WILLIAM HJORTSBERG ANGEL HEART — ASCENSORE PER L’INFERNO (Falling Angel, 1978)
Le firme dei sette demoni. Da sinistra a...
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WILLIAM HJORTSBERG ANGEL HEART — ASCENSORE PER L’INFERNO (Falling Angel, 1978)
Le firme dei sette demoni. Da sinistra a destra e dall'alto in basso, sono Lucifero, Belzebù, Satana, Astarotte, Leviatano, Elimi e Ballberith. Si trovano in un patto stretto nel 1616 tra Lucifero e Urbain Grandier, parroco di Saint-Pierre, a Loudun, in Francia. Per Bruce, Jada, Ellen e Nick, «ragazzi e ragazze insieme... Sui marciapiedi di New York». E per Bob «Che se la spassò». Ahimè, quant'è terribile la saggezza quando non giova a chi è saggio! SOFOCLE, Edipo Re 1 Era venerdì 13, la nevicata del giorno prima si attardava per le vie, come un rimasuglio di maledizione. Fuori il pantano arrivava alle caviglie. La Settima Avenue era attraversata dalla marcia incessante dei titoloni che le lampadine facevano sfilare monotoni intorno alla facciata della torre del Times: ... VOTATO L'INGRESSO DELLE HAWAII NELL'UNIONE, COME CINQUANTESIMO STATO; APPROVAZIONE DEFINITIVA
DA PARTE DELLA CAMERA, 232 VOTI CONTRO 89; È SICURO CHE EISENHOWER FIRMERÀ LA LEGGE... Le Hawaii, dolce terra degli ananas e dell'hakelopi: strimpellare di ukulele, sole e onde, gonnellini d'erba fluttuanti alla brezza tropicale. Compii un giro con la poltrona e guardai verso Times Square. Sopra il Claridge il grande tabellone delle Camels soffiava grassi anelli di fumo sul traffico convulso. L'azzimato signore dell'insegna, con la bocca eternamente atteggiata in un tondo O di stupore, era per Broadway annunciatore di primavera. All'inizio della settimana squadre di pittori appesi a impalcature trasformavano lo scuro cappello invernale di feltro del fumatore e il suo cappotto con il bavero di velluto in un cappello di paglia e in un abito leggero: questo non era poetico come le rondini di Capistrano, ma comunicava ugualmente il messaggio. Il mio edificio, costruito alla fine del secolo scorso, era una pila, alta quattro piani, di mattoni tenuti insieme da fuliggine ed escrementi di piccione. Sul suo tetto sventolava un cappellino pasquale di cartelloni che facevano pubblicità a voli per Miami e a svariate marche di birra. All'angolo c'era un venditore di sigarette, un salone di pokerino, due bancarelle di panini imbottiti; nel mezzo dell'isolato, c'era il teatro Rialto. L'ingresso era nascosto tra un negozio per guardoni e uno di curiosità, con le vetrine ingombre di cuscini variopinti e di cacche di cane fatte di gesso. Il mio ufficio era due piani più su, nello stesso corridoio di Olga, Depilazioni e di Ira Kipnis, contabile diplomato. Lettere d'oro alte più di venti centimetri mi mettevano in vantaggio sugli altri: AGENZIA INVESTIGATIVA CROSSROADS, nome che avevo acquistato, insieme con l'avviamento, da Ernie Cavalero, il quale mi aveva assunto come galoppino tanti anni fa, quando ero arrivato a New York durante la guerra. Stavo per andare a prendere un caffè, quando suonò il telefono. «Il signor Harry Angel?» squittì una lontana segretaria. «Herman Winesap dello studio McIntosh, Winesap e Spy desidera parlarle.» Grugnii qualche parolina gentile e la segretaria mi passò la linea. La voce di Herman Winesap era untuosa come la sporcizia dei capelli dei bambini contro cui amano metterci in guardia i fabbricanti di brillantina. Si presentò dicendo di essere un legale. Questo significava che il suo compenso era altissimo. Chi si definisce avvocato costa sempre molto meno. Winesap parlava così bene che glielo lasciai fare il più del tempo. «Le telefono, signor Angel, allo scopo di appurare se in questo momento è disponibile per un contratto.»
«Si tratterebbe della sua ditta?» «No. Parlo a nome di uno dei nostri clienti. È libero, possiamo avvalerci dei suoi servigi?» «Dipende dal lavoro. Dovrà fornirmi qualche particolare.» «Il mio cliente preferirebbe discuterne con lei di persona. Propone di incontrarla a pranzo oggi. All'una in punto al Top of the Six.» «Non le rincrescerebbe darmi il nome di questo cliente? Oppure dovrò cercare un tipo con un garofano rosso all'occhiello?» «Ha una matita sottomano? Glielo detto lettera per lettera.» Scrissi sul blocchetto della mia scrivania Louis CYPHRE e chiesi come si pronunciava. Herman Winesap se la cavò a meraviglia, arrotando la erre come un insegnante della Berlitz. Gli chiesi se il cliente era straniero. «Il signor Cyphre ha passaporto francese. Non conosco con precisione la sua vera nazionalità. Senza dubbio sarà felice di rispondere a qualunque domanda voglia porgli durante il pranzo. Posso dirgli che vi andrà?» «Ci sarò, all'una in punto.» Herman Winesap, legale, pronunciò le sue ultime untuosità e si congedò. Riagganciai e mi accesi uno dei sigari di Natale per festeggiare l'avvenimento. 2 Il numero 666 della Quinta Avenue era un'infelice combinazione dello Stile Internazionale e della nostra svettante tecnologia casalinga. Era sorto due anni prima tra la Cinquantaduesima e la Cinquantatreesima Strada: centinaia e centinaia di metri quadri di uffici inguainati in pannelli di alluminio in rilievo. Sembrava una grattugia alta quaranta piani. Nell'atrio c'era una cascatella, ma non era di grande aiuto. Presi un ascensore che fermava solo all'ultimo piano, accettai uno scontrino dalla guardarobiera e ammirai la vista mentre il capocameriere mi scrutava dalla testa ai piedi come un funzionario dell'ufficio d'igiene che esaminasse un mezzo bue. Trovare il nome di Cyphre nel libro delle prenotazioni non lo rese affatto amichevole. Lo seguii tra un cortese mormorio di uomini d'affari fino a una piccola tavola vicino a una finestra. Lì seduto c'era un uomo che poteva avere tanto quarantacinque anni quanto sessanta, vestito di un abito su misura blu a righine, con un bocciolo di rosa color rosso sangue all'occhiello. Aveva capelli neri e folti, petti-
nati all'indietro, che scoprivano una fronte molto alta, ma una barbetta quadrata e dei baffi appuntiti bianchi come un ermellino. Era abbronzato ed elegante; aveva gli occhi di un azzurro etereo e dallo sguardo distante. Sulla cravatta di seta color marrone splendeva una minuscola stella d'oro capovolta. «Sono Harry Angel», dissi mentre il capocameriere mi offriva una sedia. «Un avvocato che si chiama Winesap dice che lei vuole parlarmi di una certa faccenda.» «Mi piacciono gli uomini che vengono subito al dunque», disse Cyphre. «Beve qualcosa?» Ordinai subito un doppio Manhattan; Cyphre picchiettò sul suo bicchiere con un dito curato e disse che voleva il bis. Era facile immaginare quelle mani, capolavoro di una manicure, nell'atto di stringere una sferza. Nerone aveva certamente mani simili. E anche Jack lo Squartatore. Erano mani da imperatore o da assassino: languide ma letali, con crudeli dita affusolate, perfetti strumenti del male. Quando il cameriere si allontanò, Cyphre si sporse in avanti e mi fissò con una smorfia da cospiratore. «Detesto occuparmi di banalità, ma vorrei vedere un suo documento prima di cominciare.» Tirai fuori il portafoglio e gli mostrai la mia licenza e il distintivo di capo onorario. «Qui dentro ho anche il porto d'armi e la patente.» Cyphre diede una scorsa agli involucri di celluloide dei documenti e, quando mi rese il portafoglio, il suo sorriso era di dieci gradi più gelido. «Preferisco credere alla parola della gente, ma i miei consiglieri legali hanno insistito su questa formalità.» «Di solito non correre rischi conviene.» «Ma come, lei mi delude, signor Angel, credevo proprio che fosse un giocatore d'azzardo.» «Solo quando è necessario.» Ascoltavo con tutta l'attenzione possibile in cerca di una piccola traccia d'accento; ma la sua voce era come metallo levigato, liscio e pulito quasi fosse stata lucidata con banconote fin dal giorno della nascita. «E se venissimo subito ai fatti?» dissi. «I convenevoli non sono il mio forte.» «Un'altra ammirevole caratteristica.» Cyphre estrasse dal taschino interno della giacca un portasigarette d'oro e di cuoio, lo aprì e scelse un sottile sigaro verdastro. «Ha voglia di fumare?» Rifiutai l'astuccio che mi porgeva e stetti a osservarlo mentre spuntava l'estremità del sigaro con un temperino d'argento. «Ricorda per caso il nome Johnny Favorite?» mi domandò Cyphre, scal-
dando il sottile sigaro alla fiamma del suo accendino al butano. Ci meditai su. «Non cantava con un'orchestra di swing, ancora prima della guerra?» «Proprio lui. Un successo dall'oggi al domani, come amavano dire gli agenti pubblicitari. Nel 1940 cantava con l'orchestra di Spider Simpson. Io, personalmente, provo ripugnanza per la musica swing e non ricordo i titoli dei suoi dischi di successo: a ogni modo ce n'erano tanti. Due anni prima che qualcuno avesse sentito parlare di Sinatra, provocò al teatro Paramount un mezzo tumulto. Lei dovrebbe ricordarsene, il Paramount è dalle sue parti.» «Johnny Favorite è di prima dei miei tempi. Nel 1940 io ero appena uscito dalla scuola secondaria ed ero un poliziotto alle prime armi a Madison, nel Wisconsin.» «Lei è del Midwest? L'avevo preso per un vero newyorkese.» «Non esiste questa specie animale, almeno non oltre Houston Street.» «Verissimo.» Cyphre, con il viso avvolto in un fumo cilestrino, tirava sul suo sigaro. Il profumo del tabacco era eccellente. Mi pentii di non averne accettato uno quando ne avevo avuto l'opportunità. «Questa è una città di gente che viene da fuori», disse. «Come me.» «Da dove viene?» gli domandai. «Diciamo che sono un viaggiatore.» Cyphre scacciò con la mano una voluta di fumo, facendo luccicare uno smeraldo che persino il papa avrebbe baciato. «D'accordo. Perché mi ha chiesto di Johnny Favorite?» Meno importuno di un'ombra di passaggio, il cameriere posò sul tavolo i nostri bicchieri pieni. «Tutto sommato, una voce piacevole.» Cyphre sollevò il suo bicchiere al livello degli occhi, in un silenzioso brindisi all'europea. «Come dicevo, non ho mai sopportato la musica swing: troppo forte e spasmodica per i miei gusti. Ma Johnny, quando voleva, sapeva essere dolce come se cantasse canzoni natalizie. Agli inizi della sua carriera lo presi sotto la mia protezione. Era un impudente ragazzo del Bronx, tutto pelle e ossa. Orfano di padre e di madre. Il suo vero nome non era Favorite, ma Jonathan Liebling. Lo cambiò per motivi professionali: Liebling non avrebbe fatto un buon effetto nelle insegne luminose. Sa che cosa gli capitò?» Non ne avevo la minima idea. «Fu chiamato alle armi nel gennaio del 1943. Data la sua professione, fu assegnato ai servizi speciali che provvedevano a divertire le forze armate;
in marzo faceva parte di uno spettacolo per le truppe in Tunisia. Non conosco i fatti in ogni particolare. Un pomeriggio, durante una rappresentazione, ci fu un'incursione aerea. La Luftwaffe mitragliò il palco dell'orchestrina, uccidendo quasi tutta la compagnia. Johnny, per un ghiribizzo della sorte, se la cavò con ferite alla faccia e alla testa. Se la cavò non sono le parole giuste. Non ritornò mai più come prima. Non me ne intendo di medicina, perciò non posso spiegarle con esattezza le sue condizioni. Si tratta, credo, di una forma di psicosi traumatica.» Gli dissi che personalmente sapevo qualcosa della psicosi traumatica. «Davvero? Ha fatto la guerra, signor Angel?» «Per qualche mese, all'inizio. Fui uno dei fortunati.» «Be', Johnny Favorite non fu tra i fortunati. Quando lo rispedirono a casa, era un vero e proprio vegetale.» «Che peccato», dissi, «ma io che c'entro? Che cosa desidera che faccia per lei?» Cyphre spense il sigaro schiacciandolo nel portacenere e giocherellò con il bocchino d'avorio ingiallito dall'uso, intagliato a forma di serpente arrotolato, con la testa di un gallo che canta. «Dia prova di pazienza, signor Angel. Sto arrivando al punto, anche se per vie traverse. All'inizio della sua carriera avevo dato un po' di aiuto a Johnny. Non fui mai il suo agente, ma seppi usare la mia influenza in suo favore. Avevamo un contratto che riconosceva il mio non trascurabile appoggio. Era prevista una certa garanzia, che in caso di morte avrei incassata. Mi rincresce di non poter essere più esplicito, ma i termini del nostro accordo specificavano che i particolari dovessero rimanere segreti. «A ogni modo, il caso di Johnny era disperato. Fu mandato in un ospedale per reduci nel New Hampshire. Sembrava destinato a passare il resto della sua vita in una corsia d'ospedale, uno dei tanti disgraziati relitti della guerra. Ma Johnny aveva amici e denaro, un'enorme quantità di denaro. Anche se per natura era uno scialacquatore, i suoi guadagni nei due anni precedenti il reclutamento erano stati notevoli: più di quanto chiunque fosse in grado di sperperare. Una parte di quel denaro era investito e l'agente di Johnny aveva la procura.» «La storia va facendosi complicata», dissi. «Certamente, signor Angel.» Con aria assente, Cyphre picchiettò il bocchino d'avorio sull'orlo del suo bicchiere vuoto, facendo suonare il cristallo come distanti campane. «Alcuni suoi amici lo fecero trasferire in una clinica privata a nord, dove lo sottoposero a chi sa quali cure radicali. Secondo
me, tipici raggiri psichiatrici. I risultati finali furono gli stessi, Johnny rimase un morto vivente. Solo che le spese furono pagate con soldi suoi invece che del governo.» «Sa il nome di questi amici?» «No. Mi auguro che lei non mi giudichi un individuo molto venale se le dirò che continuo a interessarmi di Jonathan Liebling soltanto per i nostri accordi contrattuali. Dopo la sua partenza per la guerra, non ho mai più rivisto Johnny, mi importava soltanto sapere se era vivo o morto. Una volta o due ogni anno i miei legali si mettono in contatto con l'ospedale e si fanno consegnare una dichiarazione autenticata che Johnny è ancora tra i vivi. Queste circostanze non cambiarono sino all'ultimo fine settimana.» «Che cosa capitò in quei giorni?» «Un fatto molto curioso. L'ospedale di Johnny si trova nei dintorni di Poughkeepsie. Trovandomi per affari da quelle parti, decisi di fare visita alla mia vecchia conoscenza, lì per lì. Forse desideravo vedere come riducano una persona sedici anni di letto. All'ospedale mi dissero che le visite erano permesse soltanto nei pomeriggi dei giorni feriali. Siccome insistevo, comparve il medico di turno, il quale mi comunicò che Johnny in quei giorni era sottoposto a cure speciali e che non poteva essere disturbato fino al lunedì successivo.» Dissi: «Secondo me la menavano per il naso». «Infatti. Qualcosa nel modo di fare di quell'individuo non mi piacque.» Cyphre infilò il bocchino nel taschino del panciotto e giunse le mani sulla tavola. «Mi fermai a Poughkeepsie fino a lunedì e ritornai all'ospedale, facendo attenzione di arrivare durante le ore di visita. Non rividi affatto il dottore, ma quando diedi il nome di Johnny, la ragazza al banco della ricezione mi domandò se fossi un parente. Naturalmente dissi di no. La ragazza dichiarò che soltanto i famigliari erano ammessi a visitare i pazienti.» «Non avevano fatto parola di questo la prima volta che si era presentato?» «Neanche per sogno. Mi indignai moltissimo. Purtroppo feci una specie di scenata. E fu un errore. La ragazza minacciò di chiamare la polizia se non me ne fossi andato immediatamente.» «E lei che cosa fece?» «Me ne andai. Che altro potevo fare? È un ospedale privato. Non volevo cacciarmi nei guai. Proprio per questo sto assumendola al mio servizio.» «Lei desidera che io mi rechi fin là e controlli come stanno le cose?» «Esatto.» Cyphre fece un gesto amichevole delle mani con le palme ri-
volte in alto, come chi vuol dimostrare di non avere niente da nascondere. «Per prima cosa, ho bisogno di sapere se Johnny Favorite è ancora vivo: questo è essenziale. Se è vivo, mi piacerebbe sapere dove si trova.» Frugai nel taschino interno della giacca e ne tirai fuori un libriccino con la rilegatura di cuoio e una matita automatica. «Sembra una cosa piuttosto semplice. Mi dia il nome e l'indirizzo dell'ospedale.» «Si chiama Emma Dodd Harvest Memorial Clinic e si trova a est della città, su Pleasant Valley Road.» Presi nota e domandai il nome del dottore che aveva menato per il naso Cyphre. «Fowler. Mi pare che il nome fosse Albert o Alfred.» Me lo segnai. «Favorite è registrato con il suo vero nome?» «Sì. Jonathan Liebling.» «Questo dovrebbe bastarmi.» Ritirai il taccuino e mi alzai. «Come farò per mettermi in contatto con lei?» «È meglio che si serva del mio legale.» Cyphre si lisciò i baffi con la punta dell'indice. «Ma non vuole mica andarsene? Credevo che avrebbe pranzato con me.» «Detesto rinunciare a un pranzo gratis, ma se parto subito riuscirò a essere a Poughkeepsie prima che chiudano.» «Gli ospedali non fanno gli orari degli uffici.» «Però gli impiegati sì. Con qualunque pretesto mi presenti, devo tenerne conto. Le costerà molti soldi se aspetterò fino a lunedì. Prendo cinquanta dollari il giorno, più le spese.» «Sembra un prezzo ragionevole per un lavoro ben fatto.» «Il lavoro sarà eseguito. Garantisco che ne sarà soddisfatto. Telefonerò a Winesap appena capiterà qualcosa.» «Magnifico. È stato un piacere conoscerla, signor Angel.» Il capocameriere aveva ancora un sorriso beffardo, quando mi fermai a ritirare il cappotto e la cartella e mi avviai all'uscita. 3 La mia Chevrolet, vecchia di sei anni, era posteggiata nell'autorimessa Hippodrome, sulla Quarantaquattresima Strada, vicino alla Sesta Avenue. Rimaneva solo quel nome a ricordare il posto dove sorgeva il leggendario teatro. La Pavlova aveva danzato al teatro Hippodrome. John Philip Sousa
aveva diretto la sua orchestra. Adesso puzzava di gas di scarico e l'unica musica proveniva dalla radio portatile dell'ufficio, tra i colpi di mitraglia spagnoli dell'annunciatore portoricano. Alle due ero già diretto a nord lungo l'autostrada del West Side. L'esodo per il fine settimana non era ancora cominciato, anche sulla superstrada di Saw Mill River il traffico era leggero. Mi fermai a Yonkers e mi comprai una pinta di bourbon perché mi tenesse compagnia. Quando oltrepassai Peekskill la bottiglia era a metà vuota; la riposi nel vano portaoggetti, per il viaggio di ritorno. Guidai in un silenzio alticcio nella campagna coperta di neve. Era un bel pomeriggio, così bello che non volevo guastarlo con una sfilza di canzoni di successo cantate alla radio della macchina da ritardati adenoidei. Dopo la neve infangata della città, tutto aveva l'aspetto bianco e pulito, come un paesaggio dipinto da nonna Moses. Giunsi nella periferia di Poughkeepsie un po' dopo le tre e trovai Pleasant Valley Road senza vedere una sola ragazza del Vassar College. A circa otto chilometri dalla città arrivai a una tenuta recintata, con un ornatissimo cancello ad arco di ferro battuto. A grandi lettere di bronzo sulle colonnine di mattone stava scritto: EMMA DODD HARVEST MEMORIAL CLINIC. Svoltai nella strada privata coperta di ghiaia e gironzolai per oltre mezzo chilometro tra fitti abeti, emergendo infine davanti a una costruzione di mattoni in stile georgiano, di sei piani, che aveva l'aspetto di una casa per studenti più che di un ospedale. All'interno era invece un vero ospedale, con i muri del tradizionale color verde pallido e con il pavimento di linoleum grigio così pulito che avrebbe potuto servire da tavolo operatorio. Il banco della ricezione, con il piano di vetro, era inserito in un vano lungo una delle pareti. Di fronte al banco pendeva un grande ritratto a olio di una vecchia signora dalla faccia minacciosa. Indovinai che si trattava di Emma Dodd Harvest anche senza leggere la targhetta avvitata alla cornice dorata. Davanti a me si apriva un lucido corridoio dove un inserviente vestito di bianco, che spingeva una carrozzella vuota, girò l'angolo e scomparve alla mia vista. Detesto gli ospedali, perché vi passai troppi mesi di convalescenza durante la guerra. C'è qualcosa di oppressivo nell'efficiente sterilità di questi luoghi. Il passo silenzioso delle suole di gomma lungo luminosi corridoi che sanno di lisolo. Inservienti anonimi e indistinguibili in bianche uniformi inamidate. Un trantran tanto monotono che persino il cambio della padella assume un'importanza rituale. I ricordi di corsia si risvegliarono
dentro di me con un orrore soffocante. Visti da dentro gli ospedali sono tutti uguali, come le prigioni. La ragazza seduta al banco della ricezione era giovane e bruttina. Era vestita di bianco e aveva un piccolo cartellino nero che diceva R. FLEECE. Il vano dava su un ufficio dalle pareti ricoperte di schedari. «Posso fare qualcosa per lei?» La voce della signorina Fleece era dolce come il fiato degli angeli. La luce fluorescente si rifletteva sui suoi occhiali spessi, dalla montatura a giorno. «Spero proprio di sì», risposi. «Mi chiamo Andrew Conroy; vado in giro a raccogliere dati per l'Istituto Nazionale della Sanità.» Posai la mia cartella di vitello nero sul vetro del banco e le mostrai qualche falso documento d'identità che tengo in un secondo portafoglio fasullo. L'avevo preparato scendendo in ascensore al 666 della Quinta Avenue, cambiando la prima carta dietro la finestrella trasparente. La signorina Fleece mi guardò con sospetto, i suoi occhi deboli e acquosi guizzarono dietro le spesse lenti come pesci tropicali in un acquario. Indovinai che non le piacevano né il mio abito spiegazzato né le macchie di minestra sulla cravatta, ma la borsa di cuoio Mark Cross ebbe la meglio. «Desidera vedere qualcuno in particolare, signor Conroy?» mi domandò tentando un flebile sorriso. «Forse potrà rispondere lei stessa a questa domanda.» Infilai di nuovo il portafoglio fasullo nel taschino interno e mi appoggiai al piano del banco. «L'istituto ha cominciato un'indagine sui casi di traumi incurabili. Il mio lavoro consiste nel raccogliere dati sulle vittime ancora in vita che si trovano al momento in ospedali privati. Mi è stato detto che avete qui un paziente che corrisponde alla descrizione.» «Per favore, come si chiama il paziente?» «Jonathan Liebling. Qualunque informazione possiate darmi rimarrà strettamente confidenziale. Anzi, nel rapporto ufficiale non si faranno nomi.» «Un momento, prego.» La ragazza bruttina dalla voce celestiale si ritirò nell'ufficio interno e aprì il cassetto in basso di uno degli schedari. Non mise molto tempo a trovare ciò che cercava. Quando tornò aveva in mano una cartella aperta, che spinse sul vetro fino a me. «Abbiamo effettivamente avuto questo paziente, ma, come può vedere, Jonathan Liebling è stato trasferito anni fa all'ospedale per reduci di guerra di Albany. Ecco la documentazione. Tutto quel che sappiamo di lui è qui dentro.» Il trasferimento era debitamente registrato sul modulo e accanto c'era la
data, 5/12/45. Tirai fuori il taccuino e feci la commedia di prendere nota di alcune statistiche. «Lei sa chi è il medico che si occupava del suo caso?» La ragazza allungò la mano per girare la cartella in modo da poterla leggere. «Il dottor Fowler.» Batté sul nome con l'indice. «Lavora ancora in questo ospedale?» «Eccome. È di servizio in questo momento. Le piacerebbe parlargli?» «Se non disturbo.» La ragazza fece un secondo tentativo di sorriso. «Telefonerò per sapere se è libero.» Si avvicinò al centralino e parlò a bassa voce in un piccolo microfono. La sua voce amplificata rimbombò lungo un distante corridoio. «Il dottor Fowler alla ricezione, prego... Il dottor Fowler alla ricezione.» «Lei era in servizio lo scorso fine settimana?» le domandai mentre aspettavamo. «No, sono stata via qualche giorno. Mia sorella si è sposata.» «È toccato a lei il mazzolino della sposa?» «Non mi toccano mai fortune simili.» Il dottor Fowler comparve all'improvviso, silenzioso come un gatto sulle sue scarpe dalla suola di para. Era un uomo alto, uno e ottantacinque almeno; camminava curvo, tanto da sembrare lievemente gobbo. Indossava un abito stropicciato di spinato marrone, di parecchie misure troppo grande per lui. A occhio e croce gli diedi settant'anni. Quei pochi capelli che gli restavano erano color del peltro. La signorina Fleece mi presentò come signor Conroy. Gli propinai la storia dell'Istituto Nazionale della Sanità, aggiungendo: «Qualunque cosa mi possa dire a proposito di Jonathan Liebling, l'apprezzerò moltissimo». Il dottor Fowler prese in mano la cartellina. Poteva essere una forma di paralisi quella che gli faceva tremare le dita, ma io avevo molti dubbi. «Sono passati tanti anni», disse. «Prima della guerra faceva il cantante. Un caso tristissimo. Pur non essendoci segni fisici di lesioni neurali, non reagiva alle cure. Non c'era motivo di tenerlo qui, con tutto quel che costa la clinica, quindi fu trasferito ad Albany. Era un reduce di guerra e aveva diritto a un letto per il resto della sua vita.» «E potrò trovarlo là ad Albany?» «Direi di sì. Se è ancora vivo.» «Bene, dottore, non le farò perdere altro tempo.» «Non si preoccupi. Mi rincresce di non aver potuto aiutarla di più.» «La ringrazio, lei mi è stato di grande aiuto.» Ed era vero. Era bastato guardarlo negli occhi per capire tutta quanta la storia.
4 Ritornai a Poughkeepsie e mi fermai al primo bar con rosticceria che incontrai. Per prima cosa telefonai all'ospedale per ex combattenti di Albany. Ci volle un po' di tempo, ma ebbi conferma di quanto già sapevo: non vi era mai stato trasferito un ammalato di nome Jonathan Liebling. Né nel 1945 né in un altro anno. Li ringraziai e lasciai penzolare la cornetta mentre cercavo il dottor Fowler sulla guida. Annotai sul taccuino il suo indirizzo e numero telefonico e chiamai il buon dottore. Nessuna risposta. Lasciai suonare una dozzina di volte prima di riagganciare. Buttai giù un bicchierino e chiesi al barista indicazioni per recarmi al 419 di South Kittridge Street. Questi mi tracciò una rozza cartina su un tovagliolo di carta e osservò, con studiata indifferenza, che la via era in una zona elegante della città. Le doti cartografiche del barista si rivelarono ottime. Per soprammercato, vidi persino qualche ragazza di Vassar. South Kittridge Street era una piacevole via alberata, a pochi isolati dai terreni dell'università. La casa del dottore era di legno, costruita in stile gotico vittoriano, con una torretta circolare su un lato e grandi quantità di volute ornamentali elaboratissime che pendevano sotto le gronde, come pizzi dal colletto di una vecchia signora. L'edificio era circondato da un'ampia veranda con colonne doriche, alte siepi di lillà nascondevano ogni lato del giardino dalle case dei vicini. Passai davanti al 419 guidando lentamente e controllando ogni cosa, poi posteggiai la Chevrolet su una strada perpendicolare, davanti a una chiesa dai muri di pietra. Il cartello esposto sul portone annunciava il sermone di quella domenica: LA SALVEZZA È DENTRO DI VOI. Mi avviai a piedi verso il 419 di South Kittridge Street portando la mia valigetta di cuoio nero. Non ero che uno dei tanti venditori di assicurazioni a caccia di provvigioni. La porta d'ingresso principale incorniciava un ovale di vetro molato, che lasciava intravedere un atrio oscuro rivestito di pannelli di legno e una rampa di scale coperte di tappeto che portavano al primo piano. Suonai due volte il campanello e attesi. Non venne nessuno. Suonai di nuovo e provai ad aprire la porta: era chiusa a chiave. La serratura aveva almeno quarant'anni e io non possedevo nessuna chiave adatta. Percorsi la veranda laterale tentando invano di forzare una delle finestre. Sul retro c'era la porta inclinata della cantina. Era chiusa con un lucchetto,
ma l'intelaiatura di legno non verniciato era vecchia e debole. Tirai fuori della mia valigetta un piede di porco e feci leva sulla cerniera. I gradini erano bui, con festoni di ragnatele. La mia minuscola lampadina tascabile mi impedì di rompermi il collo. Al centro della cantina era acquattata una caldaia a carbone, simile a un idolo pagano. Trovai le scale e incominciai a salire lentamente. La porta in cima non era chiusa a chiave. Entrai in una cucina che, durante la presidenza Hoover, sarebbe stava un miracolo di modernità. C'erano un fornello a gas con le gambe ricurve e un frigorifero il cui motore circolare era appollaiato in alto come una cappelliera. Se viveva solo, il dottore era un uomo ordinato. I piatti della colazione erano lavati e disposti a scolare sulla rastrelliera. Il pavimento di linoleum era cerato. Lasciai la mia cartella sulla tavola di cucina coperta di tela cerata ed esplorai il resto della casa. Mi sembrò che la sala da pranzo e il salotto sul davanti non fossero mai usati. I massicci mobili scuri, disposti con la precisione d'una sala d'esposizione, erano impolverati. Al piano di sopra c'erano tre camere da letto. Gli armadi di due stanze erano vuoti. Nella più piccola, con un lettino di ferro e un semplice cassettone di legno di quercia, viveva il dottor Fowler. Esaminai i cassetti, non trovandovi altro che la solita collezione di camicie, fazzoletti, maglieria intima di cotone. Nell'annesso sgabuzzino pendevano parecchi abiti di lana antiquati, accanto a un armadietto per le scarpe. Frugai nelle tasche senza sapere perché e non vi scovai nulla. Sul tavolino da notte, accanto a una piccola bibbia con rilegatura di cuoio, c'era una Webley Mark calibro 455, una pistola in dotazione agli ufficiali britannici durante la prima guerra mondiale. Le bibbie erano facoltative. Controllai l'otturatore, ma la pistola non era carica. Nella stanza da bagno ebbi fortuna. Sul lavabo fumava uno sterilizzatore. Dentro vi trovai una mezza dozzina di aghi e tre siringhe. L'armadietto dei medicinali non mi offrì niente di più della normale provvista di aspirina e di bottiglie di sciroppo per la tosse, di tubetti di dentifricio, di collirio. Esaminai parecchie boccette contenenti pillole su ricetta, ma tutte mi sembrarono legali. Non trovai droga. Convinto che da qualche parte doveva esserci, ridiscesi le scale e diedi un'occhiata all'antiquato frigorifero. Era sul ripiano del latte e delle uova: morfina. A dir poco, venti fiale da cinquanta cc, contando all'ingrosso. Quanto basta per sballare per un mese una dozzina di drogati.
5 Un po' per volta, fuori, si fece buio; gli alberi nudi del giardino davanti alla casa si trasformarono in sagome nere contro il cielo di cobalto, prima di confondersi del tutto nell'oscurità. Fumai una sigaretta dopo l'altra, riempiendo di cicche un portacenere d'altri tempi. Pochi minuti prima delle sette i fari di un'automobile girarono nel vialetto privato e si spensero. Aspettai i passi del dottore sul porticato, ma non udii nulla finché la chiave non girò nella serratura. Il dottor Fowler accese un lampadario, un rettangolo di luce fece breccia nel buio del salotto, illuminando le mie gambe allungate, fino alle ginocchia. Non facevo altro rumore oltre a quello di respirare, ma mi aspettavo che sentisse l'odore del fumo. Mi sbagliavo. Il dottore posò il cappotto sulla ringhiera della scala e si avviò verso la cucina con passo strascicato. Quando accese le luci, riattraversai la sala da pranzo. Il dottor Fowler sembrò non accorgersi della mia cartella posata sulla tavola. Aveva aperto lo sportello del frigorifero e si era piegato per frugarci dentro. Mi appoggiai al passaggio ad arco tra la sala e la cucina e lo osservai. «È l'ora del buco serale?» dissi. Si girò di colpo tenendo stretta con le due mani contro il petto una bottiglia di latte. «Come ha fatto a entrare?» «Sono entrato dalla fessura della buca delle lettere. Non vuole sedersi a bere il suo latte? Intanto ci faremo una bella, lunga chiacchierata» «Lei non è dell'Istituto Nazionale della Sanità. Chi è?» «Mi chiamo Angel. Sono un investigatore privato di New York.» Gli avvicinai una delle sedie di cucina e il dottore vi si lasciò cadere stancamente, stringendo il latte come se fosse l'unica cosa rimastagli a questo mondo. «L'effrazione è un reato grave», disse. «Penso lei sappia che se chiamassi la polizia perderebbe la licenza.» Girai una sedia all'altro capo della tavola e mi sedetti a cavalcioni, con le braccia incrociate sullo schienale di legno ricurvo. «Tutti e due sappiamo che non ricorrerà alla legge. Sarebbe molto imbarazzante, se trovassero il nascondiglio dell'oppio nel frigorifero.» «Sono medico. Ho tutti i diritti di tenere una provvista di medicinali in casa mia.» «La smetta, dottore, ho visto i suoi arnesi che bollivano nella stanza da
bagno. Da quanto tempo si buca?» «Non sono... un tossicodipendente! Non sopporterò che lei tragga simili conclusioni. Soffro di una forma grave di artrite reumatica. A volte, quando il dolore è intollerabile, uso un blando analgesico narcotico. Adesso le consiglio di andarsene di qui, altrimenti chiamerò davvero la polizia.» «Avanti», dissi. «Farò io stesso il numero per lei. Si ecciteranno non poco quando le faranno l'esame del sangue.» Il dottor Fowler si afflosciò dentro le pieghe del suo abito troppo grande. Sembrò restringersi sotto i miei occhi. «Che cosa vuole da me?» Spinse da parte la bottiglia del latte e si sostenne la testa con le mani. «La stessa cosa che volevo in ospedale», dissi. «Informazioni su Jonathan Liebling.» «Le ho detto tutto quanto ne so.» «Dottore, parliamo seriamente. Liebling non fu mai trasferito a un ospedale per reduci di guerra. Lo so perché ho telefonato io stesso ad Albany e ho controllato. Non è una mossa abile inventare una storia che non regge come questa.» Scossi il pacchetto per farne uscire una sigaretta e me la ficcai in bocca, ma senza accenderla. «Ha compiuto un secondo errore, quando si è servito di una penna a sfera per registrare il falso trasferimento sulla cartella clinica di Liebling. Le biro non erano di moda nel 1945.» Il dottor Fowler gemette e mosse la testa tra le braccia appoggiate al piano della tavola. «Seppi che era finita quando finalmente qualcuno venne a trovarlo. In quasi quindici anni non c'erano mai state visite, neppure una.» «Una persona davvero benvoluta», dissi, girando con il pollice l'accendino e inclinando la sigaretta verso la fiamma. «E adesso dov'è?» «Non lo so.» Il dottor Fowler si raddrizzò sulla sedia. Si sarebbe detto che aveva chiamato a raccolta tutte le sue forze per farlo. «Non l'ho più visto, da quando lo curavo durante la guerra.» «Dev'essere pur andato da qualche parte, dottore.» «Non ho la minima idea di dove sia. Una notte, molto tempo fa, arrivarono delle persone, Liebling salì in macchina e partì con loro. Da allora non l'ho mai più rivisto.» «Salì in macchina? Credevo d'aver capito che fosse una specie di vegetale.» Il dottore si fregò gli occhi e sbatté le palpebre. «Quando arrivò da noi era in coma. Ma reagì bene alle cure e dopo un mese era in piedi. Di pomeriggio giocavamo insieme a ping-pong.» «Quando se ne andò era normale?»
«Normale? Normale è una parola odiosa. Non ha alcun significato.» Le dita con cui il dottor Fowler tamburellava sulla cerata stinta si strinsero a pugno. Alla mano sinistra aveva un anello d'oro con sigillo, sul quale era incisa una stella a cinque punte. «Per rispondere alla sua domanda, Liebling non era come lei o come me. Dopo avere riacquistato conoscenza, la parola, la vista e l'uso degli arti, continuò a soffrire di amnesia acuta.» «Intende dire che non ricordava niente?» «Niente di niente. Non aveva idea di chi fosse o di dove venisse. Neppure il suo nome aveva per lui qualche significato. Sosteneva di essere un'altra persona e che con il tempo se ne sarebbe ricordato. Ho detto che se ne andò con amici, ma ho solo la loro parola che lo erano. Jonathan Liebling non li aveva riconosciuti. Per quel che lo riguardava, erano degli estranei.» «Mi parli di questi amici. Chi erano? Come si chiamavano?» Il dottore chiuse gli occhi e premette le dita tremanti contro le tempie. «È passato tanto tempo. Anni e anni. Ho fatto del mio meglio per dimenticarmene.» «Non finga amnesia con me, dottore.» «Erano due», disse Fowler, pronunciando molto lentamente parole strappate a una grande distanza e filtrate attraverso strati di rimpianto. «Un uomo e una donna. Della donna non posso dirle niente: era buio e rimase in macchina. In ogni caso, non l'avevo mai vista prima. L'uomo mi era noto. L'avevo incontrato parecchie volte. Era quello che aveva combinato tutto.» «Il suo nome?» «Diceva di chiamarsi Edward Kelley. Non ho modo di sapere se corrispondesse o no alla verità.» Presi nota del nome nel mio libriccino nero. «Che cosa aveva combinato? Quale fu l'accordo?» «Denaro.» Il dottore sputò fuori la parola come se fosse un pezzo di carne marcia. «Non si dice che ciascuno di noi ha un prezzo? Ebbene, io avevo il mio. Quel tizio, Kelley, un giorno venne da me e mi offrì molti soldi...» «Quanti?» «Venticinquemila dollari. Forse oggi non sembra più una cifra enorme, ma durante la guerra era più di quanto avessi mai osato sognare.» «Ancora oggi potrebbe ispirare qualche dolce sogno», dissi. «Che cosa voleva Kelley in cambio del denaro?» «Quel che lei probabilmente già sospetta: che dimettessi Jonathan Lie-
bling senza registrazioni ufficiali. Che distruggessi ogni prova della sua guarigione. E, quel che più importava, che continuassi a fingere che era ancora un paziente della clinica.» «Proprio quel che fece.» «Non fu molto difficile. Se si esclude Kelley e l'agente teatrale o amministratore (ho dimenticato quali fossero le sue funzioni) Liebling non riceveva mai visite.» «Come si chiamava l'agente?» «Mi sembra che il cognome fosse Wagner, il nome non lo ricordo.» «Era in combutta con Kelley?» «Che io sappia, no. Non li vidi mai insieme. Non mi sembra che sapesse della partenza di Liebling. Per un anno o poco più telefonò ogni qualche mese per domandare se ci fossero stati miglioramenti, ma non venne mai a fargli visita. Dopo un po' di tempo cessò di telefonare.» «E l'ospedale? L'amministrazione non sospettò mai d'avere perso un ammalato?» «E perché avrebbe dovuto? Tenevo aggiornata la cartella medica, una settimana dopo l'altra; e tutti i mesi arrivava un assegno dal fondo fiduciario di Liebling, per le spese. Purché si paghino i conti, nessuno mai farà tante domande. Inventai una storiella per soddisfare le infermiere, le quali però avevano altri ammalati cui pensare. Quindi non è stato gran che difficile, in realtà. Come ho già detto, Liebling non aveva mai ricevuto visite. Dopo qualche tempo non mi rimase da fare altro che compilare il modulo di una dichiarazione ufficiale che mi arrivava ogni sei mesi, con perfetta regolarità, da uno studio legale di New York.» «McIntosh, Winesap e Spy?» «Sì.» Il dottor Fowler alzò gli occhi tormentati che finora aveva tenuti fissi sulla tavola e sostenne il mio sguardo. «I soldi non erano per me. Voglio che lei lo sappia. A quei tempi era viva mia moglie, Alice. Aveva un carcinoma. Non avevamo mezzi per l'operazione che le occorreva. Il denaro servì per l'intervento e per un viaggio alle Bahamas. Ma Alice morì lo stesso. Non ci volle nemmeno un anno. Non si fanno tacere le sofferenze, neppure con tutti i soldi di questo mondo.» «Mi parli di Jonathan Liebling.» «Che cosa vorrebbe sapere?» «Qualsiasi cosa le venga in mente: quisquilie, abitudini, lo svago preferito o, se preferisce, come gli piacevano le uova. Di che colore erano gli occhi?»
«Non me ne ricordo.» «Mi dica quel che sa. Cominci con una descrizione fisica.» «Impossibile. Non ho la più pallida idea di che aspetto avesse.» «Non cerchi d'imbrogliarmi, dottore.» Mi chinai verso di lui e gli soffiai negli occhi acquosi una boccata di fumo. «Sto dicendo la verità», rispose il dottore tossendo. «Il giovane Liebling venne qui dopo avere subito intense cure facciali.» «Chirurgia plastica?» «Sì. Per tutto il tempo del suo soggiorno qui, la sua testa rimase avvolta in bende. Dato che non gli cambiavo io le fasciature, non ebbi occasione di vedergli la faccia.» «So perché la chiamano chirurgia 'plastica'», dissi palpandomi il naso simile a una patata lessa. Il dottore studiò i miei tratti con sguardo professionale. «Cera?» «Un ricordo di guerra. Per un paio d'anni sembrò in regola. Il tizio per cui lavoravo aveva una casa al mare nel Jersey, a Barnegat. Un giorno d'agosto mi addormentai sulla spiaggia al sole; quando mi svegliai, la cera si era fusa all'interno.» «Non si usa più la cera a questo scopo.» «Così mi hanno detto.» Mi alzai e mi appoggiai alla tavola. «Mi dica tutto quanto sa di Edward Kelley.» «È passato tantissimo tempo», disse il dottore. «E la gente cambia.» «Quanto, dottore? A che data Liebling lasciò la clinica?» «Nel 1943 o nel 1944. Durante la guerra. Non riesco a ricordarmene con maggior precisione.» «Ha un altro attacco di amnesia?» «Sono passati più di quindici anni. Che cosa può pretendere?» «La verità, dottore.» Cominciavo a perdere la pazienza con il vecchio. «Sto dicendo la verità, faccio del mio meglio per ricordarmene.» «Che aspetto aveva questo Edward Kelley?» gli domandai con un ringhio. «Allora era giovane, direi sui trentacinque. In ogni caso adesso ha passato i cinquanta.» «Dottore, lei sta menando il can per l'aia.» «Incontrai quell'uomo solo tre volte.» «Dottore.» Allungai la mano e lo afferrai per il nodo della cravatta, stringendolo tra indice e pollice. Non ci misi molta forza, ma, quando sollevai il braccio, il dottore venne verso di me con la facilità di un guscio
vuoto. «Si risparmi qualche guaio. Non mi obblighi a cavarle con la forza la verità.» «Le ho detto tutto quanto so.» «Perché protegge Kelley?» «Non lo proteggo. Lo conoscevo appena. Io...» «Se non fosse un verme decrepito, la stritolerei come un biscottino.» Quando il dottore cercò di allontanarsi da me, diedi uno strattone un briciolino più forte al nodo. «Perché dovrei fare tanta fatica, quando c'è un metodo tanto più comodo?» Gli occhi arrossati del dottor Fowler proclamarono il suo spavento. «Suda freddo, eh, dottore? Non vede l'ora di liberarsi di me per potersi iniettare la droga che ha in frigorifero?» «Tutti hanno bisogno di qualcosa che li aiuti a dimenticare», bisbigliò. «Non voglio che lei dimentichi. Voglio che lei ricordi, dottore.» Lo presi per un braccio e lo guidai fuori della cucina. «Per questo saliremo nella sua camera, dove potrà sdraiarsi e riflettere, mentre io andrò fuori a mangiare un boccone.» «Che cosa vuole sapere? Kelley aveva i capelli neri e quei baffi sottili che Clark Gable fece diventare di moda.» «Non basta, dottore.» Lo costrinsi a salire le scale tenendolo per il bavero della giacca di tweed. «Un paio d'ore senza droga dovrebbero rinfrescarle la memoria.» «Portava sempre abiti costosi», disse il dottor Fowler con voce implorante. «Vestiva in modo tradizionale, non aveva mai niente di vistoso.» Gli diedi uno spintone che lo fece cadere sul letto, oltre la stretta porta della sua spartana cameretta. «Ci rifletta su, dottore.» «Aveva una dentatura perfetta. Un sorriso simpaticissimo. La prego, non se ne vada.» Richiusi la porta alle mie spalle e girai nella serratura la chiave dal lungo cannello: il tipo di chiave che mia nonna usava per proteggere i propri segreti. Me la lasciai cadere in tasca e scesi le scale ricoperte di tappeto, fischiettando. 6 Quando tornai dal dottor Fowler, era passata la mezzanotte. Una sola luce era accesa, quella della camera al primo piano. Questa notte il dottore non riusciva a dormire. Ma la coscienza non mi rimorse. Avevo divorato un'eccellente grigliata mista ed ero andato a un cinema dove proiettavano
due pellicole. Le avevo viste tutte e due, senza il minimo scrupolo. La mia è una professione crudele. Entrai dalla porta principale e percorsi l'atrio scuro fino alla cucina. Il frigorifero ronzava al buio. Presi sul ripiano alto una fiala di morfina per usarla come esca e mi avviai al piano di sopra, guidato dal filo di luce della mia lampadina tascabile. La porta della camera da letto era chiusa a chiave. «Sarò subito da lei, dottore», gli urlai, frugando nelle tasche in cerca della chiave. «Le ho portato un assaggino.» Girai la chiave nella serratura e aprii la porta. Il dottor Albert Fowler non aprì bocca. Sedeva sul letto appoggiato ai cuscini, ancora vestito del suo abito marrone spinato. Con la mano sinistra stringeva al petto la fotografia incorniciata di una donna, nella destra teneva la Webley Mark calibro 5. Il colpo gli era entrato dall'occhio destro. Dalla ferita scaturiva un sangue denso, simile a lacrime di rubino. Lo scoppio aveva spinto l'altro occhio per metà fuori dell'orbita, conferendogli lo sguardo stralunato, di un pesce tropicale. Gli toccai il dorso della mano. Era freddo come ciò che pende dai ganci in una vetrina di macelleria. Prima di toccare qualche altra cosa, aprii sul pavimento la mia valigetta e mi infilai un paio di guanti di gomma da chirurgo, presi nella tasca interna della parte superiore. C'era qualcosa che non quadrava nell'intera faccenda. Spararsi in un occhio poteva sembrare uno strano modo di comportarsi, ma è presumibile che i medici siano più informati a questo proposito. Cercai di immaginarmi il dottore mentre teneva la sua Webley all'ingiù, con la testa piegata all'indietro, come per mettersi le gocce negli occhi. Non aveva senso. La porta era chiusa a chiave, io avevo la chiave in tasca. L'unica spiegazione logica era il suicidio. «Se il tuo occhio ti offende», borbottai, cercando di capire che cosa fosse fuori posto. La stanza sembrava perfettamente uguale a prima: la spazzola militare e lo specchio sull'attenti sopra il comò, l'assortimento di calzini e di biancheria intima indisturbato nei cassetti. Presi in mano la bibbia dalla rilegatura di cuoio che si trovava sul comodino da notte e una scatoletta aperta di cartucce rotolò sullo scendiletto. Il libro era finto, vuoto all'interno. E io ci ero cascato, non avevo trovato prima le pallottole. Le raccolsi sul pavimento, cercai a tentoni sotto il letto se ce ne fossero altre, le rimisi dentro la bibbia vuota. Girai per la stanza strofinando con il fazzoletto tutto ciò che avevo toc-
cato la prima volta che vi avevo frugato. La polizia di Poughkeepsie non avrebbe apprezzato molto il fatto che un investigatore privato venuto da fuori avesse spinto al suicidio uno dei suoi più importanti cittadini. Pur dicendomi che, trattandosi di suicidio, non avrebbero cercato impronte digitali, continuai a pulire. Strofinai la maniglia e la chiave, poi chiusi la porta, ma non a chiave. Al piano di sotto svuotai il portacenere nella tasca della giacca, lo portai in cucina dove lo lavai e lo misi ad asciugare con i piatti sulla rastrelliera. Rimisi la morfina e il latte nel frigorifero e girai per tutta la cucina con il fazzoletto, strofinando con cura. Rifeci al contrario il mio percorso nello scantinato pulendo ringhiere e maniglie. Non potei fare nulla riguardo alla cerniera della porta da cui ero entrato. La rimisi a posto e spinsi le viti nel legno molle. Qualsiasi poliziotto indagando se ne sarebbe accorto subito. Guidando sulla via del ritorno ebbi molto tempo per pensare. Non mi piaceva l'idea di avere spinto un vecchio a uccidersi. Fui turbato da vaghe sensazioni di afflizione e di rimorso. Chiuderlo a chiave in una stanza con una pistola, come avevo fatto, era stato un grave errore. Grave per me, perché il dottore aveva ancora tantissime cose da dirmi. Cercai di fissarmi bene in testa la scena, come in una fotografia. Il dottor Fowler sdraiato sul letto con un buco in un occhio e il cervello sparpagliato sulla coperta. Sul comodino, vicino alla bibbia, una lampada elettrica ancora accesa. Nell'interno della bibbia le pallottole. Il ritratto incorniciato che prima era sul comò, stretto nella mano ormai fredda del dottore. Il dito appoggiato al grilletto della pistola. Per quante volte ripassassi la scena, continuava a mancare qualcosa, un pezzetto del rompicapo era sparito. Ma quale pezzetto? E qual era il suo posto? Non potevo basarmi su nient'altro che l'istinto. Ero tormentato da un sospetto che non mi lasciava in pace. Magari soltanto perché non volevo trovarmi a faccia a faccia con il mio senso di colpa: ma ero sicuro che il dottor Albert Fowler non si era ucciso. Era stato assassinato. 7 Lunedì mattina faceva bello e freddo. Quel che era rimasto della nevicata era stato portato via e gettato nel porto. Dopo una nuotata all'YMCA, che era di fronte al mio alloggio al Chelsea Hotel, mi avviai in macchina verso nord, posteggiai la Chevrolet all'autorimessa Hippodrome e andai a piedi in ufficio, fermandomi a comprare una copia del Poughkeepsie New
Yorker del giorno prima all'edicola che si trova all'angolo nord di Times Square e che non vende solo giornali di New York. In nessun punto si parlava del dottor Albert Fowler. Erano passate da poco le dieci quando aprii la porta del mio studio. Dall'altra parte della strada scorrevano le solite brutte notizie: ... SI RITIENE CHE L'IRAQ ABBIA DI NUOVO ATTACCATO LA SIRIA... IN UNA SCORRERIA DI FRONTIERA UNA BANDA DI TRENTA UOMINI FERISCE UNA GUARDIA... Telefonai allo studio legale di Herman Winesap in Wall Street e la segretaria mi mise in linea senza indugi. «Che cosa posso fare per lei oggi, signor Angel?» mi domandò premurosamente l'avvocato, con la sua voce insinuante, untuosa come un cardine ben oliato. «Ho cercato di parlarle durante il fine settimana, ma la cameriera mi ha detto che lei era fuori città, a Sag Harbor.» «Ho là una casa dove vado a rilassarmi. Non c'è telefono. È venuto fuori qualcosa d'importante?» «Le informazioni sono per il signor Cyphre. Non sono riuscito nemmeno a trovarlo sull'elenco.» «Il suo tempismo è perfetto. Il signor Cyphre è seduto davanti alla mia scrivania in questo preciso momento. Glielo passo.» Ci furono i rumori indistinti di qualcuno che parla con la mano sul trasmettitore, poi udii la voce raffinata di Cyphre ronzare all'altro capo del filo. «Molto gentile da parte sua telefonarmi, signor Angel», disse. «Sono impaziente di sapere che cosa ha scoperto.» Gli raccontai gran parte di quanto ero venuto a sapere a Poughkeepsie, tralasciando la morte del dottor Fowler. Quando finii di parlare, sentii solo respirare affannosamente all'altro capo. Aspettai. Cyphre borbottò: «Incredibile!» a denti stretti. Dissi: «Ci sono tre possibilità: Kelley e la ragazza volevano togliere di mezzo Favorite e lo fecero fuori, nel qual caso è morto da un pezzo. Potrebbe anche darsi che lavorassero per qualcun altro, con il medesimo risultato. Oppure Favorite finse l'amnesia e architettò lui stesso tutto l'imbroglio. In ogni caso, ci troviamo davanti a una scomparsa perfettamente riuscita». «Voglio che lei lo trovi», disse Cyphre. «Non m'importa quanto tempo occorrerà, non m'importa quanto costerà, voglio che quell'uomo sia trovato.» «Questa è una pretesa assurda, signor Cyphre. Quindici anni sono molti. Se si dà a qualcuno un vantaggio simile, le sue tracce saranno impossibili
da trovare. La cosa migliore sarebbe rivolgersi all'ufficio delle persone scomparse.» «Non voglio la polizia. Questa è una faccenda privata. Desidero che non sia data in pasto al pubblico facendo intervenire funzionari ficcanaso in gran quantità.» La voce di Cyphre era acida di aristocratico disprezzo. «Ho dato questo consiglio perché l'ufficio dispone di tanti uomini per questo lavoro», dissi. «Favorite potrebbe essere in qualsiasi posto di questo paese o all'estero. Io sono solo e lavoro per conto mio. Non si può pretendere che ottenga gli stessi risultati di un'organizzazione con una rete internazionale di informazioni.» L'acido nella voce di Cyphre si fece più corrosivo. «Signor Angel, non perdiamo tempo in chiacchiere: vuole o non vuole questo incarico? Se non le interessa, assumerò qualcun altro.» «Oh, certo che m'interessa, signor Cyphre, ma da parte mia non sarebbe onesto, nei confronti di un cliente, sottovalutare la difficoltà dell'incarico.» Perché mai Cyphre mi costringeva a sentirmi bambino? «Sicuro. Mi rendo conto tanto della sua onestà in proposito, quanto dell'enormità dell'impresa.» Ci fu una breve pausa. Sentii lo scatto dell'accendino, sentii Cyphre aspirare mentre accendeva uno dei suoi costosi sigari. Riprese a parlare, con un tono alquanto addolcito dal buon tabacco. «Desidero che lei cominci subito. La lascio libero d'incominciare da dove vuole. Faccia quanto le parrà meglio. La parola d'ordine di tutta l'operazione, però, è una sola: discrezione.» «So essere discreto come un confessore, quando mi ci metto», dissi. «Sono sicuro che ne è capace, signor Angel. Darò istruzioni al mio legale perché le stacchi un assegno di cinquecento dollari come anticipo. Sarà impostato oggi stesso. Se le occorressero altri soldi per le spese, si metta in contatto con il signor Winesap, per favore.» Dissi che cinquecento dollari mi avrebbero portato lontano. Interrompemmo la conversazione. Non avevo mai provato una tentazione così forte di scolarmi la bottiglia dell'ufficio in un brindisi di autocongratulazioni, ma seppi resistere e mi accesi invece un sigaro. Bere prima di pranzo porta sfortuna. Cominciai con il telefonare a Walt Rigley, un cronista del Times che conoscevo. «Che cosa sapresti dirmi di Johnny Favorite?» gli domandai dopo il meccanico scambio degli sbrigativi e indispensabili saluti. «Johnny Favorite? Ma vuoi scherzare? Perché non mi chiedi il nome degli altri tipi che cantavano con Bing Crosby nella banda degli A & P
Gypsies?» «Parlo sul serio, non potresti scovarmi qualcosa su di lui?» «Sono sicuro che in archivio c'è uno schedario. Dammi cinque o dieci minuti e avrò pronte le notizie che mi chiedi.» «Ti ringrazio, amico. Sapevo di poter contare su di te.» Il cronista borbottò un saluto e la conversazione terminò. Finii di fumare il mio sigaro e intanto esaminai la posta del mattino, per lo più conti e circolari. Chiusi l'ufficio. Le scale di sicurezza sono sempre più veloci dell'ascensore stretto come una bara e senza manovratore, ma non avevo nessuna fretta. Premetti il pulsante e aspettai, ascoltando Ira Kipnis, contabile diplomato, picchiare una cifra dopo l'altra sulla sua addizionatrice, nella camera accanto. Il palazzo del Times sulla Quarantatreesima era appena girato l'angolo. Vi andai a piedi, sentendomi facoltoso. Salii in ascensore alla redazione, che si trovava al terzo piano, non senza aver prima scambiato sguardi di disapprovazione con la statua di Adolph Ochs nel vestibolo di marmo. Diedi il nome di Walt al vecchio seduto al banco della ricezione e aspettai un minuto o due, finché Walt arrivò da una stanza interna: era in maniche di camicia e aveva la cravatta allentata, proprio come i cronisti del cinematografo. Dopo una stretta di mano, mi condusse in sala redazione dove un centinaio di macchine per scrivere riempivano del loro ritmo staccato l'aria fumosa. «Dal mese scorso, quando morì Mike Berger, questa stanza è tetra come l'inferno», disse Walt, accennando con il capo a una scrivania vuota in prima fila, sulla quale una rosa rossa appassiva in un bicchiere d'acqua posato sopra la macchina per scrivere coperta di un telo. Lo seguii tra il ticchettio delle macchine dei giornalisti, fino al suo tavolo al centro della sala. Nel ripiano superiore della cassetta metallica sulla scrivania, c'era una cartellina gonfia di fogli. La presi in mano e diedi un'occhiata agli ingialliti ritagli di giornale che conteneva. «Va bene se me ne tengo qualcuno?» domandai. «Il nostro regolamento dice di no.» Walt infilò un dito nel collo della giacca di lana pettinata appesa allo schienale della sua sedia girevole. «Esco per andare a mangiare. Nell'ultimo cassetto troverai qualche grossa busta. Cerca di non perdere niente, così la mia coscienza sarà tranquilla.» «Ti ringrazio, Walt. Se mai potrò farti un favore...» «Sì, sì! Per essere uno che legge il Journal-American, quando cerchi in-
formazioni vieni all'indirizzo giusto.» Lo seguii con gli occhi mentre si muoveva dinoccolato tra le file di scrivanie scambiando battute con gli altri cronisti e usciva facendo un cenno di saluto a uno dei redattori nello spazio aperto loro riservato. Seduto al suo tavolo, esaminai l'incartamento su Favorite. Gran parte dei vecchi ritagli non venivano dal Times, ma da altri quotidiani di New York e da un certo numero di riviste nazionali. Riguardavano soprattutto gli spettacoli di Favorite con l'orchestra di Spider Simpson. C'era qualche servizio su di lui, che lessi da cima a fondo con attenzione. Era un trovatello. Lo aveva scoperto un poliziotto dentro una scatola di cartone, con un biglietto appuntato sulla coperta d'ospedale, che ne dava soltanto il nome e la data di nascita, 2 giugno 1920. Aveva passato i primi mesi di vita nel vecchio brefotrofio della Sessantottesima Strada est, poi era cresciuto in un orfanotrofio del Bronx. Lasciato a se stesso a sedici anni, era andato a lavorare come aiuto cameriere in una serie di ristoranti. Meno di un anno dopo suonava il piano e cantava in posti di ristoro lungo le strade a nord di New York. Nel 1938 fu 'scoperto' da Spider Simpson, poco dopo era già famoso e cantava con un'orchestra di quindici suonatori. Batté ogni primato di pubblico nel 1940, durante una settimana di concerti al teatro Paramount, primato uguagliato soltanto durante gli entusiasmi per Sinatra nel 1944. Nel 1941 vendette più di cinque milioni di dischi; si diceva che guadagnasse più di settecentocinquantamila dollari l'anno. C'erano parecchi servizi sul suo ferimento in Tunisia; in un articolo si scriveva che era 'creduto morto'. E tutto finiva qui. Non c'erano notizie sul suo ricovero in ospedale o sul suo ritorno negli Stati Uniti. Feci una cernita tra quanto rimaneva e misi da parte in un mucchietto ciò che volevo tenermi. C'erano due fotografie. Una, su carta lucida, opera di un fotografo professionista, rappresentava Favorite in un abito da sera, con i neri capelli impomatati per formare un'onda lucida di brillantina. Il nome e l'indirizzo dell'agente erano stampigliati sul retro: WARREN WAGNER, AGENTE TEATRALE, 1619 BROADWAY (PALAZZO BRILL). WYNDHAM 9-3500. L'altra foto ritraeva l'orchestra di Spider Simpson nel 1940. Johnny, in piedi su un lato, teneva le mani giunte come un piccolo corista. Sulla foto erano scritti i nomi di tutti gli orchestrali. Presi in prestito tre altri pezzi, tre ritagli che attirarono la mia attenzione, perché non mi sembrarono quadrare con tutto il resto. Il primo era una fo-
tografia pubblicata da Life, scattata nel bar di Dickie Wells a Harlem, in cui Johnny, appoggiato a un pianoforte a mezza coda, cantava tenendo in mano un bicchiere, con l'accompagnamento di un pianista negro che si chiamava Edison Toots' Sweet. Il secondo era un articolo di Downbeat, che parlava delle superstizioni del cantante e sosteneva che Favorite, quand'era a New York, si recava una volta la settimana a Coney Island per farsi leggere la mano da una veggente zingara, una certa madame Zora. L'ultimo ritaglio era un paragrafo della rubrica di Walter Winchell, del 20/11/1942, in cui si annunciava che Johnny Favorite aveva rotto, dopo due anni, il suo fidanzamento con Margaret Krusemark, figlia di Ethan Krusemark, l'armatore miliardario. Raccolsi tutti quei pezzi di carta e li ficcai dentro una grossa busta che presi dall'ultimo cassetto. Poi mi venne un'ispirazione, tirai fuori la fotografia di Favorite, sollevai il ricevitore del telefono e feci il numero del palazzo Brill stampigliato sul retro. «Warren Wagner e Soci», rispose un'impertinente voce femminile. Le diedi il mio nome e chiesi un appuntamento per mezzogiorno con il signor Wagner. «Ha un impegno per pranzo alle dodici e mezzo, può solo concederle pochi minuti.» «Li accetto», dissi. 8 «Se non sei a Broadway, tutto il resto è come Bridgeport.» Questa battuta intellettualoide fu fatta nel 1915 a George M. Cohan da Arthur 'Bugs' Baer, di cui lessi la rubrica sul Journal-American ogni giorno per anni. Può darsi che fosse vera nel 1915. Non posso saperlo, perché non c'ero. Quelli erano i tempi di Rector e Shanley e del New York Roff. La Broadway che conoscevo io era Bridgeport: una strada da fiera, piena di tiri a segno e di Howard Johnson, di sale da gioco e di baracche che vendevano panini. Tutto quanto rimane dell'età dell'oro ricordata da 'Bugs' Baer sono due vecchie signore, la torre del Times e l'hotel Astor. Il palazzo Brill era sulla Quarantanovesima all'angolo con Broadway. Arrivando dalla Quarantatreesima, cercai di ricordare l'aspetto della piazza la sera in cui la vidi per la prima volta. Erano cambiate tante cose. Era l'ultimo giorno del 1942. Un intero anno della mia vita era svanito. Ero appena uscito da un ospedale militare, con una faccia nuova di zecca e le tasche
vuote, a parte qualche monetina. Qualcuno, nelle prime ore della sera, mi aveva rubato il portafoglio con tutto ciò che possedevo: patente, foglio di congedo, piastrine, insomma, ogni cosa. Nella stretta dell'enorme folla, circondato dalla pirotecnica elettrica dei cartelloni pubblicitari, sentivo il mio passato abbandonarmi come la pelle di un serpente durante la muta. Non avevo documenti d'identità, non avevo soldi, non avevo abitazione, sapevo soltanto di essere diretto verso il sud della città. Ci volle un'ora per spostarmi dal marciapiede di fronte al teatro Palace fino al centro della piazza, tra l'Astor e l'Abbigliamento Bond, sede del 'completo con due paia di calzoni'. A mezzanotte ero lì in piedi e vidi il globo d'oro scendere sulla torre del Times, un punto di riferimento cui arrivai solo dopo un'altra ora. A quel punto vidi le luci dell'agenzia Crossroads e seguii un'ispirazione che mi portò a Ernie Cavalero e a un lavoro che non ho mai più lasciato. A quei tempi una coppia di gigantesche statue nude, un uomo e una donna, erano due specie di reggilibri a un capo e all'altro della cascata, lunga come l'intero isolato, sul tetto dell'Abbigliamento Bond. Oggi al loro posto giganteggiavano due enormi bottiglie di Pepsi Cola, identiche. Mi domandai se le due statue di gesso fossero ancora lì, imprigionate all'interno delle bottiglie di sottile lamiera, come bruchi sonnecchianti dentro il loro bozzolo. Fuori del palazzo Brill un vagabondo in uno sbrindellato cappotto militare andava avanti e indietro borbottando «sacco di merda, sacco di merda» a chiunque entrasse. Studiai l'elenco degli uffici in fondo allo stretto atrio a forma di T e vi trovai Warren Wagner & Soci in mezzo a dozzine di società per la pubblicità di canzoni e per l'organizzazione di incontri di pugilato, oltre a screditati editori di musica. L'ascensore mi portò scricchiolando all'ottavo piano; vagolai per un corridoio mal illuminato, finché trovai l'ufficio in un angolo del palazzo. Era un insieme di conigliere tra loro comunicanti. Quando aprii la porta, la segretaria stava lavorando a maglia. «Lei è il signor Angel?» mi domandò biascicando le parole con l'impaccio di un tampone di gomma da masticare. Dissi di sì ed estrassi dal mio secondo portafoglio un biglietto da visita. C'era su il mio nome, però risultavo un agente della Società d'Assicurazioni sulla Vita e Infortuni. Un mio amico, che aveva una stamperia a Greenwich Village, me li fabbricava con una dozzina di professioni: da azzeccagarbugli a zoologo.
