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JOHN LUTZ & DAVID AUGUST ATTIMI FINALI («Final Seconds», 1998) Prologo Per gli alunni di una scuola superiore di New York un allarme bomba è come un intervallo fuori programma. Quando il corpo studentesco del liceo 146 del Queens scese la scalinata posteriore e raggiunse il cortile, i ragazzi silenziosi e spaventati erano ben pochi. Quelli che appartenevano a qualche banda e che probabilmente sapevano qualcosa della bomba, stavano zitti e osservavano la polizia con diffidenza. Ma gli altri erano semplicemente felici di ritrovarsi all'aperto nella frizzante aria autunnale. Scoppiarono zuffe scherzose. Degli skateboard colpirono rumorosamente il marciapiede. I berretti vennero strappati dalle teste e si cominciarono giochi un po' maneschi. I poliziotti e le guardie di sicurezza, rossi in viso, si davano da fare gridando per rimettere in fila i ragazzi e spingerli verso il fondo del cortile. Più indietro, lungo la recinzione e lontano dagli insegnanti che facevano la ronda, due studenti stavano mostrando il sedere nudo alla troupe televisiva ferma sul marciapiede. Era stata mandata da una delle stazioni locali, giusto nel caso che la scuola saltasse in aria. Oltre alle divise blu dei poliziotti, che cercavano di mantenere l'ordine nel cortile del liceo, si vedevano le uniformi marroni degli agenti addetti al traffico, che stavano chiudendo la strada con cavalletti e nastro giallo, e i completi scuri di quelli della divisione investigativa che stavano interrogando un indiziato accanto alla scalinata dell'edificio. Quindi c'erano un sacco di poliziotti sul posto ed erano molto indaffarati, ma quando il furgone grigio avanzò lentamente tra i cavalletti fino al cancello, si fermarono tutti per dargli un'occhiata. Era uno di quei momenti in cui ringrazi il cielo di fare il lavoro che fai, e non quello che gli agenti nel furgone erano venuti a svolgere. Il veicolo era un vecchio e malconcio Aerostar Ford. Su una fiancata spiccava l'insegna del dipartimento di polizia di New York e la scritta "Squadra Artificieri". Si fermò e le portiere si aprirono. Da quella del guidatore saltò giù un giovanotto snello sui venticinque anni con capelli neri e ricci, la carnagione chiara tipica degli irlandesi e bei lineamenti. Sapeva che la gente lo stava fissando: lo dimostrava la studiata
disinvoltura con cui girò attorno al furgone e apri il portellone posteriore. L'uomo sceso dalla portiera del passeggero invece sembrava indifferente all'attenzione generale. Aveva i capelli brizzolati e sulle maniche della sua divisa spiccavano i gradi di sergente. Era alto più di un metro e ottanta, con ampie spalle spioventi e un collo da giocatore di football. Aveva un viso largo, la fronte solcata da rughe e occhi color nocciola ben distanziati. Era il volto di un artigiano o di un musicista - di qualcuno che ha imparato a concentrarsi a fondo. Quando raggiunse il retro del furgone, il giovanotto aveva già le braccia piene di attrezzatura. Il sergente scaricò parecchi scatoloni e chiuse il portellone. Il giovane raggiunse il poliziotto in piedi accanto al cancello della scuola. «Squadra artificieri», disse. «Agente Fahey e sergente Harper. Vuole i numeri del distintivo?». L'altro scosse il capo e annotò i due nomi. Sollevò lo sguardo dalla cartellina mentre il sergente gli passava vicino. «Dici sul serio?», chiese a Fahey. «Quello è davvero Harper?». Fahey sorrise. «In carne e ossa». Raggiunse di corsa Harper. Superarono un magro teenager latinoamericano che, con le mani ammanettate dietro la schiena, veniva interrogato dai detective. Doveva trattarsi del ragazzo nel cui armadietto avevano trovato il "pacco sospetto", così chiamato ufficialmente. Fahey e Harper non lo guardarono. Come il pacco fosse entrato nel suo armadietto era un problema dei detective. IL loro era come tirarlo fuori. Una guardia di sicurezza della scuola li aspettava davanti alla porta dell'edificio. Gli ultimi studenti stavano uscendo proprio in quel momento. Mentre l'uomo li accompagnava al secondo piano, Fahey gli fece qualche domanda. Il pacco era stato trovato durante un controllo di routine degli armadietti, in cerca di droga. Emanava uno sgradevole odore chimico. Nessuno lo aveva toccato. Harper ascoltò il collega che chiacchierava disinvolto con la guardia, strappandole continuamente informazioni. A Fahey piaceva scherzare e rilassarsi. La maggior parte degli allarmi bomba si rivelavano dei falsi allarmi. Inutile innervosirsi finché non si è sicuri di dover affrontare un vero e proprio ordigno, ecco come la vedeva lui. A Harper Jimmy Fahey piaceva. Era stato suo allievo durante il corso di addestramento ed era il suo compagno di squadra ormai da sei mesi. Quando si lavora in coppia con qualcuno nella squadra artificieri, si tra-
scorrono ore e ore insieme nell'ufficio del Sesto Distretto, aspettando le chiamate. Alla fine ci si conosce piuttosto bene. Jimmy era un bravo ragazzo. Ma Harper non era d'accordo con lui riguardo alle chiacchiere. Preferiva restare in silenzio negli ultimi istanti, subito prima di esaminare un "pacco sospetto", cercando di svuotare la mente da pensieri estranei, affinando la concentrazione. Meglio aspettarsi sempre il peggio, così sei pronto ad affrontarlo. Fahey stava dicendo: «Un'altra volta - e lì siamo davvero impazziti - si trattava di una bomba fasulla. Era il risultato della ricerca di chimica di un ragazzo. Non conteneva esplosivo, ma neanche con il fluoroscopio siamo riusciti a capire che era finta». «Questa è vera», rispose la guardia in tono cupo. «Oggigiorno lavorando in una scuola superiore impari parecchie cose sulle armi». Dopo queste parole, Fahey rimase in silenzio. Stavano percorrendo un corridoio del secondo piano. Raggiunsero una curva e si fermarono. Harper e Fahey lasciarono cadere la loro pesante attrezzatura. La guardia indicò uno degli armadietti e disse: «È il 176», poi si girò per andarsene. «Aspetti», disse Harper. Ignorandolo, l'altro cominciò a incamminarsi. Convinto di aver fatto il suo dovere, non voleva restare vicino all'armadietto 176 più dello stretto necessario. «Fermo», disse Harper, sottovoce ma con autorità. La guardia si bloccò e si girò con aria attenta. Harper gli indicò una fila di finestre di fronte agli armadietti, da cui si vedeva il palazzo di uffici sull'altro lato della via, pieno di gente in movimento. Il rumore del traffico saliva dalla strada. «Vada dai ragazzi della divisione traffico. Dica al loro capo che gli conviene chiudere quella strada ed evacuare l'edificio qui di fronte. Immediatamente. Se la bomba esplode, quelle finestre si trasformeranno in granate a pallette». «Glielo dirò», rispose la guardia prima di allontanarsi. Fahey stava sogghignando. Harper chiese: «Cosa c'è?». «Quand'è che imparerò anch'io a usare quel tono?». «Quale tono?». «Quello che costringe la gente a ubbidirti». Harper si strinse nelle spalle e si chinò per aprire uno degli scatoloni. «Avanti, sergente», continuò Fahey. «Quando eri giù nella stazione di Astor Place alle prese con una bomba e ti hanno passato al telefono il sin-
daco Koch e tu gli hai detto che gli conveniva chiudere la dannata linea di Lexington Avenue subito - era questo il tono che hai usato?». Per l'ennesima volta Harper si chiese chi inventasse quelle leggende su di lui. «Non ho detto niente del genere». «Okay, ma hai usato quel tono. E lui ha chiuso la linea di Lexington Avenue». Harper fece di nuovo spallucce. Si stava già infilando faticosamente la tuta protettiva. Fahey prese i pantaloni di nylon dalla borsa e li indossò. Era un tipo di nylon particolare, pesante e rigido come una cotta di maglia di ferro e con la stessa funzione. Il fatto di mettersi la tuta protettiva avrebbe dovuto rassicurarlo, ma non aveva mai questo effetto su Harper. Rappresentava l'ultimo passo. Una volta fissata l'ultima linguetta, andavi ad affrontare la bomba. Il suo battito cardiaco continuava ad accelerare e lo stomaco cominciò a contrarsi. Con uno sforzo calcolato, iniziò a respirare più a fondo e a rallentare i movimenti. Fahey si rialzò stringendo l'elmetto. Adesso il suo viso irlandese dalla carnagione chiara era pallidissimo. Chiese: «Dimmi, sergente, questa parte diventa più facile, col tempo?». Harper scosse il capo. «Ma dopo averlo fatto centinaia di volte riuscendo sempre a cavartela, cominci sicuramente a pensare...». «Cominci a pensare che la legge delle probabilità sta per dimostrare la propria validità». Lo aveva detto senza riflettere e si interruppe bruscamente, cercando di scacciare il pensiero dalla mente. Fahey lo stava fissando sbattendo le palpebre, sorpreso. «Ma avresti potuto lasciare il servizio attivo anni fa, vero?». «L'ho fatto», rispose Harper. «Ma poi sono arrivati i tagli al bilancio e le carenze di personale, così sono tornato». «Ben presto ti scaraventeranno ai piani superiori per sempre», dichiarò Fahey. «E sai una cosa? Scommetto che ti dispiacerà parecchio». «Non credo proprio», ribatté lui sistemando una linguetta di velcro sul polso. «Mi piacciono il lavoro investigativo e l'addestramento. Sarò felice quando potrò occuparmi solo di quelli». «Sul serio?». Harper annuì. «Insegnare come si disinnesca una bomba è il sogno di ogni docente. I tuoi studenti di solito stanno molto attenti».
Fahey sorrise. «Be', se davvero non ti dispiace lasciare il campo, per me va benissimo». Harper lo guardò, perplesso. «Perché?». «Perché voglio diventare il nuovo Harper». Adesso Fahey non stava sorridendo. Diceva sul serio. Imbarazzato, l'altro distolse lo sguardo. Si chinò per raccogliere l'elmetto. «Se è questo che vuoi, credo che non ti mancherà l'occasione. Ci sono un sacco di terroristi in giro». Si mise il casco, una specie di scatola metallica con la visiera di vetro. «Andiamo, Jimmy». Percorsero lentamente il corridoio deserto, come due astronauti sulla luna. Dalla strada arrivavano dei rumori, ma nell'edificio regnava il silenzio. Lo sportello dell'armadietto 176 era aperto. Fahey lo spalancò cautamente. Sul fondo era posata una grossa scatola di cartone. La guardia aveva ragione a proposito dell'odore chimico. Benzina, pensò Harper, e qualcos'altro che non riusciva a identificare. Ma si trattava sicuramente di una bomba. Tutti i suoi sensi glielo stavano confermando. «Ti spiace se me ne occupo io, sergente?». Dietro la visiera di vetro, il bel viso di Fahey era calmo e vigile. Il nervosismo di qualche minuto prima era scomparso. «Fai pure, Fahey». Il giovanotto si accovacciò. I lembi della scatola non erano sigillati ma lui non si azzardò a sollevarli. Non facevi mai quello che chi aveva fabbricato l'ordigno poteva aspettarsi da te. Prese il coltello di vetro dal suo set di attrezzi. Se la bomba era fornita di detonatore magnetico, un coltello metallico l'avrebbe fatta esplodere. Incise un lato della scatola. Sbirciò Harper, che annuì per invitarlo a procedere. Usando una luce fredda, guardò dentro la scatola. Dopo un attimo, fece una risata bassa, di gola. «Be', sergente, la prima cosa che vedo è il timer. È una sveglia da due soldi e le lancette non si muovono. Ripeto, non si muovono». Si appoggiò ai talloni e gli sorrise da dietro la visiera. «La piccola non è innescata». Harper buttò fuori l'aria, sollevato. La sua visiera si appannò. Fece per togliersi l'elmetto, poi ci ripensò. «Cos'altro vedi?». Fahey si inginocchiò e con il coltello allungò e allargò l'incisione. Poi guardò ancora, con la luce. «Il timer è fissato a una batteria a secco da cinquanta volt, collegata a un candelotto di... sembrerebbe nitrogelatina. C'è anche una latta di benzina, direttamente dalla stazione di servizio. Si direbbe l'opera di un liceale».
«Okay». Harper si levò il casco. Il primo respiro che facevi dopo essertelo tolto era ogni volta profondo e appagante. «Vai giù ad avvisare i detective». Il fatto che il timer non fosse stato regolato dimostrava che il colpevole era il ragazzo che avevano preso in custodia. Per loro era una bella notizia e Fahey avrebbe potuto guadagnarsi dei punti. «Ormai il furgone dovrebbe essere arrivato», continuò, riferendosi al veicolo corazzato che doveva trasportare la bomba alla base per smantellarla. «Porta qui una camera di contenimento così ci mettiamo dentro l'ordigno». Guardò fuori dalla finestra e si accigliò. C'era ancora della gente nel palazzo di fronte. E, a giudicare dal frastuono, sembrava che la strada non fosse ancora stata chiusa. Ormai non aveva importanza, eppure... si ripromise di dire una parolina al tizio della divisione traffico, quando usciva. «Jimmy!», gridò a Fahey, che si stava allontanando lungo il corridoio. «Fagli capire che non devono lasciar rientrare nessuno finché non abbiamo portato fuori la bomba, d'accordo?». «D'accordo», rispose l'altro senza voltarsi. Harper cercò di stabilire se c'era qualcos'altro da fare, ma non gli venne in mente nulla. Era rimasto solo con la bomba. Si accovacciò e aprì i lembi della scatola. Era un ordigno rudimentale, da dilettanti, proprio come aveva detto Fahey. L'odore adesso era più forte: benzina e l'altra cosa che non aveva ancora identificato. Quando vide le macchie di unto sul cartone, intorno al candelotto di nitrogelatina, capì di cosa si trattava. Oh, no, pensò. Cristo santo! Voltando la testa gridò: «Fahey!». Fahey aveva raggiunto la curva del corridoio dove avevano lasciato l'attrezzatura. Si girò. «È instabile. La nitrogelatina». Fahey fece un passo verso di lui. Esitò. Non gli serviva una spiegazione. L'esplosivo era rimasto troppo a lungo in un qualche deposito da cui il ragazzo l'aveva rubato. Era chimicamente instabile. Il ragazzo era stato fortunato che non gli fosse esploso tra le mani. Harper poteva non esserlo altrettanto. Si chinò ulteriormente. L'odore dolciastro era sempre più intenso e lui riusciva a vedere le goccioline di umidità sulla grigia superficie appiccicosa della nitrogelatina. «Will!», gli gridò Fahey. «Mettiti l'elmetto!». Cristo. Come aveva potuto dimenticarselo? Raddrizzò la schiena e tese
la mano verso il casco. «Allontanati», disse Fahey. «Possono usare un robot per trasferirla nella camera di contenimento». Lui esitò, stringendo l'elmetto. Ci sarebbero volute ore per portare il robot fin lì. «Jimmy, dobbiamo allontanare il candelotto dalla benzina». Fahey rimase immobile, dieci metri più in là. Cominciò lentamente a scuotere il capo. «Will, non farlo». Ma non c'erano alternative. Per raggiungere la latta di benzina avrebbe dovuto spostare il candelotto. La cosa migliore, allora, era prenderlo semplicemente in mano. Harper assicurò l'elmetto e si chinò in avanti. Infilò una mano nella scatola. Non portava i guanti. Le sue dita si chiusero sul candelotto. Era viscido. Tagliò il filo che lo collegava alla batteria e lo sollevò delicatamente. Poi, molto lentamente, si alzò in piedi. «Will, buttalo!», urlò Fahey. «Lancia quel dannato affare il più lontano possibile». Ma a quel punto sarebbe esploso sicuramente. E le finestre si sarebbero disintegrate. E le schegge di vetro sarebbero volate nel palazzo di fronte e giù in strada. Harper rimase immobile, con il candelotto di nitrogelatina posato sul palmo della mano. Urlò: «Portami la coperta». Fahey guardò in basso. La voluminosa coperta era posata ai suoi piedi, ordinatamente piegata. Avrebbe soffocato sufficientemente l'esplosione di un unico candelotto di nitro-gelatina. Non dovevano fare altro che posarlo sul pavimento e coprirlo. «Avanti, Jimmy», disse Harper. Ma Fahey non si mosse. Stava ancora guardando in basso. Harper trattenne il respiro. Dopo un lungo istante, Fahey alzò gli occhi, ma non per fissare il viso del collega. Fissò il candelotto di nitrogelatina posato sulla sua mano tesa. Era paralizzato dalla paura. Cinque minuti prima era riuscito a maneggiare la bomba, sapendo che un errore poteva significare la morte. Era stato disposto a scommettere la vita sulla propria bravura. Ma questa era tutta un'altra cosa. Ormai la situazione era sfuggita al suo controllo. Al controllo di chiunque. Sarebbe stato il caso a decidere se lui e Harper dovevano sopravvivere o meno ai pochi minuti seguenti. Harper parlò in tono sommesso ma chiaramente udibile. «Jimmy, ho bisogno che tu mi porti la coperta. Adesso». Fahey distolse faticosamente lo sguardo dalla nitrogelatina. Chinandosi,
raccolse la coperta. Poi, con passo esitante, cominciò ad avvicinarsi. Per l'amor di Dio, corri!, avrebbe voluto gridargli Harper. Ma il ragazzo stava facendo del suo meglio. Più si avvicinava e più chiaramente Harper riusciva a vedere il terrore che gli distorceva i lineamenti. Con il viso terreo e l'andatura vacillante, era come un invalido che rischiava di cadere da un momento all'altro. Ma continuava ad avanzare. Nel corridoio si sentiva solo il rumore prodotto dalle sue scarpe sul linoleum. Harper rimase perfettamente immobile, con il candelotto di nitrogelatina in mano. Cercava di non guardarlo. Se fosse esploso, l'elmetto e le imbottiture corazzate gli avrebbero protetto testa e torace, ma gli arti? Il suo braccio destro sarebbe saltato in aria, su questo non c'erano dubbi. I paramedici sarebbero riusciti a raggiungerlo prima che morisse dissanguato? Si costrinse a non pensarci. Adesso Fahey si stava avvicinando, senza staccare gli occhi dai suoi, come se soltanto lo sguardo fisso del collega potesse costringerlo a fare gli ultimi passi. Quando fu abbastanza vicino, Harper gli disse: «Va bene, Jimmy. Adesso lascia cadere la coperta». Permise a se stesso di pensare che ce l'avrebbero fatta. Nel giro di poche ore avrebbe rivisto sua moglie Laura, a casa. Sarebbe stato tentato di urlare di gioia e abbracciarla, ma non doveva farlo: preferiva non doverle spiegare che terribile rischio aveva corso. Avrebbe detto solo che era stato un lavoro difficile ma che Jimmy se l'era cavata egregiamente. Fahey aprì rigidamente le braccia e la coperta cadde ai piedi di Harper, che si chinò lentamente, appoggiando un ginocchio a terra. Con la mano libera ne sollevò un lembo. Cominciò ad abbassare la mano destra, badando a tenerla perfettamente orizzontale. Voleva infilare il candelotto di nitrogelatina sotto la coperta, molto delicatamente, come se fosse stato il suo bambino. Per poco non ci riuscì. Questo pensiero lo avrebbe tormentato nei mesi e negli anni a venire. Non avrebbe mai saputo cos'era andato storto. Forse si era spazientito e, all'ultimo momento, aveva mosso la mano troppo in fretta. O forse non aveva commesso nessun errore e la nitroglicerina era semplicemente pronta a esplodere. Un boato gli risuonò nelle orecchie e lui precipitò a terra, piroettando. Stordito, fissò la chiazza rossa sul muro. Era il suo sangue. Non sentiva nessun dolore alla mano, solo nelle orecchie. Abbassò lo sguardo sul suo
braccio, sul nylon a brandelli, sulla pelle ustionata e annerita. Fahey si stava inginocchiando accanto a lui. «Oddio!», disse. «Tieni duro, Will! Resisti!». Harper, incredulo, sollevò lentamente il braccio e fissò quella che un tempo era stata la sua mano. 1 Era tutto nuovo per lui. Will Harper lasciò l'autostrada e scese la rampa fino al segnale di stop. Non c'erano macchine dietro di lui, così si fermò per guardarsi intorno. Non era mai stato in questa parte del paese. Si trovava nella Florida nordoccidentale, appena fuori da Pensacola. Il paesaggio era diverso da quello che aveva visto in altre parti dello stato. Gli piaceva. La strada di fronte a lui era mossa da curve e collinette ed era bordata di alti pini. Le palme che incontrava di tanto in tanto continuavano a stupirlo. Spense l'aria condizionata e abbassò il finestrino. Poi strinse la leva del cambio e inserì la prima. Per essere esatti, più che stringerla la pizzicò. Erano finiti i giorni in cui poteva stringere qualcosa, almeno con la mano destra. Il mignolo e l'anulare erano andati, insieme alla prima falange del dito medio. I chirurghi avevano fatto del loro meglio: la mano funzionava, non gli faceva più male e, a parte le dita mancanti, sembrava normale. Qualche volta Harper si lamentava del fatto che, a causa degli estesi trapianti di pelle, i peli sul dorso della mano e sull'avambraccio erano ricresciuti in modo strano, ma Laura gli rispondeva di non preoccuparsi, tanto nessuno lo avrebbe mai notato. Verissimo, pensava lui, perché la maggior parte della gente non superava mai la prima fase, quella in cui fissava le dita che non c'erano più. Ma preferiva tenere per sé questa riflessione. Mentre accelerava lungo la discesa, diede una rapida occhiata alla cartina. Ormai mancavano solo un paio di chilometri. Spostò il peso del corpo, un po' nervosamente. Non si poteva certo dire che non vedesse l'ora di arrivare a destinazione. Non sapeva che accoglienza gli avrebbe riservato Jimmy Fahey. Non si erano mai visti nei due anni e mezzo trascorsi dall'esplosione nel corridoio del liceo. Lui si trovava ancora in ospedale quando aveva saputo che il giovane aveva lasciato il dipartimento di polizia di New York e la città. Nessuno sapeva dove fosse andato.
Nelle settimane seguenti, Harper riuscì a concentrarsi solo sulle operazioni e la fisioterapia. Ma, una volta uscito dall'ospedale, ricominciò a pensare a Fahey. Gli scrisse, spiegandogli che aveva lasciato il dipartimento con la pensione di invalidità totale e che si stava rimettendo rapidamente. Voleva sapere come stesse lui. Fu una lettera breve ma difficoltosa. C'erano così tante cose che voleva dire, ma non riusciva a esprimerle a parole. E anche scrivere era faticoso: poteva ancora impugnare la penna con la destra, ma la calligrafia tenue e incerta non sembrava più la sua. Alla fine, guardando la lettera, si chiese che effetto avrebbe avuto la sua grafia su Fahey. La batté a macchina, cercando i tasti e premendoli laboriosamente. Poi la spedì ai genitori di Jimmy perché gliela consegnassero. Passò quasi un anno e lui ormai pensava che l'altro non l'avesse mai ricevuta oppure preferisse non rispondere. Poi ricevette una cartolina da Pensacola. Il frettoloso messaggio scarabocchiato diceva che Fahey aveva trovato un lavoro di tutto riposo come responsabile della sicurezza nella tenuta di un miliardario. Viveva in un vero e proprio paradiso e aveva un sacco di tempo libero. Lui doveva passare a trovarlo, se mai fosse capitato in zona. Tutto qui. Harper disse a sua moglie Laura che forse era meglio lasciarlo in pace. Lei rispose che, a suo parere, quella di Fahey non era poi una gran pace. Così, quando andarono a passare qualche giorno di vacanza dai genitori di Laura, che vivevano a poche ore di macchina da Pensacola, chiamò il numero segnato sulla cartolina. Dopo che Harper ebbe detto chi era, Fahey rimase in silenzio per un lungo istante. Poi sfoggiò il disinvolto buonumore che era sempre stato la sua specialità. Sarebbe stato splendido rivedere Will. La tenuta era favolosa e c'erano un sacco di cose divertenti da fare. Harper aveva riagganciato pensando che l'attimo di silenzio scioccato, all'inizio della telefonata, era stato l'unica parte sincera della conversazione. I pini lasciarono il posto a un alto muro ricoperto di rampicanti. Ecco la tenuta. Harper la costeggiò per diversi minuti prima di poter scorgere la portineria. Si trattava di un edificio basso rivestito di sbiadito intonaco giallo, con un tetto spiovente che sporgeva sul vialetto d'accesso. All'imbocco del vialetto spiccava un cartello con una scritta rossa su fondo bianco: CERTE COSE SIBILANO PRIMA DI UCCIDERE ALCUNE TINTINNANO
ALTRE TICCHETTANO ALTRE ANCORA SONO SILENZIOSE BENVENUTI Il cancello era aperto così Harper, sentendosi meno benvenuto rispetto a un attimo prima, svoltò ed entrò. Una guardia in divisa color kaki, ferma in mezzo al vialetto, gli fece cenno di fermarsi. Mentre l'uomo si avvicinava, lui notò la mitraglietta appesa alla sua cintura. Era una Ingram dalla fenomenale potenza di fuoco, capace di perforare muri di mattoni o abbattere alberi. Sia l'arma sia l'espressione della guardia indicavano che non c'era da scherzare. Harper si chiese chi fosse il datore di lavoro miliardario di Fahey. «Posso aiutarla?». «Sì. Sto cercando Jimmy Fahey. Mi chiamo Harper». La guardia controllò in una cartelletta. Evidentemente trovò il suo nome perché gli disse: «Le dispiace parcheggiare nel piazzale? La accompagnerò alla villa con il golf cart». Harper posteggiò e tornò indietro a piedi. La guardia era già seduta al volante di un golf cart giallo con un parasole di tela. Un collega aveva preso il suo posto sul vialetto. Dietro a una finestra della portineria lui vide altri uomini in uniforme. Fahey dirigeva una squadra di tutto rispetto e Harper non riuscì a trattenere oltre la sua curiosità. Mentre saliva sul veicolo chiese: «A proposito, chi vive qui?». La guardia sbatté le palpebre, come stupito che qualcuno potesse non saperlo. «Questa è la villa del signor Rod Buckner». «Oh», rispose lui, debitamente impressionato, capendo finalmente la scritta accanto al vialetto. Rod Buckner era l'autore di successo di technothriller da macho. Harper aveva l'impressione che, ogni volta che saliva in metropolitana, ci fosse qualcuno che leggeva uno dei grossi tascabili di Buckner. C'erano state anche delle riduzioni cinematografiche. Ne aveva vista una imperniata su un fanatico agente della CIA di nome Buck Reilly che lottava contro dei terroristi iraniani. Gli era piaciuta. Aveva persino comprato il suo ultimo romanzo, ma il primo capitolo era ambientato in un sottomarino e includeva così tanti dettagli tecnici che lui si era arenato. Sperava di non incontrare Buckner, oggi. Non aveva mai conosciuto degli scrittori, ma supponeva che come prima cosa ti chiedessero se avevi letto i loro libri. Si chiese dove Buckner trovasse le idee. Il vialetto si snodava in mezzo a uno splendido parco curatissimo. Supe-
rarono file e file di azalee, tutte fiorite e dai variegati e brillanti colori. Harper pensò che a New York non sarebbero sbocciate per almeno altri tre mesi. A dire il vero, a casa in quel momento stava probabilmente cadendo del nevischio. Nella cartolina Fahey aveva detto di vivere in un vero e proprio paradiso. Forse lo pensava davvero. Forse si era lasciato il passato alle spalle. Forse questa spedizione di Harper non era necessaria. Scacciò quei dubbi dalla mente. Ben presto avrebbe avuto una risposta. Si udì un boato lontano, smorzato, simile a un tuono. Guardò il cielo. Era coperto, ma non c'era traccia di un temporale imminente. Notando la sua perplessità, la guardia gli spiegò che era il rumore di un aereo che superava la barriera del suono. «Se ne sentono parecchi. C'è una base aerea della marina poco più giù lungo la strada». «Dev'essere una bella seccatura». «No»., rispose l'altro. «Al signor Buckner piacciono i bang sonici». Harper lo guardò per vedere se stava scherzando, ma l'uomo rimase impassibile. La casa spuntò gradualmente tra gli alberi. Era un'immensa villa in stile vagamente mediterraneo. Come la portineria, era rivestita di intonaco giallino e aveva il tetto di tegole. Nello spiazzo erboso circolare davanti alla porta d'ingresso c'era un'asta su cui sventolava la bandiera americana. Alla sua base, là dove un altro proprietario orgoglioso avrebbe sistemato una panchina ornamentale oppure un tosaerba, Rod Buckner aveva collocato un sottile missile bianco, una specie di terra-aria, indovinò Harper. Mentre percorrevano la curva del vialetto, una figura sbucò dal passaggio ad arco su un lato della casa. Era Jimmy Fahey. Notando la sua divisa sahariana a maniche corte, cintura di foggia militare e calzoncini kaki Harper pensò che sarebbe stata più adatta al portiere di un hotel in un luogo di villeggiatura, ma era immacolata e perfettamente stirata come le uniformi blu del dipartimento di polizia che Fahey indossava un. tempo. E gli piaceva ancora portare occhiali da sole da aviatore. La sua bocca stava sorridendo, ma Harper avrebbe preferito poter vedere i suoi occhi. Invece, mentre si avvicinava, riuscì a distinguere solo la propria immagine riflessa. «Will, come stai?». «Bene, Jimmy, e tu?». «Bene». Erano a pochi passi l'uno dall'altro. Ancora un attimo e poi si sarebbero stretti la mano. Ma Fahey non aveva ancora guardato quella di Harper e all'ultimo momento si voltò.
«Vieni, ti presento il mio capo». Harper fu costretto a camminare in fretta per stargli dietro. «Vuoi dire Rod Buckner?». Il sorriso fisso tremolò. Fahey sembrava mortificato. «Te l'hanno già detto. Volevo farti una sorpresa. Allora, cosa ne pensi: il sottoscritto che lavora per Rod Buckner». «Congratulazioni», rispose Harper, visto che Fahey sembrava volere questo. «Grazie. È un tipo fantastico. Dice che prima o poi mi metterà in un libro». Fahey aveva ripreso a sorridere. «Naturalmente è probabile che mi faccia morire dopo poche pagine». Il passaggio ad arco portava in un patio ombreggiato da mimose. Nell'acqua turchese della piscina due bambine si stavano schizzando a vicenda, gridando. Lo scrittore sedeva a un tavolino sotto un ombrellone. Aveva davanti un computer portatile e stava parlando in un telefono senza fili. Mentre si avvicinavano, Harper cercò di ricordare il titolo del romanzo di cui aveva letto solo il primo capitolo. Buckner posò il telefono, che per qualche misterioso motivo aveva due tozze antenne flessibili, e si accese una sigaretta. «Rod», disse Fahey, «voglio presentarle il mio vecchio collega al dipartimento di polizia di New York, Will Harper». Harper non disse nulla. Trovava sempre un po' imbarazzante incontrare qualcuno che aveva visto in TV. In un certo senso la familiarità con i personaggi famosi risultava fastidiosa. Neanche Buckner parlò. Diede un tiro alla sigaretta e studiò il nuovo arrivato, che fece altrettanto. Il romanziere era sulla cinquantina, tarchiato, con un viso segnato e le guance cascanti. Strizzò gli occhi mentre soffiava fuori il fumo, proprio come faceva John Wayne. Anche lui indossava una sahariana a maniche corte e un berretto da baseball blu con la scritta dorata "U.S.S. NIMITZ". Posò la sigaretta sul portacenere e si alzò. «Il sergente Harper, vero?», chiese con la voce roca, che appariva familiare come il suo viso. Lui annuì. «È stato lei a disinnescare quella bomba sotto il Madison Square Garden... quando è stato, sei, sette anni fa?». «Esatto». Era successo sette anni prima, per la precisione, e Harper aveva scoperto quanto potesse essere inebriante ed effimera la fama. Era sorpreso che Buckner se ne ricordasse.
«Si trattava di fondamentalisti egiziani che in seguito sono stati arrestati, vero?». «Infatti». Buckner si tirò su i bermuda e si posò le mani sui fianchi. «Mi sono sempre chiesto come mai non abbiate usato un veicolo telecomandato». Per un attimo la domanda mise in imbarazzo Harper. «Insomma, all'epoca il dipartimento di polizia newyorkese utilizzava il veicolo Dollman EOD, vero? Oppure il Morfax Marauder Mk XII?». «Avevamo un robot, infatti», rispose Harper, «ma non funzionava». Lo scrittore aggrottò la fronte. «Sabotaggio?». «No, un semplice guasto». «Così è entrato in azione lei. Come ha fatto a disinnescare l'ordigno?». «Ho tagliato i fili ed estratto il detonatore». Il cipiglio di Buckner fece spuntare qualche altra ruga. «Come mai non avete usato il BAS Developments BA93 Disruptor? All'epoca era appena uscito sul mercato. Sfruttava le onde ultrasoniche per neutralizzare una vasta gamma di detonatori. Grazie a esso l'esercito inglese poteva vantare una percentuale di successo dell'ottantasette per cento». «Be'», rispose Harper, «avevo la pinza tagliafili a portata di mano». Fahey si fece avanti. «Scusi, Rod, le spiace se mi prendo qualche minuto di pausa per far visitare la tenuta a Will?». «Fai pure, Jim. E già che ci sei, convincilo a dormire qui stanotte». Lo sguardo di Buckner ritornò su Harper. «Ci vediamo a colazione, sergente. Parleremo ancora». Si sedette e prese la sigaretta. Mentre Fahey e Harper facevano per voltarsi, chiese: «Jim, cosa porti oggi?». Fahey diede un'occhiata alla fondina fissata al fianco. «SigSauer nove millimetri». Lo scrittore annuì, come un sommelier che approvi la scelta di un cliente. «Proiettili?». «Standard, rinforzati». «Stasera andremo a bere un drink al club sulla spiaggia». Buckner lo stava guardando, in attesa di una risposta. Fahey rifletté rapidamente, proprio come quando, al dipartimento, Harper gli faceva una domanda difficile. «Ricaricherò prima, Rod. Pallottole a punta morbida». Buckner annuì di nuovo, con aria di approvazione. «Saranno perfette, Jim. Se sarai costretto ad aprire il fuoco, non vorrai sicuramente che le pal-
lottole penetrino nei muri, colpendo passanti innocenti». «No, signore». Riprese a lavorare sul computer portatile. Harper seguì Jimmy lungo il bordo della piscina. Una delle bambine, che dimostrava circa otto anni, schizzò le scarpe di Fahey mentre lui le passava accanto. Jim le lanciò un'occhiataccia scherzosa e lei ridacchiò, deliziata. Superarono il passaggio ad arco. Un altro bang sonico rimbombò mentre costeggiavano l'ampia facciata della casa. 2 Una lucertola lunga una trentina di centimetri fissò Harper da sotto una bassa fronda di palma, poi si rifugiò nell'ombra fresca. «Ti fermi per la notte, vero?», gli chiese Fahey, precedendolo di pochi passi. «Ti mostro la tua stanza». «Non credo, Jimmy. Dopodomani prendiamo l'aereo per tornare a casa e...». «Oh, devi restare. La colazione qui è davvero fantastica. Per cominciare c'è il succo delle arance del nostro frutteto...». «Mi dispiace». «Ma Rod vuole parlare con te. Probabilmente registrerà quello che dici». Harper non poté fare altro che stringersi nelle spalle. Trovava un po' triste l'ansia di Jimmy di compiacere Buckner. Naturalmente sapeva quanto fosse attraente la fama, come sapeva che alcuni si accontentavano di crogiolarsi nella gloria riflessa di una celebrità. Tuttavia non se lo sarebbe mai aspettato da Jimmy. «Un posticino niente male, vero?», chiese Fahey, indicando la villa. «Possiamo entrare, se vuoi. Oppure possiamo andare da me. Rod mi ha assegnato una casetta tutta mia, sul retro. Lui la definisce piccola, ma è più grande di quella in cui sono cresciuto nel Queens». «Dirigi un'organizzazione davvero notevole, Jimmy», rispose Harper. «I tuoi uomini giù in portineria sembrano in gamba». Fahey lo guardò, gratificato come sempre dalle sue lodi. «Non puoi neanche immaginare quanto lo siano. Abbiamo telecamere che coprono ogni centimetro del muro di cinta. Pattugliamo il parco ventiquattr'ore su ventiquattro. Rod dice che se voglio sensori termici, rilevatori di movimento o qualsiasi altra cosa a qualunque prezzo, non ho che da chiederglielo».
«Il signor Buckner ha davvero bisogno di tutta questa roba?». Harper lo fissò, ma lui cercò di eludere il suo sguardo. «Scrive di gente pericolosa: iraniani, cartelli della droga, hezbollah...». «Vuoi dire che ha ricevuto delle minacce?». «No, ma...». All'improvviso sul bel volto abbronzato di Fahey apparve il vecchio sorriso così familiare. Era come se si fosse levato una maschera. «La verità è che non corre alcun pericolo. A volte crede di essere il suo personaggio, Buck Reilly della CIA. Anzi, lo crede quasi sempre. Ma se questo lo aiuta a trovare l'ispirazione per scrivere i suoi bestseller, chi può criticarlo?». Harper si fermò e si mise di fronte a lui. «Aspetta un attimo. Vuoi dire che non ci sono reali minacce da fronteggiare?». Fahey si accigliò. «Abbiamo dei problemi, certo. Turisti, fotoreporter, cacciatori di autografi...». «E per fastidi del genere dirigi un sistema di sicurezza all'ultimo grido?». «È per questo che il signor Buckner mi paga», rispose lui, impassibile. «Non dovresti trovarti qui, Jimmy. Dovresti essere un poliziotto, non il giocattolo di un riccone». Le parole gli uscirono di bocca suo malgrado, ma capì subito che era venuto fin qui per dire proprio quelle. Fahey arrossì sotto l'abbronzatura, ma scosse il capo e non alzò la voce, nascondendo il suo turbamento. «È inutile che tu mi faccia questi discorsi, Will. Ho concluso un accordo molto vantaggioso. Non hai idea di come sia splendida la vita di una persona come Rod. L'ho accompagnato a Londra, Hong Kong, Rio, viaggiando sempre in prima classe. Ho conosciuto George Bush e Michelle Pfeiffer. E naturalmente gli ammiragli della vicina base aerea sono sempre qui. Farebbero qualunque cosa per lui. Ho fatto un giretto su un F-16 e sono atterrato su una portaerei». «Jimmy, perché diavolo hai lasciato il dipartimento?». Fahey non rispose. Mise le mani sui fianchi, chinò la testa e sospirò. «Non riesco a crederci. Sei venuto fin qui per dirmi di rinunciare a tutto questo e tornare nella polizia di New York?». «Non necessariamente», ribatté Harper. «Potresti entrare in un dipartimento locale». «Lascia perdere, Will, stai sprecando il tuo tempo». «Sei un bravo poliziotto, Jimmy. E un ottimo artificiere. Lascia questo genere di lavoro per quando andrai in pensione».
Adesso Fahey si stava palesemente sforzando di mantenere la calma. Distolse lo sguardo e con voce tesa rispose: «È finita l'epoca in cui ti chiedevo consigli». «Avresti dovuto farlo prima di lasciare il dipartimento. Ti avrei detto di restare». Fahey rimase in silenzio. «La gente che ti criticava non sapeva quello che diceva». Fahey alzò una mano per interromperlo. Harper tacque, turbato dalla sua espressione addolorata. «Taglia corto, Will. So che cercavi di giustificarmi dal tuo letto d'ospedale. Nessuno ti credeva». «Non cercavo affatto di giustificarti. Ho descritto l'accaduto nel mio rapporto, tutto qui. Ho semplicemente detto la verità. Non è stata colpa tua». Fahey si voltò bruscamente e cominciò ad allontanarsi. Ma fece solo due passi prima di girarsi indietro. Si tolse di scatto gli occhiali da sole. «Avrei dovuto raggiungerti più in fretta. Avevo tra le braccia quella dannata coperta e non dovevo fare altro che correre. Non saresti rimasto ferito». Harper gli si avvicinò e lo guardò dritto negli occhi. Con tutta l'enfasi possibile dichiarò: «Non c'è modo di saperlo. L'esplosivo era instabile. Forse muovendolo l'ho fatto detonare. Forse il tempismo non c'entrava nulla. Non lo scopriremo mai. Quindi smettila di pensarci». Fahey fece una smorfia mentre ricominciava a scuotere il capo. «Smettere di pensarci, dici. Vuoi prendermi in giro? Tu riesci a non pensarci?». Harper esitò, poi rispose: «No. E a volte ce l'ho con te, Jimmy. Ma per lo più me la prendo con me stesso. Se proprio dovevo sollevare un dannato candelotto di nitrogelatina destinato a esplodere, perché diavolo non ho usato la mano sinistrai». Per un attimo Fahey rimase a fissarlo, accigliato e incredulo. «Ma Will, è assurdo che incolpi te stesso». «Così come è assurdo che tu ti senta responsabile». Si guardarono dritto negli occhi per un altro lungo istante. Poi Fahey cominciò a camminare lentamente, le mani in tasca, l'aria assorta. Harper gli stava accanto, in silenzio. Aveva detto quello che doveva dire e adesso era tempo che Jimmy riflettesse. Dietro le nubi si sentì il bang di un altro aereo che superava il muro del suono. Percorsero il vialetto rivestito di conchiglie sminuzzate, provocando un continuo scricchiolio e raggiunsero il prato. Il sistema di irrigazione automatica lanciava lunghi getti d'acqua sull'erba. Un'egretta si spostò dal-
la loro traiettoria, con lo stesso aplomb di un piccione newyorkese. Harper osservò con piacere l'elegante uccello bianco. Era venuto per cercare di togliere un peso dalle spalle di Fahey e non aveva affatto previsto di provare un tale sollievo. Avevano raggiunto il missile terra-aria e il pennone di Rod Buckner. La bandiera americana sventolava nella brezza. Fahey si fermò di scatto per guardare Harper. «Dimmi, Will, come fai a stringere le mani, adesso?». Harper sorrise. «Esattamente come prima». Gli tese la mano destra. Fahey la guardò per un lungo istante, poi la strinse. Con forza. «Grazie di essere venuto, Will». «Seguirai il mio consiglio?». «Non ho detto questo. Ma ci penserò». «Sentiresti davvero la mancanza di quegli ammiragli?». «No. Sentirei la mancanza di Michelle Pfeiffer». Si voltò a guardare la villa. «Immagino che tu non sia molto interessato a un giro turistico della tenuta di Rod. Vuoi scendere giù alla spiaggia?». «Non preoccuparti, Jimmy. So che devi tornare al lavoro». «Veramente sono diretto alla portineria. Vuoi un passaggio?». Tornarono davanti alla casa, dov'era parcheggiato un golf cart. Mentre salivano, Fahey disse: «Ti trovo bene, Will. Mi piace la barba». Harper se la toccò. Era spuntata folta e regolare, ma di un grigio uniforme, il che lo aveva sorpreso: i suoi capelli erano ancora quasi completamente neri. «Un fringe benefit del pensionamento». «Va tutto bene? Voglio dire... ti dispiace essere in pensione?». Harper esitò. Prima aveva sentito di dovergli una totale sincerità. Adesso, percependo la tensione nel tono del giovane, capì di dovergli una bugia. Costringendosi a sorridere, rispose: «Scherzi? In pensione a quarantasette anni con l'indennizzo di invalidità totale? È il sogno di ogni sbirro». Fahey lo guardò, poi riprese a fissare la strada. Se dubitava di Harper, preferì non parlarne. «Scommetto che è una vita piacevole. E in più hai Laura. Come sta?». «Indaffarata come sempre. Ti manda i suoi saluti». Per il resto del tragitto chiacchierarono con la disinvoltura di un tempo. Fahey gli spiegò come quella lingua di terra della Florida si differenziasse dal resto dello stato e quanto gli piacesse. Mentre si fermavano sotto il tetto spiovente della portineria, la guardia
alta e cupa con cui Harper aveva parlato comparve sulla soglia. Stringeva un pacchetto lungo e piatto. «Cos'è, Kent?», gli chiese Fahey. «Mi spiace, signore. Ho sentito il cart e ho pensato che fosse il signor Buckner». Fahey si accigliò. «Cos'hai lì?». «L'ultima edizione della Guida alle navi delle marine di tutto il mondo. Il signor Buckner sta venendo a prenderla». «Lui sta venendo a prenderla», disse Fahey a Harper, alzando gli occhi al cielo. «Rod è un accanito sostenitore delle procedure di sicurezza fintanto che non lo intralciano. A quel punto le manda al diavolo». Kent sgranò gli occhi, sorpreso. Harper immaginò che di solito Fahey non parlasse del suo principale con quel tono. Lo considerò di buon auspicio. Forse Jimmy stava già pensando di lasciare quel lavoro. «Conosci la prassi, Kent», continuò Fahey. «Esaminiamo tutti i pacchetti e poi li portiamo su alla villa. Il signor Buckner non viene a prenderli». «Certo, ma...». Fahey lo raggiunse e prese il pacchetto. «L'avete già analizzato con il fluoroscopio?». «Certo. Cioè, deve averlo fatto Alvarez. L'ho trovato sul bancone insieme al resto della posta». «Chi ha avvisato il signor Buckner del suo arrivo?». «Non io», rispose Kent, adesso rigido e paonazzo. «Ma lo sanno tutti che non vede l'ora di leggere l'ultima edizione della guida». Fahey gli restituì l'oggetto. «Riportalo dentro ed esaminalo con il fluoroscopio». «Ma il signor Buckner arriverà da un momento all'altro». «Di lui mi occupo io. Vai». Kent rientrò nella portineria. Fahey si girò verso Harper. «Scusa, Will, ma è meglio che tu vada. Rod si arrabbierà sicuramente. E ai ricchi non piace avere intorno degli estranei quando strapazzano la servitù». Harper sorrise. Il malcontento di Fahey suonava dolce alle sue orecchie. Era pronto a scommettere che entro la fine della settimana il ragazzo avrebbe cominciato a compilare domande di ammissione al dipartimento di polizia. Disse: «Fatti sentire, Jimmy». «Certo». Si strinsero di nuovo la mano, poi lui attraversò il vialetto per raggiungere la sua auto e salì. Mentre si allontanava salutò dal finestrino, ma Fahey
non lo vide. Una Land Rover verde si era appena fermata sotto il tetto dell'edificio e Rod Buckner stava scendendo. Harper varcò il cancello e svoltò sulla strada. Stava giusto ingranando la terza quando dietro di lui apparve un intenso chiarore. Il riflesso sugli specchietti posteriori fu accecante come un lampo durante la notte. Il boato dell'esplosione lo assordò. Improvvisamente della stoffa gli coprì il viso, impedendogli di vedere alcunché. Pigiò sul freno, istintivamente. Lo spostamento d'aria aveva scosso la macchina con tanta violenza da far gonfiare l'air bag. Mentre lui se ne rendeva conto, l'air bag si afflosciò, cadendogli in grembo. L'auto si era fermata. Le orecchie di Harper fischiavano dolorosamente. A parte questo, stava bene. Il parabrezza era scomparso, disintegrato dall'esplosione come i finestrini. Frammenti azzurrognoli di vetro di sicurezza coprivano le sue gambe e il sedile del passeggero. Qualcosa colpì il tettuccio proprio sopra la sua testa. Lui non sentì il tonfo dell'impatto -non riusciva a sentire niente - ma il colpo fu abbastanza violento da scuotere nuovamente l'auto. Qualcos'altro rimbalzò sul cofano, provocando una grossa ammaccatura. Era una delle tegole che stavano cadendo come giganteschi chicchi di grandine. Lui non poté fare altro che ripararsi la testa con le braccia e sperare. Fu fortunato. Nessuna tegola oltrepassò l'intelaiatura del parabrezza. Aprì la portiera annaspando e si guardò intorno, tremante. C'erano tegole sparpagliate su tutta la strada. Un'auto che procedeva in senso opposto si stava fermando; il guidatore fissò Harper a bocca aperta. Lui si voltò a guardare la portineria. Lingue di fuoco uscivano dalle finestre ma le pareti erano ancora in piedi. Il tetto era scomparso: le parti di esso che non erano state scagliate in strada dovevano essere crollate all'interno dell'edificio. L'aggetto spiovente che fungeva da tettoia era precipitato sul vialetto. In mezzo al fumo e alle macerie non c'era traccia della Land Rover. Era stata sepolta dai detriti. Insieme a Rod Buckner, capì Harper, intontito. Insieme a Jimmy Fahey. 3 Rodman's Neck, nell'angolo nordorientale del Bronx, è una penisola protesa sul Long Island Sound. È un posto fuori mano, ammesso che esistano luoghi del genere in una città affollata, ed è qui che i poliziotti di New
York vanno a svolgere le attività che richiedono ampi spazi: pratica con armi da fuoco, addestramento cani e disassemblaggio bombe. Da quando aveva lasciato il dipartimento, Harper non era più tornato a Rodman's Neck. Il posto non era cambiato e tuttora gli sembrava il più tranquillo di New York. Si sentivano gli spari nel poligono di tiro e l'abbaiare dei cani nei loro recinti, ma era come se il vento si impadronisse di questi rumori stridenti per portarli verso il mare. Avanzò lungo la strada. Di fronte a lui si stagliavano una guardiola e un'alta recinzione di filo metallico, dietro alla quale riuscì a distinguere solo una distesa di erba invernale del colore della terra e il cielo grigio. Era la strada che portava ai bunker. L'aveva percorsa spesso alla guida di un apposito furgone, trasportando un ordigno che aveva appena disinnescato in un punto imprecisato dei cinque distretti e che doveva smontare nei bunker. In giornate tetre come questa aveva avuto l'impressione di dirigersi verso gli estremi confini della terra, mentre si chiedeva se sarebbe mai tornato indietro. Adesso, ripensandoci, non gli dispiacque nemmeno un po' di non dover andare mai più fin là, di non dover mai più smontare un'altra bomba. Ma il suo stato d'animo cambiò non appena si voltò per incamminarsi verso il complesso di vecchie baracche prefabbricate che ospitava la squadra artificieri. Aveva dedicato diciotto anni alla squadra e questo posto gli mancava. Fu assalito dal rimpianto per il suo prematuro pensionamento. Gli sarebbe piaciuto insegnare e anche poter dare consigli agli investigatori della squadra omicidi e a quelli dell'antiterrorismo su come catturare i dinamitardi. Ma ormai era acqua passata. Entrando nell'edificio diede un'occhiata alla bacheca. C'era la solita collezione di avvisi ufficiali del dipartimento e della squadra antiterrorismo, mescolati ad annunci di bisbocce per festeggiare un compleanno e di auto usate in vendita. E c'era il consueto odore pungente di caffè lasciato troppo a lungo sul fuoco e che si stava trasformando in una poltiglia amara. Pensò alle numerose porte a cui gli sarebbe piaciuto bussare, ma le superò tutte, raggiungendo a grandi passi la fine del corridoio. Era diretto all'ufficio dell'uomo che detestava più di qualsiasi altro membro della squadra, ovvero il comandante, il capitano Nathan Brand. Aveva chiamato la segretaria di Brand per chiedere un appuntamento. Era rimasto sorpreso quando lei gli aveva risposto che il capitano poteva riceverlo subito e a Rodman's Neck. Quando non partecipava a seminari sull'antiterrorismo nelle varie capitali europee, Brand era normalmente re-
peribile nell'altro ufficio della squadra artificieri, al Sesto Distretto. Il Sesto era situato a Greenwich Village, il che consentiva la capitano di raggiungere a piedi un sacco di ottimi ristoranti e di distare meno di un chilometro e mezzo dai pezzi grossi all'One Police Plaza. Mentre Harper bussava alla porta, si ripromise di non lasciarsi trasportare dal disprezzo per Brand. Il capitano ci sapeva fare. Si era indubbiamente dimostrato più furbo di lui per esempio otto anni prima, quando Harper avrebbe dovuto diventare tenente. Invece era stato Brand a ottenere la promozione e lui era sicuro che ci fosse riuscito spargendo la voce che Harper era legato a una prostituta che lavorava come informatrice per la squadra narcotici. Da quel momento in poi i loro rapporti si erano distinti per una persistente ostilità. «Avanti», disse Brand, alzandosi dietro la scrivania e sorridendo. Era snello, sulla cinquantina, con uno scintillante cranio pelato e cespugliose basette bianche. «Ciao, Harper, ti trovo bene. Il pensionamento ti giova». «Grazie di avermi ricevuto, capitano. Come vanno le cose?». «Oh, non troppo male. Ma il caso Fortunato è un grosso problema. Immagino che tu abbia letto qualcosa al riguardo». Harper annuì. Domenic Fortunato, un bambino di sei anni del Queens, era perito nell'incendio scoppiato nel garage dei genitori. Stava giocando con dei petardi che suo padre, un sergente di polizia, aveva ottenuto illegalmente e che, stando alle voci di corridoio, arrivavano da Rodman's Neck. Chiese a Brand: «Siete sicuri che i petardi provenissero dal nostro deposito?». «No, ma i tizi degli affari interni continuano a tormentarmi». «Credo che non abbiano tutti i torti. Il deposito è la fonte più probabile». Vendere petardi a privati cittadini è illegale a New York, ma la gente cercava sempre di farlo. Quando veniva scoperta, i petardi confiscati finivano in un deposito di Rodman's Neck, dove si potevano trovare in qualsiasi momento diverse casse piene di fuochi d'artificio. Di tanto in tanto spariva qualcosa. Ai poliziotti e ai loro amici e parenti i lampi e i botti piacevano come a chiunque altro. Harper non ci aveva mai avuto niente a che fare. Aveva visto troppi ragazzi perdere occhi o dita. Sapeva con quanta rapidità gli esplosivi possono diventare instabili nei magazzini. «No», rispose Brand, «non possiamo dargli torto. Ma non è piacevole averli intorno». Rimase in piedi e continuò a guardarlo. Teneva gli occhiali in una mano e aveva infilato in tasca l'altra. Non aveva nessuna intenzione di stringere
mani. Harper aveva già notato che il capitano era piuttosto schizzinoso nei confronti della sua menomazione e si chiese come volgere la cosa a proprio vantaggio. Con Brand si era costretti a ragionare in questo modo. «A dire la verità, Harper, non sono stupito che tu ti sia fatto vivo», dichiarò Brand. «Sa perché sono venuto?». «Sì. Per Fahey». Assunse un'aria tetra e continuò. «Noi due eravamo i suoi diretti superiori. Certo, non faceva più parte del dipartimento, ma vogliamo comunque che il suo assassino venga arrestato». Mentre si sedevano, Harper pensò che finora questo suo incontro con il capitano non era stato molto diverso dai precedenti. Brand ti diceva sempre quello che volevi sentire. Poi stava a te indovinare fino a che punto lo pensasse davvero. «I media che si sono occupati del caso hanno citato spesso le sue dichiarazioni», disse Harper. Brand fece un sorriso soddisfatto. «Lei ha spiegato al Times che Fahey era uno dei suoi uomini migliori. Si è detto molto addolorato dalle circostanze della sua morte». «Già. Trovo che quello del Times sia stato un ottimo articolo». «Poi ha raccontato al Chronicle di San Francisco che Fahey era un po' casinista e che la sua morte non è stata poi una gran perdita». Brand si accigliò. «Veramente non ho detto...». Ma si interruppe. Gettando gli occhiali sulla scrivania, incrociò le braccia e, genuinamente divertito, sorrise. «Sei proprio un bel tipo, Harper, ma hai ragione. Perché dovremmo fingere di non detestarci?». «Non ne vale la pena», concordò lui. «Allora, cos'è questa stronzata che ha rifilato al Chronicle?». «Non hai mai capito i reporter, Harper, era questo il tuo problema. Mi è bastato parlare due minuti con questo tizio del Chronicle per indovinare che tipo fosse. Il suo punto di vista era: "E se fosse stato Buck Reilly a proteggere il suo creatore? Sarebbe riuscito a salvarlo?". Quindi, ovviamente, doveva trasformare Fahey nel capro espiatorio. Lo avrebbe fatto comunque. Se non gli avessi dato quello che voleva non sarei stato citato nell'articolo». «Certo, capisco. Se Jimmy voleva che la gente prendesse sul serio la sua morte non avrebbe dovuto farsi uccidere insieme a una celebrità». Brand strizzò gli occhi, studiandolo. «Sei proprio sconvolto, vero? Quando ho saputo che eri andato a trovarlo non riuscivo a crederci. Non
capisco come mai proprio tu debba provare dell'affetto per Jimmy Fahey». Harper non rispose. Inutile discutere del passato con Brand. Disse: «Sono trascorse più di tre settimane dall'esplosione. È da parecchio tempo che non si hanno notizie vere e proprie sulle indagini. Cosa diavolo sta succedendo?». Il capitano si appoggiò allo schienale, di nuovo con l'aria divertita. «È stato molto difficile per te, vero, Harper? Venire qui oggi, voglio dire. Hai sempre pensato che io passassi troppo tempo partecipando a conferenze, ampliando la mia rete di utili contatti, chiacchierando piacevolmente. E adesso devi rivolgerti a me per avere delle informazioni. Perché sai che sono in possesso di notizie riservate che non potresti trovare da nessun'altra parte». «Allo stesso modo in cui lei è l'uomo dei sogni di Winona Ryder, capitano. Devo aggiungere altro?». Brand assaporò il proprio spasso per un altro istante, poi disse: «Le indagini non procedono certo a gonfie vele. Non sono riusciti a scovare nemmeno un indiziato. Anzi, stanno ancora cercando un'ipotesi plausibile». Harper aveva sperato che la polizia della Florida avesse trovato degli indizi ma preferisse non comunicarlo ai media. Serrò i pugni, frustrato. Poi si ricordò di seguire il consiglio di Laura: fare un respiro profondo, buttare fuori l'aria, rilassare le mani. Lei si preoccupava del suo cuore. Chiese: «Cosa può dirmi della teoria che Buckner sia stato ucciso da un cartello della droga o un gruppo terroristico?». «Se ne è parlato, dal momento che Buckner sosteneva di non aver paura di trasformare i nemici dell'America in suoi nemici e roba del genere. Tutto per vendere più libri. Ma la CIA e l'FBI le considerano fesserie. Non vogliono occuparsi del caso. Preferiscono lasciarlo alla polizia di stato della Florida e alla squadra antiterrorismo». «Allora che elementi hanno in mano? Cosa possono dire dell' attentatore?». «Non è un terrorista, ma è comunque un professionista. Su questo non ci sono dubbi. È ben addestrato. Forse era un militare». Harper si accigliò. Era sempre scettico quando gli investigatori arrivavano a quella conclusione. Rispose: «Oggigiorno chiunque può fabbricare una bomba. Non ho certo bisogno di dirlo a lei. Puoi trovare istruzioni dettagliate in un libro o su Internet. Puoi comprare legalmente gran parte dei componenti...».
Brand scosse il capo. «Questo tizio se ne intende di esplosivi, sa come funzionano. E ha svolto accurate ricerche prima di organizzare il suo piano». Annuendo, Harper dichiarò: «Deve aver passato parecchio tempo nel bosco di fronte alla tenuta con un binocolo e un insettifugo, studiando gli uomini di Jimmy e le loro abitudini». «Non solo». Brand ebbe un attimo di esitazione, poi continuò. «Voglio dirti qualcosa che non è ancora di dominio pubblico. Se spargi la voce, non l'hai saputo da me. Il nostro amico ha controllato come era stata costruita quella portineria - probabilmente nell'ufficio tecnico municipale di Pensacola, ma non possiamo esserne sicuri». «Davvero?». «Quando Buckner ha comprato la tenuta, ha sostituito il tetto della portineria. Quello nuovo sporgeva sopra il vialetto, con un elegante effetto porte cochère. Il resto dell'edificio risale agli anni Cinquanta, come la villa. Il tizio che l'ha costruita si preoccupava degli uragani, quindi si è assicurato che fosse tutto molto solido. La portineria ha poche finestre, piuttosto strette. E c'era cemento annerito dal fumo, sotto l'intonaco». Harper cominciava a capire. In tono cupo chiese: «E il nostro uomo ha scoperto tutto questo?». «Sicuramente. Sapeva che pareti così solide avrebbero incanalato la forza dell'esplosione verso l'alto, facendo crollare il tetto. Non importava che Buckner si trovasse dentro la portineria oppure in macchina sotto l'aggetto, era spacciato comunque». Harper rispose: «In realtà c'è mancato poco che una guardia gli consegnasse il pacco. Stavo pensando che, in tal caso, l'assassino avrebbe potuto farlo esplodere dopo che Buckner si era allontanato, così avrebbe ucciso solo lui». «Non era questo il suo piano. Il piano era distruggere l'intera portineria e chiunque si trovasse all'interno o lì vicino». Quindi quel bastardo aveva voluto uccidere anche Fahey e tutti gli altri. Perché? Harper fu assalito da un'altra ondata di rabbia impotente. Respirò a fondo e rilassò le mani. Disse: «La chiamata per avvisare Buckner che il libro che aspettava era arrivato...». «Sfortunatamente non è stata registrata. Ma la cameriera ha sentito Buckner rispondere e dice che è stata fatta con l'interfono, come tutte le comunicazioni dalla portineria». «L'interfono? Come ha fatto l'attentatore a inserirsi?».
«Non si sa. Sembra che esistano parecchi modi per riuscirci, ammesso di avere le apparecchiature e le conoscenze tecniche necessarie. Una cosa la sappiamo: non è stato un lavoro dall'interno. Chiunque si trovasse nella portineria è rimasto ucciso. Tutti gli uomini del turno diurno, tranne i due che stavano pattugliando il parco. La polizia della Florida è sicura che siano puliti». «Era un detonatore radiocomandato?». Brand annuì. Il killer era rimasto là fuori a guardare e, al momento opportuno, aveva premuto il pulsante. «Questo ci dice qualcosa di lui», affermò Harper. «Voleva essere sicuro che l'ordigno esplodesse al momento giusto». «Secondo me voleva anche assistere allo scoppio», mormorò Harper. Alzò gli occhi su Brand. «Quindi hanno escluso la teoria del terrorista straniero. Qual è l'ipotesi più in voga, al momento?». «Come ho già detto, quel tizio è un professionista». «Per chi si presume che lavorasse, allora?». «Per qualcuno del posto. I poliziotti della Florida hanno trovato un sacco di gente che nutriva del rancore verso Buckner. La sua ex moglie, per dirne una. Il suo ex editore, per dirne un altro. È stato lui a pubblicare il suo primo libro, facendone un best-seller, ma per quello successivo lo scrittore si è rivolto a una grossa casa editrice di New York. L'anno scorso il piccolo editore è fallito e non gliel'ha mai perdonata. Un altro tizio che piace molto alla polizia è questo produttore drogato di Hollywood che sostiene che Buckner gli ha rubato l'idea per il suo terzo best-seller». «Quindi vogliono infangare il nome di Buckner. Sarà un vero spasso per i media». «Non ci credi, Harper? Allora qual è la tua teoria?». «Non sono molto bravo con le teorie. Sa come lavoravo. Mi piacerebbe poter esaminare una ricostruzione della bomba, se l'hanno fatta. E qualunque frammento rimasto». «Giusto, sei sempre stato un appassionato di meccanica. Bene, vediamo cosa posso fare per te». Facendo ruotare la sedia, si voltò verso l'archivio. «Dovrei avere qualche foto». Mentre rovistava, suonò il telefono. Era insolito per quell'apparecchio restare silenzioso così a lungo. In occasione di precedenti incontri in questo ufficio, Harper aveva passato la maggior parte del tempo ad aspettare mentre il capitano parlava al telefono. Stavolta a chiamare era un certo Charlie e Brand era felicissimo di sentirlo, o almeno così disse. Ma mentre
parlava pescò da un cassetto dell'archivio una cartellina beige e la lasciò cadere sulla scrivania, di fronte a Harper. Definendolo un appassionato di meccanica, si era riferito al lavoro che un tempo Harper svolgeva insieme ai detective che davano la caccia ai dinamitardi. Analizzando i frammenti dell'ordigno e costruendone una copia, era stato in grado di dirgli parecchie cose sulle persone che cercavano. Aprì la cartellina e sfogliò il rapporto della scientifica. Poi si concentrò sulle fotografie dei contorti frammenti metallici recuperati tra le macerie della portineria. Assorto, riuscì a escludere completamente la conversazione telefonica di Brand finché quest'ultimo non gli chiese: «Allora, cos'hai trovato?». Aveva riattaccato. Harper, preoccupato, domandò: «Ha una lente di ingrandimento?». L'altro infilò la mano in un cassetto e gliene passò una. Si trattava di una bomba-tubo. L'esplosivo era stato infilato in un pezzo di tubo di ferro inserito nella scatola di cartone, in modo da concentrare l'esplosione e renderla più devastante. Harper sollevò la foto di un frammento di tubo. «Qui c'è una C». «Una cosa?». «La lettera C. Qui, accanto al bordo sinistro». Brand prese la lente d'ingrandimento e la foto. «Oh, già. Bene, sembra una C. E allora?». «Il dinamitardo l'ha incisa nel metallo». «Avanti, Harper, è il frammento di una bomba esplosa. Era sepolto sotto trenta centimetri di detriti. Si è semplicemente graffiato». «Non credo. Secondo me l'ha incisa lui». «Perché? Pensi che sia la sua iniziale? Dovremmo cercare un tizio chiamato Chris? Oppure Calvin?». Brand prese il rapporto del laboratorio. «I ragazzi della scientifica, sia della polizia di stato della Florida sia della squadra antiterrorismo, hanno esaminato la scheggia. Credi che non avrebbero seguito questa traccia, se significasse qualcosa?». Harper lasciò cadere le foto sulla scrivania. «Vorrei dare un'occhiata ai frammenti». Brand scosse il capo, sorridendo. «Questo favore non posso fartelo». «Allora riferisca quello che ho detto, la prossima volta che chiacchiera piacevolmente e si procura dei nuovi agganci». Brand continuava a evitare il suo sguardo. «Capitano, non è la prima volta che le chiedo di spargere la voce su qualcosa. E alla fine ha sempre fatto una bella figura». «Stavolta farei la figura dell'idiota». Brand rimise in ordine le foto e le
inserì di nuovo nella cartellina. L'istinto suggerì a Harper di non lasciar perdere. «Avanti, Brand. Nella peggiore delle ipotesi potrebbe ritrovarsi in una posizione imbarazzante. Non sarebbe poi così grave, in confronto alla possibilità di catturare il killer di Fahey». Il capitano non rispose. Fece ruotare la poltroncina e rimise il fascicolo nell'archivio. Harper aspettò che si girasse verso di lui, poi chiese: «Allora?». «Harper, torna a casa dalla tua adorabile mogliettina». Brand sorrise, senza guardarlo negli occhi. «Sei a riposo, con una bella pensione e un indennizzo di invalidità totale. Sei in ferie pagate a vita. È il sogno di ogni poliziotto». Lui perse improvvisamente il controllo. Aveva sopportato per un sacco di tempo il bruciante rancore dovuto al suo allontanamento dalla squadra. Ma la frustrazione e il dolore per l'omicidio di Fahey erano davvero troppo per lui. «Non finga di avermi fatto un piacere, Brand. Mi ha costretto a ritirarmi. Solo che ha dovuto farla sembrare una soluzione vantaggiosa per me perché i media stavano guardando». Stranamente, sembrò che l'altro accettasse con piacere quel confronto diretto. Si appoggiò allo schienale, sorridendo. «Sì, hai ragione, Harper. Se il Post non ti avesse soprannominato il poliziotto martire ti avrei buttato fuori a calci». «Non c'era motivo che non tornassi al lavoro». «Qui? Nella squadra?». Brand sembrò ancora più divertito. «Sappiamo tutti che il dipartimento di polizia newyorkese è un datore di lavoro che concede pari opportunità a tutti. Aperto a entrambi i sessi, a tutte le razze, a qualsiasi orientamento sessuale. Ma Harper, nella squadra artificieri non c'è posto per gli invalidi digitali». Un accesso di rabbia per poco non fece scattare in piedi Harper, che riuscì a mantenere la calma. Sorrise, sapendo che questo avrebbe infastidito Brand. «Davvero una bella espressione, capitano. Ma non mi occupavo quasi più dello smontaggio bombe in ogni caso. Lo sa anche lei. Avrei potuto dedicarmi all'addestramento e alle indagini. Non era obbligato a mandarmi in pensione». «Harper, non capisci? Non sono stato io. È stata la squadra». Lui si sentì come se gli avessero sferrato un calcio appena sotto lo sterno. Per un attimo non riuscì a trovare il fiato necessario per replicare, poi rispose: «Non dica balle. È stato lei. I miei colleghi volevano che tornas-
si». «Naturalmente. Non sto dicendo che fosse una questione personale, Will. I ragazzi ti vogliono bene. Gli dispiace immensamente per quello che ti è successo. Ma la tua fortuna si è esaurita, ecco perché non ti vogliono intorno. Sei iellato e loro temono di restare contagiati». Harper rimase immobile, incapace di rispondere. Gli sembrava quasi di sentire le parole di Brand che gli si incidevano a lettere di fuoco nella memoria. «Non posso permettere che un tizio con la mano mutilata da una bomba gironzoli qui intorno», dichiarò Brand. «E soprattutto non posso lasciargli addestrare le reclute. Sai cosa dicono i ragazzi più duri qui, vero? Ricordi, Will?». Se lo ricordava. Sapeva cosa lo aspettava, ma non poté fare altro che restarsene seduto. «Dicono che non c'è motivo di temere la bomba grossa», continuò il capitano. «Se commetti un errore ti scaraventa all'altro mondo senza che tu possa renderti conto di cosa è successo. No, è della piccola bomba scadente che devi aver paura. Quella che esplode e ti fa vivere fino alla fine dei tuoi giorni cieco, sfigurato o menomato. È questa la cosa peggiore». «Lo so», mormorò Harper. «Ricordo di averlo detto anch'io, ma all'epoca ero giovane e stupido. È meglio restare vivi». Brand sorrise e alzò le mani. I suoi gemelli scintillarono. «Così siamo tornati al punto di partenza. La tua è una gran bella vita. Prendi esempio dagli altri pensionati. Impara a giocare a golf. Trasferisciti in Arizona. Roba del genere». Il telefono squillò di nuovo. Brand sollevò la cornetta. «Ben!», gridò. «Che piacere sentirti». Harper si alzò e uscì dall'ufficio. Lasciò Rodman's Neck il più in fretta possibile. 4 Will e Laura Harper vivevano in una casa dì arenaria costruita tra il 1880 e il 1890, vicino a Prospect Park, a Brooklyn. Si trattava di una villetta spaziosa situata in un bell'isolato e l'unico motivo per cui finanziariamente era alla portata di un poliziotto e di un'infermiera era che necessitava di qualche lavoretto. Nel gergo degli agenti immobiliari questo significava centinaia di ore di fatica in grado di spezzarti la schiena.
Gli Harper non si scoraggiarono. Elaborarono un dettagliato piano settennale per trasformare il malconcio edificio in una reggia. Laura disponeva di un'energia illimitata e a lui era sempre piaciuto lavorare con le mani. Sei mesi dopo l'acquisto della casa Harper ebbe il suo "incidente" - era così che ormai lo chiamavano. Laura la mise in vendita, immaginando che avrebbero dovuto trasferirsi di nuovo in un appartamento. Ma, quando uscì dall'ospedale, lui tolse il cartello con la scritta "IN VENDITA". Aveva deciso di considerare i lavori di ristrutturazione un prolungamento della fisioterapia. All'inizio fu una vera tortura. Persino le attività più banali sembravano impossibili. Passò una settimana a schiacciarsi le dita prima di imparare a piantare un chiodo. Grazie a un lento e frustrante processo di tentativi ed errori, scoprì quali lavori poteva ancora svolgere con la mano destra. Altri imparò a farli con la sinistra. La cosa più difficile fu confessare a se stesso che in certi casi non poteva cavarsela da solo. Piano piano riacquistò destrezza e sicurezza e il ritmo accelerò. Era già in anticipo sui tempi stabiliti dal piano settennale. Ma nel mese trascorso dal suo ritorno dalla Rorida - dalla morte di Jimmy Fahey - non era riuscito a concludere niente. Sembrava che lavorare non avesse alcun senso. Il progetto originale prevedeva di ristrutturare l'abitazione e rivenderla per una discreta somma. Poi Laura avrebbe chiesto il pensionamento anticipato e loro due avrebbero girato il mondo, oppure comprato una casetta in campagna. Ma adesso tutto questo gli suonava come la vita da pensionato sogno-di-ogni-poliziotto caldeggiata dal capitano Brand. Lo riempiva di amarezza. Faceva sembrare futile la sua esistenza. Erano le dieci e mezzo di sera e lui stava guardando la TV a letto, in attesa del notiziario. Ultimamente succedeva sempre più spesso che il caso Buckner non venisse nemmeno citato. Non c'erano sviluppi, oppure i telespettatori stavano perdendo interesse nella vicenda. Ma Harper stava guardando comunque. Era sdraiato sul copriletto, completamente vestito. L'unica luce nella stanza era il guizzante bagliore azzurro del televisore. Non voleva vedere il parquet che doveva essere pulito e lucidato né la lunetta di vetro intarsiato sulla porta da restaurare. Il programma, un talk show imperniato su uomini che erano andati a letto con la loro datrice di lavoro, non riuscì a calamitare la sua attenzione. Continuava a guardare l'orologio. Laura era in ritardo. Solo di pochi minu-
ti, ma in ritardo. Ultimamente succedeva sempre. Si drizzò a sedere, cercando di scacciare quel senso di fastidio. Sapeva che era meschino, ingiusto. Prima, quando la sua vita era densa di impegni, non aveva mai notato la scarsa puntualità di Laura, ma ora che il tempo per lui passava così lentamente, la trovava irritante. Erano sposati solo da tre anni. Per Harper era il secondo matrimonio. Il primo si era rivelato un disastro: come un sacco di giovani poliziotti ambiziosi aveva anteposto il lavoro alla famiglia e ne aveva fatto le spese. La moglie lo aveva lasciato e si era trasferita nell'Oregon, portando con sé una figlia di pochi mesi che lui non aveva avuto neppure la possibilità di conoscere. La cosa lo faceva ancora soffrire. Nei quindici anni successivi era stato molto cauto, deciso a non ripetere l'errore. Poi aveva incontrato Laura. All'epoca lei aveva quarant'anni e non si era mai sposata. Lui continuava a stupirsi della propria fortuna e della cecità degli altri uomini. Laura era adorabile, piena di vita, con un malizioso senso dell'umorismo e una vasta gamma di interessi. Ogni volta che Harper cercava di descriverla a qualcuno, finiva per suonare come l'inserzione matrimoniale di una persona ideale. Spesso le aveva chiesto perché non si fosse mai sposata prima e non aveva mai ottenuto una risposta diretta. Quella che preferiva era che, potendo contare su un buon lavoro e una famiglia molto unita, non si era mai voluta accontentare del primo venuto. Sentì la chiave che girava nella serratura e poi l'allegro saluto di Laura. «Sono di sopra», gridò. Si costrinse a non guardare l'orologio per vedere di quanto fosse in ritardo la moglie. Era deciso a scacciare il malumore o almeno a nasconderlo a Laura. Sentì il suo passo leggero sulle scale. Abitare in una villetta a schiera di New York significava fare un sacco di scale, ma sembrava che la cosa non la disturbasse, neanche dopo una lunga giornata di lavoro. Dove trovava tutta quell'energia? Comparve sulla soglia, levandosi l'impermeabile. Sotto portava l'uniforme bianca da infermiera, quindi doveva essere uscita di corsa: di solito preferiva cambiarsi prima di lasciare l'ospedale. Era piccola e snella, con capelli scuri e ricci. I brillanti occhi azzurri sembravano quasi troppo grandi per il suo volto, il sorriso troppo ampio. «Che giornata», disse. «Il dottor Lautenberg ha applicato un triplo by-pass. Siamo rimasti in sala operatoria per otto ore. Grazie a Dio il paziente ce l'ha fatta». Harper fu felice di non essersi lamentato per quei pochi minuti di ritar-
do. Lei si sedette sul bordo del letto e lo baciò. «Allora, com'è andata, oggi?». «Bene». Lui capì che, se voleva davvero tirarsi su di morale, gli conveniva cambiare discorso. «Ci sono un sacco di messaggi per te». «Oh, Will, ti ho già detto che non devi rispondere al telefono. Lascia che ci pensi la segreteria». Non ho nient'altro da fare. Scacciò rabbiosamente quei pensieri dettati dall'autocommiserazione. Disse: «Ha chiamato Jan per avvisarti che sabato gli amanti delle passeggiate sulla spiaggia vanno a Sheepshead Bay; voleva sapere se ti interessa partecipare. Poi ha telefonato Bernie per ricordarti che domani sera sei di turno alla mensa per i poveri. E Tony, del sindacato operistico del Metropolitan, vuole proporti di fare la comparsa nell'Aida alla matinée di sabato». Il volto espressivo di Laura rispose a ognuno dei messaggi. Sentendo l'ultimo sorrise. «L'Aida! È un vero spasso, l'ho già fatto l'anno scorso. Ci sono un centinaio di persone in palcoscenico, quindi nessuno si accorge mai di te, ma è comunque fantastico. Spero di dover interpretare una schiava nubiana, con un bikini dorato e delle piume tra i capelli. Con un po' di fortuna, potrei addirittura avvolgermi un serpente attorno al corpo». Si era alzata e gli stava descrivendo il costume a gesti. Visto che indossava ancora la divisa da infermiera, non era facile immaginarselo. Si interruppe per dire: «D'accordo. Cosa significa quell'espressione?». «Niente. Solo che sei l'unica persona che conosco a saper trarre vantaggio dal fatto di vivere a New York. Tutti gli altri sono talmente stanchi che riescono a stento a fare il bucato». Lei gli scoccò un'occhiata maliziosa. «Ah-ah. Ho già sentito questa frase. La verità è che, viste tutte queste mie attività, hai pensato che fossi una povera zitella molto sola che cercava semplicemente di tenersi occupata. Hai immaginato che, non appena avessi avuto un uomo tutto mio, avrei lasciato perdere tutto per restarmene in casa tranquilla». Harper scosse il capo. «No. Sapevo benissimo che non stavo sposando una di quelle donne che ti portano la birra e le pantofole. E ne ero felice. Passavo talmente tanto tempo fuori che non volevo saperti seduta a casa ad annoiarti». Il cambiamento d'espressione di Laura gli disse che si era tradito con l'ultima affermazione. Era lui quello che restava in casa ad annoiarsi. Il suo tentativo di fingersi allegro era fallito. Lei si sedette sul bordo del letto e lo guardò con aria comprensiva.
