. Per quanto frustrante fosse stata la sua conversazione con il padre, il risultato fu esattamente l'opposto di quello che John si era aspettato, infatti non aveva fatto che accrescere il suo interesse per Elizabeth Stewart. Di conseguenza, mentre attraversava il centro di Salem, deviò verso il Museum Place Mall. Lasciò l'auto nel parcheggio e si diresse verso il Peabody-Essex Institute, un'associazione-storico culturale che aveva sede in un gruppo di vecchi edifici rimessi a nuovo nel centro della città. Fra l'altro, l'istituto conteneva un archivio di documenti su Salem, compresi quelli riguardanti i processi alle streghe. Un'impiegata nell'atrio le fece pagare il biglietto e le indicò la biblioteca, in cima a una breve scalinata di fronte al banco della reception. Kim salì i
gradini e varcò una grande porta a vetri. La biblioteca era sistemata in un edificio dell'inizio del diciannovesimo secolo, con alti soffitti, cornicioni decorativi e rivestimenti in legno scuro alle pareti, e la sala principale aveva caminetti in marmo e grandi lampadari, oltre a tavoli di quercia scura e sedie rigide. Vi regnava il tipico silenzio delle biblioteche e un odore di libri vecchi. Una bibliotecaria cordiale e premurosa, che disse di chiamarsi Grace Meehan, venne immediatamente in suo aiuto. Era una donna piuttosto anziana, con i capelli grigi e un viso gentile. In risposta a una richiesta generica di Kim, le mostrò come rintracciare pubblicazioni e documenti riguardanti i processi di stregoneria di Salem: le accuse, le denunce, i mandati di arresto, le deposizioni, le testimonianze, i verbali delle udienze, le ordinanze di trasferimento degli atti e le sentenze di morte. Erano tutti accuratamente catalogati in uno schedario della biblioteca. Kim fu sorpresa e incoraggiata dalla quantità di materiale a disposizione; l'istituto era un vero paradiso per le ricerche. Appena la bibliotecaria la lasciò, Kim aprì il catalogo e con entusiasmo iniziò a cercare il nome di Elizabeth, sicura che la sua antenata fosse menzionata in qualche pubblicazione o documento, ma rimase delusa. Non c'era nessuna Elizabeth Stewart. Non esisteva neppure il nome Stewart. Kim tornò al banco della bibliotecaria e le fece esplicitamente una domanda su Elizabeth Stewart. «Questo nome non mi è familiare», rispose Grace. «Lei sa come fosse coinvolta nei processi?» «Mi hanno detto che era una delle accusate. Credo che sia stata impiccata.» «Non è possibile», affermò Grace senza esitare. «Mi considero un'esperta per quello che riguarda i documenti ancora esistenti sui processi. Non ho mai incontrato il nome di Elizabeth Stewart, neppure come testimone e ancora meno come una delle venti vittime. Chi le ha detto che era stata accusata?» «È una storia piuttosto lunga», rispose Kim evasivamente. «Bene, certamente non è vera. Ci sono state troppe ricerche, da parte di troppi studiosi, perché una delle vittime possa essere sfuggita.» «Capisco», commentò Kim. Preferì non discutere, ringraziò la bibliotecaria e tornò ai cataloghi. Decidendo di tralasciare per il momento i documenti riguardanti i processi, si dedicò a un altro importante settore della biblioteca: le notizie ge-
nealogiche sulle famiglie della contea di Essex. Questa volta trovò una quantità di riferimenti alla famiglia Stewart che, anzi, occupavano la maggior parte di un intero cassetto di schede genealogiche. Risultò che esistevano due rami principali di Stewart: quello a cui apparteneva lei stessa e un altro, la cui storia era meno antica. Dopo circa mezz'ora di ricerca, trovò un breve riferimento a Elizabeth Stewart: era nata il 4 maggio 1665 da James ed Elisha Flanagan, aveva sposato Ronald Stewart ed era morta il 19 luglio 1692. Non era menzionata la causa della morte. Kim calcolò velocemente che Elizabeth era morta a ventisette anni. Alzò la testa, fissò la finestra con sguardo assente, e sentì un brivido alla nuca che le fece accapponare la pelle. Lei, Kim, aveva appunto ventisette anni e il suo compleanno era in maggio. Non il 4 ma il 6, comunque molto vicino a quello della sua antenata. Pensando alla somiglianza fisica fra loro, come risultava dal ritratto, e considerando che lei stessa progettava di trasferirsi nella casa dove Elizabeth era vissuta, Kim si domandò se non ci fossero troppe coincidenze. Le stavano forse comunicando un messaggio? «Mi scusi.» La voce di Grace Meehan interruppe le riflessioni di Kim. «Ho copiato per lei una lista delle persone che sono state impiccate per stregoneria. C'è anche la data dell'esecuzione, compreso il giorno della settimana, la città di residenza, la chiesa di cui facevano parte, se erano affiliati a una chiesa, e l'età. Come può vedere, è indubbiamente completa, e non vi figura nessuna Elizabeth Stewart.» Kim la ringraziò di nuovo e prese la lista. Dopo che la bibliotecaria si fu allontanata le diede ancora un'occhiata; stava per metterla da parte quando notò la data delle esecuzioni: martedì 19 luglio 1692. Cinque donne erano state impiccate quel giorno, e la data di morte di Elizabeth era la stessa. Tuttavia, il fatto che le date coincidessero non era una prova che Elizabeth fosse stata impiccata, ma non mancò di impressionarla. Poi si rese conto di un'altra corrispondenza. Ricordò che il martedì precedente era stato il 19 luglio e, riesaminando la lista consegnatale da Grace Meehan, scoprì che il calendario dei giorni nel 1692 era lo stesso di quello del 1994. Era forse questa un'altra coincidenza sul cui significato doveva riflettere? Tornando alle notizie genealogiche, Kim trovò un libro che riportava la storia della sua famiglia. Cercando Ronald Stewart scoprì che Elizabeth non era stata la sua prima moglie. Infatti, nel 1677, Ronald aveva sposato Hannah Hutchinson, dalla quale aveva avuto una figlia, Joanna, nata nel
1678. Ma Hannah era morta nel gennaio 1679 e la causa del decesso non era menzionata. A trentanove anni, nel 1682, Ronald aveva poi sposato Elizabeth Flanagan, da cui aveva avuto un'altra figlia, Sarah, nata nel 1682, e due figli, Jonathan, nato nel 1683, e Daniel, nato nel 1689. Infine, Ronald aveva sposato nel 1692 la sorella minore di Elizabeth, Rebecca Flanagan, da cui aveva avuto una figlia di nome Rachel, nata nel 1693. Kim abbassò il libro e tornò a fissare la finestra, cercando di ordinare i pensieri. Un lontano campanello d'allarme le risonava nella mente a proposito del carattere di Ronald. Tornando alla genealogia della famiglia, considerò che tre anni dopo la morte di Hannah, Ronald aveva sposato Elizabeth e, dopo la sua morte, nello stesso anno, ne aveva sposato la sorella. Avvertì una specie di malessere. Conoscendo la tendenza alle avventure amorose del padre, pensò che forse anche Ronald era stato incline a tradimenti, con conseguenze molto più deplorevoli. Forse Ronald aveva avuto una relazione con Elizabeth mentre era sposato con Hannah, e una relazione con Rebecca durante il suo matrimonio con Elizabeth. Sicuramente Elizabeth era morta in circostanze misteriose, e Kim si chiese se anche Hannah avesse avuto un analogo destino. Scosse la testa e rise in silenzio di se stessa. Doveva avere visto troppe telenovele, perché la sua immaginazione stava fantasticando su improbabili storie melodrammatiche. Dopo avere dedicato qualche altro minuto all'albero genealogico della famiglia Stewart, Kim apprese altri due fatti. Anzitutto, ebbe la conferma di essere una discendente diretta di Ronald ed Elizabeth, attraverso il loro figlio Jonathan. Inoltre, scoprì che il nome di Elizabeth non compariva più nei tre secoli di storia familiare. In tante generazioni, non poteva essere del tutto casuale. Si stupì pensando alla vergogna che Elizabeth aveva attirato su di sé e sentì accrescere la sua curiosità a proposito di quella lontana antenata. Che cosa poteva mai avere fatto per meritarsi una tale sorte? Raccolti i risultati della sua piccola ricerca genealogica, Kim scese le scale del Peabody-Essex Institute contando di riprendere la macchina e recarsi alla tenuta. Ma, arrivata all'ultimo gradino, esitò. Ripensando alla possibilità che Ronald fosse stato infedele alle mogli, decise di tornare all'istituto per farsi dare l'indirizzo del tribunale della contea di Essex. L'edificio si trovava in Federal Street, non lontano dalla Casa delle Streghe. Era una severa costruzione in stile neoclassico con un imponente frontone e delle massicce colonne doriche. Kim entrò e chiese di poter
consultare gli archivi giudiziali. Non sapeva se avrebbe trovato qualche cosa né se i documenti giudiziali venissero conservati per tanto tempo. E, se anche esistevano, chissà se il pubblico era ammesso a consultarli. Tuttavia, si presentò allo sportello e chiese di vedere i dossier riguardanti Ronald Stewart. Aggiunse che quello che le interessava era il Ronald Stewart nato nel 1653. L'impiegata era una donna dall'aria sonnolenta e dall'età indefinibile che, se fu sorpresa della richiesta di Kim, non lo diede a vedere. Si limitò, infatti, a battere sulla tastiera del suo terminale e, dopo avere guardato lo schermo, lasciò la stanza senza dire una parola. Forse, pensò Kim, c'erano stati talmente tanti visitatori in cerca di notizie sui processi di Salem che gli impiegati della civica amministrazione erano stanchi delle richieste riguardanti quel periodo. Spostando nervosamente il peso del corpo da una gamba all'altra, diede un'occhiata all'orologio. Erano già le dieci e mezzo e non ancora era andata alla tenuta. L'impiegata riapparve con una cartellina che le consegnò. «Non può portarla fuori da questa stanza», e additò alcuni tavolini. «Può sedersi là, se crede.» Kim prese la cartellina e sedette su una sedia libera. Il fascicolo conteneva una notevole quantità di materiale, tutto scritto a mano in una grafia abbastanza leggibile. Dapprima pensò che nel dossier ci fossero solo documenti di cause civili che Ronald aveva intentato per riscuotere crediti dai suoi debitori, ma poi cominciò a trovare carte più interessanti, fra cui un documento che si riferiva a un testamento contestato che riguardava Ronald. Lo lesse con molta attenzione. Era un'ordinanza a favore di Ronald riguardante un testamento impugnato da un tale Jacob Cheever. Proseguendo nella lettura, Kim scoprì che Jacob era un figlio di primo letto di Hannah e che quest'ultima era notevolmente più vecchia di Ronald. Jacob dichiarava che Ronald aveva circuito sua madre inducendola a cambiare il testamento e privandolo così della sua legittima eredità. Evidentemente, i giudici non gli avevano dato ragione e Ronald si era trovato a ereditare diverse migliaia di sterline, una somma considerevole a quei tempi. Kim fu sorpresa nel constatare che la vita alla fine del diciassettesimo secolo non era poi così diversa come si era immaginata. Si era illusa che almeno nel campo giuridico dovesse essere più semplice, ma la lettura dei
verbali riguardanti il testamento impugnato le confermò che si era sbagliata e la portò ad altre riflessioni sul carattere di Ronald. Il documento successivo era ancora più curioso. Era un contratto datato 11 febbraio 1681 fra Ronald Stewart ed Elizabeth Flanagan, redatto e firmato prima del loro matrimonio, come avviene anche ai nostri giorni per gli accordi prematrimoniali. Ma non riguardava somme di denaro o proprietà immobiliari; conferiva semplicemente a Elizabeth il diritto di possedere delle proprietà e di concludere contratti a proprio nome dopo il matrimonio. Kim lesse attentamente il testo intero. Verso la fine, lo stesso Ronald aveva scritto una spiegazione, e Kim riconobbe la grafia particolarmente elegante che aveva visto in molte bolle di carico al castello. Ronald scriveva: «È mia intenzione che, nel caso in cui impegni riguardanti la mia attività commerciale richiedano una mia prolungata assenza da Salem Town e dalla compagnia Maritime Limited, la mia fidanzata Elizabeth Flanagan possa giustamente e legalmente amministrare i nostri comuni affari». Kim lesse più di una volta il documento per essere sicura di averlo ben compreso. Era profondamente sorpresa. Il fatto che Elizabeth, per firmare contratti, avesse bisogno di un permesso scritto le ricordò che il ruolo delle donne era stato ben diverso in epoca puritana; i loro diritti legali erano assai limitati. Era una conferma di quanto aveva dedotto dalla lettera scritta dal padre di Elizabeth a Ronald per concedergli la mano della figlia. Kim mise da parte il contratto prematrimoniale e cominciò a esaminare gli altri documenti della cartella. Dopo un gruppo di esposti per il recupero di crediti, le capitò in mano un documento di estremo interesse, una petizione di Ronald Stewart in cui sollecitava un decreto di restituzione, datata martedì 26 luglio 1692, una settimana dopo la morte di Elizabeth. Kim non aveva idea di quale fosse l'oggetto in questione, ma lo apprese ben presto. Ronald scriveva: «Io umilmente prego la Corte, in nome di Dio, di restituire subito al mio possesso la prova decisiva sequestrata nella mia proprietà dallo sceriffo George Corwin e usata contro la mia amata moglie Elizabeth durante il processo per stregoneria tenuto davanti alla Corte di Udienze e Sentenze il 20 giugno 1692». Alla petizione era allegata un'ordinanza del 3 agosto 1692 emessa dal magistrato John Hathorne, che respingeva la richiesta. In essa il magistrato spiegava: «Questa Corte consiglia al richiedente, Ronald Stewart, di presentare la sua petizione a Sua Eccellenza il Governatore della Colonia per quello che riguarda la summenzionata prova, poiché, per ordine esecutivo,
la custodia della detta prova è stata trasferita dalla contea di Essex alla contea di Suffolk». In un certo senso, Kim ne fu lieta. Aveva trovato una prova documentaria indiretta del giudizio contro Elizabeth, che era stata processata ed evidentemente condannata, ma nello stesso tempo si sentiva frustrata che la natura della «prova decisiva» non fosse mai menzionata. Rilesse sia la petizione sia l'ordinanza, pensando che le fosse sfuggita, ma non era così. La prova non era descritta. Per qualche minuto, Kim sedette al tavolino cercando di immaginare che cosa potesse essere quella prova. L'unica cosa a cui poteva pensare era un oggetto che avesse a che fare con il mondo dell'occulto, probabilmente a causa della vaga allusione di suo padre. Poi ebbe un'idea, prese la petizione e annotò la data del processo, quindi tornò al banco e si rivolse all'impiegata. «Vorrei vedere i verbali della Corte di Udienze e Sentenze del 20 giugno 1692.» L'impiegata le rise in faccia. Kim le ripeté la richiesta e la donna rise ancora. Confusa, le chiese allora che cosa ci fosse di tanto buffo. «Lei chiede qualcosa che tutti vorrebbero», spiegò l'impiegata, guardandola come se avesse detto un'ingenuità imperdonabile. «Il guaio è che quei verbali non esistono. Vorrei tanto darglieli, ma non ci sono. Non esiste alcun verbale della Corte di Udienze e Sentenze per i processi di stregoneria. Tutto quello che ci resta è qualche testimonianza o deposizione sparsa, ma i veri e propri verbali del tribunale sono scomparsi.» «Che sfortuna!» replicò Kim. «Ma forse lei potrebbe dirmi qualche altra cosa. Saprebbe per caso che cosa significa 'prova decisiva'?» «Io non sono avvocato», rispose l'impiegata, «ma aspetti un momento, vado a domandare.» Scomparve in un ufficio e dopo qualche secondo tornò seguita da una donna corpulenta che portava enormi occhiali in bilico su un naso largo e schiacciato. «Lei desidera una definizione di 'prova decisiva'?» le chiese. Kim annuì. «È abbastanza ovvio», spiegò la donna. «Significa una prova che sia incontrovertibile, inconfutabile. In altre parole, non può essere posta in dubbio, o meglio, da essa si può trarre una sola interpretazione possibile.» «È quello che pensavo», convenne Kim, quindi ringraziò le due donne e tornò ai suoi documenti. Con una fotocopiatrice che stava in un angolo fe-
ce una copia della petizione di restituzione e della relativa ordinanza, poi ripose i due documenti nella cartella, che riconsegnò all'impiegata. Infine uscì e si diresse verso la tenuta. Si sentiva un po' colpevole poiché aveva detto a Mark Stevens che sarebbe stata sul posto in mattinata, mentre era già quasi mezzogiorno. Dopo avere varcato il cancello, quando svoltò all'ultimo tornante del viale d'accesso e sbucò dal folto degli alberi, vide un gruppo di camion e furgoncini parcheggiati vicino alla villa. C'era anche un grande escavatore e mucchi di terra rimossa da poco, ma non vide nessuno, neppure sull'escavatore. Parcheggiò e uscì. L'afa del pomeriggio e la polvere erano opprimenti e c'era nell'aria un odore pungente di terra smossa di fresco. Kim chiuse la portiera e, riparandosi gli occhi dal sole, seguì con lo sguardo la linea del fossato che passava attraverso il campo verso il castello. In quel momento, la porta della casa si aprì e George Harris avanzò verso di lei. Aveva la fronte bagnata di sudore. «Sono lieto che lei sia qui», le disse. «Ho cercato più volte di telefonarle.» «C'è qualcosa che non va?» chiese Kim. «Be', sì, c'è qualcosa», rispose George evasivamente. «Forse è meglio che venga a vedere.» Le fece cenno di seguirlo verso l'escavatore e aggiunse: «Abbiamo dovuto fermare i lavori». «E perché?» George non rispose, ma la fece avvicinare al fossato. Kim, esitante il per timore che il terreno le franasse sotto i piedi, si sporse a guardare e rimase impressionata dalla profondità, che calcolò dovesse essere più di due metri e mezzo. Dalle pareti dello scavo spuntavano lunghe radici filiformi, simili a scope in miniatura. George le indicò l'estremità dello scavo, dove il fossato aveva bruscamente fine, a circa quindici metri dalla villa. Sul fondo si vedeva l'estremità danneggiata di una cassa di legno che spuntava dalla parete. «Ecco perché abbiamo dovuto fermarci», spiegò George. «Che cos'è?» «Temo proprio che sia una bara.» «Oh, mio Dio!» esclamò Kim. «Abbiamo trovato anche una lapide che dev'essere piuttosto vecchia», disse George, invitandola ad avvicinarsi all'estremità dello scavo. Dall'altra parte del mucchio di terra scavata, adagiata sull'erba, c'era una lapide di
marmo bianco, coperta di terriccio. «Non era collocata diritta», aggiunse, «ma posata piatta sulla bara e poi coperta di terra.» Si chinò a spazzare via il terriccio. Kim emise involontariamente un'esclamazione di stupore. «Mio Dio, è di Elizabeth!» mormorò scuotendo la testa. C'erano troppe coincidenze. «Era una sua parente?» chiese George. «Sicuro», confermò lei scrutando attentamente la lapide. Era simile a quella di Ronald e recava solo la data di nascita e di morte di Elizabeth. «Lei sapeva che questa tomba si trovava qui?» le domandò George. Non c'era nella sua voce un tono di accusa, soltanto curiosità. «No, non ne avevo la minima idea», rispose Kim. «Soltanto di recente ho scoperto che non era sepolta nella tomba di famiglia.» «E ora, che cosa vuole che facciamo? Credo che ci voglia un permesso per rimuovere una tomba.» «Non si potrebbe lavorarci intorno senza toccarla?» domandò Kim. «Credo di sì, si potrebbe allargare lo scavo da questa parte. C'è forse il rischio che se ne trovino altre?» «Non credo proprio, Elizabeth era un caso speciale.» «Voglia scusarmi se glielo dico, ma lei mi sembra un po' pallida. Sta bene?» «Sì, grazie, sto benissimo, sono soltanto un po' impressionata. Trovare così la tomba di questa donna mi dà una specie di timore superstizioso.» «Anche a noi ha fatto questo effetto, soprattutto all'operatore dell'escavatrice. Vado a chiamarlo.» George sparì all'interno della casa, mentre Kim tornò verso l'estremità dello scavo e si sporse a guardare l'angolo scoperto della bara di Elizabeth. Il legno era in ottime condizioni, per essere stato sepolto per oltre tre secoli; non pareva neppure marcio nel punto in cui l'escavatore lo aveva colpito. Kim non sapeva che cosa fare. Prima il ritratto, ora la tomba. Era sempre più difficile considerarle coincidenze puramente casuali. A un tratto avvertì il rumore di un'automobile che si avvicinava. Proteggendosi gli occhi dal sole abbagliante, vide una macchina che le pareva familiare avanzare sollevando una nube di polvere lungo la strada di terra che attraversava il campo. Non riuscì a identificare il veicolo finché non si fermò accanto a lei; allora si rese conto del perché le era parso familiare: era Kinnard. Con un certo disagio si avvicinò e si chinò per guardare attraverso il fi-
nestrino dalla parte del passeggero. «Che sorpresa!» esclamò. «Che cosa diavolo fai a quest'ora fuori dell'ospedale?» Kinnard rise. «Una volta tanto mi hanno lasciato uscire dalla gabbia.» «Che cosa fai a Salem? E come sapevi che ero qui?» «Me lo ha detto Marsha stamattina», rispose Kinnard. «L'ho incontrata al reparto cure intensive e le ho detto che venivo a Salem a cercarmi un alloggio perché ad agosto e settembre sarò di turno all'ospedale di Salem. Mi rifiuto assolutamente di vivere in ospedale per due mesi. Ti ricorderai che ti avevo parlato del mio turno all'ospedale di Salem.» «Forse lo avevo dimenticato.» «Te l'ho detto diversi mesi fa.» «Se lo dici tu!» Kim non aveva nessuna intenzione di lasciarsi trascinare in una lite; si sentiva già abbastanza a disagio. «Hai proprio un bell'aspetto», continuò Kinnard. «Vedo che ti fa bene uscire con il dottor Edward Armstrong.» «Come fai a sapere con chi esco?» chiese Kim irritata. «Pettegolezzi da ospedale», rispose lui. «Poiché hai scelto una celebrità scientifica, la gente chiacchiera. La cosa buffa è che io lo conosco benissimo; ho lavorato nel suo laboratorio quando che mi sono dedicato alla ricerca, dopo il secondo anno di medicina.» Kim si sentì arrossire. Avrebbe preferito non mostrare alcuna reazione, ma non poté evitarlo. Kinnard evidentemente stava cercando di turbarla e, come al solito, ci riusciva perfettamente. «Edward è un asso dal punto di vista scientifico», continuava Kinnard, «ma temo che sia un po' goffo, e direi persino selvatico. Be', forse non è leale, dovrei solo dire eccentrico.» «Io lo trovo gentile e premuroso.» «Posso immaginarlo benissimo», replicò Kinnard alzando le sopracciglia. «Ho sentito dire dei suoi mazzi di fiori giornalieri, e personalmente penso che sia assurdo. Un uomo dev'essere totalmente privo di sicurezza in se stesso per arrivare a questi estremi.» Kim si fece ancora più rossa. Marsha doveva avere parlato a Kinnard anche dei fiori. Sua madre e la sua compagna di stanza non erano certo un esempio di discrezione. «Almeno Edward Armstrong non ti farà arrabbiare decidendo di andare a sciare», insinuò malignamente Kinnard. «La sua coordinazione muscolare è tale che persino scendere le scale può essere un problema per lui.»
«Questo è soltanto un pettegolezzo puerile», rimbeccò seccamente Kim quando ritrovò la voce. «Francamente, non ti si addice. Pensavo che tu fossi più maturo.» «Ormai non ha importanza.» Kinnard fece un sorrisetto cinico. «Io sono passato, come si usa dire, a pascoli più verdi. Anche per me sta sbocciando una nuova relazione.» «Ne sono lieta per te», replicò Kim con sarcasmo. Kinnard si piegò in avanti per osservare attraverso il parabrezza l'escavatore che si metteva in moto. «Marsha mi ha detto che vuoi rimodernare questa casa. Il dottor Armstrong verrà ad abitarvi con te?» Kim stava per negarlo, ma si trattenne. Disse invece: «Ci stiamo pensando. Non abbiamo ancora deciso». «Divertiti, in un caso o nell'altro», ribatté Kinnard con sarcasmo. «Ti auguro ogni bene.» Innestò la retromarcia, percorse qualche metro e si fermò, poi premette sull'acceleratore e ripartì. In una nube di terriccio, polvere e sassolini attraversò il campo e sparì fra gli alberi. Kim seguì con gli occhi la macchina finché riuscì a scorgerla. Anche se aveva intuito fin dal primo momento che l'unico scopo di Kinnard era quello di provocarla, non era riuscita a evitare che ciò accadesse. Per un attimo, si sentì emotivamente sconvolta. Soltanto quando tornò al fossato, che adesso stavano allargando, e rivide la bara, cominciò a calmarsi. Confrontando i suoi guai con quelli che aveva dovuto sopportare Elizabeth alla sua stessa età, convenne che i suoi erano davvero cosa da nulla. Dopo essersi ripresa, si mise al lavoro e il pomeriggio passò rapidamente. Per la maggior parte del tempo, rimase nell'ufficio di Mark Stevens a esaminare i dettagli della cucina e dei bagni. Per lei fu un vero piacere, era la prima volta in vita sua che si dedicava a creare un ambiente tutto per sé. Si domandò come avesse potuto permettere che le sue aspirazioni giovanili venissero così frustrate. Alle sette e mezzo, Mark Stevens e George Harris erano entrambi sfiniti, ma Kim continuava a viaggiare con il vento in poppa. I due uomini dovettero confessarle di avere la vista annebbiata dalla fatica, prima che Kim ammettesse che anche per lei era ora di tornare in città. Mentre la accompagnavano alla macchina, la ringraziarono di essere venuta e le promisero che i lavori sarebbero proseguiti rapidamente. Entrando in Cambridge, Kim non tentò neppure di trovare un posto per parcheggiare in strada. Si diresse subito nel parcheggio del Charles ed en-
trò nell'Harvest Bar, che era affollato dalla solita gente del venerdì sera. Cercò con gli occhi Edward ma non riuscì subito a vederlo. Dovette aprirsi un varco fra gli avventori che in doppia e tripla fila si accalcavano al bar e, infine, lo trovò che centellinava un bicchiere di chardonnay seduto a un tavolino dietro il bar. Appena la vide, il suo volto si illuminò e balzò in piedi per scostarle la sedia. Mentre Edward l'aiutava a prendere posto, Kim pensò che Kinnard non si sarebbe mai preso tanto disturbo. «Qualcosa mi dice che gradiresti un bicchiere di vino bianco», propose Edward. Lei annuì intuendo immediatamente che Edward era eccitato o imbarazzato, poiché la sua leggera balbuzie era più accentuata del solito. Lo osservò mentre attirava l'attenzione della cameriera e ordinava due bicchieri di vino, poi lui la guardò. «Hai avuto una buona giornata?» chiese. «Sono stata molto occupata. E tu?» «È stato un gran giorno!» annunciò Edward entusiasticamente. «Ho qualche buona notizia. Dai campioni di terriccio che abbiamo prelevato è cresciuta una muffa che ha effetti allucinogeni. Credo che abbiamo risolto il problema della causa originaria che ha scatenato i processi per stregoneria di Salem. L'unica cosa che non sappiamo è se fu ergotismo o qualcosa di diverso e nuovo.» Continuò riferendole tutto ciò che era avvenuto nell'ufficio di Kevin Scranton. La reazione di Kim fu di incredulità mista ad apprensione. «Hai preso una droga senza sapere esattamente che cos'era? Non è stato pericoloso?» «Parli come Kevin», rise Edward. «Sono circondato da genitori putativi. No, non è stato pericoloso, era una dose troppo ridotta per rappresentare un rischio. Ma proprio perché era così infinitesima, ha rivelato senza alcun dubbio il potere allucinogeno di questo nuovo fungo.» «A me sembra una follia», insistette Kim. «Ma no, non è stata una follia. Ho anche fatto le analisi delle urine, questo pomeriggio, per tranquillizzare Kevin. Sono risultate tutte normali. Io sto benissimo, credimi. Anzi, sto più che bene, mi sento euforico. In principio speravo che questo nuovo fungo producesse la stessa miscela di alcaloidi della Claviceps, il che avrebbe dimostrato che la causa di quell'episodio di stregoneria era l'ergotismo. Ora invece spero che produca alcaloidi propri, diversi da quelli della Claviceps.»
«Che cosa sono gli alcaloidi?» chiese Kim. «Il termine mi è familiare, ma non so esattamente che cosa significhi.» «Gli alcaloidi sono un numeroso gruppo di composti azotati che si trovano nelle piante. Il termine ti è familiare perché molti sono assai comuni, come la caffeina, la morfina, la nicotina. Come certo saprai, molti sono usati in farmacologia.» «Perché sei così entusiasta di averne trovati di nuovi, se sono tanto comuni?» chiese Kim. «Perché ho già dimostrato che l'alcaloide di questo nuovo fungo, qualunque sia, ha effetto psicotropo. La scoperta di un nuovo allucinogeno può aprire molte nuove vie alla comprensione delle funzioni del cervello. Sono sostanze che assomigliano ai neurotrasmettitori del cervello, anzi ne imitano l'attività.» «Quando potrai sapere se hai scoperto nuovi alcaloidi?» domandò Kim. «Presto», rispose Edward. «E ora raccontami come hai trascorso la giornata.» Kim trasse un respiro profondo, poi riferì a Edward tutto ciò che era avvenuto, in ordine cronologico, a partire dalla sua conversazione con il padre per finire con i progetti definitivi della cucina e dei bagni della villa. «Caspita», esclamò Edward, «hai avuto davvero una giornata laboriosa! Sono piuttosto sorpreso della scoperta della tomba di Elizabeth. E tu dici che la bara era in buone condizioni?» «Per quanto ho potuto vedere, sì. Era sepolta molto in profondità, probabilmente a circa due metri e mezzo. La sua estremità è stata appena danneggiata dall'escavatore.» «E trovare la bara ti ha sconvolta?» «In certo qual modo», ammise Kim con un sorriso melanconico. «Al pensiero che l'ho trovata subito dopo aver scoperto il ritratto mi sento venire i brividi. Ho di nuovo la sensazione che Elizabeth cerchi di comunicare con me.» «Ahi, ahi», esclamò Edward. «Mi sembra che tu abbia un altro attacco di superstizione.» Kim rise, malgrado la sua apprensione. «Dimmi un'altra cosa», la stuzzicò Edward, «hai paura dei gatti neri che ti attraversano la strada? Hai paura di passare sotto una scala o di essere in tredici a tavola?» Kim esitò. Era vero che era un po' superstiziosa, ma non ci aveva mai pensato molto.
«Dunque tu sei superstiziosa!» incalzò Edward. «Pensa un po', nel diciassettesimo secolo avresti potuto essere considerata una strega, giacché queste tue credenze riguardano l'occulto.» «E va bene, furbacchione!» ribatté Kim. «Forse sono un po' superstiziosa, ma effettivamente mi sembra che ci siano troppe coincidenze riguardanti Elizabeth. Oggi ho scoperto che il calendario dei giorni del 1692 è identico a quello di quest'anno, che Elizabeth aveva la mia età quando è morta e, se non basta, siamo nate nello stesso mese, a due giorni di distanza l'una dall'altra, sicché abbiamo lo stesso segno zodiacale.» «Che cosa vorresti dirmi?» chiese Edward. «Puoi spiegare tutte queste coincidenze?» domandò Kim di rimando. «Ma certo», affermò lui, «si tratta semplicemente del caso.» «Oh, mi dichiaro vinta!» esclamò Kim, e bevve un sorso del suo vino. «Mi dispiace», ribatté Edward stringendosi nelle spalle. «Io sono uno scienziato.» «Lascia che ti dica un'altra cosa che ho imparato oggi», aggiunse Kim. «Le cose non erano così semplici, allora. Ronald si è sposato tre volte. La prima moglie è morta lasciandogli un considerevole patrimonio, che è stato rivendicato senza successo dal figlio da lei avuto in un precedente matrimonio. Poi, dopo un paio di anni, ha sposato Elizabeth, e quando è morta anche lei, nello stesso anno ne ha sposato la sorella.» «E allora?» chiese Edward. «Non ti sembra un po' strano?» «Ma no. Ricordati che la vita era dura a quei tempi, e Ronald aveva dei figli piccoli da allevare. E inoltre non era raro che ci si sposasse fra parenti.» «Be', non ne sono tanto sicura. Tutta la faccenda suscita in me un mare di dubbi.» Ricomparve la cameriera, che interruppe la conversazione annunciando che c'era un tavolo libero per loro. Kim ne fu piacevolmente sorpresa perché non sapeva che Edward avesse programmato di pranzare all'Harvest. Ed era proprio affamata. Seguirono la cameriera sulla terrazza e presero posto sotto gli alberi che erano inghirlandati da minuscole luci bianche. La temperatura era molto rinfrescata, dopo la calura del giorno, e l'aria dolce e senza vento non faceva neppure oscillare la fiamma della candela sul loro tavolo. Mentre aspettavano le pietanze che avevano ordinato, Kim mostrò a Edward la fotocopia della petizione di Ronald. Lui la lesse con grande in-
teresse e, quando ebbe terminato, si congratulò con lei per il suo lavoro di investigazione, affermando che in tal modo era veramente riuscita a dimostrare che la sua antenata era stata coinvolta nei processi alle streghe di Salem. Kim gli riferì l'osservazione che aveva fatto suo padre sulla possibilità che Elizabeth avesse avuto rapporti con il mondo dell'occulto. «Ed è quello che ho detto anch'io», le ricordò Edward. «Così tu penseresti che la 'prova decisiva' abbia in qualche modo a che fare con l'occulto?» «Non credo che si possa metterlo in dubbio.» «Anch'io lo pensavo», ammise Kim. «Ma tu hai qualche idea più precisa?» «Non so abbastanza sulla stregoneria per poter avanzare ipotesi.» «Potrebbe essere un libro? Oppure qualcosa che Elizabeth aveva scritto?» «Sì, è probabile», ammise Edward. «Anzi, poteva anche essere qualcosa che aveva disegnato, o comunque una specie di immagine.» «Una bambola, forse?» suggerì Kim. «È una buona idea», convenne Edward. Fece una pausa, poi aggiunse: «Io so che cosa doveva essere!» «Che cosa?» chiese lei ansiosa. «La sua scopa!» e scoppiò a ridere. «Oh, andiamo!» protestò Kim, ma rideva anche lei. «Io parlo seriamente.» Edward si scusò, poi continuò spiegando l'origine della scopa delle streghe, che nel Medioevo era un bastone spalmato di un unguento contenente droghe allucinogene. Durante i riti satanici, il bastone, posto a contatto con le mucose delle parti intime, provocava esperienze psichedeliche. «Basta così, capisco», mormorò Kim. Arrivarono le loro portate e ripresero a parlare solo quando la cameriera si fu allontanata. Allora Edward riprese: «Il problema è che quella prova poteva essere uno qualsiasi di una serie di oggetti, e non c'è modo di sapere quale fosse se non si trova una spiegazione più particolareggiata. Non potremmo consultare i verbali dei processi?» «Ci avevo già pensato», rispose Kim, «ma mi hanno detto che non esiste più nessuno dei verbali della Corte di Udienze e Sentenze.» «Che peccato! Allora non ti resta che tornare a tuffarti in quel tremendo mucchio di carte al castello.» «Già», ammise lei senza entusiasmo. «E niente mi garantisce che potrò
trovare ciò che cerco.» Mentre mangiavano, la conversazione passò ad argomenti più frivoli. Solo quando giunsero al dessert, Edward tornò al tema della tomba di Elizabeth. «In che stato di conservazione era il corpo di Elizabeth?» domandò. «Ma io non ho visto il suo corpo», rispose Kim, scioccata da quella domanda. «La bara non è stata aperta. L'escavatore ha appena colpito l'estremità della bara e l'ha leggermente ammaccata.» «Forse dovremmo aprirla. Vorrei prelevarne un campione, se c'è qualcosa di riconoscibile. Se potessimo rintracciare un residuo dell'alcaloide prodotto da questo nuovo fungo, di qualunque genere sia, avremmo la prova definitiva che il diavolo di Salem era un fungo.» «Non posso credere che tu abbia il coraggio di suggerire una cosa simile», ribatté Kim. «L'ultima cosa che farei è profanare il corpo di Elizabeth.» «Ecco di nuovo la tua superstizione», la punzecchiò Edward. «È come opporsi alle autopsie.» «È una cosa ben diversa. Elizabeth è già stata sepolta.» «Si fanno continuamente esumazioni di cadaveri.» Kim esitò. «Credo che tu abbia ragione», ammise riluttante. «Forse dovrei venire con te laggiù, domani. Così potremmo dare un'occhiata insieme.» «Ci vuole un permesso per esumare una salma», osservò Kim. «L'escavatore ha già fatto la maggior parte del lavoro», ribatté Edward. «Noi diamo un'occhiata e poi decideremo.» Portarono il conto ed Edward pagò. Kim lo ringraziò affermando che la prossima volta sarebbe stato suo compito e lui rispose che sull'argomento avrebbero litigato a suo tempo. Fuori del ristorante ci fu un momento d'imbarazzo: Edward le chiese di andare a casa sua, ma Kim esitò ricordando che si era sentita terribilmente a disagio quella mattina. Infine risolsero la questione, almeno temporaneamente, decidendo di andare nell'appartamento di Edward a discutere il problema. Più tardi, seduta sul divano, Kim gli chiese se ricordava uno studente di nome Kinnard Monihan, che aveva fatto un semestre di ricerca nel suo laboratorio quattro o cinque anni prima. «Kinnard Monihan», ripeté Edward. Chiuse gli occhi per concentrarsi. «Ho un sacco di studenti che vengono a fare ricerche nel mio laboratorio,
comunque, sì, lo ricordo. Se non sbaglio, è passato al General Hospital per fare l'internato in medicina.» «È lui», confermò Kim. «Che cosa ti ricordi di lui?» «Ricordo di essere rimasto deluso quando ho sentito che aveva deciso di fare l'internato. Era un ragazzo intelligente e mi sarei aspettato che si dedicasse alla ricerca. Perché me lo chiedi?» «Siamo stati fidanzati per diversi anni», gli spiegò Kim. E stava per raccontargli dell'incontro alla tenuta quando Edward la interruppe. «Tu e Kinnard eravate amanti?» le chiese bruscamente. «Penso che si possa dire così», ammise lei con voce esitante. Intuì subito che Edward ne era turbato. Sia il suo comportamento sia il suo modo di parlare cambiarono di colpo e Kim impiegò una buona mezz'ora per tranquillizzarlo e fargli capire che la sua relazione con Kinnard era finita. Si scusò persino per averlo nominato. Nel tentativo di cambiare argomento, gli chiese se avesse cominciato a cercare casa e lui ammise che non ne aveva ancora avuto l'occasione. Kim gli ricordò allora che settembre era ormai alle porte. Mentre le ore della sera passavano, nessuno dei due affrontò la questione se Kim si sarebbe fermata per la notte o no. E, non prendendo nessuna decisione, finirono per decidere: lei si fermò. Più tardi, mentre giacevano l'uno accanto all'altra, Kim cominciò a pensare a quello che aveva detto a Kinnard, che avrebbe invitato Edward ad andare ad abitare con lei. Lo aveva detto soltanto per fargli dispetto, ma ora cominciò a considerare seriamente l'idea. La prospettiva l'attraeva: la relazione con Edward si faceva sempre più intima e seria. Inoltre la villa era tanto vasta e così isolata e forse si sarebbe sentita troppo sola. 5 Sabato 23 luglio 1994 Kim si svegliò lentamente, per fasi successive e, ancora prima di aprire gli occhi, sentì la voce di Edward. Dapprima le parve che si fondesse con il suo sogno; ma poi, con il tornare della piena coscienza, si rese conto che veniva dall'altra stanza. Con qualche difficoltà aprì gli occhi. Anzitutto si assicurò che Edward non fosse più a letto, poi diede un'occhiata all'orologio: le sei meno un quarto.
Si riadagiò sul cuscino con l'inquietante sensazione che qualcosa non andasse e cercò di capire che cosa dicesse la voce, ma non ci riuscì. Non riusciva a comprendere le parole di Edward, ma dal timbro della sua voce capiva che era eccitato. Dopo pochi minuti Edward tornò. Indossava l'accappatoio e si diresse in punta di piedi verso la stanza da bagno. Kim lo chiamò per dirgli che era sveglia e lui andò a sedersi sulla sponda del letto. «Ho ricevuto grandi notizie», sussurrò. «Sono sveglia, Edward», ripeté Kim, «puoi parlare normalmente.» «Stavo parlando con Eleanor.» «Alle sei meno un quarto del mattino?» domandò Kim. «E chi diavolo è questa Eleanor?» «È una delle assistenti che hanno fatto con me il dottorato ed è il mio braccio destro al laboratorio.» «Mi sembra che sia un po' troppo presto per una conversazione di lavoro», osservò Kim. Involontariamente pensò a Grace Traters, la «segretaria» di suo padre. «Eleanor ha fatto il turno di notte», le spiegò Edward. «Kevin ieri sera ci ha mandato diversi altri sclerozi del nuovo fungo, così lei è rimasta al laboratorio per preparare un campione grezzo e passarlo allo spettrometro di massa. Sembra che gli alcaloidi non siano gli stessi della Claviceps purpurea e pare che siano venuti fuori tre nuovi alcaloidi.» «Ne sono lieta per te», borbottò Kim. Era troppo presto perché riuscisse a dire altro. «La cosa più entusiasmante è che io so che almeno uno è psicoattivo. Diavolo, tutti e tre potrebbero esserlo!» Edward si fregò le mani tutto eccitato come se dovesse mettersi al lavoro in quello stesso istante. «Non posso dirti quanto potrebbe essere importante», continuò. «Potremmo avere un nuovo farmaco, anzi un'intera famiglia di nuovi farmaci. Anche se non dovessero risultare clinicamente utili, saranno indubbiamente preziosi come strumento di ricerca.» «Ne sono lieta», ripeté Kim strofinandosi gli occhi. Aveva bisogno di andare in bagno a lavarsi i denti. «È incredibile quanto spesso l'intuito e il fiuto dello scienziato giochino un ruolo essenziale nella scoperta di un farmaco. Pensa un po' se si scoprisse una nuova droga a causa dei processi di stregoneria di Salem. Sarebbe ancora più straordinario del modo in cui fu scoperto il Prozac.» «Anche quello è stato un caso?»
«Direi proprio di sì. Il ricercatore responsabile stava lavorando con gli antistaminici e li controllava con un programma sperimentale che ne misurava l'effetto sul neurotrasmettitore, la norepinefrina. Per una felice combinazione finì per trovare il Prozac, che non è un antistaminico e influisce sulla serotonina, un altro neurotrasmettitore, duecento volte più di quanto influisca sulla norepinefrina.» «Sorprendente», borbottò Kim, ma non aveva ascoltato. Prima del solito caffè mattutino la sua mente non era pronta per simili spiegazioni scientifiche. «Non vedo l'ora di mettermi al lavoro con questi nuovi alcaloidi», continuò Edward. «Allora hai cambiato idea a proposito del viaggio a Salem?» gli chiese Kim. «No!» esclamò lui senza esitare. «No, voglio vedere quella tomba. Quindi, in piedi! Appena sei pronta, partiamo.» E diede a Kim una affettuosa pacca sulla gamba attraverso le coperte. Dopo avere fatto la doccia, essersi asciugata i capelli e truccata leggermente, Kim ed Edward lasciarono l'appartamento per un'altra ricca colazione in Harvard Square e, subito dopo, entrarono in una delle molte librerie che si affacciavano sulla piazza. Conversando a tavola, erano venuti a parlare del puritanesimo e si erano resi conto di conoscerne ben poco. Così comprarono alcuni libri sull'argomento. Erano passate le nove da un bel po' quando si misero in viaggio. Guidava Kim, che non aveva voluto lasciare la sua macchina nel parcheggio davanti all'appartamento di Edward, riservato ai soli residenti. Non c'era traffico sulle strade e il viaggio fu veloce. Arrivarono a Salem poco prima delle dieci. Seguendo lo stesso percorso del sabato precedente, passarono di nuovo davanti alla Casa delle Streghe. Edward afferrò il braccio di Kim. «Non hai mai visitato la Casa delle Streghe?» le chiese. «Una volta, molto tempo fa. Perché? Ti interessa?» «Non ridere, ma m'interessa davvero. Ti dispiacerebbe fermarti per pochi minuti?» «Ma certo!» acconsentì Kim. Girò in Federal Street, parcheggiò accanto al tribunale e tornarono indietro a piedi. Scoprirono che dovevano aspettare: la Casa delle Streghe apriva alle dieci. Loro due non erano gli unici visitatori in attesa, comunque, fuori del vecchio edificio c'erano alcune famiglie e diverse coppie.
«È straordinario l'interesse che i processi di Salem destano ancora», osservò Kim. «Chissà se la gente si domanda perché si senta tanto attratta.» «Secondo tuo cugino, l'episodio ha un fascino morboso, un po' spettrale.» «Già, è proprio il modo di parlare di Stanton.» «Sostiene che questo fascino deriva dal fatto che quell'episodio rappresenta quasi una finestra sul mondo del soprannaturale», aggiunse Edward. «E, guarda caso, io sono d'accordo. Molte persone sono un po' superstiziose e le storie di stregoneria stuzzicano la loro immaginazione.» «Sono d'accordo anch'io, ma temo che in quel fascino ci sia anche qualcosa di perverso, perché quello che attira sono le condanne a morte. Inoltre non credo che sia soltanto un caso che ci fossero molte più streghe che stregoni. Secondo me è dovuto al sistema patriarcale dell'epoca, il solito maschilismo.» «Ora non esagerare con le tirate femministe», ribatté Edward. «Se le donne implicate erano più numerose, questo si spiega con il ruolo della donna nella cultura coloniale. Le donne erano associate ai fatti della nascita e della morte, della malattia e della salute, molto più degli uomini, ed erano questi gli aspetti della vita ammantati di superstizione e occultismo. Non esisteva allora un'altra spiegazione per questi fenomeni.» «Immagino che abbiamo ragione entrambi», concluse Kim. «Io sono d'accordo con te, ma nella piccola ricerca che ho fatto sono rimasta impressionata dalla mancanza di status legale delle donne ai tempi della mia antenata. Gli uomini erano spaventati e sfogavano la paura sulle donne. C'entrava anche la misoginia.» In quel momento, la porta della Casa delle Streghe si aprì e li accolse una giovane donna in costume. Solo allora Edward e Kim appresero che dovevano partecipare a una visita guidata e tutti i presenti si raggrupparono nell'atrio in attesa che la guida cominciasse a parlare. «Credevo che ci fosse permesso di fare un in giro per conto nostro», sussurrò Edward all'orecchio di Kim. «Anch'io lo credevo», mormorò lei di rimando. Ascoltarono la giovane donna che descriveva i mobili e gli arredi della stanza, compresa una Bibbia chiusa in una cassetta, parte integrante di una casa puritana. «Tutto questo non mi interessa. Se ce ne andassimo?» propose Edward. «Per me va bene», acconsentì Kim. Uscirono dall'edificio e, quando furono in strada, Edward si voltò a os-
servarlo. «La ragione per cui volevo entrare è che desideravo vedere se e quanto l'interno somigliava alla villa», spiegò. «È sorprendente: è come se fossero stati realizzati sullo stesso disegno.» «Be', come hai detto anche tu, in quel periodo non si lasciava molto spazio al gusto individuale», osservò Kim. Salirono in macchina e si diressero alla tenuta. La prima cosa che Edward vide fu il fossato e rimase stupito dalla sua lunghezza: si estendeva dalle vicinanze del castello fino alla villa. Quando si accostarono al bordo, constatarono che era già stato prolungato sotto le fondamenta della villa. «Ecco la bara», annunciò Kim, additando il punto in cui sporgeva dalla parete dello scavo, che era già stato notevolmente allargato. «Questo è un colpo di fortuna», commentò Edward. «Mi sembra che quella sia la testa della bara. E avevi ragione a proposito della profondità. Sono almeno due metri e mezzo, forse di più.» «Lo scavo è profondo solo qui vicino alla villa», fece notare Kim. «Là dove attraversa il campo è molto più basso.» «Hai ragione.» Edward cominciò ad allontanarsi. «Dove vai?» chiese Kim. «Non vuoi dare un'occhiata alla lapide?» «Vado a dare un'occhiata più da vicino alla bara», le spiegò Edward. Non appena la profondità glielo consentì, saltò dentro il fossato e tornò indietro, scendendo sempre di più a ogni passo. Kim lo osservava con crescente apprensione cominciando a domandarsi preoccupata che cosa avesse in mente. «Sei sicuro che lo scavo non frani?» domandò nervosamente. Sentiva zolle di terra e sassolini cadere nel fossato quando lui si avvicinava troppo al bordo. Ma Edward non rispose, era già chino a esaminare l'estremità ammaccata della cassa. Prese un po' di terriccio che era sulla bara, lo depose sul palmo della mano e lo tastò. «Questa è una cosa incoraggiante», osservò. «Qui sotto il terreno è perfettamente asciutto e straordinariamente fresco.» Infilò poi le dita nella stretta fessura che si era aperta fra la parte anteriore della bara e il fianco, diede un forte strattone e la testata scivolò di lato. «Buon Dio!» mormorò Kim fra sé. «Potresti prendere la torcia elettrica in macchina, per favore?» chiese Edward. Stava guardando nell'estremità aperta della bara. Kim obbedì, ma era molto agitata per quello che stava avvenendo. Non
le piaceva l'idea di profanare la tomba di Elizabeth più di quanto fosse già avvenuto. Si avvicinò il più possibile al bordo del fossato e gettò la torcia a Edward. Lui diresse il raggio di luce nell'estremità aperta della bara. «Siamo fortunati», osservò. «Il cadavere è stato mummificato dal freddo secco. Persino il sudario che lo avvolge è intatto.» «Credo che abbiamo già fatto abbastanza», mormorò Kim inquieta, ma Edward non l'ascoltava. Inorridita, lo vide deporre la torcia al suolo e infilare una mano nella bara. «Edward! Che cosa fai?» «Voglio tirare fuori almeno una parte corpo», spiegò lui. Afferrò la testa e cominciò a tirare, ma il corpo non si mosse. Allora puntò un piede e tirò più forte. Con sua sorpresa, la testa si staccò di colpo e lui cadde all'indietro, contro la parete opposta del fossato. Quindi si alzò a sedere, con la testa mummificata di Elizabeth sulle ginocchia. Kim si sentì venire meno e dovette girare la testa dall'altra parte. «Accidenti!» esclamò Edward, alzandosi in piedi e guardando la base della testa di Elizabeth. «Penso che il collo si sia rotto quando l'hanno impiccata. È piuttosto strano, perché il sistema di impiccagione a quei tempi non consisteva nello spezzare il collo del condannato, ma piuttosto nell'appenderlo e lasciarlo morire strangolato.» Depose a terra la testa e richiuse la bara. Quando fu sicuro di averla sistemata com'era in origine, tornò sui suoi passi fino al punto in cui gli era più facile risalire portando la testa con sé. «Non penserai che sia molto divertente», protestò Kim quando la raggiunse. Rifiutò di guardare ciò che Edward teneva in mano. «Voglio che tu la rimetta subito a posto!» «Naturalmente, la rimetterò a posto. Voglio solo prelevare un piccolo campione. Entriamo e vediamo di trovare una scatola.» Esasperata, Kim lo precedette, stupita per essersi lasciata coinvolgere in una tale situazione. Edward intuì il suo stato d'animo e si affrettò a trovare una scatola dalle dimensioni adatte, che doveva avere contenuto dei pezzi di ricambio. Vi ripose la testa e andò subito a metterla in macchina. Quando tornò in casa esclamò in tono allegro: «Bene, ora andiamo a fare un giro!» «Voglio che tu rimetta a posto quella testa il più presto possibile», ripeté Kim. «Lo farò», tornò a promettere Edward e, per cambiare argomento, si diresse al capanno e finse di ammirarne la travatura. Kim lo seguì e ben pre-
sto il suo malumore svanì. Il lavoro di ristrutturazione aveva fatto grandi progressi e scoprirono anche che era già stata fatta la gittata di cemento per il pavimento della cantina. «Per fortuna avevo già prelevato i miei campioni di terriccio», osservò Edward compiaciuto. Mentre si trovavano al piano superiore a controllare i lavori per l'installazione del piccolo bagno, Kim sentì avvicinarsi una macchina. Guardò fuori da una delle finestre e il suo cuore perse un colpo: era suo padre. «Oh, no!» esclamò senza volerlo. Fu colta da un senso di disagio e ansietà che le rese di colpo umide le palme. Edward intuì subito il suo sgomento. «Ti senti imbarazzata perché io sono qui?» le chiese. «Ma no, figurati! È a causa della tomba di Elizabeth. Per favore, non parlare della testa. L'ultima cosa che voglio è fornirgli una scusa per interferire nei miei progetti.» Scesero le scale e uscirono all'aperto trovando John ritto sull'orlo del fossato a guardare la bara di Elizabeth. Kim fece le presentazioni e suo padre fu cortese ma secco, poi prese la figlia da parte. «È una maledetta coincidenza che George Harris si sia imbattuto in questa maledetta tomba», cominciò. «Gli ho detto di non parlarne con nessuno e spero che tu farai altrettanto. Non voglio che tua madre venga a saperlo. Sarebbe un colpo per lei, starebbe male per un mese.» «Non ho motivo di divulgare la notizia», borbottò Kim. «Francamente, sono sorpreso che si sia trovata qui quella bara. Mi avevano detto che Elizabeth era stata sepolta in una fossa comune, in qualche posto a ovest di Salem Town. E chi diavolo è questo estraneo che è qui con te? Anche lui è al corrente della tomba?» «Edward non è un estraneo», ribatté Kim, «e, sì, è al corrente della tomba. Conosce anche la storia di Elizabeth.» «Credevo che fossimo d'accordo che tu non avresti parlato a nessuno di Elizabeth», osservò John. «Non sono io che gliene ho parlato, ma Stanton Lewis.» «Quei dannati parenti di tua madre!» borbottò John. Si voltò e tornò là dove Edward stava pazientemente aspettando. «La storia di Elizabeth Stewart è tabù nella nostra famiglia», gli spiegò. «Spero che lei rispetterà il segreto.» «Capisco», ribatté Edward evasivamente. Si domandava che cosa avrebbe detto John se avesse saputo della testa che era già nella sua macchina.
John parve soddisfatto e rivolse la sua attenzione alla villa. Poi, su invito di Kim, si degnò di dare una breve occhiata alla costruzione. Fece un rapido giro nell'interno e quando furono usciti, sul punto di accomiatarsi, esitò. Guardò Edward e disse: «Kim è una ragazza gentile e sensibile. Piena di premure e molto affettuosa». «Lo so», convenne Edward. Quindi John salì in macchina e si allontanò. Kim rimase a osservarlo finché la vettura non sparì fra gli alberi. «Ha la capacità di irritarmi sempre», esclamò con rabbia. «Il problema è che non si rende neppure conto di quanto sia umiliante per me essere trattata come una ragazzina.» «Almeno ha cercato di essere affettuoso», osservò Edward. «Affettuoso un corno! Voleva solo lodare se stesso. È il suo modo per attribuirsi ogni merito, ma non ha contribuito a nulla. Non c'era mai quando avevo bisogno di lui! Non ha mai pensato che per essere un buon padre o un buon marito si deve fare qualcosa di più che fornire cibo e alloggio.» Edward le mise un braccio intorno alle spalle. «Non serve a niente arrabbiarsi tanto, adesso.» Kim si voltò bruscamente verso di lui. «Mi è venuta un'idea. Che ne diresti di venire ad abitare con me nella villa?» Edward stentò a trovare le parole e la sua balbuzie ricomparve. «È molto generoso da parte tua», riuscì a dire. «Io penso che sia un'idea eccellente. Nella villa c'è tanto spazio e anche tu devi lasciare il tuo vecchio appartamento, comunque. Che cosa ne dici?» «Grazie», balbettò Edward, «non so proprio che cosa dire. Forse bisognerebbe pensarci un po' su.» «Pensarci?» Kim era stupita. Non si aspettava che la sua offerta venisse respinta, dal momento che le mandava mazzi di fiori ogni giorno. «Temo soltanto che tu sia troppo impulsiva», spiegò Edward. «Ho paura che poi tu possa cambiare idea e non sapere come fare marcia indietro.» «È davvero questa la ragione della tua esitazione?» Kim si alzò in punta di piedi e lo abbracciò. «E va bene», aggiunse, «pensiamoci pure, ma io certo non cambierò idea.» Più tardi, quando ebbero discusso a fondo tutti i particolari della ristrutturazione, Kim chiese a Edward se voleva passare con lei un po' di tempo al castello a frugare fra le vecchie carte. Gli spiegò che quanto avevano detto la sera prima sulla scoperta della vera natura della prova usata contro Elizabeth aveva risvegliato in lei un nuovo interesse. Edward rispose che non gli dispiaceva affatto e che era ben felice di accompagnarla.
Arrivati al castello, Kim suggerì di cominciare dalle soffitte, questa volta, invece che dalle cantine. Dapprima Edward acconsentì, ma giunti di sopra dove faceva un caldo insopportabile anche dopo che ebbero aperto le finestre degli abbaini, perse rapidamente ogni entusiasmo. «Ho proprio l'impressione che tutto questo non ti piaccia», osservò Kim. Edward aveva portato un cassetto vicino alla finestra, ma invece di esaminare le carte stava guardando fuori. «A dirti la verità, sto pensando a quei nuovi alcaloidi», rispose. «Sono ansioso di tornare al laboratorio per occuparmene.» «Perché non prendi la macchina e torni in città a lavorare? Io prenderò il treno più tardi.» «È una buona idea», convenne Edward, «ma prenderò io il treno.» Seguì un breve battibecco ed Edward ebbe la meglio; Kim infatti non avrebbe avuto alcun mezzo per arrivare alla stazione e prendere il treno. Tornarono quindi alla villa e salirono in auto. A metà strada, Kim all'improvviso si ricordò della testa di Elizàbeth, che stava sul sedile posteriore. «Nessun problema», ribatté Edward. «La porto con me.» «In treno?» ripeté lei scandalizzata. «E perché no? È nella scatola.» «Voglio che tu la riporti indietro il più presto possibile», insistette Kim. «Gli operai riempiranno lo scavo appena installate le condutture.» «Sarà un lavoro rapidissimo», la rassicurò. «Spero solo che ci sia qualcosa da analizzare. Se non troviamo niente, proveremo con il fegato.» «Non torneremo più a quella tomba se non per mettere a posto la testa», protestò Kim. «Tanto più che mio padre non mancherà di venire qui di tanto in tanto. E, quel che è peggio, evidentemente è in contatto con il capomastro.» Kim fece scendere Edward davanti alla stazione. «Pranziamo insieme?» le chiese, prendendo con sé la scatola. «Meglio di no», rispose Kim. «Devo tornare al mio appartamento, ho ancora della biancheria da lavare e domani dovrò alzarmi presto per andare a lavoro.» «Almeno sentiamoci per telefono.» «D'accordo», rispose Kim. Per quanto Edward provasse un vero piacere a trascorrere le ore in compagnia di Kim, fu tuttavia lieto di tornare al suo laboratorio e particolarmente felice di trovarvi Eleanor, che non si aspettava di vedere al lavoro.
La sua collaboratrice era tornata a casa, aveva fatto una doccia e dormito solo poche ore, troppo eccitata per rimanere lontana dal laboratorio. Per prima cosa, gli mostrò i risultati della spettrometria di massa, ormai certa che si trattasse di tre nuovi alcaloidi. Dopo averne parlato con lui quel mattino, aveva dedicato molte ore ad analizzare i risultati ed era da escludersi che derivassero da qualche sostanza già nota. «Sono rimasti degli sclerozi?» chiese Edward. «Qualcuno. Kevin Scranton ha detto che ce ne manderà altri, ma non sa quando gli sarà possibile. Io non volevo sacrificare quei pochi che abbiamo prima di avere parlato con te. Come vuoi separare gli alcaloidi? Con solventi organici?» «Impiegheremo l'elettroforesi capillare», rispose Edward. «Devo analizzare un campione grezzo?» «No. Meglio estrarre gli alcaloidi con acqua distillata e farli precipitare con un acido debole. È quanto ho fatto al laboratorio biologico, e ha funzionato bene. Otterremo campioni più puri, che renderanno più facile il lavoro strutturale.» Eleanor si avviò verso il suo banco di lavoro, ma Edward la prese per un braccio. «Prima che ti dedichi all'estrazione, voglio che tu faccia un'altra cosa.» Senza preamboli aprì la scatola e prese la testa mummificata. Eleanor fece un passo indietro a quella vista orripilante. «Avresti dovuto avvertirmi», protestò. «Già, avrei proprio dovuto», rise Edward. Per la prima volta guardò la testa con occhio critico e la trovò veramente raccapricciante. La pelle era marrone scuro, quasi mogano; si era essiccata fino ad assumere l'aspetto del cuoio e si era ritirata sulle sporgenze degli zigomi lasciando scoperti i denti in un orribile ghigno. I capelli erano secchi, opachi e aggrovigliati. «Che cos'è?» chiese Eleanor. «Una mummia egizia?» Edward le raccontò la storia e le spiegò anche che aveva portato la testa al laboratorio allo scopo di vedere se nella calotta cranica era rimasto qualche residuo da analizzare. «Lasciami indovinare», disse Eleanor. «Vuoi che lo faccia passare allo spettrometro di massa.» «Esattamente. Sarebbe un successo scientifico se potessimo rilevare valori corrispondenti ai nuovi alcaloidi. Sarebbe la prova definitiva che questa donna ha ingerito la nuova muffa.» Mentre Eleanor si recava al dipartimento di biologia cellulare per prendere in prestito altri strumenti, Edward si occupò degli studenti e degli as-
sistenti che erano venuti a consultarlo e aspettavano nervosamente il momento di poter ottenere la sua attenzione. Rispose a tutte le loro domande e li rimandò ai loro esperimenti. Quand'ebbe finito con loro, Eleanor era già di ritorno. «Un docente di anatomia mi ha detto che dovremmo asportare interamente il cuoio capelluto», riferì Eleanor porgendogli una sega elettrica vibratoria. Edward si mise all'opera. Sollevò la pelle e mise a nudo il cranio, poi prese la sega e segò la calotta. Lui ed Eleanor guardarono nell'interno, ma non c'era molto. Il cervello si era coagulato in una massa scura. «Che cosa ne pensi?» chiese Edward. Saggiò la massa scura con la punta di uno scalpello. Era dura. «Tagliane un pezzetto, lo farò sciogliere in qualche solvente», propose Eleanor. Edward seguì il suggerimento. Ottenuti i campioni, cominciarono a provare diversi solventi e, non sapendo con sicurezza che cosa avessero fra le mani, decisero di introdurre i campioni nello spettrometro di massa. Con il secondo ebbero una conferma: molti dei valori massimi corrispondevano esattamente a quelli dei nuovi alcaloidi che Eleanor aveva analizzato la notte precedente. «Gran cosa la scienza!» commentò Edward tutto esaltato. «È una vera conquista», confermò la sua assistente. Edward tornò alla sua scrivania e telefonò a Kim, ma come si aspettava, rispose la segreteria telefonica. Dopo il segnale acustico lasciò un messaggio in cui diceva che, per quanto riguardava Elizabeth Stewart, il diavolo di Salem era stato spiegato scientificamente. Poi tornò da Eleanor. Era di ottimo umore. «Bene, ora basta giocherellare», intimò. «Passiamo a un lavoro scientifico serio. Vediamo se possiamo separare questi nuovi alcaloidi in modo da scoprire che cosa abbiamo in mano.» «È impossibile!» esclamò Kim chiudendo il cassetto di uno schedario. Era accaldata, sporca di polvere, frustrata. Dopo avere accompagnato Edward alla stazione, era tornata nella soffitta del castello e per quattro ore aveva fatto un'ispezione generale, dall'ala dei domestici a quella degli ospiti. Ma non aveva trovato nulla di significativo, neppure un pezzetto di carta che risalisse al diciassettesimo secolo. «Non sarà un compito facile», mormorò fra sé osservando tutti gli armadi, i bauli, gli scatoloni e gli scrittoi che si allungavano fin dove arrivava lo
sguardo, ossia fin dove il locale girava verso destra. Si sentiva sommersa dalla quantità di materiale, che era più numeroso nelle soffitte che nella cantina. E, come nella cantina, non vi era alcun ordine né cronologico né qualitativo. Due pagine vicine potevano essere distanti di un secolo l'una dall'altra, e gli argomenti erano i più svariati: dalle bolle di carico ai contratti d'affari, dalle spese domestiche ai documenti governativi, alla corrispondenza personale. L'unico modo per analizzare tutto quel materiale era esaminare pagina per pagina. Davanti a una simile prospettiva, Kim ringraziò il cielo per avere trovato il lunedì precedente la lettera di James Flanagan a Ronald Stewart del 1679. Le aveva dato l'ingannevole impressione che la ricerca di notizie su Elizabeth al castello potesse essere un'impresa piacevole, se non proprio facile. Infine la fame, la stanchezza e lo scoraggiamento ebbero la meglio sul suo desiderio di scoprire la natura della prova decisiva fatta valere contro Elizabeth. Spinta da un urgente bisogno di fare una doccia, scese dalla soffitta e uscì all'aperto, nel caldo estivo del tardo pomeriggio. Salì in macchina e si avviò verso Boston. 6 Lunedì 25 luglio 1994 Edward sbatté le palpebre e alle cinque del mattino, dopo sole quattro ore di sonno, aprì gli occhi. Ogni volta che si entusiasmava per un progetto, il suo bisogno di sonno diminuiva, e ora si sentiva eccitato come non gli capitava da tempo. Il suo intuito scientifico gli diceva che si era imbattuto in qualcosa di veramente straordinario. E il suo intuito scientifico non lo aveva mai ingannato. Balzò di colpo dal letto, terrorizzando il povero Buffer, che cominciò ad abbaiare credendo si trattasse di un'emergenza, che il suo padrone fosse in pericolo di vita. Edward dovette dargli un'affettuosa sculacciata per riportarlo alla ragione. Dopo avere sbrigato in fretta il rituale mattutino, che includeva anche l'impegno di portare Buffer a fare una piccola passeggiata, Edward salì in macchina e si recò al laboratorio. Non erano ancora le sette quando entrò, ed Eleanor era già presente. «Dormo poco e male, in questi giorni», disse come saluto. I suoi lunghi
capelli biondi, di solito ben pettinati, erano piuttosto in disordine. «Anch'io», rispose Edward. Il sabato avevano lavorato fino all'una del mattino e la domenica tutto il giorno. Attratto dalla prospettiva del successo, Edward aveva persino rinunciato a incontrarsi con Kim la domenica sera. Quando le aveva spiegato come lui ed Eleanor fossero vicini alla meta, lei si era mostrata molto comprensiva. Poi, poco dopo la mezzanotte di domenica, Edward ed Eleanor avevano perfezionato una tecnica di separazione. Le difficoltà derivavano soprattutto dal fatto che due degli alcaloidi avevano in comune diverse proprietà fisiche. Adesso avevano bisogno di una maggiore quantità di materiale e, quasi in risposta a una muta preghiera, Kevin Scranton telefonò annunciando che quella mattina avrebbe mandato un'altra serie di sclerozi. «Voglio che tutto sia pronto quando arriverà il materiale.» «Sissignore, signor capitano», rispose Eleanor, battendo i tacchi e facendo un burlesco saluto militare. Dopo avere lavorato febbrilmente per più di un'ora, l'assistente diede un colpetto sulla spalla a Edward. «Stai intenzionalmente ignorando il tuo gregge?» gli chiese. Edward si raddrizzò e lanciò un'occhiata intorno. I suoi studenti gironzolavano senza meta per il laboratorio in attesa che il professore si occupasse di loro e altri stavano arrivando, tutti con domande da porgli e consigli da chiedergli. Ma il professore non si era nemmeno accorto della loro presenza. «Ascoltate», li arringò. «Oggi cercate di sbrigarcela da soli. Io non ho un minuto da dedicarvi, sono impegnato fino al collo in un progetto che non può aspettare.» Con qualche borbottio di protesta il gruppo si disperse, ma Edward non notò neppure la loro reazione. Tornò immediatamente al lavoro e, quando lavorava, il suo potere di concentrazione era leggendario. Pochi minuti dopo, Eleanor gli batté nuovamente sulla spalla. «Per nulla al mondo vorrei seccarti, ma ricordi che hai una lezione alle nove?» «Maledizione, me n'ero dimenticato! Manda a cercare Ralph Carter e digli di venire qui, per favore.» Era uno dei suoi assistenti anziani. Dopo qualche minuto arrivò Ralph, un giovane magro e barbuto con un viso stranamente largo e rosso. «Vorrei che tenessi il corso estivo di biochimica di base al posto mio», gli disse subito Edward.