La segretaria attanagliò il biglietto da visita tra unghie verdi e lucenti come ali di scarafaggio. Aveva grosse mammelle e fianchi sottili, messi in evidenza da un maglione rosa di lana d'angora e da una gonna nera aderentissima. I suoi capelli erano color platino con tendenza al bronzo. «Aspetti qui un attimo, per piacere», disse sorridendo e nello stesso tempo masticando. «Si sieda o faccia come vuole.» Mi passò vicino di sghimbescio, picchiò una sola volta con le nocche a una porta con la scritta PRIVATO, entrò. Di fronte a questa c'era un'altra porta identica e altrettanto privata. Fra le due le pareti erano ricoperte di fotografie incorniciate a centinaia, ritratti i cui sorrisi sbiaditi erano conservati sotto vetro come falene; guardandomi intorno scoprii lo stesso lucido Johnny Favorite 20x25 che mi portavo dietro nella busta sotto il braccio. Era in alto sulla parete di sinistra, da una parte aveva la fotografia di una ventriloqua e dall'altra quella di un grassone che suonava il clarinetto. La porta alle mie spalle si aprì e la segretaria disse: «Il signor Wagner la riceve subito». Dissi grazie ed entrai. Il secondo locale era grosso la metà del primo bugigattolo. I ritratti alle pareti sembravano più nuovi, ma i loro sorrisi erano altrettanto sbiaditi. La scrivania di legno bruciacchiata dalle sigarette occupava quasi completamente l'ufficio. Seduto alla scrivania, un giovane in maniche di camicia si faceva la barba con un rasoio elettrico. «Cinque minuti», disse sollevando una mano con il palmo verso di me, in modo che potessi contarne le dita. Posai la mia cartella sul logoro tappeto verde e fissai il ragazzo mentre finiva di radersi. Aveva capelli ricci color ruggine e lentiggini. La faccia nascosta dagli occhiali con montatura di corno non poteva avere molto più di ventiquattro o venticinque anni. «Il signor Wagner?» gli domandai quando spense il rasoio. «Sì?» «Il signor Warren Wagner?» «Proprio così.» «Lei non può certo essere stato l'agente di Johnny Favorite.» «Lei parla di mio padre. Io sono Warren junior.» «Allora vorrei parlare con suo padre.» «Le va male. Mio padre morì quattro anni fa.» «Capisco.» «Di che cosa si tratta?» Warren Jr. si appoggiò allo schienale della poltrona di similpelle e si allacciò le mani dietro la testa.
«John Liebling è il beneficiario della polizza di uno dei nostri clienti. Sulla polizza si dà come suo indirizzo questo ufficio.» Warren Wagner Jr. si mise a ridere. «Non ci sono di mezzo grandi cifre», dissi. «Forse si tratta del bel gesto di un vecchio ammiratore. Mi può dire dove potrò trovare il signor Favorite?» Il ragazzo stava ora ridendo come un matto. «Formidabile», sbuffò. «Davvero formidabile. Johnny Favorite, l'erede scomparso.» «A dire la verità, non riesco a capire che cosa ci sia da ridere.» «Davvero? Bene, lasci che glielo spieghi. Johnny Favorite è disteso su un letto in un manicomio del nord. È nient'altro che un vegetale da quasi vent'anni a questa parte.» «Certo, la barzelletta è magnifica. Ne sa qualche altra buona come questa?» «Lei non capisce», disse il giovane, togliendosi gli occhiali per asciugarsi le lacrime. «Johnny Favorite doveva fare la fortuna di mio padre, che aveva speso fino all'ultimo centesimo che possedeva per comprare il suo contratto da Spider Simpson. Poi, mentre era al culmine della carriera, Favorite fu chiamato alle armi. C'erano contratti cinematografici e tutto quanto si può immaginare. L'esercito spedisce beni del valore di un milione di dollari in Nordafrica e tre mesi dopo rimanda a casa un sacco di patate.» «Un bel disastro.» «Fu un bel disastro, certo. Un po' troppo, per il mio papà. Non si rimise mai. Per anni e anni pensò che magari Favorite sarebbe guarito, che avrebbe avuto un grande rilancio e lo avrebbe rimesso sulla via della fortuna. Povero illuso.» Mi alzai. «Mi potrebbe dare il nome e l'indirizzo dell'ospedale dov'è ricoverato Favorite?» «Chieda alla mia segretaria. Deve tenerlo da qualche parte.» Lo ringraziai d'avermi concesso un po' del suo tempo e me ne andai. Nell'anticamera feci tutta la commedia e aspettai che la segretaria cercasse l'indirizzo della clinica dedicata alla memoria di Emma Dodd Harvest e me lo scrivesse. «Lei è mai stata a Poughkeepsie?» le chiesi, infilando il pezzetto di carta ripiegato nel taschino della camicia. «È una bella cittadina.» «Scherza? Non sono mai neppure andata nel Bronx.» «Nemmeno allo zoo?» «Lo zoo? E che me ne faccio di uno zoo?»
«Non lo so», dissi. «Se ne misuri uno, potrebbe andarle bene.» La mia ultima visione della segretaria mentre varcavo la porta fu quella di una rossa bocca spalancata in un grande cerchio che faceva da cornice a un informe tampone di gomma da masticare sulla punta della sua lingua rosea. 9 Al pianterreno del palazzo Brill c'erano due bar, che davano su Broadway ai due lati dell'ingresso. Uno era il Jack Dempsey e dissetava una folla di amanti del pugilato. L'altro, il Turf, all'angolo con la Quarantanovesima, era un luogo di ritrovo per musicisti e autori di canzoni. La sua facciata di specchi azzurri gli dava un aspetto fresco e invitante come quello della grotta di Capri. All'interno non era altro che uno dei tanti spacci di alcol. Feci un giro del bar e trovai proprio la persona che speravo d'incontrare, Kenny Pomeroy, accompagnatore e arrangiatore sin da prima che io nascessi. «Che mi dici, Kenny», bisbigliai arrampicandomi sullo sgabello accanto al suo. «Bene, bene, Harry Angel, il famoso segugio. Non ci vediamo da tanto tempo, amico.» «Sì, da un po'. Il tuo bicchiere mi sembra vuoto, Kenny. Stai buono e fermo, che te ne offro un altro.» Feci segno al barista e ordinai un Manhattan per me e un altro dello stesso per Kenny. «Alla tua salute, bimbo», disse Kenny alzando il bicchiere, quando i liquori furono di fronte a noi. Kenny Pomeroy era un uomo grasso e calvo, con un naso a forma di lampadina e una serie di menti impilati l'uno sull'altro come pezzi di ricambio. Aveva tendenza a portare giacche a scacchi e anelli di zaffiro asteria al mignolo. L'unico posto dove l'avessi mai visto, oltre che in una sala di prove, era al banco del Turf. Chiacchierammo per un po' sui vecchi tempi, poi Kenny mi domandò: «Che cosa mai ti porta da questa parte della strada? Stai inseguendo qualche malfattore?» «Non proprio», dissi. «Sto lavorando a qualcosa in cui tu potresti essere in grado di aiutarmi.» «Ti aiuterò sempre e dappertutto.» «Che cosa sapresti dirmi di Johnny Favorite?» «Johnny Favorite? Parliamo del Parco della Rimembranza?» «L'hai conosciuto?»
«No. Prima della guerra avevo assistito a qualche suo spettacolo. Se ben ricordo, l'ultima volta fu a Trenton, alla Starlight House.» «Non l'hai più visto da nessuna parte, diciamo negli ultimi quindici anni o giù di lì?» «Ma scherzi? È morto, no?» «Non proprio. È in un ospedale del nord.» «E allora, se è in ospedale, come potrei vederlo in giro?» «Entra ed esce», dissi. «Senti, da' un'occhiata a questa foto.» Tirai fuori dalla grossa busta la fotografia dell'orchestra di Spider Simpson e gliela passai. «Quale di questi tipi è Simpson? Sulla foto non è scritto.» «Simpson è il batterista.» «Che cosa fa adesso? Ha ancora un'orchestra?» «No. I batteristi non sono molto bravi a metterne su una.» Kenny sorseggiò il suo bicchiere e prese un'aria assorta, corrugando una fronte che gli andava senza interruzioni fino al cocuzzolo. «L'ultima volta che ne ho sentito parlare, lavorava in uno studio sulla costa ovest. Potresti provare a telefonare a Nathan Fishbine al palazzo Capitol.» Presi nota del nome e domandai a Kenny se conoscesse qualcuno degli orchestrali. «Tanti anni fa lavorai per un certo periodo in Atlantic City con il suonatore di trombone.» Kenny puntò sulla foto un dito tozzo. «Questo qui, Red Diffendorf. Adesso suona con Lawrence Welk.» «Sai qualcosa degli altri? Hai idea di dove potrei trovarli?» «Be', riconosco molti dei nomi. Sono ancora in attività, ma non so dirti con chi suonino. Dovresti andare in giro a chiedere, oppure rivolgerti al sindacato.» «Sai qualcosa di un pianista negro che si chiama Edison Sweet?» ««Toots? È il più grande di tutti. Ha una mano sinistra simile a quella di Art Tatum. Molto raffinato. Non dovrai andare a cercarlo molto lontano. Suona da cinque anni a Harlem, al Red Rooster, nella Centotrentottesima Strada.» «Kenny, sei una miniera di informazioni utili. Che ne diresti di mangiare qualcosa?» «Non lo faccio mai. Ma non direi di no a un altro whisky.» Ordinai altri due bicchieri e un panino di carne e formaggio con patate fritte per me. Mentre aspettavo, trovai un telefono pubblico e feci il numero della Federazione Americana Musicisti. Dissi di essere un giornalista indipendente, che aveva ricevuto da Look l'incarico di intervistare i mem-
bri ancora in vita dell'orchestra di Spider Simpson. Mi misero in comunicazione con la ragazza incaricata di tenere il registro degli iscritti. Indorai la pillola promettendo di fare pubblicità al sindacato nel mio articolo e le diedi il nome degli orchestrali della foto, con lo strumento che suonavano. Rimasi al telefono per dieci minuti, mentre la ragazza consultava il suo schedario. Dei quindici musicisti originari quattro erano morti e sei erano stati esclusi dai registri del sindacato. Diffendorf, quello che suonava il trombone con Lawrence Welk, viveva a Hollywood. Anche Spider Simpson abitava nella zona di Los Angeles, nella Valley, a Studio City. Gli altri erano a New York. C'era un sassofonista dal nome di Vernon Hyde nell'orchestra fissa degli spettacoli del Tonight', con indirizzo presso gli studi della NBC; e due ottoni, Ben Hogarth, tromba, con indirizzo nella Lexington Avenue, e un secondo trombone, Carl Walinski, che viveva a Brooklyn. Scrissi il tutto sul mio taccuino, ringraziai la ragazza dal più profondo del cuore e feci invano i numeri di New York. La tromba e il trombone non erano in casa e al centralino della NBC non potei fare altro che lasciare il mio numero d'ufficio. Cominciai a sentirmi vittima di uno scherzo, il povero babbeo che aspetta tutta la notte nei boschi tenendo in mano un sacco vuoto per catturare un immaginario animale, mentre gli altri se la svignano. C'era una probabilità su un milione, o ancora meno, che uno dei vecchi compagni d'orchestra di Johnny Favorite si fosse imbattuto in lui dopo che era partito per la guerra. Ma erano le uniche probabilità che avevo a New York e dovevo quindi accontentarmene. Ritornato al banco, mangiai il mio panino e rosicchiai qualche avvizzita patatina fritta. «La vita è bella, vero, Harry», disse Kenny Pomeroy, facendo tintinnare il ghiaccio nel bicchiere vuoto. «L'unica e la migliore.» «Ci sono dei poveri idioti che devono lavorare per mantenersi.» Raccolsi le monete del resto dal banco. «Non cacciarmi fuori del circolo se vado a lavorare anch'io.» «Non te ne vai mica, Harry?» «Devo proprio farlo, vecchio amico, anche se mi piacerebbe rimanere ad avvelenarmi il fegato con te.» «Fra poco sentirò dire che timbri regolarmente il cartellino. Sai dove trovarmi, se avessi ancora bisogno della mia consulenza.»
«Ti ringrazio, Kenny.» M'infilai il cappotto. «Il nome Edward Kelley ti dice qualche cosa?» Kenny si concentrò corrugando tutta la cupola della fronte. «C'era un Horace Kelly una volta a Kansas City», disse. «Più o meno quando Pretty Boy Floyd fece fuori quei soldati a Union Station. Horace suonava il piano al Reno Club, all'angolo della Dodicesima Strada con Cherry Lane. Nei ritagli di tempo faceva anche l'allibratore. Sarebbe per caso un suo parente?» «Spero di no», dissi. «Ci rivedremo.» «Magari, se avrai di nuovo bisogno di me.» 10 Presi la metropolitana della Settima Avenue per il breve tratto fino a Times Square per risparmiare la suola delle scarpe e aprii la porta dell'ufficio proprio mentre il telefono suonava. Lo afferrai a metà squillo. Era Vernon Hyde, il sassofonista di Spider Simpson. «Molto gentile da parte sua chiamarmi», dissi, rifilandogli la storia dell'incarico ricevuto da Look. Vernon Hyde la bevette tutta quanta. Proposi d'incontrarci per un bicchierino, quando gli facesse comodo. «Adesso sono in studio», disse. «Cominceremo le prove tra venti minuti. Sarò libero soltanto dopo le quattro e mezzo.» «Per me andrebbe benissimo. Se ha una mezz'ora libera, perché non trovarci oggi? Dov'è il suo studio?» «Nella Quarantacinquesima Strada. Al teatro Hudson.» «Benissimo. Hickory House è solo a un paio di isolati. Che ne direbbe di darci appuntamento per le cinque meno un quarto?» «Una buona idea. Porterò con me lo strumento, quindi non avrà difficoltà a riconoscermi.» Riattaccammo. Mi levai il cappotto e sedetti alla scrivania. Diedi un'occhiata alle fotografie e ai ritagli di giornali che mi ero portati dietro. Li ordinai sulla carta assorbente come pezzi da museo e fissai l'untuoso sorriso di Johnny Favorite fino alla nausea. Dove si va in cerca di un individuo che in fin dei conti non è mai esistito? Il tempo aveva reso la rubrica di Winchell fragile come i rotoli del Mar Nero. Rilessi il paragrafo sulla rottura del fidanzamento di Favorite e feci il numero di Walt Rigley al Times. «Ciao, Walt», dissi. «Sono di nuovo io. Ho bisogno di qualche informazione su Ethan Krusemark.»
«Il pezzo grosso, l'armatore?» «Proprio lui. Vorrei tutto quel che sapete di Krusemark, più il suo indirizzo. Sono soprattutto interessato alla rottura del fidanzamento tra sua figlia e Johnny Favorite, dopo il 1940.» «Di nuovo Johnny Favorite. Si direbbe l'uomo del momento.» «È il protagonista dello spettacolo. Puoi aiutarmi?» «Indagherò nel settore femminile», disse Walt. «Sono loro che si occupano del bel mondo e di tutti i suoi sporchi fattacci. Ti richiamerò fra pochi minuti.» «Che tu sia benedetto.» Lasciai ricadere la cornetta sulla forcella. Mancavano dieci minuti alle due. Tirai fuori il taccuino e chiesi due intercomunali per Los Angeles. Il numero di Diffendorf a Hollywood non rispose, ma quando provai quello di Spider Simpson mi rispose la cameriera messicana. Benché il mio spagnolo non fosse migliore del suo inglese, riuscii a lasciarle il mio nome e il numero del mio ufficio, oltre a una vaga impressione che si trattasse di faccenda importante. Posai la cornetta e il telefono suonò di nuovo prima che staccassi la mano. Era Walt Rigley. «Ecco i fatti», disse. «Ora Krusemark è importantissimo: feste di beneficenza, fior fiore della società, tutte quante le cose di questo genere. Il suo ufficio è nel grattacielo Chrysler. Risiede al 2 di Sutton Piace, il numero del telefono è nell'elenco. Ti sei scritto tutto?» Dissi che ogni notizia era nero su bianco. Walt proseguì. «Bene. Krusemark non è sempre stato così altolocato. Tra il 1920 e il 1930 era marinaio nella marina mercantile, corre voce che si sia fatto i primi soldi contrabbandando liquori illegali. Non fu mai dichiarato colpevole da un tribunale, quindi ha la fedina penale pulita, anche se la coscienza sporca. Cominciò a costituirsi la flotta durante la crisi, naturalmente tutta sotto bandiera panamense. «La fortuna cominciò con la costruzione di scafi di cemento per lo sforzo bellico. La sua ditta fu accusata di usare materiali da costruzione di pessima qualità, molte delle sue navi Liberty si sfasciarono nelle tempeste, ma un'indagine del Congresso lo prosciolse da ogni accusa e non se ne parlò più.» «E sua figlia?» domandai. «Margaret Krusemark; nata nel 1922; padre e madre divorziati nel 1926. Poco dopo, in quello stesso anno, la madre si uccise. Margaret incontrò Favorite a un ballo studentesco. Johnny cantava con la banda. Il loro fidanzamento fu lo scandalo del 1941 nell'alta società. Pare sia stato lui a
rompere, benché nessuno ne conosca il perché. La ragazza era comunemente giudicata una specie di pazza, quindi questa potrebbe esserne la ragione.» «Una pazza di che tipo?» «Del tipo con visioni. Aveva l'abitudine di predire il futuro nei ricevimenti. Andava dappertutto con un mazzo di tarocchi nella borsetta. Per un po' alla gente parve una cosa spiritosa, ma poi, quando Margaret cominciò a fare incantesimi in pubblico, la cosa irritò i loro aristocratici nervi.» «Ma è vero?» «Certo che sì. La chiamavano la 'Strega di Wellesley'. Era il frizzo più diffuso tra i giovani nababbi delle grandi università.» «Dov'è adesso?» «Nessuna delle persone con le quali ho parlato lo sa. Chi cura la colonna dell'alta società dice che non vive con suo padre e che non è tipo da essere invitata ai balli del Waldorf, perciò qui non ne sappiamo niente. L'ultima volta che si parlò di lei sul Times fu quando partì per l'Europa dieci anni fa. Potrebbe essere ancora là.» «Walt, mi sei stato di grande aiuto. Mi metterei a leggere il Times, se pubblicasse fumetti.» «Cos'è tutto questo interesse per Johnny Favorite? C'è qualcosa che potrebbe servire a me?» «Per ora non posso parlare, amico, ma quando sarà il momento saprai tutto per primo.» «Ti sono riconoscente.» «Anch'io, Walt. Ci vedremo una volta o l'altra.» Tirai fuori da un cassetto l'elenco telefonico e feci correre il dito su una delle pagine dei nomi comincianti per K. C'era il numero di Krusemark, Ethan e un altro per Krusemark, Linee Marittime, S.p.A., oltre a Krusemark, M., Consultazioni astrologiche. Mi sembrò che meritasse tentare quest'ultimo. L'indirizzo era 881, Settima Avenue. Feci il numero e lasciai suonare. Mi rispose una donna. «Un amico mi ha dato il suo nome», dissi. «Personalmente non concedo molta fiducia alle stelle, ma la mia fidanzata ci crede ciecamente. Pensavo di farle una sorpresa regalandole i nostri due oroscopi.» «Faccio pagare quindici dollari per oroscopo», disse la donna. «Accetto.» «E non do consulenze per telefono. Dovrà prendere un appuntamento.» Dissi che mi andava benissimo e le chiesi se avesse un posto libero per
quel giorno. «L'agenda sulla mia scrivania è completamente vuota per oggi pomeriggio», disse la donna. «Quindi venga quando le fa più comodo.» «Che ne direbbe se venissi subito? Diciamo fra mezz'ora?» «Sarebbe magnifico.» Le diedi il mio nome. La donna giudicò magnifico anche quello e mi disse che il suo appartamento era in Carnegie Hall. Dichiarai che sapevo come trovarlo e attaccai la cornetta. 11 Presi la metropolitana in direzione nord fino alla Cinquantasettesima Strada e salii le scale che uscivano all'angolo presso Nedick al Carnegie Hall. Mentre mi avviavo all'ingresso dello Studio, un barbone si avvicinò e mi spillò dieci centesimi. Dall'altra parte della Settima Avenue, a un isolato di distanza, un corteo di scioperanti sfilava davanti al Park Sheraton. L'atrio degli studi del Carnegie Hall era piccolo e spoglio. A destra, ai lati di una cassetta delle lettere alimentata da un piano inclinato di vetro, c'erano le porte di due ascensori. Di lì si poteva entrare dal retro nella Carnegie Tavern, situata all'angolo con la Cinquantaseiesima Strada. C'era anche un elenco murale. Cercai Krusemark, M., Consultazioni astrologiche, che trovai tra gli inquilini dell'undicesimo piano. L'indicatore di ottone sopra l'ascensore di sinistra descrisse un arco discendente attraverso un semicerchio di numeri di piani, come un orologio che andasse all'indietro. La freccia sostò al sette e di nuovo al tre, prima di fermarsi in posizione orizzontale. Il primo che uscì fu un grosso cane danese che si trascinava dietro una donna impellicciata. Li seguì un barbuto che portava un astuccio per violoncello. Entrai e diedi il numero del piano a un vecchio manovratore, somigliante al veterano di un esercito balcanico nella sua uniforme trasandata. Fissò le mie scarpe senza aprire bocca. Dopo un momento chiuse con uno spintone la porta metallica e partimmo. Non ci fermammo fino a quando scesi all'undicesimo piano. Il corridoio era lungo e largo, tetro come l'atrio al pianterreno. Lungo le pareti erano appese a intervalli regolari manichette di canapa antincendio arrotolate. Dietro le porte chiuse parecchi pianoforti avviavano discussioni discordanti. In lontananza una soprano provava la voce; la udii eseguire le scale. Trovai l'appartamento di M. Krusemark. Il suo nome era dipinto a lettere d'oro sulla porta. Sotto il nome c'era uno strano simbolo che assomigliava
a una lettera M terminante in una freccia che curvava verso l'alto. Suonai il campanello e attesi. Dall'interno giunse un rumore di tacchi alti picchiettanti sul pavimento. Una chiave girò nella serratura, la porta si aprì di quel tanto che la catenella di sicurezza consentiva. Un occhio mi scrutò dall'ombra. La voce che gli apparteneva domandò: «Chi è?» «Sono Harry Angel», dissi. «Ho telefonato poco fa e lei mi ha dato un appuntamento.» «Certo, certo. Un minuto solo, prego.» La porta si chiuse, sentii la catena scorrere e staccarsi. Quando il battente si riaprì, risultò che l'occhio faceva parte di un paio d'occhi verdi da gatto posti su una faccia pallida e angolosa, che ardevano dentro incavi sbiaditi, all'ombra di sopracciglia scure e spesse. «Entri pure», disse la donna, facendosi da parte per lasciarmi passare. Era tutta vestita di nero, come un'artista della domenica in un caffè di Greenwich Village: gonna e maglione di lana nera, calze nere, persino gli spessi capelli neri tenuti insieme in una crocchia da un paio di bastoncini d'ebano. Secondo Walt Rigley aveva all'incirca trentasei o trentasette anni, ma sembrava molto più vecchia, non essendo truccata. Era magrissima, quasi macilenta, le sue scarne mammelle erano a mala pena accennate sotto le pieghe pesanti del maglione. Suo unico ornamento era un medaglione d'oro appeso al collo con una catenella molto semplice: una stella a cinque punte, capovolta. Nessuno di noi pronunciò parola. Stavo fissando il ciondolo. «Vai, afferra una stella cadente...» Il primo verso della poesia di Donne mi rimbombò nella mente, insieme con un'immagine delle mani del dottor Albert Fowler. Per un attimo ebbi la visione dell'anello d'oro a un dito, mentre il dottore tamburellava con la mano sul tavolo. Sull'anello che il dottor Albert Fowler non portava più quando ne avevo trovato il cadavere chiuso a chiave nella camera del primo piano, era incisa una stella a cinque punte. Ecco il pezzo mancante del rompicapo. La rivelazione mi fece l'effetto di un clistere d'acqua ghiacciata. Un brivido gelido mi percorse la spina dorsale e mi fece rizzare i capelli sul capo. Che cos'era successo all'anello del dottore? Poteva magari essere in una tasca, dato che non gliele avevo rovistate: ma perché mai se lo sarebbe tolto prima di farsi saltare le cervella? E, se non se lo era tolto lui, chi mai l'aveva fatto? Sentii gli occhi fosforescenti della donna puntati su di me. «Lei dev'esse-
re la signorina Krusemark», dissi tanto per rompere il silenzio. «Sì», rispose lei senza sorridere. «Ho visto il suo nome sulla porta, ma non ho riconosciuto il simbolo.» «È il mio segno», disse la donna, chiudendo la porta e dando un giro di chiave. «Sono uno Scorpione.» Mi fissò per un lungo momento, come se i miei occhi fossero spioncini aperti su una scena interiore. «E lei?» «Io?» «Di che segno è?» «Non lo so affatto», dissi. «L'astrologia non è il mio forte.» «Quand'è nato?» «Il 2 giugno 1920.» Le avevo detto la data di nascita di Johnny Favorite. Per una frazione di secondo mi parve di scorgere un lontano fremito nel suo sguardo intenso e impassibile. «Gemelli», disse. «Strano, una volta conoscevo un ragazzo nato nello stesso giorno.» «Davvero? E chi era?» «Non ha importanza», disse. «Era tanto, tanto tempo fa. Ma come sono scortese con lei, tenendola in piedi nell'ingresso. La prego, entri e si sieda.» Lasciai con lei l'entrata buia e la seguii in uno spazioso salone-studio dall'alto soffitto, arredato con un'indescrivibile collezione di mobili comprati a una vendita dell'Esercito della Salvezza, rallegrata da fodere di stoffe stampate e da una gran quantità di cuscini ricamati sparsi dappertutto. L'ardita geometria di parecchi bellissimi tappeti del Turkestan controbilanciava l'arredamento da rigattiere. C'erano felci d'ogni sorta e palme che salivano al soffitto, dal quale dondolavano altre piante verdi in vasi appesi con cordoni. Foreste tropicali in miniatura vegetavano dentro terrari chiusi nel vetro. «Una bella sala», dissi, mentre la donna mi prendeva il cappotto e lo ripiegava su un divano. «Sì, è magnifica, vero? Vi ho passato momenti molto felici.» Fu interrotta da un fischio acuto e lontano. «Vuole un po' di tè?» domandò. «Avevo appena messo l'acqua a bollire, quando lei è arrivato.» «Solo se non le è di disturbo.» «Non mi disturba affatto. L'acqua sta già bollendo. Che tè preferisce, Darjeeling, al gelsomino o tè cinese?» «Decida lei. Non sono un conoscitore di tè.» M. Krusemark mi lanciò un debole mezzo sorriso e uscì in fretta per
spegnere l'insistente sibilo. Io mi guardai intorno più attentamente. Ninnoli esotici si pigiavano su ogni superficie disponibile: cose come flauti sacri e ruote della preghiera, feticci Hopi e statuette indiane di cartapesta di Visnu che usciva dalla bocca di pesci e di tartarughe. Su uno scaffale scintillava un pugnale azteco d'ossidiana intagliato a forma di uccello. Esaminai i libri disposti qua e là e vi scoprii I Ching, una copia di Oaspe e parecchi volumi della serie tibetana di Evan-Wentz. Quando M. Krusemark tornò portando un vassoio d'argento e il servizio da tè, ero in piedi accanto a una finestra e pensavo all'anello sparito del dottor Fowler. La donna posò il servizio su un tavolino basso accanto al divano e mi si avvicinò. Dall'altra parte della Settima Avenue un palazzo in stile federale con bianche colonne doriche era appollaiato sul tetto di una casa d'abitazione, come una corona nascosta. «Qualcuno ha comprato la casa di Jefferson e l'ha fatta trasportare lì?» dissi scherzando. «È di Earl Blackwell, che dà magnifici ricevimenti. A ogni modo, è divertente osservarli.» Ritornai con lei al divano. «Quella è una faccia nota», dissi accennando con la testa al ritratto a olio di un vecchio pirata in abito da sera. «È mio padre, Ethan Krusemark.» Il tè turbinò nelle tazze di porcellana trasparente. Le labbra piene di determinatezza accennavano un sorriso bricconesco, gli occhi verdi come quelli della figlia avevano un guizzo di astuzia spietata. «Non è l'armatore? Ho visto la sua fotografia su Forbes.» «Detesta questo ritratto. Dice che equivale a uno specchio che si è inceppato. Latte o limone?» «Né l'uno né l'altro, grazie.» La donna mi porse una tazza. «Fu dipinto l'anno scorso. A me la somiglianza sembra magnifica.» «È un bell'uomo.» La donna annuì. «Ha più di sessant'anni, ci crederebbe? Gli hanno sempre dato dieci anni in meno di quelli che ha. Il suo sole è in trigono con Giove: un aspetto molto favorevole.» Ignorai l'incomprensibile gergo e dissi che assomigliava a un capitano fanfarone delle pellicole di pirati che vedevo nella mia infanzia. «Verissimo. Quando ero all'università tutte le ragazze del mio dormitorio lo credevano Clark Gable.» Sorseggiai il mio tè. Sapeva di pesche fermentate. «Mio fratello, quand'era a Princeton, conosceva una ragazza che si chiamava Krusemark»,
dissi. «Frequentava Wellesley e gli aveva predetto il futuro a una festa da ballo.» «Quella era mia sorella Margaret», mi fu risposto. «Io sono Millicent. Siamo gemelle. Lei è la strega di famiglia, io mi do alla magia bianca.» Mi sentii come uno che si sveglia da un sogno di ricchezze per scoprire che i suoi tesori gli svaniscono tra le dita come nebbia. «Sua sorella vive qui a New York?» domandai, continuando nel mio tono leggero. Conoscevo già la risposta. «Oddio, no. Maggie andò a stare a Parigi più di dieci anni fa. Sono secoli che non la vedo. Come si chiama suo fratello?» L'intera pantomima si afflosciò intorno a me, come l'involucro di un pallone sgonfiato. «Jack», dissi. «Non ricordo che Maggie avesse mai nominato un Jack. Certo, nella sua vita c'erano talmente tanti giovanotti, a quei tempi. Ho bisogno che lei risponda a qualche domanda.» Allungò la mano verso il tavolo per prendere un portacarte di cuoio e una serie di matite. «In modo da permettermi di fare il suo oroscopo.» «Cominci pure!» Feci uscire di scatto una sigaretta dal pacchetto e me la infilai in bocca. Millicent Krusemark mi sventolò una mano davanti alla faccia, come per asciugare lo smalto delle unghie. «No, la prego. Sono allergica al fumo.» «Certo.» Mi cacciai la cicca dietro l'orecchio. «Lei è nato il 2 giugno 1920», disse la donna. «Questo solo fatto mi rivela un sacco di cose su di lei.» «Mi dica tutto quel che sa di me.» Millicent Krusemark mi fissò addosso quel suo sguardo felino. «So che lei è un attore nato», disse. «Recitare una parte le viene con tutta facilità. Lei cambia personalità istintivamente, senza fatica, come i camaleonti cambiano colore. Benché scoprire la verità la interessi profondamente, le menzogne escono dalle sue labbra senza esitazioni.» «Ben azzeccato. Continui.» «La sua capacità di recitare tante parti ha un suo lato oscuro e presenta un problema quando lei si trova a faccia a faccia con la duplice natura della sua personalità. Direi che lei è sovente vittima di dubbi. 'Come mai ho fatto una cosa simile?' è il suo cruccio più costante. Le capita facilmente di essere crudele, eppure secondo lei questa sua abilità a fare del male agli altri è inconcepibile. Da un lato lei è metodico e tenace, ma all'opposto dà molto peso all'intuizione.» Sorrise. «Quanto a donne, le preferisce giovani
e brune.» «Dieci con lode», dissi. «Ha fatto centro.» Ed era vero. Non aveva compiuto nemmeno un errore. Uno psicanalista che sapesse scandagliare tali segreti varrebbe certo i suoi venticinque dollari all'ora per le sedute. Un unico problema: la data di nascita sbagliata. Millicent Krusemark leggeva il mio carattere sui dati di Johnny Favorite. «Lei sa dove potrei incontrare qualche donna giovane e bruna?» «Sarò in grado di dirle molto di più quando avrò quel che mi occorre.» La maga bianca fece qualche scarabocchio sul suo notes. «Non posso garantirle la donna dei suoi sogni, ma posso essere più specifica. Ecco, sto annotando i dati della posizione degli astri per questo mese, in modo da vedere che influsso abbiano sul suo oroscopo. In realtà non sul suo, ma su quello del ragazzo al quale ho accennato poco fa. I vostri oroscopi sono senza dubbio simili.» «Sono pronto.» Millicent Krusemark, studiando i suoi appunti, aggrottò la fronte. «Questo è un periodo di grande pericolo. Recentissimamente, questa settimana, lei è rimasto coinvolto in una morte. Non conosceva bene il defunto, tuttavia è rimasto molto scosso dal suo decesso. C'entra la professione medica. Lei stesso probabilmente entrerà presto in un ospedale: gli aspetti sfavorevoli sono molto forti. Si guardi dagli estranei.» Fissai quella strana donna in nero e mi sentii cingere il cuore da invisibili tentacoli di paura. Come mai sapeva tanto così? Avevo la bocca secca, le labbra si incepparono mentre parlavo: «Che cos'è quel medaglione che porta al collo?» «Questo?» La mano della donna si fermò un attimo alla gola, come un uccello che si riposa in volo. «Non è altro che un pentacolo. Porta fortuna.» Il pentacolo del dottor Fowler non gli aveva portato molta fortuna, ma effettivamente non lo aveva addosso quand'era morto. Oppure qualcuno aveva tolto al vecchio l'anello dopo averlo ucciso? «Ho bisogno di altri dati», disse Millicent Krusemark tenendo sospesa come un dardo la matita di filigrana. «Dove e quando nacque la sua fidanzata? Mi occorrono l'ora e il posto esatti. In modo da poterne determinare latitudine e longitudine. Inoltre lei non mi ha detto dov'è nato.» Improvvisai date e posti fasulli e compii il gesto rituale di dare un'occhiata all'orologio prima di posare la tazza sul tavolino. Ci alzammo insieme, come in un ascensore. «Grazie per il tè.»
Mi accompagnò alla porta e mi disse che gli oroscopi sarebbero stati pronti la settimana seguente. Risposi che sarei passato a prenderli. Ci stringemmo la mano con la meccanica compassatezza di soldatini a molla. 12 Scendendo in ascensore trovai la sigaretta dietro l'orecchio e l'accesi appena arrivato in strada. Il vento di marzo mi diede una sensazione di pulizia. Mancava quasi un'ora al mio incontro con Vernon Hyde, perciò camminai lentamente lungo la Settima Avenue cercando di dare un senso all'indicibile paura che mi aveva colto nell'oscuro appartamento dell'astrologa. Sapevo che non poteva essere altro che una truffa, un gioco di prestigio verbale, come saper vendere di porta in porta un'enciclopedia. Attenzione agli estranei. Una di quelle cretinate che ti danno per pochi soldi insieme con il tuo peso. Quella donna mi aveva fatto fesso con la sua voce da oracolo e con i suoi occhi da ipnotizzatrice. La Cinquantaduesima Strada aveva un aspetto sgangherato. A due isolati verso est, il '21' conservava il ricordo di eleganti spacci clandestini durante il proibizionismo, ma una lunga serie di locali di spettacoli di spogliarello avevano sostituito quasi tutti i club dove si suonava il jazz. L'Onyx Club era sparito, soltanto il Birdland teneva acceso il fuoco sacro del be-bop in Broadway. La Famosa Porta era chiusa per sempre. Il Jimmy Ryan e Hickory House erano gli unici sopravvissuti in una strada le cui case di pietra avevano ospitato durante il proibizionismo più di cinquanta bettole illegali. Mi diressi verso est, oltrepassando ristoranti cinesi e irascibili prostitute con borsette rotonde di similpelle chiuse da una cerniera lampo. Il trio di Don Shirley dava spettacolo alla Hickory House, ma la musica sarebbe cominciata fra molte ore e il bar, quando entrai, era tranquillo e buio. Ordinai un whisky con succo di limone e presi posto a un tavolo da cui potevo tenere d'occhio la porta. Avevo già bevuto due bicchieri, quando vidi un tizio che portava l'astuccio di un sassofono. Indossava un giubbotto di pelle scamosciata marrone su un maglione irlandese a collo alto color crema. Aveva i capelli brizzolati e tagliati corti. Gli feci cenni con le mani. Si avvicinò. «Vernon Hyde?» «Sono proprio io», disse con un ghigno contorto. «Posteggi il sassofono e beva qualcosa.» «Magnifico.» Posò l'astuccio del suo sassofono con precauzione sul ta-
volino e tirò a sé una sedia. «Dunque, lei è uno scrittore. Che genere di cose scrive?» «Scrivo più che altro per le riviste», dissi. «Profili, articoli su certi personaggi.» La cameriera si avvicinò, Hyde ordinò una bottiglia di Heineken. Chiacchierammo del più e del meno fino a quando la donna ebbe portato la birra e l'ebbe versata in un alto bicchiere. Hyde bevve un lungo sorso e venne al punto. «Dunque, lei desidera scrivere sull'orchestra di Spider Simpson. Be', ha scelto la strada giusta. Se il cemento potesse parlare, quel marciapiede le racconterebbe la storia della mia vita.» Dissi: «Senta, non voglio ingannarla. Il mio articolo citerà l'orchestra, però il mio interesse è diretto soprattutto a Johnny Favorite». Il sorriso di Vernon Hyde si contorse tanto da diventare una smorfia di disgusto. «Quello là? Che bisogno c'è di scrivere su quel coglione?» «Ne deduco che non era un suo grande amico!» «E, per giunta, chi mai si ricorda ancora di Johnny Favorite?» «Un redattore di Look se lo ricorda quanto basta per avermi proposto l'articolo. E i suoi ricordi mi sembrano piuttosto vividi. Com'era?» «Quell'individuo era un bastardo. Ciò che fece a Spider fu di una bassezza inaudita.» «Che cosa fece?» «Lei deve tenere presente che Spider lo scoprì, lo tolse da non so quale localaccio in un posto del diavolo.» «Questo lo so.» «Favorite aveva un enorme debito di riconoscenza verso Spider. Riceveva anche una percentuale sugli incassi, non solo uno stipendio come il resto dell'orchestra. Quindi non capisco di che cosa potesse lamentarsi. Il suo contratto con Spider era valido ancora per quattro anni, quando si separò da lui. Per colpa di quel piccolo mascalzone ci annullarono degli spettacoli prenotatissimi.» Tirai fuori il taccuino e la matita automatica e finsi di prendere appunti. «Favorite si è mai messo in contatto con qualcuno dei vecchi orchestrali di Simpson?» «Forse che i fantasmi vanno a spasso?» «Scusi?» «Ha tirato le cuoia, amico, da un bel po' di anni ormai. L'hanno fatto fuori in guerra.» «Ma è vero?» dissi. «A me hanno raccontato che si trova in un ospedale
nel nord.» «Può darsi, ma mi pareva di ricordare che fosse morto.» «Mi dicono che era superstizioso. Lei ricorda qualcosa a questo proposito?» Vernon Hyde sorrise il suo sorriso storto. «Certo che sì, girava sempre in cerca di sedute spiritiche e di sfere di cristallo. Una volta, mentre eravamo in viaggio, mi pare che fossimo a Cincy, pagammo la puttana dell'albergo perché fingesse di essere una chiromante. Quella gli disse che stava per prendersi lo scolo, tanto che Favorite non guardò più una sola ragazza sino alla fine della tournée.» «Non aveva un'amica dell'alta società che prediceva il futuro?» «Sì, qualcosa del genere. Non incontrai mai la pollastrella. A quei tempi Johnny e io giravamo su orbite diverse.» «Quando Favorite cantava con voi, l'orchestra di Spider Simpson era segregazionista, vero?» «Certo, eravamo tutti bianchi. Mi sembra che un anno ci fosse stato un cubano al vibrafono.» Vernon Hyde finì la sua birra. «Neppure Duke Ellington, a quei tempi, superava la discriminazione razziale, se lo ricordi.» «È vero.» Scribacchiai sul taccuino. «Ma frequentare negri dopo il lavoro era, naturalmente, un'altra faccenda.» Il sorriso di Hyde non era quasi più storto, al ricordo di quelle sale fumose. «Quando la banda di Basie era in città, qualcuno di noi si riuniva e improvvisavamo tutta la notte.» «Favorite partecipava a quelle riunioni?» «Nient'affatto. A Johnny i negri non piacevano. Dopo il lavoro, le uniche persone di colore che era disposto a vedere erano le cameriere degli attici di Park Avenue.» «Interessante. E io che credevo fosse un amico di Toots Sweet.» «Può darsi che un giorno gli avesse chiesto di lucidargli le scarpe. Glielo ripeto, Johnny aveva i negri in antipatia. Ricordo di averlo sentito dire che Georgie Auld era un tenore migliore di Lester Young. Immagini!» Dissi che superava la mia capacità di comprensione. «Credeva che portassero scalogna.» «I pianisti con voce da tenore?» «I negri, amico. Per Johnny erano come i gatti neri, non per fare un gioco di parole.» Gli chiesi se Johnny Favorite fosse stato intimo di qualcuno dell'orchestra.
«Credo che Johnny non avesse un solo amico al mondo», rispose Vernon Hyde. «E se vuole mi può citare. Era un solitario. Si teneva quasi sempre in disparte. Oh, scherzava con tutti e aveva sempre un gran sorriso sulla faccia, ma ciò non significava niente. Johnny aveva il dono di essere simpatico. Se ne serviva come di uno scudo per tenere tutti a distanza.» «Che cosa mi potrebbe dire della sua vita privata?» «Non lo vedevo mai se non sul palco dell'orchestra oppure durante un viaggio in autobus durante la notte. Spider lo conosceva meglio di tutti noi. È a lui che dovrebbe parlare.» «Ho il suo numero di telefono sulla costa occidentale», dissi. «Ma non l'ho ancora trovato. Un'altra birra?» Hyde disse perché no. Ordinai di nuovo. Passammo l'ora successiva scambiandoci fandonie sulla Cinquantaduesima Strada dei vecchi tempi. Il nome di Johnny Favorite non fu più pronunciato. 13 Vernon Hyde partì per mete sconosciute poco prima delle sette, io percorsi due isolati in direzione ovest fino da Gallagher, dove servono la migliore bistecca della città. Verso le nove terminai la seconda tazza di caffè e un sigaro, pagai il conto e salii su un tassi in Broadway per fare gli otto isolati fino alla mia autorimessa. Guidai su per la Sesta Avenue, seguendo il traffico diretto a nord. Attraversai Central Park, oltrepassai il reservoir e Harlem Meer. Uscii dal parco al Warrior's Gate, tra la Centodecima Strada e la Settima Avenue, entrando in un mondo di casamenti popolari e di oscure strade secondarie. Non ero più stato a Harlem dall'anno precedente, quando avevano abbattuto la sala da ballo Savoy, ma tutto aveva l'aspetto di prima. A questo capo della città Park Avenue passava sotto le rotaie del New York Central, perciò la Settima, con i suoi spartitraffico di cemento che la dividevano in due corsie, era diventata la via da frequentare. Quando attraversai la Centoventicinquesima Strada, tutto era illuminato come Broadway. Più avanti Small's Paradise e il locale di Count Basie mi parvero pieni di vita e in buone condizioni. Trovai posto per la macchina davanti al Red Rooster ma sull'altro lato della via e aspettai che il semaforo mi lasciasse passare. Un giovanotto color caffè con una piuma di fagiano sul cappello uscì da un gruppo che indugiava a un angolo e mi chiese se volessi comprare un orologio. Tirò su entrambe le maniche del suo attillato
soprabito e me ne mostrò una mezza dozzina per braccio. «Ti posso fare un buon prezzo, fratello. Davvero buono.» Gli dissi che avevo già un orologio e attraversai al verde. Il Red Rooster era lussuoso e buio. Le tavole intorno al palco dell'orchestra erano affollate delle celebrità di Harlem, di spendaccioni accanto alle loro donne splendenti in uno sfoggio multicolore di abiti da sera a lustrini e di braccia e spalle nude. Trovai uno sgabello libero al banco e ordinai un bicchiere di Rémy Martin. Il trio di Edison Sweet era impegnato sul palco, ma da dove sedevo si vedeva soltanto la schiena del pianista piegato sulla tastiera. Gli altri strumenti erano una viola da gamba e una chitarra elettrica. L'orchestra suonava un blues, la chitarra scattava dentro e fuori della melodia come un colibrì. Il piano fremeva e tuonava. La mano sinistra di Toots Sweet era davvero agilissima, come aveva affermato Kenny Pomeroy. Il gruppo non aveva affatto bisogno di un batterista. Sui ritmi malinconici e mutevoli della viola Toots inseguiva un intricato lamento; quando cantava, la sua voce era dolce e amara di sofferenza: Ho dentro quei blues vudu Quei cattivi blues del malocchio. Petro Loa non mi lascia in pace; Ogni notte sento gemere gli zombi. Signore, ho dentro quei maligni vecchi blues vudu. Zu-Zu era una mambo, amava un uomo hungan; Andare con Erzuli non faceva parte dei suoi piani. L'incantesimo del tam-tam la trasformò in schiava, E ora il barone Samedi balla sulla sua tomba. Sì, lei ha dentro quei blues vudu, Quei brutti blues del malocchio... Quand'ebbero finito, i musicisti risero e chiacchierano e si asciugarono le facce sudate con grandi fazzoletti bianchi. Dopo un momento si avviarono al banco. Dissi al barista che desideravo pagare da bere al gruppo. Il barista prese i loro ordini e fece un cenno nella mia direzione. Il chitarrista e il violinista presero in mano il loro bicchiere, mi lanciarono un'occhiata e si confusero con la folla. Toots Sweet afferrò uno sgabello a un'estremità del banco e si appoggiò all'indietro in modo da poter vedere la sala, con la grossa testa grigia appoggiata alla parete. Presi il mio bic-
chiere e mi feci strada verso di lui. «Volevo soltanto ringraziarla», dissi arrampicandomi sullo sgabello vicino al suo. «Lei è un artista, signor Sweet.» «Chiamami Toots, figlio. Non mordo.» «Come vuoi, Toots.» Toots Sweet aveva una faccia larga, scura e rugosa come tabacco conciato. I suoi fitti capelli avevano il colore della cenere di sigaro. Scoppiava dentro un vestito lucido di saia blu, eppure aveva piedi piccoli e delicati come quelli di una donna, racchiusi in scarpette di vernice a due colori, bianco e nero. «Mi è piaciuto il blues che hai suonato alla fine», dissi. «Quello l'ho scritto un giorno a Houston, tanti anni fa, su un tovagliolino di carta.» Rise. L'improvviso biancore del sorriso divise in due la sua faccia scura, come la fine di un' eclisse di luna. Uno dei suoi incisivi aveva una capsula d'oro, sotto la quale lo smalto bianco luccicava da un intaglio a forma di stella a cinque punte, capovolta. Era una cosa che si notava subito. «Sei nato in quella città?» «A Houston? Oddio, no, ero solo di passaggio.» «Di dove sei?» «Io? Sono un ragazzo di New Orleans, ci sono nato e cresciuto. Hai davanti ai tuoi occhi una delizia degli antropologi. Suonavo nei bordelli di Storyville prima di avere quattordici anni. Conoscevo tutta la cricca, Bunk e Jelly e Satchelmouth. Risalii il fiume, arrivai a Chicago. Ah, ah, ah!» Toots scoppiò a ridere rumorosamente dandosi manate sulle grosse ginocchia. Gli anelli nelle sue dita tozze lanciarono guizzi nella penombra della sala. «Mi prendi in giro», dissi. «Forse, ma poco poco, figlio mio. Forse solo un pochino.» Sghignazzai e annusai il mio bicchiere. «Dev'essere splendido avere tanti ricordi così.» «Stai scrivendo un libro, figlio mio? Riconosco uno scrittore a prima vista, proprio come la volpe sente odor di gallina.» «Hai azzeccato, vecchia volpe. Sto preparando un articolo per la rivista Look.» «Un articolo su Toots in Look? Proprio lì, in compagnia di Doris Day? Ahah!» «Be', non voglio burlarmi di te, Toots. L'articolo sarà su Johnny Favori-
te.» «Su chi?» «Su un cantante. Una volta cantava con l'orchestra swing di Spider Simpson. Poco dopo il 1940.» «Sì, ricordo Spider. Suonava il tamburo come due martelli pneumatici che scopano.» «Che cosa ricordi di Johnny Favorite?» gli domandai. La faccia nera di Edison Sweet assunse l'espressione innocente di uno studente che non sa rispondere a un'interrogazione d'algebra. «Di lui non ricordo niente; eccetto che forse cambiò nome e diventò Frank Sinatra. Vic Damone durante i fine settimana.» «Forse mi hanno informato male», dissi. «Mi ero fatto l'idea che foste buonissimi amici.» «Figlio mio, tanto tempo fa Favorite registrò su disco una delle mie canzoni e gli sono riconoscente per gli assegni dei diritti d'autore, da tempo spariti, ma questo non fa di noi degli amici.» «Ho visto una foto di voi due che cantate insieme. Era su Life.» «Sì, sì, ricordo esattamente quella serata. Eravamo nel bar di Dickie Well. L'avevo visto da queste parti una volta o due, ma non veniva certamente a Harlem a trovare me.» «Chi veniva a trovare qui?» Toots Sweet abbassò gli occhi fingendo ritrosia. «Mi fai fare la spia, figlio mio.» «Che importanza ha, dopo tutti questi anni?» dissi. «Arguisco che venisse a trovare una signora.» «Era una vera signora, dalla punta dei piedi ai capelli, non metterlo in dubbio.» «Dimmi il suo nome.» «Non è un segreto. Tutta la gente che girava da queste parti prima della guerra sa che Evangeline Proudfoot frequentava Johnny Favorite.» «Si direbbe che nessun giornalista bianco lo sapesse.» «Figlio mio, a quei tempi, se sconfinavi tra i negri, non andavi in giro a vantartene.» «Chi era Evangeline Proudfoot?» Toots sorrise. «Una donna bella e forte delle Indie Occidentali», disse. «Aveva dieci o quindici anni più di Johnny, ma era ancora una tale bellezza che chi ci sfigurava era lui.» «Sai dove potrei trovarla?»