«Devi proprio?», chiese lui, irritato. «Mi sembra di essere uno dei tuoi pazienti». Ignorando la frase, Laura gli prese la mano menomata. Stringeva sempre quella. «Oh, Will, so che non riesci a non pensare a Jimmy. È davvero terribile quello che gli è successo. Ma se non altro sei riuscito a vederlo prima che morisse, a sistemare le cose tra voi due. Questo non ti consola almeno un po'? Non hai motivo di sentirti in colpa». «Non mi sento in colpa. L'unico colpevole è il figlio di puttana che l'ha ucciso e io voglio inchiodarlo a tutti i costi. Solo che le cose non stanno andando come vorrei». Accigliandosi, lei si voltò a guardare la TV. «C'è stata qualche...». «No, non c'è niente di nuovo. Devi contare su Brand se cerchi delle informazioni riservate. I reporter continuano a gettare fango su Buckner facendolo sembrare un tipo squallido e spietato ed elencando i motivi per cui qualcuno avrebbe potuto volerlo morto, ma le indagini non sono approdate a nulla. Credo che lasceranno che questo bastardo la faccia franca». Lei gli lasciò andare la mano e si raddrizzò. «Mi spiace, Will. Non so cosa dire». Harper buttò fuori l'aria, sperando di espellere anche parte della rabbia repressa. Tese una mano per accarezzarle i capelli. «Dispiace anche a me». Lei si alzò e raggiunse il ripostiglio, abbassando la cerniera dell'uniforme. «Be', meglio che dica a Tony che sono interessata all'Aida. Sempre che non ti dispiaccia che sabato io sia fuori». «No, fai pure». «Che ore sono?». Lui guardò l'orologio. «Le undici e un quarto». «Oh, è troppo tardi. Sveglierei suo figlio». «Potresti mandarle un messaggio con la posta elettronica». «Buona idea». Si avvicinò al computer e lo accese. Harper riprese a guardare il notiziario. Giudicò davvero triste lo spettacolo di loro due ai capi opposti della camera buia, concentrati sui rispettivi tubi catodici. Doveva fare qualcosa riguardo a Fahey, non riusciva a sopportare quel senso di impotenza. Per la centesima volta pensò di chiamare un suo conoscente della squadra antiterrorismo per riferirgli della C incisa sul frammento della bomba. Ma era pieno di dubbi, non avendo di fronte la fotografia. Probabilmente Brand aveva ragione: si trattava di un semplice graffio. Il modem cominciò a sospirare e borbottare mentre si collegava al loro
provider. «Will». «Sì?». «C'è una mail per te». Strano. Harper non ne riceveva mai. Raggiunse Laura e si chinò sopra la sua spalla. Le lettere verdi del messaggio brillavano sullo schermo nero. Harper, spero che tu ti ricordi ancora di me. Mi dispiace per il tuo amico. Ho qualche idea sul caso. Ti va di venire a trovarmi? Potremmo parlarne. Harold Addleman «Bene, bene», mormorò Harper. «Conosci questo tizio?». Lui annuì. Il suo cuore aveva accelerato i battiti, ma cercò di non attribuire un'importanza eccessiva alla faccenda. «FBI. Unità scienze comportamentali». «Comportamentali. Vuoi dire che è uno di quei tizi specializzati in profili criminali?». «Sì». «Quelli che vedi citati sui giornali, che dicono cose del tipo: "Il colpevole è un trentaduenne divorziato presbiteriano che alleva barboncini e indossa biancheria femminile"?». «Precisamente». «Quando li sento parlare alla TV non riesco mai a decidere se siano pazzi o geniali». «È esattamente così che mi sentivo quando lavoravo con Addleman», spiegò Harper. «Conclusi che probabilmente era sia pazzo sia geniale. È un tipo strano, vive in un mondo tutto suo». Raddrizzò la schiena piegata verso il monitor e si stiracchiò. Era difficile mantenere la calma. La sua mente ribolliva di congetture su quello che Addleman poteva aver scoperto. «Eravate amici?». «Difficile a dirsi. Sei o sette anni fa abbiamo lavorato insieme su un attentato. Non abbiamo mai arrestato il colpevole ma in un certo senso abbiamo legato. Lui è uno strano miscuglio di volubilità e metodicità. Io ero lo sgobbone che esplora le strade consuete, Addleman preferiva quelle la-
terali». «Sembrate la strana coppia di Neil Simon, Oscar e Felix». «Credo che lo fossimo davvero, ma i nostri metodi erano complementari, in qualche modo. Formavamo un'ottima squadra. Lo sapevo e, alla fine delle indagini, credo che lo avesse capito anche Addleman. Naturalmente non l'ha mai detto. È avaro di complimenti, persino con se stesso. Non che non si consideri intelligente...». Laura sorrise. «Oscar prepara la cena in tempo ma brucia l'arrosto. Felix usa quello che è rimasto per fare uno stufato». «Qualcosa del genere», rispose Harper. «Solo che andavamo più d'accordo di Oscar e Felix e ci rispettavamo a vicenda perché eravamo tutti e due molto metodici nel rispettivo settore di competenza». «È magnifico, Will. Addleman vuole parlarti del caso. L'FBI vuole il tuo aiuto». Lui scosse il capo. «Non saprei. Se questo fosse un approccio ufficiale, i federali non avrebbero agito così. Vorrei che Addleman mi avesse lasciato un numero di telefono». «Ovviamente si aspetta una tua risposta via e-mail». A Harper la cosa non piaceva. Era troppo impaziente. Voleva contattare subito l'uomo e costringerlo a rispondere a domande ben precise. Raggiunse il cassettone ed estrasse la sua rubrica dal primo cassetto. Sfogliandola, si sedette sul letto, accanto al telefono posato sul comodino. «Cosa vuoi fare?», chiese Laura, ancora davanti al computer. «Chiamare il Bureau». «Ma sono le undici e un quarto di sera». «Il Bureau non dorme mai». Erano svegli, ma poco propensi ad aiutarlo. Lui chiamò l'unità scienze comportamentali di Quantico, dove Addleman aveva lavorato. Gli risposero che non faceva più parte dell'FBI; attualmente non disponevano di altre informazioni. «Ha lasciato l'FBI», disse Harper alla moglie. «Ma la cosa non mi stupisce. Gli specialisti in profili criminali sono molto di moda, oggigiorno. Molti di loro vengono assunti da agenzie di sicurezza private. Qualcuno finisce addirittura a Hollywood come consulente. Addleman è un tipo davvero unico e molto intelligente. Sarà sicuramente richiestissimo». Fece il suo numero di casa. Era stato disattivato. Provò con il servizio informazioni elenco abbonati e rinunciò solo dopo aver tentato con tutti i prefissi della zona intorno a Washington.
«Niente da fare?», chiese Laura. «Perché non posso semplicemente rispondere che accetti il suo invito, chiedendogli quando e dove?». Harper annuì. Doveva solo frenare la propria impazienza per un po' e fare come voleva Addleman. «Prego». Laura sorrise e le sue dita svolazzarono sulla tastiera. Harper le osservò. Quando era giù di corda, sentiva una fitta dolorosa vedendo qualcuno che batteva a macchina senza guardare i tasti, suonava il piano o svolgeva una qualsiasi delle altre normali attività che richiedono dieci dita. Ma fissare le dita di Laura adesso non lo disturbò affatto. Gli fece semplicemente capire che stava molto meglio. Sapeva di non dover sopravvalutare l'importanza di quel messaggio, ma non riusciva a evitarlo. Aveva riacquistato qualche speranza e questo faceva una grossa differenza. Si sedette di nuovo sul letto per poter guardare più comodamente la moglie. La sedia da computer era uno di quei modelli ergonomici in cui ti inginocchi su un cuscino e posi la schiena contro un altro. Laura gli aveva confessato che le piaceva perché le ricordava la posizione rilassata che da ragazza assumeva sempre inginocchiandosi nella chiesa di St. Roch, almeno finché le suore non l'avevano colta in flagrante. La posizione poteva anche essere la stessa, ma adesso lei non sembrava affatto una scolaretta cattolica. Indossava solo slip e reggiseno. Harper si spostò leggermente per vedere meglio la fascetta candida che le solcava la schiena arcuata. Il dorso snello e muscoloso. Il sedere ben tornito e fasciato di bianco. C'è qualcosa di buffo nel matrimonio. Tu e tua moglie potete gironzolare per la camera o il bagno senza che tu faccia caso al suo corpo e un attimo dopo la tua attenzione si desta e ne sei dolorosamente consapevole. Lei spostò il mouse per selezionare qualcosa in una finestra e il messaggio scomparve dallo schermo. «Spedito. Scommetto che riceverai una risposta entro domattina». Si voltò verso di lui sorridendo. Il sorriso si fece più ampio quando notò il suo sguardo. Spegnendo il computer, si alzò e si avvicinò a lui. Le sue mani sparirono dietro la schiena per slacciare il reggiseno. Harper non si addormentò dopo aver fatto l'amore. Rimase sdraiato supino finché il respiro di Laura non divenne profondo e regolare. Poi, molto silenziosamente, scese dal letto e raggiunse il computer a piedi nudi. Girò il monitor per evitare che la luce la svegliasse, poi lo accese.
La risposta di Addleman era già lì, concisa ed esauriente. Lo aspettava nel pomeriggio, a qualsiasi ora. Il suo indirizzo era a Philadelphia. Non accennava al fatto di non lavorare più per il Bureau, sicuramente immaginando che ormai Harper lo sapesse già. E sicuramente era anche convinto che lui fosse ansioso di andarlo a trovare. Harper sorrise, pregustando il piacere dell'incontro. Addleman era sempre un passo o due avanti agli altri. Se non tre. 5 Quando, appena fuori dalla stazione di Philadelphia, lesse al tassista l'indirizzo che gli aveva dato Addleman, l'uomo lo guardò con espressione un po' allarmata. Venti minuti dopo, Harper capì come mai. L'ex funzionario dell'FBI viveva in un quartiere malfamato, la cui aria minacciosa spaventava persino un esperto poliziotto newyorkese. Alcuni dei vecchi palazzi di mattoni erano soltanto gusci vuoti e bruciati, altri avevano metà delle finestre sbarrate con assi o coperte da pezzi di lamiera. Tre ragazzi con la testa rasata e magliette nere erano in piedi all'angolo e fissarono la macchina che accostava al marciapiede. Lui rimase seduto mentre pagava l'autista. Non appena fu sceso, il taxi partì in gran fretta. Quando Harper lo aveva conosciuto, Addleman, per quanto eccentrico, faceva la classica vita da impiegato governativo di medio livello, aveva una casa stile ranch nei sobborghi di Philadelphia, una moglie e due figli adolescenti. Gemelli, se ben ricordava. Cosa diavolo gli era successo? I peli alla base della nuca gli si rizzarono mentre saliva i gradini di cemento crepato davanti al palazzo di Addleman ed entrava in un atrio rivestito di graffiti che puzzava di urina stantia. Delle fialette di crack vuote gli scricchiolarono sotto i piedi mentre si avvicinava alla fila di cassette per la posta di ottone annerito. Sì, il nome di Addleman c'era. Appartamento 3E. Prese la scala di legno stretta e scricchiolante, felice dì allontanarsi dall'atrio maleodorante. Il terzo piano era un po' meglio. Dalle finestre sudice filtrava solo un fioco chiarore. Quella in fondo al corridoio lasciava entrare più luce perché l'intelaiatura di legno era priva di vetri. Il pavimento e il muro sotto il davanzale erano chiazzati di pioggia e forse di neve spinte dentro dal vento. Trovò l'appartamento 3E e bussò. Sentì del movimento all'interno, ma nessuno gli aprì. Sotto di lui, una
donna gridò qualcosa a un tizio di nome Rico, che a sua volta urlò una incomprensibile risposta. Mentre bussava di nuovo, con forza, notò che la porta non era come le altre lungo il corridoio. Era blindata e fornita di un pesante chiavistello che sembrava nuovo. Mentre la fissava, dalla serratura venne un cigolio metallico. Una catenella tintinnò. La porta si aprì di un paio di centimetri. Un freddo occhio azzurro, segnato da occhiaie profonde, sbirciò fuori. «Ciao, Addleman», disse Harper. L'uscio si spalancò, rivelando un uomo basso e curvo che portava i pantaloni di un completo gessato e una camicia bianca con le maniche arrotolate fin sopra il gomito. Il Felix della strana coppia era scomparso. Gli abiti di Addleman erano sgualciti e lui sembrava molto più vecchio dell'ultima volta in cui Harper l'aveva visto. Sulla sua fronte spiccavano solchi profondi e il viso era scarno e triste sotto l'attaccatura a punta dei capelli neri. «È un piacere rivederti, Harper. Vieni dentro». Addleman chiuse la porta a chiave, poi si voltò a guardarlo, con le braccia abbandonate lungo il corpo. Harper gli tese la mano destra. L'altro inarcò leggermente le sopracciglia mentre la stringeva e lui si rese conto di aver appena preso parte a un piccolo esperimento: Addleman si era chiesto se gli avrebbe offerto la mano menomata oppure la sinistra e adesso stava archiviando il risultato nel suo cervello di esperto di scienze comportamentali. Harper ricordò una cosa a cui aveva dovuto abituarsi: potevi essere un suo amico e un suo collega, ma per Addleman eri anche, in un certo senso, una cavia da laboratorio. Guardandosi intorno, rimase piacevolmente sorpreso. Anche se arredato in maniera modesta, l'appartamento appariva pulito e accogliente. Le pareti erano spoglie, a parte una fotografia che mostrava due giovanotti in tocco e toga che stringevano il diploma. I figli. Nessuna foto della moglie, notò. «Vuoi una sigaretta? Qualcosa da bere?». «No, grazie». Addleman estrasse un malconcio pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni. «Ti dispiace?». Harper immaginò che l'appartamento fosse suo. «No, fuma pure». L'altro indicò il divano. «Siediti un attimo. Vorrai chiedermi qualcosa, prima che cominciamo». Fece un fioco sorriso e Harper lo ricambiò. Aveva davvero delle domande da fargli.
«Perché hai lasciato il Bureau?». «Mi hanno licenziato». «Mi dispiace», rispose Harper. «Eri uno dei migliori». Addleman si strinse nelle spalle. «Il Bureau ha giustamente capito che non gli servivo a nulla, dal momento che ero perennemente sbronzo marcio». Harper annuì. Sei anni prima, mentre lavoravano insieme ad un caso, ogni lunga giornata di lavoro terminava in un bar, dove Addleman beveva parecchio. Non lo sorprendeva poi tanto che il problema gli fosse sfuggito di mano. Chiese: «Non ti hanno proposto un programma di disintossicazione?». L'altro fece una smorfia e un gesto sprezzante. «A che pro? Perché potessi capire qualcosa sui motivi reconditi che mi spingevano a questo comportamento autodistruttivo? Al diavolo. Sono laureato in psicologia, Harper. Potevo benissimo analizzare da solo il mio caso. Il problema era che non me ne fregava un fico secco». Harper rimase in attesa mentre lui fumava. Alla fine, Addleman riprese a parlare. «La gente con cui lavori, gli agenti e i supervisori... la maggior parte di loro non crede che la ricostruzione di profili criminali abbia basi scientifiche. Quindi, se non ottieni dei risultati concreti, ti trattano come una specie di ciarlatano. Ho lavorato su un paio di casi che non sono riuscito a risolvere. Ho cominciato a tenere una bottiglia di vodka nella scrivania. E c'erano problemi anche a casa. Se non ti dispiace, salterei volentieri questa parte». «Certo. Mi dispiace costringerti a parlarne». Si strinse nelle spalle arrotondate. «Non mi dà fastidio. È interessante ripensarci, dopo essere sopravvissuto». «Sei sopravvissuto», dichiarò Harper. «E sei tornato a galla. Non dev'essere stato facile». «Niente di originale», rispose lui. «Alcolisti anonimi. Il percorso a dodici tappe. Ancora oggi mi capita spesso di aver voglia di un drink, solo che non lo bevo». «Non stai lavorando per nessuno?». «Credo di non essere ancora abbastanza... forte per avventurarmi nel mondo esterno. Ho una discreta pensione e una piccola eredità che mi consentono di tirare avanti». Sorrise. «L'affitto non è poi così alto». «Ma ti deve mancare un lavoro in cui sei così bravo», ribatté Harper. Sentiva di poter parlare dell'argomento con cognizione di causa.
«Il lavoro in cui sono così bravo continuo a farlo ». Harper lo guardò con aria interrogativa. «Leggo le notizie sui casi e faccio congetture. Non posso evitarlo». Addleman si piegò in avanti e spense la sigaretta nel portacenere. «Mi sono appena imbattuto in qualcosa che penso di dover approfondire. Ecco perché ti ho chiesto di venire qui. Ho bisogno del tuo aiuto per farmi prendere sul serio». «Sai qualcosa sull'attentatore che ha ucciso Buckner. E Fahey». «Ha fatto fuori altre persone, prima di far saltare in aria la portineria di Buckner. E potrebbe ucciderne molte altre ancora». La spossata certezza nel suo tono innervosì Harper, che non ribatté. «Sembri a disagio», continuò Addleman. «Forse ti stai chiedendo se non ti converrebbe alzarti e andartene subito da qui». «No, io...». Addleman alzò una mano per interromperlo. «Se vuoi andartene, fai pure. Non devi darmi nessuna spiegazione. Quando lavoravamo insieme avevo un ufficio, un titolo e uno stipendio governativo. Adesso è tutto cambiato. Se stai pensando che sono una specie di ubriacone squilibrato... be', quello che devo dirti non ti farà certo cambiare idea. È una faccenda davvero strana, Harper. Molto tetra». Lui scosse il capo. «Non credo che quello che hai passato sia colpa tua. Neanch'io ho più un ufficio o un titolo, ma...». Si interruppe, esitando. «Continua. Mettiamo tutte le carte in tavola». Addleman stava cercando di restare perfettamente immobile e impassibile, ma era pallido e gli tremavano le labbra. L'altro capì quanto fosse vulnerabile e che aveva dovuto appellarsi a tutto il suo coraggio per guardarlo in faccia e descrivere il proprio crollo. E adesso gliene serviva parecchio anche per aspettare il suo giudizio. Harper scelse le parole con cura. «Quello che mi mette a disagio... non ha niente a che fare con il tuo crollo». Addleman parve sconcertato. «Di cosa si tratta, allora?». «Sei anni fa, quando davamo la caccia a quel dinamitardo, quello che non abbiamo catturato...». «Si è suicidato», rispose Addleman. «Ne sono sicuro. Non è più in circolazione». «Era così perverso, freddo e crudele che io... non lo consideravo neanche un essere umano. Ma tu sei riuscito a ragionare come lui. Sei quasi riuscito
a immedesimarti con lui». Addleman era chino in avanti, curvo e palesemente teso, ma adesso si appoggiò allo schienale posandosi le mani sulle ginocchia, con un fioco sorriso. «Capisco. Quindi non ti preoccupa che io possa sbagliarmi, ma che possa aver ragione». «Sì. Credo che si tratti di questo». Addleman si alzò. Il suo sorriso adesso era più ampio. Era il vecchio sorriso sardonico che Harper ricordava fin troppo bene. «Bene», disse. «Sei nello stato d'animo più adatto. Andiamo». Harper si alzò e lo seguì lungo un breve corridoio e poi oltre una porta. Ogni centimetro quadrato della camera da letto era stato occupato da schedari, scaffali pieni di libri e di programmi per computer e tavolini ingombri di documenti, floppy disk, CD e manuali di software. Un porta probabilmente quella originale dell'appartamento - era posata su un paio di schedari metallici a due cassetti e trasformata così in un ampio tavolo, su cui spiccava un computer. Era un apparecchio davvero notevole, fornito di lettore per CD, tre diversi tipi di disk drive e il monitor a colori più grande che Harper avesse mai visto. Era collegato ad amplificatori alti novanta centimetri, modem, stampante e scanner. «Bell'impianto», disse. Addleman si sedette alla scrivania. Sembrava soddisfatto, quasi compiaciuto. «Ormai ho perso il gusto di andare in giro e incontrare gente», spiegò. «Così ho smesso di farlo. Adesso ogni cosa viene da me. Tutto, intendo dire. Il Louvre adesso è su Internet, lo sapevi? Anche la Filarmonica di New York. E tutte le grandi biblioteche del paese, ovviamente». Indicò un obiettivo inserito nell'intelaiatura dello schermo. «È una videocamera. Ce n'è una anche nel computer del mio tutore dell'alcolisti anonimi, così possiamo vederci mentre parliamo». Si voltò per guardare Harper. «E, cosa più importante, posso accedere a tutte le informazioni di cui ho bisogno per il mio lavoro». «Puoi collegarti al centro nazionale informazioni sul crimine? Leggere i rapporti della polizia?». «Non l'hai notato, Harper? Metà delle autopattuglie in circolazione sono dotate di computer. Oggigiorno inserire i rapporti dei vari casi nelle banche dati on line è semplice routine. E se quello che cerco è su un database, di solito trovo il modo di farlo apparire qui». Picchiettò con un dito sullo schermo.
Harper si fece strada tra le pile di libri e documenti posate per terra e raggiunse una sedia di legno. Tolse dei volumi dal sedile e la girò per poter guardare Addleman. «Oh, scusa», disse l'altro. «Le mie buone maniere sono un po' arrugginite». Harper si sedette. Era impaziente di sapere. Chiese: «Hai scoperto una precedente esplosione provocata dal tizio che ha ucciso Fahey?». Addleman annuì. «Due». «Allora sai qualcosa che la polizia della Rorida ignora». Addleman sorrise ed estrasse un pacchetto di caramelle alla menta piperita. Se ne mise una in bocca. Probabilmente in questa stanza non fumava per non danneggiare il computer. «Come mai non se ne sono accorti?», continuò Harper. «Vuoi dire che di recente ci sono state altre esplosioni nella stessa zona?». «Non nella stessa zona. E non di recente. Risalgono a qualche anno fa». «Quindi si tratta dello stesso tipo di bomba?». «Sono tutte bombe-tubo». «Non significa nulla. È un tipo di ordigno piuttosto diffuso. Cos'altro hanno in comune?». «Niente, per quanto posso vedere». Harper si accigliò, sconcertato. «Allora non capisco. Qual è il tuo filo rosso? Il denominatore comune?». «Le vittime», rispose Addleman. «In che senso?». «Erano tutte delle celebrità. Il nostro amico uccide le persone ricche e famose». Harper si appoggiò allo schienale così bruscamente da far scricchiolare la sedia. Stava pensando che forse avrebbe dovuto lasciare l'appartamento quando Addleman gliene aveva offerta la possibilità. «Stai dicendo che c'è un serial killer che prende di mira le celebrità e che nessuno se n'è accorto a parte te? Avanti! L'omicidio di un personaggio famoso viene considerato un caso prioritario. La polizia e i media ci si buttano a pesce...». Addleman stava annuendo. «Già. Proprio come sta succedendo adesso con il caso Buckner. E tutta questa attenzione generale non mi pare lo stia risolvendo, vero?». Stavolta Harper non aveva una risposta pronta. Disse: «D'accordo, ti ascolto. Parlami dei tuoi casi». «Il primo che ho collegato con sicurezza a questo dinamitardo risale a
cinque anni fa. La vittima si chiamava Tim Sothern». Osservò Harper, che lo fissò con sguardo vacuo. «Non te lo ricordi? Era un tennista, il numero dieci nella classifica mondiale. Ma la sua fama andava molto al di là dell'ambito sportivo». «Credo di ricordarmelo, ora. Biondo, con un gran sorriso. Pubblicizzava una bevanda energetica in TV». «Esatto. Faceva da testimonial per qualsiasi cosa. Ed essendo prestante e di bell'aspetto era molto richiesto. Era impossibile accendere la TV senza vederlo». Una confusa immagine televisiva di un giovanotto biondo e sorridente stava affiorando nella memoria di Harper. Sothern e un altro tennista palleggiavano seduti sul sedile posteriore di due auto sportive che sfrecciavano rombando su un'autostrada deserta. «È saltato in aria in un centro commerciale, vero?». «Non un centro commerciale qualsiasi ma il Mall of America, su nel Minnesota. Stava facendo una visita promozionale in un negozio di articoli sportivi. Ha aperto una scatola pensando che contenesse un paio di scarpe da tennis, ma dentro c'era una bomba che gli ha staccato il braccio destro dalla spalla. È morto per lo shock e l'emorragia». Harper annuì con aria tetra. «Altre vittime?». «No, quelli intorno a lui se la sono cavata con qualche ferita e un po' di lividi». «Una vera fortuna. Scommetto che il negozio era gremito». «Sì. Il dinamitardo ha fatto uno sbaglio, così l'esplosione è stata meno potente del previsto. Lo vedrai leggendo il rapporto. La volta dopo non ha commesso lo stesso errore». «Quando è stato?». «Poco più di un anno fa. Susan Burton Wylie». «Sì, ho presente. Il membro del Congresso che è stata uccisa in Messico. Si è pensato a qualche banda di narcotrafficanti». «Invece no. Ti ricordi qualcosa di lei?». Harper rifletté e poi scosse il capo. «Era stata eletta da poco», disse Addleman. «La sua campagna aveva fatto sensazione. Era scesa in lizza come la tipica madre lavoratrice che non voleva diventare soltanto l'ennesimo personaggio politico. Un'accesa populista e un'agguerrita femminista». «Ma quando è morta si stava godendo una vacanza completamente spesata, vero?».
«Be', sì, lo fanno tutti. Dei lobbisti si riuniscono e sborsano soldi per offrire ad alcuni membri del congresso un weekend invernale in un luogo di villeggiatura. Il trucco è che così riescono ad accodarsi e a parlare con loro. Di solito lo definiscono seminario o simposio, ma in linea di massima è una vacanza gratuita. Così si ritrovano a Cozumel, nella suite della Wylie, ed esplode una bomba. Oltre a lei muoiono due lobbisti e un membro dello staff, altre otto persone restano gravemente ferite». «Avevo letto un articolo sulle indagini», dichiarò Harper. «Roba grossa. L'FBI e la polizia nazionale messicana si accusavano a vicenda per l'assoluta mancanza di progressi». «Finora non sono approdati a niente». «Non hanno scoperto il collegamento con il caso Sothern, vuoi dire». Addleman annuì. Dopo un attimo di esitazione, Harper continuò: «Agire in un paese straniero e braccare un membro del Congresso sicuramente ben protetto è dannatamente più difficile che far saltare in aria un tennista in un centro commerciale». «Sì», rispose Addleman. «E prendere di mira Rod Buckner nella sua sorvegliatissima tenuta è stato ancora più difficile. Al nostro amico piacciono le sfide, le cerca di proposito. Si sforza costantemente di migliorare». Il suo tono era mite e pacato. Nei suoi occhi c'era lo sguardo distante che Harper ricordava dall'epoca in cui avevano lavorato insieme. Una goccia di sudore gli stava scendendo lungo la spina dorsale; sembrava fredda e pesante come una palla da bowling che rotoli nel canaletto laterale. Si raddrizzò sulla sedia scomoda. «Ma non esiste nessun collegamento, Addleman. Una star del tennis, un membro del Congresso di sinistra, un romanziere di destra. Erano famosi, certo, ma perché mai il nostro amico avrebbe dovuto scegliere di eliminare proprio loro?». «Cosa ti fa pensare che debba esserci un collegamento?». «Non ti seguo». «Vedi, Harper, ecco perché nessun altro capisce che queste tre esplosioni sono opera dello stesso uomo. Siamo tutti abbagliati dalle celebrità. Fanno cose così importanti, eccitanti. I loro difetti e le loro virtù vengono ingigantiti. Quando una persona famosa viene uccisa, pensiamo che sia colpa di qualcosa che ha fatto, o che si tratti di una vendetta personale. Ma supponiamo che chi li ha ammazzati non abbia niente di personale contro di loro».
«Continuo a non capire». Il labbro superiore di Addleman si irrigidì per l'impazienza. Harper si stava dimostrando uno studente ottuso. «Diciamo che hai un serial killer che prende di mira le prostitute. Penseresti che le uccide perché nutre del rancore contro ognuna di loro?». «No, perché ha dei problemi con il sesso». «Esatto. Il nostro uomo ha dei problemi con la fama». «Secondo te è uno psicopatico». Addleman annuì. «Intelligente, paziente, metodico, completamente pazzo». «Che cos'ha contro la fama?». «Ancora non lo so. Non dispongo di dati sufficienti». «Senti, Addleman... Harold, scusa ma mi pare che tu non abbia in mano niente di concreto». «Non ho prove, lo ammetto. Ecco perché ho bisogno di te». «Mi sembra che tu non abbia neanche una teoria plausibile». Addleman si alzò di scatto dalla sedia, stringendo i pugni. I suoi occhi azzurri apparivano duri come vetro. «Dannazione, Harper! Non riesci a vedere che c'è uno schema ben preciso? Ha fatto la stessa identica cosa per tre volte e tu non riesci a vederlo?». Harper non poté fare altro che stringersi nelle spalle. Addleman era molto agitato. Se avesse potuto, si sarebbe messo a passeggiare avanti e indietro tuttavia mancava lo spazio, dunque tornò a sedersi. Guardando Harper con rabbia mentre parlava, alzò l'indice per sottolineare quanto stava dicendo. «Uno: Sothern. Atleta e testimonial. Il dinamitardo lo uccide in un negozio di articoli sportivi, circondato dai fan. Ha cercato di eliminare anche loro». Alzò un secondo dito. «Due: Wylie. Outsider di Washington e famosa donna del popolo. La fa saltare in aria in un albergo, circondata da lobbisti». Alzò il terzo dito. «Tre: Buckner. Uno scrittore che sostiene di sapere tutto sulle armi high-tech e sulla sicurezza. Lo uccide nella sua sorvegliatissima tenuta, circondato dalle sue guardie». «Intendi dire che voleva umiliare le celebrità, oltre a ucciderle». «No, è ben più di questo». Addleman stava scuotendo vigorosamente la testa. «Non odia solo le celebrità ma anche la gente che le asseconda, le corteggia, cerca di farsi vedere insieme a loro. Non vuole semplicemente uccidere i personaggi famosi. Vuole che insieme a loro muoia anche chi
gli lecca il culo». Harper stava annuendo lentamente, senza parlare. Dopo un lungo istante, l'altro continuò: «Non intendevo mancare di rispetto al tuo amico. Scusa se mi sono lasciato trascinare dalla foga». Harper lo sentì a malapena. Stava ripensando a tutto quello che aveva appena sentito. «Se tu hai ragione», dichiarò, «questo tizio diventerà sempre più pericoloso». «Sì», rispose Addleman. «La sua idea di leccaculo delle celebrità è piuttosto elastica. Insomma, la gente nel centro commerciale stava comprando le magliette di Tim Sothern nella speranza di potersi avvicinare in qualche modo al suo idolo. Secondo lui, questo è sufficiente per firmare una condanna a morte. Forse pensa che basti anche acquistare un biglietto. Forse prenderà di mira un concerto di un gruppo rock, di un cantante rap o dei Tre Tenori». «Potrebbe uccidere centinaia di persone», mormorò Harper. «Forse migliaia». «Naturalmente non possiamo sapere dove ha intenzione di andare né da dove è venuto. Ma sembra che le sue imprese vadano decisamente in crescendo. Ogni persona che uccide è più famosa della precedente. La bomba più sofisticata e potente. Restano uccise o ferite un maggior numero di persone. E ogni volta sceglie di sfidare misure di sicurezza più severe. È come se si stesse allenando, preparandosi per il Big One. Qualunque cosa esso sia». Un'altra goccia di sudore scivolò lungo la schiena di Harper. Fuori, una macchina passò lentamente; il volume della musica rap che usciva dalla radio era talmente alto da far vibrare i vetri delle finestre dell'appartamento a tempo con il rimbombo dei bassi. Lui pensò ad Addleman, un uomo malmesso e solitario, che scrutava lo schermo del computer nella sua casa popolare. Possibile che avesse individuato un serial killer sfuggito a tutta la vasta ragnatela di forze dell'ordine? Addleman incrociò il suo sguardo e indovinò cosa stava pensando. «Be', Harper? Ho ragione? Oppure mi sono sognato tutto per non pensare a quanto vorrei un drink?». Harper gli diede l'unica risposta possibile. «Non lo so. Mi hai spaventato, questo è sicuro. Ma non amo molto le teorie. Mi piacerebbe esaminare i fascicoli, i referti di laboratorio...». L'altro indicò una pila di fogli stampati posata sul pavimento. «Eccoli lì. Puoi portarteli via».
«Cosa vuoi che faccia, esattamente?». «Be', come ho già detto, non ho prove. O almeno niente che l'FBI considererebbe tale. Studiare i frammenti della bomba e la scena del crimine per scoprire qualcosa sull'autore - ecco in cosa eri bravo. Se qualcuno può scoprire prove concrete che colleghino questi crimini, quello sei tu. Poi andremo a parlare con i miei ex datori di lavoro per cercare di convincerli». Harper inspirò a fondo e poi buttò fuori l'aria. «Okay. Prendo i fascicoli». «Non chiedo altro». Addleman gli rivolse il suo rapido sorriso sardonico. «Be', no, non è tutto qui. Ti chiedo anche di non aspettare troppo tempo prima di contattarmi di nuovo». «Mi metto subito al lavoro. Se questo pazzo esiste davvero e se ha ucciso lui Jimmy Fahey, voglio prenderlo a tutti i costi». «Non solo». Addleman raddrizzò la schiena e si guardò le mani posate in grembo. «Ricorda che mentre lavori lo sta facendo anche lui». Harper sentì la vecchia tensione cominciare a rodergli il fegato. «Mi sembra che il tuo amico lasci passare parecchio tempo tra un attacco e l'altro». «Finora sì, ma non possiamo darlo per scontato. Quello che sappiamo è che è molto meticoloso in fatto di piani e preparativi. In questo preciso istante sta organizzando il suo prossimo attaccò». Lui annuì e raggiunse la pila di documenti. Quando si alzò, infilandoseli sotto il braccio, Addleman era in piedi in corridoio e, a distanza di sicurezza dall'amato computer, si stava accendendo una sigaretta. Harper osservò l'espressione di sollievo con cui aspirava la prima boccata di fumo. Quasi tutti hanno almeno un vizio che può diventare un impulso irresistibile e distruttivo: tabacco, alcool, cibo, sesso. Bombe. 6 Sul ciglio di una strada tranquilla, nel Missouri occidentale, non lontano dall'interstatale 44, un uomo stava passeggiando accanto alla sua auto. Aspettava qualcuno. Camminava metodicamente: sei passi avanti e sei indietro. Sul breve tragitto c'era una pozzanghera che evitava ogni volta con lo stesso saltino laterale. Alla fine di ogni giro guardava l'orologio. Evidentemente era il tipo di persona a cui piace tener conto del tempo d'attesa.
Era alto, sulla quarantina. Il pomeriggio era buio e umido e lui indossava un trench lungo fino al ginocchio, beige, con i bottoni coperti da un risvolto, chiuso sino al collo. Non portava il cappello. I capelli, lisci e castani, avevano l'attaccatura alta e lasciavano scoperta un'ampia fronte pallida e piena di rughe. Le sopracciglia, folte e scure, unite sopra il naso, sembravano dividere in due un viso dai lineamenti molto vicini nella metà inferiore. Gli occhi erano infossati e, nella luce fioca, apparentemente incolori: avrebbero potuto essere azzurri, nocciola oppure grigi. Il naso era corto e diritto, la bocca ampia e dalle labbra sottili. Il mento cominciava a ritrarsi verso il collo, una cosa tipica degli uomini di mezza età. Aveva scelto con cura il posto dove aspettare: un rettangolo di cemento pieno di buche e di solchi che un tempo doveva aver ospitato una stazione di servizio o un minimarket di cui, ormai, non restava traccia. La piazzola, nono-stante distasse solo pochi metri dalla strada, era nascosta da un folto filare d'alberi. Non che questo avesse molta importanza, visto che passavano pochissime auto e il crepuscolo si stava avvicinando rapidamente. Nella direzione opposta, in lontananza, si scorgeva l'interstatale 44, una striscia di luci bianche e una di rosse, che si arrampicava su per una collina. Nonostante il rumore dell'acqua che sgocciolava dai rami degli alberi, si poteva chiaramente sentire il passaggio delle auto. Il silenzio venne rotto dal rombo di una macchina che si avvicinava. L'uomo guardò l'orologio per l'ultima volta e poi abbassò il braccio con un'aria di gelida soddisfazione. Infilò le mani nelle tasche dell'impermeabile e si girò verso la strada. Una vecchia Camaro bucherellata dalla ruggine arrivò sobbalzando e sbandando sul cemento crepato, fermandosi accanto all'anonima berlina dell'uomo. Doveva avere la portiera bloccata perché il guidatore uscì dal finestrino. Doveva essere un tipo pericoloso e non faceva niente per nascondere. Indossava una maglietta senza maniche, jeans sudici e appuntiti stivali da cowboy. Era corpulento: una pancia prominente e spalle e braccia erano molto muscolose e piene di tatuaggi. Su quattro dita della mano sinistra spiccavano pesanti anelli dai contorni irregolari. I lunghi capelli neri non venivano lavati da tempo; pettinati con la riga in mezzo, lasciavano in bella mostra una cicatrice pallida che andava dalla fronte alla guancia destra. L'uomo aveva l'abitudine di sbattere frequentemente le palpebre; quella di destra, lungo la ferita, non era mai guarita del tutto e l'occhio era iniettato di sangue.
«Ehi, come andiamo?», chiese raggiungendo il tizio più vecchio. «Sono Steve. E tu chi sei?». «Sono... l'amico di Leonard». «Questo lo sapevo già. Se non ti avesse mandato lui non saresti qui. Come ti chiami?». L'altro esitò. «Leonard non ha parlato di...». «Senti, devo pur chiamarti in qualche modo. Inventati qualcosa, altrimenti lo farò io». Steve gli si avvicinò, studiandolo. Quello che vide lo fece sorridere, mettendo in mostra dei denti marci. «Cosa ne dici se ti chiamo Klingon? Come quei degenerati di Star Trek. Hai la fronte adatta. In più hai un'aria da duro». L'uomo si accigliò e rispose in fretta: «Chiamami Anthony». «Sul serio? Scommetto che è il tuo vero nome. Giusto?». Aveva un sorriso ampio e malvagio sul volto. La sua capacità di spingere la gente a commettere errori lo riempiva di orgoglio. Anthony disse: «Sei in ritardo di diciassette minuti». Il sorriso scomparve dal volto di Steve, sostituito da un'espressione sbalordita. Un cittadino modello gracile e di mezza età come Anthony avrebbe dovuto farsi in quattro per non irritarlo. Ma l'altro continuò: «Ho detto a Leonard che se uno dei due fosse stato in anticipo o in ritardo anche di un solo minuto tutto l'affare sarebbe andato a monte». Steve lo fissò, sbattendo le palpebre. «Ehi, amico, non complicarmi la vita. Adesso sono qui e ho la tua roba. È successo che mi hanno fermato...». «Fermato? Ti ha fermato un poliziotto?». «Era solo una multa per eccesso di velocità e l'ho convinto a non darmela». «Correvi troppo?», chiese Anthony. «Con quello che hai in macchina?». «Cercavo di arrivare qui in tempo. Cristo santo! Che cos'hai, amico? Credi di essere il mio paparino o cosa?». Steve si asciugò il naso con un avambraccio carnoso. Mentre lo abbassava, fletté le dita e la fila di anelli scintillò. Anthony lo fissò con un palese disprezzo, poi rispose: «D'accordo. Andiamo avanti con l'affare». «Ah davvero? E stavolta sono io che non voglio». Le gambe di Steve erano rigide e le mani strette a pugno. Tutto il suo corpo muscoloso stava vibrando. Rimase in silenzio per un lungo istante, mentre il suo viso conti-
nuava a contrarsi. Mentalmente si ripeteva le affermazioni di Anthony, trovandovi ogni volta meno interesse. Alla fine chiese: «Come faccio a sapere che non sei un agente federale?». «Leonard ha garantito per me. Senti, se questo affare non va in porto lui non tratterà più con te». «Devo essere cauto», rispose Steve. «Il macinino che guidi sembra appena uscito da un garage dei federali. Sei vestito come un agente. E sei un bastardo inflessibile proprio come un agente». «Non sono dell'FBI e tu lo sai», dichiarò Anthony in tono stanco. «Finiamola con questa commedia. Mostrami la merce e ti darò i tuoi soldi». Steve gli si avvicinò; lui rimase dov'era, le braccia penzoloni e il viso inespressivo. Steve sogghignò e si chinò in avanti, come se stesse parlando in un microfono nascosto sotto l'impermeabile dell'uomo. «Quale merce? Quali soldi? Non so di cosa stai parlando». «Stai sprecando...». «Prima ti voglio perquisire, Anthony». L'alta fronte dell'uomo si raggrinzì per il disgusto. «È inutile. Non ho addosso il denaro». «Non sto cercando soldi ma un filo elettrico». «È ridicolo. Ti dispiace...». Steve lo prese per le spalle, lo fece ruotare su se stesso e gli diede un violento colpo in avanti. La spinta obbligò Anthony ad allargare le braccia e appoggiarsi al tettuccio della sua auto. L'altro lo perquisì in modo tanto rude quanto superficiale e approssimativo. Era evidente che non credeva che fosse un agente federale. Voleva solo mettergli le mani addosso, fargli sentire la sua forza. Mostrargli chi era il capo. «Niente», disse, fingendosi deluso. Indietreggiando disse: «Vediamo un po' dove tieni il portafoglio». Anthony si voltò, abbassando le braccia. Non si era opposto alla perquisizione che, del resto, non l'aveva affatto intimidito. «I soldi per te non sono nel mio portafoglio. Li tengo ben nascosti. Se li vuoi, prima devi mostrarmi la merce». «Non sto cercando di derubarti. Voglio solo sapere chi cazzo sei. Perché in te non c'è niente che mi vada a genio, amico». «Leonard...». «Chiudi il becco!». Steve si voltò a guardare la macchina. «Scommetto che il tuo portafoglio è nel cassettino portaoggetti». «No».
Per la prima volta c'era una punta di apprensione nella voce. Steve se ne accorse e sorrise. «Certo che è lì. Un cittadino modello come te non se ne va in giro senza patente. Hai paura di finire in galera. E tu non sei mai stato in galera, vero, Anthony?». «Per favore, non frugare nella macchina», rispose Anthony con un tono che sembrava un avvertimento più che una supplica. Steve ritrasse la testa e fissò il suo interlocutore, sbattendo rapidamente le palpebre. Poi indietreggiò fino alla portiera della sua Camaro. Senza mai perdere di vista Anthony, infilò una mano nel finestrino del guidatore e ne estrasse un pesante revolver a canna lunga. «E adesso vedremo cosa c'è nella tua macchina». Disse minaccioso. «Te l'ho detto, non c'è niente». Steve raggiunse la berlina e tese una mano verso la maniglia della portiera. Poi esitò. «Vieni un po' qui», disse. Anthony si avvicinò. Teneva ancora le braccia penzoloni, le mani rilassate. Steve continuò: «Sali in macchina, apri il vano portaoggetti e tira fuori il contenuto». Anthony ubbidì ed entrò mentre Steve continuava a tenerlo sotto tiro. La sua mano emerse dallo scomparto stringendo un paio di fogli ripiegati. «Questo è tutto», dichiarò. «Puoi venire a controllare tu stesso, il cassettino portaoggetti è vuoto. Ho lasciato a casa il portafoglio e la patente». Si stringeva al petto i fogli con aria protettiva. Steve se ne accorse. «Cos'è?». «Niente. Solo un calendario». «Vediamolo». Anthony esitò. «Ascolta, ne ho abbastanza di te, signor Inflessibilità. Voglio vedere quelle carte e ho una pistola, quindi non cercare di fare il furbo con me». Anthony sporse una mano dalla portiera aperta e Steve gli strappò i fogli. «Adesso appoggia le mani sul cruscotto, lì, dove possa vederle. E non muoverti». Anthony ubbidì, respirando profondamente. Steve si mise ad aprire il calendario sul cofano dell'auto. «Vedi?», disse Anthony. «È solo un calendario». «No, non è solo un calendario». Esclamò Steve con fare divertito, pronto
a prenderlo in giro. «Ci hai messo parecchio impegno, vero? Fai una crocetta sui giorni. È per questo che te lo sei portato dietro, per poter cancellare anche la casella di oggi? Scommetto che devi aspettare la mezzanotte esatta per poter fare la tua X. Un tempo conoscevo un tizio uguale a te. Naturalmente lui aveva una scusa, era in prigione. Tu invece sei soltanto inflessibile». Anthony non rispose. «È già il sei aprile? Sul serio?», chiese Steve. «Pensavo fosse il quattro, ma no, è martedì, quindi probabilmente hai ragione tu». Fece correre un dito lungo la pagina. L'altro lo osservò, impassibile. «Ehi, hai scritto dei numerini in ogni casella. Stai facendo il conto alla rovescia, vero? Sedici... quindici... quattordici...». Il suo dito arrivò in fondo alla pagina. «Tre, due, uno ed ecco il grande giorno, il ventidue aprile. Tutto colorato di rosso. Allora, signor Inflessibile, cosa succede il ventidue?». «Qualcosa di importante», rispose Anthony. «Oh, davvero? È forse il giorno in cui userai la roba che voglio venderti?». Anthony non rispose, ma sembrava che a Steve non importasse. Gli stava sorridendo dietro il parabrezza, godendosi la sua umiliazione. Anthony continuò a fissare il calendario. Le gocce di pioggia sul cofano stavano impregnando la carta e l'inchiostro cominciava a sbavare e colare. «Ehi, ehi, ehi. Ma qui vedo che non abbiamo ancora finito, vero? Il conto alla rovescia ricomincia». Steve voltò pagina. «Questo cos'è? Hai tagliato via il resto del foglio in corrispondenza del quindici maggio». Anthony disse: «Non mi interessa cosa succede dopo quel giorno». Steve stava sorridendo e scuotendo il capo. Senza accorgersene, aveva abbassato la pistola e non la puntava più verso di lui. Disse: «Quindi pensi che il quindici maggio sia il Grande Calypso, vero?». «Il cosa?». «Il Grande Calypso. La fine del mondo. Vedrai i mari riempirsi di fumo e la Bestia con i quattro occhi e i sette membri avanzerà, guidando le armate di Satana o delle Nazioni Unite o di qualcos'altro ancora. E tu sarai lì ad affrontarle nella battaglia finale». Anthony rimase pazientemente seduto, gli occhi bassi e le mani posate sul cruscotto. «Potremmo procedere?», disse gelido. «Certo, certo. Volevo solo scoprire con chi avevo a che fare e adesso lo so. Cittadino modello fuori, pazzo furioso dentro».
Gli tese il calendario ormai umido e macchiato d'inchiostro. Anthony staccò lentamente una mano dal cruscotto, lo prese e lo rimise via. «Smonta», gli ordinò Steve. Lui ubbidì. Rimase fermo mentre l'altro indietreggiava fino alla propria auto e infilava un braccio all'interno. Estrasse una scatola di cartone grande come una scatola da scarpe. Sui lati si vedevano macchie d'unto, come se contenesse cibo da fast food. La posò con forza sul bagagliaio della macchina di Anthony, guardandolo con un sogghigno come se si aspettasse di vederlo sobbalzare. Ma non accadde niente del genere. Anthony guardò verso la strada. Non c'erano auto in arrivo. Aprì la scatola. Conteneva quello che sembrava un grosso pezzo di argilla bagnata. «Ecco qua», disse Steve. «C-4, il plastico preferito delle forze speciali dell'esercito degli Stati Uniti». «Credevo ce ne fosse di più», rispose l'altro con lo stesso tono secco ed esigente con cui si era lamentato del suo ritardo. Era come se la perquisizione e il braccio di ferro a proposito del calendario non fossero mai avvenuti. «Ne hai mezzo chilo, Cristo Santo. Hai idea di come sia potente questa roba? Questo pezzo basta per radere al suolo un paio di edifici belli grandi. Ricordi il volo Pan Am 103? L'aereo di linea che gli arabi hanno fatto cadere sopra la Scozia? Hanno usato una bomba infilata in un minuscolo mangiacassette, venticinque centimetri per diciotto. Qui ce n'è quattro volte tanto». «Quello era Semtex, non C-4», ribatté Anthony. «In linea di massima è la stessa cosa», rispose Steve. La precisazione dell'uomo lo aveva sorpreso. Lo guardò di traverso. «Te ne intendi di esplosivi?». Anthony stava ancora fissando la sostanza grigiastra. Rispose: «Sì, ma non ho mai lavorato con il plastico, finora». «È una merda fantastica, amico. Puoi spianarlo come pasta, modellarlo come creta o piegarlo come carta. E i dispositivi di sicurezza non riescono a individuarlo». Adesso che la sua mercanzia era in mostra, aveva assunto il tono e l'atteggiamento di un venditore. Trascinato dall'entusiasmo, sembrava aver dimenticato la discussione di poco prima. «Taggants'?», chiese Anthony. Steve gli lanciò un'altra occhiata. I taggants sono marchi chimici che permettono agli investigatori di risalire fino al produttore dell'esplosivo
usato in un attentato. Rispose: «Ehi, Anthony, sei proprio un esperto, vero? E io che pensavo di aver capito che tipo eri. Uno di quei pazzi con un AK47 sotto il letto e, in cantina, una scorta di scatolette sufficiente per sei mesi. Pensavo che volessi il C-4 solo per poterti sentire come i cattivi. Ma tu non sei così, vero?». «Taggants?», chiese di nuovo l'altro. Steve alzò gli occhi al cielo e sospirò. «Viene prodotto esclusivamente per le forze armate. Niente taggants. È uno dei motivi per cui è meglio del Semtex, che viene prodotto in Europa dove le leggi sono diverse». «Dove l'hai trovato?», chiese Anthony. «È stato rubato in una base dell'esercito. Non ti dirò quale». «Quando?». Steve ricominciò a spazientirsi. La sua espressione era molto eloquente, ma Anthony non lo stava guardando. «Non preoccuparti. Non si accorgeranno che è sparito finché non scoppia la prossima guerra e non lo vanno a cercare». «Devo essere sicuro che sia stabile», spiegò stizzosamente Anthony. «Come puoi vedere, sta trasudando». Indicò le macchie oleose sulla scatola. «Il C-4 lo fa sempre. Non è instabile. È destinato all'esercito americano. È con questo che si addestrano le forze speciali. Allora, lo vuoi o no?». Anthony rifletté, poi si strinse nelle spalle. «Comunque non puoi mai saperlo con sicurezza se non fai qualche test», mormorò, rivolgendosi più a se stesso che non all'uomo. Richiuse la scatola. «Vado a prendere i tuoi soldi», disse. Afferrò il contenitore e fece per voltarsi. «Rimettila giù», esclamò Steve. Indietreggiò di pochi passi, alzando la pistola. Sbatteva le palpebre rapidamente, nervosamente. Anthony riappoggiò il C-4 sul bagagliaio della sua auto. «Non hai motivo di minacciarmi», disse. «Senti, non so chi sei o cosa cazzo intendi fare. Non voglio saperlo. Voglio solo i miei soldi». «Allora lasciameli prendere». Steve assunse un'espressione di totale incredulità. Assunse la posizione tipica di chi sta per sparare: gambe piegate, braccia tese, mano sinistra stretta intorno alla destra. Poi disse: «Mi dai proprio una brutta sensazione, amico, lo sai? Non fare niente finché non te lo dico e poi muoviti lentamente. Dico sul serio. Stai molto attento o finirai per restarci secco».
«Mi hai già perquisito. Sai che sono disarmato», rispose Anthony. Nella sua voce non c'era traccia di paura né di qualsiasi altra emozione. «Dove sono i soldi?». Anthony fece un lieve gesto con la mano. «Lì, dietro la ruota». «Oh, questo sì che è un nascondiglio geniale. Cristo, probabilmente sono già caduti giù oppure sono fradici». «No. Li ho messi in uno speciale contenitore che ho costruito apposta. Il denaro è a posto. Ti spiego dov'è, se vuoi prenderlo da solo». «Non ci penso neanche. Voglio che sia tu a prenderlo». Anthony si inginocchiò accanto all'auto, muovendosi lentamente e con estrema cautela. Steve continuò a tenerlo sotto tiro mentre lui infilava le mani dietro la ruota. Si sentì uno stridore metallico, come se qualcosa si stesse staccando da una staffa. «Fermo lì!», gridò Steve, e Anthony si immobilizzò. «Adesso tira fuori le mani molto lentamente», gli ordinò Steve. «Molto lentamente». Quando smise di parlare fece un passo a sinistra per non ritrovarsi nello stesso posto in cui Anthony lo aveva visto l'ultima volta. Stava sbattendo le palpebre più rapidamente che mai. Con estrema lentezza Anthony estrasse una scatoletta metallica, in modo che l'altro potesse vederla. Era tutta sporca di fango. «Okay». Steve si rilassò un po'. «In piedi ora». Anthony si alzò e gli tese il contenitore. «Tira fuori i contanti». Lui sollevò il coperchio, una frazione di centimetro alla volta. Con la stessa cautela estrasse il grosso fascio di banconote. Steve era abbastanza vicino per distinguere i lineamenti di Ulysses S. Grant sul primo biglietto. Per la prima volta, da parecchi minuti, sorrise. «Posa i soldi sul tetto della macchina e indietreggia». Anthony ubbidì. «Ancora più indietro». Anthony fece altri due passi, ritrovandosi al centro del piazzale. Anche stavolta le braccia gli cadevano lungo i fianchi. Steve avanzò. Spostando la pistola nella mano sinistra prese il denaro con la destra. Gli angoli della sua bocca si contrassero in una smorfia. «Merda! Lo sapevo. È bagnato». «Impossibile», rispose l'altro. «Il contenitore è a tenuta stagna». «È bagnato. Oh, Cristo, è anche appiccicoso. L'hai usato per farti una
sega o cosa?». Posò la pistola sul tettuccio, a portata di mano, e afferrò la fascetta di carta che legava le banconote. Continuò a fissare Anthony, che rimase immobile. Almeno apparentemente. In realtà qualcosa mosse, ma in modo impercettibile, troppo lieve perché Steve potesse notarlo: chiuse gli occhi. Quando Steve strappò la carta si udì un botto come quello prodotto da un petardo. Ci fu un lampo mentre i soldi e le sue mani prendevano fuoco. Lui gridò. La pistola cadde sul cemento. Istintivamente cercò di spegnere le fiamme infilandosi le mani sotto le braccia. La sua maglietta prese fuoco. Le urla raddoppiarono d'intensità mentre crollava in ginocchio e cadeva a terra. Anthony rimase a guardare, imperterrito. Senza fretta, infilò una mano in tasca ed estrasse un fazzoletto con cui asciugare il napalm che gli aveva bagnato le mani quando aveva passato il denaro a Steve. Poi lo lasciò cadere e si mosse. Raccolse la pistola. Steve urlava e si rotolava sul cemento contorcendosi dal dolore. Anthony, sopra di lui, impiegò parecchio tempo a prendere la mira. Sparò solo una volta. Il proiettile troncò le urla di Steve. Anthony infilò l'arma nella tasca dell'impermeabile. Rimase in ascolto per un attimo. Il silenzio era lo stesso che aveva preceduto l'arrivo di Steve. Gli unici rumori erano quelli del traffico sull'interstatale lontana e dell'acqua che colava dagli alberi. Raggiunse la sua auto e prese una scopa e una piccola paletta. Chinandosi, spazzò accuratamente la zona attorno al cadavere, raccogliendo la cenere e i frammenti di carta carbonizzata che erano tutto ciò che restava del fascio di biglietti. In realtà erano solo pezzi di carta bianca: soltanto la prima e l'ultima banconota erano vere. C'era un puzzo nauseante di carne bruciata, ma sembrava che ad Anthony non desse fastidio. Continuò a scopare fino a raccogliere anche l'ultimo pezzetto. Reggendo con attenzione la paletta, la riportò verso l'auto e la mise dentro. Poi raccolse il fazzoletto. Si guardò intorno un'ultima volta, assicurandosi di non lasciarsi dietro niente a parte la macchina di Steve e, ovviamente, Steve. Prese la scatola di C-4 sul portabagagli e, salendo in macchina, la posò sul fondo, accanto al sedile del passeggero. Mise in moto, accese i fanali e tornò sulla strada. Mentre guidava, il cielo si oscurò e cominciò a piovere forte. Azionò i tergicristalli. Vide il grande cartello luminoso che indicava l'interstatale 44
e prima di raggiungere la rampa d'accesso si fermò sul ciglio della strada. Appoggiandosi allo schienale, chiuse gli occhi e si massaggiò la fronte. Poi si chinò in avanti e prese il calendario dal vano portaoggetti. Vedendo gli sbaffi e le sbavature d'inchiostro s'indispettì, anche se i numeri che aveva scritto erano ancora leggibili. Con una X che riempiva completamente la casella, cancellò il sei di aprile. Mancavano solo quindici giorni al ventidue, la data che aveva evidenziato in rosso. E trentanove al quindici maggio, l'ultima data sul calendario. Anthony non era tipo da aspettare fino a mezzanotte prima di cancellare un giorno. Su questo Steve si era sbagliato. 7 La seconda settimana di aprile portò un clima primaverile nel Nord-est. Gli Harper spalancarono le finestre per la prima volta da ottobre. Una brezza leggera portava dentro casa i tipici rumori di una notte a Brooklyn: stereo portatili, sirene di ambulanze e antifurti. Ma nessuno di questi suoni riusciva a distogliere Will Harper, intento a rileggere il fascicolo sul caso Wylie. Era seduto in sala da pranzo, una stanza dal soffitto alto, con una boiserie che avrebbe richiesto parecchio lavoro per riacquistare l'originaria eleganza vittoriana. Il parquet era opaco e macchiato e i muri erano costellati di grossi buchi attraverso i quali si intravedevano l'incannicciato e i fili elettrici. In mezzo stava un massiccio tavolo di ciliegio, lungo abbastanza per dieci persone. Ed era proprio lo spazio che serviva a Will. Impilati accanto a lui, su entrambi i lati, c'erano i corposi dossier sul caso Sothern e sul caso Wylie che gli aveva dato Addleman, oltre ad altre informazioni che l'uomo gli aveva spedito in seguito con la posta elettronica. Solo la lentezza del modem di Harper aveva posto un limite alla quantità di dati che l'ansioso amico era in grado di trasmettergli. Poi c'erano i suoi pesanti manuali tecnici, alcuni ancora con la scritta PROPRIETÀ DEL DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI NEW YORK. E, infine, sul lato del tavolo vi erano i suoi plastici: ricostruzioni delle bombe basate su quanto aveva letto nei fascicoli e modellini simili a set teatrali in miniatura che rappresentavano le stanze in cui era avvenuta l'esplosione. Alcuni erano in frantumi e anneriti: li aveva fatti saltare con dei petardi nel giardino posteriore per studiare gli effetti dell'esplosione.
Alzando lo sguardo vide Laura in piedi sulla soglia con addosso un camice da chirurgo, la sua tenuta preferita nel tempo libero. Lui non aveva sentito aprirsi la porta. Vedendo la sua espressione, capì che la moglie doveva avergli detto qualcosa. «Scusa, cos'hai detto?», le chiese. «Potrei benissimo parlarti in ostrogoto, per quel che serve. Scarabocchi memorandum disseminandoli per tutta la casa. Ti alzi nel bel mezzo della notte per passeggiare avanti e indietro e borbottare. Dimentichi la chiave nella serratura della porta d'ingresso e il latte sul piano di lavoro in cucina». Gli sorrise. «Oh, Will, è magnifico vederti di nuovo così». «Davvero?». «Sei eccitato per quello che fai. Ti senti di nuovo vivo». «Sono frustrato, se proprio vuoi sapere la verità». Scostandosi dal tavolo, allungò le braccia sopra la testa. Lavorava da parecchie ore e aveva i crampi alla schiena. «Posso fare qualcosa per aiutarti?». «Be', forse sì». Laura gli si sedette di fronte. Non avevano ancora trovato delle seggiole adatte al loro magnifico tavolo e per il momento usavano delle traballanti sedie da giardino. Harper aprì il dossier Wylie ed estrasse una foto che posò davanti alla moglie. Era il primo piano di una parte della bomba-tubo, annerita e contorta dall'esplosione. «Vedi qualcosa? Sulla superficie del tubo, voglio dire». Le passò una lente d'ingrandimento che lei usò aggrottando la fronte. «Difficile a dirsi. La foto è un po' sgranata». Lui annuì. «Addleman l'ha scaricata dal computer del National Crime Information Center. Anche usando un modem e una stampante laser a colori, la foto non sarà mai all'altezza dell'originale». «Be', non vedo niente, Will. Mi spiace». Lui sospirò, poco stupito ma leggermente deluso. «Vedi quel segno proprio al centro? Se fosse una lettera dell'alfabeto, quale sarebbe?». Laura prese la foto e la studiò di nuovo con la lente d'ingrandimento, avvicinandola a sé e poi scostandola ripetutamente. Alla fine rispose: «Una E». Lui annuì con aria cupa. «Sì, anche a me sembra una E. Speravo in una C». Lei posò la lente e la foto. «Perché?».
«Brand mi ha mostrato un'istantanea della bomba di Buckner». «E sopra c'era una C?». «Così sembrava a me. Ma lui non era d'accordo». «Be', se il capitano Brand non la vede, forse è significativo», rispose Laura, sorridendo. «E l'altra bomba?». «Quella di Sothern? No, lì non sono riuscito a vedere niente». «Forse sta scrivendo "Celebrity Bomber", incidendo una lettera su ogni ordigno, in ordine sparso». «Possibile ma poco probabile. Lo chiamiamo "il dinamitardo dei VIP", ma per quanto ne sappiamo potrebbe usare qualsiasi altro soprannome. O forse non ne usa nessuno». «È pur sempre possibile». Harper annuì ma non rispose. Lei riprese la foto. «E perché mai dovrebbe incidere una C su ogni bomba? Credi che sia la sua iniziale?». «Non lo so, ma rappresenterebbe un comune denominatore». Dopo esser stato seduto così a lungo, Harper aveva le giunture bloccate. Si alzò e cominciò a passeggiare avanti e indietro. «Dimostrerebbe che le tre bombe sono state costruite dalla stessa persona. Ma finora non ho trovato nulla che lo provi». «Quindi credi che Addleman si sbagli? Che non esista nessun Celebrity Bomber?». Harper la guardò. «No, ha ragione. Questo tizio esiste davvero. È da qualche parte là fuori». Per un lungo istante Laura ricambiò la sua occhiata senza parlare. Alla fine mormorò: «Capisco. Be', se ne sei convinto come mai non riesci a provarlo?». Lui tornò alla sua sedia. «Forse mi aiuterebbe pensare ad alta voce. Ti dispiace ascoltare?». Lei scosse la testa e si chinò in avanti, guardandolo. Lui posò una mano sul dossier Sothern. «Puoi sopportare la vista di una foto molto cruda della scena del crimine?». «Faccio l'infermiera, ricordi?». Harper posò l'istantanea sul tavolo, in mezzo a loro. Il negozio di articoli sportivi Racquets Etc. aveva l'aria di essere stato sollevato da un gigante e poi scrollato con forza. Indumenti e oggetti vari, originariamente riposti sugli scaffali, adesso erano sparpagliati sul pavimento. I ganci fissati al muro che un tempo reggevano delle racchette erano vuoti, i vetri delle fi-
nestre scomparsi. In mezzo alla moquette spiccava una grossa macchia rossa. «È lì che era in piedi la tua vittima?». «Tim Sothern, il tennista. Sì. L'esplosione gli ha staccato il braccio dalla spalla». «Terribile». «Stava aprendo una scatola pensando che contenesse un paio di scarpe da tennis. In realtà racchiudeva una bomba». «Un pezzo di tubo di ferro riempito di esplosivo?». «Esatto. Tutti e tre gli ordigni erano bombe-tubo ma nessuno lo considererà un denominatore comune. Sarebbe come dire che, visto che tre omicidi sono stati commessi con una pistola, devono per questo essere opera dello stesso tizio». «Capisco. La bomba del caso Sothern non aveva niente di particolare?». «Il tubo dev'essere uscito da un imprecisato deposito di rottami, ma il dinamitardo aveva raddrizzato le ammaccature con il martello e smerigliato le parti arrugginite». Laura si accigliò. «Perché?». «Non lo sappiamo. Ma è un tizio a cui non dispiace faticare. L'esplosivo era costituito dalla parte in zolfo dei fiammiferi e polvere pirica, probabilmente estratta da cartucce di fucile». «Deve averne aperte un bel po', vero?». «Centinaia. Il detonatore era fatto in casa. Non avevo mai visto niente del genere. Non saprei ricostruirlo fedelmente ma, tanto per darti un'idea, quando aprivi i lembi della scatola un cardine conficcava un chiodo in una calotta esplosiva. Un congegno piuttosto complicato». «Ma evidentemente ha funzionato», disse Laura, sbirciando la macchia di sangue sulla foto. «Sì, ma non come avrebbe sperato. L'idea, con una bomba del genere, è che l'esplosivo è talmente compresso da frantumare il tubo con le schegge che funzionano come i frammenti di una granata». Guardò di nuovo la foto. «Il negozio era pieno di gente, accorsa per vedere il tennista, che avrebbe dovuto finire a brandelli. Ma il bomber ha ucciso solo Sothern». «Che errore ha commesso?». «Non ha sigillato abbastanza accuratamente un'estremità del tubo, così gran parte della forza dell'esplosione è uscita da quella parte. È bastato per uccidere Sothern, ma non credo che il nostro amico sia rimasto soddisfatto, dopo tutta la fatica che aveva fatto».
Infilò di nuovo la foto nel dossier Sothern e tese la mano verso quello Wylie. «Prossimo caso». Posò davanti a Laura un'istantanea scattata sulla scena del crimine. «Oh, mio Dio», mormorò lei. Il negozio del Minnesota era ancora riconoscibile ma, ora, della suite dell'albergo di Cozumel era rimasta soltanto una scena di orribile violenza. I vetri delle finestre si erano disintegrati e la balaustra d'acciaio del balcone retrostante era incredibilmente contorta e deformata. I muri interni erano ridotti a qualche improbabile asse di legno e cumuli di calcestruzzi. Pesanti mobili erano stati capovolti o scagliati dall'altra parte della stanza. L'esplosione aveva addirittura staccato dei brandelli della carta da parati, mettendo in mostra l'intonaco bucherellato dalle schegge di granata. E c'era sangue dappertutto. Laura fissò la foto per un lungo istante, poi la capovolse. In tono cupo dichiarò: «Suppongo tu stia per dirmi che è quello che succede quando una bomba-tubo funziona correttamente». «Sì», rispose Harper. «Se l'altra era opera di un amante del bricolage, questa invece era perfetta. Un pezzo di tubo nuovo, appena uscito da un negozio di articoli idraulici. Di ghisa, cosa che produce schegge con un bel bordo affilato. L'esplosivo era un miscuglio di nitrato di ammonio e polvere di alluminio. Non è un problema trovare gli ingredienti ma è difficile miscelarli bene. Questo tizio c'è riuscito. Il detonatore era elettrico, collegato a un timer. Tutto molto ingegnoso». «E immagino che la bomba fosse sigillata accuratamente su entrambe le estremità. Il bomber non ha commesso errori?». «Nessuno». «E l'ordigno di Buckner...». «Tipo di tubo diverso, esplosivo diverso, detonatore diverso. E tutti molto più sofisticati che nella bomba di Wylie». «Capisco il tuo problema». Laura si accigliò e incrociò le braccia. «Allora perché questo comune denominatore di cui continui a parlare è così importante?». «Di solito, i dinamitardi non fanno esperimenti. Trovano un congegno che funziona e gli restano fedeli. Vogliono impiegare il meno possibile ad assemblare la bomba». «Più che comprensibile. In questo modo corri meno rischi di saltare in aria». «Questo tizio è diverso. Non gli interessa quanto tempo ci vuole. Non
segue le procedure consuete. Si inventa ogni volta un sistema diverso. Il comune denominatore è che non esiste un comune denominatore». Chinandosi in avanti, prese di nuovo il fascicolo Sothern. «Sai qual è stata la prova decisiva? Quella che mi ha convinto che si tratta dello stesso uomo? Il fatto che impari dai propri errori». Aprì la cartellina ed estrasse la foto del tubo sformato e contorto. «Ricordi che non ha sigillato abbastanza accuratamente un'estremità di questa bomba? Be', con quella di Wylie ha preferito non correre rischi. Le ha saldate». «Aspetta, vuoi dire che ha usato la fiamma ossidrica su un tubo pieno di esplosivo ad alto potenziale?». «Sì, si fida ciecamente della propria abilità. E, naturalmente, è pazzo». «E ha fatto la stessa cosa con la bomba di Buckner?». «No, dannazione! Ha comprato un tubo prefilettato e ci ha avvitato sopra le calotte». Harper chiuse con forza il fascicolo e si appoggiò allo schienale. «Quindi se Addleman e io portiamo questo materiale a un tizio dell'FBI con una laurea in scienze forensi e scarsa immaginazione, ci dirà: "Avete tre bombe di complessità molto diversa e questo significa tre diversi dinamitardi". Allora io sosterrò che si tratta dello stesso uomo che diventa sempre più abile e pericoloso e lui mi risponderà che è solo una mia teoria». Laura sgranò gli occhi. Vent'anni di lavoro con i medici avevano eliminato ogni traccia di timidezza dal suo carattere e lei detestava il marito quando faceva il modesto. «Solo una tua teoria? Mio caro, la tua teoria conta. Grazie alle tue teorie sei quello che sei e hai ottenuto brillanti risultati». Lui si strinse nelle spalle. «Sarebbe tutto diverso se avessi a che fare con detective del dipartimento di polizia, gente con cui ho risolto dei casi in passato. Per loro la mia opinione significa qualcosa, ma i federali sono diversi». Si abbandonò sulla sedia e osservò stancamente il tavolo ingombro. Dopo un attimo, Laura disse: «Will, credo che dovresti chiamare Addleman». «Perché? Non ho in mano niente che possiamo portare al Bureau». «Telefonagli per dirgli che gli credi. Considerando quello che mi hai raccontato di quell'uomo, penso che significherebbe molto per lui. Inoltre due teste sono meglio di una». «Anche se si tratta delle teste di due illusi visionari?». Lei lo guardò, serissima. Odiava l'autocommiserazione quanto lui. «Non
farmi andar fuori dai gangheri, Will». No, decisamente non voleva farlo, pensò. «Okay, lo chiamo», disse. Lei sorrise. Ottimo. 8 Laura aveva ragione. Quando Harper finì di parlare, sentì una pausa di silenzio così lunga che si chiese se Addleman fosse ancora in linea. Alla fine l'uomo rispose: «Grazie a Dio, Will. Lo ammetto, a volte ho temuto di essere pazzo. Ma tu hai dimostrato che ho ragione». «No, invece», disse Harper. «Forse siamo pazzi tutti e due». «Avanti, Will! Hai dimostrato che quello che ho detto è vero. Questo tizio continua a cambiare metodo, migliorandosi costantemente, mettendosi alla prova con nuove sfide e vincendole. Il figlio di puttana sta facendo pratica, Cristo santo! Si sta preparando a qualcosa di davvero grosso. L'FBI deve ascoltarci». «Non ci darà retta, senza un comune denominatore a parte le celebrità». Addleman rimase in silenzio. Per un attimo a quel capo del filo si sentì solo il suo respiro eccitato. «Allora, cosa ne pensi? È impossibile? Non esiste un comune denominatore?». Harper ci pensò un po' sopra, poi rispose: «Dev'esserci per forza. In un modo o nell'altro questo tizio ha lasciato la sua impronta su tutte e tre le bombe. Non l'ho ancora trovata, ma solo perché non lo conosco abbastanza». «Spiegati meglio», ribatté Addleman in tono stringato. «Secondo me il problema è che mi sto basando solo su foto e referti di laboratorio. Quando ero nella polizia analizzavo i frammenti della bomba. Maneggiavo gli stessi pezzi del bomber. È così che riuscivo a scoprire come ragionava. So che è un po' strano ma...». «Niente affatto. Suona come qualcosa che farei anch'io». Questo non riuscì a tranquillizzare Harper. «Dobbiamo trovare il modo di accedere a una delle bombe. Possibilmente quella di Sothern, la meno rovinata. Conosci qualcuno nel laboratorio criminale della polizia di stato?». Addleman rifletté per un attimo e rispose: «No, ma conosco sicuramente qualcuno che ha un amico che ci lavora». «Forse anch'io. Domani cominceremo a fare qualche telefonata in giro».
Alle nove del mattino seguente, Harper cominciò a telefonare a dei vecchi amici che lavoravano in diversi settori delle forze dell'ordine. Non si stupì scoprendo che erano tutti fuori: i poliziotti in servizio attivo sono notoriamente difficili da raggiungere. Lasciò dei messaggi. Ma quando arrivò l'ora di pranzo senza che il telefono avesse suonato, cominciò a preoccuparsi. Li chiamò di nuovo. Stavolta ne trovò parecchi seduti alla scrivania. Si scusarono per non averlo richiamato. E gli dispiaceva ancora di più non poterlo aiutare. Nessuno era interessato al motivo per cui desiderava vedere i frammenti della bomba. In realtà, Harper capì che volevano concludere la conversazione il più in fretta possibile. Finalmente un altro poliziotto in pensione che gli doveva qualche favore, Al Thomas, gli spiegò quale fosse il problema. «Hai saputo del caso Domenic Fortunato, Will?». Harper ricordava il bambino di sei anni del Queens perito nell'incendio provocato dai fuochi d'artificio che suo padre, sergente dì polizia, aveva ottenuto illegalmente. Rispose: «Certo. Il capitano Brand ha ammesso di essere preoccupato, l'ultima volta che gli ho parlato». «Be', adesso lo è molto di più». «Vuoi dire che i fuochi d'artificio provenivano dal deposito della squadra artificieri a Rodman's Neck?». «Sì. Sembra che il sergente Fortunato stia dicendo proprio questo agli affari interni». «Ma cosa c'entro io con tutto ciò?». Thomas esitò. I muscoli dello stomaco di Harper si contrassero. Si sforzò di mantenere un tono neutro. «Fortunato sostiene che glieli ho dati io?». Thomas sospirò. «Stando alle voci di corridoio, gli stanno facendo pressioni perché dica così». «Ma non lo conosco neanche. Non ne avevo mai sentito parlare prima che saltasse fuori questo caso». «Certo, Will. Ma il punto è cosa gli possono far dire. Quel poveretto è ridotto davvero male. Puoi immaginare come si senta in colpa per la morte del figlio. E quelli degli affari interni se lo stanno lavorando per bene. Finora dice solo di aver ottenuto i petardi anni fa e di non ricordarsi chi fosse il suo contatto. Ma loro continuano a fargli dei nomi, soprattutto il tuo. In realtà, a quanto mi si dice, glielo ripetono ogni giorno». Harper strinse con forza la cornetta. La rabbia gli faceva battere il cuore
all'impazzata, ma riusciva ancora a riflettere lucidamente. Era quasi sicuro di sapere chi aveva suggerito il suo nome agli affari interni: il capitano Brand. Loro due si detestavano cordialmente da anni e il loro ultimo incontro non era stato particolarmente cordiale. Inoltre Harper, essendo molto conosciuto e ormai estraneo al dipartimento, si adattava perfettamente agli scopi di Brand. «Hanno bisogno di un capro espiatorio», dichiarò. «Credi si tratti di questo?». «Certo. Cercano di limitare i danni. Non vogliono che il caso Fortunato sfoci in un'inchiesta di più ampio respiro. Il problema, Al, è che la gente rubacchia continuamente dei fuochi d'artificio nel deposito di Rodman's Neck. E non si tratta solo dell'oscuro agente di pattuglia che vuole dei petardi per il compleanno del figlio, ma del presidente del distretto ansioso di ravvivare il suo picnic per raccogliere fondi, del procuratore distrettuale che il quattro luglio dà un party nella sua villa di campagna. Gente della squadra mi ha detto di aver ricevuto parecchie telefonate da vari "palazzi". E persino da Albany». «Sì, capisco il problema», rispose Thomas. «Un sacco di pezzi grossi preferirebbero vedere rotolare la tua testa piuttosto della loro. Ma Will, finora queste sono solo voci. Fortunato non ha fatto il tuo nome. Forse la cosa si fermerà qui». Harper lo ringraziò e riappese. La faccenda si era già spinta fin troppo in là, pensò. Anche se non lo avessero mai accusato formalmente, anche se il suo nome non fosse mai arrivato fino ai media, la voce si stava già spargendo, macchiando la sua reputazione nel peggior momento possibile. Qualcuno lo avrebbe addirittura considerato una sorta di complice nell'omicidio di un bambino. Nel pomeriggio chiamò direttamente la polizia di stato del Minnesota. Là non avevano ancora sentito le voci che giravano su di lui. Gli spiegarono che l'omicidio di Sothern era un caso ancora aperto, e quindi non potevano permettere a un estraneo di maneggiare i frammenti della bomba. Le regole sulla custodia delle prove erano molto severe. Spiacenti, ma... La sera, Laura lavorava fino a tardi, così Harper cenò da solo in cucina e poi tornò in sala da pranzo per riesaminare i fascicoli. Non si aspettava che Addleman lo chiamasse. Quelli del giro dell'ex "specialista in profili criminali" dovevano averlo trattato con lo stesso disprezzo mostrato a Harper dai suoi. Lui e Addleman erano uguali. Tizi iellati. Falliti.
La sedia traballante scricchiolò quando si sedette. Osservò le pile di documenti, i libri aperti e i modellini costruiti con cura erano posati sul tavolo. Non aveva senso rimettersi al lavoro adesso. Era stanco e le tre birre bevute prima di cena per ripagarsi della brutta giornata non favorivano certo l'acume mentale. Allungò comunque una mano verso il dossier Sothern ed estrasse le foto della bomba. Aveva trovato una C su quella di Buckner e una E su quella di Wylie. Ma su questa, l'unica praticamente intatta, non era riuscito a individuare nessuna delle due lettere. Il dettaglio continuava a tormentarlo. Cosa significava? Probabilmente che la C e la E erano semplici graffi e che lui si era lasciato prendere la mano dall'immaginazione. Accantonando l'idea, prese un'istantanea del tubo. Per dieci minuti la esaminò con la lente di ingrandimento ma neanche stavolta vide una C o una E, anzi, non vide nessun graffio che somigliasse a una qualsiasi lettera dell'alfabeto. Le riproduzioni non erano poi tanto nitide. Se solo avesse avuto la possibilità di studiare direttamente i frammenti dell'ordigno... Neanche pensarci. Posò la lente e raddrizzò le spalle, massaggiandosi la schiena. L'estremità del tubo esplosa era contorta e sformata, ma l'altra sembrava praticamente intatta. Era facile capire quale rudimentale metodo di chiusura avesse utilizzato il bomber: con il trapano aveva praticato due serie di fori nel tubo e nelle calotte per poi inserirci dei bulloni ad angolo retto, uno appena sopra l'altro, e infine fissarli con dei dadi. Sfogliò le fotografie e ne scelse una dei bulloni recuperati. Era quello inferiore, quello leggermente più grosso. L'altro non era stato trovato. Esaminò l'istantanea scattata lateralmente ma non vide nulla. Poi quella frontale, un ingrandimento. Riuscì a distinguere la scanalatura a croce sulla testa. E in mezzo a uno dei quattro settori spiccava una piccola A. Harper proruppe in un'incoerente esclamazione di sorpresa ed eccitazione. Come mai non se n'era accorto prima? Perché non si era aspettato di trovare una lettera su una testa di bullone: le altre erano sui tubi. Ma cosa ci faceva lì quella A? «C, E, A», si disse. Si alzò e cominciò a camminare intorno al tavolo, continuando a ripetere sottovoce le lettere. Al sesto giro si fermò e prese la fotografia del tubo. Guardò i fori per i bulloni, uno un po' più piccolo del-
l'altro. E all'improvviso capì. «Sono istruzioni di montaggio», spiegò ad Addleman al telefono. «Cosa?». «Ecco perché le lettere sono tutte diverse. Non sono le sue iniziali né una specie di messaggio per il mondo, ma semplicemente istruzioni di montaggio». «Piano, Will. Comincia dall'inizio. E ricordati che io non capisco niente di meccanica». «Okay. Lui ha due bulloni che usa per assicurare la calotta al tubo. Uno è più grosso dell'altro e va inserito nei buchi più in basso. Così ci incide sopra una piccola A, tanto per non dimenticarselo. Se avessimo l'altro bullone ci troveremmo sopra una B. Ne sono sicuro». «Aspetta un attimo. Perché ha bisogno di istruzioni? Ha assemblato lui la bomba. Perché diavolo dovrebbe smontarla e rimontarla?». «Ci è costretto», rispose Harper. «Per lui è una vera e propria mania». «Cosa?». «Questo tizio costruisce bombe così come altra gente si esercita al pianoforte oppure gioca a scacchi. Adora farlo. Non ne ha mai abbastanza. Ecco perché sta diventando così dannatamente bravo. La sua passione è costruirle, smontarle e poi rimetterle insieme. Non riesce a tenere le mani lontane dall'ordigno. È questa la sua mania». Non spiegò come mai era così sicuro di questa idea, non spiegò che lo capiva perché in un certo senso le bombe ossessionavano anche lui. Addleman fece una risatina ansimante. Era la prima volta che Harper lo sentiva ridere. «Quindi ci siamo, vero, Will? È quello che ci serviva. Il denominatore comune». «Sì. Dimostrerà che abbiamo ragione. Adesso so cosa cercare. Non devo fare altro che esaminare i frammenti dell'altra bomba e scommetto che ci troverò sopra un sacco di lettere». «Il Bureau può aprirti tutte quelle porte», disse Addleman. «Credo sia arrivato il momento che tu vada al J. Edgar Hoover Building a perorare la nostra causa». «Io?», chiese Harper. «È arrivato il momento di andarci tutti e due». Per un attimo l'altro non rispose. «Te l'ho già spiegato, non amo granché girare e vedere gente. Soprattutto se si tratta dei miei ex datori di lavoro». «Scordatelo, Addleman. Tu vieni con me».
