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MAXIME CHATTAM ARCANA (Les Arcanes Du Chaos, 2006) Se per caso volete concedervi il piacere di dare a queste parole un tocco d'emozione in più, vi propongo le colonne sonore dei film che mi hanno accompagnato durante la stesura di quest'opera: - House of Sand and Fog (La casa di sabbia e nebbia), di James Horner. - Un long dimanche de fiançailles (Una lunga domenica di passioni), di Angelo Badalamenti. - Existenz, di Howard Shore. - Batman Begins, di Hans Zimmer e James Newton Howard. - The Forgotten, di James Horner. Mi auguro che possano portarvi lontano, così come hanno fatto con me. Edgecombe, 20 ottobre 2005 www.maximechattam.com PROLOGO Estratto del blog di Kamel Nasir, 12 settembre Questa è una storia vera. La affido al computer nel silenzio di questa stanza, sperando che la memoria collettiva possa accedervi presto. Ma non si gratta mai subito una ferita, bisogna attendere che si cicatrizzi. Per trovare il coraggio di rimettere in discussione un passato doloroso, occorre del tempo. Io ho fatto del mio meglio per non tralasciare nulla. Ho cercato il essere il più obiettivo possibile nel redigere questa testimonianza. Mi sono basato essenzialmente su documenti che potrete procurarvi senza difficoltà. È tutto vero. Voi che leggete queste righe non sapete ancora ciò che vi aspetta. Lo choc di una verità svelata. Di un susseguirsi di piccoli fatti inquietanti, appena intravisti con la coda dell'occhio, che presto acquisteranno un senso. Possiate essere in molti a interrogarvi. A non dimenticare.
E soprattutto, in molti a riunirvi. Altrimenti, loro ci inghiottiranno. Hanno già cominciato. Loro sono potenti. Feroci. Yael non ci credeva. Lei e Thomas sono passati dall'altra parte. La prossima volta, potrebbe toccare a voi. Perché tutto può precipitare in un istante. È successo ai miei amici. Chi sarà il prossimo, o la prossima? PRIMA PARTE Il mondo delle ombre 1 Era un giovedì. Yael si stava rilassando nella vasca da bagno, la schiuma che produceva una sorta di lieve crepitio mentre le sue mani sbucavano dalla superficie untuosa reggendo la penna e la rivista. La giovane donna aveva raccolto i capelli riccioluti sopra la nuca, formando un groviglio di stelle filanti brune. Una volta tanto, il test di Cosmopolitan non era troppo sdolcinato. Ma, se per questo, nemmeno intelligente! «Fate il bilancio della vostra vita attuale in 10 domande.» Tutto un programma. Yael decise di rispondere con la massima franchezza, circolettando le risposte che corrispondevano al suo profilo. 1. In amore, sei del tipo: A. Single di lungo respiro. B. Seguace forzata dello speed-dating. C. Incline a legami di breve durata. D. Uno il mercoledì, uno il sabato e un altro la domenica, se è carino. E. Perbene e accasata. Yael esitò. Aveva avuto la sua fase C, e al momento oscillava tra A e B: un amante occasionale intervallato da lunghi periodi di solitudine. Vada per B. 2. Dal punto di vista professionale, sei:
A. In periodo di apprendistato, piena di interrogativi. B. Disoccupata o casalinga. C. Attiva malinconica. D. Studentessa che sa ciò che vuole. E. Attiva-passiva. Abbinare «disoccupata» a «casalinga» la diceva lunga su una certa mentalità, anche femminile... Yael si stupì pure di non vedere da nessuna parte la casella «attiva felice». Di bene in meglio. Nel suo caso, comunque, la risposta non poneva alcun dilemma: C. 3. Di aspetto fisico, ti trovi: A. Domanda successiva. B. Ma sì, può andare, perché? C. Mi dicono che sono ricca di fascino. D. Piuttosto attraente, ma che fatica! E. Quando passo, la gente si volta. Yael alzò gli occhi al soffitto. Che domanda idiota. Sospirò. La risposta B le si addiceva. Era modesta: a detta delle sue amiche, lei piaceva ai ragazzi. La C poteva essere realistica, benché sottintendesse un «affascinante ma racchia» che non le andava a genio. Forza, bando alla falsa modestia: D. Non controllava rigorosamente la linea e non faceva palestra per niente. 4. Per te, il week-end significa: A. Davanti al televisore. B. Letture e passeggiate. C. Serate tranquille tra amiche. D. Si va in disco, baby! E. Sotto il piumone con il mio uomo. Yael fece un segno accanto ad A, B e C. Insomma, una zitellona, è così? Alla fine, optò per la B, che si avvicinava di più alle sue abitudini. Gironzolare per Parigi e divorare fumetti erano i suoi passatempi preferiti, come anche diventare la regina del telecomando nei giorni di pioggia. Diede una rapida scorsa alle domande seguenti, fece il computo delle lettere e andò alla sintesi che si supponeva descrivesse la sua situazione
presente. Se hai ottenuto una maggioranza di C: «Sei un tipo che ama star chiuso nel suo bozzolo nel weekend, non proprio felice del suo lavoro e piuttosto incline a considerare Cenerentola una sgualdrina perché ha trovato il Principe Azzurro. Consolati, non sei la sola! È il male della nostra epoca! Ma eccoti una buona notizia: si può curare! A forza di serate con le amiche, di uscite per cui stavolta dovrai automotivarti, perché è così che ti ossigenerai, in tutti i sensi possibili del termine... Fai il punto sul tuo lavoro; se è così insoddisfacente, inizia a cercartene uno nuovo! Dai sapore alla tua esistenza trovando l'occupazione che più ti si addice. Nulla di irrealizzabile, basta eliminare un po' di pigrizia e inquietudine dalla tua testa. «Quanto a quel pizzico di odio che nutri verso più o meno tutto ciò che ti circonda: società, politica, persino la gente... be', qui bisogna fare uno sforzo... Coraggio, una seduta di massaggi agli oli essenziali, un incontro con i bei volontari di Greenpeace e una serata tra amiche per commentare il nuovo calendario del XV di Francia,* e vedrai: vivere insieme ha i suoi lati positivi!» Yael gettò la rivista sul tappeto del bagno. Per la centesima volta giurò a se stessa di non perdere più tempo con quel genere di stupidaggini... A ventisette anni, forse era ora di consolarsi in un altro modo. Yael afferrò il rasoio Bic posato sul bordo della vasca e lo fece scivolare lungo le gambe, poi si rialzò in piedi. Il vapore condensato nascondeva la sua figura slanciata, impedendole di riflettersi nello specchio sopra il lavabo. Lei vi diede una passata con un asciugamano, e apparvero le sue spalle quadrate, ricordo degli anni di atletica, della sua adolescenza, i seni rotondi, generosi, il ventre che cominciava a essere un po' meno sodo... Si pizzicò la pelle sotto l'ombelico. Niente di che, per adesso, ma se non ci sto attenta... Yael si guardò dritta negli occhi. Occhi grigio-bianchi. Quasi troppo chiari. Lo sguardo di un husky, come diceva sua madre. Un contrasto sorprendente con il nero dei capelli. Qualche neo sul viso - dei punti di riferimento per le carezze, gli aveva sussurrato il suo primo grande amore. Il naso sottile, e quelle labbra che detestava... Troppo grandi e carnose. Attiravano gli uomini, questo le aveva insegnato l'esperienza. Ma Yael non ne era compiaciuta. Non era mai riuscita ad accettare il rapporto tra la sua plastica sensualità e il desiderio sessuale
che suscitava. Una ciocca le scendeva davanti all'orecchio, attorcigliata, fluttuante... Succedeva tutte le volte che si legava i capelli. Le somigliava un po', quasi il prolungamento esterno di quello che lei era interiormente. Quella sua incapacità di piegarsi a ciò che le veniva imposto. La spingeva sempre a tentare di liberarsi dai vincoli, quelli dell'attività lavorativa, della vita sentimentale e, naturalmente, della potestà parentale quand'era più giovane. Aveva conosciuto le scuole di ogni grado, i collegi... e le scappatelle. Una madre comprensiva ma antiquata, un padre autoritario... Un percorso quasi banale, aveva constatato crescendo. Lei che immaginava di essere unica nel suo genere, si era allora resa conto della banalità della sua storia, e anche del divorzio dei suoi genitori, cinque anni prima. La loro instabilità, i loro scontri, le loro riconciliazioni, poi di nuovo i loro litigi. E la gestione dell'appartamento. Invece di rivendere la casa al momento della separazione, suo padre aveva proposto a sua madre di giungere a un accomodamento economico e di andarsene entrambi lasciando l'appartamento alla figlia. Tutti erano stati contenti. Tutti eccetto Yael, a cui nessuno aveva chiesto un parere. A ventidue anni si era ritrovata sola dalla sera al mattino. Sola in quel grande appartamento. In seguito, il padre si era messo in testa di scrivere il romanzo della propria vita, quello di cui parlava da un paio di decenni, e per farlo si era esiliato nell'adorata Bretagna, il manoscritto che si allungava alla velocità del sedimentare degli anni. La madre invece si era rifatta una vita con un restauratore del Sud-ovest, trascorrendo in sua compagnia un lustro felice fino al 13 aprile, quattro mesi prima, il giorno funesto in cui la coppia era morta carbonizzata in un incidente automobilistico. Un venerdì 13. Un po' troppo alcool in corpo dopo una serata tra amici, una velocità troppo elevata sulle stradine di campagna costeggiate da faggi, e nell'uscita di una curva il veicolo era andato ad accartocciarsi contro un tronco. Yael, prostrata dal dolore, era caduta in una profonda depressione, prima che il tempo, questo rimedio universale, a poco a poco le curasse l'anima. La madre era stata tutta la sua famiglia. Yael non si era mai sentita vicina al padre, e quanto ai nonni, avevano lasciato questo mondo dopo una vita discreta. Dei due fratelli della mamma, non aveva notizie. Uno viveva in Inghilterra, l'altro a Marsiglia, senza che lei sapesse nulla di loro. La famiglia Mallan non aveva mai avuto il culto della genealogia, piuttosto quello del si-
lenzio e dell'«ognuno per sé». Il padre di Yael aveva perduto il proprio all'età di un anno, durante la guerra. Si considerava un orfano a metà, allevato da una madre taciturna e autoritaria che non aveva nemmeno pianto alla morte del marito. Yael prese a tremare. Le goccioline d'acqua tinta d'olio le creavano sulla pelle un manto di madreperla. Abbrancò un asciugamano e se lo avvolse intorno al corpo. Una volta asciutta, si infilò i pantaloni della tuta che prediligeva quando stava a casa la sera, e una maglietta senza maniche. Quindi si accinse a uscire dal bagno, la mano posata sull'interruttore. Fu in quel preciso momento che si verificò il fenomeno. Alla periferia del suo campo visivo. Un movimento fugace. Così leggero che Yael credette a un gioco di ombre con la porta che si apriva. Ed era proprio quello: un'ombra. Che si muoveva nello specchio. Poi il buio tornò nella stanza. * La nazionale francese di rugby. [N.d.T.] 2 Venerdì era il giorno dello Shoggoth. Yael adorava lo Shoggoth. Era un nome che trovava appropriato. Ricordo di una delle creature dei giochi di ruolo che praticava in collegio, lo Shoggoth era un mostro gelatinoso con centinaia di occhi un po' dappertutto. Esattamente come il suo cliente del venerdì. Un tipo obeso, avvolto in un soprabito che decorava con decine di globi oculari appuntati sul tessuto impermeabile. Perché Yael vendeva occhi. Tra le altre cose. E anche animali morti. Lavorava da Deslandes, la casa parigina specializzata in tassidermia celebre da oltre un secolo e mezzo. Vi era entrata l'estate di due anni prima, per guadagnare un po' di soldi. Il lavoro era interessante, originale. E così l'impiego temporaneo era divenuto stabile, ancorando la giovane a una vita professionale lontana dalla sua formazione e dai suoi titoli di studio.
Il cammino scolastico di Yael era stato difficoltoso. Una volta conseguito il diploma di maturità a diciannove anni, non sapendo cosa fare aveva scelto di frequentare la facoltà di Lettere moderne. Una laurea strappata in quattro anni, e partiva per effettuare un anno di studio supplementare... negli Stati Uniti. Con una decisione improvvisa, dopo aver letto un opuscolo, aveva fatto di tutto per completare il dossier per il programma di scambio che aveva come tema «La letteratura e l'espansione delle frontiere del linguaggio». Aveva trascorso un anno a Portland, in Oregon. Ma non si era sentita a proprio agio, laggiù, ed era tornata in patria mentre un serial killer imperversava nella città e nella regione circostante, diffondendo una psicosi dello straniero che rendeva il clima insopportabile. Per un altro anno aveva tentato invano di aggrapparsi al progetto di ottenere un master, continuando nel frattempo a svolgere lavoretti saltuari, cameriera di sera o commessa in un negozio di abbigliamento, finché un mattino di luglio non era passata davanti alla vetrina di quella strana bottega. Un cartello fissato con lo scotch al vetro annunciava che cercavano qualcuno per l'estate... E due anni dopo, abbandonate le velleità accademiche, era ancora lì. Era un lavoro vario. Riceveva i clienti, li consigliava, catalogava i nuovi arrivi di minerali e insetti secchi, procedeva all'essiccazione delle farfalle, di cui venivano sempre consegnate intere casse... In compenso, nei suoi compiti non rientrava l'imbalsamazione. Era Lionel, il collega, a occuparsene. Svuotare i cani delle anziane signore per imbottirli di stoppa non l'allettava per niente. Tutti i giovedì sera, Yael verificava la consegna degli stock di occhi di vetro che servivano a sostituire quelli degli animali impagliati. Ciascun paio era unico; il fornitore aveva l'esigenza di non fabbricare mai un occhio uguale all'altro. E ogni venerdì, da quattro mesi a quella parte, lo Shoggoth si presentava immancabilmente per esaminare la gamma di sguardi che Yael poteva proporgli. Con gli occhi nuovi creava dei gioielli, inserendovi una spilla per aggiungerli a tutti gli altri sul suo impermeabile, o incastonandoli per farne degli anelli che gli ricoprivano le dita grassocce. Lo Shoggoth ispezionava i globi di vetro inclinando la testa di lato e manifestando una tenerezza poco consona alla circostanza. La nuca coperta di capelli fini e dritti si corrugava, scavando dei solchi nel grasso del collo. Sfiorava gli oggetti del suo desiderio con la punta dell'indice, umettandosi le labbra, poi scuoteva su e giù il capo in segno di approvazione. E se ne andava con le preziose reliquie.
Malgrado il comportamento e il look ributtante, Yael aveva finito per provare affetto nei suoi confronti. Lui almeno era divertente e inoffensivo, a differenza di qualche altro cliente. La peggiore era la signora Caucherine, una vecchia bisbetica che si presentava ogni tre mesi con un cane nuovo, esigendo sistematicamente che lo impagliassero. La prima volta, Yael non aveva ben capito e si era sforzata di spiegare che l'operazione sarebbe stata eseguita con la massima cura quando la povera bestiola fosse passata a miglior vita, che avrebbe dovuto portarla da loro entro ventiquattro ore dal decesso, conservandola nel frigo dentro un panno. Era la procedura che continuava a ripetere senza mai riuscire a capacitarsi che quelle parole uscissero dalla sua bocca. La signora Caucherine però aveva scosso la testa, indispettita: voleva che il suo cane venisse impagliato subito. Gli era piuttosto affezionata, ma iniziava a diventare molesto adesso che abbaiava troppo di frequente. Lei non desiderava altro che vivere con il suo ricordo, che sarebbe stato «più che sufficiente, ormai». Yael l'aveva riaccompagnata alla porta insistendo sull'impossibilità di un tale modo di procedere e aggiungendo che non ci si poteva separare da un cane simile. Tre mesi più tardi, l'anziana signora era ricomparsa davanti al bancone del negozio, con un cane diverso ma la medesima richiesta. Yael aveva avvertito la polizia, che aveva trovato la storia molto divertente. Il caso era allora passato alla protezione animali. Inutilmente, perché la signora Caucherine ritornava tre o quattro volte l'anno, sempre con un cane nuovo e la stessa intenzione di ammazzarlo per farlo impagliare. Altezzosa e sprezzante, ricordava la Crudelia della Carica dei 101. E Yael, tra le teste di cervo e di daino appese alle pareti, aveva finito per sognare di vederne una nuova: quella della signora Caucherine. Era una professione in cui ti imbattevi in un sacco di tipi strambi, ma facevi anche degli incontri toccanti A volte bisognava stare a consolare un cliente per mezz'ora. Per alcune persone, soprattutto di età avanzata, perdere il proprio cane o gatto significava perdere l'ultimo, affettuoso compagno. Venivano a piangere lì, come al funerale di un parente. Con il tempo, Yael aveva imparato a non giudicare quelli che venivano a far impagliare i loro animali domestici. Alcuni desideravano fare del loro micio un tappetino per continuare a dormire con lui, altri volevano avere la testa del proprio cane sulla mensola del camino per potergli ancora grattare il muso. Dietro la maggior parte di queste singolari richieste, lugubri, aveva pensato Yael all'inizio, si nascondeva una sofferenza, un vuoto profondo. Si impagliava l'essere amato per non perderlo.
Erano stati tutti questi incontri, tutte queste vite così differenti, così particolari, che l'avevano indotta a restare, mese dopo mese, a credere che Deslandes fosse una sorta di club formato da membri l'uno più stravagante dell'altro. Non appena arrivato, lo Shoggoth si inchinò per salutare Yael e si affrettò a chiedere: «Ne sono arrivati di nuovi?» Yael mormorò la domanda all'unisono con lui. Sempre la stessa, e sempre la stessa risposta. «Sì, come al solito.» Si abbassò per aprire uno degli stipi sotto il banco e allineò i due espositori di velluto davanti all'omone. «La lascio guardare», aggiunse. L'altro deglutì sfregandosi le mani ed esaminò tutte quelle pupille che lo fissavano. I suoi occhi ardevano di cupidigia. Yael rimase a osservarlo, appoggiata agli alti armadi che ospitavano decine e decine di sottili cassetti. La sala in cui si trovavano emanava una serenità rassicurante. Lei si era sempre interrogata sull'origine di quell'atmosfera di pace. Dipendeva dall'architettura stessa del luogo - un antico palazzo privato degli inizi del Diciottesimo secolo - o dal silenzio di tutti quegli animali estinti? C'era un'alchimia paradossale tra la loro condizione e ciò che ispiravano. Quel pelame morbido, quelle teste serafiche sembravano magnificare la morte. Dimostrare che non poteva distruggere tutto, portare via ogni cosa. Lo Shoggoth scosse freneticamente il capoccione; aveva scelto. «Prenderò questi due. L'azzurrognolo e quello grosso.» Yael assentì e impacchettò gli occhi con della carta velina prima di incassare gli euro che l'uomo le tendeva. La banconota era umidiccia. Lo Shoggoth aveva caldo, sudava. Scomparve in fondo al lungo corridoio, nell'altra sala, verso la scala che conduceva al pianterreno. La giornata proseguì tranquilla fino all'ora di chiusura. Yael si annodò i capelli sulla nuca con un elastico prima di uscire nella calura del tardo pomeriggio. Adorava Parigi in agosto. Le sue vie dai rilievi argentei, resi affilati come lame dalla mancanza d'aria e dalla temperatura torrida. La giovane si aggiustò gli occhiali scuri per proteggere gli occhi troppo chiari e scese lungo rue du Bac. La sua silhouette danzava ondeggiante nei riflessi delle
vetrine. Non incontrò anima viva. Nemmeno un'auto. L'intera città era deserta. Yael camminò fino a Denfert-Rochereau, dove viveva. Una parvenza di traffico scorreva oziosa sull'asfalto molle. Raggiunse rue Dareau in cinque minuti e spinse il pesante portone, attraversò il cortile costeggiando una siepe di arbusti piantati in voluminose fioriere di legno e salì i gradini esterni che portavano al primo piano e all'uscio di casa. L'appartamento in cui avevano abitato i genitori per molti anni era unico nel suo genere, frutto dei deliri architettonici di un urbanista che negli anni Ottanta aveva lavorato per la rete viaria di Parigi. Yael entrò nel vestibolo, depositò la borsa di tela e si liberò dei sandali. Un alto specchio fronteggiava l'ingresso. Il salone, situato al centro dell'abitazione, aveva una superficie di cinquanta metri quadri, con il soffitto che culminava sette metri più su e un mezzanino, servito da una scala a pianerottoli, che occupava due pareti. Il primo pianerottolo era stato sistemato a studio. Spazioso e bizzarro, si estendeva in un'ampia rientranza e dominava il salone a due metri di altezza. Il pianerottolo successivo era un corridoio che circondava l'ambiente centrale e dava accesso alle camere del piano. In alto, a sovrastare l'insieme, il tetto si apriva su un pozzo di luce filtrata da imponenti lucernari. Ma l'originalità del salone stava nel pavimento, di vetro. Gli arredi, alquanto esotici - un canapè decorato con motivi africani, un tavolo che evocava il Maghreb e dei paraventi asiatici -, poggiavano su un'immensa lastra di vetro nero che contrastava con la tinta beige delle pareti. Il sole irrompeva dal soffitto e accendeva le calde stoffe delle poltrone, i parati appesi qua e là. Curiosamente, i raggi dorati precipitavano sul pavimento senza infrangersi: ci passavano attraverso. Sotto lo spesso strato di cristallo scuro si intuiva un prolungamento sotterraneo; i muri scendevano ancora di parecchi metri, una quindicina in tutto, sempre più indistinti man mano che si perdevano in una densa pozza di tenebre stagnanti. Un abisso. Per riflesso automatico, Yael azionò l'interruttore. I fari incassati nella pietra, dieci metri sotto la lastra di vetro, si risvegliarono. Giù in basso, lontano sotto le strade in superficie, un frammento del ventre di Parigi si offrì alla luce. Due collettori d'acqua emersero l'uno di fronte all'altro sopra una cisterna collegata alla rete fognaria cittadina. L'architetto aveva voluto svelare una parte di quei sotterranei che assorbivano le acque di scolo degli abitanti della capitale. Aveva praticato
un'incisione nella crosta protettiva - «dissimulatrice», amava ripetere - in modo da esporre questa rete complessa, asportando uno spesso quadrato di quella pelle grigia per costruirvi sopra la sua casa. Quando pioveva, era possibile vedere, in trasparenza, i due collettori scaricare torrenti di schiuma verso il serbatoio gorgogliante. Yael alzò la levetta dell'interruttore e l'oscurità degli abissi si proiettò di nuovo verso i suoi piedi, più rapidamente di un geyser sotto pressione. La lastra di vetro si offuscò sino a perdere la trasparenza. Quando Yael riceveva visite, il fenomeno generava un certo malessere negli ospiti: un senso di vertigine, la paura di precipitare in un simile paesaggio infernale. Per lei, al contrario, era una fonte di contemplazione, il suo personalissimo focolare. Poteva restare delle ore senza fare niente, osservando il movimento delle acque che si urtavano nella penombra. Erano le otto di sera passate. All'improvviso, dal mezzanino giunse un miagolio di rimprovero. Un gatto nero, fulvo e marrone corse giù dalla scala, con il pelo arruffato. «Kardec...» mormorò Yael. «Sta' buono. Sono tornata.» Il micio cominciò a strofinarsi contro le sue caviglie, facendo le fusa. Il nome testimoniava una passione adolescenziale di Yael: l'esoterismo. Aveva avuto un periodo «occulto» in cui guardava film di streghe, acquistava «libri di magia» e organizzava sedute tra ragazze per tentare di parlare con i defunti intorno a un tavolo. Poiché il gatto aveva un forte significato simbolico nelle differenti mitologie, il suo nome era stato scelto in omaggio al padre dello spiritismo: Allan Kardec. «Lo so, anche tu mi sei mancato», disse, chinandosi ad accarezzarlo. Lo aveva appena recuperato dopo un soggiorno di due settimane da una vicina mentre lei era in vacanza a Rodi. Yael passò sotto l'arco che separava il grande salone dalla cucina e scese i pochi gradini che portavano a un livello leggermente inferiore. Le tre finestre erano sature di luce, mettendo in risalto gli smalti e il pavimento a piastrelle dai colori vivaci. La giovane si versò un bicchiere colmo di succo di pomodoro fresco e tornò sui propri passi per sistemarsi comodamente su una morbida poltrona. Kardec le saltò subito sulle ginocchia e si distese beato. I suoi occhi si strinsero per la felicità. Yael bevve qualche sorso di succo prima di notare la spia rossa accesa della segreteria telefonica. Allungò il braccio per mettere in funzione l'ap-
parecchio. «È presente un messaggio», annunciò una voce digitale. «Il messaggio è stato registrato alle ore diciassette e venti. Ciao, bella! Sono Tiphaine. Ascolta, sono davvero spiacente, ma stasera non posso venire. Pat mi ha proposto di passare assieme un week-end lungo in un Relais et Châteaux... Scusami, faremo un'uscita tra donne non appena ritorno. Baci. Ah, e... ehm... tu esci lo stesso, non restartene in casa come un'appestata. Siamo in agosto, fa un caldo torrido e le strade sono piene di bei turisti. Forza, approfittane! Ti abbraccio. Fine dei messaggi.» Yael tirò un sospiro sprofondando nella poltrona. Fece scivolare una mano tra le orecchie del gatto. «Dunque, niente venerdì di baldoria», considerò, delusa. «Va bene per te, eh? Significa una serata di carezze e coccole davanti alla tv, il tuo sport preferito.» Squillò il telefono. Yael alzò il ricevitore. «Sì?» Nessuna risposta. «Pronto», insistette. «Non sento niente.» Attese ancora qualche secondo, pensando che si trattasse di un cellulare che prendeva male. Poi udì una specie di scricchiolio. Secco e musicale. Come una lastra di cristallo che si incrina. «Pronto!» Lo scricchiolio si ripeté, più prolungato. Esattamente come del ghiaccio o del vetro che si rompe, ragionò tra sé. Infine, un clic segnalò che all'altro capo della linea avevano riattaccato. Yael fece altrettanto, un po' sorpresa. Pazientò ancora un momento nel caso avessero provato a richiamarla, ma l'appartamento rimase silenzioso. Persino Kardec aveva smesso di fare le fusa. Seduta in mezzo al salone, Yael centellinò ciò che restava del succo di pomodoro, interrogandosi su cosa avrebbe fatto quella sera. Cominciò con il sondare il proprio umore. Aveva voglia di vedere gente. Di rilassarsi. Tiphaine aveva ragione. Doveva uscire, svagarsi. In un istante, prese una decisione. Le bastava andare al Violon Dingue, un locale che conosceva bene in rue de la Montagne-Sainte-Geneviève, covo di tutti gli anglosassoni di passaggio. Poteva buttar giù qualche bic-
chiere, chiacchierare in inglese e scambiare delle idee. Yael spinse via delicatamente il gatto e salì al piano superiore per aprire l'acqua della doccia. Dabbasso, Kardec si sedette sul bracciolo e sollevò la testa verso il mezzanino. Nel silenzio del vestibolo, il grande specchio rimandava l'immagine di una porta d'ingresso e di un armadio accanto a un attaccapanni. Era tutto calmo alla fine di quella bella giornata di agosto. Fu allora che, molto lentamente, un'ombra emerse dallo specchio e ne oscurò la superficie. Il gatto balzò giù dal bracciolo e corse di sopra ventre a terra. L'ombra si era fissata nello specchio, senza fare il minimo rumore. Poi, come liberato da un velo nero, lo specchio tornò a riflettere una scena tranquilla nella luce della sera. 3 L'alcool è come il cioccolato. Un finto amico. Un traditore. Yael non smetteva di ripeterselo da un quarto d'ora. Sia l'uno sia l'altro possedevano virtù ristoratrici o dopanti per il morale, ma non era che un'illusione. Peggio: provocavano dei guasti sulla linea che acceleravano la caduta libera del suddetto morale. Yael temporeggiò. Non ordinare subito un altro Malibu, sei già un po' brilla! Auscultò il bicchiere vuoto, prigioniero delle sue lunghe dita. La musica pop-rock riempiva le pause nella conversazione di una clientela poco numerosa per un venerdì sera. Yael ruotò sullo sgabello. Aveva voglia di parlare, di fare conoscenze... era avida di novità e doveva approfittarne, perché non le accadeva più tanto spesso. Gettò uno sguardo ai gruppetti sparpagliati nella grande sala. C'erano due uomini soli al bar, tra cui il tipo che stava adocchiando già da un po'. Sulla trentina, abbastanza carino, abbronzato, capelli castani e barba di tre giorni, il tutto confezionato in una camicia elegante e un paio di pantaloni di tela. Disinvolto ma curato. Yael aveva agganciato il suo sguardo limpido quando si erano incrociati alla toilette. Un posticino non proprio romantico, tuttavia la scintilla dell'attrazione si era accesa. Uscendo, lui per poco non l'aveva fatta cadere, e l'aveva afferrata per la spalla con una mano forte. Si era scusato in ingle-
se, con un sorriso confuso, prima di lasciarla. Adesso che il fardello di timidezza si stava a poco a poco dissolvendo nell'alcool, lei non poteva trattenersi dal guardarlo con maggiore insistenza. La sua gestualità le piaceva. Stava sfogliando una rivista di annunci immobiliari mentre assaporava un cocktail dall'estremità di una cannuccia. Sembrava completamente distaccato dal luogo, assorto com'era a decifrare le piccole inserzioni. Sollevò il viso e contemplò la sala con aria pensosa. Il suo sguardo vagò sino a incontrare quello di Yael. Accorgendosi che lei lo osservava, sulle labbra gli si disegnò un sorriso. Quindi si rituffò nella rivista. Yael emise un sospiro. Datti una calmata, cocca! Sì, è belloccio, e allora? Cosa vuoi fare? Scendere dallo sgabello per andargli a parlare? Abbordarlo così sfacciatamente? Yael scrutò il bicchiere vuoto. Ripensò al test che aveva fatto la sera prima nella vasca da bagno. Il famoso bilancio. A che punto era, oggi? Ventisette anni, un lavoro temporaneo che si trascinava avanti, prospettive future scarse o inesistenti, vita sentimentale pari a zero, o quasi. Senza rischi, e quindi senza miracoli. Normale. Quell'uomo la attraeva. Perché non poteva tentare un approccio? Fare il primo passo per avviare una conversazione... e poi stare a vedere. «Testarlo» e tornarsene a casa a dormire se il risultato non era di suo gusto. A meno che non preferisse rincasare subito e da sola, tormentata dai rimorsi. Yael picchiettò nervosamente con le unghie sul bancone. Non aveva mai fatto una cosa del genere. Non era possibile. Quale donna avrebbe avvicinato un uomo in un pub per adescarlo? Piantala con queste cazzate, ipocrita che non sei altro! Non siamo più nel Medioevo! La voce di Tiphaine risuonò nella sua testa: «Oggi la vera volgarità è sciupare una storia d'amore, per quanto breve, con il pretesto della moralità o dell'incertezza! Vivi nel secolo della modernità, mia cara. Tutto va veloce: le comunicazioni, l'informazione, il TGV, le buone occasioni, l'intera vita, in definitiva. Perciò, datti da fare e scopa! Il Principe Azzurro potrà arrivare oppure no. Ma almeno te la sarai spassata cercandolo!» Non si poteva precisamente definire alta filosofia, però aveva il merito di andare dritto al sodo. Yael talvolta aveva la sensazione di appartenere
alla vecchia generazione, più timorata, dove in un certo qual modo ciascuno aveva il proprio posto. Gli uomini e le donne. Le capitava di trovare questo normale, e ogni tanto di considerarsi un po' «sorpassata». Solo che bisognava evolversi con il tempo. Del resto, era quello che faceva l'amore. Non il sentimento in sé, ma la ricerca, il modo per trovarlo, la sua percezione. Se fosse rimasta lì ancora un'ora a dirsi che quel tipo le piaceva per poi, alla fine, vederlo andarsene, ci avrebbe guadagnato solo dei rimpianti per arricchire la notte. Ora o mai più. Vada come vada! Yael ordinò un altro Malibu e, armata di bicchiere, si alzò dirigendosi verso di lui. Devo essere matta! continuava a ripetersi. Tutto a un tratto, provò un'enorme stima per quelle donne capaci di andare da uno sconosciuto per fargli un'avance. Ci voleva una bella dose di coraggio. L'uomo in questione, il «bersaglio», distolse lo sguardo dalla rivista quando lei si avvicinò. I suoi tratti assunsero un'espressione curiosa: dapprima le sopracciglia tradirono stupore, poi la bocca amplificò il movimento gioioso che le sembrava naturale. «Hi!» esordì Yael a mo' di preambolo. «I've been watching you from...» Lui alzò una mano davanti a sé, con la palma aperta. «Può parlare in francese», disse l'uomo con un accento anglosassone appena marcato. «L'ho sentita ordinare il drink.» Yael dissimulò l'imbarazzo facendo finta di sistemarsi una ciocca di capelli. «Mi spiace, credevo che fosse... Poco fa si è scusato in inglese.» «Un riflesso condizionato. Mi chiamo Thomas», si presentò lui tendendo la mano. «Tom.» Lei gliela strinse; aveva i bordi morbidi e l'interno più sodo. «E sono canadese, in realtà.» «Piacere, Yael.» «Un nome grazioso.» «In ebraico significa 'capra della montagna'. Non fa molto glamour!» replicò lei ridendo. «Ma è un appellativo affettuoso, come dire ma biche* in francese.» Thomas levò il bicchiere verso il suo.
«Allora le si addice. Felice di conoscerla, Yael.» I bicchieri tintinnarono incontrandosi. Thomas scivolò sullo sgabello accanto per liberare il posto e invitarla a sedere. I suoi capelli castani erano tagliati corti, lasciando appena intuire che si arricciavano. Aveva il mento quadrato e delle labbra rosa che mettevano in risalto l'abbronzatura. «Cerca casa a Parigi?» s'informò Yael indicando la rivista di annunci immobiliari. Ingollò una sorsata di Malibu. Dopo tutto, non era poi così difficile. «Ci sto pensando. Sono di Vancouver, sulla costa occidentale del Canada, ma lavoro sempre di più con la Francia.» «E ha avuto fortuna?» chiese lei lanciando un'occhiata alla copertina del periodico. «No, non lì dentro. Sono un po' esigente, e non sto molto spesso a casa, anche se mi piacerebbe. Sono...» «Mi lasci indovinare la sua professione!» lo interruppe Yael. Era chiaramente uno sportivo, a giudicare dalle spalle, si prendeva cura del suo fisico senza essere un palestrato... L'immaginò sovente in viaggio. Non un lavoro manuale, ma nemmeno troppo intellettuale... «Lei è... un fotografo!» esclamò. Thomas inarcò le sopracciglia, sorpreso. «Quasi!» disse, divertito. «E lei cos'è? Una veggente? In effetti, sono un dinosauro. Faccio un mestiere in via di estinzione. Reporter indipendente. Oggi che tutta la stampa è più o meno schierata, riesco ancora a mantenere la mia libertà e autonomia.» Sondò gli occhi grigi della giovane domandando: «Un reporter deve sapersela cavare anche con la macchina fotografica, a volte. Ha usato qualche trucco o fa parte dei servizi segreti?» Yael fece spallucce. «Mi sono affidata al mio sesto senso.» Bevve un altro sorso di Malibu sperando di nascondere il suo rapimento. Lui parlava un francese perfetto, con appena un'ombra di accento, e da vicino sembrava ancora più affascinante. Gli occhi brillavano di passione quando menzionava il suo lavoro. «E lei? Oltre a essere una chiaroveggente?» Yael si riscosse dalla sua contemplazione. «Ehm... io sono...» Lasciò la frase in sospeso e simulò un'aria misteriosa che fece ridere
Thomas, poi proseguì: «Adesso tocca a lei indovinare». Si sentiva frivola a causa dell'alcool. Thomas lanciò uno sguardo all'orologio. «Ahimè, non ho il suo dono e devo scappare tra un minuto.» Fece segno al barman di portargli il conto. L'euforia di Yael svanì di colpo. «Avanti, me lo dica, sia gentile», insistette lui mentre il barista arrivava con il conto. «Soddisfi la mia curiosità.» Yael tentò di celare il proprio disappunto dietro un'affabile fermezza. «Temo che non sia possibile. Niente tempo, niente risposta.» «Questo non è leale!» protestò lui pagando con la carta di credito. «Lei su di me ne sa di più!» «Le informazioni si pagano, signor Tom. Non faccio altro che barattare del tempo con la mia professione.» Lo scambio di battute era diventato un gioco di seduzione. Il barman tese a Thomas la ricevuta della carta di credito e una biro. Lui la firmò dopo aver scarabocchiato sulla rivista per provare la penna. «Mi piacerebbe tanto continuare questa chiacchierata, Yael, ma devo proprio andare. Sono ospite di un amico per la notte.» Indicò con il pollice gli annunci del periodico. «Bisogna davvero che mi trovi un appartamento», aggiunse. «E recuperi la mia autonomia.» Yael tentennò il capo, cercando di mascherare la delusione. Quell'uomo le piaceva davvero, e stava per scomparire. «E se un giorno volessi commissionarle un reportage, come faccio?» chiese. Si sentì avvampare le guance. Era uscita allo scoperto, rischiando il tutto per tutto. Era già pentita di quella domanda. Per chi l'avrebbe presa? «Sono negli immobili», fece lui, allontanandosi con una strizzatina d'occhio. «Arrivederci, Yael.» E uscì in strada, dileguandosi all'istante. Yael appoggiò i gomiti sul bancone del bar, sorreggendosi il mento con le mani. Hai fatto la figura della stupida! Osando troppo, comportandoti come una puttanella... Hai chiuso con l'alcool! Provava vergogna. «'Sono negli immobili'», ripeté a bassa voce. Che cosa aveva voluto dire
il reporter? Lo sguardo le cadde sulla rivista di annunci posata sul bancone. A meno che... L'aveva visto scarabocchiarci sopra prima di firmare la ricevuta. Piena di speranza, si allungò per prendere la pubblicazione e la aprì. Era lì, sulla prima pagina. Scritto in fretta e furia a penna. Il suo numero di cellulare. Yael rientrò a casa poco dopo la mezzanotte. Kardec la accolse intrufolandosi tra le sue gambe, come se fosse spaventato. «Be', che ti prende?» Si inginocchiò ad accarezzargli la testa, dove gli piaceva di più, tra le orecchie. Il gatto socchiuse gli occhi, mostrando di gradire quelle attenzioni. Yael si sentiva bene. Non avrebbe saputo dire se dipendesse dal Malibu o dall'incontro con Thomas. Un po' da entrambi, probabilmente. Kardec si mise infine a fare le fusa. «Ecco...» La giovane tirò fuori il pezzetto di carta con il numero telefonico che aveva strappato dalla rivista e lo posò sul tavolo nell'ingresso, fiera come una brava scolara che portasse a casa la pagella. Restava da decidere che cosa farne. Ogni cosa a suo tempo. Si sbottonò la camicetta andando a cercare una bottiglia di Évian in cucina, quindi salì di sopra per darsi una rinfrescata. Azionò l'interruttore della stanza da bagno. Le luci si accesero, scacciando le tenebre. Tuttavia, un'ombra opaca si soffermò più a lungo sullo specchio, come se il vetro fosse affumicato. Yael strizzò gli occhi. Lo specchio era tornato normale. Il fenomeno non era durato più di un secondo. Te lo sei sognato! Hai bisogno di una bella dormita. Si piegò sopra il lavabo per spruzzarsi il viso di acqua fredda. Poi si raddrizzò. Fu in quel momento che la vide. Proprio alle sue spalle. Non era un'illusione ottica, e neppure uno scherzo della stanchezza. Un'ombra umana si rifletteva nello specchio. Alta e massiccia. Dietro la
tenda della doccia. Non c'era alcun dubbio. A meno di un metro da lei. * «Cerva», in francese, ma anche «cocca», «tesoro». [N.d.T.] 4 Yael urlò. Un grido di paura mista a rabbia. Agguantò il flacone di profumo sul lavabo, si voltò di scatto e lo lanciò con tutte le forze contro la tenda della doccia. La boccetta colpì mollemente la plastica prima di rimbalzare sul bordo della vasca e rompersi in un'esplosione di cristallo e ambra. Yael era già protesa verso la porta per fuggire quando si rese conto che l'ombra non c'era più. Rimase un istante immobile, riprendendo fiato. Le sue pupille perlustrarono ansiose ogni angolo della stanza. Niente. Nessuno. Non riusciva a capire. Eppure l'aveva distinta con chiarezza. Tornò a girarsi verso lo specchio e subito fece un balzo all'indietro. L'ombra era là. Yael gettò un rapido sguardo dietro di sé per accertarsi che non ci fosse nessuno. Nessuno di reale. Ma no, niente. La sagoma scura era solo nello specchio. «Che cosa...» mormorò, accorgendosi che il cuore le stava scoppiando. Il terrore iniziale di essere aggredita da un intruso aveva lasciato il posto a una paura diversa, più incisiva, del tutto irrazionale. Come poteva un'ombra apparire in uno specchio senza la presenza di un corpo nella stanza? Deglutì rumorosamente. L'ombra si mosse nello specchio. Con lentezza. Scivolò sotto la superficie liscia, verso il bordo. E uscì dalla cornice. Yael batté le palpebre. L'ombra era scomparsa. Non c'era più nulla. Tutto era tornato alla normalità. Le gambe le tremavano, non la reggevano più. Si lasciò scivolare pian piano lungo la parete, fino a sedersi tra i frammenti di vetro del flacone di profumo. Restò così per alcuni lunghi minuti. Si sforzava di comprendere. C'era una spiegazione. Doveva esserci.
Fu allora che Yael avvertì un dolore acuto. Del sangue era colato a terra, sulle piastrelle. Un pezzetto di vetro triangolare le si era conficcato nel piede. Lo afferrò delicatamente e tirò. Un rivoletto color porpora scorreva tra le pieghe del piede fin sul pavimento. Il soffitto della stanza emise uno scricchiolio. Non era mai capitato prima. La casa non aveva mai prodotto rumori del genere. Yael represse il singhiozzo che le saliva in gola. Dopo la paura e l'incredulità, adesso stava cedendo alla prostrazione. Si scosse e si rialzò bruscamente per ispezionare lo specchio, ma questo non rifletteva nulla di anomalo, solo un volto disfatto. Si sforzò di concentrare l'attenzione su gesti semplici, concreti. Disinfettare la ferita. Mettere un cerotto. Il profumo pervadeva l'ambiente di un'intensa fragranza che la stordiva. Uscì sul mezzanino che dominava il salone. Di fronte, sul pianerottolo intermedio, la rientranza adibita a studio brillava di una luce spettrale. Il monitor del computer era acceso. Yael aprì la bocca. Era più che certa che fosse spento quando era rientrata. «Concediti il beneficio del dubbio, d'accordo?» sussurrò con voce tremante. Stava accadendo qualcosa nell'alcova piena di piante verdi e raccoglitori. Il computer era al lavoro. Yael avanzò rasente la ringhiera, scese gli scalini... Sullo schermo era visualizzato il menu di un foglio elettronico. Scomparve subito per tornare al desktop. Poi il computer lanciò da solo il software per la lettura di file MP3, che si interruppe altrettanto velocemente. Diversi programmi si susseguirono allo stesso modo, come se la macchina stesse cercando quello giusto. Alla fine venne avviato il programma di videoscrittura. Una pagina vuota riempì lo schermo. Il cursore pulsava come un battito cardiaco. Nell'attesa di un comando da eseguire, di un carattere da visualizzare o di una parola che gli desse sostanza. «Cosa succede?» mormorò la giovane. Parlare la rassicurava. Tirò indietro la poltroncina per sedersi davanti al monitor e posò la mano sul mouse.
Ma prima che potesse chiudere la finestra del programma, il cursore si spostò. Delle parole cominciarono ad apparire sullo schermo. «Noi.» Lentamente. Quasi con difficoltà. «... siamo...» Una lettera dopo l'altra. «... qui.» 5 Yael si appoggiò allo schienale della poltroncina. Arrivarono altre parole. «Con... lei.» Il cursore restò immobile, poi riprese a lampeggiare. Yael era inchiodata allo schermo, incapace di staccarsene. Alla fine, decontrasse le dita tremanti e avvicinò le palme umidicce alla tastiera. Tutto ciò sembrava pazzesco. Ma c'era una spiegazione logica. Qualcuno era entrato abusivamente nel suo computer e si divertiva a spaventarla. Eppure, dentro di lei una vocina le suggeriva di non credere a quella possibilità. Non dopo ciò che era successo in bagno. Che cosa doveva fare? Alzare il ricevitore del telefono, tanto per cominciare. E avvertire... La polizia? No di certo! Mi prenderebbero per un'isterica! Chi, allora? Suo padre era partito per un trekking in India e per un mese sarebbe stato irrintracciabile. Tiphaine non sarebbe tornata prima di qualche giorno. Chi? Le poche persone cui si sentiva vicina erano assenti. Esitò a posare le dita sui tasti. In fondo, però, non era un'idea peggiore di un'altra. Iniziò a digitare, con molta cautela. «Chi siete?» Dopo di che attese, gli occhi incollati allo schermo. «Un tentativo stupido», commentò a bassa voce. Invece accadde l'improbabile. Una frase si formò sulla riga sottostante. «Noi... siamo... dall'altra parte.» Yael scosse la testa. «Nelle... ombre. Quelli... dall'altra parte... degli specchi.» La ragazza batté sulla tastiera con maggior convinzione. «Non capisco. Non ci credo», scrisse. Non successe niente.
Poi di colpo le sue parole si cancellarono dallo schermo. Yael sobbalzò. La risposta non tardò ad arrivare: «Nelle fondamenta». All'improvviso, l'intera casa si mise a scricchiolare e cigolare, come se la sua struttura portante fosse sottoposta a una forza titanica. Yael cacciò un urlo, ripiegando i piedi sotto i glutei e stringendo i gomiti contro i fianchi. Non si muoveva niente, ma i muri emisero un lungo, inquietante lamento. Poi tornò a regnare il silenzio. Yael, che si era sempre considerata una donna forte e abbastanza coraggiosa, si accorse che aveva le guance rigate dalle lacrime. Le emozioni sgorgavano in lei, sempre più dolorose man mano che i tentativi di razionalizzazione si dissolvevano in una sorta di caos, di vertigine. Una nuova frase apparve sullo schermo: «Noi siamo...là. Nei muri. Gli specchi sono... le nostre... finestre». Dopo un momento, ne seguì un'altra: «Noi siamo... nelle ombre. Nei simboli... Nell'occulto...» Yael espirò a lungo per cercare di regolare i battiti del cuore impazzito. «Lo zoccolo in basso sul muro, alla sua destra, il primo giù dai gradini. I simboli.» La pagina svanì dallo schermo e il computer si spense bruscamente. Yael era impietrita. Per cinque minuti buoni fu incapace di muoversi. Poi, senza lasciare la sua posizione, riuscì a esaminare la base della parete alla sua destra, i battiscopa di legno. A poco a poco riacquistò il controllo dei propri gesti. Si alzò e si avvicinò al fondo degli scalini. Si inginocchiò e picchiettò febbrilmente sul primo zoccolo. Non pensare! Fai quello che ti dice l'istinto, non cercare di razionalizzare, non è il momento. Forza! Il rettangolo di legno suonava vuoto. Il cuore le esplose nel petto. C'era davvero qualcosa lì dietro. Yael usò le unghie per staccare lo zoccolo e tirò. Un piccolo spazio era stato scavato nella pietra, non più grande di un panetto di burro. Yael inspirò a fondo prima di frugare nella cavità con la punta delle dita.
Ne estrasse l'oggetto che conteneva e lo spiegò davanti ai suoi occhi smarriti. Un biglietto da un dollaro. Blog di Kamel Nasir. Estratto 2 L'11 settembre 2001 ha aperto un nuovo secolo, quello degli specchi, assieme a ciò che riflettono del nostro mondo: l'apparenza; e a ciò che vi sta dietro: una visione soggettiva della realtà. Temo che, per molti, l'apparenza sia troppo forte, in una società da diverse generazioni condizionata dalla sua importanza, e che i leader politici e religiosi si servano una volta ancora delle apparenze per favorire i loro interessi, manipolando un gran numero di noi. Ho paura che questo secolo sia quello di una nuova guerra, preparata con cura, tra due fazioni, due culture, due concetti di Dio, in cui noi saremo le pedine da sacrificare mentre nell'ombra un pugno di individui muoveranno le fila per il loro tornaconto. Le mie parole sono un grido d'allarme, non scordatelo. Perché su questo blog presenterò dei fatti, delle prove, per dimostrare l'esistenza di un incredibile gioco di prestigio che si sta svolgendo in questo momento davanti ai nostri occhi chiusi; non crediate quindi che si tratti di una testimonianza valida solo per la nostra epoca, per un unico aspetto della nostra storia. Al contrario. Siamo già entrati da tempo in una nuova era, gli strumenti del potere esistono, e alcuni sanno perfettamente come maneggiarli. Ascoltando quello che ho da dirvi, forse imparerete - se ancora non l'avete fatto - ad analizzare questi metodi affinché tutto ciò non si ripeta mai più. La minaccia è permanente. Concerne la nostra natura umana e la società così come è strutturata. Vi chiedo soltanto una cosa: leggete questa testimonianza fino in fondo. Se vi apparirà assurda, magari esagerata, verificatene voi stessi ogni singolo punto. Vedrete che è tutto vero. Ben presto, non guarderete più il mondo allo stesso modo. Ve lo garantisco. 6 Il primo piano di Deslandes era costituito da una successione di vaste e
alte sale, le cui pareti scomparivano dietro antichi armadi a cassetti che custodivano le collezioni entomologiche e geologiche della casa. La fauna impagliata creava una strana atmosfera; orsi bruni con i denti in bella mostra stavano accanto a belve dall'aria minacciosa e a un esercito di mammiferi più o meno imponenti. Uno specchio di sei metri per tre, inserito in un'elaborata cornice, ampliava ancora di più l'ambiente. Dal suo arrivo, Yael si era premurata di evitare per quanto possibile quello spazio. Il parquet centenario si imbarcava fino a formare qua e là delle onde, e scricchiolava a ogni passo più di un veliero in alto mare. E in fondo all'ultima stanza, sotto l'immensa cupola verde che sovrastava un'impressionante sfilza di mascelle di squalo, si trovava Yael, protetta da quello statico zoo da un vecchio bancone polveroso. Di fronte a lei, il collega Lionel era seduto al tavolo da lavoro, intento a disporre delle enormi migali essiccate in alcuni espositori. Il grande palazzo privato che li ospitava era silenzioso, fresco e buio, poiché la maggior parte delle finestre era nascosta da tende opache destinate a salvaguardare certi pezzi particolarmente delicati. Yael non aveva aperto bocca per tutta la mattina. Si interrogava sulla condotta da tenere. Il bisogno di confidarsi, di espellere tutte le paure che l'avevano ossessionata per buona parte della notte, lottava in lei contro il desiderio di tacere, il timore di passare per una pazza, un'invasata. Lionel non era certo un gran chiacchierone. Poteva trascorrere quattro ore di fila in compagnia delle sue bestie senza spiccicare parola, completamente assorbito; non le aveva rivolto nessuna domanda tranne il sempiterno «Come va?» mattutino che non si aspettava risposta. Il suo look da skater contrastava con il carattere casalingo: capelli lunghi, sempre in bermuda, scarpe da basket Vans e t-shirt variopinte. Lionel aveva due passioni nella vita: la natura e l'heavy metal, il più violento possibile. Lui e Yael avevano instaurato un rapporto di complicità, opportunamente fondato sull'assenza di fronzoli. Si dicevano le cose con spontaneità, senza inutili preamboli o giri di parole. Parlavano poco, ma sapevano l'essenziale l'uno dell'altra. Lionel era un tipo taciturno, un sognatore, che viaggiava in ogni Paese del mondo attraverso gli animali su cui lavorava. Non si limitava a repertoriare una farfalla o a sistemare un fennec, no, lui nel medesimo tempo scostava le liane della foresta tropicale in Guyana o marciava nel caldo opprimente del deserto. La sua curiosità era sconfinata nel campo della geografia, della biologia animale, della botanica e della
geologia. In compenso, non manifestava il benché minimo interesse per i propri simili. Yael lo esortava a riprendere gli studi; con le sue conoscenze e la sua passione poteva ambire a un dottorato che gli avrebbe aperto porte assai più redditizie e gratificanti di quelle del vetusto edificio in cui vegetava. All'inizio della mattinata, Yael era stata sul punto di raccontargli tutto. Il risveglio, dopo una manciata d'ore di sonno, era stato angoscioso. I frammenti di vetro e l'odore nauseante del profumo versato in bagno avevano ridestato le sue ansie. Si era fatta la doccia al buio, rifiutandosi di guardare anche per un solo istante il proprio corpo nudo nel grande specchio. Ormai allo stremo, aveva quasi deciso di confidarsi. Ma dopo aver pranzato da sola all'aperto in una sala da tè, era tornata da Deslandes determinata a non rivelare il segreto a Lionel. Per quanto fosse comprensivo, il suo spirito cartesiano questa volta avrebbe rischiato di minare la loro amicizia. Yael aveva bisogno di sostegno, non di essere presa per matta. Il che non le impedì di cercare un'altra forma di aiuto, più indiretto. «Lionel, posso chiederti una cosa?» Il ragazzo rispose con un brontolio assorto che significava che la stava ascoltando. «Hai mai sentito parlare di simboli legati al biglietto da un dollaro?» Lionel si raddrizzò e spense la lampada che teneva sulla fronte con un elastico. «I simboli della banconota americana?» domandò. Yael aveva ancora impressa nella mente quella frase, quella litania: «Noi siamo... nelle ombre. Nei simboli... Nell'occulto...» «Sì», confermò lei. «Sto cercando un nesso tra l'occulto, i simboli o le ombre, e il biglietto da un dollaro.» Il collega si dondolò sullo sgabello. «D'accordo», disse, come al solito. «Ebbene, c'è tutta una serie di simboli su quel biglietto, ma è arcinoto.» «Io non ne sapevo niente», confessò lei a fior di labbra. «Davvero non ne hai mai sentito parlare? C'è su Internet e nei libri... Tutti i simboli che ricoprono la banconota, base ed emblema dell'economia americana.» Fedele all'abituale precisione e alla memoria senza fondo, Lionel recitò lentamente: «Il numero esoterico 13 si trova dappertutto sulla banconota. La pirami-
de stampata sopra è composta da 13 file di mattoni, mentre l'aquila stringe tra gli artigli da un lato 13 frecce, e dall'altro un ramo con 13 foglie e 13 olive. Lo scudo sull'aquila ha 13 strisce, e sopra la sua testa ci sono 13 stelle. Inoltre, al centro del sigillo del dipartimento del Tesoro, si possono contare 13 stelle. A questo punto, non può essere un caso. Ci sono anche i due motti, non ricordo bene...» «E pluribus unum e Annuii Coeptis», precisò Yael, che aveva passato buona parte della notte a esaminare in dettaglio la banconota, fino a imprimersi nella mente ogni scritta e ogni particolare. «Significano rispettivamente 'Da molti, uno' e 'Favorisce la nostra realizzazione': ho consultato l'enciclopedia.» «D'accordo. E se guardi bene, noterai che ciascun motto è formato da 13 lettere. E sul recto, sopra l'1 in alto a destra, c'è una minuscola civetta, quasi nascosta.» Yael estrasse di tasca il biglietto e se lo piazzò sotto il naso. Lionel le porse la lente d'ingrandimento che teneva tra gli strumenti di lavoro. La civetta c'era davvero, indistinguibile, a meno di non cercarla apposta. «È un rapace», spiegò lui, «come l'aquila sull'altro lato del biglietto. Ma un rapace notturno, un uccello dell'oscurità, contrariamente all'aquila, che è più solare. E la civetta ricorre di continuo nel simbolismo esoterico, è collegata a ogni genere di pratica... Come se avessero voluto sottolineare il dualismo tra ombra e luce, mettendo in bella mostra la seconda, mentre la prima è presente ovunque sulla banconota, ma sempre abilmente dissimulata.» Lionel si liberò dell'elastico attorno alla testa e posò la lampada sul tavolo. Sulla pelle della fronte le rimase un'impronta incrostata. «Che dire ancora di questo fottuto biglietto?» rifletté ad alta voce. «Ah, sì! La piramide tronca, con l'occhio in cima. Pare che sia un potente simbolo massonico, il marchio di coloro che stanno dietro a tutti questi numeri e disegni esoterici. Secondo alcuni, si tratta della setta degli Illuminati, per altri sono stronzate e la spiegazione va ricercata altrove.» «E per te?» «Vuoi il mio parere? Non ce l'ho! Non ho mai studiato la questione in maniera approfondita, so quello che si dice in giro, nient'altro. Posso solo constatare che tanti simboli esoterici insieme non sono una coincidenza, e che c'è una volontà precisa dietro tutto questo. Quale? Perché? Non ne ho la più pallida idea. Teorie del complotto e paranoie varie non mi sono mai
piaciute troppo.» Il silenzio del vecchio palazzo tornò a calare su di loro. Yael esaminò la civetta sotto la lente. Perché l'avevano messa sulla pista di quei simboli? Il mondo delle ombre. Chi erano? «Vuoi per caso diventare una falsaria?» scherzò Lionel. Yael gli restituì la lente e infilò la banconota nella tasca. «Diciamo che... qualcuno mi ha sottoposto un enigma.» «Conosco il genere. Non frequentare i tizi che se ne vanno in giro di notte con mantello e cappuccio, non fa bene ai nervi.» Detto questo, si rimise al lavoro, senza fare altre domande, ligio al suo disinteresse per i propri simili. Verso le sei di sera, Lionel prese lo zaino e salutò Yael. La sua giornata era finita. Poiché in tutto il pomeriggio non si era visto un solo cliente, Yael scese con lui per scuotersi dal torpore. Aveva cercato di vederci chiaro in quella faccenda dei simboli e delle ombre, senza capire dove tutto ciò potesse portarla. Volevano metterla sulla pista delle società segrete? Poco probabile: esistevano mezzi più sottili e rapidi per farlo. Stanca di rimuginare e sfinita per la mancanza di sonno, si era trovata qualcosa da fare, sprofondando a poco a poco in uno stato letargico. A pianterreno, la reception era deserta. La proprietaria trascorreva la maggior parte del tempo nel retro, in fondo a un corridoio. Un campanello la avvisava dell'arrivo di un cliente quando la porta veniva aperta. Sul marciapiede, Lionel si mise in testa la cuffia del walkman e si lanciò nel silenzio parigino. Una vera rarità. L'aria era elettrica, il calore si dissipava progressivamente mentre dei cavalloni grigi si ammassavano sopra i tetti, nascondendo il sole e tingendo le strade di una luce plumbea, sepolcrale. Il temporale minacciava di scoppiare da un momento all'altro, girando su se stesso, accumulando rabbia e oscurità. Yael assaporò una gradita brezza che purtroppo scemò subito. Quindi rientrò nell'edificio. Arrivata in cima alle scale, girò attorno alla massa bruna di un orso immortalato in una posa aggressiva, con le zanne scintillanti, tenendosi accuratamente alla larga dal gigantesco specchio. Passò accanto alle diverse
creature che la osservavano con i loro occhi gialli, verdi e neri, imboccò l'angusto corridoio fiancheggiato di armadi e infine raggiunse il suo bancone nell'ultima sala, la più grande. Le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere sulla cupola, otto metri più in alto. Yael stava per rimettersi a sedere quando notò che la porta di sicurezza era aperta. Quest'ultima dava su una scala di servizio che attraversava verticalmente tutto l'immobile, dal tetto allo scantinato, ma all'infuori di Lionel e di qualche fattorino occasionale, nessuno la usava mai. L'impiantito cigolò in modo spaventoso sotto il suo peso. Di certo Lionel l'aveva aperta prima di andarsene, senza che lei vi facesse caso. La porta si richiuse in silenzio, senza cigolii. La pioggia prese a martellare con forza sulla cupola di vetro, e nel giro di qualche minuto un vero e proprio diluvio si abbatté su Parigi. L'oscurità era tale che Yael dovette accendere una lampada da tavolo per continuare a riordinare le schede di una collezione di fasmidi. Si sforzò per quanto possibile di non ripensare a quello che era avvenuto la notte prima, soprattutto ora che era da sola. Nel cielo echeggiavano cupi brontolii. Certo che non ti fai proprio mancare nulla. Anche il temporale, adesso. Un lampo striò la coltre ovattata, disegnando un sistema nervoso sulla superficie delle nubi e illuminando ogni recesso intorno a lei. Le possenti mascelle di squalo che incombevano sul bancone risaltarono in modo impressionante, i denti triangolari più inquietanti che mai. Da qualche parte sul piano, una porta sbatté con violenza. Yael si raddrizzò. Dopo una breve esitazione, lasciò la sedia, percorse una mezza dozzina di metri e si arrestò all'inizio del lungo corridoio che attraversava il palazzo. Faceva buio. Buio pesto. La giovane sospirò. C'è da cagarsi addosso... Niente la obbligava a proseguire, dopo tutto. Tranne la sensazione di fare male il proprio lavoro: lasciare una finestra aperta con il rischio che la pioggia deteriorasse un animale. Si addentrò nell'oscurità. Il pavimento a tratti si incurvava, scricchiolando sotto i suoi passi lenti. Avanzò sfiorando con la punta delle dita i lunghi cassetti che a centinaia racchiudevano tesori provenienti da tutto il mondo, dai luoghi più impro-
babili. Un nuovo lampo illuminò la sala alle spalle di Yael, proiettando un bagliore spettrale nell'intero corridoio. Il tuono fece vibrare le fondamenta. Intorno a lei le porte erano aperte. Attraverso la prima si scorgeva un banco da lavoro ingombro di attrezzi e materiale. La seconda e le due successive davano in un magazzino. La quinta era chiusa. Era questa ad aver sbattuto. Yael l'aprì e si sorprese nel constatare che era tutto in ordine, le decine di rettili che coprivano tavoli e pareti, antiche vestigia imbalsamate. Ispezionò il locale senza notare nulla di strano. Si apprestava a uscire quando la porta prese a muoversi. Sbatté adagio una volta, due volte, come se il fantasma di un bambino ci stesse giocando, poi sempre più veloce, fino a urtare con forza contro il telaio. In altre circostanze, Yael avrebbe pensato a una corrente d'aria o a un qualsiasi problema di equilibrio, qualunque cosa ammesso che fosse razionale. Rimase rigida davanti alla porta, poi allungò una mano tremante per afferrare la maniglia e aprirla. Sgusciò nel corridoio senza perdere di vista il battente. Non appena fu dall'altra parte, la porta si chiuse, sbarrando l'accesso alla stanza. Yael indietreggiò. È troppo per me. Coprì di corsa la distanza che la separava dalla sicurezza del suo bancone. Ma, entrando nella sala, comprese che qualcosa non andava. Una luce fioca attirò il suo sguardo. La primavera precedente, aveva recuperato dalla soffitta una vecchia lanterna in ferro battuto e l'aveva sistemata sul banco, mettendoci una candela per il giorno in cui avrebbe deciso di servirsene. La candela era accesa. E anche quelle di un candelabro posato su un tavolino rotondo pieno di manuali del Diciannovesimo secolo, davanti alla porta di servizio. Che era di nuovo aperta. Decine di fiammelle brillavano adesso sulla soglia, rischiarando la scala che conduceva ai livelli inferiori. Luccicavano sotto il fragore del temporale, aprendo un sentiero di fuoco. Invitando Yael a scendere. 7
I piedi si rifiutavano di varcare quella soglia. Yael ansimava, incapace di controllare il tremito delle mani. Il rantolo celeste esplose, quindi prese ad avanzare, colossale. Le lampadine della scala che seguivano le candele tremolavano come se faticassero a mantenersi accese. Yael fece appello a tutte le forze della ragione: qualunque fosse la spiegazione, se avessero voluto farle del male, gliel'avrebbero già fatto; cercavano solo di spaventarla. Una spiegazione? Non c'è nessuna spiegazione! Non si può spiegare un'ombra in uno specchio quando non c'è niente... Doveva scappare oppure rassegnarsi a non capire. Non c'era più posto per il buonsenso, lì. Bisognava prendere una decisione... Scendere o no? Guardò la scala. Nonostante la sensazione di sprofondare in un abisso, non poteva fuggire. Per liberarsi della paura, doveva andare fino in fondo. Yael oltrepassò la soglia e iniziò la discesa. Un gradino dopo l'altro. Come un automa. Nessuno si serviva mai di quella scala, a parte il suo collega. Avvertiva l'umidità dei sotterranei. Si rese subito conto di non avere riferimenti senza la luce intermittente delle lampadine. Quando si affievoliva, pareti e gradini scomparivano. Si aggrappò alla ringhiera. Giunta a pianterreno, vide che la porta era chiusa e che le lampadine continuavano a brillare sporadicamente verso l'interrato. Proprio quello che temeva. Le cantine, dove si depositavano i cadaveri degli animali per congelarli se non era possibile svuotarli immediatamente. Era il regno di Lionel, lui solo vi scendeva, ed era lì sotto che eviscerava i corpi, «al fresco», come soleva dire, lontano da sguardi indiscreti, per svolgere la sua opera di tassidermista. La porta delle gallerie sotterranee era socchiusa. Un alone scintillante segnalava la via da seguire. Yael entrò abbassando la testa. Il tanfo di muffa e decomposizione la prese alla gola. Scese tre gradini in direzione dei congelatori, che risvegliarono in lei dei brutti ricordi. L'estate precedente si era verificata un'interruzione di corrente. Lionel aveva riattaccato i congelatori dopo diversi giorni senza controllarne il contenuto, e il magma putrefatto di carne e sangue aveva formato un blocco immondo spesso parecchi centimetri.
L'oscurità adesso era pressoché totale. L'unico e ultimo chiarore proveniva da lontano, dalla zona in cui in genere lavorava il suo collega. Yael oltrepassò a tentoni gli scaffali traboccanti di cartoni, tavole anatomiche e altri schizzi di piante e insetti. L'acqua piovana turbinava rumorosamente da qualche parte, riversandosi giù da una grondaia al ritmo di una melopea cristallina. Una schiera di flaconi custodiva delle farfalle uccise con il cianuro di potassio. Riconobbe il contatto freddo delle boccette. Dietro un angolo, apparve all'improvviso il banco da lavoro di Lionel, gli strumenti allineati con cura su un panno. I bisturi scintillavano alla luce di una lampada da architetto puntata su uno specchio inclinabile situato nell'angolo. Yael aveva la pelle d'oca. Non aveva mai prestato tanta attenzione agli specchi. D'altronde, la presenza di quello in particolare non aveva alcun senso. Che cosa volevano mostrarle? Ispezionò i bordi, poi la superficie levigata. La cantina si prolungava al suo interno, simile e tuttavia differente. Yael guardò la propria immagine riflessa: i capelli ricci e bruni, gli occhi chiari come la neve, le labbra che detestava... Fu allora che le Ombre apparvero intorno al suo viso. Una dopo l'altra. Sapeva che era inutile voltarsi, loro erano dentro lo specchio, e la accerchiavano. Sempre più numerose. 8 Le Ombre si allungarono sulle guance di Yael. Nessuna sagoma distinta, questa volta, ma spirali sottili e animate, simili a vermi incorporei, che si attorcigliavano, si sfioravano, prendevano a poco a poco posizione. E sotto lo sguardo attonito di Yael, le Ombre si riunirono. Per formare delle lettere. Delle parole. Sopra l'immagine della cantina. «Illuminati...» «Teschi e Ossa...» «Delle illusioni...» «... tutti alberi che... nascondono la foresta.»
Yael strizzò gli occhi. Le Ombre si sfaldarono, poi si ricomposero per scrivere: «Burattinai e tuttavia marionette». Si mescolarono di nuovo, formando un'ultima frase: «A questa notte». Dopo di che svanirono. Yael era seduta al solito posto, il bollitore elettrico che sussultava e fumava dietro di lei. Il temporale imperversava, trasformando la cupola in una monumentale medusa grigia regolarmente trafitta da lampi d'argento. La giovane aveva richiuso la porta di servizio e spento le candele. Da quando era risalita, stringeva in mano il cellulare. Voleva chiamare qualcuno, ma chi? La parola «polizia» continuava ad assillarla, benché nell'intimo sentisse che era meglio non coinvolgerla. Come spiegare in modo razionale quello che le stava accadendo? No, in men che non si dica si sarebbe ritrovata al manicomio di Sainte-Anne. Cercò febbrilmente nella rubrica del telefonino. Lionel. Al diavolo l'orgoglio! Udì il segnale di libero, poi la voce del collega: «Prooonto!» «Lionel, sono io, Yael.» «Yael?» si stupì il ragazzo. Lei lo chiamava di rado, e soltanto per questioni inerenti al lavoro. «Mi... Mi domandavo», cominciò, «se tu... In realtà, sono sempre qui in negozio, e...» Come faceva a esprimere i suoi bisogni, a confidarsi in una scatoletta di plastica? Era ridicolo! Lui l'avrebbe presa per una cretina con la sua storia delle ombre negli specchi. «Cosa? Che succede?» si allarmò lui. «Io... ehm... Il fatto è... Per caso sei sceso in cantina, oggi?» «È sabato, Yael. Lo sai che sgobbo su minerali e insetti. Cosa succede? Non dirmi che abbiamo ancora un problema con i congelatori? Sono stufo di raschiare via sorbetti di carne!» «No, no... Sono andata a vedere e... la porta era aperta, perciò volevo sapere se si trattava di una dimenticanza o se qualcuno era sceso.» «Ah, non ti preoccupare di queste cazzate. Non è niente, è una vecchia baracca. Be', adesso ti lascio, ho le pentole sul fuoco. Buon week-end, ci
vediamo martedì.» Lionel riattaccò. Yael non aveva avuto il coraggio di parlare. Si rese conto allora che la situazione che stava vivendo la emarginava. Azzardarsi a parlare di quel genere di cose, se non sotto forma di scherzo, sembrava inconcepibile, e rischiava di screditarla per sempre. I suoi amici avrebbero preso a tal punto le distanze che lei si sarebbe sentita ancora più isolata. Non doveva attendersi in questo campo nessun aiuto compassionevole. La paura avrebbe senza dubbio scavato un solco. Con una logica incontrovertibile, fu un viso sereno che le tornò in mente in quel momento, il viso tranquillo di una persona in apparenza poco impressionabile. Thomas. Non lo conosco nemmeno! Come faccio a fidarmi di un tizio che ho incontrato ieri per la prima volta! Inoltre, mi coprirei di ridicolo! Ma un'altra parte di lei ribatté: E l'istinto dove lo metti? Avresti la pretesa di poter spiegare tutto? Sogghignò. Sarebbe il colmo! Yael alzò le spalle. Logica o no, al momento Thomas rappresentava per lei, oltre alla seduzione, il conforto e la possibilità di essere rassicurata. E visto che non si conoscevano, che cosa rischiava a raccontargli tutto? Che la giudicasse fuori di testa e se la desse a gambe? La situazione non sarebbe migliorata, ma almeno ci avrebbe provato. In assenza della migliore amica, quell'uomo le ispirava fiducia. Rimase a fissare per un lungo istante il cellulare. Non avrebbe mai osato chiamarlo. Il bollitore elettrico fischiò. Yael lo spense e si versò un caffè istantaneo. Non doveva restarsene lì con le mani in mano, altrimenti i dubbi sarebbero divenuti ancora più paralizzanti. Fece scivolare la sedia fino al computer portatile. Lo aprì e lo accese. Si collegò a Internet e lanciò una ricerca su Google. Parlando del biglietto da un dollaro, Lionel aveva menzionato gli Illuminati. La rete pullulava di siti sull'argomento. Yael fece una rapida cernita, scegliendo quelli che sembravano più seri e documentati. L'Ordine degli Illuminati era stato fondato nel 1776, la stessa data che si ritrovava scritta alla base della piramide sulla banconota americana. La piramide tronca con l'occhio in cima era il loro simbolo. Il fine che si prefiggevano era di cambiare radicalmente il volto del mondo sopprimendo il potere delle monarchie e ogni forma di religione per instaurare un nuovo
ordine e attuare una ridistribuzione del potere a loro vantaggio. Alcuni non esitavano ad affermare che l'Ordine aveva avuto una forte influenza nella Rivoluzione francese e nell'indipendenza degli Stati Uniti, tirando le fila, sostenendo finanziariamente e strategicamente uno schieramento invece di un altro. I legami tra massoni e Illuminati erano ricorrenti, e si diceva persino che i primi fossero sotto l'influsso dei secondi. Ma con il passare dei secoli, gli Illuminati sembravano essere completamente scomparsi. Yael sorvolò su tutti i riferimenti satanici un po' dubbi. Secondo i vari siti, gli Illuminati erano stati creati da Adam Weishaupt, la cui effigie, e non quella di George Washington, compariva sul biglietto da un dollaro. Scettica, Yael confrontò il suo ritratto con quello del presidente americano: bisognava ammettere che la somiglianza era notevole. Weishaupt era morto il 18 novembre 1830, trecentoventiduesimo giorno dell'anno. Quello stesso numero, 322, ornava lo stemma dell'Ordine dei Teschi e delle Ossa, una società segreta attiva negli Stati Uniti. Lo stemma era composto da due ossa incrociate sormontate da un cranio e poste sopra la suddetta cifra. Lo stesso teschio presente sulle uniformi delle SS durante la seconda guerra mondiale. Yael si portò la tazza alle labbra. Digitò sulla tastiera per eseguire una ricerca sull'Ordine dei Teschi e delle Ossa e lesse le pagine iniziali. Da principio questa società segreta era una confraternita di studenti fondata nel 1832 nel campus dell'università di Yale e radunava alcuni giovani rampolli delle «migliori» famiglie americane. In seguito, era divenuta un'organizzazione che reclutava ogni anno quindici membri nella crème di Yale allo scopo di tessere una fitta rete di influenze in tutto il mondo. Così, non si contavano più le personalità politiche, persino presidenti, che ne facevano parte. Lo stesso valeva con l'universo dei media e dei servizi informativi. L'organizzazione selezionava in modo accorto i propri affiliati per assicurare il perpetuarsi dell'élite politica ed economica della nazione americana, e di inculcarle valori atti a garantire la perennità della sua azione, tesa al raggiungimento di un obiettivo ignoto ai non iniziati. Yael fu sorpresa nel constatare che non si trattava di un mito, bensì di un'organizzazione ufficiale, con i beni al sole, a cui appartenevano persone famose che di rado lo tenevano nascosto. Si attribuivano alla società segreta velleità di controllare il mondo divi-
dendosi i posti strategici. Era giocoforza osservare che, malgrado due secoli di esistenza, la setta restava ermetica, e che non si sapeva nulla di concreto al suo riguardo, se non i nomi di un pugno di «discepoli», come la famiglia Bush, quella dell'attuale presidente, da tre generazioni. I politici avevano sempre protetto l'organizzazione. Nel 1943, lo Stato del Connecticut aveva esentato la Russell Trust Association, incaricata di gestire gli averi della società segreta, dal presentare il rapporto sulle attività, cosa che qualsiasi altra impresa era legalmente tenuta a fare. Questi stessi averi successivamente erano stati amministrati da un ex dipendente di Prescott Bush, padre e nonno dei due presidenti Bush. Ma l'analisi storica era ancora peggio. Tutti gli atti discutibili che costellavano la politica statunitense erano stati compiuti su ordine diretto o dietro pressione dei membri della confraternita: lo sbarco nella Baia dei Porci, il Watergate, il colpo di Stato contro Salvador Allende, l'elaborazione della dottrina nucleare, la guerra in Iraq... Ogni volta nei posti chiave vi si trovavano uno o più appartenenti. Yael cliccò per chiudere le pagine. Tutto quello non aveva fatto che accrescere in lei la confusione. Prima il biglietto da un dollaro infarcito di simboli esoterici e collegamenti con gli Illuminati. Poi l'Ordine dei Teschi e delle Ossa, una fucina di nuove classi dirigenti. E infine il messaggio lasciato dalle... Ombre: «... tutti alberi che... nascondono la foresta. Burattinai e tuttavia marionette». Yael terminò il caffè. Le ultime parole scritte sullo specchio ancora una volta le affiorarono nella mente. «A questa notte.» Sarebbero tornate. Per mettersi in contatto con lei. Non poteva restare da sola. Con i nervi a fior di pelle, sfinita dalla tensione delle ultime ore, si sentiva incapace di ragionare. Quel cumulo di informazioni era per lei un groviglio inestricabile, senza capo né coda. Per venirne fuori, aveva assolutamente bisogno di appoggiarsi a qualcuno. Il cuore prese a batterle più veloce quando afferrò il cellulare e compose il numero della persona a cui intendeva aggrapparsi. 9
La pioggia sferzava la strada, sommergeva il quai des Grands-Augustins sotto uno strato d'acqua crepitante. Nonostante la vicinanza di place Saint-Michel e il fatto che fosse un sabato sera, il quartiere era deserto, così come il Paradis du Fruit in cui Yael aspettava il suo invitato. Era arrivata con mezz'ora di anticipo per allentare il nervosismo, sperando di diluire l'angoscia in un bel cocktail di frutta fresca. Un mucchio di interrogativi si agitavano nella sua testa. Più si avvicinava l'ora dell'appuntamento, più si chiedeva se sarebbe stata all'altezza. Sarebbe riuscita a scherzare, ad ascoltarlo, o si sarebbe persa nell'infinità di dubbi che le affollavano la mente? Le due cameriere si stavano annoiando addossate a una parete quando Thomas entrò di corsa. Teneva sopra la testa una copia del Canard enchaîné per proteggersi dall'acqua. «Tra un po' incontreremo delle chiatte sui Grands Boulevards!» esordì, liberandosi dell'impermeabile gocciolante. Si sedette di fronte a Yael dopo una rapida occhiata al ristorante e alla sua atmosfera esotica. «Grazie di aver sfidato il diluvio per venire», disse Yael a mo' di saluto. «Ero troppo sorpreso dall'invito per rifiutare», celiò lui. «Per essere onesto, non pensavo che avrei ancora avuto sue notizie.» «Non pensavo di chiamarla», mentì lei. «Gentile da parte sua cambiare idea», replicò Thomas, consultando la lista. «Mi perdoni, sono proprio una babbea.» «Babbea? Non conosco questo termine.» «Mi stupisco di lei... ha una tale padronanza del francese! Comunque, significa 'sciocca'. Se non avesse una punta di accento inglese, la prenderebbero per un professore di letteratura! Parla meglio della maggior parte di noi!» «È perché leggo molto in francese. Allora, mi dica, al telefono mi ha spiegato che questa cena sarebbe stata un'occasione per fare conoscenza. Aspetto sempre di sapere che cosa fa nella vita.» Yael alzò gli occhi al soffitto. «Non è l'aspetto della mia esistenza di cui vado più fiera.» «Andiamo! Se non è un lavoro appassionante, può sempre dirmi che è puramente lucrativo, e parlarmi in dettaglio delle passioni che occupano il
suo tempo libero.» Yael ridacchiò piano. «Non posso glissare, giusto? D'accordo, lavoro in una vecchia ditta specializzata nella conservazione di organismi animali e vegetali, Deslandes: tassidermia, raccolte entomologiche e geologiche, materiale di studio...» «Originale! Perché vergognarsene?» «Non saprei. Forse perché non è una professione che ho scelto. Una cosa temporanea che si protrae nel tempo, se capisce cosa intendo.» Lui annuì. «E qual è l'aspetto della sua vita di cui è più fiera, allora?» «Quello che verrà.» Agitò subito la mano. «Voglio dire... il mio futuro.» Lui si mise a ridere, divertito. «Lei non è... babbea, ma nervosa, di sicuro!» Non immagina nemmeno quanto, pensò Yael. Ciononostante, la sua prestanza e la sua giovialità la rassicuravano. Sentiva le proprie paure attenuarsi, e fu un sorriso sincero quello che gli rivolse. Ordinarono e si fecero una scorpacciata di frutta, cioccolato e gelato. «E la sua professione di reporter indipendente in quali Paesi del mondo l'ha portata?» «Un po' dappertutto. Là dove trovo delle idee. Asia e Africa sono i miei continenti preferiti. Il futuro è laggiù, checché se ne dica.» «E com'è stato il suo percorso?» «Piuttosto banale, temo. Studi di giornalismo a Vancouver, stage a Toronto e Ottawa prima di passare per New York. Avevo studiato francese a scuola, e ho continuato a impratichirmi con la vostra letteratura, perciò il mio arrivo a Parigi, due anni fa, è stato uno sbocco naturale. Ho presentato un dossier sulla mafia dei motociclisti in Quebec: è piaciuto, e si sono aperte le porte.» «La mafia dei motociclisti? Ci avrà guadagnato qualche delizioso tatuaggio e un bel paio di stivali, mi auguro!» «No, i bikers sono solo dei sicari, io mi interessavo soprattutto ai capi, e quelli portano giacca e cravatta... A ogni modo, i miei contatti a Parigi sono diventati sempre più numerosi, da qui l'esigenza di trasferirmi in pianta stabile e di farmi ospitare a turno da degli amici in attesa di trovare un appartamento.» Thomas le dipinse il ritratto di una famiglia tranquilla; era figlio unico, e i genitori insegnavano entrambi all'università. Poi il discorso virò sulla vita sentimentale. Lui aveva convissuto per cinque anni con una ragazza di To-
ronto, ma i suoi continui spostamenti e l'energia che profondeva nel lavoro avevano finito per guastare il rapporto. In seguito aveva avuto delle avventure più o meno lunghe e serie, di rado con delle francesi, contrariamente alla fama di ragazze facili di cui godevano all'estero. Molti stranieri appena sbarcati a Parigi, spiegò, scoprivano le «filles de France» e le trovavano assai complicate. Un garbato eufemismo per dire «rompiscatole», pensò Yael. Mise da parte il proprio ego e fece astrazione da questa generalizzazione un po' semplicistica. Thomas parlava con foga, accompagnando spesso le parole con i gesti delle mani. A Yael ricordava vagamente Matthew McConaughy, con quel viso ovale, i capelli appena un po' riccioluti e lo sguardo ammaliatore. Conversarono così per due ore, con Yael che svelava a spizzichi qualcosa del suo passato, la morte della madre, il carattere solitario. Dopo di che si rese conto di rientrare indubbiamente nella categoria «ragazza complicata». Cosa ci poteva fare? Vivere e aver vissuto faceva di lei una rompiscatole? In tal caso, lo avrebbe rivendicato con forza. La serata era quasi alla fine, e loro continuavano a darsi del lei. Thomas non aveva proposto di passare al tu, e Yael lo considerava una forma di rispetto un po' desueta ma gradevole. Benché fosse stanca e stressata, Yael aveva trascorso delle ore piacevoli, che le avevano fatto dimenticare temporaneamente le sue ossessioni, gli specchi, le Ombre... Ma con l'avvicinarsi del ritorno a casa, in lei si risvegliò l'angoscia. Non poteva fuggire, prendere una camera d'albergo... Le Ombre avrebbero potuto attenderla anche là, come avevano fatto da Deslandes. Si diresse verso l'uscita del ristorante. La pioggia si era calmata, le gocce adesso cadevano rade, più timide. Thomas, che aveva insistito per pagare il conto, la raggiunse di fuori. «Ho passato una bella serata, Yael. Davvero.» Lei tentennò. «Ehm... Non le andrebbe di venire a bere qualcosa da me?» domandò infine. «Oh, non mi fraintenda, solo per chiacchierare ancora un po'.» La cena e quelle ore di brancolamenti alla scoperta l'uno dell'altra le avevano confermato la prima impressione: lui era posato e premuroso. Il loro incontro l'aveva tranquillizzata, sentiva di potergli dire tutto. Lui l'avrebbe ascoltata dar sfogo alle sue paure e sarebbe sparito come uno sconosciuto che non avrebbe mai più rivisto, senza dover sopportare il peso della vergogna ogni qual volta si fossero ritrovati. Oppure sarebbe rimasto
per sostenerla, e tanto di guadagnato per lei. Doveva buttarsi, impedire che si eclissasse. Davanti alla confusione e al disagio della giovane, Thomas rispose con un sorriso un po' imbarazzato: «Cosa c'è, Yael?» Lei gettò la testa all'indietro e sospirò. «Sono proprio stupida. Non l'ho invitata da me per... Solo per fare quattro chiacchiere, non creda che abbia intenzione di saltarle addosso, non è davvero il caso...» Accorgendosi di apparire sempre più goffa, aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Thomas aggrottò le sopracciglia. «E se mi dicesse semplicemente quello che vuole, senza giri di parole?» Dopo tre secondi di silenzio, lei si buttò: «Non voglio restare tutta sola in casa, questa notte. Mi piacerebbe che ci fosse... qualcuno.» Inspirò a fondo prima di aggiungere: «E siccome lei non ha un appartamento, ho pensato che potremmo farci un favore a vicenda». «Yael, mi conosce appena. Non è un po' rischioso?» «Lei trova? Più di tutti quei ragazzi e ragazze che si incontrano una sera, per esempio in discoteca, e quattro ore dopo vanno a letto insieme? Io le offro la camera degli ospiti per non rimanere sola stanotte, per essere più tranquilla, tutto qui. Certo, una soluzione sfacciata, ma risponde alla mia esigenza.» Thomas la osservava, un po' in disparte. Yael ne dedusse che si stava interrogando sulla sua sanità mentale. Di sicuro si stava disperando per essere incappato in una svitata. «Lasci perdere», fece lei, di colpo. «Mi spiace di...» «No, no», la interruppe il reporter. «Non si preoccupi. Non la sto affatto giudicando, se è questo che teme. Mi metto nei suoi panni, ecco tutto. E ammiro il coraggio che ci vuole per chiedere una cosa del genere a un uomo, soprattutto di questi tempi.» Le strofinò amichevolmente il braccio. «Ascolti, con il mestiere che faccio, ho dormito in condizioni e luoghi abbastanza strani, mi creda, posso sopravvivere a una notte in casa sua.» Mentre la invitava a incamminarsi con lui, aggiunse sempre in tono scherzoso: «Mi dica, c'è almeno una serratura sulla porta della camera degli ospiti?»
Yael rabbrividì davanti allo specchio nell'ingresso, si scostò rapidamente e spalancò le braccia sul vasto salone. «Ecco qui...» Thomas sollevò la testa verso la scala che correva a L lungo la parete, interrompendosi all'altezza dello studio per poi proseguire fino al mezzanino. Più su, una piramide trasparente lasciava penetrare la fosforescenza cinerea della notte. «Ma la cosa più impressionante sta sotto i suoi piedi», precisò Yael. «Pronto?» Thomas non comprese subito; il pavimento era brillante, come un'immensa lastra di un nero opaco. Yael abbassò la leva di un interruttore e l'opacità scomparve. Stava camminando sul vetro. Dei faretti illuminavano un vertiginoso abisso. Trombe d'acqua piovana si riversavano da due collettori in un serbatoio alcuni metri più in basso. «Oh! È una sensazione... particolare», commentò. «Non a tutti piace.» «Posso capirlo. È un urbanista che ha avuto questa idea?» «Già. Vuole qualcosa da bere?» Lui la ringraziò e si sedette sul canapè, dove ricevette la visita di Kardec. Il gatto aveva le orecchie tirate all'indietro. «Vieni qui, tu», disse Thomas piegandosi per prenderlo. Il micio fece scattare la zampetta verso le dita che si avvicinavano ed emise un miagolio nervoso. Le unghie graffiarono l'indice del giornalista. Yael, che entrava in quel momento nel salone, posò le bevande e accorse per scusarsi. «Di solito non fa così, ma ultimamente è un po' irritabile... Mi faccia vedere il dito.» La lacerazione non era profonda, però il sangue colava fino alla palma della mano. «Niente di grave», la rassicurò lui. «Vado in bagno a cercare qualcosa per disinfettarla.» Yael salì i primi gradini e si bloccò realizzando che si sarebbe trovata da sola davanti allo specchio. «Forse è meglio che venga con me, sarà più semplice», si corresse. Tre minuti più tardi, Thomas era seduto sul bordo della vasca con una medicazione che gli copriva due falangi. Guardava la giovane donna con
insistenza. «Yael?» Lei alzò il mento verso di lui. «Non ci conosciamo bene, tuttavia noto che non è a suo agio. Posso sapere che cos'ha? Non mi sembra il tipo che ha bisogno di avere qualcuno in casa per sentirsi sicura. È quello che mi ha detto, e non ho motivo per non crederle. Ma allora... perché stasera?» Perlustrò con lo sguardo la stanza. «Ha... paura di qualcuno? Che venga qui? Se è stata aggredita, bisogna...» Lei lo interruppe: «No, è... più complicato di così». Il petto le si sollevava senza che le parole riuscissero a sistemarsi nel giusto ordine e venire fuori. Thomas la esortò a proseguire inarcando le sopracciglia. «Io... dalla notte scorsa... vedo delle cose strane.» Lui rimase impassibile, ma lei scrollò la testa, pronta a rinunciare. «Penserà che sia pazza.» «Yael, se anche così fosse, che problema ci sarebbe? Non lo riferirò ai suoi amici, visto che non li conosco. Ma almeno le avrà fatto bene condividere questa... angoscia. No?» Lei si passò la mano sul volto, come per cancellare i dubbi. «Vedo delle ombre negli specchi.» Si affrettò a proseguire per evitare di essere interrotta prima di aver finito, per evitare che lui se ne andasse immediatamente. «Lo so che sembra incredibile, eppure io vedo delle ombre nel riflesso degli specchi, dello stesso genere di quella che proietta il mio corpo in questo preciso momento, solo che le ombre che vedo negli specchi non sono realmente nella stanza. È allucinante, ne convengo. In effetti è impossibile, tuttavia è quello che mi succede. E non sono matta.» Thomas guardò di sfuggita il grande specchio che avevano di fronte. «E non è tutto», continuò lei. «Loro mi parlano.» Chiuse gli occhi davanti all'enormità di quelle parole. «Cercano di dirmi qualcosa. E mi devono contattare stanotte.» «Come lo sa?» chiese Thomas. Niente nella sua espressione lasciava supporre che non le credesse. «Loro... loro me l'hanno detto.» «In che modo dovrebbero comunicare con lei?»