«Sono anni che non vedo Evangeline. Si era ammalata. Il negozio c'è ancora, quindi può darsi che ci sia ancora anche lei.» «Che specie di negozio era?» Feci del mio meglio per evitare che il tono della mia domanda fosse quello di un poliziotto. «Evangeline aveva un'erboristeria sulla Lenox. La teneva aperta fino a mezzanotte tutti i giorni, esclusa la domenica.» Toots mi diede una strizzatina d'occhio molto teatrale. «È ora di suonare di nuovo. Rimani qui per un altro tempo, figlio mio?» «Ritornerò», gli dissi. 14 «PRODOTTI FARMACEUTICI PROUDFOOT» era un negozio situato all'angolo nord-occidentale di Lenox Avenue con la Centoventitreesima Strada. Il nome era appeso nella vetrina, scritto a caratteri cubitali di neon azzurro. Lasciai la macchina a un mezzo isolato di distanza ed esaminai la bottega. La vetrina metteva in mostra oggetti inpolverati immersi in una vaporosa luce azzurra. Su piccoli ripiani circolari di cartone disposti ai due lati c'erano scatolette stinte di medicine omeopatiche. Attaccato alla parete di fondo c'era uno schema anatomico multicolore del corpo umano, con la carne e i muscoli sollevati per lasciar vedere un pasticcio di visceri intrecciati. Ciascuno dei ripiani di cartone era unito all'appropriato organo interno da un festone di nastro di raso. Il rimedio collegato al cuore si chiamava 'Benifico estratto di belladonna della ditta Proudfoot'. Sopra la parete di fondo della vetrina intravidi una parte del negozio. Luci fluorescenti pendevano dal soffitto decorato; antiquati ripiani di legno chiusi dietro vetri correvano lungo la parete di fronte. L'oscillare del pendolo di un orologio sembrava l'unica attività. Entrai. Un odore pungente di incenso bruciato era nell'aria. Mentre chiudevo la porta, delle campanelle tintinnarono sulla mia testa. Diedi un rapido sguardo intorno a me. Su un espositore girevole di metallo vicino all'entrata una serie di 'libri dei sogni' e opuscoli che trattavano dei vari problemi dell'amore si disputavano l'attenzione del cliente con le loro copertine vistose. C'era una piramide fatta di polveri portafortuna contenute in alti cilindri di cartone: spargetevi sull'abito un po' di questa sostanza al mattino e sicuramente il numero che troverete sul libro dei sogni vi farà vincere una grande somma. Stavo esaminando le candele profumate e colorate il cui uso continuo
avrebbe di sicuro portato fortuna, quando una graziosissima ragazza dalla pelle color moka arrivò dal retrobottega e prese posto dietro il banco. Portava sul vestito un grembiule bianco e sembrava avere diciannove o vent'anni. I capelli, color mogano lucido e ondulati, le arrivavano alle spalle. Al polso esile tintinnavano numerosi anelli d'argento sottili. «Che cosa desidera?» mi domandò. Appena nascosta sotto la sua modulata dizione rimaneva la melodiosa cadenza del calipso dei Caraibi. Risposi a caso, senza pensarci: «Ha per caso una radice di mandragora?» «In polvere o intera?» «La voglio intera. Non è meglio per l'incantesimo?» «Non vendiamo incantesimi, signore. Questa è un'erboristeria.» «E come la chiama lei la merce in vetrina?» domandai. «Specialità farmaceutiche?» «Teniamo qualche curiosità. Da Rexall, che è una farmacia, vendono cartoncini di auguri.» «Scherzavo. Non avevo intenzione di offenderla.» «Non sono offesa. Mi dica quanta mandragora desidera e io gliela peso.» «C'è la signorina Proudfoot?» «La signorina Proudfoot sono io.» «La signorina Evangeline Proudfoot?» «Io sono Epiphany. Evangeline era mia madre.» «Ha detto era?» «La mamma è morta l'anno scorso.» «La notizia mi addolora.» «Era ammalata da molto tempo, è stata per anni immobile a letto. È meglio così.» «Le ha lasciato un nome grazioso, Epiphany», dissi. «È adatto a lei.» Sotto la carnagione caffelatte, la ragazza arrossì leggermente. «Mi ha lasciato molto più del nome. Questo negozio prospera da quarant'anni. Era un cliente della mamma?» «No, non l'ho mai conosciuta. Avevo sperato che potesse rispondere a qualche mia domanda.» Gli occhi color topazio di Epiphany Proudfoot si oscurarono. «Che cos'è lei, una specie di poliziotto?» Sorrisi. Avevo pronta sulla punta della mia eloquente lingua la scusa di Look; ma, pensando che Epiphany fosse troppo intelligente da prenderla per buona, dissi invece: «Investigatore privato. Posso farle vedere la tessera».
«Lasci perdere la sua copia fotostatica da due soldi. Perché avrebbe voluto parlare con la mamma?» «Sto cercando un tale che si chiama Johnny Favorite.» La ragazza improvvisamente si irrigidì. Come se qualcuno le avesse toccato la nuca con un cubetto di ghiaccio. «È morto», disse distogliendo lo sguardo. «No, non è morto, anche se quasi tutti lo credono.» «Per quanto mi riguarda, è morto.» «Lo conosceva?» «Non l'ho mai visto.» «Edison Sweet dice che era amico di sua madre.» «Questo succedeva prima che io nascessi», disse Epiphany. «Sua madre non le ha mai parlato di lui?» «Signor... chiunque lei sia, non pretenderà certo che io tradisca le confidenze di mia madre. Si vede lontano un miglio che lei non è un gentiluomo.» Non vi feci caso. «Potrebbe almeno dirmi se lei o sua madre hanno mai più visto Johnny Favorite, diciamo in questi ultimi quindici anni o giù di lì?» «Le ho già detto che non l'ho mai visto. Eppure mia madre mi presentava sempre a tutti i suoi amici.» Tirai fuori il portafoglio, quello in cui tengo i soldi. Le diedi il cartoncino dell'agenzia Crossroads. «Va bene», dissi. «Io ci ho provato, se non altro. Qui in basso c'è il numero di telefono dell'ufficio. La prego di telefonarmi, se le verrà in mente qualcosa o se sentirà qualcuno dire di avere visto Johnny Favorite.» Epiphany sorrise, ma il suo sorriso era privo di calore. «Per che motivo gli dà la caccia?» «Non 'gli do la caccia', voglio semplicemente sapere dov'è.» La ragazza infilò il mio biglietto nel vetro del registro di cassa, un oggetto di ottone riccamente decorato. «E se fosse morto?» «Sono pagato in tutti e due i casi.» Questa volta la risata fu quasi vera. «Spero che lo trovi due metri sottoterra», disse. «A me andrebbe benissimo. La prego, si tenga stretto il mio biglietto da visita. Non si sa mai che cosa potrebbe succedere.» «È vero.» «La ringrazio del tempo che ha perso con me.»
«Se ne va senza la sua mandragora, vero?» Spinsi indietro le spalle. «Ho l'aria di averne bisogno?» «Signor Crossroads», disse la ragazza, con una risata profonda e piena, «ha l'aria di avere bisogno di tutto l'aiuto che potrà procurarsi.» 15 Quando tornai al Red Rooster avevo perso tutto il secondo tempo e Toots era di nuovo seduto sullo stesso sgabello al banco. Vicino al suo gomito frizzava un bicchiere di champagne. Mentre mi facevo strada tra la folla, mi accesi una sigaretta. «Hai trovato quel che cercavi?» mi domandò con indifferenza Toots. «Evangeline Proudfoot è morta.» «Morta? Questo è un vero peccato. Era una donna eccellente.» «Ho parlato con sua figlia. Non mi è stata di grande aiuto.» «Sarebbe magari meglio che ti scegliessi qualcun altro per farci su un articolo, figlio mio.» «Non credo. La cosa comincia a interessarmi.» La cenere della sigaretta mi cadde sulla cravatta e, quando la cacciai via, lasciò un segno vicino alla macchia di minestra. «Si direbbe che tu abbia conosciuto piuttosto bene Evangeline Proudfoot. Che cosa puoi ancora raccontarmi sulla sua relazione con Johnny Favorite?» Toots Sweet si alzò rumorosamente sui suoi piccoli piedi. «Non ti posso dire niente, figlio mio. Sono troppo grosso per nascondermi sotto il letto. E poi è ora che torni a lavorare.» Mi lanciò un sorriso che mise in mostra la stella e si avviò verso il palco dell'orchestra. Lo seguii da vicino come un avido cronista. «Ti ricordi forse di qualcun altro dei loro amici? Di gente che li conosceva quando stavano insieme?» Toots sedette sul panchetto del piano e scrutò la sala in cerca degli accompagnatori che tardavano ad arrivare. Mentre i suoi occhi balzavano da un tavolo all'altro, parlava con me. «Penso che mi calmerò la mente con un po' di musica. Magari qualche ricordo tornerà a galla.» «Non ho fretta. Posso ascoltarti suonare per tutta la notte.» «Va' a sederti durante questo tempo, figlio mio.» Toots sollevò il ricurvo coperchio del pianoforte a mezza coda. Una zampa di gallina era posata sulla tastiera. Toots chiuse di botto il coperchio. «Smettila di starmi alle spalle!» borbottò rabbioso. «Adesso devo suonare.»
«Che cos'era?» «Non era niente. Non è affare tuo!» Ma non era affatto niente. Era una zampa di gallina che copriva un'ottava, dall'appuntito artiglio giallo di un dito squamoso fino al punto sopra la giuntura, ancora sanguinante, dov'era stata tagliata. Sotto quel che rimaneva di un ciuffo di penne bianche, era annodato a fiocco un pezzo di nastro nero. Era molto, ma molto più di niente. «Che cosa sta succedendo, Toots?» Il chitarrista venne a sedersi e accese l'amplificatore. Diede un'occhiata a Toots e si gingillò con il volume. Aveva problemi di retroazione. Toots sibilò. «Non sta succedendo niente che tu debba sapere. Non mi caverai più di bocca una sola parola. Neppure dopo questo tempo. Mai più!» «Chi ti perseguita, Toots?» «Vattene di qui.» «Che cosa c'entra Johnny Favorite con tutto questo?» Toots parlò molto lentamente, senza badare al suonatore di viola che era apparso alle sue spalle. «Se non te ne vai subito di qui, intendo sul fottuto marciapiede, ti augurerai di non essere mai nato, carogna bianca.» Incontrai lo sguardo implacabile del suonatore di viola e diedi un'occhiata intorno. La sala era piena. Mi feci un'idea di come si fosse sentito Custer sulla collina a Little Big Horn. «Non ho da fare altro», aggiunse Toots, «che dire una parola.» «Quante scene, Toots, ho capito.» Buttai la cicca sul pavimento della pista da ballo, la schiacciai con il tacco e me ne andai. La mia macchina era al suo posto dall'altra parte della Settima Avenue. Quando il semaforo divenne verde mi avviai. I fannulloni all'angolo erano andati altrove, il loro posto era preso da una magra donnina negra, che indossava una malandata pelliccia di volpe. Oscillava avanti e indietro sui suoi tacchi a spillo, inalando rapidamente con narici da cocainomane dopo tre giorni di droga. «Un po' di divertimento, signore?» mi domandò mentre passavo. «Un po' di divertimento?» «Questa sera no», dissi. Sedetti al volante e mi accesi un'altra sigaretta, prendendo tempo. La donnina magra mi sorvegliò per un momento, poi si allontanò con passo malfermo lungo la Settima. Non erano ancora le undici. Verso mezzanotte rimasi senza sigarette. Calcolai che Toots non se la sarebbe svignata prima di finire il concerto. Avevo un sacco di tempo a
mia disposizione. Percorsi un isolato e mezzo della Settima fino a una bottiglieria aperta tutta la notte, dove mi comprai due pacchetti di Lucky Star e una pinta di Early Times. Tornando indietro, attraversai la strada e rimasi un momento fermo davanti all'ingresso del Red Rooster. Dentro rimbombava quel misto di Beethoven e di jazz che era la musica di Toots. La notte era fredda. Ogni tanto accendevo il motore per vincere il gelo. Poi spegnevo perché, stando al caldo, avrei corso il pericolo di addormentarmi profondamente. Alle quattro meno un quarto, quando l'ultimo pezzo finì, il portacenere del cruscotto era pieno e l'Early Times vuoto. Mi sentivo in forma. Toots uscì dal club cinque minuti circa prima della chiusura. Abbottonò il pesante cappotto e scherzò con il chitarrista. Al suo fischio acuto con due dita, un tassi di passaggio si fermò facendo stridere i freni. Girai la chiavetta e accesi il motore della Chevrolet. Il traffico era scarso. Volendo tenermi ad almeno due isolati di distanza, non accesi i fari e sorvegliai nello specchio retrovisivo il tassi che invertiva la direzione di marcia nella Centotrentottesima Strada e ripartiva sulla Settima Avenue verso di me. Li lasciai arrivare davanti alla bottiglieria notturna, prima di accendere i fari e staccarmi dal marciapiede. Seguii il tassi fino alla Centocinquantaduesima Strada, dove svoltò a sinistra. A metà dell'isolato la macchina rallentò e si fermò davanti a una delle case del complesso Harlem River. Passai oltre e, superata Macomb's Piace, cambiai direzione tornando sulla Settima all'estremità nord del gruppo di edifici. Vicino all'angolo, vidi il tassi che aspettava davanti a una delle case, con la porta aperta e la luce del tetto spenta. Sul sedile posteriore non c'era nessuno. Toots stava correndo su per le scale per liberarsi della zampa di gallina. Spensi i fari e mi fermai in doppia fila in un punto da cui potevo sorvegliare il tassi. Pochi minuti dopo Toots era di ritorno. Aveva in mano una borsa da bocce di tela scozzese rossa. A Macomb's Piace il tassi prese a sinistra e continuò verso sud sull'Ottava Avenue. Rimanendo indietro di tre isolati, lo tenni d'occhio lungo tutto il percorso fino al Frederick Douglas Circle, dove svoltò in direzione est sulla Centodecima Strada e seguì la cinta settentrionale di Central Park fin dove la St. Nicholas e la Lennox Avenue hanno inizio e si biforcano. Mentre sorpassavo il tassi, vidi Toots che con il portafoglio in mano aspettava il resto. Curvai stretto a sinistra e mi fermai sulla St. Nicholas Avenue. Tornai
indietro di corsa fino alla Centodecima Strada, in tempo per vedere il tassi che ripartiva e la sagoma lontana di Toots Sweet, un'ombra che spariva furtivamente tra le ombre del mondo buio e silenzioso del parco. 16 Toots seguì il sentiero che corre lungo la riva occidentale di Harlem Meer, attraversando i coni di luce sotto una serie di lampioni. Mi tenevo su un lato, nella zona d'ombra; ma Toots non si voltò mai a guardare. Percorse in fretta i margini del Meer e passò sotto l'arco di Huddlestone Bridge. Un tassi rombò sulle nostre teste seguendo la East Drive in direzione di Harlem. Di là dalla Drive c'è il Loch, la zona più appartata di Central Park. Il sentiero scende serpeggiando in un profondo avvallamento, ingombro di alberi e di cespugli e del tutto isolato dalla città. Vi faceva molto buio. Tutto taceva. Per un momento credetti di avere perso Toots. Poi udii i tamburi. C'erano baluginii di luce, nella boscaglia, come lucciole. Muovendo con precauzione tra gli alberi, giunsi al riparo di un pietrone. Quattro candele bianche tremolavano su piattini posati a terra. Contai quindici persone in piedi nella fioca luce. C'erano tre batteristi, ciascuno dei quali suonava uno strumento di dimensioni diverse. Il più grosso sembrava un conga. Un uomo magro dai capelli grigi lo percuoteva con una mano nuda e con un martelletto di legno. Una ragazza vestita di bianco, con un turbante bianco in testa, eseguiva disegni complicati sul suolo tra le candele. Servendosi di manciate di farina, come gli Hopi che dipingono sulla sabbia, tracciava turbinanti figure intorno a una buca circolare scavata nella terra dura. Quando si voltò, il suo viso fu illuminato dalla fiamma delle candele: era Epiphany Proudfoot. Gli spettatori ondeggiavano da un lato all'altro, cantilenando e battendo le mani al ritmo dei tamburi. Parecchi uomini scuotevano sonagli di zucca, una delle donne produceva un ossessivo ritmo staccato con un paio di battagli di ferro. Osservai Toots Sweet mentre brandiva le sue maracas come Xavier Cugat davanti a un'orchestra di rumba. La vuota borsa scozzese da bocce era floscia ai suoi piedi. Nonostante il freddo, Epiphany era scalza e danzava al ritmo pulsante, facendo volteggiare manciate di farina bianca della migliore qualità fino a terra. Quando il disegno fu terminato, la ragazza saltò all'indietro, intrecciando le mani di fantasma bianco sulla testa, come per invitare a tragici
applausi. La sua danza spastica presto trascinò al ballo l'intero gruppo. Le ombre si spostavano grottesche nella traballante luce delle candele. Il ritmo demoniaco dei tamburi trasportò i ballerini nel suo vibrante incantesimo. I loro occhi non mostravano più altro che il bianco; le loro labbra cantilenanti erano piene di bava. Gli uomini e le donne si strusciavano gli uni contro le altre e gemevano, i loro bacini si univano e staccavano in un'estatica approssimazione dell'atto sessuale. Il bianco dei loro occhi luccicava come opale nelle facce coperte di sudore. Avanzai con circospezione tra gli alberi per vedere più da vicino. Qualcuno stava suonando un fischietto. Quell'acuto zufolio pugnalava la notte coprendo il dissonante clamore dei battagli di ferro. I tamburi ringhiavano e brontolavano, con ritmo insistente come febbre, deliranti, estasianti. Una donna cadde a terra e si contorse come una serpe, con la lingua che guizzava dentro e fuori con rapidità di rettile. Il vestito bianco di Epiphany le aderiva al giovane corpo bagnato. La sua mano si allungò verso una cesta di vimini e vi prese un gallo legato per le zampe. La bestia teneva dritta la testa con fierezza, la sua cresta color rosso sangue era vivida alla luce delle candele. Danzando, Epiphany strofinò le penne bianche contro il proprio petto. Serpeggiando tra la folla, accarezzò a turno ciascuno degli altri. Un lacerante chicchirichì fece tacere i tamburi. Avvicinatasi a passo di danza alla buca circolare, Epiphany si chinò e, con un'abile rasoiata, tagliò la gola del gallo. Il sangue zampillò nella buca scura. Il canto spavaldo si tramutò in un grido rantolante. La bestia morente sbatteva selvaggiamente le ali. I danzatori gemevano. Epiphany posò accanto alla buca il gallo dissanguato, che ebbe ancora qualche frenetico sobbalzo, con le zampe legate che si contraevano insieme, finché le ali si aprirono in un ultimo fremito e lentamente si ripiegarono. A uno a uno i danzatori si avvicinarono oscillando e lasciarono cadere offerte nella buca. Manciate di monetine, un pugno di granturco, biscotti assortiti, caramelle, frutta. Una donna versò sul gallo morto una bottiglia di Coca-Cola. Poi Epiphany raccolse la flaccida bestia e l'appese a testa in giù ai rami di un albero vicino. Più o meno da quel momento la gente cominciò a disperdersi. Parecchi partecipanti, in piedi, con la testa china e le mani intrecciate, bisbigliavano al gallo penzolante. Altri intanto ritiravano i loro strumenti. Dopo essersi stretta la mano, prima la destra poi la sinistra, un braccio sull'altro, tutt'intorno al circolo, sgusciarono via scomparendo nel-
l'oscurità. Toots, Epiphany e due o tre degli altri si avviarono per rientrare lungo il sentiero che porta a Harlem Meer. Nessuno parlò. Li pedinai nell'oscurità, evitando il sentiero e rimanendo tra gli alberi per non lasciarmi vedere. Accanto al Meer il sentiero si divideva. Toots girò a sinistra. Epiphany e gli altri presero quello di destra. Feci mentalmente testa o croce e venne Toots, che si dirigeva verso l'uscita sulla Settima Avenue. Anche se non fosse andato dritto a casa, c'erano molte probabilità che vi arrivasse fra non molto. Mi proposi di essere lì prima di lui. Camminai chino tra i cespugli, scalai il muro di pietre rozze e attraversai di corsa la Centodecima Strada. Quando arrivai all'angolo con la St. Nicholas Avenue, mi voltai e vidi Epiphany e il suo vestito bianco all'ingresso del parco. Era sola. Resistetti alla tentazione di tornare sulla mia decisione e corsi alla Chevrolet. Le strade erano quasi vuote, guidai velocemente lungo la St. Nicholas, attraversai la Settima e l'Ottava senza fermarmi a un solo semaforo. Svoltai in Edgecomb Avenue, seguii Broadhurst lungo il fianco del Colonial Park, fino alla Centocinquantunesima Strada. Posteggiai la macchina vicino all'angolo con Macomb's Piace e feci a piedi il resto della strada, attraverso il complesso edilizio di Harlem River. Le case erano piacevoli costruzioni a quattro piani, disposte intorno a cortili e a zone pedonali piene di negozi. Erano state progettate durante la crisi e rappresentavano una soluzione molto più civile per abitazioni popolari dei monoliti disumani dei nostri giorni, cari alle autorità municipali. Trovai l'ingresso all'edificio di Toots sulla Centocinquantaduesima e cercai il numero del suo appartamento sulla fila di buche delle lettere d'ottone disposte sul muro di mattoni. La porta d'ingresso non mi procurò difficoltà. L'aprii in meno di un minuto con la lama del temperino. Toots abitava al terzo piano. Feci le scale ed esaminai la serratura. Non potevo forzarla senza la mia valigetta, perciò sedetti sugli scalini della rampa che saliva al quarto piano e aspettai. 17 Non dovetti attendere a lungo. Lo sentii ansimare su per le scale e spensi la cicca schiacciandola contro la suola della scarpa. Toots non mi vide e posò la borsa da bocce sul pavimento, mentre cercava in tasca le chiavi. Nel momento in cui aprì la porta, entrai in azione. Aveva allungato il braccio per prendere la borsa scozzese, quando lo ag-
gredii da dietro, afferrandolo con una mano per il bavero e con l'altra spingendolo all'interno. Toots inciampò e cadde sulle ginocchia, la borsa volò nel buio con gran frastuono, come un sacco pieno di serpenti a sonagli. Accesi il lampadario e chiusi la porta alle mie spalle. Toots si alzò in piedi sbuffando e ansando come un animale braccato. La sua mano destra sparì dentro una tasca della giacca e ne uscì un lungo rasoio. Spostai il peso da una gamba all'altra. «Non voglio farti del male, vecchio.» Toots borbottò qualcosa che non afferrai e avanzò pesantemente, brandendo il rasoio. Gli presi il braccio con la mano sinistra e feci un passo avanti, sollevando con forza il ginocchio e colpendolo dove si ottiene il massimo effetto. Toots si afflosciò e sedette per terra con un debole grugnito. Gli storsi leggermente il polso, Toots lasciò cadere sul pavimento il rasoio, che spedii con un calcio contro il muro. «Una stupidaggine, Toots.» Raccolsi il rasoio, lo chiusi e me lo misi in tasca. Toots sedeva reggendosi il ventre con tutte e due le mani, come temendo che, se l'avesse mollato, qualcosa si sarebbe allentato. «Cosa vuoi da me?» gemette. «Non sei uno scrittore.» «Stai facendoti furbo. Quindi, risparmiami le tue fesserie e dimmi che cosa sai di Johnny Favorite.» «Mi hai fatto male. Mi sento tutto rotto dentro.» «Guarirai. Vuoi sederti su qualcosa?» Fece segno di sì. Trascinai fin dietro a lui un pouf di cuoio marocchino nero e rosso e lo aiutai a sollevare la sua mole dal pavimento. Toots si lamentò e si afferrò la pancia. «Ascoltami, Toots», dissi. «Ho assistito al casino che avete fatto nel parco. All'esibizione di Epiphany Proudfoot con il gallo. Di che cosa si trattava?» «Magia obi», gemette. «Vudu. Non tutti i negri sono battisti.» «E la giovane Proudfoot? Che c'entra?» «È una mambo, come sua madre prima di lei. Per bocca di quella ragazza parlano spiriti potenti. Viene alle riunioni humfo da quando aveva dieci anni. È diventata sacerdotessa a tredici.» «Questo fu quando Evangeline Proudfoot si ammalò?» «Sì, qualcosa di simile.» Offrii una sigaretta a Toots, che però scosse la testa. Me ne accesi una e domandai: «Johnny Favorite partecipava ai riti vu-
du?» «Se la faceva con la mambo, no?» «E veniva alle riunioni?» «Certo che sì. Era un hunsibosal.» «Un cosa?» «Era stato iniziato, ma non battezzato.» «Come vi chiamano quando siete battezzati?» «Hunsi-kanzo.» «E tu cosa sei? Un hunsi-kanzo?» Toots fece sì con la testa. «Sono battezzato da molto tempo.» «Quand'è l'ultima volta che hai visto Johnny Favorite a uno dei vostri convegni ammazzagalline?» «Te l'ho detto, non l'ho più visto da prima della guerra.» «Come mai la zampa di gallina? Quella nel piano, con una cravatta a fiocco.» «Per dirmi che parlo troppo.» «Su Johnny Favorite?» «Su ogni cosa in genere.» «La risposta non è sufficiente, Toots.» Gli soffiai in faccia un po' di fumo. «Hai mai provato a suonare il piano con una mano ingessata?» Toots fece per alzarsi, ma si afflosciò di nuovo sullo sgabello, con una smorfia. «Non mi faresti una cosa simile, no?» «Farò quel che devo, Toots. Posso rompere un dito come se fosse un grissino.» Gli occhi del vecchio pianista si riempirono di paura. Feci scricchiolare le articolazioni della mia mano destra per accentuare la minaccia. «Chiedimi tutto quel che vuoi», disse Toots. «Tutto quel che ti ho raccontato finora è vero.» «E non hai visto Johnny Favorite negli ultimi quindici anni?» «No.» «Ed Evangeline Proudfoot? Non ha mai detto di averlo visto?» «Che abbia sentito io, no. L'ultima volta che ha parlato di lui è stato otto, dieci anni fa. Me ne ricordo perché era quando un professore universitario ci aveva avvicinati volendo scrivere in un libro qualche cosa sull'obi. Evangeline gli aveva detto che i bianchi non erano accettati nelle riunioni. E io le avevo detto, 'meno quelli che sanno cantare', capisci, per prenderla in giro.» «E lei che cosa disse?»
«Ci arrivo. Non aveva riso ma non si era arrabbiata. Aveva detto, Toots, se Johnny fosse vivo, sarebbe un potentissimo hungan, ma questo non significa che devo aprire la porta a tutti gli scribacchini color rosa che si mettono in testa di farmi visita'. Vedi, per quanto la riguardava, Johnny Favorite era morto e sepolto.» «Toots, correrò il rischio di crederti. Come mai porti una stella sul dente?» Toots fece una smorfia. La stella incisa scintillò alla luce del lampadario. «Così la gente è sicura che sono un negro. Non mi piace che facciano errori.» «E perché è capovolta?» «È più bella così.» Posai sopra il televisore uno dei biglietti dell'agenzia Crossroads. «Ti lascio un cartoncino con il mio numero di telefono. Se senti qualcosa, chiamami.» «Ma come no, ho già guai fin sopra i capelli e adesso mi metto anche a telefonare.» «Non si sa mai. Potresti avere bisogno di aiuto, la prossima volta che riceverai qualcosa come una zampa di gallina per corriere espresso.» Fuori l'alba chiazzava il cielo notturno come rossetto sulle guance di una ballerina di fila. Camminando verso la macchina, lasciai cadere il rasoio dal manico di madreperla in un bidone della spazzatura. 18 Quando finalmente andai a letto, il sole splendeva, ma riuscii a dormire fino a mezzogiorno, nonostante i brutti sogni. Fui tormentato da incubi più angosciosi di qualsiasi pellicola dell'orrore trasmessa a tarda sera. I tamburi del vudu pulsavano mentre Epiphany Proudfoot tagliava la gola al gallo. I danzatori ondeggiavano e gemevano, ma questa volta il gallo non smise di sanguinare. Uno zampillo cremisi sgorgava dalla bestia che si dibatteva, infradiciando ogni cosa come una pioggia tropicale, annegando i ballerini in un lago di sangue. Vidi Epiphany esserne sommersa e mi allontanai di corsa dal mio nascondiglio, mentre coaguli di sangue mi inzaccheravano i calcagni. Cieco di terrore, correvo nelle deserte strade notturne. Le pattumiere erano ammucchiate le une sulle altre a formare piramidi; ratti grossi come bulldog mi guardavano dalle fogne. L'aria era putrida di decomposizione.
Correvo e correvo, diventando chi sa come l'inseguitore e non più l'inseguito, dando la caccia a una distante figura lungo sconosciute strade senza fine. Per quanto forte corressi, non riuscivo a raggiungerlo. L'inseguito mi sfuggiva. Quando le strade lastricate finirono, la caccia continuò lungo una spiaggia cosparsa di rottami. Pesci morti coprivano la sabbia. Una conchiglia enorme, alta come un grattacielo, si ergeva più avanti. L'uomo vi entrò di corsa. Io lo seguii. L'interno della conchiglia era alto, a volta, come una cattedrale opalescente. I nostri passi rimbombavano lungo gli anelli della spirale. Il passaggio si fece stretto e, dopo un'ultima curva, trovai il mio avversario bloccato dall'enorme, tremolante parete carnosa del mollusco stesso. Non c'era via d'uscita. Afferrai per il bavero l'uomo e lo feci girare su se stesso, spingendolo di nuovo nella fanghiglia. Era mio gemello. Mi parve di vedermi allo specchio. L'uomo mi strinse in un abbraccio fraterno e mi baciò sulla guancia. Labbra, occhi, mento: ogni sua fattezza era intercambiabile con le mie. Mi rilassai, sopraffatto da un'ondata di affetto. In quel momento sentii i suoi denti. Il suo fraterno bacio divenne selvaggio, mani di strangolatore si allungarono verso la mia gola. Lottai, caddi insieme con lui, cercai a tentoni con le dita i suoi occhi. Ci dimenammo sul duro pavimento madreperlaceo. La sua stretta si allentò mentre gli cavavo gli occhi con i pollici. Durante la lotta, l'uomo fu silenzioso. Le mie mani sprofondarono nella sua carne, mentre le sue fattezze familiari mi colavano fra le dita come farina bagnata. La sua faccia era una poltiglia senza forma, priva di cartilagini e di ossa; quando le ritrassi, le mani rimasero impantanate nella polpa, come quelle di un cuoco in un budino di grasso di rognone. Mi svegliai urlando. Una doccia calda mi calmò i nervi. Dopo venti minuti, rasato e vestito, ero in macchina diretto all'ufficio. Lasciai la Chevrolet nella mia autorimessa e andai a piedi fino al giornalaio che teneva i giornali delle altre città, vicino alla torre del Times. Sul Poughkeepsie New Yorker di lunedì, in prima pagina, c'era la fotografia del dottor Albert Fowler. Il titolo diceva NOTO DOTTORE TROVATO MORTO. Lessi tutto l'articolo facendo colazione da Whelan all'angolo del palazzo della Paramount. Si dava come causa della morte il suicidio, anche se non era stato trovato nessuno scritto. Il corpo era stato scoperto lunedì mattina da due colleghi del dottor Fowler, che si erano preoccupati quando non si era presentato a
lavorare e non aveva risposto al telefono. Il giornale dava con esattezza quasi tutti i particolari. La donna nel ritratto incorniciato che il morto si stringeva al petto era sua moglie. Non si accennava né alla morfina né alla scomparsa dell'anello. Non si dava un elenco degli oggetti contenuti nelle tasche del morto, perciò non ebbi modo di sapere se lui stesso si fosse tolto l'anello oppure no. Bevvi un'altra tazza di caffè e andai in ufficio, per vedere la posta. C'era il solito ciarpame senza importanza e la lettera di una tale della Pennsylvania che offriva un corso per corrispondenza, costo dieci dollari, sull'analisi della cenere di sigaretta. Spinsi tutto quanto nel cestino e studiai le mie possibilità. Avevo pensato di andare fino a Coney Island in cerca di madame Zora, la zingara che prediceva il futuro a Johnny Favorite, ma decisi di fare un tentativo disperato e di tornare prima a Harlem. C'era un sacco di cose che Epiphany Proudfoot non mi aveva detto la sera prima. Presi la mia valigetta nella cassaforte dell'ufficio. Stavo abbottonandomi il cappotto quando il telefono squillò. Era un'intercomunale a carico del destinatario, da Cornelius Simpson. Dissi alla centralinista che accettavo di pagare. Una voce maschile disse: «La cameriera mi ha fatto la commissione. Mi ha detto che la cosa le è sembrata urgente». «Lei è Spider Simpson?» «L'ultima volta che mi sono guardato lo ero.» «Mi piacerebbe farle qualche domanda a proposito di Johnny Favorite.» «Che genere di domande?» «L'ha mai rivisto negli ultimi quindici anni, per cominciare?» Simpson rise. «L'ultima volta che vidi Johnny era il giorno dopo Pearl Harbor.» «Che cosa c'è di tanto divertente?» «Non è divertente. Niente che toccasse Johnny fu mai divertente.» «E allora perché tutto questo ridere?» «Rido sempre, se penso a quanti soldi perdetti perché mi piantò in asso», disse Simpson. «Fa molto, molto meno male che piangere. A ogni modo, di che si tratta?» «Sto scrivendo un articolo per Look sui cantanti di jazz dimenticati degli anni Quaranta. In testa alla lista c'è Johnny Favorite.» «Non in testa alla mia, fratello.» «Benissimo», dissi. «Se parlassi soltanto con i suoi ammiratori, non ne caverei un articolo molto interessante.»
«Gli unici ammiratori che Johnny abbia mai avuto erano estranei.» «Che cosa può dirmi dei suoi amori con una donna delle Indie Occidentali che si chiamava Evangeline Proudfoot?» «Un cavolo di niente. Ne sento parlare per la prima volta.» «Sapeva che Favorite partecipava a riti vudu?» «Piantando spilli in bambolette? Be', la cosa quadra: Johnny era uno strambo, sempre dietro a fare qualcosa di misterioso.» «Per esempio?» «Oh, vediamo. Una volta lo scoprii che acchiappava piccioni sul tetto del nostro albergo. Eravamo in viaggio, non so più dove; e lui era lassù, con una grossa rete, come quegli accalappiacani dei cartoni animati. Pensai che magari non gli piaceva quel che ci davano da mangiare in quel posto. Ma più tardi, dopo lo spettacolo, passai dalla sua stanza ed eccolo lì con quel dannato piccione sventrato sulla tavola. Johnny frugava con una matita tra le interiora.» «Ma perché mai?» «È proprio quel che gli chiesi. 'Che cosa stai combinando?' dissi. E lui pronunciò una parola che non ricordo. Quando lo pregai di tradurmela in inglese, mi disse che stava predicendo il futuro. Disse che i sacerdoti dell'antica Roma erano soliti fare così.» «A quanto pare, la vecchia magia nera l'aveva stregato», osservai. Spider Simpson rise. «Ha ragione, amico. Se non erano intestini di piccione, era qualche altra maledetta scemenza, foglie del tè, chiromanzia, yoga. Portava un anello d'oro massiccio con scritte ebraiche sopra. E, per quanto ne so io, non era ebreo.» «Che cos'era?» «Non ne ho la minima idea. Rosacroce o qualche altra fottutissima setta. Aveva un teschio nella valigia.» «Un teschio umano?» «Tanto tempo fa era stato umano. Favorite diceva che proveniva dalla tomba di un tale che aveva assassinato dieci persone. Sosteneva che gli dava potere.» «A me sembra che vi prendesse per il fondello», dissi. «Può darsi. Aveva l'abitudine di stare seduto per ore a fissarlo, prima degli spettacoli. Se era uno scherzo, era maledettamente ben fatto.» «Conosceva Margaret Krusemark?» domandai. «Margaret chi?» «La fidanzata di Johnny Favorite.»
«Ah sì, quella ragazza dell'alta società. L'avevo incontrata qualche volta. Che cosa vuole sapere?» «Com'era?» «Assai carina. Non parlava molto. Lei conosce il tipo, un sacco di messaggi con gli occhi, ma conversazione zero.» «Ho sentito dire da qualche parte che prediceva il futuro.» «Può darsi. Non ha mai predetto il mio.» «Perché ruppero il fidanzamento?» «Non so.» «Può darmi il nome di qualcuno dei vecchi amici di Johnny Favorite? Di persone che magari sono in grado di aiutarmi per il mio articolo?» «Fratello mio, escluso il cranio nella valigia, Johnny non aveva l'ombra di un amico.» «E allora che ne dice di Edward Kelley?» «Non l'ho mai sentito nominare», rispose Simpson. «Conoscevo un pianista di nome Kelly a Kansas City, ma questo anni prima che mi imbattessi in Johnny.» «Be', la ringrazio per le informazioni», dissi. «Mi è stato di grande aiuto.» «Sempre a sua disposizione.» Riagganciammo tutti e due. 19 Evitando le pozzanghere della West Side Highway arrivai alla Centoventicinquesima Strada e mi diressi a est lungo il Rialto di Harlem, oltre l'hotel Teresa e il teatro Apollo, fino alla Lenox Avenue. Nella vetrina dei Prodotti farmaceutici Proudfoot l'insegna al neon era buia. Una lunga tenda verde era completamente calata dietro la porta d'entrata, attaccato con nastro adesivo al vetro c'era un cartello con la scritta OGGI CHIUSO. Il negozio era sprangato. Trovai un telefono alla parete di una bettola nell'isolato successivo e cercai il numero. Epiphany Proudfoot non era nell'elenco, ma il negozio sì. Feci il numero ma non ottenni risposta. Sfogliai le pagine e trovai quello di Edison Sweet. Ne feci le prime quattro cifre, ma agganciai, convinto che una visita inaspettata avrebbe avuto più effetto. Dieci minuti dopo fermai la macchina nella Centocinquantaduesima Strada, di fronte a casa sua. All'ingresso una giovane massaia che aveva fra i piedi due bimbetti ur-
lanti era alle prese con il borsone della spesa e con la borsetta in cui frugava in cerca della chiave. Le offrii il mio aiuto e le tenni il borsone mentre apriva la porta d'entrata. Abitava al pianterreno e mi ringraziò con un sorriso stanco quando le riconsegnai la spesa. I piccoli, appesi al suo cappotto, tirando su dal naso, alzarono verso di me i loro grandi occhi scuri. Salii le scale fino al terzo piano. Sul pianerottolo non c'era nessuno. Quando mi chinai per vedere di che marca fosse la serratura dell'appartamento di Toots, mi accorsi che la porta non era ben chiusa. La spalancai completamente con un piede. Un vivido schizzo rosso macchiava la parete di fronte come una chiazza del test di Rorschach. Sarebbe potuta essere vernice: ma non era vernice. Chiusi la porta dietro di me, appoggiando la schiena contro il battente, finché la serratura scattò. La stanza era a soqquadro, i mobili erano stati scaraventati in ogni direzione sul tappeto pieno di grinze. Qualcuno si era battuto con disperazione. Una mensola con i suoi vasi fioriti era rovesciata in un angolo. L'asta delle tende era piegata a V, le tende si erano afflosciate come le calze di un'adescatrice dopo una settimana di sbornie. Fra quelle macerie, il televisore era intatto al suo posto, acceso. Sullo schermo l'infermiera di uno dei tanti sceneggiati discuteva di adulterio con un medico interno molto interessato. Badai a non toccare nulla mentre scavalcavo sedie e poltrone capovolte. In cucina non c'erano segni di lotta. Sul tavolo coperto di formica era posata una tazza di caffè nero ormai freddo. Spirava una tranquilla aria casalinga, purché uno non si voltasse a guardare verso il salottino. Dietro il vociferante televisore si apriva un breve corridoio scuro che conduceva a una porta chiusa. Presi nella mia valigetta dei guanti chirurgici di gomma e me li infilai prima di girare la maniglia. Una sola occhiata dentro la camera da letto mi fece desiderare con tutte le mie forze qualcosa di alcolico. Toots Sweet, supino sul piccolo letto, aveva le mani e i piedi legati alle spalliere con pezzi di corda del bucato. Più morto di così non poteva essere. Una vestaglia di flanella spiegazzata e intrisa di sangue gli copriva il pancione. Sotto il suo corpo nero le lenzuola erano dure di sangue. Il viso e il corpo di Toots erano coperti di brutte contusioni. Il bianco degli occhi sporgenti e sbarrati era ingiallito, come l'avorio di antiche palle da biliardo; nella bocca spalancata era infilato qualcosa che somigliava a un grosso pezzo di salsiccia. Morte per asfissia. Lo sapevo senza che occorresse aspettare l'autopsia.
Guardai più da vicino ciò che sporgeva dalle sue labbra tumefatte e di colpo non mi sarebbe più bastato un bicchiere solo. Toots era morto soffocato dai suoi genitali. Sotto in cortile, a tre piani di lì, sentii allegre risate di bambini. Nessun potere di questo mondo sarebbe riuscito a farmi sollevare quella vestaglia malridotta. Sapevo da dove veniva l'arma del delitto, senza che mi occorresse sbirciare. La parete sopra il letto era scarabocchiata di disegni infantili tracciati con il sangue di Toots: stelle, spirali, lunghe linee a zigzag per rappresentare serpenti. Le stelle erano tre, avevano cinque punte, erano capovolte. Le stelle cadenti stavano diventando un'abitudine. Mi dissi che era ora di fare i bagagli e partire. Non c'era niente da guadagnare rimanendo più del necessario. Ma i miei istinti da ficcanaso mi costrinsero a frugare nei cassetti del comò e a esaminare l'armadio prima di andarmene. Ci vollero dieci minuti per perquisire la stanza, ma non trovai nulla che meritasse un secondo sguardo. Dissi addio a Edison Sweet e ai suoi occhi sporgenti che fissavano senza vedere. Chiusi la porta della camera da letto. La bocca mi dava una sensazione di secco e di pesantezza ogni volta che pensavo a quanto era stato ficcato nella sua. Avrei voluto esaminare il salottino prima di andarmene, ma ebbi paura di lasciarvi le impronte delle mie scarpe, dato che era cosparso di sudiciume. Il mio biglietto da visita non era più sopra il televisore. Non l'avevo trovato tra le cose di Toots e mi augurai che fosse sparito insieme con la spazzatura, perché avevo dedotto, dal sacchetto nuovo e vuoto della cucina, che fosse stata già raccolta. Sbirciai dallo spioncino prima di aprire la porta d'ingresso. La lasciai socchiusa come l'avevo trovata. Mi sfilai i guanti di gomma e li chiusi nella valigetta di cuoio. Rimasi fermo sul pianerottolo e ascoltai il silenzio dei piani sottostanti. Nessuno stava usando le scale. Probabilmente la massaia del pianterreno si sarebbe ricordata di me, ma non potevo farci niente. Riuscii a scendere le scale senza essere visto. Quando lasciai la casa, in giro c'era solo un gruppetto di bambini che giocavano alla settimana in cortile. Non alzarono gli occhi al mio passaggio. 20 Tre cicchetti lisci mi misero a posto i nervi e mi ridiedero un po' di calma. Ero in un tranquillo bar di quartiere, che si chiamava il Posto di Freddie o il Punto di Teddy o il Nido di Eddie o qualcosa del genere, sedevo
con la schiena al televisore e riflettevo sull'accaduto. Ora avevo due morti sulle braccia. Tutti e due conoscevano Johnny Favorite e avevano addosso stelle a cinque punte. Mi domandai se l'incisivo di Toots fosse sparito come l'anello del dottore, ma la mia curiosità non era così impellente da convincermi a tornare indietro a guardare. Le stelle erano magari una coincidenza: sono un disegno comune. Ed era magari solo un caso che un dottore tossicomane e un pianista di blues conoscessero entrambi Johnny Favorite. Poteva darsi. Ma nel mio intimo avevo la sensazione che tutto ciò fosse collegato a qualcosa di molto grave. A qualcosa di enorme. Raccolsi il resto dall'umido piano del banco e mi rimisi a lavorare per Louis Cyphre. Guidare fino a Coney Island fu un piacevole diversivo. Mancavano ancora una novantina di minuti all'ora di punta e il traffico si muoveva senza intoppi lungo la F.D. Roosevelt Drive e sotto la galleria della Battery. Arrivato alla Shore Parkway, abbassai il vetro del finestrino e respirai la fredda aria marina che soffiava dai Narrows. Quando arrivai in Cropsey Avenue l'odore di sangue era ormai sparito dalle mie narici. Seguii la Diciassettesima Strada Ovest fino a Surf Avenue e lasciai la macchina accanto a una pista di autoscontro chiusa da assi. Fuori stagione Coney Island dava la sensazione d'essere una città fantasma. Le scheletriche rotaie delle montagne russe mi sovrastavano come ragnatele di legno e di metallo, ma mancavano le urla, solo il vento gemeva tra le strutture, solitario, come il fischio di un treno. Poche anime vagavano qua e là per Surf Avenue in cerca di qualcosa da fare. Il vento faceva rotolare fogli di giornale come erba mobile lungo le strade ampie e vuote. Sulla mia testa si librava una coppia di gabbiani che scrutavano il terreno in cerca di avanzi di cibo. Lungo tutto il viale le bancarelle che vendono zucchero filato, le baracche da fiera, i giochi d'azzardo erano chiusi da imposte, come pagliacci senza trucco. Nathan's Famous era aperto al pubblico come sempre. Mi fermai a mangiare un panino e a bere una birra in un bicchiere di carta, sotto la vistosa scritta del cartellone pubblicitario della facciata. L'uomo al banco aveva l'aspetto di uno che era lì dai tempi del Luna Park. Gli chiesi se avesse mai sentito parlare di una veggente di nome madame Zora. «Madame che cosa?» «Zora. Intorno al 1940 era una grande attrazione di questi posti.» «Non so risponderti, amico», disse. «Lavoro qui da meno di un anno. Domandami qualcosa sul traghetto di Staten Island. Per quindici anni ho gestito il posto di ristoro notturno sul Gold Star Mother. Avanti, chiedimi
qualcosa.» «Perché te ne sei andato?» «Non so nuotare.» «E allora?» «Avevo paura di annegare. Non volevo abusare della mia fortuna.» L'uomo sorrise, mostrandomi un buco al posto di quattro denti. Mi ficcai in bocca l'ultimo pezzo di panino e mi allontanai sorseggiando la birra. La Bowery, posta tra Surf Avenue e il Boardwalk, era un corridoio in mezzo a una fiera, più che una strada. Oltrepassai i silenziosi baracconi e mi domandai che cosa fare. La comunità zingara era più chiusa di tutti i Ku Klux Klan della Georgia, quindi sapevo che da quella parte nessuno mi avrebbe dato aiuto. Dovevo lavorare di gambe. Battere i marciapiedi finché avessi scoperto qualcuno che si ricordava di madame Zora e che era disposto a parlarne. Mi sembrò che cominciare da Danny Dreenan fosse una buona idea. Era un truffatore in pensione, che gestiva un cadente museo delle cere vicino all'angolo tra la Tredicesima Strada e la Bowery. L'avevo conosciuto nel '52, quando era appena uscito da Dannemora, dove aveva scontato quattro anni. La polizia federale aveva cercato di incastrarlo per una truffa di opzioni azionarie, ma Danny non era altro che il capro espiatorio di una coppia di imbroglioni di Wall Street, che si chiamavano Peavey e Munro. Lavoravo per conto di una terza persona, rimasta pure lei vittima del loro imbroglio, e avevo dato una mano a risolvere il caso. Danny era ancora in debito con me per questo fatto, quindi mi informava quando mi occorreva qualche notizia in confidenza. La Galleria delle Cere era dentro una stretta costruzione a un piano, schiacciata tra un venditore di pizze e una sala da gioco a buon mercato. Sul davanti una scritta cremisi diceva a lettere cubitali: VENITE A VEDERE: IL SALONE DEI PRESIDENTI AMERICANI CINQUANTA FAMOSI ASSASSINI DILLINGER ALL'OBITORIO ASSASSINIO DI LINCOLN E DI GARFIELD FATTY ARBUCKLE AL PROCESSO EDUCATIVO! REALISTICO! SCONVOLGENTE!
Un'arpia dai capelli tinti di rosso, non di un giorno più vecchia della vedova del presidente Grant, stava seduta alla biglietteria e faceva un solitario come una delle indovine meccaniche della mostra da due soldi della porta accanto. «Danny Dreenan è da queste parti?» le domandai. «Nel retro», borbottò la vecchia, prendendo furtivamente il fante di picche dal fondo del mazzo. «Sta lavorando a una vetrina.» «Le dispiace se entro e vado a parlargli?» «Le costerà lo stesso un quarto di dollaro», disse lei indicandomi con la vecchia testa un cartello su cui stava scritto: INGRESSO... 25 cents. Estrassi i venticinque centesimi dalla tasca dei calzoni e li feci scivolare sotto il vetro munito di sbarre. Entrai. Il posto puzzava come un riflusso di fogna. Grosse macchie color ruggine chiazzavano il soffitto di cartone a gobbe. Il pavimento di legno deformato scricchiolava e gemeva. Dietro le vetrine della mostra, disposte lungo entrambe le pareti, le figure di cera erano rigide sull'attenti, come un esercito di quei camerieri di cartone che vediamo davanti a qualche ristorante. Prima veniva il salone dei presidenti americani: direttori generali dalle identiche fattezze, vestiti di roba buttata via da un negozio di costumi per i varietà. Dopo Franklin Delano Roosevelt veniva la fila di tutti gli assassini. Camminavo in un labirinto di mutilazioni. Hall-Mills, SnyderGray, Bruno Hauptmann, Winnie Ruth Judd, gli uccisori dei Cuori Solitari: c'erano tutti, brandivano contrappesi e seghe da macellaio, ficcavano in bauli arti smembrati, alla deriva in oceani di vernice rossa. In fondo trovai Danny Dreenan a quattro gambe dentro una vetrina. Era un ometto vestito di una camicia da fatica di color azzurro stinto e di calzoni di grisaglia di lana. Il naso all'insù e i radi baffetti biondi gli conferivano l'espressione di un criceto spaventato. L'abitudine di aprire e chiudere velocemente gli occhi quando parlava non gli giovava affatto. Bussai sul vetro. Danny alzò gli occhi su di me e mi sorrise nonostante avesse la bocca piena di chiodini. Mormorò qualcosa d'incomprensibile, posò per terra il martello e strisciò fuori attraverso una bassa fessura sul dietro. Stava lavorando all'uccisione di Albert Anastasia, il Gran Carnefice della società per azioni Crimine, in una bottega di barbiere. Due sicari mascherati puntavano le pistole contro la sua effigie seduta in poltrona, avvolta in un asciugamano, mentre, in piedi sullo sfondo, il barbiere aspettava con calma un altro cliente. «Come va, Harry» gridò allegramente Danny Dreenan, arrivandomi alle
spalle inaspettato. «Che cosa te ne pare del mio ultimo capolavoro?» «Si direbbe che siano tutti presi da rigidità cadaverica», dissi. «Albert Anastasia, vero?» «Offrigli un sigaro. Non è poi così male, se hai indovinato subito.» «Ieri sono passato vicino al Park Sheraton, quindi l'assassinio è fresco nella mia memoria.» «Sarà la mia grande attrazione per la stagione prossima.» «Sei in ritardo di un anno. I titoloni sono ormai freddi come il suo cadavere.» Danny ammiccò nervosamente. «Harry, le poltrone da barbiere sono care. La stagione scorsa non avevo soldi per fare migliorie. Di', quell'albergo si presta davvero a faccende del genere. Sapevi che nel '28 Arnold Rothstein è stato fatto fuori là? Soltanto che in quei giorni lo chiamavano Park Central. Vieni, ho anche quello in una vetrina, te lo faccio vedere.» «Un'altra volta, Danny. Ne vedo tanti in carne e ossa, che basta e avanza.» «Già, capisco, hai ragione. E allora, qual buon vento ti porta da queste parti? Come se non lo sapessi già.» «E dimmelo, visto che sai tutto.» Gli occhi di Danny si muovevano come semafori impazziti. «Non so un fico di questa faccenda», balbettò. «Ma immagino, se Harry viene a trovarmi, avrà bisogno di qualche informazione.» «Hai immaginato giusto», dissi. «Che cosa mi racconti di un'indovina che si chiama madame Zora? Intorno al 1940 o poco dopo lavorava qui nella fiera.» «Oh, Harry, sai bene che in questo non posso aiutarti. A quei tempi avevo in piedi una truffa immobiliare in Florida. Le cose erano facili, allora, per Danny Dreenan.» Scossi il pacchetto di sigarette per farne uscire una. La offrii a Danny, che la rifiutò con un cenno. «Non pensavo che tu potessi indicarmela, Danny», dissi accendendomela. «Ma ormai sei in questi paraggi da un bel po'. Dimmi chi è qui da molto tempo. Dammi il nome di qualcuno che conosce il giro.» Danny si grattò la testa perché capissi che stava pensando. «Farò quel che posso. Il problema è, Harry, che quasi tutti quelli che sono in grado di pagarsele, passano le vacanze alle Bermude o in qualche altro posto. Anch'io sarei sdraiato su una spiaggia, se non mi fossi infognato nei debiti. Ma non mi lamento, dopo uno spinello, Brighton Beach è bella quanto le
Bermude in qualsiasi momento.» «Deve pur esserci qualcuno in giro. Il tuo non è l'unico baraccone aperto al pubblico.» «Sì, adesso che me ne parli, conosco giusto la gente dove mandarti. Nella Decima Strada, vicino al Board-walk, c'è un baraccone di mostri. In questa stagione, normalmente, la maggior parte dei fenomeni farebbe parte di uno spettacolo viaggiante; ma ormai sono tutti vecchi. Si potrebbe quasi dire che sono in pensione. Non vanno in vacanza. Per loro, farsi vedere in pubblico non è il massimo del divertimento.» «E come si chiama 'sto posto?» gli domandai. «Il Congresso delle Meraviglie di Walter. Però è mandato avanti da uno che si chiama Haggarty. Non puoi sbagliarti. È tutto coperto di tatuaggi, sembra una carta stradale.» «Ti ringrazio, Danny. Sei una miniera di informazioni preziose.» 21 Il Congresso delle Meraviglie di Walter si ergeva nella Decima Strada, vicino alla rampa che saliva sul Boardwalk. Ancora più di tutti quelli che lo circondavano, aveva l'aspetto di un baraccone da fiera d'altri tempi. La facciata del basso edificio aveva festoni di bandierine, sotto i quali erano appesi grandi quadri primitivi che rappresentavano i fenomeni in mostra all'interno. Semplici come disegni umoristici, queste vaste tele dipingevano la deformità umana con un'innocenza che mascherava la loro insita crudeltà. ACCI SE È GRASSA! diceva la legenda sotto il ritratto della donna cannone, che reggeva un minuscolo parasole sulla testa delle dimensioni di una zucca. L'uomo tatuato (LA BELLEZZA È SOLO A FIOR DI PELLE) aveva ai lati ritratti di Jo-Jo, il Ragazzo Faccia di Cane, e della Principessa Sofia, La Donna Barbuta. Altri rozzi dipinti raffiguravano un ermafrodita, una ragazzina avvolta da serpenti, l'uomo foca e un gigante vestito da sera. APERTO SOLO SAB. & DOM., annunciava un cartello nella vuota biglietteria presso l'ingresso. Una catena sbarrava la porta aperta, come i cordoni di velluto nei locali notturni. Ma mi chinai, passai sotto ed entrai. L'unica luce veniva da un lucernario incrostato di sporcizia, eppure bastava a rivelare una quantità di piattaforme imbandierate disposte lungo entrambi i lati della sala deserta. L'aria sapeva di sudore e di tristezza. Dalla parte opposta all'ingresso appariva un filo di luce sotto una porta chiusa.