«Per quanto tempo?» chiese Ralph. Evidentemente non era troppo entusiasta della cosa. «Te lo farò sapere», rispose laconicamente Edward. Dopo che Ralph si fu allontanato, si rivolse alla sua assistente: «Detesto questo tipo di reazione passivo-aggressiva. È la prima volta che chiedo a qualcuno di sostituirmi al corso di chimica di base». «Il fatto è che nessun altro ha come te la passione di insegnare agli studenti dei primi anni», osservò Eleanor. Come promesso, gli sclerozi arrivarono poco dopo le nove, in una bottiglietta di vetro. Edward svitò il coperchio e fece cadere le minuscole particelle scure, simili a grani di riso, su un pezzo di carta filtrante con estrema cura, come se fossero pepite d'oro. «Bruttini, vero?» osservò Eleanor. «Sembrano escrementi di topo.» «Preferisco immaginarli come semini nel pane di segale. È una metafora storicamente più significativa.» «Sei pronto a metterti al lavoro?» «Certo. Procediamo!» Prima di mezzogiorno, Edward ed Eleanor erano riusciti a produrre una minuscola quantità di ciascun alcaloide. I prodotti erano sul fondo di piccole provette coniche recanti le etichette A, B e C. Esteriormente gli alcaloidi apparivano identici, tutti l'aspetto di una polverina bianca. «E ora, qual è il passo successivo?» chiese Eleanor sollevando una delle provette alla luce. «Dobbiamo scoprire quali sono psicoattivi, poi concentreremo il lavoro su quelli.» «E che cosa utilizzeremo come reattivo? Potremmo servirci di gangli di Aplasia fasciata. Senza dubbio ci indicheranno quali sono neuroattivi.» Edward scosse la testa. «No, non vanno bene. Io voglio sapere quali alcaloidi provocano reazioni allucinogene e voglio una risposta rapida, quindi abbiamo bisogno di un cervello umano.» «Non possiamo usare dei volontari a pagamento!» lo interruppe Eleanor. «Sarebbe flagrante violazione dell'etica professionale!» «Hai ragione, ma io non ho intenzione di ricorrere a volontari a pagamento. Penso che tu e io andremo benissimo.» «Non sono sicura di volere essere coinvolta in un esperimento simile», protestò Eleanor. Cominciava a intuire le intenzioni di Edward. «Scusatemi!» esclamò in quel momento un'altra voce. Si voltarono e videro entrare Cindy, una delle segretarie del dipartimento. «Mi dispiace in-
terromperla, dottor Armstrong, ma c'è in ufficio il dottor Stanton Lewis che chiede di parlare con lei.» «Digli che sono occupato», rispose Edward seccamente. Ma appena Cindy si voltò per tornare in ufficio la richiamò. «Ci ho ripensato», le disse. «Mandalo qui.» «Non mi piace quel lampo nei tuoi occhi», osservò Eleanor mentre stavano aspettando Stanton. «È assolutamente innocente», spiegò Edward ridendo. «Naturalmente, se il signor Lewis manifestasse il desiderio di diventare ricercatore in questo studio, non mi opporrei. Seriamente, voglio parlargli di quello che stiamo facendo.» Stanton entrò nel laboratorio con il solito impeto, sommergendo Edward ed Eleanor di saluti. «Ecco i miei due ricercatori prediletti!» esclamò. «Ma per diverse parti del mio cervello.» Rise a quella che credeva una battuta un po' spinta, ma Eleanor si dimostrò più pronta di lui ribattendo che non sapeva che avesse cambiato le sue tendenze sessuali. «Che cosa vorresti dire?» chiese Stanton, perplesso. «Semplicemente questo. Sono convinta che tu sia attirato da me per la mia intelligenza», rispose Eleanor, «il che significa che il tuo cervello istintuale è attirato da Edward.» Edward sogghignò. La battuta pronta era una specialità di Stanton e lui non lo aveva mai visto restare interdetto. Anche Stanton rise e assicurò a Eleanor che il suo spirito lo aveva sempre reso cieco alle altre sue grazie. Poi si rivolse a Edward. «Bene», disse, «a parte gli scherzi, che cosa pensi di quel prospetto della Genetrix?» «Confesso che non ho ancora avuto tempo di dargli un'occhiata», ammise Edward. «Ma me lo avevi promesso!» protestò Stanton. «Dovrò dire a mia cugina che non deve più vederti perché sei una persona di cui non ci si può fidare?» «Chi è questa cugina?» chiese Eleanor dando a Edward un colpetto nelle costole. Lui arrossì violentemente e l'emozione lo fece balbettare, cosa che raramente gli succedeva quando era in laboratorio. Non voleva parlare di Kim. «Non ho avuto tempo di leggere niente», replicò a Stanton parlando con difficoltà. «È venuto fuori qualcosa di nuovo, che potrebbe interessarti.» «Sarà meglio che sia veramente qualcosa di buono», replicò Stanton
dandogli una pacca sulle spalle. «Quanto a Kim, ho scherzato, non vorrei mai mettermi in mezzo a voi due piccioncini. Ho sentito da mia zia che papà Stewart vi ha sorpreso insieme a Salem. Spero che non foste in flagranza di reato, vecchia canaglia.» Edward tossì nervosamente mentre faceva cenno a Stanton di prendersi una sedia. Poi cambiò argomento e si lanciò in un lungo discorso sul nuovo fungo e i suoi alcaloidi. Affermò che almeno uno doveva essere psicotropo e gli spiegò come lo aveva accertato. Gli porse anche le tre provette dicendogli che avevano appena terminato di isolare le nuove sostanze. «Una bella storia», osservò Stanton rimettendo sul tavolo le provette. «Ma perché pensi che mi potrebbe interessare? Io sono un tipo pratico, non mi diletto di astruserie esoteriche come fate voi accademici.» «Io credo che questi alcaloidi potrebbero portare un profitto pratico», ribatté Edward. «Potremmo essere sul punto di scoprire un intero gruppo nuovo di farmaci psicotropi che, come minimo, potranno essere utilizzati nella ricerca.» Stanton si raddrizzò visibilmente sulla sedia mostrando vero interesse. «Nuovi farmaci?» chiese. «Questo mi sembra interessante. Che probabilità ci sono, secondo te, che possano trovare applicazione nella farmacopea?» «Credo che le probabilità siano eccellenti. Specialmente considerando le tecniche di modificazione molecolare di cui oggi disponiamo nella moderna chimica sintetica. Dopo l'effetto psichedelico mi sono sentito pieno di energia nuova, con la mente particolarmente lucida. Ritengo che questi alcaloidi siano qualcosa di più che semplici allucinogeni.» «Oh, buon Dio!» esclamò Stanton. Il suo istinto imprenditoriale gli fece accelerare il polso. «Questo potrebbe essere un avvenimento!» «È quello che pensavamo anche noi», replicò Edward. «Sono sicuro che ti potrebbe portare un vantaggio economico di enorme entità», proseguì Stanton. «Quello che ci interessa è anzitutto quello che un nuovo gruppo di sostanze psicoattive potrebbe fare per la scienza», ribatté Edward. «Tutti oggi si aspettano un nuovo passo avanti nella conoscenza delle funzioni del cervello. Chissà? Potrebbe essere questo. In tal caso, dovremmo escogitare un modo per finanziarne la produzione su larga scala. I ricercatori di tutto il mondo farebbero la coda per averlo.» «Parole d'oro», convenne Stanton. «Sono lieto che tu ti ponga scopi così nobili. Ma perché non cogliere due piccioni con una fava? Potresti nel contempo fare anche un mucchio di quattrini.»
«Non ci tengo a diventare milionario, e tu ormai dovresti saperlo.» «Milionario?» lo rimbeccò Stanton con un sogghigno sprezzante. «Se questa nuova serie di farmaci risulta efficace per la depressione o l'ansia o una combinazione di entrambe, potresti trovarti fra le mani una molecola da un miliardo.» Edward si accingeva a ricordare a Stanton che loro due avevano scale di valori diversi, ma si fermò a metà. Sul suo viso apparve un'espressione di sorpresa e chiese a Stanton se avesse proprio detto un miliardo. «Ho detto una molecola da un miliardo di dollari, e non sto esagerando. L'esperienza fatta con il Librium prima, poi con il Valium e adesso con il Prozac ha dimostrato l'appetito insaziabile della nostra società per farmaci psicotropi clinicamente efficaci.» Edward fissò in silenzio, con sguardo assente, il piazzale dell'istituto di Medicina. Quando parlò, la sua voce aveva uno strano tono lontano e come sognante. «Dal tuo punto di vista, e in base alla tua esperienza, che cosa si dovrebbe fare per sfruttare una tale scoperta?» «Non molto. Tutto quello che c'è da fare è costituire una società e brevettare il farmaco. Tutto qui. Ma finché non lo farai è indispensabile la massima segretezza.» «La segretezza c'è», affermò Edward. Aveva ancora quell'espressione assente. «Solo da pochi giorni sappiamo che si tratta di qualcosa di nuovo. Eleanor e io siamo gli unici a conoscenza della cosa.» Non volle fare il nome di Kim per timore che si tornasse a parlare di lei. «Bene, meno persone lo sanno, meglio è», affermò Stanton. «Anzi, io potrei darmi subito da fare per costituire la società, nel caso che il vostro lavoro arrivi a risultati promettenti.» Edward si strofinò gli occhi, poi si passò le mani sulla faccia. Trasse un respiro profondo e parve che si destasse da un sogno. «Ho paura che corriamo troppo», osservò. «Eleanor e io abbiamo un sacco di lavoro da fare prima di sapere esattamente in che cosa ci siamo imbattuti.» «Quale sarà il prossimo passo?» chiese Stanton. «Sono lieto che tu me lo domandi.» Edward si alzò e si avvicinò a un armadietto che conteneva diversi recipienti di vetro. «Eleanor e io ne stavamo giusto parlando. La prima cosa da fare è determinare quale di questi alcaloidi sia psicotropo.» Prese dall'armadietto tre bottiglie e le depose sul tavolo davanti a Stanton ed Eleanor. Poi mise in ogni bottiglia una minuscola quantità di ognuno dei tre alcaloidi, riempì ciascuna con un litro di acqua distillata e le scosse energicamente.
«Come pensi di farlo?» chiese Stanton, anche se il racconto di Edward gli aveva già dato un'idea. Edward prese da un cassetto tre pipette da un millilitro. «Qualcuno vuole unirsi a me?» chiese. Eleanor e Stanton non dissero una parola. «Codardi», li accusò Edward ridendo. Poi aggiunse: «Stavo scherzando. Vi voglio qui vicino solo in caso che qualcosa vada storto. La prova spetta a me». Stanton guardò Eleanor: «Questo ragazzo è pazzo o che?» Eleanor diede un'occhiata a Edward. Sapeva che non era uno sconsiderato, non aveva mai incontrato nessuno che fosse più intelligente e capace di lui, soprattutto quando si trattava di biochimica. «Sei sicuro che non ci sia pericolo?» gli domandò. «Non più che bevendo qualche bicchierino di troppo al bar», le rispose Edward. «Un millilitro conterrà al massimo pochi milionesimi di grammo. Io ho già fatto un esperimento senza riportarne conseguenze, anzi, mi è rimasta una sensazione di lieve euforia. Queste, d'altronde, sono sostanze relativamente pure.» «D'accordo», acconsentì Eleanor. «Dammi una di quelle pipette.» «Sei proprio sicura?» chiese Edward. «Nessuno ti obbliga, io posso anche assaggiarle tutt'e tre.» «Sono sicura», confermò Eleanor, e prese una pipetta. «E tu, Stanton? Oggi ti viene offerta l'occasione di partecipare a un vero esperimento scientifico. Inoltre, se vuoi davvero che io legga quel dannato prospetto, puoi anche farmi un favore in cambio.» «Be', se voi due svitati pensate che non ci sia pericolo, ci sto», acconsentì Stanton, pur riluttante. «Ma sarà meglio che tu legga davvero quel prospetto.» Stanton prese una delle pipette. «Ciascuno può scegliere il veleno che più gli piace», invitò Edward facendo cenno alle tre bottiglie. «Se parli ancora di veleno, scappo!» protestò Stanton. Edward rise, divertito dall'imbarazzo di Stanton. Troppe volte era successo il contrario. Stanton lasciò che Eleanor scegliesse per prima, poi prese una delle due bottiglie rimaste. «Mi sembra proprio una roulette russa della farmacologia!» sospirò. Eleanor rise e commentò che Stanton era fin troppo in gamba. «Ma non abbastanza per evitare di restare intrappolato da voi due», replicò lui.
«Prima le signore», invitò Edward. Eleanor riempì la sua pipetta e si pose un millilitro di liquido sulla punta della lingua. Edward l'avvertì di bere subito un bicchiere d'acqua, poi i due uomini rimasero a osservarla. Nessuno parlò per diversi minuti. Infine Eleanor alzò le spalle. «Niente», disse, «solo il polso leggermente accelerato.» «È la paura», commentò Stanton. «Ora tocca a te», disse Edward all'amico. Stanton riempì la sua pipetta. «Devo proprio compiere un reato per indurti a entrare in un comitato consultivo scientifico!» si lagnò. Si depose la minuscola quantità di liquido sulla lingua e la ingoiò con un bicchiere d'acqua. «È amara», osservò. «Comunque, non sento niente.» «Aspetta qualche secondo; deve entrare in circolo», lo avvertì Edward, e riempì la propria pipetta. Cominciava ad avere dei dubbi. Forse poteva esserci qualche altro composto idrosolubile nell'estratto che gli aveva provocato la reazione psichedelica. «Credo di sentirmi girare un po' la testa», annunciò Stanton. «Bene», commentò Edward e i suoi dubbi si dissiparono. Ricordava che il senso di capogiro era stato il primo sintomo provato. «C'è altro?» Stanton all'improvviso si tese, poi fece una smorfia, lanciando sguardi sorpresi tutt'intorno. «Che cosa vedi?» chiese Edward. «Colori! Vedo colori che si muovono.» Stanton si stava accingendo a descrivere i colori con più particolari, quando s'interruppe con un grido di paura. Balzò in piedi e cominciò a strofinarsi freneticamente le braccia. «Che cosa ti succede?» gli chiese Edward. «Degli insetti mi mordono!» esclamò, continuando a togliersi di dosso gli immaginari insetti. Poi parve che stesse soffocando. «E adesso, che cos'hai?» chiese ancora Edward. «Qualcosa mi stringe il petto. Non riesco a inghiottire.» Allora Edward si avvicinò e lo prese per un braccio. Eleanor, intanto, aveva afferrato il telefono e stava componendo un numero, ma lui le disse che andava tutto bene. Stanton si era di colpo calmato, gli occhi si chiusero e il viso si distese. Edward lo fece retrocedere di un passo e lo fece sedere di nuovo sulla sua sedia. Stanton rispose alle domande lentamente, quasi riluttante. Disse che era molto occupato e non voleva essere disturbato. Quando gli chiesero che cosa dovesse fare, rispose semplicemente: «Delle cose».
Dopo venti minuti, il sorriso sulla sua faccia svanì. Per qualche secondo parve che stesse dormendo, poi lentamente i suoi occhi si aprirono. Per prima cosa inghiottì. «Mi sento la bocca come il Deserto del Gobi», borbottò. «Ho bisogno di bere qualcosa.» Edward versò un bicchiere d'acqua e glielo porse. Lui lo bevve di gusto e ne chiese un secondo. «Direi che sono stati due o tre minuti interessanti. E anche laboriosi», osservò Stanton, «ma in fondo mi sono divertito.» «Sono stati più di venti minuti», gli fece osservare Edward. «Ma davvero?» «Come ti senti in generale?» chiese Edward. «Meravigliosamente calmo.» «E la mente? Non ti sembra più lucida?» «È proprio come dici tu. Mi sembra di poter ricordare ogni sorta di cose con sorprendente chiarezza.» «Anch'io avevo la stessa sensazione. E che cosa mi dici dell'impressione di soffocamento?» «Soffocamento?» «Dicevi che stavi soffocando e ti lagnavi delle punture degli insetti.» «Non ricordo proprio», affermò Stanton. «Be', non importa. L'importante è che ora sappiamo di sicuro che la sostanza B è allucinogena. Ora vediamo la terza.» Edward prese la sua dose. Attesero diversi minuti, come avevano fatto con Eleanor, ma non successe niente. «Uno su tre mi va benissimo», commentò Edward. «Ora sappiamo su quale degli alcaloidi dobbiamo concentrare i nostri sforzi.» «Forse dovremmo imbottigliare questa roba e venderla così com'è», scherzò Stanton. «La generazione degli anni Sessanta ne sarebbe andata pazza. Voglio dire, io mi sento splendidamente, quasi euforico. Certo, può darsi che sia una reazione di sollievo all'idea che il rischio è passato. Devo ammettere che avevo proprio paura.» «Anch'io ho provato un senso di euforia», aggiunse Edward. «E poiché entrambi lo abbiamo avvertito, probabilmente è proprio l'effetto dell'alcaloide. Comunque, mi sento incoraggiato. Credo che abbiamo ottenuto un farmaco psichedelico con effetti calmanti e insieme proprietà amnesiche.» «E quell'impressione di lucidità mentale?» chiese Stanton. «Mi piacerebbe credere che sia il risultato di un potenziamento di tutta l'attività cerebrale. In questo senso potrebbe forse avere qualche effetto an-
tidepressivo.» «Musica per le mie orecchie», esclamò Stanton. «Ma dimmi, quale sarà il vostro prossimo passo, con questa sostanza?» «Prima ci concentreremo sulla sua composizione chimica», spiegò Edward, «ossia sulla struttura e sulle proprietà fisiche. Una volta scoperta la struttura, cercheremo di ottenere il farmaco per via sintetica, per non essere costretti a estrarlo dalla muffa. Poi passeremo a studiare gli effetti fisiologici e a controllare l'eventuale livello di tossicità.» «Tossicità?» chiese Stanton impallidendo. «Tu ne hai preso una dose minuscola», gli ricordò Edward. «Non devi preoccuparti, non avrai problemi.» «Come farete ad analizzare gli effetti fisiologici del farmaco?» chiese ancora Stanton. «Con un approccio a più livelli», rispose Edward. «Come ricorderai, la maggior parte delle sostanze che hanno effetti psichedelici funziona imitando uno dei neurotrasmettitori del cervello. L'LSD, per esempio, si collega alla serotonina. I nostri studi partiranno con neuroni unicellulari, poi passeranno ai sinaptosomi, che sono preparati di cervello vivo macinato e centrifugato, e alla fine affronteranno sistemi di cellule neurali intatte, come i gangli di animali inferiori.» «Non farete esperimenti con animali vivi?» chiese Stanton. «Alla fine sì. Probabilmente con topi e ratti, e forse un paio di scimmie. Ma questo avverrà per ultimo. Dobbiamo anche analizzare il livello molecolare e identificare i punti di legame e la trasduzione del messaggio nella cellula.» «Un progetto che minaccia di durare molti anni», commentò Stanton. «Abbiamo un sacco di lavoro da fare.» Edward guardò sorridendo Eleanor, che annuì. «Ma è straordinariamente eccitante, comunque. Potrebbe essere la grande occasione di tutta la vita.» «Bene, tienimi informato.» Stanton si alzò e fece qualche passo per controllare il proprio equilibrio. «Devo dire che mi sento benone.» Arrivò alla porta del laboratorio, poi si fermò e tornò sui propri passi. Edward ed Eleanor si erano già rimessi al lavoro. «Ricordati che mi hai promesso di leggere quel dannato prospetto», disse a Edward. «E devi mantere la parola, per quanto da fare tu abbia.» «Lo leggerò, ma non posso dirti quando.» Stanton protese l'indice come se la sua mano fosse una pistola e glielo puntò alla testa fingendo di sparare.
«Kim, la vogliono al telefono sulla linea uno», chiamò l'infermiere di guardia. «Prenda lei il messaggio», gridò lei di rimando. Era al capezzale di un paziente in gravi condizioni e aiutava l'infermiera di turno. «Vai pure a rispondere», le disse l'infermiera. «Grazie a te, qui la situazione è sotto controllo.» «Sei sicura?» L'infermiera annuì e Kim attraversò il centro dell'unità di cura intensiva, aprendosi la via fra i letti. Per tutto il giorno c'era stato un andirivieni di pazienti ricoverati o dimessi. Prese il ricevitore, aspettandosi una chiamata dal laboratorio di chimica o dalla banca del sangue, a cui aveva telefonato poco prima. «Spero di non essere capitato in un brutto momento», disse una voce. «Con chi parlo?» chiese Kim. «George Harris, il capomastro di Salem. Ho trovato il suo messaggio.» «Mi scusi, non avevo riconosciuto la sua voce», gli rispose. Aveva dimenticato di avergli telefonato lasciandogli un messaggio sulla segreteria telefonica diverse ore prima. «Mi scuso io per avere richiamato così tardi. Ero fuori, al cantiere. Che cosa posso fare per lei?» «Volevo sapere quando contate di riempire il fossato», spiegò Kim. Ci aveva pensato il giorno prima e la questione le aveva procurato una certa ansietà. Che cosa avrebbe potuto fare se avessero riempito il fossato prima che la testa di Elizabeth fosse stata rimessa al suo posto? «Forse domattina», fu la risposta. «Così presto?» «Mentre noi parliamo stanno già sistemando le condutture. C'è qualche problema?» «Oh no, nessun problema», si affrettò a rispondere Kim. «Volevo solo saperlo. Come vanno i lavori?» «Tutto fila liscio.» Kim pose subito fine alla conversazione e telefonò senza indugio a Edward. La sua ansia crebbe mentre aspettava la comunicazione. Trovarlo al telefono non era facile. Dapprima la segretaria si rifiutò persino di tentare di rintracciarlo, dicendo che avrebbe preso nota e che l'avrebbe fatta richiamare. Kim insistette e finalmente riuscì a parlargli. «Sono lieto che tu mi abbia chiamato», disse subito Edward. «Ho altre
buone notizie. Non soltanto siamo riusciti a separare gli alcaloidi, ma abbiamo già accertato quale dei tre è psicoattivo.» «Sono contenta per te», rispose Kim, «ma c'è un problema. Dobbiamo riportare al più presto la testa di Elizabeth a Salem.» «Possiamo farlo il prossimo fine settimana.» «Troppo tardi. Ho appena parlato con il capomastro e mi ha detto che il fossato verrà riempito domani in mattinata.» «Accidenti! I lavori procedono a una velocità impressionante. Detesto abbandonare il lavoro che sto facendo; non possono aspettare a riempirlo dopo il fine settimana?» «Non l'ho chiesto e neppure voglio chiederlo», gli rispose. «Dovrei spiegare il motivo, e l'unico motivo è la bara. Il capomastro è in buoni rapporti con mio padre e non voglio che venga a sapere che abbiamo violato la tomba.» «Oh, dannazione», imprecò Edward. Ci fu una pausa imbarazzata. «Mi avevi promesso che avresti riportato 'quella cosa' a posto il più presto possibile», disse infine Kim. «In questo momento mi è molto difficile», ribatté Edward. Poi, dopo una breve pausa, aggiunse: «Perché non la riporti tu?» «Non so se ne avrei la forza. Non volevo neppure guardarla, meno che mai vorrei maneggiarla.» «Non devi maneggiarla. Tutto quello che devi fare è spostare il pannello della bara e infilare dentro la scatola. Non dovrai neppure aprirla.» «Edward, tu me l'hai promesso!» protestò Kim. «Ti prego, Kim, ti ricompenserò in qualche modo. Ma il fatto è che in questo momento ho da fare fin sopra i capelli e abbiamo cominciato ad analizzare la struttura.» «E va bene!» sospirò lei. Quando qualcuno dei suoi amici le chiedeva di fare qualcosa, le era difficile rifiutare. Non che le dispiacesse fare una corsa a Salem. Era bene che controllasse i progressi dei lavori con la maggior frequenza possibile. Forse fare scivolare la scatola nella bara non sarebbe stato così brutto. «Come faccio ad avere quella scatola?» chiese. «Per facilitarti le cose, te la manderò per mezzo di un fattorino, così l'avrai prima di finire il tuo turno. Ti va bene?» «Sì, mi va bene», acconsentì Kim. «Telefonami al laboratorio, quando ritorni. Resterò qui almeno fino a
mezzanotte, forse anche dopo.» Kim tornò al lavoro, ma era preoccupata. L'ansia che l'aveva assalita nel sentire che il fossato doveva essere riempito così presto continuava a tormentarla. E, conoscendosi, sapeva che sarebbe stato così finché non avesse rimesso la testa nella bara. Mentre faceva il solito giro delle corsie prestando le necessarie cure ai suoi pazienti, continuava a rimproverarsi per avere consentito a Edward di prelevare la testa. E ora le toccava riportarla indietro! Più ci pensava, più la cosa la ripugnava. Parlando con Edward al telefono, l'idea di lasciare la testa nella scatola le era parsa ragionevole, ma ora si rendeva conto che il suo senso del decoro non glielo avrebbe consentito. Si sentiva in obbligo di far sì che la tomba tornasse nello stato in cui era rimasta per tre secoli, prima di essere profanata da loro. Questo significava aprire la scatola e prendere in mano la testa, e la sola idea la sconvolgeva. Infine, il lavoro le permise di allontanare dalla mente quel pensiero. C'erano molti pazienti che avevano bisogno di cure e le ore volarono. Più tardi, mentre era alle prese con un'endovenosa, l'infermiere di turno le batté un colpetto sulla spalla. «È arrivato un pacco per lei», le disse indicando un fattorino in attesa vicino al banco. «Deve firmare.» Kim guardò il ragazzo, che pareva intimidito dall'ambiente dell'ospedale. Aveva in una mano un registro per le firme e nell'altra una scatola avvolta in carta da pacchi e legata con uno spago. In un attimo, Kim si ricordò e il suo cuore fece un balzo. «L'impiegato al portone voleva obbligarlo a portare il pacco nella stanza della posta», spiegò l'infermiere, «ma il fattorino ha insistito dicendo che aveva istruzioni di consegnarlo a lei personalmente.» «Me ne occupo io», ribatté Kim nervosamente. Si avviò verso il banco della reception, seguita dall'infermiere, e con orrore si rese conto che quell'infelice situazione stava diventando drammatica. Kinnard si alzò da dietro la scrivania, dove stava riempiendo una scheda medica, e manifestò la sua curiosità. Lei non l'aveva più visto dopo il loro incontro alla tenuta. «Che cosa abbiamo qui?» chiese Kinnard. Kim prese il registro dalle mani del fattorino e firmò in fretta. «È una consegna speciale», spiegò l'infermiere. «Vedo», replicò Kinnard. «E vedo anche che viene dal laboratorio del dottor Armstrong. La questione è: che cosa può esserci dentro?» «Non era scritto sulla ricevuta», rispose l'infermiere.
«Dammi la scatola», ordinò Kim seccamente. Si sporse sul banco per prenderla dalle mani di Kinnard, ma lui fece un passo indietro, sorridendo malignamente. «Viene da uno dei molti ammiratori della signorina Stewart», commentò. «Probabilmente sono cioccolatini. Una buona idea, incartarli con carta da pacchi!» «È la prima volta che uno del personale riceve un pacco qui all'ospedale», osservò l'infermiere. «Dammi quella scatola», chiese Kim di nuovo. Arrossì immaginando di vedere la scatola cadere al suolo e rotolarne fuori la testa di Elizabeth. Kinnard scosse la scatola e ascoltò attentamente. Dall'altra parte della scrivania Kim poté sentire distintamente la testa battere contro il cartone. «Non possono essere cioccolatini, a meno che non si tratti di un pallone da football di cioccolata.» Sul viso di Kinnard apparve un'espressione comicamente perplessa. «Che cosa ne pensa lei?» Scosse il pacco vicino all'orecchio dell'infermiere. Sdegnata, Kim girò intorno alla scrivania e cercò di afferrare il pacco, ma Kinnard lo sollevò alto sopra la testa, fuori della sua portata. Anche Marsha Kingsley girò intorno alla scrivania dall'altra parte. Come la maggior parte dei presenti nella sala, aveva visto quello che stava succedendo, ma diversamente dagli altri corse in aiuto dell'amica. Si portò alle spalle di Kinnard, gli appoggiò una mano sul braccio e glielo fece abbassare. Kinnard non oppose resistenza. Marsha prese il pacco e lo porse a Kim. Quindi, intuendo che era sconvolta, la condusse nella stanzetta accanto. Alle loro spalle sentirono Kinnard ridere con l'infermiere. «Che modo di fare dello spirito!» commentò Marsha. «Bisognerebbe prenderlo a calci in quel suo sedere irlandese!» «Grazie per avermi aiutata.» Ora che aveva la scatola fra le mani Kim si sentiva meglio, ma tremava ancora visibilmente. «Non capisco che cosa ci sia di storto in quel tipo», continuò Marsha. «Che prepotente! Tu non meriti di essere trattata così.» «Si sente offeso perché esco con Edward.» «E adesso lo difendi?» chiese Marsha. «Diavolo, la parte di innamorato respinto non si addice proprio a quel donnaiolo.» «Sta corteggiando un'altra?» chiese Kim. «Quella bionda nuova, appena arrivata al pronto soccorso.» «Un bel tipo davvero!» commentò Kim sarcastica.
«Peggio per lui», proseguì Marsha. «Si dice in giro che sia il prototipo della bionda scema delle barzellette.» «È anche una che non dice mai di no», ribatté Kim tristemente. «Ma che cosa te ne importa?» Kim sospirò. «Hai ragione. Ma io non posso soffrire i rancori e i conflitti.» «Be', tu ne hai sopportate fin troppe da Kinnard. Guarda coni'è diverso Edward, lui non ti considera una sua proprietà.» «Hai ragione», ripeté Kim. Dopo il lavoro, Kim si portò via la scatola e la mise nel baule della macchina, ma era incerta su che cosa fare. Prima che si presentasse il problema della testa di Elizabeth, infatti, aveva progettato di recarsi al palazzo del Governo. Pensò di rimandare la visita a un altro pomeriggio, poi decise che avrebbe potuto fare entrambe le cose, specialmente considerando che il lavoretto alla villa doveva essere fatto dopo che tutti gli operai se ne fossero andati. Lasciò la macchina nel garage dell'ospedale e si avviò verso il palazzo del Governo del Massachusetts, un imponente edificio dalla cupola dorata. Dopo avere lavorato tutto il giorno al chiuso, era lieta di trovarsi all'aria aperta in quella giornata estiva calda ma piacevole. C'era una leggera brezza e un odore salmastro nell'aria e, da lontano, si udivano stridere i gabbiani. Il servizio informazioni del palazzo la indirizzò agli Archivi di Stato del Massachusetts. Aspettato brevemente il suo turno, Kim si trovò davanti un impiegato piuttosto tarchiato, il cui nome era William MacDonald, al quale mostrò le copie che aveva fatto della petizione di Ronald e della risposta negativa del giudice Hathorne. «Molto interessante», osservò William, «adoro queste vecchie storie. Dove ha trovato questi documenti?» «Al tribunale della contea di Essex.» «Che posso fare per lei?» «Il giudice Hathorne aveva suggerito a Ronald Stewart di rivolgersi al governatore, poiché la prova che cercava era stata trasferita nella contea di Suffolk. Io vorrei rintracciare la risposta del governatore. Quello che veramente mi interessa è scoprire la natura di questa prova che, per qualche sconosciuta ragione, non è descritta né nella petizione né nell'ordinanza di risposta.»
«Doveva essere il governatore Phips», osservò William, e sorrise. «Io sono un vero patito della storia. Vediamo se riesco a trovare Ronald Stewart nel computer.» William cominciò a lavorare sul suo terminale e Kim osservava il suo viso, poiché non poteva vedere lo schermo; ma con sua grande delusione, l'impiegato scuoteva la testa dopo ogni tentativo. «Non c'è nessun Ronald Stewart», annunciò infine. Tornò a guardare l'ordinanza e si grattò la testa. «Non saprei che cos'altro fare. Ho tentato un controllo incrociato fra Ronald Stewart e il governatore Phips, ma non mi viene fuori niente. Il guaio è che non tutte le petizioni del diciassettesimo secolo sono sopravvissute, e quelle che ci restano non sono tutte registrate o catalogate. C'è un'enorme massa di petizioni personali. In quei tempi erano comuni le liti e i conflitti, e i cittadini si denunciavano l'un l'altro non meno di quanto facciamo oggi.» «E se provassimo con la data?» propose Kim. «Il 3 agosto 1692. Ci potrebbe servire in qualche modo?» «Temo di no, mi dispiace.» Kim lo ringraziò e lasciò il palazzo del Governo piuttosto scoraggiata. Data la facilità con cui aveva trovato la petizione a Salem, si era illusa di rintracciare a Boston l'ordinanza di risposta che probabilmente avrebbe rivelato la natura della prova usata contro Elizabeth. «Ma perché Ronald Stewart non ha descritto quella benedetta prova?» borbottava Kim scendendo per Beacon Hill. Poi le venne l'idea che forse proprio questo fatto doveva essere significativo; forse conteneva una specie di messaggio, era una chiave di lettura. Sospirò. Più pensava a quella misteriosa prova, più la sua curiosità si accendeva. Cominciò a immaginare che fosse in qualche modo collegata a quella sua vaga sensazione che Elizabeth cercasse di comunicare con lei. Arrivata in Cambridge Street voltò verso il General Hospital. L'insuccesso riportato agli archivi governativi implicava un'altra conseguenza spiacevole: ora non le restava che tornare all'immensa congerie di carte e documenti accumulata al castello, un compito che le dava i brividi. Ma era evidente che, se voleva apprendere qualcosa di più su Elizabeth, doveva cercare lì. Salì in macchina e si diresse a nord, verso Salem. Non fu un viaggio facile né rapido, perché a causa della visita agli archivi governativi aveva fatto tardi e ora era costretta a muoversi nel traffico caotico dell'ora di punta.
Intrappolata nella ressa di macchine di Storrow Drive, mentre cercava di aprirsi la via attraverso Leverett Circle, pensava alla bionda che Kinnard stava corteggiando. Sapeva che non avrebbe dovuto interessarle, ma ne era comunque turbata. D'altra parte, proprio pensando a tutto questo, era lieta di avere invitato Edward ad abitare alla villa con lei. Non solo provava un vivo affetto per Edward, ma le pareva che il fatto di vivere con lui fosse come un messaggio indirizzato tanto a Kinnard che a suo padre. Poi si ricordò della testa di Elizabeth, nel portabagagli e più pensava a come Edward si fosse rifiutato di accompagnarla a Salem quella sera, più quel rifiuto la sorprendeva. Tanto più che aveva promesso di occuparsi di tutto e sapeva benissimo quanto l'idea di maneggiarla la disgustasse. Questo comportamento era inconciliabile con la cortesia e le premure che le aveva sempre dimostrato. E con tutto il resto, questo pensiero fece sì che Kim arrivasse a Salem di pessimo umore. «Che cos'è questo?» chiese Edward irosamente. «Devo tenerti continuamente per mano?» Stava parlando con Jaya Dawar, un brillante studente appena arrivato da Bangalore, in India. Jaya era ad Harvard solo dal 1° luglio e cercava di trovare direttive valide per la sua tesi di dottorato. «Speravo che lei potesse indicarmi altri testi da leggere», disse Jaya. «Io posso indicarti un'intera biblioteca», ribatté Edward. «Dista soltanto un centinaio di metri.» E puntò l'indice in direzione della biblioteca medica Countway. «Viene un momento, nella vita di ognuno di noi, in cui si deve tagliare il cordone ombelicale. Comincia un po' a lavorare per conto tuo.» Jaya chinò la testa e uscì silenziosamente, mentre Edward tornò a dedicare la sua attenzione ai minuscoli cristalli che stava producendo. «Forse dovrei essere io a sbrigare il grosso del lavoro con il nuovo alcaloide», suggerì Eleanor con voce esitante. «Tu potresti guardare da sopra la mia spalla e farmi da guida.» «E perdere tutto il divertimento?» Stava osservando con un microscopio binoculare i cristalli che si formavano sulla superficie di una soluzione satura nel cavo di un minuscolo vetrino. «Io mi preoccupo delle tue normali responsabilità», ribatté Eleanor. «Una quantità di gente qui intorno ha bisogno della tua supervisione e ho sentito gli studenti del corso estivo preparatorio lamentarsi della tua assenza di questa mattina.» «Ralph conosce la materia e il suo metodo didattico migliorerà.» «A Ralph non piace insegnare», fece presente Eleanor.
«Apprezzo quello che mi dici», replicò Edward. «Ma non voglio assolutamente perdere questa occasione. Abbiamo in mano qualcosa di grande con questo alcaloide, me lo sento nelle ossa. Voglio dire, quante volte ti può capitare di vedere una molecola da un miliardo di dollari scenderti dolcemente in mano?» «Non sappiamo se questa nuova sostanza avrà un qualsiasi valore. A questo punto, è una prospettiva puramente ipotetica.» «Diamoci sotto e lo sapremo presto.» Edward sorrise. «Gli studenti possono benissimo sopravvivere senza di me per un po' di tempo. E magari gli farà bene.» Mentre Kim si avvicinava alla tenuta, la sua ansia crebbe. Non poteva dimenticare che aveva la testa di Elizabeth nel portabagagli e avvertiva un vago malessere, come un inquieto presentimento sul futuro svolgersi degli eventi. Il fatto di essere incappata nella tomba di Elizabeth al principio dei lavori di ristrutturazione le dava l'impressione che l'orrida vicenda delle streghe del 1692 gettasse un'ombra sinistra sul presente. Oltrepassando il cancello socchiuso, Kim temette che gli operai si trovassero ancora sul posto e, come uscì dal folto degli alberi, i suoi sospetti furono confermati. Di fronte alla villa, infatti, erano parcheggiate due macchine. Si era aspettata che a quell'ora tutti avessero lasciato il cantiere. Parcheggiò accanto alle due auto e scese. Quasi nello stesso istante, George Harris e Mark Stevens comparvero sul portone e, a differenza di Kim, si dimostrarono lietissimi di vederla. «Che piacevole sorpresa», la salutò Mark. «Contavamo di poterle parlare al telefono più tardi, ma vederla qui è molto meglio. Abbiamo molte cose da dirle.» Per la successiva mezz'ora, Mark e George la condussero a fare un giro per controllare i lavori. Gli straordinari progressi che erano stati fatti contribuirono a migliorare il suo umore. Mark aveva portato in cantiere dei campioni di granito per la cucina e i bagni e Kim, con il suo interesse per l'arredamento e il suo senso del colore, non ebbe difficoltà a decidere. Mark e George ne furono impressionati e anche lei rimase stupita di se stessa. Sapeva che la capacità di prendere decisioni le veniva dalla maggior fiducia in se stessa che aveva acquisito nel corso degli anni, mentre quando era ragazzina e frequentava il liceo non sarebbe stata neppure capace di scegliere il colore del suo copriletto. Terminato di esaminare l'interno, uscirono all'aperto e cominciarono un
giro intorno all'edificio. Osservando la struttura dall'esterno, Kim manifestò il desiderio che le nuove finestre del capanno si accordassero nella forma con le finestre dai vetri a losanghe del resto dell'edificio. «Si dovranno fare espressamente su misura», le fece notare George, «e saranno considerevolmente più costose.» «Le voglio così», affermò lei senza esitare. Decise anche che le tegole di ardesia del tetto fossero riparate e non sostituite con materiale moderno come suggeriva il capomastro, e Mark convenne che così il tetto avrebbe avuto un aspetto decisamente migliore. Kim volle anche che la copertura in eternit del capanno fosse tolta e sostituita con ardesia. Girando intorno all'edificio, arrivarono al fossato. Lei guardò giù, dove ora erano stati installati il tubo di scarico, il tubo dell'acqua, le condutture elettriche, la linea telefonica e il cavo della televisione. Con visibile sollievo notò che l'angolo della bara sporgeva sempre dalla parete. «Che farete con questo fossato?» chiese. «Lo riempiremo domani», rispose George. Kim avvertì un brivido nella schiena immaginando il terribile dilemma che le si sarebbe presentato se non avesse telefonato quella mattina. «Sarà tutto pronto per il 1° settembre?» chiese ancora, sforzandosi di allontanare dalla mente quei pensieri sinistri. Mark si rivolse a George. «A meno che non si presentino problemi imprevedibili, dovremmo farcela», rispose questi. «Domani ordinerò le nuove intelaiature delle finestre e, se non arriveranno in tempo, potremo sempre installarne di provvisorie.» Dopo che il capomastro e l'architetto furono saliti sulle rispettive automobili e si furono allontanati, Kim tornò in casa a cercare un martello. Tenendolo in mano, aprì il portabagagli della sua auto e prese la scatola. Mentre camminava lungo il fossato per trovare un punto in cui poter scendere facilmente, si stupì del proprio nervosismo. Si sentiva come un ladro nella notte e continuava a fermarsi e tendere l'orecchio per scoprire se qualche macchina si stava avvicinando. Una volta giunta al fondo dello scavo, avanzò verso il punto dove si trovava la bara, mentre un senso di claustrofobia le serrava la gola. Le pareti sembravano torreggiare sopra di lei e curvarsi sulla sua testa, e si sentì terrorizzata all'idea che potessero crollarle addosso. Con mano tremante si mise al lavoro sul pannello che chiudeva la bara.
Dopo qualche tentativo si aprì e allora Kim si voltò ad affrontare la scatola. Adesso che si trovava davanti allo spiacevole compito, rivisse l'angoscioso dilemma di che cosa fare. Ma non esitò a lungo e in fretta slegò lo spago. Per quanto detestasse l'idea di toccare la testa, doveva riportare la tomba nel suo stato originario. Alzò il coperchio e, riluttante, guardò la testa appoggiata con il volto all'insù, su una massa di capelli secchi. Elizabeth la guardava fisso con le orbite vuote. Per un angoscioso momento, Kim tentò invano di conciliare questo orribile aspetto con il leggiadro ritratto che si accingeva a restaurare e incorniciare. Come potevano due immagini così radicalmente diverse riferirsi alla stessa persona? Trattenendo il fiato, sollevò la testa e avvertì un brivido di raccapriccio, come se toccasse la morte stessa. Si trovò a domandarsi ancora una volta che cosa fosse realmente accaduto trecento anni prima: che male poteva avere fatto Elizabeth per attirarsi una sorte così crudele? Muovendosi con cautela per non inciampare in qualche tubo o cavo, Kim introdusse la testa nella bara e la sistemò con cura. Sentì che le sue dita toccavano tessuti e oggetti più duri, ma non osò guardare dentro per vedere di che cosa si trattasse. Rimise in fretta il pannello della bara al suo posto e lo inchiodò con il martello. Quindi, portando con sé la scatola vuota e lo spago, si affrettò a risalire il fossato, e non riuscì a rilassarsi finché non ebbe riposto il tutto nel portabagagli. Infine trasse un profondo respiro: tutto era finito. Tornò allo scavo e guardò giù, verso l'estremità sporgente della bara, per assicurarsi di non avere lasciato tracce compromettenti dietro di sé. Vide le orme lasciate dalle sue scarpe, ma pensò che quelle non potevano costituire un problema. Con le mani sui fianchi alzò gli occhi a guardare la villa. Cercò di immaginare come fosse stata la vita delle persone in quei terribili giorni dei processi alle streghe, quando la povera Elizabeth aveva senza saperlo ingerito la farina velenosa che stravolgeva la mente. Dai libri che aveva letto sui processi di Salem, aveva appreso molte cose, come il fatto che le vittime, quelle che avevano denunciato le streghe, erano le giovani donne che, probabilmente, erano state intossicate dalla stessa sostanza ingerita da Elizabeth. Kim tornò a guardare la bara. Si sentiva confusa. Perché le giovani donne intossicate non erano state considerate streghe, come invece era stata
giudicata Elizabeth? L'eccezione era stata Mary Warren, che era stata insieme vittima e accusata. Tuttavia, era stata rilasciata e non giustiziata. Come mai la situazione di Elizabeth era stata diversa? Perché non era stata considerata solo una vittima? Forse perché era stata sì vittima, ma aveva rifiutato di accusare qualche altra persona di averla stregata? O, forse, aveva veramente praticato arti occulte, come aveva insinuato suo padre? Kim sospirò e scosse la testa. Non trovava risposta. Pareva che tutto si ricollegasse alla misteriosa prova decisiva e alla sua ancora sconosciuta natura. Lo sguardo di Kim vagò verso il solitario castello e con gli occhi della mente vide gli innumerevoli armadi, scatoloni e bauli. Diede un'occhiata all'orologio. Aveva a disposizione ancora diverse ore di luce e, impulsivamente, si diresse alla sua vettura, salì e puntò verso il castello. Con la mente assillata dal mistero di Elizabeth, decise di dedicare un po' di tempo al gravoso compito di frugare fra le carte. Entrò dal portone principale del castello, canticchiando per tenersi compagnia, ma ai piedi del grande scalone esitò. Le soffitte erano certo più gradevoli della cantina, ma la sua ultima visita lassù era stata un insuccesso, poiché non aveva trovato nulla del diciassettesimo secolo, malgrado quasi cinque ore di ricerche. Cambiando direzione, entrò nella sala da pranzo, aprì la pesante porta di quercia dello scantinato e accese le luci. Scesi i gradini di granito, cominciò a percorrere il corridoio centrale sbirciando dentro le singole celle. Poiché sapeva che il materiale era accumulato senza alcun ordine, era importante stabilire un piano razionale. Senza alcuna precisa ragione, decise di cominciare dalla cella più lontana, suddividendo le carte in base all'argomento e alla data. In una delle celle fece una piccola scoperta. Osservando gli arredi vide, oltre al solito mucchio di armadietti, scatoloni, vecchi scrittoi e bauli, qualcosa di più. Su una delle scrivanie c'era una cassetta di legno che le parve familiare; somigliava alla cassetta della Bibbia che la guida della Casa delle Streghe aveva descritto come parte integrante dell'arredamento di una casa puritana. Si avvicinò e passò le dita sul coperchio impolverato, lasciandovi le tracce. Era un legno non rifinito ma perfettamente liscio. Senza dubbio era molto vecchio. Kim afferrò ai due lati il coperchio incernierato e lo aprì. Dentro era custodita una logora Bibbia rilegata in cuoio. Kim la sollevò e sotto vi trovò alcune carte e delle buste. Portò la Bibbia nel corridoio, dove c'era più luce, e l'aprì per vedere la data. Era stata stampata a Londra
nel 1635. Sfogliò le pagine, sperando di trovare qualche carta infilata in mezzo, ma non c'era niente. Stava per rimettere la Bibbia nella sua cassetta, quando il retro della copertina si aprì. Sull'ultima pagina c'era scritto: LIBRO DI RONALD STEWART, 1663. La grafia somigliava all'elegante corsivo di Ronald che lei già conosceva, e pensò che probabilmente lui aveva scritto il suo nome quando era ancora un ragazzo. Sfogliando le ultime pagine, ne trovò alcune con la parola «memorandum» stampata in alto. Sulla prima lesse altre scritte di Ronald riguardanti i matrimoni, le nascite e le morti della famiglia. Percorrendo con l'indice la pagina, Kim lesse ogni nota finché non arrivò alla data del matrimonio di Ronald con Rebecca: sabato 1° ottobre 1692. Rimase allibita. Questo significava che Ronald aveva sposato la sorella di Elizabeth dieci settimane dopo la morte della moglie. Le parve un matrimonio deciso troppo presto e ancora una volta si trovò a dubitare della lealtà della condotta dell'uomo. Non poté fare a meno di domandarsi se Ronald fosse veramente estraneo alla condanna di Elizabeth. Considerata la fretta di risposarsi, non poteva fare tacere in sé il sospetto che Ronald e Rebecca avessero avuto già prima una relazione. Incoraggiata dalla sua scoperta, tornò alla cassetta della Bibbia e prese le buste e le carte. Aprì ansiosamente le buste, sperando di trovarvi della corrispondenza personale, ma fu delusa, perché si trattava di lettere d'affari e si riferivano al periodo dal 1810 al 1837. Osservò le altre carte, foglio per foglio. Erano più antiche, ma non vi trovò niente di interessante finché non le venne fra le mani un plico piegato in tre e costituito da più pagine, che recava tracce di un sigillo di ceralacca. Era una scrittura legale che si riferiva a un vasto terreno, chiamato «proprietà Northfields». Voltando la seconda pagina dell'atto, trovò una cartina topografica e non le fu difficile riconoscere la zona. Il terreno comprendeva l'attuale tenuta Stewart come pure l'area adesso occupata dal Kernwood Country Club e dal cimitero di Greenlawn. Si estendeva anche al di là del fiume Danvers, indicato con il nome di fiume Wooleston, fino a comprendere altre terre in Beverly. A nordovest arrivava fino alle località chiamate oggi Peabody e Danvers, che nell'atto erano indicate come Salem Village. Voltando pagina, Kim trovò la parte più interessante della scrittura legale: la firma del compratore era quella di Elizabeth Flanagan Stewart. La data, il 3 febbraio 1692.
La colpì il fatto che il compratore non fosse Ronald, ma sua moglie. Le parve strano, anche se ricordava il documento prematrimoniale che conferiva alla donna il diritto di stipulare contratti a suo nome. Ma perché il compratore era Elizabeth, soprattutto trattandosi di un terreno così vasto che doveva essere costato una fortuna? All'ultima pagina dell'atto era allegato un foglio di carta più piccolo, scritto in grafia diversa. Riconobbe la firma. Era quella del magistrato Jonathan Corwin, che aveva abitato in origine la Casa delle Streghe. Sollevando il documento verso la luce, vide che era un'ordinanza di Corwin, in cui il magistrato respingeva una petizione di Thomas Putnam. Quest'ultimo pretendeva che il contratto riferentesi all'acquisto di Northfields fosse dichiarato nullo a causa dell'illegalità della firma di Elizabeth. A conclusione dell'ordinanza il magistrato Crowin scriveva: «La legalità della firma del predetto contratto si basa sul contratto stipulato fra Ronald Stewart ed Elizabeth Flanagan in data 11 febbraio 1681». «Mio Dio!» mormorò Kim. Le pareva quasi di sbirciare attraverso una finestra del tardo diciassettesimo secolo. Conosceva il nome di Thomas Putnam. Era uno dei principali protagonisti della lotta intestina che era scoppiata a Salem Village prima dei processi di stregoneria, che molti storici ritenevano l'occulta causa sociale dello scatenarsi di quella insana caccia alle streghe. Erano state la moglie e la figlia di Thomas Putnam, colpite dal misterioso male, che avevano avanzato molte delle accuse di stregoneria. Ovviamente, Putnam non era al corrente del contratto prematrimoniale stipulato fra Ronald ed Elizabeth, quando aveva presentato la sua petizione. Kim ripiegò lentamente l'atto e l'ordinanza. Aveva appreso qualcosa che poteva essere importante per comprendere la sorte di Elizabeth. Ovviamente, Thomas Putnam doveva essere furioso per il fatto che la donna aveva acquistato il terreno al posto suo. E considerando la sua responsabilità nell'intera vicenda della caccia alle streghe, si poteva pensare che la sua ostilità avesse avuto un peso determinante nel tragico destino di Elizabeth. Per un momento, Kim rifletté sulla possibilità che la prova fatta valere contro la sua antenata al processo fosse in qualche modo collegata a Thomas Putnam e all'acquisto del terreno di Northfields. Dopotutto, un tale acquisto doveva essere apparso uno scandalo nell'epoca puritana, visto il ruolo assegnato in quei tempi alle donne. Forse, la prova era qualche oggetto atto a dimostrare che Elizabeth era una virago e quindi un essere con-
tro natura. Ma per quanto si sforzasse, non riusciva a immaginare che cosa potesse essere. Depose la scrittura legale e la relativa ordinanza sopra la Bibbia ed esaminò le altre carte che aveva rinvenuto nella cassetta. Con un brivido di entusiasmo trovò un altro documento del diciassettesimo secolo, ma quando lo lesse rimase delusa. Era un contratto fra Ronald Stewart e Olaf Sagerholm di Göteborg, in Svezia, in cui Olaf s'impegnava a costruire una nave di tipo nuovo e più veloce, modello fregata. Si specificava che la nave doveva avere una lunghezza di quaranta metri, una larghezza di dieci metri e quindici e un pescaggio di sei metri e otto a pieno carico, ossia con un peso di 276 laste. Era datato 12 dicembre 1691. Kim ripose la Bibbia e i due documenti nella cassetta e la posò su un tavolino ai piedi della scala che portava su alla sala da pranzo. Pensava di usare quella cassetta per raccogliervi tutte le carte che si riferivano a Ronald ed Elizabeth che fosse riuscita a trovare. A questo scopo, si recò nella cella dove aveva rinvenuto la lettera di James Flanagan e la mise insieme al resto. Fatto ciò, tornò nel locale dove aveva trovato la Bibbia e iniziò un'accurata ricerca nella scrivania. Dopo diverse ore di attento lavoro senza avere trovato nulla d'interessante, si alzò e stirò le membra indolenzite. Una rapida occhiata all'orologio le disse che erano quasi le otto, ora di tornare a Boston. Salendo lentamente le scale, si rese conto di quanto fosse sfinita. Era stata una giornata faticosa in ospedale, e la ricerca fra le carte l'aveva molto stancata, anche se non fisicamente. Il viaggio di ritorno fu più rapido, poiché trovò poco traffico finché non entrò a Boston. Arrivando a Storrow Drive, cambiò idea e proseguì fino all'uscita di Fenway. Le era venuta all'improvviso l'idea di andare a trovare Edward nel suo laboratorio, invece che telefonargli. Poiché il compito di rimettere a posto la testa di Elizabeth si era rivelato più semplice del previsto e senza complicazioni, si sentiva un po' colpevole di essersi mostrata tanto sconvolta alla sola prospettiva di farlo. Passò attraverso il servizio di sicurezza del centro medico con la sua tessera del General Hospital e salì le scale. Aveva già fatto una breve visita al laboratorio, una sera, dopo che aveva cenato con Edward, per cui conosceva la strada. L'ufficio dipartimentale era buio e Kim bussò a una porta a vetri sapendo che portava direttamente al laboratorio. Poiché nessuno venne ad aprire, bussò di nuovo e più forte. Tentò anche
la porta, ma era chiusa. Finalmente, attraverso il vetro vide qualcuno che si avvicinava. La porta si aprì e Kim si trovò di fronte una snella e attraente donna bionda il cui corpo sinuoso s'indovinava sotto il largo camice bianco da laboratorio. «Sì?» chiese Eleanor in modo sbrigativo, squadrando Kim da capo a piedi. «Cerco il dottor Edward Armstrong», spiegò lei. «Il dottor Armstrong non riceve visitatori. L'ufficio dipartimentale aprirà domattina», disse Eleanor. Fece per chiudere la porta. «Credo che sarà disposto a ricevermi», insistette Kim un po' esitante. In realtà non ne era del tutto sicura, e per un attimo si domandò se avesse fatto bene a venire. «Davvero? Adesso?» domandò Eleanor con tono altezzoso. «Lei come si chiama? È una studentessa?» «No, non sono una studentessa», rispose Kim. La domanda le sembrò assurda, poiché indossava ancora l'uniforme da infermiera. «Mi chiamo Kimberly Stewart.» Eleanor non disse una parola e le chiuse la porta in faccia. Kim restò ad aspettare, spostando nervosamente il peso del corpo da una gamba all'altra e desiderando di non essere mai venuta. Poi la porta si riaprì. «Kim!» esclamò Edward. «Che cosa diavolo fai qui?» Lei spiegò che aveva pensato fosse meglio venire a parlargli direttamente, piuttosto che telefonare, e si scusò di averlo sorpreso in un brutto momento. «Ma neanche per sogno!» rispose Edward. «Sono molto occupato, ma questo non importa. In realtà sono più che occupato. Ma entra!» Fece un passo indietro per lasciarla passare. Kim entrò e lo seguì verso la sua scrivania. «Chi è la donna che ha aperto la porta?» «Eleanor», rispose Edward senza voltarsi. «Non è stata molto cordiale», osservò Kim, esitante. «Eleanor? Devi esserti sbagliata, va d'accordo con tutti. Qui dentro, l'unico orso sono io. Ma siamo entrambi sotto stress, stiamo lavorando senza sosta da sabato mattina. Anzi, Eleanor lavora da venerdì notte. Non so neppure se ha dormito.» Arrivarono alla scrivania di Edward, che tolse un mucchio di riviste da una sedia dallo schienale rigido, le gettò in un angolo e fece cenno a Kim
di sedersi. Lui sedette dall'altra parte della scrivania. Kim lo osservò. Pareva sovraffaticato e insieme eccitato, come se avesse bevuto una decina di tazze di caffè. La sua mascella inferiore si muoveva nervosamente su e giù mentre masticava un chewing gum, i suoi freddi occhi azzurri erano segnati da profonde occhiaie e da almeno due giorni non si radeva. «Perché questa attività così frenetica?» gli chiese. «Si tratta del nuovo alcaloide. Stiamo cominciando a capirne qualcosa e ci pare quanto mai promettente.» «Ne sono lieta, ma perché tutta questa fretta? Avete forse qualche scadenza?» «È solo l'eccitazione dell'attesa. L'alcaloide potrebbe risultare un farmaco potente. Se non hai mai fatto ricerca non puoi capire il brivido che ti prende quando scopri qualcosa di questo genere. È una vera ebbrezza che si rinnova di ora in ora. Tutto quello che apprendiamo sembra positivo. È incredibile.» «Mi puoi rivelare quello che avete scoperto?» domandò Kim. «O è una specie di segreto?» Edward si chinò e abbassò la voce. Kim si guardò intorno nel laboratorio, ma non vide nessuno. Non sapeva nemmeno dove fosse Eleanor. «Ci siamo imbattuti per caso in una sostanza psicoattiva, efficace per via orale, che penetra attraverso la barriera sangue-cervello come il proverbiale coltello nel burro. È così potente che è efficiente a livello di microgrammi.» «Pensi che sia la sostanza che ha intossicato le donne al tempo dei processi di Salem?» chiese Kim. Elizabeth era ancora in cima ai suoi pensieri. «Senza dubbio. È il diavolo di Salem incarnato.» «Ma le persone che hanno mangiato i semi tossici sono state avvelenate», osservò Kim, «erano le 'vittime' colpite da orrendi attacchi. Come puoi essere così entusiasta per la scoperta di questo tipo di droga?» «È un allucinogeno, non c'è alcun dubbio, ma noi pensiamo che sia qualcosa di più. Abbiamo ragione di ritenere che abbia un effetto calmante, rinvigorente e che possa persino accrescere la memoria.» «Come avete fatto a scoprire tante cose in così poco tempo?» chiese Kim. Edward sorrise imbarazzato. «Non sappiamo nulla con assoluta sicurezza, finora», ammise. «Molti ricercatori considererebbero poco scientifico il lavoro che abbiamo fatto fin qui. Abbiamo semplicemente cercato di farci
un'idea generale di quello che l'alcaloide può fare. Vedi, non si tratta di esperimenti controllati, ma i risultati sono entusiasmanti. Siamo rimasti trasecolati. Per esempio, abbiamo scoperto che l'alcaloide sembra calmare i ratti stressati meglio della imipramina, che è la pietra di paragone per i farmaci antidepressivi.» «Pensi che possa essere un allucinogeno antidepressivo?» «Fra le altre cose.» «E ci sono effetti collaterali?» Kim continuava a non capire come mai Edward fosse tanto esaltato. Lui rise ancora. «Non ci siamo preoccupati delle allucinazioni con i ratti, ma a parte quelle, non abbiamo notato alcun problema. Abbiamo somministrato a diversi topi delle dosi piuttosto elevate e sono tutti felici. Abbiamo immesso dosi ancora maggiori in colture di cellule neuronali e non abbiamo riscontrato alcun effetto sulle cellule. Pare che non ci sia assolutamente traccia di tossicità. È incredibile.» Mentre ascoltava, Kim si sentiva sempre più delusa che non le chiedesse della sua visita a Salem e della sistemazione della testa di Elizabeth. Alla fine toccò lei stessa l'argomento, approfittando di una pausa nell'esuberante racconto di Edward. «Bene», ribatté lui semplicemente, quando sentì che la testa era stata rimessa a posto. «Sono lieto che sia tutto finito.» Kim era sul punto di descrivergli quello che aveva provato nel farlo, quando Eleanor comparve all'improvviso accanto a loro e immediatamente monopolizzò l'attenzione di Edward sventolando un tabulato di computer. Non mostrò neppure di accorgersi della nuova presenza, né Edward le presentò. Kim rimase a guardare mentre i due iniziavano un'animata discussione a proposito dei dati ricevuti. Infine Edward, ovviamente soddisfatto dei risultati, diede qualche suggerimento a Eleanor insieme con una pacca sul sedere e la donna scomparve, rapidamente com'era venuta. «Allora, dov'eravamo rimasti?» chiese Edward rivolgendosi a Kim. «Altre notizie?» chiese lei a sua volta, riferendosi al tabulato di Eleanor. «Ottime. Stavamo lavorando per determinare la struttura della sostanza, ed Eleanor ha confermato proprio ora la nostra impressione preliminare, ossia che si tratti di una molecola tetraciclica con catene laterali multiple.» «Come fate a esserne sicuri?» domandò Kim. Suo malgrado, era vivamente interessata. «Veramente desideri saperlo?» «Purché tu non ti lanci in spiegazioni troppo al di sopra delle mie capa-
cità.» «Il primo passo è stato avere un'idea del peso molecolare per mezzo della normale cromatografia. E questo era facile. Poi abbiamo suddiviso la molecola con reagenti che spezzano speciali tipi di legami, quindi si è cercato di identificare almeno alcuni dei frammenti ottenuti mediante cromatografia, elettroforesi e spettrometrie di massa.» «Già non riesco a seguirti», ammise Kim. «Ho sentito questi termini, ma non conosco con esattezza quali siano i processi.» «Non sono così complicati.» Edward si alzò. «I concetti fondamentali non sono difficili da capire, ma i risultati possono apparire ardui da analizzare. Vieni, ti mostrerò gli apparecchi.» Prese Kim per mano e la fece alzare in piedi. Trascinò con entusiasmo la ragazza, piuttosto riluttante, per il suo laboratorio e le tenne una vera lezione per spiegarle come gli strumenti venissero usati per separare le componenti e identificarle. L'unica cosa che Kim comprese perfettamente fu l'evidente passione di Edward per l'insegnamento. Aprendo una porta laterale, lui le fece cenno di entrare e Kim gettò un'occhiata all'interno. Al centro della stanza vide un grande cilindro, alto circa un metro e venti e largo venti centimetri, da cui spuntavano fili e cavi, come serpenti dalla testa di Medusa. «Questa è la nostra macchina per la risonanza magnetica nucleare», spiegò Edward con orgoglio. «È uno strumento prezioso per la nostra ricerca. Non basta sapere quanti atomi di carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto ci sono nella sostanza, dobbiamo conoscere anche l'orientamento tridimensionale. Ed è appunto quello che fa questa macchina.» «Sono impressionata», affermò Kim, non sapendo che cos'altro dire. «Ti mostro un'altra macchina», continuò Edward, ignorando del tutto il suo stato d'animo. La condusse davanti a un'altra porta, l'aprì e indicò l'interno. Kim guardò. Era un incredibile intrico di materiale elettronico, fili, cavi e tubi a raggi catodici. «Interessante», mormorò. «Sai che cos'è?» chiese Edward. «Credo di no», rispose esitante. Le dispiaceva fare sapere a Edward quanto poco capisse del suo lavoro. «È l'unità di diffrazione di raggi X», spiegò Edward con lo stesso orgoglio che aveva manifestato davanti alla macchina per la risonanza magnetica nucleare. «Serve a completare ciò che facciamo con la RMN. La impiegheremo con il nuovo alcaloide, perché quest'ultimo facilmente si cri-
stallizza in un sale.» «Be', è proprio un lavoro fatto apposta per te.» «È un lavoro duro, ma anche straordinariamente stimolante. Ora stiamo usando tutti gli strumenti del nostro arsenale di ricerca, che ci forniscono torrenti di dati. Otterremo la struttura a tempo di record, specialmente con il nuovo software che abbiamo a disposizione con tutti questi apparecchi.» «Buona fortuna», gli augurò Kim. Aveva solo una vaga idea di ciò che Edward le aveva spiegato, ma aveva visto chiaramente l'entusiasmo che lo animava. «E allora, che cosa è successo d'altro a Salem?» domandò all'improvviso Edward. «Come vanno i lavori?» Kim fu per un momento sorpresa per la sua domanda. Impegnato com'era con il suo lavoro, le pareva che non potesse interessarsi al suo modesto progetto edilizio. «I lavori procedono bene», rispose. «La casa sarà bellissima.» «Hai avuto una buona idea. E hai continuato a frugare fra le carte della famiglia Stewart?» «Ci ho passato un paio d'ore», ammise Kim. «Hai trovato qualche altra notizia su Elizabeth? Il mio interesse è quanto mai vivo. Mi sembra quasi di avere nei suoi confronti un enorme debito. Se non fosse stato per lei, non avrei mai trovato questo alcaloide.» «Sì, ho appreso qualche altra cosa», rispose Kim. Gli raccontò che si era recata al palazzo del Governo, prima di andare a Salem, e non aveva trovato alcun documento riguardante la misteriosa prova. Poi gli parlò della scrittura legale sulla vendita di Northfields, firmata da Elizabeth, che aveva provocato le ire di Thomas Putnam. «Questa potrebbe essere l'informazione più interessante, fra quante ne hai raccolte finora», osservò Edward. «Da quel poco che ho letto, credo che non fosse troppo salutare incorrere nelle ire di Thomas Putnam.» «Anch'io penso la stessa cosa», confermò Kim. «Sua figlia Ann fu una delle prime ragazze a essere colpite dal male, e accusò molte donne di stregoneria. Ma il fatto è che non posso fare risalire il mistero della prova decisiva a un'eventuale lite con Thomas Putnam.» «Forse quei Putnam erano abbastanza malvagi da tramare qualche piano criminale», suggerì Edward. «Questa è sempre una possibilità, ma non spiega la natura della famosa prova. Se si è trattato davvero di un inganno, in che senso poteva essere decisiva? Secondo me, doveva essere qualcosa che Elizabeth aveva fatto
davvero.» «Forse sì. Ma l'unico indizio che abbiamo è la petizione di Ronald in cui afferma che l'oggetto è stato prelevato dalla sua proprietà. Penso che dovesse essere una cosa associata senza alcun dubbio alla stregoneria.» «A proposito di Ronald», lo interruppe Kim, «ho appreso su di lui qualcosa che ha ridestato i miei sospetti. Si è risposato solo dieci settimane dopo la morte di Elizabeth; un periodo di lutto incredibilmente breve, per non dire altro. Mi fa pensare che lui e Rebecca potessero avere una relazione amorosa già in precedenza.» «Può essere», osservò Edward senza entusiasmo, «ma io penso sempre che non possiamo avere un'idea di quanto fosse difficile la vita a quei tempi. Ronald aveva quattro figli da educare e un'attività imprenditoriale in pieno sviluppo da gestire. Probabilmente non aveva scelta. Secondo me, un lungo periodo di lutto era un lusso che non si poteva permettere.» Lei annuì, ma non era sicura di essere d'accordo. Nello stesso tempo si domandava quanto il suo atteggiamento sospettoso verso Ronald fosse in realtà influenzato dal comportamento di suo padre. Eleanor comparve all'improvviso come la prima volta, e di nuovo Edward si trovò coinvolto in un'animata discussione privata. Quando la donna se ne andò, Kim decise di accomiatarsi. «È meglio che vada, ora», disse. «Ti accompagno alla macchina», si offrì Edward. Mentre scendevano le scale e attraversavano l'atrio, Kim osservò un graduale cambiamento nell'atteggiamento di Edward, che appariva sempre più nervoso. In base alle esperienze precedenti, intuì che voleva dirle qualcosa. Non cercò di incoraggiarlo, sapeva che era inutile. Infine, quando arrivarono alla macchina, Edward parlò. «Ho pensato molto alla tua offerta di venire a vivere con te alla villa», esordì, giocherellando con un sassolino ai suoi piedi. Fece una pausa, mentre Kim aspettava impaziente, senza riuscire a indovinare che cosa volesse dirle. Poi esclamò tutto d'un fiato: «Se tu sei ancora disposta, mi piacerebbe venire». «Ma certo che sono disposta!» replicò lei con evidente sollievo. Lo strinse fra le braccia e lui rispose all'abbraccio. «Possiamo andare alla villa il prossimo fine settimana, e poi vedere se nel mio appartamento c'è qualcosa che potresti utilizzare», propose Edward. «Sarà molto divertente!» replicò Kim. Un po' goffamente si separarono e lei salì nella sua macchina. Abbassò il
finestrino del passeggero e Edward si sporse verso di lei. «Mi dispiace di essere stato così impegnato con quell'alcaloide», si scusò. «Capisco, ho visto com'eri preso. E ammiro la tua dedizione al lavoro.» Si salutarono e Kim puntò verso Beacon Hill sentendosi immensamente più felice di quanto lo fosse un'ora prima. 7 Venerdì 29 luglio 1994 L'entusiasmo di Edward aumentava via via che i giorni passavano e i dati sul nuovo alcaloide erano sempre più numerosi. Né lui né Eleanor dormivano più di quattro o cinque ore e, per tutto il resto del tempo, vivevano praticamente in laboratorio e lavoravano più assiduamente di quanto avessero mai fatto in precedenza. Edward insisteva per fare tutto da sé, il che significava che rifaceva il lavoro di Eleanor per essere sicuro al cento per cento che non ci fossero errori. E naturalmente faceva controllare i propri risultati da Eleanor. Impegnato con gli alcaloidi, non aveva tempo per nient'altro. Malgrado gli ammonimenti di Eleanor e il crescente malcontento degli studenti dei corsi preliminari, non teneva più lezioni e non dedicava più neppure un'ora ai suoi studenti del corso di dottorato, così che molti dei loro progetti di ricerca si erano arenati per la mancanza della sua guida e dei suoi consigli. Ma Edward non se ne curava. Come un artista in preda all'ispirazione, era affascinato dal nuovo farmaco e trascurava tutto ciò che lo circondava. Ebbro di gioia vedeva emergere la struttura del farmaco, atomo dopo atomo, dalle nebbie del tempo in cui era rimasta celata. Nelle prime ore di mercoledì mattina, con una eccezionale impresa di chimica organica, riuscì a caratterizzare completamente il nucleo strutturale a quattro anelli dell'alcaloide. E mercoledì pomeriggio tutte le catene laterali furono definite, sia in termini di composizione sia riguardo al punto di attacco al nucleo. Edward descriveva in tono scherzoso la molecola come una mela da cui facevano capolino tanti vermi. Era particolarmente affascinato dalle cinque catene laterali. Una era tetraciclica come il nucleo e assomigliava all'LSD, un'altra aveva due anelli e somigliava a un alcaloide chiamato scopolamina. Le ultime tre erano simili ai tre grandi neurotrasmettitori del cervello: la norepinefrina, la dopa-
mina e la serotonina. Nelle prime ore di giovedì mattina, Edward ed Eleanor furono ricompensati di tutti i loro sforzi dall'immagine dell'intera struttura molecolare che comparve sullo schermo del computer in uno spazio virtuale tridimensionale. Questo brillante successo era frutto del nuovo software strutturale, della potenza del supercomputer e di lunghe ore di discussione fra Edward ed Eleanor, ciascuno dei quali faceva l'avvocato del diavolo con l'altro. Ipnotizzati dall'immagine, i due rimasero a osservare in silenzio il supercomputer che faceva lentamente ruotare la molecola. I colori erano splendidi, con le nubi elettroniche rappresentate da varie sfumature di blu cobalto. Gli atomi di carbonio erano rossi, quelli di ossigeno verdi e quelli di azoto gialli. Dopo avere piegato le dita come se fosse un virtuoso sul punto di eseguire una sonata di Beethoven su un prezioso pianoforte Steinway, Edward sedette al suo terminale collegato al supercomputer. Facendo appello a tutte le sue conoscenze e a tutta la sua esperienza e sensibilità chimica, cominciò a lavorare sulla tastiera. Sullo schermo l'immagine tremò e si contorse, pur mantenendo il suo lento moto rotatorio. Edward operava sulla molecola, tagliando via sui due lati le catene che istintivamente sapeva responsabili dell'effetto allucinogeno: le due catene laterali simili all'LSD e alla scopolamina. Riuscì a eliminare quasi tutta la catena laterale simile all'LSD, a parte un minuscolo moncone costituito da due atomi di carbonio, senza alterare significativamente né la struttura tridimensionale dell'alcaloide né la distribuzione delle sue cariche elettriche. Sapeva che alterando l'una o l'altra di queste caratteristiche si sarebbe modificata drasticamente la proprietà bioattiva del farmaco. Con la catena laterale simile alla scopolamina la cosa era diversa. Edward riuscì ad amputarla parzialmente, lasciandone intatta una porzione considerevole. Quando cercò di asportarne di più, la molecola si ripiegò su se stessa e cambiò notevolmente la sua forma tridimensionale. Dopo avere eliminato tutto quello che era possibile, Edward inserì i dati molecolari nel suo computer. L'immagine ora non era più così spettacolare, ma sotto certi aspetti più interessante. Ciò che ora compariva davanti ai suoi occhi era un ipotetico nuovo farmaco, che era stato creato manipolando al computer una sostanza naturale. Lo scopo di Edward era eliminare gli effetti collaterali, dalle allucinazioni alla bocca asciutta, dalla dilatazione pupillare alla parziale amnesia
che lui e Stanton avevano sperimentato. A questo punto entrava in gioco il campo specifico in cui eccelleva Edward, la chimica organica sintetica. In una vera maratona che durò dalle prime ore del giovedì fino a tarda notte, mise a punto un ingegnoso processo per sintetizzare il farmaco mediante i comuni reagenti che aveva a disposizione. Così, la mattina del venerdì, aveva prodotto una fiala del nuovo farmaco. «Che cosa ne pensi?» domandò a Eleanor mentre stavano fissando la fiala. Erano esausti, ma nessuno dei due aveva intenzione di andare a dormire. «Penso che hai compiuto una stupefacente impresa di virtuosismo chimico», rispose sinceramente Eleanor. «Io non cercavo complimenti», ribatté lui sbadigliando. «Vorrei sapere che cosa pensi che dovremmo fare adesso, come primo passo.» «Io sono il membro conservatore della squadra. Direi che dovremmo controllare il livello di tossicità.» «Bene, allora facciamolo», decise Edward. Si alzò in piedi con uno sforzo, diede la mano a Eleanor ed entrambi si rimisero al lavoro. Esaltati dal successo e impazienti di ottenere risultati immediati, trascurarono il protocollo scientifico. Come avevano fatto con l'alcaloide naturale, non si curarono di procedere a studi accurati e controllati, perché volevano ottenere subito un'idea generale del potenziale del farmaco. Per prima cosa aggiunsero concentrazioni variabili della nuova sostanza a vari tipi di colture, comprese cellule renali e nervose. Con soddisfazione scoprirono che dosi relativamente alte non provocavano alcun effetto e posero le colture in un'incubatrice per poterle controllare periodicamente. Quindi allestirono un preparato di gangli di Aplasia fasciata inserendo minuscoli elettrodi in neuroni ad attività spontanea. Collegando gli elettrodi a un amplificatore, crearono l'immagine dell'attività delle cellule su un tubo a raggi catodici, poi, lentamente, aggiunsero il farmaco al fluido. Osservando le reazioni neuronali, stabilirono che il farmaco era realmente bioattivo, anche se non deprimeva né accresceva l'attività spontanea. Anzi, pareva che ne stabilizzasse il ritmo. Con crescente entusiasmo, poiché tutti i risultati erano positivi, Eleanor cominciò a somministrare la nuova sostanza a una nuova serie di topi stressati, mentre Edward introduceva la stessa sostanza in un preparato sinaptosomico. Eleanor fu la prima a ottenere risultati e si convinse ben presto che il farmaco modificato produceva sui topi un effetto calmante anco-
ra più forte di quello prodotto dall'alcaloide originario. Edward impiegò invece più tempo. Riscontrò che il nuovo farmaco agiva sui livelli di tutti e tre i neurotrasmettitori, ma non in modo uguale. La serotonina ne risentiva più della norepinefrina, che a sua volta ne risentiva più della dopamina. Non si aspettava invece che l'alcaloide formasse apparentemente un lento legame covalente tanto con il glutammato che con l'acido gamma-amminobutirrico, due dei maggiori agenti inibitori del cervello. «È fantastico!» esclamò. Prese dalla scrivania i fogli su cui erano registrate tutte le loro scoperte, li lanciò in aria e li lasciò ricadere a pioggia come enormi coriandoli. «Questi dati indicano che il potenziale del farmaco è enorme. Non esiterei ad affermare che è insieme antidepressivo e ansiolitico, e come tale potrebbe rivoluzionare il campo della psicofarmacologia. Si potrebbe persino paragonarlo alla scoperta della penicillina.» «Dobbiamo ancora preoccuparci dell'effetto allucinogeno», osservò Eleanor. «Non credo che ci siano problemi», replicò Edward, «soprattutto dopo la rimozione della catena laterale affine all'LSD. Ma ammetto che dobbiamo assicurarcene.» «Controlliamo le colture dei tessuti», propose Eleanor. Sapeva che Edward avrebbe voluto provare personalmente il farmaco. Era l'unico modo per scoprire se era allucinogeno. Tolsero le colture dall'incubatrice e le esaminarono al microscopio, una dopo l'altra. Apparivano tutte sane; non c'era traccia di danni cellulari neppure in quelle trattate con le dosi massime. «Sembra che non ci sia alcun indizio di tossicità», osservò Edward soddisfatto. «Non ci avrei mai creduto, se non lo avessi visto con i miei occhi», commentò Eleanor. Tornarono al banco di lavoro di Edward e prepararono diverse soluzioni a dosaggio crescente. Cominciarono con una concentrazione vicina al dosaggio dell'alcaloide non modificato che Stanton aveva assunto. Edward fu il primo a provarlo, e poiché non accadde nulla, lo prese anche Eleanor. Ancora una volta non avvertì nulla. Incoraggiati da questi risultati negativi, i due ricercatori aumentarono gradualmente le dosi fino ad arrivare a un intero milligrammo, sapendo che l'LSD era psichedelico a 0,05 milligrammi. «Ebbene?» chiese Edward dopo mezz'ora.