Yael scosse il capo. «Non so... Con gli specchi o con il computer...» Lui annuì gravemente, poi si protese verso lo specchio e iniziò a tastarlo. «Forse c'è una spiega...» «Non c'è nessuna spiegazione!» lo interruppe lei alzando il tono di voce. «A meno che non sia tutto frutto della mia fantasia!» La paura, lo stress e il timore di vederlo andar via le avevano fatto bruscamente salire la pressione. Thomas le scoccò uno sguardo duro. «Si calmi», le ordinò. Lei appoggiò la punta delle dita sulla fronte. «Mi dispiace», si scusò, avvilita e vergognosa. Dopo averne esaminato la superficie, Thomas si allontanò dallo specchio. «Non vedo niente, ma questo non significa che non ci sia qualcosa.» «Non avrei mai dovuto parlargliene.» Yael fece scorrere un po' d'acqua per bagnarsi il viso, poi uscì dal bagno. E si bloccò di colpo. «Cosa c'è?» domandò Thomas, preoccupato. «Il computer. Sono sicura che era spento quando siamo saliti. Non l'ho più acceso da ieri notte.» Lui la superò in tutta fretta per raggiungere lo studio dall'altro lato del salone, dove scintillava lo schermo del pc. Il programma di videoscrittura si stava avviando. Una pagina bianca apparve assieme al suo cursore ammiccante. E poi le parole iniziarono a formarsi. 10 Yael e Thomas erano seduti davanti al monitor. «Apra gli occhi sulle Ombre.» Le frasi si visualizzavano da sole. «Non sia una tra i viventi. Il suo posto è qui, con noi.» Yael si portò l'anulare alla bocca e iniziò a rosicchiarsi nervosamente l'unghia. Thomas restava imperturbabile, osservando lo schermo senza batter ciglio. «Ha già provato a rispondere?» s'informò a bassa voce.
«Sì, e funziona. Possono leggere.» «Domandi chi sono.» «Già fatto. Hanno risposto: 'Noi siamo dall'altra parte. Nelle ombre. Quelli dall'altra parte degli specchi'.» «Gli chieda di nuovo chi sono e da dove vengono, sono curioso.» Yael spinse la tastiera nella sua direzione. «Preferisco evitare di comunicare con loro», replicò. Thomas le fece segno che non intendeva scrivere. «Yael, penso che si tratti di un hacker, un pirata informatico che ha preso il controllo del suo computer via Internet. Se è così bravo, avrà recuperato uno dei programmi usati dal governo americano per studiare la dinamica della battitura sulla tastiera. È un software utilizzato in particolare dalla NSA,* che analizza la sua maniera di scrivere sulla tastiera, la velocità, la durata, la frequenza e il tipo di errori, la sintassi e via dicendo. Una volta che il programma l'ha studiata e registrata, è in grado di determinare rapidamente se è lei o qualcun altro alla tastiera. E se non è lei, può eseguire un confronto nella sua banca dati per vedere se il nuovo arrivato è già registrato ed è possibile identificarlo. È un software molto efficace e pratico. E ritengo sia meglio che il nostro piccolo genio dell'informatica la creda da sola.» «Mi stupirei se fosse un hacker. Non può manipolare uno specchio!» ribatté la giovane in un tono che voleva apparire calmo. «Tentiamo lo stesso, d'accordo? Per il momento, è tutto quello che possiamo fare.» A malincuore, Yael afferrò il mouse. «Che cosa gli dico?» «Cominciamo con... quello che sono, o pretendono di essere.» Yael obbedì. «Noi siamo ovunque. Dall'altra parte», fu la risposta. Thomas dettò le domande da porre: «Cosa volete da me? Perché io?» «Lei deve sapere. Stare con noi.» Le parole si susseguivano più velocemente, adesso. «Ma, prima, è necessario che lei comprenda. Lincoln e Kennedy.» «Cosa?» esclamò Yael sorpresa, a voce alta. «Indaghi. Comprenda. È importante... per lei... Yael.» La giovane si allontanò di scatto dalla scrivania. «Conoscono il mio nome!»
Thomas alzò una mano verso di lei per tranquillizzarla, quindi girò attorno all'unità centrale e staccò il cavo del modem. «Ecco, tutto sistemato. Chiunque sia, non giocherà più con lei, adesso. Non con il suo computer, almeno.» Tuttavia Yael si portò le mani alla bocca, gli occhi fissi sullo schermo. Il flusso di parole non si era interrotto. «Non dimentichi, Yael: Lincoln e Kennedy. Peggio ancora... Morgan Robertson... e il Titanic.» «Creda. E sarà pronta. A presto.» Il computer si spense con un brontolio. Per un interminabile minuto, il silenzio fu rotto solo dal picchiettio della pioggia sui lucernari. Poi Yael si girò verso il suo compagno, che le restituì lo sguardo. «È sempre convinto che abbiamo a che fare con un hacker?» chiese lei. Lui si grattò la fronte, perplesso. «Non lo so», ammise. Prese a misurare a grandi passi il piccolo studio, quindi si fermò vicino a Yael e abbozzò un sorriso. «Spiacente di porle questa domanda», disse, «ma c'è...» Lei lo bloccò un po' seccamente: «Thomas, non potremmo darci del tu?» Lui assentì con un cenno del capo e continuò: «C'è qualcosa di particolare che dovrei sapere su di lei?» «Per esempio?» «Qualcosa di atipico nella sua... scusa, nella tua famiglia, o che hai potuto fare, qualunque cosa fuori del normale.» «Ti ho detto tutto, Thomas. Che cosa cerchi?» «Non ne ho la minima idea, una qualsiasi spiegazione che ci aiuti a capire quello che succede qui. Non hai nessun segreto di famiglia? Non c'è nessun evento drammatico nella tua esistenza...?» Il seguito gli morì sulle labbra. Yael lo osservò. Si era ricordato di ciò che lei gli aveva raccontato quella sera sulla scomparsa della madre, avvenuta quattro mesi prima. «Mio padre non è un agente segreto», gli assicurò. «Mia madre è morta questa primavera in un incidente stradale. È stata colpa sua; era stanca, aveva bevuto un bicchiere di troppo e si è distratta. Per quanto riguarda la mia vita personale, è sempre stata normale. Da ragazzina volevo diventare una campionessa dello sport, praticavo l'atletica ed ero piuttosto dotata. Fi-
no all'incidente in motorino: un'auto mi ha investito e il mio bacino si è preso una brutta batosta, che da allora mi impedisce di fare troppa attività sportiva. Ho frequentato una facoltà universitaria che più banale non si può, vado tutti gli anni in vacanza, ho la patente e adoro il succo di pomodoro. Cosa dovrei fare di più? È la stessa vita che conduce la maggioranza dei francesi!» Lui le posò le mani sulle spalle. «Calmati. Non sei impazzita. Anch'io ho visto tutto questo, il che almeno è una buona notizia. Ora dobbiamo capire di che si tratta. Cosa o chi, e perché.» Lei ciondolò debolmente la testa. «Che cosa ti hanno detto all'inizio? Prima di parlarti di Lincoln e Kennedy.» Yael tirò fuori dai pantaloni di tela la banconota da un dollaro. «Mi hanno indotto a cercare i simboli sul biglietto verde. E ce ne sono molti, tutti carichi di connotazioni esoteriche. Si possono collegare a un'antica setta, l'Ordine degli Illuminati. In seguito mi hanno guidato verso un'altra organizzazione, altrettanto misteriosa ma più concreta, Teschi e Ossa, che sembra una derivazione moderna della prima. Eppure, dopo avermi messo sulla pista di queste società segrete, le... Ombre mi hanno detto che si trattava di... illusioni, alberi che nascondevano la foresta.» «E adesso Lincoln, Kennedy, un certo Morgan Robertson e il Titanic, nientemeno!» ricordò Thomas. «Dobbiamo svolgere delle ricerche per scoprire i nessi tra questi nomi e capire dove vogliono andare a parare.» Prima che potesse accendere il pc, Yael gli posò una mano sul braccio. «Non stasera. Non voglio riaccendere questa macchina.» «Yael, con Internet avremo accesso a...» «Non qui da me, ti prego.» Thomas lesse una tale stanchezza nel suo sguardo, che desistette. «Va bene. Allora domani andremo alla Biblioteca nazionale», concluse. «Noi?» Lui annuì. Da quell'uomo emanava una grande dolcezza. «Non ho intenzione di lasciarti sola dopo quello che ho visto. Ti accompagnerò, sempre che tu sia d'accordo. Per prudenza.» E per curiosità, pensò Yael sorridendo. Siccome lei restava in silenzio, il reporter si avvicinò alla ringhiera da cui si dominava il salone. «E poiché credo che nessuno di noi per un po' riuscirà a prendere sonno,
potremmo approfittarne per ricapitolare in dettaglio tutto quello che hai scoperto dall'inizio di questa storia. Il biglietto da un dollaro, come te l'hanno fatto trovare?» Lei indicò lo zoccolino al fondo dei gradini. «Era là, nascosto nel muro. Questo... questo significa che sono venuti qui, per scavare quel buco e metterci quel fottuto biglietto.» Si accostò una mano alla bocca tremante. «Sono entrati in casa mia...» Thomas si chinò verso di lei. «Sta' tranquilla. Non ti vogliono fare del male, altrimenti sarebbe già accaduto. Cercheremo di scoprire chi sono. E perché hanno scelto te. Non sei più da sola, d'accordo? Ci sono io con te, adesso.» E le sfiorò la guancia con le dita. * National Security Agency: l'Agenzia di sicurezza nazionale americana incaricata, tra l'altro, di garantire la sicurezza dei sistemi di comunicazione del governo e di spiare le comunicazioni dei Paesi esteri. Si tratta della più segreta agenzia di intelligence statunitense, e anche di quella dotata di maggiore autonomia. Dispone di un budget colossale: venti miliardi di dollari nel 2000. [N.d.A.] 11 Yael e Thomas scesero la lunga passerella che sboccava, sottoterra, all'ingresso est della biblioteca François-Mitterrand. Arrivarono giusto all'ora di apertura domenicale, a mezzogiorno. L'edificio avveniristico, quasi post-apocalittico, slanciava verso il cielo le sue quattro fredde torri a forma di squadra, mentre il cuore della struttura - quest'ultima ben ancorata alla Senna, di fronte alla collina erbosa di Bercy - era interrato. Pagarono il biglietto d'entrata e seguirono un interminabile corridoio di moquette rossa che assorbiva il rumore dei passi. La parete a sinistra non era che una lunga vetrata che dava su una vera e propria foresta di un ettaro, lontana e più in basso rispetto a loro. I pini marittimi ondeggiavano accanto a querce, carpini e betulle, vegliando su un sentiero a cui nessun visitatore poteva accedere. Un santuario selvaggio racchiuso in un complesso architettonico consacrato al sapere. I materiali moderni - le applique in acciaio inox intrecciato, i pilastri
d'acciaio, le colonne di cemento a grana finissima - si mescolavano al legno - i parquet lucidi, le sedie confortevoli. I contrasti e le prospettive affascinavano Yael, che non era mai stata in quel luogo. Mentre camminava guardando dall'alto i pini neri del rettangolo di vegetazione, avvertiva una sensazione di leggerezza. I suoi passi erano privi di peso sulla spessa moquette, il suo corpo fendeva l'aria, e la quiete delle sale di lettura e dei carrels (gli spazi individuali per lo studio), la rimandava direttamente al suo respiro sereno. Si erano alzati tardi, quella mattina, e Yael aveva preparato un'abbondante colazione con tanto di croissant freschi. Malgrado le circostanze, si era sorpresa di quanto le fosse piaciuto condividere quel momento con un'altra persona. Il profumo delle arance spremute, dei cornetti, del caffè, la musica di Nick Drake che proveniva dalla cucina, tutto questo veicolava un messaggio di riposante, rassicurante benessere. Adesso Thomas la stava guidando nei corridoi della biblioteca in cui veniva spesso a integrare la documentazione per i suoi reportage. Scesero al livello intermedio ovest, la sala dedicata alle scienze umane: la filosofia e, cosa che più interessava ai due, la storia. L'ambiente rispecchiava il resto dell'edificio: al tempo stesso vasto e raccolto, a volte spettacolare e a volte ovattato. Yael non sapeva dire se le piacesse o meno. In mezzo alle scaffalature piene di enciclopedie erano raggruppati i tavoli da lavoro in doussié del Gabon, un legno esotico scuro, con le loro sedie regolabili e le lampade da lettura. Nonostante il numero di posti disponibili, c'erano solo due persone, ciascuna in un angolino, evidenziate dal tenue cono di luce individuale. L'ampia vetrata sul fondo si affacciava sul giardino, dove i raggi del sole passavano al setaccio le foglie, conferendo al luogo una penombra monacale. Thomas si sistemò a un tavolo da lavoro con un computer ed estrasse un blocchetto dal taschino della camicia. «Pronta?» domandò pro forma. Senza attendere una risposta, utilizzò il programma della biblioteca, BNOpale-plus, per eseguire una ricerca tematica su John Fitzgerald Kennedy. «Hanno detto 'Lincoln e Kennedy'», ricordò. «Vediamo cosa riusciamo a trovare su di loro.» I risultati apparvero sullo schermo e lui iniziò a selezionare le opere. «Thomas... ti volevo ringraziare per essere rimasto stanotte... e per essere qui og...»
«Lascia perdere», la interruppe lui. «Non ti potevo abbandonare... E poi... devo ammettere che questa storia mi incuriosisce.» «Deformazione professionale», mormorò Yael. Senza staccare gli occhi dallo schermo, lui replicò: «No, è nella mia natura andare fino in fondo alle cose, trovare una risposta ai miei interrogativi. È per questo che sono diventato un reporter». Thomas operò la stessa selezione tematica per Abraham Lincoln, quindi si alzò per andare a richiedere i testi che intendeva consultare. Qualche minuto dopo, una bibliotecaria gli portò una pila di libri. Thomas divise i volumi in due mucchi e ne spinse uno verso Yael. «Spero che tu sia paziente e ami leggere. A partire da adesso, tutti gli aneddoti, tutti i dettagli anomali nelle vite di questi due presidenti devono stamparsi qui dentro», disse indicando il proprio cervello. «Non ci deve sfuggire niente.» «Mi ricorda tanto l'università», scherzò Yael. Cavò fuori dalla borsa un thermos e due tazze di plastica. «Ho pensato al carburante... Hai un'idea di quello che dobbiamo cercare?» «Nessuna. Ma se le... Ombre, o qualunque cosa siano, ti hanno indicato questa pista fornendo così pochi indizi, credo che ci salterà agli occhi quando lo leggeremo.» Le tre ore seguenti le passarono scorrendo in fretta le pagine per spigolare informazioni e bevendo caffè tiepido. Thomas fece una pausa. Si alzò in piedi per sgranchirsi le gambe e massaggiarsi la nuca. Yael lo raggiunse. «Io non ho trovato niente», gli riferì, un po' insonnolita dalla lettura. «Niente che possa suggerire un legame tra Lincoln, gli Illuminati, Teschi e Ossa o i simboli del dollaro. E tu?» Il reporter era meditabondo. «A cosa stai pensando?» «Ai simboli, per l'appunto. Mi dicevo che tutto ciò che ti hanno mostrato finora è occulto, in rapporto con l'ombra, e simbolicamente questo potrebbe riferirsi alla morte... Lincoln e Kennedy sono stati entrambi assassinati.» «Pensi a un simbolismo tipo 'la morte del potere democratico', o qualcosa del genere?» «No, più concreto. È stato leggendo che Kennedy nutriva una vera passione per Lincoln che mi è venuto in mente. Hai degli appunti sull'assassi-
nio di Lincoln?» Tornarono al tavolo, dove ripresero in mano i loro fogli scribacchiati. «Ucciso venerdì 14 aprile 1865 uscendo da un teatro da John Wilkes Booth, con una pallottola alla nuca.» «Kennedy è morto venerdì 22 novembre 1963 a Dallas. Lee Harvey Oswald l'ha abbattuto sparandogli alla testa.» «Le circostanze della morte sono identiche, e gli omicidi sono avvenuti lo stesso giorno della settimana», osservò Thomas. «Aspetta un attimo... Hanno sparato a Lincoln al teatro Ford... e Kennedy era a bordo di una Lincoln!» «Fabbricata dalla Ford!» saltò su Yael, che aveva qualche conoscenza in materia, visto che il suo primo amore era appassionato di automobili. «Delle strane coincidenze.» «Forse si tratta proprio di questo! Le coincidenze. Controlliamo se ce ne sono altre.» Sfogliò gli appunti. Yael li leggeva da sopra la sua spalla, confrontandoli con i propri. «Eccone un'altra!» esclamò lei, puntando il dito su una data. «Lincoln è stato eletto presidente nel 1860.» Quindi fece riferimento alle note di Thomas. «E Kennedy nel 1960. Esattamente un secolo dopo. In precedenza, Kennedy era stato eletto al Congresso nel 1946.» «Hai qualcosa su Lincoln in questa data?» Yael fece una risatina secca, nervosa. «Altro che! Lincoln è stato eletto al Congresso... nel 1846. Giusto cent'anni prima. Le coincidenze cominciano a essere un po' troppe.» «E sulle famiglie, che sappiamo?» domandò Thomas. «I due uomini hanno perso un bambino mentre erano alla Casa Bianca.» «Guarda gli assassini dei due presidenti», intervenne Thomas. «Lee Harvey Oswald e John Wilkes Booth sono stati entrambi ammazzati dopo il loro arresto. Non hanno mai potuto parlare. Aspetta... Stupefacente! Booth è scappato da un teatro per poi essere catturato in un granaio, quindi che serve a immagazzinare, mentre Oswald ha dato fuoco da un deposito ed è stato arrestato in un cinema, theatre in inglese! La cosa inizia a diventare allucinante.» «È incredibile. Ho ancora delle analogie! Riguardo agli uomini che hanno preso il potere dopo i due presidenti assassinati. Andrew Johnson è succeduto a Lincoln, e Lyndon Johnson a Kennedy. Lo stesso cognome!»
Thomas contò a bassa voce. «E ogni nome ha il medesimo numero di lettere. Sette nei cognomi dei presidenti, tredici nei nomi completi dei loro successori e quindici in quelli dei killer.» Dopo una pausa, aggiunse: «Di bene in meglio. Andrew Johnson è nato nel 1808, e Lyndon Johnson nel 1908...» Yael annotò rapidamente ciò che avevano rilevato: Lincoln e Kennedy, eletti al Congresso nel 1846 e 1946. Lincoln e Kennedy, eletti presidenti nel 1860 e 1960. I loro cognomi sono composti da sette lettere. Assassinati entrambi di venerdì, colpiti da proiettili in testa, Lincoln al teatro Ford, Kennedy in una Lincoln fabbricata dalla Ford. I nomi completi dei loro assassini sono ambedue formati da quindici lettere. Booth fugge da un teatro e viene arrestato in un granaio (deposito); Oswald scappa da un deposito ed è arrestato in un cinema (theatre in inglese). I due killer vengono uccisi prima di poter parlare. I due presidenti hanno perso un figlio durante il loro mandato. I due successori dei presidenti assassinati si chiamano Johnson, i loro nomi completi sono formati da tredici lettere, uno è nato nel 1808, l'altro nel 1908. Yael si stiracchiò, scuotendo il capo. «Se non avessi fatto queste ricerche io stessa, non ci crederei.» «Qualcosa mi dice che le sorprese non sono finite. Le Ombre hanno menzionato anche un certo Morgan Robertson e il Titanic.» «Ora che sappiamo cosa cercare, forse potremmo cominciare a vedere quello che ci dice Internet sull'argomento, no?» propose la giovane. Thomas si spostò davanti al computer e cliccò sulla finestra di Netscape. «Prima voglio fare una verifica su Lincoln e Kennedy. Ci sono troppe coincidenze perché il fatto sia passato inosservato. Dev'esserci qualcosa sul web.» Venne subito premiato. La maggior parte dei siti citava gli elementi che avevano appena scoperto, e aggiungendone degli altri. Alcuni giornalisti e
storici si erano dati pena di tracciare un quadro preciso dei fatti accertati, per separare la realtà dal mito. Tutto ciò che Yael e Thomas avevano evidenziato, trovava conferma. «Mi vengono i brividi», bisbigliò Thomas passando agli altri indizi. Si collegò a Wikipedia per avviare un'indagine virtuale. La pagina dedicata al Titanic si visualizzò sullo schermo. La lessero con estrema attenzione. E non dovettero attendere molto. Direttamente collegato al naufragio del transatlantico, apparve il nome che cercavano. Morgan Robertson. Romanziere di professione. E «chiaroveggente», avrebbe potuto aggiungere il sito. 12 Yael era sovreccitata. «Guarda il titolo del paragrafo! 'Premonizione di un artista?'» All'improvviso sentì la mano del giornalista posarsi sul suo ginocchio. Lui le stava seduto davanti e aveva fatto scivolare il braccio sotto il tavolo per afferrarle la gamba. Con una pressione laterale, le segnalò di girarsi verso destra. Yael lì per lì non comprese. Poi alzò lo sguardo sulla sala. Dal lato della grande reception, un uomo era appoggiato a una colonna di cemento, con un libro in mano. Quando Yael lo scorse, lui smise di sbirciarli e tornò alla sua lettura. L'espressione esaltata che fino a un attimo prima era dipinta sul viso di Yael, si trasformò in una smorfia di sospetto. «Continua a parlare», le intimò Thomas. «Credi che ci guardasse veramente? Insomma... che ci stia sorvegliando?» domandò a voce bassa. «Lo fa con troppa insistenza da cinque minuti buoni perché sia un caso», rispose il reporter, fingendo di leggere sullo schermo. Con la coda dell'occhio, Yael non poté fare a meno di esaminare il tizio in questione. Vicino alla quarantina, con un fisico asciutto, quasi magro, e la pelle striata di vene scure. Sembrava fatto di soli nervi. Il volto dalle labbra sottili, dagli zigomi affilati e dalla fronte alta sotto un cranio pelato, non tradiva alcuna emozione. Lo sguardo era di ghiaccio. Di un azzurro intenso, capace di penetrare le apparenze, immaginò Yael. Delle pupille taglienti come lame.
Stai andando in tilt... Yael rimase quasi ipnotizzata. Soltanto dopo una decina di secondi si rese conto che si stavano fissando a vicenda. Alla fine l'uomo distolse lo sguardo, posò il libro, affondò le mani nelle tasche dei jeans e si diresse all'uscita per risalire al primo piano. Appena fu scomparso alla vista, Thomas si alzò dalla sedia. «Continua le ricerche», disse. «Io seguo quel tipo per vedere dove va. Non si sa mai.» «Thomas, quell'individuo non mi ispira nulla di buono. Credo che faresti meglio a lasciar perdere...» «Così non si ottiene niente. Torno presto.» Si avviò in direzione delle porte a vetri aggiungendo: «Nel caso non fossi di ritorno per il pomeriggio, ci rivediamo da te stasera». Svoltò dopo il tornello d'accesso e sparì. Thomas emerse da uno degli ascensori nell'Haut-de-jardin, la sezione sopra il livello del giardino, nei pressi della reception ovest, e si sorprese nel constatare che l'uomo non aveva preso l'uscita più vicina. Con passo svelto, aveva imboccato il lungo corridoio che dominava la foresta dall'alto. Il reporter accelerò l'andatura per non farsi distanziare troppo. Lo sconosciuto girava appena la testa, un po' all'insù e un po' a destra, dei movimenti quasi impercettibili che però non sfuggirono a Thomas. Che cosa cercava? Delle bocchette di ventilazione erano posizionate a intervalli regolari, incorniciate da una piastra liscia che rifletteva il corridoio. Niente di anormale. Thomas non vedeva niente, solo la vetrata che correva per un centinaio di metri. Le cime degli alberi danzavano nel poco sole che riusciva ad arrivare in quella fossa profonda, colpendo per lo più l'altro versante del parco, a est. La silhouette del giornalista si sovrappose al paesaggio. E allora capì. Di fronte, sull'altra parete a vetri, il sole intensificava l'aspetto riflettente del cristallo, rendendo visibile l'intero corridoio. L'uomo si guardava le spalle. Ecco perché non era uscito subito. Voleva assicurarsi che nessuno lo seguisse. Un professionista... pensò Thomas.
Decise di affrettare il passo per non rischiare di perderlo. Il tizio tirò fuori le mani di tasca. Per un secondo, Thomas si chiese che cosa sarebbe accaduto. L'uomo allungò la falcata e si mise a correre. Il reporter si lanciò all'inseguimento. Le punte delle sue scarpe da basket rimbalzavano sulla moquette spingendolo avanti. L'uomo raggiunse la fine del corridoio, rallentò leggermente per svoltare nell'altra sala della reception, che attraversò sotto lo sguardo sbalordito del personale, e infilò l'uscita prima che qualcuno avesse il tempo di reagire. Thomas lo imitò, accompagnato dalle grida di protesta di un sorvegliante che cercò di mettersi in mezzo. Lui riuscì a scansarlo per un pelo e schizzò all'esterno. La rampa saliva verso la superficie, martellata dal galoppo dello sconosciuto. Thomas aveva perso una decina di metri su di lui. Quando arrivò in cima, scavalcò la ringhiera e fu costretto a rallentare per esplorare con lo sguardo la spianata, oscurata in parte dalla mole di una delle torri. I listelli di ebano verde del Brasile trasformavano il piazzale nel ponte di un piroscafo sul quale scivolavano le ombre delle nubi. Thomas localizzò in lontananza il bersaglio, che si era intrufolato tra gli agrifogli ingabbiati da reti metalliche, e si precipitò sulla sua scia per sbucare in cima alle scale che dominavano rue Émile-Durkheim. A sinistra le piante che fiancheggiavano la Senna... A destra... L'uomo era là, che scendeva i gradini a due a due per raggiungere la strada. Il reporter gli fu subito alle calcagna. Correva con rabbia, conscio di essere in eccellenti condizioni fisiche, certo di poterlo raggiungere. Si infilò tra i passanti davanti al cinema multisale MK2 e si gettò nell'avenue de France senza badare alle macchine. Udì uno stridore di freni mentre una Fiat Panda sbandava violentemente verso il marciapiede. Sollevò un braccio per scusarsi senza interrompere la sua corsa, che proseguì sulla pista ciclabile in mezzo al viale. I due uomini zigzagavano tra le biciclette, schivando i pattinatori. Lo sconosciuto aveva riguadagnato terreno. Thomas lo vide imboccare una scala e svoltare bruscamente verso una scala mobile che si addentrava sotto un edificio. La metropolitana. Linea 14. Il giornalista fece altrettanto e continuò il suo sprint nei corridoi. Gli mancava il fiato. Non avrebbe retto ancora a lungo.
Il tizio stava inserendo un biglietto nell'obliteratrice. Quindici secondi dopo, Thomas, usando come punto d'appoggio la macchinetta, con un agile balzo scavalcò la barriera. Adesso si trovavano sulla passerella che sovrastava i binari. In una frazione di secondo, Thomas pensò che da lì quel luogo non sembrava una stazione della metropolitana, ma un tempio romano, con le immense colonne che sostenevano una serie di archi illuminati. L'uomo scese verso il treno che si avvicinava. Non correva più, ma camminava a passo sostenuto guardandosi attorno. La banchina era quasi deserta, non c'era più di una mezza dozzina di persone ad aspettare il metrò. Il convoglio si arrestò. Thomas non era molto lontano. Le porte automatiche si aprirono. Il giornalista forzò l'andatura e all'ultimo istante, sudato e ansante, riuscì a saltare sulla stessa vettura del tipo che stava braccando. Quest'ultimo si teneva attaccato alla sbarra, ispezionando ciò che lo circondava. Il treno era di un modello recente, di quelli in cui i vagoni non erano separati tra loro, ma collegati da una piattaforma a fisarmonica. La maggior parte dei passeggeri era più avanti, lontano da Thomas. Soltanto un viaggiatore era salito con loro. Il fuggitivo terminò il giro di orizzonte su Thomas, al centro della vettura, e il suo sguardo indugiò su di lui. Il reporter non abbassò gli occhi, sostenendo quella che reputava una sfida. Questa volta, non c'era possibilità di fuga. Il serpente d'acciaio ripartì dopo aver emesso un segnale sonoro. Le porte si chiusero. Fu allora che Thomas notò il ghigno disegnato sulla faccia dell'uomo. Un sorriso soddisfatto indirizzato verso l'altro passeggero, seguito da un rapido cenno del mento. Il giornalista si voltò, constatando di avere due occhi puntati addosso. E comprese. Il tizio aveva un complice. Quello era il luogo del loro appuntamento. La situazione si era ribaltata. Da cacciatore, Thomas era diventato preda. Diede un rapido sguardo al convoglio. Vuoto per parecchie decine di metri. I due uomini lasciarono la sbarra nello stesso momento e avanzarono verso di lui. Era in trappola, preso in una morsa.
Blog di Kamel Nasir. Estratto 3 Sapete qual è l'essenza del potere? La demagogia. Per regnare, per governare, bisogna piacere al popolo. Mentirgli, se necessario. Ciò che si fa è secondario. Si placa la collera, si attenua la delusione, usando un po' più di demagogia. Voi viene il momento di passare la mano, di lasciare il posto al partito antagonista, quando il popolo è stufo di ascoltare bugie. Allora il partito di opposizione prende il comando e fa la stessa cosa. Esattamente la stessa cosa: esercita il potere. Per mezzo della demagogia. Con più o meno sincerità, a seconda dei casi. Finché non deve lasciare il posto al partito precedente, che torna a fare quello che faceva prima, e via di seguito... Una visione poco lusinghiera della politica, è vero. Ma, ahimè, una visione condivisa da molta gente, a quanto pare... E lo sapete, oltre al settarismo delle loro idee, cosa differenzia i partiti estremisti da altri, per così dire, più «aperti»? La vastità delle bugie. I partiti delle ali estreme mentono in modo più diffuso e pericoloso. Mi interesserò qui di un partito politico in particolare. Di un sistema. Perché si è spinto molto lontano con le sue menzogne. Così lontano da assumere degli aspetti di partito estremista. Ma non dimentichiamoci mai che potrebbe valere lo stesso per molti leader politici, e che questi nomi non devono servire che a rafforzare la nostra vigilanza quotidiana. Anche quando risuoneranno dell'eco di un passato remoto. Sono la prova che è possibile, che può accadere. E che può ripetersi. Il mondo, non spiaccia ad alcuni, è sempre, e questo dalla seconda guerra mondiale, sotto l'influenza americana. La nazione che domina il pianeta. Economicamente, culturalmente, politicamente e militarmente. È dunque verso questo Paese, che si suppone esemplare, che rivolgo il mio sguardo. Verso un pugno di dirigenti che illustrano alla perfezione il mio intento, i miei timori. Posso permettermi una domanda prima di continuare? Vi piacerebbe vivere in un Paese senza governo? Che ha come unici leader i padroni delle maggiori imprese della nazione? Non sarebbe molto rassicurante, vero? Sebbene questo sia già il caso di numerosi Paesi quali la Francia, credo che risulti ancora più lampante negli Stati Uniti, almeno
nel momento in cui sto scrivendo queste righe. Poiché l'organigramma dei leader politici americani è indissociabile da quello delle grandi compagnie industriali. Come esempio, si possono citare alcuni nomi. Dick Cheney, questo vicepresidente che fa così paura nell'ombra del presidente Bush, è stato per cinque anni presidente e direttore generale di Halliburton, una società di ingegneria civile attiva principalmente in campo petrolifero, la quale, sia detto per inciso, si è accaparrata un numero strabiliante di contratti per la ricostruzione dell'Iraq... Carl Rove, consigliere del presidente, era azionista della Boeing che, va ricordato, opera anche nel settore militare. Lo stesso dicasi per Ronald Rumsfeld (ministro della Difesa), che era un alto dirigente del gruppo farmaceutico Searl; Colin Powell (ex consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Reagan, poi segretario di Stato); Richard Perle (eminenza grigia del presidente) e Paul Wolfowitz (ex numero due del Pentagono), tutti coinvolti a vario titolo in società produttrici di armamenti. Si noti en passant che quest'ultimo è, dal 1° giugno 2005, il presidente della Banca Mondiale. E potrei continuare così con tutti i membri dell'amministrazione Bush, Condoleezza Rice e compagnia bella... Se l'organigramma del governo spesso si confonde con quello delle grandi imprese americane, si potrebbe dire altrettanto dei legami economici, strategici, militari e politici che uniscono, talvolta segretamente, gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita. Non è certamente un caso che due giorni dopo gli attentati dell'11 settembre, il presidente Bush abbia ricevuto per una cena a due l'ambasciatore dell'Arabia Saudita, il potentissimo principe Bandar. Nessuno sa cosa si sono detti quella sera. I legami tra il governo, l'industria - il complesso industriale militare non è da meno - e l'Arabia Saudita sembrano infiniti. Occorre ricordare che, prima di diventare presidente, George W. Bush aveva fondato un'azienda petrolifera, l'Arbusto Energy. In seguito a una gestione disastrosa, la società rischiò a più riprese di scomparire. Chi fu a salvarla ogni volta con una bella iniezione di milioni? La famiglia Bin Laden. È scritto nero su bianco. Sembra per lo meno curioso che dei miliardari sauditi che vivono nel Paese leader nella produzione di petrolio investano dei soldi in un'oscura compagnia texana che non funziona. Un altro esempio: l'avvocato che difese George W. Bush allorché venne accusato di insider trading (cioè sfruttamento indebito di informazioni riservate) in occasione del suo
passaggio nella società Harken (azienda posseduta per un quarto da sauditi e dalla quale Bush percepiva 120.000 dollari l'anno a titolo di «consulente») si chiamava Robert Jordan. Il quale in seguito venne casualmente nominato ambasciatore in Arabia Saudita. In tutto, i sauditi hanno versato all'incirca 1,4 miliardi di dollari nelle casse delle imprese per le quali ha lavorato Bush. Non mi dilungherò troppo su questi legami, nondimeno ci tenevo a metterli in rilievo. A sottolineare l'assenza di neutralità del governo, poiché tutti i suoi membri, in una maniera o nell'altra, sono collegati a degli imperi industriali, ricordando gli evidenti intrecci tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Punto per punto, presenterò degli elementi che vi parranno strani se presi singolarmente, ma al termine di questa esposizione, penso che sarà fatta piena luce. E allora tremerete. 13 Nel silenzio della biblioteca, Yael si rosicchiava le unghie. Non riusciva a concentrarsi su quello che stava leggendo; il suo pensiero tornava di continuo a Thomas. Disapprovava la sua decisione precipitosa di mettersi alle costole di un perfetto sconosciuto che forse non aveva nulla da rimproverarsi. Ma certo, è così... Su questo punto, tentava di autoconvincersi con il metodo Coué, poiché era poco probabile che quel tizio si trovasse lì per caso. Li aveva spiati con insistenza. La sala era grande, il che non gli aveva impedito di appostarsi nelle vicinanze, per ascoltarli. E perché restare in piedi, visto che i posti a sedere non mancavano, se non per osservarli meglio? In tal caso, chi era? E che rapporto c'era tra lui e ciò che stava accadendo, le Ombre e quella ridda di curiose informazioni? Appoggiata con i gomiti sul tavolo del computer, Yael appoggiò la fronte nella palma della mano. Il nome Morgan Robertson brillava sullo schermo. Si trattava di uno scrittore che nel 1898 aveva pubblicato un libro dal titolo Futility, or the Wreck of the «Titan», nel quale descriveva un leggendario piroscafo, straordinariamente somigliante a quello che sarebbe stato il Titanic quattordici anni dopo. Il libro era stato ristampato in Francia per
via di queste incredibili coincidenze. Yael si lasciò avvincere dalle similitudini tra le due navi, ritrovò la concentrazione e ben presto iniziò a navigare da un collegamento all'altro fino a imbattersi in una comparazione in cifre tra il piroscafo inventato da Robertson e il Titanic. Per tutto quel tempo, almeno la sua mente era stata monopolizzata da qualcosa che non fosse il misterioso segugio. I numeri del Titan si avvicinavano parecchio a quelli del Titanic: 45.000 tonnellate di stazza per uno, 46.000 per l'altro; la velocità del primo era di 25 nodi, quella del secondo compresa tra 22 e 24 nodi; disponevano entrambi di tre eliche; il Titan aveva 19 compartimenti stagni, il Titanic 16; ambedue battevano bandiera britannica. E la lista proseguiva così per tutto il romanzo, citato sui differenti siti scovati dalla giovane. Quando i dati tecnici non erano perfettamente identici, non si discostavano comunque di molto gli uni dagli altri. Ma il peggio sembrava la drammatica storia narrata dal romanzo. Robertson dava risalto alle prodezze e al lusso del Titan, considerato inaffondabile finché non aveva cozzato a dritta contro un iceberg nel Nord Atlantico, nel mese di aprile! Il Titan, non avendo abbastanza scialuppe di salvataggio, si era inabissato facendo oltre un migliaio di vittime... nella finzione, nel 1898. Il 14 aprile 1912, il Titanic, a sua volta ritenuto inaffondabile, colò a picco, con un numero insufficiente di scialuppe di salvataggio, nel Nord Atlantico dopo aver urtato a dritta un iceberg, causando la morte di 1.500 persone. Il Titan faceva rotta da New York verso la Gran Bretagna, il Titanic dalla Gran Bretagna verso New York. I due racconti si somigliavano a tal punto che ci si poteva a buon diritto domandare se Robertson non fosse un veggente. Descriveva come era avvenuto il naufragio, in circostanze analoghe a quello del Titanic. Con quattordici anni di anticipo. Yael, sconcertata, proseguì nell'indagine. Il web pullulava di miti intorno al Titanic. Tra le voci più ricorrenti, la giovane ne lesse una riguardante le dimensioni del timone, giudicato troppo piccolo, sebbene fosse conforme alle norme. Un timone di quella misura per un simile tonnellaggio, si precisava, rappresentava un rischio sconsiderato. Altrettanto sconsiderato, sottolineavano altri internauti, del lanciare il Titanic a tutta velocità in un mare disseminato di iceberg, in piena notte e con una cattiva visibilità. Tanto più che la coffa destinata alla sorveglianza, tra le altre cose, degli enormi blocchi di ghiaccio non era dotata
di binocolo! Una dimenticanza colossale e anomala. Come se il comandante stesso, o chiunque glielo abbia ordinato (il proprietario della compagnia?), volesse a tutti i costi provocare un incidente, tenuto conto che da due giorni il Titanic riceveva avvisi, da parte del Rappahannock, del Caronia, del Noordam, dell'Amerika e del Californian, circa la presenza di una spessa banchisa e di iceberg! Malgrado ciò, il capitano Smith mantenne la massima velocità, rischiando sempre più la collisione e il naufragio. Soprattutto con dei compartimenti stagni... che non lo erano affatto! La nave era considerata inaffondabile, perché nella peggiore delle ipotesi si partiva dal principio che solo cinque dei compartimenti si sarebbero allagati, dimenticando che si trattava di un piroscafo in grado di viaggiare a 24 nodi! Una velocità considerevole che, in caso di collisione, avrebbe provocato danni così estesi prima di poter rallentare o manovrare da pregiudicare di sicuro più di cinque camere stagne, senza contare che il Titanic non era munito di doppio scafo. Gli ingegneri erano a tal punto distratti da scordare questi parametri fondamentali? Inoltre, si era appurato che l'acciaio dello scafo era difettoso, composto da troppo zolfo e insufficiente manganese, risultando fragile per le basse temperature che si incontrano nell'Atlantico a quelle latitudini. Una simile concentrazione di errori umani metteva i brividi. Com'era possibile passare tanti mesi, addirittura anni, con il naso dentro piani e calcoli, per poi trascurare dei fattori così evidenti? E poi c'era l'atteggiamento del capitano Edward J. Smith. La sua fama in materia di comando era leggendaria, eppure quella notte non somigliava all'uomo che tutti conoscevano. Nulla si è mai saputo di quello che fece durante le due ultime ore di agonia della sua nave... Un internauta osservava che inizialmente il viaggio inaugurale del Titanic era previsto per il mese di marzo, il che non quadrava con il romanzo di Robertson. Ma sei mesi prima, l'Olympic, un altro piroscafo della compagnia White Star Line, venne seriamente danneggiato in seguito alla collisione con un'altra nave. Per la sua immediata riparazione fu mobilitata una parte degli operai al lavoro sul Titanic, rinviando così il suo primo viaggio ad aprile. Al momento dell'incidente, il capitano dell'Olympic altri non era che... Edward J. Smith. E lo stesso internauta suggeriva la spregevole ipotesi secondo cui Smith l'avrebbe fatto apposta per ritardare di un mese la partenza. Come se, fin dall'inizio, tutto fosse stato pianificato in modo che la storia del Titanic ricalcasse quella del Titan. L'internauta insinuava che il capo progettista fosse stato «influenzato» affinché il Titanic somigliasse il più possibile al Ti-
tan, e lui «non pensasse» a certi dettagli vitali come l'inaffondabilità della nave. In seguito il capitano Smith sarebbe stato corrotto o minacciato in qualche maniera perché prendesse le decisioni sbagliate. Metteva anche in evidenza la strana testimonianza resa, dopo il naufragio, da Bruce Ismay (proprietario del transatlantico e unico alto dirigente della White Star Line presente a bordo, benché si trattasse del viaggio inaugurale della più grande e bella nave mai varata, come si affermava all'epoca) davanti alla commissione d'inchiesta. Ismay asserì che dormiva al momento dell'urto con l'iceberg, e che era stato quello a svegliarlo, mentre la maggior parte dei passeggeri dichiarava di non essersi nemmeno accorta dell'accaduto, tanto l'impatto era stato debole. Anche il racconto del suo salvataggio apparve per lo meno impreciso. Sostenne infatti di essere salito su una scialuppa dove c'era ancora posto, e che non c'era nessuno né sul ponte dove si trovava né quando l'imbarcazione era stata calata in mare, nessun passeggero da prendere a bordo, nessuno che si gettasse in acqua, contraddicendo tutte le altre testimonianze che riferivano del panico, della confusione e della folla che cercava di imbarcarsi sul primo canotto disponibile... A ogni modo, Ismay sopravvisse e successivamente vietò che si facesse in sua presenza la minima allusione al Titanic. E poi c'era quell'esplosione che un certo numero di passeggeri aveva udito dopo la collisione con l'iceberg, e che ebbe scarsa eco nell'inchiesta. Il sito web suggeriva l'esistenza di un complotto mirato a causare l'affondamento del Titanic, gemello del Titan, nelle medesime circostanze. L'ipotesi era rocambolesca, ma sconvolgente. In effetti, bisognava ammettere che le coincidenze e le domande senza risposte erano talmente numerose da rendere la faccenda inquietante. Proprio come per Lincoln e Kennedy, rifletté Yael. «Perché cercate di evidenziare questi momenti della storia?» mormorò. Si rivolgeva alle Ombre. Che cosa volevano dimostrare? Che una forza superiore operava negli arcani della storia? Yael rammentò le loro parole. «Noi siamo ovunque. Dall'altra parte.» «Creda. E sarà pronta.» Era possibile che quelle... creature esistessero e influissero sulla storia? Non sapeva più cosa pensare. Gettò uno sguardo all'orologio. Quasi le diciotto. Thomas era via da più di un'ora. La giovane alla fine si alzò e radunò le sue cose. Come convenuto, lui l'avrebbe raggiunta a casa. Non doveva preoccuparsi. Cominciare a
far lavorare la fantasia. L'essere umano immaginava sempre il peggio. Quando risalì in superficie, Yael assaporò i raggi del sole, che ebbero il merito di calmarla un pochino. Recuperò l'auto parcheggiata nelle vicinanze e partì in direzione del 14° arrondissement, dove abitava. La piccola 206 blu filava per i viali parigini, approfittando della tregua di agosto per raggiungere rue Dareu in un lampo. Appena entrata in casa, Yael ricevette la calorosa accoglienza di Kardec, che venne a strofinarsi contro le sue caviglie. Andò a controllare la segreteria. La spia rossa non lampeggiava: nessun messaggio. Ancora nessuna notizia di Thomas. Il micio insisteva a strusciarsi, reclamando un minimo di attenzione. Yael gli si inginocchiò accanto, poi sedette sul tappeto a coccolare la palla di pelo, che iniziò a fare le fusa. La calda luminosità del giorno entrava dai lucernari in alto, inondando il salone, al centro del quale Yael finì per sdraiarsi vicino al suo gatto. Aspettando. A poco a poco, cedette alla stanchezza. Si addormentò. Le palpebre faticarono a sollevarsi. Aveva tutto il fianco destro anchilosato. Una pioggia pesante cadeva su Parigi, battendo sui vetri, picchiando sulle tegole e confluendo in migliaia di rigagnoli verso le viscere della terra. Yael aveva la bocca impastata. Nonostante il formicolio al braccio, si alzò su un gomito. Aveva dormito a lungo, dovevano essere le dieci di sera passate. Il gatto era scomparso. L'ingrato! Rotolò sul fianco che non era intorpidito e si ritrovò fuori dal tappeto, sulla lastra di vetro nera, il mento a venti centimetri dalla fredda superficie. Piantò le mani ai lati della faccia, come per fare delle flessioni. Si accingeva ad alzarsi, quando avvertì una sensazione familiare: un lieve crampo di allerta, in cima alla testa e dietro alle orecchie. Come se il suo corpo prendesse coscienza del pericolo prima della mente. Qualcosa si era mosso. Nel pavimento. Non l'aveva sognato. Era successo alla periferia del suo campo visivo. Un movimento, sotto il pavimento. È impossibile, mi spavento per niente... Ci sono quindici metri di vuoto
sotto questa lastra di vetro... Contrasse i muscoli delle braccia per tirarsi in piedi quando le due chiazze bianche apparvero. Due mani si posarono vicino alle sue, dall'altro lato del vetro. Due palme dalla pelle bianca, quasi trasparente. Yael fece un salto all'indietro. Poi un volto livido emerse dalle tenebre, incollandosi contro la lastra. Un uomo con gli occhi sgranati, la bocca spalancata. Yael dapprima non lesse in quel viso nessuna angoscia, soltanto incredulità. Che si mutò presto in collera. In rabbia. E il volto spettrale si mise a gridare. Yael strillò a sua volta, impietrita dal terrore, senza staccare gli occhi dallo spettro, che iniziò a ridiscendere per sparire nell'oscurità del baratro che si apriva sotto di lei. Yael era senza fiato. Non vide le due mani avvicinarsi alle sue spalle. L'urlo le si strozzò in gola quando l'agguantarono per le spalle. 14 Yael voleva divincolarsi, respingere l'assalitore, liberarsi dalla stretta ferrea che le serrava le clavicole. Le sue braccia battevano l'aria mentre continuava a urlare. Una voce autorevole si levò al di sopra della sua: «Calmati! Sono io! Calmati, Yael!» Attraverso la paura e i capelli che le ostruivano la visuale, riuscì infine a identificare chi stava cercando di ammansirla. «Va tutto bene», diceva Thomas. «Calmati, adesso. Mi hai spaventato. Ero fuori ad aspettare da cinque minuti. Ho bussato inutilmente alla porta. E poi ti ho sentita gridare.» Yael si riprese un po'. Probabilmente si era svegliata quando lui aveva bussato. «C'è... qualcuno so... sotto la lastra di vetro», farfugliò, indicando il punto in cui era apparso lo spettro. Non riusciva a distogliere lo sguardo dal pavimento, quasi si aspettasse di vederlo ricomparire. «Vai a sederti sul divano, hai bisogno di calmarti. Vuoi un bicchier d'acqua?»
Yael staccò infine gli occhi dalla superficie nera e li fissò su Thomas. Le sue pupille tremavano. «Mi ascolti quando parlo?» sbottò. «Ti dico che c'è qualcuno là sotto. E non un tipo normale! Era più pallido di un cadavere!» Il reporter sollevò le palme delle mani. «D'accordo... Ma c'è un vuoto di almeno quindici metri lì sotto, capisci cosa intendo? Forse non eri del tutto sveglia e...» «Non me lo sono sognato!» si indignò Yael. «Non prendermi per matta, non dopo quello che hai visto anche tu!» Thomas scosse la testa. «Okay, scusami. Ora ci assicuriamo che non ci sia più niente, va bene? Dove si accendono le luci del pozzo?» Lei gli mostrò l'interruttore, e il giornalista abbassò la levetta. Yael notò la borsa sportiva che lui aveva posato per terra. La voragine subì una rapida metamorfosi sotto il fascio dei proiettori. Thomas aggrottò le sopracciglia. «Cosa c'è?» si allarmò la giovane donna. «Mi... Mi sembra di aver visto un'ombra sparire in basso a destra nel momento in cui si sono accesi i fari.» «A destra, dove?» «Nell'angolo vicino al grande serbatoio dove cade l'acqua dei collettori. Di sicuro un effetto ottico...» «No», tagliò corto Yael. «Non puoi vederlo da qui, ma in quel punto c'è un passaggio. L'imbocco di un corridoio per la manutenzione. Se hai visto un'ombra, non è un caso... Significa che c'è qualcuno nel passaggio.» Thomas lesse la determinazione sul suo volto. Aveva decisamente un carattere ben temprato. «Molto bene, vado a controllare», disse. «Come si fa a scendere?» Lei inghiottì la saliva rendendosi conto di che cosa li aspettava. «In cucina c'è una porta che dà in una cantina. Da lì si può raggiungere il pozzo, di solito per riparare i proiettori.» Thomas passò sotto l'arco saltando i tre gradini che immettevano nella cucina e attese che Yael prendesse le chiavi. «A proposito, non lasciare più aperta la porta d'ingresso», le consigliò. «È così che sono potuto accorrere quando hai urlato. Pratico, questa volta, ma niente affatto prudente.» Lei assentì, ancora un po' intontita e scossa dai brividi. «E tu?» domandò. «Cosa hai fatto in tutto questo tempo?»
«È una... lunga storia. Preferisco raccontartela più tardi. Prima pensiamo alle cose più urgenti.» Percependo una certa inquietudine nella voce del compagno, Yael insistette: «Niente di grave? Non farmi stare in pensiero». «Non lo so.» Costernata, lei lo osservò spingere la porta della cantina e addentrarsi nell'umidità delle tenebre. 15 Una nuda lampadina illuminava gli scaffali, vuoti a eccezione di alcune bottiglie di vino che riposavano in un angolo, la collezione personale che Yael stava lentamente mettendo insieme, per quanto poco versata in enologia. Una massiccia caldaia ronzava nell'angolo opposto; un alone azzurrognolo emergeva dai suoi bruciatori. Yael si arrestò davanti alla porta in fondo per aprirla con un giro di chiave. «Non sei obbligata ad accompagnarmi», le disse Thomas. Per tutta risposta, lei spinse il battente ed entrò. Il martellamento dell'acqua che i due collettori scaricavano nella cisterna, una decina di metri più in basso, risuonava tra i muri. Yael era venuta lì solo due volte, sempre in compagnia di suo padre, e sempre con la sensazione di trovarsi in cima a una cascata sotterranea, in fondo a una voragine che puzzava di ammoniaca. L'acqua piovana cadeva turbinando, vaporizzandosi nell'aria fino a ricoprire tutto e rendendo la discesa sdrucciolevole e pericolosa. Thomas afferrò uno dei pioli della scala e prese a calarsi verso quelle rumorose profondità. Yael osservò il soffitto. Riusciva a distinguere il suo salone, e si rese conto di quanto fosse facile, per qualcuno arrivato fin lì, sorvegliarla a sua insaputa. Lei accendeva di rado i proiettori. Scacciando la sgradevole sensazione di vulnerabilità, seguì il reporter. Malgrado l'altezza, Yael non provava alcun senso di vertigine, e stringendo con sicurezza un piolo dopo l'altro superò con calma il dislivello di una decina di metri. In basso, girarono attorno al serbatoio, molto più grande di quel che Yael ricordava. Indicò una rientranza dietro la quale iniziava un corridoio
tagliato nella pietra. La luce delle potenti lampade adesso arrivava con minore intensità, e alcune zone restavano oscure. «Ricordami di non commissionare mai una casa a questo architetto», scherzò Thomas sopra il frastuono. Yael ebbe l'impressione che non fosse davvero rilassato e che parlasse per rassicurarla. Cominciava a chiedersi che cosa gli fosse successo nel pomeriggio. Thomas avanzò nel corridoio, ritrovandosi completamente al buio dopo cinque metri. Frugò nelle tasche ed estrasse un accendino che faticò a far funzionare nell'atmosfera umida. Poi lo sollevò in alto. Soltanto le loro ombre tremolavano sulle pareti. Nessuno. Una porta d'acciaio sbarrava loro il cammino. Sulla quale era dipinto a larghi tratti rossi un numero: 666. La scritta era fresca. La vernice colava ancora lungo la porta. «Credo di doverti delle scuse», disse Thomas. «C'era davvero qualcuno.» «Non mi piace», sussurrò Yael. «Io... Forse sarebbe meglio risalire.» Il giornalista la fissò. «E poi? Aspettare che quella gente continui a perseguitarti? Cercano di dirti qualcosa con quel numero.» Scosse la testa. «È perché non sappiamo di cosa si tratta che siamo costretti a subire. Ma non appena chiariremo tutta questa faccenda, potremo giocare d'anticipo. Dobbiamo passare di là», aggiunse indicando la porta con la scritta. Ci fu un breve indugio, durante il quale Yael analizzò la situazione. Lui aveva ragione: non bisognava più subire. Dovevano passare all'azione. «Credi che vogliano farci superare quella porta?» chiese. «Sì. 666 di per sé non vuol dire niente. È il numero della Bestia nella Bibbia, il numero del diavolo, tutto qui. Occorre associarlo a qualcos'altro che probabilmente ci aspetta dalla parte opposta. Cosa c'è al di là?» «Non lo so, non ci sono mai andata. Secondo mio padre, Parigi è un autentico groviera, in cui tutto comunica. Fogne, tunnel della metropolitana, cantine e catacombe.» «Affascinante», replicò il reporter con aria disgustata. Si accostò al pesante battente e si inginocchiò davanti alla serratura priva
di maniglia. «È un meccanismo semplice.» «Solo che non ho la chiave...» Thomas tastò la serratura. «Ti sei mai rotta qualcosa?» Stupita, Yael annuì debolmente. «Sì... te l'ho accennato. Un incidente in motorino quand'ero adolescente. Mi sono fratturata il bacino.» «Hai ancora le radiografie?» «Sì.» «Mi servono. E anche qualcosa per farmi luce.» Yael obbedì e di lì a poco tornò con una radiografia in una mano e una torcia elettrica nell'altra. Thomas si servì della lastra semirigida per farla scivolare tra il telaio e la porta, sotto la serratura. Facendo leva sulle gambe, spinse il battente con tutto il suo peso per facilitare l'inserimento di quell'arnese improvvisato. Quindi lo fece risalire adagio verso la stanghetta infilata nello stipite. La porta si aprì. «Dove l'hai imparato?» si sorprese Yael. «Nella mia professione, per durare, due cose sono essenziali. Primo: una buona rubrica degli indirizzi. Secondo: sapersela sbrogliare. Quest'ultima è la più vitale.» Posò a terra la radiografia e spense la lampada portatile. Yael spinse il battente. Due candele nere erano accese dentro delle nicchie scavate nella roccia. Il passaggio, basso e stretto, somigliava al tunnel di una piramide, e si inoltrava serpeggiando sotto la città. Più lontano, c'erano delle altre candele accese. Erano attesi. 16 Thomas fece ruotare la torcia nella mano, impugnandola come fosse un manganello. Seguirono il tunnel fino a una svolta a gomito che immetteva in un corridoio perpendicolare. Questo a sua volta conduceva a numerose gallerie. Delle candele segnalavano la via da seguire, una ogni quindici, venti metri circa.
Le luci tremolanti sostenevano un'aspra lotta contro le ombre onnipresenti che vedevano scivolare da una parete all'altra, lasciarsi cadere dal soffitto, scaturire dalle depressioni del suolo; correnti d'aria causate dalla lunghezza e dalla complessità del labirinto sibilavano tra le pietre, accarezzando le candele, minacciando di soffocare le fiammelle a ogni oscillazione. «Sai dove siamo?» sussurrò Thomas mentre camminavano. Yael rispose con lo stesso tono, quello che ispirano le chiese e le biblioteche: «Nelle antiche cave di Parigi, che risalgono all'epoca romana. All'inizio erano a cielo aperto, ma con la crescita demografica del Dodicesimo e del Tredicesimo secolo, Filippo Augusto decise di allargare la capitale. Il bisogno di pietra aumentò, tanto più che c'erano dei grandi cantieri aperti, come quello della cattedrale di Notre-Dame. Ben presto, allo scopo di preservare lo spazio in superficie, le cave divennero sotterranee». Thomas fischiò tra i denti. «Che padronanza dell'argomento!» «Mio padre adora la storia di Parigi. Quand'ero piccola, la sera me ne leggeva dei frammenti per farmi addormentare! Non ti dico gli incubi... Soprattutto quando affrontava il tema della creazione delle Catacombe. Nel Diciottesimo secolo, il Cimitero degli Innocenti, uno dei più grandi d'Europa, era intasato, straripava dappertutto, per dire le cose come stavano. Era un vero focolaio d'infezione, nella zona occupata dall'attuale quartiere di Les Halles.» Procedevano orientandosi con le fiamme, Thomas in testa. Il giornalista ascoltava con un orecchio il racconto di Yael, e intanto perlustrava con lo sguardo le macchie di penombra tra una candela e l'altra. «Insalubrità, rischio di epidemie, 'sovrappopolazione'... il Cimitero degli Innocenti era una piaga nel cuore di Parigi. Si provarono tutte le soluzioni, come costruirvi attorno dei bastioni o ammucchiare le ossa nei tetti, ma niente da fare: il cimitero traboccava, spurgava, puzzava... insomma, l'orrore della capitale. Un giorno, il muro di una cantina cedette sotto la pressione di una fossa comune troppo piena. Ti lascio immaginare la faccia del proprietario quando scese a vedere. E poi il mercato di Les Halles era attaccato al cimitero, e l'odore di putrefazione si mescolava a quello dei generi alimentari. Inoltre, il mercato aveva sempre più bisogno di spazio. Di fronte all'urgenza della situazione, si decise di traslocare i morti per radere al suolo il cimitero.»
Yael scrutava la pietra che stava sfiorando, accarezzando con il pensiero la storia incrostata nel minerale. «Per quasi trent'anni, fino al 1814, la maggior parte dei cimiteri parigini venne svuotata per depositare i cadaveri nelle antiche cave, divenute le Catacombe. Un macabro rituale si svolgeva ogni notte. Dei carri trasportavano il loro carico coperto di drappi neri, scortati da portatori di torce e preti che cantavano l'ufficio dei defunti. Immagino quella scena ripetersi notte dopo notte per anni e anni. Sei milioni di cadaveri vennero esumati per essere 'sistemati' qui, proprio di fianco a noi. È un aspetto della storia di cui si parla poco; credo si preferisca dimenticarlo.» «Peccato», intervenne Thomas, «per gli americani sarebbe un'attrattiva in più questa cosa del... rito funebre sotto la città.» «Oh, allora bisognerebbe spiegare loro che la puzza di uovo marcio che si avverte in alcune stazioni della metropolitana, in particolare dalle parti di Les Halles, è quella della terra impregnata per secoli da fluidi umani in decomposizione. Penso che da un po' di tempo la RATP* stia facendo in modo di attenuare questo sgradevole fenomeno. Quando ero bambina, il fetore era atroce. Probabilmente ritorna di tanto in tanto, soprattutto quando fa molto caldo.» «Dimmi, tuo padre non ti raccontava questa storia per farti dormire, spero?» «Non tutta, ha tenuto gli aspetti più lugubri per l'adolescenza... Era il suo metodo personale per calmarmi. Sì, lo so, non è molto pedagogico. In effetti, mio padre e io non abbiamo mai avuto molta facilità a comunicare l'uno con l'altra.» La galleria si biforcava di nuovo. Costeggiarono una stanza tenebrosa che si apriva da un lato, prima di proseguire per parecchie centinaia di metri. Yael ruppe il silenzio: «Credi che dovremo andare avanti ancora per molto? Perché ci sono più di trecento chilometri di tunnel sotto Parigi, solo per le antiche cave». Thomas rispose con un'alzata di spalle. Ne sapeva quanto lei, e non poteva rassicurarla senza mentire. All'improvviso il suolo cominciò a vibrare. Un ronzio sempre più forte, trasmesso dalla roccia. La prima immagine che si formò nella mente di Yael fu quella di un verme gigante che saliva verso la superficie. Quel verme era di metallo e mandava un odore di gomma calda. E il tunnel che aveva scavato passava proprio sotto i loro piedi.
Quello della RER.** Il rombo era al suo apogeo. Poi si allontanò, e loro ripresero la marcia. Un po' più lontano, una lunga inferriata sbarrava un corridoio sulla destra. Le candele indicavano la direzione opposta, ma Yael si avvicinò alla grata. Una gigantesca arnia. Dalle pareti costituite da una successione di alveoli. Thomas accese la lampada portatile e puntò il fascio al di là della griglia. Gli alveoli in realtà erano delle orbite vuote. Quelle di migliaia di teschi umani accatastati con cura gli uni sopra gli altri, accanto a tibie, omeri e altre grosse e lunghe ossa. Yael afferrò le sbarre. La sua voce era emozionata: «Ti presento Montesquieu, Racine, Camille Desmoulins, Robespierre, Danton, Marat, l'Uomo con la maschera di ferro e altri esseri anonimi che riposano per sempre in questa sinistra grotta». La torcia disegnava una frangia di luce in cui la polvere danzava come sedimenti in un acquario dimenticato. L'alone bianco scivolava da un angolo all'altro, da una piccola cavità a una rientranza più profonda, esplorando l'orizzonte di quel regno infinito, i cui limiti non erano che muri formati da uomini, donne e bambini senza nome. «È l'ossario che possono visitare i turisti meglio informati», osservò Yael con rispetto. «Un vasto complesso di corridoi e sale piene di scheletri.» Sulla chiave di volta di un arco che separava due stanze, il fascio della torcia si bloccò su un disegno scolpito. Un compasso. Più in là, su una colonna, apparvero due obelischi, uno nero, l'altro bianco. Dei simboli massonici. Yael rammentò le quattro torri della biblioteca François-Mitterrand - un presidente appassionato di occultismo - a forma di squadra, altro simbolo massonico, un ammicco sottile ma niente affatto insignificante. Ora che si era sensibilizzata alla questione, Yael scopriva che il mondo brulicava di riferimenti esoterici, di firme occulte. Gran parte della storia era scritta nei manuali. Ma esisteva una storia parallela, quella di Lincoln, di Kennedy, e di molti altri ancora. Ogni cranio la cui nudità brillava inequivocabilmente aveva una propria storia segreta. Ciascuno di quei resti aveva vissuto la sua verità, manipolata dalla propria soggettività. E tutti avevano vissuto una verità manipolata dall'altrui soggettività. Cos'era dunque la storia, in fin dei conti, se non la somma parziale di esistenze che occorreva governare per scrivere ciò che sarebbe stato tramandato alla posterità? E
chi dava gli ordini? Chi muoveva i fili nell'ombra? Delle eminenze grigie. Dappertutto. Spesso unite dall'appartenenza a delle società segrete. Ma c'era un senso comune? La cronologia dell'umanità, per manipolata che fosse, era erratica o tendeva a un obiettivo preciso, suggerito da queste società segrete? Il ruolo di queste ultime era soltanto di giocare con gli uomini affinché noi ci avvicinassimo progressivamente ai loro disegni? Nel mondo, i segni abbondavano. Nelle coincidenze troppo numerose per essere fortuite, nei simboli che comparivano ovunque, una volta che si accettava di vederli. Yael stava acquisendo questa consapevolezza. Era quello che volevano le Ombre. «Lei deve sapere. Stare con noi», le avevano detto. «Creda. E sarà pronta.» Pronta per cosa? «Ehi, tutto a posto?» sondò Thomas. Yael si riscosse bruscamente dai suoi pensieri. «Vieni, non restiamo qui.» Ripresero il cammino tracciato dalle candele nere, verso una lunghissima linea dritta dove brillava l'infinita ghirlanda che faceva loro da guida. I piccoli coni di luce arancione formavano delle nicchie rassicuranti in mezzo all'oscurità, sospese in una serie di piattaforme di salvataggio sulle quali bisognava navigare, saltando da una all'altra sopra un abisso terrificante. Yael le aspettava con impazienza. Non appena lasciava una zona sicura per addentrarsi nella notte, accelerava il passo per raggiungere la successiva. A poco a poco, si avvicinarono al fondo del tunnel. Senza accorgersi che, alle loro spalle, le fiammelle cominciavano a spegnersi. Come smorzate dal passaggio di una creatura che li stava pedinando. * Régie Autonome des Transports Parisiens: Ente autonomo dei trasporti parigini. [N.d.T.] ** Réseau Express Régional: Rete espressa regionale, il sistema di trasporto dell'area metropolitana di Parigi. [N.d.T.] 17 Dopo lo spettacolo di quelle migliaia di crani impilati l'uno sull'altro, Yael non accoglieva più tanto serenamente le correnti d'aria che si infila-
vano tra le sue gambe come anime sfuggenti, fredde e sibilanti che vagassero sotto la città in cerca di sostanza. La sensazione si rafforzò quando la giovane finì in una profonda pozzanghera. «Merda!» imprecò sotto l'effetto della paura. Thomas si sincerò che stesse bene prima di continuare. Il suolo davanti a loro ondeggiava, il riflesso delle candele poste su pietre soprelevate o in fessure della parete si impennava stranamente prima di contorcersi. Dell'acqua, comprese Yael. L'acqua ricopriva il terreno. Ben presto si trovarono a sguazzare con l'acqua ai polpacci, poi fino ai ginocchi. Un'acqua densa, oleosa. Frusciava al loro passaggio, e piccole onde sciabordavano contro le anfrattuosità del tunnel. Il soffitto sembrava più basso, le pareti più vicine. Faticavano a respirare. Erano sottoterra, lontani dal mondo, ben più di quanto non lasciassero pensare i pochi metri di roccia sopra le loro teste. Si sentivano abbandonati. Sono io che ho abbandonato il mondo, venendo qui! si corresse Yael. Era circondata da tonnellate di pietra calcarea. Impossibile fuggire, uscire per respirare altro che non fosse quell'aria pesante, carica di miasmi. Aveva il fiato sempre più corto. Capì che stava lentamente scivolando verso la claustrofobia. Non è il momento. Calmati. Respira. Va tutto bene. Se l'affanno poteva far sembrare calda l'aria, l'acqua invece era gelida. E il suo livello saliva man mano che avanzavano. Adesso arrivava a metà coscia. «Allunghiamo il passo», propose Thomas. «Così non va bene? Sono almeno venti minuti che camminiamo qua sotto.» «Sbrighiamoci», insistette il reporter, senza voltarsi. Puntò l'indice verso una delle candele, conficcata in una crepa. Yael la superò senza notare nulla. «Perché dobbiamo sbrigarci?» Quando furono all'altezza della candela successiva, Thomas indicò lo stoppino e la poca cera liquida che si era accumulata in basso. «Perché le hanno appena accese.» Si rimise subito in cammino.
«Non so chi o che cosa l'abbia fatto, ma è proprio davanti a noi», aggiunse a bassa voce. Yael si affrettò a seguirlo, benché fosse sempre meno convinta della necessità di andarsi a gettare in bocca al lupo. L'acqua iniziò ad abbassarsi finché non divenne solo una serie di pozze. I due esploratori gocciolavano copiosamente. Le loro scarpe erano piene d'acqua, e dovevano procedere con cautela per non scivolare sulla roccia. Dopo una svolta, la galleria terminò di botto. Erano in un vicolo cieco. Yael si portò in testa e diresse la torcia impugnata dal suo compagno verso il fondo del passaggio, alla base. Una gattaiola melmosa consentiva di passare dall'altra parte. Thomas si lasciò sfuggire un sospiro di disappunto. La prospettiva di strisciare là sotto non gli piaceva affatto. Dopo aver appurato che non c'era altro modo di proseguire, si inginocchiò per illuminare il buco dove gli sarebbe toccato infilarsi a testa avanti. «Non vedo niente di particolare. È abbastanza corto, credo, e dopo si allarga.» Detto questo, rivolse un ultimo sguardo a Yael e si addentrò in quelle che sembravano le fauci di una bestia. Un golem deforme fatto di terra, immaginò Yael. Mentre il golem aspirava le gambe di Thomas, degli orribili rumori di risucchio provocati dal fango echeggiavano dal fondo delle fauci spalancate. Poi risuonò la voce soffocata di Thomas: «Puoi venire». Yael improvvisò uno chignon avvoltolando alla meglio i capelli e si inoltrò nel golem. Avanzò strisciando su gomiti e ginocchia prima di sbucare in una stanza di una trentina di metri quadri. Delle goffe colonne fatte di pietre piatte impilate sostenevano la volta della cava. Dei banchi rettangolari tagliati nella roccia sporgente occupavano due terzi dell'ambiente, formando due file affiancate. In fondo, due buie gallerie si aprivano sull'oscurità. Tra queste, un'ultima candela si consumava su un altare tagliato anch'esso direttamente nel calcare. Thomas aiutò la giovane amica ad alzarsi. I pantaloni fradici le si incollavano alla pelle, e cominciava ad avere freddo. «A quanto pare il nostro giretto turistico è finito», disse lui, indicando il tavolo. Percorsero la distanza che li separava dal blocco scolpito e si chinarono
per distinguere l'oggetto incassato nella pietra dell'altare: una piccola vasca. Una vasca rotonda, tutta di porfido nero, non più grande di una padella e non più profonda della falange di un dito. Un liquido spesso e argentato si irradiava sul fondo. «Che cos'è?» domandò Thomas, sorpreso. «Mercurio.» Yael si guardò attorno. «Ci troviamo in un'antica cappella, credo. Mio padre mi raccontava che se ne poteva vedere ancora qualcuna. Certe erano state costruite dai monaci all'epoca dello sfruttamento delle cave, altre dagli stessi cavapietre, e altre ancora da ricchi mecenati, sotto i loro palazzi privati. La devozione e la Gloria di Dio non si tirano indietro di fronte a nessun sacrificio...» aggiunse con una punta di ironia. «Perché farci fare tutta questa strada? Perché condurci qui? Ci dev'essere per forza una ragione...» Yael fece spallucce. «Non saprei, per il simbolismo, presumo. Non è di questo che si è trattato, fin dal principio?» Thomas le afferrò un braccio e si piegò di nuovo sulla vasca. Il mercurio aveva ondeggiato, provocando una serie di minuscole increspature concentriche che si propagavano da un epicentro situato esattamente nel mezzo del recipiente. Poi, d'un tratto, il mercurio prese a muoversi, e decine di piccole zone indipendenti si svuotarono, quindi arretrò, come respinto da una forza invisibile, fino a svelare il fondo della vasca. Si crearono numerosi solchi di grandezza e orientamento diversi, alcuni dei quali finirono per riunirsi, mentre il liquido si apriva come il mare davanti a Mosè. Le fenditure si allungarono e si assemblarono assumendo delle forme precise. Delle lettere. «Stanno comunicando», constatò Yael ad alta voce. I metodi utilizzati dalle Ombre cominciavano a diventarle familiari. Nella vasca apparvero le parole nere sullo sfondo argenteo in rilievo: «Ciò che si trova dall'altra parte è la sola verità». Yael era stupefatta. Era precisamente quello a cui aveva pensato alla vista dei mucchi di scheletri: il concetto di verità nascosta. I solchi si riempirono di mercurio, poi ne comparvero altri. «Ogni cosa è un'apparenza.» «Bisogna guardare dall'altra parte.»
«La storia scritta nei libri è un apparenza.» «Le città sono un'apparenza.» Il liquido scivolava e si scostava con una docilità sorprendente, concatenando le parole come se fosse impaziente di finire. «Il sottosuolo di una città è l'anima nuda della sua civiltà, i suoi arcani.» «Così è per ogni cosa.» «I misteri dell'Uomo sono nelle sue fondamenta.» «La sua storia.» «Passi dall'altra parte.» «E impari a leggere nell'ombra della storia.» Yael rabbrividì. Dopo tutto quello che avevano appreso sul biglietto da un dollaro, su Lincoln e su Kennedy, intuiva che era soltanto l'inizio. Un timido inizio, per di più. «Non dimentichi: ogni cosa è un'apparenza.» «E dietro ogni apparenza si nascondono i suoi arcani: la sua reale essenza, la sua verità.» «Scoprirla è la conoscenza del mondo. Il potere.» «Il potere, Yael.» Il mercurio si ammosciò con un plop, tornando a formare una pozza inerte. Né Yael né Thomas aprirono bocca. La fiamma del cero sembrava allegra, incapace di stare dritta, come se ridesse alle spalle di quei due esseri umani inebetiti. «Oscillo tra la paura per quello che sta succedendo e la paura per quello che potrà seguire», disse infine la giovane. Thomas si passò le mani tra i capelli, riflettendo. «Hai un sacchetto di plastica?» chiese all'improvviso. «Ma certo», replicò Yael. «Me ne porto sempre dietro uno quando vado a zonzo per le Catacombe.» Lui frugò con lo sguardo la stanza senza trovare una soluzione. Poi tirò violentemente la manica della sua camicia fino a strapparla. Accese la torcia elettrica e spense la fiamma della candela, che avvolse delicatamente nel tessuto. «Che cosa fai?» «Magari ci sono delle impronte.» Yael annuì, sebbene l'idea le paresse strampalata. Thomas si aggrappava ancora alla razionalità.
Stavano tornando verso l'uscita quando lei si bloccò. «Aspetta», disse. «Che c'è?» «Le Ombre poco fa... Il messaggio diceva che ogni cosa è un'apparenza. E che bisogna guardare dall'altra parte.» «E allora?» «Mi chiedevo...» Thomas la interruppe, l'indice sulle labbra. «Cosa c'è?» «Ho sentito un rumore.» «Può darsi che...» Lui le fece di nuovo segno di tacere e si piegò verso la gattaiola. Un rumore di passi nell'acqua. «Qualcuno sta venendo nella nostra direzione», riferì Thomas, raddrizzandosi. «Dobbiamo andarcene da una di queste gallerie.» Yael si sentì invadere dal panico. Stai calma. Stai calma. Non sprecare il fiato, adesso. Doveva concentrarsi su qualcosa, tenere la mente occupata. «Prima di andarcene, voglio controllare una cosa, d'accordo?» insistette. «Non c'è tempo.» Senza dargli retta, la giovane afferrò la vasca e cercò di alzarla. «È troppo pesante, aiutami!» «Yael, dobbiamo filarcela subito.» «Aiutami!» ribadì lei. Imprecando, Thomas abbrancò l'altro bordo della vasca. Riuscirono a sollevarla a fatica. Pesava molto più di quanto le sue dimensioni facessero supporre. Con un ultimo sforzo, la depositarono a lato dell'altare. Un buco quadrato, fino a quel momento nascosto dal catino, era scavato nella pietra. «Ogni cosa è un'apparenza, bisogna guardare dall'altra parte», ripeté Yael con un certo orgoglio, malgrado la paura che l'attanagliava. Infilò la mano nel pertugio. Le sue dita entrarono in contatto con una superficie liscia. Del cuoio. Tastò la cavità e ne estrasse un libro. Un libro di piccolo formato, ma spesso, rilegato in cuoio satinato, il che gli conferiva l'aspetto di un'opera antica. Una Bibbia. Thomas la agguantò per le spalle e la trascinò verso una delle due galle-
rie. Alle loro spalle, Yael udì distintamente il segnale d'allarme: il famelico golem aveva appena inghiottito un nuovo invitato. 18 Yael e Thomas correvano nella scia biancastra della torcia, che sobbalzava e rivelava a stento le insidie del terreno. Udirono una voce maschile provenire dalla cappella, dietro di loro: «Sono là!» Yael sentì che Thomas accelerava, prendendosi rischi sempre maggiori. Non distinguevano gli ostacoli - pietre e crepacci abbastanza grandi da rompere un piede - che all'ultimo momento. I passi pesanti lanciati al loro inseguimento echeggiavano nella galleria. La coppia oltrepassò un primo incrocio senza cambiare direzione. Al successivo, Thomas trascinò Yael nel passaggio a sinistra, senza sapere dove andavano, ma sperando di seminare gli uomini che li tallonavano. Nonostante tutte le svolte che caratterizzavano il tunnel, la luce della torcia li tradiva. Quando fu evidente che non sarebbero riusciti a distanziare gli inseguitori, Thomas, in corrispondenza di un nuovo crocevia, spense la pila. Sorpresa, Yael si fermò di botto. Nel buio totale, girò su se stessa. «Thomas?» bisbigliò senza fiato. «Ssssst!» le ordinò lui. «Vieni di qui, nasconditi.» Lei cercò di localizzare il suono della sua voce, così come si augurava il giornalista. Ma l'emozione e la stanchezza fisica la gettarono nella confusione. Brancicò lungo la parete umida. «Muoviti!» la incitò lui. «Dove sei?» domandò lei, sempre più agitata. I cacciatori si avvicinavano, poteva sentirne il respiro sopra il rumore dei passi di corsa. Yael tastò la pietra fredda. Apparve il bagliore delle loro torce. Li avrebbero raggiunti da un momento all'altro. Sotto la mano della giovane, la parete si interruppe. Un'apertura. Gli aloni divennero all'improvviso dei fasci luminosi in movimento.
Yael si precipitò nel varco, una mano tesa davanti a sé per sondare le tenebre, l'altra che accarezzava la roccia per avere un riferimento. Nonostante il timore di inciampare, allungò il passo, pregando di non incontrare nessun ostacolo. Poi si arrestò, trattenendo il fiato, cercando di percepire un'eventuale presenza. Una voce smorzata la raggiunse: «Io vado di là». Subito seguita da un guizzo di luce nel passaggio dove si trovava. Oh, no... Inspirò una gran boccata d'aria e ripartì. Dove diavolo era Thomas? Di certo in un'altra direzione. Forse è solo un po' più lontano, sperò, affrettando il passo. L'uomo alle sue calcagna aveva una torcia, poteva correre senza rischiare di rompersi l'osso del collo... Se lei non avesse fatto altrettanto, l'avrebbe beccata in un lampo. Non riusciva a vedere niente. Aveva la mano destra scorticata a forza di sfiorare il muro. A un tratto si mise a tastare le tasche dei jeans. Un barlume di speranza si accese in lei. Tirò fuori il cellulare e premette un tasto per attivare l'illuminazione dello schermo, che diffuse un bagliore azzurrognolo sufficiente a scorgere il terreno. Yael si mise subito a correre. Si congratulò con se stessa per aver avuto quell'idea, e ancor più quando scavalcò un gradino che di sicuro l'avrebbe fatta cadere nell'oscurità. Acquistò fiducia e velocità insieme. Tuttavia, l'assenza di una qualsiasi altra strada da seguire la preoccupava. Se fosse finita in un vicolo cieco, sarebbe stata spacciata. Le sue gambe adesso galoppavano. Superò una curva, senza rallentare. L'aureola salvatrice del telefonino svelò un tratto accidentato, disseminato di piccoli ciottoli. Improvvisamente, il pavimento del tunnel svanì nel nulla. Al suo posto, c'era un immenso abisso. Un passo in più, e Yael ci sarebbe volata dentro. Ebbe solo il tempo di buttare indietro tutto il peso del corpo. Le spalle arretrarono per prime, poi le braccia tentarono di controbilan-
ciare lo slancio, seguite dalle anche. Perse l'equilibrio, sdrucciolò e cadde sul sedere. Proprio sul ciglio del baratro. Ansimando, sollevò adagio il cellulare: la galleria terminava lì, con quella voragine spalancata. Si tirò su in ginocchio e si sporse. Cinque metri più in basso si intuiva l'inizio di un altro livello, sotto la superficie di un'acqua densa e scura. Yael ne aveva sentito parlare dal padre: il livelli inferiori erano rari e in genere allagati. Si rialzò per sondare i bordi. Nessuna via d'uscita. Non poteva fare altro che tornare sui suoi passi. Fu allora che la torcia del suo inseguitore si alzò come una sinistra luna di cattivo auspicio. 19 Loïc Adam era sul punto di fare dietrofront. L'uomo e la donna che cercava probabilmente avevano preso un'altra direzione all'incrocio. Tuttavia, decise di proseguire fino alla svolta successiva, stringendo la presa sul calcio della Beretta. Era meglio non correre rischi. Illuminò la strettoia e scopri un vicolo cieco. Il pavimento si apriva su un grande pozzo senza parapetto. Non potevano essere passati da lì. Come avrebbero fatto? Saltando? Per scrupolo di coscienza, Loïc si sporse oltre il bordo. Yael l'aveva visto avvicinarsi, passare accanto alla minuscola rientranza dove si era infilata all'ultimo momento. Quando fosse tornato indietro, l'avrebbe beccata di sicuro. La cosa peggiore era l'oggetto che impugnava. Un'arma da fuoco. Chi era? In che pasticcio si era ficcata? L'uomo si fermò sull'orlo del baratro. Yael seppe quel che doveva fare. Non c'era alternativa. L'acqua avrebbe ammortizzato la caduta, male che andasse si sarebbe rotto un arto.
Fallo. Yael si lanciò come una furia fuori dal suo nascondiglio, le braccia tese in avanti, colpendo la schiena dell'uomo con tutta la forza che scaturisce dalla paura. Lo vide oscillare mentre cercava freneticamente un appiglio. Un secondo più tardi il rumore dell'impatto salì dal livello inferiore. Yael ebbe un sussulto di ribrezzo. Non osò guardare se non dopo aver chiamato a raccolta tutto il coraggio. La torcia, appena inghiottita dalla melma, rischiarava debolmente la scena. L'uomo era disteso nell'acqua scura, la testa girata in modo curioso. Yael aprì gli occhi, inorridita. La sua nuca! Le sue dita si agitavano spasmodicamente, così come la gamba che spuntava da quella pozza appiccicosa. Ma soprattutto lei vedeva i suoi occhi. Raccapriccianti. Si muovevano in ogni direzione, specchi di quell'onda fredda che si stava impadronendo di lui. Yael osservava la scena piangendo. Lo aveva riconosciuto. Era il tizio dalle pupille taglienti della biblioteca. Quello che Thomas aveva seguito nel pomeriggio. Le convulsioni raddoppiarono, schizzando fango nella grotta giù in basso. Gli occhi esprimevano un terrore sordo, e questa volta la consapevolezza della morte era palpabile. L'uomo era quasi morto, e lo sapeva. Yael realizzò tutto l'orrore dell'espressione «sentirsi morire». All'ultimo istante, l'individuo fissò il suo sguardo folle in quello della giovane donna. La supplicava. Poi, piano piano, sprofondò nella melma. I due uomini si erano divisi, perlustrando due tunnel opposti, e Thomas era tornato sui propri passi, la torcia di nuovo accesa, alla ricerca di Yael. Nel panico, aveva perso le sue tracce. Gli era parso di sentirla un'ultima volta nella galleria vicina. Ma in tal caso, uno degli uomini le era alle costole. Precipitarsi in suo soccorso. Ecco cosa doveva fare. Al diavolo i rischi, non poteva lasciarla sola. Il reporter attese giusto il tempo necessario per non farsi individuare e si lanciò a sua volta all'inseguimento della ragazza.
Dopo un minuto, risuonarono dei passi. Poi di nuovo silenzio. Prima dell'eco di un impatto. Un colpo sordo. Provò un tuffo al cuore. Il peggiore degli scenari gli apparve nella mente, ma subito lo scacciò per correre verso quella che immaginò essere una colluttazione. Si ritrovò faccia a faccia con Yael, che tremava come una foglia. «L'ho ucciso», mormorò lei. Thomas gettò una rapida occhiata a ciò che si trovava più in basso, quindi la prese per mano. Lei si lasciò trascinare verso l'ultima diramazione. I due ritornarono velocemente nella cappella e, dall'altro lato della gattaiola, Thomas chiese a Yael di aiutarlo a spostare un'enorme pietra, con cui bloccarono l'apertura. «Lo voglio proprio vedere a cercare di smuoverla, da solo e a pancia in giù. Dovrà cercarsi un'altra uscita, il che ci lascia un po' di tempo.» Yael uscì dal suo silenzio confuso. «Un po' di tempo per cosa?» «Per fare le valigie. Non puoi più restare a casa tua.» «Non capisco», fece lei, ancora in stato di choc. «Ti spiegherò quando saremo fuori. Ho già avuto a che fare con quei tizi, nel metrò.» Afferrò la giovane per le spalle e aggiunse: «Sei in pericolo, Yael». 20 Le mani che gettavano alla rinfusa i vestiti nella valigia non erano le sue. Yael assisteva incredula a quello che faceva il proprio corpo, senza prendervi parte. Al suo fianco, Thomas dava ordini, alternando la dolcezza a una fermezza imposta dall'urgenza della situazione, e l'involucro di carne della giovane obbediva. Le cartoline, le foto, i ricordi di viaggio, i libri... tutto ciò che costituiva il suo patrimonio emotivo e cronologico le scivolava sotto lo sguardo come se fosse a casa di una sconosciuta. Stava perdendo una parte di se stessa. Gli abiti cadevano nella valigia con una lentezza sconcertante, persino la voce di Thomas le arrivava con un ritardo anomalo.
Su ciascuno dei suoi sensi gravava un frammento dell'omicidio che aveva commesso. Sentiva il sapore della melma sulla lingua. L'odore del sangue nelle narici. E il volto terrorizzato di quell'uomo si confondeva con gli angoli della stanza. L'atto sacrilego che aveva compiuto si ricomponeva pezzo per pezzo, come in un puzzle, sull'altare della sua coscienza. Ben presto non riuscì a controllare più niente, prigioniera passiva dei propri movimenti. Non c'era nulla all'infuori dei suoi gesti e della voce di Thomas, lontana, in una sfera ovattata, mentre lei soffocava dietro quelle barriere di cotone, sempre più sola a ogni minuto che passava. Si rese conto di camminare in strada, con il gatto in braccio, tallonando Thomas, che depositò nel bagagliaio della 206 la sua valigia e la borsa sportiva con cui era arrivato quella sera. Aveva le chiavi della macchina, e si mise al volante. Anche il paesaggio sembrava appartenere a due mondi diversi. Quello delle apparenze, delle facciate ermetiche, e l'altro, trasparente, che sfilava fuori dal finestrino dell'auto... Un gruppetto di ragazzi discuteva davanti a una drogheria con delle bottiglie di vino in mano. Più in là, a un semaforo rosso, una coppia sulla quarantina si teneva per mano. Un'adolescente portava a passeggio il suo cane sbirciando il cielo. Una donna anziana camminava faticosamente, gli occhi fissi in un altro luogo. Verso l'infinito effimero della sua esistenza. E alla fine le lacrime bagnarono le guance di Yael. Le palpebre le si sollevarono pian piano. Era sfinita, il corpo intorpidito immobile sotto le lenzuola. La camera era immersa nella penombra della notte; non la riconosceva. L'arredamento era sommario, spartano. Girò la testa verso una sveglia digitale su cui brillavano le cifre rosse: 4:18. Si raddrizzò per accendere la veilleuse sopra il comodino. Kardec, che si era acciambellato al fondo del letto, lanciò un miagolio di protesta in direzione della luce che l'aveva strappato ai suoi sogni di felino. Nel letto gemello, Thomas aprì subito gli occhi, le pupille fisse ancora nel regno di Morfeo, prima di svegliarsi del tutto.
«Non preoccuparti», disse, la voce arrochita dal sonno. «Siamo in una stanza d'albergo.» Lei scosse debolmente la testa, non riusciva a capire. «Dove? Dove?» ripeté nel torpore. Thomas scivolò verso di lei e allungò un braccio nudo per accarezzarle i capelli. «Sdraiati, per adesso devi dormire.» Lei tornò a stendersi. «Che cosa ci sta succedendo?» domandò, ancora anchilosata. «Ne parliamo domani.» Mezzo assopita, lei farfugliò: «Voglio... Voglio... dimenticare. Voglio che... che tutto questo...» Thomas, dolcemente, continuava a far scivolare le dita tra le ciocche di seta della giovane donna. «... non sia mai... successo.» Quando si fu riaddormentata, Thomas meditò su quella giornata assurda e sulle sue conseguenze. Bevve un sorso d'acqua direttamente dalla bottiglia e guardò la scrivania su cui era posata la candela nera che aveva avvolto nella manica della camicia. Rappresentava la lunghezza di vantaggio che ancora non avevano. Il modo per passare all'azione. Bisognava soltanto farla parlare. SECONDA PARTE Il regno delle teorie Blog di Kamel Nasir. Estratto 4 Ho parlato dei legami tra gli inquilini della Casa Bianca e gli imperi finanziari, ma esiste un gruppo di cui si parla abbastanza poco. Forse perché la stampa indipendente non esiste più davvero negli Stati Uniti, e sempre meno nel resto del mondo. Tutti i giornali e le televisioni di grande audience appartengono a gruppi gestiti da miliardari con interessi politici e strategici precisi. Resta comunque il fatto che Bush è stato membro del consiglio d'amministrazione del gruppo Carlyle, nel quale lavora suo padre, Bush senior, e che è diretto da un tale Frank Carlucci, ex vicedirettore della CIA e segretario alla Difesa sotto Reagan. Questo gruppo è il più importante fondo
d'investimento privato degli Stati Uniti, con 13 miliardi di dollari di attivo e 16 miliardi di dollari di entrate annue. Se ci soffermiamo un istante su Carlucci, vedremo che è sospettato di aver favorito l'ascesa al potere del generale Mobutu, e di essere implicato nell'assassinio del suo rivale, Patrice Lumumba. Dopo la sua carriera politica - durata il tempo necessario per infiltrare gli amici nel governo, diranno le malelingue -, Carlucci entra nel mondo degli affari, in particolare in quello degli armamenti e della sicurezza, tramite la Sears World Trade da una parte - che fallisce nel 1986 mentre esplode lo scandalo (la SWT serviva da copertura a operazioni illegali dei servizi segreti) - e la Wackenhut dall'altra - una società di sicurezza privata con la dubbia reputazione di essere un paravento della CIA e di avere collegamenti con l'estrema destra americana. Carlucci diventa milionario in soli quattro anni prima di ottenere la presidenza del gruppo Carlyle.* All'indomani della sua elezione, George W. Bush firmava un contratto di 12 miliardi di dollari con il gruppo Carlyle, per un sistema di artiglieria sconsigliato da tutti gli esperti del Pentagono. Fatto ancor più sorprendente, il mattino dell'11 settembre 2001, nello stesso momento in cui avviene l'impatto del primo aereo contro la torre del World Trade Center, si apre a Washington la riunione annuale degli azionisti del gruppo Carlyle. Avendovi investito del denaro, è presente anche la famiglia Bin Laden. (È incredibile la quantità di nessi esistenti tra il governo americano, gli industriali e l'Arabia Saudita!) Due giorni più tardi, mentre il traffico aereo è paralizzato, un velivolo lascia il territorio statunitense; è diretto in Arabia Saudita. A bordo ci sono i membri della famiglia Bin Laden. Nessuno ha cercato di interrogarli. Ancor peggio, perché l'apparecchio possa decollare è stata necessaria un'autorizzazione dai più alti livelli... Questi fatti sono accertati, andate pure a verificare. Quando si sa che i Bin Laden hanno pagato 200.000 dollari a Colin Powell per tenere una conferenza di quindici minuti all'università di Boston, e questo una settimana prima che venisse nominato segretario di Stato, è lecito porsi delle domande. Occorre sapere che i sauditi sono parte integrante dell'economia a stelle e strisce, visto che i loro depositi nelle banche della nazione ammontano quasi a 1000 miliardi di dollari! Hanno investito ovunque, principalmente nel settore dei media, basti pensare all'AOL Time-Warner. Sono dappertutto. Mano nella mano con gli industriali americani.
