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IAN RANKIN ANIME MORTE (Dead Souls, 1999) Al mio editor, Caroline Oakley, rimasta in ansia per tanto tempo «Il mondo è pieno di persone scomparse, il cui numero aumenta in continuazione. Affollano lo spazio che si trova tra ciò che conosciamo dei diversi tipi di vita e ciò che abbiamo sentito dire sui diversi tipi di morte. E vi vagano, solitarie e irriconoscibili, semplici sembianze di esseri umani.» ANDREW O'HAGAN, The Missing «Un giorno presi, per sbaglio, un treno diretto a Cardenden... Appena arrivati, scendemmo e aspettammo il successivo treno per Edimburgo. Ero molto stanca e, se Cardenden avesse avuto un'aria più allettante, penso che ci sarei rimasta. Se vi è mai capitato di visitare Cardenden, allora probabilmente sapete quanto la situazione sia sgradevole.» KATE ATKINSON, Dietro le quinte al museo PROLOGO Vista così, dall'alto, la città addormentata sembra una costruzione infantile, un modellino che ha rifiutato di adattarsi alle regole, fossero pure quelle della fantasia. La collina d'origine vulcanica potrebbe essere un grumo di plastilina nera, il castello che si erge saldamente su di essa un distorto agglomerato di mattoncini dentellati. I lampioni stradali coi loro globi arancioni sono carte di caramelle stropicciate in cima a bastoncini di lecca-lecca. Nelle acque del Firth of Forth, pallide lampadine di torce tascabili illuminano barche giocattolo, appoggiate su un foglio di carta crespata nera. In questo mondo, le guglie frastagliate dell'Old Town potrebbero essere fiammiferi piegati ad angolo, i giardini di Princess Street un ritaglio di moquette spugnosa, gli edifici tante scatole di cartone, con porte e finestre accuratamente disegnate da pennarelli di vari colori e con cannucce a simulare gronde e tubature. Disponendo di una lama affilata (magari di un bisturi), quelle porte potrebbero anche essere aperte. Ma sbirciarvi dentro...
Se si guardasse all'interno, quell'impressione verrebbe distrutta. Un'unica occhiata cambierebbe ogni cosa. L'uomo infila le mani in tasca. Il vento gli sferza le orecchie. Lui può anche far finta che sia un respiro infantile, ma la realtà lo raggela. Sono l'ultimo vento freddo che sentirai. L'uomo fa un passo avanti e guarda oltre il ciglio, nel buio. Accovacciato dietro di lui, l'Arthur's Seat, lo spuntone di roccia ricurvo e silenzioso, quasi infastidito dalla sua presenza, sembra pronto a spiccare un balzo. L'uomo si dice che è fatto di cartapesta. Fa scorrere le dita su strisce di carta da giornale, senza leggere gli articoli, poi si rende conto che sta accarezzando l'aria e ritira le mani, con una risata colpevole. Da qualche parte, alle sue spalle, sente una voce. In altri tempi, l'uomo saliva su quella collina in pieno giorno. Tanti anni prima, c'era andato magari con un'amante; si arrampicavano fin lassù mano nella mano, per vedere la città che si apriva davanti a loro come una promessa. Poi, in un'epoca successiva, vi si era recato con la moglie e la figlia, fermandosi sulla sommità a scattare foto, assicurandosi che nessuno si avvicinasse troppo allo strapiombo. In veste di marito e di padre, lui, col mento affondato nel colletto, fissava Edimburgo nelle sue variegate tonalità di grigio, guardandola però in prospettiva, da quel più alto osservatorio in cui aveva portato la famiglia. Mentre scrutava l'intera città, girando lentamente la testa da una parte all'altra, aveva la sensazione che tutti i problemi fossero risolvibili. Ma ora, lì, nel buio, ha cambiato parere. Sa che la vita è una trappola, le cui ganasce alla fine rinserrano chiunque sia tanto pazzo da ritenere che possano invece aprirgli la strada per il successo. Un'auto della polizia lampeggia in lontananza, ma non sta arrivando per lui. Ad aspettarlo c'è una carrozza nera, ai piedi dei Salisbury Crags. Il cocchiere senza testa sta diventando impaziente. I cavalli scalpitano e nitriscono. I loro fianchi schiumeranno durante la corsa verso casa. I Salisbury Crags sono diventati, nello slang cittadino, sinonimo di skag, eroina, come «Morningside Speed» significa cocaina. E, in quel momento, un pizzico di coca gli farebbe davvero un gran bene, ma non basterebbe. Tutto l'Arthur's Seat potrebbe essere fatto di quella polverina: per come stanno le cose, non avrebbe la minima importanza. C'è una figura dietro di lui, nell'oscurità, che si sta facendo avanti. L'uomo si volta leggermente, per affrontarla, poi distoglie rapidamente lo sguardo, in preda all'improvviso timore di scorgerne il volto. Fa per dire
qualcosa. «Lo so che ti sembrerà incredibile, ma io ho...» Non finirà mai la frase. Perché ora sta volando sulla città, con la giacca che risale fin sopra la testa, a soffocare un grido estremo, irrefrenabile. Mentre lo stomaco si rovescia e si svuota, l'uomo si chiede se c'è veramente un cocchiere ad attenderlo. E si sente travolgere dall'intima consapevolezza che non rivedrà mai più la figlia, né in questo mondo né in qualsiasi altro. PARTE PRIMA SCOMPARSO A ogni passo commettiamo ogni genere d'ingiustizie, pur non avendo la minima intenzione malevola. Ogni minuto che passa, siamo responsabili dell'infelicità altrui... 1 John Rebus stava fingendo di osservare i suricati quando lo vide e capì subito che non era quello l'uomo che cercava. Da quasi un'ora si sforzava di allontanare i postumi di una sbornia, impresa che richiedeva tutta l'energia di cui disponeva. Seduto su una panchina o appoggiato a un muretto, continuava ad asciugarsi la fronte, sebbene quell'inizio di primavera a Edimburgo fosse un parente stretto del pieno inverno. Sentiva contro la schiena la camicia madida di sudore, che lo stringeva fastidiosamente ogni volta che lui si alzava in piedi. Il capibara l'aveva fissato con un'aria quasi di commiserazione, mentre un lampo di riconoscimento e di empatia era balenato negli occhi dalle lunghe ciglia del gibboso rinoceronte bianco, così perfettamente immobile da sembrare un'insegna pubblicitaria in un centro commerciale, eppure dignitoso in quel suo distacco da tutto e da tutti. Rebus, pur provando anche lui una certa solitudine, si sentiva dignitoso quanto uno scimpanzé. Erano anni che non metteva piede allo zoo: l'ultima volta era stata probabilmente quando aveva accompagnato la figlia a vedere Palango il gorilla. Sammy era così piccola che lui l'aveva portata in giro sulle spalle, senza avvertire la minima fatica.
Stavolta non aveva nulla su di sé, a parte una ricetrasmittente, nascosta in una tasca, e un paio di manette. Si chiese se non stesse attirando troppo l'attenzione, camminando avanti e indietro in un territorio così ristretto, evitando le attrazioni sparse lungo il pendio, fermandosi solo ogni tanto al chiosco delle bibite a comprare una lattina di Irn-Bru. Lo stuolo di pinguini era arrivato e ripartito senza che lui abbandonasse la sua postazione. Stranamente, il primo dei suricati aveva atteso che i visitatori andassero oltre, in caccia di qualcosa di più suggestivo, per fare la sua comparsa, ritto sulle zampe posteriori, l'esile corpo scosso da tremiti mentre esplorava l'ambiente circostante. Dalla tana ne erano poi spuntati altri due, girando tutt'intorno, il naso contro il terreno. Avevano prestato una scarsa attenzione alla figura silenziosa seduta sul muretto basso della loro gabbia; nel perlustrare la stessa zona di terra compatta, gli erano passati davanti più volte, facendo un salto all'indietro soltanto quando lui si era portato il fazzoletto al volto. Rebus sentiva il veleno frizzargli nelle vene: non l'alcol, ma l'espresso doppio bevuto di prima mattina in uno dei posti di polizia dalle parti dei Meadows. Stava andando al lavoro e non sapeva ancora che quel giorno avrebbe dovuto pattugliare il giardino zoologico. Lo specchio nel gabinetto della stazione di polizia non si era dimostrato nei suoi confronti neppure larvatamente diplomatico. Come in quella canzone dei Greenslade che fa: «Non sei baciato dalla luce del sole». O, per dirla coi Jefferson Airplane: «Se ti senti un coccio rotto». Ma poteva esserci di peggio, si era detto Rebus, rivolgendo i suoi pensieri al problema del giorno: chi stava avvelenando gli animali dello zoo di Edimburgo? Perché doveva esserci un responsabile. Un individuo crudele e calcolatore, sfuggito sino a quel momento tanto alle telecamere di sorveglianza quanto ai guardiani. La polizia, cui era stata fornita una descrizione molto vaga del presunto colpevole, eseguiva accurati controlli nelle borse e nelle tasche dei visitatori, ma ciò che tutti in realtà desideravano (tranne forse la stampa e la televisione) era che qualcuno finisse in gattabuia, preferibilmente trovato in possesso di bocconi di cibo avvelenato quale prova inoppugnabile. Nel frattempo, come aveva osservato il capo della loro squadra, per ironia della sorte l'avvelenatore aveva dato il via a una nuova attività. Non aveva ancora fatto scuola, ma Rebus si chiedeva tra quanto tempo qualcuno avrebbe preso a imitarlo. Nello zoo era stata appena annunciata la distribuzione di cibo ai leoni
marini. Rebus era passato poco prima davanti al loro specchio d'acqua, considerando che non era poi così ampio, per una famiglia composta di tre membri. Nel frattempo, la gabbia dei suricati era stata circondata da uno stuolo di bambini e gli animali erano spariti, cosa che suscitò in lui la piacevole sensazione che la sua vicinanza fosse stata invece ritenuta da loro accettabile. Si allontanò, ma non di molto, e prese a sciogliere e riannodare un laccio della scarpa: il suo modo di contrassegnare il quarto d'ora trascorso. Gli zoo e gli ambienti consimili non l'avevano mai affascinato. Facendo l'appello degli animaletti che aveva avuto da bambino, si rendeva conto che erano molti, assai più del normale, quelli messi accanto alla voce «caduto sul campo» o «ucciso nell'adempimento del dovere». La sua tartaruga era sparita, benché avesse il nome del proprietario dipinto sul carapace; svariati pappagallini non erano riusciti a raggiungere la maturità; il suo unico pesciolino rosso (vinto alla fiera di Kirkcaldy) non aveva mai goduto di buona salute. Da adulto, il fatto di abitare in un appartamento l'aveva sempre tenuto lontano dall'idea di prendere un cane o un gatto. Una volta, una sola, aveva cercato di andare a cavallo, col risultato di scorticarsi l'interno delle cosce e dei polpacci, il che l'aveva indotto a giurare a se stesso d'intrattenere in futuro con quel nobile animale unicamente rapporti che avessero come sfondo una sala scommesse. Ma i suricati gli erano piaciuti, per una serie di motivi: la musicalità del loro nome, la stravaganza dei loro rituali, il loro istinto di conservazione... Osservando i bambini, che intanto si erano seduti sul muretto con le gambe penzoloni, sferrando calci in aria, Rebus immaginò la scena ribaltata: le gabbie piene di cuccioli d'uomo, intenti a saltellare e strillare per attrarre l'attenzione degli animali che, passando loro davanti, lanciavano qualche occhiata, priva però della curiosità che è propria degli esseri umani. Gli animali non si sarebbero fatti conquistare da nessuna esibizione di agilità o tenerezza, non avrebbero capito che era in corso un gioco né si sarebbero resi conto che qualcuno si era sbucciato un ginocchio. Gli animali non costruirebbero giardini zoologici, non ne sentirebbero la necessità. E Rebus si chiedeva perché gli esseri umani ne avessero bisogno. Di colpo quel luogo gli parve ridicolo, una bella fetta del terreno immobiliare di Edimburgo regalata all'assurdo... E fu allora che vide la macchina fotografica. La vide perché sostituiva il volto che si sarebbe dovuto trovare al suo posto. L'uomo era ritto in piedi su un pendio erboso, a una ventina di metri
di distanza, intento a regolare il fuoco di un teleobiettivo. La bocca che appariva sotto la parte centrale dell'apparecchio era una linea sottile, concentrata, che s'increspava lievemente, mentre il pollice e l'indice della mano lavoravano intorno all'obiettivo. L'uomo indossava una giacca di jeans nera, pantaloni di cotone color kaki stropicciati, scarpe da ginnastica. Si era tolto un berretto da baseball di un azzurro sbiadito, che ora, mentre lui scattava le foto, gli penzolava da una mano. I capelli, castani, cominciavano a diradarsi, la fronte era segnata da qualche ruga. Mentre l'uomo abbassava la macchina fotografica, Rebus capì. Distolse lo sguardo, rivolgendolo verso il soggetto che interessava il fotografo: i bambini. Creature infantili piegate verso la tana dei suricati. Suole di scarpe e gambe, gonnelline e qualche lembo di schiena messo in mostra da magliette e golf inavvertitamente sollevati. Rebus conosceva quell'uomo. Il contesto rendeva più facile l'identificazione. Probabilmente erano passati già quattro anni dall'ultima volta in cui l'aveva visto, ma non avrebbe potuto mai dimenticare occhi come quelli, l'aria famelica stampata sulle guance il cui rossore soffuso metteva in evidenza vecchie cicatrici causate dall'acne. Quattro anni prima i capelli erano più lunghi, ricadevano a riccioli sulle orecchie dalla forma sgraziata. Frugò nella memoria alla ricerca di un nome, mentre al tempo stesso infilava la mano in tasca, per prendere la ricetrasmittente. Il fotografo notò il movimento, girò lo sguardo a incrociare quello di Rebus, che stava già per volgersi altrove. Il riconoscimento funzionò nei due sensi. Il teleobiettivo fu sganciato e riposto in una custodia a tracolla. Sulla lente fu messo un coperchio. Poi l'uomo si allontanò, avviandosi a passo veloce lungo il pendio. Rebus tirò fuori la ricetrasmittente. «Sta scendendo lungo la collina, proprio sotto la mia postazione, verso il lato ovest. Giacca di jeans nera, pantaloni di colore chiaro...» Continuando a descriverlo, si avviò sulle tracce dell'uomo. D'un tratto l'inseguito si girò e, nel vederlo, prese a correre, ostacolato dalla pesante custodia della macchina fotografica. La ricetrasmittente prese vita, mentre i funzionari di polizia convergevano sulla zona. Rebus superò un ristorante e una caffetteria, coppie che si tenevano per mano e bambini che mangiavano gelati. Pecari, otarie, pellicani: erano tutti in fondo al pendio, cosa che suscitò in lui un empito di gioia, mentre la strana andatura dell'uomo (una gamba doveva essere un po' più corta dell'altra) contribuiva a ridurre la distanza. Il sentiero si restringeva proprio nel punto in cui la folla era più compatta. Rebus si chiese che cosa stesse provocando quell'ingorgo, poi sentì uno scroscio d'acqua,
seguito da acclamazioni e applausi. «Gabbia dei leoni marini!» gridò nella ricetrasmittente. L'uomo si voltò di tre quarti, vide l'apparecchio contro la bocca di Rebus, tornò a guardare davanti a sé e scorse teste e corpi, che nascondevano gli altri poliziotti diretti verso di lui. Adesso nei suoi occhi brillava la paura, che aveva preso il posto della freddezza calcolatrice di prima. Gli avvenimenti gli stavano sfuggendo di mano. Con Rebus alle calcagna, quasi sul punto di afferrarlo, l'uomo spinse di lato due spettatori e si arrampicò sul basso muretto di pietra. Sull'altro lato dello specchio d'acqua c'era una roccia, sulla cui sommità si trovava una guardiana dello zoo, china su due secchi di plastica nera. Rebus notò che, alle spalle della guardiana, non c'erano praticamente spettatori, perché il rilievo roccioso impediva di vedere i leoni marini. Schivando la folla, il fotografo poteva scavalcare il muro all'altra estremità del recinto e trovarsi a due passi dall'uscita. Rebus imprecò tra i denti, sollevò un piede all'altezza del muretto e vi montò sopra. I presenti emisero qualche fischio d'ammirazione, anche qualche grido d'incoraggiamento, mentre le videocamere venivano alzate per registrare le buffe acrobazie dei due uomini che s'incamminavano cautamente lungo i ripidi pendii. Lanciando un'occhiata all'acqua, Rebus scorse un movimento rapido e sentì le grida d'avvertimento della guardiana mentre un leone marino risaliva scivolando le rocce, diretto verso di lei. Il nero corpo, liscio e lucente, indugiò il tempo necessario per accogliere accuratamente in bocca un pesce, poi si girò e si lasciò cadere di nuovo in acqua. Non sembrava né troppo grosso né troppo cattivo, ma la sua apparizione aveva innervosito la preda di Rebus. L'uomo si voltò e la custodia della macchina fotografica gli scivolò lungo il braccio. Lui la riafferrò, mettendosela a tracolla, e parve intenzionato a tornare sui propri passi, ma, nello scorgere il suo inseguitore, cambiò di nuovo idea. Intanto la guardiana aveva afferrato la propria ricetrasmittente, per mettere in allerta il servizio di sorveglianza. Gli occupanti dello specchio d'acqua cominciavano però a spazientirsi. La superficie liquida accanto a Rebus sembrò ripiegarsi su se stessa e ribollire. Uno spruzzo schiumoso colpì Rebus sul viso mentre qualcosa di enorme, nero come l'inchiostro, balzava dalle profondità, oscurando il sole, e atterrava sulle rocce. Dalla folla si alzò un urlo quando il leone marino maschio, la cui mole era quattro o cinque volte quella del suo cucciolo, si guardò intorno in cerca di cibo, emettendo dal naso rumorosi sbuffi. Mentre l'animale spalancava la bocca e faceva un verso minaccioso, il fotografo cacciò un urlo e perse l'equilibrio, finendo in acqua con macchina foto-
grafica e tutto il resto. Nella vasca due sagome - madre e figlio - puntarono verso l'intruso. La guardiana prese a soffiare nel fischietto che portava appeso al collo, proprio come un arbitro di calcio di fronte a un fallaccio. Il leone marino fissò Rebus per un'ultima volta, poi si rituffò nella vasca, dirigendosi verso la compagna intenta a sferrare piccoli colpi al nuovo arrivato. «Dannazione», urlò Rebus, «lanciate qualche pesce!» La guardiana afferrò il suggerimento e con un calcio rovesciò un secchio di cibo; subito i tre leoni marini si diressero dalla sua parte. Rebus ne approfittò per tuffarsi in acqua, a occhi chiusi, e, afferrato l'uomo, lo trascinò fino alle rocce. Due spettatori accorsero in suo aiuto, seguiti da un paio di poliziotti in borghese. A Rebus bruciavano gli occhi. Nell'aria ristagnava un forte odore di pesce crudo. «Si attacchi qui», disse qualcuno, porgendogli la mano. Rebus si lasciò issare all'asciutto, poi sfilò la macchina fotografica dal collo dell'uomo grondante. «Ti ho beccato», esclamò. Poi, inginocchiato sulle rocce, scosso dai brividi, vomitò nella vasca. 2 L'indomani mattina, Rebus si trovò circondato dai ricordi. Non dai suoi, bensì da quelli del sovrintendente capo: fotografie incorniciate che riempivano ogni angolo del piccolo ufficio. Ma i ricordi hanno una peculiarità: agli occhi di un estraneo non significano nulla. Rebus quindi osservava quelle foto come se fossero esposte in un museo. Bambini, un'infinità di bambini. I figli del sovrintendente capo, coi volti che si facevano sempre più adulti da un anno all'altro, e poi i nipoti. Gli venne il sospetto che non fosse stato il suo superiore a scattare quelle foto. Si trattava di regali che lui aveva ritenuto necessario portare in ufficio. A suscitare quel dubbio era la disposizione delle immagini: le foto sulla scrivania erano rivolte in modo tale che nella stanza poteva vederle chiunque, escluso l'uomo che si sedeva a quel tavolo ogni giorno. E ce n'erano altre sul davanzale della finestra alle spalle della scrivania (anche per quelle valeva lo stesso discorso) e altre ancora, più numerose, in cima a un classificatore posto in un angolo della stanza. Per trovare conferma alla propria teoria, Rebus si sedette nella sedia del sovrintendente capo Watson. No, le foto non erano per lui; erano per i visitatori. E a quei visitatori
dicevano che Watson era un amante della famiglia, un individuo retto, una persona che aveva fatto qualcosa di valido nella vita. Invece di rendere più umano l'aspetto tetro di quell'ufficio, se ne stavano lì, come tanti quadri di un'esposizione. Alla raccolta era stata aggiunta una nuova foto. Era vecchia, vagamente sfocata, come se un leggero spostamento della macchina fotografica avesse sbavato i contorni. Margini seghettati, bordino bianco, la firma illeggibile del fotografo in un angolo. Un gruppo di famiglia: il padre in piedi, con una mano posata, in un chiaro gesto di possesso, sulla spalla della moglie seduta, la quale reggeva in grembo un bambinetto. L'altra mano del padre stringeva la spalla del blazer di un adolescente, dai capelli tagliati a spazzola e gli occhi scintillanti. Era evidente una certa tensione: il ragazzo cercava di sottrarre la spalla alle grinfie paterne. Con la foto in mano, Rebus si avvicinò alla finestra, stupito da tanta solennità ingessata. Lui stesso si sentiva come inamidato, nell'abito scuro di lana, la camicia bianca e la cravatta nera. Nere anche le calze e le scarpe, queste ultime lucidate di tutto punto quella mattina, come prima cosa. Fuori pioveva a dirotto, minacciosamente. Il clima giusto per un funerale. Il sovrintendente capo Watson entrò nella stanza, con la sua tipica andatura indolente dietro la quale si nascondeva un carattere energico. Parlando alle sue spalle, i poliziotti lo chiamavano «il Caporale», in riferimento alle sue origini contadine: veniva infatti dalle regioni agricole del Nord. Ricordava anche, in qualche modo, i tori di razza Aberdeen, neri e con le corna tagliate. Indossava la sua migliore uniforme, teneva il berretto in una mano e nell'altra una busta bianca, formato A4. Appoggiò entrambe le cose sulla scrivania, mentre Rebus rimetteva a posto la foto, in modo che fosse rivolta verso la sedia del Caporale. «È lei questo ragazzo, signore?» chiese, indicando l'adolescente dall'aria imbronciata. «Sì, sono io.» «Ha un bel coraggio a farsi vedere da noi in calzoncini corti.» Ma col Caporale non c'era modo di scantonare. Le vene rosse e turgide che spiccavano sul viso di Watson suggerivano a Rebus tre sole spiegazioni: sforzo, alcol o rabbia. Ma il respiro era regolare, perciò la prima ipotesi andava scartata. E quando il Caporale beveva whisky, non si notava sul suo volto nessun turgore: tutta la faccia assumeva un colorito rosato e sembrava contrarsi fino a diventare simile a quella di uno gnomo. Perciò rimaneva soltanto la rabbia.
«Arriviamo al punto», disse Watson, dando un'occhiata all'orologio. Nessuno dei due aveva molto tempo a disposizione. Aprì la busta e fece cadere sul ripiano della scrivania un pacchetto di foto, che slegò, spingendole verso Rebus. «Da' un'occhiata.» Rebus le passò in rassegna. Erano le foto dell'apparecchio di Darren Rough. Il Caporale infilò la mano nel cassetto e ne estrasse un dossier. Rebus continuò a guardare le immagini. Animali dello zoo, nelle loro gabbie e al di là delle recinzioni. E, in qualche foto (non in tutte, ma in buona parte), bambini. L'obiettivo si era appuntato su di loro, mentre chiacchieravano o mangiavano dolciumi o facevano smorfie agli animali. Rebus provò un improvviso sollievo e lanciò un'occhiata al Caporale, aspettando la conferma che ancora gli mancava. «Secondo il signor Rough», stava dicendo Watson, scorrendo un foglio del dossier, «le immagini erano destinate a far parte di un servizio fotografico.» «C'era da scommetterci.» «Su una giornata nello zoo di Edimburgo.» «Già.» Il Caporale si schiarì la voce. «È iscritto a un corso serale di fotografia. Ho controllato ed è vero. È altrettanto vero che doveva fare un servizio sul giardino zoologico.» «E in quasi ogni foto c'è un bambino.» «In meno della metà, a voler essere onesti.» Rebus fece scivolare le stampe sul ripiano della scrivania. «Non scherziamo.» «John, Darren Rough è uscito di prigione da quasi un anno e finora non ha commesso nulla di riprovevole.» «Ho sentito dire che si era trasferito a sud.» «E ora è tornato.» «Quando mi ha visto, se l'è data a gambe.» Il Caporale si limitò a fissare i suoi incartamenti. «Qui non c'è nulla, John», disse. «Un tipo come Rough non va allo zoo per vedere uccelli e api, mi dia retta.» «Non è stato neppure lui a scegliere il soggetto. Gliel'ha affibbiato il suo insegnante.» «Già. Rough avrebbe preferito un parco giochi.» Rebus sospirò. «Che
dice il suo avvocato? Rough non ha mai perso tempo a tirare in ballo un legale.» «Il signor Rough vuole semplicemente essere lasciato in pace.» «La stessa pace che ha concesso a quei bambini?» Il Caporale si appoggiò allo schienale della sedia. «John, la parola 'espiazione' ti dice qualcosa?» Rebus scosse la testa. «Per lui non vale.» «Come fai a saperlo?» «Ha mai visto un leopardo cambiare pelle?» Il Caporale controllò l'ora. «So che tra voi due c'è stata una storia.» «Non ero io quello contro cui Rough ha sporto denuncia.» «No», ribatté il Caporale. «Si trattava di Jim Margolies.» Persi nei propri pensieri, i due uomini lasciarono che quelle parole rimanessero per qualche istante sospese nell'aria. «Allora non facciamo nulla?» chiese infine Rebus. La parola «espiazione» gli ronzava nel cervello. Per quanto ne sapeva, l'unico a utilizzare quel termine era un suo amico prete: per indicare la riconciliazione tra Dio e gli uomini ottenuta mediante la vita e la morte di Cristo. Nulla a che vedere con Darren Rough. Si chiese cosa stesse espiando Jim Margolies quando si era lanciato nel vuoto dai Salisbury Crags... «Non ci sono gli estremi per un'incriminazione.» Il Caporale frugò nel cassetto in basso della scrivania e ne estrasse una bottiglia e due bicchieri. Whisky di malto. «Non so se anche per te è lo stesso, ma io prima di un funerale ne ho bisogno.» Con un cenno di assenso, Rebus osservò il suo superiore che versava da bere. Rumore di cascata, un torrente di montagna. Usquebaugh in lingua gaelica. Uisge: «acqua»; beatha: «vita». Acqua di vita. Beatha aveva una certa assonanza con la parola inglese birth, nascita. Ogni sorso faceva rinascere la mente di Rebus. Ma, come diceva il suo medico, ogni goccio d'alcol era anche un pizzico di morte. Sollevò il bicchiere all'altezza del naso e annuì. «Un altro brav'uomo che se n'è andato», commentò il Caporale. Di colpo, con la coda dell'occhio, Rebus notò che nella stanza avevano preso a roteare alcuni fantasmi; e tra tutti spiccava Jack Morton. Jack, il suo collega morto tre mesi prima. Come cantavano i Byrds: He Was a Yriend of Mine. Un amico che rifiutava di rimanere sepolto. Il Caporale seguì lo sguardo di Rebus, ma non vide nulla. Tracannò il contenuto del bicchiere, poi rimise a posto la bottiglia.
«Poco e spesso», commentò. Poi, come se il whisky avesse aperto tra loro una possibilità di dialogo, aggiunse: «C'è modo e modo, John». «Per che cosa, signore?» Jack era svanito nei vetri della finestra. «Per affrontare la situazione.» L'alcol stava già facendo effetto sul volto del Caporale, dandogli un aspetto triangolare. «Dopo quanto è successo a Jim Margolies... Be', alcuni di noi hanno cominciato a chiedersi se questo lavoro non provochi una tensione eccessiva.» Indugiò. «Troppi errori, John.» «Sto attraversando un periodo nero, tutto qui.» «Un periodo nero ha le sue cause.» «Per esempio?» Il Caporale lasciò la domanda senza risposta, forse perché sapeva che ci stava già pensando Rebus, per conto suo, a trovarne una: la morte di Jack Morton, la figlia Sammy in sedia a rotelle. E il whisky era un supporto terapeutico che si poteva permettere, se non altro in termini economici. «Ce la farò», esclamò Rebus alla fine, senza convincere neppure se stesso. «Da solo?» «Perché no?» Il Caporale si strinse nelle spalle. «E nel frattempo tutti noi dovremo sopportare i tuoi errori?» Errori: come quello di aver fatto convergere tutti gli agenti su Darren Rough, cioè non sull'uomo che stavano cercando di acciuffare. Permettendo così all'avvelenatore di avvicinarsi tranquillamente ai suricati: una mela all'arsenico nella loro gabbia. Per fortuna un guardiano era passato di lì un attimo dopo e l'aveva presa prima che gli animali la mangiassero. L'uomo sapeva della minaccia incombente e aveva portato il frutto al laboratorio di analisi. Esito: presenza di veleno per topi. Rebus aveva sbagliato. «Su», disse il Caporale, dopo un'ultima occhiata all'orologio, «andiamo.» Così, ancora una volta, Rebus non era riuscito a parlare, a dire come avesse ormai perso ogni dedizione al lavoro, come non nutrisse più nessun ottimismo sul ruolo svolto dagli agenti, sulla necessità della loro esistenza, persino. Non aveva trovato il modo di spiegare fino a che punto quei pensieri lo spaventassero, gli impedissero di dormire o gli popolassero il son-
no d'incubi. Di raccontare degli spettri che lo ossessionavano, anche di giorno. Di confessare che non voleva più fare il poliziotto. Jim Margolies aveva avuto tutto dalla vita. Più giovane di Rebus di dieci anni, aveva fatto una carriera rapidissima. Gli mancava soltanto di apprendere qualche lezione finale, poi la carica d'ispettore sarebbe stata sua, come una pelle definitiva. Brillante, con aspetto e modi accattivanti, abile stratega, sempre attento ai rapporti all'interno del gruppo. Un bell'uomo, anche, che si teneva in forma giocando a rugby per la sua vecchia scuola, Boroughmuir. Veniva da una famiglia della buona borghesia e aveva molte conoscenze nei quartieri alti di Edimburgo, una moglie elegante e piena di fascino, una figlioletta di una bellezza conclamata. Si era accattivato le simpatie dei colleghi e aveva alle spalle un invidiabile curriculum di arresti di criminali riconosciuti tali. La famiglia viveva tranquillamente a Grange, frequentava la chiesa locale, sembrava, sotto tutti i punti di vista, un piccolo nucleo perfetto. Il Caporale seguitava a recitare l'orazione funebre a voce tanto bassa che Rebus quasi non riusciva ad afferrare le parole. Aveva cominciato mentre si recavano in chiesa, aveva continuato durante la messa e ora, in attesa che la salma venisse tumulata, stava terminando. «Ti rendi conto, John? Aveva tutto e va a fare una cosa del genere. Che cosa spinge un uomo... voglio dire, cosa gli passa per la testa? Ispirava rispetto persino ai funzionari di polizia più anziani... intendo quegli esseri ormai cinici e incalliti a un passo dalla pensione. Gente che in vita sua ne ha passate di tutti i colori, ma che uno come Jim Margolies non l'ha visto mai.» Rebus e il Caporale - in rappresentanza della loro stazione di polizia - si trovavano in fondo al gruppo di persone intervenute alle esequie. Un gruppo nutrito, senza dubbio. C'erano parecchi personaggi importanti, fianco a fianco con giocatori di rugby, fedeli che frequentavano la stessa chiesa, vicini di casa. Più tutti i familiari. In piedi accanto alla fossa, la vedova vestita di nero, che cercava di controllarsi. Aveva preso in braccio la figlia. Questa, in un abito di pizzo bianco, la capigliatura bionda lunga e folta, riccioluta, il viso lucido, salutava con la mano il feretro di legno. Per via dei capelli biondi e del vestito bianco, sembrava un angelo. Forse l'intenzione era stata proprio quella. Certamente spiccava al di sopra della folla. C'erano anche i genitori di Margolies. Il padre aveva l'aria di un militare
in congedo, con la schiena ritta come una vecchia pendola, ma si aggrappava, con mani tremanti, al pomo d'argento di un bastone da passeggio. La madre, una donna dall'aspetto fragile, aveva gli occhi pieni di lacrime dietro il velo che le scendeva fino alla bocca umida. Aveva perso entrambi i figli. Secondo il Caporale, anche la sorella di Jim si era uccisa, alcuni anni prima. Aveva alle spalle una storia d'instabilità mentale e si era tagliata i polsi. Rebus tornò a guardare i due vecchi, sopravvissuti a entrambi i figli. Il pensiero corse alla sua, di figlia, chiedendosi quali cicatrici avesse lei, là dove lo sguardo non riusciva ad arrivare. Altri parenti circondavano i due genitori, cercando conforto o pronti a offrire sostegno... Rebus non avrebbe saputo dire quale delle due ipotesi fosse vera. «Una bella famiglia», gli stava bisbigliando il Caporale. Rebus percepì quasi una zaffata d'invidia. «Hannah ha vinto alcuni concorsi di bellezza.» Hannah era la bambina. Aveva otto anni, aveva appurato Rebus. Con gli stessi occhi azzurri del padre e una carnagione perfetta. La vedova si chiamava Katherine. «Dio mio, che terribile spreco.» Rebus pensò alle fotografie del Caporale, al modo in cui gli individili s'incontrano e allacciano rapporti, formando un disegno che si ricollega ad altri disegni, mentre i colori si fondono oppure creano netti contrasti. Ti fai un giro di conoscenze, ti sposi ed entri in una nuova famiglia, metti al mondo figli che giocano con quelli di altri genitori. Vai al lavoro, incontri colleghi che diventano tuoi amici. A poco a poco la tua identità si fa composita, non hai più nulla di individuale, eppure, in un certo senso, sei ancora più forte. Non sempre però funziona così. Possono sorgere conflitti: magari a causa del lavoro, o perché ti rendi lentamente conto di aver preso, tempo addietro, una decisione sbagliata. Rebus l'aveva sperimentato di persona: nella sua vita, dovendo scegliere tra matrimonio e professione, aveva dato la preferenza a quest'ultima, ricacciando la moglie in un canto. E lei se n'era andata, portandosi via la figlia. In quel momento si rese conto di aver fatto la scelta giusta per il motivo sbagliato, comprese che avrebbe dovuto ammettere i propri difetti sin dall'inizio. Il suo lavoro gli aveva semplicemente fornito una valida scusa per tirarsi fuori dei guai. Pensò a Jim Margolies, che nell'oscurità si era gettato in braccio alla morte. Si chiese cosa l'avesse spinto a prendere quell'ultima, drammatica decisione. Nessuno sembrava averne la minima idea. Nel corso degli anni,
Rebus aveva avuto a che fare con un'infinità di suicidi, da quelli folli a quelli assistiti, con tutta la gamma intermedia. Ma aveva sempre trovato una sorta di spiegazione, un punto di rottura che veniva raggiunto oppure una sensazione, profondamente radicata, di perdita o di fallimento o d'angoscia. «Ho annegato la mia vita nella paura», come cantano i Leaf Hound. Ma per quanto riguardava Jim Margolies... non scattava nulla. Quella morte era assurda. La vedova, i genitori, i colleghi di lavoro... nessuno era stato in grado di fornire il minimo spunto per una spiegazione. Era stato dichiarato idoneo a rivestire le cariche più alte. Tutto andava perfettamente bene sia sul fronte del lavoro sia su quello familiare. Amava la moglie, la figlia. Non aveva preoccupazioni economiche. Eppure doveva avere un problema. Dio mio, che terribile spreco. E quale crudeltà: lasciare che tutti non soltanto si disperassero per la sua morte, ma si chiedessero anche, angosciati, se la colpa non ricadesse almeno in parte su di loro. Distruggere la propria vita, quando la vita è tanto preziosa. Rebus guardò verso gli alberi e scorse Jack Morton, in piedi, con l'aspetto giovanile di quando loro due si erano incontrati per la prima volta. Stavano gettando pugni di terra sul coperchio del feretro, un ultimo, futile tentativo per richiamare in vita il morto. Il Caporale s'incamminò verso l'uscita, le mani incrociate dietro la schiena. «Non mi basterà la vita per capire», disse. «Non ci si rende mai conto di quanto si è fortunati», replicò Rebus. 3 Giunto in cima ai Salisbury Crags, si fermò. Il vento era così forte da costringerlo a sollevare il bavero della giacca. Era andato a casa a togliersi l'abito nero e sarebbe dovuto tornare subito alla stazione di polizia di St. Leonard (da lassù, riusciva a vederla), ma qualcosa l'aveva spinto a fare quella deviazione. Dietro e sopra di lui, poche anime resistenti al gelo avevano raggiunto la sommità dell'Arthur's Seat. Come ricompensa: la vista panoramica, più il pizzicore alle orecchie, che sarebbe durato per ore. Rebus, che soffriva di vertigini e aveva paura del vuoto, non si avvicinò troppo allo strapiombo. Il panorama era stupendo. Era come se Dio avesse appoggiato la mano su Holyrood Park, appiattendone una parte, ma lasciando quel puro agglo-
merato roccioso, in ricordo delle origini della città. Jim Margolies era saltato da lì. Oppure un'improvvisa folata di vento l'aveva trascinato di sotto: ipotesi meno plausibile, ma più facile da accettare. La vedova aveva ribadito che lui «stava passeggiando, semplicemente passeggiando» e che nel buio aveva messo un piede in fallo. Tuttavia una simile versione sollevava un'infinità di domande senza risposta. Cosa l'aveva indotto a lasciare il letto nel bel mezzo della notte? Se aveva qualche preoccupazione, perché, per rimuginarci sopra, aveva sentito il bisogno di salire in cima ai Salisbury Crags, a svariati chilometri da casa? Abitava infatti a Grange, in quella che era stata la dimora dei suoceri. Quella notte pioveva, eppure Jim non aveva preso l'auto. Un uomo disperato non si rende conto che si sta bagnando fino al midollo? Guardando in basso, Rebus scorse l'area sulla quale un tempo sorgeva la fabbrica di birra e che tra breve avrebbe ospitato la sede del nuovo parlamento scozzese. Il primo, dopo trecento anni, situato accanto a un parco. Nelle immediate vicinanze si trovava il quartiere popolare di Greenfield, un compatto dedalo di edifici sviluppati in altezza, alloggi per la povera gente. Si chiese perché i Crags dovessero apparire tanto più impressionanti dei grattacieli creati dall'ingegno umano, poi si frugò in tasca, alla ricerca di un foglio di carta piegato. Verificò un indirizzo, tornò a guardare Greenfield e si rese conto di dover fare un'altra deviazione. I torreggianti edifici di Greenfield, dai tetti piatti, erano stati costruiti a metà degli anni '60 e dimostravano tutta la loro età. Macchie scure sbocciavano sull'intonaco scolorito. Dai tubi di gronda l'acqua gocciolava sulla pavimentazione piena di crepe. Le intelaiature delle finestre lasciavano cadere schegge di legno marcito. Il muro esterno di un appartamento a pianterreno, con le finestre sbarrate da assi, era coperto di graffiti che identificavano l'inquilino di un tempo come «porco spacciatore». Nessun assessore all'edilizia aveva mai abitato in quegli edifici, come nessun esperto di alloggi popolari e nessun architetto civile. Le uniche due cose di cui il consiglio municipale si fosse preoccupato erano state assegnare gli appartamenti a persone con problemi economici e comunicare a tutti che era prevista l'installazione di un impianto di riscaldamento centralizzato. Il quartiere era stato costruito sul fondo piatto di un avvallamento, cosicché i Salisbury Crags incombevano sulla zona come presenze mostruose. Rebus ricontrollò l'indirizzo sul foglio. Gli era capitato altre volte di avere a che fare con qualche abitante di Greenfield. Non era il peggiore
dei quartieri cittadini, ma non tutto filava liscio. Ormai erano le prime ore del pomeriggio e nelle strade regnava il silenzio. Qualcuno aveva lasciato una bicicletta, priva della ruota anteriore, nel bel mezzo della carreggiata stradale. Poco più in là c'erano due carrelli per la spesa, l'uno addossato all'altro come se fossero intenti a scambiarsi pettegolezzi locali. Al centro di sei costruzioni di undici piani ciascuna si stendevano quattro file di case a schiera, con tanto di giardino grande quanto un fazzoletto e basse staccionate di legno. La maggior parte delle finestre era coperta da tendine a rete e sul muro sopra ogni porta si vedeva un congegno antifurto. Un angolo della distesa asfaltata che si apriva tra gli edifici più alti era stato trasformato in un parco giochi. Un ragazzino stava trascinando un coetaneo seduto su una slitta, facendo finta che ci fosse la neve, benché le lame stridessero, raschiando il terreno. Rebus gridò: «Cragside Court?» e il ragazzo sulla slitta agitò una mano in direzione di uno dei caseggiati. Quando Rebus raggiunse la costruzione, notò che qualcuno aveva infierito sul cartello col nome dell'edificio, trasformandolo in una chiara allusione a una lurida fogna. Una finestra del secondo piano si spalancò. «Non si disturbi a salire», urlò una voce di donna. «Non c'è.» Rebus fece un passo indietro e inclinò la testa verso l'alto. «Quale persona starei cercando, secondo lei?» «Vuole fare il furbo?» «No. Semplicemente non sapevo che in questo quartiere ci fosse una chiaroveggente. Starei cercando suo marito o il suo compagno?» La donna lo fissò e decise di aver parlato troppo in fretta. «Non importa», disse, ritirando la testa e chiudendo la finestra. C'era un citofono, sul quale erano però segnati soltanto i numeri degli appartamenti, senza nomi. Rebus spinse la porta: era aperta. Attese un paio di minuti prima che arrivasse l'ascensore, poi aspettò che risalisse, lentamente e con una sorta di tremolio, fino al quinto piano. Si avviò in un ballatoio esterno, esposto ai venti, superando le porte d'ingresso di una mezza dozzina di appartamenti finché non si trovò davanti al 5/14 di Cragside Court. C'era una finestra, però schermata da un telo azzurro che sembrava un lenzuolo consunto. La porta era leggermente scardinata: forse per qualche tentativo d'effrazione fallito o semplicemente perché la gente la prendeva a calci in mancanza di un campanello o di un picchiotto. Nessuna targhetta col nome, ma ciò non aveva importanza. Rebus sapeva chi fosse l'inquilino. Darren Rough.
Lo sapeva anche se era la prima volta che gli capitava di andarlo a trovare. Quando, quattro anni prima, aveva collaborato a istruire il caso contro di lui, Rough viveva in un appartamento in Buccleuch Street. Visto che per il momento era tornato a stare a Edimburgo, Rebus era impaziente di fargli sapere quanto fosse il benvenuto. Inoltre aveva un paio di domande da rivolgergli, domande che riguardavano Jim Margolies... C'era un unico piccolo problema: aveva l'impressione che l'appartamento fosse vuoto. Bussò, senza troppa violenza, tanto alla porta quanto alla finestra. Non ottenendo risposta, si chinò a sbirciare dalla fessura per la posta, ma si accorse che era stata bloccata dall'interno. O Rough non voleva che qualcuno guardasse nell'appartamento, oppure gli era capitato di vedersi buttar dentro qualcosa d'indesiderato. Rebus si raddrizzò, poi si girò, appoggiando le braccia sul corrimano del ballatoio. Si ritrovò a fissare, di sotto, il campo giochi. Bambini: un quartiere come Greenfield doveva esserne pieno. Si voltò di nuovo a osservare l'alloggio di Rough. Niente graffiti sui muri o sulla porta, nulla che identificasse l'inquilino come uno «schifoso pedofilo». Giù, intanto, la slitta aveva affrontato troppo in fretta una curva, facendo volare a terra il passeggero. Qualche piano sotto quello in cui si trovava Rebus una finestra fu aperta di schianto. «Ti ho visto, Billy Horman! L'hai fatto apposta!» La stessa donna di prima, ma le sue parole erano rivolte adesso al ragazzo che stava tirando la slitta. «Neanche per sogno!» strillò lui di rimando. «E invece sì, stronzo che non sei altro! Se ci riprovi, t'ammazzo.» Poi, cambiando tono di voce: «Stai bene, Jamie? Te l'avevo detto di non giocare con quel piccolo bastardo. Ora torna a casa!» Il ragazzino a terra si strofinò una mano sotto il naso (come atteggiamento di sfida non gli venne di meglio), poi si avviò verso il caseggiato, lanciando un'occhiata in tralice al compagno di giochi. I loro sguardi s'incrociarono soltanto per un secondo, sufficiente però a dimostrare che loro due erano ancora amici, che il mondo degli adulti non avrebbe mai potuto infrangere quel legame. Rebus seguì con gli occhi il ragazzo che tirava la slitta, Billy Horman, mentre si allontanava a passi strascicati, poi scese i tre piani. Trovò facilmente l'appartamento della donna. La sentiva sbraitare già da una trentina di metri di distanza. Si chiese se fosse un'inquilina «difficile»; aveva l'impressione che pochi avrebbero osato farle qualche rimostranza... La porta era solida, ridipinta da poco in un blu scuro, con uno spioncino
bene in evidenza. Alla finestra c'erano tendine a rete, che s'incresparono quando la donna andò a controllare chi fosse il visitatore. Non appena lei aprì la porta, il figlio si lanciò fuori e imboccò di corsa il ballatoio. «Vado al negozio, mamma!» «Torna subito indietro!» Il ragazzo finse di non aver sentito e scomparve dietro l'angolo. «Dio, dammi la forza di tirargli il collo», sbottò la madre. «Scommetto che lei gli vuole un bene dell'anima.» La donna lanciò a Rebus un'occhiata ostile. «Perché non si fa gli affari suoi?» «Poco fa non ha risposto alla mia domanda: marito o compagno?» Lei incrociò le braccia. «Figlio maggiore, se proprio lo vuol sapere.» «E ha pensato che fossi qui per lui?» «Lei è un poliziotto, no?» E sbuffò di fronte al mancato assenso di Rebus. «Come si chiama suo figlio?» «Calumn Brady.» «Lei è la madre di Cal?» ribatté Rebus. Conosceva Cal Brady di nome: un autentico duro. Ma aveva sentito parlare anche della madre. La donna, che aveva ai piedi un paio di pantofole scamosciate, doveva essere sul metro e settanta. Ben piantata, braccia e polsi robusti, un volto per il quale era stato deciso da tempo che non c'era trucco che potesse renderlo più gradevole. I folti capelli platinati, anche se castani all'attaccatura, ricadevano ai lati del viso, divisi da una scriminatura centrale. Il corpo era inguainato in una sorta di guscio di raso azzurro cupo, con una striscia argentea che correva lungo le braccia e le gambe. «Allora non è venuto per Cal?» disse la donna. Rebus scosse la testa. «No, a meno che lei non ritenga che abbia combinato qualche guaio.» «Allora che sta cercando?» «Ha mai avuto a che fare con uno dei suoi vicini, un giovane chiamato Darren Rough?» «A che piano abita?» Rebus non rispose. «Qui c'è sempre un gran viavai di gente. L'assistenza sociale la sistema in questi alloggi per un paio di settimane e poi Dio solo sa che fine fa, se finisce nella lista degli scomparsi o riesce a cavarsela.» Storse il naso. «Che aspetto ha?» «Non importa», disse Rebus. Jamie era tornato nel parco giochi - dell'amico non c'era più traccia -, e aveva cominciato a correre in tondo, tirando
la slitta. Rebus ebbe l'impressione che avrebbe potuto continuare a correre in quel modo per tutto il giorno. «Niente scuola, oggi, per Jamie?» chiese, tornando a girarsi verso la donna. «Non sono affari suoi», rispose la signora Brady, sbattendogli la porta in faccia. 4 Rientrato alla stazione di polizia di St. Leonard, Rebus cercò sul computer la scheda di Calumn Brady. Benché avesse soltanto diciassette anni, Cal possedeva già un curriculum di tutto rispetto: aggressione, taccheggio, ubriachezza molesta e varie infrazioni all'ordine pubblico. Per il momento nulla stava a indicare che Jamie intendesse seguire le orme del fratello. Invece la madre, Vanessa Brady, meglio nota come «Van», aveva avuto qualche noia con la giustizia, a causa di alcune liti coi vicini, degenerate in scontri violenti. L'avevano inoltre incastrata quando aveva fornito un falso alibi a Cal, accusato di aggressione. Nessun cenno a un eventuale marito. Fischiettando We Are Family, Rebus si avviò al bancone per chiedere al sergente di turno se sapeva chi fosse il poliziotto di quartiere a Greenfield. «Tom Jackson», gli fu risposto. «E so anche dov'è, perché l'ho visto non più di due minuti fa.» Tom Jackson si trovava nel parcheggio delle auto sul retro della stazione di polizia e stava tirando le ultime boccate da una sigaretta. Rebus lo raggiunse, se ne accese una e ne offrì un'altra a Jackson, che scosse la testa, dicendo: «Cerco di limitare il fumo, signore». Era un uomo sui quarantacinque anni, con un torace rotondeggiante e capelli brizzolati, come i baffi. Aveva occhi neri, che gli conferivano un'aria sempre vagamente scettica. E questo, a suo giudizio, era senza dubbio un vantaggio: gli bastava rimanere in silenzio e gli individui sospetti vuotavano il sacco più di quanto in realtà volessero, solo per compiacere quello sguardo. «Ho sentito dire che lavori ancora a Greenfield, Tom.» «Tutta colpa mia.» Fece cadere la cenere dalla sigaretta, poi si spazzolò qualche granello di polvere dall'uniforme. «Dovevo ottenere il trasferimento in gennaio.» «E che è successo?» «La gente del posto aveva bisogno di un Babbo Natale. Ogni anno in
chiesa ne appare uno. Per i bambini più poveri. E l'hanno chiesto al pollo qui presente.» «E allora?» «E allora l'ho fatto. Ci sono certi bambini... poveracci. Per poco non piangevo.» Il ricordo lo costrinse a rimanere qualche attimo in silenzio. «E così, dopo, qualcuno ha cominciato a farsi avanti, a darmi qualche soffiata.» Sorrise. «Sembrava di essere al confessionale. Vede, l'unico modo per ringraziarmi che hanno trovato era passarmi sottobanco qualche notizia.» Rebus sorrise. «Magari fregando i vicini.» «Di conseguenza, la mia percentuale di arresti ha avuto un'impennata. Perciò, maledizione, hanno deciso di lasciarmi lì, visto che di colpo ero diventato un genio.» «Sei vittima del tuo stesso successo, Tom.» Rebus inspirò, trattenendo il fiato nei polmoni mentre osservava la punta della sigaretta. Poi, esalando, esclamò: «Cristo, quanto mi piace fumare». «A me no. A volte parlo con qualche ragazzino, cercando di farlo stare lontano dalla droga, e intanto non vedo l'ora di tirare una boccata.» Scosse la testa. «Vorrei riuscire a smettere.» «Hai provato con le gomme?» «Un disastro, non riuscivo mai ad accenderle.» Scoppiarono a ridere insieme. «Immagino che prima o poi lei finirà di girarci intorno», riprese Jackson. «Alle gomme antifumo, dici?» «No, alla questione di cui vuole parlarmi.» «Sono così trasparente?» «Forse è soltanto il mio intuito sopraffino.» Rebus lanciò la cenere nel vento. «Poco fa sono stato a Greenfield. Conosci un certo Darren Rough?» «Non mi pare.» «Ho avuto un piccolo scontro con lui, allo zoo.» Jackson annuì, mentre spegneva il mozzicone. «Ho sentito qualcosa in proposito. Un pedofilo, eh?» «E abita nel Cragside Court.» Jackson fissò Rebus. «Questo non lo sapevo.» «Pare che neppure i vicini ne siano al corrente.» «Se così fosse, lo farebbero fuori.» «Magari qualcuno potrebbe lasciarsi sfuggire una parola...» L'altro si accigliò. «Mah, mi sembra un po' troppo. Gli metterebbero un
cappio al collo.» «Non esagerare, Tom. Tutt'al più lo costringerebbero a lasciare la città.» Jackson raddrizzò la schiena. «È questo che vuole?» «Ti va di avere un pedofilo tra i piedi?» Jackson ci pensò su. Estrasse il pacchetto di sigarette e stava per prenderne una, ma poi controllò l'orologio: la pausa fumo era terminata. «Mi ci faccia pensare un po'», concluse. «D'accordo, Tom.» Rebus lasciò cadere la sigaretta sull'asfalto. «Mi sono imbattuto in una vicina di Rough, Van Brady.» «Stia attento a non prendere quella donna dal lato cattivo.» «Perché, ha anche un lato buono?» «Lo si vede meglio quando si batte in ritirata.» Tornato al suo tavolo, Rebus telefonò ad alcuni uffici comunali e alla fine riuscì a mettersi in contatto con l'assistente sociale di Darren Rough: si chiamava Andy Davies. «È convinto di aver fatto una mossa saggia?» gli chiese. «Le dispiacerebbe farmi capire di che si tratta?» «Un pedofilo appena uscito di galera, un alloggio comunale a Greenfield, un'ottima vista sul campo giochi dei bambini.» «Cos'ha combinato?» chiese Davies, con un'improvvisa stanchezza nella voce. «Nulla per cui io possa sbatterlo in galera.» Rebus indugiò. «Non ancora, perlomeno. Le telefono adesso che c'è ancora tempo.» «Tempo per cosa?» «Per trasferirlo.» «E dove, esattamente?» «Che ne direbbe di Bass Rock?» «O magari di una gabbia nello zoo?» Rebus si appoggiò allo schienale della sedia. «Gliene ha parlato.» «Ma certo che me ne ha parlato. Sono il suo assistente sociale.» «Stava scattando foto ai bambini.» «È stato tutto spiegato al sovrintendente capo Watson.» Rebus girò lo sguardo intorno a sé, nell'ufficio. «Ma tali spiegazioni non hanno soddisfatto me, signor Davies.» «Allora le suggerisco di prendersela col suo superiore.» Non tentò neppure di nascondere l'irritazione. «Quindi non intende fare niente?»
«Dopotutto siete stati voi della polizia a volerlo qui!» Silenzio all'altro capo del filo, poi la voce di Rebus: «Come?» «Senta, non ho altro da aggiungere. Se la veda col suo sovrintendente capo. Chiaro?» La comunicazione fu interrotta. Rebus cercò Watson in ufficio, ma la segretaria gli comunicò che era fuori. Mordicchiò la penna, desiderando che la plastica avesse un certo tasso di nicotina. Siete stati voi della polizia a volerlo qui. Il commissario Siobhan Clarke, della sezione investigativa, era seduta alla sua scrivania, intenta a parlare al telefono. Rebus notò che, sulla parete alle sue spalle, era attaccata una cartolina con la foto di un leone marino. Mentre si avvicinava, vide anche che qualcuno aveva disegnato un fumetto che usciva dalla bocca dell'animale: «Vorrei Rebus per cena, grazie». «Davvero spiritosi», commentò, staccando la cartolina dalla parete. La Clarke intanto aveva finito la telefonata. «Io non c'entro», gli disse. Lui si guardò intorno. Il commissario Grant Hood stava leggendo un giornale scandalistico, il sergente George Silvers osservava con aria accigliata lo schermo del computer. D'un tratto nell'ufficio entrò l'ispettore Bill Pryde e Rebus capì di aver trovato l'uomo giusto. Capelli biondi ricciuti, baffi rossicci, un volto perfetto per una simile ragazzata. Rebus sventolò la cartolina nella sua direzione e osservò la faccia di Pryde assumere una falsa espressione d'innocenza ferita. Allora si avviò verso di lui, ma un telefono prese a squillare. «È per te», disse Pryde, battendo in ritirata. Mentre si avvicinava all'apparecchio, Rebus buttò la cartolina in un cestino. «Ispettore Rebus», rispose. «Oh, salve. Con ogni probabilità non ti ricordi di me.» Una risatina corse sul filo. «A scuola era lo scherzo preferito da tutti.» Rebus, impermeabile a ogni sorta di battuta, si appoggiò allo spigolo della scrivania. «Che vuoi dire?» chiese, domandandosi in quale stupido gioco stesse per impegolarsi. «Si tratta del mio nome: Mee.» L'uomo all'apparecchio glielo ripeté, compitando. «Brian Mee.» Nella mente di Rebus, una fotografia sfocata cominciò a svilupparsi: una bocca coi denti sporgenti, naso e guance coperti di lentiggini, capelli a caschetto. «Barney Mee?» esclamò. Un'altra risatina all'altro capo del filo. «Non ho mai capito perché tutti
mi chiamassero così.» Avrebbe potuto spiegarglielo lui: per via di Barney Rubble degli Antenati. E avrebbe potuto aggiungere: perché eri un fottuto piccolo bastardo. Ma si limitò a chiedere a Mee cosa poteva fare per lui. «Be', Janice e io pensavamo... In realtà è stata un'idea della mamma. Lei conosceva tuo padre. Entrambi i miei genitori lo conoscevano, ma il mio papà è morto, come il tuo. Tutti loro si ritrovavano a bere al Goth.» «Abiti ancora a Bowhill?» «Mai uscito di lì. Però lavoro a Glenrothes.» L'immagine si era fatta molto più chiara: un ragazzino che giocava abbastanza bene a calcio e aveva qualcosa che faceva venire in mente un terrier, anche per via dei capelli castano-rossicci. Trascinava la cartella sul terreno finché le cuciture non si spezzavano. Sempre con qualche grosso pezzo di croccante in bocca, che masticava in continuazione, col naso che gli colava. «Allora, che posso fare per te, Brian?» «È stata un'idea della mamma. Si è ricordata che lavori nella polizia di Edimburgo e ha pensato che forse potresti darci una mano.» «A fare cosa?» «Si tratta di mio figlio. Mio e di Janice. Si chiama Damon.» «Che cos'ha fatto?» «È scomparso.» «Scappato di casa?» «Direi piuttosto che si è volatilizzato. Si trovava in un locale notturno coi suoi amici, capisci...» «Hai provato a chiamare la polizia?» lo interruppe Rebus. «Intendo l'ufficio persone scomparse del Fifeshire.» «Il fatto è che il locale notturno si trova a Edimburgo. La polizia sostiene di aver dato un'occhiata, di avere chiesto in giro. Vedi, Damon ha diciannove anni. Secondo gli agenti, ha tutto il diritto di tagliare la corda, se è quello che vuole.» «Non hanno tutti i torti, Brian. Sono un sacco i giovani che se ne vanno di casa. Magari perché hanno combinato qualche pasticcio con una ragazza.» «Damon è fidanzato.» «Forse aveva paura del matrimonio.» «Helen è una ragazza deliziosa. Tra loro non c'è mai stato neanche un piccolo screzio.»
«Ha lasciato qualcosa di scritto?» «Ho già raccontato tutto alla polizia. Nessun biglietto. Non ha preso né indumenti né altro.» «Temi che gli sia accaduto qualcosa?» «Vogliamo soltanto sapere se sta bene...» La voce gli mancò. «La mamma parla sempre con affetto di tuo padre. In questa città lo ricordano tutti.» Ed è anche sepolto lì, pensò Rebus. Prese la penna. «Dammi qualche altro particolare, Brian, e vedrò che cosa posso fare.» Un po' più tardi, si avvicinò alla scrivania di Grant Hood e recuperò dal cestino della carta straccia il giornale appallottolato. Girando le pagine, trovò quello che cercava. In neretto, spiccava una scritta: «Avete una storia per noi? Telefonateci in redazione, giorno e notte». Seguiva il numero di telefono. Lo annotò nel suo taccuino. 5 Il silenzioso spettacolo danzante si avviò di nuovo. Le coppie si contorcevano e s'intrecciavano, i ballerini piegavano all'indietro la testa o si passavano le mani nei capelli, cercando con gli occhi futuri partner o ex amanti da ingelosire. Il monitor sembrava spandere su ogni cosa una patina viscida. Niente sonoro, soltanto immagini, con la videocamera che inquadrava la pista da ballo per passare subito dopo al bar principale, a quello secondario, al corridoio che portava alla toilette. Poi alla sala d'ingresso, all'entrata sulla strada e all'uscita sul retro. Questa dava su un vicolo melmoso in cui facevano bella mostra di sé vari bidoni della spazzatura e una Mercedes, che apparteneva al proprietario del club. Il locale, e nessuno sapeva perché, si chiamava Gaitano's, ma una parte della clientela l'aveva ribattezzato Guiser's, «Dal mascherato», ed era sotto questo nome che Rebus lo conosceva. Il club si trovava in Rose Street e, ogni sera, cominciava ad affollarsi intorno alle dieci e mezzo. L'estate precedente, qualcuno era stato accoltellato nel vicolo sul retro e il proprietario della Mercedes si era lamentato per via del sangue sulla sua vettura. Rebus era seduto su uno scomodo seggiolino in una piccola stanza, debolmente illuminata. Su un altro sedile come il suo, con la mano sul telecomando, c'era il commissario Phyllida Hawes.
«Rivediamo da capo», disse lei. Rebus si piegò leggermente in avanti. La ripresa saltò dal vicolo sul retro alla pista da ballo. «Attenzione, ci siamo.» Un'altra scena: il bar principale, una lunga coda di clienti in attesa di essere serviti. La Hawes fermò l'immagine. Più che in bianco e nero, era color seppia, come le fotografie dei morti. Dipendeva dalla luce artificiale, gli avrebbe spiegato in seguito. Fece scorrere un fotogramma alla volta, mentre Rebus indicava qualcosa sullo schermo, piegandosi talmente in avanti da toccare il pavimento con un ginocchio. Il suo dito toccò un viso. «Sì, è lui», ammise la collega. Sulla scrivania c'era uno smilzo dossier, dal quale Rebus aveva preso una fotografia che ora teneva accanto allo schermo. «Va bene», disse. «Procedi a velocità rallentata.» La videocamera di controllo inquadrò per altri dieci secondi il bar principale, poi passò all'altro bar, compiendo un giro di trecentosessanta gradi. Quando ritornò a quello principale, il gruppo di bevitori sembrava lo stesso di prima. La Hawes fermò di nuovo il nastro. «Lui non c'è più», osservò Rebus. «Potrebbe aver già preso da bere, ma lo escluderei. I due davanti a lui stanno ancora aspettando.» Rebus annuì. «Dovrebbe essere ancora qui.» Batté di nuovo il dito sullo schermo. «Accanto alla bionda», commentò la Hawes. Già, la bionda: capelli color platino cotonati, occhi e labbra scuri. Mentre tutti intorno a lei cercavano d'intercettare lo sguardo del personale dietro il banco, la donna aveva gli occhi rivolti di lato. Indossava un abito senza maniche. Trenta secondi di ripresa nel locale d'ingresso mostrarono un costante flusso di gente in entrata, ma nessuno che usciva. «Ho osservato attentamente l'intero nastro», disse la Hawes. «Mi dia retta, lui non c'è.» «Allora che fine ha fatto?» «Semplice: è uscito, mentre le telecamere erano rivolte altrove.» «E ha mollato i suoi amici senza avvisarli?» Rebus rilesse per l'ennesima volta il dossier. Damon Mee era partito con due amici, per trascorrere la notte nella metropoli. Era andato lui a ordinare da bere: due birre e una Coca-Cola, quest'ultima per chi avrebbe guidato l'auto al ritorno. L'avevano aspettato un po', quindi si erano messi a cercarlo. Reazione iniziale: avrà agganciato qualche tipa e se le sarà squagliata
senza dirlo a nessuno. Magari si trattava di una tardona, nulla di cui vantarsi. Ma poi Damon non era tornato a casa e i suoi genitori avevano cominciato a fare domande cui nessuno era in grado di rispondere. Semplice realtà: in base a ciò che avevano registrato le videocamere di sorveglianza, il venerdì precedente Damon Mee era svanito nel nulla tra le 23.44 e le 23.45. La Hawes spense l'apparecchio. Era una donna alta e magra che conosceva bene il proprio mestiere; non aveva apprezzato né la comparsa di Rebus nella stazione di polizia di Gayfield né le possibili conseguenze. «Non c'è nulla che lasci supporre un crimine», disse, sulla difensiva. «Ogni anno le persone scomparse denunciate sono oltre duecentocinquantamila e la maggior parte ricompare spontaneamente.» «Cerca di capire», la rassicurò Rebus, «lo sto facendo per un vecchio amico, tutto qui. Lui vuole soltanto avere la certezza che la polizia non sia rimasta con le mani in mano.» «Che altro possiamo fare?» Buona domanda; al momento, però, Rebus non conosceva la risposta. Si limitò a spazzolarsi la polvere dalle ginocchia dei pantaloni e chiese se poteva rivedere ancora una volta la registrazione. «E un'ultima cosa», aggiunse. «È possibile ottenere una stampa?» «Una stampa?» «Una foto della gente al bar.» «Non saprei... E poi ci servirebbe a poco, non le pare? Abbiamo già alcune foto di Damon, molto più chiare.» «Non è lui che m'interessa», disse Rebus mentre la videocassetta ricominciava a girare. «È la bionda, che l'ha seguito con gli occhi mentre usciva.» Quella sera, al volante della sua auto, attraversò Edimburgo diretto verso nord, pagò il pedaggio all'ingresso del Forth Road Bridge ed entrò nel Fife. Gli abitanti della contea si compiacevano di chiamarla «il Regno» e c'era chi sosteneva che fosse un Paese a sé stante, con un suo peculiare patrimonio linguistico e culturale. Per essere una regione così piccola, sembrava di una complessità quasi sconfinata, e tale era sempre parsa a Rebus, che vi aveva trascorso l'infanzia. Per gli estranei significava qualche panorama costiero e la cittadina di St. Andrews, oppure soltanto un tratto di autostrada tra Edimburgo e Dundee, ma il Fife centroccidentale degli anni giovanili di Rebus era una realtà molto diversa, governata dalle miniere di carbone
e dalle fabbriche di linoleum, dai cantieri navali e dalle aziende chimiche, un panorama industriale forgiato da necessità basilari e una popolazione lavorativa chiusa e circospetta, con l'umore più nero che fosse possibile trovare. Dall'ultima volta in cui Rebus c'era andato, erano state costruite nuove strade e demolita qualche altra pietra miliare, ma la contea non sembrava tanto diversa rispetto a una trentina di anni prima. E trent'anni, dopotutto, non costituivano un lasso di tempo così rilevante, se non in termini umani, e forse neppure in questi. Nell'entrare a Cardenden (Bowhill era sparita dai cartelli stradali già negli anni '60, anche se la gente del luogo la conosceva ancora come un villaggio distinto dalle frazioni circostanti), Rebus rallentò l'andatura, per verificare se i ricordi gli si presentassero dolci o amari. Poi scorse un take-away cinese e si disse: in entrambi i modi, ovviamente. Riuscì a trovare con relativa facilità la casa di Brian e Janice Mee: lo stavano aspettando in piedi accanto al cancello. Rebus era nato in una sorta di prefabbricato, ma aveva trascorso l'infanzia in una villetta a schiera come quella dei Mee. Brian si precipitò a spalancargli la portiera dell'auto e stava già cercando di stringergli la mano mentre Rebus era ancora intento a sganciarsi la cintura. «Dagli almeno il tempo di respirare!» sbottò la moglie. Era ancora ferma al cancello, le braccia incrociate sul petto. «Come stai, Johnny?» Soltanto allora Rebus si rese conto che Brian aveva sposato Janice Playfair, l'unica ragazza, nella lunga e tormentata esistenza di John Rebus, che fosse mai riuscita a metterlo fuori combattimento. L'angusta stanza dal soffitto basso era piena zeppa: c'erano non soltanto Rebus, Brian e Janice, ma anche la madre di Brian e i vecchi coniugi Playfair, più un divano e due poltrone dall'aspetto rigonfio, tavolini assortiti e altra mobilia. Conclusi i convenevoli, Rebus fu fatto accomodare nel «posto accanto al fuoco». Nella stanza si moriva di caldo. Comparve un servizio da tè e sul tavolo accanto alla poltrona di Rebus c'erano tante di quelle fette di torta da sfamare uno stadio. «È un ragazzo molto intelligente», esordì la madre di Janice, porgendo a Rebus una foto incorniciata di Damon Mee. «A scuola ha ottenuto ottimi risultati. Lavora sodo. Sta mettendo da parte i soldi per sposarsi.» La foto mostrava un giovane con un sorriso impertinente, che sembrava aver superato di poco l'età della scuola. «Le foto più recenti le abbiamo date alla polizia», spiegò Janice. Rebus
annuì; le aveva viste nel dossier. Ciò nonostante, quando gli fu consegnato un pacchetto d'istantanee scattate in occasione di qualche gita, le esaminò scrupolosamente: se non altro, non era costretto a guardare i volti ansiosi che lo attorniavano. Gli sembrava di essere un medico, chiamato a emettere una diagnosi e a fornire contemporaneamente la terapia. In quelle altre foto il giovane aveva un'aria meno spensierata. L'impertinente sorriso infantile c'era ancora, ma l'aspetto era molto più maturo; si notava un che di forzato. C'era qualcosa dietro lo sguardo, forse delusione. In alcune foto comparivano anche i genitori. «Eravamo andati in vacanza tutti insieme», spiegò Brian. «La famiglia al completo.» Spiagge, un imponente albergo bianco, giochi intorno a una piscina. «Che posto è?» «Lanzarote», rispose Janice, porgendogli una tazza di tè. «Ci metti ancora lo zucchero?» «Ho smesso da anni», ribatté Rebus. In un paio di foto lei appariva in bikini: un bel corpo per la sua età... o, meglio, un bel corpo in assoluto. Cercò di non indugiarvi. «Posso prendere un paio di questi primi piani?» chiese. Janice gli lanciò un'occhiata. «Di Damon.» Lei annuì e Rebus rimise le altre foto nel pacchetto. «Ti siamo davvero riconoscenti», esclamò qualcuno. La madre di Janice? Quella di Brian? Rebus non era in grado di dirlo. «La sua fidanzata si chiama Helen, o sbaglio?» Brian annuì. Aveva perso un po' di capelli e guadagnato qualche chilo; il viso si era fatto cascante. Sulla mensola del camino erano esposti alcuni trofei di second'ordine, vinti a freccette e al biliardo, passatempi da pub. Rammentò che Brian si allenava quasi tutte le sere. Quanto a Janice... Janice era la stessa di sempre. No, non era proprio così. Aveva qualche capello bianco. Eppure, parlarle era come tornare indietro di anni. «Questa Helen vive in zona?» chiese. «Praticamente dietro l'angolo.» «Vorrei parlarle.» «Vado a chiamarla.» Brian si alzò e uscì dalla stanza. «Dove lavora Damon?» chiese Rebus, in mancanza di una domanda migliore. «Nello stesso posto del padre», rispose Janice, accendendosi una sigaretta. Rebus inarcò un sopracciglio: ai tempi della scuola, lei era un'accanita
nemica del fumo. Janice notò la sua espressione e sorrise. «È impiegato nel reparto imballaggi», aggiunse il signor Playfair. Aveva l'aria fragile, gli tremava il mento. Rebus si chiese se avesse avuto un ictus, perché un lato del viso sembrava paralizzato. «Sta facendo la gavetta, ma tra un po' dovrebbe ottenere una promozione.» Il nepotismo della classe operaia, il lavoro trasmesso da padre in figlio. Rebus fu sorpreso nell'apprendere che esisteva ancora. «Da queste parti, riuscire a trovare un impiego qualsiasi è una bella fortuna», aggiunse la signora Playfair. «Le cose vanno così male?» La donna fece schioccare la lingua, come a voler accantonare il problema. «Ti ricordi della vecchia miniera di carbone, John?» intervenne Janice. Certo che se ne ricordava, col brullo, deserto terreno circostante. Meta di lunghe passeggiate nelle sere estive, il posto ideale per scambiarsi baci che sembravano durare ore intere. Spirali di fumo denso di polvere di carbone si alzavano dalla cavità, con gli scarti della lavorazione che covavano ancora sotto la cenere. «Lo scavo è stato riempito e il terreno livellato, per ospitare un parcheggio. Ora si parla di costruire un museo minerario.» La signora Playfair fece schioccare di nuovo la lingua. «Servirà soltanto a farci ricordare ciò che avevamo un tempo.» «Servirà a creare posti di lavoro», disse la figlia. «In quei giorni Cowdenbeath era chiamata la Chicago del Fife», aggiunse la madre di Brian Mee. «Il Brasile azzurro», intervenne il signor Playfair, lasciandosi sfuggire una risata gracchiante. Alludeva alla squadra di calcio di Cowdenbeath e quel soprannome era volutamente ironico. Si autodefinivano il Brasile azzurro perché erano una congrega di schiappe. «Helen sarà qui tra poco», disse Brian, rientrando nella stanza. «Non vuole una fetta di torta, ispettore?» chiese la signora Playfair. Mentre tornava a Edimburgo, Rebus ripensò alla chiacchierata con Helen Cousins. La ragazza non aveva aggiunto granché all'idea che Rebus si era fatto di Damon. La sera in cui il giovane era scomparso lei non c'era, era uscita con alcune amiche. La regola del venerdì: Damon se ne andava con «i maschi», Helen con «le femmine». Era riuscito a parlare anche con uno dei compagni di Damon (l'altro si trovava fuori città), ma neppure da
lui aveva appurato qualcosa che potesse essergli d'aiuto. Mentre percorreva il Forth Road Bridge, pensò al simbolo che il Fife aveva scelto per i suoi cartelli stradali di benvenuto nella contea: il Forth Rail Bridge. Quel ponte ferroviario non era il chiaro segno di una precisa identità, bensì una dichiarazione di sconfitta, il riconoscimento che il Fife era, per molta gente, una diramazione o una semplice propaggine di Edimburgo. Helen Cousins aveva occhi pesantemente segnati dall'eyeliner e un rossetto violaceo, ma non poteva proprio essere carina. L'acne le aveva lasciato crudeli cicatrici nel viso giallastro. I capelli erano tinti di nero e le ricadevano sulla fronte in una frangia irrigidita dal gel. Quando Rebus le aveva chiesto che cosa, secondo lei, fosse accaduto a Damon, si era limitata a stringersi nelle spalle e a incrociare le braccia, accavallando le gambe, in un chiaro rifiuto di accollarsi la minima responsabilità che lui avesse potuto tentare di scaricarle addosso. Anche Joey, che quella sera era con Damon al Guiser's, si era dimostrato altrettanto reticente. «Una normale serata fuori», gli aveva detto. «Niente di strano.» «E in Damon c'era qualcosa di diverso?» «Per esempio?» «Non so. Aveva magari l'aria preoccupata? Era nervoso?» Una spallucciata: l'apparente misura della preoccupazione di Joey per la sorte dell'amico... Rebus sapeva di essere diretto a casa, cioè all'appartamento di Patience. Ma, nel fermarsi davanti a un semaforo rosso sulla Queensferry Road, si disse che avrebbe potuto fare un salto all'Oxford Bar. Non per un drink, ma semplicemente per prendere una Coca-Cola o un caffè, e stare un po' in compagnia. Avrebbe sorseggiato una bibita e ascoltato i pettegolezzi. Perciò proseguì oltre Oxford Terrace e parcheggiò l'auto all'inizio di Castle Street. S'incamminò a piedi lungo la salita, diretto verso l'Oxford Bar. Sopra di lui si ergeva il Castello (ma era da Princess Street, da un punto in cui si trovava una rosticceria, che lo si poteva davvero ammirare in tutto il suo splendore). Spinse la porta del pub e si sentì investire da una zaffata di calore e di fumo maleodorante. Nell'Oxford Bar non c'era bisogno di fumare: ogni respiro equivaleva a farsi di botto un pacchetto da dieci. CocaCola o caffè, Rebus non riusciva a decidersi. Quella sera il barista di turno era Harry, che, nel vederlo, sollevò un boccale da birra vuoto, sventolandolo verso di lui.
«Sì, va bene», disse Rebus, come se fosse la decisione più facile che avesse mai preso. Arrivò a casa a mezzanotte meno un quarto. Patience stava guardando la televisione. In quel periodo non faceva particolari commenti sulle sue sbronze: il silenzio era efficace come le prediche di un tempo. Tuttavia storse il naso nel sentire il puzzo di fumo che gli impregnava gli indumenti, perciò lui li cacciò nel cesto della biancheria sporca e si fece una doccia. Quando uscì dalla stanza da bagno, lei era a letto. Sul comodino dalla parte di Rebus c'era un bicchiere d'acqua fresca. «Grazie», disse lui, bevendolo tutto d'un sorso con due compresse di analgesico. «Com'è andata la tua giornata?» chiese Patience. Solita domanda, solita risposta. «Non particolarmente male. E la tua?» Per tutta risposta, un grugnito impastato di sonno. Patience aveva gli occhi chiusi. C'erano questioni che Rebus voleva appurare, domande che avrebbe voluto porre. Cosa stiamo facendo qui? Vuoi che me ne vada? Si disse che, magari, Patience avrebbe desiderato chiedergli le stesse cose, o altre simili. Per un motivo o per l'altro, quelle domande non venivano mai formulate: per paura delle risposte, forse, o per ciò che queste avrebbero significato. Chi mai, al mondo, si compiace di un fallimento? «Sono andato a un funerale», le disse. «Un tale che conoscevo.» «Mi dispiace.» «In realtà non è che lo conoscessi così bene.» «Di cos'è morto?» Testa affondata nel cuscino, occhi chiusi. «È caduto dall'alto.» «Un incidente?» Si stava ritraendo da lui, ma Rebus continuò. «La vedova aveva vestito la loro figlioletta in modo da farla sembrare un angelo. Un espediente come un altro per affrontare la situazione, immagino.» Tacque, ascoltando il respiro di Patience farsi regolare. «Stasera sono andato nel Fife, nella mia vecchia città. Da certi amici che non vedevo da anni.» La guardò. «Una mia vecchia fiamma, una che avrei potuto decidere di sposare.» Le sfiorò i capelli. «In tal caso niente Edimburgo, niente dottoressa Patience Aitken.» Il suo sguardo si volse alla finestra. Niente Sammy... forse, addirittura, niente carriera nella polizia. Niente fantasmi.
Mentre lei dormiva, tornò nel salotto e collegò le cuffie allo stereo. Al lettore CD di lei, aveva aggiunto un piatto. In una borsa sotto la libreria trovò gli ultimi dischi comprati da Backbeat Records: due band scozzesi, i Light of Darkness e i Writing on the Wall, di cui conservava vaghi ricordi. Seduto ad ascoltare, si chiese come mai si sentisse felice soltanto retrospettivamente. Nel ripensare al periodo in cui si era sentito felice, capì che allora non se n'era reso conto; solo nel tornare indietro se ne accorgeva. Perché? Rimase seduto con gli occhi chiusi. L'Incredible String Band suonava The Half-Remarkable Question, e poi attaccò Everything Merges with the Night di Brian Eno. Rivide Janice Playfair com'era la sera in cui l'aveva messo fuori combattimento, quella sera in cui era cambiata ogni cosa. Rivide Alec Chisholm: un giorno se n'era andato da scuola e nessuno aveva saputo più niente di lui. Rebus non riusciva a ricordare chiaramente il viso di Alec, solo un vago contorno e quella sua espressione calma, controllata. Alec, il ragazzo tanto intelligente, destinato a farsi strada nel mondo. Ma nessuno si aspettava che andasse a finire in quel modo. Senza riaprire gli occhi, Rebus capì che Jack Morton era seduto nella poltrona di fronte. Riusciva a sentire la musica? Jack non parlava mai, perciò era difficile appurare se i suoni volessero dire qualcosa per lui. Stava per arrivare Bogeyman; Rebus ascoltava e aspettava... Era quasi l'alba quando, nel tornare dal gabinetto, Patience tolse le cuffie all'uomo addormentato e gli mise addosso una coperta. 6 C'erano tre uomini nella stanza, tutti e tre in uniforme, tutti e tre che non vedevano l'ora di malmenare Cary Oakes. Lui glielo leggeva negli occhi, nella loro vaga tensione, nelle mascelle che ruminavano gomma da masticare. Fece un brusco movimento, ma soltanto per distendere le gambe, spostare il peso in avanti sulla sedia e inclinare la testa all'indietro per lasciarsi colpire dai raggi del sole che filtravano attraverso l'alta finestra. Inondato di calore e di luce, sentì un sorriso aprirsi sul suo volto. La madre gli diceva sempre: «Quando sorridi, Cary, la tua faccia risplende». Vecchia pazza, già allora. In cucina aveva uno di quei lavelli doppi in mezzo ai quali si può fissare uno strizzatoio. Lavava gli indumenti in un lavello, poi, dopo averli strizzati, li metteva nell'altro. Lui una volta aveva puntato i polpastrelli contro i rulli e aveva preso girare la manovella, sino a farsi male.
Tre guardie carcerarie: tale era la considerazione in cui era tenuto Cary Oakes. Tre secondini, e catene per gambe e braccia. «Ehi, ragazzi», disse, puntando il mento verso di loro. «Mettetecela tutta.» «Potremmo farlo, Oakes.» Cary Oakes sorrise di nuovo. La sua provocazione era riuscita: di quelle piccole vittorie erano fatte le sue giornate. La guardia che aveva parlato, quella col cartellino che l'identificava come SAUNDERS, cominciava a dare segni di nervosismo. Oakes socchiuse gli occhi e immaginò quel viso baffuto contro lo strizzatoio, valutando la forza necessaria per farlo passare in mezzo ai rulli. Si massaggiò lo stomaco: neppure un filo di grasso, nonostante il cibo che cercavano di fargli ingurgitare. Lui si limitava a mangiare verdura e frutta, acqua e succhi. Doveva tenere il cervello in piena attività. Non come molti altri reclusi, trasformati in esseri amorfi, coi motori che andavano su di giri, ma non li portavano da nessuna parte. Ti poteva succedere, dopo un periodo in cella d'isolamento: cominciavi a credere in cose che non erano vere. Oakes si teneva aggiornato, riceveva in abbonamento riviste e giornali, seguiva alla televisione i fatti del giorno e trascurava ogni altro programma, tranne forse un po' di sport. Però anche lo sport era una specie di novocaina. Invece di guardare lo schermo, fissava i volti che aveva intorno, vedeva le palpebre pesanti, lo sguardo assente; quei tizi sembravano poppanti soddisfatti, nutriti a cucchiaiate di pappa riscaldata finché la pancia e il cervello non si colmavano. Prese a fischiettare Good Day, Sunshine dei Beatles, chiedendosi se, tra le guardie, ci fosse qualcuno che la conosceva. Un'altra possibile provocazione. Ma in quel momento la porta si aprì ed entrò il suo avvocato. Il suo quinto legale in sedici anni: niente male come media, poco più di uno ogni tre anni. Questo era giovane (venticinquenne, a occhio e croce) e portava un blazer blu con pantaloni crema, una combinazione che gli dava l'aria di un ragazzino che avesse indossato gli abiti del padre. Il blazer aveva i bottoni di finto ottone e un complicato disegno sul taschino. «Ehilà, compagno di bordo!» esclamò Oakes, senza cambiare posizione sulla sedia. L'avvocato si sistemò davanti a lui, dall'altra parte del tavolo. Oakes si portò le mani dietro la testa, facendo tintinnare le catene. «Non c'è modo di togliere quei ceppi al mio cliente?» chiese il legale. «È per proteggere anche lei, signore.» La consueta risposta. Oakes si grattò il cranio rasato con entrambe le mani. «Non ha mai visto
i sub e gli astronauti? Portano calzature munite di pesi, ferri del mestiere di cui non potrebbero fare a meno. Credo che, quando mai dovessero togliermi queste catene, comincerei a levitare sino al soffitto. Potrei guadagnarmi da vivere come fenomeno da baraccone: la mosca umana, venite a vedere come si arrampica sui muri. Ehi, pensi quante opportunità avrei. Potrei innalzarmi sino alle finestre dei piani alti e sbirciare le signore che si stanno spogliando per andare a letto.» Girò la testa verso le guardie. «Qualcuno di voi è sposato?» L'avvocato fece finta di nulla. Era intento ad aprire la borsa e a estrarre la pratica del cliente. Dovunque vadano i legali, le carte li seguono. Un mucchio di carte. Oakes cercò di non mostrare interesse. «Signor Oakes», disse l'avvocato, «ormai è solo questione di qualche dettaglio.» «Mi sono sempre piaciuti i dettagli.» «Alcuni incartamenti che devono essere firmati da un certo numero di funzionari.» «Visto, ragazzi?» esclamò Oakes, rivolto alle guardie. «Ve l'avevo detto che nessun carcere può trattenere Cary Oakes! Sì, questo mi ha portato via quindici anni di vita, ma, in fondo, nessuno è perfetto.» Rise, tornando a girarsi verso l'avvocato. «Quanto tempo ci vorrà, allora, per sistemare questi... dettagli?» «È questione di giorni, più che di settimane.» Il cuore, nel petto di Oakes, iniziò a pompare freneticamente e le orecchie presero a fischiargli, tanto violenta era l'ondata di apprensione e speranza. Giorni... «Ma non ho finito di ridipingere la mia cella. Voglio che il prossimo inquilino la trovi in perfetto ordine.» Finalmente l'avvocato sorrise e in quell'istante Oakes capì tutto di lui: si stava facendo le ossa nello studio paterno, bistrattato dai soci più anziani, malvisto dai suoi pari. Questi ultimi lo consideravano forse una spia, che riferiva ogni loro azione al vecchio? E lui, come poteva dimostrare quanto valeva, in realtà? Se un venerdì sera si univa ai colleghi per bere qualcosa con loro, allentandosi la cravatta e scompigliandosi i capelli, gli altri si sentivano a disagio. Se manteneva le distanze, lo giudicavano freddo come un pesce. E che dire del padre? Il vecchio non voleva che qualcuno lo accusasse di nepotismo, perciò il ragazzo doveva fare la gavetta più dura. Che gli venissero affibbiati i casi più merdosi, i clienti senza speranza, quelli che ti lasciano con la sensazione di aver bisogno di fare una doccia e
cambiarti d'abito. Che sudasse sette camicie per farsi strada. Lunghe ore di duro lavoro senza un ringraziamento, un fulgido esempio per ogni altro membro dello studio legale. Tutto questo fu svelato a Oakes da un unico sorriso, il sorriso per metà timido e per metà consapevole di un fuco che sognava di diventare l'ape regina, che forse aveva persino vagamente fantasticato di parricidio e successione. «Verrà estradato, naturalmente», stava dicendo il principe delle api. «Come?» «Lei, a suo tempo, era entrato illegalmente nel nostro Paese, signor Oakes.» «Ma ci ho trascorso quasi metà della mia vita.» «Ciò nonostante...» Ciò nonostante... Quello che diceva sempre sua madre. Ogni volta che lui aveva preparato una scusa, inventato una storia per spiegare la situazione, la madre ascoltava in silenzio, poi inspirava profondamente, e per lui era come vedere quelle parole prendere forma nel respiro che stava per uscirle di bocca. Durante il processo, Oakes aveva immaginato una loro breve conversazione. «Mamma, sono stato un bravo figliolo, non è così?» «Ciò nonostante...» «Ciò nonostante ho ucciso due persone.» «Davvero, Cary? Sei sicuro che fossero soltanto due?» Si raddrizzò sulla sedia. «Che mi estradino pure. Tornerò subito indietro.» «Non sarà tanto facile. Non credo proprio che stavolta le rilascerebbero un visto turistico, signor Oakes.» «Non ne ho bisogno. Lei è rimasto un po' indietro coi tempi.» «Il suo nome sarà segnalato a tutte le dogane.» «Rientrerò a piedi, dal Canada o dal Messico.» L'avvocato si mosse sulla sedia, a disagio. Quelle parole non gli erano piaciute. «Devo tornare a fare visita ai miei amici», continuò Oakes, indicando con la testa le guardie. «Quando me ne sarò andato, sentiranno la mia mancanza. E questo vale anche per le loro mogli.» «Va' a farti fottere, porco.» Saunders, di nuovo. Oakes lanciò un'occhiata raggiante all'avvocato. «Non le sembra carino? Ci siamo dati l'un l'altro un soprannome.»
«Temo che nulla del genere possa farle gioco, signor Oakes.» «Ehi, sono un detenuto modello. È così che funziona, no? Ho imparato al volo la lezione: usa lo stesso sistema che hanno usato loro per farti finire dove sei. Studia a menadito le leggi, rimetti in discussione ogni cosa, cerca di capire quali domande porre e quali obiezioni siano state presentate durante il primo processo. Il difensore che mi avevano affibbiato di certo non aveva mai vinto neanche un premio a scuola, perciò si figuri se poteva farcela nel mio caso.» Sorrise di nuovo. «Lei è molto meglio. Lei sistemerà tutto nel modo migliore. Se lo ricordi, la prossima volta in cui suo padre le romperà le scatole. Si dica soltanto: io sono molto meglio, sistemerò tutto nel modo migliore.» Gli strizzò l'occhio. «È un consiglio che le do gratis, figliolo.» Figliolo: come se di anni ne avesse cinquanta, invece di trentotto. Come se toccasse a lui, distribuire la saggezza. «Quindi mi offrono un volo fino a Londra?» «Non ne sono sicuro.» L'avvocato spulciò gli appunti. «Lei viene da Lothian, non è così?» Aveva storpiato il nome della regione, facendolo diventare loathing, «uno schifo». «Più esattamente da Edimburgo, Scozia.» «Be', potrebbero rimandarla laggiù.» Cary Oakes si grattò il mento. Per qualche tempo, Edimburgo poteva fare al caso suo. In quella città aveva un paio di questioni irrisolte. Non ci avrebbe messo mano finché la situazione non si fosse raffreddata un po', ma ciò nonostante... Si chinò in avanti sul tavolo. «Di quanti omicidi mi hanno giudicato colpevole?» L'avvocato sbatté le palpebre, senza muoversi, coi palmi delle mani posati sul tavolo. «Due», rispose alla fine. «Quanti volevano affibbiarmene, all'inizio?» «Cinque, mi pare.» «In realtà sei.» Oakes annuì lentamente. «Ma uno più o uno meno, che importa?» Ridacchiò. «Per gli altri è stato trovato un colpevole?» L'avvocato scosse la testa. Aveva le tempie imperlate di sudore. Prima di tornare in studio sarebbe passato da casa, a farsi una doccia e indossare abiti puliti. Cary Oakes tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia e reclinò la testa nel sole, girando il viso da una parte all'altra perché ogni punto del cranio avvertisse il calore. «Due non è un punteggio molto alto, non le sembra, in un quadro generale? Lei uccida il suo vecchio e mi avrà quasi
raggiunto.» Stava ancora ridacchiando quando l'avvocato fu accompagnato fuori della stanza. 7 I giovanissimi che scappavano di casa sceglievano in genere le stesse destinazioni, poche e sempre quelle: Londra, Glasgow o Edimburgo, che raggiungevano in corriera, in treno o facendo l'autostop. Esistevano alcune organizzazioni che tenevano gli occhi bene aperti per individuare i fuggiaschi e, sebbene non sempre comunicassero alle famiglie angosciate in quale località i loro figlioli si trovavano, potevano se non altro confermare che questo o quel ragazzo era vivo e stava bene. Ma un diciannovenne, e con un po' di denaro in tasca... poteva essere ovunque. Non era possibile escludere nessun luogo, per lontano che fosse: a casa, il passaporto di Damon non era stato trovato. Lo portava sempre con sé quando andava in qualche locale notturno, per comprovare la propria età. Inoltre Damon aveva un conto corrente nella banca locale, con relativa tessera per i prelievi in contanti, e un conto vincolato presso una società finanziaria di Kirkcaldy. Forse valeva la pena di contattare la banca. Rebus prese il telefono. «L'ultimo prelievo in contanti è stato effettuato a uno sportello automatico nel West End di Edimburgo. Cento sterline, il giorno 15.» Quello in cui Damon era andato, di sera, da Gaitano's. Cento sterline erano una bella somma, si disse Rebus, anche prevedendo una notte di baldoria. «Da allora, nient'altro?» «No.» «A quando sono aggiornati i vostri dati?» «Alla chiusura dei conti di ieri.» «Posso chiederle un favore? Vorrei che questo conto venisse tenuto sotto controllo. In caso di altri prelievi di denaro, desidererei essere avvisato tempestivamente.» «Per questo mi occorre una richiesta scritta, ispettore. E, con ogni probabilità, avrò anche bisogno dell'autorizzazione del mio capufficio.» «Gliene sarei molto grato, signor Brayne.» «Il mio nome è Bain», replicò freddamente il funzionario di banca, riagganciando.
Rebus chiamò la società finanziaria e fu costretto a sottostare alla stessa trafila prima di essere informato che Damon non toccava il suo conto da più di quindici giorni. Fece poi un'ultima telefonata alla stazione di polizia di Gayfield, chiedendo del commissario Hawes. La donna non parve particolarmente entusiasta quando lui le disse chi era. «Che cosa sai dirmi di Gaitano's?» le chiese. «Tutti lo chiamano Guiser's. Un locale piuttosto di moda. Due accoltellamenti l'anno scorso, uno all'interno del club, l'altro nel vicolo sul retro. Quest'anno è molto più tranquillo, probabilmente per via dei controlli più rigidi all'entrata.» «Vuoi dire che hanno preso buttafuori più muscolosi.» «Controllori della clientela, così li chiamano, ma la gente del posto si lamenta ancora del fracasso che fanno quando sbattono fuori i clienti.» «A chi appartiene il locale?» «A Charles Mackenzie, detto 'Charmer'.» Due agenti erano andati a parlare a Mackenzie di Damon Mee ed era stato lui a fornire il nastro registrato dalle telecamere di sorveglianza che, da quel momento, era rimasto a prendere polvere nella stazione di polizia di Gayfield. «Sa quante sono ogni anno le persone scomparse?» chiese la Hawes con un sospiro. «Me l'hai già detto.» «Allora dovrebbe pure rendersi conto che, in mancanza di un presunto atto criminoso, non rappresentano un'assoluta priorità. Dio solo sa quante volte io stessa avrei voluto sparire dalla circolazione.» Rebus pensò ai suoi giri di pattuglia notturni, alle lunghe ore prive di scopo, senza altro significato che quello di riempire gli spazi vuoti della sua esistenza. «Non è così per tutti noi?» disse. «Ascolti, so che sta seguendo questo caso per fare un favore...» «Sì?» «Ma da parte nostra sono state condotte tutte le indagini possibili, non le pare?» «Certamente.» «Allora, che altro vorrebbe?» «Non lo so neanch'io.» Avrebbe potuto dirle che c'era di mezzo il passato, che si sentiva debitore nei confronti di Janice Playfair e di Barney Mee... e del ricordo di un amico che lui un tempo chiamava Mitch. Ma spiegare un fatto simile a un'estranea non poteva essergli d'aiuto. «Un'ultima co-
sa», disse invece. «Sei riuscita a procurarmi la foto di quella donna?» Gaitano's era poco più di una solida porta nera sovrastata da un'insegna al neon e fiancheggiata su ciascun lato da un pub; di fronte, sull'altro lato della strada, c'era un negozio di hi-fi, nella cui vetrina erano esposti alcuni amplificatori e una piastra di registrazione di dimensioni smisurate. Questa ostentava un cartellino con un prezzo altrettanto spropositato. Uno dei pub si chiamava The Headless Coachman, «il cocchiere senza testa». Aveva cambiato nome da un paio d'anni e stava cercando di attirare i turisti. Rebus schiacciò il pulsante del campanello di Gaitano's e una donna gli aprì la porta. Era l'addetta alle pulizie e lui non le invidiò quel lavoro. I tavoli erano stati liberati dai bicchieri, ma nel locale regnava ancora un tremendo disordine. Sul tappeto che circondava la pista da ballo era posato un aspirapolvere industriale. Il pavimento era coperto di cicche di sigaretta, pezzi di cellophane, qualche bottiglia vuota. La donna aveva finito di pulire la stanza d'ingresso, ma era appena a metà dell'area principale, quella in cui si ballava. Tutte le pareti erano coperte di specchi, cosicché, con l'illuminazione giusta, la sala doveva sembrare straordinariamente più vasta. In quel momento, però, alla luce bianca di qualche nuda lampadina e senza musica, senza clienti, aveva un aspetto desolato. L'aria era viziata, sapeva di sudore e birra rancidi. Notò in un angolo una telecamera di sorveglianza e agitò una mano in quella direzione. «Ispettore Rebus.» L'uomo che gli stava venendo incontro attraverso la pista da ballo era alto poco più di un metro e sessanta e magro come uno stecchino. Rebus gli attribuì un'età tra i cinquanta e i sessanta. Indossava un abito di un azzurro polveroso e una camicia bianca col colletto aperto che metteva in mostra l'abbronzatura e una catena d'oro. I capelli erano argentei e non più molto folti, ma sembravano ben tagliati, come il vestito. Si strinsero la mano. «Vuole bere qualcosa?» Stava accompagnando Rebus verso il bar. Il poliziotto fissò la sparata di bottiglie di alcolici. «No, grazie.» «Charmer» Mackenzie passò dietro il banco e si versò una Coca-Cola. «Ne è sicuro?» «Vada per una Coca, come lei», replicò Rebus. Scrutò uno degli sgabelli del bar, per verificare che non ci fosse cenere di sigaretta, poi si sedette. I due uomini si fronteggiarono attraverso il bancone.
«Non è la sua bevanda preferita, vero?» azzardò Mackenzie. «Facendo il mio mestiere, si acquista un certo fiuto per queste cose.» Accompagnò quelle parole battendosi un dito sul naso. «Il ragazzo non è ancora saltato fuori?» «No.» «A volte si ha un'idea...» Si strinse nelle spalle, come per scacciare le manie di una generazione. «Ho una fotografia.» Rebus infilò la mano in tasca, poi tese la stampa al proprietario del locale. «Il ragazzo scomparso è nella seconda fila.» Mackenzie annuì, senza troppo interesse. «Ha notato la donna alle sue spalle?» «È la sua ragazza?» «La conosce?» «Mi piacerebbe», ridacchiò Mackenzie. «Non l'aveva mai vista prima d'ora?» «La foto non è molto nitida, ma non mi pare proprio.» «A che ora arriva il personale?» «Non prima di stasera.» Rebus riprese la foto e se la rimise in tasca. «Nessuna possibilità di riavere indietro la mia videocassetta?» chiese Mackenzie. «Perché?» «Non vale mica due soldi. I costi di gestione, ecco che cosa può mandare a gambe all'aria un'attività come questa, ispettore.» Rebus si chiese come avesse fatto a meritarsi il soprannome «Charmer». Aveva lo stesso fascino della carta vetrata. «E per il momento non è questo che vogliamo, non è vero, signor Mackenzie?» replicò, alzandosi. Tornato in ufficio, guardò per l'ennesima volta il nastro registrato, osservando attentamente la bionda. L'angolazione della testa, la linea marcata della mascella, la bocca leggermente dischiusa. Era possibile che stesse dicendo qualcosa a Damon? Un minuto dopo, il giovane non c'era più. Poteva avergli dato appuntamento da qualche parte? Dopo che il giovane se n'era andato, lei era rimasta al bar, ordinandosi da bere. A mezzanotte in punto, un quarto d'ora dopo la scomparsa di Damon, aveva lasciato il locale. A riprenderla per l'ultima volta era stata la telecamera posta sul muro esterno del club. La si vedeva girare a sinistra in Rose Street, seguita con lo sguardo da alcuni ubriachi che cercavano di entrare da Gaitano's.
Qualcuno sporse la testa dalla porta e gli disse che c'era una telefonata per lui. Era Mairie Henderson. «Grazie per avermi chiamato», disse Rebus. «Devi chiedermi un favore, o sbaglio?» «Al contrario.» «In tal caso, vieni a mangiare con me. Sto pranzando all'Engine Shed.» «Perfetto.» Rebus sorrise. L'Engine Shed si trovava proprio dietro la stazione di polizia di St. Leonard. «Sarò lì tra cinque minuti.» «Meglio due, altrimenti non troverai più neanche una polpettina di carne.» Era una specie di scherzo, perché nelle polpettine non c'era neppure un pizzico di carne. Erano appetitose palline a base di funghi e ceci, condite con salsa di pomodoro. Sebbene l'Engine Shed distasse un minuto di strada a piedi dal suo ufficio, Rebus non vi aveva mai mangiato. Ogni cibo era troppo sano, troppo nutriente. La bevanda del giorno era succo di mele non filtrato e agli avventori era severamente vietato fumare. Rebus sapeva che il locale era gestito da una specie di associazione di carità e che il personale era composto di persone che avevano bisogno di un lavoro più di qualunque altra cosa. Tipico di Mairie, scegliere un simile posto per un incontro. Lei era seduta accanto a una finestra e Rebus la raggiunse col suo vassoio. «Hai un bell'aspetto», le disse. «Merito di tutta questa insalata», rispose, indicando il piatto che aveva davanti. «Ancora soddisfatta del nuovo stile di vita?» Rebus alludeva alla sua decisione di lasciare l'impiego presso il quotidiano cittadino per diventare una giornalista freelance. In varie occasioni loro due si erano aiutati a vicenda, ma Rebus sapeva di doverle più favori di quanti lei ne avesse fatti a lui. Mairie aveva un viso pulito, dai lineamenti marcati, e occhi neri, vivaci. Si era tagliata i capelli come Cilla Black prima maniera. Sul tavolino, accanto al piatto, c'erano il suo taccuino e il cellulare. «Di tanto in tanto un mio articolo di cronaca viene pubblicato dai quotidiani londinesi e il mio vecchio giornale è costretto a dare la propria versione dei fatti solo il giorno dopo.» «Questo li manderà su tutte le furie.» L'espressione di Mairie divenne raggiante. «È bene che capiscano cosa
si sono lasciati sfuggire.» «Be'», ribatté Rebus, «si sono lasciati sfuggire una storia che avevano proprio sotto il naso.» Si cacciò in bocca un'altra forchettata di cibo, costretto ad ammettere con se stesso che, dopotutto, non era niente male. Guardando gli altri tavoli, si rese conto che tutti gli avventori erano donne. Alcune si occupavano di bambini seduti nei seggioloni, altre chiacchieravano a bassa voce. Il ristorante non era molto grande e anche lui parlava in tono sommesso. «Di quale storia si tratta?» chiese Mairie. La voce di lui si abbassò ulteriormente. «Di un pedofilo che abita a Greenfield.» «Reo confesso?» Rebus annuì. «Ha scontato la pena e ora l'hanno sistemato in un appartamento con una bella vista su un parco giochi.» «Cos'ha combinato?» «Finora nulla, nulla per cui io possa incriminarlo. Ma il fatto è che i suoi vicini non sanno chi è il loro coinquilino.» Lei lo fissò in silenzio. «Che c'è?» chiese Rebus. «Niente.» Si mise in bocca altra insalata, masticandola lentamente. «E quale sarebbe la storia?» «Dai, Mairie...» «Lo so cosa vuoi che faccia.» Puntò la forchetta verso di lui. «E anche perché lo vuoi.» «E allora?» «Allora, che ha fatto quel tizio?» «Cristo, Mairie, sai quanto è alta la percentuale di quelli che ci ricascano? Non è una cosa cui si possa ovviare sbattendoli in prigione per qualche anno.» «Noi dobbiamo correre il rischio.» «Noi? Non siamo noi le sue possibili vittime.» «Noi tutti dobbiamo offrire un'opportunità a quelli come lui.» «Ascolta, Mairie, è lo spunto per un buon articolo.» «No, è un tuo espediente per liberarti di quell'uomo. C'entra di nuovo Shiellion?» «Questa storia non ha nulla a che vedere con Shiellion.» «Ho sentito dire che dovrai presentarti in tribunale come testimone.» Mairie lo fissò di nuovo, ma Rebus si limitò a fare una spallucciata. «Però
in quel caso», proseguì lei, «i giochi sono già fatti. Se invece scrivo un articolo su un pedofilo che vive nientemeno che a Greenfield... sarebbe un incitamento al crimine.» «Dai, Mairie...» «Vuoi sapere come la penso, John?» Posò coltello e forchetta. «Credo che dentro di te si sia guastato qualcosa.» «Mairie, voglio soltanto che...» Ma lei era già in piedi, intenta a prendere il soprabito dalla spalliera della sedia e a raccogliere telefono, taccuino e borsa. «Non ho più molto appetito», disse. «Un tempo avresti rosicchiato fino all'osso una storia come questa.» Per qualche istante, sul volto di Mairie apparve un'espressione pensierosa. «Forse hai ragione», replicò. «Mi piacerebbe credere il contrario, ma forse è così.» Attraversò tutto il ristorante, coi tacchi che risuonavano sordamente sulle assi di legno del pavimento. Rebus fissò la pietanza che aveva davanti, il bicchiere di succo che non aveva neppure toccato. A meno di tre minuti di strada c'era un pub. Allontanò da sé il piatto. Si disse che Mairie aveva torto: Shiellion non c'entrava minimamente. Si trattava di Jim Margolies, piuttosto, del fatto che Darren Rough aveva una volta sporto denuncia contro di lui. Ora Jim era morto e Rebus voleva qualcosa in cambio. Poteva tener buono il fantasma di Jim, tormentando chi l'aveva tormentato? Si frugò in tasca, trovò la strisciolina di carta, il numero di telefono ancora perfettamente leggibile. Credo che dentro di te si sia guastato qualcosa. Chi era lui per negarlo? 8 Quattro anni prima, Jim Margolies aveva fatto una rapida apparizione alla stazione di polizia di St. Leonard, dov'era stato distaccato per sopperire a una temporanea mancanza di personale. Tre funzionari del dipartimento d'investigazioni criminali erano stati infatti messi fuori combattimento dall'influenza, mentre un altro si trovava in ospedale per un'operazione di poco conto. Margolies, che di solito lavorava a Leith, godeva di notevoli raccomandazioni, il che aveva reso circospetti i suoi nuovi colleghi. A volte capitava che qualcuno venisse raccomandato solo per permettere a una stazione di polizia di affibbiare ad altri un peso morto. Margolies, invece, a-
veva rapidamente dimostrato le proprie qualità, prendendo in mano con impegno e tatto l'inchiesta su un caso di pedofilia. Due ragazzini erano stati oggetto di molestie sessuali ai Meadows, dove, per di più, si svolgeva una festa per bambini. Darren Rough era già schedato dalla polizia, perché a dodici anni aveva cercato di abusare del figlio di un vicino, che allora aveva appena sei anni. Era stato affidato ai servizi sociali e, per qualche tempo, rinchiuso in un istituto correzionale minorile. A quindici anni era stato sorpreso a sbirciare dalle finestre della residenza per studenti in Pollock Halls. Altro affidamento ai servizi sociali, altra segnalazione sulla fedina penale. La descrizione dell'aggressore fatta dai due ragazzini aveva portato la polizia alla casa in cui Rough abitava col padre. Quest'ultimo era seduto al tavolo di cucina, completamente ubriaco sebbene fossero appena le nove di mattina. La moglie era morta l'estate precedente, epoca alla quale doveva risalire l'ultima volta in cui la casa era stata pulita. Indumenti sporchi e piatti con resti ammuffiti di cibo erano sparsi un po' ovunque. Sembrava che da lì dentro non venisse mai buttato via nulla: i sacchetti delle immondizie, crepati e putrescenti, erano ammassati contro la porta della cucina, mentre in un angolo dell'ingresso c'erano montagne di posta, trasformate dall'umidità in un unico ammasso fradicio. Nella camera da letto di Darren Rough, Jim Margolies aveva trovato cataloghi di abiti per bambini, con volgari disegni tracciati a penna sulle foto dei piccoli modelli. Sotto il letto c'erano intere annate di riviste per adolescenti, piene di articoli - e fotografie - riguardanti ragazzini di entrambi i sessi. E, a migliorare la situazione (dal punto di vista della polizia), ficcato sotto un angolo di un vecchio tappeto consunto, fu rinvenuto il «Campionato fantastico» di Darren, in cui erano dettagliatamente esposte le sue tendenze sessuali ed elencati gli oggetti del suo desiderio, con l'adescamento ai Meadows datato e controfirmato. Tutti elementi di cui il procuratore che rappresentava la pubblica accusa fu opportunamente grato. Darren Rough, ormai sulla ventina, venne riconosciuto colpevole e mandato in galera. Nella stazione di polizia di St. Leonard fu aperta una cassa di birra e Jim Margolies venne messo a sedere sul tavolo. Era presente anche Rebus. Aveva fatto parte della squadra alla quale era toccato il compito d'interrogare Rough e, avendo trascorso col prigioniero un tempo sufficientemente lungo, si era reso conto che, spedendolo in galera, stavano facendo la cosa giusta.
«Non che serva davvero a qualcosa, con quei bastardi», aveva detto l'ispettore Alistair Flower. «Non appena sono fuori, ricominciano.» «Suggeriresti di affidarli a uno psichiatra, invece di metterli in prigione?» aveva chiesto Margolies. «Suggerirei di gettar via la chiave della cella!» Quelle parole erano state accolte da un coro di applausi. Siobhan Clarke era troppo diplomatica per esprimere il proprio parere, ma Rebus sapeva bene che cosa le passava nella mente. Nessuno parlò della denuncia che Rough aveva presentato. Aveva lividi in faccia e sul corpo; al suo avvocato aveva detto che Jim Margolies l'aveva picchiato. Non c'erano testimoni. Tutti concordavano: se li era procurati da sé. Anche a Rebus era venuto il desiderio di tirare a Rough un paio di manrovesci, però nei confronti di Margolies non era mai stata formulata l'accusa di aver malmenato qualcuno in stato di fermo. Si era tenuta un'inchiesta interna. Margolies aveva negato ogni addebito. Un esame medico non era riuscito a stabilire se le contusioni di Rough fossero state autoinflitte. Ed era finita così, con una leggerissima macchia nel curriculum di Margolies, un dubbio quasi impalpabile sul resto della sua carriera. Rebus chiuse il dossier relativo a quel caso e, portandoselo dietro, si avviò verso l'ufficio del suo capo. Mairie: Credo che dentro di te si sia guastato qualcosa. L'assistente sociale di Rough: Siete stati voi della polizia a volerlo qui. Rebus raggiunse la stanza del Caporale, bussò alla porta e si fece avanti quando ricevette l'invito a entrare. «Che cosa posso fare per te, John?» «Ho scambiato quattro parole con l'assistente sociale di Darren Rough, signore.» Il Caporale sollevò lo sguardo dalle carte che aveva davanti. «Per qualche motivo particolare?» «Volevo soltanto capire perché a Rough è stato concesso un appartamento con la vista su un campo giochi.» «Immagino che ti sarai fatto degli amici per questo.» Nessun tono di rimprovero. Nella scala etica del Caporale, gli assistenti sociali si trovavano solo un paio di gradini sopra i pedofili. «Mi è stato detto che siamo stati noi, in particolare, a volerlo qui.» Il volto del Caporale si accigliò. «Che significa?» «Mi hanno suggerito di chiederlo a lei.» «Non ne ho la più pallida idea.» Il Caporale si appoggiò allo schienale
della sedia. «Noi lo volevamo qui?» «Così mi è stato detto.» «Intendendo Edimburgo?» Rebus annuì. «Ho appena esaminato l'incartamento di Rough. È stato per qualche tempo in un istituto minorile.» «Si tratta di Shiellion, per caso?» Il Caporale aveva l'aria interessata. Rebus scosse la testa. «Callstone House, dall'altra parte della città. Per un periodo molto breve. Entrambi i genitori erano alcolizzati e l'abbandonavano a se stesso. E lui non aveva nessun altro posto in cui andare.» «E poi che è accaduto?» «La madre riuscì a smettere di bere e Rough fu rimandato a casa. Poi, qualche anno dopo, alla donna fu diagnosticata una malattia epatica, ma nessuno si preoccupò di trasferire Rough altrove.» «Perché?» «Perché ormai stava assistendo lui il padre.» Il Caporale lanciò un'occhiata alla sua raccolta di foto di famiglia. «Il modo in cui vive certa gente...» «Sì, signore», concordò Rebus. «Allora, tutto questo dove ci porta?» «A un unico fatto: Rough torna a Edimburgo, apparentemente perché siamo noi a volerlo qui. Subito dopo, il funzionario di polizia che l'ha mandato in galera muore lanciandosi nel vuoto dai Salisbury Crags.» «Non starai suggerendo che ci sia un nesso tra le due cose?» Rebus si strinse nelle spalle. «Jim va a cena in casa di amici con la moglie e la figlia. Torna a casa in macchina. Va a letto. La mattina seguente è morto. Sto cercando i motivi che avrebbero indotto Jim Margolies a togliersi la vita. Ma il guaio è che non ne trovo neanche uno. E mi sto anche chiedendo chi ha voluto che Darren Rough tornasse qui e perché.» Il Caporale era pensieroso. «Vuoi che parli coi responsabili dell'assistenza sociale?» «Con me, quelli non aprono bocca.» «Dammi un nome», disse il Caporale, prendendo carta e penna. «Andy Davies, l'assistente sociale di Rough.» Il Caporale sottolineò le parole. «Lascia fare a me, John.» «Sì, signore. Nel frattempo, vorrei occuparmi del suicidio di Jim.» «Ti secca se ti chiedo perché?» «Per vedere se esiste qualcosa che lo ricolleghi a Rough.» E anche, avrebbe potuto aggiungere, per soddisfare una sua curiosità.
Il Caporale annuì. «Riguardo a Shiellion... quando ti presenterai a testimoniare?» «Domani, signore.» «Ti sei preparato un bel discorsetto?» Rebus annuì. «Ricordati il segreto per far bella figura in tribunale, John.» «Presentarsi tirati a lucido?» Il Caporale scosse la testa. «Assicurati di avere con te un bel po' di roba da leggere.» Quella sera, mentre tornava a casa, Rebus andò a trovare la figlia. Sammy si era trasferita dal suo appartamento al primo piano di una casa popolare in un altro, nuovo fiammante, al pianterreno di un edificio in mattoni nei pressi di Newhaven Road. «Da qui alla costa è tutto in discesa», aveva detto al padre. «E dovresti vedere come va, quest'aggeggio, se smolli i freni.» Si riferiva alla sedia a rotelle. Rebus avrebbe voluto comprarle di tasca sua una carrozzina a motore, ma Sammy aveva disinvoltamente rifiutato l'offerta. «Mi sto facendo i muscoli», era stato il suo commento. «E, poi, non ci resterò seduta a lungo.» Forse no, ma la strada per riprendere una completa mobilità si stava rivelando piena di ostacoli. Sammy faceva fisioterapia soltanto due volte alla settimana e trascorreva il resto del tempo concentrandosi sugli esercizi che poteva eseguire a casa. Era come se l'incidente avesse danneggiato, oltre alla colonna vertebrale, anche le gambe. «Il mio cervello dice che cosa devono fare, ma loro non sempre lo ascoltano.» C'era una piccola rampa di legno fino alla porta d'ingresso del caseggiato. L'aveva costruita per lei l'amico di un amico. Nell'appartamento, una delle camere da letto era stata trasformata in una palestra di fortuna, con un grande specchio che prendeva tutta una parete e pedane con sbarre parallele che occupavano la maggior parte dello spazio disponibile. Le porte erano strette, ma Sammy aveva dimostrato una notevole abilità nel manovrare la carrozzina, entrando e uscendo senza scorticarsi nocche o gomiti. Quando Rebus arrivò, fu Ned Farlowe ad aprirgli la porta. Aveva un impiego come vicedirettore di un giornaletto locale, un lavoro che portava via poche ore al giorno e gli lasciava perciò il tempo di aiutare Sammy nei suoi esercizi. I due uomini non si fidavano ancora l'uno dell'altro (quando
mai un padre riesce a riporre una completa fiducia in chi va a letto con la figlia?), ma apparentemente Ned ce la metteva tutta per dare una mano a Sammy. «Ehilà», disse. «Sammy si sta esercitando. Le andrebbe una tazza di caffè?» «No, grazie.» «Sto giusto preparando qualcosa per cena.» Ned prese a ritirarsi verso la cucina, lunga e stretta. Rebus capì che gli sarebbe stato soltanto d'impaccio. «Vado solo a...» «Bene.» I profumi che arrivavano dalla cucina erano come quelli che aleggiavano nell'Engine Shed: aromatici e vegetariani. Rebus si avviò nel corridoio, notando i graffi sulle pareti, prodotti dalla carrozzina. Dalla camera per gli ospiti uscivano le note di un pezzo disco. Distesa sul pavimento c'era Sammy, in body e collant neri, che cercava di costringere le gambe a fare certi movimenti. Il volto era arrossato per lo sforzo, i capelli incollati alla fronte dal sudore. Quando scorse il padre, appoggiò la testa al pavimento. «Spegni quell'apparecchio, ti dispiace?» «Posso stare a guardare.» Ma lei scosse il capo. Non le faceva piacere che il padre la osservasse mentre eseguiva i suoi esercizi. Era la sua lotta, una battaglia privata col suo stesso corpo. Rebus spense il registratore. «Sai che cos'era?» gli chiese Sammy. «Le Freak delle Chic. Negli anni 70 ne ho frequentate fin troppe, di pessime discoteche.» «Non riesco a immaginarti sotto le luci psichedeliche.» «Bagliori angoscianti.» Si stava mettendo a sedere. Lui fece un solo passo in avanti, per andare ad aiutarla, sapendo che, se si fosse avvicinato troppo, la figlia l'avrebbe respinto. «A che punto è la tua pratica per il sussidio d'invalidità?» Sammy roteò gli occhi, mentre allungava un braccio a prendere un asciugamano e iniziava a togliersi il sudore dalla faccia. «Ero convinta di sapere tutto della burocrazia. Il fatto è che le mie condizioni prima o poi miglioreranno.» «Certo.» «E questo crea ogni sorta di complicazioni. Inoltre il mio posto allo
SWEEP è ancora disponibile.» «Ma l'ufficio si trova al terzo piano.» Si sedette sul pavimento accanto a lei. «Potrei lavorare da casa.» «Davvero?» «Però a me l'idea non va. Non voglio rinchiudermi in queste quattro mura.» Rebus annuì. «Se hai bisogno di qualcosa...» «Hai qualche nastro di disco music?» Lui sorrise. «Io preferivo Rory Gallagher e John Martyn.» «Be', nessuno è perfetto», commentò Sammy, mettendosi l'asciugamano intorno al collo. «A proposito, come sta Patience?» «Bene.» «Le ho parlato al telefono.» «Oh?» «Sostiene che io comunico con lei più di quanto non faccia tu.» «Non credo che sia così.» «Davvero?» Rebus guardò la figlia. C'era sempre stata in lei quella spigolosita? O era una conseguenza dell'incidente? «Il nostro rapporto è buono», disse. «In quali termini?» Rebus si alzò in piedi. «Credo che la tua cena sia quasi pronta. Vuoi che ti aiuti a sederti in carrozzina?» «Ned preferisce pensarci lui.» Rebus annuì lentamente. «Non hai risposto alla mia domanda.» «Sono un poliziotto. Di solito siamo noi a fare le domande.» Sammy si avvolse l'asciugamano intorno alla testa. «È a causa mia?» «Che cosa?» «Da quando...» Si guardò le gambe. «È come se te ne attribuissi la colpa.» «È stato un incidente.» Aveva distolto lo sguardo dalla figlia. «Vi ha spinti a tornare insieme. Capisci cosa intendo?» «Stai dicendo che io continuo a ritenermi responsabile del tuo incidente, mentre tu continui a colpevolizzarti per Patience e me.» Le lanciò un'occhiata. «Ho riassunto bene la situazione?» Sammy sorrise. «Resta a mangiare un boccone con noi.» «Non credi che dovrei andare a casa da Patience?»