Ci fu un'altra pausa. Quando Addleman parlò di nuovo, lo fece in tono più pacato. «Ho un'alternativa da proporti. Come sai, ho una telecamera collegata al computer. Ti porti dietro un PC e io apparirò sul monitor, come se fossi Il con te». «Addleman, non si tratta di un programma televisivo», dichiarò Harper in tono deciso. «Tu vieni con me. Non ne so molto sul Bureau. Tu ci hai lavorato. Ho bisogno di te». L'altro sospirò. «Già, probabilmente hai ragione. Okay, resta in casa domattina. Ti chiamo non appena riesco a organizzare un incontro». «Si direbbe che tu sappia già con chi parlare». «Infatti. Una donna con cui ho già lavorato. Frances Wilson». «È brava?». «Non è solo brava, è anche un tipo originale». 9 Non c'erano ritratti di J. Edgar Hoover nell'ufficio dell'agente speciale Wilson. A parte questo, si trattava del tipico ufficio da funzionario di alto livello, piccolo ma con una splendida vista sulla Pennsylvania Avenue. In lontananza si intravedeva il Washington Monument che perforava il cielo coperto. C'era una scrivania con dietro una comoda poltroncina e davanti due sedie meno comode. Harper e Addleman erano seduti su queste ultime ad aspettare l'agente Wilson. Per passare il tempo Harper stava studiando le pareti su cui spiccavano premi, attestati di benemerenza e foto che la ritraevano con personaggi famosi: c'era il direttore dell'FBI, il ministro della giustizia e il presidente - ma non J. Edgar. Stando ad Addleman, nessuno nel Bureau dimostrava più apertura mentale di Frances Wilson nei confronti di un approccio non convenzionale. Per quanto potesse fare strada, sarebbe sempre rimasta un'outsider perché era una nera. Non era arrivata dov'era seguendo passivamente gli ordini e leccando piedi. Aveva sempre dimostrato parecchio coraggio, una notevole originalità e una spiccata disponibilità ad affrontare a viso aperto i superiori. Tutte doti che il loro alleato ideale doveva possedere. Durante il viaggio in treno da Philadelphia, i due uomini avevano programmato con cura la loro presentazione. Sarebbe stato Harper a parlare. Addleman sosteneva di essere troppo nervoso. Si era rasato così a fondo che le sue guance parevano scorticate e portava un completo scuro e la
cravatta; il colletto della camicia sembrava troppo stretto. Nel J. Edgar Hoover Building era vietato fumare; per questo masticava caramelle di menta. Harper riusciva a sentirne il profumo. La porta si apri e Frances Wilson entrò. Salutò con affetto l'ex collega e poi concesse a Harper un istante per studiarla. Indossava la versione femminile della classica tenuta da federale: camicetta bianca plissettata e tailleur blu dal taglio squadrato, con le spalle larghe e la gonna più lunga di quanto non dettasse la moda. Era alta più di un metro e settanta, naso largo e zigomi alti. Gli occhi erano scuri, quasi neri, e infossati. Non si era stirata né tinta i capelli; c'erano dei fili grigi sulle tempie. Harper la giudicò vicina alla quarantina. Fu costretto a interrompere il suo esame quando lei si voltò a guardarlo. Fu la rapida occhiata onnicomprensiva di un poliziotto esperto. In caso di necessità sarebbe riuscita a descriverlo dettagliatamente, compreso il colore degli occhi e il neo sul collo. «Salve, signor Harper», disse. «Ho sentito parlare molto di lei». Lui cercò di allentare la tensione. «Non bisogna credere a tutto quello che dice Addleman». «Ho sentito parlare di lei molto prima che lo facesse Hal». Non diede spiegazioni ma si avvicinò con un sorriso disinvolto e gli tese la mano sinistra. Era una cosa che succedeva spesso e infastidiva Harper, ma probabilmente la gente pensava di risparmiargli un momento imbarazzante, così facendo. Strinse con la mano sinistra quella di Wilson, poi si sedettero. Sulla scrivania non c'erano carte, a eccezione di un blocco da appunti. La donna lo tirò verso di sé e chiese: «Allora, cosa avete per me?». Addleman guardò Harper, che deglutì a fondo e rispose: «Crediamo di avere delle informazioni sul dinamitardo che ha ucciso la signora Wylie, eletta al Congresso, l'anno scorso in Messico». Addleman gli aveva consigliato di iniziare così: l'incapacità di risolvere quel caso era una vera spina nel fianco per il Bureau. E lei sembrava decisamente interessata. Guardò Harper e disse: «Continui». Lui ubbidì. Cominciando con Sothern, espose i tre casi e raccontò tutto quello che sapevano sul bomber. All'inizio la Wilson lo ascoltò restando perfettamente immobile, gli occhi scuri che scintillavano in un volto che sembrava intagliato nel legno. Ma quando Harper procedette con la presentazione, lei cominciò a prendere appunti e continuò a scrivere per qualche istante dopo che lui terminò. Nella stanza silenziosa, il grattare della penna
sembrò molto rumoroso. Alla fine Addleman non riuscì a sopportare oltre e sbottò. «Frances, cosa ne pensi? Vuoi occuparti del caso oppure no?». Lei posò la penna e si voltò a guardarlo. «Naturalmente controlleremo, Hal». Sorrise. «Se ti dicessi che indizi bizzarri abbiamo seguito indagando sul caso Wylie non ci crederesti. Quello che ci avete appena dato...». «Frances, qui non si tratta solo del caso Wylie. Non hai sentito Harper? Credo che questo pazzo abbia il potenziale necessario per trasformarsi nel peggior serial killer mai visto». «Hal, ti conosco. E ti assicuro che ti sto prendendo sul serio. E allora, che strada ci consigliate di prendere?». I due uomini si scambiarono un'occhiata, a disagio. Avevano immaginato che questo sarebbe stato l'incontro clou. L'agente Wilson, scioccata e allarmata dal loro racconto, si sarebbe dedicata anima e corpo alle indagini oppure gli avrebbe riso in faccia. Ma adesso avevano la netta impressione che non sarebbe successa nessuna delle due cose. Davanti a loro cominciava a profilarsi il grigio e infido sentiero mediano. Addleman si chinò in avanti e parlò con tutta l'enfasi possibile. «Secondo noi è necessario che il Bureau si muova subito su tre fronti. Primo, dobbiamo esaminare i casi irrisolti legati a una bomba - non necessariamente degli omicidi. Sto parlando di tutti i casi, in tutto il paese. Cominceremo con quelli che risalgono a vent'anni fa, diciamo, per poi arrivare all'epoca dell'omicidio Sothern. So che è una mole di lavoro impressionante e che richiederà un gran numero di agenti, ma sono sicuro che il nostro criminale non ha cominciato con Sothern. È da parecchio che sta affinando le sue capacità. Un attento esame ci permetterà di scoprire precedenti esplosioni in cui ha commesso più errori, il che ci fornirà delle informazioni su di lui». Frances Wilson stava scrivendo sul blocco per appunti. Non alzò lo sguardo. «E la vostra seconda raccomandazione?». Scoccando un'altra occhiata a Harper, Addleman riprese a parlare. «Anche questo richiederà un sacco di agenti, ma potrebbe essere il modo più rapido per scovare una traccia. Dovremmo cominciare a indagare sui furti di esplosivi avvenuti in cave, cantieri edili e basi militari». «Soprattutto basi militari», si intromise Harper. «Come ho già detto, il nostro bomber usa ogni volta esplosivi più sofisticati. Forse, in questo preciso istante, sta cercando di mettere le mani su del plastico». «E il vostro consiglio finale?».
«È l'iniziativa più facile ed economica», rispose l'altro con un sorriso. «Manda Harper nel Minnesota e giù in Florida a esaminare le bombe o quello che ne resta. Anche in Messico, se riesci ad accordarti con i poliziotti del posto. Manda con lui uno dei vostri tecnici di laboratorio, se vuoi. Harper può scoprire parecchie cose studiando gli ordigni». «Mi sembra che sia riuscito a scoprire parecchio anche solo guardando le foto», ribatté Wilson. Ma dal suo tono secco Harper capì che non voleva fargli un complimento. Con un tuffo al cuore si chiese se lei avesse creduto a qualcosa di quanto le aveva appena raccontato. «Senta», rispose, «non è necessario che ci vada io. Basta che mandiate il vostro esperto». «Faremo qualcosa di meglio», dichiarò l'agente Wilson. «Faremo portare qui i frammenti perché vengano esaminati accuratamente nei nostri laboratori». Addleman proruppe in una risata stridula, attonita. «Hai intenzione di usare i canali ufficiali per organizzare un trasferimento formale delle prove? Persino con la bomba messicana? Frances, ci vorranno settimane!». Lei si strinse nelle spalle blu pesantemente imbottite. «Attribuite un'incredibile importanza alle lettere che Harper ha notato nelle foto... le "istruzioni di montaggio". Bene. Ma io devo vederle di persona e scoprire cosa ne pensano i miei esperti, prima di scrivere il rapporto». «Prima di scrivere il rapporto?». Addleman era appollaiato sul bordo della sedia, le mani strette a pugno. «E nel frattempo cosa farete riguardo ai vecchi attentati dinamitardi e ai furti nelle basi militari? Niente?». La Wilson allungò una mano cercando di calmarlo. Le unghie erano corte ma curatissime. «Come hai detto tu stesso, questi due progetti richiederanno un gran numero di agenti. La decisione di assegnarli al caso spetta all'assistente del vicedirettore. Forse a qualcuno ancora più in alto». «Perfetto». Addleman si alzò. «Dov'è il suo ufficio? Veniamo con te». Frances Wilson si appoggiò allo schienale della sedia e sollevò lo sguardo su di lui. «Hal, la domanda cruciale è se io voglio venire con voi. E in questo caso temo che la risposta sia no». Ecco fatto. Adesso lo sapevano. Addleman si afflosciò sulla sedia e rimase a fissare il pavimento. Harper disse: «Agente Wilson». Lei si voltò a guardarlo con un fioco sorriso. «Sì, signor Harper?». «Prendiamo il primo volo per St. Paul. Solo lei e io. Ha l'autorità di farci entrare nel laboratorio della polizia di stato del Minnesota. Le mostrerò i
frammenti della bomba, così capirà di cosa sto parlando». «È proprio quello che ho sentito dire di lei, Harper. Non permette mai alle procedure burocratiche di intromettersi tra lei e un dinamitardo - o tra lei e un facile guadagno». «E questo cosa vorrebbe dire?», chiese Addleman, sorpreso. «Il mio ex comandante, il capitano Brand, ha organizzato una campagna diffamatoria nei miei confronti», spiegò Harper, «che ovviamente ha funzionato egregiamente con l'agente Wilson». «Lei voleva guadagnare qualche dollaro extra e un ragazzino è rimasto ucciso», dichiarò la donna. «Ecco cosa ho sentito dire». «Sono tutte palle», ribatté Harper. «Posso garantire per lui», disse Addleman. «È l'unico motivo per cui l'ho lasciato entrare qui». «Possiamo tornare al problema principale?», le chiese Harper. «Istintivamente, cosa pensa di quanto le abbiamo appena detto?». Lei gli rivolse una lunga occhiata e i suoi occhi scuri scintillarono. Rispose: «Ho fatto il poliziotto abbastanza a lungo per sapere che l'istinto non è infallibile». «Cioè non saprai cosa pensi finché non l'avrai chiesto ai tuoi superiori. Ecco cosa pensi». Addleman stava sorridendo con aria tetra, sbattendo rapidamente le palpebre dietro gli occhiali. «Un tempo non eri così, Frances. Un tempo odiavi il modo di pensare del Bureau. Non ti dispiaceva agitare un po' le acque». Wilson si alzò. Voltandogli le spalle, guardò fuori dalla finestra, verso la trafficata Pennsylvania Avenue. «So cosa stai per dire», dichiarò. «Quindi passiamo oltre, Hal, okay?». «No. Voglio dimostrare a Harper che non sei la rigida burocrate che sembri». Lei non rispose, non si voltò nemmeno. «Frances ha iniziato la carriera in un ufficio operativo nel sud», cominciò Addleman. «I ragazzi appesero sopra la sua scrivania un cartello che diceva: FEMMINA DI GORILLA. Che burloni. Quando lei si lamentò con il suo superiore, lui li costrinse a toglierlo e loro ne appesero uno nuovo che diceva: FEMMINA DI GORILLA IN CALORE. Il capo lasciò perdere per non far arrabbiare i ragazzi. Le disse di ignorare le molestie, così sarebbero cessate. Naturalmente continuarono. Così Frances fu costretta a lottare sia contro il suo superiore che contro quei burloni. Dovette portare il suo caso fino a Washington. Per mesi fu costretta a lavorare con dei tizi
che cercavano di sabotarle la carriera a ogni piè sospinto, gente che non sarebbe rimasta molto dispiaciuta se si fosse beccata una pallottola durante un appostamento. Ma alla fine vinse. Il suo capo venne retrocesso di grado e i suoi amici burloni trasferiti nell'Idaho». Scosse la testa e disse in tono disgustato: «Ecco chi era Frances un tempo». Wilson parlò senza voltarsi. Non lasciò che la vedessero in faccia, ma la sua voce fioca e incrinata dimostrò che si era commossa ascoltando la storia. «Ho avuto a che fare con idioti del genere sin dalla prima elementare. So come affrontare quel genere di stronzate chiassose e infantili». Si voltò verso Addleman, che cercò di non incrociare il suo sguardo. «A questo livello è tutto diverso, Hal. Non c'è nessun esplicito braccio di ferro, nessuno ti dice mai una parola scortese. Ma se non si sentono completamente a loro agio affidandoti i casi importanti... be', ecco fatto. Non ti succede niente, solo che la tua carriera si arena mentre tutti gli altri ti sorpassano». L'uomo continuò a evitare il suo sguardo, così lei si rivolse a Harper. «Sopra di me, in questa organizzazione, non c'è nessuno che sia del mio stesso colore e sesso. Quindi non tutti riescono a sentirsi del tutto a loro agio con me. Sto cercando di facilitare le cose; per questo non mi affido ciecamente all'istinto. Non faccio mai mosse rischiose prima di aver tastato il terreno. Rifletto a lungo e attentamente e faccio un passo alla volta». «Capisco», rispose Harper in tono pacato. «Ma il bomber potrebbe non concederle tutto il tempo che le serve». Lei inarcò le sopracciglia. «Mi avete appena detto che fa progetti e preparativi molto accurati, che lascia passare parecchio tempo tra un crimine e l'altro...». «Dannazione, Frances, non conosciamo la sua tabella di marcia». Il viso di Addleman era paonazzo. Sbottonandosi il colletto, si allentò la cravatta. «Sono passati anni tra la prima esplosione e la seconda. Mesi tra la seconda e la terza. Forse manca solo qualche settimana alla prossima. Diavolo, ha già avuto sei settimane a disposizione. Forse in questo preciso istante si sta preparando al prossimo attacco». Alzandosi, le si mise di fronte. «Cosa succederà alla tua importantissima carriera se lui colpisce di nuovo mentre stai lavorando al tuo dannato rapporto?». Lei guardò i due uomini uno alla volta. «Credo che nessuno di voi due sia nella posizione adatta per darmi dei consigli su come gestire la mia car-
riera». In questo aveva ragione. Nel giro di cinque minuti vennero accompagnati alla porta educatamente ma con fermezza e si ritrovarono in strada. «Stai bene?», chiese Harper. Si trovavano nella Union Station, sul marciapiede accanto al treno di Addleman, che sarebbe partito entro pochi minuti. Gli altri passeggeri stavano già salendo, ma lui non voleva farlo. Preferiva camminare avanti e indietro sotto la pioggerellina, fumando. Aveva acceso una sigaretta dopo l'altra da quando avevano lasciato l'Hoover Building. Harper era zuppo fradicio. Aveva prenotato un posto sul treno che doveva lasciare la stazione un quarto d'ora dopo. Non sapeva come mai, ma aveva ritenuto opportuno fare il supplemento per il rapido. Forse doveva aver pensato che, dopo l'incontro con Wilson, le cose si sarebbero mosse in fretta e lui avrebbe avuto i minuti contati. «Se sto bene?». Addleman ripeté la domanda con un sorriso amaro. «In realtà mi stai chiedendo se voglio un drink, vero?». Harper annuì. Inutile negarlo, era preoccupato per lui. «Sì, certo che lo voglio. Diavolo, ne voglio dieci o dodici». Rise, buttando fuori una nuvoletta di fumo. «Storpi. Siamo una coppia di storpi, Harper. Tu sei uno storpio fisico e io uno mentale. Proprio il genere di persone che si convincono dell'esistenza di un serial killer che fa saltare in aria le celebrità. È ora di scuotersi dalle fantasticherie e tornare nel mondo reale, non credi?». Harper lo guardò in tralice. «Frances, diventata una brava burocrate, ha soppesato attentamente le probabilità», continuò Addleman. «Certo, spedirà qualche lettera, tanto per coprirsi il culo nel caso che il bomber esista davvero. Ma è sicura al novantanove per cento che ci sbagliamo. E lei ha una serie di credenziali dell'FBI, un'arma governativa e un ufficio con il suo nome sulla porta, quindi deve aver ragione. Giusto?». «Sbagliato», rispose Harper. «Il bomber è da qualche parte là fuori». L'altro sorrise, mettendo in mostra denti giallastri e irregolari. Buttò via la sigaretta. «D'accordo», disse prima di salire sul treno. «È quello che credo anch'io, quindi lascerò perdere i dieci drink. Cerchiamo di capire cosa diavolo possiamo fare adesso». «Be'», dichiarò lentamente Harper, «non ho ancora avuto il tempo di esaminare alcuni dei dossier sui vecchi attentati dinamitardi irrisolti che mi
hai mandato. Appena arrivo a casa comincerò a studiarli. Forse salterà fuori che uno di essi è opera del nostro amico...». Tacque e lo guardò. «Certo», rispose lui con forzata gaiezza. «E io posso iniziare a frugare nell'archivio informatico del National Crime Information Center, cercando rapporti su furti di esplosivi. Se trovo qualcosa di recente...». Interrompendosi di scatto, chinò il capo. Sotto i capelli bagnati si intravedeva la cute pallida. «Chi vogliamo prendere in giro, Will? Siamo tizi di mezza età e tra tutti e due non disponiamo neanche delle credenziali necessarie per fare un federale intero. Sarebbe come cercare il classico ago nel pagliaio». Harper annuì. «Dovremo escogitare un piano alternativo. Qualcuno sta per essere ucciso e noi lo sappiamo. Non possiamo lasciarlo morire». Continuarono a camminare sul marciapiede. Gli altoparlanti annunciarono l'imminente partenza del treno per Philadelphia, ma nessuno dei due ci fece caso. Addleman si fermò di scatto e si girò verso di lui. «C'è solo una cosa da fare», disse. «Dobbiamo batterlo sul tempo. Scopriremo chi è il prossimo bersaglio e lo avvertiremo». «Ma come...». «Sì», continuò lui, lasciandosi trasportare dall'ispirazione, «sarà qualcuno ricco e famoso, questo lo sappiamo. Un personaggio influente. Lo avviseremo che è la prossima vittima e lui saprà come scuotere i mass media e costringere il Bureau ad agire». «Addleman, come facciamo a indovinare di chi si tratta?». «Sappiamo che è una celebrità più famosa di Rod Buckner, lo scrittore». «Definizione che si adatta a centinaia di persone. Come facciamo a restringere il campo? Hai detto tu stesso che il bomber non ha alcun rapporto con le sue vittime. Non ha niente di personale contro di loro. Vuole solo eliminare le celebrità, insieme ai loro leccapiedi». «È questo che ho detto?». Addleman sorrise. «Ragazzi, sono proprio bravo a complicarmi la vita, vero?». Ormai erano rimasti soli sul marciapiede. Gli altoparlanti stavano annunciando per l'ultima volta la partenza e i controllori stavano salendo a bordo. «Accidenti, devo andare. Ti chiamo domani». Addleman cominciò a correre. «Addleman...».
«Non preoccuparti», gridò lui senza voltarsi. «È in treno che mi vengono le idee migliori». Quella notte, sulla terra, probabilmente non esisteva posto migliore per osservare le stelle che quel campo in mezzo a Barber County, Kansas. Niente deturpava la bellezza del cielo notturno. La città più vicina distava diversi chilometri quindi non c'erano chiazze di luce artificiale all'orizzonte e si potevano vedere tutte le stelle fino al confine della terra; la luna era una falce sottile e non c'era neanche una nube. Scintillavano numerosissime nell'immenso spazio nero -alcune brillanti come gioielli, altre così minuscole e fioche da risultare a malapena visibili. L'uomo che aveva detto di chiamarsi Anthony - e il cui nome completo era Anthony Edward Markman - era sdraiato supino sull'erba a guardare il cielo. La sua alta fronte molto segnata era distesa come non mai e gli occhi dalle pupille dilatate sembravano grandi e innocenti come quelli di un bambino. Mentre il suo sguardo rapito si spostava di stella in stella, le labbra si muovevano componendo una parola, ma senza emettere alcun suono. L'unico rumore era quello del vento. L'allarme del suo orologio cominciò a suonare. L'ansia gli irrigidì i lineamenti, le rughe gli solcarono la fronte e lui riprese il suo aspetto consueto. Si alzò. Raggiunse l'auto e aprì la portiera. Non era l'anonima berlina con cui era andato a incontrare Steve, ma una Toyota Land Cruiser rossa. Serviva un fuoristrada per raggiungere il centro di quel campo. Sul sedile del passeggero era posata una bassa scatola metallica, simile a una cassetta degli attrezzi. La aprì. Il primo scomparto era diviso in quattro sezioni, che aveva etichettato ordinatamente con le lettere dalla A alla D. Ognuna conteneva un pezzetto dell'esplosivo al plastico comprato da Steve, tutti di forma diversa. Markman aveva raggiunto questo luogo isolato per condurre gli esperimenti che aveva menzionato a Steve. Prima di ucciderlo. Estrasse dallo scomparto A la palla di plastico, giusto un po' più piccola di una pallina da golf. Poi attraversò il campo dirigendosi verso un filare di pioppi neri da cui arrivava il gracidare delle raganelle. Gli alberi costeggiavano un ruscelletto sulla cui riva spiccava una carcassa d'auto rimasta lì tanto a lungo che l'erba stiancia l'aveva invasa: le sue teste lanuginose spuntavano dai finestrini aperti. Aggrottando la fronte per il disgusto, Markman si inginocchiò nel fango accanto alla macchina.
Estrasse dalla tasca un semplice timer-detonatore, lo regolò e inserì il filo elettrico nella pallina di C-4. Pur sentendo il ticchettio del timer - un suono stridente e continuo - se la prese comoda. Si sdraiò bocconi e piazzò l'esplosivo sotto l'auto. Poi si alzò e si allontanò, staccandosi dal torace la camicia bagnata e sporca di fango. Contò i passi ad alta voce e, arrivato a cento, si voltò. Per qualche istante si sentì solo il canto delle raganelle. Poi ci fu il boato dello scoppio e il lampo accecante. Lui rimase immobile, con gli occhi sgranati e la bocca spalancata. La violenza dell'esplosione causata dalla minuscola pallina di C-4 lo lasciò di stucco. Quando tornò l'oscurità, si limitò a sbattere le palpebre e a sorridere per diversi istanti. Poi tornò sull'argine a controllare i danni. Adesso le raganelle erano silenziose e si sentivano solo il fioco fruscio e il gorgogliare del ruscello. Prese una torcia dalla tasca e la puntò sull'auto. L'esplosione l'aveva quasi spaccata in due. Il tettuccio era scomparso e il sedile del passeggero era stato scagliato nel torrente. Le ruote e altre parti meccaniche erano disseminate su tutta la riva e il campo. Per qualche minuto mosse la torcia tutt'intorno, scuotendo la testa e ridacchiando di incredulità. Evidentemente era molto soddisfatto del suo acquisto. Raggiunse il fuoristrada. Mettendosi al volante, accese la luce interna e prese una cartellina. In cima alla pagina scrisse una A, poi annotò i risultati del test con una calligrafia minuta e ordinata. Alla fine la mise via e infilò una mano nel vano portaoggetti. Il suo calendario si era bagnato e sporcato d'inchiostro mentre Steve lo esaminava, quindi ne aveva fatta una copia fedele, con tutti i numeri e i segni già tracciati a penna sull'originale. Cancellò con una croce la data odierna, il dieci aprile. Adesso mancavano dodici giorni alla data che aveva evidenziato in rosso, il ventidue aprile, e trentacinque all'ultima data del calendario. Il quindici maggio. 10 Venerdì sera, quando tornò a casa da Washington, Harper si aspettava quasi di trovare un messaggio di Addleman. Ma non ce n'erano e anche sabato passò senza una sua telefonata. Lui aspettò e si preoccupò, dicendosi che l'amico avrebbe chiamato non appena fosse stato pronto.
Finalmente, domenica mattina, il telefono squillò. «Harper?». La voce era fioca e tesa. «Stai bene?», fece Harper. Addleman si stizzì. «Cosa c'è? Hai paura che mi sia attaccato alla bottiglia? Be', non l'ho fatto. Però sono rimasto in piedi tutta la notte cercando di ragionare come il nostro amico, cercando di insinuarmi nel suo cervello». Harper sentì un brivido freddo alla base del cranio. Anni prima, quando lavoravano insieme, alcune delle loro conversazioni più inquietanti erano cominciate così. «Ci sei riuscito?», chiese di nuovo. «Credo di sì, almeno in parte. Hai voglia di ascoltarmi?». Harper era in piedi nell'atrio. Prese il telefono dal tavolino e si sedette sui gradini. «Procedi pure». «Che tipo è il bomber? Iniziamo con quello che sappiamo per certo». «Be', dev'essere un tipo piuttosto metodico». «Puoi ben dirlo. La sua personalità... be', lasciamo perdere i termini tecnici. Il nostro amico è un fanatico del controllo. Non va mai a fare spesa senza una Usta. Cambia l'olio dell'auto ogni cinquantamila chilometri. Voglio dire, è uno che piuttosto di superare i cinquantamila va a piedi. Non ha una camicia preferita; no, le indossa tutte a rotazione, seguendo un ordine fisso. Tiene sempre aggiornato il saldo sul libretto degli assegni oppure ha un programma di computer che se ne occupa». «Uh-huh», rispose lui. Aveva già sentito Addleman e altri suoi colleghi fare congetture del genere. Spesso si rivelavano sbagliate, ma a volte erano misteriosamente azzeccate. «Che giorno è, Harper?». «Domenica». «No, parlavo della data». «Oh, il dieci aprile». «No, è l'undici. Questo è un errore che il nostro attentatore non commetterebbe mai. Sa sempre che giorno è. E ogni giorno scrive un programma dettagliato che rispetta religiosamente, anche se non ha appuntamento con nessuno. Da mezzogiorno all'una e mezza lavorare sulla collezione di francobolli. Dalle tre alle tre e un quarto andare al cesso; ha un orologio con l'allarme e quando sente il bip si alza dal water». «Potresti aver ragione, e allora?». «Schemi. Il nostro amico deve seguire uno schema. Ne ha bisogno per mantenere il controllo di sé. Altrimenti finirebbe in un milione di pezzi
perché è un tipo molto malato». «Non sono sicuro di capire cosa intendi per schema». «Non lo so bene neanch'io». Addleman tacque. Harper se lo immaginò chino in avanti, infervorato, a gesticolare rivolto alla parete che aveva di fronte. «D'accordo, così le celebrità in quanto singoli individui per lui non significano nulla. Questo non vuol dire che le scelga a caso. Sarebbe troppo sconvolgente per un tipo del genere. È profondamente represso, spaventato dai propri impulsi. Ha bisogno di una struttura ben precisa per sentirsi sicuro». Fece una pausa. «Ti sembrano stronzate?». «No, non le definirei così, ma non vedo...». «È tutto a posto. Sono abituato a trattare con le teste quadre dell'FBI. In confronto a loro non sei poi malaccio». «Grazie», rispose seccamente Harper. «Proviamo con un approccio diverso. Cosa sta facendo questo tizio? Fa saltare in aria uomini famosi, li fa scoppiare come palloncini. E con questi muoiono anche i loro pigmalione quelli che in un certo senso hanno investito su di loro o li hanno sostenuti». «Esatto». «Non si limita a odiare la gente famosa. È furibondo con noi altri perché l'abbiamo resa tale. Vuole mandarci un messaggio. Allora come mai non esce allo scoperto? Perché non chiama la stampa rivendicando la responsabilità degli attentati?». «Perché la polizia comincerebbe a dargli la caccia. I suoi bersagli sarebbero molto più cauti. Per lui diventerebbe tutto più difficile». «Precisamente!», esclamò Addleman, quasi senza fiato. «Adesso non vuole interferenze. Si sta preparando al gran finale, a questa... grossa, terribile esplosione che spazzerà via... qualche cosa, qualunque essa sia! Poi, ma solo in seguito, uscirà allo scoperto». «Secondo te ha già programmato tutto», rispose Harper. «Sì, da parecchio tempo. Questa è l'idea di base, la molla principale della sua personalità. C'è uno schema ben preciso e lui ha intenzione di completarlo. Deve farlo». «Ma che tipo di schema...». «Cavolo, Harper, cosa pretendi da me?», chiese Addleman, spazientito. «Non lo so. Se sapessi cos'è importante per lui avrei almeno un punto di partenza, ma non ne ho idea. Comincerò inserendo qualche cifra nel computer. Le date delle tre esplosioni, latitudine e longitudine del luogo in cui sono avvenute, il compleanno delle vittime. Non sarà facile. Il suo non è
certo il genere di schema che una persona sana di mente possa individuare all'istante. Ma se insistiamo scopriremo una freccia rossa che indica la prossima vittima. Sano di mente o meno, il bomber rispetterà il suo schema. Gli piacciono le cose ordinate, precise». «Vuoi che venga lì?». «Sì. E il prima possibile, Will». Harper dubitava di poterlo aiutare granché. Non nutriva la stessa fiducia di Addleman in questo nuovo approccio al problema, ma rispose: «Prendo il primo treno». Mentre rimetteva il telefono sul tavolo, si chiese come Laura avrebbe preso la sua improvvisa partenza. Probabilmente non le sarebbe dispiaciuto. Aveva sostenuto fin dall'inizio i suoi sforzi per risolvere il caso. Due giorni prima, quando era tornato da Washington comunicandole le deludenti novità, lei aveva imprecato ripetutamente contro il Bureau per la sua ottusità. La sua indignazione gli aveva scaldato il cuore e aveva contribuito a scacciare il suo malumore. Laura era stata felice di scoprire che lui e Addleman non intendevano accettare passivamente il verdetto dell'FBI. La chiamò cominciando a salire la scala. Il soffocato "Sono qui" di Laura fu una vera sorpresa perché arrivava dalla porta a soffietto alle sue spalle. Pensava che la moglie non fosse ancora scesa. Si avvicinò alla porta e la apri. Lei era in piedi e gli dava la schiena. Aveva i capelli legati con un fazzoletto rosso e indossava uno dei suoi soliti camici da chirurgo, uno dei più vecchi. La stoffa verde, sottile e consunta, aderiva al suo corpo snello. Harper si stava ancora godendo il panorama quando lei si voltò, sorridendo, e spalancò le braccia. «Sorpresa!». Lui si guardò intorno. Il salotto anteriore era la stanza più grande della casa e l'avevano trovato in pessime condizioni. Harper aveva passato diverse settimane lì dentro, sabbiando la boiserie e riparando muri. Laura aveva proseguito il lavoro e si era data parecchio da fare. Il parquet era coperto di teli, la mensola del caminetto e gli stipiti della porta e delle finestre protetti da fogli di giornale. Una scala era posata contro il muro, con accanto pennelli, pennelli a rullo e latte di vernice. «Quando hai fatto tutto questo?», chiese. «Mentre eri a Washington. Un intervento è stato cancellato e ho avuto la giornata libera». «Non mi ero reso conto... ieri non ho neanche guardato qui dentro».
«Non posso darti torto. Dopo tutta la fatica che hai fatto ormai questa stanza ti dà sicuramente la nausea. Ma adesso le serve solo una mano di vernice. Se lavoriamo tutti e due dovremmo riuscire a finirla in giornata. Cosa ne dici?». Harper non rispose. «Cosa c'è?». «Devo andare a Philadelphia. Mi dispiace». «A Philadelphia? Vuoi dire da Addleman?». Lui annuì. Fu solo mentre apriva la bocca per spiegare che si rese conto di non averle parlato della loro ultima conversazione sul marciapiede della stazione di Washington. Perché non l'aveva fatto? Forse perché l'idea di Addleman di identificare la prossima vittima dell'assassino gli era sembrata così vaga e nebulosa che ancora non valeva la pena di menzionarla. O forse non gliel'aveva detto perché aveva intuito che lei preferiva non saperlo. Cominciò a spiegare. Mentre parlava, Laura si inginocchiò accanto a una lattina di vernice aperta e iniziò a mescolare: era chiaro che aveva intenzione di procedere anche senza di lui. Mentre Harper continuava a parlare, smise di far girare il bastoncino di legno e si accovacciò sui talloni. Non lo stava guardando, ma lui notò il contrarsi dei suoi muscoli facciali. Preoccupato, concluse il suo discorso senza eccessiva convinzione. «Capisco», disse Laura. «E scoperta la prossima vittima cosa farete?». «Non siamo ancora arrivati così in là. Non sappiamo se riusciremo a scoprire chi sarà la nuova vittima designata. Ovviamente la metteremo in guardia, più o meno energicamente: dipende da quanto saremo sicuri che sia davvero lei». «Dici "noi" ma sarai tu ad andare da questa persona. Per forza. Sei riuscito a malapena a tirare fuori Addleman dalla sua tana per farlo venire all'FBI». «Già, immagino di sì. Non ci avevo ancora pensato, è troppo prematuro...». «Cercherai qualcuno piazzato al centro del bersaglio e andrai a sederti accanto a lui». «Cosa?». Laura si alzò di scatto. «Sarai tu ad avvisare questo personaggio famoso del pericolo che sta correndo e lui ti nominerà sua guardia del corpo. E quando quel pazzo colpirà tu resterai ucciso insieme a lui... proprio come Fahey».
Harper la fissò, sbalordito e sconcertato dal suo improvviso cambio di umore dal sostegno incondizionato alla paura. Lei ricambiò il suo sguardo. Aveva gli occhi asciutti ma era scossa da un leggero tremito. «Cerca di capire. Quando sei rimasto ferito alla mano, non posso nascondere che una parte di me era contenta. Da quel momento in poi non avrei più dovuto preoccuparmi che restassi ucciso in servizio». «Infatti non devi preoccuparti». «Ma ti troverai di nuovo al centro del bersaglio. E io non l'avevo previsto». Lui rispose: «Non succederà mai. Prima di tutto, chiunque sia ricco e famoso come questa persona ha sicuramente un sacco di guardie del corpo. Non avrà bisogno di me. Se mi crede - se riesco a convincerlo - ovviamente prenderà le debite precauzioni per sfuggire all'assassino. Non vorrà certo fargli da bersaglio». Lei chinò il capo, serrando gli occhi, come se ascoltarlo la facesse soffrire fisicamente. «Will, fermati. Lascia perdere questa faccenda mentre sei ancora in tempo». «Non posso. Finora mi hai incoraggiato. Cos'è successo?». «Ero più che d'accordo sulla necessità di andare all'FBI. Penso che tu abbia ragione. Ma quelle teste di cavolo non vogliono ascoltarti. Lascia che la responsabilità ricada su di loro quando succede qualcosa. Hai fatto del tuo meglio. Adesso lascia perdere, prima che sia troppo tardi». La sua paura era talmente forte che Harper riusciva quasi a percepirne la presenza nella stanza. Benché cercasse di scacciarla con il ragionamento, ne era innervosito. E questo lo rendeva furibondo, come spesso succede con la paura. Invece di rassicurare la moglie la rimproverò. «Credi che questo sia semplicemente un piccolo progetto come tanti, qualcosa per tenermi occupato, e che io possa accantonarlo quando voglio? No, Laura. È un problema reale. Il dinamitardo sta da qualche parte là fuori. Ci sono delle vite in gioco. Forse parecchie». Improvvisamente le lacrime le colmarono gli occhi, solcandole le guance. «Non hai già salvato abbastanza vite?», chiese lei con voce incrinata. «Ormai non dovrebbe più essere un tuo problema». Lui allungò una mano, ma non aveva il coraggio di toccare la moglie. «Laura, ascoltami. Ti preoccupi troppo. Non correrò alcun pericolo. Vado a Philadelphia a parlare con Addleman. Tutto qui, per il momento. Forse la cosa finirà lì».
Lei si asciugò rabbiosamente le lacrime con entrambe le mani. «Dannazione, Will! Non trattarmi con condiscendenza. Non fingere di non voler oltrepassare il limite. Non sei riuscito a convincere chi di dovere a dare la caccia a questo maniaco assassino, così hai deciso di farlo tu. So benissimo cosa sta succedendo, anche se tu non lo capisci». Riuscì a tenere sotto controllo la voce, ma le lacrime continuavano a scorrere. Dandogli le spalle, cominciò ad attraversare la stanza senza vedere nulla. Il suo piede sinistro urtò la lattina aperta e la vernice schizzò sui teli che coprivano il pavimento. Harper corse a raddrizzarla. Laura parve non accorgersi di cosa era successo. Raggiunse la scala da imbianchino e si sedette su uno dei primi gradini. Prese il fazzoletto che le legava i capelli e si asciugò occhi e naso. Deglutì più volte. Quando riprese a parlare, sembrava tranquilla e padrona di sé. «Be', non posso dire che tu non mi abbia avvisato. Ricordi quella sera, quattro giorni prima del matrimonio? Hai cercato di convincermi a non sposarti». Lui sorrise. «Non sono mai stato così felice di perdere una discussione». Lei non ricambiò il sorriso. «Mi hai detto che ci sarebbero state notti passate ad aspettare lo squillo del telefono». «Sì». Lei gli guardò la mano mutilata. «E il telefono ha squillato. Solo che lo ha fatto nel bel mezzo di una giornata molto impegnativa. Mi hanno chiamato fuori dalla sala operatoria e una voce mi ha detto che eri rimasto coinvolto in un'esplosione. Non capivo. Per circa trenta secondi ho pensato che tu fossi morto. Ricordo benissimo quei trenta secondi». «Laura, se riusciamo a scoprire chi è il prossimo sulla lista di questo pazzo, devo cercare di metterlo in guardia. Lo capisci anche tu». Lei tirò il fiato. «Sì, certo». «Il tizio in questione mi crederà o meno, e la cosa finirà qui. Non mi offrirà un lavoro come guardia del corpo. In caso contrario, non lo accetterò. Te lo prometto». Sul viso di Laura c'era un'espressione ironica e infelice che lui non aveva mai visto. Alzandosi, lei disse: «Non farmi promesse, okay? Ricordo benissimo cosa ti succede quando ti occupi di un caso, anche se forse tu l'hai dimenticato. Ne sei ossessionato. Succederà anche stavolta. Sei fatto così». Lasciò la stanza senza guardarlo. Lui ascoltò i suoi passi che salivano la scala scricchiolante. Poi raccolse il coperchio della lattina di vernice e la chiuse.
Gli piaceva l'ordine. 11 Al telefono Addleman era sembrato così nervoso che Harper immaginava che non avesse dormito dopo il loro appuntamento al quartier generale dell'FBI. Si aspettava di trovarlo con gli occhi cisposi e la barba lunga. Ma quando l'uomo aprì la porta del suo appartamento era azzimato come in occasione della prima visita di Harper: i capelli neri pettinati all'indietro, accuratamente rasato, la camicia bianca ben stirata anche se con i polsini un po' logori. I mocassini neri erano così lucidi che brillavano - Harper non ne vedeva di simili dall'ultimo funerale di un poliziotto a cui aveva assistito. «Entra, Will». Addleman sorrise per dimostrargli che era felice di vederlo. «Qualche progresso?». L'uomo smise di sorridere. Dopo un attimo rispose: «Non succederà così. Non aspettarti costanti passi avanti. La situazione sembrerà disperata e poi, improvvisamente, troveremo un varco. Vieni». Harper lo seguì attraverso il soggiorno. Quasi ogni centimetro quadrato del pavimento era occupato da libri e pile di fogli. Agitando una mano, Addleman spiegò: «Ho scaricato qualche dato da Internet». Entrarono nel suo studio. Sulla scrivania c'erano altri due computer, oltre a quello che Harper aveva già visto. Uno, un modello meno recente, era costituito da un monitor collocato sopra una grossa macchina. L'altro era un portatile. Sullo schermo di tutti e tre spiccava la scritta "WORKING". Addleman spiegò cosa stava facendo. «Ho inserito le biografie di tutte e tre le vittime e adesso sta cercando un eventuale denominatore comune. Forse la loro famiglia aveva una Ford quando erano piccoli. Oppure possedevano un setter. Un particolare banale come questo potrebbe rappresentare il legame che cerchiamo». «Qualche risultato?». «Finora no». Indicò il computer più vecchio. «Quello sta lavorando sulle loro date di nascita, scomponendo i numeri in fattori e anagrammando il nome dei mesi per vedere se salta fuori qualcosa». Harper ebbe un'idea. «Potrebbe accertare se la data di nascita di uno di loro corrisponde a una data storicamente importante?». Lui gli scoccò un'occhiata malinconica. «È stata la prima cosa che ho
controllato. Niente da fare». Indicò il portatile. «Quello invece sta lavorando sui loro nomi». «Scoperto qualcosa?». «Ha elaborato qualche anagramma divertente per Rod Buckner». Addleman prese una sigaretta ma, attento come sempre al funzionamento dei suoi computer, non la accese. «Seguimi, così ti mostro cosa puoi fare». Tornarono in soggiorno. Gli indicò una poltroncina imbottita accanto alla finestra, quasi completamente circondata da pile di fogli stampati. Prese alcune pagine. «Ecco su cosa stavo lavorando». Harper le sfogliò. «Date di nascita dei papi?». «Sto cercando un indizio sui tempi degli attacchi del serial killer. La seconda data è quella della nomina di ogni papa. Wylie è stata uccisa il giorno del centenario dell'elezione di Pio X, ma finora non ho trovato altro». Lui esaminò la lunga colonna di numeri, sentendo le prime avvisaglie di un'emicrania in mezzo alla fronte. Addleman stringeva un'altra pagina. «Qui ho il calendario ecclesiastico per quando finisci con i papi». «Calendario ecclesiastico?». Addleman annuì. «Elenca i nomi dei vari santi, uno per giorno. Una volta mi sono occupato del caso di un assassino che uccideva tre prostitute l'anno, nei giorni dedicati a ognuno dei tre santi di cui portava il nome. Pensava che, senza la protezione del suo patrono, uccidere fosse troppo rischioso». Sorrise al ricordo. «Quando lo abbiamo arrestato, l'ho interrogato per cinque giorni. Una mente davvero affascinante». «Quindi credi che il bomber sia cattolico?». «Oh, no». Addleman indicò la pila di fogli stampati più vicina. «Lì troverai la data di nascita e di incoronazione di tutti i monarchi inglesi. E degli imperatori dell'antica Roma. E della Cina. E le date delle battaglie decisive sia delle due guerre mondiali che di quelle napoleoniche. Impossibile dire cosa il nostro amico consideri importante». «Verissimo». Harper era intimidito dalla mole di lavoro che voleva affibbiargli. Gli sembrava un'impresa titanica. E del tutto inutile. «Potrebbe anche non essere religioso, sai. E non sapere nulla di storia». Addleman annuì. «Ecco perché ho anche il programma del campionato di football, di baseball e di basket». «Capisco. Cosa ti aspetti che faccia con questa roba?». «Usa l'immaginazione, Harper. E quando hai finito, qui c'è qualche altro calendario - ebreo, indiano, cinese, azteco. Devo programmare il computer
per la mia prossima ricerca. Avvisami se trovi qualcosa». «Okay», rispose Harper. Con un sospiro, si lasciò cadere sulla sedia e cominciò a studiare le date di nascita dei pontefici. Lavorarono per il resto della giornata, fino a sera. Il dolore alla fronte si diffuse fino a interessare l'intera testa di Harper. Lui non trovò nessuno schema plausibile nelle date e Addleman non individuò nessun collegamento tra le vittime. Alle nove fecero una pausa per mangiare qualcosa. Dalla pila di surgelati nel freezer, Addleman scelse un hamburger con cipolle e Harper delle braciole di maiale. Visto che tutti i tavoli dell'appartamento erano coperti di carte, mangiarono seduti sulle poltrone in soggiorno. Masticando il miscuglio di fagioli, granturco e carne di maiale scongelati, Harper ricordò che il giorno precedente Laura aveva trovato i primi asparagi della stagione al mercato. Gli aveva detto di volerli cucinare stasera, con patate novelle e agnello. Chissà se aveva rispettato il programma anche da sola, preparando lo stesso quella appetitosa cenetta. Probabilmente sì. Altrimenti gli asparagi sarebbero andati a male e lei detestava gli sprechi. Non si accorse di quanto fosse stata lunga la pausa di silenzio finché Addleman non disse: «Qualche problema?». «No, nessuno. Le braciole sono buone». Lo erano davvero - almeno in confronto alle verdure. «Stai pensando a tua moglie? Scommetto che, secondo lei, ti stai lasciando coinvolgere troppo dal caso». Quello scandagliare fin troppo accurato nella sua mente infastidì Harper, che abbassò gli occhi sulla cena mangiata a metà. «Studiando psicologia hai imparato a leggere nel pensiero?». «Me l'ha insegnato l'esperienza», rispose l'altro con una secca risata. «E in molti casi ne avrei fatto volentieri a meno». Harper preferiva non parlarne. Mettendo da parte il vassoio, si alzò e si girò a guardare fuori dalla finestra. Sotto il palazzo c'era un lotto di terreno non edificato e poi, su una strada trafficata, un locale della catena Kentucky Fried Chicken. C'era una lunga fila di auto in coda che aspettava il cibo al drive-in. Viste le caratteristiche del quartiere, il ristorante e relativo parcheggio erano illuminati a giorno. La luce quasi gli ferì gli occhi, così li alzò verso il cielo. Non c'erano nubi ma qui in mezzo alla città non riusciva a vedere le stelle, solo un quarto di luna molto in alto, verso est. «Immagino che tu abbia già controllato se le date delle esplosioni hanno
qualcosa a che fare con le fasi lunari», disse. «Sì. Nessun legame». Dopo un attimo di pausa, Addleman continuò. «Ho scaricato del materiale dell'osservatorio nazionale a cui dovremmo dare un'occhiata, prima o poi». «Credi?». «Forse dovremmo considerare la possibilità che il nostro uomo sia interessato alle stelle». Harper non ebbe bisogno di voltarsi per vedere se l'altro stava sorridendo: lo si capiva dal suo tono. «Stelle nel senso di celebrità?», domandò. «Pensi che abbia un debole anche per penosi giochi di parole?». «Tutti facciamo dei giochi di parole, intenzionalmente o meno. E quelli che facciamo inconsciamente sono i più significativi. È psicologia spicciola. Dovresti leggere Freud». «Spero che tu non voglia farmelo leggere adesso». Harper aveva ancora mal di testa. Massaggiandosi la fronte, voltò le spalle al cielo privo di stelle. «Posso usare il telefono, Addleman? È tardi. Mi conviene prenotare una camera d'albergo e chiamare un taxi». L'altro lo guardò sbattendo le palpebre. «Non riuscirai a convincere un tassista a venire fin qui a quest'ora di notte. Pensavo che dormissi qui. Così possiamo lavorare per un altro paio d'ore e poi ricominciare domattina presto». Harper scosse il capo, con un sorriso mesto. «Non dormi mai?». «Non molto». Addleman rifletté per un attimo e aggiunse: «Penso che non lo faccia neanche lui, l'assassino». Il mattino dopo, quando alzò la testa dal cuscino, Harper scoprì di avere ancora l'emicrania. Anche se il divano letto di Addleman era comodo, aveva dormito male. Le persiane non riuscivano a tenere fuori il bagliore del fast food, che restava aperto quasi tutta la notte. E infine il rumore della strada era incessante. Il suo quartiere di Brooklyn era tutt'altro che silenzioso, ma era niente al confronto. Trovò l'amico alla sua scrivania. Sembrava che la sua idea di colazione prevedesse solo caffè e sigarette, quindi nulla impediva a Harper di ritornare alla sua sedia e ai suoi elenchi e calendari. Aveva dimenticato la loro conversazione della sera prima sulle stelle e quindi non chiese ad Addleman i dati dell'osservatorio nazionale. Lavorò tutta la mattina sui programmi dei campionati sportivi senza trovare nulla. A mezzogiorno, il caldo era soffocante. Evidentemente la temperatura
esterna si era alzata più di quanto non succedesse normalmente in aprile. Harper aprì la finestra alle sue spalle, si sedette e si rimise al lavoro. «Benvenuto al Kentucky Fried Chicken, cosa desidera?». Le parole uscite dall'interfono della finestrella drive-in lo raggiunsero con sorprendente chiarezza. L'interfono doveva essere molto potente oppure il vento stava soffiando nella sua direzione. Pochi secondi dopo, un delizioso profumino di pollo fritto cominciò a riempirgli le narici. Non c'era dubbio: era il vento. «Benvenuto al Kentucky Fried Chicken, cosa desidera?», sentì il cameriere chiedere a un guidatore. Harper mise da parte il suo elenco di imperatori romani e si alzò. Attraversò la stanza, camminando cautamente tra le pile di carta. Si sentiva inutile - era inutile. Stuzzicare il cervello di un folle omicida era uno dei passatempi preferiti di Addleman, un gioco in cui eccelleva. Ma lui non aveva nessun talento in questo campo. Per quanto a lungo cercasse, non avrebbe trovato nulla in quegli elenchi e in quei programmi. Posandosi le mani sui fianchi, girò lentamente su se stesso, osservando la stanza ingombra di carte. Doveva esserci un modo più produttivo di occupare il proprio tempo. 12 Addleman non emerse dalla stanza dei computer fino a sera inoltrata. La giornata afosa aveva lasciato il segno sul suo aspetto lindo e ordinato. Aveva la barba lunga e gli occhi cerchiati di rosso. Alcune ciocche di capelli, neri e arruffati, gli coprivano la fronte. Si era tolto la camicia, mettendo in mostra una canottiera di foggia antiquata, con le spalline sottili. Harper si stupì di quanto fossero muscolosi il torace e le spalle. L'abitudine di tenere la schiena curva lo faceva apparire gracile, invece possedeva una forza insospettata. Addleman guardò subito la sedia accanto alla finestra, sulla quale aveva lasciato l'amico e rimase sorpreso trovandola vuota. «Da questa parte», disse Harper. Era seduto per terra all'altro capo della stanza, accanto a pile di carpettine di plastica che gli arrivavano quasi fino alla testa. «Cosa stai facendo?», gli chiese Addleman in tono stizzito. Lui sollevò il fascicolo che si era posato in grembo. «Ho trovato i vecchi dossier che hai scaricato dal National Crime Information Center...».
«Sono acqua passata. Non possono certo aiutarci. Pensavo di averti detto di concentrarti sulle date degli attentati». Harper sorrise. «Harold, non puoi programmarmi come uno dei tuoi computer». Addleman ricambiò il sorriso e si strinse nelle spalle. «Scusa». «Non preoccuparti». «Penso comunque che tu stia sprecando il tuo tempo. Sono dei vecchi casi che ho scaricato dal computer all'inizio, quando stavo ancora cercando di scoprire se qualcuno aveva mai parlato di un serial killer che faceva saltare in aria le celebrità. Ma li ho scartati tutti, perché non rispondevano ai requisiti che avevo stabilito. Buckner, Wylie e Sothern erano gli unici tre di cui potevo essere sicuro». «Adesso sappiamo qualcosa di più sulla tecnica con cui costruisce le bombe. O almeno, io lo so. Forse riuscirò a trovare qualche traccia della sua opera. Se scoprissimo che aveva già colpito prima avremmo a disposizione altri dati su cui lavorare e maggiori probabilità di ricostruire il suo schema». «Scoperto qualcosa?». Harper scosse il capo. «Alcuni attentati potrebbero essere opera sua, ma non posso affermarlo con sicurezza». Addleman brontolò. «Questo è il genere di lavoro che solo il Bureau può svolgere». Si guardò intorno. «Cristo, cosa darei per avere una trentina di giovani agenti volonterosi o per passare qualche ora su uno dei supercomputer dell'FBI». Harper non fece commenti. Non erano riusciti a destare l'interesse di Frances Wilson, quindi ormai era inutile parlare del Bureau. Chiese: «E tu, hai trovato qualcosa?». «Ho scoperto che c'erano tre sette sia nella tessera della previdenza sociale di Wylie sia in quella di Sothern. Incredibile, vero? Ti rendi conto di come sia improbabile, statisticamente? Ho pensato che dovesse significare qualcosa». «E in quella di Buckner?». «Nessun sette. Un'altra teoria promettente che va in pezzi». Addleman si rimise a posto i capelli con le dita. «Vuoi fare una pausa per cenare?». Harper, che aspettava quella proposta da ore, rispose: «Sai cosa ti dico? Andiamo a mangiarci un pollo fritto». «Pollo fritto?». La luce brillante della rosticceria entrava dalle finestre posteriori rischiarando metà dell'appartamento, tuttavia Addleman appari-
va perplesso, come se non avesse mai notato prima il locale, come se addirittura non avesse mai sentito parlare dì polli fritti. «Perché no? Non ci farà certo male uscire un po'». Ma Addleman si infilò le mani in tasca, posò il mento sul petto e incurvò la schiena. Era come se dalla finestra stesse entrando un vento gelido invece di una balsamica brezza che odorava di pollo. Harper aveva dimenticato che l'ex agente federale era ormai un recluso, un eremita impenitente. «Perché fare tutta quella strada quando ho un freezer pieno di gustose cenette già pronte? Puoi scegliere quello che vuoi. Io prendo un hamburger con cipolle». Esattamente come la sera prima, ma se l'aveva scordato era inutile ricordarglielo. Harper fece un sospiro profondo. A quanto pareva sarebbero rimasti chiusi in quell'appartamento finché non scoprivano lo schema del bomber, o finché quest'ultimo non colpiva di nuovo. Sembrava che Addleman la vedesse così e lui non aveva un'idea migliore. Per potersi alzare, Harper fu costretto a sollevare la pila di carpettine che aveva in grembo. Sotto c'era qualcosa di cui si era occupato in precedenza: una mappa del Nord America su cui aveva indicato con una X i luoghi dei tre attentati attribuiti al bomber. Guardandola ora notò qualcosa che prima gli era sfuggito. Disse: «Pensacola è proprio sopra Cozumel». «Cosa?». Sollevò la cartina. «Puoi tracciare una linea perfettamente verticale tra la città in cui è stata uccisa la Wylie e quella in cui è morto Buckner». Addleman spostò lo sguardo dalla mappa al viso di Harper e poi viceversa, senza capire. «E allora?». Neanche Harper sapeva con certezza dove voleva andare a parare. Stava improvvisando. «Allora supponiamo che il bomber stia tracciando una linea verticale di proposito». «Impossibile. Il Minnesota, dove ha ucciso Sothern, è molto più a ovest, a sinistra, cioè». Harper scosse il capo. «Non capisci. Voglio dire che forse ci siamo posti le domande sbagliate». «In che senso?». «Vogliamo scoprire chi sarà la prossima vittima e quando avrà luogo l'attacco. Ma forse chi e quando sono le domande sbagliate. Forse dovremmo chiederci dove». Addleman gli lanciò un'occhiata inespressiva. «Continua».
«Abbiamo sempre sostenuto che questo tizio sta cercando di completare uno schema. Be', supponiamo che lo stia tracciando letteralmente sulla cartina. Con ogni omicidio mette un puntino sulla mappa e, quando sferra l'attacco finale a cui si sta preparando sin dall'inizio, il disegno sarà completo». «Sì, ma quale disegno?», chiese Addleman, impaziente. Poi aggiunse: «È una teoria davvero ingegnosa, Harper, ma non ci porta da nessuna parte. Abbiamo ancora il grosso problema di non sapere niente su quello che il nostro amico considera importante. Su cosa lo ossessiona. A parte le bombe e le celebrità, naturalmente». Harper stava esaminando la cartina, la linea verticale che andava da Cozumel a Pensacola e quella obliqua che collegava Pensacola alla zona di Minneapolis e St. Paul. «Potrebbe essere parte della lettera Y», dichiarò. «Magnifico. Quindi stiamo cercando qualcuno di nome Yakov. O Yogi. O Yoda». Addleman rise, scoraggiato, e scosse il capo. «Potrebbe essere la sua iniziale oppure quella della sua ragazza. O magari corrisponde alla prima cifra del suo numero di telefono. Ma non sei a conoscenza di nessuna di queste tre cose, quindi come puoi indovinare quale sia lo schema? Non sappiamo niente sul nostro amico, neanche quale sia il suo colore preferito o il suo segno zodiacale». «Segno zodiacale», ripeté Harper, senza sapere come mai queste parole lo avessero colpito. Gli ricordavano qualcosa, ma non riusciva a stabilire cosa. «No, scordatelo». Addleman si alzò e sollevò un dito, come un insegnante severo che voglia rimproverare un alunno. «Stavo scherzando. Un eventuale interesse per l'astrologia non si adatta affatto al suo profilo psicologico». «Davvero?». «Una cosa che so di lui è che non è un tipo New Age. Non è affettuoso né espansivo, non ama il contatto fisico. La sua passione è la tecnologia. Si identifica con inventori e ingegneri. Sono sicuro che considera l'astrologia pura superstizione, da evitare come la peste. Dove vuoi andare a parare, comunque?». Harper se l'era finalmente ricordato. «Ieri sera hai detto che potrebbe essere interessato alle stelle». «Oh, certo. Astronomia, Harper, non astrologia. Questo corrisponderebbe al suo profilo. Il nostro amico è molto sistematico e questo è il sistema più grande che esista. Gli astronomi fanno calcoli che implicano milioni di
anni e miliardi di chilometri, eppure possono dirci esattamente... be', per esempio quando una cometa passerà accanto alla Terra. Mi stavo chiedendo se le date degli attacchi del killer non potrebbero essere collegate a qualche cometa o roba simile». Harper scosse lentamente il capo. Picchiettò con un dito sulla cartina che aveva in grembo. «Non credo. Penso che stia tracciando una costellazione sulla mappa». «Cosa?». «Ogni stella corrisponde al luogo in cui ha fatto saltare in aria una celebrità. Smetterà di uccidere dopo aver disegnato l'intera costellazione». Addleman rise di nuovo. «Ne sei proprio convinto, vero? Sai che è una teoria pazzesca?». «Abbastanza pazzesca per il nostro uomo», rispose Harper. L'altro inspirò a fondo e poi espirò lentamente. Prese le sigarette dalla tasca dei pantaloni e ne accese una. Mentre scuoteva il fiammifero chiese: «Sai quante costellazioni ci sono?». Harper scosse il capo. «Ottantotto riconosciute dall'unione astronomica internazionale». Addleman diede un tiro alla sigaretta e buttò fuori un filo di fumo. «Peccato che questo tizio non si interessi di astrologia, così ne avresti solo dodici di cui preoccuparti». «Le esaminerò tutte e ottantotto», disse Harper. «Okay. La teoria non mi convince, ma fintanto che non mi chiedi di perdere tempo controllandola con il computer, puoi procedere». Si voltò e si chinò per frugare in una pila di libri. «Eccoti l'atlante astronomico. Buon divertimento». Glielo passò e andò in cucina per infilare l'hamburger nel microonde. Harper si chinò sul volume e si mise al lavoro. 13 La mezzanotte era passata da un pezzo quando Harper bussò alla porta dello studio di Addleman ed entrò. La stanza era calda e soffocante. Addleman avrebbe potuto aprire le finestre per far entrare un po' d'aria fresca e pura, ma sembrava non rendersene conto. Qui non si sentivano i rumori della città, solo il mormorio e il ronzio dei computer. Tutti e tre i monitor brillavano nella luce fioca. Lui sedeva davanti al modello meno recente, pestando sui tasti con la destra.
Aveva posato il gomito sinistro sulla scrivania e la testa sulla mano. Sembrava esausto. Si voltò a guardarlo con la vista annebbiata. «Cosa c'è? Pensi di aver trovato qualcosa?». «Sì». Il tono di Harper era pacato ma il cuore gli batteva all'impazzata. Era così pieno di energia e di fiducia che si sentiva come se, dopo una bella nottata di sonno, si fosse risvegliato in un mattino luminoso. Ma cercò di arginare la propria eccitazione. Tutto quello che aveva scoperto nelle ultime ore sembrava logico e collegato, ma Addleman poteva benissimo trovare una falla nel suo ragionamento e demolire la sua teoria. Dopo aver premuto un ultimo tasto, Addleman fece ruotare la sedia, dando le spalle al monitor. «Allora, cos'hai scoperto?». Harper spinse verso la scrivania una sedia con le rotelle. Si sedette di fianco a lui e posò accanto al computer i libri e le carpettine che aveva portato con sé. Addleman guardò quello in cima alla pila e disse in tono annoiato: «Oh, astronomia». Non ricordava la loro conversazione dell'ora di cena. Non sarebbe stato facile convincerlo. Harper cominciò. «La costellazione è quella dell'Aquila». «Davvero?», rispose Addleman. «Credi che il nostro amico sia un superpatriota?». «Non so assolutamente che significato abbia per lui», replicò Harper, «ma è la costellazione dell'Aquila. Combacia perfettamente». «Fammi vedere». Lui aprì l'atlante astronomico in corrispondenza dell'illustrazione desiderata. Sulla pagina nera spiccavano otto puntini bianchi e le linee che li collegavano formavano il profilo del rapace visto dall'alto, con le ali spiegate. «Tanto di cappello ai greci», dichiarò Addleman. «Dagli otto stelle e loro ne ricavano un uccello completo». Ignorando il commento, Harper estrasse dal libro un foglio di carta da lucidi. «Le ho ridisegnate usando la stessa scala della cartina del Nord America. Adesso guarda cosa succede». Posò il foglio sull'atlante. I puntini che rappresentavano l'ala inferiore dell'aquila caddero su Cozumel e Pensacola. Quello più in alto mancò per un pelo Bloomfield, Minnesota - la sede del Mall of America dov'era stato ucciso Tim Sothern. Incrociando le braccia, Addleman si chinò sulla scrivania. Dopo aver studiato per un attimo il foglio e l'atlante, ridacchiò fiocamente. «Così sei riuscito a farlo funzionare. Ma solo con tre stelle. Hai provato anche con qualche altra costellazione?».
«Con tutte e ottantasette». «E?». Harper si strinse nelle spalle. «Puoi fare lo stesso trucchetto anche con altre cinque costellazioni. E in modo approssimativo con un'altra dozzina, circa». «Allora perché ce ne stiamo occupando? Perché mi fai perdere tempo con questa roba?». Harper rispose: «Le penne caudali, Addleman». «Cosa?». «Guarda le tre stelle vicine che rappresentano la coda dell'aquila». «Oh, capisco. Pensi che, se hai ragione, la prossima esplosione avverrà a...». Appiattì il lucido per poter leggere la cartina sottostante. «A Dodge City, Kansas? Quale celebrità vuole uccidere a Dodge City? Wyatt Earp è già morto da un pezzo». Harper scosse il capo. «Earl Walker Jr, un venditore d'auto. Compariva nei suoi spot televisivi ed era famoso in tutto lo stato». Addleman alzò la testa per guardarlo. «Era?». «È saltato in aria nel 1981». Prese una cartellina dalla pila e gliela lasciò cadere davanti. Sembrava che Addleman non riuscisse a staccargli di occhi di dosso: le parole di Harper avevano colpito nel segno. Adesso era sveglissimo. Alla fine aprì la cartellina e ne esaminò il contenuto. «Oh, sì. Ricordo il caso. L'ho scartato perché l'omicida ha usato un pacco bomba». «Non avresti dovuto. Sembrerebbe opera del nostro amico, che forse in seguito non ha più usato un pacco bomba. Secondo il rapporto, l'ordigno era stato costruito con materiali molto comuni che puoi trovare in qualsiasi discarica, ma assemblato con estrema cura». Tamburellò sul fascicolo. «Questo è il primo attacco del Celebrity Bomber». «Nel 1981, Harper? Pensi che si tratti dello stesso uomo? C'è un intervallo di più di dieci anni tra questo omicidio e quello di Sothern». «Invece no». Addleman gli scoccò un'altra lunga occhiata, poi si piegò in avanti, strizzando gli occhi per leggere la cartina sotto il foglio trasparente. «Tulsa, Oklahoma?». «June Lamont, che leggeva le previsioni del tempo per l'affiliata locale della NBC. Uccisa da un'autobomba nel 1985». Harper lasciò cadere il fascicolo sopra quello di Walker. L'altro lo aprì e lo sfogliò molto lentamente, con l'aria un po' intontita.
«Questo non me lo ricordo. Probabilmente ho pensato che una meteorologa locale non fosse una vera e propria celebrità». «Adesso non lo sarebbe, ma il nostro amico era soltanto agli inizi». Addleman spinse da parte i due dossier e si chinò di nuovo verso la mappa. «Presumo che tu abbia scoperto un'altra esplosione a... Fort Smith, Arkansas?». Harper annuì. «Nel 1987. La cantante rock Ann Taylor Graham. Era in città per un concerto. Noleggiò una barca per fare un giretto sul lago. La barca esplose. Insieme a lei morirono due membri della band e il suo produttore». «Credo di ricordarmelo», disse Addleman. «Scoppiò un grosso scandalo, vero? Lei aveva una relazione con questo produttore discografico legato alla malavita organizzata e si pensò a un omicidio di stampo mafioso». «Era quello che sostenevano i giornali, ma non è mai stato arrestato nessuno». Addleman si scostò dalla scrivania. Appoggiandosi allo schienale della sedia, si massaggiò il viso. «Tre attentati di cui ignoravo l'esistenza. Altri sei morti. Non voglio crederci, Harper, ma devo farlo per forza. Non può trattarsi di una semplice coincidenza». «No, infatti», rispose lui. «Aquila». Addleman scosse il capo con aria meditabonda. «È incredibile che questo pazzo abbia potuto fissarsi così su una costellazione. E perché proprio su quella? Molto interessante. Adesso possiamo fare parecchie nuove ipotesi sul funzionamento della sua psiche malata. Per esempio...». «Avvertire», lo interruppe Harper. Addleman lo guardò senza capire. «Dobbiamo scoprire chi sarà la sua prossima vittima e avvisarla. Arrivare a lei prima del bomber». «Giusto. Be', non dovrebbe essere poi così difficile. Il nostro amico si è sempre spostato da sinistra verso destra e dall'alto verso il basso. Il tipico comportamento di una persona ossessivo-compulsiva. Quindi il prossimo attacco avrà luogo a...». Si chinò verso la cartina. Harper decise di risparmiargli la fatica. «La prossima stella cade sull'Indiana sudorientale. Praticamente nel bel mezzo del nulla. Questo è un aspetto della teoria che non sono riuscito a chiarire. Come farà il dinamitardo a trovare qui una celebrità, qualcuno più noto della sua ultima vittima? Chi c'è nell'Indiana sudorientale che sia più famoso di Rod Buckner?». «Non lo so. Forse qualche star hollywoodiana sta girando un film lì. Op-
pure un senatore dello stato ha organizzato dei comizi elettorali. Dovremo tener d'occhio i giornali. Qual è la città più vicina?». Addleman stava ancora strizzando gli occhi per leggere la mappa. «Un posto chiamato Elmhart. Mai sentito nominare», rispose Harper. Addleman scoppiò a ridere. «Cosa c'è?». «Non ne hai mai sentito parlare? Si vede che non ascolti molto la radio». Harper lo guardò con occhi vitrei. Era vero, non era un ascoltatore assiduo. Addleman lo tenne in sospeso per un po'. Negli ultimi minuti il suo orgoglio aveva subito un duro colpo. Era felice di essere, di nuovo, un passo avanti. «Be', continua», lo sollecitò Harper, impaziente. L'altro inspirò, raddrizzò le spalle e disse con voce tonante: «La voce del popolo, dell'amico dell'uomo comune, vi giunge in diretta dal cuore della vera America...». «Certo!», esclamò Harper. «Speed Rogers!». Si era dimenticato che l'ampolloso commentatore radiofonico di destra trasmetteva da Elmhart, Indiana. «Anch'io non ascolto il programma da un po'. Rogers potrebbe essere in declino, ormai». «Non sono mai stato un suo fan», rispose Harper. L'altro inarcò le sopracciglia. «Spero che questo non ti impedirà di provare a salvargli la vita». «No, Rogers è proprio l'uomo che ci serve per spingere il Bureau all'azione. Ricco, con una notevole influenza sui media e ottimi contatti nel partito repubblicano. Se lo convinciamo che è in pericolo per colpa del bomber, riuscirà sicuramente a smuovere le acque». Addleman approvò. «Speriamo che sia all'altezza del suo nome. Non ci resta molto tempo». Harper annuì. «Il killer è molto più avanti di quanto pensassimo. Dopo Elmhart rimane solo una stella nella costellazione dell'Aquila». «La più grande», rispose Addleman. «Quella verso cui sta puntando fin dall'inizio. Dove pensi che succederà?». Stavolta Harper non glielo disse. Non ce n'era bisogno. Il dito di Addleman tracciò una linea retta che andava da Elmhart alla stella che rappresentava la testa dell'aquila. Non fu costretto a leggere il nome della città per sapere quale fosse. Avrebbero dovuto capirlo molto
tempo prima. «Proprio così», disse. «Washington, D. C. Si è tenuto per ultimo il bersaglio più allettante. È da parecchio che non vede l'ora di arrivarci». Harper incrociò le braccia e le guardò. «Non ci arriverà mai. Non arriverà neanche a Elmhart, Indiana». «Non se abbiamo la possibilità di fermarlo, Will». «L'abbiamo», rispose Harper. «Lo fermeremo». 14 Il pomeriggio seguente Harper sedeva nella sala d'aspetto di Speed Rogers. Era rimasto lì abbastanza a lungo per chiedersi se sarebbe più riuscito ad alzarsi dal divano. Come prima cosa lui e Addleman avevano fatto qualche telefonata cercando di scoprire dove si trovasse il presentatore radiofonico. Era sulla costa orientale per partecipare a degli spettacoli televisivi registrati a New York e Washington. Il suo consueto programma radiofonico trasmesso da Elmhart sarebbe ricominciato il 22 aprile, ovvero due giorni dopo. Quindi non avevano molto tempo. Addleman sosteneva che il punto debole del bomber era la sua rigidità. Lo schema gli imponeva di uccidere Rogers a Elmhart. Fintanto che quest'ultimo restava lontano dalla città, era al sicuro. Harper aveva preso il primo treno per New York e adesso stava aspettando di riferirgli questo messaggio personalmente. Anche se, quando era in onda, Rogers attaccava costantemente l'establishment dei media liberali, il suo ufficio era situato proprio nel bel mezzo di questo, sulla Sesta Avenue, nel centro di Manhattan. Anche l'arredamento fu una vera sorpresa. Visto che il conduttore di talk show cianciava perennemente dei valori dell'americano medio, Harper si era aspettato sedie a dondolo, tende di percallina a quadretti, stampe di Norman Rockwell. Ma la sala d'attesa era tutta legno scuro, acciaio e vetri fumé. Gli splendidi tappeti persiani sembravano autentici e anche nuovi di zecca, dimostrando che Rogers, come il suo eroe Ronald Reagan, aveva fatto affari con gli ayatollah. Tutti i mobili erano bassi ed eleganti. Se il divano di pelle e acciaio su cui Harper era seduto avesse avuto lo schienale un po' più inclinato, lui si sarebbe ritrovato con le ginocchia al livello degli occhi. La giovane donna di colore seduta dietro il bancone della reception aveva rappresentato un'altra sorpresa. Lui poteva soltanto presumere che fosse
stata la candidata più qualificata, visto che Rogers si opponeva strenuamente alle iniziative contro la discriminazione razziale. Due ore prima, entrando nell'ufficio, Harper l'aveva interpellata con una certa cautela. Non voleva essere frainteso e trattato come un pazzo furioso, quindi le mostrò la tessera che lo identificava come un sergente della polizia di New York in pensione e spiegò pacatamente che, sulla base di informazioni appena ottenute, temeva che la vita di Rogers fosse in pericolo. La receptionist non parve allarmata e neanche sorpresa. Con l'interfono avvisò una certa Courtney, spiegandogli che questo mese era lei a occuparsi delle minacce di morte. Courtney era giovane, con una folta criniera di capelli biondi. Indossava un'ampia camicia da uomo e jeans attillati. Neanche lei era come Harper si aspettava. Gli ascoltatori che telefonavano a Rogers in diretta erano per lo più degli schifosi leccaculo che assentivano a qualunque cosa lui dicesse, persino quando li insultava. Harper aveva immaginato che chiunque lavorasse per la star radiofonica fosse un pallido e tremebondo tirapiedi, invece Courtney aveva un modo di fare allegro e disinvolto e parlava di Speed con affetto tollerante, come se si fosse trattato di uno zio eccentrico. E la sua mente era affilata come un rasoio. Nel suo minuscolo ufficio, ascoltò pazientemente Harper, prendendo appunti e facendo domande intelligenti. Alla fine lo pregò semplicemente di aspettare. Così lui tornò nella reception dove, come tutte le altre persone con un appuntamento, si vide costretto a guardare Speed Rogers sull'enorme televisore sistemato proprio di fronte al divano. Questi stava accusando un senatore democratico delle più madornali scorrettezze in campo finanziario e sessuale e condannando gli ipocriti giornalisti dell'establishment liberale per non aver indagato su di lui. Il programma veniva trasmesso in diretta da uno studio di Manhattan, quindi Harper si rassegnò ad aspettare a lungo prima di poter vedere la star. La prospettiva del colloquio lo innervosiva un po'. Rogers poteva anche essere uno spaccone egocentrico, ma sembrava che non avesse mai problemi a prendere una decisione. Se gli credeva, avrebbe reagito in modo rapido e concreto. In caso contrario, Harper rischiava di diventare bersaglio del sarcasmo e degli insulti per cui l'altro era diventato famoso. Continuava a sbirciare il telefono posato sul tavolino accanto a lui. Laura si trovava dall'altra parte della città, al New York University Hospital. Stava pensando di chiamarla ma continuava a rimandare. Prima voleva vedere come andava l'incontro. Le aveva spiegato che, una volta avvisato il
prossimo bersaglio, sarebbe stato sicuro, di aver fatto il proprio dovere, che la futura vittima gli credesse o meno. Adesso sperava, quando le avrebbe telefonato, di poterle dire che aveva mantenuto la promessa ed era diretto verso casa. Una porta si aprì e ne uscì Courtney. Stava sorridendo e i capelli ondeggiarono sulle spalle mentre gli si avvicinava a grandi passi. «Siamo pronti a riceverla, Will». Harper fissò lei e poi lo schermo televisivo, dove Speed Rogers continuava a inveire contro il perfido senatore. «Cosa? Chi?», chiese. «Tutto lo staff. Abbiamo organizzato una riunione proprio per ascoltarla». «Cosa intende per staff, esattamente?». «Oh, abbiamo tutti un titolo ufficiale - scrittore, produttore, ricercatore ma in linea di massima il nostro compito è fare di Speed Rogers Speed Rogers». Sorridendo, indicò il televisore con un cenno del capo. «Non crederà che tutte quelle idee siano farina del suo sacco, vero?». Lui non ci aveva mai pensato. Si strinse nelle spalle e rispose: «La seguo». Alzandosi faticosamente dal basso divano, seguì la testa bionda di Courtney oltre una porta e lungo uno stretto corridoio affollato. Raggiunsero una doppia porta spalancata. Lei gli fece cenno di entrare. Si ritrovò in una piccola sala riunioni. Dalle finestre si vedevano altri grattacieli del centro, inframmezzati dal verde di Central Park. La TV in un angolo stava trasmettendo lo show di Rogers, ma con il volume a zero. Nove o dieci giovani, vestiti in modo informale ma costoso, sedevano con aria rilassata attorno a un lungo tavolo. Nessuno di loro prestò la minima attenzione a Harper. Alcuni stavano leggendo giornali o riviste, altri chiacchieravano o telefonavano, con i piedi appoggiati sul tavolo. Qualcuno pigiava i tasti di un computer portatile. Nonostante l'atteggiamento disinvolto, essi emanavano un'energia in qualche modo nervosa. Lui ebbe l'impressione di trovarsi vicino a un cavo elettrico. Ormai aveva visto abbastanza dell'organizzazione di Rogers per non restare stupito scoprendo che i collaboratori del famoso personaggio di destra non sembravano missionari mormoni. Erano esperti di comunicazione di massa laureati nelle migliori università e approdati a New York in cerca di fama e fortuna. Lui doveva aver assunto quelli con più immaginazione, sicuro che si sarebbero adattati alla sua politica. Harper non era affatto sicuro che fossero le persone giuste con cui parla-
re. Courtney gli posò una mano sulla spalla per spingerlo avanti, verso l'estremità del tavolo, dal quale una donna bruna si stava alzando. «Naomi Glidden, Will Harper». Naomi era snella, con un viso minuto e grandi occhi castani. L'ampio sorriso sembrava genuinamente cordiale, ma Harper non poteva averne la certezza. I lunghi e ricciuti capelli neri erano raccolti in uno chignon arruffato e portava occhiali all'ultima moda, dall'aria fragile e con minuscole lenti ovali, come quelli che si vedevano nei cinegiornali di una volta. Lui non riuscì a stabilire quanti anni avesse. Gli orari massacranti e la continua pressione fanno invecchiare prematuramente le persone che lavorano nel mondo dei media. Le quali poi ricorrono alla chirurgia plastica perché per loro è essenziale sembrare giovani. Naomi Glidden non aveva rughe né borse sotto gli occhi, ma si capiva che si era lasciata da tempo alle spalle i giorni spensierati della giovinezza. «Buongiorno, Will. Grazie di essere venuto a sottoporci la questione». Era un po' strano definire così una minaccia di morte. Harper disse: «Speravo di poterne discutere personalmente con Speed Rogers». «Lo sperano tutti», rispose stancamente lei. «Per il momento non posso prometterle niente. Mi spiace». «D'accordo. Posso parlare almeno con il capo della sicurezza?». «Non è necessario. Gli spedirò una e-mail subito dopo questa riunione. A proposito, il nostro Clifford è un uomo molto capace. Il servizio di sicurezza che dirige è perfettamente in grado di fronteggiare qualunque minaccia contro Speed». «Questa è una minaccia di tipo diverso». «È proprio quello che vogliamo discutere». Con la mano sinistra gli indicò di sedersi, poi si rivolse ai presenti. «Allora, il Celebrity Bomber. Cosa ne pensiamo?». «Parliamone in trasmissione», rispose un giovanotto seduto a metà del tavolo. Aveva folti capelli castani che scintillavano di gel. Il corpo magro era avviluppato in una giacca informe, come se lui stesse cercando di emulare la struttura massiccia del suo datore di lavoro. Ma non indossava uno dei chiassosi panciotti che erano il marchio di fabbrica di Rogers. «Inseriremo Will nello show il prima possibile -mercoledì, se riusciamo a snellire la scaletta del programma». «Ehi, aspettate», rispose Harper. «Non ho nessuna intenzione di...». Naomi gli posò una mano sull'avambraccio. «In questa fase della riunio-
ne, Will, ci limitiamo a esprimere idee a ruota libera. Non permettiamo atteggiamenti negativi. Continua, Stuart». Stuart ubbidì. «Provate a pensare Speed che intervista un ex eroe della polizia di New York, rivelando che qualcuno vuole ucciderlo. Riuscite a immaginare quante telefonate riceveremo? I fan, indignati, accorreranno in sua difesa, accendendo il centralino come un albero di Natale. Ricordate quando Howard Stern ha attaccato Speed? Sono arrivate cinquemila chiamate durante gli ultimi dieci minuti dello show. E quella volta erano solo parolacce. Per un minaccia di morte...». «Da parte dello stesso pazzo che ha ucciso Rod Buckner», intervenne Courtney. «Un patetico fallito che ha ridotto impunemente al silenzio una delle più forti voci americane, che auspicava un profondo orgoglio nazionale e un'energica difesa. Adesso minaccia...». Harper si chinò in avanti. «Scusate, ma ho l'impressione che siate andati un po' troppo in là. Prima di tutto, il bomber non è spinto da moventi politici. Non dimenticate che ha ucciso anche il membro del Congresso Wylie». «È successo più di un anno fa», rispose Courtney stringendosi nelle spalle. «Nessuno se ne ricorda più. Invece questa settimana il romanzo di Rod Buckner occupa il sesto posto nella classifica dei best-seller tascabili del Times. Dovremmo decisamente sottolineare il legame con lo scrittore». Ci furono mormorii di approvazione intorno al tavolo. Harper si rivolse a Naomi. «Non sono sicuro di capire cosa ci faccio qui. Mi credete oppure no? Vi rendete conto che la vita di Rogers è davvero in pericolo?». Prima che lei potesse aprire bocca, gli rispose un giovane asiatico seduto a capotavola. Era l'unico a indossare un completo scuro, di ottima fattura e il cui tessuto blu conteneva parecchia seta. «D'accordo, parliamo di questo. Supponiamo che Will si sbagli». «Continua, Howard, supponi pure», lo sollecitò Stuart. Howard si presentò educatamente a Harper. Il suo cognome era Woo. Sistemandosi gli occhiali sul naso, si rivolse a tutti i presenti e continuò: «Consideriamo la peggiore delle ipotesi: rendiamo di dominio pubblico la minaccia, le settimane passano, ma nessuno cerca di uccidere Speed. Cosa succederebbe?». «Uno sketch in TV al Saturday Night Live», rispose un giovanotto di colore. Altri mormorii di approvazione. «Probabilmente più di uno. Potrebbero persino iniziare un conto alla rovescia tipo "Speed Rogers non è anco-
ra morto", proprio come ha fatto Chevy Chase con il generalissimo Francisco Franco». Intorno al tavolo si fece silenzio, mentre tutti consideravano questa prospettiva. Alla fine fu Stuart a parlare: «Io dico che Speed può benissimo affrontare la cosa. Diciamo che passa una settimana senza nessun attentato, okay. Lui dichiara che era tutto uno scherzo, come nel '92, quando ha annunciato di aver cambiato idea e di voler votare per Clinton. Ricordate quante telefonate...». Harper picchiò la mano sul tavolo. Quella menomata. La sollevò, attirando l'attenzione. Tutti tacquero. «È stata una bomba», spiegò. Si guardò intorno, osservando quei giovani visi. «Dovete capire che stiamo parlando di una minaccia reale. È in gioco la vita del vostro capo. O almeno io la penso così. Se non volete prendere sul serio quello che ho da dire, lasciatemi parlare con lui. Questo almeno glielo dovete». Si appoggiò allo schienale, abbassando la mano. L'espressione dei membri dello staff si era incupita. Si scambiarono un'occhiata. Poi Stuart replicò: «Scusi, Will. Non volevamo offenderla. Ma succede tutti i giorni che Speed venga minacciato da un folle». «Questo non è semplicemente un altro squilibrato. Ha già ucciso ventidue persone. Il vostro capo potrebbe diventare la ventitreesima vittima». Mentre parlava si era girato e alla fine si rivolse direttamente a Naomi. Lei si accigliò. «Noi dobbiamo considerare le conseguenze in ogni direzione, Will, prevedere tutti i modi in cui le parole e le azioni di Speed potrebbero essere interpretate. Ogni giorno milioni di persone si sintonizzano per ascoltarlo - persone confuse, frustrate, che sperano di trovare attraverso le sue parole un bersaglio concreto e una direzione precisa per loro rabbia. Una minaccia contro Speed Rogers non riguarda soltanto lui ma l'intero paese. Prima di rendere pubblica una cosa del genere, prima di inserire lei nello show, devo...». «Non voglio partecipare allo show, ecco cosa sto cercando di dirvi. E non dovete rendere pubblica la minaccia». Era sbalordito dalla capacità della fama di distorcere la percezione della realtà, dall'universo parallelo in cui viveva questa gente. Speed Rogers doveva essere isolato completamente dal mondo reale e dai suoi problemi quotidiani. Il suo staff non voleva nemmeno informarlo di un possibile attentato alla sua vita. Naomi distolse lo sguardo, sconcertata. Lui sentì dei mormorii stupiti al-
le sue spalle. «Vi consiglio di convincere Rogers a fare qualche telefonata ai suoi amici a Washington, persone in grado di spingere l'FBI a prendere sul serio il caso del bomber. Oltre a questo, non deve fare altro che restare lontano da Elmhart». «Restare lontano da Elmhart?», ripeté lei. Il mormorio dietro a Harper divenne più forte. «Il nostro dinamitardo è un attento pianificatore, che non sa adattarsi ai cambiamenti. Il suo schema di comportamento gli impone di sferrare lì il prossimo attacco. Se Rogers non ci va, lui può soltanto aspettare. Vi basta tenere il vostro capo lontano da Elmhart e non correrà rischi». Naomi lo stava fissando attraverso le minuscole lenti ovali degli occhiali. «E secondo lei da dove dovrebbe trasmettere lo show?». Harper si strinse nelle spalle. «Magari da New York o da Washington, non saprei». «Ma sarà capitato anche a lei di ascoltare il suo programma. Speed si impegna a dire che sta trasmettendo dal cuore della vera America. Adesso dovrebbe annunciare che lì non è al sicuro?». «Fatelo trasmettere dal Kansas, dall'Ohio... ovunque eccetto che da Elmhart, Indiana». «Elmhart è la sua città natale. Dovremmo impedirgli di tornare a casa senza poterne spiegare il motivo?». Scuoteva la testa con decisione. «Non immagina neanche le possibili ripercussioni». Harper sospirò. «Ha ragione. Come vengono interpretate le azioni di Speed non è un problema mio. Sto solo cercando di salvargli la vita. Dovete lasciarmi parlare con lui». Naomi scosse la testa ancora più energicamente. Il suo chignon rischiava di disfarsi. «La vita è sua», dichiarò Harper. «Dovrebbe essere lui a decidere». Questo sembrò colpirla. Almeno smise di fare cenni di diniego e lo fissò per un lungo istante. Poi distolse lo sguardo e annunciò: «Credo che abbiamo finito, signori. Grazie». I giovani collaboratori di Rogers parvero stupiti. Impiegarono un po' a lasciare la stanza. Naomi consultò il suo computer portatile. «Posso concederle cinque minuti con Speed», disse. «Ma solo cinque». «Okay», rispose Harper. «Domani all'una», disse lei. «Nella sua casa di Elmhart». «Elmhart?». Harper era incredulo. «Ma voglio cercare di convincerlo a restare lontano da lì».