Primo punto, dunque: i legami tra i gruppi industriali, il governo americano e le famiglie saudite sono inestricabili. Secondo punto, da trattare in seguito: la folle teoria della cospirazione. * Sebbene ciò non cancelli affatto i suoi legami e quello che ha potuto combinare in seno al gruppo Carlyle durante quindici anni, alla fine Carlucci ha lasciato il posto a Louis Gerstner, ex proprietario dell'IBM, probabilmente perché le polemiche stavano diventando troppo forti, anche se questa non sarà mai la motivazione ufficiale. Gerstner ha occupato posti di rilievo nell'American Express, nella RJR Nabisco (industria del tabacco!) e nella McKinsey & Company (nota anche come «The Firm», «l'Azienda», è una società di consulenza manageriale che annovera tra i suoi clienti tre delle cinque maggiori compagnie mondiali e i due terzi delle più grosse imprese americane...), in breve, un uomo influente e ben introdotto ovunque che manovra tra coloro che fanno l'economia americana. Nel 1997, affermava che sarebbe rimasto alla testa dell'IBM fino a sessant'anni. Ha assunto la direzione del gruppo Carlyle esattamente a sessant'anni... Un tempismo perfetto. Come ha sottolineato la rivista Business Week: «Carlyle ingarbuglia le teorie cospirazioniste». [N.d.A.] 21 Era un lunedì mattina che somigliava al giorno dopo una festa bagnata da troppo alcool. Yael aveva la testa pesante e le membra rigide. Il sonno aveva steso un velo sull'orrore della sera precedente - senza tuttavia alleggerirle la coscienza - e le aveva permesso di accettare le circostanze che attenuavano la sua colpevolezza. Si era svegliata presto, e aveva parlato a lungo con Thomas. Lui aveva insistito sul fatto che aveva agito per legittima difesa. Infine avevano affrontato il tema che al tempo stesso impauriva e rassicurava Yael: dovevano informare la polizia? Lei voleva andarci, spiegare ogni cosa, giustificare il suo atto, gridare il più forte possibile che non l'aveva fatto apposta, che non si era augurata la morte di quell'uomo. Che si era soltanto difesa. Thomas era rimasto un attimo in silenzio, prima di domandarle che cosa contava di raccontare agli agenti che l'avrebbero interrogata. Le ombre negli specchi, le frasi che apparivano sullo schermo del com-
puter e tutto il resto... che prove avevano per dimostrarlo? Nessuna. Solo la parola di Yael. «Le uniche prove che hai in mano», aveva osservato, «sono un biglietto da un dollaro coperto dalle tue impronte e una candela nera. Un po' pochino, non credi?» Aveva posato una mano sul ginocchio della giovane. «Sono sicuro che la spiegazione di tutte queste stranezze è lì, sotto i nostri occhi, basta scavare nella giusta direzione. Può darsi che questa candela ci possa aiutare.» «E come?» aveva chiesto lei. «Prima dobbiamo fare qualche commissione», aveva risposto lui, sorridendo. Erano usciti. Il loro albergo era situato nei pressi della Porta di Versailles, davanti alla grossa sfera del Palazzo dello Sport. Avevano percorso rue de Vaugirard finché non avevano trovato un negozio di bricolage, dove Thomas aveva comperato della colla, quindi avevano fatto altri acquisti generi alimentari, essenzialmente - che il reporter aveva insistito per pagare di tasca propria. Sulla via del ritorno, Yael, oppressa, trasaliva a ogni scoppiettio del motore. Di fronte al mutismo della ragazza, Thomas decise di chiarire la situazione: «Ora che abbiamo un po' di tempo, ti devo una spiegazione su quanto ho fatto ieri pomeriggio». Siccome lei non rispondeva, continuò: «Ho seguito quel tipo nella stazione della metropolitana vicino alla biblioteca. Volevo sapere che cosa macchinava, ma mi ha scoperto subito e si è messo a correre. Gli sono andato dietro, e le cose si sono messe male. Un fatto è certo: quel tizio sapeva quello che faceva. Mi ha individuato in un baleno, aveva un'eccellente forma fisica e non ha mai perduto il sangue freddo, tutt'altro. Non è scappato in una direzione qualsiasi, mi ha attirato verso un complice, nel metrò. Prima di rendermene conto, ero intrappolato nel convoglio». L'evocazione di quell'uomo fece vacillare Yael. I suoi occhi si velarono. «Sono venuti verso di me», proseguì Thomas, che non aveva notato niente, «e il primo mi ha detto di impicciarmi dei fatti miei. Che la curiosità era un brutto difetto e che mi avrebbero fatto passare la voglia di ficcare il naso in giro. Il treno è arrivato alla stazione successiva. Sulla linea 14 l'apertura delle porte è automatica e io ne ho approfittato, saltando giù dalla vettura e gridando: 'Forza, fatevi avanti, adesso! Cambiatemi i connotati
davanti alle telecamere! Sarà un piacere registrare la scena!'» Si sforzò di ridere, ma sotto l'apparente sicurezza si percepiva ancora l'emozione. «Hanno capito che se fossero scesi dal vagone sarebbero stati ripresi dalle telecamere di sorveglianza, e non cercavano quel genere di pubblicità. Quindi sono andato a Saint-Denis per prendere alcune cose. Pensavo di trasferirmi da te finché non avessimo capito che cosa sta succedendo. Quando sono arrivato, ho bussato alla porta, poi ti ho sentita urlare... Conosci il seguito.» Arrivarono all'hotel Mercure. Thomas osservò Yael, sempre silenziosa, e vide le lacrime sulle sue guance. Posò i sacchetti della spesa e la prese per le spalle. «So il peso che devi sopportare», le disse con dolcezza, «ma è il momento di essere forte. Quegli uomini probabilmente erano dei professionisti. Siamo stati fortunati a cavarcela, e in tutta sincerità credo che se avessi esitato a fare ciò che hai fatto, adesso ci saresti tu sotto quella melma. Mi ascolti, Yael? Guardami.» Lei lo fissò. «Questa immagine che ti tormenta», mormorò lui in tono fermo, «ti ha salvato la vita! Avresti preferito rimetterci la pelle? È questo che avresti voluto? Fare la sua stessa fine? Morire al posto suo? Perché lui, credimi, non avrebbe esitato un secondo! Ficcatelo bene in testa! Era o lui o te. Punto!» Yael deglutì, poi fece cenno con la testa di aver capito. Ma liberarsi di quel peso sarebbe stata tutta un'altra storia, una questione di tempo. Sempre che sia possibile, pensò. Thomas afferrò di nuovo i sacchetti. «Per il momento, quello che conta è che siamo qui tutti e due. Chi ti vuol fare del male? E perché? È ciò che dovremo scoprire se vogliamo che la polizia ti creda. Ti tireremo fuori da questa storia, d'accordo?» Lei riuscì a sorridere, e gli diede un bacio sulla fronte. Entrarono nella hall dell'albergo e salirono al quarto piano per tornare nella loro stanza. Yael sistemò le provviste nel minibar, diede dei croccantini a Kardec in una ciotola nuova, gli preparò una lettiera e prese degli abiti puliti. «Mi faccio un bagno per distendermi», avvisò. Riapparve un'ora dopo, dritta e determinata. Thomas fece fatica a riconoscere la giovane donna che aveva continuato a rassicurare per l'intera
mattinata. Mentre l'acqua spumeggiava intorno a lei, Yael si era costretta a rivivere tutta la scena, a ripassare mentalmente la spaventosa sequenza, per poi invertire i ruoli. Aveva sovrapposto il proprio volto a quello dell'uomo, e si era vista morire, mentre lui dall'alto osservava la sua sofferenza, il viso tagliato con l'accetta, le iridi fredde e crudeli, soddisfatto di aver portato a termine la missione. Era sceso nelle Catacombe di Parigi per quello. Per ucciderla. Lui era armato, lei no. Thomas aveva ragione: era una sopravvissuta, non un'assassina. Era lui la causa della propria morte. «Cosa pensi di farne della candela?» domandò con brio inusitato. Sconcertato da un simile cambiamento, il reporter impiegò cinque secondi a rispondere: «Ehm... Verificare se ci sono sopra delle impronte digitali. E pregare di trovarne». Indicò la scrivania in un angolo della camera. Aveva tagliato il fondo di una bottiglia d'acqua di plastica. A cinque centimetri dalla base, aveva praticato un'incisione orizzontale nella quale era conficcato un cucchiaino da caffè, il manico che spuntava per due terzi dall'altro lato. Sotto bruciava una candela scaldavivande la cui fiamma lambiva il cucchiaino, dentro il quale stagnava una sostanza trasparente e vischiosa. Thomas aveva ritappato la bottiglia dopo aver attaccato la candela nera a uno spago sospeso. «Il liquido è del Super Glue, una supercolla», spiegò. «Un cianoacrilato. Esattamente la stessa sostanza che utilizza la polizia scientifica per rilevare le impronte con la tecnica della fumigazione. Per esempio, nell'abitacolo di una vettura, invece di spennellare tutto con delle polverine, si chiudono i finestrini e si affumica l'interno con un cianoacrilato per evidenziare le impronte. Quando la colla raggiungerà i cinquanta gradi ed entrerà in ebollizione, i prodotti chimici liberati si depositeranno sugli amminoacidi, acidi grassi e proteine contenuti nelle impronte digitali, ammesso che ce ne siano.» «Dove l'hai imparato?» «Sono un giornalista, no?» rispose lui facendo il misterioso. «Qualche mese fa ho lavorato con un tizio della scientifica per un servizio sui loro metodi. E quella che ho tentato di riprodurre qui è una piccola camera di fumigazione.» «E se funziona, che facciamo? La portiamo agli sbirri?» Lui scosse vigorosamente il capo.
«No. Contatterò questo mio amico e gli chiederò il favore di inserire l'impronta nell'archivio informatizzato delle impronte digitali, il FAED, sperando che ci conduca a una pista interessante. Altrimenti dovremo escogitare qualcos'altro. Quando saremo sicuri di avere abbastanza informazioni per convincere la polizia che delle persone stanno cercando di farti del male e che non sei solo una graziosa svitata, andremo assieme al commissariato.» «Hai considerato l'eventualità di non trovare niente? Di non poter provare niente?» «Non fare l'uccello del malaugurio.» «Sei superstizioso?» scherzò lei per contrastare l'ansia che ricominciava a crescere. «Ho del sangue irlandese da parte di padre», ribatté lui, piegandosi verso la bottiglia di plastica. «Irlanda e superstizione... è un pleonasmo.» L'interno del recipiente divenne poco per volta opaco, assumendo una colorazione lattescente. Mentre osservava l'esperimento, Thomas si servì una bottiglietta di tè ghiacciato. «Perché questo albergo?» domandò lei all'improvviso, come se soltanto allora vedesse quell'ambiente. «Perché è comodo, e situato in un quartiere animato, con il Parco delle Esposizioni e il Palazzo dello Sport. Sarà più facile passare inosservati. E poi è pratico: che ci si voglia dirigere verso il centro della città per rue de Vaugirard, che tocca tutti gli arrondissement fino al Jardin du Luxembourg, o allontanarsene con la tangenziale, ci si mette un attimo.» Pranzarono con dei sandwich fatti in casa e si armarono di pazienza. Sdraiato sulla schiena con le zampe all'aria, Kardec giocava con una confezione vuota di surimi, portando nella stanza un po' di allegria e innocenza. Dopo un'ora di processo chimico, la candela nera pendeva sempre nel suo carapace trasparente. Decine di minuscoli solchi bianchi arrotolati gli uni negli altri emergevano sulla cera. Le impronte formavano dei grappoli in rilievo. Il giornalista incollò il naso alla plastica. «Quelle specie di chiazze confuse che vedi in alto sono certamente le mie. Comunque, ti posso assicurare che non ho posato le dita da nessun'altra parte.» Lanciò uno sguardo fiducioso a Yael.
«Adesso, non ci resta che sperare nella buona stella e nel fatto che il nostro posatore di ceri sia schedato dalla polizia.» 22 Dagli altoparlanti nella macchina di Yael usciva la voce da ragazzina di Cyndi Lauper che cantava Time after time. Lei era dietro il volante, massacrando la canzone pronunciando una parola su due - quella che le tornava in mente. Posteggiata in quai de l'Horloge, attendeva Thomas sull'Ile de la Cité, tra le alte facciate haussmaniane da un lato e la sfilata di antichi lampioni che costeggiavano la Senna dall'altro. In lontananza si scorgevano i tetti del Louvre. La musica ricordava a Yael il periodo dell'adolescenza in cui quel brano impazzava. Un'epoca non priva per lei di dubbi, paure e rabbia. Cos'era davvero cambiato da allora? I motivi di dolore e apprensione, e ovviamente il peso delle responsabilità. Ma non rimpiangeva i tempi andati, contrariamente ad alcune delle sue amiche che cantavano le lodi della spensieratezza perduta. Yael non ci credeva. Aveva finito per elaborare una propria definizione dell'età. Invecchiare voleva dire smussare gli angoli del proprio passato, lucidarne i ricordi. «Invecchiare bene» significava invece essere capaci di non serbare dentro di sé troppe spine, troppe asperità su cui ferirsi l'anima. E non per indorare la propria immagine agli occhi degli altri o mentire a se stessi, ma perché ridurre al minimo le ferite era il modo migliore per accettare di invecchiare. La sagoma di Thomas emerse dal portico di un edificio del Diciannovesimo secolo. Aveva in mano una busta di carta kraft. Si era recato dal suo amico piedipiatti per tentare di ottenere un'identificazione dalle impronte digitali rilevate sulla candela. Yael lo scrutò, cercando di capire se fosse soddisfatto o abbattuto. Ma dall'espressione non traspariva nulla. Impaziente, si protese per aprirgli la portiera. «Allora?» abbaiò sopra la musica, che spense subito dopo. «Anche tu diventerai superstiziosa», disse lui, sedendosi nell'auto. «Abbiamo avuto... fortuna.» Chiuse la portiera e si rovesciò sulle gambe il contenuto della busta. La candela si trovava in un sacchetto di plastica al quale era fissato con dei punti metallici un sottile fascio di foglietti. Thomas li afferrò per leggerli ad alta voce
«Olivier Languin, noto alle forze dell'ordine per porto illegale di armi da fuoco, percosse e lesioni, guida pericolosa...» Si girò verso Yael con un sorriso compiaciuto. «Insomma, un bel soggetto. Con una fedina del genere, non mi verranno a dire che le sue impronte sono finite lì per caso. Il mio amico ha chiamato un collega che l'ha sbattuto al fresco due volte. Secondo lui Languin è un tipo furbo, difficile da pizzicare, coinvolto in parecchi affari loschi, ma è un semplice esecutore. Di quelli che vengono reclutati come sicari, non un cervello.» «Aspetta un attimo... che rapporto può mai esserci tra questo Languin e le Ombre che compaiono negli specchi?» «Lo ignoro. So soltanto che questo tipo ha l'abitudine di farsi ingaggiare per dei lavori sporchi e che ha cercato di trascinarti nelle Catacombe di Parigi.» «Dunque credi che lavori per qualcuno?» «Mi ci gioco la camicia.» Yael affondò nel sedile, le mani sul volante. «Qui dentro ho tutte le informazioni», continuò Thomas, agitando il dossier. «Indirizzo, professione...» «Perché, ha pure un impiego ufficiale?» «Sì... lavora in...» Thomas consultò le pagine e a un tratto chinò la testa, spalancando la bocca. «Cosa c'è?» si allarmò Yael. «Lavora... in una fabbrica di specchi», rispose il giornalista. Lei si irrigidì. «Dove?» «A Pantin, vicino al canale dell'Ourcq.» Yael girò la chiave e il motore della 206 fece scattare le sue valvole. La Città delle Scienze e dell'Industria stendeva la sua massa di vetro e acciaio lungo il bordo della strada, sotto l'occhio scintillante del suo geode. L'automobile sfrecciava sulla tangenziale che dominava il nord-est di Parigi. Sbandò verso destra e imboccò l'uscita «Porta di Pantin», per immettersi nel flusso di veicoli che si allontanavano dalla capitale a metà del pomeriggio. «Dovresti rallentare, non è il momento di farci arrestare», ammonì Tho-
mas, che si teneva alla maniglia. «Prendi la cartina nel vano portaoggetti», replicò Yael. «E indicami la strada per arrivare laggiù.» Il reporter non insistette e rovistò nel cassetto. «Non ti sembra troppo facile?» domandò lei, frenando a un semaforo rosso. «Cosa?» La giovane fece un vago cenno con la mano. «Tutto questo... Avere la fortuna di trovare delle impronte... E il fatto che corrispondano a un uomo schedato. Non è un po'... troppo semplice, se confrontato con quello che abbiamo vissuto?» «Ah, perché a te è parso facile? Bisognava avere l'intuizione di prendere la candela, rilevare le impronte, avere la possibilità di farle analizzare... niente di tutto questo è facile. Ma ci abbiamo pensato! E poi non è sorprendente che quell'individuo sia schedato, mi sarei piuttosto stupito del contrario. Immagina di voler assoldare un tizio per fare un lavoro sporco, lo chiederesti a un banchiere, al tuo panettiere o al cameriere che ti porta il caffè? No, ti rivolgeresti a un criminale, a uno del giro.» «Vista da questa angolazione...» Il giornalista non aveva tutti i torti. Quello non era un film nel quale chiunque poteva essere un killer professionista. Il semaforo diventò verde e Yael pigiò con forza sull'acceleratore. La Peugeot blu percorse un dedalo di vie strette e sinuose prima di entrare in un quartiere industriale i cui edifici erano in parte in stato di abbandono e i terreni incolti. Svoltò in una strada chiusa che terminava sul canale dell'Ourcq. Una banchina per lo scarico dei semirimorchi si allungava sul lato sinistro, mentre su quello destro correva un muro interrotto nel mezzo da un portale aperto. Dietro il muro spuntava un vetusto fabbricato a due piani, occupato per due terzi da un deposito in lamiera. «Parcheggia là», disse Thomas indicando una rientranza all'imbocco della stradina. «Ora dobbiamo adottare la giusta strategia.» «Hai una sua foto?» Il reporter frugò nei documenti e le porse una fotocopia. La stampa non era di buona qualità, nondimeno si riusciva a distinguere un uomo dal viso tondo, con folti baffi e capelli cespugliosi. Aveva delle palpebre molto grosse, come se fossero state gonfiate. «Che brutto ceffo», commentò Thomas.
«Spero che ci sia.» «È qui», le assicurò il giornalista. «Come fai a saperlo?» «Secondo le mie informazioni guida una Fiat rossa. Come quella posteggiata laggiù», rispose lui indicandola con il mento. «Tu resta qui e...» «È fuori questione!» Thomas si lasciò andare contro il poggiatesta. «Questo Languin è un tipo pericoloso, Yael.» «Ed è in qualche modo collegato a quello che mi sta succedendo. Puoi dirmi tutto quello che vuoi, ma non appena scenderai dalla macchina, io ti starò alle costole.» Thomas si passò la lingua sui denti, contenendo a malapena l'irritazione. «Bene», disse infine. «Ma rimani dietro di me.» Yael scese dalla 206 e riformulò il loro piano: «Non possiamo correre il rischio che se la svigni, vedendoci. Tu vai nel deposito, io penso agli uffici. Il primo che lo trova, urla». «Non è una buona idea.» Yael si stava già allontanando con passo deciso. «Ma è la mia. Tu sei superstizioso e irlandese? Be', io sono bretone e cocciuta...» Varcò l'entrata e sentì Thomas borbottare: «Che cosa ci vengono a fare, qui, i bretoni...» 23 Yael attraversò il cortile della fabbrica con passo sicuro e risoluto, come se ci lavorasse. Superò la Fiat rossa contorcendosi per vedere quello che conteneva. Notò che il finestrino dietro era abbassato di una decina di centimetri e che la portiera dal lato del conducente era aperta, come indicava la posizione della levetta. L'ideale sarebbe stato piazzarvi un trasmettitore per seguirne le tracce... Rise di se stessa avvicinandosi alla scala esterna che portava agli uffici, sopra il deposito. È proprio vero che una donna non dovrebbe mai uscire senza il suo ricevitore GPS! Cosi si potrebbero seguire un sacco di bei tipi... Mentre saliva i gradini, un'idea prese forma. Si ricordò delle sedute di baby-sitting cui aveva partecipato in occasione
di un soggiorno in Inghilterra e del sistema utilizzato da una madre per sorvegliare la figlia, una giovane adolescente. Si chiamava ChildLocate. Consentiva tramite il cellulare della ragazzina di sapere in qualsiasi momento dove si trovasse grazie alla tecnologia GSM, anche quando l'apparecchio era in standby. Una semplice connessione Internet e un abbonamento erano sufficienti per veder apparire una pianta della città e il puntino rosso che simboleggiava il telefonino. Yael si rammaricò di non poter mettere le mani sul cellulare di quel Languin. In un attimo l'avrebbe trasformato in un dispositivo di controllo. Una volta in cima alla scala, entrò senza prendersi il disturbo di bussare. Due file di porte si fronteggiavano sino a una stanza sul fondo, che era aperta, e dentro la quale Yael riconobbe un divano, un distributore di bevande e delle piante verdi di plastica, tutto ciò che di solito caratterizzava una sala destinata alla pausa. Delle grandi vetrate, disposte per tutta la lunghezza del locale, si affacciavano sull'immenso capannone. Yael percorse il corridoio dando una sbirciatina dentro ogni ufficio. Adesso che era lì, si rendeva conto della testardaggine e della stupidità di cui aveva dato prova. E se si fosse trovata faccia a faccia con Languin? Lui probabilmente conosceva il suo volto, avrebbe capito di essere stato smascherato, ed era un uomo violento. In che guaio mi sono andata a cacciare, eh? Ritrovò il filo dei suoi pensieri precedenti, a proposito di quello che era cambiato in lei diventando adulta. Niente. Sei sempre una cretina e una zuccona. Raggiunse la sala pausa e contemplò dall'alto la vista di centinaia di pallet. Un carrello elevatore Fenwick si intrufolava fra le colonne di sacchi di sabbia per andare a caricare una cassa di legno. Il fondo del magazzino brillava come un diadema sotto il sole. Specchi di ogni forma e dimensione erano allineati contro degli scaffali. Yael rabbrividì. Un'ombra passò davanti allo specchio più grande. Un uomo che camminava in un corridoio, si rassicurò Yael. Scorse cinque persone affaccendate giù in basso. Nessuna traccia di Languin. Riconobbe Thomas che entrava da uno degli ingressi dove si riversava la luce del giorno. Quindi girò sui tacchi, e proprio in quel momento un telefono squillò da qualche parte in uno degli uffici.
Subito, non vi prestò attenzione. Ma all'improvviso lo schermo palpitante di un computer fece scoccare la scintilla nella sua testa. 24 Thomas percorse a grandi passi i corridoi fiancheggiati da cataste di pallet alte fino a quattro, cinque metri. Incrociò un uomo tarchiato e panciuto sulla quarantina, rosso di capelli, che teneva in mano una scatoletta nera, una specie di palmare su cui teneva il conto delle scorte con l'aiuto di una penna ottica. Thomas lo interpellò: «Mi scusi, sto cercando Olivier Languin. Sa dove posso trovarlo?» Il rosso scosse la testa. «No, oggi l'ho visto, ma non so dov'è adesso. Provi a vedere dalla parte del vetro, di là...» «Dica, lei lo conosce bene, Languin?» «Perché? Non sarà per caso un poliziotto?» Thomas esibì un sorriso divertito. «No, no. Lavora qui da molto?» «Da tre o quattro mesi, è il padrone che l'ha assunto. Cosa vuole da lui?» «Niente di brutto», replicò Thomas allontanandosi. L'operaio lo osservò, scettico. Con calma, il reporter esplorò ogni corridoio, squadrò tutti i dipendenti che incontrava, assai pochi, per la verità. Preferiva non correre rischi, e soprattutto evitare che lui e Languin si incrociassero senza vedersi e qualcuno lo avvertisse che una persona lo stava cercando. Se non altro, lo rassicurava il fatto di non avere Yael al suo fianco... Preferiva saperla negli uffici, dov'era improbabile potesse imbattersi in Languin, che era un semplice magazziniere. Sentiva che quella donna gli avrebbe riservato ancora delle sorprese. Non reagiva mai come ci si aspettava. Ancora abbattuta quel mattino, il pomeriggio era impaziente di partire alla carica. Era il contraccolpo. Avrebbe dovuto tenerla d'occhio, nelle ore seguenti. Una pesante porta si aprì cigolando, lasciando brutalmente entrare un fiotto di sole. Thomas si riparò gli occhi per adattarsi alla luce. Fuori, alcuni uomini scaricavano delle lastre di vetro dal retro di un camion. Cercò di individuare Languin. Invano. Finché non scorse il tizio a cui
avevano aperto la porta. Spingeva un carrello a due ruote su cui era posato un enorme rettangolo di vetro. Dietro, il suo viso era deformato, come se galleggiasse nell'acqua di una piscina. Ma quei lineamenti grossolani, i baffi incolti e la testa rotonda non erano sconosciuti a Thomas. Olivier Languin. Nella titubanza dei due uomini intenti a valutarsi, Thomas riconobbe la breve esitazione del cacciatore che ha scorto la preda. Capì che l'altro stava per attaccare. «Aspetti!» gridò il giornalista. «Dobbiamo parlare.» Il carrello si inclinò repentinamente in avanti. La lastra alta tre metri oscillò e precipitò su Thomas. Questi fece un balzo all'indietro, inciampò e urtò il pavimento, mentre la lastra di vetro esplodeva in mille frammenti scintillanti che lo investirono. Senza curarsi delle schegge che gli penetravano negli avambracci, Thomas si rialzò in piedi, teso come la corda di una balestra. Languin partì di corsa all'interno del deposito. Thomas respinse un uomo venuto a vedere cosa fosse accaduto e si lanciò a sua volta tra le cataste di pallet. Languin svoltò in un angusto passaggio, con Thomas alle calcagna. Si inseguirono per un minuto in un labirinto male illuminato, rasentando le pareti, spuntando di colpo tra i cumuli di sacchi di sabbia, saltando sopra i carrelli, finché Thomas, dopo una stretta curva, non sbucò in uno spazio aperto. Nessuna traccia del criminale. Da nessuna parte. Le scorte di vetro occupavano la maggior parte dell'ambiente. Thomas interruppe la corsa e prese a camminare ansimando. Sorvegliava ogni angolo, aspettandosi di vederlo comparire. I nascondigli non mancavano: ne superava uno a ogni passo. Di fronte a lui erano allineate decine di specchi, la loro superficie argentea che rimandava l'immagine dell'hangar di lamiera. Un secondo di distrazione, e non udì il motore del carrello elevatore che all'ultimo momento. Le forche d'acciaio spuntavano come le zanne di un elefante lanciato alla carica. Ebbe il riflesso di stringere le braccia sui fianchi per non farsi infilzare e arretrò di due metri sotto l'impatto, finché la sua schiena non urtò contro i cartoni. Le forche attraversarono le merci dietro di lui, fracassando i vetri in grossi pezzi che caddero intorno al suo corpo come tante ghigliottine.
25 Yael si arrestò sulla soglia dell'ufficio per riflettere su quell'idea folle che le frullava nella testa. Poi, d'improvviso, si precipitò davanti alla tastiera per verificare che il pc disponesse di una connessione a Internet. Cercò su Google usando delle parole chiave per trovare un eventuale sito analogo al ChildLocate inglese. Ootay. La home page di Ootay decantava i vantaggi di poter sorvegliare un figlio mediante il suo cellulare, in qualsiasi angolo della Francia, e dava risalto alla convenienza delle tariffe. Yael passò alla pagina delle iscrizioni. Rispose a «Nome e cognome» fornendo una falsa identità, inserì un indirizzo e-mail di cui si serviva occasionalmente per chattare su Meetic, il sito dei single a corto di appuntamenti, e scrisse il suo numero di cellulare nell'ultima casella da riempire. L'operazione successiva consisteva nell'immettere un codice di attivazione. Prima che potesse finire di leggere la finestra, il telefonino emise un trillo breve e acuto, il segnale di ricezione degli sms. Era il programma Ootay che le inviava il codice. Lei lo ricopiò sulla pagina del computer e confermò. Ora doveva autorizzare il «geocontrollo» presso l'operatore telefonico, cosa che fece in due minuti attraverso il sito web della compagnia, dopo aver digitato username e codice d'accesso. Yael pagò con la sua Carte Bleue, affrettandosi a digitarne il numero. Qualcuno entrò nel corridoio. Con la punta del piede, Yael chiuse delicatamente la porta. Aveva quasi terminato. Dovette inviare un sms dal suo cellulare per accettare la procedura affinché il servizio diventasse operativo. L'intruso si installò nella stanza attigua. Lo sentì fare una telefonata e presentarsi: signor Calmus. Non era lui che cercava. Le sue dita fecero scorrere il mouse fino a permettere la connessione al suo conto personale su Ootay. Voleva fare una prova. Scrisse lo pseudonimo e lanciò il «geocontrollo». Si aprì una finestra con una piantina del quartiere. Un cerchietto blu indicava la posizione del cellulare.
«Funziona...» mormorò. Il telefonino ricevette un nuovo sms che la informava che si era appena fatta localizzare. Lei disattivò la suoneria. Avrebbe dovuto sacrificarlo, ma non provava alcun rammarico. La posta in gioco era molto più alta del costo dell'apparecchio. Dopo essere sgusciata fuori dall'ufficio, scese velocemente le scale e si accertò che nessuno la vedesse prima di entrare nella Fiat di Languin. Aveva pensato, scorgendo un grosso rotolo di scotch, di fissare il telefonino dietro il paraurti per maggior discrezione, ma c'era il rischio che andasse perduto in caso di impatto. Rovistò nel vano portaoggetti prima di optare per la parte inferiore del sedile del passeggero, bloccando la scatoletta nera nel risvolto della fodera. Allontanandosi, si disse che aveva escogitato un dispositivo perfetto. Con un'autonomia di due o tre giorni, a seconda dello stato della batteria, accompagnata da un'estrema precisione. La sua capacità di adattamento e di improvvisazione la sorprese gradevolmente. E capì quanto fosse facile passare dall'altra parte della legge. La qual cosa non la sconvolse affatto. Fu piuttosto l'eccitazione che provava nell'agire in quel modo a turbarla. 26 Per alcuni interminabili secondi, tutto attorno a Thomas piovve morte, trasparente e silenziosa. Le lame di vetro uscivano dai loro cartoni sventrati, scivolavano le une sulle altre e poi precipitavano senza far rumore nel vuoto. Thomas si strinse con tutte le forze contro lo scaffale che gli bloccava la schiena per ripararsi. Chiuse gli occhi, serrò i pugni e attese che quel diluvio gli sezionasse il cuore. Le zanne di vetro tagliarono l'aria e finalmente esplosero a contatto con il cemento. Il fragore scosse l'intero fabbricato, poi si alzò una nuvola di polvere sfavillante, prima di dissiparsi velocemente come si era formata. Thomas riaprì gli occhi e constatò di essere ancora vivo. Dei graffi vermigli gli striavano qua e là la pelle, ma nessuno sanguinava veramente. Se l'era cavata per miracolo. Languin filava già verso il fondo del corridoio per entrare nel regno degli specchi, l'ultimo rettilineo prima dell'uscita. Troppo lontano da lui.
Il reporter scorse la figura di Yael comparire nel capannone, allertata dal baccano. La vide esitare sulla direzione da prendere prima di avviarsi verso di lui. Tra gli specchi. Si sarebbe ritrovata faccia a faccia con Languin, una sola svolta li separava. Thomas chiamò a raccolta le forze e si liberò dei frantumi traslucidi che scricchiolavano sotto i suoi piedi. Accelerò e avvertì una fitta lancinante alla coscia destra. Sentì il sangue colare, incollando i pantaloni di lino al ginocchio. Languin e Yael erano spariti dietro gli scaffali. Zoppicando, Thomas penetrò a sua volta in quel canyon dalle prospettive infinite. Ogni specchio rifletteva il suo quadrato di realtà, che un altro captava e rifletteva a sua volta, e così di seguito finché i dettagli non si mescolavano e si perdevano. Ogni movimento si scomponeva in mille movimenti, ogni passo in mille passi. Quella valle di finestre argentate si apriva improvvisamente sull'infinito nel tempo e nello spazio. Rallentato dalla gamba ferita, Thomas aveva l'impressione che la distanza non diminuisse, che passasse un minuto intero tra una falcata e l'altra. Una miriade di gesti esplodeva alla periferia del suo campo visivo, al punto che non sapeva più quali gli appartenessero, temendo di non riuscire più a distinguere tra sé e Languin. Sbucò fuori da una curva per scoprire con stupore il rettilineo prima dell'uscita. Non c'era nessuno in vista. Yael e Languin si erano volatilizzati, quasi fossero stati ghermiti dagli specchi. Tutto a un tratto, mille silhouette si aggiunsero alle sue in quel balletto estenuante. Quelle di Yael che emergeva dal suo nascondiglio tra due cornici. Avanzò mentre lui la fissava senza capire. «L'ho lasciato scappare!» gridò lei a meno di dieci metri. «Non appena l'ho visto, mi sono nascosta e ho lasciato che se la filasse.» La pressione di Thomas tornò a calare di colpo. Abbassò le palpebre. «Hai fatto bene. Sarebbe stato troppo rischioso.» Lei non era più molto lontana, e le numerose tracce rosse sui vestiti del reporter la allarmarono. Si portò una mano umida alla bocca.
«Cosa ti sei fatto? Sei coperto di sangue!» «Sto bene», cercò di tranquillizzarla lui. «Sono solo graffi.» Yael indugiò, scettica. «Niente è perduto», dichiarò infine. «Sarà interessante sapere dove sta correndo adesso. Vieni, così ti spiego.» «Yael, non sono in condizioni di corrergli dietro.» «Non servirà.» Posò le mani sui fianchi, e lo fissò con sguardo pungente. 27 Thomas stava ancora imprecando. Aveva dovuto aspettare due ore al pronto soccorso dell'ospedale Bichat, Porta di Saint-Ouen, prima di farsi ricucire. Otto punti di sutura in tutto. Un vero miracolo. I suoi avambracci erano costellati di piccoli tagli e il medico aveva preferito fasciarglieli piuttosto che tappezzarli di cerotti. Yael lo raggiunse mentre usciva un po' claudicante dalla sala medicazioni. «Entro il fine settimana sarò in perfetta salute», la rassicurò lui. «Erano ferite superficiali, sono un uomo fortunato.» Lei non condivideva la sua serenità. «Thomas, sono desolata per quello che ti è accaduto. Farò in modo di raccogliere abbastanza prove contro Languin, identificherò il suo mandante e andrò difilato dalla polizia. Non mi devi più accompagnare. Hai già fatto fin troppo. Non voglio metterti ancora in pericolo.» Il volto del giornalista tornò serio. «Mettiti un attimo nei miei panni. Pensa a quello che ho appena vissuto: il nostro incontro, le Ombre, i tizi nella metropolitana, insomma, tutto quello che ho passato con te. Credi veramente che adesso potrei lasciarti da sola? Mi sento coinvolto quanto te in questa storia. Perciò, questa è l'ultima volta che ne parliamo, d'accordo?» Yael assentì, abbassando gli occhi come una bambina. Sentir rievocare i pericoli che aveva corso per lei le faceva venire un nodo alla gola. «Ora che cosa proponi? Prenderci dei rischi ancora maggiori affrontando un tipo come Languin?» «Sì, seguiamo la pista di Languin!» intervenne lei con energia, sollevan-
do la testa. «Sapendosi scoperto, non tornerà a casa, per paura di trovarci la polizia. Quindi, dove può andarsi a nascondere un tizio del genere, che non organizza i suoi colpi da solo, che è un esecutore materiale, non un cervello?» «Non certo da chi lo paga! Si tirerebbe dietro gli sbirri, e l'altro lo farebbe fuori! Non è tanto stupido!» «Vuoi scommettere di sì?» Thomas inarcò le sopracciglia con scetticismo. Lungo il tragitto verso l'ospedale, Yael gli aveva parlato del dispositivo di rilevamento che aveva messo a punto. «Abbiamo bisogno di un computer», disse il reporter. «Per sapere dove si trova in questo momento.» «Già fatto. Mentre si occupavano di te, sono stata su Internet... la centralinista è stata gentile... e ho effettuato cinque controlli in mezz'ora. Languin è nella periferia ovest, vicino alla Senna.» Thomas faticò a nascondere un sorriso stupito. «Saresti stata un piedipiatti formidabile.» «Forse non è troppo tardi... La cittadina in questione è a una ventina di chilometri da qui. Herblay, nella zona della chiesa. Il problema è che il 'geocontrollo' non è precisissimo. Se si tratta di condomini o case plurifamiliari in un perimetro ristretto, rischiamo di non trovarlo.» «Quando saremo là, improvviseremo.» Il pomeriggio volgeva alla fine quando lasciarono la A-15 per entrare in una piccola cittadina dove accanto ad abitazioni popolari sorgevano delle ville più borghesi e alcuni condomini, a volte moderni, a volte risalenti agli anni Sessanta, con la loro cupa architettura. Nel centro si moltiplicavano le insegne di banche, agenzie immobiliari e parrucchieri. Herblay respirava il clima di tranquilla agglomerazione della periferia occidentale, con le sue vie piene di buche profonde come crateri di granate, le sue ripetitive rotonde e la sua popolazione né del tutto parigina né del tutto provinciale. Seguirono i cartelli lungo la collinetta che sovrastava la Senna e svoltarono a metà strada verso un piazzale. Si trovavano nei quartieri eleganti, quelli dei villini civettuoli e delle dimore lussuose. La vegetazione straboccava dai giardini fino a coprire a tratti la lunga via, costeggiata dalle mimose, che terminava con la chiesa gotica, da cui si dominava il panorama. Sul fianco dell'edificio religioso c'era un piccolo cimitero secolare, le cui
tombe disadorne e sgretolate vegliavano su decine di chilometri di orizzonte, dalle colossali torri della Défense alle cittadine vicine che si estendevano a serpentina, fino alla foresta di Saint-Germain, dall'altra parte del fiume. La 206 si fermò all'ombra degli alberi che incorniciavano un piccolo parcheggio. Yael e Thomas scesero dall'auto e si guardarono intorno: non si vedeva anima viva. «La zona indicata dal sito Ootay si dovrebbe trovare dietro la chiesa», precisò la giovane, indicando una viuzza che si atrofizzava tra le vecchie pietre del presbiterio e il muro di una proprietà privata. Vi si addentrarono, camminando sul pavé. Un vecchio maniero dalle pietre consumate si innalzava dietro il muro, grigio e sinistro. «Si direbbe l'unica abitazione da questo lato», notò Yael. «Aspettami qui.» Girò sui tacchi e raggiunse di corsa il massiccio portale che bloccava l'accesso alla dimora. Si chinò per sbirciare attraverso una fessura la facciata del maniero, poi tornò da Thomas. «C'è un parco immenso e... la macchina di Languin.» «Perfetto. Propongo di fare il giro per trovare il modo di scavalcare... questo», disse il reporter alzando lo sguardo verso i cinque metri di opera muraria. Seguirono la stradina finché questa non sboccò in un prato, ai piedi della chiesa. Una scala scendeva verso un sentiero di terra. Da questo lato la collina era boscosa e più selvaggia, alcuni tetti spuntavano qua e là tra il fogliame, fino alla Senna giù in basso. In quel punto il muro della proprietà era in cattivo stato, la calcina si era sbriciolata sulle pietre sporgenti. Era facile da scalare. Yael e Thomas si scambiarono un'occhiata di intesa. Ma non erano più soli. Quattro adolescenti stavano seduti sui gradini, discutendo e ridendo senza prestare attenzione al magnifico paesaggio. Thomas andò verso di loro e li salutò. «Buon giorno, sono nuovo di queste parti, e sto cercando casa. Mi chiedevo se sapevate chi abita qui. Trovo piuttosto cool questa vecchia baracca.» Un ragazzo dai capelli lunghi legati in una coda si alzò e si protese sopra il sentiero gridando verso il pendio:
«Ehi, Antoine! Vieni qui un minuto!» L'interessato apparve qualche secondo dopo, salendo tra le radici e l'erba alta. Indossava una maglietta dei Rammstein, la band metal tedesca, piena di rametti, e aveva i capelli che sparavano da tutte le parti. Dai cespugli spuntò anche il viso di una ragazza. «Che c'è?» domandò Antoine. «Tu che conosci la città, chi ci vive lì?» «Mi hai preso per le Pagine bianche o cosa?» «È per loro», spiegò il capellone indicando la coppia. «Vorrebbero comprare il maniero.» Antoine alzò le spalle. «Be', è lo stesso. Che ne so io?» Thomas si avvicinò al ragazzo. «Sai se ci abita una famiglia o qualcuno da solo?» «L'unica persona che ho visto uscire di lì è un tizio brutto e che parla poco. È vecchio, e se fossi in lei aspetterei un po': non passerà molto tempo prima che la mettano in vendita... se capisce cosa intendo.» «Lo terrò a mente. Grazie, buona sera.» Thomas fece per allontanarsi, poi si girò per interpellare ancora il famoso Antoine: «Per caso sai se quel signore ha dei cani? Mia moglie è allergica, e non vorrei andarci per niente». «Mai visto cani... Però», aggiunse il ragazzo, «se vuole dare un'occhiata, c'è un vecchio passaggio sotterraneo proprio là.» Tese il braccio verso il pendio incolto. «Da qui non si vede, ma è abbastanza grande per passarci, e sbuca in mezzo al parco.» Thomas esitò. Se qualcosa fosse andato storto, quei ragazzi sarebbero rimasti coinvolti nella loro storia. «No... va bene lo stesso, grazie.» Raggiunse Yael e i due tornarono sui loro passi. «Mi piacerebbe comunque sapere con chi abbiamo a che fare», insistette il giornalista. «Cerchiamo un posto dove cenare e facciamo qualche ricerca su quella casa in attesa che i ragazzi se ne vadano.» «E se Languin nel frattempo se la squaglia?» «Potremo sempre localizzarlo e intanto prendere informazioni sul tipo che è andato a trovare.» Una volta in centro, domandarono se ci fosse un posto dove collegarsi a Internet. Gli indicarono un negozio di materiale informatico, il cui titolare
acconsentì gentilmente a fargli utilizzare la sua connessione. Stuzzicato dall'osservazione di Antoine, Thomas cliccò sul sito delle Pagine bianche e inserì l'indirizzo del maniero, ottenendo in cambio il nome del proprietario. Serge Lubrosso. Il giornalista provò a eseguire una ricerca con Google per verificare se in rete ci fosse qualcosa su quel nome, ma senza successo. Ringraziarono il negoziante e gironzolarono per la cittadina facendo il punto della situazione. Erano entrambi indecisi circa il seguito da dare a quella visita. Suonare il campanello per interrogarlo era fuori discussione, così come entrare di nascosto commettendo un'effrazione. Soprattutto se questo Lubrosso fosse risultato estraneo ai fatti. «Comunque, mi stupirei se fosse candido come la neve!» esclamò Yael. «Altrimenti, cosa ci farebbe Languin a casa sua a quest'ora?» Divorarono una pizza d'asporto seduti sul marciapiede di una via tranquilla, davanti al minuscolo locale Pizza da Nino, da cui si diffondeva un buon profumo di pasta cotta al forno. Stava lentamente calando il buio. Thomas si alzò di scatto, con la bocca piena, e si diresse verso il pizzaiolo, che l'accolse con un sorriso. Sì, faceva consegne in tutta Herblay, sì, conosceva il maniero dietro la chiesa, ma non sapeva niente di particolare, se non il nome della persona che ci abitava. Con le pive nel sacco, Thomas tornò a finire la sua cena. Stavano ritornando alla 206, quando Yael notò un'anziana signora che ringraziava con insistenza un tipo grande e grosso con gli occhiali, in giacca e cravatta, intento ad affiggere un cartello con la scritta VENDESI sul davanzale di una finestra. Il cartello colorato recava anche il nome di un'agenzia, «ImmoNico», e un numero di telefono. «È stato gentile da parte sua venire fin qui così tardi», perseverò la vecchia. «Nessun problema, signora, se è per farle un favore.» L'agente immobiliare sembrava di buonumore. Yael decise di tentare la sorte. «Mi scusi... Buona sera, avrei bisogno di un'informazione...» L'uomo si volse e il suo sorriso si allargò nel vedere la donna giovane e bella che lo aveva interpellato. «'Nico è il buon suggerimento che vi serve al momento!' Questo è il mio motto», disse ridacchiando. Poi aggiunse, più serio: «Come posso aiutarla?»
«In effetti, ho messo gli occhi su una casa, quella grande dietro alla chiesa. Non è in vendita, tuttavia mi chiedevo se non sapesse chi ci vive. Non si sa mai...» «Il maniero della chiesa! No, non penso che lo venda, credo che il proprietario ci sia molto affezionato. Gli ho già offerto un buon prezzo per dei potenziali clienti, ma niente da fare!» «Lei lo conosce?» «Più o meno...» rispose l'omone con un'alzata di spalle. «Il signor Lubrosso non è un gran chiacchierone. Ma tutti sanno chi è. Spaventa i bambini. I marmocchi di Herblay conoscono bene il maniero, avvicinarsi a quella casa è il loro gioco preferito. Ma non ne convincerebbe uno solo a entrare! Hanno una fifa nera del signor Lubrosso.» «Perché? Gli spara contro con il sale grosso?» L'agente immobiliare gettò uno sguardo furtivo alla strada, poi si chinò verso Yael e le confidò: «Peggio! Fa della magia nera!» Yael scoppiò in una risata. «Non c'è niente da ridere!» replicò lui, ridacchiando a sua volta. «Tutti i ragazzini glielo diranno: è uno stregone!» Yael drizzò le orecchie. «È in pensione, credo, è così? Attaccato al suo patrimonio...» «No, lavora ancora. Possiede una ditta a est di Parigi. In particolare, è il fornitore ufficiale di specchi degli edifici pubblici della città.» A Yael venne la pelle d'oca. «Prego?» «Il signor Lubrosso», ripeté lui, «fabbrica specchi nel suo stabilimento e rifornisce la nostra città... il municipio, le scuole, il centro culturale...» Lei si affrettò a ringraziarlo, sotto choc, e fece per tornare verso Thomas, ma dovette garbatamente accettare il biglietto da visita dell'energumeno, che riuscì anche a buttar lì una frase su quanto fosse carina. Yael riferì la conversazione a Thomas. «È di certo lui il mandante», concluse il giornalista. «Lubrosso è il capo di Languin. Credo che stavolta si renda necessaria una visitina al maniero.» 28 Una scia di lucciole segnava il bordo del sentiero, sotto l'alto muro del
parco. Il gruppetto di adolescenti era sparito, e la mole bruna della chiesa vigilava dalle sue vetrate buie sulle steli in rovina del cimitero. La notte era scesa da più di un'ora. Yael stava tastando le pietre per saggiarne la stabilità in previsione della scalata, quando Thomas con un cenno la invitò a seguirlo. Scavalcò le felci e intraprese la discesa del pendio, ma la ferita alla coscia lo richiamò dolorosamente all'ordine, costringendolo a rallentare. «Stai cercando il passaggio sotterraneo?» «Esatto. È più discreto.» Non appena ebbe terminato la frase, l'apertura apparve tra due alberi, a non più di cinque, sei metri di distanza. Il tunnel si addentrava in linea retta nella collina, prima di risalire e sbucare in mezzo al parco. Non era molto lungo. Dall'entrata, Yael poteva distinguerne l'apertura azzurrognola. Lo percorsero in silenzio, ed emersero tra fiori e arbusti. Uno stagno catturava il chiaro di luna che aureolava la proprietà. La massa livida e screpolata del maniero troneggiava, rannicchiata su se stessa. Due luci, ai lati dell'ingresso, perforavano l'oscurità. Con le sue finestre affondate nelle aperture e la scalinata di gradini storti, somigliava a un cranio gigantesco. Sulla destra, un alone più diffuso bagnava i cespugli fioriti. Yael e Thomas si avvicinarono. Una veranda centenaria addossata all'edificio, simile a una bolla di sapone sotto la sua armatura di metallo arrugginito, sembrava uscita dalle pagine di un romanzo di Verne. Le sue putrelle arrotondate soffocavano come zampe di ragno un salotto da antiquario. Tra i divani di velluto cremisi sbiadito, una babele di tavoli antichi, guéridons e leggii crollava sotto un cumulo eterogeneo di soprammobili e ninnoli vari: un sestante d'epoca, un cannocchiale, pezzi di armatura, libri di magia, arazzi arrotolati, carte nautiche... Gli oggetti si ammucchiavano sotto la polvere e l'oblio. Una delle pareti di vetro che collegava due putrelle era montata su delle cerniere e fungeva da porta; adesso era aperta, e lasciava filtrare il suono crepitante di un grammofono che riproduceva un'aria di Cole Porter. Due piccole abat-jour in vetro rosso rubino più che illuminare davano risalto alle ombre. Seduti uno di fronte all'altro, Languin e quello che doveva essere Lu-
brosso sorseggiavano il primo un digestivo, il secondo un caffè. Nella penombra, l'aspetto di Lubrosso era inquietante. Secco e lungo, il naso arcuato, le labbra troppo sottili sul colorito pallido del volto, sembrava vivo solo nella fiamma delle sue pupille. Un mix di Boris Karloff e Bela Lugosi, pensò Yael, oppressa dall'atmosfera lugubre del luogo. «Dobbiamo andare più vicino», bisbigliò. Thomas le indicò con un cenno del mento i giunchi che incorniciavano un lato della vetrata. Li raggiunsero strisciando. La musica era più forte, ora, e la voce roca di Lubrosso giunse alle loro orecchie: «... ha diciannove anni. È la mia pronipote. Benché sia un po' frivola, almeno agli occhi di sua madre». All'improvviso, Languin si alzò e si avvicinò all'apertura, i piedi nel giardino, a meno di due metri dalla giovane donna e dal suo compagno. Sembrava esasperato. Pescò un pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans e ne accese una, aspirando il fumo a pieni polmoni. Se si fosse girato appena un po', di sicuro avrebbe notato le due forme umane accovacciate ai suoi piedi. Yael afferrò la mano di Thomas e la strinse forte. Dovevano arretrare. Spostò parte del peso sul ginocchio e sui gomiti, e cominciò, con estrema lentezza, a scivolare indietro. L'erba si piegò, gli steli secchi frusciarono leggermente. Thomas la bloccò agguantandola per la manica. «Allora, cosa faccio domani?» chiese Languin in tono nervoso. La voce di Lubrosso attraversò la sua gola devastata per sgorgare nel salotto: «Le ho già risposto: prenda il largo. Spero solo che non l'abbiano pedinata. Si nasconda all'estero, o in campagna». «La cosa non mi soddisfa», mugugnò l'uomo baffuto. «Non esageri, per favore!» replicò Lubrosso. «Le ho dato lavoro per quattro mesi, e lei mi ringrazia piombando qui in casa mia!» «Ehi, non mi prenda per fesso! Mi ha assunto unicamente per avermi sottomano.» Lo scimmiottò con disprezzo: «'Stia pronto, Languin, si tenga in forma, forse domani è il grande giorno!' Mi ha fatto aspettare per niente!» «È stato pagato per tutto questo tempo.» «Non abbastanza! Se devo tagliare la corda, avrò bisogno di grano. Non
mi bastano più le briciole!» Yael percepì all'improvviso il nervosismo di Thomas. Era pronto ad avventarsi su Languin per neutralizzarlo. Lei lo trattenne con mano ferma. «Non mi ha nemmeno detto a cosa serve tutto questo circo! Ho l'impressione di essere una pedina da muovere qua e là...» «È il destino di tutti», ribatté l'uomo dai tratti affilati senza spostarsi dal sofà. Posò la tazza su un tavolino basso, aprì un cofanetto di legno lavorato e ne estrasse con delicatezza un anello d'oro, con incastonata una pietra dai riflessi madreperlacei. «Mi dica, signor Languin, lei crede alla stregoneria?» «La stregoneria? Capirai! Tutti trucchi per raggirare i poveracci! Una stronzata del Medioevo per bruciare chi dava fastidio!» Lubrosso pareva addolorato per quella riflessione. Fece scivolare con amore l'anello nel dito medio. «È un peccato, perché, vede, si dà il caso che questo magnifico gioiello sia un... veicolo di stregoneria.» Languin girò la testa verso il vecchio. «Secondo la leggenda del Paese da cui proviene, avrebbe la facoltà di uccidere su ordine di colui che lo porta. Grazie ai poteri della luna. Incredibile, vero?» L'uomo con i baffi si lasciò sfuggire un sospiro stanco. «Immagini che io lo punti nella sua direzione», mormorò Lubrosso facendo seguire il gesto alle parole, «e ordini la sua morte. Che cosa le accadrebbe?» Languin fece un tiro di sigaretta, scrollando le spalle. «Niente! Nada!» rispose soffiando fuori il fumo. «L'ha appena fatto e io ci rido sopra. Sono tutte cazzate!» Lubrosso lo fissò intensamente. Yael deglutì, convinta del contrario. C'era dell'elettricità nell'aria, come se stesse per succedere qualcosa. Lubrosso era strano, i suoi occhi scintillavano. Tutto a un tratto, Languin si portò la mano al petto, e il suo viso si contrasse. Il collo iniziò a sussultare, seguito dal ventre. Tentò invano di aggrapparsi alla struttura metallica, si accasciò a terra, le dita piegate a uncino nelle palme, una schiuma rossa di sangue alla bocca. Yael si strinse a Thomas. Languin adesso era al loro livello, e li fissava.
Delle violente convulsioni scuotevano le sue membra, poi, man mano che la vita abbandonava il suo sguardo, si placarono, lasciando il corpo inerte. Languin non era più che un cadavere. Yael, tremante, nascose il volto nelle mani. Stava per alzarsi e fuggire via, ma Thomas la tenne inchiodata al suolo. Appiattita nell'erba, vide Lubrosso sulla soglia della veranda, proprio di fianco a loro. Si era spostato senza fare il minimo rumore, e contemplava il morto. Era molto più alto di quanto lei avesse pensato. Un gigante dai capelli bianchi. Del tutto degno dell'ambiente in cui viveva, in una veste da camera di raso nera e rossa, che danzava attorno alla sua figura come una cappa. «Doveva mostrare più rispetto per le antiche tradizioni», disse rivolto al cadavere, accarezzando l'anello. 29 L'ombra di Lubrosso si allungava nel giardino attraverso la porta aperta sulla notte. Toccò il corpo di Languin con la punta del piede, rientrò nella veranda e ripose l'anello nel cofanetto di legno, prima di voltarsi verso una pila di antichi documenti sopra una credenza. Yael si liberò dalla stretta di Thomas. «Hai visto quello che ho visto io?» sussurrò. Tremava. La paura, o forse il freddo per essere rimasta tanto a lungo distesa nell'erba... non lo sapeva. «Stavolta, vado alla polizia», dichiarò. «No, aspetta», bisbigliò Thomas. «La tua storia delle ombre che parlano si è arricchita di un vegliardo che uccide a colpi di anello magico! Te li immagini i poliziotti? Ti spediranno dritta in un ospedale psichiatrico.» Si irrigidirono di colpo sentendo la voce fioca di Lubrosso. «Mi deve scusare se chiamo a quest'ora tarda, ma ho avuto un contrattempo.» Teneva un telefono contro l'orecchio. «Nulla di grave. Languin è venuto da me questa sera. Era un po' in preda al panico. Sì, lei è passata alla fabbrica. Sì, oggi pomeriggio. In effetti, non era previsto, ma ho risolto il problema Languin. No, non con una pallottola, io non possiedo armi. So bene che non rientrava nei piani, tuttavia era
necessario agire. Mi mandi qualcuno per sbarazzarmi del corpo.» Lubrosso si sforzava visibilmente di contenere la sua irritazione. «Languin era un piccolo delinquente, basterà farlo passare per un regolamento di conti, nessuno indagherà a fondo. Sì, certo.» Ascoltò, prima di ripetere: «Tra un'ora? Bene, aspetto il suo uomo. E quanto a lei, che facciamo? Questa faccenda di Languin ostacola i nostri progetti, tuttavia, ne sono certo, c'è un modo per...» Yael si irrigidì. «Sì, non è più a casa sua. Dovevo comunicarle il prossimo messaggio con il computer, ma ora la situazione è più delicata.» Il gigante si lisciò i capelli d'argento, annuendo. «Molto bene. Lascio a lei il seguito. Stia tranquillo, brucerò i prossimi messaggi. L'importante è che li riceva progressivamente. Questa volta, rischia di toccare una corda sensibile. La famiglia è sempre efficace.» Piena di rabbia, Yael avanzò d'istinto. Thomas la prese per il braccio e la tirò indietro, poi la fissò per intimarle di stare zitta. «Li distruggo subito, e aspetto il suo uomo. A presto.» Lubrosso riattaccò e si lasciò cadere su una poltrona Voltaire. Sospirò, emettendo un lungo sibilo. I minuti passavano senza che lui si muovesse. Yael moriva dalla voglia di scagliarsi su di lui. La collera la soffocava. La sua famiglia non poteva limitarsi che a una sola persona: suo padre. Finché fosse rimasto in India, non avrebbero potuto fargli niente. Il Paese era troppo vasto, e suo padre non era di quelli che cercano un telefono per dare notizie di sé. Era impossibile rintracciarlo. Lei aveva ancora tre settimane, forse addirittura un mese di tranquillità. Lubrosso doveva pagare. E Yael doveva mettere insieme delle prove. Il corpo di Languin! Questa è una prova! Ma lei non ne era convinta. Se la polizia fosse venuta fino lì e avesse incolpato Lubrosso dell'omicidio del malvivente, niente avrebbe garantito che riuscisse poi a risalire al suo complice, la persona che aveva appena chiamato. Per telefono? Yael non sapeva niente di telecomunicazioni. La polizia sarebbe stata in grado di rintracciare una chiamata effettuata di notte? Anche da un telefono fisso? Significava tuttavia correre un rischio. E in ballo c'era la sua vita. E forse quella di suo padre. A quel solo pensiero, la rabbia crebbe ancora.
Lubrosso era sempre sulla poltrona. Thomas tirò la manica di Yael per segnalarle che era ora di andarsene. La giovane scosse la testa. Il giornalista insistette, e lei articolò un «no» categorico. Thomas levò gli occhi al cielo, esasperato. Yael ignorava da quanto tempo fosse lì in attesa quando Lubrosso sollevò la sua solenne carcassa per infilarsi tra i mobili ingombri di roba e aprire il cassetto di un secrétaire in ciliegio. La giovane strisciò in avanti per vedere meglio l'interno, sfiorando la gamba di Languin, che emanava uno strano calore. Il morto la guardava con insistenza, come un satiro, la schiuma alla bocca, la guancia molle. Un odore rancido di cibo mal digerito le salì fino alle narici. È la mia immaginazione. È appena morto, non può puzzare così in fretta, un cadavere. Adesso riusciva a distinguere i motivi intagliati nel secrétaire: erano dei diavoletti in rilievo. Lubrosso prese una serie di fogli e andò verso un'acquasantiera posata su un peduccio di marmo. Gettò i documenti al suo interno e cercò attorno a sé. In mancanza di combustibile, prese una caraffa ambrata e ne versò il contenuto nell'acquasantiera. Quindi avvicinò la fiamma di un accendino alla vasca. Il fantasma di un fiore blu si materializzò con un leggero borbottio, e le fiamme cominciarono a lambire i fogli. I lineamenti di Lubrosso si tinsero di un incostante azzurro oltremare. Soddisfatto, si scostò e uscì di buon passo dalla veranda, entrando nel maniero attraverso quella che doveva essere la sala da pranzo, dove scomparve. Yael ruppe gli indugi. Distese le membra intorpidite e si lanciò all'interno. Il tempo di comprendere, e Thomas la vide serpeggiare tra i mobili sopra gli spessi tappeti. Sfrecciò tra le centinaia di oggetti sistemati alla rinfusa. Tutto un assortimento di pendolini da radioestesista si mise a oscillare al suo passaggio. Dentro l'acquasantiera, i fogli si disgregavano in trucioli di giaietto e cenere, e le fiamme causavano già dei danni irreparabili alle parti ancora intatte. Yael tuffò la mano tra le lingue ardenti e arraffò i fogli dal braciere; un nugolo fuligginoso si disperse tutto intorno. Sulla soglia, Thomas gli faceva dei grandi segni. «Vieni! Esci di lì!» urlava a fior di labbra. Lei lo ignorò e cercò in mezzo a quel bazar il telefono usato da Lubrosso. Voleva conoscere il numero che aveva chiamato. Con un po' di fortuna,
si sarebbe trattato di un apparecchio con la tastiera digitale che visualizzava sul display l'ultimo numero composto. Nel peggiore dei casi, ci sarebbe stato il tasto «repeat», e lei avrebbe tentato il tutto per tutto. Sollevò un libro e trovò il telefono. Un modello degli anni Cinquanta in bachelite, con il disco combinatore, troppo vecchio per essere dotato della minima funzione utile. Vedendo che non si decideva a uscire, Thomas entrò a sua volta. Andò verso di lei, ma deviò dalla sua traiettoria alla vista del cofanetto di legno che custodiva l'anello letale. Alzò il coperchio. Era lì, l'oro che assorbiva quel poco di luminosità dell'ambiente, la pietra di madreperla posata sul feltro verde che rivestiva l'interno del portagioie. Il reporter lo prese in mano: era freddo e pesante. Lo esaminò attentamente senza notare nulla di singolare, se non la sua età. Lo ripose con cura, e stava per andare a recuperare Yael, quando scorse sul tavolino basso il bicchiere dal quale aveva bevuto Languin. Lo accostò al naso. Nessun odore sospetto. Osservò quanto restava del contenuto e notò un deposito rosso sul fondo. «Veleno», mormorò. L'anello non era che una messinscena. Fece segno a Yael di seguirlo. «Vieni, adesso! Il nostro 'uomo delle pulizie' non tarderà ad arrivare. Dobbiamo filarcela!» insistette. Yael infilò i fogli superstiti sotto la camicia e corse da Thomas. Si girò un'ultima volta verso la strana veranda. E lo vide. Lubrosso era appena entrato nella sala da pranzo. Non aveva ancora alzato gli occhi e non si era accorto dei due intrusi. Yael spinse il reporter con tutte le sue forze in giardino. Insieme si misero a correre nella notte. Quando furono a bordo della 206, Thomas fece una smorfia tenendosi la coscia. Erano senza fiato, e in un bagno di sudore. L'intero quartiere era immerso nel silenzio. Alla fine Thomas indicò il petto di Yael: «Sei riuscita a salvarne qualcuno?» Lei si inarcò per estrarre i fogli bruciacchiati. «Non molti.» «Bastano per andare dritti alla polizia?» «Te lo dirò quando li avrò decifrati.» Piantò le pupille grigio-bianche in quelle del giornalista. Lui intuì che
aveva i nervi a fior di pelle. «Lubrosso ha menzionato la mia famiglia. Non voglio correre rischi. Se mai qualcosa dovesse andare storto con i poliziotti al momento dell'arresto, non voglio essere impreparata, con il principale sospettato in libertà. Quell'uomo sembra pronto a tutto.» Yael accese la luce interna della macchina. Thomas diventò nervoso, e si mise a scrutare la piazza della chiesa per accertarsi che nessuno li spiasse. Lei ispezionò le tre pagine carbonizzate, pezzi delle quali si volatilizzavano ogni volta che venivano toccate. Tentennò il capo sconsolata, sul punto di piangere. «No, è tutto... tutto bruciato...» Il centro del primo foglio era annerito, ma ancora integro. Yael lo inclinò da ogni parte sotto la luce dell'abitacolo, e riuscì a distinguere alcuni tratti. Emerse una parola. «... diavolo.» Poi un altro frammento. «... ribolle anco...» E infine: «... dove l'inferno». Niente di intelligibile, comunque. Yael gettò indietro la testa. Aveva riposto molte speranze in quei documenti. «Fammi vedere», disse Thomas, prendendo i fragili indizi. Dopo un esame minuzioso, il reporter mostrò un certo ottimismo. «Forse potremo cavarne qualcosa.» «E come? Facendoti aiutare dal tuo amico della scientifica?» «No, una cosa è consultare velocemente un archivio informatizzato, un'altra mobilitare le risorse di un laboratorio della polizia. Tuttavia, saremo noi a farcelo, un laboratorio.» Yael, scoraggiata, scosse la testa. «E dove pensi di trovarlo, il tuo laboratorio?» «Passando un po' di tempo in un istituto di bellezza.» 30 Era l'una di notte passata quando Yael e Thomas rientrarono in albergo. Le ore scorrevano sopra una Parigi scintillante. Via via che i riflettori si abbassavano, i monumenti tornavano poco per volta alla loro solitudine. Arrivò infine quell'ora intermedia in cui la città intera dorme. I nottam-
buli sono a letto, la giornata appena trascorsa diventa ieri, giusto prima che i più mattinieri occupino le vetture delle prime metropolitane, il vento soffia libero su Parigi, più rumoroso dei motori. In una 4x4 nera, due figure aspettavano pazientemente, i loro contorni sottolineati dall'alone rosso dell'insegna HOTEL che si rifletteva sul parabrezza. Luc si massaggiò la nuca. Quell'attesa interminabile gli ricordava gli appostamenti quand'era alla narcotici. Erano già tre anni che aveva lasciato la polizia, e non gli mancava niente di quella vita. Di adrenalina ne aveva a sufficienza anche adesso. Forse più di prima. Erano cambiati solo gli obiettivi. E soprattutto aveva un margine di manovra sul campo quasi smisurato. L'azione e la possibilità di viverla pienamente. Anche la paga era senza confronti. Un sacco di vantaggi. A condizione di non porsi delle domande. E di sopportare dei tarati mentali come Dimitri. Dimitri sonnecchiava al suo fianco. Un ucraino che viveva in Francia da cinque anni. Non molto loquace, ma tremendamente efficiente. Lui non si faceva alcuna domanda. In ufficio, si mormorava persino che avesse già partecipato a dei «colpi di spugna». Delle operazioni di «pulizia». Quando un'equazione sulla lavagna poneva un problema e tutti gli altri metodi per aggirarlo si erano rivelati inutili, si dava un «colpo di spugna». Definitivo. Coloro che diffondevano quelle voci dicevano pure che Dimitri si offrisse volontario per le missioni più macabre. Metteva paura. Un mercenario reclutato grazie alla sponsorizzazione di qualcuno. Come la maggior parte di loro, pensò Luc. Tutti avvezzi a combattere sul campo, per lo più ex militari, come Michael. Qualcuno bussò sul vetro. Dimitri sobbalzò e imprecò in russo. Era proprio Michael. «L'abbiamo localizzata», disse aprendo la portiera. «Andiamo.» Si radunarono dietro il fuoristrada. Luc controllò la sua arma dopo essersi accertato che non ci fosse nessuno in vista. «Ho appena avuto la conferma. Ha pagato l'albergo con la carta di credito. Yael Mallan. Con un nome simile, non si può sbagliare. La chiave della sua stanza non è attaccata al chiodo. Muoviamoci!» I tre uomini percorsero il marciapiede in direzione dell'hotel. Un mortale connubio di muscoli, nervi ed esperienza distruttiva che da molto tempo li
aveva svuotati delle loro illusioni. Non lasciavano nulla al caso. Luc in particolare aveva un buon motivo per stare in guardia. Aveva scoperto il cadavere del suo compagno nelle Catacombe. Yael Mallan sapeva sbrogliarsela meglio di quanto avessero supposto. La paura l'aveva resa pericolosa. Luc si accingeva ad applicare la legge del taglione. La sola che rispettasse. La vita di Yael contro quella del suo collega. E Luc avrebbe fatto fuori anche il tipo che la accompagnava. Tanto peggio per lui. Lo avevano avvisato, nel metrò. Mai lasciare testimoni. Quando entrarono nella hall, Luc e Michael attesero davanti all'ascensore mentre Dimitri si avvicinò al banco della reception. Il portiere di notte uscì da una stanzetta attigua. «Buona sera. Posso...» Vide il piccolo occhio nero che lo fissava e poi un lampo di luce. Prima di poter udire il rumore dello sparo attutito dal silenziatore, brandelli vischiosi di materia cerebrale erano incastrati nel casellario per i messaggi alle sue spalle. Dimitri saltò oltre il banco e frugò senza alcun riguardo fino a trovare una chiave universale. Verificò sul registro il numero di stanza di Yael e lanciò il passe-partout agli altri due, che si precipitarono nella cabina dell'ascensore. Dopo di che, l'ucraino ripulì le tasche del morto per recuperare i soldi che gli avevano dato in cambio di informazioni. Al primo piano, Luc inserì la chiave nella serratura, e quando la spia verde si illuminò abbassò adagio la maniglia. Si divisero la stanza buia in modo da sorvegliarne ogni angolo. Ciascuno dei due impugnava una SigSauer 9 mm silenziata nella mano guantata. I due letti gemelli erano occupati da una coppia che dormiva pacificamente. Michael aprì il fuoco per primo. L'impatto dell'acciaio rovente nella carne fece più rumore dell'arma stessa. La coppia inzaccherò di sangue il muro senza emettere un grido. Blog di Kamel Nasir. Estratto 5 Parlare di una cospirazione del governo americano contro il suo stesso popolo vi fa passare per un adolescente foruncoloso e paranoico. Ma que-
sto, credo, significa dimenticare troppo in fretta ciò che la storia ci ha insegnato. Allen Dulles è un nome che non evoca in voi alcun ricordo? Ammetto che se ne parla poco, che con il tempo quest'uomo è stato «dimenticato». Nemmeno i nomi Mockingbird e Northwoods vi dicono qualcosa? Eppure, si tratta di scandali assai più drammatici del Watergate! Dulles ha perduto il posto a causa di queste storie, sebbene all'epoca si affermasse che era stato licenziato per la fallita invasione della Baia dei Porci. Tremo, quando ripenso a uomini come Allen Dulles, il direttore della CIA che promosse l'operazione Mockingbird, mirata a infiltrare e influenzare i media americani, e ancor peggio ebbe un ruolo nell'operazione Northwoods, che prevedeva di commettere degli attentati ai danni di cittadini americani per giustificare un intervento militare a Cuba. Soprattutto perché non era da solo. Il progetto in effetti era un'idea dei capi di stato maggiore riuniti, che pensavano di colpire una delle loro navi con dell'esplosivo allo scopo di far salire la tensione, accusando Cuba. Avevano persino previsto il dirottamento o l'attacco di aerei civili... Non è fiction, questa, ma un piano concepito, studiato e scritto da generali delle forze armate americane, destinato a fornire loro un pretesto per attaccare Cuba! Le prove di tutto questo esistono, eccome! (Di nuovo, verificate voi stessi! C'è in particolare un rapporto desecretato nel 1992, quello che Robert McNamara in persona aveva conservato!) E tuttavia se ne parla poco, come se su certi fatti fosse stata imposta una museruola giornalistica dagli imperi mediatici. E al tempo stesso, sorgono delle domande quando si apprende che il governo Blair privatizza la conservazione dei documenti di Stato (inclusi quelli classificati TOP SECRET), affidandola a una società (la TNT Express Services) che appartiene al magnate Rupert Murdoch; lo stesso che possiede l'impero mediatico News Corporation, di cui fa parte il famoso canale Fox News, che ha sostenuto la presidenza Bush. Quando si ripensa a questi progetti, all'assassinio di Kennedy, alla menzogna raccontata da un governo per entrare in guerra con il Vietnam, è lecito porsi degli interrogativi anche sugli attentati dell'11 settembre... Sono davvero una maledizione che si abbatte sul mondo? Perché, sulla loro scia, si parla di passare al contrattacco. Si parla di Bin Laden, di Saddam Hussein (senza mai affermare che quest'ultimo è direttamente legato al terrorismo), e mediante ingegnose manipolazioni della comunicazione, li si associa nella mente del popolo americano, in modo
da giustificare un attacco contro l'Iraq. Ma invadere l'Iraq mentre si proclama a gran voce che la roccaforte del terrorismo islamico è in Afghanistan non è possibile. Per l'opinione pubblica, prima bisogna andare in Afghanistan per stanare Bin Laden. Allora perché vengono mandati laggiù solo 11.000 uomini? «Meno del numero di poliziotti che ci sono a Manhattan!» come osserva Richard Clarke, ex consigliere della Casa Bianca per il terrorismo. Un numero sufficiente per decapitare il regime talebano e insediare Hamid Karzai, ma certamente non per rastrellare un intero Paese alla ricerca del nemico pubblico numero uno. Quando inoltre si sa che Karzai è legato ad alcune imprese vicine al governo Bush... D'altronde, una volta salito al potere in Afghanistan, autorizzerà la creazione di un oleodotto che gli Stati Uniti desideravano da tempo costruire, senza mai riuscirvi... E poi, si vuole davvero trovare Osama Bin Laden? Perché dopo il primo attentato al World Trade Center, nel 1993, i servizi segreti sanno già che il responsabile è Osama Bin Laden, e soprattutto che la famiglia reale saudita gli ha fornito i mezzi per fare ciò che vuole, in cambio, si dice, di una certa tranquillità interna. All'epoca, Osama si rifugia in Sudan. Nel febbraio 1996, Bill Clinton firma un ordine di missione top secret con l'obiettivo di smantellare al Qaeda ed eliminare Bin Laden. Della missione è incaricata la CIA, che però afferma di non sapere dove si trova. Solo che nel marzo dello stesso anno, il Sudan propone agli Stati Uniti di consegnargli Bin Laden al fine di migliorare le sue relazioni con il Paese dello zio Sam. Sorpresa: gli Usa rifiutano, con il pretesto di non avere alcuna prova a suo carico. Insomma, preferiscono lasciarlo in libertà. La CIA, che di solito non è avara di tiri mancini e omicidi sospetti, non muove un dito, e il governo non esercita alcuna pressione sull'Arabia Saudita affinché si riprenda Bin Laden per metterlo dietro le sbarre. Il Sudan così si accontenta di cacciare via il terrorista, che ripara in Afghanistan. Gridare in seguito ai quattro venti che gli Stati Uniti faranno la pelle a Bin Laden e che per questo bisogna invadere il Paese con soli 11.000 uomini appare ridicolo... in confronto, per esempio, ai 550.000 uomini impiegati in occasione della prima guerra del Golfo, nel 1990. Ma nel 1990 c'è in ballo il petrolio. Mentre in Afghanistan, a parte l'oleodotto, gli Stati Uniti non hanno molti interessi... Immagino il vostro sorriso nel leggere queste parole. Vi direte: «Okay,
ma lo sanno tutti che gli Usa sono andati in Iraq per il petrolio, dove vuoi andare a parare?» Abbiate pazienza, e capirete. Ma la visione d'insieme è un po' troppo scioccante per essere presentata in un colpo solo. È meglio comporre il puzzle un pezzo alla volta. Prima del gran botto finale. 31 L'odore di bacon si mescolava a quello delle brioche e del caffè nell'ampia sala ristorante dell'albergo. Yael e Thomas facevano colazione un po' in disparte, sotto una delle grandi finestre attraverso cui il sole caldo entrava sin dalle prime ore del mattino. Dei grappoli di turisti, per lo più famiglie, si dividevano gli altri tavoli vicino al buffet. Yael aveva un cellulare contro l'orecchio. «Grazie, Lionel, ti renderò il favore. Qualche giorno, sì. Ti tengo al corrente, a presto.» Riattaccò e restituì il telefonino a Thomas. «Tutto sistemato. Resterò assente dal lavoro per l'intera settimana.» Thomas assentì con un cenno del capo. I suoi capelli ancora umidi per la doccia si arricciavano, e la pelle del viso appena rasato riluceva sotto il dopobarba profumato. Quel mattino, aveva gli occhi verdi punteggiati di macchioline nocciola. Quando Yael lo aveva incrociato all'uscita del bagno, i suoi muscoli giocavano sotto il lino fine della camicia, e lei aveva provato un'improvvisa attrazione per il reporter. Un desiderio immediato di sentire il corpo di lui contro il suo. Una voglia animale, follemente sessuale. Si era stupita che le frullassero in testa certe idee, viste le circostanze. Era colpa della tensione nervosa... della stanchezza, si era ripetuta. Adesso, mentre beveva un succo d'arancia, la sua camicia si aprì lasciando intravedere i pettorali, e Yael provò di nuovo quello slancio di desiderio, quasi doloroso. «Intanto che eri sotto la doccia, sono andato al centro affari dell'hotel per avere accesso a Internet, e ho stampato la lista degli istituti di bellezza parigini», spiegò Thomas. Yael strizzò gli occhi per riprendere il contatto con la realtà. «Tu... tu credi veramente...» farfugliò, «che potremo decifrare quel foglio bruciato in un... istituto di bellezza?»
«Tentare non costa niente», replicò lui meccanicamente. Anche lui sembrava avere la mente altrove, ma era inquieto per quanto stava accadendo dietro a Yael. Lei gettò un breve sguardo sopra la propria spalla. Due membri del personale discutevano tra loro, l'aria preoccupata, quasi sconvolta. Un terzo dipendente, una donna, si unì a loro domandando cosa fosse successo. Yael tese l'orecchio per captare dei frammenti di conversazione: «Qui a fianco... all'hotel di... C'è stato... inati stanotte.» «Assassinati?» ripeté la donna a voce alta. Uno dei colleghi la richiamò a una maggiore discrezione. «Il portiere e... oppia.» L'uomo si girò dando la schiena al loro tavolo, e Yael non riuscì ad ascoltare il seguito. Quando tornò a voltarsi verso il suo compagno, notò che era teso. «Qualcosa non va?» gli chiese. Lui esitò. «A partire da ora, non devi più usare la tua carta di credito», le ordinò. «E perché?» Il giornalista si massaggiò il mento, lo sguardo perso in una nebbia di riflessioni. «Vuoi dirmelo?» insistette Yael. Lui spinse indietro la sedia per alzarsi, poi i suoi occhi tornarono a posarsi su di lei. «Ti devo una spiegazione», riconobbe Thomas. «Ma non qui.» Lasciarono il ristorante per raggiungere la loro camera e prendere il documento. A un certo punto, attraversando un salotto, Thomas si bloccò di fronte a un televisore che diffondeva l'immagine di una giornalista con il microfono in mano, che parlava davanti a un ambiente vagamente familiare. La sua mano strinse quella di Yael. «... con due proiettili nella nuca. Secondo le nostre fonti, non sarebbe stato rubato niente in casa, ma la polizia è tuttora presente sul posto per cercare di saperne di più su questo misterioso omicidio. A Herblay, non appena si è diffusa la notizia del crimine, la gente ha cominciato a farsi delle domande: chi ha potuto uccidere a sangue freddo un vecchio così tranquillo? E perché?» Anche Yael aveva riconosciuto la sagoma del maniero di Lubrosso sullo sfondo.
Il volto di Thomas si rabbuiò. «Hanno fatto fuori Lubrosso stanotte, dopo la nostra partenza.» Yael prese a camminare avanti e indietro sulla moquette. «Non va bene...» disse scrollando la testa. «Non va bene per niente.» Si fermò di colpo. «Dobbiamo avvertire la polizia. Dire chi è l'assassino.» «Ah, sì? E chi è?» si stupì Thomas. «L'uomo che Lubrosso aspettava per sbarazzarsi del cadavere di Languin. Era tardi quando ce ne siamo andati, e il vecchio era in attesa di quel... come l'hai chiamato?... 'uomo delle pulizie'. Non vedo chi altro possa essere stato.» Thomas si avvicinò alla giovane, con aria avvilita. «Ma sì», proseguì lei. «I poliziotti risaliranno al numero telefonico che Lubrosso ha chiamato questa notte... Possono farlo, no?» Thomas si assicurò che nessuno potesse sentirli. «Yael... Ascoltami bene», disse con un tono che cercava di apparire calmo. «Numerosi testimoni possono affermare di averci visto ieri a Herblay, e alcuni possono persino precisare che chiedevamo informazioni su Lubrosso. In seguito, ci siamo introdotti illegalmente nella sua proprietà per spiarlo. E soprattutto, a mio parere, il nostro famoso 'uomo delle pulizie' avrà fatto sparire il corpo di Languin. E considerato quello che ci sta capitando, inizio a pensare che ci troviamo di fronte a persone molto potenti. Non avrebbero corso il rischio di eliminare Lubrosso se il numero di telefono poteva comprometterle. Credimi, abbiamo tutto da perdere ad andare alla polizia adesso. Ricorda le ombre negli specchi, le candele e l'anello che uccide. Capisci dove voglio arrivare?» Dopo un attimo, Yael annuì. «Sì, non mi crederanno mai», ammise lei con un filo di voce. Si lasciò cadere su una delle poltrone ed emise un lungo, stanco sospiro. Thomas le accarezzò i capelli. «Andremo avanti come stabilito, Yael. Condurremo la nostra indagine privata, finché non saremo in grado di dimostrare la nostra innocenza e di indicare i colpevoli. È l'unica maniera per venirne fuori.» «Credi davvero che siano in molti? Un'organizzazione?» «Ne sono convinto. Sono troppo ben organizzati e dispongono di troppi mezzi per un uomo solo.» Yael rimase un istante con lo sguardo fisso nel vuoto, a interrogarsi su ciò che stava vivendo. Perché proprio lei? A ogni modo, non aveva intenzione di arrendersi. Si sarebbe difesa con
le unghie e con i denti. La sua linea di condotta ormai sarebbe stata questa: rifiutare di piegarsi e ribattere colpo su colpo. Ma per fare ciò, doveva saperne di più sul mandante. Si alzò, facendo appello a tutte le sue energie, e invitò Thomas a seguirla verso gli ascensori. In camera, recuperarono l'unico foglio più o meno integro che avevano sottratto alle fiamme e ridiscesero nella hall, mentre Kardec miagolava per seguirli. A scopo protettivo, Yael aveva infilato il documento tra le pagine di una rivista, che teneva in uno zainetto di tela. Camminarono fianco a fianco, tra i clienti che chiacchieravano con in mano una cartina di Parigi o una videocamera digitale. La luce del cielo blu bagnava l'hotel con una leggerezza che induceva i turisti al buonumore. Yael procedeva squadrando tutte le figure che incrociava, conscia di esagerare ma incapace di trattenersi. Pensava a quello che Thomas le aveva nascosto, all'assassinio di Lubrosso. I sensi in allerta, non le sfuggiva nulla mentre la porta a vetri si avvicinava. Dei sorrisi. Dei chiacchiericci con risate in sottofondo. Tutti quegli sguardi eccitati, quei volti curiosi, quei capelli irsuti, quegli abiti dai colori vivaci... La fauna dell'albergo pronta a invadere le vie della capitale. E due sagome massicce che fendevano i gruppi, una con in mano un apparecchio tipo PDA, l'altra che sorvegliava la folla. Due uomini vestiti di pelle nera, con un'espressione risoluta. Yael si voltò verso Thomas, che non li aveva notati. L'uscita non distava più di cinque metri. Yael li seguì con la coda dell'occhio: erano diretti alle scale. Fu allora che il secondo uomo la scorse. La sua fronte si corrugò. Fermò il collega afferrandolo per il braccio. L'altro esitò. Controllò il suo dispositivo, girò la testa verso le scale, poi riportò la sua attenzione su Yael. Entrambi cambiarono direzione. Vennero dritti verso di lei. 32
Yael mollò una gomitata a Thomas, che reagì immediatamente. Le passò una mano sotto il braccio e accelerò il passo. I due colossi fecero altrettanto, urtando chiunque si trovasse in mezzo senza dire una parola. Thomas spinse la porta e sbucarono in strada. «Il tipo a destra era nel metrò l'altro ieri. Pronta?» Yael voleva domandargli di che cosa parlasse, ma lui la tirò bruscamente avanti. Si precipitarono verso l'auto parcheggiata più lontano... troppo lontano. Un errore. Nel frattempo, i due uomini balzarono fuori dall'hotel e si lanciarono sulla loro scia, a meno di dieci metri. Il volto contratto in una smorfia per via della coscia dolorante, Thomas raggiunse una schiera di bidoni verdi delle immondizie e prese a rovesciarli, imitato da Yael. I rifiuti si sparsero a terra e le bottiglie rotolarono tra le gambe degli inseguitori, che dovettero rallentare. Thomas e Yael erano già ripartiti a razzo. Mentre le sue braccia sbattevano contro i fianchi, la giovane interruppe il movimento per far passare lo zainetto davanti e cercare le chiavi della macchina senza rallentare. La 206 adesso era vicina. Ma anche i due energumeni. Yael frugò tra le cianfrusaglie senza riuscire a trovare il prezioso mazzo. «Le chiavi...!» incalzò Thomas. Lei sentiva il ritmo dei loro fiati dietro di sé. Le sue dita scartarono il portafoglio, l'agendina... L'auto era lì, a non più di sei metri. Finalmente l'indice sfiorò una chiave. La mano la afferrò e tirò freneticamente. In un solo gesto, Yael estrasse il mazzo e sbloccò le portiere con il comando a distanza. Saltarono all'interno della Peugeot. La giovane inserì la chiave e fece ruggire il motore. Il più veloce dei due uomini era già alla sua altezza, e Yael non era ancora riuscita a chiudere la portiera. Schiacciò l'acceleratore, sterzando per allontanarsi dal marciapiede. La sagoma dell'uomo oscurò l'abitacolo aggrappandosi al finestrino. Yael strinse il volante e pigiò a fondo sul pedale. La 206 schizzò sull'asfalto e la portiera accostò con violenza per la forza dell'accelerazione, in-
castrando l'intruso tra il montante e la carrozzeria. Yael staccò la mano sinistra dal volante, piegò il braccio e sferrò con tutte le sue forze una gomitata al plesso dell'uomo. L'aria fuoriuscì rumorosamente dai suoi polmoni, le dita si aprirono e lui oscillò all'indietro. Nello specchietto, Yael lo vide arretrare di diversi metri e poi fermarsi, quando le sue gambe urtarono la scocca di una vettura parcheggiata. Lei afferrò la maniglia e richiuse la portiera, sbuffando per rallentare il battito impazzito del cuore. «Ben fatto!» gridò Thomas, anche lui sopraffatto dalla velocità con cui tutto si era svolto. La Peugeot giunse a un incrocio, in place de la Porte-de-Versailles: il semaforo era rosso. Thomas ne approfittò per guardare nel retrovisore. Una 4x4 stava arrivando dietro di loro. «Merda!» esclamò il reporter. «Rieccoli!» Yael sbirciò il semaforo, che era sempre rosso. Davanti a lei c'era un camion. Espirò due volte, rapidamente. Poi fece urlare il motore e superò il camion, vedendo che il fuoristrada si avvicinava a forte velocità. «Vai a destra!» tuonò Thomas. Nel momento in cui la 206 sbucò nell'incrocio, uno scooter, nascosto fino ad allora dal camion, spuntò dalla destra. Yael sterzò bruscamente a sinistra per evitare la moto, che riuscì per un pelo a schivare l'auto. Il conducente frenò e si voltò a insultarla, ma lei aveva già imboccato a tavoletta rue de Vaugirard. Il motociclista continuava a imprecare. Udì troppo tardi lo stridere di pneumatici e si girò per vedere di che si trattasse. La calandra apparve davanti ai suoi occhi. Enorme. E lo investì in pieno, proiettandolo come un fantoccio quattro metri più in là, nella vetrina di un negozio. Yael credette di scorgere un'ombra che scaturiva dalla parte anteriore della 4x4 e poi scompariva in un muro, ma i suoi occhi non ebbero il tempo di darle una conferma, di nuovo puntati sullo stretto passaggio in cui la 206 si era infilata. Guardò il tachimetro: novanta chilometri all'ora. E il fuoristrada sempre alle costole.