Attraversai la sala e bussai. «È aperto», urlò qualcuno. Girai la maniglia e vidi uno stanzone nudo, reso accogliente da molti vecchi divani scalcagnati e da allegri cartelloni di fiere che ravvivavano le pareti ammuffite. La donna cannone riempiva un divano come fosse stato una poltrona. Una minuscola donnina con una barba riccia e nera che le copriva il modesto corpetto rosa era tutta presa da un rompicapo messo insieme a metà. Sotto un polveroso paralume a frange quattro bizzarri esseri umani deformi erano intenti al familiare rito del poker. Un uomo privo di braccia e di gambe, appollaiato su un grosso cuscino a mo' di enorme uovo, teneva le carte in mani che spuntavano direttamente dalle spalle, come pinne. Seduto vicino a lui c'era un gigante, tra le cui massicce dita le carte da gioco erano ridotte alle dimensioni di francobolli. Quello che dava le carte aveva una malattia della pelle che gliela screpolava tutta, facendolo assomigliare a un coccodrillo. «Giochi o passi?» domandò al giocatore alla sua sinistra uno gnomo avvizzito che indossava una canottiera. Aveva braccia, spalle e collo talmente tatuati che sembrava portasse chi sa quale esotico indumento aderente alla pelle. Diversamente dai vistosi disegni epidermici raffigurati sulla tela esposta fuori del baraccone, la sua pelle era sbiadita e sbiancata, una confusa copia carbone dell'immagine pubblicitaria. Il tatuato osservò la mia valigetta. «Se vendi qualcosa, non ne abbiamo bisogno», abbaiò. «Non sono un commesso viaggiatore», dissi. «Né assicurazioni né parafulmini, oggi.» «E allora, che cosa vai cercando, uno spettacolo gratuito?» «Lei dev'essere il signor Haggarty. Secondo un mio amico qualcuno di voi dovrebbe potere aiutarmi con qualche informazione.» «E chi è mai questo amico?» pretese di sapere il multicolore signor Haggarty. «Danny Dreenan. Quello del museo delle cere, appena girato l'angolo.» «Sì, conosco Dreenan, un truffatore da quattro soldi.» Haggarty tirò su un bel po' di catarro e scaracchiò in un cestino della carta straccia ai suoi piedi. Poi sorrise per farmi capire che non parlava sul serio. «Tutti gli amici di Danny mi vanno bene. Dimmi che cosa vuoi sapere. Ti dirò subito tutto quel che so, se possibile.» «Posso sedermi?»
«Accomodati.» Con un piede, Haggarty allontanò dal tavolino da gioco una sedia pieghevole libera. «Posteggiati qui, amico.» Sedetti tra Haggarty e il gigante accigliato, che incombeva sulle nostre teste come Gulliver tra i Lillipuziani. «Sto cercando una veggente zingara, chiamata madame Zora», dissi, posando la valigetta tra i piedi. «Era una grande attrazione prima della guerra.» «Non so di chi parli», disse Haggarty. «E voi, compagni?» «Io ricordo una che leggeva le foglie del tè e si chiamava Luna», disse con un fil di voce quello che aveva pinne al posto delle braccia. «Era una cinese», grugnì il gigante. «Ha sposato un banditore di aste ed è andata a vivere a Toledo.» «Perché la stai cercando?» volle sapere l'uomo dalla pelle di coccodrillo. «Perché conosceva una persona che devo trovare. Speravo che Zora potesse darmi una mano.» «Sei un investigatore?» Annuii. Negandolo adesso avrei solo peggiorato le cose. «Un segugio, eh?» Haggarty sputò di nuovo nel cestino. «Non ce l'ho con te. Tutti dobbiamo guadagnarci da vivere.» «Io non ho mai digerito i ficcanaso», borbottò il gigante. Dissi: «Mangiare investigatori ti dà l'indigestione, vero?» Il gigante si arrabbiò. Haggarty rise e batté il suo pugno, ricamato di rosso e azzurro, sul tavolo, rovesciando tutt'intorno le pile di gettoni ben ordinate. «Conoscevo Zora.» Aveva parlato la donna cannone, con una voce delicata come la più fine porcellana. Magnolie e caprifoglio ingentilivano il suo accento melodioso. «Era zingara tanto quanto me e voi.» «Ne sei sicura?» «Certo che lo sono. Al Jolson si dipingeva di nero la faccia, ma non per questo era un negro.» «Dove posso trovarla adesso?» «Non saprei dirtelo. Ne ho perso le tracce da quando ha chiuso la sua tenda da indovina.» «E questo, quando successe?» «Nella primavera del '42. Un bel giorno non era più lì. Aveva piantato in asso i suoi affari senza dire una sola parola.» «Che cosa potresti dirmi di lei?» «Non tantissimo. Una volta ogni tanto bevevamo insieme una tazza di caffè. Cianciavamo del tempo e di cose di questo genere.»
«Non parlava mai di un cantante che si chiamava Johnny Favorite?» La donna cannone sorrise. Chi sa dove, sotto quei metri cubi di grasso, si nascondeva una ragazzina con un vestito della festa tutto nuovo. «Uno con un paio di tonsille d'oro, vero?» La donna cannone sorrise radiosa e canticchiò un'aria di molti anni prima. «Era il mio favorito, senza dubbio. Una volta lessi in un giornale scandalistico che Favorite consultava Zora, ma quando lo chiesi a lei, ammutolì. Secondo me, come un prete che ascolta una confessione.» «Che altro potresti raccontarmi? Va bene qualsiasi cosa.» «Mi dispiace. Non eravamo così amiche. Sai chi potrebbe forse aiutarti?» «Chi?» «Il vecchio Paul Boltz. A quei tempi era la sua spalla. Bazzica ancora da queste parti.» «Dove posso trovarlo?» «Su a Steeplechase Park. Adesso è guardiano là.» La donna cannone si fece vento con una rivista cinematografica. «Haggarty, non puoi far qualcosa con il riscaldamento a vapore? Qui sembra di essere nel locale delle caldaie. Sto per fondere!» Haggarty rise. «Se fondessi, faresti la più grossa pozzanghera di questo mondo.» 22 Il Boardwalk e Brighton Beach erano deserti. Dove sudava la folla estiva, sdraiata come un tappeto di trichechi, pochi spazzini improvvisati cercavano indefessi tra la sabbia le bottiglie buttate via. Dietro di loro l'Atlantico era color della ghisa, le ondate si spezzavano contro i frangiflutti con spruzzi plumbei. Steeplechase Park si estendeva su venticinque acri. Il salto con il paracadute, un resto della Fiera Mondiale del '39, torreggiava sopra il padiglione di vetro grosso come una fabbrica e sembrava l'intelaiatura di un ombrello alto sessanta metri. Sull'insegna della facciata era scritto IL POSTO DIVERTENTE ed era disegnata la faccia sghignazzante del fondatore George C. Tilyou. In questa stagione il tutto era divertente come una barzelletta priva della battuta finale. Alzai gli occhi sul ghigno del signor Tilyou e mi domandai su che cosa ci fosse da ridere. Entrai attraverso un conveniente buco aperto nel reticolato e picchiai sul
vetro incrostato di salino accanto all'ingresso principale, chiuso a chiave. Il rumore echeggiò nel vuoto del campo divertimenti, come una spettrale baldoria di dozzine di fantasmi. Svegliati, vecchio! E se una banda di ladri fosse intenta a rapire la torre dei paracadute? Cominciai a circumnavigare la vasta struttura, battendo la mano di piatto sul vetro. Girato un angolo, mi trovai a faccia a faccia con la bocca di una rivoltella. Era una Colt automatica calibro 38 speciale della polizia, ma dalla mia particolare posizione sembrava più o meno delle dimensioni della grossa Berta. Chi teneva la pistola senza un tremito era un vecchietto vestito di una divisa color mattone e avana. Un paio di strabici occhi porcini mi squadravano dall'alto di un naso a forma di martello con la penna rotonda. «Non muoverti!» disse il vecchio. Sembrava che la sua voce arrivasse di sott'acqua. Non mi mossi. «Lei dev'essere il signor Boltz», dissi. «Paul Boltz?» «Non importa chi sono io. Chi cazzo sei tu?» «Mi chiamo Angel. Sono un investigatore privato. Ho bisogno di parlarti di un caso di cui mi sto occupando.» «Fammi vedere qualcosa che lo dimostri.» Quando mossi la mano per prendere il portafoglio, Boltz mi piantò energicamente la calibro 38 nel bel mezzo della pancia. «Con la mano sinistra», disse. Passai la valigetta nella destra e con la sinistra tirai fuori il portafoglio. «Lascialo cadere e fa' due passi indietro.» «Chi non passa dal Via non guadagna duecento dollari.» «Che cosa dici?» Boltz si chinò e raccolse il portafoglio. La sua automatica della polizia rimase puntata al mio ombelico. «Niente. Parlavo solo tra me e me. Apri e vedrai subito la copia fotostatica della mia licenza.» «Questo distintivo onorario non vale una cicca», disse Boltz. «A casa ho un pezzetto di latta proprio come questo.» «Non pretendo affatto che abbia valore, guarda solo i documenti.» Il custode dagli occhi porcini sfogliò tutte le tessere contenute nel portafoglio, senza commenti. Pensai di aggredirlo in quel momento, ma rinunciai. «E va bene, sei un poliziotto privato», disse Boltz. «Che cosa vuoi da me?» «Sei Paul Boltz?» «E se lo sono?» Boltz lanciò il portafoglio per terra ai miei piedi. Lo raccolsi con la mano sinistra. «Senti, ho avuto una giornataccia Metti via la pistola. Ho bisogno del tuo aiuto. Non lo capisci, quando una persona ti chiede un favore?»
Boltz fissò la rivoltella per un momento, come se stesse pensando di mangiarla a cena. Poi alzò le spalle e la infilò di nuovo nella fondina, lasciando sbottonata la patta, con chiara allusione. «Sono Boltz», ammise. «Sentiamo quel che hai da dire.» «Non c'è un posto al riparo da tutto questo vento?» Boltz, con un segno della sua testa deforme, mi fece capire che dovevo precederlo. Mi tenne dietro a mezzo passo di distanza. Scendemmo una breve rampa di scalini fino a una porta con la scritta PROIBITO L'INGRESSO. «Entra», disse. «È aperta.» I nostri passi rimbombavano come colpi di cannone nel vuoto edificio. Quel posto era così grande che avrebbe potuto contenere due capannoni per aerei, lasciando ancora spazio per una mezza dozzina di campi di baseball. Vi erano rimasti divertimenti che risalivano a giorni non meccanizzati. Un grande scivolo ondulato di legno brillava a distanza come una cascata di mogano. Un altro scivolo, chiamato 'Vortice', scendeva a spirale dal soffitto, andando a finire sul 'Biliardo umano', una serie di lucidi dischi rotanti incorporati nel pavimento di legno duro. Era facile immaginarsi ragazze fine Ottocento con le maniche a sbuffo e giovanotti azzimati che portavano la mano alla paglietta mentre l'organo suonava 'Portami a giocare alla palla'. Ci fermammo davanti a una fila di specchi da baraccone, le cui immagini deformi ci trasformarono tutti e due in mostri. «Avanti, poliziotto», disse Boltz. «Sputa il rospo.» Dissi: «Sto cercando una veggente, una zingara di nome madame Zora. Mi dicono che tu lavoravi per lei tanto tempo fa, intorno al 1940». La risata catarrosa di Boltz si sollevò fino alle travi costellate di lampadine sulle nostre teste, come i latrati di una foca ammaestrata. «Poveretto», ridacchiò con voce chioccia. «Cominci male, non andrai lontano.» «E perché?» «Perché? Il perché te lo dico io. Prima cosa, non è una zingara, ecco perché.» «L'avevo sentito dire, ma non ero sicuro che la notizia fosse giusta.» «Invece è così. Non conoscevo forse il suo lavoro come le mie tasche?» «Se lo dici tu.» «E va bene, sbirro, te lo dirò chiaro e tondo. Non era una zingara e il suo nome non era Zora. Si dà il caso che io sappia chi era: una ragazza bene della Park Avenue.» Il calcio di un mulo mi sarebbe sembrato il bacio di un angelo, in con-
fronto a quella bomba. Mi ci volle un momento per rimettere in moto la lingua. «Sapevi il suo vero nome?» «Per cosa mi prendi, un cretino? Si chiamava Maggie Krusemark. Suo padre possedeva più navi della marina britannica.» La mia immagine allungata si stendeva sulla superficie ondulata dello specchio come quella dell'Uomo Serpente. «Quando l'hai vista per l'ultima volta?» domandarono le mie labbra da investigatore. «Nella primavera del '42. Un bel giorno è scomparsa, lasciandomi con la boccia di cristallo in mano, si potrebbe dire.» «L'hai mai vista con un cantante che si chiamava Johnny Favorite?» «Certo, un sacco di volte. Aveva una cotta per lui.» «Cosa diceva di lui, te lo ricordi?» «Potere.» «Che cosa?» «Diceva che lui aveva potere.» «E nient'altro?» «Ascolta bene. Non ho mai fatto molta attenzione. Per me era solo un lavoro alla fiera. Non lo prendevo sul serio.» Boltz si schiarì la voce e inghiottì. «Per lei era diverso. Lei ci credeva.» «E Favorite?» gli domandai. «Anche lui ci credeva. Potevi leggerglielo negli occhi.» «L'hai mai più rivisto?» «Non l'ho mai rivisto. Per quel che mi riguarda, potrebbe anche essere volato sulla luna con la sua scopa. E lei pure.» «Non nominava mai un pianista negro, un certo Toots Sweet?» «No.» «Non ti viene in mente altro?» Boltz sputò sul pavimento tra i suoi piedi. «E perché mai? Quei giorni sono morti e sepolti.» Non rimaneva gran che da dire. Boltz mi scortò fuori e mi aprì con la sua chiave il cancello. Dopo un attimo di esitazione, gli porsi uno dei biglietti dell'agenzia Crossroads e lo pregai di telefonarmi se si fosse ricordato di qualcosa. Boltz non disse che l'avrebbe fatto, ma neppure stracciò il cartoncino. Cercai di telefonare a Millicent Krusemark dalla prima cabina che trovai, ma nessuno rispose. Tanto meglio. La giornata era stata lunga, persino gli investigatori privati hanno diritto a un po' di riposo. Lungo la via del ritorno, mi fermai a Brooklyn Heights e mi rimpinzai di frutti di mare da
Gage & Tollner. Dopo il salmone in umido e una bottiglia di Chablis freddo, la vita non mi sembrò più una gita su una barca a fondo di vetro lungo le fognature di New York. 23 La notizia della morte di Toots Sweet comparve sulla pagina numero tre del Daily News. Non una parola sull'arma del delitto nell'articolo intitolato BRUTALE ASSASSINIO VUDU. Era riprodotta una fotografia dei disegni tracciati con il sangue sulla parete del letto; in una seconda foto Toots suonava il piano. Il corpo era stato scoperto dal chitarrista del trio, che era passato a prendere il suo capo prima del lavoro. Lo avevano interrogato e poi rilasciato. Non c'erano indiziati, sebbene fosse comunemente risaputo a Harlem che Toots da molto tempo apparteneva a una setta segreta vudu. Lessi il giornale del mattino sulla metropolitana, perché avevo lasciato la Chevrolet in un posteggio vicino a Chelsea. La mia prima fermata fu alla biblioteca pubblica, dove, dopo parecchie indicazioni sbagliate, feci la domanda giusta e ottenni un elenco telefonico di Parigi dell'anno in corso. C'era il numero di una M. Krusemark che abitava in Rue Notre Dame des Champs. Me lo scrissi sul taccuino. Sulla via dell'ufficio mi fermai in Bryant Park, sedetti su una panchina il tempo di fumare una dopo l'altra tre sigarette, rimasticando i fatti recenti. Mi sentivo all'inseguimento di un'ombra. Johnny Favorite era immischiato in un sinistro mondo clandestino di vudu e di magia nera. Dietro le quinte viveva una vita segreta, completa di teschi nella valigia e di fidanzate indovine. Era un iniziato, un hunsi-bosal. Toots Sweet era stato ucciso perché aveva parlato. Chi sa come, il dottor Fowler c'era dentro anche lui. Johnny Favorite proiettava la sua ombra molto molto lontano. Era quasi mezzogiorno quando aprii la porta interna del mio ufficio. Esaminai la posta, trovandovi un assegno di cinquecento dollari dallo studio di McIntosh, Winesap e Spy. Tutto il resto era roba senza importanza che archiviai nel cestino della carta prima di ascoltare la segreteria telefonica. Non c'erano comunicazioni, benché una donna che non aveva voluto lasciare né il suo nome né il suo numero avesse chiamato tre volte nella mattinata. Subito dopo cercai di parlare con Margaret Krusemark a Parigi, ma il centralinista delle comunicazioni intercontinentali non ottenne risposta, dopo venti minuti di tentativi. Feci il numero di Herman Winesap a Wall
Street e lo ringraziai dell'assegno. Mi chiese come procedesse il caso. Gli dissi benissimo, accennando alla necessità di mettermi in contatto con il signor Cyphre. Winesap disse che l'avrebbe visto più tardi nel pomeriggio per questioni d'affari e che glielo avrebbe fatto sapere. Dissi che mi andava bene, cinguettammo entrambi i nostri addii e attaccammo. Stavo rimettendomi il cappotto quando il telefono suonò. Lo afferrai al terzo trillo. Era Epiphany Proudfoot. Sembrava senza fiato. «Devo vederla subito», disse. «Di che si tratta?» «Non voglio parlarne per telefono.» «Lei dov'è adesso?» «Al negozio.» Dissi: «Faccia con comodo. Vado a mangiare qualcosa, la riceverò qui in ufficio all'una e un quarto. Sa come trovarlo?» «Ho il suo biglietto da visita.» «Ottimo. Arrivederci fra un'ora.» Epiphany Proudfoot agganciò senza salutare. Prima di andarmene, chiusi l'assegno di Winesap nella cassaforte dell'ufficio. Ero inginocchiato lì davanti quando udii il sibilo asmatico della molla della porta d'ingresso. I clienti sono sempre i benvenuti, per questo motivo, sotto il nome della ditta, è scritto ENTRARE. Ma di solito i clienti bussano alla porta interna. Quando qualcuno irrompe senza una parola si tratta di un poliziotto o di un guaio. A volte di tutti e due d'un colpo solo. Questa volta era un poliziotto in borghese che portava un impermeabile grigio di gabardine stropicciato, sbottonato sopra un abito marrone di mohair, comprato a un saldo, con i risvolti dei calzoni sufficientemente intimiditi dalle scarpacce a buchi da offrire un'anteprima improvvisata dei suoi atletici calzini bianchi. «Lei è Angel?» latrò il poliziotto. «Proprio così.» «Sono il tenente Sterne della polizia. Questo è il mio aiutante, il sergente Deimos.» Accennò con la testa verso la porta di comunicazione spalancata, dove un tale dall'enorme torace, vestito da scaricatore di porto, aspettava accigliato. Deimos portava un berretto di maglia di lana e una giacca da boscaiolo a scacchi bianchi e neri. Era sbarbato, ma i suoi peli erano così fitti e scuri che la pelle sembrava scottata dalla polvere da sparo. «Che cosa desiderano i signori?» dissi.
«Vogliamo che risponda a qualche domanda.» Sterne era alto e macilento, con un naso che sembrava la prua di un rompighiaccio. Spingeva avanti aggressivamente la faccia sopra le spalle curve. Parlava muovendo a malapena le labbra. «Volentieri. Stavo giusto uscendo per mangiare un boccone. Potremmo andarvi insieme.» «Si parla meglio qui», disse Sterne. Il suo compagno chiuse la porta. «A me va benissimo.» Feci il giro della scrivania e ne trassi fuori una bottiglia di whisky canadese e i miei sigari di Natale. «Quel che posso offrire come padrone di casa è tutto qui. I bicchieri di carta sono vicino al refrigeratore dell'acqua.» «Non beviamo mai in servizio», disse Sterne servendosi di una manciata di sigari. «Allora non pensate a me. Questa per me è l'ora di pranzo.» Portai la bottiglia vicino al refrigeratore, riempii un bicchiere a metà, aggiunsi un dito d'acqua. «Alla vostra salute.» Sterne infilò i sigari nel taschino della giacca. «Dov'era ieri mattina intorno alle undici?» «In casa. Dormivo.» «Com'è bello non avere padroni», disse Sterne rivolto verso Deimos con voce acida e a bocca semichiusa. Il sergente rispose solo con un grugnito. «Come mai lei se la dorme mentre il resto del mondo è al lavoro, Angel?» «La notte prima ho lavorato fino a tardi.» «E dove mai è stato?» «A Harlem. Di che cosa si tratta, tenente?» Sterne tirò fuori della tasca dell'impermeabile qualcosa che sollevò perché potessi vedere. «Riconosce questo?» Feci sì con il capo. «È uno dei miei biglietti da visita.» «Magari sarà così gentile da spiegarmi come mai è stato trovato nell'appartamento della vittima di un omicidio.» «Toots Sweet?» «Mi racconti com'è andata.» Sterne sedette sullo spigolo della scrivania e si ricacciò sulla fronte il cappello grigio. «Non ho gran che da raccontare. Il motivo per cui ero andato a Harlem è proprio Sweet. Avevo bisogno di chiedergli informazioni riguardanti un incarico che mi è stato dato. La pista che seguivo è risultata sbagliata, ma più o meno me lo aspettavo. Gli ho dato il mio biglietto, in caso gli fosse venuto in mente qualcosa.»
«Non mi basta, Angel. Ci riprovi.» «E va bene. L'incarico che mi hanno dato è di cercare una persona sparita. Questa persona si è dileguata una dozzina d'anni fa. Uno dei miei pochi indizi era una vecchia fotografia di quel tale in compagnia di Toots Sweet. La sera scorsa sono andato a Harlem per chiedere a Toots se poteva darmi una mano. In principio, quando gli ho parlato al Red Rooster, ha fatto il furbo. Allora l'ho pedinato nel parco quando il locale ha chiuso. Toots è andato a una specie di cerimonia vudu dalle parti del Meer. Hanno ballato in circolo e ucciso una gallina. Mi sono sentito un turista.» «Chi ballava? Chi uccideva la gallina?» domandò Sterne. «Una quindicina di uomini e di donne, tutti di colore. Non avevo mai visto nessuno di loro prima di quel momento, eccetto Toots, naturalmente.» «E che cos'ha fatto?» «Niente. Quando Toots ha lasciato il parco, era solo. L'ho pedinato a casa e fatto cantare. Ha detto che non aveva visto quel tizio che sto cercando dal giorno in cui fu presa la fotografia. Gli diedi il mio biglietto e lo pregai di telefonarmi se gli fosse venuto in mente qualcosa. Le piace di più questa volta?» «Non molto.» Sterne fissava le sue spesse unghie con poco interesse. «Di che cosa si è servito per farlo parlare?» «Psicologia», dissi. Sterne aggrottò la fronte e mi guardò con lo stesso disinteresse prodigato alle sue unghie. «E allora, chi è il famoso tizio scomparso? Quello che si è dileguato?» «Non posso darle questa informazione senza il consenso del mio cliente.» «Tutte balle, Angel. Lei non aiuterà affatto il suo cliente, se alla Centrale di polizia, dove la porterò, non vuoterà il sacco.» «Perché dice cose spiacevoli, tenente? Lavoro per un avvocato che si chiama Winesap. Questo mi conferisce lo stesso diritto al riserbo di cui gode lui. Se mi mettesse dentro, uscirei di prigione entro un'ora. Faccia risparmiare alla città le spese di trasporto.» «Mi dia il numero di questo avvocato.» Lo scrissi sul notes della scrivania insieme con il nome completo, strappai il foglietto e lo porsi a Sterne. «Le ho detto tutto che quel che so. Da quanto ho letto sul giornale, sembrerebbe che Toots sia stato ammazzato da uno dei suoi compagni della setta ammazzapolli. Se arresterà qualcuno, sarò felice di venire a identificarlo.»
«Molto leale da parte sua, Angel», mi schernì Sterne. «Che cos'è?» La domanda veniva dal sergente Deimos. Stava vagolando per l'ufficio con le mani in tasca, esaminando tutto. La sua domanda riguardava la laurea in legge a Yale di Ernie Cavalero, incorniciata e appesa alla parete sullo schedario. «È una laurea in legge», dissi. «Apparteneva al tizio che ha fondato questa ditta. Adesso è morto.» «Sentimentale?» mormorò Sterne attraverso le labbra strette da ventriloquo. «Dà un po' di stile.» «Che cosa dice?» desiderò sapere il sergente Deimos. «Supera le mie capacità. Non so il latino.» «Allora ecco che cos'è. Latino.» «Sì, è latino.» «E che cosa cambierebbe se fosse ebraico?» disse Sterne. Deimos si strinse nelle spalle. «Altre domande, tenente?» gli chiesi. Sterne mi rivolse di nuovo i suoi occhi morti da poliziotto. Dal suo sguardo s'indovinava che non sorrideva mai. Neppure durante un interrogatorio di terzo grado. Faceva il suo lavoro e nient'altro. «Nessuna. Lei e il suo 'diritto al riserbo' possono andare a pranzo. Forse le telefoneremo, ma non stia ad aspettare con il fiato sospeso. È soltanto un altro pellenera morto. A nessuno frega un cazzo.» «Mi chiami se ha bisogno di me.» «Ma certamente. Un vero signore, che ne dici, Deimos?» Ci incastrammo tutti e tre nel minuscolo ascensore e scendemmo senza aprire bocca. 24 Il ristorante Gough era dall'altra parte della Quarantatreesima Strada rispetto al palazzo del Times. Il locale era affollatissimo quando vi entrai, ma m'infilai in un angolo presso il bancone. Non avendo molto tempo, ordinai una fetta d'arrosto con pane di segale e una bottiglia di birra. Nonostante la marea di gente, il servizio fu svelto. Ingurgitavo la birra, quando Walt Rigley, che stava uscendo, mi scorse e si avvicinò per fare due chiacchiere. «Che cosa ti porta in questo covo di scribacchini, Harry?» urlò per farsi sentire in mezzo al baccano delle ciance giornalistiche. «Credevo che
tu mangiassi da Downey.» «Cerco di non essere un abitudinario», risposi. «Una sana filosofia. Che cosa bolle in pentola?» «Pochissimo. Grazie per avermi lasciato razziare l'archivio. Sono in debito con te.» «Lascia perdere. Come proseguono le tue misteriose indagini? Hai dissotterrato qualche panno sporco?» «Più di quanti me ne occorrono. Pensavo di seguire un'ottima pista. Ieri sono andato a trovare la figlia indovina di Krusemark, ma mi sono imbattuto nella figlia sbagliata.» «Che cosa intendi per figlia sbagliata?» «Una fa la strega, l'altra magia bianca. La figlia che cercavo vive a Parigi.» «Non ti seguo, Harry.» «Sono gemelle: Maggie e Millie, le prodigiose ragazze Krusemark.» Walt si grattò la nuca e aggrottò la fronte. «Qualcuno ti sta prendendo in giro, amico. Margaret Krusemark è figlia unica.» La birra mi andò per traverso. «Ne sei sicuro?» «Certo che ne sono sicuro. Proprio ieri ho indagato per te. Ho tenuto la storia della famiglia sulla scrivania per tutto il pomeriggio. Krusemark ha avuto una figlia da sua moglie. Soltanto una, Harry. Il Times non fa errori nel settore delle statistiche demografiche.» «Che imbecille sono stato!» «Nulla da ridire a questo proposito.» «Avrei dovuto capire che me la dava a bere. Tutto filava troppo a puntino.» «Va' più piano, amico, corri troppo per me.» «Mi dispiace, Walt. Stavo pensando a voce alta. Secondo il mio orologio sono le una e cinque, è giusto?» «Più o meno.» Mi alzai, lasciando sul banco il resto. «Devo andarmene di corsa.» «Non perdere tempo per me», disse Walt Rigley con il suo sorriso sbilenco. Epiphany Proudfoot aspettava nell'anticamera del mio ufficio, quando vi arrivai tre minuti dopo. Indossava una gonna scozzese e un maglione azzurro di cachemire: sembrava una studentessa delle medie. «Mi rincresce d'essere in ritardo», dissi. «Non è il caso. Ero io in anticipo.» La ragazza si liberò di un numero ar-
retrato e molto logoro di Sports Illustrated e disincrociò le gambe. Persino la mia sedia di seconda mano faceva bella figura con lei sopra. Aprii con la chiave la porta della parete divisoria di vetro opaco e la tenni spalancata. «Perché vuole vedermi?» «Come studio non è gran che.» Dal tavolino su cui era sparpagliata la mia collezione di riviste arretrate, Epiphany Proudfoot prese la borsetta e il cappotto che vi aveva piegato sopra. «Lei, come investigatore, non deve guadagnare molto.» «Tengo basse le spese generali», dissi facendola entrare. «I clienti mi pagano perché eseguisca bene un lavoro e non perché arredi elegantemente il mio ufficio.» Chiusi la porta e appesi il cappotto all'attaccapanni. La ragazza, in piedi accanto alla finestra con le cubitali lettere dorate, stava fissando la strada. «Chi la paga perché vada in cerca di Johnny Favorite?» domandò alla sua immagine riflessa nel vetro. «Non posso dirglielo. La discrezione è compresa nei miei servigi. Non vuole sedersi?» Le presi il cappotto e lo appesi accanto al mio, mentre Epiphany si sedeva con grazia nella poltrona imbottita di cuoio di fronte alla mia scrivania. Era l'unico sedile comodo del mio ufficio. «Non ha ancora risposto alla mia domanda», dissi appoggiandomi allo schienale della mia sedia girevole. «Perché è qui?» «Edison Sweet è stato assassinato.» «Uhm! Leggo i giornali. Ma non dovrebbe esserne molto stupita, dato che l'ha tradito lei.» La ragazza strinse la borsetta che aveva in grembo. «Lei dev'essere impazzito.» «Può darsi. Ma non sono stupido. Solo lei sapeva che avevo parlato con Toots. Non può essere stata che lei ad avvertire gli individui che gli hanno mandato la zampa di gallina in confezione regalo.» «Lei ha capito tutto sbagliato.» «Davvero?» «Non l'ho detto a nessun altro, solo a mio nipote. Gli ho telefonato appena lei ha lasciato il negozio. Vive vicinissimo al Red Rooster ed è stato lui che ha nascosto la zampa dentro il piano. Toots era un ciarlone. Occorreva ricordargli di tenere la bocca chiusa.» «Avete fatto un bel lavoretto. Adesso la sua bocca è chiusa per sempre.» «E pensa che sarei qui se avessi avuto le mani sporche?» «Secondo me lei è una ragazza capace, Epiphany. La sua esibizione nel
parco era molto convincente.» Epiphany si morsicò la mano e aggrottò la fronte, dimenandosi sulla poltrona. Era l'immagine perfetta di una ragazzina che ha marinato la scuola, torchiata dal preside. Se recitava, era un'ottima commediante. «Lei non ha il diritto di spiarmi», disse Epiphany senza incontrare il mio sguardo. «L'ufficio dei Parchi municipali e quelli della Protezione animali non sarebbero d'accordo con lei. La sua è una religioncina raccapricciante.» Questa volta Epiphany mi guardò dritto negli occhi, con uno sguardo livido di rabbia. «Obi non ha bisogno di appendere un uomo alla croce. Non c'è mai stata una guerra santa per Obi, oppure un'inquisizione Obi!» «Sì, sì, certamente. Bisogna pur ammazzare la gallina per fare il brodo, vero?» Accesi una sigaretta e soffiai un pennacchio di fumo sino al soffitto. «Ma non mi turbano le galline morte; ciò che mi turba sono i pianisti morti.» «E crede che non ne sia turbata anch'io?» Epiphany si chinò in avanti dalla poltrona, i capezzoli delle sue giovani mammelle si puntarono contro la maglia sottile del corpetto azzurro. Era un bel bocconcino, come si usa dire; non mi fu difficile immaginare di sfamarmi con la sua carne color del bronzo. «Non mi raccapezzo», dissi. «Lei mi telefona dicendo che deve vedermi subito. E adesso che è qui si comporta come se stesse facendo un favore a me.» «Può darsi che le stia davvero facendo un favore.» La ragazza si appoggiò allo schienale e incrociò le lunghe gambe: uno spettacolo per nulla sgradevole. «Lei va in giro a cercare Johnny Favorite e il giorno dopo un uomo viene ucciso. Non è pura coincidenza.» «Che cos'è, allora?» «Senta. I giornali van facendo un gran baccano su vudu qui e vudu là, ma posso dirle subito che la morte di Toots Sweet non ha niente che fare con Obi, niente di niente.» «Come lo sa?» «Ha visto le foto sui giornali?» Annuii. «Allora sa che definiscono 'simboli vudu' quegli scarabocchi fatti con il sangue sulle pareti?» Un altro cenno silenzioso. «Ebbene, i poliziotti s'intendono di vudu non più di quanto ne sappiano
di sanscrito! Quei segni pretendono di sembrare vé-vé, ma non è affatto vero.» «Che cos'è vé-vé?» «Sono segni magici. Non ne posso spiegare il significato a chi non è iniziato. In ogni caso, quelle dannate insulsaggini stanno al vero vé-vé come Babbo Natale sta a Gesù. Da anni e anni sono una mambo. So di che cosa parlo.» Spensi il mozzicone della sigaretta schiacciandolo in un portacenere dello Stork Club, l'unico avanzo rimasto di un amore da molto tempo defunto. «Non ne ho il minimo dubbio, Epiphany. Dice che quei disegni sono fasulli?» «Non tanto fasulli quanto, diciamo, sbagliati. Non so in che altro modo spiegarmi. Come chi volesse descrivere una partita di baseball usando i termini del rugby. Capisce che cosa voglio dire?» Piegai il numero del News mettendo in mostra la pagina numero tre. Tenendolo in modo che la ragazza potesse vederlo, indicai gli zigzag serpeggianti, le spirali e le croci spezzate della fotografia. «Sta affermando che sembrano disegni vudu, vé-vé o che altro, ma che non sono usati correttamente?» «Proprio così. Vede lì quel cerchio, in cui il serpente ingoia la propria coda? Quello è Damballa, senza dubbio un segno vé-vé, simbolo della perfezione geometrica dell'universo. Però nessun iniziato lo disegnerebbe mai in questo modo, accanto a Babako.» «Quindi, chiunque abbia disegnato queste figure, s'intende di vudu quanto basta per sapere almeno che aspetto hanno Damballa o Babako.» «È proprio quel che cerco di dirle da quando ne parliamo», disse Epiphany. «Sapeva che un tempo Johnny Favorite era coinvolto con Obi?» «So che era un hunsi-bosal.» «Toots parlava davvero troppo. Che cos'altro sa?» «Soltanto che Johnny Favorite in quei giorni bazzicava sua madre.» Epiphany fece la smorfia di chi assaggia qualcosa di agro. «È vero.» Scosse la testa come per negarlo. «Johnny Favorite è mio padre.» Rimasi seduto immobile, afferrato ai braccioli della mia sedia, mentre la rivelazione mi sommergeva e passava oltre, come un'ondata gigantesca. «Chi altri lo sa?» «Nessuno, tranne lei, me e la mamma, che è morta.» «E Johnny Favorite?» «La mamma non glielo disse mai. Era arruolato e lontano di qui molto
prima che io avessi un anno. Le ho detto la verità quando ho affermato di non averlo mai conosciuto.» «E come mai mi fa tutte queste rivelazioni adesso?» «Sono spaventata. Nella morte di Toots c'è qualcosa che ha a che fare con me. Non so come o perché, ma me lo sento fin nelle midolla.» «E pensa che Johnny Favorite vi sia in qualche modo coinvolto?» «Non so che cosa pensare. Il compito di pensare dovrebbe essere suo. Ho deciso che lei doveva esserne informato. Magari le servirà in qualche modo.» «Magari. Se mi nasconde altro, è questo il momento di parlare.» Epiphany fissò le proprie mani intrecciate. «Non ho nient'altro da dire.» In quel momento si alzò, svelta ed efficiente. «Devo andarmene. Senza dubbio lei ha da lavorare.» «Lo sto facendo ora», dissi levandomi in piedi. Epiphany prese il cappotto dall'attaccapanni. «Mi auguro che parlasse sul serio un momento fa, capisce, circa la discrezione.» «Tutto quanto mi ha detto è strettamente confidenziale.» «Lo spero.» La ragazza allora sorrise, di un sorriso genuino, che non si riprometteva di ottenere risultati. «Chi sa perché, a dispetto di tutto, ho fiducia in lei.» «Grazie.» Quando la ragazza aprì la porta, girai intorno alla scrivania. «Non si disturbi», disse Epiphany. «So trovare da sola l'uscita.» «Ha il mio numero?» La ragazza annuì. «Le telefonerò se sentirò qualcosa.» «Mi telefoni anche se non sente niente.» Epiphany fece di nuovo un cenno del capo e se ne andò. Rimasi in piedi vicino allo spigolo della scrivania e non mi mossi finché non udii la porta dell'anticamera chiudersi alle sue spalle. Con tre passi afferrai la mia valigetta, strappai il cappotto dall'attaccapanni e chiusi a chiave l'ufficio. Ascoltai con l'orecchio alla porta esterna, aspettando di sentire la porta dell'ascensore aprirsi e chiudersi, prima di uscire. Il corridoio era vuoto. Gli unici rumori venivano da Ira Kipnis che batteva una tarda denuncia dei redditi e il ronzio elettrico di madame Olga che eliminava peli indesiderati. Feci un balzo verso le scale di sicurezza e scesi tre scalini alla volta. 25 Arrivai giù almeno quindici secondi prima dell'ascensore e attesi nella
tromba delle scale, con la porticina di sicurezza socchiusa. Epiphany mi passò davanti e uscì in strada. Le fui subito dietro e la seguii quando svoltò l'angolo e scese nella sotterranea. Prese un treno locale diretto a nord. Io salii sul vagone subito dietro il suo e, quando il convoglio cominciò a muoversi, uscii e rimasi in piedi sulla traballante piattaforma di metallo sopra l'attacco delle carrozze, di dove la sorvegliai attraverso la porta a vetri. La ragazza sedeva tutta compita, con le ginocchia unite, fissando la serie di cartelli pubblicitari sopra i finestrini. Scese due fermate dopo, a Columbus Circus. Camminò verso est lungo Central Park South, passò davanti al Maine Memorial, sormontato dal cocchio trainato dal cavallo marino fuso con il metallo dei cannoni ricuperati dalla corazzata affondata. C'erano pochi pedoni. Mi tenni lontano da lei tanto da non sentire il ticchettare dei suoi tacchi sulle mattonelle esagonali di asfalto che delimitano il parco. Arrivata alla Settima Avenue, Epiphany girò verso sud. Fingendo di leggere i numeri degli edifici, la tenni d'occhio mentre oltrepassava in fretta l'Athletic Club e il caseggiato, fittamente coperto di sculture, di Alwyn Court. All'angolo con la Cinquantasettesima Strada la ragazza fu fermata da un'anziana signora che trascinava un pesante borsone della spesa. Mentre Epiphany le indicava la via puntando il dito indietro verso il parco senza vedermi, indugiai nell'ingresso di un negozio di biancheria. Rischiai di perderla quando si buttò ad attraversare la strada a doppio senso un attimo prima che il semaforo diventasse rosso. Rimasi impegolato sul marciapiede, ma Epiphany rallentò il passo per studiare i numeri dei negozi situati lungo i fianchi di Carnegie Hall. Ancora prima che il segnale per pedoni diventasse verde, la vidi sostare all'altro capo dell'isolato ed entrare nell'edificio. Conoscevo già l'indirizzo: il numero 881 della Settima Strada. Lì abitava Margaret Krusemark. Nell'atrio, seguii la freccia d'ottone sopra l'ascensore di destra, che si fermò all'undici, mentre quello di sinistra scendeva. Quando la porta della cabina si aprì, ne uscì un intero quartetto di archi, con l'astuccio dei loro strumenti in mano. L'unica altra persona che entrò nell'ascensore fu un fattorino di Gristede, che portava a spalla uno scatolone di generi alimentari. Il fattorino salì fino al quinto piano. Al manovratore dissi: «Il nono, per piacere». Salii fino al piano di Margaret Krusemark per le scale di sicurezza, lasciandomi alle spalle il ritmo frenetico di un corso di tip tap. In lontananza la soprano era ancora intenta ai suoi acuti; percorsi il corridoio deserto e
arrivai davanti alla porta su cui era inciso il segno dello Scorpione. Aprii la valigetta sul tappeto logoro. Una pila di moduli e di documenti fasulli nel primo scompartimento le conferiva un aspetto ufficiale, ma sotto un falso fondo vi tenevo gli arnesi del mestiere. Uno strato di poliuretano espanso teneva ogni cosa al suo posto. Lì, ben nascosti, c'erano una serie di attrezzi cementati da scassinatore, un microfono a contatto e un registratore miniaturizzato, un binocolo Lietz a dieci ingrandimenti, una macchina fotografica Minox con un cavalletto per fotografare documenti, una collezione di chiavi universali che mi era costata cinquecento dollari, manette di acciaio al nichelio, una Smith and Wesson Centennial speciale calibro 38, con il corpo di lega leggera. Tirai fuori il microfono a contatto e inserii l'auricolare. Era uno splendido arnese. Se tenevo il microfono contro la superficie della porta, udivo tutto quel che succedeva dentro l'appartamento. Se fosse arrivato qualcuno, avrei nascosto lo strumento nel taschino della camicia; l'auricolare aveva l'aspetto di un apparecchio acustico per sordi. Ma non passò nessuno. L'eco dei gorgheggi della soprano si confondeva con lontane lezioni di pianoforte lungo il corridoio vuoto. Dentro l'alloggio, sentii Margaret Krusemark dire: «Non eravamo grandi amiche, ma provavo molto rispetto per sua madre». Non riuscii a udire la risposta appena mormorata di Epiphany. L'astrologa proseguì: «Prima che lei nascesse, la frequentavo molto. Era una donna di potere». Epiphany domandò: «Per quanto tempo durò il suo fidanzamento con Johnny?» «Due anni e mezzo. Latte o limone, mia cara?» Evidentemente era di nuovo l'ora del tè. Epiphany scelse limone e disse: «Per tutta la durata del vostro fidanzamento, mia madre era la sua amante». «Cara la mia bambina, crede che non ne fossi informata? Tra Johnny e me non c'erano segreti.» «Il fidanzamento fu rotto per questo motivo?» «La nostra separazione fu per il solo uso e consumo della stampa. Avevamo le nostre ragioni private per annunciare di avere rotto. Anzi, non fummo mai così vicini come durante quegli ultimi mesi prima che Johnny partisse per la guerra. I nostri rapporti erano strani, non lo nego. Mi auguro che lei sia abbastanza moderna da non lasciarsi travolgere dalle convenzioni borghesi. Sua madre non lo fece mai.» «Che cosa di più borghese di un ménage à trois?»
«Non era un ménage à trois! Che cosa pensa che avessimo formato? Un sordido, meschino pornoclub?» «Non ne ho la minima idea, non so che cosa faceste. La mamma non mi ha mai parlato di lei.» «E perché avrebbe dovuto parlarne? Per quel che la riguardava, Jonathan era morto e sepolto. L'unico legame fra noi era lui.» «Ma non è morto.» «Come fa a saperlo?» «Lo so.» «Qualcuno è venuto a ficcare il naso nelle sue faccende e a chiederle di Jonathan? Su, risponda; può darsi che tutte quante le nostre vite dipendano da questo.» «Come?» «Non importa come. È venuto qualcuno che chiedeva di lui, vero?» «Sì.» «Che aspetto aveva?» «Era un uomo. Tutto lì. Aspetto comune.» «Un po' appesantito? Non proprio grasso ma di peso superiore al normale? Sciatto? Con questo intendo vestito in modo trasandato, con un abito blu stropicciato e scarpe cui occorrerebbe una ripulita. Grossi baffi neri, capelli cortissimi che cominciano a diventare grigi?» Epiphany disse: «Degli occhi azzurri gentili. Si notano per prima cosa». «Ha detto che si chiama Angel?» La voce di Margaret Krusemark rivelava nel tono stridulo un bisogno pressante di sapere. «Sì, Harry Angel.» «Che cosa voleva?» «Sta cercando Johnny Favorite.» «Perché?» «Non mi ha detto il perché. È un investigatore.» «Un poliziotto?» «No, un investigatore privato. Di che cosa si tratta?» Dopo un leggero tintinnio di porcellana, Margaret Krusemark disse: «Non lo so con certezza. È stato qui. Non mi ha detto di essere un investigatore. Ha finto di essere un cliente. So che le sembrerò molto maleducata, ma devo chiederle di andarsene. Devo uscire anch'io. È urgente, ho paura». «Lei pensa che siamo in pericolo?» La voce di Epiphany si spezzò pronunciando quest'ultima parola. «Non so che cosa pensare. Se Jonathan è ritornato, potrebbe succedere
qualsiasi cosa.» «Ieri a Harlem è stato ucciso un uomo», spifferò Epiphany. «Un mio amico. Conosceva anche la mamma e Johnny. Il signor Angel lo aveva interrogato.» Una sedia raschiò contro il pavimento di legno. «Devo andarmene adesso», disse Margaret Krusemark. «Venga, vado a prenderle il cappotto, scenderemo in ascensore insieme.» Al rumore dei passi che si avvicinavano, strappai dalla porta il microfono a contatto e con uno strattone mi tolsi l'auricolare, ficcando il tutto nella tasca del cappotto. Con la valigetta stretta sotto il braccio, percorsi a gran velocità il lungo corridoio, come un giocatore di rugby che ha ricevuto la palla e non ha nessuno tra i piedi. Appeso alla ringhiera per mantenere l'equilibrio, scesi le scale di sicurezza a quattro o cinque scalini per volta. Essendo troppo pericoloso aspettare l'ascensore al nono piano, dato che c'erano molte probabilità di entrare nella stessa cabina delle due donne, percorsi le scale di sicurezza sino all'atrio vuoto. Ansimando mi fermai il tempo necessario a controllare i numeri sopra le porte degli ascensori. Quello di sinistra era in salita, l'altro stava scendendo. In un modo o nell'altro, le due sarebbero state lì a momenti. Corsi fin sul marciapiede, attraversai incespicando la Settima Avenue senza fare la minima attenzione al traffico. Arrivato dall'altra parte, indugiai vicino all'ingresso del caseggiato Osborn, respirando a fatica come un ammalato d'enfisema. Una bambinaia che spingeva una carrozzina bofonchiò la sua simpatia mentre mi passava vicino. 26 Epiphany e la Krusemark uscirono insieme dall'edificio e percorsero a piedi un mezzo isolato fino alla Cinquantasettesima Strada. Io camminai tranquillo sul lato opposto della Settima, precedendole. All'angolo, Margaret Krusemark baciò affettuosamente Epiphany sulla guancia, come una zia zitella che saluta la nipotina favorita. Quando il semaforo divenne verde, Epiphany si mise ad attraversare la Settima Avenue nella mia direzione. Margaret Krusemark fece cenni frenetici ai tassi di passaggio. Un tassi si stava avvicinando a me con la luce sul tetto accesa. Lo fermai con un cenno e vi salii prima che Epiphany si fosse accorta di me. «Dove?» mi chiese il tassista dal viso rotondo, mentre spegneva la luce.
«Ha voglia di guadagnare molto di più di quanto dirà il tassametro?» «In che modo?» «Con un inseguimento. Si fermi un minuto davanti al Russian Tea Room.» Il tassista fece come gli avevo chiesto e si voltò per esaminarmi. Gli lasciai intravedere il distintivo puntato al mio portafoglio e gli dissi: «Vede la signora con il cappotto di tweed che sta entrando in quella macchina davanti al Carnegie Hall? Non la perda». «Sarà uno scherzo.» L'altro tassi fece un'improvvisa inversione di marcia sulla Cinquantasettesima. Eseguimmo la stessa manovra cercando di non essere troppo cospicui e ci tenemmo alla distanza di un mezzo isolato, mentre gli altri svoltavano sulla Settima verso sud. Visotondo incontrò il mio sguardo nello specchietto retrovisore e sogghignò. «Ha promesso un bigliettone da cinque, vero, capo?» «E cinque saranno, se non si lascerà vedere.» «Faccio questo lavoro da troppo tempo perché non me la cavi, capo.» Continuammo lungo la Settima fino a Times Square e passammo davanti al mio ufficio, poi l'altro tassi svoltò a sinistra e si avviò a est sulla Quarantaduesima Strada. Zigzagando abilmente tra una macchina e l'altra, continuammo a tenerci vicini senza metterci in evidenza. Il guidatore accelerò un momento per passare prima del rosso all'incrocio con la Quinta, quando sembrò che potessimo essere seminati. Nei due isolati tra la Quinta e la Terminal Grand Central il traffico era congestionato e lentissimo, quasi fermo. Visotondo disse a mo' di spiegazione: «Avrebbe dovuto vedere queste vie ieri, con il corteo della festa di Saint Patrick. C'è stata confusione tutto il pomeriggio». Il tassi di Margaret Krusemark cambiò di nuovo direzione all'angolo con Lexington Avenue. Lo vidi fermarsi davanti al grattacielo Chrysler. La luce sul tetto si riaccese: la donna si apprestava a lasciarlo libero. «Va benissimo qui», dissi. Visotondo frenò davanti al grattacielo Chanin. Il tassametro segnava un dollaro e mezzo. Gli diedi sette biglietti da un dollaro, dicendogli di tenere il resto. Se li era meritati, anche se era un imbroglione. Presi ad attraversare la Lexington Avenue. L'altro tassi era partito, Margaret Krusemark era sparita alla vista. Non mi crucciai. Sapevo dov'era diretta. Varcai la porta girevole, studiai il quadro con l'elenco degli uffici nell'atrio tutto marmo e cromature. Le Linee Marittime Krusemark, S.p.A. erano al quarantacinquesimo piano.
Uscendo dall'ascensore, però, cambiai idea e rinunciai ad affrontare i Krusemark. Non era ancora il momento di mostrare le mie carte, tanto più che non avevo in mano niente che meritasse di puntarci sopra. La figlia aveva scoperto che stavo cercando Johnny Favorite ed era corsa difilato dal padre. Qualunque cosa avesse da dirgli, era tanto scottante che non poteva passare per il centralino dell'ufficio: altrimenti la donna avrebbe telefonato. Stavo pensando a quanto avrei pagato per poter ascoltare la conversazioncella al tavolo delle riunioni di famiglia, quando vidi un lavafinestre che si avviava al suo lavoro. L'uomo era calvo e di mezz'età, con un naso ricostruito da pugile a riposo. Si avvicinava lento lungo lo splendente corridoio zufolando la canzone di moda dell'estate scorsa, 'Volare', di mezzo tono più bassa. Indossava una lurida tuta verde, con l'imbracatura di sicurezza che dondolava come un paio di bretelle slacciate. «Hai un minuto, amico?» Le mie parole lo fecero smettere nel mezzo di una nota. Mi guardò con le labbra ancora socchiuse, come se aspettasse un bacio. «Ci scommetterei che non sai dirmi di chi è il ritratto su un biglietto da cinquanta dollari.» «Di che cosa si tratta? C'è una telecamera nascosta?» «Nemmeno per sogno. Sono semplicemente pronto a scommettere che non sai di chi è la faccia su un biglietto da cinquanta dollari.» «Va bene, sapientone; è Thomas Jefferson.» «Sbagli.» «Davvero? E allora? Insomma, che cosa vuoi?» Tirai fuori il portafoglio e presi il bigliettone ripiegato che tengo in serbo per ogni evenienza e per certe mance; lo sollevai in modo che ne vedesse il valore. «Secondo me potresti avere voglia di scoprire qual è il fortunato presidente.» Il lavafinestre si schiarì la voce e batté le palpebre. «Dai i numeri o che altro?» «Quanto ti pagano?» gli domandai. «Avanti, puoi dirmelo. Non è mica un segreto di stato!» «Quattro e cinquanta l'ora, grazie al sindacato.» «Ti piacerebbe guadagnare dieci volte tanto? Grazie a me.» «Sì? E che cosa dovrei fare per tutta quella grana?» «Affittarmi per un'ora la tua attrezzatura e andare a spasso. Scendere a comprarti una birra.» L'uomo si lisciò il cocuzzolo, benché non ci fosse bisogno di lucidarlo
oltre. «Sei una specie di matto, vero?» Nella sua voce c'era una traccia di genuina ammirazione. «Che cosa cambia? Desidero affittare il tuo equipaggiamento e basta, senza domande. Tu ti fai un cinquantone, soltanto per stare seduto un'oretta sul tuo posteriore. Che cosa c'è di meglio?» «Bene, affare fatto, amico. Visto che non sai che fartene, dallo pure a me.» «Sei intelligente.» Il lavafinestre mi accennò con la testa di seguirlo e mi fece tornare indietro lungo il corridoio fino a una porticina vicino all'uscita di sicurezza. Era uno sgabuzzino di servizio. «Quando hai finito di usare i miei attrezzi, lasciali tutti qui dentro», disse sganciando la sua imbracatura e togliendosi la lurida tuta. Appesi cappotto e giacca sopra un manico di scopa e mi infilai la tuta. Era rigida e puzzava leggermente di ammoniaca, come un pigiama dopo un'orgia. «Sarà meglio toglierti la cravatta», disse l'uomo. «Se non vuoi sembrare un candidato alle elezioni sindacali.» Cacciai la cravatta in una tasca della giacca e mi feci spiegare dal lavafinestre in che modo usare l'imbracatura di sicurezza. Mi sembrò affatto semplice. «Non hai mica l'idea di andare all'esterno, vero?» mi domandò. «Per chi mi prendi? Voglio soltanto fare uno scherzo a un'amica. È la segretaria di questo piano.» «A me va benissimo», disse il lavafinestre. «Purché mi lasci la roba nello sgabuzzino.» Ficcai il bigliettone piegato nel taschino della sua camicia. «Vai a far festa con Ulysses Simpson Grant.» Il suo sguardo rimase privo d'espressione, come quello di un bue abbattuto. Gli dissi di guardare il ritratto sul biglietto. Se ne andò lentamente, fischiettando. Prima di nascondere la valigetta sotto l'acquaio di cemento, ne tolsi la calibro 38. La Smith & Wesson Centennial è una pistola maneggevole. La canna, lunga poco più di cinque centimetri, entra comodamente in una tasca; essendo a cane interno, questa pistola non ha nulla che si agganci alla stoffa quando entri in azione. Una volta dovetti scatenarmi con la rivoltella ancora in tasca. Un brutto scherzo per il mio guardaroba, ma sempre meglio che provare uno di quei completi senza schiena delle pompe funebri. Infilai la piccola cinque colpi in una tasca della tuta e nell'altra misi il microfono a contatto. Con il secchio e la spazzola in mano mi avviai con
calma lungo il corridoio, verso l'imponente ingresso di bronzo e di vetro delle Linee Marittime Krusemark, S.p.A. 27 La segretaria, quando attraversai il tappeto dell'anticamera tra modellini di petroliere sotto vetro e stampe di velieri, mi ignorò. Le strizzai l'occhio e lei mi voltò la schiena ruotando sulla poltrona. La porta di vetro smerigliato che portava al sancta sanctorum aveva, al posto delle maniglie, ancore di bronzo. La varcai canticchiando sottovoce una canzone di mare. Di là dalla porta c'era un lungo corridoio sul quale, da un lato e dall'altro, si aprivano vari uffici. Lo percorsi lentamente, dondolando il secchio e leggendo i nomi sulle porte. Erano tutti nomi che non m'interessavano. Alla fine del corridoio c'era un salone dove un paio di telescriventi ticchettavano come segretarie automatiche. A una parete era appoggiato un timone di legno, altri velieri erano appesi alle altre. C'erano parecchie comode poltrone, una tavola sul cui piano di vetro erano sparpagliate molte riviste; e c'era una vivace bionda che apriva lettere con un tagliacarte, dietro una scrivania a forma di L. Su una parete si apriva una porta di lucido mogano. All'altezza degli occhi, lettere di bronzo in rilievo dicevano: ETHAN KRUSEMARK. La bionda alzò gli occhi e mi sorrise, trafiggendo una busta come un d'Artagnan in gonnella. La pila di lettere accanto a lei era alta mezzo metro. La mia speranza di rimanere solo con il mio microfono a contatto cadde nel vuoto: avrei presto rimpianto questa espressione. La bionda, intenta al suo semplice lavoro, mi ignorò. Agganciai il secchio all'imbracatura, tirai su una finestra a saliscendi e chiusi gli occhi. Mi battevano i denti, ma non per l'ondata d'aria fredda. «Ehi! Faccia in fretta, per piacere», gridò la bionda. «I miei fogli svolazzano per tutta la stanza.» Tenendomi forte, mi chinai sotto la sbarra inferiore e sedetti all'indietro sul davanzale, con le gambe ancora al sicuro dentro l'ufficio. Allungai un braccio per agganciare una cinghia dell'imbracatura all'intelaiatura esterna. Mi separava dall'interno solo lo spessore del vetro, ma mi sembrò che la bionda fosse a un milione di miglia di distanza. Cambiai mano e agganciai l'altra cinghia. Mettermi in piedi richiese tutto il coraggio che possedevo. Cercai di pensare alla guerra e ai miei compagni delle truppe aviotrasportate che u-
scivano indenni da centinaia di lanci, ma non ne trassi conforto. Anzi, l'idea del paracadute peggiorò le cose. Sulla stretta sporgenza c'era appena posto per la punta dei piedi. Spinsi giù la finestra e il rumore confortante delle telescriventi all'interno si perse nelle raffiche di vento. Mi dissi di non guardare giù. E fu la prima cosa che feci. Sotto di me si spalancava il canyon in ombra della Quarantaduesima Strada, brulicante di pedoni e di veicoli grandi come puntolini di formiche e scarafaggi metallici. Guardai a oriente verso il fiume, oltre le strisce verticali marrone e bianco dell'edificio del Daily News e il luccicante lastrone verde del Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Un rimorchiatore giocattolo viaggiava sul fiume trascinandosi dietro una fila di chiatte nella sua scia argentea. Un ventaccio gelido mi pungeva mani e faccia, mi sbatacchiava i vestiti, sventolava i larghi risvolti dei miei calzoni come bandiere in battaglia. Avrebbe voluto strapparmi dalla faccia del grattacielo e spedirmi in volo sui tetti, oltre i piccioni volteggianti e i camini con i pennacchi di fumo. Le gambe mi tremavano per il freddo e la paura. Se il vento non mi avesse portato via, le vibrazioni mi avrebbero presto staccato dall'appiglio che tenevo con mani intorpidite. All'interno la bionda apriva imperturbabile le buste. Per quel che la riguardava, io ero già partito. All'improvviso la cosa mi sembrò divertente: Harry Angel, la Mosca Umana. Ricordai lo stentoreo annuncio di un direttore di circo equestre «... dove neppure gli angeli osano andare», e scoppiai in una gran risata. Spingendomi piano piano all'indietro con il sostegno delle cinghie dell'imbracatura, scoprii con grande gioia che queste tenevano. Non era poi così terribile. I lavafinestre lo fanno tutto il giorno. Mi sentivo un rocciatore durante un'incredibile prima. Parecchi piani sopra la mia testa doccioni a forma di tappo di radiatore sporgevano dagli angoli del grattacielo; e oltre a questi la guglia di acciaio inossidabile andava restringendosi verso il sole, luccicante come la cima rivestita di ghiaccio di una montagna non ancora conquistata. Era ora di entrare in azione. Sganciai la cinghia di destra dell'imbracatura, la spostai e l'attaccai allo stesso punto che teneva l'altra. Poi, muovendo a poco a poco lungo il davanzale, sganciai la cinghia interna e allungai il braccio nel vuoto fino all'intelaiatura della successiva finestra. Tastai alla cieca la parete finché trovai un gancio e vi fissai la mia cinghia. Assicurato alle due finestre, feci un passo con il piede sinistro. Staccai,
agganciai, spostai il piede destro: fatto. L'intera traversata non mi prese che qualche secondo, ma a me sembrò di averci messo un decennio. Mentre agganciavo la cinghia di sicurezza di sinistra all'intelaiatura più lontana della finestra di Ethan Krusemark, diedi un'occhiata dentro l'ufficio: una vasta sala d'angolo con altre due finestre su questa facciata e tre dalla parte di Lexington Avenue. La scrivania era un'enorme lastra di marmo pentelico completamente sgombra, se si eccettuava un telefono presidenziale con sei bottoni e una statuetta di bronzo patinato che rappresentava Nettuno nell'atto di brandire sopra i flutti il suo tridente. Un mobile bar in una nicchia vicino alla porta scintillava di cristalleria. Alle pareti erano appesi impressionisti francesi. Niente stampe di velieri per il padrone. Su un lungo divano color crema, posto contro la parete di fronte a me, sedevano Krusemark e sua figlia. Su un basso tavolino di marmo luccicavano due bicchieri di acquavite. Krusemark assomigliava molto al suo ritratto: un vecchio dalla faccia rubiconda, incorniciata da una folta chioma di ben pettinati capelli d'argento. A mio parere, era più somigliante a un pirata che a Clark Gable. Margaret Krusemark aveva rinunciato al suo solenne abbigliamento nero e indossato una camicetta campagnola e un gonnone ricamato, ma portava sempre il pentacolo d'oro capovolto. Di quando in quando uno dei due guardava di fronte a sé, direttamente verso la mia finestra. Cosparsi di acqua insaponata il vetro davanti alla mia faccia. Tirai fuori della tuta il microfono a contatto e inserii l'auricolare. Dopo avere avvolto lo strumento in un grosso straccio, lo premetti contro il vetro e finsi di lavare la finestra. Le loro voci mi giunsero chiare e nette, come se mi fossi seduto accanto a loro sul divano. Krusemark stava dicendo: «... e sapeva la data di nascita di Jonathan?» Margaret giocherellava inquieta con la stella d'oro. «La conosceva con precisione», rispose. «Non ci vuole molto per scoprirla. Sei sicura che sia un investigatore privato?» «L'ha detto la figlia di Evangeline Proudfoot. È abbastanza informato su Jonathan da essere arrivato fino a lei per farle domande.» «Che ne è del dottore di Poughkeepsie?» «Morto. Suicidio. È successo all'inizio di questa settimana. Ho telefonato alla clinica.» «Quindi non sapremo mai se l'investigatore gli ha parlato o no.»