«Se ci riesce, Speed può sempre andarsene». Il tono di Naomi suggeriva che, a suo parere, non aveva molte possibilità di successo. Harper indicò il televisore, che stava ancora trasmettendo in diretta il programma con Rogers. «Ma adesso si trova a Manhattan. Non posso parlargli oggi?». Naomi gli rivolse un sorriso triste, commiserando la sua ignoranza. «Dallo studio raggiungerà la libreria Doubleday sulla Quinta Strada, dove la gente è in fila da stamattina per farsi firmare una copia del suo libro. Poi avrà appena il tempo di correre all'aeroporto e prendere il volo per Washington, dove terrà un discorso durante una cena di beneficenza. Non c'è tempo, davvero». «Si aspetta davvero che io accetti di andare fino a Elmhart?». Lei si strinse nelle spalle. «Certa gente è venuta da Londra per passare cinque minuti con Speed. Da Pechino». Harper sospirò di nuovo, più a fondo. Distolse lo sguardo da Naomi e i suoi occhi si posarono casualmente su uno dei telefoni sul tavolo. Ricordò di aver aspettato con ansia di poter chiamare Laura per spiegarle che aveva avvertito la prossima vittima ed era pronto a tornare a casa. Solo che le cose non erano andate affatto così, ma nel modo in cui aveva previsto lei durante il loro litigio, nella sala da pranzo da ridipingere. «Troverai un uomo piazzato al centro del bersaglio e andrai a sederti accanto a lui», gli aveva detto. Ed era proprio questo che Harper stava per fare. Era l'unico modo per fermare il bomber. Si voltò di nuovo verso Naomi. «Ci vediamo a Elmhart», le disse. 15 Markman lasciò l'autostrada all'uscita per Elmhart. Svoltò nel parcheggio del motel e lasciò l'auto accanto a un'insegna che proclamava: "PREZZI BOMBA PER LE SINGOLE". Era un vecchio motel che avrebbe accettato molto volentieri un pagamento in contanti anticipato, ecco perché gli piaceva. Sulla porta dell'ufficio, una casetta in legno separata dal resto e con una persiana mezza rotta, spiccava un cartello che lo identificava come tale. Alla finestra anteriore era fissato un pezzo di cartone ingiallito con la scritta "CAMERE LIBERE". Markman portò con sé la valigia, che non conteneva solo i suoi abiti ma
anche una potente carica di plastico. Preferiva non lasciarla fuori. In piedi dietro il banco della reception c'era un vecchio con una folta criniera di capelli bianchi. Su una sedia lì accanto una bambina bionda di circa nove anni, con delle lunghe trecce e un visino dolce, sorrise a Markman. Le mancava qualche dente davanti, ma il suo era comunque uno splendido sorriso. Lui chiese una stanza. «Ne abbiamo qualcuna disponibile», rispose il vecchio. Entrando nel parcheggio, Markman aveva notato che c'era solo un'altra macchina. «Sul retro, se possibile», disse. «Preferisco non sentire i rumori che arrivano dalla strada». «Certo», replicò l'uomo. «Le darò la 9A». Gli posò davanti un modulo per la registrazione. Markman lo riempì con dati falsi, compreso il nome. «Vanno bene contanti?», domandò. «Certo. Quante notti?». «Due. Pago subito». «Perfetto», rispose l'uomo, prendendo i soldi. La bambina si era alzata in piedi. «Mimì penserà alla sua valigia, signore. È così che si guadagna da vivere». «La porto io», disse Markman. Poi ci ripensò. Cercò di reprimere un sogghigno mentre passava la valigia a Mimì, che riuscì a stento a sollevarla. Conteneva abbastanza esplosivo per ridurla in frammenti così minuscoli da essere praticamente invisibili, ma lei non lo sapeva. Markman invece sì e la cosa gli procurava un certo piacere. «Dopo di te», le disse, seguendola da vicino per tenerla d'occhio. Fece l'occhiolino al vecchio: erano complici nel tentativo di far sentire utile una bambina. Due bravi samaritani. Non essendo mai stato prima nell'Indiana, Harper si aspettava un paesaggio piatto e monotono. Invece, in piedi davanti alla portineria della tenuta di Speed Rogers, stava ammirando colline ondulate e macchie di alti alberi centenari. Era appoggiato a un susino, che gli faceva ombra sotto una nuvola di fiori bianchi. Qui la primavera era molto più avanti che nel nord-est. L'aria era così tiepida che si era tolto la giacca. Le guardie nella portineria sembravano in gamba. Avevano controllato la sua identità e lo avevano perquisito, chiedendogli di aspettare Naomi
Glidden, che poi doveva accompagnarlo in auto su alla villa. Ma quei tizi armati ed efficienti non riuscirono a metterlo a suo agio. E neanche la serena bellezza della tenuta. Continuavano a ricordargli il giorno in cui aveva visitato la proprietà di Rod Buckner, altrettanto ben sorvegliata e tranquilla. Il giorno in cui Jimmy Fahey, Buckner e altri cinque uomini erano stati disintegrati da una bomba. Con la mano sinistra si massaggiò quella mutilata. Gli aveva fatto male per tutta la mattina. La tensione gli faceva stringere inavvertitamente i pugni, ecco il motivo del dolore. Non era una premonizione. Lui non credeva nelle premonizioni. Un fuoristrada giallo con il tettuccio aperto sbucò da dietro la curva sbandando e si fermò accanto a lui. Naomi Glidden, al volante, gli sorrise. «Salve, Harper. Salti su». Aveva fissato delle lenti scure sugli occhiali di foggia antiquata. I lunghi capelli erano sciolti e indossava un top rosa e una minigonna color kaki, eppure non sembrava affatto più rilassata qui a Elmhart di quanto non fosse stata a Manhattan. Guardò l'orologio mentre lui prendeva posto sul sedile di fianco a lei. Dopo una stretta inversione l'auto risalì la collinetta rombando. Il vento scompigliò i capelli di Harper, che immaginò di poter contare su Naomi per arrivare alla villa in tempo per l'appuntamento. «Ha avuto problemi a trovare il posto?», gli chiese lei, gridando per sovrastare il rumore del vento. «No. Sembra che tutti in città sappiano dove abita il suo capo. Sono ben felici di darti le indicazioni necessarie. E di parlare di lui». Naomi sorrise. «Speed è cresciuto qui, come ormai saprà. La famiglia Rogers è da diverse generazioni una delle più importanti della zona. Trasferendo qui lo show, restaurando il vecchio tribunale e costruendo questa tenuta Speed ha aiutato l'economia locale e ne è orgoglioso. Le sue radici significano molto per lui. Stamattina è di ottimo umore. È felice di essere tornato a casa». «Per quanto tempo è rimasto fuori?». «Una ventina di giorni. Si è preso una vacanza per Pasqua, poi è stato impegnato con spettacoli televisivi e apparizioni pubbliche sulla costa orientale. Non sospendiamo mai lo show per più di tre settimane. Perché vuole saperlo?». Harper rispose lentamente: «Mi stavo chiedendo se il dinamitardo è già qui. Se è arrivato da un po' per potersi dedicare con calma ai preparativi, aspettando il ritorno di Rogers».
Si massaggiò di nuovo la mano dolorante. Forse era davvero un presagio. Scostandosi i capelli dal viso, Naomi lo guardò in tralice. Sembrava perplessa e seccata. «Spero di non commettere un grosso errore lasciandole vedere Speed. Ma ricordi che ha solo cinque minuti, non un secondo di più». «D'accordo», rispose Harper. «Non voglio restare accanto a lui oltre il necessario. Niente di personale, ma questo non mi pare il luogo più sicuro in cui trovarsi». Lei stavolta non lo guardò, ma fece fare all'auto un'altra curva stretta. Harper afferrò la maniglia sul cruscotto con la mano sinistra. Quando raddrizzò la schiena vide che si stavano avvicinando alla casa. La sua prima impressione fu positiva. Sembrava un posto sicuro. Una specie di bunker, in realtà. Era lunga e bassa, addossata alla sommità della collina. Parcheggiarono ed entrarono dalla porta principale. L'interno era luminoso, arredato con gusto e soprattutto ampio, forse per lasciare abbastanza spazio alla figura massiccia e alla voce tonante di Speed Rogers, o almeno così immaginò lui. Scesero diverse rampe di scale, superando fontanelle gorgoglianti e file di piante dai fiori esotici. Erano entrati dall'alto e adesso stavano scendendo, di piano in piano, lungo il fianco della collina. Harper cominciava a cambiare idea sull'invulnerabilità dell'edificio. Continuava a vedere grandi finestre affacciate sul cielo blu, su verdi colline ondulate e su boschi. Là fuori c'erano troppi comodi nascondigli per poter stare tranquilli. Ed era troppo facile vedere l'interno della casa. Naomi arrivò in fondo all'ennesima breve rampa di scalini poco prima di lui. Disse: «Speed, ti presento il sergente Harper, era nella polizia di New York». Il conduttore televisivo sedeva su una poltrona di pelle e stava leggendo un copione. Lo mise da parte e si alzò. Harper aveva sentito dire che in TV la gente sembra più grassa di quanto non sia. Nel caso di Rogers non era vero: di persona era gigantesco, con un collo taurino e un torace enorme. Stava sorridendo. Sotto le sopracciglia bionde, gli occhi azzurri brillavano di felicità infantile. «Salve! Piacere di conoscerla». Gli strinse delicatamente la mano. Le dita mancanti non gli fecero abbassare lo sguardo per la sorpresa: era stato informato del particolare e non l'aveva dimenticato. «Grazie di essere venuto fin qui. Ha già mangiato? Vuole pranzare con me? Ho appena ordina-
to qualcosa nel locale che fa gli hamburger migliori della città...». «Will ha solo cinque minuti, Speed», disse Naomi. «Oh. Be', si sieda e verremo subito al sodo. Avrà almeno il tempo di bere una Coca-Cola. Dietetica o normale?». Harper rifiutò. Scoprì di non essere sorpreso dall'ospitalità di Rogers. Al di là dell'enfasi eccessiva e delle spacconate, gli era sempre sembrato un tipo cordiale, ansioso soprattutto di risultare simpatico. Anche i suoi fedeli ascoltatori dovevano averlo intuito e lo ammiravano per questo, oltre che per i suoi feroci attacchi contro la gente che anche loro odiavano. Si sedettero uno di fronte all'altro. Naomi rimase in piedi e guardò l'orologio. Harper cominciò a dire: «Suppongo che l'abbiano informata del...». «Sì, sì. A quanto pare ha scoperto un altro pazzo, addirittura più squinternato della media». «Dunque lei pensa che io abbia ragione. Che esista un Celebrity Bomber deciso a colpirla». «Naturalmente. Con tutti gli squilibrati che scorrazzano liberamente, perché mai dovrei dubitare della sua parola?». Ma Rogers sorrideva mentre guardava fuori dalla finestra. Qualunque cosa stesse succedendo nel paese, lui si sentiva perfettamente al sicuro a casa sua. «Ho le migliori guardie di sicurezza disponibili. Non ha motivo di preoccuparsi», aggiunse. «Anche Rod Buckner poteva contare su un eccellente servizio di sorveglianza». «Sì. Povero Rod. Sono stato al suo funerale». Lo scintillio scomparve bruscamente dagli occhi azzurri. Il viso paffuto si fece solenne. Ma solo per un attimo. Poi sorrise e si voltò verso Naomi. «Ho incontrato Colin Powell, là... te l'ho detto?». Mentre Rogers raccontava l'aneddoto a una Naomi debitamente interessata, Harper rifletté. Pensava di dovergli mettere paura e si stava chiedendo come fare, quando dietro di lui qualcuno sternuti. Stuart, il gracile collaboratore conosciuto il giorno prima a New York, scendeva le scale reggendo un grosso sacchetto di carta. «Salve, Will», disse educatamente, poi sternuti di nuovo. Rogers ridacchiò con aria comprensiva. «Povero Stu. In questo periodo dell'anno la febbre da fieno si fa proprio sentire, vero?». «A New York sto benissimo, ma qui...». Stava facendo una smorfia per uno sternuto imminente. Avanzò verso Rogers senza vedere niente, porgendogli il sacchetto. «Ah!», esclamò lui, prendendolo. «Gli hamburger di Carl's», spiegò a
Harper. «Li mangio da quando ero ragazzo e sono i migliori che abbia mai provato. Quelli del Twenty-One Club di New York non ci si avvicinano neanche». Harper si chinò in avanti, allarmato. Chiese a Stuart: «Hai visto il cameriere infilare gli hamburger nel sacchetto?». Il giovane sternuti. Si tamponò il naso e gli occhi lacrimanti con un fazzoletto. «Cosa? Certo». «Pensaci un attimo. Lo hai visto davvero riempire il sacchetto?». «Harper, tutto questo è ridicolo», disse Naomi. «Contiene degli hamburger. Riesco a sentirne il profumo fin da qui». «Potrebbe contenere anche qualcos'altro». «Senta, è un locale minuscolo», spiegò Stuart. «Conosco quel tizio. Ho chiacchierato con lui per tutto il tempo. Ho visto tutto quello che ha fatto». «Non ti sei dovuto voltare per starnutire?», gli domandò Harper. «Nemmeno una volta?». L'altro non rispose. Speed Rogers stava fissando con gli occhi sgranati il sacchetto che stringeva. Raddrizzò lentamente il braccio per allontanarlo da sé. «È ridicolo», ripeté Naomi. «Sono degli hamburger. Chiunque lo capirebbe». «Rod Buckner credeva che fosse un libro. Tim Sothern ha pensato che fosse una scatola di scarpe da tennis. Ancora non sappiamo come la bomba sia arrivata nella suite del membro del Congresso Wylie». «Stuart, assecondiamo Harper», dichiarò Naomi. «Porta il sacchetto giù in portineria. Loro sanno cosa fare». Il giovane, immobile, stava fissando l'oggetto stretto nella mano protesa di Rogers. Era troppo preoccupato persino per starnutire. «Stuart!», disse seccamente Naomi. «Vuoi che lo prenda io?». Lui si riscosse. Afferrato il sacchetto, salì rapidamente le scale. «È tutto a posto, Speed», continuò Naomi. «Quando ce li ridanno li infiliamo nel microonde e saranno come nuovi». Rogers si appoggiò allo schienale, senza dare segno di averla sentita. In realtà non sembrava più affamato. Continuava a fissare le scale e non parlò finché non sentì il fioco rumore della porta d'ingresso che si chiudeva dietro a Stuart. Harper lo aveva convinto. «Naomi», disse in tono petulante, «mi hai davvero deluso. Questo è il genere di problema che di solito mi risparmi. Come mai non... come mai non siete riusciti a risolverlo autonomamente?».
Lei raddrizzò le spalle davanti al rimprovero. Chiese: «Risolverlo autonomamente?». «Capisci, dovresti portare Will giù dal capo delle guardie. Com'è che si chiama?». «Jim Clifford». «Giusto. Chiedigli di mostrare la tenuta a Will e ascoltare i suoi consigli». Si rivolse a Harper. «Passi un'oretta con Jim, Will. È davvero un brav'uomo. La convincerà che qui sono al sicuro. Poi torni a riferirmi cos'ha detto». «E a rassicurarla?». Harper scosse il capo. «Mi dispiace, signor Rogers. Secondo me, c'è solo una cosa che può fare per sentirsi al sicuro: andarsene da Elmhart». «Ma questa è casa mia. Se non sono al sicuro qui...». Rogers stava scuotendo lentamente la testa massiccia. «Posso disturbarti, Speed?». Qualcun altro stava scendendo le scale. Era un altro dei membri dello staff che Harper aveva conosciuto a New York, il giovane asiatico, Howard. Indossava una chiassosa camicia blu elettrico. Harper immaginò che il fatto di trovarsi in provincia gli risparmiasse il bisogno di seguire fedelmente i dettami della moda. Ma anche oggi gli occhiali continuavano a scivolargli dal naso. Li sistemò con la mano destra. Nella sinistra stringeva un cordless, che tese al suo capo. «È George, da Los Angeles». «Oh, certo». Speed allungò una mano per prendere il telefono. Harper si alzò in piedi. «Aspetti», disse. «Ha riconosciuto la voce?». Howard sembrava sconcertato. «È George, l'agente letterario di Speed». «Non mi interessa chi dice di essere. Ha riconosciuto la voce?». «Di cosa sta parlando, Will?», chiese Naomi in tono annoiato. «Della vecchia tecnica omicida del Mossad», rispose lui. «Chiami il tuo bersaglio da una distanza di sicurezza e quando senti la sua voce invii un segnale lungo il cavo telefonico facendo esplodere la carica di plastico che hai piazzato nella cornetta. Basta una piccola carica per staccare di netto la testa della vittima». Rogers lo stava fissando a bocca aperta. Alzò gli occhi al cielo mentre spostava lo sguardo sul telefono. Stava respirando rumorosamente, irregolarmente. Si alzò di scatto. «Speed», disse Naomi, «dammi il telefono. Controllerò che sia davvero George. Basta che tu me lo dia, Speed».
Ma Rogers era troppo spaventato per capire. Stava fissando l'apparecchio, paralizzato. «Speed...», ripeté Naomi. Lui sollevò il braccio fin dietro la testa e, con tutta la sua forza, scagliò il telefono il più lontano possibile. Il cordless si ruppe contro il muro e i frammenti caddero fragorosamente a terra. Ci fu un breve silenzio, interrotto soltanto dal suo respiro affannoso. «Be', sapevo che era George», dichiarò Howard. «Parlo con lui almeno una volta alla settimana». Rogers parve non udire quel bisbiglio. Un'ultima occhiata allucinata a Harper e poi si voltò verso la donna. «Dannazione, Naomi. Non riuscirò mai a sopportare questo...». «Non è obbligato a farlo», rispose Harper. «Basta che torni a New York». Il conduttore di talk show lo fissò di nuovo, per un attimo, poi si avvicinò alla donna. «Posso partire? Posso lasciare Elmhart? Cosa dirò?». Harper c'era quasi riuscito. Rogers stava palesemente vacillando, appellandosi a Naomi per trovare una via d'uscita. Ma lei raddrizzò le spalle, sorridendo e scuotendo il capo. «Avanti, Speed, calmati. Ricomponiti. Dove si può essere più al sicuro che in casa propria? Il mondo dev'essere davvero impazzito se ti consigliano di andare a New York per non correre rischi. New York City?». «Non dev'essere necessariamente New York», cominciò a dire Harper, ma troppo tardi. Speed Rogers non ascoltava più, stava parlando. Naomi gli aveva fatto sentire la cadenza tipica del suo stesso indignato farneticare e lui l'aveva subito captata, come un motivetto familiare. «New York City», declamò. «Un posto in cui l'omicidio è un popolarissimo sport al coperto, come il bowling a Elmhart. Un posto dove la polizia lo considera un reato molto meno grave del... parcheggio nella zona carico e scarico merci. Lasci lì la macchina, entri in un negozio per un minuto e quando esci è scomparsa - rimossa dal carro attrezzi. Ma se uccidi qualcuno è tutto okay. Tutti capiscono. Provieni da un ambiente socialmente svantaggiato, la società ti ha maltrattato, i contribuenti non hanno fatto abbastanza per te, non è colpa tua». Fece una risata che sembrava un grugnito. «Prova a dire queste cose all'agente sul carro attrezzi mentre si porta via la tua auto». L'omone si stava aggirando per la stanza, gesticolando. Lo scintillio era riapparso nei suoi occhi azzurri. Harper sapeva di averlo perso, ma fece un
ultimo tentativo. «Questo bomber è molto pericoloso. Non ha mai fallito, per quanto ne sappiamo». «Molto pericoloso», ripeté Rogers con il genere di sarcasmo che solo lui sapeva usare. «Un vero maestro del crimine, in realtà. Come lo so? Ha aspettato che tornassi a Elmhart per braccarmi. Che colpo di genio! Altri, assassini meno abili, avrebbero potuto darmi la caccia a New York o a Washington D. C, le capitali del crimine. Ma non il nostro uomo. Lui aspetta che io torni in un paesino in mezzo ai campi di granturco dove lo sceriffo conosce il nome di battesimo di tutti, dove non si commette un omicidio da cinque anni. Sì, ricordo il caso, e il colpevole è stato catturato e spedito in prigione. Perché è così che trattiamo gli assassini qui a Elmhart». Si voltò di scatto verso Harper. «E si aspetta che io mi lasci spaventare da questo tizio? Da questo... questo patetico squilibrato? Pensa che gli permetterò di costringermi a lasciare la mia casa? Non credo proprio, Harper. Posso cavarmela benissimo anche senza i suoi consigli. Credo che le convenga uscire di qui». Ormai stava urlando rabbiosamente. Gli si avvicinò a grandi passi. Ritrovarsi in uno spazio ristretto insieme a uno Speed Rogers in preda all'agitazione era come essere sul ring con un lottatore di sumo. Harper riuscì quasi a sentire il pavimento che gli tremava sotto i piedi. Naomi sfrecciò verso di luì e gli afferrò un braccio - una stretta sorprendentemente energica per una donna così minuta. «Andiamo, Harper», gli sibilò all'orecchio. Alzandosi, lui si lasciò trascinare verso le scale mentre Rogers continuava a guardarlo in cagnesco. Mentre saliva i gradini insieme a Naomi, lo sentì urlare a Howard: «Dove sono i miei dannati hamburger?». Naomi lo spinse su così in fretta che quando arrivarono in cima alle scale lui stava ansimando. Solo quando uscirono dalla porta principale lei si fermò ed estrasse una piccola ricetrasmittente dalla tasca. «Parla la signora Glidden», disse. «Sono alla villa. Mi serve qualcuno che riaccompagni il signor Harper alla sua auto. E assicuratevi che lasci la tenuta». Riponendo l'apparecchio, dichiarò: «Ecco fatto, Harper. Se l'è sentito dire dal diretto interessato. Adesso voglio che lasci la città. Penso di aver fatto abbastanza per lei». «Sì, forse anche troppo». Lei lo guardò aggrottando la fronte, le sopracciglia che quasi si congiun-
gevano al di sopra degli occhiali. «Cosa vorrebbe dire?». «Stavo per riuscirci, lo avevo quasi convinto a prendere sul serio la minaccia». La fronte di Naomi si distese. Lei distolse lo sguardo, osservando i campi illuminati dal sole. «Lo stava spaventando. Uno Speed Rogers spaventato è completamente inutile». «Inutile?», ripeté Harper. «Inutile per lei, vuole dire? È lui che lavora per lei o viceversa?». «Lavoriamo entrambi per il pubblico, per i milioni di fan di Speed. Abbiamo uno show da preparare, Harper. E non le permetterò di intralciarci. Non potrà più avvicinarsi a lui. Quindi perché non va direttamente all'aeroporto e non prende il primo volo?». Si voltò e tornò in casa, senza aspettare una risposta. Meglio così, perché non sarebbe stata una risposta gradita. Harper dovette attendere solo pochi secondi prima che una jeep girasse l'angolo fermandoglisi accanto. Una guardia in divisa aprì la portiera. Era arrivata così in fretta che doveva aver ricevuto la chiamata mentre era di ronda lì vicino. In base a quanto aveva visto finora, Harper doveva ammettere che Rogers disponeva di un eccellente servizio di sicurezza. Si chiese come il bomber stesse progettando di eluderlo. 16 A una ventina di chilometri da Elmhart c'era il vecchio campo di atterraggio, abbandonato quando la contea aveva fatto costruire il nuovo aeroporto dall'altra parte della città. Gli edifici erano scomparsi e restava solo un nastro di cemento lungo e stretto, pieno di crepe e di erbacce. Ormai non ci andava quasi più nessuno, a parte, forse, alcuni genitori che davano lezioni di guida al figlio sedicenne, oppure qualche irrequieto giovanotto ansioso di lanciare al massimo la sua moto. In questo particolare pomeriggio assolato non c'era anima viva. Un impolverato pick-up si fermò sulla striscia di cemento. Markman scese. Indossava un berretto da baseball che pubblicizzava una ditta di fertilizzanti, una maglietta azzurra, jeans e stivali da lavoro incrostati di fango secco. Alla cintura erano assicurati un coltello a serramanico, un mazzo di chiavi e un metro a nastro. Era identico a qualsiasi altro agricoltore o manovale di Elmhart: certamente non dava nell'occhio. Ma il metro a nastro non faceva parte del suo travestimento. Lo staccò
dalla cintura e posò un ginocchio a terra. Tracciò un segno sul cemento con un gessetto giallo, misurò quarantasette metri e ne fece un altro. Ad angolo retto, rispetto alla linea delimitata dai due segni, misurò quarantaquattro metri e ne tracciò un terzo, poi un quarto a otto metri da questo, sempre perpendicolare. Infine tornò al camioncino. Dall'abitacolo estrasse un'automobilina radiocomandata e la posò sul primo segno. Mentre si rialzava guardò l'orologio e premette un pulsante. La fece avanzare lungo il tragitto che lui aveva appena percorso, fino al secondo segno, poi svoltare a sinistra verso il terzo, infine girare a destra raggiungendo l'ultimo. Ogni volta che fermava l'auto su un segno, guardava l'orologio. Concluso il percorso, premette il pulsante e la macchinina colorata sfrecciò fino ai suoi piedi, sbattendovi contro. La visiera del berretto proiettava un'ombra scura su quasi tutto il viso di Markman, ma non riuscì a celare il suo sorriso soddisfatto. Posò l'auto sul primo segno e ricominciò da capo. E poi di nuovo. Le ombre degli alberi e dei pali dello steccato si allungarono lentamente. Mentre si avvicinava il crepuscolo, le rondini cominciarono a scendere in picchiata e a sfrecciare sopra i campi della pianura, ma lui continuò a far muovere la macchinina sul breve percorso prestabilito. Smise solo quando l'oscurità divenne troppo fitta per poter vedere qualcosa. Raccolse il giocattolo e camminò lungo la vecchia pista, sfregando con il piede i segni tracciati con il gessetto finché questi non scomparvero. Nelle sere dei giorni feriali il posto più animato di Elmhart era il Tahitian Lanes. Il bowling cercava di essere all'altezza del suo nome grazie al dipinto sulla parete sopra i birilli, raffigurante un tramonto tropicale arancione e azzurro, e grazie a un bar che serviva cocktail al rum dolce, oltre a drink più seri. Il bar era buio come una caverna: in questa parte dell'Indiana meridionale la gente preferiva ancora bere là dove nessuno poteva vederla mentre lo faceva. Harper sedeva su una panca dietro le piste, osservando i giocatori. C'erano intere famiglie, con i genitori che incitavano i figli finché questi non raggiungevano la linea barcollando e lasciavano cadere con un tonfo la palla, che rotolava invariabilmente nel canaletto laterale. C'erano chiassosi gruppi di ragazzi, che si mettevano in mostra e flirtavano. E coppie di uomini snelli e dal viso raggrinzito che tenevano la sigaretta nella mano libe-
ra mentre, con estrema disinvoltura, facevano uno strike dopo l'altro; Harper aveva l'impressione che non mancassero mai un birillo e si chiese perché si prendessero ancora la briga di andare a giocare. Finalmente entrò lo staff di Speed Rogers, che dava nell'occhio per il suo carattere multietnico, gli ampi indumenti di cotone, gli orecchini e gli occhiali da sole. Il fumo di sigaretta stantio li fece tossire e agitare le braccia. Harper li stava aspettando. Si parlava molto a Elmhart delle abitudini degli uomini di Rogers ed era stata la cameriera del Jolly Porker a dirgli che ai suoi giovani collaboratori newyorkesi piaceva venire qui, la sera. Non che avessero molte alternative: potevano scegliere solo tra il Tahitian Lanes e venticinque chilometri di strada fino al cinema, per un film già visto settimane prima in città. Si trovavano accanto al bancone principale a provarsi le scarpe, annusandole e facendosi smorfie a vicenda, quando Harper si avvicinò. Fu Courtney a notarlo per prima. L'aria tersa della campagna le donava: i capelli biondi sembravano più dorati e le guance erano spruzzate di lentiggini. Sorrise. «Salve, Will! Come sta?». Tutti annuirono e sorrisero. Naomi gli lanciò un'occhiata brusca e sorpresa, ma non disse niente. Dopo aver ricambiato il saluto degli altri, lui si avvicinò e le domandò sottovoce: «Vuole chiedere alla polizia di buttarmi fuori dalla città?». «Perché mai? È un paese libero». Si sedette su un muretto e cominciò a infilarsi le scarpette da bowling. «Fintanto che resta lontano da Speed, può passare tutto il tempo che vuole a Elmhart. Il posto le piace, finora?». Harper le si sedette accanto. «Quello che dicono i democratici è vero: Speed ha una spiccata tendenza a esagerare. Come ha fatto, per esempio, a proposito di Elmhart». Lei gli lanciò un'occhiata ma rimase in silenzio. «Oggi pomeriggio ha detto che è così piccola che lo sceriffo conosce il nome di battesimo di tutti. Impossibile. È una città di discrete dimensioni. Ed è capoluogo della contea, quindi c'è un flusso costante di visitatori. L'aeroporto si trova pochi chilometri più a nord e l'interstatale pochi chilometri più a sud». «Allora?». «Allora non è isolata come sembra. Probabilmente il bomber si sente a suo agio, qui». «Lei commette lo stesso errore che fanno i democratici quando dicono che Speed esagera. Esagera solo per sostenere una tesi valida, in questo ca-
so la convinzione di essere perfettamente al sicuro». Gli altri membri dello staff si erano già messi le scarpe e si stavano dirigendo verso le piste. Courtney disse: «Venga anche lei, Will, così può mostrarci come si gioca». Gli rivolse un sorriso luminoso prima di voltarsi per raggiungere di corsa gli altri. Lui chiese a Naomi: «Lo staff alloggia alla villa?». Lei scosse il capo. «Speed ci sistema sempre all'Holiday Inn. I ragazzi lo adorano. Possono poltrire in camera guardando il canale dedicato alle attività del governo e devono fare solo pochi passi per tuffarsi in piscina». Harper annuì. «Quindi l'unica occasione in cui siete tutti insieme, Rogers e lo staff, voglio dire, è durante il programma?». «Oh, ogni tanto organizziamo riunioni e feste, ma in linea di massima è proprio così». Lo fissò con sospetto attraverso le lenti minuscole. «Dove vuole andare a parare?». «Credo che il bomber farà la sua mossa proprio durante lo show». Lei scosse il capo. «Il servizio di sicurezza allo studio è ineccepibile, esattamente come quello nella tenuta di Speed». «Domani trasmettete?». «Sì. Alle undici del mattino, come sempre. Mezzogiorno per gli stati orientali». Naomi si interruppe per un attimo. «Quindi pensa che il suo uomo cercherà di farci saltare in aria insieme a Speed?». Harper annuì. «Questo si adatterebbe perfettamente al modo in cui solitamente agisce. Non odia soltanto le celebrità e ucciderle non gli basta. Vuole sbarazzarsi anche della gente che le ha rese tali. Ecco perché quando ha eliminato Sothern, il tennista, ha cercato di far fuori anche 1 suoi fan. Quando ha ucciso il membro del Congresso Wylie, ha scelto un momento in cui era circondata dai suoi assistenti e dai lobbisti che le avevano pagato la vacanza. E ha fatto in modo che le guardie di Buckner morissero insieme a lui. In questo caso, voi siete quelli che escogitano le idee brillanti che Rogers divulga per radio. Il bomber sa che siete responsabili del suo successo e della sua fama, quindi dovete morire insieme a lui». Naomi non rispose. Rimasero seduti in silenzio per qualche istante, osservando i ragazzi dello staff. Alcuni avevano perso interesse nel gioco e stavano leggendo riviste e giornali. Una coppia stava giocherellando con il tabellone segnapunti computerizzato. Stuart era seduto in fondo al locale, a starnutire nel fazzoletto: apparentemente la sua febbre da fieno non era affatto migliorata. Ma Howard, con una camicia verde acido che faceva a pugni con il murale tahitiano sopra di lui, si stava preparando a lanciare la
palla. Fece tre passi strascicando i piedi e posò un ginocchio a terra per lanciare. Stavolta gli occhiali gli scivolarono giù dal naso cadendo rumorosamente sul parquet lucido. La boccia per poco non ci passò sopra. I suoi colleghi applaudirono. «Si divertono, vero?», chiese Harper. «Saltano su con queste idee stravaganti, Rogers le diffonde via etere e migliaia di persone telefonano in diretta. Sono felici come ragazzini capaci di fare giochi di prestigio e calamitare l'attenzione dei parenti nella stanza. Solo che loro attirano l'attenzione dell'intero paese. Si divertono così tanto che quasi non gli sembra vero. Ma al killer sembra vero, eccome». Courtney aveva preso il posto di Howard. Lanciò la palla e rimase a osservarla con aria tesa, cercando di guidarla dimenando spalle e fianchi. Naomi distolse lo sguardo da lei. Chinando il capo, chiese: «Cosa vuole che faccia, Harper?». «Mi lasci fare un sopralluogo. Non le chiedo altro. Mi lasci perlustrare l'edificio con una delle guardie di sicurezza, subito prima dello show». Naomi si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi. Harper la fissò ansiosamente per un lungo istante. Lei scosse il capo. «I nostri addetti alla sicurezza non hanno bisogno di lei, Harper. Sa cosa farò? Li avviserò che abbiamo motivo di temere una bomba e loro porteranno l'attrezzatura necessaria. Dovrebbe vedere come sono equipaggiati. Se c'è una bomba la troveranno. Allora, è soddisfatto?». Lui fece un respiro profondo e poi buttò fuori l'aria. «Immagino di dovermi accontentare». «Già». Lei si alzò e si diresse verso le piste da bowling. Mentre Harper si alzava a sua volta per andarsene, uno dei collaboratori di Rogers - un muscoloso giovanotto di colore - sollevò una palla con una mano sola, come se non pesasse più di un pallone da basket, e finse di volerla lanciare contro Naomi. Gli altri ridevano e lo incitavano. Naomi non capiva cosa ci fosse di tanto divertente. Markman sedeva alla scrivania della sua stanza, nel motel situato sull'interstatale, a pochi chilometri da Elmhart. Sembrava non accorgersi dell'incessante frastuono del traffico né del mormorio metallico del televisore nella stanza accanto. Con l'alta fronte aggrottata, si stava concentrando sul suo compito. Aveva già lavorato parecchio sulla piccola scatola di legno chiaro posata sulla scrivania: gli angoli perfettamente lisci erano il risultato di meticolosi
incastri a nido di rondine e di ore e ore di accurata carteggiatura. Adesso la stava verniciando. Applicò una mano di azzurro con tanta cura da non lasciare alcun segno di pennello, ma evidentemente il risultato non lo soddisfece. Prese un pezzo di tessuto rigido e pesante e ne confrontò la tonalità di celeste con quella della scatola. Poi mescolò della vernice grigia con l'azzurro e diede un'altra mano. Confrontando quest'ultima con il campione di stoffa, vide che adesso la tinta era identica. Non sorrise né rivelò in altro modo il suo compiacimento, si limitò a richiudere le lattine di vernice. Alzandosi, si stiracchiò e fece uno sbadiglio, silenzioso come quello di un gatto. Poi cominciò a riordinare. Lasciò la scatola ad asciugare su un foglio di giornale e ripose il resto. La grossa cassetta degli attrezzi, tutta ripiani e scomparti, venne riempita e sistemata accanto alla porta. La scatola da scarpe contenente la macchinina radiocomandata firn in una valigia insieme al contenitore metallico da due soldi in cui teneva l'esplosivo al plastico. Buttò le vernici e i pennelli tra i rifiuti del motel. Alla fine la stanza era in perfetto ordine. Impeccabile. In qualunque momento avrebbe potuto prendere la valigia accanto alla porta e uscire senza lasciarsi dietro alcuna traccia del suo passaggio. Ma c'era un'eccezione, un oggetto personale con cui aveva decorato quella camera anonima. Era una fotografia a colori, piccola ma con una cornice piuttosto costosa, posata sul comodino, tra il telefono e la bibbia. Ritraeva una donna sulla trentina. La forma squadrata dell'auto da cui stava scendendo e il taglio dell'elegante tailleur di sartoria indicavano che era stata scattata negli anni Sessanta. La donna aveva corti capelli biondi e un viso grazioso e vivace. Stava sorridendo a chi le teneva aperta la portiera. Una scarpa dal tacco alto toccava appena l'asfalto. Il vestito si era sollevato fin sopra il ginocchio, rivelando una lunga gamba affusolata. Markman non guardò la foto mentre si aggirava per la stanza riordinando. Quando si sedette sul letto sembrò quasi evitare volutamente lo sguardo della donna bionda e sorridente. Infilò una mano in tasca e ne trasse un foglio, che poi spiegò, posandoselo sulle ginocchia. Era il suo calendario. Tracciò una delle sue X tanto precise sulla data odierna, il ventuno aprile. La casella seguente era bordata di rosso. Il gran giorno era arrivato. 17 Il vecchio tribunale era da parecchio tempo l'edificio più imponente di
Elmhart ma era stato chiuso cinque anni prima, in concomitanza con l'inaugurazione del nuovo centro governativo sulla statale 17, appena fuori dalla città. Lì vicino aprì anche un supermarket che ben presto portò al fallimento le botteghe tradizionali. Courthouse Square, il centro di Elmhart, non se la passava granché bene. Ma il vecchio tribunale era molto importante per Speed Rogers. Lì diverse generazioni di suoi avi avevano concluso affari e discusso casi; uno di loro era stato addirittura giudice. Così, quando annunciò di voler trasferire il suo popolarissimo talk show radiofonico nella città natale, spiegò anche che avrebbe comprato e restaurato l'edificio per farne il suo quartier generale. Harper aveva saputo tutto questo da diversi concittadini grati o invidiosi. Era evidente che Rogers non aveva badato a spese per riportare il palazzo al suo antico splendore. Harper aveva avuto tutto il tempo di studiarlo: era seduto sin dall'alba nella sua auto parcheggiata in Courthouse Square e ormai erano le undici meno un quarto. Il Speed Rogers Show stava per cominciare. Il tribunale occupava metà dell'isolato ed era alto sei piani. Dominava tuttora la città e le sue cupole decorate erano visibili dai campi coltivati per un raggio di diversi chilometri. Era stato costruito tra il 1880 e il 1890, quando era di moda lo stile romanico e si cercava di dare agli edifici pubblici l'aria di poter resistere a un lungo assedio. Le mura erano fatte di massicce pietre tagliate grossolanamente. La statua della Giustizia, con la spada e la bilancia, svettava sopra l'ingresso principale. Lo studio radiofonico di Rogers era situato all'interno. La grande antenna parabolica sul tetto, nascosta dalle cupole, inviava il segnale a un satellite, che a sua volta lo ritrasmetteva alle centinaia di stazioni disseminate in tutto il paese. Gli uffici che si occupavano di merchandising, investimenti e operazioni varie occupavano quasi tutto il resto del palazzo. C'era ancora dello spazio vuoto, ma Rogers non aveva nessuna fretta di affittarlo. Non aveva certo bisogno di soldi. Harper era venuto a vedere se Naomi avrebbe mantenuto la promessa chiedendo agli uomini della sicurezza di perlustrare l'edificio. La donna si dimostrò di parola. I furgoni arrivarono alle sette e lui riconobbe il nome sulle portiere come quello di una delle migliori agenzie di sorveglianza private. Osservò uomini e donne in uniforme scaricare metal detector, spettrometri, fluoroscopi e altre apparecchiature high-tech, alcune talmente moderne
da essergli sconosciute. Mentre gli addetti alla sicurezza portavano su l'attrezzatura, arrivò un altro furgone. I portelloni posteriori si aprirono e due pastori tedeschi saltarono giù, così agitati che praticamente trascinarono i rispettivi addestratori su per la scalinata. Harper rimase nervosamente in attesa dall'altra parte della strada. Dopo un'ora e mezza, le porte si aprirono e uomini, donne e cani scesero rapidamente i gradini per tornare ai veicoli. Avevano tutti l'aria annoiata. Persino i cani avevano la coda tra le gambe. Non avevano trovato nessuna bomba. Lui non aveva motivo di restare ma, in qualche modo, sentiva di non doversene andare. Prese un caffè nel McDonald's dietro l'angolo e tornò alla macchina, dove si sedette a osservare l'edificio. Non successe nulla fino alle nove, quando arrivò una piccola carovana di monovolume e station wagon. Naomi e gli altri collaboratori di Rogers scesero ed entrarono nell'edificio. Pochi minuti dopo una limousine nera si fermò ai piedi della scalinata. Una guardia del corpo in uniforme smontò per prima ed esaminò la strada, probabilmente cercando Harper. Lui ricordò l'avvertimento di Naomi: non doveva assolutamente avvicinarsi al suo capo. Poi apparve la mole massiccia di Rogers, che uscì cautamente dall'auto. I due uomini salirono la scalinata e scomparvero nell'edificio. Harper rimase seduto in macchina, osservando il via vai di gente, discutendo con se stesso. Era esausto. Aveva dormito male, tormentato da sogni sull'esplosione in cui era rimasto menomato. Nei suoi incubi essa era più vivida che non nel ricordo: il boato assordante, la strana sensazione di turbinare nell'aria come una foglia trasportata dal vento, poi la sorpresa di ritrovarsi per terra a guardare le striature e gli schizzi di sangue sul muro. Alle quattro del mattino aveva rinunciato all'idea di dormire. Voleva telefonare a Laura, ma che diritto aveva di chiederle conforto? Stranamente lei aveva sempre saputo dove lo avrebbe condotto la strada sulla quale lui stava per mettersi e lo aveva ammonito a non fare il primo passo. Harper non le aveva creduto. E adesso eccolo qui. Il servizio di sicurezza di Rogers non era in grado di fermare il bomber. Ne era sicuro. Ma cosa gli faceva credere di poterci riuscire lui? Il suo addestramento e la sua esperienza riguardavano esclusivamente lo smontaggio degli ordigni. Non sapeva come trovare una bomba nascosta. Ma era questo che avrebbe dovuto fare. Non aveva altra scelta.
Scese dall'auto, raddrizzò la schiena irrigidita e attraversò la strada soleggiata e silenziosa. Era possibile che il suo uomo tentasse un attacco di tipo terroristico, usando un ordigno rozzo ma potente nascosto in un veicolo nella speranza di demolire gran parte del tribunale. Ma considerando la struttura massiccia dell'edificio, una bomba del genere avrebbe richiesto un sacco di spazio. L'uomo avrebbe dovuto stipare l'esplosivo in parecchi grossi bidoni di latta e per trasportarli gli sarebbe servito un camion o almeno un furgone. Davanti al tribunale erano parcheggiati solo normali berline o pick-up. Harper non ne rimase sorpreso. Un metodo di distruzione così rozzo non era nello stile del bomber. Si voltò e cominciò a camminare lungo la facciata. Non c'erano aperture a livello della strada, solo enormi blocchi di pietra tagliati grossolanamente. La prima fila di finestre distava almeno tre metri dal marciapiede. Strizzando gli occhi riuscì a vedere i sottili fili argentei del sistema d'allarme che correvano lungo i vetri. Raggiunse l'estremità dell'edificio e uno stretto vicoletto buio. Giudicandolo il posto ideale per entrare di nascosto nel tribunale, lo imboccò. Gli esperti di sistemi di sicurezza di Rogers dovevano aver avuto la stessa idea perché le finestre affacciate sul vicolo erano protette da grate metalliche. Continuò ad avanzare. Entrato nell'ombra della stradina, sentiva il sudore freddo sulla fronte. Raggiunse una stretta porta laterale di legno massiccio. Tese una mano verso il pomolo per assicurarsi che fosse chiusa a chiave. La maniglia gli fu come strappata dalla mano mentre l'uscio si spalancava. Harper ebbe un tuffo al cuore. Perse quasi l'equilibrio, ma si raddrizzò rapidamente. Socchiudendo gli occhi per proteggerli dalla luce intensa che brillava all'interno, vide Naomi Glidden. Lei gli sorrise stancamente. «Okay, Harper, basta così». Lui si voltò e guardò in alto, notando finalmente la piccola telecamera collocata su un cornicione e puntata verso la porta. Chiese: «Da quanto tempo mi sta osservando?». «Da quando ha parcheggiato sull'altro lato della strada. Ricevo rapporti dettagliati. Non avrebbe dovuto prendere solo un caffè a colazione, Harper. È il pasto più importante della giornata». Guardò l'orologio. «Sono stata molto paziente con lei, ma lo show inizia fra tre minuti e non voglio distrazioni. Quindi adesso lei se ne va». A un suo gesto, due guardie dall'aspetto atletico la raggiunsero sulla so-
glia. Stavano sorridendo, ma Harper non pensò che volessero mostrarsi cordiali. Non vedevano l'ora di spingerlo fino alla macchina. Naomi si fece da parte e le guardie gli si misero di fianco, una per lato. Lui chiese in fretta: «L'ispezione non ha individuato niente di sospetto? Niente di niente?». «Si rilassi, Harper. L'edificio è pulito». «Lo era tre ore fa, ma adesso?». «Abbiamo uno show da trasmettere. Arrivederci». Lui sentì le mani delle guardie serrargli gli avambracci e disse: «Il bomber potrebbe essere entrato dopo l'ispezione». «Non è entrata nessuna persona non autorizzata. Addio, addio, addio». Le guardie lo stavano trascinando via. Naomi stava chiudendo la porta. Approfittando della luce che arrivava dall'interno dell'edificio, Harper si guardò rapidamente intorno nel vicoletto. A soli cinque passi da lui, alla base del muro esterno, c'era uno sportello rivestito di ferro. Gridò: «Naomi, aspetti!». Lei riaprì la porta. «Cos'altro c'è?». Lui non poteva indicare alcunché: le guardie gli stavano stringendo le braccia con forza sufficiente a bloccargli la circolazione. Fece un cenno del capo verso lo sportello. «Cosa mi dice di quello?». Lei lo guardò e poi fissò di nuovo Harper. «Allora? È un vecchio scivolo per il carbone». «È abbastanza grande perché un uomo possa infilarcisi. È collegato al sistema d'allarme?». Le palpebre di Naomi sembravano ancora appesantite dalla noia. Osservò a turno le due guardie. L'uomo più grosso parlò con uno spiccato accento del Kentucky. «Ne dubito, signora. Sarebbe del tutto inutile. Hanno smesso di bruciare carbone trenta o quaranta anni fa. È saldato alla cornice metallica». «Controlli», disse Harper. Stava ancora guardando Naomi dritto negli occhi. Lei esitò, sbirciando l'orologio. Poi uscì nel vicolo, raggiunse lo sportello, si piegò per stringere la maniglia di ferro con la sua esile mano bianca e tirò. Lo sportello si aprì subito. 18 Lasciando andare la maniglia, Naomi si scostò di scatto dallo sportello
dello scivolo del carbone. Guardò Harper con gli occhi sgranati. «Non era saldato», disse lui. «Solo dipinto in modo da sembrarlo. Il bomber scopre sempre dettagli del genere. Probabilmente è venuto qui settimane fa, se non addirittura mesi. L'ha aperto con un piede di porco, poi ha raddrizzato le ammaccature e riverniciato i graffi. Infine l'ha lasciato così com'era, sapendo di poter rientrare nell'edificio quando voleva, ovvero, probabilmente, stamattina». Naomi indicò lo scivolo e disse alle guardie: «Entrate». Poi si rivolse a Harper. «Venga con me. Andiamo al bancone della sicurezza». Le guardie esitavano, guardandosi. Naomi si voltò di scatto verso di loro. «Non mi avete sentito? Ho detto di entrare là dentro». «Cavolo, signora», disse il kentuckiano, «è come infilare il braccio in una tana di serpenti». «Avete la pistola, vero? Allora entrate». Si diresse rapidamente verso la strada. Harper si mise a correre per raggiungerla. Mentre stava per svoltare l'angolo dell'edificio, girò la testa. Il kentuckiano era fermo con la pistola spianata e il suo collega si stava infilando a testa in giù nello sportello, dimenandosi. Harper seguì Naomi fino alla scalinata, poi salì. Lei portava scarpe senza tacco, una gonna corta e stava correndo. Spinse la doppia porta d'ingresso ed entrò in un atrio davvero impressionante. I loro passi rapidi picchiettarono sul pavimento di marmo lucido echeggiando nella stanza dal soffitto alto. Le guardie dietro il bancone li sentirono. Si stavano già alzando e voltando quando Harper e Naomi distavano ancora una decina di metri. «C'è un intruso!», gridò lei. «Controllate i monitor!». Ci fu solo un attimo di confusa perplessità prima che i sorveglianti si voltassero verso la fila di schermi televisivi. Un uomo più vecchio, con dei baffi grigi, girò intorno al bancone e li raggiunse. «Cosa succede, signora Glidden?». Harper lo studiò mentre Naomi gli spiegava cosa avevano scoperto nel vicolo. Aveva un viso rubizzo e capelli molto corti e grigi come i baffi. Era basso, con le spalle ampie, e il suo stomaco sembrava piatto come quello di un ventenne sotto la camicia marrone della divisa. Vedendo i gradi sulle maniche, lui immaginò che fosse il capo della sicurezza. La targhetta sul taschino della camicia diceva "Clifford". Mentre ascoltava Naomi, l'uomo serrò le labbra e diventò ancora più rosso. Harper intuì che sapeva qualcosa che loro ignoravano - e che non si trattava di buone notizie. «Signore!», chiamò una giovane guardia di colore seduta alla consolle e
con l'auricolare. Spiegò a Clifford: «Surtees sta facendo rapporto. Sono scesi nel seminterrato usando lo scivolo del carbone. Hanno frugato dappertutto senza trovare nessuno». «Forse non hanno frugato abbastanza a lungo», dichiarò stizzosamente Naomi. «Quel posto è come una caverna. Gli dica di continuare a cercare». «Digli di tornare su», rispose Clifford. Girò nuovamente il viso imbronciato verso Naomi. «Non credo che troveremo qualcuno nel seminterrato». «Perché no?», chiese lei. «Tutte le porte che da lì conducono al resto dell'edificio sono chiuse a chiave e collegate al sistema d'allarme». Clifford annuì, strizzando gli occhi. «Poco fa si è accesa una spia rossa sulla consolle. Scala a sud-ovest, porta del seminterrato. Abbiamo controllato trovando la porta chiusa a chiave e senza tracce di effrazione, così l'abbiamo considerato un falso allarme». Dopo un attimo di esitazione, aggiunse: «Non lo avremmo fatto se avessimo saputo che qualcuno si era introdotto laggiù». Naomi lo stava fissando. Solo la sua innaturale immobilità indicava quanto fosse spaventata. Chiese: «Quando è successo?». «Circa mezz'ora fa. Se mi concede un minuto potrò dirglielo con maggiore esattezza». Si voltò verso il bancone. «Non mi interessa l'ora precisa. Torno su al sesto piano». Lei fissò le guardie: stavano guardando le immagini che cambiavano costantemente sui monitor allineati. «Senta, mandi questi ragazzi a perlustrare l'edificio, okay?». Si diresse verso l'ascensore senza aspettare una risposta. Harper la seguì. «Rogers è al sesto piano?», chiese. Naomi annuì e cercò di premere il pulsante per chiamare l'ascensore. Lo mancò due volte. Lui si piegò in avanti, accanto alla sua spalla, e lo pigiò. Le porte si aprirono. Mentre entravano, Clifford si avvicinò di corsa. «Aspettate! Signora Glidden, cosa stiamo cercando? Un uomo o...». «Impossibile saperlo», rispose Harper. «Potrebbe aver piazzato la bomba ed essersene già andato oppure trovarsi ancora qui. Cercate oggetti sospetti. Avete metal detector e fluoroscopi?». Clifford annuì. «Portateli su al sesto piano. Ci servono lì, per il momento». L'altro annuì di nuovo e tornò di corsa al bancone. I suoi uomini si stavano preparando all'ispezione, infilando la cintura con il fodero della pistola e il giubbetto antiproiettile. Le porte si chiusero e l'ascensore cominciò a salire.
«Questo tizio non può trovarsi lassù», mormorò nervosamente Naomi. «O almeno non vicino allo studio. Avrei sicuramente notato un viso sconosciuto. Comunque il sesto piano è un vero e proprio labirinto di corridoi. Un estraneo non riuscirebbe mai a orientarsi e non saprebbe dove trovare Speed». «Questo tizio sì», rispose Harper. Rimasero in silenzio, a osservare i numeri sul pannello accendersi e spegnersi. Al sesto piano le porte si aprirono. La guardia seduta al bancone della sicurezza di fronte all'ascensore stringeva la cornetta del telefono. Gli stavano comunicando le brutte notizie dal pianterreno. Li guardò con gli occhi sgranati. Naomi si avvicinò a lui. «Pat, qualcuno non autorizzato ha cercato di entrare? Hai visto degli sconosciuti?». «No, signora». Lei guardò Harper come se questo dimostrasse qualcosa. Lui le disse: «Il nostro amico non userebbe mai l'ascensore e non cercherebbe di passare accanto ai banconi delle guardie». A Pat chiese: «Ci sono altri uomini della sicurezza quassù?». «Quattro. Uno davanti a ognuna delle due porte affacciate sulle scale, uno di ronda e uno nello studio con Speed». «Lasci quest'ultimo dov'è. Sposti gli altri tre nei corridoi, con l'ordine di fermare qualunque sconosciuto e di cercare eventuali oggetti sospetti qualunque cosa che non abbia motivo di trovarsi qui». La guardia spostò lo sguardo da Harper a Naomi. Lei disse: «Lo faccia, Pat». Mentre imboccavano il corridoio, Harper sentì l'irata voce da spaccone di Rogers che usciva a tutto volume da altoparlanti invisibili: «... perso il voto a causa di cosiddetti moderati che hanno tradito il popolo che li aveva eletti. Imbelli, smidollati, vigliacchi...». Il corridoio era ampio e spoglio, il pavimento rivestito di moquette grigioazzurra e le pareti dipinte di bianco. Non c'erano posti in cui nascondersi. Naomi guidò Harper curva dopo curva. Aveva ragione, il sesto piano era un vero labirinto. Svoltando ogni angolo lui si aspettava di vedere una figura furtiva che scappava oppure scompariva dietro una porta. Il bomber aveva sferrato i suoi precedenti attacchi del tutto impunemente. Come avrebbe reagito al tentativo di catturarlo? Era armato? Oppure avrebbe cercato di usare la bomba per scappare? O magari, in preda al panico, avrebbe
premuto l'interruttore del detonatore? Il cuore di Harper batteva all'impazzata. La mano destra aveva ripreso a fargli male: a causa della tensione l'aveva stretta a pugno con tutta la sua forza. Adesso riusciva a sentire altre voci, più basse delle urla amplificate di Speed Rogers. Svoltando l'ennesimo angolo si ritrovarono in un salone su cui si aprivano diverse porte. Lo staff era riunito lì, a parlottare in tono eccitato. Fu Howard a vederli per primo. Corse verso di loro, facendo oscillare un braccio mentre si teneva fermi gli occhiali con l'altra mano. «Naomi, cosa succede?». «Abbiamo un problema di sicurezza, ma ce ne stiamo occupando», rispose lei. «Come sta Speed?». «Ha capito che c'è qualcosa in ballo. Continua a lanciarmi occhiate eloquenti attraverso le vetrate della sala controllo». «Oddio. Non bisogna assolutamente distrarlo, Howard, è chiaro? Torna nella sala controllo e... cerca di sembrare perfettamente calmo e impassibile». Howard girò su se stesso e corse verso una porta che sembrava molto pesante. Ad aprirgliela fu la guardia alta e corpulenta che Harper aveva visto arrivare con Speed qualche ora prima. Mentre Naomi spiegava ai collaboratori cosa stava succedendo, Harper si aggirò furtivamente per il salone e guardò negli uffici adiacenti. Tavoli e divani erano ingombri di libri, borse, sacche da palestra, sacchetti di carta di fast food. Si voltò di nuovo verso il gruppo. Alzando la voce, disse: «Ascoltatemi tutti! Devo chiedervi di perlustrare queste stanze e prendere tutto quello che avete portato qui». «E poi?», chiese Naomi. «Poi vedremo cosa resta». Mentre i giovani entravano nei rispettivi uffici arrivò Clifford, il capo della sicurezza, con tre uomini che trasportavano l'attrezzatura richiesta da Harper. «Dove vuole che mettiamo il fluoroscopio?», chiese. «Per ora non ci serve. Cominciamo con le cose ovvie. Aprite i cassetti, guardate sotto i mobili». Naomi si avvicinò a Harper. «Quanto dovrebbe essere grande la bomba?». Con un cenno del capo lui indicò la porta massiccia. «Rogers è dall'altra parte?». «Sì, lì dietro c'è la sala controllo e poi lo studio».
«Allora non dovrebbe essere poi tanto grande. Basterebbe una carica di plastico grossa come un pacchetto di sigarette per far sparire tutte queste stanze». «Oddio». Lei ci pensò su e scosse la testa brevemente, con decisione. «Ma continuo a non capire come avrebbe potuto avvicinarsi tanto a Speed. Siamo in troppi a correre avanti e indietro in quest'area prima dell'inizio dello show. Un estraneo verrebbe sicuramente notato». Harper annuì. Capiva il suo punto di vista, eppure era convinto che il bomber avrebbe cercato di piazzare l'esplosivo il più vicino possibile allo studio, per essere sicuro di eliminare Rogers. Si voltò verso Clifford. «Cosa c'è sopra di noi?». Il capo della sicurezza si stava inginocchiando per guardare sotto a un divano. Si raddrizzò per rispondere. Forse non era così in forma com'era sembrato al piano di sotto: stava ansimando per la fatica e la tensione. Adesso il suo viso era quasi paonazzo. «Il tetto», rispose. «Ho già mandato su uno dei miei». «E qui sotto?». «Niente. Il quinto piano è completamente vuoto». «Andiamoci», disse Harper. «Non ci può entrare nessuno. Gli ascensori non si fermano e le porte delle scale sono chiuse a chiave e collegate al sistema d'allarme». «Proprio come quella da cui è entrato nel seminterrato», sottolineò Harper. Clifford staccò dalla cintura una serie di chiavi tintinnanti. «Andiamo a controllare». Si addentrarono nel labirinto di corridoi. Lungo la strada superarono numerose guardie che correvano in tutte le direzioni oppure irrompevano negli uffici con la pistola spianata. Una donna stava smontando pazientemente una fontanella. Finalmente raggiunsero la porta delle scale. Clifford la aprì con una chiave e scesero una rampa. Quando arrivarono sul pianerottolo del quinto piano si fermarono di colpo. La porta era spalancata. Clifford guardò Harper in tralice ed estrasse il revolver. Nell'altra mano stringeva una torcia elettrica, che accese prima di varcare cautamente la soglia. Il quinto piano non disponeva di un impianto di illuminazione. Il fascio di luce della torcia passò su nude assi di legno, pareti non dipinte e stipiti privi di porta. Il corridoio odorava di muffa ed era silenzioso: non c'erano
altoparlanti a diffondere la voce tonante di Speed Rogers. Clifford continuò ad avanzare, un passo alla volta, la torcia che penetrava nell'oscurità e la canna del revolver che si muoveva insieme a lei. Un rumore ruppe il silenzio. Era molto fioco e Harper e Clifford dovettero avvicinarsi prima di capire di cosa si trattasse. Un respiro. Il respiro affannoso e irregolare di una persona spaventata oppure in preda ad atroci sofferenze. Proveniva dalla soglia davanti a loro. Clifford la raggiunse di corsa, allargando le braccia, protendendo sia la torcia che la pistola. «Fermo dove sei!», gridò. L'uomo dava loro le spalle. Non ubbidì all'ordine di Clifford ma si voltò verso di lui, alzando le braccia per ripararsi gli occhi dalla luce. Poi sternuti. «Stuart», disse Harper, riconoscendo il giovanotto dai capelli ricci. «Cosa diavolo ci fai quaggiù?», urlò Clifford, abbassando la pistola ma non la torcia. «Cercavo...» ansimò Stuart, «cercavo di far arrivare un po' d'aria ai polmoni. Ho... un attacco d'ansia... oltre a... un attacco di allergia». Sternuti di nuovo e si tamponò il naso e gli occhi che lacrimavano. Poi guardò gli altri due sbattendo le palpebre. «Volevo solo un po' di pace e di silenzio, okay?». Quando Harper tornò nel salone al sesto piano, trovò Naomi appoggiata allo stipite della porta. Capì subito che il suo stato d'animo era cambiato. Tutto quel correre mattutino le aveva scompigliato i folti capelli scuri e lei se li stava pettinando con le dita, stringendo tra i denti un fermaglio. Lo guardò freddamente e, togliendosi di bocca la molletta, disse: «Niente oggetti sospetti qui. Abbiamo controllato tutto, fino all'ultimo sacchetto di patatine». «E l'ispezione del piano?». «Nessun risultato finora, e hanno quasi finito». Prestava più attenzione allo chignon che si stava facendo che non a Harper. Lui disse: «C'è stato davvero un intruso, sa. Qualcuno si è introdotto di nascosto nell'edificio». «Sì, ma ormai se n'è andato. Ogni tanto siamo vittime di un'effrazione. Ladri in cerca di computer. Cacciatori di souvenir che vogliono il bloc-
chetto su cui scarabocchia Speed. Continueremo a indagare, Harper. Le spediremo un resoconto dettagliato». «In caso di un allarme bomba di solito si evacua l'edificio. Si chiama la polizia». «Stiamo trasmettendo un programma radiofonico in diretta. Si aspetta davvero che costringa Speed Rogers a interromperlo?». «Sì. Penso che...». Ma Naomi aveva smesso di ascoltarlo. «Capo Clifford», disse, «le dispiacerebbe accompagnare il signor Harper fuori dall'edificio?». Surtees, la guardia del Kentucky, sedeva al bancone della sicurezza nell'atrio e stava guardando i monitor quando Clifford passò di lì con Harper. Così lo stavano buttando fuori, finalmente. Surtees non poté fare a meno di sorridere. Sarebbe stato più logico se la signora Glidden avesse permesso a lui e a Tom di accompagnarlo fuori mezz'ora prima. Innanzi tutto questo gli avrebbe risparmiato la discesa lungo quello scivolo del carbone che, oltre a spaventarlo a morte, gli era costato graffi su entrambe le ginocchia e un gomito livido. E tutto per niente. Non c'era nessun intruso nell'edificio. Neanche adesso quell'Harper voleva arrendersi. Mentre Clifford praticamente lo spingeva fuori dalla porta principale, lui stava cercando di convincerlo a non rispettare l'ordine della signora Glidden. Surtees sapeva che non ci sarebbe riuscito: quando andava in onda lo show, il capo era lei. All'improvviso si chinò in avanti. Aveva visto qualcosa sul monitor 6, quello che mostrava un corridoio del sesto piano, ma non riusciva a stabilire cosa fosse. Armeggiò con i comandi, spostando la telecamera e zoomando. Eccola: un'increspatura nella moquette grigioazzurra. Strizzò gli occhi, perplesso. Vedeva del movimento ma non riusciva a capire cosa si stesse muovendo. Fissò il telefono, pensando di chiamare il collega su al sesto piano. Quando guardò di nuovo lo schermo, l'increspatura era scomparsa. Decise di non contattare la guardia di sopra. Probabilmente si trattava solo di un guasto del video. Comunque c'era stata già abbastanza eccitazione, stamattina. Al sesto piano, Stuart e Courtney stavano percorrendo il corridoio che portava al salone. Con il fazzoletto premuto sul naso, lui stava chiedendo: «Chi abbiamo messo in attesa per il prossimo segmento?».
«Un tizio che vuole appoggiare la posizione presa da Speed riguardo all'imposta sul reddito. Manderemo in onda la telefonata. Speed adora parlare di quella tassa». Stuart sentì un rumore e guardò verso il basso. Qualcosa gli sfiorò la caviglia sinistra, sibilando. «Cosa dia...», disse Courtney. Lui si chinò mentre l'oggetto si allontanava in fretta. Era una scatola dello stesso colore della moquette, montata su ruote. Stava per arrivare in fondo al corridoio e schiantarsi contro il muro di fronte, ma quando raggiunse l'angolo rallentò e svoltò con inquietante precisione - come se qualcuno la stesse guidando. Poi scomparve dietro l'angolo. Courtney e Stuart si fissarono e lei cominciò a correre verso l'oggetto. Stuart non poteva seguirla: sentiva l'ennesimo sternuto in arrivo. Nel salone, i colleghi di Courtney la sentirono gridare: «Ehi! Attenti!». Si alzarono e si guardarono intorno. La guardia accanto alla porta si fece avanti, la mano sul calcio della pistola ancora nella fondina. Nessuno vide passare la piccola scatola azzurra. Howard Woo stava uscendo dalla sala controllo. Aveva trascorso l'ultimo quarto d'ora cercando di sembrare calmissimo e annuendo con aria rassicurante ogni volta che Speed lo guardava attraverso il vetro. Adesso non era più in servizio perché era cominciata un'interruzione pubblicitaria e la stessa Naomi stava venendo a parlare con la star. Sentì delle grida e vide della gente che, uscendo dal salone, si riversava nel corridoio. Ma fu un suono più fioco e più vicino a fargli abbassare lo sguardo, mentre l'indice schizzava verso il naso per tenere fermi gli occhiali. L'oggetto si era fermato accanto ai suoi piedi, come un cucciolo chiamato dal padrone. Una scatoletta azzurra con un'antenna tozza. Howard pensò che si trattasse di uno scherzo escogitato da uno dei suoi colleghi instancabilmente creativi. «Allontanati! Allontanati!». La guardia stava correndo verso di lui, agitando la pistola con aria eccitata. All'improvviso l'aria sembrò carica di elettricità e Howard Woo sentì rizzarsi i capelli. Nello studio, Naomi stava dicendo: «Mi spiace per questo putiferio, Speed». Rogers si stava alzando dalla sedia, togliendosi le cuffie e sorridendole.
Un attimo dopo, il mondo si disintegrò con un lampo bianco. Vide l'esplosione ma non la sentì. Quando l'onda sonora lo raggiunse era già morto. I vetri della cabina di controllo si dissolsero come una goccia d'acqua che cada su una casseruola rovente. Naomi non ebbe il tempo di voltarsi, ma Speed Rogers vide una luce accecante che si dilatava e schizzava verso di lui. Il dolore fu atroce ma breve. 19 Mentre si allontanava in auto da Elmhart e gli altri edifici della città scomparivano, Markman riusciva ancora a vedere le cupole del vecchio tribunale guardando al di là delle dolci colline ondulate. Da quando era stato costruito, il tribunale era sempre stato il palazzo più alto di Elmhart. E il panorama era rimasto immutato per più di un secolo. Fino a oggi, quando lui l'aveva cambiato. Non riuscì a resistere alla tentazione di guardare indietro. Accostando al ciglio della strada il pick-up noleggiato, pensò che aveva tutti i diritti di concedersi quest'unico capriccio. Il suo non sarebbe sembrato un comportamento sospetto. Nell'ultimo paio di chilometri aveva superato diverse auto e diversi camion che si erano fermati perché gli occupanti potessero guardare a bocca aperta verso la città. Parcheggiò, scese e si voltò. Lo spettacolo era ancora più impressionante del previsto. Una cupola si era disintegrata, deturpando l'ornata simmetria della sommità dell'edificio. Una cappa di fumo si allontanava lentamente nel vento dell'est. Il lamento delle sirene si distingueva sopra il ronzio degli insetti e il cinguettare degli uccelli nei campi vicini. I massicci muri di pietra del tribunale non erano bruciati, ovviamente. L'edificio sarebbe rimasto in piedi a lungo, come un guscio vuoto ed esploso. Nessuno si sarebbe preoccupato di restaurarlo, adesso che Speed Rogers se n'era andato. Markman, trionfante, avrebbe voluto gridare di gioia. Avrebbe potuto addirittura muovere i pugni a stantuffo e urlare "Sìììì!" come facevano quegli idioti in televisione. Ma il suo autocontrollo era troppo radicato, così si limitò a restare in piedi lì, le braccia penzoloni e la bocca aperta, come i gruppi di persone che aveva appena superato lungo quella strada dell'Indiana. Gli venne in mente qualcosa che lo aiutò a temperare la felicità. Gli suc-
cedeva sempre; era un perfezionista, perennemente in ansia, schiavo dei sensi di colpa. C'era sempre qualche nube all'orizzonte, qualche assillante domanda senza risposta. Chi era l'uomo che aveva visto? Ecco cosa si stava chiedendo. Quando era arrivato il momento di azionare l'automobilina telecomandata, aveva parcheggiato a un'estremità della piazza del tribunale, notando subito i due uomini in piedi accanto all'ingresso principale. Il capo della sicurezza, Clifford, gli era ormai familiare dopo le frequenti visite di ricognizione, ma non aveva mai visto l'altro tizio. Lo sconosciuto era alto, con ampie spalle spioventi, la barba grigia e i capelli di una sfumatura più scuri. Era evidente che i due stavano discutendo. Il vecchio Clifford era ancora più paonazzo del solito e continuava ad agitare le braccia, ma l'altro era perfettamente immobile, una vera roccia. Sembrava calmo, controllato, deciso. Era una dote di cui Markman si era sempre vantato: quando gli altri si agitavano, lui riusciva a mantenere la calma. Per qualche misterioso motivo notare questa caratteristica anche nell'altro uomo lo infastidì. Aveva preso il telecomando, alzato l'antenna e attivato subito la macchinina. Adesso, mentre si trovava sul ciglio della strada a guardare l'edificio fumante, il piacere che lo spettacolo gli procurava era guastato dalla consapevolezza di non aver raggiunto la perfezione. Non aveva rispettato il suo piano: far saltare in aria Speed Rogers in diretta, in modo che milioni di ascoltatori sentissero il boato. Sarebbe stato perfetto. E invece, quando aveva premuto l'interruttore, la radio della sua auto stava trasmettendo un annuncio pubblicitario. Aveva permesso all'uomo fermo sui gradini di mettergli fretta. Era furibondo con questo tizio di cui non conosceva nemmeno il nome. Dovette lottare per controllare le proprie emozioni. Chiunque aspirasse alla perfezione come lui era destinato a odiare gli errori. Quando le prestazioni di un congegno costruito sul suo banco dì lavoro non si dimostravano all'altezza delle aspettative, lo distruggeva insieme ai progetti e a tutti gli attrezzi usati. Non lasciava mai in giro niente che potesse ricordargli il suo sbaglio o magari spingerlo a commetterne un altro. Ma questo sconosciuto, trovandosi lontano dal luogo dell'esplosione, era rimasto incolume. E lui aveva la sensazione che avrebbe interferito di nuovo con i suoi piani. Accigliato, risalì sul camioncino, mise in moto e si allontanò.