Le file di veicoli posteggiati ai lati della strada sembravano restringersi con l'aumentare della velocità. Le facciate degli edifici formavano una gola in fondo alla quale le due vetture si sfidavano in un duello mortale. Yael raggiunse l'angolo di rue de la Convention. Il semaforo era verde, ma rallentò lo stesso e tenne schiacciato il clacson. I passanti sobbalzarono quando l'auto attraversò come un bolide l'incrocio per poi volatilizzarsi. Yael alzò lo sguardo verso il retrovisore interno e scoprì con stupore che la 4x4 era sempre più vicina. «Non riusciremo a seminarli!» disse Thomas. Deconcentrata, lei sbandò leggermente verso destra. Il rumore dell'impatto risuonò dentro l'abitacolo. Aveva strappato via lo specchietto esterno urtando quello di una berlina parcheggiata. Passarono davanti all'ospedale Pasteur. «Attenta!» urlò Thomas indicando l'autobus un centinaio di metri davanti a loro, che occupava per intero la corsia di marcia. Yael esitò. Subito prima di essere proiettata in avanti. Li avevano tamponati. Nel fracasso di lamiera accartocciata, lo sterno sopportò per primo l'impatto, poi la nuca, infine l'intero busto partì in avanti, in assenza della cintura di sicurezza. Le mani aggrappate al volante funzionarono da ammortizzatori e il naso si fermò a pochi centimetri dal rivestimento di pelle. Erano stati urtati dal fuoristrada. Con la coda dell'occhio, Yael vide che Thomas era stato meno fortunato e che aveva picchiato contro il cruscotto. La 206 lasciò la corsia di destra, con la 4x4 incollata al paraurti. L'autobus l'avrebbe costretta a frenare, chiudendola in trappola. In una frazione di secondo, Yael controllò la corsia opposta: una vecchia Renault 4L, ancora distante, si avvicinava lentamente. Yael si spostò a sinistra e la 206 balzò in avanti sotto la pressione della sua rumorosa marmitta, procedendo in contromano e rasentando l'autobus. La 4L fece lampeggiare i fari. Viaggiava molto più veloce del previsto. La giovane vide che la 4x4 li tallonava ad appena due metri. Valutò la distanza che le restava da percorrere prima di potersi riportare a destra. L'autobus sembrava non finire mai. E lei era troppo lenta. Si rese conto che non ce l'avrebbe fatta. Si sarebbero schiantati contro la Renault.
Uno scontro frontale. Sentì Thomas gridare. 33 I freni della Renault 4L stridettero, e una nuvola di fumo avvolse le sue quattro ruote. Yael trattenne il fiato. Forse sarebbe riuscita a riportarsi nella corsia di destra... Poteva farcela. La 206 sterzò bruscamente davanti all'autobus. La 4L apparve come un lampo nel finestrino. Thomas si raddrizzò sul sedile. «Bastardi!» urlò. Yael lanciò un'occhiata al retrovisore e per poco non lasciò andare il volante. La 4x4 sfrecciava sul marciapiede, seminando il terrore e il panico. E poi fu di nuovo nella loro scia. Le due vetture filavano verso il cuore della capitale a più di cento all'ora. Yael stava incrociando il boulevard du Montparnasse quando vide uno dei due sicari sporgersi dal finestrino e prendere la mira: l'arma era prolungata da un silenziatore. Thomas la spinse contro il volante, rischiando di farle perdere il controllo dell'auto. Il giornalista comprese che la macchina era stata colpita quando due impatti risuonarono uno dopo l'altro. Un terzo proiettile attraversò sibilando il lunotto posteriore, lacerò il bordo del sedile del conducente e si conficcò nell'autoradio, che esplose con uno zampillo di scintille crepitanti. Il boulevard Raspail si avvicinava. Il semaforo era rosso. Fermarsi o passare poteva significare la vita o la morte. Yael non aveva ancora preso una decisione quando scattò il verde. Attraversò senza alzare il piede... E subito si disperò. Una lunga processione di veicoli avanzava al rallentatore dietro il camion della nettezza urbana. Erano all'altezza del Jardin du Luxembourg. «Il marciapiede!» gridò Thomas. Non avevano più niente da perdere. Yael saltò sopra il cordolo suonando il clacson perché i pedoni si scansassero. Pochi metri più in là il passaggio si restringeva, e li avrebbe bloc-
cati. Sulla destra, il cancello del Luxembourg era spalancato. «Infilati lì!» strillò Thomas. Gli pneumatici della Peugeot sollevarono una nube di sabbia imboccando il viale, la 4x4 sempre alle calcagna. La 206 cominciava a mostrare i limiti mentre il fuoristrada era sul suo terreno. Decine di persone a passeggio si tirarono velocemente da parte avvedendosi di quell'affannoso inseguimento, e i fannulloni sulle sdraio ebbero appena il tempo di sloggiare. Di colpo le due portiere furono affiancate. E la mano armata riapparve. Costeggiarono la facciata del Senato, sbucando su un rettilineo interrotto da una grande vasca. Sulla destra, si apriva una strada ad angolo acuto. La giovane frenò bruscamente e sterzò. La 206 evitò un chiosco di dolciumi, ma travolse le sedie allineate. I tubi di alluminio fracassarono il muso della vettura, bucando i fari e sfondando il cofano. Una delle sedie rimbalzò e ruppe il parabrezza. Due grosse striature dividevano il vetro, che adesso rischiava di andare in frantumi al minimo impatto. Yael ritrovò il centro del viale respirando a pieni polmoni. Non avevano investito nessuno, ma avevano perso il secondo specchietto retrovisore. «Dove sono? Li vedi?» chiese lei, allarmata. Thomas guardò in giro e individuò la 4x4 dall'altro lato di un terrapieno, su una strada parallela. «Sono là! Resta dove sei. A questa velocità non possono tagliare per raggiungerci.» Ma le pallottole centrarono la carrozzeria. Il finestrino posteriore esplose. Il viale si allungava ancora prima di curvare a U per congiungersi con l'altra strada, quella su cui viaggiava a tutta velocità la 4x4. Al centro, una piccola rampa saliva tra dei blocchetti di cemento e conduceva a un piazzale soprelevato. La rampa non era abbastanza larga per entrambe le vetture. Yael, sempre meno lucida, decise di giocare il tutto per tutto. Inserì la quarta, poi la quinta. Il tachimetro segnava i centosettanta chilometri all'ora.
Thomas la guardò. «Rallenta!» gridò. «Vai troppo forte! Ci ammazzeremo!» Lei non rispose, il piede incollato all'acceleratore. La curva era sempre più vicina. Yael si tenne alla corda per non dover girare: sarebbe filata dritta verso la rampa. Le piante sfioravano la carrozzeria a tale velocità da venire decapitate. La stretta rampa incombeva ormai su di loro. Thomas si aggrappò alla maniglia e chiuse gli occhi. All'ultimo momento, Yael frenò rabbiosamente. La 206 beccheggiò, sbandò a destra, poi a sinistra. Lei strinse il volante e imboccò la rampa a quasi cento all'ora. Ci fu dapprima una miriade di scintille, poi le ruote si sollevarono, l'intero veicolo si staccò da terra. Yael accelerò per non perdere potenza. Dopo quella che parve un'eternità, ripresero contatto con il suolo, la Peugeot rimbalzò violentemente e due nuove crepe rigarono il parabrezza. Le gomme ritrovarono l'aderenza sul terreno e spinsero avanti il bolide. Una donna apparve di colpo nel parabrezza. A quella velocità, l'avrebbero di sicuro tagliata in due. Yael cacciò un urlo, e la donna arretrò di un passo. I suoi vestiti sbatterono al vento della 206, che la sfiorò appena. Yael non credeva ai propri occhi. Si infilò tra gli alberi per guadagnare l'uscita. La 4x4 riapparve, lontana dietro di loro. Qualche secondo dopo, in rue Auguste-Comte, un lampeggiatore entrò in funzione. Un'auto della polizia aveva deciso di partecipare alla festa. Yael svoltò in una stradina prima di essere individuata e accelerò. Un minuto più tardi, il giornalista la pregò di rallentare. «Hanno rinunciato vedendo la polizia», dedusse. «Ti puoi fermare, adesso.» Yael cominciò solo allora a rendersi conto di quel che aveva fatto. L'adrenalina si trasformò in paura retrospettiva. Le sue gambe si fecero di gelatina. Si mise a tremare. Non appena fu riuscita a posteggiare sopra la banchina, si accasciò sul volante. Thomas attese un lungo istante, quindi, tamponandosi di volta in volta il sangue che gli colava dal naso e il bernoccolo che gli decorava la fronte, disse con voce sorda: «La situazione è critica, Yael. Credo di doverti una spiegazione». «A che proposito?» ansimò lei senza alzare la testa. «Qualcosa che ho fatto... Qualcosa di molto grave.»
34 Yael si raddrizzò lentamente. «Di cosa parli?» domandò. «Per i miei reportage, mi è capitato di occuparmi dei servizi di intelligence, dei loro metodi. Ho redatto un lungo articolo molto documentato su Echelon, il sistema di sorveglianza elettronica sviluppato dagli americani per spiare l'intero pianeta, le nostre telefonate, le e-mail e tutto il resto...» Fece una pausa per tastarsi il setto nasale; non era rotto. Yael intuì che quella piccola manovra gli serviva per non guardarla in volto. Ciò che vuole dirmi deve pesargli molto, pensò, sempre più angosciata. «Ho frequentato un'allegra brigata di paranoici, in quel periodo, e devo confessare che mi hanno trasmesso qualche... riflesso condizionato.» Stava cercando le parole. Alla fine, si girò verso di lei, e quando riprese a parlare, lo fece con passione, con enfasi: «Non hai idea di tutti i sistemi che hanno messo a punto per sorvegliarci. Ogni passo che facciamo è schedato e archiviato, ti giuro che non esagero. Se un tizio di un organismo di sorveglianza decide di accalappiarti, può sapere tutto di te. E questa esperienza mi ha lasciato qualche... traccia.» «Come? Ti hanno fatto qualcosa?» riuscì ad articolare Yael, con un nodo in gola. «No, no, niente. Ho potuto scrivere il mio articolo e venderlo ai giornali, ma l'esperienza mi ha... cambiato. Nel quotidiano, sono come chiunque altro, solo che... quando succede qualcosa di sospetto, passo in modalità 'paranoia' e prendo delle precauzioni deliranti.» «Cioè?» «Be', se una sera rientro a casa e mi sembra che degli oggetti siano fuori posto...» «Vuoi dire che qualcuno si è introdotto da te?» si stupì Yael. Thomas aveva l'aria imbarazzata. Probabilmente, era la prima volta che confidava le sue piccole nevrosi. «Già... Insomma, non sono mai categorico, può anche darsi che mi sbagli, però quando accade, quando ho l'impressione che mi abbiano fatto una visitina, metto una sedia dietro alla porta, questo genere di cose.» Yael sospirò. «Ascolta, tutti abbiamo le nostre piccole manie, ma non vedo cosa c'entri con questa storia.»
Thomas si aggrondò. «C'entra, Yael. Perché la notte che siamo andati in hotel, quando ero sicuro che dormissi, sono uscito.» Yael attese il seguito con ansia. «Ti ho preso la carta di credito, sono sceso e ho prenotato da una cabina telefonica una stanza in un altro albergo. Ho dato il tuo numero di carta. Poi ho fatto un giro sotto i ponti della tangenziale, e non ci ho messo molto a trovare una coppia di barboni abbastanza presentabili.» Il viso di Yael assunse un'espressione allarmata. «Ho detto loro quale nome dare alla reception, aggiungendo che la camera era pagata per tre notti.» «Mio Dio», mormorò Yael. «È stato eccessivo, lo ammetto. Al momento mi sono detto che servirmi di quei poveracci non era poi tanto grave, che almeno avrebbero passato una notte al coperto. Mi ripetevo che tanto non sarebbe successo niente, e che comunque, se anche la mia paranoia fosse stata giustificata, nel peggiore dei casi la coppia sarebbe stata arrestata, interrogata e poi rilasciata senza problemi. Ma questo ci avrebbe fornito un'indicazione su quelli che ti stanno dando la caccia. Dopo quei due tipi del metrò e la nostra avventura nelle Catacombe, iniziavo a pormi seriamente delle domande sull'identità di coloro che ce l'avevano con te sino a quel punto. Ho soltanto voluto assicurarmi che...» «Che cosa? Che fossi affidabile?» chiese Yael con una punta di irritazione. Thomas scosse il capo. «No, che chi stava cercando di farti del male non fosse in qualche modo collegato ai servizi.» «A cosa?» «Ai servizi informativi ufficiali. DST* polizia, RG** e chi più ne ha più ne metta.» «Ma il tuo è un ragionamento contorto. Perché mai dei poliziotti dovrebbero...» «Eppure è quello che è successo!» la interruppe lui. «I due senzatetto sono stati ammazzati questa notte. Ho sentito la conversazione tra i camerieri stamattina in hotel. Non ti sembra abbastanza? Dei tipi cercano di farti fuori e le persone che si sono registrate a tuo nome vengono assassinate. È solo grazie alla tua Carte Bleue che sono arrivati a quella stanza. E la carta di credito è il primo elemento di cui i servizi tentano di seguire le tracce
quando braccano un fuggitivo.» «È... È per questo che non mi hai permesso di pagare niente?» si sovvenne lei. «Sì, per ogni evenienza. Ho saldato il conto del nostro hotel senza registrare il tuo nome da nessuna parte.» Tacque un istante, per sintetizzare il suo pensiero. «Quello che voglio farti capire è che solo i servizi informativi del governo possono avere accesso ai tuoi documenti bancari.» Yael non voleva starlo ad ascoltare. «Non aggiungere altro! Non ho mai fatto niente di illegale in vita mia! Non ho nemmeno mai fumato uno spinello! Niente, ti dico! È stupido credere una cosa del genere. Non siamo in un film americano. Le persone normali come me non si ritrovano invischiate in oscuri complotti!» Thomas lasciò passare il temporale. Dietro quel moto di ribellione si celava in realtà il bisogno di dar sfogo alla paura. «Rifletti con calma», le disse. «L'hai detto tu stessa: non hai nulla da rimproverarti. Eppure hanno appena cercato di ucciderti nel pieno centro di Parigi, e non una volta sola. Non è un'illusione.» Indicò l'autoradio sfasciata. «E questo è decisamente reale. Anch'io non ci capisco niente, proprio come te. In compenso, so che degli assassini hanno potuto accedere ai tuoi ultimi movimenti bancari. I server delle banche sono tra i meglio protetti al mondo. Talvolta si sentono delle storie di hacker che riescono a penetrare nei siti dell'FBI o di una centrale nucleare coreana, mai però in quello di una banca. Gli unici in grado di accedervi sono gli organismi di intelligence ufficiali. Polizia, servizi segreti, esercito...» Yael scuoteva la testa. Non poteva crederci. «In ventiquattr'ore sono riusciti a localizzarti. Dopo essersi resi conto del loro errore, hanno continuato a indagare per piombare su di noi stamattina.» «Come hanno fatto a rintracciarci, oggi?» domandò lei in tono sommesso. «Non ne ho idea, ma sarà meglio scoprirlo prima che ricomincino. Nel caso tu abbia addosso un trasmettitore, compreremo dei vestiti nuovi.» Lei sollevò una mano in segno di impotenza. «Come... come faccio?» Si mise a singhiozzare. «Non... non posso pagare più niente...» Thomas le accarezzò i capelli. «Ehi, ti dimentichi in fretta che ci sono io con te. Nel giro di qualche ora avranno probabilmente verificato a che nome era prenotata la nostra stanza
e saranno risaliti fino a me. Questo significa che devo precipitarmi al bancomat più vicino.» Poi aggiunse, per strapparle un sorriso: «Secondo te, in quanto tempo noi due riusciremo a prosciugare il mio conto?» Ma invano. «Thomas», disse lei dopo un lungo silenzio, «queste... queste persone che sono morte stanotte... perché le hanno uccise?» Il giornalista si morse nervosamente il labbro. «Perché devono eliminarti, Yael. A ogni costo.» Lei chiuse gli occhi. «E se sono morte... è colpa mia», proseguì lui. «Sono stato io a spingerle dentro quella camera.» Yael non sapeva più se essere in collera con lui oppure ringraziarlo per essere ancora viva. Ma lesse una tale tristezza nel suo sguardo che preferì tacere. Lui portava il peso della colpa. Ormai avrebbe vissuto sapendo di aver ucciso due persone. Per tentare di proteggere lei. «Che cosa si fa adesso?» gli chiese quasi con tenerezza. «Innanzi tutto prendiamo dei soldi. Poi ci troviamo una nuova sistemazione. E dopo ci aspetta parecchio lavoro, ricordi?» «Il foglio bruciato...» «Già. È più urgente che mai. Ci staranno addosso, e il documento forse ci darà quel po' di vantaggio di cui abbiamo bisogno.» Yael si prese la testa tra le mani. «Se hai ragione, come faremo a uscirne? Come potrò dimostrare la mia innocenza? E a chi la dimostrerò?» Stava scivolando nel panico. Thomas la costrinse a fissarlo negli occhi. «Yael, ogni cosa a suo tempo, d'accordo? Vedrai che ne usciremo. Ma ho bisogno che tu mantenga il controllo. Ricordati che sono con te.» Lei si rese conto all'improvviso fino a che punto il reporter fosse legato a lei, lui che non aveva chiesto niente. Era stata lei a trascinarlo in quella caccia al mistero nella quale loro erano le prede. Adesso, volente o nolente, Thomas non poteva più abbandonarla. Come lui stesso aveva osservato, i sicari avrebbero presto conosciuto la sua identità. Yael si giudicò terribilmente egoista. Lui non si era mai lamentato, non aveva mai esitato ad aiutarla. Aveva corso dei rischi pazzeschi per lei.
«Thomas, scusami», gli disse. «Nessuno avrebbe fatto quello che stai facendo per me.» Lui alzò lo sguardo verso gli occhi chiari, sorridente e commosso al tempo stesso. Le depositò un piccolo bacio sull'angolo della bocca. «Forza, concentriamoci sul da farsi. Per prima cosa, i soldi, quindi i vestiti, e infine un posto dove rifugiarci.» Yael riacquistò il controllo e passò in rassegna parenti e amici. Erano tutti via per il mese di agosto. Tranne Tiphaine, che passa il week-end con il suo uomo. «Possiamo andare da una mia amica, se è tornata. Ci ospiterà senza problemi.» «È fuori questione. Non so chi siano quei tizi; è possibile che sappiano molte cose su di te, incluso chi sono i tuoi amici. Non è da escludere che sorveglino la sua casa.» «E tu, non hai degli amici che possano ospitarci? Magari quelli da cui hai dormito in queste ultime settimane...» Thomas parve a disagio. «Yael... Io... io non voglio rischiare di coinvolgerli in questa storia, mi capisci?» Lei aggrottò subito le sopracciglia, furiosa con se stessa. «Perdonami», si affrettò a dire. «Io... Hai ragione, sono un'egoista. Ti ho già trascinato nel mio incubo», aggiunse, confusa. «Mi dispiace, davvero.» Lui le strinse l'avambraccio. «Immagina che articolo potrei tirare fuori da questa storia», scherzò. «Anzi, no! Che libro potrei sfornare!» Riuscì a strapparle solo una smorfia. D'un tratto lei sussultò. «Kardec!» urlò. «Ho lasciato là il mio gatto!» Thomas le fece segno di no. «Non possiamo andare a cercarlo, lo sai.» Lei fece crocchiare le dita sul volante. «È il mio gatto!» «Guarda com'è conciata la tua macchina. Hai avuto una bella fortuna a cavartela. Non succederà due volte.» Yael inspirò a fondo, come per soffocare la collera. «E quanto al posto dove rifugiarci, hai ragione», continuò lui. «Ho in mente qualcuno che può darci una mano.» «Thomas, l'hai detto tu stesso, rischiamo di...»
«Non lui. È più una conoscenza che un amico, ma saprà essere discreto, e forse potrà aiutarci concretamente. È un tipo un po'... bizzarro, ma molto simpatico. Un adepto della teoria del complotto. Un esempio vivente di ciò che si vede solo in televisione, uscito dritto da un episodio di X-Files. Muoviamoci, adesso. Meglio evitare di rimanere troppo a lungo nel quartiere.» La 206 ronzò e scese dalla banchina. Stavano viaggiando in direzione della rive droite quando Yael precisò: «Hai detto che ho avuto una bella fortuna a cavarmela, ma sono anche stata brava. Ci tengo a sottolinearlo. Mi sono sorpresa io stessa». «È vero», ammise lui. «Non ho mai avuto tanta fifa in vita mia, però sei stata in gamba.» Lei si aggrappò a quelle parole. Era già qualcosa. Un pizzico di conforto nell'oceano di avversità in cui stava affogando. * Direction de la Sécurité du Territoire: Direzione della sicurezza del territorio. [N.d.T.] ** Renseignements Généraux: Informazioni generali. [N.d.T.] 35 La Peugeot aspettava con il motore acceso, pronta a partire al minimo segnale di pericolo. Yael sbirciava nervosamente Thomas, chino sullo sportello automatico. La sua auto non era più che un rottame: il bagagliaio era tutto ammaccato, un finestrino era esploso, un foro attraversava il lunotto da parte a parte, mentre il parabrezza attendeva solo un soffio d'aria per spargersi sulle loro ginocchia. Quanto alla carrozzeria crivellata di colpi... Yael non vedeva l'ora di nascondere la vettura e circolare a piedi. Sbrigati, Thomas. Il giornalista tornò a passo di carica e si precipitò accanto a lei. «Ho tremila euro, il limite massimo di prelievo settimanale della mia carta. Sono tutti i miei risparmi», sottolineò fingendosi rattristato. «Dovremmo tirare avanti per un po'. Adesso parti... se sorvegliano in tempo reale i movimenti del mio conto saranno già per strada.» Yael tornò a immettersi nel traffico. Raggiunsero il boulevard Voltaire, nell'11° arrondissement, un viale largo, con le sue tipiche facciate haussmaniane. Posteggiarono in una via attigua evitando il parcheggio sotterraneo pieno di telecamere di sorveglianza. Acquistarono una borsa da viag-
gio in una delle numerose botteghe asiatiche del quartiere, dopo di che pensarono al vestiario. Thomas spiegò a Yael che era un bene per loro fare compere lì; la comunità cinese era rinomata per la sua discrezione, e per quanto esigua fosse la somma da pagare in contanti, non si rischiava di lasciare tracce. Era raro che i negozianti parlassero a chi veniva a fare delle domande, soprattutto se si trattava di poliziotti. Gli immigrati cinesi desideravano attirare meno attenzione possibile, fondersi con la popolazione attiva di Parigi. Era la tattica delle tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. Per maggior sicurezza, Thomas le comprò anche un portamonete nuovo, e lei vi trasferì il contenuto di quello vecchio, dopo averlo controllato senza rilevare nulla di anomalo. Yael uscì dal negozio in una salopette di jeans sopra una maglietta a maniche lunghe. Sembrava una ragazzina. «Era tanto che lo sognavo!» disse incamminandosi verso la macchina. «Cosa? Indossare una salopette?» «No, fare shopping con un uomo che paga tutto!» Thomas sorrise. Lei era di nuovo capace di fare dell'umorismo, il che era un buon segno. Non dovettero fare molta strada per raggiungere rue de la Vacquerie, dove il giornalista indicò un portone di legno. Scese dall'auto per andare a suonare il citofono, scambiò qualche parola e il portone si aprì. La 206 entrò in un piccolo cortile in pavé che si concludeva con quello che sembrava il laboratorio di un artista. Yael spense il motore e raggiunse il suo compagno. «La nasconderemo qui», disse lui. «Non è un po' imprudente lasciarla così vicino a noi? Se hanno davvero piazzato un trasmettitore nell'auto...» «È un rischio che dobbiamo correre, ci siamo sbarazzati di tutto il resto. E poi hanno messo a repentaglio la loro vita e abbandonato ogni precauzione per non farsi seminare. Questo forse significa che non c'è nessun trasmettitore nella tua macchina.» Yael annuì; il ragionamento filava. La porta dell'atelier si aprì e apparve un uomo sulla trentina, dalle fattezze magrebine, i capelli riccioluti abbastanza lunghi che formavano una criniera d'ebano sulla testa, il viso allungato e l'aspetto sportivo. Yael notò che sottolineava il suo charme naturale con un abbigliamento curato: pantaloni di tela chiari e camicia dal colletto inamidato.
«Thomas!» esclamò. «Quanto tempo!» Chinò il capo verso Yael. «Signorina.» «Yael, ti presento Kamel», intervenne il reporter, «un amico che ho conosciuto l'anno scorso all'epoca del mio reportage sui servizi di intelligence.» «Cosa vi porta qui?» domandò Kamel invitandoli a entrare. «Venite ad annunciarmi una buona notizia?» «Non proprio», mormorò Yael. «Qualcosa non va?» Kamel si fermò, inquieto. «È... complicato da riassumere in due parole», spiegò Thomas. Di fronte alle facce stravolte dei suoi visitatori, Kamel fece segno che capiva e non aggiunse altro, accontentandosi di farli accomodare nel salotto e andando a prendere qualcosa per tirarli su. Il grande loft con cucina americana era interamente pavimentato in legno e aveva le pareti di pietra tinte di bianco. Una scala con due pianerottoli conduceva a un mezzanino. Yael si sedette accanto a Thomas in un canapè di pelle bianca. Kamel tornò con un vassoio orientale su cui troneggiavano una teiera e dei bicchieri con il bordo dorato. «Il tè di benvenuto», specificò il loro ospite. «Forza, raccontatemi tutto.» «Kamel», iniziò il giornalista, «innanzi tutto devo avvisarti che la nostra presenza qui può metterti in serio pericolo.» «E come?» Thomas cercò l'ispirazione massaggiandosi la fronte. «A causa mia», intervenne Yael. «Vogliono uccidermi.» Kamel posò la teiera che aveva appena sollevato. E ascoltò con attenzione il racconto. Al termine, nell'appartamento si sarebbe potuta sentire volare una mosca. Thomas e Yael si guardavano, imbarazzati dal silenzio di Kamel. Questi all'improvviso batté le mani. «Bene, vi posso assicurare almeno un tetto e dei pasti caldi. È già una garanzia.» Yael, sempre a disagio, insistette sul punto fondamentale: «Se ci aiuta, sarà coinvolto in questa storia, con tutto ciò che ne consegue». Lui spazzò l'aria con un gesto della mano.
«L'ospitalità è una virtù secolare nella nostra cultura, e talora impone dei sacrifici.» Thomas si piegò verso di lui. «Kamel, al di là della tua generosità, quello che cerchiamo di dirti è che la tua vita potrebbe essere in pericolo se ci ospiti qui.» L'interessato sprofondò nella poltrona davanti a loro e appoggiò le mani sulle ginocchia. Aveva l'aspetto di un leone, pensò Yael. «Siete venuti da me perché tu mi conosci, Thomas», disse, premurandosi di articolare le parole in modo da dargli la massima forza. «Tu sai che vivo solo per questo: la verità geopolitica del nostro pianeta. E quindi la vostra storia non può che appassionarmi. E sai pure che sono pronto a correre qualsiasi rischio. Le vere leggi sono quelle del rispetto per gli altri, non della menzogna. Non solo vi offro la mia ospitalità, ma anche il mio aiuto.» Thomas e Yael abbassarono simultaneamente la testa. «Grazie», dissero l'uno dopo l'altra. «Se verrò a capo di questa faccenda», aggiunse la giovane donna, «le ricambierò il favore. Di certo sarà impossibile, ma...» Kamel sollevò l'indice. «C'è una sola regola da rispettare qui da me: tra queste mura, non c'è più nessun 'lei'. Soltanto amici.» Detto questo, si alzò per mostrare ai due l'unica stanza libera di cui disponeva, in cima alle scale. Né Yael né Thomas osarono protestare scoprendo il letto matrimoniale. Nessuno dei due precisò che non stavano insieme. Si accontentarono di sistemare i loro pochi bagagli, poi ridiscesero. «Si può vedere la tv?» chiese il reporter. «Vorrei sentire cosa dicono al notiziario delle tredici.» Accesero giusto in tempo per l'annuncio dei titoli. Nella presentazione del primo servizio si parlava del folle inseguimento tra due veicoli per le vie di Parigi, che aveva causato un morto e numerosi feriti lievi. Yael deglutì sentendo quel bilancio. Il conduttore precisò che i due pirati della strada erano riusciti a fuggire malgrado l'intervento di una vettura della polizia, e che al momento le indagini erano orientate verso l'ipotesi di un regolamento di conti. Diversi testimoni avevano visto un passeggero della 4x4 brandire una pistola, lo stesso fuoristrada che aveva falciato un uomo di trentaquattro anni su uno scooter. Il motociclista era spirato in ospedale.
«Dobbiamo decifrare il foglio trafugato a casa di Lubrosso», ricordò Thomas, serio in volto. Yael afferrò lo zainetto e lo aprì per verificare le condizioni del prezioso documento. È pazzesco come si possano riporre tante speranze in qualcosa che sembra così insignificante... Era intatto, com'era quando lei lo aveva salvato dalle fiamme. Nel servizio del telegiornale gli uomini politici commentavano la notizia. Il ministro degli Interni prese possesso dello spazio catodico: «Questo tragico episodio è reso ancora più terribile dal fatto che i colpevoli si sono dileguati senza che fosse possibile rilevare le loro targhe. Ciò rilancia il dibattito sull'installazione di telecamere di sorveglianza a Parigi, e sull'urgenza di adottare senza indugi queste nuove misure. Mi indigna constatare, una volta di più, che sia necessaria la morte di una persona innocente per zittire le voci contrarie alla sicurezza e per consentirci di votare le leggi che offriranno ai nostri concittadini la protezione e la tranquillità a cui legittimamente aspirano». Kamel tolse il volume con il telecomando. «È questo che indigna me, invece!» proclamò, frenando la collera fredda che montava in lui. «Ogni giorno bisogna decrittare l'informazione, leggere la verità dietro le manipolazioni!» Prese Yael a testimone: «Guarda quel politico, ti dice che è una tragedia terribile, fa bella figura, ma sai cosa sta facendo in realtà? Si serve del primo pretesto disponibile per far passare il suo progetto di videosorveglianza. Ed è così tutte le settimane! Un'ipocrisia demagogica che da tempo ha superato i limiti dell'etica, e tutti se ne fregano!» «Thomas mi ha detto che sei... una specie di esperto dell'informazione, è così?» «Non esattamente. Sono piuttosto un difensore della verità, mi batto per una visione lucida della nostra realtà. Perché la gente abbia accesso alle informazioni, e non alla loro interpretazione.» «E non è già così?» Kamel fece un sorrisetto ironico. «Se fosse così, scoppierebbe una rivoluzione.» Yael rimase visibilmente sorpresa. «Eh, già», insistette Kamel. «Non sono le notizie che filtrano, oggi, ma delle manipolazioni. Non è la stessa cosa.»
«Quindi tu... indaghi sui retroscena della nostra storia moderna, giusto?» «Infatti.» «Sai come funzionano la CIA e tutta quella roba lì.» «È l'abbiccì del mestiere. I misteri della storia. Le bugie, grosse e piccole. Da JFK al chip nelle nostre carte d'identità.» «Tu sai chi ha ucciso JFK?» scherzò Yael. Kamel rispose serio: «Naturalmente». La giovane inarcò le sopracciglia. «E chi, allora?» Kamel si alzò. «Sarà il nostro argomento di conversazione a cena. Nel frattempo, sbaglio o abbiamo del lavoro che ci aspetta?» Thomas assentì. «Dobbiamo far parlare le ceneri.» 36 L'estetista spalancò i grandi occhi truccati. «Scusi?» Thomas ripeté: «Vorrei affittare la cabina UVA per una mezz'ora, per noi tre». Posò trenta euro davanti a sé e precisò: «Giusto per un piccolo esperimento, stia tranquilla». «Non è che me la rovinate o la sporcate?» «La lasceremo come l'abbiamo trovata.» La donna prese i soldi e disse: «E vi serviranno tre paia di occhiali, immagino». «Sì, per favore.» Li accompagnò in fondo a un corridoio, i tacchi che battevano sulle piastrelle del pavimento. «Ecco, è qui. Accendo la macchina?» «Sì, per venti minuti, dovrebbe bastare», rispose Thomas. «Ah, e... per caso avete delle salviette? Sa, quelle salviettine idratanti...» Lei lo guardò come se venisse da un altro mondo prima di andarsene senza dire una parola. «Be', non importa.» Kamel stava chiudendo la porta quando la mano dell'estetista gli allungò una scatola di salviette.
I tre si posizionarono intorno al cilindro, che occupava i due terzi del locale, costretti a inginocchiarsi per essere al livello del lettino. La ventilazione entrò in funzione e l'apparecchio si mise a ronzare. I tubi viola si illuminarono. Thomas prese le salviette ed esaminò l'etichetta in cerca della loro composizione. «Bene. Yael, passami il foglio, per favore.» Lei gli porse la sottile pagina annerita e increspata. «Fai piano, è molto fragile.» Thomas estrasse una salvietta, la spiegò e vi depose il documento, con il lato scritto verso l'alto. «Che cosa fai?» s'informò Yael. «I prodotti idratanti spesso contengono della glicerina. Questa penetra nella carta, le conferisce maggiore coesione, e soprattutto la ammorbidisce, evitando che si rompa. Potremo maneggiarla più facilmente.» «Hai fatto degli studi di chimica?» domandò Kamel, stupito. «No, ho passato sei mesi con un agente della scientifica. Credo di conoscere tutti i suoi trucchetti, ormai.» I neon brillavano alla massima potenza, e il terzetto dovette inforcare gli occhiali per non rovinarsi la vista. Thomas alzò un po' la voce per farsi sentire sopra il rumore della macchina. «E siccome non disponiamo del materiale, improvvisiamo una lettura agli ultravioletti con i mezzi di bordo.» Aprì completamente il cilindro per farvi scivolare sopra il rettangolo nero. «Gli ultravioletti dovrebbero far risaltare l'inchiostro, che rispetto alla carta riflette lunghezze d'onda diverse. Insomma... se ricordo bene la lezione.» Thomas abbassò un po' la parte superiore per avvicinare i neon e cominciò a ruotare lentamente il foglio, tentando di scorgervi la scrittura. Apparvero delle linee e dei tratti arrotondati, appena percettibili, più chiari dello sfondo. «Credo... Credo che si possa leggere qualcosa!» esclamò Yael con entusiasmo. Non riuscendo a distinguere la grafia con precisione, si levò gli occhiali e strizzò gli occhi per leggere malgrado la luminosità accecante che irradiava il lettino.
«'Quando lei... sarà pronta, in fase attiva, metterla sulla pista con questo messaggio: La storia dell'umanità è... la somma dei riflessi delle... nostre storie umane.'» Alcune lettere erano illeggibili nonostante il procedimento utilizzato, e Yael doveva dedurle dal resto della parola. Riuscì a ricostruire il seguito: «'Noi le raccogliamo. Noi le sistemiamo. Chi controlla gli uomini e le vittorie controlla la storia. La sua, Yael, è custodita in una gola, sotto il ponte del Diavolo. Nella più grande tra le marmitte dei giganti, dove ribolle ancora e ancora, nell'attesa che le sia rivelata. Cominci a trovare la verità sotto la superficie, là dove l'inferno sale verso i cieli'». 37 Erano tornati da Kamel, e dominavano il loft dall'alto del primo soppalco: l'ufficio dove erano in funzione tre computer con lo schermo piatto. Un'intera parete era occupata da un immenso tabellone sul quale erano fissati con delle puntine ritagli di giornale, statistiche, foto di personalità e fotocopie di dispacci dell'Agenzia France-Presse. Kamel aveva spiegato che la sua attività principale consisteva nell'aggiornare un sito Internet che aveva creato lui stesso e in cui denunciava tutte le menzogne politiche e geostrategiche, essenzialmente mettendo on line gli articoli di giornale relativi ai fatti che lui commentava e decifrava. «Ho anche un blog, un diario on line, più personale, sul quale posso andare oltre la semplice analisi per dare la mia impressione. Questi due siti rappresentano un lavoro pazzesco, da sei a dieci ore al giorno! Alcuni pensano che essendo il figlio di un agiato ambasciatore io viva tranquillo e beato. Mi piacerebbe che si prendessero la briga di navigare sul mio sito.» Yael andava avanti e indietro sulla moquette, facendo la spola tra il divano e la scrivania, per contenere l'agitazione suscitata dal messaggio di cui era destinataria. Perché le Ombre, o chi si celava dietro di loro, le parlavano della sua storia nascosta? Lei non aveva nulla da nascondere, nessun segreto, non aveva mai fatto niente di particolarmente bizzarro. Era possibile che le Ombre avessero sbagliato persona? Ne dubitava. Era proprio lei che avevano cercato di uccidere. Senza alcun motivo apparente. «Non ci capisco niente», disse. «Non ha alcun senso. Perché le Ombre cercherebbero di parlarmi, di guidarmi verso una certa conoscenza, mentre dall'altra parte si tenta di farmi fuori? Ci sono due fazioni, è così?» Kamel alzò le spalle.
«Naturalmente! Da quello che mi hai detto, è tutto concatenato. Ci sono quelli che vogliono aprirti gli occhi per una ragione che ignoriamo, e quelli che desiderano la tua morte. Ma come farebbero questi a sapere ciò che succede e quello che fai se non facessero tutti parte di una stessa famiglia? Penso che le tue ombre e gli assassini appartengano a due fazioni antagoniste di una medesima organizzazione. I secondi semplicemente non condividono il punto di vista dei primi e cercano di eliminarti per regolare questa divergenza. Mi sembra logico.» «Ma chi sono?» supplicò Yael. «Chi?» «È scritto nel documento che ci hai letto poco fa: quelli che controllano gli uomini, le vittorie e le nostre storie. Sono persone potenti. In grado di plasmare il mondo. Lincoln e Kennedy. Capaci di manipolare al punto da riempire il biglietto da un dollaro di simboli occulti. All'inizio le Ombre ti mettevano sulle tracce di tutte queste 'coincidenze', ma adesso che sei entrata nel loro mondo di iniziati, ti confessano che ne sono loro i responsabili.» «Sono ipolitici?» Kamel fece uno di quei sorrisi che si riservano ai bambini. «No, certo che no. Quelli sono solo delle marionette.» «E allora chi?» Thomas assisteva alla discussione con curiosità, spostando lo sguardo dall'uno all'altra. «Innanzi tutto», riprese Kamel, «occorre scoprire cosa vogliono da te. Perché tu? E cos'è questa storia del... ponte del Diavolo? È la tua pista che bisogna seguire, Yael.» Lei si piazzò davanti a uno dei computer e trascrisse il testo che ormai conosceva a memoria: «'Quando lei sarà pronta, in fase attiva, metterla sulla pista con questo messaggio: La storia dell'umanità è la somma dei riflessi delle nostre storie umane. Noi le raccogliamo. Noi le sistemiamo. Chi controlla gli uomini e le vittorie controlla la storia. La sua, Yael, è custodita in una gola, sotto il ponte del Diavolo. Nella più grande tra le marmitte dei giganti, dove ribolle ancora e ancora, nell'attesa che le sia rivelata. Cominci a trovare la verità sotto la superficie, là dove l'inferno sale verso i cieli»'. «Non sanno che abbiamo questo messaggio», intervenne Thomas. «Dobbiamo giocare su questo, sull'effetto sorpresa.» «Tu ci capisci qualcosa?» ribatté Kamel. «Sembra una specie di caccia al tesoro», osservò Yael.
«Già, ma con le indicazioni un po' vaghe», replicò Kamel. «Al contrario. Guarda: 'Nella più grande tra le marmitte dei giganti'». Una marmitta dei giganti è una cavità creata nella pietra dai mulinelli di un torrente, per via dei ciottoli che girano senza sosta erodendo la roccia. Basta solo trovare un torrente al fondo di una gola sovrastato da un ponte chiamato ponte del Diavolo.» Thomas e Kamel si scambiarono un'occhiata, sconcertati dalla sua abilità nella decifrazione. «Okay», fece il loro ospite. «E che mi dici di 'là dove l'inferno sale verso i cieli'?» «Non lo so. È l'aspetto metaforico che mi incuriosisce. È come se volessero farci credere che dispongono delle vite di tutti, 'Noi le raccogliamo. Noi le sistemiamo', come in un armadio infinito. Trovare questa marmitta dei giganti sarebbe quindi come trovare il mio dossier? Dove sarebbe scritta tutta la mia vita? Non mi sembra chissà cosa!» «A meno che non lo consideri un punto di partenza verso la rivelazione di quella che è veramente la tua vita», fece notare Thomas. Lei si voltò verso di lui: «Se cominciassimo da quello che abbiamo? Kamel, posso usare Internet?» «Preferirei di no.» Un po' sconcertata, Yael lasciò il suo posto davanti al computer. «D'accordo...» mormorò. «È solo che non vorrei che si potesse scoprire a distanza che non sono io a battere sulla tastiera», spiegò lui. Yael non capiva. «E come?» «Diciamo che... visto il carattere... sensibile delle informazioni che tratto sui miei siti, penso che l'NSA, l'agenzia per la sicurezza nazionale americana, mi tenga d'occhio. Hanno dei programmi di analisi della battitura e...» «Ah, sì!» lo interruppe Yael. «Thomas me ne ha parlato.» «Tutti i segnali analizzabili che escono dalla mia tastiera sono stati registrati nel loro database. Se sei tu a digitare, se ne accorgeranno, e preferisco evitare di informarli della vostra presenza. Se per caso sei inserita anche tu nel loro archivio, avranno la tua identità quando il programma confronterà la tua 'firma' con quelle che ha in memoria. Inoltre, se Thomas ritiene che i servizi francesi siano implicati in questa faccenda, non vale la
pena rischiare. Gli organismi di intelligence dei vari Paesi si scambiano spesso dei favori tra loro.» «Capisco, è meglio evitare. Peccato, avremmo risparmiato un sacco di tempo. Il web è la più portentosa biblioteca del mondo.» «E anche la più facile da sorvegliare», borbottò Kamel. «Davvero?» si stupì Thomas. «Credevo che Internet al contrario fosse incontrollabile perché libero a tutti, con centinaia di milioni di porte d'accesso.» «Soltanto in apparenza. Ma se disponi del materiale dell'NSA, puoi sorvegliare tutto ciò che succede utilizzando dei programmi di analisi, delle sonde intelligenti che verificano milioni di pagine ogni ora e stendono un rapporto. Ufficialmente ti diranno che non hanno questa capacità, solo che questi buontemponi già vent'anni fa avevano dei computer che spiavano le conversazioni telefoniche del mondo intero e le analizzavano per parolechiave. Immagina quindi cosa sono in grado di fare oggi. Non dico che sia facile manipolare l'informazione sulla rete, ma la si può tenere d'occhio per reagire rapidamente quando è fastidiosa.» «Dimenticavo con chi avevo a che fare», ironizzò il giornalista. «In questo caso, muoviamoci subito: le ricerche in biblioteca richiederanno del tempo.» «Troppo tempo!» replicò Kamel. «Dobbiamo utilizzare la rete. Me ne occupo io, va bene? Passo a prendere una mia amica fidata e la porto in un Internet café perché scriva sulla tastiera al posto mio, questo per evitare che un programma pirata individui la mia 'firma' e la identifichi.» «E se anche la tua amica fosse 'schedata'?» insistette Thomas, cercando di provocare garbatamente l'amico, la cui paranoia reputava eccessiva. «Sono sicuro di lei al cento per cento. Non è di quelle che si fanno notare. Cibo biologico, difesa degli animali, rilassamento quotidiano con gli oli essenziali... hai presente il tipo?» «Sì, me l'immagino.» «Noi ci rivediamo per cena. Intanto, fate come se foste a casa vostra.» Yael sapeva di non poter toccare un telefono, né usare un computer collegato a Internet, e che doveva evitare di uscire, se possibile. In quella situazione c'era un aspetto sabbatico imposto che non apprezzava affatto. La meditazione spirituale non era mai stata il suo passatempo preferito. Era frustrata dalla mancanza di libertà. Le ore passavano e lei non faceva niente. Thomas guardava di tanto in tanto il canale LCI per seguire quello
che si diceva della loro corsa a inseguimento. «Credi che ci sia una spiegazione razionale alle Ombre che ho visto negli specchi?» domandò a un tratto la giovane. Thomas si raddrizzò sul canapè. «Lo spero bene...» Yael fu delusa di non leggere una maggiore sicurezza nel suo sguardo. Dubitava forse che ci fosse una soluzione logica a quello che stavano passando? «Pensi che Kamel riuscirà a localizzare un posto preciso con quelle informazioni?» «Non lo so, Yael. Finora, tutti i messaggi che le Ombre ti hanno comunicato erano facili da decifrare. Il loro scopo non è la complessità, ma solo indurti a riflettere.» «Perché giocano in questo modo? Non sarebbe più semplice dirmi le cose?» «Credo che faccia parte del loro ragionamento. Fare in modo che tu ti ponga delle domande.» «Che non smetta mai di interrogarmi?» Esitò. «Questo quadrerebbe con le informazioni che mi forniscono. Devo rimettere tutto in questione. Non credere a niente. Non dare nulla per scontato. Cercare la verità dietro ogni cosa... è questo che mi invitano a fare.» Incapace di stare seduta, continuò a deambulare nel salotto. «Non appena avremo un'idea del luogo di cui parlano, voglio andarci, Thomas. Voglio sapere perché tirano in ballo la mia storia personale. Che cosa intendono per 'nell'attesa che le sia rivelata'?» Il giornalista annuì. Erano alla vigilia di un lungo viaggio. Di un periplo storico. Verso la verità. Blog di Kamel Nasir. Estratto 6 È difficile decifrare gli atti del governo Bush senza soffermarci un istante sulla guerra in Iraq. Appena prima di passare all'offensiva, Bush e la sua amministrazione moltiplicano le false dichiarazioni, asserendo che Saddam Hussein si è procurato dell'uranio per realizzare delle armi nucleari, mentre Joseph Wilson, l'esperto inviato in Africa per accertare se fosse avvenuta una vendita illegale di uranio, al suo ritorno ha affermato che è impossibile.
Le famose armi di distruzione di massa (ADM). Che sfacciataggine! Già, perché è risaputo che gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per mettere Saddam Hussein al potere in Iraq, arrivando al punto di sostenerlo nel conflitto contro l'Iran. Chi, negli anni Ottanta, si reca sul posto per allacciare buoni rapporti con il dittatore? Donald Rumsfeld. Tra i tanti. Il tutto sotto la vicepresidenza di un certo George Bush senior... Per ragioni di interesse, il governo americano appoggia il rais, chiude gli occhi sui genocidi che perpetua ai danni del suo popolo, ma non basta: gli Usa forniscono ceppi di antrace sotto il controllo di Bush senior. È un'inchiesta del Senato del 1992 a scoprire che, tra il 1985 e il 1989, sono state effettuate sessanta consegne di colture batteriologiche ai laboratori militari iracheni da parte degli Stati Uniti. Ma grazie a un generale colpo di spugna, se ne sente parlare poco. Naturalmente, all'epoca della prima guerra del Golfo (i cui costi, per inciso, se li accollano i sauditi, che versano agli Usa 17 miliardi di dollari, oltre a fornire il carburante necessario all'operazione militare) ci si assicura che l'Iraq non abbia più niente di tutto ciò prima di lasciare il Paese sconfitto... D'altronde, è curioso apprendere che in seguito al conflitto, la CIA ha proposto di eliminare Saddam Hussein, ma George Bush senior si è opposto. Sempre a proposito del dittatore iracheno, al momento del suo processo, nell'ottobre 2005, qualcuno si è forse indignato per il fatto che sia stato trasmesso in differita di venti minuti, per consentire alla censura americana di intervenire? Le persone intorno a me lo trovano divertente, sorridono alzando le spalle con aria fatalista. Dovrebbero urlare! Nessuno si infuria sentendo che la nazione più potente del mondo, presunta portabandiera della libertà, censura la televisione! È la banalizzazione di queste pratiche a renderle insignificanti agli occhi di tutti? Ciò è grave. Molto grave. E poi perché gli Stati Uniti hanno bisogno di censurare le dichiarazioni di Saddam Hussein? Paura che sveli i suoi legami con i Paesi occidentali, Usa compresi? O peggio? Ci vuole una discreta faccia tosta, qualche anno dopo, per venire a gridare allo scandalo perché l'Iraq sarebbe in possesso di pseudo-ADM. Adesso sappiamo che si trattava di una menzogna bella e buona. Un pretesto come un altro per andare a impadronirsi delle ricchezze del Paese. E alimentare ancor più la tensione politica con il mondo arabo, ma
tornerò su questo punto un po' più avanti. A ogni modo, scoppia la guerra. E chi ne approfitta? Tutte le imprese per cui hanno lavorato i membri del governo: Halliburton, Boeing... e Carlyle, manco a dirlo. Segnatamente tramite la sua società United Defense Industries, che fabbrica armi. Il gruppo Carlyle mette allora in vendita delle azioni dell'UDI e realizza 225 milioni di dollari di utili in un solo giorno. Insomma, la storia potrebbe andare avanti così per parecchie pagine. L'esempio è significativo perché illustra alla perfezione il principio potere = demagogia. Questa volta, il governo eccede con le bugie, soltanto per soddisfare gli interessi del suo portafoglio personale e di quello dei suoi partner economici. Poco importa il costo in termini di vite umane. Poco importano le tensioni politiche, anzi! Finiranno per avvantaggiare l'industria militare, principale alleato dell'amministrazione Bush... Che ne è in definitiva dell'11 settembre, punto di partenza di tutto questo? In un primo tempo, George W. Bush tenta con ogni mezzo di impedire al Congresso di aprire una propria inchiesta sugli attentati. Cerca persino di vietare la creazione di una commissione indipendente, benché ce ne siano sempre state, per esempio dopo Pearl Harbor o l'assassinio di Kennedy. Alla fine, l'inchiesta viene aperta, Bush non ha più scelta. Dopo un mese di trattative, George W. Bush e Dick Cheney accettano di incontrare i membri della commissione, ma solo a certe condizioni: - verranno interrogati insieme e non separatamente, - non presteranno giuramento, - e il colloquio non sarà né filmato, né registrato, né reso pubblico. L'inchiesta va avanti con altre audizioni per diverse settimane. Quando il Congresso consegna il suo rapporto, la Casa Bianca ne ha censurato in via preliminare ventotto pagine, di cui non si conoscerà mai il contenuto. Deluse dalla mancanza di progressi, le famiglie delle vittime decidono di sporgere querela contro l'Arabia Saudita, poiché risulta chiaro che la famiglia reale ha finanziato più o meno direttamente al Qaeda. I sauditi, per difendersi, assumono... lo studio legale della famiglia Bush. Alla lunga, i legami tra gli uni e gli altri finiscono per essere così evidenti che è stupido negarli. Insomma, pretesti, menzogne, manipolazioni davanti al mondo intero (c'è bisogno di ricordare Colin Powell e la sua fallace esposizione all'ONU?) al servizio di interessi personali.
E se queste bugie si spingessero ancora più lontano? Più mi documento, più raccolgo fatti e testimonianze, più mi interrogo. Bush e i suoi sapevano dell'11 settembre. Molto prima che gli apparecchi si schiantassero. Sapevano che dei terribili attentati avrebbero colpito il loro Paese. Forse anche il World Trade Center di New York. Con degli aerei di linea dirottati. Lo sapevano. 38 Kamel tornò verso le otto di sera. Portava con sé un sacchetto di plastica che rovesciò sul lungo tavolo da pranzo. Yael e Thomas corsero a vedere. Dopo l'attesa, si erano assopiti, sfiniti dagli avvenimenti. Kamel distese una cartina della regione di Ginevra. Il lago omonimo, detto anche Lemano, disegnava una mezzaluna nel cuore di quelle terre montuose. «Che ne dite di questo?» annunciò, posando il pollice su un nome a sud di Thonon-les-Bains. Yael lesse «Gole del ponte del Diavolo». «È l'unico luogo che si chiama così?» domandò. Kamel arricciò il naso. «Cioè... esistono molti ponti del Diavolo in Francia. Ma sono le uniche gole che ho trovato.» «Allora è quello il posto.» Lui alzò un dito per indicarle di avere pazienza. «La conferma è qui, giusto a fianco.» Mostrò un picco che sovrastava la zona, il Roc d'Enfer, la «roccia dell'inferno». «2.224 metri di altezza. 'Là dove l'inferno sale verso i cieli'!» Senza lasciar loro il tempo di complimentarsi, rovistò tra i fogli di appunti che aveva preso durante le sue ricerche e trovò, sotto una guida turistica della regione del Chablais, la busta della SNCF, le ferrovie francesi, che cercava. «Due biglietti di andata e ritorno per Thonon. Pagati in contanti, beninteso. C'è un treno che parte domattina alle otto e quaranta dalla gare de Lyon. Andrete senza di me, non posso lasciare il sito senza aggiornamenti, devo già recuperare il tempo perso oggi. Qui c'è una carta di credito per
noleggiare una macchina. È a mio nome, ma non dovrebbero esserci problemi. Non sarà possibile risalire fino a voi.» Thomas voleva rimborsargli subito il denaro speso, ma l'amico protestò vivamente. Frugò nella tasca e ne estrasse un cercapersone. «Sono passato da un amico e gliel'ho chiesto in prestito, perciò ho tardato. È un numero sicuro sul quale potete raggiungermi. Basterà che mi inviate il numero della cabina da cui state chiamando, e io a mia volta vi contatterò da una cabina. Ecco il numero.» Porse a Yael un pezzo di carta scribacchiato. «Kamel... hai fatto...» «Sì, lo so. I ringraziamenti a dopo. Tutto ciò che vi chiedo adesso è di tenermi al corrente. Voglio seguire le vostre scoperte e i vostri movimenti nel caso non riuscissimo più a comunicare. Quindi si lanciò in una dettagliata ed entusiasta spiegazione sul modo in cui aveva condotto le ricerche e su come avesse proseguito le indagini anche dopo aver identificato le gole. Yael non sapeva che dire, riconoscente e preoccupata al tempo stesso. Kamel manifestava una tale gioia per essere coinvolto in quella storia da non tenere in alcun conto i pericoli che comportava. Yael era tornata sull'argomento con Thomas nel pomeriggio, e il giornalista aveva aggiunto che il suo status di figlio di ambasciatore offriva a Kamel una certa protezione che doveva rassicurarli. Tanto più che i servizi segreti ci pensavano due volte prima di toccare la famiglia di un diplomatico, salvo in casi eccezionali. Alla luce di quello che stava passando, però, Yael si considerava un caso eccezionale. «Immagino che il messaggio delle Ombre acquisterà pienamente senso solo sul posto», intervenne Thomas. «'Cominci a trovare la verità sotto la superficie, là dove l'inferno sale verso i cieli.' Non mi dice proprio niente.» «Quando sali su una duna, non sprecare energie a descrivere quel che c'è dall'altra parte, aspetta di essere giunto in cima per scoprirlo», declamò Kamel sotto lo sguardo angustiato di Yael. Thomas scosse il capo. «È un proverbio arabo?» «Poiché l'ho inventato io, è un proverbio multiculturale.» Sorrise. «A ogni modo, ogni cosa a suo tempo.» Si sedettero a tavola, dove li attendeva un'insalata mista e dei dolci orientali che Kamel andava ad acquistare all'altro capo di Parigi per la loro bontà.
«Allora, Yael», iniziò il giovane dalla figura felina, «sei ancora interessata alla morte di Kennedy?» Lei inghiottì un boccone di pomodori prima di rispondere: «Chi non lo sarebbe? Ma si può concretamente sapere chi l'ha ucciso separando la realtà dai miti?» «Non vedo l'ombra di un mito negli elementi di cui dispongo. Sapete, l'assassino di JFK non ha nulla di straordinario, potrei persino dire che chiunque può conoscerlo, è questione di buonsenso, logica e ricerche accurate.» «Allora chi è stato?» implorò Yael, divertita. Kamel si servì dei gamberetti. «Quando Kennedy viene eletto, Eisenhower, il precedente presidente, nonché ex generale, fa una raccomandazione al giovane John Fitzgerald.» Kamel si alzò da tavola e salì a prendere un libro di storia. Al suo ritorno, posò il volume davanti a Yael, aperto su una foto del presidente Eisenhower. A lato c'era una citazione del suo discorso d'addio, il 17 gennaio 1961, che la giovane lesse ad alta voce: «Nei consigli di governo, dobbiamo guardarci le spalle dall'acquisizione di influenze illegittime, sia palesi che occulte, esercitate dall'apparato militare-industriale. Il rischio di un disastroso sviluppo di un potere usurpato esiste ora e persisterà in futuro. Non dovremo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri minacci le nostre libertà o i processi democratici. Non dobbiamo dare nulla per scontato. Soltanto la vigilanza e la coscienza civica possono garantire l'equilibrio tra l'influenza della gigantesca macchina industriale e militare di difesa e i nostri metodi e obiettivi pacifici, di modo che sicurezza e libertà possano crescere di pari passo». «Ecco», fece Kamel. «È tutto detto.» «L'apparato militare-industriale avrebbe ucciso Kennedy?» domandò sorpreso Thomas. «Non è una teoria nuova quella che proponi.» «Non è una teoria, ma la realtà. State a sentire: nel 1953, un certo Allen Dulles diventa direttore della CIA. Sarà per la CIA quello che è stato John Edgar Hoover per l'FBI. Un direttore dotato di pieni poteri, intransigente, che utilizza la sua agenzia per scopi in cui il confine tra l'interesse personale e quello della nazione non sempre è netto. Questo Dulles ha una storia movimentata. Durante la seconda guerra mondiale fa parte dell'OSS - l'antenato della CIA - e organizza incontri con alti esponenti del Reich per negoziare con la Germania dei passaggi all'Ovest, e se possibile preparare
degli accordi di pace per cogliere alla sprovvista i russi. All'epoca, organizza anche degli incontri in Svizzera con dei francesi, tra cui un certo François Mitterrand, e André Bettencourt, dell'impero L'Oréal, un'impresa che in quel momento tende verso l'estrema destra... Per farla breve, quando diviene il capo della più oscura e potente tra le agenzie di intelligence, ha già una consolidata esperienza internazionale, una gran dimestichezza con le operazioni segrete e un'agenda degli indirizzi bella piena.» Kamel si sgranocchiò un gamberetto prima di riprendere: «Mentre dirige la CIA con pugno di ferro, Allen Dulles riesce a far rimuovere diversi uomini politici, tra cui il primo ministro dell'Iran, nel 1953, e il presidente del Guatemala, nel 1954, entrambi democraticamente eletti. E sapete una cosa? È la compagnia United Fruit a premere sul governo statunitense affinché la CIA rovesci con un golpe Jacobo Arbenz Guzman, reo di aver imposto una piccola tassa sulle merci sfruttate dall'impresa americana in Guatemala. Un Paese decide legittimamente di guadagnare un po' di soldi sulle sue risorse commercializzate da una società estera, e la CIA pensa bene di immischiarsi. Roba da non credere! È un'epoca dalla mentalità ancora coloniale... Se vi dico che Allen Dulles sedeva nel consiglio di amministrazione della United Fruit, allora vi sarà chiara tutta la manovra... Gli Stati Uniti hanno deciso che contava solo la "sicurezza nazionale"... e che i loro interessi prevalevano sulla democrazia degli altri Paesi». «E questo è provato?» «Tutti i fatti che enuncio sono provati. Tutti. Ma torniamo ad Allen Dulles: oltre a servirsi della CIA per curare i propri interessi economici e quelli dei suoi soci, è lui che promuove l'operazione Mockingbird, il cui obiettivo è nientemeno che infiltrare e influenzare i mezzi d'informazione. Vi rendete conto? Il capo della CIA che fomenta delle strategie per controllare i media! Non so cosa ne pensiate voi, ma per me è una tecnica fascista! Dulles fa parte di quegli uomini la cui visione del potere è... come dire?... appannaggio di un pugno di individui! E tutti i metodi sono buoni affinché s'incarni la loro visione. Nel 1961, in seguito al fallimento dell'invasione della baia dei Porci a Cuba, in cui Kennedy rifiuta di mandare truppe americane, Dulles partecipa assieme a dei generali delle forze armate all'elaborazione dell'operazione Northwoods, un piano al tempo stesso semplice e machiavellico: orchestrare degli attentati ai danni dell'esercito e della nazione per poi accusarne i cubani, creando prove false grazie a macchinosi stratagemmi. Lo scopo è di aizzare l'opinione pubblica contro Cuba per le-
gittimare un'invasione militare.» «Che cosa?» s'indignò Yael. «Aspetta un attimo, il capo della CIA e alcuni generali dell'esercito americano avevano programmato degli attentati contro obiettivi civili e militari del loro Paese per scatenare una guerra?» «Incredibile, vero? Sembra fantascienza, invece è 'solo' la nostra storia! Kennedy viene a sapere dell'esistenza di questo piano e rimuove Dulles dalla sua carica alla CIA, benché ufficialmente adduca un pretesto più accettabile. È solamente nel 1992 che l'operazione Northwoods viene resa pubblica, quasi per caso, quando Bill Clinton, volendo fare luce sull'assassinio di Kennedy, decide di declassificare un buon numero di documenti dell'epoca. Tutte le persone implicate nell'operazione Northwoods ovviamente si sono premurate di distruggere le prove, salvo Robert McNamara, all'epoca segretario alla Difesa, che si era opposto al progetto e aveva giudiziosamente conservato una copia del rapporto che spiegava in dettaglio l'intera operazione.» Thomas spinse via il piatto vuoto: «Qual è il nesso con la morte di Kennedy?» «Il nesso è semplice. Da un lato abbiamo Kennedy che si oppone accanitamente alla soluzione militare dei conflitti come Cuba e il Vietnam - che già incombe -, dall'altro dei personaggi influenti che dirigono gli organismi militari di intelligence, l'esercito e la CIA. Questi individui hanno stretti rapporti con i consorzi industriali, militari, agroalimentari e via dicendo. E caldeggiano una soluzione militare che risponde alla loro visione di ciò che devono essere gli Stati Uniti e soprattutto all'interesse dei gruppi ai quali sono legati.» Kamel decise di insistere su un punto particolare: «Bisogna ricordare che Kennedy era un caso a parte, un presidente eletto con uno scarto minimo di voti, dunque illegittimo, secondo alcuni, e la cui politica era essenzialmente guidata dalla sua volontà di apparire in un certo modo; era un uomo di carattere, testardo, poco incline a fare concessioni influenzato in questo dal fratello Robert -, a cedere alle minacce. E se ha sempre ricercato una soluzione pacifica e trasformato la società americana, non è stato per altruismo o per degli ideali filantropici, ma perché sentiva che quello era il vento che spirava all'epoca. Non era un angelo, tutt'altro! Kennedy in realtà non era particolarmente interessato alla questione dei diritti civili, ma era un tale demagogo da occuparsene, e avrebbe marcato sempre più questo aspetto se ne avesse avuto il tempo. E osteggiava gli uomini che dirigevano l'apparato occulto della nazione, uomini sostenuti
da imprese con interessi economici enormi. Pensate che questi imperi finanziari avrebbero rinunciato a miliardi di dollari di profitti a causa della politica 'dalla bocca larga' di un solo uomo? Avrebbero sacrificato dei benefici astronomici pur disponendo di carte strategiche importanti, cioè di uomini nei posti chiave dell'intelligence e dell'esercito?» Kamel scosse la testa con disincanto. «Non hanno indugiato a lungo. John Fitzgerald Kennedy è morto in un giorno di novembre del 1963 perché si rifiutava di entrare in una politica bellicosa al soldo dei complessi industriali del Paese, che pure avevano già minato il terreno piazzando i loro uomini. È inoltre curioso notare come Ngô Dinh Diêm, presidente della Repubblica del Vietnam, sia stato a sua volta ucciso nel novembre del '63, lui che si opponeva all'intervento militare americano nel suo Paese. Si potrebbe stupidamente dire che a volte 'la sorte accomoda tutto'. Poco fa vi ho fatto un rapido ritratto di Allen Dulles, ma avrei potuto fare altrettanto per alcuni generali dell'epoca.» Yael cercò di riassumere. «Insomma, JFK è stato assassinato da una congrega di magnati dell'industria, di presidenti di imprese molto potenti, e alcuni personaggi a capo di amministrazioni militari e servizi di intelligence? Se è così 'semplice', perché nessuno l'ha mai scritto?» Kamel se ne uscì in una risata cinica. «Primo, perché ci vogliono anni, se non decenni, per mettere insieme i diversi pezzi del puzzle. Secondo, è già stato scritto, ma nessuno ha voglia di credere che vive grazie a una mela marcia e ci sta seduto sopra: è l'intero sistema a essere corrotto. Non dimentichiamoci che all'epoca dominava ancora una mentalità da cow-boy, la sottigliezza diplomatica non era assurta a modello, e i problemi più gravi, almeno ai loro occhi, si risolvevano con metodi radicali. Basti come prova il fatto che tutti gli uomini che hanno conquistato potere e consenso negli anni Sessanta, e che cercavano di trasformare la società, i suoi costumi e le sue 'caste', sono stati... assassinati. E tutti in circostanze misteriose. JFK nel '63, Malcolm X nel '65, Martin Luther King nel '68... La lista potrebbe allungarsi con nomi come Che Guevara nel '67 o Robert Kennedy nel '68. Questi omicidi testimoniano di un accanimento nell'eliminare con ogni mezzo i personaggi che esercitavano troppa influenza nell'evoluzione sociale della nazione e che, di conseguenza, potevano rimettere in discussione l'ordine e il gioco dei poteri del Paese.» Martellò il tavolo con il pugno.
«La politica e il potere in generale», proseguì, «non sono altro che una grande scacchiera, l'arte sta nel posizionare i pezzi. Dopo la morte di JFK, viene nominata una commissione, la commissione Warren, per indagare sulle cause dell'assassinio. C'erano troppi elementi strani. Uno dei membri più autorevoli della commissione altri non è che... Allen Dulles. Comodo per influenzare l'indagine e scegliere quello che dev'essere detto.» «E Lee Harvey Oswald, l'uomo che ufficialmente avrebbe sparato a Kennedy, che ruolo aveva?» chiese Yael. «Di capro espiatorio. Era uno dei pedoni sulla scacchiera, uno dei più esposti, sacrificabile a piacimento. Come Jack Ruby, che lo ha ucciso. Come gli assassini di Malcolm X, Robert Kennedy e gli altri. Non erano che dei poveri diavoli manipolati da forze potenti, a loro volta manipolate, e così via sino al vertice.» «Cioè il re della scacchiera», completò Thomas. «Non proprio. Più su ancora! Il giocatore. E in una partita, ci sono sempre due avversari. È per questo che dietro tutto quello che ti sta succedendo, Yael, le due fazioni sono dalla stessa parte: quelli che giocano con te e quelli che ti vogliono morta sono strettamente uniti. Come i due giocatori che si spartiscono il potere e si misurano con un sorriso cinico sulle labbra! C'è sempre uno scontro, sempre due visioni di una stessa cosa.» Quest'ultima frase fece rabbrividire Yael. Era ciò che le avevano scritto le Ombre. Sempre cercare l'altra faccia dell'apparenza. Poteva darsi che Kamel avesse ragione quando si lanciava nelle sue grandi teorie? Yael incrociò lo sguardo di Thomas, che sembrava condividere i suoi dubbi e interrogativi. Decise di non insistere. Ma Kamel era già ripartito con la sua diatriba: «Ci sono sempre stati degli uomini influenti che agivano nell'ombra e assumevano il controllo della storia: sotto Kennedy si trattava ancora di forze spinte al potere dalle conseguenze della seconda guerra mondiale, sotto Nixon è stata la guerra del Vietnam a permettere tante violazioni delle libertà individuali, e oggi... Penso che la storia si stia ancora scrivendo, e ci vorrà un po' di tempo per parlarne con obiettività». «Parli come se i nostri libri di scuola siano un tessuto di menzogne», replicò Yael. «Non bisogna esagerare, non credi?» «I libri non sono mendaci, riportano delle approssimazioni, dei fatti 'soggettivizzati' dai vincitori. È questo che vogliono dirti le ombre quando scrivono: 'Chi controlla gli uomini e le vittorie controlla la storia'. Prendi l'esempio dell'entrata in guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam: i servizi
segreti di Washington affermarono che due delle loro navi erano state attaccate nel golfo del Tonchino dai nordvietnamiti, cosa che gli equipaggi delle navi in questione smentirono categoricamente in seguito. Era solo un pretesto inventato per entrare in guerra. Un altro elemento: secondo alcuni documenti e testimonianze, il presidente Roosevelt era al corrente dell'imminente attacco a Pearl Harbor - d'altronde è strano notare come tutte le portaerei, unità navali fondamentali dal punto di vista strategico, quel giorno fossero assenti dal porto, e come non vi fosse alcuna rete parasiluri a protezione delle navi nella rada. Si vocifera che Roosevelt non abbia mosso un dito allo scopo di avere finalmente una scusa per trascinare il suo Paese in guerra. Occorre ricordare che Roosevelt si era fatto rieleggere con la promessa di non intervenire nel conflitto! Una volta riconquistata la Casa Bianca, non poteva entrare in guerra a meno di non esservi 'obbligato'. Aveva quindi messo in atto una politica di logoramento nei confronti del Giappone al fine di provocarlo, congelando i crediti nipponici sul territorio americano e decretando l'embargo sul petrolio e l'acciaio. Fino alla distruzione di Pearl Harbor, l'intero Paese era contrario al coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto, a cominciare dal Congresso. In seguito all'attacco, gli americani si impegnarono massicciamente per vendicarsi.» Kamel terminò la sua esposizione con ciò che giudicava più infame: «Infine c'è l'esempio di Hiroshima. La gran maggioranza dei documentari dimentica di dire che al momento di lanciare la bomba atomica sul Giappone, erano in corso delle trattative fra diplomatici nipponici e americani per giungere a un accordo di pace. Fino a quel punto, i bombardamenti americani avevano distrutto - cito a memoria - il 51 per cento di Tokyo, il 58 per cento di Yokohama, il 40 per cento di Nagoya, il 99 per cento di Toyama, il 35 per cento di Osaka e via dicendo. Tra il 50 e il 90 per cento della popolazione delle grandi città giapponesi era stato soppresso. Perché allora sganciare la bomba atomica? La guerra era strategicamente terminata, i negoziati in corso». Kamel picchiò di nuovo il pugno sul tavolo, trascinato dalla collera. «Perché i russi e gli americani erano già in gara per spartirsi l'Europa, e bisognava dimostrare ai sovietici che gli Usa erano una nazione molto più potente e pericolosa. Sganciare un ordigno su Hiroshima il 6 agosto 1945, e un altro ancora più distruttivo su Nagasaki tre giorni più tardi, era per gli Stati Uniti un modo di sventolare il proprio arsenale davanti ai comunisti, e probabilmente un'occasione per effettuare un duplice test a grandezza na-
turale. Questa è la storia reale, non i falsi pretesti di Truman. Voi sapete chi è il generale LeMay?» Davanti al mutismo dei suoi interlocutori, Kamel proseguì: «È il generale che ha ordinato il lancio delle bombe atomiche sul Giappone. Lo stesso che sarà al fianco di Kennedy durante la crisi di Cuba e che insisterà affinché gli Usa attacchino l'isola, con ogni mezzo. LeMay andrà su tutte le furie di fronte all'ostinazione pacifista del presidente. Ma sarà lui a riconoscere che, se il suo Paese avesse perso la seconda guerra mondiale, sarebbe stato giudicato come criminale di guerra per genocidio. Alla fine, è sempre il campo dei vincitori che decide ciò che è morale e ciò che non lo è, che impone il proprio punto di vista e giustifica ogni suo atto, anche il peggiore, con qualche buon pretesto, cerchiamo di non scordarlo. Sono i vincitori a scrivere la storia. Quella che si legge nei nostri libri di scuola, non la vera storia, come si è realmente svolta. La storia ha cessato da lungo tempo di essere la somma delle umanità; oggi appartiene soltanto a un pugno di individui. Spetta a noi saper leggere tra le righe, il che, ahimè, è raro e difficile. Una volta ancora, tentiamo di mettere da parte i capri espiatori e guardiamo oltre, a ciò che si trama negli arcani della storia. «Del resto, Yael, se le Ombre che ti parlano e gli assassini sono realmente collegati al governo, se fossi in te starei attenta a non cadere in una sorta di trappola. A non diventare a mia volta un capro espiatorio». Yael si irrigidì sulla sedia. Essere un capro espiatorio. Era esattamente la sensazione che provava con sempre maggior forza da quando delle persone avevano cominciato a morire attorno a lei. Ma un capro espiatorio di cosa? Per chi? Erano queste le domande a cui doveva dare una risposta. E con una certa urgenza, ne era consapevole. Da qualche parte sotto il ponte del Diavolo, ai piedi del Roc d'Enfer, la attendeva un segreto. E tutte quelle allusioni a Lincoln, al dollaro, a Kennedy o al Titanic non le ispiravano alcuna fiducia. Intuiva che questo segreto non sarebbe stato unicamente personale. Avrebbe riguardato la storia. La storia degli uomini. 39
La folla dei vacanzieri si urtava sulla banchina della gare de Lyon. Due plotoni di adolescenti occupavano per l'intera larghezza il marciapiede, spintonandosi e ridendo rumorosamente, gli zaini posati tra i piedi. Yael e Thomas si aprirono un varco e salirono sul TGV per Ginevra, gli occhi fissi sui biglietti: vettura 05, posti 81 e 82. Yael si sentiva pesante, aveva dormito male nonostante la presenza di Thomas al suo fianco, una notte piena di incubi in quello che lei chiamava il «limbo»: uno stato spossante tra brevi periodi di sonno e veglie apatiche. Alzandosi, si era chiesta per quanto tempo ancora avrebbe retto allo stress. Temeva di poter avere un crollo nervoso. Provava un costante malessere all'idea di dover lasciare un segno nella storia. Quale ruolo poteva giocare? Non si era mai resa conto che ogni suo gesto, parola o pensiero poteva incidere, in modo diretto o per un effetto domino, sulla storia. La storia per lei era qualcosa di impalpabile, a malapena un ricordo collettivo, privo di sostanza. Era l'aria inafferrabile attorno al paracadutista. Yael era sul punto di precipitare. Si stava facendo divorare dalle vertigini della coscienza storica. Thomas sistemò la borsa nel vano portabagagli, e i due si sedettero nel comfort ovattato del vagone. Yael ripensava a Kamel e al suo discorso su Kennedy, che era proseguito fin sulla soglia delle loro camere, dove lui aveva precisato che non bisognava più attendersi grosse rivelazioni. Secondo quanto dichiarato da un ex direttore della CIA, i dossier sul caso Kennedy erano già da tempo stati ripuliti dall'interno, e i documenti ancora da desecretare di lì a qualche anno non sarebbero stati altro che gusci vuoti. I passeggeri presero posto e il treno si avviò dolcemente. Si addentrarono in un uggioso paesaggio urbano intervallato da una serie di buie gallerie, che poi lasciò il posto a una campagna d'oro e smeraldo, punteggiata da boschi e villaggi dai tetti rossi e grigi. Yael osservò gli altri viaggiatori: alcuni leggevano, altri dormivano, altri ancora chiacchieravano. Una coppia litigava bisbigliando, a braccia conserte. La notte prima Yael aveva faticato ad addormentarsi, sebbene il calore di Thomas nel letto la rassicurasse. Più volte aveva cercato il suo corpo, ma senza osare un gesto. Lui, da parte sua, faceva altrettanto. Aveva compreso che la situazione non si prestava a certe cose, che lei si sarebbe avvicinata al suo ritmo. E così era rimasto a distanza. «Che aria cupa... A che pensi?» sussurrò Thomas.
Lei gli rivolse un sorriso stanco. «Alla gente. Alle coppie.» Il reporter si piegò verso di lei, poggiando i gomiti sulle ginocchia. «Sei malinconica?» le chiese. «Non so, è come se tutto quello che è successo in questi giorni mi rimandasse a un certo... bilancio sentimentale. È una cosa cretina, e comunque non è questo il momento.» Thomas alzò le spalle: «Deve esserci un momento giusto? A ogni modo, a che punto sei arrivata?» «A rendermi conto che devo aprire gli occhi sulla realtà. Appartengo a una generazione educata ai miti romantici, alla poesia e soprattutto al cinema. L'amore è una specie di inseguimento al Principe Azzurro. Nessuno mi ha mai spiegato che l'amore è la risultante chimica di un mucchio di fattori che mi sfuggono, come la compatibilità dei geni! Nel mio universo il colpo di fulmine è quasi divino, non chimico. Il concetto di amore per fattore cognitivo mi è estraneo, non sapevo che il mio corpo fabbricasse un ormone per creare la dipendenza dall'altro agli inizi di una relazione, per poi cessare di produrlo con il tempo. L'amore che mi aspetto è luminoso, pieno di cliché. Quello che si trova in natura è solo chimico ed effimero, non è fatto che per unire due individui in vista della procreazione.» «Perché parli di amore chimico?» «Ho letto dei libri sull'argomento. Volevo sapere che cosa raccontasse la scienza a proposito dell'amore. La scienza dice che l'amore è bestiale e quasi... logico. La natura non si prende alcun rischio, sin dal principio ha sistemato tutti gli elementi al loro posto per assicurarsi che le sue creazioni possano sopravvivere, e dunque riprodursi. La funzione della chimica è obbligarci a provare attrazione l'uno per l'altro, ad accoppiarci. Il problema è che io sono guidata nella mia visione dell'amore dai miei riferimenti, dall'educazione. L'amore che desidero è quello di un uomo virile ma sensibile, galante ma selvaggio, romantico ma con i piedi per terra. Non si fonda su una visione conflittuale di due creature guidate dagli istinti naturali per sopravvivere.» «In effetti, è una visione... limitata di quello che siamo.» «No, realistica. Oggi devo imparare a... 'sformattarmi'. Perché è questo che siamo, formattati: da un'epoca, dalla civiltà e dai costumi del momento. Prendi i canoni di bellezza, per esempio. Cambiano con i secoli. Se un uomo desse retta all'istinto, sarebbe attirato da una donna con i fianchi lar-
ghi e i seni abbondanti, pronta ad avere bambini, e con qualche chilo in più, segno di riserve per i momenti duri, ma non troppo grassa in modo da provare la sua buona salute. È questo tipo di donna che dovrebbe piacere alla maggioranza degli uomini, e non quei fisici filiformi, persino anoressici, che si chiamano top model, e che tuttavia fanno sbavare i maschi. Fin da piccoli sono stati 'educati' a dimenticare gli istinti e a fare come tutti: corrispondere a ciò che l'ambiente detta loro.» Esitò, prima di aggiungere: «Non siamo che i cagnolini di un sistema che gioca con noi. Un sistema composto di milioni di esseri umani che tirano da tutte le parti, finché una tensione più forte non li porta temporaneamente verso una certa direzione. Ma considerando quello che ho scoperto in questi giorni, mi domando se tale sistema in definitiva non sia il frutto di un pugno di individui, che lo modellano a loro piacimento facendo credere il contrario...» Scrollò il capo. «Non posso escludermi da questo sistema, non ho alternativa, devo farne parte, e quindi ho bisogno di imparare di nuovo che cos'è l'amore, essere capace di accettarlo per quello che è: una condizione plasmata dalla nostra società. L'amore che sognavo era tranquillo e... bucolico. Quello che forse mi aspetta è bellicoso e culturale.» Terminato il suo cinico discorso, Yael non osò guardare Thomas negli occhi, temendo che lui si accorgesse di quello che sentiva. Che al di là delle parole, di questa confessione di fredda saggezza, lei era attratta da lui. Che, in un certo senso, lui era l'incarnazione di ciò che lei affermava non esistesse. Thomas trasmetteva queste seducenti contraddizioni, era protettivo e comprensivo, oltre che virile. Come non innamorarsene? Ma per quanto tempo? Finché il suo organismo non avesse smesso di produrre oxitocina, l'ormone dell'amore? E dopo? L'euforia sarebbe scemata, il bisogno psichico e fisico dell'altro si sarebbe attenuato man mano che la produzione dell'ormone fosse diminuita. Lei avrebbe dovuto tirare una riga sulla loro storia, oppure avviare la battaglia della mente educata per trattenerlo. Una battaglia che doveva essere reciproca. Yael sospirò. E Thomas posò la sua mano su quella di lei. Non disse niente, fissandola con uno sguardo dolce, quasi triste. Non avevano più niente da dire, e tutto ciò che sarebbe uscito dalle loro bocche non poteva che essere doloroso. Il paesaggio sfilava veloce oltre il finestrino. Quelle frazioncine perdute nei boschi o ai margini dei campi. Quelle mura antiche tra cui si erano succedute le generazioni, più preoccupate di
sopravvivere che di prendersela con la loro condizione... I tempi erano cambiati. Oggi c'era la possibilità di scegliere. E con essa l'esigenza... Una voce quasi meccanica li riscosse dalla loro contemplazione. «Biglietti, prego.» Poi, cullata dal ritmo tranquillo del viaggio, Yael finì per addormentarsi sulla spalla di Thomas. Si svegliò a due terzi del percorso, quando il TGV si lanciò tra ripidi pendii coperti da una fitta vegetazione. In alto, le rocce tagliavano mezzelune bianche e rosse nei cespugli e negli abeti. Cambiarono treno a Bellegarde, e questa volta fu Thomas ad assopirsi. Yael si tuffò nella lettura della guida turistica che Kamel aveva fornito loro, spulciando la descrizione dello Chablais, la regione dov'erano diretti. Come al solito, le Ombre erano state vaghe. Ma via via che le pagine si susseguivano, tutto acquistava un senso. Era l'una di pomeriggio quando entrarono nella stazione di Thonon-lesBains, e Thomas si risvegliò stiracchiando il corpo intorpidito. Yael lo osservava, gli occhi che scintillavano. «Che c'è?» «Ho scoperto da cosa dobbiamo cominciare. La 'verità sotto la superficie, là dove l'inferno sale verso i cieli', so dove si trova.» Aprì il libretto sotto il naso del compagno: «Ai piedi del Roc d'Enfer c'è il lago di Vallon. Un lago artificiale, o meglio, nato in modo accidentale, che ha sommerso un piccolo borgo negli anni Quaranta». 40 Thomas sedeva al volante dell'Opel Corsa che avevano noleggiato dietro la stazione. Al momento di lasciare la cauzione, aveva digitato il codice che Kamel aveva fornito il giorno prima, pregando che tutto filasse liscio. La donna dietro allo sportello non si era preso il disturbo di verificare il nome sulla carta, e non appena la ricevuta era uscita dalla macchinetta, li aveva accompagnati alla vettura. Yael aveva aperto una cartina della regione comprata dieci minuti prima. Localizzò il lago di Vallon. «Sempre dritto, segui la strada per Bellevaux. Sono certa che si tratta di quel lago, sotto il Roc d'Enfer. 'Cominci a trovare la verità sotto la superficie, là dove l'inferno sale verso i cieli.' È questo. Ricorda le parole nella cappella delle Catacombe: 'Ciò che si trova dall'altra parte è la sola veri-
tà. Ogni cosa è un'apparenza. Bisogna guardare dall'altra parte. Le città sono un'apparenza. Il sottosuolo di una città è l'anima nuda della sua civiltà, i suoi arcani. Così è per ogni cosa. I misteri dell'Uomo sono nelle sue fondamenta. La sua storia. Passi dall'altra parte'», recitò tutto d'un fiato. Ogni parola scritta dalle Ombre era impressa a fuoco nella sua memoria. «Dunque... il lago di Vallon esiste dal... 1943», proseguì, controllando nella guida, «quando nella zona si è verificato uno smottamento. Il terreno è scivolato fino a valle, creando uno sbarramento. L'acqua del fiume che scorreva da quelle parti si è accumulata e ha dato origine al lago. Una cinquantina di abitanti hanno perso la casa. La colata era lenta, il primo chalet è stato travolto durante la notte. I montanari hanno avuto il tempo di abbandonare le loro abitazioni, e non ci sono state vittime. È l'illustrazione concreta del discorso delle Ombre, Thomas!» Yael era in preda all'esaltazione. «Sotto la superficie c'è una città!» riassunse la giovane donna. «L'apparenza è il lago, la verità sono le case sul fondo. Il lago riflette un'immagine come gli specchi, ma custodisce un segreto!» «Che si fa, una volta laggiù?» «Cerchiamo la verità. Quello che stiamo facendo sin dall'inizio: cercare la verità sotto il biglietto da un dollaro, sotto l'assassinio di Kennedy, sotto Parigi nelle Catacombe, e adesso... sotto un lago!» «Cosa?» domandò il reporter storcendo il naso. «Non dirmi che dobbiamo scendere là sotto!» «Il lago è profondo quaranta metri, quindi mi pare poco probabile. Quando saremo sul posto, si vedrà.» La strada si inerpicava lungo il fianco della montagna, tra foreste di abeti, rocce e baite che spuntavano di quando in quando in mezzo agli alpeggi. Il lago Lemano stendeva la sua luminosità cristallina ai piedi dei massicci, scomparendo a intervalli finché non fu più che un ricordo quando l'auto ebbe aggirato un versante montuoso per imboccare una valle. La coppia ammirava il paesaggio e s'interrogava su ciò che li attendeva una volta giunti a destinazione. Quale sarebbe stata la prossima mossa? Poiché il documento l'avevano rubato, erano venuti lì senza invito. Le Ombre - o chi si nascondeva dietro di loro - non aspettavano quella visita. Se erano solite piazzare gli indizi poco prima dell'arrivo di Yael, allora non avrebbero trovato niente. La Opel risaliva il nastro d'asfalto aggrappato al fianco di quelle rocce
gigantesche e aguzze, attraversando piccoli villaggi lungo strette stradine. Sbucarono da una curva e all'improvviso la muraglia d'alberi che fiancheggiava la strada si aprì sul lago di Vallon. Thomas parcheggiò di fronte a uno chalet, tappa obbligata per i turisti. Ai loro piedi, l'acqua lambiva la minuscola valle per circa un chilometro e mezzo. Dei tronchi spuntavano qua e là dalla superficie, come se il lago volesse proteggersi da qualche minaccia e avvertire del pericolo coloro che si avvicinavano. Le sue sponde erano circondate da boschi, prati e cime aguzze. Scesi dall'auto restarono sconcertati, gli occhi e l'anima rapiti dall'alone di mistero emanato da quell'angolo di mondo. Yael aveva afferrato la mano di Thomas. «Brrr...» fece lui. «A chi lo dici!» mormorò lei. Yael si riscosse e si diresse a passo svelto verso la costruzione. Dei tavoli e delle sedie fungevano da piccolo bar all'aperto. Entrò nel negozietto di souvenir e ne uscì poco dopo con una bottiglia d'acqua che infilò nello zaino. «C'è una strada che fa il giro del lago, di là», spiegò la giovane. «Il proprietario mi ha detto che si può vedere una casa sott'acqua dalla riva opposta. È tutto ciò che resta del disastro del 1943. Le altre costruzioni sono state trascinate via dalla colata di fango.» Thomas la seguì, e di lì a poco trovarono il sentiero che si inoltrava fra le conifere. Attraversarono un ruscello su un ponte di legno osservando la chiazza verde-blu del lago. Raggiunsero una strada di sassi, abbastanza larga da consentire il transito di un veicolo, e costeggiarono un tappeto di giunchi nel fruscio della vegetazione. Il Roc d'Enfer li sovrastava, come un colossale dente di gigante conficcato nel suolo. Pareva impossibile che un tale blocco di pietra avesse potuto scaturire dalla terra; sembrava al contrario caduto dal cielo, bloccando la valle con la sua onda d'urto, vigilando su di essa con un'ombra immensa. Era per proteggersi da esso che il lago era irto di alberi spezzati che spuntavano dalla superficie? Bisogna che la smetta di lavorare di fantasia, si impose Yael. Sono i resti della foresta che c'era prima, nient'altro!... «Ancora lì dopo mezzo secolo?» sussurrò la vocina della contraddizione nella sua testa. Può darsi... La strada curvò allontanandosi dalla riva, e loro la abbandonarono per un sentiero che proseguiva nell'erba alta.
Una lunga distesa aperta tagliava lo spessore del bosco. Fiori multicolori conferivano a quel luogo un sorprendente tocco di gaiezza. «L'antica colata di fango, presumo», ipotizzò la giovane. Grilli e cicale stridulavano a centinaia in quel prato, orchestrando una melodia discontinua. «Senti che baccano!» esclamò Thomas divertito. «Saremo obbligati a gridare per parlarci!» «Nel Midi, quand'ero bambina, mia madre la chiamava la samba campestre», replicò lei con una punta di nostalgia. Alcuni turisti occupavano i poggi erbosi per ammirare il panorama, mentre altri mangiavano al sacco in riva al lago. Yael accarezzò con le palme gli steli che danzavano nella brezza leggera, le genziane gialle e porpora, e i cardi azzurri già chiusi per la siesta. Si fermarono su un pendio da cui si dominava lo specchio d'acqua da cinque metri di altezza. In basso, dei pescatori sorvegliavano le loro lenze, seduti all'ombra sopra dei massi. «Là!» urlò Yael indicando un rettangolo arancione sotto la superficie luccicante. Era la casa sommersa. I pescatori che vegliavano sulla pace delle acque le lanciarono uno sguardo di disapprovazione. Si rimisero in cammino, finché non trovarono la penombra di una fila di abeti rossi e una macchia sotto l'acqua, a una quarantina di metri dalla sponda. Potevano chiaramente distinguere le forme geometriche di una casa e del fienile adiacente. «Non sembra molto profondo in questo punto», notò Thomas. «Ci vuole l'attrezzatura da sub», affermò Yael. Il giornalista la fissò. «Be'», spiegò lei, «è dall'inizio che le Ombre mi esortano a passare dall'altra parte delle apparenze. Devo scendere, esplorare questa vita, cercare la verità al di là di quello che tutti possono vedere.» «Yael, non ci possiamo immergere così, davanti a tutta questa gente, i gendarmi ci piomberanno addosso, è...» «Lo faremo quando non c'è nessuno.» «Siamo ad agosto, è un posto frequentato...» Lei si volse e tornò lentamente sui propri passi, affiancata da Thomas.