«La cosa non mi piace, papà. Per di più dopo tutti questi anni. Angel sa già troppo.» «Angel?» «L'investigatore. Ti prego, fa' attenzione a quel che ti dico.» «Lo sto assimilando tutto, Meg. Dammene il tempo.» Krusemark bevve un sorso della sua acquavite. «Perché non ci liberiamo di Angel?» «Che vantaggio ne avremmo? Questa città formicola di investigatori privati da quattro soldi. Non dobbiamo preoccuparci di Angel, ma di chi lo ha assunto.» Margaret Krusemark afferrò una mano di suo padre nelle sue. «Angel tornerà da me. Per l'oroscopo.» «Preparaglielo.» «L'ho già preparato. Era uguale a quello di Jonathan, cambiava solo il luogo di nascita. Avrei potuto farlo a memoria.» «Bene.» Krusemark finì il suo bicchiere. «Per poco che conosca il suo mestiere, quando ritornerà da te per ritirare l'oroscopo Angel avrà già scoperto che non hai sorelle. Fallo parlare. Sei una ragazza in gamba. Se non riesci a tirargli fuori con qualche trucco le informazioni, mettigli di nascosto qualcosa nel tè. Ci sono tanti modi per far cantare una persona. Dobbiamo sapere il nome del suo cliente. Non possiamo far morire Angel prima di avere scoperto per chi lavora.» Krusemark si alzò. «Per questo pomeriggio ho un mucchio di riunioni importanti, Meg, perciò, se non c'è nient'altro...» «No, non c'è altro.» Margaret Krusemark si alzò in piedi e si lisciò la gonna. «Bene.» Ethan Krusemark mise un braccio intorno alle spalle della figlia. «Telefonami appena si farà vivo l'investigatore. Ho imparato l'arte della persuasione in Oriente. Vedremo se ho perso o no la mano.» «Grazie, papà.» «Vieni. Ti accompagno fuori. Che progetti hai per il resto della giornata?» «Oh, non so. Pensavo di andare magari da Saks a fare qualche compera. Dopo...» Il seguito del discorso non mi arrivò, perché la pesante porta di mogano si era chiusa alle loro spalle. Mi ficcai in tasca il microfono a contatto avvolto nello strofinaccio e provai ad aprire la finestra. Non era sbarrata e riuscii a farla scorrere con poco sforzo. Sganciai una cinghia dell'imbracatura e cacciai all'interno le
mie gambe tremanti. Un attimo dopo avevo staccato anche l'altra ed ero in piedi nella relativa sicurezza dell'ufficio di Krusemark. Correre quel rischio mi aveva reso bene: lavare vetri era una bazzecola in confronto a saggiare di prima mano le arti orientali di Krusemark. Chiusi la finestra e mi guardai intorno. Per quanto forte fosse il desiderio di curiosare, sapevo di non averne il tempo. Il bicchierino di acquavite di Margaret Krusemark era sul tavolo di marmo, quasi intatto. In quello non erano state messe gocce di nessun genere. Annusai il profumo aromatico e ne presi un sorso. Il liquore scivolò sulla mia lingua come velluto infuocato. Lo bevvi tutto in tre veloci boccate. Era vecchio e costoso, meritava un trattamento migliore, ma io avevo molta premura. 28 La segretaria bionda mi diede appena un'occhiata, quando chiusi con forza la porta di mogano. Forse era abituata a lavafinestre che scorrazzavano per l'ufficio del suo capo. Andai a sbattere contro Ethan Krusemark in persona, che tornava a grandi passi lungo il corridoio, petto in fuori, come se avesse una fila di medaglie invisibili appese alla sua giacca grigia di flanella. Passando, grugnì. Suppongo si aspettasse le scuse più umili. Invece dissi: «Va' 'a farti fottere'!», ma le mie parole non lo scalfirono e scivolarono via come uno sputo su un'anatra. Mentre mi dirigevo all'uscita, mandai un bacione alla segretaria che aveva ingoiato un palo. Contrasse la faccia come se avesse in bocca una manciata di budella di bruco, ma due commessi viaggiatori che facevano anticamera su due eleganti sedie uguali pensarono che la cosa fosse davvero spiritosa. Nello sgabuzzino delle scope mi cambiai con una rapidità che avrebbe suscitato l'invidia di Superman. Non avendo tempo di rifare la valigetta, ficcai il microfono a contatto e la Smith & Wesson nelle tasche del cappotto e lasciai la tuta e l'imbracatura stipate dentro il secchio ammaccato. Mi ricordai della cravatta in ascensore e, goffamente e alla cieca, me la annodai intorno al colletto della camicia. Per strada non c'era traccia di Margaret Krusemark. Aveva parlato di acquisti da Saks, quindi immaginai che fosse salita su un tassi. Stabilii di lasciarle il tempo di cambiare idea. Attraversai la Lexington e arrivai al Grand Central Terminal, dove entrai da un ingresso laterale. Scesi la rampa fino al banco delle ostriche e ne ordinai una dozzina di
Blue Point su mezza conchiglia. Scomparvero in fretta. Sorseggiai il sugo dalle conchiglie vuote e ne ordinai un'altra mezza dozzina, che mangiai senza premura. Venti minuti dopo allontanai il piatto e mi diressi a una cabina telefonica. Feci il numero di Margaret Krusemark e lasciai suonare dieci volte prima di appendere la cornetta. La donna era al sicuro da Saks. Magari sarebbe anche passata da Bonwit e da Bergdorf prima di avviarsi verso casa. Il treno navetta trasportò la mia pellaccia imbottita di molluschi fino a Times Square, dove presi un locale fino alla Cinquantasettesima. Feci il numero dell'alloggio di Margaret Krusemark dalla cabina telefonica dell'angolo e di nuovo non ottenni risposta. Oltrepassando l'ingresso dell'881 della Settima Avenue, vidi tre persone che aspettavano l'ascensore e proseguii fino all'incrocio con la Cinquantaseiesima. Mi accesi una sigaretta e tornai indietro. Questa volta l'atrio era vuoto. Andai dritto alle scale di sicurezza. Non conviene farsi riconoscere dal manovratore degli ascensori. Salire fino all'undicesimo piano va benissimo per chi è allenato a correre la maratona, ma non è affatto divertente per chi ha una dozzina e mezzo di ostriche che fanno acrobazie nella pancia. Me la presi con calma, riposandomi ogni due piani, circondato da un misto cacofonico di una dozzina di disparate lezioni di musica. Quando arrivai alla porta di Margaret Krusemark ansimavo e il mio cuore martellava come un metronomo in tempo di presto. Il corridoio era deserto. Aprii la mia valigetta e ne estrassi i guanti di gomma da chirurgo. La serratura era di un modello comune. Suonai il campanello parecchie volte prima di passare in rivista la mia serie di costose chiavi false in cerca della chiave appropriata. La terza che provai girò nella serratura. Raccolsi la mia valigetta, entrai nell'alloggio, chiusi la porta dietro di me. L'odore di etere era insopportabile. Aleggiava nella stanza, volatile e aromatico, riportandomi ricordi di corsia. Tirai fuori del cappotto la mia calibro 38 e camminai di fianco lungo la parete dell'ingresso scuro. Non ci voleva uno Sherlock Holmes per capire che qualcosa era andato storto. Margaret Krusemark aveva cambiato idea e rinunciato alle compere. Giaceva sulla schiena nel salone invaso dal sole, stesa di traverso sul basso tavolino all'ombra di tutte quelle palme nei vasi. Il divano sul quale ci eravamo seduti a prendere il tè era stato spinto contro la parete, in modo che la donna era tutta sola al centro del tappeto, come una statua sull'altare. La sua camicetta da contadina era aperta e lacerata, le sue piccole mam-
melle erano pallide e nient'affatto spiacevoli alla vista, se si eccettua la rozza incisione che divideva il petto da un punto sotto il diaframma fin su a metà dello sterno. La ferita traboccava di sangue, rivoletti rossi scorrevano lungo le costole e formavano pozze sul piano del tavolino. Per fortuna i suoi occhi erano chiusi; fatto per cui provai non poca gratitudine. Riposi la pistola e appoggiai la punta delle dita su un lato della gola di Margaret Krusemark. Attraverso la gomma sottile sentii che era ancora calda. La sua espressione era serena, come se stesse solo dormendo; qualcosa di assai simile a un sorriso indugiava sulle sue labbra. Dall'altra parte della sala un orologio sulla mensola del caminetto batté l'ora: erano le cinque del pomeriggio. Trovai l'arma del delitto sotto il tavolino: un coltello azteco per i sacrifici, proveniente dalla collezione di Margaret Krusemark. Non lo toccai, la lama di lucida ossidiana era appannata dal sangue che andava seccandosi. Non c'erano segni di lotta. Il divano era stato spostato con cura. Era facile ricostruire il delitto. Margaret Krusemark aveva cambiato idea e rinunciato a fare acquisti. Era invece venuta direttamente a casa. L'assassino o l'assassina l'aspettava dentro l'appartamento, l'aveva colta di sorpresa da dietro e le aveva tappato bocca e naso con un batuffolo intriso di etere. La donna aveva perso conoscenza prima di avere tempo di difendersi. Un tappetino spiegazzato vicino all'ingresso indicava su che cosa Margaret Krusemark era stata trascinata in salone. Cautamente, quasi affettuosamente, l'assassino l'aveva sollevata fin sul tavolo e aveva allontanato gli altri mobili in modo da avere molto spazio per agire. Esaminai a lungo la stanza. Mi sembrò che non fosse stato rubato nulla. La collezione di oggetti occulti pareva intatta. Soltanto il pugnale di ossidiana non era al suo posto; e quello sapevo dove si trovava. I cassetti non erano stati aperti, gli armadi non erano stati saccheggiati. Nessun tentativo di far credere a un furto. Accanto a una delle grandi finestre, tra un filodendro e un delphinium, feci un'unica piccola scoperta. Dentro il bacile di un alto tripode ellenico di bronzo rosseggiava un pezzo di carne sanguinolenta, più o meno delle dimensioni di una palla da tennis deformata. Sembrava un rifiuto portato in casa da un cane. Lo fissai a lungo prima di capire che cos'era. Il giorno di san Valentino non mi avrebbe mai più fatto lo stesso effetto. Quel pezzo di carne era il cuore di Margaret Krusemark. Un oggetto così semplice, il cuore umano. Continua a pompare, un gior-
no dopo l'altro, un anno dopo l'altro, finché arriva qualcuno a strapparlo via e finisce con l'assomigliare a un boccone per i cani. Voltai le spalle al cuore della Strega di Wellesley, sentendo tutte e diciotto le ostriche in fuga precipitosa verso l'uscita. Dopo avere frugato un po' dappertutto, trovai uno straccetto imbevuto di etere in un cestino di vimini dell'ingresso. Lo lasciai lì per gli uomini della squadra omicidi. Si divertissero pure con quello, lo portassero pure alla Centrale in compagnia del pezzo di carne e lo esaminassero pure nei loro laboratori. Ci sarebbero stati rapporti in triplice copia da archiviare. Quello era compito loro, non mio. In cucina c'era ben poco d'interessante. Era una cucina qualsiasi. Libri di ricette, pentole e casseruole, tanti vasetti di spezie, un frigorifero pieno di avanzi. Un sacchetto di Bloomingdale conteneva la spazzatura, ma era proprio solo spazzatura: fondi di caffè e ossa di pollo. La camera da letto sembrava più promettente. Il letto era sfatto, le lenzuola in disordine erano macchiate di sperma. La strega non si privava di stregoni. In una piccola stanza da bagno adiacente trovai l'involucro di plastica del suo diaframma. Era vuoto. Se quel mattino Margaret Krusemark era andata a letto con qualcuno, doveva ancora averlo addosso. Gli uomini della polizia avrebbero trovato anche quello. L'armadietto dei medicinali si prolungava in alti scaffali che incorniciavano ciascun lato dello specchio sopra il lavabo. Aspirina, dentifricio, latte di magnesia e fialette di medicine contendevano lo spazio a barattoli di polverine puzzolenti contrassegnate da oscuri simboli alchemici. Una svariata quantità di erbe aromatiche era sigillata in scatolette di metallo assortite. La menta fu l'unica che riconobbi dall'odore. Dal coperchio di una scatola di Kleenex sogghignava verso di me un teschio ingiallito. Sul ripiano vicino ai Tampax c'erano un mortaio e un pestello. Sul coperchio della vaschetta del gabinetto erano stipati un pugnale a doppio taglio, un numero di Vogue, una spazzola e quattro grosse candele nere. Dietro un barattolo di crema di bellezza trovai una mano umana recisa. Scura e avvizzita, era simile a un guanto smesso. Quando la soppesai era così leggera che quasi la lasciai cadere. Non trovai neppure un occhio di tritone, ma certo non perché non l'avessi cercato. Dalla camera da letto si apriva uno studiolo dove Margaret Krusemark aveva svolto il suo lavoro. Uno schedario zeppo di oroscopi dei clienti non mi disse nulla. Cercai sotto gli 'F' per Favorite e sotto gli 'L' per Liebling,
ma invano. C'erano una breve fila di libri di consultazione e un globo. I libri erano appoggiati a un cofanetto di alabastro sigillato, più o meno delle dimensioni di una scatola da sigari, con serpente a tre teste inciso sul coperchio. Scorsi i libri sperando di trovarvi nascosto qualche pezzetto di carta, ma non scoprii nulla. Frugando tra i fogli in disordine sul piano della scrivania, fui attratto da un piccolo cartoncino stampato, con i margini neri. In cima, circondata da un cerchio, era stampata una stella a cinque punte capovolta. Sovrimposta all'interno del pentacolo c'era una testa di capra con le corna. Sotto il talismano era scritto MISSA NIGER in elaborate maiuscole. Anche il testo era in latino. In fondo c'erano le cifre: XXII. II. MCMLIX. Era una data. La domenica delle Palme, fra quattro giorni. C'era la busta del cartoncino, indirizzata a Margaret Krusemark. Vi rimisi dentro il biglietto e la ficcai nella la mia valigetta. La maggior parte degli altri fogli erano calcoli astrali e oroscopi non ancora finiti. Li guardai senza gran interesse e ne trovai uno con il mio nome in testa. Chi sa come sarebbe piaciuto al tenente Sterne mettervi su le mani! Avrei dovuto bruciarlo o buttarlo nel gabinetto e tirare l'acqua. Invece, da vero imbecille, lo cacciai nella mia valigetta. Il ritrovamento dell'oroscopo mi diede l'idea di esaminare l'agenda sulla scrivania di Margaret Krusemark. Ed eccomi segnato lì, il lunedì 16. «H. Angel, 13,30.» Strappai il foglio e lo riposi con tutto il resto nella valigetta. Dalla pagina di quel giorno dell'agenda risultava un appuntamento per le cinque e mezzo. Il mio orologio correva di qualche minuto, ma rimanere oltre le cinque e venti era piuttosto rischioso. Uscendo, lasciai la porta socchiusa. Qualcun altro avrebbe scoperto il corpo e chiamato la polizia. Non volevo avere a che fare con quel pasticcio. Che illusione! C'ero dentro fino al collo. 29 Non scesi di corsa le scale di sicurezza. Avevo fatto abbastanza esercizio per un solo giorno. Quando arrivai nell'atrio non mi diressi in strada ma percorsi lo stretto passaggio che conduce alla Carnegie Tavern. Mi offro sempre da bere dopo che ho scoperto un cadavere. È una vecchia abitudine di famiglia. Nel bar, affollato perché era il momento in cui le bevande costano meno, mi aprii un varco a gomitate e ordinai un doppio Manhattan con ghiaccio.
Quando arrivò, ne bevvi una lunga sorsata e ripercorsi faticosamente la sala con il bicchiere in mano, pestando molti piedi, fino al telefono pubblico. Feci il numero di Epiphany Proudfoot e finii di bere mentre ascoltavo gli ininterrotti trilli. C'era qualcosa di sinistro nel non ricevere una risposta. Attaccai, pensando a Margaret Krusemark, squartata come un cappone di Natale undici piani più su. Il suo numero era stato l'ultimo che non aveva risposto. Lasciai il bicchiere vuoto sul ripiano sotto il telefono e a forza di spallate uscii in strada. Qualcuno scendeva da un tassi a mezzo isolato da me, di fronte al City Center Theatre, a forma di moschea. Urlai e il tassista mi aspettò con la porta aperta, ma dovetti correre per battere una donna risoluta che arrivava di fretta dall'altra parte della via, brandendo un ombrello chiuso. Il tassista era un negro che non batté ciglio quando gli dissi di portarmi all'angolo tra la Centoventitreesima e la Lenox. Probabilmente pensò che erano fattacci miei ed era ben contento di prendersi la mia ultima mancia. Lasciammo il centro senza le solite chiacchiere. Un transistor sul sedile anteriore era sintonizzato ad alto volume su un disc-jockey che parlava ritmico e veloce alla rete WOV: «la stazione emozione con la trasmittente potente». Scesi dal tassi davanti ai Prodotti farmaceutici Proudfoot venti minuti dopo. La macchina si allontanò a gran velocità in una cadenza di rhythm and blues. Il negozio era ancora chiuso agli avventori, la lunga tenda verde pendeva dietro il vetro come una bandiera abbassata dopo una sconfitta. Bussai, scossi la maniglia, ma senza risultati. Epiphany aveva parlato di un alloggio sopra il negozio. Mi avviai verso l'ingresso dello stabile lungo la Lenox e lessi i nomi sulle cassette delle lettere nell'atrio. Sulla terza partendo da sinistra c'era: PROUDFOOT, 2-D. La porta delle scale non era chiusa a chiave. Entrai. Il corridoio, stretto e piastrellato, puzzava di urina e di zampetti di maiale bolliti. Salii i vecchi scalini di marmo scheggiato fino al secondo piano e sentii in qualche alloggio sopra di me tirare l'acqua del gabinetto. L'appartamento 2-D era al capo opposto del pianerottolo. Per precauzione suonai ripetutamente il campanello, ma nessuno aprì la porta. La serratura non presentò difficoltà. Avevo una mezza dozzina di chiavi che facevano al caso. Infilai i miei guanti di gomma e aprii la porta, istintivamente annusando per scoprire odore di etere. Il grande salone d'angolo aveva finestre sia sulla Lenox Avenue sia sulla Centoventitreesima Strada. Era arredato di mobili funzionali comprati a rate e di sculture lignee afri-
cane. In camera il letto era fatto con precisione. Un paio di maschere sghignazzavano ai due lati di un tavolino da toeletta di acero marmorizzato. Passai in rivista i cassetti del comò e l'armadio senza trovarvi altro che vestiario e oggetti personali. Sul tavolino accanto al letto erano appoggiate parecchie fotografie con cornice d'argento, tutte della stessa donna altera e dai lineamenti fini. C'era qualcosa di Epiphany nella curva appassionata della bocca; ma il naso era più piatto, gli occhi erano selvaggi e sbarrati come quelli di un'ossessa. Stavo fissando Evangeline Proudfoot. Aveva educato la figlia a essere ordinata. La cucina era pulita, niente era fuori posto, non c'erano piatti nell'acquaio né briciole sulla tavola. La verdura fresca nel frigorifero era l'unico indizio che la casa era stata abitata di recente. L'ultima stanza era scura come una caverna. L'interruttore della luce non funzionava, perciò usai la mia minuscola lampadina tascabile. Non volendo inciampare in qualche cadavere, esaminai prima il pavimento. Una volta, ma molto molto tempo fa, quel locale doveva essere stato un'altra camera da letto. I vetri della finestra erano dipinti dello stesso blu notte che copriva pareti e soffitto. Sopra tutto questo si snodava uno sgargiante arcobaleno di graffiti. Lungo una parete s'intrecciavano foglie e fiori. Un'altra era attraversata dalle capriole di pesci e sirene rozzamente disegnati. Il soffitto era un trionfo di stelle e di mezzelune. Quella stanza era un tempio vudu. Contro la parete opposta alla porta si alzava un altare in muratura. Sull'altare erano allineati in tante file, come una bancarella del mercato, brocche di terracotta coperte. Mozziconi di candela erano posati a dozzine su piattini davanti a litografie a colori dei santi cattolici affisse sul muro. Di fronte all'altare era infilzata nel pavimento di legno una sciabola arrugginita. Su un lato pendeva una stampella di legno. Tra le brocche si ergeva una croce di ferro battuto molto ornata, che reggeva un cappello a cilindro di seta tutto ammaccato. Vidi su uno scaffale parecchi sonagli fatti con zucche e un paio di battagli di ferro. Vicino a questi erano raggruppati svariati barattoli e botticini colorati. Gran parte della parete sopra l'altare era occupata dal disegno infantile di una nave da carico. Pensai a Epiphany nel suo vestito bianco, mentre salmodiava e gemeva, i tamburi pulsavano e le zucche bisbigliavano come serpenti che si muovano nell'erba secca. Ricordai l'abile mossa del polso e il lucore dello sprizzo di sangue di un gallo nella notte. Uscendo dall'humfo cozzai con la
testa contro un paio di tamburi conga fatti di legno e pelle decorati, che pendevano dal soffitto. Esaminai l'armadio dell'ingresso senza risultati, ma ebbi fortuna in cucina, dove trovai una rampa di stretti scalini che portavano al negozio sottostante. Frugai nel retrobottega, rovistai tra le scorte di radici essiccate e foglie, tra le polverine, senza sapere di che cosa andassi in cerca. Il negozio era oscuro e vuoto. Sul piano di vetro del banco c'era una pila di posta non aperta. La esaminai alla luce della lampadina tascabile: un conto del telefono, parecchie lettere da grossisti di erbe medicinali, un messaggio a stampa del deputato Adam Clayton Powell, una richiesta di soldi per beneficenza. In fondo c'era un manifesto di cartone. Il mio cuore sussultò d'improvviso. La faccia sul manifesto era quella di Louis Cyphre! Cyphre aveva in testa un turbante bianco. La sua pelle sembrava brunita dal vento del deserto. In alto e di traverso era scritto: EL ÇIFR, SIGNORE DELL'IGNOTO. Sul fondo era stampato il seguente messaggio: «L'Illustre e Onnisciente el Çifr parlerà alla congregazione del Nuovo Tempio della Speranza al 139 della Centoquarantaquattresima Strada Ovest, sabato 21 marzo 1959, ore 20,30. Il pubblico è cordialmente invitato a intervenire. INGRESSO LIBERO». Cacciai il manifesto nella mia valigetta. Chi mai sa rinunciare a uno spettacolo gratis? 30 Dopo aver chiuso a chiave l'appartamento di Epiphany Proudfoot, andai a piedi fino alla Centoventicinquesima e presi un tassi davanti al Palm Café. Durante il viaggio verso il centro sulla West Side Highway ebbi molto tempo per pensare. Fissavo dal finestrino l'Hudson, più scuro del cielo notturno, sul quale numerosi piroscafi di lusso splendidamente illuminati sembravano fiere galleggianti tra le baracche della banchina. Una fiera di morte. Venite subito a vedere la cerimonia vudu di morte! In fretta, spicciatevi! Non perdetevi il sacrificio azteco! La prima volta in assoluto! Questo caso era uno spettacolo da fiera. Streghe e indovine, un cliente che si vestiva da sceicco arabo e si anneriva la faccia. Io ero lo zoticone in mezzo a questo macabro parco divertimenti, abbagliato dalle luci e dai giochi di prestigio. I fatti che apparivano come in un gioco delle ombre nascondevano manovre che riuscivo a malapena a percepire. Mi occorreva un bar vicino a casa mia. Il Silver Rail all'angolo tra la
Ventitreesima Strada e la Settima Avenue faceva al caso. All'ora di chiusura strisciai carponi fino a casa? Non me lo ricordo. Come avessi trovato il mio letto al Chelsea rimane un mistero. Solo i sogni mi sembrarono reali. Sognai che uno strepito di urla provenienti dalla strada mi aveva svegliato. Andai alla finestra e scostai le tendine. Una folla inferocita fremeva da un marciapiede all'altro, incoerente e ululante come un'unica bestia infida. In mezzo a questa folla avanzava lento un carretto a due ruote, tirato da un vecchissimo ronzino malandato. Sul carretto c'erano un uomo e una donna. Presi dalla mia valigetta il binocolo e li esaminai. La donna era Margaret Krusemark. L'uomo ero io. In un magico momento del sogno fui improvvisamente sul carretto, aggrappato alla sua sponda di rozzo legno, mentre una folla senza volto ondeggiava tutt'intorno come un mare furioso. Dall'altra parte del carretto traballante Margaret Krusemark sorrideva d'un sorriso seducente. Eravamo così vicini da essere quasi abbracciati. Era forse una strega diretta al rogo? E io ero forse il boia? Il carretto procedeva. Sopra le teste della gente vidi l'inconfondibile sagoma della ghigliottina sorgere sopra una scalinata. Il regno del terrore. Condannato ingiustamente! Il carretto si fermò di scatto ai piedi del patibolo. Mani rudi si alzarono a sollevare Margaret Krusemark dal suo precario sedile. Mentre la folla taceva, la donna fu lasciata salire senza aiuto la scalinata. Un rivoluzionario attrasse la mia attenzione. Era nelle prime file di spettatori, vestito di nero e armato di picca: Louis Cyphre. Portava un berretto frigio sulle ventitré, ornato di un baldanzoso nastro tricolore. Quando mi vide, brandì la picca e mi fece un inchino burlesco. Non vidi la scena sul patibolo. I tamburi rullarono, la lama calò di schianto; quando alzai gli occhi, il carnefice mi voltava la schiena e sollevava la testa di Margaret Krusemark davanti a una folla adorante. Mi sentii chiamare per nome e scesi dal carretto per fare posto a una bara. Louis Cyphre sorrise. Se la spassava un mondo. L'impalcatura era viscida di sangue. Per un pelo non sdrucciolai mentre mi giravo a faccia a faccia con la folla. Un soldato mi prese per il braccio e mi guidò quasi gentilmente verso la tavola. «Devi stenderti, figlio mio», disse il prete. M'inginocchiai per un'ultima preghiera. Il carnefice era in piedi accanto a me. Una raffica di vento sollevò la parte anteriore del suo cappuccio nero. Riconobbi i capelli impomatati e il sorriso beffardo. Il boia era Johnny
Favorite! Mi svegliai urlando più forte dei trilli del telefono. Mi lanciai sulla cornetta come chi sta per annegare si butta su un salvagente. «Pronto... pronto! Lei è Angel? Harry Angel?» Era Herman Winesap, il mio legale prediletto. «Qui parla Angel.» Mi sembrò che la lingua mi fosse cresciuta a dismisura dentro la bocca. «Santo cielo, Angel, dov'è stato? La cerco da ore e ore nel suo ufficio.» «Stavo dormendo.» «Dormendo? Ma sono quasi le undici.» «Ho lavorato fino a tardi», dissi. «Gli investigatori privati non fanno l'orario dei legali di Wall Street.» Se le mie parole l'avevano offeso, Winesap ebbe il buon senso di non darlo affatto a vedere. «Me ne rendo conto. Lei deve svolgere il suo lavoro come le pare e piace.» «Non poteva lasciarmi un messaggio? Che cosa c'è di tanto importante?» «Ieri non aveva accennato al desiderio di incontrarsi con il signor Cyphre?» «Esatto.» «Bene, il signor Cyphre propone di pranzare con lui oggi.» «Lo stesso posto dell'altra volta?» «No. Il signor Cyphre pensa che potrebbe piacerle mangiare al Le Voisin. È al 575 di Park Avenue.» «A che ora?» «All'una. Farà in tempo, se non si riaddormenta.» «Ci sarò.» Winesap agganciò senza i suoi abituali ed elaborati addii. Trascinai il mio dolente corpo fuori del letto e mi avviai con passo malfermo alla doccia. Dopo venti minuti d'acqua bollente e tre tazze di caffè nero mi sentivo di nuovo quasi umano. Vestito di un completo marrone di lana ben stirato, con una camicia bianca fresca di lavanderia e una cravatta senza macchie, ero pronto per il più pretenzioso dei ristoranti francesi. Percorsi in macchina Park Avenue, attraversai la vecchia galleria ferroviaria sotto Murray Hill e il sovrappassaggio che scavalca sui due lati il Grand Central Terminal, come una strada di montagna divisa in due. Quattro isolati più in là la cima della cupola del New York Central Building si ergeva da Park Avenue come un punto esclamativo in gotico fiorito. La rampa all'interno riversava il traffico sulla
Park Avenue superiore, una via che si trasforma da canyon uniforme di muri e mattoni in un'asettica cordigliera di torri dalle pareti di vetro. Trovai un posto per la macchina vicino alla Christian Science Church, all'angolo della Sessantatreesima con Park Avenue, che attraversai a piedi. Le Voisin vantava un indirizzo sulla Park Avenue, ma in realtà l'ingresso era sulla Sessantatreesima. Entrai e consegnai il cappotto e la valigetta. Tutto in quel posto faceva pensare alla smisuratezza dei redditi dei suoi clienti. Il capocameriere mi salutò con riservatezza diplomatica. Pronunciai il nome di Louis Cyphre e lui mi condusse, oltre il carrello dei dolci, a un tavolo vicino a una parete. Vedendoci arrivare, Cyphre si alzò. Indossava pantaloni di flanella grigia, una giacca sportiva blu marina e aveva al collo un fazzoletto di seta rosso e verde. Sul taschino della giacca era ricamato lo stemma di un circolo di tennis. All'occhiello risaltava una piccola stella d'oro. Capovolta. «Felice di rivederla, Angel», disse stringendomi forte la mano. Sedemmo e ordinammo da bere. Per rispetto verso i miei postumi di sbornia, ordinai una bottiglia di birra importata; Cyphre chiese un Campari e soda. Nell'attesa chiacchierammo del più e del meno. Cyphre mi raccontò delle sue intenzioni di fare un viaggio all'estero durante la Settimana Santa: Parigi, Roma, il Vaticano. Definì davvero splendide le cerimonie della domenica di Pasqua in San Pietro. Aveva in programma un'udienza del papa. Lo fissavo con indifferenza e cercavo di immaginarmi quella sua faccia aristocratica incorniciata da un turbante. El Çifr, Signore dell'Ignoto, incontra Sua Santità il Sommo Pontefice. Quando ci portarono da bere, ordinammo il pranzo. Cyphre parlò in francese al cameriere e non riuscii a seguire quel che si dicevano. So di questa lingua quanto basta per compitare una lista e ordinare tournedos Rossini e insalata d'indivia. Appena fummo soli, Cyphre disse: «E ora, signor Angel, la prego, un rapporto esauriente fino a oggi». Sorrise e sorseggiò il suo bicchiere color rosso rubino. «Ho un sacco di cose da raccontare. È stata una settimana molto lunga e non è ancora finita. Il dottor Fowler è morto. Ufficialmente si tratta di suicidio, ma io non ci scommetterei su.» «E perché no? Quell'uomo era stato smascherato, la sua carriera era rovinata.» «Ci sono state altre due morti, entrambe per assassinio, entrambe colle-
gate con questo caso.» «Ne deduco che lei non ha ritrovato Jonathan?» «Non ancora. Ho scoperto un mucchio di cose su di lui, nessuna che lo renda simpatico.» Cyphre fece girare un bastoncino nel bicchiere del Campari e soda. «Secondo lei è ancora vivo?» «Sembrerebbe di sì. Lunedì sera sono andato a Harlem per intervistare un vecchio pianista jazz, che si chiamava Edison Sweet. Avevo visto una sua foto con Favorite, presa anni fa, che mi aveva interessato. Ficcando il naso nei suoi affari, avevo scoperto che Sweet apparteneva a una setta vudu di Harlem. Non vi mancava niente: tam tam, sacrifici cruenti, tutto quanto. Intorno al 1940 a questa setta apparteneva anche Johnny Favorite. Andava a letto con una sacerdotessa vudu, una certa Evangeline Proudfoot e aveva la mania di queste cerimonie. Tutto ciò l'ho saputo da Sweet. Il giorno dopo è stato ucciso. Chi l'ha ucciso avrebbe voluto far passare la sua morte per un rito vudu, ma, chiunque fosse, non era molto ferrato nel vé-vé.» «Vé-vé?» Cyphre sollevò un sopracciglio. «Sono i simboli mistici vudu, che hanno scarabocchiato con il sangue su tutta la parete. Una persona che se ne intende ha scoperto che sono falsi. Erano destinati a metterci su una pista sbagliata.» «Lei ha parlato di un altro delitto.» «Ci arrivo subito. Seguivo una seconda pista. Incuriosito dall'amica di Favorite che apparteneva all'alta società, sono andato a scavare in quella direzione. Mi ci è voluto un po' di tempo per scovarla, anche se l'avevo sempre avuta sotto il naso. Era un'astrologa dal nome di Margaret Krusemark.» Cyphre si chinò verso di me con la curiosità di una massaia pettegola. «La figlia dell'armatore?» «La sua unica e sola figlia.» «Mi dica che cosa è successo.» «Be', sono più che convinto che lei e suo padre fossero la coppia che portò via dalla clinica di Poughkeepsie Favorite. Sono andato da lei fingendomi un cliente desideroso di un oroscopo. Margaret è riuscita a mandarmi a caccia di fantasmi facendomi perdere tempo. Quando finalmente ho avuto le idee chiare, sono tornato nel suo appartamento per vedere che cosa potessi trovarvi e...» «Ha sfondato la porta?»
«No, ho usato una comunella.» «Una che cosa?» «Una chiave falsa.» «Capisco», disse Cyphre. «La prego di continuare.» «Bene. Mi sono introdotto nel suo appartamento, con l'intenzione di setacciarlo tutto minuziosamente; ma le cose sono andate diversamente. Margaret Krusemark era nel salone, morta come un quarto di bue dal macellaio. Qualcuno le aveva strappato il cuore. Ho trovato anche quello.» «Rivoltante.» Cyphre si pulì le labbra con il tovagliolo. «Sui giornali di oggi non si parlava del cuore.» «Gli uomini della squadra omicidi preferiscono omettere qualche particolare, per avere modo di smascherare tutte le confessioni che ricevono dai mitomani.» «Ha chiamato la polizia? In quel che ho letto non si parlava di lei.» «Nessuno sa che vi sono andato. Ho tagliato la corda. Non era la cosa più intelligente che potessi fare, ma, siccome la polizia ha già scoperto un collegamento tra me e la morte di Sweet, non volevo metterla sulle mie tracce anche per questo delitto.» Cyphre corrugò la fronte. «Che collegamento c'è tra lei e l'uccisione di Sweet?» «Gli avevo dato il mio biglietto da visita. I poliziotti lo hanno trovato nel suo alloggio.» Cyphre sembrava poco soddisfatto. «E quella Krusemark? Aveva dato anche a lei un biglietto da visita?» «No, questa volta sono a posto. Ho trovato il mio nome sull'agenda della scrivania e l'oroscopo che mi aveva preparato, ma li ho portati via.» «Dove sono adesso?» «Al sicuro, non si preoccupi.» «Perché non li ha distrutti?» «La mia prima idea era quella. Ma l'oroscopo potrebbe darmi qualche indizio. Quando Margaret Krusemark mi chiese la data di nascita, le dissi quella di Favorite.» A questo punto il cameriere arrivò con quanto avevamo ordinato. Scoperchiò i piatti di portata con gesto da prestigiatore, mentre l'addetto ai vini si presentava con una bottiglia di Bordeaux. Cyphre eseguì la cerimonia di annusare il tappo e di rigirare in bocca un sorso prima di fare un cenno d'approvazione. Ne furono versati due bicchieri, poi i camerieri si allontanarono silenziosi come borsaioli al lavoro tra la folla.
«Château Margaux '47», disse Cyphre. «Annata eccellente per un HautMédoc. Mi sono preso la libertà di ordinare un vino che andasse bene con il mio pranzo e il suo.» «Grazie», dissi. «Non m'intendo molto di vini.» «Questo le piacerà.» Cyphre alzò il bicchiere. «Alla continuazione dei suoi buoni risultati. Sono convinto che è riuscito a tacere il mio nome, quando la polizia si è rivolta a lei.» «Quando sono passati alle maniere forti, ho dato loro il nome di Winesap e ho detto che lavoro per lui. In questo modo ho diritto a tacere esattamente come un avvocato.» «Una mossa intelligente, signor Angel. E quali sono le sue conclusioni?» «Conclusioni? Non ho tratto conclusioni.» «Secondo lei Jonathan ha ucciso tutte quelle persone?» «Nemmeno per sogno.» «E perché?» Cyphre trafisse una forchettata di pàté. «Perché tutto quanto sembra eseguito su ordinazione. Secondo me Favorite è destinato a fare da capro espiatorio.» «Un'ipotesi interessante.» Sorseggiai una boccata di vino e incontrai il suo sguardo di ghiaccio. «Il guaio è che non ne capisco il perché. Le risposte sono sepolte nel passato.» «Le disseppellisca. Lavori di vanga, amico.» «Il mio lavoro sarebbe molto, ma molto, più facile, signor Cyphre, se lei smettesse di avere segreti con me.» «Che cosa dice?» «Lei non mi è stato affatto d'aiuto. Tutto quanto so di Johnny Favorite ho dovuto scoprirmelo per conto mio. Non mi ha mai fornito un indizio. Eppure lei ebbe a che fare con lui. Aveva un accordo in atto. Lei e questo semplice orfanello che squarta piccioni e va in giro con un teschio nella valigia. C'è un sacco di cose che lei non vuole spiegarmi.» Cyphre incrociò le posate sul piatto. «La prima volta che lo incontrai, Jonathan faceva l'aiuto cameriere. E se nella sua valigia c'erano teschi io non ne sapevo nulla. Sarò più che felice di dirle tutto quel che si prenderà la briga di chiedermi.» «Va bene. Perché porta all'occhiello una stella rovesciata?» «Questa?» Cyphre diede un'occhiata al bavero della giacca. «Certo, ha ragione, l'ho messa alla rovescia.» La raddrizzò con cura facendola girare nell'occhiello. «È la decorazione dei Figli della Repubblica, una delle tante zelanti associazioni patriottiche. Mi elessero membro onorario quando li
aiutai in una campagna per raccogliere fondi. Giova sempre dimostrarsi patriottici.» Cyphre si chinò verso di me, con un sorriso più bianco di una pubblicità di dentifrici. «In Francia, porto sempre il tricolore.» Mentre fissavo quel suo abbagliante sorriso, Cyphre mi fece l'occhiolino. Una gelida fitta di terrore angoscioso mi percosse il corpo come una scossa elettrica. Mi sentii raggelato, impossibilitato a muovermi, ipnotizzato dall'immacolato sorriso di Cyphre. Era il sorriso visto ai piedi del patibolo. In Francia porto sempre il tricolore. «Si sente bene, signor Angel? Mi sembra un po' pallido.» Giocherellava con me come il gatto con il topo e intanto mi sorrideva sardonico. Intrecciai le mani in grembo perché Cyphre non potesse vedere come mi tremavano. «Un boccone che ho inghiottito mi è andato di traverso», dissi. «Deve fare più attenzione. Una cosa come questa potrebbe soffocarla.» «Sto bene. Non c'è da preoccuparsi. Niente m'impedirà di scoprire la verità.» Cyphre allontanò da sé il piatto, con il raffinato pàté mangiato a metà. «La verità, signor Angel, è una preda molto difficile da afferrare.» 31 Rinunciammo al dolce in favore di brandy e sigari. I sigari di Cyphre erano buoni tanto quanto il loro profumo. Non parlammo più del caso. Tenni viva la conversazione come meglio seppi, mentre la sensazione di paura mi scendeva nel ventre in un groppo durissimo. Avevo immaginato quell'ammiccamento beffardo? Leggere nella mente è la più antica truffa di questo mondo, ma il saperlo non impediva alle mie dita di tremare. Uscimmo insieme dal ristorante. Accanto al marciapiede aspettava una Rolls Royce grigio argento. L'autista in divisa aprì a Louis Cyphre la porta posteriore. «Ci terremo in contatto», disse Cyphre stringendomi la mano prima di entrare in macchina. Lo spazioso interno brillava di legno e di cuoio lustro, come un esclusivo circolo maschile. In piedi sul marciapiede, li vidi allontanarsi silenziosi e svoltare l'angolo. La Chevrolet aveva un che di misero, quando girai la chiavetta e mi avviai verso il mio ufficio. L'interno puzzava come la sala di un cinematografo della Quarantaduesima Strada: tabacco rancido e ricordi svaniti. Seguii la Quinta Avenue lungo la striscia verde lasciata dal corteo di due giorni prima. Arrivato alla Quarantacinquesima, girai verso ovest. C'era un posto
per la macchina nel mezzo dell'isolato tra la Sesta e la Settima e lo presi subito. Nell'anticamera del mio ufficio trovai Epiphany Proudfoot addormentata sul divano marrone. Indossava un completo di lana color prugna e una camicetta di raso grigio con un ampio colletto. Il cappotto blu scuro era ripiegato sotto la testa a mo' di guanciale. Per terra era posata una costosa borsa da viaggio di cuoio. Con il corpo adagiato in una graziosa posizione a Z, le gambe piegate sotto di sé e le braccia intorno al cappotto blu, aveva la leggiadria di una polena di veliero. Le toccai piano una spalla, le sue ciglia sbatterono. «Epiphany?» La ragazza spalancò gli occhi, che brillarono della lucentezza dell'ambra levigata. Alzò la testa. «Che ora è?» domandò. «Quasi le tre.» «Così tardi? Ero tanto stanca.» «Da quanto aspetta qui?» «Dalle dieci. Lei non ha un orario d'ufficio molto regolare.» «Ho avuto un incontro con il mio cliente. Dov'era ieri pomeriggio? Sono venuto in negozio, ma non c'era nessuno.» Epiphany si mise a sedere, appoggiando i piedi sul pavimento. «Ero da un'amica. Avevo paura di stare in casa.» «Perché?» La ragazza mi guardò come se fossi un bambino stupido. «Perché, secondo lei?» disse. «Prima uccidono Toots. Poi sento alla radio che hanno assassinato la donna che era stata la fidanzata di Johnny Favorite. Per quel che ne so, la prossima sono io.» «Perché la chiama la donna che era stata la fidanzata di Johnny Favorite'? Non lo sa, il suo nome?» «E perché mai dovrei sapere il suo nome?» «Non faccia la furba con me, Epiphany. Ieri, quando è uscita da questo ufficio, l'ho seguita fino all'appartamento di Margaret Krusemark. Ho ascoltato di nascosto quel che vi dicevate. Mi sta trattando da imbecille.» Le sue narici si dilatarono, i suoi occhi, incontrando la luce, risplendettero come gemme. «Sto cercando di salvarmi la vita!» «Imbrogliare le carte non è il metodo migliore per farlo. Che cosa esattamente ha tramato con Margaret Krusemark?» «Un bel niente. Fino a ieri non sapevo nemmeno chi fosse.» «Questa non la bevo, Epiphany. Trovi qualcosa di meglio.»
«Ma che cosa? Devo inventarmi tutto?» La ragazza girò intorno al basso tavolino e mi si avvicinò. «Ieri, dopo avere chiamato lei, ho ricevuto una telefonata da questa Margaret Krusemark. Mi ha detto di essere stata, molti anni fa, amica di mia madre. Voleva venire da me, ma le ho detto che dovevo andare in centro; allora mi ha invitata a passare da casa sua appena ne avessi avuto tempo. Finché non ci siamo viste, Johnny Favorite non è mai stato nominato. E questa è la verità.» «D'accordo», dissi. «Crederò alle sue parole. Del resto non c'è nessuno che possa smentirle. Posso almeno sapere dove ha dormito la notte scorsa?» «Al Plaza. Ho calcolato che un albergo di lusso sarebbe stato l'ultimo posto dove può venire in mente a qualcuno di cercare una ragazza negra di Harlem.» «Ha tenuto la camera?» Epiphany scosse la testa. «È troppo cara per me. E poi, in realtà, non mi sentivo al sicuro. Non ho chiuso occhio.» «Qui deve proprio sentirsi al sicuro», dissi. «Quando sono entrato dormiva come un ghiro.» Epiphany sollevò una delle sue mani delicate e accarezzò il bavero del mio cappotto. «Mi sento molto, ma molto più al sicuro adesso che lei è arrivato.» «Io grosso coraggioso investigatore?» «Non si sminuisca.» Epiphany afferrò entrambi i risvolti e mi venne molto vicino. I suoi capelli sapevano di pulito e di fresco, come biancheria asciugata al sole. «Lei deve aiutarmi», disse. Le sollevai il mento, finché i nostri occhi si incontrarono. Passai la punta delle dita sulla sua guancia. «Può andare a dormire in casa mia. È molto più comoda dell'ufficio.» Epiphany disse grazie con molta solennità, come se ringraziasse un maestro di musica che l'aveva appena elogiata per i risultati di una bella lezione. «La porterò là subito», dissi. 32 Posteggiai la Chevrolet vicino all'angolo dell'Ottava Avenue con la Ventitreesima Strada, di fronte al vecchio Grande Teatro dell'Opera, un tempo quartier generale delle ferrovie Erie: una cittadella dove 'Jubilee' Jim Fisk
si barricò per difendersi dai suoi furibondi azionisti e dove la sua salma fu solennemente esposta al pubblico, dopo che Ned Stokes gli ebbe sparato sulle scale di servizio dell'hotel Grand Central. Adesso ospitava una sala cinematografica. «Dov'è l'hotel Grand Central?» mi domandò Epiphany mentre chiudevo a chiave la macchina. «Nella Lower Broadway, sopra Bleecker Street. Adesso si chiama Broadway Central. Un tempo il suo nome era La Farge House.» «Lei la sa lunga su New York», disse Epiphany, prendendomi il braccio mentre attraversavamo la strada. «Gli investigatori sono come i tassisti; mentre lavorano imparano la geografia.» Sottoposi Epiphany a un ininterrotto imbonimento da giro turistico per tutto il tempo che camminammo. Mi sembrò che la ragazza si divertisse nella parte della turista; infatti incoraggiava di tanto in tanto la mia pedanteria con qualche domanda. La facciata di ghisa di un vecchio edificio industriale nella Ventitreesima le colpì la fantasia. «Penso di non essere mai stata prima d'ora in questa parte della città.» Oltrepassammo il ristorante Cavanaugh. «Lì dentro Diamond Jim Brady faceva la corte a Lillian Russell. Verso il 1890 questo era un quartiere molto elegante. Madison Square era il centro di New York, nella Sesta Avenue c'erano tutti i grandi negozi alla moda, Stern Brothers, Altman, SiegelCooper, Hugh O'Neill. Adesso le vecchie costruzioni sono usate come alloggi, ma hanno ancora lo stesso aspetto. Ecco dove abito io.» Epiphany allungò il collo e alzò gli occhi sul Chelsea, bizzarria vittoriana di mattoni rossi. Il suo sorriso mi disse che era affascinata dalle delicate ringhiere di ferro che abbellivano ogni piano. «Qual è il suo appartamento?» Glielo indicai con un dito. «Al sesto piano, sotto l'arco.» «Entriamo», disse la ragazza. Eccettuato il caminetto con i suoi grifoni neri scolpiti, l'atrio era poco interessante. Epiphany non vi fece caso, come non aveva badato alle targhe di bronzo all'esterno. Si finse molto stupita quando una donna dai capelli bianchi uscì dall'ascensore con un leopardo al guinzaglio. Abitavo in due stanze e cucinino, con un piccolo balcone che dava sulla strada. Non molto grandioso secondo i criteri di New York ma, a giudicare dall'espressione sul volto di Epiphany quando aprii la porta, sarebbe potuto essere il palazzo di J.P. Morgan.