Il suo calendario era aperto, sul sedile del passeggero. Pensò di premiarsi per il successo della missione Rogers mettendo una crocetta sul giorno odierno anche se erano solo le dodici. Poteva festeggiare la conclusione dell'ultimo attacco preparatorio e la possibilità di concentrarsi esclusivamente sull'ultimo, il più importante. Restavano solo ventiquattro caselle nel suo calendario. Invece lo prese, lo piegò con una mano sola e se lo infilò in tasca. Non era più nello stato d'animo adatto per concedersi questo piccolo trionfo. Adesso gli sembrava che un altro ostacolo si frapponesse tra lui e il quindici maggio. Accese la radio. Doveva ascoltare con la massima attenzione le notizie, in caso si parlasse dell'uomo sui gradini. Doveva scoprire chi fosse e cosa lo aveva portato lì. Poi avrebbe deciso cosa fare con lui. Markman non dimostrava nessuna tolleranza verso gli errori. O le persone che li causavano. Harper era in piedi accanto alla finestra a osservare il crepuscolo che lasciava il posto alla sera. Si trovava nel quartier generale della polizia di stato dell'Indiana, un edificio moderno situato sull'interstatale, a un'ottantina di chilometri da Elmhart. Mentre guardava fuori, tre autopattuglie uscirono dal parcheggio e accesero luci intermittenti e sirena imboccando la rampa d'accesso dell'interstatale, dirette verso la città colpita. Un elicottero si stava avvicinando rumorosamente all'edificio, con le luci d'atterraggio che lampeggiavano. Subito sotto di lui c'erano diversi furgoncini delle stazioni televisive locali; uno stava alzando l'antenna parabolica sul tettuccio per un servizio in diretta. Il reporter in procinto di parlare si stava sistemando i capelli, al centro di un alone di luce accecante. Là fuori stavano succedendo un sacco di cose, ma Harper non ne sapeva granché. Dal luogo dell'esplosione l'avevano portato direttamente in un ospedale a una cinquantina di chilometri da Elmhart. Quelli più vicini erano stracolmi di persone rimaste gravemente ferite nello scoppio e lui non rientrava nella categoria. In realtà non era affatto ferito. Lo spostamento d'aria aveva distrutto le finestre poco lontano da lui, ma le schegge di vetro lo avevano mancato. I medici gli avevano detto che era stato fortunato e, dopo una visita superficiale, lo avevano dimesso. Poi era stato affidato alla polizia di stato, che lo portò al quartier generale e lo interrogò. Per ore. L'avevano interrogato parecchi agenti, alcuni
svegli, altri ottusi. Uno si era dimostrato decisamente ostile, continuando a chiedergli come mai non li avesse informati prima: la polizia di stato dell'Indiana lo avrebbe preso sul serio, non commettendo lo stesso errore dell'FBI o di Speed Rogers. Naturalmente era molto facile dirlo adesso. Poco dopo il suo arrivo gli avevano concesso cinque minuti di pausa per andare in bagno e chiamare casa. Gli aveva risposto la segreteria telefonica. Harper non sapeva cosa la stampa stesse dicendo di lui, così spiegò che era ancora vivo, con una certa esitazione e in tono pacato per convincere Laura che era tutto sotto controllo. Poi lo avevano accompagnato in una saletta e gli avevano dato uno stantio sandwich al prosciutto e una bibita. Fuori dalla stanza poteva sentire passi e voci risuonare in corridoio. «Ciao, Will!». Harper si alzò e si voltò. In piedi sulla soglia c'era l'agente speciale dell'FBI Frances Wilson. Aveva l'aria di essere appena arrivata da Washington, probabilmente con l'elicottero che aveva visto atterrare poco prima, pensò lui. Indossava un paio di pantaloni grigi, una giacca blu scuro e una camicetta azzurra. Sulla spalla aveva una pesante borsa a tracolla; stringeva un porta abiti con una mano e un computer portatile con l'altra. Un cellulare le gonfiava il taschino della giacca; stava trillando, ma lei lo ignorò. Si avvicinò subito a Harper e lo baciò su una guancia - lo stesso bacetto rapido che aveva dato ad Addleman quando si erano incontrati nel suo ufficio al quartier generale dell'FBI. Lui immaginò significasse che adesso lo considerava un vecchio collega. All'inizio il suo arrivo l'aveva sconcertato, ma ora cominciava a capire come mai la donna fosse lì. «Come stai, Will? I rapporti dicono che sei illeso, ma non potevo esserne sicura». «Sto bene». «Vieni, sediamoci. Dobbiamo parlare». Si sbarazzò dei bagagli, poi si tolse la giacca mettendo in mostra un' automatica 9 mm infilata nel fodero. Si sedettero su due divanetti messi uno di fronte all'altro. «Lascia che ti spieghi perché sono qui», disse Frances. «Penso di saperlo. Quello che ho da dire ai media potrebbe essere molto imbarazzante per il Bureau. Qualcuno doveva venire a supplicarmi di andarci piano e hanno rifilato l'incarico a te».
L'agente Wilson accavallò le gambe e si appoggiò alla spalliera, sorridendo. «No». «No?». Harper era davvero sorpreso. «Quindi non ti dispiace se racconto ai reporter che la settimana scorsa siamo venuti nel tuo ufficio per mettervi in guardia contro il bomber?». «Non ti sto chiedendo di prender parte a un insabbiamento, Will. Il Bureau impara dai propri errori, contrariamente a quanto si creda. Sei libero di riferire ai media i particolari del nostro colloquio. E se vuoi aggiungere dei commenti personali sulla mia lentezza od ottusità... be', non sarebbe giusto ma non posso certo fermarti». Lui la studiò per un istante, poi chiese: «Hai già parlato con i reporter, vero? Hai cercato di pararti le spalle e di limitare i danni? Tutte le cose in cui voi di Washington siete tanto bravi?». «Non avevo motivo di non parlare con loro. Non ho nulla da nascondere. Dopo il nostro incontro, ho seguito fedelmente la prassi. Ho prontamente riferito ai miei superiori le vostre preoccupazioni e gli ho fornito tutte le informazioni necessarie per prendere una decisione». «E quando sono rimasti con le mani in mano non li hai sollecitati». «Sarebbe stato controproducente». Harper annuì lentamente, cominciando a capire. «Addleman aveva ragione, vero? Sei una vera burocrate. Hai messo lettere nei fascicoli giusti e mandato e-mail alle caselle appropriate. E scommetto che hai scelto le parole con cura. Se Addleman e io ci fossimo rivelati due squilibrati, non avresti dato l'impressione di averci appoggiato. Però oggi pomeriggio, quando è scoppiato il finimondo, i tuoi superiori si sono ricordati di cosa avevi scritto e hanno detto: "Cristo santo, in questo caso Frances era un passo avanti a noi. Ma solo un passo, quindi possiamo ancora fidarci di lei"». Le rivolse un sarcastico sorriso di ammirazione. «Ti hanno assegnato il caso, vero?». «Sì», rispose Frances. Si chinò in avanti, posando i gomiti sulle ginocchia. Non si era messa nessun profumo, ma emanava un aroma di fresco e pulito. Nessuno avrebbe indovinato che aveva alle spalle una lunga giornata e faticosa, che aveva percorso centinaia di chilometri e partecipato a interminabili meeting carichi di tensione in stanze soffocanti. Questo era l'inizio dell'indagine di spicco che stava aspettando da tempo, e lei era pronta. «In questo preciso istante il Bureau sta facendo tutto quello che tu e Addleman volevate che facesse. I migliori esperti della scientifica passeranno
al setaccio quel tribunale. E i nostri analisti di Quantico resteranno tutta la notte davanti al computer. L'FBI sta impiegando tutte le sue risorse in questa caccia all'uomo. Inchioderemo quel figlio di puttana per voi. Puoi contarci. Ma ho bisogno di un po' di cooperazione da parte tua». Harper non rispose. Rimase in attesa. «Quando ti ho promesso che non cercheremo di controllare quello che riferisci ai media, dicevo sul serio. Ma voglio chiederti di non rivelare un particolare specifico: lo schema dell'aquila». «Ne sei al corrente?». «Ho chiamato Addleman dall'aereo». «Capisco». «Gli ho spiegato che non possiamo far capire al bomber che gli siamo alle calcagna. In questo momento siamo un passo avanti a lui. Il fatto di sapere che organizzerà il prossimo attentato a Washington ci concede un notevole vantaggio». «E Addleman ha accettato di collaborare?». Lei annuì. «Vuole assolutamente vedere in manette questo assassino. Tu no?». Harper pensò ai giovani che erano morti quel giorno. Stuart. Courtney. Howard. Pensò a Jimmy Fahey. Abbassando lo sguardo sulle mani, rispose sottovoce: «Sì, voglio vederlo in manette». «Allora collabora con me. Perché sarò io ad arrestarlo». «D'accordo. Non accennerò allo schema dell'aquila». Era esausto. Voleva riposarsi, tornare a casa. Si alzò. «Sono libero di andare, immagino». Lei gli sorrise. «Lo sei sempre stato, Will. Volevamo solo che tu fossi pronto, perché quei reporter ti assaliranno non appena metti piede fuori dall'edificio». «Davvero?». «Lo vedrai. Questo è davvero un grosso caso, Will. La gente sta impazzendo. E tu ti ci trovi proprio in mezzo. Sei di nuovo un eroe». Gli si avvicinò ulteriormente e abbassò la voce. «Comunque voglio assicurarti che non parlerò ai giornalisti del caso di Domenic Fortunato - ufficiosamente o meno». Harper sentì una fitta di tensione. Negli ultimi giorni, così frenetici, non aveva pensato al bambino morto nell'incendio provocato dai petardi. Quelli del dipartimento degli interni stavano ancora facendo pressioni sul padre del ragazzino per spingerlo a dire che era stato lui a vendergli i fuochi d'artificio?
Guardò il viso dell'agente Wilson e il suo fioco sorriso. Rispose pacatamente: «Ti ringrazio». «Naturalmente faranno un sacco di domande su di te. È il rovescio della medaglia della fama. Quindi la faccenda Fortunato potrebbe trapelare, ma almeno saprai che non è dipeso da noi». Davvero brava, pensò Harper. Gli aveva ricordato, in modo non troppo sottile, che in questo momento per lui era pericoloso ritrovarsi sotto i riflettori e quindi avrebbe dovuto restarne il più lontano possibile, lasciarle la scena. Si voltò senza rispondere. Frances percorse il corridoio insieme a lui. «Quando finisci le interviste media, faremo in modo che una macchina ti accompagni all'aeroporto». «Grazie, ma devo tornare a Elmhart per disdire la camera al motel e prendere il bagaglio». «Ci abbiamo pensato noi. Abbiamo anche restituito la tua auto a noleggio. La tua valigia è qui sotto». «Capisco». Avevano raggiunto gli ascensori. L'agente Wilson premette il pulsante di chiamata. «Sembra che vogliate farmi uscire di qui prima possibile», dichiarò Harper. «Francamente, è proprio così. Hai fatto la tua parte. Adesso tocca a noi. Riesci a capirlo?». Sorrideva, ma lo stava guardando dritto negli occhi. «Sì», rispose Harper. «Capisco». «Buon viaggio, Will», disse Frances Wilson, poi si voltò. Andandosene, stavolta si era dimenticata di baciarlo. 20 Laura lo abbracciò quasi ancora prima che la sua valigia toccasse il pavimento dell'atrio. Harper la baciò e sentì che tremava, sentì il fresco delle lacrime sulla guancia posata contro la sua e poi il loro gusto salmastro. «Stai piangendo», le disse. «Di sollievo», rispose lei, abbracciandolo di nuovo e affondando il mento nel suo petto. Dopo qualche secondo, indietreggiò. Lo fissò, gli occhi ancora umidi, le tracce delle lacrime ancora sul viso. «Sollievo perché sei vivo». «Speed Rogers non lo è», dichiarò lui, notando l'amarezza del proprio tono.
«Hai fatto il possibile, Will. Era un uomo arrogante. Lo si capiva chiaramente dal suo farneticare alla radio». «La cosa strana è che l'ho trovato simpatico. E anche i suoi collaboratori mi piacevano. Erano in gamba, pieni di energia». Scosse il capo. «Così alla moda, ma anche così ingenui. Non hanno voluto darmi retta». «Credono solo a quello a cui vogliono credere», disse Laura. «È il genere di atteggiamento che diventa un'abitudine». Harper raggiunse stancamente il soggiorno. Si sedette sul divano e si guardò intorno per vedere a che punto era la ristrutturazione. Notò la macchiolina a forma di virgola che ricordava di aver visto fare a Laura mentre smaltava il telaio di una finestra dai vetri istoriati. Un tenue odore di vernice fresca, di solvente e sigillante aleggiava ancora nell'aria. Casa dolce casa. La moglie prese posto accanto a lui. «E l'FBI? Ho visto in TV la Frances Wilson di cui mi hai parlato». «Abbiamo chiacchierato un po'. Mi è sembrata molto ottimista». «Ma ha qualche indizio?». «Se e quando lo trova, non mi avviserà sicuramente. E non avvertirà neanche Addleman. Non vuole averci tra i piedi. Questo caso potrebbe valere una promozione, per lei». «Mi sembra un po' troppo ambiziosa». «Fintanto che l'ambizione la spinge a braccare l'assassino, per me va bene». Rimasero seduti ad ascoltare il rumoroso passaggio di quella che sembrava una macchina spazzatrice intenta a raccogliere i rifiuti accumulatisi sul bordo del marciapiede per poi pulire il canaletto di scolo con schizzi d'acqua. Quando il frastuono si affievolì, fu Laura a parlare. «Mi hai fatto prendere un bello spavento, Will». «Mi dispiace. Avrei dovuto ascoltarti. Avrei fatto meglio a non immischiarmi in questa faccenda, visto che non ho potuto fare niente». «Hai avvisato le autorità. Adesso arresteranno il bomber». Harper non rispose. «Stai sudando. Vuoi una birra fresca?». «No». «Hai mangiato qualcosa, dopo colazione?». Lui non aveva fame. Si strinse nelle spalle. Di solito Laura non lo colmava così di premure, ma lui non riusciva a rilassarsi e godersi la cosa. «Continuo a pensare al bomber, a come mi ha battuto. Mi prenderei sem-
plicemente in giro se dessi tutta la colpa a Rogers e al suo staff. Mi è stata concessa un'ultima chance di fermarlo e ho fallito. Si è dimostrato più furbo di me. Il suo stratagemma per occultare e poi spedire a destinazione la bomba mi ha colto totalmente di sorpresa». «Avevi solo pochi minuti a disposizione, Will. Non potevi certo...». Lui liquidò le scuse con un gesto irritato. «Correvamo a destra e a manca cercando possibili nascondigli quando invece non era affatto nascosta - era semplicemente posata sulla moquette, invisibile. E pensavamo che fosse fissa quando in realtà era mobile. Lui poteva avvicinarla al bersaglio al momento opportuno. È davvero un genio». «Lo prenderanno. Li prendono sempre, prima o poi. E il Bureau ha un sacco di tempo a disposizione. Mi hai detto che questo tizio fa piani e preparativi talmente accurati da lasciare lunghi intervalli tra un attacco e l'altro». «Un tempo sì, ma ora diventano sempre più brevi. Secondo me comincia a spazientirsi, adesso che la fine è vicina». Lei si accigliò, perplessa. «La fine?». Harper esitò, poi rispose: «C'è qualcos'altro. Un particolare che non è stato reso pubblico». Le spiegò dello schema dell'aquila e di come li spingesse a credere che il bomber voleva sferrare l'attacco finale a Washington. Mentre ascoltava, Laura rimase immobile, con i grandi occhi azzurri fissi sul marito. Alla fine mormorò: «Buon Dio, non penserai che questo folle voglia far saltare in aria la Casa Bianca, vero?». «Sta cercando di spiegarci cosa pensa della fama, ma nessuno sa come ragioni il suo cervello deviato, quindi non possiamo dire se il suo bersaglio sia il presidente. Ci sono un sacco di persone famose a Washington». «E tutte ben protette», rispose Laura. «E visto che gli addetti alla sicurezza sono stati avvisati... il bomber non avrà modo di arrivare fino a loro». «Lo spero». «Non è una cosa di cui ti debba preoccupare. Sei in pensione e l'FBI sta lavorando al caso». Gli si avvicinò ancora di più e lo abbracciò di nuovo. «Adesso è un problema loro, una loro responsabilità. Ormai ne sei completamente fuori». Lui l'abbracciò e la baciò, convinto che si sbagliasse. Nei giorni seguenti Harper cercò di non leggere i giornali né guardare la
televisione. Tutti parlavano del Celebrity Bomber ma si trattava di semplici congetture. Se le indagini di Frances Wilson stavano facendo qualche progresso, evidentemente lei preferiva non parlarne. Così a tenerlo aggiornato erano le sue fonti nei media: un paio di giornalisti di New York che conosceva sin da quando faceva il poliziotto. Gli passavano delle informazioni e in cambio lui li aiutava a ricostruire il background della vicenda. Erano gli unici reporter con cui parlava. Non che gli altri giornalisti non cercassero di scambiare due chiacchiere con lui. Aveva smesso di rispondere al telefono o al campanello. Se andava a piedi dal fruttivendolo o nel negozio di ferramenta, c'era sempre un reporter o un fotografo che lo pedinava. Ma aveva già parlato con la stampa giù nell'Indiana e non intendeva rilasciare altre interviste. Voleva mantenere la promessa fatta a Frances e non lasciarsi sfuggire il minimo accenno allo schema dell'aquila. Era il principale vantaggio di cui disponessero gli investigatori. I giorni passavano, piacevoli giorni di tenue pioggerellina e brezza tiepida. Era l'ultima settimana di aprile. La cassetta degli attrezzi non era dove Harper l'aveva lasciata. Se fosse stato in guardia si sarebbe domandato come mai, visto che Laura la rimetteva sempre al suo posto sotto il banco di lavoro, nel seminterrato. Ma trovandola ai piedi della scala aveva semplicemente immaginato che la moglie si fosse dimenticata di riporla. Stringendo la pesante cassetta metallica, salì i gradini e raggiunse il salotto anteriore. Laura aveva dipinto le pareti mentre lui era via e gli aveva chiesto di attaccare alla parete lo specchio che avevano comprato l'estate prima a un'asta di campagna. Il grande specchio ovale, dall'elaborata cornice dorata, era appoggiato al muro. Sollevandolo immaginò che pesasse più di dieci chili. Pensava di usare una vite prigioniera per appenderlo, ma prima doveva trovare un montante. Costeggiò il muro, bussando sull'intonaco. In un angolo c'era un piccolo televisore portatile che aveva acceso per sovrastare gli incessanti squilli del telefono. Ogni sera, prima di andare a letto, si sedeva accanto alla segreteria ad ascoltare i messaggi. Era un'operazione che poteva durare anche un'ora; ma ogni volta rimaneva deluso: non c'era mai il messaggio che stava aspettando. Quello di Addleman. Pensò che poteva lasciare accesa la TV purché si ricordasse di spegnerla prima del notiziario di mezzogiorno e l'ultima serie di insulsi servizi sul
bomber. Adesso stava ascoltando distrattamente uno stupido talk show condotto da una giovane e vitale donna, a lui sconosciuta, che saettava da uno spettatore all'altro cercando di ottenere domande o commenti a proposito dei suoi tre ospiti, due donne e un uomo. Apparentemente 1 tre avevano fatto qualcosa che il pubblico considerava disdicevole e bizzarro, ma lui non aveva ancora capito di cosa si trattasse. Comunque sembravano orgogliosi dell'imprecisata trasgressione. Harper trovò il montante. Adesso lo aspettava il delicato compito di posizionare lo specchio e segnare sul muro il punto in cui fare il buco. Avrebbe dovuto concentrarsi unicamente su quello, ma non riusciva a non ascoltare il talk show. «... detto di non farsi più vedere», dichiarò una delle donne. «Così, mentre lei parlava con tuo marito, hai fatto saltare in aria la sua auto?», chiese la conduttrice in tono incredulo. «Non proprio», rispose la donna sogghignando. «Non avevo dinamite, così ci ho versato sopra la benzina e le ho dato fuoco. Si è incendiata con un gran bel sibilo». Il pubblico ridacchiò. «In pratica è saltata in aria!», rettificò l'altra donna sul palcoscenico. Sembrava arrabbiata, ma era evidente che stava fingendo. Dopo tutto, la macchina era probabilmente assicurata e la sua distruzione l'aveva fatta finire in TV, su un canale nazionale. «Cosa pensi di quello che è successo, Paul?», chiese la conduttrice al giovanotto seduto tra le due donne. Paul si strinse nelle spalle, palesemente lusingato dal fatto di essere talmente desiderabile che qualcuno aveva bruciato un'auto per lui. «Le hai fatto esplodere la macchina a causa del Celebrity Bomber?», chiese una spettatrice. «E adesso sei pentita?». Harper posò lo specchio e si concentrò sulla TV. Entrambe le donne stavano sorridendo. Paul fece di nuovo spallucce, guardandole a turno con aria soddisfatta. Era magrissimo, con dei brutti denti e non sembrava affatto il tipo d'uomo che due rivali possano contendersi. «Vorrei aver avuto un po' di dinamite», rispose la piromane suscitando le risate del pubblico. Harper prese il telecomando dal bracciolo di una poltrona e cambiò canale. Un uomo in piedi su una spiaggia soleggiata stava spiegando con dovizia di dettagli come guadagnare una vera e propria fortuna nel campo immobiliare.
Decisamente meglio, pensò lui. Chiamò Laura, che stava staccando la boiserie dai muri della biblioteca. Lei si fermò sulla soglia e gli consigliò di alzare un po' lo specchio e poi di abbassarlo leggermente. Quando fu soddisfatta, tornò al suo lavoro. Con la matita Harper tracciò un segno sul muro e mise da parte lo specchio. Adesso doveva praticare un foro con il trapano. Si avvicinò alla cassetta degli attrezzi. Una musica dal ritmo coinvolgente annunciò l'inizio del notiziario di mezzogiorno. Prese il telecomando e lo puntò verso lo schermo per cambiare canale. Ma sentendo che parlavano del Celebrity Bomber esitò, con il pollice sul pulsante. David Wickerwaith, nuovo idolo delle donne e protagonista di una famosa serie televisiva, aveva annullato un'intervista con il conduttore del telegiornale del network, Brad Philip. Il pretesto ufficiale era una laringite, ma Philip sottolineò che Wickerwaith e molte altre star avevano rifiutato di rispondere a domande sul Celebrity Bomber per paura di attirare su di sé la sua attenzione. Harper la giudicò una mossa saggia. Non si dimostrò altrettanto assennata Modessa Swann, una stella in declino ancora attraente dopo innumerevoli compleanni e innumerevoli plastiche facciali, che sorrise mentre la telecamera smetteva di riprenderla in primo piano per mostrare che era seduta accanto a Philip dietro la scrivania. Era una bionda dall'aspetto volpino che doveva avere sessant'anni ma ne dimostrava quaranta e portava degli esemplari della linea di gioielli che disegnava e poi commercializzava regolarmente su un network specializzato in televendite. Un collier d'oro scintillava sul suo prosperoso décolleté evidenziato dalla generosa scollatura della camicetta. «Ogni star che conosco, insomma tutti noi siamo semplicemente terrorizzati da quanto sta succedendo», spiegò a Philip. «Capisce, nessuno sa se domani sarà ancora qui oppure se sta per saltare in aria per colpa di quel pazzo!». «Lei non sembra spaventata», osservò il giornalista. Modessa sorrise. «Be', lo sono, Brad. Solo uno sciocco non lo sarebbe. Persino i grandi divi coraggiosi protagonisti di film d'azione hanno paura. Alcuni non vogliono neanche uscire dalla loro tenuta». «Si dice che molti abbiano lasciato il paese», dichiarò Philip. «È vero, Brad». Ridacchiò, e Harper si ricordò di averle visto interpretare il ruolo dell'ingenua nei primi film che l'avevano resa una star. «Immagino che abbiano lasciato a noi ragazze il compito di difendere lo show bu-
siness». L'uomo fece un fioco sorriso. «In tal caso, credo che lo show business sia in mani capaci. Plaudiamo tutti al suo coraggio». «Il fatto che non si veda che ho paura dimostra la mia bravura di attrice. Ma sono qui, pur sapendo che è pericoloso. Per alcuni di noi questo rientra nella tradizione "lo-spettacolo-deve-continuare". Non possiamo permettere che qualcuno ci allontani dal nostro primo amore e dalla nostra fonte di sostentamento. Questa vicenda mi ricorda la mia prima audizione, quando avevo lo stomaco sottosopra. È esattamente la stessa sensazione». Harper era sbalordito dal fatto che lei non notasse la sostanziale differenza. Essere sventrato da un'esplosione non è esattamente come non ottenere una parte interessante in uno spettacolo o in un film. Non ci chiami, la chiameremo noi significa che almeno c'è un futuro. «Quando arriva il momento di morire», proclamò Modessa con studiata disinvoltura, «sono sicura che il regista chiamerà la mia controfigura». A questo punto lui capì che in realtà era terrorizzata, perché stava recitando. Le sue battute erano state palesemente scritte e provate. Per lei era tutta pubblicità. Un'ottima chance. In un certo senso fu costretto ad ammirarla e a stupirsi del suo imperituro desiderio di popolarità. Se il Celebrity Bomber fosse stato davanti al televisore, cosa avrebbe pensato di lei? Spegnendo il televisore, si chinò sulla cassetta degli attrezzi e la aprì. Laura poteva anche essersi scordata di rimetterla a posto, ma ne aveva lasciato il contenuto in perfetto ordine. Il trapano elettrico era nel solito cassettino. Harper scelse e inserì la punta adatta, poi si alzò. C'era una presa nel battiscopa che distava meno di un metro dal punto in cui voleva praticare il foro. Perfetto, così non aveva bisogno di una prolunga. Impugnando saldamente il trapano con la mano buona, ne posò la punta sul segno tracciato a matita sul muro e premette il grilletto. Fu come se un fulmine lo attraversasse da capo a piedi. L'apparecchio sembrò schizzargli di mano. Senza fiato per la sorpresa e il dolore, indietreggiò barcollando. Si guardò la mano per controllare la gravità delle ustioni. Dal trapano, a terra, uscivano scintille e fumo. Harper era seduto sul bordo della vasca del bagno al pianoterra e Laura gli stava medicando la mano con pomata e cerotti. «Ecco fatto», disse. «Ti senti meglio?». «Un po'. Ma mi fa ancora male».
«Il dolore non passerà subito. Le ustioni non sono serie, ma temo che per oggi la tua attività di carpentiere finisca qui». Lui sollevò la mano per esaminarla. La pelle era ancora arrossata sotto lo strato scintillante di crema antiscottature. Negli ultimi due anni aveva imparato a cavarsela con una sola mano perfettamente funzionante. Per qualche ora avrebbe dovuto fare a meno di entrambe. Era il genere d'esperienza che ti fa riflettere e ringraziare il cielo per quello che hai. E che puoi ancora perdere. Ed era proprio questo che doveva succedere. Disse in tono pacato: «Era un trapano nuovo di zecca. L'ultima volta che l'ho usato non ho avuto problemi. Non c'era motivo che andasse in corto circuito». «Be', sono cose che succedono». «Laura, hai usato la mia cassetta degli attrezzi ultimamente?». «Ultimamente? Non me lo ricordo». «Ieri, voglio dire». «Oh. No. Perché?». «È stato il bomber. Ha scambiato i fili». Laura stava richiudendo la cassettina del pronto soccorso. Si voltò per fissarlo con gli occhi sgranati. «Cosa stai dicendo? È stato un semplice corto circuito». «No». «Oddio. Vuoi dire che ha cercato di uccid...». «Se avesse voluto uccidermi, adesso sarei morto. Voleva solo dimostrarmi come sono vulnerabile. Mandarmi un messaggio, avvisarmi che gli ho già creato abbastanza problemi e che mi conviene smettere». Lei si sedette sul davanzale della finestra. Per un attimo rimase in silenzio, poi disse: «Will, se ne sei sicuro dobbiamo chiamare subito la polizia». Lui scosse il capo. «Ormai è impossibile stabilire che il trapano è stato manomesso. Avrebbero solo la mia parola e probabilmente non mi prenderebbero sul serio. Potrebbero considerarla una reazione postraumatica all'esplosione di Elmhart oppure pensare che io stia mentendo - cercando di attirare l'attenzione perché sono furibondo per essere stato tagliato fuori dalle indagini». Laura inspirò a fondo, cercando di mantenere il controllo di sé. «Perché mi hai chiesto se avevo spostato la tua cassetta degli attrezzi?». «Perché non era dove l'avevo lasciata».
Lei si alzò, coprendosi la bocca con una mano. «Vuoi dire che è stato... qui? In casa nostra? Will, no». «È stato qui». «Ma c'è un chiavistello su entrambe le porte. E un sistema d'allarme che il tuo amico della squadra furti e rapine ha definito all'avanguardia». Harper si strinse nelle spalle. «Non è certo un problema, per questo tizio». Laura uscì rapidamente dalla stanza. «Ho appena lasciato aperta la finestra nella stanza sul retro. Oddio, di tutte le cose stupide...». «Se n'è andato da parecchio tempo», le gridò Harper. Lei girò su se stessa in corridoio e lo guardò. «Ma possiamo essere sicuri che abbia finito con noi? Potremo mai sentirci davvero al sicuro, qui?». Lui scosse mestamente il capo. «No». «Ma dove possiamo andare, così su due piedi? Ci sarebbe... ci sarebbe Anita. Abita vicino all'ospedale, ma non credo che abbia posto anche per te. Forse dovremmo andare semplicemente in albergo». «Sì, in albergo». Harper si guardò la mano. L'effetto lenitivo della pomata cominciava già a esaurirsi e lui riusciva a sentire il calore dovuto alle ustioni. «Senti, mi conviene avvisare Addleman dell'accaduto». Mentre Laura faceva le valige, lui telefonò. Reggendo la cornetta con i polpastrelli, spiegò cosa aveva fatto il bomber. «Assolutamente inaspettato», rispose Addleman. «Affascinante. Non pensavo che avrebbe reagito in modo così personale». «Pensi che dovremmo avvisare Frances?». «Credi di poter arrivare fino a lei? Al momento è molto indaffarata. È comunque direbbe semplicemente che ti inventi le cose, che se il bomber doveva prendersi tanto disturbo ti avrebbe ucciso». «Si sbaglierebbe», dichiarò Harper. «In questa fase del gioco uccidermi non servirebbe a niente». «No. Sei fuori dalla mischia. Lui ti sta consigliando di restarci. È stata una specie di cortesia professionale nei tuoi confronti. Ti sta dicendo che anche tu sei un professionista ma naturalmente non al suo livello e, quindi, ti conviene stare alla larga. Però immagino che il suo avvertimento non abbia ottenuto l'effetto desiderato, vero?». «Infatti», rispose freddamente lui. «Ha avuto proprio l'effetto opposto». «Be', visto che devi comunque lasciare casa tua, tanto vale che tu venga qui. Stavo per spedirti un'e-mail. Mi sto occupando di una certa questio-
ne». Harper raddrizzò la schiena. L'impazienza gli fece stringere più forte la cornetta, con una smorfia di dolore. «Di cosa si tratta? Di qualcosa che il Bureau non sa?». Addleman esitò. «Vieni qui, Harper, così ne parliamo». «Ci vediamo stasera», rispose lui. Riagganciò e poi andò ad avvisare Laura. 21 Quella sera, quando Harper scese dal taxi di fronte al palazzo di Addleman e rimase fermo sul marciapiede scivoloso, stava piovigginando. Due ragazzi, con le braccia tatuate e strane pettinature, che oziavano sull'altro lato della strada dividendosi una bottiglia, lo guardarono con aria meditabonda nel crepuscolo, poi ripresero a chiacchierare come se avessero visto in lui qualcosa che consigliava una certa cautela. Harper bussò alla porta e dopo qualche secondo le serrature scattarono, delle catenelle tintinnarono e Addleman aprì, salutandolo sobriamente con un cenno del capo. Si fece da parte per lasciarlo entrare nell'appartamento semibuio. Il fumo di sigaretta stantio si mescolò con l'odore di cibi speziati che lo aveva seguito su per le scale. Harper riuscì a vedere, in fondo al breve corridoio, la porta aperta della stanza dei computer, da cui usciva una luce brillante che cadeva sulla logora passatoia di poco prezzo. Addleman spense la sigaretta nel portacenere, poi lo accompagnò nella stanza. C'era una lampada snodabile da tavolo accesa, ma la principale fonte di luce erano i tre monitor lampeggianti. «Lì ho messo al lavoro un crawler», spiegò, accennando con la testa al computer nell'angolo. Portava dei pantaloni scuri e spiegazzati e la solita camicia bianca, con le maniche arrotolate fin sopra il gomito. Sembrava esausto. «Un crawler?». «Parte di un software di ricerca che esplora Internet cercando aree che potrebbero contenere le informazioni che mi servono. Mi evita di passare ore e ore davanti allo schermo e lavora mentre io dormo». «Hai proprio l'aria di chi dovrebbe dormire un po'». «Sì, dovrei», rispose Addleman. «Ma avrò tutto il tempo di riposarmi quando sarò morto». «Intanto che sei vivo ed è più facile chiedertelo», disse Harper, «perché
mi hai fatto venire fin qui da New York?». Addleman scosse il pacchetto per farne uscire una sigaretta. Se la mise tra le labbra, poi se la tolse di bocca senza accenderla. «Il Bureau non riesce a cavare un ragno dal buco». «Come puoi dirlo? Forse sta facendo un sacco di progressi ma preferisce non parlarne ai media». «Io non sono di quelli che si affidano ai media per avere delle informazioni. Ho fatto parte dell'FBI per sedici anni. Ho ancora dei contatti lì. E quello che mi hanno detto mi preoccupa». «Come mai?». L'altro cominciò a scuotere lentamente il capo. Un'espressione di profondo disgusto gli contorse i lineamenti. «Il dipartimento di scienze comportamentali, quello in cui lavoravo, si sta occupando del significato dello schema dell'aquila. Sono convinti che si tratti di astrologia». «Se ben ricordo, pensavi che il bomber non fosse tipo da interessarsene». «Precisamente. È un tecnocrate iperrazionale, non si occuperebbe di astrologia neanche morto. E adesso il Bureau ha incaricato i suoi migliori cervelli di studiare il significato della costellazione dell'Aquila nell'astrologia greca. Per non parlare di quella araba, cinese e indiana. Invece di cercarlo, a questo figlio di puttana gli stanno facendo l'oroscopo». Sempre più esaltato, Addleman enfatizzava i punti salienti facendo ondeggiare la sigaretta spenta. Harper gli disse: «Calma, Harold. È possibile che l'astrologia rappresenti un vicolo cieco; ma stanno seguendo molte altre tracce. Scopriranno sicuramente qualcosa». L'altro si limitò a scuotere il capo più in fretta e a descrivere archi più ampi con la sigaretta. «No! Non capisci. Il vero problema è la forma mentis della burocrazia. Frances e gli altri si sono fissati sullo schema dell'aquila. Hanno incaricato decine di agenti di indagare sull'attentato contro Rogers e sui sette precedenti che gli abbiamo indicato. Ma per loro il tentativo di scoprire imprese del bomber anteriori a queste non rappresenta una priorità. Non stanno usando abbastanza personale e neanche il metodo giusto». «Ma ho sentito dire che stanno controllando gli attentati dinamitardi irrisolti degli ultimi vent'anni». «Non basta! A volte il Bureau non è il tipo di organizzazione capace di seguire percorsi alternativi, meno convenzionali». «In che senso?».
«Non stanno indagando sugli attentati risolti». Harper non riusciva a tenere dietro all'enigmatico ragionamento dell'amico. «Perché dovrebbero?». «Ieri il mio crawler ha trovato qualcosa su Internet. Una pagina web che potrebbe condurci alla prima impresa del bomber». «Una pagina web?». Harper aveva già sentito quell'espressione ma non sapeva esattamente cosa indicasse. «È una specie di annuncio pubblicitario a pagamento su Internet. Un'organizzazione o un individuo comprano uno spazio e possono usarlo in svariati modi per un sacco di motivi diversi. Il nome Sam Sugar ti dice qualcosa?». Harper scosse il capo. «Con la sua pagina web vuole convincere i media a porre rimedio a quello che definisce un errore giudiziario. Quindici anni fa è stato condannato per aver spedito un pacco bomba a un uomo a cui doveva dei soldi, un comico in ascesa di nome Jake Blake». «Blake è morto?». «No. Questo è un altro dei motivi per cui il caso non ha attirato l'attenzione del Bureau. Non è un omicidio, solo un tentato omicidio. Jake Blake è sopravvissuto». Addleman abbassò lo sguardo. All'improvviso sembrava stranamente imbarazzato. «Ha perso la mano destra». Harper provò l'impulso di guardare la sua. Riuscì a reprimerlo. L'altro continuò. «Sugar ha scontato la pena ed è uscito di prigione, ma continua a dichiararsi innocente». «Questo non significa necessariamente che lo sia». Addleman ignorò il commento. Spegnendo la sigaretta, si voltò verso il computer più vicino e cominciò a pigiare sulla tastiera. Il suo viso, segnato e teso, era chino sul fioco bagliore del monitor. «Adesso sta cercando di spingere i media a occuparsi del crimine, a fare domande che possano portare alla revoca della sua condanna. Ma non sta ottenendo grossi risultati. È l'unico a interessarsi a un vecchio reato minore. E anche se sta dicendo la verità, non sarebbe né il primo né l'ultimo innocente a scontare ingiustamente una pena». «E neppure il primo colpevole a cercare di cancellare l'onta della condanna e della detenzione». «Giusto. Ma si dà il caso che io gli creda. Penso che sia davvero innocente e sia stato incolpato del primo attacco del bomber». Indietreggiò in modo che Harper potesse vedere cosa c'era sul monitor - la pagina web di
Sam Sugar. Conteneva una breve e semplice descrizione del crimine, una dichiarazione d'innocenza e un appello ai media perché indagassero sulla vicenda cercando di scoprire qualcosa sul vero attentatore. C'era anche una fotografia di Sugar, un ometto smilzo e stempiato con un'espressione malinconica. «C'è anche il sonoro», spiegò Addleman e premette un tasto. La voce fioca e amareggiata di Sugar uscì dagli amplificatori del computer: «Tutto quello che è scritto qui è vero e io sono innocente, quindi che Dio mi aiuti. È stata la fede a consentirmi di sopravvivere alla prigionia ed è la mia fede nel Signore a darmi la certezza che un giorno nessuno crederà che io abbia commesso quell'orribile azione. Sono un peccatore, come tutti gli uomini, ma il tentato omicidio è un peccato che non ho mai commesso. Se qualcuno di voi vuole dirmi qualcosa o intervistarmi, può scrivermi, chiamare il numero di telefono che appare sullo schermo oppure contattare il mio indirizzo e-mail. Vi prego, aiutatemi a raddrizzare questo torto in modo che venga finalmente fatta giustizia. Grazie e che Dio vi benedica». L'indirizzo rimandava a Solar City, Arizona. «Non c'è un accompagnamento musicale?», chiese Harper. Addleman accennò un sorriso. «Lo ammetto, è un po' greve. Gli servirebbe qualcuno capace di scrivere e un esperto di computer graphics. Forse più persone visiterebbero la sua pagina web. Sono stato solo il sesto a farlo». «Come mai lo credi innocente, Harold?». «Ecco, guarda». Addleman accese una lampada e gli passò delle fotografie a colori formato venti per venticinque. «Ho convinto uno dei miei amici del Bureau a mandarmele. Non mi ha chiesto neanche perché le volevo, il che dimostra quanto l'FBI sia interessata a questo caso». Harper stava fissando le foto di una ricostruzione della bomba fatta dal laboratorio dell'FBI. Era molto accurata. Avevano recuperato gran parte del meccanismo a tempo. Si trattava di una bomba-tubo e avevano trovato quasi tutto il tubo e le calotte esplosive - che detonando si erano trasformate in granate a pallette. Un'istantanea mostrava i vari pezzi del congegno sparsi su un fondo scuro; in un'altra erano stati rimessi insieme come le tessere di un puzzle. L'ultima ritraeva Sam Sugar. Sembrava molto più vecchio che non nella foto sul sito, un uomo ben oltre la mezza età, con un viso scarno e occhi tristi, pesti. Aveva tirato in dentro il mento e fissava la macchina fotografica come se lo avesse appena picchiato. «Le ho inserite nel computer con lo scanner», spiegò Addleman, «poi ho
selezionato parte di una foto e l'ho ingrandita in digitale». Premette di nuovo qualche tasto e sul monitor apparve l'istantanea dei pezzi della bomba sparpagliati su un panno scuro. Pigiò con destrezza sulla tastiera e, mediante una serie di rapide riprese, la sezione in basso a destra venne ingrandita sempre di più. Un minuscolo frammento di granata si rivelò la testa di una vite. «Osservala attentamente», disse. Harper ubbidì, piegandosi verso il monitor. Su un lato della testa scanalata della vite era incisa la lettera D. Sentì il ritmo del suo respiro accelerare nella stanza silenziosa. «Una D», disse. «Di nuovo le istruzioni di montaggio del bomber». Addleman lo guardò, divertito e trionfante. «Sono riuscito a risvegliare il tuo interesse, vero? Sicuro che sia una D?». «Certo». «Lo credo anch'io, ma altri potrebbero considerarlo un semplice graffio che, per puro caso, ha la forma di una D. Ci siamo già passati, ricordi?». «Da allora ne sono successe parecchie di cose. Adesso sarebbero costretti a crederci. Se le portiamo questa foto, Frances ordinerà un esame dei frammenti originali della bomba. Questo li convincerà...». «I frammenti sono spariti». «Spariti?». «Ho controllato. Una volta chiuso il caso, se ne sono sbarazzati». Harper fissò la D strizzando gli occhi. Gli sembrava inconfondibile, ma i bordi erano un po' indistinti per colpa dell'ingrandimento. «Ci sono altre foto in cui appaiono delle lettere?». «No. E, credimi, ho guardato bene». Premette dei tasti e la foto scomparve. «Servirà parecchio lavoro di gambe per controllare, Will. Uno di noi dovrebbe guardare Sugar negli occhi e stabilire se sta dicendo la verità. Comunque, scommetto che sa anche dove si trova Blake, quindi potrebbe aiutarci a trovarlo. Non è sempre facile rintracciare gli ex comici». «Detesto dover sollevare il problema, Harold, ma chi finanziera tutto questo lavoro di gambe?». «Non preoccuparti», rispose l'altro. «Ho dovuto vendere la casa per colpa del divorzio. Ho dei soldi da parte ed è così che voglio spenderli». Harper fissò il monitor in silenzio. «Non dobbiamo lasciare niente di intentato», dichiarò Addleman. «Frances non ha creduto alla nostra storia. Ci ha guardato e ha visto un ubriacone e uno sbirro corrotto. Se andiamo da lei adesso penserà che siamo pieni
di rancore perché ci ha tolto il caso». Harper annuì, sapendo che sarebbe andata proprio così. Si chiese come avrebbe reagito sua moglie scoprendo che era diretto in Arizona. La chiamò dall'aeroporto di Philadelphia, dove progettava di sonnecchiare su una sedia fino al mattino. Non voleva spendere più dello stretto necessario, visto che i soldi erano di Addleman. Laura si era sistemata dalla sua amica Anita, che viveva a un isolato di distanza dal New York University Hospital, dove lavoravano entrambe. Le raccontò la storia di Sam Sugar. Lei lo ascoltò in silenzio, poi disse: «Be', d'accordo, è logico che tu gli voglia parlare». La sua risposta assennata fu un vero sollievo per Harper, che aveva temuto una discussione. «Prendo il primo volo di domattina. Dovrei tornare il giorno dopo». «Ma immagino che tu non possa prevedere i possibili sviluppi di questo colloquio». «No». «Allora non farmi promesse. Basta che ogni tanto mi chiami per dirmi dove sei e cosa sta succedendo. Okay?». Lui capì che Laura stava cercando di arginare una notevole tensione. Rispose: «Certo». «Sei sicuro di non voler passare da casa prima di partire?». «Preferisco togliermi subito il pensiero del viaggio». «Non hai bisogno di altri vestiti o roba simile?». «No». «E il distintivo?». «Quello che attesta che sono un sergente della polizia di New York in pensione, vuoi dire? Ce l'ho, anche se penso che non mi servirà a granché». Laura esitò, poi chiese: «La pistola?». La domanda lo colse alla sprovvista. Il suo vecchio revolver regolamentare, una Smith & Wesson calibro 38, era chiuso nella cassaforte in dispensa. Non ci pensava da parecchio tempo. Rispose: «Non ne ho bisogno, Laura. Il tizio con cui devo parlare può anche essere un ex galeotto, ma ha l'aria innocua». «Però hai appena detto che non sai dove ti porterà questo incontro. Forse dovresti passare a prendere la pistola. Hai ancora il permesso di portarla, vero?».
«Non ne sono sicuro. La verità è che l'ho usata solo quando ero di pattuglia. Una volta entrato nella squadra artificieri... be', devi occuparti di problemi più urgenti delle esercitazioni al poligono di tiro. E naturalmente ho imparato a sparare con la mano destra. Non so se riuscirei a maneggiarla con la sinistra. Probabilmente mi sparerei in un piede». Si costrinse a fare una risatina secca. Anche Laura cercò di ridere e rispose: «Allora forse è meglio che tu sia disarmato». «Sicuramente». Poi lei cambiò discorso. Parlarono del tran tran all'ospedale. Ma Harper non riusciva a concentrarsi sulla conversazione: stava pensando alla pistola e a come mai Laura credeva che gliene servisse una. Temeva che lui volesse dare la caccia al Celebrity Bomber da solo? Pensava che lo scherzetto del trapano manomesso lo avesse scosso talmente da fargli perdere l'obiettività, trasformando il caso in una questione personale? Rimpianse di non poterglielo chiedere esplicitamente, di non poterle assicurare che non si illudeva di poter braccare il killer da solo. Se avesse trovato una prova concreta che collegava il caso Blake al bomber, l'avrebbe portata al Bureau. Ma Laura lo aveva pregato di non farle promesse. Così non gliene fece. Le disse che l'amava e riagganciò. 22 Sugar abitava a Solar City, un complesso residenziale per pensionati abbienti situato parecchi chilometri a ovest di Phoenix, Arizona. Mentre cercava Palm Drive, Harper notò che le abitazioni, benché non perfettamente identiche, erano così simili che un ubriaco avrebbe avuto seri problemi a trovare la via di casa. Erano tutte in tinte pastello, a un solo piano e con garage annesso. La maggior parte disponeva di un patio protetto da zanzariere. Alcune, sul davanti, sfoggiavano un praticello oppure una distesa di sassi colorati disposti in modo da formare delicati disegni e inframmezzati da bassi divisori di plastica nera o file di mattoni. In parecchi giardinetti spiccavano tozze palme, potate a fondo e con le fronde più basse tagliate, tanto che somigliavano a enormi ananas. Visto il sole cocente, c'erano solo pochissime auto parcheggiate in strada o sui vialetti d'accesso. Dalle numerose porte di garage aperte si intravedevano dei carrellini per andare sui campi da golf collegati a un caricabatterie. Lindo era l'aggettivo che continuava a venire in mente a Harper mentre
percorreva le strade di cemento chiaro. C'era ben poco traffico a Solar City - prevalentemente auto costose, ultimo modello o poco più vecchi. E uomini canuti o donne alla guida dei carrellini da golf. Anche sulle strade principali che portavano lì aveva visto quei veicoli elettrici, con al volante persone probabilmente troppo vecchie per guidare un'auto; alcune sembravano dirette al campo da golf del complesso residenziale, ma altre evidentemente li usavano per scopi diversi e per raggiungere altre destinazioni. Sugar abitava in Palm Drive, in una casa verde chiaro con il tetto grigio e persiane bianche. Nel giardino anteriore spiccava un grosso cactus saguaro, una pianta alta e diritta con foglie frastagliate simili a braccia piegate. Alcune finestre erano riparate da tende di tela verdi e bianche e la candida porta basculante del garage era chiusa. Mentre parcheggiava nel vialetto d'accesso l'auto presa a nolo, Harper vide nel giardinetto posteriore un arancio carico di frutti. Pensò che Solar City poteva essere un posto gradevole in cui ritirarsi, se desideravi ordine e tranquillità. Se il tuo cervello era finalmente a riposo. Forse un giorno... Scese dalla macchina e fu assalito dal caldo mentre raggiungeva il piccolo portico di cemento, saliva i gradini e suonava alla porta. Delle campanelle tintinnarono fiocamente all'interno, suonando le prime otto note del tema del Ponte sul fiume Kwai, un motivo di cui Harper non riusciva mai a ricordare il titolo. Un tempo Jimmy Fahey aveva una macchina il cui clacson intonava lo stesso motivo. Ad aprirgli fu una donna non molto alta, sulla cinquantina, dal viso abbronzato e segnato, con i capelli corti e grigi. Sembrava che avesse passato tutta la vita al sole e le rughe non riuscivano a scalfire la sua avvenenza. Le mani erano ornate da una mezza dozzina di vistosi anelli, quasi tutti d'argento, e indossava una camicetta gialla e short marrone scuro. Aveva delle bellissime gambe, abbronzate come il viso. «Mi hanno detto che qui avrei potuto trovare Sam Sugar». Il sorriso della donna rese più profondi i solchi sul suo viso ma in un certo senso la fece sembrare più giovane. «Lei ha tutta l'aria di essere un poliziotto». «Lo ero», rispose Harper. «Mi stupisce che sia ancora così evidente». «A quanto pare non si guarda mai allo specchio». «A proposito», disse lui, «pensavo che questo fosse un complesso per pensionati. Lei sembra troppo giovane...». «Che adulatore», lo interruppe la donna, sempre sorridendo. «Continui,
la prego». «Insomma, non c'è un limite minimo d'età per poter abitare in un posto simile?». «Devi avere almeno cinquant'anni», spiegò lei. «Io ne ho cinquantotto». «Non li dimostra. Davvero». «Certo che li dimostro. Sono solo una cinquantottenne in discreta forma. Mangio cibi sani e faccio ginnastica. Anche lei ha l'aria di stare attento alla salute». «Non ultimamente», rispose Harper. «Ho avuto troppo da fare». Lei abbassò lo sguardo notando la mano mutilata, ma la sua espressione rimase praticamente invariata. A un tratto, dalla semioscurità che regnava all'interno della casa, Harper vide sbucare l'uomo ritratto nelle foto che Addleman gli aveva mostrato a Philadelphia. Mentre l'accecante luce del sole lo colpiva, notò che sembrava ancora più vecchio e magro che nella foto a computer e che aveva perso gran parte dei capelli castani. Era molto più pallido della donna, ma chi non lo sarebbe stato? «Non dobbiamo più preoccuparci della polizia, Laverne», dichiarò. Ma non ne sembrava poi così sicuro. Laverne indietreggiò quasi impercettibilmente, fino a toccarlo. «Dice che non è uno sbirro», gli rispose. «Infatti», spiegò Harper. «Mi chiamo Will Harper. Facevo parte della squadra artificieri di New York, ma ormai sono in pensione. Ho visitato il suo sito web e vorrei parlarne con lei». Sugar lo studiò per un minuto con occhi privi di emozione che non si erano ancora resi conto di non trovarsi più in prigione. «Bene, bene. Mi aspettavo delle risposte via e-mail. Decine di risposte. Reporter ansiosi di indagare più a fondo sul caso. Cittadini preoccupati del benessere pubblico pronti a esprimere la loro indignazione per questo errore giudiziario». L'amara ironia del suo tono era inequivocabile. «Non ha ricevuto molti messaggi, vero?», gli chiese Harper. «Nemmeno uno. Invece mi ritrovo un ex poliziotto sulla porta di casa». Si strinse nelle spalle. «Entri, si levi dall'afa». L'interno era fresco e silenzioso. Un divano e poltrone color crema erano sistemati su un tappeto verde chiaro. A una parete era appeso un grande e orribile dipinto a olio che ritraeva una cascata e davanti al divano c'era un basso tavolino di quercia chiara con sopra un barattolo di vetro pieno di caramelle alla menta, un Reader's Digest e un Newsweek.
Sugar gli fece cenno di sedersi e lui si accomodò su una delle poltrone, i cui braccioli di legno scurissimo non si intonavano affatto al tavolino. Sugar prese posto sul divano e accavallò le gambe, che dovevano essere molto magre dentro i calzoni color kaki. La sua maglietta scollata a V rivelava braccia snelle ma muscolose. Portava scarpe da riposo beige e calzini bianchi. Mentre incrociava le braccia, Harper notò un orologio d'oro con il cinturino di pelle marrone che sembrava nuovo di zecca. Laverne era rimasta in piedi. «Posso offrirle qualcosa da bere, signor Harper?». «Birra, se ce l'ha», rispose lui. «Sam?», chiese la donna. «Anche per me». Si diresse rapidamente verso quella che Harper immaginò fosse la cucina. Gli occhi di Sugar la seguirono finché non uscì dalla stanza. Spiegò pacatamente al visitatore: «Laverne e io ci scrivevamo, quando ero in prigione. Ci siamo innamorati. Questa è casa sua, ma ho intenzione di pagare la mia parte di spese. Lei è stata magnifica con me - per me. Mi ha tenuto su di morale quando ne avevo davvero bisogno. Mi ha persino trovato un lavoro: guido una monovolume trasportando gente che va o viene dall'aeroporto». Harper stava pensando che Sugar non era affatto come si aspettava, cioè un folle farneticante. Aveva una certa dignità. Era possibile crederlo davvero innocente e considerare azzeccata la teoria di Addleman. Gli disse: «Forse è un uomo fortunato, dopo tutto». «Sì, lo è», dichiarò Laverne, tornando con un vassoio su cui erano posati due alti bicchieri di birra. Il terzo bicchiere conteneva quella che sembrava limonata, cubetti di ghiaccio e spicchi di limone. Aveva sicuramente un'aria più allettante della birra. Harper rimpianse di non averne chiesta una. Lei distribuì i drink, poi si sedette sul divano accanto a Sugar. Sembrava che cercasse di stargli sempre vicino, per proteggerlo. «Vorrei farle qualche domanda sull'attentato a Blake», disse Harper. L'altro proruppe in una risata amara, quasi un latrato. «Alla polizia non interessa affatto scoprire il vero colpevole, questo è sicuro». «Ha qualche idea? Qualche teoria?». «Nessuna che non faccia acqua». «Non sono della polizia. Non ho bisogno di prove inoppugnabili». «Jake Blake e io siamo diventati amici quando si è trasferito nell'appar-
tamento accanto al mio, a Los Angeles. Era davvero un tipo simpatico», spiegò Sugar. «In realtà, credo di non aver mai conosciuto una persona più gradevole. Non aveva un solo nemico al mondo». «Ne è sicuro?», chiese Harper in tono neutro. Sugar fece un sorriso fioco. «Già, ovviamente ne aveva uno: il tizio che gli ha mandato la bomba. Ma non è stato sicuramente qualcuno del nostro gruppo di Los Angeles. Chiunque conoscesse Jake lo trovava simpatico. Nello show business allacci un sacco di amicizie effimere. Con gente che ti usa, voglio dire. Ma lui era un vero amico, soprattutto per me». «La polizia non ha forse scoperto che vi eravate picchiati?». Per un attimo l'altro rimase in silenzio, apparentemente turbato dal ricordo. «Sì. Abbiamo litigato furiosamente una settimana prima che ricevesse la bomba. Per del denaro che secondo lui gli dovevo, ed è stata l'unica volta che abbiamo litigato. Mi ha dato un pugno, rompendomi il naso. Non ho neanche risposto al colpo. Ero troppo stupito. Non era una cosa da Jake. Ma all'epoca cominciava a riscuotere un certo successo e tutti gli stronzi e gli ipocriti stavano cercando di salire sul suo carro». Harper si stupì che riuscisse a trovare delle scusanti per Blake. «Non ha testimoniato contro di lei al processo?». Un altro ricordo costrinse Sugar a fare una smorfia. Disse: «Mi credeva colpevole. E non era il solo. Quella cosiddetta rissa aveva fatto di me il principale indiziato e il mio alibi si basava su una donna sposata che ha preferito proteggere il marito e i figli invece di me. Ha mentito in tribunale, dichiarando che non ero con lei a San Francisco quando la bomba è stata spedita da una piccola città dell'Arkansas, e questo ha demolito la mia linea di difesa». «È stato davvero sfortunato», disse Harper, sentendo un'improvvisa fitta di pietà. «È quello che mi ha detto Jake al telefono, ma il suo era solo sarcasmo». «Gli ha parlato di recente?». «Ho tentato. Circa tre mesi fa, subito dopo essere uscito di galera. Gestisce un coffee shop nella Valley. A Encino. Non lavora più nel mondo dello spettacolo da parecchio tempo. A dire il vero, non c'è più rientrato dopo l'incidente. E dire che era anche bravo, avrebbe potuto sfondare. Non posso biasimarlo se non vuole parlare con me». Chino in avanti, i gomiti posati sulle ginocchia, stava fissando attentamente il muro dietro la testa di Harper con un'espressione di profondo rammarico.
A un tratto, lui capì. Disse: «È con Blake che vuole sistemare le cose, vero? Vuole riconciliarsi con lui più di quanto non desideri che il tribunale ammetta il suo errore o la riabiliti agli occhi dell'opinione pubblica. Vuole dimostrargli che è innocente». «Continuo a considerarlo un amico», spiegò Sugar. «Non sopporto l'idea che creda che l'ho mutilato, che gli ho rovinato la carriera». Laverne gli si era avvicinata ancora di più, ma lui non se ne accorse. Era concentrato su Harper. «Forse lei può aiutarmi», disse. «Perché è venuto? Ha idea di chi potrebbe avergli mandato la bomba?». Voleva un motivo di speranza. Ma Harper doveva stare attento. Se gli avesse parlato del Celebrity Bomber e Sugar si fosse lasciato sfuggire qualcosa con i media, lui si sarebbe ritrovato nei pasticci. Non aveva l'autorità di girare per il paese facendo domande - o comunque l'agente speciale Frances Wilson l'avrebbe vista così. Rispose lentamente: «Sospetto che esista un collegamento tra questo caso e un altro su cui ho lavorato, ma non conosco ancora l'identità del bomber». Sugar parve deluso dalla dichiarazione, ma non fece commenti. Posò la birra e si alzò faticosamente. Sembrava più vecchio di quanto non fosse in realtà. Molto fragile. Laverne gli si avvicinò fino a sfiorarlo, offrendogli così conforto e protezione. «Addio, signor Harper». Diede un tono definitivo al saluto; forse non approvava l'idea del sito web e non voleva che nella loro nuova vita insieme si intromettesse qualcosa che rappresentava il passato di Sugar. Sarebbe stato impossibile, come Harper ben sapeva, e questo era davvero triste. Si alzò e raggiunse la porta d'ingresso. Sugar lo accompagnò. «Mi farà sapere come procedono le indagini, vero? Basta che mi mandi un'e-mail. La prego. Significherebbe davvero molto per me». «D'accordo». «Dove andrà, adesso?». Harper pensò che non ci fosse niente di male a dirglielo. In ogni caso, era sicuro che l'altro avesse già indovinato. «A Encino. A parlare con Blake». Sugar aprì la porta, con un sorriso amaro. «Le chiederei di salutarmelo, ma non vorrà neanche sentir parlare di me». 23
Un tempo Markman aveva lavorato nello show business. Ci pensava raramente, perché il solo ricordo bastava a riempirlo di disgusto per la sua antica stupidità. Ma non rimpiangeva di aver imparato a travestirsi, truccarsi e interpretare un ruolo. A volte questa sua abilità si rivelava preziosa. Mentre sedeva nella sala d'aspetto leggendo distrattamente i titoli del Washington Post che gli aveva passato la receptionist, era sicuro dell'efficacia del suo travestimento. Aveva speso parecchio tempo e denaro per quel costume. Vi era stato costretto, considerato che interpretava la parte di un riccone. La cravatta marrone era di seta, la camicia azzurra di cotone egiziano. L'abito grigio, a quadretti, era di un leggerissimo misto lana. Lo aveva scelto perché a Washington si aspettava di trovare un clima dolce. Come al solito, i suoi accurati preparativi avevano dato i loro frutti. Percorrendo le strade della città aveva notato che i fiori dei ciliegi erano già spariti: l'estate sembrava imminente. E pensare che non era neanche maggio. Non ancora. Un'altra cosa che aveva notato dopo l'arrivo nella capitale erano le misure di sicurezza più severe del solito. Vedendo le lunghe code ai checkpoint dell'aeroporto era stato felice che le sue valige non contenessero niente di pericoloso, e che lo scopo del suo viaggio fosse una semplice ricognizione. In albergo, gli addetti alla reception avevano sottoposto a un lungo esame la sua carta di credito e la sua patente false; anche se aveva preparato con cura la sua nuova identità ed era sicuro che fosse convincente, quel ritardo lo aveva infastidito. E ovunque andasse vedeva guardie armate. Con una vaga apprensione, si chiese se le autorità fossero misteriosamente riuscite a indovinare che Washington rappresentava il prossimo obiettivo del Celebrity Bomber. Era soddisfatto del soprannome che gli avevano dato. Gli piaceva il gioco di parole: non solo prendeva di mira le celebrità, ma era lui stesso una celebrità, oggetto di paura e rabbia, di battutine nervose e infinite congetture. Perché nessuno sapeva niente di lui. Ogni volta che rifletteva sulla faccenda arrivava alla stessa conclusione: l'FBI non aveva nessun indizio sulla sua identità né su dove avrebbe colpito. Se le misure di sicurezza lì a Washington sembravano più severe del solito era solo perché la città traboccava di pomposi parolai, sicuri che la loro miserabile vita fosse indispensabile alla nazione, pronti a spendere il
denaro dei contribuenti per proteggersi. Una voce femminile interruppe le sue riflessioni. «Andrew Marshall?». Lui si alzò subito, sorridendo e ripiegando il giornale. Sceglieva sempre uno pseudonimo simile al suo vero nome per non rischiare di rispondere con lentezza sospetta quando qualcuno lo chiamava. La donna gli strinse la mano e si presentò. Molly Nathan era bassa, bionda, con un sorriso cordiale e sincero. Un sorriso che Markman trovò subito irritante, capendo che lo avrebbe visto molto spesso. La identificò come la tipica funzionaria di basso livello addetta alla raccolta di fondi e incaricata di accompagnare in visite guidate ogni possibile facoltoso donatore - come quello che lui stava fingendo di essere. «Prima di entrare, lasci che le spieghi brevemente di cosa ci occupiamo», disse lei, lanciandosi in un levigato discorsetto da imbonitore. «Lo scopo dell'ospedale per bambini Constant Light è curare le piccole vittime della guerra, innocenti rimasti feriti in conflitti a cui sono estranei e di cui non sono affatto responsabili. I pazienti arrivano da quasi tutti i continenti e rappresentano quasi ogni razza e cultura esistenti. La nostra attività è interamente finanziata dalle donazioni di persone come lei - individui che si preoccupano del benessere dei bambini. Non accettiamo fondi governativi. La politica si ferma davanti alla porta del Constant Light e viene sostituita dalla compassione e dall'altruismo». Erano frasi enfatiche e Markman dovette sforzarsi di mantenere un'aria impassibile, adeguata ad Andrew Marshall. Aveva gettato accuratamente le fondamenta di questa visita, spedendo lettere scritte su carta costosa e con l'intestazione stampata in rilievo, citando giudiziosamente nomi importanti. L'identità di Marshall, un ricco operatore di borsa di Chicago, era esile ma adatta allo scopo. Le istituzioni mostravano una spiccata tendenza a svolgere solo controlli superficiali su chi poteva firmargli sostanziosi assegni. Ogni potenziale donatore poteva mantenere o meno le sue promesse, ma andava trattato con rispetto. Mentre Molly Nathan gli faceva visitare l'ospedale, lui non prestò troppa attenzione ai bambini invalidi né a quelli le cui mutilazioni passavano in secondo piano rispetto all'inespressività. agli occhi tristi e sbigottiti che continuavano a vedere orrori a cui ormai non reagivano più. No, Markman era molto più interessato all'impianto dell'edificio, ai materiali di costruzione, ai punti sottoposti a maggior tensione e ai muri portanti. Fu costretto a ricordare a se stesso che i consueti principi strutturali qui non contavano perché il Constant Light non sembrava un comune ospeda-
le. I pavimenti erano coperti di moquette dai colori vivaci e sulle pareti dei corridoi erano dipinte lunghe frecce colorate che indicavano come raggiungere i vari reparti. Il personale era colorato come l'ambiente. Nessuno dei dottori o delle infermiere era vestito di bianco. Con i loro camici azzurri, verdi o rossi chiusi in vita sembravano ragazzini coinvolti in un pigiama party invece di specialisti in campo medico. Ma notò che ognuno di loro portava una targhetta con il nome. Era un dettaglio da non dimenticare mentre elaborava il suo piano. Molly Nathan si fermò per voltarsi verso di lui con quel sorriso irritante. Markman si rese conto che non parlava già da un po'. Meglio fare una domanda. «Mi chiedo, signora Nathan, se sia saggio usare il denaro per far venire questi bambini fino a Washington, per curarli. Non sarebbe meglio spenderlo per migliorare le strutture nei loro paesi d'origine, dove potrebbero essere accuditi dalle loro famiglie e dalle loro comunità?». Lo sguardo brillante della donna dimostrò che era pronta a quella domanda; usò un tono pacato per dare un che di solenne alla risposta. «Le famiglie di questi bambini sono state annientate dalla guerra, signor Marshall, così come le loro comunità. In alcuni casi, persino gli stati che un tempo erano le loro terre sono stati addirittura cancellati dalle mappe. Noi rappresentiamo l'ultima speranza». Si interruppe mentre una bimba sui sette anni passava di fianco a loro. Indossava il vivace pigiama a fiori assegnato a tutti i pazienti e stringeva in mano un bicchiere di carta. Sul suo visino era disegnata un'aria decisa. Molly sorrise di nuovo. «Oh, ecco Nadia. Venga». La seguirono lungo il corridoio e poi dentro una stanza, dove un altro paziente era sdraiato sul letto. La figura era completamente ricoperta dalle bende che Markman non riuscì a stabilirne l'età né il sesso. Molly gli stava bisbigliando qualcosa. «Quella è Theresa, la sorella gemella di Nadia. Dormivano nella loro camera, a Sarajevo, quando un colpo di mortaio ha raggiunto la casa. Distavano solo un paio di metri l'una dall'altra, eppure Nadia è rimasta ferita solo leggermente mentre Theresa... be', può vedere da solo». La bambina a letto non aveva più il braccio sinistro. Il lato sinistro del viso recava le tracce di estesi trapianti di pelle: le cicatrici non si erano ancora completamente rimarginate. Una benda copriva la cavità orbitale, palesemente vuota, e l'orecchio era a cavolfiore, come quelli dei pugili. L'esplosione lo aveva deformato di netto, proprio come un pugno.
«Affascinante», mormorò Markman. «Già, è affascinante vedere come funziona la mente di un bambino», dichiarò Molly. «Credo che la piccola Nadia si senta in colpa per essere rimasta illesa. Cerca di badare a Theresa. Imita le infermiere». La bambina stava reggendo la testa della sorella, aiutandola a bere dal bicchiere di carta. Molly continuò a parlare, ma lui non la stava ascoltando. Si stava interrogando sugli effetti incredibilmente complessi delle esplosioni. Quella in questione doveva essere stata davvero straordinaria. Il fatto che avesse ferito così gravemente una persona lasciando l'altra praticamente incolume era insolito ma non unico; aveva sentito parlare di casi simili, ma mai di un'esplosione che avesse ferito la vittima solo su un lato del corpo. Si chiese quanto fosse stato grande il proiettile di mortaio. Com'erano disposte le stanze della casa? Gli sarebbe piaciuto immensamente poter vedere un modellino che mostrasse la posizione delle due bambine e il punto d'impatto del proiettile. Forse c'era una porta sistemata proprio nell'angolo giusto per incanalare verso l'interno la forza dell'esplosione, indirizzandola sul lato sinistro del corpo di una delle ragazzine. Markman ripensò a un quadro che quella mattina aveva ammirato alla National Gallery, un Vermeer in cui una lama di luce attraversava un interno buio illuminando viso, collo e busto di una splendida ragazza. L'esplosione era stata proprio così. Si meravigliò di quella dimostrazione di precisione e potenza. «Il destino è talmente capriccioso», stava dicendo Molly. Forse sì, pensò lui, ma non c'era niente di capriccioso nelle esplosioni. Erano prevedibili. Controllabili. Un arnese efficace nelle mani di un sapiente artigiano. «Vuole parlare con Nadia?», gli chiese Molly. «Conosce un po' la nostra lingua». Markman si voltò e uscì in corridoio. «Cosa c'è da quella parte?». «Dietro la porta c'è l'ala amministrativa». «Mi piacerebbe vederla». «Ma sono solo uffici». Lui sorrise. «Be', se non le dispiace, già che sono qui vorrei visitare tutto l'edificio. Incluso il seminterrato». «Il seminterrato?». Lei parve perplessa, forse addirittura un po' riluttante. «Sì. Vede, le mie donazioni hanno sempre uno scopo ben preciso. E,
stando alla mia esperienza, le organizzazioni benefiche talvolta trascurano le loro carenze strutturali, concrete. Se mi accompagna in giro potrei vedere qualcosa di specifico che ha bisogno di essere potenziato o migliorato e decidere di aiutarvi a farlo». «Posso accompagnarla dovunque lei voglia, signor Marshall». Il discorso sulle donazioni aveva riportato il sorriso sul volto di Molly, proprio come lui si aspettava. La donna si incamminò nel corridoio di buon passo. «Sa, se decide di aggiungere il suo nome alla Usta dei nostri benefattori si ritroverà in compagnia di personaggi davvero illustri». «Ne sono sicuro», rispose lui. «Alcune delle personalità più eminenti del paese, se non del mondo, sono orgogliose di annoverarsi tra gli amici dell'ospedale Constant Light...». «Certo, certo», mormorò Markman, precedendola di un passo mentre varcavano una doppia porta a ventola. Trovava disgustoso quel rozzo tentativo di corruzione. Anche se ai suoi occhi Andrew Marshall era un uomo d'affari di successo e con molto senso pratico, Molly pensava di poterlo abbagliare con la consapevolezza che, staccando un assegno, si sarebbe unito a un gruppo di gente famosa. Il potere della celebrità era davvero incredibile. Gli dava la nausea. Molly si affrettò a seguirlo dietro la porta. «In realtà, la presidentessa onoraria del nostro comitato di benefattori è...». Proprio quel nome, di tutti i nomi possibili. Lui fu costretto a interromperla prima che lo pronunciasse; aveva appena pranzato. «Sì, so chi è. Cosa c'è da quella parte?». «Gli uffici della segreteria», rispose lei, stringata. Il sorriso era scomparso di nuovo; sembrava infastidita dal suo disinteresse. Era davvero insolito. La fama della presidentessa dell'ospedale riusciva a trasformare anche le persone più assennate in fan sbalorditi e ridacchianti. «Sa che fra due settimane verrà a trovarci? Per visitare l'ospedale e incontrare gli amministratori. Pensi, passerà proprio dove noi stiamo camminando adesso». Abbassò lo sguardo sulle piastrelle che stavano per ricevere quell'impareggiabile onore. Markman si voltò, sorpreso che una dipendente dell'ospedale potesse divulgare quell'informazione con tanta disinvoltura. Ma in fin dei conti la visita non era certo un segreto. Chiese: «Davvero? Quando sarà, di preciso?». «Il quindici maggio», rispose Molly. Lui lo aveva chiesto solo per vedere se gli avrebbe rivelato la data esatta.
Rimase scioccato sentendola pronunciare ad alta voce, dopo essersi preparato così a lungo a quel giorno fatidico concentrando su di esso tutti i suoi sforzi. Sentì una gelida fitta di agitazione nelle budella. Notando il suo cambiamento di espressione, lei pensò di averlo finalmente preso all'amo. Sfoggiando uno stereotipato sorriso comprensivo, dichiarò: «Sono davvero spiacente, ma non posso prometterle un invito per la cerimonia. Sono esauriti da settimane». «Che peccato», rispose lui. «Non viene a trovarci spesso come vorremmo», continuò Molly. «Sono tutti così eccitati!». Per la prima volta, Markman ricambiò il suo sorriso. «Sono sicuro che l'avvenimento andrà al di là delle vostre più rosee aspettative», disse. 24 Harper prese l'autobus notturno che andava da Phoenix a Los Angeles, evitando così sia la spesa di un biglietto aereo che quella di una camera d'albergo. Non sapeva per quanto avrebbe dovuto far durare gli scarsi fondi di Addleman. E quella soluzione non gli dispiaceva: una volta che ti abitui a dormire nell'ufficio della squadra artificieri della polizia newyorkese, puoi dormire ovunque. Nella biblioteca pubblica nel centro di Los Angeles consultò degli elenchi telefonici e fece qualche chiamata cercando di localizzare il coffee shop di Jake Blake. Ci riuscì al sesto tentativo. Blake non era ancora arrivato nel locale, ma la donna che rispose al telefono gli disse che lo aspettava nel giro di un'ora. Harper la ringraziò e riappese. Pensò di prendere un taxi, ma Encino era così lontana che quasi sicuramente sarebbe stato più economico noleggiare un'auto. Aspettò fino alle dieci, sicuro che a quell'ora gli avventori arrivati per la colazione avessero già lasciato il Midnight Espresso - così si chiamava il coffee shop - e poi raggiunse il locale di Hobbie Avenue. Su entrambi i lati della strada c'erano bassi edifici intonacati che ospitavano negozietti e uffici. Nella luce brillante del mattino tutto sembrava molto pulito e vivace. Il Midnight Espresso condivideva una casetta verde pastello con un negozio di vestiti di seconda mano e un fotografo che offriva sconti incredibili su ritratti di famiglia. Una mezza dozzina di gruppi
familiari gli sorrisero radiosamente mentre superava la vetrina prima di salire un gradino e spingere la spessa e macchiata porta di quercia del coffee shop. L'interno era luminoso ma fresco. La luce del sole entrava dai lucernari e dalle grandi finestre. I tavolini erano piccoli, rotondi e con il piano in finto marmo screziato. Le seggiole sembravano sedie da aula scolastica usate. C'era un bancone di acciaio inossidabile con degli sgabelli e, dietro, una bacheca di vetro colma di ciambelle e pasticcini. Sulla destra spiccava una rastrelliera piena di sacchettini di carta dall'etichetta scritta a mano che contenevano caffè pregiato; accanto stava una scintillante ed enorme macchina in cui i clienti potevano macinare i grani a loro piacimento. Nell'aria aleggiava un intenso e gradevole profumo di caffè appena tostato. C'erano solo due avventori, un vecchio con una maglietta dei Dodgers e una teenager dall'aria annoiata seduta a un tavolino vicino all'elaborata macchina macinacaffè. Una donna alta e di evidente origine ispanica stava pulendo i tavoli. Dietro il bancone c'era un uomo smilzo sui quarantacinque anni, con gli occhi di un azzurro vivace e capelli biondi molto ricciuti che a Harper ricordarono Harpo Marx. Portava una camicia bianca e un grembiule ancora più candido e stava leggendo il giornale aperto sul bancone. Harper gli vide girare abilmente una pagina con la mano artificiale. «Jake Blake», disse, sorridendo e sedendosi su uno sgabello. Blake lo guardò e ricambiò il sorriso. Era un sorriso accattivante; Harper non ebbe difficoltà a credere all'affermazione di Sugar sulla sua spiccata simpatia. «Mi spiace, non... ci conosciamo?», chiese. «Sam Sugar mi ha parlato di lei», rispose Harper. L'altro strizzò gli occhi, insospettito. «È un avvocato?». «Assolutamente no». «Poliziotto?». «Un tempo. Ero nella squadra artificieri. Adesso sono un privato cittadino». «Ho sentito parlare del sito web di Sugar. Non mi dica che si è lasciato incantare». Il suo tono non era sprezzante né indignato, anzi, sembrava che gli dispiacesse un po' per Harper. «Scagionare Sugar non è il mio scopo primario, se è questo che intende. Sono un privato cittadino che indaga su vecchi attentati dinamitardi per scoprire un eventuale collegamento con altri più recenti». Blake rifletté per un attimo, poi chiese: «Il Celebrity Bomber?». Stupito, Harper ribatté in fretta: «Cosa glielo fa credere?».
L'altro sorrise e indicò la strada verso sud. «Hollywood è giusto dietro quelle montagne. Un tizio se ne va in giro a far saltare in aria le celebrità, quindi la cosa ci riguarda da vicino». Piegò il giornale e lo spinse da parte sul bancone. «Non starà pensando che quello che mi è successo così tanti anni fa - la perdita della mano - abbia qualcosa a che vedere con il Celebrity Bomber, vero?». «È stato lei a sollevare l'argomento, signor Blake. Io non ho detto niente». Blake parve ancora più divertito. «Non ce n'è bisogno. Perché adesso mi ricordo di lei. Ho seguito il caso. È quel poliziotto di New York. Harper». Si sporse sopra il bancone per osservare apertamente la sua mano mutilata. Harper non si sentì affatto offeso e pensò che la menomazione dell'uomo gli concedesse particolari privilegi. Rispose: «Le sarei grato se non divulgasse la nostra conversazione». «Cosa c'è? Ha paura che chiami i reporter? Che voglia apparire sui giornali? Non si preoccupi. Ho già avuto i miei quindici minuti di celebrità, anche se sono sembrati molti meno». Un velo di tristezza gli balenò sul viso, così fugace che Harper ebbe a malapena il tempo di notarlo. «Grazie». «Suggelliamo l'accordo con una stretta di mano», disse Blake, sorridendo di nuovo. Gli tese la mano artificiale. Harper la strinse con la destra. Gli sembrò liscia, asciutta e fredda. «Fa quasi tutto quello che farebbe una mano vera e non devo preoccuparmi del rischio di bruciarmela sui fornelli», spiegò Blake. «La scienza è davvero sorprendente, non crede?». «La invidio». «Non ne ha motivo». Ritraendo la mano, Blake continuò: «Comunque Sugar non può essere il Celebrity Bomber. Era in prigione quando sono morte quasi tutte le vittime del dinamitardo». «Non ho mai pensato che lo fosse», dichiarò Harper. Blake lo fissò, poi scosse il capo. «Comunque la pensi, forse la aiuterà sapere che non ci sono dubbi sul fatto che sia stato Sugar a spedirmi la bomba». «Eravate amici. Come mai è così sicuro della sua colpevolezza?». «Ci eravamo azzuffati». «Stando a Sugar, lei gli ha dato un pugno e lui non ha nemmeno reagito».
«Oh, era comunque furibondo», disse Blake. «Solo che ha lasciato che la rabbia crescesse dentro di lui. L'ha covata pazientemente. Ha escogitato un subdolo modo per vendicarsi, facendomi molto più male di quanto non gli avessi fatto io». «Continua a professarsi innocente. Sostiene che avrebbe dovuto essere qualcun altro a scontare quella lunga condanna». Blake sembrò a disagio. «Presumo che sia amareggiato. Forse dovrei stare attento quando apro la posta». «Non le rimprovera niente. Anzi, sembra che il suo principale rammarico sia che lei lo ritenga colpevole. In un certo senso continua a considerarla un amico». «Si direbbe che l'abbia convinta». «Credo che sia innocente». Blake rimase profondamente turbato dalla dichiarazione. Sbatté rapidamente le palpebre dei grandi occhi azzurri, serrando le labbra. Dopo un attimo sbottò: «Non può che essere stato Sugar. Perché mai il Celebrity Bomber avrebbe dovuto scegliermi come bersaglio?». «Lavorava nello show business». «Ero solo agli inizi. Un paio di apparizioni sulla TV via cavo, tutto qui... e ai tempi non erano poi in molti ad averla». «Forse è stato sufficiente». Blake continuò a fissarlo intensamente, pensieroso. A un tratto raddrizzò la schiena e sorrise. «Aspetti, comincio a ricordare. È stato sicuramente Sugar. E sa perché?». Harper scosse il capo. «La bomba venne spedita al mio indirizzo di casa, che non compariva sull'elenco. Solo chi mi conosceva sapeva dove abitavo. Deve essere stato lui, non il Celebrity Bomber». «Si può scoprire anche un indirizzo non segnato sull'elenco». «Certo, ma sono stato molto attento a rivelarlo solo a pochi eletti. All'epoca mi illudevo di essere all'apice del successo e volevo tutelare la mia privacy il più a lungo possibile». Harper fece roteare lentamente lo sgabello, girandosi verso la finestra e osservando il traffico scorrere sulla Hobbie Avenue. Voleva nascondere la propria eccitazione. Forse, soltanto forse, questo era il varco in cui lui e Addleman avevano sperato - un legame tra il bomber e una delle sue vittime. Chissà se l'assassino conosceva personalmente Blake. Chissà se anche lui lavorava nel mondo dello spettacolo.