Avevano molto da fare, e poco tempo. «Non se veniamo di notte», disse. 41 Presa una stanza - pagata in contanti e in un modesto alberghetto quasi al completo per passare inosservati -, Thomas e Yael cercarono un club subacqueo nei dintorni del lago Lemano. La giovane donna lasciò che fosse il suo compagno a negoziare il noleggio del materiale. Non avevano né la licenza né una carta di credito per la cauzione - Thomas non voleva usare la carta di Kamel per timore che venisse fuori che la sua identità non corrispondeva a quella del titolare -, bisognava perciò far leva sulla fortuna e la simpatia. Dopo un primo tentativo infruttuoso in un circolo che si rifiutò di affittargli l'equipaggiamento, Thomas si imbatté in un gestore poco rispettoso del protocollo che accettò il pagamento in contanti. Caricarono le bombole e le borse nel bagagliaio dell'auto, tornarono a Thonon-les-Bains per fare qualche altro acquisto e cenarono in un piccolo ristorante di fronte all'hotel. Verso le ventidue, si misero in viaggio, prendendosela comoda per non rischiare un incidente lungo gli stretti tornanti, e raggiunsero il lago di Vallon tre quarti d'ora più tardi. Procedettero a passo d'uomo per trovare l'imbocco della strada praticabile, quindi l'Opel Corsa affrontò il percorso accidentato, pieno di sassi, le felci che frustavano la carrozzeria. Lentamente, si avvicinarono al prato che sarebbe servito loro come punto di partenza. La vettura uscì dal bosco e si arrestò in mezzo all'erba alta. Thomas spense i fari. Svuotarono il bagagliaio accompagnati dai ripetuti avvertimenti di una civetta. La luna faticava a issarsi più in alto delle montagne che incorniciavano la valle per rispecchiarsi nelle acque nere del lago. Yael ne contemplò il riflesso posando a terra una bombola di ossigeno. Un disco d'avorio che scivolava su una pozza d'ebano, pensò. «Hai già fatto delle immersioni prima d'ora?» s'informò Thomas. «No.» «Ti illustrerò due o tre concetti di base, non è complicato.» Yael girò attorno alla macchina per andarsi a cambiare. Le conifere non erano che una successione di macchie scure. La notte avvolgeva la montagna in un guscio opprimente. Ogni roccia, ogni tronco d'albero caduto, as-
sumeva un'improvvisa importanza alla periferia del suo campo visivo. In mezzo a quegli interminabili pendii, Yael si sentiva fragile, inconsistente. La natura si riappropriava dei suoi diritti imponendo agli uomini il mistero profondo del suo silenzio, delle sue ombre soffocanti... Si affrettò a spogliarsi, tenendo solo gli slip, e si infilò la muta che erano riusciti a procurarsi. Quindi tornò da Thomas, che aveva fatto altrettanto, la cerniera lampo aperta sul torace muscoloso. Yael abbassò gli occhi. «Prendi la borsa e seguimi», disse il giornalista caricandosi sulla schiena le due bombole. Si avvicinarono al bordo, sopra la placida distesa d'acqua. Nell'oscurità, il lago somigliava a un occhio gigantesco, un occhio nero e demoniaco, con incastonata una pupilla bianca e gibbosa. Era nel cranio di quella bestia che Yael desiderava immergersi. Thomas trovò un modo per scendere, le bombole premute contro il torso, una mano che si aggrappava alle radici per mantenersi in equilibrio. Yael lo imitò, ed entrambi posarono i piedi sui ciottoli freddi. Di notte, la casa sommersa era invisibile. «Deve trovarsi dritta davanti a noi. Una volta sott'acqua, accenderemo le torce.» Yael notò che Thomas aveva bisbigliato. Erano soli, non c'erano abitazioni in vista, a parte un rudere di fronte al quale erano passati in precedenza. Di cosa aveva paura? Il problema è l'atmosfera di questo luogo, pensò la giovane. Esige rispetto. Lei pure avvertiva un bisogno di discrezione, quasi che la monumentale sagoma del Roc d'Enfer potesse inghiottirla se si fosse accorta della sua presenza. Thomas verificò l'ossigeno nelle bombole, controllò un'ultima volta il materiale e aiutò Yael a equipaggiarsi, impartendole nel frattempo un corso rudimentale. «Il coltello è proprio necessario?» chiese lei. Thomas non rispose. «Usa le braccia il meno possibile», le consigliò. «Ti sbilanciano più di qualsiasi altra cosa. E ricorda: inspira forte per raddrizzare verticalmente il busto, ed espira per inclinarti verso il basso.» «Dovrebbe andare.» Yael era impaziente. «E tieni bene a mente i segnali elementari: un ampio cerchio con la lam-
pada per comunicarmi che è tutto a posto, e un movimento dall'alto in basso se qualcosa non va. Sei pronta?» Lei annuì, e lui le tese la maschera prima di bardarsi a sua volta. «Ultimo punto: evita i movimenti violenti con le pinne se sei vicino al fondo, altrimenti non si vedrà più niente. E restami sempre accanto, qualunque cosa accada.» «Ho capito.» Le consegne di Thomas erano semplici. Aveva solamente insistito perché lei non si allontanasse da lui una volta sott'acqua, e si limitassero a un'immersione di superficie, a meno di cinque metri di profondità, per evitare le tappe di decompressione. Yael entrò in acqua per prima, le pinne in una mano, la torcia subacquea nell'altra. Era ghiacciata. Dopo meno di un metro, il fondo scese repentinamente, e il livello le salì alle ginocchia. La muta la isolava abbastanza da permetterle di trascorrere diversi minuti in immersione senza rischio di ipotermia. Delle alghe fecero la loro comparsa, infilandosi tra i suoi polpacci. Divennero rapidamente una vera e propria foresta che Yael dovette attraversare. L'acqua le arrivava ai fianchi. «Infilati le pinne», le indicò Thomas. «E non dimenticare che la maschera riduce il campo visivo; tutto ciò che vedrai è ingrandito di un terzo.» «Perché me lo dici?» «Non so che tipi di pesci ci siano qui, ma se ne incontri uno, rammenta che non è così grosso come lo vedi. Questo per evitarti un bello spavento.» Lei obbedì. Si piazzò la maschera sul naso e morse l'erogatore così come le aveva mostrato l'istruttore. Tutto il suo corpo penetrò in quel bozzolo fresco e, lentamente, la superficie scomparve mentre lei affondava il viso nelle tenebre. Le piante le si avvinghiavano agli arti, ma lei se ne liberò con tre colpi di pinna. L'assenza di qualsiasi punto di riferimento le generò subito ansia. Non appena si era ritrovata sotto il pelo dell'acqua aveva perso la nozione di alto e basso; solo l'alone biancastro della luna le consentiva di orientarsi. Anche i suoni erano strani; sordi e tuttavia ben presenti allorché si manifestavano. Yael si rese conto che era la sua respirazione quella che sentiva, e il gorgoglio delle bolle che risalivano in superficie. Un'esplosione di luce bianca la catturò nel suo fascio. Thomas aveva acceso la torcia. Yael strizzò gli occhi e lo imitò. Lui si avvicinò e le posò
una mano sul braccio prima di tracciare un cerchio con la lampada per segnalare che andava tutto bene. Yael rispose allo stesso modo, e i due partirono verso il centro del lago, nuotando senza precipitazione, economizzando al massimo le energie. Il freddo era pungente sulle caviglie e sulle dita. Le due torce aprivano nell'oscurità dei corridoi stretti e schiacciati, di un color giallo-verde. Yael credette di intravedere un'ombra in lontananza, ai confini della zona illuminata, ma avvicinandosi non scorse nulla. Se l'era sognata. Erano solo a quattro metri di profondità, eppure Yael aveva l'impressione di muoversi in una fossa abissale, tanto l'acqua era opaca. Un'altra ombra sfiorò il suo campo visivo. Questa volta la donna la cercò sventagliando la torcia sulla sua sinistra, ma senza successo. La fuga sincopata delle bolle nell'acqua produceva un rassicurante concerto in mezzo alla quiete assoluta. Di tanto in tanto, la sua spalla sfregava contro l'equipaggiamento, provocando un suono breve, subito smorzato. Yael avanzava tenendo d'occhio la silhouette di Thomas, che la precedeva di un metro sulla destra. Si stava abituando a quella respirazione che avveniva unicamente attraverso la bocca. Adesso capiva meglio perché il suo compagno l'aveva avvisata che all'inizio non sarebbe stato facile; per la maggior parte del tempo gli uomini respiravano all'aria aperta con il naso, senza rendersene conto, e lei sarebbe rimasta un po' sconcertata nel non poterlo fare. Come quando si ha il raffreddore, aveva detto ridendo. Questa volta il movimento fu repentino, ma Yael non ebbe alcun dubbio; aveva visto qualcosa. Una forma alla sua sinistra, poco più avanti. Ma quando ci arrivò, non c'era niente. Dei pesci... tentò di rassicurarsi. E di colpo spuntò di fronte a lei, catturata dagli archi di luce delle lampade: la casa sommersa. Dapprima un muro evanescente, celato dietro quella densa bruma, poi una porta aperta, un buco insondabile che li aspettava. Thomas la indicò con l'indice e si avvicinò piano. Si afferrò all'architrave per passare senza urtare la bombola e scomparve all'interno. Yael si volse. Scandagliò il nulla che la circondava. Si sentiva osservata. Era possibile o si trattava solo dello stress dovuto alla scoperta di un nuovo ambiente? La sua torcia esplorò lo spazio circostante in un raggio di tre metri - la
portata massima della lampada - senza localizzare la minima presenza. Una mano si chiuse intorno alla sua caviglia. Lei trasalì, il cuore impazzito. Era Thomas che la chiamava, incitandola a raggiungerlo. La giovane varcò a sua volta l'entrata, con la curiosa sensazione di introdursi a casa di qualcuno in sua assenza. Il buio era tale che nemmeno due torce bastavano a distinguere tutto chiaramente. Yael rasentò una parete, tastandola con una mano finché non trovò una rientranza. Era un armadio a muro. Oggi non è più niente. L'acqua e il tempo avevano corroso ogni cosa, non restavano che dei vecchi chiodi arrugginiti, piantati nella pietra. Thomas passò dietro di lei e le picchiettò sulla spalla per mostrarle un altro locale, dentro il quale entrò con un colpo di pinne. Yael si accingeva a seguirlo quando intravide una bocca nera sulla parete vicina. Vi si avvicinò. Un caminetto. La torcia le scivolò di mano. La vide cadere al rallentatore senza riuscire ad agguantarla. Quando toccò il fondo, il fascio di luce svanì. Yael si ritrovò immersa nell'oscurità, a parte una debole aureola chiara che si affievoliva sempre più a ogni secondo che passava, nella direzione che aveva preso Thomas pensando che lei lo seguisse. Mettendo in pratica gli insegnamenti appena ricevuti, svuotò completamente i polmoni per portare a poco a poco la testa verso il basso. Un battito delle pinne, e si trovò a livello del fondo. Le sue dita entrarono in contatto con la melma. Vi frugò metodicamente, concentrandosi su ciò che toccava così come sul sangue freddo che doveva conservare a ogni costo. Malgrado le tenebre, avvertiva le particelle di terra e di sedimenti che salivano attorno alla sua testa. Sfiorò la torcia, la mano si ritrasse. No. Non era la lampada. Tastò con cautela l'oggetto che occupava il fondo del caminetto. Un cofanetto. Ma continuando a toccarlo, si rese conto che si trattava piuttosto di un baule, abbastanza voluminoso. Trovò il meccanismo di apertura e si accorse con stupore che non c'era un lucchetto, ma un semplice chiavistello. Mentre con una mano proseguiva la ricerca della lampada, con l'altra cercava di far scorrere la stanghetta
di ferro. Alla fine ritrovò la torcia, che riaccese subito, provando una stretta al cuore al pensiero che potesse essere rotta. Era effettivamente un baule. Il chiavistello si arrese a tanta insistenza, e Yael sollevò il boncinello. Il baule si aprì di colpo, liberando una bottiglia di vetro che prese a risalire lentamente verso la superficie. Yael si protese e la acchiappò al volo. All'improvviso, percepì l'ampiezza dell'onda che si spostava davanti a lei, e comprese che qualcosa di enorme si stava muovendo. Vicino a lei. Sopra di lei. Fece appena in tempo ad abbassare la testa che la forma si avventò sul suo viso. E Yael scomparve in una miriade di bolle e urla soffocate. 42 La morte. La sua faccia emaciata e filamentosa dagli occhi enormi e neri, due orbite vuote, la bocca contratta in una smorfia, l'assenza del naso, e quella materia glutinosa che ricopriva lo scheletro e se ne distaccava... Yael urlò a quattro metri di profondità, mollando l'erogatore, un grido di folle terrore ingoiato dal lago, che non aspettava che un minimo segnale per invadere la sua gola, i suoi polmoni. Il morto girò la testa di lato. La mascella inferiore si staccò e fluttuò tra i resti di carne putrefatta. Yael infine tacque. E si raggelò. Il suo cervello annebbiato realizzò che si trattava di un cadavere. Un cadavere che fluttuava a pochi centimetri dal suo viso. Aprendo il baule, lei lo aveva liberato, come il diavolo a molla che esce dalla scatola. Si sentiva soffocare. Annaspò tutto intorno alla ricerca dell'erogatore, si passò le mani sulla schiena per toccare la bombola e seguirne il prezioso tubo... senza rendersi conto che teneva ancora in mano la bottiglia di vetro. Non riusciva più a resistere al dolore al petto. Il ventre sussultava. Doveva inspirare. Le sembrava già che un velo scuro le scendesse sugli occhi. Una mano spuntò davanti a lei, stringendo un erogatore che le introdusse in bocca dopo aver forzato le labbra serrate.
Yael aspirò. E tornò a respirare. Thomas la prese per una spalla e la tirò indietro, illuminando il cadavere, ricoperto di una sostanza verdastra, purulenta, che continuava a disgregarsi in centinaia di frammenti che si appiccicavano alle mute e alle maschere... Thomas fece ruotare in cerchio la torcia davanti a sé. Yael si rammentò del codice. Le domandava se stesse bene. Il cuore le pulsava nelle tempie, ma si era ripresa abbastanza da riuscire a rispondere in modo affermativo. Thomas tornò a voltarsi verso il cadavere. Gli puntò contro di nuovo il fascio di luce. Le sue condizioni facevano ritenere che fosse rimasto chiuso in quella bara per molto tempo, dove l'acqua e i pesci non avevano potuto ripulirlo della carne. Il reporter puntò il dito verso il baule, e scese lentamente al suo livello. Urtò con la testa una tibia dello scheletro. L'intera gamba si decompose, e le ossa si sparpagliarono spandendo in giro una sostanza mucosa. Yael aveva la nausea. Chiuse gli occhi per riacquistare il controllo e manovrò per raggiungere il suo compagno. Questi stava ispezionando il baule in cerca di un'iscrizione, di un indizio. Yael si accorse di avere ancora in mano la bottiglia. Aveva le articolazioni bianche tanta era la forza con cui la serrava tra le dita. La paura gliel'aveva fatta stringere e dimenticare. La mostrò a Thomas. Una semplice bottiglia di vetro, con un tappo di sughero. Sotto i raggi delle torce, scoprirono che conteneva un foglio arrotolato, perfettamente asciutto. Avevano il loro trofeo. Yael indicò la superficie, poi la bottiglia. Voleva tornare su. Thomas rimase immobile a riflettere. Infine si girò verso il cadavere. Ha ragione, pensò Yael. Non possiamo lasciarlo così. Bisogna riportarlo... Ma a chi l'avrebbero consegnato? Tuttavia, non era pensabile abbandonarlo lì. Presto o tardi si sarebbe incagliato a riva. Là dove le famiglie passeggiavano tutti i giorni. Con dei bambini. Con quest'unico pensiero in testa, la giovane donna afferrò il bacino dello scheletro, che si separò dal resto. Cercò di agguantare l'addome per le costole fluttuanti, ma riuscì solo a
causarne la disgregazione. Il cranio si staccò, e così le ossa delle spalle. Thomas la prese per il braccio e la tirò indietro. Lei tentò di resistere, ma lui insistette; non serviva a niente. A malincuore, Yael rinunciò. Quello che un tempo era stato un essere umano si frantumava sotto i suoi occhi, nel freddo e nell'oblio. Riemersero in superficie a una decina di metri dalla riva. Yael sputò l'erogatore e si tolse la maschera, tirando boccate di aria pura, assaporando la respirazione naturale. Alzò lo sguardo verso il cielo trapunto di stelle. «Non sono mai stata tanto contenta di vederle», disse tremando. Aveva un groppo in gola, e un'irresistibile voglia di arrendersi, di piangere. Perché era sana e salva o per quello che aveva visto laggiù? Non sapeva dirlo. Thomas, silenzioso, nuotava con calma verso la terraferma. Lei lo raggiunse, si liberarono delle bombole di ossigeno e si sdraiarono sui sassi. Yael tremava. Si rialzò a fatica, le gambe molli. Non voleva più restare lì, voleva andarsene, fuggire via da quel luogo. Thomas non diceva nulla. «Come va?» gli domandò lei. Lui scosse la testa senza smettere di fissare il lago. «Vieni», aggiunse lei con dolcezza. «Andiamo ad asciugarci. Non abbiamo più niente da fare, qui.» Senza aprire bocca, lui si alzò, una smorfia sul volto. La coscia lo fa soffrire. Yael sperò che la ferita non si fosse riaperta. Lui voleva prendere le bombole per salire il ripido pendio, ma lei glielo impedì, se le caricò sulle spalle e lo precedette in direzione dell'auto. Uno strano ronzio li sorprese. Quello di un motore. Yael strinse il collo del suo prezioso tesoro. Analizzò in un secondo la situazione: la ferita di Thomas, la necessità di una rapida fuga. Fece segno al giornalista di non muoversi. E mentre lui si appoggiava a un albero per dare un po' di sollievo alla gamba, lei si sbarazzò delle bombole e risalì il pendio. Sulla strada si avvicinava una vettura con i fari accesi.
Una sagoma umana spuntava dal tetto apribile. Il tizio perlustrava la zona con l'aiuto di un piccolo riflettore. I guardiacaccia... Ma riconoscendo l'oggetto che l'uomo impugnava nell'altra mano, comprese. Soprattutto quando la vettura illuminò con i fari la Opel Corsa e accelerò bruscamente. Yael si abbassò e corse giù dalla scarpata, lo stomaco attanagliato dalla paura. Stavano arrivando. 43 Yael afferrò una bombola di ossigeno bisbigliando in tutta fretta: «Sono loro! Sono là!» Thomas recuperò quel che restava dell'equipaggiamento e la seguì mentre lei costeggiava il lago per allontanarsi il più possibile dalla Opel Corsa. Alle loro spalle, il veicolo si fermò e subito le portiere si spalancarono. Voltandosi, Yael vide che Thomas avanzava zoppicando e con la schiena curva. La loro escursione acquatica non gli aveva certo fatto bene. Lei aumentò l'andatura, sperando che lui riuscisse a tenere il passo, per raggiungere il riparo offerto dagli alberi. Oltrepassò i cespugli pensando che le armi non avrebbero tardato a crepitare. Al primo albero, si accovacciò, mollando tutto quello che portava tranne la bottiglia con il messaggio, e tese la mano a Thomas, che aveva cinque metri buoni di ritardo. Il profilo di un uomo armato si stagliò in cima alla scarpata, dove si trovava lei solo un minuto prima. Thomas era ancora allo scoperto. Il tizio scrutò in giro. Il reporter raggiunse Yael, lei lo agguantò per la muta e lo tirò con forza verso di sé. Caddero l'uno sull'altra. E rimasero immobili per una decina di secondi. Alla fine, Thomas mormorò: «La mia gamba...» Yael annuì portandosi l'indice alle labbra. Sentiva il corpo del reporter contro il proprio, la gamba di lui tra le sue...
Tornò subito a concentrarsi su problemi più urgenti. Non li avevano individuati. Non ancora, almeno. Thomas, appoggiato sui gomiti, si spostò sulla destra. Indicò la sommità del pendio e iniziò l'ascesa portando con sé una parte dell'attrezzatura. Yael era scossa dai brividi, il freddo le intorpidiva le estremità. Doveva asciugarsi e riscaldarsi al più presto, pena la perdita di ogni funzionalità corporea. Levò il tappo dalla bottiglia, prese il messaggio e se lo fece scivolare tra i seni, quindi gettò via il contenitore di vetro. Si inerpicò a sua volta e raggiunse Thomas, che si era rannicchiato per spiare i loro inseguitori. Erano in tre, uno vicino alle vetture che perlustrava l'erba alta con la sua lampada, gli altri due che controllavano il lago dall'alto. Tutti armati. Uno di loro si voltò per parlare con i suoi complici. Yael tese l'orecchio malgrado la distanza. «... va' a vedere, tu, dai un'occhiata... nei boschi più su. C'è una vecchia chiesa là... vista sulla cartina, forse sono lì.» Detto ciò, scomparve scendendo verso il lago. L'uomo più vicino prese un sentiero che si inoltrava nella foresta, e di lì a poco si dissolse tra le ombre. Ne rimaneva solo uno. Tra i due veicoli. «Bisogna recuperare l'auto», sussurrò Yael. Thomas considerò tutte le possibilità. «Occupiamoci di quel tipo mentre è da solo. È la nostra unica chance! Ma se sono dei professionisti, ce la vedremo brutta!» «Non abbiamo altra scelta!» bisbigliò lei, stringendogli il polso. «Tu, però, con quella gamba, non puoi avvicinarti di soppiatto. Quindi, lascia che ci pensi io.» Lui fece per protestare, ma Yael era già in piedi, una bombola di ossigeno in mano. «Devo farlo!» Ogni dieci passi, alzava la testa nell'erba alta per sbirciare il suo bersaglio. L'uomo aveva posato il piccolo riflettore per accendersi una sigaretta. Yael sentiva il proprio cuore battere, e sudava nonostante il freddo che la irrigidiva sempre di più. Se uno degli altri due fosse tornato all'improvviso, lei non avrebbe avuto scampo. Era ormai a non più di dieci metri. Accelerò il passo, stringendo contro di sé la pesante bombola, pronta a sbatterla sul primo cranio che gli fosse capitato a tiro.
I capelli bagnati, sempre davanti agli occhi, le davano fastidio. Cinque metri. Poteva farcela. Non era impossibile. Aspetto fino all'ultimo prima di sollevarla. Fino all'ultimo. Perché non abbia il tempo di reagire. L'uomo fece un tiro di sigaretta, e il suo volto si illuminò di un fioco bagliore rosso. Una vera gli brillava all'anulare. Era sposato. Aveva una sua vita. In un secondo, Yael prese pienamente coscienza dell'esistenza che aveva di fronte. Che poteva distruggere colpendo troppo forte. Era forse anche un padre? Aveva stretto a sé i suoi bambini quel mattino, prima di uscire? Quel tizio non era unicamente «una minaccia», era un essere umano, con le sue risate, la sua infanzia, le sue speranze. L'esitazione divorò secondi preziosi. E l'uomo girò la testa verso di lei. Perfettamente sincronizzate, le sue mani fecero da bilanciere. Una scese per gettare la sigaretta mentre l'altra si sollevò. Puntandole contro la bocca abissale di una pistola. 44 Aveva beccato quella piccola stupida che aveva causato loro tanti problemi in così poco tempo. Una pallottola. Dritta in fronte. Un piccolo foro lucente da cui usciva un filo di fumo. Il cervello della ragazza che esplodeva nella notte, il sangue più nero dell'oblio sotto il chiarore della luna. Era morta. E sarebbe stato lui a portare a termine il lavoro. L'indice scivolò sul grilletto. Stava fantasticando. Lo choc fu improvviso. Traumatizzante. Non vide che cosa gli fracassava il volto, soltanto una grossa massa folgorante. Il dolore non ebbe neppure il tempo di irradiarsi al cervello dalle ossa
spezzate. La sua mente andò in cortocircuito, come se avessero brutalmente tagliato il cavo di alimentazione. Tutto si spense. Yael riprese a respirare. Thomas ci aveva messo un po' più del previsto a causa della gamba ferita, ma il piano aveva funzionato. Una manovra a tenaglia, uno da ciascun lato, a velocità regolare. Il primo ad arrivare doveva colpire, e se uno dei due fosse stato scoperto, l'altro si sarebbe dovuto fiondare ad accoppare il sicario. «È... È...» balbettò Yael. «Vieni!» le ordinò Thomas precipitandosi verso la loro auto. Saltò all'interno gettando tutto l'equipaggiamento sul sedile posteriore. La chiave era nel cruscotto, nessuno degli assassini aveva pensato di prenderla. Yael stava per salire a bordo quando fece dietrofront estraendo il coltello da sub. Fece il giro della vettura degli aggressori, piantando la lama con tutta la sua forza in ciascuna delle quattro gomme, poi tornò di corsa. Thomas partì a razzo. «Abbassa la testa!» urlò. Yael obbedì. L'Opel rombò e sobbalzò violentemente fendendo la vegetazione per raggiungere la foresta. Due uomini spuntarono correndo nella loro scia. Uno ruzzolò a terra, l'altro esplose diversi colpi in piena corsa, senza nemmeno stabilizzare il braccio. Nessuno dei proiettili centrò il bersaglio. L'Opel sfrecciò tra le conifere, che formavano una cortina protettiva. Thomas prese la curva un po' troppo forte e la vettura slittò, mancando per un pelo il tronco di un abete rosso, i cui rami graffiarono la parte posteriore della carrozzeria. Il giornalista faticava ad affrontare le curve a tutta velocità. Riuscirono comunque a raggiungere la strada provinciale e il suo confortevole asfalto. «Rallenta», disse Yael. «Ormai sono lontani.» «Ci hanno trovati», osservò lui in tono cupo. «Non abbiamo lasciato nessuna traccia, eppure ci hanno trovati. Come te lo spieghi?» Yael non rispose. Nel suo cervello andava tutto ancora troppo veloce. Dopo qualche minuto, accese la plafoniera, aprì la cerniera della muta e tirò fuori il foglio preso sul fondo del lago. Lo srotolò e lesse. Chiuse gli occhi per un breve istante.
Le sue uniche parole furono: «Ho bisogno di scaldarmi». 45 Mentre percorrevano l'ultima curva prima dell'albergo, Thomas domandò: «Kamel sa in quale hotel alloggiamo?» «No, abbiamo pagato in contanti e non l'abbiamo chiamato dal nostro arrivo.» «Tanto meglio.» «Scusa?» «È più prudente. Spiegami come hanno fatto quei tipi a scovarci lassù in piena notte. Solamente Kamel sapeva che saremmo venuti a Thonon.» Yael scosse il capo. «È tuo amico! Come puoi pensare una cosa del genere?» «Ti ho detto che ci conosciamo da un anno, dall'epoca del mio reportage, ma questo non fa di lui un amico. Credevo di potermi fidare, la sua paranoia lo faceva sembrare incorruttibile ai miei occhi.» Il giornalista parcheggiò dietro un camioncino. Spense il motore e rimase immobile sul sedile. «Eravamo sperduti tra le montagne, lontani da Parigi, nessuno avrebbe dovuto ritrovarci», ripeté. «Kamel non c'entra niente.» «Vorrei tanto crederlo.» «Te lo dico io: è innocente. Non immaginava nemmeno che saremmo andati al lago di Vallon! Per quanto ne sa lui, siamo scesi per le gole del ponte del Diavolo. E anche se l'avesse dedotto leggendo la guida turistica, come noi, in che modo poteva prevedere che ci saremmo andati di notte e non in pieno giorno?» Thomas sospirò. «Non lo so...» «In compenso, se non è stato lui, significa che hanno trovato la maniera di seguire le nostre tracce. E questo è un vero problema, al quale dobbiamo subito porre rimedio.» Il reporter restò un attimo in silenzio, poi si raddrizzò e disse: «Dobbiamo parlare con Kamel». Si allontanarono dall'hotel per cercare una cabina telefonica da cui
chiamare il cercapersone; erano quasi le due del mattino. Riattaccarono e attesero che il telefono squillasse. Thomas ne approfittò per soddisfare la sua curiosità. «Ho il diritto di sapere cosa dice il messaggio nella bottiglia?» Yael inarcò le sopracciglia. «Dice che abbiamo bisogno di una Bibbia.» «Cosa?» «Te lo mostrerò quando avremo risolto il nostro problema. Ho portato con me la Bibbia che abbiamo trovato sotto la vasca nella cappella. È dentro la borsa.» «Come se tutto fosse previsto, eh?» «Ma è tutto previsto. Sin dall'inizio le Ombre hanno calcolato i miei spostamenti, poiché sono loro a guidarmi.» Nella cabina risuonò un segnale sonoro. «Tutto bene?» chiese la voce smorzata di Kamel. «Non esageriamo, comunque siamo sani e salvi», rispose Yael, che aveva alzato il ricevitore. Gli raccontò in breve la loro giornata, e soprattutto la loro scoperta. «Siamo preoccupati, Kamel. Crediamo che abbiano trovato un modo per localizzarci.» «Poco probabile... vi siete rivestiti da capo a piedi. Se avessero piazzato una cimice su di te o sui tuoi vestiti, non potrebbero più servirsene. Non hai per caso tenuto un vecchio paio di occhiali, o magari un fermaglio per i capelli?» «No, non ho più niente.» «Io ho ancora i miei occhiali da sole», intervenne Thomas, che era incollato al ricevitore. «Non conoscevano la tua identità fino a ieri, se ho ben capito. Non potevano metterti addosso un trasmettitore.» «Ho anche il cellulare, però è spento.» «Da quando?» volle subito sapere Kamel. «Rilassati, non lo uso più da ieri mattina. L'ho tenuto in caso di emergenza, ma non ho fatto nessuna chiamata.» «E quei tizi, i killer, ti hanno identificato, no?» «Certo, avevo pagato con la carta di credito il nostro albergo alla Porta di Versailles.» La voce di Kamel mutò; adesso era velata di paura: «Sicuro che il tuo telefonino sia completamente spento?»
«Sì, io...» «Perché anche se non chiami, possono rintracciarti, basta che sia in standby. Gli operatori devono localizzare il cliente per 'inviare' le chiamate in entrata o in uscita, quindi sei costantemente controllato.» «È spento, stai tranquillo.» Kamel parve appena più sereno. «Sappi che se anche togli la batteria, ci vuole una mezz'ora prima che i condensatori non forniscano più energia sufficiente per emettere il segnale che localizza l'apparecchio. E tutti i cellulari sono dotati di condensatori.» «Te lo ripeto, è spento da ieri.» «Okay, dunque non si tratta di questo. Non vedo come abbiano potuto fare.» Dopo una breve pausa, aggiunse: «Per adesso, siate prudenti, trovatevi un altro posto dove passare la notte, e dormite con un occhio solo. Da parte mia, cercherò di capire come fanno a rintracciarvi. Richiamatemi domani mattina». Riagganciarono, non molto più tranquilli di prima. Dopo un rapido giro nei dintorni, presero una stanza in un albergo dirimpetto al loro. Riuscirono ad averne una che dava sulla strada, in modo da poter sorvegliare chi andava e veniva. Yael posò la borsa da viaggio su uno dei due letti e prese dei vestiti per cambiarsi. Thomas era alla finestra. «Con l'auto parcheggiata dall'altro lato della strada, dovremmo accorgerci subito se qualcuno si avvicina», disse. «Dovremo darci il cambio», osservò Yael dalla stanza da bagno, dove stava facendo scorrere l'acqua. «Uno dorme mentre l'altro monta di guardia.» Pronunciando quelle parole, realizzò che sembravano ambedue usciti dritti da una fiction. Montare di guardia. A che punto erano arrivati? In quale incubo stava nuotando? Fedele alla linea di condotta che si era imposta due giorni prima, si sforzò di non pensare più in questi termini, di non commiserarsi, ma di vivere nell'istante presente, per prevedere nel modo migliore le azioni future. Per prima cosa, doveva scaldarsi. Si fece un bagno bollente, e poco ci mancò che si addormentasse nella vasca. Quando uscì, Thomas aveva spostato una sedia accanto alla finestra e vigilava, i pantaloni di lino arrotolati sopra la coscia ferita, che aveva fasciato. Era pallido, aveva le labbra blu, e i suoi avambracci erano coperti di croste rosse. «Si è aperta di nuovo?»
«No, ma mi fa male.» «È già andata bene che i punti non sono saltati. Vai a farti una doccia, ti sostituisco io.» Thomas la ritrovò un quarto d'ora dopo; aveva una cera migliore. Lei gli mostrò la vecchia Bibbia di pelle che aveva riportato dalle Catacombe, aperta su una pagina, il nuovo messaggio delle Ombre infilato nel mezzo. Thomas lo spiegò, la grafia fitta ed elaborata riportava: La storia non si svolge, ma si scrive, si costruisce. Alcuni la prevedono attingendo dal passato, per scrivere il futuro, plasmarlo secondo i loro desideri. Il nostro avvenire è già scritto, è dappertutto, occorre imparare di nuovo a leggere, a vedere, a comprendere. Noi abbiamo dato all'uomo le sue catene, forgiando l'anello essenziale della sua civiltà. APOCALISSE 13,16-17 Il nostro sigillo è ovunque, tra le sue mani, sotto i suoi occhi, l'umanità ci appartiene. Tutto era previsto. Passi dall'altra parte, Yael, con noi. Thomas si sedette sul bordo del letto. «Ti dice qualcosa?» «Credo di sì», rispose Yael. Lui la esortò a proseguire con un cenno. «Il primo paragrafo ricorda ciò che le Ombre cercano di farmi capire sin dal principio», spiegò lei. «Che il mondo e la nostra storia brulicano di simboli che soltanto gli iniziati possono leggere. Così facendo, diventano capaci di... comprendere realmente il mondo e talvolta di presagire ciò che accadrà. Penso che sia grazie al fatto che orientano così fortemente la storia che sono in grado di prevederla. Riguardo a ciò che segue, si potrebbe anche affermare che le Ombre si servono di quello che esiste, a volte dei misteri che loro stesse hanno lasciato dietro di sé nella storia, per fabbricare il futuro.» «Perché no? E il resto?»
«Nel secondo paragrafo, il 'noi' si riferisce alle Ombre, a coloro addentro nei misteri del mondo, che lo dirigono: 'Noi abbiamo dato all'uomo le sue catene, forgiando l'anello essenziale della sua civiltà'. Le catene, questo anello essenziale... si tratta ancora di un simbolo, ma che cos'è essenziale nella nostra civiltà?» Dopo aver riflettuto un attimo, Thomas propose: «La religione». «No, è un anello, ma non il più importante. Non sono un'esperta, ma ho letto abbastanza per sapere che la religione si è sviluppata nelle nostre culture in maniera da consolidare il potere di alcuni. È un elemento rilevante, certo, però non è al centro di una civiltà.» «La sua cultura, forse?» «Nemmeno. La cultura può evolversi, affrancarsi, non è una catena, anzi il contrario. A volte alimenta una civiltà, ma non ne costituisce l'essenza. Guarda, secondo me al centro di una civiltà c'è il raggruppamento degli uomini. Perché? Perché nell'interazione, nella sinergia degli uni con gli altri, sta il progresso di tutti. E per avere questa unione è necessario lo scambio, la condivisione...» «Il commercio», comprese Thomas. «Esatto, in tutte le sue forme, primitive o meno. È per questo scambio che gli uomini si sono radunati sino a formare delle civiltà. Insieme sono più forti, perché si aiutano a vicenda. Io faccio questo per te, ti offro la mia forza o la mia intelligenza, e tu in cambio cosa mi dai? Anche oggi il commercio è il cuore del nostro sistema, definisce la nostra sopravvivenza.» «Allora le Ombre avrebbero pure inventato il commercio?» chiese ironico il giornalista. «Noto una punta di egocentrismo qui, no?» «Non secondo il loro ragionamento. Affermano di aver forgiato le catene degli uomini: il commercio come lo conosciamo oggi. In effetti, le Ombre dicono di aver influenzato, costruito il commercio moderno, non di averlo creato. Non è la stessa cosa.» Thomas posò la punta dell'indice sulla frase successiva. «E la citazione biblica, cos'è?» «Guarda la pagina aperta.» Lui lesse a voce alta: «'Essa fece sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e servi, ricevessero un'impronta sulla loro mano destra o sulla loro fronte, di modo che nessuno potesse comprare o vendere, se non chi aveva l'impronta, il
nome della Bestia o il numero del suo nome'». «Il numero della Bestia è scritto subito dopo», disse Yael. «'...il suo numero è 666'», aggiunse Thomas, posando la Bibbia sulle lenzuola. «Se ne potrebbe logicamente dedurre che la Bestia... sono le Ombre», fece presente la giovane. «Sì, un simbolo dell'ombra, di quello che si ordisce alle spalle degli esseri umani, un emblema della manipolazione... effettivamente, le Ombre e la Bestia potrebbero essere una cosa sola. A ogni modo, il diavolo, la Bestia, è sempre servito ai potenti per orientare, dirigere gli altri secondo il suo volere, per imporre ciò che desiderava mediante la paura, la menzogna. È quello che fanno le Ombre, no? Hanno solo cambiato nome. Si adattano alla società in cui vivono.» «Nella società che modellano, direi.» Thomas rilesse l'ultimo paragrafo: «'Il nostro sigillo è ovunque, tra le sue mani, sotto i suoi occhi, l'umanità ci appartiene. Tutto era previsto. Passi dall'altra parte, Yael, con noi'». «Il sigillo che sta ovunque potrebbe essere...» «Il denaro!» «Sì», concordò Yael. «Guarda il passo della Bibbia, l'impronta della Bestia sulla mano o la fronte.» «Per pagare, o tendo la mano, o utilizzo... i miei codici bancari! La mano per i contanti, e la fronte per simboleggiare la mente, la memoria che serve per le altre transazioni.» Yael non era pienamente soddisfatta delle loro deduzioni. «Tutto questo è giusto, ma molto... metaforico. Finora, le Ombre hanno sempre illustrato i loro atti mostrandomi un esempio concreto.» «Il denaro è concreto! Guarda il biglietto da un dollaro. È infarcito di riferimenti esoterici, il commercio internazionale si basa sul dollaro, tutti lo usano e nessuno è consapevole di riprodurre i testi apocalittici della Bibbia!» «Sono sicura che c'è qualcos'altro. Di ancora più subdolo.» «È già enorme! La Bestia controlla l'umanità. Ha manipolato gli uomini affinché fondino il loro sistema di sopravvivenza sul suo marchio!» «Sono d'accordo, però manca ancora il 666 da qualche parte.» L'entusiasmo di Thomas svanì. «Chi lo sa? Magari è un codice di scambio internazionale», buttò lì, poco convinto. «Aspetta un attimo... Era il numero dipinto sulla porta delle
Catacombe sotto casa tua!» «Esatto. Il marchio della Bestia. Le Ombre ci avevano già messo sulla pista del diavolo, dei differenti miti e appellativi che poteva assumere a seconda del periodo storico. Ed è nelle Catacombe di Parigi che abbiamo trovato la Bibbia.» Thomas incrociò le braccia sul petto. «Sono comunque un po' scettico», disse. «Credi davvero che un gruppo di uomini, riuniti in una specie di setta, si sarebbe trasmesso il potere e una sorta di... codificazione, un insieme di simboli, sin dal Medioevo?» «Sì, penso che da alcuni decenni ci sia un gruppo di individui influenti, di uomini che si riuniscono tramite diverse sette esoteriche, come il famoso Ordine dei Teschi e delle Ossa, e che queste persone manipolino il mondo, si impadroniscano del potere per guidare il mondo. Al tempo stesso, gruppi del genere sono sempre esistiti - i religiosi in un'epoca, gli aristocratici in un'altra - e tutti hanno sempre imbrogliato per conservare il potere, per controllare i popoli. Può darsi che sia questo che vogliono le Ombre. Il potere religioso un tempo stava in piedi sulla paura dei fedeli, si serviva della Bestia per spaventare e radunare i credenti sotto regole severe, a tutto vantaggio della Chiesa. E si uccidevano i renitenti. La bestia non era che un pretesto, uno strumento. Dietro l'immagine della Bestia di fatto si celavano gli uomini di potere, e le Ombre si ritrovano in questo metodo vecchio come le nostre civiltà. Questi esseri che ci governano in segreto cambiano con i secoli, ma il loro modo di procedere resta uguale.» Yael andò a stendersi sul letto vicino a quello di Thomas. La stanchezza cominciava a farsi sentire. «Riposati», le disse lui. «Faccio io il primo turno.» Andò a sedersi davanti alla finestra. «Al minimo segnale sospetto, ti sveglio.» Mentre Thomas s'interrogava sul metodo usato dai sicari per rintracciarli, Yael si arrovellava sul significato di quel famoso sigillo delle Ombre, l'impronta della Bestia. Senza immaginare che era presente in diversi punti della stanza. E ancora più presente fuori. Ovunque. Celebrando il trionfo della Bestia sull'uomo. Blog di Kamel Nasir. Estratto 7 Oggi appare innegabile che il governo Bush sapesse che si preparavano
degli attentati sul suolo americano. E sapeva di certo che gli attacchi sarebbero arrivati dall'aria. Nel febbraio 2001, gli israeliani avvertirono gli Stati Uniti che dei terroristi si accingevano a dirottare uno o più aerei di linea per servirsene come armi. Il re di Giordania, il presidente Mubarak e il cancelliere Schroeder trasmisero la stessa informazione al Pentagono. Come se non bastasse, la CIA sorvegliava degli estremisti islamici che simulavano dei dirottamenti sulla carcassa di un vecchio velivolo a terra, a piccoli gruppi di quattro o cinque individui, usando delle lame come uniche armi. La CIA disponeva di foto satellitari di questi addestramenti. All'epoca era noto che diversi uomini seguivano dei corsi di pilotaggio solamente per apprendere come orizzontarsi in volo, mentre non erano interessati a imparare come si atterrava! Nel 2000, un tizio si era presentato alla sede dell'FBI di Newark, in New Jersey, affermando di aver sentito parlare del progetto di un attentato terrorista contro il World Trade Center con degli apparecchi. Questo cumulo di indizi non fece scattare nessun allarme. Ufficialmente, i servizi di intelligence americani si giustificano spiegando che pensavano a dei preparativi per prendere degli ostaggi a bordo di aerei. Preferivano aspettare di vedere cosa sarebbe successo, non ritenevano la questione così urgente. Una cosa inaudita, per degli organi di intelligence. Il 24 agosto 2001, i servizi segreti francesi consegnano un rapporto alla sede parigina dell'FBI. Un documento su Zacarias Moussaoui che prova i suoi legami con al Qaeda, la sua partecipazione ai campi d'addestramento di Bin Laden in Afghanistan e le sue relazioni con diversi membri di spicco della rete terroristica. Il documento non è mai pervenuto alla sede dei federali di Minneapolis, dove viveva Moussaoui. La direzione non trasmetteva le informazioni. Era tutto lì, sotto gli occhi del governo, gran parte dei servizi segreti del mondo glielo urlava nelle orecchie, le sue stesse agenzie di intelligence glielo gridavano, eppure non ha fatto niente. Niente. A lungo andare, è lecito porsi degli interrogativi. Può darsi che i politici miliardari che guidano il Paese siano al soldo di consorzi potentissimi e quindi pronti a sacrificare i propri elettori? Sembra una follia. È impensabile che un Paese possa organizzare degli attentati contro i suoi cittadini. Ma con il passare dei decenni, tutti finiscono per dimenticare, per non preoccuparsi più. L'operazione Northwoods.
Era esattamente questo. E a causa della ferma opposizione di Kennedy non è stata messa in atto. Non subito, almeno. So che prendendo in esame una teoria del complotto così pazzesca, sto superando i limiti. Lo so bene. Allora vi scongiuro di fare un'unica cosa dopo aver letto questo resoconto: andate a cercare delle informazioni sull'operazione Northwoods. Scoprirete che non mi sono inventato nulla. Gli alti papaveri delle forze armate americane avevano elaborato un piano d'attacco terroristico contro il loro stesso Paese! È accaduto negli anni Sessanta, non molto tempo fa! Alcuni di loro sono ancora in vita. Infine, a costo di spingermi troppo oltre, a tutto ciò va aggiunta la tesi dell'esplosivo nel World Trade Center. Sebbene personalmente la ritenga una teoria folle, persino fantasiosa, non posso esimermi dal seguirla con occhio fintamente distratto. Morgan Reynolds ha indagato sulla distruzione delle torri gemelle. Tutti erano rimasti estremamente sorpresi che fossero crollate, e così in fretta, dopo l'impatto degli aerei. Secondo alcuni esperti, le spiegazioni fornite finora non reggono, anzi, spesso si contraddicono. Inoltre, come sottolineava Frank de Martini (progettista del World Trade Center) poco tempo prima degli attentati, le torri erano state costruite per resistere all'impatto di numerosi jet del tipo 707, i più potenti all'epoca dei lavori. De Martini è scomparso l'11 settembre. E poi bisogna ricordare che nel primo attentato, quello del febbraio 1993, l'equivalente di 820 chili di TNT(!) era esploso nel seminterrato di una delle torri, non lontano dalle fondamenta, senza nemmeno farla tremare. Reynolds, un ex consigliere economico di Bush, oggi professore emerito di economia all'università A&M del Texas, ricorda che esiste un acceso dibattito scientifico circa le reali cause del crollo delle torri. E che, cosa ancor più grave, alcuni esperti asseriscono che soltanto una demolizione professionale controllata può rendere conto di tutti gli elementi accertati dall'inchiesta. Reynolds termina la sua esposizione rammentando che per tutta la durata delle indagini, condotte dalla commissione governativa Kean, gli esperti di esplosivi e costruzioni edili sono stati sistematicamente scartati, se non addirittura intimiditi. È quest'ultimo punto ad attirarmi verso tale folle ipotesi. Perché è stato impedito a tutti gli esperti di edilizia ed esplosivi di avvicinarsi alle mace-
rie? Ciascuno tiri le sue conclusioni. 46 Yael aprì gli occhi alle otto. Thomas era sempre seduto accanto alla finestra, a spiare i movimenti all'esterno. Lei lo contemplò battendo le palpebre. Nella luce bianca che lo colpiva di profilo, i tratti marcati dalla mancanza di riposo, sprigionava una forza protettiva che riscaldò l'anima della giovane, raffreddata dai brutti sogni. «Non mi hai svegliata», lo rimproverò, ancora insonnolita. Thomas girò la testa verso di lei, e subito i suoi lineamenti si addolcirono. Yael adorava quella trasformazione. Adorava il modo in cui lui la guardava. «Ti agitavi nel sonno, avevi bisogno di dormire, e io non ero stanco. La buona notizia è che non ho visto nessuno di sospetto.» Yael impiegò alcuni lunghi minuti a emergere dal letto, e dalle immagini dei suoi incubi. Si fecero una doccia, si vestirono e radunarono le loro cose, che sistemarono nel bagagliaio dell'auto. Entrambi si guardavano attorno, temendo di veder spuntare i sicari da un momento all'altro. Ma non comparve nessuno. Prima di partire, chiamarono il cercapersone di Kamel da un'altra cabina telefonica. Dopo una decina di minuti senza risposta, decisero di rinunciare e di riprovare più tardi. Viaggiarono in direzione di Morzine, e lungo la strada si fermarono in una panetteria a prendere qualche croissant. Mentre Thomas guidava, Yael leggeva la guida turistica che riportava la leggenda del ponte del Diavolo. «È una vecchia storia locale, ma se ne trovano delle varianti un po' dappertutto in Francia e nel mondo. Due villaggi sono separati da un orrido, così gli abitanti chiedono a Dio un ponte per passare dall'altra parte senza dover fare un lungo giro. Dio non dà loro niente, allora si rivolgono al diavolo, che costruisce un ponte in cambio dell'anima del primo essere che lo attraverserà. Gli abitanti lo fanno attraversare a una capra, con gran disappunto del diavolo, che maledice il ponte e promette che farà cadere quanta più gente possibile nell'orrido... E in effetti, si sono verificati parecchi incidenti mortali dal Medioevo in poi. Parecchie persone devono aver approfittato della cattiva reputazione del luogo per regolare le loro vertenze, se capisci cosa intendo.»
«Lo immagino!» disse Thomas sbadigliando. «Credi che le Ombre vogliano suggerirci qualcosa con questa leggenda?» «Non hanno scelto questo posto a caso. Ci leggo un esempio della differenza tra la realtà dei fatti e quella riferita dalla storia, cioè il mito popolare.» Yael voltò pagina. «A quanto pare, l'intera regione è abbastanza portata per... l'occulto. A Morzine ha avuto luogo uno dei casi di possessione collettiva più clamorosi del mondo.» «Possessione collettiva?» ripeté Thomas, divertito. «Che cos'è? Yael continuò nella sua lettura del capitolo su Morzine: «Tra il 1857 e il 1873 oltre duecento persone sono state possedute a Morzine. Per lo più donne e bambini». «Stai scherzando?» Lei posò il libro sulle ginocchia. «Questo mi dice qualcosa. Ne ho già sentito parlare. Parecchi storici e sociologi si sono occupati del caso, perché non rientra nel campo delle leggende; c'erano centinaia di testimoni e altrettanti verbali.» Si rituffò nella guida per avere maggiori dettagli. I posseduti erano presi dalle convulsioni, dalla demenza, e si abbandonavano ad atti osceni, esclusivamente contro la Chiesa o le pubbliche istituzioni. Le donne si esibivano davanti all'altare o agli impiegati comunali, per esempio. Malgrado le ripetute richieste della chiesa di Morzine, il vescovo di Annecy si rifiutò di procedere a un esorcismo, e furono i discepoli di Charcot all'Ospedale della Salpêtrière che vennero a esaminare la situazione. Un sacco di persone furono ricoverate nel manicomio, al punto che si rese necessario l'intervento di un reggimento di dragoni per imporre l'ordine e un coprifuoco. A poco a poco le cose tornarono alla normalità e le possessioni si interruppero. «Faccio fatica a crederci!» «Eppure, per una volta in questo genere di storia, ci sono talmente tante prove e testimoni... Pensa, più di duecento persone colpite in sedici anni!» «E nessuna spiegazione... razionale?» Yael terminò di leggere. «Ecco... questo ti rassicurerà. Gli esperti che in seguito si sono dedicati al caso hanno trovato una ragione. Sociologica, all'inizio. È un'epoca in cui la maggior parte degli uomini della regione deve partire per cercare lavoro altrove, e resta lontano da casa a lungo, lasciando le donne da sole, con i
figli. Siamo nel 1860, quando la Savoia viene annessa alla Francia. A quel tempo Morzine è un villaggio un po' isolato, e il cambiamento fa paura. Una società industriale e moderna sta per inghiottire un paesino rurale. Le donne di Morzine sentono parlare dell'annessione, di quello che cambierà, del passaggio sotto l'autorità francese, e immaginano il peggio. In assenza degli uomini, si preoccupano, si agitano. La Chiesa e le istituzioni che rappresentano l'autorità, lo Stato, sono incapaci di rassicurarle e diventano il bersaglio delle loro paure. E a forza di rimuginare, i timori si amplificano, le donne esagerano, finché una di esse non passa all'azione: un delirio mirato contro la Chiesa, che serve anche da capro espiatorio. E l'episodio crea degli emuli.» «Una reazione un po'... sproporzionata, no?» «E qui interviene il secondo motivo, stavolta di tipo alimentare. Le donne di Morzine consumavano molta segale, spesso segale cornuta. L'ergotismo è una malattia dovuta all'ergot della segale, un fungo che sviluppa parecchi alcaloidi, tra cui l'ergotamina, e il dietilammide dell'acido lisergico, dalle potenti proprietà allucinogene... l'LSD.» «Soffrivano di deliri allucinatori?» «Sì, deliri guidati ed esacerbati dalla suggestione collettiva. In seguito, il fatto che la Savoia fosse stata annessa alla Francia senza incidenti, senza che la loro vita cambiasse, placò progressivamente gli spiriti, e la spirale infernale si dissolse.» Incrociarono un camion che li costrinse a viaggiare lungo il ciglio della scarpata. «Ancora una volta, abbiamo l'apparenza e la verità», constatò Thomas. «Le Ombre hanno scelto il posto giusto!» Yael aveva lo sguardo perso nel vuoto. «Non credo che sia il paesaggio a dover attirare la nostra attenzione», concluse. Thomas si fermò in un parcheggio. Erano sul fianco di una montagna che dominava una valle stretta e boscosa, di cui si distingueva solo un fitto fogliame. Acquistarono il biglietto d'entrata al banco di una costruzione in cui si vendevano tutti i prodotti artigianali del luogo. E scesero verso la foresta lungo un sentiero tortuoso, passando tra imponenti blocchi di roccia coperti di muschio. Una coltre di nebbia ristagnava fra i tronchi, come il fiato di un'enorme creatura che abitasse l'orrido.
I frassini e gli aceri nascondevano il cielo mentre la coppia percorreva il sentiero, avvicinandosi a un rumore cristallino che risuonava dalle profondità della valle. Un tetto di legno era stato costruito tra due rocce. Una piattaforma sovrastava l'orrido. Yael vi si avventurò e scoprì le falesie torturate dal passaggio secolare del torrente, che scendevano a picco verso un abisso di ombre, spigoli e acque tumultuose oltre sessanta metri più in basso. Un gruppetto di visitatori aspettava davanti a un cancello che la guida desse il segnale per gettarsi su macchine fotografiche e videocamere. Yael e Thomas si confusero nel branco e un ragazzone biondo sui vent'anni venne ad aprire il cancello chiuso con un lucchetto. «Attenzione alle scale», ammonì. «Sono ripide e traditrici. Fate bene attenzione a dove mettete i piedi. Il diavolo ha già avuto abbastanza sacrifici in questo modo!» Yael indirizzò un sorrisetto ironico al compagno. La visita iniziò passando sotto un gigantesco arco naturale, un blocco di pietra franato millenni prima dalla cima delle montagne, incastrato sopra il precipizio. La guida spiegò l'origine dell'orrido, formatosi per l'erosione del marmo sotto l'azione ripetuta dell'acqua, punteggiando il discorso con battute ironiche e aneddoti a beneficio dei turisti. Yael tese l'orecchio, cercando nel suo racconto un elemento che potesse collegarsi alle Ombre. Camminavano su delle passerelle metalliche fissate alle pareti, a mezza altezza, nascoste dal sole per via della profondità e immerse nel fragore del torrente, che si ripercuoteva martellando il cervello a colpi di decibel. «Adesso passeremo sotto il famoso ponte del Diavolo!» annunciò a gran voce la giovane guida tra le esclamazioni dei bambini. L'umidità appannava l'aria con un velo biancastro. Yael ripensò a uno specchio in una stanza da bagno dopo una doccia bollente; aveva voglia di passare una spugna sull'orizzonte. Il ponte del Diavolo non era altro che una volta naturale che univa i due bordi dell'orrido, una lunga roccia caduta in quel punto migliaia di anni prima e scoperta per caso nel Medioevo da alcuni contadini. La guida spiegò che, sopra, l'unica via praticabile era stretta e ricoperta di muschio scivoloso. Le cadute in fondo alle gole non erano certo mancate nella storia del ponte del Diavolo. Ma quest'ultimo aveva permesso di risparmiare una deviazione di sette chilometri a parecchia gente per diversi secoli. Yael rammentò il testo delle Ombre che li aveva condotti fin lì.
«'Chi controlla gli uomini e le vittorie controlla la storia. La sua, Yael, è custodita in una gola, sotto il ponte del Diavolo. Nella più grande tra le marmitte dei giganti, dove ribolle ancora e ancora, nell'attesa che le sia rivelata?» Si accostò al parapetto e contemplò il fondo della forra. Decine di marmitte dei giganti si susseguivano a diverse altezze, dove il torrente aveva scavato la roccia per scorrere più in basso. Ma una in particolare spiccava per le sue dimensioni, giusto sotto il ponte, una quindicina di metri più giù rispetto a Yael. Era appena sopra il livello del torrente, e l'acqua ogni tanto la riempiva, vorticando per qualche breve istante prima di defluire attraverso un buco. Yael diede un colpetto con il gomito a Thomas per mostrargli la sua scoperta. Anche lui l'aveva notata, e annuì. Dal punto in cui si trovavano, non saltava all'occhio niente di particolare in quel cerchio di pietra, grande come una vasca da bagno, né marchi né oggetti. «Continuiamo la visita», propose Thomas. «Non possiamo comunque scendere.» Terminarono salendo una scala che sbucava nella foresta, un po' al riparo dal frastuono. Yael attese che i turisti ringraziassero il loro cicerone e si disperdessero, prima di avvicinarlo. «Avrei una domanda da farle. Non portate mai nessuno giù fino al livello dell'acqua?» Il ragazzo scosse vigorosamente la testa. «Assolutamente no! C'è una diga più su, quando aprono le paratoie l'acqua sale di colpo di parecchi metri. È troppo pericoloso e imprevedibile.» «Perciò non scende mai nessuno?» «In teoria, no, tranne qualche giovane incosciente!» Yael assunse un'aria divertita. «Ah, bene! E capita spesso?» «No, per fortuna. Dei ragazzini olandesi, l'estate scorsa, ma sono tornati su senza un graffio, le paratoie non erano state aperte.» Fece un sorriso. «E poi stanotte, a quanto pare!» aggiunse. Yael tentò di mascherare la scarica d'adrenalina che la risposta aveva provocato in lei. «Stanotte?» «Sì, qualcuno ha forzato il cancello e di sicuro ha agganciato la sua at-
trezzatura alla passerella per calarsi giù, rovinandola un po'. Non si trattava certamente di ragazzini in vacanza, piuttosto di un amante delle scalate, qualcosa del genere.» «Perché?» «Perché qui tutti conoscono la faglia: a monte è roccia calcarea, più svasata, i ragazzini scendono di là e costeggiano il torrente fino a questo punto per raggiungere l'orrido. Ma quel tizio ha utilizzato un'attrezzatura da roccia. È il modo più rapido per arrivare in fondo, però bisogna superare il cancello e poi sapersi calare con una corda!» Yael scambiò una breve occhiata con Thomas. «Dite, non avrete in mente di andarci anche voi?» domandò la guida, improvvisamente inquieta. Thomas mise fine a ogni speculazione esibendo la sua tessera da giornalista, abbastanza in fretta da non lasciare il tempo al ragazzo di leggere il nome. «Siamo scrivendo una serie di articoli sulle passeggiate estive», spiegò il reporter. «Ci servono tutti gli aneddoti possibili.» Ringraziarono la guida e seguirono il sentiero per risalire. Quando furono abbastanza lontani, Yael esultò: «Sono loro! Le Ombre hanno mandato qui uno dei loro scagnozzi, stanotte». «Ciò significa che gli siamo alle calcagna. Siamo vicini. Piazzano gli elementi da trovare, credendoti a Parigi. Ignorano che sei già in possesso degli indizi. Se ci sbrighiamo, la prossima volta potremo intercettarle.» Prese Yael per mano e la trascinò verso l'uscita, spinto dall'eccitazione. «Ora», disse, «dobbiamo scendere fino a quella marmitta.» 47 Thomas controllò gli orari di visita dell'orrido e raggiunse Yael alla macchina. «Chiudono alle diciotto!» «Abbiamo il tempo di tornare a Thonon per pranzare e cercare di contattare Kamel. Mi preoccupa il fatto che stamattina non abbia risposto.» Era appena mezzogiorno quando attraversarono la piazza AristideBriand per sedersi all'aperto, a un tavolo ben al riparo da sguardi indiscreti, tra un enorme vaso di fiori e l'ombrellone. Yael si alzò per andare a telefonare a Kamel. Questi la richiamò quasi subito dicendole che non aveva fat-
to progressi, non aveva trovato alcuna pista che spiegasse come avessero fatto i sicari a rintracciarli. Lei riattaccò, osservando la piazza, dove la gente passeggiava con indolenza. C'era per forza una spiegazione. Gli assassini non potevano essere andati al lago di Vallon in piena notte per una semplice deduzione. O disponevano di un trasmettitore piazzato chissà dove, oppure erano stati informati. La prima soluzione sembrava da scartare. Era tecnicamente improbabile. Aveva tenuto solo l'essenziale: il passaporto, la patente, le carte, il mazzo di chiavi, tutti gli oggetti che non potevano nascondere un trasmettitore; aveva persino buttato via il suo stick idratante per le labbra. E, in ogni caso, se un qualche aggeggio fosse passato attraverso le maglie della rete, i killer sarebbero già tornati a farsi vivi dopo quella notte. Non aveva percorso una distanza tale da impedire loro di rintracciarla. Restava l'altra ipotesi. Ma chi poteva sapere dove si sarebbe trovata in piena notte? Nessuno. Assolutamente nessuno. Nemmeno il tipo che aveva noleggiato loro l'equipaggiamento da sub. Nessuno tranne Thomas... Yael spostò subito lo sguardo dall'altro lato della piazza, tra i tavoli del ristorante. Le prospettive mutarono, e lei si sentì d'improvviso lontanissima dal suo compagno, di cui intravedeva solo una mano posata sul bicchiere, il resto del corpo nascosto dal vaso di fiori. Era un'idiozia. Non poteva accusarlo. Thomas non aveva fatto niente. Non l'avrebbe mai tradita. Non lui. Yael non lo conosceva da molto, ma l'intensità della loro avventura li obbligava a mostrarsi senza maschera, spontanei, pronti a reagire con coraggio, la mente vigile, per sopravvivere, per prendere la decisione giusta. Thomas era totalmente con lei, senza compromessi. Eppure è la sola persona che sapeva dove eravamo la notte scorsa... Ripensò alle Ombre. Yael chiuse gli occhi e si passò la mano sulla fronte. Le Ombre glielo ripetevano dall'inizio: tutto era previsto. Le Ombre manipolavano le storie personali delle persone per manipolare la Storia con la S maiuscola. Avevano messo Thomas sulla strada di Yael. Come l'aveva incontrato? Yael venne presa dal panico. Si sforzò di respirare, di fare rapidamente il
punto della situazione. La sua assenza prolungata avrebbe messo in allarme il giornalista. In un bar... Sono uscita... Era... venerdì sera. Non avevo previsto di uscire da sola, dovevo vedermi con Tiphaine! Non sarei dovuta andare in quel puh. Nessuno poteva prevedere che l'avrei fatto. Yael stese gli eventi e le deduzioni così come si stendono sul letto i vestiti per scegliere quale indossare. Sono stata io ad andare da lui! Io che l'ho abbordato! Non faceva nemmeno caso a me... Ripassò mentalmente la scena: si erano incrociati all'uscita della toilette, e poi al bancone del bar lei non aveva smesso di fissarlo. Lui non c'entrava niente con il loro incontro, aveva fatto tutto lei. Le Ombre non potevano arrivare al punto di comandare gli atti e le emozioni di una persona, non facevano che influenzarli. Più esaminava Thomas, più si convinceva dell'impossibilità che fosse tutto preordinato. Il reporter l'aveva sempre aiutata, ed era grazie a lui che adesso era in vantaggio sulle Ombre. Rivide tutti i momenti in cui lui l'aveva accompagnata con la sua confortante presenza. Scosse il capo. Come poteva essere diventata tanto paranoica? Le circostanze, è colpa delle circostanze... si ripeteva. Continuo a scoprire che niente è come sembra, che tutto è apparenza... Yael storse il naso. Si stava davvero trasformando in quello che volevano le Ombre. Una paranoica. Un'emarginata. A poco a poco avrebbe finito per escludersi dal mondo, per far paura agli altri, per non essere più apprezzata e creduta. Era proprio questo... Sarebbe divenuta a sua volta... un'ombra! Un'ombra tra i vivi. Doveva riprendere il controllo, non lasciarsi influenzare. Conservare quel piccolo vantaggio che aveva, e sfruttarlo al meglio per guadagnare terreno e sconfiggere le Ombre al loro stesso gioco. Scoprire ciò che conteneva la marmitta dei giganti sulla sua storia personale. Capire cos'era quel sigillo della Bestia che tutti utilizzavano, da cui gli uomini e le donne del mondo erano marchiati. Yael si affrettò a tornare da Thomas. «Va tutto bene?» si preoccupò lui. «Sì. Ho parlato con Kamel. Per ora non ha scoperto niente, ma continua a cercare.»
Yael esitò prima di confessare i suoi dubbi. «In un modo o nell'altro, hanno seguito le nostre tracce. Spero che non capiti più», disse infine. «Io... Io ho persino sospettato di te.» Per un brevissimo istante, Thomas lasciò trasparire una punta di delusione. Yael gli lesse negli occhi che era ferito, ma lui si riprese subito: «Me l'aspettavo». «Non prendertela a male...» Lui la interruppe sollevando le mani. «È normale. Io al tuo posto avrei fatto lo stesso.» Un silenzio imbarazzato calò tra i due. Ordinarono due filetti alla tartara, e le parole scacciarono poco per volta la titubanza. Yael chiese a Thomas della sua adolescenza, nell'intento di scordare, almeno per la durata di un pasto, quello che stavano passando da sei giorni. Thomas tentennò prima di esprimersi liberamente. I dubbi di Yael, sebbene lui affermasse il contrario, l'avevano profondamente toccato. Ma poi se ne dimenticò, cullato dal ricordo dei primi amori, delle stupidaggini della gioventù e degli anni di studio. Pagarono il conto mentre il cielo si rannuvolava, passando gradualmente da un azzurro pallido a un esitante grigio-bianco. Sarebbe stata una notte piovosa. Passeggiarono per una via pedonale mangiando un cono di gelato. Yael si rese conto che quelle confidenze erano ristoratrici, che quel momento di requie li ricaricava, calmando i nervi tesi all'estremo. Una breve tregua. Incrociando uomini, donne e bambini, Yael si interrogava sulla natura dell'impronta della Bestia. Che cosa poteva collegarli tutti? Essere a tal punto onnipresente e invisibile? Un marchio apposto sugli esseri umani, al centro della base della loro civiltà: il commercio. Non era soltanto il denaro in tutte le sue forme. Eppure, vedendo quelle persone pagare usando per lo più la mano destra, Yael si domandò se fosse davvero necessario cercare ancora. Passarono davanti a una grande libreria, e lei trascinò Thomas all'interno. Osservando gli scaffali divisi per argomenti, la scritta ESOTERISMO attirò la sua attenzione. Passò in rassegna i titoli, ma nessuno la ispirò particolarmente. Per nulla scoraggiata, andò alla sezione ECONOMIA e cercò un'opera che potesse trattare dei simboli nell'economia moderna. Indugiò su un testo, ma dopo averlo sfogliato fece per posarlo.
Esitò. Poi, per curiosità, verificò la sua intuizione. E il suo corpo si irrigidì. La soluzione non era in un libro. Ma su tutti i libri. 48 A meno di due chilometri da lì, due uomini uscivano dall'ospedale diretti verso la loro auto. Il più grande, Dimitri, lanciò una sequela di imprecazioni in russo. «Nemmeno sua madre riuscirà a riconoscerla, quella puttana!» sbraitò, in francese stavolta. Il suo compagno gli scoccò uno sguardo gelido. «Luc ha fallito, conosciamo tutu i rischi», disse senza levarsi la sua corazza di impassibilità. «Becchiamo la ragazza e ci penserò io a saldare i conti. La pagherà cara per avermi rovinato un amico.» Michael non replicò. Yael Mallan creava dei problemi. Tuttavia, bisognava attenersi ai metodi tradizionali, senza eccezioni. Dimitri andava rimesso in riga. Michael esitò, poi giudicò preferibile aspettare che l'emozione passasse. Avevano appena visto il medico che si occupava di Luc, e il verdetto era senza appello: sfigurato. L'intera faccia era affondata nel cranio. Il suo cervello era stato leso da un osso della scatola cranica, e occorreva ancora un po' di tempo prima di sapere se i danni erano irreversibili. La zona interessata era quella deputata alla motricità. Michael aveva sbrigato le formalità, con l'aiuto dell'Impresa, che sapeva come gestire questo tipo di situazioni delicate. Lui aveva spiegato ai dottori che Luc era caduto con la testa in avanti su una roccia, mente facevano gli imbecilli in montagna, con qualche birra in corpo. Dimitri aveva confermato. L'Impresa aveva immediatamente spedito sul posto una donna di fiducia affinché aggiungesse un'ulteriore testimonianza che avrebbe definitivamente convinto i medici ed evitato il coinvolgimento della polizia. Raggiunsero la macchina, dove li stava aspettando Magali, una bruna alta ed elegante, in tailleur bianco firmato, la frangetta alla moda e un trucco
che metteva in risalto i pomelli, le labbra e i lunghi occhi neri. «Allora?» «È ridotto a un vegetale», commentò Dimitri con il suo abituale tatto. «Notizie del bersaglio?» chiese Michael. Magali fece segno di no. «Bisogna riavviare la procedura. Ci vuole del tempo. Non appena i tecnici avranno l'informazione, ci chiameranno.» Michael si sedette al volante. «Che si diano una mossa! Non voglio che lei prenda il largo. Adesso che sappiamo di che pasta è fatta, smettiamola di comportarci come dilettanti. Non voglio altri intoppi, chiaro?» Fissava Dimitri. «La tipa ha del fegato», continuò, «quindi piantiamola di fare i buffoni, perché ci è già sgusciata via dalle mani due volte.» «E l'Impresa è furiosa per il fiasco di Parigi», aggiunse Magali. «Basta stronzate, d'accordo?» Michael assentì. La donna aveva ragione. Un'altra operazione così catastrofica e avrebbero dovuto nascondersi per il resto dei loro giorni. A essere ottimisti. Indicò il cassetto portaoggetti a Dimitri, che lo aprì e tirò fuori una piccola custodia. Conteneva il prezioso oggetto portato da Magali. Il BIN-D Bio-Inoculatore Non Discernibile. Un'arma fabbricata inizialmente dalla CIA, che lanciava un minuscolo dardo avvelenato. Se il tiro era ben eseguito, la vittima non si rendeva nemmeno conto di essere stata colpita. La tossina a base di potassio agiva in un minuto. Escludendo che si potesse recuperare il dardo, e a meno di un'autopsia talmente minuziosa da rilevare il microscopico segno della puntura, la conclusione era decesso per cause naturali, collasso cardiaco. Il potassio letale si confondeva con quello liberato dal corpo al momento della morte; ogni essere umano ne rilasciava dosi più o meno elevate. Michael s'impadronì della pistola. C'erano abbastanza dosi per risolvere il problema Yael Mallan una volta per tutte. E al tempo stesso anche quello rappresentato dal suo misterioso compagno. Michael prese il telefonino e lo posò sul cruscotto accanto allo schermo portatile GPS. Quando il primo avesse suonato, avrebbero trasferito le in-
formazioni sul GPS, e Yael avrebbe lampeggiato sulla cartina come un albero di Natale. Bastava avere un po' di pazienza. Il tempo di riavviare tutto il sistema di localizzazione che dipendeva per la maggior parte dalla grande distribuzione. Appropriarsi dei codici di un individuo era sempre un'operazione complessa e delicata. Nonostante ciò, l'Impresa ci era riuscita. Aveva identificato un numero collegato a Yael Mallan e l'aveva trasmesso a tutti i suoi programmi spia installati di nascosto nei computer dei negozi. Grazie Internet. Se Yael Mallan fosse passata nei pressi di un sistema di rilevamento molte delle grandi strutture di vendita li possedevano -, sarebbe stata localizzata dal computer, che avrebbe automaticamente inviato una e-mail all'Impresa. Era del tutto illegale, ma decisamente pratico. L'Impresa lo chiamava studio selvaggio di marketing. Avevano avuto fortuna il giorno prima. I risultati erano arrivati in fretta. La ragazza era nella zona del lago Lemano, localizzata da un negozio nella periferia di Thonon-les-Bains. In seguito, l'avevano rintracciata nei paraggi di un lago alpino; il segnale era stato captato per errore da un ripetitore telefonico. L'impresa aveva avuto l'informazione da un software spia in un computer delle telecomunicazioni che sorvegliava ogni chiamata in entrata o in uscita sui cellulari di Yael Mallan e Thomas Brokten. Il programma era collegato a tutte le informazioni sorvegliate, e aveva immediatamente inviato un'e-mail di avvertimento all'Impresa. Giusto il tempo per Michael e il suo gruppo di mettersi in viaggio e di arrivare sul posto, che il segnale era sparito. Era quello il problema con i chip di largo consumo. Si perdeva facilmente il segnale. I modelli futuri avrebbero corretto l'inconveniente. Avevano rifatto il percorso di Yael in montagna, sperando di imbattersi in lei, ma invano. Seguendo un'intuizione di Luc, e in mancanza di meglio, la notte erano tornati al lago. Lei era là. E Luc aveva pagato quell'incontro a caro prezzo. Michael serrò i pugni. Adesso, bisognava attendere lo squillo del telefono. E questa volta non se la sarebbero lasciata sfuggire. 49 Thomas cercava di capire cosa frullasse nella testa di Yael. La giovane prendeva dei libri a caso dagli scaffali e ne osservava rapidamente il retro.
Dopo di che si guardò intorno e si diresse verso le agende, ripetendo l'operazione. Uscì senza preavviso dalla libreria ed entrò nel negozio di fronte, che vendeva articoli in pelle. Ispezionò numerosi oggetti, tutti diversi, quindi tornò in strada da Thomas. Sembrava sbalordita. «Che ti prende?» chiese il giornalista. Lei non rispose, ancora troppo presa dalla sua scoperta. «Com'è possibile che permettano di fare questo senza che nessuno ne parli?» domandò. «Fare cosa?» Yael batté le mani, colpita da un'idea improvvisa. «Ho bisogno di Internet!» «Yael, sei computer-dipendente, lo sai?» «No, davvero, devo verificare che non sia solo un'enorme coincidenza.» Thomas non poté fare altro che seguirla; lei quasi correva, il naso per aria in cerca dell'insegna di un Internet café o di un qualsiasi spazio informatico. Scovò una sala giochi on line e ottenne, dietro versamento di dieci euro, una connessione a Internet in un angolo del locale, dove si affrontavano degli adolescenti euforici. Iniziò a battere freneticamente sulla tastiera. «Yael, ricordati della nostra conversazione con Kamel», la ammonì Thomas. «Se un programma della NSA confronta il tuo modo di digitare con la sua banca dati, verrai localizzata in un battibaleno.» «Forse non sono inserita nel loro database», replicò lei senza staccare gli occhi dallo schermo. «E poi ci metto solo qualche minuto.» Thomas sospirò e controllò la porta d'ingresso. La cosa non gli piaceva affatto. C'era un'unica uscita. Se fossero arrivati i killer, lui e la ragazza sarebbero stati spacciati. In meno di cinque minuti, Yael trovò la conferma che cercava. Aveva visto giusto. «È... incredibile. E talmente banale che tutti se ne infischiano.» «Insomma, si può sapere di cosa parli?» Yael si voltò verso di lui, diede un'occhiata in giro e si alzò per afferrare un manuale di programmazione sopra il banco. «Guarda sul retro.» Thomas obbedì. «Non vedo niente di particolare.» «Nemmeno quello che sta al centro del commercio?»
«Cosa? Non ci capisco niente, che vuoi dire?» Lei posò l'indice sul piccolo rettangolo bianco in fondo. «Il codice a barre. È ovunque. In ogni Paese.» «E...?» «Sai come funziona?» «È un riferimento codificato secondo dei numeri.» Yael annuì. «Ciascun numero da 0 a 9 è codificato in base a un procedimento che gli attribuisce una o più barre nere di spessore differente e uno spazio bianco più o meno largo. Per tua informazione, il numero 6 è codificato con due barre nere fini, del medesimo spessore, separate da uno spazio bianco abbastanza sottile.» Thomas controllò il codice a barre del manuale. Le cifre erano scritte sotto le linee parallele. Nessun 6. Tuttavia, il codice iniziava con due barre fini, il simbolo del 6, benché il numero non fosse riportato. Notò lo stesso simbolo in mezzo e alla fine del codice. «6, 6 e 6», disse il reporter posandoci sopra un dito. «666, il numero della Bestia.» «Esattamente! Tutti i codici a barre hanno una regola di costruzione: l'inizio, il centro e la fine sono composte dal 6. A volte le barre che costituiscono lo scheletro del codice sono più lunghe delle altre, a volte invece no. Ma sono sempre presenti. In genere, c'è un numero che precede il codice a barre e che non è codificato. Un numero solo, di identificazione. Per esempio, il 9 in Francia indica i libri.» «Tutti i codici a barre del mondo sono così?» s'indignò Thomas. «Il codice a barre EAN è il più diffuso, e si basa sull'UPC nordamericano. All'infuori della stampa, che ha un codice a parte, quasi tutti gli articoli venduti nei Paesi industrializzati hanno un codice a barre EAN o UPC, con le doppie barre sottili del 6 al principio, in mezzo e alla fine.» Thomas si passò nervosamente la mano nei capelli. «Come è possibile? Come hanno fatto le Ombre a imporre la presenza del 666 in tutti i nostri codici a barre?» Yael indicò lo schermo del computer e il sito sul quale stava navigando. «Probabilmente come per il biglietto da un dollaro e tutto il resto. Con la loro influenza. Si prendono le decisioni in alto loco e si piazzano delle pedine nei posti strategici. Tu sei un giornalista, dovresti conoscere la tecnica dell'entrismo: si infiltrano degli elementi nell'istituzione da sorvegliare, e
questi elementi la frammentano dall'interno, o per disgregarla e distruggerla, o per assumerne il controllo.» Yael fece una pausa per deglutire, poi aggiunse: «La cosa pazzesca non è tanto il modo in cui ci sono riusciti, quanto che nessuno ne parla! Giusto qualche sito su Internet, dei fanatici, per lo più. Basta entrare in un negozio e guardare i codici a barre per rendersene conto». «Bisogna sapere qual è il simbolo del 6, le due barre sottili...» «Non è molto complicato. Dire che da parecchi decenni il nostro commercio si svolge sotto 'l'impronta della Bestia'... Perché? Perché le Ombre lo hanno fatto? Finora non c'è stato nessun delirio escatologico, nessuna predizione sulla fine del mondo, tutto sembrava molto... concreto!» «Credo che non tarderai a scoprirlo. Be', sarà meglio andare, non mi sento molto a mio agio, qui.» Si alzarono e attraversarono la sala. «Sono dappertutto», mormorò Yael tra sé, «modellano la storia a loro piacimento, manipolano le nostre vite, riempiono il mondo di codici, ma per quale motivo?» Si bloccò davanti all'uscita. «Aspetta, devo controllare una cosa.» Questa volta Thomas mugugnò, ma fece dietrofront con lei, consapevole che era inutile cercare di farla ragionare. Lei riprese a tamburellare sulla tastiera, passando di sito in sito: camere del commercio e dell'industria, registro delle imprese... Poi, alternando i motori di ricerca, tentò di raccogliere informazioni sulla ditta Deslandes, il suo datore di lavoro. «Cosa fai?» «Mi assicuro di non essere a mia volta manipolata da chissà quanto tempo...» Dopo qualche minuto, scosse il capo. «Non vedo niente in Deslandes che possa in qualche modo collegarsi a me o alle Ombre. È già qualcosa.» Spinse da parte la tastiera. «Ehm... Mi permetti di dare un'occhiata?» chiese Thomas. «Mi hai suggerito un'idea.» Procedette nello stesso modo, navigando sui siti amministrativi e tra gli archivi virtuali delle riviste di economia. «Penso si possa asserire senza sbagliare che le Ombre sono persone mol-
to importanti che operano nell'ombra dei dirigenti, o qualcosa del genere, no?» osservò. «Come se ci fosse sempre qualcuno nell'ombra di chi riteniamo sia il responsabile. Ebbene, voglio solo applicare questo ragionamento alla nostra situazione e agli elementi concreti di cui disponiamo.» Yael non era certa di seguirlo. «E quali?» «Per il momento conosciamo l'identità di due sole persone.» «Languin e il suo... mandante: Lubrosso.» «Esatto. Chi ci dice che Lubrosso non avesse un capo sopra di sé?» «Credevo che fosse il proprietario della sua ditta. Non era lui il padrone della fabbrica?» «Non significa che non ci sia qualcuno al di sopra.» Thomas vagava tra articoli di giornale e organigrammi. Dopo dieci minuti, durante i quali scordò del tutto la sorveglianza della porta, appoggiò delicatamente il dito sullo schermo. «...l'acquisizione da parte del banchiere svizzero Henri Bonneviel della vetreria Lubrosso, per impiantare sul territorio francese...» Yael scorse l'articolo, che non rivelava nulla di interessante, se non che la fabbrica era stata rilevata da una società di investimento appartenente a un miliardario svizzero. La giovane si accingeva a dire che ciò non era sufficiente a tirare alcuna conclusione circa il coinvolgimento del banchiere ginevrino, quando vide la foto che corredava l'articolo. Henri Bonneviel sorrideva all'obiettivo in un abito fatto su misura. Yael dovette appoggiarsi alla sedia di Thomas per evitare di cadere. Conosceva molto bene quel Bonneviel. Sotto un altro nome. 50 Henri Bonneviel era un insieme di paradossi. Tanto il suo corpo era flaccido, quanto il suo sguardo poteva essere fermo e penetrante. Tanto il suo sorriso rilassato era rassicurante, quanto la piega delle labbra lo rendeva inquietante. Sulla foto della rivista, l'uomo d'affari appariva sicuro di sé. Nella memoria di Yael, era timido e impacciato. Lo Shoggoth. «È uno dei miei clienti», spiegò lei senza riuscire a crederci. Thomas la fissò.
«Vuoi dire che somiglia a...» «No, è lui! Più lo guardo, più ne sono sicura. Non ci sono due tipi come lui! Questo... banchiere è il mio cliente del venerdì. Quello che compra gli occhi di vetro.» «Spiegati meglio.» «È un signore gentile che si fabbrica dei gioielli con gli occhi di vetro. Se li attacca dappertutto.» «Come dire che due occhi non bastano per vedere tutto?» Alla luce degli avvenimenti di quegli ultimi giorni, Yael corresse: «Come dire che puoi aggiungere tutti gli occhi che vuoi, ma non per questo vedrai meglio. Il numero non conta...» «L'importante è sapere come guardare.» Yael gettò la testa all'indietro. «Non riesco a credere che quel tipo sia... un banchiere.» «E neppure piccolo», precisò il reporter digitando sulla tastiera per approfondire l'argomento. Delle sagome, poco più di ombre in controluce, passavano davanti alla porta a vetri della sala giochi. Thomas trovò parecchie informazioni su Henri Bonneviel. Sullo schermo apparve la classifica dei cinquanta uomini più ricchi del mondo, stilata dalla rivista Forbes. «È in trentasettesima posizione.» «Abbastanza ricco da fare ciò che vuole, senza essere troppo sotto i riflettori», arguì Yael. «Ma perché quest'uomo si traveste da... quattro mesi, tutti i venerdì, per venire da me?» «Avrebbe potuto sorvegliarti da lontano, dunque lo fa a scopo... ludico. Ehi, guarda un po' qui!» Evidenziò alcune righe di un articolo di una rivista specializzata. «... per il signor Bonneviel, che si reca a Parigi ogni venerdì per il consiglio d'amministrazione del gruppo Lodvan, di cui fa parte, e il cui attivo...» «Approfittava dei suoi impegni professionali per farti visita, per avvicinarti. Ti voleva conoscere.» «C'è lui dietro a tutto quello che mi sta capitando, non è vero? Quindi sarà lui a dirmi perché. A spiegarmi come sono riusciti a farmi ammattire al punto di vedere delle ombre negli specchi. A prendere il controllo del mio computer. Dove vive, a Ginevra?» «Yael, non credo sia una buona idea...»
Lei lo interruppe seccamente. «Voglio il suo indirizzo.» Thomas fissò lo sguardo in quello di lei e si alzò. «È un'enorme sciocchezza, Yael. Non approvo affatto.» Yael prese il suo posto e continuò l'indagine. Non trovò da nessuna parte l'indirizzo privato del banchiere, ma raccolse informazioni sufficienti sui suoi diversi partner d'affari per azzardare un tentativo, con un po' di faccia tosta. Usando dietro compenso il telefono del gestore della sala, chiamò la sede della banca di Bonneviel. Spacciandosi per la segretaria di direzione di un'impresa in affari con il miliardario svizzero, riuscì a parlare con uno dei suoi assistenti e gli fece credere che, come ringraziamento per la loro ultima transazione, il suo capo voleva far recapitare una cassa di eccellente vino al signor Bonneviel. Al suo indirizzo personale, ovviamente. Henri Bonneviel abitava in una villa a Cologny, poco fuori Ginevra. Yael prese nota e riattaccò. Thomas la stava aspettando, impaziente di lasciare quel posto in cui stavano da troppo tempo per i suoi gusti. Lei esibì con orgoglio il foglietto di carta. «Ce l'ho!» Il giornalista la trascinò fuori senza indugi. «È ora di tornare all'orrido», disse. «Quando ci arriveremo, sarà già chiuso.» «E questa sera, si fa rotta su Ginevra!» aggiunse la giovane donna. Thomas aprì la bocca, ma si morse la lingua. Inutile insistere, ormai aveva imparato a conoscerla. Quella faccenda sarebbe finita male, se lo sentiva. 51 Avevano parcheggiato a meno di un chilometro dalla gola del ponte del Diavolo, sotto un cartello che vietava tassativamente di scendere in riva al torrente poiché il livello dell'acqua poteva salire all'improvviso. Il paesaggio alpino era quello cui si erano a poco a poco abituati: ripide scarpate e foreste, un mare di vegetazione e costoloni rocciosi che sorgevano dai fianchi ammaccati delle montagne. Un lago grigio circondato da un tappeto di conifere si estendeva fino alla diga ad arco di Jotty, che Yael contemplava con ammirazione e timore reverenziale. Si sentiva minuscola al cospetto di quell'enorme massa di cemento, e la conca sottostante non le ispi-
rava alcuna fiducia. Tuttavia, era laggiù che dovevano scendere. L'aria era pesante, elettrica. Le nuvole basse, scure, facevano presagire un temporale serale. Yael sperava di tornare prima che scoppiasse, e soprattutto di non trovarsi nell'orrido quando la pioggia avesse lacerato il cielo. Thomas passò in testa, trovando una parvenza di sentiero che scendeva fino ai piedi dell'immensa muraglia liscia. Una volta arrivati in basso, Yael girò attorno a uno stagno formatosi in occasione dell'ultima apertura delle paratoie, evitò un mucchio di tronchi marci e continuò a seguire il suo compagno lungo il torrente. Il piccolo corso d'acqua, che occupava a malapena la metà del suo letto roccioso, era incassato tra pendii scoscesi coperti di arbusti, cespugli e macigni che Yael si augurava fossero ben saldi. Man mano che avanzavano, le pareti divenivano sempre più ripide, imprigionandoli al fondo di una trincea alta trenta, poi quaranta, e infine cinquanta metri. Yael aveva le mani sudate. Nonostante la presenza di una striscia di cielo color antracite sopra le loro teste, aveva l'impressione di essere rinchiusa sottoterra. Il fragore assordante del torrente accresceva il suo malessere. «Thomas, questa è la sola strada per andarcene?» osò domandare quando l'ansia fu troppo forre. «Temo proprio di sì.» L'avvertimento che avevano ignorato al parcheggio continuava a risuonarle nella mente in tutta la sua gravità. Quella dannata passeggiata poteva rivelarsi fatale. Se la diga avesse aperto le paratoie, non avrebbero avuto nessuna via di fuga, sarebbero stati travolti, finendo sfracellati contro qualche masso. Sulle pareti, quasi perfettamente verticali, ora dominava la roccia grigia. Era buio là dove posavano i piedi. Yael consultò l'orologio: le 18 e 45. L'orrido adesso era chiuso al pubblico; nessuno li avrebbe visti avvicinarsi. La luce calava velocemente. Thomas si pentì di non aver portato con sé una torcia elettrica. L'orrido si annunciava al di là di una svolta. L'eco del torrente percuoteva di continuo le pareti. Yael scorse con invidia le passerelle che aveva percorso al mattino, parecchi metri sopra di lei.