«Nessun effetto allucinogeno, per quello che mi riguarda», rispose Eleanor. «Ma un effetto c'è.» «Sicuramente, posso descriverlo come una calma contentezza. Qualunque cosa sia, mi piace molto.» «Anch'io sento qualcosa, come se la mia mente fosse particolarmente lucida. Dev'essere un effetto del farmaco, perché venti minuti fa mi sentivo rincitnillito e assolutamente incapace di concentrarmi. Ora sono pieno di energia come se avessi dormito una notte intera.» «Io ho la sensazione che la mia memoria a lungo termine si sia ridestata dal sonno», aggiunse Eleanor. «All'improvviso ricordo il numero di telefono di casa mia, quando avevo sei anni. Era l'anno in cui la mia famiglia si è trasferita sulla Costa Occidentale.» «Come ti sembrano i tuoi cinque sensi?» chiese Edward. «Direi che i miei sono particolarmente acuti, soprattutto l'odorato.» «Non me ne sarei accorta, se tu non me lo avessi fatto notare.» Eleanor alzò la testa e annusò l'aria. «Non mi ero mai resa conto che il laboratorio fosse una tale cacofonia di odori.» «C'è anche un'altra cosa, della quale non mi sarei accorto se non avessi fatto una cura di Prozac», aggiunse Edward. «Mi sento disinvolto e sicuro, come se potessi avanzare in mezzo a un gruppo di persone e fare tutto quello che voglio. La differenza è che io ho dovuto prendere il Prozac per tre mesi, prima di sentirmi così.» «Io non potrei dire di provare la stessa sensazione, ma sento la bocca asciutta. E tu?» «Può essere», ammise Edward. Poi guardò fisso nei grandi occhi azzurri di Eleanor. «Forse anche le tue pupille sono un po' dilatate. Se è così, dev'essere per effetto della catena laterale affine alla scopolamina che non siamo riusciti a eliminare del tutto. Controlla la tua capacità visiva da vicino.» Eleanor prese una boccetta di reagente e lesse la minuscola scritta sull'etichetta. «Nessun problema», annunciò. «C'è qualche altra cosa?» chiese Edward. «Qualche difficoltà di circolazione o di respirazione?» «Va tutto bene», rispose Eleanor. «Vogliate scusarmi!» esclamò in quel momento una voce. Eleanor ed Edward si voltarono e videro una studentessa del secondo anno di dottorato che si avvicinava. «Ho bisogno di aiuto», disse la ragaz-
za. Si chiamava Nadine Foch e veniva da Parigi. «La macchina della risonanza magnetica nucleare non funziona.» «Forse è meglio che tu ti rivolga a Ralph», le rispose Edward con un sorriso. «Sarei lieto di aiutarti, ma sono piuttosto occupato in questo momento. Inoltre Ralph conosce la macchina meglio di me, soprattutto dal punto di vista tecnico.» Nadine ringraziò e andò a cercare Ralph. «Sei stato molto gentile», osservò Eleanor. «È che mi sento molto gentile, inoltre lei è una cara ragazza.» «Forse questo sarebbe per te il momento migliore per riprendere le normali attività», osservò Eleanor. «Abbiamo fatto progressi fantastici.» «È solo un preannuncio di quello che verrà. Sei molto gentile a preoccuparti dei miei compiti di insegnante e supervisore, ma ti assicuro che posso assentarmi per diverse settimane senza che nessuno ne soffra. Non sono disposto a rinunciare neppure a un minuto dell'acuto piacere che mi procura lo studio di questo farmaco. Intanto voglio che tu cominci a lavorare al computer sullo schema della molecola per derivare dal nostro nuovo farmaco una famiglia di composti, sostituendo le catene laterali.» Mentre Eleanor si dirigeva verso il suo computer, Edward tornò alla sua scrivania e chiamò Stanton Lewis al telefono. «Sei occupato questa sera?» chiese al vecchio amico. «Io sono occupato tutte le sere», rispose Stanton. «Che cos'hai in mente? Hai letto quel prospetto?» «Vuoi venire a cena con me e Kim?» domandò Edward di rimando. «C'è qualcosa che dovresti sapere.» «Ah, ah, vecchia canaglia! Ti prepari forse a fare qualche annuncio speciale?» «Credo che sarà meglio parlarne di persona», replicò Edward tranquillamente. «Allora, vieni a cena con noi? Offro io.» «Oh, pare che sia una cosa seria! Ho un tavolo prenotato all'Anago Bistro, in Main Street, a Cambridge. La prenotazione è per due, ma vedrò di farci accettare in quattro. È per le otto. Ti richiamo se c'è qualche problema.» «Benissimo», rispose Edward e riappese prima che Stanton potesse fare altre domande. Quindi chiamò al telefono Kim, all'ospedale. «Sei molto occupata?» le chiese quando rispose. «Non domandarlo neppure!» rispose lei. «Ho combinato una cena per stasera con Stanton e sua moglie. Per le ot-
to, salvo cambiamenti. Mi dispiace averti avvertito all'ultimo momento. Spero che per te vada bene.» «Non lavori questa notte?» chiese Kim sorpresa. «Mi prendo la serata libera.» «E domani? Sei sempre d'accordo di venire a Salem con me?» «Ne parleremo», rispose Edward senza impegnarsi. «Allora, per la cena?» «Avrei preferito cenare da sola con te.» «Sei gentile a dirlo. Anch'io preferirei cenare da solo con te, ma devo parlare con Stanton, e ho pensato che potremmo comunque passare una bella serata. So di non essere stato molto divertente questa settimana.» «Mi sembri molto allegro», osservò Kim. «C'è qualche bella novità oggi?» «È andato tutto bene. Per questo l'incontro di stasera è importante. Dopo cena, tu e io potremmo passare un po' di tempo insieme. Faremo una passeggiata per la piazza, come abbiamo fatto la sera del nostro primo incontro. Che cosa ne dici?» «Bene, ci sarò», acconsentì Kim. Kim ed Edward arrivarono al ristorante per primi e presero posto a un buon tavolo in un angolo vicino alla finestra. Da lì si godeva la vista di una parte di Main Street con la sua pittoresca successione di pizzerie e di ristoranti indiani. Un camion dei pompieri passò a gran velocità a sirene spiegate. «Giurerei che i pompieri di Cambridge usino i camion per andare a prendere il caffè», osservò Edward ridendo. «Sono sempre in giro. Non è possibile che ci siano tanti incendi.» Kim lo osservò. Era straordinariamente di buonumore, fatto insolito per lui. Non l'aveva mai visto così loquace e gioviale, e anche se appariva stanco, si comportava come se avesse bevuto parecchi caffè. Ordinò persino una bottiglia di vino. «Mi avevi detto che lasciavi sempre a Stanton il compito di ordinare il vino», osservò Kim. Prima che lui potesse rispondere, Stanton fece il suo ingresso nel locale, con la sua consueta aria baldanzosa e autoritaria. «Ehi, ragazzi», gridò loro mentre aiutava Candice a sedersi. Il tavolo era stretto e ogni coppia doveva sedere fianco a fianco. «Fuori la grande notizia! Devo ordinare una bottiglia di Dom Perignon?»
Kim guardò Edward come a cercare una spiegazione. «Ho già ordinato io del vino», rispose lui. «Andrà bene.» «Tu hai ordinato il vino?» chiese Stanton. «Ma qui non servono sciacquatura di bottiglie!» esclamò con una gran risata mentre si sedeva. «Ho ordinato un vino italiano», replicò Edward. «Un bianco secco molto freddo che si adatta a questo caldo estivo.» Kim alzò le sopracciglia. Quello era un lato della personalità di Edward che non conosceva. «E allora?» chiese Stanton piegandosi in avanti con i gomiti sul tavolo. «Voi due vi sposate?» Kim arrossì e si chiese se Edward avesse parlato a Stanton del loro progetto di abitare insieme nella villa. Non era un segreto, per quello che la riguardava, ma avrebbe preferito annunciarlo lei stessa ai suoi familiari. «Ne sarei felicissimo», rispose Edward sorridendo. «Ho comunque delle notizie, ma non si tratta di questo.» Kim sbatté le palpebre e guardò Edward. Era sorpresa che avesse ribattuto così brillantemente alla domanda di Stanton. La cameriera arrivò con il vino e Stanton pretese di esaminare l'etichetta prima di consentire che la bottiglia fosse aperta. «Sono sorpreso, vecchio mio», disse a Edward. «Non è una cattiva scelta.» Quando il vino fu versato, Stanton fece per alzare il bicchiere per un brindisi, ma Edward lo interruppe. «Tocca a me», ribatté, e alzò il bicchiere verso di lui: «Al più abile capitalista dell'industria farmaceutica del mondo». «E io credevo che non te ne fossi mai accorto!» rise Stanton. Tutti sorseggiarono il loro vino. «Devo farti una domanda», esordì Edward rivolto all'amico. «Parlavi seriamente quando hai detto che un nuovo, efficace farmaco psicotropo potrebbe essere potenzialmente una molecola da un miliardo di dollari?» «Certo che parlavo seriamente.» La sua espressione divenne di colpo seria. «È per questo che siamo qui? Hai qualche nuovo dato sulla droga che mi ha fatto fare il viaggio psichedelico?» Sia Candice sia Kim si domandarono di quale viaggio psichedelico Stanton parlasse e, quando seppero ciò che era successo, entrambe inorridirono. «Non era poi tanto male», scherzò lui. «Anzi, mi è piaciuto.» «Sono riuscito a ottenere moltissime nuove informazioni», aggiunse Edward. «E tutte positive. Abbiamo eliminato l'effetto allucinogeno modificando la molecola. Ora sono convinto che abbiamo creato il farmaco del-
la terza generazione, nella linea del Prozac e dello Xanax. Pare sia perfetto. Non è tossico, è efficace per via orale, ha scarsi effetti collaterali e probabilmente un più ampio uso terapeutico. Effettivamente, data la sua singolare struttura con catene laterali che si presta ad alterazioni e sostituzioni, potrebbe offrire una gamma illimitata di possibilità terapeutiche nel campo psicotropo.» «Puoi essere un po' più specifico?» chiese Stanton. «Che cosa pensi che possa fare questo farmaco?» «Riteniamo che possa avere un effetto positivo generale sull'umore. Pare sia antidepressivo e ansiolitico, ossia abbassi il livello di ansietà. Sembra anche che agisca come tonico generico per combattere la fatica, accrescere la serenità, acuire i sensi e favorire la lucidità di pensiero, accrescendo la memoria a lungo termine.» «Mio Dio!» esclamò Stanton. «C'è qualche cosa che non fa? Fa pensare alla pillola della felicità di Il mondo nuovo.» «Il paragone è buono», commentò Edward. «Ancora una domanda.» Stanton abbassò la voce e si chinò in avanti. «Può anche favorire l'attività sessuale?» Edward si strinse nelle spalle. «Potrebbe. Poiché acuisce i sensi, potrebbe rendere il sesso più intenso.» Stanton alzò entrambe le mani. «Diavolo, qui non si tratta di una molecola da un miliardo di dollari, si tratta di una molecola da cinque miliardi di dollari!» «Parli sul serio?» chiese Edward. «Miliardo più, miliardo meno...» La cameriera interruppe la conversazione per prendere le ordinazioni e, quando si fu allontanata, Edward parlò per primo. «Tutto questo non è ancora provato. Non sono stati effettuati esperimenti controllati.» «Ma tu ne sei abbastanza sicuro.» «Molto sicuro», affermò Edward. «Chi è al corrente della tua scoperta?» chiese Stanton. «Solo io, la mia assistente più stretta e voi che sedete a questa tavola.» «Hai idea di come agisca il farmaco?» chiese ancora Stanton. «Soltanto una vaga ipotesi. Pare che stabilizzi le concentrazioni dei principali neurotrasmettitori del cervello e perciò funziona su più livelli. Agisce sui singoli neuroni, ma anche su intere reti di cellule come se fosse un autacoide, un ormone cerebrale.» «Come l'avete trovato?» chiese Candice.
Edward riassunse tutta la storia, spiegando il rapporto fra l'antenata di Kim, i processi alle streghe di Salem e la sua teoria che le accusatrici delle streghe fossero state avvelenate da una muffa. «Kim mi domandava se la mia teoria del veleno potesse essere dimostrata, e proprio la sua domanda mi ha dato l'idea di prelevare alcuni campioni di terriccio», aggiunse. «Io non ho alcun merito!» mormorò lei. «Certo che il merito è tuo, invece!» ribatté Edward. «Tuo e di Elizabeth.» «Che ironia!» commentò Candice. «Trovare un farmaco utile in un mucchietto di sudiciume.» «Non c'è niente di strano», replicò Edward. «Molte sostanze importanti sono state trovate nella sporcizia, come le cefalosporine o la ciclosporina. In questo caso, l'ironia sta nel fatto che il farmaco viene dal demonio.» «Non dirlo!» protestò Kim. «Mi fai venire i brividi!» Edward fece un sorrisetto e additando Kim disse che era soggetta a occasionali attacchi di superstizione. «Neppure a me piace questa associazione», aggiunse Stanton. «Lo considererei piuttosto un farmaco venuto dal cielo.» «L'associazione con i processi alle streghe non mi disturba per niente», obiettò Edward. «Anzi, direi che mi piace. Anche se la scoperta del farmaco non potrebbe mai giustificare la morte di venti persone, almeno può dare un significato positivo al loro sacrificio.» «Ventun morti», corresse Kim, e spiegò agli altri che la morte di Elizabeth era stata dimenticata dagli storici. «A me non importa a che cosa il farmaco venga associato», replicò Stanton, «ma è senz'altro una scoperta straordinaria.» Poi, rivolgendosi a Edward domandò: «Che cosa ti proponi di farne?» «Questa è la ragione per cui volevo vederti. Che cosa mi consiglieresti?» «Esattamente quello che ti ho già detto. Dovremmo costituire una società e brevettare il farmaco.» «Pensi davvero che potrebbe essere un'impresa da un miliardo di dollari?» «Io so di che cosa parlo. Questo è il campo che mi compete.» «E allora fondiamo questa società e brevettiamo il farmaco.» Stanton fissò per un attimo l'amico negli occhi. «Stai parlando seriamente?» «Non sono mai stato così serio.»
«Bene. Per prima cosa dobbiamo trovare i nomi.» Stanton prese dalla tasca della giacca un taccuino e una penna. «Ci occorre un nome per il farmaco e un nome per la ditta. Magari potremmo chiamarlo Soma, per gli intellettuali.» «Esiste già una medicina chiamata Soma», obiettò Edward. «Che mi dici di Omni, che si adatta all'ampio raggio potenziale delle sue applicazioni cliniche?» «Omni non suona bene per una medicina. È più adatto per la società. Potremmo chiamarla Omni Pharmaceuticals.» «Mi piace», confermò Edward. «E che ne pensi di Ultra, per la medicina? Mi sembrerebbe perfetto per la pubblicità.» «D'accordo.» I due uomini guardarono le signore, per vedere le loro reazioni. Candice non aveva ascoltato, perciò Stanton dovette ripetere i due nomi. Allora lei affermò che erano molto belli. Kim aveva ascoltato, ma non si era formata un'opinione; era un po' sorpresa dall'andamento della conversazione. Edward non aveva mostrato nessun imbarazzo, nessuna goffaggine in quel suo improvviso e inaspettato interesse per gli affari. «Quanto denaro puoi procurare?» chiese Edward a Stanton. «Quanto tempo ritieni che ci voglia prima che tu sia pronto a mettere sul mercato il farmaco?» chiese lui a sua volta. «Non credo di poter rispondere a questa domanda. Ovviamente, non posso neppure essere sicuro al cento per cento che un giorno sia commerciabile.» «Lo so, vorrei solo una valutazione approssimativa. So che il tempo medio fra la scoperta di una potenziale medicina e la sua approvazione da parte dell'FDA, con la conseguente commercializzazione, è di circa dodici anni, e il costo medio si aggira sui duecento milioni di dollari.» «A me non occorrerebbero dodici anni, e nemmeno un capitale vicino ai duecento milioni di dollari», replicò Edward. «Ovviamente, abbreviando il tempo, occorrerà meno denaro e resterà un utile maggiore per noi.» «Capisco. Francamente anche a me non piace l'idea di rinunciare a una parte dell'utile.» «Quanto denaro pensi ti serva?» chiese Stanton. «Tanto per cominciare, dovrei mettere in piedi un laboratorio fornito dei mezzi più moderni», esordì Edward, quasi pensando ad alta voce.
«Perché? Non va bene il laboratorio che hai ora?» «Il laboratorio appartiene ad Harvard. Io devo staccare il progetto Ultra da Harvard, a causa di un accordo che ho firmato quando ho accettato il posto.» «Questo ci procurerà dei problemi?» chiese Stanton. «No, non credo. L'accordo riguarda le scoperte fatte durante l'orario di lavoro e con gli apparecchi dell'istituto. Io posso affermare che ho scoperto Ultra fuori delle ore di lavoro, il che è vero, anche se la separazione e la sintesi preliminare sono state compiute durante l'orario di lavoro. Comunque, quello che conta è che io non ho paura di cavilli legali. Dopotutto, l'istituto non è il mio padrone.» «Per quanto riguarda il periodo di sviluppo», riprese Stanton, «di quanto credi che potresti abbreviarlo?» «Posso abbreviarlo di molto. Una delle cose che più mi ha colpito nel nostro farmaco è che appare incredibilmente privo di tossicità. Credo che questo fatto, da solo, faciliterà l'approvazione da parte dell'FDA, perché è proprio il controllo delle tossicità specifiche che richiede tempo.» «Così tu pensi di ottenere l'approvazione dell'FDA in anticipo rispetto ai tempi consueti?» osservò Stanton. «Senza dubbio. Gli studi sugli animali saranno più rapidi, se non ci si deve preoccupare della tossicità, e il controllo clinico potrà essere abbreviato combinando la seconda e la terza fase con la procedura accelerata dell'FDA.» «La procedura accelerata è destinata ai farmaci per le malattie mortali», osservò Kim. Con l'esperienza fatta al Centro cure intensive sapeva abbastanza sui controlli farmaceutici. «Se Ultra è efficace per la depressione come penso che sia», replicò Edward, «confido che si potrà farlo rientrare nella categoria dei farmaci destinati alle malattie gravi.» «Che cosa ne dici dell'Europa Occidentale e dell'Asia?» domandò Stanton. «In questi Paesi non è necessaria l'approvazione dell'FDA per immettere sul mercato un farmaco.» «Ma certo», incalzò Edward. «Gli Stati Uniti non sono l'unico mercato farmaceutico.» «Ti dirò una cosa», aggiunse Stanton. «Io posso raccogliere facilmente quattro, cinque milioni senza doverci rimettere che una quantità simbolica di utile, poiché la maggior parte di quella somma verrebbe dalle mie risorse personali. Che cosa te ne pare?»
«Mi sembra fantastico», esclamò Edward. «Quando puoi cominciare?» «Domani. Comincerò a raccogliere il denaro e a mettere in moto i legali per costituire la società e per avviare la richiesta di brevetto.» «Sai se possiamo brevettare il nucleo della molecola?» chiese Edward. «Vorrei che il brevetto coprisse tutte le sostanze in cui compaia il nucleo.» «Non so, ma lo chiederò», assicurò Stanton. «Mentre tu ti preoccupi degli aspetti finanziari e legali, io comincerò a occuparmi del laboratorio. Il primo problema sarà trovare una nuova sede. Mi piacerebbe sistemarlo in un posto a portata di mano, perché dovrò passarci molto tempo.» «Cambridge mi pare una buona sede.» «Ma io voglio che sia lontana da Harvard.» «Che cosa ne pensi della zona di Kendall Square?» suggerì Stanton. «È abbastanza lontana da Harvard e abbastanza vicina al tuo appartamento.» Edward si voltò verso Kim e i loro sguardi s'incontrarono. Lei indovinò quello che stava pensando e annuì. Fu un cenno impercettibile che i due Lewis non colsero. «A dire la verità, io conto di traslocare alla fine di agosto», rispose Edward. «Lascio Cambridge e mi trasferisco a Salem.» «Edward verrà a vivere con me», aggiunse Kim, sapendo che la notizia sarebbe presto giunta alle orecchie di sua madre. «Sto ristrutturando la vecchia casa nella tenuta di famiglia.» «Oh, splendido!» esclamò Candice. «Vecchia canaglia!» ribatté Stanton e, sporgendosi sopra il tavolo, diede a Edward un'affettuosa pacca sulla spalla. «Una volta tanto, la mia vita personale procede con lo stesso successo di quella professionale», aggiunse Edward. «Perché non sistemiamo la nostra società in qualche località del North Shore?» suggerì Stanton. «Gli affitti devono essere almeno un decimo di quelli in città.» «Ehi, Stanton, mi hai dato proprio una grande idea», esclamò Edward. E rivolgendosi a Kim: «Che cosa ne diresti di quelle famose stalle ricavate dal vecchio mulino nella tua tenuta? Sarebbero un laboratorio perfetto per il nostro progetto. Sono così isolate!» «Non saprei», mormorò Kim. La proposta l'aveva colta del tutto alla sprovvista. «La ditta Omni potrebbe prendere in affitto il posto da te e da tuo fratello», spiegò Edward, entusiasmandosi all'idea. «Mi hai detto che la tenuta è
un notevole peso economico per voi. Sono sicuro che riscuotere un giusto canone di affitto sarebbe un bell'aiuto.» «Non è una cattiva idea», aggiunse Stanton. «L'affitto potrebbe essere detratto dalle tasse. Buona proposta, vecchio mio.» «Allora, che cosa ne dici?» chiese Edward a Kim. «Dovrò chiedere a mio fratello.» «Naturalmente. Quando? Più presto lo fai, meglio è.» Kim diede un'occhiata all'orologio e calcolò che a Londra dovevano essere circa le due e mezzo del mattino, proprio l'ora in cui Brian cominciava a lavorare. «Gli telefonerò una di queste sere», disse. «Anzi, potrei chiamarlo anche adesso.» «Questo mi piace», approvò Stanton. «Decisione.» Prese il telefono cellulare e lo spinse verso Kim. «La Omni pagherà la telefonata.» Kim si alzò. «Dove vai?» chiese Edward. «Mi sento in imbarazzo davanti a tutti», si giustificò lei. «Perfettamente comprensibile», osservò Stanton. «Vai nella toilette delle signore.» «Preferirei andare fuori», rispose Kim. Quando si fu allontanata, Candice si congratulò con Edward per i rapidi progressi della sua relazione con Kim. «Stiamo molto bene insieme», disse Edward. «Quanto personale ti occorrerà al laboratorio?» gli domandò Stanton. «Gli alti stipendi divorano il capitale più di ogni altra cosa.» «Cercherò di contenere al massimo il numero», rispose lui. «Ho bisogno di un biologo per gli studi sugli animali, di un immunologo per gli studi cellulari, di un cristallografo, di un modellatore di molecole, di un biofisico e di un farmacologo. E, naturalmente, ci siamo io ed Eleanor.» «Gesù Cristo!» esclamò Stanton. «Che diavolo credi che dobbiamo costituire, un'università?» «Ti assicuro che questo è il minimo, per il genere di lavoro che dobbiamo affrontare.» «Perché Eleanor?» «È la mia assistente. È la persona che collabora più strettamente con me. La sua opera è essenziale per questo progetto.» «Quando puoi cominciare con le assunzioni?» «Appena tu avrai i fondi. Dobbiamo procurarci professionisti d'alta classe, e ti avverto che non saranno a buon mercato. Dovrò convicerli ad ab-
bandonare ambite cattedre accademiche e lucrose posizioni nell'industria privata.» «È esattamente quello che temevo», si lagnò Stanton. «Molte nuove industrie biomediche stanno andando a gambe all'aria a causa degli stipendi troppo generosi.» «Lo terrò presente», ribatté Edward. «Quando puoi mettermi a disposizione il denaro?» «Posso avere un milione per l'inizio della settimana», rispose Stanton. Arrivarono le prime portate. Poiché Candice e Stanton avevano ordinato degli antipasti caldi, Edward insistette affinché cominciassero a mangiare. Avevano appena preso in mano le forchette quando Kim tornò. Sedette e riconsegnò il telefono. «Ho buone notizie», annunciò. «Mio fratello è felicissimo di avere inquilini paganti nell'edificio del vecchio mulino, ma desidera che i lavori di adattamento non siano a nostro carico. Dovrà provvedere la Omni.» «Mi pare giusto», convenne Edward. Prese il bicchiere, preparandosi a un altro brindisi, e dovette dare di gomito a Stanton, che era perso nei propri pensieri. «All'Omni e all'Ultra», brindò. E tutti bevvero. «Ecco come penso che dovremmo costituire la società», cominciò Stanton appena deposto il bicchiere. «Verseremo un capitale di quattro milioni e mezzo, e il valore di ogni azione sarà di dieci dollari. Di queste quattrocentocinquantamila azioni, ciascuno di noi due ne terrà centocinquantamila, e ne lasceremo centocinquantamila per un finanziamento futuro e per attirare le persone giuste e un certo utile. Se il tuo Ultra darà i profitti previsti, ogni azione acquisterà enorme valore.» «Brindiamo al nostro successo», propose Edward alzando ancora il bicchiere. I calici tintinnarono e tutti bevvero con gusto, soprattutto lui, che assaporò con particolare piacere il vino che aveva scelto. Non aveva mai bevuto un vino bianco migliore e indugiò per assaporarne il bouquet alla vaniglia con un retrogusto di albicocca. Terminato il pranzo e scambiati i saluti, Kim ed Edward si diressero verso il parcheggio del ristorante e salirono sulla macchina di lui. «Se non ti dispiace, preferirei rimandare la passeggiata per la piazza», disse Edward. «Oh!» esclamò Kim, un po' delusa e anche sorpresa. Del resto, tutta la serata era stata una sorpresa. Non si sarebbe mai aspettata che Edward si prendesse una serata libera e tutto il suo comportamento era stato estre-
mamente insolito, fin dal momento che era andato a prenderla. «Devo fare alcune telefonate», spiegò Edward. «Ma sono le dieci passate. Non è un po' tardi per chiamare la gente?» «Non sulla Costa Occidentale. Ci sono due o tre persone all'UCLA e a Stanford che mi piacerebbe avere come collaboratori all'Omni.» «Mi pare di capire che tu ti stia entusiasmando per questo affare», commentò Kim. «Ne sono affascinato. Il mio intuito mi diceva che avevo per le mani qualcosa di importante fin dal momento che mi sono reso conto di avere trovato per caso tre alcaloidi finora sconosciuti. Ma non sapevo che ne sarebbe uscito un risultato così fantastico.» «Non sei un po' preoccupato per l'accordo che hai firmato con Harvard?» domandò Kim. «Ho sentito parlare di casi simili che hanno provocato grossi guai, in questa città, negli anni Ottanta, quando l'università e l'industria hanno intrecciato rapporti troppo stretti.» «È un problema che lascerò agli avvocati.» «Non saprei», mormorò Kim poco convinta. «Che tu ricorra o no agli avvocati, la questione potrebbe danneggiare la tua carriera accademica.» Sapendo quanto Edward apprezzasse l'insegnamento, Kim si preoccupava che quell'improvviso entusiasmo imprenditoriale gli confondesse un po' le idee. «Sì, è un rischio», ammise Edward, «ma sono disposto ad affrontarlo. L'occasione che mi offre l'Ultra è una di quelle che si presentano una volta sola nella vita. Mi dà la possibilità di lasciare una mia impronta in questo mondo e insieme di guadagnare una bella somma di denaro.» «Ma avevi detto che non t'interessava diventare milionario», obiettò Kim. «Be', lo avevo detto, ma non sapevo che qui si tratta di diventare miliardario. Non mi ero reso conto che fosse così alta la posta in gioco.» Kim non era certa che ci fosse molta differenza, ma non disse nulla. Era un problema etico che non si sentiva disposta a discutere in quel momento. «Mi dispiace di avere proposto di installare il laboratorio nelle stalle della tenuta Stewart senza averne prima parlato con te», continuò Edward. «Non è nel mio carattere lanciare idee simili sull'impulso del momento. Temo di essermi lasciato un po' travolgere dall'entusiasmo di Stanton.» «Accetto le tue scuse», rispose Kim. «Inoltre mio fratello era ben lieto della proposta, perché l'affitto che pagherete ci aiuterà a pagare le tasse sulla proprietà. Sono veramente cifre astronomiche.»
«Uno dei vantaggi è che le stalle sono abbastanza lontane dalla villa, così la presenza del laboratorio non ci disturberà», osservò Edward. Lasciarono Memorial Drive e si addentrarono nelle quiete vie residenziali di Cambridge. Edward si fermò nel parcheggio e spense il motore. Poi si batté la fronte con il palmo della mano. «Che stupido!» esclamò. «Saremmo dovuti andare a casa tua a prendere le tue cose.» «Vuoi che resti da te, questa notte?» «Ma certo! Tu non vuoi?» «Sei stato tanto impegnato in questi ultimi giorni, non sapevo che cosa aspettarmi.» «Se tu resti con me, sarà più facile partire per Salem domattina», aggiunse Edward. «Partiremo di buon'ora.» «Sei sicuro di volere ancora andare a Salem? Avevo la sensazione che tu non volessi perdere tempo in quel viaggio.» «Ma ora è diverso, dato che lì dobbiamo installare la Omni.» Riaccese il motore e fece marcia indietro. «Andiamo a casa tua a prendere i tuoi vestiti. Naturalmente, ammesso che tu voglia restare, e spero che tu lo voglia.» Le sorrise teneramente nell'oscurità. «Suppongo di sì», rispose Kim. Si sentiva indecisa e ansiosa senza sapere perché. 8 Sabato 30 luglio 1994 Non partirono così presto come Edward aveva programmato la notte prima, perché lui passò metà della mattina al telefono. Prima chiamò il capomastro e l'architetto di Kim, proponendo loro di occuparsi anche dei lavori relativi al nuovo laboratorio. I due accettarono volentieri e suggerirono di incontrarsi alla tenuta verso le undici. Poi telefonò a diversi rappresentanti di apparecchi da laboratorio e diede loro appuntamento alla tenuta, contemporaneamente all'architetto e al capomastro. Quindi, dopo una breve telefonata a Stanton per assicurarsi che il denaro promesso sarebbe arrivato immediatamente, chiamò diverse persone che voleva assumere come collaboratori alla Omni. Erano le dieci passate quando salirono in auto per recarsi a Salem. Edward parcheggiò accanto alle stalle della tenuta Stewart e trovò una
piccola folla che lo aspettava. Le presentazioni erano già state fatte e a lui fu così risparmiato questo compito. Fece quindi cenno che si avvicinassero alla porta scorrevole che era chiusa da un grosso lucchetto. L'edificio si presentava come una lunga costruzione in pietra a un solo piano, con qualche finestra in alto, sotto la grondaia. Poiché il terreno scendeva in un ripido pendio verso il fiume, la parte posteriore della costruzione era a due piani, con entrate separate per ogni stalla. Kim dovette provare diverse chiavi prima di trovare quella che apriva il pesante lucchetto. Finalmente, il gruppo entrò in quello che era il pianterreno visto dalla facciata e il secondo piano visto dal retro. L'interno era un enorme locale unico con un soffitto altissimo, sul retro del quale c'erano diverse aperture, chiuse da imposte. Una parte del locale era piena di balle di fieno. «Almeno la demolizione sarà facile», osservò George. «Questo posto è perfetto», esclamò Edward. «Ho sempre pensato che il laboratorio ideale debba essere costituito da un solo, enorme locale, in modo che ognuno sia a contatto con tutti gli altri.» La scala che portava al piano inferiore era di legno di quercia grezzo ed era tenuta insieme da cavicchi del diametro di due centimetri e mezzo. Al piano inferiore trovarono un lungo locale con i box a destra e i ripostigli per i finimenti a sinistra. Kim seguì il gruppo prestando attenzione ai progetti per trasformare rapidamente il piano superiore in un modernissimo laboratorio biologico e farmacologico. Al piano inferiore, invece, sarebbero stati allestiti i locali per gli animali da esperimento, scimmie, topi, ratti e conigli, e si doveva trovare spazio per il reparto destinato alle incubatrici per le colture di tessuti e batteri. Infine, alcune stanze sarebbero state riservate alle apparecchiature più sofisticate che richiedevano isolamento e protezione. Il piano superiore doveva accogliere il laboratorio vero e proprio e, naturalmente, una stanza ben protetta, dotata di aria condizionata, per la grande unità centrale di elaborazione. Ogni banco nel laboratorio doveva avere il suo terminale e, per erogare energia a tutta l'apparecchiatura elettronica, sarebbe stato necessario installare un grande gruppo elettrogeno. «Bene, ecco tutto», concluse Edward quando ebbero finito il giro dell'edificio. Si rivolse al capomastro e all'architetto. «Vi pare che ci sia qualche problema?» «Non credo», rispose Mark, «la struttura è solida e sana. Ma suggerirei
di allestire un locale per la reception.» «Non avremo molti visitatori», obiettò Edward, «ma capisco il suo punto di vista. Inserite nel progetto anche la saletta. C'è altro?» «Non penso che avremo difficoltà per ottenere i permessi», osservò George. «Purché non diciamo nulla sulla presenza di animali», aggiunse Mark. «Io consiglio di non nominarli neppure. Potrebbero creare problemi che richiederebbero tempo per risolverli.» «Sono lieto di lasciare i rapporti con la burocrazia a voi due», affermò Edward. «L'unica cosa che voglio è realizzare il progetto il più presto possibile, e mi affido totalmente alla vostra esperienza. Per affrettare i lavori, sono disposto a garantire una gratifica del dieci per cento, oltre alle spese dei materiali e ai vostri onorali.» Sorrisi entusiasti comparvero sui volti di Mark e George. «Quando pensate di cominciare?» chiese Edward. «Possiamo cominciare immediatamente», affermarono i due all'unisono. «Spero che i modesti lavori alla mia villa non soffrano per questo nuovo e grandioso progetto», intervenne Kim parlando per la prima volta. «Non deve preoccuparsi», rispose George. «Anzi, il nuovo progetto potrà accelerare i lavori alla villa. Impiegheremo più manodopera e avremo a disposizione tutti gli artigiani necessari. Se occorrerà un idraulico o un elettricista per qualche piccolo lavoro alla sua villa, si troverà perciò già sul posto.» Mentre Edward, il capomastro, l'architetto e i vari rappresentanti di apparecchiature mediche cominciavano a discutere i particolari del nuovo laboratorio, Kim uscì dall'edificio, proteggendosi gli occhi dall'intensa luce del sole di mezzogiorno. Sapeva di non poter portare alcun contributo alla progettazione del laboratorio, per cui si avviò a piedi attraverso i campi verso la villa, per controllare i progressi dei lavori. Avvicinandosi all'edificio notò che il fossato era stato riempito e osservò anche che gli operai avevano ricollocato la lapide di Elizabeth sul terreno sopra la tomba. L'avevano deposta in posizione orizzontale, così come l'avevano trovata. Entrò nella villa, che trovò piccola in confronto agli enormi spazi delle stalle. I lavori procedevano bene, specialmente in cucina e nei bagni e, per la prima volta, riuscì a immaginare che aspetto avrebbero avuto alla fine dell'opera di ristrutturazione.
Dopo avere fatto il giro tornò alle stalle, ma né Edward né gli altri sembravano avere finito il loro improvvisato congresso. Kim li interruppe solo per avvertire Edward che aveva intenzione di recarsi al castello. Lui si limitò ad augurarle di divertirsi. Passare dalla brillante luce solare alla cupa penombra delle sale del castello, oscurate dai pesanti tendaggi, fu come trovarsi in un altro mondo. Si fermò ad ascoltare gli scricchiolii e i gemiti della casa, che si stava adattando al calore. Per la prima volta si accorse che non poteva sentire le voci degli uccelli, che fuori erano così alte, soprattutto i gridi dei gabbiani. Dopo una breve esitazione, Kim salì per il grande scalone. Malgrado il recente successo del ritrovamento del materiale del diciassettesimo secolo nella cantina, decise di concedere al solaio un'altra possibilità, soprattutto perché l'ambiente era tanto più gradevole. Per prima cosa, aprì molte delle finestre ad abbaino per lasciare entrare la brezza che arrivava dal fiume, poi, allontanandosi dall'ultima finestra, notò diverse pile di registri rilegati in tela ammonticchiati lungo una parete dell'abbaino. Ne prese in mano uno e osservò il dorso. Scritte a mano in inchiostro bianco su fondo nero si leggevano le parole SEA WITCH. Incuriosita, Kim lo aprì. Pensò dapprima che fosse il diario di qualcuno, poiché tutti i brani, scritti a mano, cominciavano con la data, seguita da notizie particolareggiate sul tempo, ma si rese conto ben presto che non si trattava di un diario personale, bensì di un diario di bordo. Osservando la copertina, scoprì che il diario riguardava gli anni dal 1791 al 1802. Lo rimise a posto e guardò il dorso degli altri volumi. Ben sette riportavano la scritta SEA WITCH. I più antichi andavano dal 1737 al 1749. Kim pensò che, forse, potevano esserci altri diari di bordo del diciassettesimo secolo, e passò a controllare i libri delle altre pile. In un piccolo mucchio accanto alla finestra ne vide uno con un logoro dorso di cuoio, che non recava alcuna scritta. Lo prese in mano. Il libro aveva un'aria molto consunta, un po' come la Bibbia che aveva trovato nella cantina. Lo aprì alla prima pagina. Era il diario di bordo di un brigantino chiamato Endeavor, e comprendeva gli anni dal 1679 al 1703. Voltando delicatamente le vecchie pagine, sfogliò il diario anno per anno, finché arrivò al 1692. La prima annotazione dell'anno era sotto il 24 gennaio. Descriveva il tempo, che era freddo e limpido con un buon vento da ovest. Riferiva poi
che la nave era salpata con la marea e faceva rotta per Liverpool con un carico di olio di balena, legname, pellicce, potassa, merluzzi e sgombri essiccati. Kim si animò quando i suoi occhi incontrarono un nome familiare. La frase successiva, infatti, affermava che la nave aveva imbarcato un passeggero, il signor Ronald Stewart, proprietario della nave stessa. Kim proseguì in fretta. Il diario di bordo spiegava che Ronald era in viaggio per la Svezia per sovrintendere all'allestimento finale di una nuova nave, che si sarebbe chiamata Sea Spirit, e prenderne quindi possesso. Scorse rapidamente le successive annotazioni. Il nome di Ronald non era più menzionato fino al suo sbarco a Liverpool, dopo una traversata tranquilla senza eventi degni di nota. Presa da viva eccitazione, Kim chiuse il libro e scese dal solaio alla cantina. Qui aprì la cassetta della Bibbia, prese la scrittura legale che aveva trovato nella sua ultima visita e controllò le date. Aveva visto giusto! La ragione per cui sulla scrittura figurava la firma di Elizabeth era che Ronald era in navigazione quando l'atto era stato firmato. L'avere risolto un mistero, anche se piccolo, nella vicenda di Elizabeth le diede un senso di soddisfazione. Rimise la scrittura nella cassetta della Bibbia e, mentre si accingeva ad aggiungere il diario di bordo alla sua piccola collezione, scivolarono fuori tre buste legate con un sottile nastro. Kim le raccolse con dita tremanti. La prima busta era indirizzata a Ronald Stewart e, dopo avere slegato il nastro, scoprì che a lui erano indirizzate anche le altre. Con viva emozione aprì le buste e ne estrasse il contenuto: erano tre lettere del 1692. La prima era di Samuel Sewall. Boston, 23 ottobre 1692 Mio caro amico, capisco che tu sia turbato nell'anima, anche se spero in nome di Dio che il tuo recente matrimonio possa alleviare la tua afflizione. Capisco anche il tuo desiderio di evitare che si diffonda la conoscenza dell'infelice associazione della tua defunta moglie con il Principe delle Tenebre. Ma con tutta la buona fede, devo consigliarti di non presentare al Governatore una petizione per un'ordinanza di restituzione in riferimento alla prova decisiva addotta per dichiarare la tua predetta moglie colpevole di abominevole stregoneria. Per tale intento ti consiglierei di rivolgere i-
stanza al reverendo Cotton Mather, nel cui sotterraneo hai potuto intravedere gli oggetti infernali di tua moglie. È giunto a mia conoscenza che la custodia ufficiale della prova è stata assegnata in perpetuo al reverendo Mather in seguito a sua richiesta. Rimanendoti vicino Samuel Sewall Frustrata per avere rintracciato un altro riferimento alla misteriosa prova senza trovarne alcuna descrizione, Kim aprì la seconda lettera, scritta da Cotton Mather. Boston, 29 ottobre 1692 Signore, sono in possesso della vostra recente lettera in cui riferite che siamo stati compagni di studi all'Harvard College. Questo mi fa sperare che la vostra disposizione verso il venerabile istituto sia di amorosa sollecitudine e che siate disposto nella mente e nello spirito ad accettare ciò che io e il mio stimato padre abbiamo deciso riguardo alla sede più appropriata per l'oggetto prodotto da Elizabeth. Ricorderete che quando c'incontrammo a casa mia, in luglio, io ero preoccupato che il buon popolo di Salem potesse venire eccitato fino alla turbolenza incontrollata a proposito della presenza del Demonio così chiaramente definita dalle azioni e opere infernali di Elizabeth. È veramente un caso sfortunato che le mie massime precauzioni non abbiano avuto effetto e che, malgrado le mie raccomandazioni e cautele nell'uso della prova spettrale poiché il Padre della Menzogna potrebbe comprensibilmente assumere la forma esteriore di una creatura innocente, la buona reputazione di persone innocenti possa essere macchiata nonostante i seduli sforzi dei nostri onorevoli giudici, che sono così eminenti per la loro giustizia, saggezza e bontà. Io pienamente comprendo il vostro onorevole desiderio di proteggere la vostra famiglia da ulteriori umiliazioni, ma è mia convinzione che la prova riguardante Elizabeth debba essere conservata a beneficio delle future generazioni nella loro eterna lotta contro le forze del male come primario esempio del tipo di prova necessaria per determinare obiettivamente l'esistenza di un vero patto con il Diavolo che non sia semplice maleficium. A questo proposito, ho a lungo discorso con mio padre, il reverendo Increase Mather, che al presente è in servizio come rettore
presso l'Harvard College. Noi insieme, con eguali intenti, abbiamo deciso che la prova debba essere conservata al College, per l'edificazione e l'ammaestramento delle future generazioni, in quanto la vigilanza è importante per frustrare l'opera del Diavolo nella Nuova Terra del Signore. Vostro servitore in nome di Dio Cotton Mather Kim non era sicura di avere capito tutto, ma il succo era più che comprensibile. Sentendosi ancora più frustrata riguardo alla misteriosa prova, lesse l'ultima lettera. Diede un'occhiata alla firma e vide che veniva da Increase Mather. Cambridge, 11 novembre 1692 Signore, prendo atto con la più profonda comprensione del vostro desiderio che la predetta prova venga restituita e messa a vostra privata disposizione. Ma sono stato informato dai precettori William Brattle e John Leverett che la prova è stata accolta dagli studenti con diligente interesse e ha stimolato un appassionato e illuminato dibattito con l'effetto di convincerci che è volontà di Dio che il retaggio di Elizabeth sia lasciato ad Harvard per restarvi come importante contributo alla determinazione di criteri obiettivi per la Legge Ecclesiastica in riferimento alla stregoneria e all'orrenda opera del Diavolo. Vi prego di comprendere l'importanza di questa prova e consentire perciò che resti effettivamente nelle nostre collezioni. Se e quando gli stimati Membri della Corporazione di Harvard riterranno di istituire una facoltà di Legge, in quel momento sarà mandata a quell'istituto. Sempre vostro servitore Increase Mather «Maledizione!» imprecò Kim dopo aver letto la terza lettera. Era stata così fortunata a trovare tanti riferimenti alla prova contro Elizabeth, eppure non sapeva ancora che cosa fosse. Pensando di essersi forse lasciata sfuggire qualcosa, rilesse tutte e tre le lettere. La sintassi e l'ortografia così antiquate rendevano piuttosto difficile l'interpretazione, ma dopo averle rilette con attenzione, si convinse che non le era sfuggito nulla. Eccitata, cercò di nuovo di immaginare la natura della prova incontro-
vertibile addotta contro Elizabeth. Dopo avere consultato per tutta la settimana tante pubblicazioni sui processi di stregoneria di Salem, era sempre più convinta che la prova dovesse essere una qualche specie di libro. Ai tempi dei processi, l'espressione «libro del Diavolo» era stata pronunciata spesso. Il modo in cui la presunta strega stipulava il patto con il diavolo consisteva appunto nel firmare il «libro del Diavolo». Kim tornò a rileggere le lettere e osservò che la prova era descritta come «oggetto prodotto da Elizabeth». Forse aveva confezionato un libro con una copertina di cuoio finemente lavorata? Kim rise di se stessa. Per quanto sforzasse la sua immaginazione, non le veniva in mente nient'altro. Nella lettera di Increase Mather notò che la prova aveva suscitato un «appassionato e illuminato» dibattito fra gli studenti. Pensò che quella definizione non solo avvalorava l'idea che la prova fosse un libro, ma faceva pensare che la sua importanza fosse da ricercare nel contenuto, non nel suo aspetto esteriore. Ma poi tornò alla supposizione che la prova fosse una qualche specie di bambola. Proprio quella settimana aveva letto che appunto una bambola trafitta da spilli era stata usata come prova nel processo contro Bridget Bishop, la prima accusata che era stata giustiziata in quei giorni a Salem. Kim sospirò. Sapeva che con le sue sfrenate fantasie sulla natura della famosa prova non sarebbe approdata a nulla. La prova poteva essere qualsiasi cosa si riferisse all'occulto. Invece di abbandonarsi all'immaginazione doveva attenersi ai fatti, e le tre lettere che aveva appena trovato le fornivano un dato assai significativo, ossia che la prova, qualunque cosa fosse, era stata consegnata all'università di Harvard nel 1692. Si domandò se ci fossero probabilità di trovare qualche notizia al riguardo presso l'istituto e se, nel caso ci avesse provato, avrebbero riso di lei. «Ah, eccoti qui!» chiamò Edward, dall'alto della scala. «Hai avuto fortuna?» «Ti sembrerà strano, ma l'ho avuta», gridò Kim di rimando. «Scendi e vieni un po' a vedere.» Edward scese la scala e prese le lettere. «Mio Dio!» esclamò quando vide le firme. «Ma questi sono tre dei più famosi puritani! Che brillante scoperta!» «Leggile», lo invitò. «Sono interessanti, ma non servono al mio scopo.» Edward si appoggiò a uno scrittoio per sfruttare quel po' di luce che veniva da uno dei portalampada infissi alle pareti. Lesse le lettere nello stesso ordine in cui le aveva lette Kim.
«Favolose!» esclamò quando ebbe finito. «Mi incantano il vocabolario e la grammatica. Ti fanno capire come la retorica fosse una fondamentale materia di studio in quel tempo. Gran parte però è al di sopra della mia comprensione: non so nemmeno che cosa significhi la parola 'seduli'.» «Credo che significhi 'diligenti'», spiegò Kim. «Io non ho avuto difficoltà con i termini, ma non riuscivo a orientarmi con quei periodi così lunghi.» «Sei fortunata che queste lettere non siano scritte in latino», commentò Edward. «A quei tempi, dovevi leggere e scrivere correntemente in latino se volevi entrare ad Harvard. A proposito, scommetterei che Harvard mostrerebbe grande interesse per queste lettere, specialmente per quella di Increase Mather.» «Questo è un vantaggio per me. Pensavo proprio di andare ad Harvard a chiedere notizie della nostra famosa prova, ma temevo che mi avrebbero riso in faccia. Magari potrei proporre uno scambio.» «Oh, non riderebbero certo di te. Sono sicuro che qualcuno alla biblioteca Widener troverebbe la storia molto interessante. Naturalmente non rifiuterebbero il dono della lettera. Potrebbero magari offrirsi di comperarla.» «La lettura di queste lettere ti ha fornito qualche idea sulla natura della prova?» chiese Kim. «Veramente no, ma capisco che cosa intendi quando dici che sono frustranti. È veramente buffo che nominino tante volte la prova senza mai descriverla.» «Mi sembrava che la lettera di Increase Mather confermasse l'idea che si tratti di qualche specie di libro. Specialmente là dove dice che ha stimolato un dibattito fra gli studenti.» «Può darsi», convenne Edward. «Aspetta un po'», esclamò Kim all'improvviso. «Mi è venuta un'altra idea. È una cosa a cui non avevo pensato. Perché Ronald era così ansioso di riaverla? Questo non ti dice niente?» Edward si strinse nelle spalle. «Penso che volesse risparmiare alla famiglia ulteriori umiliazioni. Spesso intere famiglie soffrivano quando un membro era riconosciuto colpevole di stregoneria.» «Ma non poteva essere qualcosa che coinvolgeva anche lui? E se Ronald avesse qualcosa a che fare con l'accusa e la condanna di Elizabeth? In questo caso probabilmente voleva rientrare in possesso della prova per distruggerla.» «Oh, smettila!» Edward fece un passo indietro, come se Kim costituisse
una minaccia. «Tu vedi cospirazioni e intrighi dappertutto. La tua immaginazione lavora troppo.» «Ronald ha sposato la sorella di Elizabeth dieci settimane dopo la morte della moglie», affermò Kim con calore. «Credo che tu dimentichi qualcosa. Le analisi che ho eseguito sui resti di Elizabeth fanno pensare che sia stata per lungo tempo avvelenata dal nuovo fungo. Probabilmente aveva allucinazioni a intervalli regolari, il che non ha niente a che fare con Ronald. Forse le aveva anche lui, se ingeriva lo stesso cereale. Sono sempre convinto che la prova si riferisse a qualcosa che Elizabeth aveva fatto sotto l'effetto allucinogeno della muffa. Poteva essere un libro, un dipinto, un pupazzo o qualunque cosa che allora hanno ritenuto collegata con l'occulto.» «Può darsi che tu abbia ragione», ammise Kim. Prese le lettere dalle mani di Edward e le rimise nella cassetta della Bibbia. Lanciò uno sguardo al lungo corridoio della cantina con i suoi mobili stracolmi di scartoffie. «Bene, torniamo a quei cassetti. Dovrò continuare a cercare, nella speranza di trovare una descrizione della prova.» «Io ho finito di parlare con gli altri. Nessun problema per quanto riguarda il nuovo laboratorio. Devo farti i complimenti per il tuo capomastro, si propone di iniziare oggi stesso scavando il fossato per le condutture. Mi ha detto che l'unica sua preoccupazione era imbattersi in altre tombe! Dev'essere stato molto colpito dalla scoperta della bara di Elizabeth. Che tipo!» «E tu che cosa pensi di fare? Torni a Boston?» chiese Kim. «Devo tornare», confermò Edward. «Ci sono molte persone con cui ho bisogno di parlare, ora che la Omni sta diventando realtà. Ma posso prendere il treno, come ho fatto la volta scorsa. Se vuoi restare a lavorare qui, fallo pure.» «Bene, se per te non è troppo scomodo, io resto», confermò Kim. La scoperta delle lettere le aveva infuso nuovo coraggio. 9 Venerdì 12 agosto 1994 L'agosto era cominciato ed era caldo, umido e afoso. Le piogge erano state scarse per tutto luglio e la siccità era continuata nel mese successivo, finché l'erba sul Boston Common, di fronte all'appartamento di Kim, era passata dal verde al giallo.
Almeno in ospedale, l'agosto portò a Kim un po' di sollievo. Kinnard aveva iniziato il suo turno di due mesi all'ospedale di Salem, così lei non aveva più l'incubo di trovarselo davanti ogni giorno. Inoltre, aveva concluso le trattative con la Sezione infermieri per avere l'intero mese di settembre libero, usufruendo di giorni di ferie non goduti e prendendo un periodo di aspettativa. All'inizio del mese, Kim si trovò ad avere anche un po' più di tempo per sé, perché Edward era sempre lontano. Viaggiava per tutto il Paese in missioni segrete di reclutamento per la Omni Pharmaceuticals, ma non la dimenticava. Pur essendo impegnatissimo, le telefonava ogni sera verso le dieci, prima che lei andasse a dormire. Continuava inoltre a mandarle fiori, ma adesso si limitava a una sola rosa al giorno, cosa che Kim trovava molto più ragionevole. Quanto a lei, non aveva difficoltà a riempire il suo tempo. La sera continuava a leggere opere di ogni genere sui processi di stregoneria di Salem e sulla cultura puritana; inoltre, faceva il possibile per recarsi ogni giorno alla tenuta. I lavori procedevano a un ritmo estremamente rapido e, nonostante la squadra che lavorava alla ristrutturazione del laboratorio fosse più numerosa, alla villa si cominciarono i lavori di rifinitura delle pareti prima ancora che fossero terminati quelli di ebanisteria. Kim non si stupì quando suo padre manifestò maggiore entusiasmo e ammirazione per la ristrutturazione del laboratorio, ma non gli fece sapere che quella parte dell'opera non dipendeva da lei e non era stata una sua idea. Ogni volta che si recava alla tenuta trascorreva qualche ora nel castello, frugando attentamente nell'enorme mucchio polveroso di libri e documenti. I risultati furono deludenti. Mentre era stata tanto incoraggiata dalla scoperta delle tre lettere, altre ventisei ore successive di ricerca non le fruttarono niente di significativo. Perciò giovedì 11 agosto decise di seguire la traccia che aveva in mano e portò la lettera di Increase Mather a Boston, dopo avere raccolto tutto il suo coraggio per affrontare Harvard. Il 12 agosto, terminato il lavoro, si diresse alla stazione della metropolitana, all'angolo fra Charles e Cambridge Street. Dopo l'inutile il tentativo al palazzo del Governo, dal momento che Ronald non aveva mai indirizzato petizioni al governatore, Kim non era troppo ottimista. Dubitava di poter trovare ad Harvard la «prova decisiva» addotta contro Elizabeth. Non solo pensava che ben difficilmente un materiale del genere fosse ancora in possesso dell'università, ma si aspettava che gli impiegati la prendessero
per pazza. Chi, se non un pazzo, sarebbe venuto a cercare un oggetto di trecento anni prima, la cui natura non era mai stata definita nei pochi riferimenti tangibili di cui disponeva? Mentre aspettava il treno, fu spesso sul punto di tornare indietro, ma ogni volta si ripeté che quella era la sua unica traccia; perciò si sentiva in dovere di seguirla, qualunque fosse il risultato. Uscendo dalla stazione della metropolitana si trovò nel solito traffico di Harvard Square, ma appena attraversò Massachusetts Avenue ed entrò nel campus, il rumore del traffico e della folla si smorzò con sorprendente rapidità. Mentre percorreva i tranquilli viali alberati, accanto ai muri di mattoni rossi coperti di edera, si domandava che aspetto avesse il campus nel diciassettesimo secolo, quando Ronald Stewart lo aveva frequentato. Nessuno degli edifici accanto ai quali passava sembrava così antico. Ricordando l'osservazione di Edward a proposito della biblioteca Widener, Kim aveva deciso di provare innanzitutto lì. Salendo il largo scalone e passando fra le imponenti colonne, si sentì nervosa e dovette continuamente farsi coraggio. Al banco delle informazioni chiese in termini piuttosto vaghi di parlare con qualcuno a proposito di oggetti molto antichi e la indirizzarono all'ufficio di Mary Custland. Mary Custland, la cui qualifica era quella di «curatore di libri e manoscritti rari», era una dinamica signora sui trentacinque anni, molto elegante nel tailleur blu scuro con blusa bianca e una sciarpa dai colori vivaci. Non rispondeva per nulla all'idea che Kim aveva di una bibliotecaria. Si mostrò gentile e premurosa e chiese immediatamente a Kim in che cosa poteva esserle utile. La giovane tirò fuori la lettera e la porse a Mary, aggiungendo di essere una discendente dell'uomo a cui la lettera era diretta. Stava cominciando a spiegare che cosa desiderava, ma Mary la interruppe. «Mi scusi», disse. Pareva davvero sorpresa. «Questa lettera è di Increase Mather!» Parlando sfiorò con un tocco riverente delle dita l'orlo della pagina. «È quello che le stavo spiegando», replicò Kim. «È meglio che faccia venire qui Katherine Sturburg», esclamò Mary. Depose con cura la lettera sul ripiano della scrivania e sollevò il telefono. Mentre aspettava in linea, disse a Kim che Katherine era specializzata in materiale del diciassettesimo secolo e s'interessava in modo particolare a Increase Mather. Dopo avere parlato al telefono, Mary le chiese dove avesse trovato la let-
tera. Kim stava appunto per raccontare la sua storia, quando arrivò Katherine. Era una donna piuttosto anziana, con i capelli grigi e un paio di occhiali da lettura in bilico sulla punta del naso. Mary le presentò, poi mostrò la lettera a Katherine, che, per poterla leggere, la spostava con la punta delle dita. Kim si sentì immediatamente in imbarazzo per avere maneggiato quel prezioso foglio con tanta disinvoltura. «Che cosa ne pensi?» domandò Mary quando Katherine ebbe terminato la lettura. «È indubbiamente autentica, lo posso assicurare in base alla grafia e alla sintassi. È affascinante. Nomina sia William Brattle sia John Leverett. Ma che cosa è questa prova di cui parla?» «Questo è il problema», intervenne Kim. «È per questo che sono qui. All'inizio desideravo solo apprendere qualche notizia sulla mia antenata Elizabeth Stewart, e poi mi sono trovata davanti a un mistero da risolvere. Speravo che Harvard potesse aiutarmi, poiché la prova, qualunque cosa fosse, era stata lasciata qui.» «Che rapporto ha questa faccenda con la stregoneria?» chiese Mary. Kim spiegò che Elizabeth era stata coinvolta nei processi di stregoneria di Salem e che la famosa prova era stata usata per condannarla. «Avrei dovuto pensare a un collegamento con Salem, quando ho visto la data», osservò Katherine. «La seconda volta che Mather si riferisce alla prova», fece notare Mary, «ne parla come del 'retaggio di Elizabeth'. È una frase curiosa. Mi fa pensare a qualcosa che la donna abbia fatto lei stessa, o abbia acquistato con qualche sforzo o con denaro.» Kim annuì. Poi espose la sua ipotesi che si trattasse di un libro o di uno scritto, pur ammettendo che poteva essere qualsiasi oggetto che in quei giorni potesse essere associata alla stregoneria o all'occulto. «Suppongo che potesse trattarsi di una bambola», intervenne Mary. «Anch'io ci avevo pensato», replicò Kim. Le due bibliotecarie si consultarono sul modo migliore di accedere alle enormi risorse della biblioteca, poi, dopo una breve discussione, Mary sedette davanti al suo terminale e batté il nome ELIZABETH STEWART. Per un minuto nessuno parlò. L'unico movimento nella stanza era l'ammiccare del cursore sullo schermo vuoto mentre il computer frugava l'immensa banca dati. Quando il monitor si illuminò e apparvero diversi riferimenti, le speranze di Kim si riaccesero, ma non per molto. Tutte le Elizabeth Stewart elencate erano del diciannovesimo e ventesimo secolo e non
avevano alcun legame di parentela con Kim. Mary allora digitò il nome di Ronald Stewart, ma ottenne risultati analoghi; non c'era nessun riferimento al diciassettesimo secolo. Infine provò un controllo incrociato con Increase Mather. Trovò un'enorme quantità di materiale, ma nulla che si riferisse alla famiglia Stewart. «Non ne sono sorpresa», mormorò Kim, «non ero molto ottimista venendo qui. Spero di non avervi disturbato troppo.» «Al contrario», replicò Katherine. «Sono ben lieta che lei ci abbia mostrato questa lettera. Ci farebbe piacere farne una copia, se non le dispiace.» «Naturalmente», acconsentì Kim. «Anzi, quando avrò finito con la mia minicrociata, sarò lieta di donare la lettera alla biblioteca.» «Sarebbe un gesto molto generoso», commentò Mary. «Da parte mia, come archivista particolarmente interessata alla storia di Increase Mather, farò tutte le ricerche possibili riguardo Elizabeth Stewart», promise Katherine. «Qualunque fosse l'oggetto, ci dovrebbe essere qualche riferimento, poiché la lettera di Mather conferma che è stato consegnato ad Harvard. Ci sono state accanite discussioni a proposito delle prove basate sulla presenza di spettri, nei processi di Salem, e abbiamo una quantità di materiale sull'argomento. Ho la sensazione che il reverendo Mather si riferisca indirettamente a questo nella sua lettera. Perciò c'è qualche probabilità che io possa trovare qualcosa.» «Apprezzerò molto ogni aiuto che lei potrà darmi», replicò Kim e diede loro il suo numero di telefono dell'ospedale e quello di casa. Le due bibliotecarie si scambiarono uno sguardo, quindi Mary aggiunse: «Non vorrei sembrare pessimista, ma devo avvertirla che le probabilità di trovare la prova sono assai scarse, qualunque cosa possa essere. C'è stata una grande tragedia qui ad Harvard, il 24 gennaio 1764. In quel tempo, la vecchia aula magna era usata per le udienze del tribunale a causa di un'epidemia di vaiolo a Boston. Sfortunatamente, un fuoco lasciato acceso in biblioteca in quella fredda notte nevosa ha provocato un incendio che ha distrutto l'edificio e tutto il suo prezioso contenuto. Sono andati perduti tutti i ritratti dei presidi dell'accademia e dei benefattori, come la maggior parte della biblioteca, che conteneva cinquemila volumi. Io so molte cose su quell'episodio, perché è stato il peggior disastro nella storia della biblioteca. E non solo sono andati perduti i libri, ma anche una collezione di animali e uccelli impagliati. E inoltre - e questa è la cosa più curiosa - una collezione che era definita come 'Museo delle curiosità'.»
«È probabile che comprendesse anche oggetti associati con l'occulto», osservò Kim. «Senza dubbio», confermò Mary, «ci sono molte probabilità che l'oggetto che lei cerca facesse parte proprio di quella collezione. Ma non lo sapremo mai. Anche il catalogo della collezione è andato perduto nell'incendio.» «Ma questo non vuole dire che non si possa trovare qualche riferimento a questa famosa prova», promise ancora Katherine. «Farò del mio meglio.» Mentre scendeva la scalinata della biblioteca, Kimberly continuava a ripetersi che in fondo non si era aspettata di avere successo e quindi non doveva perdersi di coraggio. Almeno nessuno aveva riso di lei e le bibliotecarie avevano mostrato un sincero interesse per la lettera. Era sicura che avrebbero continuato a cercare per trovare informazioni sulla sua antenata. Prese la metropolitana fino a Charles Street e trovò la sua macchina al garage dell'ospedale. Aveva pensato di andare a casa a cambiarsi, ma la piccola spedizione ad Harvard le aveva preso più tempo di quanto avesse calcolato. Perciò si diresse direttamente all'aeroporto a prendere Edward, che tornava dalla Costa Occidentale. Lui arrivò in perfetto orario e, poiché non aveva bagaglio, si diressero subito al parcheggio. «Le cose non potrebbero andare meglio», le annunciò. Era di ottimo umore. «Una sola persona, fra quelle che contavo di assumere per la Omni, ha rifiutato la mia proposta. Tutti quelli con cui ho parlato si sono mostrati entusiasti del progetto. Pensano che il nostro Ultra sfonderà al primo colpo.» «Quanto gli hai detto?» chiese Kim. «Quasi nulla, finché non s'impegnano, non voglio correre alcun rischio. Ma anche con notizie così generiche sono tutti talmente entusiasti che non ho dovuto distribuire grosse quote del capitale azionario. Finora ho impegnato soltanto quarantamila azioni.» Kim non sapeva che cosa significasse tutto ciò e non lo domandò. Raggiunsero la macchina ed Edward mise le sue borse a mano nel portabagagli. Salirono e uscirono dal garage. «Come vanno le cose alla tenuta?» chiese Edward. «Bene», rispose Kim con voce atona. «Si direbbe che tu sia un po' giù di morale.»