Possibile che il suo odio profondo e duraturo per tutte le celebrità fosse scaturito dalla semplice invidia per il successo di un rivale? Era soltanto una possibilità, a questo punto. Se il bomber era qualcuno che Blake conosceva, aveva commesso un grosso errore spedendo il pacchetto a un indirizzo non segnato sull'elenco. Il genere d'errore che il meticoloso assassino di Buckner e Rogers non avrebbe mai commesso. Ma quindici anni prima, quando era giovane e inesperto, una cosa simile sarebbe benissimo potuta succedere. Era stata una vera fortuna per lui che la polizia avesse potuto concentrare i propri sospetti su Sugar e la fortuna era durata quindici anni. Forse adesso cominciava ad abbandonarlo. Si girò verso Blake per fargli la domanda cruciale, ma cercando di usare un tono disinvolto. «Quante persone conoscevano il suo indirizzo, Jake?». L'uomo si strinse nelle spalle. «Solo il mio agente, il mio medico e qualche amico. All'epoca la polizia di Los Angeles li ha controllati uno a uno. Erano tutti puliti, tranne Sugar». «E gli amici fuori L.A., gente che le scriveva?». «Be', ci sono i miei genitori a Paducah, ma dubito che siano stati loro a mandarmi la bomba». Pronunciò la battuta restando perfettamente impassibile. Harper immaginò che fosse stato un comico niente male. «Paducah? È lì che abitava prima di trasferirsi a Los Angeles?». «No. Avevo una stanza a St. Louis, ma in realtà vivevo in macchina, girando tutto il Midwest per lavorare nei club. Ero al Crazy Bone di Chicago quando ho ricevuto la telefonata dalla costa». Sgranò gli occhi. Quel ricordo riusciva ancora a eccitarlo, persino adesso. «Si rammenta di qualcuna delle persone che lavoravano con lei? Le conosceva bene?». «Oh, certo. Facevo parte di un gruppo di comici originari di St. Louis e dintorni che si esibivano spesso insieme. Conoscevamo parecchi agenti e impresari e ogni volta che uno di noi trovava un ingaggio metteva una buona parola per gli altri. Quelli sì che erano bei tempi. Eravamo grandi amici». Stava mostrando tutti e trentadue i denti in un ampio sorriso e gli occhi azzurri parevano leggermente velati. Harper si ritrovò a pensare ai comici famosi che nei talk show televisivi si rivelavano sempre persone cordiali e altruiste - solo che Blake sembrava davvero sincero. «Come hanno reagito 1 suoi amici quando ha ricevuto quella telefonata
dalla costa?». «Erano tutti felici per me. Era il genere di svolta per cui tutti stavamo pregando. Visto che è un mondo così spietato, quasi tutti i giovani artisti fanno il tifo l'uno per l'altro, si sostengono a vicenda». Harper chinò il capo per nascondere un sorriso scettico. Be', Sam Sugar gli aveva detto che Blake era un gran bravo ragazzo. Possibile che fosse talmente privo di gelosia e cinismo da non riuscire a credere che un altro essere umano si fosse risentito per il suo colpo di fortuna al punto da volerlo uccidere? «Chi erano gli altri artisti che lavoravano al Crazy Bone?», gli chiese. «Una cantante, Belinda Warren, e altri tre comici: Jackie Davis, Silky Simms e Darren Snow. Ognuno di noi faceva il suo pezzo e un po' d'improvvisazione. Non riempivamo certo il locale, ma ce la cavavamo discretamente». Harper finì di scrivere i nomi sul taccuino a spirale. «Cerchi di ricordare. Come hanno reagito, esattamente, quando gli ha detto che andava a Hollywood?». Jake Blake si incupì. «Non è stato uno di loro a mandarmi la bomba». «Cerchi di ricordare, signor Blake, non le chiedo altro». L'uomo parve addolorato. «Detesto l'idea di accusare qualcuno...». «Mi dica solo se è sicuro che fossero tutti felici del suo successo». Blake abbassò lo sguardo sul bancone. «Forse Darren Snow non lo era». «Mi parli di lui». «Non mi fraintenda», si affrettò a dire Blake. «Darren era un collega perfetto. Secondo me non aveva un gran talento, ma questa è solo la mia opinione. Era un vero professionista». «Ma...», insistette Harper. «Era un tipo un po' strano. Lo vedevo solo al lavoro. Anche lui abitava a St. Louis, ma non ho mai saputo dove. Non usciva con noi. Pensavamo che avesse qualche problema a casa, ma non ne volesse parlare». «E come ha reagito di fronte al suo successo?». «Oh, mi ha dato due pacche sulla schiena e ha fatto battute sullo smog e le scottature solari come tutti gli altri, ma ho capito che in realtà si sentiva morire. Non era mai felice del successo altrui». «Come mai?». «Perché pensava sempre che spettasse prima a lui. Si credeva molto più bravo di quanto non fosse». Blake raddrizzò la schiena e si strinse nelle spalle per scacciare quei pensieri cupi. «Ma chi sono io per giudicare? Dar-
ren era un tipo a posto». Harper mise via il taccuino. Decise di andarsene prima che il caritatevole Jake Blake si rimangiasse tutto quello che aveva appena detto. «Grazie di avermi dedicato tanto tempo. Immagino che non sappia dove vivano adesso Snow e gli altri, vero?». «Ci siamo persi di vista. Nessuno di loro ha sfondato, ovviamente, altrimenti lo avrei saputo. Probabilmente hanno lasciato lo show business da tempo, come me». Un pensiero sgradevole lo colpì. Disse in fretta: «Senta, non vorrei che la polizia infastidisse Darren, Belinda o qualcun altro a causa di quello che ho detto...». Harper lo interruppe perché la sua bontà cominciava a dargli sui nervi. «Non le piacerebbe vedere Sam Sugar riabilitato - se non è stato lui?». I candidi occhi azzurri si sgranarono e le sopracciglia bionde si inarcarono. «In tutti questi anni la sua colpevolezza è stata l'unica cosa di cui fossi sicuro. Ma se dovesse essere davvero innocente allora sì, vorrei vederlo scagionato». Harper si alzò dallo sgabello. Salutò Blake con un cenno del capo, poi fece per voltarsi. «Aspetti», disse l'altro. «Non mi intendo molto di computer, ma mio figlio ha il modem e l'intero apparato. C'è modo di...». «Sta pensando di scrivere a Sugar?». «Be', forse. Se riesco a capire come funziona il programma». «Se fossi in lei non mi lascerei scoraggiare da un dettaglio del genere», rispose Harper, sorridendo mentre si girava. Da un telefono pubblico dell'aeroporto chiamò Addleman a Philadelphia per riferirgli cosa aveva scoperto. Quando finì ci fu una lunga pausa, poi l'altro rispose: «Il Celebrity Bomber sarebbe un comico fallito, roso dall'invidia? È questo che pensi? Non sono sicuro che l'idea mi piaccia, Will». «Perché per te è troppo semplice». Addleman fece la sua tipica risatina ansimante. «Un sacco di tizi non riescono a sfondare nel mondo dello spettacolo, ma non per questo diventano dei killer. Il movente del bomber dev'essere molto più complesso, anche se la tua teoria fosse esatta». «Non è che una teoria», ammise Harper. «Comunque scommetterei su di noi piuttosto che sul Bureau», ribatté Addleman in tono esasperato.
«Hai parlato con il tuo informatore nel settore scienze comportamentali?». Addleman sospirò. «L'FBI sta cercando degli astrologi vedici». «Capisco. Dov'è che li si cerca?». «In India. Laggiù la costellazione che noi chiamiamo Aquila ha un significato completamente diverso. Anzi, molteplici significati. In questo preciso momento c'è un agente speciale imbarcato su un volo per Calcutta». «Gli auguro buona fortuna», rispose Harper, «ma credo che io farò un tentativo a Chicago. Il club Crazy Bone è ancora segnato sull'elenco. Vedrò cosa riesco a scoprire lì. Accendi il modem e guarda se trovi qualche informazione sui nostri quattro nomi». «Ti chiamo non appena scopro qualcosa, Will». «Ti chiamo io», rispose Harper. «Da Chicago». Alle dieci di quella sera, Harper stava entrando nella sua stanza in un vecchio albergo a ovest del Chicago Loop. Era un po' squallido ma il prezzo era adeguato. E c'era un letto - il primo vero letto in cui dormiva da quando aveva lasciato casa sua. Ci si sedette sopra e chiamò Addleman. L'uomo rispose al quinto squillo. Sembrava stanco. «Mi sono dato parecchio da fare», spiegò. «Con qualche risultato?». Anche Harper era esausto e si sarebbe sdraiato sul letto se non avesse temuto di addormentarsi con la cornetta premuta sull'orecchio. «Sì. Belinda Warren è morta di cancro nel 1989». «E gli altri nomi?». «Jackie Davis è un eroinomane che da dieci anni non fa che entrare e uscire dalle cliniche. Si esibisce ancora nei club, quando non partecipa a programmi di riabilitazione. Nel suo passato non c'è niente che faccia pensare che sappia costruire un ordigno e all'epoca della morte di Speed Rogers si trovava all'Holy Ghost Rehabilitation, un centro cattolico per tossicodipendenti, nel New Jersey. Non riusciva neanche a mangiare da solo, figuriamoci a costruire e piazzare una bomba». «Quindi Davis è escluso», disse Harper. «Cos'altro hai?». «Qualcosa di meglio, Will. Silky Simms è un certo Sylvester Simms. Ha lasciato il mondo dello spettacolo per entrare in quello del crimine poco dopo l'attentato a Blake. Finisce spesso in galera per furto; attualmente è fuori. Anche gli altri suoi periodi di libertà coincidono con gli attacchi del bomber».
«Mmm. Hai il suo indirizzo?». «Sì, è tornato a St. Louis». Addleman gli diede il nome della via e il numero civico. Harper stava pensando che l'affabile Jake Blake si sarebbe rattristato non poco scoprendo com'erano caduti in basso i suoi amici. Disse: «E Darren Snow?». «Sembra che non esista», rispose Addleman. «Interessante». «No, frustrante, ecco cos'è. Ho controllato con il sindacato degli attori, pensando che potesse essere uno pseudonimo, ma Snow non è segnato nei loro registri. È come se non fosse mai esistito se non come comico del Crazy Bone, anni fa. Devo ammetterlo, sono finito in un vicolo cieco». «Forse posso scoprire qualcosa in quel club». «Vedremo. Il nome più interessante è saltato fuori quando ho cercato il Crazy Bone negli annunci pubblicitari sui vecchi giornali. Sembra che ci fosse una cantante che ha preso il posto di Jake Blake quando lui è andato a Los Angeles. Il suo nome è Amy Arthur. Lo ha sostituito fino alla data prestabilita, poi ha cantato lì per un altro mese». «Canta ancora?». «No. È questa la cosa interessante. Negli ultimi undici anni ha lavorato come segretaria in una cava vicino a Lakeville, Illinois. Non ho bisogno di dirti cosa si fa nelle cave, vero?». «Si usano un sacco di esplosivi». «Bravo. Esplosivi a cui Amy può facilmente avere accesso. Silky Simms mi sembra perfetto per la parte del bomber, davvero perfetto. Ma dovremmo decisamente controllare anche lei». «Forse c'è un collegamento tra i due», dichiarò Harper. «Forse. Vivono ancora nella stessa zona. Quando finisci a Chicago, ti consiglio di prendere un volo per St. Louis. Da lì potrai raggiungere Lakeville in auto». In questo momento Harper non voleva assolutamente pensare ad altri viaggi. Posò i piedi sul letto. Sdraiato si sentì ancora più stanco, proprio come aveva temuto. Si scordò di dover disfare i bagagli. «Ehi, ho parlato con un altro amico del Bureau», stava raccontando Addleman. «Fa parte dell'unità investigativa di supporto. Sembra che, il giorno dopo l'attentato a Rogers, Frances abbia ordinato di ritirare tutti i cassoni dell'immondizia di tutti i motel situati in un raggio di trenta chilometri da Elmhart. Vedi, non sapevano in quale avesse alloggiato il bomber -
sempre ammesso che abbia dormito in un motel - e non volevano che i suoi rifiuti finissero nella discarica. Pensavano, una volta identificato il cassonetto giusto, di portarlo in aereo nel laboratorio dell'FBI. Solo che non sono ancora riusciti a individuare il motel in questione». «Perché mi stai dicendo tutto questo, Harold?». «Be', hai la voce stanca e volevo farti capire che potrebbe andare peggio. Almeno non devi occuparti di trentun cassonetti stracolmi e puzzolenti. Sai quanto faceva caldo nell'Indiana, oggi?». «Grazie, Addleman. Ho apprezzato il pensiero». Riuscì a malapena a riagganciare prima di addormentarsi. 25 Quattrocentottanta chilometri più a sud, a St. Louis, Markman si stava godendo una tranquilla serata casalinga. Viveva in una casetta di mattoni praticamente identica alle altre modeste abitazioni dell'isolato. L'architettura era vagamente gotica, con una cornice di pietra lavorata intorno alla porta, finestre inserite in rientranze ad arco e un tetto di tegole arancioni molto spiovente. Sul retro, in fondo a uno stretto vialetto di ghiaia, c'era un garage di mattoni a due posti il cui stile riecheggiava quello della casa. Il soggiorno in cui sedeva era piccolo, con un minuscolo caminetto finto fiancheggiato da due finestre di vetro istoriato. I mobili erano di foggia tradizionale, piuttosto austeri e scomodi. La TV rappresentava l'unica eccezione alla banale sobrietà delle suppellettili: era un modello recente, piatto e color legno, con schermo a 35 pollici e amplificatori incorporati. Lì sopra spiccava la foto incorniciata di una donna snella e sorridente dai corti capelli biondi. Era seduta in modo aggraziato davanti allo specchio di un tavolino da trucco su cui erano allineati dei flaconcini di cosmetici; indossava solo una pallida e castigata sottoveste e aveva l'aria di essere stata sorpresa dal fotografo mentre si vestiva per uscire. Il suo sguardo diretto e divertito e l'alto bustino di pizzo dell'indumento privavano la foto di qualsiasi connotazione erotica, attribuendole anzi una certa disinvolta innocenza. Sullo schermo televisivo era appena iniziato il notiziario locale. Markman si appoggiò allo schienale per guardarlo. Alternando abilmente l'uno la conclusione delle frasi dell'altra, l'uomo e la donna che presentavano il telegiornale spiegarono come i notabili di St.
Louis stessero prendendo delle precauzioni contro il Celebrity Bomber. La giovane e brillante interbase dei Cardinals, protagonista di una stagione strepitosa, era sotto stretta sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro. Un famoso attore, ormai fuori forma, che aveva sfondato a Hollywood ma manteneva dei legami con la città natale era in vacanza in Sudafrica. Nilly Dames, un comico che si esibiva nei club locali e aveva partecipato a qualche talk show televisivo, aveva comprato la berlina corazzata un tempo appartenuta a un famoso gangster della parte orientale di St. Louis. Markman sorrise, giudicandola l'unica cosa divertente che Dames avesse mai fatto. Avevano davvero paura di lui? Ne dubitava. Probabilmente stavano solo cercando di approfittare della sua notorietà. Probabilmente i rispettivi agenti e impresari li avevano convinti che, vicino al Celebrity Bomber, avrebbero goduto di un po' di fama riflessa. Quando era giovane e stupido, anche lui aveva desiderato ardentemente la fama. Finalmente l'aveva ottenuta. Ovunque si voltasse vedeva gente che reagiva alle sue imprese - con rabbia o indignazione, con umorismo tagliente o strisciante ammirazione. Ma le emozioni dominanti erano meraviglia e curiosità. Cosa avrebbe fatto il bomber, la prossima volta? Lo scoprirete presto, pensò. La conduttrice televisiva si voltò verso il meteorologo e cominciò a fare battute sull'eccezionale ondata di caldo. Quindi, per stasera, le notizie sul dinamitardo erano finite. Markman aggrottò la fronte, seccato - non perché si divertisse ad ascoltare gli sproloqui di quegli idioti, ma perché aveva sperato in qualcosa di più. Ad esempio qualche accenno all'ex sergente di polizia William Harper. All'inizio, la scoperta dell'identità dell'uomo che aveva intravisto sulla scalinata del tribunale di Elmhart subito prima di far esplodere la bomba gli aveva dato sui nervi. Si era talmente innervosito che aveva affannosamente cercato una registrazione della breve conferenza stampa tenuta da Harper davanti al quartier generale della polizia di stato dell'Indiana. Sotto le luci abbaglianti l'ex piedipiatti newyorkese era sembrato esausto. Ma, benché assediato dai reporter che gli urlavano decine di domande, era riuscito a mantenere la calma e l'autocontrollo che Markman aveva già notato davanti al tribunale. Aveva risposto in modo stringato e con un tono deciso. Aveva persino usato la mano destra per indicare il giornalista che poteva porgergli il quesito successivo, come se non si vergognasse affatto della sua menomazione.
Markman lo ascoltò mentre spiegava che quanto sapeva sulla costruzione delle bombe lo aveva portato a collegare gli omicidi di Sothern, Wylie e Buckner. Ovviamente era terrorizzato dall'idea che lo avessero scoperto. Non era previsto dal piano. Nessuno doveva sapere niente fino al quindici maggio, giorno in cui lo schema sarebbe stato completato. Eppure stranamente sentiva anche di avere una bizzarra affinità con Harper. Gli era quasi grato: finalmente qualcuno capiva il suo lavoro, lo apprezzava. Lui e Harper parlavano la stessa lingua. Quello che l'uomo disse nel resto della conferenza stampa lo rassicurò. Non sapeva poi così tante cose. Indovinare che Rogers sarebbe stato la prossima vittima era stata una semplice questione di fortuna - qualche assurdità su come i modi graffianti del conduttore radiofonico potevano colpire una mente criminale squilibrata. Le solite sciocchezze da psicologo dilettante che non avevano niente a che vedere con Markman. Harper non sapeva dello schema dell'aquila. Comunque, dopo aver visto la registrazione, Markman si convinse della validità della sua prima reazione istintiva: l'ex sbirro poteva creargli dei problemi. Doveva convincerlo a non intromettersi più nella faccenda. Così, prima di andare a Washington a visitare il Constant Light Hospital, aveva fatto una sosta a New York. Gli ci erano voluti due interi giorni di sorveglianza e di ricerche per decidere come avvisare Harper. Dopo di che, entrare in casa e manomettere il trapano era stato un gioco da ragazzi. Sembrava che l'altro avesse afferrato il messaggio. I mass media non l'avevano più citato, a parte qualche stantio servizio di repertorio sulla sua brillante carriera nella polizia. Avendo capito cosa poteva fargli il bomber, l'ex sbirro preferiva starsene buono buono. Oppure no? Erano sempre le incognite a innervosire Markman. Ed era sempre il suo lavoro a calmarlo. Decise che era arrivato il momento di mettersi all'opera. Spense il televisore e andò in cucina, fermandosi a bere un bicchiere d'acqua di rubinetto prima di uscire dalla porta posteriore. Era il settimo e ce ne sarebbe stato un altro subito prima di andare a letto: ogni giorno beveva otto bicchieri d'acqua a intervalli regolari, proprio come consigliavano gli esperti in fatto di salute. Era una serata tiepida e tersa e le stelle sembravano luminose e immense come in quei dipinti di Van Gogh che gli piacevano tanto. Gli insetti ronzavano nel vicino boschetto, dimostrando che il mondo stava girando all'unisono con il resto dell'universo e che le leggi naturali del movimento e
del fato erano intatte e imprescindibili, come sempre. Lui aveva sempre apprezzato il perfetto tempismo e l'immutabilità dei corpi celesti ed era una specie di abile astronomo dilettante. Considerava le stelle e i pianeti, con le relative posizioni e movimenti, una sorta di meccanismo cosmico, qualcosa su cui poter contare in eterno. Sapeva che, fintanto che agiva con la stessa precisione e regolarità dei loro irresistibili spostamenti, non avrebbe avuto problemi. Il risultato dei suoi sforzi sarebbe stato inevitabile, necessario. La scienza come destino. La scienza degli esplosivi. Mentre percorreva il vialetto che portava al garage, infilò la mano nella tasca dei pantaloni per prendere il portachiavi. La sua macchina era parcheggiata lì accanto, nell'ampio spiazzo rivestito di ghiaia. Non la metteva mai in garage, la cui pesante porta restava sempre chiusa a chiave dall'interno. Su un lato del garage c'era un uscio le cui finestrelle incorniciate erano state verniciate di bianco come il legno. Era fornito di un chiavistello, oltre che di una spessa cerniera e un grosso lucchetto. Dopo aver infilato la stessa chiave in entrambe le serrature, aprì la porta ed entrò, girando l'interruttore della luce. I potenti faretti fissati al soffitto si accesero. L'unica finestra del locale era dipinta di bianco come quelle della porta e non lasciava filtrare la luce. Dall'esterno, il garage sembrava deserto. Chiuse il chiavistello e sorrise, respirando a fondo, sentendosi perfettamente al sicuro nel rifugio segreto in cui si ritirava per sfuggire alle pressioni che il mondo gli infliggeva; nascosto nel luogo dove poteva finalmente essere se stesso. A una delle pareti era accostato un lungo bancone da lavoro in legno dotato di una serie di morse e morsetti. Al soprastante pannello erano fissati lucidi strumenti di precisione. Su un'altra parete spiccavano utensili elettrici. Un secondo bancone era occupato da una sega a nastro con accanto un piccolo tornio, un trapano a batteria e un set di cassette per cornici metalliche. Entrambi i banconi erano dotati di potenti lampade da lavoro con flessibili steli d'acciaio a gomito; quella vicina agli strumenti di precisione aveva una lente di ingrandimento incorporata, con anello girevole universale. I cassetti del bancone contenevano arnesi e materiali da elettricista e un calcografo per fare delicati lavori di precisione sotto la lente d'ingrandimento. Sugli scaffali sottostanti c'erano calibri, smerigliatrici, pistole da saldatore e un piccolo cannello ossidrico. Sul tavolo addossato alla terza
parete, accanto al bancone principale, c'era un computer programmato per calcolare la forza e l'angolazione delle esplosioni e determinarne i probabili danni. Markman poteva incanalare l'onda d'urto in modo da farla rimbalzare e poi colpire il bersaglio quasi con la stessa precisa efficacia di un proiettile. Nello show business aveva fallito, ma come costruttore di ordigni non aveva avuto semplicemente successo - era diventato un vero artista. Nel garage, trasformato in una fabbrica di bombe ipertecnologiche, accese una radiolina portatile, si sintonizzò su una stazione specializzata in successi degli anni Ottanta e si sedette davanti al bancone principale. Provava un'insolita riluttanza all'idea di mettersi al lavoro perché questo sarebbe stato il suo ultimo progetto. Ben presto avrebbe lasciato per sempre questa stanza dove aveva trascorso così tante ore felici. Aprì un cassetto ed esaminò delle carte, poi estrasse e studiò il diagramma disegnato con cura. Funzionerà, si disse. Funzionerà egregiamente. Certo, la progettazione rappresentava solo la fase iniziale, ma era la più importante. Se avesse fatto piani accurati, il successo sarebbe stato assicurato. La convergenza di tempismo, impegno, desiderio e destino si sarebbe sempre dimostrata un avversario invincibile per chiunque avesse cercato di impedirgli di uccidere. Decise di lavorare fino a tardi. Era ora di cominciare a costruire l'ultima bomba, usando tutto il C-4 rimasto. Pensò che i suoi vicini erano davvero fortunati a non sapere che nelle ultime settimane lì in garage c'era stata una quantità di esplosivo al plastico sufficiente per radere al suolo l'intero isolato. Si lasciò assorbire completamente dal suo lavoro, come sempre, smettendo persino di sentire la musica trasmessa dalla radio. Fu solo la voce che annunciava il notiziario di mezzanotte ad attirare la sua attenzione. Si alzò e raggiunse l'estremità opposta del bancone, dove aveva posato il calendario. Tracciò una croce sulla data del giorno, il trenta aprile. Finalmente maggio era arrivato. 26 Harper passò tutta la mattinata chiuso nella sua camera d'albergo a guardare la televisione. Stava aspettando che lo richiamassero dal Crazy Bone Comedy Club. Aveva telefonato tempo prima, scoprendo che il locale aveva cambiato più
volte proprietario. La donna che aveva risposto non sapeva chi lo avesse gestito quindici anni prima, ma aveva promesso di cercare di scoprirlo e poi di richiamarlo. Harper le credette. Durante le sue precedenti visite a Chicago era riuscito a scoprire che quasi tutti gli abitanti erano gentili e premurosi. La seconda città d'America era molto più cordiale della prima. Durante l'attesa chiamò Laura, appena rientrata dall'ennesimo turno di notte in ospedale. Non parlarono a lungo. Dopo aver riagganciato, non poté fare altro che restare seduto in poltrona davanti al grosso televisore a colori, dedicandosi allo zapping. Cambiò canale svogliatamente finché sullo schermo non apparve il viso familiare dell'agente speciale Frances Wilson, intervistata mentre sedeva alla sua scrivania nell'ufficio operativo dell'FBI di Indianapolis. Il reporter stava sottolineando che la donna aveva praticamente bloccato l'intera città di Elmhart per parecchi giorni e mobilitato la guardia nazionale per raccogliere le macerie dell'esplosione. Voleva sapere se aveva trovato qualcosa che giustificasse le spese e i disagi. Frances riuscì a destreggiarsi con disinvoltura durante quel pressante interrogatorio. Harper non si stupì affatto vedendo che sapeva come trattare i media. Quando rispondeva: «No comment» - come succedeva spesso - il suo tono suggeriva che sapesse molto più di quanto non fosse disposta a rivelare. Ma era vero? Era questo il dubbio che lo assillava. Secondo Addleman le indagini erano arrivate a un punto morto, ma l'uomo provava ancora un certo risentimento verso il Bureau. Harper immaginava che, viste tutte le risorse a sua disposizione, Frances stesse facendo dei netti progressi. O almeno lo sperava. Perché tutto quello che lui stava facendo era inseguire una teoria. Il telefono squillò. Era la donna del Crazy Bone. Aveva fatto qualche telefonata scoprendo che il direttore, nei primi anni Ottanta, era stato un certo Bill Oates. Non si era allontanato molto: attualmente dirigeva un altro night-club nella zona di River North, a pochi isolati dall'albergo di Harper. Dopo il caldo patito nell'ovest, Harper era felice di trovarsi di nuovo in una parte del paese dove all'inizio di maggio la primavera era appena cominciata. Splendeva il sole, ma faceva freddo nell'ombra dei grattacieli e soffiava un forte vento sabbioso proveniente dal lago. Era anche piacevole - almeno per un nativo di New York come lui camminare di nuovo su marciapiedi affollati dopo essersi aggirato in auto
negli spogli sobborghi dell'ovest. Percorse Wacker Drive fino al Chicago River, uno stretto ruscello che, in realtà, giustificava a stento la fatica di costruire così tanti ponti leggiadri e solidi che lo attraversassero. Ne imboccò uno e si ritrovò a River North. Qui gli edifici erano più vecchi e più piccoli. C'era una gradevole mescolanza di negozi, uffici, ristoranti e night-club. Le finestre del club di Bill Oates erano buie e l'insegna al neon spenta, tanto che lui rischiò di superarlo senza accorgersene. Un cartello annunciava che il locale non apriva fino alle sei di pomeriggio, ma la porta non era chiusa a chiave. Entrò. Il sole che filtrava dalle finestre riusciva a privare la stanza di qualsiasi traccia del magico mondo dello spettacolo. Le sedie erano accatastate sui tavoli e un vecchio nero in tuta, che si muoveva come se avesse mal di schiena, stava passando l'aspirapolvere sulla moquette. Il puzzo stantio di birra rovesciata e fumo di sigaretta della sera prima aleggiava ancora nell'aria. Con i riflettori spenti, il palcoscenico in fondo alla stanza sembrava l'imboccatura di un pozzo. L'uomo, accorgendosi di lui, spense l'aspirapolvere. «Posso aiutarla?». «Sto cercando Bill Oates». «Di sopra, ultima porta a destra. Fossi in lei non salirei, se non ha davvero bisogno di parlargli. Oggi non vuole essere disturbato». «Vuole dire che dovrò convincere una segretaria scorbutica a lasciarmi passare?». «Il signor Oates non ha bisogno di una segretaria. Sa essere molto sgarbato anche da solo». «Grazie dell'avvertimento». Mentre Harper saliva le scale, il rumore dell'aspirapolvere ricominciò. Vide che la porta in fondo al corridoio era aperta. L'ufficio di Bill Oates era piccolo e ingombro. La scrivania era girata verso la finestra, probabilmente per permettergli di godersi la vista delle Marina Towers. Lui dava le spalle alla porta, così Harper riuscì a vederne solo gli arruffati capelli castani, le ampie spalle coperte da una polo rossa e i muscolosi avambracci irsuti. Stava sfogliando un fascio di carte e borbottando tra sé e sé. «Mi scusi, signor Oates». L'uomo fece ruotare la seggiolina. Il suo viso dimostrava vent'anni di più dei suoi capelli: era molto segnato, con le borse sotto gli occhi e lunghi solchi che andavano dalle narici agli angoli della bocca. Lo sguardo era gelido.
«Cosa c'è? Chi è lei?». «Mi chiamo Will Harper. Voglio solo farle qualche domanda...». «Oggi non ho tempo. Uno dei numeri di stasera è appena stato cancellato». Si voltò, tendendo una mano verso il telefono. Harper girò intorno alla scrivania in modo che l'altro potesse vederlo. «Non ci vorrà molto. Le sarei grato se...». «Il figlio di puttana disdice otto ore prima di andare in scena», brontolò Oates mentre pigiava energicamente sui tasti. «Dice che sua madre è in fin di vita. Conosco i comici. La verità è che deve aver trovato un ingaggio migliore». «Come fa a saperlo?». «Sta scherzando? Un comico che rifiuta un ingaggio solo perché sua madre è moribonda? Impossibile!». La linea doveva essere occupata, perché fece una smorfia e riagganciò con violenza. «Allora, cosa vuole?». «Sono interessato ad alcuni artisti che si esibivano al Crazy Bone nei primi anni Ottanta...». «Il Crazy Bone. I primi anni Ottanta». Oates alzò gli occhi al cielo. «Farò risparmiare del tempo a tutti e due, amico. Non ricordo nulla di quegli anni, a parte il mio divorzio. Quello non lo dimenticherò mai. Mi dispiace di non poterla aiutare». «Il nome Jake Blake non le dice niente? Era un comico che...». «I comici vanno e vengono, amico. Solo le loro battute restano le stesse». «Amy Arthur?». Oates scosse il capo. Stringeva la cornetta e stava componendo un altro numero. «Sylvester Simms? Detto anche Silky, Silky Simms». L'altro cominciò a scuotere il capo, poi si fermò. Sollevò lo sguardo verso Harper. «Silky?». «Se lo ricorda?». «Certo. Quel pazzo figlio di puttana mi chiama continuamente, quando è in galera. Chiede francobolli, soldi per le sigarette e un sacco di altre cose. Certe persone non riesci più a levartele di dosso. Sono come parassiti, capisce?». «È uscito di prigione». «Bene. Non mi telefona mai, quando è fuori. Troppo indaffarato a commettere crimini, probabilmente. Dovrebbe trovare qualcosa da fare, tenersi occupato, lasciarmi in pace». Stavolta riuscì a ottenere la comunicazione.
Chiese di un certo Irv, ma scoprì che era fuori e parve considerarlo un affronto personale. Riappese di nuovo con violenza, tanto da far rimbalzare la cornetta sul suo supporto di plastica. Harper spiegò: «Blake faceva parte di un gruppo di amici che vivevano a St. Louis e dintorni e si esibivano spesso insieme. Mentre lavoravano al Crazy Bone, lui ha avuto la sua grande occasione ed è andato a Los Angeles per partecipare a uno spettacolo televisivo». «Quante volte devo riperterglielo? Non me lo ricordo e non mi interessa. È storia vecchia, come la guerra civile. Cosa vuole sapere, comunque?». «A Los Angeles Blake è stato ferito da un pacco bomba. Ha perso una mano. Sto studiando il caso». «Davvero? E chi è lei?». Oates guardò la sua mano destra e sorrise. «Il vendicatore solitario dell'associazione internazionale storpi?». Harper fece un passo verso la scrivania. Fissò l'uomo, che smise di sorridere. Nei trenta secondi successivi nessuno parlò, ma Oates diventò sempre più pallido e il suo pomo d'Adamo continuò ad andare su e giù in modo molto evidente. Alla fine si piegò in avanti, trovando così la scusa per distogliere lo sguardo da quello di Harper, che rimase a fissare dall'alto i suoi folti capelli. «Quindi... ehm... crede che a mandargli il pacco bomba sia stato uno dei colleghi che Blake si è lasciato alle spalle nel Midwest?». «Sto indagando su questa possibilità. Rammenta se Simms era invidioso del suo successo?». «Non me lo ricordo, ma è molto probabile. In questo settore circola parecchia invidia. Cosa vuole che succeda quando una sparuta minoranza ottiene fama e fortuna, e tutti gli altri solo umiliazioni e povertà? E comunque non sono certo le persone più equilibrate del mondo. Parecchi di loro falliscono miseramente. Si buttano sull'alcool. Sulla droga. Finiscono sulla strada o in galera, come Simms». «È un mondo crudele», disse Harper. «Distrugge le persone». «Non sprechi le sue lacrime per loro», ribatté Oates. «I comici sono come dei bambini birichini. Sono pronti a tutto pur di attirare la tua attenzione. Se fai un lavoro come il mio abbastanza a lungo, finisci per non poterne più di loro e dei loro problemi». Harper dubitava che Bill Oates fosse interessato ai problemi di chicchessia, a parte quelli di Bill Oates. Non gli piaceva granché quest'uomo con i capelli di un giovanotto e il viso di un vecchio, gli occhi privi di luce. E dubitava di poterne ricavare informazioni utili.
«Quindi non ricorda niente di specifico su Jake Blake o qualcuno degli altri?». «È passato troppo tempo, amico. Mi spiace». Lui annuì. Stava per ringraziarlo e andarsene quando gli venne in mente che aveva dimenticato un nome. «E Darren Snow? Le dice qualcosa?». Con sua profonda sorpresa, la domanda colpì nel segno. Le rughe sul viso di Oates si approfondirono mentre aggrottava la fronte nello sforzo di ricordare. Dopo un attimo rispose: «Sì, mi ricordo di lui». Harper si chiese cosa avesse fatto breccia nella sua indifferenza. «Un comico di talento?». «No, giusto nella media. Se sono davvero scadenti hanno qualcosa di divertente. Ma Snow aveva gente in gamba che gli scriveva le battute, lavorava sodo sul suo numero fisso, imitava tutti i personaggi più interessanti eppure riusciva solo a essere mortalmente noioso». Sorrise e scosse il capo. «Me l'hanno descritto come molto riservato e taciturno. Ed è stato davvero difficile scoprire qualcosa su di lui». «Sì, era molto riservato. Darren Snow, poi, era uno pseudonimo. Non mi volle mai dire il suo vero nome finché non dovetti compilare un modulo fiscale». «E quale sarebbe il suo vero nome?». «Anthony Markman». «Anthony Markman», ripeté Harper per memorizzarlo. «Le confesso che ho drizzato le orecchie quando ho scoperto che si chiamava così». «Perché?», chiese Harper. «Be', c'è un ottimo motivo per cui quasi tutti i comici cercano di guadagnarsi il pane sfruttando le proprie idiosincrasie e insicurezze: non hanno nient'altro a disposizione. Ma i Markman sono una ricca famiglia di St. Louis, possiedono una fabbrica o roba del genere. Non so cosa facciano di preciso - qualcosa di ingegneristico, credo». «E lui usava il cognome Snow perché...». «Forse non voleva mettere in imbarazzo la famiglia. Oppure non voleva un trattamento di favore solo perché era ricco. Avrei tanto voluto dirgli: "Tony, ragazzo mio, hai bisogno di tutto l'aiuto che riesci a ottenere"». «Quindi come comico non stava certo ottenendo grossi risultati. Per caso si ricorda come ha reagito quando Blake è stato chiamato a Hollywood?».
«No, ma non è stato lui a spedire il pacco bomba». «Come fa a esserne così sicuro?». «Perché conosco il tipo. Nel corso degli anni un altro paio di tizi come lui hanno lavorato per me. Rampolli di famiglia ricca, con il paparino disposto a pagargli gli studi di giurisprudenza o medicina, oppure pronto a trovargli un bel posticino nell'azienda di famiglia. Ma loro pensano che sia troppo prevedibile, troppo noioso. Così provano a fare il comico, il giocoliere, il cantante o quant'altro». «E non durano molto?». Oates scosse il capo. «Dopo qualche mese nello show business, la combinazione di prevedibile e noioso comincia a sembrargli molto allettante. Così tornano all'università o nell'azienda di famiglia». «Secondo lei è questo che è successo ad Anthony?». «Glielo garantisco. Ormai si è completamente dimenticato di Jake Blake. Oggigiorno pensa solo all'unità termica o a qualunque altra dannata cosa a cui pensano gli ingegneri mentre vanno al country club in Mercedes». «Sembra un po' invidioso». «Ehi, ci sono giorni in cui rimpiango di non essermi dedicato a qualche bella attività noiosa ma redditizia». Guardò di nuovo l'orologio. «E oggi è uno di quei giorni. Quindi ascolti, ehm... comunque lei si chiami, devo tornare al lavoro». Harper non gli disse il suo nome. «Grazie di avermi dedicato tanto tempo», disse, e uscì. In strada si fermò per estrarre il taccuino e scrivere "Anthony Markman" accanto a "Darren Snow". Stando alle dichiarazioni di Oates, Anthony non sembrava uno dei principali indiziati. Ma visto che doveva andare a St. Louis comunque, poteva benissimo controllarlo. 27 Una delle lezioni che Harper aveva imparato durante gli anni passati nella polizia newyorkese era che se volevi catturare un delinquente a casa sua, il momento migliore per farlo era la mattina presto. Così il suo primo giorno a St. Louis cominciò cercando Sylvester Simms. La sera prima era atterrato all'aeroporto di Chicago e aveva preso una stanza in un motel poco distante che, dal rumore sempre più basso che faceva tintinnare le finestre a intervalli regolari, dava l'impressione di trovar-
si nella traiettoria di volo degli apparecchi in avvicinamento. Telefonò a Laura e ad Addleman, il quale promise di cercare di scoprire qualcosa su Anthony Markman. Poi regolò la sveglia in modo che suonasse alle sei; impiegò dieci minuti a capire come fare. Seccato, ripensò all'epoca in cui bastava chiamare la reception dell'albergo e chiedere la sveglia telefonica. Ma la campagna volta a eliminare la responsabilità personale e il contatto umano dalla vita americana sembrava aver bandito questa comodità. Oh, be', comunque, a giudicare dai motori dei jet, probabilmente sarebbe rimasto sveglio quasi tutta la notte. Passò solo metà della notte in bianco e si destò quando la sveglia accanto al letto iniziò a emettere un acuto bip che lui non riuscì a trovare il modo di zittire, finché non staccò la spina. A colazione prese un caffè e una ciambella che venivano offerti nell'atrio del motel, poi uscì nel grigiore mattutino e arrancò fino alla macchina. Imboccò l'interstatale 70 che portava in città e si diresse verso l'indirizzo di Simms avuto da Addleman. Questa parte di St. Louis gli ricordava Brooklyn. C'erano orrendi complessi di alloggi popolari, eleganti chiese antiche e parecchi isolati di ottocentesche casette a schiera. Le villette erano quasi tutte malconce anche se, di tanto in tanto, Harper passava in una strada ben tenuta e intuiva che lì si era messa al lavoro gente come lui e Laura, disposta a rimboccarsi le maniche per ristrutturare. La speranza, pensava, è l'ultima a morire. La via di Silky Simms non era certo una delle migliori. Le vecchie palazzine di mattoni rossi erano decrepite, con legno scolorito che non veniva riverniciato da decenni e grondaie incurvate e penzolanti là dove i tubi di scolo erano stati divelti. Molti edifici erano chiusi da assi inchiodate. C'erano rifiuti disseminati sui marciapiedi e graffiti sui muri. Un gruppo di bambini che si erano alzati presto, o forse non erano stati messi a letto la sera prima, stavano giocando in un cassonetto della spazzatura. Il sole era sorto ma il cielo era ancora molto coperto. Probabilmente sarebbe piovuto. Harper rallentò, cercando di leggere i numeri civici sugli edifici. Scoprì di aver superato quello di Simms senza vederlo. Parcheggiò accanto al marciapiede e tornò indietro a piedi. Il motivo per cui non aveva visto la casa era che non esisteva più. L'edificio un tempo contrassegnato da quel numero civico era ancora in piedi, ma ridotto a un semplice guscio vuoto e, ormai, privo di tetto, finestre e porta. Non ci abitava nessuno da anni. Immaginò che Simms non ci avesse mai messo pie-
de: doveva aver dato un indirizzo a caso. Addleman lo aveva trovato sul rapporto di un assistente del servizio sociale, a cui un tipo come Simms non voleva certo facilitare il compito di trovarlo. Un colpo di clacson gli fece alzare gli occhi. Una vecchia auto carica di gente si fermò scoppiettando davanti al palazzo accanto. La porta d'ingresso si aprì e ne uscì un ragazzo con una divisa di McDonald's fresca di bucato; a testa bassa, corse verso la macchina e saltò su. Con uno sbuffo di fumo di scarico, il veicolo adibito a minibus si allontanò. In quartieri del genere chi aveva un impiego andava a lavorare furtivamente. Nella veranda dell'edificio adiacente stavano oziando una mezza dozzina di amici, tutti addobbati con un berretto da baseball messo a rovescio e ampi pantaloni sformati talmente bassi in vita da lasciar vedere le mutande. Stavano fissando con disprezzo l'auto che si allontanava. Il ragazzo vestito da McDonald's era stato troppo veloce perché potessero fargli qualcosa. Adesso il loro sguardo si posò su Harper. Lui rimase immobile e ricambiò l'occhiata con aria impassibile. Lo fissarono ancora, poi volsero lo sguardo altrove: avevano capito che era uno sbirro. Significava che Harper poteva voltargli tranquillamente la schiena e tornare alla sua auto. Purché si sbrigasse. Una volta a bordo, chiuse automaticamente le portiere prima di avviare il motore e uscire dal parcheggio. Grosse gocce di pioggia cominciarono a sferzare il parabrezza. Prima di riuscire ad azionare i tergicristalli, fu costretto ad armeggiare per un po'. Aveva solo bluffato con quei ragazzi, naturalmente. Se fosse stato ancora uno sbirro avrebbe potuto entrare nella stazione di polizia più vicina, mostrare il distintivo e dire che aveva bisogno d'aiuto per rintracciare un delinquente locale di nome Silky Simms. Ma lui e Addleman avevano convenuto che non poteva correre rischi contattando le autorità. Se Frances Wilson veniva a sapere, grazie alla stampa o al tam tam delle forze dell'ordine, che Harper stava cercando Celebrity Bomber, probabilmente lo avrebbe accusato di intralciare delle indagini ufficiali. Poteva sbatterlo in prigione. Persino la castrazione era una possibilità concreta, gli aveva detto Addleman. Quindi doveva cavarsela da solo. Pioveva così forte che regolò al massimo la velocità dei tergicristalli e accese i fari. Percorse faticosamente le affollate strade del centro fino a raggiungere l'interstatale 64 e poi si diresse a ovest. La sua prossima fermata sarebbe stata l'azienda della famiglia di Anthony Markman. La sera prima, al motel, aveva cercato l'indirizzo sull'elenco telefonico. Non trovò
nessun Markman nelle pagine riservate ai privati cittadini, cosa che non lo sorprese. Non si aspettava che la gente ricca e importante mettesse in piazza il proprio numero di casa. C'era però una Markman Manufacturing Corporation. Sarebbe andato là per scoprire se Anthony era diventato il banale e facoltoso tizio di mezza età che Bill Oates immaginava. In tal caso, lo avrebbe cancellato dalla lista, per poi raggiungere la cava dell'Illinois in cui lavorava Amy Arthur. Sempre a patto che non trovasse il modo di rintracciare Sylvester Simms. A quest'ora non c'era molto traffico in uscita dalla città, così accelerò. Si stava spostando sulla sinistra per sorpassare un camion quando vide l'aquila. Bordata di neon rosso spiccava, enorme, su un'insegna sopra l'autostrada. Stava sbattendo le ali tanto energicamente che le punte rischiavano di toccarsi alla fine di ogni scatto verso l'alto e verso il basso. Tutto il corpo vibrava per lo sforzo muscolare. Sembrava quasi che stesse per spiccare il volo. Mentre lui si avvicinava, l'aquila volante scomparve, sostituita da un'altra appollaiata e inscritta in una gigantesca A circondata di bianche luci guizzanti. Era un'insegna pubblicitaria della Anheuser-Busch. Harper si ricordò che la gigantesca società - comprendente fabbriche di birra e parchi di divertimenti - aveva il suo quartier generale a St. Louis. Mentre lui passava sotto l'insegna, la A scomparve e il rapace ricominciò a sbattere le ah. Si dimenò sul sedile, a disagio. L'aquila al neon lo aveva fatto trasalire. Era stato uno shock vederla improvvisamente, soprattutto attraverso i buchi e i rigagnoli di pioggia sul parabrezza, con i tergicristalli che sembravano muoversi a tempo con i colpi d'ala. Ma non aveva nulla a che fare con l'omonima costellazione. Era assurdo anche solo pensarlo. E non doveva nemmeno considerarlo una sorta di presagio, un segno che ormai era vicino al traguardo e che Silky Simms o uno degli altri due era il bomber. Ricordò a se stesso che non credeva nei presagi. Gli interessavano solo le prove. Era un poliziotto. Lo era stato. Lo era ancora. Più o meno. 28
La Markman Manufacturing era situata in Macklind Avenue, in una zona industriale ai margini della città. L'auto di Harper sobbalzò sui binari di un passaggio a livello e passò con uno splash sopra avvallamenti e buche. La strada era in pessime condizioni, probabilmente perché veniva percorsa soprattutto da pesanti camion. Era bordata di magazzini e fabbriche e sormontata da pesanti cavi elettrici. Quando la pioggia si attenuò, Harper riuscì a sentire i gemiti, il tintinnio e il martellare dei macchinari. Tutto in Macklind Avenue indicava un'onesta fatica. Non lo si poteva certo definire un luogo ameno, ma almeno rappresentava un piacevole cambiamento dopo il degrado urbano dal quale era appena uscito. La Markman occupava un vecchio edificio di mattoni totalmente privo di fronzoli, ma l'orgoglio di famiglia era evidente nell'insegna nera su cui spiccava, a lettere d'oro, il nome e la scritta "DAL 1907". Harper parcheggiò in uno spiazzo rivestito di ghiaia e circondato da una recinzione di fil di ferro. Mentre si dirigeva verso la porta d'ingresso superò una lucida Mercedes-Benz nera: proprio la macchina che, secondo Bill Oates, Anthony Markman guidava. Vedendolo entrare, la giovane receptionist bionda gli sorrise automaticamente. «Posso aiutarla, signore?». «Sì. Vorrei vedere il signor Markman». La ragazza si accigliò. Aprì la bocca, mettendo in mostra un pezzo di chewing gum verde posato sulla lingua. «Il signor Markman?». «Il proprietario della ditta». Harper indicò l'insegna con il nome dell'azienda appesa al muro dietro di lei. La ragazza si voltò a guardarla. Quando si girò nuovamente verso di lui, non sembrava più perplessa ma vigile e diffidente, come se temesse che lui volesse rifilarle qualcosa di indesiderato. «Signore, la ditta appartiene alla Alexon Industries. Non c'è nessuno chiamato Markman, qui». «Davvero?». Harper rifletté per un istante. «Forse potrebbe trovarmi qualcuno meno giovane con cui parlare?». «Meno giovane?», chiese lei. «Qualcuno che lavori qui da parecchio tempo e che potrebbe ricordarsi dei Markman». «D'accordo», rispose lei in tono dubbioso. «Si sieda, prego». Lui la ringraziò e si voltò. Non si poteva dire che la Markman Manufacturing si facesse in quattro per impressionare i visitatori. Di fronte al divano logoro c'era un tavolino con sopra qualche rivista; erano tutti
vecchi numeri di un mensile commerciale intitolato Inscatolamento e imbottigliamento. La stanza puzzava di olio per macchinari e caffè rimasto troppo a lungo sul fornello. Quando Harper si girò, la receptionist era m piedi e stava parlando con una signora di mezza età. Continuavano a guardarlo furtivamente. Poi la donna varcò una porta fatta quasi interamente di vetro smerigliato su cui campeggiava una scritta nera, ormai talmente sbiadita da risultare illeggibile. Quando l'uscio si aprì il frastuono dei macchinari aumentò d'intensità. Harper si sedette ad aspettare, chiedendosi che genere di racconto stava per sentire. Probabilmente i Markman avevano venduto a una grossa società e Anthony si stava godendo la bella vita in un posto tipo Santa Fe o Cape Cod. Quindi il tentativo di trovarlo ed eliminarlo dalla lista dei sospetti si sarebbe rivelato più lento e laborioso del previsto. La seconda donna entrò nella stanza insieme a un tizio dai capelli grigi, a cui indicò Harper. L'uomo si avvicinò, accigliato. «E lei che vuole sapere dei Markman?». «Sì. Di Anthony Markman, per essere precisi». Sentendo il nome l'uomo reagì come se avesse bevuto un sorso di latte rancido. Per un attimo sembrò troppo disgustato per parlare, poi chiese: «Chi è lei e perché vuole saperlo?». Domande davvero difficili. Harper non voleva rivelare a nessuno, e soprattutto a uno sconosciuto dall'aria così ostile, che stava dando la caccia al Celebrity Bomber. Così rispose semplicemente che era un poliziotto in pensione interessato a un vecchio reato, un'aggressione ai danni di un conoscente di Anthony Markman. L'uomo grugnì. «Questo tizio... lavora nel mondo dello spettacolo?». «Sì. Fa il comico». Harper era felice che non volesse sapere nient'altro sul caso. «Sto semplicemente cercando di rintracciare il signor Markman per fargli qualche domanda generica». «Non posso aiutarla. Non so dove sia. Non so neanche se sia vivo o morto». Il tono indicò che avrebbe preferito di gran lunga la seconda alternativa. Interessante. Harper si rilassò leggermente. Di solito non era difficile far parlare la gente di qualcuno che detestava. Disse: «Le sarei grato se potesse dedicarmi qualche minuto, signor...?». «Hayden, Chuck Hayden». Prese un pacchetto di sigarette dal taschino della camicia dalla foggia piuttosto insolita: sotto una giacca sarebbe sembrata una normale camicia bianca, ma aveva due taschini con risvolto e le
spalline. Harper immaginò che avesse fatto il soldato e privilegiasse ancora lo stile militare. I capelli, grigi, erano cortissimi. La voce rauca arrivava dalla base del diaframma e doveva aver sbraitato parecchi ordini, ai suoi tempi. Ma ormai l'aria perplessa e malinconica dell'uomo lasciava supporre che la gente non scattasse più sull'attenti per lui. Scuotendo il pacchetto per farne uscire una sigaretta, dichiarò: «Non mi dispiace rispondere alle sue domande, ma intanto devo farmi la mia fumatina mattutina. Non posso passare troppo tempo lontano dalla scrivania. Quei bastardi della Alexon probabilmente hanno piazzato dei sensori sulla mia sedia. Sanno quando mi allontano e per quanto tempo». «Faccia pure». Uscirono nel parcheggio. Hayden guardò l'edificio mentre accendeva la sigaretta. «Un tempo era piacevole lavorare qui. Lucas Markman, il padre di Tony, era davvero un brav'uomo». «Cosa producete?». «Macchinari che tappano ed etichettano le bottiglie e le inseriscono in confezioni da sei. Roba del genere. Certo, parlando di questo lavoro, non si fa colpo a un cocktail party, ma non è del tutto privo di interesse. Adesso, però, sta cambiando tutto. Digitale. Robotica. La Alexon continua a mandarci dei memorandum parlando di cyber-questo e cyber-quello. Io cerco solo di arrivare alla pensione prima che mi sostituiscano con qualcuno più giovane. O con un androide». Fece una risata aspra, poi tornò serio. «Ai bei tempi, quando un impiegato andava in pensione, il signor Markman organizzava una cena in suo onore. A casa sua. Faceva un discorso. Gli regalava un orologio d'oro. Così un uomo sentiva di aver fatto qualcosa di utile nella vita. Adesso è tutto cambiato. Grazie a quello stronzetto di Tony Markman». Harper sorrise. «A quanto pare gli attribuisce parecchia responsabilità. Eppure non è colpa di nessuno se i tempi cambiano». «No, ma il signor Markman non ci avrebbe mai venduto se avesse potuto passare l'azienda al figlio. Ma l'unico figlio che aveva era Tony». «Che non era interessato all'ingegneria?». «La cosa più triste è che era un vero genio in questo campo. Aveva un talento naturale. Sin da quando era ragazzino suo padre portava in fabbrica i gadget costruiti da lui. Tony aveva molta immaginazione e, cosa più importante, una notevole perseveranza. Una tenacia incredibile. Una volta che si fissava su un problema, continuava a provare finché non lo risolveva. E la soluzione era sempre qualcosa a cui nessun altro avrebbe mai pen-
sato». Harper sentì un formicolio alla base del cranio. Per la prima volta gli balenò il sospetto - il semplice sospetto -che Anthony Markman potesse essere il bomber. Hayden continuò. «Finito il liceo si iscrisse alla facoltà di ingegneria della Washington University. Era uno studente brillante, ma a un certo punto si ritirò. Era stato morso dal tarlo dello show business, come diceva sempre il signor Markman. Come se non fosse colpa di Tony. Come se fosse una specie di virus che lo aveva infettato e di cui alla fine si sarebbe liberato». «Quindi il padre non si oppose al suo tentativo di diventare un comico?». Hayden si accese un'altra sigaretta. «All'inizio no. Gli consigliò di prendersi un anno sabbatico e di fare un tentativo. Una soluzione molto ragionevole, non crede? Ma l'anno finì senza che Tony fosse riuscito a cavare un ragno dal buco, eppure lui non tornò al lavoro. Fu a quel punto che il signor Markman cominciò ad arrabbiarsi. Sa, il comportamento di Tony... gli ricordava la madre del ragazzo». «La madre?». «Sì. Ormai se n'era andata da tempo, naturalmente. Coinvolse il signor Markman in una caotica e sgradevolissima causa di divorzio, poi sparì dalla circolazione e morì in un incidente stradale mentre guidava ubriaca. Tony era il loro unico figlio e lei lo viziava mostruosamente. Ricordo che il signor Markman arrivava in fabbrica lamentandosi di essere andato a letto da solo, la sera prima, lasciando gli altri due a guardare Johnny Carson. Guardavano sempre la TV insieme. Probabilmente è per questo che quella dannata mania dello show business si è impadronita di Tony». «Cosa successe quando Tony disse di voler continuare a fare il comico?». «Il signor Markman non fu disposto a tollerarlo. Gli rispose che se non avesse ripreso il lavoro gli avrebbe tagliato i viveri». «Una reazione piuttosto dura». «Non aveva molte alternative. Stava invecchiando e la sua salute cominciava a perdere colpi. Non gli restava molto tempo per inserire il figlio nell'azienda. Tony doveva tornare subito con i piedi per terra». «L'ultimatum non funzionò, vero?». «No. Tony spedì una cartolina dal North Carolina. Si esibiva in occasione di gare di auto truccate. Cominciava a fare qualche progresso». Hayden
spense la sigaretta senza accenderne un'altra. «Quella fu l'ultima volta in cui il signor Markman ebbe sue notizie. Più tardi, quando la Alexon Industries si offrì di comprare la ditta, lui accettò». La storia sembrava aver raggiunto la sua tragica conclusione, per quanto lo riguardava. Dopo un attimo, Harper lo sollecitò. «E poi cosa successe?». «Il signor Markman si trasferì in Florida ma non riuscì a godersi a lungo la pensione. Un infarto se lo portò via. Il resto della famiglia si è trasferito lontano da qui o ha perso i contatti nel corso degli anni. Immagino che stiano tutti bene. A suo tempo, l'accordo con la Alexon fu molto vantaggioso». «E Tony non ha ottenuto neanche un soldo?». «Diavolo, no. Non è venuto neanche al funerale. Non ha mai contattato gli avvocati. Suppongo che si vergognasse un po', sotto sotto. Senta, devo tornare alla mia scrivania». «Solo un paio di rapidissime domande. Tony si interessava all'astronomia?». «Non saprei», rispose Hayden. Adesso che aveva dato libero sfogo al rancore verso il giovane Markman, sembrava sempre più indifferente. «E alle aquile?». «Guardi, non ho proprio idea», rispose di nuovo, apatico. «Addio. Le auguro di trovare Tony. Non c'è bisogno che mi avvisi, se ci riesce». Raddrizzando le spalle, l'ex soldato si voltò e si diresse a passo di marcia verso l'edificio. Mentre tornava verso l'interstatale, Harper si fermò a pranzo in un ristorantino. Già che era lì, pensò di approfittare del telefono pubblico nell'atrio per consultarsi con Addleman. «Dovremo fare qualche altra ricerca su Simms», gli spiegò. «Quell'indirizzo era falso». «Okay», rispose Addleman. «Vedrò cosa riesco a scoprire. Come te la stai cavando con Arthur e Markman?». Harper gli riferì cosa aveva saputo da Hayden. L'altro lo ascoltò in silenzio. Alla fine del racconto, disse: «Rancore verso le celebrità. Abilità meccanica. Questo tizio si adatta al profilo». «Così come parecchia altra gente, scommetto. Comunque, un profilo psicologico non costituisce una prova. Non abbiamo niente di concreto da portare a Frances».
«No, ma fammi un favore, Will, stai dietro a Markman». «Non sarà facile rintracciarlo. Dopo tutto quello che ha passato, non mi stupirei di scoprire che è alcolizzato e vive per la strada a Los Angeles». «Perché mai dovrebbe farlo, visto che possiede una casa a St. Louis?». Dal suo tono di voce Harper capì che Addleman stava sorridendo, compiaciuto per la sorpresa che gli aveva appena fatto. Rispose: «St. Louis è l'ultimo posto al mondo in cui mi sarei aspettato di trovarlo». «Be', non so di preciso dove abiti, ma il suo estratto conto indica che negli ultimi otto anni ha pagato un mutuo stipulato presso la Mercantile Bank e garantito da una proprietà a St. Louis». «Puoi accedere agli estratti conto altrui, Addleman? Pensavo che fossero riservati». «Harper, quando ti deciderai a crescere? Vuoi l'indirizzo?». Lui lo annotò sul taccuino. «Cos'altro hai scoperto su di lui?». «Il suo estratto conto è in nero e non ha precedenti penali. Praticamente non c'è altro. Sembra che conduca una vita tranquilla. Ma dopo quello che mi hai detto, voglio scavare più a fondo». «Non dimenticare Simms. Lui sì che ha dei precedenti penali». «Mi deludi, Will. È un tipico ragionamento da sbirro». «Sono gli sbirri quelli che dobbiamo convincere», rispose Harper. «Anzi, prima riusciamo a coinvolgerli e meglio è». Addleman rimase in silenzio per un attimo. «Stai bene? Sembri un po' nervoso». «Probabilmente lo sono. Stamattina mi è successa una cosa un po' strana. Non riesco a smettere di pensarci». «Una cosa strana?». «Ho visto una gigantesca aquila al neon». Gli descrisse l'insegna pubblicitaria. «Non crederai sul serio che lo schema dell'aquila derivi dalla reclame di una birra, vero?», chiese Addleman. «No, ma quello che mi preoccupa è che non abbiamo la più pallida idea sulla sua possibile provenienza. Pensiamo che l'FBI sbagli a indagare sull'astrologia, ma non abbiamo ipotesi alternative». L'altro rimase in silenzio per un lungo istante. Harper immaginò il suo viso rugoso e tirato rischiarato dal fioco bagliore del computer. Addleman non usava più il telefono perché lo giudicava antiquato e pensava che reggere la cornetta fosse una vera seccatura. Harper lo aveva visto rispondere alle chiamate direttamente sul computer.
Alla fine dichiarò: «Quando nego che si tratti di astrologia, Will, voglio dire che secondo me la cosa non ha dei significati mistici. Lui non pensa che rispettare lo schema dell'aquila gli porti fortuna o roba simile. È troppo freddo, troppo razionale». «Quindi che significato credi che abbia, per lui? Ammesso che ne abbia uno». «Oh, ce l'ha sicuramente», rispose Addleman. «Sospetto che sia la sua firma». «La sua firma?». «Non dimenticare che il suo piano originale prevedeva che nessuno lo scoprisse finché non avrebbe sferrato l'attacco finale a Washington, completando lo schema. A questo punto, lui ha finito. Non so se intenda suicidarsi o semplicemente scomparire, ma vuole che gli investigatori che raccoglieranno i pezzi riescano a capire chi era, come ha fatto e che messaggio voleva inviare al mondo. Penso che usi la costellazione dell'Aquila per firmare le sue opere. Significa qualcosa per lui, d'accordo. Ma non sappiamo cosa». «Forse è uno scherzo». «Uno scherzo?». «Supponiamo per un attimo che il Celebrity Bomber sia Markman o Simms. Sono tutti e due comici falliti. Il mondo non li ha saputi apprezzare. In questo modo riescono a farsi l'ultima risata alle sue spalle». «Interessante, Will. Davvero interessante». «Ma non molto utile». «No. Mi dispiace. Richiamami stasera. Potrei avere qualche altra informazione da darti. Forse addirittura il vero indirizzo di Simms. Cosa farai nel frattempo?». «Pensavo di andare alla cava in cui lavora Amy Arthur». «Fammi un piacere. Passa a casa di Anthony Markman, prima. Questo tizio mi affascina». Harper guardò il pezzetto di carta su cui aveva segnato l'indirizzo. Probabilmente la casa non era molto lontana. Comunque era sicuramente più vicina della cava. «Okay», rispose. «Andrò prima da Markman». 29 Nella parte sud di St. Louis trova conferma il detto secondo cui la casa
di un uomo è il suo castello. O almeno così pensò Harper mentre la attraversava cercando l'abitazione di Anthony Markman. Le case erano modeste ma non si poteva dire altrettanto dei progetti degli architetti, che le avevano dotate di merlature, torrette e bertesche. Di mattoni o di pietra, avevano quasi tutte il tetto di tegole e le finestre al pianoterra protette da inferriate o griglie. Alcune erano circondate da cancellate di ferro battuto con punte a lancia. Lui dubitava che avessero una funzione puramente ornamentale. Si chiese chi volessero tenere alla larga tutte queste fortificazioni. Il quartiere sembrava tranquillo, sicuro, tipicamente medio borghese: un'invasione barbarica sarebbe stata improbabile. La casa di Markman non aveva una cancellata, ma a parte questo somigliava molto a quelle vicine. Harper parcheggiò lì davanti e scese per esaminarla meglio. Doveva avere almeno una cinquantina d'anni ed era ben tenuta. Niente intonaco scrostato, niente crepe da riempire tra un mattone e l'altro. Il prato era perfettamente tosato, folto e privo di erbacce come se fosse artificiale. In tutto l'isolato le giunchiglie erano fiorite e le piante di forsizia e sanguinello stavano sbocciando, ma davanti all'abitazione di Markman c'era solo un semplice tappeto verde. Forse era uno di quei proprietari pignoli che non vogliono che la natura metta in disordine il loro terreno. Uno stretto canale di scolo con ripide pareti di cemento e un reticolato di filo metallico correva lungo il confine della proprietà. Il vialetto d'accesso gli passava accanto e non c'erano auto parcheggiate. Ma la porta del garage era chiusa, ed era impossibile dire se ci fosse qualcuno in casa. Harper imboccò il vialetto, guardando le finestre dell'abitazione. Sarebbe stato interessante vedere un telescopio dietro a una di esse, ma non ce n'erano. Adesso che aveva smesso di piovere, la giornata si era fatta afosa; ciononostante tutte le finestre erano chiuse e il pannello dell'impianto per l'aria condizionata fissato a un muro esterno era silenzioso. Pronto a scommettere che non ci fosse nessuno, Harper si decise di curiosare un po' lì intorno. Prima esaminò il garage, un tozzo edificio di cemento con lo stesso stile architettonico della casa. Sulle finestrelle della porta basculante c'era uno spesso strato di vernice bianca. Curioso, pensò. Si chinò per provare a tirare la maniglia. Niente da fare. Ebbe l'impressione che la porta restasse sempre chiusa, il che era ancora più strano. Girando intorno al garage trovò un altro uscio. Stava per stringere il pomolo quando sentì una macchina che si avvicinava lungo la strada silen-
ziosa. Si schiacciò al muro per non farsi vedere, decidendo di aspettare che si allontanasse, prima di entrare. Ma la macchina imboccò il vialetto. Harper ritrasse di scatto la mano dal pomolo, come se si fosse scottato. Magnifico, pensò. Non poteva tornare davanti alla casa senza farsi vedere. E questo sembrava il tipo di quartiere i cui abitanti considerano la violazione di proprietà privata un reato da pena capitale. Cosa avrebbe fatto se il signor Markman avesse chiamato la polizia? Avrebbe tentato di scappare oppure di inventarsi una scusa plausibile che non lo mettesse nei guai come la verità? In ogni caso, indugiare avrebbe soltanto peggiorato le cose. Con un sorrisetto imbarazzato, tornò davanti al garage. Markman stava scendendo dalla macchina. Aveva voltato la testa per guardare l'auto sconosciuta parcheggiata davanti a casa sua. Era alto quasi come Harper, ma snello e con le spalle strette. Sentendo i passi sul vialetto, girò su se stesso. «Il signor Markman?», chiese in fretta Harper. «La stavo giusto cercando. Ha un minuto?». L'uomo non rispose. Il suo sguardo scivolò sul viso di Harper per posarsi sulla mano mutilata. Per un lungo istante rimase immobile, fissandola con gli occhi sgranati. Lui dovette reprimere l'impulso di infilarsela in tasca. Aveva già assistito a reazioni simili, solitamente da parte di bambini, ma talvolta anche di adulti. Cercò di non lasciarsene turbare. «Mi chiamo Will Harper, signor Markman. Vorrei farle qualche domanda, se ha un attimo di tempo». Continuando a sorridere, gli si avvicinò. Markman non rispose. All'improvviso lui si insospettì. La reazione dell'altro non era dettata da semplice sorpresa o disgusto: aveva uno sguardo impaurito. Forse non stava fissando la mano di Harper perché gli storpi gli davano il voltastomaco ma perché lo aveva riconosciuto. Lo aveva visto in TV o sui giornali. E il fatto di trovarlo qui lo riempiva di terrore. Perché era il bomber. Un attimo dopo Markman si riprese. Sbatté le palpebre e sollevò lo sguardo per incontrare quello del visitatore. Ormai la paura era scomparsa dai suoi occhi. Anzi, ormai era perfettamente impassibile. «Cosa vuole chiedermi?». Non c'era ansia od ostilità nel suo tono, solo una blanda curiosità. Ma Harper non si rilassò. Non sapeva ancora cosa pensare di quest'uomo e preferiva essere cauto e vigile come quando doveva disinnescare una bom-
ba. Rispose: «Si ricorda di Jake Blake?». Per un istante Markman lo fissò con occhi vitrei, poi sorrise e disse: «Jake. Certo. Lo ha visto? Come sta?». Nessuna traccia di senso di colpa, pensò Harper. Se l'uomo stava recitando, era davvero un ottimo attore. «Non potremmo entrare?», chiese. «Ci vorrà solo qualche minuto». «D'accordo», rispose Markman con estrema disinvoltura. Mentre attraversavano il prato, continuò: «È un amico di Jake, signor Harper?». «Sono un poliziotto in pensione e sto indagando sull'attentato di cui è rimasto vittima». «Il pacco bomba, vuole dire? Una cosa terribile. Ma pensavo che avessero già arrestato il colpevole». «Non credo che fosse la persona giusta». Harper lo guardò di sottecchi. Markman aveva inarcato le folte sopracciglia; sembrava interessato, ma niente di più. Dopo aver aperto la porta d'ingresso, lo guidò in un soggiorno piuttosto angusto in cui troneggiava un enorme televisore. Di fronte allo schermo c'era una poltrona che sembrava abbastanza comoda, anche se eventuali inviatati avrebbero dovuto appollaiarsi su una dura panca messa di lato. Harper immaginò che la casa accogliesse raramente degli ospiti. Anthony Markman doveva passare quasi tutto il suo tempo da solo. O forse no, pensò un attimo dopo, notando la fotografia incorniciata in cima alla televisione: ritraeva una donna bionda e carina che sembrava molto più giovane di Markman. La fidanzata? Una nipote? Forse soltanto la sua attrice televisiva preferita. «Si accomodi», gli disse l'uomo, indicando la panca. «E mi dica tutto di Jake. Non ci vediamo da un sacco di tempo». Il tono era così disinvolto che Harper dubitò nuovamente della fondatezza dei suoi sospetti. Forse l'espressione impaurita era stata semplicemente la normale reazione di un uomo solitario che conduce una vita tranquilla. «Sta bene», rispose arrampicandosi sulla panca. «Gestisce un bar a Encino». «Sono felice di saperlo. Eravamo buoni amici quando lavoravamo insieme». «Si potrebbe dire che foste rivali, signor Markman?». «Oh, sì, in fatto di ragazze e di lavoro. Facevamo anche una vita piuttosto sregolata. Ma la nostra è sempre stata una rivalità amichevole».
«Jake ha avuto l'impressione che lei invidiasse il suo improvviso successo». Markman sbatté le palpebre, sorpreso, come se avesse ferito la sua sensibilità. «No, ero felice per lui. Pensavo che molto presto l'avrei raggiunto a Los Angeles. Jake si sbaglia, forse non ricorda bene com'è andata. In fin dei conti è passato parecchio tempo». Harper non stava concludendo granché, così decise di cambiare argomento. «Be', se la cava discretamente, anche se non ha sfondato nel campo dello spettacolo. E immagino che si possa dire lo stesso di lei, signor Markman». L'altro non rispose e si limitò a fissarlo. C'era qualcosa di inquietante nel suo sguardo, ma forse dipendeva semplicemente dal contrasto tra le folte sopracciglia scure e gli occhi sbiaditi. All'esterno Harper aveva pensato che fossero azzurri, ma adesso li avrebbe definiti nocciola o grigi. In realtà erano incolori. «Ha proprio una bella casa. Molto carina e situata in un quartiere sicuro», continuò, facendo oscillare la mano. «Di cosa si occupa?». Markman esitò, poi rispose: «Sono un investitore indipendente». «Bel lavoro», replicò Harper, sorridendo. Si chiese dove, in tal caso, Markman avesse trovato il capitale iniziale. Non lo aveva sicuramente guadagnato facendo il comico né poteva averlo ottenuto dalla sua famiglia. Ma preferì non domandarglielo. Non voleva dirgli della sua visita nell'ex azienda di famiglia. Non ancora, almeno. «Le ricerche richiedono molto più tempo di quanto non si creda», stava spiegando Markman. «La mia non è certo una vita oziosa». Harper annuì. «E immagino che la manutenzione di una casa vecchia come questa sia piuttosto impegnativa. Se ne occupa personalmente?». «Sì. Me la cavo discretamente nei lavori manuali». Harper pensò di aver trovato un pretesto plausibile per ficcare un po' il naso in giro. «Sto ristrutturando una villetta ancora più vecchia di questa», disse, alzandosi e raggiungendo l'atrio, dando un'occhiata alle scale. Sperava di poter salire al piano di sopra a controllare se, in giro, ci fossero un telescopio o una mappa celeste. Tornò in soggiorno. Gli occhi di Markman lo seguirono mentre si avvicinava alla finestra sulla facciata, incorniciata da pannelli di vetro decorati con motivi di grappoli d'uva e foghe. «A casa mia c'è una finestra simile», dichiarò Harper. Era vero. «È in pessime condizioni e non so cosa farne. Questa l'ha sistemata personal-
mente?». «Sì», rispose Markman. «Era conciata piuttosto male». Lui indicò il bordo. «Ha sostituito questi pezzi di vetro? Il colore è praticamente identico. E sono anche montati perfettamente. Dev'essere un ottimo saldatore». Markman sembrava lusingato dal complimento. «Basta avere l'attrezzatura adatta». «Davvero? Mi piacerebbe vederla». «Come?». Harper si voltò a guardarlo. «Potrebbe farmi visitare il suo laboratorio? È nel garage, vero?». Gli occhi pallidi fissarono tranquillamente i suoi. «Mi dispiace. Il garage è troppo in disordine perché io possa mostrarglielo. Sto lavorando al mio ultimo progetto». «Sì? Di cosa si tratta?». «Sto riparando il motore del tosaerba e ci sono pezzi sparsi su tutto il pavimento. Mi spiace». Continuarono a fissarsi. Se parlare del garage lo aveva innervosito, Markman non lo diede a vedere. Anzi, aveva un'aria molto rilassata, come se fosse felice di avere lì Harper. Forse era semplicemente quello che sembrava: un uomo solitario e un po' eccentrico che era stato bastonato dalla vita. All'inizio l'interruzione del suo tranquillo tran tran da parte dello sconosciuto lo aveva turbato, ma ormai sembrava a suo agio, di nuovo impassibile. Harper decise di fare un ultimo tentativo di scuoterlo. «Sa come sono riuscito a trovarla?», gli chiese. «Sono andato alla Markman Manufacturing». L'altro rimase in silenzio, ma un tremore gli percorse le guance mentre serrava la mascella. Dopo un lungo momento di esitazione, domandò: «Con chi ha parlato?». «Con un certo Hayden». Markman sgranò gli occhi e sbottò: «Il signor Hayden? È ancora lì?». «Sì. A quanto pare si tiene aggrappato al suo posto con le unghie e con i denti. I nuovi proprietari...». «Sa che sono qui?», lo interruppe Markman. «Che sono tornato a St. Louis, voglio dire?». «No. Credo che la notizia lo stupirebbe». Markman annuì lentamente. Non lo stava più guardando e aveva un'aria
meditabonda. «Non avevo motivo di restare lontano da St. Louis», mormorò. «È un posto come un altro, per me». «Qualcuno sa che è tornato a casa?», gli chiese Harper. La bocca di Markman si contorse in un sorriso amaro. «Quelli che raccolgono fondi». «Come, scusi?». «Una volta che dai del denaro a un ente benefico, non riesci più a scrollarteli di dosso. Continuo a ricevere telefonate e lettere. Dal liceo privato Country Day, che i Markman hanno frequentato, e dalla Washington University dove si sono laureati. Dall'orchestra sinfonica, dal Barnes Hospital e dalla chiesa anglicana di St. Michael e St. George. Dicono tutti che l'edificio che porta il nostro nome ha bisogno di riparazioni o che al fondo fiduciario da noi finanziato servirebbe un nuovo flusso di denaro». «Cosa gli risponde?». «Che hanno contattato l'uomo sbagliato, che non sono parente di quei Markman». Lo fissò di nuovo, con lo sguardo carico di apprensione. «Cosa le ha detto il signor Hayden di me?». «Mi ha raccontato tutta la storia. È ancora arrabbiato con lei». «Ci scommetto». Markman gli lanciò un'occhiata gelida, come se sapesse che lui lo stava provocando nella speranza di ottenere una reazione inconsulta. Buttò fuori l'aria e si strinse nelle spalle. Era un tentativo di scacciare cattivi pensieri, e parve funzionare. Poi riprese un tono quasi divertito e disse: «Le è piaciuta la storia di Tony Markman, signor Harper?». Lui cercò di eguagliare la sua ironia. «Molto drammatica. Proprio come un film per la TV». «Non proprio. In un film sarei diventato una star». «Ha ragione». «Certo che ho ragione. Sono stati i film a sedurmi. Garantivano che i miei sforzi avrebbero avuto un lieto fine, purché non mi arrendessi». Fece un piccolo movimento con la testa. «Avrei dovuto gettare la spugna, naturalmente». «Immagino che sia piuttosto amareggiato». «Perché dovrei? Un sacco di gente non riesce a sfondare». «Ma solo pochissimi, provandoci, perdono tanto quanto lei». «È stata tutta colpa mia», rispose Markman con un'aria pacata. «Mi sono lasciato sedurre». Era la seconda volta che usava quel verbo. «Da chi?». L'uomo inclinò il capo. All'inizio Harper pensò che volesse indicare la
ragazza nella foto, ma in realtà si riferiva al televisore. «Da tutte le voci che uscivano da quella scatola. Per quanto possano dissentire su tutto, ebbene su una cosa sono perfettamente d'accordo, non trova?». «Quale?». «Tieniti ben stretti i tuoi sogni e si avvereranno». Sorrise mestamente. «I predicatori ti dicono che Cristo ti renderà immensamente felice. I venditori che puoi valere un milione di dollari. I guru che ti aspetta una reincarnazione molto più gradevole, la prossima volta. I democratici promettono che il governo ti aiuterà e i repubblicani che non ti starà tra i piedi. E naturalmente ci sono le star, che ti fanno credere di poter diventare come loro, una persona speciale. Chiunque appaia su quello schermo vuole che tu continui a sognare». Harper fu costretto ad ammettere che non aveva tutti i torti. Sempre sorridendo, Markman si voltò verso di lui. «Ma parliamo di come vanno le cose nella vita reale. Cosa ne pensa, signor Harper? Si aspetta un lieto fine?». Il suo sguardo si posò sulla mano mutilata. Anche Harper la fissò. Mentalmente tornò in quel silenzioso corridoio del liceo nel Queens. Era stato così sicuro, in quell'ultimo istante, che sarebbe andato tutto bene. Si sarebbe sbarazzato senza problemi di quel candelotto di nitrogelatina. Stava già pregustando il suo rientro a casa quella sera, pensando a Laura. Poi il candelotto era esploso. No, la sua carriera nella polizia non aveva avuto un lieto fine. C'era stato invece un breve periodo di atroce sofferenza, seguito da un lungo periodo di noia e frustrazione mentre lottava per rimettersi, sapendo benissimo che non sarebbe mai guarito completamente. Poi c'era stata l'umiliazione di dover lasciare il dipartimento per colpa del capitano Brand. Accantonò quelle riflessioni. Si rese conto che Markman lo aveva distratto volutamente, costringendolo a mettersi sulla difensiva: era un acuto esperto di tattica che subdolamente percepiva la debolezza altrui e ne approfittava. Alzò gli occhi, scoprendo che l'altro era in attesa di una risposta. «No», disse, «non mi aspetto più un lieto fine. Al massimo posso sperare solo in una fine». L'uomo annuì. Sembrava molto interessato, ma non fece altre domande. Si alzò e gli si avvicinò. «Temo di non poterle dedicare altro tempo», dichiarò. «Ma le auguro buona fortuna, signor Harper». E gli tese la mano.