Dal basso la magia del luogo non era più la stessa. Il fascino emanato dal vuoto e dalla caotica geometria aveva lasciato il posto a un opprimente senso di vertigine. L'orrido non sbalordiva più per la profondità, bensì per la strettezza e l'altezza infinita. «Ho scordato un dettaglio», disse Thomas imprecando. «La marmitta dei giganti è dall'altra parte. Dobbiamo attraversare.» Stordita dalle smisurate proporzioni del paesaggio, Yael si strinse nelle spalle. Era colpevole quanto lui di quella dimenticanza, ossessionata dalla sua nascente claustrofobia. Thomas ispezionò il torrente per un centinaio di metri, cercando il guado più praticabile. «Qui, Yael! Con un minimo di equilibrio non dovrebbero esserci problemi.» «E se cado?» «C'è meno di un metro d'acqua. Sarai zuppa e congelata, ma viva.» Per niente tranquilla, lei si rassegnò a seguirlo, domandandosi perché si trovasse lì, che cosa fosse venuta a cercare. Thomas si trasformò in acrobata, saltando da una pietra all'altra fino a raggiungere la riva opposta senza problemi. Yael lo imitò, con più sicurezza e facilità di quanto avesse creduto. Erano sotto il ponte del Diavolo, e lei si stupì dell'improvvisa oscurità. La falesia in quel punto si incavava e numerose piattaforme naturali si susseguivano sopra il torrente. Dei gradini erano stati tagliati nella pietra all'epoca delle prime visite, più di un secolo orsono, per passare dall'una all'altra fino a dominare il panorama. Delle marmitte dei giganti foravano le terrazze, come i ricordi di un intenso bombardamento. Yael individuò la più grande, quella che le interessava, e si avvicinò. In quel momento si verificò un enorme choc sonoro, simile a un colpo di cannone. L'intero orrido rimbombò. L'immagine di un gigante che colpiva la montagna con il suo martello da guerra si fissò nella mente di Yael. Poi il boato echeggiò di nuovo, dalle nubi fin nella valle, lungo i pendii, facendo tremare al suo passaggio tutto ciò che somigliava a un essere vivente. Il temporale stava per scoppiare. 52 Le prime gocce di pioggia impiegarono un certo tempo prima di insi-
nuarsi nell'orrido. Yael saltò nella marmitta dei giganti, e le sue scarpe da basket schizzarono Thomas, che sorvegliava dal bordo della cavità, un metro più su. Yael si accovacciò per frugare tra le pietre che si erano ammucchiate nel catino nel corso degli anni. Una pozzanghera ristagnava nel mezzo, alimentata dal torrente quando una piccola onda si sollevava abbastanza in alto urtando la roccia. La conca geologica aveva un diametro inferiore ai due metri, ed era perfettamente arrotondata e levigata dai millenni. Yael notò un cumulo di sassi più grosso al centro, simile a un piccolo cairn, una sorta di monumento sepolcrale. Ci tuffò dentro le mani. I ciottoli erano freddi, e rotolavano urtandosi tra loro. Tuonò di nuovo, e questa volta una pioggia battente prese a sferzare la penombra. Yael sentì della plastica sotto le dita, e un oggetto duro. Un lampo illuminò la gola, proiettando sulla coppia l'ombra del ponte del Diavolo. La pioggia divenne più fitta del getto di una doccia. Yael estrasse dalle pietre quello che la attendeva lì dalla notte precedente. Era una busta trasparente che conteneva un rotolo di carta. Un fulmine si abbatté sulla montagna, accompagnato dal rombo furioso della tempesta. Yael teneva in mano un nuovo messaggio. E un revolver. «Dobbiamo andare!» gridò Thomas sopra il rumore della pioggia e il frastuono del torrente. Yael si voltò, sollevando in alto la busta. Thomas restò a guardarla, l'acqua che gli ruscellava sul viso. «Prendi tutto!» urlò infine. «Vedremo dopo di che si tratta.» Si affrettarono ad allontanarsi, attraversando il guado che cominciava ad agitarsi. La pioggia adesso si riversava nella faglia, picchiando contro le pareti. Thomas e Yael erano bagnati fradici. Il giornalista prese la giovane per mano e la trascinò di corsa in senso inverso, per risalire verso la diga prima che il torrente si gonfiasse troppo. Il cielo non era più che un basso soffitto di un grigio-nero uniforme. Sembrava quasi notte, e ogni passo richiedeva la massima attenzione per
non rischiare di rompersi una caviglia. Il diluvio inondava la zona, scatenandosi con tale rabbia da occultare ogni cosa e sigillando l'orizzonte con una cortina che divorava le montagne. Yael lasciò la mano del compagno per tirare indietro i capelli bagnati, lontano dal viso. Non avevano ancora percorso un quarto del tragitto e già l'acqua gorgogliava, lambendo le loro suole. Un lampo squarciò la gogna oscura che si stringeva sulla valle. Il tuono echeggiò tra i pendii. Yael aveva i piedi nell'acqua. Continuavano a correre. Non sentiva e non vedeva più niente, tutti i sensi erano saturi allo stremo. Si limitava ad appoggiare un piede dietro l'altro, stando attenta a non perdere l'equilibrio. I fulmini balenavano con regolarità, accompagnati dal loro colosso ruggente. E il torrente continuava a ingrossarsi e acquistare velocità, simile ormai a un fiotto di schiuma zampillante. I due correvano con i polpacci frustati dagli assalti sempre più violenti delle onde. In quell'istante qualcosa sorse dal velo opaco. Monumentale. La diga si innalzava proprio lì davanti. E Yael notò le chiazze nere e mobili che apparivano e scomparivano ritmicamente tra gli archi in cima. Il livello del torrente sarebbe esploso da un momento all'altro. «Presto!» urlò Yael. «Dobbiamo uscire dalla conca!» Thomas cercò il sentiero per il quale erano scesi. Decine di rigagnoli fangosi scorrevano rapidi tra i massi e i cespugli. Non sarebbe mai riuscito a ritrovarlo. Il tempo stringeva, e lui si lanciò a casaccio sulla salita. Le pietre rotolavano e rimbalzavano giù dal pendio. Thomas avanzava a tentoni, aggrappandosi dove poteva con una mano, e aiutando con l'altra la coscia malconcia. Yael lo seguiva, schivando le viscide colate che rischiavano di farla cadere. Raggiunsero la strada, poi il parcheggio. Una volta al sicuro nell'auto, rimasero in silenzio, cercando di riprendere fiato, cullati dalla cacofonia che si abbatteva sul parabrezza e dal rumore ritmico delle gocce che cadevano abbondanti dai loro vestiti. Yael riaprì gli occhi dopo un minuto. Era scossa dai brividi. Gli dei si affrontavano davanti a loro. A colpi di saette luminose che illuminavano l'immenso nulla in cui gal-
leggiava la macchina. Spade fiammeggianti si accanivano sulla terra, lance dalle radici nodose, che brillavano nelle tenebre come la morte. Yael si rese conto che in ventisette anni di vita non aveva mai assistito a un temporale in montagna. Le aste infernali sondavano quel mondo fuligginoso, lanciando le loro scariche a guisa di spaventosi tentacoli. La tempesta si squarciava, rivelando la sua vera forma: quella di una nera piovra che si allungava sulle vette e le gole. «Stai bene?» domandò Thomas, tremando a sua volta. Yael gli sorrise. Sapeva di essere al sicuro dentro l'auto; anche in caso di fulmine, le gomme isolavano dal terreno e l'abitacolo sarebbe servito da gabbia di Faraday. Sperava solo che le sue reminiscenze di fisica fossero corrette. «Allora?» disse il reporter. «Vediamo di cosa si tratta?» La busta di plastica era posata sulle ginocchia di Yael. Con la rivoltella. Delicatamente, lei aprì il sacchetto e prese il foglio arrotolato, avendo cura di non toccare l'arma. Lo svolse, sapendo che forse rappresentava il modo per intercettare le Ombre, se si fossero sbrigati. Il testo era scritto a mano, con la medesima grafia fitta ed elaborata, quasi gotica, del messaggio nella bottiglia. «La menzogna è uno dei cementi della storia. Che sia un atto volontario o un'omissione. Tutte le famiglie hanno un segreto. Tutte. Ignorato dai più. Questi segreti di famiglia poggiano sulla menzogna. «Che cosa sa della sua famiglia, Yael? Che cosa ignora? I fantasmi non ossessionano coloro che possono vederli. Lei ha visto il suo, sotto la superficie delle apparenze? «Alcuni sanno. C'è sempre qualcuno che sa. La gola del Diavolo è il pozzo delle menzogne, ma se lei gli dà la sua anima, il diavolo parla sempre...» La piovra di luce spiegò un'ultima volta i suoi tentacoli e, a poco a poco, scivolò verso est. 53
Yael lesse e rilesse il messaggio finché non l'ebbe imparato a memoria. Cominciava a familiarizzarsi con la retorica delle Ombre. Il senso delle frasi, in apparenza sibilline, le risultava chiaro sempre più in fretta. Questa volta, le parole le facevano male. Non soltanto le annodavano le viscere, ma la colpivano allo stomaco, la toccavano al cuore... «Che cosa sa della sua famiglia, Yael? Che cosa ignora?» «Fammi vedere», disse Thomas prendendo il foglio. Yael si massaggiò le tempie. «Stavolta ci siamo», mormorò. Il giornalista si raddrizzò sul sedile e si voltò a guardarla. «Ho paura che... sia scoccata l'ora della verità. Che... che cosa sai dei tuoi parenti?» Yael scosse il capo. «Niente di sospetto. È questo che non mi quadra. Ho l'impressione di essere presa in giro!» Thomas la osservava, non osando parlare. Attese che lei accettasse l'evidenza. Il modo di procedere delle Ombre non aveva nulla della burla, e tutto ciò che avevano messo in atto fino a quel momento aveva gettato luce sulla realtà del mondo. La collera di Yael si placò subito. Adesso sapeva. «Bisogna... Bisogna andare per ordine», annunciò. «Mi sono abituata al loro stile di scrittura, alla costruzione delle frasi. Partiamo dal primo paragrafo.» Lesse a voce alta: «'La menzogna è uno dei cementi della storia. Che sia un atto volontario o un'omissione. Tutte le famiglie hanno un segreto. Tutte. Ignorato dai più. Questi segreti di famiglia poggiano sulla menzogna.' Niente di particolare, nessun significato simbolico, una semplice spiegazione». «È un modo per ricordarti che probabilmente non conosci... il tuo segreto di famiglia, no?» osservò Thomas. Yael assentì cupamente. «Secondo paragrafo: 'Che cosa sa della sua famiglia, Yael? Che cosa ignora? I fantasmi non ossessionano coloro che possono vederli. Lei ha visto il suo, sotto la superficie delle apparenze?» «'Sotto la superficie delle apparenze'... si riferisce al lago.» «E il mio fantasma è quel cadavere nella casa sommersa...»
Yael trasse un profondo respiro per farsi coraggio. Sapeva che quello scheletro non avrebbe smesso di tormentarla. «E per finire: 'Alcuni sanno. C'è sempre qualcuno che sa. La gola del Diavolo è il pozzo delle menzogne, ma se lei gli dà la sua anima, il diavolo parla sempre...' Dobbiamo trovare coloro che sanno.» «Il tuo fantasma risale al 1943, quando si è formato il lago. Bisogna senz'altro cercare una persona anziana.» «'La gola del Diavolo è il pozzo delle menzogne, ma se lei gli dà la sua anima, il diavolo parla sempre...'» ripeté Yael. Decifrò senza difficoltà il significato dell'ultima frase. «Nessuno vorrà parlare, oppure ci mentiranno. A meno che io non sia sincera. Devo dire chi sono. Forse ho degli avi che sono vissuti nella regione.» «Cosa sai dei tuoi genitori?» «Sappiamo sempre tutto e niente dei nostri genitori. Si conosce solo quello che hanno voluto dirci. Ed è ancora peggio con i nonni, e via di seguito! Non ci sono grossi misteri, soltanto drammi. Mia madre è morta in un incidente d'auto quattro mesi fa. Mio padre era orfano, tutto qui! Questi sono i nostri grandi segreti di famiglia!» Thomas scosse lentamente la testa. Rammentava le confidenze che lei gli aveva fatto durante il loro primo incontro a cena. Yael abbassò il tono, tentando di far sbollire la rabbia. «Scusa, è solo che... I miei genitori erano delle brave persone. Il ricordo di mia madre mi fa soffrire, da quando lei non c'è più. E mio padre è un uomo perbene, non merita che felicità, capisci? Non voglio che li infanghino o mi riempiano la testa di cose che... non mi riguardano.» «Può darsi che non abbia nulla a che vedere con loro.» «Be', papà non è veramente orfano, non aveva un buon rapporto con la madre e non ha mai conosciuto il padre, che è morto quando lui aveva appena un anno.» «Posso chiederti come?» «Non si sa. C'era la guerra. È uscito un mattino per andare al lavoro e non è più tornato. Sua moglie ha sempre sospettato dei tedeschi, senza averne le prove.» «Lo sai dove vivevano?» «Mia nonna non amava parlarne, era doloroso per lei. So soltanto che sono cresciuti nella zona di Lione.» Thomas si prese un po' di tempo per mettere insieme tutte le informazio-
ni. Temeva di aver capito a chi appartenesse quel corpo putrefatto che avevano liberato in fondo al lago. «L'enigma parla della gola del Diavolo», ricordò Yael. «Credo che le persone o la persona che sanno, siano di qui. Se sei d'accordo, vorrei andare a controllare. Ho notato una casa davanti all'ingresso dell'orrido, stamattina.» Thomas fece un cenno d'assenso e girò la chiave, mentre lei infilava la busta con l'arma dentro lo zaino. Percorsero appena un chilometro, con i tergicristalli sempre in funzione, prima di posteggiare davanti a una vecchia casa in pietra. Yael andò a bussare alla porta, riparandosi dalla pioggia sotto il portico. Un piccolo cartello rinsecchito, appeso sotto il campanello rotto, recava il nome MALINVAL. Un vecchio aprì la porta di legno e aggrottò le sopracciglia vedendo la coppia bagnata fradicia. «Ma guarda un po'... L'acqua fa crescere solo le piante, non lo sapete?» Yael gli rivolse un sorriso amabile. «Signore, mi... mi chiamo Yael Mallan, e mi rincresce disturbarla, ma avrei bisogno di farle qualche domanda.» Il vegliardo la squadrò da capo a piedi, poi indietreggiò. «Entrate, entrate.» Si ritrovarono in un soggiorno rustico, nel quale aleggiava un buon profumo di brodo caldo, che risvegliò l'appetito della giovane. «Mi pare che abbiate bisogno soprattutto di un asciugamano», osservò il vecchio. Ne porse loro uno, sbiadito dagli anni. «Signor...» iniziò Yael. «Mi chiamo Lucien.» Aprì una polverosa credenza, ne cavò fuori una bottiglia di genepì e riempì tre bicchierini. «Tiene lontano il raffreddore», spiegò. «Perdoni la domanda, ma vivono molte persone qui? Voglio dire, nei pressi dell'orrido del Diavolo? Persone che... ci abitano da molto tempo.» «Ci sono io. E altre cascine, più lontano.» Le Ombre avevano indicato con precisione la gola del ponte del Diavolo. Erano lì, non a dieci chilometri di distanza. «Lucien, mi scusi per la franchezza, ma sto cercando delle informazioni, probabilmente riguardo alla mia famiglia.»
L'altro evitò il suo sguardo bevendo un sorso di liquore. «Mi chiamo Mallan, non le dice niente?» Questa volta lui la fissò intensamente, poi sbirciò Thomas. «Dovrebbe parlarne con la sua famiglia», consigliò il vecchio. «Per quel poco che ne resta, non si può dire che sia... molto loquace.» «L'ho già detto a vostro... padre, suppongo. È una vecchia storia che non ha bisogno di essere rivangata.» «Mio padre è stato qui?» «Penso fosse lui. Un certo signor Mallan, sulla cinquantina.» Yael si tastò subito la salopette alla ricerca del portafoglio. Era nello zaino posato ai suoi piedi. Ne estrasse una foto di famiglia che la ritraeva insieme ai suoi genitori. «È lui?» Lucien Malinval scosse la testa. «No, ma mi ha detto di chiamarsi François Mallan. È un nome che non dimenticherò per tutta la vita.» Yael levò su di lui uno sguardo contrariato. François Mallan era il nome di suo padre. 54 Thomas vide Yael irrigidirsi. Intuì che qualcuno si era fatto passare per suo padre allo scopo di far parlare il vecchio. «Quanto tempo fa è successo?» «Non saprei... l'estate scorsa, mi sembra, forse a giugno o a luglio, più di un anno fa, comunque.» Yael si sforzò di non perdere il filo della conversazione malgrado lo stupore. Le Ombre la braccavano da molto tempo. «Signor Malinval, è importante per me.. che cosa gli ha detto?» Il vecchio montanaro vuotò il bicchiere, visibilmente imbarazzato. «Preferirei evitare.» «È importante per me», ripeté Yael. «Ho bisogno di sapere.» «Nessuno ha bisogno di sapere quelle cose, mi creda.» Lei gli prese la mano, guardandolo con occhi imploranti. «Non le creerò problemi, lo giuro. Devo sapere. Si tratta della mia famiglia», lo supplicò. Lui liberò la mano per far girare il bicchiere sul tavolo. La sua bocca si aprì, poi si richiuse. Non aveva labbra, come se il tempo gliele avesse con-
sumate. Gettò un rapido sguardo alla foto in bianco e nero di una donna in grembiule che troneggiava sulla credenza. «Ve lo racconterò, poiché tutti i protagonisti della vicenda ormai sono morti, però non voglio noie, d'accordo? Non dirò niente alla gendarmeria. E dopo non voglio più sentirne parlare.» Yael annuì, e l'uomo trasse un respiro profondo. Profondo come se dovesse scendere dentro l'uomo e attingere dalla miniera acida della sua memoria. «C'erano dei Mallan che vivevano nella zona, una volta. Nella frazione di Malatraix, un villaggio che oggi non esiste più.» «È stato travolto da uno smottamento nel 1943, ci siamo stati.» Lucien Malinval la scrutò minuziosamente, quasi che la ragazza gli fosse appena apparsa davanti, e assentì. «Esatto. Quel tizio, Armand Mallan, non era uno di molta compagnia, e nemmeno sua moglie.» Yael lanciò una breve occhiata a Thomas. «I miei nonni», lesse il giornalista sulle sue labbra. «Durante la guerra», proseguì il vecchio, «c'erano parecchi partigiani nella regione, gente del luogo che non amava troppo i tedeschi e che si nascondeva in montagna. Mallan, invece, parteggiava più per i miliziani, aveva delle simpatie per il governo di Vichy, credo. Ha fatto delle porcate. Ha denunciato diversi partigiani. Uomini dei paraggi, persino degli adolescenti. Ci sono stati dei morti. Delle fucilazioni. E lui se l'è cavata sempre bene. La cosa è piaciuta poco, dato che già non era visto di buon occhio per i suoi modi. Tra i ragazzi che aveva tradito ce n'erano alcuni di Malatraix, con dei parenti che vivevano ancora nel villaggio, e questo gli ha causato grossi grattacapi. Ma era nelle grazie della milizia, e nessuno osava fare niente per paura di rappresaglie. Nel '43, quando c'è stato lo smottamento, io abitavo con mio fratello nella segheria più in alto sulla montagna. Siamo stati noi a vedere per primi la colata di fango e i tronchi che venivano giù dal pendio. Nella notte, ha attraversato la nostra camera.» I suoi occhi guastati dal tempo brillavano evocando quei ricordi lontani. «Nei giorni seguenti, nella valle si sono organizzati. Ci si preparava a sloggiare. E alla gente sono venute certe idee. Una sera, ho visto gli uomini del villaggio radunarsi per andare dai Mallan. Ne aveva fatte di carognate, il Mallan, aveva del sangue sulla coscienza, ma quello che è successo quella notte non è stato da meno. C'è stato un gran trambusto nella casa, la signora Mallan gridava. Io ho sentito, ero con mio fratello. Sono usciti de-
gli uomini con lo sguardo malvagio, se capite cosa intendo, trascinando Mallan. La moglie e il figlio sono rimasti dentro. Volevano solo il traditore. Parlavano di usare la casa che cominciava a essere allagata. E poi io sono rientrato con mio fratello. Avevamo sentito abbastanza.» Si versò un altro bicchierino, che buttò giù d'un fiato. «Se Armand Mallan è ancora da qualche parte, se ne sta in fondo al lago», concluse. «Non è una bella storia, signorina, ma non deve giudicare. Erano altri tempi. Oggi è diverso.» Yael non aveva nessuna voglia di giudicare. Aveva ascoltato i fatti con distacco. Curiosamente, non provava alcuna emozione. L'uomo che era venuto lì spacciandosi per suo padre era un impostore, di certo al soldo delle Ombre. Suo padre non aveva mai avuto sentore di quella sinistra vicenda. Non avendo conosciuto il nonno, parlare della sua morte non procurava nessuna pena a Yael, e l'uomo che era stato non meritava pietà, nonostante la tragica fine. Adesso comprendeva perché la nonna fosse una donna scontrosa e taciturna, perché avesse mentito sulle loro origini, tenendo nascosta la loro permanenza in quel luogo. «Questo François Mallan che è venuto a trovarla, che cosa le ha raccontato?» indagò Yael. «Mi ha spiegato che i suoi genitori avevano vissuto qui, in passato. Che sua madre era morta da poco e che aveva trovato fra le sue cose dei documenti che menzionavano il loro passaggio nella regione. Voleva tirare una riga sul suo passato e sapere come mai non gliene avesse mai parlato. Aveva interrogato parecchia gente del posto, ma senza risultato. Finché non era arrivato da me.» «Gli ha detto le stesse cose che ha confidato a me?» «Non era mia intenzione, all'inizio. Ho cominciato dicendogli che era vero, che i suoi genitori avevano abitato qui per alcuni anni. Fino al '43. Dopo di che si erano trasferiti chissà dove. Ma lui ha insistito. Aveva bisogno di sapere di più. Gli ho spiegato che non li conoscevo bene, che ero giovane all'epoca. Abbiamo chiacchierato un po'. Lui voleva capire. Mi ha fatto parlare.» Il mento del vecchio si contrasse per un breve istante. Yael capì che, per quanto dolorosi fossero quei ricordi, Lucien Malinval sentiva la necessità di dar loro voce; condividerli significava esorcizzarli. Aveva accettato di raccontare tutto senza troppa riluttanza perché ne avvertiva il bisogno. «Mi faceva bene parlarne», confermò il montanaro. «Forse non era molto bello, ma era meglio che lui sapesse. Non mi ha chiesto di fare dei nomi.
Voleva solo sapere.» «Non ha cercato di conoscere dettagli specifici?» «No. Be', alla fine sì... si domandava se fosse possibile che il corpo del padre si trovasse ancora laggiù, nella casa sott'acqua. Non ho saputo rispondergli. Nessuno lo sa, e nessuno vuole saperlo.» Yael tentò di rimettere ordine nei pensieri che le si affollavano nella testa. Come avevano fatto le Ombre ad arrivare fin lì? Alla morte della nonna, nella primavera di un anno e mezzo fa. Sono riuscite a entrare a casa sua, a frugare tra le carte, a violare i suoi ricordi. Ciò significava che non solo Yael, ma tutta la sua famiglia era sotto sorveglianza. Un'idea insopportabile circa l'incidente della madre le si affacciò nella mente. La scacciò subito, con una furia cieca. Le Ombre si sono introdotte a casa della nonna, in cerca di qualsiasi informazione. Hanno l'abitudine di farlo. Sanno che bisogna sempre rovistare, rivangare il passato delle famiglie per riportare a galla un segreto ben custodito. Può darsi che avessero fatto lo stesso con tutti i membri della famiglia. Scavando senza sosta, senza trovare nulla di probante, fino a quel momento. Dovevano mostrarsi pazienti e tenaci per sperare di ottenere qualche risultato. Le Ombre in seguito avevano organizzato in segreto un'immersione per verificare se il cadavere ci fosse ancora. Avevano scoperto il baule, forse l'avevano riportato in superficie per inserirvi la bottiglia con il messaggio senza rovinare lo scheletro. Da quanto tempo spiavano Yael? Un anno e mezzo? Due? Le sembrava assurdo. Perché investire tanti mezzi, uomini ed energie in una cosa del genere? Cos'aveva lei di tanto particolare per suscitare un simile interesse? Henri Bonneviel senza dubbio conosceva la risposta. Il suo piede urtò lo zaino e un oggetto pesante all'interno. Si rammentò del revolver. Sarebbe tornato utile prima della fine di quella storia. Blog di Kamel Nasir. Estratto 8 Potete sorridere leggendo le mie parole, darmi del paranoico, del cospi-
ratore, certo. Ma io non faccio altro che mettere in ordine le informazioni sparse in giro. Forza, prendete il vostro computer e collegatevi a Internet. Fate qualche ricerca su questi «deliri» e avrete modo di constatare che rispondono al vero. Consultate gli archivi dei giornali seri. Interpellate qualche storico ben documentato. Frugate, scavate. E vedrete. Ma siate prudenti, perché, come nei film (!), capita che volendo raccontare la verità si finisca nei guai. Penso all'agente della CIA Robert Baer, che alla fine ha deciso di presentarsi davanti al Congresso per spiegare come funzionavano le cose, in particolare il potere delle lobby nella politica del Paese. Non soltanto il Congresso non l'ha ascoltato, ma il procuratore l'ha persino dissuaso dal ritornare, minacciandolo. Lo stesso giorno in cui Baer testimoniava davanti al Congresso, la sua abitazione è stata «visitata», senza che il ladro portasse via niente. A poco a poco, l'inchiesta avviata da Baer sul funzionamento dell'amministrazione si è ritorta contro di lui. Finché non gli hanno chiesto di accettare di farsi esaminare da uno psichiatra. Spaventato all'idea di quel che ne poteva seguire, Baer ha preferito abbandonare le indagini, e l'inchiesta è stata bloccata. Penso a casi ancora più sinistri, come quello di James Hatfield, autore di un libro assai documentato sulla famiglia Bush. È stato minacciato di morte, pubblicamente per giunta (errare è umano!), da due parenti di Bush. E il 18 luglio 2001 hanno ritrovato il suo corpo senza vita. Ufficialmente, si sarebbe suicidato. Aveva denunciato, tra l'altro, i legami dei Bush con i Bin Laden. Fate qualche ricerca su di lui. Su John Arthur Paisley e tutti gli altri «suicidi» che costellano la storia della Casa Bianca. Come Marilyn Monroe, la più celebre, di cui un ex procuratore ha appena reso pubbliche le confessioni al suo psichiatra, che rivelano come l'attrice non manifestasse assolutamente quelle «tendenze suicide» sottolineate dalle autorità dell'epoca per avvalorare la tesi del suicidio con i barbiturici. Al contrario, aveva un sacco di progetti ed era motivata per i mesi a venire. Insomma, non era affatto una candidata all'autodistruzione. Solo che Marilyn frequentava troppo da vicino personaggi influenti come i Kennedy, era a conoscenza di troppe cose, non era tipo da saper mantenere un segreto per tutta una vita. Da qualche parte, c'era chi temeva che potesse parlare. L'hanno fatta tacere per sempre, e con lei la diffidenza di un intero popolo. E se la paranoia fosse divenuta una virtù? In un mondo di ultracomunicazione manipolata, dove i popoli sono go-
vernati e instradati dalle bugie di un manipolo di individui al servizio dei propri interessi, la paranoia non costituisce forse un moderno strumento di sopravvivenza? Incontro un mucchio di gente sulla rete. Molti considerano la razza umana un gregge di pecore che pascolano beate, ognuna delle quali fa come tutte le altre, senza preoccuparsi di ciò che le sta intorno o della direzione in cui va. Tra coloro che la pensano così, alcuni sorridono dei miei propositi; io li chiamo «cani da pastore», perché ritengono di avere abbastanza conoscenze e intelligenza da manovrare al di sopra del gregge. Si credono sufficientemente abili da non farsi manovrare a loro volta. Ma l'intelligenza non c'entra niente. È la vigilanza che occorre. E quel pizzico di salvifica paranoia. Mi dicono che in fondo sono affari degli americani. Che comunque Bush presto non ci sarà più. E che in Francia non ci sono di questi problemi. Falso, falso, e ancora falso. Non disprezziamo le vite con la scusa che sono lontane da noi. Non disprezziamo la libertà con il pretesto che la nostra non è minacciata. Perché la libertà delle nazioni e dei popoli è un gioco del domino molto fragile. Le forze oggi in azione hanno compreso che far vacillare le tessere del domino è troppo rischioso, perciò le lasciano in piedi, succhiandone il midollo dall'interno finché non restano solo involucri vuoti. E la Francia non sfugge alla regola. Dietro tutti i pretesti possibili, dietro statistiche monche o fatti estrapolati dal loro contesto, possono farci accettare molte cose, molte leggi, molte misure restrittive. La geopolitica moderna non è che un grande arazzo la cui tessitura va avanti senza soste. Tirare un filo da qualche parte ha delle conseguenze sull'intera opera. Talvolta assai più drammatiche di quanto non si immaginasse all'inizio. La Francia è come ogni altro Paese: cova le sue bugie, maschera abilmente i suoi segreti, ecco tutto! Basta indagare. Cerchiamo di non essere ciechi o sprezzanti sotto l'apparenza di una certa acutezza. Invito tutti a coltivare, al contrario, un giardino di paranoia. Oggigiorno è l'unica chiave per comprendere realmente il mondo. 55
La Opel si apriva un sentiero di luce sotto la pioggia che copriva la montagna di una bruma grigia. Yael e Thomas avevano approfittato dell'ospitalità di Lucien Malinval per asciugarsi e cambiarsi prima di rimettersi in viaggio per Thonon-lesBains. Yael era divisa tra la delusione e una fredda eccitazione. Erano arrivati alla fine dei messaggi lasciati dalle Ombre senza trovare un seguito preciso. Con ogni evidenza, il vecchio montanaro non aveva nessun ruolo nella loro storia, a parte quello di semplice testimone. Che direzione doveva prendere Yael adesso? Le Ombre non sapevano che aveva smascherato lo Shoggoth. Henri Bonneviel era il vertice dell'organigramma? L'occhio onnisciente in cima alla piramide tronca sul biglietto da un dollaro? Yael si sentiva confusa, smarrita. Cosa volevano le Ombre? Perché l'avevano condotta fin lì? Svelarle la storia della sua famiglia aveva una finalità che non riusciva a circoscrivere. «Non capisco perché ci abbiano trascinati così lontano», confessò a Thomas, che era alla guida, concentrato sulla strada tortuosa. «Non dimenticare di inserire la tua storia nel contesto», notò lui. «Le Ombre fanno la storia.» Yael analizzò il significato che poteva dare a ciò che stava vivendo inquadrandolo in un contesto più ampio. «Tutte le famiglie hanno dei segreti, è proprio ciò che hanno detto. Fondati su delle bugie. Proprio come la storia. Come possiamo pretendere di conoscere la storia del mondo se non conosciamo nemmeno le nostre storie personali? Sarebbe così?» «Sì. Le Ombre dimostrano anche di avere un potere immenso, di conoscerti fin nell'intimità. Sono capaci di tutto, persino di disseppellire un segreto di famiglia sconosciuto alla maggior parte dei suoi membri.» Thomas superò con cautela una curva a gomito sull'asfalto bagnato e aggiunse: «O magari ti vogliono dire: guarda cosa succede sulla tua scala, confrontalo su scala umana, planetaria, e vedrai che è lo stesso. Il micro e il macro. Sempre nella loro dinamica dell''aprire gli occhi'. Credo che sia un po' di tutto questo, in effetti». «Ma per arrivare dove? Per fare cosa? E perché io? Cos'ho di speciale?» Scosse il capo e tentò di contemplare il paesaggio avvolto nell'oscurità. Non riuscendoci, abbassò l'aletta parasole, e il suo viso apparve nello specchietto.
Le labbra spesse, gli occhi chiari sotto i capelli corvini. «È uno sforzo enorme per una piccola persona», osservò. Ripensò alle prime parole delle Ombre: «Noi siamo dall'altra parte. Nelle ombre. Quelli dall'altra parte degli specchi. Noi siamo ovunque. Lei deve sapere. Stare con noi. Indaghi. Comprenda. È importante per lei. Creda. E sarà pronta». Erano dall'altra parte del sistema, là dove si trovava il potere. Nascoste sotto le apparenze. E lei per cosa sarebbe stata pronta, in definitiva? Per la rivelazione finale? Thomas la riscosse dai suoi pensieri. «Dobbiamo chiamare Kamel. Ci fermiamo prima dell'hotel.» «No, filiamo dritti a Ginevra.» «Yael, è troppo pericoloso! Non sappiamo niente di questo Bonneviel.» «Finora ti ho sempre ascoltato, e avevi ragione. Ma stavolta sono io che corro il rischio.» Si girò verso di lui per precisare: «Ti capirei se non mi volessi accompagnare». «Non dire idiozie. Sai bene che non ti lascerei andare da sola. Però non sono d'accordo. È troppo presto. Sei stanca, arrabbiata e...» «Non sono affatto arrabbiata. Voglio sapere, tutto qui. Fai rotta su Ginevra, Thomas.» La strada costeggiava il lago Lemano, che scompariva sotto l'onnipresente temporale. Degli squarci sfavillanti apparivano di quando in quando, facendolo somigliare a un formidabile pesce arenato nella nebbia. Avevano superato la frontiera senza essere controllati, con gran sollievo di Thomas, che non aveva smesso di ripetere a Yael che stavano giocando con il fuoco. La loro cena consistette in un tramezzino e una bottiglietta d'acqua minerale in una stazione di servizio. La pioggia diminuì alla periferia di Cologny, trasformandosi in un'acquerugiola costante. La vettura si aggirò a lungo nelle vie del quartiere che avevano indicato loro cinque minuti prima in una farmacia. Continuavano a perdersi. Thomas si fermò davanti a un piccolo supermercato; era quasi l'ora di chiusura, e Yael corse a comprare una cartina della città. «Intanto io cerco di contattare Kamel», la avvertì Thomas, accaparrandosi la cabina telefonica. La giovane tornò in macchina per studiare la cartina all'asciutto, mentre il suo compagno pazientava accanto al telefono, sperando che squillasse. Dopo una decina di minuti, non avendo ricevuto risposta, rinunciò e si ri-
mise al volante. Finalmente, trovarono la lunga strada in cui abitava Henri Bonneviel. Siepi di ligustro cingevano le ville, annidate al riparo dei curiosi. Era un quartiere elegante e moderno, dove le automobili di lusso stavano accanto a interminabili piscine dall'architettura stravagante. «È qui», indicò Yael passando davanti a un portone in legno. Si slogò il collo per scorgere un pezzo della dimora. «Ci sono delle luci accese.» Thomas non si era fermato, ma procedeva adagio costeggiando il parco. «Qual è il tuo piano? Suonare il campanello? Ci autoinvitiamo per esigere delle spiegazioni?» «Continua: è meglio che la macchina sia lontana, per non farci notare. Ecco, svolta là, in quella via in discesa.» Lui obbedì, e posteggiò in un viale parallelo, da cui si godeva una perfetta visuale dell'intera casa di Bonneviel. Su quel lato era costruita su una serie di pali, diverse finestre erano illuminate, così come la terrazza da cui si dominava il panorama del lago. «E adesso?» Yael si allungò per esaminare l'esterno. «Aspettiamo un po', il tempo di vedere quante persone ci sono.» Thomas posò le mani sul volante e ispezionò quel che riusciva a distinguere dell'immenso parco che saliva sotto i piedi metallici della villa. Non vedeva nessuno. E nemmeno delle videocamere di sorveglianza. Yael lanciò uno sguardo all'orologio sul cruscotto. Le 23 e 10. Cosa doveva fare? Attendere che il padrone di casa dormisse per introdursi all'interno? All'improvviso, tutto assumeva proporzioni che non riusciva più a controllare. Lei, che fino a una settimana prima non aveva mai avuto grane con la polizia, adesso si accingeva a commettere un'effrazione a casa di un banchiere svizzero. Contemplò ancora una volta la proprietà del miliardario. Enorme, piantata nella collina come la rampa di una funivia. Forse era meglio attendere che le luci si spegnessero. Passò un'ora. Non pioveva più. Yael non riuscì a trattenersi oltre. Afferrò lo zaino e se lo mise in spalla. L'arma era all'interno. «Vado a dare un'occhiata.»
Thomas fece per girare la chiave di avviamento, ma lei lo bloccò: «A piedi, preferisco. È più silenzioso». Il reporter scese dalla vettura prima che lei gli proponesse di restare ad aspettarla. Insieme risalirono il viale sul marciapiede bagnato, rasentando la siepe di arbusti. Una volta davanti al portone, Yael esaminò il citofono. Un rettangolo nero tradiva la presenza di una videocamera di controllo quando si premeva il campanello. Verificò che fossero soli nella via e si issò sul montante di legno, sotto lo sguardo allibito di Thomas. In un attimo, fu dall'altra parte. «Non è vero!» sbottò lui, prima di imitarla. Sull'altro lato, un prato ben curato circondava la villa, e un vialetto serpeggiava fino al triplo garage che la fiancheggiava. Dei lampioncini alti un metro segnalavano il cammino da seguire fino all'ingresso. «Rifletti bene su quello che stai per fare», bisbigliò Thomas raggiungendo la giovane. «Tra un minuto, sarà troppo tardi.» «È già troppo tardi.» Si diresse con passo svelto verso la porta principale, inserita in una cornice di vetro. Yael vi s'incollò per scrutare all'interno. «Vedo della luce.» Appoggiò una mano sul pomello. «Yael!» obiettò Thomas, soffocando il grido. Lei lo fissò, misurando la propria determinazione in rapporto al timore del suo compagno. La verità era tra quelle mura. La risposta a tutte le domande. Perché la sua vita era stata stravolta in così poco tempo? Perché l'avevano scelta? Che cosa volevano da lei? Girò il pomello della porta. 56 L'atrio era arredato in modo sobrio: un tavolo moderno con sopra una lampada, e un quadro in stile impressionista. Yael non avrebbe saputo dire se fosse un'opera famosa o la tela di un dilettante. Una porta aperta dava in una cabina armadio per scarpe e cappotti. La luce era accesa e lei si avvicinò in punta di piedi. Sentiva l'odore di cuoio e lucido per calzature. Nessuno.
Subito dopo si apriva un lungo salone, inondato dalla luce calda e indiretta di decine di applique. L'altezza del soffitto era impressionante, almeno sette metri, stimò Yael. E un intero lato del locale dava sulla terrazza in tek, quasi altrettanto vasta. Yael si protese per sbirciare ogni angolo, ogni divano. Non vide nessuno. Entrò lentamente nel salone. Un televisore al plasma, appeso alla parete, diffondeva immagini di spot pubblicitari, il volume a zero. Notò un bicchiere sul tavolo basso in vetro fumé e marmo. Era pieno per un terzo. Annusò il contenuto. Whisky, concluse, posandolo. Bonneviel era lì, da qualche parte. Thomas si allontanò per controllare una stanza attigua, la sala da pranzo. Tornò scuotendo la testa. Una scala portava al primo piano, vicino a un caminetto dalle dimensioni gigantesche. Thomas decise di salire. «Forse nella camera da letto!» sussurrò. Yael stava per seguirlo quando la sua attenzione fu attirata da una porta a due battenti, uno dei quali era socchiuso e lasciava filtrare una lama di luce sul parquet. Si avvicinò. Una libreria di legno scuro inquadrava un massiccio scrittoio ingombro di volumi e incartamenti. Una lampada illuminava il sottomano in pelle e una serie di stilografiche Montblanc. Yael varcò la soglia, affondando nel morbido tappeto. Tirò indietro la pesante poltrona per sedersi. Due schermi piatti fissati al soffitto mostravano le quotazioni di borsa. Non c'era un granello di polvere, la luce fioca della lampada bastava a far brillare il legno, a sottolineare le curve morbide dei mobili. Ogni oggetto su cui posava lo sguardo, che si trattasse di una matita o di una rilegatura, era di eccellente qualità, lavorato con cura particolare. Yael respirava l'atmosfera di lusso discreto che permeava l'ambiente. Seduta su quella poltrona, percepiva lo spettro del potere. L'importanza di ogni parola scritta sulla tastiera del computer portatile alla sua sinistra, di ogni e-mail, di ogni fax che poteva far perdere o guadagnare milioni, creare posti di lavoro o causare licenziamenti, originare nuove ricchezze o provocare bancarotte. Lei era in uno dei centri nevralgici del sistema finanziario mondiale. Questo da solo non aveva abbastanza influenza da sconvolgere tutto, ma l'uomo che controllava un certo numero di tali centri
nel globo poteva incidere sull'economia del pianeta. Trasformare in un attimo la vita di milioni, di miliardi di persone. Che cos'era lei in mezzo a tutto ciò? Lei, Yael Mallan, una giovane donna di ventisette anni che guadagnava millecento euro al mese. Un ingranaggio del sistema? Forse neanche. Aprì la bocca per respirare. Non era il momento di pensare a quello. Si trovava nell'ufficio di colui che stava manipolando la sua vita. Era giunta l'ora di saperne di più. Ma non osava toccare nulla. Realizzò di avere quasi paura. Paura di spostare un oggetto e degli effetti che ciò poteva avere. Di aprire il file sbagliato sul computer. Di causare conseguenze enormi. Sei fusa... Non stai schiacciando il bottone nucleare... Forza, muoviti! Si sforzò di scacciare l'inopportuno senso d'inferiorità e sfiorò il touchpad per disattivare la modalità stand-by. Apparve uno sfondo blu con un riquadro grigio che richiedeva la password. È andata male... Sapendo che la ricerca di un'ipotetica password era una battaglia persa in partenza, trasferì la sua attenzione sulla vaschetta della corrispondenza. Fece una rapida cernita della posta, senza scoprire niente di interessante. Si dedicò quindi alle pile di dossier, leggendo l'intestazione di ciascuna cartelletta: si trattava essenzialmente di transazioni bancarie. Passò in rassegna i libri, per lo più saggi di economia mondiale. Nulla da segnalare. Si alzò per fare il giro della stanza quando notò dei cassetti sotto lo scrittoio. Ignorò i primi due, che contenevano vari articoli di cancelleria, e aprì il terzo. C'erano delle cartelle per documenti con le scritte: URGENTE, AFFARI IN CORSO, FONDI PENSIONE, PERSONALE. Cominciò dall'ultima. Tra gli incartamenti, uno in particolare attirò la sua attenzione: ASSOCIAZIONI UNIVERSITARIE. Dopo quel che aveva letto sull'Ordine dei Teschi e delle Ossa, la potentissima confraternita segreta, Yael aveva aguzzato la vista. Aprì il dossier e lo consultò. Henri Bonneviel faceva il mecenate per numerose associazioni universitarie sparse negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Svizzera. I nomi erano sempre gli stessi, e i versamenti ammontavano a diverse decine di migliaia di dollari l'anno. Guardando il riepilogo delle somme donate l'anno prima, un nome la fece sussultare. Un numero, in realtà.
322. UNIVERSITÀ: Yale ASSOCIAZIONE: 322 IMPORTO ASSEGNATO: 55.000 $ DATA: 2° trimestre Era di gran lunga l'assegno più cospicuo che il banchiere avesse firmato. Yael ricontrollò i dati relativi agli anni precedenti e constatò che all'associazione 322 andava sistematicamente il grosso delle donazioni. 322 era il numero che appariva sullo stemma dell'Ordine dei Teschi e delle Ossa, un omaggio mai dimostrato ma probabile al giorno della morte di Adam Weishaupt, fondatore della setta degli Illuminati. Yael riordinò tutte le informazioni via via che le tornavano in mente. Gli Illuminati erano sospettati di aver corrotto il potere, ai loro tempi, e di aver disseminato simboli della loro presenza occulta un po' ovunque, in particolare sul famoso biglietto da un dollaro. L'Ordine dei Teschi e delle Ossa, una setta altrettanto misteriosa, sembrava averne raccolto il testimone, creando dei legami ufficiosi tra studenti promettenti, destinati a occupare posti strategici nel potere politico, economico e informativo. Le Ombre avevano indirizzato Yael verso questi due gruppuscoli che tiravano le fila della storia. La logica le appariva chiara nella mente. Le Ombre erano il prolungamento di tutto ciò. L'Ordine dei Teschi e delle Ossa fungeva da vivaio - uno tra i tanti - e Henri Bonneviel probabilmente ne era un prodotto. Yael si sovvenne delle parole scritte nello specchio: «Illuminati... Teschi e Ossa... Delle illusioni... tutti alberi che nascondono la foresta. Burattinai e tuttavia marionette». Certo, era così. Tutte le organizzazioni segrete conosciute, almeno di nome, non erano che delle coperture, delle ramificazioni lontane, o delle «scuole» per ciò che troneggiava più in alto, un gruppo di individui riuniti segretamente per perseguire uno stesso scopo: plasmare la storia a loro piacimento. Yael scosse il capo. Capiva quanto fosse difficile da credere. Ripose il dossier per frugare tra gli altri documenti. Un'ombra si stagliò all'improvviso nel vano della porta. Il cuore le balzò in gola, ma si tranquillizzò subito vedendo Thomas a-
vanzare verso di lei. «Ho guardato in ogni stanza della villa. Sono tutte vuote. Non c'è nessuno. Bonneviel non è qui.» «Non è più qui. Se n'è andato in fretta e furia, senza finire il bicchiere di whisky che si era versato e senza spegnere le luci, compresa quella del ripostiglio per le scarpe.» «Mi chiedo se non ci abbia individuati.» «Poco probabile, siamo solo passati davanti alla casa.» Thomas perlustrò il locale. «Hai trovato qualcosa?» «Abbastanza da confermare le mie deduzioni sulle Ombre.» Il giornalista si diresse verso la piccola porta sul fondo e ispezionò quello che si rivelò un bagno, dove Yael non si era presa nemmeno il disturbo di entrare. «Non perdiamo tempo. Se Bonneviel è uscito con tanta premura, forse ha chiamato la polizia.» Yael annuì, ma non diede segno di volersi alzare. Proseguì il suo esame dei fascicoli, attaccando con quello degli affari in corso. Le cartellette multicolori scorrevano sotto le sue agili dita. E poi un lampo. Un nome che le bruciò le retine. Le trafisse l'anima come una scarica brutale. Scritto a mano sul taglio: YAEL MALLAN 57 La cartelletta con il suo nome era rossa. La aprì con tale violenza da strapparne la parte inferiore. Ma la delusione fu pari alla speranza che aveva invaso la giovane. Il dossier non conteneva che due miseri fogli manoscritti e un piccolo fascio di pagine stampate. Queste ultime erano una raccolta di dati personali di Yael. Dalla data di nascita fino alla meta delle vacanze che aveva appena trascorso a Rodi, in Grecia. C'era tutto. I suoi genitori, l'incidente mortale della madre. I suoi studi di lettere. Persino i nomi dei suoi ex ragazzi. Yael vacillò.
Scoprì le copie dei suoi estratti conto. Gli importi erano evidenziati, per lo più in colori diversi, creando dei riferimenti incrociati di cui non afferrò subito il senso. Le pagine successive erano dei riepiloghi delle spese che aveva fatto al supermercato. L'intestazione annunciava in caratteri minuscoli: «Studio di marketing, cliente n. 54621», seguita dalle date degli acquisti. Marche e prodotti particolari erano evidenziati, riuniti ancora una volta per colore. La studiavano. Dissezionavano le sue abitudini di consumo. Quello che le piaceva, quello che non le piaceva. La frequenza di alcuni acquisti. I suoi gusti letterari e musicali attraverso i libri e i CD che comprava. Come avevano fatto a stilare un simile elenco? La maggior parte dei suoi acquisti erano riportati lì, sotto i suoi occhi. Sapevano tutto di lei. Le sue marche preferite, le letture, gli svaghi, i negozi di abbigliamento che frequentava... Era attonita. Le pagine si interrompevano bruscamente. Sull'ultima era attaccato un post-it: «Analisi ancora in corso - vedi Christiane». Thomas era tornato sui suoi passi per leggere da sopra la spalla di Yael. «Christiane deve essere la segretaria», ipotizzò. «Come... possono ottenere tante informazioni su di me?» «Colpa dell'informatizzazione, presumo. Basta avere buoni agganci nei posti chiave, o un bravo pirata della rete sottomano.» Thomas si chinò per rovistare a sua volta nel cassetto. «Che cosa cerchi?» «Mi assicuro che non ci sia nessun fascicolo a mio nome», rispose il reporter senza guardarla. «Impossibile! Le Ombre non ti conoscono, sei entrato nella mia vita solo nel weekend.» «Non mi fido. Possono avermi identificato dopo e aver aperto una bella pratica su di me!» Non trovando niente, si raddrizzò e perlustrò la stanza con lo sguardo per accertarsi che non ci fosse qualche armadio. «Di sicuro ha una cassaforte nascosta da qualche parte», mormorò con le mani sui fianchi. «A ogni modo, non potremmo aprirla.» Thomas prese a dondolare lentamente; sul suo volto si leggeva che era
proprio quello il suo problema. Non potevano avere accesso alle informazioni più delicate. Yael prese gli ultimi due fogli del dossier, quelli redatti a mano. Erano degli appunti. Il primo consisteva in una piramide di nomi:
Sotto era scritta una frase: «Yael deve sapere. Deve conoscere la verità. Petersen le parlerà. Che trovi questo schizzo disegnato nel vapore del suo specchio in bagno». Il foglio si mise a tremare. I nomi dei suoi genitori su quel pezzo di carta le fecero correre un brivido lungo la schiena. Chi erano quei due uomini? E poi l'annotazione «Inc.», che senza dubbio stava per incidente, quello che aveva avuto a diciassette anni in motorino e che l'aveva spedita in ospedale per diverse settimane. Che le aveva danneggiato il bacino. Che l'aveva costretta ad abbandonare lo sport ad alto livello. Le ipotesi cozzavano l'una contro l'altra dentro la sua testa. Si sforzò di passare all'ultima pagina. Un mucchietto di parole sparpagliate come i pezzi di un mosaico incompleto. François Mallan, volo AF148 per Nuova Delhi. Hotel Janpath a Nuova Delhi per le notti dal 15/08 al 20/08 e dal 04/09 al 05/09. Prenotazione a Jaipur, hotel Umaid Bhawan, notte dal 21/08 al 22/08 e dal 03/09 al 04/09. Trekking fino al 03/09. Ritorno da Nuova Delhi, volo AF257 per Parigi il 05/09. Di fronte all'espressione avvilita di Yael, Thomas lesse a sua volta. «Dobbiamo provare a metterci in contatto con tuo padre», disse. «Per
avvisarlo e chiedergli di tornare.» «Perché Bonneviel vuole delle informazioni su di lui?» Era in stato di choc. Thomas temeva potesse venirle una crisi. «Perché ci sono i nomi dei miei genitori su quel foglio? Che significa?» ripeteva a voce alta. Le peggiori risposte le opprimevano il petto, impedendole di respirare. «Voglio vedere Bonneviel, voglio parlargli!» sbottò. Lui la prese per il braccio e la aiutò ad alzarsi. «Vieni, dobbiamo andarcene.» Lei lo seguì meccanicamente, ma strappò la cartelletta dalle mani del giornalista, che si accingeva a rimetterla a posto. «La tengo io.» «Yael, non possiamo. Bonneviel saprà che siamo stati qui.» La ragazza piantò i suoi occhi chiari, quasi trasparenti, in quelli di lui. «Oh, certo che lo saprà. Perché intendo restare ad aspettarlo!» «Se arriva la polizia, è finita, puoi dire addio ai tuoi progetti.» Thomas sospirò, indispettito. «Vuoi vedere Bonneviel? Va bene!» tuonò. «Ma dobbiamo preparare l'incontro, assicurarci che non possa scappare o nascondersi dietro uno stuolo di assistenti. Avrai il tuo faccia a faccia con lui. Intanto, però, leviamo le tende.» La trascinò verso la porta. Yael si ritrovò nel salone. Contemplò un'ultima volta la stanza, per memorizzare il luogo dove forse la sua vita era stata distrutta per sempre. Stava per superare la soglia, quando vide il suo volto sullo schermo della televisione. Una foto identificativa, quella della sua patente. Di fianco, il conduttore del telegiornale della notte muoveva le labbra senza che ne uscisse alcun suono. Yael si liberò dalla stretta di Thomas e si gettò sul telecomando per riattivare il sonoro. «... permettere di ritrovare Yael Mallan. La polizia si dice preoccupata dalla sua scomparsa, poiché a quanto pare la carta di credito della giovane donna sarebbe servita per pagare la camera d'albergo dove, nella notte tra lunedì e martedì, una coppia di senzatetto è stata uccisa a sangue freddo. Alcuni testimoni avrebbero inoltre visto la ragazza in compagnia di un uomo non meglio identificato a Herblay, nella giornata di lunedì. Secondo gli stessi testimoni, i due avrebbero fatto domande in giro su Serge Lu-
brosso. Ricordiamo che il corpo di Lubrosso è stato rinvenuto il giorno successivo, crivellato di proiettili. La polizia non conferma il collegamento e si rifiuta di fare commenti.» L'immagine alle spalle del conduttore cambiò, e questi passò a una notizia di politica. Yael tolse il volume. Thomas si era nascosto il volto tra le mani. L'incubo continuava. Riuscì a spingere fuori Yael, tenendosi la coscia. La ferita non riusciva a cicatrizzare; del resto, erano diversi giorni che non aveva riguardo per la gamba. Erano quasi giunti al portone quando sentirono un'auto fermarsi bruscamente davanti alla casa. Thomas si schiacciò contro la siepe di ligustro, Yael rimase impalata in mezzo al vialetto. «Nasconditi!» bisbigliò il reporter. Lei lo guardò, esitante. Lui comprese che era sul punto di crollare. Stava pensando a ciò che aveva appena scoperto, non al pericolo imminente. Le portiere dell'auto sbatterono. Se Yael non si fosse buttata a terra, l'avrebbero individuata immediatamente. Thomas le fece segno di appiattirsi al suolo senza che lei gli prestasse davvero attenzione. I passi si avvicinavano. Stavano per entrare. 58 Thomas alzò la testa per sbirciare il veicolo. Se si fosse trattato di un'auto della polizia, la situazione sarebbe stata catastrofica. Gli bastò intravedere un profilo per tornare a nascondersi nell'ombra. Aveva riconosciuto quella testa. Era molto peggio della polizia. Si lanciò in avanti, agguantò Yael per la mano e la trascinò sul lato della villa, in direzione del pendio. «Sono loro, Yael!» cercò di articolare correndo. «I sicari!» Si gettarono dietro uno dei pesanti piloni che sostenevano la terrazza, dopo aver sceso una scala fatta di tronchi. Thomas riprese fiato e spiegò: «Il tizio che ho visto aveva in mano una specie di palmare, come quello che avevano nel nostro albergo a Parigi. Sembrava servirsene per orientarsi. Sono certo che usano un trasmettitore per seguirci».
Yael batté le palpebre. L'adrenalina pareva averle dato una scossa. Fece passare lo zaino davanti a sé per infilarvi il dossier che aveva trafugato. E vide il revolver. Domandò con lo sguardo al suo compagno cosa fare. Fin dove si sarebbero spinti? Thomas indugiò. «Non ora», disse lui infine. «Non se possiamo evitarlo.» La prese per la mano e si precipitarono lungo il giardino, che scendeva per un centinaio di metri, fino ai piedi della collinetta, in corrispondenza del viale in cui aveva parcheggiato. Volarono sull'erba e attraversarono gli arbusti che servivano da recinzione. Thomas aveva sempre maggiori difficoltà a tenere il passo. La gamba non reggeva più lo sforzo. La Opel a noleggio era là, a una decina di metri. Yael lasciò che Thomas infilasse le chiavi nella serratura prima di voltarsi. Nessuno alle costole. Nessuno neppure sulla terrazza. Tornando verso la macchina, notò una cabina telefonica vicino a una fermata dell'autobus. Vi si fiondò per comporre il numero del cercapersone di Kamel. Si erano cambiati tutti i vestiti, scarpe comprese, e Yael non riusciva a capacitarsi del fatto che potessero avere ancora addosso qualche dispositivo. L'epoca dei microchip impiantati era ancora di là da venire. Riagganciò e attese, pregando che l'apparecchio squillasse. Thomas era dentro l'auto, e le faceva dei grandi gesti affinché lei lo raggiungesse. Rispose di no con la testa. Non potevano continuare a correre per sopravvivere. Dovevano trovare un modo per liberarsi definitivamente dei loro inseguitori. Il telefono si mise a suonare. «Grazie a Dio, Kamel!» gridò lei afferrando il ricevitore. Udì la voce calorosa del leone paranoico: «Sono io! A che punto state?» Le parole le sgorgarono dalla bocca come un torrente in piena. «Kamel, i sicari sono qui, poco lontano, ci stanno cercando, sono equipaggiati come ci avessero piazzato addosso un trasmettitore, sembra che ci mettano un po' di tempo ogni volta, ma ci rintracciano sempre. Dimmi che sai come fanno!» «Okay, calmati... Io... No, ho passato tutto il giorno a cercare, non ne ho idea. È...»
«Kamel, se risaliamo in macchina per seminarli, può darsi che ci ammazziamo o che stavolta quei tizi riescano a farci la pelle. Bisogna trovare il modo di scrollarceli di dosso una volta per tutte! Dimmi che hai un'idea, una qualsiasi. Deve pur esserci una cazzo di ragione se riescono a localizzarci ogni volta!» Lo sentì respirare all'altro capo della linea. Il suo cervello lavorava a pieno regime. «No, ho provato con tutte le nuove tecnologie, ho trascorso il pomeriggio a verificare se non fossero passati attraverso l'autonoleggio, ma è impossibile.» «Allora è per forza qualcosa di tradizionale, qualcosa che ci è sfuggito!» Thomas fece lampeggiare i fari. Dovevano tagliare la corda. Yael fece per riattaccare; stava perdendo secondi preziosi. «Svuota lo zaino», le ordinò all'improvviso Kamel. «Non ho il tempo...» «Svuotalo!» Yael tirò le cinghie dello zaino e rovesciò il contenuto sul ripiano della cabina. Uno stridio di pneumatici risuonò dall'alto della collina. «Arrivano, Kamel!» «Dimmi quello che c'è, spicciati!» Presa dal panico, Yael perse un altro secondo decidendo da cosa iniziare. «Il portafoglio nuovo, una confezione di gomme da masticare che ho comprato prima in contanti, il biglietto del TGV...» Tralasciò la rivoltella. «... il passaporto, la tessera della metropolitana, un dossier che ho appena recuperato...» Una vettura apparve all'inizio della via, con i fari accesi. Si avvicinava a tutta velocità sull'asfalto umido. Yael si voltò. Doveva lasciare il telefono. Thomas partì e inchiodò davanti a lei. «Cos'è quella tessera del metrò?» gridò Kamel. «Niente di sospetto, è solo una... merda, come si chiama? Una carta Navigo! Adesso devo...» Questa volta, Kamel urlò a pieni polmoni: «È quella! È quella! È il chip RFID* che rintracciano! Buttala! Butta via la carta!» Yael spinse tutte le sue cose nello zaino passando l'avambraccio sul ri-
piano e saltò in macchina. Thomas partì a razzo, schiacciando la giovane contro il sedile ancor prima che potesse chiudere la portiera. Lei teneva in mano la sua carta Navigo. «Che cavolo stavi combinando?» sbraitò il giornalista. «Ci siamo! So come ci localizzano! Dirigiti in centro.» Thomas andava a tavoletta. Perse un coprimozzo in una curva che spostò l'intero peso della vettura su un lato; urtò un marciapiede con la ruota posteriore, e ringraziarono la loro buona stella che la gomma non fosse scoppiata per l'impatto. Quando arrivarono nel centro della città, avevano un discreto vantaggio sui loro inseguitori, che avevano corso meno rischi. Yael cercò un altro veicolo per gettarvi il trasmettitore e confondere le tracce. Ma a quell'ora di notte non c'era in giro anima viva per Cologny. Fece segno a Thomas di proseguire, sporse il busto dal finestrino e lanciò con tutte le sue forze la carta del metrò. La vide volare nella penombra e scomparire dietro un giardino. Thomas svoltò subito per allontanarsi da quella strada, poi girò ancora, sperando di rendersi invisibile. Avanzavano quasi a passo d'uomo, esplorando ogni viuzza prima di infilarvisi. Ma i killer erano spariti. Li avevano seminati. Thomas si fermò nel parcheggio non illuminato di un negozio di mobili. «Come hanno fatto a inserire un trasmettitore nelle tue cose?» domandò. «Non è così... Non ho capito bene... Kamel ha parlato di un chip RFID. È colpa mia: ho buttato via tutto, tutto quello che mi pareva sospetto, salvo qualche foto e la carta Navigo; pensavo mi potesse tornare utile per circolare a Parigi. Non ho pensato al chip, e dire che si vede bene! Quanto a sapere come abbiano potuto servirsene per localizzarci, non ne ho la minima idea. Kamel ce lo saprà spiegare.» Thomas scrutò la strada. «Dobbiamo rientrare a Parigi», disse piano. Yael abbassò il finestrino per far entrare l'aria fresca della notte. «Innanzi tutto voglio scambiare quattro chiacchiere con Henri Bonneviel. Voglio che mi dica che cosa ci fanno i miei genitori sulla sua lista. E cosa significa quella lista. Mi capisci?» «Yael, non possiamo restare in zona. Ginevra è una città controllata quanto il Principato di Monaco, ci sono videocamere dappertutto, poliziotti a ogni angolo di strada. E la tua foto è apparsa al telegiornale. Dobbiamo
tornare a Parigi. Là saremo al sicuro. A casa di Kamel, per fare le ricerche necessarie, preparare il tuo incontro con Bonneviel.» Yael si raddrizzò. «Che giorno è oggi?» chiese. «Giovedì sera molto tardi o venerdì mattina molto presto, a scelta.» «Hai ragione, torniamo a Parigi.» Thomas la fissò, sorpreso della sua inopinata saggezza. «Dobbiamo prendere il primo treno in partenza», precisò lei. «Troppa gente. Meglio andarci in macchina. Kamel farà in modo che sia restituita all'autonoleggio di Thonon. Pagheremo le spese.» Dopo una breve pausa, aggiunse: «Posso domandarti il perché di questo ripensamento improvviso?» «La politica di Lagardère.» «Cosa?» «Parli meglio di tanti francesi, ma evidentemente non conosci il film La spada degli Orléans, con Jean Marais. Il protagonista, il signore di Lagardère, è un giustiziere mascherato che ha dei conti da regolare. È lui che dice: 'Se tu non vieni da Lagardère, Lagardère verrà da te!'» Diede due colpi secchi sul cruscotto per invitare Thomas a partire. «Ci daremo il cambio per guidare fino a Parigi», affermò la giovane. «Dobbiamo arrivarci a metà mattinata al più tardi.» «Non capisco ancora la tua... politica di Lagardère.» «La applicherò all'inverso. Poiché non posso andare da Bonneviel, aspetterò che lui venga da me.» * Radio Frequency Identification: identificazione a radiofrequenza. [N.d.T.] 59 Si erano di nuovo fatti fregare. Michael era furibondo. E noi saremmo dei prof essionisti? Era già un'ora che la ragazza si era volatilizzata. C'era da credere che avesse un angelo custode. «E chi è quello che sta con lei?» urlò in direzione di Magali. La bruna alta e sofisticata sul sedile posteriore lo fissò. Non le piaceva il modo in cui le parlava. «Stiamo tracciando un suo ritratto», replicò. «Niente di particolare, si
chiama Thomas Brokten, un reporter indipendente. Ha collaborato con diverse riviste. Penso sia un individuo di passaggio che lei ha trascinato con sé.» «Il suo tipo?» «Può darsi.» «Credevo fosse single!» si irritò Michael. «Cazzo, se ci danno informazioni di merda, rischiamo di non fare passi avanti. Voglio che spulcino i suoi acquisti degli ultimi quattro mesi, che scoprano se ha comprato dei profilattici o una scatola di pillole contraccettive, che controllino le sue cartelle mediche per vedere quando è stata l'ultima volta dal ginecologo. Dobbiamo essere sicuri che sia davvero uno sconosciuto incontrato per caso e non il fidanzato di sei mesi di cui nessun cretino della nostra squadra si è accorto!» Dimitri spuntò da un vicolo tirandosi su la cerniera dei pantaloni, visibilmente sollevato. «E cosa cambia?» domandò. «Cambia che se questo tizio è piombato da poco nella sua vita, forse potremo sfruttare la cosa a nostro vantaggio, se si presenta l'occasione. Se si sono appena conosciuti, sarà più facile che se si frequentano da sei mesi.» Dimitri alzò le enormi spalle senza capire. «Come vuoi procedere?» «Mollandogli del grano, o mettendogli una fifa nera, non so, ma voglio sapere tutto. Ne ho le scatole piene di sgobbare come un mulo. Guarda che cosa abbiamo combinato da domenica.» Il cellulare di Magali suonò. Lei scambiò qualche parola prima di chiudere la comunicazione. «L'Impresa ha identificato il proprietario della villa dove sono stati», annunciò. «Henri Bonneviel. Una vecchia conoscenza della direzione, a quanto pare. Stanno cercando di rintracciarlo. Vogliono che ce ne occupiamo. Una squadra si sta attivando per montare un dossier. Ha un'amante, e stanno verificando se ha un alibi per questa sera. Per il momento, restiamo in attesa.» Michael sospirò. Detestava i piani dell'ultimo minuto. Aveva l'impressione di non controllare niente, di essere solo uno strumento. Gli si chiedeva di trovare ed eliminare una donna, e adesso veniva fuori che lei aveva fatto visita a un «amico» della direzione che bisognava far scomparire. Non si raccapezzava più.
Nel tardo pomeriggio, Magali aveva ricevuto una telefonata dall'Impresa. L'identificativo personale RFID di Yael Mallan era sempre ricercato dagli esercizi della grande distribuzione. I computer, di solito incaricati di seguire i numerosi segnali RFID - i microchip inseriti nelle merci e destinati alla gestione delle scorte -, sorvegliavano anche un segnale particolare, mediante un piccolo software Internet, in barba ai negozi. Se uno dei computer individuava il segnale di Yael Mallan, il programma inviava automaticamente un'e-mail all'Impresa. Ed è quello che era successo a inizio serata. Il bersaglio si trovava in Svizzera. A Cologny. Rintracciato dal programma di un supermercato. Si erano precipitati sul posto. Michael aveva sintonizzato il suo GPS portatile sulla frequenza RFID collegata a Yael. Non appena si era trovato a meno di un chilometro, lei era apparsa sullo schermo. Il segnale mal sopportava le onde dei telefoni cellulari, ed era regolarmente disturbato, a volte svaniva del tutto, per poi ricomparire nel giro di un minuto o due. E una volta ancora, lei era riuscita a dileguarsi. Peggio, si era sbarazzata del chip RFID. L'avevano trovato tra due bidoni dell'immondizia. Insomma, un fiasco completo. E adesso volevano che lui e Dimitri, di punto in bianco, si incaricassero di sopprimere l'uomo a casa del quale lei era appena stata. Di bene in meglio. Michael si sistemò sul sedile del conducente per farsi un sonnellino in attesa delle informazioni supplementari e del semaforo verde. Fu svegliato prima dell'alba da un motore che si avvicinava. Una berlina grigia li affiancò. Magali scese e si accostò al finestrino posteriore che si stava abbassando. Le allungarono una valigetta, mentre veniva ragguagliata sulla situazione: «Tutto bene, abbiamo localizzato Henri Bonneviel. Ha pagato una stanza d'albergo con la carta di credito; l'indirizzo è sul foglio, assieme al numero della camera. Vi abbiamo stampato una piantina dell'hotel, di quelle destinate ai vigili del fuoco; non abbiamo trovato di meglio in così poco tempo, ma dovrebbe bastare per entrare senza farsi notare dal personale, se ci andate subito, adesso che è ancora presto». La voce d'uomo non era molto virile. «Quanto all'amante di Bonneviel», continuò, «abbiamo accertato che sta dormendo nella sua abitazione, senza testimoni; nessuno potrà dimostrare
che si trovava in casa, e non avrà un alibi. Siamo passati dal suo ufficio per fare un calco delle impronte sulla tastiera del computer. Abbiamo recuperato anche dei capelli. Eliminate Bonneviel e in seguito nascondete l'arma in casa della donna, mentre è al lavoro. Ci siamo inseriti nella linea telefonica dell'hotel e nei registri della compagnia di telecomunicazioni per far credere che lui l'abbia chiamata durante la notte. Stiamo trasferendo del denaro dal suo conto a quello della donna. Tutto dovrebbe accusarla. Un ricco banchiere ucciso dall'amante per una sordida questione di soldi.» Magali prese in consegna la ventiquattrore e la berlina si allontanò. Michael non aveva visto il volto dell'uomo. Meglio così. La discrezione nell'Impresa favoriva il rispetto e la longevità. Magali tornò da lui e aprì il rettangolo di alluminio nero. Conteneva dei flaconi con alcuni capelli; diverse dita in lattice su cui erano state apposte le impronte dell'amante; una boccetta di sebo da applicare sulle finte dita prima di lasciare le impronte nella camera d'albergo; un vaporizzatore per spargere residui di polvere da sparo su un vestito della donna; tutto il necessario per accusare un'innocente di omicidio. Ci sapevano fare. Michael stava già preparando mentalmente l'operazione. Non doveva dimenticare di sparare a Bonneviel attraverso dei cuscini con un'automatica. Questo per spiegare come mai nessuno avrebbe udito i colpi d'arma da fuoco. Non avrebbe seminato impronte ovunque, anzi. Ne avrebbe lasciata una sul lavandino, parzialmente asciugata, come se la donna avesse cercato di cancellarle tutte. Un'altra sul comodino. E soprattutto quella sullo sciacquone, la sua preferita. Gli sbirri sarebbero stati felici di trovarla, ridacchiando tra loro sul «bisogno femminile di far pipì spesso», abitudine che la criminale avrebbe perso presto. Più i capelli sul letto, un paio nella vasca da bagno e uno sul cadavere del banchiere. E, naturalmente, durante una breve e furtiva visitina a casa della donna, avrebbe lasciato le impronte sull'arma del delitto, che avrebbe nascosto in fondo al sacchetto dei rifiuti, come se lei avesse voluto sbarazzarsene. Infine, avrebbe spruzzato dei residui di polvere da sparo su un paio di pantaloni o una camicetta tra la biancheria sporca. Il caso Bonneviel sarebbe stato risolto nel giro di poche ore. Ma Michael era più preoccupato da quello di Yael Mallan. Ne faceva una questione personale. Bisognava che l'Impresa escogitasse
un altro modo per localizzarla. E ci sarebbe riuscita. L'Impresa non si perdeva mai nessuno. Il mondo non era che un vasto spazio suddiviso a scacchiera, controllato in maniera capillare. Bastava soltanto sapere quale metodo utilizzare. E anche Yael Mallan sarebbe crollata a terra. Con una pallottola nella nuca. 60 Kamel li accolse con una tazza di caffè, fette di pane tostato e marmellata. Era talmente contento di rivederli sani e salvi che non staccava loro gli occhi di dosso. Assicurò che si sarebbe occupato della vettura a noleggio e rifiutò categoricamente i loro soldi. Era l'alba di un venerdì uggioso. Dal cielo grigio sopra Parigi filtrava una luce anemica, decuplicando la stanchezza dei due giovani che avevano appena viaggiato da Ginevra a Parigi senza mai fermarsi. Thomas fece un resoconto delle loro avventure. Sentendo rievocare lo scheletro e il dossier scoperto nella villa, Yael si agitò sulla sedia. «Cosa contate di fare?» domandò Kamel con apprensione. «Le vostre facce sono sulla prima pagina dei giornali. Siete ricercati dalla polizia.» «Voglio parlare con Bonneviel», dichiarò Yael. «Deve spiegarmi tutto.» Kamel e Thomas si scambiarono un'occhiata. «Presto o tardi, ci toccherà andare alla polizia», fece presente il giornalista. «Con tutte le prove della tua innocenza che avremo raccolto, per dimostrare che non c'entri niente con... la scia di cadaveri che ci lasciamo dietro. Non strapazzare troppo il banchiere, altrimenti i piedipiatti non crederanno alla storia della cospirazione. Capisci dove voglio arrivare?» Lei annuì, portandosi la tazza alle labbra. Fece un sorso prima di replicare: «Cominceremo con il riposarci. Sarà più facile fare il punto stasera». «Hai il foglio di cui mi avete parlato?» intervenne Kamel. «Devo fare delle ricerche per il mio sito e ne approfitterò per cercare di trovare qualcosa su quei nomi.» Yael aprì il dossier che teneva nello zaino e gli tese il foglio con lo schema.
«Trattalo con cura.» Thomas prese il suo bagaglio, ben deciso a rilassarsi sotto la doccia, e salì di sopra. Yael, troppo nervosa per dormire, preferì allungarsi davanti al televisore, mentre Kamel li salutava e partiva per la sua vendemmia di notizie fresche nella capitale. Yael attese una mezz'ora, si fece una doccia e scovò un paio di forbici in uno dei cassetti nel bagno. Poi, senza alcun indugio, si tagliò i capelli. I suoi grandi riccioli bruni si notavano troppo. Scivolarono giù sulle piastrelle del pavimento. Non si tagliava i capelli da parecchi anni, ma tutto sommato se la cavò egregiamente. Accorciò le ciocche fin sotto le orecchie, poi le raccolse in una coda di cavallo per assottigliare i tratti del viso. Aveva pensato di tingerli, ma il bruno andava bene per ogni occasione, a differenza del rosso o del biondo. Fard scuro, mascara e kohl intorno agli occhi per cambiare un po' la fisionomia. Così sarebbe stato più arduo riconoscerla. La foto diffusa dai media la ritraeva al naturale. Si infilò dei calzoni larghi di tela e un top con le spalline che formavano un nodo dietro la nuca. Un paio di scarpe da ginnastica, e il gioco era fatto. Si contemplò nello specchio. A meno di non essere sul chi vive, era difficile notare una somiglianza con la ragazza sui giornali. Afferrò lo zaino e si premurò di uscire senza far rumore. Direzione: metropolitana. Yael non aveva ottenuto ulteriori spiegazioni sul famoso chip RFID, ma aveva capito che si trovava nella carta Navigo e non nei normali biglietti. Dunque non correva alcun rischio. Venti minuti più tardi camminava nel quartiere in cui andava a lavorare ogni mattina da due anni a quella parte. Cercò una cabina telefonica, rimarcando che l'esplosione dei cellulari le aveva rese sempre più rare. Compose il numero del servizio informazioni per avere quello dell'hotel Umaid Bhawan di Jaipur, quindi chiamò in India. Con la differenza di fuso orario, laggiù doveva essere pieno pomeriggio. Secondo i documenti sottratti a Bonneviel, suo padre in quel momento stava facendo un trekking, ma tentò ugualmente. Rispose un uomo dalla voce quasi femminile. Il suo accento inglese era penoso. Yael, che si esprimeva correttamente nella lingua di Shakespeare, chiese
di parlare con François Mallan. L'impiegato dell'albergo le spiegò che era partito il mattino del 22 e sarebbe tornato il 3 settembre. Yael insistette: non poteva cercare di rintracciarlo? Si trattava di un'emergenza. Profondendosi in scuse, l'uomo spiegò che si occupavano dei loro clienti, ma quando erano fuori l'hotel non poteva fare niente. E ancor meno dal momento che il signor Mallan avrebbe percorso terre prive di telefoni e mezzi di comunicazione. Bisognava aspettare. Inoltre, in quel periodo dell'anno, i turisti erano numerosi. Yael comprese che era inutile insistere. Si appoggiò al telefono, riflettendo. Poteva partire per l'India? Poco probabile. Sarebbe stata arrestata all'aeroporto ancor prima di imbarcarsi. E se anche avesse trovato un mezzo di trasporto clandestino, cos'avrebbe fatto una volta laggiù? Il giro di tutte le agenzie di trekking di Jaipur? E se avesse rintracciato suo padre, sarebbe comunque stata costretta ad attenderlo, visto che aveva parecchi giorni di vantaggio. Doveva trovare una soluzione più rapida. E più efficace. Se non poteva avvertire il padre, doveva risolvere il problema alla radice. Cioè affrontare l'istigatore di tutti i suoi mali. Henri Bonneviel. Lo Shoggoth. E lo Shoggoth le faceva visita ogni venerdì da quattro mesi. Lei che vedeva in lui un individuo gentile, persino commovente, aveva invece a che fare con un predatore che si divertiva con la sua preda. Yael si sforzò di reprimere la rabbia. Doveva entrare da Deslandes senza farsi notare, nel caso l'edificio fosse sorvegliato dalla polizia. Optò per il cortile, passando dal portone, lontano dall'entrata del negozio, e utilizzando la scala di servizio. Lionel lasciava aperto quell'ingresso per buona parte della giornata quando lavorava, in modo che i fattorini potessero salire senza disturbarlo ogni volta. Sulla scala, Yael fu percorsa da un lungo brivido. Si era imposta di non ripensare all'episodio della cantina, delle ombre nello specchio. Non c'era più nulla da rivangare in quei ricordi. Restava soltanto la paura. E lei si era ripromessa di sfuggire la paura. Spinse il robusto battente del primo piano, riscoprendo l'impressionante sala che tanto le era familiare, e che pure le sembrava di aver lasciato da una vita. Lionel era lì, dietro il bancone, intento a sfogliare un buono d'ordine. Girò la testa verso di lei, aspettandosi di vedere qualche addetto alle conse-
gne. Sussultò. «Ah, guarda un po'! Che ci fai qui?» «Ci sono poliziotti?» Lui scosse la testa. «No. Sono venuti ieri per fare qualche domanda, nient'altro. Di'... in che guaio ti sei cacciata? Non avrai fatto fuori tutta quella gente?» «Non tu, ti prego.» «So bene che non hai fatto niente, è quello che ho risposto agli ispettori. Loro si sono limitati a dire: 'Non si fidi di ciò che sembra. Troppo spesso si hanno delle sorprese'.» Yael richiuse piano la porta e si avvicinò al collega, verificando che non ci fosse nessun cliente nel lungo corridoio rivestito di legno. «Ascolta, non ho il tempo di spiegarti», bisbigliò, «ma è una storia che ha dell'incredibile. Per caso si è fatto vivo lo Shoggoth dopo la mia partenza?» «Non l'ho visto. Non è che c'entra anche lui? Ti ha fatto qualcosa? Ma sei davvero stata in quella cittadina dove hanno sparato a quel tipo? Li conoscevi i due barboni assassinati? L'hai pagata tu la stanza o ti hanno rubato la carta? Hai una pistola?» Yael lo fece tacere pregandolo di accendere la radio, perché voleva sentire cosa dicevano su di lei. Lui obbedì e l'altoparlante sputacchiò un successo degli anni Ottanta di Prince. L'arredamento della sala, con le teste di animali che sembravano spuntare dalle pareti e la cupola di vetro, rimandò Yael a quel giorno di temporale in cui era scesa nelle cantine. «Lionel... la psiche che sta di sotto, in cantina, è tua?» «La cosa?» «Lo specchio inclinabile.» «Ah, quell'affare? No. È là da... quest'estate. Penso che sia stata la padrona a portarlo giù.» «Lei non ci va mai. Chiede sempre a te.» «Bah, può darsi che in quel caso se la sia cavata da sola.» Lo specchio era pesante, e la proprietaria sempre pronta a evitare le faticacce. «Da quando è laggiù, di preciso?» insistette la giovane. Lionel inspirò per riflettere, poi inarcò le sopracciglia. «Direi... fine luglio, inizio agosto.»
«Quando io ero in vacanza.» «Sì.» Yael batteva nervosamente il piede per terra. Faceva associazioni d'idee, tirava delle conclusioni. «Ci sono state delle visite insolite mentre io ero via?» «Cosa intendi per insolite?» «Qualsiasi cosa fuori dal normale... Non so, la polizia, la compagnia del telefono, roba del genere...» Lionel spalancò gli occhi. «Non che mi ricordi. Ah, sì, c'è stato quel tizio dei vigili del fuoco.» «Che cosa voleva?» «Soltanto fare delle verifiche, controllare che l'edificio fosse conforme alle norme di sicurezza antincendio.» «Ha fatto il giro delle sale?» «Sì, ha guardato dappertutto.» «È sceso in cantina?» Lionel annuì. «Sì, mi ha persino chiesto le chiavi.» «E tu gliele hai date?» «Keep cool! Era un pompiere! Me le ha rese nel pomeriggio.» Yael cominciava a vederci chiaro. Le Ombre erano organizzate, avevano mandato un finto vigile del fuoco che era riuscito a entrare in possesso delle chiavi per un'ora, il tempo necessario per farne una copia. Poi avevano fatto ritorno la notte per piazzare la psiche. Anche la porta nel corridoio doveva essere stata modificata affinché potesse muoversi e sbattere a comando. In che modo? Per esempio, due calamite di intensità e polarità variabili, inserite nel legno del battente e del telaio. Così, se le calamite si respingevano, la porta si apriva, se al contrario si attiravano, la porta si chiudeva; la potenza condizionava la velocità del movimento. Yael non se ne intendeva gran che, ma riusciva senza difficoltà a immaginare diversi sistemi possibili. Quindi, c'era stato un uomo vicino a lei quel giorno. Sulla scala di servizio. Con la copia delle chiavi era entrato per accendere le candele e attirarla di sotto. Rabbrividì. Si ricordò della vasca con il mercurio che formava le parole, nella cappella delle Catacombe. Il mercurio era un metallo. Un'ingegnosa apparecchiatura che giocava con le proprietà magnetiche - zone d'attrazione e zone
di repulsione, che spostavano il liquido secondo una guida precisa e telecomandata - per far apparire delle lettere nel recipiente. Le Ombre si servivano di effetti speciali. Come degli illusionisti. Ma a quale scopo? Perché tutta quella messinscena? «Vado a dare un'occhiata in cantina», disse Yael. In quel momento la radio trasmise il notiziario. Lei tese l'orecchio. L'apertura riguardava un incidente sull'autostrada. Poi sarebbe toccato alla politica. Yael era già scomparsa dai titoli più importanti per diventare un semplice fatto di cronaca in attesa di evoluzione. Meglio così. Il giornalista proseguì con la sua voce calda: «La polizia svizzera ha comunicato che un banchiere ginevrino è stato rinvenuto morto questa mattina in una stanza d'albergo. Henri Bonneviel, un milionario molto riservato, sarebbe stato assassinato a colpi di pistola durante la notte. L'inchiesta è in corso. «Sport. Il campionato di prima divisione prosegue questo fine settimana con...» Lionel non ebbe il tempo di voltarsi che Yael stava già scendendo i gradini a quattro a quattro. 61 La psiche era esattamente là dove Yael l'aveva lasciata sei giorni prima. La lampadina nuda illuminava miseramente la cantina. Yael girò intorno allo specchio. Ne tastò il retro. Era solido, pesante. Il suo riflesso era chiaro ma offuscato dalla penombra, come su un mare d'olio. I suoi occhi non dovettero cercare lontano, giusto dietro di lei, sul banco di lavoro. Afferrò il martello, e tutta la frustrazione e la rabbia che serbava in corpo volarono in una miriade di schegge nella cantina. Decine di frammenti di realtà si mescolarono nell'aria prima di infrangersi al suolo. Dei triangoli affilati restarono attaccati alla cornice. Yael notò subito la sottile pellicola che ricopriva la superficie riflettente. Ora che lo specchio era in pezzi, si vedeva chiaramente. La giovane donna frugò sul banco finché non trovò la lente d'ingrandi-
mento di Lionel. Esaminò quel velo singolare. Ingranditi dalla lente, dei minuscoli prismi riflettenti erano disseminati a intervalli regolari. Yael passò in rassegna i bordi. Vide degli obiettivi neri dalle dimensioni che sfidavano la scienza moderna. Microcamere? No! Dei proiettori grandi come una capocchia di spillo! Nanotecnologia! Ogni secondo che passava, Yael si faceva un'idea più precisa del sistema. I proiettori emettevano un'ombra, ciascuno in una determinata direzione, giocando sui prismi per rifletterle; secondo un programma, con ogni probabilità telecomandato, i proiettori spostavano le ombre, o i loro fasci di luce, per cambiare prisma, affinché le ombre si muovessero e disegnassero ciò che si voleva. Tutto questo avveniva nello strato trasparente, estremamente fine e aderente. Le ombre di fatto erano sovrapposte all'immagine dello specchio. Una tecnologia che doveva costare un occhio della testa. Che richiedeva notevoli mezzi. Yael si raddrizzò subito. Aveva tralasciato un ultimo aspetto. Il più importante. Per lanciare il programma, in modo che i proiettori entrassero in funzione, bisognava sapere se Yael era davanti allo specchio oppure no. E lei non vedeva che una soluzione per questo. La più semplice. Una videocamera riprendeva la scena. Ciò significava che la stavano sorvegliando anche in quel momento. Le Ombre sapevano che era là. Yael fece rapidamente il punto della situazione. Le Ombre non avevano mai cercato di farle del male. Volevano solo informarla. Il fatto che sapessero che era lì non rappresentava un pericolo per lei. No, no, mi sbaglio! Le Ombre... Le Ombre sono potenti, si tratta di persone diverse, dagli scopi diversi... Henri Bonneviel ne fa... ne faceva parte... Lui cercava di parlarmi. Di farmi scoprire la loro esistenza. Ma altri non condividono questo punto di vista. Hanno mandato dei killer per eliminarmi. Come lo sapevano? Sorvegliavano Henri Bonneviel? Quindi forse sorvegliavano anche la sua apparecchiatura. Il che poteva condurli fino a lei, in quella cantina.
Yael corse alla porta, salì i gradini a perdifiato, e recuperò il suo zaino di fronte a un Lionel dall'aria smarrita. «Te ne vai? Ma se lo Shoggoth...» «È morto!» replicò lei respirando forte. «Grazie di tutto, Lionel. Ti ricambierò il favore, un giorno... Almeno spero.» E scomparve nella scala di servizio. Sapeva che era un'enorme sciocchezza. Tuttavia, aprì la porta di casa. Yael entrò nel salone che tanto aveva amato, e che adesso evocava così tante paure. La polizia, le Ombre, gli assassini... tutti, in un modo o nell'altro, sorvegliavano la sua abitazione. Ma la stanchezza e la disperazione la spingevano a gettarsi nella tana del lupo. Voleva solo rifugiarsi tra quelle mura per qualche minuto. Giusto il tempo di ritrovare i segni della propria presenza. La sua identità. La sua vita all'improvviso era stata sconvolta. Una settimana prima, era allegra e frivola come le amiche, con le gioie e i dolori di ogni giorno, e oggi si rintanava nella clandestinità. La sua famiglia era minacciata. E lei era arrivata a sospettare l'impensabile. Che l'incidente stradale in cui era morta la madre non fosse stato affatto un incidente. Che il padre potesse essere in pericolo. E se fosse sorvegliato per assicurarsi che Yael non gli trasmettesse alcuna informazione? Lei sapeva troppe cose di quella gente. Forse volevano tener d'occhio suo padre per ogni evenienza. In tal caso, lei non doveva cercare di avvicinarlo, né di contattarlo. Per proteggerlo. Henri Bonneviel era morto. Assassinato. Da chi? Dalle altre Ombre? Quelle che non volevano condividere il loro segreto? Probabile. Yael percorse il suo territorio senza provare il desiderio di sedersi, di riposare, malgrado fosse spossata. Si vide nello specchio dell'ingresso. Il suo sguardo andò per un attimo al pianerottolo, verso il computer, poi tornò sullo specchio. La sua immagine, i capelli più corti legati sopra la nuca, il trucco... un travestimento. Si trovava cambiata. I tratti più marcati. Più adulta. A quando i primi capelli bianchi?
Sbirciò gli angoli del grande specchio, attese che facessero la loro comparsa. Ma non si manifestarono. Allora Yael afferrò un candelabro e colpì con tutte le sue forze. Il vetro esplose rumorosamente. Lei arretrò di un passo. La stessa, sottile pellicola rivestiva i frammenti sparsi al suolo. Yael abbassò gli occhi. Il suo corpo e il suo spirito erano disseminati, sparpagliati sul pavimento. Tutto il suo essere era smembrato. Corse verso la scala. Il computer si fracassò contro il muro, lo schermo frantumato, l'unità centrale aperta. I vari componenti si sparsero a terra come le viscere meccaniche di un robot. Yael si inginocchiò e rimestò in quelle interiora fumanti. Non se ne intendeva molto di informatica, ma la scatoletta nera installata accanto al disco fisso non era certo un pezzo originale. Doveva agire come una specie di presa Internet, o di telecomando wi-fi... In ogni caso, era quello che aveva permesso alle Ombre di assumere il controllo del suo pc. Doveva salire di sopra per polverizzare anche lo specchio nella stanza da bagno? Si volse e si appoggiò alla ringhiera, dominando il salone e il pavimento di vetro fumé. E per il volto spettrale, come avevano fatto? Yael si precipitò in cucina, si munì di una torcia elettrica e scese. Il pozzo risuonava del tumulto dei collettori. La giovane donna non era più prigioniera del terrore e del senso di urgenza che l'avevano sommersa l'ultima volta che ci era scesa. Sapeva cosa cercare. Si teneva a mezza altezza di quella colonna di aria umida, la punta dei piedi nel vuoto, sopra la scala. Il fascio luminoso lambì la lastra di vetro da sotto, accarezzando le pareti grigie e sporche. Un lungo minuto a esplorare i muri. Yael stava per arrendersi quando uno sfavillio metallico attirò la sua attenzione. Un moschettone nero era piantato nella roccia. Illuminò la zona e ne trovò un altro, poi un altro ancora. Erano difficili da notare. Senza un po' di fortuna, avrebbe potuto ostinar-
si a cercare invano per ore. Era bastato che un uomo ben truccato e avvezzo alle scalate si arrampicasse fin sotto il vetro e la sorprendesse. Per scendere non doveva aver impiegato che una manciata di secondi, appena qualcuno di più per ritirare l'imbragatura, nasconderla... nel serbatoio, per esempio... e fuggire per il corridoio che conduceva alle Catacombe, dopo aver preparato tutto: la scritta con la vernice rossa sulla porta, le candele da accendere al suo passaggio... Per poi dileguarsi nel labirinto sotterraneo una volta completata la missione. No. Dovevano essere in due. Il tizio truccato da spettro per spaventarla e Languin per accendere le candele. A meno che quest'ultimo non avesse fatto tutto da solo, piegandosi alle direttive di Lubrosso senza protestare e camuffandosi per l'occasione prima di dar prova di pazienza aspettando che Yael reagisse. Con un'adeguata preparazione, era stato un gioco da ragazzi. Yael scrollò il capo. Adesso capiva tutto. Avevano agito mentre lei era in vacanza, introducendosi in casa. Avevano sostituito i suoi specchi con delle copie oppure si erano limitati a inserirvi il loro ingegnoso dispositivo? E il rumore nei muri? La risposta era evidente, logica. Un impianto di microfoni miniaturizzati. Yael risalì nel salone. Si sentiva quasi colpevole per aver potuto credere a tutto ciò. Le circostanze, si ripeté. Sapeva che era così. Chiunque avrebbe potuto cascarci se si fosse trovato nei suoi panni. Chi avrebbe potuto rispondere, dopo la prima apparizione: «È una manipolazione da miliardari attuata per mezzo della nanotecnologia»? Yael gettò la torcia sul divano, appoggiò le mani sulle pareti e le tastò. I forti scricchiolii che aveva udito provenivano un po' da tutte le parti. Principalmente dall'alto, rammentò. Raggiunse il mezzanino e proseguì l'ispezione dei muri. Dove si possono dissimulare dei microfoni? Lontano da fonti di luce che avrebbero evidenziato una gobba o una pennellata di vernice fresca. E negli angoli. Yael individuò diversi punti che sembravano adatti allo scopo. Aveva visto giusto. Era più semplice quando si sapeva cosa cercare. Localizzò l'altoparlante in corrispondenza di una chiazza di vernice che
non si era perfettamente amalgamata con il resto della tinteggiatura. Si procurò una forbicina per le unghie e ne utilizzò le punte affilate per grattare il muro e disincrostare il cerchietto nero, grande come una moneta da cinque centesimi. Ne scovò un altro poco più in là. La casa ne era piena. Tutti delle stesse dimensioni, sincronizzati e alimentati da una sorgente esterna. Le Ombre di certo avevano affittato un appartamento nell'immobile vicino. Se c'erano ancora, forse in quel preciso istante la stavano spiando. Doveva andarsene. Invece, Yael ripassò mentalmente l'organigramma. In cima, Henri Bonneviel. Sapeva un sacco di cose su di lei. Ed era lui, almeno così sembrava, a cercare di metterla al corrente di tutto. Per eseguire i suoi piani, si avvaleva di un complice, quasi un dipendente, Serge Lubrosso. Questi reclutava la mano d'opera e orchestrava le operazioni sul campo, servendosi di uomini come Olivier Languin. Doveva averne molti a disposizione, almeno per trasportare gli specchi modificati. Poteva presentarsi alla polizia, adesso? Mostrare tutto, spiegare tutto. Che non era colpevole degli omicidi dei due senzatetto e di Serge Lubrosso. E neppure di quello di Bonneviel. Ciò che aveva fatto, l'aveva fatto solo per salvare la pelle. Anche quando aveva spinto quell'uomo nelle Catacombe. Avvertì un vuoto allo stomaco. Avrebbe testimoniato contro le persone che avevano tentato di eliminarla. Avrebbe parlato delle Ombre. E mio padre? Cosa gli sarebbe accaduto? Se Bonneviel lo sorvegliava, le altre Ombre potevano fare altrettanto. Yael ripensò alla madre. Strinse i pugni. È stato un incidente... continuava a ripetersi. Ma non ne era più convinta. Doveva sapere. Identificare le altre Ombre. Trovare il modo di esercitare una qualche pressione su di loro affinché non potessero più intimorirla. Erano abbastanza potenti per toglierla di mezzo, anche dopo aver raccontato la verità alla polizia. E poi gli agenti le avrebbero creduto? Aveva in mano parecchie prove tangibili, ma niente di veramente concreto per accusare un individuo in particolare. Anche l'installazione tecnica non era sufficiente a incolpare qualcuno.