«Temo che sia proprio così. Mi sono fatta coraggio e questo pomeriggio sono andata ad Harvard per la prova di Elizabeth.» «Non dirmi che ti hanno trattato male!» «Oh, no, sono stati molto gentili. Il problema è che non avevano buone notizie da darmi. C'è stato un grande incendio ad Harvard, nel 1764, che ha distrutto la biblioteca e anche una collezione che chiamavano 'il Museo delle curiosità'. E, quel che è peggio, è andato perduto anche il catalogo. A questo punto nessuno sa che cosa contenesse la collezione. Temo che la prova di Elizabeth sia andata proprio in fumo.» «Questo dunque ti rimanda alle scartoffie del castello.» «Ho paura di sì», borbottò lei. «Il guaio è che ho perduto gran parte del mio entusiasmo.» «Ma come!» esclamò Edward. «Trovare le lettere di Increase e Cotton Mather e di Sewall doveva essere un incentivo per te.» «Lo è stato», ammise Kim, «ma l'effetto comincia a svanire. Da allora ho passato circa trenta ore a frugare e non ho trovato nemmeno una carta interessante.» «Te l'avevo detto che non sarebbe stata un'impresa facile», le ricordò Edward. Kim non ribatté. L'ultima cosa che desiderava in quel momento era sentire Edward che diceva «te l'avevo detto». Quando arrivarono all'appartamento, Edward chiamò Stanton prima ancora di togliersi la giacca. Kim ascoltò vagamente la fine della conversazione, in cui riferiva i suoi successi nel reclutamento di collaboratori per la Omni. «Buone notizie da entrambe le parti», annunciò Edward riagganciando il ricevitore. «Stanton ha già versato nella cassa della Omni la maggior parte dei quattro milioni e mezzo e ha avviato le pratiche per il brevetto. Si va a gonfie vele.» «Sono contenta per te.» Kim sorrise e sospirò nello stesso tempo. 10 Venerdì 26 agosto 1994 Gli ultimi giorni di agosto volarono. Alla tenuta i lavori continuavano a un ritmo vertiginoso, soprattutto al laboratorio, dove Edward passava già la maggior parte del suo tempo. Ogni giorno venivano consegnati apparec-
chi scientifici e il loro arrivo richiedeva notevoli sforzi per collocarli nel luogo adatto, installarli e proteggerli, se necessario. Edward era un vulcano di attività e si occupava di tutto ma, di conseguenza, si dedicava sempre meno ai suoi impegni di insegnamento all'università di Harvard. Il conflitto d'interessi fra il suo ruolo di ricercatore e quello di insegnante scoppiò a causa di uno degli studenti del suo corso. Il giovane aveva avuto l'insolenza di lamentarsi presso l'amministrazione di Harvard perché Edward non era mai disponibile. Quando lui lo seppe divenne furioso e lo cacciò. Ma la faccenda non finì così. Lo studente, altrettanto furioso, per ottenere soddisfazione si rivolse nuovamente all'amministrazione, che prese contatti con Edward. Questi rifiutò di giustificarsi e anche di riprendere lo studente nel suo laboratorio e, come risultato, i rapporti fra Edward e l'università si fecero sempre più tesi. Un altro fatto accrebbe le preoccupazioni di Edward. L'ufficio licenze di Harvard venne a conoscenza della sua partecipazione alla Omni. Aveva inoltre sentito voci preoccupanti circa una domanda di brevetto per una nuova classe di molecole e, di conseguenza, spedì una serie di lettere con richiesta di spiegazioni, che Edward decise di ignorare. Harvard si trovava in una situazione difficile. L'università non voleva perdere il dottor Armstrong, uno dei più brillanti astri nascenti della biochimica postmoderna ma, nello stesso tempo, non poteva tollerare una situazione così spiacevole, che creava anche pericolosi precedenti. La tensione logorava Edward, che già era impegnato con la nuova società e doveva nel contempo seguire i lavori del laboratorio. Kim si rendeva conto della crescente pressione cui era sottoposto e cercava di rendergli la vita un po' più facile e gradevole. Quasi tutte le notti restava nel suo appartamento e si occupava di molte delle incombenze domestiche: provvedeva alla cena, dava da mangiare al cane, si curava persino delle pulizie e del bucato. Sfortunatamente, lui sembrava non rendersi conto dei suoi sforzi. L'invio quotidiano di fiori era cessato appena lei aveva cominciato a fermarsi regolarmente nel suo appartamento e, pur riconoscendo che era abbastanza ovvio, Kim ne sentiva la mancanza. Venerdì 26 agosto, quando terminò il suo turno di lavoro, Kim rifletté a lungo sulla situazione. Oltre alla tensione conseguente al carico di impegni che si andavano accumulando, c'era il fatto che non avevano ancora fatto
progetti dettagliati riguardo il trasloco, benché entrambi dovessero lasciare liberi i rispettivi appartamenti entro cinque giorni. Lei aveva esitato ad affrontare l'argomento, preferendo attendere che Edward avesse una giornata meno stressante. Il problema era che le sue giornate erano sempre più piene. Kim si fermò al negozio di alimentari a fare la spesa per la cena. Scelse qualcosa che a lui era particolarmente gradito e acquistò persino una bottiglia di vino. Una volta arrivata nell'appartamento, raccolse le riviste e i giornali e mise un po' in ordine. Poi diede da mangiare al cane e preparò la cena in modo che tutto fosse pronto per le sette, l'ora in cui Edward aveva annunciato che sarebbe rincasato. Le sette passarono e Kim spense il fuoco sotto il riso. Alle sette e mezzo coprì l'insalata con una pellicola trasparente e la mise in frigorifero. Finalmente, alle otto, Edward arrivò. «Al diavolo tutto!» imprecò, chiudendo la porta con un calcio. «Ritiro tutto il bene che ho detto del tuo capomastro. È un somaro. Oggi avrei voluto prenderlo a pugni. Mi aveva promesso che ci sarebbero stati gli elettricisti in cantiere, e invece non c'era nessuno!» Kim cercò di calmarlo elencandogli le pietanze che aveva preparato per cena. Lui grugnì e andò in bagno a lavarsi le mani, mentre lei metteva il riso a scaldare nel forno a microonde. «Quel dannato laboratorio potrebbe entrare in funzione subito, se quei cretini lavorassero sodo!» gridò dal bagno. Kim versò due bicchieri di vino, li portò in camera da letto e ne porse uno a Edward quando uscì dal bagno. Lui lo prese e bevve qualche sorso. «Tutto quello che voglio è cominciare un'analisi controllata dell'Ultra», aggiunse Edward. «Sembra che tutti mirino soltanto a farmi impazzire, mettendomi continuamente i bastoni fra le ruote.» «Forse questo non è il momento migliore», cominciò Kim esitante, «ma non c'è mai un momento buono. Non abbiamo ancora deciso niente per il trasloco, e il 1° di settembre è alle porte. È già una settimana che volevo parlartene.» Edward esplose. In un accesso di furia incontrollata, scagliò il suo bicchiere di vino nel caminetto e gridò: «L'ultima cosa che mi occorre è che tu mi faccia pressioni!» Incombeva su Kim, gli occhi dilatati e le vene che gli pulsavano alle tempie. Serrava e apriva le mani e i muscoli delle mascelle tremavano.
«Mi dispiace, scusami», sussurrò Kim. Per un attimo rimase immobile, terrorizzata. Non aveva mai conosciuto quel lato della personalità di Edward. Conosceva la sua forza e con angoscia pensò a quello che avrebbe potuto farle se avesse perso il controllo. Appena poté, corse in cucina e si diede da fare per calmarsi. Poi, quando si fu ripresa, decise di andarsene. Voltò le spalle ai fornelli e si diresse verso il soggiorno, ma si fermò bruscamente: Edward era sulla soglia. Con grande sollievo vide che la sua espressione era mutata. Era sparita la rabbia e sembrava solo imbarazzato e rammaricato. «Mi dispiace», mormorò. La sua leggera balbuzie gli rendeva difficile articolare le parole. «Non capisco che cosa mi sia capitato. Dev'essere lo stress, ma so che questa non è una buona scusa. Sono confuso. Perdonami.» Kim fu intenerita dalla sua sincerità. Corse da lui e si abbracciarono, poi entrarono in soggiorno e sedettero sul divano. «Questo periodo è terribilmente faticoso per me», si giustificò Edward. «Harvard mi assilla e io desidero disperatamente tornare a dedicarmi all'Ultra. Eleanor fa del suo meglio e continua a ottenere buoni risultati. Mi angoscia non poterla aiutare, ma non voglio assolutamente scaricare i miei guai su di te.» «Ti dirò che anch'io sto passando un brutto momento», ammise Kim. «I traslochi mi rendono sempre nervosa. E, oltretutto, temo che questa faccenda di Elizabeth stia diventando un'ossessione per me.» «Io certo non ho saputo darti alcun aiuto, e anche di questo mi dispiace. Facciamo un patto, Kim, cerchiamo di comprenderci meglio e di sostenerci a vicenda.» «Questa è davvero una buona idea!» «Anch'io dovrei pensare al mio trasloco, lo so. È una responsabilità che non tocca soltanto a te. Quando hai pensato di trasferirti?» «Dobbiamo lasciare i nostri appartamenti per il 1° settembre», gli ricordò Kim. «Allora, decidiamo per il 31?» Mercoledì 31 agosto 1994 Il giorno del trasloco fu frenetico e caotico. Il furgone arrivò all'appartamento di Kim alle sette e mezzo per caricare i mobili, poi si diresse a Cambridge a prendere quanto apparteneva a Edward. Quando l'ultima se-
dia fu imbarcata, il furgone era stracolmo. Kim ed Edward si recarono alla tenuta con le loro vetture e i rispettivi animali e, all'arrivo, Sheba e Buffer si videro per la prima volta. Poiché erano pressappoco della stessa grandezza, l'incontro terminò in pareggio e, da quel momento, s'ignorarono a vicenda. Quando cominciarono a fare trasportare i mobili nella villa, Edward propose, con grande sorpresa di Kim, di sistemare camere da letto separate. «Perché?» gli chiese. «Perché in questo periodo io mi sento un po' sotto pressione», spiegò Edward, «dormo male e poco. Se abbiamo camere separate posso accendere la luce e leggere qualcosa, quando ho bisogno di calmarmi.» «Questo non sarebbe un disturbo per me», insistette Kim. «Tu hai dormito nel tuo appartamento in queste ultime notti. Non è forse vero che hai dormito meglio?» «No», affermò lei. «Bene, allora vuole dire che siamo un po' diversi, perché io ho dormito meglio. Sapendo che non ti disturbo, mi sento più rilassato. Comunque, sarà una sistemazione temporanea. Appena il laboratorio aprirà e le cose cominceranno a marciare, anche la tensione si allenterà. E allora dormiremo insieme. Tu mi capisci, vero?» «Penso di sì», mormorò Kim cercando di nascondere il disappunto. Scaricare il furgone non richiese molto tempo e ben presto la villa fu invasa da cassette, scatoloni e mobili sistemati un po' a caso. Quando il furgone si svuotò del tutto, i facchini ripresero i loro carrelli e gli scatoloni vuoti e si prepararono ad andarsene. Kim firmò le ricevute e seguì con lo sguardo l'autocarro che si allontanava. Era appena sparito dietro l'ultima curva, che una Mercedes emerse dal folto degli alberi e si diresse verso di lei. La riconobbe subito, era quella di Stanton. Chiamò Edward e gli annunciò il visitatore, prima di recarsi ad aprire la porta. «Dov'è Edward?» chiese suo cugino senza neppure disturbarsi a salutarla. «Di sopra», rispose Kim indicando la scala alle sue spalle. Stanton avanzò senza tanti complimenti e gridò a Edward di scendere. Rimase nell'atrio con le mani sui fianchi battendo nervosamente a terra il piede destro, visibilmente molto agitato. Kim sentì accelerare i battiti del cuore. Sapendo quanto fosse teso Edward, temeva che Stanton gli facesse perdere il controllo: suo cugino si
comportava sempre come se ignorasse i sentimenti degli altri. «Scendi subito, Edward», gridò ancora Stanton. «Dobbiamo parlare.» Edward comparve sulle scale e cominciò a scendere lentamente. «Che cosa succede?» chiese. «Oh, niente di importante!» rispose Stanton sarcastico. «Succede semplicemente che stai bruciando il nostro capitale a un ritmo incontrollabile. Questo tuo laboratorio costa una quantità spaventosa di quattrini. Che cosa stai facendo? Cessi piastrellati di diamanti?» «A che cosa esattamente ti riferisci?» domandò Edward cautamente. «A tutto l'insieme! Comincio a pensare che fossi abituato a lavorare con il Pentagono, poiché ogni cosa che ordini è la più costosa che si trovi sul mercato.» «Per fare esperimenti di prim'ordine occorrono apparecchi di prim'ordine», affermò Edward. «Te l'ho spiegato quando si è parlato di costituire l'Omni. Non penserai, spero, che io possa comprare strumenti del genere al mercato dell'usato!» Kim seguiva con attenzione lo scontro fra i due uomini e, mentre la discussione ferveva, si sentiva sempre meno in ansia. Edward era in collera, ma non stava perdendo il controllo. «Bene, lasciamo per il momento da parte i costi del laboratorio», esclamò Stanton. «Voglio però che tu mi dica quanto tempo ci vorrà per l'approvazione dell'Ultra da parte dell'FDA. Devo saperlo, per poter calcolare quando cominceremo a vedere arrivare il denaro, invece che vederlo sparire.» Edward alzò le braccia, esasperato. «Non abbiamo neppure aperto le porte del laboratorio e tu parli già dei risultati. Abbiamo già discusso il problema dell'FDA al ristorante, prima di decidere la costituzione della società. Lo hai dimenticato?» «Senti, saccentone», replicò Stanton, «il peso di tenere a galla l'operazione è tutto sulle mie spalle. E purtroppo non sarà un compito facile, al ritmo a cui stai divorando il nostro capitale.» Stanton si rivolse a Kim, che se ne stava appoggiata alla parete del soggiorno. «Kimberly, di' un po' a questo genio scriteriato che la responsabilità fiscale è un requisito primario per le ditte nascenti.» «Lasciala fuori da queste beghe!» gridò Edward. Stanton capì di essersi spinto troppo oltre e assunse subito un tono più conciliante. «Parliamo con calma», concluse, alzando le mani in gesto di preghiera.
«Devi riconoscere la ragionevolezza della mia richiesta. Io devo avere un quadro, anche vago, di ciò che ti proponi di fare in questo laboratorio placcato d'oro, per poter calcolare e provvedere alle nostre esigenze finanziarie.» Edward tirò un gran respiro e si rilassò visibilmente. «Chiedere che cosa stiamo facendo in laboratorio è una cosa ben diversa dal precipitarsi qui a esigere una data per l'approvazione dell'FDA!» protestò. «Mi dispiace di non essere più diplomatico. Ma insomma, dammi un'idea del tuo piano d'attacco.» «Appena possibile ci getteremo a capofitto nel lavoro per apprendere tutto ciò che c'è da sapere sull'Ultra. Prima dobbiamo completare le nostre conoscenze sulla sua composizione chimica di base, ossia la sua solubilità in vari solventi e la sua reattività con altre sostanze. Poi dovremo iniziare studi biologici controllati per capirne il metabolismo e la tossicità. Gli studi tossicologici dovranno essere sia in vitro sia in vivo, su singole cellule, gruppi di cellule e organismi intatti. Dovremo iniziare con i virus, poi passare ai batteri e finalmente agli animali superiori. Dovremo programmare esperimenti ed eseguire i test nelle più diverse condizioni di temperatura e pH. Dovremo fare tutto questo prima di richiedere all'FDA l'autorizzazione per lo studio di un farmaco nuovo. E questo è ciò che è necessario fare, prima ancora di dare inizio alla fase clinica.» «Buon Dio!» gemette Stanton. «Tu mi dai le vertigini. Tutto questo significa decenni di lavoro.» «Non saranno decenni, ma saranno certo anni. Te l'ho già detto. Però ti ho anche detto che sarà un periodo notevolmente inferiore ai dodici anni richiesti normalmente per la messa a punto di un farmaco.» «Potrebbe trattarsi di sei anni?» chiese Stanton. «Non posso dirlo finché non diamo inizio al lavoro e non cominciamo a ottenere qualche dato. Tutto quello che posso dirti è che saranno più di tre anni e meno di dodici.» «C'è qualche probabilità che siano soltanto tre anni?» chiese Stanton speranzoso. «Be', sarebbe un miracolo», ammise Edward, «ma è possibile. C'è però un altro fattore che devi considerare. Gli alti costi sono dovuti alla costruzione del laboratorio e, ora che il laboratorio è quasi terminato, le spese diminuiranno considerevolmente.» «Vorrei poterci contare!» sospirò Stanton. «Ma non sarà così. Ben presto cominceremo a pagare gli enormi stipendi che hai promesso ai tuoi colla-
boratori.» «Già, ho dovuto promettere alti stipendi per avere gli uomini migliori. E poi ho preferito assegnare alti stipendi piuttosto che un maggior numero di azioni, non volevo distribuirne troppe.» «Le azioni non varranno un soldo se faremo bancarotta.» «Ma noi giochiamo d'anticipo», lo incoraggiò Edward. «Molte ditte di biotecnica e farmaceutica si costituiscono senza avere un farmaco nuovo all'orizzonte, e noi lo abbiamo già.» «Me ne rendo conto, ma ti assicuro che ho la pelle d'oca. Non ho mai investito tutto il mio denaro in una sola impresa, per poi vederlo scomparire così rapidamente.» «Tu l'hai investito saggiamente», ribatté Edward. «Noi due stiamo per diventare miliardari. Il nostro Ultra vale miliardi, ne sono sicuro. Vieni, adesso ti mostro il laboratorio, così ti sentirai più tranquillo.» Kim trasse un sospiro di sollievo quando li vide avviarsi insieme verso il laboratorio. Stanton teneva persino il braccio sulle spalle di Edward. Quando si furono allontanati, lei si guardò intorno nella stanza. Con sorpresa scoprì che i pensieri che attraversavano la sua mente non riguardavano il caos e la confusione del trasloco; l'improvviso silenzio le aveva fatto avvertire netta e intensa la sensazione della presenza di Elizabeth. Più che mai aveva l'impressione che la sua antenata cercasse di comunicare con lei ma, a dispetto di ogni tentativo, Kim non udiva alcuna parola. Tuttavia, in quel momento, era acutamente conscia che qualcosa di Elizabeth sopravviveva nel più profondo del suo essere. E quella che adesso era la sua casa, restava pur sempre, in un certo senso, la casa di Elizabeth. Si sentiva a disagio. Le pareva di percepire nel messaggio di Elizabeth qualcosa di inquietante e urgente. Spinta da uno strano impulso, Kim strappò in fretta la carta che avvolgeva il ritratto di Elizabeth che aveva recentemente fatto restaurare e lo appoggiò sopra il caminetto. Dopo l'imbiancatura delle pareti la traccia lasciata dal ritratto era scomparsa, così Kim dovette fare alcune prove per trovare l'esatta posizione in cui era stato appeso. Sentiva di dover ricollocare al più presto il quadro esattamente nel posto che aveva occupato trecento anni prima. Fece qualche passo indietro e osservò l'effetto. Rimase senza fiato, il dipinto pareva vivo. In piena luce le era sembrato piuttosto rozzo, ma nella penombra pomeridiana della villa faceva tutt'altra impressione. Gli occhi verdi di Elizabeth brillavano suggestivi e penetranti nell'ombra.
Per qualche minuto, Kim rimase come pietrificata al centro della stanza fissando il quadro con la sconcertante sensazione di guardarsi nello specchio. Guardando gli occhi di Elizabeth, avvertiva sempre più forte l'impressione che la sua antenata cercasse di comunicare con lei attraverso i secoli. Tese l'orecchio per udire le parole, ma intorno c'era solo silenzio. Il mistico appello che emanava dal quadro spinse Kim verso il castello. Malgrado i molti scatoloni da aprire e le molte ore infruttuose trascorse a frugare fra le carte, un impulso irresistibile le imponeva di tornare. Il ritratto di Elizabeth aveva rinnovato in lei il desiderio di apprendere tutto quello che poteva sulla sua misteriosa antenata. Come spinta da una forza soprannaturale, salì lo scalone e si diresse alle soffitte. Non esitò né perse tempo ad aprire le finestre, ma corse subito verso quello che pareva un vecchio baule da marinaio. Sollevò il coperchio e trovò i soliti mucchi di carte, buste e qualche registro. Il primo registro era un inventario delle provviste di bordo, datato 1862. Subito sotto c'era un libro più grande, rilegato in modo primitivo, a cui era legata con una cordicella una lettera. Kim sentì un tuffo al cuore: la lettera era indirizzata a Ronald Stewart. Infilò la mano nel baule e prese il libro. Slegò la cordicella, aprì la busta e tirò fuori la lettera. Ricordando con quanta cura le bibliotecarie di Harvard avevano maneggiato la lettera del reverendo Mather, cercò di fare lo stesso. Lo scritto era piuttosto breve. Kim guardò la data e le sue speranze si affievolirono, era del diciottesimo secolo. Boston, 16 aprile 1726 Carissimo padre, in risposta alla vostra richiesta, ritengo essere nell'interesse della famiglia e dell'azienda che si eviti di trasportare la tomba di mia madre nel cimitero di famiglia, poiché il richiesto permesso provocherebbe molto turbamento a Salem Town e risveglierebbe tutto l'interesse per la faccenda che voi avete sopito con grande diligenza e sforzo. Vostro affezionato figlio Jonathan Kim ripiegò con cura il foglietto e lo ripose nella busta. Trentaquattro anni dopo i processi, Ronald e suo figlio erano ancora preoccupati di eventuali ripercussioni sulla famiglia, benché il governo coloniale avesse ordi-
nato pubbliche scuse e un giorno di lutto. Riprese allora in mano il libro, la cui rilegatura era in pessimo stato. Nel sollevare la copertina di tela, se la ritrovò in mano. Poi, con il cuore che batteva forte, lesse la scritta sul risvolto: ELIZABETH FLANAGAN, DICEMBRE 1678. Sfogliò con cura quelle vecchie pagine e si rese conto con somma gioia che era il diario di Elizabeth. Il fatto che le singole notazioni fossero brevi e non consecutive non smorzò la sua eccitazione. Stringendo il libro con entrambe le mani per paura che si sfasciasse, corse sotto una finestra per avere più luce. Lo aprì e notò che in fondo c'erano molte pagine bianche. Guardò l'ultima annotazione, che portava la data di venerdì 26 febbraio 1692. Il diario terminava prima di quanto lei avesse sperato. Non c'è fine a questo gelo. Oggi è nevicato ancora. Il fiume Wooleston è coperto di ghiaccio e può sostenere il peso di una persona. Io sono molto turbata. Una malattia ha indebolito il mio spirito con crudeli accessi e convulsioni, come mi hanno raccontato Sarah e Jonathan e come io stessa ho osservato nella povera Rebecca, in Mary e Joanna, e anche in Ann Putnam durante una delle sue visite. In che cosa ho offeso Dio onnipotente, che ha voluto mandare tali afflizioni alla sua fedele serva? Io non ricordo di avere avuto tali attacchi prima d'ora, ma vedo colori che ora mi spaventano e sento strani suoni che non sono di questo mondo e mi sento come svenire. Poi, all'improvviso, torno cosciente e scopro di essere sdraiata a terra e che mi sono trascinata intorno borbottando parole incomprensibili, o almeno così hanno detto i miei figli Sarah e Jonathan che, grazie a Dio, non sono stati colpiti dal male. Come vorrei che mio marito Ronald fosse qui e non in alto mare! Questi mali ebbero inizio con l'acquisto del terreno di Northfields e l'accanito litigio con la famiglia di Thomas Putnam. Il dottor Griggs è sgomento davanti a tutto questo e mi ha purgato, senza alcun miglioramento. Un inverno così rigido e tanta fatica per tutti. Ho paura per Job, che è così innocente, e temo che il Signore voglia prendersi la mia vita mentre non ho ancora portato a termine la mia opera. Io ho cercato di compiere l'opera di Dio nella sua terra e di aiutare la congregazione facendo il pane di segale per aumentare le nostre scorte, colpite dall'inverno rigido e dal raccolto scarso, e di aiutare i profughi, messi in fuga dalle scorrerie degli indiani incoraggiando i confratelli ad accoglierli nelle loro case, come anch'io ho
fatto con Rebecca Sheaff e Mary Roots. Ho insegnato alle ragazze più grandi a fabbricare delle bambole per alleviare le pene dei piccoli orfanelli che il Signore ci ha affidato. Prego per un rapido ritorno di Ronald, che ci aiuti in questi terribili travagli prima che le forze mi manchino. Kim chiuse gli occhi, sconvolta, e trasse un profondo respiro. Ora era veramente come se Elizabeth le parlasse. Scopriva la forza, la tempra della personalità della donna nel suo tormento: affettuosa, generosa, decisa e coraggiosa, tutte qualità che Kim avrebbe desiderato avere. Aprì gli occhi e rilesse qualche periodo del diario. Si domandava chi fosse Job, se una persona o piuttosto un riferimento biblico. E riflettendo sulla frase riguardante la fabbricazione delle bambole, non poté fare a meno di pensare che la prova addotta contro di lei fosse una bambola e non un libro. Temendo che le fosse sfuggito qualcosa, rilesse l'intera pagina e rimase colpita dalla tragica ironia del fatto che proprio la generosità di Elizabeth l'avesse spinta a diffondere nel villaggio la muffa e il suo veleno. Forse la misteriosa prova dimostrava in qualche modo questa sua responsabilità. Per diversi minuti Kim rimase a fissare nel vuoto davanti alla finestra, valutando questa nuova ipotesi, ma per quanto rimuginasse, non riusciva a immaginare come Elizabeth potesse essere stata coinvolta. A quel tempo non esisteva nessun modo di collegare la muffa con gli attacchi. Tornò al diario e, sfogliando con cura le pagine, diede un'occhiata alle altre annotazioni. Per la maggior parte erano molto brevi: ogni giorno poche frasi che comprendevano concise descrizioni del tempo. Chiuse il libro, poi lo riaprì alla prima pagina. Recava la data del 5 dicembre 1678 ed era scritta in caratteri più grandi e con grafia più esitante di quella dell'ultima annotazione, quattordici anni dopo. Diceva semplicemente che era una giornata fredda e nevosa e indicava l'età di Elizabeth: tredici anni. Chiuse nuovamente il diario per assaporare la singolare esperienza, poi, stringendolo al petto come se fosse un tesoro, tornò alla villa. Portò un tavolino e una sedia al centro del salotto, sedette di fronte al ritratto e cominciò a sfogliare le pagine a caso. Alla data del 7 gennaio 1682 trovò un'annotazione più lunga. Elizabeth scriveva che la giornata era stata piuttosto calda, rispetto alla stagione, e nuvolosa. Poi ricordava come un dato di fatto che quel giorno era andata sposa a Ronald Stewart. Questa breve frase era seguita da una
ben più lunga descrizione dell'elegante carrozza che l'aveva portata a Salem Town. Infine, manifestava la sua gioia e la sua meraviglia nell'entrare in una casa così bella. Kim sorrise. Mentre leggeva le descrizioni piuttosto lunghe delle stanze e dell'arredamento, pensò che Elizabeth riferiva le emozioni provate entrando in quella stessa casa in cui Kim si era appunto trasferita quel giorno. Era una suggestiva coincidenza avere trovato il diario proprio in quell'occasione. Rendeva all'improvviso più breve l'intervallo di trecento anni che la separava dalla sua antenata. Fece un rapido calcolo e si rese conto che Elizabeth aveva solo diciassette anni quando si era sposata. Continuando a leggere il diario, scoprì che era rimasta incinta soltanto pochi mesi dopo. Sospirò. Che cosa avrebbe fatto lei con un bambino, a quell'età? L'idea la spaventava. Ma la sua antenata, naturalmente, aveva affrontato la cosa con ammirevole fermezza. Del resto, all'epoca non esisteva alcun mezzo per il controllo delle nascite ed Elizabeth aveva avuto ben poco controllo sul proprio destino. Tornò indietro, alle annotazioni precedenti il matrimonio. Si fermò a una pagina piuttosto lunga datata 10 ottobre 1681. Qui Elizabeth ricordava che proprio in quel caldo giorno pieno di sole suo padre era tornato da Salem Town con un'offerta di matrimonio. E continuava: Dapprima fui turbata nell'anima per quella strana faccenda, giacché non so nulla di questo gentiluomo, tuttavia mio padre ne parla bene. Mio padre dice che quel signore mi ha vista in settembre, quando è venuto a visitare le nostre terre per acquistare legno per alberi e pennoni per le sue navi. Mio padre dice che spetta a me decidere, ma che dovrei sapere che questo gentiluomo ha offerto molto generosamente di trasferirci tutti quanti a Salem Town, dove mio padre lavorerà insieme a lui e la mia cara sorella, Rebecca, potrà andare a scuola. Poche pagine dopo Elizabeth scriveva: Ho detto a mio padre che accetterò la proposta di matrimonio. Come potrei rifiutare? È un segno della Provvidenza, poiché abbiamo vissuto questi lunghi anni su una terra povera ad Andover, sotto la costante minaccia di attacchi dei selvaggi pellerossa. I nostri vicini da entrambe le parti hanno sofferto gravi sventure e molti di loro sono stati uccisi o pre-
si prigionieri nel modo più crudele. Ho cercato di spiegarlo a William Paterson, ma lui non capisce e temo che ora sia maldisposto verso di me. Kim fece una pausa e alzò gli occhi al ritratto di Elizabeth. Era turbata. Si rendeva conto che stava leggendo i pensieri più intimi di una fanciulla di diciassette anni che generosamente rinunciava a un amore giovanile per dare una possibilità di benessere alla sua famiglia. Sospirò e si chiese quando mai avesse fatto lei stessa qualcosa di così altruistico. Tornò al diario e cercò qualche riferimento al primo incontro di Elizabeth con Ronald. Lo trovò sotto la data del 22 ottobre 1681, un giorno pieno di sole e di foglie che cadevano al vento. Oggi nella nostra stanza comune ho incontrato il signor Ronald Stewart, che ha proposto di diventare mio marito. È più vecchio di quanto pensavo e ha già una figlia piccola, nata da una moglie che è morta di vaiolo. Sembra un uomo buono, forte di animo e di corpo, benché abbia mostrato un cenno di disposizione collerica quando ha sentito che i Polk, i nostri vicini a nord, sono stati attaccati due notti fa. Insiste che noi ci affrettiamo ad attuare i nostri progetti. Apprendendo così le cause della morte della prima moglie di Ronald, Kim provò un senso di colpa per i sospetti che aveva nutrito sul suo conto. Continuò a sfogliare il diario fino al 1690 e trovò altri riferimenti alle epidemie e alle incursioni degli indiani. Elizabeth scriveva che il vaiolo dilagava a Boston e che le disastrose incursioni dei selvaggi pellerossa devastavano il paese solo ottanta chilometri a nord di Salem. Scosse la testa, smarrita. Le tornavano alla mente le parole di Edward che le faceva osservare come fosse tenue il filo della vita nel diciassettesimo secolo. L'esistenza doveva essere stata difficile e stressante. Trasalì al rumore di una porta che si apriva. Alzò gli occhi e vide Edward e Stanton che tornavano dalla loro visita al laboratorio. Edward aveva in mano delle cianografie. «Questo posto è un caos, esattamente come l'avevo lasciato», disse con disgusto. Cercava un ripiano dove deporre le sue carte. «Che diavolo hai fatto in tutto questo tempo, Kim?» «Ho avuto uno straordinario colpo di fortuna», gli rispose eccitata porgendogli il libro. «Ho trovato il diario di Elizabeth!» «Qui alla villa?» chiese Edward stupito.
«No, al castello.» «Credo che faresti meglio a mettere un po' di ordine qui dentro, prima di tornare a caccia di vecchie carte», protestò lui. «Avrai tutto il mese per divertirti lassù in soffitta.» «Ma qui c'è qualcosa che anche tu troverai interessante», ribatté lei ignorando i suoi commenti. Aprì con molta cautela il libro all'ultima annotazione e lo invitò a leggere. Edward depose le carte sul tavolino che Kim aveva portato in mezzo alla stanza. Mentre leggeva, la sua espressione passò gradualmente dall'irritazione a un vivo interesse. «Hai ragione», ammise, e porse il diario a Stanton. Kim avvertì i due uomini di maneggiarlo con cura. «Questa sarà una magnifica introduzione all'articolo che conto di scrivere per Science o Nature sulle cause scientifiche del male che ha provocato i processi di stregoneria di Salem. Perfetto. Elizabeth parla dell'uso della farina di segale e la descrizione degli attacchi di allucinazioni è esattamente quella che mi aspettavo. Questa pagina del diario, accompagnata dai risultati dello spettrometro di massa sui campioni del suo cervello, risolve il caso. La soluzione più elegante che si possa pensare.» «Tu non scriverai nessun articolo sulla nuova muffa finché la situazione dei brevetti non sarà del tutto sicura», ribatté Stanton. «Non possiamo correre rischi soltanto perché tu ti possa divertire con i tuoi colleghi ricercatori.» «Naturalmente», accettò Edward. «Che cosa credi che sia? Un perfetto incompetente nel campo dell'economia?» Kim prese il diario dalle mani di Stanton e indicò a Edward il punto in cui Elizabeth diceva che insegnava alle ragazze più grandi a fare delle bambole. Gli chiese se gli sembrasse significativo. «Vuoi dire in rapporto alla misteriosa prova?» Kim annuì. «Difficile dirlo, ma certo fa pensare. Sai, sono proprio affamato. E tu, Stanton? Ti andrebbe di mangiare qualcosa?» «Io sono sempre pronto a mangiare», rispose Stanton. «E allora, Kim? Che cosa ne dici di mettere qualcosa sotto i denti? Stanton e io abbiamo ancora molto da fare.» «Veramente io non sono ancora pronta a dare pranzi», replicò lei. Non aveva neppure dato un'occhiata in cucina. «E allora ordina qualcosa al ristorante», ribatté Edward, cominciando a
spiegare le sue carte. «Noi non siamo esigenti.» «Forse potrei prepararvi un piatto di spaghetti», propose Kim, mentre passava mentalmente in rassegna ciò che le occorreva. L'unica stanza un po' in ordine era la sala da pranzo, che prima della ristrutturazione era stata la vecchia cucina. Il tavolo, le sedie e la credenza erano tutte al loro posto. «Gli spaghetti andranno benissimo», affermò Edward, mentre fermava gli angoli delle cianografie con alcuni libri, aiutato da Stanton, che le teneva spiegate. Con un sospiro di sollievo, Kim s'infilò fra le fresche lenzuola frusciami per la sua prima notte alla villa. Dal momento in cui aveva cominciato a cucinare gli spaghetti fino a quando si era fatta la doccia, circa mezz'ora prima, non aveva mai cessato di lavorare. C'erano ancora molte cose da fare, ma la casa ormai era abbastanza in ordine. Anche Edward aveva lavorato senza sosta, dopo che Stanton finalmente se n'era andato. Kim prese il diario di Elizabeth che aveva appoggiato sul tavolino da notte. Contava di leggere qualche altra pagina, ma appena si fu sdraiata cominciò a udire i rumori della notte: la sonora sinfonia degli insetti notturni e delle rane che popolavano i boschi e gli stagni circostanti, i sommessi scricchiolii della vecchia casa e anche il sottile fruscio della brezza che veniva dal fiume Danvers ed entrava a folate dalle finestre. Mentre a poco a poco si calmava, Kim si rendeva però conto che il senso di ansia provato quel pomeriggio, quando era arrivata alla villa, non era svanito del tutto. Si era soltanto sopito mentre era impegnata a riordinare la casa. Sapeva che potevano essere diverse le cause di quel disagio, ma una era la più evidente: l'inattesa richiesta di Edward di dormire in camere separate. Benché capisse il suo punto di vista e lo accettasse meglio ora di quando lui ne aveva parlato la prima volta, tuttavia era ancora turbata e delusa. Mise da parte il diario di Elizabeth e scese dal letto. Sheba, svegliata di soprassalto da un sonno profondo, le lanciò uno sguardo esasperato. Kim infilò le pantofole e si avviò verso la stanza da letto di Edward, la cui porta socchiusa lasciava passare la luce ancora accesa. Spinse il battente e venne accolta da un rabbioso ringhio di Buffer. Strinse i denti, stava imparando a detestare quel brutto botolo. «Che cosa c'è?» domandò Edward. Era chino sul letto con le cianografie sparse tutt'intorno sulla coperta. «Sentivo la tua mancanza. Sei proprio sicuro di volere dormire in stanze
separate? Mi sento sola, e non è poi molto romantico, a dire poco.» Edward le fece cenno di avvicinarsi, quindi sgombrò il letto dalle carte e batté con la mano sul bordo, per invitarla a sedersi. «Mi spiace, è tutta colpa mia, me ne assumo tutta la responsabilità. Ma penso sempre che sia meglio così, almeno per ora. Sono come una corda di violino sul punto di spezzarsi. Ho persino perduto la calma con Stanton, come hai potuto vedere.» Kim annuì, fissandosi le mani che teneva strette in grembo. Edward si chinò su di lei e le sollevò il mento. «Stai bene?» le chiese. Lei annuì ancora, lottando con le proprie emozioni. Pensò che doveva essere la stanchezza. «È stata una giornata lunga», continuò Edward. «Temo di sentirmi anche un po' a disagio.» «E perché?» «Non sono del tutto sicura», ammise Kim. «Dev'essere forse in rapporto a ciò che è accaduto a Elizabeth e al fatto che questa è la sua casa. Non posso dimenticare che alcuni dei miei geni sono anche quelli di Elizabeth. Insomma, mi pare di sentire la sua presenza.» «Tu sei esausta», le ricordò Edward, «e, quando sei stanca, la tua immaginazione può fare cose strane. Inoltre, per te è un posto nuovo ed è normale che tu ti senta un po' sottosopra. Dopotutto, siamo creature abitudinarie.» «Certo, in parte sarà questo, ma non è tutto.» «Ora non cominciare con le fantasie», protestò Edward. «Voglio dire, tu non credi ai fantasmi, vero?» «Non ci ho mai creduto in passato, ma adesso non sono più tanto sicura.» «Vuoi scherzare!» Kim sorrise nel vederlo così preoccupato. «Certo che sto scherzando. Non credo nei fantasmi, ma sto cambiando idea a proposito del soprannaturale. Il modo in cui ho trovato il diario di Elizabeth mi dà i brividi, quando ci penso. Avevo appena appeso il suo ritratto quando mi sono sentita irresistibilmente spinta ad andare al castello. E, una volta giunta là, non ho dovuto cercare molto: era nel primo baule che ho aperto.» «La gente avverte una sensazione di soprannaturale anche solo venendo qui a Salem», commentò Edward con il suo solito sorriso. «Dev'essere a causa di tutte quelle scempiaggini sulle streghe. Se vuoi credere che qual-
che mistica forza ti abbia guidata al castello, fa' pure, ma non chiedermi di sottoscriverlo.» «E come potresti spiegare ciò che è successo? In questi ultimi giorni avevo passato più di trenta ore senza scoprire una sola carta del diciassettesimo secolo, e poi mi trovo in mano nientemeno che il diario di Elizabeth. Che cosa mi ha spinto a guardare proprio in quel baule?» «Va bene, va bene», concesse Edward conciliante. «Non voglio certo persuaderti del contrario. Calmati, ti capisco.» «Mi dispiace, non volevo venire qui a discutere. Sono venuta solo per dirti che mi mancavi.» Dopo un lungo bacio della buonanotte, Kim lasciò Edward alle sue carte e uscì dalla stanza. Si trovò immersa nella luce lunare che filtrava dalla finestra del bagno e, dal punto in cui si trovava, poteva vedere la nera massa incombente del castello stagliarsi contro il cielo notturno. Rabbrividì: quella visione le ricordava lo scenario dei film di Dracula che la terrorizzavano da ragazzina. Scese la scalinata buia e stretta e si trovò a navigare in un mare di scatoloni vuoti che riempivano l'atrio. Entrò nel soggiorno e alzò gli occhi verso il ritratto di Elizabeth. Anche al buio poteva vedere quegli occhi verdi che splendevano come di luce interiore. «Che cosa cerchi di dirmi?» mormorò al dipinto. E mentre lo guardava sentì forte più che mai la sensazione che Elizabeth volesse trasmetterle un messaggio. E insieme intuì che, qualunque fosse quel messaggio, non si trovava nel diario. Il diario era solo uno stimolo per spronarla a cercare ancora. In quel momento, con la coda dell'occhio colse un movimento improvviso e lanciò un piccolo grido. Si sentì balzare il cuore nel petto e di riflesso alzò le braccia per proteggersi, ma subito le abbassò. Era soltanto Sheba che saltava sul tavolino da gioco. Kim si appoggiò un attimo al tavolo, tenendo l'altra mano sul petto. Era sconcertata per il terrore che l'aveva assalita, e ciò le fece anche capire quanto fosse forte la tensione che la dominava. 11 Inizio di settembre 1994 Il laboratorio era terminato e tutto era stato approntato. Nella prima settimana di settembre, Kim fu lieta che arrivasse Eleanor Youngman a occu-
parsi di ogni cosa. Eleanor fu anche la prima persona che cominciò a lavorare ufficialmente nel laboratorio. Già da diverse settimane aveva preavvisato Harvard che intendeva lasciare il suo incarico, ma le ci erano volute quasi due settimane per portare a termine i progetti che le erano stati affidati prima di trasferirsi a Salem. I rapporti fra Kim ed Eleanor migliorarono, ma non troppo. Erano cortesi ma freddi. Kim si rendeva conto che da parte di Eleanor c'era dell'animosità dovuta alla gelosia. In occasione del loro primo incontro, aveva subito capito che l'atteggiamento reverente di Eleanor nei confronti di Edward includeva un desiderio inespresso di un rapporto più intimo, ed era stupita che lui non se ne accorgesse. Non poté fare a meno di provare una punta di preoccupazione pensando alle relazioni di suo padre con le sue cosiddette assistenti. Subito dopo Eleanor arrivarono al laboratorio gli animali, a metà della settimana, nel cuore della notte. Edward e la sua assistente sorvegliarono le operazioni di scarico dei camion, che erano privi di contrassegni, e sistemarono gli animali nelle rispettive gabbie. Kim aveva preferito osservare dalla finestra della villa. Non poteva vedere molto di quanto accadeva, ma per lei andava bene così. Gli esperimenti con gli animali la turbavano, anche se ne capiva la necessità. Seguendo i consigli del capomastro e dell'architetto, Edward faceva il possibile per mantenere il segreto su ciò che avveniva nel laboratorio. Non voleva avere guai con le leggi locali o con i gruppi che difendevano i diritti degli animali. In questo era agevolato dal naturale isolamento della tenuta; una fitta foresta circondata da un'alta palizzata la separava infatti dalla comunità circostante. Verso la fine della prima settimana di settembre cominciarono ad arrivare gli altri ricercatori che, con l'aiuto di Edward ed Eleanor, prenotarono le stanze nelle diverse pensioni che offrivano vitto e alloggio nei dintorni di Salem. Negli accordi contrattuali era stabilito che nessun ricercatore fosse accompagnato dai famigliali, considerato il fatto che per parecchi mesi tutti avrebbero dovuto lavorare giorno e notte. L'incentivo era la speranza di diventare milionari, appena le loro azioni fossero state quotate sul mercato. Il primo membro del gruppo che arrivò da fuori città fu Curt Neuman. Era metà mattina, Kim era alla villa e si preparava a uscire per recarsi al castello, quando sentì il rumore di una motocicletta. Dalla finestra vide la moto fermarsi davanti alla casa e un uomo pressappoco della sua età scen-
dere sollevando la visiera del casco. Dietro il sellino era legata una valigia. «Posso aiutarla?» gli chiese dalla finestra. Pensava che fosse un fattorino che doveva recarsi al laboratorio. «Mi scusi», disse il nuovo venuto con un leggero accento tedesco. «Forse lei mi può aiutare a trovare il laboratorio della Omni.» «Ah, lei dev'essere il dottor Neuman», ribatté subito Kim. «Aspetti un attimo, scendo subito.» Edward le aveva parlato dell'accento, quando aveva avvertito Kim che attendeva il dottor Neuman quel giorno, ma lei non si era aspettata che l'illustre ricercatore arrivasse in motocicletta. Chiuse in fretta alcuni cataloghi di campioni di stoffa che erano aperti sul tavolino da gioco e tolse un mucchio di giornali dal divano pensando di invitare Curt Neuman a entrare. Controllò in un attimo il proprio aspetto nello specchio dell'atrio e aprì la porta. Il ricercatore si era tolto il casco e lo teneva sotto il braccio come un guerriero medievale con l'elmo, ma non guardava Kim, bensì in direzione del laboratorio. Edward evidentemente aveva sentito arrivare la motocicletta e gli stava venendo incontro per la strada sterrata con la sua auto. Fermò la macchina, balzò a terra e abbracciò Curt come se fossero due fratelli che non si vedevano da molto tempo. I due uomini parlarono brevemente della BMW rosso metallizzato di Curt, finché Edward non si rese conto che Kim aspettava sulla porta. Allora la presentò al tedesco. Kim strinse la mano al ricercatore, un uomo alto e robusto, cinque centimetri più alto di Edward, con i capelli biondi e gli occhi di un azzurro ceruleo. «Curt è originario di Monaco», spiegò Edward. «Ha studiato a Stanford e all'UCLA. Molti scienziati, me compreso, pensano che sia il più valente biologo del Paese. È specializzato nel campo delle reazioni ai farmaci e alle droghe.» «Tu esageri, Edward», protestò Curt arrossendo. «Ho avuto la fortuna di riuscire a sottrarlo via alla Merck», continuò Edward. «Per trattenerlo, sono arrivati al punto di offrire di allestirgli un laboratorio personale.» Kim osservava con simpatia il povero Curt che si agitava nervosamente sotto il diluvio di elogi di Edward, e le venne in mente la propria reazione alle lodi di Stanton durante la famosa cena in cui aveva incontrato Edward per la prima volta. Curt aveva un'aria stranamente timida, considerata l'imponente struttura, i suoi bei lineamenti classici e la sua ben nota intelligenza. Evitò di incrociare lo sguardo di Kim.
«Basta chiacchiere, ora», aggiunse Edward. «Andiamo Curt, seguimi con quell'aggeggio infernale. Voglio mostrarti il laboratorio.» Kim li osservò avviarsi verso il laboratorio, poi tornò in casa per finire quello che doveva fare prima di recarsi al castello. Più tardi, mentre lei ed Edward stavano consumando un pranzo leggero, arrivò il secondo ricercatore. Edward sentì l'auto, si alzò da tavola e uscì sul prato, tornando pochi minuti dopo seguito da un giovane alto e snello, con un bel volto abbronzato e un'aria più da giocatore professionista di tennis che da ricercatore. Edward li presentò. Il nuovo arrivato, François Leroux, con grande sorpresa di Kim fece il gesto di baciarle la mano. Ma in realtà non fu un bacio vero, lei sentì solo la lieve carezza del suo fiato sulla pelle. Come aveva fatto per Curt, Edward fece un breve elogio di François. Ma quest'ultimo, diversamente da Curt, non fu turbato da quelle lodi e, mentre Edward continuava a parlare, continuò a fissare Kim con i suoi occhi neri e penetranti in un modo che la mise a disagio. «Il fatto è che François è un vero genio», diceva Edward. «È un biofisico, originario di Lione, che si è specializzato all'università di Chicago. Si distingue da tutti i suoi colleghi per essere riuscito ad acquisire un'insuperabile competenza sia nella risonanza magnetica nucleare sia nella cristallografia ai raggi X. In questo modo, combina due tecnologie che sono di solito incompatibili.» A questo punto del panegirico di Edward, Kim scorse un lieve sorriso sul viso di François, che fece anche un leggero cenno con la testa verso di lei, come a significare che lui era tutto ciò che diceva Edward, e anche di più. Lei distolse lo sguardo. Aveva la sensazione che François fosse un po' troppo sofisticato e arrogante per i suoi gusti. «François avrà il merito di farci risparmiare un sacco di tempo negli studi per l'Ultra», aggiunse Edward. «Siamo proprio fortunati ad averlo con noi. È una perdita per la Francia e un vantaggio per noi.» Pochi minuti dopo, Edward usciva con François per accompagnarlo al laboratorio. Era ansioso di mostrargli i nuovi apparecchi e di presentargli Curt. Dalla finestra Kim li osservò salire sulla macchina di Edward e si meravigliava che personalità così diverse finissero per dedicarsi a lavori tanto simili. Gli ultimi due ricercatori arrivarono in treno da Boston sabato 10 settembre. Edward e Kim, piccolo comitato di accoglienza, andarono a prenderli alla stazione. Quando il treno giunse rombando, stavano aspettando
ritti sotto la pensilina. Edward li vide per primo e agitò la mano per attirare la loro attenzione. Mentre si avvicinavano Kim chiese scherzosamente se la bella presenza fosse stata uno dei requisiti per essere assunti all'Omni. «Di che cosa diavolo parli?» chiese Edward distratto. «Tutti i tuoi collaboratori sono così belli!» disse lei. «Non me n'ero neppure accorto.» Quando furono di fronte ai nuovi arrivati, Edward fece le presentazioni. Kim strinse la mano a Gloria Hererra e a David Hirsh. Gloria, come Eleanor, non corrispondeva allo stereotipo della ricercatrice accademica che Kim aveva in mente, ma questa era l'unica somiglianza fra le due donne. Per l'aspetto e il modo di fare erano completamente diverse. In contrasto con la bionda bellezza di Eleanor, Gloria aveva la carnagione olivastra e i capelli scuri come quelli di Kim, e occhi neri e penetranti, quasi come quelli di François. E, diversamente da Eleanor, fredda e riservata, era franca ed espansiva. David Hirsh ricordava un po' François, alto e snello, con il vigore di un atleta. Era scuro di pelle, ma non così abbronzato come il francese. I suoi modi erano cortesi e più piacevoli, poiché non era così arrogante, e aveva un vivo senso dell'umorismo, nonché un sorriso accattivante. Durante il viaggio di ritorno dalla stazione, Edward elogiò Gloria e David come aveva fatto con Curt e François, e i due assicurarono a Kim che stava esagerando. Quindi passarono a parlare degli alti meriti di Edward. Alla fine, tutto quello che Kim riuscì a sapere di sicuro fu che Gloria era farmacologa e David immunologo. Quando arrivarono alla tenuta, Kim si fermò alla villa e gli altri si diressero verso il laboratorio. Mentre si allontanavano li udì ridere gaiamente e si sentì felice per Edward. Sperava che Gloria e David avrebbero contribuito a migliorare l'atmosfera del laboratorio. Il giorno dopo, 11 settembre, Edward e i cinque ricercatori organizzarono un piccolo party a cui Kim fu invitata. Stapparono una bottiglia di champagne e brindarono all'Ultra ma, pochi minuti dopo, erano già al lavoro. Per i primi giorni, Kim si recò spesso al laboratorio per portare sostegno morale e anche per vedere se ci fosse qualche problema che potesse aiutare a risolvere. Verso metà settimana rallentò le sue visite e alla fine rinunciò del tutto, perché ogni volta che si presentava aveva l'impressione di essere un'intrusa.
Quanto a Edward, il venerdì le disse francamente che preferiva che non andasse troppo spesso, perché le sue visite turbavano la loro concentrazione. Kim non se la prese, perché si rendeva conto che tutti erano sotto pressione per ottenere risultati il più presto possibile. Inoltre si sentiva appagata dalle altre attività. Si era facilmente adattata a vivere nella nuova casa e lo trovava molto piacevole. Avvertiva ancora, ogni tanto, la sensazione della presenza di Elizabeth, ma non così intensa come in quella prima notte. Ripreso l'antico interesse per l'arredamento, si era procurata decine di libri sul rivestimento di pareti e pavimenti, sullo stile dei tendaggi e sul mobilio coloniale, e ora disponeva di una quantità di campioni che aveva disseminato in tutti gli angoli della casa. Con grande divertimento e piacere aveva passato molte ore a frugare nei negozi di antiquariato della zona, a caccia di arredi del periodo coloniale. Non aveva però mancato di dedicare parte del suo tempo al castello, nelle soffitte o nella cantina. La scoperta del diario di Elizabeth aveva ridestato il suo entusiasmo, che si era quasi spento dopo le precedenti ricerche infruttuose. All'inizio di settembre, la prima volta che era tornata al castello dopo aver trovato il diario di Elizabeth, le era capitata fra le mani un'altra lettera interessante, rinvenuta nello stesso baule. Era indirizzata a Ronald ed era stata scritta da Jonathan Corwin, il magistrato che in origine aveva occupato la Casa delle Streghe. Salem Town, 20 luglio 1692 Caro Ronald, ho considerato prudente attirare la tua attenzione sul fatto che quando hai rimosso il corpo di Elizabeth dalla sua sepoltura su Gallows Hill sei stato visto da Roger Simmons, il quale nello stesso modo aveva visto il figlio di Goodwife Nurse spostare il corpo di sua madre, con lo stesso intento che avevi tu. Io ti prego, amico mio, di non far sapere in giro questo fatto in questi tempi singolarmente turbolenti, per evitare di attirare altre molestie su di te e la tua famiglia, poiché spostare i defunti è ritenuto da molti un atto di stregoneria. E neppure per la stessa ragione, dato l'umore della gente, io attirerei l'attenzione su un sepolcro, perché potresti essere ingiustamente accusato. Io ho parlato con il detto Roger Simmons e mi ha giurato che non parlerà a nessuno di ciò che hai fatto, tranne a un magistrato se fosse interrogato. Dio sia con te.
Tuo servo e amico Jonathan Corwin Dopo avere trovato la lettera di Corwin, trascorsero ben due settimane senza che Kim trovasse nulla che si riferisse a Ronald ed Elizabeth, ma questo non le tolse il desiderio di proseguire le ricerche al castello. Rendendosi conto, sia pure in ritardo, che quasi tutti i documenti abbandonati nelle soffitte e nella cantina avevano un'importanza storica, decise di mettere ordine nelle carte invece di frugare semplicemente in cerca di materiale del diciassettesimo secolo. Fissò dunque nella soffitta e nella cantina delle aree precise dove raccogliere i documenti, suddivisi per periodi di mezzo secolo. Quindi ordinava questo materiale raggruppandolo nelle categorie «affari», «governo» e «scritti familiari». Era un compito immane, ma le dava un senso di appagamento, anche se non le forniva altri documenti relativi alla sua antenata. Così passò piacevolmente la prima metà di settembre. Kim divideva il suo tempo fra l'arredamento della villa e la riorganizzazione dei disordinati archivi del castello. Ormai evitava del tutto il laboratorio e raramente vedeva qualcuno dei ricercatori. Cominciò persino a vedere più raramente Edward, che arrivava a casa sempre più tardi la sera e usciva sempre prima il mattino. 12 Lunedì 19 settembre 1994 Era una splendida giornata autunnale, con un sole caldo che ben presto portò la temperatura quasi a venticinque gradi. Con grande gioia di Kim, alcuni degli alberi della foresta sfoggiavano già i colori dorati dell'autunno. Non aveva ancora visto Edward, che si era alzato prima di lei, alle sette, e si era recato subito al laboratorio senza neppure fare colazione. Lo aveva capito perché non c'erano piatti sporchi nel lavello. Non ne era comunque rimasta sorpresa, perché Edward le aveva detto, parecchi giorni prima, che i membri del gruppo avevano cominciato a pranzare e a cenare insieme al laboratorio, per risparmiare tempo. Aveva aggiunto che stavano facendo progressi straordinari. Kim passò la mattinata alla villa, dedicandosi ai suoi progetti di arredamento. Dopo una settimana di esitazioni, ormai aveva deciso i tessuti dei
copriletti, dei baldacchini e delle tendine per le due camere da letto. Era stata una scelta difficile e adesso si sentiva finalmente soddisfatta. Con i numeri dei tessuti in mano telefonò a un'amica che lavorava in uno studio di arredamento di Boston e la pregò di passare l'ordinazione. Dopo un piacevole pasto leggero con tè e insalata, Kim si diresse a piedi verso il castello per il suo pomeriggio di ricerche. Si trovò come al solito a dover decidere se dedicarsi alle soffitte o alla cantina, e il fatto che ci fosse il sole la spinse a scegliere le soffitte. Pensò che sarebbero poi venuti i giorni di nebbia e pioggia e allora la cantina sarebbe stata un piacevole rifugio. Attraversò tutto l'immenso locale fino alla zona situata sopra l'ala della servitù, e si mise al lavoro cominciando da una serie di scaffali neri. Usando degli scatoloni di cartone vuoti che erano serviti per trasportare i libri di Edward alla villa, si apprestò a suddividere i documenti come aveva fatto le settimane precedenti. Perlopiù si trattava di documenti d'affari dell'inizio del diciannovesimo secolo. Ormai era diventata abile a leggere le pagine scritte a mano ed era in grado di collocarle nello scatolone giusto dopo aver dato un semplice sguardo al titolo, se c'era, o al primo paragrafo, se il titolo mancava. Alla fine del pomeriggio era arrivata all'ultimo scaffale. Aprì il penultimo cassetto e, mentre sfogliava una pila di contratti navali, vide una lettera indirizzata a Ronald Stewart. Dopo avere passato tanto tempo senza trovare documenti di quel tipo, Kim rimase per un momento stupita. Prese la lettera con due dita, come aveva fatto Mary Custland con la lettera di Mather, guardò la firma e si accese di nuova speranza. Era un'altra lettera di Samuel Sewall. Boston, 8 gennaio 1697 Mio caro amico, come certamente saprai, l'Onorevole Tenente Governatore, il Consiglio e l'Assemblea della provincia di Sua Maestà di Massachusetts Bay, in udienza in Corte Generale comandano e indicano che il prossimo giovedì, 14 gennaio, sia osservato il digiuno in segno di pentimento per tutte le colpe commesse contro gli innocenti a opera di Satana e dei suoi Famigli a Salem. In detta occasione, essendo io conscio della mia complicità al servizio dell'ultima Commissione di Udienze e Sentenze voglio fare pubblica ammenda della mia opera biasimevole e lo farò nella Old
South Church. Ma a te, amico mio, non so che cosa dire per alleviare la tua angoscia. Che Elizabeth fosse coinvolta con le Forze del Male io non dubito minimamente, ma che fosse posseduta o avesse sottoscritto un patto, questo non lo so né voglio fare congetture, visti i miei passati errori di giudizio. Quanto alla tua richiesta riguardo i verbali e i documenti della Corte di Udienze e Sentenze in generale, e riguardo al processo di Elizabeth in particolare, posso attestare che essi sono in possesso del reverendo Cotton Mather, che mi ha giurato che non cadranno mai nelle mani sbagliate per mettere in dubbio la reputazione dei giudici e dei magistrati che servirono al meglio delle loro capacità, benché con errore in molti casi. Io ritengo, anche se non ho osato chiederlo né desidero saperlo, che il reverendo Mather intenda bruciare i predetti verbali e documenti. Quanto alla mia opinione sull'offerta a te fatta dal magistrato Corwin di consegnarti tutti i documenti del caso di Elizabeth, compresa denuncia iniziale, mandato di arresto, ordinanza di trasferimento, atti e testimonianze preliminari, penso che dovresti prenderli e disporre di essi nella medesima maniera affinché le future generazioni della tua famiglia non soffrano pubblica rivelazione di questa tragedia in Salem provocata o istigata dalle azioni di Elizabeth. Tuo amico in nome di Cristo Samuel Sewall «Gesù Cristo!» esclamò la voce di Edward. «Certe volte è così maledettamente difficile trovarti!» Kim alzò gli occhi dalla lettera di Sewall e vide Edward ritto accanto a lei. «È successo qualcosa?» chiese nervosamente. «Già», rispose Edward, «è mezz'ora che ti cerco. Ho immaginato che dovevi essere qui al castello e ho fatto tutta la strada fino in soffitta urlando il tuo nome. Poiché non rispondevi sono sceso a cercarti in cantina. Non ti ho trovato e sono tornato qui. È ridicolo! Insomma, se conti di passare tanto tempo quassù, almeno installa un telefono.» Kim si alzò in piedi. «Mi dispiace», si scusò. «Non ti avevo sentito.» «È evidente. Ascolta, c'è un problema: Stanton mi assilla a causa del denaro e sta venendo qui. Noi non vogliamo assolutamente perdere tempo con lui, specialmente in laboratorio dove vorrà farsi spiegare tutto quello che stiamo facendo. E quel che è peggio, ognuno di noi è stremato dal lavoro e al limite delle forze. Non facciamo che litigare per le più stupide ra-
gioni, per esempio chi ha più spazio e chi è più vicino a quella dannata fontanella dell'acqua fredda. Siamo arrivati al punto che io mi sento come il caporale di un branco di indisciplinati boy scout. Insomma, per farla breve, voglio che l'incontro avvenga alla villa; farà bene a tutti uscire da quell'ambiente ostile. Per risparmiare tempo ho pensato che potremmo anche mangiare insieme. Allora, puoi organizzare una cena?» Dapprima Kim pensò che scherzasse, ma quando si rese conto che parlava sul serio diede un'occhiata all'orologio. «Sono le cinque passate», gli ricordò. «Sarebbero state le quattro e mezzo se non ti fossi nascosta in quel modo», la rimbeccò Edward. «Non posso mettere insieme una cena per otto persone a quest'ora del pomeriggio!» «E perché no? Non dev'essere un banchetto, Cristo! Basterà una pizza! Puoi ordinarle e farle portare a casa! Del resto noi da un bel po' di tempo viviamo di pizze. Procura giusto qualcosa per riempirgli la pancia. Ti prego, Kim, ho bisogno del tuo aiuto. Io qui sto perdendo la testa!» «Va bene», si rassegnò lei, sia pure a malincuore, vedendo che Edward era insolitamente stressato. «Posso fare qualcosa di meglio di una pizza, ma certo non sarà un pranzo da buongustai.» Raccolse le sue cose, compresa la lettera di Sewall, e seguì Edward fuori della soffitta. Mentre scendevano le scale gli porse la lettera spiegandogli che cosa conteneva. Edward gliela restituì. «Non ho tempo per Samuel Sewall, in questo momento.» «Ma è importante», protestò Kim. «Spiega come Ronald sia riuscito a eliminare il nome di Elizabeth dai resoconti storici. Non lo ha fatto da solo, è stato aiutato da Jonathan Corwin e Cotton Mather.» «Leggerò la lettera più tardi», promise Edward. «C'è una parte che potresti trovare interessante», insistette Kim. Erano arrivati al pianerottolo da cui partiva il grande scalone e lui si fermò sotto il grande rosone dai vetri colorati. Alla luce dorata appariva estremamente pallido e Kim pensò che sembrava quasi malato. «E va bene», ribatté Edward con impazienza, «fammi vedere quello che dovrei trovare così interessante.» Kim gli diede la lettera e gli indicò la frase dove Samuel Sewall diceva che la tragedia di Salem era stata o provocata o istigata dalle azioni di Elizabeth. Edward lesse e alzò gli occhi su Kim. «E allora? Lo sapevamo già.»
«Noi sì, ma loro lo sapevano? Voglio dire, erano a conoscenza della muffa?» Edward rilesse la frase una seconda volta. «Non potevano saperlo, era scientificamente impossibile. Non avevano le cognizioni né gli strumenti necessari.» «E allora, come spieghi quella frase? Nella prima parte della lettera, Samuel Sewall ammette di avere commesso degli errori nei confronti delle altre condannate per stregoneria, ma non verso Elizabeth. Insomma, quelli sapevano qualche cosa che noi ignoriamo.» «E così si torna alla misteriosa prova», replicò Edward porgendole la lettera. «Tutto questo è interessante, ma non per il mio lavoro, e sinceramente ora non ho tempo per questioni del genere.» Continuarono a scendere le scale. «Mi dispiace, ma non immagini quanto sia preoccupato», proseguì Edward. «Oltre a tutti gli impegni che mi pesano sulle spalle, c'è Stanton che sta diventando una grossa seccatura, non meno di Harvard. Fra l'uno e l'altra, sono proprio conciato per le feste.» «Ma vale la pena di fare tanti sforzi?» chiese Kim. Edward la guardò un attimo, incredulo. «Ma certo che vale la pena», ribatté irritato. «La scienza richiede dei sacrifici, noi tutti lo sappiamo.» «Ma questa faccenda sa più di finanza che di scienza», obiettò Kim. Lui non rispose. Uscirono dal castello ed Edward si diresse subito alla sua macchina. «Saremo a casa alle sette e mezzo in punto», le gridò prima di mettersi al volante. Accese il motore e la vettura balzò in avanti in una nuvola di sabbia e sassolini. Kim salì sulla propria auto e tamburellò nervosamente con le dita sul volante rimuginando sul problema della cena. Ora che Edward era partito e lei aveva un minuto per pensare alla situazione, si sentì irritata e delusa per avere accettato quella inaspettata e irragionevole incombenza. Rifletté sul proprio comportamento e decise che non le piaceva. Con la sua arrendevolezza stava assumendo di nuovo quell'atteggiamento debole e puerile che aveva avuto anni prima verso il padre. Ma riconoscere un errore e modificare la propria condotta erano due cose ben diverse. Come con il padre, anche con Edward era dominata dal desiderio di compiacerlo, poiché voleva conservare il suo affetto e la sua stima. Inoltre, pensò, lui in quel momento era sotto pressione e aveva bisogno di lei. Mise in moto e si diresse in città per fare la spesa e, mentre guidava,
continuava a pensare alla sua situazione. Certo non voleva perdere Edward, ma in quelle ultime settimane, quanto più lei cercava di compiacerlo e di essere comprensiva, tanto più le pareva che lui diventasse esigente. Visto il preavviso così breve, decise di preparare un pasto semplice con bistecche alla griglia accompagnate da insalata e focaccine calde. Come bevanda, vino o birra. Per dessert acquistò frutta fresca e gelato. Alle sette meno un quarto aveva già preparato le bistecche, le focaccine erano pronte per il forno e aveva già acceso il fuoco sotto la griglia in giardino. Si precipitò in bagno per una rapida doccia, poi salì in camera da letto e indossò un abito fresco e pratico, prima di tornare in cucina. Stava apparecchiando la tavola in sala da pranzo quando la Mercedes di Stanton si fermò di fronte alla villa. «Salve, cugina», la salutò entrando e dandole un buffetto sulla guancia. Kim lo salutò a sua volta e gli chiese se gradiva un bicchiere di vino. Stanton accettò e la seguì in cucina. «Questo è l'unico vino che hai?» chiese con un certo disprezzo mentre Kim stappava la bottiglia. «Temo proprio di sì.» «Allora preferisco una birra.» Mentre lei continuava a occuparsi dei preparativi per la cena, Stanton, appollaiato su un alto sgabello, la guardava lavorare. Non si offrì di aiutarla, ma Kim non si offese. Aveva già tutto sotto controllo. «Vedo che tu e Buffer andate d'accordo», osservò Stanton. Il cane di Edward trotterellava docilmente dietro Kim mentre lei si muoveva per la cucina. «Mi stupisce. Quel botolo ringhioso è un brutto figlio di puttana.» «Io andare d'accordo con Buffer?» esclamò Kim con un sorrisetto ironico. «Tu stai scherzando. Buffer non è certo qui per me, ma per le bistecche. Di solito se ne sta in laboratorio con Edward.» Controllò la temperatura del forno e vi infilò le focacce. «Ti piace vivere qui alla villa?» chiese Stanton. «Sì, mi piace molto», rispose Kim. Poi sospirò. «Purtroppo, il lavoro al laboratorio domina su tutto. Edward è incalzato dagli impegni ed è proprio allo stremo delle forze.» «Come se non lo sapessi!» commentò Stanton. «Ha grandi difficoltà con Harvard», continuò Kim. Di proposito non aggiunse che ne aveva di altrettanto grosse con lui. «Io l'ho avvertito fin dall'inizio di guardarsi da Harvard. Sapevo, per e-
sperienza, che quelli dell'università non se ne sarebbero rimasti tranquilli, se avessero subodorato la possibilità di grossi guadagni. Le università sono diventate molto sensibili a questo genere di situazioni, soprattutto Harvard.» «Mi dispiace immensamente che Edward rischi la sua carriera accademica», osservò Kim. «Prima dell'Ultra, l'insegnamento era la sua più grande passione.» Cominciò a condire l'insalata e Stanton la osservava senza dire nulla. Infine chiese: «Come vanno le cose fra voi due? Non vorrei sembrare curioso, ma da quando lavoro con lui a questo progetto, trovo che non sia sempre facile trattare con lui.» «È molto teso in questi giorni», ammise Kim. «Il trasferimento qui alla villa non è stato così agevole come pensavo, ma certo io non avevo messo in conto l'Ultra e la Omni. Come ti ho detto, Edward è costantemente sotto pressione.» «E non è il solo!» La porta d'ingresso si aprì ed Edward e i ricercatori entrarono in gruppo. Kim andò a salutarli, nel tentativo di rasserenare l'atmosfera, ma non era cosa facile. Erano tutti irritabili e imbronciati, persino Gloria e David. Pareva che fossero venuti controvoglia a cena alla villa e che Edward avesse dovuto imporglielo a forza. La reazione peggiore fu quella di Eleanor. Non appena diede un'occhiata ai cibi dichiarò in tono petulante che non mangiava carne rossa. «Che cosa mangi di solito?» le chiese Edward. «Pesce o pollo.» Edward guardò Kim e alzò le sopracciglia, come per chiedere: «Che cosa dobbiamo fare?» «Posso procurare del pesce», propose lei. Così dicendo, prese le chiavi della macchina e uscì. Eleanor era stata davvero poco educata, ma Kim fu ben contenta di allontanarsi da casa per qualche minuto. L'atmosfera là dentro era piuttosto deprimente. Non lontano c'era un negozio che vendeva pesce fresco e lei comprò alcuni filetti di salmone, in caso che anche qualcun altro, oltre a Eleanor, gradisse il pesce. Poi, tornando alla villa, si domandò, con una punta di apprensione, come sarebbe andata. Ma entrando nel soggiorno scoprì con piacere che l'atmosfera era migliorata. Non era certo un'allegra brigata, ma c'era meno tensione. In sua assenza avevano stappato le bottiglie di vino e di birra e avevano bevuto.
Erano tutti seduti in soggiorno intorno al lungo tavolo appoggiato su alcuni cavalletti, con il ritratto di Elizabeth che li fissava dall'alto. Kim fece con la testa un cenno di saluto a quelli che guardavano nella sua direzione e si avviò direttamente in cucina. Lavò il pesce e lo depose su un piatto accanto alla carne, poi, con il bicchiere di vino in mano, rientrò in soggiorno. Stanton si era alzato e aveva distribuito a tutti un volantino e ora stava di fronte al caminetto, dando le spalle al ritratto. «Quello che avete in mano è un prospetto dal quale risulta chiaro quanto rapidamente si esaurirà il nostro denaro con l'attuale ritmo di spese», annunciò. «Ovviamente, non è una bella situazione, perciò vi invito a darmi qualche idea sul modo di procurare altro capitale. Ci sono tre opzioni: ricorrere a una sottoscrizione pubblica, ma dubito che funzionerebbe, almeno non a nostro vantaggio finché non abbiamo qualcosa da vendere...» «Ma noi abbiamo qualcosa da vendere!» interruppe Edward. «Abbiamo fra le mani il farmaco più promettente da quando è stata scoperta la penicillina, grazie alla signora qui presente.» Alzò il bicchiere al ritratto di Elizabeth: «Propongo un brindisi alla donna che diventerà la più famosa strega di Salem». Tutti, tranne Kim, alzarono i bicchieri. Persino Stanton si unì agli altri, dopo aver ripreso il bicchiere di birra che aveva posato sulla mensola del caminetto. Dopo un attimo di silenzio tutti bevvero. Kim si agitava nervosamente, quasi aspettandosi che l'espressione di Elizabeth nel ritratto si alterasse. I commenti che aveva fatto Edward le sembravano irrispettosi e di cattivo gusto e si domandava che cosa avrebbe pensato la sua antenata, se fosse stata presente, nel vedere quegli illustri scienziati che rincorrevano guadagni personali nella sua casa, approfittando di una scoperta legata alla sua sventura e alla sua morte. «Io non nego che abbiamo un prodotto potenziale», proseguì Stanton dopo avere deposto nuovamente il suo bicchiere di birra sulla mensola. «Lo sappiamo tutti, ma non abbiamo un prodotto da mettere subito sul mercato. Quindi, considerato l'attuale clima economico, non è proprio il momento per un'emissione pubblica di azioni. Quello che potremmo fare è una sottoscrizione privata, che offre il vantaggio di una minore perdita di controllo. Quest'ultima alternativa implica contattare altri capitalisti. Naturalmente, ciò significherebbe sacrificare delle azioni, e quindi parte dei profitti.» Mormorii di malcontento si levarono fra gli astanti. «Io non voglio sacrificare delle azioni», protestò Edward. «Saranno
troppo preziose quando l'Ultra sarà sul mercato. Perché non possiamo prendere altro capitale a prestito?» «Non abbiamo altre garanzie da offrire», rispose Stanton. «Prendere in prestito la somma che ci occorre senza offrire garanzie significherebbe pagare interessi esorbitanti, poiché non può venire dalle fonti usuali. Capisci quello che sto dicendo Edward?» «Afferro l'idea, ma tu dovresti esaminare anche questa possibilità. Non dobbiamo tralasciare alcun tentativo, per evitare di rinunciare ad altre azioni. Sarebbe un peccato, dato che Ultra è un successo così sicuro.» «Tu sei sempre fiducioso come quando abbiamo costituito la società?» chiese Stanton. «Ancora di più. Ogni giorno che passa sono sempre più convinto. Le cose procedono in modo eccellente e se si continua così saremo in grado di presentare una IND, la richiesta per licenza di esame di un nuovo farmaco, entro sette, otto mesi. Il che è ben diverso dagli attuali tre anni e mezzo.» «Più presto ci muoviamo, più rapidamente migliorerà la situazione finanziaria», affermò Stanton. «Sarebbe anche meglio se si potesse accelerare il passo.» Eleanor fece un breve sogghigno di disprezzo. «Stiamo tutti lavorando con la massima rapidità», intervenne François. «È vero», confermò Curt. «La maggior parte di noi dorme meno di sei ore per notte.» «C'è una cosa che io non ho ancora fatto», ammise Edward. «Non ho ancora contattato le persone che conosco all'FDA. Comincerò a fare i primi passi per ottenere per l'Ultra la procedura d'urgenza. Infine, sperimenteremo il farmaco per la cura della depressione grave, come pure dell'Aids, e forse dei malati terminali di cancro.» «Tutto quello che ci farà risparmiare tempo ci giova», ripeté Stanton. «Non potrò mai insistere abbastanza su questo fatto.» «Credo che abbiamo capito tutti», replicò Edward. «C'è qualche altra idea sulle possibili applicazioni di Ultra?» chiese Stanton. Edward invitò Gloria a esporre quello che avevano appena scoperto. «Proprio questa mattina», cominciò lei, «abbiamo trovato nei cervelli di alcuni ratti dei bassi livelli di un enzima naturale che metabolizza l'Ultra.» «E questo dovrebbe entusiasmarmi?» domandò Stanton sarcastico. «Certo che dovrebbe», replicò Edward, «se ricordi qualcosa dei quattro anni che hai sprecato alla facoltà di Medicina.»