«Mi piacciono i soffitti alti», disse la ragazza, aggiustando il cappotto sullo schienale del divano. «Mi fanno sentire importante.» Presi il suo cappotto per appenderlo con il mio nell'armadio. «Sono più alti di quelli del Plaza?» «Più o meno uguali. Queste stanze sono più grandi.» «Però al pianterreno non c'è il Palm Court. Posso darle qualcosa da bere?» La ragazza disse che era una buona idea, perciò ritornai nel cucinino e preparai per ciascuno un whisky e soda. Quando tornai con i bicchieri in mano, Epiphany, appoggiata allo stipite della porta, stava fissando il letto matrimoniale dell'altra stanza. «Le attrezzature sono quelle», dissi porgendole un bicchiere. «Risolveremo in qualche modo il problema della sua sistemazione.» «Sono sicura che troveremo una soluzione», disse Epiphany, con una voce roca, carica di insinuazioni. Bevve un sorso, dichiarò perfetta la bevanda e sedette sul divano accanto al camino. «Tira bene?» «Sì, quando mi ricordo di comprare la legna.» «Glielo ricorderò io. È un delitto non usarlo.» Aprii la mia valigetta e le feci vedere il manifesto di el Çifr. «Sa qualcosa di questo individuo?» «El Çifr? È una specie di maestro indù. Gira per Harlem da anni, almeno da quando ero piccola. Ha una sua piccola setta, ma predica dovunque lo invitino: Daddy Grace, Father Divine, i musulmani, chi più ne ha più ne metta. Una volta predicò persino dal pulpito della chiesa battista abissina. Ricevo i suoi manifesti per posta un paio di volte l'anno e li appiccico nella vetrina del negozio, proprio come faccio con quelli della Croce Rossa e di sorella Kenny. Capisce, anche questo è un servizio per il pubblico.» «Non lo ha mai visto di persona?» «Mai. A che scopo vuole informazioni sul Çifr? C'entra in qualche modo con Johnny Favorite?» «Potrebbe darsi. Non posso dirlo con sicurezza.» «Il che vuol dire che non ne ha voglia.» Dissi: «Stabiliamo fin dall'inizio qualche regola. Non cerchi di strapparmi notizie». «Scusi. Pura curiosità. In fondo sono in ballo anch'io.» «C'è dentro fino al collo. Proprio per questo starà meglio se di certe cose sarà tenuta all'oscuro.» «Ha paura che le racconti a qualcun altro?» «No», dissi. «Ho paura che qualcun altro pensi che lei ha qualcosa da
raccontare.» Il ghiaccio tintinnò contro il vetro del bicchiere vuoto di Epiphany. Le preparai un'altra bevanda e una anche per me, poi mi sedetti accanto a lei sul divano. «Alla sua salute», disse la giovane mentre avvicinavamo i bicchieri. «Sarò onesto con lei, Epiphany», dissi. «Da quella sera in cui ci siamo conosciuti, non ho fatto un passo avanti nelle ricerche di Johnny Favorite. Era suo padre. Sua madre deve avergliene parlato. Cerchi di ricordare qualunque cosa possa averle detto, per quanto insignificante le sembri.» «Non lo nominava quasi mai.» «Deve pure averle raccontato qualcosa.» Epiphany giocherellava con un orecchino, un piccolo cammeo montato su oro. «La mamma diceva che Favorite era una persona dotata di grande forza e potere. Lo definiva un mago. Obi era una soltanto delle molte vie che esplorava. La mamma diceva che le aveva insegnato un mucchio di cose sulla magia nera, molto più di quanto desiderasse sapere.» «Che cosa vuole dire?» «È probabile che chi scherza con il fuoco rimanga scottato.» «Sua madre non si interessava di magia nera?» «La mamma era una donna buona, il suo spirito era puro. Una volta mi disse che Johnny Favorite era vicinissimo al vero male, vicino come lei non avrebbe mai voluto essere.» «Quello doveva essere il suo fascino», dissi. «Può darsi. Di solito il cuore di una giovane donna batte più in fretta per un individuo crudele.» Il tuo sta battendo più in fretta? mi chiesi. «Riesce a ricordare qualche altra cosa che sua madre le disse?» Epiphany sorrise. Il suo sguardo era impassibile come quello di una gatta. «Be', c'è ancora qualcosa. Mi disse che faceva l'amore favolosamente bene.» Mi schiarii la voce. Epiphany si appoggiò ai cuscini del divano aspettando che facessi la prima mossa. Mi scusai e andai in stanza da bagno. La donna di servizio aveva lasciato la scopa e il secchio appoggiati al lungo specchio, per evitarsi la fatica di andare fino al ripostiglio quando aveva finito la pulizia. Il suo floscio grembiule grigio pendeva dal manico della scopa come un'ombra fuori posto. Mentre mi abbottonavo i calzoni, fissai la mia immagine nello specchio. Mi dissi che una tresca con un'indiziata era una stupidaggine, insensata,
immorale, anche pericolosa. Bada agli affari e dormi sul divano. L'immagine riflessa mi rispose con un'occhiata maliziosa, in modo del tutto irragionevole. Quando tornai nella sala, Epiphany sorrise. Aveva tolto le scarpe e la giacca. Il suo collo sottile scompariva dentro il colletto aperto della camicetta con una grazia che mi ricordò i falchi in volo. «Le riempio di nuovo il bicchiere?» Allungai la mano verso il suo bicchiere vuoto. «E perché no?» Svuotai la bottiglia e preparai due whisky con pochissima acqua. Quando ne porsi uno a Epiphany, notai che i primi due bottoni della camicetta erano aperti. Appesi la mia giacca allo schienale di una sedia e mi allentai la cravatta. Gli occhi color topazio di Epiphany seguirono ogni mia mossa. Il silenzio ci avvolse in una campana di vetro. Quando appoggiai un ginocchio accanto a lei sul divano, mi sentivo martellare le tempie. Le tolsi il bicchiere non ancora vuoto e lo posai sul tavolino presso il mio. Le labbra di Epiphany si socchiusero. Quando le misi una mano dietro la nuca e l'attirai a me, udii un rapido sospiro. 33 La prima volta sul divano fu un frenetico aggrovigliarsi di vesti e di membra. Tre settimane di astinenza non avevano certo giovato alle mie capacità amatorie. Promisi di dare miglior prova nel caso avessi avuto una seconda possibilità. «Il caso non c'entra affatto.» Epiphany si sfilò dalle spalle la camicetta sbottonata. «Il sesso è il nostro modo di parlare agli dei.» «Andiamo a continuare la conversazione in camera?» dissi scalciando per liberarmi del groviglio di calzoni e mutande. «Parlo seriamente», disse bisbigliando Epiphany, mentre mi toglieva la cravatta e mi sbottonava lentamente la camicia. «C'è un racconto più vecchio di Adamo ed Eva: il mondo cominciò dal coito degli dei. Quando noi ci uniamo siamo uno specchio della Creazione.» «Non diventare troppo seria.» «Non è una cosa seria, è allegria.» Epiphany lasciò cadere il reggipetto sul pavimento e aprì la cerniera della stropicciatissima gonna. «La femmina è l'arcobaleno; il maschio, tuono e lampo. Qui. Così.» Vestita solo delle calze e del reggicalze, la ragazza si piegò ad arco all'indietro con l'agilità e la facilità di un maestro di yoga. Il suo corpo era
flessuoso e forte. I muscoli delicati incresparono la sua pelle color fulvo. Era fluida come un volo di uccelli. O, diciamo pure, come un arcobaleno: le mani toccarono il pavimento dietro di lei, la schiena formò una curva perfetta. Il suo muoversi lento e facile fu, come tutte le meraviglie della natura, uno spiraglio sulla perfezione. Epiphany si abbassò ancora, finché si resse unicamente sulle spalle, i gomiti e le piante dei piedi. Era la posizione più sensuale che mai avessi vista assumere da una donna. «Sono l'arcobaleno», sussurrò Epiphany. «Il fulmine colpisce due volte.» Mi inginocchiai davanti a lei e, zelante discepolo, afferrai l'altare delle sue cosce aperte. Ma la musica cambiò quando Epiphany si avvicinò come una danzatrice limbo e mi inghiottì. L'arcobaleno si trasformò in tigre. Il suo ventre teso pulsò contro di me. «Non muoverti», bisbigliò, contraendo muscoli nascosti con ritmo battente. Mi fu difficile trattenere un urlo, quando venni. Epiphany si appoggiò sul mio petto. Le accarezzai la fronte madida con le labbra. «Con i tamburi è meglio», disse. «Lo fai in pubblico?» «Ci sono momenti in cui gli spiriti si impadroniscono di me. Nel banda oppure a un bambouché. Momenti in cui posso ballare e bere tutta la notte, sì, anche scopare, fino all'alba.» «Che cosa vogliono dire banda e bambouché?» Epiphany sorrise giocherellando con i miei capezzoli. «Banda è una danza in onore di Guédé. Molto selvaggia, furiosa e sacra, sempre eseguita nello hounfort della société. In quello che chiameresti un tempio vudu.» «Toots lo chiamava 'humfo'.» «Stessa parola, dialetto diverso.» «E bambouché?» «Bambouché non è altro che una festa. Gli abitanti della société vi trovano uno sfogo.» «Qualcosa come una festa parrocchiale?» «Sì, sì, ma molto, molto più divertente.» Passammo l'intero pomeriggio come bambini nudi, ridendo, facendo docce, saccheggiando il frigorifero, conversando con gli dei. Epiphany trovò alla radio una stazione portoricana; danzammo finché il sudore formò rivoletti sui nostri corpi. Quando proposi di andare fuori a cena, la mia mambo mi condusse ridacchiando nel cucinino e insaponò i nostri genitali di panna montata. Fu un banchetto più dolce di quelli che Canavaugh ser-
viva a Diamond Jim e alla sua prosperosa Lil. E quando si fece buio, raccogliemmo da terra i nostri abiti e ci ritirammo in camera da letto, accendendo parecchie candele scoperte tra le cianfrusaglie di un cassetto. Alla loro pallida luce il corpo di Epiphany splendeva come un frutto maturato sull'albero. Veniva voglia di assaggiarla tutta quanta. Tra un assaggio e l'altro, chiacchieravamo. Domandai a Epiphany dove fosse nata. «All'ospedale ginecologico della Centodecima Strada. Ma fui allevata da mia nonna a Bridgetown, nelle Barbados, fino ai sei anni. E tu?» «In un posticino del Wisconsin che non hai mai sentito nominare. Poco lontano da Madison. Ormai farà probabilmente parte della città.» «Si direbbe che tu non ci vada molto sovente.» «Non sono tornato laggiù da quando entrai nell'esercito. E questo avvenne una settimana dopo Pearl Harbor.» «Perché non ci torni? Non può essere tanto brutto.» «Laggiù per me non c'è più nulla. I miei genitori morirono tutti e due mentre ero in un ospedale militare. Sarei potuto andare a casa per il funerale, ma non ero in grado di viaggiare. Quando fui congedato, il mio paese non era altro che un mazzetto di ricordi sbiaditi.» «Eri figlio unico?» Feci segno di sì. «Adottato. Ma questo per loro fu solo un motivo di più per volermi bene.» Dissi queste parole come un boy-scout che giura fedeltà. Credere nel loro affetto teneva per me il posto del patriottismo. Questa credenza era durata negli anni che avevano corroso persino i loro lineamenti. Per quanto cercassi, i miei ricordi del passato erano soltanto istantanee sfocate. «Wisconsin», disse Epiphany. «Non per niente parli delle feste parrocchiali.» «C'erano anche quadriglie, vecchie auto con motore truccato, circoli salutisti, vendite benefiche di dolci fatti in casa e bisbocce da liceali degne del bambouché.» Epiphany si addormentò tra le mie braccia. Rimasi a lungo sveglio e la osservai. Le mammelle rotonde si alzavano e abbassavano con i teneri palpiti del suo respito, i capezzoli, al lume di candela, era dolci baci al cioccolato. Le ciglia, quando le ombre di un sogno passavano dietro le palpebre, tremolavano. Sembrava una fanciullina. La sua espressione innocente non aveva alcuna somiglianza con la smorfia estatica che le mascherava i tratti
del volto quando si arcuava sotto di me ululando come una tigre. Essermi compromesso con lei era stata una follia. Quelle dita sottili sapevano maneggiare un coltello. Quella ragazza sacrificava animali con indifferenza. Se aveva ucciso Toots e Margaret Krusemark, mi ero cacciato in grossi guai. Non ricordo quando mi addormentai. Mi lasciai andare mentre cercavo di dominare i miei sentimenti d'affetto per una ragazza che avevo tutte le ragioni di credere pericolosissima. Individuo pericoloso, come dicono le scritte sotto le foto dei ricercati. I miei sogni furono un incubo dopo l'altro. Violente immagini distorte si alternarono a scene di immensa desolazione. Ero smarrito in una città il cui nome non sapevo. Le vie erano deserte, i cartelli stradali, quando giunsi a un incrocio, erano tutti vuoti. Nessuna delle costruzioni mi appariva familiare. Erano prive di finestre e altissime. Vidi in lontananza qualcuno che appoggiava un tabellone a un muro cieco. Mentre costui vi incollava strisce a caso, un'immagine cominciò a prendere forma. Dal tabellone la faccia di Louis Cyphre mi squadrò sogghignando. Il suo ghigno buffonesco era largo tre metri, come quello del sorridente signor Tilyou a Steeplechase Park. Chiamai ad alta voce l'operaio, che si voltò, tenendo in mano il suo spazzolone dal lungo manico. Era Cyphre. E rideva. Il tabellone si divise e si aprì come il sipario di un teatro, lasciando vedere una distesa senza fine di ondulate colline boscose. Cyphre lasciò cadere la spazzola e il pentolino della colla e corse dentro. Lo inseguii da presso, schivando come una pantera gli ostacoli del sottobosco che mi si materializzavano davanti. Chi sa come, lo persi di vista; e questo fatto mi rivelò che anch'io mi ero smarrito. Seguii un sentiero tracciato da animali selvatici, che serpeggiava tra parchi e prati. Mi fermai a bere a un ruscello e sulle sue rive trovai l'impronta di un tacco nel muschio. Qualche attimo dopo un grido lacerante interruppe la pace. Lo udii una seconda volta e mi misi a correre in quella direzione. Un terzo urlo mi guidò ai margini di una breve radura. Sull'altro lato del praticello un orso aggrediva una donna. Corsi verso di loro. L'enorme carnivoro scuoteva la sua vittima floscia come una bambola di pezza. Ne vidi la faccia sanguinante: era Epiphany. Mi scaraventai contro la belva, senza pensare. L'orso si alzò su due zampe e mi buttò a terra. Non era possibile non riconoscere quei tratti belluini:
nonostante le zanne e il muso bavoso, l'orso aveva l'aspetto di Cyphre. Quando guardai di nuovo, c'era Cyphre sdraiato qualche metro più in là. Era nudo nell'erba alta e, invece di malmenare Epiphany, faceva l'amore con lei. Mi buttai in avanti e lo presi per la gola, strappandolo dalla ragazza gemente. Lottammo accanto a lei nell'erba. Cyphre era più forte, ma io lo stavo strozzando. Premetti finché il suo volto si fece scuro di sangue. Epiphany urlò alle mie spalle. Le sue grida mi svegliarono. Ero seduto sul letto, le lenzuola mi avvolgevano come un sudario. Ero a cavalcioni sui fianchi di Epiphany. I suoi occhi spalancati erano pieni di terrore e di sofferenza. La tenevo per la gola, le mie mani erano chiuse in una stretta mortale. La ragazza non gridava più. «Oh, cielo! Come stai?» Epiphany respirava a fatica. Quando mi sollevai e la liberai del mio peso, si trascinò al sicuro in un angolo del letto. «Devi essere pazzo», disse tra colpi di tosse. «Qualche volta ho paura di esserlo.» «Che cosa ti è successo?» Epiphany si fregò il collo nei punti in cui i segni scuri lasciati dalle mie dita deturpavano la sua perfetta carnagione. «Non lo so. Vuoi un po' d'acqua?» «Sì, grazie.» Andai nel cucinino e tornai con un freddo bicchiere di acqua e ghiaccio. «Ti ringrazio.» Epiphany sorrise mentre glielo porgevo. «Tratti così tutte le tue amichette?» «Non sempre. Stavo sognando.» «Che sogno facevi?» «Qualcuno stava facendoti del male.» «Qualcuno che conosci?» «Sì. Lo sogno tutte le notti. Sogni violenti, pazzeschi. Incubi. E quello stesso uomo continua ad apparirmi e a burlarsi di me. A procurarmi sofferenza. Questa notte ho sognato che ti malmenava.» Epiphany posò il bicchiere e mi prese la mano. «Si direbbe che qualche boko ha lanciato contro di te un potente wanga.» «Parla in modo comprensibile, bambola.» Epiphany rise. «Sarà meglio che ti istruisca in fretta. Il boko è un hungan cattivo, che pratica solo magia nera.» «Un hungan?» «Un sacerdote di Obi. Una mambo, come me, è una sacerdotessa, l'hungan è un uomo. Wanga è quel che voi chiamereste una maledizione o un
incantesimo. Capisci, un malocchio, un maleficio. Quel che mi racconti dei tuoi sogni mi fa pensare che uno stregone ti abbia in suo potere.» Sentii accelerare i battiti del mio cuore. «Qualcuno sta facendo stregonerie contro di me?» «Si direbbe di sì.» «E sarebbe l'uomo che vedo in sogno?» «Molto probabilmente. Lo conosci?» «In un certo senso. Diciamo che ho avuto a che fare con lui negli ultimi tempi.» «È Johnny Favorite?» «No, ma ci sei vicina.» Epiphany mi afferrò il braccio. «Mio padre era immischiato in questo genere di magia nera. Era un adoratore del diavolo.» «E tu no?» Epiphany si allontanò da me, offesa. «La pensi così?» «So che sei una mambo vudu.» «Io sono una mambo di qualità superiore. Lavoro per il bene, ma questo non significa che non conosca il male. Quando il tuo avversario è potente, è meglio stare in guardia.» La cinsi con un braccio. «Pensi di poter fare un incantesimo che mi protegga nei sogni?» «Sì, se tu ci credessi.» «Sto acquistando la fede di minuto in minuto. Mi spiace averti fatto male.» «Non importa.» Epiphany mi baciò sull'orecchio. «Conosco un modo per mandare via tutto il dolore.» E così fece. 34 Aprii gli occhi. Atomi di pulviscolo danzavano in una stretta fettina di luce mattinale. Epiphany mi giaceva accanto, le coperte scostate rivelavano un braccio sottile e una spalla color cannella. Mi misi a sedere e allungai una mano verso le sigarette, appoggiato al guanciale. Il raggio di sole divideva in due il letto, percorrendo la topografia dei nostri corpi come una sottile strada dorata. Quando cominciarono a bussare alla porta d'ingresso, mi ero chinato e stavo baciando le palpebre di Epiphany. Solo uno sbirro poteva annunciar-
si picchiando a quel modo. «Avanti! Apra, Angel!» Era Sterne. Gli occhi di Epiphany si spalancarono, pieni di paura. Tenni un dito sulle labbra. «Chi è?» Usai una voce rauca da persona assonnata. «Il tenente Sterne. Su, Angel, non possiamo perdere tutto il giorno.» «Arrivo subito.» Epiphany si alzò a sedere, con gli occhi sbarrati, supplicanti, chiedendo una spiegazione con mimica impaurita. «È la polizia», le bisbigliai. «Non so che cosa voglia. Probabilmente solo parlarmi. Resta di qui.» «Si spicci, Angel!» Epiphany scosse la testa, balzò giù dal letto e uscì dalla camera a lunghi passi. Sentii chiudersi piano piano la porta della stanza da bagno. Mi alzai e con un calcio spedii gran parte dei suoi indumenti sotto il letto. Sterne continuava a bussare senza interruzione. Portai nello sgabuzzino la valigia aperta di Epiphany e la cacciai sull'ultimo ripiano sotto le mie valigie vuote. «Arrivo, arrivo», urlai infilandomi una vestaglia stropicciata. «Non c'è bisogno di buttare giù la porta a calci.» Nel salottino trovai una delle calze di Epiphany ben distesa sulla spalliera del divano. Me la legai in vita sotto la vestaglia e aprii la porta d'ingresso. «Era ora», sbuffò Sterne spingendomi da parte con una spallata. Il sergente Deimos lo seguì dappresso, vestito di un completo verde oliva di materiale sintetico e di un cappello di paglia con un nastro a vivaci colori. Sterne aveva lo stesso abito di mohair, ma senza l'impermeabile grigio. «Ragazzi, mi portate un soffio di primavera», dissi. «Dormiva come il solito fino a tardi, Angel?» Sterne spinse indietro il cappello macchiato di sudore ed esaminò il disordine della stanza. «Che cos'ha combinato? C'è stata una battaglia, qui dentro?» «Mi sono imbattuto in uno che ho conosciuto in guerra, immagino di avere fatto un po' di bisboccia, ieri sera.» «Fa decisamente una bella vita, che ne pensi, Deimos?» disse Sterne. «Fa festa tutta la notte, beve in ufficio, dorme fino a tardi tutte le volte che ne ha voglia. Siamo proprio degli stupidi a stare nella polizia. Come si chiama questo suo compagno d'armi?» «Pound», improvvisai. «Ezra Pound.» «Ezra? Ha un nome da contadino.» «No. Ha una carrozzeria nell'Idaho, a Hailey. Questa mattina presto ha preso un aereo a Idlewild. È andato direttamente di qui all'aeroporto, alle
cinque.» «Davvero?» «Non le direi mai una bugia, tenente. Senta, ho un atroce bisogno di caffè. Lei e il suo compagno hanno qualcosa da ridire, se ne metto su un bricco?» Sterne si sedette su un bracciolo del divano. «Faccia pure, se non ci piace lo getteremo nel gabinetto.» Come in risposta alla battuta, dal bagno venne un forte tonfo. «C'è qualcuno là dentro?» Il sergente Deimos fece segno con il pollice verso la porta chiusa. La porta del bagno si aprì e comparve Epiphany, che aveva in mano il secchio e lo spazzolone. Si era messo il grembiule grigio della fantesca, aveva nascosto i capelli sotto uno straccio sporco. Entrò in sala strascicando i piedi, curva come una vecchia megera. «Ho finido il bagno per oggi, signor Angel», disse con voce frignosa, con un accento nasale degno del più zotico dei negri. «Vedo ghe ha gombagnia, ridornerò a finire la bulizia, se lei è d'aggordo.» «A me va benissimo, Ethel.» Ricacciai indietro un sorriso, mentre Epiphany se ne andava ciampicando. «Fra poco uscirò, quindi entri pure con la sua chiave quando le fa comodo.» «Lo farò. Farò gosì, gerdamende.» Epiphany schioccò le labbra come una vecchia che sta per perdere la dentiera e si avviò alla porta. «Zaludi, zignori. Sbero di non avere disdurbado drobbo.» Sterne la fissava con la bocca spalancata. Deimos rimase impalato, grattandosi la nuca. Mi domandai se si fossero accorti che Epiphany era a piedi nudi e trattenni il fiato finché la porta d'ingresso non si chiuse. «Animali della giungla», borbottò Sterne. «Non avrebbero mai dovuto lasciarli uscire dalla loro capanna.» «Oh, Ethel è una brava donna», dissi riempiendo il bricco nella nicchia del cucinino. «È un po' scema, ma mi tiene l'alloggio pulito e in ordine.» Il sergente Deimos ridacchiò. «Ahah, tenente, qualcuno deve pur pulire il cesso.» Sterne guardò il suo collega con nauseato disgusto, come se la pulizia dei gabinetti fosse l'incarico più adatto per il sergente. Regolai la fiamma del mio fornello a due fuochi. «Per che cosa desideravano vedermi, lorsignori?» Infilai una fetta nel tostapane. Sterne si alzò dal divano e venne nel cucinino, appoggiandosi al muro vicino al frigorifero. «Il nome di Margaret Krusemark le dice qualcosa?»
«Non molto.» «Che cosa sa di lei?» «Solo quel che ne ho letto sui giornali.» «Cioè?» «Era figlia di un miliardario e si è fatta uccidere l'altro giorno.» «Che altro?» Dissi: «Non posso tenermi informato di ogni assassinio in città. Devo pensare al mio lavoro». Sterne spostò il peso da una gamba all'altra e fissò un punto del soffitto sulla mia testa. «Quando pensa al suo lavoro? Quando non ha bevuto?» «E questo cos'è?» Il sergente Deimos aveva parlato a voce alta dalla seconda stanza. Lo guardai. Era dall'altra parte dell'ingresso, in piedi, con un'espressione del tutto trionfante, vicino alla mia valigetta aperta e teneva sollevato il cartoncino stampato che avevo trovato sulla scrivania di Margaret Krusemark. Sorrisi. «Quello? È l'annuncio di cresima di mio nipote.» Deimos guardò il biglietto. «Perché è in lingua straniera?» «È latino», dissi. «Con lui tutto è latino», disse Sterne a denti stretti. «Che cosa significa quel segno in cima?» Deimos indicò il pentacolo rovesciato. «Si vede subito che lorsignori non sono cattolici», dissi. «Quello è l'emblema dell'ordine di sant'Antonio. Mio nipote è un chierichetto.» «Si direbbe lo stesso segno che aveva al collo quella Krusemark.» La mia fetta tostata era pronta, la spalmai di burro. «Forse era anche lei cattolica.» «Quella non era cattolica», disse Sterne. «Semmai pagana.» Masticai il mio pane. «Tutto questo c'entra come i cavoli a merenda. Credevo che steste indagando sulla morte di Toots Sweet.» Gli occhi inespressivi di Sterne incontrarono il mio sguardo. «Ha ragione, Angel. Si dà il caso che l'esecuzione dei due assassinii sia molto simile.» «Crede che ci sia un nesso fra i due delitti?» «Quello forse dovrei chiederlo a lei.» Il caffè cominciò a passare e io abbassai la fiamma. «A che cosa le servirebbe? Tanto varrebbe chiederlo al tipo che sta in guardiola al pianterreno.» «Non faccia il furbo, Angel. Il pianista negro era invischiato nel vudu.
Questa donna, la Krusemark, era un'astrologa e, a giudicare dalle apparenze, a tempo perso si occupava di magia nera. Tutti e due vengono fatti fuori la stessa settimana, a distanza di un giorno, in circostanze molto ma molto simili, da uno sconosciuto, o da sconosciuti.» «In che cosa si assomigliano le circostanze?» «Queste sono faccende riservate della polizia.» «E allora, come posso aiutarvi, se non so che cosa volete?» Presi tre tazze nell'armadio e le misi in fila sul banco. «Ci nasconde qualche cosa, Angel?» «E perché mai non dovrei nascondervi i miei affari?» Spensi la fiamma del fornello e versai il caffè. «Non lavoro mica per la città.» «Ascoltami, furbastro. Ho telefonato a quel magnaccia del tuo azzeccagarbugli di Wall Street. Secondo me ci state fregando. Tu puoi cucirti la bocca e noi dobbiamo girare alla larga. Ma se scoprirò che hai commesso la benché minima infrazione, anche solo posteggiando in zona proibita, calerò su di te come un battipalo. Non riuscirai più a ottenere un permesso in questa città, neppure per vendere noccioline.» Sorseggiai il mio caffè, aspirandone il vapore profumato. «Tenente, io sono sempre ligio alla legge.» «Balle! I tipi come te giocano a nascondino con la legge. Un giorno o l'altro, prestissimo, pianterai uno scivolone e io sarò lì pronto ad aspettarti a braccia aperte.» «Il suo caffè si sta raffreddando, tenente.» «Ficcatelo in quel posto!» ringhiò Sterne. Arricciò il labbro scoprendo denti ingialliti e storti e con il dorso della mano spazzò dal banco le tazze, che andarono a rompersi contro il muro opposto e rimbalzarono sul pavimento. Sterne, meditabondo, osservò gli schizzi color marrone, come un frequentatore di mostre d'arte della Cinquantasettesima studierebbe un quadro di Pollock. «Ho combinato un pasticcio», disse. «Ma non è grave. Quando me ne sarò andato, la negra pulirà.» «E questo quando succederà?» mi informai. «Quando mi pare e piace.» «Per me va benissimo.» Ritornai con la mia tazza in sala e sedetti sul divano. Sterne mi guardò come se fossi qualcosa di molto sgradevole da lui appena pestato. Deimos fissò il soffitto. Reggevo la tazza con le due mani e li ignoravo. Deimos prese a fischiettare, ma smise dopo quattro note discordanti. Gli sbirri sono le mie bestiole favorite, ne tengo sempre in casa un paio, avrei detto se fossero venuti de-
gli amici a trovarmi. Mi fanno più compagnia di un pappagallo e, se sono addestrati a non sporcare, non danno fastidio. «E va bene, togliamo l'incomodo», latrò Sterne. Deimos lo oltrepassò a passettini, come se l'idea fosse stata sua. «Tornate presto», dissi. Sterne abbassò la tesa del cappello. «Starò ad aspettare che tu commetta quella famosa infrazione, stronzo.» E sbatté la porta con tanta furia, che una litografia si staccò dal muro dell'ingresso. 35 Sul vetro del quadro si formò una crepa, saetta immobile che zigzagava tra i pugni nudi di due pugili del Settecento, Great John L. e Jake Kilrain. Mentre lo riappendevo alla parete, udii bussare piano alla porta d'ingresso. «Entra, Ethel. È aperto.» Epiphany, ancora con il fazzoletto stracciato in testa, sbirciò dentro. «Sono andati per sempre?» «Probabilmente no. Ma per oggi non ci daranno più fastidio.» Epiphany portò secchio e spazzolone nell'entrata e chiuse la porta. Vi si appoggiò e cominciò a ridacchiare. Nella sua risata c'era una punta d'isterismo. Quando la presi tra le braccia, sentii il corpo tremare sotto il sottile grembiule di cotone. «Sei stata magnifica», dissi. «Aspetta di vedere come ho pulito bene il gabinetto.» «Dove ti eri nascosta?» «Sono rimasta sulle scale antincendio finché li ho sentiti partire.» «Hai fame? C'è un bricco di caffè già pronto, ancora caldo, e ci sono uova in frigorifero.» Ci preparammo la colazione, un pasto che di solito salto. Portammo i piatti in sala ed Epiphany intinse il pane tostato nel rosso d'uovo. «Hanno trovato qualcosa di mio?» «No, in realtà non hanno nemmeno cercato. Uno di loro ha frugato nella mia valigetta, trovandoci qualcosa che avevo preso all'alloggio di Margaret Krusemark, ma che non sapevo cosa fosse. Al diavolo, ignoro persino di che si tratti.» «Posso vederlo?» «E perché no?» Mi alzai e le feci vedere il cartoncino. «MISSA NIGER», lesse Epiphany. «Invito te venire ad clandestinum ritum...»
Epiphany reggeva il cartoncino come un asso di picche. «Questo è l'invito a una messa nera.» «A che cosa?» «A una messa nera. È una specie di cerimonia magica, dove si adora il diavolo. Non ne so gran che.» «E come fai a saperlo con tanta sicurezza, allora?» «Perché sta scritto qui. Missa niger in latino vuol dire messa nera.» «Sai leggere il latino?» Epiphany sorrise compiaciuta. «E che altro s'impara andando per dieci anni a scuola dalle suore?» «Dalle suore?» «Certo. Ho frequentato il Sacro Cuore. La mia mamma non aveva molta fiducia nelle scuole pubbliche. Credeva nella disciplina. 'A forza di frustate, quelle monache ficcheranno un po' di buon senso in questa tua testa dura', aveva l'abitudine di dire.» Risi. «La principessa vudu al Sacro Cuore. Mi piacerebbe vedere le fotografie della classe.» «Una volta o l'altra te le mostrerò. Ero capoclasse.» «Ci credo bene! Puoi tradurmi tutto quanto?» «Non è difficile.» Epiphany sorrise. «Dice: Siete invitati ad assistere a una cerimonia segreta in gloria del signore Satana e del suo potere. È tutto. Poi c'è la data, 22 marzo. E l'ora, le nove di sera. E qui sotto è scritto 'Trasporti Rapidi Urbani', Quartieri Est, stazione della Diciottesima Strada.» «E l'intestazione? Quella stella capovolta con la testa di caprone? Hai idea del suo significato?» «In ogni religione di cui so qualcosa le stelle sono un simbolo importante: la stella islamica, la stella di Betlemme, la stella di Davide. Dentro il talismano di Agove Royo ci sono delle stelle.» «Agove Royo?» «Obi.» «Questo invito c'entra con i riti vudu?» «No, no. Questi sono riti satanici.» Epiphany soffriva della mia ignoranza. «Il caprone è simbolo del male. Una stella capovolta porta sfortuna. Probabilmente è anche un simbolo satanico.» Afferrai Epiphany e la strinsi fra le braccia. «Vali tanto oro quanto pesi, bambina mia. Anche Obi ha un diavolo?» «Ne ha tanti.» Epiphany mi sorrise e io le diedi una pacca sul culetto. Un culetto deli-
zioso. «È ora di dare una ripassata alle mie cognizioni di magia nera. Vestiamoci e andiamo in biblioteca. Mi potrai aiutare a studiare la lezione.» Era una bella mattinata, abbastanza tiepida da invitare a togliere il cappotto. Il sole brillante faceva luccicare i puntolini di mica del marciapiede. Ufficialmente mancava un giorno all'inizio della primavera eppure non avremmo forse più avuto una giornata tanto bella fino a maggio. Epiphany, con il suo maglioncino e la gonna scozzese, aveva l'invitante aspetto di una scolaretta. Mentre guidavo sulla Quinta, le chiesi quanti anni avesse. «Diciassette, compiuti il sei gennaio scorso.» «Cielo, non hai neppure l'età per comprarti una bevanda alcolica.» «Non è vero. Quando mi metto in ghingheri, mi servono senza difficoltà. Al Plaza non mi hanno nemmeno chiesto la carta d'identità.» Le credetti. Con l'abito a giacca color prugna dimostrava cinque anni di più. «Non sei un po' giovane per mandare avanti il negozio?» Il suo sguardo divertito aveva una traccia di disprezzo. «Ho la responsabilità dei conti e dell'inventario da quando si ammalò mia madre», disse. «Solo la sera sto al banco. Di giorno ho due commessi.» «E che cosa fai di giorno?» «Per lo più studio. Frequento i corsi. Sono matricola al City College.» «Bene. Dovresti intendertene di biblioteche. Lascerò a te le ricerche.» Aspettai nella sala di lettura principale, mentre Epiphany consultava gli schedari. Studiosi d'ogni età sedevano in file silenziose alle lunghe tavole di legno, sulle quali paralumi allineati con precisione portavano numeri come prigionieri in corteo. Il salone aveva soffitti alti come quelli di una stazione ferroviaria, con enormi lampadari che pendevano a mo' di torte nuziali alla rovescia nell'immenso spazio. Solo qualche colpo di tosse soffocato disturbava di tanto in tanto quel silenzio da cattedrale. Trovai un posto libero in fondo a uno dei tavoli di lettura. Il numero sul paralume corrispondeva al numero inciso su un ovale d'ottone avvitato al piano del tavolo al quale sedevo: 666. Ricordai l'altezzoso capocameriere al Top of the Six e cambiai posto; il 724 mi sembrò molto più comodo. «Aspetta, guarda che cosa ti ho trovato.» Epiphany lasciò cadere una bracciata di libri, con un tonfo polveroso. «Di questi, qualcuno non vale molto, ma c'è un'edizione del Grimoire du Pape Honorius, stampato privatamente a Parigi nel 1754.» «Non leggo il francese.» «È in latino. Te lo tradurrò. Qui ce n'è uno nuovo, tutto illustrato.» Presi l'enorme e costoso volume e lo aprii a caso. C'era un disegno me-
dioevale a piena pagina di un mostro cornuto, con scaglie da lucertola e artigli al posto delle zampe. Dalle orecchie e tra le file di zanne a stalattite che mettevano in evidenza le fauci spalancate, uscivano fiamme. La legenda diceva: SATANA, PRINCIPE DELL'INFERNO. Sfogliai parecchie pagine. Una xilografia elisabettiana rappresentava una donna in guardinfante inginocchiata dietro un diavolo nudo con la corporatura di un bagnino. Aveva ali, testa da caprone, unghie sudice. La donna gli abbracciava le zampe, con il naso posato proprio sotto la coda sollevata: e sorrideva. «Il bacio abominevole», disse Epiphany, sbirciando dietro le mie spalle. «In questo modo per tradizione le streghe suggellavano il loro patto con il diavolo.» «Suppongo che a quei tempi non avessero pubblici notai.» Girai ancora qualche pagina, facendo apparire una serie di demoni e loro famigli. Nel paragrafo sui talismani c'era abbondanza di stelle a cinque punte. Trovai la cifra 666 stampata al centro di un amuleto e la indicai a Epiphany. «Un numero che non mi piace affatto.» «È preso dall'Apocalisse.» «Da che cosa?» «Dalla bibbia: 'Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia; perché è un numero d'uomo. E il suo numero è seicentosessantasei'.» «È vero?» Epiphany aggrottò la fronte sopra i suoi occhiali da lettura. «Ma non sai proprio niente?» «Non so molto, ma sto imparando in fretta. Qui c'è una donna che ha il nome del ristorante dove ho pranzato ieri.» Mostrai a Epiphany la figura di una paffuta matrona che portava una tonaca con cappuccio da contadina. «Voisin vuol dire vicino in francese», disse Epiphany. «Quelle monache, bisogna riconoscerlo, ti hanno fatto entrare in testa un bel po' di sapere. Ecco, leggi quel che è scritto sotto.» Epiphany prese il libro e decifrò in un bisbiglio le minuscole lettere sotto l'incisione: «Catherine Deshayes, detta La Voisin, indovina e maga dell'alta società. Organizzò messe nere per la marchesa di Montespan, amante di re Luigi XIV, oltre che per altre persone importanti. Arrestata, torturata, processata e giustiziata nel 1680». «Ecco il libro che ci occorre.» «Questo è divertente, ma le cose essenziali sono qui: Malleus Maleficarum, La scoperta della stregoneria di Reginald Scott e Magick di Aleister
Crowley e i Segreti di Alberto Magno e...» «Fantastico. Voglio che tu vada immediatamente a casa mia e ti raggomitoli sul divano con un bel libro. Segna tutti i punti che secondo te dovrei leggere, specialmente quanto riguarda le messe nere.» Epiphany cominciò a fare una pila dei libri. «Non vieni con me?» «Devo lavorare. Starai benissimo. Ecco la chiave del mio alloggio.» Tirai fuori il portafoglio e le passai un biglietto da venti. «Questo servirà per pagare il tassi e tutto quanto pensi ti possa servire.» «Ho soldi miei.» «Tienteli stretti. Magari avrò bisogno di un prestito.» «Non voglio stare sola.» «Metti la catena alla porta. Non ti succederà niente.» Feci salire Epiphany su un tassi di fronte alla biblioteca, facendo una pila di libri vicino a lei sul sedile. Aveva paura e questo la faceva somigliare a una bambinetta. Il nostro bruciante bacio a lingue intrecciate ci valse lo sguardo sprezzante di due uomini d'affari che passavano e molti applausi e fischi da un monello che aveva marinato la scuola per lustrare scarpe e che stava seduto alla base del leone di destra. 36 Lasciai la Chevrolet nell'autorimessa e tornai a piedi nella Broadway camminando sul lato assolato della Quarantaquattresima. Andavo con calma, godendomi il bel tempo, quando avvistai Louis Cyphre che usciva dalla porta principale dell'Astor. Aveva un berretto marrone chiaro, una giacca di tweed, calzoni alla zuava di saia e alti stivali da cavallerizzo lucidi. Nella mano inguantata teneva una borsa da viaggio di cuoio logoro. Lo vidi rifiutare con un cenno l'offerta del portiere di chiamargli un tassi. Si avviò verso Times Square a passi svelti, oltre il palazzo della Paramount. Pensai di raggiungerlo ma, immaginando che fosse diretto all'agenzia Crossroads, decisi di risparmiare fiato. Non avevo intenzione di pedinarlo: gli ero troppo vicino. Ma quando arrivò davanti all'ingresso del mio edificio e continuò senza esitazione, istintivamente rallentai e indugiai davanti a una vetrina, con la curiosità a tutto gas. Cyphre attraversò la Quarantaduesima e si diresse a ovest. Lo sorvegliai dall'angolo, poi tenni la sua stessa andatura, seguendolo dal lato opposto della strada. Cyphre spiccava tra la folla. Cosa poco difficile in mezzo ai magnaccia, alle prostitute, ai drogati e agli avanzi di galera che si accalcano nella Qua-
rantaduesima, se si è vestiti come per andare a un concorso ippico al Madison Square Garden. Supposi che la sua meta fosse la stazione di autobus di Port Authority. Invece Cyphre mi colse di sorpresa infilandosi, nel bel mezzo di un isolato, dentro il Museo e il Circo delle Pulci di Hubert. Scansai come meglio potei quattro corsie di traffico nei due sensi come Hirsch 'Gambe Pazze' evitava i giocatori della difesa, per poi trovarmi di colpo immobile davanti a un cartello all'ingresso. A lettere dagli orli luccicanti si annunciava: LO SBALORDITIVO DOTTOR CIPHER. Fotografie venti per venticinque mostravano il mio cliente con cappello a cilindro e in frac come il mago Mandrake. POSTI LIMITATI, si diceva. Il pianterreno di Hubert era un salone con giochi da pochi soldi, il palcoscenico era un piano più giù. Entrai, comprai un biglietto e trovai posto al buio vicino alla barriera di compensato che arrivava più in alto della cintola e che scoraggiava il passaggio del pubblico. Sul piccolo palcoscenico, fortemente illuminato, una prosperosa fanciulla eseguiva la danza del ventre al ritmo lamentoso di una musica araba. Oltre a me, contai cinque ombre di spettatori. Che cosa diavolo faceva l'elegante Louis Cyphre in un posto di bassa lega come quello? I trucchi con le carte in un baraccone non procurano a nessuno automobili di lusso e legali di Wall Street. Forse provava gusto a esibirsi in pubblico. Oppure era una manovra, un'iniziativa per far capire qualcosa a me. Quando il disco scricchiolante si fermò, qualcuno dietro le quinte tirò su la puntina e lo rimise in moto. La danzatrice assunse un'espressione annoiata. Fissò il soffitto. Aveva la testa ad altro. Dopo otto battute della terza ripetizione dello stesso disco, il grammofono fu spento e la donna se la svignò alla svelta dietro le quinte. Nessuno applaudì. Tutti e sei fissammo il palcoscenico vuoto senza protestare, finché comparve un vecchietto bislacco con un panciotto rosso ed elastici alle maniche. «Signore e signori», disse ansimando, «con grande sgomento e trepidazione vi presento lo sbalorditivo, misterioso, indimenticabile dottor Cipher. Tributiamogli una calorosa accoglienza.» Il vecchietto fu l'unico che battesse le mani mentre se ne andava strascicando i piedi. Le luci si abbassarono, si spensero. Soffocati colpi e bisbigli dietro le quinte, come nelle recite di dilettanti, furono seguiti da un lampo accecante di luce fosforescente. Le lampade si riaccesero immediatamente, ma i miei occhi stentarono per qualche secondo a rimettersi a fuoco. Una confusa immagine ritmica verdazzurra si attardò intorno alla figura sul palcosceni-
co, oscurandone i tratti. «Chi di noi sa come finiranno i nostri giorni? Chi può affermare se per lui ci sarà un domani?» Louis Cyphre, in piedi e solo al centro del palcoscenico, era circondato di sottili volute di fumo e dell'odore di magnesio bruciato. Indossava un abito nero da sera di taglio edoardiano con lunghe code di rondine e un panciotto a due bottoni. Una cassetta incernierata, grossa come una scatola del pane, era posata su un tavolo di fianco a lui. «Il futuro è un testo non scritto, colui che osa leggere quelle pagine vuote lo fa a proprio rischio e pericolo.» Cyphre si tolse i guanti bianchi e, schioccando le dita in aria come un prestigiatore, li fece sparire. Prese sulla tavola una bacchetta d'ebano intagliata e fece un gesto verso le quinte. La danzatrice fece il suo ingresso in modo sottomesso; il suo vasto corpo era avvolto fino a terra in un manto di velluto. «Il tempo dipinge un ritratto che nessuno può ignorare.» Cyphre descrisse con una mano un piccolo cerchio sulla testa della danzatrice. A questo ordine la donna cominciò a piroettare. «Chi di noi vorrebbe dare uno sguardo alla sua opera compiuta? Diverso è osservare lo specchio un giorno dopo l'altro: così i lievi cambiamenti passano inosservati.» La schiena della danzatrice era rivolta verso gli spettatori. Il riflettore mise in risalto la lucentezza della sua cascata di capelli neri. Cyphre puntò la bacchetta d'ebano come una spada verso il pubblico di sei persone. «Coloro che vorrebbero mirare il futuro, considerino con terrore questo spettacolo!» La danzatrice si voltò di fronte: era una megera senza denti e sparuta. Le ciocche flosce di capelli lisci color cenere incorniciavano le sue fattezze rovinate. Un occhio cieco brillò a un raggio di luce come ceramica vetrosa. Non l'avevo vista infilarsi la maschera, l'effetto della sua trasformazione fu stupefacente. L'ubriaco accanto a me ansimò nell'oscurità e si fece passare di colpo la sbornia. «Amici miei, la carne è mortale», cantilenò il dottor Cipher. «E la lascivia sfrigola e muore come una candela al vento invernale. Cari spettatori, ecco a voi i piaceri un momento fa immaginati dal vostro sangue caldo.» Mosse la bacchetta e la danzatrice scostò le pieghe del suo pesante mantello. Indossava ancora il costume infiocchettato, ma il suo petto raggrinzito cascava, sgonfio sotto le coppette a lustrini. Il suo ventre, poco prima opulento, pendeva molle tra gli scheletrici fianchi angolosi. Era un'altra donna, interamente. Non c'era modo di contraffare quelle ginocchia gonfie
e artritiche, quelle cosce macilente. «Che cosa sarà di noi?» Il dottor Cipher sorrise come un medico che fa una visita a domicilio. «Grazie, mia cara; molto istruttivo.» Congedò con una bacchettata la vecchia, che uscì di scena zoppicando. Ci fu un tentativo di applausi. Il dottor Cipher alzò la mano. «Vi ringrazio, amici miei.» Fece un grazioso cenno con il capo. «Alla fine di ogni sentiero si trova la tomba. Soltanto l'anima è immortale. Custodite bene questo tesoro. Il vostro guscio che deteriora non è altro che un vascello provvisorio in un viaggio senza fine. «Lasciate che vi racconti una storia: quand'ero giovane e appena all'inizio dei miei viaggi, attaccai discorso con un lupo di mare a riposo in un bar del porto di Tangeri. Questo marinaio era un tedesco, nato nella Slesia, che passava i suoi ultimi anni al sole del Marocco, svernando a Marrakech e passando le sue estati nei bar dei porti che gli prendeva la vaghezza di frequentare. «Osservai che si era trovato una comoda cuccia. «'Navigo in acque tranquille ormai da quarantacinque anni', mi rispose. «'Sei un uomo fortunato', gli dissi, 'dato che non hai mai dovuto affrontare le burrasche della vita.' «'Fortuna?' rise il vecchio navigatore. 'Fortuna, la chiami? E allora considerati fortunato. Quest'anno devo passarla a qualcun altro.' «Lo pregai di spiegarsi. Mi raccontò questa storia più o meno come io adesso la racconto a voi. Quando quel marinaio aveva la mia età ed era al suo primo viaggio, aveva incontrato a Samoa un vecchio vagabondo, che gli aveva dato una bottiglia contenente l'anima di un timoniere partito, ai tempi che furono, con l'Armada di re Filippo. Tutti i malanni o le disgrazie che avrebbero potuto colpirlo si sarebbero invece abbattuti su questo tormentato prigioniero. Non sapeva in che modo l'anima dello spagnolo fosse entrata nella bottiglia, sapeva però che, arrivato a settant'anni, doveva consegnarla al primo giovane che l'avrebbe accettata, altrimenti sarebbe stato condannato a prendere il posto dello sfortunato conquistador al suo interno. «A questo punto il vecchio tedesco mi guardò tristemente. Non mancava che un mese al suo settantunesimo compleanno. 'È ora', mi disse, 'di provare le vicissitudini della vita.' «Mi diede la bottiglia. Una bottiglia da rum, di vetro soffiato, del colore dell'ambra, che poteva davvero avere centinaia d'anni. Era turata da un
tappo d'oro.» Il dottor Cipher allungò il braccio e prese, dietro la cassetta nera posata sul tavolo, la bottiglia. «Mirate.» La mise sulla cassetta. La descrizione era stata esatta, eccettuata l'ombra che si agitava frenetica all'interno. «Ho vissuto una lunga vita felice; ma ascoltate...» Tutti e sei allungammo il collo per sentire meglio. «Ascoltate...» La voce di Cyphre sfumò in un bisbiglio. Dal silenzio che seguì, arrivò una specie di debole, lamentoso scampanellio, simile al rumore di una catenella leggera passata su un calice di cristallo. Tesi le orecchie per distinguere quel fragile suono: sembrava provenire dall'interno della bottiglia color ambra. «A-yu-da-me... a-yu-da-me...» Senza interruzione, la stessa, tormentata, frase melodica. Cercai di scoprire se le labbra di Louis Cyphre si muovevano. Il suo sorriso si allargò smisuratamente dietro le luci della ribalta. L'uomo esultava di un piacere puro e manifesto. «Un destino misterioso», disse. «Perché mai io dovrei vivere una vita scevra di dolore, mentre un'altra anima umana è condannata a un'eternità di sofferenze dentro una bottiglia da rum?» Cyphre estrasse da una tasca un sacchetto di velluto e vi cacciò dentro la bottiglia. La chiuse stretta con le fettucce e la posò in cima alla cassetta. Il suo sorriso rifletteva le luci della ribalta. Silenzioso, il dottor Cipher girò con grazia su se stesso e vibrò al sacco una stoccata con la bacchetta d'ebano. Non si udì rumore di vetri rotti. Il sacco vuoto, volato in aria, fu afferrato con destrezza da Louis Cyphre che ne fece una palla e se lo infilò in tasca, accettando l'applauso con un breve cenno del capo. «Desidero mostrarvi qualche altra cosa», disse. «Ma prima di farlo voglio sottolineare che non sono un addomesticatore di animali, ma semplicemente un collezionista di cose strane.» Batté sulla cassetta nera con la sua stecca. «Comprai il contenuto di questa scatola a Zurigo, da un mercante egiziano che anni prima avevo conosciuto ad Alessandria. Sosteneva che quanto ora vedrete sono anime vittime di un incantesimo operato alla corte di papa Leone X: un divertimento per la fantasia di quel Medici. Sembra una pretesa assurda, vero?» Il dottor Cipher fece scattare i ganci di metallo che tenevano chiusa la cassetta e l'aprì in modo da formare un trittico e rivelare un teatrino in miniatura, il cui scenario e il sipario dello sfondo erano dipinti con la meticolosa prospettiva del Rinascimento italiano. Il palcoscenico era popolato di topolini bianchi, tutti vestiti dei costumi di seta e di broccato delle masche-
re della Commedia dell'arte. C'erano Pulcinella e Colombina, Scaramuccia e Arlecchino. Ognuno camminava sulle zampine posteriori in un'elaborata pantomima. Il tinnire argentino di un carillon accompagnava le loro complicate acrobazie. «L'egiziano sosteneva che non sarebbero mai morti», disse Cyphre. «Una vanteria esagerata, probabilmente. Posso solo affermare che in sei anni non ne ho perso neanche uno.» I minuscoli attori camminavano sulla fune e su palle di vivaci colori, brandivano spade e ombrellini grossi come fiammiferi, facevano salti mortali e ruzzoloni da pagliaccio, con la massima precisione. «Si suppone che le vittime di un incantesimo non abbiano bisogno di viveri.» Il dottor Cipher si chinò sulla cassetta e osservò deliziato la rappresentazione. «Invece do loro ogni giorno da mangiare e da bere. Hanno un incredibile appetito, potrei aggiungere.» «Giocattoli», borbottò nel buio il mio vicino. «Devono essere per forza giocattoli.» Come se l'avesse sentito, Cyphre abbassò un braccio: Arlecchino saltellò sulla manica della sua giacca e si appollaiò sulla sua spalla, annusando l'aria. L'incanto si ruppe. Non si trattava che di un roditore vestito di un minuscolo costumino a rombi. Cyphre prese tra le dita il codino roseo e depositò di nuovo sul palcoscenico un Arlecchino a zampe larghe, che qui ricominciò a pavoneggiarsi sulle zampette anteriori, in maniera nient'affatto da topo. «Come vedete, a me non occorre la televisione.» Il dottor Cipher ripiegò i lati del suo palcoscenico in miniatura, chiuse la scatola e mise i ganci. In cima c'era un manico, che gli servì per alzarla come una valigia. «Tutte le volte che apro la scatola, i topolini si esibiscono. Anche l'industria dello spettacolo ha il suo purgatorio.» Cyphre si mise la bacchetta sotto il braccio e lasciò cadere qualcosa sul tavolino. Si produsse un lampo di luce bianca, che per un attimo mi accecò con il suo momentaneo splendore. Chiusi gli occhi e me li strofinai. Quando li riaprii, il palcoscenico era vuoto. Un semplice tavolo di legno era solo e nudo alle luci della ribalta. Da un invisibile altoparlante uscì la voce ampliata e incorporea di Cyphre: «Zero, il punto intermedio tra positivo e negativo, è la porta attraverso la quale ognuno di noi dovrà alla fine passare». Il vecchietto con gli elastici nelle maniche venne in scena e, strascicando i piedi, portò il tavolo dietro le quinte, mentre un logoro disco di 'Treno di
notte' piagnucolava dall'invisibile altoparlante. Ricomparve la ballerina della danza del ventre, paffuta e rosea, che ricominciò le sue mosse erotiche, macchinali come la musica degli strumenti a pistoni. Risalii brancicando le scale cadenti. Quel pizzicorino di paura che avevo provato al ristorante francese mi era tornato. Il mio cliente si burlava di me, faceva giochetti con la mia mente, come il mazziere di un gioco d'azzardo che spenna i gonzi. 37 All'esterno un giovanotto vestito di una camicia rosa, calzoni color cachi e scarpe bianche sporche stava togliendo le fotografie lucide esposte sotto il vetro del tabellone. Un drogato irrequieto vestito di una giubba mimetica militare e scarpe da tennis stava a osservare. «Un magnifico spettacolo», dissi al grassone. «Quel dottor Cipher è una meraviglia.» «Eccezionale», confermò. «Questo è l'ultimo spettacolo?» «Credo di sì.» «Vorrei congratularmi con lui. C'è modo di andare dietro le quinte?» «È appena uscito.» Il grassone staccò dal cartellone una foto del mio cliente e la infilò in una grossa busta. «Non gli piace soffermarsi dopo una rappresentazione.» «Appena uscito? È impossibile.» «Alla fine dello spettacolo si serve di un registratore. Questo gli dà un vantaggio sul pubblico. Non si toglie il costume e non si cambia.» «Aveva in mano una valigetta di cuoio?» «Sì, anche la grossa cassetta nera.» «Dove vive?» «E come faccio a saperlo?» Il giovane grassone batté le palpebre. «Lei è un poliziotto o qualcosa del genere?» «Io? Nient'affatto. Volevo solo dirgli che ha acquistato un nuovo ammiratore.» «Lo dica al suo agente.» E mi porse una delle foto venti per venticinque. Il perfetto sorriso di Louis Cyphre era ancora più splendente della lucida superficie. Voltai la foto e lessi quanto era stampigliato sul rovescio: WARREN WAGNER & SOCI
WY. 9-3500 L'inquieto drogato volse l'attenzione a un biliardino appena dentro l'ingresso. Restituii la foto al giovanotto grasso. «Grazie», gli dissi scomparendo tra la folla. Presi un tassi che mi lasciò sulla Broadway davanti al teatro Rivoli; dall'altra parte della via si ergeva il palazzo Brill. Il barbone con il cappotto militare era fuori servizio. Presi l'ascensore fino all'ottavo piano. La segretaria ossigenata, oggi, aveva unghie d'argento. Non si ricordò di me. Le mostrai il mio biglietto da visita. «Il signor Wagner è in ufficio?» «In questo momento è occupato.» «Grazie.» Feci il giro della sua scrivania e con uno spintone aprii la porta con la scritta PRIVATO. «Ehi!» La segretaria, alle mie spalle, mi afferrava con artigli da arpia. «Non può entrare in...» Le chiusi la porta in faccia. «... il tre per cento delle entrate lorde è un insulto», piagnucolava con un filo di voce un nanerottolo che indossava un collo alto rosso. Sedeva sul divano sgangherato, dal quale i piedini sporgevano come quelli di una bambola. Warren Wagner Jr. mi fissò furibondo dalla sua scrivania segnata dalle bruciature. «Che cosa diavolo crede di fare, irrompendo nel mio studio in questo modo?» Dissi: «Ho bisogno che lei risponda a due domande e non ho tempo di aspettare». «Lei sa chi è quest'uomo?» domandò il nanerottolo nel suo rauco falsetto. Lo riconobbi, apparteneva a tutti gli spettacoli del sabato pomeriggio della mia infanzia, la sua vecchia faccia grinzosa era la stessa di quand'era giovane, ma i suoi capelli irsuti tagliati a spazzola erano ora bianchi come una pubblicità di detersivi. «Non l'ho mai visto prima d'ora», ringhiò Warren Jr. «Batti in ritirata, farabutto, prima che chiami la polizia.» «Lei mi ha visto lunedì», dissi cercando di non tradire la mia rabbia con il tono di voce. «Mi ero spacciato per un altro.» Tirai fuori il portafoglio e gli mostrai il documento. «Dunque, lei è un segugio. Bella roba. Questo non le dà nessun diritto di intrufolarsi in un incontro privato.» «Perché non risparmia tutta quell'adrenalina e non mi dice quel che ho
bisogno di sapere? Le toglierò il disturbo in trenta secondi.» «Johnny Favorite significa meno di niente, per me», disse. «Allora ero solo un bambino.» «Johnny Favorite non c'entra. Mi parli di un suo cliente che si fa chiamare dottor Cipher.» «Ebbene? Ho firmato con lui un contratto solo la settimana scorsa.» «Qual è il suo vero nome?» «Louie Seafur. Dovrà farsi spiegare dalla segretaria come si scrive.» «Dove abita?» «Janice può dirglielo», rispose. «Janice!» Unghie-d'argento aprì la porta e fece timidamente capolino. «Sì, signor Wagner?» squittì. «Dia al signor Angel le informazioni che desidera.» «Sì, signor Wagner.» «La ringrazio molto», dissi. «La prossima volta bussi.» Janice dalle unghie d'argento non mi concesse uno dei suoi sorrisi a scatti di masticatrice di gomma, ma cercò l'indirizzo di Louis Cyphre nel suo schedario girevole. Me lo scrisse persino. «Lei stesso fa parte di uno zoo», disse mentre mi porgeva l'appunto. Aveva tenuto in serbo quella battuta per tutta la settimana. L'hotel 1-2-3 era sulla Quarantaseiesima tra la Broadway e la Sesta, nome e indirizzo una cosa sola: 123 Quarantaseiesima Ovest. Elaborati pinnacoli, timpani e abbaini incoronavano una costruzione di mattoni per il resto senza pretese. Entrai e diedi al portiere il biglietto da visita avvolto in una banconota da dieci. «Ho bisogno del numero della camera di un certo Louis Cyphre», dissi compitandogli il nome. «E non occorre che lei ne parli alla guardia dell'albergo.» «Me lo ricordo. Aveva la barba bianca e i capelli neri.» «È proprio l'individuo che cerco.» «Ha pagato il conto più di una settimana fa.» «Ha lasciato un indirizzo per rispedirgli la posta?» «No.» «E la sua stanza? È già occupata?» «Non le servirebbe a niente. L'hanno pulita da cima a fondo.» Ritornai alla luce del sole e mi diressi verso Broadway. Era una bella giornata per camminare. Un trio dell'Esercito della Salvezza, tuba, fisarmonica e tamburello, faceva una serenata al venditore di caldarroste da-
vanti al cinematografo Loew's State che prometteva poltrone reclinabili per la grande riapertura della domenica di Pasqua. Assaporai suoni e profumi, tentando di ricordare il mondo reale di una settimana prima, quando non esisteva ancora una cosa come la magia. All'Astor usai un metodo diverso con il portiere. «Mi scusi, vorrei sapere se può aiutarmi. Avrei dovuto incontrare mio zio al ristorante venti minuti fa. Vorrei telefonargli, ma non so il numero della sua camera.» «Come si chiama suo zio, signore?» «Cyphre. Louis Cyphre.» «Sono spiacentissimo. Il signor Cyphre è partito questa mattina.» «Come? È tornato in Francia?» «Non ha lasciato nessun indirizzo.» In quel momento avrei dovuto rinunciare a tutta la faccenda e portare Epiphany a fare il giro in battello intorno a Manhattan. Invece telefonai a Herman Winesap a Wall Street e pretesi di sapere che cosa stesse succedendo. «Cosa diavolo fa Louis Cyphre al Circo delle Pulci di Hubert?» «Perché ficca il naso nelle faccende altrui? Lei non è stato assunto per pedinare il signor Cyphre. Le consiglio di badare al lavoro per cui è pagato e a nient'altro.» «Lei sapeva che è un prestigiatore?» «No.» «E questo fatto non la sconcerta, Winesap?» «Conosco il signor Cyphre da molti anni e apprezzo moltissimo la sua raffinatezza. È un uomo con una vasta gamma di interessi. Non mi stupirebbe affatto se fra questi ci fossero anche i giochi di prestigio.» «Al Circo delle Pulci di Hubert?» «Forse è un suo pallino, una forma di rilassamento.» «Non ha senso.» «Signor Angel, il mio cliente, potrei aggiungere, il mio e suo cliente, per cinquanta dollari il giorno può sempre trovare qualcun altro che lavori per lui.» Dissi a Winesap che avevo capito l'antifona e agganciai. Andai dal venditore di sigarette per farmi dare altre monetine e composi altri tre numeri. La prima telefonata, alla mia segreteria telefonica, mi fornì il messaggio di una signora di Valley Stream che aveva perso una collana di perle. Nutriva sospetti su qualcuno del suo circolo di bridge. Non presi nota del numero. La telefonata successiva fu alle Linee Marittime Krusemark, S.p.A.; mi
fu detto che il presidente della società e del consiglio d'amministrazione era in lutto e che era impossibile parlargli. Provai il numero di casa e mi rispose un lacchè che prese il mio nome. Non. dovetti aspettare a lungo. «Lei, Angel, che cosa ne sa?» latrò il vecchio masnadiere. «Qualcosa. Non parliamone adesso. Ho bisogno di vederla. Un momento vale l'altro, ma meglio prima che poi.» «Va bene. Avvertirò la portineria di aspettarla.» 38 Al numero due di Sutton Piace viveva Marilyn Monroe. Una strada privata si staccava in curva dalla Cinquantasettesima, il mio tassi mi lasciò sotto una volta di pietra calcarea rosa. Dall'altra parte della via una fila di palazzine a quattro piani di mattoni erano condannate da rozze croci di calcina crudamente tracciate su ogni finestra, come un disegno infantile di cimitero. Un portiere guarnito di più galloni dorati di quanti ne abbia un ammiraglio accorse in mio aiuto. Gli diedi il mio nome e chiesi dove risiedessero i Krusemark. «Certo, signore», disse. «L'ascensore a sinistra.» Uscii al quindicesimo piano e mi trovai in un ingresso severo rivestito di pannelli di noce. Alti specchi con cornici dorate da una parte e dall'altra provvedevano un'infinità di ingressi. C'era soltanto un'altra porta. Suonai due volte il campanello e aspettai. Un uomo bruno con un neo sul labbro superiore mi aprì la porta. «Signor Angel, la prego di entrare. Il signor Krusemark l'aspetta.» Indossava un abito grigio con righini marrone e aveva l'aspetto di cassiere più che di maggiordomo. «Da questa parte, prego.» Mi guidò attraverso saloni lussuosamente arredati, con vista sull'East River e sulla Sunshine Biscuit Company in lontananza, a Queens. Oggetti antichi ordinatamente disposti ricordavano le mostre del Metropolitan Museum dedicate a un particolare periodo. Questi erano saloni dove firmare trattati con penne d'oca. Arrivammo davanti a una porta chiusa. La mia guida dall'abito grigio bussò una volta e disse: «Il signor Angel è qui, signore». «Fallo entrare, che possa vederlo.» Anche attraverso lo spessore della porta, il rauco grugnire di Krusemark riverberava autorità. Fui fatto entrare in una piccola palestra senza finestre. Le pareti erano
coperte di specchi, attrezzature per rafforzare il corpo moltiplicavano senza fine in ogni direzione le loro lucenti immagini di acciaio inossidabile. Ethan Krusemark, in calzoncini corti da pugile e maglietta, giaceva sulla schiena sotto una di quelle scintillanti macchine e faceva sollevamento pesi con le gambe. Per un uomo della sua età, smuoveva un bel po' di ferraglia. Quando sentì il rumore della porta che si chiudeva, si mise a sedere e mi squadrò. «La seppelliremo domani», disse. «Mi butti quella spugna.» Gli lanciai un asciugamano con cui Krusemark si tolse il sudore dalla faccia e dalle spalle. Aveva una corporatura robustissima. Sotto le vene varicose, spuntavano nodi di muscoli. Questo era un vecchio con cui non veniva voglia di scherzare. «Chi l'ha uccisa?» ringhiò nella mia direzione. «Johnny Favorite?» «Quando lo troverò glielo chiederò.» «Quel mantenuto d'un cantante da strapazzo. Avrei dovuto stendere quel bastardo quando ne avevo l'opportunità.» Si lisciò e aggiustò con cura i lunghi capelli d'argento. «E quando ne ebbe l'occasione? Quando lei e sua figlia lo strapparono da quella clinica del nord?» I suoi occhi fissarono i miei senza vacillare. «È fuori strada, Angel.» «Non credo. Quindici anni fa lei pagò al dottor Albert Fowler venticinquemila dollari per uno dei suoi pazienti. Si fece passare per un certo Edward Kelley. Fowler ebbe il compito di far credere che Favorite continuasse a vegetare in qualche corsia dimenticata. E fino a una settimana fa svolse l'incarico in maniera per lei soddisfacente.» «Chi la paga per rovistare in tutto questo?» Tirai fuori una sigaretta e la rigirai tra le dita. «Lei sa benissimo che questo non glielo dirò.» «Potrei farle offerte vantaggiosissime.» «Non lo metto in dubbio», dissi, «ma lo stesso, niente da fare. Disturbo se fumo?» «Faccia pure.» Accesi, espirai e dissi: «Senta. Lei vuole la persona che ha ucciso sua figlia. Io voglio Johnny Favorite. Magari l'individuo che ci interessa è lo stesso. Non lo sapremo finché non lo troveremo». Le grosse dita di Krusemark si piegarono a pugno. Un enorme pugno, con cui colpì il palmo dell'altra mano: un rumore come di un'asse che si spacca echeggiò nella stanza luccicante. «E va bene», disse. «Edward Kel-
ley ero io. I venticinquemila dollari li pagai io al dottor Fowler.» «Perché si servì del nome Kelley?» «Voleva forse che usassi il mio vero nome per una simile operazione? La faccenda del nome Kelley fu un'idea di Meg, non mi chieda il perché.» «Dove fu portato Favorite?» «A Times Square. Era la vigilia del Capodanno 1943. Lo lasciammo tra la folla e lui uscì dalle nostre vite. O almeno così credevamo.» «Ricominciamo daccapo», dissi. «Lei pretende che io beva questa storia? Dopo avere sborsato venticinquemila dollari per Favorite, lei lo avrebbe lasciato libero di perdersi tra la folla?» «Andò proprio così. Lo feci per mia figlia. Le ho sempre dato tutto ciò che desiderava.» «E sua figlia desiderava che Favorite scomparisse?» Krusemark s'infilò un accappatoio di spugna. «Credo fosse qualcosa che avevano architettato insieme prima che Favorite lasciasse l'America. Una qualche sorta di stregoneria in cui erano immischiati a quei tempi.» «Intende parlare di magia nera?» «Nera, bianca, che cosa cambia? Meg è sempre stata una strana ragazza. Giocava con i tarocchi prima ancora di saper leggere.» «In che modo cominciò?» «Non lo so. Una bambinaia superstiziosa, una delle nostre cuoche europee. Non si sa mai che cosa passa per la testa della gente che si assume.» «Sa che, tempo fa, sua figlia faceva la veggente in un baraccone di Coney Island?» «Sì, glielo avevo messo su io, anche quello. Meg era tutto quanto avevo, perciò la viziavo.» «Nel suo appartamento ho trovato una mano umana mummificata. Ne era informato?» «La Mano della Gloria. È un talismano che si pensa apra ogni porta: la mano destra di un assassino condannato a morte, tagliata mentre il suo collo è ancora nel cappio. Quella di Meg è autentica. Era appartenuta a un bandito del Galles, un certo capitano Silverheels giustiziato nel 1786. L'aveva comprata a Parigi tanti anni fa, da un rigattiere.» «Nient'altro che un ricordino del viaggio in Europa, come il teschio che Favorite teneva in valigia. Si direbbe che avessero gli stessi gusti.» «Sì. La sera prima di partire per la guerra, Favorite diede quel teschio a Meg. Gli altri ragazzi offrivano alla loro fidanzata l'anello con la data del corso o un maglione con il nome della loro università, o qualcosa del ge-
nere. Favorite aveva preferito regalare un teschio.» «Credevo che sua figlia, quando Favorite partì, non fosse più fidanzata con lui.» «Sì, ufficialmente era così. Probabilmente si trattava di un loro gioco.» «Perché dice questo?» Scossi la sigaretta facendo cadere sul pavimento due centimetri di cenere. «Perché nei loro rapporti non era cambiato niente.» Krusemark premette un bottone vicino alla porta. «Vuole bere qualcosa?» «Un po' di whisky mi farebbe piacere.» «Uno scotch?» «Bourbon, se ne ha. Con ghiaccio. Sua figlia non le nominava mai una certa Evangeline Proudfoot?» «Proudfoot? Il nome non mi dice niente. Potrebbe darsi.» «Che cosa sa dei riti vudu? Sua figlia le parlava di vudu?» Fu bussato una sola volta alla porta, che si spalancò. «Il signore desidera?» domandò l'uomo in grigio. «Il signor Angel berrà un bicchiere di bourbon, con ghiaccio. Per me un brandy. Ah, Benson!» «Sì, signore?» «Un portacenere per il signor Angel.» Benson fece un cenno del capo e chiuse la porta alle proprie spalle. «È il maggiordomo?» domandai. «Benson è il mio segretario particolare. Cioè un maggiordomo che ragiona.» Krusemark salì su una bicicletta da ginnastica e prese a percorrere con metodiche pedalate miglia immaginarie. «Che cosa stava dicendo dei riti vudu?» «Ai tempi in cui regalava teschi, Johnny Favorite era invischiato a Harlem in riti vudu. Mi domandavo se sua figlia gliene avesse mai parlato.» «Gli unici che Meg non praticava erano i riti vudu», rispose Krusemark. «Il dottor Fowler mi disse che Favorite, quando lo portaste via dall'ospedale, soffriva di amnesia. Riconobbe sua figlia?» «No. Si comportò da sonnambulo. Quasi non parlò. Tenne lo sguardo fisso nel buio oltre il finestrino.» «In altre parole, vi trattò da estranei?» Krusemark pedalava mettendocela tutta. «Meg volle che le cose andassero così. Pretese che non lo chiamassimo Johnny e che non parlassimo dei loro precedenti rapporti.»