Lei si sollevò l'asciugamano dagli occhi. «È lì che sei diretto?» «E dove, altrimenti?» E le fece un cenno di saluto mentre usciva dalla stanza. 9 Arrivato in fondo a Newhaven Road, si fermò in un paio di bar del porto, a bere in uno una birra, nell'altro un sorso di whisky. Whisky allungato con molta acqua. Era buio, ma sull'altra sponda del Firth of Forth, nel Fife, Rebus riusciva a scorgere le luci stradali. Pensò a Janice e Brian Mee, che non avevano mai lasciato la loro città natale. Si chiese quale fine avrebbe fatto lui, se fosse rimasto. Gli tornò di nuovo in mente Alec Chisholm, il ragazzo mai più ricomparso. Era stata perlustrata tutta la regione, avevano fatto scendere uomini nelle miniere di carbone abbandonate, dragato il fiume. Una lunga estate rovente, i Beatles e gli Stones nei juke-box dei locali pubblici, bottiglie di Coca-Cola che uscivano gelide dalle macchinette. Caffè nelle tazzine di vetro, macchiato con latte schiumoso. E le domande su Alec, domande che rivelavano come nessuno di loro l'avesse mai realmente conosciuto, almeno non in modo approfondito, non nel modo in cui ritenevano di conoscersi tutti loro. E i genitori e i nonni di Alec, che in piena notte camminavano per strada, fermandosi a rivolgere agli estranei sempre la stessa domanda: ha per caso visto il nostro figliolo? Poi gli estranei diventarono conoscenti e non ci fu più nessuno da fermare. Stavolta era toccato a Damon Mee sparire dalla faccia della terra, volontariamente o risucchiato da qualche forza irresistibile. Rebus risalì in macchina e guidò lungo la costa, raggiunse il Forth Bridge e si avviò verso il Fife. Cercò di convincersi che non stava scappando: dalle parole di Sammy, da Patience, da Edimburgo, da tutti i fantasmi. Dalle riflessioni sui pedofili e sui salti suicidi nel vuoto. Quando arrivò a Cardenden, rallentò l'andatura, per fermarsi infine nella strada principale. In ogni vetrina, apparentemente, c'erano piccole locandine fatte a mano, con la foto di Damon e la scritta SCOMPARSO. Altre erano appese ai lampioni stradali e sulle pensiline alle fermate degli autobus. Riaccese il motore e si avviò verso la casa di Janice. Ma non c'era nessuno. Un vicino gli diede l'informazione che voleva, l'informazione che lo fece tornare subito a Edimburgo, dove, in Rose Street, trovò Janice e Brian che incollavano altre locandine ai lampioni stradali e ai muri delle case, infilandone alcune anche nelle cassette della posta. Fotocopie in for-
mato A4. La foto di Damon scattata in vacanza e una supplica scritta a mano: DAMON MEE È SCOMPARSO: QUALCUNO L'HA VISTO? Poi una descrizione dei suoi connotati fisici, e anche degli abiti che indossava al momento della scomparsa, e il numero di telefono dei Mee. «Abbiamo inondato di questi fogli tutti i pub», disse Brian. Aveva l'aria stanca, gli occhi pesti, la barba lunga. Il rotolo di nastro adesivo che si portava dietro era quasi finito. Janice si appoggiò a un muro. Guardandoli, Rebus era ben lontano dalla sensazione di star ripiombando nel passato: troppe erano le piaghe prodotte dalle preoccupazioni del momento. «L'unico posto in cui ci siamo trovati di fronte un muro di gomma è quel club», mormorò Janice. «Gaitano's?» Lui annuì. «I buttafuori ci hanno impedito di entrare. Non hanno neppure voluto prendere le locandine. Ne ho attaccata una alla porta, ma l'hanno subito strappata.» Stava quasi per piangere. Rebus si girò a guardare la strada alle sue spalle, dove brillava l'insegna al neon di Gaitano's. «Andiamo», disse. «Questa volta ci proviamo con la formula magica.» Giunto davanti alla porta, fece balenare il suo tesserino di riconoscimento ed esclamò: «Polizia». I tre furono fatti entrare, mentre qualcuno chiamava Charmer Mackenzie sul telefono interno. Rebus guardò Janice e ammiccò. «Apriti, Sesamo», disse. La donna lo fissava come se lui avesse appena operato un prodigio. «Il signor Mackenzie non c'è», intervenne uno dei buttafuori. «In sua assenza, chi lo sostituisce?» «Archie Frost. È il vicedirettore.» «Mi porti da lui.» Il buttafuori sembrava sulle spine. «Sta bevendo qualcosa al bar.» «Nessun problema», ribatté Rebus. «Conosciamo la strada.» L'interno del locale era buio e rovente. Il suono dei bassi era incessante. Alcune coppie si stavano scatenando sulla pista da ballo, altre fumavano a tutto spiano, le ginocchia sobbalzanti mentre scrutavano la penombra in attesa di buttarsi nella mischia. Rebus si chinò verso Janice, in modo che la sua bocca fosse quasi incollata all'orecchio di lei. «Gira per i tavoli, chiedi ciò che vuoi.» Janice annuì e riferì il messaggio a Brian, che sembrava a disagio per il frastuono. Rebus si avviò verso il bar, camminando in mezzo a fasci di luce di un
azzurro violaceo. C'erano numerosi clienti che aspettavano di essere serviti, ma accanto al bancone soltanto due uomini stavano bevendo. O meglio uno solo beveva, mentre l'altro, dall'aria assetata, ascoltava quanto gli veniva detto. «Scusate se rompo», disse Rebus. L'uomo che stava parlando si girò verso di lui. «Tra un minuto ti rompo io.» Doveva avere vent'anni, forse ventuno, i capelli neri raccolti in una coda di cavallo. Muscoloso, indossava una giacca senza risvolti e una T-shirt di un bianco smagliante. Rebus gli piantò in faccia il suo tesserino di riconoscimento e si presentò. «Hai preso lezioni di charme dal tuo capo?» chiese. Archie Frost non fece commenti, si limitò a vuotare il bicchiere. «Vorrei parlarti, Frost.» «Non mi sembrano agenti, quei due», ribatté Frost, indicando Janice e Brian Mee che stavano passando da un tavolino all'altro. «È perché non lo sono. Il figlio di quelle persone è scomparso. Sparito, anzi, proprio da questo locale.» «Lo so.» «Tanto meglio, perché quindi sai anche perché mi trovo qui.» Rebus tirò fuori la foto della bionda misteriosa. «Mai vista prima?» Frost scosse meccanicamente la testa. «Guardala meglio.» Con aria torva, Frost prese la foto e la girò verso la luce. Poi fece di nuovo un cenno di diniego e cercò di renderla a Rebus. «Perché non la mostri al tuo amichetto?» «Che vuole da lui?» L'«amichetto» in questione, il giovane al quale non era concesso di bere, si era girato di tre quarti, così da osservare la pista da ballo. «Non frequenta spesso il locale», aggiunse Frost. «Non importa», insistette Rebus. Frost allora piantò la foto davanti al muso dell'amico. Un immediato cenno di diniego. «Intendo farla vedere ai tuoi clienti, per verificare se la loro memoria funziona un po' meglio», disse Rebus, togliendo la foto dalle dita del giovane. Non stava guardando Frost; fissava il suo compagno. «Ci siamo già incontrati, amico? La tua faccia mi è familiare.» Il giovane sbuffò, tenendo lo sguardo puntato verso la pista da ballo. «Ora potete pure tornare ai vostri affari», concluse Rebus. Fece il giro della sala, seguendo le orme di Janice e Brian, che avevano lasciato una
locandina su quasi ogni tavolo. Un paio di fogli erano già stati appallottolati. Rebus lanciò un'occhiataccia ai colpevoli. Con la sua foto non stava riscuotendo maggior successo, ma d'un tratto vide che, davanti a lui, Janice e Brian si erano seduti a un tavolino occupato da due ragazze, con cui stavano animatamente parlando. Quando si avvicinò, Janice alzò gli occhi verso di lui. «Dicono di aver visto Damon», urlò per sovrastare il fragore della musica. «Stava salendo a bordo di un taxi», ripeté una delle ragazze, a beneficio del nuovo arrivato. «Dove?» chiese Rebus. «Di fronte al Dome.» «Dall'altra parte della strada», la corresse l'amica. Le due ragazze erano pesantemente truccate, nel tentativo di avere un'aria «sofisticata», come loro l'avrebbero probabilmente definita, e di sembrare più vecchie di quanto non fossero. Di lì a poco, avrebbero cominciato a ragionare nel modo opposto. Indossavano gonne incredibilmente corte. Rebus si accorse che Brian si sforzava di non guardare. «Che ore erano?» «Mezzanotte e un quarto, più o meno. Eravamo in ritardo per una festa.» «Siete sicure del giorno?» chiese Rebus. Janice gli lanciò un'occhiata di biasimo, non volendo che quella fragile bolla di sapone scoppiasse. Una delle due estrasse dalla borsa un'agenda e cercò la pagina. «Ecco, è quello della festa.» Rebus controllò: era lo stesso giorno in cui Damon era scomparso. «Come mai vi ricordate di averlo visto?» «L'avevamo notato qui dentro, prima.» «Sempre fermo davanti al bar», aggiunse l'amica. «Non ballava, non faceva niente.» Un paio di giovanotti, che dovevano essersela squagliata da una festa aziendale perché indossavano ancora abiti molto distinti, si stavano avvicinando al tavolo, per invitare a ballare le due ragazze. Queste finsero un'aria disinteressata, ma una feroce occhiata di Rebus costrinse gli aspiranti cavalieri a tornare sui propri passi. «Anche noi stavamo cercando un taxi», spiegò una delle ragazze. «E li abbiamo visti aspettare dall'altro lato della strada. Ma loro sono stati fortunati... Noi abbiamo finito per andarcene a piedi.» «'Loro'?»
«Lui e la sua ragazza.» Rebus lanciò un'occhiata a Janice, poi tirò fuori la foto. «Sì, sembrerebbe proprio lei.» «Una bionda tinta», annuì l'altra. Janice tolse loro di mano la foto e l'osservò a sua volta. «Chi è questa donna, John?» Rebus scosse la testa, dicendole che non lo sapeva. Poi, lanciando un'occhiata al bar, vide due cose. Prima: Archie Frost lo stava fissando attentamente da sopra il bordo di un bicchiere nuovamente pieno; seconda: il suo amico forzatamente astemio se n'era andato. «Forse sono fuggiti insieme», stava dicendo una delle due ragazze, mettendocela tutta per essere utile. «Sarebbe molto romantico, no?» Janice e Brian non avevano mangiato, perciò Rebus li accompagnò in un ristorante indiano in Hanover Street, dove spiegò loro quel poco che sapeva sulla donna della fotografia. Foto che Janice continuò a tenere in mano, anche mentre mangiava. «È un inizio, no?» disse Brian, spingendo di lato un pezzo di nan. Rebus annuì. «In altre parole», proseguì Brian, «ora sappiamo che se n'è andato con qualcuno. Probabilmente è ancora con questa donna.» «Ma il punto è che non è uscito con lei dal locale», intervenne Janice. «Come John ci ha già spiegato, Damon è andato via da solo.» In realtà, Rebus non si era sbilanciato fino a quel punto. C'era soltanto la testimonianza delle due ragazze a incrinare il sospetto che Damon non fosse mai uscito dal club... «Be'», riprese Brian, quasi inciampando nelle parole, «sai com'è, non voleva che i compagni lo vedessero con quella donna, dato che lui era già fidanzato a un'altra.» «Non posso credere che Damon si sia comportato così.» Lo sguardo di Janice era fisso su Rebus. «È innamorato di Helen.» Rebus annuì. «Ma a volte capita, no?» Janice sorrise mestamente. Brian vide i due scambiarsi una lunga occhiata, ma preferì ignorarla. «Qualcuno vuole altro riso?» chiese invece, sollevando il vassoio dallo scaldavivande. «Sarà meglio tornare a casa», disse Janice. «Magari Damon ha cercato di telefonarci.» Si stava già alzando in piedi. Rebus allungò la mano verso la
fotografia e lei gliela restituì. Era stropicciata, con gli angoli spiegazzati. Brian intanto se ne stava a testa china, con lo sguardo rivolto al cibo rimasto nel piatto. «Brian...» mormorò Janice. Lui tirò su col naso e si alzò. «Va' a pagare il conto.» «Ci penso io», intervenne Rebus. «Lo metto nel rimborso spese.» «Grazie ancora, John.» Gli tese la mano e lui la prese. Era lunga e magra. A Rebus tornò in mente quando gliela stringeva ballando, e quanto fosse calda e asciutta, diversa da quella delle altre ragazze. Calda e asciutta, e il cuore gli tamburellava nel petto. A quei tempi, Janice aveva un tale vitino di vespa che gli sembrava di poterlo stringere tra le mani. «Sì, grazie, Johnny.» Brian Mee rise. «Non ti dispiace se ti chiamo Johnny, vero?» «Perché dovrebbe dispiacermi?» replicò Rebus, senza distogliere i suoi occhi da quelli di Janice. «È il mio nome, dopotutto.» 10 Come prima cosa, Rebus sfogliò attentamente i quotidiani, ma non ci trovò nulla d'interessante. Si diresse quindi alla stazione di polizia di Leith, dove un tempo prestava servizio Jim Margolies. Aveva detto al Caporale che stava cercando un legame tra la ricomparsa di Rough e la morte di Jim, ma dubitava fortemente di riuscire a trovarlo. Eppure, voleva davvero sapere perché Jim l'aveva fatto, perché aveva compiuto un gesto cui Rebus aveva pensato più di una volta: togliersi la vita. Fu accolto a Leith dall'ispettore della sezione investigativa Bobby Hogan, che aveva un'aria molto guardinga. «So che ti dobbiamo un paio di favori, John», esordì Hogan, «ma ti dispiacerebbe spiegarmi esattamente di che si tratta? Margolies era un brav'uomo e tutti noi ne sentiamo molto la mancanza.» Stavano attraversando i locali della stazione di polizia, diretti verso il dipartimento d'investigazioni criminali. Hogan era di un paio d'anni più giovane di Rebus, ma aveva una maggiore anzianità di servizio. Volendo, poteva andare in pensione in qualsiasi momento, tuttavia Rebus non credeva che l'avrebbe fatto. «L'ho conosciuto anch'io», ribatté. «Con ogni probabilità mi sto semplicemente ponendo la stessa domanda che sarà venuta in mente a ognuno di voi.»
«Vuoi dire: perché?» Rebus annuì. «Era destinato a una brillante carriera, Bobby. Lo sanno tutti.» «Forse gli sono venute le vertigini.» Hogan scosse la testa. «Le sue note di servizio non ti sveleranno nulla, John.» Si erano fermati davanti a una sala di lettura. «Ho soltanto bisogno di dare un'occhiata, Bobby.» Hogan lo fissò, poi annuì lentamente. «E con questo siamo pari, amico.» Rebus gli batté una mano sulla spalla ed entrò nella stanza. Una cartella marrone era appoggiata su un tavolo, per il resto completamente sgombro. Nel locale c'erano due sedie. «Ho immaginato che desiderassi un po' di privacy», disse Hogan. «Senti, se qualcuno si chiede...» «Le mie labbra sono sigillate, Bobby.» Rebus si stava già sedendo. Diede un'occhiata all'incartamento. «Non ci metterò molto.» Hogan gli portò una tazza di caffè, poi se ne andò. Rebus impiegò esattamente venti minuti per esaminare ogni cosa: il rapporto iniziale e il materiale integrativo, più il curriculum di Jim Margolies. Venti minuti non erano molti per passare in rassegna un'intera esistenza. Naturalmente le notizie sulla vita privata erano scarse. Si accennava a bevute dopo il lavoro, intervalli per fumare una sigaretta e incontri davanti alla macchinetta del caffè. I nudi fatti non fornivano il minimo indizio. Il padre era un medico, ormai in pensione. Infanzia agiata. Il suicidio della sorella adolescente... Rebus si chiese se quella morte non avesse ossessionato in tutti quegli anni la mente di Jim Margolies. Non trovò neppure un accenno a Darren Rough, e niente sul breve periodo trascorso da Margolies nella stazione di polizia di St. Leonard. La sua ultima sera sulla Terra, Jim era stato a cena in casa di amici. Tutto assolutamente normale. Più tardi, però, nel bel mezzo della notte, era scivolato fuori del letto, si era rivestito ed era uscito, a piedi, sotto la pioggia. Fino a raggiungere Holyrood Park... «Trovato qualcosa?» chiese Bobby Hogan. «Niente di niente», ammise Rebus, richiudendo la cartella. A piedi sotto la pioggia... Una lunga camminata, da Grange fino ai Salisbury Crags. Non si era presentata anima vìva a dire di averlo visto. Erano state fatte indagini, interrogando anche i taxisti. Niente però al di là della routine: non si voleva sprecare tempo per un suicidio. A volte potevano saltar fuori particolari che era meglio lasciare nascosti. Rebus rientrò in città e, dopo aver parcheggiato dietro la stazione di po-
lizia di St. Leonard, entrò in ufficio. Bussò alla porta del sovrintendente capo Watson e obbedì al suo invito a farsi avanti. Il Caporale aveva l'aria di chi ha iniziato male la giornata. «Dove sei stato?» «Ho perso un po' di tempo alla stazione di polizia di Leith, a controllare il dossier su Jim Margolies.» Il Caporale stava camminando avanti e indietro al di là della sua scrivania. Stringeva tra le mani una tazza di caffè. «Ha parlato con Andy Davies, signore?» «Con chi?» «Con Andy Davies. L'assistente sociale di Darren Rough.» Il Caporale annuì. «Allora, signore?» «Allora mi ha risposto che dovevo parlare col suo superiore.» «E il suo superiore cosa le ha detto?» Il Caporale roteò su se stesso. «Cristo, John, lasciami tirare il fiato, va bene? Abbiamo altre cose di cui occuparci, molto più importanti del tuo piccolo...» Trasse un sospiro, incurvando le spalle. Poi mormorò una scusa. «Nessun problema, signore. Volevo soltanto...» Rebus si diresse verso la porta. «Siediti», gli ordinò il Caporale. «Visto che sei qui, vediamo se ti viene in mente qualche idea geniale.» Rebus si sedette. «A quale proposito, signore?» Anche il Caporale si mise seduto, poi, accortosi che la sua tazza era vuota, si rialzò per andare a riempirla dalla caffettiera e ne versò una tazza pure per Rebus. L'ispettore lanciò al liquido un'occhiata sospettosa. Nel corso degli anni il caffè del Caporale era notevolmente migliorato, ma c'erano ancora giorni in cui... «A proposito di Cary Dennis Oakes.» Rebus si accigliò. «Dovrei conoscerlo?» «Se non sai chi è, lo scoprirai presto.» Il Caporale spinse verso di lui un giornale, tanto bruscamente da farlo scivolare a terra. Rebus lo raccolse e vide che era piegato in modo da mettere in evidenza un particolare articolo, che a lui, durante la lettura del mattino, era sfuggito perché non era quello che stava cercando. ASSASSINO RIMANDATO «A CASA». «Cary Oakes», lesse Rebus, «riconosciuto colpevole di duplice omicidio dalla corte di giustizia dello Stato di Washington, dopo aver scontato una
condanna a quindici anni di reclusione nel carcere di massima sicurezza di Walla Walla, Washington, s'imbarcherà oggi su un aereo che lo riporterà nel Regno Unito. Si ritiene che la destinazione di Oakes sia Edimburgo, dove ha vissuto alcuni anni prima di andare negli Stati Uniti.» L'articolo riportava anche altri particolari. Oakes era entrato negli Stati Uniti con uno zaino e un visto turistico e vi era rimasto, facendo una serie di lavoretti saltuari prima d'iniziare un crescendo di aggressioni e rapine culminato in due omicidi. Le vittime erano state selvaggiamente percosse e strangolate. Rebus posò il giornale. «Lei ne era al corrente?» Il Caporale picchiò i pugni sul tavolo. «Certo che no!» «Non avrebbero dovuto informarla?» «Ragiona, John. Sei un poliziotto di Wallumballa o come diavolo si chiama quel posto. Stai per rimandare questo assassino in Scozia, in Scotland. Chi è che informi della cosa?» Rebus annuì. «Scotland Yard.» «Senza renderti assolutamente conto che Scotland Yard si trova in realtà in tutt'altra parte del Paese.» «E i cervelloni londinesi hanno deciso di non trasmettere l'informazione?» «Secondo la loro versione, alla base di tutto c'è un fraintendimento: erano convinti che Oakes sarebbe stato una questione di loro pertinenza. In effetti il biglietto aereo ha come destinazione Londra.» «È un problema di Scotland Yard, dunque.» Ma il Caporale scosse la testa. «Non hanno mica organizzato una colletta e pagato il biglietto fino a Edimburgo, vero?» continuò allora Rebus. «Tombola!» «E quando arriverebbe a Edimburgo, quel tizio?» «Oggi... tra qualche ora.» «E noi che facciamo?» Il Caporale fissò Rebus. Quel noi gli era piaciuto. Un problema condiviso (anche se con una spina nel fianco qual era Rebus) era un problema risolvibile. «Tu cosa suggerisci?» «Uno spiegamento di forze di sorveglianza molto... evidente, per fargli capire che non lo perdiamo d'occhio. Se la fortuna ci assiste, potrebbe infastidirsi e sloggiare.» Il Caporale si fregò gli occhi. «Guarda un po' questa roba», disse, facendo scivolare una cartelletta attraverso la scrivania. Rebus l'aprì: una venti-
na di fax. «Alla fine i londinesi si sono impietositi per la nostra situazione e ci hanno mandato ciò che avevano ricevuto dagli americani.» Rebus cominciò a leggere. «Come mai l'hanno liberato? Credevo che negli Stati Uniti una condanna 'a vita' volesse dire fino alla morte.» «Qualche errore procedurale nel primo processo. Così misterioso che neppure le autorità statunitensi hanno la certezza della sua esistenza.» «E con tutto questo lo rilasciano?» «Un nuovo processo costerebbe una fortuna, e in più sarebbe problematico rintracciare i testimoni originali. Gli hanno proposto uno scambio. Se lui avesse mollato, rinunciando al diritto di ricorrere o di chiedere un risarcimento, l'avrebbero rispedito a casa.» «Sul giornale, 'casa' è tra virgolette.» «Oakes non ha vissuto a lungo a Edimburgo.» «Perché ci torna, allora?» «A quanto pare, è una sua scelta.» «Ma per quale motivo?» «È nei fax, forse, che puoi trovare la risposta.» Il messaggio contenuto nei fax era chiaro e semplice. Diceva che Cary Oakes avrebbe ucciso di nuovo. A questo proposito, lo psicologo aveva chiaramente messo sull'avviso le autorità. Cary Oakes aveva, a suo giudizio, un'idea molto vaga del confine tra giusto e sbagliato, condizione alla quale si poteva applicare un'ampia gamma di termini clinici. La parola «psicopatico» non era più molto di moda tra gli esperti, ma Rebus, leggendo tra le righe e traducendo il gergo tecnico, capì che avevano per le mani un individuo del genere. Tendenze antisociali... diffidenza profondamente radicata... Oakes aveva trentotto anni. Nella cartelletta c'era una sua fotografia, molto sgranata. Sotto il cranio, rasato in carcere, la fronte appariva larga e sporgente, il viso magro e spigoloso. Gli occhi erano minuscoli, simili a perline nere; la bocca piccola. Era descritto come un individuo d'intelligenza superiore alla media (in carcere aveva studiato molto, da autodidatta), interessato alla salute e alla forma fisica. Durante la detenzione non si era fatto amici, non aveva attaccato foto o disegni alle pareti della cella e l'unica corrispondenza che aveva tenuto era stata quella con la sua squadra di avvocati (in totale, ne aveva cambiati cinque). Il Caporale era al telefono, per appurare a che ora sarebbe atterrato Oakes e per stabilire una linea d'azione col vicecapo della polizia di Fettes.
Quando ebbe finito di parlare, Rebus gli chiese quale fosse l'opinione di quest'ultimo. «Dice che dovremmo procedere coi piedi di piombo.» Rebus sorrise: una risposta scontata. «In un certo senso ha ragione», continuò il Caporale. «I media ci toglieranno il fiato. Non possiamo dare l'impressione di stargli troppo addosso.» «Se la fortuna è dalla nostra parte, i reporter potrebbero spaventarlo e indurlo a cambiare aria.» «Magari.» «Qui si dice che, in origine, Oakes era stato sospettato di altri quattro omicidi.» Il Caporale annuì, ma sembrava distratto. «Ci mancava anche questo», disse poi, fissando la scrivania. Gli somigliava: sempre in perfetto ordine, come, del resto, tutta la stanza. Nessuna pila disordinata d'incartamenti, nulla che fosse alla rinfusa o sottosopra, neppure un fermaglio sul tappeto. «Faccio questo mestiere da troppo tempo, John.» Il Caporale si lasciò ricadere sulla sedia. «Sai quali sono i funzionari della peggiore specie?» «Quelli come me, signore?» Il Caporale sorrise. «Tutto l'opposto. Parlo di quelli che si trastullano in attesa che arrivi il giorno della pensione. I controllori dell'orologio. Da qualche tempo stavo diventando uno di loro. Altri sei mesi, ecco il termine che mi ero dato. Ancora sei mesi, poi il pensionamento.» Sorrise di nuovo. «Sei mesi che volevo trascorrere in tutta tranquillità. Che mi auguravo passassero lisci come l'olio.» «Non sappiamo se questo tizio ci darà delle grane. Ci siamo già passati, signore.» 11 Caporale annuì: era vero. Uomini usciti dalle carceri australiane e canadesi, delinquenti incalliti rilasciati dalla corte di Glasgow, che si erano stabiliti a Edimburgo o vi avevano fatto un'apparizione, più o meno rapida. Tutti col loro passato inciso sul volto. Anche quando non davano grane, erano comunque una seccatura. Magari si sistemavano, vivevano in pace, ma c'era sempre qualcuno che sapeva tutto di loro, che era al corrente di quanto avevano fatto, di quel qualcosa che non si sarebbero mai scrollati di dosso. E alla fine, in qualche pub, dopo troppe birre, quel qualcuno decideva che era giunto il momento di mettersi alla prova, perché ciò che l'ex carcerato portava con sé era un metro di paragone, qualcosa con cui potersi confrontare. Era Hollywood allo stato puro: il pistolero in pensione sfidato dal ragazzino. Ma per la polizia erano guai.
«Il punto è questo, John: possiamo permetterci di giocare una partita a rimpiattino? Secondo il vicecapo della polizia, potremmo ottenere un po' di soldi per organizzare una sorveglianza parziale.» «Quanto parziale?» «Due pattugliamenti da parte di una coppia di funzionari di polizia, per una quindicina di giorni.» «Non si è sprecato.» «Non gli piace sforare il budget.» «Anche se c'è il pericolo che quel tizio uccida ancora?» «Ai giorni nostri, anche il delitto ha un budget, John.» «Non riesco a capire, nonostante tutto.» Rebus prese il fascio di fax. «Secondo questi documenti, Oakes non è nato a Edimburgo, non ha parenti, qui. Ha vissuto in questa città per... vediamo... quattro o cinque anni. Era appena ventenne quand'è andato negli Stati Uniti, dove ha trascorso metà della sua esistenza. Perché ha deciso di tornare proprio qui?» Il Caporale si strinse nelle spalle. «Per ricominciare da zero?» Per ricominciare da zero: a Rebus venne in mente Darren Rough. «Ci dev'essere qualcos'altro, signore», disse, riprendendo in mano la cartelletta. «Per forza.» Il Caporale controllò l'ora. «Non dovevi andare in tribunale?» Rebus annuì. «Una perdita di tempo, signore. Non mi chiameranno a deporre.» «In ogni caso, ispettore...» Rebus si alzò. «Le dispiace se tengo questa roba?» E, sventolando i fax, aggiunse: «È stato lei a suggerirmi di portare con me qualcosa da leggere». 11 Rebus si sedette con gli altri testimoni, convocati per altri casi, tutti in attesa di essere chiamati a deporre. C'erano tizi in uniforme, che controllavano i propri appunti, e funzionari del dipartimento d'investigazioni criminali che, a braccia incrociate, cercavano di ostentare un'aria disinvolta. Rebus riconobbe qualche viso, scambiò due parole a bassa voce. Gli altri testimoni, tutta gente comune, se ne stavano seduti con le mani strette in mezzo alle ginocchia o con la testa piegata verso il soffitto, annoiati a morte. In giro per la stanza erano disseminati giornali, ormai letti e riletti, con le parole incrociate già tutte fatte. Un paio di tascabili con qualche angolo di pagina piegato aveva attratto l'attenzione, ma non per molto. C'era qual-
cosa, nell'atmosfera della stanza, che smorzava ogni entusiasmo. Sotto una luce così abbagliante da provocare il mal di testa, la gente continuava a chiedersi perché mai fosse lì. Risposta: per servire la giustizia. Prima o poi un usciere del tribunale sarebbe entrato e, guardando un foglio, avrebbe pronunciato il tuo nome. Allora dovevi farti rumorosamente strada fin nell'aula, dove la tua memoria intorpidita sarebbe stata stuzzicata e pungolata da estranei che giocavano a fare il giudice, la giuria e il pubblico. Questa era la giustizia. C'era un teste, seduto proprio davanti a Rebus, che continuava a scoppiare a piangere. Era un giovane sui venticinque anni, corpulento e con sottili ciocche di capelli neri incollate alla testa. Seguitava a soffiarsi il naso in un fazzoletto pieno di macchie. D'un tratto sollevò gli occhi e incontrò quelli di Rebus, che gli rivolse un sorriso rassicurante, con l'unico risultato di scatenare una nuova crisi di pianto. Alla fine Rebus sentì il bisogno di uscire da quella stanza. Disse a uno dei piantoni che andava fuori a fumare una sigaretta. «Seguo il suo esempio», ribatté il militare. All'esterno, fumarono rabbiosamente e in silenzio, osservando il flusso e riflusso della gente. L'alta corte di giustizia era confinata dietro la cattedrale di St. Giles e di tanto in tanto qualche turista si dirigeva dalla sua parte, chiedendosi che cosa fosse. Intorno non c'erano che pochi cartelli, soltanto numeri romani sulle numerose e pesanti porte di legno. A volte, una guardia nel parcheggio rimandava indietro i turisti, verso High Street. Anche se alla popolazione era consentito entrare nel palazzo di giustizia, si cercava di tenere alla larga i curiosi. Il grande atrio ricordava, in un certo senso, un mercato del bestiame, ma a Rebus piaceva: gli piacevano il soffitto di legno a cassettoni, la statua di Sir Walter Scott, l'enorme vetrata istoriata. Amava sbirciare attraverso la porta di vetro nella biblioteca in cui i legali cercavano qualche precedente sentenza in enormi volumi polverosi. Ma preferiva l'aria fresca, con la pavimentazione di granito sotto i piedi e la pietra grigia in alto, e la nicotina che gli entrava nei polmoni, e l'illusione di potersi lasciare tutto alle spalle, se avesse voluto. Era infatti innegabile che, al di là dello splendore del disegno architettonico, del peso della tradizione e degli elevati concetti di giustizia e legge, quell'edificio era una sentina d'immense e continue sofferenze umane, in cui venivano messe a nudo storie brutali e quotidianamente si rivivevano scene di tortura.
Chi pensava di essersi gettato ogni cosa alle spalle veniva invece sollecitato a rovistare nei momenti più segreti e tragici del proprio passato. Le vittime raccontavano i loro drammi, i professionisti stendevano una fredda coltre di fatti sulle emozioni degli altri, gli accusati tessevano le proprie versioni nel tentativo di accattivarsi la giuria. E, sebbene fosse facile vederlo come un gioco, come una sorta di crudele sport passivo, non poteva essere abolito. Era lì, infatti, che tutto il duro lavoro compiuto da Rebus e da altri per risolvere un determinato caso rimaneva a galla o affondava. Ed era lì che tutti i poliziotti imparavano precocemente la lezione che verità e giustizia erano tutt'altro che alleate, che le vittime erano poco più di sacchi sigillati di prove, comparse e deposizioni. In altri tempi, con ogni probabilità, era tutto assai meno complesso: il concetto era ancora relativamente semplice. C'era un imputato e c'era una vittima. Gli avvocati peroravano a nome di entrambe le parti, presentando le prove. Veniva pronunciato un verdetto. Ma tutto ciò si basava su parole e interpretazioni e Rebus sapeva quanto i fatti potessero essere travisati e distorti, come qualche prova suonasse più convincente di altre, fino a che punto le giurie potessero decidere in un senso piuttosto che nell'altro sulla base di elementi estranei al processo, facendosi influenzare dal comportamento o dall'aspetto dell'imputato. Perciò in aula era entrato un elemento di teatralità e, quanto più scaltri diventavano gli avvocati, tanto più astrusi si facevano i loro giochi linguistici. Da tempo Rebus aveva rinunciato ad affrontarli su quel campo di battaglia. Deponeva come teste, dava risposte brevi, cercava di non cadere nei consueti e collaudati trabocchetti. Qualche legale glielo leggeva negli occhi: capiva che, in precedenza, lui era stato lì fin troppe volte. Perciò lo tratteneva il meno possibile, per passare subito a qualche soggetto più malleabile. Era questo il motivo per cui Rebus era quasi sicuro che quel giorno non l'avrebbero chiamato a deporre. Ma doveva in ogni caso sedere lì, in attesa, sprecare tempo ed energia in nome e per gloria della giustizia. Un militare di guardia uscì all'aperto. Rebus lo conosceva e gli offrì una sigaretta. L'uomo la prese, annuendo, e accettò anche la scatola di fiammiferi. «Oggi là dentro c'è un clima orrendo», disse poi, scuotendo la testa. Tutti e tre gli uomini avevano lo sguardo rivolto verso il parcheggio. «A noi è vietato ricevere informazioni», gli ricordò Rebus con un sorriso malizioso.
«È qui per deporre in quale processo?» «Quello di Shiellion», rispose Rebus. «È proprio quello di cui sto parlando», disse la guardia. «Alcuni dei testimoni...» E scosse il capo, sebbene fosse un uomo che, nella sua vita, aveva sentito più racconti raccapriccianti della maggior parte della gente. Di colpo Rebus comprese perché l'uomo seduto davanti a lui continuava a piangere. E, pur non potendo dargli nome e cognome, ora se non altro sapeva chi era: uno dei «sopravvissuti» di Shiellion. Shiellion House si trovava appena oltre la fine di Glasgow Road, a Ingliston Mains. La residenza, costruita intorno al 1820 per un sindaco della città, dopo la morte di costui e svariate controversie familiari era entrata a far parte del patrimonio della Chiesa di Scozia. Come dimora privata era troppo grande e piena di spifferi, e anche troppo isolata (a quei tempi le case più vicine erano alcune remote fattorie), ragion per cui la maggior parte degli abitanti finiva per andarsene. Negli anni '30 era stata trasformata in casa per l'infanzia abbandonata: accoglieva orfani e figli di famiglie poverissime, insegnando loro il cristianesimo a forza di severe lezioni e sveglie all'alba. Da un anno, cioè da quando Shiellion era stata finalmente chiusa, si parlava di farla diventare un albergo o un country club. Ma negli ultimi tempi intorno a Shiellion si era levato un certo polverone. Alcuni ex residenti avevano formulato gravi accuse e, da fonti diverse, erano arrivate storie che riguardavano gli stessi due uomini. Storie di abusi. Abusi fisici e psicologici, in primo luogo, ma alla fine anche abusi sessuali. Un paio di casi era arrivato alle orecchie della polizia, ma le accuse sembravano troppo di parte: si trattava della parola di ragazzi aggressivi contro quella dei loro melliflui educatori. Le indagini erano state condotte in modo svogliato. La Chiesa aveva svolto un'inchiesta interna, dalla quale era risultato che i racconti dei ragazzi erano intrisi di menzogne, scaturite dal desiderio di vendetta. Ma i risultati di quell'inchiesta, secondo ciò che si era appurato nel frattempo, erano stati decisi fin dall'inizio, perché dovevano servire soprattutto a coprire lo scandalo. Perché a Shiellion era accaduto qualcosa. Qualcosa di brutto. I «sopravvissuti» avevano formato un gruppo, ottenendo un certo interessamento da parte dei media. E la polizia aveva condotto una nuova indagine, che aveva portato appunto al processo di Shiellion: due uomini accusati di reati che andavano dall'eccesso di punizioni corporali alla sodo-
mia. Ventotto capi d'imputazione contro ognuno dei due. E nel frattempo le vittime si preparavano a citare in giudizio la Chiesa. Rebus non si meravigliò del fatto che la guardia fosse pallidissima in viso. Aveva sentito qualche indiscrezione sui racconti fatti nell'aula numero uno del tribunale. Aveva letto alcune delle trascrizioni originali, vari dettagli degli interrogatori svoltisi nelle stazioni di polizia in ogni parte del Paese, via via che i bambini un tempo ospitati a Shiellion (e ormai uomini adulti) venivano rintracciati e sottoposti a un fuoco di fila di domande. Alcuni si erano rifiutati di rispondere. «Ormai per me è acqua passata», era la scusa cui avevano fatto ricorso più frequentemente. Ma era più di una scusa; era la semplice verità. Ce l'avevano messa tutta per rimuovere gli incubi della loro infanzia: perché mai avrebbero dovuto desiderare di riviverli? Avevano raggiunto quel po' di pace che potevano trovare sulla Terra: perché rinunciarci? Chi avrebbe fronteggiato il terrore in un'aula di tribunale, se aveva la possibilità di evitarlo? Bella domanda. Il gruppo dei «sopravvissuti» era composto di otto persone che avevano scelto la strada più difficile. Volevano a tutti i costi che, dopo tutti quegli anni, giustizia fosse finalmente fatta. Si auguravano di vedere dietro le sbarre i due mostri che avevano dilaniato la loro innocenza, mostri che erano ancora lì, vivi e vegeti, ogni volta che loro si risvegliavano dagli incubi. Harold Ince, cinquantasette anni, era un uomo basso e mingherlino, con gli occhiali e i capelli ricci, che cominciavano a ingrigire. Sposato, aveva tre figli, già adulti. Era nonno. Da sette non lavorava più. In tutte le fotografie che Rebus aveva visto, la sua espressione sembrava vagamente attonita. Ramsay Marshall, quarantaquattro anni, era alto e ben piantato, coi capelli tagliati a spazzola. Divorziato, senza figli, fino a poco tempo prima aveva vissuto e lavorato (come cuoco) ad Aberdeen. Nelle fotografie, il volto conservava un'espressione torva, col mento in fuori. I due uomini si erano conosciuti a Shiellion nei primi anni '80 e tra loro era nata un'amicizia, o, se non altro, si era creata un'alleanza. Avevano infatti scoperto di avere in comune una certa inclinazione, un interesse che, a quanto sembrava, poteva essere impunemente soddisfatto a Shiellion House. Uomini che abusavano di bambini. Rebus provava nei loro confronti un
senso di nausea. Non potevano essere guariti né cambiati. Continuavano, senza tregua. Una volta riammessi nella comunità, riprendevano le vecchie abitudini. Erano privi di ogni controllo, deboli di mente, esseri orrendi. Simili a tossicodipendenti cui non era possibile togliere il vizio. Con loro non si poteva ricorrere al metadone e nessuna psicoterapia sembrava funzionare. Vedevano la debolezza e dovevano sfruttarla; vedevano l'innocenza e dovevano infangarla. Rebus provava nei loro confronti un odio viscerale. La stessa cosa che gli capitava con Darren Rough. Rebus sapeva che la sua brusca reazione nel giardino zoologico era dovuta a Shiellion, all'impossibilità di cancellare dalla sua mente quella storia. Il processo stava andando avanti già da due settimane e si era entrati nella terza, eppure c'erano ancora storie da raccontare, c'erano ancora persone in lacrime nella sala d'attesa. «Castrazione chimica», disse la guardia, gettando via la sigaretta. «È l'unica soluzione.» Dalla porta dell'aula risuonò una voce: era di una donna, uno degli uscieri del tribunale. «Ispettore Rebus?» chiamava. Lui annuì, lasciando cadere la sigaretta sul granito. «Tocca a lei», gli disse la donna. L'ispettore si stava già avviando nella sua direzione. Rebus non sapeva per quale motivo fosse stato chiamato a deporre. Forse perché aveva interrogato Harold Ince, o, meglio, aveva fatto parte del gruppo di poliziotti che l'avevano torchiato. Ma per un giorno solo... altri impegni di lavoro l'avevano subito allontanato da Shiellion. Un giorno solo, e quando l'inchiesta era appena agli inizi. Aveva condiviso quell'incarico con Bill Pryde, ma non era quest'ultimo il poliziotto chiamato al banco dei testimoni dalla difesa. Come teste era stato scelto John Rebus. La zona riservata al pubblico era semivuota. I quindici giurati sedevano nel loro banco con un'espressione vitrea sul volto, quale conseguenza del fatto di dover condividere, giorno dopo giorno, gli incubi di qualcun altro. Sullo scanno sedeva il giudice di corte d'appello, Petrie. Nel banco degli imputati c'erano Ince e Marshall: il primo era leggermente chino in avanti, per sentire meglio le deposizioni dei testimoni, con le mani avvinghiate alla lucida sbarra d'ottone che aveva di fronte; il secondo, semisdraiato sul sedile, con un'espressione annoiata, quasi fosse stufo di quel dibattimento.
Si esaminava il davanti della camicia, girava il collo da una parte all'altra, si schiariva la voce, faceva schioccare la lingua, tornava a guardare i propri indumenti. L'avvocato difensore era Richard Cordover, «Richie» per gli amici. Anche Rebus, che aveva avuto a che fare con lui in altre occasioni, era stato invitato a chiamarlo con quel nomignolo. Cordover era sulla quarantina, coi capelli già brizzolati. Di media altezza, aveva un collo muscoloso e il viso abbronzato. Un assiduo frequentatore di qualche club salutista, immaginò Rebus. La pubblica accusa era rappresentata da un procuratore che aveva all'incirca la metà degli anni di Rebus. Pareva fiducioso ma cauto, mentre scartabellava i suoi documenti e sottolineava alcuni punti con una grossa stilografica nera. Petrie si schiarì la voce, per ricordare a Cordover che il tempo stava passando. Cordover allora rivolse un inchino al giudice e si avvicinò a Rebus. «Ispettore Rebus della polizia investigativa...» Fece subito una pausa, per attirare l'attenzione. «Mi risulta che lei abbia interrogato uno degli imputati.» «È esatto, signore. Il 20 ottobre dell'anno scorso ho presenziato all'interrogatorio di Harold Ince. Con me c'era...» «Dove si svolse esattamente l'interrogatorio?» «Nella stanza B della stazione di polizia di St. Leonard.» Cordover girò le spalle a Rebus e s'incamminò lentamente verso il banco della giuria. «Lei faceva parte dell'équipe che investigava sul caso?» «Sì, signore.» «Ne fece parte per quanto tempo?» «Per una sola settimana, signore.» Cordover si voltò verso Rebus. «Quanto durò complessivamente l'inchiesta, ispettore?» «Alcuni mesi, ritengo.» «Alcuni mesi, già...» Mentre Cordover si avvicinava al tavolo, come per verificare qualche particolare, Rebus notò, su una sedia accanto alla porta, una donna. Si chiamava Jane Barbour ed era una detective del dipartimento d'investigazioni criminali. Benché se ne stesse tranquillamente seduta con le braccia conserte e le gambe accavallate, Rebus avvertì in lei la sua stessa tensione. Di solito la Barbour lavorava al di fuori di Fettes, ma durante il caso Shiellion era stata tirata in ballo: Rebus non aveva avuto nulla a che fare con lei perché nel frattempo era già stato destinato a un altro incarico.
«Otto mesi e mezzo», stava dicendo Cordover. «Quasi quanto una gravidanza.» Sorrise freddamente a Rebus, che non aprì bocca. Si stava chiedendo dove l'avvocato volesse andare a parare. Ormai aveva capito che la difesa aveva qualche motivo dannatamente valido per trascinarlo sul banco dei testimoni, ma non gli era ancora chiaro di che si trattasse. «Venne esonerato dall'inchiesta, ispettore Rebus?» Una domanda fatta come per inciso, quasi a voler soltanto soddisfare una semplice curiosità. «Esonerato? No, signore. Si presentò un altro caso...» «E c'era bisogno di qualcuno che se ne occupasse?» «Esatto.» «Perché proprio lei?» «Non ne ho idea, signore.» «No?» Cordover assunse un'aria sorpresa. Si girò verso la giuria. «Lei non ha idea del perché venne esonerato dall'inchiesta dopo una sola...» La pubblica accusa balzò in piedi, allargando le braccia. «Vostro onore, il teste ha già chiaramente risposto che parlare di 'esonero' è inadeguato.» «Va bene», aggiunse frettolosamente Cordover, «diciamo che lei fu distolto. Questo termine le sembra più adeguato, ispettore?» Rebus si strinse nelle spalle, restio a dichiararsi in un senso o nell'altro. Ma Cordover insistette. «Deve rispondere sì o no.» «Sì, signore.» «Sì, nel senso che fu distolto da un'importante inchiesta dopo una sola settimana?» «Sì, signore.» «E non sa perché?» «Perché la mia presenza era necessaria altrove, signore.» Rebus cercava di non girare lo sguardo verso il procuratore; sarebbe bastata un'occhiata anche vaga in quella direzione perché Cordover avvertisse puzza di bruciato, annusasse una richiesta d'aiuto. Jane Barbour si stava dimenando sulla sedia, con le braccia ancora conserte. «La sua presenza era necessaria altrove», ripeté Cordover con voce piatta. Tornò a scartabellare i suoi appunti. «Quali sono i suoi precedenti disciplinari, ispettore?» La pubblica accusa balzò in piedi. «Vostro onore, il teste non è sotto processo. È venuto qui a deporre e finora non c'è nessun elemento rilevante ai fini di questo procedimento nel...» «Ritiro la domanda, vostro onore», intervenne Cordover con molta disinvoltura. Poi sorrise a Rebus e gli si accostò nuovamente. «Quanti furo-
no gli interrogatori cui sottopose il signor Ince?» «Due sedute, nell'arco di un'unica giornata.» «Andarono bene?» Rebus lo guardò con aria vacua. «Il mio cliente si dimostrò collaborativo?» «Le sue risposte furono deliberatamente evasive, signore.» «'Deliberatamente'? Lei, ispettore, è forse un esperto in materia?» Rebus guardò fisso l'avvocato. «So capire quando qualcuno si comporta in modo sfuggente.» «Davvero?» Cordover si stava di nuovo avvicinando alla giuria. Rebus si chiese quanti chilometri di pavimento percorresse in un giorno. «Il mio cliente è dell'opinione che lei fosse 'una presenza minacciosa'... Sono parole sue, non mie.» «Gli interrogatori furono registrati, signore.» «Certo, lo so. E anche filmati. Li ho esaminati parecchie volte e credo che lei debba essere d'accordo con me nel dire che nel suo modo d'interrogare c'è una forte aggressività.» «No, signore.» «No?» Cordover inarcò le sopracciglia. «Il mio cliente era palesemente terrorizzato da lei.» «Gli interrogatori sono stati condotti nel pieno rispetto delle regole, signore.» «Oh, sì, sì», ribatté sbrigativamente Cordover, «ma ora cerchiamo di essere onesti, ispettore.» Era proprio davanti a Rebus, abbastanza vicino da poterlo colpire. «C'è modo e modo, non crede? Il linguaggio del corpo, la gestualità, il giro di una frase, il tono di una domanda. Non so se lei sia davvero capace di cogliere al volo una risposta evasiva, ma di certo è un inquisitore implacabile.» Il giudice sbirciò sopra le lenti degli occhiali. «Queste sue domande ci porteranno a un qualche risultato che non sia soltanto quello di distruggere la reputazione del teste?» «Se mi concede ancora un minuto, vostro onore...» Cordover, da consumato showman qual era, s'inchinò ancora. Per l'ennesima volta, Rebus fu colpito dall'estrema assurdità dell'intero dibattimento: una partita giocata da avvocati ben retribuiti che si servivano di esistenze reali a mo' di pedine. «Alcuni giorni fa, ispettore, faceva parte della squadra di sorveglianza nello zoo di Edimburgo?» proseguì Cordover. Oh, maledizione. Adesso aveva capito perfettamente dove Cordover vo-
leva andare a parare, ma, come un cattivo giocatore di scacchi di fronte a un maestro, poteva fare ben poco per evitare la sconfitta. «Sì, signore.» «Lei non si è forse messo a inseguire uno dei tanti visitatori?» Il procuratore era balzato di nuovo in piedi, ma il giudice gli fece cenno di rimettersi a sedere. «L'ho inseguito, sì.» «Non faceva parte di una squadra in borghese che stava cercando di acciuffare il famigerato avvelenatore?» «Sì, signore.» «E l'uomo da lei inseguito... nella gabbia dei leoni di mare, o mi sbaglio?» Cordover alzò lo sguardo in cerca di conferma. Rebus annuì rispettosamente. «Quell'uomo era l'avvelenatore?» «No, signore.» «Lei sospettava che lo fosse?» «Era un ex detenuto, condannato per pedofilia...» Rebus sentì la rabbia affiorargli nella voce e si rese conto di avere la faccia paonazza. S'interruppe, ma troppo tardi. Aveva dato all'avvocato della difesa tutto ciò che voleva. «Un uomo che aveva scontato la propria condanna ed era stato riammesso nella società civile. Un uomo che non si era più reso colpevole di altri reati. Un uomo che si stava godendo il piacere di una passeggiata nello zoo finché lei non l'ha riconosciuto e si è messo a dargli la caccia.» «È fuggito per primo.» «È fuggito? Da lei, ispettore? E perché mai quell'uomo si è comportato così?» Va bene, fottuto bastardo, adesso piantala. «Il punto che voglio mettere in chiaro», disse Cordover rivolto alla giuria, avvicinandosi al banco con un'aria prossima alla venerazione, «è che esistono pesanti pregiudizi nei confronti di chi sia anche solo sospettato di crimini contro l'infanzia. L'ispettore, non appena gli è capitato di scorgere un uomo che aveva scontato la pena inflittagli per una singola condanna, ha immediatamente ipotizzato il peggio e, sulla base di tale ipotesi, ha agito... erroneamente, com'è risultato in seguito. Infatti l'avvelenatore ha potuto colpire ancora e nessuna accusa è stata formulata contro quest'uomo, che credo stia valutando l'ipotesi di chiedere un risarcimento in denaro alla polizia per arresto ingiustificato.» Annuì. «E a rimetterci, temo, è sempre il contribuente.» Trasse un profondo respiro. «Ora, noi tutti possiamo forse capire i sentimenti dell'ispettore. Se c'è qualcosa che riguarda i bambini, il
sangue ribolle. Ma io vi chiedo: è moralmente giusto? Un simile preconcetto non inquina forse l'intero procedimento giudiziario contro i miei clienti, filtrando attraverso gli strumenti dell'investigazione, arrivando sino ai funzionari che hanno condotto l'inchiesta?» Puntò il dito verso Rebus, che ebbe l'impressione di trovarsi sul banco degli imputati invece che su quello dei testimoni. Notando il suo disagio, gli occhi di Ramsay Marshall luccicarono di piacere. «In seguito produrrò ulteriori elementi per provare che l'inchiesta condotta dalla polizia era inquinata fin dall'inizio e che l'ispettore Rebus qui presente non è stato l'unico colpevole.» Si voltò verso Rebus. «Non ho altre domande.» E Rebus fu allontanato dall'aula. «È stata una carognata.» Rebus sollevò lo sguardo verso la figura che si stava lentamente avvicinando. Lui si era acceso una sigaretta, inalando profondamente il fumo. Ne offerse una anche alla donna, ma lei fece un gesto di diniego. «Ti era mai capitato di aver a che fare con Cordover?» chiese Rebus. «Abbiamo avuto i nostri scontri», rispose Jane Barbour. «Mi dispiace, non sono riuscito...» «Potevi fare ben poco.» Espirò rumorosamente, stringendosi al petto una cartella. Si trovavano all'esterno del palazzo di giustizia. Rebus si sentiva a pezzi, sfinito. Notò che anche la collega aveva l'aria esausta. «Ti andrebbe di bere qualcosa?» Lei scosse la testa. «Ho un sacco di cose da fare.» Rebus annuì. «Secondo te, vinceremo la causa?» «No, se c'è di mezzo Cordover.» Strofinò il tacco di una scarpa a terra. «Ultimamente mi pare che, per quanto mi riguarda, le sconfitte siano più numerose delle vittorie.» «Sei ancora a Fettes?» La Barbour annuì. «Alla buoncostume.» «Ancora col grado d'ispettore?» Lei annuì nuovamente. Rebus rammentò di aver sentito parlare di una promozione. Dunque Gill Templer rimaneva l'unico ispettore capo in gonnella di tutta la Scozia. Da dietro il fumo della sigaretta Rebus osservò la collega. Alta, «con le ossa grosse», come avrebbe detto sua madre. Capelli castani, lunghi fino alle spalle, ondulati. Un tailleur color senape e una camicetta di seta chiara. Un neo su una guancia e un altro sul mento. Trentacinque anni...? Rebus non ci azzeccava mai, con le età.
«Be'...» disse la Barbour, accennando ad andarsene, ma quasi in cerca di una scusa per non farlo. «Allora, arrivederci.» Una voce risuonò alle loro spalle. Si voltarono e videro Richard Cordover montare in macchina. Era una TVR rossa, con targa personalizzata. Mentre apriva la portiera, sembrava essersi già dimenticato di loro due. «Un pezzo di ghiaccio, quel bastardo», mormorò la Barbour. «Avrebbe potuto risparmiare qualche scellino.» Lei lo guardò. «Che vuoi dire?» «Tanto valeva che sulla sua TVR rinunciasse all'aria condizionata. Sei proprio sicura che non ti vada di bere un bicchiere? C'è una cosa che vorrei chiederti...» Oltrepassarono Deacon Brodie's (troppi «clienti» frequentavano quel locale) e si diressero verso il Jolly Judge. Una volta Rebus vi aveva bevuto qualcosa in compagnia di un avvocato che si dissetava a furia di advocaat, un liquore a base di brandy, uova e zucchero. Da che i Rangers avevano ingaggiato un allenatore olandese che si chiamava anche lui Advocaat, era tutto un fiorire di battute... Ordinò un Virgin Mary per la Barbour e, per sé, un mezzo Eighty. Si erano seduti a un tavolino sotto le scale, in un punto piuttosto appartato. «Salute», disse lei. Lui alzò il bicchiere a toccare quello della collega, poi lo portò alle labbra. «Allora, cosa posso fare per te?» Rebus posò il bicchiere. «Aiutarmi a capire alcune questioni generali. Tu hai prestato servizio nella sezione persone scomparse, no?» «Sì, purtroppo.» «E che facevi esattamente?» «Raccoglievo dati, li collazionavo e li inserivo nei dossier e nei computer. Avevo anche mansioni di collegamento, segnalando le nostre persone scomparse agli altri organi di polizia e prendendo nota, in cambio, delle loro. Un'infinità d'incontri con i vari enti di assistenza...» Sbuffò. «E riunioni a non finire con le famiglie, per tentare di aiutarle a comprendere cos'era accaduto.» «Ti piaceva, quel lavoro?» «Come confezionare i sacchi della posta. Perché tanto interesse?» «Mi sto occupando di una persona scomparsa.»
«Età?» «Diciannove anni. Viveva ancora a casa dei suoi e i genitori sono preoccupati.» La Barbour stava scuotendo la testa. «Come cercare un ago in un pagliaio.» «Lo so.» «Ha lasciato un biglietto?» «No. E, a detta dei genitori, non aveva motivo per andarsene.» «A volte i motivi non ci sono, almeno non tali da risultare comprensibili alla famiglia.» Si raddrizzò sulla sedia. «Eccoti le piste da seguire.» Mentre parlava, contava sulle dita. «Banche, istituti di credito, tutti gli enti di questo tipo. Devi controllare se sono state prelevate somme di denaro.» «Già fatto.» «Verifica se è stato in qualche ostello. Quelli locali e delle altre città: battili a tappeto tutti, tra Aberdeen e Londra. Alcuni hanno alle spalle opere pie che si occupano di senzatetto e ragazzi fuggiti di casa: per esempio la Centrepoint di Londra. Diffondi un suo identikit. Poi, sempre a Londra, c'è il National Missing Persons Bureau. Mandagli per fax tutti i particolari del caso. Puoi anche chiedere all'Esercito della Salvezza di tenere gli occhi aperti. Tavole calde per i poveri, ricoveri per la notte, non si può mai sapere cosa salta fuori.» Rebus stava prendendo nota sul taccuino. Alzò lo sguardo e la vide stringersi nelle spalle. «Non c'è altro.» «È un problema grave?» Lei sorrise. «Il fatto è che non viene assolutamente visto come un problema, almeno da chi non ne viene colpito personalmente. Molte persone date per scomparse riappaiono, altre no. Secondo l'ultima stima che ho avuto modo di vedere, le persone scomparse potrebbero essere duecentocinquantamila. Individui che hanno tagliato i ponti con quanto avevano alle spalle, hanno cambiato identità o sono stati scaricati dai cosiddetti servizi 'assistenziall'.» «Assistenza sul territorio?» Lei sorrise di nuovo amaramente, bevve un sorso dal bicchiere e controllò l'ora. «Mi par di capire che per te Shiellion è stato una sorta di gradevole parentesi.» Ridacchiò. «Oh, sì, come una vacanza in tenda. I casi di abuso sono
sempre una boccata d'aria pura.» Tornò seria. «Alcune settimane fa mi sono ritrovata per le mani un uomo già condannato per aver stuprato due donne. Se n'è andato a piede libero. Il giudice ha preso la questione sottogamba, ha concesso le circostanze attenuanti.» «Tre mesi come massimo della pena?» «Già. Stavolta l'accusa non era di stupro, solo di atti osceni in luogo pubblico. Lo sceriffo era furioso. Quando finalmente è stata presa in considerazione l'ipotesi di prolungare la carcerazione per permettere ulteriori accertamenti, quel bastardo aveva meno di due settimane da scontare, perciò lo sceriffo ha dovuto metterlo fuori.» Guardò Rebus. «Il rapporto dello psicologo dice che lo farà di nuovo. Libertà condizionata e servizio civile, con una spolverata di consulenza psichiatrica. E lui lo farà di nuovo.» Lui lo farà di nuovo. Rebus stava pensando a Darren Rough, ma anche a Cary Oakes. Controllò l'ora. Di lì a poco Oakes sarebbe atterrato a Turnhouse. Ben presto sarebbe stato un problema... «Quanto all'argomento persone scomparse, mi dispiace di non averti potuto dare un aiuto più sostanzioso», disse la Barbour, alzandosi. «Si tratta di un tuo conoscente?» «Figlio di amici.» Lei annuì. «Come facevi a saperlo?» «Senza offesa, John, ma in caso contrario te ne saresti lavato le mani.» Sollevò la cartella. «È uno su duecentocinquantamila. Chi ha il tempo?» 12 Nel terminal c'era già una folla di giornalisti in attesa. La maggior parte era munita di telefoni cellulari con cui si manteneva in contatto con la redazione. I fotoreporter chiacchieravano tra loro di lenti, pellicole e dell'impatto che avrebbero avuto nel loro campo gli apparecchi digitali. C'erano tre squadre di cameramen, per la Scottish, la BBC e l'Edinburgh Live. Tutti sembravano conoscersi; erano completamente rilassati, anche se forse un po' stanchi per l'attesa. Il volo aveva un ritardo di venti minuti. Rebus sapeva perché. Perché i funzionari londinesi di Heathrow se l'erano presa comoda nel trasbordare Cary Oakes da un aereo all'altro. Oakes, costretto a trascorrere oltre un'ora in quell'aeroporto, era andato alla toilette, aveva bevuto qualcosa in uno dei bar, acquistato un quotidiano e un paio di riviste e ricevuto una telefonata. Era stata quella telefonata a mettere in agitazione Rebus.
«È stato contattato», gli aveva detto il Caporale. «Qualcuno l'ha fatto chiamare al telefono.» «E chi sarebbe?» Il Caporale aveva scosso la testa. Ormai Oakes si trovava in volo per Edimburgo. Gli agenti l'avevano accompagnato all'aereo, poi si erano ritirati, tenendo d'occhio il velivolo finché non era decollato. A quel punto si erano messi in contatto coi colleghi al quartier generale scozzese. «È tutto vostro», era stato il messaggio. Il vicecapo della polizia (squadra omicidi) aveva scaricato la patata bollente nelle mani del Caporale. Watson di solito non si muoveva dal proprio ufficio: era ben contento di delegare i vari incarichi, si fidava dei suoi collaboratori. Ma quella sera... quella sera era un po' speciale. Perciò era seduto accanto a Rebus nell'auto di servizio. Nel sedile posteriore c'era il commissario Siobhan Clarke. La vettura portava i contrassegni della polizia: era una scelta precisa, perché Oakes doveva capire all'istante che lo tenevano d'occhio. Rebus aveva fatto un giro nel terminal per verificare la situazione ed era tornato a riferire sulla presenza dei giornalisti. «Qualcuno che conosciamo?» chiese la Clarke. «Le solite facce», rispose Rebus, accettando da lei un'altra gomma da masticare. Avevano fatto un accordo: lui non avrebbe fumato finché la collega gli avesse comprato il chewing-gum. Il giro di ricognizione di Rebus era stato un pretesto per tirare qualche boccata. L'orologio sul cruscotto diceva che l'aereo avrebbe toccato terra entro pochi minuti. Lo sentirono prima ancora di vederlo: un fischio sordo, luci che lampeggiavano nel cielo buio. Uno dei finestrini dell'auto era stato abbassato, per impedire che all'interno si formasse troppo vapore acqueo. «Potrebbe essere questo», commentò il Caporale. «Probabile.» Siobhan Clarke aveva davanti a sé un incartamento; aveva appena finito di leggere la storia di Cary Dennis Oakes. Non era sicura che la loro presenza davanti all'aeroporto avesse una giustificazione, a parte quella di soddisfare una curiosità. La sua, se non altro. «Non dovrebbero metterci molto», disse. «Non ci scommetterei», replicò Rebus, spalancando di nuovo la portiera. Mentre si avviava verso le porte del terminal, si stava già frugando in tasca in cerca di una sigaretta. Girò al largo dalla calca di giornalisti e puntò verso un cartello con la
scritta VIETATO ENTRARE. Mostrato il tesserino, entrò nel salone degli arrivi. Aveva già parlato coi funzionari della dogana e dell'immigrazione, che lo stavano perciò aspettando. Conosceva bene la trafila per i viaggiatori dei voli internazionali: a Heathrow non venivano eseguiti controlli, ma, spesso, neanche a Edimburgo: tutto dipendeva dalla rotazione del personale, che era stato pesantemente sfoltito. Quella sera, però, i controlli ci sarebbero stati tutti, e minuziosi. Rebus osservò i passeggeri del volo da Heathrow avviarsi verso la sala ritiro bagagli o mettersi in fila per uscire. Erano soprattutto uomini d'affari, con ventiquattrore e giornali, e una buona metà aveva soltanto il bagaglio a mano; passavano rapidamente il controllo della dogana e si dirigevano verso il parcheggio, mentre le famiglie li aspettavano a casa. Ed ecco comparire un uomo vestito in modo casual: blue-jeans e scarpe da ginnastica, camicia a scacchi rossi e neri, berretto da baseball bianco. Aveva con sé una sacca da viaggio, che non sembrava particolarmente piena. Rebus lo indicò con un cenno del capo al funzionario doganale, il quale fece un passo avanti e fermò l'uomo, accompagnandolo accanto al bancone. «Passaporto, prego», disse il funzionario dell'ufficio immigrazione. L'uomo infilò la mano nel taschino della camicia e tirò fuori un passaporto che aveva l'aria di essere nuovo. Era stato infatti preparato soltanto un mese prima, quando le autorità statunitensi erano state informate del prossimo rilascio del detenuto. Il funzionario dell'immigrazione lo sfogliò, trovando solo pagine intonse. «Da dove viene, signore?» Gli occhi di Cary Oakes erano puntati sull'individuo in secondo piano, quello che aveva messo in moto la procedura di controllo. «Dagli Stati Uniti», rispose. Nella sua voce risuonava uno strano miscuglio d'inflessioni d'oltreoceano. «E qual è lo scopo del suo viaggio, signore?» Oakes fece un sorrisetto. Aveva l'espressione di uno scolaro stagionato, il burlone della classe. «Voglio distrarmi un po'», rispose. 11 funzionario aveva sparpagliato sul bancone il contenuto della sacca da viaggio. Un nécessaire da toilette, un cambio d'abito, un paio di riviste scandalistiche. Poi una cartelletta piena di disegni e fotografie ritagliati da giornali. Una cartolina beneaugurante, in cui lo si esortava a «volare alto e diritto», firmata da «i tuoi compagni di braccio». Un'altra cartella che conteneva appunti e ritagli di giornale concernenti il processo. Due libri in e-
dizione economica: una Bibbia e un dizionario, tutti e due con l'aria di essere stati sfogliati spesso. «Viaggia leggero: è il mio motto», commentò Oakes. Il funzionario lanciò un'occhiata a Rebus, che fece un cenno col capo, senza distogliere lo sguardo da Oakes. Ogni cosa fu rimessa nella sacca. «Un'operazione condotta davvero con discrezione», disse Oakes. «Non pensate che io non l'apprezzi. Per un po' intendo fare una vita molto tranquilla.» Stava annuendo, come se parlasse a se stesso. «Non si metta in mente di stabilirsi qui», replicò Rebus senza alzare la voce. «Se non sbaglio, non siamo stati presentati.» Oakes tese una mano. Il dorso era coperto di tatuaggi a inchiostro: iniziali, croci, un cuore. Dopo qualche istante, la ritirò, ridendo tra sé. «Non è facile farsi nuovi amici, suppongo», disse, con aria seria. «Ho perso la capacità di socializzare che avevo un tempo.» Il funzionario stava richiudendo le cerniere lampo della sacca. Oakes afferrò i manici. «Ora, signori, se vi siete divertiti a sufficienza...» «Dov'è diretto?» chiese il funzionario dell'immigrazione. «Sono atteso in un grazioso hotel cittadino. D'ora in avanti, per me, soltanto alberghi. Loro volevano sistemarmi in una villa in campagna, ma io ho detto di no. Desidero luci e azione, un po' di frastuono.» Rise di nuovo. «Chi sono questi 'loro'?» Rebus non poté fare a meno di chiedere. Per tutta risposta, Oakes sorrise e ammiccò. «Lo scoprirà presto, amico. Non dovrà neppure svolgere un gran lavoro investigativo.» Sollevò la sacca e se la gettò in spalla, poi s'incamminò fischiettando, unendosi alla gente che si avviava all'uscita. Rebus lo seguì. Nell'area d'attesa i fotoreporter stavano facendo scatti su scatti, consumando metri di pellicola, anche se Oakes si era abbassato sul volto il berretto da baseball. Mentre da tutte le parti esplodeva un fuoco di fila di domande, un uomo dalla corporatura pesante, con una sigaretta che gli penzolava dalle labbra, si fece largo tra la folla. Rebus lo riconobbe: era Jim Stevens, un giornalista che lavorava per un tabloid di Glasgow. Stevens afferrò Oakes per un braccio e gli sussurrò qualcosa all'orecchio, poi, dopo una stretta di mano, prese in pugno la situazione e guidò Oakes attraverso la calca, tenendogli una mano sulla spalla quasi in segno di possesso. «Oh, Jim, non fare stronzate!» urlò uno dei reporter. «Nessuna dichiarazione», esclamò Stevens, con la sigaretta che gli on-
deggiava all'angolo della bocca. «Ma potrete leggere l'intervista in esclusiva, che sarà pubblicata a puntate a partire da domani.» E, agitando la mano in un ultimo saluto, varcò le porte del terminal e uscì. Rebus passò da un'altra parte e risalì in macchina, accanto al Caporale. «A quanto pare, ha trovato un amico», commentò Siobhan Clarke, osservando Stevens che stava infilando la sacca da viaggio di Oakes nel bagagliaio di una Vauxhall Astra. «È Jim Stevens», spiegò Rebus. «Scrive per un giornale di Glasgow.» «E si è impossessato di Oakes?» azzardò la collega. «Così sembra. Credo che siano diretti in città.» Il Caporale picchiò una manata sul cruscotto. «Avrei dovuto immaginarlo: un giornale non si sarebbe lasciato sfuggire un simile boccone.» «Non se lo terranno stretto per sempre. Una volta raccontata la storia...» «Ma, fino a quel momento, è sotto la protezione dei loro legali... Perciò non dobbiamo fare nulla che venga interpretato come una persecuzione nei suoi confronti.» «Se è questo che vuole, signore», ribatté Rebus, accendendo il motore. Poi si girò verso il Caporale: «Allora, torniamo a casa?» Watson annuì. «Dopo averli pedinati fino a destinazione. Facciamo in modo che Stevens si renda conto della posta in gioco.» «Abbiamo una macchina della polizia alle calcagna», lo avvisò Cary Oakes. Jim Stevens allungò la mano verso l'accendino. «Lo so.» «Anche all'aeroporto c'era un comitato d'accoglienza.» «Si chiama Rebus.» «Chi?» «Ispettore John Rebus della polizia investigativa. Mi è capitato altre volte di avere a che fare con lui. Che ti ha detto?» Oakes si strinse nelle spalle. «Se ne stava lì in silenzio, cercando di avere l'aria cattiva. Se incontrasse certi tizi che ho conosciuto in galera, gli verrebbe un esaurimento.» Stevens sorrise. «Risparmiati queste storie per quando avremo il registratore acceso.» Oakes aveva abbassato il finestrino dalla sua parte e teneva la testa inclinata, così da ricevere in faccia tutto il flusso di aria gelida. «Ti dà fastidio il fumo?» chiese Stevens. «No.» Muoveva la testa un po' di qua e un po' di là, come se si stesse a-
sciugando i capelli con un phon. «È stata una bella pensata, la tua, di contattarmi telefonicamente a Heathrow.» «Volevo essere il primo a farti un'offerta.» «Diecimila dollari, giusto?» «Credo ci si possa mettere d'accordo su questa cifra.» «In esclusiva?» «Assolutamente, data l'entità della somma.» Oakes riportò la testa nell'abitacolo. «Non sono sicuro di cavarmela bene.» «Ce la farai. Sei scozzese, no? Noi siamo narratori nati.» «Immagino che Edimburgo sia cambiata.» «Sei stato via parecchio.» «Oh, sì.» «Conosci ancora qualcuno da queste parti?» «Mi vengono in mente un paio di nomi.» Sorrise. «Jim Stevens, John Rebus. Già due... e ho rimesso piede in questo Paese soltanto da mezz'ora.» Mentre Stevens scoppiava in una risata, Oakes richiuse il vetro del finestrino, si chinò in avanti e spense la radio che trasmetteva musica, poi si girò sul sedile, rivolgendo tutta la sua attenzione al giornalista. «Ora parlami di Rebus. Vorrei conoscerlo meglio.» «Perché?» Lo sguardo di Oakes pareva incollato su Stevens. «Se qualcuno s'interessa di me, io m'interesso di lui.» «E rientro anch'io in questo schema?» «Non ci si rende mai conto di quanto si è fortunati, Jim. Davvero, mai.» Stevens avrebbe preferito sistemare Oakes fuori città. Avrebbe voluto rinchiuderlo da qualche parte finché le interviste non fossero terminate. Ma Oakes, al telefono, gli aveva detto: dev'essere Edimburgo. O così, o niente da fare. Perciò aveva dovuto cedere e sistemarlo a Edimburgo: un albergo molto discreto in un quartiere di case a schiera della New Town. Quella denominazione strappava sempre un sorriso a Stevens: in qualunque altra parte della Scozia evocava agglomerati urbani simili a quelli di Glenrothes e Livingston, sorti dal nulla negli anni '50 e '60. A Edimburgo, invece, la New Town risaliva al XVIII secolo. Era quel tipo di «nuovo» che piaceva alla popolazione. In altri tempi l'albergo, una costruzione di quattro piani, era stato una residenza privata. Di un'eleganza non pretenziosa, si trovava in una strada tranquilla. Fin dalla prima occhiata, Oakes decise che non fa-
ceva al caso suo. Non ne spiegò il motivo, ma rimase fermo sugli scalini, all'esterno, assaporando l'aria, mentre Stevens faceva un paio di frenetiche telefonate dal suo cellulare. «Se mi avessi chiarito subito che cosa volevi, sarebbe stato meglio.» Oakes si limitò a stringersi nelle spalle. «Lo saprò quando lo vedrò.» Agitò la mano in direzione dell'auto della polizia, ferma a poca distanza, le luci ancora accese. «Va bene», disse alla fine Stevens. «Risali in macchina.» Si avviarono lungo Leith Walk, diretti verso il porto di Leith. «Questa è ancora una zona poco raccomandabile?» chiese Oakes. «Sta cambiando. Ci sono nuovi insediamenti, uffici governativi, ristoranti e anche qualche albergo.» «Tuttavia è ancora Leith, no?» Stevens annui. «È ancora Leith», ammise, in un tono non troppo convinto. Ma, una volta giunti sul fronte del porto, Oakes, nel vedere l'albergo, cominciò a far ondeggiare la testa in segno di approvazione. «L'atmosfera giusta», disse, contemplando le banchine. Alla fonda c'era una nave mercantile, con le luci fotovoltaiche accese e una squadra di uomini al lavoro. Sulla riva un paio di pub, nei quali si poteva anche mangiare. Dall'altra parte del bacino era ormeggiata stabilmente un'imbarcazione, ora trasformata in un night-club galleggiante. Anche in quella zona stavano sorgendo nuovi condomini. «Gli uffici governativi sono proprio là in fondo», precisò Stevens, puntando un dito. «Per quanto tempo, secondo te, continueranno con questa manfrina?» chiese Oakes, guardando l'auto della polizia che si era fermata non lontano da loro. «Non per molto. Se diventassero troppo assillanti, telefonerò ai nostri legali. Devo chiamarli comunque, per far redigere il nostro contratto.» «Contratto.» Oakes assaporò la parola. «È da un bel pezzo che non ho più un lavoro.» «Non dovrai fare altro che parlare in un microfono, metterti in posa per qualche foto...» Oakes si voltò verso di lui. «Per diecimila dollari, posso anche... rimettere in scena qualche situazione.» Stevens impallidì. Oakes lo fissò, vagliando le sue reazioni. «Non sarà necessario, probabilmente», disse il giornalista. Oakes scoppiò a ridere. Quel «probabilmente» gli era piaciuto.
In albergo, trovò di suo gradimento la stanza che gli era stata assegnata. Stevens non riuscì ad averne una adiacente e fu costretto a sistemarsi in fondo al corridoio, ma le fissò entrambe, dicendo che ne avrebbero avuto bisogno per alcuni giorni. Tornato in quella di Oakes, lo trovò disteso, con ancora le scarpe ai piedi, su uno dei letti; sull'altro aveva appoggiato la sacca da viaggio, dalla quale aveva estratto la Bibbia dall'aspetto consunto, che ora giaceva sul comodino. Un ottimo spunto: Stevens se ne sarebbe servito nel suo articolo introduttivo. «Sei religioso, Jim?» gli chiese Oakes. «Non particolarmente.» «Male. La Bibbia t'insegna un mucchio di cose. Ho cominciato ad apprezzarla in galera. Prima di allora non avevo avuto il tempo per leggere le Sacre Scritture.» «Andavi in chiesa?» Oakes annuì, con aria distratta. «In carcere ogni domenica veniva celebrata la messa. Io ero molto assiduo.» Gli lanciò un'occhiata. «Non sono più un recluso, vero? Voglio dire, ho piena libertà di movimento?» «L'ultima cosa che voglio è che tu ti senta prigioniero.» «Non sei l'unico a volerlo.» «Ma dovrai rispettare alcune regole, finché sarò io a pagare i tuoi conti. Se esci, desidero saperlo. Anzi, mi piacerebbe starti appresso.» «Temi che la concorrenza mi agganci?» «Qualcosa del genere.» Oakes girò la testa, sorridendo. «E se mi portassi in camera una donna? Te ne starai seduto in un angolo mentre me la scopo?» «Mi basterà ascoltare da dietro la porta», replicò Stevens. Oakes scoppiò a ridere, poi si rotolò sul materasso. «Il letto più morbido che mi sia mai capitato. Ha anche un buon odore.» Restò disteso ancora qualche istante, poi balzò in piedi. Stevens fu sorpreso dalla rapidità dei suoi movimenti. «Adesso andiamo», disse Oakes. «Dove?» «Fuori, amico. Non ti preoccupare, non mi allontanerò più di una cinquantina di metri.» Stevens lo seguì, ma rimase sulla porta dell'albergo, perché aveva capito dov'era diretto Oakes. L'auto della polizia, le luci ancora accese; dentro, tre persone. Oakes sbirciò attraverso il parabrezza, si portò dalla parte del guidatore, batté
leggermente sul vetro. L'uomo che ormai conosceva come Rebus abbassò il finestrino. «Ehi», disse Oakes a mo' di saluto, facendo un cenno con la testa agli altri due (una giovane donna e un individuo di una certa età con un'espressione accigliata), poi indicò l'albergo. «Un posto simpatico, eh? Uno di voi è mai stato in qualcosa di simile?» I tre non aprirono bocca. Lui appoggiò un braccio sul tetto della vettura, l'altro sulla portiera. «Mi è...» Di colpo parve un po' imbarazzato. «Sì», riprese, come se avesse trovato le parole giuste, «mi è dispiaciuto molto sapere di tua figlia. Cristo, doveva essere proprio una carogna.» Guardava Rebus con occhi liquidi, senz'anima. «Uno degli omicidi che mi avevano attribuito... La ragazza doveva avere più o meno la stessa età. La stessa età di tua figlia, voglio dire. Sammy, è così che si chiama, no?» Rebus spalancò la portiera con un tale impeto che per poco non catapultò Oakes oltre il limitare della banchina. Mentre l'altro uomo, il superiore di Rebus, lanciava a quest'ultimo un avvertimento e la giovane donna usciva a sua volta dall'auto, Rebus fronteggiò Cary Oakes, un pugno alzato all'altezza del viso. Jim Stevens lasciò di corsa la soglia dell'albergo. Oakes aveva sollevato le braccia sopra la testa. «Se mi tocchi, è un'aggressione.» «Bugiardo.» «Come?» «Degli omicidi di cui ti hanno accusato, nessuno riguarda una ragazza con l'età di mia figlia.» Oakes rise, grattandosi il mento. «Be', credo che tu abbia ragione. Così il primo round è a tuo favore, eh?» La poliziotta aveva afferrato Rebus per un braccio. Jim Stevens sembrava senza fiato per la breve corsa. Il sovrintendente capo era rimasto seduto in macchina, a osservare la scena. Oakes si chinò leggermente per sbirciare all'interno. «Troppo alto in grado per una cosa del genere, eh? O ti mancano le palle? Ora tocca a te, amico.» Stevens l'afferrò per la spalla. «Su, andiamo.» «Regola numero uno, nessuno mi mette le mani addosso», disse Oakes, liberandosi dalla stretta. Tuttavia si lasciò guidare verso l'albergo, al di là della strada. Mentre camminava, Stevens si voltò e vide che Rebus lo stava fissando duramente: non c'erano dubbi su chi avesse raccontato a Oakes di lui e della sua famiglia.
Oakes cominciò a ridere e continuò fino alle porte di vetro dell'albergo. Entrato nella hall, rimase fermo a guardare fuori. «Dunque quello è Rebus», disse a voce bassa. «Non lo si può certo definire un iceberg, eh?» Rientrato nell'appartamento di Patience, in Oxford Terrace, Rebus si versò un whisky, allungandolo con l'acqua di una bottiglia che teneva nel frigo. Dalla camera da letto uscì Patience, con una camicia da notte color giallo pallido lunga fino alle caviglie, gli occhi semichiusi per via della luce improvvisa. «Mi dispiace averti svegliato», disse Rebus. «Avevo comunque voglia di bere qualcosa.» Tolse da un ripiano dello sportello del frigo una bottiglia di succo di pompelmo e se ne versò un bicchiere pieno. «Hai avuto una buona giornata?» Rebus fu incerto se piangere o ridere. Portarono i rispettivi bicchieri in salotto e si sedettero sul divano. Rebus prese una copia di The Big Issue: Patience lo comprava sempre, ma l'unico che lo leggeva era lui. Sapeva che vi venivano pubblicate le più recenti richieste d'informazioni sulle persone scomparse. E, se avesse acceso il televisore e si fosse sintonizzato sul Teletext, avrebbe trovato un elenco degli individui che parevano svaniti nel nulla. Qualche volta l'aveva guardato, scorrendone un paio di schermate. Era un servizio a cura del National MisPer Helpline. Janice gli aveva detto che avrebbe contattato i responsabili dell'organizzazione... «E a te com'è andata?» chiese. Patience sollevò i piedi, accoccolandosi. «Sempre la stessa solfa. A volte ho quasi l'impressione che questo lavoro potrebbe benissimo essere svolto da un robot. I soliti sintomi, le solite prescrizioni. Tonsillite, morbillo, sbronze...» «Potremmo andarcene.» Lei lo guardò. «Per un week-end, se non altro.» «Ci abbiamo già provato, ricordi? Non ne potevi più dalla noia.» «Ah, è stata tutta colpa della campagna.» «Quale romantico interludio avresti in mente, stavolta? Dundee? Falkirk? Kirkcaldy?» Rebus si alzò per andare a versarsi altro whisky e le chiese se ne voleva anche lei. Patience scosse la testa, gli occhi puntati sul bicchiere di lui, vuoto. «È il secondo, oggi», commentò Rebus, avviandosi verso la cucina. «Come mai ti è venuta quest'idea?» Patience lo stava seguendo. «Quale idea?»
«Di una vacanza, così su due piedi.» Le lanciò un'occhiata. «Ieri sono andato a trovare Sammy. Mi ha detto che parla con te più di quanto non faccia io.» «Mi sembra un po' esagerato...» «È stata la mia stessa risposta. Il che non toglie che abbia ragione.» «Oh...» Stavolta aggiunse meno acqua al whisky. E, di questo, se ne versò una dose un po' più abbondante. «Voglio dire, lo so che mi capita di essere... distratto. Lo so che non è divertente stare con me.» Chiuse lo sportello del frigo, si girò verso di lei e si strinse nelle spalle. «È solo per questo, davvero.» Non alzò lo sguardo dal bicchiere, chiedendosi come mai, nel momento stesso in cui pronunciava quelle parole, gli tornava in mente una delle foto di Janice Mee in vacanza. «Non smetto di credere che tornerai», disse Patience. Rebus la fissò. Lei si batté un dito sulla fronte. «Ovunque tu sia.» «Ma io sono qui.» Lei scosse la testa. «No, non ci sei. Non ci sei affatto.» Si girò e si diresse nuovamente verso il salotto. Di lì a poco tornò a letto. Rebus disse che sarebbe rimasto alzato ancora un poco. Si sintonizzò su svariati canali televisivi, senza trovare nulla. Andò sul Teletext, pagina 346. Mise le cuffie, per poter contemporaneamente ascoltare For Absent Friends dei Genesis. Jack Morton era seduto sul bracciolo del divano mentre scorrevano schermate su schermate di nomi di persone scomparse. Ancora nessun segno di Damon. Rebus si accese una sigaretta, soffiò il fumo verso il televisore e lo guardò dissolversi. Poi ricordò che quello era l'appartamento di Patience e che a lei il fumo dava fastidio. Tornò in cucina per spegnere quel suo colpevole piacere. Dopo i Genesis, mise un brano dei Family: Song for Sinking Loves. Credo che dentro di te si sia guastato qualcosa. Siete stati voi della polizia a volerlo qui. Vide due uomini seduti nel banco degli imputati, il loro legale che si stava lavorando la giuria. Vide Cary Oakes che si chinava fin dentro l'auto. Lui lo farà di nuovo. Vide Jim Margolies spiccare il volo finale nel buio. Forse non c'era modo di capire tutto ciò. Si girò verso Jack. Gli telefonava spesso, un tempo... a qualsiasi ora della notte, tanto Jack non se ne lamentava mai. Parlavano dei loro problemi, condividevano preoccupazioni e depressioni. «Come hai potuto farmi una cosa del genere, Jack?» sussurrò Rebus, fi-
nendo di bere il suo whisky mentre la stanza si popolava di fantasmi. Era tardi, ma Jim Stevens sapeva che il direttore non se la sarebbe presa. Fece anzitutto il numero del cellulare. Centro al primo colpo: il suo capo stava partecipando a una cena ufficiale a Kelvingrove. Uomini politici, la solita gente con le mani in pasta, tipi che manovravano le leve del potere. Con loro, il capo di Stevens andava a nozze. Forse non era l'uomo più adatto per dirigere un tabloid. Forse, invece, la persona fuori posto era Jim Stevens, dopo tutti quegli anni passati a correre di qua e di là. Si sentiva assediato da giornalisti più giovani, più svegli e più furbi di lui. A cinquant'anni, potevi essere messo fuori gioco da un momento all'altro. Si chiese fino a quando l'assegno per i servizi resi sarebbe stato controfirmato dal direttore e tra quanti giorni i giovani puledri della redazione, scalciando, avrebbero disarcionato il «caro, vecchio Jim». Sapeva quale sarebbe stata la trafila, conosceva persino i discorsi che avrebbero fatto... Tutta roba che qualsiasi individuo con uno straccio di autostima avrebbe impedito, cancellato. Lo sapeva perché ne aveva un'esperienza diretta, nei lontani giorni in cui il puledro era lui e le vecchie firme si lamentavano delle regole che sparivano e dei mutamenti che scuotevano il mondo del giornalismo. Non appena aveva sentito parlare di Cary Oakes, Jim aveva preso da parte il suo capo per scambiare quattro parole in privato, poi aveva attentamente controllato i voli in arrivo, lisciando il pelo agli impiegati dell'ufficio informazioni di Heathrow perché lo mettessero in contatto col figliol prodigo. «È tutto tuo, Jim», gli aveva detto il direttore, ma con un dito alzato, in segno d'ammonizione. «Può essere la crema da mettere nel cannolo. Sta' attento però che non diventi acida.» Ora il capo gli stava fornendo qualche scampolo di pettegolezzo appreso durante la cena. Aveva chiaramente bevuto qualche bicchiere di troppo, il che però non gli avrebbe impedito di andare subito a dettar legge in redazione. Giornate lavorative di dodici ore: era da un po' di tempo che Jim Stevens non s'impegnava a quel modo. «Allora, che posso fare per te, Jim?» Finalmente. Stevens inspirò. «Ci siamo sistemati in albergo.» «Che tipo è?» «Normale.» «Non un mostro con la bava alla bocca o qualcosa del genere?»
«No, abbastanza tranquillo.» Non c'era bisogno d'informare il direttore dello scontro con Rebus. «È disposto a concederci l'esclusiva?» «Sì.» Stevens si accese una sigaretta. «Potresti anche sforzarti di avere un tono un po' più entusiasta.» «È stata una lunga giornata, capo, tutto qui.» «Sei sicuro di avere l'energia necessaria, Jim? Potrei affiancarti uno dei cronisti...» «Molto gentile da parte sua, ma la risposta è no, grazie.» Il direttore scoppiò in una risata. Ridi, ridi, stronzo. «Non è questo il tipo di sostegno di cui avrei bisogno.» «Di che ti preoccupi, delle prove?» «Della loro mancanza, piuttosto.» «Mmm.» Era diventato pensieroso. «Hai già in mente una linea di condotta?» «Lei ha lavorato per un paio d'anni negli Stati Uniti, vero?» «Un po' di tempo fa.» «Ha ancora qualche amico, laggiù?» «Uno o due, forse.» «Ho bisogno di mettermi in contatto con qualche giornalista di Seattle, per poter ottenere informazioni da uno dei poliziotti che hanno seguito il caso Oakes.» «Un tipo che conoscevo lavora attualmente come cronista per la CBS.» «Come aggancio, potrebbe andare.» «Non appena torno in ufficio, mi do subito da fare. D'accordo, Jim?» «Grazie.» «Comunque, Jim, non preoccuparti troppo delle prove. Per il momento la cosa più importante è che tu riesca a ottenere dal nostro amico Oakes una bella storia grondante sangue. In un modo o nell'altro.» Stevens posò il ricevitore e si distese sul letto. Una parte di lui avrebbe voluto mollare quell'avventura subito, su due piedi, ma l'altra era ancora smaniosa, desiderava ardentemente che i ragazzetti in redazione lo fissassero con gli occhi sbarrati, chiedendosi se sarebbero mai stati così bravi, così svegli. Voleva la storia di Oakes. In seguito avrebbe anche potuto andarsene dal giornale, se gli avesse fatto piacere: con l'aureola della fama e tutto il resto. Ripensò a Rebus. Si chiese cosa avesse Oakes da guadagnare da un diverbio col poliziotto. Per quanto lui ne sapeva, chiunque avesse sfidato Rebus a salire sul ring era uscito dall'incontro con almeno qualche
taglio e varie ecchimosi. E a volte... a volte si era ritrovato con le ossa rotte, in ospedale. Ma Oakes non aveva perso tempo, l'aveva aggredito, costringendo Rebus a reagire in quel modo. Ci si aspettava da Jim Stevens che facesse da baby-sitter a Oakes. Ma lui aveva l'impressione che il suo uomo avesse un compito da portare a termine oppure un desiderio di morte. Due cose cui era difficile stare dietro. «Questo è il tuo ultimo lavoro, Jim», promise Stevens a se stesso. Per suggellare il patto, decise di fare un'incursione nel mini-bar. 13 Il budget era così ristretto che gli agenti addetti alla sorveglianza si erano ridotti, dalla coppia inizialmente prevista, a un singolo. Alle quattro del mattino, non riuscendo più a dormire, Rebus era montato in macchina e aveva raggiunto il fronte del porto, fermandosi in un garage aperto tutta la notte. Siobhan Clarke, seduta in una Rover 200 priva di contrassegni della polizia, aveva scelto un abbigliamento da trekking: pantaloni infilati in calze pesanti e scarponi da ascensionista, piumino e berretto con copriorecchie. Sul sedile del passeggero erano sparsi un taccuino e una penna, tre pacchetti vuoti di patatine a basso contenuto di grassi e due thermos. Rebus s'infilò sul sedile posteriore e offrì alla collega una sfogliatina riscaldata nel microonde e un bicchiere pieno di caffè. «Salute!» esclamò la Clarke. Rebus guardò in direzione dell'albergo. «Nessun movimento?» Lei scosse la testa, masticò e deglutì. «Però sono un po' preoccupata. Sul retro dell'edificio ci sono alcune uscite secondarie. Non ho modo di tenerle d'occhio.» «In ogni caso sarà ancora frastornato dal cambiamento di fuso orario.» «Cioè sveglio tutta la notte e assonnato durante il giorno?» «A questo non avevo pensato.» Rebus si piegò in avanti. «Non è uscito neanche per poco?» La Clarke fece cenno di no. «Con tutti gli anni che ha passato in carcere, magari ha cominciato a soffrire di agorafobia.» «Forse.» Rebus si disse che la collega poteva aver colpito nel segno. Lui aveva conosciuto alcuni ex carcerati che non riuscivano a inserirsi nel mondo esterno... troppo spazio, troppa luce. Finivano per commettere qualche nuovo reato, con l'unico scopo di rientrare in galera.
«Ha cenato al ristorante.» La Clarke indicò con la testa la parete, tutta a vetri, della sala da pranzo dell'albergo. «Si è accorto della tua presenza?» «Non ne sono sicura. La sua stanza è al secondo piano. La finestra in fondo.» Rebus guardò. Dodici piccoli pannelli quadrati di vetro. In basso, la finestra era aperta di un paio di centimetri. «Come fai a saperlo?» «L'ho chiesto al direttore dell'albergo.» Rebus annui: erano gli ordini del Caporale... Non c'era bisogno di agire con discrezione. «E il direttore come l'ha presa?» «Mi è parso a disagio.» Diede l'ultimo morso alla sfogliatina. «Non vogliamo che il soggiorno di Oakes sia troppo piacevole, vero?» «Nossignore», ribatté la Clarke. Rebus spalancò la portiera. «Vado solo a fare una breve ricognizione.» Esitò. «Come te la cavi quando hai bisogno di...?» Lei sollevò uno dei thermos, indicando poi un imbuto da cucina sul pavimento dell'auto. «E se invece...?» «Autocontrollo, signore.» Rebus annuì. «Attenta a non scambiare i thermos.» Fuori, l'aria era fresca. Echi del traffico notturno nella zona del porto, qualche taxi che sfrecciava in fondo alla strada. Taxi: avrebbe dovuto chiedere agli autisti di Damon e di quella donna. Si avviò di lato all'albergo, entrò nel parcheggio. Le uscite di servizio erano chiuse a chiave. Accanto, c'erano quattro cassonetti per i rifiuti, che un'alta staccionata di legno divideva dalle auto dei clienti. L'Astra di Jim Stevens era facilmente individuabile. Rebus strappò dal suo taccuino una pagina bianca, vi scribacchiò qualcosa, la piegò in due e la infilò sotto un tergicristallo. Riavvicinatosi alle porte di servizio, verificò che non potessero essere aperte dall'esterno, poi si allontanò soddisfatto, perché, se anche Oakes ne avesse approfittato per uscire da quella parte, sarebbe stato costretto a rientrare in albergo dall'ingresso principale. Sempre ammesso che tornasse. Forse se l'era già svignata: ma non era questo che desideravano? No, non esattamente: loro volevano avere la certezza che avesse lasciato Edimburgo. Il fatto che Oakes sparisse dall'albergo era una cosa ben diversa. Rebus tornò all'auto della Clarke, estrasse il telefono cellulare e digitò un numero. Rispose il portiere di notte. «Buonasera», disse Rebus. «Mi può passare la stanza del signor Oakes,
per favore?» «Attenda.» Rebus strizzò l'occhio alla Clarke. Mise il telefono tra loro, perché anche lei potesse sentire. Un rumore ronzante, che risuonò tre o quattro volte. Poi il clic del ricevitore che veniva sollevato. «Sii? Che c'è?» La voce sembrava veramente impastata dal sonno. «Tommy, sei tu?» Rebus imitò l'accento di Glasgow. «Abbiamo organizzato un festino nella mia stanza. Dai, perché non ci raggiungi?» Qualche istante di silenzio. Poi: «Quale stanza?» Rebus cercò una possibile risposta, ma preferì troncare la comunicazione. «Se non altro, sappiamo che c'è.» «E adesso è sveglio.» Rebus guardò l'ora. «Il tuo turno finisce alle sei.» «Se Bill Pryde non continua a dormire.» «Lo tirerò io giù dal letto, perché venga a darti il cambio.» Fece per allontanarsi di nuovo dall'auto. «Guardi, signore.» La Clarke stava indicando l'albergo. Rebus alzò gli occhi: secondo piano, ultima finestra in fondo. Nessuna luce accesa, ma le tendine scostate e una faccia che guardava fuori. Stava fissando proprio loro. Mentre si avviava verso l'auto, Rebus agitò una mano in direzione di Cary Oakes. Non c'era bisogno di agire con discrezione. Alle otto in punto era in ufficio, a mettere per iscritto i connotati di Damon Mee in previsione di una rapida visita a enti di assistenza, ostelli e associazioni per i senzatetto. Alle nove ricevette una comunicazione dal poliziotto al banco di ricevimento. Una persona che chiedeva di lui. Janice. «Devi essere una chiaroveggente», le disse Rebus. «Mi stavo giusto occupando di Damon. C'è qualche novità?» Erano in Rankeillor Street, diretti a una caffetteria in Clerk Street. Rebus aveva preferito non parlarle in ufficio, per un insieme di motivi: per non suscitare in qualcuno il sospetto che lui si stesse occupando di un caso che non rientrava ufficialmente nelle sue mansioni; per evitare che Janice vedesse cosa c'era nella stazione di polizia di St. Leonard (foto di persone scomparse e d'individui sospetti, casi trattati con indifferenza o, come capitava spesso, senza entusiasmo); e, forse, soltanto forse, per non essere costretto a condividere Janice con altri. Non voleva che quella parte di lei che
apparteneva al suo passato facesse irruzione nella realtà presente e attuale, nel suo stesso luogo di lavoro. «Nessuna novità», rispose Janice. «Pensavo di trascorrere la giornata a Edimburgo, per vedere se mi riusciva di... Non so neanch'io, ma sento di dover fare qualcosa.» Rebus annuì. Sotto gli occhi di lei c'erano mezzelune nerastre. «Dormi abbastanza?» le chiese. «Il medico mi ha dato qualche pillola.» Rebus ricordò come a volte le risposte di Janice alle domande fossero tali solo in apparenza. «Ma le prendi?» Lei si girò a guardarlo, con un sorriso. «Avrei detto di no», proseguì Rebus. Non che Janice potesse mentirgli, ma bisognava stare bene attenti alla formulazione della domanda per essere sicuri di ottenere una risposta sincera. «Li facevamo in continuazione, discorsi come questi, ricordi?» Aveva ragione. Rebus si chiedeva se i suoi amici le facessero la corte e cercava il modo per appurarlo senza sembrare geloso. E lei gli offriva solo qualche sprazzo della vita che conduceva prima che cominciassero a uscire insieme. Dialoghi dell'inespresso. Le fece strada nella caffetteria. Si sedettero a un tavolino d'angolo. Il proprietario, appena arrivato, aveva aperto la porta del locale soltanto perché aveva riconosciuto Rebus. «Non posso cucinarvi nulla», li avvisò. «Per me va bene un caffè», disse Rebus. Guardò Janice, che annuì. Mentre il proprietario si allontanava, continuarono a guardarsi negli occhi. «Mi hai mai perdonata?» gli chiese lei. «Per cosa?» «Credo che tu lo sappia benissimo.» «Ma voglio sentirtelo dire.» Janice sorrise. «Per averti messo fuori combattimento.» Rebus si guardò intorno. «Parla a voce bassa, qualcuno potrebbe sentire.» Scoppiò a ridere, proprio come lui desiderava. «Hai sempre voglia di scherzare, come allora, Johnny.» Lui cercò di ricordare. «Ero davvero un tipo del genere?» «Sei rimasto in contatto con Mitch?» Rebus sbuffò. «Hai evocato un nome dal passato.» «Voi due eravate così.» E agganciò due dita.
«Non sono sicuro che al giorno d'oggi sia un legame consentito.» Janice sorrise e abbassò lo sguardo sul ripiano del tavolino. «Il solito spiritoso.» Sulle sue guance c'erano macchie vermiglie. Sì, era riuscito a far arrossire anche lei. «E cosa mi dici di te?» le chiese. «In che senso?» «Tu e Barney.» «Ormai nessuno lo chiama più Barney.» Si appoggiò allo schienale della sedia. «Eravamo soltanto amici, lo siamo rimasti per alcuni anni. Una sera m'invitò fuori. Cominciammo a uscire insieme regolarmente.» Si strinse nelle spalle. «A volte le cose vanno così. Niente freccia di Cupido, niente fuochi d'artificio. Soltanto... affetto.» Lo guardò, sorrise di nuovo. «Quanto al resto della compagnia... Billy e Sarah li vediamo ancora. Si erano sposati, ma hanno divorziato, nonostante i tre figli. Vediamo anche Tom: dopo un incidente sul lavoro, è rimasto disoccupato per anni. E Cranny... Te la ricordi?» Rebus fece segno di sì. «Alcuni si sono trasferiti... qualcuno è morto.» «Morto?» «Incidenti stradali o altro. Paula è stata stroncata dal cancro, Midge da un infarto.» Tacque all'arrivo dei loro caffè, coperti di latte schiumoso. «Se volete, ho qualche biscotto...» suggerì il proprietario del locale. Loro scossero la testa. Janice soffiò sul caffè, poi lo sorseggiò. «Allora c'era anche Alec...» «Non è più ricomparso?» Alec Chisholm, che era uscito per andare a giocare a football. Alec, che non aveva mai raggiunto il parco. «La sua mamma, sai, è ancora viva. Ha un'ottantina d'anni. E si chiede ancora cosa possa essergli accaduto.» Rebus non replicò. Immaginava quello che Janice stava pensando: Forse sarà così anche per me in futuro. Si chinò sul tavolo, le strinse la mano. Era tiepida, morbida. «Puoi aiutarmi», le disse. Lei frugò nella borsa, cercando un fazzoletto. «Come?» Rebus tirò fuori l'elenco che aveva stampato quella mattina. «Ostelli e associazioni di carità», le spiegò. Janice si soffiò il naso ed esaminò la lista. «È necessario contattarli tutti. Avevo intenzione di farlo io, ma, se nel frattempo inizi tu, risparmieremo ore preziose.» «Va bene.» «Poi ci sono i taxi. Questo significa far girare la voce, poi andare in ogni posteggio di taxi e chiedere informazioni su ciò che ci serve. Damon e la
bionda, dalla parte opposta della strada rispetto al Dome.» Janice stava annuendo. «Questo lo posso fare.» «Ti darò un elenco dei luoghi in cui trovarli.» Il proprietario del locale, in piedi accanto al bancone, stava fumando la prima sigaretta del mattino e aprendo un giornale fresco di stampa. Rebus colse al volo un titolo e capì che doveva comprarne una copia per sé. Janice prese a frugare nel portamonete. «I caffè li pago io», le disse Rebus. «Ho bisogno di spiccioli per telefonare», replicò lei. Rebus rimase pensieroso per qualche istante, poi disse: «Perché non fai base nel mio appartamento? Non è molto più accogliente della maggior parte delle cabine telefoniche, ma almeno potrai sederti, prepararti una tazza di caffè...» Le tese un mazzo di chiavi. Janice lo fissò. «Ne sei sicuro?» «Certo che sono sicuro.» Scrisse l'indirizzo su una pagina del taccuino, aggiunse il numero di telefono dell'ufficio e quello del cellulare, poi strappò la pagina e gliela consegnò. Lei la guardò attentamente. «Non ci sono cose riservate che non vorresti mostrare a occhi indiscreti?» Rebus sorrise. «In tutta sincerità, non vivo molto in quell'appartamento. Ci sono un paio di negozi in zona, casomai avessi bisogno...» «Perché, dove stai di solito?» Rebus si schiarì la voce. «Con un'amica.» Toccò a lei sorridere. «Mi fa piacere.» Perché aveva detto «amica» invece di «amante»? Si chiese se nelle loro parole risuonasse lo stesso disagio che avvertiva dentro di sé: quasi fossero tornati ragazzi e il linguaggio fosse la forma di comunicazione più goffa. «Ti do un passaggio», mormorò. «Ricordati la lista dei posteggi di taxi», replicò Janice. «E un elenco stradale, se ce l'hai.» Rebus andò a pagare. Il proprietario girò dietro la cassa per fare lo scontrino. Il suo giornale era rimasto aperto a una pagina in cui spiccava un titolo che rimandava a un fatto di cronaca giudiziaria: il caso Shiellion e le testimonianze rese in aula il giorno prima. IL RESPONSABILE DEI MINORI MARCHIATO COME MOSTRO. C'era una fotografia di Harold Ince mentre veniva accompagnato al furgone della polizia dalla guardia del tribunale con cui Rebus aveva fumato una sigaretta. Ince aveva l'aria stanca, sembrava uno come tanti.
Era quello il guaio, coi mostri. Potevano avere l'aspetto d'individui assolutamente normali, come chiunque altro. Quando mise piede nella sala da pranzo, Jim Stevens non poté impedire che sul volto gli apparisse un'espressione di sollievo. Si avviò verso uno dei tavoli accostati alla vetrata che dava all'esterno. Mentre passava accanto a un paio di ospiti, si vide rivolgere da loro un cenno di saluto e un sorriso. Ebbe l'impressione che, la sera prima, fossero al bar. «Buongiorno, Jim», disse Cary Oakes, togliendosi un po' di tuorlo d'uovo dagli angoli della bocca. Poi guardò dalla finestra. «Una bella giornata grigia, proprio come me le ricordavo.» Prese in mano l'ultimo triangolo di pane tostato e cominciò a imburrarlo. «Gli sbirri sono ancora là.» Stevens guardò fuori. La vettura era priva di contrassegni, ma apparteneva inequivocabilmente alla polizia. Dietro il volante era seduto un uomo, intento a mangiucchiare un panino. «Per quanto tempo andranno avanti così, secondo te?» chiese Oakes. «Ho cercato di chiamarti in camera», disse Stevens, lanciandogli un'occhiata. «Quando?» «Quindici, venti minuti fa.» «Ero già sceso, per calarmi nell'atmosfera del posto.» Stevens si guardò intorno, in cerca di un cameriere. «Se vuoi succo di frutta e cereali, puoi servirti da te», gli spiegò Oakes, indicandogli un tavolo per il self-service. «Poi vengono a prendere l'ordinazione per i cibi caldi.» Stevens fissò il piatto unto di Oakes. «Dopo stanotte, credo che mi limiterò a mandar giù un succo d'arancia e un caffè.» Oakes scoppiò a ridere. «È per questo che io non bevo alcolici.» La sera prima aveva consumato litri di aranciata e limonata, ricordò di colpo Stevens. «Anche perché», continuò Oakes, chinandosi sul tavolo verso il giornalista, «quando bevo faccio cose da pazzi.» «Risparmia i particolari per quando avremo il registratore acceso, Cary.» Non appena il cameriere si avvicinò al loro tavolo, Oakes chiese se poteva avere un'altra colazione calda. «Solo i piatti che non ho preso prima.» Studiò il menu. «Mmm, un po' di fegato fritto, qualche cipolla e, magari, rosticciata di agnello e sanguinaccio.» Si batté la mano sullo stomaco, sorridendo a Stevens. «Soltanto oggi, credimi. Domani riprenderò un regime alimentare sano.»
Quando arrivò il cibo, il giornalista, che aveva continuato a bere succo d'arancia e si era sforzato di mandar giù un boccone di pane tostato, lanciò un'occhiata al piatto e si alzò da tavola. Uscì all'aperto, si accese una sigaretta. Dai dock soffiava un vento freddo. Al di là degli ingressi al porto s'intravedeva la sede della Scot FM. Girò la testa e scorse il poliziotto seduto in macchina che lo stava tenendo d'occhio. Non riconobbe il viso. Oltre la vetrata della sala da pranzo, Oakes stava mangiando con un'esagerata espressione di compiacimento, tanto per stuzzicare il giornalista. Con un sorriso, Stevens si avviò verso il parcheggio dell'albergo e diede un'occhiata alle vetture dei clienti: alcune Beamer, qualche Rover 600, un'Audi. Notò qualcosa sul tergicristallo della sua auto. Sulle prime gli parve sporcizia, sospinta lì dal vento. Poi pensò che fosse una pubblicità di qualche venditore di tappeti o di un antiquario. Ma, quando aprì il foglietto, capì chi ce l'aveva messo. C'era scritta una sola parola: MOLLALO. Infilò il biglietto in tasca e tornò verso l'albergo. Oakes aveva finito di far colazione e si era seduto in uno dei divani dell'atrio, a sfogliare un quotidiano, uno di quelli a diffusione nazionale. «Sono seccato», commentò. «Dopo tutta quella calca all'aeroporto...» «Guarda sui tabloid», ribatté Stevens, sedendosi di fronte a lui. «Sono pieni di articoli su di te. Quello che preferisco, direi, è 'Cary il killer torna a casa'.» «Be', non è azzeccato?» Oakes gettò da un lato il giornale. «Allora, quando ci mettiamo al lavoro?» «Se facessimo tra un quarto d'ora, nella tua stanza?» «Per me va bene. Dopo, però, ho un altro favore da chiederti.» «E cioè?» «C'è un tipo che vorrei rintracciare. Si chiama Archibald.» «È un nome molto comune da queste parti.» «Ma nel suo caso è il cognome. Il nome proprio è Alan.» «Alan Archibald? Dovrei conoscerlo?» Oakes scosse la testa. «Ti dispiacerebbe dirmi chi è?» «Era un poliziotto... forse lo è ancora. Ma dovrebbe aver fatto carriera.» «E...?» Oakes si strinse nelle spalle. «Per ora, non hai bisogno di sapere altro. Se fai il bravo, magari ti racconto tutta la storia.» «In cambio della somma che ti paghiamo, vogliamo tutte le storie.» «Tu intanto trovalo, Jim. Mi farai felice.»
Stevens meditò, chiedendosi chi dei due stesse manovrando i fili. Sapeva di dover essere lui. Però, data la situazione... «Posso fare un paio di telefonate», gli concesse. «E bravo il mio ragazzo!» Oakes si alzò. «Tra un quarto d'ora nella mia stanza. Porta con te tutti i quotidiani. Mi piace essere tra le notizie del giorno.» Così dicendo, si alzò e si avviò verso le scale. 14 Toccava a Jamie andare a comprare, nel negozio più vicino, i giornali, il latte e i panini per la colazione. Aveva tramutato quell'incarico in un'arte, consistente nell'arraffare qualche spicciolo mentendo sui prezzi. Sua madre si lamentava, perché sapeva che altrove si spendeva molto meno, ma quell'«altrove» avrebbe costretto Jamie a fare un tragitto più lungo e a lei non piaceva che il figlio si allontanasse troppo. Un ostacolo che lui aggirava facilmente: ogni volta che voleva fare un giro in città, c'era sempre Billy Boy che diceva di averlo ospitato a casa sua. Jamie si riteneva molto furbo. Si fermò fuori del negozio a fumare. Non comprava lì le sigarette: la legge proibiva che venissero vendute ai minori e il proprietario pakistano non gliele avrebbe mai date. Si era invece messo d'accordo con un suo compagno di scuola più anziano: gli forniva un pacchetto intero in cambio di riviste pornografiche. E queste Jamie le prendeva da sotto il letto di Cal. Ce n'erano tante, e il fratello non sembrava accorgersene. Anche quando c'era un freddo cane, a Jamie piaceva fumare fuori del negozio. I ragazzini che, di buon'ora, si avviavano a scuola lo fissavano. A volte qualche amico si univa a lui. Così diventava il centro dell'attenzione. Un giorno, un vicino l'aveva riferito alla madre e lei aveva cercato di dargli uno schiaffo, ma Jamie era stato più rapido e aveva schivato la sberla infilandosi sotto il braccio di lei, poi si era precipitato fuori, ridendo degli improperi che la donna gli tirava dietro. L'unica volta in cui la madre gliele aveva suonate di santa ragione era stata quando la scuola aveva mandato a casa una lettera. Jamie aveva bigiato ripetutamente, anche varie settimane di fila. La madre l'aveva frustato a sangue con una cinghia, e lui si era chiuso in camera a piangere, la faccia rossa di vergogna per le proprie lacrime. Quel giorno sarebbe andato a scuola, a una cert'ora. Cal era molto abile
nel falsificare le giustificazioni. L'aveva fatto così a lungo che a scuola erano convinti che la sua firma fosse quella della madre, tanto che, il giorno in cui aveva firmato lei un biglietto per autorizzarlo ad andare in gita con la classe, il preside insospettito gli aveva fatto un sacco di domande. Aveva persino sollevato la cornetta del telefono per parlare con la madre del ragazzo, cosa che aveva fatto sorridere Jamie: nel loro appartamento non c'era telefono. Quasi due dozzine di portacenere, in gran parte presi in vacanza o fregati ai pub, ma niente apparecchio telefonico. Cal aveva un cellulare e loro se ne servivano nelle situazioni d'emergenza (sempre che Cal fosse dell'umore giusto e lo lasciasse usare). Era quello il guaio con Cal. Poteva essere formidabile... e poi, d'un tratto, poteva perdere le staffe: bum! come una bottiglia che esplode contro un muro. Oppure s'immusoniva e si chiudeva in camera, rifiutandosi di scrivere le giustificazioni. In quei casi, Jamie usciva e andava a prendergli qualche cosa, magari sgraffignandola in un negozio: un'offerta di pace per una colpa che non aveva commesso. Nelle giornate buone, Cal passava le nocche sulla testa del fratello, vantandosi di essere un pacificatore: a Jamie piaceva sentire quella parola. Cal si paragonava alle Nazioni Unite, che garantivano una difficile tregua. La pescava dai giornali, quella roba: «Nazioni Unite», «difficile tregua». Un giorno Jamie gli aveva chiesto: «Se, a quanto pare, le nazioni sono unite, perché vogliamo staccarci?» «Che vuoi dire?» «Staccarci dall'Inghilterra.» Cal si era ripiegato in grembo il giornale e aveva lasciato cadere la cenere della sigaretta in un portacenere sul bracciolo della poltrona. «Perché gli inglesi non ci piacciono.» «Come mai?» «Perché sono inglesi.» Una nota stridula nella voce di Cal, per far capire a Jamie di togliersi dai piedi. «Ma allora, quei nostri cugini che stanno in Inghilterra? Noi non li odiamo, vero, Cal?» «Ascolta...» «E, quando abbiamo combattuto contro i tedeschi, l'abbiamo fatto con gli inglesi, no?» «Ascolta, Jamie, noi vogliamo governare la nostra nazione. Chiaro? Tutto qui. La Scozia è una nazione, o no?» Aveva aspettato il cenno di assenso del fratello. «Allora chi deve avere voce in capitolo? Londra o Edimburgo?»