«Fa pensare che l'Ultra potrebbe essere una molecola cerebrale naturale, o almeno strutturalmente molto vicina a una molecola naturale», spiegò Gloria. «Un ulteriore supporto a questa teoria ci viene dalla stabilità del legame di Ultra con le membrane neuronali. Stiamo cominciando a pensare che la relazione potrebbe essere un po' simile a quella fra i narcotici del tipo morfina e le endorfine proprie del cervello.» «In altre parole», precisò Edward, «l'Ultra è un autacoide naturale.» «Ma i livelli non sono uguali in tutto il cervello», aggiunse Gloria. «Le nostre prime PET, le tomografie a emissione di positroni, fanno pensare che l'Ultra si concentri nel tronco cerebrale, nel mesoencefalo e nel sistema limbico.» «Ah, il sistema limbico!» esclamò Stanton. I suoi occhi s'illuminarono. «Questo me lo ricordo. È quella parte del cervello che è associata alla nostra natura animale e ai suoi impulsi basilari come la collera, la fame, il sesso. Vedi, Edward, i miei studi medici non sono stati del tutto sprecati.» «Gloria, spiegagli come riteniamo che funzioni», disse lui, ignorando il commento di Stanton. «Crediamo che stabilizzi i livelli dei neurotrasmettitori cerebrali», proseguì Gloria. «Qualcosa di simile al modo in cui un tampone mantiene il pH di un sistema acido-base.» «In altre parole», spiegò Edward, «il nostro Ultra, o la molecola cerebrale se è diversa dall'Ultra, ha la funzione di stabilizzare le emozioni. Almeno questa era la sua funzione iniziale. Riportava il livello emozionale alla normalità, dopo un'emozione estrema creata da un evento sconvolgente, per esempio incontrare all'improvviso una tigre nella tua grotta. Che questa emozione estrema sia paura, collera o qualsiasi altra cosa, l'Ultra riporta in equilibrio i neurotrasmettitori, consentendo all'animale o all'uomo primitivo di tornare rapidamente allo stato normale per fronteggiare il prossimo pericolo.» «Che cosa intendi per 'funzione iniziale'?» chiese Stanton. «Riteniamo che la funzione si sia evoluta parallelamente all'evoluzione del cervello umano. Pensiamo che, dal semplice stabilizzare l'emozione, questa funzione sia passata al portarla nel campo del controllo volontario.» Gli occhi di Stanton tornarono a illuminarsi. «Aspetta un attimo», lo interruppe mentre lottava per capire meglio. «Stai dicendo che se a un malato di depressione si somministra l'Ultra, tutto quello che deve fare è desiderare di non essere depresso?» «Questa è la nostra ipotesi attuale», confermò Edward. «La molecola na-
turale esiste nel cervello in quantità minime, ma svolge un ruolo d'importanza cruciale nel modulare l'emozione e l'umore.» «Mio Dio!» esclamò Stanton. «L'Ultra potrebbe essere il farmaco del futuro!» «È per questo che lavoriamo senza respiro», replicò Edward. «Adesso, che cosa state facendo?» «Di tutto. Studiamo la molecola da ogni possibile punto di vista; poiché sappiamo che si lega a un recettore, vogliamo conoscere la proteina legante. E di questa proteina vogliamo conoscere la struttura o le strutture, poiché sospettiamo che l'Ultra si leghi con differenti catene laterali in circostanze diverse.» «Quando pensi che potremo cominciare ad affrontare il mercato in Europa o in Giappone?» «Potrò dirti qualcosa quando avremo cominciato gli esperimenti cimici. Ma non potremo iniziare finché non avremo ottenuto l'autorizzazione dall'FDA.» «Dobbiamo accelerare il processo in qualche modo», insistette Stanton. «Questa è una vera follia. Abbiamo un farmaco che vale un miliardo e rischiamo di fare bancarotta.» «Aspetta un attimo!» esclamò Edward all'improvviso, attirando l'attenzione di tutti. «Ho un'idea. Ho trovato la maniera per risparmiare tempo: comincerò ad assumere il farmaco io stesso.» Per qualche minuto regnò il silenzio più assoluto. Nella stanza non si udiva che il ticchettio della pendola sulla mensola del caminetto e il grido dei gabbiani lungo il fiume. «È una mossa saggia?» chiese Stanton. «Accidenti se è saggia!» Edward si stava riscaldando all'idea. «Diavolo, non so proprio perché non ci ho pensato prima. Visti i risultati degli studi di tossicità che abbiamo già fatto, sono sicuro di poter prendere l'Ultra senza il minimo rischio.» «È vero che non abbiamo mai riscontrato tracce di tossicità», aggiunse Gloria. «Le colture di tessuti sembrano prosperare», osservò David, «soprattutto quelle di cellule neurali.» «Io non credo che prendere un farmaco in via di sperimentazione sia una buona idea», obiettò Kim, intervenendo per la prima volta. Era ritta sulla soglia dell'atrio. Edward le lanciò uno sguardo serio e quasi irato. «Io invece penso che
sia un'idea eccellente.» «In che modo ci farà risparmiare tempo?» chiese Stanton. «Diavolo, avremo tutte le risposte prima ancora di iniziare gli esperimenti clinici. Pensa a quanto ci renderà facile definire i protocolli clinici.» «Anch'io prenderò l'Ultra», si offrì Gloria. «Io pure», le fece eco Eleanor. Gli altri ricercatori, uno per uno, approvarono l'idea e si offrirono di prendere parte all'esperimento. «Possiamo assumere ognuno un dosaggio differente», propose Gloria. «E poiché siamo sei, avremo un piccolo quadro statistico, al momento di valutare i risultati.» «Possiamo somministrare le diverse dosi alla cieca», suggerì François. «Così non sapremo chi riceve la dose più alta e chi la più bassa.» «Ma prendere un farmaco non ancora approvato non è contro la legge?» chiese Kim. «Quale legge?» domandò Edward con una risata. «La legge di un collegio speciale d'ispezione? Bene, per quello che riguarda l'Omni, siamo noi il comitato d'ispezione o qualsivoglia altro comitato, e non abbiamo promulgato nessuna legge.» Tutti i ricercatori risero insieme a Edward. «Io credevo che il governo avesse emanato leggi o disposizioni al riguardo», insistette Kim. «Sì, ci sono le disposizioni dell'Istituto sanitario nazionale», spiegò Stanton, «ma riguardano gli enti che ricevono sovvenzioni. Noi certo non riceviamo denaro dal governo.» «Ma ci devono pur essere delle norme contro la somministrazione di farmaci all'uomo prima del completamento di esperimenti sugli animali», ripeté Kim. «Il semplice buonsenso dice che è una cosa irragionevole e pericolosa. Non ricordate i disastri provocati dal talidomide? Questo non vi preoccupa?» «Non si può stabilire alcun confronto con quell'infelice episodio», ribatté Edward. «Tanto per cominciare, il talidomide non era un composto naturale ed era assai più tossico. Comunque, Kim, non vogliamo che sia tu a prendere l'Ultra. Anzi, tu potrai fare da controllo.» Tutti risero nuovamente e lei, imbarazzata, si sentì arrossire e lasciò il soggiorno per recarsi in cucina. Era davvero stupita di quanto fosse cambiata l'atmosfera della riunione; dalla tensione iniziale si era passati alla vera euforia. Questo le dava la spiacevole sensazione che si trattasse di una
specie di isterismo di gruppo, dovuto a una combinazione di superlavoro e di esaltazione. In cucina si dedicò ai preparativi, mentre dal soggiorno venivano risate e voci eccitate che parlavano di costituire un centro scientifico con alcuni dei miliardi guadagnati in futuro. Mentre trasferiva le focacce nel cestino del pane, si accorse che qualcuno era entrato in cucina, alle sue spalle. «Pensavo di offrirle il mio aiuto», disse François. Kim si voltò e gli lanciò un'occhiata, ma poi distolse subito lo sguardo. In realtà, il giovane la metteva a disagio con la sua impertinenza e lei era ancora sottosopra per i discorsi uditi poco prima nel soggiorno. «Non mi occorre niente, è tutto sotto controllo», gli rispose. «Ma la ringrazio di essersi offerto.» «Posso riempirmi il bicchiere?» chiese ancora François. Aveva già la mano sul manico della caraffa. «Certo, si accomodi.» «Mi piacerebbe visitare un po' i dintorni, quando il lavoro sarà meno intenso», continuò lui versandosi il vino. «Forse potrebbe mostrarmi qualche località fra le più belle. Ho sentito dire che Marblehead è incantevole.» Kim gli diede un'altra rapida occhiata. La stava fissando con quei suoi occhi intensi e penetranti e le rivolse un sorriso malizioso dandole la sgradevole sensazione che volesse flirtare con lei. Kim si domandò che cosa gli avesse detto Edward a proposito della loro relazione. «Forse fra poco arriverà la sua famiglia», gli rispose. «Forse», fece eco François. Terminata la sua toilette serale, Kim lasciò intenzionalmente aperta la porta della sua stanza per poter vedere il piccolo bagno fra le due camere da letto. Voleva restare sveglia per parlare a Edward quando sarebbe rientrato dal laboratorio, ma non sapeva a che ora sarebbe tornato. Seduta sul letto, comodamente appoggiata ai cuscini, prese dal comodino il diario di Elizabeth e lo aprì alla pagina a cui si era interrotta. Il diario non era risultato interessante come aveva sperato; tranne che per l'ultima pagina, era stato una delusione. Perlopiù Elizabeth annotava dati sulla situazione meteorologica e sui fatti di ogni giorno, senza esprimere i propri pensieri, che sarebbero stati tanto più importanti per Kim. Malgrado i suoi sforzi per restare sveglia, si addormentò verso mezzanotte, con la luce sul comodino ancora accesa. A un certo punto sentì lo
scroscio dello sciacquone, aprì gli occhi e vide Edward nel bagno. Si strofinò gli occhi assonnati e cercò di concentrare lo sguardo sul quadrante dell'orologio: era l'una. Con un certo sforzo si alzò dal letto e si infilò la vestaglia e le pantofole, poi andò nel bagno. Edward era occupato a lavarsi i denti. Sedette sull'asse del water stringendosi le ginocchia al petto, lui le lanciò uno sguardo interrogativo, ma non disse nulla finché non ebbe finito di lavarsi i denti. «Che diavolo fai alzata a quest'ora?» le domandò allora. Il suo tono era premuroso, più che irritato. «Volevo parlarti. Volevo domandarti se davvero pensi di prendere l'Ultra.» «Ma certo, cominceremo tutti questa mattina. Useremo un sistema secondo il quale nessuno saprà se ha ricevuto il dosaggio più alto o più basso. È stata un'idea di François.» «Pensi davvero che sia una cosa saggia?» «È probabilmente l'idea migliore che io abbia avuto da anni. Senza dubbio potrà accelerare l'intero processo di valutazione del farmaco, così Stanton smetterà di starmi alle costole.» «Ma è rischioso.» «Naturalmente c'è un certo rischio. C'è sempre, ma sono convinto che sia calcolato. L'Ultra non è tossico, di questo siamo sicuri.» «Mi sento tanto preoccupata!» si lamentò Kim. «Bene, lascia che ti rassicuri su un punto molto importante: non sono un martire! Anzi, in fondo sono un pusillanime, e non farei una cosa del genere se non sapessi che è perfettamente sicura, né lascerei che la facessero altri. Inoltre, dal punto di vista storico, saremo in buona compagnia. Molti dei più grandi scienziati hanno sperimentato su se stessi l'effetto dei loro farmaci.» Kim alzò le sopracciglia con un'espressione di incredulità. Non era convinta. «Devi solo fidarti di me», insistette Edward. Si lavò vigorosamente il viso, poi cominciò ad asciugarsi. «Vorrei sapere un'altra cosa», aggiunse Kim. «Che cosa hai detto di me ai tuoi colleghi di laboratorio?» Lui abbassò l'asciugamano e la guardò. «Che cosa vuoi dire? Perché dovrei parlare di te al laboratorio?» «Voglio dire, a proposito della nostra relazione.»
«Be', non ricordo.» Edward alzò le spalle. «Avrò detto che sei la mia ragazza.» «Questo significa la tua amante o la tua amica?» «Ehi, che cosa ti succede?» domandò lui seccato. «Io non vado in giro a parlare di cose tanto personali, se è questo che intendi. Non mi piace discutere di particolari intimi con gli altri. E perché mi fai il terzo grado a quest'ora di notte?» «Scusami, non intendevo sottoporti a un interrogatorio. Volevo solo sapere che cosa avevi detto di noi, poiché non siamo sposati e penso che loro ti avranno parlato delle loro famiglie.» Si accingeva a raccontargli l'episodio di François, ma cambiò idea. In quel momento Edward non era certo dell'umore giusto per conversare su quell'argomento, stanco com'era e ansioso per il famoso Ultra. Inoltre non voleva provocare tensioni fra lui e François, poiché non era sicura al cento per cento di avere intuito esattamente le intenzioni del francese. «Spero di non averti seccato», disse alzandosi, «so quanto devi essere stanco. Buonanotte.» Uscì dal bagno e si diresse verso la sua stanza. «Aspetta!» la richiamò Edward. «Sono molto nervoso, scusami. Invece di trattarti male, dovrei ringraziarti. Ho molto apprezzato la cena che hai preparato. È stata perfetta e ha messo tutti di buonumore. È stato un momento di riposo e relax di cui avevamo proprio bisogno.» «Sono lieta che tu dica così», replicò Kim. «Ho cercato di esservi utile. So che siete tutti sotto pressione.» «Va bene. Ora dovrebbe andare meglio, con Stanton temporaneamente placato», concluse Edward. «Ora posso pensare con più tranquillità all'Ultra e ad Harvard.» 13 Fine settembre 1994 L'apprezzamento e le lodi per la sua abilità nell'organizzare una cena con così breve preavviso incoraggiò Kim a sperare che fra lei ed Edward le cose sarebbero migliorate. Ma così non accadde. In realtà, durante la settimana successiva, la situazione parve peggiorare e Kim non vide neppure il suo compagno. Tornava a casa tardi la notte, dopo che lei si era già coricata, e al mattino si alzava e usciva prima che lei si svegliasse. E nemmeno si prendeva la pena di comunicare con lei, anche se gli lasciava numerosi
messaggi scritti. Persino Buffer sembrava più irritabile del solito. Mercoledì sera comparve inaspettatamente all'ora di cena, mentre Kim si preparava da mangiare. Sembrava affamato e lei gli riempì un piatto di cibo e lo tese verso di lui, con l'intenzione di deporlo sul pavimento. Il cane reagì ringhiando mostrando i denti e tentò di azzannarla; Kim gettò il cibo nella pattumiera. Non avendo alcun genere di contatto con gli scienziati del laboratorio, cominciò a sentirsi sempre più estranea a quello che avveniva nella tenuta, e a sentirsi molto sola. Con sorpresa, si accorse di desiderare che venisse il momento di tornare al lavoro, la settimana seguente. Non si sarebbe mai aspettata di provare un sentimento simile; anzi, quando aveva lasciato l'ospedale alla fine di agosto, aveva pensato che la ripresa del lavoro sarebbe stata difficile. Giovedì 22 settembre Kim si accorse di essere leggermente depressa e il senso di ansia che provava la spaventò. Aveva avuto un periodo di depressione durante il secondo anno di liceo e quell'esperienza le aveva lasciato un segno indelebile. Temendo che i sintomi peggiorassero, chiamò Alice McMurray, una terapista del General Hospital da cui si era recata diversi anni prima, che gentilmente acconsentì a dedicarle metà della sua ora d'intervallo per la colazione, il giorno dopo. Venerdì mattina, quando si alzò, Kim ebbe l'impressione di sentirsi meglio dei giorni precedenti e pensò che forse era l'eccitazione per il prossimo viaggio in città. Poiché in quel periodo di vacanza non poteva contare sul posto assegnatole al parcheggio dell'ospedale, decise di prendere il treno. Arrivò a Boston un po' dopo le undici e, dal momento che aveva un po' di tempo a disposizione prima della visita, andò a piedi dalla North Station all'ospedale. Era una piacevole giornata autunnale e nel cielo le nubi si alternavano al sole. Diversamente da Salem, le foglie degli alberi in città non avevano ancora cominciato a cambiare colore. Kim provò un senso di benessere ritrovandosi nell'ambiente familiare dell'ospedale, soprattutto quando incontrò diverse colleghe che si complimentarono per la sua abbronzatura. Lo studio di Alice era in un palazzo per uffici di proprietà dell'ospedale. Entrò nell'atrio e trovò il banco della reception deserto. Quasi subito una porta si aprì e comparve Alice. «Salve», la salutò la dottoressa, «entra.» Accennò con la testa al banco della reception. «Sono tutti a pranzo», spiegò.
Lo studio di Alice era semplice ma accogliente. C'erano quattro sedie e un tavolino basso raggruppati al centro della stanza, su un tappeto orientale; contro la parete una piccola scrivania e accanto alla finestra una palma in vaso. Alle pareti erano appese belle riproduzioni di quadri impressionisti, nonché alcuni diplomi e certificati in cornice. Alice era una donna alta e corpulenta, che emanava comprensione e simpatia come un campo magnetico. Come Kim ben sapeva, avendolo sentito dalla sua stessa bocca, stava lottando contro l'eccesso di peso da tutta la vita, e questa lotta le aveva dato una sensibilità ancora maggiore per i problemi degli altri. «Bene, che cosa posso fare per te?» chiese, quando si furono entrambe sedute. Kim si lanciò in un'ampia spiegazione della sua attuale situazione. Cercò di essere sincera e ammise francamente la sua delusione che le cose non fossero andate come lei aveva previsto. Mentre parlava si accorse che si stava addossando la maggior parte della colpa e anche Alice se ne accorse. «Questa mi suona come una vecchia storia», osservò la dottoressa, e la interrogò sulla personalità e sul comportamento sociale di Edward. Kim cominciò a descriverlo e con l'aiuto di Alice si accorse immediatamente che lo stava difendendo. «Pensi che ci sia qualche analogia fra il rapporto che avevi con tuo padre e quello che hai con Edward?» le domandò Alice. Lei pensò per un lungo momento e infine ammise che il suo atteggiamento in occasione della famosa cena improvvisata suggeriva qualche analogia. «Mi sembra che, esteriormente, siano abbastanza simili», osservò la dottoressa. «Ricordo che tu mi dicevi di avvertire un analogo senso di frustrazione nel tentativo di compiacere tuo padre. Entrambi questi uomini pare che abbiano un interesse preponderante per i loro impegni professionali, per cui la vita personale passa in secondo piano.» «Ma per Edward è una cosa temporanea», obiettò Kim. «Ne sei proprio sicura?» Lei pensò un attimo prima di rispondere: «Credo che non si possa mai essere sicuri dei pensieri di un'altra persona». «Precisamente. Chissà, Edward potrebbe anche cambiare. Tuttavia si direbbe che abbia bisogno del tuo appoggio nella vita sociale, e che tu ti prodighi per darglielo. Non c'è nulla di sbagliato in questo, tranne che, a quanto mi pare di capire, le tue esigenze personali non sono soddisfatte.»
«A dir poco», ammise Kim. «Dovresti pensare a ciò che va bene per te, e agire di conseguenza. So che è facile dirlo e difficile farlo. Tu sei atterrita all'idea di perdere il suo amore. Comunque, mia cara, pensaci almeno seriamente.» «Vuoi dire che non dovrei vivere con Edward?» «Non dico questo. Non spetta a me giudicare, solo tu puoi decidere. Ma penso, e ne abbiamo già discusso in passato, che dovresti riflettere sul rischio di una situazione di reciproca dipendenza.» «Tu pensi che ci sia una situazione di questo tipo?» «Vorrei che tenessi presente questa ipotesi. Come sai, le persone che hanno subito violenza nell'infanzia tendono a ricreare le circostanze della violenza nelle loro situazioni domestiche.» «Ma tu sai che io non ho subito violenza», protestò Kim. «Non è stata violenza nel senso comune del termine, ma non avevi un buon rapporto con tuo padre. La violenza si può esercitare in diverse forme, a causa dell'enorme differenza di potere fra il genitore e il bambino.» «Capisco quello che intendi.» Alice si piegò in avanti e appoggiò le mani sulle ginocchia di Kim, rivolgendole un caldo sorriso. «Credo che ci sia qualcosa di cui dovremmo parlare. Sfortunatamente, la nostra mezz'ora è finita. Vorrei dedicarti più tempo, ma con un preavviso così breve questo è il meglio che possa fare. Spero di averti almeno indotta a pensare di più alle tue esigenze.» Alzandosi, Kim diede un'occhiata all'orologio e fu sorpresa di vedere quanto fosse passato rapidamente il tempo. Ringraziò Alice di cuore. «Come va la tua ansia?» chiese la dottoressa. «Potrei prescriverti un po' di Xanax, se pensi di averne bisogno.» Kim scosse la testa. «Grazie, sto bene. Inoltre, ho ancora alcune di quelle compresse che mi hai prescritto anni fa.» «Telefonami, se desideri avere un vero appuntamento.» Lei le assicurò che si sarebbe fatta sentire e si accomiatò. Mentre tornava a piedi alla stazione, ripensò a quella breve seduta e al fatto che le era sembrato che stesse appena cominciando quando era già finita. Grazie ad Alice aveva molte cose su cui meditare, adesso, ed era proprio per questo che Kim aveva voluto vederla. Mentre tornava a Salem, con lo sguardo fisso al paesaggio che sfilava fuori del finestrino del treno, decise che doveva parlare con Edward. Sapeva che non sarebbe stato un compito facile, perché certi confronti erano molto duri per lei. Inoltre, con tutti gli impegni che lo incalzavano, lui non poteva certo essere disposto a discutere di ar-
gomenti emotivamente coinvolgenti, come l'opportunità di vivere insieme. Ma sapeva che era indispensabile chiarire la situazione, prima che le cose peggiorassero. Riprese la sua macchina alla stazione e, mentre guidava verso la tenuta, diede un'occhiata all'edificio del laboratorio desiderando ardentemente di avere la forza di recarsi là direttamente e parlare subito con Edward. Ma sapeva di non poterlo fare. Sapeva che non sarebbe riuscita a parlargli neppure se lui fosse arrivato quel pomeriggio alla villa, a meno che non si fosse mostrato pronto a farlo. Con un senso di amara rassegnazione si rese conto che avrebbe dovuto aspettare l'iniziativa di Edward. Ma quella sera di venerdì non lo vide e neppure per tutto il sabato. Immaginò che sarebbe tornato dopo mezzanotte e se ne sarebbe andato prima del sorgere del sole; la consapevolezza di quanto fosse importante parlargli le pesava sul cuore come una nuvola nera, accrescendo la sua ansia. Trascorse la mattina di domenica a riordinare documenti nelle soffitte del castello. Quel compito quasi automatico le diede un certo sollievo e per qualche ora distolse la sua mente dal pensiero della sua insoddisfacente situazione personale. Poi, verso l'una, il suo stomaco l'avvertì che era ora di mettere qualcosa sotto i denti. Uscendo dal vecchio castello pieno di odore di muffa, Kim si fermò sul falso ponte levatoio e osservò il panorama che si apriva davanti a lei. Le calde tonalità dei colori autunnali rendevano gli alberi un vero spettacolo, una sinfonia di tinte dorate, mentre alti nel cielo diversi gabbiani si lasciavano pigramente portare dal vento. Mentre il suo sguardo vagava fino ai lontani confini della proprietà di famiglia, i suoi occhi si fermarono sul punto dove il viale d'accesso sbucava sulla strada provinciale. Appena nascosto dall'ombra degli alberi vide il cofano di un'automobile. Curiosa di sapere come mai quell'auto fosse parcheggiata là, attraversò in fretta il campo e si avvicinò cautamente da un lato, cercando di scorgere il guidatore. Fu molto sorpresa nello scoprire che si trattava di Kinnard Monihan. Vedendola, balzò fuori dall'auto e fece una cosa per lui davvero inconsueta: arrossì. «Mi dispiace», si scusò, imbarazzato. «Non voglio che tu pensi che sia venuto qui a spiare. Il fatto è che cercavo di farmi coraggio per venire fino alla villa.» «E perché non lo hai fatto?»
«Perché mi sono comportato come un asino, le ultime volte che ci siamo visti», spiegò Kinnard. «È passato tanto tempo!» «Già, tanto tempo. Comunque, spero di non disturbarti.» «Non mi disturbi affatto.» «Il mio turno di internato all'ospedale di Salem termina la settimana prossima», spiegò Kinnard. «Questi due mesi sono volati. Tornerò in servizio al General Hospital fra otto giorni.» «Anch'io torno in servizio», aggiunse Kim e gli spiegò che si era messa in congedo per tutto il mese di settembre. «Ero venuto già un paio di volte fin qui alla tenuta», ammise Kinnard, «ma pensavo che fosse indiscreto fermarmi, e il tuo numero di telefono non è sull'elenco.» «Anch'io mi domandavo come andava il tuo turno a Salem, ogni volta che passavo vicino all'ospedale.» «Come procedono i lavori di ristrutturazione alla villa?» chiese Kinnard. «Puoi giudicare tu stesso, se vuoi venire a vedere.» «Mi piacerebbe molto. Vieni, sali, ti do un passaggio.» Raggiunsero la villa e Kim lo guidò in un giro per la casa. Kinnard si mostrò interessato e le fece i complimenti. «Mi piace come sei riuscita a renderla comoda e moderna, pur conservando il suo carattere coloniale», le disse. Salirono al piano di sopra e Kim gli mostrò com'erano riusciti a sistemare il piccolo bagno fra le due stanze da letto senza rovinare l'estetica della casa. Lanciando un'occhiata fuori della finestra, vide qualcosa con la coda dell'occhio. Guardando meglio, si accorse, sorpresa, che Edward e Buffer stavano attraversando il campo diretti alla villa. Fu immediatamente colta da un senso di panico. Non immaginava quale potesse essere la reazione di Edward alla vista di Kinnard, specialmente considerando l'umore irascibile che aveva mostrato negli ultimi tempi e il fatto che non lo vedeva da lunedì notte. «Meglio che scendiamo di sotto», disse nervosamente. «C'è qualche guaio?» chiese Kinnard. Kim non rispose. Era troppo impegnata a rimproverarsi per non avere previsto l'inaspettato ritorno di Edward e si chiedeva come avesse fatto a cacciarsi in quella situazione. «Sta arrivando Edward», spiegò infine, mentre gli faceva cenno di entrare nel soggiorno.
«Be'? C'è qualche problema?» chiese Kinnard, confuso. Kim cercò di sorridere. «Naturalmente no.» Ma la sua voce non suonò convincente e si sentiva il cuore in gola. La porta d'ingresso si aprì ed Edward entrò, seguito dal cagnolino che puntò direttamente verso la cucina in cerca di qualche ghiotto boccone. «Ah, eccoti qui!» esclamò Edward quando la vide. «Abbiamo un ospite», annunciò Kim serrando nervosamente le mani. «Davvero?» ribatté lui in tono interrogativo ed entrò nel soggiorno. Kim li presentò e Kinnard avanzò tendendo la mano. Edward non si mosse. Stava pensando. «Oh, ma certo!» esclamò dopo un attimo, schioccando le dita, e strinse con entusiasmo la mano di Kinnard. «Adesso ricordo. Lei ha lavorato per un certo periodo nel mio laboratorio. È lo studente che è passato al General Hospital per la specializzazione in chirurgia.» «Lei ha buona memoria!» osservò Kinnard. «Diavolo, mi ricordo persino il soggetto della sua ricerca.» E riassunse concisamente l'argomento a cui Kinnard aveva dedicato anni di lavoro. «Buon Dio, lo ricorda meglio di quanto lo ricordi io», commentò lui. «Gradisce una birra?» chiese Edward. «Abbiamo della Sam Adams in ghiaccio.» Kinnard si sentiva in imbarazzo. «Forse è meglio che io vada», mormorò. «Ma neanche per sogno. Resti pure, se può; sono sicuro che Kim gradirà un po' di compagnia. Io devo tornare al lavoro. Sono venuto solo per porle una domanda.» Kim era stupita non meno di Kinnard. Edward non si comportava come lei aveva temuto. Invece di essere irritabile e farle una sfuriata, era di ottimo umore. «Non so come dirtelo», continuava Edward, «ma vorrei che i ricercatori alloggiassero nel castello. Sarebbe molto più comodo per loro dormire nella tenuta, poiché molti dei loro esperimenti li impegnano a raccogliere dati ventiquatt'ore su ventiquattro. Inoltre, il castello è vuoto e ha tante stanze già ammobiliate; è assurdo obbligarli ad alloggiare nelle loro pensioni in città. Pagherà l'Omni.» «Be', non saprei...» balbettò Kim. «Suvvia, Kim, sarà solo una soluzione temporanea. Fra poco arriveranno le loro famiglie e troveranno degli appartamenti.» «Ma ci sono tanti ricordi di famiglia nel castello», obiettò lei.
«Non è un problema. Tu hai conosciuto quelle persone, non toccheranno nulla. Garantisco personalmente che non ci saranno difficoltà e, se ce ne fossero, tutti se ne andranno immediatamente.» «Lasciami il tempo di pensarci.» «E che cosa c'è da pensare?» insistette Edward. «Quelle persone sono come una famiglia per me. E inoltre dormono soltanto dall'una alle cinque del mattino, come me. Tu non ti accorgerai neppure che ci sono; non li sentirai e non li vedrai. Potranno sistemarsi nell'ala degli ospiti e in quella della servitù.» Edward strizzò l'occhio a Kinnard e aggiunse: «Sarà meglio tenere gli uomini e le donne separati, perché non voglio essere responsabile di liti familiari». «Ma saranno soddisfatti di occupare l'ala della servitù e l'ala degli ospiti?» chiese Kim. Le era difficile resistere all'insistenza e alla sicurezza di Edward. «Ne saranno entusiasti. Non so dirti quanto lo apprezzeranno. Grazie, tesoro! Sei un angelo.» Edward l'abbracciò e le diede un bacio sulla fronte. «Kinnard!» esclamò poi, staccandosi da lei. «Si faccia vedere, ora che ha imparato la strada. Kim ha bisogno di un po' di compagnia. Purtroppo io sono stracarico di impegni.» Lanciò un fischio acuto, che fece rabbrividire Kim, e Buffer trottò fuori della cucina. «Ci vediamo più tardi», salutò con un cenno della mano. Un attimo dopo si udì sbattere la porta d'ingresso. Per un momento Kim e Kinnard si guardarono in silenzio. «Ma io ho consentito o no?» chiese lei. «È successo tutto così in fretta», ammise Kinnard. Kim andò alla finestra e rimase a osservare Edward e Buffer che attraversavano il campo. Edward gettò un bastoncino per il cane. «È decisamente più cordiale ed espansivo di quando lavoravo nel suo laboratorio», osservò Kinnard. «Hai avuto un'influenza benefica su di lui; era sempre così rigido e serio. Diciamo pure che era davvero pedante.» «È sotto pressione da molto tempo», spiegò Kim, continuando a seguire Edward e Buffer dalla finestra. Sembravano divertirsi un mondo l'uno a lanciare e l'altro a riportare il bastoncino. «Non potresti mai immaginare in che modo si comportava», continuò Kinnard. Kim scosse la testa e si passò nervosamente una mano sulla fronte. «E
ora in che guaio mi sono cacciata?» borbottò. «Non sono affatto contenta che i collaboratori di Edward si installino al castello.» «Quanti sono?» chiese Kinnard. «Cinque.» «E il castello è vuoto?» «Non ci abita nessuno, se è questo che vuoi sapere, ma non è vuoto. Vuoi vederlo?» «Oh, sicuro.» Cinque minuti dopo, Kinnard era al centro del grande salone con il soffitto alto due piani. Sul suo viso c'era un'espressione di incredulità. «Capisco la tua preoccupazione. Questo posto è come un museo. Il mobilio è fantastico, non ho mai visto tendaggi così abbondanti.» «Sono stati fatti negli anni Venti. Mi hanno detto che ci sono voluti mille metri di tessuto.» «Diavolo, un capitale!» mormorò Kinnard con ammirazione. «Mio fratello e io lo abbiamo ereditato dal nonno», spiegò Kim, «e non abbiamo la minima idea di quello che si possa farne. Tuttavia, non so proprio che cosa diranno mio padre o mio fratello di questi estranei che vengono ad alloggiare qui.» «Andiamo a vedere le stanze che occuperanno», le propose Kinnard. Visitarono le due ali. In ognuna c'erano quattro camere da letto e ognuna aveva la sua scala e la porta verso l'esterno. «Con le entrate e le scale separate, non dovranno attraversare la parte principale del castello», osservò Kinnard. «Be', questa è una buona cosa», confermò Kim. Si trovavano in una delle camere da letto della servitù. «Forse non sarà tanto male. I tre uomini possono sistemarsi in quest'ala e le due donne nell'ala degli ospiti.» Kinnard si sporse a guardare nel bagno comune. «Oh, oh», esclamò. «Kim, vieni un po' qua.» Lei lo raggiunse. «Che cosa c'è?» «Non c'è acqua», disse. Si chinò sul lavabo e aprì un rubinetto da cui non uscì neppure una goccia. «Ci dev'essere un guasto nelle tubature.» Controllarono gli altri bagni nell'ala della servitù: nessuno aveva l'acqua. Si recarono nell'ala degli ospiti e poterono constatare che il problema, qualunque fosse, era limitato all'ala della servitù. «Dovrò chiamare l'idraulico», osservò Kim. «Potrebbe essere una cosa semplicissima. Magari è stato chiuso un rubinetto centrale.»
Lasciarono l'ala degli ospiti e tornarono nel corpo principale del castello. «Il Peabody-Essex Institute farebbe pazzie per questo posto», osservò Kinnard. «Farebbe pazzie per poter mettere le mani sul contenuto delle soffitte e della cantina», replicò Kim. «Sono stracolme di vecchie carte, lettere e documenti che risalgono anche a trecento anni fa.» «Mi piacerebbe vederle. Non ti dispiace?» «Affatto.» Tornarono sui loro passi e salirono le scale che portavano alla soffitta. Kim aprì la porta e fece cenno a Kinnard di entrare. «Benvenuto negli archivi degli Stewart!» esclamò. Kinnard si avviò lungo il corridoio centrale, guardandosi intorno, e scosse la testa sbalordito. «Io collezionavo francobolli da ragazzo, e tante volte ho sognato di trovare un posto come questo. Chissà che cosa ci si potrebbe trovare!» «Ci sono altrettante carte in cantina», aggiunse Kim. La meraviglia di Kinnard le dava un segreto piacere. «Potrei passarci un mese, qui», mormorò lui. «Praticamente ci ho passato un mese anch'io. Cercavo qualche riferimento a una mia antenata, Elizabeth Stewart, che fu vittima della tragica caccia alle streghe del 1692.» «Non scherzare! Tutto questo mi affascina. Ricorderai che uno dei miei esami più importanti all'università è stato sulla storia americana.» «L'avevo dimenticato», replicò Kim. «Mentre ero in servizio qui a Salem ho visitato la maggior parte dei luoghi legati ai processi di stregoneria. Mia madre è venuta a trovarmi e ci siamo andati insieme.» «Perché non ci hai portato la bionda del pronto soccorso?» chiese Kim senza riflettere, e subito si pentì di averlo detto. «Non ho potuto. Le è venuta nostalgia di casa ed è tornata a Columbus, nell'Ohio. E tu? Come vanno i tuoi affari di cuore? Pare che la tua relazione con il dottor Armstrong vada a gonfie vele.» «Ha i suoi alti e bassi», rispose evasivamente Kim. «In che maniera la tua antenata era implicata nei processi di stregoneria?» «Be', è stata accusata di essere una strega e condannata a morte.» «Come mai non me lo hai mai detto prima?» «Ero coinvolta in un'operazione di insabbiamento», rispose Kim riden-
do. «Scherzi a parte, ero stata condizionata da mia madre a non parlarne mai. Ma adesso le cose sono cambiate e io voglio andare a fondo del suo caso. È diventata una specie di minicrociata, per me.» «Hai trovato qualcosa?» «Qualcosa? Qui c'è un'immensa quantità di materiale e ci vuole più tempo di quanto pensavo.» Lui posò la mano sulla maniglia di un cassetto e guardò Kim. «Posso?» chiese. «Fa' pure.» Come la maggior parte degli altri cassetti nella soffitta, era pieno di un disordinato assortimento di carte, buste e taccuini. Kinnard vi frugò un momento, ma non trovò francobolli. Infine prese una busta e tirò fuori una lettera. «Non c'è da stupirsi che qui non ci siano francobolli», osservò. «Furono inventati solo alla fine del diciannovesimo secolo, e questa lettera è del 1698!» Kim prese la busta e lesse che era indirizzata a Ronald. «Hai proprio fortuna, vecchia canaglia!» esclamò. «Io mi sono rotta la schiena per scoprire una lettera come questa e tu entri fresco fresco e la peschi fuori come niente!» «Lieto di esserti utile», replicò lui e le porse la lettera. Kim la lesse ad alta voce. Cambridge, 12 ottobre 1698 Carissimo padre, vi sono profondamente grato per i dieci scellini poiché mi sono trovato in grande bisogno in questi difficili giorni di adattamento alla vita del college. Umilmente vorrei riferire che ho avuto completo successo nella ricerca di cui abbiamo molto discusso. Dopo lunghe e difficili indagini ho localizzato la prova usata contro la mia Cara Defunta Madre nelle camere di uno dei nostri stimati insegnanti, che è particolarmente attirato dalla sua macabra natura. La sua vista mi ha causato un certo turbamento, ma martedì scorso, durante l'intervallo del pomeriggio, quando tutti erano allo spaccio, ho arrischiato una visita alle dette camere e, secondo le istruzioni che voi mi avevate dato, ho cambiato il nome con il fittizio Rachel Bingham. Con il medesimo intento ho iscritto lo stesso nome nel catalogo della biblioteca di Harvard Hall. Spero, Caro Padre, che ora voi troviate sollievo nel fatto che il cognome Stewart è stato liberato dalla
sua più dolorosa macchia. Per quello che riguarda i miei studi, posso riferire con una certa contentezza che le mie prove sono state favorevolmente accolte. I miei compagni di camera sono robusti e gagliardi e di carattere molto gradevole. A parte il servizio di matricola, a proposito del quale voi molto opportunamente mi avevate avvertito, io sto bene e sono contento. Sempre vostro affezionato figliolo Jonathan «Cristo santo!» esclamò Kim quando ebbe finito di leggere. «Che cosa ti succede?» «È la famosa prova! Qui parla della prova addotta per condannare Elizabeth. In un documento che ho trovato presso il tribunale della contea di Essex era definita come 'prova decisiva', ossia di valore incontrovertibile per la condanna. Ho trovato poi altri diversi riferimenti, ma nessuna descrizione. E mi sono prefissa di scoprire che cosa fosse in realtà.» «Hai qualche idea in proposito?» «Ritengo che avesse in qualche modo a che fare con l'occulto. Probabilmente un libro o una bambola.» «Direi che, secondo questa lettera, l'ipotesi della bambola è la più probabile. Non so che tipo di libro potesse essere considerato 'macabro'. Il romanzo dell'orrore non fu inventato che nel diciannovesimo secolo.» «Forse era un libro con la ricetta di qualche pozione stregata che utilizzava come ingredienti parti del corpo umano.» «A questo non avevo pensato.» «Nel diario di Elizabeth si parla della fabbricazione di bambole», ricordò Kim. «E delle bambole furono addotte come prova nel processo contro Bridget Bishop. Secondo me, una bambola poteva essere 'macabra' per qualche mutilazione o per le parti intime scoperte. Immagino che, per la moralità puritana, molte cose associate al sesso potessero essere considerate macabre.» «Secondo me è un errore pensare che i puritani fossero tutti ossessionati dal sesso», osservò Kinnard. «Io ricordo, dai miei studi di storia, che per loro i peccati associati al sesso prematrimoniale e alla lussuria erano peccati minori a confronto della menzogna o dell'egoistico interesse personale, poiché questi ultimi violavano i sacri patti.» «Questo significa che le cose sono molto cambiate dai tempi di Elizabeth», commentò Kim con un sorrisetto ironico. «Ciò che i puritani consi-
deravano peccato mortale oggi è accettato, e spesso elogiato, nella nostra società. Basta osservare una seduta del Governo!» «Così tu speri di risolvere il mistero di questa prova frugando in tutte queste carte?» chiese Kinnard. «Qui e nella cantina. Ho trovato una lettera di Increase Mather in cui affermava che la famosa prova era diventata parte delle collezioni di Harvard. L'ho portata ad Harvard, ma non ho avuto successo. Le bibliotecarie non hanno rintracciato nessun riferimento a Elizabeth Stewart nel diciassettesimo secolo.» «Secondo la lettera di Jonathan, avresti dovuto cercare sotto il nome di Rachel Bingham.» «Ora lo so, ma non mi sarebbe servito lo stesso. Nell'inverno del 1764 scoppiò un incendio che distrusse Harvard Hall e la sua biblioteca. Non solo bruciarono tutti i libri, ma anche quello che era chiamato Museo delle curiosità, più tutti i cataloghi e le schede. Purtroppo non si sa neppure che cosa sia andato perduto. Temo che Harvard non possa più essermi di aiuto ormai.» «Mi dispiace», disse Kinnard gentilmente. «Grazie.» «Almeno hai una probabilità, frugando in tutte queste carte.» «È la mia unica speranza», affermò Kim. Gli mostrò come stava sistemando il materiale in ordine cronologico e per argomento e lo condusse nella zona in cui stava lavorando quella mattina. «È una bella impresa!» commentò lui. Diede un'occhiata all'orologio. «Temo di dovermene andare. Devo fare un giro di visite ai miei pazienti, questo pomeriggio.» Kim lo accompagnò alla macchina. Kinnard si offrì di darle un passaggio fino alla villa, ma lei rifiutò, dicendo che voleva passare un paio d'ore ancora nelle soffitte. In particolare, desiderava setacciare il cassetto dove lui aveva così facilmente rinvenuto la lettera di Jonathan. «Forse non dovrei chiederlo», disse lui, mentre apriva la portiera della macchina, «ma che cosa stanno facendo Edward e i suoi ricercatori quaggiù?» «Hai ragione, non devi chiederlo. Non posso dirti niente perché ho giurato di mantenere il segreto. Ma è noto a tutti che stanno lavorando a uno studio farmacologico. Edward ha allestito un laboratorio nelle vecchie stalle.» «Edward non è uno sciocco! Questo è un posto favoloso per un laborato-
rio di ricerca.» Kinnard stava per salire in macchina quando Kim lo fermò. «Devo chiederti una cosa. È contro la legge che i ricercatori ingeriscano un farmaco sperimentale che non è stato ancora controllato clinicamente?» «È contro le norme dell'FDA che si somministri un farmaco del genere a dei volontari, ma se sono i ricercatori ad assumerlo, non credo che questo rientri nelle competenze dell'FDA. Mi stupirei se li condannassero. D'altra parte, il fatto potrebbe provocare qualche difficoltà quando i ricercatori chiedessero all'FDA l'autorizzazione a sperimentare il nuovo farmaco.» «Peccato! Speravo proprio che fosse contro la legge.» «Penso che non occorra essere uno scienziato nucleare per indovinare perché me lo domandi.» «Io non dico niente, e ti sarei grata se non ne parlassi.» «E a chi vuoi che ne parli?» Dopo questa domanda retorica lui esitò un attimo, poi chiese: «Tutti quanti vogliono assumere il farmaco?» «Davvero non voglio parlarne», insistette Kim. «Se lo facessero, questo porrebbe un interessante problema etico», continuò Kinnard ignorando le sue ultime parole. «Ci sarebbe la questione della coercizione sui membri più giovani.» «Non credo che ci sia alcuna coercizione. Forse una specie di isterismo di gruppo, ma nessuno sta forzando nessuno.» «Comunque, a parte tutto, assumere un farmaco non controllato non è mai una buona idea. C'è un notevole rischio di effetti collaterali imprevisti ed è questa la ragione per cui sono state promulgate le leggi.» «È stato un piacere rivederti», disse Kim cambiando argomento. «Sono lieta di sapere che siamo rimasti amici.» Kinnard sorrise. «Mi hai tolto le parole di bocca!» Mise in moto e Kim lo salutò con la mano finché non lo vide sparire fra gli alberi. Le dispiaceva che se ne andasse. La sua visita inaspettata era stata un piacevole diversivo. Rientrò nel castello. Mentre saliva le scale della soffitta sentiva ancora il calore provocato dalla visita di Kinnard e a un tratto si sorprese a pensare con un certo disagio all'incontro con Edward. Ricordava benissimo che, quando aveva cominciato a uscire con lui, Edward aveva reagito con gelosia alla semplice menzione del nome di Kinnard. Questo rendeva ancora più inspiegabile il suo atteggiamento di quel pomeriggio e si domandò anche se Edward avrebbe avuto uno scoppio d'ira ritardato, la prossima volta che si fossero visti da soli.
Verso sera, Kim decise di sospendere le ricerche. Si alzò e stiracchiò i muscoli doloranti. Era delusa perché non aveva trovato alcun materiale interessante nel cassetto in cui Kinnard aveva rinvenuto la lettera di Jonathan né nello schedario stesso o nelle vicinanze. Questo rendeva ancora più sorprendente la scoperta di Kinnard. Lasciò il castello e si avviò verso la villa mentre il sole stava calando a occidente. Era già autunno inoltrato e l'inverno non era lontano. Mentre camminava pensò vagamente a che cosa preparare per cena. Era quasi arrivata alla villa quando udì il suono lontano di voci eccitate. Si voltò e vide che Edward e la sua squadra erano emersi dall'isolamento del laboratorio. Avvertì un senso di apprensione e si fermò a osservare il gruppo che si avvicinava. Anche a distanza si capiva che erano di umore allegro, come un gruppo di scolaretti usciti dalla scuola. Li sentiva ridere e gridare. Gli uomini, tranne Edward, si lanciavano l'un l'altro una grossa palla. La prima idea che le venne fu che avessero fatto qualche scoperta sensazionale. Più si avvicinavano, più ne era sicura, non li aveva mai visti così di buonumore. Ma quando furono più vicini capì che non era così. «Guarda che cos'hai fatto ai miei colleghi!» le gridò Edward. «Ho appena detto loro della tua offerta di alloggiare al castello, e impazziscono dalla gioia.» Tutti la circondarono festosi gridando «Hip hip hurrà!» per tre volte, quindi scoppiarono a ridere. Kim si trovò a sorridere a sua volta. La loro esuberanza era contagiosa, erano come studentelli alla festa del liceo. «Sono veramente commossi dalla tua ospitalità», le spiegò Edward. «Riconoscono che è un gran favore che gli fai. Pensa che Curt qualche notte ha persino dormito per terra nel laboratorio.» «Carino il tuo vestito», le disse Curt. Kim guardò la sua giacca di pelle e i jeans. Non c'era proprio niente di speciale. «Grazie», rispose. «Vogliamo rassicurarti a proposito degli arredi del castello», aggiunse François. «Sappiamo che sono cari cimeli di famiglia e li tratteremo con il massimo rispetto.» Eleanor avanzò e inaspettatamente abbracciò Kimberly. «Sono commossa dal tuo generoso contributo alla nostra causa!» Le strinse forte la mano e la fissò negli occhi. «Grazie, grazie di tutto cuore.»
Lei annuì, non sapendo che cosa dire. Adesso quasi provava rimorso per essersi mostrata tanto contraria all'idea. «A proposito», intervenne Curt infilandosi davanti a Eleanor. «Volevo chiederti se il rumore della mia moto ti disturba. Se è così, la parcheggerò fuori della tenuta.» «Non mi sono accorta di nessun rumore», rispose lei. «Kim!» la chiamò Edward affiancandosi a lei. «Se non è di disturbo, i miei colleghi vorrebbero che tu li accompagnassi al castello per mostrargli in quali camere hai deciso di sistemarli.» «Ma certo. Non c'è alcun problema!» «Perfetto!» esclamò Edward. Tornando sui propri passi, Kim guidò l'allegro gruppetto verso il castello. David e Gloria la raggiunsero e camminarono al suo fianco, assalendola con cento domande sul castello, chiedendo quando fosse stato costruito e se lei ci aveva mai abitato. Quando entrarono si levò un coro di esclamazioni di meraviglia, soprattutto nel grande salone e nella sala da pranzo. Kim mostrò loro dapprima l'ala degli ospiti, suggerendo che vi alloggiassero le donne. Eleanor e Gloria scelsero due stanze comunicanti al piano superiore. «Così possiamo svegliarci a vicenda, se dormiamo troppo», commentò Eleanor. Kim fece osservare loro che ogni ala aveva ingressi e scale separate. «Benissimo», interloquì François. «Così non dovremo neppure entrare nella parte centrale del castello.» Passando all'ala della servitù, Kim spiegò che c'era un problema con le tubature, ma aggiunse che avrebbe chiamato l'idraulico in mattinata. Poi mostrò loro un bagno, nella parte centrale dell'edificio, che potevano usare nel frattempo. Gli uomini scelsero le proprie stanze senza litigare, anche se alcune erano evidentemente migliori delle altre. Kim fu colpita dalla cordialità che regnava nel gruppo. «Posso anche fare allacciare il telefono», propose. «Non preoccuparti», ribatté David. «Apprezziamo la tua offerta, ma non è necessario. Verremo qui soltanto a dormire e non dormiamo neppure molto. Possiamo usare il telefono del laboratorio.» Terminato il giro, uscirono dal castello passando dalla porta dell'ala della servitù, poi svoltarono e si trovarono davanti alla facciata. Discussero la
questione delle chiavi e decisero di lasciare aperte le porte d'ingresso delle ali, per il momento. Kim avrebbe fatto fare i duplicati delle chiavi per tutti, appena possibile. Dopo vigorose strette di mano e abbracci e ringraziamenti a non finire, i ricercatori partirono per recarsi alle rispettive pensioni a fare le valigie. Kim ed Edward tornarono alla villa. Lui era di ottimo umore e continuava a ringraziare Kim per la sua generosità. «Hai veramente contribuito a cambiare del tutto l'atmosfera del laboratorio. Come hai potuto vedere, sono entusiasti. E, poiché la serenità è un fattore determinante, il loro lavoro ne trarrà enorme vantaggio. Hai influito in maniera positiva su tutto il nostro progetto.» «Sono lieta di aver potuto contribuire.» Kim si sentì ancora più colpevole per essere stata tanto contraria all'idea fin dal principio. Arrivati alla villa, lei fu sorpresa che Edward l'accompagnasse dentro. Aveva pensato che si recasse direttamente al laboratorio. «È stato gentile da parte del dottor Monihan venire a trovarci», osservò Edward. Kim rimase a bocca aperta e dovette fare uno sforzo per chiuderla. «Sai, io gradirei una birra. E tu?» chiese Edward. Kim scosse la testa. Per un momento aveva perso la voce. Mentre seguiva Edward in cucina, cercò di fare appello a tutto il proprio coraggio per parlargli della loro relazione: il suo umore era certo migliore di quanto fosse mai stato fino ad allora. Lui si diresse al frigorifero e Kim sedette su uno sgabello. Proprio mentre era sul punto di abbordare l'argomento Edward fece saltare il tappo della birra e ancora una volta la sorprese. «Voglio scusarmi con te per essere stato così orso e burbero in tutto questo mese», esordì. Bevve un sorso di birra, ruttò e si scusò. «Ci sto pensando da un paio di giorni e mi rendo conto che sono stato irragionevole e sgarbato. Non lo dico per scusarmi o per assolvermi dalle mie responsabilità, ma tutti mi facevano pressione, Stanton, Harvard, i ricercatori e persino io stesso. Però non avrei mai dovuto lasciare che queste preoccupazioni si frapponessero fra noi. Ancora una volta ti prego di perdonarmi.» Kim fu presa alla sprovvista dalla confessione di Edward. Era una svolta totalmente inaspettata nella loro situazione. «Vedo che sei turbata», continuò lui. «Non hai bisogno di dire niente, se non vuoi. Posso immaginare che tu abbia covato del malumore contro di
me.» «Ma io voglio parlarne con te», replicò Kim. «È tanto tempo che desidero farlo, soprattutto da venerdì, quando sono andata a Boston a trovare una terapista che avevo consultato anni fa.» «Approvo la tua iniziativa.» «Mi ha fatto pensare molto al modo in cui abbiamo impostato il nostro rapporto», continuò Kim, abbassando gli occhi a guardarsi le mani. «Mi sono chiesta se vivere insieme proprio in questo momento sia davvero vantaggioso per ciascuno di noi.» Edward appoggiò la sua birra sul tavolo e le prese le mani. «Capisco ciò che devi provare e i tuoi sentimenti sono più che giustificati, dato il mio recente comportamento. Ma io ora mi rendo conto dei miei errori e sono sicuro di poter rimediare.» Kim stava per dire qualcosa, ma Edward la interruppe. «Tutto quello che ti chiedo è lasciare le cose così come stanno per poche settimane. Io resterò nella mia camera e tu nella tua. Se dopo questo periodo di prova deciderai che non dobbiamo più stare insieme, mi trasferirò al castello con gli altri.» Kim rifletté su ciò che Edward aveva detto. L'aveva impressionata con il suo pentimento e con la sua perspicacia e l'offerta le parve ragionevole. «D'accordo», finì per acconsentire. «Oh, così va bene!» Edward si alzò e la strinse in un lungo abbraccio. Kim rimase un po' sulle sue. Le era difficile cambiare così rapidamente stato d'animo. «Dobbiamo festeggiare», continuò lui. «Andiamo fuori a cena, tu e io soli.» «So che non puoi dedicarmi tutto quel tempo, ma apprezzo la tua offerta.» «Sciocchezze! Troverò il tempo. Torniamo in quella bettola dove abbiamo mangiato in una delle nostre prime visite. Ricordi quel merluzzo?» Kim annuì ed Edward vuotò il suo bicchiere di birra. Mentre lasciavano la tenuta, dal finestrino Kim lanciò uno sguardo al castello. Le vennero in mente i ricercatori e disse a Edward che le erano parsi pieni di entusiasmo e di allegria. «Non potrebbero essere più felici!» replicò lui. «Le cose vanno a gonfie vele, al laboratorio, e ora non sono più costretti ad andare avanti e indietro.» «Avete già incominciato a prendere l'Ultra?» chiese Kim.
«Naturalmente. Abbiamo cominciato tutti martedì.» Kim ebbe per un momento la tentazione di riferigli i commenti di Kinnard sull'argomento, ma esitò. Temeva che Edward si sarebbe infuriato scoprendo che lei aveva parlato ad altri dei loro progetti. «E abbiamo già appreso qualcosa di interessante», aggiunse Edward. «Il livello di Ultra nei tessuti non può avere importanza determinante perché tutti noi abbiamo riscontrato risultati positivi pur avendo assunto dosaggi molto diversi.» «E l'euforia che ho visto in te e negli altri può essere in rapporto con il farmaco?» «Senza dubbio. Indirettamente, se non direttamente. Ventiquattr'ore dopo avere preso la prima dose tutti noi ci siamo sentiti rilassati, fiduciosi e...» Edward cercò la parola adatta e finalmente disse: «Contenti. Tutto ciò è ben lontano dallo stato di ansietà, fatica e litigiosità in cui ci trovavamo prima di prendere l'Ultra». «Non ci sono effetti collaterali?» «L'unico effetto collaterale che abbiamo sperimentato è stato all'inizio la bocca un po' asciutta. Due degli altri hanno riferito una leggera stitichezza. Io sono stato l'unico che ha avuto qualche difficoltà con la vista, da vicino, ma è durato soltanto ventiquattr'ore. Del resto, avevo avuto lo stesso problema anche prima di prendere l'Ultra, soprattutto quando ero molto stanco.» «Forse dovreste smettere di prendere il farmaco, ora che avete raccolto tante informazioni», suggerì Kim. «Non credo proprio. Non è giusto smettere proprio ora che abbiamo risultati tanto positivi. Anzi, ne ho portato un po' anche per te, nel caso volessi provarlo.» Frugò nella tasca della giacca e prese una boccettina piena di capsule. Gliela porse e Kim arretrò. «No, grazie!» disse bruscamente. «Per amor di Dio, prendi almeno la boccettina.» Pur riluttante, Kim permise a Edward di metterle il flacone in mano. «Almeno pensaci», insistette lui. «Ricordi quel discorso che abbiamo fatto tempo fa, sull'incapacità di comunicare con gli altri? Di adattarsi alla vita di società? Bene, non ti sentirai mai così, se prenderai l'Ultra. Io lo prendo da meno di una settimana e ha fatto emergere la mia vera personalità. Ora sono la persona che volevo essere. Penso che dovresti provarla anche tu. Che cos'hai da perdere?»
«L'idea di assumere un farmaco per modificare la mia personalità mi sconvolge», ribatté Kim. «La personalità dev'essere formata dall'esperienza, non dalla chimica.» «Questo mi ricorda un discorso che abbiamo già fatto», sorrise Edward. «Come chimico, credo di dover pensare diversamente. Fa' come vuoi, ma ti assicuro che ti sentiresti più fiduciosa e sicura, se lo prendessi. E non è tutto. Riteniamo anche che rafforzi la memoria a lungo termine e possa alleviare la fatica e lo stato ansioso. Ho avuto un'ottima dimostrazione di quest'ultimo effetto giusto stamattina. Mi hanno telefonato da Harvard annunciando che hanno sporto querela contro di me: io mi sono infuriato, ma la rabbia è durata solo pochi minuti. L'Ultra ha placato la mia rabbia, così, invece di menare pugni contro il muro, ho potuto riflettere razionalmente sulla situazione e prendere le decisioni adatte.» «Sono lieta che tu trovi questo farmaco così utile. Comunque io non voglio prenderlo.» Kim cercò di restituire la bottiglietta a Edward, ma questi respinse la sua mano. «Tienilo», insistette. «Voglio soltanto che tu ci pensi. Prendi una sola capsula al giorno e sarai stupita dell'effetto.» Vedendolo così ostinato, Kim fece scivolare il flacone nella borsa. Più tardi, al ristorante, mentre era nella toilette delle signore, davanti allo specchio, il suo sguardo si posò sulla boccettina che aveva nella borsa. Svitò il tappo e con la punta delle dita prese una delle capsule blu per esaminarla. Le parve incredibile che potesse fare tutto quello che Edward aveva detto. Si guardò allo specchio e ammise con se stessa che le sarebbe piaciuto essere più risoluta e meno timida, e ammise anche che sarebbe stato comodo poter curare così facilmente il suo stato ansioso, leggero ma così fastidioso. Guardò ancora la capsula, poi scosse la testa ripetendo a se stessa che i farmaci non erano la risposta giusta. Tornando nella sala da pranzo ricordò di avere sempre diffidato delle soluzioni troppo facili e rapide. Nel corso degli anni si era convinta che il miglior modo di affrontare i problemi era la solita vecchia maniera: introspezione, un po' di pena e molta tenacia. Più tardi, quella notte, mentre leggeva comodamente a letto, Kim sentì chiudersi con un colpo la porta d'ingresso e trasalì. Guardò l'orologio e vide che non erano ancora le undici. «Edward?» chiamò nervosamente.
«Sono io», rispose lui salendo le scale a due gradini per volta. Fece capolino nella stanza di Kim. «Spero di non averti spaventata.» «Ma è così presto! Stai bene?» «Non potrei stare meglio. Mi sento addirittura pieno di energia, il che è sorprendente, poiché sono in piedi dalle cinque del mattino.» Entrò in bagno e cominciò a lavarsi i denti. Intanto chiacchierava animatamente raccontando buffi incidenti che erano avvenuti quella sera al laboratorio. Pareva che tutti gli scienziati si dessero un gran da fare a giocare innocenti scherzi ai compagni. Mentre Edward parlava, Kim pensava a quanto fosse diverso il proprio stato d'animo da quello di tutti gli altri ospiti della tenuta. Malgrado l'evidente cambiamento di umore di Edward, si sentiva sempre tesa, vagamente ansiosa e anche un po' depressa. Quando ebbe finito in bagno, tornò nella stanza di Kim e sedette sul bordo del letto. Buffer lo seguì e, con gran disappunto di Sheba, cercò di saltarvi sopra anche lui. «No, tu no, briccone!» Edward lo sollevò e se lo mise sulle ginocchia. «Pensi di andare già a letto?» chiese Kim. «Sicuro, devo alzarmi alle tre e mezzo invece che alle cinque, come al solito. Devo seguire un esperimento che ho in corso. Qui a Salem non ho assistenti che mi facciano il lavoro manuale.» «Non potrai dormire molto», osservò Kim. «Basterà.» Poi, cambiando bruscamente argomento, chiese: «Quanto denaro hai ereditato insieme con la tenuta?» Kim aggrottò la fronte. Pareva che Edward dovesse sorprenderla ogni volta che apriva bocca. Una domanda così indiscreta e inopportuna era del tutto estranea al suo carattere. «Non sei obbligata a dirmelo, se non ti va», aggiunse, vedendola esitare. «Te lo domando solo perché mi piacerebbe che tu avessi una partecipazione nella Omni. Io non voglio vendere altre azioni, ma per te è diverso. Otterrai un profitto enorme dal tuo investimento, se ti decidi.» «Il mio denaro è già tutto investito», riuscì a balbettare Kim. Edward posò Buffer sul pavimento e alzò le mani. «Non mi fraintendere, non faccio il procacciatore d'affari. Sto solo cercando di farti un favore in cambio di quello che tu hai fatto per la Omni permettendoci di allestire qui il laboratorio.» «Apprezzo l'offerta», rispose Kim. «Anche se non vuoi investire, ti darò lo stesso qualche azione come do-
no», affermò Edward. Le diede una pacca affettuosa sulla gamba attraverso le coperte e si alzò. «Ora devo andare a letto, ho bisogno di quattro buone ore di sonno. Vedi, da quando ho cominciato a prendere l'Ultra, dormo così profondamente che quattro ore mi bastano e avanzano. Non avevo mai saputo che il sonno potesse essere tanto piacevole.» Con passo elastico tornò in bagno e cominciò a lavarsi un'altra volta i denti. «Ma non stai esagerando?» gli gridò Kim. Edward fece di nuovo capolino nella sua camera. «Che cosa vuoi dire?» chiese. «Ti sei già lavato i denti una volta.» Edward guardò lo spazzolino come per rimproverarlo, poi scosse la testa e rise. «Sto proprio diventando un professore smemorato!» farfugliò. E tornò in bagno a sciacquarsi la bocca. Kim guardò Buffer, che era rimasto di fronte al comodino da notte e stava chiedendo perentoriamente qualcuno dei biscotti che lei si era portata poco prima dalla cucina. «Il tuo cane sembra terribilmente affamato!» gridò a Edward, che era già nella sua camera. «Gli hai dato da mangiare?» Edward comparve sulla porta. «Onestamente, non mi ricordo.» E scomparve di nuovo. Rassegnata, Kim si alzò, s'infilò la vestaglia e scese in cucina e Buffer la seguì come se avesse capito quello che avevano detto. Lei tirò fuori una scatola di cibo per cani e ne versò un po' in un piatto, mentre Buffer, fuori di sé per l'eccitazione, ringhiava e latrava insieme. Era ovvio che non aveva avuto niente da mangiare, forse da più di un giorno. Per evitare di farsi mordere, Kim lo chiuse nel bagno mentre deponeva la sua ciotola sul pavimento. Quando gli riaprì, il cane sfrecciò accanto a lei come un lampo bianco e cominciò a ingurgitare il cibo così rapidamente che pareva dovesse strozzarsi. Quando risalì le scale, vide che Edward aveva ancora la luce accesa. Voleva parlargli di Buffer ed entrò nella sua stanza, ma scoprì che era già addormentato. Evidentemente aveva subito preso sonno, senza avere neppure il tempo di spegnere la luce. Si avvicinò al suo tavolino da notte, sorpresa del suo sonoro russare. Sapendo quanto fosse pesante il lavoro che svolgeva quotidianamente non fu stupita della profondità del suo sonno. Doveva essere veramente esausto. Spense la luce e tornò nella sua stanza.
14 Lunedì 26 settembre 1994 Quando finalmente Kim aprì gli occhi fu sorpresa di vedere che erano già quasi le nove. Era più tardi del solito. Scese dal letto e diede un'occhiata nella camera di Edward, che però era già uscito da un po'. La sua stanza vuota appariva pulita e in ordine. Edward aveva la lodevole abitudine di rifarsi il letto tutte le mattine. Mentre si avviava verso il bagno per fare la doccia, telefonò all'idraulico, Albert Bruer, che aveva lavorato sia alla villa sia al laboratorio. Lasciò un messaggio e il suo numero di telefono sulla segreteria telefonica. Albert la richiamò mezz'ora dopo e Kim aveva appena finito di fare colazione quando si presentò sulla porta. Insieme si recarono al castello sul suo furgoncino. «Credo di sapere qual è il problema», spiegò Albert. «In realtà, esisteva già quando suo nonno era vivo. Si tratta dei tubi, che sono di ghisa: alcuni si sono arrugginiti.» La condusse in ognuna delle stanze da bagno nell'ala della servitù, tolse i pannelli e le indicò i tubi arrugginiti. «Si possono riparare?» chiese Kim. «Sì, certo, ma sarà un lavoro lungo. Richiederà almeno un'intera settimana.» «Va bene. Inizi i lavori al più presto, ho degli ospiti che devono venire ad alloggiare qui.» «In questo caso, posso portare l'acqua nel bagno del terzo piano. Quei tubi sono in buone condizioni. Forse lassù non ci ha abitato mai nessuno.» Quando l'idraulico se ne andò, Kim si recò al laboratorio per avvertire che era utilizzabile il bagno del terzo piano. Da parecchi giorni non entrava nel laboratorio e avrebbe preferito non fare quella visita. Non si era mai sentita bene accolta dal gruppo. «Kim!» la chiamò David con entusiasmo. Fu il primo a vederla entrare. «Che bella sorpresa!» esclamò e annunciò a gran voce il suo arrivo agli altri. Tutti, compresa Eleanor, interruppero quello che stavano facendo per andare a salutarla. Kim si sentì arrossire. Non le piaceva essere al centro dell'attenzione. «Abbiamo caffè fresco e ciambelle. Gradisci qualcosa?» offrì Eleanor.
Kim ringraziò ma rifiutò, spiegando che aveva appena fatto colazione. Si scusò per averli disturbati e spiegò loro quale fosse la soluzione momentaneamente adottata per il bagno. Gli interessati le assicurarono che per loro andava benissimo anche il bagno del secondo piano e cercarono di dissuaderla dal fare delle riparazioni. «Non voglio lasciare l'impianto così com'è. Preferisco farlo riparare», affermò Kim decisa; fece per accomiatarsi, ma non vollero lasciarla andare. Tutti insistettero per mostrarle il lavoro che stavano svolgendo. David per primo la condusse al suo banco e la fece guardare nel suo microscopio, spiegandole che si trattava di un preparato di gangli addominali prelevati da un mollusco che si chiamava Aplasia fasciata. Poi le mostrò dei tabulati da cui risultava come l'Ultra modificasse l'attività spontanea di alcuni neuroni del ganglio. Prima che Kim potesse anche vagamente capire quello che stava vedendo, David le tolse di mano i tabulati e la condusse all'incubatrice dov'erano conservate le colture di tessuti e le spiegò che era suo compito esaminare le colture per rilevarvi segni di tossicità. Quindi fu la volta di Gloria e di Curt. Kim cercò di mostrarsi interessata, ma gli esperimenti sugli animali la sconvolgevano. Dopo Gloria e Curt arrivò François, che cercò di spiegarle il metodo che stava seguendo per determinare la struttura della proteina legante per l'Ultra. Sfortunatamente, Kim capì ben poco delle sue spiegazioni. Si limitò ad annuire e sorridere ogni volta che c'era una pausa nel discorso. Poi fu il turno di Eleanor, che la condusse davanti al suo terminale e si lanciò in un'esposizione minuziosa sulle strutture molecolari. Girando per il laboratorio, Kim osservò che i ricercatori non solo avevano un atteggiamento amichevole verso di lei, ma erano pazienti e rispettosi fra di loro. Benché apparissero ansiosi di parlare con lei e accaparrarsi la sua attenzione, ognuno aspettava tranquillamente il proprio turno. «La sua spiegazione è stata molto interessante.» Kim ringraziò Eleanor quando finalmente terminò la sua conferenza, e si avviò verso la porta dicendo: «Sono molto grata a voi tutti di avermi dedicato tanta parte del vostro prezioso tempo». «Aspetta!» gridò François. Corse alla sua scrivania, prese un plico di fotografie e tornò da lei. Quasi senza fiato gliele mostrò e le chiese che cosa ne pensava. Erano tomografie a emissione di positrone, brillantemente colorate.
«Penso che siano...» Kim cercò una parola che non la facesse apparire una sciocca, e infine disse: «Drammatiche». «Sono drammatiche, vero?» ripeté François inclinando la testa per osservarle da un'angolazione leggermente diversa. «Si avvicinano all'arte moderna.» «Che cosa vi dicono esattamente?» Kim avrebbe preferito andarsene, ma con tutti quegli occhi addosso si sentì in obbligo di fare qualche domanda. «I colori si riferiscono alla concentrazione di Ultra radioattivo», spiegò François. «Il rosso è la concentrazione più alta. Questi scintigrammi mostrano chiaramente che il farmaco si localizza in linea di massima nel tronco cerebrale superiore, nel mesencefalo e nel sistema limbico.» «Ricordo che Stanton parlava del sistema limbico, quella sera a cena», osservò Kim. «È vero», confermò François. «Come diceva, fa parte delle sezioni più primitive del cervello, del nostro cervello da rettile, ed è legato alla funzione autonomica, che comprende l'umore, l'emotività e anche l'odorato.» «E il sesso», aggiunse David. «Che cosa intendi con 'da rettile'?» domandò Kim. La parola aveva per lei un suono sgradevole. Aveva sempre detestato i serpenti. «Si usa per indicare quelle parti del cervello che sono simili al cervello dei rettili», spiegò François. «Naturalmente, si tratta di una semplificazione, ma ha i suoi vantaggi. Anche se il cervello umano si è evoluto da qualche antichissimo antenato che abbiamo in comune con i rettili di oggi, non è come prendere un cervello di rettile e incollarci sopra un paio di emisferi cerebrali.» Tutti risero e Kim si trovò a ridere con loro. Era difficile resistere all'allegria generale. «Per quello che riguarda gli istinti fondamentali», aggiunse Edward, «noi umani li abbiamo uguali a quelli dei rettili. La differenza sta nel fatto che i nostri sono ricoperti da diversi strati di socializzazione e civilizzazione. In parole povere, questo significa che gli emisferi cerebrali sono muniti di freni inibitori che controllano il comportamento animale.» Kim diede un'occhiata al suo orologio. «Devo proprio andare, devo prendere il treno per Boston.» Con questa scusa riuscì finalmente a liberarsi da quell'assedio. Edward l'accompagnò alla porta. «Stai andando davvero a Boston?» le chiese. «Sì, ieri sera ho deciso di tornare ad Harvard per fare un altro tentativo.