Harper la strinse con quella mutilata, osservando gli occhi di Markman. Due storpi, si ritrovò a pensare. 30 Dopo aver chiuso la porta alle spalle di Harper, Markman corse in bagno a vomitare. I conati continuarono finché il suo stomaco non fu completamente vuoto. Pallido e tremante, si sedette sul bordo della vasca. Si chiese come avesse fatto a sopravvivere all'ultimo quarto d'ora. In vita sua non aveva mai dovuto sforzarsi tanto per mantenere l'autocontrollo. All'inizio, vedendolo sbucare da dietro il garage, non era riuscito a crederci. Solo guardando la mano menomata aveva capito che si trattava davvero dell'uomo che aveva visto nella registrazione della conferenza stampa seguita alla morte di Speed Rogers. Chissà come, Will Harper era riuscito a rintracciarlo. In quel primo momento, aveva pensato che fosse finita. Harper era entrato nel garage e sapeva tutto. Dopo una frazione di secondo poliziotti e agenti federali sarebbero sbucati dai loro nascondigli per circondarlo e gettarlo a terra. Lo avrebbero portato via per sottoporlo a interrogatori, alla reclusione e forse addirittura all'esecuzione. Eppure lui non aveva pensato al suo futuro, quanto piuttosto al suo totale fallimento. Lo schema sarebbe rimasto incompleto. La sua dichiarazione al mondo non sarebbe mai stata fatta. Lei avrebbe visitato il Constant Light Hospital e poi si sarebbe allontanata indenne. Tutti questi pensieri gli attraversarono il cervello nello spazio di un solo secondo. Ma mentre Harper si avvicinava, lui si rese conto che sorrideva e gli stava parlando in tono gentile. Sembrava addirittura un po' imbarazzato. Markman capì che l'uomo non sapeva tutto. Non ancora. Quindi adesso doveva ingannarlo - e scoprire cosa sapeva. Doveva seppellire la paura ben in fondo, dentro di sé, e controllare le emozioni meglio di quanto non avesse mai fatto. Adesso, seduto sul bordo della vasca, ripensò alla propria performance con una certa soddisfazione. Aveva scoperto che era stato il pacco bomba di Jake Blake a portare Harper da lui. Non era una grossa sorpresa. Era stato il suo primo colpo e ci rimuginava sopra sin da allora. Non che rimpiangesse di aver mutilato Blake - quel bastardo presuntuoso se l'era cercata ma aveva commesso tantissimi errori, aveva agito senza dominare completamente le proprie emozioni. Era stato davvero fortunato a farla franca.
All'epoca era solo un dilettante, incapace di spendere il tempo e il denaro necessari per fare la cosa giusta, in balia di sentimenti su cui non aveva alcun controllo. Era successo prima della grande svolta nella sua vita, prima che si prefissasse una meta, prima che elaborasse lo schema. Prima dell'aquila. E poi, proprio quando cominciava a rilassarsi un po', addirittura a godersi quel gioco di botta e risposta, Harper aveva annunciato con nonchalance di essere passato dal vecchio stabilimento. E di aver parlato con Hayden. Quindi sapeva tutto di lui. Adesso si rendeva conto che la notizia avrebbe dovuto allarmarlo, ma sul momento aveva ottenuto l'effetto opposto, colmandolo di sollievo. E non solo il tanto celebrato sollievo del colpevole che finalmente può confessare almeno in parte il suo crimine. L'aveva colpito soprattutto la consapevolezza che loro due si somigliavano molto, avevano parecchio in comune; era rilassante pensare che Harper conosceva la sua storia e lo capiva. Non era riuscito a resistere all'impulso di parlargli. Era da tanto che non parlava con qualcuno. Strinse il pugno sino a conficcarsi le unghie nel palmo della mano e fissò in cagnesco il suo riflesso nello specchio del bagno. «Stupida testa di cazzo», mormorò. Will Harper non era un suo amico né il suo dannato psichiatra. Era uno sbirro che ricorreva a ogni trucco possibile pur di spingerlo a commettere un errore fatale. Ma lui lo aveva commesso? Ripensò alle proprie dichiarazioni. Era vergognoso che avesse parlato con tanta noncuranza, dando voce alle sue riflessioni. Ma aveva usato il tono di un uomo sconfitto, di una vittima impotente. Doveva aver convinto Harper. Forse. O forse no. Salì di corsa al primo piano, si alzò in punta di piedi per afferrare la maniglia della botola e tirò giù la scaletta che portava in solaio. Lassù l'aria era calda e stantia. Il pavimento di legno era quasi completamente sgombro, visto che lui aveva ben poco da immagazzinare. Il telescopio montato su treppiede si trovava accanto alla finestra dell'abbaino affacciata a nord. Lo spinse in avanti e lo abbassò per poter scrutare l'orizzonte. Fu solo dopo averlo spostato vicino alla finestra sul lato est che riuscì a vedere Harper. La sua macchina era parcheggiata ai margini dei giardini pubblici, un isolato più giù nella via. Evidentemente stava aspettando che lui facesse la sua mossa - probabilmente saltando in macchina e allonta-
nandosi di gran carriera per tentare una fuga disperata. Si scostò dal telescopio. Quindi Harper aveva dei sospetti, pensò. Ma non ne era sicuro. E così sperava che Markman si lasciasse prendere dal panico dimostrando così la propria colpevolezza. Be', non sarebbe successo. Piegando il capo sotto gli angoli del tetto, spostò il telescopio di finestra in finestra, continuando a scrutare l'orizzonte. Non vide elicotteri, cecchini sui tetti, auto della polizia o furgoni della TV. Non c'erano uomini con l'aria vigile seduti da soli su auto ferme - a parte Harper. Quindi l'altro non disponeva di rinforzi ufficiali. Era solo. Solo come lui. Tornando verso la finestra a est, puntò il telescopio su quel viso con la fronte ampia e la barba grigia. Harper, immobile, fissava la strada. Sembrava paziente e calmo come un pescatore seduto all'ombra sulla riva di un fiume. Non si sarebbe mosso per un po'. Alla fine, naturalmente, avrebbe concluso che lui non voleva tentare la fuga. A quel punto avrebbe informato la polizia dei suoi sospetti oppure avrebbe continuato a curiosare in giro per St. Louis, scavando nel passato di Markman. Non si sarebbe certo dato per vinto. Quindi doveva morire. Markman raddrizzò la schiena e diede un colpo al telescopio per scostarlo. La nuova prospettiva non lo rendeva certo felice. Lo schema dell'aquila non richiedeva la morte di Harper, anzi, sarebbe stato meglio che lui fosse ancora vivo dopo il quindici maggio, in modo da poter spiegare al mondo intero cosa aveva voluto dire il Celebrity Bomber. Tuttavia quello sbirro andava eliminato, e subito. Era inutile discutere o riflettere oltre. Si tolse di dosso la polvere del solaio, scese la scaletta e poi tornò al pianterreno. Non voleva rischiare che Harper lo vedesse lasciare la casa. Uscì dalla finestra della sala da pranzo, sul lato dell'edificio che l'altro non poteva controllare. Gli dispiaceva dover lasciare alzata la zanzariera: sarebbero entrati gli insetti. Passando dietro la casa per non farsi vedere, corse in garage. Aveva il cuore che batteva all'impazzata e il respiro affannoso. Gli tremavano un po' le mani, e non gli riuscì subito di infilare la chiave nella serratura. Ma sapeva che non appena si fosse seduto al banco da lavoro, stringendo gli arnesi tanto familiari, si sarebbe calmato. Il laboratorio era sempre stato il suo santuario, il luogo in cui, con la mente tranquilla e la mano ferma, aveva trovato ogni soluzione ai suoi problemi. La bomba di oggi sarebbe stata molto semplice.
31 Harper si sentiva stordito dall'eccitazione. Anche se non sapeva il perché, era sicuro che Markman fosse il bomber. Seduto in macchina a osservare la strada, continuava a immaginare di parlare con l'agente speciale Frances Wilson illustrandole il castello di prove contro quell'uomo. Peccato che non esistesse nessuna prova. Anthony Markman non aveva detto nulla che potesse considerarsi probante. Ma l'istinto gli diceva che quell'uomo aveva già ucciso trentatré persone. E stava progettando di ucciderne molte altre. Fissò, dietro il parabrezza, la strada tranquilla. Markman aveva capito subito chi era; ne era sicuro, così com'era sicuro che fosse colpevole. Ma non sapeva se la sua visita lo avesse allarmato. Un tipo come il Celebrity Bomber doveva essere guidato da un ego furioso e da un compiaciuto senso di superiorità che spazzavano via ogni morale, legge e compassione. Probabilmente l'assassino aveva una straordinaria fiducia in se stesso e pensava di non correre alcun pericolo. Non avrebbe sicuramente cercato di scappare. In quel momento, il più grande desiderio di Harper era poter entrare in quel garage. Un solo minuto nel laboratorio sarebbe bastato per accertare e dimostrare - se Markman era il bomber. Ma non ci si poteva neanche avvicinare finché l'uomo restava in casa, così decise di aspettare. Se Markman si fosse allontanato in auto non lo avrebbe seguito ma avrebbe colto al volo l'occasione di introdursi nel garage. Se invece fosse rimasto dov'era, avrebbe aspettato la sera e, con la protezione dell'oscurità, sarebbe riuscito a raggiungere inosservato l'edificio. Tutto dipendeva da dove l'uomo aveva sistemato le luci del cortile. Passò il resto del pomeriggio ad aspettare e a sorvegliare la strada deserta, pensando ai punti deboli del suo piano. Uno dei rischi era che Markman avesse piazzato una trappola esplosiva nel garage. Se era davvero il Celebrity Bomber era sicuramente in grado di allestire un trabocchetto invisibile. Era anche possibile che il suo istinto si sbagliasse e che l'uomo non fosse il bomber - nel qual caso Harper poteva ritrovarsi a passare la notte in galera, accusato di violazione di domicilio con effrazione. Poi, scacciate l'eccitazione e l'apprensione si sistemò meglio sul sedile del guidatore, risparmiando le energie e radunando forza e coraggio necessari per affrontare gli sviluppi della situazione.
I piccoli giardini pubblici alle sue spalle rimasero deserti e silenziosi fino alle quattro. Poi, sugli skateboard, arrivò un gruppo di ragazzini vestiti con pantaloni corti e larghissimi. Nelle due ore seguenti si esercitarono a scendere con la tavola la breve rampa di gradini di cemento che portava al parcheggio. Harper era innervosito dall'incessante fragore, ma immaginò che dover seguire quelle evoluzioni fosse di gran lunga preferibile alla necessità di compierle. Nessuno dei ragazzi riuscì ad arrivare in fondo alla scalinata senza cadere, neanche una volta. Sembrava tutto insopportabilmente noioso e frustrante. Per non parlare del dolore. Alla fine decisero che ormai faceva troppo buio. Si infilarono sotto il braccio lo skateboard e, zoppicanti, tornarono verso casa attraversando il campo da softball. Osservandoli, Harper notò una specie di piccolo padiglione accanto al campo; dentro c'erano un distributore automatico della Coca-Cola e un telefono pubblico. Si ricordò la sua promessa di chiamare Addleman. Era già in ritardo e inoltre il suo amico poteva aver scoperto qualcosa. Irrigidito, uscì faticosamente dalla macchina e si incamminò verso il padiglione. Nascosto in un folto d'alberi su un lato della strada, Markman guardò Harper che si allontanava dall'auto. Era l'occasione che stava aspettando, anche se sapeva di non dover mai lasciarsi sopraffare dall'impazienza. Sarebbe rimasto dov'era finché non l'avesse visto scomparire nella penombra sempre più fitta - finché non fosse stato sicuro che l'uomo non poteva notare la sua presenza. Era stata una lunga attesa. Aveva finito in fretta il suo lavoretto in garage poi, scavalcata la staccionata posteriore, aveva attraversato il giardino del vicino fino alla strada per fare il giro e raggiungere Harper alle spalle. Nessuno degli automobilisti di passaggio aveva degnato di una occhiata quell'uomo che camminava sul marciapiede con una scatola da scarpe infilata sotto il braccio. Aveva usato un'autobomba solo un'altra volta: in Oklahoma, dieci anni prima, per uccidere quella stupida meteorologa. Si era trattato di un ordigno piuttosto complesso, con l'esplosivo sistemato sotto il cofano, contro il pannello ignifugo, e l'innesco della carica collegato all'accensione. Quello di oggi era molto più semplice: solo quattro candelotti di dinamite e una calotta esplosiva collegata a un normale ricevitore radio con una piccola batteria. Dopo averlo piazzato sarebbe tornato nel suo nascondiglio ad aspettare che Harper fosse risalito in macchina, poi l'avrebbe fatto esplode-
re. Non che volesse vederlo morire. Niente del genere. Solo doveva essere sicuro di averlo eliminato. Harper ormai era scomparso. Markman aspettò che un'auto passasse, poi si alzò e raggiunse rapidamente la macchina. Il posto migliore per la bomba era sotto il sedile. Tirò la maniglia scoprendo che la portiera era chiusa a chiave. Avrebbe potuto aprirla, ma era inutile sprecare del tempo prezioso. Anche sistemati sotto il telaio i quattro candelotti di dinamite avrebbero fatto il loro dovere. Aspettò che un'altra auto di passaggio si allontanasse, poi posò un ginocchio a terra. Dalla scatola da scarpe estrasse la bomba e un rotolo di nastro isolante color argento con cui fissarla al telaio. Prima di svolgerlo si infilò dei guanti di lattice: quel materiale era perfetto per le impronte. Una volta aveva letto di un terrorista che era stato catturato perché due centimetri quadrati di nastro isolante con sopra l'impronta del suo pollice erano sopravvissuti all'esplosione finendo nelle mani della polizia. Lui non aveva nessuna intenzione di fare la stessa fine. Mentre stava per sistemare l'ordigno, sentì un'altra macchina che si avvicinava. Senza fretta, si alzò in piedi stringendosi al petto la bomba, ma non così forte da far sì che fibre della sua camicia potessero attaccarsi al nastro isolante. Diede le spalle alla strada. La macchina passò senza rallentare, e lui rimase in piedi a fissare il piccolo padiglione dietro il campo da softball buio. Non c'erano luci all'interno, ma si vedeva chiaramente uno di quei distributori automatici il cui pannello anteriore è una scintillante etichetta rossa della Coca-Cola. Lì davanti riuscì a distinguere la silhouette di un uomo. Strizzò gli occhi. Era Harper, che stava telefonando. Markman non se l'aspettava. Doveva rifletterci sopra. Si scostò dalla macchina camminando a ritroso, calpestando la scatola da scarpe e rischiando di cadere. Si chinò a raccoglierla insieme al rotolo di nastro, poi si allontanò in fretta. Il cuore gli martellava nel petto e sentiva un gusto amaro sotto la lingua. Non c'era niente al mondo che odiasse più di un intoppo dell'ultimo momento che lo costringeva a modificare il suo piano. Non vedendo poliziotti in giro aveva concluso che il suo avversario stesse lavorando da solo. Grosso errore. Harper stava telefonando a qualcuno ed era possibile - anzi, probabile - che gli stesse parlando di lui. Quindi uccidendolo non avrebbe eliminato ogni rischio, anzi, si sarebbe attirato addosso gli sbirri ancora più in fretta.
Chinando la schiena, si allontanò rapidamente nell'oscurità. Non sapeva dove stava andando o quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Il sudore gli imperlò la fronte e se la asciugò con la manica. Era umiliante ripensare a com'era stato stupido, a come aveva evitato per un soffio di commettere un errore fatale. Si era sentito al sicuro nella sua casa base per così tanto tempo. Aveva sposato la sua tabella oraria e i suoi piani tanto accurati. La comparsa di Harper aveva cambiato tutto. Lui non l'aveva capito subito e aveva reagito istintivamente, illudendosi di poterlo neutralizzare per poi procedere tranquillamente con il piano. Era stato un perfetto idiota. Si era lasciato prendere dal panico. Provava una cocente vergogna ripensando a come si era lasciato trasportare dalle emozioni. Far saltare in aria Harper a un solo isolato da casa sua! Cristo! Tanto valeva chiamare l'FBI e costituirsi! Almeno adesso riusciva ad analizzare la situazione con freddezza e lucidità. Stava per perdere la sua casa base. La vecchia tabella di marcia era da buttare, così come il piano su cui aveva sgobbato per mesi e mesi. Doveva escogitare un nuovo piano per arrivare al Constant Light Hospital il quindici di maggio. E doveva sbrigarsi. Continuò a camminare, meditabondo, finché non raggiunse l'abitazione dietro la sua. Percorse in fretta il vialetto e scavalcò la staccionata. Tornava a casa per l'ultima volta. 32 Entrando nel padiglione, Harper era rimasto infastidito dalla mancanza di luce elettrica. Almeno il telefono funzionava. Strizzando gli occhi per vedere meglio il tastierino nel bagliore rosato del distributore di CocaCola, digitò il numero di Addleman. «Pronto!». Addleman rispose ansimando, come se avesse fatto una corsa per rispondere al telefono. Harper sapeva che l'amico non andava mai da nessuna parte, quindi doveva essere colpa dell'eccitazione. «Cosa succede, Harold?». «Harper! Dove diavolo ti eri ficcato?». «Sono...». «Non importa. Ho scoperto qualcosa su Markman. È sicuramente il nostro uomo».
«Sicuramente?», ripeté lui. Sentì di nuovo l'ondata di euforia. Un misto di soddisfazione e apprensione legato alla consapevolezza che finalmente si stavano avvicinando alla preda. «Ho scaricato dei dati dall'archivio del quotidiano locale di St. Louis, il Post-Dispatch. Ho trovato un articolo sul nostro amico che risale a undici anni fa». «Un articolo su Markman? Cos'ha fatto?». «Un attimo di pazienza. Prima un po' di cronologia. È successo dopo la morte di suo padre, dopo che la Markman Manufacturing venne venduta senza che il nostro Tony ricevesse un solo centesimo. Ha rinunciato al tentativo di far carriera come comico ed è tornato a St. Louis per lavorare nel parco di divertimenti Six Flags». Harper annuì. I parchi di divertimenti offrivano spesso un impiego ai giovani dilettanti che cercavano di farsi strada nel mondo dello spettacolo. O a quelli non più tanto giovani e ormai in declino. «L'articolo riferisce l'esito della causa che ha intentato contro il Six Flags», spiegò Addleman. «È caduto dalla piattaforma delle montagne russe, sostenendo poi di essersi lesionato la schiena. I proprietari avevano dei grossi dubbi e, apparentemente, anche il Post-Dispatch. Ma Markman aveva un avvocato scaltro che ha ottenuto un risarcimento di quattrocentomila dollari, probabilmente intascandone la metà». «Capisco», rispose Harper. «Quindi è così che ha trovato il denaro da investire». «Già. E con un perfetto tempismo. Tutto è successo a metà degli anni Ottanta. Probabilmente ha investito la somma in obbligazioni ad alto rischio e alto rendimento e l'ha vista raddoppiare o triplicare nel giro di pochi mesi». «Capisco». «Quel denaro ha fatto una grossa differenza. Finalmente Markman disponeva del tempo e dei fondi necessari per realizzare il piano su cui doveva aver rimuginato costantemente mentre sgobbava sottopagato. Aveva provato un malsano piacere mutilando Jake Blake. Finalmente poteva dedicarsi alla missione della sua vita». Sì, pensò Harper - quella di eliminare la mistica della celebrità e mostrare al mondo cos'è davvero la vita. Adesso poteva comprare l'attrezzatura, fare esperimenti, viaggiare. L'incidente rendeva tutto possibile. «E il legame con la costellazione dell'Aquila?». «È la parte che preferisco. Non avevi tutti i torti quando sostenevi che
doveva trattarsi di una specie di scherzo. Uno scherzo molto amaro, molto acido. Il nostro amico Tony è afflitto da un sacco di sensi di colpa, di rabbia e risentimento repressi. Come comico non ha mai ottenuto la fama e la ricchezza che pensava di meritare. Il patrimonio di famiglia che avrebbe dovuto ereditare gli è stato sottratto. Poi, finalmente, riesce a mettere le mani su un sacco di soldi - grazie alla fortuna, agli stratagemmi legali e alla pietà dei giurati per un fallito come lui. Puoi ben immaginare come abbia apprezzato l'ironia della situazione. Non vedo l'ora di parlare con questo tizio, Harper, scoprire come funziona il suo cervello». Addleman non aveva nessun bisogno di ricordargli come fosse deviata e brillante la mente di Markman. Harper ci riprovò. «Harold, ma cosa c'entra l'aquila?». «Oh, non te l'ho detto? Il nome delle montagne russe di Six Flags - quelle da cui Markman è caduto - era Aquila Urlante». «Aquila Urlante...». Harper abbozzò un sorriso. La costellazione dell'Aquila. Quindi erano state le montagne russe a fargli scegliere il suo schema di vendetta e di morte - l'inno alla fortuna che lo aveva liberato dal prosaico e noioso mondo quotidiano per collocarlo al di sopra del resto dell'umanità, nel posto che gli spettava di diritto. Addleman fece la sua risatina ansimante. «Sarà davvero un duro colpo per Frances, dopo che ha mandato tutti quegli agenti a Calcutta e a Hong Kong per consultare gli astrologi. Ma credo che dovrei chiamarla». «È troppo tardi», rispose lui. «Ho avvicinato Markman e temo di averlo spaventato». «C'è il rischio di una fuga?». «Sì. Senti, voglio chiamare subito la polizia di St. Louis, poi torno a sorvegliare casa sua finché gli agenti non mi raggiungono». «La polizia di St. Louis! Cosa gli dirai?». «Non lo so, ma arriveranno più in fretta di quanto non farebbero se dovessimo prima contattare Frances nell'Indiana, a Washington o dovunque si trovi. Adesso riaggancio, Harold. Dobbiamo prendere questo figlio di puttana prima che se la svigni». «Stai attento, Will!». Harper non perse tempo a rispondere. Interruppe la comunicazione e chiamò il 911. 33
Cinque minuti più tardi Harper rallentò e spense i fanali mentre si avvicinava alla casa di Markman. Sperava che il bomber si trovasse ancora all'interno e non voleva spaventarlo. Se solo ci fosse rimasto un altro po'... Pregò ripetutamente il dio che scorre nelle vene dei poliziotti nei momenti decisivi. Fermandosi dall'altra parte della strada notò con sollievo che l'auto di Markman era ancora parcheggiata nel vialetto. Le luci erano accese nell'ingresso e in una stanza al piano di sopra. La tendina a veneziana non era abbassata e lui fissò per un lungo istante il rettangolo luminoso, sperando di intravedere l'uomo che si aggirava per la stanza. Ma non andò così. Il suo sguardo si spostò sul garage in fondo alla proprietà. Il faretto fissato a un muro laterale della casa gli permetteva di vedere la tozza struttura di mattoni con la porta bianca. Ma anche se all'interno ci fossero state delle luci accese, le finestre verniciate gli avrebbero impedito di scoprirlo. Markman poteva trovarsi lì, in quella che ormai lui riteneva la sua fabbrica privata di bombe, a escogitare Dio solo sa quale ordigno diabolico. Asciugandosi con una manica la fronte sudata, guardò l'orologio. Come mai la polizia non arrivava? Sapendo che sarebbe stato inutile addentrarsi in lunghe spiegazioni su chi era e come mai aveva bisogno degli agenti, aveva detto qualcosa di criptico su un reato in corso e comunicato l'indirizzo. Avrebbe chiarito ogni cosa quando arrivavano i poliziotti. Voleva solo che prendessero in custodia Markman. Se arrestavano anche lui, nessun problema. Eccolo finalmente: il lamento lontano di una sirena. Non appena lo sentì, quasi fosse un segnale concordato, vide la porta della casa aprirsi di scatto. Markman uscì, corse alla macchina, spalancò la portiera e salì. Il suono del motore che si avviava raggiunse le orecchie di Harper. Anche lui girò la chiavetta dell'accensione. Mentre Markman imboccava il vialetto in retromarcia, premette l'acceleratore e sterzò bruscamente per tagliargli la strada. Invece di fermarsi, l'uomo cercò di girargli intorno. Ma non c'era abbastanza spazio. La parte posteriore della Honda sbatté contro il reticolato accanto al canale di scolo. Harper vide le ruote anteriori girare vorticosamente. Si sentì uno stridore di gomme e del fumo bianco uscì fluttuando da dietro i cerchioni mentre Markman cercava di scappare, ma la macchina era bloccata. Spalancando la portiera, l'uomo saltò giù e cominciò a correre.
Harper balzò fuori dall'auto e corse verso di lui. Markman lo vide arrivare e cercò di scansarlo, ma Harper non si arrese. Non voleva tentare nulla di elaborato - solo placcarlo, buttarlo a terra e gettarglisi addosso. Non voleva rischiare di ferirlo, voleva semplicemente trattenerlo fino all'arrivo della polizia. Allargando le braccia, gli si lanciò contro. Lo colpì con la spalla destra. L'impatto produsse un verso lamentoso. Markman indietreggiò barcollando e per poco non cadde. Harper, tuttavia, non riuscì del tutto a bloccarlo. L'uomo era esile, ma più forte di quanto non sembrasse. Dimenandosi e girandosi, riuscì a liberarsi dalla stretta. Mentre Harper stava ancora cercando di recuperare l'equilibrio, girò su se stesso e gli sferrò un pugno in faccia. La testa volò all'indietro. Harper rimase intontito. Mentre il mondo cominciava a vorticargli intorno, sbatté le palpebre, cercando di mettere a fuoco l'avversario. Markman si stava avvicinando. Il suo pugno destro schizzò in avanti e una nuova fitta dolorosa attraversò la testa di Harper, che barcollò nuovamente all'indietro. Ma adesso il suono delle sirene era più forte e, alle spalle dell'altro, lui riuscì a vedere le roteanti luci rosse e blu di un'auto della polizia che stava svoltando l'angolo in fondo all'isolato. Si tuffò verso Markman tentando nuovamente di ghermirlo, ma stavolta fu più lento. L'altro si accovacciò per evitare la morsa delle sue braccia e poi gli diede una spallata nello stomaco. Harper grugnì di dolore. Cadde all'indietro. La sua schiena atterrò su qualcosa di cedevole. Era il reticolato metallico che si era sfondato, capì. Senza la protezione della rete piombò pesantemente sulla parete di cemento del canalino di scolo e scivolò giù, finendo su un sottile strato di foglie umide. Si inginocchiò faticosamente. La spallata gli aveva tolto il fiato; boccheggiò e ansimò cercando di respirare. Il palmo delle mani, scorticato dal cemento durante la scivolata, sembrava in fiamme. Facendosi forza su un piede si alzò barcollando. Adesso riusciva a vedere al di là della sommità del canale. Markman stava salendo sulla sua auto, esitando mezzo dentro e mezzo fuori, e voltandosi a osservare la strada. La macchina della polizia, con la sirena urlante e le luci lampeggianti, si avvicinava rapidamente. All'improvviso l'uomo si scostò di scatto dall'auto. Doveva aver capito di non poter scappare su quattro ruote. Di corsa si precipitò lungo il vialetto, verso la casa, con una velocità sorprendente.
Harper pensò che volesse fuggire attraversando il giardino del vicino. Ma, raggiunto il garage, Markman si fermò e lui lo vide armeggiare per un attimo con la chiave prima di entrare. A un tratto capì cosa stava per succedere. Intuì quale via di fuga avesse scelto Tony Markman. E non c'era niente che lui potesse fare, se non sdraiarsi sul fondo del canale e ripararsi la testa con le braccia. Dopo una frazione di secondo ci fu l'esplosione. Chiuse gli occhi ma il lampo gli sembrò comunque accecante. Il boato lo assordò. Le pareti del canale riuscirono a proteggerlo dall'onda d'urto ma non dal calore. Ebbe l'impressione che la pelle gli si riempisse di vesciche, e di respirare fuoco. Istintivamente, cominciò ad allontanarsi carponi, tossendo e ansimando. Qualcosa lo colpì con violenza alla spalla. Sollevò lo sguardo m tempo per vedere una contorta cassetta postale di metallo che gli cadeva davanti. Fu solo l'inizio di una grandinata di pezzi di legno, frammenti di metallo, mattoni e macerie varie. Ormai non riusciva più a pensare lucidamente, ma sapeva che la salvezza era rappresentata dalla curva del canale di scolo che vedeva di fronte a sé. Cominciò a strisciare in quella direzione, gemendo di dolore ogni volta che un oggetto lo colpiva. Non riuscì a raggiungere lo sperato rifugio. Qualcosa lo colpì alla testa. Fu un lampo di dolore, abbagliante come quello dell'esplosione. Poi il buio, sempre più fitto... 34 A St. Louis non era mai successo niente del genere. I giornalisti televisivi, cercando le frasi adatte per commentare le immagini riprese nell'isolato di Anthony Markman dalle telecamere montate su elicotteri, continuavano a ripetere le stesse parole: «Sembra che sia passato un ciclone». Avevano ragione. Un ciclone, toccando terra in un punto preciso prima di risollevarsi per riprendere il suo volo capriccioso, avrebbe provocato esattamente questo genere di distruzione concentrata e terribile. Al posto del garage di Markman adesso c'era un profondo cratere. Il muro posteriore della sua abitazione era scomparso, mettendo in mostra le varie stanze, come in una casa di bambole. Lo steccato posteriore era stato abbattuto e due alte querce sradicate. La parete esterna dell'edificio più vicino era ridotta a un ammasso di macerie. Ma era tutto qui. Le costruzioni intorno erano ancora in piedi, anche se
leggermente danneggiate dalla caduta dei detriti; tutte le finestre erano disintegrate. Parecchie persone erano state ferite da vetri e macerie, anche se nessuno era morto, a parte l'uomo che l'aveva provocata. Ammesso, naturalmente, che Markman fosse davvero morto. Harper era ricoverato al St. Anthony Hospital, nella contea di St. Louis. Aveva recuperato l'udito e gli avevano medicato tagli e graffi. I medici lo stavano tenendo sotto osservazione per scoprire possibili effetti collaterali legati alla sua commozione cerebrale. Cercavano anche quel tipo di traumi interni, difficili da individuare ma potenzialmente pericolosi: vasi lesionati, giunture lussate, muscoli o legamenti strappati. Lo stavano giusto riportando in camera dopo una TAC quando arrivò l'agente speciale Frances Wilson. «Will! Come stai?». Lui alzò il capo per guardare la figura sulla soglia. Gli girava la testa e aveva un po' di nausea per colpa dei liquidi che gli avevano fatto bere prima degli esami. Impiegò qualche secondo a mettere a fuoco la donna. Indossava un elegante tailleur primaverile e, come al solito, era appesantita da borsa, ventiquattrore e computer portatile. I suoi ferri del mestiere, oltre alla pistola. Sfoggiava un sorriso preoccupato. Avvicinandosi al letto, gli prese la mano sinistra. «Vi state prendendo cura di lui, vero?», chiese agli inservienti in piedi accanto alla lettiga. «Sì, signora», rispose uno di loro in tono annoiato. «Adesso, se solo ha la compiacenza di spostarsi, lo rimettiamo a letto». Mentre sistemavano la lettiga accanto al letto e lo trasferivano dall'una all'altro, Harper cercò di capire come mai Frances sembrasse così gentile. Aveva interferito in un'indagine ufficiale e messo in grave imbarazzo lei e il Bureau. Non si era aspettato niente dai federali, se non un lungo, teso interrogatorio e minacce di incriminazione. E invece ecco qui Frances che lo fissava con un'espressione colma di preoccupata dolcezza. Disse: «Laura dovrebbe arrivare fra breve». «Sta venendo qui?», chiese lui, sorpreso e felice. «Sì, con un jet governativo. Se avesse preso un aereo di linea i reporter l'avrebbero messa in croce. Sei l'uomo del giorno, Will, lo sai?». Harper gemette. Forse Frances gli stava facendo dei complimenti in modo che gli inservienti la sentissero e poi parlassero della sua premurosa gentilezza ai giornalisti, probabilmente già in attesa nelle aree dell'ospeda-
le aperte al pubblico. Lei stava scuotendo la testa con aria mestamente divertita. «Ma devo confessarti che abbiamo tutte e due una gran voglia di prenderti a calci per quello che ci hai fatto passare. E per di più la tua iniziativa non era assolutamente necessaria». «No?», chiese Harper con tono incerto. Faceva molta fatica a parlare. Cosa gli avevano dato? Gli sembrava di avere un'asse da stiro al posto della lingua. «Se tu e Harold ci aveste informato subito della faccenda di Sam Sugar, ci avremmo pensato noi». «Ci avreste creduto?». «Certo. Non avevamo motivo di non farlo. Alcuni dei miei uomini si stavano già muovendo in questa direzione». «Avevano scoperto il caso Sugar?». «Non proprio, ma stavano prendendo in considerazione lo stesso approccio alla faccenda. Sai, le vecchie esplosioni. Alla fine lo avrebbero trovato». Certo, pensò lui. Insieme a un centinaio di altri casi. E il Bureau avrebbe impiegato anni a seguire quella traccia. I portantini stavano uscendo. Se Frances si aspettava che avrebbero passato informazioni ai media, sarebbe rimasta delusa, pensò lui. Sembravano distratti e indifferenti. Lei aspettò che portassero fuori la lettiga sferragliante, poi si sedette accanto al letto, avvicinando il viso al suo. Harper riuscì a vedere le rughe di fatica e ansia farsi largo nella pelle sottile e scura, accanto agli occhi. Era da parecchio tempo che l'agente Wilson non si concedeva una bella nottata di sonno. «Ascolta, Will. Spero che tu riesca a riprenderti. Presto dovrai affrontare decine di giornalisti. È stata una vera odissea arrivare fin qui. Si comportano come se non potessero vederti per colpa mia - come se ti stessi tenendo nascosto». «Frances», rispose lui, «non ho intenzione farti fare una figuraccia davanti ai media». Il suo sorriso colmo di sollievo allentò per la prima volta la morsa dell'ansia. «Sono felice di saperlo». «Tutto quello che voglio, in cambio, sono delle informazioni». Lei smise di sorridere. Si guardò intorno, controllando che fossero soli. «Di che genere?». «Avete trovato traccia dei resti di Markman?».
Frances rispose senza esitazioni, ma abbassando la voce. «No. E i miei esperti dubitano che possiamo trovarne. È stata un'esplosione violentissima che lo ha investito in pieno. Potrebbe averlo disintegrato, ridotto a un ammasso di atomi». Harper, nonostante la testa che gli girava, si puntellò a un gomito per guardarla dritta negli occhi. Scandendo bene le parole, le disse: «Fossi in voi non ci conterei». Lei incrociò il suo sguardo e lo sostenne. «Non ci contiamo. Agenti locali e nostri esperti stanno passando al setaccio la zona. Tutte le forze dell'ordine locali sono in stato di allerta. E, Will, la faccia di quel tizio compare continuamente in TV. Se è riuscito a scappare, dev'essere rimasto ferito. Inoltre era a piedi». Scosse il capo con decisione. «Se per un capriccio del destino è ancora vivo e riesce a muoversi, non andrà sicuramente lontano». «Okay», rispose Harper, lasciandosi cadere di nuovo sui cuscini. Per il momento, non poteva fare altro che sperare che avesse ragione. Indubbiamente la donna non gli stava dicendo tutto quello che sapeva. Ma lui non era altrettanto sicuro che Markman fosse morto, perché sapeva cose che Frances ignorava. Conosceva Tony Markman. 35 Markman sedeva scompostamente su una dura panca di legno nella stazione degli autobus di Wayling, West Virginia. C'erano poche dozzine di persone nella sala d'attesa, alcune delle quali in paziente attesa dell'autobus da Norfolk con cui avrebbero proseguito verso ovest. Lui invece ammazzava il tempo aspettando il primo pullman diretto a est. Portava un parrucchino e occhiali dalla montatura scura con le lenti affumicate. L'unica altra modifica apportata al suo aspetto era stata la rasatura dei peli sopra il naso, in modo da separare nettamente le sopracciglia. Era sicuro di essere irriconoscibile. La fronte alta, le sopracciglia folte e gli occhi quasi incolori erano le sue uniche caratteristiche distintive. Per il resto aveva un viso molto comune e tutt'altro che indimenticabile. Glielo avevano detto fin troppo spesso mentre cercava un ingaggio come comico. Fece un fioco sorriso. Non rischiava certo che qualcuno lo identificasse come il Celebrity Bomber - soprattutto adesso che quest'ultimo era ritenuto morto.
Guardò il giornale di Clarksburg posato sulla panca accanto a lui. Di solito sprecava ben poco tempo o denaro con i prodotti dei mezzi d'informazione. Non sapeva che farsene di quegli spacciatori di sensazionalismo e celebrità e normalmente non avrebbe cambiato opinione solo perché si dava il caso che parlassero di lui. Ma aveva fatto un'eccezione con il quotidiano odierno, vedendo che il titolo annunciava la sua dipartita. Essere morto lo colmava di sollievo. Gli avrebbe reso tutto più facile. Oggi era il nove maggio. Ancora sei giorni. L'agente speciale dell'FBI Frances Wilson aveva impiegato una settimana per stabilire che era rimasto ucciso nell'esplosione del garage. Lui sospettava che una discreta dose di frustrazione burocratica avesse influenzato quella presa di posizione ufficiale. L'FBI lo aveva cercato assiduamente, impiegando centinaia di uomini e spendendo parecchio denaro e, in tutta una settimana, non era riuscita a trovare nemmeno una traccia. I federali erano caduti nella trappola che lui aveva accuratamente preparato. Tutto veniva spiegato nell'articolo del giornale. In un cortile che distava circa quindici metri dal luogo dell'esplosione era stato rinvenuto un pezzo di legno sporco di sangue. La cosa di per sé non era particolarmente significativa: i detriti dovuti allo scoppio erano disseminati in tutto l'isolato e, visto il numero di persone ferite dalle schegge di vetro volanti, nella zona era stato sparso parecchio sangue. Ma laboriosi controlli in tutti i negozi di ferramenta della zona e attente analisi di laboratorio sulla grana del legno avevano accertato che quel pezzo proveniva dal bancone di lavoro di Markman. E l'analisi del DNA aveva dimostrato senza ombra di dubbio che il sangue era il suo. Era tutto vero. Mentre aspettava che Harper tornasse alla carica, aveva staccato un pezzo di legno dal bancone, poi ci aveva spruzzato sopra il sangue che si era prelevato dal braccio con una siringa. Alla fine lo aveva buttato nel cortile di un vicino. Immaginava da tempo che, un giorno o l'altro, gli avrebbe fatto comodo poter fingere di restare ucciso in un'esplosione. Pianificava sempre tutto. E naturalmente i suoi inseguitori ci avevano creduto. Markman gli aveva rivoltato contro la loro stessa scienza. Il DNA era diventato la loro religione e se la prova del DNA dimostrava che Tony Markman era morto allora, per l'FBI, lui era morto. Sbagliato. Era vivo, ma non poteva certo definirsi in piena forma. Le orecchie non avevano ancora smesso di ronzare e soffriva di atroci emicranie. Pesanti macerie - forse un mattone - lo avevano colpito al braccio; il
dolore era stato talmente atroce da fargli temere una frattura, ma ormai era rimasto solo un livido. Aveva portato con sé solo due cose. Una era il pezzo di C-4. Aveva scelto di far saltare il garage con la dinamite perché aveva altri programmi per quell'esplosivo così difficile da trovare. L'altra era un portafoglio con la patente, la tessera della previdenza sociale e la carta di credito intestate a Jim Monninger. Quella di Monninger era una falsa identità, convincente e preparata con cura, che inizialmente aveva pensato di usare per la fuga dopo il quindici maggio. Ma Will Harper lo aveva costretto a cambiare tutti i suoi piani. L'autobus proveniente da Norfolk arrivò alla stazione rombando e stridendo. Alcune delle persone stese sulle panche di legno si alzarono per raggiungere le porte di vetro della zona arrivi e partenze. Nel giro di qualche minuto i passeggeri cominciarono a riversarsi nel terminal, trascinando i bagagli o tirandosi dietro le valigie. L'aria afosa e i gas di scarico entrarono nella stazione con loro, insieme al costante e ritmato tamburellare del motore diesel del pullman fermo. Una donna con l'aria esausta che si trascinava dietro due bambinette cercò faticosamente di raggiungere il marito che si dirigeva a grandi passi verso l'uscita sul parcheggio. L'uomo sembrava arrabbiato e lei continuava a supplicarlo di dirle qual era il problema. Una delle fighe si stava lamentando perché doveva andare in bagno. Sembrava una processione, che proseguì anche fuori dal terminal. All'interno il locale parve improvvisamente silenzioso senza tutto quel vociare. Markman diede un'occhiata al chiosco che vendeva giornali e riviste. Riusciva a vedere solo metà dei titoli messi in bella mostra: "UCCISO NELL'ESPLOSIONE". Quando era giovane e aspirava alla fama, si sentiva quasi male per l'eccitazione vedendo il proprio nome stampato - di solito a caratteri minuscoli, negli annunci pubblicitari degli spettacoli in fondo al giornale. Adesso fu assalito da una gradevole sensazione, una specie di formicolio. Era finalmente famoso. Le sue imprese avevano costretto tutti a raddrizzarsi di scatto sulla sedia e a stare attenti. E si illudevano soltanto di aver assistito all'ultimo atto. Non voleva farlo, ma non riuscì a resistere. Doveva esaminare più da vicino i quotidiani e le riviste d'attualità, magari comprarne uno. Il suo nome compariva sicuramente nei titoli. Nei titoli! Si alzò, lasciando sulla panca la sua valigia rovinata, e si avvicinò al chiosco.
Con studiata disinvoltura fissò la copertina di Newsweek che mostrava il garage distrutto sotto il titolo "FINE DI UN DINAMITARDO". Nell'angolo in alto a sinistra spiccava una foto di Will Harper con l'aria nobile: era l'eroe del giorno. Markman sorrise ma non tese la mano verso la rivista. Prese invece un giornale con la sua foto in prima pagina. La didascalia diceva: "Perito in una violenta esplosione". Fu invaso da una calda ondata di benessere. Poi di qualcos'altro. Disgusto. Per se stesso, per la sua momentanea perdita di autocontrollo. Si era creduto immune all'inebriante fascino della fama. Aveva pensato di essere superiore. E lo era! Lo era davvero! Gettò il quotidiano in un cestino della spazzatura lì vicino, poi si rese conto di non averlo pagato. Il vecchio seduto su uno sgabello accanto al chiosco lo stava fissando. Lui sorrise e si strinse nelle spalle, poi infilò una mano in tasca e posò due quarti di dollaro in cima alla pila di giornali. «Ho perso una scommessa politica», spiegò, le sue parole smorzate dal continuo ronzio che aveva in testa. Il vecchio gli lanciò un'occhiata, poi riprese a leggere il programma delle corse di cavalli che aveva in grembo. Markman ritornò stancamente alla panca di legno e si sedette accanto alla sua ventiquattrore tutta sfregiata. Rabbrividì leggermente. Il ronzio nelle orecchie divenne più forte, più acuto. La vergogna per la temporanea debolezza di poco prima accentuò ulteriormente la sua determinazione a compiere la missione. Sferrare il colpo definitivo al culto della celebrità. Tre giorni dopo, il dodici maggio, Markman si trovava a Wilmington, nel Delaware. Era la sua ultima fermata prima di Washington. Alloggiava in un motel di periferia situato lungo una trafficata autostrada bordata di centri commerciali. Stava comprando attrezzi e materiali per sostituire quelli persi nell'esplosione, prendendosela comoda. Si stava riposando. Stranamente, più si avvicinava alla fatidica data del quindici maggio e più calmo si sentiva. Lo attribuiva alla tranquillizzante consapevolezza che ormai lei aveva solo tre giorni di vita. E solo per altri tre giorni sarebbe stata amata e ammirata. In un colpo solo lui avrebbe messo fine alla sua vita e cancellato la sua fama. Nessuno avrebbe pianto la sua morte. Mentre andava dal parcheggio al supermarket passò davanti a un distri-
butore automatico di quotidiani. Dopo quel momento di debolezza nella stazione degli autobus nel West Virginia era riuscito a evitare giornali e televisione, ma guardando il pannello di plastica trasparente vide qualcosa che lo bloccò. Il profilo della costellazione dell'Aquila, tracciato su una mappa del Nordamerica con linee decise, diritte e rosso sangue. Si sentì nudo e indifeso. Guardò, inebetito, la gente che lo superava per entrare nel negozio. Nessuno lo degnò di una seconda occhiata. Si costrinse ad avvicinarsi ancora di più per esaminare meglio il quotidiano. Il titolo diceva: "UN'INQUIETANTE NUOVA OCCHIATA NEL CERVELLO DEL BOMBER". Sulla mappa, il nome di ognuna delle sue vittime spiccava sopra quello di ogni città in cui aveva colpito. Quindi sapevano che Washington D. C. avrebbe dovuto essere la prossima. Solo che non sapevano chi sarebbe stato il bersaglio: al posto della vittima c'era un punto interrogativo. Una ridda di pensieri gli riempì la mente. Infilò qualche moneta nell'apposita fessura ed estrasse un giornale. Poi ritornò alla sua auto presa a nolo e si sedette a leggere l'articolo. Quando finì si sentiva meglio. Non c'era scritto niente che potesse minacciare la sua missione. Tutte le persone citate nell'articolo erano sicure che lui fosse morto. La pubblicazione di quel pezzo dimostrava semplicemente che le autorità pensavano di non aver più nulla da temere dal Celebrity Bomber. Eppure si innervosì leggendo che sapevano da tempo dello schema dell'aquila. La soffiata arrivava da qualcuno della Casa Bianca, secondo il quale i servizi segreti erano in stato di massima allerta sin dalla morte di Speed Rogers e cominciavano soltanto adesso ad allentare la vigilanza. L'agente speciale Frances Wilson aveva confermato la notizia; senza dirlo esplicitamente, lasciava intendere che era stata l'FBI a scoprire quale fosse lo schema. Il reporter pensava che il merito fosse di Will Harper, ma non era riuscito a contattare quest'ultimo per chiedergli una dichiarazione. L'ultimo paragrafo menzionava un ex funzionario dell'FBI esperto di profili criminali, Harold Addleman, i cui legami con il caso cominciavano a emergere soltanto adesso. Markman piegò il quotidiano e lo infilò sotto il sedile. Si disse che, fintanto che lo credevano morto, tutto ciò non aveva nessuna importanza. Ma quelle novità erano comunque irritanti e decise di controllare più attentamente i mezzi d'informazione, d'ora in poi.
Il semplice fatto d'essere morto non significava che potesse rilassarsi. 36 Quella sera, concluse le commissioni e riposti i pacchetti, Markman si sdraiò sul letto e prese il telecomando. I servizi sullo schema dell'aquila occupavano un posto di rilievo in tutti i notiziari, ma non dissero niente di più di quello che aveva letto sul giornale. Trovò ancora più rassicurante che il tono fosse sempre lo stesso: tutti ritenevano che il bomber fosse morto e il pericolo passato e che non ci fosse niente di male nell'insulso gioco di provare a indovinare chi avrebbe dovuto essere la prossima vittima. Aveva deciso di spegnere la televisione subito dopo la fine dei notiziari, invece continuò a fare zapping passando distrattamente in rassegna i canali via cavo. L'apparizione di un viso familiare lo costrinse a fermarsi. Si trattava di un uomo di mezza età con la pancia prominente e una folta chioma di ricciuti capelli biondi. Markman si sforzò di dare un nome a quel viso. Un altro uomo, smilzo e con le spalle curve, comparve nell'inquadratura. Anche lui aveva un'aria familiare. I due si scambiarono un sorriso radioso e si abbracciarono. Alzò il volume. Una giornalista, con uno studiato fremito di sincerità nella voce, stava spiegando che si trattava della riconciliazione tra Jake Blake, la prima vittima del Celebrity Bomber, e del suo vecchio e futuro amico Sam Sugar, ingiustamente accusato del crimine. Rischiando di soffocarsi, la reporter definì quella riunione «una toccante digressione dalla sanguinosa storia del defunto Tony Markman, un uomo traviato dall'odio e dall'invidia». Piuttosto scosso, Markman si drizzò a sedere sul letto. L'ultima volta che si era concesso di guardare la TV era ancora l'ignoto e temuto Celebrity Bomber. Adesso era soltanto "il defunto Tony Markman". Naturalmente i media lo avrebbero banalizzato. Doveva spegnere subito il televisore. Ma era in preda a una curiosità nauseante e al tempo stesso irresistibile. Non poteva fare a meno di continuare con lo zapping, fermandosi ogni volta che vedeva un viso familiare. I giornalisti si erano dati parecchio da fare. Avevano rintracciato comici con cui si era esibito e che attestavano la sua mancanza di talento. Avevano scovato persone che aveva frequentato da bambino e ormai credeva morte: insegnanti, domestici, parenti che fecero i commenti più impudenti
e irritanti su di lui. Si ritrovò a fare delle smorfie, mormorando risposte sarcastiche. Le dichiarazioni di una cameriera su come la madre lo avesse viziato lo fecero balzare in piedi per inveire contro il teleschermo. Basta. Avrebbe smesso di guardare la TV. Non poteva tollerare una perdita di autocontrollo tanto umiliante. Azzerò il volume e voltò la schiena all'apparecchio per passeggiare avanti e indietro nell'angusto spazio accanto al letto. Era quasi disperato. Gli sembrava di aver perso la battaglia con i media che osannavano le celebrità. Lo avevano fatto sembrare un ragazzino ricco e viziato, un fallito pieno di rancore, deciso ad annientare le splendide persone di talento che avevano ottenuto quello che lui non riusciva a ottenere. Invece di smascherare il culto della celebrità, stava contribuendo ad accentuare la gloria delle persone famose. Sollevò lo sguardo. Stava cominciando il Tonight Show. Aveva sprecato un'intera serata davanti alla televisione. Prese il telecomando per spegnerla. Jay Leno raggiunse il palcoscenico. Stringeva una bomba. Era grossa, rotonda e con la miccia sporgente, come quelle che lanciano i personaggi dei cartoni animati. Markman alzò il volume. Il pubblico stava gridando, divertito. Leno passò l'oggetto al leader della sua band e iniziò il suo monologo. Ogni volta che una battuta non funzionava lui andava a prendere la bomba e minacciava di scagliarla contro il pubblico. Gli spettatori stavano ridendo fragorosamente quando Markman cambiò canale - passando al talk show di David Letterman, che stava elencando Dieci Buoni Motivi Per Non Far Arrabbiare Tony Markman. Spense la TV. Si lasciò cadere sul letto e nascose il viso tra le braccia. Questa era la cosa peggiore che potesse capitare. Era diventato lo zimbello di tutto il paese. Perché, tra tutti i programmi possibili, aveva permesso a se stesso di guardare proprio il Tonight Show? Non l'aveva fatto per quasi vent'anni. Lo spettacolo gli riportava alla mente ricordi che di solito cercava di evitare. Gli stessi che, invece, si impadronirono di lui dopo che ebbe spento il televisore. Era di nuovo un ragazzo, seduto sul divano con la madre a guardare Johnny Carson. Suo padre, dopo essersi lagnato come al solito che per Tony fosse passata da un pezzo l'ora di andare a letto, era salito in camera. Erano rimasti solo loro due, a ridere delle battute di Johnny. Sua madre gli stava sussurrando che un giorno anche lui sarebbe diventato un comico famoso. Il mondo intero lo avrebbe amato proprio come lo amava lei.
Markman aprì gli occhi. Teneva il telecomando nella mano stretta a pugno. Portò il braccio dietro la testa per scagliarlo contro lo schermo. Ma all'ultimo momento riuscì a riacquistare il controllo di sé. Era da parecchio tempo che non si lasciava turbare da quei ricordi. Respingendoli in un angolino del suo cervello, abbassò il braccio e lasciò cadere sul letto il telecomando. Non era il momento adatto per l'autoindulgenza emotiva, bensì per ragionamenti freddi e lucidi. Era un ingegnere come suo padre e avrebbe riesaminato il piano come se si fosse trattato di una macchina difettosa. Avrebbe trovato il modo di aggiustarla. Il problema, decise, era che avevano scoperto la sua identità prima che potesse completare lo schema con il colpo finale. Gli altri attentati erano solo preparatori. Era il colpo finale a dover scrivere il suo messaggio al mondo in una forma che nessuno avrebbe potuto banalizzare o ignorare. Avrebbe dimostrato alla gente che le celebrità su cui riversava tanta adorazione non si interessavano affatto a lei. Avrebbero visto tutti cosa si nascondeva sotto il loro fascino illusorio e non si sarebbero più lasciati sedurre e sfruttare. Se le autorità non fossero risalite fino a lui prima del completamento dello schema, la gente lo avrebbe guardato con timore reverenziale, come qualcuno che le aveva impartito una lezione sgradevole ma necessaria. Sarebbe andato tutto secondo i piani - se non fosse stato per Harper. Markman strinse le mani a pugno. Le unghie affondarono nella carne. Avrebbe potuto ucciderlo a St. Louis - e rimpiangeva di non averlo fatto. Si abbandonò alla rabbia, ma solo per un attimo. Era un'altra emozione che non poteva permettersi. Riacquistò l'autocontrollo. Si sedette, rilassò le mani e se le posò sulle cosce, in modo che il sudore venisse assorbito dal tessuto dei pantaloni. Respirò a fondo, e con ritmo regolare, fino a calmarsi. L'intera serata era stata solo una perdita di tempo, decise. Succedeva sempre così quando si lasciava sopraffare dalle emozioni. Che importanza aveva se adesso la gente stava ridendo di Tony Markman? Le risate sarebbero cessate il quindici maggio. Il suo piano era ancora valido. Lo schema sarebbe stato completato. E lei sarebbe morta. E non aveva nemmeno motivo di arrabbiarsi con Harper. Lo aveva risparmiato per poterlo usare - e lui si era rivelato davvero prezioso. Il piano aveva funzionato. Ma non poteva essere sicuro che l'uomo si fosse lasciato ingannare dal
suo trucchetto. Tra le figure di spicco nel caso, Harper si faceva notare per il suo silenzio. Parecchi notiziari avevano annunciato che il giorno dopo lui e l'altro tizio, Harold Addleman, si sarebbero recati a Washington in qualità di consulenti dell'FBI. Arrivò alla conclusione che Harper rappresentava l'unica potenziale minaccia al suo piano. Non avrebbe dovuto lasciarsi distrarre dai servizi dei mass media. Avrebbe dovuto pensare a lui. Andò a sedersi alla piccola scrivania accanto al muro. Per qualche ora rimase immobile, lo sguardo assente, proprio come faceva un tempo accanto al suo bancone da lavoro in garage. Soppesando le varie possibilità. Elaborando piani. Gli vennero in mente parecchi possibili modi di usare Harper. Alcuni piani ne richiedevano l'eliminazione, ma Markman non lo odiava. Anzi, provava una certa ammirazione per quell'uomo che, sotto certi aspetti, non era molto diverso da lui. Non voleva vendicarsi su Harper per l'umiliazione a cui i media lo avevano appena sottoposto. No, l'ex sbirro era solo uno strumento. Se moriva, sarebbe morto per un valido motivo. Niente di personale. Sorrise. Sperava che Will Harper apprezzasse la sottile distinzione, ma probabilmente non ne avrebbe avuto il tempo. 37 Il jet atterrò all'aeroporto Dulles di Washington alle otto e dieci del mattino. Sia Harper sia Addleman avevano solo il bagaglio a mano, quindi si diressero subito verso i banconi per il noleggio auto. Svoltando nel lungo atrio affollato, videro avvicinarsi una folla di giornalisti. Nessuno dei due rimase sorpreso. Erano quasi tutti della carta stampata, ma Harper notò almeno due uomini con sulla spalla una minitelecamera con il logo di un notiziario televisivo. «Cosa direte all'FBI durante il vostro meeting odierno?», chiese la donna in testa al gruppo, brandendo il microfono come fosse una pistola. Addleman fissò Harper. «Mi dispiace, no comment», rispose quest'ultimo, spostando sull'altra spalla la cinghietta della sacca per abiti. «Chi ha davvero scoperto lo schema dell'aquila? È stato lei, signor Addleman, giusto?», chiese un uomo. La lente della Minicam sulla sua spalla
destra lo fissava come l'enorme, attento occhio di un insetto gigante. «Io... non posso dirvelo». Addleman stava sbattendo rapidamente le palpebre, guardando fisso davanti a sé, cercando di continuare a muoversi. La folla di reporter aveva attirato dei curiosi, che fissavano, puntavano il dito e si chiedevano a vicenda di quale personaggio famoso si trattasse. A Harper succedeva ogni volta che appariva in pubblico. Aveva imparato a leggere il suo nome sulle labbra. «Avete qualche commento da fare su come l'FBI si è occupata del caso?», chiese la donna con il microfono senza fili. «No», sbottò Harper. «Oh, avanti, Will, devi pur darmi qualcosa», rispose lei, come se si conoscessero da anni. In realtà lui non l'aveva mai vista. Un altro reporter, aprendosi un varco a forza di gomitate, gli si parò davanti. «È d'accordo sulla conclusione dell'FBI che Markman sia morto?». «Andiamocene da qui», sussurrò lui all'amico. Per costringerli a rallentare un giornalista mise la punta del suo mocassino davanti a una delle rotelle della valigia di Addleman. «Accelera», disse Harper ad Addleman. «Ci assaliranno al bancone del noleggio auto», rispose lui, fissando incredulo la ressa di giornalisti e curiosi. «Lascia perdere la macchina», dichiarò Harper accelerando e costringendolo a fare altrettanto per non restare indietro. «Possiamo noleggiarne una in albergo. Prendiamo un taxi». Si aprirono un varco tra la folla assiepata intorno ai nastri girevoli poi corsero fuori dal terminal, fino al parcheggio dei taxi, uno dei quali si era appena fermato per far scendere qualcuno, una trentina di metri più indietro del primo della fila. Harper e Addleman lo raggiunsero proprio mentre la tassista chiudeva il bagagliaio. «Mi spiace, ragazzi», disse lei. «Devo mettermi in coda dietro agli altri». Harper pescò il portafoglio ed estrasse un biglietto da venti. «Non stavolta, d'accordo?». La tassista, una donna anziana e rugosa, con lo sguardo duro e ricciuti capelli biondi, guardò la ressa di giornalisti alle loro spalle. Riaprì il baule. «Possiamo fare un'eccezione. È tutta la vita che ne faccio». I due gettarono dentro le valige, poi salirono in fretta sull'auto. La tassista li aveva preceduti. Harper sentì le portiere chiudersi automaticamente. Appena in tempo: un reporter esagitato con occhiali a mezza lente e la barba rossa cercò di aprirne una. Apparentemente si fece male alla mano, per-
ché indietreggiò e rimase fermo a stringersela, con la schiena curva e una smorfia sul viso. Qualcuno bussò vigorosamente sul finestrino di Harper con un microfono, a pochi centimetri dal suo orecchio, mentre la macchina si staccava dal marciapiede. «Bastardi ostinati, vero?», commentò l'autista, guardando per un attimo lo specchietto retrovisore. «È il loro lavoro», rispose Addleman. «Ma vorrei tanto che lo facessero da qualche altra parte». Harper sorrise mentre l'altro prendeva un fazzoletto e si tamponava il viso arrossato e sudato. Come sempre, era stata una vera e propria impresa allontanare l'esperto di profili criminali dal suo eremo nella parte meridionale di Philadelphia. Anche se lui e Harper erano stati invitati personalmente dal direttore dell'FBI come consulenti sul caso del bomber, Addleman mostrava la consueta riluttanza a visitare il J. Edgar Hoover Building. Adesso che si erano liberati dei mass media, Harper si appoggiò al morbido schienale del sedile. Era molto più facile rilassarsi su un taxi quando avevi un conto spese. «Cosa mi dici del giornalista che ha chiesto se Markman è davvero morto?», volle sapere Addleman. «È una domanda che non mi facevano da un po'. Sembra che quel tizio abbia dei dubbi». Harper annuì. «È uno dei pochi». Si scambiarono un'occhiata, senza parlare. Harper diede all'autista l'indirizzo dell'albergo in cui l'FBI gli aveva prenotato una stanza. L'Omnium era un hotel nuovo, con un atrio affollato, funzionale e privo di fascino come quello dell'aeroporto che avevano appena lasciato. Si registrarono e Addleman salì nella loro suite mentre Harper chiedeva all'impiegato dove potevano noleggiare un'auto. Sorridendo, l'uomo gli rispose che non era necessario: una limousine ufficiale sarebbe arrivata alle dieci in punto per portarli all'Hoover Building. Lui lo ringraziò e si voltò. Un campanello d'allarme avrebbe cominciato a suonargli in testa se avesse avuto l'incarico di proteggere una celebrità. Avrebbe subito chiesto quante persone erano a conoscenza del programma e da quanto tempo. Ma non stava proteggendo una celebrità. Era lui la celebrità. Non ci si era ancora abituato. Anzi, si chiedeva come fosse possibile abituarcisi. Sembrava che la gente sapesse così tante cose di lui. Voleva fare qualcosa per lui. E, naturalmente, voleva che lui facesse qualcosa per lei.
Qualche giorno prima Laura era stata intervistata in TV. Aveva risposto a domande sui loro progetti per ristrutturare la vecchia casa di arenaria, venderla e poi andare in pensione godendosi il ricavato. L'intervista provocò una sfilza di telefonate di produttori televisivi. Volevano sapere come Harper fosse riuscito a effettuare le riparazioni e filmarlo mentre avvitava viti e piantava chiodi. Il suo rifiuto non riuscì certo a fermare la follia generale. Trapani e altri apparecchi omaggio cominciarono ad arrivare per posta. Un avvocato telefonò dicendo che il suo cliente voleva comprare la loro casa, a restauro ultimato, per mezzo milione di dollari. Dieci minuti dopo un altro legale si offrì di acquistarla subito per tre quarti di milione. Ultimamente il telefono squillava di continuo. Gli istituti di vigilanza gli offrivano un lavoro. Enti benefici che tutelavano disabili e poliziotti in pensione gli proponevano di entrare nel loro comitato direttivo. Giornalisti della stampa e produttori TV gli richiedevano interminabili interviste. Agenti letterari ed editori gli consigliavano di scrivere un libro sulla vicenda. Chirurghi plastici volevano tentare nuove vie di intervento sulla sua mano. Alla sera lui e Laura staccavano il telefono e andavano a letto ricordandosi vicendevolmente che il forte vento che gli rombava nelle orecchie e sconvolgeva le loro vite alla fine si sarebbe placato. Ma finora nessun segnale indicava che stesse per succedere. Si stava dirigendo verso gli ascensori quando si sentì chiamare. Si voltò e rimase paralizzato dallo stupore. L'uomo che stava attraversando l'atrio a grandi passi era il capitano Brand, il suo ex superiore nella squadra artificieri. L'individuo che, con losche manovre, era riuscito a fargli perdere il lavoro e poi a implicarlo nelle indagini degli affari interni. Adesso gli si stava avvicinando, sorridente e con la mano protesa. Indossava l'uniforme di gala della polizia di New York. Si sforzavano di tenere il passo con lui una giovane donna che reggeva un ingombrante scatolone e un uomo con un paio di macchine fotografiche a tracolla. Magnifico!, pensò Harper. Degli altri giornalisti. «Will, che piacere vederti!», esclamò Brand con il tono cordiale che lui ricordava fin troppo bene. «Salve, capitano», rispose. Superato lo sbalordimento iniziale, era curioso di vedere se a Brand avrebbe dato fastidio stringergli la mano. Non gli diede fastidio. «Ti prego, Will, chiamami Nathan». Il capitano continuò a guardarlo con un sorriso radioso, che lui ricambiò. Non riuscì a farne a meno: era genuinamente divertito. Brand adorava ap-
parire sui giornali e da questo punto di vista era uno dei membri più zelanti ed energici del dipartimento. E adesso eccolo qui a corteggiarlo. Era una specie di riconoscimento. «Senta, capitano, non ho molto tempo». Harper non poté negare che era un vero piacere potergli dire questa frase dopo tutte le volte in cui Brand l'aveva detta a lui. «Certo, Will, capisco. Più tardi avremo tutto il tempo di abbandonarci ai ricordi. Adesso occupiamoci solo del regalo». «Regalo?», ripeté lui, stupefatto. Brand si girò verso la giovane donna, alta, bellissima, con i capelli rossi e la minigonna; aveva una spiccata predilezione per le assistenti affascinanti. Lei rivolse un sorriso abbagliante a Harper mentre passava lo scatolone a Brand. Il fotografo si mise in posizione davanti a loro. Le persone presenti nell'atrio si fermarono a guardare. In occasioni simili il capitano Brand riusciva sempre a dominare la scena, Harper doveva ammetterlo. «Will», disse, «gli uomini e le donne della squadra mi hanno incaricato di darti questa. Speriamo tutti che non ne avrai mai bisogno ma, in caso contrario, vogliamo che tu abbia la migliore». Aprì lo scatolone. Dentro c'era una tuta protettiva da artificiere. La tenne sollevata a beneficio della macchina fotografica poi, dopo il lampo del flash, passò lo scatolone a Harper. Lui rimase sorpreso sentendo com'era leggero. La tuta era un nuovo modello, diversa da quella che aveva sempre usato in servizio. Era marrone e sulla manica spiccava la sigla del dipartimento, NYPD. «È l'ultimo ritrovato in fatto di tecnologia», spiegò orgogliosamente Brand. «Più protezione e meno peso. Puoi indossarla e muoverti con l'agilità di un gatto nonostante l'ingombro. È dotata di fori per lasciar passare l'aria e non farti sudare come un maiale e la visiera infrangibile è fatta di un materiale speciale che non si appanna né si scurisce». «Impressionante», rispose Harper, fissandola. «Quando i federali ti lasciano andare, la squadra vorrebbe chiederti di tornare a Rodman's Neck», dichiarò Brand. «Saremmo davvero onorati se accettassi di insegnare nella scuola di addestramento». «Anche se sono oggetto di un'indagine degli affari interni?». Brand si strinse nelle spalle. «Si dà il caso che io sappia che non approderà a nulla. Inoltre i veri poliziotti ti considereranno ancora più eroico, adesso che quei bastardi degli affari interni hanno indagato su di te».
Adesso Harper non aveva il tempo di rifletterci sopra, ma sapeva a quale conclusione sarebbe arrivato facendolo. Brand ovviamente si stava preoccupando solo dei propri interessi, ma lui voleva tornare a insegnare alla squadra. «Ci sarò», disse. Il capitano gli ghermì di nuovo la mano e si voltò per sorridere alla macchina fotografica. Harper sapeva che era da ingenui credere alle sue parole, ma sperava che fossero stati davvero gli uomini e le donne della squadra a mandargli la tuta protettiva. Qualche mese prima Brand gli aveva spiegato che non volevano avere niente a che fare con lui perché era iellato. La notizia lo aveva profondamente ferito. Sotto sotto, aveva creduto di essere ancora uno di loro. Un'ultima stretta di mano e un'ultima foto, poi Brand lo lasciò andare. Infilandosi lo scatolone sotto il braccio, Harper si diresse verso gli ascensori. Doveva sbrigarsi a indossare l'abito scuro se voleva essere pronto quando arrivava la limousine che li avrebbe accompagnati al quartier generale dell'FBI. Non che un suo eventuale ritardo potesse avere molta importanza. Aveva notato che, ultimamente, gli altri davano per scontato che non fosse puntuale. Sapevano com'era indaffarato. Erano disposti ad aspettare. Soprattutto Frances. Adesso che lui e Addleman erano diventati i beniamini dei mass media, Wilson e l'FBI gli stavano facendo la corte non meno assiduamente del capitano Brand. Insomma, erano stati completamente riabilitati. Avevano trionfato. Se aveva dei dubbi al riguardo Harper non doveva fare altro che guardare la televisione. Mentre l'ascensore saliva, non riuscì a resistere alla tentazione di aprire lo scatolone per riguardare la tuta protettiva. Accarezzò la scritta "NYPD". Si divertì a pregustare il suo ritorno nella squadra artificieri. Ripensò ai volti familiari che non vedeva da tempo. Immaginò lo sguardo ammirato delle nuove reclute. A St. Louis, durante quello strano e breve incontro che non riusciva a togliersi dalla testa, Anthony Markman gli aveva detto che il lieto fine era una prerogativa dei film, che nella vita reale non esisteva niente del genere. Ma adesso sembrava che le vecchie ingiustizie stessero per essere raddrizzate, le antiche lagnanze dimenticate, e che la sua carriera nel dipartimento avrebbe avuto un lieto fine. Chissà cosa avrebbe detto Markman? Chiuse lo scatolone e si raddrizzò. La sua immagine riflessa nella parete a specchio dell'ascensore aveva un'aria cupa. Sapeva esattamente cosa a-
vrebbe detto il bomber. Che non era ancora finita. 38 All'inizio, Harper pensò che li avrebbero accompagnati nell'ufficio di Frances; invece entrarono in una sala conferenze affacciata sulla Pennsylvania Avenue. In lontananza si vedeva il Washington Monument, la cui cupola bianca risultava più nitida che non durante la loro prima visita, quando il cielo era coperto. La stanza era ampia, con un grande tavolo esagonale di quercia, con la parte centrale d'ardesia intarsiata, attorno al quale stavano seggiole marroni con lo schienale rivestito di pelle. Nell'aria aleggiava il profumo leggermente acre di un deodorante per ambienti. Come nell'ufficio di Frances, sulle pareti spiccavano ritratti del presidente, del ministro della giustizia e del direttore dell'FBI. Niente foto di J. Edgar Hoover nemmeno qui. Il Bureau cercava perennemente di far dimenticare qualcosa. Non era male come organizzazione, ma aveva troppe Frances Wilson nei suoi ranghi. «Posso offrirvi un caffè o qualcos'altro?», chiese l'agente che li aveva scortati fin lì. Era un giovanotto con l'aria pulita e i capelli tagliati così corti che si intravedeva la cute. Il nodo della sua cravatta era grande come un fagiolo. Harper e Addleman rifiutarono. Lui attraversò silenziosamente la stanza dalla morbida moquette e uscì, lasciandoli soli. Non dovettero aspettare a lungo. Frances entrò improvvisamente, esibendo un largo sorriso. Portava un tailleur grigio chiaro, con una giacca piuttosto lunga e una gonna piuttosto corta, e stringeva in mano una ventiquattrore di pelle. La seguiva un uomo basso, snello e dai capelli grigi. Harper, che notava sempre le mani delle persone, vide che le sue erano curatissime e delicate come quelle di una donna. «Vi presento l'agente speciale Ralph Dexter del settore supporto investigativo», disse Frances. «Accomodatevi, prego», continuò lei. Scostando dal tavolo una delle seggiole, si sedette mettendo in mostra gran parte della gamba. Dexter aspettò che gli altri prendessero posto, poi scelse una sedia con cura, come se dovesse completare uno schema simmetrico. Non sembrava molto a suo agio.
«Ho chiesto all'agente Dexter di partecipare alla riunione perché mi sostituirà nelle indagini sul caso Markman», spiegò Frances. Addleman inarcò le sopracciglia. «Stai per passare ad altro, Frances?». «Ci sono altri casi urgenti, sì». «Abbiamo organizzato questo meeting per chiedervi qualche consiglio», disse Dexter. «Ci sono dettagli da chiarire e domande che necessitano di una risposta. Anche se non abbiamo un processo da preparare, i mass media ci stanno sottoponendo a una notevole pressione, quindi vogliamo concludere le indagini il prima possibile. Secondo voi dovremmo preoccuparci di esplosivi che il bomber potrebbe aver nascosto?». Addleman guardò Harper, che rispose: «Non credo che ne abbia nascosti, ma temo che ne abbia portato qualcuno con sé». Dexter lo fissò strizzando gli occhi. «Non... quando...». «Quando è fuggito dal garage», disse Addleman. Sospirando, l'agente federale si voltò verso la collega. «Bene, eccoci qua», mormorò. «È l'ora dei tabloid da supermarket». Evidentemente era fatto della stessa pasta di Frances. «Ai media non ne abbiamo parlato», protestò Addleman. Stava scartando una delle caramelle che masticava quando non poteva fumare. Se la mise in bocca e le diede un morso. «Ma secondo noi dovreste basare le indagini sul presupposto che il bomber sia ancora là fuori - almeno finché non si trovano prove più conclusive della sua morte». L'altro stava scuotendo il capo con aria disgustata. Fece per parlare, ma Frances alzò una mano. «Prima di tutto lasciatemi dire che vi siamo davvero grati per essere venuti da noi invece di contattare i media. Prenderemo in debita considerazione le vostre opinioni». Sorrise con quella che sembrava sincera gratitudine. Harper pensò che aveva più capelli grigi di quando si erano incontrati lì nell'edificio solo poche settimane prima e che le sue palpebre sembravano più pesanti. La mancanza di sonno, la pressione e la frustrazione possono davvero logorarti. Il caso Markman non si era dimostrato clemente con lei. Dexter disse: «Il pezzo di bancone di lavoro insanguinato non vi sembra una prova abbastanza convincente? Il DNA combacia con quello di Markman. Abbiamo prelevato diversi campioni organici da casa sua: peli dal letto, fazzoletti di carta usati, colluttorio, un rasoio. Pensate che i nostri ragazzi del laboratorio si siano sbagliati?». «No. Il DNA è sicuramente il suo», rispose Harper. «Scommetto che si è tagliato di proposito, poi ha imbrattato di sangue quel pezzo di legno e lo
ha lasciato in bella vista». «Una cosa del genere richiederebbe un ragionamento piuttosto tortuoso, soprattutto se estemporaneo», commentò Dexter. «Markman ha fatto accurati preparativi», ribatté Harper. «Ha elaborato un piano elastico, adattabile. Non fa mai niente di estemporaneo». «Se ha avuto tempo per tutte queste cose, come mai non si è limitato a fuggire?». «Ha capito come sarebbe stato vantaggioso fingersi morto. Ora può sfruttare l'elemento sorpresa. Dispone nuovamente della libertà d'azione di cui godeva quando nessuno sapeva niente di lui», dichiarò Addleman. Frances fissò Harper: «Lo credi davvero possibile, Will?». «Certo che è possibile. E ha funzionato. Voi due siete convinti che Markman sia morto». «Come sono sicuro che anche Elvis lo sia», disse Dexter. Lei alzò di nuovo la mano per interromperlo. «Come avrebbe fatto a uscire di nascosto dal garage?». «C'era un'altra porta sul retro, come il suo vicino di casa ha spiegato alla polizia». «Ma se si fosse trovato lì vicino, all'aperto, cercando di scappare, l'esplosione lo avrebbe sicuramente ucciso». «È perfettamente in grado di incanalarne la forza d'urto. Ricordate l'omicidio di Buckner? Ha fatto crollare quella portineria nel modo voluto, proprio come stavolta». Dexter non riuscì a trattenersi oltre. «Lo ha visto correre nel garage, che subito dopo è esploso. Come può, proprio lei...». «Lo avevo messo in allarme parlandogli», rispose Harper. «Gli ho lasciato tutto il tempo di prepararsi. Quando sono arrivati i poliziotti era pronto ad agire. Mi ha spinto nel canale di scolo, da dove avrei potuto assistere allo spettacolo che stava allestendo». «La comparsa di Harper rappresentava una seria minaccia per lui», spiegò Addleman. «Ma ha trovato il modo di trasformarla in un'ottima opportunità, proprio come un abile giocatore di scacchi. È questo il profilo psicologico di Markman. Conosciamo questo tizio, Frances». In tono annoiato e conclusivo, Dexter chiese: «Allora diteci dov'è andato, secondo voi». «In questo momento non si trova molto lontano da qui», rispose Addleman, guardando il Washington Monument fuori dalla finestra. «Perché mai non ha lasciato il paese, se è un così attento pianificatore?