«Edimburgo, Cal.» «Appunto.» Aveva ripreso in mano il giornale. Fine della discussione. Jamie aveva un'infinità di cose da chiedere, ma non riusciva mai a ottenere risposte. Rivolgere domande alla madre era fatica sprecata: «Non parlarmi di politica», diceva, oppure: «Non parlarmi di religione». O di qualunque altro argomento. Come se lei, dopo essersi spremuta le meningi tutta la vita, fosse infine riuscita a trovare risposte soddisfacenti e non avesse la minima intenzione di riprendere da capo a beneficio del figlio. «È a questo che servono gli insegnanti», gli diceva. Il che era abbastanza giusto, ma a scuola Jamie aveva una reputazione da salvaguardare. Era «il fratello di Cal Brady». Non poteva andare dagli insegnanti a far domande. Quelli si sarebbero fatti delle idee su di lui. Molto tempo addietro, Cal gli aveva detto: «A scuola, Jamie, ci dev'essere una netta distinzione tra 'noi' e 'loro', è chiaro? In battaglia, ragazzo, non si prendono prigionieri, capito?» E Jamie aveva fatto cenno di sì, ma senza capirci nulla. Mentre indugiava davanti al negozio, battendo la punta di una scarpa contro un bidone della spazzatura, vide arrivare Billy Horman. Jamie s'irrigidì leggermente. «Come butta, Billy Boy?» «'Nsomma. Ce l'hai una paglia?» Gli diede una delle sue preziose sigarette. «Hai visto la partita, ieri sera?» Jamie scosse la testa, sbuffò. «Sai che mi frega», rispose. «Caspita, un vero portento.» Dallo sguardo che Billy gli lanciò nel dirlo, in cerca di approvazione o qualcosa del genere, Jamie capì che l'amico doveva aver sentito quella frase in bocca a qualcun altro, magari al compagno della madre, e non era sicuro del significato. «Sì, i nostri vanno forte», gli concesse, mentre Billy mimava un goal fulminante. «Vai a casa?» chiese Billy. Jamie picchiettò sul giornale e sui panini che teneva sotto un braccio. «Aspetta, vengo con te.» Entrò nel negozio per riuscirne poco dopo con una bottiglia di latte e una confezione di margarina. «La mamma è rimasta all'asciutto, stamattina. Il suo nuovo uomo è venuto a casa dal pub e si è mangiato una decina di fette di pane.» Lanciò in aria la margarina e la riprese al volo. «Ha finito il burro.» Jamie non replicò. Stava pensando ai padri, a come fosse buffo che né
Billy né lui ne avessero uno. Si chiese quale fine avesse fatto il suo, quale delle versioni che giravano sul suo conto fosse quella vera. «Con chi stavi, ieri?» chiese mentre si avviavano verso casa. «Eh?» «In fondo a St. Mary's Street. Era tuo zio o che?» «Ah, sì. Mio zio Bill.» Billy Boy, però, stava mentendo. Le orecchie gli diventavano sempre rosse quando raccontava una balla... Rientrato nel suo appartamento, Jamie portò il giornale nella camera di Cal. «Ce n'hai messo di tempo, stronzetto.» Cal era sdraiato sul letto, col televisore portatile acceso. Nella stanza l'aria era così viziata che Jamie era costretto di tanto in tanto a trattenere il fiato. Sul pavimento, accanto al portacenere, Cal aveva appoggiato una tazza di tè. «Dai, cambia.» Il televisore, sistemato sopra un cassettone in fondo al letto, non aveva il telecomando. Cal l'aveva portato a casa una sera, dicendo di averlo vinto al pub, come premio di una scommessa. Accanto al pannello dei tasti c'era un quadratino con la scritta SPIA TELECOMANDO, dal che Jamie aveva capito che il telecomando in realtà ci sarebbe dovuto essere. Per arrivare all'apparecchio dovette scavalcare un mucchio d'indumenti di Cal buttati alla rinfusa sul pavimento. Schiacciò il tasto di Channel 4. Nello spettacolo mattutino c'erano alcune bambole (era stato Cal a insegnargli quel termine: bambole). Jamie saltò di nuovo il mucchio d'indumenti e si precipitò fuori della stanza. Nel corridoio lasciò uscire di colpo tutto il fiato. L'aveva trattenuto per venticinque secondi: nulla in confronto al suo record di apnea. La madre era seduta al tavolo di cucina, a imburrare i panini. Gliene diede uno. Jamie si versò una tazza di latte e si sedette. Le aveva detto che, a causa dei licenziamenti del personale scolastico, le lezioni non cominciavano prima delle nove e mezzo. Lei gli aveva creduto oppure non se l'era sentita di mettersi a litigare. Aveva l'aria stanca, la mamma, pareva aver bisogno di un trattamento di bellezza. Ma Jamie sapeva che l'aspetto poteva trarre in inganno: in due secondi netti quella donna era capace di trasformarsi, da così com'era, in un'autentica furia. Lui aveva assistito a una scena del genere quando uno dei vecchi che abitavano al piano di sopra era venuto a lamentarsi del baccano. La madre aveva dato in escandescenze: una vera
sbiellata. La stessa cosa era avvenuta col vecchietto che si era lagnato perché la palla era atterrata nel suo giardino. «Se non state attenti, la prossima volta la infilzo col rastrello.» «Se ci provi, ti prendo quel cazzo di rastrello e te lo pianto nei coglioni», aveva sbraitato la donna. Era a un passo da lui e sembrava dilatarsi, mentre il vecchietto rimpiccioliva. Jamie aveva molto rispetto per la madre. L'ultima volta in cui lei gliele aveva suonate era stata quando si era azzardato a chiamarla Van. Cal lo faceva, ma con lui nessuno trovava da ridire perché Cal era ormai un adulto, come la madre. Jamie non vedeva l'ora di crescere. Con una tazza di tè in mano, la donna iniziò il rituale mattutino: ricordarsi dove aveva messo le sigarette. «Forse le ha prese Cal», suggerì Jamie. «Non parlare con la bocca piena.» Poi lanciò un urlo in direzione della stanza di Cal, che, sempre urlando, disse di no. Lei andò in salotto, sollevò i cuscini del divano e delle poltrone, sferrò un calcio alla pila di riviste di auto e di musica ammucchiate sul pavimento. Sopra l'apparecchio hi-fi trovò un mezzo pacchetto: mancava tutta la metà superiore. Cal se ne serviva per le sue «canne». Lei tirò fuori uno dei mozziconi, ma si accorse che era anche semivuoto. Sospirò pesantemente, se lo cacciò comunque tra le labbra e l'accese con l'accendino trovato dentro il pacchetto. Non avendo tasche, appoggiò le sigarette sul bracciolo della sedia. Indossava pantaloni aderenti di un grigio argenteo e un maglioncino da jogging color porpora con la chiusura lampo. Il maglioncino era vecchio e la scritta sulla schiena (SPORTING NATION) screpolata e parzialmente scrostata. Jamie si chiese se Sporting Nation volesse dire Scozia. Dopo aver finito di mangiare il pane e burro, si alzò dalla sedia. Per quel giorno aveva già in mente un piano: andare a Princess Street oppure, magari, arrivare in autobus fino al Gyle. Da solo, o con chiunque volesse seguirlo. Il guaio col Gyle era che si trovava in capo al mondo. A Lothian Road c'era una ludoteca con un mucchio di videogame e a Jamie piaceva andarci, ma era piena di frequentatori abituali che sapevano giocare meglio di lui e, se anche si fosse rifiutato d'impegnarsi in una partita contro di loro, si sarebbero messi a osservarlo, a fargli notare gli errori che commetteva e a sfotterlo dicendo che, pure coi polsi ingessati, se la sarebbero cavata meglio. «Tanto meglio», avrebbe voluto replicare. «Tanto, se continuate così, vi ritroverete ingessati da capo a piedi.» Ma non l'aveva mai fatto: erano qua-
si tutti più grossi di lui. E non conoscevano Cal, perciò la minaccia non funzionava. Ecco il motivo per cui Jamie stava ormai alla larga da quel posto... La porta della stanza di Cal si spalancò e lui irruppe in cucina. Aveva infilato i jeans, trascurando però di chiudersi la lampo e di allacciarsi la cintura. Niente scarpe o calze, niente maglietta. Sul petto e sulle braccia era pieno di cicatrici e lividi. Si vedevano i muscoli guizzare sotto la pelle. Distese il giornale sul tavolo e vi piantò sopra, con forza, una mano. «Guarda», sibilò, il volto arrossato dall'ira. «Da' un po' un'occhiata.» Jamie guardò: un articolo su due intere pagine. COLPEVOLE DI REATI SESSUALI CON VISTA SU UN CAMPO GIOCHI. C'erano alcune foto. In una si vedeva un caseggiato, con una freccia che indicava uno dei piani; in un'altra, due ragazzini giocavano in una zona asfaltata. «È qui, dove siamo», esclamò Jamie, sbalordito. Prima di allora non aveva mai letto di Greenfield sui giornali, mai visto qualche foto del quartiere. La madre si avvicinò. «Che c'è?» chiese. «Uno schifoso pervertito ci vive proprio sotto il naso», sbraitò Cal. «Nessuno ce l'aveva detto.» Vibrò una manata sul giornale. «È scritto qui. E nessuno si è preoccupato di avvertirci.» Van scorse l'articolo. «La foto non c'è.» «No. Ma la freccia l'hanno messa per indicare la porta di quel bastardo.» Alla donna venne in mente una cosa. «L'altro giorno la polizia è venuta a rompere da queste parti. Credevo cercassero te.» «Che volevano?» «Era uno solo. Mi ha chiesto se conoscevo qualcuno chiamato...» Strizzò gli occhi. «Darren qualcosa.» «Darren Rough», disse Jamie. Cal lo fissò. «Lo conosci?» Jamie non sapeva quale risposta sarebbe andata a genio a Cal. Si strinse nelle spalle. «L'ho visto girare da queste parti.» «E come mai lo conosci per nome?» Gli piantò in faccia due occhi fiammeggianti. «Lui... Non so...» «Lui cosa?» Cal gli si era piantato davanti, i pugni chiusi. «In quale appartamento abita?» Jamie stava per dirglielo quando Cal lo abbrancò per il colletto della camicia. «Meglio ancora, fammelo vedere.» Però, mentre camminavano sul ballatoio diretti all'appartamento di Dar-
ren Rough, videro che altri avevano avuto la stessa idea. Un gruppo di sette od otto residenti era fermo davanti alla porta di Rough. Molti avevano in mano il giornale del mattino, arrotolato e brandito come un'arma. Cal fu deluso di non essere arrivato per primo. «Non c'è?» «O non risponde.» Cal sferrò un calcio alla porta, notando, dagli sguardi dei presenti, che erano rimasti impressionati da quel gesto. Si fece indietro e diede una spallata alla porta, un altro calcio. Oltre alla serratura c'era anche un catenaccio. Non c'era modo di sbirciare all'interno: la fessura per la posta era bloccata, sull'intelaiatura interna della finestra era stato inchiodato un telo. Tutti si misero a discutere sul da farsi. «Svegliati, bastardo pervertito!» urlò Cal Brady con la faccia contro la finestra. «Vieni a conoscere il tuo fan club!» Intorno a lui spuntò qualche sorriso. «Forse fa il turno di notte», scherzò qualcuno. Cal non riuscì a pensare a nulla d'intelligente da ribattere. Picchiò invece i pugni sul vetro della finestra, poi tornò a prendere a calci la porta. Arrivò qualche altro residente, ma i più cominciavano ad andarsene. Ben presto restarono solo due ragazzini, oltre a Cal e Jamie. «Jamie», disse Cal, «va' a prendermi uno spray colorato. Lo trovi sotto il mio letto.» Jamie sapeva già che là sotto c'erano due bombolette. «Blu o nero?» chiese, prima di rendersi conto di ciò che aveva fatto. Cal però non se ne accorse. Era troppo assorto a fissare la porta. «Uno qualsiasi», rispose. Jamie andò a prendere lo spray. Sua madre si trovava sulla porta, le braccia conserte, intenta a parlare con un paio di donne che abitavano sullo stesso piano. Jamie passò loro davanti. «Allora?» gli chiese la madre. «In casa non c'è nessuno.» Van si girò verso le amiche. «Chissà dov'è finito. Con un simile bastardo, non si può mai dire.» «Dobbiamo fare una protesta scritta», disse una delle donne. «Sì, per costringere il consiglio municipale a trovargli un'altra casa.» «E credi che ci ascolterebbero?» replicò Van. «Un'azione diretta, ecco quello che ci serve. I nostri problemi ce li risolviamo da soli, senza chiedere agli altri.» «La Repubblica popolare di Greenfield», scherzò la seconda donna.
«Sto parlando seriamente, Michèle», ribatté Van. «Molto seriamente.» Girandole alle spalle, Jamie s'infilò in casa. 15 «All'inizio, avevo come l'impressione che, per la mamma e me, fosse un continuo viaggiare da un luogo all'altro.» Cary Oakes era seduto in poltrona accanto alla finestra della sua camera, i piedi appoggiati sul tavolino di fronte. Jim Stevens si era sistemato sul letto, in un angolo, col braccio teso e, in mano, il registratore. «Quali luoghi? In quali anni?» Oakes gli lanciò un'occhiata. «Non ricordo i nomi delle città, le persone con cui stavamo. Quando sei bambino, certe cose non t'interessano, non credi? Avevo la mia vita, il mio piccolo mondo fantastico. M'immaginavo soldato o pilota di un aereo da guerra. La Scozia era piena di stranieri e io andavo a catturarli, mi vedevo come una specie di vigilante.» Rivolse di nuovo lo sguardo fuori della finestra. «A causa di tutti quegli spostamenti, non ho mai stretto amicizia con nessuno. Un'amicizia vera, cioè.» Vide che Stevens stava per interromperlo di nuovo. «Anche in questo caso non posso farti nomi. Però ricordo il mio arrivo a Edimburgo.» S'interruppe, piegandosi in avanti per strofinare il pollice sulla punta di una scarpa e rimuovere un po' di fango. «Sì, Edimburgo ce l'ho stampata in mente. Stavamo in famiglia, con mia zia e suo marito. Non ricordo in quale zona della città abitassero. Accanto c'era un parco. Ci andavo spesso. Forse potresti scattarmi qualche foto in quel posto.» Stevens annuì. «Sempre che tu sappia dirmi dov'è.» Oakes sorrise. «Un parco vale l'altro, non credi? Facciamo finta che sia quello giusto. Vuoi sapere che cosa combinavo laggiù? Era il mio universo. Apparteneva soltanto a me. Potevo agire a mio piacimento. Ero Dio.» «Ma esattamente cosa facevi?» Stevens stava pensando: la narrazione è limpida, scorrevole. O Cary Oakes era un affabulatore nato, oppure... si era preparato a puntino. Ma gli era sfuggito un particolare stonato, qualcosa che aveva detto della famiglia: mia zia e suo marito. Uno strano modo di definirli. «Cosa facevo? Giocavo, come qualunque altro bambino. Avevo una fantasia sbrigliata, te l'ho già detto. Quando sei piccolo, nessuno ci bada se corri in giro a sparare a chiunque ti capiti a tiro, sai che intendo, no? Nella tua testa, puoi sterminare interi popoli. Scommetto che non esiste una sola
persona su questo pianeta che non abbia immaginato prima o poi di uccidere qualcuno. Giurerei che è successo anche a te.» «Ti mostrerò la mia collezione di bamboline voodoo.» Oakes sorrise. «La mia mamma faceva del suo meglio, per quanto mi riguardava.» Tacque un istante. «Ne sono sicuro.» «Che ne è stato di tua madre?» «È morta, amico.» I suoi occhi sembravano perforare quelli del giornalista. «Ma tutti crepano, prima o poi.» «Giocavi da solo?» Oakes scosse la testa. «Feci conoscenza con altri ragazzini. Mi unii a una banda, e a poco a poco raggiunsi una posizione di comando.» «Menavate spesso le mani?» Oakes si strinse nelle spalle. «Gli scontri fisici erano rari. In genere giocavamo a football e tenevamo alla larga gli estranei, con le buone e con le cattive. Ci divertivamo anche a far fuori qualche gatto del vicinato.» «Come?» «Cospargendoli con la benzina degli accendini e dando loro fuoco.» Lo sguardo di Oakes non mollava Stevens. «Un tipico inizio per il classico serial killer. L'ho letto in prigione. L'individuo solitario che brucia gli animali.» «Però tu non eri solo, avevi la tua banda.» Oakes sorrise di nuovo. «Ma ero io quello con l'accendino, Jim. Sta tutta qui la differenza.» Quando si concessero una breve sosta, Stevens tornò nella propria stanza. Due filtri di caffè in una tazza piena d'acqua bollente. Era stato svegliato alle quattro di mattina da una telefonata. Il suo capo era riuscito a fare un miracolo e Stevens si era trovato a parlare con un giornalista di Seattle che aveva seguito tutto il caso Oakes, dall'inizio alla fine. Il giornalista, Matt Lewin, gli aveva confermato che Oakes assisteva ogni domenica, regolarmente, alla funzione religiosa nel penitenziario di Walla Walla. «Sono in molti a farlo, il che non significa che abbiano visto la luce.» Stevens si distese sul letto, a sorseggiare il suo caffè. Voleva rintracciare la banda di adolescenti in cui aveva militato Oakes da ragazzo. Sarebbe stato un ottimo sfondo, un altro modo per penetrare nella psicologia di quell'uomo. Non appena il giornale avesse cominciato a pubblicare la storia, forse qualche membro della banda l'avrebbe letta, si sarebbe fatto avanti e Stevens l'avrebbe intervistato: tutto materiale adatto al libro che in-
tendeva scrivere. Aveva chiesto a Matt Lewin se un testo del genere poteva fare gola a qualche editore americano. «No, se non si tratta di uno dei nostri criminali. Ci piacciono i prodotti autoctoni. E poi, Jim, i serial killer sono passati di moda da un pezzo.» Stevens sperava che ritornassero di moda. Il libro poteva essere il suo orologio d'oro, un piccolo regalo di addio al lavoro che avrebbe fatto a se stesso. Sapeva che quell'impresa l'avrebbe costretto a eseguire attente ricerche, a verificare il più possibile tutto ciò che Oakes gli stava raccontando. Ma si sentiva molto stanco e il suo capo gli aveva detto: prima raccogli la storia, poi cerca le prove. Finì di bere il caffè, allungò una mano a prendere una sigaretta, poi scese di slancio dal letto. Lo spettacolo ricominciava. Janice Mee si concesse una pausa e andò a mangiare nel ristorante in cima al John Lewis's. Da una finestra si scorgeva la Calton Hill. Un giorno erano saliti sulla sommità della collina insieme con Damon, quando lui aveva sette, otto anni. In uno degli album c'erano le foto di quella gita: Calton Hill, il castello, il museo dell'infanzia... Lei aveva dozzine di album. Li teneva in fondo all'armadio. Di recente li aveva tirati fuori, li aveva portati di sotto per poterli sfogliare, per riportare in vita ricordi di campeggi estivi e vacanze in riva al mare, feste di compleanno e giornate sportive. Da una delle altre finestre del ristorante scorgeva chiaramente la costa del Fife, ma non riusciva a raggiungere con lo sguardo la sua città natale. Nel corso della sua vita c'erano stati momenti in cui aveva meditato di trasferirsi altrove: a sud, a Edimburgo, oppure a nord, a Dundee. Ma c'è qualcosa di accogliente nel luogo in cui si è nati, in cui vivono familiari e amici. I genitori e i nonni di Janice erano tutti originari del Fife, cosicché la storia della regione era inestricabilmente legata a quella di lei. La madre era ancora una bambina ai tempi del grande sciopero generale del 1926, ma ricordava di aver visto erigere barricate intorno a Lochgelly. Il padre si era arrampicato su un lampione per assistere al funerale di Johnny Thomson. Le radici che una famiglia affondava nel tempo erano concrete, tangibili. Ma quel senso di fusione con la storia era fuorviante, perché ti spingeva a credere che il futuro sarebbe stato uguale al passato. Janice invece stava scoprendo che quel filo poteva essere spezzato all'improvviso, in un punto qualsiasi. Mangiò il panino, farcito con scampi e maionese, senza il minimo piacere, senza neppure avvertirne il sapore. Si rese conto di aver bevuto il caffè
solo perché la tazza era vuota. Sul bordo del piatto c'era uno scampo dall'aspetto pallido, caduto dal panino. Lo lasciò dov'era e si alzò. Uscita dal St. James' Centre, attraversò Princess Street e puntò verso la Waverley Station. Una fila di taxi si snodava dalla stazione sotterranea fino al Waverley Bridge. Gli autisti erano seduti al volante delle loro vetture, chi leggendo, chi mangiando, chi ascoltando la radio. Altri fissavano il vuoto o chiacchieravano coi colleghi. Janice cominciò dal fondo della coda. John Rebus le aveva fornito alcuni nomi. Uno era Henry Wilson. Tutti i taxisti sembravano conoscerlo, lo chiamavano «il Taglialegna». Diramarono un messaggio per lui. In attesa, Janice mostrò loro le fotografie di Damon e spiegò che era salito su un taxi in George Street. «C'era qualcuno con lui?» le chiese un taxista. «Una donna... capelli biondi corti.» Il taxista scosse la testa. «Non dimentico mai una bionda», commentò, rendendole le foto. Nel frattempo, sfortunatamente, erano arrivati due treni, da Londra e da Glasgow. I taxi cominciarono a muoversi, più in fretta di quanto potesse fare lei, scendendo la rampa fino al marciapiede lungo il quale i viaggiatori erano in attesa. Janice si guardò indietro. Altri taxi si stavano mettendo in coda, e lei non seppe più con quali autisti aveva già parlato. I motori appena accesi esalavano fumi che le scendevano nei polmoni. Era tutto un risuonar di clacson via via che le vetture la superavano, infilandosi nel passaggio sotterraneo, chiedendosi cosa facesse quella donna in mezzo alla strada quando dall'altra parte c'era un marciapiede. Anche i pendolari la osservavano. Sapevano che non avrebbe mai potuto prendere un taxi finché fosse rimasta lì, perché c'era una regola ben precisa: si doveva fare la fila al posteggio. Janice si sentiva la bocca amara, come se fosse piena di sabbia. Il caffè che aveva bevuto doveva essere troppo forte: il cuore le martellava nel petto. Poi udì il clacson di un altro taxi. «Va bene, va bene», disse, spostandosi verso la vettura successiva, che stava già cominciando a muoversi. Il clacson suonò di nuovo: proprio dietro di lei. Janice si voltò, indispettita, e vide un altro taxi nero, col finestrino aperto. Il sedile posteriore era vuoto; c'era soltanto l'autista, che si sporgeva verso di lei. Capelli neri corti, lunga barba nera, camicia scozzese. «Il Taglialegna?» chiese Janice. «È così che mi chiamano.» Lei sorrise. «È stato John Rebus a farmi il suo nome.»
Il taxi bloccava la strada alle auto che lo seguivano. Qualcuno azionò i fari. «È meglio che salga», disse il taxista. «Prima che mi ritirino la licenza per intralcio al traffico.» Janice Mee montò. La vettura imboccò la rampa che scendeva fino alla stazione e poi quella che risaliva, quindi svoltò a destra e attraversò il flusso del traffico, portandosi in fondo alla fila dei taxi. Henry Wilson tirò il freno a mano e si girò sul sedile. «Allora, cosa vuole stavolta l'ispettore?» E Janice Mee glielo disse. Doveva essere una faccenda seria: invece di mandarlo a chiamare, il Caporale era andato personalmente in cerca di Rebus, il quale era fuori, nel parcheggio, a fumare una sigaretta e a pensare alla quindicenne Janice Playfair... «È qualcosa che ha a che vedere con la sorveglianza?» chiese Rebus, pensando che fosse successo qualcosa. «No, cazzo, è un'altra cosa.» Il Caporale infilò le mani in tasca: una sorta di dichiarazione di guerra. «Che ho fatto stavolta?» «La stampa è venuta a sapere di Darren Rough. Stamattina un giornale ha pubblicato la storia e gli altri arriveranno a ruota. La mia segretaria è stata bersagliata da un tale numero di telefonate che non sa più se lavora in una stazione di polizia o in un pronto soccorso.» «Da chi hanno avuto la soffiata?» chiese Rebus, gettando via la sigaretta. Gli occhi del Caporale si ridussero a due fessure. «È quello che vorrebbe sapere l'assistente sociale di Rough. Ha intenzione di presentare una protesta formale.» Rebus si grattò il naso. «Lei pensa che sia stato io?» «John, so benissimo che sei stato tu.» «Con tutto il rispetto, signore...» «Chiudi il becco, John, eh? La prima cosa che ha fatto il giornalista da te contattato è stata chiamare il 1471 un secondo dopo che avevi riagganciato. Voleva sapere il numero dell'apparecchio da cui era partita la telefonata.» «E allora?» «Era quello del Maltings.» Un pub, quasi di fronte alla stazione di polizia di St. Leonard, sull'altro lato della strada. «Ma c'è di più: il nostro in-
trepido giornalista ha chiamato il locale e chiesto alla persona venuta a rispondere chi fosse stato l'ultimo a usare il telefono. Vuoi che ti legga la descrizione?» «Maschio, bianco, sui quaranta?» azzardò Rebus. «Ce ne saranno migliaia, di persone così.» «È possibile. Il che però non ha impedito all'assistente sociale di Rough di pensare proprio a te.» Rebus si voltò verso i Salisbury Crags. «Sono contento che qualcuno abbia svelato l'identità di Rough.» Esitò. «Se era questa la cosa giusta da fare.» «A quale scopo? Per costringerlo a sparire da Edimburgo? Per scatenargli contro una folla urlante e assetata di sangue? John, rabbrividisco al pensiero di quello che potresti fare a Ince e Marshall.» Ince e Marshall: gli imputati nel processo Shiellion. «E lei non ci pensi», ribatté Rebus. Poi lo guardò. «Cosa vuole che faccia?» «In primo luogo, gira alla larga da Rough. Continua a sorvegliare Oakes, così almeno per sei ore di fila non combinerai altri guai. E chiama Jane Barbour.» Gli consegnò un pezzo di carta su cui era scritto un numero di telefono. «La Barbour? Che vuole da me?» «Non ne ho idea. Qualcosa che riguarda Shiellion House.» Rebus fissò il foglio. «È probabile», mormorò. Dopo che il Caporale se ne fu andato, Rebus non rientrò nella stazione di polizia. Si avviò invece nel vicolo che dava sulla strada principale, si guardò intorno, attraversando poi rapidamente, ed entrò nel Maltings. Durante il giorno, in genere, era un locale molto tranquillo. Quando lui aveva fatto la telefonata, c'era un unico cliente. Un minuto dopo l'orario di apertura, lo stesso uomo era seduto da solo al bar con una mezza birra e un whisky davanti a sé. «Alexander», chiamò Rebus. «Scusa, ma devo parlarti.» Prese l'uomo per un braccio e lo trascinò verso i gabinetti per gli uomini; non voleva che il barista li ascoltasse. «Cristo, che c'è?» Il bevitore si chiamava Alexander Jessup. Non gli piaceva che il suo nome venisse storpiato in Alex o Alec o Sandy o Eck: voleva che lo chiamassero Alexander. Un tempo, era un tipografo. Stampava carta intestata, libri contabili, biglietti per qualche lotteria e roba del genere. Poi aveva venduto l'azienda e si stava tranquillamente bevendo tutto ciò
che aveva guadagnato. Trascorreva il tempo ciondolando di qua e di là e quindi era al corrente di molte cose, ma non aveva mai rivelato a Rebus nulla di veramente utile. Gli piaceva chiacchierare; parlava con chiunque fosse disposto a dargli retta. «Ti ha contattato qualche giornalista?» gli chiese Rebus. Jessup, guardandolo con occhi umidi, come quelli di un vecchio cane, scosse la testa. Il viso era gonfio, segnato dai capillari rotti. «Hai parlato al telefono con uno di loro», gli rammentò Rebus. «Era un giornalista?» Jessup sembrò punto sul vivo. «Non me l'aveva detto.» «Gli hai dato la mia descrizione.» «Bah, forse.» Rimuginò qualche istante, annuì, poi alzò un dito. «Ma niente nomi, mi conosci, John. Non gli ho fatto il tuo nome.» Rebus tenne la voce bassa. «Se qualcuno viene a interrogarti, da' una descrizione il più possibile vaga, capito? Prima di allora non avevi mai visto il tizio che ha telefonato, non è uno dei clienti abituali di questo pub.» Gli lasciò il tempo di recepire il messaggio. Jessup gli strizzò l'occhio con molta enfasi. «Messaggio ricevuto.» «E compreso?» «E compreso», confermò Jessup. «Non ti avrò mica messo nei guai, eh?» Moriva dalla voglia di capire tutto. «Sai che non farei mai una cosa del genere.» Rebus gli batté la mano sulla spalla. «Lo so, Alexander. Ricorda soltanto chi ti porta la colazione quando ti fanno passare la notte in guardina.» «Hai ragione, John... Scusa se ti ho cacciato in qualche pasticcio.» Rebus spalancò la porta della toilette. «Lascia che ti offra un bicchierino.» «Solo se mi fai compagnia.» «Mi tenti», replicò Rebus, mentre si avviavano verso il bancone. «Mentirei se dicessi il contrario.» «Hai bevuto?» gli chiese Janice Mee. Rebus non rispose subito: era troppo occupato a osservare il suo salotto. Janice scoppiò a ridere. «Scusa», disse. «Non ho potuto farne a meno.» La stanza era stata pulita e riordinata: giornali e riviste erano adesso sistemati nell'ultimo ripiano in basso della libreria. Sul secondo e terzo ripiano si trovavano i libri, prima sparpagliati sul pavimento. Piatti e bic-
chieri erano stati portati in cucina, i vassoi di plastica del cibo e le lattine di birra gettati nel bidone dei rifiuti. Persino il portacenere era stato lavato. Rebus lo prese. «Credo che sia la prima volta che riesco a leggere la scritta.» Sul portacenere, sgraffignato da un pub, c'era la pubblicità di una nuova birra che non era riuscita a imporsi. Janice sorrise. «Quando sono nervosa mi metto sempre a riordinare la casa.» «Dovresti venire più spesso a sfogare qui il tuo nervosismo.» Janice fece il gesto di sferrargli un pugno. «Sta' attenta», osservò Rebus, «l'ultima volta in cui ci hai provato, sono rimasto privo di sensi per dieci minuti.» «Mentre ero fuori ho comprato tè in bustine e latte», annunciò Janice, avviandosi verso la cucina. «Vuoi una tazza di tè?» «Con molto piacere.» Seguì la scia del suo profumo. Da un anno non portava più Patience in quella casa; non ci aveva mai portato molte donne. «Allora, com'è andata?» «Il Taglialegna mi è sembrato simpatico.» «Ma ti è stato d'aiuto?» Lei si mise a trafficare col bollitore. «Oh, be'...» «Hai fatto il giro di tutti i posteggi di taxi?» «Il tuo amico ha detto che non ce n'era bisogno. Lo farà lui per me.» «Quindi adesso ti senti di nuovo inutile?» Tentò di sorridere. «Pensavo... Ero convinta, venendo qui, di poter...» Chinò il capo, la voce si ridusse a un sussurro. «Avrei fatto meglio a rimanere a casa.» «Janice.» La fece voltare, così da guardarla negli occhi. «Stai facendo del tuo meglio.» Lei era davanti a lui, alta, snella, aggraziata. In quel momento erano vicini come quando avevano ballato alla festa di fine anno della scuola, la loro ultima sera come coppia. Danze formali - valzer e polke - e tradizionali, come le Gay Gordons. Lei avrebbe voluto che le danze non smettessero mai, lui desiderava portarla sul retro della scuola, nel loro nascondiglio segreto (lo stesso nascondiglio segreto in cui si rifugiavano tutti gli altri). «Stai facendo del tuo meglio», ripeté Rebus. «Ma serve a ben poco. Lo sai cosa mi sono sorpresa a pensare, oggi? Ho pensato: lo ucciderò per avermi fatto penare tanto.» Un amaro sorriso. «Poi mi sono detta: e se fosse già morto?»
«Non è morto», replicò Rebus. «Quanto a questo, fidati di me. Non è morto.» Portarono il tè in salotto, si sedettero al tavolo da pranzo. «A che ora hai intenzione di tornare a casa?» le chiese Rebus. «Pensavo verso le sei. C'è un treno a quell'ora.» «Ti accompagnerò io, in macchina.» Janice scosse la testa. «Anche una ragazza di campagna come me sa quanto sia caotico il traffico a quell'ora del giorno. Farò molto prima in treno.» Il che era vero. «Allora ti accompagnerò in stazione.» Che altro doveva fare prima che iniziasse il suo turno di sorveglianza, se non cercare di dormire un po'? Janice strinse le mani intorno alla tazza. «Perché sei diventato poliziotto, Johnny?» «Perché?» Cercò di formulare una risposta che suonasse plausibile. «Ero stato nell'esercito e non mi era piaciuto, non sapevo cosa volevo fare.» «Non è esattamente il tipo di professione che scegli così, tanto per impegnarti.» «Per alcuni di noi è così. Vedi, per me è diventata una seconda pelle.» «E hai successo in quello che fai?» Rebus si strinse nelle spalle. «Ottengo qualche risultato.» «Non è la stessa cosa?» «Non esattamente. Dovrei tenere la testa bassa, non avere la puzza sotto il naso, comportarmi in modo diplomatico... e tutto questo non mi riesce.» Si dimenò sulla sedia. «Tu avevi sempre detto che avresti fatto l'insegnante.» «Infatti ho insegnato... per un po'.» Rebus si trattenne dal dirle che pure la sua ex moglie faceva quel mestiere. «Dopo di che hai sposato Brian?» le chiese invece. «Le due cose non sono collegate.» Janice abbassò lo sguardo sulla tazza e parve sollevata quando il telefono iniziò a squillare. Rebus alzò il ricevitore. «'Sera, signor Rebus.» «Henry», esclamò lui, per allertare Janice. «Hai qualcosa per noi?» «Forse. Due passeggeri, saliti a George Street. L'autista si ricordava della bionda. Una faccia che si faceva notare, ha detto. Con qualcosa di duro. Occhi gelidi. Gli era sembrata una professionista.» «Dove li ha portati?» chiese Rebus, lanciando un'occhiata a Janice che si
era alzata, la tazza ancora stretta tra le mani. «A Leith. Li ha lasciati accanto a The Shore.» Leith: dove le prostitute cittadine esercitavano il mestiere. Quanto a The Shore, «la Riva», era la stessa zona in cui si trovava l'albergo di Cary Oakes. «Ha notato da che parte si sono diretti?» «Il ragazzo non gli ha dato una mancia sostanziosa, così il mio collega è ripartito subito, anche perché poco prima, in Bernard Street, aveva visto uno che gli aveva fatto capire di volere un taxi. Ma i posti dove possono essere andati non sono molti. A quell'ora di notte i pub stanno per chiudere, se già non hanno abbassato le serrande. Però da quelle parti le prostitute hanno i loro appartamenti.» Rebus annuì. Appartamenti privati... e l'albergo. «Sempre che non siano montati sull'imbarcazione», aggiunse Wilson. «Quale imbarcazione?» «Quella ancorata al molo.» Sì, Rebus l'aveva vista, sembrava ormeggiata lì in pianta stabile. «Ci organizzano feste», stava dicendo Wilson. «Io però non ci sono mai salito...» Rebus lasciò Janice alla stazione di Waverley. Si sarebbero rivisti il pomeriggio seguente, per dare un'occhiata all'imbarcazione. Lui si era sentito in obbligo di avvisarla. «Magari è una pista, ma potrebbe anche essere un buco nell'acqua.» «Non mi farò illusioni», aveva replicato Janice. Poi, mentre stava per scendere dall'auto, esitò, si chinò verso di lui e gli diede un bacio sulla guancia. «Come, niente lingua?» esclamò Rebus, sorridendo, mentre Janice accennava a sferrargli un pugno sul braccio. «Salutami Brian.» «Sì, certo. Se non è fuori con gli amici.» Qualcosa nel suo tono di voce suscitò in Rebus il desiderio di approfondire l'argomento, ma lei era già scesa dalla vettura e aveva richiuso la portiera. Dopo avergli fatto un cenno di saluto e avergli mandato un bacio, si girò, incamminandosi verso il binario con l'aria della donna che sa di essere osservata. Rebus si rese conto di avere ancora una mano sulla maniglia dello sportello. «Piantala», si disse. Prese il cellulare, lasciò un messaggio alla segreteria telefonica di Patience (lei quella notte era di servizio) e riprese la strada per il suo appartamento: voleva tentare di dormire un po'. Prima, però, fece una sosta all'Oxford Bar: un whisky molto allungato. E
uno solo, da autista responsabile. Ascoltò i pettegolezzi, ma contribuì ben poco alle chiacchiere. George Klasser lo rimproverò per quella sua progressiva mancanza di fede. «Stai diventando un regolare irregolare, John.» «Lo sono sempre stato, Doc.» Poco più in là, accanto al bancone, era scoppiata una discussione sul rugby, la quale stava coinvolgendo altri bevitori. Tutti dicevano la loro, tutti tranne Rebus. Lui fissava una stampa appesa alla parete: ritraeva Robert Burns. Ce n'era un'altra sul muro in fondo: Burns che incontrava un giovane Walter Scott. Nella scena raffigurata aleggiava un certo disagio, perché l'artista si era espresso col senno di poi. Sembrava quasi che Burns si rendesse conto che quel ragazzo davanti a lui era destinato a superarlo di alcune lunghezze nel favore dei lettori, che quel moccioso sarebbe stato nominato Sir, avrebbe costruito Abbotsford e sarebbe entrato in intimità col re. Era una bella cosa, il senno di poi. Rebus guardò nel bicchiere e rivide il ballo studentesco dell'ultimo anno di liceo. Vide un ragazzotto dinoccolato di nome Johnny guidare la propria ragazza fuori dell'atrio della scuola, oltre la porta e giù per le scale. Facendo finta che fosse tutto un gioco, ma tenendola stretta con entrambe le mani. Fingendo entrambi che non ci fosse nulla di sbagliato, perché faceva parte del rituale. E intanto, nell'atrio, Mitch, l'amico di Johnny (erano come fratelli, sempre pronti ad aiutarsi), non si rendeva conto di essere seguito da tre ragazzi che erano diventati suoi nemici. Da ragazzi che avevano capito che quella sarebbe stata la loro ultima possibilità di vendicarsi. Vendicarsi di cosa? Probabilmente non lo sapevano neppure loro. Forse dell'intuizione - spaventosa - che la vita si fosse già fatta beffe di loro, che agli individui come Mitch fosse riservato il successo, mentre loro avrebbero conosciuto soltanto il fallimento. Tre contro uno. Mentre Johnny Rebus si giocava un altro destino. Finì di bere e si avviò verso casa. Si sprofondò nella poltrona, un doppio whisky al malto stretto in mano. Ascoltò Tommy Smith, The Sound of Love. Rifletté sulla reale possibilità di udire l'amore. Si addormentò, avvolto dal fluorescente riflesso arancione dell'illuminazione stradale. In pace. O qualcosa di simile.
Ci avevano messo parecchio a trovare una chiesa la cui porta non fosse sprangata. «Nessuno si fida più, di questi tempi», aveva commentato Cary Oakes. «Neppure Dio.» Avevano camminato per tutta Leith e poi, risalendo la passeggiata, erano arrivati a Pilrig. Avevano trovato una chiesa cattolica; in giro non c'era anima viva, a parte loro due. All'interno, gelo e buio. C'erano molte vetrate, ma la chiesa era circondata su tre lati da costruzioni incombenti. In passato, ricordò Stevens, era vietato innalzare edifici più alti di quelli di culto. Oakes si era seduto in un banco davanti all'altare, a capo chino. Non aveva però un'aria pacificata o contemplativa: collo e spalle erano contratti, il respiro rapido e superficiale. Stevens si sentiva a disagio. Benché la porta non fosse chiusa a chiave, gli pareva di aver commesso un'effrazione. In una chiesa cattolica, per di più: gli pareva di non esserci mai stato prima d'allora. Non sembrava molto diversa da un tempio presbiteriano: nessun odore d'incenso. C'erano i confessionali, ma quelli li aveva già visti in qualche film. In uno, la tendina era aperta. Lanciò un'occhiata all'interno, cercando di scacciare il pensiero che somigliasse a una cabina per le foto tessera. Tentò di camminare senza far rumore; non voleva vedersi comparire davanti un prete, essere costretto a spiegare cosa stavano facendo lì dentro. La richiesta di Oakes era stata: «Vorrei andare in chiesa». La replica di Stevens: «Non puoi aspettare fino a domenica?» Ma gli occhi di Oakes gli avevano detto che non era il caso di scherzare. Perciò si erano incamminati, con la macchina della polizia che avanzava a passo d'uomo, attirando l'attenzione su di sé e su di loro. «Se intendono condurre il gioco in questo modo, per me va bene», aveva detto Oakes. Trascorsero dieci minuti, un quarto d'ora. Stevens si chiese se per caso Oakes non si fosse appisolato. Percorse la navata, si fermò alle sue spalle. L'altro alzò la testa. «Ancora un paio di minuti, Jim.» Fece un cenno col capo. «Aspettami fuori, se vuoi.» Stevens non se lo fece dire due volte. Uscì a fumarsi una sigaretta. L'auto della polizia era parcheggiata in fondo alla strada, gli occhi della persona al volante fissi su di lui. Aveva appena acceso la sigaretta quando, d'un tratto, si rese conto di una cosa: lui era un giornalista che stava seguendo una storia. Doveva stare là dentro, per cogliere qualche spunto originale, elaborare frasi... Oakes in chiesa: poteva essere l'inizio di un capitolo del
libro. Perciò spense la sigaretta coi polpastrelli e la rimise nel pacchetto, sospinse la porta della chiesa e rientrò. Nessuna traccia di Oakes. Un rumore d'acqua corrente. Stevens sbirciò nella semioscurità, con gli occhi che si adattavano lentamente al buio. Una sagoma accanto al confessionale. Oakes che, da sopra la spalla, guardava in direzione di Stevens, il corpo arcuato mentre orinava attraverso la tendina. Sogghignò, strizzando l'occhio al giornalista. Finì ciò che stava facendo e chiuse la lampo, quindi s'incamminò lungo la navata, verso Stevens, che non riusciva a nascondere lo sgomento. Oakes indicò il soffitto. «Dovevo ricordare a 'lui' chi è il capo, Jim.» Lo superò e uscì nella luce del sole. Stevens si trattenne ancora un istante. Pisciare in un confessionale: un messaggio rivolto a Dio o a lui, il giornalista? Poi si voltò e uscì dalla chiesa, chiedendosi come diavolo il suo mondo fosse arrivato a tanto. 16 Un giovane sergente, Roy Frazer, era il quarto elemento della squadra di sorveglianza. Era arrivato nella stazione di polizia di St. Leonard da appena un mese, reclutato (cosa che accadeva raramente) dalla Divisione F, di base a Livingston. I poliziotti di Edimburgo, che chiamavano i colleghi di Livingston «contadini in divisa», avevano preso un po' in giro Frazer, il quale però era riuscito a sopportare gli scherzi (o, quantomeno, aveva fatto del suo meglio). Era stato il Caporale a scegliere Frazer per la squadra di sorveglianza; riteneva che il nuovo arrivato fosse un tipo abbastanza speciale. Rebus sedette accanto a lui nella Rover, ad ascoltare il rapporto. «Una sola novità da riferire», stava dicendo Frazer. «Vede quel ristorante accanto al pub, quello laggiù? Be', i gestori si sono impietositi e mi hanno portato da mangiare.» «Stai scherzando?» Rebus si girò a guardare il locale in questione. L'orario di chiusura era appena passato e gli avventori se ne stavano andando con aria imbronciata. «Minestra di carote e pollo o qualcosa del genere in un cartoccio di pasta sfoglia. Niente male, davvero.» Rebus osservò il sacco di plastica che aveva portato con sé: un thermos di caffè forte, due panini ripieni (di carne in scatola e barbabietole), cioccolato e patatine fritte, alcuni nastri e il suo walkman, un giornale della sera e un paio di libri.
«Mi hanno servito il tutto su un vassoio e sono tornati mezz'ora dopo con un caffè e qualche mentina.» «Devi stare attento, figliolo», lo avvisò Rebus. «Non accettare mai un pasto gratis. Se cominci a farti corrompere...» Scosse il capo con aria mesta. «Sì, insomma, a Livingston sarà anche normale, ma ora non ti trovi più in capo al mondo.» Quando finalmente Frazer si rese conto che Rebus stava scherzando, sul volto gli apparve un sorriso dettato per due terzi dal sollievo e per un terzo dal divertimento. Era un tipo muscoloso (giocava nella squadra di rugby della polizia), coi capelli neri quasi rasati a zero e la mascella squadrata. Al suo arrivo a St. Leonard esibiva un folto paio di baffi, ma se li era tagliati per qualche motivo imprecisato; la pelle sul labbro era ancora rosea e delicata. Rebus sapeva che il giovane veniva da una fattoria, da qualche parte tra West Calder e la A70. Il padre vi lavorava ancora. Ciò stabiliva una sorta di legame tra Frazer e il Caporale, la cui famiglia aveva lavorato la terra dalle parti di Stonehaven. E c'era un'altra cosa che i due condividevano: l'andare regolarmente a messa. Anche Rebus frequentava la chiesa, ma raramente di domenica. Gli edifici di culto gli piacevano vuoti, fatta eccezione per i suoi pensieri. «Hai il registro?» chiese. Frazer tirò fuori un blocco per appunti in formato A4. Alle sei di mattina, Bill Pryde l'aveva ricevuto da Siobhan Clarke e vi aveva scritto che Oakes e Stevens erano rimasti in albergo fino alle undici. Non erano neppure scesi di sotto (l'aveva appurato dal portiere: dalla stanza di Oakes era stata ordinata una prima colazione per due). L'interpretazione di Pryde era: stavano lavorando. Alle undici era arrivato un taxi e i due erano usciti dall'albergo. Stevens aveva consegnato una busta voluminosa all'autista, che era subito ripartito. Congettura di Pryde: era il nastro con la registrazione della prima intervista, da consegnare alla redazione del giornale. Andato via il taxi, Stevens e Oakes si erano incamminati nei dock di Leith. Pryde li aveva seguiti a piedi. Sembrava che stessero ingannando il tempo, prendendo una boccata d'aria. Erano infatti tornati quasi subito in albergo. A mezzogiorno era arrivata a sostituirlo Siobhan Clarke: Rebus l'aveva convinta a scambiare con lui il turno. Non era stato difficile: «Di notte mi piace stare nel mio letto», aveva ammesso lei. Il pomeriggio si era svolto più o meno come la mattina: i due barricati in albergo, un taxi che prendeva in consegna una busta, i due che facevano una breve pausa. Ma stavolta si erano diretti in città, fermandosi in una
chiesa di Pilrig. Rebus lanciò un'occhiata a Frazer. «Una chiesa?» Il giovane si limitò a stringersi nelle spalle. Dopo la chiesa, si erano incamminati sino in fondo alla passeggiata ed erano entrati da John Lewis's, dove avevano acquistato nuovi indumenti per Oakes. Anche un paio di scarpe. Stevens aveva pagato tutto con la sua carta di credito. Poi si erano diretti verso un paio di pub: il Café Royal e il Guildford Arms. La Clarke era rimasta fuori: «Non sapevo se entrare o no. Dopotutto, lo sapevano, che ero lì». Tornato in albergo, Oakes le aveva fatto un cenno di saluto, mentre lei parcheggiava di fronte. Era stata sostituita da Frazer alle sei del pomeriggio. I due uomini, Oakes e Stevens, erano andati in uno dei ristoranti sorti da poco in faccia ai nuovi uffici governativi. Una parete del locale era costituita da un'unica, enorme vetrata, il che permetteva di scorgere Frazer che ciondolava all'aperto. A parte la sorpresa della cena (non menzionata sul registro), non era accaduto altro. «Ho ragione a ritenere che questa sorveglianza sia un totale spreco di tempo?» commentò Frazer dopo che Rebus ebbe finito di leggere. «Dipende dai tuoi parametri», ribatté Rebus. Aveva imparato quella frase durante un corso d'addestramento a Tulliallan. «Be', ovviamente quei due sono qui e ci resteranno, no?» «Vogliamo soltanto che Oakes sappia che lo teniamo d'occhio.» «Sì, ma il momento migliore per farglielo capire sarà quando verrà lasciato solo con se stesso. Quando si troverà un alloggio e il cancan dei giornali sarà dimenticato.» Non aveva tutti i torti. Rebus lo ammise, con un lento cenno di assenso. «Non lo dire a me», replicò. «Parlane col sovrintendente capo.» «È proprio ciò che ho fatto.» Rebus lo guardò, in attesa che continuasse. «È venuto qui verso le nove e voleva sapere come stavano andando le cose.» «E gliel'hai detto?» Frazer annuì. Rebus scoppiò a ridere. «E lui come l'ha presa?» «Ha risposto di aspettare qualche altro giorno.» «Sai, si è convinti che Oakes possa uccidere di nuovo...» «Al momento l'unica persona alla sua portata è quel giornalista. Se dovesse accadergli qualcosa, mi si spezzerebbe il cuore.»
Rebus scoppiò di nuovo in una risata. «Sai una cosa, Roy? Te la caverai a meraviglia.» «È il potere della preghiera, signore.» Rebus si trovava in macchina da un'oretta, tutto solo, col gelo della notte che s'insinuava attraverso le sue tre paia di calze, quando vide qualcuno spalancare la porta dell'albergo e uscire. Il bar dell'hotel era ancora in funzione, chiudeva soltanto quando l'ultimo cliente aveva fatto il pieno. Stevens aveva la cravatta che gli penzolava dal collo, due bottoni della camicia slacciati. Stava soffiando il fumo della sigaretta verso il cielo e strascicava i piedi per mantenere l'equilibrio. È stato al bar e ci ha dato dentro, pensò Rebus. Alla fine, il giornalista mise a fuoco l'auto della polizia e parve trovare la cosa divertente. Ridacchiò tra sé, inclinando il busto in avanti e scuotendo lentamente il capo, poi s'incamminò verso la vettura. Rebus smontò e lo attese. «Così finalmente c'incontriamo, professor Moriarty», scherzò Stevens. Rebus incrociò le braccia, si appoggiò all'auto. «Come va la cura del pupo?» Stevens sbuffò. «A dirti la verità, non riesco a maneggiarlo a dovere.» «In che senso?» «Dopo essere rimasto in fresco... cioè al fresco... tutto quel tempo, c'era da aspettarsi che volesse festeggiare.» «Suppongo che non beva.» «Supposizione esatta. Sostiene che l'alcol gli contamina la mente, scatena la sua aggressività.» Una risatina priva di umorismo. «Per quanto dovrai restare con lui?» Rebus riusciva a sentire l'odore del whisky nel fiato di Stevens. Ancora un paio di minuti e avrebbe riconosciuto la marca. «Altri due giorni, più o meno. E un buon materiale, te ne renderai conto quando lo leggerai.» «Lo sai cosa ci hanno detto gli americani? Secondo loro, ucciderà di nuovo.» «Davvero?» «Lui ha detto qualcosa?» Stevens annuì. «Mi ha fornito un elenco delle sue future vittime. Un simpatico sequel della sua storia.» Nel vedere l'espressione sul volto di Rebus, fece una smorfia. «Scusa tanto, mi dispiace. È una battuta di pessimo gusto. C'è un editore interessato al mio libro, te l'ho detto? Dovrebbe
farmi un'offerta, domani o uno dei prossimi giorni.» «Come puoi?» chiese Rebus a voce bassa. Stevens recuperò l'equilibrio. «Posso che cosa?» «Fare quello che fai.» «Sembra un verso di una canzone Motown.» Tirò su col naso, tossicchiò. «È una storia interessante. Ecco cos'è per me quell'uomo: una storia. Per te, invece, che cosa rappresenta?» Attese una risposta, non la ottenne, agitò un dito. «Sei stato tu a lasciarmi quel biglietto con su scritto 'Mollalo'. Eri davvero convinto che avrei avuto un'improvvisa illuminazione, che avrei affidato Oakes a qualcun altro, a qualche altro giornale? Niente da fare, amico. Questa non è la via di Damasco.» «L'ho notato.» «E il mio uomo non è l'unico avanzo di galera di cui si parla sui giornali, o sbaglio? Ho visto che è stato scovato un pedofilo. E in giro si dice che a fare la soffiata sia stato un poliziotto.» Schioccò la lingua, agitò di nuovo il dito. «Qualche commento in proposito, ispettore?» «Vaffanculo, Stevens.» «Ah, c'è molto da dire anche a questo proposito. Il mio uomo ha passato quattordici anni dietro le sbarre e qui siamo a Leith, il bordello di Edimburgo, eppure la cosa a lui non interessa. Ti sembra credibile?» «Forse ha altro in mente.» «Per me può anche andare con le galline, almeno finché continua a darmi materiale per un libro.» Si fregò le mani. «Ma guardaci. Tu qua fuori, io in quel grande albergo. C'è da riflettere.» «Vai a letto, Stevens. Hai bisogno di un bel sonno di bellezza.» Stevens si girò, poi parve ricordare qualcosa e si voltò di nuovo. «Qualcosa da ridire se facciamo un piccolo servizio fotografico domani sera? Il fotografo viene comunque e a me sembrava una simpatica accoppiata: il killer in libertà e il poliziotto che non dorme mai.» Rebus attese che il giornalista gli girasse di nuovo le spalle prima di chiedere: «Cosa cercava Oakes in chiesa?» Stevens s'immobilizzò di colpo. Rebus ripeté la domanda. Il giornalista si voltò a mezzo, scosse piano la testa, poi attraversò la strada. Rebus notò che nella sua andatura c'era adesso un'insolita stanchezza, qualcosa che non gli riuscì d'interpretare. Prese il pacchetto di sigarette che aveva in macchina, se ne accese una. Chiuse la portiera dalla parte del guidatore e percorse a piedi una cinquantina di metri, sino alla fine della strada, quindi s'incamminò sul ponte, raggiungendo l'altro lato del bacino, dov'era ormeggiata un'imbarcazione.
C'era un cartello che ingiungeva ai proprietari del natante di non disturbare, di notte, la quiete pubblica e di tenere basso il volume della musica. Ma quella sera l'imbarcazione era silenziosa, non vi si tenevano feste o ricevimenti. Negli immediati dintorni stavano sorgendo edifici con appartamenti in stile «loft newyorchese» per giovani manager, segno del rilancio urbano di Leith. Rebus tornò sui propri passi e raggiunse il pub, ma ormai era chiuso. Il personale si trovava probabilmente all'interno, a bere qualcosa, discorrendo dei fatti della giornata. Tornò alla vettura. Un'ora dopo, un taxi si fermò davanti all'albergo. Il primo pensiero di Rebus fu: un altro nastro per il giornale. Ma sul taxi c'era un passeggero. Pagò la corsa, scese. Rebus controllò l'ora: le due e un quarto. Qualche cliente dell'albergo che aveva trascorso la serata a Edimburgo, pensò. Bevve un sorso dalla fiaschetta, si rimise le cuffie. Gli String Driven Thing: Another Night in This Old City. Tutto come un tempo... Quaranta minuti più tardi, il passeggero del taxi uscì dall'albergo, salutando il portiere (grazie al finestrino abbassato, Rebus lo sentì augurargli la buonanotte). Si fermò in strada, diede un'occhiata all'orologio, si guardò a destra e a sinistra. Stava cercando un taxi, pensò Rebus. Perché si era recato in visita in un albergo a quell'ora di notte? E chi era andato a trovare? Lo sguardo dell'uomo cadde sull'auto della polizia. Rebus abbassò ancora di più il finestrino, fece cadere a terra la cenere della sigaretta. L'uomo si stava dirigendo dalla sua parte. Rebus spalancò la portiera, scese dalla vettura. «Ispettore Rebus?» L'uomo tese la mano. Rebus lo squadrò. Sulla sessantina, ben vestito. Non sembrava il tipo da giocare brutti scherzi, ma non si poteva mai dire. L'uomo, quasi gli avesse letto nel pensiero, sorrise. «Non la biasimo. Nel bel mezzo della notte, uno sconosciuto che cerca di attaccare discorso, conoscendo già il suo nome...» Gli occhi di Rebus si socchiusero. «Ci siamo già incontrati, vero?» «Parecchio tempo fa. Lei è un ottimo fisionomista. Mi chiamo Archibald, Alan Archibald.» Rebus annuì, stringendogli finalmente la mano. «Lavoravi a Great London Road.» «Sì, ci sono stato per un paio di mesi. Negli ultimi tempi ero stato destinato a Fettes, a fare il passacarte.» Alan Archibald: alto, capelli corti brizzolati. Un volto dai lineamenti incisivi, un corpo che resisteva agli attacchi dell'età.
«Avevi dato le dimissioni, a quanto mi risulta.» Archibald si strinse nelle spalle. «Dopo una ventina d'anni, ho pensato che fosse arrivato il momento.» Il suo sguardo diceva: e tu? La bocca di Rebus si contrasse. «In macchina fa più caldo. Non sono in grado di offrirti un passaggio, ma potrei...» «Lo so», lo interruppe Alan Archibald. «Cary Oakes mi ha raccontato tutto.» «Tutto cosa?» Archibald fece un cenno in direzione della vettura. «Ma accetto la tua offerta. Ormai non sono più abituato alle sortite notturne.» Si sedettero in macchina. Vedendo che Archibald cercava di avvolgersi il più possibile nel suo soprabito nero di lana, Rebus accese il motore e alzò al massimo il riscaldamento, poi offrì all'altro una sigaretta. «Non fumo, ma grazie lo stesso. Tu però fuma pure.» «Dovresti ricorrere all'artiglieria pesante per impedirmelo», ribatté Rebus, accendendone una. «Allora, che ti ha raccontato Oakes?» Archibald posò le dita sul cruscotto. «Mi ha telefonato, mi ha detto dov'era.» Si voltò a guardare Rebus. «Sa che tu lo tieni d'occhio.» L'altro si strinse nelle spalle. «Vogliamo lo sappia.» «Sì, ha capito anche questo. Ma sa che il turno di notte lo fai tu.» «Non è difficile. Può vedermi dalla finestra della sua stanza.» La indicò. «O magari gliel'ha detto la sua balia.» «Vuoi dire il giornalista? Non l'ho incontrato.» «Probabilmente è a letto.» «Sì, io ho dovuto chiamare Oakes in camera. Lui però non stava dormendo... tutta colpa, mi ha detto, del cambiamento di fuso.» «Come ha trovato il tuo numero di telefono?» «Non è sull'elenco.» Archibald esitò. «A pensarci bene, l'avrà trovato il giornalista smuovendo qualcuno.» Rebus inspirò il fumo e lo espirò attraverso le narici. «Allora, com'è la faccenda?» «Sospetto che Oakes voglia giocare una specie di partita.» Rebus gli lanciò un'occhiata. «Di che genere?» «Del genere che mi fa alzare dal letto all'una di notte, ora in cui mi ha telefonato dicendo che dovevamo incontrarci, adesso o mai più.» «Per parlare di cosa?» «Dell'omicidio.»
Rebus si accigliò. «Omicidio, al singolare?» «Non uno di quelli da lui commessi negli Stati Uniti. Questo avvenne proprio qui, a Edimburgo. Più esattamente, a Hillend.» Hillend: si chiamava così perché si trovava all'estremità settentrionale delle Pentland Hills. Era un posto famoso, almeno in zona, per la sua pista da sci artificiale. Dall'autostrada, di notte, se ne scorgevano le luci. Di colpo, Rebus rammentò il caso. Un affioramento roccioso, il cadavere di una donna. Una giovane donna: l'allieva di un istituto magistrale. Rebus aveva collaborato alle ricerche iniziali, che l'avevano condotto da Hillend agli Swanston Cottages, uno straordinario conglomerato di abitazioni apparentemente indenni da qualsiasi forma di modernità. Aveva subito desiderato di comprarsi una di quelle case, ma sua moglie aveva giudicato il luogo troppo isolato (e comunque al di là delle loro possibilità economiche). «È accaduto quindici anni fa?» chiese. Archibald scosse la testa. Si era infilato le mani in tasca, aveva lo sguardo fisso sul parabrezza. «Diciassette», rispose. «Sono diciassette anni esatti questo mese. Lei si chiamava Deirdre Campbell.» «Il caso era stato affidato a te?» Archibald scosse di nuovo la testa. «A quei tempi non era possibile.» Inspirò profondamente. «Mai trovato l'assassino.» «Era stata strangolata?» «Stordita con un colpo in testa, poi strangolata.» A Rebus venne in mente il modus operandi di Oakes. Archibald parve di nuovo leggergli nella mente. «Una tecnica simile», disse. «A quei tempi Oakes si trovava in Scozia?» «Il fatto è avvenuto poco prima che partisse per gli Stati Uniti.» Rebus si lasciò sfuggire un fischio. «L'ha confessato?» Archibald si mosse sul sedile, a disagio. «Non esattamente. Quando fu arrestato negli Stati Uniti, io seguii il processo, notai alcune somiglianze. Andai in America a interrogarlo.» «E...?» «E lui fece i suoi giochetti. Allusioni, sorrisi, mezze verità, menzogne. Mi fece fare un allegro girotondo.» «Ma non mi hai detto che non toccava a te seguire il caso?» «Infatti. Non ufficialmente.» «Non ci arrivo.» Archibald si fissò le dita. «In tutti gli anni in cui è rimasto in galera, ab-
biamo giocato come voleva lui. Perché io so di poterlo logorare, mentre lui non ha capito quanto io sono tenace.» «E ora ti telefona nel bel mezzo della notte?» «E mi racconta altre storie.» Un mezzo sorriso. «Però sembra non rendersi conto che il campo di gioco è mutato. Adesso lui è in Scozia. E qui valgono le mie regole.» Esitò. «Gli ho chiesto di accompagnarmi a Hillend.» Rebus lo fissò. «Quell'uomo è un assassino. I rapporti degli psicologi dicono che ucciderà ancora.» «Uccide i deboli. E io non lo sono.» Rebus rifletté. «Forse ha cambiato tipo di gioco», disse infine. Archibald scosse la testa. Sembrava che fosse in preda a un'ossessione. Rebus avrebbe potuto scrivere un trattato sull'argomento: casi che ti coinvolgono a tal punto da non uscirti più di testa, crimini irrisolti che ti perseguitano tutte le notti, rendendole lunghe e insonni. Continui a ripassare tutto mentalmente, esaminando ogni granello di sabbia, cercando qualche anomalia... «Non riesco ancora a capire», disse. «Se non hai seguito ufficialmente il caso... come mai tu...» Poi ricordò. Perché non gli era venuto in mente prima? Si trattava di una storia di cui si era parlato molto, tutti gli investigatori della zona ne avevano discusso. «Oh, cazzo», esclamò. «Era tua nipote...» 17 Trovare in albergo una stanza vuota era stato facile. Aprire la serratura? Un gioco da ragazzi. E così adesso Cary Oakes sedeva al buio, accanto a una finestra che l'ispettore John Rebus non stava tenendo d'occhio. Gli sfuggì un sorriso: il sorvegliante era divenuto, a sua insaputa, il sorvegliato. Oakes teneva in grembo una guida della città, con lo stradario. Aveva detto a Stevens che ne aveva bisogno per riambientarsi. In precedenza, Stevens si era lasciato sfuggire che Rebus aveva abitato in Arden Street e forse ci stava ancora. Arden Street, quartiere di Marchmont. Pagina 15, settore 6G. Alan Archibald viveva invece a Corstorphine, o, se non altro, era quello il suo indirizzo nel periodo della fitta corrispondenza con Oakes in prigione. Nonostante tutte le lettere, però, non aveva mai rivelato al detenuto il numero di telefono. Informazione che Oakes, adesso, aveva appu-
rato in meno di un giorno. La forza sta nella conoscenza: sempre cogliere l'avversario di sorpresa... in questo consisteva il gioco. Osservò i due uomini che parlavano in macchina. Provò un certo orgoglio, come se fosse stato il direttore di un'agenzia matrimoniale. Li aveva fatti incontrare; era sicuro che si sarebbero intesi a meraviglia. Erano rimasti seduti in macchina per un'ora, dividendo persino una bevanda calda da un thermos. Poi era arrivata un'auto di pattuglia (Rebus doveva averla chiamata via radio). Un pensiero davvero gentile: far accompagnare a casa gratis il detective in pensione. Archibald era invecchiato bene, forse per dispetto. Per quanto riguardava invece se stesso, Oakes si rendeva conto di non essere più in forma come il giorno in cui era stato sbattuto in galera. La pelle del viso era un po' floscia e lo sguardo appariva spento, nonostante la regolare assunzione di vitamine e l'esercizio fisico costante. Infilò una mano in tasca, tastò un rotolo di banconote. Era andato a bere qualcosa al bar, dove aveva raccontato una storia improbabile ad alcuni tizi del genere uomini d'affari, mentre Stevens se ne stava accanto a lui, in silenzio. Alla fine, il giornalista se n'era andato. Negli anni trascorsi in galera, Oakes aveva imparato molti trucchetti: ad aprire le serrature, per esempio, e anche a borseggiare la gente. Aveva trascurato le carte di credito: erano il tipo di documento che lasciava tracce, che rischiava di metterlo nei guai. A lui interessavano solamente i contanti. Aveva capito che Stevens voleva che lui dipendesse dal giornale, che era quello il motivo per cui procrastinava il pagamento della cifra pattuita. Be', per il momento aveva bisogno del giornalista, ma la situazione sarebbe cambiata ben presto. Nel frattempo, lui aveva un lavoro da sbrigare. E il denaro sarebbe stato il suo strumento. Uscì dalla stanza e scese le scale fino al pianerottolo del primo piano. C'era una finestra che si affacciava su una serie di garage chiusi a chiave. Un salto di due metri e mezzo per atterrare sul tetto del box più vicino. Oakes si accoccolò sul davanzale, in attesa di sentir arrivare il taxi. Udì il rombo del motore della vettura che si avvicinava all'albergo. Aveva dato il nome e il numero di stanza di uno dei suoi compagni di bevute. Tese le orecchie per cogliere il momento in cui il taxi sarebbe passato accanto all'auto di Rebus, l'attimo in cui era meno probabile che il poliziotto sentisse altri rumori, e si lanciò nell'oscurità sul tetto, calandosi poi di lì sull'asfalto. Senza neppure riprendere fiato o togliersi di dosso la polvere, corse verso il muro che conduceva nel vicolo, il vicolo che gli avrebbe permesso di allontanarsi dall'albergo.
Con un po' di fortuna, avrebbe trovato un taxi. Di lì a poco ne sarebbe passato uno, con un autista furibondo, in cerca di altri clienti... Alle quattro del mattino, Darren Rough decise che era arrivato il momento più sicuro. Tutti dormivano. Si considerava molto fortunato: la notte precedente, mentre tornava a casa, a tarda ora, aveva acquistato la prima edizione del giornale, trovandoci un resoconto distorto della sua storia. Era nel suo appartamento, con la radio al minimo per non disturbare i vicini: avevano figli piccoli e i bambini avevano bisogno di dormire, lo sapevano tutti. Con la radio a malapena udibile, una tazza di tè e qualche fetta di pane tostato, si era seduto accanto alla stufa a gas. E allora gli erano capitate sott'occhio quelle pagine. I primi due paragrafi erano stati più che sufficienti: aveva appallottolato il giornale, prendendo poi a camminare avanti e indietro, iperventilando. Aveva respirato in un sacchetto di carta finché l'attacco non era cessato. Senza più forze, si era trascinato carponi in bagno, spruzzandosi faccia e collo con l'acqua del gabinetto. Sollevatosi a stento, si era messo a sedere sulla tazza e c'era rimasto a lungo, la testa china. Quando aveva ritrovato l'uso delle gambe, aveva spianato il giornale, distendendolo sul pavimento. E aveva riletto l'articolo. Ci risiamo, si era detto. Doveva uscire prima dell'alba. Aveva trascorso il resto della notte camminando per strada, le ossa gelide e doloranti per la stanchezza. Come prima cosa, per colazione, un caffè. Il suo assistente sociale, che era arrivato in ufficio alle nove passate, gli aveva detto che avrebbe parlato con un legale, per vedere se ci fossero gli estremi per una denuncia. E aveva aggiunto che si sarebbe sistemato tutto. «Dobbiamo soltanto superare questo momento.» Facile a dirsi da parte di chi stava in un ufficio confortevole e che, con ogni probabilità, aveva anche a casa, ad aspettarlo, un'affettuosa famigliola. La macchina dell'assistente sociale era una giardinetta; sul retro, scarpe da football in misura da bambino. Un padre di famiglia, che si dedicava al lavoro dalle nove alle cinque. Per il resto della giornata, Darren si era tenuto alla larga da Greenfield. Era andato a fare un giro nel Giardino Botanico, fingendo d'interessarsi alle piante. Si era riscaldato nelle serre: aveva rifatto una dozzina di volte il percorso obbligato. Tornato in città, si era recato nei giardini di Princess Street: era riuscito a dormicchiare un'ora su una panchina, finché un poliziotto non gli aveva ordinato di andarsene. La sua misera condizione era
stata notata da un gruppo di turisti, che gli avevano offerto sigarette e una birra scura e forte. Era rimasto con loro per un'oretta, ma quella gente non gli era piaciuta: tutt'altro che raffinata, non era il suo genere. Chiese, gallerie d'arte: a Edimburgo ce n'erano molte in cui si poteva entrare gratis. Verso sera, si era detto che avrebbe potuto quasi scrivere una guida turistica della città. Aveva mangiato in un fast-food, cercando di prolungare il pasto il più possibile. Poi si era recato in un pub in Broughton Street. Sempre in attesa che la giornata passasse... C'era di che rendersi conto del motivo per cui la gente aveva bisogno di uno scopo nella vita, di un lavoro. Darren Rough avrebbe voluto un'esistenza strutturata. Avrebbe desiderato non sentirsi braccato. Quando tutti i locali avevano ormai chiuso i battenti, aveva incontrato altri turisti, ascoltato altre storie. Poi si era avviato cautamente verso Greenfield, allontanandosene tre volte prima di affrontare la propria paura e metterla a tacere. Obiettivo raggiunto. Salì le scale in punta di piedi, aspettandosi a ogni angolo di trovare un viso in attesa, una lama di coltello. Nulla, soltanto ombre. Sul ballatoio, superò porte chiuse, finestre addormentate. Quando infilò la chiave nella toppa, gli parve che mandasse uno stridio da sega. Poi si accorse di avere le mani appiccicose. Indietreggiò, notando per la prima volta che la porta era imbrattata di fango... No, non fango: escrementi. Poteva sentirne il puzzo sul dorso della mano, sulle nocche, sulle dita. E, sotto lo strato di feci, alcuni segni tracciati con vernice nera, una frase. Darren Rough si accovacciò, si pulì le mani sull'impiantito di cemento, sollevò lo sguardo verso il messaggio. CREPA, MOSTRO. La parola CREPA era sottolineata due volte, in modo che non gli sfuggisse. Era quello, il parco. Non era cambiato. Vi erano state messe alcune altalene e una piccola giostra, ma quest'ultima era sparita, lasciando soltanto un moncone metallico. Le altalene erano fatte con grossi pneumatici. La pavimentazione era in macadam, il campo giochi spostato sulla sinistra. Gli alberi piantati avevano l'aria rachitica. La casa di sua zia... Dalla finestra del bagno al piano di sopra si poteva vedere, in mezzo a due isolati di case a schiera, una sottile fetta verticale del parco. La casa era ancora lì, tutta buia, le tende chiuse. A quei tempi, lui divideva con la madre una stanza da letto sul retro,
dalla quale si scorgevano un giardinetto trascurato e la baracca che era diventata il suo rifugio. Nel parco non c'erano molti posti in cui ripararsi. Era territorio della banda locale: a Cary non era stato mai permesso farne parte. Era un «infiltrato», un «estraneo», due termini che sembravano avere significati opposti. Lui rimaneva ai margini, aggrappato alla cancellata del parco, finché uno della banda, stanco di gridargli insulti, non si avvicinava a sferrargli un calcio. Calcio che lui accettava. Perché era meglio di niente. L'unica volta in cui aveva inseguito un gatto, spruzzandolo di benzina, vedendo la coda che prendeva fuoco... non c'era nessuno a osservare la scena. La polizia aveva interrogato la banda di ragazzini, ma nessuno aveva pensato a Cary Oakes. Nessuno si era preoccupato di chiedere qualcosa al «bastardo». Anche stavolta si fermò accanto alla cancellata. Ne mancava metà. Era notte fonda e in giro non c'era anima viva. Non passavano auto. Nessuno che potesse vedere le sue mani che armeggiavano intorno ai ferri arrugginiti, piegandoli. Poi, d'un tratto, un rumore: una risata da ubriachi. Tre giovani alticci, che andavano a zonzo incuranti di chi potesse udirli, di quali sonni stessero disturbando. L'adolescente Cary rimaneva sveglio sino a tardi, la notte, a sentire al di sopra del respiro della madre gli schiamazzi o le canzoni dei tiratardi che tornavano a casa. E quelli erano tre tipi del genere: non si preoccupavano se, col loro fracasso, svegliavano qualcuno, perché erano loro a dettare legge in quel posto. Erano i capetti della banda locale, gli unici che contassero qualcosa. Stavano camminando sull'altro lato della strada, ma videro Oakes, notarono che lui li fissava. «Che ti guardi?» Nessuna risposta. I tre presero a parlare tra loro, senza avere l'aria di volersi fermare. «Uno di quei pedofili.» «Sempre a girare nei parchi.» «Forse è un culo.» «A quest'ora, fermo lì...» Si fermarono. Tornarono indietro, attraversarono la strada. Tre di quei bulli. Un'opportunità unica.
«Ehi, tu, che cazzo fai?» «Sto riflettendo», rispose Oakes a voce bassa, armeggiando ancora intorno alla cancellata. I tre giovani si guardarono. Avevano trascorso la notte in centro, a fare il giro dei pub e dei locali notturni. Alcol, magari un po' di droga. Una miscela per diventare più aggressivi, sicuri di sé. Mentre stavano ancora decidendo cosa fare di quello sconosciuto, e chi di loro dovesse condurre il gioco, Oakes sollevò una sbarra d'acciaio della cancellata e la fece roteare. Colpì il primo giovane sul naso, che si aprì come un fiore in quei documentari dai fotogrammi accelerati. Il malcapitato mandò un urlo stridulo, portandosi le mani al viso, e cadde in ginocchio. Quando la sbarra arrivò alla fine della rotazione, Oakes la fece tornare indietro, come un pendolo, e colpì il numero due sull'orecchio. Il numero tre accennò a sferrargli un calcio, ma la sbarra lo prese alla tibia e poi, spinta con forza verso l'alto, gli fracassò la mascella, mandando in frantumi i denti. Oakes lasciò cadere a terra la sbarra. Mise fuori combattimento Naso Rotto sferrandogli un calcio in piena gola, atterrò Timpano Spezzato con un violento pugno, inseguì Tibia-Denti che, zoppicando, tentava di scappare e, dopo averlo fatto cadere a terra, gli tempestò la testa di calci. Poi si raddrizzò, riportando la respirazione sotto controllo. Guardò, tutt'intorno, le case che ricordava così bene. Nessuno si era alzato dal letto, nessuno l'aveva visto compiere quella vittoriosa impresa. Si pulì la punta delle scarpe sulla camicia del giovane a terra, le esaminò per sincerarsi che nel combattimento non si fossero graffiate. Tornò accanto a Timpano Spezzato e lo sollevò per il lobo. Un altro gemito straziante. Oakes avvicinò le labbra all'orecchio che non stava sanguinando. «Ora questo è il mio regno, capito? E chi mi rompe i coglioni ne becca dieci volte tanto.» «Noi non...» Oakes premette con forza il pollice contro l'orecchio. «E con questo hai finito di sentire.» Stava guardando verso lo spazio tra le case a schiera, dove si trovava l'abitazione della zia. Batté violentemente la testa del giovane sul terreno, le sferrò un ultimo colpo e si voltò per andarsene. Alle sei e venti di mattina, Rebus entrò a passi felpati nell'appartamento di Patience a Oxford Terrace, portando pane appena sfornato e ancora caldo, latte fresco e giornale. Si fece una tazza di tè e si sedette in cucina, a leggere le pagine sportive. Alle sei e tre quarti, proprio mentre stava en-
trando in funzione il riscaldamento centralizzato, accese la radio. Preparò il tè nella teiera, versò un bicchiere di succo d'arancia, affettò il pane e mise tutto su un vassoio, che portò in camera da letto. Patience aprì a fatica un occhio. «Cos'è?» «Colazione a letto.» Lei si mise a sedere, si sistemò i cuscini dietro la schiena. Rebus le appoggiò il vassoio in grembo. «Ho dimenticato qualche anniversario?» Lui le tirò indietro dagli occhi un ciuffo di capelli. «Non volevo che t'impigrissi a letto, tutto qui.» «Perché?» «Perché, non appena ti sarai alzata, mi c'infilerò io per dormire.» Schivò il coltello del burro che Patience brandiva contro di lui. Quando iniziò a sbottonarsi la camicia, stavano entrambi ridendo. Jim Stevens scese nella sala in cui si faceva colazione, aspettandosi di trovare Cary Oakes impegnato a mangiare un'altra paccata di roba fritta. Ma di lui non c'era traccia. Chiese al portiere. Nessuno l'aveva visto. Lo chiamò in camera: nessuna risposta. Salì al piano e bussò alla porta: silenzio assoluto. Era tornato alla reception, deciso a farsi dare un duplicato della chiave, quando vide Cary Oakes varcare le porte dell'albergo. «Dove diavolo sei stato?» chiese, provando una sensazione quasi di vertigine per via del sollievo. «Stamattina, Jim, niente caffeina per te», ribatté Oakes. «Guardati, sei già tutto un tremore.» «Ti ho chiesto dove sei stato.» «Mi sono alzato presto. Mi sa che vado ancora con le ore americane. Ho fatto una passeggiata fino al porto.» «Nessuno ti ha visto uscire.» Oakes si volse a guardare il banco della reception, poi tornò a girarsi verso Stevens. «E allora? Adesso sono qui, non mi vedi?» Spalancò le braccia. «Non è questo che conta?» Posò una mano sulla spalla di Stevens. «Vieni, andiamo a mangiare.» Lo trascinò verso la sala della colazione. «Vedrai quante belle cose ti racconto, stamattina. Non appena le avrà lette, il tuo direttore ti offrirà tutto ciò che vuoi, addirittura un pompino...» «Un'altra giornata di lavoro, allora», replicò Stevens, tergendosi il sudore dalla fronte.
18 Il proprietario del Clipper Night-Ship, da uomo d'affari qual era, chiese a Rebus se voleva fargli un'offerta per quel suo locale notturno galleggiante. «Non sto scherzando. Sarei felice di sbarazzarmene, ma il fatto è che non trovo nessuno disposto a comprarlo.» Gli spiegò che dal Clipper aveva ricavato quasi soltanto grane. Un sacco di problemi per ottenere la licenza, una serie di lagnanze da parte dei residenti locali, un'indagine municipale, continue ispezioni della polizia... «E tutto questo per permettere a quattro avventori di sbronzarsi su un natante. Se possedessi un pub, avrei minori fastidi e maggiori introiti.» «E perché non si compra un pub?» «Ne avevo uno: l'Apple Tree, a Morningside. Ma a quei tempi pareva che ogni pub dovesse avere un qualche tipo di attrazione. Dio solo sa da dov'è nata questa fama dei pub irlandesi: a chi è venuta la bella idea di sostenere che sono migliori di quelli scozzesi? Poi c'era anche la storia dei pub tematici: alla Sherlock Holmes, alla Doctor Jekyll e Mister Hyde, per soli australiani o sudafricani.» Scosse la testa. «Mi capitò sott'occhio il Clipper e mi dissi che avevo trovato la carta vincente. Sarà anche vero, solo che a volte mi sembra che tutto 'sto lavoro renda uno zero assoluto.» Erano seduti negli uffici della PJP: Preston-James Promotions. Rebus e Janice Mee da un lato della scrivania, Billy Preston dall'altro. Rebus si disse che a Preston non sarebbe fregato granché sapere che un suo omonimo era stato il tastierista dei Beatles e degli Stones. Billy Preston, sui trentacinque anni, indossava un completo di un grigio uniforme, compresa la camicia senza colletto, dai riflessi metallici. Si aveva l'impressione che fosse antiaderente, un perfetto Uomo Teflon. Il cranio era rasato a zero, ma il mento lungo e squadrato esibiva una barba alla Frank Zappa. Gli uffici della PJP occupavano due stanze al primo piano di un edificio a metà di Canongate. A pianterreno c'era un negozio specializzato in carte geografiche antiche. «Stiamo per trasferirci», li aveva informati Preston. «Cerchiamo un ufficio più grande, che possa disporre di un parcheggio, anche se il mio socio dice di andare coi piedi di piombo.» «Perché?» aveva chiesto Rebus. «La sede del parlamento.» Preston aveva indicato qualcosa fuori della finestra. «Sorgerà a non più di duecento metri da qui. Il valore degli im-
mobili di questa zona sta andando alle stelle. Saremmo pazzi a vendere adesso.» Continuava a giocare col mouse del computer, muovendolo sul tappetino, cliccando una volta, due volte. Rebus, che non riusciva a vedere lo schermo, ne era infastidito. «Se avessero scelto Leith invece di Holyrood...» Preston fece roteare gli occhi. «Il Clipper non le causerebbe tante noie?» azzardò Rebus. «Già. Avremmo aspettato il momento giusto, atteso che arrivassero i parlamentari e i loro portaborse, tutti con grassi stipendi e una gran voglia di spendere.» «Il Clipper è una sorta di club privato?» chiese Janice. «Non esattamente. Viene dato in affitto. Se lei mi garantisce un minimo di quaranta clienti in un giorno feriale e di sessanta nel week-end, il noleggio è gratis, sempre che gli avventori si servano del bar a bordo. Lei paga per la musica e basta.» «Ha detto un minimo di quaranta. Qual è il massimo?» «Secondo le disposizioni della pubblica sicurezza, settantacinque.» «Ma quaranta le garantiscono già un profitto?» «Molto risicato», rispose Preston. «Ho da pagare il personale, poi ci sono i costi di gestione, l'elettricità...» «Perciò ci sono sere in cui non apre?» «Tutto dipende da come tira il vento. Ci sono stati momenti in cui si andava a gonfie vele, ora invece siamo in...» «In un periodo di bonaccia?» suggerì Rebus. Preston ridacchiò, poi tirò fuori da un cassetto un libro mastro. «Allora, qual è la data che v'interessa?» Janice gliela disse. Teneva entrambe le mani strette intorno a una tazza di caffè, troppo forte e arrivato già tiepido. Rebus si chiese quali mansioni avesse la segretaria alta e bionda che occupava l'altra stanza dell'ufficio. C'erano fogli sul pavimento, posta non aperta... Se Preston non si fosse dimostrato pronto a collaborare, Rebus gli avrebbe fatto balenare la possibilità di una telefonata agli ispettori della guardia di finanza. Ma il suo interlocutore si mise a sfogliare rapidamente il libro mastro. «L'abbiamo trovato quando ci siamo trasferiti qui», spiegò. «Ho pensato che tanto valeva usarlo in qualche modo.» Sollevò lo sguardo. «Sapete, per mantenere una sorta di continuità.» Il suo dito trovò la data, si spostò lungo la riga. «Quella sera era stato affittato, per una festa privata. In costume.» Guardò Janice. «È sicura che suo figlio fosse diretto proprio al Clipper?»
Lei si strinse nelle spalle. «È possibile.» «Di che festa si trattava?» chiese Rebus. Si stava già alzando dalla sedia. Preston, con lo sguardo rivolto al libro mastro, non sembrò accorgersi che lui aveva cominciato a girare intorno alla scrivania. Il primo impulso di Rebus fu quello di lanciare un'occhiata allo schermo: vide un solitario in attesa di essere iniziato. «Amanda Petrie», mormorò Preston. «Quella sera c'ero anch'io, me lo ricordo. Era una festa a tema... i pirati o qualcosa del genere.» Si grattò il mento. «No, era ispirata all'Isola del tesoro. Un imbecille si è presentato vestito da pappagallo. Alla fine della serata era sbronzo marcio.» Guardò Janice. «Posso rivedere quelle foto?» Lei gliele diede: Damon e la bionda, ripresi dalle telecamere di sorveglianza; poi Damon in una foto scattata durante una gita. «Non erano in costume?» chiese Preston. Janice scosse la testa. Le mani di Preston erano occupate col libro mastro e le foto. Rebus, nel chinarsi a dare un'occhiata al registro, si accorse di aver spostato col gomito il mouse, cosicché il puntatore era finito sul comando di chiusura del gioco. Una leggera pressione sul mouse e sullo schermo l'immagine cambiò. Da un solitario a una donna a quattro zampe. La foto era stata scattata da dietro e la modella aveva la testa girata e faceva il broncio al fotografo. Indossava calze bianche e reggicalze, nient'altro. Il broncio era esagerato. Sul pavimento, accanto a lei, una bottiglia di champagne vuota. Rebus fissò il davanzale della finestra: anche lì c'era una bottiglia di champagne vuota. «È altrettanto apprezzabile anche come stenografa?» chiese Rebus. Preston, nel vedere ciò che l'ispettore stava guardando, spense il monitor. Rebus ne approfittò per prendere dalla scrivania il pesante libro mastro e, senza mollarlo, tornare a sedersi. «Dunque quella sera era presente anche lei?» chiese. Preston sembrava innervosito. «Per tenere sotto controllo la situazione.» «E non ha notato né Damon né la bionda?» «Non ricordo di averli visti.» Rebus lo fissò. «Non è la stessa cosa, non le pare?» «Senta, ispettore, sto cercando di aiutarla...» «Amanda Petrie», mormorò Rebus. Poi vide l'indirizzo, lo riconobbe. Tornò a fissare Preston. «La figlia del giudice?» Preston stava annuendo. «Ama Petrie.»
«Ama Petrie», gli fece eco Rebus. Si girò verso Janice e vide nei suoi occhi uno sguardo interrogativo. «La ragazza selvaggia di Edimburgo.» Tornò a fissare Preston: «Vedo che non ha fatto pagare nulla alla sua cliente per il noleggio dell'imbarcazione». «Ama si porta sempre dietro un bel codazzo di amici.» «Usa spesso il Clipper?» «All'incirca una volta al mese. Di solito sono feste in costume.» «E si travestono sempre tutti?» Preston capì dove voleva andare a parare. «Non sempre.» «Allora quella sera c'era qualche ospite in abiti normali?» «Ce n'erano alcuni, sì.» «E, in mezzo a tanti pirati e pappagalli, non attiravano l'attenzione?» «Certamente.» «Perciò è possibile...» «È possibile», ammise Preston con un sospiro. «Senta, cosa vuole che le dica? Vuole che le racconti una bugia e le dica di averli visti?» «No.» «La cosa migliore è chiamare Ama.» «Sì», replicò Rebus in tono assorto. Stava meditando su Amanda Petrie, sulla reputazione di cui godeva. Stava pensando anche al padre di lei, al giudice di corte d'appello Petrie. «Ha un suo bel giro di amici», disse Preston. Rebus annuì. «Piuttosto ricchi, anche.» «Oh, sì.» «Il tipo di clienti da cui si riesce a ricavare qualcosa in più.» Preston lo fissò. «Non mentirei per quella ragazza. Inoltre, non sono sicuro che la mia vecchia baracca sia in grado di reggere a più di un'Ama. Ci vuole un'eternità per ripulire tutto dopo che lei è passata di lì... e per me sono altre spese. E, quando dà i suoi ricevimenti, mi pare che le lamentele raggiungano il culmine. Dio solo sa come riescano a fare tutto quel baccano arrivando...» «Nulla che fosse fuori del normale, quella sera?» Preston gli lanciò un'occhiata. «Ispettore, stiamo parlando di Ama Petrie. Con lei, la 'normalità' non esiste.» Rebus copiò sul suo taccuino il numero di telefono della ragazza segnato sul libro mastro, poi scorse con gli occhi le altre righe, ma non notò nulla d'interessante. «Be', grazie per il tempo che ci ha concesso, signor Preston.» Un'ultima
occhiata al computer. «La lasciamo al suo gioco.» Una volta usciti, Janice si rivolse a Rebus. «Ho come la sensazione di essermi persa qualcosa, là dentro.» Rebus si strinse nelle spalle, scosse la testa. L'auto era parcheggiata in una stradina laterale. Mentre camminavano, il vento soffiava sui loro visi una leggera pioggia. «Ama Petrie», mormorò Rebus, tenendo il capo chino. «Non rientra nel quadro che mi sono fatto di Damon.» «La bionda misteriosa», commentò Janice. «Una sua amica, è questo che pensi?» «Chiediamolo alla signorina Petrie.» Rebus digitò il numero sul suo telefono cellulare: gli rispose una segreteria telefonica e lui non lasciò messaggi. Janice lo guardò con aria interrogativa. «A volte è meglio non mettere sull'avviso troppo presto», le spiegò Rebus. «Per non dare il tempo d'imbastire una storia inventata di sana pianta?» Rebus annuì. «Qualcosa del genere.» Lei lo stava ancora fissando. «Ci sai fare, eh?» «Un tempo ero bravo.» Ripensò ad Alan Archibald: tutti quegli anni nella polizia, tutto quell'accanimento nell'inseguire l'assassino di Deirdre Campbell... Poteva anche essere una sorta di follia, ma era impossibile non rimanerne affascinati. Ed era proprio quella caratteristica dei poliziotti che piaceva a Rebus. Con un unico inconveniente: la maggior parte di loro non era assolutamente così... «Torniamo in Arden Street», disse a Janice. Lei doveva fare altre telefonate; l'appartamento di Rebus le serviva ancora da base. «E tu che fai?» chiese lei. «Devo concludere un po' di cose, incontrare certe persone.» Lei gli prese la mano, gliela strinse. «Grazie, John.» Poi gli sfiorò il viso. «Hai l'aria stanca.» Rebus le allontanò le dita dalla guancia, se le avvicinò alla bocca, le baciò. Con la mano libera girò la chiavetta dell'accensione. La prima puntata della «storia di un criminale» che aveva come protagonista Cary Oakes era all'acqua di rose: un paio di paragrafi sul suo ritorno in Scozia, altri due sul periodo che aveva trascorso in carcere, poi un resoconto dei suoi anni giovanili. Rebus notò che i nomi dei luoghi non erano
quasi mai citati. La spiegazione di Oakes: «Non voglio che qualche località si attiri una cattiva fama solo perché anni fa Cary Oakes ci ha trascorso un umido inverno». Davvero gentile da parte sua. Di tanto in tanto si alludeva a qualcosa (tanto per solleticare l'interesse dei lettori e spingerli a seguire il resto della storia), ma nel complesso si aveva l'impressione che il giornale, qualsiasi somma avesse versato a Oakes, si fosse ritrovato con un pugno di mosche in mano. Rebus dubitava che il direttore di Stevens fosse soddisfatto. L'articolo era corredato di foto: Oakes all'aeroporto; Oakes all'uscita dal penitenziario statunitense; Oakes bambino. C'era anche una piccola foto del «reporter James Stevens», accanto al titolo. Rebus notò che le fotografie occupavano uno spazio maggiore di quello riservato al testo. Sembrava proprio che il giornalista avrebbe sudato parecchio per raccogliere materiale sufficiente per un libro. Rebus piegò il giornale e guardò fuori del finestrino della sua auto. Era fermo all'ingresso di un ipermercato sul genere «tutto per il bricolage», uno di quei capannoni malamente mascherati che, costruiti in fretta e furia e in tutta economia, sembravano stringere d'assedio il centro. Nello spazioso parcheggio c'erano soltanto quattro vetture. Non conosceva bene quella zona della città: Brunstane. Subito a ovest c'era The Jewel, col suo inevitabile centro commerciale; a est sorgeva il Jewel and Esk College. Il messaggio che Jane Barbour gli aveva lasciato in ufficio era laconico: voleva vederlo, gli comunicava ora e luogo dell'appuntamento. Rebus si accese un'altra sigaretta, chiedendosi se la collega sarebbe mai arrivata. Poi un'auto si fermò a fianco della sua, suonò il clacson ed entrò nel parcheggio. Rebus riaccese il motore e la seguì. L'ispettore Jane Barbour era al volante di una Ford Mondeo color crema. Stava già per scendere dalla macchina quando Rebus le parcheggiò accanto. Lei allungò una mano ed estrasse dall'abitacolo una busta formato A4. «Bella macchina», commentò Rebus. «Grazie per essere venuto.» Rebus le chiuse la portiera. «Che c'è? Sei rimasta a corto di guarnizioni per i rubinetti?» «Sei mai venuto qui, prima d'ora?» «No, te lo confesso.» Il vento le gettò i capelli in faccia. «Seguimi», disse in tono sbrigativo, con una punta di ostilità nella voce. Rebus si lasciò condurre sul lato dell'edificio. Era lì che il personale del-
l'ipermercato parcheggiava auto e biciclette. C'erano i portelloni di due uscite di sicurezza, dipinti di un verde spento alla pari del grigio dei muri crepati. Alle spalle del magazzino si apriva un'immensa area in cui venivano scaricate le merci. Da alcuni enormi contenitori uscivano scatole di cartone appiattite; una dozzina di vasi di terracotta aspettava di essere portata all'interno ed esposta in vendita. Un muretto basso di mattoni circondava lo spiazzo. «È qui che mi vuoi aggredire?» chiese Rebus, infilandosi le mani in tasca. «Perché hai messo nei guai Darren Rough?» «Che t'importa?» «Tu dimmelo.» Rebus cercò il contatto visivo, ma la Barbour non stava scherzando. «Per via di quello che è, di quello che stava facendo allo zoo. Perché aveva calunniato un nostro collega. E anche per via di...» «Shiellion?» esclamò lei, fissandolo finalmente negli occhi. «Non potevi infierire su Ince e Marshall, ma ecco che all'improvviso trovi qualcuno su cui rifarti.» «Non è proprio così.» La Barbour infilò una mano nella busta e tirò fuori una fotografia in bianco e nero, dall'aria vecchiotta. Ritraeva una casa in stile georgiano, a tre piani, davanti alla quale si era messo in posa un gruppo familiare, disposto con aria fiera intorno a un'automobile nuova fiammante, apparentemente un modello degli anni '20. «La casa fu abbattuta sei anni fa», spiegò. «Se non l'avessero distrutta, nel giro di poco tempo si sarebbe disintegrata da sé.» «Era una bella casa.» «Il capofamiglia, questo qui», continuò lei, indicando l'uomo che teneva un piede sul predellino della vettura, «fece bancarotta. Il signor Callstone, così si chiamava, aveva una fabbrica di iuta o qualcosa del genere. Si trovò costretto a vendere la casa di famiglia e fu la Chiesa di Scozia ad acquistarla. Ma con una precisa clausola da rispettare: che il nome della famiglia non venisse cancellato. Perciò la casa continuò a essere chiamata Callstone House.» Aspettò che Rebus si rendesse conto di ciò che lei gli stava dicendo. «Un istituto per l'infanzia», esclamò lui alla fine. Lei annuì. «Vi ha lavorato Ramsay Marshall, prima di trasferirsi a Shiellion. A quei tempi conosceva già Harold Ince.» Gli consegnò altre foto.
Rebus le guardò. Callstone House diventata un istituto per bambini poveri, gestito dalla Chiesa di Scozia. Ragazzi raggruppati davanti alla stessa porta d'ingresso, o ripresi all'interno, seduti intorno a lunghe tavolate e con l'aria affamata. I letti dei dormitori. In alcune foto, il personale, dall'aspetto severo. Il cervello di Rebus stava lavorando a pieno regime. «Darren Rough ha trascorso un po' di tempo a Callstone...» «Sì, è così.» «Durante il regno di Ramsay Marshall?» Lei annuì nuovamente. «Tu...» esclamò Rebus all'improvviso. «Sei stata tu a volere che Darren Rough tornasse a Edimburgo.» «Sì, sono stata io.» «Per il processo?» «Già. Gli avevo trovato un appartamento, volevo renderlo malleabile. Me lo sono lavorato per settimane.» «È stato vittima anche lui di abusi?» Rebus si accigliò. «Non è sulla lista.» «Il pubblico ministero era convinto che non sarebbe stato un testimone utile.» Lui annuì. «Fedina penale sporca. Non era il caso di rischiare un controinterrogatorio.» «Proprio così.» Le restituì le fotografie. Aveva capito le implicazioni di quella storia. «Cosa gli era accaduto?» La Barbour era impegnata a rimettere le foto nella busta. «Una notte, Marshall entrò nel dormitorio. Darren era ancora sveglio. Marshall gli disse che avrebbero fatto un giro in auto e lo portò a Shiellion.» «Il che proverebbe che Marshall e Ince erano già in combutta?» «Così sembra. Fecero a turno, loro due, più un terzo uomo.» «Cristo.» Rebus fissò il capannone, immaginandoselo come un istituto per l'infanzia, un presunto rifugio. Si chiese cosa avrebbe fatto il fantasma del signor Callstone. «Chi era il terzo uomo?» Lei si strinse nelle spalle. «A Darren avevano bendato gli occhi.» «Come mai?» «Vedi, John... Il punto è che gli ho promesso certe cose.» «A un pedofilo conclamato?» non poté trattenersi dall'esclamare Rebus. «Hai mai sentito dire che l'ambiente influisce sul carattere?» «Il violentato che diventa un violentatore? La ritieni una scusa valida?»
«Lo ritengo un motivo valido.» Ormai si era un po' calmata. «Il professor Calder, di Glasgow, ha elaborato un test per verificare quali probabilità ci siano che una persona, macchiatasi del reato di abuso, lo compia di nuovo. Darren è risultato a basso rischio. Per tutto il tempo della detenzione, è andato alle riunioni di sostegno, ha seguito la terapia.» Rebus storse il naso. «Come mai non risulta schedato?» Aveva fatto un rapido controllo: negli schedari della polizia di Edimburgo comparivano quarantanove individui accusati di reati sessuali; Rough non c'era. «Questo faceva parte dell'accordo. È terrorizzato all'idea che loro possano rintracciarlo.» «'Loro'?» «Ince e Marshall. Lo so che attualmente sono in galera, ma Rough è ancora perseguitato dagli incubi.» Attese che lui dicesse qualcosa, ma Rebus era immerso nei propri pensieri. «Quello che è successo a Greenfield è ingiustificabile», continuò allora, «e la tua risposta al problema è perseguitare gli individui come Rough, costringerli a fuggire? Finirebbero comunque per rintanarsi da qualche parte, John. Dobbiamo gestirli, non darli in pasto alla folla.» Rebus si fissò le scarpe. Come sempre, avevano bisogno di essere lucidate. «Te l'ha detto Rough?» Lei scosse la testa. «Non appena ho letto l'articolo sul giornale, ho cercato di mettermi in contatto con lui. Poi ho parlato col suo assistente sociale. Andy Davies è assolutamente certo che la responsabilità sia tua.» «E tu gli credi?» Lei si strinse nelle spalle. Stavano tornando verso le auto. «Allora, che cosa vuoi?» chiese Rebus. «Le mie scuse?» «Voglio soltanto che tu capisca.» «Be', grazie per la seduta di terapia. Ora ritengo di avere le carte in regola per rientrare nel consesso civile.» «Sono contenta che tu riesca a scherzarci sopra», replicò lei freddamente. Lui si girò a guardarla. «Rough fa appena in tempo a rimettere piede a Edimburgo che Jim Margolies, il poliziotto da lui accusato di maltrattamenti, decide di spiccare un salto dai Salisbury Crags. Io sono convinto che esista un legame tra le due cose. È per questo che m'interessa...» Accorgendosi di quanto fosse mutata l'espressione del viso della Barbour nel sentir menzionare Jim Margolies, le chiese: «Che c'è?» Lei scosse il capo. Gli occhi di Rebus divennero due fessure. «Ne avevi parlato con Jim, ve-
ro? Gli avevi fatto lo stesso discorso che hai fatto ora a me.» Lei esitò, poi annuì. «Stavo riportando Darren a Edimburgo. Lui era titubante, voleva sapere se l'ispettore Margolies gli sarebbe stato ancora alle calcagna.» «Così ti sei vista con Jim, gli hai spiegato ogni cosa?» «Intendevo verificare la situazione, credo, in modo che non sorgessero... conflitti.» «Dunque Margolies sapeva che Rough stava per tornare?» Rebus era pensieroso. Squillò un telefono cellulare: era quello di lei. La Barbour lo tirò fuori della tasca, rimase in ascolto. «Ci vado immediatamente», disse, mettendo fine alla telefonata. Poi si rivolse a Rebus: «Faresti bene a venire anche tu». Lui la guardò. «Che è successo?» La Barbour spalancò la portiera della sua auto. «A Greenfield è scoppiato il finimondo. Pare che Darren Rough sia finalmente tornato a casa.» 19 Sul ballatoio di fronte all'appartamento di Darren Rough si accalcavano numerose persone e l'unico ostacolo che impediva alla gente di sfondare la porta era il commissario di polizia Tom Jackson. In prima fila tra la folla spiccava Van Brady, con in mano un piede di porco; alle sue spalle, molte altre donne. Una squadra dell'emittente televisiva locale cercava di farsi largo, per sistemarsi nella posizione migliore. Un fotoreporter stava riprendendo un gruppo di bambini che reggevano uno striscione fatto in casa con mezzo lenzuolo e una bomboletta spray di vernice nera. La scritta diceva: SALVATECI DAL MOSTRO. «Carino», commentò Jane Barbour. Gli inquilini degli altri caseggiati osservavano da dietro le finestre o, dopo averle spalancate, lanciavano grida d'incoraggiamento. Rebus vide che anche la porta dell'appartamento di Rough era imbrattata di vernice. Sulla finestra c'erano tracce di uova e grasso. La folla urlava, inferocita, e altra gente sembrava unirsi di continuo a quella già presente. Santo cielo, che cos'ho combinato? pensò Rebus. Tom Jackson lanciò un'occhiata dalla sua parte. Aveva il viso arrossato, rivoli di sudore gli scendevano dalle tempie. Jane Barbour cercava di aprirsi la strada in mezzo alla calca. «Cosa sta succedendo qui?» urlò.
«Dateci quel bastardo!» le urlò di rimando Van Brady. «Vogliamo linciarlo!» Si levarono grida di consenso: «Impicchiamolo!» «Il cappio è troppo poco per lui!» La Barbour alzò le mani, chiedendo silenzio. Vide che la maggior parte delle persone che inveivano contro Darren portavano, su giacche e maglioni, un'etichetta adesiva bianca. Una banale etichetta sulla quale erano scritte tre lettere: GAP. «Che cosa significa?» chiese. «Greenfield in Armi contro i Pervertiti», le rispose Van Brady. Rebus vide un ragazzo distribuire le etichette. Lo riconobbe: era Jamie Brady, il figlio minore di Van. «Da quando in qua il lavoro di voi poliziotti consiste nel proteggere un lurido bastardo come quello?» chiese una donna. «Determinati diritti non si negano a nessuno», rispose la Barbour. «Neanche ai maniaci sessuali?» «Darren Rough ha espiato la sua pena», proseguì la Barbour. «Adesso segue un programma di riabilitazione.» Accortasi che la squadra televisiva si stava avvicinando, sussurrò qualcosa a Tom Jackson, il quale si fece strada sino alla telecamera e alzò una mano a coprire l'obiettivo. «Noi vogliamo risposte», stava gridando Van Brady. «Perché quell'uomo è stato sistemato qui? Chi ne era al corrente? Per quale motivo non siamo stati informati?» «E vogliamo che se ne vada!» urlò una voce maschile. Un nuovo arrivato, al quale la marea di corpi lasciava spazio, ritraendosi. Un giovane, col volto dalle fattezze incisive, le braccia nude. Si fermò accanto a Van Brady, spalla contro spalla, ignorando Jane Barbour e rivolgendosi all'equipe televisiva. «Questo è territorio di tutti noi, mica della polizia.» Applausi e urla di consenso. «Se la polizia non sa come fare con 'sto maiale» - e puntò il pollice all'indietro, verso la porta dell'appartamento di Rough -, «nessun problema: ce ne occuperemo noi. A Greenfield abbiamo sempre fatto pulizie così.» Altri applausi, segni di assenso. Uno dei presenti urlò: «Hai detto bene, Cal!» Cal Brady: in piedi accanto alla madre, orgogliosa delle doti oratorie del figlio. Cal Brady: era la prima volta che Rebus lo vedeva in carne e ossa. Be', non proprio: era la prima volta che lo vedeva conoscendone il nome. L'aveva infatti già incontrato una volta. Da Gaitano's, al bancone del bar,
in compagnia del vicedirettore, Archie Frost. Frost con la sua coda di cavallo e le cattive maniere; l'amichetto che non apriva bocca e poi tagliava velocemente la corda... «Possiamo discutere?» chiese Jane Barbour. «Che c'è da discutere?» ribatté Van Brady, incrociando le braccia. «Di questa situazione.» Cal Brady la ignorò e si rivolse alla madre. «Lui è dentro?» «Uno dei vicini ha sentito dei rumori.» Cal batté il pugno sulla finestra, poi dovette pulirsi la mano sui jeans per eliminare le tracce di grasso. «Ascoltate», stava dicendo Jane Barbour, «se noi tutti potessimo...» «D'accordo», la interruppe Cal Brady. Poi, tolto il piede di porco dalla mano della madre, lo vibrò contro la finestra, mandando il vetro in frantumi; agguantò la tenda lurida, fissata in alto da alcune puntine da disegno, e la strappò. Stava per scavalcare il davanzale ed entrare nella stanza, col piede di porco ancora stretto in pugno, quando Rebus lo afferrò per un piede, tirandolo indietro. Alcune schegge di vetro stracciarono il davanti della T-shirt del giovane. «Ehi, tu!» strillò Van Brady, sferrando un pugno a Rebus. Cal riuscì, contorcendosi, a liberarsi, si raddrizzò e fronteggiò Rebus. «Vuoi provarlo tu, eh?» Brandiva il piede di porco. Non aveva riconosciuto il poliziotto. «Voglio che ti calmi», replicò Rebus senza alzare la voce. Poi si voltò verso Van. «E lei si controlli.» La gente si era accalcata intorno alla finestra, smaniosa di vedere l'interno dell'appartamento. Apparentemente era uguale a tanti altri: pareti dipinte di un colore uniforme, un divano, una poltrona, una libreria. Niente televisore né hi-fi. Alcuni libri ammucchiati sul divano: manuali di fotografia, romanzi. Sul pavimento, qualche giornale, confezioni di pasta vuote, un cartone da pizza. Sulla libreria, lattine e bottiglie di limonata. La folla parve delusa da quello spettacolo. «È un poliziotto», disse Van al figlio, per metterlo in allerta. «Da' retta a tua madre, Cal», gli consigliò Rebus. Mentre una mezza dozzina di uomini in uniforme saliva dalle scale, Cal Brady abbassò il piede di porco. La prima cosa che gli agenti fecero fu disperdere la folla. Van Brady urlò che aspettava tutti nel suo appartamento, per tenere una riunione del
GAP. L'équipe televisiva sembrò pronta a seguirla. Il fotoreporter indugiò per scattare qualche istantanea al soggiorno di Darren Rough, finché i poliziotti non costrinsero anche lui a togliersi dai piedi. La Barbour stava parlando al cellulare, cercando qualcuno che venisse a rimettere il vetro alla finestra. «E immediatamente, prima che qualche bello spirito rovesci all'interno una latta di benzina.» Asciugandosi la fronte, Tom Jackson si avvicinò a Rebus. «Dio onnipotente», esclamò. «Credo che avrei preferito di gran lunga che tutto restasse come prima.» Quando Rebus alzò gli occhi, vide che lo sguardo di Jackson era fisso su di lui. «Mi ritieni responsabile dell'accaduto?» chiese Rebus. «Ho detto una cosa del genere?» Stava ancora armeggiando col fazzoletto. «Non ricordo di averlo fatto.» Si voltò e si allontanò. Rebus guardò nella stanza attraverso la finestra. All'interno c'era un vago sentore di muffa: nulla di strano, se non vi entravano mai l'aria e la luce del sole. Visto che aveva fatto trenta, tanto valeva fare trentuno, si disse, sollevando un piede fino al davanzale e scavalcandolo. Sotto le scarpe i frammenti di vetro scricchiolavano. Nessun segno di Darren Rough. Era questo che volevi, John. La voce gli ronzava in testa: non era la sua, ma quella di Jack Morton. Era questo che volevi, e ora l'hai ottenuto... No, pensò, non era questo l'obiettivo. Ma, in un certo senso, Jack aveva ragione: era riuscito comunque nel suo intento. Uno stretto passaggio ad arco portava dal soggiorno alla minuscola cucina. Rebus toccò il bollitore elettrico: avvertì un lievissimo tepore. Guardò nel frigorifero: pane, margarina, marmellata. Niente latte. Nel bidone dei rifiuti, dal coperchio traballante: un cartone di latte vuoto, scatole di fagioli già cotti. Jane Barbour sbirciò all'interno, verso di lui. «Trovato qualcosa?» «Praticamente nulla.» «Che ne diresti di aprirmi e farmi entrare?» «Subito.» Spalancò la porta che dava nell'ingresso, completamente al buio. Avanzò a tentoni e trovò un interruttore. Una lampadina da quaranta watt, non schermata. Cercò di aprire la porta, ma il catenaccio era stato bloccato e non si vedevano chiavi in giro. La fessura della posta era tappa-
ta da un blocco di legno. Non che Rough potesse ricevere molta posta... Rebus tornò alla finestra e informò la Barbour che, se voleva dare un'occhiata all'interno, avrebbe dovuto scavalcare. «No, grazie», gli rispose. «Una visita mi è bastata.» Rebus le lanciò un'occhiata interrogativa. «Quando l'ho accompagnato qui la prima volta.» Rebus annuì, poi tornò nell'ingresso. L'appartamento disponeva di due camere da letto, più la stanza da bagno e un gabinetto separato. Nella prima camera da letto c'era un sacco a pelo sul pavimento. Come lettura serale, la Bibbia. In giro, svariati sacchetti di patatine, vuoti. Rebus li prese da terra e, in uno, trovò un preservativo usato. La finestra era schermata dalle tende: Rebus le tirò e guardò fuori, su una strada trafficata. La seconda camera da letto era vuota, non c'era neppure una lampadina. La stessa vista che si godeva dalla camera numero uno. Il bagno aveva bisogno di una bella ripulita: sulle pareti cresceva la muffa. L'unico asciugamano era una sorta di cencio, penosamente piccolo e liso, sottratto in qualche ospedale o qualcosa del genere. Rebus provò la porta del gabinetto. Era chiusa a chiave. Spinse più forte, ma la serratura non cedette. Allora bussò sulla porta di legno. «Rough? Sei lì dentro?» La porta poteva essere chiusa a chiave soltanto dall'interno. «Polizia», aggiunse. «Ascolta, stiamo per andarcene e la finestra che dà sul ballatoio è stata sfasciata. Un attimo dopo la nostra partenza, quei barbari torneranno.» Silenzio. «Be', sono cavoli tuoi», mormorò, accingendosi a tornare sui propri passi. «In ogni caso, fuori c'è l'ispettrice Barbour. Ciao, Darren.» Stava già per scavalcare la finestra quando sentì un rumore alle sue spalle. Si voltò e vide Darren Rough, in piedi sulla soglia del gabinetto, il viso smunto, gli occhi sbarrati per il terrore. L'uomo sembrava braccato da nemici esterni e interni. Si teneva le mani tremanti contro il petto, come a volersi proteggere dai colpi di un piede di porco. Rebus, nonostante l'abituale cinismo, provò un improvviso empito di compassione. Jane Barbour era sul ballatoio, intenta a parlare con Tom Jackson, ma, quando vide la faccia dell'ispettore, tacque di colpo. «Ispettrice Barbour», disse Rebus, «forse è il caso che venga qui uno dei tuoi uomini.» Jim Stevens cercò di cancellare dalla mente la scena di Cary Oakes che pisciava in chiesa. Ora che aveva quell'uomo sottomano, aveva bisogno della sua storia, aveva bisogno di una storia eccezionale. Il suo capo si era
lamentato della prima puntata, l'aveva definita «una presa per i fondelli», si era augurato che le successive fossero meno deludenti. Stevens gli aveva dato la sua parola. Oakes aveva una Bibbia accanto al letto. Eppure, in chiesa... Stevens non voleva sapere che cosa ciò potesse significare. C'era qualcosa in Oakes... A volte, guardandolo negli occhi, se ne aveva la percezione, ma, non appena lui si accorgeva di essere osservato, riusciva a far sparire di colpo quel qualcosa. Tuttavia, a volte, per una frazione di secondo, si vedeva che la sua mente era altrove, in qualche altro luogo in cui il giornalista non avrebbe mai voluto trovarsi. Limitati a fare il tuo lavoro, continuava a dirsi. Ancora un paio di giorni, un tempo più che sufficiente per guadagnarsi il massimo dei voti da parte del suo capo, mostrare agli altri giornalisti da strapazzo che lui aveva ancora un gran mestiere e accettare la proposta più allettante tra quelle che i vari editori gli avrebbero fatto. Era in trattativa con due case editrici londinesi, ma altre quattro si erano già tirate indietro. «Le biografie dei criminali sono soltanto un insipido elenco di luoghi e fatti», aveva detto un direttore editoriale, liquidando la proposta. Per organizzare una sorta di asta, Stevens aveva bisogno di altre offerte. Se i soggetti interessati erano soltanto due, il tutto si riduceva a un semplice tira-e-molla. E ora, quel fatto. Oakes aveva detto che, dopo pranzo, si sarebbe ritirato in camera sua per una mezz'oretta. L'incontro del mattino era stato buono: nulla di particolarmente brillante, tuttavia il materiale era valido. Di che riempire succosamente la nuova puntata. Oakes però si era lamentato di un forte mal di testa, aveva detto che voleva fare un lungo bagno ristoratore. Dopo mezz'ora Stevens era andato a cercarlo in camera: nessuna risposta. Il personale della reception non l'aveva visto. Il giornalista aveva addirittura pensato di andare a chiedere al poliziotto di guardia se ne sapeva qualcosa, ma sarebbe stata una mossa troppo avventata. Disse allora al direttore dell'albergo di essere preoccupato per la salute del collega e lo convinse. Grazie a un passepartout, entrarono nella stanza. Non c'era nessuno, vuoto assoluto. Stevens, dopo essersi scusato col direttore dell'albergo, era tornato nella propria camera. E adesso era lì, seduto, a mordicchiarsi le unghie e a chiedersi quale fine avesse fatto la sua storia. Doveva mostrarsi spavaldo.
Dopo essere stato sorpreso dai poliziotti in quello stato, così piagnucoloso e tremante... Per Darren Rough, l'unico modo per rimettere insieme un po' di autostima consisteva nel rifiutare l'offerta della Barbour di trasferirlo. In realtà l'ispettrice poteva offrirgli soltanto una cella nella stazione di polizia, finché non fosse saltato fuori qualcosa di meglio; a Greenfield non era più in grado di garantirgli la sicurezza. Rough aveva sorriso, sentendole dire quel «non più», perché entrambi sapevano che lei stava giocando con le parole. «Rimango», le aveva risposto. «Prima o poi dovrò smetterla di fuggire e tanto vale che ciò succeda qui e ora.» Aveva ridacchiato. «Come in qualche vecchio western, no? Quelli con John Wayne.» Aveva piegato le dita a simulare un revolver, aveva finto di sparare in aria. Poi si era guardato intorno e aveva storto il naso, mentre l'espressione del viso si faceva vacua. «Non credo che sia una buona idea», osservò lei. «Sono d'accordo», disse Andy Davies. Era la prima volta che Rebus incontrava l'assistente sociale di Darren Rough. Era un uomo alto, magro, con la barba e con una corona di capelli rossi intorno alla sommità calva del cranio. Quando rideva, ai lati degli occhi si formavano piccole rughe; la bocca era minuscola e rosea. «C'è qualcosa che potete fare per me», intervenne Rough. Davies, seduto sul divano, le mani strette tra le ginocchia, si chinò in avanti. «Di che si tratta, Darren?» «Datemi una paletta e una scopa per poter levare 'sta merda», rispose Rough, tirando un calcio a una scheggia di vetro. Intanto era arrivato l'operaio incaricato dal comune di chiudere la finestra con assi di legno. Nei suoi occhi c'era un'espressione di opaco disgusto. Nel cortile, qualcuno aveva appiccicato sulla sua borsa degli attrezzi un adesivo con la sigla GAP. Si servì di un trapano a pile, di una sega e di un martello per fissare le assi all'intelaiatura della finestra, chiudendo fuori per sempre la luce del sole. Quando Rough si avviò verso la cucina, Rebus fece per seguirlo. L'assistente sociale si alzò. «Non si preoccupi», gli disse Rebus. «Voglio soltanto scambiare due parole con lui.» I due uomini si fissarono. Con un cenno, Rebus invitò Davies a sedersi di nuovo, ma l'assistente sociale rimase in piedi, accanto alla finestra. L'ispettore si fermò sull'ingresso ad arco della minuscola cucina. Rough era intento ad aprire e chiudere gli armadietti, senza quasi rendersi conto di ciò che stava facendo o del perché. Sapeva che Rebus era lì, ma
non si voltava a guardarlo. «Ha ottenuto ciò che voleva», mormorò alla fine. «Ciò che voglio sono alcune risposte.» «Strano modo di cercarle.» Rebus infilò le mani in tasca. «Da quanto tempo sei tornato a Edimburgo?» «Da tre, quattro settimane.» «Hai per caso visto l'ispettore Margolies?» «E morto, l'ho letto sul giornale.» «Sì, ma io intendevo dire prima.» Rough sbatté violentemente lo sportello di un armadietto e si voltò verso Rebus, con la voce che gli tremava. «Cristo, che altro c'è, ora? Si è ucciso, no?» «Forse.» Rough si passò una mano sulla fronte. «Lei crede che io...?» Andy Davies si era fatto avanti. «Che diavolo succede?» «Sta cercando d'incastrarmi», si lasciò sfuggire Rough. «Senta, ispettore, non so cosa lei abbia in mente...» «Ha detto bene», scattò Rebus, «non lo sa. Allora perché non ci lascia in pace?» «Non posso sopportare anche questo», urlò Rough, sul punto di scoppiare in lacrime. Jane Barbour si avvicinò a sua volta. Rebus lesse nel suo sguardo quattro quinti di biasimo e un quinto di delusione. Ricordò ciò che lei gli aveva raccontato a proposito di Rough. Il giovane stava tirando su col naso, che si strofinava col dorso della mano. Sembrava che le ginocchia fossero sul punto di cedergli. L'operaio aveva quasi finito e la stanza era ormai immersa nella penombra. Ogni vite conficcata nell'intelaiatura della finestra faceva venire in mente la piombatura di una bara. «L'ispettore Margolies è venuto a cercarti?» insistette Rebus. Rough lo fissò con aria di sfida. «No.» Rebus ricambiò lo sguardo, facendogli abbassare gli occhi. «Credo che tu stia mentendo.» «E allora mi meni.» Rebus fece un passo verso di lui. L'assistente sociale si stava lamentando con la Barbour. «Ispettore Rebus», esclamò lei, in tono d'ammonimento. Rebus si avvicinò a Rough, fin quasi a toccarlo. Il giovane, arretrando,
era arrivato a toccare con le spalle la parete di fondo della minuscola cucina; non aveva più vie d'uscita. «È venuto a trovarti?» Rough distolse lo sguardo, si mordicchiò il labbro inferiore. «Allora?» «Sì!» urlò Rough. Poi chinò la testa, si passò una mano nei capelli. Si udiva un incessante martellio, i chiodi che entravano nel legno. Lui si premette i palmi delle mani contro le orecchie. Rebus glieli allontanò, cercando di usare la maggior delicatezza possibile. Parlando, mantenne basso il tono della voce. «Che cosa voleva?» «Shiellion», gemette Rough. «C'era sempre di mezzo Shiellion.» Rebus si accigliò. «Ispettore Rebus...» La voce della Barbour era tesa, il punto di rottura quasi raggiunto. «Che cosa voleva sapere di Shiellion?» Rough lanciò un'occhiata a Jane Barbour, le sue parole la riguardavano. «Lei gli aveva detto cosa mi era successo.» «E...?» l'incitò Rebus. «Voleva sapere perché mi avessero bendato... Continuava a chiedere se c'era qualcun altro.» «Chi c'era, Darren?» A denti stretti: «Non lo so». «È questo che gli hai detto?» Un lento cenno di assenso col capo. «Poteva esserci chiunque.» «C'era qualcuno che non volevano farti vedere. Forse perché lo conoscevi.» Rough annuì. Parlò con voce più calma. «Me lo sono chiesto spesso. Magari potevo identificarlo... Che so, da un'uniforme o qualcosa del genere. Il colletto da clergyman di qualche sacerdote.» Sollevò gli occhi. «Magari era uno dei vostri uomini...» Ma Rebus non lo stava più ascoltando. «Un sacerdote?» ripeté. «Callstone e Shiellion erano due istituti gestiti dalla Chiesa scozzese che, in quanto calvinista, non ha sacerdoti.» Ma Rough fece un cenno con la testa. «Da noi ce n'era uno.» La Barbour, che aveva adesso un'aria interessata, aggrottò la fronte. «Avevate un sacerdote?» «È venuto per un po', poi è sparito. Padre Leary, così si chiamava.» Un
sorriso smorto. «Ci diceva di chiamarlo Conor.» Quando Rebus si avviò per le scale, Jane Barbour lo seguì. «Che ne pensi?» gli chiese. Lui si strinse nelle spalle. «Perché Jim Margolies s'interessava a Shiellion?» Toccò a lei rispondere con una spallucciata. «Avevi detto a Jim che Rough era stato vittima di abusi sessuali in quell'istituto?» Lei annuì. «Credi che abbia qualcosa a che vedere col suicidio?» «Sempre che sia stato veramente un suicidio.» La Barbour sbuffò. «Sarà meglio parlare ai vigilantes... È il caso di tenere ben fermo il coperchio sulla pentola.» «Tom Jackson li ha già avvisati di starsene buoni.» Sentendo dietro di loro un rumore di passi sulle scale, si voltarono: era Andy Davies. «Dobbiamo trasferirlo», disse l'assistente sociale. «Corre un grave rischio se rimane qui.» «È lui che non vuole andarsene.» «Possiamo insistere.» «Se quella folla radunata lassù non dovesse lasciarlo andare, quale altra possibilità avremmo?» «Potreste arrestarlo.» Rebus scoppiò a ridere. «Un paio di giorni fa...» Davies si girò verso di lui. «Sto parlando di proteggerlo, non di perseguitarlo.» «Terremo qualcuno nelle vicinanze», disse la Barbour. «Ma a una cert'ora Tom Jackson dovrà pure tornare a casa sua», osservò Rebus. «Verrò io stessa a fare la guardia, se sarà necessario.» La Barbour si rivolse a Davies. «Al momento, non so che altro saremmo tenuti a fare.» «E se lui si dimostrasse utile alla vostra causa in tribunale...?» «Farò finta di non aver sentito queste parole, signor Davies.» Lo disse con voce gelida, gli occhi come armi pronte a sparare. «Lo uccideranno», continuò l'assistente sociale. «Il che, immagino, non vi farà versare molte lacrime.» La Barbour lanciò un'occhiata all'ispettore, chiedendosi se avrebbe replicato, ma Rebus si limitò a scuotere la testa e ad accendersi una sigaretta.