Ora che il sistema giudiziario francese, se non addirittura quello internazionale, si fosse messo in moto, le Ombre avrebbero potuto farla sparire e colpire suo padre. Yael non ci si raccapezzava più. Un senso di vertigine la obbligò a sedersi. Tornare indietro. Ritrovare Thomas. Ecco cosa bisognava fare innanzi tutto. Sì. Raccontare ogni cosa a Thomas e Kamel. Loro l'avrebbero aiutata. Ma prima, doveva dormire. Riposare. Uscì sbattendo la porta alle sue spalle, senza curarsi di chiuderla a chiave. Attraversò il cortile. E non appena sbucò dal portone dell'edificio, un'auto ruggì nella via. Yael deglutì, senza provare a scappare. Non ne aveva né la forza né il coraggio. Chiuse gli occhi, vinta dallo sfinimento. E capì di aver tentato il diavolo una volta di troppo. Blog di Kamel Nasir. Estratto 9 «La storia è piena di situazioni in cui si sono ignorati gli avvertimenti e si è resistito ai cambiamenti, finché un avvenimento esterno, giudicato sino ad allora 'improbabile', non è venuto a forzare la mano dei burocrati reticenti. La questione che si pone è di sapere se gli Stati Uniti avranno la saggezza di agire in maniera responsabile e di ridurre al più presto la loro vulnerabilità spaziale. Oppure se, come è già accaduto in passato, il solo evento capace di galvanizzare le energie della nazione e di costringere il governo americano a passare all'azione sarà un attacco distruttivo contro il Paese e la sua popolazione, una 'Pearl Harbor spaziale'.» DISCORSO STRANAMENTE VISIONARIO PRONUNCIATO DA DONALD RUMSFELD L'11 GENNAIO 2001, OSSIA NOVE MESI PRIMA DEGLI ATTENTATI DELL'11 SETTEMBRE. 62 Yael guardava sfilare il paesaggio fuori del finestrino senza vederlo davvero.
Il ronzio ovattato del motore la cullava, le sue palpebre si abbassarono. Era uscita in strada per farsi caricare in fretta e furia sul sedile posteriore della vettura. Tutto era stato molto rapido. Thomas la fulminava con lo sguardo, girato verso di lei sul sedile del passeggero. «Cosa ti è saltato in testa?» tuonò. «È un miracolo che non ci fossero dei poliziotti o gli assassini!» «Lasciala stare, ha bisogno di riposo», intervenne Kamel imboccando una curva. Thomas scosse il capo, furente, e tornò a voltarsi. Giunti a casa di Kamel, Yael salì di sopra a sdraiarsi. Fu un sonno lungo, senza sogni, ma senza incubi. Un sonno ristoratore, che di ora in ora stabilizzava il suo spirito vacillante, restituendole energia, coraggio e sangue freddo. Quando riaprì gli occhi, faceva buio. Rimase distesa a contemplare il soffitto e la finestra che si affacciava sul retro di un edificio. Poi si fece una doccia, si cambiò e scese di sotto, trovando i due uomini seduti intorno a un tavolo, su cui era posato un terzo piatto, intatto. «Non abbiamo osato svegliarti», le disse Kamel, sorridendo. «Vieni, la cena ti aspetta.» Yael divorò ogni boccone; era dal mattino che non metteva niente nello stomaco. La lasciarono mangiare in pace. Fu lei a prendere la parola, finendo il piatto di formaggio fresco. «Che ora è?» «Quasi le dieci», rispose Thomas con dolcezza. Lei mandò giù l'ultimo boccone, prima di mormorare: «Mi spiace per oggi. Ho fatto una stronzata». «Ci hai fatto prendere un bello spavento.» Lei abbassò gli occhi sul piatto. «Kamel è rientrato per pranzo e si è allarmato trovando la porta aperta. È salito a vedere se c'eravamo, e ha trovato solo me. Mi ha svegliato per sapere dov'eri, e abbiamo immaginato il peggio. Ti abbiamo aspettata per un'ora, poi ci siamo precipitati a casa tua. Temevo che ci fossi tornata. O lì o dove lavori.» «Ci sono passata prima.» Thomas aveva l'aria imbarazzata.
«Yael, ti devo dire che...» «Bonneviel è morto, lo so.» «Lo abbiamo sentito al telegiornale della sera», intervenne Kamel. «Hanno fermato un sospetto. Secondo i giornalisti, si tratterebbe dell'amante del banchiere.» «Di sicuro è colpevole quanto lo sono io dell'omicidio di Lubrosso...» «Gli investigatori non hanno detto niente, se non che disponevano di elementi che li rendevano ottimisti circa una rapida soluzione del caso.» Yael spinse da parte il piatto. «Ma certo!» esclamò. «Quelli che hanno ammazzato il banchiere sono ben organizzati e abituati a questo genere di intrighi per incolpare qualcuno!» Kamel si alzò per servire un tè alla menta. «Yael», disse Thomas, «basta con i colpi di testa, d'accordo? È una fortuna che non sia scoppiato un casino.» Lei non aveva alcuna voglia di scendere nei dettagli, di spiegare il suo stato di stanchezza nervosa. Aveva avuto un crollo, questa era la verità. Kamel le venne in soccorso: «Spero che mi perdonerai, ma ho passato in rassegna tutte le tue cose per accertarmi che non ci fossero altri chip RFID...» Yael si girò verso di lui. «Potresti spiegarmi questa faccenda dei chip RFID?» L'altro alzò la mano a significare che era tutto un programma. «Sono dei chip di silicio dotati di antenna, piccolissimi, meno di un millimetro! Un vero condensato di tecnologia. Solo che ora vengono prodotti in tale quantità che non costano più niente. RFID vuol dire 'identificazione a radiofrequenza'. I chip trasmettono su un'ampia gamma di frequenze, fino a quella ultra alta, a seconda dei modelli. E dispongono di una memoria di circa un kilobit.» «Ma che cosa sono?» Kamel le rivolse un sorriso pieno di sottintesi. «Il paradiso dei servizi di intelligence creato dalla grande distribuzione.» Yael fece una smorfia. «Non capisco, credevo avessero a che fare con la mia carta Navigo.» «Adesso ci arrivo. Il chip RFID è stato lanciato su vasta scala dai fabbricanti di prodotti di largo consumo. All'inizio, doveva servire ad assicurare la tracciabilità di un articolo, dal momento della sua fabbricazione fino alla consegna finale al negozio, passando per i diversi punti di stoccaggio. Si
guadagna del tempo, non c'è bisogno di un inventario manuale, è preciso e sicuro. Basta avere l'apparecchio che capta le frequenze e in pochi secondi sai quanti articoli hai in magazzino, e dove si trovano esattamente. Ce ne sono dappertutto, sui CD, i DVD, le confezioni di spazzolini da denti, i giocattoli, persino nei vestiti!» «Vuoi dire che... li abbiamo addosso?» «Oh, sì! Il problema per i consumatori, o meglio, uno dei problemi, è che il chip viene attivato al momento della fabbricazione e in seguito non può essere disattivato, finché la batteria non si esaurisce, il che può richiedere molto, molto tempo. Ciò significa che quando usciamo dal negozio, il chip continua a emettere il suo segnale. La cosa... 'divertente' è che i grandi magazzini hanno modificato quella che in origine era la funzione principale del chip RFID. Stufi di perdere un sacco di soldi a causa dei furti, si sono dotati di sistemi che permettono di seguire sullo schermo di un computer i movimenti di un articolo fino all'uscita dall'esercizio, e questo grazie al chip. È quindi possibile accertare che il prodotto sia stato pagato. Ovviamente, se si è attrezzati, non è necessario essere un grande magazzino per seguire le tracce di una persona, basta sapere su quale frequenza opera il chip RFID che il nostro bersaglio porta su di sé, per esempio nelle scarpe da ginnastica...» «Immagino che non sia semplice procurarsi questa frequenza, no?» «Be', la merce passa per così tanti posti che non è poi così difficile, per qualcuno ben organizzato. Ma è soprattutto dagli studi di marketing selvaggio che deriva il problema.» «Studi di marketing selvaggio?» ripeté Thomas. Kamel si lanciò in una spiegazione: «Sì. Ogni cliente passa alla cassa, i suoi articoli vengono registrati da un lettore grazie al codice a barre o al chip RFID - che presto finirà per sostituire i codici a barre -, e se l'acquirente possiede una carta cliente con il suo numero personale, o semplicemente se paga con carta bancaria o assegno, la sua identità viene archiviata assieme a ciò che ha comprato. E se si tratta di un cliente che ha già fatto spese in quell'esercizio ed è inserito nella banca dati, si confrontano i suoi acquisti per vedere cosa preferisce, cosa ha comprato una volta e non ha più ripreso, eccetera. Questi archivi sono gestiti da computer e servono alle grandi marche per effettuare degli studi di marketing. È assolutamente illegale, perciò tutti urlano a squarciagola che non esiste, mentre ormai è una pratica corrente. Ma se in un archivio del genere penetrano abusivamente dei malintenzionati, possono sapere
tutto di voi!» Li fissò per un breve istante, per sottolineare bene quello che aveva detto. «Oggi i chip RFID si trovano un po' dappertutto, e la cosa non fa che peggiorare. Per esempio, nella viacard con cui pagate l'autostrada, nella tessera per il parcheggio, nel badge che usate al lavoro, e nella famosa carta di trasporto Navigo. È il chip che consente di immagazzinare le vostre informazioni personali e che, emettendo un segnale specifico, comunica al dispositivo di rilevamento all'ingresso del metrò che la carta è valida. Non è più necessario tirare fuori il biglietto e inserirlo nella macchinetta, basta passarci sopra la borsa senza nemmeno estrarre la carta, perché il segnale emesso dal chip la attraversa senza problemi!» «Ma come hanno fatto a rintracciare proprio me, usando la mia carta? Migliaia di persone ne hanno una!» «Perché quando tu ti abboni o ricarichi la carta, o riempi un modulo con i tuoi dati personali, oppure paghi, spesso lo fai con una carta bancaria o un assegno, raramente in contanti. E ai killer sarà bastato introdursi nell'archivio della RATP per collegare la tua identità al numero del chip nella tua carta e quindi alla sua frequenza.» «Frequenza che in seguito può essere captata ovunque?» s'informò Thomas. «Proprio così. E peggio ancora, se riesci a penetrare nei computer dei supermercati incaricati di compilare gli studi di marketing selvaggio, puoi verificare se hanno rilevato di recente il chip che stai cercando.» Yael non ne veniva più a capo. «Come potevano sapere che avevo una carta Navigo?» «Semplicissimo! Hanno avuto accesso ai tuoi estratti conto e hanno visto, tra gli altri, un prelevamento a favore della RATP.» «E tu credi che siano riusciti a infiltrarsi nel sistema informatico della mia banca e della RATP?» «Ogni giorno leggiamo di piccoli geni dell'informatica che si introducono negli archivi top secret dell'esercito, dell'FBI e persino della CIA! Figuriamoci quindi se per gente ben organizzata e dotata di risorse il tuo conto in banca o la RATP possono rappresentare un ostacolo. Malgrado tutto il rispetto che porto al nostro buon vecchio metrò parigino.» «Pensavo che solo i servizi di intelligence governativi potessero accedere alle informazioni bancarie», fece notare il giornalista. «In teoria. Nella pratica, se hai molti soldi, e quindi apparecchiature fuo-
ri del comune, e ti assicuri i servigi di un hacker straordinario, puoi aprire tutto su Internet.» «Allora è così che i sicari ci hanno ritrovato all'hotel della Porta di Versailles», concluse Yael. «Quel giorno ho visto uno dei tizi che usava una specie di palmare, o un GPS portatile.» Finì di bere il tè e incrociò lo sguardo di Thomas. «Faccio fatica a crederci...» aggiunse. «Questa storia dei chip che sarebbero dappertutto...» «Per fortuna, abbiamo pagato i vestiti in contanti», osservò il reporter. «Domani vi darò una dimostrazione», promise Kamel. «Intanto... volevo dirti che ho fatto dei progressi riguardo la nostra faccenda. Ne stavo giusto parlando a Tom quando sei scesa.» Yael avvicinò la sedia al tavolo. «Vai avanti.» «Ho indagato sui nomi che hai trovato a casa di Bonneviel.» Kamel estrasse dalla tasca il foglio con lo schema, e lo posò davanti a loro.
«Yael deve sapere. Deve conoscere la verità. Petersen le parlerà. Che trovi questo schizzo disegnato nel vapore del suo specchio in bagno.» Kamel puntò il dito sul nome di Petersen. «È un vecchio signore. Un ex generale dell'esercito americano. E, mia cara Yael, se le Ombre hanno insistito su Kennedy, non è per caso! Carl Petersen era generale all'epoca di JFK, e uno di quelli sistemati meglio, se capisci cosa intendo.» Yael annuì. Ricordava bene la dissertazione di Kamel sugli assassini del presidente. «È in pensione da un pezzo, ha quasi novant'anni! Vive nella periferia di Filadelfia. Ecco il suo recapito.» Passò a Yael un foglietto con tutte le precisazioni. «Grazie!» «Non ringraziare me, ma l'ambasciata di mio padre. Io non ero riuscito a localizzare Petersen su Internet. A ogni modo, il nostro longevo militare ha
stretti rapporti con il potere, conosce parecchi di quelli che bazzicano la Casa Bianca. Non ho trovato collegamenti precisi tra Petersen e Goatherd, che è menzionato sotto di lui nello schema. In compenso, ho scoperto che il generale Carl Petersen e il nostro banchiere, Henri Bonneviel, erano vecchi amici. Si conoscevano...» «Dall'università», lo anticipò Yael, immaginando che il nesso tra loro fosse l'Ordine dei Teschi e delle Ossa. «No, non hanno la stessa età. Bonneviel era molto più giovane. No, si sono conosciuti quando Bonneviel gli ha offerto un posto di consulente per una delle sue imprese. Ogni mese Petersen intascava un cospicuo assegno da una società di gestione delle crisi di proprietà del miliardario svizzero, in cambio di consigli strategici.» «Insomma, Bonneviel gli ha offerto una pensione d'oro», riassunse Thomas. «Già. Di certo in cambio di veri servizi. Il posto di consulente non era che una facciata per giustificare il trasferimento di denaro. Purtroppo, ignoro quali fossero questi servizi.» Yael si protese sul tavolo. «Okay, dunque c'è un legame tra i due. Petersen doveva un favore a Bonneviel, ed è immaginabile che il banchiere gli abbia chiesto di parlarmi, da qui l'annotazione sotto lo schema. E su questo... James R. Goatherd, hai qualcosa?» Kamel recitò a memoria quel che aveva scoperto: «James Rhodes Goatherd, nato nel 1944 in una ricca famiglia del New England. Ha frequentato l'università di Yale...» Stavolta il nesso con l'Ordine dei Teschi e delle Ossa è probabile... «... prende le redini dell'impero di famiglia, nel settore degli armamenti e del petrolio, e lo gestisce con mano maestra. È sposato con Martha Goatherd, e hanno una figlia: France. Possiedono diverse residenze, tra cui una nel nostro incantevole Paese, ma la principale si trova a nord di New York. E se le cifre vi appassionano, sappiate che questo tizio rappresenta l'undicesimo patrimonio mondiale.» «L'undicesimo?» si stupì Thomas. «Curioso, non ne ho mai sentito parlare.» «Se vedessi i nomi dei primi trenta, saresti ancora più sorpreso. Diciamo che sono persone... riservate. Anche Goatherd coltiva una certa riservatezza.» «Fa parte delle Ombre», dichiarò Yael. «Ne sono certa. Ha studiato a
Yale, sede dell'Ordine dei Teschi e delle Ossa, che alimenta le Ombre, è miliardario, quindi influente, e riservato.» «E figura su una lista trovata a casa di Bonneviel», specificò Thomas. Kamel versò dell'altro tè. L'aroma di menta si levò intorno a loro. «Devo sapere che relazione c'è tra queste persone e la mia famiglia», sospirò Yael. «E capire cosa significa questo schema.» «Chiama Petersen!» disse Kamel. «È scritto che ti parlerà. Ho rintracciato il suo numero di telefono.» Yael scosse la testa. Si trattenne dal precipitarsi sull'apparecchio. Qualcosa la turbava. Sin dall'inizio di quella storia, le avevano parlato di tecnologia pirata che sorvegliava, deformava. Dubitava che Petersen le avrebbe svelato alcun che per telefono, lui, un ex generale sotto l'amministrazione Kennedy. «Lo andrò a trovare», disse senza entusiasmo. «È la nostra ultima pista, assieme a Goatherd», ricordò Thomas. «Dopo, non abbiamo più niente.» Kamel osò proporre quella che gli sembrava l'ultima soluzione, la più radicale: «A meno che... non andiate a costituirvi alla polizia. Nonostante quello che ne penso io, non si sa mai, forse le autorità potranno aiutarvi...» Yael lo interruppe: «Ho preso una decisione al riguardo. Non rischierò la mia vita e quella di mio padre finché non saprò con precisione chi fa cosa in questa faccenda. Voi siete liberi di non seguirmi». Thomas e Kamel la osservarono senza dire una parola. Quasi fossero risentiti. «Conosci il mio punto di vista in merito», tagliò corto il reporter. «Io ne parlavo solo come ultima risorsa», si giustificò Kamel. Yael prese il foglio con i dati sull'ex generale. «Vado a cercare di chiamare Carl Petersen», disse. Si diresse verso la porta. I due ragazzi si offrirono di accompagnarla, ma lei rifiutò. Aveva bisogno di prendere una boccata d'aria, di riflettere sull'intera questione lungo la strada verso la cabina. Sapeva che questo non piaceva a Thomas, preoccupato per la sua sicurezza. Si assentò per un quarto d'ora. Quando fece ritorno, il suo viso chiuso la diceva lunga su come fosse andata. «Non c'era?» volle sapere Kamel.
«Sì, gli ho parlato.» «E allora?» domandò Thomas. «Mi sono presentata e lui non ha detto niente. Ho insistito, e lui ha riattaccato.» Thomas le si avvicinò e le posò una mano sulla spalla. «Credo che dovremmo pensarci su un attimo. Sai cosa ci rimane da fare...» Ci pensava da quando aveva letto i due nomi dal suono americano. Partire. Escogitare un modo per attraversare l'Atlantico senza passare dalla dogana e incontrare Carl Petersen. Perché così era scritto. Lui le doveva parlare. TERZA PARTE L'impero del caos 63 Thomas si era alzato presto. Doveva assentarsi per l'intera giornata. Durante la notte, avevano discusso a lungo sulla necessità di partire alla volta degli Stati Uniti. Era un viaggio rischioso, senza alcuna garanzia di risultato. Ma sin dal principio, troppi elementi erano legati al Paese dello Zio Sam. E come aveva fatto notare Kamel, gli Usa erano la locomotiva del mondo economico, politico e strategico. Se degli uomini volevano influenzare, se non addirittura governare il mondo, allora era per forza laggiù che si dovevano trovare Carl Petersen e James Rhodes Goatherd. E il reporter aveva esposto la sua idea per attraversare l'oceano e le frontiere senza essere costretti a passare dalle dogane. Doveva raccogliere delle informazioni e, nell'eventualità, organizzare la loro partenza. Kamel uscì dal bagno. La sua capigliatura, di solito voluminosa, era appiattita dall'acqua. Emanava un buon profumo. «Oggi ti porto con me per darti una lezione pratica!» esclamò. Lei assentì prima di andare a lavare la tazza del caffè nell'acquaio. «È molto tempo che ti appassioni a... queste cose?» domandò. «Vuoi dire lo spionaggio, le teorie del complotto e compagnia bella? Da quando ho frequentato scienze politiche.» I suoi occhi si persero nel vuoto. «È una malattia, Yael. Una volta che l'hai contratta, ti consuma, perché la
menzogna è disseminata ovunque. Non posso più vedere un telegiornale senza indignarmi per le approssimazioni che cambiano il senso di ogni cosa, le manipolazioni, le falsità. Il giornalismo odierno è globalizzato, tutti fanno lo stesso telegiornale, basandosi sugli stessi dispacci. Siamo pressati dal bisogno di risultati rapidi, sempre costretti a procedere spediti, e allora non ci soffermiamo abbastanza, non scaviamo a fondo. Non abbiamo né il tempo né i mezzi per indagare. Di questi tempi il giornalista deve avere la memoria corta. E concentrarsi sulla notizia del giorno. Ti faccio un esempio di informazione perversa: un giornalista che si occupa della guerra del Golfo spiegherà che si tratta di una guerra molto più pulita rispetto a tutte quelle della storia, poiché i feriti muoiono meno spesso che negli altri conflitti. Ti dirà pure che durante la guerra del Vietnam moriva un ferito su quattro, mentre oggi le statistiche sono di uno su otto o dieci. Ma ciò che il giornalista dovrebbe sapere, è che da vent'anni i fabbricanti d'armi sono impegnati nella realizzazione di armi meno letali, che però provocano più feriti. E lo sai perché? Perché un morto non costa niente al nemico, mentre un ferito gli costa caro in termini di denaro, uomini ed energie, oltre a fiaccare il morale sul lungo termine. Quando si sa questo, ritengo che si potrebbe evitare di vantare i meriti di una guerra che fa dei feriti, e considerare le cifre da un'altra angolazione. La notizia non ha più la stessa risonanza.» «Non credo che sia colpa dei giornalisti. Non hanno il tempo di approfondire», intervenne Yael. «Certo! Non li accuso, fanno il lavoro che dicono loro di fare. La responsabilità è della direzione delle reti, che impone di ottenere dei risultati, di mostrare nuove immagini ogni giorno, di avere servizi da ogni angolo del globo con il minor numero possibile di reporter. E quando dico la direzione delle reti, parlo dei miliardari che possiedono gli imperi mediatici.» «Torniamo sempre a loro, eh?» «Difficile negarlo. Ecco, ti mostro una cosa che mi fa ridere.» Aprì un cassetto e rovistò in una pila di riviste. Tirò fuori due numeri di Science et Vie, che posò uno di fianco all'altro. Il primo era vecchio, logoro. Il secondo molto più recente. «Guarda. La stessa rivista, e solo qualche anno tra le due copie. Una titola: 'PERCHÉ OSWALD NON HA POTUTO UCCIDERE KENNEDY', l'altra ci presenta un super-articolo per spiegare come mai Oswald è il solo e unico assassino del presidente. Di per sé, che lo stesso giornale si contraddica non mi scandalizza più di tanto, ma che ometta di menzionare la
prima versione nella seconda, questo sì mi disturba. Hanno deciso di tirare una riga sulla teoria del complotto, perciò si disdegna tutto quello che si è detto prima, anche qui da noi, e si sostiene con dimostrazioni per lo meno dubbie che soltanto Oswald ha sparato quel giorno. Non si cerca più la verità.» Prima di uscire, Kamel le porse un berretto blu con la scritta NEW YORK YANKEE. «Mi rincresce per il tuo look, mi piace il tuo nuovo taglio di capelli, ma è meglio che tu te lo metta, per le videocamere.» «Quali?» «Tutte... In strada, davanti alle banche, nei parcheggi, nelle gallerie commerciali...» Yael non insistette, si calcò in testa il berretto, vi infilò sotto i capelli e abbassò la visiera sugli occhi. «Sono carina, vero?» Raggiunsero l'auto di Kamel. Lui si mise al volante e si diresse verso la periferia nord. «Il novantacinque per cento della gente non sa come funziona il mondo», attaccò. «Crede di saperlo, attraverso la falsa immagine che le viene presentata. È manipolata. Prendi gli Stati Uniti, per esempio: ogni volta che il puritanesimo ha una ricaduta, che la morale si sfalda, scoppia una grave crisi politica che minaccia l'integrità del Paese. E questa crisi serve a rinsaldare i legami del popolo americano, a irrigidire la morale, a far passare leggi più severe, che a poco a poco minano le libertà individuali. E in tutti i Paesi funziona così. Basta adattare il tipo di crisi alla mentalità della popolazione, e si può riprendere il controllo.» Yael abbassò il finestrino per sentire l'aria fresca. «Non credi di esagerare un pochino?» domandò. «Non ti offendere, ma tu... vedi il male dappertutto.» «Sei un tipico esempio della globalizzazione! Un metodo brillante per mondializzare gli strumenti di controllo dei popoli! Talmente efficace che se qualcuno vuole trasgredire o denunciare, lo si tratta subito da paranoico! Davvero geniale, no?» Lei si pentì immediatamente di averlo detto. Kamel li stava aiutando, stava correndo dei rischi enormi, soltanto perché li stimava. Oppure perché la mia storia conforta le sue teorie? «Tutti i metodi vanno bene per tenerti d'occhio», continuò lui. «Ti spingono a pagare con la carta di credito per sapere dove sei e cosa compri.
D'altronde, il denaro liquido gli sta sulle balle, e gli piacerebbe sostituirlo con piccole carte prepagate tipo Moneo o qualsiasi cosa inventeranno in futuro fino alla scomparsa del contante. Non puoi più andare al lavoro senza il tuo badge per entrare, o la tessera magnetica per la mensa, o semplicemente un computer che serve da spia. Se consulti le tue mail o sgobbi davanti allo schermo, il pc archivia quello che fai. E lo stesso vale per i trasporti... La carta Navigo sarà sempre più diffusa, il telepass per il pedaggio autostradale, il radar automatico che rileva la tua posizione, la carta di credito che dice dov'eri quando hai fatto il pieno di benzina, il parcheggio che sa che sei lì perché hai passato la tessera, il cellulare che ti localizza in ogni momento, senza contare le videocamere di sorveglianza...» Yael taceva. Meglio non entrare nel dibattito. Kamel proseguì nel suo monologo per diversi chilometri. Citò le grandi dinastie che regnavano sul mondo, in particolare il clan dei Kennedy, ma anche quello dei Bush, ricordando che il nonno, Prescott Bush, aveva fatto affari con i nazisti. Nominato direttore generale della Union Banking Corporation, di proprietà della famiglia tedesca Thyssen, i finanzieri di Hitler, Prescott Bush alla fine degli anni Trenta si era recato in Polonia per sovrintendere all'attività di una miniera in cui lavoravano come schiavi i deportati del campo di Auschwitz. Notando che Yael non proferiva parola, precisò che Prescott Bush aveva studiato a Yale ed era un membro noto dell'Ordine dei Teschi e delle Ossa. Arrivarono nei pressi di un centro commerciale, dove Kamel ebbe cura di non fermarsi nel parcheggio, preferendo girare per dieci minuti alla ricerca di un posto meno sorvegliato. Una volta dentro la galleria commerciale, ripeté a Yael di tenere la testa bassa e le chiese di aspettarlo su una panchina davanti alle casse del supermercato, dove si affrettò a comprare una confezione di lamette da barba, pagandole in contanti. «Che ci facciamo qui?» domandò Yael, che cominciava a spazientirsi. «Vorrei che mi prendessi sul serio. Non per il mio ego, di cui me ne sbatto, ma per la tua sicurezza. Quindi adesso procederò a una dimostrazione.» Yael levò gli occhi al cielo, e lui si diresse verso la caffetteria vicina all'uscita. Aprì il pacchetto di lamette, conservando l'imballo. «Ecco, guarda, è soltanto cartone, giusto?» «Sì.» Superarono i piatti pronti e i cartelli con i differenti menù per fermarsi di
fronte alle vaschette che contenevano salse e condimenti. «Sei d'accordo nell'affermare che non si rischia nulla a infilare del cartone in un forno a microonde?» Lei assentì, un po' infastidita. «In compenso, non bisogna soprattutto metterci del metallo, altrimenti il forno può esplodere, chiunque lo sa.» Aprì uno dei forni a microonde destinati a riscaldare i piatti e vi depose la confezione di cartone. Regolò la potenza al massimo e fissò un tempo di cottura di un minuto. Il vassoio all'interno si mise a girare. Senza che accadesse niente di particolare. Poi ci furono due lampi brevi e intensi, accompagnati da un crepitio. Kamel premette immediatamente il pulsante STOP. Recuperò l'imballo con la punta delle dita e lo gettò in un cestino dell'immondizia. «Curioso per del cartone, vero? Bene, ti sconsiglio di provarci a casa tua. La prima volta che l'ho fatto, il forno è scoppiato e una scheggia di plastica mi ha mancato per un pelo la carotide!» Si affrettò a trascinarla verso l'uscita prima che i loro maneggi venissero notati. «È stato il chip RFID a provocarlo», spiegò. «In questo caso era nella confezione, ma lo si trova sempre più sovente nel prodotto stesso, nei capi di abbigliamento, per esempio. Mi credi adesso?» Yael aprì la bocca per dire che non aveva bisogno di dimostrazioni, ma preferì evitare un confronto. «Sì», si accontentò di rispondere. Lui prese a deambulare nella galleria. «È necessario capire che questo chip non è innocuo, i grandi magazzini ne hanno modificato la funzione originaria, ma era... prevedibile. In effetti, all'inizio è stato ideato da un'impresa che appartiene a un tale Alex Mandi, il cui zio è uno dei direttori della NSA, l'agenzia di spionaggio americana. Se in più ti dico che Alex Mandi è stato amministratore della società IN-QTEL, di fatto finanziata e ospitata dalla CIA, forse comincerai a porti delle domande... La IN-Q-TEL si occupa di crittografia e messa in sicurezza di Internet per conto del governo americano. L'impresa inoltre crea e valuta nuove tecnologie per le agenzie governative, CIA, NSA, FBI... Un po' sospetto, no?» Questa volta, Yael doveva ammettere che il cumulo di prove era sorprendente.
«In seguito, il chip RFID è passato nel campo dei beni di largo consumo. Peggio ancora, si sta pian piano insinuando nella nostra vita con un obiettivo a medio termine: sostituire la carta d'identità. Un giorno, avremo tutti un microchip impiantato sotto la pelle, con i nostri dati personali: identità, stato civile, tessera della previdenza sociale, e tutto quello che vorranno metterci. Rimpiazzerà le nostre carte di credito, le nostre cartelle mediche, ogni cosa... In alcuni ospedali si stanno già facendo dei test, con il consenso del malato, e in certi locali notturni non autorizzano l'accesso VIP se non ai portatori del loro chip. Le generazioni future cresceranno con questo strumento, giudicandolo normale, considerando 'diversi' coloro che ne sono privi, e il chip RFID diventerà di uso comune.» «Lo impiantano già negli animali, vero?» «Esatto. In alcuni Paesi è persino divenuto obbligatorio, se si vuole tenere un cane. Non male come idea, eh? Si può rintracciare il padrone seguendo il suo cane su uno schermo!» Si ritrovarono all'esterno, camminando tra le vetture posteggiate. Yael aveva le mani in tasca, il volto nascosto dalla visiera del berretto. «D'accordo, tutto questo è... allucinante», ammise, «ma dove vuoi andare a parare?» «Mi auguro solo che tu apra bene gli occhi sul mondo in cui vivi. Non è quello che credi di vedere. C'è una bella differenza! Dicono che viviamo in un mondo di comunicazione, ma dovremmo dire un mondo di manipolazione. Non c'è più spazio per il caso in questo sistema. Ogni decisione vale milioni, se non miliardi di dollari, e questa massa di denaro necessita il massimo controllo. E coloro che decidono sono un numero esiguo, lassù in cima, nella stratosfera della nostra civiltà.» Yael non osò dirgli che era un discorso che ormai conosceva bene. E che da qualche giorno era costretta a misurarne la reale portata. «So di essere un po' pesante, continuando a ripetere sempre lo stesso ritornello, ma ci siamo tutti abituati a questo sistema, e lo troviamo normale. Come si fa a risvegliare il gregge che cerca il suo piccolo quadrato di pascolo?» Con la massima discrezione possibile, prese Yael per un braccio e la fece scivolare dietro di sé, mentre un'auto della polizia li incrociava sul ciglio della strada. «Siamo come quella rana che non si rende conto che l'acqua bolle! Sai, se metti una rana nell'acqua bollente, salterà subito fuori dalla pentola. Invece, se la immergi nell'acqua fredda e la fai scaldare a fuoco lento, ci re-
sterà senza accorgersi che l'acqua diventa troppo calda, e la farai cuocere a piacimento. Lo stesso vale per noi. Basta farci rosolare a fuoco lento, progressivamente, e hop! Siamo fritti!» «Non mi racconterai di nuovo che è tutta colpa della rivoluzione francese?» «No, la rivoluzione è stata una tragedia, ma ci ha fatto entrare in una nuova era che avrebbe potuto risultare benefica. È il sangue del popolo che è stato versato; ma chi ha indirizzato, guidato la rivoluzione per trarne giovamento? La borghesia, i grossi commercianti, i banchieri dell'epoca! E furbi com'erano, hanno messo in piedi un nuovo sistema a loro vantaggio, guardandosi bene dal ripetere l'errore del precedente: mettere una testa in cima alla piramide del potere. Una testa da rovesciare quando il popolo si fosse infuriato. Elaborando quello che sarebbe divenuto il nostro nuovo sistema, hanno disumanizzato la piramide del potere, affinché non ci si potesse più ribellare. Contro chi? Se oggi i francesi volessero cambiare tutto, se non ne potessero più di pagare le tasse, di rispettare leggi ingiuste, di non avere condizioni di vita decenti, che cosa potrebbero fare? Scendere in piazza e destituire il presidente? Per metterne un altro al suo posto e ricominciare? No, ormai lo sappiamo bene! Non è possibile spaccare tutto. Siamo troppo dipendenti dal sistema, siamo noi i suoi ingranaggi!» «I tizi che hanno fatto la rivoluzione avevano fame, non erano dei cospiratori professionisti!» «Farai bene a rileggere la storia tra le righe. Chi ha scatenato le ostilità, poi la resa dei conti con il potere? E soprattutto studia le date delle rivoluzioni, delle dichiarazioni di indipendenza, e vedrai come appaiano un po' ovunque nei simboli occulti legati a certe sette. Sul dollaro, per esempio...» Yael lo interruppe: «È normale che il 1776 figuri sul biglietto da un dollaro. È l'anno della loro dichiarazione di indipendenza!» «Guarda meglio! Noterai che la data è ai piedi della piramide che simboleggia il regno dell'occhio. Un occhio onnisciente, onnipotente, che regna incontrastato sul resto della piramide. Un occhio che simboleggia un piccolo gruppo di individui. La data è in basso, alla base della piramide, è il suo punto di partenza! È una data stampata in mezzo a simboli esoterici, sotto una piramide con tredici file di mattoni, una data incastrata tra due frasi: 'Favorisce la nostra realizzazione' e 'Nuovo ordine dei secoli'! Non mi invento niente! Controlla pure, è scritto. Il Nuovo Ordine mondiale! Oggi gli Illuminati, o qualunque sia il loro nome, non si battono più per
cambiare il mondo, l'hanno già fatto! Viviamo nel loro regno dalla fine del Diciottesimo secolo. Fanno già ciò che vogliono. Guerre, menzogne... il mondo gli appartiene. E noi siamo i loro giocattoli ciechi!» Era troppo per Yael, non ne poteva più di vedere segni nascosti ovunque, di sentirsi ripetere che viveva in un mondo di bugie, che la sua esistenza non era che un'enorme manipolazione. Aveva voglia di dimenticare tutto. Di tornare alla sua vita cieca ma tranquilla. Di poter uscire o ascoltare una notizia alla televisione senza farsi mille domande. «Kamel, credo di aver bisogno di una tregua», disse d'un soffio. Lui stava per aggiungere qualcosa, ma le parole restarono sospese tra le sue labbra. Poche persone erano in grado di sopportare il peso della verità. «D'accordo, capisco», si limitò a dire. Yael salì in macchina. Tornarono a casa per pranzo. Thomas rientrò nel tardo pomeriggio. Aveva appena chiuso la porta dietro di sé, che Yael balzò su dal divano per avere notizie. Forse aveva una pista... «Yael, partiamo domattina per Le Havre», annunciò lui. «Se tutto va bene, saremo in viaggio per gli Stati Uniti entro la fine della settimana.» Yael fece un lungo sospiro. L'impazienza e lo stress svanirono. Partire. Aveva solo quello in testa. E affrontare degli uomini convinti che fosse loro tutto permesso. Persino rubarle la vita. 64 Thomas raccontò di aver sondato le compagnie di trasporto marittimo. I piroscafi non gli interessavano, richiedevano il passaporto. Cercava solo cargo o petroliere. Sapeva dell'esistenza di quelle navi commerciali che disponevano di una cabina libera e che offrivano la possibilità di imbarcare uno o due curiosi dietro compenso. Era una forma di turismo che cominciava a svilupparsi, ancora riservata agli iniziati, ma che offriva un viaggio fuori del comune, propizio alla contemplazione e alla riflessione. Thomas si era procurato i nomi delle navi che fornivano quel tipo di servizio in una piccola agenzia di viaggi specializzata nelle crociere originali, nei pressi della Borsa. Aveva compilato una lista di quelle che partivano dalla Francia per la costa orientale degli Stati Uniti. Una decina dovevano
salpare nei giorni a venire dal porto di Le Havre. Bisognava tentare la sorte. Avvicinare i capitani. Trovarne uno disposto a intascare qualche migliaio di euro per imbarcarli senza un documento di identità né dichiarazione in dogana. La sera, durante la cena, Thomas si rivolse a Kamel: «Tramite l'ambasciata, non potresti ottenere delle informazioni su queste navi e i loro capitani?» L'amico inarcò le sopracciglia. «Chiederò a mio padre.» Yael mangiava con moderato appetito. Alla fine ammise: «Non so niente di viaggi clandestini, però mi sembra che costi caro... Molto caro...» Thomas annuì. «Sì. Una fortuna.» «E come faremo? Non ho soldi sul mio conto... E comunque non posso accedervi.» «È già tutto sistemato.» Il giornalista scambiò uno sguardo complice con Kamel. «Sì», fece quest'ultimo. «Io... io vi aiuterò.» «Kamel! Tu... Non posso accettare il tuo denaro», protestò la giovane. «Non farti problemi. Che genere d'uomo sarei se mi coccolassi i soldi mentre i miei amici si trovano nel bisogno? Ne ho, allora che servano a qualcosa! È di questo che parlavamo ieri sera quando sei scesa.» Interdetta, Yael cercò le parole. «Io... Grazie, Kamel. Ti rimborserò non appena possibile, te lo prometto.» Kamel rise piano. «Non ti preoccupare. Quando questa storia sarà finita, otterrai un tale risarcimento danni che me ne restituirai cento volte tanto!» L'accenno a un futuro dopo le Ombre le fece bene. Sorrise a sua volta. Thomas aveva portato una bottiglia di vino che degustarono tutti insieme, e Yael si ritrovò a ridere, per la prima volta da giorni. Kamel si assentò per faxare la lista delle navi a suo padre, pregandolo di fare un'indagine urgente. Thomas raccontò di come avesse sempre sognato di dipingere, e di come l'anno prima ci avesse provato seguendo dei corsi di pittura. Un disastro.
Yael sorrideva, di nuovo fiduciosa in un avvenire che le appariva meno cupo. Andarono a coricarsi con una leggerezza inusitata. Senza farsi altre domande, Yael scivolò nel calore di Thomas, stringendosi a lui. Cercò la sua bocca e vi posò le labbra. Le girava un po' la testa. Si abbracciarono con foga. Lui si spogliò sotto gli assalti della giovane donna, poi le tolse la lunga maglietta. Yael lo bloccò per fissarlo, una luce birichina che le illuminava lo sguardo. «Ci tengo a scusarmi per la mia conturbante lingerie», sussurrò. Una mutandina cinese da tre euro al paio. Scoppiarono a ridere, rannicchiati uno accanto all'altra, poi il tempo fece loro la grazia di cancellarsi. Blog di Kamel Nasir. Estratto 10 Se una mente aperta ha proseguito la lettura fin qui, probabilmente si domanda perché. Partendo dalla folle ipotesi che l'amministrazione Bush sapesse degli attentati, se non addirittura vi fosse coinvolta, si impone la questione del perché. Oltre alla manna finanziaria che ciò ha generato. Ci sono due punti essenziali: - Lo stato di paura. - E, infine, la realizzazione di un Nuovo Ordine mondiale. La paura? Giustappongo i fatti e tiro le mie conclusioni. Sono pazzesche, e tuttavia plausibili riguardo agli uomini che tengono le fila. Immaginate un'alleanza tra un pugno di miliardari di varie nazionalità, principalmente statunitensi e sauditi, sebbene a mio avviso i primi manipolino i secondi. Immaginate degli individui pronti a tutto, la cui etica e il cui senso morale sono scomparsi nel corso degli anni, mentre il potere e il denaro li divoravano come la droga che in effetti sono. Immaginate questi uomini corrompere il sistema, impadronirsi poco per volta del potere, dalla Casa Bianca al Pentagono. Uomini che hanno capito come funziona il popolo.
Un popolo abituato a un benessere morale e materiale morbido e rassicurante. All'improvviso gettate il caos in questo benessere. Ne sconvolgete l'equilibrio a colpi di paure, di incertezze. Il popolo sarà disposto a fare dei sacrifici per ritrovare il suo benessere. Pronto ad accettare cose inaccettabili davanti alla promessa di eliminare quella paura che attanaglia lo stomaco. La promessa di riavere la vita di prima. Ed è esattamente quello che è successo. Nel novembre del 2002, Bush, con il pretesto del terrorismo e della sicurezza nazionale, lancia il progetto TIA (Total Information Awareness, totale consapevolezza dell'informazione). Il principio è semplice: installare un sistema che permetta al governo americano di esplorare tutti i database del mondo al fine di raccogliere qualsiasi informazione esistente su un certo individuo, la sua vita professionale e privata, tutto, assolutamente tutto, senza alcuna restrizione. È Donald Rumsfeld a nominare il responsabile del TIA, tale ammiraglio John Pondexter, personaggio più che controverso, poiché fortemente sospettato di aver organizzato il famoso traffico di droga legato all'Irangate. Mi permetto di ricordare a questo riguardo che quando Pondexter venne accusato, fece scomparire tutti i documenti che provavano la sua colpevolezza, ignaro che la distruzione venisse registrata dal servizio di sorveglianza. Alla fine, l'11 giugno 1990, fu condannato per aver distrutto delle prove a diciotto mesi di prigione, pena che non scontò grazie all'annullamento del verdetto da parte di un altro tribunale per «vizio di forma». Ed è quest'uomo a guidare la TIA e ad avere l'autorizzazione di sapere tutto di qualunque persona a sua scelta. Di fronte al putiferio scatenato dalla sua nomina, il TIA scompare ufficialmente poco tempo dopo essere stato reso pubblico, ma in seguito altri programmi l'hanno rimpiazzato, come per esempio MATRIX (Multistate Anti-Terrorism Information Exchange). Nuovi progetti spuntano fuori ogni semestre, alcuni dei quali spariscono poco dopo, in genere per essere sostituiti da altri, identici ma con nomi diversi e aspetti più «rassicuranti». Senza contare il Patriot Act. Il Patriot Act è una legge liberticida votata il 26 ottobre 2002 per rafforzare i poteri d'inchiesta governativa, indebolendo il potere della difesa. Che questa legge un giorno possa scomparire, essere prolungata oppure rimpiazzata da una nuova legge - la stessa, con un altro nome e le medesime applicazioni - ormai è destinata a perdurare nei fatti. Questa legge riduce drasticamente le libertà individuali, favorendo la repressione da
parte delle forze dell'ordine, legalizzando la violazione della vita privata e restringendo in particolare il diritto alla libertà di espressione. Inoltre, autorizza la detenzione senza limiti di tempo e senza imputazione di chiunque venga ritenuto un terrorista. Ma chi è un terrorista agli occhi del governo? Lo sono anch'io, visti i miei intenti? Dire ciò che penso può spedirmi in prigione con la scusa che mi oppongo verbalmente al governo in carica? Possibile... Quando sappiamo che John Ashcroft (ex ministro della Giustizia) e i suoi collaboratori hanno studiato una legge ancora più liberticida denominata Patriot Act II - tenendo nascosto al Senato e al Congresso il loro progetto per sei mesi! -, è lecito aver paura. Soprattutto perché quando è stata resa nota, di fronte all'indignazione generale, hanno addotto il pretesto che si trattava di una «nota interna prematuramente divulgata al pubblico»! La verità nuda e cruda è che preparavano delle restrizioni alla libertà ancora più condannabili nella massima segretezza, per far passare la legge all'ultimo momento! Basta leggere i giornali, interessarsi un minimo alla nostra società, per rendersi conto che leggi di questo tipo germogliano un po' ovunque nel mondo. Segnatamente in Francia, con il nome di legge Perben II. Può darsi che con il tempo il nome cambi, ma stiamo attenti che i politici non modifichino solo l'aspetto esteriore... Nel frattempo, vi invito a esaminare per conto vostro questa legge, o quelle che sono state approvate nel vostro Paese, ovunque viviate. Dedicatevi a un giochetto al contempo divertente e spaventoso. Tentate di definire che cos'è per voi la libertà, e confrontatela con la realtà dei nuovi testi. Coraggio. È incredibile quello che siamo pronti ad accettare quando abbiamo paura. L'11 settembre ha consentito di far man bassa della nazione, di controllare le libertà, assicurando un potere più ampio al governo e ai suoi soci. Allo scopo di preparare il seguito degli avvenimenti. Il Nuovo Ordine mondiale. 65 Domenica 26 agosto. Tardo pomeriggio. Tempo umido e uggioso. Le raffinerie di petrolio invadevano il paesaggio come una vegetazione spinosa, drizzando i loro fusti d'acciaio e ostruendo la vista delle enormi
vasche tra gli oleodotti che serpeggiavano in branco per chilometri. Qua e là, dei totem culminavano nella foresta senza vita, lambiti da una fiamma blu che innalzava nel cielo colonne di fumo nero. Un odore oleoso di benzina pervadeva l'abitacolo dell'auto. Kamel guidava in silenzio, la sua missione era quasi terminata: erano arrivati a Le Havre. Presto avrebbe lasciato i suoi compagni e sarebbe tornato alla quotidianità, sperando, giorno dopo giorno, di ricevere loro notizie. Seguì i cartelli che indicavano la zona portuale e attraversò un quartiere di lunghi caseggiati grigi. Poi apparvero i depositi. Il porto era davanti a loro, nascosto dietro i capannoni e le immense gru da carico. Gli alberi e i fumaioli delle navi cisterna, dei cargo e delle metaniere spuntavano in lontananza. Kamel si fermò prima di imboccare la strada che entrava nel porto, passando per l'ufficio doganale. «Non potete permettervi di esibire i documenti di identità», ricordò loro Kamel, «quindi dovrete seguire le mura per avvicinarvi alle navi. C'è una zona deserta laggiù, dietro gli alberi, dovreste riuscire a intrufolarvi da lì.» «Ho notato dei binari più lontano», precisò Thomas. «Di sicuro non saranno protetti lungo tutto il percorso. Ci basterà risalirli.» «Bene, allora credo che sia il momento di dirsi arrivederci. Ce l'hai il fax che mio padre ha spedito stamattina?» Il reporter annuì. Si salutarono senza indugiare, già pronti all'azione. Yael e Thomas seguirono le mura del porto, lo zaino sulle spalle. Come lui aveva previsto, la ferrovia correva dietro una rete metallica arrugginita e bucata che non ebbero difficoltà a superare. Camminarono lungo le rotaie in direzione del porto, riconoscibile per gli alti silos dei cereali. In prossimità dei primi fabbricati, Thomas invitò Yael a sedersi su dei pallet abbandonati per aspettare la notte ed evitare di essere individuati. Erano al riparo dagli sguardi, nascosti tra due fatiscenti magazzini e alte erbe ingiallite. Yael di colpo se ne uscì in una risatina che sorprese il giornalista. «E io che tremavo al minimo pericolo...» disse. «Se troviamo una nave che ci carica», considerò Thomas, «il che non è sicuro, saremo... dei clandestini. Nessuno saprà che siamo a bordo, tranne l'equipaggio. La nostra esistenza sarà... come tra parentesi mentre saremo in mare. Capisci di quali rischi parlo?» «Me l'hai già detto. Potrebbero sbarazzarsi di noi.»
Quel solo pensiero la terrorizzava. Ma dovevano attraversare l'Atlantico. «So di ripetermi, ma devi stare sempre sul chi vive. Se troviamo un capitano disposto a imbarcarci, lo farà a condizione di essere pagato in anticipo. È la regola. E una volta in alto mare, lui e l'equipaggio potrebbero decidere di tenersi il grano senza correre il rischio di farsi pizzicare dalle autorità americane con dei clandestini a bordo. Senza dimenticare la dogana statunitense, che è famosa per la sua severità.» «Credi che ci butteranno fuori bordo?» «So che migliaia di persone viaggiano così, provenienti per lo più dall'Africa e all'Asia, e che tragedie del genere capitano spesso. Ci sono persino dei luoghi conosciuti per questo, come in Italia, dove un intero paese sapeva che una nave aveva gettato in mare dei cadaveri di clandestini.» «Non abbiamo altra scelta.» «Dobbiamo stare sempre in guardia. Me lo prometti?» «D'accordo.» «A priori, anche se incappassimo in un equipaggio losco, ci penseranno due volte prima di ammazzare due bianchi ben vestiti. Avranno paura dell'inchiesta. Meglio comunque essere prudenti.» Un treno merci passò al rallentatore davanti a loro, al ritmo irregolare delle sue ruote taglienti. Yael lo seguì con lo sguardo, rammentando i romanzi e i film americani in cui degli uomini percorrevano l'intero Paese nei carri bestiame, correndo lungo i binari per saltare sul convoglio diretto verso l'ignoto, verso la speranza. Lei si accingeva a fare altrettanto. Su un enorme scafo di metallo, in mezzo al nulla. La notte calò mentre lei era rannicchiata contro Thomas. Ripresero la marcia. Il padre di Kamel aveva svolto un'indagine approfondita, malgrado il poco tempo a disposizione. Per ogni nave all'ormeggio, aveva stilato una cronistoria dettagliata. Thomas aveva segnato quattro nomi sull'elenco. Tutti capitani sospettati o condannati per reati che andavano dalla degassificazione in prossimità delle coste al trasporto di clandestini. Uno di loro in particolare, indiziato ma mai arrestato per mancanza di prove, rappresentava la più grande speranza di Thomas. Comandava l'Absolute Conqueror. Si aggirarono tra i depositi di container, superarono il magazzino frigorifero e passarono sotto i ponti di caricamento, saltando da una prua all'altra alla ricerca dell'Absolute Conqueror, che infine trovarono al termine della
banchina. Il giornalista lasciò Yael dietro un capannone e salì a bordo. Tornò meno di un quarto d'ora dopo, senza dire una parola. Prese il suo zaino, fece segno alla donna di seguirlo, e si diressero verso un'altra sagoma massiccia che galleggiava nell'oscurità. Il porto si era trasformato con l'arrivo del buio. I proiettori delle gru roteavano, le luci sugli alberi delle navi brillavano di rosso e verde mentre nell'aria si mescolavano raschi, colpi metallici, motori, argani sibilanti, grida e sirene. Al secondo tentativo, Thomas tornò con le pive nel sacco e l'aria preoccupata. Temeva che il comandante potesse avvisare le autorità della loro presenza. Si affrettarono a raggiungere il nome seguente sulla lista, una nave portacontainer già quasi carica. Il colloquio durò molto a lungo. Yael pazientò per un'ora. E l'ansia cominciò a instillare dubbi oscuri nella sua mente. Passò un'altra mezz'ora. Yael non resisteva più. Andava avanti e indietro, sbirciando con diffidenza i carrelli elevatori che passavano a fari accesi con il loro carico. All'improvviso Thomas apparve sul ponte, facendole segno con la mano di raggiungerlo. Ebbe un tuffo al cuore. Afferrò gli zaini e lasciò la banchina di cemento. Posando il piede sulla passerella d'imbarco, si voltò per contemplare un'ultima volta la terra. Che tipo di donna sarebbe stata quando l'avrebbe toccata di nuovo? Thomas la chiamò, e lei salì a bordo senza una parola, senza uno sguardo. Nient'altro contava più se non il suo obiettivo. Il confronto che l'aspettava laggiù. Dall'altra parte dell'oceano. 66 In alto mare, la cosa più impressionante era la potenza dell'aria. La forza del vento era quasi costante sull'Atlantico, e gli spruzzi che strappava alla superficie dell'oceano rivestivano il ponte della nave portacontainer di una scivolosa vernice. Il vento sibilava nei timpani, stordiva, e
Yael impiegò tre giorni ad abituarvisi. Il Baltic era così grande e pesante che non si soffriva per il beccheggio o il rollio, a meno che il mare non fosse particolarmente agitato. Yael era impressionata dal numero di container stipati sul ponte, in contrasto con l'orizzonte interminabile di onde. Una volta lasciato il mondo degli uomini, si rese conto però di quanto il Baltic fosse piccolo e fragile, un guscio di noce alla mercé degli elementi. Non si era mai sentita così minuscola, così irrisoria rispetto all'universo. Poi si abituò a quell'infinito fluido, e presto concluse che la sua opacità era un'alleata. Non poter intuire niente delle sue profondità, dei suoi abissi, era una benedizione. Le piaceva immaginare l'oceano come un rivestimento solido che la trasportava, una superficie compatta in grado di isolarla da gorghi spaventosi. E dimenticò i canyon che sfilavano sotto i suoi piedi, la loro flora e la loro fauna. Il vento, invece, non poteva che subirlo e accettarlo. La loro cabina si trovava a fianco del fumaiolo, e la prima notte Yael faticò a prendere sonno, il rumore dei motori era una presenza continua e il condotto che passava non lontano dalla sua testa di quando in quando risuonava di strani echi. L'equipaggio era discreto; lei aveva appena qualche contatto con gli ufficiali, sebbene, su richiesta del capitano, mangiassero per conto loro. Il comandante ricordava spesso ai due che non erano dei passeggeri, ma dei clandestini, e che dovevano restare silenziosi, quasi invisibili. Meno le loro facce fossero rimaste impresse nelle menti, meglio sarebbe stato per tutti. Per quel che ne sapeva, l'equipaggio era filippino e gli ufficiali panamensi. A bordo si parlavano diverse lingue, compreso un inglese incerto. I giorni passavano sugli orologi da parete nella mensa ufficiali, che indicavano i fusi orari che attraversavano. L'espressione «Nuovo Mondo» assumeva un senso, a bordo. Inoltrarsi in quell'indomabile terra di nessuno per giorni e notti significava imbarcarsi in uno strano viaggio interiore. L'uomo sballottato in quella cangiante immensità si ritrovava ben presto a contemplare il proprio riflesso, l'anima a nudo, libero all'improvviso di fare pulizia, di operare una selezione e scegliere quale essere voleva diventare. Una silenziosa trasformazione era in corso, una muta lenta e profonda, con cui ci si sbarazzava degli atteggiamenti, dei sotterfugi e delle bugie del cuore. Al mattino del quarto giorno, Yael calzò le scarpe da ginnastica, si infilò un paio di calzoncini e una maglietta, e partì da sola per fare il giro del
ponte di corsa. Il complesso policromo di rettangoli d'acciaio formava un gigantesco castello attorno al quale lei fece jogging. Per la prima volta dopo molto tempo. Il rumore dei suoi passi sul tavolato svaniva nella risacca che turbinava contro lo scafo e nel vento che fischiava tra i container. Yael si sentiva rivivere. Al secondo passaggio sotto il ponte di comando notò un uomo dell'equipaggio seduto a fumare una sigaretta che la osservava. Lesse della cupidigia nei suoi occhi. Un ghigno bramoso che detestava. Yael esitò a continuare. Se avesse girato di nuovo si sarebbe trovata nella lunga zona dov'erano depositate le merci, rischiando di essere trascinata tra due container. Nessuno avrebbe potuto vederla o sentirla. Non rallentò e proseguì il suo esercizio. Non far vedere che si ha paura, pensò. Mostrarsi forte per scoraggiare un tipo esitante. Rimanevano ancora quattro giorni, non era il momento di mollare, altrimenti il resto del viaggio sarebbe stato un incubo. Completò un terzo giro e tornò verso la sua cabina. Quando uscì dalla doccia, trovò Thomas ad aspettarla. «Ho parlato con il capitano: arriveremo a New York lunedì prossimo, in serata. Resteranno all'ormeggio due giorni per scaricare e caricare. Dopo di che, salperanno per Savannah, in Georgia. Stessa solfa, e macchine indietro verso Boston per un ultimo carico prima del ritorno in Francia, il 13 settembre. Dice che se vogliamo tornare con loro, possiamo raggiungerli in quella data. Questo ci lascia dieci giorni per incontrare Carl Petersen e decidere cosa fare in seguito.» Lei approvò senza commentare. Non aveva alcun piano preciso. Solo bisogno di un risultato. Sapere. E assicurarsi che né lei né suo padre rischiassero ancora qualcosa. Quanto al resto... avrebbe improvvisato sul posto, a seconda delle circostanze. Doveva cominciare con Petersen. Nel pomeriggio, passeggiarono sul ponte a proravia, cullati dal ronzio tranquillo dei motori, una vibrazione rassicurante. La prua solcava la schiuma verso ovest, verso il tramonto. Parlarono delle loro vite, di quello che si attendevano, avendo cura di non menzionare le Ombre. Lì, a migliaia di chilometri dalla città più vicina, assaporarono quel momento di tregua. Lontani dalla civiltà e dalle menzogne. Cenarono e si coricarono presto. Quella sera, Yael si infilò nella cuccetta del compagno. Dopo la notte passata insieme a casa di Kamel, non si faceva più domande sulla loro relazione. Si rifiutava di definirla. Contavano solo l'istante presente, le carezze, i baci e il desiderio di lui, del suo corpo.
Guidò il sesso del giornalista verso di sé. Senza usare alcun metodo contraccettivo. In nessun momento cercò di proteggere quel rapporto, lo voleva brutale, istintivo, lei che era sempre così prudente. Lui la penetrò, e lei gemette di piacere, per la sua scelta consapevole, per il viaggio che lui le offriva e nel quale avrebbe voluto sciogliersi. Un viaggio «fusionale», alla velocità dell'oblio, nel quale toccare l'anima attraverso il corpo era l'unica realtà dell'universo: un periplo orgasmico tra il nulla e la materia, lo stato prenatale e post mortem. Voleva viaggiare attraverso sé, attraverso lui, nell'essenza stessa dell'umanità. E allora godette. La traversata durò otto giorni. Quando il Baltic si avvicinò alla costa americana, il buio era sceso da quattro ore. Yael scorgeva solo delle fioche luci in lontananza. Sul ponte di comando, il capitano spiegò ai due come avrebbero lasciato la nave. L'operazione dipendeva dalla loro discrezione. Una volta attraccati, le macchine ferme, sarebbero passati dal lato opposto alla banchina e scesi per una scaletta lungo la murata fino al livello dell'acqua. Si sarebbero imbarcati su un canotto pneumatico e avrebbero dovuto allontanarsi a remi, senza farsi notare dalle motovedette di pattuglia. Dovevano uscire dal porto e approdare in un punto tranquillo. E soprattutto dovevano stare attenti, perché se una nave cisterna fosse salpata in quel momento avrebbero rischiato di essere abbrancati e stritolati dalle eliche. Nessuna grossa nave avrebbe potuto vederli. Se fossero stati catturati, il capitano avrebbe dichiarato di non averli mai visti né conosciuti. Dovevano sbrogliarsela da soli e dimenticarsi del Baltic. Nel frattempo, li fece accompagnare nella stiva, in un minuscolo bugigattolo, dove sarebbero rimasti nascosti finché qualcuno non fosse venuto a prenderli, nell'eventualità di una visita a sorpresa dei guardacoste. Attesero due ore, stretti l'uno contro l'altra, le gambe che formicolavano, le braccia intorpidite e la testa che girava. Finalmente, un ufficiale venne ad aprire. In un pessimo inglese, ordinò loro di seguirlo con gli zaini. Uscirono all'aria aperta, nella notte che scintillava delle luci del porto newyorchese. Scivolarono tra i container, l'ufficiale indicò una scaletta che scendeva sinuosa fino al livello dell'acqua, quindi consegnò a ciascuno un remo di plastica. Mentre loro iniziavano la discesa, lui calò in acqua per mezzo
di una corda un canotto pneumatico appena sufficiente ad accogliere due persone. Yael non si sentiva al sicuro contro la fiancata dell'enorme cargo, e lo sciabordio dell'acqua scura sotto di lei non contribuiva certo a tranquillizzarla. Thomas riuscì ad afferrare il canotto e a sedersi senza rovesciarlo. Aiutò Yael a fare altrettanto, gli zaini posati tra le gambe. Era una zattera di fortuna, appena degna dei giocattoli per bambini che si potevano trovare su una qualsiasi spiaggia. Alla minima onda, si sarebbe capovolto. Thomas sciolse il nodo e presero a remare in silenzio per allontanarsi dal Baltic. La sua immensa carcassa dominava la notte. La fragile imbarcazione si addentrò nell'oscurità, lasciando la rada per girare attorno al faro del porto. Ben presto, ebbero le spalle indolenzite. Lottavano contro la corrente. Il canotto si mise a oscillare pericolosamente. L'acqua era ghiacciata. «Non vedo la riva», si inquietò Yael, ansando. «Solo delle luci.» «Proprio alla nostra sinistra, degli scogli.» E come a sottolineare le parole di Thomas, Yael udì frangersi le onde. Remarono più forte, i muscoli in fiamme, manovrando meglio che potevano per evitare di sfracellarsi sugli scogli, ma la corrente finì per ghermirli e spingerli rabbiosamente verso la costa. Il canotto sfrecciò tra spigoli affilati e poi strisciò sulla sabbia del lido. Si gettarono entrambi sulla terraferma stringendo a sé i bagagli, senza fiato e con il corpo dolorante, ma vivi. Ce l'avevano fatta. Erano negli Stati Uniti. Il Paese che aveva fatto sognare tanti esuli. The land of the free, come la chiamavano i primi coloni, pieni di speranza e avidi di libertà. Yael era venuta a riprendersi la sua. 67 Martedì 4 settembre. Pennsylvania Station. Primo mattino. Con i dollari forniti da Kamel, Yael e Thomas si erano concessi una stanza d'albergo nel Queens per passare quel che restava della notte. Dopo un breve sonno, erano ripartiti in direzione di Manhattan per prendere il treno.
La stazione risuonava degli echi di tutti i passi. I viaggiatori sfilavano così rapidamente che Yael non riusciva a distinguerne i volti. Cercarono entrambi una biglietteria, facendosi spintonare da una folla che si muoveva a ritmo frenetico, finché Yael non raggiunse uno sportello e fece scivolare sotto il vetro un biglietto da cinquanta dollari. Meno di un'ora più tardi erano seduti in un treno dell'Amtrack che filava a tutta velocità verso l'antica capitale degli Stati Uniti. Arrivarono a Filadelfia all'ora di pranzo. Zaini in spalla, comprarono degli hot dog da un ambulante e si procurarono una pianta della città per localizzare i diversi quartieri. L'ex generale Carl Petersen viveva in periferia, nel quartiere nord-occidentale, sulle rive del fiume Schuykill. Yael propose di sistemarsi prima in un hotel nelle vicinanze, così salirono su un autobus che entrò nel Fairmont Park, un vasto spazio verde dotato di piste ciclabili e aree per i picnic, e li depositò davanti a un albergo all'uscita del parco. Thomas prese una camera, pagando in contanti, e acquistò una carta di accesso a Internet per consultare le informazioni in francese. Era fuori discussione che Yael recitasse la parte della turista senza passaporto, così lasciò che Thomas parlasse per tutti e due. Davanti allo schermo, la giovane fece dapprima un rapido giro delle notizie, per sincerarsi che nessun cittadino francese fosse stato ucciso in India. Niente sul web. Yael rammentò le date sul foglio di viaggio. François Mallan era tornato dal trekking il giorno prima, e doveva ripartire il 5 settembre per Parigi, cioè l'indomani. Yael tirò un sospiro. Diede una scorsa agli articoli di giornale che parlavano del loro caso. L'inchiesta non aveva fatto molti passi avanti, la polizia si rifiutava di rilasciare commenti e i cronisti non riuscivano a determinare se Yael fosse considerata un'indiziata o una vittima. Quanto all'assassinio di Henri Bonneviel, un sospetto era stato arrestato e incriminato. La sua amante. Gli inquirenti affermavano di aver raccolto prove sufficienti della sua colpevolezza. La donna però continuava a proclamarsi innocente. Infine, Yael consultò la sua posta elettronica. Niente di emozionante. Interi vagoni di spam, quegli intempestivi messaggi pubblicitari. Stava per cancellarli quando uno di essi attirò la sua attenzione. Non c'era mittente, solo uno spazio bianco, ed era datata 30 ago-
sto, cinque giorni prima. L'oggetto era «Toc toc». Yael esitò, forse non si trattava di uno spam. Cliccò sopra per aprirlo, sperando di non innescare un virus. Il messaggio era conciso. E diretto. Le sue dita si strinsero sul mouse. Le Ombre avevano ripreso contatto. 68 «Poiché la storia esercita un tale fascino su di lei, continui a leggerla, continui ciò che ha iniziato, passi al seguito! Con i biglietti da cinque, venti e cento dollari. Riducendoli senza tagliarli, dovrebbe ottenere un interessante seguito per predire il futuro... Ma stia in guardia. Vedere l'avvenire può costare caro. Pochi sono in grado di sopravvivere. È un gioco per iniziati. Lei è avvisata.» Yael stampò subito la pagina e chiuse la sessione. Ritrovò Thomas in camera. «Dobbiamo cambiare albergo!» lo avvertì, entrando. «Ho fatto una cazzata! Ho guardato le mie e-mail, e ce n'era una... delle Ombre. Attraverso la connessione, possono risalire fin qui.» Il giornalista non disse nulla. Non la rimproverò. Si limitò a prendere le sue cose e a uscire. Trovarono un altro hotel a meno di un chilometro, ma preferirono ignorarlo, optando per quello successivo, che comunque era a breve distanza dalla casa di Carl Petersen. Thomas chiuse la porta a chiave dietro di sé. «Fammi vedere il messaggio.» Lei glielo porse. «Ho l'impressione... che il tono sia cambiato», osservò. «In effetti», convenne lui. Yael fece spallucce, poi di colpo esclamò: «Logico! Bonneviel è morto, e dal momento che era lui a contattarmi, le Ombre non dovrebbero più inviarmi messaggi...» «A meno che a farlo non sia l'altra fazione», completò Thomas. «Quella che ha tentato di ucciderti.» «Credi che sia una trappola?» Il reporter rilesse l'e-mail.
«L'hanno mandata cinque giorni fa. Avevano perduto le nostre tracce.» Scosse il capo. «Sì, è di certo una trappola. Un modo per scovarci. L'e-mail doveva contenere una specie di virus, un tracker, per localizzarci. Non so quanto sia potente ma, se ha funzionato, ora sanno che siamo negli Stati Uniti. «Non c'è tempo da perdere. Andiamo da Petersen.» Non erano ancora le quattro di pomeriggio quando chiamarono un taxi per farsi portare a casa del generale a riposo. Era una zona di villette a un solo piano, larghe e lunghe, separate da siepi sottili e aperte sulla strada, nient'altro che un prato e aiuole di fiori, oltre all'immancabile vialetto che conduceva a imponenti garage. Vi si respirava la tipica atmosfera di un quartiere borghese americano. Yael e Thomas si fecero lasciare un po' prima del numero che cercavano e proseguirono a piedi. Dei giovani faggi frusciavano, ben allineati sul bordo dei marciapiedi. «È qui», sussurrò Thomas. «Continua a camminare. Voglio essere sicuro che non ci aspettino.» Con la coda dell'occhio scrutò l'interno delle poche vetture parcheggiate per accertarsi che non fossero occupate. «Penso che sarebbe meglio sorvegliare la casa prima di andarci», propose Yael. «Non vorrei incappare nella moglie in caso lui non ci fosse. Potrebbe avvertirlo. Vieni, ho un'idea.» Trascinò il giornalista in fondo alla strada, su una panchina da cui si aveva una buona visuale di tutte le proprietà, e tirò fuori dallo zaino dei fogli di carta e una matita. «Parlavi di dipingere, l'altro giorno, no? Allora fammi il ritratto, su questo sfondo.» Accompagnò la richiesta con un sorriso complice e una strizzatina d'occhio. «Non rimarrai delusa...» Restarono in paziente attesa, Thomas che alzava regolarmente il suo schizzo per mostrare ai pochi passanti quello che stavano facendo lì. Era ormai tardo pomeriggio quando una Lexus rallentò davanti alla dimora del generale e si infilò nel vialetto. Un tizio alto e biondo scese dal lato del conducente e aprì la portiera posteriore dalla quale uscì faticosamente un vecchio. «È lui», disse Yael. «Ha un autista, nientemeno!»
Il tirapiedi del generale raggiunse la porta d'ingresso e suonò. Una donna sulla quarantina venne ad aprire. Dall'aspetto e dal contegno, sembrava una domestica. Li fece entrare e richiuse la porta. «Sono in tre», bisbigliò Thomas. «Questo non ci facilita il compito.» «Ci sarà pure un momento in cui è solo, no?» «Viste le sue condizioni, non ci giurerei.» Dopo un'ora di attesa e di speculazioni, osservarono l'autista uscire salutando la governante, salire sulla Lexus e scomparire all'altro capo della strada. «Uno di meno», osservò Thomas. «Andiamo.» Il giornalista arricciò il naso. «Non possiamo starcene qui così per una settimana», insistette Yael. «Bonneviel ha scritto che Petersen mi avrebbe parlato, e lo farà.» Thomas non poté fare altro che seguirla. Suonarono alla porta. Apparve la governante. «Buona sera», disse, un po' sorpresa. «Vorremmo vedere il signor Petersen, è molto importante», esordì Yael in un buon inglese. «Voi siete...» «Gli riferisca che veniamo da parte di Henri Bonneviel. Gli dica anche che il signor Bonneviel è morto.» «Sentite, credo che sarebbe meglio se chiamaste domani...» «No, dobbiamo parlargli adesso. È molto importante. Io sono Yael Mallan.» La governante strinse le labbra, divisa tra l'istinto protettivo e l'urgenza che scintillava negli occhi della giovane. «Aspettate qui. Vedrò quello che posso fare», tagliò corto, chiudendo la porta. Si riaprì meno di un minuto dopo. «Seguitemi, prego.» 69 Yael e Thomas attraversarono il salotto fino a una veranda aperta su un giardino stupendamente curato. Seduto su una chaise-longue di legno, i piedi nudi nell'erba, il vecchio generale squadrò prima uno poi l'altra, quindi indicò loro due sedie con un gesto della mano. Si riparava dal crepuscolo sotto un ombrellone piantato in terra.
«Maggy, serva loro dell'aranciata», ordinò con una voce sibilante. «Grazie di averci ricevuto, signor Petersen», disse Yael. «Lui chi è?» domandò il generale indicando Thomas. «Il mio angelo custode.» Petersen la fissò. I suoi occhi brillavano come brace. Nonostante l'età, non aveva perso la vivacità mentale. Yael gli restituì lo sguardo. La sua pelle era quasi trasparente sulle ossa e sulle vene verdi. Non aveva più capelli. Yael stava contemplando quasi un secolo di storia. Quelle mani avevano toccato Kennedy, quella bocca gli aveva parlato. Stando al resoconto di Kamel, si poteva persino supporre che avesse pronunciato l'ordine di assassinare il presidente. «È quella carogna di Bonneviel che vi manda!» sibilò. «È morto...» «Naturale che è morto, quello zuccone!» si burlò il vegliardo. «Ha fatto girare le palle a Goatherd, si è spinto troppo oltre.» Sentendo il nome che figurava in cima allo schema, la giovane si piegò in avanti. «E come?» Un ghigno compiaciuto si disegnò sul volto del generale. «Le piacerebbe saperlo, eh?» Yael intrecciò le mani davanti a sé. «È stato Henri Bonneviel a farmi venire qua. Diceva che lei mi avrebbe parlato.» La governante riapparve con due bicchieri, che depositò su un tavolino prima di eclissarsi. Petersen allungò un braccio per chiudere l'ombrellone, e subito venne inondato dal sole calante. I raggi dorati si impigliarono nel profilo del vecchio, ricoprendolo di un mantello infuocato. I suoi occhi non erano più che due fessure. «Per questo, bisogna porre le domande giuste», disse a bassa voce. «Perché io? Perché Bonneviel ha deciso di mandarmi tutti quei messaggi?» «Perché stava facendo un gioco.» «Con me?» Dopo una pausa di silenzio, Petersen rispose: «No, lei è solo una pedina. L'unica cosa che conta in questo gioco sono i giocatori, e il modo in cui vinceranno la partita. E lei era la pedina del suo avversario. James Goatherd».
«Io?» Petersen annuì lentamente, assorbito dalle proprie rivelazioni. «E perché i miei genitori erano menzionati accanto a me nel foglio che ho trovato da Bonneviel?» «Deve prima comprendere come funziona il gioco. Si ficchi bene in testa che non sto utilizzando una metafora: giocano realmente a un gioco. Che va ben oltre il divertimento. Una partita senza fine, in cui la posta in palio è il mondo. L'obiettivo è il potere. Una perenne dimostrazione tra i giocatori. Con una sorta di gerarchia che muta in funzione delle mosse di ciascuno.» «Sono più di due?» «Sì. Non conosco il numero esatto, ma sono soltanto una manciata.» «Le Ombre», mormorò Thomas. «In effetti, è il soprannome che si danno tra loro, sebbene cambi con le varie epoche.» «Come si gioca?» chiese Yael a denti stretti. «Guadagnando soldi?» «No, questa è una conseguenza per coloro che vincono. Bisogna segnare dei punti. E la Storia con la S maiuscola è la scala secondo cui si calcolano questi punti. È su di essa che si iscrivono le vittorie.» «In che modo?» «Con la manipolazione. Ogni giocatore dispone del proprio capitale e di quello dei soci. Deve trovare una maniera, non importa quale, non solo per conservarli, ma anche per farli fruttare. Ciononostante, non può procedere come gli pare. Deve tassativamente giocare con la storia. Manipolarla, giocare con gli uomini. E lo strumento principale che utilizzano i giocatori...» «Sono le coincidenze», completò Yael, ricordandosi tutto ciò che aveva imparato nelle ultime settimane. L'assassinio di Lincoln, quello di Kennedy... Petersen la scrutò da sotto il velo di luce che lo avvolgeva. «Esatto. Vedo che Bonneviel l'ha instradata bene. Questo gioco è il frutto dell'ambizione, della megalomania di alcuni miliardari, in una corsa sfrenata al potere, al 'sempre di più'. Hanno finito per riunirsi e prefiggersi delle sfide. Queste sfide segrete sono divenute una necessità. Una regola da seguire per mettere un pizzico di pepe nella loro esistenza quotidiana.» «È... patetico», lo interruppe Yael. «Non poi tanto. Prenda un bambino indigeno che vive nel profondo della foresta amazzonica: non sarà infelice perché non possiede l'ultimo giocattolo di Guerre Stellari; si divertirà con le sue liane intrecciate tanto quanto
un ragazzino americano con i suoi giochi più sofisticati. È una questione di ambiente, di riferimenti. Per le Ombre è lo stesso. Sono persone cresciute con tutto, assolutamente tutto, o che comunque oggi hanno tutto. E invece che accontentarsi di amministrare i propri imperi, ciascuno nel proprio angolino, in una solitudine paranoica, si sono inventati una maniera di dare un senso, un'importanza ancora maggiore ai loro atti. Non hanno fatto altro che adattare le regole al loro ambiente, adeguarle al livello dei loro riferimenti.» Si passò la lingua sulle labbra secche, prima di proseguire: «Quando alcune persone che facevano parte delle Ombre hanno deciso che Kennedy andava contro i loro interessi, hanno elaborato un piano che mirava alla sua eliminazione, avendo cura che venisse attuato secondo criteri minuziosamente preparati. So che sembra un'enormità, ma guardi il numero di coincidenze tra gli omicidi di Lincoln e Kennedy, e se ne renderà conto. Il 'caso' non aiuta fino a questo punto. E sono troppe le coincidenze nella storia per negare l'influsso di una forza esterna». Yael si sforzò di dominare un moto di ribellione. «Chi sono le Ombre, attualmente?» «Degli uomini e alcune donne. Si sono spartiti l'eredità spirituale dei loro antenati, e sono sempre stati abili nel navigare nelle sfere politiche, pur essendo di rado delle figure troppo in vista. Hanno saputo come orientare la società. Hanno puntato sul petrolio prima del Ventesimo secolo e hanno manovrato nell'ombra affinché diventasse una colossale manna economica. Hanno investito nei trasporti e lanciato l'era della comunicazione. È logico che si siano poco per volta impadroniti dei media per fondare degli imperi nell'epoca dell'informazione. Durante la prima guerra mondiale, hanno fiutato il potenziale dell'industria militare, e se la sono accaparrata. La seconda guerra mondiale ha confermato tale potenzialità e li ha ulteriormente arricchiti. Un affare tra i più lucrosi al mondo, ma che occorre alimentare. Kennedy si opponeva ferocemente a questa politica. Rifiutava l'intervento militare contro Cuba, era contrario a un conflitto in Vietnam.» «E allora le Ombre l'hanno tolto di mezzo.» Di nuovo apparve un ghigno sul viso del generale. «Non per questo creda che JFK fosse un santo. Alcuni asseriscono che la sua accanita opposizione a quelle persone fosse semplicemente destinata a favorire gli interessi del suo clan, se capisce cosa intendo...» Yael aprì la bocca per ribattere, ma Petersen non gliene diede il tempo. «Non faceva parte dell'apparato militare-industriale, come lo chiamate
voi. Gli interessi di Kennedy non erano quindi in campo bellico. Stia certa che, se non fosse morto, avrebbe pensato al tornaconto dell'impero della sua famiglia, esattamente come tutti gli altri.» «All'epoca, lei era generale», intervenne Thomas. La frase era carica di sottintesi. Petersen perse il sorriso. «Non sono un'Ombra, se è questo che vuole sapere», replicò. «Il mio ruolo è sempre stato quello di intermediario. È per questo che Bonneviel l'ha mandata da me, signorina Mallan.» Sentendo pronunciare il suo nome dalla voce sibilante dell'uomo, a Yael venne la pelle d'oca. «Cosa sa della mia famiglia?» «Quello che James Goatherd ha avuto la compiacenza di dirmi.» «Goatherd?» «Sì. Volevate il nome di una delle Ombre, eccovene uno. E di antico lignaggio! Pare che suo nonno fosse tra coloro che hanno realizzato il colpo più straordinario di tutti i tempi: il Titanic!» «Abbiamo letto di questa voce», interloquì Thomas. «È una stupidaggine. Nessuno farebbe mai una cosa del genere. Sarebbe impossibile da organizzare.» «Ne è davvero convinto? Non sottovaluti le Ombre. Aspetti di vedere cosa ci stanno preparando... ho sentito parlare di un colpo enorme. Qualcosa di talmente grosso che nessuno potrà mai immaginare che sia stato orchestrato.» «Di che si tratta?» Il giornalista si era raddrizzato sulla sedia. «È quello che si sussurra dietro le quinte...» Yael lo interruppe: «Cosa vuole Goatherd dalla mia famiglia?» «Ciò che vogliono tutte le Ombre. Manipolarla, controllarla. Il perché, lo ignoro. Ma so in che modo.» Yael si alzò in piedi, non ne poteva più. «Torni a sedersi, per favore», ordinò il vecchio in tono gelido. Lei obbedì. «Procedono spesso nello stesso modo. Io so come, gliel'ho detto: ho sovente fatto da intermediario tra le Ombre e quelli che potevano servire loro. Una volta designato il bersaglio, raccolgono informazioni per conoscere tutto ciò che lo riguarda. E a poco a poco lo inquadrano. Per un motivo
che non conosco, Goatherd l'ha selezionata, forse perché la sua famiglia era abbastanza tranquilla, aveva meno legami rispetto a un'altra. E ha iniziato a seguirla. Delle persone stendevano di tanto in tanto dei rapporti su di lei, gli facevano dei resoconti e gli sottoponevano delle proposte che la concernevano, e che lui si riservava di approvare o meno. Per esempio, so che da adolescente era molto brava nella corsa. Al punto che si profilava per lei una carriera sportiva. Questo però non rientrava nei piani. Una sportiva di alto livello è troppo sollecitata, troppo inquadrata. Goatherd avrebbe avuto delle difficoltà a sorvegliarla, e soprattutto a fare di lei ciò che voleva. Allora si è reso necessario organizzare un... incidente.» La testa di Yael prese a girare. Dovette appoggiarsi al bracciolo della sedia. «Era un azzardo. Lei poteva cavarsela solo con qualche graffio e riprendere l'attività sportiva, oppure essere ridotta a un vegetale. Goatherd ha corso il rischio, piuttosto che rinunciare definitivamente a lei. L'incidente è stato perfetto. Proprio quello che ci voleva: nessuna lesione invalidante, ma un'anca abbastanza danneggiata da compromettere la carriera agonistica.» Yael aprì la bocca per respirare. Il cuore le batteva all'impazzata. Thomas le si avvicinò e le prese la mano. Petersen proseguì, divertito da quella reazione: «Goatherd si serve di lei come fa con decine di altre persone. Non cerchi di scoprire perché, non lo saprà mai, lui solo lo sa. Per la maggior parte del tempo, si accontenta di controllare delle vite unicamente per avere delle pedine sottomano un po' ovunque nel mondo, per ogni eventualità. È il suo modo di giocare». «Perché il suo nome compare tra James R. Goatherd e quelli dei miei genitori?» chiese Yael con freddezza. Petersen lesse la determinazione venata di collera sorda negli occhi grigi della giovane donna. «Eccoci al punto. Mi ha contattato l'anno scorso per affidarmi un lavoro.» Yael si contrasse. «Che genere di lavoro?» Le parole le uscivano con tale rabbia da diventare taglienti come lame. «Il genere di lavoro che ero solito svolgere per lui. Ho una rete di conoscenze costruita nel corso di decenni. Per un po' ho fatto da intermediario tra i desideri del signor Goatherd e la loro concretizzazione, l'applicazione
sul campo della sua volontà. È lo stesso tipo di servizi che rendevo a Henri Bonneviel. Sono una specie di... organizzatore, se volete. Lo ero, per la verità.» «Che cosa voleva Goatherd dai miei genitori?» Petersen lasciò passare un po' di tempo, fissando Yael dritto negli occhi. «Eliminarli.» Yael accusò il colpo al plesso. Dovette inspirare una gran boccata di ossigeno per non piegarsi in due. 70 Carl Petersen sembrava ardere mentre svelava la verità. Il tramonto lo divorava a poco a poco. «Giusto un anno fa, James Goatherd mi ha consegnato un dossier sui suoi genitori. Mi ha incaricato di far uccidere sua madre in un incidente. Voleva che accadesse in fretta, se possibile un venerdì 13, per dare un tocco di simbolismo. Quanto a suo padre, Goatherd desiderava che preparassimo il colpo con molto anticipo, e che agissimo in occasione del suo viaggio in India. Suo padre ha l'abitudine di programmare i propri itinerari, a quel che ho visto, ed era sotto sorveglianza già da diversi mesi. Ho avuto tra le mani il dossier completo. Ciononostante, non ho avviato nessuna operazione. Ho detto a James Goatherd che ero stufo dell'intera faccenda. Di tutto quel lavoro nell'ombra, dei piani sempre più complessi. Eliminare una madre e un padre di famiglia per concludere in bellezza la mia lunga carriera non mi... motivava. Ho declinato la richiesta. Goatherd l'ha presa male, ma sapeva che di quando in quando lavoravo anche per altre Ombre, in particolare per Bonneviel. Allora si è accontentato di riprendersi i suoi dossier e di scordarsi di me. Presumo che abbia passato il compito a un altro.» Yael faceva appello a tutte le sue risorse mentali per non crollare. Stritolò la mano di Thomas. Le aveva rubato l'esistenza. Sua madre era stata assassinata. Da Goatherd. Con uno sforzo doloroso, represse la sofferenza per tornare a concentrarsi sull'essere che aveva di fronte. Il mostro. «Se lei ha rifiutato... come spiega il suo nome sul documento di Henri Bonneviel?» «Perché quell'idiota spiava Goatherd, faceva parte del loro piccolo gio-
co! Ma le sue informazioni non erano aggiornate. «Lei avrebbe potuto avvertirlo», obiettò Thomas, «visto che era suo 'amico'.» «Se oggi sono ancora qui, è perché non tradisco la mano che mi nutre. Né Goatherd, né nessun altro. Poiché si avvicinava l'ora... del bilancio, ho solo voluto prendere definitivamente congedo. Goatherd l'avrà capito. Credo che...» Ancora una volta, il generale dovette inumidirsi le labbra screpolate, poi riprese: «Bonneviel è come me. Ha deciso che la cosa stava andando troppo oltre. Vuole... voleva darci un taglio. Tuttavia, se avesse agito in prima persona, non solo avrebbe messo a repentaglio il suo impero finanziario, ma Goatherd sarebbe piombato su di lui con le conseguenze che si possono immaginare. Bonneviel doveva quindi servirsi di qualcun altro. Qualcuno che non facesse parte delle Ombre. Che non avesse niente a che vedere con lui, che non potesse essergli collegato». Yael deglutì. Presagiva il seguito. Petersen continuò: «Suppongo dunque che abbia attivato la sua rete per spiare Goatherd, per scoprire cosa stava macchinando. E si è imbattuto in lei. Ha deciso che lei doveva sapere tutto, probabilmente nella speranza che, conosciuta la verità, l'avrebbe resa pubblica. Ma a quanto pare Goatherd ha capito il gioco del rivale e non ha apprezzato. Alla fine, Bonneviel ci ha rimesso la pelle». «Perché Goatherd si interessa a me e alla mia famiglia?» La voce di Yael era tremante, le sue guance erano in fiamme. Le lacrime minacciavano di traboccare dall'orlo delle palpebre. «È interessato solo a lei, coinvolgere la sua famiglia serviva esclusivamente a colpirla. Il perché, lo ignoro. Così come le cause e i motivi delle decisioni di Goatherd. Io mi limito a realizzare i suoi desideri in cambio di un'agiata pensione e della garanzia che i miei figli e nipoti abbiano di che vivere decorosamente in un mondo nel quale il denaro è l'unica sicurezza.» «Se Bonneviel intendeva far venire tutto alla luce proteggendosi, perché ho scoperto che era implicato nella mia storia?» chiese lei serrando i pugni. «Presumo non fosse sua intenzione. Lei deve essere stata molto perspicace. Se tutto fosse andato come previsto, lei non avrebbe saputo nemmeno il suo nome. Ha agito troppo in fretta, un errore che non bisogna mai commettere! Possiamo assumere il controllo di una vita senza problemi, a patto di avere il tempo necessario. È l'unica condizione.» Yael si sentiva male. La nausea nasceva dal miscuglio di rabbia, paura e dolore che le torceva le viscere.