«E questo non la colpì per la sua stranezza?» «Tutto ciò che Meg faceva era strano.» Udii un debole tintinnio di cristalli fuori della porta un attimo prima che Benson bussasse. Il maggiordomo ragionante entrò con un carrello. Mi versò il whisky, riempì di brandy il bicchiere del padrone e chiese se occorreva altro. «Va benissimo», disse Krusemark tenendo il calice a forma di tulipano sotto il naso, come un fiore. «La ringrazio moltissimo, Benson.» Benson uscì. Scoprii un portacenere vicino al secchio del ghiaccio e vi spensi dentro la sigaretta. «Un giorno la sentii dire a sua figlia di mettermi qualcosa nel bicchiere. Diceva anche di avere imparato in Oriente l'arte della persuasione.» Krusemark mi lanciò uno strano sguardo. «Non c'è niente lì dentro», disse. «Mi convinca.» Gli porsi il mio bicchiere. «Lo beva lei.» Krusemark buttò giù parecchie sane sorsate e mi ridiede il bicchiere. «È troppo tardi per fare giochetti. Ho bisogno del suo aiuto, Angel.» «E allora giochi pulito con me. Dopo quella vigilia di Capodanno, sua figlia rivide qualche volta Johnny Favorite?» «Mai.» «Ne è sicuro?» «Certo che ne sono sicuro. Ha ragione di dubitarne?» «Il mio mestiere consiste nel mettere in dubbio quel che mi dicono gli altri. Come fa a sapere che non lo rivide mai?» «Non c'erano segreti fra noi. Non mi avrebbe nascosto una cosa simile.» «Si direbbe che lei non conosca le donne bene come conosce il mestiere di armatore», dissi. «Conosco mia figlia. Se mai rivide Favorite, lo rivide il giorno in cui fu uccisa.» Sorseggiai il mio whisky. «Tutto risolto», dissi. «Un tizio affetto da amnesia totale, che non ricorda nemmeno il suo nome, si allontana tra la folla di New York quindici anni fa, svanisce senza lasciare tracce e d'improvviso rispunta dal nulla e si mette ad ammazzare gente.» «Chi altri ha ammazzato? Fowler?» Sorrisi. «Quello del dottor Fowler è suicidio.» «È piuttosto facile far passare per suicidio un omicidio.» «Davvero? Signor Krusemark, lei come farebbe?» Krusemark mi fissò con il suo freddo sguardo da filibustiere.
«Non cerchi di mettermi in bocca parole che non ho pronunciate, Angel. Se avessi voluto togliere di mezzo Fowler, l'avrei fatto uccidere molti anni fa.» «Ho i miei dubbi. Finché teneva il becco chiuso sull'affare Favorite, Fowler per lei era meglio vivo che morto.» «Avrei dovuto far eliminare Favorite, non Fowler», grugnì Krusemark. «In tutti i casi, su quale omicidio lei sta investigando?» «Non sto investigando su nessun omicidio», risposi. «Sto cercando un uomo affetto da amnesia.» «Mi auguro di tutto cuore che lo trovi.» «Ha parlato alla polizia di Johnny Favorite?» Krusemark si accarezzò il mento tondo. «È stato duro. Desideravo metterli sulla strada giusta senza compromettermi.» «Sono convinto che ha trovato una storiella convincente.» «Ne ho scovata una eccellente. Mi hanno domandato se sapevo con che tipo di persone Meg avesse romantiche amicizie. Ho fornito alla polizia il nome di un paio di individui che ricordavo di avere sentito nominare da Meg, ma ho detto che l'unico vero grande amore della sua vita era stato Johnny Favorite. Naturalmente, hanno voluto sapere altro su Johnny Favorite.» «Naturalmente», dissi. «Così ho raccontato del fidanzamento, di com'era strambo Johnny e di tutto il resto. Cose che non erano mai state pubblicate sui giornali.» «Ci scommetterei che è andato giù deciso.» «Non cercavano di meglio. Rifilare alla polizia tutta la storiella è stata una bazzecola.» «E dove ha detto che potevano trovare Favorite?» «Non l'ho detto. Ho dichiarato di non averlo visto da quando finì la guerra. Ho affermato che le ultime notizie su di lui erano quelle del suo ferimento. Se non riescono a rintracciarlo da quel punto, sarebbe meglio che cambiassero mestiere!» «Ne seguiranno le tracce sino a Fowler», dissi. «Di lì cominceranno le loro difficoltà.» «Lasci perdere le difficoltà della polizia. Parliamo piuttosto delle sue. Che cosa ha scoperto, dal Capodanno del 1943 in poi?» «Niente.» Vuotai il bicchiere e lo posai sul carrello. «Il suo passato è buio come la notte. Se Favorite è qui a New York, riemergerà presto. E questa volta sarò pronto.»
«Secondo lei, la prossima vittima dovrei essere io?» Krusemark scese dalla bicicletta. «Lei che ne pensa?» «Non intendo perdere i miei sonni per questo.» «Sarebbe una buona idea tenerci in contatto», dissi. «Se ha bisogno di me, il mio numero è sull'elenco.» Non avevo intenzione di elargire il mio biglietto da visita a un altro potenziale cadavere. Krusemark mi diede una manata sulla spalla e fece lampeggiare il suo sorriso da un milione di dollari. «Lei la sa più lunga della polizia, Angel.» Mi accompagnò fino alla porta d'ingresso, emanando fascino come un maiale sprizza sangue. «Avrà presto mie notizie, ci può contare.» 39 Il ricordo dell'energica stretta di mano di Krusemark mi durò fino a quando arrivai in strada. «Tassi, signore?» mi domandò il portiere, portando una mano al berretto ultragallonato. «No, grazie. Farò qualche isolato a piedi.» Avevo bisogno di pensare, non di discutere di filosofia o del sindaco o di baseball con un tassista. Quando uscii dal palazzo, due uomini erano in attesa all'angolo. Uno, basso e corpulento, vestito di una giacca a vento azzurra di rayon e di calzoni di tela neri, sembrava un allenatore di football americano delle scuole medie. Il suo compagno era un giovane sui vent'anni con i capelli lunghi pettinati all'indietro e gli occhi umidi e imploranti di un Gesù da immaginetta. La sua giacca di rigido tessuto verde, a due bottoni, con risvolti a punta e spalle imbottite, sembrava di parecchie taglie troppo grande per lui. «Ehi, amico, hai un minutino?» disse ad alta voce l'allenatore, avvicinandosi con ostentata lentezza le mani affondate nelle tasche della giacca. «Ho qualche cosa che mi piacerebbe farti vedere.» «Un'altra volta», dissi. «In questo momento.» La bocca rotonda di un'automatica fece capolino, puntata su di me, dalla V della giacca a vento dell'allenatore, la cui cerniera lampo era a metà aperta. Se ne vedeva solo il mirino: era una calibro 22, il che significava che quel tale era in gamba o credeva di esserlo. «Stai pigliando un granchio», dissi. «Non mi sbaglio. Sei Harry Angel, vero?» L'automatica scomparve di nuovo alla vista dentro la giacca a vento.
«Perché me lo chiedi se lo sai già?» «Dall'altra parte della strada c'è un parco. Adesso andiamo a farci una passeggiata, così possiamo parlare tranquillamente in privato.» «E quello lì?» Feci un cenno verso il ragazzo dal vestito verde che ci guardava inquieto con i suoi occhi liquidi. «Viene anche lui.» Il ragazzo si mise a camminare dietro di noi. Attraversammo Sutton Piace e scendemmo gli scalini che portano a uno stretto parco sulle sponde dell'East River. «Un'idea furba», dissi, «quella di tagliar via le tasche della giacca a vento.» «Funziona bene, vero?» Un sentiero segue la riva del fiume, separato dall'acqua, che scorre tre metri più in basso, da una ringhiera di ferro. All'altro capo del giardinetto un uomo dai capelli bianchi, con una giacca di maglia, portava al guinzaglio un terrier dello Yorkshire. Veniva nella nostra direzione, ma procedeva all'andatura dei passettini del cane. «Aspetta qui finché quel tipo se ne va», disse l'allenatore. «Goditi la vista.» Il ragazzo con gli occhi da stigmate appoggiò i gomiti alla ringhiera e fissò una chiatta che affrontava la corrente del canale all'altezza di Welfare Island. L'allenatore era dietro di me, in equilibrio sugli avampiedi, come un pugile. Un po' più in là il terrier dello Yorkshire alzò la zampa contro un cestino della spazzatura. Aspettammo. Alzai gli occhi verso la complicata intelaiatura del Queensborough Bridge e verso il cielo azzurro e sereno impigliato in quel groviglio di travature. Goditi la vista. Una giornata così limpida. Non era possibile chiedere di morire in un giorno più bello: quindi goditi la vista e non fare storie. Rimani fermo a fissare il cielo finché l'unico testimone andrà fuori dei piedi, cerca di non pensare all'iridescente ondulare del fiume sporco di petrolio ai tuoi piedi, fino a quando ti butteranno di là dalla ringhiera con una pallottola nell'occhio. Strinsi con forza la mano intorno al manico della valigetta. Dentro c'era la mia tozza Smith & Wesson, che mi era d'aiuto come se l'avessi lasciata a casa in un cassetto. L'uomo con il cane era a meno di venti passi da noi. Spostai il peso del corpo e diedi uno sguardo all'allenatore, aspettando che facesse uno sbaglio. Un rapido guizzo dei suoi occhi per giudicare a che velocità si avvicinasse il padrone del cane mi offrì l'occasione sperata. Dondolai con tutta la mia forza la valigia e la diressi all'interno delle sue
gambe aperte. L'allenatore urlò con vera schiettezza e si piegò in due. Dalla pistola partì un colpo che lacerò la giacca a vento e schizzò sul marciapiede. Non fece più rumore di uno sternuto. Il cane diede strattoni al guinzaglio, abbaiando a tutto spiano. Afferrai la valigetta con entrambe le mani e la menai contro la testa dell'allenatore, che grugnì e cadde a terra. Diedi un calcio al suo gomito e una Colt Woodsman dal manico di madreperla rotolò sul lastrico. «Chiami la polizia!» urlai al signore con la giacca di maglia, che guardava a bocca aperta mentre il ragazzo con gli occhi da Cristo mi veniva addosso con una corta mazza coperta di cuoio nella mano ossuta. «Questi qui vogliono uccidermi!» Servendomi della valigetta come di uno scudo, ricevetti il primo colpo del ragazzo sulla sua preziosa superficie di pelle. Gli menai un calcio e il giovane balzò all'indietro. La Colt con il suo lungo tamburo era a terra, vicinissima: una vera tentazione. Ma non potevo rischiare di chinarmi per prenderla. Anche il ragazzo la vide e cercò di tagliarmi fuori, ma non fu abbastanza svelto. Con un calcio spedii l'automatica nel fiume, facendola passare sotto la ringhiera. Questo mi lasciò scoperto. Il ragazzo mi colpì di fianco sul collo con la sua mazza appesantita. Adesso toccò a me urlare. Il dolore mi fece lacrimare, mentre tossicchiavo tentando di respirare. Mi riparai la testa il meglio possibile, ma ormai il ragazzo era a cavallo. Vibrò un rapido colpo sopra la mia spalla. In quel momento sentii esplodere l'orecchio sinistro. Mentre cascavo a terra, vidi l'uomo con la giacca di maglia raccogliere tra le braccia il cagnolino latrante e correre su per gli scalini del parco, chiamando a gran voce. Osservai la sua fuga mentre ero a quattro gambe, in una caligine rosa di sofferenza. La testa rombava come un treno espresso in fiamme. Il ragazzo mi colpì di nuovo e il treno entrò in una galleria. Nell'oscurità brillavano puntolini di luce. Il ruvido cemento sotto la mia guancia era appiccicoso e viscido. Sarei potuto rimanere incosciente per vent'anni, ma, quando aprii l'occhio che ancora funzionava, scorsi il ragazzo aiutare l'allenatore a tirarsi in piedi. L'allenatore l'aveva vista brutta. Si teneva l'inguine con le mani intrecciate. Il ragazzo lo tirava per la manica e gli faceva premura, ma lui se la prese con calma, venne zoppicando dove giacevo e mirò un calcio alla mia faccia. «Questo è per te, minchione», lo sentii dire prima che me ne assestasse un secondo, dopo il quale non ascoltai più.
Ero sott'acqua. Annegavo. Però non era acqua, era sangue. Un torrente di sangue mi travolgeva e mi faceva rotolare e rotolare. Annegavo in questo sangue, non potevo respirare. Aprii la bocca in cerca di aria e inghiottii dolciastre sorsate di sangue. La marea di sangue mi depose su una remota spiaggia. Ne udii le ondate fragorose e mi strascinai per evitare di essere riportato sott'acqua. Le mie mani toccarono qualcosa di freddo e metallico. Era la gamba ricurva di una panchina del giardino. Nella nebbia che mi circondava, si avvicinarono voci. «Eccolo, agente. Ecco quell'uomo. Oddio! Guardi che cosa gli hanno fatto.» «Stai tranquillo, amico», disse un'altra voce. «Adesso tutto è a posto.» Braccia robuste mi sollevarono dalla pozzanghera sanguinolenta. «Appoggiati all'indietro, compare. Te la caverai. Senti quel che ti dico?» Quando cercai di rispondergli, feci un rumore da gargarismo. Mi tenni stretto alla panchina, salvagente nel mare in tempesta. Le turbinose nebbie rosse si squarciarono e vidi una seria faccia quadrata circondata di blu. Una doppia fila di bottoni d'oro splendevano come soli nascenti. Misi a fuoco lo sguardo sul distintivo, tanto da riuscire quasi a leggerne i numeri. Quando cercai di ringraziare, mi uscì di nuovo il rumore di un gargarismo. «Rilassati, amico», disse il poliziotto dalla faccia quadrata. «Ci faremo mandare subito aiuti.» Chiusi gli occhi e udii l'altra voce dire: «È stata una cosa orrenda. Volevano sparargli». Il poliziotto disse: «Stia qui con lui. Vado in cerca di un telefono per chiamare un'ambulanza». Il sole era tiepido sulla mia faccia maciullata. Ciascuna ferita pulsava separatamente e batteva come se vi palpitasse dentro un minuscolo cuore. Alzai una mano ed esplorai i tratti del mio volto. Nulla mi sembrò familiare. Era il volto di un estraneo. Quando mi giunse il suono di altre voci, dovetti riconoscere che nel frattempo ero di nuovo svenuto. Il poliziotto ringraziò il padrone del cane, chiamandolo signor Groton e dicendogli di recarsi quando voleva alla stazione di polizia, per firmare una dichiarazione. Il signor Groton promise di andarvi nel pomeriggio. Gargarizzai la mia riconoscenza e il poliziotto mi disse di non affannarmi. «Stanno arrivando i soccorsi, amico.» Mi sembrò che gli infermieri fossero arrivati in quel preciso momento, ma certamente avevo avuto un altro svenimento. «Fate piano», disse uno
degli infermieri. «Prendilo per le gambe, Eddie.» Dissi che potevo camminare, ma quando cercai di mettermi in piedi le ginocchia cedettero. Mi distesero su una barella, l'alzarono e mi trasportarono. Non aveva molto senso prestare attenzione a quanto succedeva. L'interno dell'ambulanza puzzava di vomito. Più forti del lamento sempre più lacerante della sirena, udii le risate del guidatore e del suo compagno. 40 Il mondo ridiventò nitido al pronto soccorso dell'ospedale Bellevue. Uno zelante giovane medico ripulì e ricucì il mio cuoio capelluto e disse che avrebbe fatto del suo meglio con quanto rimaneva del mio orecchio. Grazie al Demerol, tutto mi sembrò facile. Regalai all'infermiera un sorriso dai denti rotti. Un poliziotto della vicina stazione comparve proprio mentre mi portavano ai raggi. Camminò di fianco alla mia carrozzella e mi domandò se conoscevo gli uomini che avevano tentato di derubarmi. Non feci niente per smentire le sue deduzioni che si era trattato di una rapina e se ne andò con la descrizione dell'allenatore e del ragazzo. Appena ebbero finito di fotografare l'interno della mia testa, il dottore disse che secondo lui sarebbe stata una buona idea farmi riposare un po'. Non avevo niente in contrario. Fui messo in un letto nel reparto infortuni. Mi fecero un'altra iniezione sotto la camicia da notte. Non ricordai più nulla fino a quando un'infermiera mi svegliò per la cena. A metà del passato di carote scoprii che mi avrebbero tenuto in osservazione tutta la notte. I raggi X non avevano rivelato fratture, ma c'era ancora il rischio di una commozione cerebrale. Stavo troppo male per piantare grane. Così, dopo il pasto da neonato, l'infermiera mi accompagnò a un telefono nel corridoio. Chiamai Epiphany per dirle che non sarei andato a casa. In principio sembrò preoccupata, ma scherzai con lei, dicendole che dopo una bella dormita sarei stato benissimo. Finse di credermi. «Sai che cosa ho fatto con i tuoi venti dollari?» mi domandò. «No.» «Ho comprato un carico di legna da ardere.» Le dissi che avevo moltissimi fiammiferi. Rise e ci salutammo. Stavo innamorandomi. Una bella disgrazia per me. L'infermiera mi ricondusse a letto, dove mi attendeva un'iniezione.
Il mio sonno fu quasi senza sogni. Eppure lo spettro di Louis Cyphre scostò la pesante cortina di sonniferi e si burlò di me. Gran parte dei sogni si dispersero al risveglio, ma me ne rimase un'immagine: un tempio azteco che si ergeva a picco su una piazza affollata e i cui scalini erano viscidi di sangue. Dalla cima Cyphre, vestito della sua marsina come al Circo delle Pulci, guardava giù verso i nobili piumati, rideva e lanciava alto in aria il cuore gocciolante sangue della sua vittima. La vittima ero io. La mattina seguente stavo finendo la colazione quando il tenente Sterne fece una visita inaspettata al reparto. Era vestito dello stesso abito di mohair marrone, ma la camicia azzurra di lanetta e la mancanza di cravatta mi dissero che era fuori servizio. La faccia però era ancora essenzialmente sbirresca. «Si direbbe che qualcuno l'abbia conciato per le feste», disse con tono piuttosto acido. Gli dedicai un bel sorriso. «Le rincresce non essere stato lei a conciarmi così, vero?» «Se fossi stato io, non uscirebbe di qui per una settimana almeno.» «Si è dimenticato i fiori», dissi. «Li tengo in serbo per la sua tomba, imbecille.» Sterne si accomodò sulla sedia bianca accanto al letto e mi fissò come un avvoltoio che tiene d'occhio un opossum schiacciato sulla strada. «Ieri sera ho cercato di parlarle a casa e la sua segreteria telefonica mi ha detto che lei era in ospedale. Non mi hanno permesso di parlarle fino a questo momento.» «Che cosa la preoccupa, tenente?» «Pensavo che le interessasse qualcosa che abbiamo trovato nella casa della Krusemark, visto che lei non conosceva quella donna.» «Sto tenendo il fiato.» «Proprio quel che fanno nella camera a gas», disse Sterne. «Tengono il fiato, ma non serve a niente.» «Che cosa fanno invece a Sing Sing?» «Quel che faccio io, è di turarmi il naso, dato che si sporcano i calzoni l'attimo che l'elettricità li colpisce. E c'è una puzza orribile di merda.» Con un naso come il tuo, pensai, ti occorreranno tutte e due le mani. Dissi: «Mi dica che cos'ha trovato nell'appartamento della Krusemark». «Che cosa non ho trovato. Non ho trovato la pagina del 16 marzo sul calendario della sua scrivania. Era l'unica pagina mancante. Nel mio mestiere si notano fatterelli come questo. Ho mandato la pagina sottostante in laboratorio, perché cercassero se vi erano rimasti dei segni. Indovini che cos'ho
trovato?» Dissi che non ne avevo la minima idea. «L'iniziale H, seguita dalle lettere A-n-g.» «Si legge hang.» «La consegnerò al boia, Angel. Lei sa benissimo come si legge.» «Coincidenza e prova sono due cose molto diverse, tenente.» «Dov'era mercoledì pomeriggio intorno alle tre e mezzo?» «Grand Central Terminal.» «Aspettava un treno?» «Mangiavo ostriche.» Sterne scosse quel suo testone. «Non basta.» «L'uomo alla cassa ricorderà. Ci sono rimasto a lungo. Ho mangiato moltissimo. Ci abbiamo scherzato su. Lui diceva che le ostriche sembrano grumi di sputo. Io dicevo che sono ottime per le prestazioni sessuali. Può controllare.» «Ci scommetta pure la testa che andrò a controllare in tutti i modi possibili.» Sterne si tirò in piedi. «Sa che cosa le dico? Quando la legheranno alla sedia elettrica, sarò lì con il naso turato.» Sterne allungò la sua tozza manona. Prese dal vassoio un bicchiere intatto di sugo di pompelmo in scatola, lo tracannò d'un solo fiato e se ne andò. Quando tutti gli incartamenti furono pronti, era quasi mezzogiorno. Anch'io varcai la porta dell'ospedale. 41 Davanti al Bellevue, la Prima Avenue era tutta sossopra, ma essendo sabato nessuno vi lavorava. Barricate di cavalletti di legno decorati di scritte DOBBIAMO SCAVARE circondavano i lavori e rinchiudevano mucchi di terra e ciottoli impilati. In questa parte della città solo un sottile strato di catrame ricopriva la vecchia pavimentazione. Qua e là rimanevano tratti dell'acciottolato di un secolo prima. Altri rimasugli di un passato caduto nell'oblio erano i lampioni di ghisa a forma di vincastro e di quando in quando lastre di marciapiedi di arenaria bluastra. Mi aspettavo di essere pedinato, ma non scorsi nessuno quando mi avvicinai a un posteggio di tassi fuori dell'aerostazione della Trentottesima Strada. Il tempo era ancora tiepido, il cielo si era però coperto. A ogni passo la pesante calibro 38 che tenevo nella tasca della giacca urtava contro il mio corpo dolorante.
La mia prima meta fu il dentista. Gli avevo telefonato dall'ospedale e lui aveva accettato di aprire lo studio nel palazzo Graybar per il tempo necessario a mettermi capsule provvisorie. Parlammo di pesca. Il dentista disse che gli rincresceva non essere andato a Sheepshead Bay a buttar vermi in acqua. Intontito dagli analgesici, corsi per arrivare in tempo a un appuntamento che avevo per l'una nell'atrio del grattacielo Chrysler. Arrivai con un ritardo di dieci minuti, ma Howard Nussbaum mi stava pazientemente aspettando all'ingresso della Lexington Avenue. «Harry, questo è un ricatto puro e semplice», disse stringendomi la mano. Era un ometto dall'aspetto crucciato, vestito d'un abito marrone. «Non lo nego, Howard. Ringrazia che non pretendo soldi.» «Con mia moglie avevamo deciso di partire presto per il Connecticut. Ha dei parenti a New Canaan. Appena ricevuta la tua telefonata, ho avvertito Isobel che saremmo partiti un po' in ritardo. In fondo, che cosa sono poche ore, le ho detto.» Howard Nussbaum aveva la responsabilità delle chiavi di un certo numero di grandi palazzi di uffici, la cui sicurezza era garantita dalla società che lo impiegava. Doveva questo lavoro a me, o meglio al fatto che avevo omesso il suo nome in un rapporto che avevo presentato alla sua ditta circa una chiave comunella ritrovata nella borsetta di una prostituta minorenne. «L'hai portata?» gli domandai. «Sarei venuto se non l'avessi con me?» Mise la mano nell'interno della giacca e mi consegnò una piccola busta marrone non sigillata. Ne feci uscire sul palmo della mano una chiave nuova di zecca, che aveva l'aspetto di qualsiasi altra chiave. «È una comunella?» «Dovrei forse fidarmi di te al punto di consegnarti una comunella che apra tutto il grattacielo Chrysler?» La fronte di Howard Nussbaum si aggrottò ancora di più. «È una chiave che serve per il quarantacinquesimo piano. In tutto il piano non c'è una serratura in cui non entri. Non vuoi dirmi di chi ti stai occupando?» «Non farmi domande, Howard. In questo modo non sarai accusato di complicità.» «Sono un complice, invece», disse. «Sono stato un complice per tutta la vita.» «Divertiti in Connecticut.» Salii in ascensore, esaminando la piccola busta marrone e ficcandomi le
dita nel naso in modo che il manovratore guardasse dall'altra parte. La busta era affrancata e aveva già l'indirizzo. Howard mi aveva pregato di mettervi dentro la chiave e di sigillarla appena avessi finito, poi di impostarla nella prima buca che trovavo. Ci sarebbe magari stata la probabilità di scovare, chi sa dove in mezzo al mio mazzo da cinquecento dollari, una chiave che poteva farmi lo stesso uso. Ma per le chiavi false ci vogliono serrature con meccanismi logorati dall'impiego di duplicati, mentre la ditta di Howard Nussbaum preferiva cambiare serratura e non risparmiare soldi facendo rifare tre volte le chiavi. Dietro i vetri smerigliati della Società per azioni Linee Marittime Krusemark, le luci erano fioche. Dall'altro capo del corridoio giungeva un lontano e irregolare ticchettio di macchina per scrivere. Mi infilai i guanti da chirurgo e inserii la chiave nella prima di molte serrature: era davvero un talismano che apriva ogni porta, in concorrenza con la mummificata Mano della Gloria di Margaret Krusemark. Ispezionai l'intero ufficio, passando per stanze piene di macchine per scrivere coperte di teli e di telefoni silenziosi. Questo sabato non c'erano giovani direttori che per esagerata ambizione avessero rinunciato alla loro partita di golf. Persino le telescriventi avevano il sabato e la domenica liberi. Sulla scrivania a forma di L preparai la Minox e il cavalletto per la copiatura. Accesi le luci fluorescenti. Il mio temperino e una clip piegata bastarono per forzare gli schedari e i cassetti della scrivania chiusi a chiave. Non sapevo che cosa stessi cercando, ma Krusemark desiderava nascondermi qualcosa, lo desiderava tanto da mandarmi dietro due sicari. Il pomeriggio si protrasse senza scoperte. Sfogliai centinaia di schedari, fotografando tutto ciò che sembrava promettente. Parecchie note di carico modificate e una lettera che citava un deputato disposto a essere comprato furono quanto di meglio trovai in fatto di attività criminose. Questo non significava che non esistessero. Se si sa dove cercare c'è sempre qualche scheletro nascosto negli armadi di una società. Scattai quindici rullini. Ogni faccenda importante in cui le Linee Marittime Krusemark avevano messo lo zampino passò sotto il mio cavalletto e fu fotografata. Chi sa dove, annidati dietro tutte quelle statistiche, c'erano tanti imbrogli da tenere occupato l'ufficio del procuratore per mesi e mesi. Esaminati tutti gli schedari, mi introdussi con la mia chiave nello studio privato di Ethan Krusemark e mi offrii da bere dal mobile bar pieno di specchi. Portai con me il bicchiere di cognac di cristallo, mentre studiavo il
rivestimento delle pareti e guardavo dietro tutti i quadri. Non trovai tracce né di una cassaforte né di pannelli mobili. A parte il divano, il mobile bar, la scrivania fatta di una lastra di marmo, la stanza era spoglia e non conteneva né schedari, né cassetti, né scaffali. Posai il bicchiere vuoto al centro della luccicante scrivania. La sua lustra superficie non era disturbata da carte o da lettere, nemmeno da penne e matite. La statuetta di bronzo di Nettuno si ergeva all'altro capo, in equilibrio sulla sua immagine perfettamente riflessa. Guardai sotto la lastra di marmo. Invisibile dall'alto, un cassetto d'acciaio poco profondo vi era incassato e abilmente nascosto. Non era chiuso a chiave. Una levetta sul fianco fece scattare un gancio, molle segrete lo mandarono avanti come il cassettino di un registratore di cassa. Dentro c'erano parecchie penne stilografiche di valore, una fotografia di Margaret Krusemark in una cornice ovale d'argento, un pugnale lungo venti centimetri con un manico d'avorio dalla montatura d'oro e un certo numero di lettere. Presi in mano una busta familiare e tirai fuori il cartoncino. In alto un pentacolo rovesciato era stampato in rilievo. Le parole latine non erano più un problema per me. Ethan Krusemark aveva il suo invito personale alla messa nera. 42 Rimisi tutto in ordine come l'avevo trovato e ritirai la macchina fotografica. Prima di andarmene, risciacquai il bicchiere nel bagno presidenziale e lo rimisi accuratamente in fila sul ripiano apposito del mobile bar. Avevo avuto intenzione di lasciarlo sulla scrivania di Krusemark per dargli qualcosa cui pensare lunedì mattina; ma ormai non mi sembrava più un'idea molto furba. Quando arrivai in strada, pioveva. La temperatura era scesa di otto gradi. Tirai su il bavero della giacca e, schivando l'acqua come meglio potevo, attraversai la Lexington e arrivai al Grand Central Terminal. Chiamai Epiphany dalla prima cabina telefonica libera. Le domandai quanto tempo le occorreva per prepararsi. Mi rispose che era pronta da ore. «Sei invitante, dolcezza», dissi, «ma parlo di lavoro. Prendi un tassi. Trovati nel mio ufficio tra mezz'ora. Ceneremo e poi andremo a una conferenza.» «Che conferenza?»
«Può darsi che sia una predica.» «Una predica?» «Portami l'impermeabile che è nel primo armadio e non tardare.» Prima di dirigermi alla ferrovia sotterranea, trovai un negozio che rifaceva chiavi e ordinai una copia della comunella di Howard Nussbaum. Sigillai l'originale nella piccola busta già indirizzata e la infilai in una buca, vicino a una fila di armadietti per il deposito dei bagagli. Presi il treno navetta fino a Times Square. Quando uscii dalla metropolitana pioveva ancora, i riflessi delle insegne al neon e dei semafori si contorcevano sul selciato come serpenti di fuoco. Corsi da un portone all'altro cercando di non bagnarmi. Magnaccia, spacciatori di droga e prostitute giovanissime si ammucchiavano nei negozi di alcolici e nelle sale da gioco, sconsolati come gatti inzuppati di pioggia. Mi riempii le tasche di sigari al negozio d'angolo e alzai gli occhi per vedere attraverso le goccioline d'acqua i titoloni che scorrevano sulla torre del Times... I TIBETANI LOTTANO CONTRO I CINESI A LHASA... Quando, alle sei e dieci, arrivai in ufficio, Epiphany mi aspettava sulla poltrona. Elegante nel suo completo color prugna, aveva un aspetto meraviglioso. Al tatto e al gusto, era ancora meglio. «Ho sentito la tua mancanza», bisbigliò. Le sue dita seguirono con leggerezza la fasciatura che mi copriva l'orecchio sinistro e si attardarono sul punto dove mi avevano rasato. «Oh, Harry, come stai?» «Sto bene. Forse non sono più bello come prima.» «I punti su un lato della tua testa ti fanno somigliare a Frankenstein.» «Finora ho evitato gli specchi.» «E la tua povera, povera bocca.» «Com'è il naso?» «Più o meno uguale, solo un po' più grosso.» Mangiammo da Lindy. Dissi a Epiphany che, se qualcuno ci avesse fissati, gli altri clienti ci avrebbero creduti delle celebrità. Nessuno ci fissò. «Quel tenente è venuto a trovarti?» Epiphany immerse un gamberetto in una scodella di salsa circondata di ghiaccio tritato. «Ha rallegrato il momento della mia colazione. Sei stata in gamba a farti passare per la segreteria telefonica.» «Sono una ragazza in gamba.» «Sei una brava attrice», dissi. «Hai fatto fesso Sterne due volte nello stesso giorno.» «Non sono un'unica donna, ma tante. Proprio come tu sei più d'un solo
uomo.» «È una teoria vudu?» «No, è buon senso.» Alle otto eravamo già in macchina diretti a Harlem e attraversavamo Central Park. Mentre passavamo vicino al Meer, domandai a Epiphany perché lei e il suo gruppo quella notte avessero fatto sacrifici sotto le stelle, invece di rimanere a casa nel suo humfo. La ragazza disse qualcosa circa i loa degli alberi. «Loa?» «Spiriti. Manifestazioni di Dio. Molti, molti loa. Rada loa, petro loa: bene e male. Damballa è un loa. Bade è il loa del vento; Sogbo, il loa lampeggiante; Baron Samedi, il guardiano del cimitero, signore del sesso e delle passioni; Papa Legba protegge le case e i luoghi delle riunioni, i cancelli e gli steccati. Maître Carrefour è il custode di tutti i crocevia.» «Allora è il mio loa protettore», dissi. «È il protettore degli stregoni.» Il Nuovo Tempio della Speranza sulla Centoquarantaquattresima Strada era stato anni prima una sala cinematografica. La vecchia tenda sporgeva sul marciapiede con EL ÇIFR a lettere cubitali su tutti e tre i lati. Posteggiai più in là nello stesso isolato e presi il braccio di Epiphany per tornare indietro verso la brillante illuminazione. «Perché ti interessi a Çifr?» mi domandò. «È il mago dei miei sogni.» «Çifr?» «Il buon dottor Cipher in persona.» «Che cosa vuoi dire?» «Questa del maestro indù è una delle tante parti che gli ho visto recitare. È come un camaleonte.» La stretta di Epiphany si fece più forte sul mio braccio. «Sii prudente, Harry, ti prego.» «Cerco di esserlo», dissi. «Non scherzare. Se quest'uomo è come tu dici, deve avere un potere immenso. Non è tipo da prendere alla leggera.» «Entriamo.» Una fotografia ritagliata su cartone a grandezza naturale di Louis Cyphre nel suo costume da sceicco era appoggiata alla biglietteria vuota e invitava con un braccio teso i fedeli. L'atrio era di gesso dorato, con decorazioni orientaleggianti. Al posto delle caramelle e del granturco soffiato, il chiosco
dei rinfreschi vendeva una serie completa di letteratura ispirata. Trovammo posto di fianco al corridoio laterale. Un organo mormorava dietro il sipario chiuso, color rosso e oro. La platea e la balconata si riempirono al massimo della capienza. Nessuno, a parte me, sembrò accorgersi che ero l'unico bianco in vista. «Che setta è questa?» bisbigliai. «Essenzialmente battista, con qualche fronzolo.» Epiphany intrecciò in grembo le mani guantate. «Questa è la chiesa del reverendo Love. Non venirmi a dire che non lo hai mai sentito nominare.» Confessai la mia ignoranza. «Be', la sua automobile è all'incirca cinque volte più grande del tuo ufficio», disse Epiphany. Le luci della sala si affievolirono, la musica dell'organo salì di volume, il sipario si aprì per rivelare un coro di cento voci raggruppato a forma di croce. La congregazione balzò in piedi cantando «Gesù era un pescatore». Mi unii agli applausi e lanciai un sorriso a Epiphany che osservava quel modo d'agire con il severo distacco di una vera credente in mezzo ai barbari. Mentre la musica andava progressivamente aumentando d'intensità, un ometto color marrone, vestito di raso bianco, apparve sulla scena. Dalle due mani i brillanti lanciavano sprazzi. Il coro ruppe le file mentre l'ometto stava immobile e, marciando con precisione militare, si dispose intorno a lui formando file e file di abiti bianchi, come i raggi di luce irradiati dalla luna nascente. Incontrai lo sguardo di Epiphany e mossi silenziosamente le labbra: «Il reverendo Love?» Epiphany annuì. «Vi prego di sedervi, fratelli e sorelle», disse il reverendo Love parlando dal centro del palcoscenico. Aveva una voce comica, alta e acuta. Parlava con un tono da imbonitore, come il presentatore al Birdland. «Fratelli e sorelle, vi do con amore il benvenuto al Nuovo Tempio della Speranza. Mi rallegrano i gioiosi suoni che producete. Come sapete, questo non è uno dei nostri normali incontri. Questa sera siamo onorati dalla presenza, qui con noi, di un santone, dell'illustre el Çifr. Questo è un uomo che, sebbene non appartenga alla nostra fede, io rispetto, un uomo di grande saggezza che ha molto da insegnarci. Sarà di beneficio a tutti noi ascoltare con attenzione le parole del nostro stimato ospite, el Çifr.» Il reverendo Love si girò e protese le braccia spalancate verso le quinte.
Il coro intonò: «Sorge un nuovo giorno». La congregazione, quando Louis Cyphre entrò impetuosamente in scena come un sultano, batté le mani. Frugai nella valigetta in cerca del mio binocolo a dieci ingrandimenti. Ammantato nelle sue vesti ricamate e con il capo avvolto in un turbante, el Çifr sarebbe potuto essere qualsiasi altra persona, ma quando misi a fuoco le sue fattezze nel binocolo, diventò indiscutibilmente il mio cliente con la faccia annerita. «È il Moro, conosco la sua tromba», bisbigliai a Epiphany. «Cosa?» «Shakespeare.» «?» El Çifr salutò il suo pubblico con un salam fantasioso. «Possa la prosperità sorridere a tutti voi», disse inchinandosi profondamente. «Non sta forse scritto che il Paradiso è aperto a coloro che osano entrare?» Qualche 'amen' uscì qua e là dalla congregazione. «Il mondo appartiene ai forti, non ai miti. Non è forse così? Il leone divora il gregge inerme; il falco banchetta con il sangue del passero indifeso. Chi nega questo nega l'ordine stesso dell'universo.» «È vero, è vero», disse qualcuno ad alta voce, con calore, dalla balconata. «Si direbbe il rovescio del Discorso della Montagna.» Epiphany lanciò il frizzo parlando con la bocca storta. El Çifr andava avanti e indietro sul proscenio. Teneva le mani giunte come un supplice, ma i suoi occhi brillavano di pura furia. «Il carro è spinto avanti dalla mano che tiene la frusta. La carne del cavaliere non sente il tormento degli sproni. Essere forti in questa vita esige un atto di volontà. Scegliete di essere lupi, non gazzelle.» La congregazione reagiva a ogni consiglio battendo le mani e urlando la sua approvazione. Le sue parole erano ripetute in coro come brani delle Sacre Scritture. «Siate lupi... siate lupi...» gridava il pubblico. «Guardatevi qui intorno in queste strade affollate. Forse che i forti non dominano?» «I forti dominano. I forti dominano.» «E i miti soffrono in silenzio!» «Amen. I miti soffrono certamente.» «Là fuori c'è il deserto e soltanto i forti sopravviveranno.» «Soltanto i forti...» «Sii leone e lupo, non agnello. Altri siano sgozzati. Non ubbidire all'istinto di viltà del gregge. Tuffa il tuo cuore in imprese ardimentose. Se può
esserci un solo vincitore, siilo tu!» «Un solo vincitore... imprese ardimentose... sii un leone...» Mangiavano dalla sua mano. Cyphre volteggiava sul palcoscenico come un derviscio, con gli abiti ondeggianti, mentre la sua voce melodiosa esortava i fedeli: «Siate forti. Siate arditi. Sperimentate sia lo stimolo dell'attacco sia la saggezza della ritirata. Quando si presenta l'occasione, afferratela, come il leone afferra il cerbiatto. Trasformate la disfatta in vittoria; liberatela e squarciatela; divoratela. Siete la bestia più pericolosa di tutto il pianeta. Di che cosa avete paura?» Louis Cyphre danzava e salmodiava, declamando di potenza e di forza. La congregazione ululava una frenetica litania. Persino i ragazzi del coro sbraitavano rabbiosi versetti e scuotevano i pugni in aria. Caddi in un sogno a occhi aperti e non prestai più attenzione a tutta quella retorica. Ma di colpo il mio cliente disse qualcosa di inaspettato, che risvegliò bruscamente il mio interesse. «Se il tuo occhio ti offende, strappatelo», disse el Çifr, guardando dritto verso di me, o almeno così mi parve. «Questa è una bella frase, ma io dico anche, se l'occhio di qualcuno ti offende, strappaglielo. Dilanialo con i tuoi artigli! Cavaglielo con una pallottola! Occhio per occhio!» Le sue parole mi trapassarono come una fitta di dolore. Sedetti in avanti sulla mia poltroncina, il più possibile vigile e attento. «Perché porgere l'altra guancia?» continuò el Çifr. «Perché, anzi, lasciarsi schiaffeggiare? Se un cuore è saturo di odio per te, estirpalo. Non aspettare di essere tu la vittima. Colpisci il nemico per primo. Se il suo occhio ti offende, sparagli contro. Se una parte qualsiasi del suo corpo ti offende, tagliala e cacciagliela in bocca.» El Çifr urlava per coprire i ruggiti del suo pubblico. Mi sentii intorpidito, paralizzato. Era solo la mia immaginazione, oppure Louis Cyphre aveva appena descritto tre delitti? Alla fine el Çifr alzò entrambe le braccia in alto in un saluto vittorioso. «Siate forti», sbraitò. «Promettetemi di essere forti!» Il pubblico era impazzito. «Saremo forti... lo promettiamo», urlavano tutti. El Çifr scomparve dietro le quinte mentre il coro si raggruppava di nuovo sul palcoscenico e intonava un vivace arrangiamento di 'Il forte braccio del Signore'. Afferrai la mano di Epiphany e la trascinai con me nel passaggio tra le poltrone. C'erano altri davanti a noi. La tirai facendomi strada a spallate e mormorando: «Mi scusi, prego». Attraversato in fretta l'atrio, ci trovammo
fuori. In strada la Rolls Royce grigio argento aspettava. Riconobbi l'autista in divisa, appoggiato pigramente al parafango anteriore, che scattò sull'attenti quando si aprì una porta con la scritta USCITA DI SICUREZZA e una striscia rettangolare di luce si distese sul marciapiede. Ne uscirono due negri vestiti di completi a tre bottoni e con gli occhi coperti da occhiali neri, i quali studiarono la situazione. Sembravano solidi come la Grande Muraglia cinese. El Çifr li raggiunse sul marciapiede e insieme si avviarono alla macchina, affiancati da due altri pesi massimi. «Un minuto solo», dissi forte e mi avvicinai. Fui immediatamente assalito dal capo dei gorilla. «Non fare niente che magari rimpiangeresti», disse bloccandomi la strada. Non discussi. Un secondo viaggio in ospedale non era in programma. Mentre l'autista apriva la porta posteriore, incontrai lo sguardo dell'uomo inturbantato. Louis Cyphre mi fissò con occhi inespressivi, sollevò l'orlo delle sue lunghe vesti e salì sulla Rolls Royce. L'autista chiuse lo sportello. Li guardai allontanarsi sbirciando oltre la mole della guardia del corpo, rimasta lì in piedi, impassibile come una statua dell'isola di Pasqua, in attesa che tentassi di fare qualcosa. Epiphany si avvicinò alle mie spalle e mi prese sottobraccio. «Andiamo a casa ad accendere il fuoco», disse. 43 La Domenica delle Palme fu sonnolenta e sensuale, con la novità di svegliarmi accanto a Epiphany unita alla scoperta che giacevo per terra, rannicchiato tra i cuscini del divano e un groviglio di lenzuola. Nel caminetto rimaneva un solo frammento bruciacchiato. Misi al fuoco il bricco del caffè e ritirai i giornali della domenica che aspettavano sullo zerbino. Epiphany si svegliò prima che avessi finito i fumetti. «Dormito bene?» sussurrò la ragazza, raggomitolandosi in braccio a me. «Nessun brutto sogno?» «Neppure l'ombra di un sogno.» Feci correre la mano sul suo liscio fianco scuro. «Una bella cosa.» «Che si sia rotto l'incantesimo?» «Potrebbe darsi.» Il suo fiato caldo mi alitava sul collo. «Sono stata io a sognare di lui questa notte.»