Rebus conosceva padre Conor Leary da diversi anni. Per un qualche tempo era andato a trovarlo abbastanza regolarmente, per scambiare quattro chiacchiere e qualche lattina di birra. Ma, quando fece il numero di Leary, rispose un altro prete. «Conor è in ospedale», gli spiegò il giovane sacerdote. «Da quando?» «Da alcuni giorni. Riteniamo che abbia avuto un attacco di cuore. Piuttosto leggero, però. Credo si rimetterà presto.» Rebus andò in ospedale. L'ultima volta in cui aveva fatto visita a Leary, il frigorifero era pieno di medicine. Il prete gli aveva spiegato che le prendeva per disturbi di poco conto. «Da quanto tempo lo sapevi?» gli chiese Rebus, avvicinando una sedia al letto dell'amico. Conor Leary era pallido e invecchiato, la pelle cascante. «Niente bottiglie, a quel che vedo», disse Leary, con voce priva del solito tono burbero. Era seduto sul letto, circondato da fiori e da biglietti beneauguranti. Sulla parete sopra la sua testa, un Cristo in croce guardava verso di lui. «L'ho saputo soltanto mezz'ora fa.» «Gentile da parte tua venire subito qui. Non posso offrirti nulla da bere, mi dispiace.» Rebus sorrise. «Mi hanno detto che tra poco ti faranno uscire.» «Hanno per caso aggiunto che me ne andrò tra quattro assi?» Rebus cercò di sorridere. Mentalmente vide qualcuno che piantava chiodi. «Ho un favore da chiederti», disse. «Sempre che tu sia in grado di rispondermi.» «Vuoi diventare cattolico?» scherzò Leary. «Secondo te, il confessore riuscirebbe a reggere il peso?» «Hai ragione. Avremmo bisogno di una staffetta di sacerdoti per un peccatore del tuo calibro.» Chiuse gli occhi. «Allora, che vuoi sapere?» «Sei sicuro di farcela a parlare? Posso sempre tornare in un altro momento...» «Piantala, John. Sai perfettamente che me lo chiederesti comunque.» Rebus si piegò in avanti sulla sedia. Il suo vecchio amico aveva una bava biancastra agli angoli della bocca. «Un nome che forse ricordi... Darren Rough.» Leary ci pensò. «No», replicò infine. «Devi darmi qualche altro indizio.» «Callstone House.»
«E passato molto tempo.» «Frequentavi quell'istituto?» Leary annuì. «Una di quelle iniziative multireligiose. Dio solo sa a chi fosse venuta l'idea, però mia non era di certo. Un pastore protestante faceva visita agli istituti cattolici e io dovevo perdere un po' del mio tempo a Callstone.» Dopo qualche istante di silenzio, chiese: «Darren era uno di quei ragazzi?» «Sì.» «Il nome non mi dice nulla. Parlavo con molti di loro.» «Si ricorda di te. Secondo lui, gli avevi chiesto di chiamarti Conor.» «Sono sicuro che dice il vero. È nei guai, questo Darren?» «Non ne hai sentito parlare?» «Questo posto tende a tagliarmi fuori da tutto. Niente giornali, nessuna notizia fresca.» «È un pedofilo, restituito da poco alla società. Solo che la società non lo vuole.» Conor Leary annuì, con gli occhi ancora chiusi. «Ha abusato di un altro bambino?» «Quando aveva dodici anni. La vittima ne aveva sei.» «Ora mi ricordo di lui. Un viso terreo, non avrebbe avuto la forza di spaventare neanche un'oca. Il tizio che dirigeva Callstone...» «Ramsay Marshall.» «È imputato in un processo, non è così?» «Sì.» «È stato lui...? Con Darren?» «Temo di sì.» «Ah, mio Dio. Probabilmente tutto è successo sotto il mio naso.» Spalancò gli occhi. «E forse i ragazzi... forse avranno tentato di dirmelo e io non sono stato capace di ascoltarli.» Il prete tornò a chiudere gli occhi, ma gli sfuggì una lacrima che gli rigò una guancia. Rebus provò una sensazione d'angoscia. Non era quello che si aspettava dalla sua visita all'amico. Gli strinse la mano. «Ne parleremo un'altra volta, Conor. Adesso devi riposare.» «John, quando mai le persone come te e me riescono a trovare il tempo per riposare?» Rebus si alzò, guardò la figura sul letto. Un colletto da clergyman... Forse, però mai quello di Conor Leary. Magari era uno dei vostri uomini... Qualcuno in uniforme. Rebus non voleva pensarci, ma Jim Margolies do-
veva aver rimuginato su quell'informazione. E, subito dopo, era morto. «John», stava dicendo il prete, «ricordami nelle tue preghiere, eh?» «Sempre, Conor.» Non se la sentì di confessargli che non pregava più da molto tempo. 20 Tornato nel suo appartamento, preparò due tazze di caffè e le portò in salotto. Janice stava parlando al telefono con l'ennesimo ente assistenziale, fornendo i connotati di Damon. Lui si sedette al tavolo da pranzo. Il soggiorno era spazioso, oltre sei metri e mezzo per quattro, con tanto di bovindo (che aveva ancora le persiane originali). Il soffitto era alto (forse tre metri e trenta), con alcuni stucchi tutt'intorno. Rhona, la sua ex moglie, amava quel salotto, anche quando c'era ancora la carta da parati che risaliva ai precedenti proprietari (a righe violacee dall'andamento così sinuoso da far venire il mal di mare a Rebus ogni volta che ci passava davanti). Quella carta era stata tolta, come la moquette di un marrone che richiamava quello degli stipiti verniciati. Ripensò all'appartamento di Darren Rough. Nella sua vita, ovviamente, ne aveva visti di peggiori, ma non di molto. Janice abbassò il ricevitore e si grattò la testa con l'estremità inferiore di una biro, prima di scrivere un breve appunto su un pezzo di carta. Dopo aver tirato una riga sul numero di telefono dell'ente, gettò la penna sul tavolo. «Caffè», le disse Rebus. Lei prese la tazza con un sorriso di ringraziamento. «Hai l'aria cupa.» «Il mio stato d'animo abituale», replicò lui. «Ti dispiace se faccio una telefonata?» Janice fece un gesto di diniego e lui si accomodò sulla sedia accanto all'apparecchio e sollevò il ricevitore. Era un modello cordless; ce l'aveva da pochi mesi. Digitò di nuovo il numero di Ama Petrie. Una voce maschile, un po' nervosa, gli disse di provare a chiamare una delle stanze del Marquess Hotel e gli spiegò che cosa vi avrebbe trovato. «Ti ha telefonato il funzionario della banca di Damon», gli comunicò Janice, a conversazione conclusa. «Oh, davvero?» «Ha avuto il nulla osta del suo superiore. Se sul conto di Damon apparirà qualche addebito, te lo farà sapere.» «Finora nulla?»
«No.» «La sera in cui è scomparso, aveva ritirato un centinaio di sterline.» «Quanto può durare, una somma del genere, di questi tempi?» «Se dorme all'addiaccio, abbastanza.» «Ne stiamo parlando come se fosse un fuggiasco.» «Finché non verrà provato il contrario, dobbiamo considerarlo tale.» «Ma per quale motivo avrebbe dovuto...?» S'interruppe, sorrise. «Sempre le solite vecchie domande. Devi essere stufo di sentirle.» «L'unico che possa darci una spiegazione è Damon in persona. Per il momento, sbattere la testa contro il muro non serve a nulla.» Lo guardò. «Hai ragione, Johnny, come sempre.» Lui si strinse nelle spalle. «Mi fa piacere poter esserti d'aiuto.» Quando Janice ebbe finito di bere il suo caffè, usando le ultime sorsate per ingoiare due compresse di analgesico, Rebus le disse che sarebbero usciti insieme. «Dove andiamo?» gli chiese lei, guardandosi intorno in cerca della giacca. «A un concorso di bellezza», rispose lui. Poi le strizzò l'occhio. «Hai portato il costume da bagno?» «No.» «Non ha importanza, non potresti gareggiare comunque: sei troppo vecchia.» «Grazie mille.» «Aspetta e vedrai», replicò Rebus. Cary Oakes aveva con sé un ritaglio di giornale. Era di svariati anni prima e la carta aveva perso consistenza. Non lo tirava fuori spesso, per paura che gli si sbriciolasse tra le dita. Ma quel giorno, trattandosi di un'occasione speciale, o qualcosa del genere, mentre era nella caffetteria se lo tolse di tasca e lo rilesse. Parole sbiadite su una carta grigiastra. Un resoconto del suo processo e del verdetto finale, ritagliato da un tabloid inglese. E una frase piena di odio: «Dovevano condannarlo alla sedia elettrica». Una semplice, netta dichiarazione. Però lui non era finito in braccio alla friggitrice e ora eccolo lì, nella stessa città in cui viveva il tizio che desiderava vederlo sfrigolare. Mentre si sentiva di nuovo ribollire di rabbia, con mani un po' tremanti ripiegò il ritaglio, seguendo le linee consunte, e tornò a infilarselo in tasca. Un giorno, ormai non troppo lontano, avrebbe fatto ingoiare quelle parole a chi
sapeva lui. Si sarebbe seduto e li avrebbe osservati masticare, scorgendo nei loro occhi consapevolezza e terrore. E poi avrebbe spento la loro vita. Uscito dalla caffetteria, s'incamminò lungo i fianchi della collina, superando villette, seguendo stradine silenziose. Finché non giunse a destinazione. Fissò l'edificio. Lui era lì dentro. Oakes riusciva quasi ad avvertirne la presenza, in bocca e nelle narici. Forse era solo nella sua stanza, stava sonnecchiando o dormiva sodo. Magari era intento a leggere il giornale, per aggiornarsi sugli exploit di Cary Oakes. «A presto», disse Oakes tra sé, voltandosi per tornare sui propri passi, perché non voleva attirare l'attenzione. «A presto», ripeté, cominciando a ridiscendere la collina in direzione della città. L'albergo era un edificio in stile anni '30, nei pressi di un raccordo anulare all'estremità orientale di Edimburgo. «Somiglia al Rex, non ti pare?» disse Janice. Non aveva tutti i torti. Il Rex era, anni prima, uno dei tre cinema di Cardenden, appollaiato su un piccolo rialzo del terreno nella strada principale della cittadina. Quando Rebus era bambino, gli sembrava uno di quegli edifici governativi che si vedevano nei film ambientati al di là della Cortina di Ferro: minaccioso, tutto linee diritte e angoli retti. Quell'albergo era una versione allungata del Rex, come se qualcuno l'avesse afferrato ai due lati, tirando. Nel parcheggio tutti i posti erano occupati, perciò Rebus si comportò come altri prima di lui: montò con la Saab su un prato, col muso della vettura quasi infilato in un'aiuola fiorita. In mezzo all'atrio dell'albergo c'era un enorme cartello. Annunciava che le Our Little Angels si trovavano nella Devonshire Suite. Rebus e Janice attraversarono una doppia serie di porte e percorsero un corridoio, guidati da una vaga eco di battimani. Davanti alla porta della Devonshire Suite videro una donna grassoccia, in un tailleur color fucsia, seduta dietro un tavolino, sul quale era sparsa una mezza dozzina di targhette coi nomi. Lei chiese come si chiamassero. «Non siamo attesi», le rispose Rebus, tirando fuori il distintivo. Gli occhi della donna si dilatarono e rimasero sbarrati a fissare Rebus mentre, insieme con Janice, entrava nella stanza. A un'estremità del locale c'era un palcoscenico improvvisato, chiuso in fondo da tendaggi rosa e azzurri; sul davanti erano state disposte alcune fi-
le di sedie. Di lato a ogni fila e di fronte al palcoscenico erano allineati numerosi vasi di fiori. La stanza era piena a metà. Contro le pareti erano ammucchiati borse e soprabiti. Le madri erano intente a sistemare e agghindare le figlie. Era tutto uno spazzolare e acconciare capelli, rifinire il trucco, spianare abiti, riannodare nastri. Le figlie si guardavano intorno, studiando con aria nervosa (o, di tanto in tanto, con una punta di disprezzo) le rivali. Nessuna di loro doveva avere più di otto o nove anni. «Sembra una mostra canina», sussurrò Janice a Rebus. Un uomo davanti al microfono stava leggendo da un foglio, introducendo la successiva partecipante alla gara. «Molly viene da Burntisland, dove frequenta la locale scuola elementare. I suoi hobby sono trekking a cavallo e disegno di figurini di moda. Il vestito che indossa nella competizione odierna è stato ideato da lei.» Sollevò lo sguardo dal foglio per fissare il pubblico. «Che ne dite, eh, ragazze? La Chanel di domani. Vi prego, date il benvenuto a Molly.» La madre batté la mano sulla spalla della figlia e Molly, a passi esitanti, salì i tre gradini di legno che portavano sul palcoscenico. Il presentatore si chinò, col microfono in mano. Abbronzatura da lampada e parrucchino... o forse Rebus era semplicemente geloso. I membri della giuria, che occupavano la prima fila di sedie, cercarono di nascondere a qualche sguardo indiscreto i fogli coi voti. «Quanti anni hai, Molly?» «Sette e tre quarti.» «Sette e tre quarti? Sei sicura che non sia sette ottavi?» Il presentatore stava sorridendo, ma sul viso di Molly era apparsa un'espressione di panico, perché la bambina non sapeva come rispondere. «Non preoccuparti, tesoruccio», continuò il presentatore. «Dicci piuttosto qualcosa sul delizioso abito che indossi.» Rebus si guardò intorno. Il fondotinta sui visi infantili non ancora pronti a portarlo rendeva le bambine simili a clown. Le acconciature erano elaborate e troppo adulte per loro. Le madri, che ronzavano intorno alle bambine con aria inquieta e speranzosa, erano a loro volta pesantemente truccate e indossavano abiti vistosi; alcune avevano i capelli tinti e in qualche caso si capiva che erano passate sotto i ferri del chirurgo plastico. Nessuno prestava la minima attenzione a Rebus e Janice; oltre a loro, c'erano molte altre coppie. Ma quello, senza dubbio, era uno show per madri e figlie. Nessun segno di Ama Petrie. Rebus non aveva idea del ruolo che la ragazza avrebbe potuto sostenere in quello spettacolo. La voce al telefono
non aveva trovato il tempo per spiegarglielo. Ma d'un tratto vide due persone conosciute. Una era Hannah Margolies, coi lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle. Al funerale del padre era tutta vestita di pizzo bianco; ora indossava un abito color azzurro pallido, con collant bianchi e scarpe di vernice rossa. Tra i capelli aveva alcuni nastri azzurri e la bocca era un luccicante bottone cremisi. La madre, Katherine Margolies, era inginocchiata davanti a lei a impartirle le ultime istruzioni. Hannah non distoglieva lo sguardo da quello della madre e, di tanto in tanto, annuiva leggermente. Katherine le prese le mani e gliele strinse, poi si alzò. La vedova di Jim Margolies, che ai funerali del marito aveva mantenuto un comportamento molto composto, ora sembrava assai nervosa. Era ancora vestita a lutto: giacca e gonna nere, con una blusa di seta bianca. Lanciò un'occhiata al palcoscenico sul quale Molly, aiutata da un sottofondo musicale registrato, stava cantando Sailor, una canzone che Rebus collegò a Petula Clark. Janice, che si era accomodata su una sedia in fondo a una fila, si girò a guardare Rebus con occhi increduli. Quando lui si voltò di nuovo verso Hannah, vide che Katherine Margolies lo stava studiando, come se tentasse di ricordare in quale altra occasione l'avesse incontrato. Molly intanto aveva terminato la sua esibizione, rispondendo con un inchino agli applausi. Schizzò quasi dal palcoscenico, con un sorriso che rivelò denti molto spaziati tra loro. «La nostra prossima concorrente», stava dicendo il presentatore, «è Hannah, che vive proprio qui, a Edimburgo...» Dopo che Hannah ebbe raggiunto il palcoscenico, Rebus si avvicinò alla madre della piccola. «Salve, signora Margolies.» La donna si portò un dito alle labbra, l'attenzione tutta focalizzata sulla scena. Congiunse poi le mani, in un gesto simile a quello di una persona assorta in preghiera, mentre seguiva l'esibizione della figlia, contraendo la bocca quando il presentatore fece alla bambina quella che a lei parve una domanda infida. Alla fine cacciò una mano in una delle borse e si avvicinò al palcoscenico con un registratore e lo tese alla figlia con un sorriso. Senza accompagnamento, Hannah cantò un motivetto che Rebus sospettò fosse un brano di musica classica. L'aveva già sentito come jingle in qualche spot, ma non ricordava il prodotto in questione. Voltatosi a guardare Janice, Rebus notò che, seduta accanto a lei, c'era una coppia anziana, che seguiva lo spettacolo con occhi raggianti. I due si tenevano per mano. Il vecchio stringeva, in quella libera, un bastone da passeggio. Rebus li riconob-
be: erano i genitori di Jim Margolies. Alla fine, tra gli applausi, Hannah tornò dalla madre, che la baciò sui capelli. «Sei stata perfetta», disse Katherine Margolies. «Semplicemente perfetta.» «A un certo momento ho stonato.» «Non me ne sono accorta.» Hannah si girò verso Rebus. «Lei l'ha sentito?» Lui scosse la testa. «Mi è sembrato tutto giusto.» L'espressione di Hannah si rilassò leggermente. La bambina sussurrò qualcosa alla madre. «Va' pure.» Mentre Hannah si avviava verso i nonni, Katherine Margolies si alzò lentamente, seguendola con gli occhi. «Non siamo stati presentati ufficialmente, signora Margolies», disse Rebus, «ma ero presente ai funerali di Jim. Avevo lavorato con lui. Mi chiamo John Rebus.» La donna annuì distrattamente. «Lei penserà che io sia...» Esitò, cercando le parole giuste. «Cioè, Jim è morto da così poco tempo. Ma ho ritenuto che potesse essere un valido diversivo per Hannah.» «Certo.» «La morte del padre l'ha tanto sconvolta.» «Lo immagino.» Notò che nel frattempo la donna stava scrutando i membri della giuria e il pubblico in sala, quasi cercando un indizio per capire se Hannah avrebbe vinto. «Lei crede davvero che Jim sia caduto?» le chiese. Lo fissò. «Come?» «Tutti sembrano convinti che si sia trattato di un suicidio.» «Lasci che gli altri pensino ciò che vogliono», scattò. Poi tornò a fissare Rebus. «Vuole che io dica a Hannah che suo padre si è tolto deliberatamente la vita?» «No, ovviamente...» «Stava passeggiando, si è avvicinato troppo allo strapiombo. Era buio... forse una folata di vento improvvisa.» «È ciò che lei crede?» La donna non rispose. «Jim usciva spesso a passeggiare in piena notte?» «Per quale motivo le interessa?» Rebus chinò lo sguardo a fissare la moquette. «Per nessun motivo, a vo-
ler essere sinceri.» «Allora finiamola.» «È solo che stavo cercando di dare un senso alla sua morte.» Lei lo fissò di nuovo. «Perché?» «Per mettermi l'animo in pace.» Sostenne lo sguardo della donna. Katherine era molto bella. Capelli neri tirati indietro per mettere in evidenza l'ovale perfetto del viso. Sottili sopracciglia arcuate, zigomi ben disegnati. Gli occhi di Hannah erano azzurri, come quelli del padre, ma lei li aveva nocciola. «E anche perché», proseguì Rebus, «ho il sospetto che questa storia possa avere a che fare con Darren Rough.» «Chi è?» «Jim non gliene ha mai parlato?» Katherine scosse la testa, sospirò spazientita e girò di nuovo lo sguardo in direzione dei membri della giuria. Uno di loro stava parlando col presentatore, che aveva spento il microfono. Rebus ebbe l'impressione che la donna fosse sul punto di dirgli qualcosa. Ma, siccome restava in silenzio, azzardò un'altra domanda. «Jim non aveva preso la sua auto, vero?» «Come?» «Quella notte pioveva.» «Lei, quando ha intenzione di passeggiare, lo fa in macchina?» «Io non salirei mai sui Salisbury Crags durante un acquazzone, né di notte né di giorno.» «E allora? Jim invece l'ha fatto, o no?» «Be', sì... e non riesco ancora a capirne il motivo.» «Oh, signor Rebus, io ne ho già abbastanza di preoccupazioni, perciò, se mi vuoi scusare...» Si lanciò un'occhiata alle spalle e il suo volto s'illuminò. «Amanda, tesoro!» Una giovane donna era entrata nella stanza con la massima disinvoltura, ignorando completamente la segretaria seduta al tavolino. Avanzò spalancando le braccia, cariche di sacchetti, e strinse a sé Katherine Margolies. «Scusa il ritardo, Katy. Il traffico era micidiale. Dimmi che faccio ancora in tempo a vederla.» «Purtroppo no!» «Oh, cazzo!» A voce abbastanza alta da far voltare parecchie teste. Da oltre un metro di distanza, Rebus riusciva a sentire odore di sigarette e alcol. I sacchetti erano di negozi noti: Jenners, Cruise, Body Shop. «Come se
l'è cavata? Scommetto brillantemente...» Si guardò intorno. «Dov'è, adesso?» Hannah stava giusto tornando verso di loro, tenendo la nonna per mano, seguita dal nonno. Alla vista della nuova arrivata s'illuminò in viso. Amanda si accovacciò, spalancando di nuovo le braccia, e Hannah vi si rifugiò. «Attenta al suo trucco, Ama», l'avvisò Katherine Margolies. «Sembri un angelo», disse Amanda a Hannah. «Anche se gli angeli non mettono mai il rossetto.» Katherine Margolies stava guardando Rebus. «Mi scusi, ma credevo che il nostro colloquio fosse terminato.» Un modo gentile per liberarsi di lui. «È vero», ribatté Rebus. «Ma devo parlare con la signorina Petrie. Sono venuto qui apposta.» Amanda Petrie si rialzò. Indossava un miniabito nero aderente e una giacca di pelle, anch'essa nera, piena di chiusure lampo. Scarpe nere coi tacchi alti e gambe nude. Scrutò Rebus da capo a piedi. «A chi devo del denaro?» chiese. La sua attenzione si spostò sul dottor Margolies e consorte. «Ciao a entrambi.» Li baciò e abbracciò. «Come va la salute?» «Be', come al solito, cara», rispose la signora Margolies. «Hannah è stata splendida», disse il dottor Margolies. Poi, tendendo una mano a Rebus: «Non siamo stati presentati». «Ispettore Rebus», replicò lui, notando che a quelle parole il volto del vecchio s'incupiva. Ora Ama Petrie lo stava osservando attentamente. Lui sorrise. «Mi è capitato di essere scambiato per qualcosa di molto peggio del braccio armato di qualche strozzino», le disse. «Non potremmo bere qualcosa al bar?» Amanda Petrie, però, non era così stupida. Il pensiero di Rebus era stato: se la faccio bere ancora, si lascerà andare. Amanda invece aveva insistito per un tè e diversi bicchieri di succo d'arancia. Rebus, Janice e Ama Petrie: loro tre soltanto, seduti nel bar dell'albergo. Ama che si tirava una ciocca di capelli biondi dietro un orecchio. Rebus la guardava, consapevole di ciò che Janice stava pensando: poteva essere lei la bionda misteriosa? Lui era convinto di no: Amanda aveva una figura diversa, non era abbastanza alta, aveva le spalle più strette. Inoltre non riusciva a scorgere somiglianze tra la ragazza e il padre... Amanda giocherellava con una manica dell'abito, mentre i suoi occhi perlustravano il bar, alla ricerca di qualcuno che avesse l'aria più interes-
sante, più seducente o quantomeno nota. «Desidero tornare per quando la giuria pronuncerà il verdetto», ricordò a Rebus e Janice. «Hannah vincerà di sicuro.» «Perché ne è così convinta?» «Perché ha razza. Una cosa che non puoi dipingerti in faccia o attaccarti con la macchina per cucire.» «Lei ha mai cucito qualcosa?» chiese Rebus. L'attenzione della giovane donna tornò a focalizzarsi su di lui. «Ricamo ed economia domestica. Nella mia scuola volevano fare di noi tante piccole donne.» Sollevò i piedi, mettendosi a sedere con le gambe rannicchiate, e si accese una sigaretta. Poiché non le aveva offerte, Rebus estrasse ostentatamente il pacchetto, ne accese una per sé e ne offrì un'altra a Janice. «Scusate», disse Ama Petrie, porgendo loro il proprio pacchetto. Rebus fece un cenno di diniego con la sigaretta già accesa. «Come ha fatto a trovarmi?» chiese la ragazza. «Ho chiamato il suo numero di telefono.» «Probabilmente ha parlato con Nick.» Esalò il fumo dalla bocca. «È mio fratello. Sempre pronto a vendere la sorella al primo stronzo che passa.» Rebus fece finta di nulla. «Come mai conosce Hannah?» chiese. «Siamo cugine o qualcosa del genere. Secondo o terzo grado, sa come sono fatte le famiglie.» Rebus aveva sentito dire che Jim Margolies aveva sposato una donna «con parenti altolocati», ma non era al corrente dei legami familiari di Katherine col giudice Petrie. «Non che io abbia rapporti con la maggior parte della mia famiglia», continuò Ama Petrie, «ma Hannah è veramente adorabile, non pare anche a lei?» Aveva rivolto la domanda a Janice, che annuì. «Però non capisco tutte queste esibizioni», aggiunse poi. Ama parve dello stesso parere. «Sì, è vero, ma Katy le adora e credo che piacciano anche a Hannah.» «Tutte quelle madri...» mormorò Janice. «Spingere così le figlie.» «Sì, certo...» Ama picchiò la sigaretta contro il portacenere. «Ma che volete da me, esattamente?» Rebus le spiegò la situazione. Mentre parlava, l'attenzione di Ama prese a spostarsi su Janice. A un certo punto, la ragazza si piegò in avanti e le prese la mano, stringendogliela. «Povera cara.» Sul volto un'espressione da giornalista titolare di una rubrica per cuori infranti, da persona colpita solo per sentito dire dal trauma di una perdita. «Quella notte avevo effettiva-
mente organizzato una festa», convenne. «Non che me ne ricordi molto bene, perché avevo bevuto un po' troppo, c'era troppa gente... come sempre. La notizia gira, ci sono i soliti estranei che s'intrufolano. Non ci faccio caso, finché si tratta di persone interessanti, ma il proprietario dell'imbarcazione non vuole un sovraffollamento. Continua a chiedermi se conosco questo o quello, se sono davvero miei invitati.» Si scolò il secondo bicchiere di succo d'arancia. «Dio solo sa perché mi do tanto da fare.» «Perché si dà tanto da fare?» Un sorrisetto. «Perché è divertente, credo. E perché, mentre lo faccio, sono qualcuno.» Rifletté per qualche istante su quelle sue parole, poi con una spallucciata accantonò il pensiero, neanche fosse una giacca che non le andava bene. «Siete sicuri che sia intervenuto proprio alla mia festa?» «L'ultima volta in cui è stato visto era lì», replicò Janice. Rebus tirò fuori le foto: Damon da solo, Damon in compagnia della misteriosa bionda. Mentre Ama le guardava, chiese alla ragazza, come per inciso, se fosse mai stata da Gaitano's. «Non è quel locale che la gente chiama Guiser's?» Lui fece un cenno affermativo. «Sì, un paio di volte al massimo. Un mucchio di gentaglia sudaticcia e di smidollati lagnosi. Cambiano faccia al momento dell'happy hour, cercando l'evasione nei cessi.» Sorrise. «Non è roba che fa per me, temo.» Rese le fotografie a Rebus. «Mi dispiace, ma non mi dicono nulla.» «Neppure la donna?» Storse il naso. «Ha un po' l'aria della battona.» «Non potrebbe essere una che lei conosce?» «Ispettore!» Una risata di gola. «Così non restringe certo il campo. Io conosco tutti.» «Ma non mio figlio», intervenne Janice con voce dura. «No», ribatté Ama, assumendo un'espressione contrita. «Mi dispiace molto, ma non lo conosco.» Balzò in piedi. «È meglio che torni nella sala del concorso. Dovrebbero essere sul punto di comunicare i risultati.» Rebus e Janice la seguirono, ma si fermarono sulla soglia mentre venivano distribuiti i premi. Hannah era arrivata seconda. Quando fu annunciata la vincitrice, e questa si fece avanti per ricevere una scintillante tiara, tutti l'acclamarono e applaudirono. Tutti tranne Ama Petrie, che si rizzò in punta di piedi e cominciò a esprimere a gran voce, e mostrando il pollice verso, la propria disapprovazione nei confronti della vincitrice, una bambina dalla voluminosa capigliatura nera scintillante di lustrini. Katherine Margolies cercò d'impedire che Ama facesse tutta quella sce-
na, ma, a giudizio di Rebus, non ci mise un particolare impegno... «Dove diavolo sei stato?» Stevens trovò Cary Oakes nel bar, intento a bere succo d'arancia e a parlare col personale dell'albergo. «Ho camminato, ho meditato.» Oakes gli lanciò un'occhiata. «Volevo essere sicuro di non dimenticare qualcosa.» Stevens afferrò il bicchiere di Oakes. «Allora non dimenticare questo: stai bevendo il mio succo d'arancia, pagato col mio denaro. Abbiamo perso un'intera mattinata.» «Ti farò riguadagnare il tempo perduto.» Gli lanciò un bacio, sogghignò e strizzò l'occhio al barista. Poi si volse di nuovo verso Stevens. «Guardati, amico, tremi tutto e sei sudato. Ti sei messo in lista per il prossimo infarto? Devi prendertela comoda, Jim. Tirare meno la corda.» «Il mio direttore vuole materiale più scottante.» «Se anche tu gli dessi il nome dell'assassino di Kennedy, continuerebbe a dirti che desidera qualcosa di più. Tu e io lo sappiamo, Jim, che il materiale migliore dev'essere tenuto in serbo per il libro, non è così? Il libro che ci renderà entrambi ricchi.» «Ammesso che io trovi un editore.» «Succederà, fidati. Ora, siediti qui accanto a me e lascia che ti offra da bere. Accidenti, mi piace tirar fuori qualche soldo per un amico.» Pose un braccio sulle spalle di Stevens. «Ora sei con Cary, Jim. Fai parte della cerchia dei miei amici intimi. Non ti accadrà nulla di male.» Guardò il giornalista negli occhi e non mollò più quel contatto. «Puoi contarci», disse. «Te lo giuro.» «Lasciami a Haymarket», disse Janice. Erano rimontati in macchina e stavano tornando in città. «Sei sicura? Ti posso accompagnare...» La donna stava scuotendo la testa. «Ascolta, Janice, una pista come questa... c'era da prevedere che ci portasse in un vicolo cieco. Ci capiterà altre volte. Forse molte altre volte. Lo devi accettare.» Lei continuava a scuotere il capo. «Stavo pensando a tutte quelle bambine... Mi chiedo cosa diventeranno da grandi. Se avessi avuto una femmina...» «Era davvero uno spettacolo agghiacciante», convenne Rebus.
Janice si girò a guardarlo. «Ne sei convinto? L'ho pensato anch'io, sulle prime. Ma poi ho continuato a osservarle... ed erano così carine.» Prese un fazzoletto, si asciugò gli occhi. «Credo che farei meglio ad accompagnarti a casa», disse Rebus. «No, non voglio.» Esitò, gli appoggiò una mano sul braccio. «Cioè, scusa... Non voglio costringerti... Oh, Cristo, non so più nemmeno cosa voglio.» «Vuoi che Damon torni.» «Sì, questo sì.» «Che altro?» Janice sembrò ponderare quella domanda. Ma alla fine non gli diede risposte: si voltò semplicemente verso di lui e sorrise, gli occhi lucidi di pianto. «È strano, ma è come se non te ne fossi mai andato», disse infine. Rebus annuì. «È trascorsa soltanto una trentina d'anni. Cosa sono, tra amici?» Risero tutti e due; lui le sfiorò il dorso della mano. Parcheggiati davanti alla stazione di Haymarket, rimasero per qualche istante seduti in silenzio. Poi Janice aprì la portiera e scese. Gli sorrise un'ultima volta e si allontanò. Rebus restò fermo per un altro paio di minuti, immaginando di correre fino al binario, di cercarla in mezzo alla folla... Come in un film. La vita, quella vera, non era mai così. Nei film, non c'era nulla che non si potesse fare; nel mondo reale... nel mondo reale le situazioni erano sempre ingarbugliate. Tornò a Oxford Terrace. Patience non era a casa. Avevano superato lo stadio in cui si lasciavano un biglietto. Rebus restò a mollo nella vasca da bagno per una mezz'oretta, ciondolando dal sonno, risvegliandosi bruscamente ogni volta che il mento gli finiva nell'acqua. Immaginò il titolo sui giornali: poliziotto muore di stanchezza nella vasca. Una tragedia che sarebbe andata a genio a Jim Stevens. Si distese sul sofà, mise un po' di musica. Pete Hammill, Two or Three Spectres. Sapeva che erano lì, gli spettri, tutt'intorno a lui, comodamente sistemati. Più a loro agio di quanto sarebbe mai stato lui. Patience, Sammy, Janice... Tra Patience e lui stava per accadere qualcosa. Una crisi, forse, ma non sarebbe stata la prima volta. Stava però per verificarsi qualcosa anche tra Janice e lui? Qualcosa di molto diverso? Prese un libro, se lo mise aperto sugli occhi. Si addormentò.
21 Ama Petrie non era stata l'unica a ritenere che la bionda misteriosa avesse l'aria della «battona». Quella sera, nel dirigersi verso la Riva, Rebus decise di fare una piccola deviazione. Nella zona del porto era ancora possibile incontrare qualche passeggiatrice. Anche se la maggior parte delle prostitute della città esercitava il mestiere in luoghi legalmente autorizzati, nascondendosi dietro il paravento dei massaggi o delle saune, ce n'erano alcune che si arrischiavano a battere le strade, perché erano disperate o disposte a tutto (il che significava che erano tossicodipendenti) o perché amavano quella sorta d'indipendenza, nonostante i pericoli. A Glasgow, dove c'erano meno massaggiatrici e più battone, si erano registrati sette omicidi in altrettanti anni. Nella mente di Rebus frullavano vari pensieri: la zona delle passeggiatrici era Leith, la bionda aveva l'aria della «battona», il taxi aveva lasciato lei e Damon a Leith. Il che portava a formulare un'altra ipotesi. Ammettiamo che non fossero diretti al Clipper. Ammettiamo che stessero andando nell'alloggio della bionda. La stanza in cui lei abitava o, magari, quella di un albergo... Quella sera a Coburg Street c'erano soltanto tre donne, ma Rebus ne conosceva una. Fermò l'auto e la chiamò. Lei gli si sedette accanto, portandosi dietro una scia di profumo. «È da molto che non ti vedo», esordì. Si chiamava Fern. I clienti ritenevano che fosse un nome inventato, ma Rebus sapeva, dagli schedari della polizia, che all'anagrafe lei risultava come Fern Bogot. Sapeva pure che lavorava per strada perché voleva essere padrona di se stessa, diversamente dalle presunte massaggiatrici, le quali dovevano cedere una percentuale dei loro guadagni al proprietario della «casa». Aveva clienti fissi; raramente andava con estranei. Dava la preferenza ai gentiluomini di una certa età: li trovava meno aggressivi. La sua criniera di capelli rossi era una parrucca, pur sembrando abbastanza naturale. Rebus accese il motore e si avviò. Fern portava i suoi clienti in un terreno abbandonato dalle parti di Granton e, se lui non si fosse mosso, sarebbe stato chiaro che non era un cliente, cosa che avrebbe messo tutti a disagio. Guardando nello specchietto retrovisore, Rebus vide una delle due passeggiatrici rimaste lanciare un'occhiata all'auto, poi girarsi per scribacchiare qualcosa su un muro. «Che sta facendo?» chiese.
Fern si voltò a guardare. «Cara vecchia Lesley», disse. «Sta segnando il tuo numero di targa. Così, se dovessero ritrovarmi cadavere, la polizia avrebbe qualcosa da cui iniziare. La chiamiamo la nostra polizza assicurativa. Non si è mai troppo prudenti, al giorno d'oggi.» Rebus annuì, poi, continuando a guidare, fece alla donna una serie di domande. Fern studiò attentamente le foto, ma scosse la testa. «Nessuna così lavora da queste parti.» «E il ragazzo, ti dice qualcosa?» «No, mi dispiace.» Gli restituì le foto. Rebus in cambio le diede una delle fotocopie di Janice. «Non si sa mai», commentò. Quando la riportò al suo tratto di marciapiede, scese dalla macchina e andò a guardare il muro. Vide un'infinità di numeri di targa scarabocchiati uno di fila all'altro, la maggior parte nelle più disparate tonalità di rossetti, alcuni semicancellati dal tempo. Il suo era in fondo all'ultima colonna. Diede un'occhiata ai precedenti e d'un tratto aggrottò la fronte: in cima c'era un numero che gli pareva di riconoscere. Dove poteva averlo visto? Poi, di colpo, ricordò: in un dossier nella stazione di polizia di Leith. Leith: era lì che lavorava Jim Margolies. Quella targa era citata negli incartamenti sul suicidio di Jim. Era quella della sua auto. «Che c'è?» chiese Fern. Rebus batté un dito sul muro. «Questa targa. Appartiene a un tale di nome Jim. Un poliziotto.» Fern si accigliò, cercando di far mente locale, poi si strinse nelle spalle. «Non è uno dei miei clienti», disse. «Ma il rossetto è arancione.» «Allora?» «Lesley ha un codice, un suo modo per segnalare chi di noi è salita in quella particolare auto.» «E a chi corrisponde il rossetto arancione?» Fern scosse la testa. «Non si tratta tanto di chi, ma di cosa. L'arancione significa che, chiunque fosse il cliente, gli piaceva la carne giovane...» Ad aspettare Rebus sulla Riva non c'era soltanto Roy Frazer. Seduto in macchina accanto a lui c'era il Caporale. «Ci controlla, signore?» disse Rebus, sistemandosi sul sedile posteriore. Mentre lui montava, Frazer scese, chiudendosi la portiera alle spalle. «Dove diavolo sei stato?» chiese il Caporale. «Ho perso mezza giornata
senza riuscire a rintracciarti.» Gli tese gli appunti sulla sorveglianza diurna. «Prima frase», ringhiò. Rebus lesse. Bill Pryde segnalava di aver dato il cambio a Rebus e di essere entrato in servizio alle 06.00. Subito dopo c'era l'annotazione: «Cary Oakes è entrato in albergo alle 07.45». «Il che significa», disse il Caporale, «che a una cert'ora era uscito dall'albergo, senza che uno di voi se ne accorgesse.» «Ho visto la luce nella sua stanza spegnersi», ribatté Rebus. «Già, l'hai vista. È scritto nel verbale.» «Questo vuol dire che se l'è filata di nascosto dall'albergo durante il mio turno di guardia?» Rebus si conficcò le unghie nei palmi delle mani. «O durante la prima ora di quello di Bill Pryde.» «Entrambe le ipotesi sono possibili. Noi teniamo d'occhio solo la parte anteriore dell'albergo. Sul retro le porte sono molte.» Il Caporale si voltò a guardarlo. «Il nostro problema non sono le porte, John. Il nostro problema è che, a quanto pare, Oakes riesce a sgattaiolare via quando e come gli va.» «Sì, signore. Ma la sorveglianza di un singolo...» «È maledettamente inutile se non riusciamo a tenerlo d'occhio.» «Credevo che lo scopo fosse metterlo in allarme, fargli capire che potevamo complicargli la vita.» «E ti pare che ci stiamo riuscendo, ispettore?» «No, signore», ammise Rebus. «Però, se ha trovato il modo di svignarsela senza farsi vedere, perché non rientrare dalla stessa parte?» «Perché le porte sul retro possono essere aperte soltanto dall'interno.» «È una possibilità, signore.» «Ce n'è un'altra?» «È possibile che stia giocando con noi, divertendosi alle nostre spalle. Oakes vuole metterci al corrente di quello che sta facendo.» «E cos'ha fatto, in tutto il tempo in cui è stato fuori a gironzolare?» Rebus scosse la testa. «Non lo so, signore. Perché non glielo chiediamo?» Dopo che Frazer e il Caporale se ne furono andati, Rebus decise di mettere in atto il suo stesso suggerimento. Trovò Cary Oakes al bar; di Jim Stevens, neppure l'ombra. Oakes, seduto su uno sgabello, stava chiacchierando coi due baristi. Ai tavolini c'erano altri clienti, che avevano tutta l'aria di essere uomini d'affari, di quelli che discutono di lavoro anche ubria-
chi. Oakes fece cenno a Rebus di raggiungerlo e gli chiese cosa voleva bere. «Whisky», rispose Rebus. «Di malto.» «Prendi quello che ti pare, tanto paga il signor Stevens.» Oakes si lasciò sfuggire una risatina, il mento incassato nel collo. Sembrava alticcio, ma Rebus vide che stava bevendo Coca-Cola. «Vuoi anche qualcosa da mangiare?» Rebus fece segno di no. «E quello che ordino lo pago di tasca mia», disse. Dietro il bancone del bar la scelta era abbondante. Rebus decise di prendere qualcosa di forte: Laphroaig, con un goccio d'acqua per smorzare le fiamme. Cary Oakes tentò di mettere tutto in conto, ma l'ispettore si oppose fermamente. «Alla tua salute, allora», esclamò Oakes, sollevando il bicchiere. «Ti piace giocare, eh?» chiese Rebus. «In prigione non c'era molto altro da fare. Ho imparato gli scacchi.» «Non intendevo parlare di giochi da tavolo.» «Di cosa, allora?» Gli occhi di Oakes erano socchiusi. «Be', in questo momento stai giocando.» «Davvero?» «Giochi a fare l'intrattenitore da bar. Uno scherzetto, raccontare storielle a chiunque stia ad ascoltarti.» Indicò i baristi che si erano spostati all'altra estremità del banco a sciacquare i bicchieri. «Un'altra messinscena.» «Con argomenti del genere potresti diventare un personaggio televisivo. Davvero, parlo seriamente. Sei così furbo. Immagino che sia una dote indispensabile, per uno che fa il tuo mestiere.» «Jim Stevens sta abboccando?» «A cosa?» «Alle palle che gli racconti. Quale verità gli stai confessando?» Oakes strinse le palpebre. «Quale verità credi che sarebbe in grado di accettare? Se scendessi nei dettagli, pensi che il suo giornale li pubblicherebbe?» Scosse lentamente la testa. «La gente può accogliere solo una porzione limitata di verità, John.» Si chinò verso Rebus. «Vuoi che lo racconti a te, John? Vuoi che ti confessi quanti ne ho uccisi davvero?» «Parlami di Deirdre Campbell.» Oakes tornò a raddrizzarsi, bevve un sorso. «Alan Archibald è convinto che l'abbia uccisa io.» «E l'hai fatto?» Rebus tentò di rivolgergli quella domanda senza forzare
troppo la mano, mentre si portava il bicchiere alle labbra. «Ha qualche importanza?» Oakes sorrise. «Interessa ad Alan, no? Perché altrimenti si sarebbe precipitato qui, quando gli ho telefonato?» «Desidera conoscere la verità... completa.» «Forse hai ragione. E tu, John, cosa desideri? Che cos'ha spinto te a venire qui di corsa? Vuoi che te lo dica?» Si mise comodo sullo sgabello. «Il poliziotto di turno al mattino mi ha visto rientrare. Non ero sicuro che fosse sveglio: braccia conserte, testa reclinata su una spalla. Ho pensato che si fosse assopito.» Fece schioccare la lingua. «Non sono sicuro che ce la metta tutta. Nel lavoro, voglio dire, nel suo lavoro d'investigatore. Sembra il tipo che pensa soltanto a quando andrà in pensione.» Parole che definivano perfettamente Bill Pryde, anche se Rebus non l'avrebbe mai ammesso. «E ho l'impressione che pure tu abbia qualche problema col lavoro, anche se d'altro tipo.» «In cella hai studiato psicologia oltre che gli scacchi?» «Quando sono rimasto senza libri da leggere, ho cominciato a leggere le persone.» «Hai ucciso Deirdre Campbell, vero?» Oakes si portò un dito alle labbra. Poi: «E tu, hai ucciso Gordon Reeve?» Gordon Reeve, un altro fantasma: un fatto avvenuto tanti anni prima... Stevens doveva aver parlato a ruota libera. «Dimmi», ribatté Rebus, «hai fatto un patto con Stevens? Tu gli racconti una storia e lui in cambio te ne racconta un'altra?» «M'interesso a te, tutto qui.» «Allora saprai che l'ho ucciso, Gordon Reeve.» «Intenzionalmente?» «No.» «Ne sei sicuro? Hai accoltellato un trafficante di droga... ed è morto.» «Autodifesa.» «Sì, ma lo volevi morto?» «Parliamo di te, Oakes. Che cosa ti ha spinto ad accanirti proprio su Deirdre Campbell?» Oakes si lasciò sfuggire un altro sorriso beffardo. Rebus avrebbe voluto strappargli le labbra. «Vedi, John? Lo vedi com'è facile giocare questa partita? Vecchie storie, ecco cosa sono. Roba che risale al passato, che ci piacerebbe credere di poter dimenticare.» Scese dallo sgabello. «Ora me ne
vado in camera. Mi farò un bel bagno caldo, poi, forse, mi guarderò un film. Più tardi ordinerò un panino. Vuoi che ti faccia portare qualcosa in macchina?» «Non lo so. Che cosa prevede il menu?» «Nessun menu, puoi ordinare ciò che ti pare.» «Allora vorrei la tua testa su un piatto, anche senza contorno.» Quando uscì dal bar, Cary Oakes stava ridendo. Nell'auto c'era qualcuno. Rebus si piegò in avanti e vide che quel qualcuno occupava il sedile del passeggero. Quando fu più vicino, capì che si trattava di Alan Archibald. Aprì la portiera dalla parte del guidatore e si sedette in macchina. «Non era chiusa a chiave», gli disse Archibald. «No.» «Ho pensato che non te la saresti presa.» Rebus si strinse nelle spalle e si accese una sigaretta. «Gli hai parlato? Che ti ha detto?» «Sta giocando con te, Alan. Tutto qui.» «Te l'ha detto lui?» «Non ce n'era bisogno. È quello che sta facendo. Stevens, tu, io... noi siamo i suoi giocattoli.» «Qui ti sbagli, John. Io l'ho visto, in che modo si diverte.» Si piegò verso il pavimento dell'auto, sollevò una cartelletta verde. «Ho pensato che ti sarebbe piaciuto avere qualcosa da leggere.» Il dossier di Alan Archibald su Cary Dennis Oakes. Cary Oakes era entrato negli Stati Uniti con un visto turistico. Le notizie biografiche relative al periodo precedente al viaggio oltreoceano erano scarse: un padre deceduto quando lui era ancora in giovane età; una madre con disturbi di tipo psichiatrico. Cary era nato a Nairn, dove il padre lavorava come addetto alla manutenzione del manto erboso in uno dei golf club locali, mentre la madre faceva la cameriera in un albergo cittadino. Rebus conosceva Nairn: una località marittima spazzata dal vento, il genere di centro turistico che aveva perso ogni attrattiva non appena era iniziata l'epoca delle vacanze all'estero a prezzi stracciati. Quando il padre di Oakes era morto di un colpo apoplettico, la madre aveva avuto un grave esaurimento nervoso. I suoi datori di lavoro l'avevano licenziata e la donna si era diretta a sud col figlio, fermandosi infine a
Edimburgo, dove viveva una sua sorellastra. Le due non erano mai state particolarmente unite, ma non c'era nessun altro a cui fare capo, nessun'altra famiglia, così madre e figlio erano stati sistemati alla meno peggio in una stanza della casa di Gilmerton. Quasi subito, Cary aveva cominciato a scappare. La sua scuola aveva informato la madre che la presenza in classe del ragazzo era a dir poco saltuaria. Qualche notte e qualche week-end Cary non rientrava neanche a casa. La madre non se ne curava e la sorellastra di lei era ben contenta che il ragazzo girasse al largo, perché suo marito non lo poteva vedere. Dove aveva trovato il denaro per quel viaggio negli Stati Uniti? Alan Archibald, dopo scrupolose indagini, aveva portato alla luce una serie di aggressioni e furti con scasso avvenuti a Edimburgo e rimasti irrisolti, che erano bruscamente diminuiti dal momento in cui Cary Oakes era partito per gli Stati Uniti. Il mistero dell'assassinio della nipote riempiva un dossier a parte. Archibald aveva interrogato la madre e la zia di Oakes (nel frattempo decedute entrambe) e il marito di quest'ultima (ancora vivo: si trovava in una casa di riposo a East Craigs). Nessuno dei tre aveva ricordato qualche avvenimento che riguardasse specificatamente la notte dell'omicidio e non erano stati neanche in grado di dire se quel giorno, o quello successivo, Cary si fosse fatto vedere dalle parti di casa sua. Deirdre Campbell era andata a ballare in città e a una cert'ora era finita in un locale all'angolo di Rose Street (a meno di un centinaio di metri da dove si trovava Gaitano's). Era stata avvicinata da un giovane e aveva fatto con lui gli ultimi quattro o cinque balli. L'aveva anche presentato agli amici. La ragazza in quel periodo stava studiando per sostenere alcuni esami, perciò, in primo luogo, non avrebbe dovuto trovarsi in un locale notturno. Che, tra l'altro, poteva accogliere soltanto clienti che avessero compiuto ventun anni, mentre Deirdre ne aveva meno. Il proprietario in seguito era finito nei guai; si era difeso dicendo: «Se la ragazza non fosse venuta qui, l'avrebbero fatta entrare da qualche altra parte». C'era in quelle parole qualcosa di vero: trucco, abiti e pettinatura di un certo tipo potevano aggiungere anche una dozzina d'anni a un'adolescente. Dopo il locale notturno, il gruppetto si era diretto verso Lothian Road, con l'intenzione di mantenere viva la serata il più a lungo possibile. Una pizza al ristorante, poi la ricerca di un taxi. Deirdre aveva detto che sarebbe tornata a casa a piedi. Abitava a Dalry e ci avrebbe messo soltanto una ventina di minuti. La polizia aveva interrogato il giovane che era stato con lei, quello con cui aveva ballato. Gli era stato chiesto se l'aveva accompagnata fino a casa,
ma lui aveva risposto di no. Viveva oltre Comiston, perciò aveva accettato un passaggio su uno dei taxi. Deirdre si era avviata a piedi verso casa. Solo per finire uccisa ai piedi di una collina. Con gli abiti scomposti, ma senza segni di violenza, di stupro. Aveva ricevuto un colpo in testa, poi era stata strangolata. Tre giorni dopo, Cary Oakes era partito dalla Scozia, con uno zaino e una sacca sportiva. Nella sua famiglia, nessuno sapeva che cosa avesse in mente. Le prime notizie ricevute su di lui erano state quelle del suo arresto, oltre due mesi dopo. Non si erano neppure preoccupati di rivolgersi alla polizia per segnalare la sua scomparsa. «Era grande abbastanza da decidere ciò che voleva fare», aveva detto lo zio ad Alan Archibald. «Aveva preso con sé qualche indumento e altra roba, perciò c'eravamo convinti che se ne fosse andato di casa.» Archibald si era servito dei rapporti di polizia e delle risultanze processuali per ricostruire gli spostamenti di Cary Oakes in America. Era partito da New York a bordo di un pullman che faceva servizio tra i vari Stati. Al processo, Oakes aveva sostenuto di aver preso quella decisione «perché era ciò che avevano fatto tutti i pionieri: andare a ovest». Aveva passato una settimana a Chicago, visitando la città a piedi o coi mezzi pubblici. Poi si era diretto a ovest facendo l'autostop e si era fermato a Minneapolis: lì aveva deciso che gli serviva altro denaro e aveva cercato di procurarselo con qualche aggressione. Un paio di successi di poco conto, e poi un pesante smacco: aveva tentato di rapinare una donna che aveva uno spray accecante nella tasca del soprabito e un micidiale gancio sinistro. Oakes aveva lasciato Minneapolis con l'occhio sinistro tumefatto e quello destro iniettato di sangue e pulsante. Aveva mangiato nei posti di ristoro per camionisti lungo la I-94, passando per Fargo e Billings, e, arrivato a Spokane, il suo bisogno di soldi si era fatto pressante. Aveva svaligiato un paio di case, tentando poi d'impegnare il misero bottino. Gli strozzini, avendo capito al volo che si trattava di refurtiva, gli avevano offerto pochi dollari, e, dopo che lui se n'era andato coprendoli d'insulti, avevano comunicato alla polizia i suoi connotati. Oakes aveva cominciato a dormire all'addiaccio, incontrando individui balzani quanto lui. Si era unito a una piccola banda dedita a furtarelli nei negozi. Col suo «buffo accento», attirava l'attenzione dei commessi, impegnandoli in qualche discorso e permettendo così ai soci di rubare indisturbati. Aveva già cominciato a vantarsi di avere la polizia alle calcagna per-
ché in Scozia aveva «fatto fuori» qualcuno. Nessun particolare, perciò quelle parole erano state prese come una spacconata. Tutti quelli che vivevano in strada si nascondevano dietro un paravento di menzogne e fantasie. Tutti avevano gustato la bella vita; tutti erano caduti da uno stato di grazia. A Spokane, Oakes aveva ucciso Dorothy Anne Wreiss, una quarantaduenne divorziata, maestra d'asilo per tre giorni alla settimana, che abitava in un quartiere periferico. Si era ipotizzato che Oakes l'avesse notata in un centro commerciale, seguendola poi fino a casa oppure setacciando la zona finché non aveva visto l'auto della donna parcheggiata nel vialetto. Dorothy era stata trovata in cucina, con la spesa ancora nei sacchetti sul tavolo. I suoi due gatti le si erano accoccolati sulla schiena e stavano dormendo. Era stata colpita con una pietra, poi strangolata con uno strofinaccio per i piatti. Il borsellino era stato svuotato, come la scatola dei gioielli in camera da letto. Il giorno seguente, Oakes aveva cercato d'impegnare l'orologio della donna. Al processo, aveva sostenuto di averlo avuto in regalo da uno dei suoi amici vagabondi, quello che veniva chiamato Otis. Ma nessuno di quelli che facevano parte del suo giro aveva mai sentito parlare di un certo Otis. Da Spokane, Oakes si era rapidamente trasferito a Seattle, rimanendovi per oltre una settimana. In città era stato commesso un delitto, che era rimasto irrisolto e che avevano cercato di attribuire a lui: un uomo era stato trovato agonizzante nel parcheggio del King Dome. Aveva ricevuto un colpo in testa e gli era stata rubata l'auto. Era morto in ospedale in seguito alle ferite riportate. La vettura era stata ritrovata a Ballard, dov'era stato contemporaneamente visto anche Cary Oakes. Ormai le forze di polizia di diversi Stati cominciavano a interessarsi al «vagabondo scozzese». A Chicago, oltre a un paio di gravi aggressioni, c'era stato il caso di un noto omosessuale ritrovato cadavere nella sua auto nel quartiere di La Grange. Una donna era stata aggredita e lasciata in fin di vita in un centro commerciale nei sobborghi di Bloomington, Minneapolis. Una settantottenne era deceduta dopo che qualcuno aveva fatto irruzione nella sua casa a Tacoma, Washington. A volte la polizia riusciva a ottenere la descrizione fisica di uno sconosciuto visto sulla scena del delitto o nelle immediate vicinanze; altre volte l'unico elemento che aveva in mano era il modus operandi. Niente impronte digitali significative, nessuna chiara identificazione di Cary Oakes.
L'ultimo omicidio: un altro omosessuale, Willis Chadaran, sessant'anni. L'aggressione era avvenuta nella stanza da letto padronale della sua casa, a Bellevue. Una pesante statuetta, che Chadaran aveva vinto nel 1982 per il montaggio di un documentario, era servita da arma. La vittima era stata messa fuori combattimento con un colpo, poi era stata uccisa con la cintura del suo yakuta di seta rossa. Sulla testiera del letto erano state trovate le impronte di Cary Oakes. Quand'era stato arrestato e messo di fronte a quella prova schiacciante, aveva riconosciuto di essersi introdotto in casa di Chadaran, ma negato di averlo ucciso. Gli agenti della squadra omicidi gli avevano chiesto come mai le sue impronte fossero state ritrovate sulla testiera. Oakes aveva risposto di essere entrato nella stanza alla ricerca di qualcosa da rubare, perciò doveva averla toccata in quel momento. Era stato casualmente fermato al Pike Place Market. I commercianti si erano lamentati perché aveva l'aria di voler rubacchiare qualcosa. La polizia gli aveva chiesto i documenti. Oakes aveva tirato fuori il passaporto, col visto turistico ormai scaduto, poi aveva tentato di fuggire. Riacciuffato dagli agenti, era stato portato in centrale, dove qualcuno l'aveva ricollegato ai vari identikit che erano stati diffusi in tutto il Paese. Al processo, l'arringa dell'accusa era stata sintetica. «Questo è un uomo per cui i più brutali delitti sono diventati un fatto normale, una banalità. Se ha bisogno di qualcosa, se vuole qualcosa, se desidera qualcosa... uccide per averlo. Ci vede tutti come vittime potenziali. Per lui non siamo esseri umani: ha smesso di pensare a noi in questi termini, termini grazie ai quali possiamo rendere la nostra società ordinata e reciprocamente utile, termini in mancanza dei quali non possiamo definirci individui civili. Il suo cuore si è ristretto, riducendosi alle dimensioni di una noce, forse anche meno. Signore e signori della giuria, Cary Oakes si è volontariamente estromesso dalla nostra società, dalle nostre leggi, dalla nostra civiltà, e deve pagarne il prezzo.» Il prezzo era stato valutato in due condanne all'ergastolo. Rebus posò il dossier. «Un mucchio di prove indiziarie», mormorò. «Ma puntano tutte nella stessa direzione. Sono più che sufficienti a incastrarlo.» «Però non mi meraviglia che sia riuscito a trovare qualche smagliatura nell'impianto accusatorio.» Batté la mano sulla cartelletta, ripensando all'arringa del pubblico ministero. «Pensa a quanto è grande un cuore, di solito...» Si voltò verso Archibald. «Sta giocando con noi.» «Questo lo so. La versione che il giornale di Jim Stevens sta pubblican-
do... Oakes li prende tutti in giro.» «Mi ha detto che una delle sue vittime aveva la stessa età di mia figlia. Il che non torna, se consideriamo quelle citate qui.» Alan Archibald si strinse nelle spalle. «Tua figlia è sui venticinque anni, Deirdre ne aveva diciotto.» Indugiò. «Forse ce ne sono altre di cui non sappiamo nulla.» Sì, pensò Rebus, o forse si trattava semplicemente di un'ennesima menzogna. «Allora, che cosa intendi fare?» chiese. «Stargli alle costole.» «Giocare con lui?» «Non è così che vedo la cosa.» «Lo so ed è proprio questo a preoccuparmi.» «Deirdre non era tua nipote.» Rebus fissò Alan Archibald negli occhi: vide coraggio e forza di carattere, le energie vitali che l'avevano sostenuto durante tutti gli anni di lavoro e che non potevano essere buttate a mare proprio in quel momento. «Come posso aiutarti?» «Cosa ti fa pensare che io abbia bisogno d'aiuto?» «Perché stasera sei tornato qui. Non per parlare con lui, ma per vedere me.» Alan Archibald sorrise. «So molte cose sul tuo conto, John. So che noi due non siamo tanto diversi.» «Allora, come posso aiutarti?» «Dammi una mano a costringerlo ad accompagnarmi a Hillend.» «Credi davvero che possa servire?» «Oakes è fuggito dopo quel delitto, John. È fuggito il più lontano possibile da quel ricordo. Riportarlo laggiù, farlo tornare sulla scena del suo primo omicidio... Credo che in lui risalirebbe a galla ogni cosa: il terrore, l'incertezza. Sono convinto che comincerebbe a vedere chiaramente dentro se stesso.» «Ed è quello che vogliamo?» Rebus stava pensando: Ucciderà di nuovo... «È quello che voglio io. Ho soltanto bisogno di sapere se avrò il tuo aiuto.» Rebus fece scorrere le mani sul volante. «Devo pensarci.» «Be', non metterci troppo. Ho la sensazione che questo, forse, potrebbe servire non soltanto a me, ma anche a te.» Rebus lo fissò.
«Non possiamo sempre vivere di sola fede», continuò Archibald. «Di tanto in tanto, ci dev'essere qualcos'altro.» 22 Un'ora dopo, Archibald se ne andò, dicendo che sarebbe tornato a casa in taxi. In tutto quel tempo aveva parlato della nipote, dei ricordi che ne aveva, di come tutti i parenti fossero rimasti sconvolti da quella tragica morte. «La famiglia si sfasciò», aveva detto, «ma così lentamente da darmi l'impressione che nessuno se ne stesse accorgendo. Credo che, ogni volta che c'incontravamo, tutti noi ci sentissimo colpevoli, come se i responsabili fossimo noi. Perché, durante le riunioni familiari, nella nostra mente c'era un solo pensiero, un unico argomento di conversazione possibile, ma quello non volevamo affrontarlo.» Aveva parlato anche del lavoro da lui fatto intorno a quel caso: le settimane passate a spulciare gli archivi della polizia, i mesi impiegati nel tentativo di ricostruire minuziosamente la storia di Cary Oakes, i viaggi negli Stati Uniti. «Dev'esserti costato molto», aveva commentato Rebus. «Ne valeva la pena, fino all'ultimo centesimo, John.» Rebus non aveva aggiunto che si riferiva a qualcosa di diverso dal denaro. Sapeva bene cosa fosse un'ossessione, come potesse derubarti di tutto. Un anno, quando Sammy era ancora una bambina, come regalo di Natale lui aveva ricevuto un puzzle. Aveva subito liberato il piano di un tavolo, cominciando a giocare; aveva continuato sino a notte fonda, anche se conosceva il disegno finale. Lo conosceva perché era riprodotto sul coperchio della scatola, ma lui cercava di non guardarlo, perché voleva ricomporre il puzzle senza aiuto. Alla fine gli era mancato un pezzo. Aveva chiesto a Rhona, aveva interrogato Sammy: l'aveva preso lei? Rhona gli aveva detto che forse mancava fin dall'inizio, che non c'era mai stato, ma lui non poteva accettare una risposta del genere. Aveva tolto le fodere al divano e alle poltrone, sollevato la moquette, perlustrato minuziosamente la stanza e poi tutto il resto dell'appartamento... casomai Sammy l'avesse davvero nascosto da qualche parte. Il pezzo non era mai saltato fuori. E, persino a distanza di alcuni anni, si era ritrovato a chiedersi se non fosse magari scivolato in mezzo a due listelli del pavimento o sotto il battiscopa...
Il lavoro d'investigazione poteva ossessionarti allo stesso modo, se non ci mettevi un freno. Casi irrisolti; domande assillanti; individui sulla cui colpevolezza non avevi il minimo dubbio, ma che non potevi incriminare... Tutte situazioni che Rebus aveva dovuto affrontare in misura maggiore del normale. Però alla fine se le era buttate alle spalle, anche se ciò aveva significato annegarle nell'alcol. Alan Archibald sembrava incapace di dimenticare Cary Oakes. Rebus aveva l'impressione che, se anche fosse stata dimostrata l'innocenza di quell'uomo, Archibald avrebbe continuato a ritenerlo colpevole. Era un aspetto della natura stessa dell'ossessione. Solo coi suoi pensieri, Rebus infilò la mano in tasca, alla ricerca della sua bottiglietta da un quarto di litro, e la scolò completamente. Dimostrata l'innocenza... Gli venne in mente Darren Rough, tremante di paura, rintanato nel gabinetto chiuso a chiave. E tutto perché l'assistente sociale l'aveva sistemato in un appartamento che dava su un campo giochi. E perché John Rebus aveva gettato sulle spalle di Rough i peccati altrui: i peccati di uomini che avevano a loro volta abusato di quel giovane. Si fregò gli occhi. Non era inconsueto che avvertisse il peso della colpa. Non poteva dimenticare la morte di Jack Morton. Però c'era qualcosa di mutato. Ai vecchi tempi, non avrebbe rimuginato tanto su Darren Rough. Si sarebbe detto che Rough meritava quello che gli stava accadendo, a causa di ciò che era (e lo era, incontestabilmente). Ma se tornava indietro negli anni... al poliziotto che era stato un tempo, tanto tempo prima, quel poliziotto non avrebbe mai dato in pasto ai giornali scandalistici la storia di Rough. Forse Mairie Henderson aveva ragione: Credo che dentro di te si sia guastato qualcosa. Ammirava l'ostinazione di Alan Archibald, ma si chiese cosa sarebbe accaduto se fosse saltato fuori che si era sbagliato. Avrebbe perseguitato ancora Cary Oakes? Avrebbe travalicato i limiti della semplice caccia all'uomo? Rebus fissò la notte stellata. Quaggiù è tutto molto incasinato, non ti pare, Signore? Si chiese a cosa esattamente servisse quella sorveglianza. Apparentemente, Oakes la usava a proprio vantaggio, andando e tornando come gli pareva, lasciando intendere che poteva farlo. In modo che tutti i loro sforzi sembrassero una pura perdita di tempo. Chiuse gli occhi, ascoltando i saltuari comunicati sulle frequenze radio della polizia, coi pensieri che continuavano a focalizzarsi su Damon Mee. La pista del locale galleggiante sembrava aver portato in un altro vicolo cieco. Damon era sparito dalla faccia della terra, aveva cancellato la propria esistenza. Da quei pen-
sieri su Damon la sua mente scivolò fino a Janice e, da lì, agli ultimi anni di liceo, quando nella vita di Rebus le cose avevano appena cominciato a ingarbugliarsi. Un giorno Alec Chisholm era scomparso; non l'avevano più ritrovato. Rebus era andato al ballo dell'ultimo anno di liceo, con l'intenzione di dire una certa cosa a Mitch. Poi Janice l'aveva messo fuori combattimento, una banda di piccoli teppisti se l'era presa con Mitch e di colpo l'intera esistenza di Rebus aveva imboccato una strada da cui non si tornava indietro... Un rumore lo distolse dalle sue fantasticherie. Gli sembrò che provenisse dal retro dell'albergo. Decise di dare un'occhiata. Il parcheggio e le entrate di servizio erano completamente al buio, ma lui illuminò la zona con la sua torcia elettrica. Guardò, in alto, le finestre dell'albergo. Alcune erano ancora illuminate: evidentemente corrispondevano ai corridoi. Una era aperta, le tendine svolazzavano. Rebus mosse la torcia disegnando un arco verso il basso e il fascio di luce atterrò sul tetto di un garage chiuso, uno di una fila di tre. Un muro li separava dalla zona che correva intorno all'albergo. Rebus si sollevò e montò sul tetto. Uno stretto vicolo, il terreno cosparso di pozzanghere e rifiuti. Nessun segno di vita, ma, nel fango, alcune impronte. Rebus seguì la stradina, che lo portò verso il retro di una fabbrica e dei relativi uffici, per sfociare infine in un'animata arteria, Bernard Street, dove le auto dei nottambuli e i taxi procedevano lentamente a causa dei semafori. C'erano anche alcuni ubriachi che si dirigevano verso casa, con un'andatura barcollante. Un uomo si stava esibendo in elaborati passi di danza, provvedendo da sé all'accompagnamento musicale. La donna che era con lui sembrava trovarlo esilarante. Come i Can, quando cantavano Tango Whiskyman. Non c'erano segni di Cary Oakes, nessuna traccia, seppur minima, però Rebus aveva l'impressione che non fosse lontano. Tornò sui propri passi, si fermò accanto a un cassonetto dei rifiuti sistemato di fronte agli ingressi di servizio dell'albergo, si tolse di tasca la bottiglietta vuota e ve la gettò dentro. Sentì la testa proiettarsi in avanti sotto un violento colpo sferratogli da dietro. Per il dolore lancinante, chiuse gli occhi. Alzò una mano, si girò leggermente. Un secondo colpo gli fece perdere i sensi. Era buio pesto e, quando si mosse, sentì una sorda eco metallica. E un tanfo.
Era disteso su qualcosa di soffice. Voci sopra di lui, poi una luce accecante. «Ma guarda un po'!» Una seconda voce, divertita: «Sta facendo un pisolino, signore?» Rebus si riparò gli occhi, poi sbirciò in alto, oltre una parete liscia. In cima, due teste chine verso di lui. Si mise in ginocchio, barcollò mentre cercava di alzarsi in piedi. Aveva il formicolio alle mani, nel cranio un dolore pulsante. Si trovava... ormai aveva capito dov'era. In un cassonetto dei rifiuti, quello dietro l'albergo. Sentì, sotto di sé, contenitori di cartone umidi e chissà cos'altro. Alcune mani lo stavano aiutando a mettersi in piedi. «Su, venga, signore. Lasci che...» La voce si spense quando la torcia inquadrò di nuovo la faccia di Rebus. Due uomini in uniforme, probabilmente poliziotti della centrale di Leith. E uno l'aveva riconosciuto. «Ispettore Rebus?» Rebus: con gli abiti in disordine, il fiato che sapeva di whisky, costretto a ricorrere all'aiuto altrui per uscire da un cassonetto. Mentre avrebbe dovuto sorvegliare un delinquente. Rebus si rese conto di come potesse apparire la situazione agli occhi degli estranei. «Cristo, signore, che cosa le è accaduto?» «Figliolo, abbassa quella luce.» I volti dei due poliziotti gli apparivano come ombre, non c'era modo di capire se li conosceva. Chiese che ore fossero, calcolò che doveva essere rimasto privo di sensi dieci minuti o un quarto d'ora al massimo. «Abbiamo ricevuto una telefonata da una cabina pubblica di Bernard Street», stava spiegando uno degli agenti. «Ci è stato detto che sul retro dell'albergo era in corso una rissa.» Rebus si tastò la nuca: sul palmo della mano non vide tracce di sangue. Si fregò le dita. A toccarle, gli facevano male. Le sollevò nel fascio di luce. Uno dei poliziotti emise un fischio. Le nocche erano scorticate e piene di lividi, due delle giunture tumefatte e dolenti. «Deve averlo conciato per le feste, chiunque fosse», commentò l'agente. Rebus esaminò le escoriazioni. Sembrava quasi che avesse preso a pugni il cemento. «Non ho colpito nessuno», ribatté. I poliziotti si scambiarono un'occhiata. «Se lo dice lei, signore.» «Immagino che sarebbe volere troppo se vi pregassi di tenere per voi
questa storia.» «Non ci lasceremo sfuggire neppure una parola, signore.» Una bugia bell'e buona; mai chiedere favori alla gente in uniforme. «C'è altro che possiamo fare, signore?» Lui cominciò a scuotere la testa e avvertì un'ondata di nausea, oltre a fitte lancinanti. Si puntellò con una mano al cassonetto. «La mia auto è dietro l'angolo», rispose, con un fil di voce. «Dovrà farsi una doccia, appena tornato a casa.» «Grazie, Sherlock.» «Era un suggerimento, nient'altro», mormorò l'agente. Rebus s'incamminò lentamente intorno all'edificio. La receptionist sembrò sul punto di ricorrere all'aiuto della guardia giurata dell'albergo, ma poi Rebus tirò fuori il distintivo e le chiese di chiamare Oakes in camera. Non ci fu risposta. «Le manca qualcosa, signore?» Rebus stava guardando nel suo portafoglio. Le carte di credito c'erano ancora, ma il contante era sparito. «Ha idea di dove possa essere il signor Oakes?» chiese. La donna scosse la testa. «Non l'ho visto uscire dall'albergo.» Rebus la ringraziò e, avvicinatosi a un divano, vi si lasciò cadere pesantemente. Un attimo dopo, chiese un'aspirina. Quando gliela portò, la receptionist dovette scuotergli la spalla per svegliarlo. Si diresse verso la casa di Patience: al diavolo la sorveglianza. Oakes non era in camera sua, era fuori, da qualche parte. Aveva bisogno d'indumenti puliti, di una doccia, di un antidolorifico più potente. Mentre varcava barcollando la porta d'ingresso, apparve Patience, gli occhi assonnati. Lui tese entrambe le mani per calmarla. «Non è come pensi», mormorò. Patience si fece avanti, gli prese le mani, fissò le nocche gonfie. «Spiegami cos'è successo.» Rebus lo fece. Disteso nella vasca da bagno, si mise sulla parte posteriore del cranio una rudimentale borsa del ghiaccio. Gliel'aveva fabbricata Patience, con un sacchetto per i sandwich, qualche cubetto di ghiaccio e una benda. Intanto lei gli medicava le mani con una pomata antisettica, dopo averle pulite e aver accertato che non ci fosse nulla di rotto. «Quel tale, Oakes», gli disse, «non riesco ancora a capire perché l'abbia
fatto.» Rebus si sistemò meglio l'impacco ghiacciato. «Per umiliarmi. Si è assicurato che venissi ritrovato così dai poliziotti, privo di conoscenza in un cassonetto dei rifiuti...» «E allora?» «... con le nocche scorticate come se avessi fatto a pugni. E, con chiunque mi fossi scontrato, era stato lui ad avere la meglio. E, siccome il tutto è avvenuto sul retro dell'albergo, il responsabile può essere uno solo. Ora di domattina, la notizia sarà sulla bocca di tutti i poliziotti della città.» «Ma perché comportarsi così?» «Per farmi vedere che può farlo. E perché sennò?» Cercò di non sobbalzare mentre Patience gli spalmava la pomata su un taglio. «Bah», replicò lei. «Magari l'ha fatto per distrarti.» La guardò. «Da cosa?» Patience si strinse nelle spalle. «Sei tu il detective.» Esaminò il lavoro fatto. «Devo fasciarti le mani.» «Basta che io possa guidare.» «John...» Ma sapeva già che non le avrebbe dato retta. «Patience, se vado in giro con le mani che sembrano quelle di una mummia, questo round l'avrà vinto lui.» «No, se tu rifiuti di stare al suo gioco.» Vedendo nei suoi occhi una profonda preoccupazione, le carezzò la guancia col dorso della mano. Poi ricordò che Janice aveva fatto lo stesso con lui e ritrasse bruscamente la mano, con un senso di colpa. «Ti fa male, eh?» commentò Patience, equivocando. Lui fece cenno di sì, non fidandosi a risponderle a parole. Più tardi, si sedette sul divano, con una tazza di tè leggero. Aveva preso altri due analgesici, la dose massima. Gli abiti sporchi erano stati infilati in un sacco nero, pronti a essere mandati in tintoria. Peccato che i suoi pensieri non potessero essere stirati a vapore con altrettanta facilità. Quando il suo cellulare squillò, lo fissò con uno sguardo incattivito. L'apparecchio si trovava sul tavolino basso di fronte a lui, accanto alle chiavi e a qualche spicciolo. Finalmente si decise a prendere in mano il telefono. Patience era sulla soglia della stanza, con le labbra atteggiate a un leggero sorriso, ma con gli occhi seri. Aveva capito fin dall'inizio che lui avrebbe risposto. Cal Brady tornò da Guiser's di ottimo umore. Ma quell'euforia durò non
più di dieci secondi, perché, mentre s'infilava a letto, si rammentò del pervertito. La madre era in camera da letto con un uomo; le pareti erano così sottili da dargli l'impressione che i due stessero scopando proprio davanti a lui. Tutti gli appartamenti del caseggiato erano fatti in quel modo, perciò, se volevi combinare qualcosa senza che gli altri lo sapessero, dovevi muoverti nel più assoluto silenzio. Cal appoggiò l'orecchio a una parete, poi a un'altra: la madre e il suo amante; le voci di due stazioni televisive, segno che Jamie era ancora sveglio e stava guardando la televisione in salotto, mentre il portatile era in camera di Van, nell'inutile tentativo di mascherare altri rumori. Posò l'orecchio sul pavimento. Sentiva tutto ciò che succedeva al piano di sotto, i movimenti, i colpi di tosse, le conversazioni. Qualche tempo prima, Cal era andato da un medico, a chiedergli se non poteva essere che il suo udito fosse più sensibile del normale. «Continuo a sentire cose che non vorrei ascoltare.» Quando aveva spiegato che abitava in uno dei casermoni di Greenfield, il medico gli aveva suggerito di comprarsi uno stereo. Ma in strada gli accadeva lo stesso: udiva brani di conversazioni, parole che, a giudizio di chi le pronunciava, non dovevano arrivare alle sue orecchie. A volte gli pareva che la situazione stesse peggiorando, di essere ormai in grado di sentire il battito cardiaco delle persone che aveva accanto, il rapido fluire del sangue nelle loro vene. Era quasi convinto di poter percepire i loro pensieri. Come da Guiser's, dove le ragazze lo guardavano e lui sorrideva di rimando. Loro pensavano: Non sembra nulla di speciale, ma è con Archie Frost, perciò in un modo o nell'altro dev'essere un personaggio importante. Si dicevano: Se ballo con lui, se mi faccio offrire da bere, sarò più vicina al potere. Era quello il motivo per cui spesso Cal non faceva nulla, restava accanto al bancone del bar, simulando una fredda indifferenza e non aprendo bocca. Ascoltando, però, ascoltando sempre. Sentendo ogni volta qualche novità... Su Charmer, sui clienti: Ama Petrie, il fratello di lei e tutto il resto. Era quella la sua personale versione del potere. Quella sera, nel club, la calma era stata assoluta. Se non fosse stato per un gruppo di persone arrivate in pullman da Tranent, il locale sarebbe sembrato un mortorio, tant'è vero che non aveva fatto una grande impressione sui nuovi clienti, costretti a ballare tra loro perché non c'era praticamente nessun altro. Archie dubitava che ci avrebbero rimesso piede. Archie si stava già dando da fare per trovare un altro lavoro: in città, i locali
notturni erano parecchi. Cal invece non si era ancora guardato intorno, lui credeva nella lealtà. «Lo so che Charmer sta cercando di riscuotere qualche debito», aveva detto Archie, «ma il problema è che ne ha anche lui, di debiti. È solo questione di tempo, poi i creditori verranno a bussare alla nostra porta...» Cal aveva inarcato la schiena, come per dire: dovranno vedersela con me. Voleva rimuginare su tutte quelle cose, cacciarsele bene in testa, e proprio per quel motivo si era ritirato in camera, invece di sedersi in salotto con Jamie. Ma, un attimo prima di raggiungere il suo rifugio, i pensieri si erano rivolti a Darren Rough. L'atrio dell'edificio era pieno di cartelloni, appoggiati al muro, ancora odorosi di vernice fresca. Erano fatti con scatole di cartone spianate e sulla parte bianca erano stati scritti alcuni messaggi: ELIMINIAMO I MOSTRI; GIÙ LE MANI DAI NOSTRI RAGAZZI; DIVERTIAMOCI A IMPICCARE I PERVERTITI. Eliminiamo i mostri, stava pensando Cal, disteso sul letto a fumare una sigaretta. Si alzò di scatto, batté il pugno sulla parete opposta. «E piantatela, voi due, cazzo!» Silenzio, poi qualche risatina soffocata. Per un attimo, Cal fu sul punto di piombare nella loro stanza, ma sapeva cosa gli avrebbe fatto la madre. Inoltre, l'ultima cosa che desiderava era di vederla in quello stato. Eliminiamo i mostri. Il campanello della porta. Chi diavolo poteva essere, a quell'ora di notte? Cal andò a vedere. Riconobbe la donna. Aveva l'aria agitata, si fregava le mani come se stesse lavando i panni. «Non avete per caso visto il nostro Billy?» Era Joanna Horman, la madre di Billy, uno degli amici di Jamie. Cal chiamò il fratello e Jamie uscì dal salotto. «Hai visto Billy Boy?» gli chiese Cal. Jamie scosse la testa. Aveva in mano un pacchetto di patatine. Cal tornò a rivolgersi a Joanna Horman. Alcuni dei suoi amici sostenevano che era una gran figa, ma in quel momento era in uno stato da far paura. «Che c'è?» le chiese. «Verso le sette è uscito per andare a giocare e da allora non l'ho più visto. Mi sono detta che forse era andato dalla nonna, ma lei non ne ha visto neppure l'ombra.» «Sono appena rientrato. Aspetti.» Andò a bussare alla porta di Van: una scusa come un'altra per mettere fine a ciò che stava succedendo in quella
stanza. «Ehi, ma', stasera Billy Horman è venuto da queste parti?» Rumori indistinti al di là della porta. Intanto Joanna Horman si era appoggiata all'uscio, con l'aria di non reggersi in piedi. Niente male come fisico, decise Cal. Un po' troppo in carne, ma a lui non piacevano le donne tutte pelle e ossa. La porta della camera da letto di Vanessa venne aperta e lei uscì, abbottonandosi la vestaglia. Sotto, scommise tra sé Cal, non aveva nulla. Van si chiuse rapidamente la porta alle spalle; non ci fu modo di vedere chi fosse l'altra persona nella stanza. «Che succede, Joanna?» Passò accanto a Cal, ignorandolo completamente. «Si tratta di Billy, Van. È sparito.» «Oh, Cristo. Vieni, siediti in salotto.» «Non so cosa fare.» «Dove l'hai cercato?» Cal seguì le due donne in salotto. «Dappertutto. Forse sarebbe il caso di chiamare la polizia.» Van sbuffò. «Oh, sì, li vedresti arrivare qui a razzo, i poliziotti! L'unica preoccupazione di quegli stronzi è proteggere i pervertiti...» La voce le si spense; per la prima volta Van guardò il figlio. Si conoscevano così bene che non c'era bisogno di parlare. «Joanna, tesoro», disse Van a bassa voce, «tu resta qui. Vado a raccogliere le truppe. Se il tuo Billy è da qualche parte nella zona, lo troveremo, sta' tranquilla.» Non era trascorsa neppure mezz'ora e già Van Brady aveva organizzato le squadre di ricerca. Le persone andavano da una porta all'altra, a fare domande, ad arruolare nuovi volontari. Jamie era stato mandato a letto, ma non dormiva. Nel salotto dei Brady era rimasta Joanna Horman, con un bicchiere di rum e Coca-Cola. Cal si era offerto di starle accanto. La donna era seduta sul divano, lui su una sedia. Non gli veniva in mente nulla da dire. Di solito non era così impacciato. Si accorse che il dolore della donna, quella sua prostrazione, lo eccitava. Ma provò vergogna per la propria reazione e sentì il cervello turbinargli, come succedeva sempre quando beveva troppo o si faceva di qualcosa. Balzò in piedi, spalancò la porta della camera di Jamie. «Alzati, tu, e bada alla mamma di Billy. Io devo uscire.» Poi aprì la porta principale e s'incamminò lungo il ballatoio. Scese le scale e si avviò nella notte. Dall'altra parte della strada c'erano alcuni box
chiusi. Di uno, lui aveva la chiave. Ci teneva un po' di roba. Apparteneva a Jerry Langham, ma Jerry stava scontando una pena a Saughton e prima di altri sei mesi non avrebbe neppure sentito l'odore della libertà condizionata. Nel box c'era la sua auto. Era una Mercedes degli anni '70, coi predellini arrugginiti e la carrozzeria color giallo senape, però Jerry l'amava alla follia. «Non tengo sottochiave la mia donna, ma guai al bastardo che si avvicina alla mia Mercedes.» Era un chiaro avvertimento: usa pure il box, tieni d'occhio la macchina, ma che non ti venga in mente di toccarla. Cal non aveva preso sottogamba quelle parole, anche se di tanto in tanto apriva la vettura e si sedeva al posto di guida, facendo finta di guidarla. Una volta aveva anche guardato nel baule, perciò ne conosceva il contenuto. Lo aprì anche stavolta, prese la tanica e la scosse. Era sicuro che fosse piena, ma si accorse che lo era solo a metà. Colpa dell'evaporazione o di qualcos'altro. Immaginò che potesse accadere, con la benzina. Su un ripiano trovò alcuni stracci intrisi di olio. Se li cacciò in tasca. Adesso era pronto. Ritornò verso casa, facendo due passi alla volta. Ormai aveva un obiettivo preciso. Dalla tanica arrivava un sommesso sciabordio: se chiudeva gli occhi, poteva quasi illudersi di essere in riva al mare. Si avvicinò furtivamente all'appartamento di Darren Rough. Sulla finestra c'erano assi inchiodate di fresco. I ragazzi si erano sbizzarriti con gli spray. Quella sera, prima di cercare altrove, i membri del GAP erano passati di lì: nessuna risposta, in casa non c'era anima viva. Cal stappò la tanica e la sollevò, per farne uscire un rivolo di benzina, che corse lungo tutta la finestra sbarrata fino a raggiungere la porta. Poi si tolse di tasca una palla di stracci e, dopo averla imbevuta di benzina, la infilò nella stretta fessura tra asse e muro. Ne sistemò un'altra e un'altra ancora. Lanciò oltre la balconata il recipiente vuoto, ma subito dopo bestemmiò tra sé: c'erano sopra le sue impronte. E, tra l'altro, Jerry avrebbe potuto rivolerla indietro. Sarebbe andato a recuperarla. Prese l'accendino, quello che Jamie gli aveva regalato per Natale. Jamie... Era per lui e per i suoi amici, per tutti i ragazzi come loro, che stava facendo quella cosa. Jamie era un tipo in gamba. Non gli piaceva andare a scuola, ma, dopotutto, a chi piace? Avrebbe potuto combinare qualcosa di buono in vita sua: un paio di volte, mentre era sbronzo, Cal aveva cercato di farglielo capire. Aveva l'impressione di non essersi spiegato bene, di a-
ver fatto la figura dell'invidioso. Forse lo era anche, invidioso, ma solo un po'. A un ragazzo come Jamie, il mondo avrebbe offerto di tutto. Cal guardò l'accendino. Un'altra cosa, a proposito del suo fratellino: rubava di nascosto nei negozi con l'abilità di un vero artista. 23 Quando Rebus arrivò a Greenfield, metà degli abitanti del quartiere era in strada a guardare l'incendio. Rebus conosceva uno dei pompieri, un certo Eddie Dickson, che lo salutò con un cenno del capo. Era in uniforme e montava la guardia all'autopompa. «Se mi allontano, piombano tutti qui.» Alludeva ai ragazzini della zona, intendendo che avrebbero fatto piazza pulita di ogni cosa su cui fossero riusciti a mettere le mani. «Nel venire qui ci siamo trovati la strada sbarrata.» «Da chi?» Dickson si strinse nelle spalle. «Sono sbucati di corsa dal buio. Mi sa che non ci volevano.» I poliziotti di St. Leonard stavano facendo del loro meglio per convincere gli spettatori a tornare a letto. «Nessuna vittima?» Dickson si strinse ancora nelle spalle. «Vuoi dire tra quelli che ci hanno bloccato la strada?» Rebus gli lanciò un'occhiata. «Voglio dire lassù.» Indicò l'appartamento di Darren Rough. «Quando siamo entrati, in casa non c'era nessuno.» «La porta era aperta?» Dickson scosse la testa. «Abbiamo dovuto sfondare a calci quello che ne restava. E stata una vendetta, secondo te?» «Non leggi i giornali?» «E quando ne ho il tempo, John?» «Un pedofilo.» Dickson annuì. «Ora ricordo. Un bel rogo gli sta bene, a un individuo del genere, eh?» Rebus lo lasciò a montare la guardia all'automezzo e si diresse verso Cragside Court. Il poliziotto nell'atrio lo avvisò di stare alla larga dagli ascensori. «Uno è fuori uso, l'altro è un cesso.»
Rebus avrebbe imboccato le scale comunque. Delle assi di legno che chiudevano la finestra di Rough non era rimasto altro che qualche mozzicone annerito, penzolante dai chiodi. Anche la porta era stata data alle fiamme. Il commissario Grant Hood era nel corridoio dell'appartamento. Rebus spalancò la porta del gabinetto: nessuno. «Il suo amico», disse Hood. Era giovane, scattante. Era anche un appassionato sostenitore dei Rangers di Glasgow, ma la perfezione non è di questo mondo. «Amico non direi...» ribatté Rebus. «Ma grazie per avermi avvisato.» Hood si strinse nelle spalle. «Ho pensato che le potesse interessare.» Fece un cenno col capo alle mani bendate dell'ispettore. «Ha avuto anche lei un incidente?» Rebus ignorò la domanda. «Non c'è la minima probabilità che questo sia stato un incidente, o sbaglio?» «Abbiamo trovato i resti di alcuni stracci nell'intelaiatura della finestra, tracce di benzina sul ballatoio...» «Nessuna traccia dell'inquilino?» Hood scosse la testa. «Qualche idea di chi possa essere stato?» «Da' un'occhiata intorno, Grant. Là fuori è il Selvaggio West. Potrebbe essere stato uno qualunque di loro.» Rebus aveva attraversato quel che restava della porta e si stava sporgendo dalla balconata. «Ma, se fossi in te, lo chiederei a Van Brady e al figlio maggiore.» Hood prese nota dei nomi. «Non credo proprio che il signor Rough tornerà da queste parti.» «No», replicò Rebus. E quello era sempre stato per lui il risultato da raggiungere. Ma, ora che si era arrivati al punto, si chiese perché provasse quella sensazione di schifo nei propri confronti... Gli tornò in mente ciò che aveva detto Jane Barbour: basso rischio di reiterazione del reato... violentato lui stesso da bambino... necessità di concedergli un'altra chance. Poi vide Cal Brady, in mezzo alla folla che cominciava a diradarsi. Era completamente vestito, sembrava che non fosse mai andato a letto. Rebus scese a pianterreno. Cal stava distribuendo gli adesivi GAP a chi ancora ne era sprovvisto, soprattutto alle donne coi soprabiti infilati sopra le camicie da notte. Cal li attaccava direttamente sul loro petto, con esagerata cortesia, il che faceva arrossire alcune, anche se erano tutt'altro che civettuole verginelle. «Tutto bene, Cal?» chiese Rebus. Il ragazzo si voltò a guardarlo, poi prese un adesivo e, tolta la linguetta
protettiva, glielo premette contro la giacca. «Spero che sia dalla nostra parte, ispettore.» «Prova con acqua e sapone, di solito fanno miracoli», ribatté Rebus. «Non ho fatto niente.» «Puzzi di benzina.» «Mi dichiaro non colpevole, vostro onore.» «Cerco sempre di non avere pregiudizi, Cal...» «Non mi pare proprio.» «... ma nel tuo caso sono disposto a fare un'eccezione.» Stava pensando: con chi aveva parlato, quel ragazzo? Chi gli aveva raccontato i fatti suoi? «Il commissario Hood verrà a rivolgerti qualche domanda. Sii gentile con lui.» «Ve lo metterei a tutti in quel posto.» «Credi di averlo abbastanza lungo?» Lo disse con un sorriso. Cal lo squadrò, con aria furibonda; poi si rilassò e scoppiò in una risata. «Lei è un pagliaccio. Torni al suo circo.» «E tu, Cal, cosa credi di essere? Il direttore del circo?» Rebus scosse la testa. «No, figliolo, sei pronto a esibirti per chiunque faccia schioccare la frusta.» Si girò. «Che si tratti di tua madre o di Charmer Mackenzie.» «Vale a dire?» «Lavori per lui, no?» «E a lei che gliene frega?» Rebus si limitò a rispondergli con una spallucciata e tornò all'auto. L'aveva parcheggiata accanto all'automezzo dei pompieri; non voleva ritrovarla a pezzi. «Ehi, John», lo apostrofò Eddie Dickson, «non sarà la cosa più bella del mondo?» «Che cosa?» «Quando costruiranno la sede del parlamento.» Roteò un braccio, puntandolo dietro di sé. «Proprio a due passi da qui.» Rebus alzò gli occhi e vide l'oscura sagoma dei Salisbury Crags. Ancora una volta gli parve di trovarsi in una sorta di canyon, tra pareti a strapiombo che impedivano qualsiasi fuga. Nel vano tentativo di scappare, ci si sarebbe ritrovati con le dita gonfie e sanguinanti. Oppure unte di pomata. Mentre Rebus stava flettendo le dita, arrivò Hood di corsa. «Abbiamo un problema, temo.» «Se non ne avessimo, sarebbe un miracolo.»
«È sparito un ragazzo. L'abbiamo saputo per caso, perché non avevano la minima intenzione di dircelo.» L'ispettore assunse un'aria pensierosa. «Chi è stato a cantare?» «Ero andato a casa di Van Brady. La porta era aperta e in sala si trovava una giovane donna.» Controllò sul suo taccuino. «Si chiama Joanna Horman. Il nome del ragazzo è Billy.» Rebus ricordò la sua prima visita a Greenfield, Van Brady che si sporgeva dalla finestra: Ti ho visto, Billy Horman! Non riusciva a visualizzare il ragazzino, rammentava solo che stava giocando con Jamie Brady. «Ora sappiamo perché hanno appiccato il fuoco a quell'appartamento», continuò Hood. «Una brillante deduzione, Grant. La cosa migliore, forse, è andare a parlare con la signora in questione.» «La madre del ragazzo?» Rebus scosse la testa. «Van Brady.» Una volta aperti i negoziati con Van Brady e scelta, quale poco promettente sede di quel summit ad altissimo livello, la sua cucina, Rebus chiese rinforzi. Bisognava organizzare altre squadre di ricerca, alle quali avrebbero partecipato, fianco a fianco, poliziotti e residenti. «Questo è terreno vostro», aveva dovuto ammettere l'ispettore, mentre ingoiava altre compresse analgesiche con una tazza di scadente caffè di cicoria. «Voi conoscete la zona molto meglio di tutti noi: ogni nascondiglio, ogni punto di riunione dei ragazzini, ogni angolo che offre riparo per la notte. Se la madre di Billy ci dà un elenco dei compagni di scuola del figlio, possiamo metterci in contatto coi genitori, e verificare se per caso il ragazzo non è andato da uno di loro. Ci sono cose che noi siamo in grado di sbrigare più rapidamente, e altre che sapete fare meglio voi.» Non aveva mai alzato la voce e non aveva mai smesso di guardare la sua interlocutrice negli occhi. Nella cucina c'erano otto persone e altre si accalcavano nel corridoio e nel salotto. «Che facciamo col pervertito?» aveva chiesto Van Brady. «Lo troveremo, non si preoccupi. Ma, al momento, mi sembra meglio concentrare gli sforzi per rintracciare Billy, non le pare?» «E se fosse stato lui a far sparire Billy?» «Una cosa alla volta, eh? Anzitutto, continuiamo le ricerche. Se restiamo seduti qui, non troveremo nessuno.» Terminata la riunione, Rebus aveva cercato Grant Hood.
«Ora è tutto in mano tua, Grant», disse. «Io non dovrei neppure essere qui.» Hood annuì. «Mi dispiace averla coinvolta.» «Non ti preoccupare. Però metti ogni cosa bene in chiaro: sveglia l'ispettrice Barbour e informala della situazione.» «E che succede se lo trovano loro per primi?» Alludeva a Darren Rough, non al ragazzo. «In tal caso, è spacciato», rispose Rebus. «È matematicamente certo.» Si allontanò in auto da Greenfield, chiedendosi in quale momento Darren Rough fosse uscito di casa e dove fosse andato. Holyrood Park: un tempo, secoli addietro, era il rifugio dei criminali. Finché non ne varcavano i confini, si trovavano in una proprietà della Corona e i rappresentanti della legge non li potevano toccare. Chi rischiava di finire in prigione per debiti si rifugiava lì e vi trascorreva anni, vivendo di carità, di pesci pescati nei laghetti e di conigli selvatici. Quando i debiti venivano finalmente pagati o cadevano in prescrizione, riattraversava il confine e rientrava nella società civile. Il parco forniva così un'illusione di libertà; in effetti non era altro che un carcere all'aperto. Holyrood Park: una strada si snodava intorno alla base dei Salisbury Crags e dell'Arthur's Seat. Accanto ai laghetti c'erano alcuni parcheggi, che di giorno erano affollati di gruppi familiari e di padroni di cani. Di notte, vi si appartavano coppiette affamate di sesso. La Royal Park Police faceva di tanto in tanto un giro d'ispezione. Si era ventilata la possibilità di abolire quel corpo di polizia, di far ricadere il parco nella giurisdizione di Lothian and Borders. Ma nulla di tutto ciò era ancora accaduto. Rebus girò per tre volte all'interno del parco. Guidava lentamente, senza un vero interesse per le poche auto parcheggiate che superava. Poi, accanto al St. Margaret's Loch, proprio mentre si apprestava a uscire sulla Royal Park Terrace, gli sembrò di scorgere, con la coda dell'occhio, un'ombra. Decise di fermarsi. Forse era tutta colpa dell'emicrania e degli analgesici, di qualche scherzo che gli aveva giocato la vista. Non spense il motore, ma abbassò il finestrino e si accese una sigaretta. Si trattava di una volpe, forse, o di un tasso... Probabilmente aveva preso lucciole per lanterne. In città ci sono ombre di ogni tipo. Ma d'un tratto un volto apparve accanto al finestrino aperto. «Ha mica una sigaretta?» «Certo.» Rebus tirò indietro la faccia mentre si frugava in tasca. «Eh... senta, non sono sicuro...» L'uomo tossicchiò. «Voglio dire, non
sta cercando compagnia, o sì?» «In effetti, è così.» Rebus si sporse in avanti. «Monta in macchina, Darren.» Non appena Darren Rough riconobbe Rebus, sul suo volto apparve un'espressione atterrita. Aveva la pelle nera di fuliggine. Tossì di nuovo, piegandosi in due. «Ti è andato il fumo nei polmoni», osservò Rebus. «Hai aspettato troppo a uscire.» Rough si asciugò la bocca. Le maniche del soprabito verde, con cui si era protetto la faccia, apparivano bruciacchiate. «Ero convinto che mi aspettassero fuori. Continuavo a tendere l'orecchio, per sentire la sirena dei pompieri.» «Alla fine qualche vicino li ha chiamati.» Sbuffò. «Probabilmente per timore che il fuoco si propagasse fino al suo appartamento.» «E fuori non ti aspettava nessuno?» Rough scosse la testa. No, pensò Rebus, perché erano tutti in giro a cercare Billy Horman. Cal Brady aveva appiccato il fuoco da solo e non si era trattenuto, per non essere visto. Stava cominciando a piovere: improvvisi goccioloni che rimbalzavano sulle spalle di Rough. Lui sollevò il viso al cielo e spalancò la bocca strinata per accogliervi l'acqua piovana. «È meglio che tu salga», gli disse Rebus. Rough inclinò di lato la testa, lo fissò. «Di cosa sono accusato?» «Un ragazzino è scomparso.» Rough abbassò gli occhi. Disse qualcosa tipo: «Capisco», ma a voce così bassa che Rebus non riuscì ad afferrare bene. «E secondo loro io...?» Si fermò. «È naturale che pensino che sia stato io. Nei loro panni, ragionerei allo stesso modo.» «Tu invece non c'entri?» Rough scosse la testa. «Quello non lo faccio più. Ora sono diverso.» La pioggia lo stava inzuppando. «Monta in macchina», ripeté Rebus. Rough si sedette al posto del passeggero. «Però ci pensi ancora», asserì l'ispettore. Non era una domanda, ma lui rimase in attesa di una risposta. Rough fissò il parabrezza, con gli occhi che brillavano. «Sarei un bugiardo se lo negassi.» «Allora, cosa c'è di cambiato?»
Rough si girò verso di lui. «Mi vuole inchiodare?» «No», rispose Rebus, ingranando la prima. «Anzi vediamo di schiodarci noi in fretta da qui.» 24 Rebus portò Darren Rough alla stazione di polizia di St. Leonard. «Non ti preoccupare», gli disse. «Considerala una custodia protettiva. Voglio soltanto registrare ufficialmente le tue risposte sul ragazzo scomparso.» Si sedettero nella stanza per gli interrogatori, davanti a una tazza di tè acquoso, col registratore acceso e un agente in uniforme sulla porta. Il posto di polizia era praticamente deserto, perché tutti gli uomini in servizio notturno erano andati a Greenfield a cercare Billy Horman. «Allora non sai nulla a proposito di un ragazzo sparito?» chiese Rebus. Poiché in giro non c'era nessuno a proibirglielo, si era acceso una sigaretta. Rough sulle prime aveva rifiutato quella che lui gli aveva offerto, poi aveva cambiato idea. «A questo punto il cancro ai polmoni è l'ultimo dei miei problemi», borbottò. Quindi disse che ciò che sapeva era quello che lo stesso ispettore gli aveva raccontato. «Ma gli abitanti del quartiere ti avevano fatto chiaramente capire che dovevi toglierti di torno e tu, invece, sei voluto restare. Ci doveva pur essere un motivo.» «Non sapevo dove andare. Sono un uomo marchiato.» Sollevò lo sguardo. «Grazie a lei.» Rebus si alzò. Rough trasalì, ma l'ispettore non fece altro che appoggiarsi alla parete, in modo da avere di fronte a sé la telecamera. Non che importasse granché: l'apparecchio era spento. «Sei marchiato a causa di ciò che sei, Rough.» «Sono un pedofilo, ispettore. E probabilmente resterò sempre tale. Ma ho smesso di essere un pedofilo attivo.» Poi, con un'alzata di spalle: «La gente dovrà farsene una ragione, prima o poi». «Non credo che i tuoi vicini saranno d'accordo.» Rough si lasciò sfuggire un sorriso da condannato a morte. «Mi sa che non ha tutti i torti.» «E gli amici?» «Quali amici?» «Gli altri tizi coi tuoi stessi interessi.» Rebus lasciò cadere la cenere sul-
la moquette; l'impresa di pulizia sarebbe passata a mettere in ordine prima che facesse mattina. «Nessuno è venuto a trovarti nel tuo appartamento?» Rough stava scuotendo la testa. «Ne sei sicuro, Rough?» «Nessuno sapeva che io abitavo lì finché i giornali non mi hanno sbattuto in prima pagina.» «Ma dopo di allora... Nessuno di quelli che frequentavi un tempo si è fatto vivo?» Rough non rispose. Stava guardando nel vuoto, pensando ancora ai giornali. «Ince e Marshall... Ho letto qualche articolo su di loro. Lì dove sono... in cella... hanno la possibilità di leggere i quotidiani?» «Qualche volta.» «Quindi sanno tutto di me?» Rebus annuì. «Non preoccuparti. Quei due sono in custodia cautelare nella prigione di Saughton.» Esitò. «Tu testimonierai contro di loro.» «Volevo farlo.» Fissò ancora il vuoto, mentre i ricordi gli indurivano l'espressione del viso. Rebus conosceva la storia: i violentati diventavano a loro volta violentatori. Era una teoria che lui aveva sempre trovato facilmente smontabile. Non tutte le vittime si trasformavano in carnefici. «Quella volta in cui ti portarono a Shiellion...» cominciò. «Marshall venne a prendermi, era stato Ince a dirglielo.» La voce di Rough stava tremando. «Non avevano scelto me di proposito, per qualche preciso motivo... Poteva capitare a uno qualunque di noi. A parte il fatto, forse, che io ero il più silenzioso, il meno propenso a reagire. A quell'epoca, Marshall era manovrato da Ince, amava sentirsi ordinare qualcosa da lui. Ho visto una foto di Ince, non è cambiato. Marshall, invece, ha preso un'aria più dura, come se gli fosse cresciuta una seconda pelle.» «E il terzo uomo?» «Gliel'ho già detto, poteva essere chiunque.» «Ma era già lì, stava aspettando a Shiellion quando tu sei arrivato.» «Sì.» «Quindi, molto probabilmente era un amico di Ince, più che di Marshall.» «Si scambiavano i ruoli.» Le mani di Rough erano avvinghiate al bordo del tavolo. «In seguito, ho tentato di riferire l'accaduto, ma nessuno ha voluto ascoltarmi. Era tutto un: 'Non devi dire queste cose', 'Non raccontare simili fandonie'. Come se fosse colpa mia. Avevo toccato un bambino del quartiere, perciò meritavo quello che mi era successo... Peggio ancora,
qualcuno pensò che io stessi mentendo, proprio io che non ho mai detto bugie... mai.» Chiuse gli occhi, posò la fronte sulle mani. Mormorò qualcosa di simile a «bastardi». Poi cominciò a piangere. Rebus sapeva di avere varie alternative. Poteva telefonare all'assistenza sociale e chiedere che Rough venisse sistemato da qualche parte, oppure poteva metterlo in una cella, o anche scaricarlo in strada... dove capitava. Ma, quando digitò il numero del servizio di assistenza sociale, non gli rispose nessuno. Dovevano essere tutti fuori, per qualche emergenza. Il messaggio registrato gli disse di continuare a rifare il numero ogni dieci minuti, più o meno. Lo invitò anche a non farsi prendere dal panico. Nella stazione di polizia c'erano alcune celle vuote, ma Rebus sapeva che la notizia sarebbe diventata immediatamente di dominio pubblico e che, al momento di rilasciare Darren Rough, ci sarebbe stata una folla ad attenderlo. Perciò si accese un'altra sigaretta e tornò nella stanza degli interrogatori. «Su, alzati», disse, aprendo la porta, «ora vieni con me.» «Che bella stanza», esclamò Darren Rough. Si guardò intorno, osservò l'alta cornice di stucco. «Spaziosa», aggiunse, annuendo. Stava cercando di rendersi simpatico, di tenere in piedi una conversazione. Si chiedeva cosa avrebbe fatto di lui quell'ispettore, lì nel suo appartamento privato. Rebus gli diede una tazza di tè e gli disse di mettersi seduto. Gli offrì un'altra sigaretta, che stavolta fu rifiutata. Rough si accomodò sul divano e Rebus provò l'impulso di chiedergli di spostarsi su una delle sedie del tavolo da pranzo. Gli pareva che il giovane potesse contaminare tutto ciò che toccava. «Il tuo assistente sociale, domani mattina, farà bene a trovarti un nuovo alloggio», disse. «In un posto qualsiasi, purché lontano da Edimburgo.» Poi guardò Rough. Gli occhi erano pesti, i capelli avevano bisogno di essere lavati. Ora che il soprabito verde era appoggiato sulla spalliera del divano, vide che il giovane indossava una giacca a quadretti, un paio di jeans e scarpe da baseball, più una camicia bianca, di nylon. Come se avesse vinto un pacco-premio in un negozio del Comitato per l'assistenza alle vittime della carestia. «Devo continuare a spostarmi, eh?» «Un bersaglio mobile è più difficile da colpire», replicò Rebus. Rough sorrise stancamente. «A quanto pare, anche lei ha colpito qualcosa.» Rebus distese le dita, cercando d'impedire che continuassero a contrarsi.
Rough sorseggiò il tè. «Sa, mi ha picchiato.» «Chi?» «Il suo amico.» «Jim Margolies?» Rough annuì. «D'un tratto nei suoi occhi è comparso uno strano sguardo. Un attimo dopo ha cominciato a martellarmi di pugni.» Scosse la testa. «Quando si è ucciso, ho letto i necrologi. In tutti si diceva che era un 'ottimo funzionario di polizia', un 'padre amoroso'. Che andava regolarmente in chiesa.» Con un mezzo sorriso, aggiunse: «Quando mi è saltato addosso, deve avermi dato una dimostrazione di spirito cristiano muscolare». «Attento a quello che dici.» «Sì, lo so, era un suo amico, avevate lavorato insieme. Ma mi chiedo se lei lo conoscesse veramente.» Rebus non lo ammise, ma stava cominciando a porsi la stessa domanda. Rossetto arancione, che stava a significare che gli piacevano giovani. Aveva chiesto a Fern quanto giovani. Nulla d'illegale, gli aveva risposto lei. «Per quale motivo, secondo te, è morto?» chiese. «Come faccio a saperlo?» «Quando vi siete parlati... come ti è sembrato?» Rough assunse un'aria pensierosa. «Non era arrabbiato con me, no... Voleva soltanto sapere di Shiellion. Quante volte c'ero stato... E con chi.» Gli lanciò un'occhiata. «Certi si eccitano così, ascoltando racconti.» «Credi che fosse quello il motivo per cui ti stava interrogando?» «Perché lei mi fa tutte queste domande, ispettore? Prima sbattendomi in pasto ai giornali, e poi venendo a salvarmi. Mi sa che è questo il modo in cui lei si diverte, cioè mandando a puttane la vita degli altri.» Rebus pensò a Cary Oakes e ai suoi giochetti. «Sono convinto che tu hai qualcosa a che vedere con la morte di Jim Margolies», ribatté. «Che tu lo sappia o no.» Rimasero in silenzio, finché Rough non chiese se c'era qualcosa da mangiare. Rebus andò in cucina. Mentre fissava lo sportello di uno degli armadietti, gli venne voglia di prenderlo a pugni. Ma le sue nocche non gliene sarebbero state riconoscenti. Le guardò. Sapeva cosa aveva fatto Oakes: le aveva strofinate violentemente sull'asfalto del parcheggio, forse le aveva anche piegate e premute con forza contro l'acciaio del cassonetto. Lurido bastardo dalla mente contorta. E Patience che si chiedeva se non fosse tutta una finta, un espediente per sviare Rebus da qualche altro progetto. La sua mente sembrava piena di diversivi. Come poteva fidarsi di Rough, credere
alle sue parole? Però non riusciva a immaginare il giovane come uno che ordiva intrighi: era troppo smidollato. Jim Margolies invece... non stava forse giocando lui una qualche partita? Una partita che aveva causato la sua morte? Aprì lo sportello dell'armadietto e disse a Rough che poteva offrirgli fette di pane e fagioli. Rough replicò che andavano benissimo. Non c'era margarina da spalmare sul pane, ma Rebus pensò che, per ammorbidirlo, avrebbe potuto usare la salsa di pomodoro. Versò una scatola di fagioli in una padella, infilò il pane sotto il grill e andò a vedere come sistemare Rough per la notte. In camera sua non l'avrebbe fatto dormire: non c'era neanche da parlarne. Aprì la porta di quella che originariamente era la stanza degli ospiti e poi, molto tempo dopo, era diventata quella di Sammy. Il letto a una piazza si trovava ancora lì; appesi alle pareti, alcuni poster; su uno scaffale, intere annate di una rivista per adolescenti. Uno degli ultimi a usare quella stanza era stato Jack Morton. Era impensabile che ci dormisse Darren Rough. Rebus aprì l'armadio guardaroba, trovò una vecchia coperta e un guanciale, li portò nel soggiorno. «Puoi dormire sul divano», disse. «Va bene. Come vuole lei.» Rough era in piedi accanto alla finestra. Rebus gli si avvicinò. Dall'altra parte della strada vivevano due ragazzini, ma le imposte erano chiuse, non c'era nulla da sbirciare. «Questo posto è molto silenzioso», osservò Rough. «A Greenfield si ha l'impressione che la gente non faccia altro che litigare. Oppure che stia dando una festa, che il più delle volte finisce in una rissa.» «Ma tu sei un buon vicino, eh?» commentò Rebus. «Silenzioso, che bada soltanto ai fatti suoi?» «Ci provo.» «E che mi dici di quando sono i ragazzini a fare chiasso: non ti viene voglia di metterli in riga?» Rough chiuse gli occhi, appoggiò la fronte al vetro. «Non voglio trovare giustificazioni», mormorò. «E non intendi neppure scusarti?» Un altro sorriso, a occhi chiusi. «Posso scusarmi all'infinito, ma la sostanza non cambia. Non c'è modo di cambiare i miei impulsi.» Aprì gli occhi, si girò verso Rebus. «Ma a lei non interessa ascoltare queste cose, vero?» L'altro lo fissò. «Il pane sta bruciando», disse, voltandosi.
Alle cinque, con Rough raggomitolato sul divano sotto la coperta, Rebus telefonò a Bill Pryde. «Scusa se ti ho svegliato, Bill.» «La sveglia stava comunque per suonare. Che c'è?» «L'auto di servizio, quella per sorvegliare Oakes.» «È successo qualcosa?» «Non è davanti all'albergo.» Gli spiegò dove si trovava. «Cristo, John, e Oakes?» «Va e viene come gli pare, Bill. Noi lo teniamo allegro.» «Sarà meglio che tu lo riferisca al Caporale.» «Lo farò.» «Vuoi che venga a prendere l'auto a casa tua?» «Ho già compilato la mia parte di rapporto, spiegando ogni cosa.» «E le chiavi?» «Sotto il sedile anteriore, insieme col registro. Ho lasciato la macchina aperta.» «E ora stai per andare a letto?» «Più o meno.» Fissò Darren Rough, osservando la coperta che si alzava e abbassava. Il giovane sembrava pericoloso come un pezzo di pane. Rebus salutò il collega e chiamò la stazione di polizia. Ancora nessuna traccia di Billy Horman. Avevano setacciato tutta la zona. Le ricerche erano state sospese in attesa che facesse giorno. Chiamò l'albergo, si fece passare la stanza di Cary Oakes: ancora nessuna risposta. Riattaccò il ricevitore, andò in camera sua. Si sdraiò sul letto: un materasso appoggiato sul pavimento. Aveva pensato di tornare da Patience, ma non gli piaceva l'idea di Rough tutto solo nel suo appartamento. Poteva curiosare in giro per casa, trovare la stanza di Sammy. Aprire cassetti, toccare oggetti. Rebus lo voleva fuori di lì, il prima possibile. Sei stato tu a portarlo qui, sembrò dire una voce nella sua testa. Sei stato tu a portarlo a questo. Bastoni, piedi di porco, voci rabbiose. Gli abitanti di Greenfield trasformati in una folla inferocita. Cal Brady, con la sua benzina e i suoi rifiuti. Lavorava per Charmer Mackenzie, faceva il buttafuori da Guiser's. Damon Mee aveva lasciato quel locale per montare su un taxi con una bionda. Visto per l'ultima volta nei pressi del Clipper, la sera in cui Ama Petrie dava una delle sue feste. Il padre di lei era il giudice del caso Shiellion, e in quel processo avrebbe dovuto testimoniare Darren Rough, in quello stesso processo Rebus era stato fatto a pezzi da Richard Cordover. Il giudice di corte d'appello Petrie... che aveva legami di paren-
tela con Katherine Margolies. Ama, Hannah, Katherine... Sammy, Patience, Janice... L'infinito balletto di rapporti diretti e incrociati che occupava tanto spazio nella sua testa. La festa che non terminava mai, gli inviti listati dal senso di colpa. Vita e morte a Edimburgo. E un po' di spazio residuo per altri fantasmi, il cui numero aumentava continuamente. Se fossi rimasto nel Fife, rifletté, se non mi fossi arruolato nell'esercito... quali pensieri mi occuperebbero adesso la mente? Che uomo sarei? Di nuovo la voce nella testa... era quella di Jack Morton? Non sarebbe mai potuto accadere. Era a questo che tu hai sempre puntato. Si guardò intorno nella stanza, in cerca di un goccio di whisky, ma se l'era già scolato tutto. Chiuse invece gli occhi. Avvertì ancora quel dolore sordo alla nuca. Ti supplico, Signore, fa' che il mio sonno sia senza incubi. La sua prima preghiera, dopo tanto tempo. Cary Oakes aveva atteso, in Arden Street, che Rebus tornasse e lo vide uscire dalla macchina con un altro uomo, portarselo nell'appartamento. Si chiese chi fosse quello sconosciuto, dove l'ispettore l'avesse incontrato. Oakes era fermo sull'altro lato della strada, nascosto nell'ombra dell'ingresso di un edificio. Aveva con sé una borsa di plastica, nella quale aveva infilato un libro tascabile per renderla più pesante. Se qualcuno l'avesse notato, aveva bell'e pronta una storia da raccontare: era un lavoratore che faceva il turno di notte e aspettava che venissero a prenderlo. Ma erano in ritardo, avrebbe detto. Nessuno però l'aveva visto. Nessuno era entrato o uscito da quell'edificio. Ma lui aveva visto accendersi le luci nel salotto di Rebus. Aveva visto lo sconosciuto avvicinarsi alla finestra, appoggiarvi la testa. Aveva visto Rebus alle spalle dell'uomo, che guardava in basso. Oakes era rimasto immobile: non lo aveva individuato, lo sapeva. Se anche Rebus l'avesse visto, comunque, andava bene lo stesso. Poi l'ispettore era uscito, salendo in macchina a cercare qualcosa: una specie di libro. Dai suoi movimenti, dalle sue azioni, Oakes aveva capito che non doveva avergli fatto troppo male. Rebus era tornato in casa col libro e mezz'ora dopo era sceso di nuovo, per rimettere il libro nella vettura. Allora Oakes aveva attraversato la strada per raggiungere l'auto parcheggiata. La portiera non era chiusa a chiave. Era entrato e aveva cercato il libro. L'aveva trovato. E, con esso, anche le chiavi della macchina. Aveva sorriso tra sé. Girata la chiavetta dell'accensione e sintonizzata la radio
sulle frequenze della polizia, si era messo ad ascoltare distrattamente, mentre curiosava tra gli appunti dei suoi sorveglianti. Rebus non aveva scritto nulla su Alan Archibald. Interessante. Cinquanta minuti più tardi, nel sentire la porta dell'edificio aprirsi con un leggero cigolio, si era sprofondato nel sedile, rialzandosi poi in tempo per vedere lo sconosciuto che usciva. Aveva l'aria sporca e disordinata. Qualche vizietto segreto di Rebus? Oakes era convinto di no. Ma si trattava comunque di un mistero intrigante. Aveva atteso che l'uomo svoltasse l'angolo, poi, ingranata la prima, si era messo a seguirlo. Alle sei in punto, Rebus fu risvegliato dal ronzio del campanello d'ingresso. Andò alla porta e sollevò la cornetta del citofono. «Chi è?» «Sono io.» Bill Pryde, con voce tutt'altro che allegra. «Che c'è?» «L'auto non è dove dovrebbe essere. Ma dove l'hai nascosta?» «Aspetta.» Rebus entrò nel soggiorno, lanciò un'occhiata al divano. Vide che la coperta era stata accuratamente ripiegata; di Darren Rough, nessuna traccia. Guardò fuori della finestra. Là dove doveva esserci l'auto, uno spazio vuoto. Imprecò tra i denti. S'infilò le scarpe e scese di sotto. «Credo che qualcuno l'abbia presa», disse a Bill Pryde. «Io in questa storia del cazzo non ci voglio entrare.» Pryde: contava i giorni che lo separavano dalla pensione. «Lo so», ribatté Rebus, riluttante ad aggiungere che immaginava chi l'avesse fatta sparire: Darren Rough. Pryde fece un cenno verso le mani dell'ispettore. «Corre voce che tu abbia perso un incontro di boxe. Come l'hai conciato, Oakes?» «Non è andata così», replicò Rebus. «Sei stato trovato in un cassonetto, suonato di brutto, se ho sentito bene.» Rebus lo fissò. «Vuoi andare al lavoro, Bill?» Pryde scosse la testa. «Voglio assistere dai bordi del ring all'incontro principale: tu che racconti al Caporale come hai fatto a perdere l'auto.» Rebus guardò di nuovo la strada, da una estremità all'altra. «Sarà meglio che, per affrontare questo avversario, mi infili nel guantone un ferro di cavallo», disse, girandosi per rientrare in casa. 25
Rebus, al volante della sua Saab, si recò con Pryde alla stazione di polizia di St. Leonard, dove denunciò il furto dell'auto di servizio, notizia che suscitò l'ilarità degli agenti del turno di giorno appena arrivati. Erano le nove meno un quarto quando entrò nell'ufficio del Caporale, per spiegare di nuovo tutto ciò che era successo, incluse le scorticature alle mani. Mentre ascoltava quel rapporto, il Caporale continuava ad armeggiare con la macchina del caffè, una di quelle che lo facevano espresso, munita anche di un beccuccio per rendere schiumoso il latte; non chiese però a Rebus se ne volesse una tazza. Quando l'ispettore ebbe finito di parlare, il Caporale si versò la schiuma di latte nel caffè, spense la macchina e si sedette dietro la scrivania. Tenendo la tazza stretta tra le mani, sollevò lo sguardo verso Rebus. «Ho sempre pensato che la sorveglianza fosse una procedura relativamente semplice. Ancora una volta sei riuscito a farmi ricredere.» «Non ci stava portando a nulla, signore.» «Diversamente dalla vettura sparita.» Rebus abbassò lo sguardo. «Fammi capire come stanno esattamente le cose», continuò il Caporale, bevendo un sorso di caffè. «Io ti dico di stare alla larga da Darren Rough. Tu vai a cercarlo. Io ti dico di tenere d'occhio un uomo che, secondo gli esperti, potrebbe uccidere qualcuno. Tu finisci privo di sensi in un cassonetto.» La voce del Caporale stava salendo di tono. «Trovi Darren Rough e lo porti a casa tua. E lui se ne va, fregando una delle nostre auto e il registro della sorveglianza. La mia ricostruzione dei fatti è sufficientemente esatta?» Il viso gli si stava facendo rosso di rabbia. «Chiara e concisa, signore.» «Non permetterti di fare lo spiritoso!» scattò il Caporale, picchiando il pugno sul tavolo. «Non ne ho la minima intenzione, signore.» Rebus digrignò i denti. «Ma al momento mi sembrava di fare la cosa migliore.» «No, ispettore. Come al solito, non hai fatto altro che seguire un piano personale, e al diavolo noialtri. Ho fatto centro?» «Con tutto il rispetto, signore...» «Ma fammi il piacere. Tu non hai il minimo rispetto per me, né per il lavoro che saresti tenuto a fare!» «Forse ha ragione, signore», ribatté Rebus a voce bassa, mentre la testa ricominciava a pulsargli.