Ho trovato una lettera con un riferimento alla prova addotta contro Elizabeth che mi ha fornito un altro indizio.» «Buona fortuna. Divertiti.» Edward le diede un bacio e tornò al suo lavoro, senza neppure chiedere che cosa dicesse quell'ultima lettera. Kim tornò a piedi alla villa sentendosi stranamente confusa per l'inaspettata cordialità dei ricercatori. Forse c'era qualcosa in lei che non andava. Prima non aveva gradito il loro atteggiamento altezzoso, ora non le piaceva la loro improvvisa espansività. Era dunque così incontentabile? Più ci pensava, più si convinceva che quello che la sconcertava era la loro improvvisa armonia. Quando li aveva incontrati per la prima volta, era stata colpita dall'eccentricità e dalle stravaganze di ciascuno di loro. Adesso le loro personalità si erano in qualche modo fuse in un tutto, che cancellava la loro individualità. Mentre si cambiava d'abito per il viaggio a Boston, continuò a rimuginare su quanto stava avvenendo al castello, e sentì crescere l'apprensione, quello stato ansioso che l'aveva spinta a consultare Alice. Entrando in soggiorno per prendere un pullover, si fermò sotto il ritratto di Elizabeth e fissò il volto femminile ma energico della sua antenata. Non c'era traccia di ansietà in quel volto e si domandò se si fosse mai sentita smarrita come lo era lei adesso. Salì in macchina e si diresse alla stazione senza riuscire a distogliere la mente dal pensiero di Elizabeth. All'improvviso gli venne in mente che c'erano strane analogie fra il suo mondo e quello della sua antenata, malgrado i secoli che le separavano. Elizabeth doveva vivere con il continuo timore degli attacchi degli indiani, mentre Kim sentiva sempre presente il pericolo del crimine. Allora c'era la spaventosa minaccia della peste, oggi era l'Aids. Al tempo di Elizabeth c'era stato il declino del dominio puritano sulla società e l'emergere di un arrogante materialismo; oggi tramontava la stabilità garantita dalla guerra fredda e si imponevano il nazionalismo sfrenato e il fondamentalismo religioso. Allora il ruolo della donna era confuso e mutevole, e oggi non era diverso. «Più le cose cambiano, più restano le stesse», mormorò a voce alta ripetendo il vecchio adagio. Si domandò se tutte quelle analogie avessero a che fare con il messaggio che, ne era convinta, Elizabeth cercava di trasmetterle attraverso i secoli. Con un brivido si domandò se la sorte le riservasse un destino simile a quello della sua antenata. Era questo che la donna cercava di dirle? Poteva essere un avvertimento?
Sempre più agitata, fece uno sforzo per cacciare quei pensieri ossessivi. Ci riuscì finché fu salita sul treno, poi i pensieri tornarono ad assillarla. «Per amor di Dio!» disse a voce alta, e la donna che le sedeva accanto la fissò con sospetto. Si voltò a guardare fuori del finestrino, rimproverandosi per essersi lasciata letteralmente travolgere dalla propria immaginazione. Dopotutto, le differenze esistenti fra la sua vita e quella di Elizabeth erano molto maggiori delle analogie, soprattutto perché la sua antenata era stata poco padrona del proprio destino. Era stata costretta in giovane età a un matrimonio combinato dalla famiglia né aveva avuto alcun mezzo per il controllo delle nascite. Invece Kim era libera di scegliere l'uomo che voleva sposare e aveva il pieno potere sul suo corpo, per quanto riguardava la riproduzione. Questi pensieri la tranquillizzarono e placarono la sua ansia finché il treno si avvicinò alla North Station di Boston. Allora cominciò a domandarsi se era davvero libera come credeva. Ripensò ad alcune delle grandi decisioni della sua vita, soprattutto alla scelta di fare l'infermiera invece che dedicarsi all'arte o all'insegnamento. Poi pensò che stava vivendo con un uomo un rapporto troppo simile a quello che aveva avuto con suo padre. Infine, ricordò a se stessa che aveva la responsabilità di un laboratorio allestito sulla sua proprietà e cinque ricercatori alloggiati nella casa di famiglia. E non per sua iniziativa. Il treno si fermò e Kim, come assente da quanto la circondava, si avviò verso la metropolitana. Sapeva qual era il suo problema; poteva quasi sentire la voce di Alice che le diceva che tutto dipendeva dalla sua personalità. Non aveva abbastanza fiducia in se stessa, era troppo arrendevole, pensava alle esigenze degli altri e non alle proprie. Tutto questo contribuiva a limitare la sua libertà. Che ironia, pensò. La personalità di Elizabeth, con la sua fermezza e la sua sicurezza, sarebbe stata perfettamente adatta al mondo moderno, mentre ai suoi tempi contribuì senza dubbio a portarla alla morte. D'altra parte, la sua personalità, piuttosto docile e sottomessa, sarebbe andata benissimo per il diciassettesimo secolo, ma non funzionava altrettanto bene oggi. Sempre più decisa a portare alla luce l'intera storia della sua antenata, prese la metropolitana e raggiunse Harvard Square. Quindici minuti dopo, si trovava nell'ufficio di Mary Custland, in attesa che la donna finisse di leggere la lettera di Jonathan. «Questa sua casa dev'essere una miniera di preziosi ricordi», le disse la
donna alzando gli occhi dalla pagina. «Questa lettera è di enorme valore.» Chiamò subito Katherine Sturburg nel suo ufficio e gliela fece leggere. «Affascinante», esclamò Katherine quando ebbe letto. Le due donne spiegarono a Kim che la lettera apparteneva a un periodo della storia di Harvard su cui si avevano scarse testimonianze. Le chiesero se potevano copiare la lettera e Kim naturalmente acconsentì. «Ora dobbiamo trovare un riferimento a Rachel Bingham», rifletté Mary sedendosi al suo terminale. «Così spero», replicò Kim. Mary digitò il nome, mentre Kim e Katherine guardavano lo schermo al di sopra delle sue spalle. Kim si sorprese a tenere le dita incrociate senza neppure rendersene conto. Due Rachel Bingham lampeggiarono sullo schermo, ma erano entrambe del diciannovesimo secolo e non potevano avere alcun rapporto con Elizabeth. Mary provò qualche altro incrocio, ma non ebbe alcun risultato. «Mi spiace proprio», disse. «Naturalmente, lei si rende conto che, anche se trovassimo un riferimento, l'incendio del 1764 costituirebbe sempre una difficoltà quasi insormontabile.» «Capisco», rispose Kim. «In realtà non mi aspettavo di trovare qualcosa, ma, come vi ho detto durante la mia prima visita, mi sento in dovere di tenere presente qualsiasi nuovo indizio.» «Consulterò tutte le mie fonti in cerca di questo nuovo nome», assicurò Katherine. Kim le ringraziò, quindi si accomiatò e prese la metropolitana fino alla North Station, dove aspettò un treno per Salem. In attesa sul marciapiede, decise che nei due giorni di vacanza che ancora le rimanevano avrebbe raddoppiato gli sforzi per riordinare l'enorme caos di carte del castello. Una volta ripreso il lavoro all'ospedale avrebbe avuto poco tempo da dedicarvi, solo i fine settimana. Tornata alla tenuta, avrebbe voluto recarsi direttamente al castello, ma uscendo dal folto degli alberi scorse una macchina della polizia ferma davanti alla villa. Incuriosita, puntò in quella direzione. Avvicinandosi vide Edward ed Eleanor che conversavano con due poliziotti in mezzo al campo erboso, a una cinquantina di metri dalla villa. Eleanor teneva un braccio sulle spalle di Edward. Fermò la macchina accanto a quella della polizia e scese. Le persone che conversavano nel campo non l'avevano vista arrivare o erano troppo preoccupate per accorgersi della sua presenza.
Sempre più curiosa, Kim si diresse verso di loro e quando fu più vicina si avvide che c'era qualcosa in mezzo all'erba che monopolizzava la loro attenzione. Rimase senza fiato: era Buffer. Il povero cagnolino era morto. Ciò che rendeva la scena particolarmente macabra era il fatto che una parte della carne delle zampe posteriori era stata asportata, mettendo a nudo le ossa insanguinate. Kim guardò con compassione Edward, che la salutò con molta calma, facendole pensare che si fosse ormai ripreso dal colpo iniziale. Vide sulle sue guance le tracce di lacrime ormai asciugate. Per quanto brutto e antipatico fosse il cane, sapeva che lui gli era affezionato. «Varrebbe la pena di farlo esaminare dal medico legale», stava dicendo Edward. «Forse potrebbe riconoscere i segni lasciati dai denti e dirci che razza di animale ha fatto questo.» «Non so proprio come potrebbe rispondere l'ufficio del medico legale a una chiamata per un cane morto», rispose uno degli agenti, che si chiamava Billy Selvey. «Ma avete detto che si sono verificati un paio di episodi analoghi in queste notti», ribatté Edward. «Credo che sia vostro compito scoprire che tipo di animale lo abbia azzannato. Personalmente, penso che sia stato un altro cane o un procione.» Kim fu impressionata dalla lucidità di Edward di fronte alla perdita di Buffer. Si era ripreso abbastanza da sostenere una discussione tecnica. «Quando ha visto il suo cane per l'ultima volta?» domandò Billy. «Ieri notte. Di solito dorme con me, ma forse lo avevo lasciato uscire, non ricordo. Qualche volta è capitato che restasse fuori tutta la notte. Non ho mai pensato che fosse un problema, dato che la tenuta è grande e il cane non può disturbare nessuno.» «Io gli ho dato da mangiare ieri sera», intervenne Kim. «Dovevano essere le undici e mezzo circa. L'ho lasciato in cucina che mangiava.» «E lo hai fatto uscire?» chiese Edward. «No. Come ho detto, l'ho lasciato in cucina.» «Bene, io non l'ho visto stamattina quando mi sono alzato, ma non mi sono preoccupato e ho pensato che l'avrei poi trovato al laboratorio.» «Non avete nella porta d'ingresso un'apertura per fare uscire i vostri animali?» chiese Billy. Kim ed Edward risposero di no nello stesso tempo. «Qualcuno ha sentito qualcosa di insolito la notte scorsa?» chiese ancora
l'agente. «Io dormivo come un sasso», affermò Edward. «Ho un sonno molto profondo, soprattutto in questi ultimi tempi.» «Anch'io non ho sentito nulla», aggiunse Kim. «Alla stazione di polizia ho sentito parlare di questi incidenti, presumibilmente provocati da un animale feroce», intervenne l'altro agente, che si chiamava Harry Conners. «Voi avete qualche altro animale in casa?» «Io ho una gatta», disse Kim. «Vi consigliamo di tenerla in casa nei prossimi giorni.» Gli agenti misero via penne e taccuini, salutarono e si avviarono verso la loro macchina. «Che cosa dobbiamo fare della carcassa?» li richiamò Edward. «Non volete portarla al medico legale?» I due si guardarono, sperando ognuno che rispondesse l'altro. Infine Billy affermò che preferivano non portarla con loro. Edward li salutò cordialmente con la mano. Era di buonumore. «Gli ho dato un buon consiglio e quelli che cosa fanno? Se ne vanno via!» «Be', io devo tornare al lavoro», disse Eleanor parlando per la prima volta. E, guardando Kim, aggiunse: «Non ti dimenticare, hai promesso di tornare presto a trovarci al laboratorio». «Verrò», promise lei, meravigliata dalla sua cordialità, che le pareva sincera. Eleanor si diresse verso il laboratorio ed Edward rimase a fissare il suo cane. Kim distolse gli occhi: quella vista la sconvolgeva. «Mi dispiace tanto per Buffer», disse, appoggiando una mano sulla spalla di Edward. «Ha avuto una buona vita», rispose lui serenamente. «Credo che staccherò le zampe posteriori e le manderò a uno dei patologi che conosco al centro medico. Forse potrà dirci che tipo di animale dovremmo cercare.» Kim inghiottì penosamente all'idea che Edward volesse mutilare ulteriormente quel povero cane. Non era quello che si sarebbe aspettata da lui. «Ho un vecchio telo nel portabagagli», continuò Edward. «Lo vado a prendere per avvolgerci Buffer.» Non sapendo bene che cosa fare, Kim rimase accanto ai resti del cane mentre Edward andava a prendere il telo. Era addolorata per il crudele destino della povera bestia. Una volta che la carcassa fu avvolta nel telo, accompagnò Edward al laboratorio. Mentre si avvicinavano, non poté fare a meno di prendere in considera-
zione una spiacevole possibilità. Fermò Edward. «Ho pensato una cosa», disse esitante. «E se la morte e la mutilazione di Buffer avessero qualcosa a che fare con la stregoneria?» Edward la guardò un attimo, poi rovesciò la testa indietro e scoppiò in una gran risata. Gli ci vollero diversi minuti per riprendere il controllo di sé e Kim si trovò a ridere con lui, vergognandosi un poco di avere suggerito una cosa simile. «Aspetta un momento», protestò. «Mi ricordo di avere letto in qualche posto che la magia nera usava i sacrifici di animali.» «Io trovo la tua melodrammatica immaginazione straordinariamente divertente», esclamò lui continuando a ridere. Quando infine riprese completamente il controllo si scusò per avere riso tanto e allo stesso tempo la ringraziò per avergli offerto un attimo di sollievo. «Dimmi un po', credi davvero che, dopo trecento anni, il diavolo abbia deciso di tornare a Salem e che le sue arti magiche siano sia dirette contro di me e contro la Omni?» «Io mi sono limitata a indicare il legame fra sacrifici di animali e magia nera», ribatté Kim. «In realtà, non volevo dire che ci credevo, solo che qualcuno poteva crederci.» Edward depose Buffer a terra e si strinse Kim al petto. «Forse hai passato troppo tempo nascosta nel castello a frugare fra le vecchie carte. Appena le cose saranno bene avviate all'Omni, ci prenderemo una vacanza. Qualche spiaggia calda, dove potremo stare sdraiati al sole. Che cosa ne dici?» «Mi sembra bello», rispose lei, anche se si chiedeva quando questo progetto avrebbe potuto essere attuato. Kim non aveva alcuna intenzione di assistere all'operazione che Edward si accingeva a compiere, perciò rimase fuori del laboratorio. Edward tornò pochi minuti dopo portando una pala e scavò una buca poco profonda vicino all'entrata. Seppelliti i resti di Buffer, le disse di aspettare un attimo, perché aveva dimenticato una cosa. Scomparve di nuovo nel laboratorio. Quando tornò le mostrò una bottiglia di reagente chimico e con un gesto magniloquente la pose sopra la tomba del cane. «Che cos'è?» chiese Kim. «È un tampone chimico, un buffer», rispose lui. «Un buffer per Buffer!» e rise pressappoco come aveva riso quando Kim aveva parlato di magia nera. «Mi stupisce il modo in cui reagisci a questo sfortunato incidente», osservò Kim. «Sono sicuro che questo mio atteggiamento ha qualcosa a che vedere
con l'Ultra», spiegò Edward. «Quando ho saputo che cosa era successo, dapprima sono rimasto sconvolto. Buffer era parte della mia famiglia. Ma quel dolore acuto è passato presto. Voglio dire, mi dispiace sempre che sia morto, ma non sento quello spaventoso senso di vuoto che accompagna il lutto. Posso razionalmente riconoscere che la morte è un complemento naturale della vita. Dopotutto, Buffer ha avuto una buona vita per un cane, anche se non aveva le migliori doti del mondo.» «Era un bravo cagnolino», ammise Kim. Non voleva certo rivelargli in quel momento i suoi veri sentimenti. «Questo è un altro episodio che ti dovrebbe indurre a provare l'Ultra», aggiunse Edward. «Ti garantisco che ti calmerà. Chissà, potrebbe anche renderti la mente tanto lucida da aiutarti nella ricerca della verità su Elizabeth.» «Oh, credo che solamente con un lavoro assiduo potrò riuscirci.» Edward le diede un rapido bacio, la ringraziò per il suo sostegno morale e sparì di nuovo nel laboratorio. Kim si voltò e si avviò verso il castello. Aveva percorso solo un piccolo tratto quando cominciò a preoccuparsi per Sheba. All'improvviso si ricordò che aveva lasciato fuori la gatta la notte precedente, dopo avere dato da mangiare a Buffer, e che in mattinata non l'aveva vista. Cambiò direzione e si diresse alla villa, accelerando il passo. La morte di Buffer aveva accresciuto la sua ansietà. Immaginava che dolore sarebbe stato per lei se anche Sheba avesse subito la stessa sorte. Entrò in casa chiamando la gatta, poi salì in fretta le scale fino alla sua camera. Con grande sollievo la vide acciambellata in mezzo al letto. Allora si precipitò verso di lei, l'accarezzò, le si accoccolò vicino. Sheba le lanciò uno sguardo sdegnoso per essere stata disturbata. Dopo aver vezzeggiato la gatta per qualche minuto, Kim si avvicinò al cassettone e con dita tremanti tirò fuori la boccetta di Ultra che vi aveva riposto la notte prima. Ancora una volta ne tolse una delle capsule blu e la esaminò. Aveva un disperato bisogno di sollievo e valutò l'idea di provare il farmaco per ventiquattr'ore, solo per vedere che cosa poteva fare per lei. La serenità con cui Edward aveva affrontato la morte di Buffer era una testimonianza inoppugnabile. Kim arrivò persino a versarsi un bicchiere d'acqua. Ma non prese la capsula. Cominciò invece a domandarsi se la reazione di Edward non fosse stata troppo misurata. Da quanto aveva letto, nonché per intuito personale, sapeva che una certa dose di sofferenza era una ne-
cessaria emozione umana. Si domandò se, bloccando il normale processo della sofferenza, non si rischiava di compromettere l'equilibrio psichico futuro. Con questa idea in mente ripose la capsula nella boccetta e si decise a fare un'altra visita al laboratorio. Temendo di restare intrappolata in altre interminabili spiegazioni del gruppo, sgattaiolò di nascosto nell'edificio. Fortunatamente, al piano superiore erano rimasti solo Edward e David, che si trovavano alle estremità opposte del vasto locale. Kim riuscì a sorprendere Edward senza che nessun altro scoprisse la sua presenza e, quando lui la vide e aprì la bocca per parlarle, lei lo zittì appoggiandosi un dito sulle labbra, quindi lo prese per mano e lo condusse fuori dell'edificio. Appena la porta del laboratorio si chiuse alle loro spalle, Edward sorrise e domandò: «Che diavolo ti prende?» «Voglio solo parlarti. Mi è venuta un'idea che potresti inserire nel protocollo clinico dell'Ultra.» Gli spiegò quello che aveva pensato della sofferenza, ampliando il concetto a comprendere l'ansia e la malinconia e aggiungendo che limitate quantità di queste emozioni, in sé penose, svolgono un ruolo positivo perché favoriscono la crescita e la creatività umana. E concluse: «Quello che mi preoccupa è che assumere un farmaco come l'Ultra, che in qualche modo attenua e spegne queste emozioni, possa avere conseguenze in seguito e possa provocare un effetto collaterale gravemente negativo, che all'inizio non si prevedeva.» Edward sorrise ancora e annuì lentamente. Le parole di Kim lo avevano colpito. «Apprezzo la tua premura», replicò. «La tua idea è interessante, ma io non la condivido. Vedi, è basata su una falsa premessa, ossia che la mente sia in qualche mistico modo separata dal corpo fisico. Questa antica ipotesi è stata smontata dall'esperienza recente, che ha dimostrato come il corpo e la mente siano una cosa sola per quello che riguarda l'umore e l'emozione. Si è dimostrato che l'emozione è biologicamente determinata per il fatto che subisce l'influenza di farmaci come il Prozac, che altera i livelli dei neurotrasmettitori. Il Prozac ha rivoluzionato le vecchie idee sulle funzioni del cervello.» «Questo modo di pensare è disumanizzante», protestò Kim. «Mettiamola in un altro modo, allora. Che cosa pensi del dolore fisico? Pensi che sia giusto assumere farmaci per calmare il dolore fisico?» «Il dolore fisico è una cosa diversa», obiettò Kim, ma vedeva la trappola filosofica che Edward le tendeva.
«Non la penso così. Il dolore è sempre biologico e, poiché il dolore fisico e quello psichico sono entrambi biologici, dovrebbero essere trattati con gli stessi mezzi, ossia con farmaci appositamente studiati che agiscano solo sulle parti responsabili del cervello.» Kim si sentì frustrata. Aveva voglia di chiedergli dove sarebbe il nostro mondo se Mozart o Beethoven fossero vissuti sotto l'effetto di psicofarmaci per vincere ansia o depressione, ma non disse nulla, sapeva che era inutile. Lo scienziato che era in lui lo rendeva cieco e sordo. Edward la strinse a sé in un grande abbraccio e le ripeté quanto apprezzava che lei s'interessasse al suo lavoro. Poi le batté un affettuoso colpetto sulla testa. «Parleremo ancora di questo argomento, se ti fa piacere», le disse. «Ma ora è meglio che io torni al mio lavoro.» Kim si scusò di averlo disturbato e riprese il cammino verso la villa. 15 Giovedì 29 settembre 1994 Nei giorni successivi, Kim in diverse occasioni ebbe la tentazione di provare per una volta l'Ultra. La sua ansia andava crescendo e cominciava a disturbarle il sonno, ma ogni volta che era sul punto di prendere la capsula, faceva un passo indietro. Cercò invece di sfruttare il suo stato ansioso come fattore motivante. Ogni giorno trascorreva più di dieci ore al castello e lasciava il lavoro solo quando la sua vista era così stanca che non riusciva più a leggere le pagine scritte a mano. Sfortunatamente, i suoi sforzi raddoppiati non portarono alcun frutto. Cominciò a desiderare di trovare un documento qualsiasi del diciassettesimo secolo, anche se non aveva alcun riferimento a Elizabeth, solo per sentirsi un po' incoraggiata. La presenza degli idraulici risultò un piacevole diversivo, invece che un fastidio: ogni volta che si concedeva un breve intervallo, infatti, aveva qualcuno con cui parlare. Qualche volta restava persino a osservarli lavorare, incuriosita dall'uso della saldatrice. L'unico indizio che rivelava la presenza dei ricercatori al castello era il terriccio lasciato sul pavimento nell'ingresso delle due ali. Anche se qualche traccia di terra le sembrava inevitabile, l'enorme quantità che ne trovava le pareva una dimostrazione di insolita trascuratezza.
Edward continuava a essere di umore allegro ed espansivo. Con un gesto che le ricordò i primi giorni della loro relazione, il martedì le aveva mandato un grande mazzo di fiori, con un biglietto che diceva: CON AFFETTUOSA RICONOSCENZA. L'unico cambiamento nel suo comportamento si verificò la mattina di venerdì, quando Kim era sul punto di lasciare la villa per recarsi al castello. Edward entrò come una furia dalla porta d'ingresso, evidentemente in collera, e gettò la sua agenda sul tavolo vicino al telefono. Kim fu immediatamente allarmata. «Qualcosa non va?» chiese. «Tutta questa dannata faccenda non va!» esclamò lui. «Devo venire fin qui per telefonare. Quando adopero quello del laboratorio, tutti quei buffoni ascoltano i miei discorsi. Mi fanno diventare pazzo!» «Perché non usi il telefono della reception, che è vuota?» «Ascoltano anche quando parlo da lì.» «Attraverso i muri?» chiese Kim. «Devo parlare con il dannato capo dell'ufficio autorizzazioni di Harvard», continuò Edward ignorando il commento di Kim. «Quell'idiota ha intrapreso una crociata personale contro di me.» Aprì la sua agenda per trovare il numero. «Non credi che stia facendo solo il suo lavoro?» chiese Kim, sapendo che si trattava di un vecchio contrasto. «Dici che fa solo il suo lavoro quando mi sospende dal mio posto?» urlò Edward. «È incredibile! Non avrei mai immaginato che quel piccolo burocrate imbecille avesse l'arroganza di fare una cosa simile!» Kim si sentì battere forte il cuore. Il tono di Edward le ricordava l'episodio avvenuto nel suo appartamento, quando aveva scagliato il bicchiere a terra. Ebbe paura di dire altro. «Comunque», soggiunse lui in tono completamente tranquillo, sorridente, «così è la vita. Ci sono sempre questi piccoli alti e bassi.» Si sedette e compose il numero. Kim si rilassò, senza però distogliere gli occhi da Edward. Lo ascoltò parlare tranquillamente al telefono con l'uomo contro il quale si era appena scagliato. Quando depose il ricevitore affermò che, dopotutto, era molto ragionevole. «Dal momento che sono qui», aggiunse, «vado di sopra e raccolgo i vestiti da portare in tintoria, come mi hai chiesto ieri.» Si avviò verso le scale. «Ma hai già messo da parte i vestiti per la tintoria», osservò Kim. «Pro-
babilmente lo hai fatto questa mattina, perché li ho trovati quando sono salita.» Lui si fermò e sbatté gli occhi, come se fosse confuso. «L'ho già fatto?» chiese. E aggiunse: «Meglio così, allora posso tornare direttamente al laboratorio». «Edward?» lo richiamò Kim prima che uscisse dalla porta d'ingresso. «Sei sicuro di stare bene? In questi giorni ti stai dimenticando diverse piccole cose.» Edward scoppiò a ridere. «È vero», ammise, «sono stato un po' smemorato, ma non mi sono mai sentito meglio. Sono solo molto impegnato. Ma c'è luce alla fine del tunnel e noi stiamo per diventare enormemente ricchi. Te compresa. Ho parlato con Stanton della mia intenzione di darti un pacchetto di azioni e lui è d'accordo. Così parteciperai anche tu al 'grande guadagno'!» «Sono lusingata», mormorò Kim. Si avvicinò alla finestra e lo osservò attraversare il campo verso il laboratorio. Restò a guardarlo finché non fu arrivato, riflettendo sul suo comportamento. Ora era più affettuoso verso di lei, nel complesso, ma era sempre imprevedibile. Impulsivamente prese le chiavi della macchina e si diresse in città. Aveva bisogno di parlare con qualcuno, un professionista di cui si potesse fidare. Per fortuna Kinnard era ancora a Salem. Si recò all'ospedale e alla reception riuscì a rintracciarlo per telefono. Una mezz'ora dopo la raggiungeva al bar. Indossava ancora il camice, poiché veniva direttamente dalla sala operatoria. Lei lo aveva aspettato sorseggiando una tazza di tè. «Spero di non averti disturbato troppo», gli disse quando si fu seduto davanti a lei. «Sono lieto di vederti», replicò Kinnard. «Volevo chiederti una cosa. La smemoratezza potrebbe essere un effetto collaterale di uno psicofarmaco?» «Certo, ma devo aggiungere che ci sono molte cose che possono danneggiare la memoria a breve termine. È assolutamente un sintomo aspecifico. Devo pensare che Edward presenta questo problema?» «Posso contare sulla tua discrezione?» «Te l'ho già detto», confermò lui. «Edward e il suo gruppo continuano ad assumere il farmaco?» Kim annuì.
«Sono pazzi», esclamò Kinnard. «Stanno solo cercando guai. Hai osservato qualche altro effetto?» Lei fece un risolino amaro. «Non ci crederesti! Tutti presentano una reazione sorprendente. Prima di cominciare a prendere il farmaco erano sempre imbronciati e litigavano fra loro. Adesso hanno tutti un umore eccellente. Non potrebbero essere più felici e soddisfatti. Si comportano come se fossero in una sala da ballo, anche se continuano a lavorare con lo stesso ritmo febbrile.» «Questo mi pare un effetto positivo», commentò Kinnard. «Sotto qualche aspetto», ammise Kim. «Ma quando si è stati con loro per qualche tempo si ha un'impressione strana, come se fossero troppo monotoni e simili fra loro, malgrado l'allegria e l'operosità.» «Questo ricorda Il mondo nuovo!» esclamò Kinnard sogghignando. «Non ridere, ma anch'io ho pensato la stessa cosa. Però questa è piuttosto una questione filosofica. Il mio interesse immediato è diverso; quello che mi preoccupa è la smemoratezza dimostrata da Edward in piccole cose quotidiane, e mi sembra che peggiori. Non so se gli altri ricercatori manifestino lo stesso effetto.» «Che cosa pensi di fare?» chiese Kinnard. «Non so. Speravo che tu potessi o confermare le mie paure o dissiparle, ma vedo che non puoi fare né l'una né l'altra cosa.» «Non con quel poco che so. Ma posso dirti una cosa su cui devi riflettere. Le percezioni vengono fortemente influenzate dalle aspettative. Ecco perché nella ricerca medica si fanno esperimenti definiti 'ciechi'. C'è la possibilità che il fatto di aspettarti degli effetti negativi dal farmaco di Edward influisca su ciò che vedi in realtà. Io so che Edward è estremamente intelligente e non credo che affronti rischi inconsulti.» «Hai ragione. È vero che al momento io non so bene ciò che vedo. Potrebbe essere solo una mia fantasia, però ne dubito.» Kinnard diede un'occhiata all'orologio a muro e si scusò. «Mi dispiace di doverti lasciare, ma sarò qui ancora per qualche giorno, se vuoi parlarmi di nuovo. Altrimenti ci vedremo all'ospedale di Boston.» Le strinse la mano e Kim lo ringraziò di averla ascoltata. Tornata alla tenuta si diresse subito al castello. Scambiò qualche parola con gli idraulici, i quali le confermarono che i lavori procedevano bene ma avevano bisogno di altri tre giorni per portarli a termine. Proposero anche di dare un'occhiata all'ala degli ospiti per controllare se vi fosse qualche problema e Kim rispose che facessero pure quanto era necessario.
Prima di scendere in cantina, Kim andò a esaminare le due entrate delle ali e rimase sconcertata nel vedere l'ingresso dell'ala della servitù. Non solo c'era del terriccio sulle scale, ma anche foglie e ramoscelli. Nell'angolo vicino alla porta c'era persino un contenitore vuoto di cibi proveniente da un ristorante cinese. Imprecando fra sé, si diresse al ripostiglio delle scope, prese uno straccio e un secchio e ripulì le scale. La sporcizia arrivava fino al primo pianerottolo. Quindi tornò alla porta d'ingresso, prese lo zerbino e lo portò davanti all'entrata dell'ala della servitù. Per un attimo ebbe l'idea di lasciare un biglietto, poi pensò che lo zerbino sarebbe stato un messaggio abbastanza eloquente. Infine scese nel sotterraneo e si mise all'opera. Anche se non trovò altri documenti del diciassettesimo secolo né di epoca vicina, il concentrarsi sul lavoro servì a liberarle la mente dalle preoccupazioni e lentamente cominciò a rilassarsi. All'una si concesse un intervallo. Tornò alla villa e lasciò uscire Sheba, mentre faceva uno spuntino veloce. Poi, prima di tornare al castello, si assicurò che la gatta fosse tornata in casa. Al castello incontrò gli idraulici e chiacchierò per qualche minuto con loro e osservò Albert che eseguiva con abilità alcune saldature sui tubi dell'acqua. Infine tornò al lavoro, questa volta nelle soffitte. Cominciava a scoraggiarsi quando trovò un intero plico di carte dell'epoca che le interessava. Eccitata, lo portò vicino a uno degli abbaini. Non fu sorpresa quando scoprì che si trattava di documenti d'affari, alcuni scritti nella calligrafia ormai per lei riconoscibile di Ronald. Poi trattenne il fiato. Fra le ricevute doganali e le bolle di carico c'era una lettera indirizzata a Ronald scritta da Thomas Goodman. Salem Town, 17 agosto 1692 Signore, molte sono le sventure che hanno afflitto la nostra città timorata di Dio. È stata una grande sofferenza per me ogni volta che vi sono stato involontariamente coinvolto. Sono dolente nel cuore che voi abbiate pensato male di me nello svolgimento del mio dovere come membro della congregazione e abbiate rifiutato di parlare con me in questioni di comune interesse. È vero che io in buona fede e nel nome di Dio testi-
moniai contro la vostra defunta moglie alle sue udienze e al suo processo. A vostra richiesta visitai la vostra casa per offrire aiuto, se era necessario. In quel giorno fatale trovai la vostra porta aperta, anche se un freddo gelido stringeva il paese, la tavola era apparecchiata con cibo e pietanze, come se un pasto fosse stato interrotto, e altri oggetti erano rovesciati o spezzati con gocce di sangue sul pavimento. Io ebbi paura di un'incursione di indiani e per la salvezza dei vostri familiari. Ma i bambini, tanto i vostri figli naturali che le ragazzine profughe, li trovai nascosti, terrorizzati, al piano superiore e mi dissero che la vostra defunta moglie aveva avuto un attacco mentre mangiava e non era del suo umore normale ed era corsa a rifugiarsi nel fienile dove tenete il vostro bestiame. Con trepidazione mi recai là e chiamai il suo nome nel buio. Lei venne da me come una donna selvaggia e mi spaventò molto. V'era sangue sulle sue mani e sulla sua veste e io vidi ciò che aveva fatto. Con spirito turbato la calmai a rischio della mia persona. Con il medesimo intento, feci lo stesso con le vostre bestie, che erano tutte terrorizzate, ma erano sane e salve. Di queste cose io dissi la verità in nome di Dio. Resto vostro amico e vicino Thomas Goodman «Quella povera gente!» mormorò Kim. La lettera le comunicava, più di qualsiasi altra testimonianza, tutto l'orrore di quei giorni a Salem e provò comprensione e pietà per tutti quelli che vi erano stati coinvolti. Era evidente che Thomas era confuso e sgomento, combattuto com'era fra l'amicizia e quella che riteneva la verità. E il cuore di Kim si commosse al pensiero della povera Elizabeth che, avvelenata dalla muffa, era stata preda di attacchi di pazzia al punto da terrorizzare i suoi figli. Era facile ora capire come gli uomini del diciassettesimo secolo avessero potuto attribuire questo spaventevole e inspiegabile comportamento alla stregoneria. Ma al tempo stesso si rese però conto che la lettera presentava qualcosa di nuovo e sconcertante. Si parlava di sangue, con tutte le implicazioni che ciò comportava. Kim non voleva neppure cercare di immaginare che cosa Elizabeth avesse fatto nelle stalle con il bestiame, ma doveva ammettere che poteva essere significativo. Riprese la lettera e rilesse la frase in cui Thomas affermava che le bestie erano sane e salve malgrado la presenza del sangue. La cosa era incomprensibile, a meno che Elizabeth non avesse infierito sulla propria persona. L'idea di una automutilazione la fece rabbrividire. D'altra parte, questa
possibilità era rafforzata dall'accenno alle gocce di sangue sul pavimento della casa. Ma il sangue era menzionato nella stessa frase che parlava di oggetti spezzati, il che faceva pensare che provenisse da una ferita involontaria. Kim sospirò. La sua mente era sconvolta, ma una cosa era chiara: l'effetto del fungo veniva ora associato alla violenza. Pensò che era un fatto che Edward e gli altri dovevano conoscere immediatamente. Tenendo stretta la lettera in una mano, Kim si precipitò fuori dal castello e si diresse quasi di corsa verso il laboratorio. Era senza fiato quando entrò, e rimase immediatamente sorpresa: era capitata nel bel mezzo di una festa. L'accolsero con allegria e la spinsero a uno dei banchi dove avevano stappato una bottiglia di champagne. Lei cercò di rifiutare, ma non vollero sentire ragioni. Ebbe ancora l'impressione di trovarsi in mezzo a una brigata di allegri studenti. Appena poté, raggiunse Edward e gli chiese che cos'era successo. «Eleanor, Gloria e François hanno appena completato una sorprendente operazione di chimica analitica», le spiegò. «Hanno determinato la struttura di una delle proteine leganti dell'Ultra. È un grande passo in avanti.» «Mi rallegro con te, ma voglio mostrarti qualcosa che penso tu debba vedere.» Gli porse la lettera. Edward la scorse rapidamente, poi alzò lo sguardo e le strizzò l'occhio. «Congratulazioni!» commentò. «Questo è il pezzo migliore che tu abbia trovato finora.» E rivolgendosi al gruppo chiamò: «Ehi, ascoltate. Kim ha rintracciato la prova più evidente che Elizabeth fu avvelenata dal fungo. Sarà ancora meglio di quella pagina di diario nell'articolo per Science.» Eccitati, i ricercatori si raggrupparono intorno a loro. Edward li invitò a leggere la lettera. «È perfetta», affermò Eleanor passandola a David, «dice persino che stava mangiando. È senz'altro una prova della rapidità con cui agisce l'alcaloide. Probabilmente, aveva appena mangiato un boccone di pane.» «È un'ottima cosa che voi abbiate eliminato la catena laterale allucinogena», intervenne David. «Non vorrei svegliarmi e trovarmi fuori in mezzo alle vacche.» Tutti risero tranne Kim. Guardò Edward, aspettò che finisse di ridere e gli chiese se l'accenno alla violenza nella lettera non lo preoccupasse. Edward riprese la lettera e la lesse con più attenzione. «Sai, non hai tutti i torti, non credo che userò questa lettera per l'articolo. Potrebbe provocare
delle perplessità che noi non desideriamo affatto. Pochi anni fa circolava una voce, alimentata dai talk show televisivi, che il Prozac potesse spingere alla violenza. È stato un problema, finché quella voce non è stata statisticamente smentita. Non voglio che qualcosa del genere capiti anche con l'Ultra.» «Se l'alcaloide inalterato provocava violenza, questo doveva attribuirsi alla stessa catena laterale che causava le allucinazioni», osservò Gloria. «Potresti scriverlo nell'articolo.» «Perché correre il rischio?» ribatté Edward. «Non voglio fornire a qualche vorace giornalista il minimo spunto che possa evocare lo spettro della violenza.» «Forse il pericolo della violenza dovrebbe essere incluso nei protocolli clinici», suggerì Kim. «In questo caso, se mai qualcuno sollevasse la questione, voi avreste già sottomano i dati.» «Sai, questa è un'ottima idea», affermò Gloria. Per parecchi minuti il gruppo discusse favorevolmente il suggerimento di Kim. Incoraggiata dall'attenzione con cui tutti la ascoltavano, Kim consigliò ancora che includessero negli esami anche i fenomeni di amnesia a breve termine. E, per illustrare il suo consiglio, citò i recenti episodi di Edward. Questi rise di cuore insieme con tutti gli altri. «Che male c'è se mi lavo i denti due volte?» protestò, suscitando altre risate. «Io penso che includere le amnesie a breve termine nei protocolli clinici sia un'idea altrettanto buona che includervi la violenza», intervenne Curt. «Anche David si è mostrato smemorato. Ho potuto osservarlo, perché le nostre stanze al castello sono vicine.» «Senti chi parla!» ribatté David e raccontò al gruppo che proprio la sera prima Curt aveva telefonato alla sua ragazza due volte, perché si era dimenticato di averlo già fatto. «Be', immagino che lei sarà stata ben contenta!» commentò Gloria. Curt diede a David un pugno scherzoso nel fianco. «L'unica ragione per cui te ne sei accorto è che tu avevi fatto esattamente la stessa cosa la sera prima, con tua moglie.» Mentre assisteva alla scherzosa schermaglia fra i due, Kim osservò che le mani e le dita di Curt erano piene di tagli e graffi. Per un riflesso automatico, come infermiera, si preoccupò e si offrì di medicarle. «Grazie, ma non sono così malconce come sembra», rispose Curt. «Non mi danno alcun fastidio.»
«Sei caduto dalla motocicletta?» Curt rise. «Spero proprio di no», disse. «Non ricordo come sia successo.» «È un rischio professionale», intervenne David mostrando le sue mani. «Dimostra che lavoriamo tanto da consumarci le dita fino all'osso.» «È l'impegno di lavorare diciannove ore al giorno», s'intromise Frangois. «È sorprendente che si continui a funzionare così bene.» «A me pare che le amnesie a breve termine possano essere un effetto collaterale dell'Ultra», insistette Kim. «Sembra che le abbiate sperimentate tutti quanti.» «Io no», affermò Gloria. «Neppure io», aggiunse Eleanor. «La mia mente e la mia memoria sono nettamente migliori da quando prendo l'Ultra.» «Anch'io posso dire la stessa cosa», riprese Gloria. «Credo che François abbia ragione. Stiamo lavorando troppo.» «Aspetta un attimo, Gloria», obiettò Eleanor. «Anche tu dimentichi le cose. L'altra mattina hai lasciato l'accappatoio nella stanza da bagno e poi due minuti dopo davi in escandescenze perché non lo trovavi appeso dietro la porta della tua camera da letto.» «Io non davo in escandescenze», replicò Gloria, ma senza irritarsi. «E poi questa è una cosa diversa. Io lasciavo in giro la mia roba molto prima di prendere l'Ultra.» «Però Kim ha ragione», intervenne Edward. «Le amnesie a breve termine potrebbero essere associate all'Ultra, e come tali dovrebbero essere incluse nei protocolli clinici. Ma non è una cosa così grave da farci perdere il sonno. Anche se questo in qualche caso avviene, sarà di certo un rischio accettabile, di fronte al potenziamento delle funzioni cerebrali che si ottiene con l'Ultra.» «D'accordo», ammise Gloria. «Anche Einstein dimenticava le piccole cose quotidiane quando stava formulando la teoria della relatività. La mente valuta ciò che conviene serbare nel processore, e il numero delle volte che ti lavi i denti non è poi così importante.» Il rumore della porta esterna che sbatteva attirò l'attenzione di tutti, poiché erano rarissimi i visitatori al laboratorio. Tutti si voltarono verso l'uscio dell'atrio, che si aprì per lasciare entrare Stanton. Un allegro saluto lo accolse e lui, confuso, si fermò. «Che diavolo succede qui? Non si lavora oggi?» Eleanor si precipitò a porgergli una coppa di champagne.
«Un piccolo brindisi», esclamò Edward alzando il suo bicchiere. «Vogliamo bere alla tua assillante presenza e alle tue insistenti critiche che ci hanno indotto a prendere l'Ultra. Ne raccogliamo i benefici ogni giorno che passa.» Fra esclamazioni e risatine ognuno bevve un sorso di champagne, compreso Stanton. «È stata veramente una manna», continuò Edward. «Intanto ci preleviamo il sangue l'uno con l'altro e mettiamo da parte le urine per le analisi.» «Tutti tranne François», interloquì Gloria per prendere in giro il francese. «Lui se ne dimentica quasi tutte le volte.» «Già, abbiamo avuto un piccolo problema a questo riguardo», ammise Edward. «Lo abbiamo risolto legando le tavolette dei water e mettendoci sopra un'etichetta che diceva TIENILA.» Tutti risero di nuovo. Gloria e David dovettero appoggiare sul tavolo i loro bicchieri per paura di farne traboccare il liquido. «Siete proprio un'allegra brigata!» commentò Stanton. «E abbiamo ragione di esserlo», affermò Edward, comunicando a Stanton le buone notizie sulla scoperta della struttura della proteina legante. Sottolineò in particolare la capacità dell'Ultra di acuire la lucidità mentale. «Splendide notizie davvero!» esclamò lui, facendo il giro del laboratorio per stringere la mano a Gloria, Eleanor e François, uno per uno. Poi disse a Edward che voleva parlargli. Cogliendo l'occasione dell'arrivo di Stanton per congedarsi, Kim lasciò il laboratorio. Quella visita l'aveva rincuorata: aveva la sensazione di avere portato un contributo valido suggerendo di includere la violenza e le amnesie a breve termine nella valutazione clinica dell'Ultra. Si diresse verso il castello, dove per prima cosa voleva riporre la lettera di Thomas Goodman nella cassetta della Bibbia insieme con le altre carte riguardanti Elizabeth e Ronald. Ma, avvicinandosi, scorse un'auto della polizia di Salem uscire dal folto degli alberi. Evidentemente il guidatore la vide, perché la macchina immediatamente svoltò in direzione del castello, verso di lei. Kim si fermò e attese. L'auto si arrestò e uscirono due agenti, gli stessi che erano accorsi alla chiamata per Buffer. Billy si toccò l'orlo della visiera in segno di saluto. «Spero che non vi saremo di troppo disturbo», le disse. «Che cosa è successo?» chiese Kim. «Volevamo chiederle se ha avuto qualche altro fastidio dopo la morte
del cane», spiegò Billy. «C'è stata un'ondata di vandalismo nei dintorni, come se Halloween fosse arrivato un mese prima.» «Halloween è un disastro qui a Salem», aggiunse Harry. «È l'epoca che noi custodi dell'ordine pubblico abbiamo imparato a detestare.» «Che genere di vandalismo?» chiese Kim. «Le solite scemenze», rispose Billy. «Bidoni della spazzatura rovesciati, immondizia sparsa dappertutto. Inoltre, altri animali domestici sono scomparsi e alcune delle carcasse sono state ritrovate in mezzo alla strada o nel cimitero di Greenlawn.» «Pensiamo ancora alla possibilità che ci sia un animale feroce nel vicinato», aggiunse Harry. «È meglio che lei tenga la sua gattina in casa, specialmente considerando l'estensione della sua proprietà e tutti i boschi che ci sono.» «Noi riteniamo che un paio di ragazzacci del posto si siano lanciati nella mischia, per così dire», continuò Billy. «Cercano di imitare quello che ha fatto l'animale. Sono troppi i casi, perché si tratti di un solo animale. Voglio dire, quanti bidoni dell'immondizia può rovesciare un procione in una notte?» «Vi ringrazio di essere venuti ad avvertirmi», disse loro Kim. «Non abbiamo avuto alcuna molestia dopo la morte del cane, ma starò attenta a tenere la mia gatta chiusa in casa.» «Se ha qualche problema, ci chiami, la prego», disse Harry. «Vorremmo chiarire la faccenda prima che ci sfugga di mano.» Kim osservò la macchina fare un'inversione a U e dirigersi verso la città. Stava per entrare nel castello, quando udì Stanton che la chiamava. Si voltò e lo vide venire verso di lei dal laboratorio. «Che diavolo faceva qui la polizia?» chiese appena si fu avvicinato. Kim gli parlò dei sospetti che ci fosse nelle vicinanze un animale rabbioso. «C'è sempre qualcosa», osservò Stanton. «Ascolta, voglio parlarti di Edward. Hai un minuto?» «Ma certo», rispose Kim domandandosi che cosa ci fosse sotto. «Dove vuoi parlare?» «Qui va benissimo. Non so da dove cominciare.» Fissò lo sguardo lontano per qualche minuto, poi guardò Kim negli occhi. «Ultimamente, Edward mi ha un po' sorpreso, e anche gli altri. Ogni volta che entro in laboratorio mi sento come un cane in chiesa. Un paio di settimane fa quel posto sembrava un cimitero e adesso si divertono, allegri come pasque. È diventato un posto di vacanza, solo che lavorano duro come prima, e anche di
più. I loro brillanti discorsi sono difficili da seguire, perché sono tutti così dannatamente intelligenti e spiritosi. In realtà io là dentro mi sento uno sciocco!» Stanton rise sarcasticamente prima di continuare: «Edward è diventato così esuberante e intraprendente che assomiglia a me!» Kim si mise una mano sulla bocca, ma scoppiò a ridere all'ammissione di Stanton. «Non c'è niente di buffo», protestò lui, ma rise comunque. «La prima cosa che Edward vorrà fare sarà diventare un capitano d'industria. Si sente un uomo d'affari, ma sfortunatamente non vediamo le cose dallo stesso punto di vista. Adesso siamo ai ferri corti sul modo di raccogliere altri fondi. Il buon dottore è diventato così avido che non vuole sacrificare una sola azione. Si è trasformato in un batter d'occhio da ascetico accademico in insaziabile capitalista.» «Perché vieni a dirmi questo?» chiese Kim. «Io non ho niente a che fare con l'Omni.» «Speravo solo che tu potessi parlare con Edward. Io in coscienza non posso consentire a prendere a prestito denaro sporco attraverso banche straniere, e mi pento anche di avere accennato a questa possibilità. Il rischio è troppo, e non alludo solo a quello finanziario. Parlo del rischio della vita. Non ne vale assolutamente la pena. Insomma, l'aspetto finanziario di questa impresa dovrebbe essere lasciato completamente a me, mentre l'aspetto scientifico dev'essere lasciato a Edward.» «Ti è sembrato che Edward fosse un po' smemorato?» «Diavolo, no! È lucidissimo, ma è un ingenuo in campo finanziario.» «Io l'ho visto un po' smemorato, giusto nelle piccole cose di tutti i giorni. E la maggior parte degli altri ricercatori ha ammesso di avere distrazioni simili.» «Io non ho osservato nessuna distrazione in Edward, ma in realtà mi è parso un po' paranoico. Pochi minuti fa ha voluto che uscissimo dal laboratorio per parlare, in modo che nessuno ci spiasse.» «E chi doveva spiarvi?» Stanton si strinse nelle spalle. «Gli altri ricercatori, presumo. Lui non me l'ha detto e io non l'ho chiesto.» «Questa mattina ha fatto tutta la strada dal laboratorio alla villa per fare una telefonata, perché aveva paura che qualcuno origliasse. Temeva anche di usare il telefono della reception perché pensava che qualcuno potesse sentirlo attraverso le pareti.» «Questo mi sembra ancora più paranoico, ma devo dire in sua difesa che
proprio io gli ho inculcato l'idea che in questa fase del lavoro la segretezza è della massima importanza.» «Stanton, sono preoccupata», confessò Kim. «Non dirlo neppure. Io sono venuto da te per cercare conforto per le mie preoccupazioni, non per accrescerle.» «Ho paura che la smemoratezza e la paranoia siano effetti collaterali dell'Ultra.» «Non voglio sentire una cosa simile», protestò Stanton tappandosi le orecchie. «Non dovrebbero continuare ad assumere il farmaco, in questa fase», continuò Kim. «E tu lo sai. Sono convinta che dovresti fermarli.» «Io? Ti ho appena detto che mi occupo del lato finanziario. Non m'intrometto nel lavoro scientifico, soprattutto da quando mi hanno detto che prendere il farmaco potrà accelerare il processo di valutazione. Inoltre, questa leggera smemoratezza, questa lieve paranoia sono probabilmente dovute all'intenso lavoro. Edward sa quello che fa. Mio Dio, è un'autorità nel campo!» «Facciamo un patto», propose Kim. «Se tu cerchi di convincere Edward a cessare di prendere il farmaco, io cercherò di convincerlo a lasciare completamente a te la gestione finanziaria.» Stanton fece una smorfia come se si sentisse colpito alle spalle. «È ridicolo!» esclamò. «Come posso fare un patto con mia cugina?» «A me pare una cosa ragionevole. Ci aiuteremo a vicenda.» «Non ti posso promettere niente», ammise Stanton. «Be', neppure io.» «Quando gli parlerai?» «Questa sera. E tu?» «Potrei tornare indietro e parlargli subito», disse Stanton. «Allora, abbiamo fatto il patto?» «Credo di sì», rispose lui, pur riluttante. Tese la mano e Kim la strinse. Rimase a osservare il cugino che si dirigeva verso il laboratorio. Invece che con il suo solito passo veloce, camminava lentamente, con le braccia penzoloni come se reggesse con le mani enormi pesi. Kim non poté fare a meno di sentirsi dispiaciuta per lui, sapendo che era carico di preoccupazioni. Il problema era che aveva investito tutto il suo denaro nella Omni, violando una delle regole fondamentali dell'oculato investitore. Salì in soffitta e si accostò a uno degli abbaini da cui si vedeva il laboratorio. Fece appena in tempo a scorgere Stanton che spariva nell'interno del-
l'edificio. Non aveva molte speranze che riuscisse a convincere Edward a cessare di prendere l'Ultra, ma almeno ci aveva provato. Quella notte, Kim si propose fermamente di restare sveglia fino all'arrivo di Edward. Era quasi l'una e stava leggendo, quando sentì il rumore della porta d'ingresso che si chiudeva, seguito da quello dei passi di Edward che saliva le vecchie scale. «Dio mio!» esclamò lui facendo capolino nella sua camera. «Dev'essere un gran libro per tenerti sveglia fino a quest'ora.» «Non sono stanca», ribatté Kim. «Entra.» «Sono sfinito!» esclamò Edward, ma entrò nella stanza e distrattamente accarezzò Sheba, sbadigliando. «Non vedo l'ora di essere a letto. Mi prende un colpo di sonno giusto dopo mezzanotte, puntuale come un orologio. È sorprendente come piombo addormentato nel momento in cui la stanchezza mi vince. Devo stare attento se sono seduto. Se poi sono sdraiato, addio!» «Me ne sono accorta. Domenica notte non hai neppure spento la luce.» «Suppongo che dovrei essere in collera con te», aggiunse lui, ma sorrideva. «Però non lo sono, so che tu hai a cuore solo il mio interesse.» «Vuoi dirmi di che cosa parli?» «Come se tu non lo sapessi!» la punzecchiò Edward. «Parlo delle improvvise preoccupazioni di Stanton per la mia salute. Nel momento stesso in cui ha aperto bocca ho capito che aveva preso l'imbeccata da te. Non è nel suo carattere essere così premuroso.» «Ti ha parlato del nostro patto?» chiese Kim. «Quale patto?» «Lui s'impegna a convincerti a smettere di prendere l'Ultra se io ti convinco a lasciare completamente nelle sue mani la gestione finanziaria dell'Omni.» «Et tu, Brute», ribatté scherzosamente Edward. «Guarda che bella situazione. Le due persone che credevo più affezionate a me tramano alle mie spalle!» «Come hai detto tu stesso, abbiamo a cuore soltanto il tuo interesse.» «Credo di essere in grado di decidere che cosa è meglio per me», replicò Edward, ma in tono gentile. «Ma tu sei cambiato. Stanton mi ha detto che sei cambiato al punto che ora cominci ad assomigliare a lui.» Edward rise di cuore. «Splendido!» esclamò. «Ho sempre desiderato es-
sere estroverso e disinvolto come lui. Peccato che mio padre non ci sia più. Ora finalmente sarebbe orgoglioso di me.» «Qui non c'è tanto da scherzare», obiettò Kim. «Ma io non scherzo. Sono molto felice di essere socievole e disinvolto invece che timido e vergognoso.» «Ma è pericoloso assumere un farmaco non sperimentato!» protestò Kim. «E inoltre, dal punto di vista etico, ti sembra corretto modificare i tratti del carattere grazie a uno psicofarmaco invece che attraverso l'esperienza? Io credo che sia un modo falso e quasi truffaldino.» Edward sedette sul bordo del letto. «Se cado addormentato, chiama il carro attrezzi per portarmi a letto», disse. Poi fece un altro lungo sbadiglio che cercò di nascondere con la mano. «Senti, tesoro», aggiunse. «L'Ultra non è un farmaco non testato, semplicemente non si sono fatti tutti i controlli. Ma non è tossico, e questo è ciò che conta. Io continuerò a prenderlo, a meno che non emerga un serio effetto collaterale, cosa di cui sinceramente dubito. Quanto alla tua seconda osservazione, sono convinto che taluni tratti indesiderabili del carattere, come nel mio caso la timidezza, possano essere esasperati dall'esperienza. Il Prozac, in certa misura, e ora l'Ultra in misura più ampia, hanno liberato la mia vera natura, la personalità che era stata sommersa da una serie di sfortunate esperienze di vita. E proprio queste esperienze avevano fatto di me la persona goffa e introversa che tu hai conosciuto. La mia personalità attuale non è stata inventata dall'Ultra e non è falsa. Le è stato semplicemente consentito di emergere.» Diede un'affettuosa pacca sulla gamba di Kim attraverso le coperte. «Ti assicuro che non mi sono mai sentito meglio in tutta la mia vita, credimi. L'unico mio pensiero è determinare per quanto tempo devo prendere ancora l'Ultra prima che questo mio 'io attuale' sia abbastanza rafforzato e possa cessare di assumere il farmaco senza ritornare timido e goffo.» «Fai apparire questa faccenda così semplice!» mormorò Kim. «Ma è semplice! È così che voglio essere. Diavolo, è così che sarei diventato, se mio padre non fosse stato un tale disastro.» «E che cosa mi dici della smemoratezza e della paranoia?» chiese Kim. «Quale paranoia?» Kim gli ricordò l'episodio del mattino, quando era venuto a casa per telefonare, e poi era voluto uscire dal laboratorio per parlare con Stanton. «Ma quella non è paranoia!» esclamò lui indignato. «Quegli idioti al laboratorio sono diventati i peggiori pettegoli che abbia mai conosciuto. Cerco soltanto di proteggere la mia sfera personale.»
«Stanton e io abbiamo pensato che fosse un sintomo di paranoia.» «Bene, posso assicurarvi che non lo è.» Edward sorrise. La punta di irritazione che aveva provato sentendosi accusare di paranoia si era già dissipata. «Posso ammettere un po' di smemoratezza, ma non la paranoia.» «Perché non smetti di prendere il farmaco, e poi ricominci durante la fase clinica?» «È veramente duro convincerti!» esclamò Edward. «Purtroppo ora sono sfinito e non riesco a tenere gli occhi aperti. Mi dispiace, continueremo a parlarne domani, se vuoi, poiché si tratta del prolungamento di una discussione precedente. Ma adesso devo andare subito a letto.» Si chinò su Kim, le diede un bacio su una guancia e con passo incerto uscì dalla stanza. Lei lo sentì muoversi nella camera da letto per qualche minuto. Poi percepì la respirazione lenta e pesante di un uomo profondamente addormentato. Sorpresa da questa rapidità, Kim scese dal letto, s'infilò la vestaglia e si avviò verso la camera di Edward. Il cammino era segnato da una fila di capi di vestiario sparsi a terra e lui era sul letto con indosso la sola biancheria. Come domenica notte, la luce sul comodino era ancora accesa. Kim si avvicinò e spense la luce. Rimase un attimo al suo capezzale, sorpresa nel sentirlo russare così forte. Era strano, pensò, che non l'avesse mai svegliata quando dormivano insieme. Tornò in camera sua, spense la luce e cercò di dormire, senza riuscirci. La sua mente non voleva calmarsi e sentiva Edward russare come se le fosse accanto nella stessa stanza. Dopo mezz'ora si alzò e andò nella stanza da bagno. Trovò una vecchia boccetta di Xanax che aveva da anni e prese una delle pillole ovali rosa. Non le piaceva l'idea di prendere dei sonniferi, ma pensò che ora ne aveva bisogno. Altrimenti non sarebbe riuscita a riposare. Uscendo dal bagno chiuse la porta della stanza di Edward e anche della propria. Dopo quindici minuti si sentì invasa da una piacevole sensazione di serenità, e qualche istante dopo cadde profondamente addormentata. 16 Venerdì 30 settembre 1994 Verso le tre del mattino c'era scarso traffico nelle buie vie di Salem e Dave Halpern si sentiva il padrone del mondo. Fin dalla mezzanotte girava
senza meta nella sua Chevrolet Camaro rossa dell'89. Era andato due volte a Marblehead ed era arrivato fino a Danvers e poi a Beverly. Dave aveva diciassette anni e frequentava il terzo anno al liceo di Salem. Si era comprato la macchina grazie a un lavoretto fatto dopo l'orario di scuola a un McDonald locale, oltre che a un considerevole prestito dei suoi genitori, e quell'auto era la passione della sua vita. Lo inebriava il senso di libertà e di puro potere che gli dava; per non parlare dell'ammirazione che suscitava fra amici e amiche, soprattutto in Christina McElroy, una studentessa del secondo anno con un corpo splendido. Dave controllò l'orologio fiocamente illuminato al centro del cruscotto: era l'ora dell'appuntamento. Svoltando in Dearborn Street, dove abitava Christina, spense i fari e il motore e silenziosamente si arrestò sotto la chioma di un grande acero. Non dovette aspettare a lungo. Christina sbucò dalla siepe che circondava la sua villetta, si precipitò verso la macchina e salì. Il bianco dei suoi occhi e dei suoi denti scintillò un attimo nell'ombra. Tremava di eccitazione. La ragazza scivolò sul sedile finché la sua gamba premette contro quella di Dave. Questi, cercando di assumere un'aria disinvolta come se un appuntamento di mezzanotte fosse per lui una consuetudine, non disse parola e allungò la mano ad accendere il motore. Ma la sua mano tremava e fece tintinnare le chiavi. Temendo di essersi tradito lanciò un'occhiata furtiva alla ragazza. Colse sul suo volto un piccolo sorriso e si domandò se per caso pensasse che lui non sapeva conservare il sangue freddo. Quando raggiunse l'angolo e accese i fari, di colpo il paesaggio notturno emerse dall'ombra fra gli alberi frondosi. «Hai avuto difficoltà?» chiese Dave, senza distogliere la sua attenzione dalla strada. «Oh, no, per niente. Non capisco perché avessi tanta paura di sgattaiolare fuori di casa. I miei genitori sono profondamente addormentati. Sarei persino potuta uscire tranquillamente dal portone, invece di scavalcare la finestra.» Imboccarono una strada fiancheggiata da case immerse nel buio. «Dove stiamo andando?» domandò Christina con finta noncuranza. «Vedrai. Ci saremo in un attimo.» Adesso stavano passando accanto al vasto e buio cimitero di Greenlawn. Christina si strinse a Dave e guardò da sopra la spalla il prato disseminato di pietre tombali.
Dave rallentò e Christina si drizzò di colpo. «Non andremo là dentro!» protestò. Lui sorrise nel buio. «E perché no?» replicò. Così dicendo sterzò improvvisamente a sinistra, la macchina sobbalzò sulla soglia del cimitero ed entrò. Dave spense immediatamente le luci e rallentò procedendo a passo d'uomo. Era difficile vedere la strada sotto le foglie. «Oh, mio Dio!» esclamò Christina osservando l'area che si estendeva ai due lati della strada. Le pietre tombali si stagliavano sinistre nella notte e, ogni tanto, dalle loro superfici levigate si levavano improvvisi barbagli di luce. Istintivamente Christina si avvicinò di più a Dave, aggrappandosi con una mano alla sua coscia. Lui sogghignò, soddisfatto e compiaciuto. Si fermarono accanto a un laghetto quieto e silenzioso, fiancheggiato da salici piangenti. Dave spense il motore e bloccò le portiere. «Non si è mai troppo prudenti», sentenziò. «Forse dovremmo lasciare i finestrini un po' aperti», suggerì Christina, «altrimenti qua dentro diventerà un forno.» Dave accolse il consiglio, ma espresse la speranza che non ci fossero zanzare. I due adolescenti si guardarono per un attimo, poi Dave si chinò verso Christina e si scambiarono un bacio delicato. Il contatto riaccese immediatamente il fuoco della loro passione e si strinsero in un selvaggio abbraccio. Goffamente annasparono a cercare le parti segrete dei loro corpi, mentre i finestrini si appannavano di vapore. Malgrado l'intensità del momento, entrambi, a un certo punto, si accorsero di un movimento della macchina che non era provocato da loro. Alzarono contemporaneamente gli occhi per scrutare attraverso il parabrezza appannato e quello che videro li terrorizzò: un pallido spettro bianco si scagliava contro di loro nell'aria notturna. Qualsiasi cosa fosse, la sinistra creatura urtò con un suono stridente contro il parabrezza, poi scivolò di lato, dalla parte del passeggero. «Che diavolo!» urlò Dave lottando freneticamente con i calzoni che gli erano scesi a metà sulle cosce. Christina strillava, dibattendosi per allontanare una sudicia mano che era penetrata dal finestrino semiaperto e le strappava una manciata di capelli. «Accidenti!» imprecò Dave lottando contro una mano che era entrata dal suo finestrino. Unghie lunghe come artigli gli penetrarono nel collo e gli strapparono un pezzo di camicia, facendogli scorrere rivoli di sangue giù
per la schiena. Preso dal panico, Dave mise in moto la Chevrolet. Si lanciò a marcia indietro sobbalzando sul terreno sconnesso. Christina gridò ancora quando urtò con la testa contro il tetto della macchina. Il paraurti posteriore andò a sbattere contro una lapide che si staccò alla base e crollò a terra. Dave innestò la prima e accelerò violentemente, lottando per mantenere il controllo del volante mentre il possente motore faceva balzare la vettura in avanti. Christina fu spinta contro la portiera e rimbalzò in braccio a Dave. Lui la spinse di lato, appena in tempo per evitare un altro monumento funebre. Con una brusca sterzata, il giovane si immise nel viale che attraversava serpeggiando il cimitero e accese le luci. Christina si era ripresa abbastanza da mettersi a piangere. «Chi diavolo erano quei cosi?» gridò Dave. «Erano due», farfugliò Christina fra le lacrime. Raggiunsero la strada provinciale e Dave puntò verso la città. Il pianto della ragazza divenne un sommesso lamento, con qualche singhiozzo ogni tanto. Voltò lo specchietto retrovisore verso di sé ed esaminò il danno subito dai suoi capelli. «La mia messa in piega è tutta rovinata!» gemette. Dave riaggiustò lo specchietto e si guardò alle spalle per assicurarsi che nessuno li seguisse, quindi si passò una mano sul collo e la ritrasse bagnata di sangue. Si fissò la mano con aria incredula. «Che diavolo avevano addosso?» chiese rabbioso. «E che cosa vuoi che me ne importi», rispose Christina sempre piangendo. «Avevano addosso qualcosa di bianco! Come dei fantasmi.» «Non avremmo mai dovuto andare là dentro», gemette la ragazza. «Lo sapevo fin dall'inizio.» «Ma fammi il piacere! Tu non sapevi niente!» «Io lo sapevo! E tu non me lo hai chiesto.» «Cristo!» imprecò Dave. «Chiunque fossero, dovevano essere malati», disse Christina. «Forse hai ragione tu, forse vengono dall'ospedale statale di Danvers. Ma in questo caso, come hanno fatto ad arrivare fin qui, al cimitero di Greenlawn?» Christina si portò la mano alla bocca e balbettò: «Mi viene da vomitare». Dave premette il piede sul freno e accostò a lato della strada; la ragazza spalancò la portiera e vomitò. Dave recitò una silenziosa preghiera speran-
do che quella roba finisse fuori, sulla strada. Christina si raddrizzò e si rimise seduta. Appoggiò il capo al poggiatesta e chiuse gli occhi. «Voglio andare a casa», mormorò desolata. «Ci saremo in un attimo.» Dave mise in moto. Sentiva l'odore acido del vomito e tremò all'idea che la sua bellissima macchina fosse stata sporcata. «Non dobbiamo dire a nessuno quello che è successo», disse Christina. «Se i miei genitori lo scoprono, mi chiudono in casa per sei mesi.» «D'accordo.» «Me lo prometti?» «Certo, non c'è problema.» Dave spense le luci quando svoltò nella strada dove abitava Christina. Si fermò a una certa distanza dalla casa della ragazza e sperò che lei non si aspettasse di essere baciata. Tirò un sospiro di sollievo quando la vide scendere. «Me l'hai promesso!» ripeté sottovoce Christina. «Non preoccuparti.» La seguì con lo sguardo mentre correva per il prato e scompariva dietro la siepe. Dave proseguì fino a un vicino lampione. Uscì dalla macchina e la ispezionò trepidante. C'era un'ammaccatura sul paraurti posteriore, dove aveva urtato contro la pietra tombale, ma non era grave. Poi controllò dalla parte del passeggero. Per fortuna non c'era traccia di vomito. Chiuse la portiera, passò davanti alla macchina e qui scoprì che un tergicristallo, quello dalla parte del passeggero, mancava. Dave strinse i denti e imprecò sottovoce. Che notte disastrosa! E per non ottenere un bel niente! Mentre si metteva al volante si domandò se non fosse il caso di svegliare George, il suo più caro amico. Non vedeva l'ora di raccontargli tutto quello che gli era successo. Era una cosa così incredibile che sembrava un film dell'orrore. In certo qual modo fu lieto che il tergicristallo fosse stato staccato, altrimenti George, probabilmente, non avrebbe creduto alla sua storia. Poiché aveva preso una compressa di Xanax intorno all'una di notte, Kim dormì più a lungo del solito e, quando si svegliò, si sentì un po' stordita. Era una sensazione sgradevole, ma non era un prezzo troppo alto da pagare per una notte di sonno. Passò la prima parte di quella giornata preparando la sua uniforme per il
lunedì successivo, quando sarebbe tornata al lavoro. Con sorpresa si rese conto che lo desiderava vivamente, e non solo per le crescenti preoccupazioni che le dava il laboratorio e tutto quello che di strano vi stava accadendo. Nelle ultime due settimane si era accorta di essere sempre più stanca della vita solitaria e isolata che aveva condotto a Salem, specialmente dopo avere terminato l'arredamento della villa. Il problema principale era sempre Edward, malgrado il suo umore fosse notevolmente migliorato da quando prendeva l'Ultra. La vita con lui era stata ben diversa da come sperava, anche se, pensandoci, non sapeva esattamente che cosa si fosse aspettata, dal momento che lo aveva invitato a vivere con lei sull'impulso del momento. Ma senza dubbio aveva contato di vederlo molto più spesso e di condividere con lui la vita di tutti i giorni molto più di quanto poi era avvenuto. E certo non avrebbe mai immaginato di doversi preoccupare per la sua pazza iniziativa di assumere un farmaco non sperimentato. Tutto sommato, era veramente una situazione grottesca. Quando ebbe riordinato l'uniforme, si avviò a piedi verso il castello e per prima cosa andò a cercare Albert. Aveva sperato che i lavori fossero terminati per quel giorno, ma lui le spiegò che era impossibile, viste le ulteriori riparazioni da eseguire nell'ala degli ospiti. Aggiunse che gli occorrevano altri due giorni e le chiese se potevano lasciare i loro utensili al castello nel fine settimana. Kim scese le scale e andò a controllare l'entrata e, con grande disappunto, la trovò ancora insudiciata. Osservò che lo zerbino era intatto, come se lo avessero ignorato intenzionalmente. Andò a prendere di nuovo lo straccio, rimproverandosi per non avere parlato del problema il giorno prima, quando si era recata al laboratorio. Attraversò il cortile e andò a controllare l'entrata dell'ala degli ospiti. Lì c'era meno sudiciume, ma sotto certi aspetti era ancora peggio. Infatti, le scale erano coperte da una passatoia e, per pulirle, dovette prendere un vecchio aspirapolvere dall'ala della servitù. Quand'ebbe terminato, giurò a se stessa che questa volta ne avrebbe parlato alle due signore. Riposti gli arnesi per le pulizie, pensò per un momento di recarsi al laboratorio, ma cambiò idea. L'ironia della situazione era che all'inizio le era sgradito andare al laboratorio perché gli scienziati le manifestavano ostilità, e ora era riluttante a recarvisi perché si mostravano troppo amichevoli. Infine salì le scale e cominciò a lavorare nelle soffitte. Il ritrovamento della lettera di Thomas Goodman aveva riacceso il suo entusiasmo. Il tempo passò rapidamente e prima che se ne rendesse conto venne l'ora di
pranzo. Tornando alla villa lanciò uno sguardo al laboratorio e ancora una volta pensò di fare una visita, ma ancora una volta decise che era meglio aspettare. Sapeva che stava solo rimandando qualcosa di inevitabile, ma non poteva farci nulla. Considerò persino la possibilità di esporre a Edward il problema e pregarlo di parlarne lui stesso agli altri. Dopo il pranzo tornò alle soffitte e vi rimase per tutto il pomeriggio. L'unico documento del diciassettesimo secolo che le capitò fra le mani fu la pagella del liceo di Jonathan Stewart. Apprese così che il ragazzo era uno studente mediocre. Secondo uno dei maestri che aveva redatto valutazioni particolarmente colorite, Jonathan era «più adatto a nuotare nel Fresh Pond o a pattinare sul fiume Charles gelato, secondo la stagione, che a ragionare di logica, retorica o etica». Quella sera, mentre cenava con pesce fresco alla griglia e insalata verde mista, vide uno di quei furgoncini adibiti alla consegna di pizze a domicilio entrare nella tenuta e dirigersi verso il laboratorio. Si meravigliò che Edward e la sua squadra potessero continuare a nutrirsi in quel modo. Due volte al giorno, infatti, c'era una consegna di cibi cotti, come pizza, pollo fritto o pietanze cinesi. All'inizio del mese si era offerta di preparare ogni sera la cena per Edward, ma lui aveva rifiutato affermando che riteneva di dover mangiare con gli altri. In un certo senso, Kim ammirava la loro dedizione al lavoro, ma pensava anche che fossero fanatici, e forse un po' pazzi. Verso le undici portò Sheba a fare una passeggiata. Rimase ferma sulla veranda mentre l'animale gironzolava fra l'erba. Sempre tenendo d'occhio la gatta guardò verso il laboratorio e vide la luce filtrare dalle finestre. Si domandò per quanto tempo avrebbero potuto resistere a quel folle ritmo di lavoro. Quando ritenne che la passeggiata fosse stata sufficientemente lunga, richiamò la gatta. Sheba non si mostrò troppo soddisfatta di dover tornare al chiuso ma, dopo quello che aveva sentito dall'agente, Kim non era disposta a lasciarla vagare nei boschi di notte. Salì al piano superiore, si spogliò e si mise a letto. Lesse per circa un'ora ma, come la notte prima, non riuscì a prendere sonno. Anzi, restando così coricata, aveva la sensazione di sentire crescere la sua ansietà. Si alzò, passò nella stanza da bagno e prese un'altra compressa di Xanax. Lo fece un po' controvoglia, ma decise che, finché non avesse ripreso regolarmente il lavoro, avrebbe avuto bisogno del riposo che il farmaco le procurava.