«Perché Goatherd vuole uccidere... mio padre?» «Non ne ho idea.» «Come posso impedirglielo?» Petersen si umettò di nuovo le labbra. «Temo sia impossibile.» «Non ho chiesto la sua opinione. Voglio sapere come fare!» urlò all'improvviso. Lui scosse il capo. «Lei non capisce. Anche se suo padre non è stato ancora assassinato mentre le parlo, la macchina è talmente enorme che non la si può più arrestare. Ci vuole molto tempo per metterla in moto, e frena di rado.» Un lampo si accese nella mente di Yael. Il revolver. Nello zaino. Vicino a lei. «Voglio sapere», articolò lentamente, «come devo fare per impedire a Goatherd di ammazzare mio padre. Non perderò del tempo prezioso per ripeterglielo dieci volte. Mi segue?» Il vecchio fece un sorriso stanco. «Per capire Goatherd, deve sapere come funzionano gli ingranaggi di questa macchina. Facciamo un esempio. Immagini un gruppo di terroristi, dei poveri fanatici, reclutati in quartieri degradati, uomini senza speranza e pieni di odio, che hanno subito il lavaggio del cervello con dottrine antiquello-che-vi-pare, con un martellamento ideologico preciso e calibrato. Fin qui, niente di originale. Ma chi recluta questi individui, chi li plasma e li prepara a servire una causa terrorista? Uomini più importanti, spesso degli ideologi, essi stessi influenzati da una o due figure autorevoli che impartiscono loro degli ordini, figure a loro volta sostenute da uomini di potere, i finanziatori di questo gruppo. È sempre chi fornisce i soldi che comanda. E con chi lavora questo... sponsor? Chi gli permette di fare affari? È anche lui manipolato? La piramide tra il piccolo terrorista che si fa esplodere in mezzo ai passanti e l'alto responsabile è alquanto... monumentale. Spesso impossibile da risalire. E se è ben strutturata, può nascondere, dietro i pretesti del fanatismo, della religione o chissà che altro, i suoi fini reali. Senza alcun rapporto con le motivazioni del kamikaze.» «Cosa sta cercando di dirmi?» «Che un potente uomo di Wall Street può essere il socio vitale di un... miliardario saudita, per esempio. Le loro fortune sono enormi, ma fragili, e si fondano sulla reciproca intesa cordiale. E tramite un sistema di anelli, uniti l'uno all'altro, è possibile che il finanziere newyorkese sia responsabi-
le, volontariamente, degli atti terroristici di un giovane fanatico all'altro capo del mondo.» «Come può dire questo? È... ignobile!» «Povera ingenua che non è altro! La sorprenderebbe constatare ciò che sono disposti a fare degli individui senza scrupoli per qualche centinaio di milioni di dollari.» «Perché un americano dovrebbe finanziare un attentato terroristico a diecimila chilometri da casa sua? Non ha alcun senso!» Petersen giunse le mani davanti alla bocca, increspando le labbra. Era visibilmente tentato di rispondere, ma si trattenne. «La geopolitica è complessa, mia cara», si limitò a dire. «Ma questo esempio serve a farle comprendere l'impressionante catena di comando installata tra chi prende la decisione e chi la mette in atto concretamente. Quest'ultimo è ben lungi dall'immaginare che i propri gesti non hanno nulla a che vedere con quanto crede, ciò per cui sacrifica la vita. È così complicata che neppure il mandante sa quando e come si svolgeranno le cose. Gli ingranaggi sono talmente numerosi che, se anche il mandante decidesse di annullare tutto, ci vorrebbero settimane... ammesso che fosse ancora possibile! Non si tratta di alzare il ricevitore del telefono. Per riprendere il nostro esempio, sarebbe necessario che il nostro finanziere newyorkese contattasse il suo socio saudita e gli facesse intendere con parole velate che preferisce interrompere l'operazione di destabilizzazione. Il saudita poi dovrebbe comunicare l'ordine a coloro che fungono da leader spirituali, che spesso operano nella clandestinità e sono quindi difficili da raggiungere. Questi a loro volta dovrebbero stabilire un contatto con il capo della cellula che ha preparato l'attentato sul campo, il quale infine dovrebbe avvicinare i propri uomini per annullare, modificare o rinviare l'operazione. Settimane, se non addirittura mesi di ritardo. È la complessità dell'organigramma a causare questa lentezza, ma anche a renderlo così perfetto, impossibile da ricostruire. Non si potrà mai stabilire un nesso tra qualche sciagurato fanatico che ha fatto saltare un'ambasciata e il vero responsabile. Posso capire che questo la turbi, ma non dimentichi che non esistono grandi fenomeni storici dovuti al caso. La storia appartiene a un gruppetto di individui. Il potere e il denaro sono la loro unica coscienza.» Yael aveva un solo pensiero: suo padre. «Signor Petersen, le mi sta dicendo che l'ordine di uccidere mio padre è stato impartito da Goatherd, ma che lei non è in grado di revocare tale ordine, è così?»
Lui alzò subito la mano davanti a sé. «Io non ho dato nessun ordine. Non sono in alcun modo responsabile dell'eventuale decesso di suo padre. Ho smesso di collaborare con James Goatherd già da qualche tempo. Sono stanco di tutto questo. Ma ciò che voglio farle capire è che se Goatherd ha avviato l'operazione, è pressoché impossibile per lui annullarla. Anche se lo ordinasse in questo preciso momento.» Esitò, prima di aggiungere: «E anche se Goatherd morisse oggi, non credo che si potrebbe bloccare quello che ha messo in moto». Il vecchio scosse la testa e terminò con un sinistro: «E se posso darle un buon consiglio, non cerchi di sapere 'perché proprio io'; Goatherd non parlerà mai. Mai. Ma stia certa che non sopravvivrebbe a un incontro con lui. Quindi, se ha cara la vita, scappi». Blog di Kamel Nasir. Estratto 11 La paura permetterà a un pugno di individui di modellare la società secondo le loro idee. La paura permetterà di cambiare il volto di questa società. Permetterà il controllo del popolo. E del mondo. Il Nuovo Ordine mondiale. Ecco quello che sta succedendo sotto i nostri occhi. Un Nuovo Ordine mondiale che potrebbe costituire una visione più dettagliata del famoso PNAC (Project for the New American Century, progetto per un nuovo secolo americano), un'organizzazione che mira al «dominio militare ed economico della Terra, del cyberspazio e dello spazio vicino alla Terra da parte degli Stati Uniti, al fine di stabilire la loro egemonia sul mondo per almeno un secolo». Nel settembre del 2000, il PNAC redige un rapporto dal titolo Rebuilding America's Defense, che propone e pianifica un attacco contro l'Iraq, indicando che per giustificare tale attacco e la dominazione globale del mondo da parte degli Stati Uniti, ci vorrebbe una «nuova Pearl Harbor». Non è uno scherzo! Questa organizzazione, i cui discorsi ricordano quelli di un'antica dottrina che ambiva a regnare per mille anni, ha la sua sede a Washington, D. C, al numero 1150 della 17a Strada. E volete sapere la cosa più pazzesca? Tra i suoi membri vecchi e nuovi troviamo, tra gli altri, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz,
Jeb Bush (fratello del presidente) e Richard Perle. Sempre gli stessi. Gli uomini nell'ombra del presidente, coloro che dirigono veramente il Paese. Allora, considerando che questi uomini esaltano idee del genere, vale la pena riprendere in esame i fatti storici recenti. Io sono come il resto della gente, mi interesso un pochino alla geopolitica. E non posso credere che tutto il Pentagono, tutti i ministeri, tutte le agenzie di intelligence e l'intera Casa Bianca siano abitati soltanto da dei cretini fatti e finiti. In apparenza può darsi... ma non nella realtà. Come chiunque al mondo, sapevano molto bene quali sarebbero state le conseguenze di un'invasione dell'Iraq, le tensioni che ne sarebbero scaturite. Allora perché farlo? Per le ricchezze economiche del Paese? Un motivo. Ma non il solo, altrimenti gli Stati Uniti sarebbero già pronti a invadere il Venezuela per il petrolio, il Niger per l'uranio, il Sudafrica per l'oro, e via di seguito. C'è un altro obiettivo dietro tutto questo. Sin dal principio hanno fatto di tutto per esacerbare le tensioni razziali. Inutile puntualizzare che negli Usa, come nel resto del mondo, non era un mistero da dove venisse il terrorismo e su cosa si fondasse. Sapevano per certo che, invadendo l'Iraq, avrebbero attizzato un fuoco già ben alimentato. Soprattutto passando il tempo a citare Dio, ad affermare che Dio gli avrebbe dato la vittoria finale sul terrorismo... Che George W. Bush non sia abbastanza furbo da capire cosa accade nel mondo è una cosa che non stento a credere, ma tutti coloro che stanno nella sua ombra, che guidano veramente il Paese, sanno bene ciò che fanno. Agendo in tal modo, non soltanto il governo americano non sradicherà mai i terroristi, ma al contrario ne creerà molti altri... che consentiranno di mantenere la coesione della nazione americana dietro dei valori ultra-conservatori, quelli dell'estrema destra che governa in realtà il Paese, fornendo centinaia di contratti ai gruppi industriali vicini alla Casa Bianca. Questi permetteranno di far ingoiare ai cittadini americani altre misure restrittive delle libertà individuali senza brontolare. Finalità: si crea un'autentica visione manichea del mondo a beneficio delle masse, tra i buoni infedeli occidentali da un lato, e i gentili terroristi arabi dall'altro, mentre gli istigatori di questa visione si riempiono le tasche assicurandosi di essere i leader e di restare tali, almeno per un po' di tempo, quando lasceranno la Casa Bianca.
Una visione manichea ma bilaterale, in cui ogni clan è persuaso di essere quello buono, perseguitato, e di avere diritto di vendicarsi e distruggere il nemico in una spirale infinita. L'esempio più lampante è il messia del popolo: la televisione. Sulla CNN si scopre il conflitto israelo-palestinese attraverso le immagini di bambini ebrei mutilati dalle bombe dei terroristi palestinesi, mentre su Al-Jazira sono i bambini palestinesi a essere mostrati, dilaniati dalle bombe di Tsahal. Ogni clan, informato in modo soggettivo, è così convinto di essere la vittima dell'altro, il nemico crudele contro il quale bisogna combattere. I membri del PNAC non sono innocenti. Predicano la sovranità assoluta degli Stati Uniti. E hanno preparato da lungo tempo i loro piani. Hanno invaso la Casa Bianca. Per diffondere sull'intero pianeta il loro ideale. E trovare al loro Paese un nuovo nemico. Il terrorismo. Un pretesto. Per instaurare la paura, per emanare nuove leggi, per affermare il loro potere, per accrescere le loro ricchezze e controllare il mondo. Questa è la realtà. Quella di un nuovo mondo che si fonda sulla nostra ignoranza. 71 Yael balzò in piedi, frugando nello zaino. Il revolver apparve nella sua mano, diretto verso Carl Petersen. «Non dica così!» strillò, in lacrime. Il vecchio la fissava senza battere ciglio. «Farà meglio a fermarla», disse tranquillo, rivolto a Thomas. «I miei vicini avvertiranno la polizia.» Il reporter si era alzato a sua volta, sconcertato dal gesto folle della sua compagna, le mani tese verso di lei per indurla a calmarsi. «Voglio sapere dove trovare Goatherd!» ringhiò la giovane. «Signorina Mallan, credevo che avesse capito. Per quelle persone, lei non esiste. Una formica, ecco cos'è ai loro occhi. Se si avvicina, la schiacceranno. Ma forse è quello che desidera...» Thomas allungò lentamente una mano verso Yael, che teneva sempre la pistola puntata su Petersen. La canna dell'arma tremava. «Non aspetterò che mio padre si faccia ammazzare per soddisfare gli oscuri desideri di un folle che vuol fare di me il suo giocattolo», disse,
sconvolta. L'ex generale si strofinò la punta del naso. «In questo caso, la scelta è semplice. O dà sfogo alla rabbia andando da Goatherd, il che equivale a morte sicura, oppure soffoca orgoglio ed emozioni, e accetta di pagare il prezzo della sua lucidità verso quella che è la realtà del mondo. Di certo vivrà per sempre con questa collera fredda, però vivrà. Sarà forse il burattino di Goatherd, il suo giocattolo, ma saprà. Farà parte di quegli esseri trattati da paranoici perché sarebbe troppo doloroso credere loro. Gli iniziati.» Yael deglutì a fatica. Il revolver pesava una tonnellata alla fine del suo braccio. Le tempie le pulsavano freneticamente. Abbassò l'arma lungo la gamba e strizzò gli occhi. Thomas si affrettò a sostenerla, stringendola a sé. Le prese il viso tra le mani, per fissarla e trasmetterle la tenerezza del suo conforto. Lei si calmò. Poi si incamminò lentamente verso l'uscita, senza degnare di uno sguardo Carl Petersen. Thomas fece per seguirla, poi ci ripensò e si volse verso il vecchio. «Trovo che le abbia detto parecchie cose, per essere un uomo che ha coltivato il segreto per tutta la vita.» Petersen fece un sorriso enigmatico. «La mia bocca resterà sempre sigillata per un giornalista. Ma dovevo un ultimo favore a Bonneviel. Adesso lei sa, e io ho tenuto fede alla parola data. Al cielo piace che i conti siano sistemati.» 72 Yael scomparve dal mondo dei vivi. Nei primi minuti, seduta per terra nella via, vicino a una cabina telefonica, lasciò risuonare dentro di sé la voce dell'uomo che le aveva annunciato nel ricevitore: «Mi rincresce informarla del decesso di suo padre, avvenuto questa mattina a causa dell'esplosione di un minibus di turisti sulla strada di Nuova Delhi. Ho appena ricevuto conferma della sua identità e...» Lasciando la casa di Petersen, si era messa a correre nella notte, folle di disperazione, finché Thomas non l'aveva raggiunta e riaccompagnata in albergo, dove era crollata sul letto. Poi, in piena notte, si era svegliata come
uno zombie, ed era uscita a cercare un telefono per chiamare l'hotel del padre. Non gliel'avevano potuto passare: era già partito. Aveva chiamato l'aeroporto di Nuova Delhi, senza ottenere il minimo risultato, e infine si era rivolta all'ambasciata francese in India, spiegando che doveva mettersi in contatto con il padre, che era una questione di vita o di morte. Aveva urlato il suo nome nel ricevitore. C'era stato un lungo silenzio, poi l'avevano pregata di aspettare. Le avevano passato un uomo sollecito, che le aveva fatto ripetere il suo nome, quindi aveva cambiato tono, domandandole: «Lei è la figlia del signor François Mallan?» e trasformando l'incubo in realtà. L'uomo le aveva chiesto dove si trovasse. Doveva recarsi al più presto al Quai d'Orsay. Ma Yael non ascoltava più. Il dolore le straziava il corpo e l'anima, persino il respiro si era paralizzato tra due singhiozzi. Poi aveva come dormito, a lungo, espellendo l'odio, l'amore rubato, la rabbia terribile dell'impotenza. Thomas l'aveva trovata un'ora più tardi, scossa da un tremore incontrollabile. L'aveva riportata fino al suo letto, dove si era persa. Il suo essere si disgregava a poco a poco, con il passare delle ore. Ciò che era. Ciò che amava. Ciò che voleva. Tutto si mescolò prima di cancellarsi dalla sua coscienza, di ruotare lentamente attorno al punto centrale, quello dell'oblio. Tutto oscillava nell'illusione, l'irrealtà della sua esistenza. Non c'era niente di vero. Le emozioni si inabissarono dentro di lei. Come anche i ricordi. Quella vita non era più la sua. Da quanto tempo manipolavano la sua esistenza quotidiana? Il suo primo amore era stato reale? Oppure avevano sbarrato la strada a un altro ragazzo per spingerla tra le braccia di quello? I suoi studi erano il frutto delle sue scelte o di un cumulo di mistificazioni? Menzogne. L'incidente in motorino. L'uomo che non aveva rispettato la precedenza sotto casa sua. Un tipo gentile, ancora più traumatizzato di lei per averla investita. Bugiardo. Sua madre... il divorzio dei genitori. L'incidente stradale... Menzogne.
I contorni diventavano sfumati. Lei fluttuava tra due realtà. Ebbra di vertigine. Si addormentò. Si svegliò in un bagno di sudore. L'alba bianca. Che ci ferisce restituendoci alla realtà delle nostre angosce e dei nostri dolori, che si rivelano non essere un semplice incubo. Si riaddormentò, scossa da piccole grida. Un sonno che era un rifugio, un sarcofago di lacrime dove il giorno si rifiutava di entrare. Di tanto in tanto, percepiva la voce di Thomas. Che le parlava. Che la faceva bere. Una sarabanda di voci che amava, ma che non riusciva più identificare. Poi, da quel maelstrom, nacque la fase di ricostruzione. La sua mente divenne un gigantesco archivio dove tutto veniva catalogato, classificato secondo un ordine diverso. I vecchi cassetti della memoria erano esplosi, altre connessioni si formavano negli abissi dell'inconscio. Un mattino, Yael si ridestò, allo stremo delle forze. Non provava alcuna sensazione particolare. Nient'altro che la percezione di un muro ronzante dietro gli occhi. Quello che la proteggeva da un dolore troppo vivo. Non si sentiva né bene né male, soltanto sveglia. Sapeva di poter resistere così, a condizione di fuggire le emozioni, affinché non aprissero una breccia in quel muro di protezione. Non avrebbe più pianto. Non avrebbe più attinto dalla memoria. Poteva agire, era già una cosa positiva. Sapeva cosa doveva fare. Thomas la osservava in silenzio. L'inquietudine che leggeva nei suoi occhi non faceva risuonare niente in lei. L'informazione veniva percepita, ma non trasmessa in profondità. Yael parlò con voce impastata: «Devo trovare James Goatherd». 73 Domenica 9 settembre. Angolo tra la 108a Strada e Lexington Avenue. Manhattan, New York. Erano arrivati il giorno prima, sul tardi, dopo che Yael era emersa dal
suo lungo e inquietante torpore. Kamel aveva comunicato loro l'indirizzo di Goatherd a New York. In un primo momento, Thomas aveva cercato di far ragionare Yael, di convincerla a prendersi un po' di tempo per rimettersi, per riposare e riflettere. Ma aveva ben presto compreso che lei si aggrappava a quell'obiettivo, trovare Goatherd, per resistere, per non affondare. Quell'uomo era diventato l'incubo della sua vita. Contrariamente a ciò che poteva lasciar pensare la reputazione dell'Upper East Side, alcuni isolati a nord non avevano nulla di borghese. Camminavano in una strada di case abbandonate, con porte e finestre murate. Una musica latino-americana scaturiva dagli edifici ancora abitati, e i negozi buie drogherie che vendevano ogni genere di articoli - sparivano dietro sudicie vetrine. Occupavano una stanzetta soffocante in un albergo modesto ma discreto, dove le camere non erano care e non facevano domande. L'aria condizionata non funzionava, ed erano stati costretti a farsi una doccia fredda per addormentarsi. Thomas rientrò in tarda mattinata con una pila di giornali e delle provviste. Sudava copiosamente, le strade sembravano evaporare nella canicola che da tre giorni attanagliava la città. Il contrasto tra la luce abbagliante all'esterno e la penombra della stanza gli richiese un certo tempo per adattarsi. Yael era sul letto, la schiena appoggiata alla parete, le gambe piegate contro il busto tra le lenzuola umide. «Ho preso tutto quello che parlava di economia», disse il reporter, «sperando di trovare qualcosa su Goatherd.» «Internet ci farebbe risparmiare una settimana di ricerche.» «È troppo pericoloso», tagliò corto lui. Allargò le stecche della veneziana per gettare uno sguardo di sotto, asciugandosi la fronte con il risvolto della manica. «Quando ne saprai un po' di più su di lui», sospirò, «cosa intendi fare?» «Incontrarlo.» «Perché?» Lei non rispose. Thomas andò a sedersi al suo fianco. «Ucciderlo non risolverà niente», mormorò. «Premerai il grilletto, e dopo? Vedere la sua testa esplodere non riporterà in vita i tuoi genitori.» Lei si alzò per andare in bagno a rinfrescarsi. New York era sul punto di fondersi.
Spulciarono la stampa economica della settimana, localizzando qua e là il nome di Goatherd. Mangiucchiarono dei panini e bevvero una quantità industriale d'acqua in bottiglia. Nel primo pomeriggio, Yael si avvolse il viso in una salvietta bagnata. Si girò verso Thomas: «Non puoi chiedere al proprietario di darci almeno un ventilatore?» Il giornalista scese alla reception e dovette attendere cinque minuti prima che qualcuno rispondesse alle sue scampanellate. Tornò di sopra a mani vuote. Quando aprì la porta della camera, lo zaino di Yael era scomparso. Guardò in bagno, sapendo che era inutile. Trovò un biglietto sul tavolo. Una grafia frettolosa. Un messaggio laconico. «Non posso più coinvolgerti. Devo farlo. Perdonami.» Si lasciò cadere sul letto, le mani giunte sulla testa. Adesso si trattava di rischiare il tutto per tutto. Non poteva più intervenire. Aveva già fatto abbastanza. Molto più di quanto previsto. Thomas non dubitava che la giovane sarebbe riuscita a scovare James Rhodes Goatherd, anche senza il suo aiuto. Ma sarebbe andata fino in fondo? Probabile. Che cosa l'avrebbe aspettata, dopo? L'arresto, di sicuro. L'avrebbero fatta passare per pazza? Un tipo a sua volta manipolato l'avrebbe uccisa? O forse si sarebbe suicidata? Thomas preferiva non pensarci. Dopo tutto, l'affare non era più di sua competenza. Aveva già fatto la sua parte, e anche di più. Il giornalista sorrise, con una piccola stretta al cuore. Non era stata la più sgradevole delle sue missioni. Questa volta, bisognava ammettere che si era lasciato coinvolgere al di là del consentito. Aveva davvero condiviso qualcosa con lei. Dimenticarla sarebbe stato difficile. Ma era il motivo per cui eccelleva nella sua professione. E l'avevano pagato profumatamente per questo. 74
Yael prese la metropolitana per allontanarsi da Thomas. Era necessario che lui non la ritrovasse. Osservò sfilare le stazioni una dopo l'altra, sforzandosi di scordare i lineamenti dell'uomo che tanto l'aveva aiutata nelle ultime settimane. Lo abbandonava senza sensi di colpa. Scappava da lui per non trascinarlo più nella sua spirale. Quell'incubo era soltanto suo. Era la sua vita, non quella di Thomas. Lui avrebbe avuto la possibilità di riprendere un'esistenza normale; sarebbero bastati un po' di tempo e qualche spiegazione al suo ritorno in Francia. Quanto a lei, tutto era finito a casa di Petersen. Le importava poco di quel che le sarebbe successo. Non aveva che un'idea in testa: trovare Goatherd e fargliela pagare. Al dopo, non ci pensava. La sua vita non sarebbe andata oltre la vendetta. Scese alla Bleecker Street Station e in pochi minuti trovò uno spazio Internet. A Manhattan fiorivano come le panetterie in Francia. Cavò di tasca una manciata di dollari, attinti dalla riserva fornita loro da Kamel, e si offrì quattro ore di connessione. James Rhodes Goatherd. Apparvero decine di pagine. Le passò velocemente in rassegna, operazione che comunque richiese tre ore. Si attardò sulle foto. Goatherd era un tipo sulla cinquantina, con i capelli brizzolati e rughe profonde sul volto regolare, rasato in maniera impeccabile. Non aveva nulla di particolare. Yael era quasi delusa. Un uomo d'affari come tanti altri, che si prendeva cura di sé. Il suo girovita testimoniava una studiata alternanza tra cucina equilibrata e cibi saporiti. Un fisico assolutamente adatto a ogni occasione. Yael si concesse una breve pausa per prendere un caffè al distributore automatico. Localizzare Goatherd le aveva richiesto più tempo di quanto avesse pensato. Le serviva una camera d'albergo. Un posto tranquillo. Fuori Manhattan, in un quartiere più lontano dallo skyline degli industriali d'alto bordo. Il Queens o Brooklyn. Ritornò alla sua postazione di lavoro, dove decise di approfondire partendo da criteri più selettivi. Dapprima il nome completo accompagnato da varie voci come «abita», «indirizzo» o «casa», quindi provò con la parola «settembre».
Fu su una pagina di quest'ultima ricerca che scoprì come James Goatherd avesse un appuntamento a Manhattan lunedì 10 settembre. Domani. Presiedeva una riunione del consiglio di amministrazione alle quindici, prima di recarsi a un vernissage in serata. Era il sito dell'artista a fornire queste notizie, sottolineando come fosse un'impresa e un onore avere la presenza del signor Goatherd all'inaugurazione della mostra. Goatherd era il suo mecenate. Un altro imbroglio, pensò Yael. Il miliardario giocava con il pittore come doveva fare con la maggior parte delle persone che lo circondavano, per alimentare i suoi oscuri disegni. Yael prese nota delle informazioni di cui aveva bisogno e uscì dal locale. In strada, non fece caso all'uomo con il walkman sulle orecchie che era appena arrivato e già si alzava per lanciarsi sulle sue tracce. 75 Yael cenò in un ristorantino nel Queens. Mangiò senza appetito e lasciò il tavolo molto presto nel corso della serata. Lungo il tragitto verso l'hotel, fece qualcosa di cui si sorprese. Alzò il ricevitore di un telefono pubblico e chiese al servizio informazioni di metterla in contatto con l'albergo in cui aveva abbandonato Thomas. Il proprietario trasferì la chiamata alla camera del giornalista, che rispose al terzo squillo, con voce diffidente. «Thomas, sono io.» «Yael! Dove sei?» «Ascolta... volevo dirtelo a voce. Non è contro di te, è solo che non devi più accompagnarmi. Questa faccenda si spinge troppo oltre. Tornatene a casa. Ritrova la tua vita. Con me, non ti capiterebbe niente di buono.» «Non dire queste cose. Dove ti trovi? Ti raggiungo.» «Quello che ho detto a Petersen, lo pensavo, sei stato davvero il mio angelo custode. Adesso, hai compiuto il tuo dovere. E mi hai resa felice. È... un peccato che non ci siamo incontrati prima...» «Yael, sono pronto a seguirti, qualunque cosa tu faccia, d'accordo?» Lei esitò. No, non poteva dirglielo. Era stupido. Chiuse gli occhi. «Perdonami», sussurrò. E riattaccò.
Avanzò barcollando per un centinaio di metri e salì nella sua stanza, lasciandosi alle spalle la via calda e deserta. Una sagoma sbucò da un vicolo e raggiunse il telefono. Il tizio si infilò un guanto di plastica per afferrare la cornetta e premette il tasto di ripetizione dell'ultimo numero. «Hotel Raglio», disse un uomo dalla voce rauca. «Mi scusi, mia moglie ha appena chiamato, ma si è scordata di chiedere una cosa importante al nostro amico. Mi può passare di nuovo la camera, per favore?» «Ah... ehm... era la 24, credo. Resti in linea.» Ma la mano abbassò il ricevitore per interrompere la comunicazione. Il tizio tamburellò sul bordo della cabina. Aveva trovato la ragazza. E probabilmente anche il suo complice. Se fosse arrivato l'ordine di eliminarli, il lavoro sarebbe stato sbrigato prima che il sole sorgesse due volte. Mentre dormivano. Non si sarebbero dibattuti. Non se ne sarebbero nemmeno resi conto. 76 Yael si alzò presto. Passeggiò sulla riva del fiume, poi, prima di mezzogiorno, tornò a recuperare la sua roba. Al momento di lasciare la stanza, controllò il revolver. I proiettili erano lucidi, pesanti. Li infilò di nuovo nel tamburo e richiuse il tutto. Non aveva mai tenuto in mano un'arma da fuoco prima di quell'avventura. Sentiva come una vibrazione al braccio, dovuta al peso della pistola. Pensare che una semplice pressione dell'indice poteva stroncare una vita le procurava una strana sensazione. Bastava puntare la canna sulla persona giusta, e tutta la storia avrebbe preso un indirizzo diverso. La rivoltella somigliava a un telecomando. Una programmazione del futuro. Un modo per eliminare un problema, così come si cambiava canale, in un secondo. Ripose l'arma nello zaino e uscì. Raggiunse Manhattan in metrò, sbucò sulla 5a Avenue e camminò fino all'altezza della 56a Strada sotto un sole opprimente. L'edificio nero in cui James Goatherd aveva appuntamento era lì davanti. Un'alta torre che rifletteva le facciate degli immobili circostanti e il cie-
lo blu, senza che si potesse distinguere cosa accadeva all'interno. Yael lo trovò ironico. Dopo la sua esperienza con gli specchi, era la ciliegina sulla torta. Attese sul lato opposto della strada. Il sudore prese a sgranare i minuti, in grosse gocce lungo la sua colonna vertebrale. Poco prima delle quindici, una limousine bianca si fermò davanti all'entrata. James Goatherd scese dalla vettura. Indossava un impeccabile completo, malgrado la canicola, e teneva una borsa di pelle sotto il braccio. Sparì all'interno del palazzo. Yael non si accorse della figura dietro di lei, a meno di due metri, pronta a intervenire. Attraversò per entrare nella hall, la sua ombra alle costole. Un mondo di frescura, sorrisi composti e comfort apparve dall'altra parte della porta girevole di vetro. Yael cercò Goatherd con lo sguardo. Si stava infilando in un ascensore. Scattò in avanti prima che le porte si chiudessero. La sagoma alle sue spalle fece altrettanto. Goatherd, Yael e il suo guardiano si ritrovarono insieme nella spaziosa cabina cromata. Lei ignorò il colosso che si accingeva a neutralizzarla. Fissò Goatherd. Questi si girò verso di lei per squadrarla a sua volta. La sua pelle aveva una struttura quasi elastica. L'abito ne rafforzava il contegno, le mani erano curate. Tutto in lui ispirava buona salute ed eleganza. Yael scrutò le sue pupille. Lui batté lentamente le palpebre. Nulla nei suoi lineamenti tradiva la minima emozione. Eppure Yael sapeva che l'aveva riconosciuta. Tuffò la mano nello zaino. La voce del terzo occupante dell'ascensore risuonò nelle sue orecchie. «Lasci le mani dove sono.» Un alito che sapeva di mentolo le scese sulla nuca, soffiando nei capelli. «Se fossi in lei, farei come ha detto», la ammonì seccamente Goatherd. Yael sentì la rabbia impadronirsi di lei. Tu non sei me. Non mi farai obbedire. Afferrò il calcio del revolver, e l'arma uscì dallo zaino. L'intera cabina si deformò bruscamente, l'immagine di Goatherd si con-
trasse, mentre un lampo bianco accecava Yael e il dolore si propagava fino al cervello. Le gambe le cedettero, e lei crollò senza riuscire ad ammortizzare l'impatto con le braccia. La sua testa urtò la moquette rossa. L'ultima cosa che vide fu Goatherd che scuoteva il capo con una smorfia sprezzante, aggiustandosi il nodo della cravatta. 77 La testa stretta in una morsa. Yael aprì gli occhi... Due mascelle d'acciaio le stritolavano il cranio, comprimendole il cervello. Era distesa su un divano di pelle, le mani legate con una sottile fascetta di plastica che le tagliava i polsi. Cercò di raddrizzarsi per capire dove si trovava, ma la sua testa esplose. Nessuna morsa, solo una tremenda emicrania. Pian piano, rotolò su un gomito. Era un salotto che somigliava a un pub inglese, tutto in legno verniciato. Un'intera parete era di vetro. In cima alla torre nera. Manhattan partiva alla conquista del cielo sotto i suoi occhi, innalzando un orizzonte verticale di facciate una più vertiginosa dell'altra. Yael scorse il sole dietro il vetro fumé, intuì il calore soffocante che opprimeva la città. Il salotto era climatizzato, e la temperatura era quasi fresca. Si lasciò ricadere, stordita. E tornò a scivolare in uno stato di incoscienza. Faceva buio quando le sue palpebre si sollevarono. La fronte le pulsava ancora, una fitta lancinante partiva a ogni battito del cuore. Questa volta Yael si prese tutto il tempo necessario per mettersi a sedere. Aveva le braccia intorpidite, e le manette di plastica le incidevano la pelle. La stanza era scura, rischiarata soltanto dall'aureola urbana di Manhattan. Un piccolo occhio rosso brillava in un angolo del locale. Una videocamera... Yael si umettò le labbra. Aveva la bocca impastata, la nuca rigida.
Dietro i due divani, posti l'uno di fronte all'altro, c'era una scrivania con il piano immacolato, sgombro da qualsiasi carta. La spia rossa della videocamera si spense. La porta del salotto si aprì una decina di secondi dopo. James Rhodes Goatherd entrò, e una serie di applique si accesero al suo passaggio. «Lei è un tipo cocciuto, vero?» esordì in un francese impeccabile. Si era levato la giacca. Attraversò la stanza senza fare il minimo rumore e aprì le antine di un minibar. Yael era in uno stato confusionale. Goatherd si versò un bourbon e portò un bicchiere d'acqua che depose sul tavolino davanti alla giovane. Lei notò che portava una fede all'anulare e un anello con monogramma al mignolo. Poi lui prese un lungo coltello affilato e glielo puntò contro. «Mi ascolti bene, io non sono una persona paziente. Non le concederò una seconda opportunità di parlare con me. Faccia un gesto fuori luogo e sarà la fine del nostro breve colloquio.» Detto questo, tagliò le manette di plastica. Yael lo vide indietreggiare e sedersi di fronte a lei. La ragazza prese il bicchiere e lo bevve d'un fiato. «Avrei potuto farla sparire la notte scorsa, e non l'ho fatto», proseguì lui. «E lei cosa fa in cambio? Viene qui con una pistola nello zaino per... far cosa, esattamente? Minacciarmi? Uccidermi?» Scosse il capo. «Non molto sottile, come piano.» Yael si sentì rispondere con una voce lontana, arrochita: «Vaffanculo!» Goatherd alzò gli occhi al cielo. «Suvvia... La prego di notare che io non ho alcuna animosità nei suoi confronti. Mi viene quasi voglia di dire che tutto questo non è colpa sua.» «È lei che mi ha trascinata fino al punto di...» Abbassò le palpebre per un breve istante, giusto il tempo di scacciare il ronzio dentro le orecchie. «Come ha potuto farmi questo?» disse piano. «La mia famiglia, la mia vita...» Goatherd aveva l'aria infastidita. «Andiamo! Non reciti la parte della povera vittima, detesto chi si piange addosso.»
Yael lo fissò. Sentiva montare la collera. «Milioni di persone affrontano dei drammi ogni giorno», continuò il miliardario, «ma si rimettono in piedi e ripartono meglio di prima. Lei aveva una piccola esistenza banale, noi ci siamo limitati a metterci un po' di pepe...» «Non dica 'noi', abbia il coraggio di dire 'io'! Lei mi ha rubato ciò che sono. Le mie scelte. I miei genitori.» «Io?» si stupì Goatherd, sorridendo. «Io? No, lei non ha capito niente. Ammetta che sarebbe idiota da parte mia fare una cosa del genere. Per ottenere cosa? Di vederla piombare qui un giorno con un'arma in pugno?» Alzò le spalle. «Rifletta, mia cara. Questo non avrebbe senso!» «Lei non l'aveva previsto... Spiacente di infrangere il suo sogno, Goatherd, ma non può controllare tutto.» L'altro incrociò le braccia sul petto, visibilmente seccato che lei la pensasse a quel modo. «È vero che ci abbiamo messo un po' di tempo a ritrovarla dopo la Svizzera. Sa, l'NSA è un'agenzia enorme. I direttori sono dei militari e dei civili, con un passato imprenditoriale e con degli appoggi politici. Questo significa che ho libero accesso all'NSA. La braccavano per mio conto. E ieri, quando ha inserito il mio nome su Internet, un programma spia incaricato di sorvegliare qualunque persona svolgesse delle ricerche su certi nomi, tra cui il mio, si è messo sulle sue tracce. Ha analizzato il suo modo di battere sulla tastiera e... miracolo!... corrispondeva a quello di una certa Yael Mallan, registrato tramite il suo personal computer di Parigi. Non sarà sorpresa di apprendere che il software è risalito fino al suo punto di connessione, non lontano da qui, e ha trasmesso l'informazione a un responsabile. La sua identità faceva parte di un elenco che avevo fornito all'NSA. Non appena avvertito, le ho messo un mio uomo alle calcagna.» Allargò le braccia. «Ecco qua. Adoro l'apparente semplicità di tutto questo. Potevo farla eliminare già stanotte.» Il suo viso si rabbuiò di colpo. «È vero che i miei uomini hanno tentato di sopprimerla a più riprese senza riuscirvi. L'errore è dovuto alla loro incompetenza. Quegli imbecilli certamente l'hanno sottovalutata.» Yael non era più sicura di seguirlo. «Lei è... Perché spiarmi per tutti questi anni, manipolare la mia esistenza, per poi alla fine uccidermi? Perché Bonneviel voleva raccontarmi la
verità? È così?» La rabbia cominciava a crescere. Lui scosse il capo, rattristato. «Non ha ancora capito. Stanotte l'ho voluta risparmiare perché era stata localizzata, e quindi, in un certo qual modo, neutralizzata. All'inizio, a Parigi e poi in Svizzera, ho incaricato una delle mie società di sicurezza, che ha una sezione un po' 'speciale', di toglierla di mezzo. Lei sapeva troppo. Ma informato che era qui a New York, ho giudicato più prudente darle l'opportunità di incontrarmi. Dopo un viaggio così lungo e tante dimostrazioni di abilità... Lei è una donna sorprendente. I miei uomini si sono assicurati di non perderla di vista fino a questo momento. In compenso, riguardo alla sua vita... manipolata, io non c'entro affatto.» Yael aggrottò le sopracciglia. Si stava prendendo gioco di lei. Strinse i pugni. Lui la umiliò con un sorriso. «Lei non ha capito nulla, decisamente... Dopo tutto ciò che Bonneviel le ha rivelato sulle Ombre, ancora non ci arriva? Noi non agiamo a caso. Amiamo il controllo. L'influenza sottile degli uomini per servire i nostri disegni. È talmente chiaro! Apra gli occhi, per la miseria!» Spazzò l'aria davanti a sé con la mano. «Tutto ciò che ha fatto, o quasi, era previsto! Persino la sua presenza vicino a me, con un'arma.» Yael inghiottì la saliva, il battito del cuore accelerato. Goatherd sferrò il colpo di grazia: «C'è Henri Bonneviel dietro tutto questo. Sin dal principio. Lei che sa tanto dei nostri metodi, non ha notato le 'coincidenze' che la portavano al mio assassinio?» 78 Yael tremava sul divano in pelle. «Lei mi delude!» esclamò Goatherd, assumendo un'aria affettata. «Ho messo le mani su buona parte del dossier di Bonneviel che la riguarda. Ho visto gli indizi che le ha fornito. Il biglietto da un dollaro, i presidenti assassinati... E malgrado ciò, lei non ha visto niente? Insomma! È sotto i suoi occhi, sin dal principio!» Yael sprofondò nel sofà. «L'Ordine dei Teschi e delle Ossa di Yale, l'università dove ho studiato», proseguì lui. «Yale! L'anagramma di Yael! E il mio cognome... Goatherd,
che in inglese vuol dire 'pastore di capre'! Buffa ironia, visto il significato del suo nome in ebraico, no? Yael: capra di montagna. Poi c'è il nome di mia figlia: France, il suo Paese. E il mio secondo nome: Rhodes. Dov'è stata ultimamente in vacanza? A Rodi, se non sbaglio...» Yael aprì la bocca senza riuscire a parlare. «Si domanderà come ha fatto, vero?» Goatherd gongolava. «Non è poi così difficile. Una sapiente miscela di tecniche di comunicazione e di marketing, unite a una grande disponibilità di mezzi. Per le sue vacanze, per esempio, la squadra di Bonneviel ha fatto in modo di bombardarla per un anno di pubblicità che vantasse i pregi di Rodi. Hanno individuato l'agenzia di viaggi davanti alla quale lei passava più spesso e si sono accordati con un operatore turistico per offrire dei prezzi convenienti all'agenzia, affinché valorizzasse Rodi come meta turistica in vetrina. Giorno dopo giorno, lei ha visto Rodi scritto dappertutto, a prezzi competitivi. È stato sufficiente metterle accanto due persone - magari mentre aspettava in fila - che parlassero di quanto fosse bella Rodi, e, più o meno coscientemente, lei si è interessata a quella destinazione. È il principio dell'immagine subliminale nelle pubblicità. E con lei ha funzionato. Esistono molti modi per 'orientare', per 'guidare' una persona nelle sue scelte!» A Yael girava la testa. La sua collera si era dissolta, sostituita da un totale abbattimento. Si sentiva annientata. Le spuntarono le lacrime agli occhi. Goatherd era un fiume in piena: «Penso che ci siano abbastanza elementi che ci legano l'uno all'altra da consentire al caro Bonneviel di mettere qualche punto nel suo carniere. Niente di straordinario, ma non male. Perché vede, io, Bonneviel e alcuni altri siamo... soci e concorrenti, se così posso dire». «In un gioco odioso», osservò Yael con voce tremante. Goatherd inarcò un sopracciglio, sorpreso. «Bonneviel si è spinto più in là di quanto pensassi.» Improvvisamente contrariato, alzò un indice per correggere: «Comunque, non utilizzerei il termine 'gioco'. È... riduttivo e volgare. Direi piuttosto che ci siamo dati delle regole per stabilire e rafforzare il nostro potere, regole che ci obbligano non solo a curare l'aspetto filantropico, ma che ci permettono di riconoscerci. Non si tratta solamente di denaro o di potere, Yael. È l'arte di esercitare il potere a essere mirabile. Prenda il suo re Luigi XIV: sarebbe diventato altrettanto celebre se fosse stato un sovrano come un altro? No, ovviamente no! Lo si rispetta perché ha esercitato il potere con quella che definirei una certa arte. Ha segnato la storia con le sue scelte, le sue costruzioni».
Yael stentava a crederci. James Goatherd, miliardario americano dalla smisurata influenza economica e politica, aveva una visione limitata della storia francese. «I nostri avi sognavano un mondo nuovo, più armonioso, il Nuovo Ordine mondiale, e noi ci sforziamo di realizzarlo. I metodi non saranno certo di suo gusto, ma sono adeguati all'umanità.» Goatherd avvicinò il bicchiere alle narici per annusare l'aroma del bourbon. «Con il tempo», continuò, «e se i nostri piani andranno a buon fine, il mondo di domani sarà ancora più controllato. Renderemo il controllo degli uomini facile come quello delle merci. Le leggi cambieranno progressivamente, per consentirci maggiore libertà, e assicurare un dominio più facile dei cittadini del mondo, necessario alla prosperità del genere umano.» «Come può utilizzare il termine 'cittadini'? Parla degli uomini come fossero suoi schiavi! Lei è un fascista disgustoso.» Goatherd inarcò le sopracciglia. «E lei è ignorante e ingenua, signorina. Detesto le persone che si arrogano il diritto di parlare di politica o di economia senza la minima conoscenza in materia. Che cosa crede? Che gli uomini siano gente responsabile? Che si possa lasciarli liberi di fare le loro scelte? Che faranno ciò che è necessario per governarsi e prosperare? Che scempiaggine! Quale mancanza di lucidità!» Un sorriso nervoso si impossessò del suo volto. «E come vi riempite la bocca di grandi parole: 'Libertà!', 'Democrazia!', 'Fascisti!'... Concetti tanto riduttivi e grossolani quanto la vostra mancanza di cultura sull'argomento. Lasciate perciò le questioni politiche a chi se ne intende! Lasciateci gestire il bene dell'umanità!» «Il bene dell'umanità non vi interessa, è il vostro che conta. Il vostro arricchimento. Il vostro potere. Ecco cosa conta ai vostri occhi.» «Io ho una definizione meno riduttiva delle mie priorità. È un'eredità spirituale che lei non può comprendere. Io ho il dovere, assieme ai miei simili, di far proliferare i miei interessi per continuare a rimanere al vertice della catena di comando. Questo ci permette di guidare la società nella giusta direzione, poiché l'umanità non può sopravvivere se non sotto la tutela dominante di un pugno di individui. Gli uomini nel loro insieme, la massa, sono troppo capricciosi per lasciare loro piena libertà. Sono come dei bambini da soli in una grande casa. È nostro dovere vigilare su di loro.» Yael gettò la testa all'indietro. Si chiese d'un tratto a cosa servisse argomentare con un simile pazzo. Disse lentamente:
«È per il vostro piccolo gioco di potere che Bonneviel ha distrutto la mia vita, per fare in modo che un giorno potessi venire da lei e ucciderla». «Non se la prenda. Bonneviel ha avuto il merito di organizzare tutto. Eravamo rivali, è vero. Lui voleva prendere il mio posto, e per farlo occorreva eliminarmi. Ma non in un modo qualsiasi! Giocando secondo le nostre regole. Perché con il tempo si potesse esaminare la mia morte e il mio assassino, e rilevare un certo numero di sconcertanti coincidenze. Bonneviel allora avrebbe guadagnato dei punti per salire nella nostra gerarchia. Ma ha barato...» Yael scrutò il miliardario. «C'è una regola che non bisogna mai trasgredire. Svelare il nostro funzionamento a dei non iniziati, come lei. Facendolo, si è escluso dalla cerchia. L'ho fatto sopprimere, e stavolta senza tanti complimenti. Non si meritava un tale disturbo.» Yael ricordò le ultime settimane della sua vita. Bonneviel le aveva riempito l'appartamento di dispositivi ad alta tecnologia per spaventarla. Per farle prendere coscienza dell'esistenza delle Ombre, dei loro metodi. Affinché la rabbia poco per volta crescesse in lei. E durante quel periodo, Goatherd aveva scoperto il giochetto del suo omologo svizzero spiandolo, e aveva deciso di mandare i suoi uomini a ucciderla. La prima volta a casa sua. Quando era scesa nelle Catacombe. E l'avevano seguita, probabilmente messi sull'avviso dalla luce sotto la lastra di vetro del salone. Yael era sopravvissuta al costo della vita di un'altra persona. Per la quale non provava più alcun rimorso. Tutto era stato calcolato. Persino il revolver nella gola del ponte del Diavolo era lì per uno scopo preciso. Quando l'aveva trovato, era abbastanza nervosa e paranoica da prenderlo e conservarlo. Eppure qualcosa la infastidiva. Non sempre aveva seguito il percorso logico ideato da Bonneviel. Diverse volte, se n'era allontanata. Dapprima scoprendo l'identità di Lubrosso, poi quella dello stesso Bonneviel. C'era mancato poco che la sua strategia non fallisse completamente. Quasi a confermare quelle deduzioni, Goatherd spiegò: «Lei talvolta è stata più rapida del previsto. Ho letto il dossier preparato da Bonneviel... non era affatto semplice. Tutto ha funzionato come previsto, in definitiva. Perché aveva pensato alla cosa più importante. Inquadrarla bene». Yael lo guardò senza capire.
«Era una cosa delicata da organizzare, ma Bonneviel deve essersi divertito a conquistare la sua fiducia.» «Di cosa parla?» «Di chi, piuttosto.» Le rivolse un sorriso sadico, giocherellando con il suo bicchiere. «Ebbene, per accertarsi che tutto si svolgesse senza complicazioni, Bonneviel le ha messo alle costole un uomo devoto alla sua causa, mia cara Yael... Devoto alla sua causa...» 79 Yael si guardò intorno smarrita. Stava perdendo il contatto con la realtà. No... Goatherd la stava prendendo in giro. Stava ancora giocando... «Thomas», mormorò. «Già. Il suo... compagno non è altro che un uomo al soldo di Bonneviel. Ho avuto accesso ai suoi dossier, e posso dirle qualcosa di più su di lui. È davvero un reporter indipendente. Una comoda copertura se si deve viaggiare per il mondo. In realtà, fa parte della cerchia di Bonneviel. Viene pagato dal banchiere svizzero o dai suoi collaboratori quando hanno bisogno di un uomo da infiltrare. Thomas è il suo vero nome. Non le ha completamente mentito, il galantuomo...» Yael ebbe l'impressione che una voragine le si aprisse sotto i piedi. Si irrigidì. Era solo un altro bluff. Per destabilizzarla. «Ha fatto il militare in Canada», continuò Goatherd, «e in seguito si è offerto volontario per unirsi a un gruppo di mercenari. L'adrenalina e la buona paga erano le sue motivazioni. È là che un uomo di Bonneviel l'ha reclutato.» «Sta mentendo! Ho incontrato Thomas per caso in un bar. Mi piaceva, sono stata io ad andare da lui, non il contrario. C'erano poche probabilità che accadesse. E non mi dica che andava tutte le sere nei locali che frequento, perché Thomas ha un fisico che avrei notato, se l'avessi visto.» A quelle parole, Goatherd aprì le mani verso di lei, per sottolineare che aveva centrato il punto. «È proprio così!» disse divertito. «Ha un fisico che lei avrebbe notato. Insomma, Yael, dopo tutto quello che ha appreso sui nostri metodi, perché non può accettare che fosse tutto preparato? Potrà parlarmi di 'amore' e 'sentimento', ma io le rispondo: ormoni e studi psicosociologici sul pazien-
te. È questo che lei è stata per Bonneviel e i suoi uomini: una paziente da studiare, di cui occorreva decifrare i codici amorosi. L'hanno spiata per determinare che tipo di donna fosse.» Accavallò le gambe per mettersi più comodo. «Statisticamente, le coppie che durano sono quelle i cui membri si somigliano. Nei loro attributi fisici - non è un caso se siamo portati a fidarci di più di chi ci assomiglia fisicamente, il che è scientificamente dimostrato - ma anche per la personalità, il livello di istruzione. Fin qui, niente di nuovo.» Goatherd sollevò l'indice. «La vedo scettica, ma mi lasci approfondire. Oggi gli scienziati sanno che siamo istintivamente attirati da esseri del sesso opposto che possiedono certi geni del sistema immunitario - gli HLA, cioè gli antigeni umani leucocitari - che sono i più diversi dai nostri. La natura ha fatto in modo che, a forza di riproduzioni, la mescolanza di geni aumenti la nostra resistenza. Ingegnoso! E noi captiamo tale differenza per lo più con l'odorato! Delle informazioni sui geni del nostro sistema immunitario sono contenute nei messaggi chimici che sprigioniamo, in particolare con la traspirazione. Quando una persona ci piace, è perché ha dei geni HLA molto differenti dai nostri. È istintivo, beninteso, ma il nostro cervello analizza le informazioni olfattive che riceve e le riassume abbastanza semplicemente in modo binario: attraente oppure no.» A Goatherd scintillavano gli occhi, orgoglioso di decifrare il meccanismo utilizzato da Henri Bonneviel. «A questo, aggiunga l'oxitocina, l'ormone dell'amore, che il nostro corpo libera quando siamo felici con qualcuno, e che invade il cervello durante il rapporto sessuale. Ora che sa tutto questo, può immaginare come abbia agito Bonneviel. Ha cercato tra gli uomini che lavoravano per lui qualcuno che possedesse il massimo di somiglianza fisica con lei, e i cui geni HLA fossero i più lontani dai suoi. Se possibile, assicurandosi che avesse anche qualche somiglianza con suo padre... taglio di capelli, intonazione della voce... per nutrire, già che c'era, il suo complesso di Edipo. E l'ha istruito bene su cosa doveva dirle, inculcandogli un certo numero di tecniche, per esempio come guardare l'altro dritto negli occhi, per aumentare le sue reazioni affettive... insomma, tutto l'abbiccì della PNL, la programmazione neuro-linguistica... Senza dimenticare i codici del vestiario che lei preferisce... e il gioco era fatto.» Yael scosse il capo. Non potevano averla controllata fino a quel punto. «Bonneviel aveva accesso a dei laboratori all'avanguardia, e avrà messo a punto, se non esiste già, un sistema per iniettarle dell'oxitocina ogni volta che si trovava con Thomas. Versare la dose nel suo bicchiere, oppure ino-
cularla per contatto, con un anello o un cerottino, non saprei. Esistono tante soluzioni che non si possono rilevare, oggigiorno! Così il suo cervello riceveva un messaggio chiaro: 'In presenza di Thomas, mi sento bene, dunque ho bisogno di rivederlo'. È bastato sorvegliare i posti che frequenta e piazzarvi Thomas in anticipo. Tre o quattro giorni al mese, non di più, e attendere la serata buona.» Le fece l'occhiolino. «Un'ultima cosa: sapendo che è facile per noi conoscere le date delle sue mestruazioni, gli uomini di Bonneviel avranno fatto in modo che lei incontrasse Thomas durante il suo periodo di ovulazione, quando una donna è più sensibile agli odori maschili. Lo studio che avranno fatto su di lei avrà consentito di selezionare i differenti fattori cognitivi di cui ha bisogno per sentirsi vicina a un uomo, e Thomas sarà stato istruito di conseguenza.» La sua bocca si allargò in un immenso sorriso. «Nel suo caso, non appena avuta conferma del suo incontro con Thomas, hanno accelerato i messaggi delle Ombre, per spaventarla e gettarla tra le sue braccia. Hanno scelto il periodo adatto: con i suoi amici e suo padre in vacanza, lei era isolata. Non c'era che Thomas per aiutarla. Un piano... diabolico!» Yael non riusciva più a parlare. Thomas un bugiardo? Un traditore? Thomas che l'aveva sempre aiutata. Senza il quale non sarebbe mai arrivata fin lì. Era stato riluttante quando lei aveva voluto a tutti i costi seguire la pista di Bonneviel. Si era opposto. Le aveva impedito di andare a casa sua. E il banchiere d'altronde non c'era più, come per caso. Yael si rammentò del supermercato; lui si era assentato, con la scusa che avrebbe tentato di contattare Kamel. Era stato allora che aveva avvertito Bonneviel? Thomas si era servito di lei, come tutti gli altri. Le aveva persino parlato del viaggio di ritorno in Francia per rassicurarla, per guadagnarsi la sua fiducia. Yael chiuse gli occhi. «È difficile da mandare giù», dichiarò Goatherd, «glielo concedo. E tuttavia, non è nient'altro che l'applicazione del sapere scientifico nel campo. La difficoltà principale è stata certamente trovare l'uomo giusto. Ma il mondo è grande, i legami e le conoscenze di Bonneviel sono infiniti, quindi con un po' di tempo e qualche centinaio di prelievi di sangue... tutto diventa possibile.» Yael riaprì gli occhi per osservare il miliardario che le stava di fronte. «Mi lasci indovinare», riprese lui, rincarando la dose, «in questi ultimi giorni si è domandata spesso perché proprio lei, vero? Perché Yael Mallan,
una giovane donna normale, sia stata coinvolta in una storia così folle.» Siccome lei non rispondeva, proseguì: «Lei non ha niente di particolare. Niente. Assolutamente niente. Lei è come tutti. È questo che appassiona me, Henri e gli altri. Il suo database... scusi, le informazioni riguardanti le operazioni bancarie, la previdenza sociale, la posta elettronica, le dichiarazioni dei redditi, le cartelle mediche... tutto è stato piratato, e i nostri programmi hanno eseguito dei controlli incrociati. Lei corrispondeva al profilo che cercava Bonneviel. Beninteso, nel suo caso, inizialmente ha dovuto procedere senza Internet, all'epoca in cui cercava qualcuno che potesse somigliarmi; era un lavoro da certosino. Ma oggi basta schioccare le dita, grazie all'informatica!» «Ma perché... io?» sussurrò Yael quasi tra sé. «È l'ingiustizia del sistema. Lei corrispondeva a quello di cui aveva bisogno Bonneviel per eliminarmi. Perché ci fosse un massimo di coincidenze! Oh, avrebbe potuto fare di meglio! Ciò detto, lei rappresentava un bersaglio interessante. Yael, anagramma di Yale. Il mio nome, Goatherd, e il suo in ebraico. Il nome di mia figlia e la sua nazionalità. Il mio secondo nome e la meta delle sue vacanze... Sì, insisto nel dire che avrebbe potuto fare di meglio. Non sarà mai paragonabile ai legami tra Lincoln e Kennedy!» «Mi avete rovinato la vita perché tra lei e me c'erano abbastanza coincidenze utili al vostro gioco?» insistette Yael, scuotendo la testa. «Non c'era nulla di personale. In effetti, lei o un altro, sarebbe stato lo stesso. Non creda che non capisca il suo stato d'animo, al contrario. Tento di chiarirle le idee, di mettere tutto alla sua portata, perché almeno sappia. Quello che è capitato a lei sarebbe potuto accadere a chiunque altro. Succede ogni giorno, a persone che non hanno nulla da rimproverarsi. Se abbiamo una necessità, cerchiamo il soggetto adatto. Chiunque sia, ovunque si trovi. Poco importa. Una volta immischiato nella sua esistenza, Bonneviel sapeva tutto di lei. Ha giocato con lei per farla crollare psicologicamente, per manipolarla finché non mi avrebbe assassinato. Era questo il suo obiettivo.» Yael serrò i pugni. «È semplice. Non si aspetti delle clamorose, ultime rivelazioni. Non ce ne sono.» Il miliardario si pizzicò delicatamente il naso, fiero di sé. «Lei se ne frega!» riuscì ad articolare Yael tra le lacrime. Goatherd la contemplò, interessato.
«È vero, me ne frego», ammise con crudezza. «Tanto più che è il mio socio che l'ha manipolata. Il suo fallimento, Yael, è quello di Bonneviel. Per me, lei non è che una sagoma nella massa. Domani, non ci sarà più.» «Mi ucciderà, non è vero?» esclamò lei. «Oh, si calmi, mia cara. Se avessi voluto la sua morte, non sarebbe arrivata fin qui. D'accordo, lo confesso, ho provato a levarla di mezzo. Lei però ha la pelle dura. Adesso che sa tutto, tanto vale approfittarne un po', no? Vorrei che assistesse alla mia vittoria su Bonneviel. Guadagnerò un sacco di punti in un colpo solo, per me, i miei interessi e quelli dei miei partner economici. Sarò io a scolpire la storia futura. Dapprima in risonanza con il passato, per raddoppiare il mio punteggio, e in seguito per... aumentare la mia sfera di influenza.» Aveva pronunciato l'ultima frase con un'intonazione quasi infantile. «E desidero che lei sia in prima fila quando ciò avverrà.» 80 Yael tentò di alzarsi, ma la testa le rimbombava terribilmente, e ricadde sul divano. «Se ne vuole andare?» chiese Goatherd. «Molto bene. Farò in modo che qualcuno la accompagni. Stanotte, dormirà al caldo, comodamente. Immagino che questo la cambierà.» Posò il bicchiere di bourbon, che non aveva nemmeno toccato, e si diresse verso la scrivania, aprendo un cassetto per estrarne un telefono. Premette un tasto e tornò da Yael con in mano una busta gialla. «Non la apra se non in presenza di Thomas. Rispetti la mia volontà, anche se al momento lo odia. Dopo tutto quello che avete passato insieme, merita quanto lei di leggere ciò che contiene.» La depositò sul tavolino. «Io... no... non credo...» balbettò Yael, «di rivederlo...» Non si sentiva affatto bene. Aveva la vista annebbiata. «I miei uomini l'hanno rintracciato, grazie alla telefonata che lei gli ha fatto. Stia certa che lo informeremo dell'accaduto. Primo, lei non mi ha ucciso, quindi la sua missione è fallita; secondo, sa tutto di lui; e terzo, noi non l'abbiamo... eliminata. Penso che, date le circostanze, avrà voglia di rivederla, presto o tardi. E allora condividerete il contenuto di questa busta.» Puntò un dito verso il rettangolo giallo.
«È la verità che le manca», spiegò il miliardario. «E la certezza del mio trionfo. Vedrà, domani sarà un giorno pieno di promesse per uomini come me. E il mondo cambierà.» Indietreggiò fino alla porta. Yael cercò di nuovo di alzarsi, ma le gambe non rispondevano. Goatherd varcò la soglia, e le rivolse un ultimo sorriso. Pieno di condiscendenza. Lei provò ancora a raddrizzarsi. Lui fece «no» con il dito, indicando il bicchiere d'acqua che le aveva servito poco prima. «Addio, signorina Mallan.» Yael vide la stanza ondeggiare. Si accasciò sul divano e perse conoscenza. Blog di Kamel Nasir. Estratto 12 Con tutti gli elementi che ho presentato, non è difficile intuire chi siano gli uomini che guidano gli Stati Uniti, i membri del PNAC affiancati da un pugno di miliardari, fieri di se stessi dopo aver imposto in un batter d'occhio un controllo quasi totalitario dei loro cittadini ed essersi accordati pieni poteri, in particolare quando hanno fatto in modo che il Senato americano, l'11 ottobre 2002, votasse una risoluzione che ormai consente al presidente, la loro marionetta, di dichiarare guerra a chi vuole e quando vuole, senza passare dal Senato, quindi senza chiedere il parere del popolo. Non faccio alcuna fatica a immaginare questi uomini, prima degli attentati dell'11 settembre, avviare un processo machiavellico. Oh, niente di straordinario, solo tirando fuori dai cassetti qualche vecchio progetto dell'esercito... Modernizzate l'operazione Northwoods, e stavolta siate più furbi dei vostri predecessori, non affidatela all'esercito, no, no! Dovete associarvi con i vostri partner economici. Ogni clan dovrà fornire dei mezzi. E ogni clan dovrà fornire il suo fantoccio. Chi scegliere per questo ruolo? La pecora nera di ciascuna famiglia. Due estremisti religiosi per attizzare l'odio. Due individui manipolabili. Basta inquadrarli bene. Metterli sotto la luce dei riflettori e farne i simboli del nuovo conflitto che ossessionerà il globo, mentre non sono che pupazzi destinati ad alimentare il fuoco di questa guerra. Ma per appiccare il fuoco ci vuole una scintilla. E non una piccola, al-
trimenti non prenderà. Occorre colpire uno dei due popoli dritto al cuore per scuoterlo, perché sia disposto ad accettare qualunque cosa. Allora si «inquadra» uno degli estremisti, gli si forniscono i mezzi per riuscire. Nessuno ignora più che il terrorismo è sponsorizzato dalle petromonarchie. Nel frattempo, si fa in modo che l'altro estremista salga al potere nel suo Paese, per preparare il seguito. Si sa che Osama Bin Laden è stato fortemente influenzato e guidato da uomini come Abdullah Azam, ma chi c'era dietro di lui per suggerire la direzione da seguire? Oggi il fuoco è divampato, si è propagato ovunque si sia opportunamente versato del combustibile. Con le conseguenze che sappiamo, e quelle future che possiamo solo immaginare. È impossibile controllare i terroristi, oggi. Ma dopo tutto, nella logica di coloro che li hanno favoriti, se non addirittura creati, questo non è un male. Ciò garantisce decenni di conflitti, di paure che permettono di controllare i propri concittadini, di contratti militari, di pretesti per estendere l'egemonia dell'economia americana (più i suoi partner sauditi, finché non si faranno anch'essi divorare dall'orco yankee) nel mondo. Se consideriamo come tutto si sia svolto in maniera perfetta dopo l'11 settembre, è legittimo porsi degli interrogativi. La guerra in Iraq era già prevista e pianificata. Le menzogne erano pronte. Gli imperi industriali legati alla Casa Bianca e al Pentagono erano sui blocchi di partenza. Ci si era premurati di «rinquadrare» i servizi di intelligence come l'NSA, indirizzandoli verso obiettivi più economici (tramite Echelon, per esempio), privando nel contempo la CIA della sua influenza e del suo potere per oltre un decennio, per sostituirla con società di sicurezza private. Quelle società paramilitari superequipaggiate che abbiamo visto spartirsi il mercato in Iraq, che spesso fanno opera di reclutamento tra gli uomini di regimi estremisti scomparsi, come l'apartheid in Sudafrica, per esempio. Degli eserciti privati sui quali il Congresso americano, o qualsiasi altro organo rappresentativo di una nazione nel mondo, non ha alcun potere, poiché obbediscono solo agli industriali... Quando troppe coincidenze si verificano una in fila all'altra, bisogna cominciare a cercare una spiegazione diversa dal «caso». La storia è zeppa di coincidenze, talora assurde. E allorché si mescolano a simboli forti, diventa difficile non vedervi, in un modo o nell'altro, la mano dell'uomo. Recentemente, un tizio su Internet mi ha messo a parte delle sue constatazioni a proposito dell'11 settembre. Mi ha detto che non c'era nulla di
casuale. Nemmeno la data. Perché l'11 settembre 1990, George Bush senior teneva un discorso sul futuro «Nuovo Ordine mondiale». Undici anni più tardi, gli attentati dell'11 settembre colpivano e lanciavano l'asse del cambiamento. Poi, l'11 settembre 2002, George Bush junior confermava questa visione con la pubblicazione della Strategia di sicurezza nazionale. L'11 settembre 1973, il presidente cileno Salvador Allende, democraticamente eletto, moriva perché nuoceva e faceva paura alla politica estera e alle multinazionali americane. Henry Kissinger, tramite la CIA, è fortemente sospettato di aver organizzato il golpe, che era iniziato con la caduta di due simboli forti di Santiago: la distruzione di due torri, quelle di Radio Portales e di Radio Corporation. Con degli aerei. Quell'anno, a Kissinger sarà assegnato il Nobel per la pace. L'11 settembre 2001, le due torri altamente simboliche del World Trade Center crollano per un attacco aereo. Henry Kissinger verrà nominato direttore della commissione d'inchiesta. Belle coincidenze... Allora sì, immagino, o piuttosto constato che il nostro mondo non è realmente quello che ti viene mostrato in televisione. Gli arcani della geopolitica si disegnano prima negli uffici delle imprese che in quelli del governo. E oggi non mi vergogno più di scriverlo: ci sono troppi elementi a carico che si accumulano per continuare a chiudere gli occhi, scambiando per «coincidenza» ciò che invece è «manipolazione». Diamine, oggi sappiamo che il governo Bush ha mentito sulle armi di distruzione di massa per andare in Iraq. Hanno MENTITO per scatenare la guerra! Cosa si vuole di più! Dobbiamo continuare, davanti all'allucinante enumerazione di fatti, a trovargli scuse e pretesti? E dire che era la più innocua delle loro bugie. 81 Il telefono svegliò Yael. Era in un letto grande e morbido. La stanza girò attorno a lei per un secondo, prima di fermarsi. Un'armatura in ferro battuto sopra la sua testa. Dei tessuti pastello alle pareti, mobili di qualità. Una grande camera con le finestre dalle tende tirate. Una luce debole le attraversava; doveva essere presto. Un altro squillo. Non era il telefono, ma il campanello della porta.
Yael si alzò, e le venne quasi la nausea scoprendo che l'avevano completamente spogliata. Si precipitò verso il bagno, che intravedeva dalla porta socchiusa. Si infilò un pesante accappatoio bianco e si sciacquò il viso. Si guardò nello specchio. I tratti scavati. Gli occhi rossi. Dietro la porta, il visitatore insisteva. Le saponette recavano la scritta Plaza Hotel. Yael andò ad aprire. Un fattorino in livrea le porse un foglio di carta. «Buon giorno, signorina. Mi rincresce disturbarla così presto, ma al telefono hanno precisato che era estremamente urgente.» Yael prese il messaggio e richiuse la porta. Lo lesse: «Ti devo parlare». Seguiva l'indirizzo di un ristorante panoramico e l'ora dell'appuntamento: le 8 e 15. Il tutto era firmato: THOMAS. Lanciò uno sguardo alla sveglia: erano le sette. Mi invita a una colazione d'addio, pensò. Per giustificarsi. O per... Scacciò quel pensiero dalla mente. Non le avrebbe fatto del male. Tuttavia, era capace delle cose peggiori. L'aveva manipolata. Si era servito di lei, mentendole spudoratamente, giocando con le sue emozioni, i suoi sentimenti. Un comportamento non giustificabile. Non aveva più niente da dirgli. Non provava che un odio infinito nei suoi confronti. Eppure seppe subito che ci sarebbe andata. Una tenue speranza inchiodata nel cuore: leggere nel suo sguardo che si trattava solo di una perfida menzogna di Goatherd. Non essere idiota... Era un appuntamento in un luogo pubblico. Per evitare una scenata? Per dimostrarle che non doveva temerlo? Yael deglutì. Una saliva dolorosa. Aveva la gola serrata e un vuoto allo stomaco. Avrebbe tanto voluto che fosse una bugia, poterlo ritrovare e stringersi a lui. Yael lasciò sgorgare le lacrime. Non meritava nemmeno quelle. Si diresse in bagno per passare una ventina di minuti sotto una doccia bollente. Mentre si vestiva con gli abiti del giorno prima, notò la busta gialla posata sotto. La prese delicatamente, con diffidenza. La sua leggerezza la
sorprese. Si aspettava quasi di sentire il detonatore di una bomba all'interno. La scosse. Era esclusivamente carta. Perché attendere per aprirla? Non aveva promesso niente a Goatherd, la poteva benissimo leggere adesso. Curiosamente, non fece nulla. Thomas. Una parte di lei si aggrappava ancora al ricordo di quel che avevano passato assieme. Ripose la busta nello zaino. Il revolver era scomparso. Guadagnò l'uscita del palazzo per affrontare la sua verità. 82 Il ristorante, posto all'ultimo piano di un edificio, dominava Manhattan. I tavoli erano quasi tutti vuoti, a parte alcuni uomini e donne che lavoravano ai piani inferiori e venivano lì a prendere il caffè del mattino. Yael individuò Thomas. Era seduto, intento a scrutare l'orizzonte e il sole che scintillava sulle centinaia di onde della baia. Si accomodò di fronte a lui, senza dire una parola. I loro sguardi si incontrarono. E lei seppe che Goatherd non aveva mentito. Niente più gioco di seduzione, niente più sorrisi complici. Nient'altro che un uomo che la osservava portando il peso di ciò che aveva fatto. «Non ho scuse», disse con calma. «L'ho fatto perché è il mio lavoro.» Yael serrò con tutte le sue energie mentali la corda che teneva chiusa la diga dei singhiozzi e riuscì a contenersi. Le mascelle si bloccarono e le lacrime si gonfiarono nella sua gola fino a soffocarla. «Sei tu...» sibilò. «Sei tu il più spregevole di tutti.» Lui si appoggiò allo schienale e si pizzicò le labbra. Dopo un attimo di titubanza in cui contemplò il paesaggio, annunciò: «Non è quello che vorrai sentire, ma ti spiegherò quale è stato il mio ruolo, e non alzarti per andartene prima che abbia finito. È per te che lo faccio, per scacciare dalla tua mente il fantasma del Thomas che hai conosciuto». E le raccontò come l'avesse avvicinata, confermando tutto ciò che le aveva detto James Goatherd. Lui era lì per guidarla, per aiutarla ad avanzare, perché alla fine andasse a uccidere Goatherd. Le riferì anche ciò che non era previsto: che lei affrontasse Olivier Languin. Secondo il piano originario, Thomas doveva identificare Languin, ma non avvicinarlo. Perché
Languin doveva morire quella notte. Per spaventare Yael. Ma lei era arrivata fino al suo luogo di lavoro. Thomas aveva fatto di tutto per intercettare Languin prima di lei, voleva parlargli, ma l'uomo si era preso paura. Lubrosso era comunque riuscito a regolare i conti con lui, ma tutto aveva rischiato di andare in fumo perché Yael si trovava là in quel momento. Thomas aveva temuto che venisse detta una parola di troppo e lei potesse capire. Yael si rammentò del suo nervosismo. Era pronto ad avventarsi su Languin. Al momento aveva creduto che lui volesse proteggerla, invece voleva farlo tacere. La giovane aveva sorpreso Thomas impadronendosi dei documenti bruciati, benché ciò, con il senno di poi, avesse permesso loro di guadagnare del tempo. Perché non tutto andava come previsto. Alcuni uomini di Goatherd avevano deciso di immischiarsi e di eliminare Yael, costringendola a lasciare il suo appartamento, dove Bonneviel poteva farle pervenire i messaggi. Era stato necessario improvvisare. Sbrigarsi prima che i sicari di Goatherd identificassero Thomas e mandassero a monte l'operazione. Facendo parlare i documenti bruciati, Thomas era riuscito a rimediare e a trascinare Yael nel prosieguo dell'enigma. L'arma che lei aveva trovato era quella usata per ammazzare Lubrosso. Inizialmente, doveva servire per far fuori Languin, ma poiché questi era stato avvelenato dal suo datore di lavoro, Bonneviel aveva ordinato di cambiare programma. Lubrosso era stato sacrificato. Se tutto si fosse svolto secondo i piani, Yael avrebbe finito per sparare a Goatherd con quel revolver, e le autorità avrebbero seguito la scia di sangue fino a lei. L'atto folle di una graziosa ragazza solitaria che aveva ucciso un vecchio a Herblay, senza apparente motivo, per poi prendersela con un miliardario newyorchese. Dopo l'iniziale stupore, la cosa sarebbe stata accettata, così come la storia aveva fatto per Lee Harvey Oswald, Sirhan Sirhan e altri celebri assassini. Al massimo, qualche sito Internet avrebbe notato che esistevano inquietanti similitudini tra Yael e Goatherd. Bonneviel si sarebbe sbarazzato del suo grande rivale secondo le regole del loro gioco, avrebbe marcato dei punti per le somiglianze tra la vittima e l'assassina, e avrebbe fatto un bel balzo nella gerarchia delle Ombre. Era questo il piano. Il problema maggiore era rappresentato proprio da Yael e dalla perspicacia dimostrata risalendo fino a Bonneviel. Peggio ancora, era stato lo stesso Thomas ad averla indirizzata su quella pista facendo delle ricerche in Internet sul banchiere svizzero. Sentiva che la fiducia di Yael in lui si stava
sgretolando, e aveva dovuto darsi da fare ancora di più. Aveva agito in modo ingenuo, pensando di accentuare la paranoia di Yael, e per confortarla nella sua idea che le Ombre fossero uomini molto potenti. Ma il nome non le era bastato, voleva vederlo. Thomas aveva cercato in ogni modo di dissuaderla dall'avvicinarlo, ma invano. Aveva appena avuto il tempo di avvertire il banchiere prima del loro arrivo, facendo finta di chiamare Kamel. Kamel era stato frutto dell'improvvisazione. Colto alla sprovvista dalla presenza dei sicari alle loro costole, Thomas aveva dovuto ripiegare su una soluzione di emergenza. Qualcuno che non poteva tradirli, che sapeva essere neutrale. E gli era venuto in mente Kamel. L'aveva conosciuto con il pretesto di un articolo, mentre in realtà aveva l'incarico di sorvegliarlo. Alcuni amici di Bonneviel nel governo americano erano preoccupati che il figlio di un diplomatico indagasse su di loro con tanto accanimento. Il compito di Thomas era scoprire quante cose sapesse. E ne sapeva decisamente troppe. Ma i suoi legami con la diplomazia gli avevano salvato la vita. Si era giunti alla decisione che era meglio tenerlo d'occhio piuttosto che rischiare grosso eliminandolo, il che tra l'altro non avrebbe mancato di dare un credito fenomenale alle teorie che difendeva con tanto ardore. Diversi mesi dopo quell'incontro, Thomas si era ricordato di lui. Kamel li aveva aiutati, rivelandosi molto efficace. Più tardi, Thomas aveva quasi perso il suo sangue freddo apprendendo dell'assassinio di Bonneviel. Questo si era tradotto in una certa aggressività, che si era affrettato a controllare. La morte del miliardario non implicava però l'annullamento dell'operazione. Thomas aveva sempre tra i suoi contatti l'entourage del banchiere svizzero. Non solo sarebbe stato pagato, ma poteva godere del prestigio che gli avrebbe conferito il successo di una missione del genere. Doveva andare fino in fondo. Accompagnare Yael negli Stati Uniti, assicurarsi che fosse sempre più tesa, che le sue condizioni psicologiche peggiorassero, che la paranoia aumentasse, affinché fosse pronta. Pronta a uccidere Goatherd. Yael aveva scoperto dei documenti a casa di Bonneviel, un imprevisto che però, ancora una volta, aveva fatto guadagnare loro del tempo. Thomas aveva temuto che lei si imbattesse in qualcos'altro di ben più compromettente per lui.
Faceva parte della cerchia più ristretta dei tirapiedi del banchiere, un fatto eccezionale e unicamente dovuto - Thomas non si faceva illusioni - a quella particolare missione che gli imponeva di essere al corrente di tutto. Yael aveva abboccato all'amo. Si era interessata a Petersen e Goatherd. Anche il viaggio nella nave portacontainer era previsto. E Carl Petersen aveva giurato all'amico Bonneviel che avrebbe raccontato tutto quello che era necessario alla giovane donna, non appena avesse messo piede in casa sua. Malgrado gli imprevisti, il piano concepito da Bonneviel aveva funzionato. Quasi sino alla fine. Aveva sottovalutato il suo principale nemico in quella storia: il suo bersaglio, James R. Goatherd. Thomas concluse: «Non sono orgoglioso di ciò che ho fatto. Ma devi capire, non è... niente di personale». La mano di Yael colpì con violenza la guancia del reporter. Quando lui tornò a girarsi e la fissò, il suo sguardo era di ghiaccio. Cambiò subito, ridiventando neutro. Diverse persone si erano voltate e li osservavano. Dopo un secondo, tutte tornarono alle loro occupazioni. «Niente di personale», ripeté seccamente Yael. «Mi auguro almeno che un colpo del genere ti abbia fruttato una montagna di soldi. Perché è per questo che l'hai fatto, no?» Posò le mani sul tavolo per non essere tentata di schiaffeggiarlo di nuovo. «E spero che venire a letto con me non sia stata la parte più nauseante della tua missione», aggiunse. «Yael...» «Taci, non ho più voglia di ascoltare le tue bugie.» Gettò la busta gialla di Goatherd sul tavolo. «Tieni, il tuo nuovo amico voleva che la aprissimo insieme.» Thomas aggrottò le sopracciglia, sorpreso e inquieto. «Che cos'è?» «Non lo so. La ricompensa che si dà ai cagnolini. La verità che ci manca, ha detto Goatherd, il suo trionfo.» Per nulla rassicurato, Thomas la aprì. Alcune buste di carta velina scivolarono sul tavolo.
Portavano un numero da uno a tre. «Un nuovo enigma?» si stupì Thomas. «Cosa sono queste fesserie?» Aprì la prima. Thomas ci aveva azzeccato. L'ultimo gioco di indovinelli era iniziato. L'orologio del ristorante segnava le 8 e 35. 83 La prima busta conteneva tre banconote. Da cinque, venti e cento dollari. Yael si ricordò subito dell'e-mail che aveva ricevuto a tale riguardo. Il messaggio inviato da Goatherd per localizzarla. Il testo che accompagnava i biglietti era lo stesso. «Poiché la storia esercita un tale fascino su di lei, continui a leggerla, continui ciò che ha iniziato, passi al seguito! Con i biglietti da cinque, venti e cento dollari. Riducendoli senza tagliarli, dovrebbe ottenere un interessante seguito per predire il futuro... Ma stia in guardia. Vedere l'avvenire può costare caro. Pochi sono in grado di sopravvivere. È un gioco per iniziati. Lei è avvisata.» Thomas prese uno dei biglietti e notò che erano stati piegati fino a conservare i segni della piegatura. «Ne ho fin sopra i capelli di queste stronzate», disse Yael, e fece per alzarsi. Thomas le afferrò il braccio. «No, aspetta. Goatherd non è tipo da fare regali. Se ha fatto questo, è perché ha un'idea in testa. Credimi, questa gente non agisce mai a caso.» Lei stava per ribattere che non aveva più importanza, quando vide a sua volta le piegature sui biglietti. Le si accese una luce nel cervello. «Ridurre senza tagliare, significa piegare», disse prendendoli. Restituì rapidamente ai biglietti la loro forma, seguendo le piegature. Così ripiegati, offrivano una serie di disegni che si concatenavano. Incomprensibili separatamente, ma pertinenti nel loro insieme. Il primo, quello da cinque dollari, rappresentava una torre, un edificio:
Il seguente, il biglietto da venti dollari, mostrava la stessa torre in fiamme:
Sul terzo appariva un lungo pennacchio di fumo, dopo che la torre era crollata:
Yael scosse il capo. Dopo aver riempito di simboli il biglietto da un dol-
laro, era logico che le Ombre avessero cercato di fare lo stesso con le altre banconote. Ancora una volta, giocavano tra di loro. «Non... Non capisco dove vogliano arrivare», articolò Thomas. Yael aprì la seconda busta. Una pagina strappata. Quella di una Bibbia. Genesi, 11,9 «Così fu chiamata Babele, perché ivi il Signore confuse il linguaggio di tutta la terra e di là li disperse sulla faccia di tutta la terra.» La mente di Yael, rotta a quel tipo di esercizio ed elettrizzata dalle intense emozioni che provava, trovò subito il nesso. «Perché associare delle banconote alla Bibbia? Per il gusto della provocazione, del sacrilegio?» propose Thomas. «Piuttosto per sottolineare che sono correlate», spiegò Yael freddamente. «Il denaro e la religione sono le fonti del potere. Il dollaro rappresenta il commercio internazionale, e anche il punto di partenza del Nuovo Ordine mondiale. E, adesso lo sappiamo, i biglietti sono zeppi di simboli lasciati da coloro che agiscono nell'ombra del mondo. Vivono solo per muovere le fila della storia, giocano a dominare il mondo. Fomentano ogni operazione sporca, e lo fanno secondo dei principi, mai a caso. Fanno coincidere tutti gli organi dei potere: il denaro, la religione... è così che possono marchiare la storia con il loro sigillo.» Rifletté un breve istante per riordinare i pensieri. «Il Nuovo Ordine mondiale che hanno instaurato dopo le rivoluzioni e che alimentano di continuo per consolidarlo, avvicinarlo poco per volta al loro ideale, è un po' come la nascita di un nuovo sistema, no? Si potrebbe definire... una genesi. Guarda.» Dispose i tre biglietti davanti a lui, assieme al passo della Bibbia. «Penso che per segnare il punto di partenza, o piuttosto per dare rinnovato slancio al Nuovo Ordine mondiale, intendano far crollare una torre. Una grande torre, molto simbolica. E che vogliano farlo oggi.» «Oggi? Perché?» «Perché qui abbiamo Genesi 11,9. Undici settembre. La data di oggi.» Indicò il versetto della Bibbia. «Genesi 11,9 è il passo in cui Babele viene distrutta. La torre di Babele. Qual è la città più cosmopolita della terra, in ogni caso un simbolo impor-
tante del raggruppamento di tutte le lingue in un luogo verticale dove tutti parlano e pochi si capiscono, che è poi la definizione di Babele?» «New York. Che è anche soprannominata la Nuova Babilonia.» Yael prese la terza e ultima busta, annunciando: «E scommetto che in questa ci dice quale torre sarà colpita». 84 La terza busta conteneva un foglio sul quale erano incollati due ritagli di giornale. Yael lesse il primo a voce alta: «La storia è nostra, e la fanno i popoli per costruire una società migliore. SALVADOR ALLENDE, 11 settembre 1973». «È il giorno in cui è morto Allende. Il presidente cileno è rimasto ucciso durante il colpo di Stato», ricordò. «La data», osservò Thomas. «Goatherd vuole giocare ancora una volta con la storia.» Yael fece uno sforzo per richiamare alla mente ciò che sapeva del golpe di Pinochet. «Allende era salito al potere in modo democratico, ma questo non piaceva a certi militari cileni.» «Né agli americani, che vi scorgevano il successo politico di un'unione di sinistra che faceva loro paura. Pare che Henry Kissinger abbia preparato il colpo di Stato chiedendo alla CIA di aiutare i golpisti a organizzarsi, seminando un inizio di caos favorevole al rovesciamento, alleandosi con delle multinazionali alquanto influenti per colpire l'economia cilena.» Yael lesse l'altro ritaglio. «Degli aerei hanno attaccato il popolo. Hanno iniziato distruggendo le due torri di Radio Portales e Radio Corporación, simbolo delle voci della nostra città. Poi la nostra nazione è cambiata. Era l'11 settembre 1973.» Yael tese il foglio a Thomas, quindi posò la fronte sul palmo della mano. «Le due torri, simbolo della città», mormorò. Thomas scosse il capo. «No... è impossibile», disse. «Le torri del World Trade Center.»
«Proprio qui.» Thomas si alzò in piedi. «Perché mi hai dato appuntamento in questo posto?» domandò. «Cosa?» Yael era stupefatta. Era stato lui a... «Ma certo...» comprese. Si lasciò sfuggire una risatina nervosa. «James Goatherd non è tipo da lasciarci in vita dopo tutto questo. Ma voleva che fossimo in prima fila per assistere al suo trionfo. Ci ha fatto venire qui...» Thomas la prese per mano e cercò di trascinarla verso l'uscita. Ma lei si sottrasse. Lui si girò verso la giovane donna. Yael fissava l'orizzonte blu sopra la baia. L'orologio segnava le 8 e 46. Il primo aereo si schiantò dritto sulla torre. 85 I vetri si incrinarono e l'edificio brontolò come il ventre di un mostro torturato. Donne e uomini si misero a urlare nel ristorante panoramico. Si precipitarono verso gli ascensori per scendere. Attesero invano che le porte si aprissero, senza sapere che dei geyser di cherosene in fiamme salivano già lungo i pozzi. Altri si misero a correre in direzione delle scale di servizio. Ignoravano che i gradini erano ormai scomparsi qualche piano più in basso, strappati via dall'impatto sopra la voragine spalancata dell'inferno. Vagavano gridando, già fantasmi della loro prigione nei cieli. Yael vide Thomas che cercava di tirarla verso l'uscita di sicurezza, ma lei restò seduta. «Vieni!» urlò. Yael preferì voltarsi. Le crepe nel vetro si aprivano scricchiolando. Lei rimase lì ad aspettare, sul pavimento che tremava. Quando alla fine si alzò per incamminarsi tra le sedie rovesciate, scoprì che Thomas era scomparso assieme a tutti quelli che erano presenti solo un quarto d'ora prima. La temperatura salì rapidamente. Il sole divenne cocente, le suole di Yael si appiccicavano come gomme da masticare. L'aria era soffocante. Yael
barcollava dolcemente, in cima al mondo, dall'alto della sua vertigine. Dei manifesti si staccarono dalle pareti. Le finestre esplosero, e il vento si riversò nella grande sala, portando per qualche secondo una frescura ristoratrice. Di breve durata. Il fumo all'esterno copriva l'orizzonte come un velo tenebroso, e il vento si mise a bruciare. Adesso era una fornace turbinosa. L'aria vibrava. Yael non aveva più la forza di muoversi. Ogni respiro le torturava i polmoni. La pelle le doleva, come se l'avesse strofinata con la carta vetrata. I capelli cominciarono a restringersi sulla sua testa. Stavano per fondersi. Le palpebre facevano fatica a risollevarsi. Tenne duro. Non cadde su quella piastra rovente che era diventato il pavimento. E in quella foschia palpitante, vide un battente aprirsi. Thomas riapparve spingendo la porta della scala. Era solo. I vapori invasero la sala fino ad assorbire le due sagome. Due fantasmi che si osservavano nel cuore sacro della storia. Con passo lento e difficoltoso, Thomas venne verso di lei. La fissava. In attesa di un cenno da parte sua. La torre sud vacillò per prima. La seconda torre scomparve meno di mezz'ora dopo. Il fungo di polvere si gonfiò, un tumore in piena espansione che devastava le strade, strappava via le facciate, ricopriva le acque dell'Hudson, un cancro contagioso che s'infiltrò fino alle terrazze più alte, fin nelle fogne più profonde. Per un gioco ottico e dell'immaginazione, si videro bene dei segni nello spaventoso pennacchio che si lanciava all'assalto dei cieli per funestarli. «Domani sarà un giorno pieno di promesse per uomini come me. E il mondo cambierà.» Le torri barcollarono nella confusione delle menti che assistevano al dramma in diretta televisiva. Crollarono portando con sé molto più che le loro vittime e i loro simboli. Allora, il mondo cambiò. EPILOGO
Blog di Kamel Nasir Ho conosciuto una coppia, qualche anno fa, Yael e Thomas, che avevano messo il dito negli ingranaggi del potere. Non erano dei volontari. Non hanno avuto scelta. Sono stati portati via. Non so cosa ne sia stato di loro. Nessuno dei dati che vi ho fornito in queste pagine è top secret. Sono informazioni che è possibile procurarsi, se si cerca bene. Ma sono là, accertate, reali, lontane dai miti della cospirazione. Basta metterle l'una accanto all'altra, collegarle tra loro. In un certo senso, queste persone che giocano con noi, che ci mentono, si servono della nostra ignoranza, del nostro lassismo; è proprio su questo che contano. È perché consideriamo i concetti di libertà e di democrazia come acquisiti che non prestiamo abbastanza attenzione. Ma è su queste basi che si fonda il nostro nuovo mondo. Il Nuovo Ordine mondiale. Sui nostri dubbi, le nostre paure, le nostre lotte quotidiane, che ci rendono meno attenti ai problemi del mondo. Non dimenticate che questa è una storia vera. Fatela circolare. Ma ricordatevi che siete sorvegliati. Sempre. D'altronde, loro sanno già che avete letto questo racconto. Come l'avete avuto? L'avete comprato? Pagato con un assegno o con la carta di credito? Allora siete schedati. Preso in prestito alla biblioteca comunale? Siete schedati. Scaricato dal web? Sempre schedati. Ve l'ha prestato un amico? Schedati, probabilmente, tramite il chip KBID, poiché anche il vostro amico è schedato. Pensate che esageri? Aspettate qualche anno. Ma forse sarà troppo tardi. Mio nonno diceva che la paranoia stava diventando non più una tara, ma una qualità per sopravvivere in questo triste sistema. Che dire? Pensiamo. È già qualcosa. Al riparo dei nostri cervelli, abbiamo almeno questa libertà. Ma per quanto tempo ancora? Trovo legittimo concludere con due pensatori universali che dovrebbero, almeno lo spero, parlare a tutti. Uno è per l'appunto americano, Ben-
jamin Franklin: «Chi rinuncia alle sue libertà fondamentali in cambio di una sicurezza illusoria non merita né libertà né sicurezza». Dobbiamo essere vigili, poiché in nome della libertà e della sicurezza del nostro sistema, della nostra collettività, riduciamo le nostre libertà individuali. È lì che si annida il pericolo. Molti Stati fascisti sono nati in questo modo. Con il sostegno del loro popolo. Mentre le leggi delle nostre civiltà si inaspriscono, mi piace ricordare Montesquieu e tremare: «La libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono». KAMEL NASIR 12 settembre 2005 In omaggio a due amici scomparsi FINE