Il Caporale lo fissò, si appoggiò allo schienale della sedia e bevve un'altra sorsata di caffè. «Allora cosa intendi fare?» «Non lo so, signore. Voglio dire, lei ha ragione: sono mesi che ho dubbi a proposito del mio lavoro. Da quando Jack Morton...» «Anche prima, forse, non credi?» Sembrava essersi calmato un po'. «Forse, signore. Più di una volta, ho pensato di mollare tutto.» Guardò il superiore. «Per renderle magari la vita più facile.» «Però non hai mollato.» «No, signore.» «Ci dev'essere un motivo.» «Forse in me c'è ancora una parte che ci crede, signore. E, fatto abbastanza strano, questa parte è andata crescendo.» «Davvero?» Alan Archibald, Darren Rough... Non aveva parlato di Archibald al Caporale, perché non gli era sembrato il caso. «Con Rough, ho commesso un errore, lo ammetto. Be'... non mi ero sbagliato completamente, a voler essere sinceri. Ma adesso conosco il motivo per cui si trova a Edimburgo. So molto di più sul contesto di tutta la vicenda.» «Come?» Gli occhi del Caporale si ridussero a due fessure. «Mi vuoi dire che tu adesso lo capisci?» Gli rivolse un sorriso vagamente crudele. «È questo che mi stai raccontando? Mi parli di compassione? Tu, John? Non sapevo che i dinosauri potessero evolversi.» «Altrimenti la specie si estingue», replicò Rebus, premendo le mani contro le ginocchia. Come fare a spiegarglielo, a fargli capire ciò che stava imparando: che il passato modellava il presente, che il libero arbitrio era pura fantasia, che una forza, chiamata Fato o Dio, controllava le vie imboccate dall'individuo... Janice che gli tirava un pugno... L'adolescente Darren Rough condotto in macchina a Shiellion... Alan Archibald e sua nipote. Tutto sembrava concatenato in modo strano e contorto. «Lei vorrà un rapporto completo», disse invece, raddrizzandosi sulla sedia. Il Caporale annuì. «Avrei comunque messo fine alla sorveglianza.» Appoggiò sul tavolo la tazza di caffè. «Ritieni che Cary Oakes sia pericoloso?» «Senza dubbio. Ma credo che sia cambiato.» «Cambiato come?» «Il suo viaggio negli Stati Uniti, quello non era pianificato. È avvenuto senza un preciso intento e ha sempre avuto l'aria di far parte di un'altra
strategia.» «Spiegati meglio.» «Oakes uccideva perché aveva bisogno di determinate cose: soldi, un'auto e così via. Ma credo che, verso la fine, avesse cominciato a prenderci gusto. Poi la cattura. In tutti gli anni trascorsi in galera ha continuato a rimuginare su quello strano piacere.» «Adesso, quindi, potrebbe uccidere per il semplice piacere di farlo?» «Non ne ho la certezza. Ritengo che abbia una specie di piano, qualcosa che riguarda Edimburgo.» E Alan Archibald, avrebbe potuto aggiungere. «Sono convinto che si senta fremere dall'eccitazione al semplice pensiero delle sue prossime mosse.» «Un piano che lui potrebbe però, forse, accantonare definitivamente.» Rebus sorrise. «Non credo proprio. Per Oakes è una sorta di stimolo sessuale.» Il Caporale parve imbarazzato da quell'immagine e accolse con sollievo lo squillo del telefono. Sollevò la cornetta, ascoltò. «Bene», mormorò alla fine. «Glielo dirò.» Posò il ricevitore, guardò Rebus. «L'auto è stata ritrovata.» «Magnifico.» «Comodamente parcheggiata, per di più.» Rebus gli chiese che cosa intendesse. La risposta lo lasciò senza fiato, come mai gli era accaduto in vita sua. Un paio di agenti era già sul posto quando Rebus, il Caporale e Bill Pryde arrivarono alla Riva. La Rover era parcheggiata al solito posto, davanti all'albergo. «Non posso crederci», ripeté Rebus per l'ennesima volta. «Non sarà mica uno dei tuoi scherzetti?» chiese Bill Pryde. Il Caporale guardò all'interno. «Dov'è il registro?» «Era sotto il sedile, signore.» Il Caporale allungò la mano, prese il registro e un mazzo di chiavi della vettura. «Avevi raccontato qualcosa a Rough a proposito della sorveglianza?» chiese. Rebus fece cenno di no. «Perciò possiamo concludere che non è stato Rough a prendere la macchina?» Rebus si strinse nelle spalle. «Sembra quasi che il ladro dell'auto sapesse quale incarico stavamo svolgendo», osservò Bill Pryde. «O, molto semplicemente, l'ha scoperto leggendo il registro», ribatté
Rebus. «Chi ha trovato le chiavi ha trovato anche il libro.» «Questo è vero», ammise Pryde. «Il che rimette in gioco Rough», disse il Caporale. «E, per inciso, significa pure che il responsabile non ha soltanto rubato la vettura, ma ha anche letto i verbali.» «C'è da vergognarsi, signore», disse Pryde. «Anche qualcosa di più, se le notizie arrivano alle alte sfere di Fettes.» «Chi dovrebbe informarle?» Il Caporale aveva scorso rapidamente le varie annotazioni, arrivando all'ultimo verbale di Rebus... o a quello che sarebbe dovuto essere l'ultimo verbale. Spalancò il libro e lo tenne ben aperto, in modo che Rebus e Pryde potessero vedere. «E questo che significa?» Rebus guardò. Una frase scritta a stampatello, con una penna a sfera rossa. Qualcuno aveva aggiunto un post scriptum alle osservazioni di Rebus sul caso: CATTIVELLO, CATTIVELLO, DOV'È FINITO ARCHIBALD???? Il Caporale stava fissando Rebus. «Chi è questo Archibald?» Pryde si strinse nelle spalle. «E io che ne so?» Ma il Caporale aveva occhi soltanto per John Rebus. «Chi è Archibald?» ripeté, con le guance che cominciavano a macchiarsi di rosso. Rebus non rispose, ma si portò sull'altro lato della strada e, attraverso le grandi vetrate, guardò nella sala ristorante dell'albergo. Stavano servendo la colazione ai clienti ritardatari e i tavolini erano in gran parte seminascosti da piante in vaso e cestini appesi. Ma a un tavolo, sistemato proprio accanto alla finestra, sedeva Cary Oakes, che si stava godendo lo spettacolo. Agitò una forchetta in direzione di Rebus, poi, con un sorriso smagliante, sollevò un bicchiere di succo d'arancia in segno di brindisi. Rebus raggiunse la porta dell'albergo, la spalancò e irruppe all'interno. Dal ristorante arrivavano zaffate di odori di cucina. Un cameriere gli chiese se desiderava un tavolo. Rebus lo ignorò e puntò diritto verso il tavolino al quale era seduto Cary Oakes. «Vuoi unirti a me, ispettore?» «Nemmeno se stessi crepando.» Puntò le nocche contro la sua faccia. «Le ricordi, queste?» «Come sono ridotte male», ribatté Oakes. «Io le farei vedere a un medico. Per fortuna tu ne conosci già uno.» «Sai dove abito», sibilò Rebus. «Te l'ha detto Jim Stevens.» «Davvero?» Oakes cominciò a tagliare una salsiccia. Rebus notò che la
stava incidendo per il lungo, come se volesse dissezionarla. «Hai preso tu la macchina.» «È un po' presto per gli indovinelli.» Si portò un pezzo di salsiccia alle labbra. Rebus tirò un manrovescio, facendo volare forchetta e boccone. Poi sollevò in piedi Cary Oakes. «Che cazzo di piano hai in mente?» «Non dovrei dirla io, questa battuta?» rispose Oakes, ghignando. Poi ci fu un'improvvisa esplosione di luce. Rebus girò leggermente la testa. Jim Stevens era alle sue spalle. Accanto a lui, un fotografo. «Ora scattiamone un'altra, con voi due che vi stringete la mano», stava dicendo Stevens. Strizzò l'occhio a Rebus. «Te l'avevo detto che volevo qualche foto.» Rebus lasciò andare Oakes e si lanciò verso il giornalista. «Ispettore!» La voce del Caporale. Era sulla porta del ristorante, con la rabbia dipinta sul volto. «Venga fuori, se non le dispiace, perché devo parlarle.» Un tono che non ammetteva repliche. Rebus lanciò un'occhiata dura a Jim Stevens, perché capisse che non sarebbe finita lì. Poi uscì dalla sala del ristorante e si avviò nell'atrio. Il Caporale era dietro di lui. «Aspetto ancora una risposta. Chi è Archibald?» «Un uomo con una missione», replicò Rebus. Nella sua mente aleggiava ancora il ghigno comparso sulla faccia di Oakes. «Il guaio è che non è il solo.» Rebus rimase fino all'ora di pranzo col Caporale, «in riunione». Qualche minuto prima di mezzogiorno, Archibald in persona si unì a loro, perché il Caporale aveva mandato una pattuglia a Corstorphine a prelevarlo. I due si conoscevano da molti anni. «Ero convinto che da tempo ti avessero consegnato l'orologio d'oro», disse Archibald, stringendo la mano al Caporale. Ma quest'ultimo non era tipo da farsi ammorbidire. «Siediti, Alan. Per essere un poliziotto in pensione, ti sei dato anche troppo da fare.» Archibald lanciò un'occhiata a Rebus, che stava fissando la veneziana della finestra. «Intendo inchiodarlo, tutto qui.» «Oh, tutto qui, dici?» Il Caporale simulò un certo sbalordimento. «Ho appreso da John che hai visto i dossier riguardanti Cary Oakes. Anzi su di lui hai più informazioni di quelle di cui disponiamo noi. Perciò dovresti
sapere con chi hai a che fare.» «Io so con che cosa ho a che fare.» Lo sguardo del Caporale passò da Archibald a Rebus e viceversa. «È già abbastanza duro dover sopportare uno come lui», disse, indicando con la testa Rebus. «L'ultima cosa che voglio è avere tra i piedi un altro squinternato che gestisce la legge a modo suo. Se sei convinto che Oakes abbia ucciso tua nipote, portami le prove.» «Su, smettila...» «Portami le prove!» «Lo farei, se potessi.» «Lo faresti davvero, Alan? O non vorresti invece tenerle per te, fino all'amara conclusione?» Si rivolse a Rebus. «E tu, John? Gli darai una mano a seppellire il cadavere?» «Se l'avessi voluto morto, sarebbe già sottoterra», replicò Archibald. «Ma che succederebbe se confessasse, Alan? Mentre siete soltanto tu e lui, senza altri testimoni?» Il Caporale scosse la testa. «Non basterebbe per portarlo davanti a un giudice, e allora cosa faresti?» «Basterebbe», rispose Archibald sommessamente. «Per cosa?» «Per me. Per la memoria di Deirdre.» Il Caporale esitò, poi si rivolse a Rebus. «E tu, ci credi? Secondo te, il qui presente Alan Archibald ascolterebbe la confessione di Oakes e poi se ne andrebbe via pacificamente?» «Non lo conosco abbastanza bene da poter esprimere un giudizio.» Rebus sembrava ancora ipnotizzato dalla veneziana. «Due gocce d'acqua», commentò il Caporale. Rebus lanciò un'occhiata ad Archibald, che lo stava guardando a sua volta. Si sentì bussare alla porta. Con un grugnito, il Caporale disse di entrare. Era Siobhan Clarke. «Sei venuta a intercedere?» le chiese il Caporale. «No, signore.» Sembrava restia a farsi avanti; aveva infilato soltanto la testa nello spiraglio della porta. «Allora?» «Una morte sospetta, signore. Sulla sommità dei Salisbury Crags.» «Quanto sospetta?» «Secondo i primi rilevamenti, molto.» Il Caporale si pizzicò la sella del naso. «Questa è una di quelle settimane che sembrano lunghe il doppio.» «Il fatto è, signore, che in base alla descrizione ricevuta ritengo che sia
possibile identificare il morto.» La fissò, avendo colto qualcosa nel suo tono di voce. «Qualcuno che conosciamo?» La Clarke stava guardando Rebus. «Direi di sì, signore.» «Questo non è un gioco di società, commissario Clarke.» Le si schiarì la voce. «Ritengo che sia Darren Rough.» 26 «Non appena sei pronto, attacca.» La camera di Jim Stevens stava cominciando ad avere un'aria disordinata e vissuta, proprio come piaceva a lui. Ma in quel momento il giornalista non si trovava nella propria stanza, bensì in quella di Oakes, che dava l'impressione di essere stata utilizzata ben di rado, per non dire mai, dal suo occupante. Accanto alla finestra c'erano due sedie e un piccolo tavolo circolare. La bustina di fiammiferi gentilmente offerta dalla direzione dell'albergo si trovava ancora nel portacenere. Di lato a questo erano appoggiate due riviste, stampate appositamente per i turisti in visita a Edimburgo; sopra, c'era la scheda per i commenti dei clienti dell'albergo, ancora da compilare, o forse addirittura da leggere. La maggior parte della gente - era il pensiero di Stevens -, incluso persino chi aveva trascorso un terzo della propria esistenza godendo degli «agi» di una prigione in un Paese straniero, si sarebbe comportata come aveva fatto lui stesso nella sua stanza: l'avrebbe esplorata, avrebbe guardato e toccato ogni cosa, sfogliato ogni opuscolo. Avrebbero agito così tutti, ma non Cary Oakes, che, in quel momento, si stava schiarendo la voce. «Non sei curioso di sapere cosa voleva Rebus?» Stevens lo guardò. «Voglio soltanto chiudere l'intervista il prima possibile.» «Hai perso il vigore e l'energia di un tempo, eh, Jim?» «È l'effetto che hai tu sulla gente.» «Hai rintracciato qualcuno della banda della mia adolescenza?» Oakes rise dell'espressione apparsa sul viso di Stevens. «Non ci credo. Probabilmente ormai si saranno tutti sparpagliati ai quattro venti.» «Quando ci siamo interrotti l'ultima volta», disse freddamente Stevens, controllando che il nastro stesse girando, «stavamo attraversando gli Stati Uniti.» Oakes annuì. «Arrivai in una località che si chiamava, che tu ci creda o
no, Opportunity, una turbolenta stazione per la sosta dei camion sul confine tra lo Stato di Washington e l'Idaho. Fu lì che conobbi un camionista, il Grassone. Non ho mai saputo il suo vero nome; credo che anche la carta d'identità che aveva con sé fosse falsa.» «Qual era il nome segnato sul documento?» Oakes ignorò la domanda. «Il Grassone era convinto che esistesse una cospirazione governativa, così mi raccontò che, tutte le volte che era costretto a fare viaggi molto lunghi, blindava la sua casa, riempiendola di trabocchetti. Sosteneva che i camionisti hanno una reale e chiara visione del mondo (per lui il mondo erano gli Stati Uniti, al di fuori di questi non esisteva nulla), che da dietro il volante del loro mezzo vedono tutto e bene. Diceva che un camionista sarebbe stato un formidabile presidente degli Stati Uniti... Era fatto così, il Grassone. L'ho incontrato a Opportunity, nello Stato di Washington. In America ci sono un sacco di nomi del genere e anche un'infinità di tipi come il Grassone. Parlavamo spesso di omicidi. La radio era accesa e da ogni stazione arrivavano notizie su qualche criminoso fatto di sangue. Lui diceva che il termine 'criminoso' era inesatto, perché ci sono omicidi 'giusti' e omicidi 'sbagliati', e il come e il quando riguardavano il singolo individuo, non i legislatori.» «E i tuoi, di omicidi, in quale delle due classificazioni rientravano?» A Oakes non piacque quell'interruzione del flusso dei ricordi. «Sto parlando del Grassone, non di me.» «Per quanto tempo hai viaggiato con lui?» Stevens stava tentando di stabilire una cronologia dei fatti. «Tre, quattro giorni. Andammo a sud, per fare una consegna, poi tornammo indietro, sulla I-90.» «Quale carico trasportava?» «Materiale elettrico. Lavorava per la General Electric. In pratica, non faceva che viaggiare. Mi disse che per lui andava bene, considerato il suo genere di hobby, che era quello di uccidere la gente.» Guardò Stevens. «L'aveva detto di proposito, per mettermi sulle spine, mentre correvamo a quasi centoventi chilometri all'ora. Forse, se fosse riuscito davvero a spaventarmi, non sarei qui a parlare: aveva già cercato di farmi la pelle. Ma io mi limitai a lanciargli un'occhiata, dissi che era un hobby interessante.» Scoppiò a ridere. «Un modo pacato per minimizzare, non ti pare? Uno ti dice che è un serial killer e tu replichi: 'Be', interessante'.» «Ma gli avevi creduto?» «Dopo un po', sì. E pensavo: ora che mi ha raccontato tutto questo, non
mi lascerà certo andare. Ogni volta che facevamo una sosta, mi aspettavo che mi saltasse addosso.» «Ed eri pronto a reagire?» Stevens stava fissando Oakes, cercando di valutare quanto ci fosse di vero in quella storia. Doveva vederci forse un qualche riferimento al rapporto che si era instaurato tra Oakes e lui stesso? «Vuoi sapere una cosa strana? Ero completamente rilassato. Mi arrendevo all'ineluttabile: se mi ucciderà, mi dicevo, pazienza, doveva succedere. Come se quella cosa non mi riguardasse: avrei potuto tirare le cuoia per mano sua e sarebbe stato un poetico atto di giustizia o qualcosa del genere.» «Quell'uomo uccise qualcuno mentre eravate in viaggio?» «No.» «Ma ti convinse che non stava mentendo?» «Tu credi che le sue fossero tutte stronzate, Jim?» «Quando ti arrestarono, parlasti alla polizia del Grassone?» «Perché diavolo avrei dovuto farlo?» «Avresti potuto segnare un punto a tuo favore.» «La verità è che non mi è neanche passato per la mente.» «È stato lui a farti venire voglia di diventare un serial killer?» «Parlava con cognizione di causa. Voglio dire, si capisce sempre se qualcuno finge, non credi?» Gli rivolse un radioso sorriso. «'È mai possibile che il mondo sia veramente così?' ricordo di essermi chiesto mentre lo ascoltavo. E la risposta fu: sì, certo. Perché dovrebbe essere diverso?» «Stai dicendo che fu il Grassone a indurti a credere che fosse giusto uccidere?» «L'ho detto?» «E allora cosa stai blaterando?» «Ti sto semplicemente raccontando la mia storia, Jim. Tocca a te interpretarla.» «E quando stavi in galera, Cary? Con tutto il tempo a disposizione, quali pensieri ti frullavano in testa?» «Jim, in galera non hai tempo a disposizione. Lì esistono soltanto chiasso, scompiglio, routine. Se ti isoli cercando di ragionare, ti spediscono dallo psichiatra.» Oakes bevve un ultimo sorso di succo d'arancia. «Ma capisco cosa stai insinuando.» Guardò il bicchiere vuoto. «Come vanno le ricerche sul campo, a proposito? Hai parlato con qualcuno di Walla Walla?» Girò tra le dita il bicchiere vuoto. «Una volta eliminati il succo e il ghiaccio, ti resta in mano un'arma letale.» Fece finta d'infrangere il bicchiere
sullo spigolo del tavolino, poi scoppiò in una risata che fece correre un brivido lungo la schiena di Jim Stevens. Mentre s'incamminava ancora una volta verso la sommità dei Salisbury Crags, Rebus tenne le mani in tasca e i pensieri per sé. Capiva che cosa passava per la mente del Caporale. Quella mattina, Darren Rough si trovava nell'appartamento di Rebus. Per quanto se ne sapeva, l'ispettore era l'ultima persona che l'aveva visto vivo. E Rebus era stato il suo persecutore, la sua nemesi. Il Caporale non avrebbe dato importanza alla cosa, ma altri potevano farlo: Jane Barbour o l'assistente sociale di Rough. Radicai Road era un viottolo sassoso che girava intorno ai Crags. Potevi imboccarlo accanto alla residenza universitaria, a Pollock Halls, e arrivare a Holyrood. Lungo il tragitto, avevi a tenerti compagnia il panorama della città, che si estendeva da sud e da ovest fino al centro e oltre. Tutto un complesso di guglie e sagome dentellate. Come la Cubist Town, la «Città cubista», cantata da Manfred Mann. E con Greenfield immediatamente sotto. «L'avevi trovato quassù, non è vero?» chiese il Caporale mentre camminavano. Rebus scosse la testa. «A St. Margaret Loch.» Il laghetto si trovava al di là di un vasto spigolo roccioso, alla base di una parete incredibilmente ripida. «Ma, se lo vuol sapere», aggiunse, «è da lassù che Jim Margolies è saltato.» Indicò un punto davanti a loro, dove la spianata terminava in qualcosa di molto simile a un profondo dirupo. La gente portava i cani a passeggiare in quel posto, senza avvicinarsi troppo allo strapiombo. Edimburgo era spazzata spesso da improvvise e maligne ventate, tanto forti che anche una sola poteva gettarti a terra. Il Caporale stava ansimando. «Sei ancora convinto che esista un collegamento tra Rough e Jim Margolies?» «Ora più che mai, signore.» Il cadavere giaceva sul sentiero, un po' più avanti, circondato da un'improvvisata recinzione messa dalla polizia. Alcuni passanti, intabarrati per proteggersi dal freddo, si accalcavano oltre i cordoni, allungando il collo per vedere meglio. Intorno al corpo era stato sistemato un telo di plastica bianco, a mo' di frangivento, in modo che potesse esaminarlo solo chi di dovere. Gli agenti stavano interrogando una donna che portava al guinzaglio un cocker nero: era stata lei a trovare il morto. Una passeggiata all'a-
perto, un rituale quotidiano che padrona e cane aspettavano con ansia. Da quel momento lei avrebbe scelto un percorso ben diverso, girando per sempre alla larga dai Salisbury Crags. «Mi sembra assurdo che intendano costruire la sede del nostro parlamento proprio laggiù», osservò il Caporale, guardando verso Holyrood Road. «Un vero e proprio buco. Il traffico sarà un incubo.» «Ed è nella nostra giurisdizione.» «Non sarà un problema mio, grazie al cielo.» Il Caporale storse il naso. «Quando arriverà quel giorno, io avrò già in una mano l'orologio d'oro e nell'altra una mazza da golf.» Superarono la recinzione. Gli uomini della scientifica erano già al lavoro, per tenere gli estranei lontani dalla scena del delitto e assicurare la cosiddetta «integrità». Ragion per cui il Caporale e Rebus dovettero indossare una sorta di camice e un paio di sovrascarpe, per non disseminare il locus di falsi indizi. «Il vento li avrà probabilmente già dispersi ai quattro angoli», brontolò Rebus. Ma era una protesta poco convinta: sapeva bene quanto fosse valido il lavoro di quella squadra e quale formidabile aiuto potessero fornire i rilievi scientifici e i responsi del perito settore. Un medico legale aveva già constatato il decesso della vittima. Di solito il patologo cui ricorrevano era il dottor Curt, ma si trovava a Miami per tenere una relazione a un congresso. Era stato sostituito dal suo superiore, il professor Gates, che in quel momento stava esaminando il cadavere in situ. Era un uomo grasso, con una folta capigliatura castana pettinata all'indietro e impomatata affinché nessun ciuffo gli ricadesse sulla fronte. Aveva in mano un piccolo registratore e parlava nel microfono mentre si spostava da un punto all'altro. Era costretto a sgomitare per farsi spazio: anche due agenti, uno con una macchina fotografica e l'altro con una videocamera, si aggiravano intorno al cadavere per riprenderlo. Il sergente George Silvers si fece avanti. Chinò la testa in segno di saluto al sovrintendente capo, ma indugiò in quella posa più del necessario, cosicché parve quasi che stesse facendo un inchino cerimonioso. Era un atteggiamento tipico di Silvers, al quale i colleghi avevano affibbiato il soprannome di «Hi-Ho». Era alle soglie della quarantina, sempre vestito e pettinato in modo inappuntabile, con un occhio perennemente rivolto alla promozione senza la necessaria concomitanza di un duro impegno. I capelli neri e gli occhi sprofondati nelle orbite lo facevano somigliare al mitico difensore del Liverpool, Alan Hansen.
«Riteniamo di aver rinvenuto l'arma del delitto, signore. Una pietra sporca di sangue e con qualche capello rimasto appiccicato.» Indicò il viottolo. «A una quarantina di metri da qui, in quella direzione.» «Chi l'ha trovata?» «Un cane, signore.» Gli vibrò una palpebra. «Quando siamo arrivati sul posto, aveva già leccato buona parte del sangue.» Il professor Gates sollevò lo sguardo da ciò che stava facendo. «Perciò, se il laboratorio, dopo i consueti esami, v'informa che la vittima aveva un bel pelame lucente, capirete qual è il problema.» Scoppiò a ridere, e Rebus lo imitò. Nel locus era sempre così: ognuno faceva finta che non ci fosse nulla di anormale, erigendo barriere per negare l'evidenza che tutto era anormale. «Mi è stato detto che tu potresti identificare ufficiosamente la vittima», aggiunse Gates. Rebus annuì, inspirò profondamente e si fece avanti. Il corpo giaceva supino, la parte posteriore del cranio sfracellata e impiastricciata di sangue, il volto premuto contro il terreno sassoso del viottolo. Una gamba aveva il ginocchio piegato, l'altra era distesa. Un braccio era bloccato sotto il corpo, l'altro proiettato in avanti, con le dita artigliate nella fredda terra. Rebus lo riconobbe subito dai vestiti, ma si accovacciò per esaminare ciò che si riusciva a vedere del viso. Per aiutarlo, Gates lo sollevò leggermente. Negli occhi si era spenta ogni luce; quanto alla barba di tre giorni, avrebbe provveduto l'impresario di pompe funebri a rasargliela. Rebus annuì. «Darren Rough», disse, con una voce divenuta improvvisamente impastata. Avendo sospeso l'intervista per fare un breve intervallo, Jim Stevens sedeva nudo sulla sponda del letto, con gli indumenti che si era tolto disseminati in giro; sul comodino, due bottigliette mignon di whisky, appena scolate. Stringeva il bicchiere vuoto e lo fissava, attraversandolo con lo sguardo, focalizzato su cose che il mondo non poteva vedere... PARTE SECONDA RITROVATO V'invito a fare un esame più attento dei vostri doveri e degli obblighi del vostro servizio terreno perché si tratta di qualcosa di cui noi tutti abbiamo
solo una pallida consapevolezza, e di rado... 27 Una delle scarpe doveva essersi sfilata dal piede di Rough e adesso si trovava a mezza strada tra il punto in cui giaceva il corpo e quello in cui era stata rinvenuta la pietra. Prima ipotesi: qualcuno aveva colpito con forza la vittima, che, intontita e barcollante, aveva tentato di sfuggire all'aggressore e d'un tratto aveva perso una scarpa, rimasta sul terreno. Alla fine, Rough era piombato a terra, dov'era poi morto per i colpi ricevuti. I latrati di un cane che si stava avvicinando avevano fatto capire all'aggressore che era il caso di tagliare la corda. Seconda ipotesi: Rough era morto subito, appena colpito, e il suo aggressore aveva trascinato il corpo sul viottolo, manovra durante la quale una scarpa si era sfilata dal piede. Forse l'omicida intendeva buttare di sotto il corpo, per dare l'impressione che Rough fosse saltato o caduto accidentalmente dai Crags. Era stato però costretto a mollarlo per via del cane che stava arrivando. «Ma, in ogni caso, che ci faceva il morto da quelle parti?» chiese qualcuno, una volta tornati nella stazione di polizia. «Credo che quel posto gli piacesse», rispose Rebus. Ormai a St. Leonard era ufficialmente considerato l'esperto di Darren Rough. «Era come un rifugio, un luogo in cui si sentiva al sicuro. E da lassù poteva tenere d'occhio Greenfield, vedere ciò che stava accadendo.» «Qualcuno allora l'ha seguito? Gli è saltato addosso all'improvviso?» «O l'ha convinto a salire fin lassù.» «Perché?» «Per simulare un suicidio. Forse aveva letto sui giornali la storia di Jim Margolies.» «È un'ipotesi...» Fioccavano ipotesi, teorie. E c'era chi pensava: finalmente ci siamo liberati di quel bastardo. Una settimana prima, sarebbe stata quella la reazione anche di Rebus. Era stata preparata un'apposita sala operativa, spostandovi i computer che di solito si trovavano in altre stanze dell'edificio. Il Caporale aveva affidato le indagini all'ispettrice capo Gill Templer. Lei era stata per un certo periodo l'amante di Rebus, ma si trattava di fatti così lontani nel tempo da sembrare accaduti in un'altra vita. Aveva i capelli sale e pepe, con un ta-
glio corto e scalato, e gli occhi verdi come smeraldi. Si mosse nella sala con aria sicura, controllando i preparativi. «Buona fortuna», le disse Rebus. «Voglio che tu faccia parte della squadra», replicò lei. La capisco, pensò Rebus. Gill stava schierando le proprie truppe e preferiva averlo con sé a sparare contro il nemico e non viceversa. «E desidero che tu mi faccia trovare al più presto sul tavolo un rapporto, con ogni possibile informazione su ciò che è accaduto fra te e la vittima.» Rebus annuì e si mise a lavorare a uno dei computer. Ogni possibile informazione: gli piaceva il modo di parlare di Gill, gli lasciava una scappatoia... Non doveva necessariamente dirle tutto ciò che sapeva, ma solo quanto si sentiva di rivelare. Guardò Siobhan Clarke, che, dall'altra parte della stanza, stava segnando i turni su una tabella affissa alla parete. Lei incrociò il suo sguardo e con le mani fece un segno a T. Rebus annuì e, cinque minuti dopo, la Clarke lo raggiunse con due bicchieri pieni di tè bollente. «Ecco.» «Grazie.» Da dietro la sua spalla, lei si mise a leggere il testo del rapporto sul monitor. «La pura e semplice verità?» gli chiese. «Tu che dici?» La Clarke soffiò sul proprio bicchiere. «Ha qualche idea di chi potesse volerlo morto?» «Me ne vengono in mente fin troppi, di possibili assassini. Una buona metà degli abitanti di Greenfield, per cominciare.» Specialmente Cal Brady, con la sua fedina penale sporca; per non parlare di sua madre... «Dargli la caccia e ucciderlo non sono esattamente la stessa cosa.» «No, ma l'una può degenerare nell'altra. Forse l'elemento scatenante è stato Billy Horman.» Lei si appoggiò al bordo del tavolo. «Colpito con una pietra... Non sembra esserci premeditazione, non le pare?» Colpito con una pietra... Deirdre, la nipote di Alan Archibald, era stata uccisa in modo molto simile: l'assassino le aveva spaccato la testa con un sasso e poi l'aveva strangolata. La Clarke parve leggere nei suoi pensieri. «Cary Oakes?» «Sappiamo già a che ora risale il decesso?» chiese Rebus, allungando la mano verso un telefono. «No, per quanto mi risulta. Il corpo è stato trovato alle undici e mezzo.»
«E noi ipotizziamo che l'omicida abbia sentito avvicinarsi qualcuno e sia fuggito.» Rebus aveva digitato un numero e stava aspettando. All'altro capo del filo rispose qualcuno. «Pronto, può passarmi la camera di James Stevens, per favore?» La Clarke lo guardò. Rebus appoggiò la mano sulla cornetta. «Voglio verificare che cos'è accaduto dopo colazione.» Ascoltò ancora, tolse la mano. «Può provare a passarmi la stanza di Cary Oakes?» Scosse la testa, per far capire alla Clarke che Stevens non era in camera sua. La telefonata stavolta andò a segno. «Oakes? Parla Rebus, passami Stevens.» Attese. «Una sola domanda: cos'è successo dopo colazione?» Ascoltò ancora. «L'hai sempre avuto sott'occhio? Siete rimasti in albergo tutta la mattina?» Ascoltò. «No, è tutto a posto. Lo scoprirai tra breve.» Riagganciò. «Hanno lavorato tutta la mattina.» «Allora è impossibile che sia stato Oakes.» Lei guardò il monitor. «D'altra parte, quale motivo avrebbe avuto per...» «Dio solo lo sa. Ma era venuto sotto casa mia. Ha rubato la macchina di servizio. Forse ha visto Rough andarsene e ha capito che aveva qualcosa a che fare con me.» «Lo può provare?» «No.» «In tal caso, lui non deve far altro che negare.» Rebus sospirò rumorosamente. «Con Oakes, è tutto un gioco.» All'altro lato della stanza, Gill Templer li stava fissando. «Sarà meglio che torni al lavoro», disse la Clarke, portandosi dietro il bicchiere di tè. Rebus finì di scrivere il rapporto, lo stampò e lo portò a Gill Templer. «Quando verrà eseguita l'autopsia?» Lei controllò l'ora. «Stavo giusto per andarci.» «Hai bisogno di un autista?» Lei lo fissò. «La tua guida è migliorata?» «Giudichi lei, signora.» L'obitorio cittadino era in disarmo. Sanità e Sicurezza: dovevano essere apportati alcuni cambiamenti. Nel frattempo, si faceva capo al Western General Hospital. Poiché non erano stati trovati parenti o amici del morto, era stato chiamato Andy Davies a confermare l'identificazione fatta da Rebus. L'assistente sociale era già lì quando Rebus e Gill Templer arrivarono;
durante le pratiche per il riconoscimento del cadavere non disse nulla a Rebus, ma, prima di andarsene, gli lanciò un'occhiata gelida. «Tra voi non corre buon sangue?» chiese la Templer. «Meglio che nessun sangue del tutto, Gill.» Dopo che ebbero indossato camici e mascherine, trovarono il professor Gates già al lavoro. Durante l'identificazione ufficiale, il cadavere di Rough era avvolto in un sudario; ora, disteso su un lettino di acciaio inossidabile, era completamente nudo. Aveva le costole sporgenti, notò Rebus. Gli venne in mente la cena che aveva offerto a Rough. Preparata di malavoglia. Fagioli e pane tostato. Probabilmente l'ultimo pasto di quell'uomo. E Gates adesso l'avrebbe rivelato al mondo. Rebus girò la testa di lato. «Hai il mal di mare, ispettore?» chiese il medico. «Riuscirò a resistere finché ci terremo alla larga dalla sentina.» Gates ridacchiò. «Eppure la parte sottocoperta è la più interessante.» Era intento a misurare, mormorando dati al suo assistente, un giovane con la faccia terrea come quella di un moribondo. «E tu come stai, Gill?» chiese il medico alla fine. «Oberata di lavoro.» Gates sollevò lo sguardo. «Una cara figliola come te dovrebbe stare a casa, ad allevare marmocchi forti e sani.» «Grazie per la fiducia.» «Non vorrai mica dire che ti mancano gli spasimanti?» disse Gates, ridacchiando di nuovo. Lei preferì ignorare la battuta. «E tu, John?» insistette Gates. «La tua vita amorosa è soddisfacente? Magari potrei fare la parte di Cupido e buttarvi l'uno nelle braccia dell'altra. Che ne dite, eh?» Rebus e la Templer si scambiarono un'occhiata. «Un mestiere come il nostro», continuò Gates strascicando le parole, «non può certo essere paragonato a quello di un legale o di un romanziere, non vi pare? Non è l'argomento più adatto per rompere il ghiaccio alle feste.» Fece un cenno al suo assistente. «Non dimenticarlo mai, Jerry. Devi mentire a proposito del tuo lavoro, altrimenti non ti porterai a letto nessuna.» La risatina finale di Gates si trasformò in una specie di ansimante latrato, una tosse bronchiale che lo fece piegare quasi in due. Dopo, si asciugò gli occhi. «Sarebbe ora di smettere di fumare», lo rimproverò la Templer. «Non posso farlo. Invaliderebbe la scommessa.»
«Quale scommessa?» «Quella tra il dottor Curt e me: chi di noi due vivrà più a lungo fumando venti sigarette al giorno.» «È una decisione...» La Templer stava per dire «morbosa», ma in quel momento si accorse che il cadavere era stato sezionato per il lungo senza che lei se ne fosse resa conto e capì il motivo per cui Gates continuava a parlare: per distrarre la mente dei presenti da ciò che stava facendo. Per alcuni istanti, l'espediente aveva funzionato. «Posso dirvi subito una cosa», continuò l'anatomopatologo. «I suoi indumenti erano umidi, e questo, per me, significa pioggia. Ho verificato: c'è stato un breve scroscio nelle prime ore di questa mattina, poi basta.» «Non può essersi bagnato mentre giaceva sul viottolo?» «Era disteso bocconi. Tutti gli indumenti sulla parte posteriore del corpo erano umidi. Perciò quest'uomo si trovava all'aperto quand'è caduto lo scroscio di pioggia, ma, se fosse vivo o morto, non lo posso dire. Però erano bagnati anche i capelli. Ora, se voi foste sorpresi da un improvviso acquazzone, non vi tirereste la giacca sulla testa?» «Dipende dallo stato d'animo», rispose Rebus. Gates si strinse nelle spalle. «Sto soltanto facendo qualche congettura. Ma di una cosa sono sicuro.» Calcò un dito sul corpo e tracciò una linea, lasciandosi dietro una scia bluastra. «Livor mortis. C'era già quando sono arrivato sulla scena del delitto, il che è avvenuto non più di tre quarti d'ora dopo che il corpo era stato scoperto.» «Ma questo lividore quando inizia?» «Be', nel momento stesso in cui il cuore smette di pompare, ma diventa visibile tra mezz'ora e un'ora dopo il decesso. Quando io sono arrivato, c'era già, senza dubbio.» «E che cosa puoi dirci sul rigor mortis?» «Le palpebre erano già rigide, così come la mascella. Prenderò un campione di potassio dal bulbo oculare, per calcolare meglio i tempi, ma posso dire fin d'ora che il corpo doveva essere lì da tre ore, forse più.» Rebus si spostò in avanti. Se Gates aveva ragione (e ciò si verificava invariabilmente), la donna che portava a spasso il cane non aveva disturbato l'omicida. Il killer se n'era già andato da un pezzo quando il cocker e la sua padrona erano giunti sul posto; quanto a Darren Rough, doveva essere morto tra le sette e le otto di quella mattina. Alle cinque dormiva sul divano di Rebus; alle sei aveva tagliato la corda... «È morto dove l'abbiamo trovato?» chiese, volendo una conferma ai suoi sospetti.
«A giudicare dai segni del livor mortis, direi che possiamo considerare l'ipotesi non tanto piazzata quanto vincente.» Il medico esitò. «Devo tuttavia confessare che, in altri tempi, ho perso qualche sterlina scommettendo sui cavalli.» «Abbiamo bisogno che l'ora della morte sia stabilita con assoluta certezza.» «Lo so che è questo che volete, ispettore. È sempre così. Eseguirò tutti i test che il budget mi concederà di fare.» «E nel più breve tempo possibile.» Gates annuì. Stava per cominciare a rimuovere gli organi interni. Jerry era intento a preparare gli strumenti necessari. Rebus pensava: tre ore, forse quattro. Pensava anche: Cary Oakes è rientrato in gioco. 28 Lo convocarono alla stazione di polizia per interrogarlo. Rebus si tenne alla larga, limitandosi ad ascoltare i nastri registrati. Il giornale di Stevens aveva messo a disposizione di Oakes un avvocato che lavorava per uno dei più importanti studi legali di Edimburgo, benché la Templer avesse insistito che intendevano rivolgergli solo un paio di domande, ottenere qualche immediato chiarimento. Ma Oakes non parlava. La Templer era brava e aveva con sé Pryde; tutti e due conducevano abilmente la partita, ma Rebus aveva la sensazione che Oakes conoscesse già tutte le mosse. Non era la prima volta che veniva sottoposto a interrogatori e controinterrogatori, che saliva sul banco dei testimoni: era passato attraverso quella trafila nell'aula di un tribunale americano. Se ne stava seduto e ripeteva di non sapere nulla dell'auto della polizia, d'ignorare dove abitasse Rebus, di essere totalmente all'oscuro di tutto ciò che potesse riguardare un pedofilo morto. Il suo commento finale fu: «Perché tanto casino per uno stupratore di bambini?» Mentre ascoltava il nastro registrato, Pryde, nel sentire quella frase, incrociò le braccia e strinse le labbra, perché era fondamentalmente d'accordo con Oakes. Quando chiese a Rebus se usciva con lui a fumare una sigaretta, l'ispettore, benché non vedesse l'ora di fare un tiro, gli rispose con un cenno di diniego e, poco dopo, si recò da solo nel parcheggio, dove prese a camminare avanti e indietro mentre fumava spasmodicamente una prima Silk Cut e poi, di fila, una seconda. Dieci al giorno, cercava di non supera-
re le dieci sigarette al giorno. Se fosse arrivato a dodici, l'indomani avrebbe dovuto limitarsi a otto. Ma otto erano sufficienti, ci sarebbe riuscito. Così per quel giorno poteva darsi un nuovo limite, aggiungere quelle due sigarette in più di cui sospettava di aver bisogno. Solo che, quella settimana, aveva già sforato; anzi, a dire la verità, aveva sforato per tutto il mese. Tom Jackson uscì, se ne accese una anche lui. Per un paio di minuti i due non parlarono, poi Jackson strofinò le suole delle scarpe sull'asfalto e ruppe il silenzio. «Ho sentito dire che lei l'aveva portato a casa sua.» Rebus espirò il fumo dal naso. «È vero.» «Generoso, fargli passare la notte da lei.» «E con questo?» «Be', non tutti sarebbero stati altrettanto caritatevoli.» «Non so se fosse carità.» «Cos'era, allora?» Già, cos'era? Buona domanda. «Alcuni giorni fa», continuò Jackson, «lei aveva tutte le intenzioni di metterlo al muro.» «Non esagerare.» «Diciamo che gli ha scatenato contro un'orda di cani rabbiosi.» «Vuoi dire i giornali o i suoi vicini?» «Entrambi.» «Fa' attenzione, Tom. Tu sei il loro poliziotto di quartiere. È del tuo gregge che stai parlando.» «Io sto parlando di lei: cos'è successo?» «Ha soltanto dormito sul mio divano, Tom. Non me lo sono mica portato a letto o roba del genere.» Rebus gettò a terra la sua terza sigaretta, la schiacciò col piede. Era fumata solo a metà, perciò poteva calcolare due e mezzo; arrotondando per difetto, due. «Non siamo ancora riusciti a ritrovare il ragazzo.» «Come va la madre?» Jackson capì che cosa sottintendeva la domanda e rispose a tono. «Nessuno sembra pensare che nasconda qualcosa.» «Quali sono i suoi precedenti?» «Billy è l'unico figlio. L'ha avuto a diciannove anni.» «Che fine ha fatto il padre?» «Al solito, ha tagliato la corda prima che il bambino nascesse. Si è dileguato nell'Ulster per unirsi ai paramilitari.»
«Ormai starà facendo carriera.» Jackson ridacchiò. «Da allora la madre di Billy ha avuto una mezza dozzina di uomini; si è messa con l'ultimo non più di qualche settimana fa.» «Tutti e tre nello stesso appartamento?» Jackson annuì. «È stato interrogato. Stiamo verificando i suoi precedenti.» «Scommetto cinque sterline che è in regola.» «Come? Uno che abita a Greenfield?» Jackson sorrise. «Non butti via così i suoi soldi.» Esitò. «Veramente non crede che possa esserci un legame col nostro defunto amico?» «È possibile, Tom, ma forse non come pensiamo noi.» «Cioè?» «Ci vediamo», replicò Rebus, incamminandosi. «Meglio non parlarne», diceva quella vecchia canzone dei Gravy Train. Disse a Patience che non sarebbe tornato a casa. Doveva esserci qualcosa nel suo tono di voce. «Qualche grana da affogare nell'alcol?» ribatté lei. «Mi conosci troppo bene.» Riattaccò prima che lei potesse aggiungere qualcosa. Iniziò da The Maltings, risalì Causewayside fino a Swany's, poi prese un taxi e si fece portare all'Oxford Bar. La sua auto era rimasta a St. Leonard; poco male, la mattina sarebbe andato in ufficio a piedi. Salty Dougary, uno dei clienti abituali di Young Street, era appena uscito dall'ospedale: aveva avuto una trombosi coronarica ed era stato operato, angioplastica o qualcosa del genere. Lo stava raccontando a tutto il bar. Per un qualche motivo che Rebus non riusciva a capire, a Dougary era rimasta una cicatrice che partiva dall'inguine. «Strano modo di arrivare al cuore di un uomo», commentò Rebus, tracannando un altro whisky. Li diluiva con acqua, ma non troppa. Stava bene, non avvertiva segni di sbornia; aveva solo la bocca un po' impastata. Però sapeva che, se fosse uscito dal locale, avrebbe cominciato a sentire gli effetti dell'alcol. Una buona scusa per restare fermo, come quel personaggio di Apocalypse Now. «Non abbandonare mai la barca». Solo quando abbandoni la tua imbarcazione finisci per trovarti nei guai. La stessa cosa, pensava Rebus per esperienza diretta, valeva per i pub; ed era quello il motivo per cui indugiava ancora nell'Ox quand'era già mezzanotte e mezzo. La saletta sul retro era stata requisita da alcuni suonatori, una dozzina se non più: in massima parte chitarristi, che eseguivano blues. Un tizio con la
barba suonava l'armonica come se avesse avuto di fronte la folla del Madison Square Garden. Janis Joplin: Buried Alive in the Blues. Stava chiacchierando con George Klasser, un medico del Poliambulatorio, che di solito se ne andava di buon'ora: alle sette, o poco dopo. Quando si tratteneva più a lungo, era segno che si aspettava di trovare a casa un clima di tensione. Aveva iniziato la serata avvisando Salty Dougary di andarci piano, con l'alcol. «Da che pulpito viene la predica», era stata la risposta di Dougary, che aveva l'aspetto di un uomo reduce da una vacanza, piuttosto che da una sala chirurgica: viso abbronzato, dose quotidiana di sigarette ridotta da quaranta a dieci. Klasser invece aveva borse scure sotto gli occhi e un leggero tremito alla mano quando si portava il bicchiere alle labbra. Rebus si rammentò di uno zio che aveva fumato, ogni giorno della sua vita, un intero pacchetto di sigarette ed era arrivato a ottant'anni, mentre il fratello, suo padre, era morto più giovane, pur avendo smesso di fumare già da due decenni. Non si può mai dire. Nella parte anteriore del bar erano rimasti soltanto in quattro, o meglio in cinque, se si contava anche Harry. Dougary, che si era sbronzato in ogni pub della città, era convinto che Harry fosse il barman più villano di tutta Edimburgo, cosa non facile, data la concorrenza. «Vorrei vedervi alzare i tacchi e andare a casa», disse Harry; ed era l'ennesima volta che lo ripeteva, quella sera. «La notte è ancora giovane, Harry», replicò Dougary. «Ma perché diavolo ti hanno dimesso dal reparto di terapia intensiva?» Dougary gli strizzò l'occhio. «È proprio per farmi una terapia intensiva che sono qui.» Brindò a tutti i presenti alzando il bicchiere, poi se lo portò alle labbra. Venti minuti prima, Rebus aveva raccontato a Klasser la storia di Darren Rough. E, in quel momento, Klasser si girò verso di lui, socchiudendo gli occhi. «Mi è tornato in mente un famoso caso di omicidio. A cavallo del secolo, mi pare. Una coppia tedesca venne a Edimburgo in luna di miele, ma saltò fuori che il marito voleva, più che l'amore della donna, il suo denaro. Ideò un piano per farla fuori, in modo che sembrasse un suicidio. La portò a passeggiare sull'Arthur's Seat, poi la spinse giù dai Crags.» «E riuscì a sfangarla?» «Ovviamente no, altrimenti non sarei qui a raccontarti la storia.» «Come fu scoperto?»
Klasser fissò il bicchiere. «Questo non me lo ricordo.» Dougary rise. «Attento, se ti racconta una barzelletta, perché dimentica sempre la battuta finale.» «La battuta te la do io tra poco, Salty.» «Mettiti in coda», commentò Harry. Alcune sere era quella l'atmosfera che regnava all'Oxford Bar. Quando i chitarristi tolsero il disturbo, Rebus infilò il soprabito. Fuori, soffiava un forte vento ed era piovuto di nuovo, le strade erano nere e lucide come le elitre di una blatta. Gli era venuta improvvisamente voglia di telefonare a Janice, ma cosa avrebbe potuto dirle? Di Damon non c'erano notizie. S'incamminò lungo Princess Street, dicendosi che era così che gli piaceva la città, con tutti i turisti rintanati nei propri letti. Davanti al Balmoral Hotel, una fila di Jaguar e Rover, con gli autisti in attesa che terminasse la riunione o quel diavolo che era. Una giovane coppia, che si passava di mano una bottiglia di sidro scadente, lo superò. Lui indossava un giubbotto con un distintivo: Stockholm Film Festival, c'era scritto. Rebus non ne aveva mai sentito parlare. Forse era il nome di una band: ormai non si poteva più essere sicuri di niente. Proseguì a piedi fino ai ponti, si fermò accanto a un tratto di cancellata per guardare in basso, verso il Cowgate. Laggiù alcuni locali notturni erano ancora aperti, folle di adolescenti si riversavano nelle strade. Quando il Cowgate diventava così, la polizia lo chiamava con nomi diversi: Piccola Saigon, Banca del sangue, Inferno in terra. Persino le auto della polizia pattugliavano la zona in coppia. All'improvviso si udirono acclamazioni e grida: erano comparse due ragazze, in abiti più che succinti. E un ragazzo si era inginocchiato in mezzo alla strada, supplicando di essere preso in considerazione. I Pretty Things che cantavano: «Grida dal circo di mezzanotte»... A Edimburgo, a volte poteva essere mezzanotte anche in pieno giorno... Rebus non sapeva dove stava andando, che cosa stava facendo. Se stava tornando a casa, lo faceva solo per gradi. Quando vide profilarsi in distanza un taxi, lo chiamò. Fu un improvviso impulso a fargli dire la destinazione. «La Riva.» 29 L'intenzione era di...
L'intenzione era di piazzarsi davanti all'albergo, in quel freddo pungente, e di chiamare col cellulare la stanza di Oakes. Farlo scendere... Niente sprangate sulla nuca, stavolta. Faccia a faccia. Ma era l'alcol a indurlo a ragionare così, nient'altro. Rebus sapeva che non l'avrebbe fatto; sapeva che, comunque, Oakes non avrebbe abboccato. Guardandosi intorno, sulla Riva, notò che il Clipper era illuminato e che un buttafuori era fermo all'ingresso. Allora attraversò il ponte e si presentò. Il buttafuori si stava asciugando il sudore che gli imperlava la faccia. Dall'interno giungevano un confuso vociare e qualche scoppio di risa. «C'è una festa?» chiese. «Non mi dica che si è lamentato qualcuno», grugnì il buttafuori. Aveva un accento di Liverpool. A giudicare dalla stazza, Rebus avrebbe scommesso che discendeva da una famiglia di scaricatori di porto. «Ci mancherebbe solo questo, adesso.» «Qualche problema?» «I clienti non hanno intenzione di togliersi dai piedi, capito?» «Ha provato a chiederlo gentilmente?» L'uomo sbuffò. «Non c'è qualcuno che possa darle una mano?» «Quando abbiamo spento la musica, sembrava che tutti stessero per levare le tende. Il DJ ha fatto fagotto ed è filato a casa. Il signor Frost... il mio capo, l'ha seguito a ruota. Mi ha detto che dovevo semplicemente spegnere le luci e chiudere a chiave prima di andarmene.» «Lei è nuovo, in questo mestiere.» Il buttafuori sorrise. «Si vede?» «Immagino che abbia con sé un telefono cellulare. Perché non chiama il signor Frost?» «Non ho il suo numero di casa.» «Si tratta per caso di Archie Frost?» «Proprio lui.» Rebus era pensieroso. «Vuole che parli io con quella gente?» Indicò con la testa il battello. «Vediamo se riesco a farli sloggiare?» Il buttafuori lo fissò. Conosceva bene il rapporto che si poteva instaurare tra chi faceva il suo lavoro e uno come Rebus: un favore fatto adesso poteva significare un favore reso in seguito. Sentendo un fruscio, si girò. Uno dei partecipanti alla festa era salito sul ponte e stava per pisciare in acqua. Emise un sospiro. «Perché no?» disse infine. Rebus montò sull'imbarcazione.
Un tizio era crollato sul ponte, con una bottiglia di champagne stretta al petto. Una cravatta a farfalla gli penzolava dal collo; l'orologio che portava al polso era un Rolex d'oro. Il tipo che stava utilizzando l'Albert Basin come cesso privato ondeggiava avanti e indietro sui calcagni, canticchiando il ritornello di qualche canzone pop. Nel vedere Rebus, gli rivolse uno smagliante sorriso. L'ispettore lo ignorò e scese la scaletta che portava sottocoperta. Lo spazio era stato sistemato nel modo più funzionale per una festa: sedie e tavoli erano disposti intorno a una lunga e stretta pista da ballo. Il bar a un'estremità, un improvvisato palcoscenico all'altra. Come illuminazione, una serie di faretti, più un globo a specchio sulla pista da ballo. Il bar era stato chiuso con alcune paratie assicurate con un lucchetto, che un altro ubriaco stava cercando di aprire con uno stuzzicadenti di plastica. Due tavoli e una dozzina di sedie erano stati rovesciati. Sparsi sul pavimento, oltre ad alcuni indumenti dimenticati dai proprietari, c'erano patatine fritte, noccioline, bottiglie vuote, pezzi di panini imbottiti e fettine di quiche calpestate. L'attività principale si svolgeva intorno a due tavoli che erano stati uniti tra loro. Vi sedevano dalle quattordici alle quindici persone, le donne in grembo agli uomini, tutti intenti a sbaciucchiarsi con aria famelica. Qualche coppia era impegnata in una conversazione muta. Uno o due individui dormivano della grossa. Un nocciolo duro di cinque persone (tre uomini, due donne) si stava raccontando storie confuse, ricordando gli episodi salienti della serata, in cui alcol, vomito e sesso la facevano da padroni. «Felice di rivederla», disse Rebus ad Ama Petrie. «Questa è una delle sue feste, vero?» La ragazza aveva la testa sulla spalla del giovanotto seduto accanto a lei. Il mascara le era leggermente colato, dando agli occhi un'aria stanca. L'abito corto era di una stoffa nera che sembrava una garza a rete, a strati sovrapposti. I piedi nudi erano posati in grembo all'uomo che le stava davanti, il quale stava giocherellando con le sue dita. «Oh, Cristo», disse quest'ultimo, socchiudendo gli occhi, «hanno mandato i rinforzi. Senti, brav'uomo, abbiamo pagato per tutta la serata... in contanti e in anticipo. Perciò alza i tacchi e...» «Oscar, pezzo d'idiota, è un poliziotto», lo interruppe Ama Petrie. Poi si rivolse a Rebus: «Piacere di rivederla». Era un saluto automatico, una frase fatta che non era riuscita a trattenersi dal pronunciare, anche se i suoi occhi dicevano tutt'altro. Facevano capire a Rebus che non era per nulla contenta d'incontrarlo di nuovo.
«Be'», ribatté Oscar, sorridendo ai presenti, «in tal caso, fa' pure il tuo dovere, sbirro, ma è la società che dovresti incolpare. Non mi ha mai concesso neanche una chance.» Scivolò in quella parte con somma disinvoltura, strappando al suo pubblico sorrisi e risate. Rebus fissò i volti intorno a sé: erano quelli di rampolli delle più ricche famiglie di Edimburgo. Abitavano nella New Town, in appartamenti avuti in regalo da genitori prodighi. Organizzavano feste, nottate insonni. Forse di giorno andavano a fare shopping, o pranzavano, o seguivano qualche lezione all'università; forse scorrazzavano in campagna al volante delle loro auto sportive. La loro vita era predestinata: un posto nell'azienda di famiglia o un lavoro «su misura», qualcosa che fossero in grado di gestire, che richiedesse un'innata capacità d'imporsi e uno sforzo minimo. E tutto sarebbe stato offerto loro su un piatto d'argento, perché così andava il mondo. «Peccato che non sia in uniforme, eh, Nicky?» «Che abbiamo fatto, signore?» chiese un altro giovane. «Be', vi state trattenendo nel locale più del previsto», rispose Rebus. «Ma questo non mi riguarda. Posso chiedere chi ha organizzato la festa?» Stava guardando Ama. «Io, se proprio lo vuole sapere», disse il tizio che con lo stuzzicadenti cercava di riaprire il bar, girandosi. Scostò dalla fronte un folto ciuffo di capelli biondi. Aveva un viso magro, lineamenti femminei. «Sono Nicol Petrie, il fratello di Ama.» Rebus immaginò che fosse lui il Nicky di prima: Peccato che non sia in uniforme, eh, Nicky? Doveva avere poco più di vent'anni, con la barba non rasata come voleva la moda, cosicché la sua faccia sembrava coperta di scintillanti aculei dorati. «Ascolti», disse, «farò subito togliere le tende da questa barca, lo giuro.» Poi, rivolto agli amici: «Andiamo a casa mia. Là c'è un sacco di roba da bere». «Voglio andare in un casinò», disse una ragazza in tono lamentoso. «Me l'hai promesso.» «Tesoro, l'ha detto soltanto per rimediare un pompino.» Scoppi di risa, dita puntate. Ama aveva gli occhi chiusi, ma ridacchiava, mentre coi piedi strofinava l'inguine dell'amico. Ripresero a parlare tra loro, sembrava che tutti si fossero dimenticati della presenza di Rebus. Lui infilò una mano in tasca e ne estrasse due fotografie, che tese a Nicol Petrie. «Il nome del ragazzo è Damon Mee. Era uscito da un locale notturno con quella bionda, probabilmente per venire qui, dov'era in corso una festa
organizzata da sua sorella.» «Sì», replicò Nicol Petrie, «Ama mi ha raccontato tutto.» Esaminò le foto, scosse la testa. «Mi dispiace.» Le restituì a Rebus. «Lei era qui, durante quella festa?» Petrie annuì. «C'eravate tutti?» I presenti fissarono Ama, la quale spiegò di quale festa si trattasse. Soltanto una coppia non aveva partecipato, a causa di precedenti impegni. Rebus passò comunque le foto in giro. Nessuno le osservò con molta attenzione: mentre le facevano girare, continuavano a chiacchierare tra loro. «Mi andrebbe solo un po' di salmone affumicato.» «Il prossimo venerdì c'è il ricevimento di Alison: ci vai?» «Certo che l'allungamento dei capelli ti cambia faccia di colpo...» «Stavo pensando di fondare una società, comprare un cavallo da corsa...» Ama Petrie non guardò neppure le foto; si limitò a passarle a chi le stava accanto. «Mi dispiace», disse l'ultimo del gruppo, rendendole a Rebus prima di riprendere la conversazione interrotta. Nicol Petrie sembrò volersi scusare. «Le prometto che ce ne andremo subito, il tempo di chiamare qualche taxi.» «Benissimo.» «E mi dispiace che nessuno di noi le sia stato d'aiuto.» «Non si preoccupi.» «Una volta sono scappato anch'io di casa...» «Nick, avevi soltanto dodici anni», intervenne Ama Petrie, in tono strascicato. «Comunque so quanto dolore hanno provato mia madre e mio padre.» Ama pareva di tutt'altra opinione. «Ma se quasi non si sono accorti che te l'eri svignata.» Lo guardò. «La polizia l'ho chiamata io.» «E che successe?» chiese Rebus. «Ero andato da un mio amico», spiegò Nicol Petrie. «Quando i suoi genitori vennero a sapere che mi si dava per scomparso, mi riportarono a casa.» Si strinse nelle spalle. Due dei presenti scoppiarono a ridere. «Va bene», riprese Nicol Petrie. «Andiamo a casa mia. La notte è ancora giovane e lo siamo anche noi!» A quelle parole si levarono applausi. Rebus ebbe l'impressione che non fosse la prima volta che Nicol chiamava così a raccolta le sue truppe. «Dov'è Alfie?» chiese Ama.
«È andato a pisciare», le risposero. Rebus si avviò verso la scaletta. «Grazie comunque», disse al fratello di Ama. Nicol Petrie gli tese la mano, che Rebus strinse. Peccato che non sia in uniforme... Che diavolo aveva voluto dire? Rebus risalì all'aria aperta. Il tizio che si era appena svuotato la vescica - Alfie era seduto sul ponte, a gambe spalancate. Aveva dimenticato di riabbottonarsi i pantaloni. «Te ne vai così presto?» chiese. «Si trasferiscono tutti a casa di Nicky», rispose lui, come se fosse stato uno del gruppo. «Caro, vecchio Nicky», commentò Alfie. «Sei Alfie, vero?» Il giovane sollevò lo sguardo, cercando d'identificare Rebus. «Scusa, non mi pare...» «Mi chiamo John.» «Certo, John.» Un rapido cenno di assenso. «Non dimentico mai una faccia. Sei nel campo finanziario?» «Della sicurezza.» «Non dimentico mai una faccia.» Alfie fece per rimettersi in piedi. Rebus l'aiutò. Aveva ancora in mano le sue foto. «Tieni», disse, «da' un'occhiata.» Senza aggiungere altro, gliele passò. «Il fotografo doveva essere ubriaco», commentò Alfie. «Non sono molto a fuoco, vero?» «Sono orrende. Io ho un amico che fa il fotografo. Aspetta, ti do il suo numero.» Infilò una mano in tasca. «Ma questo qui lo conosci», incalzò Rebus, indicando la foto di Damon scattata in vacanza. Alfie la guardò, strizzando gli occhi, se l'avvicinò al naso, la girò per metterla alla luce. «Mi vanto di non dimenticare mai una faccia, ma, in questo caso, farò un'eccezione.» Quella battuta gli strappò una smorfia divertita. «La signora, invece...» «Alfie!» Ama Petrie era in cima alla scaletta, le braccia conserte per difendersi dal freddo. «Vieni, ce ne stiamo andando.» «Splendida idea, Ama.» Alfie batteva le ciglia così lentamente che Rebus pensò stesse per crollare addormentato. «Mi dicevi che, per quanto riguarda la bionda...» insistette. Ama si era avvicinata. Prese a tirare l'amico per la manica. Alfie batté la mano sul braccio di Rebus. «Ci vediamo da Nicky, vecchio mio.»
«Muoviti, Alfie.» Ama gli pizzicò una guancia e lo spinse verso la scaletta. Si girò per lanciare una rapida occhiata a Rebus. Sembrava... furiosa? Sollevata? Le due cose insieme? Quando sparirono dalla sua vista, Rebus scese dal battello. «Stanno per andarsene», disse al buttafuori. «Evviva.» «Mi deve un favore», disse l'ispettore e attese che l'altro gli facesse un segno di assenso. «Per pareggiare il conto, vorrei che mi spiegasse cos'ha a che fare Archie Frost con Billy Preston.» «Lavora per lui, come me. Tutto qui.» «Eppure dirige Gaitano's per conto di Charmer Mackenzie.» Il buttafuori stava annuendo. «Già.» «Nessun conflitto d'interessi?» «Perché?» Rebus socchiuse gli occhi. «Mackenzie è il proprietario del battello?» Il buttafuori si umettò le labbra. «Per metà. Preston ha l'altro cinquanta per cento.» Charmer Mackenzie era proprietario di metà del Clipper. E possedeva il Gaitano's. Damon era stato nel locale notturno ed era stato visto per l'ultima volta nei pressi del battello. Rebus cominciava a chiedersi... «Ora siamo pari», disse il buttafuori, mentre i giovani percorrevano la passerella a passi di conga. Rebus tornò nel suo appartamento, ma non riuscì a prendere sonno. La coperta sotto cui aveva dormito Darren Rough era ancora ripiegata sul divano e lui non trovò la forza di toglierla. Invece si sedette in poltrona, aspettando che arrivassero i fantasmi. Forse con loro ci sarebbe stato anche Darren, o forse lui aveva altre anime da ossessionare. Ma non giunse nessun fantasma. Rebus si appisolò. Quando si risvegliò, con un sobbalzo, decise che si sarebbe sentito meglio all'aperto. Attraversò i Meadows, passò oltre il Poliambulatorio. Si diceva che quest'ultimo sarebbe stato spostato in periferia, a sud di Little France. Giravano voci che, nell'area della vecchia struttura ospedaliera, sarebbero sorti alcuni condomini o, forse, un albergo. Una posizione in pieno centro cittadino, ma chi avrebbe voluto un appartamento lì dove un tempo c'era una sorta di nosocomio? Si fermò davanti a Greyfriars Bobby, che, dopotutto, era soltanto un cane che non aveva nessun altro posto in cui andare, niente di meglio da fare.
Allungò la mano e carezzò la testa della statua. «Cuccia», disse, dirigendosi poi verso il George IV bridge. Qualche taxi in cerca di clienti rallentò passandogli accanto, ma lui li liquidò tutti con un cenno e scese i Playfair Steps fino alla National Gallery e la Royal Academy. Superò un paio di barboni profondamente addormentati, osservò il Castello la cui sagoma ricominciava a stagliarsi contro il cielo, mentre la notte lasciava il posto al mattino. Ripensò ai suoi nonni, i cui nomi erano sepolti chissà dove nell'Albo della Gloria custodito al Castello. Non riusciva neppure a ricordare in quali reggimenti avessero militato. Erano morti entrambi nella Grande Guerra, molto prima che i genitori di Rebus si conoscessero. Princess Street aveva la solita aria disordinata. I marciapiedi, quand'erano deserti, sembravano enormi. Rebus deviò verso Burger King ed entrò da Penny Black, che apriva i battenti alle cinque del mattino. C'erano già due avventori col bicchiere in mano. Ordinò un whisky e aggiunse acqua in abbondanza. «Ehi, amico, lo stai affogando», commentò uno dei presenti. Lui si limitò a sorridere, senza spiegare che l'acqua era il suo salvagente. Sul bancone era appoggiata una copia dello Scotsman, l'edizione del mattino. Rebus sfogliò rapidamente il giornale. C'era un resoconto di ciò che era stato dibattuto il giorno precedente nell'aula del processo Shiellion, più un accenno alla «misteriosa morte» di Darren Rough e alla scomparsa di Billy Horman. Veniva riportata una dichiarazione anonima di un membro del GAP in cui si diceva che la colpa della sparizione del ragazzo era da attribuire a Rough. «Noi siamo felici e sollevati all'idea che un esponente di questa feccia schifosa sia sparito dalla faccia della Terra. Speriamo che anche tutti gli altri facciano la stessa fine.» Van Brady, la predicatrice. Si parlava di un comitato dei residenti, si diceva che i nuovi arrivati a Greenfield si sarebbero dovuti sottoporre all'approvazione dei vicini. Si ventilava l'ipotesi d'istituire pattuglie locali, posti di blocco, una qualche sorta di sbarramento per impedire agli «indesiderabili» di entrare a Greenfield e di «incanaglire» il quartiere. Rebus sapeva che l'intera Scozia desiderava un governo autonomo, ma in quel caso si stavano raggiungendo limiti estremi. «Abbiamo un computer nel centro civico di zona», diceva la portavoce di Greenfield, «e adesso intendiamo collegarci a Internet, per poter chiedere consiglio ai Guardian Angels. Ci auguriamo di poter acquistare il sof-
tware necessario grazie al premio di una lotteria. Questa comunità non merita di meno.» Se gli abitanti di Greenfield avessero istituito una squadra di vigilantes, chi sarebbe stato il più adatto a guidarla? si chiese Rebus. E Cal Brady gli venne subito in mente... Finì il suo whisky e decise di far colazione a Leith, dove c'era una caffetteria che apriva alle sei e offriva porzioni abbondanti e una relativa tranquillità. Percorse l'intera Leith Walk, trovò il locale e si sedette. Avendo già letto il giornale, non gli rimase che masticare una mezza fetta di pane tostato e guardare fuori della vetrata. Quando un taxi si fermò al semaforo di fronte alla caffetteria, Rebus riuscì a intravedere il passeggero. Cercò di osservarlo meglio, ma la vettura stava già ripartendo, per riportare Cary Oakes al suo albergo. Rebus però riuscì a scorgere il numero di targa e lo annotò sul dorso della mano. Sorseggiò il tè bollente per mandare giù il pane, poi domandò al proprietario del locale se poteva usare il telefono. Chiamò una società di taxi e chiese al centralinista di essere messo in contatto col guidatore di quella particolare vettura. «Sta scherzando? Lo sa quante ne abbiamo?» «Su, faccia del suo meglio.» Comunicò il numero del suo cellulare, poi chiamò le altre società di taxi della città. Tutti sembravano convinti che fosse praticamente impossibile soddisfare quella sua pretesa, ma Rebus, arrivato a St. Leonard, ottenne l'informazione che sperava. Il taxista era tornato alla base, avendo concluso il proprio turno. Rebus poté parlare con lui. «Ha accompagnato un cliente a Leith, credo dalle parti della Riva. Circa un'ora fa.» «Sì, la mia ultima corsa.» «Dove l'aveva raccolto?» «Nei paraggi di Corstorphine, appena prima della rotatoria di Maybury. Che ha combinato, quel tizio?» Corstorphine: dove abitava Alan Archibald. Rebus ringraziò il taxista e chiuse la telefonata. Si recò nella toilette della stazione di polizia, per lavarsi e radersi, e ingoiò due compresse di analgesico con un goccio di caffè. La sala operativa era deserta, non c'era ancora nessuno al lavoro. Osservò le foto attaccate alla parete. La nipote di Archibald era stata uccisa su un'altura, proprio come Darren Rough. C'era un legame? Ripensò a Cary Oakes, che vagava libero per la città. Sollevò la cornetta di uno dei telefoni e chiamò Patience.
«Pronto», rispose lei, con voce impastata dal sonno. «Su, sveglia.» Poté sentirla stirare la schiena, mentre si rizzava a sedere nel letto. «Che ore sono?» Glielo disse. «Non potendo far colazione con te, ho pensato di telefonarti.» «Dove sei?» «A St. Leonard.» «Hai dormito nel tuo appartamento?» «Soltanto un pisolino.» «Non so come tu faccia.» Si stava probabilmente ravviando i capelli che le ricadevano sugli occhi. «Io ho bisogno di dormire otto ore come minimo.» «Dicono che sia un segno di coscienza pulita.» «E di te che dicono?» Sapeva che lui non avrebbe risposto, perciò gli chiese se si sarebbero visti a cena. «Credo proprio di sì», rispose Rebus. «Sempre che tu lo voglia, ovviamente.» «Ovviamente», ripeté Patience. Poi: «Come va la testa?» «Bene.» «Bugiardo. Cerca di stare almeno un giorno senza sbronzarti, John, fallo per me. Un giorno solo, poi mi dirai se non è vero che, di mattina, ci si sente molto meglio.» «Lo so che hai ragione, ma non appena bevo un bicchiere, me ne dimentico.» «Ciao, John.» «Ciao, Patience.» Patience: quanta pazienza, non solo di nome, ma anche, se non più, di fatto... 30 Rebus e Gill Templer, nella Stanza B degli interrogatori, con Cal Brady. Stanza B: la stessa in cui Rebus aveva portato Darren Rough; la stessa in cui aveva incontrato per la prima volta Harold Ince durante l'inchiesta per il caso Shiellion. Stavano interrogando di nuovo Cal Brady perché alla Templer erano rimasti alcuni punti da chiarire. «È stato lei ad appiccare il fuoco», gli disse.
«Davvero?» Brady si guardò intorno, spalancando gli occhi. «Allora sarebbe meglio far venire un avvocato.» «Non faccia lo spiritoso.» «No, bastate voi, a far ridere.» «Si sparge la notizia che Billy Horman è scomparso e, subito dopo, lei va ad appiccare il fuoco all'appartamento di Darren Rough. A pensarci bene, c'è da supporre che lei avesse qualcosa da guadagnarci.» Fece una pausa, girando i fogli che aveva davanti. «O qualcosa da nascondere.» «Tipo?» Brady se ne stava stravaccato sulla sedia, le braccia conserte. «È quello che mi sto chiedendo.» Brady sbuffò, girando lo sguardo verso Rebus. «Che, ha perso la voce, lei?» Rebus non reagì. Gill Templer era perfettamente in grado di tenere testa a individui come Cal Brady. «Tutti erano andati in strada alla ricerca di Billy», continuò la Templer, «lei invece è rimasto dov'era. Perché?» Brady si agitò sulla sedia. «Per badare alla mamma di Billy Boy.» La Templer fece finta di controllare i propri appunti. «Joanna Horman?» Aspettò che Brady annuisse. «Ma a una cosa del genere non dovrebbero provvedere le donne, eh, Calumn? Tenere la mano di quella povera madre, offrirle comprensione e un bicchiere di rum e Coca-Cola. Mi sembrava che lei fosse piuttosto un uomo d'azione.» «Qualcuno doveva farlo.» «Ma perché, mi chiedo, proprio lei? Forse aveva messo gli occhi addosso a quella donna. È possibile che tra voi due ci fosse già una relazione...?» Indugiò di nuovo. «O non è invece possibile che lei sapesse già che era inutile cercare Billy Horman...?» Brady picchiò un pugno sul tavolo. «La pianti!» S'infiammava facilmente. «Tutti sanno cos'è capitato a Billy Boy. È stato rapito da Rough o da un tipo del suo genere.» «Allora dov'è?» «Come diavolo posso saperlo?» «E chi ha ucciso Darren Rough?» «Se l'avessi ammazzato, non sarebbe rimasto tutt'intero.» «E se le dicessi che è proprio così?» La Templer gli stava tendendo un trabocchetto. Brady parve sorpreso. «Davvero? Nessuno ha detto...» La Templer consultò i suoi appunti. Poi: «Ispettore Rebus, credo che lei
abbia qualche altra domanda da rivolgere al signor Brady». Rebus le aveva spiegato alcuni aspetti della situazione, mettendo in chiaro ciò che gli interessava. Si avvicinò al tavolo, vi appoggiò le nocche. «Come hai conosciuto Archie Frost?» «Archie?» Brady lanciò un'occhiata alla Templer. «Che c'entra col resto?» «È un'altra inchiesta, Brady. Che non ha nessun collegamento con le precedenti, a parte, forse, quello rappresentato da lei.» «Non ci arrivo.» «Ora lo vuole, quell'avvocato?» Brady meditò, poi si strinse nelle spalle. «Faccio qualche lavoretto per lui.» «Per il signor Frost?» «Sì. Di tanto in tanto, la notte, sto alla porta del suo locale.» «Sei un buttafuori?» «Devo evitare i casini.» Rebus tirò di nuovo fuori le foto. Ormai erano spiegazzate e coi bordi consunti, sporche e piene di ditate. «Ricordi che ti avevo chiesto se sapevi dirmi qualcosa di queste persone?» Brady guardò le foto. «Quella sera non c'ero io, alla porta.» «A quale sera alludi?» Brady sollevò lo sguardo dalle foto. Rebus stava sorridendo. «Parlando col signor Frost, non ricordo di aver fatto date.» «Se quella sera fossi stato al lavoro, l'avrei notato, quel ragazzo. C'eravamo beccati, una volta. Con me alla porta, non sarebbe certo entrato nel locale.» Rebus strinse le palpebre. «Beccati? Per quale motivo?» Brady si strinse nelle spalle. «Bah, niente. Lui era un po' brillo e faceva troppo casino. Allora gli ho detto di darsi una calmata, ma lui ha continuato. Due di noi lo hanno scortato fuori della zona riservata ai clienti.» Brady si sentì orgoglioso di quella sua ultima frase; ne sorrise. Aveva fatto ricorso ad abili eufemismi: «scortare», «zona riservata ai clienti». «Non sei mai di servizio all'entrata del Clipper?» Brady fece un cenno di diniego. «Ma lavori per il proprietario.» «Mackenzie possiede una parte dell'imbarcazione, tutto qui.» «Però è lui a fornire i buttafuori.» «Una volta ci ho provato, ma non mi è piaciuto.» «Perché?»
«Tutte quelle puttanelle arroganti e quegli spuzzini che pensano di poterti trattare come una merda solo perché hanno un po' di soldi.» «Capisco perfettamente ciò che intendi.» Brady lo fissò. «No, parlo sul serio, ho avuto modo di conoscerli.» Rebus stava ancora pensando allo screzio tra Brady e Damon Mee. Aveva sempre creduto che quella fosse stata, per il giovane, la prima e ultima volta in cui aveva messo piede al Gaitano's; nessuno gli aveva detto il contrario. «Il fatto, Cal, è che Damon è scomparso e io sono un po' come Gulliver in una delle latrine di Lilliput.» «Eh?» «Non ho granché a mia disposizione.» Mentre Gill Templer ridacchiava per la battuta, Rebus iniziò a contare sulle dita. «Ho la scomparsa di Damon, visto per l'ultima volta mentre, in compagnia di una bionda, scendeva da un taxi di fronte al Clipper. Questo battello è in parte di proprietà di Charmer Mackenzie, che possiede anche il Guiser's, cioè il locale in cui, a quanto sembra, Damon e la bionda si sarebbero conosciuti. E qui c'è un primo nesso. Anzi è l'unico elemento di cui dispongo, quindi intendo continuare a lavorarci sopra finché non avrò ottenuto qualche risposta.» Indugiò. «Ma tu non ne hai, di risposte da darmi, vero?» Brady lo fissò. Rebus si rivolse alla Templer. «Non ho altro da chiedergli.» «Va bene. Signor Brady», disse l'ispettrice, «lei può andare.» Brady si avviò verso la porta, la spalancò, poi girò la testa a guardare Rebus. «Gulliver...» borbottò. «È per caso quel tizio dei cartoni animati, che finisce in mezzo a gente piccolissima?» «Proprio lui», ammise Rebus. L'altro annuì con aria pensierosa. «Non riesco ancora a capire», concluse, chiudendosi la porta alle spalle. All'ora di pranzo, Rebus si sedette in auto e dormì una mezz'oretta, prima di rientrare in ufficio con un contenitore pieno di zuppa di pomodoro e un panino al formaggio. «Abbiamo qualcosa», lo informò Roy Frazer. «Un testimone ha visto una berlina bianca uscire da Holyrood Park alla fine di Dalkeit Road. L'uomo che l'ha notata è un addetto alla manutenzione che lavora alla Commonwealth Pool. Era mattina presto, niente traffico in giro. L'auto, che andava molto forte, ha attraversato l'incrocio col rosso. Il nostro testi-
mone è un ciclista, perciò le infrazioni di quel genere non gli sfuggono.» «Ed è anche un cittadino modello, ci scommetto. In bici non passa mai col rosso quando qualcuno lo sta tenendo d'occhio.» Rebus meditò un istante. «Nessuna telecamera di sorveglianza che possa aver ripreso l'auto?» «Verificherò.» «Prima di tutto, informa l'ispettrice Templer. Il caso è affidato a lei.» «Sissignore.» Mentre Frazer si lanciava fuori della stanza per eseguire l'incarico, Rebus si disse che gli ricordava un cockerino, sempre in cerca di attenzioni e lodi. Una berlina bianca... Quel pensiero era, nella sua mente, come un piccolo tarlo. Telefonò a Bobby Hogan, della stazione di polizia di Leith. «Se ti dico 'berlina bianca', tu che mi rispondi?» «Che mio fratello ne possiede una, una Ford Orion.» «Stavo pensando a Jim Margolies.» «C'è qualcosa del genere nel verbale che lo riguarda?» «Sì. Sono sicuro che si parla di una berlina bianca.» «Posso richiamarti?» «Al più presto.» Riagganciò, poi prese a disegnare sul suo taccuino una serie di cerchi, tracciando quindi alcune righe che dal centro s'irradiavano tutt'intorno. Non riusciva a decidere se il risultato somigliasse a una ragnatela o piuttosto a un bersaglio per freccette. Alla fine si rispose: a nessuno dei due. Magari alla visione telescopica di un aereo da guerra? O alla sezione di un tronco d'albero? Tutte ipotesi possibili, ma in definitiva si trattava soltanto di uno sgorbio. E, dopo che l'ebbe ulteriormente pasticciato con la penna, divenne un grumo al di là di qualsiasi interpretazione. Squillò il telefono e sollevò il ricevitore. «È importante?» chiese Bobby Hogan. «Non lo so. Potrebbe connettersi con qualcos'altro.» «Puoi dirmi di cosa si tratta?» «Comincia tu.» Hogan parve riflettere, poi prese a leggere alcuni passi del verbale. «Berlina di colore chiaro, probabilmente bianca o crema. Vista parcheggiata in Queen's Drive.» «A quale altezza?» Queen's Drive era la strada che girava intorno a Holyrood Park. «Conosci The Hawse?» «Il nome non mi dice nulla.»
«Si trova ai piedi dei Crags, più o meno all'inizio del sentiero. L'auto era parcheggiata in quel punto, coi fari accesi, ma apparentemente vuota. Alcuni testimoni si sono fatti avanti quando si è sparsa la notizia del suicidio, ma l'ora non coincideva. L'avevano vista, quella sera, intorno alle dieci e mezzo. Non c'era più quando, verso mezzanotte, una pattuglia di polizia è passata di lì. E Margolies è salito sui Crags molto più tardi.» «Almeno a detta della vedova.» «Be', lei dovrebbe essere un teste attendibile, non credi? Adesso puoi spiegarmi cos'è 'sta storia?» «È stata notata un'altra berlina bianca, la mattina in cui Darren Rough è stato ucciso. L'hanno vista schizzare fuori da Holyrood Park.» «E questo che c'entra col suicidio di Jim?» «Con ogni probabilità, assolutamente nulla», rispose Rebus, mentre gli tornava in mente lo scarabocchio. «Forse sto vedendo cose che non esistono.» Notò che il Caporale era fermo sulla porta dell'ufficio e gli faceva cenno di andare da lui. «Grazie comunque», concluse. «La prossima volta che ti vengono certe fantasie, te lo do io il numero da chiamare.» Rebus riattaccò e si diresse verso la porta. «Ti aspetto nel mio ufficio», disse il Caporale, allontanandosi prima che Rebus potesse raggiungerlo. Sulla scrivania del sovrintendente capo c'era già una tazza di caffè. Anche a Rebus ne toccò una. «Che ho fatto, stavolta?» chiese. Il Caporale gli fece cenno di sedersi. «Si tratta dell'assistente sociale di Darren Rough. Ha sporto ufficialmente denuncia.» «Contro di me?» «Sostiene che hai 'smascherato' il suo assistito, scatenando tutto questo pasticcio. Si sta chiedendo fino a che punto sei coinvolto nella morte di Rough.» Rebus si strofinò gli occhi e riuscì ad abbozzare un sorriso tirato. «Può fare tutte le ipotesi che vuole.» «Non c'è il rischio che riesca ad avvalorarle con prove pesanti?» «Neppure la minima possibilità, signore.» «Comunque la situazione è sgradevole. Sei stato l'ultimo che ha avuto contatti con Rough.» «Se si esclude l'assassino. Dall'autopsia è saltato fuori qualcosa?» «Solo che il killer, con ogni probabilità, si è macchiato col sangue di Rough.»
«Posso fare una proposta?» Il Caporale prese una penna, squadrandola attentamente. «Di che tipo?» «Voglio interrogare di nuovo Cary Oakes. Sono sicuro che è stato lui a rubarmi l'auto, il che significa che si trovava in Arden Street più o meno all'ora in cui Darren Rough è uscito dal mio appartamento. In primo luogo, che ci faceva da quelle parti? Teneva d'occhio l'edificio? Allora potrebbe esserci rimasto a lungo, magari ci ha visto entrare, scambiando Rough per un mio amico...» Il Caporale stava scuotendo la testa. «Non possiamo far tornare qui Oakes, se non abbiamo in mano qualcosa di molto concreto.» «Che ne direbbe di un randello?» Toccò al Caporale, stavolta, abbozzare un sorriso. «Il giornale di Stevens dispone di un'orda di legali, John. E, come hai detto tu stesso, Oakes è un professionista. Se ne starebbe seduto senza aprire bocca, in attesa che gli avvocati ci obbligassero a lasciarlo andare. A quel punto la stampa scandalistica avrebbe un'altra bella storia di persecuzione poliziesca da riferire.» «Mi sembrava che avessimo l'intenzione d'infastidirlo il più possibile.» La penna sfuggì di mano al Caporale, cadendo a terra, e lui si chinò a raccoglierla. «Questa è acqua passata.» «Lo so.» «Perciò adesso si ricomincia da capo. Punto primo, una denuncia dell'assistenza sociale non può essere ignorata.» «Nel frattempo, perciò, non posso occuparmi dell'inchiesta.» «Date le circostanze, sembrerebbe maledettamente strano. Quale altro caso stai seguendo?» «Ufficialmente, nessuno.» «Ho sentito dire che stai cercando una persona scomparsa.» «Me ne occupo nel mio tempo libero.» «Be', puoi impegnarti più a fondo. Ma - te lo chiedo ufficiosamente, sia ben chiaro - segui da vicino Gill e la squadra investigativa. A quanto sembra, sei tu quello che ne sa più di tutti su Rough e Greenfield.» «In altre parole, lei mi vorrebbe, ma teme di farsi vedere in mia compagnia?» «Hai sempre avuto la lingua lunga, John. Ora vattene. Oggi è una di quelle giornate in cui si smette di lavorare prima del solito, sta per iniziare il week-end. Va' a divertirti.» 31
Janice Mee tornò in Arden Street, spinta dal desiderio di fare qualcosa di più costruttivo. Aveva un mucchio di tempo a disposizione e, nel Fife, si sentiva completamente inutile. Se stava a casa, le pareva che il disegno della carta da parati cominciasse a roteare e che il ticchettio della pendola si amplificasse oltre ogni capacità di sopportazione. Però, se usciva, doveva rispondere alle domande dei vicini e dei passanti («Non è ancora tornato?» «Dove crede che sia finito?») e sopportare i loro commenti (di solito le dicevano di avere pazienza o di tenere le dita incrociate). Inoltre, ogni volta che scendeva dal treno a Waverley, aveva l'impressione che Damon si trovasse nelle vicinanze. Era vera, quella storia del sesto senso: ti accorgi sempre se qualcuno ti si avvicina furtivamente alle spalle. E ogni volta che lei metteva piede sul marciapiede della stazione, fermandosi per qualche istante in mezzo al forsennato viavai di persone che andavano a lavorare o a fare shopping, costrette a vivere sempre di corsa... ogni volta le pareva, in quell'attimo, che il suo mondo smettesse di girare e che ogni cosa diventasse immota, pacifica. In quegli istanti, nella città che pareva ovattata, e col sangue che le cantava nel cuore, riusciva quasi a udirlo, a sentire il suo odore... come se potesse quasi allungare una mano e toccargli il braccio. Vedeva se stessa mentre se lo stringeva al petto, sgridandolo e al contempo coprendogli il volto di baci, e lui, divenuto più adulto, che cercava di sfuggirle, ma era anche compiaciuto di essere così desiderato e amato, di un amore quale nessuno in tutto l'universo poteva provare. Fin da quand'era scomparso, lei dormiva nella stanza del figlio. Sulle prime, si era giustificata con Brian dicendo che Damon sarebbe potuto entrare di nascosto in camera sua, nottetempo, a prendervi qualcosa. In tal caso, lei sarebbe stata lì, pronta ad affrontarlo, a trattenerlo. Quando però Brian aveva cercato di trasferirsi a sua volta in quella stanza, Janice gli aveva fatto notare che il letto era a una sola piazza, al che lui si era detto disposto a dormire sul pavimento. La discussione era andata avanti a lungo. Poi Janice aveva perso il controllo e si era lasciata sfuggire che preferiva stare da sola. Era la prima volta che pronunciava quelle parole. Sinceramente, Brian, preferirei stare da sola... Nel vedere il volto di lui afflosciarsi, quasi ripiegarsi su se stesso, Janice si era sentita rimescolare lo stomaco. Ma aveva fatto bene a pronunciare quelle parole, aveva sbagliato a tenersele dentro per tanti mesi, tanti anni. Brian, girando la faccia di lato, aveva trovato il coraggio di chiedere: «È
per via di Johnny, vero?» E in un certo senso era così, anche se non proprio come pensava Brian. Il fatto era che Johnny le aveva mostrato l'altra strada che lei avrebbe potuto imboccare, e non solo: aveva messo a nudo tutti i possibili percorsi che lei non aveva mai affrontato, tutti gli obiettivi cui non era mai giunta. Obiettivi come l'emozione, l'euforia, l'esultanza. O come la conoscenza di sé, la libertà, la consapevolezza. Sapeva che non avrebbe mai confessato a nessuno simili pensieri: sembravano usciti dalle pagine di una rivista femminile. Il che però non metteva a tacere la sensazione che in essi ci fosse del vero. Nata e cresciuta in una cittadina di provincia, vi aveva vissuto la maggior parte dei suoi giorni: voleva davvero morirci? Voleva che trent'anni della sua esistenza potessero essere riassunti in cinque minuti a un amico che non aveva più rivisto dai tempi del liceo? Lei voleva di più. Desiderava qualcosa di diverso. Ovviamente sapeva che cosa avrebbe detto la gente: è l'effetto dello shock, cara. È normale che tu sia sconvolta, eccetera. E lo era. Oh, Cristo santo, sì che lo era. Eppure Janice si sentiva più che mai impotente e inutile. Aveva raccontato la propria storia a tutti gli enti di assistenza, aveva parlato con gli autisti di piazza, ma che cosa le era rimasto in mano? Aveva trascurato qualcosa, lo sapeva, ma non riusciva a immaginare che cosa fosse. Sapeva soltanto che era giusto che lei stesse lì dov'era. Ora che aveva cominciato ad apprezzare Edimburgo, le piaceva fare a piedi la strada fino a Marchmont. La ripida salita lungo Cockburn Street, piena di negozi «alternativi» (alcuni avevano persino accettato i suoi volantini); poi High Street fino al George IV bridge, quindi giù, passando davanti a biblioteche e librerie, fino al Greyfriars Bobby; oltre l'università, brulicante di studenti carichi di libri o che spingevano a mano le loro biciclette; infine i Meadows, una piatta distesa verde con Marchmont che si stagliava sullo sfondo. A Janice piacevano i negozi nei pressi dell'appartamento di Johnny, come l'edificio stesso e tutte le strade adiacenti. I tetti le facevano venire in mente le merlature di un castello. Johnny le aveva detto che il quartiere era pieno di studenti: lei si era sempre immaginata che vivessero in zone molto più povere. Apri il portone d'ingresso e salì fino all'appartamento di Johnny. Dietro la porta c'era un po' di posta. La raccolse, la portò in salotto. Sembravano bollette e opuscoli pubblicitari; nessuna vera lettera. Nel salotto non c'erano fotografie e le pareti apparivano spoglie; fosse dipeso da lei, vi avrebbe
attaccato qualcosa di decorativo. C'erano pile di libri; prima che lei li mettesse in ordine, erano sparsi un po' ovunque. C'era stato un periodo in cui Brian non le avrebbe permesso di spostare le sue cose; ma in quei giorni non se ne sarebbe neppure accorto. Johnny aveva notato come lei gli avesse rassettato la stanza, però Janice non era sicura che ne fosse stato contento, anche se l'aveva ringraziata. Portò in cucina bicchieri, piatti e un portacenere; tolse una coperta dal divano e la rimise sul letto nella stanza degli ospiti. Quando le parve che tutto fosse in ordine, si chiese che altro poteva fare. Lavare i vetri? E con quale prodotto? Prepararsi una tazza di tè o di caffè? Ascoltare un po' di musica... quand'era stata l'ultima volta in cui si era seduta ad ascoltare musica? Da quanto non le capitava di avere del tempo libero? Passò in rassegna la raccolta di dischi di Johnny. Tirò fuori un album: uno dei primi dei Rolling Stones. Sembrava lo stesso che aveva ai tempi in cui loro due uscivano insieme. Sul retro vide uno scarabocchio disegnato con l'inchiostro: JAJ, «Janice ama Johnny». L'aveva fatto lei, una sera, chiedendosi se mai se ne sarebbe accorto. A Johnny piaceva leggere i testi stampati sul retro delle copertine degli LP. E lui doveva averlo visto e la cosa non l'aveva entusiasmato, perché aveva cercato di cancellare lo scarabocchio con la gomma. Si notavano ancora le sbavature. Estati trascorse al bar, lunghe serate accanto alla macchinetta che distribuiva Coca-Cola e al juke-box. Un sacchetto di patatine fritte, condite con sale e aceto. Magari un film, qualche sera, o una semplice passeggiata nel parco. Il club giovanile era gestito dal clero locale: a Johnny la cosa non andava a genio, lui non era mai stato un baciapile. Eppure lì, tutta sola sulla mensola del caminetto, c'era una Bibbia. E in casa c'erano altri testi di argomento religioso: Le confessioni di sant'Agostino, Il velo dell'ateismo. A Janice piaceva quest'ultimo titolo. I libri erano molti, eppure Johnny non doveva essere un appassionato lettore, perché la maggior parte dei volumi sembrava non essere stata mai sfogliata. La camera da letto... Janice aveva sbirciato all'interno. Non era la più invitante delle stanze: un materasso sul pavimento e indumenti impilati in un angolo, in attesa di essere sistemati nei cassetti del comò. Calzini spaiati: perché gli uomini non riuscivano mai ad appaiare le calze? Nell'appartamento c'era una generale atmosfera di trascuratezza, nonostante qualche ritocco al soggiorno. Una poltrona sistemata accanto al bovindo, con l'apparecchio del telefono a fianco, per terra: l'intera casa sembrava ruotare intorno a quell'unico spazio. Nei mobiletti della cucina: bottiglie di whisky,
brandy, vodka, gin. Altra vodka nel freezer; nel frigorifero, birra, oltre a un po' di formaggio, margarina, una poco allettante confezione di carne in scatola. Sul piano di lavoro, vasetti di barbabietole e di marmellata di lamponi; nel contenitore del pane, due filoncini raffermi e un resto di pagnotta. Si dice che la casa di un uomo racconti un'infinità di cose su di lui. Janice aveva l'impressione che Johnny fosse molto solo, ma com'era possibile, giacché stava con quella dottoressa, Patience Comesichiama? Suonarono alla porta. Janice si chiese chi potesse essere. Andò ad aprire, senza neppure preoccuparsi di guardare dallo spioncino. C'era un uomo, sorridente. «Salve», disse l'uomo. «C'è John?» «No, mi dispiace.» Il sorriso sparì. Il tizio lanciò un'occhiata all'orologio. «Spero che non manchi anche stavolta al nostro appuntamento.» «Be', col lavoro che fa...» «Oh, non ha tutti i torti. Lei lo conosce bene, immagino.» Janice si sentì arrossire sotto il suo sguardo. «Non sono la sua compagna o qualcosa del genere.» «No? E io che mi stavo già dicendo che gli capitano tutte le fortune, a quel vecchio furfante.» «No, sono soltanto una conoscente.» «Solo buoni amici, eh?» Si picchiettò il naso. «Si può fidare di me, non dirò nulla a Patience.» Janice si sentì il volto ancora più in fiamme. «Eravamo compagni di scuola, Johnny e io. Ci siamo rivisti solo di recente.» Stava balbettando e se ne rendeva conto, eppure non riusciva a smettere di parlare. «È un piacere, ritrovarsi tra vecchi amici. Un mucchio di cose da raccontarsi, eh?» «Sì, molte.» «So bene che cosa si prova. Anch'io per anni non ho più avuto occasione di vedere John.» «Davvero?» «Lavoravo negli Stati Uniti.» «Oh, interessante. Ci è rimasto a lungo...?» S'interruppe. «Mi scusi, non posso tenerla in piedi qui fuori, non le pare?» «Stavo cominciando a chiedermelo.» Janice spalancò la porta, fece un passo indietro. «È meglio che entri. A proposito, mi chiamo Janice.»
«Quando le dirò il mio nome, lei si metterà a ridere. Voglio che sappia, però, che nessuno si era preoccupato di chiedere il mio parere.» «Perché, come si chiama?» Janice stava ridendo mentre l'uomo le passava davanti ed entrava in casa. «Cary», rispose lui. «Per via dell'attore. Ma io non ho mai cercato di diventare affascinante come lui.» Le stava strizzando l'occhio, mentre Janice richiudeva la porta. Quando Rebus tornò a casa, l'appartamento era deserto, eppure capì che c'era stato qualcuno: oggetti spostati, maggiore pulizia. Janice, senza dubbio. Cercò un biglietto, ma lei non gli aveva lasciato nulla. Prese una birra dal frigorifero, poi accese lo stereo. Gli Stones: Goat's Head Soup. Sulla copertina dell'album, una foto di David Bailey in cui i volti truccati dei membri della band apparivano coperti da un materiale diafano che conferiva a Jagger un'aria più femminea del solito. Rebus abbassò il volume e digitò il numero di Alan Archibald. Non rispose nessuno, a parte la segreteria telefonica. La voce di Archibald risuonò scandita e distante. «Parla John Rebus. Un semplice messaggio: fa' attenzione. Un autista di taxi ha raccolto Oakes nei paraggi di casa tua. Non riesco a pensare a nessun motivo per cui potesse trovarsi nel tuo quartiere. È venuto anche nella strada in cui abito. Non so cosa gli ronzi in testa, forse vuole soltanto innervosirci. In ogni caso, considerati avvisato.» Riagganciò. Uomo avvisato, mezzo salvato, rifletté, chiedendosi in quale modo Alan Archibald avrebbe provveduto alla propria salvezza. Rialzò il volume della musica, si sedette accanto alla finestra e guardò l'edificio di fronte. I ragazzini erano tornati a casa da scuola e stavano giocando al tavolo del soggiorno. Una partita a carte, da quel che lui riusciva a vedere. Magari giocavano a «Famiglie felici». Rebus, ai suoi tempi, perdeva quasi sempre. Quando si girò dalla finestra, scorse una figura sulla soglia. «Cristo», esclamò, portandosi una mano al petto. «Non farmi più una cosa del genere.» «Scusa», disse Janice, sorridendo. Gli mostrò un cartone di latte. «Non ne avevi quasi più.» «Grazie.» La seguì in cucina, rimase a guardarla mentre metteva il latte in frigorifero. «Hai dimenticato il tuo appuntamento?» gli chiese Janice. «Appuntamento?» Rebus stava pensando: col medico? O col dentista?
«Ti sei perso il tuo amico. È passato di qui un'ora fa. Sono uscita con lui a bere un caffè.» Fece schioccare la lingua, in segno di disapprovazione per la sua mancanza di riguardo. «Ma di chi stai parlando?» «Di Cary», disse Janice. «Voi due dovevate andare a bere qualcosa insieme.» Rebus sentì un brivido lungo la schiena. «È venuto qui?» «Sì, a cercarti.» «E sei uscita con lui?» Janice stava pulendo il piano di lavoro, ma si voltò verso Rebus e notò la sua espressione. «Che c'è?» chiese. Lui alzò gli occhi verso i pensili di cucina, ne aprì uno facendo finta di cercare qualcosa. Non poteva dirlo a Janice. Le sarebbe venuto un colpo. Chiuse lo sportello dell'armadietto. «Di cosa avete chiacchierato, voi due?» «Mi ha raccontato del suo lavoro negli Stati Uniti.» «Di quale? Mi risulta che ne avesse più di uno.» «Davvero?» Janice si accigliò. «Be', a me ha detto soltanto che faceva la guardia carceraria.» «Oh, certo.» Rebus annuì. «Immagino che tu gli abbia parlato di noi.» Janice gli lanciò un'occhiata in tralice. Sulle sue guance c'erano macchie rosse. «Che cosa avrei dovuto raccontargli?» «Sì, insomma, gli hai parlato di te, del fatto che ci conosciamo...» «Oh, sì, questo sì.» «Gli hai detto che vivi nel Fife?» «Sembrava veramente interessato a Cardenden. L'ho persino sgridato, perché avevo l'impressione che si stesse burlando di me.» «No, Cary s'interessa sempre agli altri.» «Mi ha risposto proprio così.» Janice esitò. «Sei sicuro che vada tutto bene?» «Certo. Si tratta soltanto... di questioni di lavoro.» Più esattamente, di Cary Oakes, che adesso aveva trascinato anche Janice nel suo gioco. E Rebus, che era coinvolto in pieno in quella partita, ancora non era stato messo al corrente delle regole. «Vuoi un caffè?» Lui scosse il capo. «Usciamo.» Usciamo? Noi? Se Cary Oakes era andato nel Fife, era più prudente trattenere Janice a Edimburgo. Ma dove? Il suo appartamento non poteva offrire protezione. Con lui, Janice sarebbe
stata più al sicuro, ma Rebus non sapeva dove portarla. «Dove andiamo?» «Torniamo a Cardenden. Devo fare qualche altra domanda agli amici di Damon.» E controllare il terreno, per scoprire i segni dell'inquinante presenza di Oakes. Janice lo fissò. «Hai... qualche novità?» «Difficile a dirsi.» «Provaci.» Lui stava scuotendo la testa. «Non voglio illuderti. Potrebbe rivelarsi un buco nell'acqua.» Fece per uscire dalla cucina. «Dammi un minuto per preparare i bagagli.» «I bagagli?» «Per il week-end, Janice. Pensavo di prendermi un po' di riposo fino a domani. A Cardenden c'è qualche albergo?» Un attimo di esitazione. «Puoi stare da noi.» «Una camera in albergo andrà benissimo.» Ma Janice scosse la testa. «Capirai perfettamente che non posso darti la stanza di Damon, ma c'è sempre il divano del salotto.» Rebus finse di esitare. «Va bene, d'accordo», disse alla fine. Pensando: voglio trascorrere la notte in quella casa, voglio stare accanto a Janice. Non per qualche motivo più che evidente (come quelli che avrebbe potuto addurre un paio di giorni prima), ma perché voleva sapere se Cary Oakes si sarebbe recato a Cardenden, se sarebbe andato a controllare l'abitazione di Janice. Qualunque piano Oakes avesse in mente, si stava evolvendo con estrema rapidità. Se quell'uomo aveva intenzione di tormentare Janice, si disse Rebus, l'avrebbe fatto durante il week-end. Se accadeva qualcosa, lui doveva essere lì. «Metto qualcosa in una borsa», mormorò, avviandosi verso la camera da letto. 32 Come prima cosa, portò Janice da Sammy. Voleva soltanto controllare che la figlia stesse bene. Era intenta a fare i suoi esercizi, sollevandosi con l'aiuto delle parallele, tirandosi in piedi a forza di braccia, stringendo le ginocchia e rimettendosi poi sulla carrozzina. La porta d'ingresso non era chiusa a chiave; lei la teneva sempre così quando Ned non si trovava in casa. A Rebus quella situazione non era mai andata a genio finché Sammy
non gliene aveva spiegato il motivo. «Devo considerare le varie possibilità: da una parte, che io abbia bisogno d'aiuto; dall'altra, che entri qualche malintenzionato. Ma, se dovessi trovarmi paralizzata a terra, supina, vorrei che qualsiasi buon samaritano avesse modo di accorrere.» Indossava una maglietta senza maniche, di un grigio che, sulla schiena, per via del sudore, si era fatto più scuro. Aveva un asciugamano intorno alle spalle e i capelli incollati alla fronte. «Chissà se questo esercizio mi fa davvero bene alle gambe», disse. «In ogni caso, mi stanno venendo i bicipiti di un discobolo.» «E in giro non si vede neppure un po' di creatina», ribatté Rebus, chinandosi a baciarla. «Ti presento Janice, una mia vecchia compagna di scuola.» «Ciao, Janice», la salutò Sammy. Quando tornò a guardare il padre, lui si sentì sulle spine, senza comprenderne il motivo. «Suo figlio è scomparso», spiegò. «Sto cercando di aiutarla.» Sammy si asciugò il viso con l'asciugamano. «Mi dispiace molto», disse. Janice sorrise e si strinse nelle spalle. «Janice abita ancora a Cardenden», proseguì Rebus. «È lì che siamo diretti, nel caso stasera ti venisse voglia di telefonarmi.» «Va bene», ribatté Sammy, il volto ancora seminascosto dall'asciugamano. In quell'istante, Rebus capì di aver commesso un errore: si rese conto che Sammy si sarebbe precipitata a trarre le conclusioni più sbagliate, ma non riusciva a pensare a un altro modo per togliersi da quella situazione senza mettere Janice in imbarazzo. «Ci vediamo un'altra volta», concluse. «Quando vuoi, mi trovi sempre qui.» Aveva finito di asciugarsi; stava fissando le parallele, tutta l'estensione dell'unico universo che le era rimasto. «Un giorno o l'altro dovremmo andare un po' a spasso. Potrei portarti a fare un giro nel mio vecchio terreno di caccia.» Sammy annuì. «Potrebbe venire con noi anche Patience. Sono sicura che non le farebbe piacere essere lasciata in un canto.» «Ti auguro un buon week-end, Sammy», disse lui, avviandosi verso la porta. Sammy dimenticò di ricambiare l'augurio. «Devo fare solo una telefonata a Patience», disse Rebus, estraendo dalla
tasca il cellulare. Erano risaliti in macchina e si stavano dirigendo verso l'A90. Qualche volta, di venerdì, Patience si concedeva una serata in piena regola, con aperitivo e cena, poi teatro o concerto, con tre sue amiche, che come lei lavoravano in campo medico: due divorziate, una ancora felicemente sposata (almeno in apparenza). Patience rispose al quarto squillo. «Sono io», esordì Rebus. «Ti avevo detto di non usare quell'aggeggio mentre guidi.» «Sono fermo a un semaforo», mentì Rebus, strizzando l'occhio a Janice con aria da cospiratore. Lei sembrava a disagio. «Che programmi hai?» «Devo andare nel Fife, a fare qualche domanda per mettere in chiaro certi particolari. Con ogni probabilità ci passerò la notte. Tu esci?» «Tra una ventina di minuti.» «Saluta la combriccola per conto mio.» «John... quando ci rivedremo?» «Presto.» «Questo week-end?» «Quasi certamente.» «Domani vado a trovare Sammy.» «Bene.» Così Sammy avrebbe parlato a Patience di Janice. Patience avrebbe saputo che Janice era in macchina con lui durante quella telefonata. «Dormirò a casa di amici: Janice e Brian.» «Vecchi compagni di scuola?» «Già. Non ricordavo di avertene parlato.» «E infatti non mi hai detto nulla. Ma, per quanto mi risulta, non hai più stretto amicizia con nessuno dai tempi della scuola.» «Ciao, Patience», tagliò corto Rebus, spostandosi nella corsia di sorpasso e schiacciando l'acceleratore. La dottoressa Patience Aitken aveva chiamato un taxi. L'autista, appena arrivato, spalancò il cancello e scese la ripida e serpeggiante serie di gradini che portava all'appartamento a pianterreno. Suonò il campanello e attese, strascicando i piedi sul lastricato di pietra. Gli piacevano quegli appartamenti della New Town, sotto il livello stradale dalla parte dell'ingresso, ma con un giardinetto sul retro. E, sempre verso la strada, avevano piccoli cortili, su cui si aprivano le cantine, o meglio locali che di cantina avevano solo il nome, perché, essendo troppo umidi, non potevano essere adibiti a quello scopo. Certamente non erano adatti a ospitare bottiglie di vino. L'e-
state precedente, lui era stato con la moglie nella Loira e aveva imparato tutto sull'enologia. Ora aveva tre cassette di vini diversi, chiuse nello sgabuzzino ai piedi della scala. Una sistemazione tutt'altro che ideale: la sua era una casetta moderna, a due piani, piuttosto in periferia, a Fairmilehead. All'interno l'aria era troppo secca, troppo calda. Sì, avrebbe avuto bisogno di un appartamento come quello: lì dentro, ci avrebbe scommesso, c'erano locali adatti a ospitare il vino, freschi e asciutti al punto giusto, grazie agli spessi muri di pietra. Notò che la dottoressa aveva cercato di ricreare, in quel patio, una sorta di giardino: cesti appesi, grandi vasi di terracotta. Però lì sotto la luce era scarsa. La prima cosa che lui aveva fatto col giardinetto di fronte a casa sua, non appena vi si era trasferito, era stata lastricarlo quasi tutto, lasciando solo un fazzoletto di terra al centro, in cui aveva piantato un paio di rose. Aveva così ridotto al minimo i problemi di manutenzione. La porta si aprì e la dottoressa si fece avanti, avvolgendosi in uno scialle. Insieme con lei uscì un'ondata di profumo, ma non troppo intenso. «Mi scusi se l'ho fatta aspettare», disse Patience, tirandosi dietro la porta e avviandosi verso i gradini. «Se fossi in lei, chiuderei a doppia mandata», le suggerì il taxista. «Come?» «Con una serratura così», spiegò l'uomo, scuotendo la testa, «anche un bambino sarebbe capace di entrare in casa sua in dieci secondi netti.» Patience esitò, poi si strinse nelle spalle. «Che cos'è mai la vita senza un briciolo di rischio?» «Sempre che lei sia assicurata», replicò il taxista, contemplandole le caviglie mentre la seguiva lungo i gradini. Jim Stevens era disteso sul letto, gli occhi coperti con una mano, mentre con l'altra teneva il ricevitore del telefono incollato all'orecchio. Stava ascoltando Matt Lewin, che gli aveva appena detto quanto fosse bello il tempo a Seattle. Stevens gli aveva spedito per fax alcuni brani della «confessione» di Cary Oakes e Lewin gli stava comunicando le sue impressioni. «Be', Jim, ci sono pezzi assolutamente convincenti. La storia del camionista, invece, mi risulta nuova e, in tutta sincerità, non credo che valga la pena di fare ricerche.» «Pensi che l'abbia inventata?» «Non è un mio problema, grazie a Dio. Ascolta, Jim, senza offesa, ma io
non mi berrei tutto ciò che dice quel bastardo e soprattutto non gli darei la porca soddisfazione di vederlo stampato.» Un'opinione che sembrava rispecchiare quella del capo di Stevens. La pubblicazione era stata ridimensionata, le previste otto puntate ridotte a cinque. «Sono dannatamente contento che lui adesso sia un problema tuo e non nostro», continuò Lewin. «Grazie mille.» «Ti sta dando molti casini?» Stevens non aveva motivo di raccontare a Lewin che, via via che passavano i giorni, Oakes si stava dimostrando sempre più difficile da gestire. Quel pomeriggio era di nuovo sgattaiolato fuori dell'albergo, era rimasto in giro per quasi tre ore e non voleva fargli sapere dov'era stato. «In ogni caso, siamo quasi alla fine», disse, passandosi una mano sulla fronte. «Liberatene al più presto, te lo consiglio.» «Sì, sì.» Ma Stevens non poteva fare a meno di essere in tensione. Si preoccupava di quello che avrebbe potuto fare Oakes in seguito, una volta lasciato libero di agire. Il giornale non aveva la minima intenzione di dargli i diecimila dollari concordati, almeno non per la robaccia che lui aveva fornito sino a quel momento. Stevens doveva ancora comunicargli la notizia. Si preoccupava anche per se stesso. Ormai era entrato a far parte della sfera di Oakes e poteva soltanto augurarsi che quell'uomo lo lasciasse andare. E aveva la sensazione che non sarebbe stato tanto facile... Cary Oakes osservò il taxi che si allontanava. La dottoressa P., presumibilmente. Un po' avanti negli anni, ma lui dubitava che Rebus, visto lo stato in cui si trovava, se ne lamentasse. E l'appartamento era a pianoterra: l'ideale per quello che aveva in mente. Si fece avanti da dietro l'auto parcheggiata e scrutò la strada, da una parte e dall'altra. Il quartiere pareva morto. Mezza Edimburgo gli sembrava priva di vita: potevi girare per strada tutto il tempo che volevi e nessuno ti avrebbe notato, e men che meno si sarebbe insospettito. Jim Stevens si era incupito nell'apprendere che la storia di Cary Oakes era stata temporaneamente sospesa per dare spazio a un ampio servizio sui vigilantes. Il giornalista sosteneva che era tutta colpa del recente assassinio di un pedofilo.
«Di nuovo quel dannato Rebus», aveva mormorato e Oakes gli aveva chiesto di spiegarsi meglio. Stevens aveva una teoria: Rebus aveva smascherato Darren Rough, aizzando la folla contro di lui, finché qualcuno non si era spinto troppo in là. Tutto ciò che Oakes veniva a sapere sul conto di Rebus rendeva la personalità di quest'ultimo sempre più interessante, più enigmatica. «Qual è, secondo te, il codice in base al quale regola la sua vita?» aveva chiesto. Stevens aveva sbuffato. «Per quel che me ne importa, può anche essere il Morse o il codice della strada.» «C'è chi stabilisce da sé le proprie regole», aveva aggiunto Oakes con aria pensierosa. «Parli del serial killer?» «Come?» «Sì, di quello che ti aveva preso sul suo camion.» «Ah, lui... Be', sì, certo.» Stevens gli aveva lanciato un'occhiata. E Cary Oakes l'aveva guardato a sua volta. Attraversò la strada. Alle sue spalle non c'erano edifici dai quali lo si potesse vedere al lavoro, ma soltanto una cancellata in ferro battuto e, al di là, un prato. Nessun vicino avrebbe potuto individuarlo mentre metteva in atto il suo proposito. Non prevedeva interruzioni. Le pile si stavano scaricando, si rese conto Rebus, e lui non si era portato appresso la batteria di riserva. Quindi spense il cellulare. «Il week-end comincia qui», disse, mentre percorreva il Forth Road Bridge in direzione del Fife. Poi, mentre abbandonavano l'arteria a due carreggiate, appena fuori Kirkcaldy, osservò: «Le strade sono cambiate». Ma la vecchia camionabile Kirkcaldy-Cardenden sembrava sempre la stessa, tutta curve e tornanti come un tempo, con le solite buche e cunette. «Ricordi quella volta in cui facemmo a piedi tutta la strada fino a Kirkcaldy per andare al cinema?» disse Janice. Rebus sorrise. «Me n'ero dimenticato. Perché non prendemmo il pullman?» «Credo che non avessimo abbastanza soldi.» Lui si accigliò. «Eravamo soltanto noi due?» «C'erano anche Mitch e la sua ragazza. Una delle tante, non rammento
quale fosse la prescelta di quel periodo.» «Cambiava amichette in continuazione, come se nulla fosse.» «Forse erano loro a stufarsi di lui.» «Forse.» Rimasero in silenzio per qualche istante. «Che film era?» «Quale?» «Quello che ci spinse a fare quasi dieci chilometri a piedi.» «Non ricordo di aver guardato lo schermo per più di qualche istante.» Si lanciarono un'occhiata e scoppiarono a ridere. Brian Mee sentì arrivare l'auto e uscì, per andar loro incontro. «Che sorpresa», esclamò, stringendo la mano all'ospite inatteso. «Ho bisogno di parlare con gli amici di Damon», spiegò Rebus. Janice posò una mano sul braccio del marito. «Ha detto che vuole andare in albergo.» «Sciocchezze, puoi stare da noi. La stanza di Damon...» «Io pensavo al divano», lo interruppe Janice. Brian resse il colpo brillantemente. «Oh, sì, non è poi tanto vecchio. Comodo, per di più. Io dovrei saperlo: la maggior parte delle sere mi ci addormento.» «Allora è deciso», disse Janice. S'incamminò sul viottolo che portava alla casa tenendo sottobraccio i due uomini, uno per parte. Ordinarono la cena al take-away cinese, aprirono un paio di bottiglie di vino. Tirarono in ballo vecchie storie, riesumarono antichi ricordi. Parlarono di persone quasi dimenticate, di quale fine avevano fatto quelle che erano invecchiate lì, di quanto era mutata la fisionomia della piccola città. Rebus aveva telefonato agli amici di Damon, quelli che si erano recati con lui da Gaitano's, ma nessuno dei due era in casa. Aveva lasciato un messaggio, dicendo che l'indomani mattina aveva bisogno d'incontrarli. «Potremmo andare a bere qualcosa fuori», disse poi ai suoi ospiti. Mentre parlava, aveva lo sguardo puntato su Janice. «Sarebbe la prima volta che entriamo tutti insieme al Goth senza dover barare sulla nostra età.» «Il Goth ha chiuso i battenti, John», replicò Brian. «Da quanto tempo?» «Lo stanno trasformando in un centro per disoccupati.» «E non lo è sempre stato?» Quelle parole strapparono un sorriso. Chiuso il Goth: il locale che era stato una sorta di umida tana per suo padre, il luogo in cui Rebus aveva fatto la sua prima bevuta. «C'è ancora la Railway Tavern», aggiunse Brian. «Domani sera do-
vremmo andarci, per una gara di karaoke.» «Ci verrai anche tu, vero?» chiese Janice. «In realtà, ho una specie di allergia nei confronti del karaoke.» Rebus era ancora nel «posto accanto al fuoco», quello in cui era stato fatto accomodare durante la sua prima visita. Il televisore era acceso e, benché fosse senza sonoro, sembrava attrarre gli sguardi come una calamita, perché i due coniugi, mentre parlavano, non mancavano di lanciargli qualche occhiata. Janice prese i piatti (avevano mangiato in salotto, con un vassoio sulle ginocchia) e lui l'aiutò a portare il resto in cucina. Notò che era un locale troppo piccolo per potervi mangiare in tre. Di fronte alla finestra del salotto c'era un tavolo da pranzo, coperto però di oggettini ornamentali e con le parti a ribalta piegate verso il basso. Veniva chiaramente usato soltanto in occasioni speciali. In quella casa si mangiava davanti al televisore, coi piatti in grembo. Rebus immaginò i tre - madre, padre, figlio - con lo sguardo fisso sullo schermo: una scusa per i lunghi intervalli di silenzio tra una frase e l'altra. Dopo il caffè, Janice annunciò che andava a letto. Brian replicò che l'avrebbe raggiunta di lì a poco. Lei portò le lenzuola e un guanciale per Rebus, gli spiegò dov'era la stanza da bagno. Gli fece vedere l'interruttore della luce nell'ingresso. Gli disse che c'era acqua calda in abbondanza, se avesse voluto farsi un bagno. «Ci vediamo domattina.» Brian prese il telecomando e spense il televisore, poi sembrò ripensarci. «C'era forse qualche programma che volevi vedere?» Rebus scosse la testa. «Non guardo quasi mai la televisione.» «Che ne diresti allora di un whisky?» «Tutto sommato, meglio di una tazza di tè», accettò Rebus, con un sorriso. Sorseggiarono il whisky in silenzio. Non era di malto: probabilmente si trattava di un Teacher's o di un Grant's. Brian aveva versato nel suo un cucchiaio d'acqua, ma Rebus l'aveva preso liscio. «Dove credi che sia?» chiese finalmente Brian, facendo roteare il liquido lungo l'orlo del bicchiere. «Magari è ancora in mezzo a noi.» Come se Janice non fosse in grado di accettare quell'idea, come se lui avesse più forza d'animo di lei. «Non lo so, Brian. Vorrei poterti rispondere.» «Di solito, però, in questi casi la destinazione è Londra.» «Sì.» «E la maggior parte se la cava egregiamente, vero?»