17 Sabato 1° ottobre 1994 Kim emerse a fatica dal profondo sopore indotto dal tranquillante e ancora una volta fu sorpresa di avere dormito così a lungo: erano quasi le nove. Dopo una breve doccia si vestì e portò fuori la gatta. Sentendosi in colpa per averla privata dei suoi abituali vagabondaggi notturni, si propose di essere paziente e di lasciarla andare dove voleva. Sheba scelse di fare il giro della casa e Kim la seguì. Quando arrivò dietro la villa si fermò di colpo e si lasciò sfuggire un'imprecazione. Constatò che era stata presa di mira dai vandali o dal misterioso animale a cui avevano accennato gli agenti; infatti, i due bidoni della spazzatura erano stati rovesciati e vuotati e il loro contenuto era sparso tutt'intorno. Ignorando la gatta, raddrizzò i due bidoni di plastica e scoprì così che erano stati lacerati lungo gli orli superiori, presumibilmente quando i coperchi erano stati asportati a forza. «Che seccatura!» esclamò riportando i due bidoni accanto al muro, dove stavano normalmente. Li osservò meglio e si rese conto che avrebbe dovuto sostituirli perché la chiusura dei coperchi non era più sicura. Rincorse Sheba prima che potesse prendere la fuga nei boschi e la riportò in casa. Ricordandosi che gli agenti le avevano detto di richiamarli se avesse avuto altre noie, telefonò alla stazione di polizia. Con sua sorpresa, insistettero per mandare qualcuno. Dopo essersi infilata un paio di guanti da giardino, tornò fuori e passò mezz'ora a raccogliere tutti i rifiuti, che per il momento ripose nei due bidoni danneggiati. Stava terminando l'ingrato lavoro quando arrivò la macchina della polizia. Questa volta ne scese un solo agente, all'incirca dell'età di Kim, che disse di chiamarsi Tom Malick. Era un giovane serio e chiese di fare un sopralluogo. Kim pensò che esagerasse, ma lo condusse dietro la villa, gli mostrò i due bidoni e gli spiegò che aveva appena finito di raccogliere l'immondizia sparsa tutt'intorno. «Era meglio se non avesse toccato niente fino al nostro arrivo», osservò Tom.
«Mi dispiace», mormorò Kim, ma non capiva che differenza avrebbe potuto fare. «Direi comunque che ci sono analogie con altri episodi accaduti nella zona», continuò Tom. Si accovacciò accanto ai bidoni e li esaminò con attenzione, poi ispezionò i coperchi. Kim lo osservava con lieve impazienza. Infine l'agente si alzò. «Questo è stato fatto da uno o più animali, non sono stati dei ragazzi. Credo di rilevare segni di denti lungo il bordo dei coperchi. Vuole vedere?» «Certo», rispose Kim. Tom sollevò uno dei coperchi e indicò una serie di incisioni parallele. «Dovrà procurarsi dei bidoni più robusti», disse. «Stavo già pensando di sostituirli. Vedrò quello che posso trovare.» «Dovrà andare fino a Burlington per trovarli. C'è stata una vera caccia ai bidoni in città.» «Pare che questa faccenda stia diventando un vero problema!» commentò Kim. «Può crederlo, la città è tutta in subbuglio. Non ha sentito il notiziario questa mattina?» «Veramente no.» «Fino a ieri, le uniche vittime di questa faccenda erano solo cani e gatti, ma questa mattina abbiamo rinvenuto la prima vittima umana.» Kim trattenne il fiato. «È orribile! Chi è la vittima?» «Un vagabondo conosciuto in città, un certo John Mullins. È instato trovato non lontano di qui, vicino al Kernwood Bridge. La cosa più raccapricciante è che il suo corpo è stato in parte divorato.» Kim si sentì improvvisamente la bocca asciutta. Le tornò alla mente l'orrenda immagine di Buffer sbranato nell'erba. «John aveva un altissimo livello d'alcol nel sangue», continuò Tom. «Può anche darsi che fosse morto prima che l'animale lo attaccasse, ma ne sapremo di più quando avremo il rapporto del medico legale. Il cadavere è stato mandato a Boston nella speranza di ricavare dai segni dei denti sulle ossa qualche indizio sul tipo di animale che ci troviamo di fronte.» Kim rabbrividì. «Che cosa orribile! Non pensavo che si fosse a questo punto.» «All'inizio avevamo pensato a un procione, ma per questa vittima umana e per la quantità di atti vandalici compiuti nella zona, ora pensiamo a un animale più grosso, per esempio un orso. C'è stato un netto incremento nel-
la popolazione di orsi del New Hampshire, perciò questa ipotesi non è del tutto infondata. Ma qualunque animale sia, l'industria delle streghe qui a Salem se n'è subito impadronita. Naturalmente dicono che sia il diavolo e altre simili sciocchezze, e cercano di convincere la gente che sia tornato il 1692. Il guaio è che c'è chi ci crede e fanno anche buoni affari. E noi abbiamo un sacco di lavoro.» Dopo averla messa in guardia perché in tutto quel vasto terreno forestale di sua proprietà poteva benissimo nascondersi un orso, Tom si accomiatò. Prima di fare il viaggio fino a Burlington, Kim telefonò al negozio di ferramenta di Salem dove di solito si forniva. Contrariamente a quello che aveva detto Tom, le assicurarono che avevano un intero assortimento di bidoni poiché avevano ricevuto un rifornimento proprio il giorno prima. Lieta di avere una commissione che la portasse in città, Kim mangiò in fretta un boccone e partì. Si diresse immediatamente al negozio di ferramenta e il commesso le disse che aveva fatto bene ad andare subito. Da quando aveva parlato con lei al telefono, un'ora prima, gran parte dei bidoni era già stata venduta. «Questo animale gira proprio dappertutto», osservò Kim. «Direi proprio di sì!» replicò il commesso. «Cominciano ad avere lo stesso problema anche a Beverly. Tutti si domandano che genere di animale sia. C'è persino una lotteria, nel caso lei voglia scommettere qualche spicciolo. Ma per noi è stata una manna. Non soltanto abbiamo venduto un sacco di bidoni, ma nel nostro reparto articoli sportivi c'è stata una vendita straordinaria di fucili e munizioni.» Mentre Kim aspettava alla cassa per pagare il suo acquisto, sentì gli altri clienti parlare dello stesso argomento. L'eccitazione era quasi palpabile. Lasciando il negozio, Kim avvertì una sensazione di malessere. Pensava che se tutti fossero stati presi da un'isteria collettiva; ora che c'era di mezzo una vittima umana, potevano venire colpite delle persone innocenti. Rabbrividì all'idea di uomini dal grilletto facile nascosti dietro le tende delle finestre, in attesa che qualcosa o qualcuno venisse a rovistare nei loro bidoni. Poiché probabilmente erano coinvolti dei ragazzi, poteva succedere una tragedia. Tornata a casa, Kim trasferì l'immondizia dai bidoni danneggiati a quelli nuovi, che avevano i coperchi con una chiusura di sicurezza. Trasportò poi i vecchi in fondo al fienile, pensando di usarli per raccogliere le foglie. Mentre trafficava avvertì un'acuta nostalgia della città, dove la vita le pareva così semplice al confronto. In città doveva preoccuparsi dei borsaioli,
non degli orsi. Lieta di avere risolto il problema dei bidoni, attraversò il campo diretta al laboratorio. Non le faceva piacere andarci, ma dopo i nuovi eventi, i bidoni saccheggiati e un morto rinvenuto nei dintorni, pensò che non poteva farne a meno. Prima di entrare controllò i recipienti usati per l'immondizia del laboratorio, due grossi contenitori di metallo che venivano sollevati dall'autocarro dei netturbini. I coperchi erano così pesanti che Kim riuscì a malapena ad alzarli. Guardando dentro vide che i rifiuti del laboratorio non erano stati toccati. Davanti alla porta d'ingresso esitò, cercando di escogitare una scusa per non farsi travolgere dall'eccessiva cordialità. L'unico pretesto che le venne in mente fu che doveva andare a pranzo. S'impose anche di affrontare l'argomento del terriccio portato dentro il castello. Attraversò la reception, entrò nel laboratorio e ancora una volta rimase sorpresa. In occasione della sua ultima visita aveva trovato un festeggiamento, ora piombava nel bel mezzo di una riunione improvvisata, che doveva essere stata convocata per qualcosa d'importante. Ma l'atmosfera non era più allegra, bensì seria e solenne, quasi funerea. «Sono terribilmente spiacente d'interrompervi», disse subito. «Niente di male», rispose Edward. «Desideri qualcosa in particolare?» Kim raccontò quello che era accaduto ai suoi bidoni e parlò della visita della polizia. Poi chiese se qualcuno avesse visto o udito qualcosa di insolito durante la notte. Gli scienziati si guardarono l'un l'altro, in attesa che qualcuno parlasse. Nessuno aprì bocca, poi tutti scossero la testa. «Io dormo così profondamente che non sentirei neanche un temporale», disse Curt. «Tu russi come un temporale!» scherzò David. «Ma anch'io, del resto, dormo profondamente.» Kim si guardò intorno, osservando i volti dei ricercatori. L'umore cupo che aveva trovato entrando cominciava già a rischiararsi. Spiegò poi che, secondo la polizia, il colpevole poteva essere un orso, ma che probabilmente i ragazzi approfittavano della situazione per fare degli scherzi. Parlò anche dell'eccitazione quasi isterica che regnava in città. «Solo a Salem qualcosa del genere poteva ingigantire in questo modo», commentò Edward. «Questa città non si riprenderà mai completamente dalla tragedia del 1692.»
«Le loro preoccupazioni sono in parte giustificate», replicò Kim. «Il problema recentemente ha assunto una nuova dimensione. Questa mattina, non lontano da qui, è stato trovato il cadavere di un uomo; il suo corpo era stato in parte divorato.» Gloria impallidì. «Che orrore!» «Hanno determinato le cause della morte?» chiese Edward. «Non esattamente. Hanno mandato il cadavere a Boston per farlo esaminare. C'è il dubbio che l'uomo fosse già morto prima di essere attaccato dall'animale.» «L'animale quindi si comporterebbe come un saprofago.» «Sarà così», ribatté Kim. «Ho ritenuto opportuno avvertirvi. So che voi andate a piedi al castello nel cuore della notte. Forse sarebbe meglio che prendeste l'auto per percorrere quella breve distanza, finché questo problema non sarà risolto. Intanto state in guardia, che sia un animale o dei vandali.» «Grazie di averci avvertito», le disse Edward. «Ah, un'altra cosa», aggiunse Kim, obbligandosi ad affrontare l'argomento, «c'è un piccolo problema al castello. Ho trovato una quantità di terriccio dentro casa; vi pregherei di pulirvi i piedi prima di entrare.» «Siamo spiacenti!» rispose François. «È buio quando entriamo ed è buio quando usciamo. Dovremo stare più attenti.» «Sono certa che lo farete. Bene, questo è tutto. Mi dispiace di avervi disturbato.» «Nessun disturbo», disse Edward e l'accompagnò alla porta. «Stai attenta anche tu», aggiunse. «E stai in guardia per Sheba.» Dopo avere accompagnato Kim, Edward tornò dal gruppo e guardò i volti dei colleghi, a uno a uno. Tutti erano preoccupati. «Un cadavere pone tutta la faccenda sotto un'altra luce», osservò Gloria. «Sono d'accordo», fece eco Eleanor. Ci fu qualche minuto di silenzio in cui ognuno pensava alla situazione. Infine David parlò. «Dobbiamo affrontare la possibilità che potremmo essere noi i responsabili di alcuni degli incidenti avvenuti nella zona.» «Secondo me è assurdo», ribatté Edward. «È contro ogni ragionevole ipotesi.» «Come spieghi quello che è accaduto alla mia maglia?» chiese Curt. La tirò fuori da un cassetto dove l'aveva infilata in fretta quando Kim era improvvisamente entrata. Era lacera e macchiata. «Ho analizzato una di que-
ste macchie: è sangue.» «Ma è il tuo sangue», obiettò Edward. «È vero. Ma anche così, come è potuto accadere? Insomma, io non ricordo niente.» «È anche difficile spiegare i tagli e le ammaccature che ci troviamo sulla pelle quando ci svegliamo al mattino», aggiunse François. «E sul mio pavimento c'erano ramoscelli e foglie.» «Forse soffriamo di sonnambulismo o qualcosa del genere», osservò David. «E non vogliamo ammetterlo.» «Io certo non sono sonnambulo!» protestò Edward. Fissò accigliato gli altri. «Non sono del tutto sicuro che questo non sia un altro scherzo, dopo tutti quelli che avete organizzato per divertirvi.» «Non è uno scherzo», ribatté Curt piegando la sua maglia. «Negli animali da esperimento non abbiamo notato alcuna reazione che faccia pensare a quella suggerita da te», aggiunse Edward aggressivo. «Scientificamente è senza senso, ci dovrebbe essere qualche altra spiegazione. È per questo che facciamo esperimenti sugli animali.» «Sono d'accordo», intervenne Eleanor. «Io non ho trovato niente nella mia stanza e non ho né tagli né lividi.» «Io non ho allucinazioni», ripeté David, «ho davvero tagli e lividi.» Protese le mani perché tutti potessero vederle. «Come ha detto Curt, questo non è uno scherzo.» «Io non ho tagli, ma mi sono svegliata con le mani piene di terra», aggiunse Gloria. «E non mi è rimasta una sola unghia intera, sono tutte spezzate.» «C'è qualcosa che non va, anche se non lo abbiamo rilevato nei nostri animali», insistette David. «Vedo che nessuno vuole dirlo, ma io lo dirò: dev'essere l'Ultra.» Edward serrò i denti e le sue mani si chiusero a pugno. «Ci ho messo un paio di giorni ad ammetterlo anche con me stesso», continuò David, «ma è chiaro che io sono andato in giro di notte senza rendermene conto. E non so neppure che cosa ho fatto, a parte il fatto che al mattino quando mi sveglio sono pieno di terriccio. Vi assicuro che non ho mai fatto niente di simile in tutta la mia vita.» «Vuoi forse dire che non è un animale il responsabile di tutti quei vandalismi nella zona?» chiese Gloria impressionata. «Andiamo, non diciamo sciocchezze!» li interruppe Edward. «Non lasciamo che la nostra immaginazione ci giochi dei brutti tiri!»
«Io dico solo questo: sono andato in giro di notte e non so che cosa ho fatto», ripeté David. Un fremito di paura percorse tutti; ognuno cominciava a rendersi conto della realtà. Ma risultò immediatamente che mentre Edward ed Eleanor erano preoccupati per il futuro sviluppo del progetto, gli altri temevano per se stessi. «Dobbiamo esaminare le cose in modo razionale», intervenne Edward. «Senza dubbio», assentì David. «Il farmaco è perfetto», affermò Edward, «abbiamo avuto solo risultati positivi. Abbiamo ragione di credere che si tratti di una sostanza naturale, o molto vicina a una sostanza naturale, che esiste già nei nostri cervelli. Le scimmie non hanno mostrato alcuna tendenza al sonnambulismo, e io personalmente sono molto contento di come mi sento da quando prendo l'Ultra.» Tutti gli altri immediatamente confermarono. «Anzi, se siamo in grado di pensare razionalmente in queste circostanze, io sono convinto che sia merito dell'Ultra», ribadì Edward. «Probabilmente hai ragione», intervenne Gloria. «Un minuto fa ero fuori di me per l'angoscia e il disgusto e ora mi sento già più calma.» «Questo è ciò che penso anch'io», affermò Edward. «È un farmaco fantastico.» «Però abbiamo sempre un problema», ribatté David. «Se gli episodi di sonnambulismo avvengono realmente e sono provocati dal farmaco, e questa penso che sia l'unica spiegazione possibile, devono essere un effetto collaterale che non avevamo previsto. La droga agisce in modo singolare sul nostro cervello.» «Scusate, vado a prendere le tomografie», disse François all'improvviso. Si diresse in fretta al suo banco di lavoro e tornò immediatamente cominciando a mostrare una serie di encefalogrammi di una scimmia a cui avevano somministrato dosi di Ultra addizionato di traccianti radioattivi. «Volevo mostrarvi una cosa che ho osservato questa mattina», continuò. «Non ho avuto tempo di pensarci molto e non me ne sarei neppure reso conto se il computer non l'avesse messa in rilievo quando queste immagini erano in forma digitale. Se guardate con attenzione, la concentrazione di Ultra nel rombencefalo, nel mesencefalo e nel sistema limbico cresce lentamente dopo la prima dose. Poi, raggiunto un certo livello, aumenta di colpo, indicando così che non si arriva a uno stadio di stabilità.» Tutti si chinarono sulle tomografie.
«Forse la concentrazione aumenta di colpo quando il sistema enzimatico che metabolizza il farmaco è sovraccarico», suggerì Gloria. «Forse hai ragione», convenne François. «Ciò significa che dovremmo consultare la tabella delle dosi di Ultra che ciascuno di noi sta assumendo», continuò Gloria. Tutti guardarono Edward, che disse: «Sì, mi sembra ragionevole». Si diresse alla sua scrivania e ne tolse una piccola scatola chiusa a chiave. Dentro c'era un cartoncino con l'indicazione dei dosaggi di ciascuno. Risultò che Curt prendeva la dose massima, subito seguito da David, mentre Eleanor assumeva la dose minima, preceduta da Edward. Dopo una lunga e obiettiva discussione, arrivarono a formulare una teoria per spiegare quanto che stava accadendo. Conclusero che quando la concentrazione di Ultra arrivava a un certo punto, bloccava progressivamente la normale variazione dei livelli di serotonina, appiattendoli e alterando gli schemi del sonno. A questo punto, Gloria suggerì che quando la concentrazione diventava più alta, forse al picco più alto della curva, l'Ultra bloccava le radiazioni che, provenienti dal cervello inferiore, arrivavano ai centri superiori degli emisferi cerebrali. Il sonno, come altre funzioni autonome, era regolato dalle aree del cervello inferiore dove l'Ultra si stava concentrando. Il gruppo rimase in silenzio per un attimo, mentre ognuno rifletteva su questa ipotesi. Malgrado si fossero emotivamente ripresi, tutti trovavano l'idea sconvolgente. «In questo caso», cominciò David, «che cosa avverrebbe se ci svegliassimo mentre è in atto il blocco?» «Sarebbe come se avessimo subito una regressione evolutiva», rispose Curt. «Agiremmo solo in base ai centri del cervello inferiore; saremmo come dei rettili carnivori.» Rimasero un attimo traumatizzati dall'orrore. «Ma no, aspettate un momento!» esclamò Edward cercando di rassicurare se stesso e gli altri. «Stiamo saltando a conclusioni che non sono basate sui fatti. Non sono altro che supposizioni. Dobbiamo ricordare che non abbiamo riscontrato alcun problema nelle scimmie. E le scimmie, certo siamo tutti d'accordo, possiedono emisferi cerebrali, anche se più piccoli di quelli degli uomini, o almeno della maggior parte degli uomini!» concluse scherzosamente. Tutti, tranne Gloria, risero alla sua battuta. «Anche se esiste un problema con l'Ultra», continuò Edward, «dobbiamo prendere in considerazione i meriti del farmaco, dobbiamo pensare che
ha agito positivamente sulla nostra emotività, sulle nostre capacità intellettuali, sull'acume dei nostri sensi e persino sulla memoria a lungo termine. Forse ne abbiamo prese dosi troppo alte e dovremmo ridurle. Magari dovremmo scendere al livello di Eleanor, poiché gli effetti psichici che lei ha constatato sono solo positivi.» «Io non riduco le dosi, io smetto immediatamente», affermò Gloria in tono provocatorio. «Inorridisco al pensiero che una qualche creatura primitiva sia in agguato dentro il mio corpo senza che io me ne accorga, e sbuchi fuori la notte a caccia di cibo.» «Immagine molto pittoresca», ribatté Edward, «e sei liberissima di smettere subito, non c'è bisogno di dirlo. Nessuno vuole costringere altri a fare una cosa che non vogliono fare, lo sapete tutti. Ognuno di voi può decidere se continuare o no ad assumere il farmaco. Ed ecco la mia proposta: per maggior sicurezza, dovremmo dimezzare la dose di Eleanor e tenerla come limite massimo.» «Questa proposta mi sembra ragionevole», approvò David. «Anche a me», risposero insieme Curt e François. «Bene», concluse Edward. «Sono sicuro che, se il problema è quello che abbiamo prospettato in via teorica, dev'essere collegato al dosaggio, e ci dev'essere un limite al di sotto del quale la probabilità di provocare l'effetto collaterale possa considerarsi un rischio accettabile.» «Io non prenderò più il farmaco», affermò ancora Gloria. «D'accordo», assentì Edward. «Non sarete in collera con me?» chiese la donna. «Nemmeno per sogno», rispose lui. «Potrò fare da controllo», continuò Gloria. «E inoltre potrò sorvegliare gli altri di notte.» «Eccellente idea», commentò Edward. «Ho una proposta», intervenne François. «Forse potremmo prendere tutti delle dosi di Ultra con traccianti radioattivi, in modo che io possa seguire l'accumulo e riconoscere i punti di concentrazione nei nostri cervelli. La dose massima di Ultra dovrebbe essere quella che consente di mantenere un livello determinato del farmaco senza aumentarlo continuamente.» «Io condivido la tua idea», affermò Curt. «Un'altra cosa», aggiunse Edward. «Sono sicuro che non occorre ricordarlo a voi, che siete professionisti, ma questa riunione deve restare segreta. Non ne parlerete a nessuno, nemmeno ai vostri familiari.» «Non c'è bisogno di dirlo», affermò David. «L'ultima cosa che deside-
riamo è compromettere il futuro dell'Ultra. Potremmo magari avere delle difficoltà di crescita in certi momenti, ma l'Ultra è destinato a essere il farmaco del secolo.» Kim aveva pensato di trascorrere un po' di tempo al castello nella mattinata, ma quando tornò alla villa si rese conto che era già ora di pranzo. Mentre mangiava suonò il telefono e, con sorpresa, sentì la voce di Katherine Sturburg, l'archivista della biblioteca di Harvard che aveva manifestato un particolare interesse per Increase Mather. «Forse ho qualche buona notizia per lei», esordì. «Ho trovato un riferimento a un'opera di Rachel Bingham!» «Davvero? È magnifico. Avevo già rinunciato alla speranza di ricevere aiuto da Harvard.» «Noi facciamo del nostro meglio», affermò Katherine. «Come è riuscita a trovarla?» «Questo è il bello. Io non ho fatto altro che rileggere la lettera di Increase Mather, di cui lei ci ha lasciato fare una copia. Poiché c'era un'allusione a una scuola di legge, ho consultato la banca dati della biblioteca della facoltà di Giurisprudenza, ed è comparso il nome. Non so proprio perché non risulti dalla ricerca incrociata nella nostra banca dati, ma la buona notizia è questa: pare che l'opera sia sopravvissuta all'incendio del 1764.» «Credevo che fosse bruciato tutto.» «Quasi tutto, infatti. Per fortuna si salvarono circa duecento volumi dei cinquemila presenti nella nostra biblioteca, perché erano in prestito. Qualcuno evidentemente stava leggendo il libro che le interessa. Comunque, il riferimento di cui le parlavo indica che l'opera fu trasferita dalla biblioteca principale di Harvard alla facoltà di Giurisprudenza nel 1818, un anno dopo la fondazione.» «Ha trovato proprio il libro?» chiese Kim ansiosamente. «No, non ne ho avuto il tempo», rispose Katherine. «Inoltre, penso che sarebbe meglio lo facesse lei. Quello che le raccomando è di telefonare prima a Helen Arnold, l'archivista della facoltà di Giurisprudenza. La chiamerò anch'io lunedì mattina, per annunciarle una sua chiamata o una sua visita.» «Ci andrò lunedì, appena avrò terminato il mio turno di lavoro. Esco alle tre.» «Andrà benissimo, lo dirò a Helen.» Kim ringraziò Katherine e chiuse la comunicazione.
Si sentiva eccitata; aveva rinunciato completamente alla speranza che il libro di Elizabeth fosse sopravvissuto all'incendio. Si chiese come mai Katherine fosse così sicura che fosse un libro. Era forse indicato nel riferimento? Prese il telefono e cercò di richiamarla, ma non riuscì a trovarla. Una segretaria le spiegò che l'archivista era appena uscita per partecipare a una colazione di lavoro e non sarebbe tornata fino a lunedì. Allora riappese, delusa, ma si rianimò subito. L'idea che lunedì pomeriggio avrebbe infine appreso la natura della prova addotta contro Elizabeth era per lei motivo di grande soddisfazione. Che fosse un libro o no, non aveva grande importanza. Malgrado questa buona notizia, Kim si recò ugualmente a lavorare al castello. Anzi, affrontò la massa di documenti con rinnovato entusiasmo. Verso la metà del pomeriggio, fece una pausa per cercare di valutare quanto tempo ancora le ci sarebbe voluto per finire di ordinare il materiale. Contando tutti i bauli e gli scatoloni che restavano, e supponendo che ce ne fossero pressappoco altrettanti nella cantina, calcolò che le sarebbe stata necessaria un'altra settimana, lavorando otto ore al giorno. Questa dura realtà le tolse in parte l'entusiasmo. Una volta ripreso il lavoro all'ospedale, infatti, non le sarebbe stato facile trovare il tempo. Stava per rinunciare all'impresa quando all'improvviso le venne in mente il gesto di Kinnard. Aprì a caso un cassetto e con sua grande sorpresa ne tirò fuori una lettera indirizzata a Ronald. Sedette su un baule sotto la finestra e tolse la lettera dalla busta. Era di Samuel Sewall. La data diceva che era stata scritta pochi giorni prima dell'esecuzione di Elizabeth. Boston, 15 luglio 1692 Caro amico, vengo ora da una cordiale cena con il molto reverendo Cotton Mather e in effetti abbiamo parlato della dolorosa vicenda di tua moglie e siamo molto afflitti per te e i tuoi figli. Il reverendo Mather sarebbe gentilmente disposto ad accogliere la tua infelice moglie nella sua casa per curarla, come ha fatto con successo per la sventurata ragazza Goodwin, a patto però che Elizabeth confessi in pubblico e si penta del patto che ha stretto con il Principe della Menzogna. Il reverendo Mather è profondamente convinto che Elizabeth possa fornire prove e argomenti come testimone
oculare per confutare lo spirito sadduceo di questi tempi tumultuosi. In mancanza di ciò, il reverendo Mather non può e non vuole intervenire per sospendere la sentenza della corte. Sappi che non c'è tempo da perdere. Il reverendo Mather è impaziente e ritiene che tua moglie possa insegnarci tutto sulle questioni del mondo invisibile che minaccia la nostra terra. Dio benedica i tuoi sforzi. Tuo amico Samuel Sewall Per qualche minuto Kim fissò lo sguardo fuori della finestra. La giornata era incominciata limpida e azzurra, ma ora il vento spingeva nere nubi da occidente. Da dove era seduta poteva vedere la villa immersa fra le betulle, le cui foglie avevano assunto ora un bel colore giallo dorato. La vista della vecchia casa, unita al ritrovamento della lettera, la trasportò indietro di tre secoli e le parve di avvertire il panico, l'orrore provocato dall'incombente realtà della condanna di Elizabeth. Anche se la lettera che aveva appena letto era diretta a Ronald e non scritta di suo pugno, ebbe l'impressione che fosse la risposta a una lettera che lui doveva avere scritto nel disperato tentativo di salvare la vita della moglie. Le si riempirono gli occhi di lacrime. Le era difficile immaginare l'agonia che Ronald doveva avere vissuto. Si sentiva colpevole di avere nutrito dei sospetti sul suo conto, quando per la prima volta aveva appreso la verità sulla sorte di Elizabeth. Infine si alzò, infilò la lettera nella sua busta e la portò in cantina per riporla insieme all'altro materiale nella cassetta della Bibbia. Poi uscì dal castello e si avviò verso la villa. A metà strada rallentò il passo e, gettando un'occhiata al laboratorio, si fermò. Diede un'occhiata l'orologio: non erano ancora le quattro. Pensò che sarebbe stato gentile da parte sua tentare di migliorare la dieta dei ricercatori. Le erano parsi depressi quando era entrata da loro, quel mattino, e concluse che dovevano essere stanchi di mangiare sempre pizza. Avrebbe potuto facilmente ripetere la cena a base di bistecche e pesce che aveva offerto loro quasi quindici giorni prima. Con quell'idea in mente, cambiò strada e si diresse al laboratorio. Mentre attraversava la reception avvertì un vago senso di apprensione, perché non sapeva che cosa aspettarsi. Entrò in laboratorio e lasciò che la porta le si chiudesse alle spalle: nessuno accorse a salutarla. Kim si diresse verso l'angolo dove si trovava Edward e passò vicino a
David, che la salutò cortesemente ma senza il calore espansivo che le aveva dimostrato nei giorni precedenti. Anche Gloria rispose gentilmente al suo saluto, ma come David tornò a rivolgere subito la sua attenzione al lavoro. Kim continuò a camminare, ma si sentiva sempre più a disagio. Anche se il comportamento di David e Gloria era probabilmente il più normale che Kim avesse riscontrato da quando erano arrivati, rappresentava un altro cambiamento. Edward era talmente immerso nel lavoro che Kim dovette battergli due volte una mano sulla spalla per attirare la sua attenzione. Osservò che stava confezionando nuove capsule di Ultra. «Che cosa c'è?» chiese distrattamente. Ma le sorrise e parve abbastanza lieto di vederla. «Volevo fare un invito a te e agli altri. Che ne dite di ripetere la cena che vi ho preparato un paio di settimane fa? Faccio subito una corsa in città per acquistare il necessario.» «È molto gentile da parte tua», rispose Edward, «ma non questa sera, non abbiamo proprio tempo. Faremo venire le solite pizze.» «Ti prometto che non vi porterà via molto tempo», insistette Kim. «Ho detto di no!» sibilò Edward a denti stretti. Kim, sorpresa, fece un passo indietro, ma lui ritrovò immediatamente la calma e sorrise di nuovo. «La pizza andrà benissimo.» «Se è così che vi piace!» mormorò lei confusa e al tempo stesso agitata. Aveva avuto la netta sensazione che Edward fosse stato sul punto di perdere il controllo. «Stai bene?» gli chiese esitante. «Sì!» sbottò lui, ma subito sorrise. «Siamo tutti un po' troppo impegnati. Abbiamo avuto una piccola battuta d'arresto, ma ora tutto marcia bene.» Kim fece qualche altro passo indietro. «Be', se cambi idea fra poco, diciamo entro un'ora, faccio ancora in tempo ad andare in città. Sarò alla villa, basta che mi chiami.» «Abbiamo troppo da fare», ripeté lui, «torna pure a casa, e grazie della tua offerta. Farò sapere a tutti che ti preoccupi tanto per noi.» Kim si allontanò e nessuno la salutò né alzò il capo dal banco. Appena uscì all'aperto sospirò e scosse la testa. Era sorpresa di quanto fosse cambiata l'atmosfera al laboratorio e si chiese come potessero vivere insieme. Doveva proprio concludere che lei aveva ben poco in comune con gli scienziati. Dopo cena c'era ancora molta luce e sarebbe potuta tornare al castello,
ma preferì oziare davanti al televisore. Aveva sperato di distrarsi guardando qualche programma leggero, di allontanare la mente dall'inquietante immagine del laboratorio, ma più pensava ai rapporti che la legavano a Edward e agli altri, più si sentiva sconcertata. Cercò di leggere, ma non riusciva a concentrarsi. Invece si pentì di non avere seguito quel pomeriggio la traccia che portava alla facoltà di Giurisprudenza. Sentendosi sempre più nervosa via via che le ore passavano, cominciò a pensare a Kinnard. Si domandava che cosa stesse facendo, con chi passasse la serata. Si domandava anche se il giovane medico pensasse qualche volta a lei. Si svegliò di soprassalto, benché avesse preso di nuovo una compressa di Xanax per calmare la mente in subbuglio. Era buio nella stanza e uno sguardo all'orologio le disse che aveva dormito solo poche ore. Si sistemò il guanciale e tese l'orecchio ai rumori della notte, cercando di stabilire che cosa poteva averla svegliata così bruscamente. Poi sentì diversi colpi sordi venire dal retro della casa. Pareva che i suoi bidoni nuovi urtassero contro le assi di legno che rivestivano le pareti esterne. Si sentì paralizzata al pensiero che un orso o un procione tentasse di arrivare ai rifiuti dei bidoni, che contenevano resti di pollo. Accese la luce sul comodino, scese dal letto e s'infilò la vestaglia e le pantofole. Fece una carezza a Sheba per tranquillizzarla, contenta di averla tenuta chiusa in casa. Sentendo altri colpi, corse nella stanza di Edward, accese la luce e vide che il letto era vuoto. Pensando che fosse ancora al laboratorio e preoccupata che tornasse a piedi nel buio, rientrò nella propria stanza e lo chiamò al telefono, ma dopo una decina squilli rinunciò. Prese la torcia elettrica che teneva nel cassetto del comodino e scese le scale. Pensava di lampeggiare con la torcia dalla finestra della cucina sotto la quale erano sistemati i bidoni, sperando di spaventare e mettere in fuga l'animale, qualunque fosse. Ma quando girò l'angolo delle scale e gettò un'occhiata nell'atrio, si arrestò come impietrita e il sangue le si gelò nelle vene: la porta d'ingresso era spalancata. Dapprima non riuscì a muoversi, paralizzata dallo spaventoso sospetto che la misteriosa creatura fosse già entrata in casa e che in quel momento fosse in agguato nel buio. Tese l'orecchio, ma non sentì altro che il coro delle ultime rane della sta-
gione, mentre una fresca e umida brezza entrava dalla porta aperta e accarezzava le sue gambe nude. Fuori cominciava a cadere una pioggerella leggera. In casa regnava un silenzio perfetto, il che le fece sperare che l'animale non fosse entrato. Scese gli scalini uno alla volta, esitando a ogni passo e tendendo l'orecchio per sentire l'eventuale rumore di qualche intruso, ma la casa restava silenziosa. Arrivò vicino alla porta aperta, afferrò la maniglia e guardando a destra e a sinistra, cominciò a chiudere. Non voleva muoversi troppo rapidamente, per paura di provocare un attacco. Aveva chiuso quasi del tutto la porta quando diede un'occhiata fuori e restò senza fiato. Sheba era tranquillamente accovacciata a cinque o sei metri dalla porta di casa, in mezzo al vialetto lastricato di pietra. Ignorava beatamente la pioggia leccandosi una zampa e passandosela sulla testa. Kim non riuscì a credere ai suoi occhi, poiché era convinta di avere appena visto la gatta acciambellata sul letto. Evidentemente, Sheba aveva sentito aprirsi la porta d'ingresso mentre lei entrava nella stanza di Edward e si era precipitata di sotto. Kim respirò a fondo più volte per liberarsi dalla sensazione di stordimento che le annebbiava il cervello. Terrorizzata all'idea che qualcosa potesse stare in agguato non lontano, nell'ombra, non osava alzare la voce per chiamare l'animale, che probabilmente l'avrebbe comunque ignorata. Sentendo di non avere altra scelta, uscì cautamente dalla porta e dopo aver dato un rapido sguardo intorno fece un salto verso la gatta, l'afferrò e mentre si voltava vide la porta d'ingresso chiudersi lentamente. Urlando un silenzioso «No!» si gettò verso la porta, troppo tardi. Il pesante battente si chiuse con un tonfo, seguito dallo stridente rumore metallico del catenaccio spinto nel suo anello. Invano Kim scosse la maniglia, chiusa come si era aspettata. Spinse freneticamente la porta con la spalla, ma non ottenne nulla. Terrorizzata, si voltò lentamente verso il nero della notte rabbrividendo di paura e di freddo, senza sapere come uscire da quella situazione disperata. Era in pigiama e vestaglia, chiusa fuori di casa in una notte di pioggia con una gatta in una mano e una debole torcia elettrica nell'altra, di fronte a una sconosciuta creatura notturna che era in agguato da qualche parte fra i cespugli. Sheba si dibatteva miagolando tentando di liberarsi e Kim cercò di zittirla. Si allontanò di qualche passo e scrutò le finestre, ma erano tutte chiuse.
Girando intorno alla casa calcolò la distanza che la separava dal laboratorio, le cui luci erano finalmente spente, poi guardò verso il castello. Era più lontano, ma sapeva che le porte d'ingresso delle ali erano aperte. Non sapeva se lo fosse quella del laboratorio. Improvvisamente, sentì il rumore di qualcosa di grosso e pesante che si muoveva sulla ghiaia lungo il fianco destro della casa. Non potendo restare dov'era, corse nella direzione opposta, lungo il lato sinistro, per allontanarsi dall'animale che si avvicinava. Tentò disperatamente la porta della cucina, che era chiusa come doveva essere. La prese diverse volte a spallate, ma fu inutile. Tutto quello che ottenne fu di fare miagolare la gatta. Voltò le spalle alla casa e scrutò il piccolo fienile che sorgeva nei pressi della villa. Stringendo Sheba al petto e brandendo la torcia come un bastone, corse con tutta la velocità che le consentivano le pantofole. Quando arrivò al fienile slegò il gancio che teneva chiusa la porta e sgattaiolò nelle tenebre dell'interno, chiudendosi la porta alle spalle. Alla sua destra c'era una piccola finestra molto sudicia che consentiva la vista del cortile dietro la villa. L'unica illuminazione veniva da una lama di luce che filtrava dalla finestra della sua camera da letto, nonché dal riflesso luminescente della bassa coltre di nubi. Mentre spiava dal finestrotto del fienile vide una goffa figura che girava intorno alla casa. Era una persona, non un animale, ma si comportava in modo assai strano: si fermava a fiutare il vento, come avrebbe fatto un animale. Con sgomento, Kim la vide voltarsi nella sua direzione e fissare il fienile. Nel buio non riusciva a scorgere i lineamenti ma soltanto la sagoma nera. Lo sgomento divenne terrore quando la figura si diresse verso di lei con passo lento e strascicato, sempre annusando l'aria come se seguisse la traccia di un odore. Kim trattenne il fiato e pregò in cuor suo che la gatta non miagolasse. Quando la figura fu a circa tre metri di distanza, la ragazza si gettò all'indietro, nel buio del fienile, urtando contro utensili e vecchie biciclette. Sentì il rumore dei passi sulla ghiaia avvicinarsi e poi fermarsi. Ci fu un lungo momento di silenzio angosciante in cui trattenne il respiro. All'improvviso, la porta venne spalancata violentemente, lei perse il controllo e urlò. Sheba rispose con miagolii laceranti e balzò via dalle braccia della padrona. Anche l'uomo gridò. Kim afferrò la torcia con entrambe le mani e l'accese dirigendone il fa-
scio contro il viso dell'intruso, che alzò le braccia alla fronte per difendersi dal lampo improvviso. Poi lei emise un sospiro di sollievo, riconoscendo Edward. «Grazie a Dio!» esclamò, abbassando la torcia. Dal suo riparo fra i mucchi di vecchie bici, falciatrici e bidoni vuoti, fece un salto e si gettò nelle braccia di Edward. Il raggio della torcia balenò capricciosamente fra gli alberi. Per un attimo lui rimase immobile e la fissò con uno sguardo vacuo. «Non posso dirti quanto sono felice di vederti», esclamò Kim scostandosi un po' per poterlo osservare negli occhi. «Non sono mai stata tanto spaventata in vita mia.» Lui non rispose. «Edward?» chiamò Kim ansiosa. «Che cos'hai? Stai bene?» Edward emise un respiro profondo. «Sto bene», articolò alla fine. Era in collera. «Ma non per merito tuo. Che diavolo stavi facendo qui fuori, nel fienile, a quest'ora di notte, in vestaglia? Mi hai spaventato a morte.» Kim si scusò balbettando, rendendosi conto di quanto doveva averlo terrorizzato. Gli spiegò allora quello che era avvenuto e, quando ebbe finito, vide che Edward sorrideva. «Non c'è niente di buffo», protestò. Ma ora che era in salvo sorrise anche lei. «Non posso credere che tu vada in giro a rischiare la vita per questa vecchia gatta!» la punzecchiò Edward. «Andiamo, togliamoci dalla pioggia.» Kimberly tornò nel fienile e con l'aiuto della torcia rintracciò Sheba, che si era nascosta in un angolo dietro un mucchio di utensili da giardino. Riuscì a stanarla e la prese in braccio, poi entrò nella villa, seguita da Edward. «Sono tutta gelata!» disse. «Ho bisogno di qualcosa di caldo, magari un tè. E tu?» «Vengo da te per un momento.» Mentre Kim metteva l'acqua sul fuoco, Edward le espose la sua versione della vicenda. «Pensavo di lavorare tutta la notte, ma verso l'una e mezzo ho dovuto ammettere che era impossibile. Il mio corpo è così abituato a coricarsi verso l'una che non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Sono riuscito a malapena a camminare dal laboratorio alla villa senza sdraiarmi nell'erba. Arrivato alla villa ho aperto la porta, ma poi mi sono ricordato che avevo un sacchetto pieno di avanzi di pizza della cena, che avrei dovuto mettere nel bidone del laboratorio. Così ho girato dietro la casa per infilarlo nei nostri bidoni. Temo di avere lasciato la porta aperta, cosa che non
avrei dovuto fare, anche solo a causa delle zanzare. Comunque, non sono riuscito ad alzare i dannati coperchi dei bidoni e più ci provavo più m'infuriavo. Gli ho dato anche un paio di calci.» «Sono nuovi», spiegò Kim. «Be', spero che ti abbiano dato anche le istruzioni per l'uso.» «È facile aprirli quando c'è luce.» «Infine ci ho rinunciato», proseguì Edward. «Quando sono tornato alla porta d'ingresso l'ho trovata chiusa, e mi sembrava di sentire il tuo profumo. Da quando prendo l'Ultra, il mio senso dell'odorato si è molto acuito. Ho seguito il profumo tutt'intorno alla villa e finalmente sono arrivato al fienile.» Kim si versò una tazza di tè bollente. «Davvero non ne vuoi?» chiese. «Non potrei berne nemmeno un sorso! Anche stare qui seduto è una pena per me. Ho bisogno di andare a dormire. È come se il mio corpo pesasse cinque tonnellate, e altrettanto le mie palpebre.» Scese dallo sgabello e barcollò. Kim corse a sostenerlo. «Sto bene, sto bene», borbottò Edward. «Quando sono così stanco mi ci vogliono un paio di secondi per trovare l'equilibrio.» Kim lo sentì trascinarsi su per le scale mentre riponeva il tè e il miele. Prese la tua tazza e lo seguì. Arrivata in cima alle scale fece capolino nella sua stanza e lo trovò sdraiato sul letto, spogliato solo a metà e profondamente addormentato. Kim entrò e con molta difficoltà gli tolse i pantaloni e la camicia e lo infilò sotto le coperte. Quindi spense la luce. Invidiava la facilità con cui si era addormentato. Era così in contrasto con quello che accadeva a lei! 18 Domenica 2 ottobre 1994 Nella fioca luce dell'alba, Edward e i suoi colleghi s'incontrarono a metà strada fra la villa e il castello e si diressero in silenzio verso il laboratorio calpestando l'erba umida del campo. Erano tutti di umore cupo. Entrarono e si versarono le loro tazze di caffè. Edward era assai più accigliato degli altri, eppure il suo umore era già migliorato da quando si era svegliato, una mezz'ora prima. Alzandosi dal letto, con un brivido di orrore aveva visto sul pavimento la carcassa di un pollo incrostata di fondi di caffè, che pareva provenire da qualche bidone
d'immondizia. Poi si era reso conto che le sue unghie erano sporche, come se avesse scavato nel terriccio, e in bagno, guardandosi allo specchio, aveva visto che la sua faccia e la maglia erano imbrattate di sudiciume. Tutti si portarono le loro tazze di caffè in quella parte di laboratorio che usavano per le riunioni. François fu il primo a parlare: «Anche se la mia dose di Ultra è stata più che dimezzata, stanotte sono ancora andato in giro», esordì con aria tetra. «Quando mi sono svegliato, stamattina, mi sono trovato tutto sporco di terra. Devo essermi rotolato nel fango. Ho dovuto lavare le lenzuola! E guardate le mie mani.» Tese le mani a palmo in su e mostrò una miriade di piccoli tagli e graffi. «Il mio pigiama era così sudicio che ho dovuto buttarlo via.» «Anch'io sono andato in giro», ammise Curt. «E anch'io, temo», fece eco David. «Secondo voi, quante probabilità ci sono che qualcuno di noi vada vagabondando fuori della tenuta?» chiese François. «Non c'è modo di saperlo», rispose David, «ma la sola idea mi dà i brividi. E se fossimo proprio noi i responsabili di quegli episodi di vandalismo?» «Non parlarne neppure!» esclamò Gloria. «È assolutamente impensabile.» «Il problema immediato potrebbe essere la polizia o qualche abitante del luogo», continuò François. «Se tutti in città sono in subbuglio, come dice Kim, uno di noi potrebbe essere visto, se va oltre la palizzata.» «Sarebbe un guaio», osservò David. «Non c'è modo, credo, di sapere come reagiremmo.» «Se reagiamo con il nostro cervello da rettili, possiamo anche immaginarlo», replicò Curt. «Entrerebbe in gioco l'istinto di sopravvivenza. Sicuramente attaccheremmo. Non dobbiamo illuderci, saremmo violenti.» «Tutto questo deve cessare», affermò François. «Io però non sono uscita stanotte», affermò Eleanor. «La cosa dev'essere collegata al dosaggio.» «D'accordo», convenne Edward. «Dimezziamo ancora le dosi; arriveremo a un massimo di un quarto della dose iniziale di Eleanor.» «Credo che questo non basti», intervenne Gloria. Tutti si voltarono a guardarla. «Ieri non ho preso l'Ultra, ma temo di essere ugualmente uscita stanotte. Volevo restare sveglia per assicurarmi che nessun altro uscisse, ma mi è stato assolutamente impossibile evitare di addormentarmi, qualunque sforzo facessi.»
«Da quando prendo l'Ultra, anch'io piombo in un sonno profondo», osservò Curt. «Credevo che fosse dovuto all'intensa attività della giornata, ma forse è da attribuire al farmaco stesso.» Tutti convennero che Curt aveva ragione e aggiunsero che, svegliandosi al mattino, avevano la sensazione di avere avuto una notte di sonno particolarmente buona. «Mi sento riposato e fresco, stamattina», aggiunse François. «E mi sorprende, perché ho la prova di essere andato vagabondando sotto la pioggia.» Per qualche minuto tutti tacquero, riflettendo sul dilemma posto dalla rivelazione di Gloria che, pur avendo cessato di assumere il farmaco, aveva avuto lo stesso il fenomeno di sonnambulismo. Infine fu Edward a rompere il silenzio. «Tutti i nostri studi dimostrano che l'Ultra metabolizza con un dato ritmo, certamente più rapido del Prozac. L'esperienza di Gloria indica semplicemente che nel suo cervello inferiore la concentrazione supera ancora la soglia. Forse dovremmo ridurre ancora di più le nostre dosi.» François tese le mani perché tutti le guardassero. «Questi tagli mi ossessionano. Io non voglio più affrontare un tale rischio. Evidentemente vago nella notte senza avere coscienza di quello che faccio. E non voglio che mi sparino o mi si gettino addosso perché mi comporto come un animale. Smetterò di prendere il farmaco.» «Io la penso allo stesso modo», disse David. «Mi pare ragionevole», rincarò Curt. «Bene», convenne Edward, anche se a malincuore, «avete ragione. Non è il caso di rischiare la propria sicurezza e quella degli altri. Quando eravamo al liceo ci piaceva pensare a noi stessi come ad animali, ma credo che ormai siamo cresciuti.» Tutti sorrisero alla battuta di Edward. «Smettiamo di prendere il farmaco per qualche giorno, poi riprenderemo in considerazione la faccenda», propose Edward amabilmente. «Appena il farmaco sarà stato eliminato dal nostro organismo, potremo decidere se ricominciare con dosi molto minori.» «Io non prenderò l'Ultra finché non troveremo un organismo animale in cui si producano gli stessi effetti», affermò Gloria. «Sono convinta che dovrebbe essere studiato più attentamente prima di somministrarlo nuovamente agli esseri umani.» «Rispetto la tua opinione», ribatté Edward. «Come ho sempre sostenuto,
l'assunzione del farmaco è totalmente volontaria. Vorrei ricordarvi che intendevo prenderlo solo io.» «Che cosa facciamo nel frattempo, come misura di sicurezza?» chiese François. «Forse dovremmo fare degli elettroencefalogrammi durante il sonno», propose Gloria. «Potremmo collegarli a un computer e fare sì che ci svegli se lo schema normale del sonno viene alterato.» «È un'idea geniale», approvò Edward. «Lunedì ordino l'attrezzatura.» «E per questa notte?» chiese François. Per qualche minuto tutti pensarono in silenzio. «Con un po' di fortuna, non avremo alcun problema», rispose Edward. «Dopotutto, Gloria prendeva la dose immediatamente successiva a quella massima e probabilmente ha valori sanguigni considerevolmente alti, in rapporto al suo peso corporeo. Credo che tutti noi dovremmo confrontare i nostri valori con il suo. Se sono più bassi, non c'è nulla da temere. Forse l'unico a rischio è Curt.» «Grazie mille», ribatté lui. «Perché non mi mettete in gabbia come una delle scimmie?» «Non sarebbe una cattiva idea», commentò David. «Forse dovremmo dormire a turno», propose François. «Così potremmo vegliarci a vicenda.» «Dormire a turno è una buona idea», approvò Edward. «Inoltre, se controlliamo oggi i livelli del farmaco nel nostro sangue, potremmo metterli in relazione a eventuali episodi di sonnambulismo che si verifichino stanotte.» «Sapete, questo sistema potrebbe dare buoni frutti», convenne Gloria. «Smettendo di prendere l'Ultra avremo la possibilità di seguire i livelli nel sangue e nelle urine e rapportarli agli effetti psicologici residui. Ognuno dovrebbe sorvegliarsi per avvertire eventuali sintomi 'depressivi', in caso si verifichi un fenomeno di ritorno. Gli studi sulle scimmie fanno pensare che non ci siano sintomi di crisi di astinenza, ma la cosa dev'essere confermata.» «Faremo del nostro meglio», asserì Edward. «Intanto abbiamo un'enorme quantità di lavoro da fare. Ed è inutile ribadire che quanto abbiamo detto qui deve restare assolutamente segreto, finché non saremo riusciti a individuare il problema e a eliminarlo.» Kim guardò l'orologio e sbatté le palpebre. Non poteva credere ai suoi
occhi: erano quasi le dieci. Aveva dormito più di quanto avesse mai fatto da quando era uscita dal liceo. Sedette sul bordo del letto e le tornò all'improvviso in mente il pauroso episodio del fienile. L'aveva veramente terrorizzata ed era rimasta così tesa da non riuscire a prendere sonno. Dopo avere cercato per un paio d'ore di addormentarsi, si era alzata e aveva preso un'altra compressa di Xanax. Infine si era un po' calmata, ma allora aveva cominciato a pensare alla lettera di Thomas Goodman che descriveva la fuga di Elizabeth nel fienile, senza dubbio sotto l'influenza della muffa velenosa. Per un'altra strana coincidenza anche lei, presa dal panico, era corsa nello stesso posto. Fece la doccia, si vestì e fece colazione, sperando di riprendersi abbastanza da potersi godere la giornata. Ma il suo tentativo ebbe scarso successo. Si sentiva intorpidita per la doppia dose di sonnifero, e si sentiva anche in preda all'ansia. La medicina non era stata sufficiente a calmarla, aveva bisogno di qualcosa di più. Riordinare vecchi documenti al castello non poteva bastarle, sentiva la necessità di un contatto umano e la mancanza delle comodità e delle risorse della città. Seduta al telefono, provò a chiamare diversi amici a Boston, ma non ebbe fortuna, non trovò che segreterie telefoniche. Lasciò il suo numero su alcune, ma non si aspettava di essere richiamata prima di sera. I suoi amici erano persone attive ed erano molte le cose che si potevano fare in una domenica d'autunno a Boston. Sentendo il forte impulso di lasciare la tenuta, Kim compose il numero di Kinnard. Mentre passavano la chiamata, si sorprese a sperare di non trovarlo; non era sicura di ciò che voleva dirgli. Ma per un capriccio della fortuna Kinnard rispose al secondo squillo. Si scambiarono qualche battuta scherzosa. Kim era nervosa e cercava di nasconderlo, ma senza successo. «Che cos'hai? Ti senti bene?» chiese Kinnard dopo una pausa. «Mi sembri un po' strana.» Lei lottò per trovare qualcosa da dire, ma inutilmente. Si sentiva confusa, imbarazzata e all'improvviso emozionata. «Il semplice fatto che tu non risponda la dice lunga», continuò Kinnard. «Posso aiutarti in qualche modo? C'è qualcosa che non va?» Kim fece un respiro profondo per riprendere il controllo di sé. «Sì, mi puoi aiutare. Voglio andare via da Salem. Ho telefonato a diverse amiche, ma nessuna è in casa. Avevo pensato di venire in città a passare la notte, visto che devo essere al lavoro domani mattina.»
«Perché non vieni da me?» chiese Kinnard. «Toglierò la mia bicicletta e ottantamila copie del New Journal of Medicine dalla mia stanza degli ospiti, e sarà tutta per te. Oggi ho la giornata libera; sono sicuro che troveremo qualcosa di bello da fare.» «Credi onestamente che sia una buona idea?» «Prometto di comportarmi bene, se è questo ciò che ti preoccupa.» Kim pensò che forse quello che la preoccupava era il proprio comportamento. «Suvvia, deciditi», la incoraggiò Kinnard. «Mi sembra che ti farà bene venire via dalla campagna per un giorno e una notte.» «E va bene!» decise lei con improvvisa risolutezza. «Allora ti aspetto. A che ora arriverai?» «Fra un'oretta, va bene?» «Ottimo. Ci vediamo.» Kim depose il ricevitore. Non era sicura di quello che stava per fare, ma le pareva giusto. Salì in camera sua e raccolse le sue cose, senza dimenticare l'uniforme. In cucina preparò un'abbondante porzione di cibo per Sheba e cambiò la sabbietta della vaschetta vicino alla porta sul retro. Poi mise le valigie in macchina e si diresse al laboratorio. Prima di entrare si fermò a pensare se doveva dire o no che andava in cada di Kinnard, quindi decise che non avrebbe abbordato lei stessa l'argomento ma, se Edward lo avesse domandato, glielo avrebbe detto. Al laboratorio l'atmosfera era ancora più tesa che durante la sua visita precedente. Ognuno era immerso nel proprio lavoro e la salutarono con un piccolo cenno del capo. Kim non se la prese; in realtà preferiva così. L'ultima cosa che desiderava, in quel momento, era una lunga conferenza su qualche arcano esperimento. Trovò Edward alla stampante che stava sfornando tabulati. Le rivolse un fuggevole sorriso e tornò subito al lavoro. «Vado a Boston per tutto il giorno», annunciò Kim con disinvoltura. «Bene», rispose laconicamente Edward. «Resterò anche la notte. Posso lasciarti un numero di telefono, se vuoi.» «Non è necessario, se c'è qualche problema telefona tu. Io sarò qui, come al solito.» Kim salutò e si avviò alla porta, ma Edward la richiamò. «Mi spiace davvero di essere così impegnato», le disse. «Vorrei che non avessimo tanto da fare, ma ci troviamo, come dire, in un'emergenza.»
«Capisco», commentò Kim e guardò il viso di Edward. Appariva goffo come da qualche tempo non capitava più. Kim uscì in fretta dal laboratorio e salì in macchina. Guidando fuori della tenuta non riusciva ad allontanare dalla mente lo strano comportamento di Edward. Era come se stesse riemergendo la sua vecchia personalità, quella che l'aveva attirata la prima volta che si erano incontrati. Non le ci volle molto per cominciare a rilassarsi, e più si allontanava da Salem più si rasserenava. A ciò contribuì anche il tempo. Era una calda giornata di tarda estate, con il sole splendente e la limpidezza dell'autunno incipiente. Qua e là gli alberi avevano già assunto i caldi colori autunnali e il cielo era così azzurro che sembrava un immenso oceano. Di domenica non era difficile parcheggiare e Kim trovò quasi subito un posto poco lontano dall'appartamento di Kinnard, in Revere Street. Si sentiva nervosa quando suonò il campanello, ma lui la fece immediatamente sentire a suo agio aiutandola a portare le valigie nella camera degli ospiti, che evidentemente aveva trovato il tempo di ripulire e riordinare. Poi fecero una bella passeggiata ristoratrice per la città e per un po' Kim dimenticò la Omni, l'Ultra ed Elizabeth. Cominciarono dal North End con un appetitoso pranzetto in un ristorante italiano, seguito da un buon espresso. Quindi fecero una capatina al Filene's Basement per dare una rapida occhiata alle novità nel campo dell'abbigliamento, e Kim fu sorpresa di trovarvi una gonna lunga di Saks. Poi vagabondarono per i giardini di Boston, godendosi i fiori e le foglie autunnali. Sedettero per un po' su una panchina a osservare le barche a forma di cigno scivolare elegantemente sull'acqua del lago. «Forse non dovrei dirlo», osservò Kinnard a un certo punto, «ma mi sembri un po' stanca.» «Non mi meraviglia, ho dormito male in questi giorni. La vita a Salem non è stata particolarmente idilliaca.» «Non vuoi parlarne?» «Non in questo momento. Credo di essere confusa a proposito di un mucchio di cose.» «Sono contento che tu sia venuta a trovarmi, Kim», le disse Kinnard. «Voglio che resti ben chiaro che io resterò nella camera degli ospiti», si affrettò a precisare lei. «Ehi, rilassati!» Kinnard alzò le mani come per difendersi. «Capisco benissimo. Siamo amici, non ricordi?»
«Scusami, ti devo sembrare ipertesa. Il fatto è che è la prima volta che mi rilasso da settimane.» Allungò un braccio e posò la mano su quella di Kinnard, dandogli una stretta d'intesa. «Ti sono grata di essermi amico.» Lasciato il parco si avviarono a piedi per Newbury Street, guardando le vetrine. Poi si dedicarono a uno dei passatempi preferiti di Kim: si recarono nella libreria Waterstone e si misero a rovistare fra i libri. Kim si comprò un romanzo di Dick Francis in edizione economica e Kinnard acquistò una guida della Sicilia, dicendo che era un posto dove aveva sempre sognato andare. Verso sera, si fermarono in un ristorante indiano e si fecero servire una deliziosa cena stile tandoor. L'unico problema era che il ristorante non aveva la licenza per vendere alcolici e quei piatti piccanti sarebbero stati molto più gustosi con una bella birra fredda. Dal ristorante indiano tornarono a piedi a Beacon Hill e si sedettero sul divano di Kinnard, con un bicchiere di vino bianco gelato. Ben presto a Kim venne sonno. Si coricò presto, pensando di doversi alzare all'alba per andare al lavoro, e non ebbe bisogno di Xanax, quando s'infilò fra le fresche lenzuola odorose di bucato. Quasi immediatamente cadde in un profondo sonno ristoratore. 19 Lunedì 3 ottobre 1994 Kimberly aveva quasi dimenticato quanto fosse duro il lavoro in ospedale e dovette ammettere che, dopo un intero mese di vacanza, non aveva più né la forza fisica né quella emotiva che erano necessarie. Ma via via che la giornata volgeva al termine, si rese conto che traeva un vero piacere dall'intensità dell'impegno e dalla soddisfazione di aiutare persone che avevano bisogno di cure, per non parlare del senso di cameratismo che nasceva dagli sforzi condivisi. Kinnard era comparso diverse volte durante la giornata, con pazienti che venivano dalla sala operatoria, e Kim cercava di essere sempre disponibile per portare il suo aiuto. Lo ringraziò ancora per la miglior notte di sonno che avesse mai avuto da tante settimane e lui rispose che era la benvenuta in ogni momento, anche la notte successiva, malgrado lui fosse di servizio in ospedale.
Lei sarebbe stata felice di restare. Dopo tanto tempo di isolamento nella tenuta, era contenta di essere di nuovo a Boston. Nel mese trascorso alla villa aveva sentito un'acuta nostalgia della città, ma sapeva che doveva tornare. Non s'illudeva che Edward fosse disponibile, ma sentiva l'obbligo di essere presente. Terminato il suo turno, si recò all'angolo di Charles Street e Cambridge Street e prese la linea rossa per Harvard Square. I treni erano frequenti a quell'ora e dopo soli venti minuti camminava per Massachusetts Avenue diretta alla facoltà di Giurisprudenza di Harvard. Rallentò il passo quando si accorse che stava sudando. Era un'altra giornata di fine estate, ma senza la limpidezza cristallina del giorno prima. Non c'era un alito di brezza e sulla città gravava una cappa di caligine afosa, tanto che pareva più estate che autunno. Il bollettino meteorologico aveva previsto possibili temporali. Kim chiese a uno studente indicazioni per arrivare alla biblioteca di Giurisprudenza e la trovò senza difficoltà. Nell'interno l'aria condizionata fu un vero ristoro per lei. Trovò facilmente la strada per l'ufficio di Helen Arnold. Diede il suo nome a una segretaria e si sentì rispondere che doveva aspettare, ma si era appena seduta quando una giovane donna di colore alta e snella, di singolare bellezza, comparve sulla soglia di una porta di comunicazione e le fece cenno di entrare. «Sono Helen Arnold e ho buone notizie per lei», disse la donna con molta cordialità. La condusse nel suo ufficio e le fece cenno di sedersi. Kim fu colpita dal suo aspetto. Non era quello che si sarebbe aspettata in un biblioteca: i suoi capelli erano acconciati in modo perfetto e il suo abito era una tunica di seta dai brillanti colori, mollemente trattenuta alla vita da una cintura costituita da una catena dorata. «Ho parlato questa mattina con la signora Sturburg, una donna davvero ammirevole. Mi ha riferito del suo interesse per un'opera di Rachel Bingham», disse Helen parlando velocemente. Kim annuì e, non appena la donna fece una pausa, le chiese: «L'ha trovata?» «Sì e no», rispose Helen con un caldo sorriso. «La buona notizia è che ho potuto confermare la speranza di Katherine Sturburg che l'opera fosse sopravvissuta all'incendio di Harvard del 1764. Di questo sono assolutamente sicura. Pare che si trovasse quasi permanentemente nelle stanze di uno dei docenti, che viveva fuori del vecchio istituto. Non è una buona no-
tizia?» «Ne sono lieta», confermò Kim. «Sono felice che non sia andata distrutta. Ma non credo di avere capito la sua risposta, quando le ho domandato se l'aveva trovata. Che cosa intendeva con 'sì e no'?» «Volevo semplicemente dire che, pur non avendo trovato il libro, ho trovato un riferimento al fatto che l'opera fu effettivamente mandata alla facoltà di Giurisprudenza per essere conservata nella biblioteca. Ho anche appreso che ci fu qualche confusione o difficoltà sul come o dove sistemare l'opera, benché avesse qualcosa a che fare con la legge ecclesiastica, come fa pensare la lettera di Increase Mather. A proposito, penso che quella lettera sia stata una scoperta favolosa. Ho sentito dire che l'ha offerta ad Harvard; è molto generoso da parte sua.» «È il meno che possa fare per tutto il disturbo che vi ho procurato. Ma mi dica, che ne è dell'opera di Rachel Bingham? Qualcuno sa dove potrebbe trovarsi?» «Qualcuno c'è. Dopo avere indagato, ho scoperto che l'opera era stata trasferita dalla biblioteca di Giurisprudenza alla facoltà di Teologia nel 1825, subito dopo la costruzione della Divinity Hall. Non so perché sia stata trasferita, forse per le difficoltà di registrazione che si erano incontrate qui.» «Mio Dio, che viaggio ha fatto questo libro!» esclamò Kim. «Mi sono presa la libertà di telefonare alla mia collega della facoltà di Teologia, poco prima di mezzogiorno. Spero che non le dispiaccia.» «Ma neanche per sogno!» Kim era anzi lieta che Helen avesse preso l'iniziativa. «Il nome della mia collega è Gertrude Havermeyer», aggiunse Helen. «È un po' un cerbero, ma ha un gran cuore. Mi ha promesso di andare subito a controllare.» Prese un foglietto e scrisse il nome e il numero di Gertrude, poi prese una mappa del campus di Harvard e vi indicò la facoltà di Teologia. Pochi minuti dopo, Kim attraversava il campus. Oltrepassò il laboratorio di fisica e fiancheggiò l'edificio del museo per raggiungere Divinity Avenue. Di lì c'erano solo pochi passi fino all'ufficio di Gertrude Havermeyer. «Così è per lei che ho dovuto sprecare tutto il pomeriggio», sbottò la donna quando Kim si presentò. Era ritta di fronte alla scrivania, con le mani sui fianchi. Come le aveva detto Helen Arnold, Gertrude sembrava avere un temperamento arcigno e intrattabile, che era in stridente contrasto con il suo aspetto. Era una donnina bassa con i capelli bianchi, che la scru-
tava socchiudendo gli occhi attraverso le lenti bifocali dalla montatura in metallo. «Sono dolente di averla tanto disturbata», si scusò Kim. «Da quando Helen Arnold mi ha telefonato, non ho avuto un attimo di pace per portare avanti il mio lavoro», si lagnò la donna. «Ho dovuto metterci letteralmente delle ore.» «Spero almeno che i suoi sforzi non siano stati vani.» «Ho trovato una registrazione in un libro mastro di quel periodo. Helen aveva ragione: l'opera di Rachel Bingham fu mandata qui dalla facoltà di Giurisprudenza e arrivò effettivamente alla facoltà di Teologia. Ma non sono riuscita a trovare alcun riferimento al libro né nel computer né nel vecchio catalogo a schede, e neppure in quel vecchissimo catalogo che conserviamo nel seminterrato.» Kim si sentì mancare. «Mi dispiace di averle arrecato tanto disturbo per niente.» «Io però non ho rinunciato», proseguì Gertrude. «Quando mi affidano un incarico, non mollo. Così ho rovistato in tutte le vecchie schede scritte a mano che risalgono alla prima organizzazione della biblioteca. È stato un lavoro frustrante, ma ho trovato un altro riferimento, più per fortuna che per altro. Eccetto, naturalmente, la perseveranza. Perbacco, non riesco proprio a immaginare perché non sia stato incluso nell'indice generale della biblioteca.» Le speranze di Kim si riaccesero. Seguire la traccia della prova addotta contro Elizabeth era come fare una corsa sulle montagne russe. «L'opera è ancora qui?» domandò ansiosamente a Gertrude. «Cielo, no!» esclamò lei scandalizzata. «Se ci fosse, sarebbe nel computer. Noi qui lavoriamo con rigorosa precisione. No, l'ultimo riferimento che ho trovato indicava che era stata mandata alla facoltà di Medicina nel 1826, dopo essere rimasta qui meno di un anno. Pare che nessuno sapesse dove collocarla. Tutta la faccenda è molto misteriosa, perché non c'era neppure l'indicazione della categoria a cui apparteneva.» «Oh, per amor di Dio!» esclamò Kim delusa. «Cercare questo libro o qualunque altra cosa si tratti, è troppo difficile. Sembra un brutto scherzo.» «Non si perda d'animo!» la incoraggiò Gertrude. «Io ho fatto un sacco di fatica per lei. Ho persino telefonato alla biblioteca medica Countway e ho parlato con John Moldavian, che ha l'incarico di curatore dei libri e dei manoscritti rari. Gli ho raccontato la storia e lui mi ha assicurato che avrebbe controllato.»