«Di chi? Di Cipher?» «Cipher, Çifr, o con quanti altri nomi lo chiami. Ho sognato di essere al circo e che lui era il direttore. Tu eri uno dei pagliacci.» «Che cos'è successo?» «Poca roba. È stato un bel sogno.» Epiphany si mise a sedere dritta. «Harry! Cosa c'entra Cipher con Johnny Favorite?» «Non lo so con certezza. Mi sembra di essere immischiato in una specie di lotta fra due maghi.» «Çifr è l'uomo che ti ha ordinato di cercare mio padre?» «Sì.» «Harry, sii prudente. Non fidarti di lui.» Posso fidarmi di te? pensai cingendole le spalle sottili. «Me la caverò.» «Ti amo. Non voglio che adesso ti succeda qualcosa di brutto.» Soffocai il desiderio di fare eco alle sue parole, di ripeterle ti amo ti amo ti amo. «È soltanto una cotta da scolaretta», dissi con il cuore che batteva forte. «Non sono una bambina.» Mi guardò sino in fondo agli occhi. «Offrii la mia verginità a dodici anni, sacrificandola a Baka.» «Baka?» «Un loa del male; molto pericoloso e cattivo.» «E tua madre lasciò fare?» «Era un onore. Il rito fu celebrato dal più potente hungan di Harlem. E aveva vent'anni più di te, perciò non dirmi che sono troppo giovane.» «Mi piacciono i tuoi occhi quando ti arrabbi», dissi. «Luccicano come brace.» «Come potrei arrabbiarmi con qualcuno dolce come te?» Epiphany mi baciò. Le resi il bacio. Facemmo l'amore seduti sulla poltrona imbottita, circondati dai fumetti della domenica. Più tardi, dopo colazione, portai la pila di libri della biblioteca in camera da letto e mi sdraiai con la lezione da studiare. Epiphany s'inginocchiò sul letto vicino a me, con il mio accappatoio e gli occhiali da lettura. «Non perdere il tuo tempo guardando le figure», disse togliendomi di mano un libro e chiudendolo. «Qui.» Me ne porse un altro, non molto più pesante di un vocabolario. «Il capitolo che ho segnato è tutto sulla messa nera. Descrive la liturgia in ogni particolare; tutto, dal latino alla rovescia alla vergine deflorata sull'altare.» «Non sembra diverso da quel che è successo a te.» «Sì. Ci sono analogie. Sacrificio. Danze. Si suscitano passioni violente,
come nell'Obi. Di diverso c'è che s'incoraggia la forza del male invece di placarla.» «Credi veramente che esista qualcosa come la forza del male?» Epiphany sorrise. «Qualche volta mi sembri un bambino. Non la palpi di notte quando dormi e Çifr ti ossessiona in sogno?» «Certo preferisco palpare te», dissi allungando una mano verso la sua vita flessibile. «Sii serio, Harry, questo non è un gruppo di imbroglioni come ce ne sono tanti. Questi sono uomini di potere, di un potere demoniaco. Se non riesci a difenderti, sei perduto.» «Insinui che sarebbe ora di attaccare con i libri?» «È bello sapere contro chi si lotta.» Epiphany picchiettò con l'indice sulla pagina aperta. «Leggi questo capitolo e il successivo sulle invocazioni. Poi, ho segnato dei punti interessanti nel libro di Crowley. Puoi evitarti Reginald Scott.» Epiphany mise i libri uno sull'altro in ordine d'importanza: una gerarchia dell'inferno. E mi lasciò ai miei studi. Lessi sinché si fece buio, seguendo un corso autodidattico sulle scienze sataniche. Epiphany preparò un fuoco e rifiutò un invito a cenare da Canavaugh, facendo magicamente apparire una bouillabaisse da lei preparata mentre ero in ospedale. Mangiammo alla luce del caminetto, mentre le ombre danzavano sulle pareti intorno a noi come folletti. Non ci scambiammo molte parole, i suoi occhi dicevano tutto. Erano gli occhi più belli che avessi mai visto. Anche i momenti più piacevoli devono finire. Verso le sette e mezzo cominciai a prepararmi per andare al lavoro. Mi infilai calzoni di tela, un maglione a collo alto blu scuro e un robusto paio di scarponcini con la suola di gomma. Caricai la mia Leica nera con pellicole Tri-X e tolsi dalla tasca dell'impermeabile la calibro 38. Epiphany, con i capelli scarmigliati, mi osservò in silenzio, avvolta in una coperta davanti al fuoco. Posai tutto in fila sulla tavola: macchina fotografica, due rullini di riserva, la rivoltella, le manette prese dalla mia valigetta, i miei indispensabili grimaldelli. Aggiunsi al mazzo la chiave comunella di Howard Nussbaum. In camera da letto trovai sotto le camicie una scatola di cartucce, ne avvolsi cinque di riserva in un fagottino fatto con un angolo del fazzoletto. Appesi la Leica al collo e infilai una giubba di cuoio, da aviatore, che avevo ancora dai tempi della guerra. Vi avevo tolto tutti i distintivi militari: niente di luccicante che riflettesse la luce. Era foderata di pelliccia, adattissima da indossare d'inverno per gli appostamenti notturni. La Smith & Wesson
finì nel taschino destro con i colpi supplementari; le manette, i rullini e le chiavi in quello di sinistra. «Dimentichi l'invito», disse Epiphany mentre allungavo le mani sotto la coperta e la stringevo a me un'ultima volta. «Non mi occorre. A questa festa parteciperò senza invito.» «E il portafoglio? Pensi di non averne bisogno?» Aveva ragione. Era rimasto nella giacca che avevo la sera prima. Cominciammo a ridere e nello stesso tempo a baciarci, ma Epiphany si staccò con un brivido e si avvolse nella coperta. «Va' via», disse. «Più presto parti, più presto torni.» «Cerca di non stare in ansia», dissi. Epiphany sorrise per dimostrarmi che tutto andava bene, ma i suoi occhi erano spalancati e umidi. «Sii prudente.» «È il mio motto.» «Ti aspetterò.» «Tieni la catenella alla porta.» Presi il portafoglio e un berretto di maglia della marina. «È ora di andare.» Epiphany corse nell'atrio, liberandosi della coperta come una ninfa esce dall'acqua. Mi baciò a lungo e appassionatamente sulla porta. «Ecco», disse, cacciandomi in mano un oggettino. «Tienilo sempre con te.» Era un dischetto di cuoio, sul quale, dalla parte scamosciata, era disegnato rozzamente a inchiostro un albero circondato di fulmini zigzaganti. «Che cos'è?» «Una mano, uno scongiuro, un mojo: lo chiamano in tanti modi. Un talismano. Questo amuleto è simbolo di Grand Bois, un loa di enorme potenza. Sconfigge ogni malasorte.» «Un giorno mi hai detto che mi occorreva tutto l'aiuto che potevo procurarmi.» «Ti occorre ancora.» Intascai l'amuleto. Ci baciammo di nuovo, in modo piuttosto casto. Non aprimmo più bocca. Sentii scorrere l'uncino della catena. Mi avviai all'ascensore. Perché non le avevo detto che l'amavo quando ne avevo avuto la possibilità? Presi un treno della metropolitana dall'Ottava Avenue fino alla Quattordicesima Strada, di qui un altro fino a Union Square; corsi giù per le scale di ferro, arrivando alla banchina mentre partiva un accelerato in direzione nord. Ebbi tempo di mangiarmi un cartoccio di arachidi, valore un centesimo, prima che giungesse un altro treno. Il vagone era quasi vuoto, ma
non mi sedetti. Mi appoggiai alla porta a due battenti e guardai sfilare le luride piastrelle bianche, mentre la stazione si allontanava. Il treno, dopo essere entrato in galleria, affrontò una curva. I fari lampeggiarono, il metallo delle ruote stridette contro le rotaie, come un'aquila ferita. Mi afferrai a un sostegno per tenere l'equilibrio e guardai nell'oscurità. Acquistammo velocità. Un attimo dopo, eccola lì. Bisognava fare molta attenzione per vederla. Solo le luci del nostro treno che passava, riflettendosi sulle piastrelle fuligginose, rivelarono il fantasma della stazione abbandonata della Diciottesima Strada. La maggior parte dei passeggeri che viaggiavano su quella linea due volte al giorno, tutti i giorni lavorativi della loro vita, probabilmente non la notavano mai. Non esisteva, stando alla cartina ufficiale delle ferrovie sotterranee. Riuscii a distinguere le cifre a mosaico che decoravano ogni colonna piastrellata e vidi contro la parete una pila indistinta di pattumiere. Poi rientrammo in galleria e la stazione sparì, come un sogno che non si ricorda più. Lasciai il treno alla fermata successiva della Ventitreesima Strada. Salii le scale, attraversai la via, discesi e sborsai quindici centesimi per un altro biglietto. Sulla banchina c'erano parecchie persone che aspettavano il treno diretto a sud, perciò rimasi lì ad ammirare la nuova miss che pubblicizzava una birra, con i baffi fatti con una biro e, a matita sulla fronte, la scritta FATE OFFERTE PER LE CURE MENTALI. Un treno con il cartello 'Brooklyn Bridge' si fermò, tutti salirono eccettuati me e una vecchia che indugiava all'estremità della banchina. Mi diressi senza fretta verso di lei, guardando i cartelloni pubblicitari alle pareti e fingendo d'interessarmi all'uomo sorridente che aveva trovato lavoro grazie alle inserzioni sul New York Times e al grazioso bimbetto cinese che sgranocchiava una fetta di pane di segale. La vecchia mi ignorò. Portava un logoro cappotto nero cui mancavano molti bottoni e aveva in mano una borsa della spesa. Con la coda dell'occhio la vidi arrampicarsi su una panchina di legno, allungare la mano sopra la testa per aprire la gabbia di fil di ferro intorno alla luce e svelta svitare la lampadina. Quando mi avvicinai a lei, aveva già la lampadina nella borsa della spesa ed era scesa dalla panca. Le sorrisi. «Si risparmi la fatica», le dissi. «Quelle lampadine non servono a niente. Hanno tutte il filetto alla rovescia.» «Non capisco di che cosa parla», disse la vecchia. «Il dipartimento dei trasporti usa lampadine speciali, diversamente filet-
tate, che non si adattano ai porta-lampade normali. Per scoraggiare i ladri.» «Non ho la minima idea di quel che sta dicendo.» La vecchia si allontanò in fretta da me lungo la banchina, senza mai voltarsi a guardare. Aspettai che fosse ben chiusa nei gabinetti per signore. Mentre mi avviavo giù per la stretta scala di metallo all'estremità della banchina, passò rombando un treno espresso. Una passerella che costeggiava i binari si allontanava nell'oscurità. Sulla parete della galleria un debole bagliore di lampadine di pochi watt segnava a lunghi intervalli la via nelle tenebre. Tra un treno e l'altro la galleria era molto silenziosa. Spaventai parecchi topi che scapparono tra le scorie sul letto dei binari di fianco a me. La galleria sotterranea era come una grotta senza fine. L'acqua sgocciolava dal soffitto, le sudice pareti erano viscide di fanghiglia. Quando passò un treno accelerato diretto a sud, mi schiacciai contro il muro vischioso, fissando i vagoni illuminati che guizzavano a pochi centimetri dalla mia faccia. Un ragazzino inginocchiato sul sedile mi scoprì, l'espressione blanda del suo volto si trasformò in una di stupore. Il vagone sparì proprio mentre il bambino cominciava a puntare il dito. Mi sembrò di percorrere un tratto molto più lungo di cinque isolati cittadini. Incontravo di quando in quando delle nicchie con tubazioni e scalette metalliche che portavano verso l'alto. Continuai a camminare in fretta, con le mani in tasca. L'impugnatura rigata della calibro 38 era ruvida e confortante al tatto. Vidi la stazione abbandonata solo quando fui a tre metri dalla scala. Le piastrelle sudice di fuliggine luccicavano come un tempio in rovina alla luce della luna. Rimasi molto fermo e trattenni il respiro, mentre il cuore batteva contro la Leica appesa al collo, sotto il giubbotto. Sentii in lontananza un pianto di bambino. 44 Il suono echeggiò nelle tenebre. Ascoltai a lungo, prima di convincermi che veniva dalla banchina opposta. Attraversare quattro binari non mi sembrò il massimo del divertimento; ponderai sul rischio di usare la mia piccola lampadina tascabile, prima di ricordare che l'avevo lasciata a casa. Le luci distanti della galleria baluginavano lungo i nastri gemelli delle rotaie. Nonostante l'oscurità, riuscivo a distinguere le travature di ferro, come confusi tronchi d'albero in una foresta a mezzanotte. Non vedevo in-
vece i miei piedi. E sentivo in agguato la minaccia della terza rotaia, letale come un serpente a sonagli nascosto nelle tenebre. Udii un treno che si avvicinava e guardai alle mie spalle lungo la galleria. Niente in vista sul mio binario. Era un accelerato diretto a nord. Quando il convoglio attraversò la stazione abbandonata, approfittai del riparo che mi offriva per scavalcare due serie di terze rotaie, mettendo i piedi tra una trave e l'altra. Seguii il letto dei binari dell'espresso in direzione sud, facendo passi lunghi come la distanza tra le traversine. Allarmato dal rumore di un altro treno, mi guardai alle spalle e sentii aumentare l'adrenalina. Il convoglio arrivava veloce lungo la galleria. Con un passo fui tra le travi che separavano i binari dell'espresso e mi domandai se il macchinista mi avesse scorto. Il treno passò rombando come un drago rabbioso, sputando scintille dalle ruote sferraglianti. Scavalcai l'ultima terza rotaia. Il rumore assordante coprì qualunque rumore avessi fatto arrampicandomi sulla banchina opposta. Quando i quattro fanalini rossi dell'ultimo vagone sparirono alla vista, ero già appiattito contro le fredde piastrelle della parete della stazione. Il bambino non piangeva più. O almeno non piangeva così forte da coprire il ronzio dei canti. Questi sembravano ripetitivi e pomposi; sapevo, dalle ricerche del pomeriggio, che erano latino alla rovescia. Ero arrivato alla funzione in ritardo. Presi dalla tasca la calibro 38 e camminai rasente il muro. Nell'aria davanti a me pendeva una debole, effimera cortina di luce. Poco dopo riuscii a distinguere il dondolio di sagome grottesche, in quella che un tempo era la rientranza dell'ingresso della stazione. I cancelli e le barriere rotanti erano stati tolti da molti anni. Dall'angolo vidi le candele: candele grosse, nere, disposte lungo la parete interna. Se tutto era secondo le regole, erano fabbricate con grasso umano, come quelle che avevo viste nella stanza da bagno di Margaret Krusemark. La congregazione indossava lunghe vesti e maschere animalesche. Capre, tigri, lupi, bestie cornute d'ogni qualità, tutte cantavano una litania alla rovescia. Infilai la pistola in tasca e tirai fuori la Leica. Le candele circondavano un basso altare ricoperto di un drappo nero. Sopra, appesa capovolta alla parete di piastrelle, c'era una croce. Il prete officiante era grassottello e roseo. Indossava una pianeta nera ricamata di simboli cabalistici con una profusione di fili d'oro, aperta anteriormente da cima a fondo. Sotto la pianeta il prete era nudo, la sua erezione tremolava alla luce delle candele. Due giovani accoliti nudi sotto le loro
sottili cotte di cotone, in piedi ai due lati dell'altare, scuotevano i turiboli. Il fumo aveva la dolce acredine dell'oppio bruciato. Feci due o tre fotografie del prete e dei suoi graziosi giovincelli. La luce non era sufficiente per scattarne in altre direzioni. Il prete recitava le sue preghiere alla rovescia e la congregazione rispondeva con schiamazzi e grugniti. Mentre passava sferragliando un espresso diretto a nord, contai i presenti alla luce vacillante: diciassette, prete e chierichetti compresi. A quanto potevo giudicare, tutta la congregazione era nuda sotto le cappe volteggianti. Mi parve di riconoscere il duro corpo da vecchio di Krusemark. Aveva una maschera da leone. Scorsi uno sprazzo dell'argento dei suoi capelli, mentre batteva i piedi e ululava. Prima che il treno sparisse, scattai altre quattro fotografie. A un cenno del prete uscì dall'ombra un'incantevole adolescente. I capelli biondi le arrivavano alla cintola e cascavano sulla cappa luttuosa come la luce del sole che scaccia la notte. La ragazza rimase immobile mentre il prete le slacciava il manto, che silenziosamente scivolò a terra, scoprendo le sue spalle esili, le sue mammelle in boccio e una chiazza di lanugine pubica come oro filato alla luce delle candele. Scattai altre foto, mentre il prete la conduceva all'altare. I suoi movimenti languidi e pigri facevano pensare che fosse sotto l'effetto di un potente sedativo. La ragazza fu coricata sul drappo nero e rimase lì supina, a braccia aperte, con le gambe dondolanti. In ognuno dei palmi rivolti all'insù il prete posò una tozza candela nera. «Accetta la purezza senza macchia di questa vergine», intonò il prete. «O Lucifero, ti imploriamo.» S'inginocchiò per terra e baciò la fanciulla tra le gambe, lasciandovi impigliate luccicanti perle di saliva. «Possa questa casta carne onorare il tuo divino nome.» Uno dei chierichetti porse una scatola d'argento aperta al prete, che si alzò, vi prese un'ostia sacramentale, poi rigirò la scatola e sparse i dischi traslucidi ai piedi della congregazione. Ci fu dell'altro latino a marcia indietro, mentre i fedeli calpestavano le ostie. Parecchi urinarono rumorosamente sul lastrico. Uno degli accoliti consegnò al prete un alto calice d'argento; l'altro si chinò a raccogliere da terra pezzettini di ostie, che mise dentro il calice. La congregazione biascicò e grugnì come maiali in fregola, mentre il prete posava il calice in equilibrio sul ventre perfetto dell'adolescente. «O Astarotte, o Asmodeo, principe dell'amicizia e dell'amore, ti prego di accettare questo sangue che versiamo per te.»
Gli strilli vigorosi di un neonato coprirono i bestiali grugniti. Il chierichetto uscì dalle tenebre tenendo in mano un lattante che si contorceva. Il prete lo prese per una gamba e lo tenne alto sulle teste, scalciante e urlante. «O Baalberith, o Belzebù», gridò il prete. «Questo bambino è offerto nel tuo nome.» Successe con la massima rapidità. Il prete consegnò il bambino a un accolito e in cambio ricevette un coltello. La lucente lama colse la luce della candela e lanciò bagliori, mentre tagliava la gola del bambino. La creaturina annaspò, le sue urla divennero un gorgoglio soffocato. «Ti sacrifico al Divino Lucifero. Che la pace di Satana sia sempre con te.» Il prete tenne il calice sotto il fiotto di sangue. Finii il rullino mentre il bambino moriva. I gemiti gutturali della congregazione si fecero più forti del frastuono crescente di un treno in arrivo. Mi appoggiai contro il muro e ricaricai la macchina fotografica. Nessuno mi prestava la minima attenzione. L'accolito scosse il bambino senza vita per recuperare le ultime preziose gocce di sangue. Vivide chiazze luccicarono sulle luride pareti e sulla pallida carne della ragazza sull'altare. Desiderai che ogni foto che scattavo fosse una pallottola e che altro sangue macchiasse le piastrelle dimenticate. Arrivò strepitando un treno, che gettò una luce sfacciata sulla scena. Il prete bevve dal calice e scagliò sui partecipanti quanto vi rimaneva. Le maschere ulularono deliziate. Il bambino morto fu gettato via. Gli accoliti, in piedi, si masturbavano a vicenda, ridendo con la testa piegata all'indietro. Buttata via la pianeta, il prete roseo e grassottello s'inginocchiò sopra la vergine imbrattata di sangue e la penetrò con brevi colpi, a mo' di cane. La ragazza non reagì. Le candele rimasero dritte nelle sue mani distese. Gli occhi sbarrati fissavano ciecamente l'oscurità. La congregazione impazzì. Gettati via maschere e manti, i fedeli si accoppiarono frenetici sul lastrico. Uomini e donne in ogni combinazione possibile, compreso un quartetto. La nuda luce di un treno che passava lanciò le loro ombre deliranti contro la parete della metropolitana. I loro ululati e i loro gemiti erano più forti del violento sferragliare delle ruote. Vidi Ethan Krusemark inculare un ometto peloso e panciuto. Erano in piedi presso l'entrata dei gabinetti per uomini e sembravano, alla luce traballante, un film pornografico muto. Riempii un intero rullino dell'armatore in azione. La festa continuò per una mezz'oretta. Non di più. La stagione era ancora fredda per orge nella metropolitana. L'aria gelida e umida finì con l'in-
debolire gli ardori persino dei più fanatici adoratori del diavolo. Presto tutti si misero alla caccia del vestiario smarrito, borbottando sulla difficoltà di trovare le scarpe al buio. Io tenni d'occhio Krusemark. L'armatore chiuse il suo costume in un borsone e aiutò qualcuno degli altri a fare pulizia. Tolsero il drappo nero dell'altare e la croce rovesciata, usarono stracci per eliminare il sangue, infine spensero le candele. Il gruppo cominciò a disperdersi. I fedeli si allontanarono, soli o a coppie, diretti chi verso nord, chi nell'altro senso. Alcuni, muniti di lampade tascabili, attraversarono i binari fino al lato opposto. Uno di loro portava un sacco pesante e gocciolante. Krusemark se ne andò tra gli ultimi, dopo essere rimasto a bisbigliare con il prete per alcuni minuti. La ragazza bionda, dietro di loro, stava rigida come uno zombie. Poi i due si salutarono e si strinsero la mano come parrocchiani alla fine della messa. Krusemark mi passò davanti a un braccio di distanza, mentre si avviava verso nord lungo la banchina deserta. 45 Krusemark entrò in galleria, camminando svelto lungo la stretta passerella. Non era certo la prima volta che faceva una passeggiata nella sotterranea. Lo lasciai arrivare fino alla prima nuda lampadina, poi lo seguii. Presi il suo ritmo, un passo dopo l'altro, silenzioso come un'ombra sulle mie scarpe dalla suola di gomma. Se per caso si fosse voltato, il piano sarebbe fallito. Pedinare un uomo in galleria equivale a voler risolvere una faccenda di divorzio nascondendosi sotto il letto della camera d'albergo. L'avvicinarsi di un treno nella direzione opposta mi fornì l'occasione che mi occorreva. Mentre il sordo brontolio del convoglio in arrivo si trasformava in un rimbombante sferragliare, mi misi a correre con tutto il fiato che avevo in corpo. Il frastuono del treno coprì il rumore dei passi. Avevo in mano la calibro 38. Krusemark non udì niente di niente. Mentre l'ultimo vagone passava veloce, Krusemark scomparve. Un attimo prima era ad appena dieci metri da me, adesso non c'era più. Com'era possibile perderlo in una galleria? Feci cinque lunghi passi e vidi la porticina aperta: una specie di uscita di servizio. Krusemark cominciava a salire una scaletta metallica fissata al muro di fronte. «Fermo!» Tenevo la Smith & Wesson a braccia distese e con tutte e due le mani. Krusemark si girò, battendo le palpebre nella semioscurità. «Angel?»
«Girati faccia alla scala. Metti le due mani su un piolo sopra la testa.» «Sia ragionevole, Angel. Possiamo discuterne un momento.» «Muoviti!» Abbassai la mira. «La prima pallottola ti attraverserà la rotula. Camminerai con un bastone per il resto della tua vita.» Krusemark ubbidì, lasciando cadere il borsone di cuoio a terra. Mi avvicinai e da dietro lo perquisii. Non aveva armi. Presi i braccialetti dalla tasca del giubbotto e feci scattare una manetta al suo polso sinistro e l'altra al piolo cui si teneva. Krusemark si voltò verso di me. Gli sferrai un manrovescio sulla bocca con tutta la forza della mia sinistra. «Lurida canaglia!» Premetti la bocca della calibro 38 contro il suo mento, dal basso, facendogli piegare la testa all'indietro. I suoi occhi erano spalancati come quelli di uno stallone in trappola. «Mi piacerebbe cospargere tutto il muro delle tue cervella, brutto frocio.» «Sei imp-p-pazzito?» balbettò Krusemark. «Impazzito? Cazzo se sono impazzito! Sono furioso da quando mi hai mandato dietro i tuoi sicari.» «Ti sbagli.» «Balle! Non dire stronzate! Magari, facendoti un bel lavoretto ai denti, ti aiuterò a ricordare.» Aprii la bocca in un bel ghigno, mettendo in mostra la mia dentatura provvisoria. «Come hanno fatto a me i tuoi assassini.» «Non so di cosa parli.» «E invece lo sai benissimo. Mi hai ingannato e adesso cerchi di salvarti la pelle. Mi hai mentito dal primo momento che ci siamo visti. Edward Kelley è il nome di un mago elisabettiano. Ecco perché l'hai usato come pseudonimo, non perché secondo tua figlia era tanto carino.» «Si direbbe che la sappia lunga.» «Ho sgobbato sui libri. Ho fatto un ripasso di magia nera. Quindi risparmiami cazzate sulla cameriera che, quando tua figlia portava ancora i calzettoni al ginocchi, le ha dato di nascosto i tarocchi. Sei sempre stato tu. Sei tu l'adoratore del diavolo.» «Se non lo fossi sarei uno stupido. Il Principe delle Tenebre protegge i potenti. Anche tu dovresti pregarlo, Angel. Rimarresti sbalordito delle belle cose che ti capiterebbero.» «Per esempio tagliare la gola ai neonati? Krusemark, a chi l'avete rapito, quel bambino?» Krusemark mi rise in faccia. «Non c'è stato nessun rapimento. Quel piccolo bastardo l'abbiamo pagato fior di dollari. Una bocca di assistito in meno da sfamare per i contribuenti. Anche tu paghi le tasse, vero, Angel?»
Gli sputai in viso. Non l'avevo mai fatto a nessuno prima di quel momento. «Vicino a te, uno scarafaggio è l'eletto di Dio. Non sento niente quando ne schiaccio uno, perciò schiacciare te dovrebbe essere un vero piacere. Cominciamo dall'inizio. Voglio sapere tutto su Johnny Favorite. Tutto ciò che hai sentito o visto.» «E perché dovrei farlo? Non mi ucciderai. Sei troppo debole.» Si asciugò la saliva dalla guancia. «Non ho bisogno di ucciderti. Posso andarmene lasciandoti qui appeso. Quanto tempo pensi che passerà prima che qualcuno ti trovi? Due giorni? Una settimana? Due settimane? Potresti ingannare il tempo contando i treni che passano.» Krusemark divenne color della cenere, ma continuò a fare il bullo. «E che cosa ci guadagneresti?» Il resto delle sue parole fu coperto dal frastuono di un treno che passava. «Qualche bella risata», dissi dopa che il convoglio si fu allontanato. «E quando queste foto saranno sviluppate, avrò nel mio album qualcosa che mi aiuterà a ricordarmi di te.» E sollevai, in modo che potesse vederlo bene, il rullino giallo di una pellicola. «La mia preferita è quella dove scopi l'ometto grasso. Potrei persino farmela ingrandire.» «Stai bluffando.» «Davvero?» Gli mostrai la mia Leica. «Ho scattato due rullini da trentasei. È tutto nero su bianco, come si suol dire.» «Non c'è luce sufficiente per fare fotografie quaggiù.» «Basta per Tri-X. La fotografia non deve essere uno dei tuoi passatempi. Appenderò alcuni degli ingrandimenti più piccanti nella bacheca del tuo ufficio. Anche i giornali si ecciteranno, vedendo queste foto. Non parliamo poi della polizia.» Mi voltai per andarmene. «Arrivederci. Perché non provi a pregare il diavolo? Magari verrà a liberarti.» Il ghigno beffardo di Krusemark si trasformò in una smorfia di profondo turbamento. «Angel, aspetta. Discutiamone.» «Proprio quel che mi ripromettevo, signore mio. Tu parli e io ascolto.» Krusemark allungò la mano libera. «Dammi la pellicola. Ti dirò tutto quel che so.» Scoppiai a ridere. «Niente da fare. Prima canta. Se poi la musica mi piace, avrai il rullino.» Krusemark si fregò la sella del naso e fissò il lurido pavimento. «Va bene.» Gli occhi gli guizzarono come yo-yo quando mi vide lanciare in aria il rullino e riacchiapparlo. «Conobbi Johnny nell'inverno del '39. Era la vigi-
lia della Candelora. C'era una festa in casa di, be', il suo nome non ha importanza; ormai è morta da dieci anni. Possedeva un palazzo sulla Quinta, vicino al punto dove stanno costruendo quel brutto museo di Frank Lloyd Wright. Ai vecchi tempi quel posto era famoso per i balli dell'alta società: la signora Astor, i Quattrocento, cose del genere. Ma, quando lo vidi io, il gran salone da ballo era usato solo per le cerimonie dell'Antica Fede.» «Messe nere?» «A volte. Non partecipai mai a messe nere da lei, ma certi miei amici vi andavano. A ogni modo, incontrai Johnny quella sera. Mi fece subito, fin dall'inizio, una grande impressione. Non aveva certo più di diciannove o vent'anni, ma in lui c'era qualcosa di speciale. Si sentiva il potere scorrere da lui come un fluido elettrico. I suoi occhi erano più vivi di quelli di chiunque altro avessi mai visto prima d'allora in vita mia, eppure ho girato non poco. «Lo presentai a mia figlia. Andarono d'accordo fin dal primo momento. Meg, che era più versata di me nelle arti nere, riconobbe subito in Johnny quello speciale non so che. Favorite era appena agli inizi della sua carriera ed era affamato di gloria e di ricchezza. Il potere era una dote che possedeva già in abbondanza. Lo vidi evocare Lucifero Rofocale, proprio nel salotto di casa mia. Ed è un procedimento molto complicato.» «Pretendi che io beva questa storiella?» domandai. Krusemark si appoggiò all'indietro sulla scaletta, con un piede sul primo piolo. «Mandala giù, sputala fuori: e a me che cazzo importa? È la verità. Johnny si era addentrato nelle arti magiche molto più in là di dove io avevo avuto il coraggio di arrivare. Ciò che faceva avrebbe portato alla pazzia qualsiasi uomo normale. Johnny voleva sempre di più. Voleva tutto. Per questo strinse un patto con Satana.» «Che genere di patto?» «Il solito accordo. Vendette l'anima per la celebrità.» «Castronerie!» «È vero.» «È una baggianata e tu lo sai. Che cosa fece, firmò un contratto con il sangue?» «Non conosco i particolari.» Lo sguardo altezzoso di Krusemark era impaziente e sprezzante. «Johnny andò solo, a mezzanotte, per l'invocazione, nel cimitero di Trinity Church. Angel, non dovresti prendere tanto alla leggera quel che dico, specialmente quando ha a che fare con forze che non puoi dominare.»
«Va bene, diciamo che ci credo: Johnny Favorite fece un patto con il diavolo.» «Il Signore Satana in persona salì dalle profondità dell'Inferno. Dovette essere magnifico.» «Sembra alquanto rischioso vendere l'anima. L'eternità è lunga.» Krusemark sorrise. Ma in lui era piuttosto un ghigno. «Orgoglio», disse. «Il peccato di Johnny era l'orgoglio. Pensava di poter essere più furbo del Principe delle Tenebre in Persona.» «E come?» «Devi tenere presente che non sono un erudito, soltanto un credente. Partecipai al rito come testimone, ma non posso dirti niente circa la natura magica delle invocazioni o circa quanto avvenne durante la lunga settimana di preparativi che lo precedettero.» «Arriva al punto.» Prima che potesse cominciare, Krusemark fu interrotto da un espresso in direzione sud. Sorvegliai i suoi occhi e lui incontrò il mio sguardo. Neppure un battere di ciglia lo tradì mentre, in attesa che scomparisse fragorosamente l'ultimo vagone, completava e rifiniva la propria storia. «Con l'aiuto di Satana, Johnny trionfò subito. Un successo veramente clamoroso. Dalla sera alla mattina balzò in prima pagina, in un paio d'anni divenne ricco come Fort Knox. Secondo me, questo gli diede alla testa. Cominciò a pensare di essere lui la sorgente del potere e non l'Oscuro. Poco dopo cominciò a vantarsi di avere trovato la maniera di non rispettare il patto.» «Ci riuscì?» «Tentò. Aveva una biblioteca ben fornita e s'imbatté in un oscuro rito nel manoscritto di un alchimista del Rinascimento. C'entrava la trasmutazione delle anime. Johnny si fece l'idea di poter scambiare identità psichica con qualcun altro. Insomma, di diventare l'essenza di un'altra persona.» «Continua.» «Dunque, doveva trovare una vittima. Qualcuno della sua età, nato sotto lo stesso segno. Johnny scovò un giovane soldato appena tornato dall'Africa settentrionale. Uno dei nostri primi feriti. Aveva un congedo nuovo di zecca del medico miliare ed era in giro a festeggiare la vigilia dell'anno nuovo. Johnny lo trovò tra la folla di Times Square, lo trascinò in un bar dove gli fece bere un narcotico. Poi lo portò a casa sua, dove avvenne la cerimonia.» «Che genere di cerimonia?»
«Il rito della trasmutazione. Meg gli fece da assistente. Io fui il testimone. Johnny aveva un appartamento al Waldorf, dove teneva vuota una camera che gli serviva per le cerimonie. Alle cameriere aveva detto che lì si esercitava a cantare. «Le finestre erano nascoste da tendoni di velluto nero. Il soldato, nudo e legato, era supino su un tappeto di gomma. Johnny gli marchiò a fuoco un pentacolo sul petto. In ogni angolo fumava un braciere d'incenso, ma l'odore di carne bruciata era molto più forte. «Meg sfoderò un pugnale vergine, mai usato prima. Johnny lo benedisse in ebraico e in greco. Quelle preghiere mi erano nuove, non ne capii una sola parola. Quand'ebbe finito, Johnny purificò la lama al fuoco dell'altare e fece una profonda incisione sul petto del soldato, da un capezzolo all'altro. Immerse il pugnale nel sangue della vittima e con questo tracciò un cerchio sul pavimento, intorno al suo corpo. «A quel punto ci furono altri canti e altri sortilegi. Non riuscii a seguirne neppure uno. Ricordo soltanto gli odori e le ombre danzanti. Meg buttava sul fuoco manciate di prodotti chimici, le fiamme cambiavano colore, verde, azzurro, viola, rosa. L'effetto era soporifero.» «Sembra uno spettacolo di varietà. E che cosa successe al soldato?» «Johnny mangiò il suo cuore. Lo estrasse con tanta rapidità che batteva ancora quando lo trangugiò. Questa fu la fine della cerimonia. Può darsi che si fosse impossessato dell'anima di quel tale; a me sembrava ancora sempre Johnny.» «E che cosa ricavò dall'uccisione del soldato?» «Aveva progettato di scomparire appena ne avesse avuto l'occasione e di riemergere nelle vesti di quel soldato. Da qualche tempo ammucchiava soldi in nascondigli segreti. Il Signore Satana, probabilmente, non si sarebbe mai accorto della differenza. Il guaio fu che Johnny non aveva previsto tutto. Fu arruolato e spedito in guerra prima che fosse riuscito a fare lo scambio; ciò che di lui tornò indietro non riusciva a ricordare il proprio nome, altro che incantesimi ebraici.» «E a questo punto entrò in scena tua figlia.» «Proprio così. Era passato un anno. Meg voleva a tutti i costi aiutarlo. Sborsai il denaro per comperare il dottore. Lasciammo Johnny libero a Times Square alla vigilia di Capodanno. Meg fece in modo che andasse così. Era il punto d'avvio, l'ultimo posto che il soldato ricordava prima che Johnny lo drogasse.» «E il cadavere? Che fine fece?»
«Lo tagliarono a pezzi e lo diedero in pasto ai cani da caccia del mio allevamento, su nel nord.» «Che altro ricordi?» «Nient'altro. Solo Johnny che rideva quando tutto fu finito. Si burlò della vittima. Disse che quel povero bastardo non aveva proprio avuto fortuna. L'avevano mandato oltremare per l'invasione di Orano e chi mai gli aveva sparato addosso? Quei fottuti di francesi! Secondo Johnny questo fatto era davvero divertente.» «Io ero a Orano!» Afferrai Krusemark per la camicia e lo sbattei contro la scala a pioli. «Come si chiamava quel soldato?» «Non lo so.» «Eri lì nella stessa stanza.» «Non ne seppi nulla fino a un momento prima che succedesse. Ero solo un testimone.» «Tua figlia te l'avrà detto.» «No, non me lo disse. Non lo sapeva neppure lei. Faceva parte della magia. Soltanto Johnny poteva conoscere il vero nome della sua vittima. Qualcuno in cui aveva fiducia doveva custodire il segreto per lui. Sigillò le piastrine di riconoscimento del soldato in un antico canopo, un'urna egizia che consegnò a Meg.» «E che aspetto aveva quell'urna?» Stavo per soffocarlo. «L'hai mai vista?» «Molte volte. Meg la teneva sulla sua scrivania. Era d'alabastro, d'alabastro bianco; aveva, scolpito sul coperchio, un serpente a tre teste.» 46 Avevo fretta. Premendo la calibro 38 contro le costole di Krusemark, aprii le manette e me le ficcai nella tasca del giubbotto. «Non fare il minimo movimento», gli dissi allontanandomi all'indietro verso l'ingresso della stazione e puntandogli la rivoltella alla cintola. «Non respirare nemmeno.» Krusemark si strofinò il polso. «E il rullino? Me lo hai promesso.» «Spiacente. Ti ho detto una bugia. Prendo cattive abitudini frequentando mascalzoni come te.» «Devo avere quel rullino.» «Eh, lo so. È quanto di meglio possa sognare un ricattatore.» «Se vuoi denaro, Angel...» «Ti puoi pulire il culo con quel tuo puzzolente denaro.»
«Angel!» «Arrivederci, filibustiere.» Mentre un accelerato diretto a nord passava rombando, scesi sulla passerella. Non m'importava niente che il macchinista mi vedesse o no. Il mio unico errore fu ricacciarmi in tasca la Smith & Wesson. Tutti a volte facciamo stupidaggini. Non sentii Krusemark avvicinarsi. Mi afferrò alla gola. Me l'ero immaginato tutto diverso. Era come un animale selvaggio, pericoloso e forte. Incredibilmente forte, data la sua età. Il suo respiro usciva in sbuffi brevi e rabbiosi. Di noi due, era l'unico che respirasse. Neppure con tutte e due le mani riuscivo a liberarmi della stretta che mi soffocava. Spostando il mio peso, passai un piede tra le sue gambe e gli feci perdere l'equilibrio. Cascammo insieme contro il fianco del treno che passava; l'urto ci strappò l'uno dall'altro come fantocci di pezza, scagliandomi indietro contro la parete della galleria. Krusemark riuscì a rimanere in piedi. Io non ebbi simile fortuna. Lungo disteso sulla passerella polverosa, scomposto come un ubriaco, stetti a guardare le ruote di ferro passare rapide a pochi centimetri dalla mia faccia. Il treno scomparve veloce. Krusemark mirò un calcio alla mia testa. Gli afferrai il piede e lo feci cadere con uno strattone violento. Avevo già ricevuto una dose di calci sufficiente per una settimana. Mi mancò il tempo di afferrare la calibro 38. Krusemark era seduto di fronte a me sulla passerella. Gli saltai addosso, gli sferrai un pugno sul collo, di fianco. Il vecchio fece una specie di grugnito, come potremmo aspettarci da un rospo che abbiamo pestato. Lo colpii di nuovo, forte, sentii il suo naso cedere come un frutto marcio. Krusemark mi prese per i capelli, sbatté la mia testa contro il suo petto. Lottammo abbracciati l'uno all'altro sulla stretta passerella, scalciando e cercando di cavarci gli occhi. Non ci fu niente di leale nel nostro combattimento. Il marchese di Queensberry non avrebbe dato la sua approvazione. Krusemark mi tirò giù e mi strinse la gola tra le sue mani dure. Quando non riuscii a liberarmi della sua presa da sollevatore di pesi, gli misi il palmo della mano destra sotto il mento e gli spinsi indietro la testa. Non servì a nulla. Allora gli ficcai il pollice in un occhio. Questa mossa fu efficace. Sentii l'urlo di Krusemark, anche se un accelerato stava percorrendo la galleria con il solito frastuono. La stretta si allentò, mi liberai contorcendomi e aspirando tutta l'aria possibile. Schivai le sue mani che mi cercavano a tentoni, ricominciammo a lottare, rotolando insieme sui binari. Finii con il trovarmi sopra Krusemark e udii la sua testa
sbattere contro una traversa di legno. Per maggior sicurezza, gli assestai una ginocchiata all'inguine. Non rimaneva più molto spirito combattivo nel vecchio. Mi alzai e misi la mano in tasca per prendere la Smith & Wesson. La pistola non c'era più, era andata persa nella lotta. Uno scricchiolio di detriti mi avvertì. La sagoma oscura di Krusemark si alzò barcollando. Il vecchio si avvicinò traballante e mi sferrò un potente e selvaggio destro. Lo evitai e lo colpii due volte alla cintola. Krusemark era duro e solido, ma mi accorsi di avergli fatto male. Ricevetti un sinistro sulla spalla, in un punto poco sensibile. Gli assestai un pugno in faccia, incontrando la cresta dell'osso sopra l'occhio. Mi sembrò d'avere colpito un muro di pietra. La mano s'intorpidì per il dolore. Quel pugno non rallentò affatto Krusemark, che continuò ad avanzare vacillando, sferrando abili, duri, brevi diretti. Non mi fu possibile pararli tutti. E, mentre frugavo in tasca in cerca delle manette, ne incassai parecchi. Usando i braccialetti come una frusta, lo colpii sulla faccia. Lo schioccare dell'acciaio sull'osso fu musica per le mie orecchie. Quando gli menai un ultimo colpo sopra l'orecchio, Krusemark cadde all'indietro con un grugnito. Il suo urlo improvviso echeggiò e si spense nella galleria gocciolante, come il rumore prodotto da chi cade da una grande altezza. Un ronzio metallico di elettricità crepitò nelle tenebre. La terza rotaia. Non volli toccare il corpo. Era troppo buio per vederlo chiaramente; indietreggiai e mi misi al sicuro sulla passerella. Alla luce di una lontana lampadina, riuscii a distinguere la sua forma oscura, lunga distesa di traverso sui binari. Ritornai nella rientranza della stazione e frugai dentro il borsone di cuoio ai piedi della scala a pioli. La maschera da leone di cartapesta mi offrì il suo ghigno. Sotto la cappa nera stropicciata trovai una piccola lampada portatile di plastica. Mi bastava. Entrai di nuovo in galleria e l'accesi. Krusemark era un mucchio ingarbugliato di vecchi abiti, la sua faccia era contorta nell'ultima agonia. Gli occhi senza sguardo fissavano le rotaie, la bocca spalancata era ferma in un urlo muto. Un filo di fumo dall'odore pungente si arricciava sopra la carne bruciacchiata. Ripulii delle mie impronte il manico della borsa, che poi lanciai vicino a lui. La maschera uscì e cadde sui detriti. Illuminando avanti e indietro la passerella con la lampadina tascabile, scoprii la mia calibro 38 a terra contro il muro, a pochi passi di distanza. La raccolsi e la rimisi in tasca. Le
nocche della mano destra mi dolevano forte. Le dita si muovevano, quindi non erano rotte. Questo non valeva per la Leica. Gli obiettivi erano decorati di una ragnatela di minuscole, profonde crepe. Esaminai le tasche. C'era tutto, meno il talismano portafortuna di cuoio che mi aveva dato Epiphany. L'avevo perso durante la lotta. Mi guardai rapidamente intorno, senza trovarlo. Avevo cose molto più importanti da fare. Tenni la lampadina di Krusemark e corsi lungo la passerella, lasciando il ricco armatore disteso sui binari, pronto a essere smembrato dal prossimo treno. I ratti avrebbero banchettato la notte prossima. Uscii dalla sotterranea alla stazione della Ventitreesima Strada e presi un tassi diretto a sud, all'angolo di Park Avenue sud. Diedi al tassista l'indirizzo di Margaret Krusemark e dieci minuti dopo scendevo di fronte al Carnegie Hall. Un vecchio poveramente vestito era in piedi all'angolo e strimpellava Bach su un violino tenuto insieme da nastro adesivo. Presi l'ascensore fino all'undicesimo piano, senza preoccuparmi se l'avvizzito operatore mi riconoscesse o no. Era troppo tardi per simili sottigliezze. La porta dell'appartamento di Margaret Krusemark aveva i sigilli della polizia. Una striscia di carta gommata era stata messa di traverso sulla serratura. La strappai, trovai la chiave giusta e mi introdussi, ripulendo la maniglia con la manica. Accesi la lampadina di papà ed esaminai con il suo raggio di luce il salone. Il basso tavolino su cui era disteso il cadavere era stato tolto. Anche il divano e il tappeto persiano. Al loro posto rimanevano linee precise tracciate con nastro adesivo. Il disegno delle braccia e delle gambe di Margaret Krusemark, che sporgevano a ogni capo della forma rettangolare del tavolino, sembrava la vignetta di un uomo che porta un barile. In salone non c'era niente d'interessante per me. Continuai lungo il corridoio fino alla camera da letto della strega. Tutti i cassetti della sua scrivania e tutti gli schedari portavano il sigillo del dipartimento di polizia. Passai la luce da un capo all'altro della scrivania. Il calendario e le carte sparpagliate erano spariti, ma la fila di libri da consultazione era intatta. A un capo, il canopo d'alabastro luccicava come osso levigato. Quando presi l'urna, mi tremavano le mani. Armeggiai per parecchi minuti, ma il coperchio con la scultura del serpente a tre teste rimase chiuso. Disperato, scagliai a terra il vaso, che si frantumò come vetro. Scorsi un luccicore di metallo tra i cocci e afferrai la lampadina dalla scrivania. Una coppia di piastrine militari baluginava tra i giri di una catenella. La raccolsi e tenni la piccola piastra oblunga sotto la luce. Un brivi-
do involontario si diffuse in tutto il mio corpo. Feci scorrere le dita gelide lungo le lettere in rilievo. Oltre al numero di serie e al gruppo sanguigno c'era un nome inciso a macchina: ANGEL, HAROLD R. 47 Le piastrine tintinnarono nella mia tasca durante tutta la discesa. Fissavo le scarpe del manovratore e facevo scorrere il pollice sulle lettere intagliate nel metallo, come un cieco che legga un testo in braille. Le mie ginocchia erano deboli, ma la testa lavorava a ritmo veloce, nel tentativo di risolvere il rompicapo. C'erano troppi punti oscuri. Dovevo per forza essere vittima di una macchinazione, le piastrine erano un tranello. C'era lo zampino di uno dei Krusemark, o di tutti e due; Cyphre era il cervello. Ma perché? Che cosa volevano? In strada il freddo pungente dell'aria notturna mi svegliò dallo stato ipnotico in cui ero piombato, lasciai cadere la lampadina portatile di Krusemark in un cestino dei rifiuti e chiamai un tassi che passava. Sapevo che, prima d'ogni altra cosa, dovevo distruggere le prove che avevo chiuso in cassaforte. «Mi porti all'angolo fra la Quarantaduesima e la Settima Avenue», dissi al guidatore, accomodandomi con i piedi sullo strapuntino mentre percorrevamo difilato la via, trovando, uno dopo l'altro, tutti semafori verdi. Nuvole di vapore uscivano a spirale dai coperchi dei tombini, come nell'ultimo atto del Faust. Johnny Favorite aveva venduto la sua anima a Mefistofele, poi aveva provato a tirarsi indietro sacrificando un soldato che aveva il mio nome. Pensai all'elegante sorriso di Louis Cyphre. Che vantaggi sperava di trarre da questa sciarada? Ricordavo la vigilia del Capodanno 1943 in Times Square con grande chiarezza. Come se fosse la prima notte della mia vita. Ero sobrio, freddamente sobrio, in una marea di ubriachi, con le piastrine al sicuro nel comparto delle monete del mio portafoglio, quando questo mi era stato rubato. Sedici anni dopo le ritrovavo nell'appartamento di una morta. Che cosa diavolo stava succedendo? Times Square fiammeggiava come un purgatorio al neon. Mi tastai l'impossibile naso e cercai di ricordare il passato: in gran parte era sparito, spazzato via da un tiro dell'artiglieria francese a Orano. Me ne rimanevano frammenti vari. Gli odori sovente me li fanno riaffiorare. Maledizione, sapevo chi ero. So chi sono. Quando ci fermammo di fronte al negozio di curiosità, nel mio ufficio le
luci erano accese. Il tassametro segnava settantacinque centesimi. Gettai un dollaro all'autista e borbottai: «Tenga il resto». Mi augurai di essere ancora in tempo. Presi le scale di sicurezza fino al terzo piano, in modo che il rumore dell'ascensore non mi tradisse. Il corridoio era buio, idem la mia sala d'aspetto, ma la luce proveniente dall'ufficio si rifletteva sul vetro smerigliato della porta d'ingresso. Tirai fuori la rivoltella e mi infilai dentro. La porta interna dell'ufficio era spalancata e riversava la luce sul mio tappeto logoro. Aspettai un momento, ma non udii nulla. L'ufficio era a soqquadro: la mia scrivania era sottosopra, i cassetti rovesciati, il loro contenuto sparso sul pavimento. Lo schedario verde ammaccato giaceva sul fianco, le fotografie di ragazzi fuggiti da casa si arricciavano in un angolo come foglie autunnali. Quando raddrizzai la mia poltroncina girevole rovesciata, vidi penzolare, aperto, lo sportello d'acciaio della cassaforte dell'ufficio. In quel momento la luce si spense. Non nell'ufficio, ma dentro la mia testa. Qualcuno mi aveva assalito alla sprovvista e colpito con qualcosa che mi fece l'effetto di una mazza da baseball. Sentii lo schianto contro il mio cranio proprio nell'attimo in cui precipitavo nell'oscurità. Acqua fredda schizzata sulla mia faccia mi fece rinvenire. Mi sedetti, farfugliando e sbattendo le palpebre. La testa mi doleva. Louis Cyphre, in piedi sopra di me, in abito da sera, mi versava addosso l'acqua da un bicchiere di carta. Nell'altra mano teneva la mia Smith & Wesson. «Ha trovato quel che cercava?» gli domandai. Cyphre sorrise. «Sì, grazie.» Schiacciò il bicchiere di carta e lo aggiunse ai papiri sparsi sul pavimento. «Un uomo che fa la sua professione non dovrebbe nascondere segreti in scatolette di latta come quella.» Estrasse dalla tasca interna della giacca l'oroscopo che mi aveva fatto Margaret Krusemark. «Immagino la gioia della polizia quando consegnerò loro questo.» «Non la farà franca.» «Ma, signor Angel, ci sono già riuscito.» «Perché è tornato indietro? Ormai aveva l'oroscopo.» «Non me ne sono mai andato. Ero nell'altra stanza. Lei mi è passato davanti.» «Una trappola.» «Davvero, un'ottima trappola. Lei ci è caduto con la massima prontezza.» Cyphre si rimise in tasca l'oroscopo. «Chiedo scusa per quel brutto colpo. Ma avevo bisogno di alcune delle sue cose.»
«Per esempio?» «Della sua rivoltella. So come impiegarla.» Mise la mano in tasca e lentamente tirò fuori le piastrine di riconoscimento, facendomele dondolare sulla faccia con la catenella. «E di queste.» «È stata una bella trovata», dissi. «Nasconderle nell'appartamento di Margaret Krusemark. Come ha fatto a costringere suo padre a collaborare?» Il sorriso di Cyphre divenne più largo. «E come sta il signor Krusemark, tra parentesi?» «Morto.» «Che peccato.» «Vedo che le si spezza il cuore alla notizia.» «La perdita di uno dei fedeli è sempre deplorevole.» Cyphre giocherellava con le mie piastrine, attorcigliando la catenella tra le dita affusolate. L'anello d'oro del dottor Fowler con la stella incisa splendeva sulla sua mano ben curata. «La pianti di dire stronzate! Avere un nome d'arte non la rende più genuino.» «Mi preferirebbe con gli zoccoli biforcuti e la coda?» «Ci sono arrivato soltanto questa sera. Lei ha giocato con me. Pranzo da Voisin. Avrei dovuto capire, quando appresi che 666 è il numero della Bestia nell'Apocalisse. Non ho più la prontezza d'un tempo.» «Lei mi delude, signor Angel. Credevo che le sarebbe stato facilissimo decifrare il mio nome.» Cyphre ridacchiò forte del suo zoppicante gioco di parole. «Incastrare me per i suoi omicidi è da furbo», dissi. «C'è solo un inconveniente.» «E che cosa mai potrebbe essere?» «Herman Winesap. Nessuno sbirro mi crederebbe se gli raccontassi di un cliente che finge di essere Lucifero... solo un pazzo tirerebbe fuori una storia simile. Ma ho Winesap che è in grado di confermarla.» Cyphre si appese al collo le piastrine di riconoscimento con un ghigno bestiale. «L'avvocato Winesap è perito ieri in un incidente di barca, a Sag Harbor. Una grande disgrazia. Il corpo non è stato ricuperato.» «Ha pensato a tutto, vero?» «Cerco di fare un lavoro accurato», disse Cyphre. «Adesso deve scusarmi, signor Angel. Per quanto gradevole sia questa conversazione, devo purtroppo accudire a certe faccende. Sarebbe davvero una stupidaggine da
parte sua tentare di fermarmi. Se si farà vedere prima che me ne sia andato, sarò costretto a spararle.» Cyphre si fermò sulla soglia, come un attore che sfrutti al massimo la sua battuta finale. «Per quanto ansioso io sia di riscuotere ciò che mi spetta, per lei sarebbe un vero peccato essere ucciso dalla sua rivoltella.» «Vaffanculo», dissi. «Troppo tardi, Johnny», disse Cyphre sorridendo. «Tu hai già baciato il mio.» Cyphre chiuse piano alle proprie spalle la porta esterna dell'ufficio. A quattro gambe strisciai sul pavimento ingombro di cartacce fino alla cassaforte aperta. Sul ripiano inferiore, in una scatola vuota di sigari, tenevo una seconda pistola. Mentre spingevo da parte un mazzo di documenti che la nascondevano, il mio cuore batteva il tam-tam. Era ancora lì. Aprii il coperchio e tirai fuori una Colt Commander calibro 45. Tenere in mano la grossa arma automatica mi sembrò l'avverarsi di un sogno bellissimo. Mi cacciai in tasca un secondo caricatore e corsi alla porta esterna. Con l'orecchio contro il vetro, aspettai il rumore delle porte dell'ascensore che si chiudevano. Nell'attimo in cui le sentii sbattere, spinsi indietro il castello della pistola, armai il cane e introdussi velocemente i colpi nella camera di caricamento. Mentre mi dirigevo di corsa alle scale di sicurezza, vidi il tetto dell'ascensore sparire dietro il vetro rotondo dello sportello. Scesi le scale a quattro gradini per volta, stringendomi alla ringhiera per mantenere l'equilibrio. Stabilii un nuovo primato nella gara tra me e la cabina. In fondo alla tromba delle scale, ansimante, tenni aperta la porticina con un piede e l'automatica con entrambe le mani, appoggiandola allo stipite. Il cuore mi batteva nelle orecchie a mo' di strumento di percussione. Mi augurai che Cyphre avesse ancora in mano la mia rivoltella quando si sarebbe aperta la porta dell'ascensore. Così sarebbe stata autodifesa. Vediamo un po' quanto gli gioverà la sua magia contro il colonnello Colt. Immaginai i pesanti proiettili che lo trapassavano e lo sollevavano da terra, mentre scure macchie di sangue apparivano sullo sparato di pizzo della sua camicia da sera. Atteggiandosi a diavolo poteva truffare pianisti vudu e astrologhe di mezz'età, ma con me non attaccava. Aveva scelto l'uomo sbagliato per addossargli tutte le colpe. La finestrella rotonda della porta esterna si riempì di luce al rumoroso arrivo della cabina. Aggiustai la mira e tenni il fiato. La satanica sciarada di Louis Cyphre era arrivata alla fine. La porta metallica rossa si spalancò. La cabina era vuota.
Barcollai in avanti come un sonnambulo, senza credere ai miei occhi. Cyphre non poteva essere sparito. Non ne aveva avuto modo. Avevo sorvegliato l'indicatore sopra la porta e visto i numeri accendersi man mano che la cabina scendeva senza fermate. E, se la cabina non si era fermata, Cyphre non era potuto uscirne. Entrai in ascensore e premetti il bottone dell'ultimo piano. Mentre la cabina partiva, mi arrampicai sulle ringhiere di ottone, con un piede contro la parete da una parte e dall'altra. Spinsi la botola d'emergenza del soffitto e l'aprii. Infilai la testa nell'apertura e mi guardai intorno. Cyphre non era sul tetto della cabina. I cavi ingrassati e i volani che giravano non lasciavano spazio per un nascondiglio. Dal quarto piano salii le scale di sicurezza fino al tetto. Cercai dietro camini e sfiatatoi, mentre la carta catramata piena di gobbe cedeva sotto i miei piedi. Cyphre non era sul tetto. Mi chinai oltre la sporgenza del cornicione e guardai giù verso la strada, prima lungo la Settima Avenue, poi, dall'angolo, lungo la Quarantaduesima. I passanti della domenica sera erano pochi. Soltanto uomini e donne di malaffare indugiavano sui marciapiedi. L'elegante figura di Louis Cyphre non era visibile. Cercai di confutare con la logica la mia confusione. Se Cyphre non era né in strada né sul tetto, se non era uscito dall'ascensore, doveva ancora essere, chi sa dove, nell'edificio. Era l'unica spiegazione possibile. Era nascosto chi sa dove. Per forza. Nella successiva mezz'ora frugai in tutta la casa. Guardai dentro tutte le toelette e dentro tutti i ripostigli delle scope. Usando la mia collezione di grimaldelli, mi introdussi in ogni buio ufficio vuoto. Rovistai le stanze di Ira Kipnis e quelle di Olga, Depilazioni, senza risultati. Esplorai le misere sale d'aspetto di tre dentisti dalle tariffe basse e il locale, grande come uno sgabuzzino, di un negoziante di monete antiche e di francobolli. Non c'era nessuno. Ritornai smarrito nel mio ufficio. Questa faccenda non aveva senso. Non aveva per niente senso. Nessuno può svanire nel nulla. Doveva esserci un trucco. Mi lasciai cadere sulla poltrona girevole, tenendo ancora in mano la Colt Commander. Dall'altra parte della strada continuava la marcia inesorabile delle notizie del giorno: ... LA PIOGGIA RADIOATTIVA DELLO STRONZIO-90 RISULTA ALTISSIMA NEGLI U.S. ... GLI INDIANI PREOCCUPATI PER IL DALAI LAMA... Quando pensai di telefonare a Epiphany era ormai troppo tardi. Imbroglia-
to di nuovo dall'Imbroglione più grande di tutti gli imbroglioni. 48 Negli squilli interminabili vibrava una nota di disperazione uguale a quella della solitaria voce del marinaio spagnolo dentro la bottiglia del dottor Cipher. Un'altra anima persa, come me. Rimasi lì a lungo, con la cornetta all'orecchio, circondato dal desolato sfacelo e dal mucchio di rottami del mio ufficio. La mia bocca era secca e sapeva di cenere. Ogni speranza era svanita, abbandonata. Avevo varcato la soglia della perdizione. Dopo qualche momento mi sollevai in piedi e barcollai giù per le scale, fino in strada. Ritto all'angolo del Crocicchio del Mondo, mi domandai da che parte andare. Ormai per me era tutto uguale. La mia corsa era stata lunga e mi aveva portato fin troppo lontano. Avevo finito di correre per sempre. Vidi un tassi che passava in direzione est lungo la Quarantaduesima e lo fermai. «Vuole andare da qualche parte?» Il sarcasmo del guidatore interruppe un lungo e cupo silenzio. Le mie parole mi parvero venire da lontano, come pronunciate da qualcun altro. «Hotel Chelsea, sulla Ventitreesima.» Anche la mia voce mi era estranea. «Tra la Settima e l'Ottava?» «Esatto.» Svoltammo sulla Settima e proseguimmo verso sud. Rannicchiato in un angolo, fissai fuori del finestrino un mondo che era morto. Delle autopompe fischiavano in lontananza come demoni infuriati. Passammo davanti alle enormi colonne di Pennsylvania Station, grigia e tetra alla luce dei lampioni. Il tassista non parlava. Canticchiavo sottovoce una canzone di Johnny Favorite, di moda durante la guerra. Era stato uno dei miei successi più strepitosi. Povero, vecchio Harry Angel, dato in pasto ai cani come degli avanzi di cucina. L'avevo ucciso, ne avevo divorato il cuore, ma io ero morto lo stesso. Questo non potevano mutarlo neppure la magia e il potere. Vivevo una vita presa in prestito e i ricordi di un altro: ero una creatura corrotta, un ibrido che tentava di sfuggire al passato. Avrei dovuto saperlo, che era impossibile. Non importa con quanta destrezza tentiamo di guardarci allo specchio di soppiatto, la nostra immagine riflessa ci fissa sempre dritto ne-
gli occhi. «Da queste parti stasera c'è agitazione.» Il tassista si fermò dall'altra parte della strada. Di fronte al Chelsea erano posteggiate in doppia fila tre pantere e un'ambulanza della polizia. Il guidatore sollevò la leva per fermare il tassametro. «Un dollaro e sessanta, per favore.» Pagai con i cinquanta dollari che tenevo per ogni evenienza e gli dissi di tenere il resto. «Questo non è un biglietto da cinque, signore. Ha fatto un errore.» «Molti errori», dissi attraversando di corsa il lastrico del colore delle pietre tombali. Nell'atrio un poliziotto parlava al telefono della portineria, ma mi lasciò passare senza neppure guardarmi. «... tre neri, cinque normali, un tè con limone», disse mentre la porta della cabina si chiudeva. Uscii al mio piano. Una barella su ruote aspettava nel pianerottolo. Due inservienti erano appoggiati alla parete. «Perché tanta furia?» si lamentò uno dei due. «Sapevano sin dal principio di trovarsi di fronte a un cadavere.» La porta del mio appartamento era spalancata. Dentro fu scattata una foto al flash. L'aria era piena dell'odore di sigari da poco prezzo. Entrai lentamente senza parlare. Tre sbirri in uniforme andavano avanti e indietro con niente da fare. Il sergente Deimos sedeva al tavolo voltandomi la schiena e dava la mia descrizione alla persona all'altro capo del filo. In camera da letto scattò un altro flash. Diedi un'occhiata dentro la stanza. Una mi bastò. Epiphany era sdraiata supina sul letto, vestita solo delle mie piastrine, con i polsi e le caviglie legati alle spalliere da quattro brutte cravatte. La mia Smith & Wesson a cane interno sporgeva in mezzo alle sue gambe spalancate, la canna tozza la penetrava come un amante. Il sangue del suo ventre luccicava sulle cosce aperte sgargianti come rose rosse. Il tenente Sterne era uno dei cinque poliziotti in borghese e stava a guardare con le mani nelle tasche del cappotto, mentre il fotografo si inginocchiava per prendere un primo piano. «Chi diavolo sei?» mi domandò uno sbirro in divisa sopraggiunto alle mie spalle. «Abito qui.» Sterne guardò verso di me. Gli occhi gli si spalancarono. «Angel?» L'incredulità gli incrinò la voce. «È lui. Acciuffatelo.» Lo sbirro dietro di me mi inchiodò le braccia. Non opposi alcuna resistenza. «Risparmiatevi il melodramma», dissi.
«Controllate se è armato», abbaiò Sterne. Gli altri sbirri mi guardarono come se fossi un animale dello zoo. Un paio di manette mi strinse i polsi. Il poliziotto mi perquisì ed estrasse la Colt Commander dalla cintola dei pantaloni. «Artiglieria pesante», disse porgendola a Sterne. Sterne fissò la rivoltella, controllò la sicura e la posò sul tavolino da notte. «Perché è tornato indietro?» «Non ho nessun altro posto dove andare.» «Chi è?» Sterne indicò con il pollice il corpo di Epiphany. «Mia figlia.» «Cazzate!» Il sergente Deimos arrivò alla camera da letto. «Bene, bene, ma chi si vede!» «Deimos, telefona alla centrale e di' loro che abbiamo arrestato l'indiziato.» «Subito», disse il sergente uscendo dalla stanza senza molta fretta. «Ricominciamo daccapo, Angel. Chi è quella ragazza?» «Epiphany Proudfoot. Tiene un'erboristeria all'angolo tra la Centoventitreesima Strada e Lenox Avenue.» Uno degli altri investigatori prese appunti. Sterne mi spinse in salotto. Sedetti sul divano. «Da quanto tempo andava a letto con lei?» «Da un paio di giorni.» «Quanto basta per poi ammazzarla? Guardi che cosa abbiamo trovato nel caminetto.» Sterne raccolse il mio oroscopo semibruciato prendendolo per l'angolo rimasto intatto. «Vuole parlarcene?» «No.» «Non cambia niente. Abbiamo tutto quanto ci occorre, a meno che la calibro 38 infilata dentro di lei non sia la sua.» «È mia.» «Arrostirà sulla sedia elettrica per questo, Angel.» «Arrostirò all'inferno.» «Può darsi. Per esserne certi, la faremo partire avvantaggiato da un carcere nel nord.» La bocca da squalo di Sterne si aprì in un sorriso malvagio. Fissai i suoi denti giallastri e ricordai la faccia sghignazzante dipinta a Steeplechase Park, una smorfia buffonesca che emanava malevolenza. Un solo altro sorriso somigliava a quello: il maligno, beffardo ghigno di Lucifero. Mi parve quasi di udire la Sua sghignazzata diffondersi per la stanza. Questa volta rideva di me.
FINE