Rebus annuì, provando un improvviso senso di fastidio per quei discorsi, desiderando di colpo di trovarsi nel suo appartamento, col whisky, la musica e i suoi libri. Ma Brian aveva un gran bisogno di parlare. «Sai, do la colpa di tutto a noi.» «Immagino che la maggior parte dei genitori ragioni così.» «Credo che avesse colto l'atmosfera che c'è in famiglia e che se ne sia andato per questo.» Si sedette sulla sponda del divano, le mani strette intorno al bicchiere. Mentre parlava, teneva lo sguardo rivolto al pavimento. «Ho la netta sensazione che Janice stesse semplicemente aspettando di vedere Damon andarsene di casa. Cioè, che si sistemasse per conto suo. Attendeva soltanto questo.» «Per fare cosa?» Brian gli lanciò un'occhiata. «In tal caso, lei non avrebbe avuto più motivi per restare. Ogni volta che va a Edimburgo, mi dico che è quella decisiva: che non tornerà indietro.» «Ma ritorna sempre.» Brian annuì. «Però ora è diverso. Torna per vedere se per caso Damon non si sia fatto vivo. Io non c'entro.» Tossì, si schiarì la voce, trangugiò l'ultimo goccio di whisky. «Ne vuoi un altro?» Rebus scosse la testa. «No, immagino che sia meglio fermarsi qui. È ora di andare a dormire, eh?» Si alzò in piedi, abbozzò un sorriso. «Come ai tempi della scuola, eh, Johnny?» «Proprio come allora, Brian», replicò Rebus. Scorse un vago luccichio negli occhi di Brian Mee, che però sparì subito. Rebus si lavò i denti in cucina (non voleva fare l'intruso al piano di sopra, non con Brian che si preparava il letto). Distese le lenzuola sul divano e vi si sdraiò, dopo aver spento le luci. D'un tratto si alzò e si avvicinò alla finestra, sbirciando attraverso le tende. All'esterno, i lampioni stradali mandavano una pallida luce arancione. La strada era deserta. Attraversò furtivamente l'ingresso, aprì silenziosamente la porta e, senza richiuderla, uscì. Gli bastarono cinque minuti per capire che Cary Oakes non era nei paraggi. Rientrò. Aveva bisogno del gabinetto, ma non poteva certo orinare nel lavello della cucina, perciò si fermò ai piedi delle scale, tendendo l'orecchio, poi andò al piano di sopra. Sapeva dov'era il bagno, lo raggiunse e fece ciò che doveva. La porta di una camera da letto era chiusa, l'altra leggermente aperta. E, su quest'ultima, attaccati con puntine da disegno, c'erano una sciarpa coi colori di una squadra di football e alcuni biglietti per un concerto di qualche anno prima. Infilò la testa nello spiraglio della
porta: intravide qualche poster, un armadio, un cassettone. Vide la finestra con le tende tirate. Scorse il letto a una piazza e, sopra, Janice che dormiva, col respiro regolare. Tornò al piano di sotto. Si sentiva come un topo d'appartamento. 33 L'indomani mattina, dopo colazione, incontrò gli amici di Damon. Lo raggiunsero in casa di Janice e Brian, mentre questi erano usciti a fare la spesa. Joey Haldane era alto e magro, con capelli decolorati tagliati a spazzola e folte sopracciglia scure. Era vestito tutto di tela jeans (pantaloni, camicia, giacca) e portava un paio di Dr Marten nere. Rebus notò che teneva quasi sempre la bocca socchiusa, come se non riuscisse a respirare col naso. Pete Mathieson era alto quanto Joey, ma un po' più robusto di costituzione, il tipo di figlio di cui un contadino sarebbe andato fiero (e che probabilmente avrebbe messo subito al lavoro nei campi). Indossava pantaloni da tuta rossi e una maglia blu, più un paio di Nike con le suole quasi completamente consunte. I due giovani si sedettero sul divano. Le lenzuola e il guanciale di Rebus erano spariti al piano di sopra subito dopo colazione, mentre lui si stava lavando in bagno. «Grazie per essere venuti», esordì Rebus. Invece di sedersi in una delle rotondeggianti poltrone, si era messo su una sedia da pranzo con lo schienale diritto, spostata al centro della stanza. Così troneggiava sui due giovani, sprofondati nel divano. Aveva girato la sedia in modo da poter stare a cavalcioni, appoggiando le braccia sulla sommità dello schienale. «So che ci siamo già parlati, Joey, ma devo farti un altro paio di domande, di quelle da far rizzare il pelo. Le chiamo così perché, quando ho l'impressione che qualcuno stia barando al gioco, mi si rizzano i peli delle braccia.» Joey si umettò le labbra con la punta della lingua, mentre Pete storceva una spalla, chinava di lato la testa e cercava di assumere un'espressione annoiata. «Vedete», continuò Rebus, «mi è stato detto che voi tre eravate andati a passare la serata a Edimburgo quell'unica volta. Ora, però, mi sono convinto che non sia proprio così. Credo che voi ci foste già andati. Immagino pure che la cosa avvenisse, forse, con una certa regolarità, il che mi induce a chiedermi perché avete mentito. Cosa state tentando di nascondere? Ricordate, questa è un'inchiesta su una persona scomparsa. Non c'è modo,
per voi, di farla franca.» «Non abbiamo fatto nulla.» Era stato Joey a rispondere, con una voce dal ruvido accento locale, raspante come un macchinario da segheria. «Sai che cosa può significare una doppia negazione, Joey?» «Dovrei?» Riuscì a reggere lo sguardo di Rebus solo per una frazione di secondo. «Se dici che non avete fatto nulla, può voler dire che avete fatto qualcosa.» «Glielo ripeto, non abbiamo fatto nulla.» «Non avete mentito su quella serata? Non eravate già stati prima a Edimburgo...?» «C'eravamo già stati», disse Pete Mathieson. «Bentornato tra noi, Pete», esclamò Rebus. «Credevo che tu avessi perso da qualche minuto il dono della parola.» «Che cazzo, Pete!» scattò Joey. Pete lanciò un'occhiata all'amico, ma, quando parlò, fu a Rebus che si rivolse. «C'eravamo già stati.» «Al Guiser's?» «E in altri locali: pub, club...» «Quante volte?» «Quattro o cinque.» «Senza dirlo alle vostre ragazze?» «Loro credevano che fossimo a Kirkcaldy, come sempre.» «Perché nasconderglielo?» «Avrebbero rovinato tutto», sbuffò Joey, incrociando le braccia. Rebus comprese. Un'avventura era tale solo se circondata da un alone di mistero. Ai maschi piaceva avere piccoli segreti e raccontare insignificanti bugie. Amavano il gusto del proibito. Eppure lui aveva il sospetto che quell'avventura si fosse spinta troppo oltre. Lo capiva dal modo in cui Joey sedeva, stravaccato all'indietro nel divano, una caviglia sull'altra. Stava pensando a qualcosa, a qualcosa che riguardava le serate trascorse fuori casa, e il pensiero suscitava in lui un certo compiacimento... «Joey, hai mentito soltanto tu, o la cosa riguarda tutti e due?» Il ragazzo si rabbuiò in volto. Si girò verso l'amico. «Non ho mai detto nulla!» si lasciò sfuggire Pete. «Non aveva bisogno di farlo, Joey», continuò Rebus. «Ce l'avete scritto in faccia.» Joey si dimenò, sempre più a disagio. Alla fine si sedette in avanti, le
braccia appoggiate alle ginocchia. «Se Alice lo scopre, mi ammazza.» Tutto per il gusto del proibito. «Non aprirò bocca, Joey, fidati. Ho soltanto bisogno di sapere che cos'è successo quella sera.» Joey lanciò un'occhiata a Pete, come per dargli il permesso di parlare. «Tre settimane prima, Joey aveva conosciuto una ragazza», cominciò Pete. «Ogni volta che prendevamo il largo, si appartava con lei.» «Non eravate al Guiser's?» Joey scosse la testa. «Andavo nel suo appartamento, per un'oretta.» «Secondo i nostri piani, ci saremmo incontrati tutti e tre più tardi, al Guiser's», spiegò Pete. «Neanche tu e Damon eravate nel locale?» Un cenno di diniego da parte di Pete. «Eravamo andati prima in un pub e io mi ero messo a chiacchierare con una tipa. Credo che Damon si stesse rompendo le palle.» «È molto più probabile che fosse geloso», intervenne Joey. «Perciò è andato al Guiser's da solo?» chiese Rebus. «Quando sono arrivato nel locale, di lui non c'era traccia», disse Pete. «Non era al banco a prendere qualcosa da bere? Ve lo siete inventato per non far sapere a nessuno che eravate... impegnati altrove?» Stava guardando Joey. «Sì, più o meno», rispose Pete. «Non pensavamo che avesse importanza.» Rebus era pensieroso. «E che mi dite di Damon? Aveva mai agganciato qualche ragazza?» «Era piuttosto sfigato.» «Non dipendeva forse dal fatto che pensava a Helen?» Joey scosse la testa. «È che non ci sapeva proprio fare, con le donne.» Ed era entrato da Guiser's da solo... con quali pensieri in mente? Rimuginando che, di loro tre, lui era l'unico che non riusciva a trovarsi una ragazza con cui passare la serata. Dicendosi che «non ci sapeva fare». Eppure, chissà come, aveva finito per salire in taxi con la bionda misteriosa... «È importante?» chiese Pete. «Forse. Devo pensarci.» Era importante perché Damon si era trovato in quel locale da solo. Era importante perché adesso Rebus non aveva la più pallida idea di che cosa gli fosse accaduto tra il momento in cui aveva lasciato Pete nel pub e quello in cui si era avvicinato al banco del Guiser's in attesa di essere servito, con una bionda alle spalle. Potevano essersi incon-
trati strada facendo. Poteva essere successo qualcosa. E lui non aveva modo di saperlo. Proprio quando il quadro doveva farsi più chiaro, era andato in mille pezzi. Mentre Janice e Brian cominciavano a scaricare dall'auto le borse con la spesa, Rebus congedò Pete e Joey. Da loro aveva appreso anche qualcos'altro: Damon non si era mai preoccupato di trovarsi una ragazza con cui passare la notte. Quale luce gettava quella notizia sul suo rapporto con Helen? «Tutto bene, John?» chiese Janice, sorridendo. «Benissimo», rispose lui. Dopo pranzo, Brian lo invitò al pub. Tutto come al solito: sabato pomeriggio, si discuteva delle partite trasmesse per radio o in televisione. Si beveva qualcosa con gli amici. Ma Rebus rifiutò, accampando come scusa la proposta di Janice di accompagnarlo a fare una passeggiata in giro per la città. Lui non voleva andare a bere qualcosa con Brian, un'occasione durante la quale si stringevano o rinsaldavano legami, si lasciavano filtrare segreti «in tutta confidenza». Avendo visto che Janice dormiva in un'altra stanza, Rebus aveva l'impressione di conoscere cose che non avrebbe dovuto sapere. Ovviamente, lei poteva dormire in quella camera a causa di Damon, perché ne sentiva la mancanza. Ma lui non credeva che il motivo fosse quello. Perciò Brian andò al pub, mentre Janice e Rebus uscirono a passeggiare. Pioveva, ma era solo una leggera acquerugiola. Janice indossava un montgomery rosso col cappuccio; offrì a Rebus un ombrello, ma lui lo rifiutò, spiegando che, dal giorno in cui aveva visto in Princess Street un tale rischiare di rimetterci un occhio per colpa della stecca di un parapioggia, aveva sempre considerato quell'arnese una specie di arma impropria. «Dove andremo noi a camminare non ci sarà una gran folla», osservò Janice. Ed era vero. Le strade erano deserte. La gente del luogo andava tutta a fare shopping a Kirkcaldy o a Edimburgo. Quando Rebus era ancora un ragazzo, la sua famiglia non possedeva un'auto. I negozi sulla strada principale offrivano tutto ciò di cui si aveva bisogno. Le cose richieste adesso sembravano essere solo videocassette e cibo da asporto. Il Goth era veramente chiuso, le finestre sbarrate con assi di legno, il che fece tornare in mente a Rebus l'appartamento di Darren Rough. Gli edifici lungo la Craigside Road erano stati demoliti e sostituiti da villette. Alcune erano di pro-
prietà della cooperativa edilizia locale, altre erano private. «Quand'eravamo giovani, nessuna delle nostre famiglie possedeva la casa in cui abitava», commentò Janice, poi scoppiò a ridere. «A sentirmi, mi darebbero almeno settantotto anni.» «I cari giorni del passato», convenne Rebus. «Ma i luoghi cambiano.» «Sì.» «E anche le persone hanno il diritto di cambiare.» Janice gli lanciò un'occhiata, ma non gli chiese che cosa avesse voluto dire. Forse lo sapeva già. Salirono fino ai Graigs, un alto sperone roccioso e incolto che sovrastava Auchterderran, e lo percorsero finché non giunsero in vista del loro vecchio liceo. «Ma adesso non è più una scuola», spiegò Janice. «Oggi i ragazzi vanno a Lochgelly. Ricordi il nostro distintivo scolastico?» «Sì.» Auchterderran Secondary School, ASS: «asino». I ragazzi delle altre scuole li prendevano in giro, simulando qualche raglio. «Perché continui a guardarti alle spalle?» chiese Janice. «Credi che qualcuno ci stia seguendo?» «No.» «Brian non è il tipo, se è questo che pensi.» «No, no, non è nulla del genere...» «A volte vorrei che lo fosse.» Janice s'incamminò davanti a lui. Rebus indugiò qualche istante prima di raggiungerla. Rientrarono in città passando davanti al pub Auld Hoose. Un tempo Cardenden era divisa in quattro distinte parrocchie note come l'ABCD: Auchterderran, Bowhill, Cardenden e Dundonald. Quando loro stavano insieme, Rebus viveva a Bowhill e Janice a Dundonald. Se lui la riaccompagnava a casa, prendevano quella strada, facendo la deviazione più lunga possibile. Attraversavano il fiume Ore passando sul vecchio ponte a schiena di mulo (da tempo sostituito con una strada asfaltata). A volte, per esempio d'estate, attraversavano il parco e superavano il fiume ancora più in là, passando su una delle enormi condutture. Quei tubi costituivano una specie di test per i ragazzi locali. Rebus aveva visto alcuni suoi coetanei immobilizzarsi a metà strada, finché non venivano mandati a chiamare i genitori. Ricordava un ragazzino che, per la paura, si era pisciato nei pantaloni, ma aveva continuato a spostare i piedi, centimetro dopo centimetro, sul condotto, mentre il fiume scorreva impetuoso sotto di lui. E c'era anche chi affrontava a passo di corsa quell'attraversamento, le mani in tasca, sen-
za aver bisogno d'aiuto per mantenersi in equilibrio. Rebus era stato uno di quelli che avanzavano cautamente. La stessa conduttura correva lungo tutto il parco prima di sparire sotto terra, appena al di là. La si poteva seguire fino alla cosiddetta montagnola, cioè all'ammasso, alto quanto una collinetta, di ganga e altri materiali inutilizzabili estratti insieme col carbone e trasportati lì dalla miniera locale. Sotto la superficie potevano covare per mesi fuochi alimentati da quel materiale, cosicché dalla montagnola si alzavano volute di fumo, quasi fosse un vulcano. Col passar del tempo, via via che i pendii si coprivano di erba e alberi, la montagnola era arrivata a sembrare più che mai una collinetta naturale. Tuttavia, se si saliva sulla sommità, c'era un pianoro, un paesaggio alieno, recintato in via cautelativa. Vi si apriva una sorta di piccolo lago, dalla superficie oleosa, denso e nero. Nessuno sapeva che cosa fosse, ma tutti giravano alla larga: rimanendo a una certa distanza, vi lanciavano pietre, osservandole sprofondare lentamente e sparire, come se fossero state risucchiate. Gli adolescenti andavano nelle zone incolte dietro il parco, per trovare qualche posticino segreto, distese d'erba che diventavano una specie di loro proprietà. L'avevano fatto anche Janice e Johnny, tanto tempo prima... I Kinks: Young and Innocent Days. Ora, il posto era cambiato. La montagnola era sparita, l'intera zona aveva assunto una fisionomia cittadina. La miniera era stata chiusa. Cardenden era cresciuta grazie al carbone e, negli anni '20 e '30, aveva conosciuto una tumultuosa crescita dovuta all'arrivo dei minatori. Alle nuove strade non erano stati neppure attribuiti nomi, soltanto numeri. La famiglia di Rebus abitava nella 13th Street. Si era poi trasferita in un prefabbricato nella parrocchia di Cardendend e, da lì, in una villetta a schiera in un vicolo cieco di Bowhill. Ma, all'epoca in cui Rebus frequentava il liceo, l'estrazione del carbone aveva cominciato a diventare sempre più difficile: gli strati diventavano meno estesi, cosicché il tonnellaggio ricavato da un fronte di abbattimento tendeva a diminuire. La miniera era diventata poco redditizia. La sirena che ogni giorno segnalava il cambio di turno era stata messa a tacere. I compagni di scuola di Rebus, ragazzi i cui padri e nonni erano stati minatori, si chiedevano quale futuro lavorativo li aspettasse. Anche Rebus si rivolgeva simili domande. Ma, con l'aiuto di Mitch, era giunto a una conclusione. Si sarebbero arruolati entrambi nell'esercito. Allora era sembrata una scelta così facile... «Mickey vive ancora da queste parti?» chiese Janice.
«A Kirkcaldy.» «Era una vera peste, il tuo fratellino. Ti ricordi quando irrompeva in camera da letto? O spalancava all'improvviso il passavivande per farci spaventare?» Lui scoppiò a ridere. Il passavivande: una parola che non aveva più sentito pronunciare da anni. Lo sportello tra cucina e soggiorno, attraverso il quale venivano passati i piatti. Gli parve di rivedere Mickey, seduto sul piano di lavoro in cucina, che cercava di spiare loro due, soli, in salotto. Rebus si guardò di nuovo intorno. Era pressoché sicuro che Cary Oakes non fosse a Cardenden: una cittadina di quelle dimensioni, dove tutti si conoscevano, non poteva offrire nascondigli adeguati. Gli era già capitato d'incrociare un paio di persone che l'avevano salutato come se dall'ultima volta in cui l'avevano visto fosse trascorso qualche giorno e non una dozzina d'anni, se non più. E Janice era stata fermata da cinque o sei persone (vicini o semplici curiosi) che le avevano chiesto notizie di Damon. D'altronde era difficile dimenticarsene: sembrava che su ogni muro, contro ogni lampione o in ogni vetrina di negozio ci fosse la sua foto. «Qualche anno fa sono venuto qui per lavoro», disse a Janice. «Mi sono ritrovato nella ricevitoria di Hutchy. E lì mi sono imbattuto in Cranny.» Il soprannome di Heather Cranston. «Abita ancora in città. Come il figlio.» Rebus esitò, cercando di ricordarne il nome. «Shug?» «Proprio lui», disse Janice. «Se sei fortunato, stasera potresti vederla, Heather.» «Oh?» «Viene spesso al karaoke.» Rebus chiese a Janice se potevano tornare indietro. «Vorrei fare un salto al cimitero», le spiegò. E avrebbe potuto aggiungere che, come aveva imparato nell'esercito, per verificare se si era stati seguiti non c'era sistema migliore che tornare sui propri passi. Rifecero quindi la strada attraverso Bowhill e salirono l'erta che portava al cimitero. Rebus stava pensando a tutte le storie sepolte in quelle tombe: vittime di tragedie minerarie, una ragazza trovata annegata nell'Ore, un'intera famiglia distrutta a causa di un incidente d'auto mentre si trovava in vacanza. C'era anche Johnny Thomson, il leggendario portiere del Celtic. La madre di Rebus era stata cremata, ma il padre aveva insistito per avere «una sepoltura decente». La sua pietra tombale era accanto al muro di cinta in fondo al cimitero. «Amoroso marito di...» e «Padre di...» E, in bas-
so, la frase: «Non morto, ma addormentato tra le braccia del Signore». Nell'awicinarsi, però, lui si accorse che qualcosa non andava. «Oh, John», esclamò Janice. Gran parte della scritta era coperta da uno strato di vernice bianca, colato lungo la lapide. «Stupidi ragazzini», sibilò lei. Rebus notò qualche schizzo di vernice sull'erba, ma nessuna traccia della latta vuota. «Non è stato un ragazzino a farlo», replicò. Sarebbe stata una coincidenza troppo singolare. «E chi, allora?» Lui avvicinò un dito alla lapide: la vernice era ancora vischiosa. Dunque Oakes era venuto davvero. Janice gli strinse il braccio. «Mi dispiace tanto.» «È soltanto una pietra», replicò Rebus a voce bassa. «Si può rimediare.» Sorseggiarono il tè in salotto. Rebus aveva chiamato l'albergo di Oakes: non c'era nessuno, né nella stanza di Stevens né al bar. «Abbiamo ricevuto alcune telefonate», gli disse Janice. «Sciacalli?» azzardò. Lei annuì. «Dicevano: 'Damon è morto', oppure: 'L'abbiamo ucciso noi'. Il fatto è che... le loro voci mi suonavano familiari.» «Con ogni probabilità è gente di qui.» Janice gli offrì una sigaretta. «È disgustoso, non trovi?» Rebus, guardandosi intorno, fece cenno di sì. Erano ancora seduti in salotto quando Brian tornò dal pub. «Vado a farmi una doccia», disse. Janice spiegò a Rebus che si comportava sempre così. «Butta gli indumenti nella lavatrice e s'insapona da capo a piedi. Credo sia a causa del fumo di sigaretta.» «Gli dà fastidio?» «Lo odia... Forse è per questo che io ho cominciato a fumare.» La porta d'ingresso si aprì di nuovo. Era la madre di Janice. «Vado a prenderti una tazza», disse la figlia, alzandosi in piedi. La signora Playfair fece un cenno di saluto a Rebus, poi gli si sedette di fronte. «Non l'avete ancora trovato?» «Non per mancanza di volontà, signora Playfair.» «Ah, sono sicura che state facendo del vostro meglio. Ma, capisci, è il nostro unico nipote.»
Rebus annuì. «Un bravo ragazzo, non farebbe male a una mosca. Non riesco a credere che si sia messo nei pasticci.» «Perché crede che sia nei guai?» «Altrimenti non ci avrebbe mai tenuti così sulle spine.» Lo stava scrutando. «E a te, figliolo, com'è andata?» «Mi scusi, che intende dire?» Si chiese se non gli avesse letto nel pensiero. «Non so... Che tipo di vita hai avuto? Sei abbastanza felice?» «In realtà non ci penso mai.» «Perché no?» Lui si strinse nelle spalle. «Mi piace osservare la vita degli altri. È in questo che consiste il lavoro di un poliziotto.» «L'esercito non ha funzionato?» «No», si limitò a rispondere. «A volte capita che le cose non vadano per il verso giusto», ribatté l'anziana donna mentre Janice rientrava nella stanza. Osservò la figlia versarle il tè. «Molti matrimoni vanno all'aria, da queste parti.» «Secondo lei, Damon e Helen potrebbero formare una bella coppia? Una coppia stabile, intendo?» La signora Playfair ci pensò a lungo, poi, mentre prendeva la tazza dalle mani di Janice, rispose: «Chissà, sono così giovani». «Secondo lei, quante probabilità ci sono che...» «John, stai parlando alla nonna di Damon», intervenne Janice. «Non esiste ragazza al mondo che gli stia alla pari, eh, mamma?» Sorrise, per far capire a Rebus che stava scherzando, almeno in parte. Poi si rivolse di nuovo alla madre: «Sai, Johnny ha avuto un'esperienza sconvolgente». Aveva appena finito di descrivere come la lapide fosse stata deturpata quando entrò Brian, grattandosi la testa. Si era cambiato d'abito. Janice gli raccontò tutto da capo. «Piccoli bastardi», esclamò Brian. «È accaduto altre volte. Rovesciano le pietre tombali, le spezzano.» «Vado a prenderti una tazza», fece Janice, accennando ad alzarsi di nuovo. «Non prendo il tè, grazie», ribatté Brian, facendole segno di restare seduta. Poi si voltò a guardare Rebus. «Allora probabilmente non avrai voglia di mangiar fuori. Volevamo invitarti al ristorante.» Dopo averci riflettuto, Rebus rispose: «Mi piacerebbe andar fuori a
mangiare, ma offro io». «Pagherai la prossima volta», ribatté Brian. «A giudicare da come sono andate le cose», osservò Rebus, «vorrebbe dire tra una trentina d'anni, più o meno.» Col pollo al curry, Rebus bevve soltanto acqua minerale. Brian scelse la birra, Janice due bicchieri di vino bianco. Erano stati invitati anche i genitori di Janice, ma non avevano accettato. «Preferiamo lasciarvi soli, voi giovani», aveva spiegato la signora Playfair. Di tanto in tanto, quando Janice guardava altrove, Brian le lanciava un'occhiata. Sembrava in preda all'angoscia, si disse Rebus: temeva che la moglie volesse lasciarlo e si chiedeva cosa avesse fatto lui di sbagliato. La sua vita gli sembrava sul punto di sfasciarsi, e lui cercava di capire il perché. Almeno di cogliere qualche indizio. Rebus si considerava un esperto in fallimenti matrimoniali, sapeva come andava la storia. Uno dei due cominciava a desiderare cose che, finché fosse rimasto sposato, sarebbero rimaste al di là della sua portata. Ma non era stato così per il suo matrimonio. In quel caso, e in primo luogo, c'era il fatto che lui non avrebbe mai dovuto sposarsi. Quando il lavoro aveva cominciato ad assorbirlo completamente, non gli era rimasto molto tempo da dedicare a Rhona. «Un soldo per i tuoi pensieri», esclamò Janice d'un tratto, spezzando un boccone di pane. «Mi chiedevo come ripulire la lapide.» Brian disse di conoscere la persona adatta: lavorava per il comune, eliminava i graffiti dai muri cittadini. «Ti manderò il denaro», replicò Rebus. Brian annuì. Dopo la cena, tornarono tutti a Cardenden. La gara di karaoke si svolgeva in una sala sul retro della Railway Tavern. L'apparecchiatura era sistemata su un palcoscenico, ma i cantanti erano raggruppati nella pista da ballo, lo sguardo fisso su uno schermo televisivo sul quale apparivano immagini melense, mentre in basso scorrevano le parole. Furono distribuiti ai partecipanti alcuni fogli, su cui erano stampate tutte le canzoni. Si scriveva la propria scelta su una strisciolina di carta che veniva data al presentatore. Uno skinhead si alzò ed eseguì My Way; una donna di mezza età ci provò con You to Me are Everything. Janice disse che lei sceglieva sempre Baker
Street, mentre Brian oscillava tra Satisfaction e Space Oddity a seconda dell'umore. «Perciò la maggior parte canta ogni settimana lo stesso pezzo?» chiese Rebus. «Quel tipo che sta per alzarsi proprio adesso», rispose Janice, indicando l'angolo della sala in cui la gente stava spostando la propria sedia per consentire all'interessato di mettersi in piedi, «sceglie sempre canzoni dei REM.» «Ormai, probabilmente, sarà bravissimo.» «Niente male, in effetti», convenne Janice. La canzone era Losing My Religion. I clienti che bevevano al bar del locale vero e proprio si avvicinavano alla sala, indugiando sulla porta a osservare. Per i partecipanti al karaoke c'era una distribuzione apposita di bevande: venivano passate attraverso uno sportello, da un adolescente che continuava a toccarsi gli sfoghi dell'acne sulle guance. Tutti i presenti sembravano avere un loro tavolo fisso. Rebus, Janice e Brian erano seduti accanto a uno degli altoparlanti. C'era anche la madre di Brian, insieme coi due Playfair. Un uomo anziano andò a parlare con loro. Brian si chinò verso Rebus. «È il padre di Alec Chisholm», gli sussurrò. «Non l'avrei mai riconosciuto», ammise Rebus. «A mia madre e ai miei suoceri non piace parlare con lui, perché non fa che ricordare Alec e quanto tempo è passato dalla sua scomparsa.» In effetti i Playfair e la signora Mee avevano un'espressione impietrita mentre ascoltavano Chisholm. Rebus si alzò per andare a bere qualcosa. Si sentiva come intontito, mentre gli tornava in mente la scena che l'aveva accolto al cimitero. Pensava a Oakes, al messaggio che gli aveva lasciato: lui, Oakes, era avanti di una mossa, e la situazione aveva ormai preso una piega personale. Rebus era certo che fosse un ennesimo modo per metterlo alla prova, che Oakes stesse cercando di fargli saltare i nervi. Si sentì più che mai deciso a non permettere che ciò avvenisse. La madre di Janice stava bevendo un Bacardi Breezes, al sapore di anguria. Rebus dubitò che la donna avesse mai visto in vita sua un'anguria. Poi scorse Helen Cousins in piedi sulla porta con un paio di amiche e andò a salutarla. «Nessuna notizia?» chiese la ragazza. Rebus scosse la testa e lei si strinse nelle spalle, come se avesse già rinunciato a Damon. Niente male, per una grande storia d'amore. Helen
stringeva in mano una bottiglietta di Hooch al limone. Tutte quelle bevande zuccherine, una mistura perfetta per gli scozzesi: sapore dolce ed elevata gradazione alcolica. Rebus aveva notato che nel bar tenevano sul bancone le bottiglie di uno di quegli intrugli (Irn-Bru e limonata), lasciando che i clienti se ne servissero liberamente. Ormai erano ben pochi i pub che lo facevano. E un'altra cosa: la birra costava poco. Una lezione di economia: se la zona è depressa, allora fa' in modo che la birra sia alla portata di tutti. In fondo al bancone del bar aveva notato Heather Cranston, seduta su uno sgabello, le palpebre socchiuse mentre un uomo le parlava all'orecchio e le posava una mano sulla nuca. Helen passò la bottiglia a un'amica, dicendo che doveva andare alla toilette. Lui si avvicinò. Le due ragazze lo guardarono, chiedendosi chi fosse. «Dev'essere straziante, per lei», disse Rebus. «Come?» chiese quella che stava masticando un chewing-gum, mentre lo stupore le increspava la faccia. «La scomparsa di Damon, intendo.» La ragazza si strinse nelle spalle. «Direi imbarazzante, più che altro», commentò l'amica. «Non ci fai certo una bella figura se il tuo ragazzo taglia la corda, non crede?» «Immagino di sì», ribatté Rebus. «A proposito, mi chiamo John.» «Corinne», disse la masticatrice. Aveva lunghi capelli neri arricciati col ferro. La sua amica, una piccolina con la chioma ossigenata, si chiamava Jacky. «Voi che ne pensate di Damon?» chiese ancora Rebus. Si riferiva alla scomparsa di Damon, ma le due ragazze intesero la domanda in senso letterale. «Ah, è un tipo a posto», rispose Jacky. «Be', insomma...» intervenne Corinne. «Sì, il cuore ce l'ha al posto giusto, ma lui è un po' gnucco. Un po' rallentato, per così dire.» Rebus annuì, fingendo che quella fosse anche la sua opinione. Eppure, da come l'avevano descritto i familiari, Damon doveva essere una sorta di ragazzo prodigio. D'un tratto, si rese conto di quanto fosse superficiale l'immagine che aveva del giovane scomparso. Fino a quel momento aveva sentito una sola campana. «Però a Helen piace?» chiese. «Credo di sì.» «Sono fidanzati.» «Succede, no?» disse Jacky. «Ho qualche amica che si è fidanzata soltanto per poter dare una festa.» Lanciò un'occhiata a Corinne in cerca di
sostegno, poi si chinò verso Rebus per sussurrargli un'indiscrezione. «Facevano certe scenate...» «Perché?» «Per gelosia, credo.» Attese che Corinne annuisse. «Perché Helen l'aveva visto guardare una ragazza o perché lui l'accusava di aver fatto la smorfiosa con un altro. Le solite cose.» Lo guardò negli occhi. «Secondo te, è scappato con una?» Rebus scorse, al di là dello strato di mascara, uno sguardo vivido e acuto. «È possibile», rispose. Ma Corinne stava scuotendo la testa. «Non ci avrebbe mai avuto il fegato.» Guardando nel corridoio, Rebus vide che Helen non era andata alla toilette. Stava chiacchierando con un ragazzo, la schiena appoggiata al muro, le mani allacciate dietro la vita. Rebus chiese a Corinne e Jacky cosa stessero bevendo. Due Bacardi con Coca-Cola. Li aggiunse mentalmente alla lista della spesa. Quando tornò al tavolo, Janice si stava alzando. Cantò Baker Street con sincera emozione, a occhi chiusi perché conosceva il testo a memoria. Brian la fissava, il volto quasi inespressivo. Con ogni probabilità non si rendeva conto che, mentre la moglie cantava, lui continuava a fare a pezzi sempre più piccoli un sottobicchiere di cartoncino, impilando i frammenti sul tavolo prima di spazzarli via e gettarli sul pavimento al termine dell'esibizione. Rebus uscì all'aperto e inspirò profonde boccate della frizzante aria notturna. Aveva bevuto troppo whisky, anche se abbondantemente allungato con acqua. In lontananza si udivano grida, canti sportivi. Sul muro di lato al pub campeggiava una scritta coloratissima e incomprensibile, davanti alla quale un uomo stava orinando. Poi il tizio si diresse barcollando verso Rebus e gli chiese se poteva prestargli una sigaretta. Lui gliene diede una e ne accese un'altra per sé. «Auguri, Jimmy», esclamò l'ubriaco. Poi scrutò il volto di Rebus. «Conoscevo tuo padre», mormorò, allontanandosi prima che lui potesse fargli altre domande. Rebus rimase immobile. Non apparteneva a quel posto, ormai l'aveva capito. Il passato è un luogo che puoi visitare, ma in cui non puoi trattenerti. Aveva bevuto troppo per guidare, ma in cima ai suoi desideri... in cima ai suoi desideri c'era quello di tornare a Edimburgo. Cary Oakes non si trovava a Cardenden. C'era stato di sfuggita, appena il tempo di lasciare un
messaggio. Rebus era dispiaciuto per Janice e Brian, per com'erano andate le cose. Eppure, in quel momento, si trattava di un problema di portata minima rispetto ai propri guai. Si era lasciato scappare di mano l'esatta percezione delle cose, permettendo a Oakes di avvantaggiarsene. Fin troppo. Rientrò nel locale. Nessuno lo esortò a prendere il microfono. Ormai tutti sapevano chi era, sapevano cosa gli era accaduto al cimitero. Le notizie si diffondevano rapidamente, in una cittadina come Cardenden. Di che altro è mai fatta la storia? 34 Era ancora buio quando si svegliò. Si rivestì, piegò le lenzuola, lasciò un biglietto sul tavolo da pranzo. Poi uscì, salì in macchina e si avviò lungo le strade silenziose e nella campagna ancora più quieta, imboccando la superstrada e mettendo a dura prova il motore della Saab mentre si lanciava in direzione sud, verso Edimburgo. Trovò un parcheggio all'angolo di Oxford Terrace e s'incamminò verso l'appartamento di Patience. Era ancora troppo buio per vedere la porta; la tastò coi polpastrelli, trovò la serratura e l'aprì. Anche l'ingresso era immerso nell'oscurità. In punta di piedi si diresse verso la cucina e riempì d'acqua il bollitore elettrico. Quando si girò, Patience era ferma sulla soglia. «Dove diavolo sei stato?» chiese, con una rabbia che neppure la stanchezza riusciva a smorzare. «Nel Fife.» «Non mi hai telefonato.» «Ti ho detto dove andavo.» «Ho cercato di chiamarti sul cellulare.» Rebus accese il bollitore. «L'avevo spento.» Vide uno spasmo di dolore segnarle il volto. Le afferrò le braccia. «Che c'è, Patience?» Lei scosse la testa. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Tirò su col naso, poi prese Rebus per mano e lo condusse nel corridoio, dove accese la luce. Lui vide alcuni segni sul pavimento, una scia che arrivava fino alla porta d'ingresso. «Cos'è successo?» chiese. «È vernice», rispose Patience. «Era buio e non ho notato che stavo imbrattando tutto. Ho tentato invano di ripulire...» Una serpeggiante scia d'impronte bianche... A Rebus vennero in mente
le pietre che portavano alla tomba del padre. Fissò Patience, poi raggiunse la porta d'ingresso e la spalancò. Dietro di lui, Patience allungò la mano verso l'interruttore, per accendere le luci nel patio. Rebus vide la scritta. Parole tracciate sull'impiantito, in caratteri alti una trentina di centimetri. Chinò la testa per leggerle. IL TUO AMANTE POLIZIOTTO HA UCCISO DARREN ROUGH. L'intero messaggio era sottolineato. «Cristo», ansimò. «Riesci a dire solo questo?» La voce le tremava. «Nel week-end non ho fatto altro che tentare di raggiungerti.» «Ero... Quand'è successo?» Stava camminando intorno alla scritta. «Venerdì sera. Sono tornata a casa tardi, andando subito a letto. Verso le tre, mi sono svegliata col mal di testa. Mi sono alzata per bere un po' d'acqua, ho acceso la luce nel corridoio e...» «Mi dispiace, Patience.» «Che significa, tutto questo?» «Non lo so con precisione.» Di nuovo Oakes. Mentre Rebus andava nel Fife, Oakes era lì, a mettere in atto la sua nuova mossa. Non soltanto sapeva di Janice, era anche al corrente dell'esistenza di Patience. E gliel'aveva fatto capire chiaramente, quando gli aveva detto che era fortunato a conoscere un medico. L'aveva preavvertito. E lui non c'era arrivato. «Stai mentendo», esclamò Patience. «Lo sai benissimo. Si tratta di quell'uomo, vero?» Rebus cercò di prenderla tra le braccia, ma lei si divincolò. «Ho telefonato a St. Leonard», continuò lei. «Hanno mandato qualcuno a controllare la zona. Due ragazzi in uniforme. La mattina è arrivata Siobhan.» Sorrise. «Mi ha portata fuori a far colazione. Credo che avesse capito che non avevo chiuso occhio tutta la notte, perché mi ero resa conto, tra l'altro, di quanto sia... vulnerabile questo appartamento. Grazie al giardino sul retro chiunque può scalare il muro ed entrare dalla serra. E non ci vuole nulla a scassinare la porta d'ingresso: chi se ne accorgerebbe?» Lo guardò. «A chi potrei chiedere aiuto?» Lui cercò di nuovo di stringerla tra le braccia e stavolta Patience glielo lasciò fare, ma dimostrando una certa resistenza. «Mi dispiace», ripeté. «Se avessi saputo... Se ci fosse stato un modo...» Venerdì sera aveva spento il cellulare. Adesso se ne chiedeva il motivo. Per impedire che le pile si scaricassero completamente? Al momento, quella era stata la ragione... ma
forse invece lui aveva cercato d'isolare il Fife da qualunque altro ambito della sua vita; era così occupato a pensare a Janice da ignorare la ben più ovvia mossa di Oakes. Baciò Patience sui capelli. La sua visione delle cose era distorta, non riusciva a pensare in modo rigoroso. E così Oakes vinceva ogni dannato round. Il legame che Rebus avvertiva nei confronti di Janice era innegabile, eppure riguardava il passato, un'opportunità che gli era sfuggita. Nel presente, la sua amante era Patience. Era lei la donna che stava abbracciando e baciando. «Andrà tutto bene», le disse. «Sistemeremo ogni cosa.» Patience si sciolse dall'abbraccio, si asciugò gli occhi con la manica della vestaglia. «È successo qualcosa di buffo alla tua voce. Ti è tornato l'accento del Fife.» Rebus sorrise. «Preparerò un po' di tè. Tu intanto rimettiti a letto. Se hai bisogno di me, sai dove trovarmi.» «Dove?» «Nel retrocucina.» «Ma certo che è stato Oakes», disse. Aveva telefonato a Siobhan per ringraziarla e, come gli aveva chiesto Patience, per invitarla a pranzo. Perciò erano seduti a tavola nella serra, col sole che batteva sulle loro teste. I giornali della domenica erano ammucchiati in un angolo, non ancora letti. Stavano mangiando zuppa d'orzo e verdure, prosciutto cotto e insalata, il tutto innaffiato da un paio di bottiglie di vino. «Lo sai cos'ha fatto ieri sera?» aveva detto Patience a Rebus (riferendosi a Siobhan). «Mi ha telefonato per controllare che stessi bene. In caso contrario, ha aggiunto, potevo andare a dormire a casa sua.» Con un sorriso pigro e un po' brillo, si era alzata per preparare il caffè. Era stato allora che Rebus aveva rivelato a Siobhan i propri sospetti. «Qualche prova?» replicò Siobhan, prima di finire il vino (solo due bicchieri: doveva rimettersi al volante). «Una sensazione viscerale. Ha tenuto d'occhio casa mia. Sa che sono stato io l'ultimo a vedere Rough vivo. Ha fatto in modo di uscire con Janice, che si trovava nel mio appartamento, e ora è il turno di Patience.» «Che ha contro di te?» «Non lo so. Forse avrebbe potuto prendersela con uno qualunque di noi: per puro caso è toccato a me.» «Da quello che mi hai detto, Oakes è uno che calcola ben più attenta-
mente di così le proprie mosse.» «Sì.» Inseguì un pomodorino sulla foglia di lattuga che aveva nel piatto. «Patience, qualche giorno fa, ha detto una cosa molto giusta. Secondo lei, tutto questo potrebbe essere un espediente tattico per impedirci di vedere ciò che lui ha effettivamente intenzione di commettere.» «E sarebbe?» Rebus sospirò. «Vorrei proprio saperlo.» Fissò di nuovo l'insalata. «Ti ricordi quel periodo in cui si trovava un unico tipo di lattuga? Una sola qualità di pomodoro?» «Sono troppo giovane.» Lui assentì con aria pensierosa. «Credi che supererà lo shock?» Si riferiva a Patience. «Si riprenderà perfettamente.» «Dovevo essere qui.» «Mi ha detto che ti trovavi nel Fife. Che ci facevi, là?» «Rivivevo il passato», rispose lui, riuscendo finalmente a piantare la forchetta nel pomodorino. Trascorse il resto della giornata con Patience. Fecero quattro passi nel Giardino Botanico, poi si recarono da Sammy. Patience non era andata a trovarla, di sabato; le aveva telefonato dicendo che c'era stato un contrattempo, senza però scendere nei particolari. Si era preparata una storia e l'aveva riferita a Rebus, perché le loro versioni non fossero contrastanti. Un'altra passeggiata: stavolta con Sammy sulla sedia a rotelle. Quando usciva con lei, Rebus si sentiva ancora a disagio. E Sammy lo prendeva in giro. «Farti vedere con un'invalida ti mette in imbarazzo?» «Non dire sciocchezze.» «E allora che c'è?» Ma Rebus non sapeva risponderle. Che c'era? Pure lui lo ignorava. Forse dipendeva dagli estranei, da come li guardavano. Avrebbe voluto dire: lei migliorerà, non resterà per sempre in questo stato. Avrebbe voluto spiegare com'era accaduto l'incidente e con quanta forza d'animo lei avesse accettato la situazione. Avrebbe voluto gridare che la figlia era normale. Con Sammy in carrozzina... era come avere ancora una bimba di pochi mesi: Rebus si ritrovava a badare ai rialzi del terreno e alle pendenze, a evitare i bordi del marciapiede e ad attraversare solo nei punti sicuri. Insisteva perché si aspettasse il verde, anche se non c'erano auto in vista.
«Papà», gli chiedeva Sammy, «quante probabilità ci sono che io venga investita di nuovo?» «Chiediamolo a un bookmaker... Poi ci puntiamo qualcosa e se siamo fortunati...» E Sammy rideva. Il suo ragazzo, Ned, passeggiava con loro, ma Sammy insisteva nel volersi spingere da sé, piegandosi all'indietro per far impennare la carrozzina e mostrare la padronanza del veicolo. Ned rideva con lei, le camminava accanto con le mani in tasca. Patience infilò la sua in quella di Rebus. Un'uscita domenicale: ecco che cos'era. Poi di nuovo a casa di Sammy, dove li attendevano pasticcini alla crema e tazze di tè Darjeeling, mentre sul televisore si alternavano le azioni salienti delle partite, senza sonoro. Sammy che spiegava a Patience il suo ultimo programma di esercizi riabilitativi, Ned che parlava a Rebus, Rebus che non ascoltava, lo sguardo verso la finestra, intento a chiedersi se Cary Oakes non fosse là fuori... La sera, disse a Patience che doveva fare un salto nel suo appartamento. «Ho bisogno di un paio di cose. Torno subito.» La baciò. «Vuoi stare qui o preferisci venire con me?» «Rimango qui», gli rispose lei. Così Rebus montò in macchina e partì. Diretto non verso Arden Street, ma verso Leith. Entrò nell'albergo e chiese di parlare con Cary Oakes. La receptionist chiamò in camera: nessuna risposta. «Forse è al bar», suggerì poi. Ma Cary Oakes non era neppure al bar. C'era però Jim Stevens. «Lascia che ti offra da bere», disse. Rebus fece un segno di diniego, notando che Stevens stava sorseggiando un grosso bicchiere di gin e soda. «Dov'è il tuo pupo?» Stevens si limitò a una spallucciata. «Ero convinto che volessi tenerlo d'occhio», continuò Rebus, cercando di arginare la rabbia. «Ci provo, credimi. Ma lui è un viscido stronzo.» «Credi di poterlo spremere ancora a lungo?» Stevens sorrise, scuotendo la testa. «È successa una cosa strana, anzi strabiliante. Tu mi conosci, sai che sono uno scribacchino stagionato, cioè sono duro e testardo, e che non mi faccio rifilare merda.» «E allora?» «Allora credo che lui mi stia rifilando merda.» Stevens si strinse nelle
spalle. «Non fraintendermi, non è tutta roba da buttar via. Ma dove sono le prove?» «Da quando in qua una cosa del genere ti ferma?» Stevens chinò la testa, come per ammettere che Rebus aveva ragione. «Mi piacerebbe averle, solo per soddisfare una mia curiosità», proseguì. «In tutto questo tempo, le storie che mi ha rifilato il caro, vecchio Cary e quelle che lui mi ha tirato fuori stanno a pari, come numero.» «Oh, sì, sei sempre stato famoso per la tua discrezione.» «A me non importa raccontare di questo o quello... semplici chiacchiere da bar. Ma Oakes... non so. Non sono tanto le storie in sé a interessarlo quanto ciò che quelle storie rivelano sulle persone coinvolte.» Sollevò il bicchiere. Accanto, ce n'erano altri tre, vuoti. Stevens trasferì tutte le fettine di limone nell'ultimo. «Probabilmente sto dicendo un sacco di cazzate. Ma che mi frega? Sono fuori servizio.» «Cioè hai finito con lui?» Stevens fece schioccare le labbra. «Direi che siamo in dirittura d'arrivo. Il punto è: lui ha finito con me?» Rebus prese una sigaretta e l'accese, poi ne offrì una al giornalista. «Mi ha pedinato e ha fatto lo stesso con alcune persone che conosco.» «E a quale scopo?» «Forse sta cercando un'altra storia per te.» Rebus si fece più vicino a Stevens. «Senti, te lo chiedo in via del tutto ufficiosa, un semplice scambio d'idee...» Stevens cercò di schiarirsi un po' la mente obnubilata dall'alcol. «Sì?» «Oakes ha mai anche solo vagamente accennato a Deirdre Campbell?» Il giornalista non riusciva a focalizzare il nome. «Alla nipote di Alan Archibald», completò Rebus. «Ah, quella.» Un cenno di assenso tanto enfatico che il volto gli affondò quasi nel bicchiere di gin, poi un cipiglio assorto. «Ha detto qualcosa sulle percentuali di errori giudiziari. Sostiene che, ogni volta che qualcuno è ritenuto responsabile di un reato, gli viene addossato anche qualche crimine irrisolto, così da poterlo finalmente archiviare.» Rebus si era accomodato su uno sgabello. «Non ha citato casi specifici?» «Credi che mi sia sfuggito qualcosa?» «Non mi hai forse detto che hai l'impressione di essere usato da Oakes?» «Credi che lui stia inserendo nella sua storia qualche indizio che io non afferro? Non mi sottovalutare fino a questo punto.» «Gli piace giocare», sibilò Rebus. «E tutti noi siamo le sue pedine.»
«Io no, amico. Io sono il suo lecca-lecca.» «I lecca-lecca finiscono per essere mangiati.» «John...» Stevens si raddrizzò, inspirò una rinvigorente boccata d'aria. «Dal punto di vista professionale, questa vicenda mi ha ridato smalto. Sono stato io a piombargli addosso per primo. Io, il vecchio e sconfitto Jim Stevens, sono tornato in gara con tutta l'intenzione di vincere. Anche se stasera Oakes se l'è squagliata, sarò io ad avere la parte più cospicua dei diritti d'autore sul libro.» Annuì tra sé, lo sguardo fisso sul bicchiere che stringeva in mano. Rebus si disse che non gli credeva. «Vedi, in questi giorni, quando faccio un brindisi», proseguì Stevens, alzando il bicchiere, «è solo al Numero Uno. Per quanto mi riguarda, amico, tutti voi potete andare dritti all'inferno, e restarci per sempre.» Bevve, fino all'ultima goccia. Mentre Rebus si avviava verso la porta, Stevens stava ordinando un altro bicchiere di gin. 35 Quando, la mattina seguente, uscì dalla casa di Patience, lei si trovava nel patio a discutere con due operai sul modo migliore per ripulire l'impiantito dalle macchie di vernice. Mentre entrava nella stazione di polizia di St. Leonard e si dirigeva verso la sezione investigativa, Rebus ebbe l'impressione che fosse accaduto qualcosa. Intorno a lui ferveva una grande attività e l'atmosfera era cambiata. Siobhan Clarke fu la prima a dargli la notizia. «L'amante di Joanna Horman.» Gli tese un rapporto. «Ha gravi precedenti penali.» Rebus diede un'occhiata al foglio. L'uomo si chiamava Ray Heggie. Riconosciuto colpevole di furti con scasso e svariati atti di violenza compiuti in stato d'ubriachezza, aveva trascorso un certo periodo in galera. Aveva dieci anni più di Joanna e viveva con lei da sei settimane. «Roy Frazer l'ha portato nella stanza degli interrogatori.» «Come ci siete arrivati?» chiese Rebus, rendendole il rapporto. «Un'ex amica di Heggie. Ha letto che il ragazzo era scomparso e ci ha telefonato, dicendo che quel tizio aveva abusato della sua figlioletta. Era quello il motivo per cui l'aveva piantato.» «E perché non ce l'ha detto subito?» Siobhan si strinse nelle spalle. «L'ha fatto adesso.» Rebus fece una smorfia. «Quanti anni ha la piccola?»
«Undici. Una funzionaria della sezione reati sessuali è andata a casa sua, a parlarle.» Gli lanciò un'occhiata. «Non ci credi, vero?» «Caveat emptor, Siobhan. Deciderò dopo la prova su strada.» Le strizzò l'occhio e si allontanò. Con ogni probabilità, si trattava di un'ex convivente con qualche rancore, niente di più. La donna aveva colto al volo l'opportunità per fargliela pagare... E tuttavia, se Heggie era davvero un pedofilo, forse conosceva Darren Rough. Rebus bussò alla porta della stanza degli interrogatori. «Entra l'ispettore Rebus», disse Frazer, a tutto beneficio del nastro che stava girando. Seguiva la normale procedura: registrazione audio e video. Accanto a lui, da un lato del tavolo, sedeva «Hi-Ho» Silvers, a braccia conserte, con l'aria di uno che non si faceva impressionare da qualsiasi cosa potesse sentire. Era quello il ruolo di Silvers: non aprire bocca, ma mettere a disagio l'indagato. Dall'altra parte del tavolo, sedeva un uomo sulla quarantina, capelli neri ricciuti con una pronunciata stempiatura. Non doveva essersi rasato da un paio di giorni e aveva gli occhi pesti. Indossava una maglietta nera e si passava in continuazione le mani sulle braccia coperte da una folta peluria. «Un altro che si unisce alla compagnia», fu il suo commento all'arrivo di Rebus. Date le ridotte dimensioni del locale, Rebus si appoggiò alla parete, incrociando le braccia e rimanendo in ascolto. «Gli abitanti del quartiere avevano organizzato una squadra di ricerca», riprese Frazer, «ma lei non ne faceva parte. Come mai?» «Non c'ero.» «E dov'era?» «A Glasgow. Ero andato a bere un bicchiere con un amico e ho passato la notte a casa sua. Chiedeteglielo, ve lo confermerà.» «Ne sono certo. Gli amici servono a questo, no?» «È la verità.» Frazer annotò qualcosa. «Se lei è andato a bere in qualche locale, ci sarà certamente qualcuno che l'ha vista.» Sollevò gli occhi dal taccuino. «Mi faccia qualche nome.» «Calma. Senta, i pub erano un mortorio, così ci siamo comprati qualche bottiglia e siamo tornati nell'appartamento del mio amico. Ci siamo messi a guardare un paio di video.» «Qualcosa di buono?» «Roba di classe.» Heggie strizzò l'occhio. Frazer gli rilanciò uno sguardo impassibile.
«Porno?» «E io che ho detto?» «Perversioni?» «Ehi, sono regolare, io.» Heggie smise di massaggiarsi le braccia. «Scene lesbo?» «Possibile.» «Sadomaso? Animali? Bambini?» Heggie capì dove l'altro stava andando a parare. «Gliel'ho già detto che non sono un tipo del genere.» «La sua ex compagna non la pensa così.» «Quella puttana direbbe qualsiasi cosa. Aspetti che la incontri e...» «Se capita qualcosa a quella donna, signor Heggie, se soltanto si prende un raffreddore, lei si ritrova qui all'istante. Capito?» «Ma no, è soltanto un modo di dire! Però tenga conto che quella lì è capace di andare in giro a raccontare che mi sono beccato l'AIDS. È vendicativa. Non si potrebbe bere qualcosa?» Frazer finse di controllare l'ora. «Faremo una sosta tra cinque minuti.» Rebus nascose un sorriso, sapendo che avrebbero sospeso l'interrogatorio solo quando Frazer l'avesse ritenuto opportuno. «Lei ha alle spalle parecchie condanne per atti di violenza, signor Heggie. Se vuol sapere come la penso, lei ha perso la pazienza col ragazzo, anche se non voleva fargli del male. Ma le sono saltati i nervi e, quando ha ripreso il controllo, Billy era morto.» «No.» «Ed è stato costretto a nasconderlo da qualche parte.» «No. Vi ripeto che...» «Allora dove si trova il ragazzo? Come mai è sparito? E lei, guarda caso, è accusato di atti di violenza su minori.» «Avete soltanto la parola di Belinda!» Belinda, la sua ex compagna. «Datemi retta, fate visitare Fliss da un dottore.» Fliss, la figlia di Belinda. «E se anche salta fuori che qualcuno le ha messo le mani addosso, non sono stato io. Neanche per sogno. Chiedeteglielo.» Si grattò la peluria delle braccia. «Stiamo già provvedendo, signor Heggie.» «E se la ragazzina dice che le ho fatto qualcosa, è stata la sua mamma a imbeccarla.» Stava diventando sempre più nervoso. «Ma non ci credo, non ci credo proprio.» Scosse la testa. «L'avete detto a Joanna. E adesso lei cosa penserà?»
«Perché sceglie sempre come conviventi madri che vivono sole?» Heggie alzò gli occhi al soffitto. «Ditemi che è un brutto sogno.» Frazer, che fino a quel momento era rimasto seduto con le braccia sul tavolo, si appoggiò allo schienale della sedia e lanciò un'occhiata a Rebus. Era il segnale che Rebus stava aspettando. Significava che, almeno per il momento, Frazer aveva finito. «Conosceva Darren Rough, signor Heggie?» chiese Rebus. «Quel tizio che è stato fatto fuori?» Attese che Rebus glielo confermasse con un cenno del capo. «No, non lo conoscevo.» «Non gli ha mai neanche rivolto la parola?» «Non abitavamo nella stessa casa.» «Allora lei sapeva dove abitava?» «C'era su tutti i giornali. Piccolo bastardo pervertito, chiunque l'ha steso merita una medaglia.» «Perché lo definisce 'piccolo'? Lo era, in un certo senso. Perlomeno, non era alto di statura. Ma questo particolare non è stato riportato da nessun giornale.» «È soltanto... È un modo di dire, no?» «È sicuramente qualcosa che dice lei. Ne deduco che lei l'ha visto di persona.» «Magari sì. Il quartiere non è poi così grande.» «No, non lo è», mormorò Rebus. «Si conoscono tutti.» «Era così finché il comune non ha cominciato a trasferire lì i bastardi che non sapeva dove sistemare.» Rebus annuì. «Perciò è possibile che lei abbia visto da qualche parte Darren Rough?» «Che differenza fa?» «C'è il fatto che pure a lui piacevano i bambini. Sembra che i pedofili siano particolarmente abili nel riconoscersi e...» «Io non sono un pedofilo!» Ma era poco convincente. Mentre balzava in piedi, la voce gli tremò. «Io li ucciderei tutti quanti sono.» «Ha cominciato con Darren?» «Come?» «A farlo fuori, per diventare un eroe.» Heggie si lasciò sfuggire una risata nervosa. «Allora adesso non ho più ucciso soltanto Billy, ma anche il pervertito?» «È una confessione?» chiese Rebus. «Io non ho ucciso nessuno!»
«Quali erano, tra parentesi, i suoi rapporti con Billy? Doveva essere seccante averlo sempre tra i piedi, lei che voleva Joanna tutta per sé.» «È un simpatico ragazzino.» «Si sieda, signor Heggie», ordinò Frazer. L'uomo obbedì, ma subito dopo si rialzò di scatto, puntando un dito contro Rebus. «Sta cercando di provocarmi!» Rebus scosse la testa, con una smorfia. Poi si staccò dalla parete. «Cerco soltanto la verità», disse, accingendosi a lasciare la stanza. «L'ispettore Rebus esce», sentì Frazer dichiarare ad alta voce alle sue spalle. Più tardi, Frazer si fermò accanto alla scrivania di Rebus. «Pensa davvero che abbia ucciso lui Darren Rough?» L'altro si strinse nelle spalle. «E, secondo te, è stato lui a far fuori il ragazzo?» «Forse, se la sezione reati sessuali riesce a trovare qualcosa. Sembra che la mamma della ragazzina le stia appiccicata, manco fossero unite con la colla, lei e la figlia. Risponde al posto suo, le suggerisce cosa dire...» «Il che non significa che sta mentendo.» «No.» Frazer era pensieroso. «A Heggie non importa nulla della fine di Billy Horman. È soltanto preoccupato all'idea che Joanna possa sbatterlo fuori di casa.» Scosse lentamente la testa. «Gli individui come lui non si riesce mai veramente a capirli, non le pare?» «Già.» «E non puoi cambiarli.» Guardò Rebus. «È anche lei di questo parere, vero?» «Benvenuto nel mio mondo, Roy», replicò Rebus, allungando la mano verso il telefono. Doveva buttarsi nel lavoro; doveva smettere di pensare a Cary Oakes che voleva distruggerlo. Perciò telefonò a Phyllida Hawes, alla stazione di Gayfield. «Quella persona scomparsa è saltata fuori?» gli chiese lei. «Neanche la più piccola traccia.» «Be', potrebbe anche essere una buona notizia, non le pare? Significa che con ogni probabilità è ancora vivo.» «Oppure che il cadavere è nascosto bene.» «Mi piacciono gli ottimisti.» In altri casi, Rebus avrebbe continuato su quello stesso tono scherzoso.
«Conosci Gaitano's?» chiese invece, arrivando diritto al punto. «Sì.» C'era un pizzico di curiosità nella voce di lei, come se si stesse chiedendo lo scopo di quella domanda. «Sai che appartiene a Charmer Mackenzie?» «Sì, certo.» «Che altro sai di lui?» Qualche istante di silenzio. «Ha qualche legame con quella persona scomparsa?» «Non ne sono sicuro.» Le parlò dell'imbarcazione. «Sono al corrente anche di questo», replicò la Hawes. «Ma si tratta di una semplice questione di soldi. In altre parole, Mackenzie ha una quota di possesso, ma non interferisce negli affari. Ha conosciuto Billy Preston?» Rebus rispose di sì. «Charmer gli lascia piena libertà d'azione.» «Non completamente. Il vicedirettore di Gaitano's, un giovanotto di nome Archie Frost, si occupa in parte anche del Clipper. Fornisce i palestrati che controllano i clienti all'entrata.» «Davvero?» Rebus sentì che la donna annotava qualcosa. «È coinvolto in qualche altra attività?» le chiese. «Farebbe meglio a rivolgere una simile domanda al NCIS.» Il NCIS: il National Criminal Intelligence Service. Rebus si piegò in avanti sulla sedia. «Hanno qualche informazione su Mackenzie?» «Hanno un dossier su di lui, sì.» «Dunque c'è un po' di sporco sotto le sue unghie: di che si tratta, esattamente?» «Fango di campagna, per quanto ne so. Senta quelli del NCIS.» «Lo farò.» Rebus riattaccò, si trasferì davanti a uno dei terminal del cervellone centrale e digitò i dati relativi a Mackenzie. Sul monitor, in basso, apparve un numero di riferimento e il nome di un funzionario. Rebus telefonò al NCIS e chiese di parlare con la persona indicata: il sergente Paul Carnett. «Hanno sbagliato a scrivere il nome», lo informò la centralinista. «Non è Paul, ma Pauline.» Gli passò comunque l'interno, dove una voce maschile spiegò a Rebus che il sergente Carnett sarebbe stata in riunione per un'altra ora, forse anche un'ora e mezzo. Rebus controllò il suo orologio. «Dopo la riunione ha qualche altro impegno?» «No, a quanto mi risulta.» «Allora vorrei fare una prenotazione: un tavolo per due, a nome ispettore Rebus.»
36 L'ufficio scozzese del NCIS si trovava nella Osprey House a Paisley, non lontano dalla M8. L'ultima volta in cui Rebus si era recato in quella zona era stato quand'era andato a prendere la sua ex moglie all'aeroporto di Glasgow. Lei arrivava da Londra per fare visita a Sammy e tutti i voli per Edimburgo erano al completo. Lui non riusciva a ricordare di cosa avessero parlato durante il tragitto. La Osprey House era vista come il futuro assetto di una polizia di alto profilo in Scozia, in quanto ospitava il quartier generale della squadra anticrimine, la sede centrale della polizia doganale e della tributaria, oltre ai settori operativo (il NCIS) e decisionale dei servizi segreti per la lotta alla criminalità. L'obiettivo era raccogliere su più fronti informazioni altamente riservate. Il NCIS, che all'inizio aveva soltanto due funzionari, ormai ne annoverava dieci. Quando l'ufficio era stato aperto, si era levato qualche mugugno, perché l'équipe scozzese del NCIS non dipendeva da un funzionario di polizia locale, bensì da un capo, con sede a Londra, che coordinava l'operazione in tutto il Regno Unito, anche se era tenuto a rendere conto delle sue azioni al ministro degli Interni del governo scozzese. I settori in cui agiva il NCIS erano quelli della fabbricazione e dello spaccio di banconote false, del riciclaggio di denaro sporco, del traffico di droga e dei legami a livello internazionale tra le organizzazioni criminali e, se Rebus ricordava esattamente, della pedofilia. Aveva sentito definire i funzionari del NCIS «damerini azzimati» o «poliziotti virtuali», però mai da qualcuno che li avesse incontrati di persona. «È una procedura piuttosto irregolare», osservò Pauline Carnett, dopo che Rebus le ebbe spiegato il motivo per cui si trovava lì. Erano seduti in un ufficio sistemato a open space e tutt'intorno a loro si udivano l'incessante fruscio delle ventole dei computer e qualche conversazione telefonica sussurrata. Di tanto in tanto, il ticchettio delle tastiere. C'erano giovani uomini in maniche di camicia e cravatta e due donne, vestite in modo molto sobrio. La scrivania di Pauline si trovava dalla parte opposta della stanza rispetto a quella dell'altra sua collega. Rebus si chiese se una simile sistemazione avesse un preciso significato. Pauline Carnett, sui trentacinque anni, aveva i capelli biondi tagliati corti e con la riga in mezzo, era alta e larga di spalle e aveva stretto la mano a Rebus con una forza non comune anche in campo maschile. Aveva uno
spazio tra i due incisivi superiori, cosa di cui sembrava assolutamente consapevole, tanto da indurlo a desiderare di farla sorridere. Come tutte le altre scrivanie, anche la sua era a forma di L, con una parte occupata dal computer e l'altra dai fascicoli cartacei. L'ufficio disponeva anche di una stampante, che continuava a sfornare fogli, mentre un giovane funzionario aspettava in piedi, con l'aria un po' annoiata. «Dunque è questo il cuore della macchina», aveva commentato Rebus entrando nel locale. La Carnett appoggiò la tazza su un tappetino per il mouse segnato da dozzine di macchie circolari di caffè. Rebus posò la sua sul ripiano del tavolo. «Molto irregolare», ripeté la donna, come se ciò potesse convincere l'ispettore ad andarsene. Lui si limitò invece a stringersi nelle spalle. «Di solito le informazioni vengono richieste per telefono o via fax.» «Ho sempre preferito il contatto personale», replicò lui. Le tese un pezzo di carta sul quale si era segnato il numero di riferimento relativo a Charmer Mackenzie. La Carnett si avvicinò con la sedia alla scrivania e picchiò violentemente sui tasti, neanche intendesse strapazzare la tastiera. Poi, evitando abilmente la tazza di caffè, fece scorrere il mouse sul tappetino e cliccò due volte. Sul monitor apparve il dossier di Charmer Mackenzie. Rebus notò immediatamente che era molto corposo. Avvicinò la sua sedia a quella della donna. «A quanto sembra», incominciò la Carnett, «all'inizio ci siamo occupati di lui perché la squadra anticrimine gli stava dietro, in quanto organizzava feste private per un certo Thomas Telford.» «Conosco Telford», osservò Rebus. «Ho dato una mano a farlo finire dietro le sbarre.» «Buon per lei. Telford non solo usava il club di Mackenzie per i suoi incontri, ma affittava anche un'imbarcazione che appartiene, anche se solo in parte, sempre a Mackenzie. Era a bordo di questa che venivano date le feste. La squadra anticrimine la teneva d'occhio perché non si poteva mai sapere chi sarebbe saltato fuori. Ma i risultati sono stati inconsistenti e l'operazione è stata sospesa.» Schiacciò un tasto per passare alla schermata successiva. «Ah, qui ci siamo», esclamò, piegandosi verso il monitor. «Prestiti in denaro.» «Mackenzie?» Lei annuì. Rebus lesse da dietro la sua spalla. Il NCIS sospettava che
Mackenzie avesse una piccola attività in quel settore, fungendo da prestanome per i finanziamenti d'imprese criminali (il rientro delle somme era garantito, in un modo o nell'altro), ma anche fornendo denaro contante a chi non poteva procurarselo altrove o aveva i suoi buoni motivi per non entrare in una banca o rivolgersi a una società finanziaria. «Quanto sono attendibili queste notizie?» chiese Rebus. «Non sarebbero riportate qui se non fossero certe al cento per cento.» «Eppure...» «Eppure non sono così rilevanti da costituire una base per l'incriminazione, come appare ovvio, perché in caso contrario l'avremmo trascinato in tribunale.» Indicò un'icona al fondo dello schermo. «Tutto questo materiale è stato trasmesso all'ufficio legale della tributaria, dove hanno deciso che non era sufficiente per mettere in piedi una causa.» «Quindi il caso è stato archiviato?» La Carnett scosse la testa. «Noi siamo pazienti, possiamo aspettare. Vedremo quali altri dati ci arriveranno un po' alla volta, poi decideremo quando sarà il momento migliore per riprovarci.» Gli lanciò un'occhiata. Rebus stava ancora scrutando il monitor. «Avete qualche nome?» «Intende dire delle persone che hanno preso in prestito soldi da lui?» «Sì.» «Aspetti...» Digitò qualcosa, poi soppesò l'informazione comparsa sullo schermo. «Supporti cartacei», mormorò alla fine. Si alzò e chiese all'ispettore di seguirla. Entrarono in un archivio ingombro di classificatori. «E il vostro dovrebbe essere un ufficio che lavora solo con materiale elettronico», commentò Rebus. «Quanto a questo, sono d'accordo con lei.» Trovò il classificatore che stava cercando, estrasse il cassetto in alto e cominciò a passare le varie pratiche finché non trovò quella che voleva e la tirò fuori. Dentro la cartelletta verde c'erano circa tre dozzine di fogli di carta. Due di questi riportavano un elenco degli individui che avevano «presumibilmente» fatto ricorso ai prestiti di Mackenzie. «Nessuna dichiarazione», notò Rebus, sfogliando gli incartamenti. «È molto probabile che le indagini non siano andate tanto avanti.» «Credevo che fosse lei a seguire questo caso.» La Carnett si strinse nelle spalle. «Ci arriva un sacco di roba dalla squadra anticrimine. Dati doganali, in particolare. Finisce tutto nel computer e in un cassetto... è questo il mio lavoro.» «Ma lei, allora, non è che una passacarte?» chiese Rebus. Gli occhi della
donna si ridussero a due fessure, lo sguardo si fece aggressivo. «Mi scusi», riprese lui, «stavo facendo lo spiritoso.» Tornò a guardare la cartelletta. «Ma come siete arrivati a questi nomi?» «Probabilmente un paio di persone si sarà lasciato scappare qualcosa.» «Però non si poteva considerarle testimoni attendibili...» Lei annuì. «Stiamo parlando di gente costretta a ricorrere a un usuraio, non di stimati cittadini.» Rebus riconobbe un paio di nomi: erano noti scassinatori. Forse cercavano i fondi per qualche lavoretto più consistente. «Tra i nomi sulla lista», stava dicendo la Carnett, «ci potrebbero essere anche quelli di persone picchiate da Mackenzie o dai suoi uomini... un'informazione arrivata alla squadra anticrimine grazie magari a una soffiata.» «E anche questi hanno le labbra cucite?» suggerì Rebus. La Carnett annuì ancora una volta. Non era una novità per Rebus, e neppure per lei: nel sottobosco criminale era preferibile ricevere una gragnuola di pugni piuttosto che un marchio d'infamia. Sulla porta di casa apparivano scritte tipo SPIA e la gente attraversava la strada pur di non incontrarti. Rebus cominciò a segnarsi nomi e indirizzi, anche se era convinto che non gli sarebbero serviti a nulla. Però tanto valeva andare sino in fondo. «Posso fare una fotocopia», disse la Carnett. Rebus fece un cenno col capo. «Io sono una specie di cavernicolo, ho bisogno di avere tutto l'essenziale nel mio libriccino.» Indicò una riga. Nessun nome, soltanto una serie di numeri. «E questo cos'è? Il nuovo nome di Prince?» La Carnett sorrise, coprendo rapidamente la riga con la mano. «Sembra un altro numero di riferimento», disse. «Lo controllerò sul mio computer.» Tornarono alla scrivania della donna e Rebus, mentre finiva di bere il caffè ormai freddo, osservò la Carnett mettersi al lavoro. «Interessante», disse infine la donna, appoggiandosi allo schienale della sedia. «È il nostro sistema per celare alcuni nomi. I computer non sono sempre al riparo da occhi indiscreti.» «Cioè dagli hacker.» Lei gli lanciò un'occhiata. «Piuttosto progredito, come cavernicolo», commentò. «Attenda qui qualche istante.» In realtà rimase assente tre minuti, un tempo abbastanza lungo da far partire il salvaschermo. Quando tornò, aveva in mano un unico foglio di carta che consegnò a Rebus. «Usiamo i numeri nei casi in cui un nome venga giudicato troppo scottante: in altre parole, se si tratta di una persona
che non vogliamo finisca in pasto a chiunque. Ha idea di chi sia?» Rebus guardava il nome stampato sul foglio. Non c'era riportato altro. «Sì», rispose infine. «È il figlio di un giudice.» «Questo spiegherebbe tutto», disse Pauline Carnett, sollevando la sua tazza. Il nome sul foglio era Nicol Petrie. Dopo altre ricerche, trovarono un rapporto della squadra anticrimine nel quale era minuziosamente descritta un'aggressione. Nicol Petrie era stato trovato privo di sensi in uno dei vicoli bui nei pressi di Rose Street, a un centinaio di metri da Gaitano's. Petrie era stato portato in ambulanza fino al più vicino ospedale e un funzionario in borghese era rimasto di guardia alla porta, in attesa di parlargli. Ma, quando il giovane aveva ripreso conoscenza, non aveva rilasciato dichiarazioni. «Non riesco a ricordare», era stato il suo ritornello. Non sapeva neppure se gli era stato rubato qualcosa. Eppure, a detta di un paio di testimoni oculari, dal vicolo erano stati visti uscire due uomini. Ridevano, accendendosi una sigaretta, e uno si era persino lamentato di essersi fatto male alle nocche di una mano. La polizia aveva addirittura fermato alcuni individui sospetti perché fossero identificati dai testimoni, ma questi ultimi avevano ormai smaltito la sbornia e non volevano più essere messi in mezzo, perciò si erano rifiutati di procedere al riconoscimento. Tra i fermati c'erano due buttafuori di Gaitano's: uno si chiamava Calumn Brady. Rebus lesse attentamente le dichiarazioni dei testimoni. La descrizione degli aggressori era vaga e lui poteva soltanto supporre che uno dei due (il più basso) fosse Cal Brady. Ma non aveva importanza. Nicol Petrie non intendeva aprir bocca in proposito e i testimoni erano stati minacciati, pagati o avevano semplicemente riacquistato un po' di buonsenso. La squadra anticrimine aveva archiviato l'aggressione come un «avvertimento» da parte di Mackenzie e si era fermata lì. Semplici supposizioni: non c'era altro. Ma Rebus intendeva scavare più a fondo. Anche se c'era qualcosa che assolutamente non tornava. «Il padre di Nicol è un giudice, pieno di soldi. Perché il figlio non se li è fatti dare da lui?» Pauline Carnett non sapeva rispondergli. Più tardi, Rebus le chiese se poteva parlare con qualcuno della sezione che si occupava dei casi di pedofilia. Fu presentato a una funzionaria, il sergente Whyte. Le chiese quali dati avesse su Darren Rough. Lei richiamò
il relativo dossier sul monitor. «Cosa vuol sapere, esattamente?» gli domandò. «Quali contatti aveva.» La Whyte digitò qualcosa, poi scosse la testa. «Era un solitario. Non risultano contatti con altri pedofili.» Rough agiva da solo. Rebus si grattò il mento. «Guardi cos'ha su Ray Heggie.» Lei digitò qualcos'altro. «Nessun dossier con questo nome», disse infine. «È uno che dovrei conoscere?» Rebus si strinse nelle spalle. «In tal caso...» replicò la donna, inserendo il nome nel computer e aggiungendovi di seguito quello di Rebus. «Così ricorderò quando ho sentito parlare per la prima volta di questo individuo.» «Ha seguito il caso Shiellion?» «Ho sentito dire che la giuria è riunita in camera di consiglio. Sembra che li condanneranno, quei due.» «Non è così scontato, quando c'è di mezzo Richie Cordover.» «È sicuramente un difensore molto abile, ma io ho già avuto modo di vedere il giudice Petrie in azione e, se c'è una cosa che non tollera, è proprio la pedofilia. A giudicare da come ha condotto il processo, direi che Ince e Marshall non hanno scampo.» «Non corriamo troppo», commentò Rebus, accingendosi ad andarsene. 37 Non appena tornato a Edimburgo, fu convocato a Fettes: dal vicecapo della polizia, nientemeno. Si diceva che il vicecapo della polizia (squadra omicidi) fosse un tizio scrupoloso, giusto e insofferente nei confronti degli stupidi. Aveva un corposo dossier su Rebus da cui aveva ricavato che l'ispettore era un tipo «difficile ma utile». Rebus aveva fatto della propria tendenza a inimicarsi la gente una sorta di professione, ma il vicecapo della polizia, il cui nome era Colin Carswell, era piacevolmente convinto di non far parte di quella folta schiera di nemici. Sulla porta c'era una targhetta col nome; sotto, il numero della stanza: 278. Il locale era spazioso, con un tappeto e le tende d'ordinanza, un vaso di fiori sul davanzale della finestra e praticamente nessun'altra suppellettile. Carswell, alto e magro, con una bella testa di capelli sale e pepe e un
paio di baffi, anche questi brizzolati, si alzò dalla sedia il tempo strettamente necessario per stringere la mano a Rebus. Aveva l'abitudine, durante i colloqui, di non rimanere seduto dietro la scrivania; l'interlocutore e lui si accomodavano invece accanto alla finestra, su due poltroncine del tipo a perno con le rotelle, cosicché a qualche funzionario un po' incauto era capitato di ruotare di centottanta gradi o di scivolare all'indietro, verso la scrivania. Dopo un'esperienza del genere, quasi tutti erano concordi nel sostenere che si sarebbero sentiti di gran lunga più a loro agio se il colloquio si fosse svolto alla vecchia maniera. Il che, come avrebbe potuto dir loro il vicecapo della polizia, era appunto lo scopo della messinscena. I suoi occhi scuri rivelavano ore di sonno perdute. Sebbene fosse tutt'altro che giovane, Carswell era infatti diventato da poco padre per la quarta volta. Poiché gli altri figli erano già adulti, in ogni posto di polizia della città si era giunti alla conclusione che il nuovo arrivato fosse il frutto di un incidente, cosa che ne faceva praticamente l'unico evento nella vita del vicecapo della polizia che lui non fosse riuscito a dirigere o controllare. «Come va, John?» chiese. «Non male, signore. Come sta il suo bimbo?» «Gode di ottima salute. Ascolta, John...» Carswell non sprecava mai tempo nei preliminari. «Mi è stato chiesto d'interessarmi personalmente a questo caso di omicidio.» «Darren Rough?» «Appunto.» «L'assistente sociale... è così, signore?» Rebus appoggiò le mani sui braccioli. «Un certo Andrew Davies. Ha presentato una specie di denuncia.» «Di che tipo?» «È espressa in maniera notevolmente ambigua.» «Probabilmente non ha tutti i torti, signore.» Carswell sembrò trattenere il fiato. «Ho sentito bene?» «Ho inseguito Rough nel giardino zoologico senza un motivo plausibile, dando al nostro avvelenatore la possibilità di colpire ancora. Poi, quando ho scoperto che Rough abitava proprio sopra un campo giochi, ho diffuso la notizia.» Carswell riunì i palmi delle mani, come se stesse pregando. Conosceva la reputazione di Rebus, e un'ammissione era l'ultima cosa che si aspettava. «L'hai buttato in pasto ai giornali?»
«Sì, signore. Volevo togliermelo dai piedi. In quel momento...» Rebus s'interruppe. «Non avevo valutato bene le conseguenze. In seguito, l'ho aiutato ad andarsene da Greenfield... almeno, erano quelle le mie intenzioni. Ma Darren se l'è filata dal mio appartamento ed è stato ucciso. In ultimo, però... credo di aver tentato di fare ammenda.» «Capisco. Vuoi che riferisca queste cose all'assistenza sociale?» «La decisione è sua, signore.» «Allora cos'è che vuoi tu?» Rebus lo guardò. Dall'esterno giungeva una luce abbagliante: un altro espediente di Carswell, che ricorreva al trucco della sedia nelle giornate di sole. Del suo superiore, in pieno controluce, Rebus riusciva a scorgere a malapena la sagoma. «Per un po' ho pensato di lasciare la polizia. Forse era questo che avevo in mente quando ho inseguito Rough: se l'avessi trattato in maniera troppo dura, magari sarei stato espulso, pur avendo agito con le migliori intenzioni.» «Ma questo non è successo.» «Non ancora, signore, no.» Carswell era pensieroso. «Adesso come ti senti?» Rebus strizzò gli occhi, cercando di guardarlo. «Non lo so, di preciso. Stanco, più che altro.» Abbozzò un sorriso. «Molto tempo fa, John... Lo so che tutti voi pensate che io abbia trascorso la mia intera esistenza dietro una scrivania... Però, molto tempo fa, un uomo venne coinvolto in una rissa a Leith. Un tipo distinto, ben vestito e tutto il resto. Con tanto di moglie e figli e una bella casa. Eppure era entrato in un pub del porto, aveva cercato il bestione più grosso e con l'aria più cattiva e aveva attaccato lite con lui. Mandarono me, che allora ero giovane, a interrogarlo in ospedale. Saltò fuori che aveva intenzione di suicidarsi, ma che gli era mancato il coraggio per farlo, perciò era andato a cercare qualcuno che portasse a termine quell'impresa. Sembra un po' quello che avevi in mente tu con Darren Rough: un suicidio professionale assistito.» Rebus sorrise di nuovo, ma stava pensando: Rieccoci a parlare di suicidio... come nel caso di Jim Margolies. Un suicidio professionale assistito... «Non credo che tirerò in ballo questa storia coi nostri amici dell'assistenza sociale», disse alla fine Carswell. «Piuttosto lascerò sbollire la situazione. Forse si potrebbe ricorrere a qualche scusa... ma questo dipenderà da te.»
«Grazie, signore.» «E, John», aggiunse Carswell alzandosi e stringendo di nuovo la mano a Rebus, «apprezzo il fatto che tu non abbia tentato di rifilarmi una palla.» «Sì, signore.» Anche Rebus si era alzato. «Ma forse, con tutto il rispetto, signore, ci sarebbe un modo per dimostrarmi concretamente il suo apprezzamento...» Nicol Petrie abitava a West End, in un appartamento che prendeva gli ultimi due piani di un grande edificio in stile georgiano. Nel doppio atrio d'ingresso a pianterreno c'erano tappeti e tavolini; su questi ultimi, vasi e altri soprammobili. Assolutamente nulla a che vedere con la tromba delle scale dei caseggiati che Rebus frequentava di solito. Poi c'era l'ascensore, la cui cabina era completamente rivestita di specchi di un nitore assoluto, con le cornici in legno tanto lucide da mandare lampi. Accanto ai pulsanti di ogni piano erano indicati, su una targhetta, i nomi degli occupanti. C'erano due Petrie: N. e A. Rebus immaginò che la A. stesse per Amanda. L'ascensore lo portò fino a un pianerottolo chiuso in alto da una cupola di vetro. Tutt'intorno a lui, vasi di piante vere. E la moquette si sprecava. Nicol Petrie spalancò la porta e, con un secco cenno del capo, invitò il nuovo arrivato ad accomodarsi. Rebus si aspettava un arredamento all'antica, ma fu deluso. Sulle pareti, dipinte di un bianco quasi luminoso, non c'erano né quadri né poster. Dai pavimenti era stata tolta la moquette, sostituita da uno strato di vernicetta. Era come entrare in un catalogo dell'Ikea. Una scala interna portava al piano superiore, ma Nicol, facendo strada a Rebus, la superò ed entrò nel salotto, lungo almeno dieci metri e largo quasi quattro, con doppie finestre a saliscendi che offrivano una vista globale sulla Dean Valley e la riva di Leith. In distanza si scorgeva la costa del Fife. Mentre entrava nella stanza, guardandosi intorno, Rebus non vide la bambola sul pavimento e finì per darle un calcio, facendola volare verso la legittima proprietaria. «Jessica!» strillò la bambina, spostandosi a quattro zampe per recuperare il giocattolo e stringerselo al petto. Poi si spostò, sempre scivolando carponi sul pavimento, nell'angolo in cui era in pieno svolgimento un tè di bambole. Rebus si scusò, ma Hannah Margolies non gli diede retta. «Salve di nuovo», disse la madre di Hannah. Era seduta su un divano bianco. «Mi rincresce, ma mia figlia semina i suoi giocattoli ovunque.» C'era una certa stanchezza nella sua voce. Rebus notò che era ancora vesti-
ta di nero, anche se si trattava di un abito molto corto, che lasciava vedere le gambe fasciate dai collant, neri pure quelli. Anche in lutto si doveva essere alla moda. «Mi scusi», disse a Nicol Petrie. «Non sapevo che lei avesse ospiti.» «Vi conoscete già?» Petrie chinò la testa, rendendosi conto di quanto fosse sciocca la domanda. «Attraverso Jim, ovviamente. Mi scusi.» Rebus ebbe l'impressione che, fino a quel momento, tutti loro non avessero fatto altro che scusarsi. Katherine Margolies si alzò con un'improvvisa ed elegante mossa. «Vieni, Han-Han. È ora di andare.» La bambina non si oppose né protestò, alzandosi a sua volta e raggiungendo la madre. «Nicky», disse Katherine, baciandolo su entrambe le guance, «grazie come sempre per aver avuto la pazienza di ascoltarmi.» Nicol Petrie l'abbracciò, poi s'inginocchiò per ricevere un bacio da Hannah. Katherine prese il soprabito della bambina dallo schienale del divano. «Arrivederci, ispettore.» «Arrivederci, signora Margolies. Ciao, Hannah.» La bambina gli lanciò un'occhiata. «Secondo te, avrei dovuto vincere io, vero?» Katherine carezzò i capelli della figlia. «Lo sanno tutti che ti hanno portato via il premio, tesoro.» Hannah stava ancora fissando Rebus. «Qualcuno mi ha rubato il mio papà», disse. Nicol Petrie la coccolò mentre accompagnava madre e figlia alla porta. Quando tornò in salotto, Rebus era in piedi accanto a una delle finestre, a guardare la strada sottostante. Petrie cominciò a raccogliere i giocattoli in una scatola di cartone. «Mi scusi ancora per averla disturbata», disse Rebus, senza sforzarsi di rendere più credibile quella finzione. «Non fa niente. Katy piomba qui spesso senza preavviso. Specialmente da quando... Be', lo sa.» «Lei è una di quelle persone che sanno ascoltare, signor Petrie?» «Non più di tante altre, immagino. Di solito dipende dal fatto che non riesco a trovare nulla di rilevante da dire, perciò mi limito a riempire il silenzio con una serie di domande.» «Allora potrebbe essere un bravo detective.» Petrie rise. «Ne dubito, ispettore.» Aprì una delle porte del salotto, che
dava in una cabina-armadio. All'interno c'erano diversi ripiani e su uno di questi Petrie appoggiò la scatola coi giocattoli. Tutto era in perfetto ordine. Rebus avrebbe scommesso che la scatola veniva sempre messa sullo stesso scaffale, nello stesso identico posto. Aveva conosciuto altre persone del genere, con un senso della disposizione degli oggetti quasi maniacale. Siobhan Clarke era una di quelle: se la si voleva mandare in bestia, bastava spostare una delle sue cose da un cassetto della scrivania a quello adiacente. Sotto di lui, in strada, Katherine Margolies e la figlia uscirono dall'edificio. La loro auto aveva il comando di apertura a distanza. Era una Mercedes berlina, nuova fiammante. Il numero di targa era lo stesso che Rebus aveva visto scritto col rossetto su un muro di Leith. Era una Mercedes bianca. Bianca... «La signora Margolies l'ha presa molto male?» chiese, continuando a guardare fuori della fienstra. «È distrutta, direi.» «E la piccola?» «Credo che Han-Han non si sia ancora resa completamente conto dell'accaduto. Come ha detto, ritiene che il padre le sia stato rubato.» «In un certo senso ha ragione.» «Può darsi.» Petrie si avvicinò alla finestra e guardò insieme con Rebus l'auto che si allontanava. «Nessuno può rimanere insensibile a un fatto del genere.» «Perché crede che Jim l'abbia fatto?» Petrie gli lanciò un'occhiata. «Non ne ho la minima idea.» «La vedova non le ha detto nulla?» «Queste sono confidenze che devono restare tra lei e me.» «Mi scusi», ribatté Rebus. «È pura e semplice curiosità. Voglio dire, un uomo come Jim Margolies... spinge a interrogarsi su se stessi, non le pare?» «Credo di capire.» Petrie voltò le spalle alla finestra. «Se si è ottenuto il successo e si è ancora infelici, che senso ha tutto il resto?» Si sprofondò in una poltrona. «Forse è un lato del carattere scozzese.» Rebus si accomodò sul divano. «Quale?» «La convinzione di non riuscire a farcela. Ci aspettiamo sempre una gloriosa sconfitta. E, se mai ci capita di raggiungere il successo, non lo sbandieriamo ai quattro venti. Suoniamo le trombe solo quando veniamo battu-
ti.» Rebus sorrise. «Sì, forse è vero.» «Lo si vede in tutta la nostra storia.» «Persino nella nostra nazionale.» Toccò a Petrie sorridere. «Sono stato molto maleducato: le posso offrire qualcosa da bere?» «Che cosa?» «Pensavo a un bicchiere di vino. Avevo aperto una bottiglia per Katy, convinto che fosse venuta in taxi. Parcheggiare da queste parti è un vero dramma.» Uscì dal salotto, con Rebus alle calcagna. La cucina era lunga e stretta, di una pulizia estrema. I fornelli sembravano non essere mai stati accesi. Petrie si avvicinò al frigorifero e ne estrasse una bottiglia di Sancerre. «Un bell'appartamento», commentò Rebus, mentre Petrie prendeva due bicchieri da un armadietto. «Grazie. A me piace.» «Che lavoro fa, signor Petrie?» Il giovane gli lanciò un'occhiata. «Frequento l'università, mi mancano due anni alla laurea.» «Si è diplomato a Edimburgo?» «No, a St. Andrews.» Versò da bere nel primo bicchiere. «Non sono molti gli studenti che possono permettersi un appartamento come questo... o sono io che non sto al passo coi tempi?» «Non è mio.» «È di suo padre?» azzardò Rebus. «Già.» Riempì il secondo bicchiere; adesso aveva un'aria un po' meno spensierata. «Deve volerle molto bene.» «Ama i suoi figli, ispettore. Immagino che questo valga per la maggior parte dei genitori.» Rebus pensò a se stesso e a Sammy. «Non sempre, però, è un sentimento corrisposto, non crede?» «Non capisco.» Rebus si strinse nelle spalle, mentre prendeva il bicchiere che l'altro gli porgeva. «Salute.» Bevve un sorso di vino. Petrie era in fondo alla stretta cucina; non c'era altro modo di uscire dal locale se non passando dalla parte in cui si trovava Rebus. E l'ispettore non si spostava di un centimetro. «Be', se io avessi un padre che mi vuol bene, che ha speso una fortuna per
darmi un appartamento, ogni volta che dovessi ritrovarmi nei guai mi rivolgerei con ogni probabilità a lui, per uscirne.» «Senta, ma cosa...» «Per esempio, se avessi bisogno di denaro, non andrei mai a chiederlo a un usuraio.» Rebus tacque, bevendo un altro sorso. «E lei, invece, signor Petrie?» «Cristo, sta parlando di quella vecchia storia? Di quei due gorilla che mi hanno aggredito?» «Forse non era soltanto una questione di denaro. Forse a loro non andava a genio la sua faccia.» Nicol Petrie: carnagione impeccabile, sottili sopracciglia scure, zigomi alti. Un viso così perfetto che rischiava di farti venir voglia di spaccarlo. «Non so cosa volevano quei tipi.» Rebus sorrise. «Sì, che lo sa. Quella sua amnesia, tanto provvidenziale, dev'esserle passata. Altrimenti come fa a sapere che erano in due?» «Me lo disse la polizia, ai tempi.» «Due uomini alle dipendenze di Charmer Mackenzie. Li chiamiamo 'dissuasori' e, mi creda, anch'io mi sarei dissuaso in fretta. È un vero bastardo, Cal Brady, non le pare?» «Chi?» «Cal Brady. Deve averlo conosciuto.» Petrie scosse la testa. «Non credo.» «A quanto ammontava il suo debito? Immagino che ormai l'abbia saldato. Perché non è andato subito a batter cassa da suo padre? Vede, signor Petrie, io sono un tipo curioso e, quando comincio a fare domande, tendo a non smettere finché non ho trovato le risposte.» Petrie appoggiò il bicchiere sul piano di lavoro della cucina. Poi prese a parlare, ma il suo sguardo non era rivolto verso Rebus. «Ciò che le dirò rimarrà tra noi? In caso contrario, può anche andarsene.» «La proposta mi pare accettabile», ribatté Rebus. Petrie incrociò le braccia sul petto, il che lo fece sembrare più esile che mai. «Ho preso in prestito una somma di denaro da Mackenzie. Sapevamo, e intendo quelli di noi che frequentavano il Clipper, che prestava soldi. E io mi trovavo nella necessità di procurarmene. Mio padre sa essere generoso, ma quando piace a lui, e io, ispettore, avevo già sprecato molto del suo denaro. Non volevo che lo venisse a sapere. Perciò mi rivolsi a Mackenzie.» «Perché non ha chiesto un prestito in banca?»
«Sì, avrei potuto.» Petrie distolse lo sguardo. «Ma c'era qualcosa... L'idea di trattare con Mackenzie era molto più allettante.» «Come mai?» «Il rischio, il gusto del proibito.» Tornò a fissare Rebus. «Saprà certamente che la buona società di Edimburgo ama questo genere di sensazioni. Deacon Brodie non aveva bisogno d'irrompere nelle case della gente, ma ciò non l'ha mai fermato. In questa città, così puritana, c'è forse un altro modo per provare qualche fremito?» Rebus lo fissò. «Sa una cosa, Nicky? Le credo... quasi. Quasi, ma non del tutto.» Alzò una mano verso Petrie, che si ritrasse. Però l'ispettore si limitò ad appoggiare un polpastrello su una tempia del giovane. Quando ritrasse il dito, sulla punta c'era una goccia di sudore, che si staccò e cadde sul piano di lavoro. «È meglio che l'asciughi subito», commentò Rebus, girandosi per andarsene. «Non vorrà mica che resti un segno su questa superficie immacolata, no?» 38 Ancora nessuna traccia di Billy Horman. Durante la conferenza stampa, sua madre, Joanna, aveva pianto, accaparrandosi l'interesse di tutte le emittenti televisive. Ray Heggie, l'amante di Joanna, le era rimasto seduto accanto senza aprire bocca. Quando lo scoppio di pianto si era esaurito, aveva cercato di confortarla, ma la donna l'aveva respinto. Rebus capì che alla fine lui se ne sarebbe andato, ammesso che fosse innocente. I membri del GAP erano attivi come sempre. Avevano organizzato una veglia all'esterno dell'alta corte di giustizia, mentre la giuria del caso Shiellion era in camera di consiglio per formulare il verdetto. Avevano acceso candele e tappezzato la cancellata di cartelli coi nomi di assassini di bambini e pedofili, oltre a quelli delle loro vittime. La polizia aveva ricevuto l'ordine di non far sloggiare quei contestatori. Intanto erano arrivate notizie di altri pedofili appena usciti di prigione. Il GAP aveva mandato alcuni suoi membri in varie città. Ormai si trattava di un vero e proprio movimento, il cui improbabile leader era Van Brady, che organizzava conferenze stampa con gigantografie di Billy Horman e Darren Rough appese alle sue spalle. «Il mondo», aveva dichiarato la donna durante uno di quegli incontri,
«dovrebbe essere un prato verde, senza limiti o barriere, un prato in cui i nostri figli possano giocare senza correre pericolo e i genitori possano lasciare i propri bambini senza timore. Questo è l'obiettivo del 'Progetto prato verde'.» Rebus si chiese chi mai le scrivesse quei discorsi. Il Progetto prato verde era un punto di partenza per il GAP, un valido pretesto per istituire zone di ricreazione da pattugliare costantemente e tenere d'occhio con un impianto televisivo a circuito chiuso e apparecchiature simili. A Rebus sembrava che quel tipo di mondo somigliasse, più che a un prato verde, a un campo di concentramento. Per procurarsi il denaro necessario, il GAP contava sulla lotteria e su altre fonti di finanziamento dello stesso tipo. Altre associazioni di quartiere avevano ottenuto in passato grandi successi in quel settore e si stavano impegnando per aiutare Greenfield. Intendevano raccogliere qualcosa come due milioni di sterline. Rebus rabbrividì al pensiero che una simile somma potesse finire in mano a Van e Cal Brady. Ma, dopotutto, non era un suo problema, no? Al momento, come comprese quando sollevò la cornetta del telefono che squillava, doveva preoccuparsi di Cary Oakes. La voce all'altro capo del filo apparteneva ad Alan Archibald. «Acconsente.» «Acconsente a cosa?» «Ad andare a Hillend insieme con me. A salire sulla collina.» «Ha ammesso la sua colpevolezza?» «È come se l'avesse fatto.» La voce di Archibald vibrò. «Ma ha detto qualcosa di preciso?» «Una volta che l'avremo portato lassù, John, so che me lo confesserà, in un modo o nell'altro.» «Intendi torturarlo?» «No, nulla del genere. Intendevo dire che, una volta lassù, sulla scena del delitto, crollerà. Ne sono sicuro.» «Non lo sarei altrettanto. E se fosse una trappola?» «John, ne abbiamo già passate tante.» «Lo so.» Rebus esitò. «E tu non ne sei ancora uscito.» La voce di Archibald si fece sommessa, calma. «Devo farlo, qualunque cosa accada.» «Sì», ammise Rebus. Archibald sarebbe andato avanti, non c'era dubbio. Era il suo destino. «Be', conta su di me.» «Gli chiederò se...» «No, Alan, glielo dirai e basta. Andiamo entrambi o non va nessuno.»
«E se lui...?» «Non rifiuterà. Fidati di me. Credo che sarà ben contento anche della mia presenza.» Il nastro stava scorrendo, ma da un paio di minuti Cary Oakes non parlava più. Jim Stevens c'era ormai abituato, conosceva le lunghe pause durante le quali l'altro raccoglieva le idee. Lasciò che passassero altri sessanta secondi prima di chiedere: «Tutto qui, Cary?» Oakes parve sorpreso. «Dovrebbe esserci qualcos'altro?» «Finito, allora?» Ma Stevens non fermò il nastro. Oakes si limitò ad annuire, portandosi le mani dietro la testa, come a segnalare che il suo compito era terminato. Il giornalista controllò l'ora, la lesse ad alta voce perché venisse registrata e premette il pulsante stop. Fece scivolare il registratore nel taschino della camicia, che era di uno sbiadito color malva. Sbiadito a causa dei circa trecento lavaggi subiti dalla camicia nei cinque anni trascorsi da quando Stevens l'aveva comprata. Come ben sapeva, gli altri giornalisti ritenevano che in quel periodo lui fosse cresciuto di peso: la camicia avrebbe potuto smentirli, ma avrebbe anche dimostrato quanto sporadici fossero i suoi acquisti in fatto di abbigliamento. «Soddisfatto?» chiese Oakes, alzandosi e stiracchiandosi come se avesse trascorso una lunga giornata di lavoro in una miniera di carbone. «Non proprio. I giornalisti non lo sono mai.» «Perché?» «Perché, qualunque cosa ci venga detta, noi sappiamo che non è tutto.» Oakes tese le mani. «Ti ho dato il mio sangue, Jim. Mi sembra di averti fatto una trasfusione.» Di nuovo quel sogghigno agghiacciante, così privo di allegria. Stevens scrisse data e ora su un adesivo, e, tolta la fascetta protettiva, l'applicò a uno dei bordi della custodia. Era il nastro numero undici. Undici ore di Cary Oakes. Non erano sufficienti per un libro, ma potevano bastare per il contratto con l'editore; per rimpolpare il testo, lui avrebbe potuto ricorrere ai verbali dei processi, a qualche intervista, a fotografie. C'era soltanto un piccolo particolare: non era convinto di poter trovare un editore. E non aveva più voglia di sbattersi per cercarlo. «Che stai rimuginando, grand'uomo?» chiese Oakes. Aveva preso l'abitudine di chiamare Stevens «grand'uomo». Il giornalista non era tanto ingenuo da prenderlo per un complimento; nella migliore delle ipotesi era un appellativo carico d'ironia.
«Io... in realtà non sto pensando a nulla.» Si strinse nelle spalle. «Solo che è finita, tutto qui.» «Dunque adesso per il vecchio Cary è arrivato il momento di riscuotere.» «Avrai il tuo assegno.» «A che mi serve un assegno? Avevo chiesto i contanti.» Stevens scosse la testa. «Dev'essere un assegno, altrimenti al nostro ufficio amministrativo verrà una crisi di nervi. Puoi utilizzarlo per aprire un conto corrente.» «E poi, quanto tempo mi toccherà aspettare?» Oakes stava camminando avanti e indietro nella stanza. D'un tratto si avvicinò alla sedia di Stevens e si piegò sul giornalista, fissandolo. Stevens reagì battendo le palpebre, gesto che Oakes interpretò come una temporanea vittoria. Balzò all'indietro, raddrizzandosi e piegando la testa sino a fissare il soffitto, mentre si lasciava sfuggire uno scoppio di risa convulse. Poi si chinò di nuovo, dando un buffetto a una delle carnose guance di Stevens. «Va tutto bene, Jim, davvero. Comunque non ho mai avuto davvero bisogno dei soldi. Volevo soltanto che tu fossi convinto di tenermi per le palle.» «Non ho mai pensato una cosa simile, Oakes.» «Non mi chiami più per nome, eh? Ti ho forse spaventato o qualcosa del genere?» Stevens agitò la cassetta. «Quanto di questo materiale sono stronzate?» Oakes ghignò di nuovo. «Tu che dici, socio?» «Non lo so. È per questo che te lo domando.» Vide che Oakes lanciava un'occhiata alla sveglia accanto al letto. «Devi andare da qualche parte?» «Il mio compito qui è finito. Nulla mi trattiene.» «Dove vai?» Stevens non sapeva perché, ma, mentre Oakes stava ridendo, aveva riacceso il registratore, che però era infilato nel taschino della camicia, e quindi lui dubitava che potesse cogliere granché. Riusciva a sentire il meccanismo che andava, ne avvertiva le vibrazioni sul petto. «Perché t'interessa?» «Sono un giornalista e tu per me sei ancora materiale per un articolo.» «Non hai ancora visto il meglio, piccolo Jimmy.» Stevens si passò la lingua sulle labbra aride. «Ti faccio paura, Jim?» «A volte», ammise Stevens. «Sei più robusto di me, certamente più pesante. Puoi mettermi al tappeto quando vuoi, no?»
«Non sempre vince chi è più grosso.» «Vero, vero. In certi casi dipende dalla dose di travolgente follia e di crudeltà dell'avversario. Credi che sia un po' sbiellato, Jimbo?» Stevens annuì lentamente. «E anche crudele», aggiunse. «Tanto meglio per te.» Oakes si stava rimirando nello specchio attaccato alla parete, passandosi una mano sul cranio rasato. «Ed è una pazzia famelica, Jim. Mi spinge a divorare la gente.» Gli lanciò un'occhiata sorniona, in tralice. «Non te, però, non preoccuparti per questo.» «Per che altro dovrei preoccuparmi?» «Lo scoprirai abbastanza presto.» Si osservò di nuovo nello specchio. «Ho un appuntamento col mio passato, Jim. Un appuntamento col destino, per usare una frase cara a te e agli scribacchini tuoi simili. Con qualcuno che non ha mai voluto ascoltarmi.» Stava annuendo a se stesso. «Un'ultima cosa soltanto, Jim.» Si voltò verso il giornalista. «Quando sono uscito di galera sapevo che avrei raccontato la mia storia. Ho avuto molto tempo per renderla perfetta.» «'Perfetta'? Non 'vera'?» «Sei più intelligente di quanto sembri, Jimbo.» E scoppiò a ridere. Stevens sentì i battiti del suo cuore accelerare. Era un sospetto che nutriva da giorni, ma non attenuava l'impatto di ciò che Oakes gli aveva appena detto. «Ci sarà pure qualcosa di veritiero», riuscì a borbottare. «Gli scozzesi sono un popolo di narratori, Jim, non è forse così?» Gli diede un altro buffetto, poi si diresse alla porta. «Sono tutte stronzate, Jim. Ricordatelo fino al giorno della tua morte.» Dopo che la porta si era richiusa alle spalle di Oakes, Stevens si prese la testa tra le mani e rimase seduto per qualche istante, sollevato all'idea che fosse tutto finito, quale che fosse il risultato. Quando squillò il telefono, si ricordò del registratore nel taschino. Lo estrasse e lo spense, riawolse un pezzetto di nastro e premette play. La voce di Oakes era diventata più esile e lontana, ma non meno diabolica. Sono tutte stronzate, Jim. Spense il registratore e andò a rispondere al telefono. Si schiarì dapprima la voce, poi si sedette sulla sponda del letto. «Pronto?» disse nella cornetta. «Jim, sei tu? Sono Peter Barclay.» Barclay lavorava per un tabloid rivale. «Che vuoi, Peter?» «Ti ho disturbato in un brutto momento?» ridacchiò Barclay. Parlava sempre tenendo una sigaretta tra le labbra, il che lo faceva sembrare un pessimo ventriloquo.
«Puoi ben dirlo.» «Lo dico. Il tuo protetto ti sta sputtanando.» «Come?» Stevens smise di massaggiarsi la nuca. «Ha mandato una lettera a tutti i tuoi cari concorrenti per spiegare che la sua 'autobiografia' non è che una montagna di cazzate. Qualche commento da fare, Jim? In via ufficiale, naturalmente.» Stevens sbatté la cornetta sulla forcella, poi strappò l'apparecchio dal tavolino accanto al letto e lo lanciò sul pavimento. «La comunicazione è interrotta», disse, sferrando un calcio al telefono, tanto per colmare la misura. 39 Sulle Pentland Hills c'era la nebbia, che sbiadiva i colori del paesaggio circostante e minacciava d'isolare Hillend e Swanston dalla città che sorgeva poco più a nord. «Non mi piace», mormorò Rebus mentre parcheggiavano. «Temi che ci si possa perdere?» ribatté Cary Oakes con una smorfia. «Non sarebbe una vera disgrazia per l'umanità?» Era seduto al posto del passeggero, mentre Alan Archibald occupava il sedile posteriore. Rebus non aveva voluto che Oakes stesse dietro; desiderava poterlo tenere d'occhio. Prima di partire, aveva preteso di perquisirlo e lui gli aveva chiesto se poteva fare altrettanto. «Di noi due, non sono io l'assassino», aveva replicato Rebus. «Interpreterò questa risposta come un no», aveva commentato Oakes, girandosi poi verso Archibald. «Ero convinto che saremmo stati noi due soli. Così tutto avrebbe avuto un carattere più intimo.» Aveva fatto un cenno col capo verso Rebus. «Non c'era bisogno di estranei, Alan.» «Voi non andate da nessuna parte senza di me», aveva replicato Rebus. E adesso erano arrivati sul posto. Archibald sembrava nervoso. Nello scendere dalla vettura, fece cadere a terra la cartina della zona, particolarmente dettagliata, che aveva portato con sé. Oakes gliela raccolse. «Forse potremmo lasciarci dietro una scia di molliche di pane», suggerì. «Muoviti, piuttosto», replicò Archibald, con un fremito d'irritazione nella voce, frutto del nervosismo. Rebus si stava guardando intorno: nelle immediate vicinanze non c'erano altre auto, non si vedevano persone a piedi, non si sentivano i latrati dei cani portati a passeggio.
«Fa accapponare la pelle, eh?» disse Oakes. Indossava una mantellina impermeabile verde, da pochi soldi. Rebus portava una giacca col cappuccio. Lo srotolò, ma non se lo mise in testa. Sapeva che avrebbe potuto fargli da paraocchi e non voleva privarsi della visione periferica. Archibald si era portato un berretto piatto, di tweed, e indossava stivali da escursionista. Tanto il copricapo quanto le calzature avevano l'aria di non essere mai stati usati; da tempo stavano aspettando quel giorno. «Qualcuno vuole bere un goccio?» chiese Oakes, estraendo una fiaschetta dalla tasca. Rebus lo fissò. «Hai intenzione di tenere quel grugno per tutto il giorno?» rise Oakes. «C'è qualcosa che ti pesa sullo stomaco?» «Un mucchio di cose.» Le mani di Rebus si strinsero a pugno. «Non qui, John», lo pregò Archibald. «Non ora.» Senza distogliere lo sguardo da Rebus, Oakes tese la fiaschetta ad Archibald, che fece un segno di diniego. Oakes allora si portò la bottiglietta alla bocca, in modo che gli altri due vedessero il fiotto che ne sgorgava, poi deglutì rumorosamente. «Contenti?» esclamò. «Nessun veleno.» Ripeté l'offerta e stavolta Archibald bevve un sorso. «Ho fatto riempire la fiaschetta dal barista dell'albergo.» La riprese. «E tu, ispettore?» Rebus prese la fiaschetta e annusò il contenuto. Cristo, il profumo era stupendo, ma la restituì senza aver bevuto. «Se non sbaglio è Balvenie», disse. Oakes rise di nuovo, Archibald fece un sorriso stentato. «Credevo fossi astemio», continuò Rebus. «Di solito non bevo, ma qui si tratta di un'occasione speciale, non siete d'accordo?» A quel punto Archibald cominciò a dispiegare la carta geografica e tutto assunse un'aria pratica e sbrigativa, con Oakes che studiava attentamente la zona, consapevole della presenza di Rebus alle sue spalle. «Non sono sicuro che questa ci sia molto utile», esclamò alla fine. Poi si guardò intorno. «Mi sa che dovrò seguire il mio naso.» Lanciò un'occhiata ad Archibald. «Mi dispiace.» «Limitati a portarmi dov'è stata uccisa», disse l'altro. «Forse sarebbe meglio se fossi tu a farci strada», ribatté Oakes. «Dopotutto, non sono mai stato qui prima d'ora.» E ammiccò. Presero a camminare. Dopo un po', Rebus scattò: «Un altro gioco, Oakes?»
Oakes si fermò, tirando il fiato. «Sai come dice la canzone, ispettore: non possiamo stare insieme se hai una mente sospettosa. Per quanto mi riguarda, ci stiamo soltanto ossigenando i polmoni con l'aria di campagna. Ma sono anche curioso di vedere dov'è stato trovato il cadavere.» «Sai maledettamente bene dov'era il cadavere!» gridò Alan Archibald. Oakes atteggiò la bocca a un broncio. Rebus avrebbe voluto vedergliela sanguinare, quella bocca, desiderava spaccargli i denti e frantumargli il naso. Ma si piantò le unghie ancora più profondamente nei palmi delle mani. «L'hai uccisa?» chiese. «Ucciso chi e quando?» Rebus sentì la propria voce salire di tono. «L'hai uccisa?» Oakes agitò un dito. «Posso anche essere rimasto lontano parecchio tempo, ma non credo di aver dimenticato come va il gioco. Siete in due e, qualunque cosa io dica, sareste in grado di spalleggiarvi a vicenda.» «Tutto questo resterà tra noi», disse Alan Archibald. «Siamo andati ben oltre ciò che potrei riferire alla polizia.» Oakes sorrise. «Da quanto tempo stai dando la caccia ai fantasmi? Se confessassi di averla uccisa, ti limiteresti a dormire sonni tranquilli?» Archibald non rispose. «E, per quanto ti riguarda, ispettore, non c'è qualche spettro che tiene te sveglio di notte?» Come se fosse al corrente di tutto. Rebus cercò di non manifestare reazioni, ma Oakes stava annuendo, sorridendo a se stesso. «Una carriera costellata di vittime», continuò, «e in galera mettono me.» Restò in silenzio per qualche istante. «Dimmi una cosa», riprese, incrociando le braccia e girando lo sguardo verso Archibald, «come ha fatto l'assassino a portarla quassù? È una strada lunga, da percorrere con una vittima.» «Lei era terrorizzata.» «E se non fosse successo così? Se fosse stata consenziente? Aveva bevuto, no? Si sentiva addosso un certo prurito...» «Zitto, Oakes!» «Ma non volevate farmi parlare?» Allargò le braccia. «Posso anche sbagliarmi, ma ammettiamo che lui le abbia dato un passaggio, portandola in auto fin qui. Ammettiamo che fosse proprio quello che lei cercava. Sì, insomma, si trova in macchina con un perfetto sconosciuto, ma è la serata giusta perché lei ha voglia di correre qualche rischio. Desidera comportarsi da incosciente. Chissà, magari si augura che ciò accada.» Archibald si girò verso di lui, agitando il pugno. «Non parlare di lei in questo modo.»
«Sto soltanto...» «Tu l'hai rapita. L'hai uccisa a sangue freddo e l'hai trascinata fin quassù.» «Senza nessun segno di lotta, Al? Mah. L'autopsia ha rivelato che era stata trascinata sul terreno?» Archibald lo guardò. «Sai perfettamente che dall'autopsia non è risultato.» Altre risate. «No, Al, io non so un cazzo. Sto soltanto facendo ipotesi, tutto qui. Proprio come te.» Ripresero a camminare. Si stava alzando il vento, soffiando sui loro volti un'acquerugiola fine che minacciava di bagnarli fino alle ossa. Rebus si girò a guardarsi alle spalle. L'auto non si vedeva già più. «Non ti preoccupare», lo rassicurò Archibald. «Sto segnando la strada a mano a mano che la percorriamo.» Aveva la cartina geografica ripiegata e una penna, che picchiettò su uno dei bordi. Rebus gli tolse di mano la mappa, per accertarsi che fosse così. Nell'esercito aveva imparato a leggere le carte geografiche. Dopo aver verificato che Archibald sapeva il fatto suo, annuì e gli restituì la mappa. Ma lo sguardo negli occhi di Archibald, quel misto di paura e speranza... Rebus gli batté la mano sulla spalla. «Muovetevi, pigroni», li chiamò Oakes, aspettando che lo raggiungessero. «Hai tirato troppo la corda», gli mormorò Rebus. «Come?» «Quel piccolo scherzo col cassonetto, ci posso anche passare sopra. Ma la lapide, le scritte nel patio... queste non te le perdono.» «Dimentichi la tua vecchia fiamma.» Oakes si voltò verso di lui. A dividerli non c'era più di mezzo metro. «Ci siamo fatti una bella chiacchierata insieme, ricordi? Perché non hai inserito pure lei nell'elenco? Mi ha spiegato che avreste potuto anche rimettervi insieme.» Fece schioccare la lingua in segno di disapprovazione. «Non dirmi che hai intenzione di scaricarla! Ma lei lo sa?» Rebus sferrò a Oakes un colpo di striscio. Il pugno sfiorò la guancia, mentre Oakes s'inarcava all'indietro sui talloni. Era stato rapido, di una velocità diabolica. Non aveva cambiato posizione: era così fiducioso di sé, così sicuro delle mosse dell'avversario. Le braccia di Archibald si strinsero intorno al corpo di Rebus, che si divincolò. «Sto bene», disse, con voce atona.
«Vuoi menare ancora?» Oakes spalancò le braccia. «Sono qui, bellezza.» Aveva un'escoriazione sulla guancia, ma sembrava non farci caso. Rebus sentì che non poteva perdere il controllo; doveva rimanere calmo. Ma sembrava che Oakes gli si fosse insinuato sotto la pelle. E Oakes rideva di lui, portandosi una mano al viso con un gesto melodrammatico. «Oh! Come brucia!» Continuava a ridere. Poi riprese a camminare e toccò ad Archibald battere la mano sulla spalla dell'amico. «Sto bene», gli disse Rebus, avviandosi. Poco dopo, Oakes si fermò. La visibilità si era ridotta a un centinaio di metri, forse meno. «Da che parte si trova, rispetto a questo posto, Swanston Village?» chiese. Sembrava aver completamente dimenticato la scaramuccia con Rebus. Archibald controllò sulla carta e indicò la direzione. Il suo dito era puntato verso un tremolante muro di nebbia, verso il nulla. «Sembra una scena di quel dannato film, Brigadoon», commentò Rebus, accendendosi una sigaretta. Oakes si tolse di tasca una barretta di cioccolato e l'offrì agli altri. «Sapete», mormorò, «l'idea che vi fidiate di me mi lascia davvero interdetto. Non tu, Al, tu non hai scelta. Ma il qui presente ispettore...» Fissò Rebus coi suoi occhi scuri e penetranti. «Be', è un uomo difficile da capire.» «E tu sei un sacco di merda.» «Ti prego, John...» Archibald posò una mano sulla spalla di Rebus. Nonostante gli abiti pesanti, sembrava infreddolito, stanco e, di colpo, ancora più vecchio. Rebus si rese conto di che cosa tutto quello significasse per lui: una risposta, in un senso o nell'altro. Se a uccidere sua nipote era stato Oakes, avrebbe potuto dar libero sfogo al dolore; se era stato qualcun altro... Be', in tal caso, Alan aveva sprecato tutti quegli anni a inseguire la sua teoria, mentre l'assassino era ancora a piede libero, chissà dove. «Va bene, Alan», replicò Rebus. Erano lì, tutti e tre: un vecchio, un pazzo col cranio rasato e gli occhi penetranti, e il dannato John Rebus. Oakes si godeva ogni attimo, mentre Archibald aveva l'aria sempre più fragile, come la barretta di cioccolato. E Rebus? Cercava disperatamente di non aggiungere un altro cadavere al pedaggio di morte di quella collina. Oakes offrì la fiaschetta ad Archibald, che ne bevve un sorso. Poi, dopo l'ennesimo rifiuto di Rebus, riavvitò il tappo. «E tu non bevi?» chiese l'ispettore. Oakes ignorò la domanda e gli porse invece il cioccolato. Rebus rifiutò anche quello.