Kim ringraziò Gertrude e tornò in Harvard Square, dove riprese la linea rossa per Boston. Era ormai l'ora di punta e nel treno affollato Kim era schiacciata come una sardina. Non c'erano posti a sedere e dovette restare in piedi. Mentre il treno passava rombando sul Longfellow Bridge, cominciò a pensare seriamente che era ora di rinunciare alla ricerca di quella dannata prova. Era stato come dare la caccia a un miraggio; ogni volta che pensava di esserci vicina, la pista risultava sbagliata. Giunta al garage dell'ospedale salì sulla macchina e, mentre accendeva il motore, pensò al traffico intenso che avrebbe trovato sulla strada per Salem. A quell'ora, soltanto per attraversare Leverett Circle avrebbe impiegato quasi mezz'ora. Cambiò idea e puntò in direzione opposta, verso la biblioteca medica Countway. Decise che tanto valeva seguire la traccia di Gertrude, se l'alternativa era rimanere imbottigliata nel traffico a lungo. John Moldavian pareva il tipo perfetto per lavorare in una biblioteca. Era un gentiluomo cortese, dalla voce sommessa, il cui amore per i libri risultò subito evidente dalla cura affettuosa con cui li maneggiava. Kimberly si presentò e fece il nome di Gertrude. John rispose immediatamente rovistando fra le carte ammucchiate sulla sua scrivania. «Ho qualche cosa per lei, qui da qualche parte», disse. «Dove diavolo l'ho messo?» Kim lo osservò mentre frugava fra le carte. Aveva un viso magro in cui spiccavano enormi occhiali dalla montatura nera e i suoi baffetti sottili parevano troppo perfetti, come se fossero stati tracciati con la matita per le sopracciglia. «L'opera di Rachel Bingham è qui, nella biblioteca?» si azzardò a chiedere Kim. «No, non è più qui», le rispose John. Poi il suo volto s'illuminò. «Ah, eccolo!» esclamò sollevando un foglietto. Kim sospirò in silenzio. Ecco dove va a finire la traccia di Gertrude, pensò. «Ho cercato in tutti i registri della biblioteca della facoltà di Medicina dell'anno 1826», spiegò John, «e ho trovato questo riferimento all'opera che lei cerca.» «Mi faccia indovinare: è stata mandata da un'altra parte.» Il bibliotecario la guardò al di sopra del foglio che teneva in mano. «Come ha fatto a indovinare?»
Kim fece una breve risata. «Ormai è un'abitudine. Quando è partita di qui?» «È stata trasferita al dipartimento di Anatomia. Ah, oggi naturalmente è chiamato dipartimento di Biologia cellulare.» Kim scosse la testa, incredula. «Ma perché diavolo l'avranno mandata là?» chiese. «Non ne ho idea. La registrazione che ho trovato era piuttosto singolare: una scheda frettolosamente scritta a mano, che evidentemente era attaccata all'oggetto, libro o manoscritto che fosse. Ne ho fatta una copia per lei.» John le porse il foglio. Era difficile da leggere e Kim fu costretta a voltarsi per sfruttare la luce proveniente dalla finestra. Il foglio diceva: CURIOSITÀ DI RACHEL BINGHAM COSTRUITA NEL 1691. Vedendo il termine «curiosità», Kim ricordò che Mary Custland le aveva parlato di un Museo delle curiosità, distrutto dall'incendio di Harvard del 1764, e aveva avanzato l'ipotesi che l'opera di Rachel Bingham facesse parte di quella collezione. Pensando alla lettera scritta da Jonathan Stewart al padre, ipotizzò che la grafia che aveva davanti fosse quella del ragazzo. Le pareva di vedere con gli occhi della mente un nervoso Jonathan Stewart che scribacchiava rapidamente la scheda, ansioso di scappare dalla stanza del docente in cui si era furtivamente introdotto per cambiare il nome di Elizabeth in quello di Rachel Bingham. Se fosse stato scoperto, sarebbe stato probabilmente espulso dal liceo. «Ho telefonato al preside del dipartimento», continuò John interrompendo le riflessioni di Kim. «Mi ha detto di rivolgermi a Carl Nebolsine, il curatore del Museo di anatomia Warren. Gli ho telefonato e mi ha detto che se volevo vedere l'oggetto potevo recarmi all'edificio dell'amministrazione.» «Lei crede che si trovi là?» chiese Kim incredula. «Pare di sì. Il Museo di anatomia Warren è al quinto piano dell'edificio A, che si trova all'angolo di fronte alla biblioteca. Le interessa andarci subito?» «Ma certamente.» Kim sentì accelerarsi i battiti del polso al pensiero di avere finalmente rintracciato la prova decisiva contro Elizabeth. John prese in mano il ricevitore del telefono. «Vediamo se il signor Nebolsine è presente. C'era poco fa, ma credo che abbia diversi uffici. Evidentemente ha il compito di curare un certo numero di musei e collezioni minori, raggruppati intorno alla comunità di Harvard.»
Ebbe una rapida conversazione a metà della quale fece a Kim un cenno di approvazione con il pollice alzato. Riagganciò e le annunciò: «Lei è fortunata. È ancora qui e la riceverà al museo, se lei vi si reca immediatamente». «Vado subito», assicurò Kim. Ringraziò e quasi di corsa attraversò la strada per raggiungere l'edificio A, una costruzione in stile classico con un frontone massiccio sorretto da colonne doriche. Un portiere la fermò sulla soglia, ma poi le fece cenno di entrare quando vide la sua tessera del General Hospital. Salì al quinto piano, dove le collezioni del museo erano sistemate lungo la parete sinistra in una serie di vetrine. C'erano i soliti strumenti chirurgici primitivi, capaci di fare rabbrividire il più impassibile osservatore, vecchie foto, esemplari patologici. C'era anche un gran numero di teschi, fra cui uno con un foro attraverso la fronte. «Questo è un caso assai interessante», disse una voce. Kim alzò gli occhi e vide un uomo molto più giovane di quanto si sarebbe aspettata. «Lei dev'essere Kimberly Stewart. Io sono Carl Nebolsine.» Si strinsero la mano. «Vede questa verga?» disse Carl additando una verga d'acciaio lunga un metro e mezzo. «È chiamata 'asta da borraggio' ed era usata per comprimere polvere e argilla in un buco fatto per far brillare le mine. Un giorno, circa cento anni fa, questa verga attraversò la testa di quell'uomo.» Carl additò il teschio. «La cosa straordinaria è che l'uomo sopravvisse.» «E poi, stava bene in salute?» chiese Kim. «Dicono che non avesse più un buon carattere dopo essersi ripreso dal trauma, ma chi l'avrebbe avuto?» Kim osservò alcuni degli altri oggetti esposti e in un angolo scorse alcuni libri. «Mi è stato detto che lei è interessata all'oggetto di Rachel Bingham.» «È qui?» «No.» Kim fissò il giovane come se non avesse sentito bene. «È nel magazzino», spiegò Carl. «Non viene molta gente a chiedere di vederlo, e qui non c'è abbastanza spazio per esporre tutto quello che abbiamo. Desidera vederlo?» «Oh, certo», esclamò lei sospirando di sollievo. Presero l'ascensore fino al seminterrato e seguirono un percorso labirintico che Kim non avrebbe mai potuto rifare da sola. Poi Carl aprì una pesante porta d'acciaio, infilò un braccio nell'apertura e accese le luci. L'illu-
minazione era costituita semplicemente da lampadine nude. La stanza era piena di polverose vetrinette da esposizione di vecchio stile. «Perdoni il disordine che c'è qui dentro», si scusò Carl. «C'è molta polvere in giro. Il fatto è che non ci veniamo spesso.» Fece cenno a Kim, che lo seguì in mezzo alle vetrinette. In ognuna si vedeva un assortimento di ossa, libri, strumenti e barattoli con organi conservati sotto spirito. A un certo punto, Carl si fermò, si scostò di lato e indicò la vetrinetta che gli stava di fronte. Kim indietreggiò con un misto di orrore e disgusto. Era del tutto impreparata a ciò che stava vedendo. Raggomitolato in un grosso vaso di vetro pieno di liquido scuro c'era un feto dall'aspetto mostruoso. Ignorando la reazione di Kim, Carl aprì la vetrina e prese il pesante recipiente, scuotendolo in modo che il contenuto cominciò ad agitarsi in una danza grottesca. Dal corpicciolo si staccavano brandelli di tessuti. Kim si portò una mano alla bocca fissando il feto privo di cervello e con il cranio piatto. Aveva il labbro leporino, sicché pareva che la bocca fosse stata risucchiata nel naso, e i lineamenti apparivano ancora più deformi, premuti contro il vetro del vaso. Appena dietro gli occhi da rana, piuttosto larghi, la testa era piatta e coperta da una massa arruffata di capelli neri come il carbone. La mascella, enorme, era del tutto sproporzionata al viso. I tozzi arti superiori terminavano con mani simili a pale con le dita corte, alcune delle quali erano saldate insieme, tanto che parevano zoccoli equini fessurati. Dal tronco partiva una lunga coda simile a quella dei pesci. «Vuole che lo porti dove ci sia una luce migliore?» domandò Carl. «No!» rispose Kim, un po' troppo bruscamente. Poi, con voce più calma, disse che vedeva benissimo l'oggetto lì dov'era. Era facile capire come gli uomini del diciassettesimo secolo avessero giudicato una malformazione così bestiale. La povera creatura poteva essere presa per un'incarnazione del diavolo. Kim aveva visto copie di vecchie stampe con l'immagine del diavolo che appariva quasi identica. «Vuole che lo faccia girare, per poterlo vedere dall'altra parte?» chiese ancora Carl. «Grazie, no», rispose Kim, facendo involontariamente un passo indietro. Ora sapeva perché la facoltà di Giurisprudenza e la facoltà di Teologia non sapessero che fare di quell'oggetto. Ricordava anche la nota che John Moldavian le aveva mostrato nella biblioteca. Non diceva CURIOSITÀ DI RACHEL BINGHAM COSTRUITA NEL 1691, bensì CONCEPITA!
E ricordò l'annotazione sul diario di Elizabeth, in cui esprimeva la sua preoccupazione per l'innocente Job. Non era un riferimento biblico! Elizabeth sapeva di essere incinta e aveva già dato al bimbo il nome di Job. Ringraziò Carl e si affrettò verso la sua auto. Camminando pensava alla doppia tragedia di Elizabeth, che era incinta e contemporaneamente, senza saperlo, veniva avvelenata da un fungo che cresceva nella sua provvista di segale. In quell'epoca, chiunque avrebbe pensato che la donna doveva avere avuto rapporti con il diavolo per partorire un simile mostro, chiara manifestazione del patto satanico, soprattutto per il fatto che gli «attacchi» erano cominciati nella casa di Elizabeth e di lì si erano diffusi nelle altre case, dove i ragazzi avevano portato il suo pane di segale. Il suo carattere energico, la sua malaugurata contesa con la famiglia Putnam e il suo cambiamento di ceto sociale dovevano avere contribuito alla sua sventura. Kim salì in macchina e accese il motore. Ora le era perfettamente chiaro perché la donna era stata accusata di essere una strega e in che modo era stata riconosciuta colpevole e condannata. Guidò come in trance. Cominciava a capire perché Elizabeth non avesse voluto confessare, neppure per salvarsi la vita, come Ronald aveva certamente insistito. Sapeva di non essere una strega, ma la sua fiducia nella sua innocenza doveva essere stata gravemente scossa, poiché tutto il paese era schierato contro di lei, amici, magistrati, persino il clero. Con il marito lontano, non aveva nessuno che l'appoggiasse. Era assolutamente sola e dovette pensare di essere colpevole di qualche orrendo peccato contro Dio. Come spiegare altrimenti il fatto che avesse concepito una così demoniaca creatura? Forse aveva persino pensato che la sua sorte fosse giusta. Kim rimase imbottigliata nel traffico di Storrow Drive e dovette procedere a passo d'uomo. Il tempo non era migliorato, anzi ora faceva ancora più caldo, e lei aveva l'angosciosa sensazione di finire soffocata nell'auto. Infine riuscì a liberarsi al semaforo di Leverett Circle. Si lasciò alle spalle la città e si diresse a nord, sulla Interstate 93. All'improvviso avvertì una nuova sensazione di libertà spirituale e cominciò a pensare che il trauma dell'incontro con la creatura partorita da Elizabeth le avesse rivelato il messaggio che la sua antenata aveva cercato di trasmetterle: doveva credere in se stessa. Non doveva scoraggiarsi davanti alle opinioni degli altri, come aveva fatto la sua povera antenata. Non doveva permettere che persone autoritarie avessero il controllo della sua vita. Elizabeth non aveva avuto scelta, ma Kim l'aveva. La sua mente galoppava. Ricordava tutte le ore tediose che aveva passa-
to con Alice McMurray a discutere sulla propria scarsa fiducia in se stessa. Ricordava le teorie che Alice aveva avanzato per spiegare questo fatto. La lontananza affettiva di suo padre, i vani tentativi di piacergli, la passività di sua madre di fronte alle continue infedeltà del marito. All'improvviso tutti quei discorsi le parvero banali, era come se riguardassero qualcun altro. Non l'avevano mai toccata nel profondo quanto il trauma della prova decisiva che aveva concluso la vicenda di Elizabeth. Tutto ora le appariva chiaro. Non aveva importanza che la sua scarsa fiducia in sé derivasse dalle particolari situazioni familiari, dalla sua timidezza di carattere o da una combinazione delle due cose. La realtà era che non aveva mai lasciato che i suoi interessi e le sue attitudini determinassero il corso della sua vita. La scelta della carriera ne era un perfetto esempio, come lo era del resto la sua attuale situazione personale. Dovette frenare bruscamente. Con sorpresa si ritrovò in un traffico intenso anche sulla statale, di solito libera e ancora una volta fu costretta ad avanzare a passo d'uomo, con il calore di quella giornata quasi estiva che la soffocava. A occidente vedeva massicce nubi temporalesche ammassarsi all'orizzonte. Mentre avanzava lentamente sentì nascere in sé una nuova risolutezza: doveva cambiare vita. Prima aveva permesso a suo padre di dominarla, malgrado non ci fosse fra loro un vero e proprio rapporto affettivo, e ora aveva consentito a Edward di fare lo stesso. Viveva con lei, ma soltanto formalmente. In realtà, stava approfittando di lei senza darle nulla in cambio. Il laboratorio della Omni non avrebbe dovuto sorgere sulla sua proprietà e gli scienziati non avrebbero dovuto alloggiare nell'antica casa degli Stewart. Quando il traffico ricominciò a scorrere e poté accelerare, promise a se stessa che quella situazione avrebbe avuto termine: avrebbe parlato a Edward nel momento stesso in cui sarebbe arrivata alla tenuta. Conoscendo la propria riluttanza ad affrontare scontri emotivi e la propria tendenza a procrastinare, si ripeté insistentemente che era importante parlare a Edward il più presto possibile. Specialmente ora che si poteva ritenere che l'Ultra fosse dannoso allo sviluppo del feto. Sapeva che tale conoscenza era essenziale per lo studio di un nuovo farmaco in corso di sperimentazione, non solo per proteggere le donne incinte, ma perché molte sostanze teratogene potevano anche provocare il cancro. Quando Kim entrò nella tenuta erano quasi le sette. Con le nubi temporalesche che continuavano ad accumularsi a occidente, era più buio del so-
lito. Avvicinandosi al laboratorio vide che le luci erano già accese. Parcheggiò la macchina, ma non scese subito. Malgrado la decisione presa, si trovò a dibattere fra sé se entrare o no. Di colpo le vennero in mente mille scuse per rimandare la visita, ma non cedette. Aprì la portiera e scese. «Lo farai, dovessi morirci!» intimò a se stessa. Si rassettò l'uniforme, si tirò indietro una ciocca di capelli ed entrò. Appena la porta interna si chiuse alle sue spalle, si accorse che nel laboratorio era avvenuto un altro cambiamento di atmosfera. Era sicura che David e Gloria, e forse anche Eleanor, l'avessero vista arrivare, ma non la salutarono. Anzi, voltarono la testa dall'altra parte e la ignorarono volutamente. Nessuno rideva, nessuno parlava. C'era nell'aria una tensione quasi palpabile. Quella tensione accrebbe l'ansia di Kim, che s'impose tuttavia di andare ugualmente a cercare Edward. Lo trovò in un angolo buio, davanti al suo computer. La pallida luminosità verde dello schermo gettava una luce sinistra sul suo viso. Si avvicinò e rimase un attimo in silenzio al suo fianco, esitando a interromperlo. Mentre osservava le sue mani che si muovevano sulla tastiera notò un tremito nelle sue dita, fra una battuta e l'altra. Sentiva anche che il suo respiro era accelerato. Passarono diversi minuti ed Edward continuava a ignorarla. «Edward, per favore», lo chiamò infine con voce un po' tremante. «Devo parlarti.» «Più tardi», rispose lui seccamente, continuando a non guardarla. «È importante che io ti parli adesso», insistette Kim. Edward la sorprese balzando bruscamente in piedi. Il movimento improvviso fece scivolare indietro la sedia, che andò a sbattere contro un armadio. Accostò il viso a quello di Kim al punto che lei poté scorgere le venuzze rosse nel bianco dei suoi occhi gonfi. «Ho detto più tardi!» ringhiò a denti stretti fissandola con uno sguardo bieco, come sfidandola a contraddirlo. Kim fece un passo indietro e urtò contro il banco da lavoro. Goffamente tese una mano per appoggiarsi e fece cadere a terra un bicchiere, che s'infranse facendo vibrare i suoi nervi già tesi. Rimase immobile fissando con apprensione Edward. Ancora una volta parve che fosse sul punto di perdere il controllo, come era successo nel suo appartamento di Cambridge quando aveva scagliato a terra il suo bicchiere di vino. Pensò che doveva essere avvenuto qualcosa di grave, per provocare una tale reazione. Qua-
lunque cosa fosse, tutti erano tesi, soprattutto lui. La prima reazione di Kim fu di comprensione, sapendo quanto avesse lavorato duro, ma poi si riprese. Grazie alla conoscenza di sé che aveva recentemente acquisito, si rese conto che tali pensieri non facevano che ricacciarla nelle vecchie abitudini. Adesso doveva seguire il messaggio di Elizabeth. Per una volta nella vita doveva camminare da sola e preoccuparsi delle proprie esigenze. Nello stesso tempo sapeva essere realistica. Si rese conto che non c'era nessun vantaggio nel provocarlo inopportunamente. Da come si comportava in quel momento era facile dedurre che Edward non era di umore adatto a una discussione sui loro rapporti. «Mi spiace di averti interrotto», disse infine, quando le sembrò che lui avesse in qualche modo riacquistato il controllo di sé. «Ovviamente, questo non è un buon momento per te. Io sarò alla villa, ho bisogno di parlarti, perciò vieni a casa appena sei pronto.» Distolse gli occhi dal suo viso accigliato e si avviò verso la porta. Aveva fatto pochi passi quando si fermò e si voltò. «Oggi ho appreso qualcosa che devi sapere», aggiunse. «Ho ragione di credere che l'Ultra potrebbe essere teratogeno.» «Faremo esperimenti su femmine gravide di topi e di ratti», replicò Edward sempre accigliato. «Ma in questo momento abbiamo un problema più urgente.» Kim vide che aveva un'abrasione sul lato sinistro della testa e subito dopo osservò che aveva dei tagli sulle mani, simili a quelli di Curt. Istintivamente tornò sui propri passi. «Ma sei ferito!» esclamò, e tese la mano per esaminare la contusione alla testa. «Non è niente», ribatté Edward bruscamente, allontanando la sua mano. Le voltò le spalle, riprese la sua sedia e sedette al computer, immergendosi di nuovo nel lavoro. Kim lasciò il laboratorio, disorientata. Non riusciva mai a prevedere il comportamento di Edward. Quando fu fuori si accorse che si era fatto ormai buio. Non c'era un filo d'aria, le foglie pendevano immobili dai rami e alcuni uccelli sfrecciavano nel cielo minaccioso in cerca di un rifugio. Kim si affrettò a salire in macchina. Guardando la sinistra nuvolaglia nera che si era avvicinata, notò il saettare dei lampi, ma non si sentivano tuoni. Nel breve tratto di strada fino alla villa dovette accendere i fari. Entrando in casa, per prima cosa si diresse verso il soggiorno, alzò gli occhi al ritratto di Elizabeth e la contemplò con rinnovata simpatia, ammi-
razione e gratitudine. Fissò per qualche momento quell'energico volto femminile dai vivaci occhi verdi e cominciò a calmarsi. L'immagine le ridava coraggio e malgrado l'insuccesso nel laboratorio Kim seppe che non sarebbe tornata indietro. Avrebbe aspettato Edward e avrebbe parlato con lui una volta per tutte. Distolse gli occhi dal dipinto e cominciò a girare per la villa che una volta era stata la casa di Elizabeth. Anche se recentemente aveva provato un così acuto senso di solitudine, la casa era confortevole e romantica. E non poté fare a meno di domandarsi come sarebbe stata diversa se accanto a lei ci fosse stato Kinnard invece di Edward. Kim si fermò nella sala da pranzo e pensò tristemente a quanto poco fosse stata usata la lunga tavola. Senza dubbio quel settembre era stato un fiasco e Kim si rimproverò per avere lasciato che Edward la trascinasse nella sua impresa. Con un improvviso moto di collera fece ancora un passo avanti e per la prima volta ammise di sentirsi disgustata dalla crescente avidità di denaro di Edward, come pure dalla sua nuova personalità modellata dall'Ultra. Non approvava di ricorrere a farmaci per acquisire sicurezza o serenità. Erano sensazioni indotte, false. Avendo finalmente chiarito i suoi sentimenti verso Edward, rivolse di nuovo il pensiero a Kinnard. Con la nuova lucidità che aveva acquistato, riconobbe la propria responsabilità per le loro recenti difficoltà. Con la stessa fermezza con cui aveva condannato l'avidità di denaro di Edward, si rimproverò di avere male interpretato i giovanili interessi sportivi di Kinnard per il timore di essere trascurata. Sospirò. Si sentiva esausta fisicamente e spiritualmente, ma nello stesso tempo avvertiva una grande calma interiore. Per la prima volta dopo diversi mesi non provava quel vago, tormentoso senso di ansia che l'aveva assillata. Pur rendendosi conto che la sua vita era nel caos, si impegnava a cambiarla, e credeva di sapere che cosa doveva essere cambiato. Entrò nella stanza da bagno e si concesse un lungo, voluttuoso bagno caldo, cosa che non faceva da tempo immemorabile. Poi s'infilò una comoda tuta e si preparò la cena. Terminata la cena, andò alla finestra del soggiorno e guardò verso il laboratorio. Si chiese che cosa stesse pensando Edward e quando lo avrebbe rivisto. Distolse gli occhi dal laboratorio e contemplò per un attimo i neri profili degli alberi che si stagliavano contro il cielo. Erano assolutamente immobili, non c'era un alito di vento e la tempesta che pareva imminente quando
lei era arrivata a casa, continuava a incombere a occidente. Ma poco dopo vide un fulmine che saettava nel buio, seguito da un lontano rombo di tuono. Si allontanò dalla finestra e guardò di nuovo il ritratto appeso sopra il caminetto e pensò all'orrendo, deforme feto che galleggiava nel vaso di vetro. Ebbe un brivido. Non c'era da stupirsi che all'epoca di Elizabeth la gente credesse nella stregoneria e nella magia nera. A quell'epoca non c'era nessuna spiegazione per eventi così sconvolgenti. Si avvicinò di più al dipinto e osservò attentamente i lineamenti di Elizabeth. La sua forza di carattere era visibile nella linea della mascella, nel disegno delle labbra, nello sguardo franco degli occhi. Si chiese se quell'energia fosse innata o acquisita, se fosse dovuta alla natura o all'educazione. Rifletté sulla propria recente sicurezza, che riteneva di dovere all'esempio di Elizabeth, e si domandò se sarebbe riuscita a mantenerla. Aveva fatto un primo passo recandosi al laboratorio quel pomeriggio ed era sicura che in passato non ne sarebbe stata capace. Con il passare delle ore, Kim cominciò a pensare alla possibilità di cambiare lavoro e a domandarsi se avrebbe avuto il coraggio di affrontare il rischio. Con l'eredità che aveva ricevuto non poteva addurre come scusa eventuali difficoltà finanziarie. Un tale cambiamento nello stile di vita era una prospettiva che la spaventava un po', soprattutto l'idea di dedicarsi a un'attività artistica, eppure la trovava affascinante. Quel suo lungo rovistare fra tre secoli di documenti al castello ebbe una conseguenza inaspettata: si rese improvvisamente conto che la sua famiglia aveva dato un ben scarso contributo alla comunità. Quell'immenso mucchio di carte e quel castello di cattivo gusto in cui si erano accumulate erano i due retaggi più importanti. Non c'era stato nessun artista, né un musicista né uno scrittore nella famiglia. Con tutto il loro denaro non avevano raccolto collezioni d'arte, non avevano sovvenzionato filarmoniche né fondato biblioteche. Insomma, non avevano portato alcun contributo alla cultura, a meno che la capacità imprenditoriale non si dovesse considerare cultura di per sé. Alle nove di sera, Kimberly era esausta. Per un breve momento pensò di ritornare al laboratorio, ma vi rinunciò subito. Se Edward voleva parlarle, sarebbe venuto lui in casa da lei. Invece gli scrisse una nota su un foglietto che attaccò allo specchio del piccolo bagno. Diceva semplicemente: MI ALZERÒ ALLE CINQUE E POTREMO PARLARE. Dopo avere portato fuori la gatta a fare un breve giro, s'infilò a letto.
Non cercò neppure di leggere, non pensò neppure che le occorresse un sonnifero. Dopo qualche minuto era profondamente addormentata. 20 Martedì 4 ottobre 1994 Un violento tuono strappò Kim dalle profondità del sonno. La casa vibrava ancora quando si rese conto di essere seduta sul letto. Sheba aveva reagito al cataclisma balzando via e correndo giù dalle scale. Dopo qualche minuto si udì scrosciare la pioggia e soffiare il vento. Dopo essersi trattenuta per tanto tempo, la tempesta si scatenava con violenza. Grosse gocce di pioggia che parevano chicchi di grandine battevano sul tetto di ardesia. Kim sentiva anche la pioggia contro la zanzariera della finestra aperta che guardava a occidente. Si precipitò alla finestra e tentò di chiuderla, mentre il vento portava la pioggia nella sua stanza. Proprio mentre stava per assicurare la maniglia della finestra, una folgore colpì il parafulmine su una delle torrette del castello e illuminò l'intera tenuta. Nell'attimo in cui il campo fra la villa e il castello fu illuminato, Kim vide un'immagine impressionante: una figura spettrale, scarsamente vestita, che correva sull'erba. Anche se non poteva esserne sicura, perché era stata la visione di un attimo, Kim avrebbe scommesso che si trattasse di Eleanor. Trasalì quando un altro scoppio di tuono seguì il lampo del fulmine. Si affacciò per vedere nel buio, ma con la pioggia che scrosciava così violentemente era impossibile. Attese un attimo, sperando in un altro lampo che non venne. Lasciò la finestra e, attraversando la piccola anticamera, corse nella stanza di Edward. Era sicura di non avere avuto un'allucinazione: c'era qualcuno là fuori. Che fosse Eleanor o un'altra persona non era importante; nessuno doveva rimanere fuori con quel temporale, specialmente dopo che si erano verificate tutte quelle incursioni nei dintorni. Doveva parlare a Edward. Fu sorpresa di trovare la sua porta chiusa; in genere, la lasciava sempre aperta. Bussò ma non ci fu risposta, così bussò più forte. Ancora nulla. Allora si chinò a guardare la serratura e vide che sporgeva una chiave. Kim aprì la porta. Dalla soglia poteva udire il respiro rumoroso di Edward. Lo chiamò di-
verse volte, a voce sempre più alta, ma lui non si mosse. Un lampo riempì di luce la stanza e Kim ebbe una breve visione di Edward sdraiato supino, con le braccia e le gambe divaricate. Indossava solo la biancheria intima. Poi arrivò il rombo del tuono, che fece tremare la casa. Era come se la tempesta si fosse concentrata sulla tenuta. Kim accese la luce nell'anticamera, che filtrò nella stanza di Edward, e tornò accanto al suo letto. Cercò di chiamarlo e, poiché non otteneva risposta, lo scosse gentilmente. Ma non solo non si svegliò, ma neppure si alterò il ritmo del suo respiro. Lo scosse ancora vigorosamente e, non vedendo alcuna reazione, cominciò a preoccuparsi. Le sembrava quasi che fosse in coma. Accese la luce sul comodino e lo guardò: Edward era l'immagine stessa della tranquillità. Il suo viso aveva un'espressione rilassata e la bocca era aperta. Kim gli posò le mani sulle spalle e lo scosse insistentemente, chiamandolo ad alta voce. Il ritmo del suo respiro cambiò, sbatté gli occhi e li aprì. «Edward, sei sveglio?» lo chiese. Lo scosse ancora e la sua testa sbatté da una parte e dall'altra, come quella di una bambola di pezza. Lui pareva confuso e disorientato, finché non distinse Kim, che lo teneva ancora per le spalle. Le sue pupille si dilatarono all'improvviso, come quelle di un gatto sul punto di fare un balzo. Poi i suoi occhi si strinsero in due sottili fessure, mentre il labbro superiore si arricciava come quello di una belva ringhiante. Il viso, prima così placido, si contorse in un'espressione di rabbia. Spaventata da quell'orrenda e inaspettata metamorfosi, Kim fece un passo indietro. Era stupita che Edward potesse infuriarsi tanto per essere stato svegliato. Lui emise un suono gutturale simile a un ringhio e si alzò a sedere sul letto fissandola senza battere le palpebre. Kim fece un balzo verso la porta, intuendo che Edward voleva rincorrerla, e lo sentì cadere a terra. Si chiuse con un colpo violento la porta alle spalle e quindi girò la chiave nella toppa. Poi si precipitò giù per le scale, corse in cucina e afferrò il telefono. A Edward doveva essere successo qualcosa di terribile, non era solo in collera per essere stato svegliato. Qualcosa si era guastato nel suo cervello. Compose il 113, ma mentre aspettava la comunicazione udì la porta della stanza di Edward schiantarsi e poi sbattere contro la parete. Un attimo dopo, lo sentì ringhiare in cima alle scale e udì il rumore dei suoi passi che
scendevano i gradini. Terrorizzata, lasciò cadere il telefono e corse alla porta posteriore. Quando la raggiunse si guardò alle spalle e scorse fuggevolmente Edward che si precipitava nella sala da pranzo e rovesciava il tavolo. Era completamente fuori di sé. Kim spalancò la porta e corse fuori sotto la pioggia, che ora cadeva a torrenti. Il suo unico pensiero era cercare aiuto, e il posto più vicino era il castello. Girò intorno alla villa e si gettò attraverso il campo, correndo più velocemente che poteva nel buio della notte. Una folgore improvvisa guizzò nel cielo illuminando il paesaggio e la sagoma nera del castello e il tuono seguì immediatamente, riecheggiando dalla cupa facciata. Kim non rallentò la corsa; si sentì incoraggiata vedendo la luce a qualche finestra dell'ala della servitù. Quando raggiunse lo spiazzo di fronte al castello fu costretta a rallentare. Se prima il panico le aveva impedito di sentire il disagio di correre a piedi nudi, ora che c'erano pietre e ghiaia era troppo penoso. A passi rapidi si diresse verso il fianco dell'edificio, ma mentre si avvicinava al ponte levatoio osservò che il portone d'ingresso era spalancato. Ansimando si precipitò dentro, attraversò il vestibolo buio ed entrò nel grande salone, dove una fioca luce filtrava dalle grandi finestre rivolte a sud. Era la luce della città vicina riflessa dalla bassa volta di nubi. Kim aveva pensato di attraversare il salone e poi la cucina per arrivare nell'ala della servitù, ma non aveva fatto molta strada che si scontrò con Eleanor. Una camicia da notte di pizzo bianco, inzuppata d'acqua, le aderiva al corpo come una seconda pelle. Kim si fermò di botto, momentaneamente paralizzata. Adesso sapeva che aveva visto giusto: era Eleanor la figura spettrale che correva nel campo. Voleva avvertirla di quello che era capitato a Edward, ma le parole le morirono in gola quando alla fioca luce vide la faccia della donna. Aveva la stessa espressione che aveva visto sul volto di Edward quando si era svegliato e la sua bocca era imbrattata di sangue, come se avesse divorato carne cruda. Lo scontro con Eleanor bloccò la fuga di Kim. Edward, ansimando, irruppe nella stanza ed esitò per un attimo, guardandola selvaggiamente nella luce incerta. Aveva i capelli bagnati incollati sulla testa e portava solo una maglia e i boxer, entrambi coperti di fango. Kim si voltò ad affrontarlo e ancora una volta rimase senza fiato davanti al cambiamento avvenuto nel suo aspetto. Non che i suoi lineamenti si fos-
sero alterati, ma il suo volto esprimeva una rabbia animalesca. Edward si stava dirigendo verso di lei ma si arrestò quando vide l'altra donna. Ignorando Kim per un attimo, si voltò verso Eleanor e, quando fu a distanza di un braccio, alzò cautamente la testa, come per annusare l'aria. Eleanor fece lo stesso ed entrambi cominciarono a girare lentamente in circolo, l'uno intorno all'altra. Kim rabbrividì. Era come se stesse vivendo un incubo, davanti a due animali selvaggi che s'incontravano nella giungla e si tenevano sotto controllo. Lentamente, Kim indietreggiò mentre Edward ed Eleanor si scrutavano l'un l'altra. Appena vide la via libera per la sala da pranzo, Kim scattò, ma il movimento improvviso scosse gli altri due che, come spinti da un primordiale riflesso di carnivori, si gettarono al suo inseguimento. Mentre correva attraverso il salone, Kim rovesciò diverse sedie alle sue spalle, sperando di fermare i suoi inseguitori. L'astuzia funzionò meglio di quanto si fosse aspettata; infatti, come confusi per l'inaspettato ostacolo e incapaci di superarlo, Edward ed Eleanor si scontrarono fra loro e, lanciando orrende grida disumane caddero a terra. Ma non rimasero a lungo bloccati. Mentre superava la porta della cucina, Kim lanciò un'occhiata alle sue spalle e vide che si erano già rialzati e scagliavano via le sedie, senza badare alle contusioni. Entrando nell'ala della servitù, Kim cominciò a gridare chiedendo aiuto, ma senza smettere di correre. Raggiunse le scale e, sempre gridando, corse al piano superiore, facendo irruzione nella stanza che sapeva occupata da François. Il giovane francese era a letto addormentato, con la luce ancora accesa, e Kim corse da lui chiamandolo per nome. Lo scosse freneticamente, ma François non si svegliava. Urlò ancora e si diede a scrollarlo con più forza, ma poi s'immobilizzò, raggelata da un'idea improvvisa: anche con Edward era stato altrettanto difficile. Fece un passo indietro proprio quando gli occhi di François si aprirono lentamente. E, come era avvenuto per Edward, il suo viso subì una sinistra trasformazione. I suoi occhi si strinsero, il labbro superiore si arricciò sui denti e dalla sua bocca uscì un ringhio bestiale. In un attimo era divenuto un insensato e furioso animale. Kim girò su se stessa per fuggire, ma Edward ed Eleanor erano sulla soglia e le bloccavano la strada. Senza un attimo di esitazione, attraversò la porta di comunicazione che dava nel salottino della suite e di lì corse sul pianerottolo. Arrivata sulle scale, svoltò nell'altro braccio del corridoio ed
entrò in un'altra stanza che sapeva occupata. Si arrestò sulla soglia, tenendo aperta la porta con la mano: Curt e David erano accucciati sul pavimento, seminudi e coperti di fango. L'acqua che gocciolava dalle loro teste rivelava che erano stati fuori, sotto la pioggia, e davanti a loro c'era un gatto parzialmente smembrato. Le loro facce, come quella di Eleanor, erano imbrattate di sangue. Kim chiuse con un colpo la porta. Sentendo gli altri che salivano per le scale, si voltò e aprì la porta di comunicazione che immetteva nel corpo principale del castello. Per fortuna conosceva bene la casa. Attraversò di corsa la sala dell'appartamento principale che, essendo esposta a sud, era illuminata dalla stessa luce del grande salone. Evitò facilmente i tavolini, le sedie e i divani, ma inciampò in un tappeto e andò a sbattere contro la porta che conduceva nell'ala degli ospiti. Annaspò per un istante con la maniglia, poi l'aprì. L'atrio oltre la porta era buio, ma sapendo che non c'erano mobili Kim si gettò alla cieca. Un attimo dopo urtò violentemente contro un tavolo imprevisto e perse l'equilibrio cadendo a terra con un tremendo rumore di ferraglia. Per un momento rimase immobile, temendo di essersi ferita. Il suo stomaco pulsava e il suo ginocchio sinistro era intorpidito. Sentiva qualcosa che gocciolava lungo il braccio e pensò che fosse sangue. Tastò intorno a sé nel buio e capì in che cosa era inciampata: erano gli arnesi e il tavolo da lavoro degli idraulici. Avevano trasportato la loro attrezzatura nell'ala degli ospiti per controllare e riparare le tubature. Tendendo l'orecchio, Kim sentì il rumore lontano di porte che si aprivano e chiudevano sbattendo nell'ala della servitù. Quei suoni le fecero pensare che quegli esseri - non poteva definirli persone nello stato in cui si trovavano - la stessero cercando a caso dappertutto. Non avevano seguito l'unica strada possibile, il che significava che non si muovevano guidati dall'intelligenza. Kim concluse che avevano solo un uso limitato del cervello e agivano soprattutto per istinto e per riflessi condizionati. Si alzò. Il torpore del ginocchio era diventato dolore acuto e, toccandolo, sentì che cominciava a gonfiarsi. Quando i suoi occhi si furono adattati all'oscurità, cominciò a distinguere il banco da lavoro e alcuni utensili. Vide un pezzo di tubo e lo prese per servirsene come arma, ma lo gettò via quando si accorse che era di plastica. Poi raccolse un martello, ma gettò anche quello e brandì la saldatrice. Se quelle creature che le davano la caccia agivano per istinto animale, il
fuoco le avrebbe terrorizzate. Con la saldatrice in mano si avviò zoppicando verso le scale dell'ala degli ospiti. Si piegò sulla balaustra e guardò in basso: al piano inferiore le luci dell'atrio erano accese. Kim si mise in ascolto; gli unici rumori che si sentivano parevano provenire dall'estremità opposta della casa. Cominciò a scendere le scale, ma non andò molto lontano. Dopo pochi gradini vide Gloria al pianterreno che passeggiava su e giù alla base delle scale, come un gatto davanti alla tana del topo. Sfortunatamente, anche Gloria la vide, lanciò un grido e poi cominciò a salire le scale. Kim cambiò direzione e si mise a correre più in fretta che poté attraverso l'atrio, questa volta evitando con cura gli attrezzi degli idraulici. Rientrò nel corpo principale del castello e si diresse verso lo scalone. Dietro di lei sentì un tonfo e un grido, e immaginò che si trattasse di Gloria, inciampata negli attrezzi. Scese lo scalone tenendosi rasente la parete per non essere vista dal basso e, raggiunto il pianerottolo, si mosse lentamente per potere controllare meglio il salone. Provò un grande sollievo quando vide che non c'era nessuno. Trasse un respiro profondo, scese l'ultima rampa e, giunta in fondo, zoppicò verso il vestibolo anteriore. Ma a circa tre metri dalla meta si fermò di botto. Con sgomento vide Eleanor che si aggirava a passi furtivi all'estremità del vestibolo, proprio di fronte all'ingresso principale. Camminava come Gloria in fondo alle scale dell'ala degli ospiti, ma diversamente dalla collega, non si accorse di lei. Kim si ritrasse rapidamente per sottrarsi alla vista di Eleanor, ma sentì qualcuno che scendeva le scale e capì che presto sarebbe arrivato al pianerottolo. Non avendo tempo per decidere, tornò freneticamente indietro e, sgattaiolando nella piccola toilette che si trovava sotto lo scalone, si chiuse silenziosamente la porta alle spalle e girò la chiave. Nello stesso momento udì il rumore di passi proprio sopra la sua testa. Cercò di controllare il respiro mentre sentiva i passi che continuavano a scendere. Poi il suono si smorzò sui folti tappeti orientali che coprivano il pavimento di marmo del salone. Era spaventata, anzi terrorizzata, ora che aveva un attimo di respiro per valutare la gravità della sua situazione. Era anche preoccupata per il suo ginocchio, e poi era bagnata, aveva freddo e tremava come una foglia. Pensando alle vicende di quegli ultimi giorni, si domandò se lo stato di
primitiva bestialità di cui Edward e gli altri in quel momento soffrivano si verificasse tutte le notti. Se era così e loro se n'erano accorti, questo spiegava la mutata atmosfera del laboratorio. Con un fremito di orrore si rese conto che, con tutta probabilità, i ricercatori erano responsabili dei recenti episodi di vandalismo avvenuti nelle vicinanze e attribuiti a un animale rabbioso o a giovani teppisti. Rabbrividì di disgusto. Era ovvio che la causa di tutto ciò era l'Ultra. Prendendo quel farmaco, gli scienziati erano come «posseduti», probabilmente come era accaduto alle vittime delle stregonerie del 1692. Queste riflessioni le diedero qualche speranza. Se quello che pensava era vero, sarebbero tornati alla loro personalità normale allo spuntare dell'alba, come in un vecchio film dell'orrore. Tutto ciò che doveva fare era starsene nascosta fino al mattino. Si chinò a deporre la saldatrice sul pavimento. La sua camicia da notte grondava acqua e, annaspando nel buio, trovò degli asciugamani. Ne prese uno per asciugarsi un po', poi se ne avvolse un altro intorno alle spalle per avere un po' di calore e si strinse le braccia al petto per controllare il tremito. Sedette sulla tavoletta del water per alleggerire il peso sul ginocchio gonfio. Passò del tempo, Kim non aveva modo di sapere quanto, e la casa era tornata silenziosa. Ma improvvisamente si udì un fragore di vetri infranti che la fece sobbalzare. Aveva sperato che avessero smesso di cercarla, ma evidentemente non era così. Immediatamente dopo il frastuono sentì il rumore di porte e armadi che venivano aperti. Pochi minuti dopo trasalì di nuovo sentendo uno di loro che scendeva le scale sopra di lei. Chiunque fosse, scendeva lentamente e si fermava spesso. Kim si alzò. I brividi violenti avevano ogni tanto fatto urtare la tavoletta contro la tazza di porcellana e non voleva che quel rumore si udisse se qualcuno di loro era vicino. A poco a poco percepì un altro suono persistente, che non riuscì dapprima a identificare. Infine ci riuscì e questo la fece tremare ancora di più. Qualcuno stava annusando, pressappoco come Edward aveva fatto due notti prima vicino al fienile. Ricordò che le aveva detto che uno degli effetti del farmaco era proprio acuire i sensi. Kim si sentì la bocca asciutta. Se Edward la notte precedente aveva potuto fiutare la lieve traccia del suo profumo, forse anche adesso poteva fiutare la sua presenza. Mentre Kim lottava per controllare i brividi, la persona scese l'ultima rampa di scale, si fermò di nuovo, poi girò l'angolo e si fermò fuori della
porta della toilette. Kim udì un fiutare più intenso, poi la maniglia cigolò, come se qualcuno cercasse di aprire la porta. Trattenne il respiro. I minuti passarono lentamente. Le parve che stessero arrivando anche gli altri e dai suoni capì ben presto che un gruppo si era radunato là fuori. Trasalì quando uno di loro colpì diverse volte la porta con il pugno. La porta resistette a malapena. Era costituita da pannelli di legno, con sottili impiallacciature su ogni pannello, e lei sapeva che non avrebbe sostenuto a un attacco di più persone. Fu presa dal panico e si acquattò nel buio annaspando per trovare la saldatrice. Non la trovò subito e sentì i battiti del suo cuore accelerare. Freneticamente agitò le braccia alla cieca. Sospirò di sollievo quando le sue dita toccarono l'attrezzo. Quando si rialzò con la saldatrice in mano, i colpi alla porta ripresero. Con dita tremanti, provò l'accenditore. Lo premette e una scintilla scaturì nel buio. Cambiando di mano per tenere la saldatrice nella destra, girò l'interruttore e sentì un forte sibilo. Allora, tenendo la saldatrice come aveva visto fare all'idraulico, premette di nuovo l'accenditore e con un rombo la saldatrice si accese. Era appena riuscita ad azionarla, quando la porta cominciò a scricchiolare sotto la tempesta dei colpi. Rapidamente si spaccò in vari punti e mani insanguinate sbucarono dalle fessure. Con orrore, Kim vide la porta cadere a pezzi, mentre le assicelle venivano strappate a forza. Divelta la porta, quegli esseri si scatenarono come animali selvaggi in cerca di cibo. Cercarono di precipitarsi nella toilette tutti insieme nello stesso tempo e, in un intreccio di braccia e gambe, non fecero che bloccarsi a vicenda. Kim puntò la saldatrice contro di loro, tenendola tesa davanti a sé. Ne uscì un sibilo basso e rauco e la luce illuminò i loro volti rabbiosi. Edward e Curt erano i più vicini. Allora diresse la fiamma contro di loro e vide la loro espressione mutare da rabbia in paura. I ricercatori balzarono indietro terrorizzati, rivelando la loro atavica paura del fuoco. I loro occhi sporgenti erano fissi sulla fiamma che scaturiva dalla bocca dell'attrezzo. Incoraggiata dalla loro reazione, Kim uscì lentamente dallo stanzino, sempre tenendo la saldatrice davanti a sé. I ricercatori risposero indietreggiando e in gruppo rientrarono nel salone, passando sotto uno dei massicci lampadari.
Dopo essere arretrati di qualche passo si aprirono a ventaglio. Kim avrebbe preferito che restassero in gruppo compatto o fuggissero addirittura, ma non poteva fare nulla. Poteva soltanto tenerli lontani. Mentre si muoveva lentamente ma senza sosta verso il vestibolo anteriore, la circondarono e lei dovette girare la fiamma tutt'intorno, per tenerli a bada. La paura che quegli esseri avevano mostrato all'inizio davanti al fuoco cominciò a diminuire via via che si abituavano alla vista, specialmente quando la fiamma non era puntata contro di loro. E quando Kim ebbe oltrepassato il centro del salone alcuni si fecero più audaci, soprattutto Edward. In un momento in cui lei dirigeva la fiamma contro un altro, Edward si gettò in avanti e afferrò la sua camicia da notte. Kim diresse immediatamente la saldatrice contro di lui, ustionando il dorso della sua mano. Lui lanciò un grido orrendo e abbandonò la presa. Poi fu Curt a balzare in avanti e la fiamma passò veloce come una frustata sulla sua fronte, bruciandogli una ciocca di capelli. L'uomo gridò di dolore e si portò le mani alla testa. A un certo punto, Kim si rese conto che le mancavano soltanto cinque o sei metri per raggiungere l'ingresso, ma quel movimento circolare minacciava di farle perdere l'equilibrio e cominciava ad avere le vertigini. Cercò di compensare alternando il senso della rotazione, ma la manovra non era abbastanza efficace per tenere lontani gli assalitori. Gloria riuscì a fare un passo avanti mentre lei cambiava direzione e le afferrò un braccio. Kim riuscì a divincolarsi, ma il movimento improvviso le fece perdere l'equilibrio e cadde a terra. Mentre cadeva, il braccio che teneva la saldatrice urtò contro un tavolo e l'attrezzo le cadde di mano rimbalzando dal tavolo sul pavimento di marmo. Qui scivolò sulla lucida superficie e andò a sbattere contro la parete, proprio nel punto in cui scendeva uno dei ricchi tendaggi di damasco. Reggendosi il braccio ferito con l'altra mano, Kim cercò di rizzarsi a sedere. Intorno e sopra di lei c'erano i volti disumani di quelle creature, avide di uccidere che, con un urlo, le si gettarono addosso come animali feroci all'attacco di un giovane cervo ferito. Kim gridò a sua volta dibattendosi sotto i colpi, ma fortunatamente l'assalto durò soltanto pochi secondi. Un sibilo violento e rimbombante accompagnato da un improvviso lampo di luce interruppero il frenetico attacco e Kim riuscì a trascinarsi via. Appoggiandosi con la schiena a un di-
vano alzò gli occhi sui suoi persecutori, che guardavano impietriti alle sue spalle. Sui loro volti si rifletteva una luce gialla. Kim si voltò e vide un muro di fiamme. La saldatrice aveva incendiato i tendaggi, che bruciavano come se fossero impregnati di benzina. I suoi assalitori lanciarono gemiti di terrore davanti a quell'inferno. Kim si voltò di nuovo verso di loro e vide il panico nei loro occhi sbarrati. Edward fu il primo a darsi alla fuga, subito seguito dagli altri. Ma non corsero fuori della porta d'ingresso, si precipitarono terrorizzati su per il grande scalone. «No, no!» urlò Kim. Non servì a nulla. Non solo non la capirono, ma non la udirono nemmeno. Il rombo delle fiamme copriva nella sua furia ogni suono, come un buco nero ingoia la materia. Kim si portò al viso il braccio sano per proteggersi dal fiato ardente del fuoco. Si alzò e si trascinò zoppicando verso la porta d'ingresso. Il fuoco stava consumando l'ossigeno del salone e si faceva già fatica a respirare. Un'esplosione alle sue spalle la fece cadere sul pavimento e gridò di dolore per il braccio ferito. Pensò che forse l'incendio aveva fatto esplodere la bombola del gas della saldatrice. Sentì che doveva assolutamente uscire dall'edificio; allora si rizzò in piedi a fatica e puntò barcollando verso la porta. Varcò la soglia e uscì nel vento e nella pioggia battente. Zoppicando attraversò lo spiazzo ghiaioso davanti al castello, stringendo i denti a ogni passo per il dolore al braccio e al ginocchio. Giunta al termine dello spiazzo si voltò e, riparandosi il viso dal calore con il braccio sano, guardò il castello. La vecchia struttura bruciava come una fascina di sterpi e già spuntavano le fiamme dalle finestre degli abbaini. Un fulmine illuminò brevemente la scena e per Kim fu come un'immagine dell'inferno. Scosse la testa, smarrita. Veramente il demonio era tornato a Salem! Epilogo Sabato 5 novembre 1994 «Dove vuoi andare prima?» domandò Kinnard a Kim, varcando con l'auto il cancello ed entrando nella tenuta Stewart. «Non saprei», rispose lei con il braccio ancora ingessato. «Devi decidere», insistette Kinnard. «Arriveremo al bivio appena fuori
del bosco.» Kim sapeva che aveva ragione; si vedeva già il campo attraverso i rami spogli degli alberi. Si voltò a guardare Kinnard. Il pallido sole autunnale che filtrava fra i rami gli illuminava il viso e faceva brillare i suoi occhi neri. Le era stato straordinariamente d'aiuto e lei gli era grata di averla accompagnata. Era passato un mese da quella notte fatale ed era la prima volta che tornava alla tenuta. «Ebbene?» chiese Kinnard cominciando a rallentare. «Andiamo al castello o a quel poco che ne è rimasto.» Kinnard sterzò e si avviò nella direzione indicata e davanti a loro comparvero le rovine annerite dal fuoco. Non restavano che muri e camini di pietra. Kinnard si fermò davanti al ponte levatoio, che ora portava a un portone nero e vuoto, e spense il motore. «È peggio di quanto mi aspettassi», osservò Kinnard scrutando la scena attraverso il parabrezza. Poi guardò Kim. Capiva che era nervosa. «Sai, non sei obbligata a entrare, se non te la senti.» «Me la sento, certo. Dovrò pur farlo, una volta o l'altra.» Aprì la portiera e scese. Insieme fecero il giro delle rovine, ma non cercarono di entrare. Dentro il castello tutto era cenere, tranne poche travi annerite che non erano bruciate del tutto. «È difficile credere che qualcuno ne sia uscito vivo. Tutto bruciava con una rapidità così spaventosa!» mormorò Kim. «Due su sei non è un gran successo», osservò Kinnard. «Inoltre, i due sopravvissuti non sono ancora fuori dei guai.» «È una tragedia nella tragedia», aggiunse Kim. «Come la povera Elizabeth con il suo feto mostruoso.» Raggiunsero un'altura da dove potevano vedere tutta l'area distrutta dall'incendio e Kinnard scosse la testa. «Una fine adatta a una storia orribile!» commentò. «Le autorità non riuscivano a crederci, finché non si è scoperto che la dentatura di una delle vittime corrispondeva ai segni di denti rilevati sulle ossa del povero vagabondo ucciso. Almeno ti sei presa una rivincita. All'inizio nessuno credeva a quello che raccontavi.» «Probabilmente non ci hanno creduto finché Edward e Gloria non hanno subito un'altra trasformazione nel reparto ustionati dell'ospedale. È stato questo che li ha convinti, non i segni dei denti. Le persone che vi hanno assistito affermano che la trasformazione è avvenuta nel sonno e che né Edward né Gloria ricordavano ciò che era successo. Questi sono i fatti che
hanno dato credibilità alle mie parole.» «Io ti ho creduto subito», affermò Kinnard voltandosi verso di lei. «Tu sì. Devo riconoscerlo, e devo ringraziarti per una quantità di altre cose.» «Io, naturalmente, sapevo che quei pazzi stavano prendendo un farmaco non sperimentato.» «Io però l'avevo detto fin dal principio al procuratore distrettuale», replicò Kim, «ma non vi aveva dato importanza.» Kinnard osservò le imponenti rovine. «Questo vecchio edificio deve essere bruciato con spaventosa rapidità», osservò. «Il fuoco si è diffuso così rapidamente che pareva quasi un'esplosione.» Kinnard scosse ancora il capo, questa volta con un senso di gratitudine. «È un miracolo che tu ne sia uscita viva. Deve essere stato un momento terrificante.» «Il fuoco praticamente è stato una liberazione. Quello che era orribile era l'altra cosa, che era cento volte peggio di quanto tu possa immaginare. Non puoi credere che cosa significhi vedere persone che hai conosciuto e apprezzato ridotte in quello stato. Ma ho imparato una cosa: prendere una droga, si tratti di steroidi per atleti o di farmaci psicotropi per migliorare l'umore, è sempre un patto con il diavolo.» «La medicina lo sa da molti anni», replicò Kinnard. «C'è sempre un rischio, persino con gli antibiotici.» «Spero che la gente lo ricorderà, quando avrà la tentazione di prendere dei farmaci per curare certi difetti della personalità, come la timidezza», osservò Kim. «E questi farmaci non tarderanno a comparire, non si può fermare la ricerca.» «Il problema è che nella nostra cultura moderna si comincia a pensare che esista una pillola per curare ogni cosa», aggiunse Kinnard. «Questa è proprio la ragione per cui è facile che si verifichi un altro episodio simile a quello che io ho vissuto. È inevitabile, con il crescere della domanda di farmaci psicotropi.» «Se deve avvenire un altro episodio simile, certamente l'industria delle streghe di Salem spera che avvenga qui», esclamò Kinnard ridendo. «La tua terribile esperienza è stata una manna per i loro affari.» Kim raccolse un pezzo di legno e frugò fra le macerie del castello, dove trovò degli oggetti di metallo, contorti e deformati dall'intenso calore. «Questo edificio conteneva tutta l'eredità materiale di dodici generazioni di Stewart», mormorò Kim. «E tutto è perduto.»
«Mi dispiace, Kim. Capisco che tu ti senta sconvolta.» «Non proprio. Era solo roba dozzinale, tranne qualche mobile. Non c'era neppure un quadro di un certo valore, a parte il ritratto di Elizabeth che si è salvato perché è alla villa. L'unica cosa che rimpiango è la perdita delle lettere e dei documenti che avevo rinvenuto su di lei. Soltanto di due lettere ho le copie, che sono state fatte ad Harvard e che costituiscono ora l'unica prova che Elizabeth è stata coinvolta nella tragedia di Salem. E questo non basterà per convincere gli storici.» Rimasero per qualche minuto a contemplare le ceneri, quindi Kinnard suggerì che era meglio andare e Kim annuì. Tornarono alla macchina e si diressero al laboratorio. Kim aprì la porta d'ingresso, passarono per la reception e varcarono la soglia interna. Kinnard rimase sbalordito: il locale era completamente vuoto. «Dove sono gli apparecchi?» domandò. «Credevo che questo fosse un laboratorio.» «Lo era», rispose Kim. «Ho detto a Stanton che doveva fare portare via tutto immediatamente. Se non lo avesse fatto, avrei regalato tutto a un'opera di beneficenza.» Kinnard fece il gesto di palleggiare e lanciare un pallone da basket. Batté i tacchi e il suono riecheggiò nella stanza vuota. «Puoi sempre trasformarlo in una palestra», osservò. «Preferirei un atelier da pittore», rispose Kim. «Dici sul serio?» «Credo proprio di sì.» Lasciarono il laboratorio e si diressero alla villa. Kinnard fu lieto di riscontrare che non era stata spogliata come il laboratorio. «Sarebbe un peccato distruggere tutto questo. Ne hai fatto una casa deliziosa.» «Sì, è carina», ammise Kim. Entrarono nel soggiorno e Kinnard fece un giro esaminando tutto con attenzione. «Pensi di tornare ad abitare qui?» chiese. «Penso di sì, un giorno o l'altro. E tu? Credi che ti piacerebbe vivere in un posto così?» «Oh, certo! Dopo il mio turno di servizio a Salem mi hanno offerto un posto stabile all'ospedale e sto prendendo seriamente in considerazione la proposta. Abitare qui sarebbe l'ideale. L'unico guaio, penso, è che potrei sentirmi un po' troppo solo.» Kim alzò la testa e lo fissò negli occhi. Lui alzò le sopracciglia con un'e-
spressione maliziosa. «È una proposta?» chiese Kim. «Potrebbe», rispose Kinnard evasivamente. Kim pensò un attimo. «Forse dovremmo pensarci dopo la stagione sciistica!» Lui ridacchiò. «Mi piace il tuo senso dell'umorismo. Ora riesci a scherzare su cose che per te sono importanti. Sei proprio cambiata.» «Lo spero, è da molto che dovevo cambiare.» Additò il ritratto di Elizabeth. «Devo ringraziare la mia antenata che me ne ha fatto sentire l'esigenza e me ne ha dato il coraggio. Non è facile spezzare i vecchi schemi. Spero soltanto di riuscire a mantenere questo nuovo io, e spero anche che tu ci possa convivere.» «Finora mi piace molto. Non mi sento più come se camminassi sulle uova, quando siamo insieme. Voglio dire, non devo stare continuamente a spiare di che umore sei.» «Sono stupita, ma anche grata che qualcosa di buono sia venuto fuori da quell'orribile vicenda. La cosa più strana è che finalmente ho avuto il coraggio di dire a mio padre che cosa penso di lui.» «Perché strana? Direi che si accorda perfettamente con la tua nuova capacità di dire quello che pensi.» «Non è strano che io l'abbia fatto, piuttosto il risultato. Una settimana dopo la nostra conversazione, che è stata un po' tempestosa da parte sua, mi ha telefonato lui stesso. E ora pare che fra noi stia iniziando un cordiale e significativo rapporto.» «Magnifico», esclamò Kinnard. «Proprio come è avvenuto fra noi due.» «Sicuro», ripeté Kim. «Proprio come fra di noi.» Mise il braccio sano intorno al collo del ragazzo e lo strinse a sé. Kinnard rispose con pari ardore. Venerdì 19 maggio 1995 Kim si fermò e alzò gli occhi verso la facciata del nuovo edificio di mattoni in cui stava entrando. Sulla porta spiccava una grande targa di marmo bianco su cui erano incise le parole OMNI PHARMACEUTICALS. Non sapeva bene che cosa pensare del fatto che la società fosse ancora in affari, dopo tutto quello che era successo; ma capiva che, con tutto il denaro investito, Stanton non era certo disposto a lasciarla morire. Aprì la porta ed entrò. Disse il suo nome al banco della reception e dopo
pochi minuti di attesa vide arrivare una giovane donna dall'aspetto piacevole, con un tailleur dal taglio severo, che la scortò fino alla porta di uno dei laboratori. «Quando avrà finito la sua visita, pensa di poter trovare senza difficoltà la strada per uscire?» le chiese la donna. Kim la rassicurò e la ringraziò. Quando la donna si fu allontanata, si voltò verso la porta e l'aprì. Dalla descrizione di Stanton, sapeva già che cosa aspettarsi. La porta da cui era passata non immetteva direttamente nel laboratorio, ma in un'anticamera. La parete che la divideva dal laboratorio stesso era completamente di vetro, dall'altezza della scrivania fino al soffitto. Di fronte alla grande vetrata c'erano diverse sedie e sulla parte inferiore della parete c'erano un centralino telefonico e una porta con la maniglia di ottone. Al di là del vetro si vedeva un modernissimo laboratorio biomedico, che aveva un'impressionante somiglianza con il laboratorio della tenuta Stewart. Seguendo le istruzioni di Stanton, Kim prese posto sulla sedia davanti al centralino e premette il bottone rosso di chiamata. Nell'interno del laboratorio due figure si alzarono da dietro un banco dove stavano lavorando e, scorgendola, si diressero verso di lei. Kim avvertì un immediato moto di simpatia per i due, ma fece fatica a riconoscerli: erano Edward e Gloria, orribilmente sfigurati dalle ustioni riportate nell'incendio. Non avevano più capelli ed entrambi dovevano ancora sottoporsi a interventi di chirurgia plastica. Camminavano a passi rigidi e spingevano davanti a sé dei carrelli per fleboclisi. Notò che le loro mani avevano perduto alcune dita. Quando parlarono le loro voci erano rauchi sussurri. Ringraziarono Kim per essere venuta a trovarli ed espressero il loro disappunto per non poterla accompagnare a visitare il laboratorio, che era stato allestito appositamente tenendo conto delle loro menomazioni. Dopo una pausa nella conversazione, Kim chiese loro come stavano. «Piuttosto bene, considerando quello che abbiamo passato», rispose Edward. «Il problema più grave è che abbiamo ancora degli 'attacchi', anche se l'Ultra è stato ormai completamente eliminato dai nostri cervelli.» «Gli attacchi si verificano ancora durante il sonno?» domandò Kim. «Non durante il sonno. Ora arrivano spontaneamente, senza preavviso, come un attacco epilettico. Per fortuna durano soltanto mezz'ora o meno, anche senza intervento terapeutico.»
«Mi dispiace tanto!» mormorò lei. Lottava contro la tristezza che minacciava di travolgerla. Si trovava davanti a due persone le cui vite erano state quasi distrutte. «La colpa è nostra», disse Gloria. «Avremmo dovuto avere il buonsenso di non prendere un farmaco prima che gli studi sulla sua tossicità fossero portati a termine.» «Non vedo che differenza ci sarebbe stata», obiettò Edward. «Fino a oggi gli studi sugli animali non hanno rivelato questo effetto collaterale specificamente umano. Anzi, prendendo noi il farmaco, abbiamo risparmiato a un gran numero di volontari la disastrosa esperienza che abbiamo fatto noi.» «Ma c'erano anche altri effetti collaterali», osservò Kim. «Infatti», ammise Edward. «Avrei dovuto tenere in maggiore considerazione la perdita di memoria a breve termine, un fatto che rivelava la capacità del farmaco di bloccare la funzione nervosa a livello di trasmissione.» «Le vostre successive ricerche vi hanno permesso una maggiore comprensione del vostro stato?» chiese Kim. «Studiandoci a vicenda nel corso di un attacco abbiamo potuto documentare quello che in origine avevamo ipotizzato fosse il meccanismo d'azione», spiegò Gloria. «L'Ultra si concentra fino al punto da bloccare il controllo cerebrale del sistema limbico e dei centri del cervello inferiore.» «Ma come mai avete ancora degli attacchi, ora che il farmaco è stato eliminato?» chiese Kim. «Questo è il problema», rispose Edward. «Questo è appunto quello che cerchiamo di scoprire. Riteniamo che sia un meccanismo analogo al flashback di un 'brutto viaggio' che manifestano certe persone dopo che hanno assunto sostanze allucinogene. Cerchiamo di studiare il problema in modo da escogitare un modo per eliminarlo.» «La dilantina è stata utile per un certo tempo per controllare gli attacchi», aggiunse Gloria, «ma poi è subentrato un fenomeno di assuefazione per cui non ha più effetto. Il fatto che abbia agito sul processo per un breve tempo ci ha incoraggiato a cercare un altro reagente.» «Sono sorpresa che la Omni Pharmaceuticals sia ancora in attività», osservò Kim per cambiare argomento. «Anche noi», replicò Edward. «Siamo sorpresi e compiaciuti, altrimenti non avremmo questo laboratorio. Stanton non ha rinunciato e la sua tenacia è stata ricompensata. Uno degli altri alcaloidi del nuovo fungo pare risulti efficace come antidepressivo, così ha avuto la possibilità di avere i
fondi necessari.» «Spero che l'Omni abbia almeno abbandonato l'Ultra», osservò Kim. «Ma niente affatto!» ribatté Edward. «Questo è lo scopo prioritario delle nostre ricerche: determinare quale parte della molecola di Ultra è responsabile del blocco limbico-mesencefalico che abbiamo chiamato 'effetto mister Hyde'.» «Capisco», mormorò Kim. Stava per augurare loro buona fortuna, ma le parole le morirono in gola. Non poteva, dopo tutto il male che l'Ultra aveva causato. Era già sul punto di accomiatarsi con la promessa di tornare presto a trovarli, quando osservò un bagliore sinistro negli occhi di Edward. Poi tutto il suo viso si trasformò, come era accaduto quella notte fatale nel momento in cui lo aveva svegliato. In un attimo fu preso da una furia incontrollata. Senza alcun preavviso e senza alcuna provocazione si gettò contro di lei e andò a urtare con un tonfo sordo contro la robusta vetrata. Kim balzò indietro spaventata, mentre Gloria reagì aprendo con un rapido gesto la flebo di Edward. Per un breve momento, lui graffiò con le dita adunche la parete di vetro, poi sul suo viso la tensione si allentò e strabuzzò gli occhi. Barcollò lentamente come un pallone da cui uscisse a poco a poco l'aria, e Gloria lo sorresse e lo aiutò ad adagiarsi sul pavimento. «Sono spiacente», mormorò Gloria mentre teneramente aggiustava la testa di Edward. «Spero che non si sia troppo spaventata.» «Sto bene», riuscì a dire Kim, ma le batteva forte il cuore nel petto e tremava. Si avvicinò cautamente alla vetrata e, guardando Edward che giaceva ancora sul pavimento, chiese: «Si riprenderà?» «Non si preoccupi», rispose Gloria. «Ormai siamo abituati a questo tipo di incidenti. Adesso capisce perché portiamo inserite queste flebo. Abbiamo provato con diversi tranquillanti, e sono lieta di vedere che questo funziona così rapidamente.» «Che cosa avverrebbe, se aveste un attacco nello stesso momento?» chiese Kim, cercando di capire la situazione. «Ci abbiamo pensato, purtroppo non siamo riusciti a escogitare un sistema sicuro. Ma finora non è capitato. Penso che dovremmo arrangiarci alla meglio.» «Ammiro la vostra forza d'animo», riprese Kim. «Credo proprio che non abbiamo altra scelta», mormorò tristemente Gloria.
Kim salutò e lasciò il laboratorio. Si sentiva sfinita e, mentre scendeva con l'ascensore, le tremavano le gambe. Temeva che la breve visita le riportasse gli incubi di cui aveva sofferto subito dopo la terribile notte, ma uscendo nel caldo sole primaverile si sentì meglio. Il semplice trovarsi all'aperto le giovò, ma non poté fare a meno di rivedere con gli occhi della mente l'immagine di Edward che si lanciava contro il vetro della prigione che lui stesso si era imposto. Quando arrivò alla macchina si fermò e si voltò a guardare un'ultima volta la Omni. Si domandava che genere di farmaci la società avrebbe lanciato sul mercato negli anni futuri. Rabbrividì e si sentì più che mai contraria ad assumere farmaci, di qualsiasi tipo. Aprì la portiera e salì in auto, ma non mise in moto immediatamente. Continuava a vedere il viso di Edward mentre subiva quella spaventosa trasformazione; era qualcosa che non avrebbe mai dimenticato. Uscendo dal posteggio fece una cosa che la sorprese. Invece di tornare a Boston, come aveva progettato, spinta da uno strano impulso si diresse verso nord. Dopo la terribile esperienza alla Omni sentiva una voglia irresistibile di tornare alla tenuta, dove non era più stata dopo la visita fatta con Kinnard. Il traffico era scarso e il viaggio fu rapido; dopo mezz'ora, Kim stava già aprendo il lucchetto del cancello. Puntò direttamente verso la villa e, scendendo dalla macchina, sentì immediatamente una strana sensazione di sollievo, come se tornasse a casa dopo un lungo viaggio. Dopo qualche difficoltà con le chiavi aprì la porta ed entrò. Si diresse subito in soggiorno e nella mezza luce alzò gli occhi verso il ritratto di Elizabeth. Il verde intenso degli occhi e la linea ferma della mascella erano come Kim ricordava, ma c'era qualcos'altro, qualcosa che non aveva mai visto. Pareva quasi che Elizabeth sorridesse! Kim sbatté le palpebre e tornò a guardare: il sorriso c'era ancora. Era come se Elizabeth reagisse al fatto che, dopo tanti anni, dalla sua terribile vicenda era uscito qualcosa di buono. Era stata infine riabilitata. Stupita, Kim si avvicinò di più al dipinto e distinse l'effetto sfumato che l'artista aveva usato agli angoli della bocca. Sorrise di se stessa. Erano solo le sue percezioni che si riflettevano nel viso di Elizabeth. Si voltò a contemplare la prospettiva che si vedeva da quel punto accanto al caminetto e in quel momento decise di tornare a vivere alla villa. Il trauma emotivo provocato da quell'ultima orribile notte era stato quasi superato e Kim voleva tornare a casa per vivere nel luogo in cui era vissuta la
sua antenata. Ricordò di avere la stessa età che aveva lei quand'era stata così ingiustamente condannata e giurò a se stessa di dedicare il resto della sua vita a entrambe. Era l'unico modo, pensò, di mostrare a Elizabeth la sua gratitudine per averla aiutata a conoscere e ad avere fiducia in se stessa. Bibliografia BOYER E NISSENBAUM, Salem Possessed, Harvard University Press, Cambridge 1974. Se qualcuno volesse saperne di più dell'episodio di stregoneria di Salem, questo è uno dei due libri che raccomanderei. Sono sicuro che anche Kim ed Edward sarebbero d'accordo. È affascinante leggerlo e mostra come la storia si trasforma in vita reale usando fonti storiche e gente comune. Riesce a fornire un quadro dettagliato della vita nel New England nella seconda metà del Seicento. HANSEN, CHADWICK, Witchcraft at Salem, George Braziller, New York 1969. Questo è il secondo libro di cui raccomanderei la lettura per saperne di più sull'episodio di stregoneria di Salem. Dal suo punto di vista non tutti coloro che ne furono coinvolti erano innocenti! All'inizio tutto ciò mi ha sorpreso, poi l'ho considerato un atteggiamento provocatorio. KRAMER, PETER, Listening to Prozac, Viking, New York 1993 (Trad. It. La pillola della felicità, Sansoni, Firenze, 1994). Anche se questo libro è più ottimistico di me per quanto riguarda l'uso di farmaci psicotropi che agiscono sulla personalità, c'è in atto un acceso dibattito sulla questione. È un'opera illuminante, divertente e provocatoria. MATOSSIAN, MARY, Poisons of the Past: Molds, Epidemics, and History, Yale University Press, New Haven 1989. È stato particolarmente stimolante per la trama di Alterazioni. MORGAN, EDMUND, The Puritan Family, Harper & Row, New York 1944. Il corso di Storia americana del liceo non mi ha fornito un grande
background sulla cultura puritana. Questo libro mi ha aiutato a riempire il vuoto. RESTAR, RICHARD, Receptors, Bantam, New York 1994. Questo volume è adatto a quei lettori che hanno bisogno di una spiegazione chiara, stimolante e recente delle conoscenze attuali del funzionamento della mente e la direzione della ricerca in questo campo. WERTH, BARRY, The Billion-Dollar Molecule, Simon & Schuster, New York 1994. Se qualcuno ha dei dubbi sugli effetti deleteri dell'imprenditorialità nel mondo scientifico di oggi, questo libro è indispensabile. FINE