«Allora, esattamente, dov'è che stiamo andando?» chiese Oakes. «Ci siamo quasi», rispose Archibald. Oakes notò che Rebus lo stava fissando. «Hai qualche domanda anche tu da rivolgermi, John? Qualche caso irrisolto che mi vuoi appioppare?» «C'è qualcosa in particolare che vuoi che ti chieda?» «Domanda ben formulata, signore. Ho letto che qualcuno ha ucciso Darren Rough.» «Quella sera ti trovavi sotto casa mia.» «Davvero?» «Sei stato tu a rubare l'auto.» Rebus fece una breve pausa. «Hai visto Rough andarsene.» «Accidenti, ho avuto un bel daffare, quella sera, no?» Rebus lo scrutò. Oakes gli si fece più vicino e si chinò, come per parlargli in confidenza. L'ispettore si spostò. «Ehi, non mordo mica!» «Di' quello che vuoi dire.» Oakes simulò un'espressione ferita. «Non so se adesso ne ho ancora voglia.» Poi sogghignò. «Ma lo farò comunque. L'ho visto uscire da casa tua e l'ho anche seguito, per un po'. Mi chiedevo chi fosse, ma l'ho scoperto soltanto in seguito, quando ho visto la sua foto sul giornale.» «Poi cos'è successo?» «Ah, questo devi dirmelo tu. Io l'ho perso.» Si strinse nelle spalle. «Si era incamminato attraverso i Meadows. Non c'era modo di seguirlo in macchina.» Ammiccò di nuovo. «Tutto questo è soltanto un altro elemento del tuo miserabile...» «Non dirlo!» proruppe Alan Archibald con voce stridula. «Non dire che è un gioco! Non lo è, non per me!» Stava tremando. Rebus indicò Oakes, ma parlò ad Archibald. «È questo che vuole. Tu pensavi, portandolo quassù, di avere una mano vincente. Non credi che lui l'abbia capito e ci abbia speculato sopra? Guardalo, Alan, sta ridendo di te. Sta ridendo di noi due!» «Non sto ridendo.» Ed era vero: Oakes aveva sul volto un'espressione impietrita, lo sguardo fisso su Archibald. Gli si avvicinò, gli toccò il braccio. «Mi dispiace», disse. «Su, hai ragione... abbiamo un lavoro da svolgere.» Riprese a camminare. Archibald cercò di scusarsi con Rebus, che però lo liquidò con un gesto secco. Oakes procedeva a passi veloci, come se fosse deciso a concludere ciò che era stato cominciato. Quell'espressione sul suo
volto... Rebus non riusciva a decifrarla. C'era stato qualcosa, un bagliore di simpatia. Ma gli pareva di aver scorto, al di sotto, qualcosa di più brutale, cui si mescolava un sentimento molto simile alla curiosità dello scienziato nel trovarsi di fronte a un risultato imprevisto. Mentre salivano, la visibilità si faceva sempre più ridotta. «Sei tu che stai giocando con me, non è così, Al?» «Che vuoi dire?» «E dai, Al, tutta 'sta strada... Abbiamo superato da un pezzo il luogo in cui è stata uccisa. Scommetto che hai pianificato ogni cosa, così finiremo per ritrovarci al punto di partenza. Vuoi innervosirmi, non è vero, Al? Però non ci riuscirai.» «Come fai a sapere dov'è stata uccisa?» chiese Rebus. «Ho letto tutti i giornali. Inoltre Al seguitava a mandarmi roba... Non è vero, Al?» «Sostenevi di non averne mai letto neppure una riga», ribatté Archibald, cercando di tirare il fiato. «Ti ho mentito. Il fatto è che ho una certa scena in mente... Hanno avuto un rapporto sessuale sul pendio, un po' più in alto rispetto a qui. Poi lei è stata presa dal panico ed è scappata verso il basso. È stato allora che lui l'ha colpita. Ma, lì dove avevano scopato... lui si è lasciato dietro qualcosa.» «Che cosa?» «È nascosto.» «Che cos'è?» «Alan, lui...» Archibald si voltò verso Rebus. «Sta' zitto!» sibilò. «Vedo tre collinette», li richiamò Oakes. «Se qui vicino, da qualche parte, c'è una serie di piccoli rilievi, m'interesserebbe andarci.» «Collinette...?» Archibald allungò faticosamente il passo, per raggiungere Oakes. Teneva la mappa davanti al viso, cercando i contorni di quei rilievi. «Forse appena verso ovest...» Rebus non l'aveva visto segnare più nulla sulla cartina, almeno in quell'ultimo tratto. «Qual è la nostra posizione, Alan?» Ma Archibald non ascoltava, o quantomeno non badava a Rebus. «Forse a tre quarti del pendio», stava dicendo Oakes. «Una serie di tre... forse quattro... No, tre distinti affioramenti rocciosi, della stessa altezza.» «Aspetta un istante», esclamò Archibald. L'unghia stridette sulla carta. Piegò la mappa rimpicciolendo la parte in evidenza, se l'avvicinò al viso,
strizzò gli occhi per metterla a fuoco. «Sì, un po' verso ovest. In quella direzione, a un centinaio di metri circa.» Prese a salire, con Oakes subito dietro. Rebus, in retroguardia, si lanciò un'occhiata alle spalle: non si riusciva a scorgere nulla. Sembrava un paesaggio fuori del tempo. Se anche da quella nebbia fossero emersi guerrieri urlanti in kilt, non ne sarebbe rimasto sorpreso. Aggirò qualche ammasso di felci e continuò ad arrampicarsi, con le giunture doloranti, un leggero bruciore al petto. Archibald invece si muoveva rapidamente, con l'ardore dell'invasato. Rebus avrebbe voluto dirgli: se tu hai una mappa, perché non pensare che Oakes se ne sia procurata una pure lui? E se l'avesse studiata attentamente, alla ricerca di certe peculiarità del terreno? Magari era già stato lì, a fare una ricognizione: aveva seminato un mucchio di volte le sue guardie del corpo. «Aspettatemi!» gridò, accelerando l'andatura. «John!» gridò di rimando Archibald, la cui sagoma, in alto, ricordava uno spettro. «Tu cerca da questa parte, noi perlustreremo le altre due!» Il che significava che Rebus avrebbe dovuto esplorare l'affioramento roccioso più a est. «Dovrò scavare?» chiese Rebus. Per tutta risposta ricevette uno scoppio di risa: Oakes. A rendere più inquietante la situazione c'era il fatto che si riusciva soltanto a intravederlo. Sentì Archibald chiedere a Oakes: «È necessario?» «Oh, non credo», fu la risposta. «Lasceremo semplicemente i corpi nel punto in cui sono caduti.» Rebus si stava ancora chiedendo se avesse sentito male quando udì il rumore sordo di un colpo e un gemito smorzato. «Oakes!» ruggì, lanciandosi. Riuscì a scorgere una sagoma: quella di Oakes, ritto sopra la figura inerte di Archibald, con una pietra in mano, pronta a essere calata di nuovo. «Oakes!» ripeté. «Ti sento!» gridò Oakes di rimando, vibrando la pietra sulla testa di Archibald. Ormai Rebus gli era quasi addosso. Quando gli fu di fronte, Oakes lasciò cadere a terra il sasso e si passò la lingua sulle labbra. «Non saprai mai quale soddisfazione si prova... Una pulce mi ha tormentato per anni e ora l'ho schiacciata.» Poi infilò una mano nella cintola ed estrasse un coltello a serramanico. «E incredibile quante cose possa nascondere un corpo uma-
no», sogghignò. «Una pietra era più che sufficiente per il vecchio, ma ho pensato di riservare a te qualcosa con un po' più di mordente.» Balzò in avanti. Rebus saltò all'indietro e perse l'equilibrio, scivolando lungo il pendio. Vide Oakes, più in alto, che lo inseguiva, saltando come un camoscio. «Sarà una vera goduria!» gridava. «Non saprai mai quanto grande!» Rebus continuò a rotolare finché un cespuglio di felci non frenò la caduta. Si rialzò, barcollando, afferrò una pietra e la scagliò, senza indugiare a prendere la mira. Oakes la scansò facilmente. Ormai era a una decina di metri e stava rallentando l'andatura. «Hai mai spellato un coniglio?» disse, col respiro pesante, il cranio lucido di sudore. «Sei arrivato proprio dove volevo», sibilò Rebus. Oakes atteggiò il volto a un'espressione di finta sorpresa. «Dove?» «Hai commesso un reato. Ora potrò arrestarti e sarà tutto perfettamente legale.» «Tu arrestare me?» Fu colto da un accesso di riso isterico. Era così vicino che spruzzi di saliva colpirono Rebus in faccia. «Be', hai le palle.» Agitò il coltello. «Goditele finché puoi.» «Tutti questi giochetti», stava dicendo Rebus. «C'è dell'altro, vero? Qualcosa che non vuoi che si venga a sapere. Ci tieni tutti sotto pressione perché nessuno abbia il tempo di controllare.» «Stai scherzando?» «Di che si tratta?» Ma Oakes stava scuotendo la testa e faceva vorticare il coltello. Rebus si girò e prese a correre. Oakes lo inseguì, gridando, saltando le felci. Rebus continuava a guardarsi intorno, ma non riusciva a vedere altro che il pendio della collina e un assassino armato di coltello. Incespicò e si fermò, girandosi a fronteggiare l'assassino. «Beccato!» gridò Oakes. Rebus, quasi senza fiato, si limitò ad annuire. «Lo sai cosa siete? Siete soltanto una pausa di relax nel mio turno di lavoro, ecco che cosa siete.» Rebus, camminando all'indietro, cominciò a sfilarsi la camicia dalla cintura. Oakes lo fissò con aria interrogativa, finché l'altro non sollevò completamente la camicia, rivelando un minuscolo microfono attaccato al torace mediante strisce adesive. Allora Oakes piantò i suoi occhi in quelli di Rebus, il quale sostenne il suo sguardo. Poi, d'un tratto, girò la testa da una parte all'altra, in cerca di qualche nuova sagoma.
Alcune voci si stavano rapidamente avvicinando. «Grazie per tutte quelle urla», disse Rebus. «Molto meglio di una scia di molliche di pane.» Con un ringhio, Oakes fece un ultimo balzo verso di lui. Rebus si scostò di lato e Oakes lo superò, continuando a correre. Dapprima scese lungo il pendio, poi cambiò idea e risalì la collina. I primi agenti spuntarono dalla nebbia. Rebus indicò il fuggiasco. «Prendetelo!» ordinò. Poi anche lui risalì il pendio, diretto al punto in cui giaceva Alan Archibald, ancora in sé, ma sanguinante. Gli s'inginocchiò accanto, mentre altri poliziotti li superavano di corsa. «Chiedete aiuto alla base, via radio!» gridò Rebus, rivolto verso di loro. Uno degli agenti si girò a rispondere. «Non ce n'è bisogno, signore. L'ha già fatto lei.» Rebus si guardò il microfono sul torace e capì che era vero. «Da dove salta fuori la cavalleria?» chiese Archibald, con un filo di voce. «L'ho ottenuta dal vicecapo della polizia», gli rispose Rebus. «Mi aveva promesso anche un elicottero, ma avrebbe avuto bisogno di un visore a raggi X.» Archibald abbozzò un sorriso. «Credi...?» «Mi dispiace, Alan», ribatté Rebus. «Era tutta una presa in giro, se vuoi sapere come la penso. Oakes voleva soltanto un altro paio di scalpi.» L'altro si toccò la testa con dita tremanti. «Per poco non ce l'ha fatta, almeno con uno», disse, chiudendo gli occhi. Alan Archibald fu portato in ospedale e Rebus andò in cerca di Jim Stevens. Il giornalista aveva già lasciato l'albergo e non era al giornale. Alla fine Rebus riuscì a rintracciarlo a The Hebrides, un piccolo bar nascosto dietro la stazione di Waverley. Stevens era seduto in un angolino, in compagnia soltanto di un portacenere pieno di cicche e di un bicchiere di whisky. Rebus ordinò per sé un whisky con acqua, lo bevve in un sol colpo, ne ordinò un altro e andò a sedersi accanto al giornalista. «Sei venuto per esultare?» gli chiese Stevens. «Esultare di che?» «Quel piccolo stronzo mi ha giocato un brutto tiro.» E raccontò a Rebus ciò che era accaduto. «Allora io sono un angelo caduto direttamente dal cielo», esclamò l'i-
spettore. Stevens sbatté le palpebre. «Cosa te lo fa pensare?» «Porto una lieta novella. O, più esattamente, una storia succosa e oserei dire che tu sei il primo a esserne messo al corrente.» Rebus non aveva mai visto un uomo ritornare sobrio con tanta rapidità. Stevens estrasse di tasca un taccuino e lo aprì. Con la penna in mano, guardò Rebus. «Dobbiamo fare un patto», gli disse l'ispettore. «Per me va bene.» Rebus annuì, poi gli raccontò ogni cosa. «E, se ce l'avesse fatta, io sarei stato la prossima vittima», concluse. «Cristo!» Stevens emise un leggero fischio, bevve un sorso di whisky. «Probabilmente dovrei rivolgerti una dozzina di domande, ma in questo momento non me ne viene in mente nessuna.» Estrasse un cellulare. «Qualcosa in contrario se passo subito la notizia al mio giornale?» L'ispettore scosse la testa. «Poi dobbiamo parlare», disse soltanto. Quindi ascoltò Stevens leggere dai suoi appunti, trasformandoli in frasi e paragrafi, e di tanto in tanto, quando veniva sollecitato, confermava con un cenno del capo. Poi toccò a Stevens ascoltare mentre dall'altra parte gli rileggevano l'articolo. Apportò qualche piccola modifica, e infine chiuse il collegamento telefonico. «Sono in debito con te», disse, appoggiando il cellulare sul tavolino. «Che posso offrirti in cambio?» «Un altro whisky», rispose Rebus. «E le risposte ad alcune domande.» Mezz'ora dopo, aveva un paio di cuffie e stava ascoltando il nastro dell'ultimo colloquio tra Stevens e Oakes. «'Un appuntamento col mio passato'», ripeté, togliendosi le cuffie. «'Un appuntamento col destino'.» «Si tratta di Archibald, no? Archibald gli è stato dietro per anni.» Rebus ripensò ad Alan Archibald... alla sua espressione quando l'avevano caricato nell'ambulanza. Pareva un uomo finito, distrutto, come se la cosa a lui più cara gli fosse stata strappata brutalmente. È facile mandare in frantumi un sogno, una speranza: questo aveva fatto Cary Oakes. Ed era riuscito a fuggire. «Allora, non l'hanno ancora preso?» chiese Stevens, per l'ennesima volta. «È scappato sulle colline, può essere ovunque.» «La zona è grande e difficile da perlustrare», ammise Stevens. «Cosa ti
aveva spinto a chiedere rinforzi?» Rebus si strinse nelle spalle. «Sai, John, un tempo avresti escluso di poterne aver bisogno.» «Lo so, Jim. Le cose cambiano.» «Immagino di sì.» Rebus riavvolse il nastro e riascoltò la seconda metà. Un appuntamento col destino, per usare una frase cara a te e agli scribacchini tuoi simili. Con qualcuno che non ha mai voluto ascoltarmi... Stavolta, alla fine, aveva un'espressione accigliata. «Sai», disse, «non sono sicuro se intendesse Archibald o me. Ci ha definiti una 'pausa di relax nel suo turno di lavoro'.» Stevens aveva prosciugato il bicchiere. «Che altro potrebbe essere?» Rebus scosse lentamente la testa. «Ci deve essere un motivo che l'ha indotto a tornare a Edimburgo.» «Sì, è venuto per me e per il mio libretto d'assegni.» «Qualcosa di molto più importante. Anche più della possibilità di giocare con Alan Archibald...» «Cosa?» «Non lo so.» Fissò Stevens. «Tu potresti scoprirlo.» «Io?» «Tu conosci ogni angolo della città. Dev'essere qualcosa che ha a che vedere col suo passato, che risale a prima della sua partenza per l'America.» «Non sono un archeologo.» «No? Pensa a tutti gli anni che hai trascorso rimestando nella melma. E Alan Archibald ha un sacco di materiale su Oakes, materiale di gran lunga migliore di quello che ti ha rifilato quel bastardo.» Stevens sbuffò, poi sorrise. «Forse...» disse, come se stesse parlando tra sé. «Sarebbe un modo per fargliela pagare.» Rebus stava annuendo. «Ti ha dato un velo di menzogne e tu rispondi con una valanga di fatti reali.» «La verità su Cary Oakes», mormorò Stevens, immaginando già il titolo. «Lo farò», esclamò alla fine. «E, qualunque cosa scopri, metterai subito al corrente anche me.» Rebus allungò la mano verso il taccuino di Stevens. «Ti scrivo il mio numero di cellulare.» «Jim Stevens e John Rebus, soci in affari», ridacchiò il giornalista. «Se non lo fai tu, io non andrò di certo in giro a raccontarlo.»
40 C'erano vari messaggi per Rebus: Janice aveva chiamato tre volte, il direttore della banca di Damon una. Richiamò per primo quest'ultimo. «C'è stato un movimento», disse il direttore. «Dove, quando e di quale entità?» chiese Rebus, afferrando carta e penna. «A Edimburgo. Da uno sportello automatico in George Street. Un prelievo di cento sterline.» «Oggi?» «Ieri pomeriggio, esattamente all'una e quaranta. Sono buone notizie, non le pare?» «Me lo auguro.» «Be', questo dimostra che è ancora vivo.» «Dimostra soltanto che qualcuno ha usato la sua tessera. Non è la stessa cosa.» «Capisco.» Nella voce del direttore risuonò un vago scoramento. «Immagino che dobbiate procedere coi piedi di piombo.» A Rebus balenò un'idea. «Non c'è per caso una telecamera di sorveglianza, a quello sportello automatico?» «Posso controllare.» «Gliene sarei grato.» Terminata la conversazione, chiamò Janice. «Che c'è?» «Nulla.» Esitò. «Te ne sei andato via così presto, stamattina... Mi chiedevo se non abbiamo fatto qualcosa...» «Voi non c'entrate, Janice.» «No?» «Dovevo tornare, tutto qui.» «Oh.» Un'altra pausa. «Be', ero preoccupata.» «Per me?» «Che tu scomparissi di nuovo dalla mia vita.» «Pensi che potrei farlo?» «Non lo so, John: lo faresti?» «Janice, ho capito che tra te e Brian c'è qualche incomprensione...» «Sì?» Rebus sorrise, a occhi chiusi. «In realtà, è tutto qui. Non sono la persona più adatta a fare da consulente matrimoniale.» «Non è quello che sto cercando.»
«Ascolta», disse lui, fregandosi gli occhi. «Ci sono novità su Damon.» Una pausa più lunga. «Avevi intenzione di parlarmene?» «Lo sto facendo.» «Soltanto perché così hai potuto cambiare discorso.» A Rebus parve di essere un pugile sul ring, costretto alle corde. «Si tratta di un prelievo dal suo conto corrente.» «L'ha fatto lui?» «Be', qualcuno che ha usato la sua tessera.» La voce di Janice stava salendo di tono, mentre in lei cresceva la speranza. «Ma nessun altro conosce il numero di codice. Dev'essere stato per forza lui.» «Ci sono tanti modi per utilizzare queste carte...» «John, non permetterti di togliermi questa speranza!» «Non voglio che un'eventuale delusione ti faccia troppo male.» Rivide Alan Archibald, la sua aria da chi è andato incontro a una sconfitta definitiva, irrimediabile. «Quand'è stato?» chiese Janice; ormai non lo stava quasi più ascoltando. «Ieri, nel primo pomeriggio. L'ho saputo dieci minuti fa. Il prelievo è stato fatto a uno sportello automatico in George Street.» «È ancora a Edimburgo.» Un assioma. «Janice...» «Lo sento, John. È lì, lo so che è lì. A che ora c'è il prossimo treno?» «Dubito che si trovi ancora nei paraggi di George Street. La cifra prelevata era un centinaio di sterline. Potrebbe essere stata presa in vista di un viaggio.» «Arrivo comunque.» «Non posso impedirtelo.» «Già, non puoi.» Janice riattaccò. Qualche secondo più tardi, il telefono squillò di nuovo. Era il direttore della banca. «Sì», disse, «c'è una telecamera.» «Puntata sullo sportello?» «Sì. Mi sono già attivato e il nastro è a sua disposizione. Deve contattare la signorina Georgeson.» Mentre Rebus finiva di parlare, George Silvers gli portò una tazza di caffè. «Credevo che lei fosse andato a casa», disse: era così che Hi-Ho dimostrava il proprio interessamento. «Grazie, George. Ancora nessun segno di Oakes?» Silvers scosse la testa. Rebus fissò gli incartamenti sulla sua scrivania.
C'erano rapporti da compilare, casi sui quali non riusciva quasi più a far mente locale. I nomi gli ballavano davanti agli occhi. Tutti esigevano che venisse messa la parola fine. «Lo prenderemo», disse Silvers. «Non si preoccupi.» «Sei sempre stato un gran conforto per me, George», replicò Rebus. Gli restituì la tazza. «E un giorno o l'altro cerca di ricordarti che non ci metto lo zucchero.» Andò a parlare con la signorina Georgeson. Era sulla cinquantina, grassottella, e ricordò a Rebus una cuoca della mensa scolastica che lui aveva corteggiato. Il nastro con la registrazione era già pronto. «Preferisce visionarlo qui?» gli chiese. Rebus scosse la testa. «Lo porterò alla stazione di polizia, se lei non ha nulla da obiettare.» «Be', in realtà dovrei farne una copia...» «Non intendo perderlo, signorina Georgeson. E glielo riporterò sicuramente.» Uscì dalla banca con la cassetta stretta in mano. Controllò l'ora, poi si avviò verso la stazione di Waverley. Si sedette su una delle panche nell'atrio, sorseggiando un caffè con uno schizzo di latte (che il venditore aveva spacciato per un caffellatte) e tenendo gli occhi bene aperti. Aveva messo il nastro nella tasca dell'impermeabile, escludendo l'ipotesi di lasciarlo in auto. Sfogliò rapidamente il quotidiano della sera. Nulla su Cary Oakes: la notizia sarebbe apparsa in esclusiva sul giornale di Stevens, la mattina seguente, e il giornalista avrebbe risposto così, con un plateale gesto di vittoria, ai suoi detrattori. Un appuntamento col destino... Cosa diavolo poteva significare? Possibile che fosse un'altra falsa pista? Rebus lo riteneva capace di tutto. Non aveva fatto fare a Stevens, Archibald e allo stesso Rebus la figura degli incapaci, come se loro fossero tre raccattapalle e lui invece fosse, per dire, il George Best degli anni d'oro? Finalmente la vide. I treni del tardo pomeriggio in arrivo a Edimburgo non erano affollati; il traffico andava tutto nell'altro senso. Janice infatti dovette farsi largo tra la calca che andava in direzione opposta. Prima che si accorgesse di lui, Rebus apparve al suo fianco. «Ha bisogno di un taxi?» disse. Lei parve sorpresa, poi divertita. «John», esclamò. «Come mai sei qui?» Per tutta risposta, Rebus tirò fuori la cassetta. «Un'offerta di pace», dis-
se, accompagnandola all'auto. Si sedettero nella sala operativa della stazione di polizia. C'era un'atmosfera silenziosa, perché la maggior parte dei funzionari era già andata a casa. I pochi rimasti stavano cercando di completare i rapporti o di mettersi alla pari col lavoro. Nessuno aveva voglia di perdere tempo in chiacchiere. Il videoregistratore era in un angolo del locale e Rebus, dopo essere andato a prendere un caffè, sistemò due sedie davanti al monitor. Nel vedere l'aria eccitata e al tempo stesso impaurita di Janice, Rebus ripensò a come gli era apparso Alan Archibald sulla collina. «Ascolta, Janice», l'ammonì, «se non è lui...» Janice si strinse nelle spalle. «Se non è lui, non lo è. Non te ne farò una colpa.» Gli rivolse un veloce sorriso. Rebus inserì la cassetta. La signorina Georgeson gli aveva spiegato che la telecamera era dotata di sensori per il movimento, entrava cioè in funzione non appena qualcuno si avvicinava allo sportello. Quand'era andato a ritirare la videocassetta, Rebus aveva dato un'occhiata: la telecamera era sistemata proprio sopra e riprendeva da dietro una delle vetrate della banca. Quando sul video apparve la prima faccia, fu come se Rebus e Janice la vedessero dall'alto. L'ora indicata in sovrimpressione diceva 08.10. Rebus si servì del telecomando per accelerare il nastro. «A noi interessa l'una e quaranta», spiegò. Janice era tesa in avanti, con le mani strette intorno alla tazza di caffè. Quello, pensò Rebus, era l'inizio: i primi centimetri di nastro vuoti, poi le immagini sgranate. Era a metà della giornata che la maggior parte della gente utilizzava lo sportello automatico. C'era da far girare parecchio nastro. Apparvero le code che si formavano sempre all'ora di pranzo, ma all'una e mezzo la situazione si era fatta più calma. L'indicatore orario segnò le 13.40. «Oh, mio Dio, è lui», esclamò Janice. Appoggiò la tazza sul pavimento e si portò le mani al volto. Rebus guardò. Il viso era rivolto in basso, verso la pulsantiera, poi si girava di lato, forse in direzione della strada. Le dita tamburellavano con impazienza sullo schermo dell'apparecchio. La tessera veniva ritirata, una mano si avvicinava alla fessura da cui uscivano le banconote. Nessun indugio, neppure il tempo di attendere la ricevuta. Un nuovo cliente si faceva già avanti. «Ne sei sicura?» chiese Rebus.
Una lacrima stava rigando la guancia di Janice. «Assolutamente sicura», rispose, annuendo. Gli era difficile esprimere un parere. Di Damon aveva soltanto le vecchie foto e la registrazione fatta dalla telecamera del Gaitano's; non aveva mai incontrato il ragazzo di persona. I capelli sembravano i suoi... forse anche il naso, la forma del mento. Però nessuna di quelle fattezze aveva qualche elemento particolarmente riconoscibile. Anche la persona che appariva in quel momento sullo schermo somigliava a quella che se n'era appena andata. Ma Janice si stava soffiando il naso. Era felice. «È lui, te lo giuro.» Notò un'espressione dubbiosa sul volto di Rebus. «Non te lo direi se non fosse così.» «Ci credo.» «Non si tratta soltanto della faccia o dei capelli o dei vestiti... è il modo in cui si muove, come sta ritto. E quei piccoli scatti d'impazienza.» Si servì di un angolo del fazzoletto per asciugarsi gli occhi. «Era lui, John, era lui.» «Va bene», disse Rebus. Riavvolse una parte del nastro, poi ripassò il pezzo che precedeva le 13.40. Esaminava lo sfondo per vedere se gli riusciva di scorgere Damon mentre si avvicinava allo sportello. Voleva appurare se era solo. Ma Damon entrava in scena di colpo, e di lato. Quell'occhiata, nella direzione da cui era venuto. Non faceva forse un cenno con la testa... una specie di segnale a un'altra persona fuori del campo della telecamera? Riportò indietro il nastro e osservò tutto da capo. «Cosa stai cercando?» gli chiese Janice. «Chi c'era con lui, ammesso che ci fosse qualcuno.» Ma non trovò nulla. Lasciò quindi che il nastro scorresse e, dopo un paio di minuti, ebbe la soddisfazione di scorgere, alle spalle del nuovo cliente allo sportello - cioè nella parte alta dello schermo -, due paia di gambe che si muovevano. Un paio apparteneva a un uomo, l'altro a una donna. Rebus azionò il fermo-immagine, ma non riuscì a ottenere una visione perfettamente stabile e a fuoco. Preferì quindi riavvolgere il nastro e avviarlo di nuovo. «Riconosci i pantaloni, le scarpe?» Janice scosse la testa. «Sono una massa indistinta.» Lo erano, in effetti. «Potrebbero appartenere a chiunque», aggiunse. Aveva perfettamente ragione. Janice si alzò. «Vado in George Street.» Rebus fece per dire qualcosa, ma lei glielo impedì. «Lo so che non ci troverò Damon, ma ci sono negozi, pub... Se non altro, posso mostrare in giro la sua foto.»
Lui assentì. Janice l'afferrò per un braccio. «È ancora qui, John. Ora abbiamo qualcosa di concreto.» Mentre se ne andava, tenne aperta la porta a una persona che stava entrando: Siobhan Clarke. «Qualche traccia?» chiese Rebus. Siobhan si lasciò crollare su una sedia. «Di Billy Horman?» Lui fece un segno di diniego. «Di Cary Oakes.» Siobhan si stirò il collo, con uno schiocco che arrivò fino alle orecchie di Rebus. «Non seguo il caso Oakes. Mi occupo di Billy Boy.» «Nessun progresso?» Scosse la testa. «Avremmo bisogno di un'altra dozzina di poliziotti. Anzi, di due dozzine.» «Me l'immagino, il budget, tirato fino a quel punto.» «Ce la potremmo fare, forse, se ci sbarazzassimo di qualche tizio dell'amministrazione.» «Attenta, Siobhan. E un discorso da anarchica.» Lei sorrise. «Come stai? Ho sentito che Oakes era pronto a farvi fuori entrambi.» «Mi sono venuti i sudori freddi», rispose Rebus. «Vuoi che ti offra qualcosa da bere?» «Non stasera. Ho un appuntamento con un bagno caldo e una cena pronta. E tu?» «Seguo il tuo esempio: me ne vado a casa dritto filato.» «Be'...» Si alzò come se quel semplice gesto le costasse un'immane fatica. «A domani.» «'Notte, Siobhan.» Mentre usciva, lei agitò due dita da sopra la spalla. Rebus tenne quasi fede alle sue parole: prima di tornare a casa fece un'unica deviazione. Salì le scale del Cragside Court. Era già quasi buio, ma alcuni bambini giocavano ancora all'aperto, tenuti però d'occhio da un membro del GAP. Il movimento, che diventava sempre più organizzato, aveva distribuito ai vari affiliati magliette col logo stampato. Una di queste era indossata dalla sorvegliante dei bambini, la quale aveva fissato attentamente Rebus, perché, pur rendendosi conto di averlo già visto da qualche parte, sapeva che non abitava lì. Rebus rimase a osservare Greenfield. Da un lato, Holyrood Park; dall'altro, l'Old Town e l'area in cui sarebbe sorto il nuovo parlamento. Si chiese
se a quel quartiere sarebbe stato concesso di sopravvivere. Sapeva che, se la municipalità avesse voluto eliminarlo, avrebbe agito in modo subdolo. Assenza totale delle opere di manutenzione, oppure interventi approssimativi. Poco alla volta gli appartamenti sarebbero stati dichiarati inabitabili, gli inquilini trasferiti altrove, finestre e porte bloccate e sigillate. La situazione generale sarebbe lentamente degenerata, obbligando i residenti a rimettere in discussione le proprie scelte. Lo stato dei condomini più alti sarebbe diventato «motivo di preoccupazione». I mezzi di comunicazione di massa ne avrebbero denunciato le condizioni fatiscenti. Il comune sarebbe intervenuto, offrendo aiuto... cioè procurando nuovi alloggi: costava molto meno che restaurare l'intero quartiere. E alla fine questo sarebbe rimasto deserto, un'area da demolire, sulla quale poter poi innalzare nuovi edifici. Magari qualche costoso pied-à-terre per i parlamentari, oppure uffici e boutique. Era una zona appetibile, non c'era dubbio. Quanto ai Salisbury Crags... Rebus non dubitava che ci fosse gente pronta a costruire anche lassù, se le fosse stata data l'opportunità. Ma questa era di là da venire. Nonostante i secoli di cambiamenti, il parco era più o meno com'era sempre stato. Non esprimeva giudizi su ciò che gli era sorto intorno, ma si limitava a restare dov'era, superiore a ogni cosa. E le persone che lo calpestavano erano fastidi insignificanti, che sarebbero durati una settantina d'anni, se non meno. Non si lasciavano dietro nessuna impronta, soprattutto se l'unità di misura era calibrata sui millenni. Si trovò davanti all'appartamento di Darren Rough. Darren era tornato in città per testimoniare contro due uomini diabolici. Come ricompensa, era stato inseguito, oltraggiato e alla fine ucciso. Rebus non era certamente orgoglioso di aver dato il via a quella persecuzione. Si augurava che, un giorno, Darren potesse perdonarlo. Stava quasi per dirlo alla figura spettrale apparsa in fondo al ballatoio, ma, quando questa gli si avvicinò, vide che era fatta di carne e ossa. E quanto mai viva. Cal Brady, con un cipiglio rabbioso. «Che vuole?» «Soltanto dare un'occhiata.» «Credevo che fosse un altro pervertito.» Rebus fece un cenno in direzione del cellulare che il giovane aveva in mano. «La vigilatrice al parco giochi ti ha avvisato?» Si rese conto da solo che era andata così e annuì. «Avete messo in piedi una simpatica operazione, Cal. Ne ricavi qualcosa?» «È il mio dovere civico», replicò l'altro, gonfiando il petto. Rebus gli si avvicinò di un passo, le mani nelle tasche dell'im-
permeabile. «Cal, il giorno in cui la gente come te deciderà cos'è giusto e cos'è sbagliato, vorrà dire che il mondo intero si è invertito.» «Mi dà del frocio?» urlò Cal Brady, ma Rebus l'aveva già superato e si stava dirigendo verso le scale. 41 «Parlami di Janice», disse Patience. Si trovavano in salotto e, in mezzo a loro, sulla moquette, era appoggiata una bottiglia di vino rosso. Patience era sdraiata sul divano, con un tascabile aperto sul petto. Lo teneva in quel modo già da alcuni minuti, durante i quali era rimasta a fissare il vuoto, ascoltando la musica che usciva dallo stereo. Nick Drake, Pink Moon. Rebus era seduto in poltrona, le gambe penzoloni da un lato. Aveva buttato via scarpe e calze e stava leggendo sul giornale i resoconti delle partite, tanto per tenersi aggiornato. «Cosa?» «Janice. Mi piacerebbe saperne di più.» «Siamo stati compagni di scuola.» Lui smise di leggere. «È sposata e ha soltanto quel figlio. Ha fatto l'insegnante, per un certo periodo. Anche suo marito era un mio compagno di scuola. Si chiama Brian.» «L'hai corteggiata?» «Ai tempi della scuola, sì.» «Ci sei andato a letto?» Lui la guardò. «Non sono arrivato a tanto.» Lei annuì. «Ti sei mai chiesto come sarebbe stato?» Rebus si strinse nelle spalle. «Io l'avrei fatto», continuò Patience. Il suo bicchiere era vuoto e si chinò a riempirlo. Il libro scivolò sul pavimento, ma lei non gli prestò attenzione. Benché Rebus si fosse servito una sola volta di Rioja, la bottiglia era quasi vuota. «Chiunque penserebbe che sei tu ad avere problemi di alcolismo», esclamò, assicurandosi di avere il sorriso sulle labbra mentre lo diceva. Patience sembrava tornata di buonumore. Una goccia di vino le cadde sul dorso della mano e lei la asciugò con le labbra. «No, mi piace eccedere di tanto in tanto. Allora, avevi pensato di andare a letto con lei?» «Cristo, Patience...» «M'interessa, tutto qui. Sammy mi ha detto che Janice aveva un'aria strana.»
«Tipo?» Lei si accigliò, come se stesse tentando di ricordare le parole esatte. «Famelica. Famelica e leggermente disperata, mi pare. Come va il suo matrimonio?» «Traballante», ammise Rebus. «E il tuo viaggio nel Fife... è servito a qualcosa?» «Non ci sono andato a letto.» Patience agitò un dito. «Non difenderti prima ancora di essere stato accusato. Sei un detective, sai bene quale impressione susciti un simile comportamento.» La fissò. «Sono un presunto colpevole?» «No, John, sei un uomo.» Bevve un altro sorso di vino. «Non ti farei mai del male, Patience.» Lei sorrise, tese una mano come se volesse stringere quella di lui, ma Rebus era troppo lontano. «Lo so, tesoro. Ma non dimenticare che, a quei tempi, io per te non esistevo ancora, quindi l'idea di farmi o no del male non c'entra.» «Sei così sicura...» «John, sono cose che vedo ogni giorno che Dio manda in terra. Nel mio ambulatorio arrivano mogli che vogliono un antidepressivo. Prenderebbero qualsiasi cosa per poter affrontare quelle orrende unioni in cui si trovano prigioniere. Con me parlano, raccontano tutto. Alcune si danno al bere o si drogano, altre si tagliano i polsi. E la cosa strana è che sono pochissime quelle che semplicemente se ne vanno di casa. E queste ultime sono di solito alla mercé di un partner violento.» Lo guardò. «E lo sai cosa fanno, poi?» «Tornano indietro?» azzardò Rebus. Lo fissò. «Come lo sai?» «Le conosco anch'io, Patience. Le casalinghe, le signore della porta accanto che si lamentano perché devono subire insulti e percosse. Sono le stesse mogli che vengono da te, però a livelli più bassi. Non sporgono denuncia e ottengono soltanto di essere sistemate in una casa d'accoglienza per donne maltrattate. Dopo un po', tornano all'unica vita che conoscono.» Patience si asciugò una lacrima. «Perché le cose devono andare così, John?» «Vorrei poterti rispondere.» «E nel nostro futuro cosa c'è?» Rebus sorrise. «Una cambiale.»
Patience aveva distolto lo sguardo da lui. Raccolse il libro dal pavimento, posò a terra il bicchiere di vino. «L'uomo che ha scritto quella frase... Cosa aveva in mente?» «Non lo so, con precisione. Forse voleva farmi capire che era stato qui.» Lei aveva ritrovato la pagina che prima stava leggendo, ma fissava il testo senza muovere gli occhi. «Adesso dov'è?» «Sperduto sulle colline e mortalmente infreddolito.» «Ne sei convinto?» «No», ammise. «Un tipo come Oakes... sarebbe troppo facile.» «Ti darà la caccia?» «Non sono in cima alla sua lista.» No, perché Alan Archibald era ancora vivo. La radiografia aveva evidenziato una frattura al cranio; Archibald sarebbe rimasto in ospedale più a lungo del previsto. Accanto al suo letto era stato messo, a proteggerlo, un agente. «Verrà ancora qui?» chiese lei. Il CD era finito, nella stanza era caduto il silenzio. «Non lo so.» «Se ci prova di nuovo a imbrattarmi il patio, lo prendo a calci in culo.» Rebus la guardò, poi scoppiò a ridere. «Che c'è di tanto divertente?» Lui stava scuotendo la testa. «Nulla, in realtà. Sono soltanto felice che tu sia dalla mia parte, ecco tutto.» Patience si portò di nuovo il vino alle labbra. «Che cosa le dà una simile certezza, ispettore?» Rebus brindò alla sua salute, sollevando il bicchiere, contento perché quella sera, prima che Patience la menzionasse, lui non aveva pensato neppure una volta a Janice Mee. Prese il telecomando del lettore CD e schiacciò il tasto replay. «Si direbbe che questo cantante abbia bisogno d'aiuto», osservò Patience. «Era così, infatti», ribatté Rebus. «È morto di overdose.» Lei lo guardò e lui si strinse nelle spalle. «Un altro incidente», disse. Più tardi, uscì per fumare una sigaretta. Nel patio c'era ancora quella scritta: IL TUO AMANTE POLIZIOTTO HA UCCISO DARREN ROUGH. Sarebbero venuti a cancellarla solo l'indomani. Oakes aveva seguito Rough, ma poi l'aveva perso... quella almeno era stata la sua versione. Be', qualcuno l'aveva trovato. Rebus non si sarebbe fatto appioppare quella colpa. Salì i gradini, con la sigaretta accesa. Parcheggiata proprio davanti a casa c'era un'auto della polizia, un messaggio per Cary Oakes,
casomai gli fosse venuta voglia di farsi rivedere in quei paraggi. Rebus scambiò qualche parola coi due agenti seduti in macchina, finì la sigaretta e rientrò. 42 «Vuoi fare una corsa?» gli propose Siobhan Clarke. «Spero che tu intenda in macchina, non a piedi.» «Sta' tranquillo, non ti vedo certo nei panni di un fanatico del jogging.» «Perspicace come sempre. Dove vuoi andare?» Era mattina, a St. Leonard. Il tempo sulle Pentland Hills si era messo al bello e Rebus aveva fatto in modo che un elicottero sorvolasse la zona, cercando qualche traccia di Cary Oakes. Nei villaggi e nelle fattorie ai piedi delle colline era stato diramato l'avviso di tenere gli occhi bene aperti. «Che nessuno cerchi di metterlo con le spalle al muro», era stata l'indicazione. «Provvedete soltanto a informarci tempestivamente se dovesse capitarvi di vederlo.» Fino a quel momento non si era fatto vivo nessuno. Rebus si sentiva come un peso morto. Aveva preparato la colazione a Patience - succo d'arancia e un paio di bustine di Alka Seltzer - e aveva ricevuto i complimenti sia per la diagnosi sia per l'assistenza al capezzale. Lei aveva aggiunto che si sentiva in grado di affrontare il lavoro all'ambulatorio. «Mi auguro soltanto che nessuno oggi si aspetti da me una totale partecipazione.» Rebus si trovava nella sala operativa della stazione di polizia, con una tazza di caffè e un Mars. «Colazione coronarica», disse, notando l'occhiata di disgusto che gli aveva lanciato Siobhan. «Abbiamo avuto una segnalazione di Billy Boy. Con ogni probabilità è soltanto una perdita di tempo...» «E tu preferiresti perderlo con me?» Rebus sorrise. «Ti sembra ragionevole?» «Non importa», replicò Siobhan, girandosi per andarsene. «Ehi, aspetta. Sei scesa dal letto col piede sinistro?» «Non sono neanche riuscita a salirci, nel letto», scattò Siobhan. Poi si ammorbidi. «È una lunga storia.» «Proprio quello che ci vuole per una corsa in macchina», ribatté Rebus. «Andiamo, mi hai agganciato.»
La storia: dalla lavatrice della famiglia che abitava al piano di sopra era uscita tutta l'acqua. I vicini erano fuori e non se n'erano accorti. Siobhan l'aveva scoperto soltanto quand'era entrata in camera da letto. «La lavatrice è sopra la tua stanza?» chiese Rebus. «Questo è un altro motivo di discussione. In ogni modo, ho visto la macchia sul soffitto e, quando mi sono messa a letto, mi sono accorta che questo era fradicio. Perciò ho passato la notte sul divano, in un vecchio sacco a pelo che puzzava di muffa.» «Poverina.» Rebus stava pensando a tutte le volte in cui aveva dormito in poltrona... ma la sua era una scelta volontaria. Guardò nello specchietto retrovisore laterale, mentre procedevano a passo d'uomo diretti a ovest, fuori città. «Spiegami una cosa: perché stiamo andando a Grangemouth? La polizia locale non è in grado di gestire il caso?» «Sono restia a delegarlo.» Rebus sorrise: Siobhan gli aveva rubato una delle sue frasi preferite. «In altre parole, quando si tratta di svolgere accuratamente un lavoro ti fidi solo di te stessa.» «Qualcosa del genere», replicò lei, lanciandogli un'occhiata. «L'ho imparato da un bravo maestro.» «Siobhan, ormai è parecchio tempo che non ho più nulla da insegnarti.» «Grazie.» «Ma questo perché hai smesso di ascoltare.» «C'è poco da ridere.» Allungò il collo. «Come mai tanto traffico?» Le auto davanti a loro erano quasi ferme. «Rientra nelle nuove direttive comunali. Rendere insostenibile la viabilità, in modo che la gente smetta di prendere la macchina per venire in città. Creare un'impressione di generale disordine, insomma.» «Vogliono un villaggio all'antica.» Rebus annuì. «Abitato da un mezzo milione di villici.» Finalmente ripresero a muoversi. Grangemouth si trovava sull'estuario del Forth, a ovest. Erano anni che lui non ci andava. Mentre si avvicinavano, la sua prima impressione fu quella di trovarsi sul set di Blade Runner. Un enorme stabilimento petrolchimico dominava l'orizzonte, irto di ciminiere frastagliate e di una bizzarra configurazione di tubature. Il complesso sembrava una forma di vita aliena che si stesse espandendo, pronta a gettare le sue innumerevoli braccia meccaniche intorno alla cittadina e ad avvilupparla in una stretta mortale.
In realtà, era vero il contrario: lo stabilimento aveva creato nuovi posti di lavoro a Grangemouth, un agglomerato urbano dalle vie strette e buie, con edifici la cui architettura risaliva ai primi del secolo. «Due mondi che si scontrano», mormorò Rebus, quando finalmente entrarono nella cittadina, guardandosi intorno. «Mi pare che abbiano bruciato le loro opportunità di vincere la scommessa della conservazione dell'ambiente originale.» «Sono sicuro che gli abitanti se ne rammaricano.» Rebus stava leggendo i nomi delle vie. «Ci siamo.» Parcheggiarono di fronte a una fila di villette simili a cottage, ognuna delle quali aveva aggiunto camere da letto e relative finestre in quello che un tempo era il sottotetto. «Numero 11», disse Siobhan. «Si chiama Wilkie.» La signora Wilkie li stava aspettando. Sembrava l'incarnazione della vicina-tipo: tanto sollecita da diventare indiscreta. Spesso fornivano elementi preziosi, ma Rebus avrebbe scommesso che molte delle persone che abitavano negli immediati dintorni avessero in proposito un'opinione diametralmente opposta. Il salotto della donna era un locale minuscolo e surriscaldato, nel quale troneggiava, al posto d'onore, una grande casa di bambola, tutta decorata. Quando Siobhan, per pura cortesia, fece mostra di ammirarla, la signora Wilkie si dilungò per una decina di minuti a raccontarne la storia. Rebus scommise con se stesso che la donna non si sarebbe fermata neppure un secondo a riprendere fiato, per non concedere a nessuno dei suoi due prigionieri l'opportunità d'intervenire e sviare il discorso. «Be', non è deliziosa?» disse Siobhan, lanciando un'occhiata a Rebus. L'espressione sul volto dell'ispettore la costrinse a risucchiare le guance per impedirsi di scoppiare a ridere. «Ora, se vuoi parlarci del ragazzo che ha notato, signora Wilkie...» Si sedettero e lei raccontò. Aveva visto sul giornale la foto del ragazzino e, nel tornare a casa dopo aver fatto la spesa, verso le due del pomeriggio, l'aveva sorpreso a giocare a calcio in strada. «Tirava la palla contro il muro del Montefiore's Garage. C'è un muretto basso di pietra tutt'intorno allo...» Fece un gesto con le mani. «Come si chiama?» «Spiazzo?» suggerì Siobhan. «Già.» Le sorrise. «Scommetto che lei è molto brava a fare i cruciverba, con un cervello così.» «Ha detto qualcosa al ragazzo, signora Wilkie?»
«In realtà non sono signora, ma signorina. Non mi sono mai sposata.» «Davvero?» Rebus tentò di assumere un'aria stupita. Siobhan tossicchiò, poi porse alla signorina Wilkie alcune foto di Billy Horman. «Be', sembrerebbe proprio lui», osservò l'anziana donna, esaminando le immagini. Poi ne scartò una. «A parte questa, cioè.» Siobhan prese la foto che lei le tendeva e la rimise nella cartelletta. Rebus sapeva che la collega aveva inserito, fra le altre, l'immagine di un altro ragazzino, per verificare l'attendibilità di quella testimonianza. La Wilkie aveva superato il test. «Per rispondere alla sua precedente domanda», continuò l'anziana donna, «no, non gli ho detto nulla. Sono tornata a casa e ho dato un'altra occhiata al giornale. Poi ho telefonato al numero indicato. Ho parlato con un giovane funzionario di polizia, che è stato molto gentile.» «Questo è avvenuto ieri?» «Sì. Oggi il ragazzo non l'ho visto.» «Quindi l'ha visto soltanto quella volta?» La Wilkie annuì. «Stava giocando per conto suo. Aveva l'aria di sentirsi molto solo.» Dopo aver restituito le foto, si alzò e andò a guardare fuori della finestra. «In una strada come questa, gli sconosciuti attirano subito l'attenzione.» «Sono sicuro che a lei sfugge ben poco», mormorò Rebus. «Con tutte le auto che ci sono in giro al giorno d'oggi... Mi meraviglia che siate riusciti a trovare un parcheggio.» Rebus e Siobhan si scambiarono un'occhiata, ringraziarono la signorina Wilkie per il tempo che aveva dedicato loro e uscirono. Una volta fuori, guardarono a sinistra e a destra. Proprio in fondo alla strada, sull'angolo, c'era un garage. Si diressero da quella parte. «Cosa avrà voluto dire, con quella frase sulle automobili?» chiese Siobhan. «Probabilmente che c'è sempre qualcuno parcheggiato davanti alla sua finestra, il che le rende più difficile controllare ciò che succede.» «Sono stupefatta.» «Non parlo per esperienza diretta, sia ben chiaro.» Però, mentre si trovava nella villetta, Rebus aveva avvertito una fitta di depressione. Anche lui era una sorta di guardone. Tutte quelle notti in cui se ne stava seduto nel suo appartamento, con la luce spenta, a scrutare dalla finestra... Invecchiando, si sarebbe trasformato in una signorina Wilkie,
in una vicina di casa ficcanaso? Il Montefiore's Garage consisteva in un'unica fila di pompe di benzina, una piccola costruzione che fungeva da minimarket e due capannoni adibiti a officina. In uno di questi si trovava un uomo in tuta blu; di visibile c'era solo la testa, perché era calato nel pozzetto, con una Volkswagen Polo azzurra sopra di lui. Un altro individuo, più anziano, era nella rivendita, dietro il banco. Rebus e Siobhan si fermarono sul marciapiede. «Potremmo chiedere se l'hanno visto», disse Siobhan. «Penso di sì», replicò Rebus, con scarso entusiasmo. «Avevo premesso che poteva essere una totale perdita di tempo.» «Potrebbe trattarsi di un ragazzino del quartiere. Arrivato qui da poco con la famiglia, senza avere avuto ancora il tempo di farsi qualche amico.» «La Wilkie l'ha notato alle due del pomeriggio. C'è scuola, a quell'ora.» «È vero», ammise Rebus. «E lei sembrava proprio decisa, vero?» «Capita, con certe persone. Vogliono dare una mano, anche a costo d'inventarsi tutto.» Rebus fece schioccare la lingua in segno di disapprovazione. «Un cinismo del genere non l'hai certo appreso da me.» Osservò le auto parcheggiate, paraurti contro paraurti. «Mi chiedo...» «Cosa?» «Il ragazzo stava calciando la palla contro il muro dello spiazzo.» «Sì.» «Doveva avere poco spazio per giocare, se c'erano tutte queste vetture. Il marciapiede non è abbastanza largo.» Siobhan guardò il muro, il marciapiede. «Forse non c'erano auto.» «A detta della Wilkie, è quasi impossibile.» «Dove vuoi andare a parare?» Rebus indicò lo spiazzo. «E se il ragazzino fosse stato là dentro? C'è un'infinità di spazio quando non ci sono auto a rifornirsi di benzina.» «L'avrebbero fatto filare.» Gli lanciò un'occhiata. «O no?» «Andiamo a chiederlo.» Entrarono dapprima nella rivendita e si presentarono all'uomo dietro il banco. «Non sono il proprietario», disse l'uomo. «Sono suo fratello.» «Era qui, ieri?» «Sono qui da dieci giorni. Eddie e Flo sono andati in ferie.» «In qualche bel posto?» chiese Siobhan, fingendo di voler fare conversazione.
«In Giamaica.» «Ricorda se ha visto un ragazzino?» chiese Rebus. Siobhan tirò fuori una delle foto. «Un ragazzino che giocava a calcio nello spiazzo?» Il fratello del proprietario annuì. «Il nipote di Gordon.» «Gordon chi?» «Gordon Howe.» «Ha idea di dove potremmo trovare il signor Howe?» «Jock lo sa.» «E chi è Jock?» «Jock è l'altro meccanico.» «Quello sotto la Polo?» chiese Rebus. L'uomo annuì. «Allora il signor Howe lavora nell'officina?» «Sì, fa il meccanico. Oggi è il suo giorno di riposo. Be', non abbiamo molto lavoro e, visto che deve badare al piccolo Billy...» Sventolò la foto di Billy Horman. «Billy?» chiese Siobhan. Un minuto dopo, erano di nuovo nello spiazzo e Siobhan stava parlando al cellulare di Rebus. Si era messa in comunicazione con la stazione di polizia di St. Leonard, chiedendo se Billy Horman avesse uno zio chiamato Gordon Howe. Ascoltò la risposta e scosse la testa, per far capire a Rebus che era negativa. S'incamminarono verso l'officina. «Possiamo parlarle un momento?» gridò Rebus. Reggevano tutti e due i rispettivi tesserini di riconoscimento quando il meccanico di nome Jock uscì da sotto la Polo e cominciò a pulirsi le mani in uno straccio incredibilmente unto e macchiato. «Che ho fatto?» Aveva i capelli rossi, che si arricciavano sulla nuca, e un lungo orecchino. I dorsi delle mani erano tatuati e Rebus notò che gli mancava il mignolo della sinistra. «Dove possiamo trovare Gordon Howe?» chiese Siobhan. «Abita in Adamson Street. Di che si tratta?» «In questo momento è a casa, secondo lei?» «Come faccio a saperlo?» «È il suo giorno di riposo», replicò Rebus, avvicinandosi di un passo. «Non le ha per caso detto come intendeva trascorrerlo?» «Portando Billy da qualche parte.» Lo sguardo del meccanico guizzava da un poliziotto all'altro. «E Billy sarebbe...?» «Il figlio di sua sorella. Lei è molto povera, vive sola, roba del genere.
Billy è stato dato in affidamento temporaneo a Gordy, oppure ha deciso lui di prendersene cura. Si tratta di Billy? Ha combinato qualcosa?» «Secondo lei, ne sarebbe capace?» «Assolutamente no.» Il meccanico sorrise. «Un ragazzino molto tranquillo, in realtà. Non voleva neppure parlare della madre...» «Non voleva parlare della madre», ripeté Siobhan, mentre si avviavano lungo il vialetto che portava alla casa in Adamson Street. Era un edificio costruito negli anni '60, parzialmente isolato, in un quartiere, all'estrema periferia della città, che era, in massima parte, di proprietà comunale. Era facile capire quali case fossero state acquistate da chi vi abitava: le finestre erano state sostituite e le porte erano più solide. Ma avevano gli stessi muri grigi a intonaco grezzo. Suonarono il campanello e attesero. A Rebus parve di scorgere qualcosa muoversi dietro una finestra al piano superiore. Indietreggiò di un passo per vedere meglio, ma inutilmente. «Suona ancora», disse e, mentre Siobhan schiacciava il pulsante del campanello, sollevò il battente della fessura per la posta e sbirciò all'interno. All'altra estremità del corridoio vide una porta, semiaperta. Nello scorgere alcune ombre al di là, lasciò ricadere il battente. «Aggiriamo la casa», propose, puntando verso il retro della costruzione. Quando entrarono nel giardinetto, un uomo stava scavalcando un'alta staccionata di legno. «Signor Howe!» gridò Rebus. Per tutta risposta, l'uomo gridò: «Scappa!» al ragazzo che era con lui. Rebus lasciò che Siobhan si arrampicasse sulla staccionata e tornò invece sul davanti della casa, poi si lanciò di corsa lungo la strada, chiedendosi dove i due sarebbero riapparsi. All'improvviso se li trovò davanti. Howe zoppicava, tenendosi una gamba. Il ragazzo correva come una freccia, mentre Howe continuava a spronarlo. D'un tratto, però, Billy si guardò alle spalle e, nel vedere che la distanza tra Howe e lui aumentava, rallentò il passo. «No! Continua a correre, Billy! Continua a correre!» Ma il ragazzino non lo ascoltò. Si fermò stancamente, in attesa che l'uomo lo raggiungesse. Sullo sfondo apparve Siobhan, con uno strappo nei pantaloni all'altezza del ginocchio. Howe capì di non avere più via di scampo e alzò le mani. «Va bene», disse, «va bene.» E lanciò un'occhiata affranta a Billy, che
stava tornando indietro verso di lui. «Billy, perché non mi dai mai retta?» Mentre Gordon Howe cadeva in ginocchio, Billy gli cinse il collo con le braccia. Uomo e bambino si abbracciarono. «Glielo dirò», piagnucolava Billy. «Glielo dirò, che è tutto a posto.» Rebus li fissò, notando i tatuaggi sulle braccia nude di Gordon Howe: MAI ARRENDERSI, UDA, la Mano Rossa dell'Ulster. Si ricordò di quello che gli aveva detto Tom Jackson: Si è dileguato nell'Ulster per unirsi ai paramilitari... «Allora lei è il padre di Billy», azzardò Rebus. «Bentornato in Scozia.» 43 Nel tornare a Edimburgo, Rebus si accomodò sul sedile posteriore insieme con Howe, mentre Billy si mise davanti, con Siobhan. «Aveva letto di Greenfield sul giornale?» ipotizzò Rebus. Howe annuì. «Qual è il suo vero nome?» «Eddie Mearn.» «Da quanto ha lasciato l'Irlanda del Nord?» chiese Siobhan. «Da tre mesi.» Allungò una mano per arruffare i capelli del figlio. «Volevo riprendermi Billy.» «La madre lo sapeva?» «Quella baldracca? Era il nostro segreto, vero, Billy?» «Sì, papà», rispose il ragazzo. Mearn si girò verso Rebus. «Andavo a trovarlo di nascosto. Se la madre se ne fosse accorta, avrebbe trovato un modo per impedirmelo. Ma noi facevamo tutto in segreto.» «E poi ha letto la storia di Darren Rough, vero?» chiese Rebus. Mearn annuì. «Mi è sembrato troppo bello per essere vero. Ho capito che, se avessi portato via Billy, tutti avrebbero pensato che l'avesse rapito quel bastardo... almeno per un po'. Questo ci avrebbe dato il tempo per trovare una sistemazione. Stavamo bene insieme, vero, Billy?» «Uno schianto», concordò il figlio. «La tua mamma, Billy, non sapeva più dove battere la testa», intervenne Siobhan. «Odio Ray», replicò Billy, affondando il mento nel collo. Ray Heggie, l'amante di Joanna Horman. «Lui la mena.» «Altrimenti perché avrei cercato di tirar fuori Billy da quella situazione, eh?» disse Mearn. «Non è giusto che un ragazzo sia costretto ad affrontare
una cosa del genere. Non è morale.» Si chinò in avanti a baciare la sommità della testa del figlio. «Avevamo sistemato tutto per bene, vero, Billy Boy? Ce la saremmo cavata.» Billy si girò sul sedile e, nonostante la cintura che l'impacciava, cercò di abbracciare il padre. Guardando nello specchietto retrovisore, Siobhan fissò Rebus negli occhi. Entrambi sapevano che cosa sarebbe accaduto: Billy sarebbe tornato a Greenfield e Mearn, con ogni probabilità, avrebbe dovuto rispondere dell'accusa di sottrazione di minore. Nessuno dei due funzionari di polizia si sentiva particolarmente orgoglioso del risultato ottenuto. Mentre entravano nella zona centrale di Edimburgo, Rebus chiese a Siobhan di fare una deviazione e percorrere George Street. Non c'era traccia di Janice... «La sa una cosa?» disse Rebus a Mearn. Si trovavano nella stanza degli interrogatori a St. Leonard. Mearn aveva davanti a sé una tazza di caffè. Un medico aveva dato un'occhiata alla sua gamba: un semplice strappo muscolare. «Quale?» «Ha detto di aver capito che tutti avrebbero attribuito a Darren Rough la responsabilità della scomparsa di Billy e che questo le avrebbe dato il tempo per trovare una sistemazione con suo figlio.» «Già.» «Ma a me viene in mente un piano migliore, grazie al quale tutti avrebbero smesso di cercare Billy.» Mearn parve interessato. «Sarebbe?» «Se Rough fosse morto», rispose Rebus con voce atona. «Sì, insomma, morto Rough, noi avremmo continuato per un po' a cercare Billy, ma aspettandoci ormai soltanto di trovare un cadavere nascosto da qualche parte, e avremmo finito per archiviare il caso.» «Ci avevo pensato.» Rebus si raddrizzò sulla sedia. «Davvero?» Mearn fece un cenno di assenso. «Sa, quando ho letto che era stato ucciso, mi sono detto che era la risposta alle nostre preghiere.» L'ispettore annuì. «Ed è per questo che l'ha fatto?» Mearn si accigliò. «Fatto cosa?» «Ha ucciso Darren Rough.» I due uomini si fissarono. Poi un'espressione di orrore si diffuse sul volto di Mearn. «N... n... no», balbettò. «Non è così, no...» Le sue mani artiglia-
rono il bordo del tavolo. «Non sono stato io, non l'ho ucciso.» «No?» Rebus aveva l'aria sorpresa. «Eppure aveva un ottimo movente.» «Cristo, stavo per iniziare una vita nuova. Come avrei potuto farlo se avessi ucciso qualcuno?» «Sono in molti a comportarsi in quel modo, Eddie. Ne vedo in continuazione, di gente così, in questa stanza. E ho pensato che sarebbe stato facile per chi aveva alle spalle un addestramento paramilitare.» Mearn rise. «Da dove salta fuori 'sta roba?» «È la voce che circola nel quartiere. Quando Joanna è rimasta incinta di Billy, te la sei squagliata per andare a unirti ai terroristi.» L'altro si guardò intorno. «Voglio un avvocato», mormorò. «Ne sta arrivando uno.» «Che ne sarà di Billy?» «La madre è stata avvisata. È in arrivo anche lei. Probabilmente si starà facendo bella per la conferenza stampa.» Mearn serrò le palpebre. «Merda», bisbigliò. Poi: «Scusa, Billy». Quando tornò a guardare Rebus, stava trattenendo a stento le lacrime. «Cosa ci ha traditi?» Una vecchia signora ficcanaso e una fila di auto parcheggiate, avrebbe potuto rispondere Rebus. Ma non se la sentì. All'esterno della stazione di polizia di St. Leonard si accalcavano telecamere e microfoni, così numerosi da costringere i giornalisti a invadere la carreggiata stradale. I mezzi di trasporto pubblici e privati suonavano i clacson a distesa, rendendo difficile sentire Joanna Horman che parlava della sua emozionante riunione col figlio. Nessun segno di Ray Heggie: Rebus si chiese se la donna l'avesse già sbattuto fuori di casa. E nessun segno di commozione da parte del giovane Billy Boy. La madre lo teneva abbracciato a sé, quasi coccolandolo mentre i cameramen chiedevano a gran voce di scattare altre foto. I baci avevano lasciato sul viso del ragazzino segni di rossetto e, mentre la donna si apprestava a rispondere a un'altra domanda, Rebus notò che Billy tentava di ripulirsi. Mischiati ai reporter c'erano passanti e curiosi. Una donna con una maglietta del GAP cercava di distribuire volantini: era Van Brady. Dall'altra parte della strada, un ragazzino stava seduto in equilibrio sulla sua bicicletta, una mano appoggiata a un lampione per sostenersi. Rebus lo riconobbe: era il figlio minore di Van. Niente volantini, niente maglietta: l'ispettore si chiese come mai. Il ragazzo si faceva influenzare meno facilmente degli
altri abitanti di Greenfield? «E vorrei ringraziare la polizia per il duro lavoro svolto», stava dicendo Joanna Horman. Ma ti pare, pensò Rebus, facendosi largo tra la folla e attraversando la strada. «Ma, soprattutto, vorrei ringraziare gli aderenti al GAP per il sostegno che mi hanno dato.» Un urlo di consenso si levò da Van Brady... «Sei Jamie, vero?» Il ragazzo sulla bicicletta annuì. «E tu sei il poliziotto che era venuto a cercare Darren.» Darren: soltanto il nome proprio. Rebus estrasse un pacchetto di sigarette e gliene offrì una, ma Jamie scosse la testa. Rebus se l'accese, buttò fuori il fumo. «Vedevi spesso Darren, vero?» «È morto.» «Intendo prima. Prima che saltasse fuori la sua storia.» Jamie si guardò intorno, circospetto. «Ha mai cercato di attaccare discorso?» Il ragazzo scosse subito la testa. «Mi salutava e basta.» «Girava intorno al campo giochi?» «Io non l'ho mai visto.» Stava fissando la scena sull'altro lato della strada. «Sembra che Billy sia al centro dell'attenzione, eh?» Rebus aveva l'impressione che Jamie fosse geloso, pur cercando di nasconderlo. «Già.» «Scommetto che sei felice del suo ritorno.» «Cal è andato a vivere con la sua mamma», disse Jamie, guardando di nuovo l'ispettore. Rebus tirò un'altra boccata dalla sigaretta. «Allora lei ha sbattuto fuori Ray?» Jamie annuì di nuovo. «E si è presa in casa tuo fratello?» Rebus cercò di non sembrare colpito dalla notizia. «Be', non perde tempo.» Jamie rispose con un grugnito. Rebus intravide uno spiraglio. «Non mi sembri molto contento: tuo fratello ti mancherà?» Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Che mi frega.» Ma non era vero affatto. Il fratello si era trasferito, la madre era occupata col GAP e ora Billy Boy Horman stava attirando su di sé tutta l'attenzione. «Hai mai visto Darren con qualcuno? Non intendo con dei ragazzini, ma con qualcuno che era andato a trovarlo.»
«Mi sa di no.» Rebus piegò il collo in modo che Jamie non avesse altra possibilità se non quella di guardarlo negli occhi. «Non mi sembri molto sicuro.» «Un tizio era venuto a cercarlo.» «Quando?» «Quand'è cominciata tutta 'sta storia del GAP.» «Un amico di Darren?» Un'altra spallucciata. «Non l'ha detto.» «E allora cos'ha detto, Jamie?» «Che stava cercando il tizio di cui parlava la stampa. Aveva il giornale.» Il giornale: l'articolo che aveva smascherato Darren Rough. «Sono state queste le sue precise parole: 'il tizio di cui parlava la stampa'?» «Mi pare che avesse detto l'individuo'», disse Jamie con un sorriso. «'L'individuo'?» Jamie simulò un accento da persona istruita. «'L'individuo di cui parla la stampa.'» «Non era uno del quartiere, allora?» Una risatina convulsa. «Che aspetto aveva?» «Era anziano, piuttosto alto. Portava i baffi. Coi capelli grigi, ma i baffi neri.» «Potresti diventare un bravo poliziotto, Jamie.» Jamie storse il naso. La madre si era accorta della conversazione e stava cercando di attraversare la strada per raggiungerli. «Jamie!» gridò, tentando di districarsi nel traffico. «E tu che gli hai risposto, Jamie?» «Ho detto dov'era l'appartamento di Darren. E che lui non era in casa.» «E cos'ha fatto l'uomo?» «Mi ha dato qualche pence.» Si guardò intorno, con aria quasi furtiva. «L'ho seguito fino alla sua auto.» «Dovresti davvero fare il detective», commentò Rebus con un sorriso. Un'altra spallucciata. «Era un macchinone bianco. Una Mercedes, credo.» Rebus mollò la presa perché Van Brady li aveva raggiunti. «Che ti ha detto, Jamie?» chiese la donna, lanciando al figlio occhiate di fuoco. Ma il ragazzo la guardò con aria di sfida. «Nulla», rispose.
Van si girò a guardare Rebus, che si limitò a stringersi nelle spalle. Quando la donna si volse di nuovo verso il figlio, Rebus strizzò l'occhio a Jamie, sul cui volto apparve un barlume di sorriso. Per qualche istante era stato lui al centro dell'attenzione di qualcuno. «Mi stavo semplicemente informando su Cal», disse Rebus a Van Brady. «Ho sentito dire che si è trasferito a casa di Joanna.» Lei si voltò a guardarlo. «E a lei che gliene frega?» Rebus indicò il volantino che la donna teneva in mano. «Ne ha uno da darmi?» «Se la polizia facesse bene il proprio mestiere», sogghignò Van Brady, «noi non avremmo bisogno del GAP.» «Che cosa le fa pensare che serva a noi?» ribatté Rebus, girandosi per andarsene. Si mise al computer e, per verificare se le ipotesi fossero azzeccate, decise di parlare coi concessionari Mercedes della zona. Conosceva già una persona che ne guidava una, bianca: la vedova Margolies. Tamburellando con la penna sulla scrivania, iniziò a chiamare. Gli andò bene alla prima telefonata. «Oh, sì, il dottor Margolies è un nostro buon cliente. Da molto tempo non acquista altro che Mercedes.» «Mi scusi, io stavo parlando della signora Margolies.» «Sì, la nuora. Gliel'ha comprata il dottor Margolies, quell'auto.» Il dottor Joseph Margolies... «Ne ha acquistata una per il figlio e la nuora?» «Proprio così. L'anno scorso, mi pare.» «E per sé?» «Gli piace cambiare: tiene un modello per un anno o due, poi lo sostituisce con quello nuovo di zecca. In questo modo la macchina non si svaluta mai troppo.» «Perciò al momento che cos'ha?» Il direttore alle vendite assunse un tono cauto. «Perché non glielo domanda direttamente?» «Forse lo farò. E non mancherò di fargli sapere che lei avrebbe potuto risparmiarmi il disturbo.» Rebus sentì nel ricevitore un suono simile a un sospiro. Poi: «Attenda». Udì il rumore delle dita su una tastiera. Un istante di silenzio, quindi: «Una E200, acquistata sei mesi fa. Soddisfatto?»
«Come un bambino la mattina di Natale.» Rebus annotò i dati. «Di che colore?» Un altro sospiro. «Bianca, ispettore. Il dottor Margolies le compra tutte bianche.» Mentre lui riattaccava, arrivò Siobhan Clarke, che si appoggiò al bordo della scrivania. «A quanto pare, qualcuno ha battuto la fiacca», esordì. «Vale a dire?» «Eddie Mearn. Secondo i dati raccolti durante l'inchiesta, lui si trovava ancora nell'Irlanda del Nord. Qualcuno aveva telefonato a Lisburn e aveva preso come oro colato la notizia che Mearn era ancora lì.» «Chi ha fatto la telefonata?» «Mi dispiace dirlo, ma si tratta di Roy Frazer.» «Non aveva altro modo per appurarlo.» «Certo, come hai appurato tu dagli errori commessi.» Rebus sorrise. «È per questo che non ho mai fatto due volte uno stesso sbaglio.» Siobhan incrociò le braccia. «Credi che Mearn avesse premeditato ogni cosa?» Rebus annuì. «È molto probabile, direi. Ha lasciato Lisburn, senza comunicare a nessuno che se ne stava andando. Si è costruito una nuova identità a Grangemouth... a una certa distanza da Edimburgo. Perché mentire sulla propria identità? L'unico motivo che mi viene in mente è che avesse già intenzione di rapire Billy. Una nuova vita per entrambi.» «Che ci sarebbe stato di male?» chiese Siobhan. «Rispetto alla situazione odierna, per Billy forse sarebbe stato anche meglio», ammise Rebus. «Attenta, Siobhan. Stai pensando che la legge può sbagliare, e questo è un rischio. È il primo passo lungo la strada che ti porta a stabilire da sola le regole.» «Come hai fatto tu.» Era una constatazione, più che una domanda. «Come ho fatto io», Rebus fu costretto ad ammettere. «E guarda a cosa mi è servito.» «A cosa?» Batté il dito sul foglio pieno di appunti. «A vedere auto bianche ovunque.» 44 Un'auto bianca era stata vista la notte in cui Jim Margolies era volato dai
Salisbury Crags. Anche la vettura di Jim, tra l'altro, era bianca, ma, a detta della moglie, quella sera era rimasta in garage. Lui si sarebbe fatto a piedi tutta la strada fino ai Crags. Era verosimile? Rebus non lo sapeva. Un'altra auto bianca era stata notata in Holyrood Park più o meno all'ora in cui Darren Rough era stato colpito a morte. E, prima ancora, qualcuno in un'auto bianca era andato a cercare Darren. Rebus raccontò la storia a Siobhan. Lei avvicinò una sedia alla scrivania del collega per poter vagliare insieme alcune teorie. «Pensi che si tratti sempre della stessa auto?» gli chiese. «So soltanto che auto di quel tipo erano presenti nel parco più o meno nel momento in cui si stavano verificando due morti apparentemente non collegate tra loro.» Siobhan si grattò la testa. «Non ci vedo nulla di particolare. Chi altro possiede una Mercedes bianca?» «Vuoi sapere se, in questi ultimi tempi, qualche serial killer ne ha comprata o noleggiata una?» Lei sorrise. «Sto controllando», proseguì Rebus. «Finora, l'unico nome che ho trovato è Margolies.» Stava pensando: Jane Barbour guidava un'auto color crema, una Ford Mondeo... «Ma le Mercedes bianche in circolazione saranno ben più di quelle.» «Eppure la descrizione fattami da Jamie di quell'uomo mi ricorda terribilmente il padre di Jim.» «L'hai visto al funerale?» «Già.» E a un concorso di bellezza per bambine, avrebbe potuto aggiungere. «È un medico in pensione.» «Attanagliato dal dolore per il suicidio del figlio, ha deciso di diventare un vigilante?» «Liberando il mondo dalla corruzione per protestare contro l'iniquità della vita.» Il sorriso di Siobhan si allargò. «Stai scherzando, vero?» «Be', sì.» Buttò la penna sulla scrivania. «Vuoi la verità? Ho le idee assolutamente confuse. Ragion per cui credo che sia venuto il momento di fare una pausa.» «Caffè?» suggerì lei. «Pensavo a qualcosa di più forte.» Vide l'espressione sul volto della collega. «Ma per adesso il caffè può andare.» Uscì nel parcheggio a fumare una sigaretta, ma finì per montare sulla Saab e percorrere tutta The Pleasance, attraversare High Street e superare
la stazione di Waverley. Imboccò George Street in direzione ovest, poi fece un'inversione di marcia, anche se era vietato, in modo da ripercorrerla verso est. Janice era seduta sul bordo del marciapiede, la testa tra le mani. La gente la guardava, ma nessuno si fermava a chiederle se aveva bisogno d'aiuto. Rebus le parcheggiò accanto e la fece salire in macchina. «Lo so che è qui», lei continuava a ripetere. «Lo so.» «Janice, tutto questo non fa del bene né a te né a lui.» Lo guardò con gli occhi iniettati di sangue, dolenti per il gran piangere. «Che ne sai, tu? Hai mai perso un figlio?» «Per poco non perdevo Sammy.» «Ma non è successo!» Gli volse le spalle. «Su di te non si è mai potuto far conto, John. Cristo, non sei neppure riuscito ad aiutare Mitch, e sì che era il tuo migliore amico. C'è mancato poco che restasse cieco.» Aveva molte altre cose da dire, un sacco di veleno da sputare. Rebus, con le mani posate sul volante, lasciò che si sfogasse. D'un tratto, Janice cercò di scendere dalla vettura, ma lui glielo impedì. «Su», disse. «Tira fuori tutto. Ti sto ascoltando.» «No!» proruppe lei. «E sai perché? Perché non posso fare a meno di pensare che tu ti stia divertendo!» Stavolta, quando lei spalancò la portiera, Rebus non cercò di trattenerla. Janice svoltò l'angolo, dirigendosi a sinistra, verso la New Town. Rebus invertì di nuovo la marcia, girò a destra in Castle Street e poi a sinistra in Young Street. Si fermò davanti all'Oxford Bar ed entrò. Il dottor Klasser era al suo solito posto. Tutti i bevitori pomeridiani erano presenti: la maggior parte di loro tagliava la corda tra le cinque e le sei, quando il locale si riempiva d'impiegati. Harry, il barman, scorse Rebus e sollevò il bicchiere da una pinta. Rebus scosse la testa. «Solo un sorso, Harry», disse. «Ma fallo abbondante.» Si sedette nella saletta sul retro. Non c'era nessuno, a parte lo scrittore, quello che girava sempre con un borsone pieno di libri. Sembrava usare quel posto a mo' di ufficio. Un paio di volte Rebus gli aveva chiesto quali testi gli consigliava di leggere. E li aveva anche comprati, quelli suggeriti, però non li aveva mai letti. Quel giorno nessuno dei due sembrava aver voglia di compagnia. Rebus si sedette col suo bicchiere e i suoi pensieri. La mente correva a trent'anni prima, all'ultima festa scolastica. La sua personale versione della storia... Mitch e Johnny avevano un piano. Si sarebbero arruolati nell'esercito, avrebbero sperimentato un po' d'azione. Mitch si era fatto spedire gli opuscoli propagandistici, poi era andato nell'Army Careers Office, a Kir-
kcaldy. La settimana successiva ci aveva portato Johnny. Il sergente addetto ai reclutamenti aveva raccontato loro barzellette e aneddoti relativi al periodo in cui si trovava «sul campo» e si era detto convinto che avrebbero superato brillantemente l'addestramento iniziale. L'uomo, coi baffi e una grossa pancia, aveva spiegato che c'era «da scopare e da sbronzarsi a volontà»: «Due ragazzi prestanti come voi... ne avrete fin sopra le orecchie». Johnny Rebus non aveva capito bene a cosa stesse alludendo, ma Mitch si era fregato le mani e aveva ridacchiato. Affare fatto. A quel punto, a Johnny non restava che comunicare la decisione al padre e a Janice. Il padre, inaspettatamente, l'aveva presa molto male. Durante la seconda guerra mondiale aveva combattuto in Estremo Oriente. Gli erano rimaste alcune fotografie e una sciarpa di seta nera col Taj Mahal ricamato sopra. Aveva anche una cicatrice al ginocchio che, in realtà, non era una ferita di proiettile, anche se lui sosteneva il contrario. «Non è questo che vuoi», aveva detto a Johnny. «Tu vuoi un buon impiego.» Avevano discusso a lungo. E la battuta finale del padre era arrivata a segno: «Come la prenderà Janice?» Janice non aveva detto nulla: Rebus continuava a procrastinare il momento della confessione. E un giorno lei l'aveva saputo dalla propria madre, la quale, parlando col padre di Johnny, era venuta a conoscenza dell'intenzione del ragazzo di arruolarsi. «Non è ancora deciso», aveva obiettato lui. «Dovrò prima passare un mucchio di visite.» Janice aveva incrociato le braccia, come faceva sua madre quando sapeva di aver ragione. «E io dovrei rimanere qui ad aspettarti?» «Come vuoi», era stata la risposta di Johnny, che si era messo a prendere a calci un sasso. «Ci puoi giurare», aveva replicato lei, andandosene. Più tardi, avevano fatto la pace. Johnny era andato a trovarla a casa, salendo con lei nella sua stanza: era l'unico posto in cui potevano parlare. La mamma di Janice aveva portato da bere e qualche biscotto; aveva concesso loro dieci minuti, poi era tornata di sopra a verificare che non avessero bisogno d'altro. Johnny aveva mormorato che gli dispiaceva. «Vuol dire che hai cambiato idea?» gli aveva chiesto Janice. Johnny si era stretto nelle spalle. Non ne era sicuro. Chi voleva deludere: Janice o Mitch? La sera del ballo, però, aveva deciso. Mitch poteva andare da solo. Lui
non si sarebbe arruolato: avrebbe cercato un qualsiasi impiego e avrebbe sposato Janice. Non sarebbe stata una brutta vita. Un mucchio di ragazzi prima di lui avevano fatto la stessa scelta. L'avrebbe detto a Janice, gliel'avrebbe comunicato durante il ballo. E avrebbe informato anche Mitch, naturalmente. Ma, prima, i due amici erano andati a bere qualcosa. Mitch aveva portato con sé due birre e un apribottiglie. Si erano introdotti nel cimitero adiacente alla scuola, scolandosi poi un paio di bicchieri a testa, sdraiati sull'erba, con le lapidi tutt'intorno. Era piacevole, si stava bene. Johnny aveva ricacciato in gola la confessione. Poteva aspettare. Non voleva rovinare quel momento. Era come se la loro intera vita fosse stata messa in chiaro e nessuna nube potesse oscurare il loro avvenire. Mitch parlava dei Paesi che avrebbero visitato, delle cose che avrebbero visto e fatto. «E tutti si mangeranno il fegato dall'invidia, aspetta e vedrai.» Intendeva tutti quelli che rimanevano a Bowhill, gli amici destinati all'università o ai pozzi della miniera o alle banchine del porto. «Noi vedremo il mondo, Johnny, mentre loro non conosceranno mai altro che questo buco.» Aveva poi disteso le braccia finché, con la punta delle dita, non aveva toccato la superficie ruvida di due pietre tombali. «Il massimo che potranno aspettarsi dal futuro è questo...» Quando erano entrati nel cortile della scuola, si sentivano su di giri. Un insegnante e il vicepreside stavano sulla porta a raccogliere i biglietti. «Sento odore di birra», aveva borbottato il vicepreside, prendendoli alla sprovvista. Poi, strizzando un occhio, aveva aggiunto: «Non ne avete tenuto neppure un goccio per me, eh?» Sentendosi ormai adulti, Johnny e Mitch avevano riso ed erano entrati nell'aula magna. C'era musica, la gente ballava. Nella sala mensa, su ripiani montati sui cavalletti, bibite analcoliche e panini. Nell'aula magna, le sedie erano state disposte lungo le pareti: c'erano gruppetti di persone che chiacchieravano, lanciando occhiate in giro. Anche se solo per un attimo, i due avevano avuto l'impressione che tutti li stessero aspettando... scrutandoli, invidiandoli. Mitch aveva sferrato a Johnny una pacca sul braccio, poi si era diretto verso la sua ragazza, Myra. Johnny aveva deciso che il momento adatto per la sua confessione sarebbe stato alla fine del ballo. Si era poi messo in cerca di Janice, ma senza successo. Doveva comunicarle la novità... trovare le parole adatte. Poi qualcuno gli aveva sussurrato che nei gabinetti si poteva bere un po' di whisky e lui si era deciso a farci subito un salto. Due cessi, l'uno accanto all'altro, e, in ognuno, tre ragazzi
che si passavano la bottiglia al di sopra del divisorio, avanti e indietro. Nel più assoluto silenzio, per non essere sorpresi. Quel liquido sembrava fuoco. I suoi fumi arrivavano nelle narici di Johnny, scendendo in gola. Lui si sentiva ubriaco, estatico, invincibile. Era tornato nella sala da ballo nel momento in cui toccava alle ragazze scegliere i cavalieri. Una certa Mary McCutcheon l'aveva invitato. Ballavano bene insieme, ma quella danza vorticosa aveva fatto venire a Johnny le vertigini. Era stato costretto a sedersi. Non aveva notato alcuni nuovi arrivati: tre ragazzi suoi coetanei, che da qualche tempo ce l'avevano a morte con Mitch, in particolare il capo dei tre, un certo Alan Protheroe, che aveva avuto con lui uno scontro da cui era uscito a pezzi. Johnny non si era accorto che i tre stavano tenendo d'occhio Mitch. Non aveva pensato che l'ultimo ballo dell'anno scolastico poteva essere il momento più adatto per sistemare vecchie ruggini, per concludere qualche cosa rimasta in sospeso, oltre che per cominciare qualcos'altro. Non si era reso conto di nulla perché, in quel momento, Janice si trovava nella sala da ballo. Seduta accanto a lui. E continuavano a baciarsi, anche quando la signorina Dysart si era fermata davanti a loro schiarendosi la voce per avvisarli della sua presenza. Finalmente, quando Janice si era staccata da lui, Johnny si era alzato e l'aveva costretta a fare altrettanto. «Ho qualcosa da dirti. Ma non qui. Vieni.» E l'aveva portata fuori, sul retro del vecchio edificio dove, un tempo (ormai non usavano quasi più), c'erano le rimesse per le bici. «L'angolo dei fumatori», lo chiamavano. Ma era anche un rifugio per gli innamorati, per qualche rapido scambio di carezze all'ora di pranzo. Johnny aveva fatto sedere Janice su una panca. «Non mi dici che sono carina?» Lui se la beveva con gli occhi. Janice era davvero un incanto. La luce proveniente dalle finestre della scuola rendeva la sua pelle quasi radiosa. Gli occhi mandavano oscuri inviti, l'abito frusciante a più strati sembrava in attesa di essere sbucciato. Johnny l'aveva baciata di nuovo. Lei, cercando di fermarlo, gli aveva chiesto che cosa voleva dirle. Ma a quel punto Johnny aveva pensato che il suo discorso poteva aspettare. Era eccitato, sognante e voglioso. Le aveva sfiorato l'attaccatura del collo, lasciata nuda dal vestito, facendole poi scorrere la mano lungo la schiena, infilandola sotto il tessuto. Era stata la madre di Janice a confezionare quell'abito e lui sapeva che c'erano volute molte ore di lavoro. Aveva affondato di più la mano, sentendo strapparsi il filo con cui era cucita la chiusura lampo. Jani-
ce si era scostata bruscamente. «Johnny...» Torceva il collo nel tentativo di valutare il danno. «Stupido pasticcione, guarda cos'hai combinato.» Le mani di lui si erano posate sulle gambe, sollevandole il vestito oltre le ginocchia. «Janice.» Allora lei si era alzata di scatto. Johnny l'aveva subito imitata, cercando di strapparle un altro bacio. Janice aveva distolto il viso. Lui sembrava tutto braccia, che le risalivano le gambe, le scivolavano intorno al collo e lungo la schiena... Inoltre sapeva di birra e di whisky, e tutto ciò le dava fastidio. Quando poi aveva sentito la sua mano che cercava di allargarle le gambe, l'aveva respinto con forza, facendogli quasi perdere l'equilibrio. Poi, mentre si faceva di nuovo avanti, Johnny aveva sul volto un'espressione libidinosa più che un sorriso. Allora Janice aveva tirato indietro la mano, stringendola a pugno, e gli aveva sferrato un violento colpo al viso, slogandosi quasi il polso nell'impatto. Si era scorticata le nocche, e il dolore le strappava flebili esclamazioni di dolore. Johnny era lungo disteso per terra, privo di conoscenza. Janice era tornata a sedersi sulla panca, in attesa che lui si riavesse, ma d'un tratto aveva udito una specie di trambusto. Così aveva deciso di andare a vedere che cosa stava accadendo... Era una rissa, ma sarebbe stato più giusto parlare di linciaggio. I tre nemici di Mitch erano riusciti a sorprenderlo mentre lui era solo. Si trovavano ai margini del campo di calcio; alle loro spalle i Craigs si stagliavano contro il cielo blu scuro, un colore livido. Forse Mitch aveva pensato che quella sera fosse la volta buona per suonarle a tutti e tre. Forse gli avversari gli avevano chiesto una rivincita, promettendo di battersi uno contro uno. Invece erano in tre contro uno e Mitch era in ginocchio, carponi, sotto una gragnuola di calci diretti contro la faccia e il petto. Janice si era lanciata verso di loro, ma una figura piccola e magra l'aveva battuta in velocità, braccia e gambe che vorticavano come mulinelli, la testa piegata all'indietro, il naso esposto, i denti serrati per la determinazione. Con sorpresa, Janice si era accorta che si trattava di Barney Mee, un ragazzo di cui tutti si prendevano gioco. Se anche mancava di eleganza e precisione, sopperiva a quelle carenze con una risolutezza inflessibile. Sembrava una macchina. Lo scontro si era protratto soltanto per un minuto, forse meno, e alla fine lui era esausto, ma tre sagome stavano scomparendo nell'oscurità che infittiva, mentre Barney crollava al suolo e restava supino, a fissare la luna e le stelle. Mitch si era messo a sedere, una mano sul petto, l'altra a coprirsi un oc-
chio. Entrambe erano macchiate del suo stesso sangue. Aveva un labbro spaccato e gli usciva un rivolo rosso dal naso. Sputando, al denso grumo di saliva era rimasto attaccato mezzo dente. Janice si era fermata sopra Barney Mee. Non sembrava così piccolo, lì, disteso a terra. Aveva un'aria... striminzita, ma eroica. Lui aveva spalancato gli occhi e, nel vederla, le aveva rivolto uno dei suoi sorrisi... pieni di denti. «Sdraiati qui accanto», le aveva detto. «C'è qualcosa che dovresti vedere.» «Cosa?» «Se resti in piedi non la vedi. Devi distenderti.» Janice non gli aveva creduto, ma si era sdraiata lo stesso. Non aveva più importanza se l'abito si infangava; era già stracciato sulla schiena. Il suo volto si trovava a pochi centimetri da quello di lui. «Che cosa dovrei guardare?» «Lassù», aveva risposto Barney, puntando un dito. E lei aveva guardato. Prima cosa strana, il cielo non era nero: era scuro, certo, ma striato di bianchi ammassi di stelle e nuvole. E la luna sembrava enorme e, più che gialla, arancione. «Non è straordinario?» aveva sussurrato Barney Mee. «Ogni volta che osservo questo spettacolo, non posso fare a meno di pensare che è veramente straordinario.» Janice si era girata verso di lui, sussurrando: «Tu sei straordinario». Lui aveva sorriso per quel complimento. «Che cosa farai?» «Vuoi dire dopo il diploma?» Janice si era stretta nelle spalle. «Non lo so. Mi cercherò un lavoro, suppongo.» «Dovresti andare all'università.» L'aveva guardato con maggiore attenzione. «Perché?» «Saresti una brava insegnante.» Lei era scoppiata in una risata sonora ma brevissima. «Che cosa te lo fa pensare?» «In classe ti osservo. Saresti brava, lo so. I bambini ti ascolterebbero.» Ora la stava guardando. «Lo so che sarebbe così.» A quel punto, Mitch, sputando un po' di sangue, aveva chiesto: «Dov'è Johnny?» Nessuna risposta. Allora si tolse la mano dall'occhio, lamentandosi: «Non ci vedo... E mi fa male». Poi si era piegato in avanti, cominciando a piangere. «Ho un tremendo dolore alla testa.» Janice e Barney si erano alzati per aiutarlo a mettersi in piedi, poi l'avevano fatto accompagnare in ospedale da uno degli insegnanti. Quando
Johnny Rebus era ricomparso sulla scena, lo spettacolo era finito. Lui non aveva neppure notato che Janice stava ballando con Barney Mee. Voleva soltanto che qualcuno gli desse un passaggio fino in ospedale. «C'è qualcosa che devo dirgli», ripeteva. Alla fine erano arrivati i genitori di Mitch, diretti a Kirkcaldy, e avevano preso Johnny con loro. «In nome di Dio, che cos'è successo?» aveva chiesto la madre di Mitch. «Non lo so, non c'ero.» Lei si era voltata a guardarlo. «Non eri con lui?» Johnny scuoteva la testa, avvilito. «Allora come ti sei fatto quel livido?» Dallo zigomo fino al mento, una lunga striatura color porpora. E lui non poteva confessare a nessuno come se la fosse procurata. In ospedale, l'attesa era stata lunga. Responso delle radiografie: costole fratturate. «Se vengo a sapere chi è stato...» aveva detto il padre di Mitch, agitando i pugni. Poi, più tardi, la cattiva notizia: una retina era danneggiata, forse anche peggio. Mitch sarebbe rimasto cieco da un occhio. Quando Johnny aveva ottenuto il permesso di parlargli (con l'avviso di non rimanere troppo a lungo, di non stancare il paziente), Mitch aveva già appreso la notizia ed era in lacrime. «Cristo, Johnny. Cieco da un occhio, capisci?» Sull'occhio in questione c'era una benda di garza. «Come il merdoso Long John Silver.» Nel sentire la parolaccia, uno dei degenti del reparto aveva tossicchiato. «E tu vai a farti fottere!» era stata la risposta di Mitch. «Dai, Mitch», aveva sussurrato Johnny. L'amico gli aveva afferrato il polso, stringendolo con forza. «Tocca a te adesso. Per tutti e due.» «Che vuoi dire?» «Non mi prenderanno, nell'esercito, orbo come sono. Mi dispiace, amico. E lo sai che è vero.» Johnny tremava, cercando di trovare una via d'uscita. «Va bene», aveva detto alla fine, annuendo. Era tutto ciò che poteva dire e continuò a ripeterlo. «Ma tornerai e ci vedremo, eh?» stava dicendo Mitch. «Mi racconterai ogni cosa. Sarà... come se fossi lì con te.» «Va bene, va bene.»
«Tu dovrai vivere quell'esperienza anche per me, Johnny.» «Certo, va bene.» Mitch gli aveva sorriso. «Grazie, amico.» «E il minimo che posso fare per te.» Così si era arruolato nell'esercito. Janice apparentemente l'aveva presa bene. Mitch era andato a salutarlo in stazione. Poi c'era ben poco da aggiungere. Lui aveva spedito qualche lettera a Mitch e a Janice, ma non ne aveva ricevuta nessuna in risposta. Quand'era tornato per la prima volta a casa in licenza, Mitch era introvabile e Janice in vacanza coi genitori. In seguito, aveva saputo che Mitch era scappato e nessuno sembrava sapere perché o dove. Sul perché, Johnny aveva una mezza idea: le lettere, le visite a casa... Ricordi di una vita che Mitch non avrebbe mai potuto avere... Poi aveva ricevuto una lettera da suo fratello Mickey, in cui gli comunicava che Janice l'aveva incaricato d'informarlo che si era messa con Barney Mee. Dopo di ciò, Johnny non era più tornato a casa per un bel pezzo e aveva trovato altri posti in cui trascorrere le licenze, scrivendo alla famiglia una montagna di menzogne in modo che il padre e il fratello non s'insospettissero, cominciando a pensare all'esercito come alla sua nuova casa... l'unico posto in cui poter essere capito. Allontanandosi sempre più, mentalmente, da Cardenden e dai vecchi amici, e dai sogni che aveva creduto di poter realizzare... 45 Era buio, Cary Oakes aveva fame e il gioco non era ancora finito. Quando si trovava in prigione, aveva ricevuto molti buoni consigli su come sfuggire alla cattura, anche se, a darglieli, erano stati uomini che non l'avevano sfangata. Sapeva di dover cambiare aspetto: problema facilmente risolto con una visita a una rivendita di abiti usati. Un cambio di giacca, camicia e pantaloni per meno di venti sterline, con tanto di berretto di tweed. Dopotutto, non poteva farsi ricrescere i capelli in un attimo. Quando lesse sul giornale la sua descrizione, apportò ulteriori ritocchi, radendosi scrupolosamente in un bagno pubblico. Trovò alcune borse per la spesa che qualcuno aveva buttato via e le riempì di cartacce. Osservandosi nella vetrina di un negozio, vide un disoccupato, dall'espressione un po' amara, ma con ancora qualche soldo per andare a fare acquisti. Trovò i luoghi in cui i barboni trascorrevano le loro giornate: qualche centro nel Grassmarket in cui si poteva entrare liberamente, la panca da-
vanti ai gabinetti pubblici a Tron Kirk, la spianata ai piedi del Mound. Per lui erano posti sicuri. I vagabondi si scambiavano una lattina di birra e una sigaretta, senza fare domande che, nel suo caso, non avrebbero potuto ottenere risposte. Era infreddolito e dolorante, perché il soggiorno in albergo l'aveva rammollito. La notte trascorsa sulle colline, sotto la sferza del vento, gli aveva tolto un po' di energia. Le cose non erano andate come aveva previsto. Archibald era ancora vivo. Doveva cancellare dalla sua vita due spiriti: ma con entrambi doveva ancora fare i conti. E Rebus... Rebus si era rivelato diverso da quella specie d'incosciente descritto da Jim Stevens. A dar retta al giornalista, c'era da prevedere che l'ispettore si lanciasse in battaglia a mani nude. Invece si era portato dietro un intero esercito. Oakes era riuscito a cavarsela grazie a un colpo di fortuna e alla situazione meteorologica. O forse perché gli dei volevano che la sua missione avesse successo. Doveva affrontare molti rischi, lo sapeva bene. Nel centro della città poteva confondersi tra la gente, ma in periferia il pericolo di essere scoperto aumentava notevolmente. Nei sobborghi di Edimburgo gli estranei non passavano inosservati a lungo. Era come se la gente trascorresse il suo tempo seduta alla finestra, in un perenne stato di allerta. Eppure in uno di quei sobborghi si trovava il suo obiettivo finale, quello cui puntava da sempre. Avrebbe potuto prendere un autobus, ma alla fine decise di fare la strada a piedi. Gli ci volle oltre un'ora. Superò la villetta di Alan Archibald: stile anni '30, con un bovindo e muri bianchi lasciati grezzi. All'interno, non c'erano segni di vita. Archibald si trovava in un letto d'ospedale e, secondo un giornale, protetto a vista da un agente. Per il momento, Oakes l'aveva eliminato dai suoi piani. Magari quel vecchio bastardo ci sarebbe morto comunque, in ospedale. No, adesso Oakes stava risalendo la collina, inoltrandosi, lungo un'altra strada serpeggiante, negli East Craigs. Era già stato due volte in quel quartiere e sapeva che, se avesse cominciato a farsi vedere in giro troppo spesso, la gente si sarebbe insospettita. Due sole visite, una di notte, l'altra alla luce del giorno. In entrambe le occasioni aveva preso un taxi ai piedi del Leith Walk, facendosi scaricare ad alcune strade di distanza dalla sua destinazione. Non voleva che i taxisti sapessero dov'era diretto. Nel cuore della notte si era avvicinato al muro dell'edificio e ne aveva toccato, con dita tremanti, le pietre, cercando di avvertirvi una forza vitale.
Sapeva che l'uomo si trovava lì dentro. Non riusciva a smettere di tremare. Era certo che l'uomo c'era perché aveva telefonato, presentandosi come il figlio di un amico. Poi aveva chiesto di non far parola all'interessato di quella chiamata: voleva che la sua visita fosse una sorpresa. Si chiese se lo sarebbe stata davvero, una sorpresa... Ormai era arrivato all'altezza del parcheggio. Lo oltrepassò con disinvoltura, come qualsiasi altro lavoratore stanco che rientra a casa. Con la coda dell'occhio, verificò che non ci fossero macchine della polizia. Non temeva che avessero capito le sue intenzioni, però non avrebbe commesso una seconda volta l'errore di sottovalutare Rebus. Vide invece un'auto che gli parve di riconoscere. Si fermò, appoggiando a terra le borse, facendo finta di cambiare mano, quasi fossero più pesanti di quanto non erano in realtà. Approfittò di quella sosta per esaminare la vettura. Un'Astra, modello Vauxhall. Il numero di targa era quello. Oakes scoprì i denti, lasciandosi uscire di bocca un sibilo. Era davvero troppo, quei bastardi avevano deciso di mandare a monte il suo piano. C'era un unico rimedio. Toccò il coltello che aveva in tasca. Avrebbe dovuto uccidere qualcuno. Abbandonate le borse della spesa, si era infilato sotto l'auto quando sentì un rumore di passi. Girò la testa per vedere se si avvicinavano. Calcolò che era rimasto sdraiato a terra per un'ora e mezzo come minimo. Aveva la schiena gelida e ricominciava a essere scosso dai brividi. Quando udì lo scatto della serratura delle portiere che si aprivano, scivolò fuori del nascondiglio e spalancò lo sportello del passeggero. Nel vederlo, l'uomo al volante tentò di scendere dall'auto, ma Cary Oakes aveva il coltello nella mano destra, mentre con la sinistra artigliava la manica di Jim Stevens. «Pensavo che ti avrebbe fatto piacere rivedermi, Jimbo», disse. «Ora chiudi la portiera e metti in moto 'sto macinino.» Si tolse la giacca e la gettò sul sedile posteriore. «Dove vuoi andare?» «Tu pensa a guidare, amico.» Si sfilò anche la camicia. «Che stai facendo?» chiese Stevens. Ma Oakes lo ignorò, si tolse i pantaloni e gettò dietro anche quelli. «Mi prendi alla sprovvista, Cary.» «Un uomo che ama giocare, eh?» Mentre uscivano dal parcheggio, Oakes si rese conto di essere seduto su qualcosa. Tirò fuori taccuino e penna
del giornalista. «Stavi lavorando, Jim?» Aprì il taccuino e rimase deluso, vedendo che Stevens aveva usato una scrittura stenografica. «Perché sei andato a trovarlo?» chiese, cominciando a stracciare in quattro pezzi ogni pagina del taccuino. «A trovare chi? Ero passato da un mio vecchio conoscente e...» Il coltello descrisse un arco, piantandosi nel fianco di Stevens. Il giornalista mollò di colpo il volante e l'auto sbandò verso il marciapiede. Oakes la raddrizzò. «Continua a guidare, Jim! Se fermi la macchina, sei morto!» Stevens si guardò il palmo della mano. Era bagnato di sangue. «Devo andare in ospedale», disse con voce rauca, il volto contorto dal dolore. «Penseremo all'ospedale dopo che avrò ottenuto le risposte che voglio! Perché sei andato a trovarlo?» Stevens si chinò sul volante, cercando di controllarsi. Oakes pensò che stesse per svenire, ma era soltanto una fitta di dolore. «Stavo controllando alcuni particolari.» «E basta?» Finì di strappare il taccuino. «Cos'altro avrei fatto?» «Be', è per questo che te lo chiedo, Jimbo. E, se non vuoi un'altra coltellata, cerca di essere più convincente.» Oakes allungò la mano verso la manopola del riscaldamento e la girò al massimo. «È per il libro.» «Il libro?» Gli occhi di Oakes si ridussero a due fessure. «Come materiale, le interviste non erano sufficienti.» «Avresti dovuto chiederlo a me, come prima cosa.» «Dove andiamo?» Stevens aveva una mano sul volante, l'altra premuta contro il fianco. «All'incrocio gira a destra, vai fuori città.» «La strada di Glasgow? Ma io ho bisogno di un ospedale.» Oakes non lo stava ascoltando. «Cos'ha detto?» «Come?» «Cos'ha detto di me?» «Probabilmente ciò che ti aspetti.» «È compos mentis, allora?» «Perfettamente.» Abbassando il finestrino, Oakes gettò via i frammenti di carta. Quando tornò a girarsi, Stevens stava rovistando con la mano sul pavimento del-
l'auto. «Che stai facendo?» Alzò il coltello. «Fazzoletti di carta. Mi pareva di averne una scatola da qualche parte.» Oakes osservò la ferita. «Detto tra noi, Jim, non credo che un fazzoletto di carta serva a qualcosa.» «Mi sento svenire. Devo fermarmi.» «Continua a guidare!» Stevens sentiva le palpebre farsi pesanti. «Guarda se sono dietro.» «Cosa?» «I fazzoletti.» Oakes si voltò, sollevò i suoi indumenti. «Qui non c'è nulla.» Il giornalista si stava frugando nelle tasche. «Devo avere qualcosa...» Alla fine trovò un largo fazzoletto di cotone e lo infilò dentro la camicia. «Prendi l'uscita per l'aeroporto», ordinò Oakes. «Ci lasci, Cary?» «Io?» Un sogghigno. «Proprio ora che comincio a divertirmi?» Starnutì, spruzzando muco sul parabrezza. «Salute», disse Stevens. Per qualche istante, nell'auto regnò il silenzio, poi entrambi gli uomini scoppiarono a ridere. «È buffo», osservò Oakes, asciugandosi un occhio. «Proprio tu mi auguri la salute.» «Cary, sto perdendo molto sangue.» «Va tutto bene, Jimbo. Ho già visto parecchie persone morte dissanguate. Puoi andare avanti per ore.» Si appoggiò allo schienale. «Quindi eri lì per conto tuo, a verificare certi dettagli... Chi era al corrente di questa tua visita?» «Nessuno.» «Neppure il tuo direttore?» «No.» «E John Rebus?» Stevens sbuffò. «Perché avrei dovuto dirglielo?» «Perché ti avevo fatto arrabbiare.» Oakes spinse in fuori il labbro inferiore. «Mi dispiace, comunque.» «Davvero erano tutte palle?» «Questa è una cosa che rimarrà tra me e la mia coscienza, amico.» L'auto sobbalzò per un avvallamento del terreno, strappando a Stevens una smorfia di dolore. «Sai che dicono della sofferenza, Jim? Dicono che ti fa vedere i colori per la prima volta. Rende ogni cosa davvero vivida.»
«Il sangue lo è certamente, vivido.» «Non c'è nulla che gli stia alla pari», mormorò Oakes. «Nulla, nel mondo intero.» Si stavano avvicinando a un altro incrocio. A sinistra si trovava Ingliston Showground, un centro esposizioni inutilizzato per la maggior parte dell'anno. Quella sera, infatti, appariva deserto. «Aeroporto?» chiese Stevens. «No, gira a sinistra.» L'altro obbedì. Si stavano avvicinando a un cantiere edile. Era in costruzione un altro albergo, che avrebbe fatto il paio con quello all'uscita dall'aeroporto. Tutt'intorno era campagna, con poche case, molto distanti tra loro. Non si vedevano luci, neppure quelle di aerei in procinto di atterrare o decollare. «Qui intorno non ci sono ospedali», disse Stevens, mentre il terrore cominciava a sopraffarlo. «Accosta.» Stevens obbedì. «In aeroporto c'è un medico», gli spiegò Oakes. «Ho bisogno della tua macchina, ma tu puoi arrivarci a piedi.» «Sarebbe stato meglio se mi avessi fatto scendere.» Jim Stevens si umettò le labbra aride. «O meglio ancora...» disse Cary Oakes. La sua mano scattò e il coltello penetrò di nuovo nel fianco di Stevens. Più e più volte, finché dalla bocca del giornalista non uscirono, al posto delle parole, che suoni inarticolati, termini di un nuovo vocabolario di terrore, rassegnazione e sofferenza. Oakes trascinò il cadavere fuori dell'auto e lo gettò accanto a una montagnola. Gli frugò in tasca e trovò il registratore. Non c'era molta luce, ma lui riuscì comunque ad aprirlo e a estrarne il nastro. Buttò a terra il registratore, però si tenne il nastro. Nel portafoglio di Stevens c'erano pochi soldi: tutte carte di credito, che Oakes però non voleva usare né farsele trovare addosso. Chinatosi di nuovo, raccolse il registratore, lo pulì sulla giacca di Stevens, eliminando le impronte digitali, e infine glielo rimise in tasca. Sentiva su di sé la sferza del vento. Se avesse cercato di occultare il corpo, avrebbe corso il rischio di morire congelato. Tornò di corsa all'auto, si sedette al posto di guida e partì. Non poteva aumentare il riscaldamento,
che era già al massimo. Il sangue gli incollava le mutande al sedile: Oakes riusciva a sentire l'umido attraverso la pelle. Non era ancora il momento di rivestirsi: aveva bisogno che gli abiti rimanessero puliti. Non poteva girare per Edimburgo con indumenti macchiati di sangue. Un altro trucco imparato in prigione. Forse i suoi compagni di galera non erano poi tanto stupidi. Lungo la strada che riportava in città, si fermò nel parcheggio deserto di un supermarket e gettò il nastro in un bidone dei rifiuti. Poi ripartì. Sapeva che, prima del ritrovamento del cadavere, sarebbe trascorsa almeno una notte. Notte in cui avrebbe avuto un rifugio, grazie alla vettura di Jim Stevens. 46 Ogni crimine avvenuto nella periferia ovest ricadeva sotto la giurisdizione di Torphichen, ma le notizie viaggiavano in fretta. Roy Frazer accompagnò Rebus sulla scena del delitto. Durante tutto il tragitto, l'ispettore disse una sola cosa al suo giovane collega. «Hai combinato un bel pasticcio, con Eddie Mearn. Sono cose che capitano. Ed è un bene che ti succedano quando sei giovane e puoi ancora imparare dai tuoi errori, altrimenti ti crei intorno un'aura d'infallibilità, il che vuol dire diventare per i tuoi colleghi 'uno spocchioso'.» «Sì, signore», replicò Frazer, accigliandosi, quasi stesse tentando d'imprimersi in mente il consiglio. Poi si frugò in tasca. «Un messaggio dal sergente Clarke.» Porse il biglietto a Rebus, che lo lesse. Sulle prime non riuscì a capire, tanto il suo cervello era sovraccarico. Ma alla fine le parole lo colpirono con la forza di una scarica elettrica. Ho fatto qualche indagine. Joseph Margolies non ha svolto soltanto attività medica. Ha lavorato per qualche tempo per il comune e gli era stato dato in particolare l'incarico di occuparsi degli istituti per l'infanzia. Non so se ciò significhi qualcosa, ma mi pareva che tu l'avessi liquidato come un semplice medico generico. Saluti, S. Rilesse il biglietto una mezza dozzina di volte. Non era certo che significasse qualcosa. Ma riusciva a intravedere il formarsi di collegamenti ben precisi. E i collegamenti potevano sempre essere sfruttati... L'ispettore della polizia di Torphichen era Shug Davidson. Mentre Rebus scendeva dall'auto, gli rivolse un rapido sorriso. «Si dice che il colpevole ritorni sempre sulla scena del delitto.»
«Non è divertente, Shug.» «Da quanto ho sentito dire, tu e il defunto non eravate proprio culo e camicia.» «Se escludi, forse, gli ultimi tempi», mormorò Rebus. «Hanno già portato via il cadavere?» Davidson scosse la testa. Nel cantiere, i lavori erano stati fermati. Alcuni manovali sbirciavano dalle finestre delle baracche, mentre altri ronzavano all'esterno, coi loro copricapi rigidi ancora in testa, bevendo tè dalle fiaschette. Il capomastro si lamentava perché i lavori erano già indietro di una quindicina di giorni rispetto al previsto. «Allora qualche ora in più non farà una gran differenza, non credi?» disse Davidson. Rebus era passato sotto il nastro che recintava il locus. La vittima era stata dichiarata ufficialmente morta e si stavano scattando foto al cadavere. La scientifica aveva già finito i suoi rilievi e i poliziotti stavano andando a cercare indizi. Davidson aveva in pugno l'intera situazione. «Qualche sospetto?» chiese a Rebus. «Uno, pesantissimo.» «Oakes?» Rebus lanciò un'occhiata a Davidson, che sorrise. «Anch'io leggo i giornali, John. L'amico di un amico mi ha detto che Oakes aveva sputtanato Stevens. Subito dopo, Oakes finisce alla macchia dopo l'aggressione ad Alan Archibald.» S'interruppe. «Come sta Alan, a proposito?» «Molto meglio di questo poveraccio», rispose Rebus, avvicinandosi di più al cadavere. Il professor Gates era accovacciato (o, come lui stesso amava dire, «seduto sulle chiappe») accanto alla testa di Stevens. Fece un cenno col capo in direzione di Rebus, ma continuò nel suo lavoro. Uno dei funzionari della scientifica, una donna, reggeva un sacco di plastica trasparente, in cui erano state raccolte le cose appartenute a Jim Stevens. «Niente chiavi dell'auto?» chiese Rebus. La donna scosse la testa. «Non c'è neanche l'auto», aggiunse Davidson. «Stevens guidava una Vauxhall Astra.» «Lo so, John. La stanno già cercando.» «Dev'essere stato portato qui su un'auto. Ma Oakes non ce l'ha.» «Probabilmente ha perso molto sangue strada facendo», borbottò Gates. «Camicia e pantaloni sono inzuppati, mentre sotto il corpo non ce n'è molto.» «Potrebbe essere stato pugnalato da qualche altra parte?» «Credo proprio di sì.» Gates si rivolse all'agente della scientifica. «Fa'
vedere l'apparecchio all'ispettore Rebus.» La donna tolse dal sacchetto una piccola scatola metallica. Rebus la esaminò attentamente, stando però ben attento a non toccarla. «È il suo registratore.» «Sì», replicò Gates. «E l'aveva in tasca, dalla parte opposta rispetto a quella insanguinata dalle ferite.» «Eppure ci sono sopra alcune macchie di sangue», osservò Rebus. Gates annuì. «E all'interno non c'è il nastro.» «L'ha preso l'assassino?» «Oppure il defunto lo riteneva così importante da preoccuparsi di toglierlo, anche se nel frattempo era già stato pugnalato ed era probabilmente in stato di shock.» Rebus si rivolse a Davidson. «Non ce n'è traccia?» «È proprio quello che stiamo cercando.» Davidson indicò i poliziotti che perlustravano i dintorni. «John, hai un'idea di quale pista Stevens stesse seguendo?» «L'ultima volta che gli ho parlato, intendeva frugare nel passato di Oakes.» «Mi chiedo cosa possa aver trovato.» «Il nostro obiettivo primario è rintracciare Oakes», borbottò Rebus, stringendosi nelle spalle. «Lo è diventato da quando ti ha aggredito.» Rebus fissò il corpo senza vita di Jim Stevens. «Aveva appena cominciato a diventarmi simpatico», disse. «Ci sarebbe quasi da ridere.» Guardò Davidson. «Ho la sensazione che la partita non sia conclusa, Shug. Nient'affatto.» Uno degli agenti di Davidson stava correndo verso di loro. «La macchina è stata trovata», gridò. «Dove?» chiese Rebus, precedendo tutti. L'agente sbatté le palpebre, scosse la testa. «Non le farà piacere saperlo...» L'Astra di Jim Stevens era parcheggiata in uno spazio contrassegnato da una striscia gialla in una strada chiamata St. Leonard's Bank, proprio all'angolo con la stazione di polizia di St. Leonard. Era una via fiancheggiata da un lato da alcune ville pretenziose, disposte qua e là, e chiusa dall'altro da una cancellata in ferro battuto, oltre la quale si scorgevano Holyrood Park e i Salisbury Crags. L'auto era davanti a una costruzione di tre piani,
con una doppia facciata, dipinta di un rosa vivido. La chiave era ancora infilata nel cruscotto. Era stato proprio quel particolare a mettere in allarme uno dei vicini. Alcuni abitanti della zona erano andati di porta in porta a chiedere se qualcuno avesse per caso lasciato le chiavi in macchina. Continuando le indagini, avevano scoperto che le portiere non erano bloccate e, aprendo quella dalla parte del guidatore, avevano notato che il sedile sembrava umido e sporco. Infine, toccando la stoffa, si erano accorti che quel liquido rosso e vischioso era sangue. «Quel tizio ha voglia di scherzare o che?» esclamò Roy Frazer. Gli agenti della stazione di polizia di St. Leonard si accalcavano intorno all'auto, anche se, apparentemente, erano spinti più dalla curiosità che dal desiderio di rendersi utili. Rebus si affrettò a rimandarne indietro la maggior parte. Aveva portato con sé tre funzionari della scientifica; gli altri li avrebbero raggiunti non appena finite le rilevazioni al cantiere. Il sovrintendente capo Watson andò a dare un'occhiata e ad assicurarsi che tutto fosse «sotto controllo». «In realtà, signore, è Shug Davidson a occuparsi del caso», lo informò Rebus. «Sta arrivando.» Il Caporale annuì. «Molto bene, John. Però fa' rimuovere al più presto l'auto, spostandola nel nostro parcheggio. La Lowland Radio ha già diffuso la notizia e, se aspettiamo ancora un po', cominceremo a vendere i biglietti.» Era vero: la folla intorno alla vettura stava aumentando. Rebus riconobbe alcune facce di Greenfield. Il quartiere non era molto distante. Roy Frazer ripeté la sua domanda. «Si fa beffe di noi», rispose Rebus, poi andò a verificare che cosa stavano facendo quelli della scientifica. «Ho trovato questo sul pavimento, sotto il sedile del guidatore», disse uno di loro. In un sacchetto di plastica c'era un'audiocassetta. Sopra, era chiaramente visibile l'impronta insanguinata di un pollice. «Ne ho bisogno io», disse Rebus. «E noi abbiamo bisogno di verificare l'impronta.» L'ispettore scosse la testa. «Appartiene alla vittima», spiegò. Un vago sorriso apparve sulle sue labbra, mentre pensava: Che splendida trovata, Jim. Così lui non ha messo le mani sul tuo nastro... Questo, almeno, era ciò che sperava. «C'è dell'altro», intervenne uno della squadra, indicando una rosa di puntini sul parabrezza. «Quelli si trovano all'interno. A giudicare da come
sono distribuiti... sembrerebbe che qualcuno abbia tossito o starnutito. Se è stato l'assassino...» «Ce n'è a sufficienza per l'esame del DNA?» «La traiettoria è lunga, ma non si sa mai. E mi chiedo se quello possa servire.» Stava indicando un taccuino per appunti, sul pavimento dalla parte del passeggero. Era fatto di fogli sciolti, tenuti insieme da una piccola spirale di metallo, da cui pendevano lembi di carta, indicando chiaramente quali pagine fossero state strappate. Rebus batté la mano sulla spalla del funzionario. Non volle deluderlo dicendo: «Non ha importanza. So chi l'ha ucciso... E probabilmente so anche perché...» Quando si voltò, reggendo il sacchettino di plastica contenente il nastro, sembrava un adolescente orgoglioso per aver vinto un pesciolino rosso alla fiera. Per godere di una maggiore tranquillità, Rebus si rintanò in una delle stanze riservate agli interrogatori. Infilò la cassetta in un registratore, stando bene attento a non toccare l'impronta. Meglio non distruggere una prova. Si mise un paio di cuffie Sennheiser e sparpagliò davanti a sé il contenuto del dossier riguardante Cary Oakes, oltre a qualche ritaglio delle recenti interviste da lui rilasciate a Stevens e già pubblicate. Aveva anche telefonato al direttore del giornale e ora gli stavano arrivando, via fax, i brani delle trascrizioni che erano stati scartati. Di tanto in tanto, un poliziotto infilava la testa nella stanza e gli consegnava i fogli che il fax continuava a sfornare, cosicché il tavolo finì per esserne ingombro. Siobhan si arrischiò a portargli una tazza di caffè e un panino; per il resto lo lasciò in pace, proprio come Rebus desiderava. Riusciva a pensare soltanto all'intervista che stava ascoltando. «Quel piccolo bastardo arrivò a casa nostra con sua madre... Lei era la sorella di mia moglie. Un vero stronzetto.» La voce dell'uomo sembrava vecchia, ansante. «Non le andava a genio?» Nell'udire la voce di Jim Stevens, Rebus si sentì rizzare i peli sulle braccia. Si guardò intorno, ma il fantasma del giornalista non si vedeva; non ancora... Qualche rumore in sottofondo: colpi di tosse, un confuso vocio, il sonoro di un televisore. Un pubblico... no, spettatori. Gente che assisteva a quello che sembrava un incontro di calcio. Rebus fece il giro nella stazione di polizia, rovistando nei cestini della carta straccia, sfogliando i giornali piegati e dimenticati sui davanzali delle finestre, finché non ne trovò uno del giorno prima. 19.30: incontro di
coppa UEFA. C'era da scommettere che si trattava di quello. Strappò la pagina coi programmi televisivi, se la portò nella stanza degli interrogatori e riprese ad ascoltare il nastro. «Per dirla tutta, lo odiavo. Mandò a puttane la nostra vita. Sì, insomma, ce ne stavamo tranquilli, tutto andava bene, ogni cosa funzionava a dovere... e poi ci piombarono addosso quei due. Non era possibile sbatterli fuori a calci, dopotutto erano di famiglia, però mi assicurai che capissero: no, quella storia proprio non mi andava giù. Ehi, lo sto guardando, quel programma!» Qualcuno aveva cambiato canale. Si sentivano risate a comando. Rebus controllò sul giornale: una sitcom sulla BBC. Di nuovo il rumore di una folla e la voce di un commentatore. «Ci siamo scontrati di brutto, lui e io.» «Per quale motivo?» «Per qualsiasi cosa: non rientrava a casa, rubacchiava. Il denaro continuava a sparire. Organizzai un paio di trabocchetti, ma non lo beccai mai con le mani nel sacco, era troppo furbo.» «Scontri anche fisici?» «Direi proprio di sì. Era un tipo tosto, devo concederglielo. Lei adesso mi vede ridotto così, ma a quei tempi ero tutto muscoli.» Tossì: un suono cavernoso, come se i polmoni gli si fossero rovesciati. «Mi passa quel bicchiere d'acqua, per favore?» Il vecchio bevve un sorso, poi scoreggiò. «In ogni caso», proseguì, senza preoccuparsi di chiedere scusa, «ce la misi tutta per fargli capire chi comandava. Era casa mia, non lo dimentichi.» Come se Stevens lo stesse accusando. «Ci credo che comandasse lei», lo rassicurò il giornalista. «Certo, ero il padrone. Ci può giurare.» «E, se gliele suonava, era soltanto perché non si mettesse in testa idee sbagliate.» «E quello che le sto dicendo. E lui non era un angelo, mi creda. State attente, dicevo sempre alle donne.» «Alla madre del ragazzo e alla sorella di lei?» «A mia moglie, sì. Lei, Aggie, non ci vedeva mai niente di male negli altri. Ma io dovevo metterla sull'avviso, perché avevo subito capito che lui era malvagio. Malvagio nel profondo.» «E lei cercò di sradicare questa malvagità.» «Per riuscirci, avrei avuto bisogno di una vanga, figliolo. E una volta, per combinazione, gliele diedi proprio con una vanga. Ma quel bastardo
era ormai diventato robusto, e restituiva ciò che riceveva.» Il veleno è passato da una generazione all'altra, pensò Rebus. Quello che vale per gli abusi sessuali vale anche per la violenza. «Si era messo con qualche banda di ragazzi?» «Banda? Nessuno lo voleva tra i piedi, figliolo. Come ha detto di chiamarsi, lei?» «Jim.» «E fa il giornalista? Ho parlato con qualche giornalista quando lui finì in galera.» «E cosa gli ha detto?» «Che avrebbero dovuto mandarlo sulla sedia elettrica. Non sarebbe un gran danno se qui da noi ripristinassero la forca.» «Pensa che sia un deterrente?» «Una volta morti, smettono di fare del male, non le pare, figliolo? Quale altra prova le serve?» Si sentì il rumore di qualcuno che portava a Stevens una tazza di caffè o di tè. , «Eh, qui sono gentili con me.» Un ospizio per vecchi... Lo zio di Cary Oakes... Come si chiamava? Rebus trovò il nome nei suoi appunti: Andrew Castle. Accanto, quello della sua casa di riposo. Afferrò il telefono, trovò il numero dell'istituto e lo digitò. «Avete un ospite di nome Andrew Castle?» «Sì.» «Ieri sera qualcuno gli ha fatto visita.» «Sì, in effetti.» «Lei l'ha visto uscire?» «Mi scusi, ma chi parla?» «Sono l'ispettore Rebus, della polizia. La persona che ha fatto visita al signor Castle è stata trovata cadavere; stiamo cercando di ricostruire i suoi ultimi movimenti.» Si sentì bussare alla porta. Entrò Shug Davidson. Rebus gli fece cenno di sedersi. «Santo cielo», stava dicendo la centralinista della casa di risposo. «Parla del giornalista?» «Proprio di lui, sì. A che ora se n'è andato?» «Dovevano essere...» S'interruppe. «Com'è morto?» «È stato pugnalato, signora. Mi dica, a che ora è uscito?» Shug, seduto al tavolo di fronte a Rebus, girò alcuni dei fax per poterli
leggere. «Un po' prima dell'ora in cui gli ospiti vanno a letto... diciamo alle nove.» «Era in macchina?» «Credo di sì. Sì, aveva parcheggiato davanti al nostro istituto.» «Avete notato qualche estraneo aggirarsi nei dintorni?» La donna parve sconcertata. «No, non mi pare.» «Nessun individuo sospetto, ieri o l'altroieri?» «Santo cielo, ispettore, di che si tratta?» Rebus la ringraziò per la disponibilità e le disse che qualche funzionario di polizia sarebbe andato a raccogliere la sua testimonianza. Poi troncò la comunicazione e controllò su una carta della città dove si trovava l'istituto. «Shug», disse, «ho scoperto che ieri sera, probabilmente tra le sette e mezzo e le nove, Stevens si trovava in una casa di riposo nei pressi dello svincolo di Maybury.» «Maybury si trova sulla strada per l'aeroporto.» Rebus annuì. «Credo che Oakes fosse già lì.» «Dove?» «Davanti alla casa di riposo.» «Chi è la persona che Stevens era andato a trovare?» «Lo zio di Oakes. Le domande che Jim gli ha rivolto durante la registrazione... Credo che avesse già parlato con quell'uomo, si fosse fatto un'idea su di lui.» «Che vuoi dire?» «Le domande sono formulate secondo una certa angolazione, in modo da far fare allo zio la figura del sadico.» «Mi stai dicendo che è stato questo zio a trasformare Cary Oakes in uno psicopatico?» Rebus si strinse nelle spalle. «L'hai detto tu, non io. La mia idea è che in Oakes ci sia un profondo rancore.» Meditò per qualche istante. Ho un appuntamento col mio passato. Un appuntamento col destino... Con qualcuno che non ha mai voluto ascoltarmi... Le parole che Oakes aveva detto a Stevens alla fine della loro ultima intervista. «Alan Archibald sta in quella zona.» Aprì di nuovo lo stradario, indicò la via in cui abitava Archibald e poi la strada chiusa in cui sorgeva la casa di riposo. Non distavano più di una mezza dozzina d'isolati. «Ero convinto che Oakes si trovasse lì per tenere d'occhio Alan Archibald.» «E adesso hai cambiato idea?»
«Oakes è tornato a Edimburgo per sistemare certi conti rimasti in sospeso. Il più vecchio è quello con suo zio.» Guardò Davidson. «Credo che tenterà di ucciderlo.» Davidson si passò la mano sulla mascella. «E Jim Stevens?» «Si è trovato nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Se Oakes ha creduto che Jim avesse intuito il suo piano, allora doveva sbarazzarsene. Ha preso il nastro dal registratore di Jim, ma lui l'aveva già sostituito con un altro. Poi ha strappato le pagine del taccuino. Non voleva che noi venissimo a sapere...» «Ma siamo comunque riusciti a scoprire dov'era stato Stevens.» «Alla fine, sì.» Rebus batté un dito sul registratore. «Tuttavia, senza questo nastro, ci avremmo messo un po' più di tempo.» Davidson si stava già alzando. «Abbastanza da permettergli di portare a termine il suo piano?» «Il che significa che abbiamo i minuti contati.» Anche Rebus era balzato in piedi. Mentre Davidson afferrava il telefono, Rebus uscì di corsa dalla stanza. 47 Qualche funzionario di polizia si mimetizzò tra il personale, anche se era un'impresa difficile: si trattava quasi esclusivamente di donne anziane. Giovanotti dall'aria circospetta e col taglio di capelli da agenti della squadra investigativa tenevano d'occhio la zona. I funzionari appartenevano alla squadra omicidi scozzese. Andrew Castle fu confinato nella sua stanza, dove due uomini gli tenevano compagnia: uno giocava con lui a carte (la posta era di due pence), mentre l'altro se ne stava seduto in un angolo, da dove poteva controllare la porta e la finestra. Le tende di quest'ultima erano state chiuse. C'era un terzo uomo in un'auto parcheggiata all'esterno. «Tenterà di sparare da fuori?» era stata una delle domande poste durante la riunione operativa. Rebus ne dubitava: Oakes non avrebbe saputo come procurarsi un'arma e, inoltre, aveva certamente intenzione di farsi vedere. Prima di essere ucciso, lo zio avrebbe dovuto sapere da chi e perché. Uno dei funzionari della squadra omicidi stava tirando lo spazzolone, avanti e indietro, nel corridoio di fronte alla stanza. Rebus e Davidson erano soddisfatti. Un'altra domanda durante la riunione era stata: «E se gli unici risultati fossero spaventarlo e tenerlo alla larga?»
La risposta di Rebus: «In tal caso avremmo salvato la vita di un vecchio... almeno per il momento». Aveva riascoltato l'intero nastro e non dubitava che lo zio di Oakes era stato un individuo profondamente corrotto (e probabilmente lo era ancora, nonostante l'età avanzata e la salute malferma). E questo lo induceva a porsi molte domande. Se Cary fosse entrato in una casa in cui si fosse sentito amato, le cose avrebbero preso una piega diversa? Certi esseri umani erano destinati fin dalla nascita a diventare assassini oppure era il concorso di altre persone (e di un complesso di circostanze) a renderli tali, trasformando le potenzialità omicide presenti nella maggior parte degli individui in qualcosa di più concreto? Non erano domande inconsuete, almeno non per lui. Ripensò a Darren Rough, il violentato divenuto violentatore. Non tutte le vittime di abusi sessuali imboccavano quella strada, ma un buon numero sì... E che fine aveva fatto Damon Mee? Che cosa l'aveva spinto ad andarsene di casa? La traballante unione dei suoi genitori? Il timore di affrontare a sua volta il matrimonio? Oppure era stato costretto a non tornare a casa? E perché Jim Margolies era morto? E Cary Oakes sarebbe caduto nella trappola? Vieni che ti magno, disse alla mosca il ragno. Per troppo tempo Oakes aveva fatto la parte del ragno. Rebus passò in ospedale a vedere come stava Archibald. Nella casa di riposo non c'era nulla che lui potesse fare. Anzi, come aveva laconicamente commentato uno dei funzionari della squadra omicidi, era «d'intralcio». Intendendo dire che, poiché Oakes lo conosceva, la sua presenza sulla scena poteva rovinare ogni cosa. «Non appena ci saranno novità, l'avviseremo.» Rebus aveva costretto il funzionario a scriversi sul dorso della mano il numero del suo cellulare. Poi gli aveva consegnato un suo biglietto da visita, spiegando: «Casomai le capitasse di lavarsi le mani per sbaglio». Archibald era proprio in fondo a una camerata, con un paravento intorno al letto. Bobby Hogan, della polizia investigativa di Leith, era seduto al suo capezzale, intento a sfogliare una copia di Mass Hibsteria. «La tua squadra sta andando a rotoli, Bobby», gli disse Rebus. Hogan alzò lo sguardo. «Non è mia.» Sventolò la rivista di calcio sotto gli occhi di Rebus. «Qualcuno l'ha lasciata nel reparto.»
I due uomini si strinsero la mano, poi Rebus andò a prendere un'altra sedia. Alan Archibald russava leggermente, la testa rialzata da tre guanciali. «Come sta?» chiese Rebus. Archibald aveva il cranio bendato e un tampone di garza su un orecchio. «Soffre di un'emicrania martellante.» «Be', la sua testa è stata praticamente presa a martellate.» «I medici hanno fatto una serie di esami e sostengono che dovrebbe rimettersi.» Hogan sorrise. «Hanno cercato di capire se gli funzionava la memoria, ma, come ha detto Alan, alla sua età è già una fortuna ricordarsi che giorno è, con o senza botta in testa.» Anche Rebus sorrise. «Lo conoscevi da prima?» «Abbiamo lavorato insieme, sì. È per questo che ho chiesto di poter badare io alla sua sicurezza.» «Eri con lui quando fu uccisa sua nipote?» L'altro fissò la figura addormentata. «Quel fatto lo svuotò completamente, come se le batterie gli si fossero scaricate.» «Voleva che il colpevole fosse Cary Oakes.» Hogan annuì. «Be', Oakes era la scelta più ovvia.» «E forse lo è ancora.» «No, secondo Alan», mormorò Hogan, guardando Rebus. «Non mi fiderei delle parole di Oakes. Nel suo mondo non c'è cosa che possa essere presa alla lettera.» «Ma Oakes stava per uccidere Alan... perché mentirgli?» «Per divertirsi.» Rebus accavallò le gambe. «Sembra che non abbia fatto altro che inventare storie, da quand'è tornato in città...» E per colpa sua Rebus era diventato un peso morto; sarebbe toccato ad altri catturare Cary Oakes. «Hai trovato qualcosa a proposito del suicidio di Jim?» Rebus fissò Hogan. «Stavo cominciando, ma ne sono stato distratto.» Alan Archibald emise un leggero grugnito e prese a muovere le labbra come se stesse assaporando qualcosa. Lentamente aprì gli occhi. Guardò a sinistra e vide i suoi due visitatori. «Trovata qualche traccia di Oakes?» chiese, con un rauco filo di voce. Hogan gli versò un po' d'acqua. «Vuoi un'altra compressa, Alan?» Archibald fece per scuotere la testa, ma un'improvvisa fitta di dolore lo costrinse a chiudere gli occhi. «No», disse invece. Mentre Hogan gli teneva il bicchiere accostato alle labbra, l'acqua gocciolò ai due lati della tazza di plastica e scese lungo il mento. Hogan l'asciugò con una salvietta.
«Sarebbe un'ottima balia», mormorò Archibald, strizzando l'occhio all'ispettore. Sembrava che non riuscisse a mettere a fuoco la vista e Rebus si chiese quali analgesici gli avessero dato. «Non l'hanno preso?» «Non ancora», ammise Rebus. «Ma lui non è rimasto con le mani in mano, vero?» Rebus non sapeva se, a mettere in allerta Archibald, fosse stato semplicemente l'istinto oppure qualcosa nella sua voce. Annuì, riferì al vecchio ciò che era successo a Jim Stevens e gli parlò della casa di riposo e dello zio di Oakes. «Me lo ricordo, lo zio», disse Archibald. «L'ho interrogato, tanto tempo fa. Odiava Oakes quasi più di me.» «Non ti è mai capitato di nominarlo a Oakes?» Archibald rimase pensieroso per qualche istante. «Al massimo negli ultimi tempi. Magari in una delle mie lettere.» Sbarrò gli occhi. «Come faceva Oakes a sapere dove si trovava lo zio? Credi che sia stato io...?» Il dolore gli si dipinse sul viso. «Dovevo capirlo. Ma, fondamentalmente, non stavo ragionando come un poliziotto. Avevo i miei motivi personali. A interessarmi in realtà non era lo zio, ma soltanto ciò che poteva dirmi di Oakes. Nella mia mente c'era sempre quell'unica domanda... e io dovevo assolutamente avere la risposta.» «Lo so», commentò Rebus. «Tutto quello che ho trovato è finito in nulla.» Gli occhi di Archibald si stavano riempiendo di lacrime. «Non rimproverarti», disse Hogan, appoggiandogli la mano sulla spalla. Lo sguardo di Archibald lo superò, appuntandosi sulla figura seduta di Rebus. «Non potrò mai sapere con sicurezza se l'ha uccisa o no, vero?» Le lacrime gli rigarono le guance e il mento. Bobby Hogan gliele asciugò con la salvietta già umida. «Tutti questi anni senza... Che stupido a credere di riuscire a...» Chiuse gli occhi e pianse silenziosamente. Negli altri letti nessuno si mosse: che qualcuno scoppiasse in lacrime di notte forse non era un fatto così inconsueto, in quel luogo. Bobby Hogan aveva preso le mani del vecchio tra le sue. Sembrava che Archibald gliele stesse stringendo con tutta la forza che aveva. Alan Archibald si trovava in ospedale perché si era fatto ossessionare da un'idea. Rebus, grazie a ciò che aveva appreso nel frattempo, si chiese se anche Jim Margolies non fosse caduto in preda a un'ossessione. Non aven-
do altro da fare, rientrò a St. Leonard. Gli ci vollero un paio d'ore, parecchie telefonate e la riluttante collaborazione di molta gente per ottenere ciò che voleva. Si sedette alla scrivania tirando le somme di ciò che aveva segnato sul taccuino. I funzionari del ministero della Sanità e dell'assistenza sociale gli avevano chiesto se non poteva aspettare fino all'indomani mattina, ma Rebus aveva insistito: non era possibile. «È un'indagine su un omicidio», era stata la sua unica linea d'attacco. A chi insisteva per avere maggiori particolari, aveva risposto che «per il momento» non poteva aggiungere altro, cercando di sembrare quel tipo di detective che loro si aspettavano: un burocrate, uno che seguiva un canale d'indagine preordinato nel quale non era consentito fermarsi, neppure per il riposo notturno. Alla fine, era stato costretto a recarsi di persona nei vari uffici per raccogliere le informazioni. Ogni volta si era incontrato col funzionario con cui aveva parlato al telefono: tutti gli avevano rivolto sguardi pieni di malanimo e irritazione, però gli avevano consegnato i documenti. A quel punto, a Rebus non era rimasto che andare di nuovo a St. Leonard e passare in rassegna quel mucchio d'informazioni sul dottor Joseph Margolies. Il dottor Margolies era nato a Selkirk e aveva studiato ai Borders e a Fettes. Si era laureato in medicina all'università di Edimburgo, lavorando anche in Africa come volontario per un ente assistenziale cristiano. Dopo aver fatto il medico generico per qualche tempo, si era iscritto a una scuola di specializzazione ed era diventato pediatra. Alla fine, come diceva l'appunto di Siobhan, aveva ricevuto l'incarico di «occuparsi» delle strutture di pubblica accoglienza riservate ai minori che il comune aveva a Lothian. Quella carica gli aveva permesso di entrare anche negli istituti per l'infanzia gestiti da privati (tra gli altri, quelli di proprietà di ordini religiosi e associazioni benefiche). Il suo lavoro consisteva nel verificare che i bambini non mostrassero segni di abuso sessuale, ragion per cui, ogni volta che veniva formulata un'accusa del genere, lui veniva convocato, allo scopo di sottoporre a visita medica il minore in questione. Inoltre, alcuni dei ragazzi erano classificati come «casi difficili», per la cui valutazione generale era prevista anche una prognosi clinica. Il dottor Margolies poteva richiedere una visita psichiatrica o il trasferimento in qualche altro tipo d'istituto. Poteva prescrivere terapie e trattamenti farmacologici. I suoi poteri, in effetti, erano quasi illimitati. La sua parola era legge.
Rebus era arrivato a metà della lettura quando cominciò a provare un senso di nausea. Non mangiava da ore, ma non attribuì quella sensazione allo stomaco vuoto. Tuttavia si costrinse a uscire, per respirare un po' d'aria fresca, e ad andare da Brattisani's a mangiare un brodetto di pesce, con qualche fetta di pane imburrato e una tazza di tè. Dopo, pur rendendosi conto di essersi assentato dall'ufficio per quasi un'ora, non ricordò nulla di quell'intervallo: né facce né voci. La sua mente era fissa su altre cose. Gli tornò alla memoria un caso venuto alla luce poco tempo prima: per anni, un sacerdote aveva violentato bambini. Questi erano affidati alle suore, le quali, ogni volta che una delle piccole vittime si lamentava, la picchiavano, l'accusavano di mentire e la costringevano a confessarsi (e il confessore era lo stesso sacerdote appena accusato dal minore di violenza carnale). Sapeva che molto spesso i pedofili erano capaci di nascondere, per mesi se non addirittura per anni, la loro vera natura, raggiungendo nel frattempo posizioni di potere negli istituti per l'infanzia o in strutture simili. Superavano tutti i controlli e i test psicologici, perciò passava parecchio tempo prima che venissero smascherati. E il loro impulso era così forte che facevano di tutto pur di soddisfarlo. A volte, però, la loro vera natura sarebbe rimasta latente se non fosse comparso, a un certo punto, un compagno di strada, che fungeva da stimolo all'altro e viceversa... Come Harold Ince e Ramsay Marshall. Rebus era convinto che né l'uno né l'altro, se fossero rimasti isolati, avrebbero mai trovato la forza per mettere in atto un programma di abusi sistematici. Ma la possibilità di spalleggiarsi, di lavorare in équipe, aveva intensificato la loro libidine e i loro desideri, rendendo molto più sconvolgente la violenza finale. Rebus riesaminò il materiale raccolto sul dottor Joseph Margolies. Lo riesaminò fino a essere sicuro di ciò che aveva davanti agli occhi. Cioè che Margolies controllava gli istituti minorili della città all'epoca dello scandalo Shiellion. Che si era ritirato poco tempo dopo (e prima del previsto) adducendo «motivi di salute». Che, da parte di chi aveva lavorato con lui, gli veniva attribuita una grande forza d'animo per com'era riuscito ad affrontare il dramma del suicidio della figlia. Rebus non aveva trovato granché su quella figlia. Aveva quindici anni quando si era uccisa, senza lasciare neanche due righe di spiegazione. Era una ragazzina silenziosa, chiusa in se stessa. L'arrivo dell'adolescenza non
l'aveva aiutata. Era preoccupata per gli esami che avrebbe dovuto sostenere di lì a poco. Il fratello Jim era rimasto sconvolto dalla sua morte... Lei non era saltata da qualche luogo elevato. Si era tagliata i polsi nel bagno di casa. Il padre aveva aperto la porta e l'aveva trovata. Si pensava che avesse compiuto quel gesto nel cuore della notte. Il padre era sempre il primo ad alzarsi, la mattina. Rebus cercò di contattare Jane Barbour. A forza di giustificate bugie e di caparbie insistenze, riuscì a procurarsi il numero del suo cellulare. Quando lei rispose, Rebus sentì in sottofondo musica a tutto volume e voci festanti. «Un bel ricevimento, eh?» «Chi parla?» «Sono Rebus.» Un nuovo scroscio di applausi all'altro capo del filo. «Non riattaccare, esco.» Il frastuono sparì. La Barbour emise un profondo respiro. Aveva un tono da ubriaca. «Siamo nel Police Club.» «Cosa state festeggiando?» «Indovina.» «Un verdetto di colpevolezza?» «Per quei due bastardi. Neppure un singolo giurato ci ha dato torto.» Rebus si appoggiò allo schienale della sedia. «Congratulazioni.» «Grazie.» «Cordover starà schiumando di rabbia.» «Al diavolo Cordover. Petrie si pronuncerà domani. Li metterà al fresco per tutta la vita e oltre.» «Be', ancora congratulazioni. È un risultato fantastico.» «Perché non ci raggiungi? C'è abbastanza roba da bere per tutti...» «No, ma grazie lo stesso. Tuttavia la coincidenza è fortunata. Ti stavo chiamando proprio per via di Ince e Marshall.» «Oh?» «Indirettamente, però. Ti volevo parlare di Joseph Margolies.» «Sì?» «Sai chi è?» «Sì.» «È stato chiamato a deporre?» «No. Cristo, stasera qui fuori l'aria è proprio... balsamica.» Rebus si chiese se Jane non fosse in preda a qualcosa di diverso da una naturale euforia. «E perché non è stato chiamato in causa?» «Per via dei capi d'imputazione presentati in giudizio. È vero che le ac-
cuse di alcuni dei ragazzi di Shiellion risalivano a quel periodo, tuttavia non erano state ritenute veritiere.» «Però c'era stato un controllo medico.» «Naturalmente, eseguito dal dottor Margolies. L'ho interrogato io stessa diverse volte. Ma si sapeva che i ragazzi erano omosessuali, dal momento che si prostituivano occasionalmente nella zona di Calton Hill. Ogni volta che scappavano da Shiellion, tutti sapevano di poterli ritrovare da quelle parti. Perciò, vedi, la constatazione di un avvenuto rapporto anale non era in sé una prova di abuso: ti sto citando le parole del pubblico ministero. A mio parere, quei ragazzi erano minorenni e affidati all'istituto, quindi chiunque avesse rapporti sessuali con loro era colpevole di abuso.» S'interruppe. «Fine della sparata.» «Prima ti sbarazzerai di questo caso, meglio sarà.» «Allora perché stai ritirando in ballo ogni cosa?» «Sto cercando di raccogliere informazioni su Margolies.» «Perché?» «Quando gli hai parlato, ti è sembrato disposto a collaborare?» «Nei limiti del possibile. Si era detto che già prima di allora i ragazzi erano stati sorpresi a mentire, perciò chi avrebbe potuto credere alle loro parole? E molte delle accuse di violenza carnale si riferivano al sesso orale e alla masturbazione... e non ci sono esami clinici che possano comprovare simili pratiche, ispettore.» «No», ribatté Rebus, pensieroso. «Quindi Margolies non ha testimoniato?» «Non in aula. Il pubblico ministero era del parere che sarebbe stata una perdita di tempo. Avrebbe anzi potuto nuocere al nostro caso, seminando dubbi nella mente della giuria.» «In tal caso Cordover avrebbe dovuto chiamare lui il medico al banco dei testimoni.» «Sì, ma non l'ha fatto e io non mi sono certo preoccupata di suggerirglielo.» Indugiò. «Ritieni che Margolies fosse coinvolto in un'azione di copertura?» «Perché me lo domandi?» «Perché me la sono fatta anch'io, questa domanda. Voglio dire, è probabile che tra il personale di Shiellion ci fosse chi aveva perfettamente capito cosa stava accadendo. Ma nessuno si è preso la briga di sporgere denuncia.» «Temendo di causare qualche guaio?»
«O d'incorrere nei fulmini della Chiesa. Fatto successo più di una volta in passato. Naturalmente c'è anche un'ipotesi peggiore.» Rebus tremò all'idea di quale fosse. Eppure gliela chiese. «È semplice», rispose la Barbour. «La gente sapeva ciò che stava accadendo, ma se ne lavava le mani. Ora, se non ti dispiace, vorrei rientrare per prendermi una bella sbronza.» Rebus la ringraziò e riappese. Si sedette con la testa tra le mani, fissando il ripiano della scrivania. La gente sapeva... ma se ne lavava le mani... 48 Come durante l'iter processuale, Ince e Marshall erano rinchiusi nel carcere di Saughton, con l'unica differenza che, essendo stati riconosciuti colpevoli, non erano più soggetti alla semplice custodia cautelare e quindi non potevano più indossare i propri abiti, farsi mandare il cibo dall'esterno e occuparsi delle normali attività. Ormai dovevano cominciare ad abituarsi alla divisa da carcerato e a tutte le altre caratteristiche di un vero regime di detenzione. Erano stati sistemati in celle distinte, divise da una lasciata vuota, in modo da ridurre le possibilità che si scambiassero messaggi. Rebus non sapeva il perché di simili misure: con ogni probabilità, i due sarebbero finiti nello stesso programma destinato ai condannati per reati sessuali. La scelta era difficile: Ince o Marshall? Naturalmente, se da uno non fosse riuscito a ottenere qualcosa, non c'era nulla che gli impedisse di provarci con l'altro. Ma ciò avrebbe significato ripetere lo stesso procedimento, formulare le stesse domande, ricorrere agli stessi trucchi. Una scelta giusta poteva risparmiargli quel fastidio. Scelse Ince. Il motivo: dei due, era il più vecchio, con un quoziente intellettivo più alto. E, sebbene all'inizio della relazione fosse stato lui, senza dubbio, a tenere in pugno la faccenda, l'allievo si era ben presto trasformato in maestro. In tribunale, Marshall era stato quello che si guardava intorno accigliato, mandava segni d'insofferenza e faceva l'istrione per accattivarsi la simpatia del pubblico; quello che si comportava come se il processo non lo riguardasse. Quello dei due senza segni palesi di vergogna, anche mentre le sue vittime raccontavano le proprie storie. Quello che, nel tornare in cella, era caduto un paio di volte dalle scale.
Sì, Marshall aveva imparato molte cose da Harold Ince, però vi aveva aggiunto qualcosa di suo. Era il più feroce, il più amorale, il meno pentito. Era quello convinto che il dibattimento riguardasse una questione universale, non un problema suo. Al processo, aveva tentato di citare gli scritti di Aleister Crowley, per dimostrare che lui solo aveva il diritto di giudicare se ciò che aveva commesso era giusto o sbagliato. La corte non si era lasciata impressionare. Rebus, seduto nella stanza dei colloqui, si accese una sigaretta. Aveva telefonato a Patience, ma a rispondergli era stata la segreteria: un messaggio comunicava di chiamarla sul cellulare. L'aveva fatto, appurando che si trovava in casa di un'amica. Una sua collega, in congedo di maternità. «Potrei passare qui la notte», gli aveva detto Patience. «Ursula me l'ha proposto.» «Come sta?» «Male.» «Oh, poverina.» «Hai frainteso: sta male perché non può bere. Non importa, berrò io per due.» Rebus aveva sorriso. «Andrò a dormire in Arden Street», le aveva detto. «Se decidi di tornare a casa, fammelo sapere.» «Credi che dovrei stare fuori?» «Potrebbe essere una buona idea.» Intendeva finché Cary Oakes non fosse stato catturato. Conclusa la telefonata, aveva chiamato la stazione di polizia di St. Leonard, dove gli avevano confermato che l'auto di pattuglia stazionava già davanti alla casa dell'amica di Patience. «È perfettamente al sicuro, John.» Così si era seduto nella stanza dei visitatori, con una sigaretta in bocca, infischiandosene del cartello sul muro che invitava a non fumare e gettando la cenere sulla moquette. L'agente carcerario fece entrare Harold Ince. Rebus lo ringraziò e gli chiese di aspettare appena fuori della stanza. Non che Rebus si aspettasse qualcosa da Ince: nessuna reazione violenta, nessun tentativo di fuga. L'uomo sembrava rassegnato. Da quando l'aveva visto al processo, il volto sembrava essergli diventato più lungo e magro, con la pelle giallastra e cascante. Lo stomaco era rigonfio, ma il torace pareva incavato, come se non ci fosse più il cuore. Rebus sapeva che almeno una delle vittime di Ince si era suicidata. L'uomo mandava uno strano odore: zolfo misto a disinfettante. Gli offrì una sigaretta. Ince, lasciandosi cadere su una sedia, scosse la te-
sta. «Lei ha testimoniato, vero?» La voce era esile, acuta. Rebus annuì, buttò a terra la cenere. «Il vostro avvocato ha cercato di farmi a pezzi.» Un breve accenno di sorriso. «Ora ricordo. Non ha funzionato, eh?» «E adesso siete stati condannati.» «È venuto per girare il coltello nella piaga?» Per una frazione di secondo lo sguardo di Ince incrociò quello di Rebus. «No, signor Ince, sono venuto a chiedere il suo aiuto.» Ince si lasciò sfuggire un risolino e incrociò le braccia. «Già, sono proprio dell'umore giusto per aiutare la polizia.» «Chissà se avrà già preso una decisione», replicò Rebus, come se stesse parlando con se stesso a voce alta. La fronte di Ince si corrugò. «Chi?» «Il giudice Petrie. È una vecchia carogna.» «L'ho sentito dire.» Ma è tenero coi propri figli, pensò Rebus. Oppure è... «Scommetto che vi sbatterà tutti e due a Peterhead», disse. «Ci resterete a lungo. È lì che finisce chi ha commesso reati sessuali.» Si chinò in avanti. «È sempre lì che rinchiudono i delinquenti più incalliti, quelli convinti che, nella scala dell'evoluzione, gli stupratori di bambini si trovino a un livello più basso delle amebe.» «Ah...» Ince annuì. «Ecco perché lei è qui: per spaventarmi. Si risparmi la fatica: le guardie al processo mi hanno spiegato cosa posso aspettarmi, in qualunque carcere io venga mandato. Due di loro hanno persino detto che sarebbero venuti a trovarmi.» Lanciò un'altra occhiata a Rebus. «Un pensiero gentile, eh?» Nonostante quella esibizione di spavalderia, Rebus capì che Ince era terrorizzato. Lo atterriva l'idea di non sapere che cosa lo aspettava. Era spaventato a morte, proprio come dovevano esserlo i bambini ogni volta che lo sentivano avvicinarsi... «Non voglio farle paura, signor Ince. Voglio che lei mi aiuti. Ma non sono stupido, so che devo offrirle qualcosa in cambio.» «E che sarebbe, ispettore?» Rebus si alzò, spostandosi sotto la telecamera che riprendeva l'intera stanza. «Come può notare, non sto registrando questa parte del nostro colloquio», disse. «Ho i miei buoni motivi. Tutto questo è confidenziale, signor Ince. Qualunque cosa lei mi dica non uscirà da questa stanza. Non ha
nulla a che vedere con l'istruzione di un caso. Se mai tentassi di usare le sue rivelazioni, sarebbe la mia parola contro la sua: non avrebbe valore.» «Conosco la legge, ispettore.» «Anch'io. Sto dicendo che ogni cosa resterà strettamente tra noi. Potrei finire nei guai soltanto per averle fatto questa proposta.» «Quale proposta?» Adesso sembrava interessato. «A Peterhead conosco un po' di gente che... mi deve qualche favore.» Mentre Ince rimuginava su quelle parole, nella stanza cadde il silenzio. «E lei direbbe qualche parola a mio beneficio?» «Già.» «Quei tizi potrebbero infischiarsene.» Rebus si strinse nelle spalle e tornò a sedersi, le braccia distese lungo il bordo del tavolo. «È il massimo che posso fare.» «E io ho soltanto la sua parola che lo farà.» «Sì, è così.» Ince si stava fissando il dorso delle mani; le dita artigliavano il ripiano del tavolo. «Be', devo ammettere che è un'offerta molto generosa.» Nella sua voce c'era una punta di sarcasmo. «Potrebbe salvarti la vita, Harold.» «O essere totalmente inutile.» Indugiò. «Che vuole chiedermi?» «Ho bisogno di sapere chi era il terzo uomo.» «Non era Orson Welles?» Rebus abbozzò un sorriso. «Parlo della sera in cui Ramsay Marshall ha portato Darren Rough a Shiellion.» «È passato molto tempo. Per di più, in quell'occasione ero sbronzo.» «Avete costretto Darren a mettersi una benda.» «Davvero?» «A causa dell'altro uomo. Ed è stato proprio 'lui', forse, a pretenderlo. Non voleva che Darren lo riconoscesse.» Si accese un'altra sigaretta. «Tu avevi bevuto. Magari in compagnia di quell'uomo, chiacchierando del più e del meno. Confessandogli alla fine il tuo segreto.» Scrutò Ince. «Perché ti sembrava di aver notato qualcosa...» Ince si umettò le labbra. «Come?» La sua voce era così bassa da parere un bisbiglio. Anche Rebus, quando riprese a parlare, quasi sussurrò: «Ti era sembrato che fosse come te. Intravedevi in lui un certo potenziale. Quanto più parlavate, tanto più quel sospetto diventava realtà. Gli dicesti che Marshall stava per portare un ragazzo. Forse gli suggeristi di rimanere».
«Sta inventando tutto, vero?» «Almeno finché non riuscirò a trovare le prove, sì, sto inventando.» «Questo potenziale di cui parla... Sono pronto a sostenere che esiste in ciascuno di noi.» Fissò Rebus, con occhi che parevano diventati più duri, e il suo sguardo sostenne quello dell'altro, senza vacillare. «Ha figli, ispettore?» «Una bambina», ammise lui, pur sapendo quanto fosse pericoloso permettere a Ince d'irrompere nella sua vita privata, di entrare nella sua testa. «Anzi è una donna, ormai.» «Scommetto che le sarà capitato a un certo punto di chiedersi se non sarebbe stato bello portarsela a letto, avere con lei un rapporto sessuale. Non è così?» Rebus ebbe l'impressione che gli occhi volessero schizzargli dalle orbite perché qualcosa premeva dal di dentro: rabbia e disgusto. Sbatté le palpebre. «Non credo proprio.» Ince sogghignò. «È ciò che dice a se stesso. Ma io sono convinto che lei stia mentendo, anche se non posso averne la certezza. È un istinto umano, nulla di cui vergognarsi. Sua figlia magari aveva quindici anni, o dodici, o dieci...» Rebus scattò in piedi. Doveva muoversi, altrimenti avrebbe sbattuto la testa di Ince contro il tavolo. Voleva accendere un'altra sigaretta, ma era appena a metà di quella che stava fumando. «Non stiamo parlando di me», disse. Ma sentì all'istante tutta la debolezza di quella frase. «No? Forse...» «Qui si tratta di Darren Rough.» «Ah...» Ince si appoggiò allo schienale. «Povero Darren. L'avevano messo nell'elenco dei testimoni, ma non l'hanno chiamato a deporre. Mi sarebbe piaciuto rivederlo.» «Non è stato possibile. Qualcuno l'ha ammazzato.» «Come? Prima del processo?» Rebus scosse la testa. «Durante. Stavo cercando di trovare un movente per questo delitto, ma ora ho capito che le direzioni verso cui avevo puntato erano tutte sbagliate.» Appoggiò una mano sul tavolo e si chinò su Ince. «Ho dato un'occhiata ai capi d'accusa, alle prove. Soltanto tu e Marshall: nessuna delle altre vittime nomina un terzo stupratore. È successo soltanto quella sera? Quell'individuo ci ha provato un'unica volta...?» Tornò a sedersi. Finalmente aveva finito la sigaretta e col mozzicone poté accenderne un'altra, una sorta di fumo a catena. «Ho trovato Darren allo zoo. Ho sco-
perto dove abitava. I giornali, grazie a me, ne sono venuti a conoscenza. Quel terzo uomo... sapeva che voi due non avreste parlato di lui in aula. Ne ignoro il motivo, ma posso immaginarlo. L'unica cosa di cui quell'uomo aveva paura era Darren. E da quel lato non c'era da temere: gli risultava che Darren Rough fosse da tutt'altra parte. Poi, all'improvviso, legge che Darren è in città e immagina subito perché: per testimoniare al processo Shiellion. C'è una mezza possibilità che abbia visto o sentito qualcosa, magari senza saperlo. E non è del tutto escluso che la foto del terzo uomo finisca sui giornali dopo il processo e che Darren lo riconosca. All'improvviso si sente in pericolo. Perciò deve reagire.» Lanciò una sottile nuvola di fumo in direzione di Ince. «Tu e io sappiamo di chi sto parlando. Ma, per una mia personale gratificazione, sarei più contento se sentissi un nome.» «È per questo che Darren è morto?» «Credo di sì.» «Ma lei non ha prove?» «No, ed è improbabile che riesca a trovarle. Con te o senza di te.» «Vorrei una tazza di caffè», disse Harold Ince. «Con un po' di latte e due cucchiaini di zucchero. Se lo ordina per sé, magari non ci sputano dentro.» Rebus lo guardò. «Qualcosa da mangiare?» «Mi andrebbe una porzione di pollo al curry. Pane pita, niente riso. Sag aloo in un piatto a parte.» «Posso ordinarlo per telefono.» «Anche qui, preferirei che non ci fossero aggiunte sgradevoli.» La voce di Ince aveva un tono rinfrancato. Aveva preso una decisione. «E nel frattempo parleremo?» gli chiese Rebus. «Perché lei si metta l'animo in pace, ispettore... sì, parleremo.» 49 Seduto in salotto al buio, Rebus sorseggiava un bicchiere di whisky allungato con acqua. All'esterno, la strada era silenziosa come ogni notte, a parte lo sporadico, sordo cigolio prodotto dagli pneumatici delle auto sull'asfalto. Non sapeva più da quanto tempo stava seduto lì: forse un paio d'ore. Aveva messo un CD, ma non si era preoccupato di alzarsi per cambiarlo e ormai aveva ascoltato l'album per intero tre o quattro volte. Stray Cat Blues non gli era mai sembrata tanto squallida, ma lo coinvolgeva più della colta e sofisticata Sympathy for the Devil, che aveva una certa aria disperata. In Stray Cat Blues non c'era nulla di straziante, soltanto la certezza
di rapporti sessuali con minori... Quando il telefono squillò, Rebus fu lento a rispondere. Era Siobhan, che doveva riferirgli una notizia. Qualcuno si era introdotto nell'appartamento di Patience. «L'hanno beccato?» «No. Due agenti sono ancora sul posto. Aspettano un tecnico che metta a tacere il sistema d'allarme...» Rebus chiamò la stazione di polizia di St. Leonard e, poco dopo, un'auto di pattuglia passò a prenderlo per portarlo in Oxford Terrace. L'autista sentì puzza di whisky nel fiato dell'ispettore. «È andato a un ricevimento, signore?» «Eh, sono un vero amante della mondanità...» Il tono di Rebus fece sì che dal sedile anteriore non venissero più domande. L'allarme stava ancora suonando. Rebus scese i gradini e spalancò la porta d'ingresso. I due agenti si trovavano in cucina, quanto più possibile lontani da quel frastuono. Si erano preparati il tè e stavano frugando negli armadietti in cerca di qualche biscotto. «Un goccio di latte e niente zucchero», disse loro, poi tornò nell'ingresso e, con la sua chiave, disattivò l'allarme. Uno degli agenti gli porse una tazza. «Grazie per averlo staccato. Ci stava facendo ammattire.» Rebus si mise a esaminare la porta. «Un lavoretto pulito», commentò uno degli agenti. «Sembra quasi che avessero la chiave.» «È molto più probabile che qualcuno abbia fatto scattare la serratura con una punta.» Rebus rientrò nell'ingresso. «Però poi non è riuscito ad aprire la scatola del congegno d'allarme...» Fece il giro delle varie stanze. «Manca qualcosa, signore?» «Sì, figliolo: acqua calda dal bollitore, due bustine di tè e un mezzo bricco di latte.» «Forse l'allarme l'ha spaventato.» «Se ha forzato una serratura, perché non l'altra?» Ma Rebus conosceva già la risposta: perché il semplice fatto che l'allarme fosse in funzione aveva rivelato all'intruso che in casa non c'era nessuno. E lui voleva che ci fosse qualcuno - Rebus o Patience - perché era quello lo scopo della sua visita. Cary Oakes non era penetrato lì dentro con l'intenzione di rubare. Erano ben altri i suoi piani... Quando gli agenti se ne andarono, Rebus riattivò l'allarme, assicurandosi
anche di chiudere la serratura e il catenaccio. In pratica, chiudeva la stalla dopo che i buoi erano fuggiti. Risalì sull'auto di pattuglia e si fece riportare a casa, passando però prima davanti a quella di Sammy. Non voleva salire a trovarla, ma soltanto verificare che fosse tutto a posto. Sammy non era sicuramente sola: Ned dormiva con lei. Non che la presenza di quel ragazzo potesse impensierire Oakes... «Devo chiederti un favore», disse all'agente che guidava l'auto. «Fa' in modo che una delle nostre macchine passi qui davanti ogni ora fino a mattina.» «Come vuole, signore. Crede che quell'uomo ci riproverà?» Rebus non sapeva neppure se Oakes conoscesse l'indirizzo di Sammy. E Stevens? Lui lo sapeva? Si servì del telefono di servizio per mettersi in contatto con la casa di riposo. «Calma piatta», gli fu risposto. Poi chiamò l'ospedale e parlò con un'infermiera di notte: gli assicurò che col signor Archibald c'era qualcuno e che, sì, erano svegli. Dalla descrizione, Rebus immaginò che si trattasse sempre di Billy Hogan. Erano tutti sani e salvi, tutti al sicuro. L'auto lo lasciò davanti a casa e Rebus salì fino al suo appartamento. Mentre apriva la porta, gli parve di sentire un rumore nella tromba delle scale, in basso. Si sporse dalla ringhiera, ma non riuscì a vedere nulla. Probabilmente si trattava del gatto soriano della signora Cochrane, che faceva cigolare la gattaiola. Rebus si chiuse la porta alle spalle, senza preoccuparsi di accendere la luce nell'ingresso. Conosceva così bene ogni angolo che poteva muoversi al buio. Accese invece la luce in cucina e mise sul fuoco il bollitore. Si sentiva la testa pesante per il troppo whisky bevuto. Si fece il tè, si portò la tazza in salotto. Si avvicinò alla finestra e rimase lì, fermo, a soffiare sul liquido bollente. Vide un'ombra muoversi. Sul marciapiede, dalla parte opposta della strada. La sagoma di un uomo. Avvicinò le mani, piegate a coppa, al vetro della finestra e vi appoggiò il viso, per eliminare il riflesso della luce del lampione stradale. Cary Oakes. Stava ondeggiando, come se ascoltasse della musica. E aveva, stampato sul volto, un ampio sorriso. Rebus si allontanò dalla finestra, cercò il telefono. Non riuscì a scorgerlo da nessuna parte. Sferrò un calcio ai libri posati sul pavimento. Dove diavolo l'aveva messo?
Il cellulare, allora: anche quello, dov'era? Aveva dimenticato di portarselo dietro; con ogni probabilità era rimasto nella tasca dell'impermeabile. Andò a cercare nel guardaroba nell'ingresso: niente. In cucina? No. In camera da letto? Neppure lì. Imprecando, corse verso la finestra per verificare se Oakes se n'era andato. No, era ancora lì, ma adesso aveva la braccia alzate, quasi in segno di resa. Poi notò che teneva in mano due piccoli oggetti scuri. Rebus capì subito che cos'erano. Il suo cordless e il suo cellulare. «Bastardo!» ringhiò. Oakes era penetrato nel suo appartamento: aveva forzato la serratura del portone dell'edificio e quella della porta principale. «Bastardo», ripeté, sibilando. Corse nell'ingresso, spalancò l'uscio. Era a metà delle scale quando sentì il portone aprirsi con un leggero cigolio. Ma non era chiuso a chiave? Oakes era stato molto rapido nel forzarlo. All'improvviso, lo scorse ai piedi delle scale, illuminato da una lampadina fissata al muro. La tromba delle scale era dipinta di un giallo senape sbiadito, che dava al volto di Oakes una sfumatura itterica. L'uomo mostrava i denti, con la bocca semiaperta, la lingua bene in vista. Lasciò cadere a terra i due telefoni, poi si portò la mano alla cintola. «Te lo ricordi?» Stringeva in pugno il coltello. Con lo sguardo fisso su Rebus e con un chiaro proposito in mente, prese a salire le scale: al contatto coi gradini, i suoi piedi producevano un rumore simile a quello della carta vetrata sul legno. Rebus si voltò e risalì le scale di corsa. «Dove vai, Rebus?» Stava ridendo, non si preoccupava neppure di tenere bassa la voce. Gli inquilini di quel caseggiato erano studenti e pensionati. Di certo Oakes immaginava di poter aver facilmente la meglio su tutti loro. La signora Cochrane l'aveva, il telefono. Nel passare davanti alla porta della donna, Rebus bussò violentemente, ma sapeva che era un gesto inutile. La signora Cochrane era sorda come una campana. Gli studenti che abitavano sul suo stesso piano: era possibile che avessero un telefono? E, soprattutto, che fossero a casa? Rebus rientrò di corsa nel proprio appartamento e si chiuse la porta alle spalle. La serratura scattò, ma lui sapeva che ci voleva ben altro per tenere Oakes alla larga. Inserì la catena, pur rendendosi conto che un calcio ben assestato l'avrebbe probabilmente fatta saltare insieme con la serratura. Dov'era invece la chiave della spranga? Di
solito, era infilata al suo posto. Rebus la cercò anche sul pavimento, poi si rese conto che doveva averla presa Oakes quando, controllate le serrature, aveva capito che la porta bloccata dalla spranga sarebbe diventata un ostacolo invalicabile... Incollò l'occhio allo spioncino. Il volto di Oakes si materializzò dal nulla. «Cappuccetto rosso, su, apri la porta.» Una battuta di Shining. Rebus andò in cucina e aprì il cassetto in cui teneva le posate. Trovò un appuntito coltello da carne con la lama lunga una trentina di centimetri e un manico nero dall'impugnatura molto salda. Gli parve di non averlo mai usato. Fece scorrere sulla lama il polpastrello del pollice e si tagliò. Poteva andare. Rebus si era trovato altre volte davanti a persone armate di coltello, ma, nella maggior parte dei casi, era riuscito a farle ragionare. Quanto agli altri, li aveva sistemati a dovere... Però erano altri tempi e adesso la situazione era completamente diversa. Tornato nell'ingresso, decise di affrontare Oakes. Impugnando il coltello, tolse la catena e aprì la porta. Si aspettava un'aggressione immediata, ma non accadde nulla. Pur allungando il collo, non riuscì a vedere Oakes sul pianerottolo. «Il porcellino va a spasso.» La voce di Oakes: a metà delle scale, diretto verso il primo piano. Rebus uscì dal proprio appartamento, senza fretta, cercando di mantenere la calma. Gli occhi fissi in quelli di Oakes, la visione periferica concentrata sul coltello di lui. «Oh, che grosso arnese», esclamò Oakes, sarcastico. Stava scendendo a ritroso le scale, con aria sicura di sé. «Andiamo all'aperto, Rebus. Ci vuole un po' d'aria.» Si voltò e uscì dall'edificio. Rebus ebbe un moto d'incertezza. I suoi telefoni erano lì per terra. Lui poteva riprendersi il cellulare e chiamare la polizia, far arrivare di corsa una squadra. Poi pensò ad Alan Archibald, a Patience, a Janice... e alla tomba del padre. A Jim Stevens. Era arrivato il momento di mettere la parola fine a quella storia. Doveva tenere d'occhio Oakes, impedire che gli sfuggisse di mano un'altra volta. Si chinò, infilò in tasca il cellulare e si diresse verso il portone. Oakes, fermo sul marciapiede, approvò. «Bene. Soltanto noi due.» Prese a camminare. Rebus lo seguì. L'andatura era rapida, ma nessuno dei due uomini accennò a mettersi a correre. Oakes teneva la testa leggermente rivolta all'indietro, verso il suo inseguitore. Pareva compiaciuto che la situazione avesse preso quella piega. Rebus non riusciva a comprender-
ne il motivo, ma rimaneva cauto. Fino a quel momento, Oakes non aveva fatto nulla senza una buona ragione. Sentiva ronzargli in testa le parole: Finiscilo! È l'ultimo round... «Niente di meglio per le arterie di una bella passeggiata di primo mattino. Aiuta ad affrontare la dieta scozzese. Ho guardato nel tuo frigorifero, amico. Avevo più cibo io quando stavo nella mia fottuta cella a Walla Walla. Però tieni una bottiglia di whisky accanto alla sedia in soggiorno: questo te lo devo riconoscere.» Scoppiò a ridere. «Chi sei, Sam Spade o qualche altro duro del genere?» Rebus non ribatté. Rendendosi conto che Oakes era molto più giovane di lui e anche più allenato, non voleva proprio sprecare il fiato. Attraversarono Marchmont Road, si avviarono lungo Sciennes e superarono il Sick Kids Hospital. Rebus imprecò tra sé, notando quanto fosse tranquillo il quartiere in cui abitava. I pub erano tutti deserti, le rivendite di cibo chiuse. Non c'erano locali notturni, neppure un centro per massaggi. Ma ecco apparire, d'un tratto, sull'altro lato della strada, due giovani che tornavano a casa: la fine di una bella notte di bevute. Uno di loro stava divorando un kebab. Quello strano inseguimento parve attirare la loro attenzione: Oakes aveva il coltello in tasca, ma Rebus lo stringeva in pugno. «Avvertite la polizia!» gridò Rebus. Oakes scoppiò in una risata, come se il suo compagno fosse sbronzo e, in vena di scherzare, sferzasse l'aria con una lama di gomma. Uno dei due giovani ridacchiò; l'altro, quello col mento sporco di salsa, li fissò senza smettere di masticare. «Non sto scherzando!» gridò Rebus, senza preoccuparsi se, con quelle urla, svegliava qualcuno. «Chiamate la polizia!» Non poteva fermarsi a mostrare il suo distintivo, non voleva correre il rischio di perdere di vista Oakes: da quelle parti c'erano troppe vittime potenziali. E non poteva distogliere neppure per un secondo i suoi occhi dal killer. Continuarono quindi a camminare, lasciandosi alle spalle i due giovani. «Quando saranno arrivati a casa», commentò Oakes, «si saranno già dimenticati tutto. Prenderanno dal frigorifero qualcosa da bere e guarderanno un talk-show in televisione. È così che va il mondo, al giorno d'oggi, Rebus. Tutti se ne fregano.» «Tutti tranne me.» «Tutti tranne te. Te ne sei mai chiesto il motivo?» Rebus scosse la testa. Quelle chiacchiere di Oakes non gli davano fasti-
dio: finché continuava a parlare, consumava energie. «Non ci hai mai pensato? Perché sei un fottuto cavernicolo, bello mio. Lo sanno tutti: tu, i tuoi capi, la gente con cui lavori. Probabilmente anche la tua amica dottoressa. Che tipo è? Le piace farsela con un reperto preistorico?» Rise di nuovo. «Casomai te lo stessi chiedendo, in galera mi sono tenuto in forma. Posso darti la birra. Sono capace di mantenere questa andatura per tutto un giorno e una notte. Ma tu? Hai l'aria pimpante di un cadavere.» «A volte basta l'atteggiamento.» Stavano percorrendo alcuni stretti passaggi che sbucavano nella Causewayside. «Dove stiamo andando?» «Siamo quasi arrivati, Rebus. Non vorrei stancarti troppo... Come si dice, qui in Scozia? Spomparti?» Scoppiò a ridere. Sulla Causewayside c'era un certo traffico. Rebus fece in modo che gli autisti vedessero che impugnava un coltello. Forse qualcuno si sarebbe fermato in una cabina telefonica ad avvisare la polizia o avrebbe fatto segno a un'auto di pattuglia. Ma sapeva che le probabilità erano scarse: da quelle parti era raro che girassero poliziotti motorizzati. E probabilmente non c'erano neppure quelli a piedi. Gli automobilisti avrebbero telefonato alla polizia solo una volta rientrati a casa, forse. E, forse, qualcuno della stazione di St. Leonard si sarebbe recato nella zona a dare un'occhiata. Sarebbe stato troppo tardi. Qualunque fosse il gioco, Rebus aveva l'impressione che la partita stesse ormai per chiudersi. Per un motivo o per l'altro, doveva avere a che fare... No... Adesso sapeva dove si trovavano. A un'estremità di Salisbury Place, all'angolo con Minto Street. «È successo qui, vero?» chiese Oakes, fermandosi perché anche Rebus si era fermato. «Lei stava attraversando la strada?» Sammy... stava attraversando la strada quando l'automobilista l'aveva investita. A una ventina di metri da lì, in Minto Street. Rebus fissò Oakes. «Perché?» L'altro si limitò a stringersi nelle spalle. Rebus stava tentando di focalizzare la sua attenzione sul presente. Era quella la cosa importante: a Sammy avrebbe pensato più tardi. Doveva impedire a Oakes di giocare con lui. «L'ha fatta volare in aria, eh?» stava dicendo Oakes. Teneva le mani in tasca, come se Rebus e lui si fossero fermati al semplice scopo di scambiare due chiacchiere. Rebus non riusciva a ricordare in quale delle tasche di
Oakes fosse il coltello. La sua arma gli penzolava dalla mano destra, temporaneamente inutile. Lei stava attraversando la strada e... non aveva avuto scampo. Si rese conto di non essere più venuto lì dal giorno dell'incidente. Aveva sempre evitato di passarci. E, chissà come, Oakes aveva capito quale effetto quel luogo avrebbe avuto su di lui. Rebus batté un paio di volte le palpebre, cercò di recuperare un po' di lucidità mentale. «Sei passato da lei a controllare, eh?» chiese Oakes. «Come?» Rebus socchiuse gli occhi. «Sei andato a casa della tua amica, hai capito che c'ero stato. Subito dopo sei andato da tua figlia. Ma non sei salito a trovarla, vero?» Era come guardare il diavolo negli occhi. «Come lo sai?» «Altrimenti non saresti qui.» «Perché no?» «Perché io ci sono stato, Rebus. Nelle prime ore di questa notte.» «Stai mentendo.» La voce di Rebus era secca, la gola stretta in una morsa. Cerca di farti perdere la testa, lo stesso trucco usato con Archibald... Oakes si strinse semplicemente nelle spalle. Erano fermi all'angolo. All'altro lato dell'incrocio, in diagonale rispetto a loro, due auto si erano fermate fianco a fianco, in attesa che il semaforo diventasse verde. Nella corsia interna, un taxi; accanto a lui, un giovane che, come un pilota da corsa, mandava su di giri il motore. L'autista del taxi osservava la scena, immaginando che stesse per degenerare in una rissa: niente d'insolito. «Stai mentendo», ripeté Rebus. Infilò in tasca la mano libera ed estrasse il cellulare. Si servì del pollice per schiacciare i tasti, tenendo l'apparecchio vicino alla faccia in modo da poter guardare contemporaneamente il telefono e Oakes. «Non aveva comunque bisogno delle gambe», stava dicendo Oakes. Il telefono prese a squillare. «Non risponde nessuno, vero?» Il sudore gocciolava negli occhi di Rebus e lui, per liberarsene, scosse la testa. Così Oakes avrebbe pensato che stava rispondendo alla sua domanda. Il telefono smise di squillare. «Pronto?» La voce di Ned Farlowe. «Ned! C'è Sammy? Sta bene?» «Come? E lei, John?» «Sta bene?» Conosceva già la risposta, ma aveva bisogno di sentirselo
dire. «Ma certo che...» Oakes scattò verso di lui, estraendo il coltello dalla tasca di destra. E mancò il petto di pochi centimetri. Rebus balzò all'indietro, lasciando andare il telefono. La sua arma aveva una maggiore portata. Il taxista abbassò il finestrino. «Piantatela, voi due!» «La pianto di sicuro», sibilò Oakes. «Ti pianto la lama nelle carni, di punta e di taglio.» Fece di nuovo roteare il coltello. Rebus cercò di farglielo saltare di mano con un calcio, ma per poco non perse l'equilibrio. Oakes gli rise in faccia. «Non sei mica Nureyev, bello mio.» Un rapido affondo e la lama penetrò nel braccio di Rebus, che sentì i nervi perdere sensibilità: il preludio all'agonia. Finiscilo. Fece un passo in avanti, roteando alla cieca il coltello, cosicché Oakes fu costretto a spostarsi. Si trovava sul bordo del marciapiede e, alle sue spalle, Rebus vide che il semaforo stava cambiando colore. Oakes si proiettò in avanti e lo colpì al torace. Un leggero fruscio, prodotto dallo strappo nella camicia. Sangue caldo sul braccio, altro sangue che gocciolava dalla nuova ferita. Dal rosso all'arancione. Al verde. Rebus balzò in avanti col piede sollevato e, con la suola, colpì violentemente Oakes in pieno petto. Il killer cercò di sferrare un'altra coltellata prima di essere proiettato all'indietro in mezzo alla strada, dove l'aspirante pilota da corsa, senza prestare attenzione alla contesa, con la radio a pieno volume e la sua ragazza abbracciata a lui, stava dimostrando le capacità di accelerazione da fermo della sua auto. La vettura investì Oakes e lo scaraventò in aria, fratturandogli il bacino e, si augurò Rebus, qualche altro osso degli arti inferiori. L'auto si fermò con un grande stridio di pneumatici e il giovane sporse la testa dal finestrino. Visti i coltelli, tolse il piede dalla frizione e ripartì sgommando. Rebus non si preoccupò di prendere la targa. Si chinò sulla mano di Oakes che stringeva il coltello, gli allargò le dita, sfilò l'arma e se la mise in tasca. L'autista del taxi era ancora fermo al semaforo. «Chiami la polizia!» gli gridò Rebus. Si teneva il braccio ferito contro il petto. Oakes si stava rotolando sull'asfalto, le mani strette contro la coscia e il fianco, scoprendo i denti, non in un ghigno, ma in una smorfia di dolore. Rebus si raddrizzò, fece un passo indietro e gli sferrò un calcio all'inguine. Mentre Oakes gemeva e rantolava, lui gliene tirò un altro, poi si acco-
vacciò di nuovo. «Vorrei poter dire che era per Jim Stevens», esclamò. «Ma, in tutta sincerità, era per me.» Rebus passò un'ora nel pronto soccorso del dipartimento di polizia: quattro punti di sutura al braccio, otto al torace. La prima ferita era la più profonda, ma i bordi erano netti. Oakes si trovava nello stesso ambulatorio, in un'altra stanza, dove gli stavano sistemando ferite e fratture. Era piantonato da sei dei più esperti agenti della squadra omicidi. Un'auto di pattuglia riportò Rebus nel suo appartamento. Per prima cosa, lui si preoccupò di recuperare il cordless (non voleva che qualche studente se lo intascasse). Poi mandò giù un bel sorso di whisky. E, subito dopo, un altro. Trascorse il resto della nottata a St. Leonard, battendo il rapporto con una mano sola, facendo un ulteriore resoconto verbale al sovrintendente capo Watson, tirato giù dal letto così bruscamente che un ciuffo di capelli si rifiutava di stare a posto e ondeggiava ogni volta che il Caporale scuoteva la testa. Non c'era l'assoluta certezza di poter accusare Oakes dell'omicidio di Jim Stevens. Dipendeva dalle prove trovate dalla scientifica: impronte digitali, peli, saliva. Il nastro di Stevens era stato chiuso in un sacchetto e consegnato ai funzionari in camice bianco. «Ma sarà trascinato in tribunale per aver aggredito me e Alan Archibald?» chiese Rebus al suo superiore. Il Caporale annuì. «Per quanto successo sulle Pentland Hills, sì.» «E il tentato omicidio di tre ore fa?» Il Caporale sfogliò alcune carte. «L'hai detto tu stesso, la maggior parte dei testimoni ha visto te con un coltello in mano, non lui.» «Però l'autista del taxi...» Il Caporale annuì. «La sua testimonianza sarà cruciale. Speriamo che racconti i fatti come sono accaduti.» Rebus afferrò l'insinuazione. «Signore, lei è convinto che io abbia agito per autodifesa, vero?» «Certamente, John. Non è neppure il caso di parlarne.» Ma il Caporale evitava d'incrociare il suo sguardo. Rebus cercò di trovare qualcosa da dire; poi decise che non valeva la pena di sprecare il fiato. «La squadra omicidi ha un diavolo per capello», aggiunse il Caporale
con un sorriso. «Odia il ritorno alla normalità.» «Forse non si vede, ma dentro di me non ne sono affatto dispiaciuto.» Rebus si voltò per andarsene. «Non tornare al pronto soccorso, John», lo ammonì il Caporale. «Non vorrei che Oakes cadesse dal letto e dicesse di essere stato spinto.» Rebus sbuffò, scese le scale ed entrò nel parcheggio. Di lì a poco sarebbe sorto il sole. Ingoiò, senz'acqua, qualche altro analgesico, si accese una sigaretta e guardò in direzione di Holyrood Park. Erano lì, l'Arthur's Seat, i Salisbury Crags... solo che non sempre si riusciva a vederli. Il che non significava che non ci fossero. Al buio può capitare di perdere l'equilibrio... Può capitare che qualcuno ti arrivi alle spalle... Rebus uscì dal parcheggio e si avviò verso la St. Leonard's Bank. L'auto di Stevens era stata portata a Howdenhall per essere passata al setaccio. Alla fine della strada, nella recinzione c'era un buco, che permetteva di penetrare nel parco. Rebus s'incamminò lungo il pendio, verso Queen's Drive. Dopo averlo attraversato, prese a salire. Senza più la luce dei lampioni stradali, i suoi passi si fecero più incerti. Avvertì, più che vedere, il punto d'inizio di Radicai Road, sul quale si stagliava la confusa sagoma dell'irregolare parete di roccia dei Crags. Ignorò il sentiero e continuò ad arrampicarsi finché non arrivò in cima ai Crags, con tutta la città distesa sotto di lui a formare una griglia in cui l'arancione delle lampade a vapori di sodio si alternava al bianco giallastro delle alogene. La bestia stava cominciando a svegliarsi: le auto convergevano verso il centro della città. Voltandosi, Rebus vide che il cielo era un'ombra appena meno scura dell'ammasso di roccia sottostante. C'era chi diceva che l'Arthur's Seat sembrava un leone accovacciato, pronto a balzare. Però non spiccava mai il salto. Anche sulla bandiera scozzese c'era un leone: non accovacciato, ma rampante... Jim Margolies era salito fin lassù col preciso intento di lanciarsi nel vuoto? Rebus si disse che ormai conosceva la risposta. L'aveva intuita sapendo che, quella sera, i coniugi Margolies erano andati a cena da amici, dalla parte opposta del parco rispetto a casa loro. Quello, e la presenza di una berlina bianca... 50 Il dottor Joseph Margolies viveva con la moglie a Gullane, in una villet-
ta indipendente da cui si godeva la vista dell'intero campo da golf di Muirfield. Rebus non praticava quello sport. Ci aveva provato qualche volta da ragazzo, trascinando sui prati del club locale un mezzo set di mazze e perdendo una mezza dozzina di palle nelle acque del Jamphlars Pond. Sapeva che alcuni dei suoi colleghi si erano dedicati a quello sport, ritenendo che potesse aiutarli a far carriera, sempre che fossero disposti a farsi battere dai loro superiori. Quello, a Rebus, non sembrava un gioco. Siobhan Clarke parcheggiò e spense la radio che trasmetteva le ultime notizie. Erano le dieci del mattino. Rebus era riuscito a sonnecchiare un paio d'ore nel suo appartamento di Arden Street e aveva telefonato a Patience per farle sapere che Cary Oakes si trovava dietro le sbarre. «Resta in macchina», disse a Siobhan, contorcendosi per scendere dalla vettura. Era infatti un'impresa non facile, con un braccio al collo e il torace che mandava violente fitte ogni volta che i muscoli si tendevano. La signora Margolies gli aprì la porta. Vista così da vicino, somigliava al figlio: lo stesso mento sfuggente, gli stessi occhi a mandorla. Aveva anche lo stesso sorriso. Rebus si presentò e le chiese se poteva scambiare quattro parole col marito. «È nella serra. C'è qualche problema, ispettore?» Lui le sorrise. «Nessun problema, signora. Dovrei fargli solo un paio di domande, nient'altro.» «Le mostro la strada», replicò la donna, arretrando per farlo entrare. Lanciò un'occhiata al suo braccio, ma non sembrò incline a domandargli qualcosa in proposito. C'è gente fatta così: preferisce non chiedere... Mentre la seguiva nel corridoio, Rebus sbirciò attraverso le porte aperte, osservando l'ordinata atmosfera domestica di quella casa: un lavoro a maglia posato su una sedia, un fascio di riviste nell'apposito contenitore, qualche ninnolo, vetrate scintillanti. L'edificio risaliva agli anni '30. Dall'esterno sembrava tutto gronde e frontoni. Rebus chiese da quanto tempo vi abitassero. «Da oltre quarant'anni», replicò la signora Margolies, con aria compiaciuta. Era dunque quella la casa in cui erano cresciuti Jim Margolies e la sorella. Dalle notizie riportate nel dossier, Rebus sapeva che si era suicidata nella stanza da bagno. Spesso, quando si verifica una tragedia del genere, la famiglia preferisce vendere tutto e trasferirsi altrove. Lui sapeva anche,
però, che a volte i parenti decidono di rimanere proprio perché qualcosa dei loro cari continua ad aleggiare nella casa e, se questa venisse abbandonata, quel qualcosa si perderebbe per sempre. Anche la cucina era perfettamente in ordine: sullo scolapiatti solo una tazza e un pentolino. Al frigorifero era attaccato, con un magnete a forma di teiera, un foglio per registrare i messaggi, che però era completamente bianco. La signora Margolies gli chiese se gradiva una tazza di tè. Rebus scosse la testa. «No, ma grazie comunque.» Aveva ancora il sorriso sulle labbra, ma osservava attentamente la donna. Pensava: Di solito la moglie è la prima a saperlo... E anche: C'è gente che preferisce non chiedere... La porta della cucina dava su un piccolo locale in cui c'erano due cabine armadio (entrambe aperte, piene di attrezzi da giardino) e la porta d'ingresso posteriore, anch'essa spalancata. Uscirono in un giardino recintato da un muro, dove tutto era ovviamente tenuto alla perfezione. Dopo un tratto lastricato con pietre, circondato da aiuole fiorite, iniziava una distesa erbosa accuratamente rasata, divisa dalle aiuole stesse da una striscia lunga e stretta adibita a orto. In fondo al giardino si scorgevano alberi e cespugli; quasi nascosta in un angolo, una piccola serra, con una figura che si muoveva all'interno. Rebus si rivolse alla sua guida. «Grazie, non si disturbi, posso proseguire da solo.» E s'incamminò sul prato. Sembrava di posare i piedi su un soffice tappeto, come quelli fatti a Wilton. Si girò d'un tratto a guardarsi alle spalle e vide che la signora Margolies, ferma sulla porta, lo stava fissando. Nel giardino di qualche vicino stavano bruciando le erbacce. Un fumo bianco e acre si spandeva oltre il muro di cinta. Rebus vi passò attraverso mentre si avvicinava alla serra. Nel vederlo sopraggiungere, un labrador nero rizzò le orecchie, poi si alzò faticosamente a sedere e lanciò un latrato poco convinto. Gli si era ingrigito il muso e aveva tutta l'aria di essere viziato: troppo cibo e troppo poco esercizio fisico, almeno negli ultimi anni. La porta scorrevole della serra si aprì e un vecchio sbirciò il visitatore attraverso le lenti a mezzaluna degli occhiali. Alto, capelli brizzolati, baffi neri... Proprio come l'aveva descritto Jamie Brady: l'uomo che era andato a Greenfield a cercare Darren Rough. «Sì? In che posso esserle utile?» «Dottor Margolies, sono l'ispettore John Rebus della polizia investigativa.»
Margolies tese in avanti le braccia. «Mi scusi se non le stringo la mano.» Aveva le sue tutte sporche di terra. «Anch'io non potrei», ribatté Rebus, indicandosi il braccio al collo. «Una brutta ferita, a quanto pare. Che cos'è accaduto?» Non condivideva la riservatezza della moglie. Ma forse lei aveva alle spalle una vita intera di domande soffocate. Rebus si chinò a grattare la testa del labrador. La pesante coda del cane batté sul terreno in segno di apprezzamento. «Ho dovuto scontrarmi con qualcuno», spiegò Rebus. «Incerti del mestiere, eh? Ci siamo già conosciuti, se non sbaglio.» «Alla gara di Hannah.» «Ah, sì.» Un lento cenno di assenso. «Lei voleva parlare con Ama.» «Appunto.» «Si tratta di qualcosa che riguarda quella ragazza?» Margolies stava rientrando nella serra. Rebus lo seguì e vide che il vecchio stava invasando alcune piantine appena nate. Nella serra faceva molto caldo, benché la giornata fosse coperta. Margolies chiese a Rebus di chiudere la porta. «Per non far uscire il calore», gli spiegò. L'ispettore fece scivolare la porta scorrevole. Nella serra, gran parte dello spazio disponibile era occupata da piani di lavoro, sui quali erano disposti, in file ordinate, vassoi di minuscoli germogli. A terra c'era un sacco di terricciato per vasi, aperto. Il dottor Margolies vi stava affondando un vaso di plastica nera, a mo' di paletta. «Come ci si sente a farla franca dopo un delitto?» chiese Rebus. «Mi scusi?» Margolies prese un piantime e lo interrò nel nuovo vaso. «Lei ha assassinato Darren Rough.» «Chi?» Rebus tolse il vaso dalle mani di Margolies. «Mi toccherà sudare sette camicie per riuscire a provarlo. Anzi non credo neppure di farcela. Sono proprio convinto che lei la passerà liscia.» Margolies incontrò il suo sguardo e tese la mano per riprendere il vaso. «Mi dispiace», disse. «Non ho la più pallida idea di ciò di cui sta parlando.» «Lei si è recato a Greenfield, chiedendo di Darren Rough. Poi è ripartito a bordo della sua Mercedes bianca. Una berlina di quel colore fu vista a Holyrood Park più o meno all'ora in cui Darren veniva ucciso. Probabilmente lei c'era andato perché si trattava di un luogo tranquillo, ma dev'essersi reso conto che era anche il luogo ideale per un omicidio.»
«Lei parla per enigmi, ispettore... Sa chi sono io?» «So perfettamente chi è lei. So che entrambi i suoi figli si sono suicidati. So che lei era coinvolto nell'affare Shiellion.» «Come ha detto, scusi?» Nella sua voce era apparso un lieve tremore. Un piantime gli scivolò dalle dita incartapecorite. «Non si preoccupi, Harold Ince non aprirà bocca su questa storia. Ne ha parlato con me, però, in mancanza di un testimone, la sua confessione non ha valore e lui non lo dirà a nessun altro. Mi ha raccontato che, quella sera, lei si trovava a Shiellion. Ince aveva avuto modo di discorrere con lei e ormai la conosceva a fondo. Le aveva spiegato che cosa faceva ai ragazzi affidati alle sue cure. Aveva capito che lei non avrebbe detto nulla, perché voi due eravate molto simili. Sapeva quanto sarebbe stato utile per lui se un medico, l'uomo che aveva la responsabilità di visitare i ragazzi, fosse entrato nell'affare.» Si chinò sull'orecchio di Margolies. «Mi ha raccontato tutto, dottor Margolies.» La bevuta pomeridiana, per rendere il medico più malleabile. Poi l'arrivo di Ramsay Marshall con un nuovo ragazzino, Darren Rough, al quale avevano bendato gli occhi perché non riconoscesse Margolies... L'avevano fatto dietro insistente richiesta del medico. Il quale sudava e tremava... sapendo che, con quella notte, tutto sarebbe cambiato... Dopo, il disprezzo per se stesso, forse, o magari soltanto la paura di essere scoperto. Non se l'era più sentita di affrontare la situazione, aveva finto problemi di salute, decidendo di andare in pensione prima del normale. «Tuttavia non ha mai potuto allentare la presa che Ince aveva su di lei. Ha dovuto subire il suo ricatto, anzi quello di entrambi, di Ince e Marshall.» La voce di Rebus si era ridotta a poco più di un bisbiglio, le sue labbra sfioravano quasi l'orecchio del vecchio. «La sa una cosa? Sono dannatamente felice che in tutti questi anni le abbiano succhiato il sangue.» Poi l'ispettore si raddrizzò. «Lei non sa nulla.» Margolies era paonazzo. Sotto la camicia a scacchi, respirava affannosamente. «Non posso provare nulla, il che è ben diverso. Io so ed è questo che conta. Credo che sua figlia l'avesse scoperto e che sia stata la vergogna a ucciderla. Lei era sempre il primo ad alzarsi, la mattina: sua figlia sapeva che sarebbe stato lei a trovarla. Poi, chissà come, anche Jim lo è venuto a sapere e neanche lui se l'è sentita di continuare a vivere con quel peso. E lei, dottor Margolies, come può vivere? Come può tirare avanti avendo sulla coscienza la morte di entrambi i suoi figli e l'assassinio di Darren
Rough?» Margolies sollevò un forcone da giardino e lo puntò contro la gola di Rebus. Il suo viso era distorto in una maschera di rabbia e frustrazione. Dalla fronte gli cadevano gocce di sudore. Fuori della serra, il fumo che aumentava sembrava isolarli dal resto del mondo. Il vecchio, però, continuava a tacere: emetteva soltanto una sorta di ringhio, a denti stretti. Rebus rimase immobile, la mano in tasca. «Come?» gli chiese. «Intende uccidere anche me?» Scosse la testa. «Ci pensi bene. Sua moglie mi ha visto. C'è un altro funzionario di polizia che mi aspetta davanti alla sua casa. Come farebbe a cavarsela, stavolta? No, dottor Margolies, lei non mi ucciderà. Come le ho detto, non posso provare nulla di ciò che le ho appena raccontato. È una cosa che resterà tra lei e me.» Tolse la mano di tasca, spinse di lato il forcone. Il labrador nero, che stava osservando da dietro la porta, guardò Rebus con aria accigliata come se avvertisse che c'era qualcosa che non andava, quasi fosse rimasto deluso da lui. «Cosa vuole?» biascicò Margolies, afferrandosi con entrambe le mani al piano di lavoro. «Voglio che lei viva il resto della sua esistenza sapendo che io so.» Rebus si strinse nelle spalle. «Tutto qui.» «Vuole che mi uccida?» Rebus scoppiò a ridere. «Non credo che ne avrebbe il coraggio. Ormai è un vecchio, non ne avrà più per molto. E, dopo la sua morte, forse Ince e Marshall ripenseranno a ciò che hanno taciuto. Per lei ci saranno soltanto infamia e disgusto.» Margolies si girò verso di lui e ora nei suoi occhi c'era un inequivocabile sguardo d'odio. «Ovviamente», proseguì Rebus, «se dovesse saltar fuori qualche prova, stia tranquillo che mi vedrà ricomparire, e pure di corsa. Lei potrebbe anche trovarsi a corte dalla regina: mi vedrebbe entrare di slancio dalla porta.» Sorrise. «Le starò sempre addosso, dottor Margolies.» Aprì la porta della serra, passò oltre il labrador. Si avviò verso la casa. Non si sentiva euforico, e neppure soddisfatto. Se non fosse accaduto qualcosa di nuovo, non ci sarebbe stata giustizia per Darren Rough, nessun processo pubblico. Ma Rebus sapeva di aver fatto il possibile. La signora Margolies si trovava in cucina, e non finse di essere impegnata in qualcosa di diverso dall'attendere che lui tornasse. «Tutto bene?» gli chiese. «Benissimo, signora Margolies.» S'incamminò nel corridoio, diretto ver-
so la porta d'ingresso. La donna lo seguì. «Sa, mi stavo domandando...» Rebus spalancò la porta e si girò verso di lei. «Perché non lo chiede a suo marito, signora Margolies?» La moglie spesso sa, ma non osa fare domande. «Soltanto una cosa, signora Margolies...» «Sì?» Suo marito è uno spietato assassino. La bocca gli si aprì e richiuse, senza che quelle parole ne uscissero. Scuotendo la testa, Rebus si avviò lungo il vialetto d'accesso. Siobhan lo accompagnò fino alla dimora di Katherine Margolies, nel quartiere di Edimburgo chiamato Grange. La donna abitava in un edificio di tre piani in stile georgiano, in una strada in cui una buona metà delle case si era trasformata in pensioni a conduzione familiare. La Mercedes bianca era parcheggiata di fronte al cancello. Rebus si girò verso Siobhan. «Lo so», lo prevenne lei. «Devo aspettarti in macchina.» Katherine Margolies parve tutt'altro che entusiasta di vederlo. «Che vuole?» Sembrava intenzionata a non fargli varcare la soglia di casa. «Voglio parlarle del suicidio di suo marito.» «Per quale motivo?» Aveva il volto affilato e duro, le mani lunghe e sottili come coltelli da macellaio. «Credo di sapere perché l'ha fatto.» «E che cosa la induce a credere che io voglia essere messa al corrente?» «Lei lo sa già, signora Margolies.» Rebus inspirò profondamente. Be', se a quella donna non importava che lui parlasse di un simile argomento sui gradini di casa... «A che punto Jim si è reso conto che suo padre era un pedofilo?» Gli occhi della donna si dilatarono. Dalla casa accanto uscì una vicina, per portare a spasso il suo terrier, un Jack Russell. «Sarà meglio che entri», si affrettò a dire Katherine Margolies, lanciando occhiate da una parte all'altra della strada. Non appena Rebus ebbe messo piede in casa, lei chiuse la porta e vi si appoggiò con la schiena, incrociando le braccia. «Allora?» Rebus si guardò intorno. L'ingresso aveva un pavimento di marmo grigio con venature nere. Uno scalone di pietra portava al piano superiore. Sulle pareti c'erano molti quadri e lui ebbe l'impressione che non fossero riproduzioni a stampa. La donna non pareva aver notato il suo braccio; da
quel punto di vista non provava il minimo interesse per lui. «Hannah non è in casa?» chiese Rebus. «È a scuola. Senta, non so cosa...» «Allora glielo dirò. Continuava ad assillarmi, quella fine di Jim. E gliene spiego il motivo. Ci sono salito anch'io, lassù, fermandomi sull'orlo del precipizio, a chiedermi se avrei avuto il coraggio di gettarmi nel vuoto.» Il volto della donna si addolcì un poco. «Di solito lo facevo perché ero ubriaco», proseguì Rebus. «Ultimamente credo di sapermi controllare meglio. Ma ho imparato due cose: la prima, che per gettarsi di sotto bisogna avere un coraggio incredibile; la seconda, che ci dev'essere una ragione davvero valida per desiderare di mettere fine alla propria vita. Vede, di fronte a una scelta del genere è di solito lo spirito di sopravvivenza ad avere la meglio. Non riuscivo a capire perché Jim avesse deciso di suicidarsi. Non c'era motivo al mondo. Eppure, doveva essercene uno. È ciò che continuavo a ripetermi. Doveva essercene uno.» «E adesso crede di averlo trovato?» Gli occhi di lei erano liquidi, nella gelida penombra dell'ingresso. «Sì.» «E ritiene che valga la pena di rivelarmelo?» Rebus scosse la testa. «Ho soltanto bisogno di una conferma.» «Poi sarà soddisfatto?» Attese il suo cenno di assenso. «E quale diritto ha lei, ispettore Rebus, di fare una cosa simile? Che cosa l'autorizza a dormire sonni tranquilli?» «Non dormo mai sonni molto tranquilli, signora Margolies.» Gli sembrava (anche se forse era un semplice scherzo della luce) di vederla all'altra estremità di un lungo tunnel buio, cosicché, mentre la figura di lei si stagliava chiaramente, ogni cosa in mezzo e intorno era un ammasso di ombre indistinte. E alla periferia si stavano muovendo e raggruppando alcune sagome: i fantasmi. C'erano tutti, a formare un improvvisato pubblico: Jack Morton, Jim Stevens, Darren Rough... persino Jim Margolies. Gli sembravano così vivi che non riusciva quasi a capire perché Katherine Margolies non li vedesse. «La notte in cui Jim morì», continuò, «eravate andati a cena in casa di amici, in Royal Park Terrace. Me lo sono sempre chiesto... da Royal Park Terrace a Grange.» «Che c'è di strano?» Aveva assunto un'aria annoiata. Rebus pensò che fosse una finta spavalderia. «La strada più comoda è quella che attraversa Holyrood Park. È quella
che avete preso per tornare a casa?» «Immagino di sì.» «A bordo della vostra Mercedes bianca?» «Sì.» «E Jim fermò la macchina, scese...» «No.» «Qualcuno ha notato la macchina.» «No.» «Perché qualcosa aveva reso la sua vita un inferno, qualcosa che aveva appena scoperto, forse, su suo padre...» «No.» Rebus fece un passo verso di lei. «Quella sera pioveva a dirotto. Jim non sarebbe mai uscito a passeggiare. Questa è la sua versione, signora Margolies: in piena notte lui scende dal letto, si riveste e va a fare due passi. Avrebbe percorso tutta la strada fino ai Salisbury Crags sotto quel diluvio, al solo scopo di lanciarsi nel vuoto.» Rebus stava scuotendo la testa. «La mia ricostruzione ha più senso.» «Forse per lei.» «Non intendo andare in giro a gridarla ai quattro venti. Ho soltanto bisogno di avere la conferma che la dinamica dei fatti è stata questa. Jim aveva da poco interrogato una delle vittime di Shiellion, scoprendo così che suo padre era coinvolto in quel caso di abusi sessuali. Temeva che la notizia potesse diventare di dominio pubblico, che una simile vergogna ricadesse su di lui.» La donna scattò. «Cristo, lei si sta sbagliando, completamente! È tutta un'altra cosa. Che c'entra l'affare Shiellion?» Rebus cercò di rimanere calmo. «Me lo dica lei.» «Ma non capisce?» Stava piangendo. «Si trattava di Hannah...» «Di Hannah?» ripeté Rebus, accigliandosi. «Era così che si chiamava la sorella di Jim. E per questo abbiamo chiamato così nostra figlia. Era stato Jim a volerlo, in odio al padre.» «Perché il dottor Margolies aveva...» Rebus non trovò la forza di finire la frase. «... con Hannah?» Lei si strofinò il dorso della mano sul viso, impiastricciandolo di mascara. «Aveva avuto rapporti con la figlia. Dio solo sa se si era trattato di un'unica volta. Forse la cosa andava avanti da anni. Quando Hannah si uccise...» «Lo fece nella convinzione che il padre sarebbe stato il primo a trovar-
la?» Lei annuì. «Jim sapeva cos'era accaduto... sapeva perché la sorella l'aveva fatto. Ma, naturalmente, sono cose di cui nessuno parla mai.» Lo guardò negli occhi. «Non si fa, vero? Non ci si comporta così nella buona società. Jim invece cercò di opporsi, pur accettando il fatto che non c'era rimedio.» «Non sono sicuro di capire.» Ma una cosa l'aveva compresa e ora sapeva perché Jim aveva picchiato Darren Rough. Aveva sfogato la propria rabbia su di lui: non stava infierendo su Rough, bensì sul proprio padre. La signora Margolies si lasciò scivolare lungo la porta finché non rimase accovacciata, le ginocchia strette tra le braccia. Rebus si sedette sul primo gradino delle scale, cercando di schiarirsi le idee: Joseph Margolies aveva abusato della figlia... che cosa l'aveva indotto a rivolgere le proprie attenzioni a un ragazzo come Darren Rough? L'insistenza di Ince, forse; o semplice lussuria e curiosità, il pensiero di un frutto più proibito... La voce di Katherine Margolies era tornata calma. «Credo che l'entrata di Jim nella polizia fosse un altro modo per dire qualcosa al padre, per fargli capire che lui non avrebbe mai dimenticato, mai perdonato.» «Ma se conosceva da tempo la vera natura del padre, perché si è ucciso?» «Gliel'ho detto! A causa di Hannah.» «La sorella?» Alla donna sfuggì una risata stridula, priva d'ilarità. «Ovviamente no.» Si fermò un istante, per tirare il fiato. «Nostra figlia, ispettore. Hannah, la nostra bambina. Jim era... da qualche tempo era inquieto.» Inspirò profondamente. «Avevo notato che soffriva d'insonnia. Di notte mi svegliavo e lo vedevo disteso al buio, gli occhi aperti, a fissare il soffitto. Una sera me lo disse. Pensava che io dovessi sapere.» «Di cos'era preoccupato?» «Di poter diventare come il padre. Che ci fosse qualcosa di genetico, che sfuggiva al suo controllo.» «Vuol dire nei confronti di Hannah?» La donna annuì. «Mi disse che cercava di non pensarci, ma quell'idea lo tormentava. Quando guardava la bambina, non vedeva più sua figlia.» Parlava con gli occhi fissi sul disegno del pavimento. «Vedeva qualcos'altro, qualcosa di desiderabile...» Finalmente Rebus capì. Comprese tutti i timori di Jim Margolies, vide il passato che l'aveva ossessionato e la possibilità che quel passato si ripresentasse. Si rese conto del motivo che l'aveva indotto a cercare prostitute
dall'aria infantile. Intuì come fosse terrorizzato da una sorta di nemesi. Non ci si comporta così nella buona società. Se la buona società era composta di famiglie come quelle dei Margolies e dei Petrie, Rebus non voleva averci nulla a che fare. «Era rimasto silenzioso per tutta la sera», continuò Katherine Margolies. «Un paio di volte l'avevo sorpreso a fissare Hannah e mi rendevo conto di quanto fosse spaventato.» Si passò sugli occhi il palmo dell'altra mano e alzò lo sguardo al soffitto, cercandovi qualcosa di più dei lussuosi stucchi e dello sfarzoso lampadario. Il gemito che le eruppe dalla gola somigliava al verso di un animale in gabbia. «Nel tornare a casa, di colpo fermò l'auto e si mise a correre. Io mi precipitai dietro di lui e, quando lo raggiunsi, era in piedi, fermo. Sulle prime, non mi resi conto che si trovava sull'orlo di quel precipizio. Deve avermi sentito arrivare. Un secondo dopo, era sparito. Fu come un gioco di prestigio, un trucco da palcoscenico. Poi capii cos'era successo. Era saltato nel vuoto. Mi sentii... Be', non so che cosa provai. Ero impietrita, delusa, sconvolta.» Scosse la testa, ancora insicura sui reali sentimenti provati nei confronti dell'uomo che aveva preferito uccidersi piuttosto che cedere ai propri istinti bestiali. «Ritornai alla macchina. Hannah continuava a chiedermi dov'era il suo papà. Le dissi che era andato a fare una passeggiata e mi diressi verso casa. Non cercai di aiutarlo, non feci nulla, Dio solo sa perché.» Si passò le mani tra i capelli. Rebus si alzò, spalancò una porta. Si trovò davanti un lussuoso salotto. Brocche di cristallo su una credenza tirata a lucido. Ne annusò una, versò una buona dose di whisky in un bicchiere. Ritornò sui propri passi e lo porse a Katherine Margolies, poi andò a prenderne anche per sé. Ormai la sequenza dei fatti gli appariva chiara: dopo aver appreso da Jane Barbour che Rough sarebbe tornato in città, Jim aveva rispolverato il caso ed era rimasto colpito dal misterioso «terzo uomo». Sapendo che suo padre aveva avuto a che fare con gli istituti per l'infanzia, aveva voluto approfondire le indagini, aveva interrogato Rough e il mondo gli era caduto addosso... «Sa, Jim non aveva paura di morire», mormorò la donna. «Diceva che c'era un cocchiere.» «Un cocchiere?» «Sì, un cocchiere che, quando muori, ti porta alla tua ultima destinazione.» Sollevò lo sguardo verso di lui. «Conosce anche lei questa storia?» Rebus annuì. «Un'antica leggenda scozzese sui fantasmi, niente di più.» «Allora lei non crede ai fantasmi?» «Non sarei così categorico.» Alzò il bicchiere. «Alla salute di Jim.»
Poi si guardò intorno, ma non scorse nessun fantasma. 51 Una settimana dopo, Rebus ricevette una telefonata da Brian Mee. «Che c'è, Brian?» chiese, anche se sospettava già, dal tono della voce, quale fosse la risposta. «Ah, merda, John, mi ha lasciato.» «Mi dispiace molto per te, Brian.» «Davvero?» C'era una punta d'incredulità nella risata che accompagnò quella replica. «Sì, davvero.» «Te l'aveva detto?» «Tra le righe.» Indugiò. «Sai dov'è andata?» «Piantala con 'ste stronzate, John. È nel tuo appartamento.» «Come?» «Mi hai capito benissimo. Sta da te.» «Ma figurati.» «A Edimburgo non conosce nessun altro.» «Ci sono pensioni, stanze da affittare...» «Non la ospiti tu?» «No, ti do la mia parola.» All'altro capo del filo ci fu un lungo silenzio. «Cristo, John, scusa. Sono così preoccupato che sragiono.» «È più che naturale, Brian.» «Ti sembra il caso che io venga a cercarla?» Rebus tirò il fiato. «Secondo te?» «Credo che un tempo mi amasse.» «E ora non più?» «In caso contrario, non se ne sarebbe andata.» «Questo è vero.» «Anche se dovesse ritrovare Damon, sono convinto che non tornerebbe indietro.» «Dalle tempo, Brian.» «Sì, certo.» Brian Mee tirò su col naso. «Vuoi sapere una cosa? Mi piaceva che la gente mi chiamasse Barney. So perfettamente perché mi era stato affibbiato questo soprannome.» «Mi pareva che tu avessi detto d'ignorarlo.»
«Oh, sì, ma lo so comunque. Barney Rubble. Perché la gente pensava che io fossi proprio come quel personaggio degli Antenati. Una volta uno mi chiamò proprio così, non semplicemente 'Barney', ma 'Barney Rubble'.» Rebus sorrise. «E il nome ti piaceva comunque?» «Questo non l'ho detto. Ho detto che mi piaceva avere un soprannome. Era una specie d'identità, non credi? Sempre meglio di niente.» Il sorriso di Rebus si allargò. Se lo vedeva, Barney Mee, il piccolo ma testardo combattente, che si rimboccava le maniche per salvare Mitch. Gli anni che lo separavano da quel fatto parvero scomparire. Era come se il passato e il presente potessero convivere, come se il passato fosse un elemento del presente, una sua caratteristica fantasmatica, ma imprescindibile. Nulla si era perduto, nulla era stato dimenticato; il riscatto era sempre possibile. Eppure, se quello era vero, come poteva Rebus tollerare di non vedere mai il dottor Margolies sul banco degli imputati, perché i suoi crimini sarebbero stati conosciuti solo da un ristretto numero di persone? E come giustificare l'apparente decisione del pubblico ministero di perseguire Cary Oakes soltanto per il tentato omicidio di Alan Archibald? Tutte le prove trovate nell'auto di Jim Stevens dagli uomini della scientifica, cioè le impronte e i reperti organici che ricollegavano il killer alla morte del giornalista, potevano essere ritenute nulle: Oakes vi era salito molte volte, in precedenza. Dannazione, ben tre funzionari di polizia l'avevano visto allontanarsi dall'aeroporto a bordo di quella vettura. Il dossier Stevens non sarebbe stato chiuso, ma nessuno avrebbe condotto altre indagini. Tutti sapevano chi era il colpevole, però, in mancanza di una confessione, non era possibile fare nulla. «Limitiamoci all'imputazione più grave», aveva detto il pubblico ministero. Il che significava rinunciare anche ad accusare Oakes di aggressione nei confronti di Rebus, benché l'autista del taxi fosse pronto a testimoniare. «La difesa potrebbe disporre di troppi argomenti a suo favore», aveva sostenuto il pubblico ministero. Rebus cercava di non interpretarlo come uno smacco personale. Sapeva che un processo era uno strano gioco, in cui chi era più bravo rischiava di perdere, mentre chi barava spesso ne usciva vincitore. Si rendeva conto che alla polizia toccava il compito d'investigare e presentare le prove, mentre agli avvocati come Richie Cordover toccava ingarbugliare ogni cosa al punto di persuadere giurati e testimoni che i sostenitori del Celtic cantavano l'inno dei Rangers e che Cowdenbeath era un
luogo di vacanze ideale. «Ehi, John?» stava dicendo Brian Mee. «Sì, Barney?» Nel sentirsi chiamare così, Brian scoppiò a ridere. «Che ne diresti di passare insieme un week-end, noi due soli, eh? Potremmo fare un duo di karaoke, o vedere se riusciamo a riprendere i contatti con qualche vecchia fiamma.» «La proposta mi sembra allettante, Barney. Uno di questi giorni ti telefono.» Entrambi sapevano benissimo che non l'avrebbe fatto. «D'accordo, allora, hai promesso.» «Ciao, Barney.» «Ciao, John. È stato bello rivederti...» Un altro pedofilo era stato scarcerato, stavolta a Glasgow. Il GAP aveva noleggiato un pullman, trasferendo a Renfrew, dove, secondo certe voci, l'uomo aveva trovato riparo, un gruppo di affiliati. Alcuni - i più giovani avevano trascorso la notte in città, finendo per ingaggiare una battaglia di strada in piena regola. Furono in molti, almeno in certi settori metropolitani, ad augurarsi che la pubblicità negativa scatenata da quei disordini facesse suonare la campana a morto per l'organizzazione. Ma Van Brady continuò a rilasciare interviste e ad avere la sua foto pubblicata sui giornali, sempre sperando nella lotteria per raccogliere fondi. Ai cronisti piaceva quel suo modo di esprimersi, fatto quasi esclusivamente d'insulti e imprecazioni, anche se, negli articoli, quei toni dovevano essere abbondantemente smorzati. Si tenne un servizio funebre in ricordo di Jim Stevens. Rebus vi partecipò. Sospettava che Stevens, da vivo, avesse litigato con almeno i tre quarti delle persone presenti alla cerimonia. Tuttavia, nel vedere intorno a sé facce meste e nell'udire gli elogi funebri, non poté fare a meno di pensare che Jim avrebbe desiderato qualcosa di diverso. Più tardi, organizzò una personale piccola veglia funebre nella stanza sul retro dell'Oxford Bar con tre o quattro degli avventori più chiassosi, maleducati e divertenti. Continuarono a bere fino a mezzanotte passata e le loro risate sovrastarono quasi la musica che un'improvvisata orchestrina suonava in un angolo del locale. A passi malfermi, Rebus raggiunse Oxford Terrace, gettò gli indumenti nel cesto della biancheria sporca e si fece una doccia. «Puzzi ancora di fumo», gli disse Patience mentre lui s'infilava a letto. «Mantengo vive le tradizioni», rispose. «Non per nulla Edimburgo è
chiamata 'Auld Reekie', 'vecchia fumosa'.» Rebus fu incuriosito dal fatto che Cal Brady intendesse parlargli. Cal era in libertà provvisoria, in attesa del processo in cui avrebbe dovuto rispondere di numerosi reati commessi la notte della gazzarra a Renfrew. La telefonata di quella mattina era giunta del tutto inattesa. Rebus uscì da St. Leonard senza comunicare dove fosse diretto. S'incontrarono a metà di Radicai Road. Cal aveva scelto per l'appuntamento un luogo non troppo lontano da casa sua, che non fosse però una stazione di polizia, perché voleva che quel loro colloquio si svolgesse al riparo da orecchie indiscrete. Tirava un vento così forte che Rebus si sentiva pizzicare i lobi. Di tanto in tanto, uno sprazzo di sole riusciva a erompere dal cielo lasciato momentaneamente libero dalle nuvole che correvano veloci, per sparire subito dopo. Cal Brady aveva, oltre a pesanti ecchimosi sotto gli occhi e a un labbro spaccato, una vistosa fasciatura alla mano sinistra; inoltre zoppicava leggermente. «È andata male, eh?» commentò Rebus. «Quei bastardi di Glasgow...» Cal scosse la testa. «Ma non si trattava di Renfrew?» «Renfrew, Glasgow... è lo stesso. Fuori di testa, tutti quanti. Per loro, menarsi significa prenderti a morsi la faccia.» Rabbrividì e si strinse addosso la giacca di jeans. «Puoi abbottonarla», gli disse Rebus. «Eh?» «La giacca... se hai freddo.» «Ehi, ma così sembri un tamarro. Le giacche Levi's sono fighe solo se le tieni aperte.» Rebus non seppe come replicare a quell'osservazione. «Ho sentito dire che anche lei è stato conciato maluccio.» Rebus si guardò il braccio. Non lo portava più al collo, era solo incerottato. Un'altra settimana ancora o poco più e i punti di sutura si sarebbero riassorbiti. «Perché hai voluto vedermi, Cal?» «Quelle accuse...» «Qual è il problema?» «Coi precedenti che mi ritrovo, sicuro come il fuoco che mi condannano.» «E allora?» «Allora potrei sempre sfangarla.» Roteò una spalla. «Mi darebbe una mano a uscire dai casini?» «Dovrei metterci una buona parola?»
«Già.» Rebus infilò le mani in tasca, come se si stesse rilassando. In realtà, era rimasto in stato d'allerta fin da quand'era arrivato sul luogo dell'appuntamento, cinque minuti prima di Brady: temeva una trappola o una possibile imboscata. Una lezione appresa da Cary Oakes. «Perché dovrei farlo?» chiese. «Senta, non sono mica uno di quegli stronzi che parlano, chiaro?» Rebus fece un cenno col capo, a mo' di conferma, perché gli sembrava che Cal lo volesse. «Ma qualcosa mi arriva alle orecchie», proseguì l'altro. «Cerco di non sentire, però a volte non posso farne a meno.» «Per esempio?» «Metterà una buona parola per me?» L'ispettore smise di camminare e fece finta di ammirare il panorama. «Potrei sostenere che sei uno dei miei. Potrei dare l'impressione che tu mi sia molto utile.» «Ma così non divento una delle vostre spie, vero? Il punto è questo.» «Che cos'hai da darmi in cambio?» Cal si guardò intorno, come se persino in quel luogo qualcuno potesse sentirlo. Quando abbassò la voce, Rebus dovette accostarsi a lui perché il sibilo del vento gli impediva quasi di udirlo. «Lei sa che io lavoro per il signor Mackenzie?» «Sei un suo buttafuori.» Brady sembrò un po' sulle spine. «A volte la gente gli deve del denaro. Capita in un sacco di attività commerciali.» «Certo.» «Sono sicuro che i suoi debitori sanno quali rischi corrono.» Rebus sorrise. «Un simpatico eufemismo, il tuo.» Brady si guardò intorno. «Petrie», disse infine, come se quel nome spiegasse ogni cosa. «Lo so», replicò Rebus. «Nicky Petrie doveva a Charmer del denaro ed è stato picchiato perché non se lo dimenticasse.» Ma Brady stava scuotendo la testa. «Quella coi debiti era la sorella.» «Ama?» Brady scosse la testa. «Allora perché prendersela con Nicky?» Brady sbuffò. «Quella puttanella è un tipo tosto. Forse lei non l'ha notato. Però vuole bene al fratellino. Adora il piccolo Nicky...» «Perciò il messaggio in realtà era rivolto a lei?» Rebus ricordò una frase che Ama gli aveva detto alla gara: A chi devo del denaro? «Perché non si
era fatta dare i soldi dal padre?» «Il fatto è che lei in quel momento non voleva chiederglieli e lui non glieli avrebbe dati.» «Ancora non capisco. Che cos'ha a che vedere con me, tutto questo?» «Il loro appartamento.» «E allora?» «Ci vive quella ragazza. La bionda che lei sta cercando.» Rebus fissò Brady. «In quell'appartamento?» Cal stava annuendo. «Come si chiama la ragazza?» «Mi pare Nicola.» «Come fai a sapere tutte queste cose?» Brady si strinse nelle spalle. «Non sanno tenere la bocca chiusa, i mocciosi di quel gruppo.» Rebus ripensò alla scena sul battello... L'ubriaco che stava per dirgli qualcosa, ma era stato zittito da Ama Petrie... «La conoscono, questa Nicola, nel gruppo?» «La conoscono tutti.» Il che significava che tutti avevano mentito a Rebus... inclusi i due fratelli, Nicky e Ama. «È la ragazza di Nicky?» Un'altra spallucciata. «Di Ama, magari?» «Io non ficco il naso nei loro casini», ribatté Cal, agitando la mano come per mettere fine al colloquio. «Dimmi di te, Cal. Abiti ancora a casa di Joanna?» «Non sono cazzi suoi.» «Come sta Billy Boy? Non credi che starebbe meglio fuori dei piedi, col padre?» «Joanna non vuole.» «Qualcuno ha chiesto a Billy che cosa vuole lui?» La voce di Brady si alzò di tono. «È ancora un ragazzino. Come può saperlo?» «Scommetto che tu, alla sua età, sapevi benissimo che cosa volevi.» «Forse», concesse Brady dopo averci riflettuto. «Ma ci può giurare che non ci sono riuscito.» Scoppiò a ridere. «Forse non ci sto riuscendo neppure adesso. Sa che penso?» «Cosa?» «Aspetti e vedrà.»
E Rebus aspettò, mentre Cal Brady si abbassava la cerniera lampo dei pantaloni, tirava fuori il pene e cominciava a orinare sul ciglio di Radicai Road. Tenendosi a distanza di sicurezza, Rebus ebbe la sensazione che Cal stesse pisciando su Holyrood, su Greenfield, su St. Leonard: un gigantesco arco di pipì che copriva l'intera città. E in quel preciso momento, se ne fosse stato capace, Rebus lo avrebbe imitato. 52 Mentre tornava a St. Leonard con Siobhan Clarke, dopo aver concluso un'indagine, Rebus fece una deviazione verso la New Town. Siobhan sapeva quand'era il momento di non fare domande: lui le avrebbe detto ogni cosa al momento opportuno, non prima. Era pomeriggio inoltrato e Rebus fermò l'auto accanto al marciapiede, con le luci di posizione lampeggianti, la mente rivolta a Nicky Petrie. Fargli visita o no? La ragazza ci sarebbe stata? Petrie avrebbe inanellato un'altra serie di menzogne e mezze verità? Siobhan stava per dire qualcosa quando vide le mani di Rebus irrigidirsi sul volante. Una donna stava scendendo le scale della casa di Petrie. Soltanto allora Rebus si accorse che c'era un taxi in attesa. Quando la donna vi montò, lui riuscì a scorgerla meglio: alta, flessuosa. I capelli biondi tagliati alla paggetto. Abito nero e calze dello stesso colore, sotto un ampio soprabito di lana, nero anch'esso. Rebus spense le luci di posizione e, apprestandosi a seguire il taxi, cominciò a spiegare ogni cosa a Siobhan. «Dove credi che stia andando?» «C'è un solo modo per scoprirlo.» Il taxi si diresse verso Princess Street, l'attraversò e procedette a passo d'uomo lungo The Mound. Superò l'incrocio in cima al viale e girò a destra in Victoria Street. La destinazione finale risultò essere Grassmarket. Nicola pagò l'autista, scese. Si guardò intorno, con aria vagamente incerta. Il suo viso sembrava una maschera. «Ci va un po' pesante col trucco», osservò Siobhan. Rebus stava tentando di parcheggiare. Non avendo trovato neanche un buco, lasciò l'auto in uno spazio contrassegnato da una linea gialla singola. Se gli avessero dato la multa, questa sarebbe finita con le altre nel cassetto dei guanti. «Dov'è diretta?» chiese, scendendo dalla vettura. «Verso Cowgate, mi pare», rispose Siobhan.
«Che diavolo ci va a fare?» Mentre la zona di Grassmarket era stata ripulita, quella immediatamente a destra era ancora una sorta di Selvaggio West: un angolo di Edimburgo di cui la gente che viveva ai margini della società si poteva, almeno per il momento, appropriare. Senza dubbio la situazione sarebbe radicalmente cambiata non appena i politici vi avessero messo piede. I senzatetto erano fermi agli angoli della strada o seduti sui gradini di una chiesa sconsacrata: pantaloni sformati e barbe incolte, bocche sdentate e schiene curve. Rebus e Siobhan, nello svoltare l'angolo, videro che la donna camminava con esagerata lentezza in mezzo a una falange di ammiratori, di cui soltanto pochi si arrischiavano a chiederle qualche spicciolo o una sigaretta. «Le piace esibirsi», osservò Siobhan. «Non si dà certo arie.» «C'è un'unica cosa che mi sconcerta...» Ma Nicola si era girata, come per ringraziare uno dei barboni che aveva emesso un lungo fischio di ammirazione, e, nel farlo, si accorse dei due poliziotti. Si voltò di scatto e accelerò l'andatura, stringendo a sé la tracolla di pelle di zebra. «Non si può certo dire che in questa zona ci si senta protetti», commentò Siobhan. «Sa chi siamo», sibilò Rebus. Si misero a correre tutti e tre, lanciandosi lungo il marciapiede della strada che passava sotto il George IV bridge. Nicola portava scarpe col tacco basso e riusciva a correre in fretta, benché il soprabito lungo le impacciasse un po' i movimenti. Approfittò di un varco apertosi nel traffico e schizzò sul lato opposto della strada. Cowgate era un orrendo viale: un angusto canyon circondato da alti edifici. Quando c'era molto traffico, il monossido di carbonio non trovava il modo di dileguarsi. I punti di sutura nel petto di Rebus lo costrinsero a rallentare il passo. «Guthrie Street», disse Siobhan. Era lì che si stava dirigendo Nicola. Avrebbe potuto così raggiungere Chambers Street, dove aveva maggiori probabilità di seminare i suoi inseguitori. Ma, mentre svoltava nella ripida stradina, andò a sbattere contro un passante. L'impatto la mandò quasi a gambe all'aria. Qualcosa cadde a terra, ma la donna riprese a correre. Rebus si fermò a raccogliere ciò che le era caduto. Una parrucca bionda, corta. «Che diavolo è?»
«È quanto stavo cercando di dirti», replicò Siobhan. Davanti a loro, Nicola cominciava a essere a corto di fiato, tanto da doversi sostenere al muro mentre percorreva la strada in salita. Zoppicava anche un po', segno che, nella collisione, si era storta una caviglia. Alla fine, proprio mentre stava per imboccare Chambers Street, coi capelli corti che ora erano più color castano chiaro che biondo, si arrese e si fermò, con la schiena al muro, respirando affannosamente. Il sudore le stava rigando il cerone che aveva in faccia. Dietro quella maschera, Rebus vide qualcuno che conosceva fin troppo bene. Non Nicola, bensì Nicky. Nicky Petrie. Quel Petrie che aveva detto: In questa città, così puritana, c'è forse un altro modo per provare qualche fremito? Fermandosi davanti al giovane, Rebus si sentì avvampare internamente. Non riusciva quasi a parlare. «È arrivato il momento di dirci tutto, signor Petrie.» Sbatté la parrucca in testa a Nicky, il quale, con aria quasi di ribrezzo, se la tolse e se la premette sul viso. Era difficile distinguere il sudore dalle lacrime. «Oh, Dio mio, Dio mio, Dio mio», continuava a ripetere. «Dov'è Damon Mee?» «Oh, Dio mio, Dio mio, Dio mio.» «Non credo che Dio possa aiutarla, Nicky.» Osservò i suoi abiti. Potevano appartenere ad Ama Petrie: fratello e sorella avevano una figura simile, anche se lui era leggermente più alto e massiccio. L'abito nero gli andava infatti un po' stretto. «È questo che le piace fare, Nicky? Vestirsi da donna?» «Non c'è nulla di male», intervenne Siobhan. «Non siamo mica tutti uguali.» Nicky la guardò, battendo le palpebre. «Dovrebbe pettinarsi meglio, tesoro», le disse. Siobhan sorrise. «Probabilmente ha ragione.» «Chi la trucca, Nicky?» chiese Rebus. «Ama?» Il giovane raddrizzò le spalle. «Tutta opera mia.» «E poi viene in questa zona della città? Cammina su e giù, per raccogliere fischi d'ammirazione?» «Non mi aspetto che lei...» «Non interessa a nessuno ciò che lei si aspetta, signor Petrie.» Rebus si rivolse a Siobhan. «Va' a recuperare l'auto.» Le consegnò le chiavi. «Dobbiamo accompagnare il qui presente signor Petrie alla stazione di polizia.»
Gli occhi di Nicky si dilatarono per la paura. «Perché?» «Per rispondere a qualche domanda su Damon Mee. E per spiegarci per quale motivo non ha fatto altro che raccontarci bugie.» Petrie sembrò sul punto di dire qualcosa, poi si morse le labbra. «Faccia come le pare», replicò Rebus. E, rivolto a Siobhan: «Va' a prendere l'auto». Rebus interrogò Nicky Petrie per mezz'ora. Si assicurò che nella stanza degli interrogatori potesse entrare chiunque fosse anche soltanto spinto dalla curiosità. Petrie se ne stava seduto con la testa tra le mani, a occhi bassi, mentre un continuo viavai di funzionari e di agenti commentava le sue scarpe, le calze e l'abito. «Posso procurarle un paio di pantaloni e una camicia», gli propose Rebus. «Lo so cosa sta cercando di fare», ribatté Petrie mentre erano momentaneamente soli. «Se continua a umiliarmi così, io, da quella signora che sono, non aprirò bocca.» Cercò di abbozzare un sorriso di sfida. «Sono sicuro che suo padre verrà di corsa a salvarla», commentò Rebus, compiaciuto nel vedere che le labbra del giovane perdevano un po' del loro colore. «Non ho bisogno di mio padre.» «Non lo metto in dubbio, ma dobbiamo informarlo. Sarà molto meglio per tutti noi se contattiamo lui, invece che la stampa.» «La stampa?» Rebus si abbandonò a una risata che sembrava un latrato. «Crede che i giornalisti siano disposti a passar sopra a uno scoop del genere? No, signore, per un giorno lei avrà l'onore delle prime pagine. Congratulazioni, Nicky. Un po' di cerone e una parrucca, qualcuno potrebbe persino pagarla per avere l'esclusiva.» «Non c'è bisogno che lo vengano a sapere», replicò Petrie a voce bassa. Rebus si strinse nelle spalle. «Le stazioni di polizia sono veri e propri crivelli, Nicky. Tutte le persone che ha visto entrare qui dentro... non posso prometterle che terranno la bocca chiusa.» «Bastardo.» «La pensi come vuole, Nicky.» Rebus si chinò verso di lui. «A me interessa soltanto sapere dove posso trovare Damon Mee.» «Su questo, non posso esserle d'aiuto», ribatté Nicky Petrie, cercando di assumere il più possibile un tono di sfida.
Piano numero due: Ama Petrie. La ragazza piombò nella stazione di polizia come una tromba d'aria. Cal Brady era nel giusto: aveva un debole per il fratellino. «Dov'è? Che gli avete fatto?» Rebus la guardò, cercando di mantenere una parvenza di assoluta calma. «Non dovrei farle io queste stesse domande?» Lei parve non capire. «Damon Mee», le spiegò Rebus. «Nicky l'ha incontrato da Gaitano's e l'ha portato con sé sul battello in cui lei stava dando una delle sue feste. È l'ultima volta in cui è stato visto vivo, signorina Petrie.» «In tutto questo Nicky non c'entra.» Erano seduti nella stessa stanza in cui Rebus aveva interrogato Nicky Petrie, il quale era stato nel frattempo rinchiuso in cella. Era la stessa stanza in cui Harold Ince aveva fatto a Rebus le sue prime ammissioni. Ince era stato condannato a dodici anni, Marshall a otto; entrambi avrebbero scontato il grosso della pena a Peterhead. Se Rebus avesse saputo a chi rivolgersi in quel carcere, avrebbe potuto mettere una buona parola per Ince, ma non conosceva neppure un'anima, laggiù... «Perché Nicky non c'entra?» chiese. «È colpa mia, non sua.» Rebus capì: la ragazza era convinta che Nicky avesse parlato, che in un certo senso avesse ammesso la propria responsabilità. Lo stava sottovalutando. C'era un'incrinatura nella sua corazza, come Cal Brady aveva intuito: un eccessivo amore per il fratello. Si appoggiò allo schienale della sedia, perché aveva capito come condurre quella partita. Chiese alla ragazza se desiderava bere qualcosa. Lei scosse violentemente la testa. «Voglio fare una deposizione», si lasciò sfuggire poi. «Probabilmente desidererà l'ausilio di un legale, signorina Petrie.» «Al diavolo gli avvocati.» S'interruppe. «Nicky è qui? In questo posto?» «Al sicuro in una cella.» «Al sicuro?» Le tremò la voce. «Povero Nicky...» Aveva gli occhi asciutti, ma il volto contratto. «Damon Mee sapeva che Nicky non era una donna?» «Difficile non capirlo...» Rebus si strinse nelle spalle. «Il travestimento di suo fratello è piuttosto convincente.»
Ama si lasciò scappare un sorrisetto. «Ha sempre detto che lui sarebbe dovuto essere la femmina e io il maschio.» Nicky era scappato di casa a dodici anni, rammentò Rebus. Da allora aveva continuato a fuggire... «Che cos'è avvenuto sul battello?» «Avevamo bevuto tutti un po' troppo.» Lo guardò. «Sa, alle feste...» Stava cercando d'ingraziarselo. Era troppo tardi, ma Rebus annuì. «A un certo punto Nicky ha portato sottocoperta quel bestione.» «Bestione?» «Sì, nel senso di tutto muscoli e niente cervello. Non sono una snob, ispettore.» «Certamente no. Immagino che tutti voi foste al corrente delle... inclinazioni di Nicky.» «Nel nostro gruppo, sì. Alcune coppie si sono messe a ballare, e Nicky e quel Damon si sono uniti a loro.» I suoi occhi si velarono, come se lei stesse rivedendo la scena. «Nicky aveva la testa sulla spalla di Damon e, per una frazione di secondo, i nostri sguardi si sono incrociati... e lui pareva così felice.» Chiuse gli occhi. «Poi che è successo?» La ragazza riaprì gli occhi e fissò il piano del tavolo. «Alfie e Cherie formavano una delle altre coppie. Alfie era sbronzo come non mai. Per scherzo, ha strappato a Nicky la parrucca. Nicky si è messo a inseguirlo, mentre Damon rimaneva immobile, come se fosse stato colpito da un fulmine. Aveva un'espressione... Al momento ci è sembrato tutto molto divertente. La sua faccia era un poema. Poi Damon ha imboccato di corsa la scaletta. Nicky se n'è accorto e lo ha inseguito...» «E scoppiata una rissa?» Lei lo fissò. «Le ha detto questo?» Sorrise. «Povero Nicky... L'ha visto, ispettore. Non farebbe del male a una mosca. No, quando sono salita sul ponte, ho visto che quel Damon aveva buttato Nicky a terra. Gli stringeva il collo tra le mani e intanto gli sbatteva la testa contro il ponte. Gliela sollevava... e poi la faceva andare giù con forza. Allora ho afferrato una bottiglia vuota, tirandogli un colpo sulla tempia. Ma lui non ha perso i sensi o qualcosa del genere. La bottiglia non è andata neppure in frantumi, come si vede nei film. Però ha lasciato andare Nicky e si è alzato, barcollando.» «E...?» «Mi è sembrato che perdesse l'equilibrio. È caduto di lato, finendo in acqua. È strano... il ponte non è poi così alto sulla linea di galleggiamento... Il rumore del tuffo è stato quasi impercettibile.»
«Lei che ha fatto?» «Dovevo assicurarmi che Nicky stesse bene. L'ho riportato sottocoperta. Aveva la gola dolorante, ma sono riuscita a fargli bere un goccio di brandy.» «Volevo sapere che cosa ha fatto per Damon.» «Oh, quello...» Rifletté. «Be', quando sono risalita in coperta, di lui non c'era traccia. Ho immaginato che avesse raggiunto la riva a nuoto.» Rebus la fissò. «È assolutamente sicura di aver pensato una cosa del genere?» «In tutta onestà, non sono sicura di essermi chiesta che fine avesse fatto. Era sparito e non poteva più far del male a Nicky, che era l'unica cosa che m'importasse. A parte questo, non mi è mai importato altro. Perciò, qualunque cosa le abbia detto Nicky, deve capire che l'ha fatto solo per proteggere me. In cella dovrei andarci io. Nicky va rimandato a casa.» «Grazie per il consiglio.» «Lo lascerà andare, vero?» Rebus si alzò e si chinò sul tavolo verso di lei. «Conosco la famiglia di Damon, ho visto quanto soffrono per la sua scomparsa. Il suo prezioso fratello non sa neanche la metà di tutto questo.» Lei lo fulminò con lo sguardo. «E perché dovrebbe?» Rebus pensò a migliaia di risposte, ma capì che Ama le avrebbe confutate tutte, a una a una. Le disse invece che aveva bisogno di una dichiarazione scritta. Avrebbe mandato qualcuno a raccoglierla. Poi si avviò verso la porta. «Dopo, lascerà andare Nicky, vero, ispettore?» Volle prendersi almeno quella piccola vittoria: uscì senza dire una parola. EPILOGO Quello stesso pomeriggio, più tardi, si ritrovò a Cowgate, ma stavolta più a est, oltre l'obitorio, diretto verso la futura zona residenziale di Holyrood. Al di là, riusciva a intravedere un paio dei casermoni di Greenfield e, alle spalle di questi, i Salisbury Crags. Il sole era già tramontato, ma c'era ancora luce. In quel periodo dell'anno il crepuscolo durava a lungo. Per quel giorno i lavori di demolizione si erano fermati. Rebus non sapeva esattamente che cosa prevedesse il piano regolatore, ma era certo che lì sarebbero sorti la sede di un giornale, un parco a tema e l'edificio che avreb-
be ospitato il parlamento. Tutto sarebbe stato pronto per il XXI secolo, o almeno quelle erano le previsioni. Portare la Scozia nel nuovo millennio. Si sforzò di avvertire un briciolo di speranza, ma si accorse che il suo cinismo aveva ormai il sopravvento. Niente più crepuscolo, ormai. Era buio. Tutt'intorno a lui le ombre sembravano sollevarsi, mentre in distanza echeggiavano i rintocchi di una campana. Il sangue che era filtrato in mezzo alle pietre, le ossa che giacevano ammassate alla rinfusa per l'eternità, le storie e gli orrori del passato e del presente di Edimburgo... Rebus capì che ogni cosa sarebbe stata riportata in superficie dalle ganasce d'acciaio delle scavatrici, sarebbe stata messa a nudo, mentre la città cominciava la sua lenta ascesa per tornare a essere ancora una volta la capitale di una nazione. Dimentica, John, si disse. Questa è l'Old Town, nient'altro. Cary Oakes si trovava nella stanza dei colloqui nel carcere di Saughton. Non gli avevano messo le manette e, a tenerlo d'occhio, c'era solo un secondino. C'era quasi da sentirsi offesi, sminuiti. Poi la porta si aprì ed entrò il patrocinatore. Era così che da quelle parti chiamavano gli avvocati della difesa: patrocinatori. Cary sorrise e chinò la testa in segno di saluto. Il legale era giovane, sembrava pieno di buona volontà, ma anche agitato. Era la prima volta, probabilmente. Poco male. Quand'erano principianti, lavoravano sodo per farsi strada... ti dedicavano ore in più, non si tiravano mai indietro. Cary non aveva nulla contro il sangue giovane. Attese che l'avvocato si sedesse e fosse pronto ad ascoltarlo, il taccuino aperto, la penna stretta nella mano destra. Poi iniziò la sua tiritera. «Sono innocente, amico mio, perciò mi deve aiutare. Lei ha il dovere di farlo: lei ha il dovere di darmi una mano. Detto tra noi, posso provare di non aver mai commesso reati.» Si chinò in avanti, appoggiò i gomiti sul tavolo. «Le farò fare carriera. Lei è il mio uomo, lo sento.» E gli rivolse un ampio sorriso. FINE