Perché non si è rifugiato in un posto più sicuro?». «Sicuro?», disse Harper. «Non ha simulato la sua morte per mettersi al riparo ma per poter completare il suo schema. Ha un altro colpo da fare. Il più grosso». Addleman annuì vigorosamente. Il suo viso stava diventando paonazzo per l'eccitazione. «Frances, avanti. Markman è ancora là fuori, più pericoloso che mai. Non puoi chiudere il caso solo perché vuoi passare ad altro». Lei raddrizzò la schiena. Le pesanti palpebre dei suoi occhi scuri si sollevarono e lo fissò in cagnesco, poi si controllò. «Ammetto che questo caso è stato una fonte di notevole imbarazzo per il Bureau. E anche per me, personalmente». «Ecco perché lo vuoi vedere chiuso e dimenticato il prima possibile», rispose lui. Lei riuscì a mantenere la calma, cosa che impressionò Harper. «Dobbiamo tener presenti anche altre considerazioni, Harold, di cui tu e Will avete la fortuna di non dovervi preoccupare». «Considerazioni politiche, presumo». «Certo. Questa è Washington. Quando sono trapelate le voci sullo schema dell'aquila, la gente è rimasta molto scossa e non si è ancora calmata. Se adesso annunciamo che forse il bomber è ancora vivo, un sacco di senatori e membri del Congresso si preoccuperanno seriamente di poter essere il suo prossimo bersaglio. E sono le stesse persone che votano per approvare o meno il nostro budget. Anche dei membri del govèrno - persino il ministro della giustizia - si preoccuperebbero. Non puoi neanche immaginare che genere di pressioni ci attireremmo addosso se esprimessimo solo dei futili dubbi sulla morte di Markman». «Futili dubbi», mormorò Addleman, scuotendo il capo. «Sai quanta gente in questo edificio non ha dormito per lavorare su questo caso, nelle ultime settimane? E lo stesso vale per i servizi segreti. Sono rimasti in stato di massima allerta finché non abbiamo annunciato che Markman era morto. Riesci a immaginare come reagirebbero se tornassimo da loro per dire che non ne siamo sicuri?». L'altro liquidò il problema con un gesto della mano. «Non ha nessuna importanza, Francesi Perché non lasci perdere tutte le stronzate burocratiche e non dai retta al tuo istinto? Sotto sotto sei sicura che sia morto?». Lei lo guardò dritto negli occhi e rispose, in fretta e con voce atona: «Sì, so che è morto». Addleman fece una risata stridula. «Ehi, hai imparato a pronunciare la
frase ufficiale come se ci credessi davvero. Sarebbe più che sufficiente se questa fosse una conferenza stampa, ma non lo è. Qui siamo tutti poliziotti». Guardò Dexter in tralice. «Solo che non so assolutamente nulla di questo tizio». L'agente serrò la mascella. «Be', io invece so qualcosa di lei, vecchio ubriacone. Ho letto il suo fascicolo e...». «Ralph, smettila, ti prego», disse seccamente Frances, e il suo collega si interruppe. Lei gli posò una mano sul braccio e gli sorrise. «Senti, devo chiederti scusa. Ti ho coinvolto troppo presto nella faccenda. Non mi ero resa conto di quanti dettagli dovessimo ancora sistemare con Will e Hal. Se solo volessi lasciarci qualche minuto da soli...». Dexter, con la bocca ridotta a una linea sottile, la salutò con un cenno e uscì. «Lo apprezzo davvero, Ralph, grazie», gli gridò lei. Harper fu costretto ad ammirare i modi decisi ma eleganti con cui aveva bloccato il diverbio sul nascere e si era sbarazzata dell'uomo. Sapeva come gestire un meeting. Se il suo lavoro non avesse richiesto altre doti, sarebbe stata un'ottima investigatrice. «Prima di continuare la discussione vorrei che controllaste questi». Si alzò per prendere due carpettine beige dalla ventiquattrore e le passò ai due uomini. «Cosa sono?», chiese Addleman accigliandosi. «I vostri contratti come consulenti indipendenti. Il compenso è discusso nel paragrafo undici. E tu, Hal, troverai delle modifiche alla tua pensione e alla tua assicurazione sanitaria che dovrebbero interessarti». Harper e Addleman si guardarono senza aprire le carpettine. Frances continuò a parlare con lo stesso tono flautato. «Intanto io chiamo l'ufficio del direttore. Se ha un minuto libero vi porto su». «Una stretta di mano e una foto», disse Addleman. «Qualcosa da mostrare ai nostri nipoti». «Per quando è fissata la conferenza stampa, Frances?», chiese Harper. «Conferenza stampa?». «È questa l'idea, vero? Vuoi che ci uniamo alla squadra per la dichiarazione ufficiale. Markman è morto. Tutti si possono rilassare». «Non è vero», dichiarò Addleman. Rispinse la carpettina verso di lei. Frances smise di sorridere. Si sedette e guardò Harper, poi Addleman. «Hal, già una volta hai lasciato che il tuo comportamento autodistruttivo ti
rovinasse la carriera. Adesso hai una seconda possibilità. Non sprecarla. Il Bureau ti rivuole. Consideriamo davvero preziosi i tuoi consigli». «Non è vero», rispose stancamente lui. «Tu non sei il Bureau, Frances. Ti preoccupi solo dì te stessa. Stai sfruttando l'FBI per i tuoi scopi». Lei si voltò verso Harper, che si strinse nelle spalle e distolse lo sguardo. «Okay, perfetto. Se è questo che vuoi...». Adesso il tono della donna era gelido. «Quello che farete adesso - e intendo dire subito - è lasciare Washington. Riferirete ai media che abbiamo fatto una lunga e sincera chiacchierata. Non accennerete nemmeno alla vostra teoria che Markman sia ancora vivo». «Altrimenti cosa farai?», la schernì Addleman. «Sappiamo che sei capace di corrompere, adesso vediamo come te la cavi con le minacce». «Chiudi il becco, Hal. Ne ho abbastanza delle tue stronzate, per oggi». Il suo sguardo si spostò di nuovo dal suo viso a quello di Harper. «Siete così presuntuosi. Vi piace essere gli eroi dei mass media, vero? Allora vi conviene capire che l'unico motivo per cui lo siete diventati è che il Bureau ha lasciato che succedesse». «Conducendo le indagini con palese incompetenza, vuoi dire?», chiese Harper. Frances continuò a parlare come se non lo avesse sentito. «Vi abbiamo permesso di diventare degli eroi e possiamo benissimo rovesciare la situazione. Voi due siete degli outsider, dei dilettanti. Da tempo il Bureau è in ottimi rapporti con esponenti di spicco dei media. Quando decidiamo di cambiare le carte in tavola, sappiamo come fare». «E in questo caso come avete intenzione di fare?». «Se voi due non vi cucite le labbra, comincerete a vedere servizi televisivi su come l'FBI sia andato molto più vicino a rintracciare Markman a St. Louis di quanto non si sia creduto finora. Avevamo ascoltato i vostri suggerimenti. Avremmo potuto prenderlo vivo. La gente ci crederà: il Bureau ha la fama di saper risolvere i conflitti pacificamente. E invece cos'è successo? Tu ti sei lanciato all'attacco da solo, Markman è saltato in aria, dozzine di persone innocenti sono rimaste ferite e ci sono stati danni materiali per migliaia di dollari. Tutto perché Will Harper adora apparire sui giornali, è un esibizionista e un irresponsabile. Ti piacciono questi appellativi, Harper? Sono quelli che sentirai». «Non vado certo matto per il Bureau», disse Addleman, «ma so che è migliore di come lo descrivi». «In questo caso, io sono il Bureau», rispose Frances. «Posso usarlo nello
stesso modo in cui il Bureau usa me». Incrociando le braccia, si appoggiò allo schienale. Fissò i due uomini, aspettando. Nessuno dei due parlò. Dopo un attimo, lei si ritenne soddisfatta. Prese la ventiquattrore e si alzò. Dalla soglia disse: «Gli addetti alla sicurezza arriveranno tra un minuto per scortarvi fuori. Tornate direttamente a casa e non ci saranno problemi». Voltandosi, scomparve in corridoio. A un tratto la stanza sembrò molto silenziosa. Harper si voltò verso l'amico, che stava guardando i ritratti appesi al muro. «Sai una cosa?», chiese Addleman. «Dovrebbero avere anche una foto di Hoover, dopo tutto». 39 La "scorta" inviata da Frances non era un agente speciale ma un membro in uniforme dell'FBI Police - il corpo di polizia interno del Bureau. L'uomo, serissimo, li accompagnò fuori da una porta laterale. Non c'erano giornalisti o fotografi ad aspettarli. Era come se Frances Wilson avesse voluto dargli una precoce dimostrazione del suo potere. Naturalmente non c'era neanche un'auto ufficiale ad aspettarli. Così Harper e Addleman si incamminarono lungo la Pennsylvania Avenue alla ricerca di un taxi. Anche se era solo il quattordici maggio il clima era estivo, caldo e umido. La stagione turistica sembrava già al culmine. Il traffico era molto intenso. Sul Mall, gli autobus si dirigevano pesantemente verso i musei. Le famiglie si allineavano sui marciapiedi per farsi fotografare con il Washington Monument sullo sfondo. Attorno all'Hoover Building si snodava una lunga coda di persone ansiose di visitare il museo dell'FBI. «Potremmo divulgare la notizia, naturalmente», disse Addleman all'improvviso. «Già». «Basterebbe organizzare una conferenza stampa. I reporter accorrerebbero a frotte. Potremmo addirittura apparire in diretta in TV». «Magari nei notiziari». Un corteo di veicoli - due limousine fiancheggiate da poliziotti in motocicletta - svoltò l'angolo a sirene spiegate e con le luci lampeggianti. I turisti si girarono a osservare il passaggio delle lunghe auto nere con le bandierine che sventolavano sul parafango. Harper notò il sorriso interrogativo sul viso della gente che si stava chiedendo chi fosse seduto dietro i fine-
strini scuri. Un membro del governo? Un dignitario straniero? «I media si butterebbero a capofitto sulla storia, questo è sicuro», dichiarò. «Ma chi può dire se potrebbe scaturirne qualche provvedimento efficace?». Addleman si ficcò le mani in tasca e chinò il capo, meditabondo. Harper aveva temuto che quella specie di eremita si innervosisse ritrovandosi nelle strade affollate, ma il suo amico sembrava troppo preoccupato per accorgersi di quanto gli succedeva intorno. Harper si fermò per cercare un taxi. Non c'era nessuna fretta, dopo tutto: non avevano idea di dove andare o cosa fare. L'acuto riecheggiare delle sirene lo costrinse a girarsi. Le due limousine nere e la scorta di motociclisti svoltarono di nuovo l'angolo. Si chiese se si fossero perse oppure se stessero girando intorno all'isolato perché il VIP era in anticipo per l'appuntamento. Ma naturalmente poteva anche non trattarsi dello stesso corteo di veicoli. In qualsiasi ora del giorno e della notte doveva esserci parecchia gente importante in giro per Washington. Ancora una volta, i pedoni tutt'intorno a loro si voltarono a osservare il passaggio delle auto chiedendosi chi ci fosse all'interno. Anthony Markman avrebbe sicuramente odiato questa scenetta, pensò lui rimettendosi in cammino. Si sarebbe infuriato vedendo il sorriso eccitato con cui queste persone cercavano invano di sbirciare dentro le limousine, dietro i vetri fumé. Amareggiato e ingegnoso com'era, si era assunto il compito di capovolgere la forte attrattiva della fama e della fortuna, di abbassare tutti al suo stesso livello - o ancora più giù. Guardando le espressioni affascinate e gli sguardi curiosi intorno a lui, Harper capì che Markman non aveva fatto alcun progresso. Ma non aveva ancora finito, naturalmente. «Harold, credi che potremmo anticiparlo di nuovo? Prevedere la sua prossima mossa?», chiese. Addleman si stava accendendo una sigaretta. Harper notò che c'erano altri fumatori in giro. Lì, in città, la strada era praticamente l'unico posto in cui fosse consentito fumare. Il suo amico parlò solo dopo aver aspirato la prima boccata. «Sappiamo dove ma non quando né chi». «I suoi attacchi sono andati in crescendo. Questa sarà la bomba più ingegnosa, quella che provocherà il maggior numero di vittime e colpirà la celebrità più famosa». «A Washington c'è un sacco di gente più nota di Speed Rogers», rispose Addleman. «Troppa gente».
«Ma Markman non cercherà di eliminare la persona più famosa del paese?», chiese Harper. «Forse dovremmo comprare il Washington Post per vedere se il presidente ha in programma qualche imminente apparizione in pubblico». Continuò. «Sono sicuro di sì, e con ciò?». Addleman buttò fuori il fumo. «È più probabile che si tratti della First Lady. Naturalmente la mia è solo una supposizione». Harper lo fissò. «Cosa te lo fa credere?». «Considera le altre vittime del bomber. Non ha mai colpito persone che esercitassero un vero e proprio potere. È la fama ad attirarlo. Gli piace distruggere chi può vantare un certo tipo di fascino, una certa capacità di farsi ammirare e invidiare, indipendentemente da quanto potere o ricchezza ha. Forse gente famosa che non merita di essere tale. Non so in che altro modo spiegartelo». Avevano raggiunto un altro angolo. Il semaforo pedonale era rosso e dovettero aspettare che l'intenso traffico di Washington li superasse. Il fumo dei gas di scarico era molto denso. Il sole scaldava la testa di Harper, che si allentò la cravatta e si tolse la giacca. «Ci deve pur essere un modo per sfruttare quello che hai scoperto», disse. Addleman gettò via la sigaretta. Scosse il capo, frustrato. «Lo sto cercando. Praticamente non penso ad altro. Ma è tutto troppo dannatamente vago. Non restringe la gamma delle possibilità». Il semaforo scattò. Attraversarono la strada insieme alla folla di pedoni. «Voglio dirti un'altra cosa inutile», dichiarò Addleman. «Quale?». «Secondo me stavolta potrebbe trattarsi di una questione personale». «Personale?». «Ha cominciato colpendo Blake, un uomo che conosceva e verso cui nutriva del rancore. Penso che con l'ultimo attacco potrebbe chiudere il cerchio». «Vuoi dire che il bersaglio potrebbe essere qualcuno che conosce personalmente?». Addleman proruppe in una secca risata. «Ho passato la notte in bianco leggendo tutto quello che sappiamo su Markman ma non sono riuscito a trovare la prova che abbia conosciuto una persona famosa - o qualcuno che è diventato famoso solo in seguito». Continuarono a camminare. Di fronte a sé Harper vide un alto recinto
metallico e, dietro, degli alberi. Si stavano avvicinando al parco della Casa Bianca. Dopo la sua ultima visita alla città, questo tratto della Pennsylvania Avenue era stato chiuso al traffico per evitare il pericolo di autobombe. Quell'isola pedonale sembrava un posticino gradevole in questa giornata di sole, con venditori ambulanti e artisti di strada che allietavano la ressa di turisti e di impiegati in pausa pranzo. Harper si accorse di un nuovo suono sovrastato dal baccano della folla, un suono che divenne un boato. Guardando verso il parco della Casa Bianca vide un elicottero blu della marina che si sollevava sopra le cime degli alberi. Si alzò ancora un po', poi si inclinò leggermente in avanti e si diresse verso nord, passando sopra le loro teste. Mentre l'ombra del velivolo lo superava, lui si guardò intorno. Gli impiegati avevano smesso di mangiare, i musicisti di suonare. Il giocoliere si stringeva al petto i birilli di legno. Il venditore ambulante più vicino si era immobilizzato con un hot dog in una mano e un mestolo di crauti nell'altra. Lui e il suo cliente stavano guardando l'elicottero. Come tutti, del resto. Harper fu percorso da un brivido mentre immaginava che Markman fosse nei paraggi a osservare la scena. Mentre l'elicottero scompariva in lontananza, si voltò verso Addleman. «Forse dovremmo avvisare i servizi segreti che la First Lady potrebbe essere in pericolo». L'altro si accigliò. «Sarebbe una mossa avventata e probabilmente controproducente. Comunque si tratta di una semplice congettura». «Allora forse dovremmo convocare una conferenza stampa, dire che Markman è ancora vivo». «Anche questo sarebbe avventato, ma capisco il tuo punto di vista». Addleman sorrise amaramente. «Torniamo in albergo a vedere se riusciamo a escogitare una linea di condotta efficace». «E in caso contrario?». Lui si strinse nelle spalle. «Faremo qualcosa di avventato». Harper non riuscì a trovare un'idea migliore, anche se sapeva che iniziative avventate e bombe potevano rappresentare una combinazione letale. 40 La suite dell'Omnium comprendeva due camere da letto con bagno che davano su un ampio salotto. Le finestre si affacciavano sulla Connecticut Avenue e su una fila di negozi chic e di ristoranti in cui solo i lobbisti po-
tevano permettersi di cenare. Sul tavolino di palissandro erano posati fiori freschi e una ciotola di frutta. Il divano di pelle scamosciata marrone era abbastanza ampio perché Addleman potesse sdraiarcisi comodamente e Harper aveva a disposizione tre metri e mezzo di tappeto persiano su cui passeggiare avanti e indietro. Avevano fatto parecchia strada dal loro ultimo incontro nell'appartamento di Addleman, periferia sud di Philadelphia. Solo la frustrazione era la stessa. Non sapevano chi né quando. Sapevano solo che il posto era Washington e questo non bastava. Addleman aveva acceso il computer portatile e il modem, cominciando a visitare i siti web del governo e a scaricare programmi e annunci di apparizioni pubbliche. Esaminandoli, Harper si rese conto che Washington rappresentava un sontuoso e invitante banchetto allestito davanti agli occhi del Celebrity Bomber. Oltre al presidente, il suo vice e le rispettive famiglie, lui poteva scegliere la sua vittima tra senatori, membri del Congresso e giudici della corte suprema. Anche se Addleman aveva ragione e Markman preferiva davvero una persona dotata di fascino a una realmente potente, aveva solo l'imbarazzo della scelta. Una vanitosa corrispondente televisiva, che cercava sempre di eclissare gli avvenimenti di cui riferiva, avrebbe firmato copie del suo libro a Georgetown. Una star del cinema trasformatasi in attivista avrebbe testimoniato davanti al Congresso su un problema ambientale. Un giocatore di basket doveva guidare fino alla Casa Bianca una delegazione di giovani abitanti di un ghetto. C'erano troppe possibilità. A metà pomeriggio, Harper capì di aver bisogno di una pausa. Lasciando Addleman a fumare e borbottare tra sé e sé, raggiunse l'edicola nell'atrio per comprare l'ultima edizione del Washington Post e del New York Times. Mentre tornava verso gli ascensori l'addetto alla reception lo chiamò con un cenno. Visto che lui e l'amico non rispondevano al telefono, c'erano un sacco di messaggi per loro. Tornato nella suite, passò i giornali ad Addleman, poi gettò in un cestello del ghiaccio vuoto i foglietti rosa che si era infilato nelle tasche. Si sedette, posò il cestello sul tavolino davanti a lui ed estrasse un pezzetto di carta a caso. «Ecco un messaggio del settore contabilità del Bureau», disse, «che ci avvisa che non ci pagheranno il conto dell'albergo. E qui ce n'è uno di Frances in persona; dice semplicemente "Tornate a casa"». «Non perdere tempo con quella roba, Will. Aiutami piuttosto con i gior-
nali. Tieni, prendi la pagina della cronaca cittadina». «Un attimo», rispose lui. Addleman soffocò uno sbadiglio. «Senti, se stai aspettando una telefonata di Laura perché non la chiami tu? Non sprecare il tuo tempo ascoltando tutti quei messaggi». «Non è di Laura la telefonata che aspetto», rispose Harper mentre leggeva un altro foglietto e poi lo posava. «Allora di chi?». «Di Markman». Abbassando il giornale, l'altro lo fissò. Poi disse: «Markman non è uno dei tuoi maniaci sessuali omicidi che chiamano reporter e poliziotti, praticamente supplicandoli di arrestarli. No, non si adatta al suo profilo psicologico». «No, siamo d'accordo. Ma a quanto pare pensa di avere una specie di... non so, un rapporto speciale con me. Forse mi ha mandato un messaggio che potrebbe dirci qualcosa di lui». «È solo una perdita di tempo», dichiarò Addleman, tornando al Post. Harper ascoltò la segreteria e scoprì, seccato, che aveva ragione: il bomber non aveva chiamato. I messaggi erano quasi tutti di reporter, con la consueta spruzzatina di imbroglioni e tizi a caccia di pubblicità. Ma ce n'era uno che riascoltò. «Harold, ha chiamato un certo Aaron P. Sherman. Dice di avere delle informazioni che potrebbero interessarci», spiegò. «Un pazzo. Cancellalo». Addleman stava studiando il giornale e non si preoccupò nemmeno di alzare gli occhi. «Ha lasciato il suo numero d'ufficio. Lavora alla Carlson & Wolper. Non è uno di quei grossi studi legali di Washington di cui si legge sempre quelli che assumono gli ex senatori?». «Infatti. Cosa potrebbe mai sapere di utile il dipendente di uno studio del genere?». «Non lo so, ma dubito che sia un mitomane. Lo chiamo». «Accomodati». Una centralinista dalla voce flautata gli rispose che il signor Sherman era occupato, così Harper lasciò il suo numero. Poi prese il Times e cominciò a leggere. Venticinque minuti dopo, Sherman lo richiamò. Dal telefono interno situato nell'atrio dell'albergo. Harper guardò Addleman inarcando le sopracciglia mentre lo invitava a salire. Di qualunque informazione disponesse
l'avvocato, sembrava davvero ansioso di liberarsene. Aaron P. Sherman si rivelò un uomo imponente, proprio come Harper si aspettava. Sulla sessantina, univa ai vantaggi della dignità quelli del vigore. Aveva delle grosse borse sotto gli occhi azzurri, ma questi ultimi erano ancora brillanti e i capelli argentei pettinati all'indietro ancora folti. Sfoggiava una corporatura snella e spalle molto larghe: doveva andare in canoa sul Potomac tutte le mattine oppure il sarto del suo gessato blu scuro aveva fatto davvero un ottimo lavoro. Era strano vedere un tipo del genere con un'aria così nervosa e indecisa. Strinse vigorosamente la mano a tutti e due, ma non riusciva a guardarli negli occhi. Appollaiandosi sul bordo del divano, si mise sulle ginocchia la ventiquattrore di pelle, poi la posò sul pavimento. Sembrava che adesso non sapesse cosa fare con le mani. Disse: «Io... ehm... devo farvi qualche domanda». Addleman sorrise, trovando sempre più interessante il visitatore. Rispose: «Pensavo che fosse l'esatto contrario, che lei avesse delle informazioni per noi». «Infatti, ma non so se sono importanti. Forse non significano nulla. Dovete dirmi... Markman è morto?». Harper e Addleman si scambiarono un'occhiata. Prima che uno di loro potesse rispondere, Sherman ricominciò a parlare. «Non sono sicuro se quella che sto per fare è la cosa giusta», spiegò. «Preferisco non rivolgermi alla polizia. Vedete, in un certo senso si potrebbe dire che io stia violando il segreto professionale. E... e non so davvero se le informazioni in mio possesso siano rilevanti». «Ma non poteva tenerle semplicemente per sé. Neanche questo le sembrava giusto», dichiarò Addleman con un tono tranquillizzante che stupì Harper. Sembrava uno psichiatra che si occupi di nevrotici dei quartieri bene invece di uno psicologo criminale che ha a che fare con assassini psicopatici. Sherman annuì. «Non sono certo notizie recenti, credetemi. È successo tutto molto tempo fa. In un certo senso detesto l'idea di rispolverare la vicenda e soprattutto non voglio parlarne con la polizia, che sicuramente si lascerebbe scappare qualcosa con i media. Vengo pagato per mantenere dei segreti, signori. Se i miei clienti vedessero il mio nome sui giornali e leggessero cosa ho detto...». Si interruppe, deglutendo nervosamente. «Ho seguito le indagini, aspet-
tando che si scoprisse una prova conclusiva della morte di Markman, perché in tal caso non avrebbe alcun senso disseppellire questa vecchia storia. E l'FBI dice che è morto; lo dicono tutti ma lei, signor Harper... non ha fatto dichiarazioni. Quando ho saputo che si trovava qui a Washington...». «Non è ancora fuori dai guai, signor Sherman», rispose Addleman. «Mi spiace». «Markman è vivo», dichiarò Harper. «Probabilmente in questo momento si trova qui in città e sta preparando il prossimo attentato». Sherman abbassò lo sguardo e fece un profondo sospiro. Ma non sarebbe stato un bravo avvocato di Washington se non avesse saputo come affrontare le brutte notizie. Così, un attimo dopo, cominciò a raccontare la sua storia. «Trent'anni fa ero socio della Wyland Nave, il miglior studio legale di St. Louis. La Markman Manufacturing era uno dei nostri migliori clienti. E... be', per farla breve, ho finito per occuparmi del divorzio di Lucas Markman, il padre di Anthony». «Davvero?», chiese Harper, molto interessato. Ricordò che gliene aveva già parlato Hayden, a St. Louis. «Sì. Lo studio si occupava di diritto aziendale. Di regola non trattavamo in divorzi, ma i Markman erano nostri clienti da anni, quindi...». Si strinse nelle spalle. Sembrava che si fosse arenato, così Harper lo sollecitò. «Non è stata una separazione amichevole, per quanto ne so». «Infatti. Nel corso della carriera mi sono occupato di questioni assai più importanti, di casi da miliardi di dollari, ma non ne ricordo nessuno con altrettanta chiarezza». Strizzò gli occhi e serrò le labbra. Harper temeva un'altra lunga pausa, ma dopo un attimo Sherman continuò. «La moglie, Joanna, era molto più giovane di Lucas Markman e proveniva da... be', da un ambiente sociale molto diverso. Ma era bellissima e lui ne era infatuato. È andata più o meno come potete immaginare. All'epoca del divorzio ormai si odiavano. Lei era decisa a fargliela pagare - letteralmente. Voleva la casa e una grossa fetta del patrimonio di famiglia, inclusa una parte del pacchetto azionario della ditta. Erano richieste assurde, ma credo che Lucas le avrebbe accettate se lei non avesse preteso la custodia di Tony, che all'epoca aveva dodici anni. Si interruppe, abbassò lo sguardo e poi ricominciò a parlare. La cosa diventava sempre più difficile per lui. «L'avvocato di Joanna era avido e senza scrupoli e mi era impossibile trattare con lui. Ecco perché sono stato
costretto a ricorrere a... ecco perché ho fatto quello che ho fatto». «Ha minacciato di accusarla di aver abusato sessualmente del figlio», disse Addleman. Harper lo guardò, sorpreso. Sherman abbassò di nuovo lo sguardo. Da quando era arrivato avevano potuto ammirare i suoi capelli argentei tanto quanto il suo viso. Con un lungo sospiro rispose: «Sì. E non era una minaccia a vuoto né una che avrei fatto a cuor leggero. Lucas era quasi sicuro di quanto stava succedendo. Non scorderò mai il giorno in cui me l'ha detto, la sua amarezza e la sua vergogna. Rimpiango solo di non essermi dimostrato più comprensivo. Ho trovato la cosa scioccante, mostruosa. Non dimenticate che è successo trent'anni fa. L'incesto era ancora il più oscuro e il meglio celato dei segreti». «E la minaccia ha funzionato», disse Harper. «Oh, sì. Lei ha rinunciato a ogni pretesa su Tony - a dire il vero non l'ha più rivisto né gli ha più parlato. L'abbiamo pagata e ha lasciato la città. Pochi anni dopo è rimasta uccisa in un incidente stradale». Si alzò di scatto. Loro lo guardarono. «Questo è l'unico caso della mia carriera di cui non vado fiero», dichiarò. «Se l'informazione non è importante confido che non la renderete di dominio pubblico». «È importante», ribatté Harper. Addleman lo guardò. Ma sembrava che Sherman non lo avesse sentito. Raccolse la sottile ventiquattrore di pelle e uscì il più rapidamente possibile. Era come se pensasse di essersi sbarazzato di questo sgradevole ricordo una volta per tutte. Adesso era ansioso di tornare nel suo lussuoso ufficio legale e alle sue relativamente igieniche cause da miliardi di dollari. Non appena la porta si chiuse dietro di lui, Harper annunciò: «Ci serve una foto di Joanna Markman». Addleman non gli chiese perché. Prese la cartelletta marrone piena di tabulati e ritagli di giornale posata sul tavolino e cominciò a sfogliarne il contenuto. «Sapevi già degli abusi sessuali», dichiarò Harper. L'altro rispose senza alzare gli occhi. «No, ma con questo tipo di disordine della personalità ti aspetti sempre un possibile complesso edipico». «Non me l'hai mai detto». «Di solito non dimostri molta pazienza con le congetture psicologiche non sorrette da prove. Ecco». Gli passò una pagina ritagliata dal Time della settimana precedente. Sotto il titolo "UN'INFANZIA PRIVILEGIATA" c'erano diverse vecchie foto
di Markman. In una aveva solo pochi mesi ed era in braccio alla madre. La donna era bellissima, proprio come aveva detto Sherman, molto snella e sorrideva con aria di sfida. Sfoggiava il corpo sodo e flessuoso di una ballerina. «Sì», disse Harper. «Hai già visto questa foto?». «No, ne ho vista un'altra. In casa di Markman. Incorniciata e posata sul televisore». «Probabilmente ha delle sue foto dappertutto», disse Addleman. «Probabilmente ha rimosso l'idea dell'incesto. Verso la madre prova sentimenti forti e contrastanti. Rabbia. Senso di colpa. La sensazione di essere stato tradito, che non capisce, e quella di aver perso qualcosa di prezioso». Harper aveva cominciato a passeggiare avanti e indietro, ripensando a quello strano incontro con il killer nel suo soggiorno. «Continuava a parlare di come le celebrità seducono la gente, di come conquistano la fiducia delle persone e poi le usano». «In realtà sta pensando a sua madre, naturalmente. Perché non mi hai parlato prima della foto, Will?». «Credo di essermene dimenticato. Non la ritenevo importante. Non era il genere di foto della madre che di solito un ragazzo conserva». «Aveva qualcosa di sensuale?». «Credo di sì, in un certo senso. All'inizio ho pensato che potesse trattarsi di una fidanzata. Nella foto lei era giovane, sulla trentina. Era seduta a un tavolino da trucco e indossava della lingerie, qualcosa di serico, bianco e leggermente scollato». «Lingerie? Bionda, con un fisico da ballerina?». Negli occhi di Addleman comparve uno strano sguardo, molto attento. Poi lui si alzò per prendere il Washington Post che aveva esaminato prima dell'arrivo di Sherman. «Cosa c'è?», chiese Harper. Ma l'uomo non gli badò. Sfogliò rapidamente le pagine fino a trovare quella desiderata. Piegando il giornale, glielo mise sotto il naso. Lui riconobbe subito la donna ritratta nella fotografia: dopo tutto il suo era uno dei volti più famosi del mondo. In questa istantanea, come in parecchie altre, aveva le mani posate sui fianchi e uno splendido sorriso provocante. Non portava della lingerie, ma l'aveva sfoggiata in molte altre occasioni. Stando alla didascalia era arrivata quel giorno all'aeroporto Dulles di Washington, da Buenos Aires. «Non capisco...», cominciò a dire Harper.
Poi capì. La familiarità del personaggio all'inizio gli aveva impedito di notare l'indubbia somiglianza: i capelli biondi, il corpo snello da ballerina, la sfida erotica evidente nel sorriso e nella postura. Era indubbiamente la donna più famosa e riconoscibile del mondo. E forse la celebrità per antonomasia. «Sarà lei la sua ultima vittima», dichiarò Addleman. Harper annuì. Ne era sicuro. Delilah! Cantante, ballerina, attrice, abilissima manager di se stessa e rockstar trasformata in icona culturale. E madre. 41 Harper non saliva su un elicottero da parecchi anni. Gli sembrava che il pilota volasse ad alta velocità e a bassa quota. Passando sopra il Mall, si ritrovarono allo stesso livello della sommità del Washington Monument. Lui riuscì a vedere distintamente la gente che camminava sull'erba sottostante, proiettando lunghe ombre nel sole calante. Sorvolarono Fourteenth Street, intasata dal traffico dell'ora di punta. Il Potomac brillò come uno specchio quando lo superarono. Harper intravide uno scorcio dell'Arlington Cemetery - prati verdi e lunghe file ordinate di croci bianche - e poi ci fu solo una distesa di edifici di periferia che sembrava non finire mai. Eppure finì e cominciarono a sorvolare boschi e campi, in direzione delle Blue Ridge Mountains. Di tanto in tanto Harper notava il tetto di una grande casa o un gruppo di cavalli che pascolavano in un prato chiazzato dal sole. Era la campagna virginiana, perfetta per la caccia alla volpe, dove molti esponenti dell'elite della capitale possedevano una villa. Delilah e il suo entourage avevano affittato una tenuta qui. Non era affatto il genere di posto che lui associava alla rockstar, ma da quando calcava le scene c'era stata una Nuova Delilah ogni paio d'anni. L'ultima trasformazione era stata la più completa. Circa un anno prima aveva avuto una figlia e da allora, compatibilmente con il suo status, era rimasta lontana dai riflettori il più possibile. Qualcuno pensava che si trattasse semplicemente di una prolungata aspettativa di maternità e che lei sarebbe tornata presto al suo pubblico, più trasgressiva che mai. Altri sostenevano che avrebbe abbandonato del tutto il mondo della musica per fare
l'attrice. Altri ancora che avrebbe lasciato lo show business in genere. La sua visita nella zona di Washington aveva naturalmente dato adito a voci secondo le quali si stava interessando di politica. Voci che, per quanto assurde sembrassero, avevano provocato la denuncia di alcuni conservatori della Christian Coalition. Harper aveva noleggiato un elicottero non solo perché rappresentava il mezzo più rapido per raggiungere la zona ma anche perché gli avrebbe permesso di fare un'entrata in scena d'effetto. Adesso dubitava di poter impressionare chicchessia. Attorno a lui ce n'erano molti altri: trasportavano pezzi grossi di Washington diretti a casa, che consideravano l'elicottero un normale veicolo da pendolari. Il pilota stava parlando alla radio. Harper non riuscì a sentire cosa diceva, ma immaginò che stesse chiedendo il permesso di atterrare. Cominciarono a rallentare e ad abbassarsi. Sorvolarono un'immensa villa in cima a una collina e lui vide un portico a colonne e un ampio tetto di ardesia con una lunga fila di abbaini e numerosi comignoli. Poi iniziarono a scendere verso un'apposita piattaforma. La discesa si interruppe bruscamente. Il velivolo rimase sospeso nell'aria. Piegandosi verso Harper, il pilota gridò per sovrastare il frastuono. «Non ci lasciano atterrare. Spiacente. Preferisce che raggiunga l'aeroporto più vicino o che torni in città?». «Atterri qui», urlò lui. «Mi assumo ogni responsabilità». «Mi spiace, signore. Potrei perdere la licenza». «Atterri!». Il pilota scosse il capo. L'elicottero descrisse un'ampia curva, riprendendo quota e accelerando. Lasciandosi dietro Delilah. Harper, frustrato, si diede una manata sulla coscia e inveì contro il pilota, inutilmente. Quando tornò alla tenuta era già buio. Un taxi lo lasciò davanti al cancello principale e lui perorò la sua causa nella griglia di un interfono, sotto il piccolo occhio lucente di una videocamera e l'alone brillante di un faretto alogeno. Una voce uscì dall'interfono per dirgli di aspettare. Fu una lunga attesa. Harper passò il tempo pensando a cosa dire se lo avessero lasciato entrare. Non conosceva nessun personaggio importante che potesse garantire per lui. Non aveva credenziali da mostrare. Aveva solo una copia della rivista People comprata all'edicola del piccolo aero-
porto dove lo aveva scaricato l'elicottero; in copertina c'era la sua foto. Si ricordò di cosa gli aveva detto Addleman circa le celebrità che avevano ottenuto la fama ma non un vero e proprio potere. Lui era una di quelle. Era diventato una delle persone per cui Anthony Markman nutriva il più profondo disprezzo. Infilò il settimanale nella tasca del soprabito. Nel silenzio quasi totale riuscì a sentire l'auto che scendeva il vialetto molto prima di vederla. I fanali, avvicinandosi, lo abbagliarono. La macchina si fermò e ne scese un uomo alto. Harper si era aspettato una guardia giurata in uniforme, ma questo tizio portava jeans scoloriti e una maglietta nera attillata che evidenziava una certa pinguedine. Le spalle erano ampie e le braccia nude molto muscolose. Un serpente tatuato si snodava intorno al bicipite sinistro. I capelli brizzolati erano raccolti in una coda di cavallo. Il viso piatto e pieno di rughe non era affatto amichevole. L'uomo non aprì il cancello ma si avvicinò per parlargli attraverso le sbarre. «Cos'è che vuole, amico?». La voce era profonda, l'accento inglese o forse australiano. Harper rispose: «Devo parlare con Delilah». «Niente da fare». «Non crede che io sia chi dico di essere?». «Certo che ci credo, signor Harper. Ho già chiamato l'FBI per chiedere sue notizie e mi hanno risposto che è un balordo». «Dovrebbe riflettere sulle possibili conseguenze di un eventuale errore dell'FBI». L'omone incrociò le braccia e appoggiò il peso del corpo sui talloni. Sorrise con aria divertita. «Adesso mi dirà che la persona che ricopre il mio stesso ruolo nello staff di Speed Rogers si prenderebbe a calci per non averle dato retta». «No. È morta», rispose lui. L'uomo smise di sorridere. Non disse nulla, ma dopo un attimo estrasse dalla tasca un comando a distanza e lo premette. Il cancello si aprì. Cinque minuti dopo Harper stava seguendo il capo della sicurezza lungo un corridoio al secondo piano della casa. Superarono delle persone che gli lanciarono un'occhiataccia e salutarono Bobs, il suo massiccio accompagnatore. «Come mai la chiamano Bobs?», chiese, cercando di conquistarsi almeno in parte la sua fiducia.
«In realtà mi chiamo Bob, ma sono grosso il doppio di una persona normale, così usano il plurale». «Ha anche un cognome?». «No. Solo Bobs, ecco chi sono». «Lavora da molto tempo per Delilah?», domandò Harper. «Da tre anni, ma solo saltuariamente. In realtà il mio datore di lavoro è Lord Melroy. È il proprietario di questa tenuta, ma si trova all'estero così le ha prestato la villa e il sottoscritto». «Il nome mi è familiare. È un nobile inglese?». Bobs sorrise. «Non è quello che lei definirebbe un vero lord, al di fuori del suo gruppo, Lord Melroy and the Mad Plaid. Sta cercando di dirmi che non ne ha mai sentito parlare?». Adesso Harper se li ricordava. I Plaid, come ormai venivano familiarmente chiamati, erano uno dei gruppi rock inglesi di maggior successo che avessero invaso gli Stati Uniti negli anni Settanta. «Ne ho sentito parlare», gli assicurò. «Devono girare parecchi soldi nel mondo del rock». L'altro alzò gli occhi al cielo. «Immense ricchezze, si potrebbe dire». I gusti di Lord Melroy non sembravano affatto quelli solitamente associati a uomini di mezza età che più che cantare urlano e danno fuoco alle chitarre sul palco. Harper immaginò che dipendesse dalle immense ricchezze. Le pareti erano rivestite di boiserie e costellate di dipinti a olio raffiguranti scene di caccia e paesaggi impressionisti. Il corridoio terminava davanti a una doppia porta dal frontone decorato. Delilah doveva trovarsi dall'altra parte. Lui si ritrovò a pensare a sua moglie. Laura, essendo un'infermiera, si preoccupava di mangiare cibi sani e di fare ginnastica regolarmente. Non fumava né beveva. Aveva un solo vizio: Delilah. Al supermarket sceglieva sempre la cassa con davanti la fila più lunga per avere il tempo di leggere gli ultimi articoli delle riviste sulle perenni evoluzioni della rockstar. In realtà era una sua fan sin dall'inizio e aveva ancora il suo primo disco di successo - "Maidenhead", del 1983 - a cui era seguita una lunga serie di celebri canzoni scandalose: i testi non lasciavano quasi nulla all'immaginazione e i video erano ancora più espliciti. Poi Laura aveva sofferto per il fiasco del film di Delilah e il fallimento del suo matrimonio con il coprotagonista. Ma soltanto un paio di anni dopo la cantante aveva fatto una rentrée in grande stile con il suo Blonde on the Run World Tour. In Canada la polizia era stata lì lì per sospendere lo spettacolo e arrestarla. In Italia il papa l'aveva criticata pubblicamente. Poi era uscito il film-documentario
che dimostrava che quanto succedeva nel backstage era ancora più scabroso dello show. L'anno prima Laura era rimasta alzata fino a tardi per guardare la cerimonia degli Oscar: Delilah era candidata come miglior attrice. Ma non aveva vinto e secondo i più cinici era stata la delusione e non la maternità a provocare l'attuale fase di stallo nella sua carriera. La cosa strana era che, dall'inizio del suo relativo isolamento, era diventata ancor più un oggetto di fascinazione. Harper ammise a se stesso che era nervoso. Adesso che stava per incontrarla era felice di non averla mai vista nuda. Non era stato facile evitare le immagini del suo corpo senza veli, nell'ultimo decennio o poco più, ma c'era riuscito. Bobs aprì la doppia porta e si fece da parte, con l'intento di aspettare in corridoio. Harper entrò. Si ritrovò in un salotto non molto grande, con sedie dallo schienale alto sistemate attorno a un tavolino. Nel caminetto c'era un vaso di coloratissime azalee. Sembrava che nella stanza non ci fosse nessuno, a parte una bimba di un anno, o poco più, che stava girando attorno al tavolino, appoggiandoci sopra le mani. L'impresa richiedeva tutta la sua concentrazione: non aveva ancora imparato bene a camminare. Lo guardò con grandi occhi solenni. Doveva essere Fatima, la figlia di Delilah. Harper sorrise e disse: «Ciao». Una testa bionda spuntò da dietro la spalliera di una sedia. La donna era seduta scompostamente, nascosta dall'alto schienale. Si voltò a guardarlo, ma lui non era sicuro che si trattasse di Delilah. Si era aspettato la maschera del suo make up di scena: criniera color platino, viso pallido, folte sopracciglia scure e labbra rosso sangue. Questa invece era una giovane avvenente con capelli castano chiaro, grandi occhi azzurri e una leggera abbronzatura. Le sopracciglia non erano particolarmente folte e le labbra non particolarmente piene. Se l'avesse incrociata per la strada, si sarebbe girato a guardarla ma senza indovinare chi era. Lei si alzò e si avvicinò. Portava una T-shirt lunga e larga e degli attillati pantaloncini di lycra come quelli dei ciclisti. Aveva anche le gambe di un ciclista, pensò lui - magre e muscolose, con le ginocchia ossute. Non disse nulla, si limitò a tendergli la mano. Harper la strinse. Poi Delilah fece qualcosa che nessun altro aveva mai fatto. Continuando a stringergli la mano, la girò e la guardò.
«Ho letto di come è rimasta menomata. Davvero impressionante. Le fa ancora male?». Sembrava che volesse una risposta sincera, così lui disse: «Quando fa freddo e quando sono stanco o teso». Lei la stava ancora studiando. «Deve aver richiesto parecchi interventi chirurgici». Harper esitò, ma nessuno aveva mai definito Delilah schizzinosa, così le raccontò brevemente delle cure ospedaliere. Si accorse dell'ingresso di altre persone alle sue spalle, ma lei non ci fece caso. Era concentrata sul visitatore. «Wow», disse alla fine. «Dev'essere stato un inferno». «Delilah», dichiarò una voce in tono di rimprovero. Era quella di una giovane snella e bruna, che si stava sedendo su una seggiola, attirando a sé la bambina. «Cosa?», chiese Delilah. «Vuoi dire che anche "inferno" conta?». La donna annuì. Delilah alzò le mani. C'era un elastico attorno al suo polso sinistro. Lo tirò e poi lo lasciò andare. Non fu certo una sensazione piacevole. «Serve a ricordarmi che devo moderare il linguaggio. Per il bene di mia figlia», spiegò. Lui sorrise. Cominciava a trovarla simpatica. Era rimasto colpito dal suo interesse per la mano mutilata. Naturalmente sapeva che la capacità di ingraziarsi gli sconosciuti era soltanto un trucchetto in cui le celebrità eccellevano, proprio come la sua capacità di trovare un parcheggio libero in centro. Eppure scoprì che Delilah gli piaceva. Abbastanza per volerle salvare la vita. Lei ritornò alla sua sedia e gli indicò di accomodarsi su quella di fronte, dalla parte opposta del tavolino. Un'altra donna prese posto sul divanetto accanto al camino; era bruna e grassottella, con un'espressione calma ma vigile. Harper l'aveva vista spesso in fotografia: Nancy Kinsolving, la più vecchia amica della rockstar e il suo più fidato consigliere. Anche Bobs, il massiccio capo della sicurezza, era entrato nella stanza. Non si sedette, ma cominciò a passeggiare rumorosamente dietro la sedia di Harper. Disse: «Delilah, se vuoi davvero ascoltare la storia di quest'uomo fai pure. Ma secondo me dovremmo aspettare l'arrivo dell'agente Wilson». «L'agente Wilson?», chiese Harper. Bobs girò intorno alla sedia per abbassare lo sguardo su di lui. «È con lei che ho parlato, all'FBI. Sta venendo qui in elicottero». Si girò verso Deli-
lah. «Vuole spiegarci come mai questo tizio dice solo stronzate». «Bobs, attento a come parli», rispose lei, guardando la figlia in braccio alla governante. Bobs chiuse gli occhi e si sforzò di mantenere la calma. «Scusa». Harper dichiarò: «Tanto vale che mi ascoltiate. Non mi ci vorrà molto per esporvi il problema». Gli conveniva davvero sbrigarsi, pensò. Dopo l'arrivo di Frances non sarebbe più riuscito ad aprire bocca: lei glielo avrebbe impedito. Si chinò in avanti e spiegò a Delilah, nel modo più stringato e convincente possibile, che il Bureau si sbagliava: Anthony Markman era ancora vivo e si stava preparando a colpire la sua ultima vittima. Sintetizzò i ragionamenti in base ai quali lui e Addleman avevano concluso che la vittima designata era lei. Mentre lui parlava, Bobs continuò a camminare avanti e indietro alle sue spalle, con passi precisi e misurati, come un grosso animale rinchiuso in una gabbia stretta, emettendo saltuari versi di incredulità o divertimento. Nancy Kinsolving guardava fissa l'amica. La star ascoltò con gli occhi bassi e, alla fine della spiegazione, continuò a fissare il pavimento per un intero minuto. Poi voltò lo sguardo su Harper. Inarcò un sopracciglio, incurvò il labbro superiore e all'improvviso sembrò davvero Delilah la rockstar. La sua espressione era colma di sdegno, spacconeria e sfida sessuale. Finora aveva parlato in tono mite, con un'accurata dizione da cantante, ma stavolta usò la voce rauca e beffarda che aveva risuonato sui palchi da concerto in tutto il mondo. «Così sta cercando di spaventarmi, vero?». Harper sostenne il suo sguardo e annuì. Puntellando i piedi sul bordo del tavolino lei si accasciò sulla sedia, tanto da ritrovarsi con la testa all'altezza delle ginocchia ossute. «Qual è il suo consiglio, allora? Cosa devo fare per mettermi al riparo da questo tizio?». «Harper vuole che tu resti rintanata qui, naturalmente», intervenne Bobs. «Senza mai lasciare la tenuta. Nascondendoti da un uomo che l'FBI ritiene morto». «Merda», disse Dalilah. Poi si accigliò e tirò l'elastico. Harper dichiarò: «Non basterebbe. Non abbiamo modo di sapere quando e dove colpirà. Un'apparizione in pubblico potrebbe rappresentare un'occasione d'oro per lui, ma ha eliminato le ultime due vittime mentre si trovavano in aree private e apparentemente ben protette. L'unica alternativa sicura per lei è lasciare Washington. Le consiglio di tornare subito a casa».
«Tornare a L.A.», disse Delilah. Incurvò di nuovo il labbro. «Una prospettiva davvero deprimente. Sa come mai sono venuta qui?». «Ho sentito parecchie ipotesi». «Sto cercando una casa. Voglio che Fatima cresca in campagna, in un posto pieno di limpidi ruscelli e cavalli. E dove non ci sia nessuno che lavora nello show business. Capisce, un posto normale. Normale. E adesso questa mer... questo problema. Nancy, cosa faccio?». «Non ho modo di sapere se lui abbia ragione o meno sul bomber, ma voglio dirti una cosa». Kinsolving puntò il dito su Harper, fissandolo con uno sguardo duro e carico di antipatia. «Quando quest'uomo tornerà a Washington e riferirà ai giornalisti di questo incontro, la stampa ci massacrerà». «Non parlerò con i giornalisti», rispose lui. Nessuno gli fece caso. Delilah posò a terra i piedi e raddrizzò la schiena. «Massacrarci? Perché? Perché un pazzo vuole uccidermi? Riusciranno a dare l'impressione che sia tutta colpa mia, come fanno di solito?». «Non dirò niente ai giornalisti», ripeté Harper. «Oh, basta stronzate, Harper. Chiunque parli con me subito dopo parla con loro». Tirò di nuovo l'elastico e si appoggiò allo schienale. «E un'altra cosa», disse Nancy. «I politici e i pezzi grossi dei media che hanno promesso di organizzare feste e pranzi in tuo onore faranno tutti dietrofront non appena si sparge la voce». Delilah sfoggiò un'altra delle sue espressioni da palcoscenico, facendo il broncio come una ragazzina delusa. «Persino il senatore Standling? Ma si è detto perfino disposto a sfidare la Christian Coalition per invitarmi a casa sua». «La Christian Coalition non fa saltare in aria la gente», dichiarò Harper. Delilah smise di fare il broncio. «Crede davvero che questo Markman sia ancora vivo? E voglia uccidermi? Ne è sicuro?». Lui annuì. Alle sue spalle, Bobs proruppe in un brontolio irritato. «Te lo ripeto. Non importa che lui abbia ragione o meno, dobbiamo andarcene prima che la notizia si diffonda». Nancy si piegò verso di lei. «Altrimenti i mass media diranno che non è vero che la maternità ti ha completamente appagato. Diranno che sei ancora pronta a tutto pur di finire in prima pagina, persino a rischiare di trasformare tua figlia in un'orfana». Delilah guardò Fatima, che sonnecchiava in braccio alla governante. Sorrise. «D'accordo, Harper. Ha vinto».
Lui buttò fuori il fiato che aveva trattenuto senza accorgersene. Nancy tese una mano verso il telefono posato su un tavolino. «Mi occupo io dei preparativi. Vuoi partire domattina?». «No, nel pomeriggio. Prima devo fare una cosa». Lei si accigliò, meditabonda. «Il Constant Light?». «Sì». Con aria interrogativa Harper guardò Nancy, che spiegò: «È un ospedale per gli orfani di guerra. Delilah è la sua principale benefattrice. Domani ci sarà una visita guidata e un pranzo per raccogliere fondi». Lui si girò verso la star. «Le consiglio di non andarci». «Già, be', me ne sbatto dei suoi consigli, Harper». Si interruppe per tirare l'elastico. Prima di sera si sarebbe ritrovata con un polso dolorante. «Non sono costretta a visitare case in vendita e non mi dispiace rinunciare a una manciata di cocktail party a Georgetown. Ma quei bambini mi aspettano da mesi e non intendo tirargli un bidone». Harper rispose: «È della sua vita che stiamo parlando. Ci sono le stesse probabilità che il bomber voglia colpirla in questo ospedale come in qualsiasi altro posto». «E se la notizia trapela ci metteranno in croce nei notiziari mattutini, anche se tu parti nel pomeriggio». Nancy si era posata il telefono sulle ginocchia ma non aveva ancora alzato la cornetta. «Ricorda che hai delle responsabilità, diranno tutti. Ricorda che hai una figlia». Delilah aveva il viso tirato. «Me lo ricordo benissimo. Ma non devo neanche dimenticarmi dei bambini che non sono fortunati come la mia». «Ma...». La cantante alzò una mano, con il palmo in fuori. «Senti, quando ho accettato di entrare nel comitato dell'ospedale non l'ho fatto per la pubblicità. Lo sai, Nancy. Stavo pensando a quei bambini. La mia visita li rende felici, glielo leggo negli occhi. Il mio compito non si limita a sollecitare gli amici a fare un'offerta. Ho intenzione di andare a trovare quei bambini, domani». Guardò tutti i presenti a turno. Nessuno parlò. Si alzò dalla sedia. «Quindi è deciso. Tutti in piedi». Bobs si fece avanti. Nancy si alzò. Lo fece anche Harper, confuso. Si misero in cerchio e unirono le mani al centro. Lui si ricordò di aver saputo da Laura che Delilah pregava sempre con i suoi ballerini prima di salire sul palco. Decise di assecondarla, anche se non partecipava a un rito del genere dai tempi della finale dì basket, l'ultimo anno di liceo. Avevano perso la
partita, se la memoria non lo ingannava. «Signore, so che vuoi che lo faccia», disse lei. «Ho molta paura ma spero che veglierai su di me e non lascerai che succeda niente di brutto a me o ad altri, okay? Amen». Ci fu una pausa mentre abbassavano le mani. Si udì distintamente il rombo di un elicottero che si avvicinava. Frances Wilson stava arrivando. Non che avesse qualche importanza: Harper dubitava di poter far cambiare idea a Delilah, anche se avesse avuto più tempo a disposizione. Aveva fatto del suo meglio. Avrebbe dovuto rassegnarsi alla sua visita all'ospedale. E sperava che la star riuscisse a sopravvivere. 42 Harper riferì ad Addleman gli avvenimenti della serata sdraiato bocconi sul letto. Era rientrato in albergo molto dopo mezzanotte. Era esausto. Gli sembrava che lui e l'amico fossero arrivati al National Airport anni prima invece che quella mattina. Da quel momento in poi le cose non erano andate granché bene. Così, quando era finalmente tornato nella suite, barcollando, era andato subito in camera, dove si era tolto scarpe e giacca lasciandosi cadere sul letto. Non si preoccupò neanche di accendere la luce prima di cominciare a raccontare cos'era successo, mentre l'altro lo ascoltava seduto su una sedia accanto alla porta. Gli spiegò tutto, finendo con la scenata di Frances Wilson. Cercò di far sembrare gli insulti e le minacce della donna più buffi di quanto non fossero stati. Ma Addleman non stava ridendo. Anzi, lui aveva l'impressione che non lo stesse più ascoltando. Si sollevò appoggiandosi a un gomito. Addleman era chino in avanti e immobile, quasi come se fosse semplicemente l'ennesima ombra nella stanza semibuia. Nella luce fioca, lui non riusciva a vederlo in faccia. «È l'ospedale, Will». «Cosa?». «Markman vuole farlo saltare in aria domani. Vuole che i bambini muoiano insieme a Delilah». «Non puoi esserne sicuro», rispose Harper, anche se aveva preso in considerazione la stessa ipotesi. «Forse lo pensiamo solo perché la visita all'o-
spedale è l'unico impegno che lei ha giurato di rispettare». «No, non si tratta di questo. È un bersaglio ovvio per Markman. Questo è il culmine, l'unione tra il suo trauma infantile e la sua ossessione per le celebrità. Identifica Delilah con sua madre, che ha abusato di lui. Ai suoi occhi Delilah sta usando i bambini di quell'ospedale. La gente la ammira perché ha contribuito a salvarli e curarli e lui non lo sopporta. Ha intenzione di "dimostrare" che Delilah è falsa ed egoista come sua madre. Vuole uccidere quei bambini - e assicurarsi che lei venga incolpata della loro morte». Harper trovava tutto perfettamente logico, eccetto l'ultima parte. «Perché mai dovrebbero incolpare lei7», chiese. Addleman esitò, poi rispose: «A causa tua, Will. Stasera l'hai avvisata, ma lei ha preferito ignorarti. Certo, pensava di dimostrarsi coraggiosa e generosa, così facendo. Ma passato domani, dopo la catastrofe, la gente dirà che, andando in quell'ospedale pur sapendo com'era rischioso, ha messo in pericolo i bambini oltre a se stessa. Il bomber la odia. Non la vuole semplicemente morta, vuole assicurarsi che nessuno possa piangerla. La renderà spregevole. E tu glielo hai reso possibile, Will». Il cervello di Harper rimase intorpidito dallo shock e dall'indignazione. Scattò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro sulla moquette, scalzo. «È pazzesco, Harold. Markman non poteva sapere che quell'avvocato sarebbe venuto da noi, che avremmo scoperto casualmente l'identità della sua prossima vittima e che il Bureau ci avrebbe dato il benservito. Non è in grado di prevedere il futuro». «No, ma è capace di elaborare un piano d'emergenza, e di farlo meglio di qualsiasi dinamitardo o altro criminale di cui io abbia mai ricostruito il profilo. Ricordi quando sei andato a casa sua a St. Louis? La tua visita avrebbe potuto rivelarsi letale per lui. Avrebbe potuto lasciarsi prendere dal panico. Ma non l'ha fatto. Ha escogitato un piano per sfruttare la tua presenza lì. È ancora un passo avanti a noi. Ci sta ancora usando. Tu sei la sua Cassandra. Il tuo ruolo è prevedere il futuro senza essere mai creduto». Sospirò e si appoggiò allo schienale. Sembrava fuori combattimento, e Harper con lui. Harper si premette le mani sulle tempie mentre continuava a camminare. Avevano fatto così tanta strada solo per fallire in dirittura d'arrivo? E questo era molto peggio di un fallimento. Lui era diventato l'involontario complice di Markman. La sua pedina. Parlò con voce tonante e irregolare: «Non c'è nient'altro che io possa fa-
re! Delilah è decisissima a visitare quell'ospedale. Comunque non posso più parlare con lei. Frances me lo impedirà». «Allora devi andarci anche tu, domani». «Frances ha ripetuto più volte che mi arresteranno se solo cercherò ancora di avvicinarmi a Delilah. E ci saranno uomini della sicurezza in tutto l'edificio». «Questo non basterà a proteggerla». «Non posso fare niente». «Del tutto impotente», dichiarò Addleman con voce stanca, roca. «Proprio come Cassandra». Harper si lasciò cadere di nuovo sul letto, con un sospiro profondo. «Andrò in quell'ospedale», disse. 43 L'ospedale per bambini Constant Light si trovava dall'altra parte del fiume, in periferia. La visita di Delilah era fissata per le dieci e trenta del mattino e Harper non voleva arrivare con troppo anticipo. Sarebbe stato inutile. Non voleva perdere tempo a discutere con poliziotti e membri del personale. Frances Wilson aveva sicuramente dato a tutti loro dei validi motivi burocratici per non ascoltare quel folle, quella mina vagante di Will Harper. Solo Delilah, la cui vita era in pericolo, poteva mostrare qualche propensione a credergli. La sua unica chance era arrivare fino a lei. Svoltò in una trafficata strada di periferia che, girando intorno a un parcheggio sotterraneo, raggiungeva l'ingresso principale dell'ospedale. Sarebbe stato arduo isolare completamente la zona e i poliziotti non avevano cercato di farlo. Harper notò una massiccia presenza di addetti alla sicurezza, ma la gente andava e veniva liberamente. Infilò l'auto noleggiata in uno spazio con la scritta "RISERVATO AL DOTTOR R. PATEL". Guardando il lato opposto della strada vide che il comitato di accoglienza dell'istituto si era già schierato sui gradini dell'entrata. C'era la consueta folla di sostenitori e curiosi, tenuta a distanza da cavalletti gialli, poliziotti locali e guardie giurate. Dall'altra parte dei gradini, ciondolava un gruppo di reporter e fotografi. Era un giorno come tanti per chi si occupava delle celebrità; sembrava che non si prevedessero particolari problemi. Harper studiò ogni viso, ma dubitava che Markman fosse così vicino. Non era tipo da correre rischi inutili. Avrebbe sicuramente cercato una po-
stazione lontana, ma strategica, da cui poter osservare comodamente cosa succedeva. O magari non era nemmeno qui. Poteva benissimo aver regolato il timer e piazzato la bomba ore prima. Forse si trovava in una stanza d'albergo, guardando la TV e aspettando. Sbirciò l'orologio. Delilah era in ritardo ma lui immaginò che ormai stesse per arrivare. Cominciò a roteare la testa, a incurvare e rilassare le spalle - tutti trucchetti per allentare la tensione che aveva appreso nella squadra artificieri. Dovevi imparare ad aspettare, ecco cosa gli avevano detto i veterani quando era arrivato al poligono di Rodman's Neck come recluta. In tutta la tua carriera, il tempo passato a disinnescare concretamente una bomba poteva misurarsi in minuti, ma avresti passato ore, giorni, addirittura settimane, aspettando di uscire per un incarico. Se non imparavi ad aspettare, il nervosismo avrebbe minato la tua capacità di concentrazione e logorato la tua sicurezza. Non saresti stato pronto quando arrivava la chiamata. Così Harper aveva imparato ad aspettare. Ed era rimasto nella squadra più a lungo della maggior parte dei colleghi. Era quasi arrivato alla pensione. Quasi. Adesso si percepiva una certa agitazione tra la folla. I poliziotti si stavano muovendo con aria determinata, comunicando tra loro con le ricetrasmittenti. L'antenna satellitare in cima a un furgone della TV cominciò ad alzarsi. I reporter stavano spegnendo le sigarette e gettando via i bicchieri di carta del caffè. I fotografi si stavano avvicinando alle barriere, facendo a gomitate per conquistare una posizione vantaggiosa. Harper si voltò a guardare la strada d'accesso. Vide un'auto della polizia che si avvicinava con le luci lampeggianti, seguita dalla limousine di Delilah. Procedevano molto lentamente. Scese dalla macchina e cominciò a dirigersi senza fretta verso l'entrata, con l'intenzione di raggiungerla contemporaneamente alla limousine. Distava ancora una dozzina di passi quando vide un giovane agente di colore in uniforme che si girava, lo guardava e poi gli dava una seconda occhiata. Lui lo giudicò un tipo in gamba: evidentemente stava ascoltando quando l'FBI aveva avvisato di prepararsi al possibile arrivo di Harper. Accelerò il passo. Il ragazzo attirò l'attenzione di un collega e gli indicò il nuovo arrivato. I due si mossero per intercettarlo e tagliargli la strada, impedendogli di fuggire. Sapeva che, se avesse cominciato a correre, lo avrebbero imitato, così si accontentò di avanzare tra la folla, sempre più densa man mano che si av-
vicinava all'ingresso dell'ospedale. Cominciò a zigzagare tra la gente, sperando che i poliziotti lo perdessero di vista. Non fu così. Distava una mezza dozzina di passi dalle barriere quando lo raggiunsero. «William Harper?», chiese il giovane agente di colore in tono ufficiale ma amichevole, come se la frase seguente potesse benissimo essere la richiesta di un autografo. «No», rispose lui con un sorriso, cercando di superarlo. Ma il poliziotto più anziano gli tagliò la strada. «Signor Harper, se non lascia immediatamente la zona saremo costretti ad arrestarla». «Non vi sembra di esagerare?», chiese lui. Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Sa bene come funziona, signor Harper. Sono gli ordini». «Già, ordini». Guardando in mezzo ai due e al di sopra delle teste della folla, riuscì a vedere la limousine che si fermava davanti all'entrata dell'ospedale. Era la sua grande occasione, non ne avrebbe avuta una migliore. «Resterò qui, ma voglio parlare con il vostro sergente», dichiarò. Loro scossero la testa all'unisono. Sembrava che i negoziati avessero raggiunto un impasse. Harper si rannicchiò come un giocatore di football e caricò i due cercando di sfondare lo sbarramento. Il poliziotto più vecchio gemette e si spostò, ma il più giovane ghermì Harper e resistette. Lui fece un altro passo incerto, prima di crollare in ginocchio. Il primo agente gli si buttò sopra e caddero tutti e tre a terra. Mentre si rotolava e si dimenava cercando di rialzarsi, Harper riuscì a sentire le esclamazioni di sorpresa tutt'intorno. Si udirono delle grida e un sonoro scalpiccio mentre altri poliziotti e guardie giurate convergevano su di loro. Continuò a lottare, ma inutilmente. Nel giro di pochi secondi si ritrovò bocconi sull'asfalto. Gli tirarono le braccia dietro la schiena e lui sentì le manette cingergli i polsi e chiudersi con un tintinnio. Il peso sulla sua schiena si alleggerì. Diverse paia di mani lo sollevarono e lo rimisero in piedi. Mentre la sua testa affiorava, vide gli occhi vitrei di dozzine di lenti fotografiche puntati contro di lui e sentì il ronzio delle telecamere. I reporter erano arrivati. Non era mai stato così felice di vederli. «Ehi, quello è Harper!», gridò qualcuno. «Cosa gli state facendo?». «Chi ha ordinato il suo arresto?».
«Harper, pensa che ci sia una bomba...». Un uomo si intromise tra lui e i giornalisti. A bassa voce e in tono pressante, disse ai poliziotti che gli stringevano le braccia: «Mettetelo in macchina. Subito». Gli rimase accanto mentre lo spingevano verso l'auto. L'abito blu e l'espressione tetra del suo bel viso tradirono la sua identità ancor prima che Harper notasse il distintivo dell'FBI appeso al collo. Questo tizio era stato mandato da Frances per impedirgli di metterla in imbarazzo e lo avrebbe allontanato da lì anche a costo della vita. Lui cercò di strascicare i piedi. Non servì a nulla: venne sollevato e trasportato di peso. Con la coda dell'occhio riuscì a vedere i fotografi e i reporter che li seguivano. Sembrava che tutti stessero urlando all'unisono. «Di cosa è accusato quest'uomo, agente?». «Harper, cosa ha fatto?». «C'è una bomba nell'ospedale?». «È Delilah il bersaglio?». Harper voltò la testa e disse all'agente dell'FBI: «Voglio parlare con Delilah». L'altro rispose con un sorrisetto disgustato. «Scordatelo». «Allora comincerò a parlare con questi tizi». «Non provarci neanche, stronzo». «Mi porti da Delilah o si ritroverà in mezzo a una folla in preda al panico». L'agente federale infilò una mano sotto la giacca ed estrasse una bomboletta di spray lacrimogeno che puntò contro il viso di Harper. Lui strinse forte gli occhi e cercò di voltarsi, sapendo che non aveva speranze, che nel giro di una frazione di secondo lo spray lo avrebbe reso muto e impotente. «Non può farlo!», gridò una nuova voce. «Non davanti alle telecamere!». Lui aprì gli occhi e vide una donna tozza con l'uniforme da sergente di polizia. Era in piedi lì davanti e la sua mano stringeva il braccio dell'agente dell'FBI, che la stava maledicendo. Ormai i rappresentanti dei media si erano disposti a semicerchio di fronte a loro. Le lenti delle telecamere coprivano ogni angolo. Domande gridate arrivavano da ogni direzione. Improvvisamente un uomo alto e calvo gli si parò davanti. Era Bobs. Con un perfetto aplomb, dichiarò: «Può vedere Delilah, signor Harper». «No che non può», ribatté l'agente federale. «O parlo con lei o parlo con loro», dichiarò Harper, indicando i reporter
con un cenno del capo. «Portatelo alla limousine», ordinò il sergente, infilando i pollici nella cintura. I piedi di Harper riuscirono finalmente a toccare terra. Le mani che gli avevano stretto i bicipiti in una morsa si staccarono. Il gruppetto ricominciò a fendere la folla, diretto alla limousine. I reporter continuarono a gridare le loro domande. Ormai avevano cominciato a dare del tu a Harper, come se questo facesse qualche differenza. L'agente dell'FBI, sottovoce ma in tono aspro, disse al sergente che stava commettendo un grosso errore e che la sua carriera era finita. Lei non batté ciglio. Un uomo della sicurezza aprì la portiera posteriore della limousine mentre si avvicinavano. Chinando il capo come aveva visto fare a così tanti indiziati, Harper entrò. La portiera si chiuse con un tonfo dietro di lui. Si appollaiò su un sedile pieghevole e si voltò verso Delilah. Era seduta da sola sullo spazioso sedile posteriore. Indossava un abito di alta sartoria, di un rosa brillante eppure delicato che lui aveva visto solo nelle azalee. Non aveva un capello fuori posto. Sembrava che ci fossero quattro o cinque diverse tonalità di ombretto sulle sue palpebre. Harper non aveva mai visto nessuno così perfetto, di persona. La fissò come se fosse un documento olografo. Lei disse: «È proprio uno stronzo, Harper». Lui sbatté le palpebre. Il suo tono non lasciava dubbi sul fatto che fosse furibonda, ma la sua espressione era impassibile. Sembrava calmissima e controllata. Harper si rese conto soltanto adesso che i fotografi stavano circondando l'auto. Gli obiettivi delle macchine fotografiche riempirono tutti i finestrini. Non sapeva se riuscissero a vedere qualcosa dietro il vetro affumicato, ma non avrebbero certo ripreso un primo piano di Delilah che lo strapazzava senza ritegno. Ormai faceva questo gioco da anni ed era troppo furba per loro. «Ha deciso di mandare a monte la mia visita all'ospedale, vero?», continuò. «Pensa che a questo punto dovrei fare dietrofront e tornare a casa». «No, io...». «Be', non le permetterò di fermarmi. Quei bambini mi stanno aspettando e non li deluderò. Ho intenzione di entrare». «C'è una bomba là dentro». Lei lo fissò, imperterrita. «L'agente Wilson ha passato due giorni con noi, dopo che lei se n'è andato, Harper. Ci ha spiegato tutto sulle prove del DNA. Aveva anche dei diagrammi. Markman è morto».
«Wilson si sbaglia. È vivo e vegeto». «E ci ha spiegato perché non dovremmo darle retta. Ha convinto Bobs. E anche Nancy». «E lei?», chiese Harper. «Ha convinto anche lei? Completamente?». Delilah esitò, ma solo per un attimo. «Non ho motivo di non entrare in quell'ospedale». «No, infatti», ribatté lui. «Presumendo che sia pazza come sostengono i tabloid. E che abbia deciso che farsi uccidere sarebbe un'ottima mossa pubblicitaria». La facciata di imperturbabilità si incrinò. La donna serrò le mani e lo guardò in cagnesco. «Come osa parlarmi così?». «Se vuole morire, okay. Ma per l'amor di Dio non porti con sé tutti quei bambini. Sono sicuro che tiene molto a loro ». Lei si guardò le mani che aveva tenuto pudicamente intrecciate sul grembo durante tutto il colloquio. Harper trattenne il respiro. Era il momento decisivo. Delilah gli avrebbe ordinato di scendere dalla macchina oppure lo avrebbe assecondato. Grida eccitate e il fioco ronzio delle macchine fotografiche automatiche filtrarono dai finestrini antiproiettile. La limousine rollò via mentre un paparazzo cercava di arrampicarsi sul cofano e i poliziotti lo tiravano giù. Delilah sollevò lo sguardo e incrociò quello di Harper. Sorrise - il sorrisetto ironico tanto familiare. «Per sua informazione, Harper, non ho nessuna voglia di morire». «Davvero?». «Spero di vivere a lungo. Ho intenzione di diventare vecchia e brutta, amata da tutti». Lui le sorrise, pensando che la donna avrebbe potuto insegnare un paio di cosette sulla capacità di attesa agli artificieri del dipartimento di polizia newyorkese. Il momento passò. Lei assunse un'aria grave. «Non so cosa fare. Naturalmente non voglio mettere in pericolo quei bambini, ma non ho motivo di crederle. Gli addetti alla sicurezza hanno perlustrato l'intero ospedale e mi hanno assicurato che non c'è nessuna bomba». Lui rispose: «Mi lasci entrare là, Delilah. Aspetti qui mentre do un'occhiata in giro. Se non trovo niente, può cominciare la sua visita». Delilah sostenne il suo sguardo per un altro lungo istante, poi fece un debole cenno d'assenso. «D'accordo, Harper. Tocca a lei».
44 Quando Harper scese dalla limousine di Delilah, la folla gli sembrò raddoppiata rispetto a quando era salito. Guardando al di sopra delle teste riuscì a vedere, nella strada d'accesso, un ingorgo di autopattuglie e furgoncini della TV che cercavano di raggiungere l'ospedale. Un elicottero passò a bassa quota, diretto verso la piattaforma di atterraggio sul tetto dell'edificio. Un nuovo paziente, si chiese lui, oppure l'agente Frances Wilson che voleva prendere in mano le redini della situazione? Meglio cominciare la perquisizione. Si incamminò dietro a Bobs, ignorando i reporter che gridavano il suo nome e lo strattonavano. Sei poliziotti in tenuta antisommossa dovettero prendersi a braccetto e formare un cuneo per aprirsi un varco tra la folla e accompagnarli fino all'ingresso. Due uomini li stavano aspettando accanto alla porta. Uno era piccolo, con la fronte solcata di rughe, un pizzetto ben curato e un completo a doppio petto. Bobs lo presentò come il dottor Rosen, il direttore dell'ospedale; sembrava irritato dalla necessità di parlare con Harper. L'altro tizio, il capitano Alberghetti, aveva un'aria annoiata. Era alto, con le spalle strette, il viso pieno di grossi pori, il mento rientrante e capelli sale e pepe; indossava la tuta verde dell'esercito statunitense. Era stato lui a dirigere la perquisizione dell'edificio. Harper si rivolse per primo a Rosen. «Dottore, per una persona non autorizzata quanto sarebbe difficile entrare?». Le labbra del medico era ridotta a una linea talmente sottile da sembrare quella di una marionetta di legno. «Non abbastanza per soddisfarla, ne sono sicuro». Bobs intervenne con disinvoltura. «Dottore, se volesse essere così gentile da collaborare con il signor Harper...». «Ne abbiamo già discusso», brontolò Rosen. «Ho già fatto tutto il possibile per aiutarvi. Non posso permettere agli uomini della sicurezza di interferire con la gestione del mio ospedale». Harper decise di risparmiarsi ulteriori domande e dare per scontato che Markman non avesse avuto problemi a introdurre di nascosto la bomba e a piazzarla dovunque volesse. Si rivolse ad Alberghetti. «Capitano...». «L'ospedale è pulito, signor Harper. Ho appena concluso la mia ispezio-
ne». Apparentemente l'uomo pensava che lui dovesse accontentarsi. Aveva assunto un atteggiamento alla John Wayne, con le mani posate sulla cintura e la testa piegata di lato, a beneficio delle macchine fotografiche che stavano scattando dietro al suo interlocutore. Harper sospettò che somigliasse molto al capitano Brand e si sentì ancora più scettico riguardo all'ispezione. «Come avete proceduto, esattamente?». Alberghetti sbatté le palpebre e si strinse nelle spalle per indicare che la domanda lo annoiava, più che offenderlo. «Abbiamo seguito lo stesso tragitto che seguirà Delilah. Non ci sono bombe». «Che strumenti avete usato?». «Tutti quelli nel furgone», rispose lui, indicando con il pollice qualcosa alle sue spalle. Accanto ai gradini all'ingresso, alcuni soldati vestiti di verde stavano caricando dei contenitori metallici sul retro di un furgone. Un pastore tedesco sedeva pazientemente accanto alla gamba del suo addestratore. «Finiremo prima se risponde al signor Harper», disse Bobs. Alberghetti non lo guardò neanche. «Abbiamo usato un fluoroscopio e un metal detector». Harper disse: «Nessuno dei due riesce a individuare l'esplosivo al plastico, che il nostro amico ha usato nel suo ultimo colpo». «Abbiamo usato anche uno scanner Arleigh B-19». Harper ne aveva sentito parlare. Rilevava la presenza di materiali ad altissima densità, e quindi anche dell'esplosivo al plastico. Ma era uno strumento nuovo e aveva dei difetti. «Sono scanner davvero pesanti», dichiarò. «È uscita una versione portatile di cui non ho saputo niente?». Alberghetti, a disagio, guardò sopra la spalla sinistra di Harper, poi sopra la destra. «Questo modello non è esattamente portatile e abbiamo dovuto usare l'ascensore. Quando volevamo esaminare un particolare oggetto, lo mettevamo vicino allo scanner». «E gli oggetti che non potevano essere spostati?». «In questo caso ci siamo limitati a un esame visivo». «Li avete guardati, cioè. Supponiamo che ci fosse una bomba al plastico nascosta dietro a un muro, sotto un pavimento. Non l'avreste trovata». «L'avrebbe trovata Duke», rispose Alberghetti, indicando il pastore tedesco con un cenno del capo.
Harper annuì. Nutriva un profondo rispetto per il naso di un cane addestrato a fiutare gli esplosivi. Guardò l'animale che, seduto accanto al suo istruttore alla base dei gradini, aspettava pazientemente di salire sul furgone. «Gli avete fatto seguire tutto il tragitto?». Il silenzio di Alberghetti lo spinse a voltarsi. Alla fine l'uomo disse: «Siamo entrati in tutte le stanze aperte al pubblico, sì». Poi fissò Rosen. L'esile medico raddrizzò le spalle e congiunse le mani dietro la schiena. «Ovviamente non potevo lasciare entrare un cane nelle camere al terzo piano. Lì ci sono bambini molto malati. E delle attrezzature delicatissime. L'ingresso di un animale sarebbe poco igienico e provocherebbe un putiferio». Harper si rivolse al capitano. «Vada a prendere Duke. Perquisiremo le stanze al terzo piano». «Ehi, aspetti...», cominciò a dire Rosen. «Mi dispiace, dottore», rispose lui. «Dobbiamo presumere che il bomber abbia saputo della sua decisione e ne abbia approfittato». Alberghetti stava scendendo i gradini per raggiungere i suoi uomini. Duke aveva sentito fare il suo nome ed era già in piedi, la lunga coda che descriveva lenti archi. Harper rimpianse che Alberghetti e Rosen non si stessero dimostrando altrettanto ansiosi di collaborare. Rosen stava protestando ad alta voce. Harper decise di lasciarlo a Bobs. Si voltò per guardarsi intorno. Aveva mandato qualcuno alla sua macchina e sperava che fosse già tornato. Era tornato. Una poliziotta di Bethesda era in piedi dietro di lui, con una scatola infilata sotto il braccio. Gliela tese. «Ecco, signore». «Grazie». Lui sollevò il coperchio ed estrasse la tuta protettiva del dipartimento di polizia newyorkese che gli aveva dato Brand. Mentre la indossava, scoprì che il capitano aveva detto la verità: rappresentava un grosso passo avanti rispetto ai modelli precedenti. L'ultima volta che ne aveva indossata una simile si trovava nel silenzioso corridoio di quella scuola del Queens, con accanto Jimmy Fahey. Cercò di non pensarci. Sistemando la linguetta di velcro all'altezza del collo, si infilò l'elmetto sotto il braccio e si voltò. Il dottor Rosen stava ancora discutendo con Bobs; le vene sulle sue tempie gli si erano gonfiate. Alberghetti stava salendo i gradini insieme al cane e al suo addestratore. «Andiamo», disse a Harper, a voce abbastanza alta per farsi sentire dai reporter e convincerli che il capo era lui.
«Forse le converrebbe mettersi una tuta protettiva», suggerì Harper. «E portarsi dietro delle apparecchiature». «Chiamerò i miei uomini... se troviamo qualcosa», rispose l'altro con un'occhiata gelida, scettica. Harper immaginò che, come il capitano Brand, considerasse il lavoro sulle bombe innescate un incarico da lasciare ai suoi subalterni. Spinsero le porte a vetri. Guardie giurate, addetti alla reception e gran parte degli impiegati dell'ospedale erano riuniti intorno al bancone nell'atrio. Con gli occhi sgranati e in silenzio, fissarono gli uomini e il cane che raggiungevano gli ascensori. C'era un tale silenzio che si sentivano distintamente le unghie di Duke ticchettare sul pavimento di piastrelle. Entrarono nell'ascensore e Alberghetti premette il pulsante del terzo piano. Duke si sedette. I suoi occhi marroni scintillavano di impazienza, ma non stava ansimando né scodinzolando. Un cane ben addestrato, pensò Harper. Il suo istruttore, un caporale lentigginoso, sembrava molto più eccitato. Le porte dell'ascensore si aprirono sulla corsia ospedaliera più allegra che Harper avesse mai visto, con moquette di un azzurro brillante e lunghe frecce multicolori sui muri. Le figure in camice nella saletta delle infermiere sollevarono gli occhi, velati di stanchezza, dalle cartelle mediche e dai monitor di computer. Lui immaginò che fossero ormai alla fine del turno: sembravano esauste, come Laura quando tornava a casa. Evidentemente Bobs aveva convinto il dottor Rosen a fare una telefonata, perché nessuno li interpellò mentre passavano lì davanti. «Limitiamoci a seguire il tragitto di Delilah, lentamente», disse Harper. Il caporale si chinò per mormorare un ordine nell'orecchio del pastore tedesco. Ebbe a malapena il tempo di stringerne l'imbracatura prima che Duke si lanciasse nel corridoio. Harper rallentò fino a ritrovarsi dietro al gruppetto. Sentiva la gola secca e il battito cardiaco accelerato. Esaminò ogni centimetro del corridoio, ma senza aspettarsi di notare qualcosa di strano. Markman non sarebbe certo arrivato dov'era se non fosse stato un tipo molto attento e meticoloso. Adesso dipendeva tutto da Duke. Aveva letto da qualche parte che l'olfatto di un pastore tedesco è un milione di volte più acuto di quello di un uomo. Una vera fortuna, pensò, perché lui non sentiva niente, a parte un vago odore di disinfettante. Duke stava zigzagando con aria determinata nel corridoio, il naso posato sulla moquette, quando un bambino con la carnagione olivastra e gli occhi
scuri comparve sulla soglia di una camera. Aveva la testa completamente rasata e una ragnatela di cicatrici sul viso e sul collo. Vedendo il cane fece un ampio sorriso e gridò qualcosa in una lingua che Harper non conosceva. Poi corse da Duke e gli buttò le braccia al collo. I tre uomini si guardarono, impotenti. Nonostante la gravità della situazione, non se la sentivano di separarlo dal cane. Altri ragazzini spuntarono da altre porte. Confuso, Duke si sedette. Harper rimpianse di non aver ascoltato Rosen quando li aveva avvisati del caos che Duke poteva causare. Da quanto tempo questi bambini non vedevano un cane? Adesso il corridoio era pieno di piccoli pazienti di tutte le età, in pigiama. Sembrava che tutti quelli in grado di camminare - e alcuni in sedia a rotelle - si fossero radunati intorno al pastore tedesco, facendo a gomitate per avvicinarsi, parlando concitatamente in una miriade di lingue diverse. Molte manine, alcune con meno di cinque dita, accarezzarono la folta pelliccia. «Meglio interrompere, capitano», disse l'addestratore, «altrimenti questo cane non riuscirà più a fiutare niente». Infermiere e dottori si stavano già avvicinando per ristabilire l'ordine. Ci furono lacrime e lamentele mentre i giovani pazienti venivano riaccompagnati nelle loro stanze. Un medico indiano, in camice bianco e turbante blu, raggiunse Harper rimproverandolo per il trambusto. Lui lo ascoltò e cercò di placarlo, continuando a pensare a Delilah, intrappolata nella limousine giù in strada e sempre più spazientita. E all'agente speciale Wilson, che stava sicuramente cercando di raggiungere l'ospedale il più in fretta possibile. E alla bomba. Finalmente restarono soli e Duke si rimise al lavoro. Ancora con la lingua penzoloni, sembrava aver riacquistato la concentrazione. Si incamminò di buon passo, perlustrando il corridoio. «Delilah visiterà tutto il piano?», chiese Harper. «No», rispose Alberghetti. «Si fermerà nel salone dietro l'angolo e i bambini la raggiungeranno». Lui annuì. «Dovremo esaminare attentamente quella stanza. Il bomber potrebbe colpire lì». «Come vuole», rispose Alberghetti con disinvoltura. Considerava ancora superflua questa ispezione e finora niente era riuscito a scuotere la sua sicurezza.
Svoltando l'angolo si ritrovarono in un altro corridoio bordato di porte. Sulla soglia di una stanza c'era un monitor cardiaco, messo di traverso in modo che i medici e le infermiere, passando, potessero controllare l'elettrocardiogramma del paziente. I suoi bip fiochi e ritmati erano l'unico rumore che si sentiva. In fondo al corridoio, dietro la doppia porta a vetri aperta, c'era il salone, una stanza allegra e con le pareti costellate di disegni dei bambini. Sul pavimento erano disseminati cuscini multicolori, libri e giocattoli. Una stanza che il bomber poteva aver trasformato in una trappola mortale. Harper deglutì e si diresse da quella parte. Aveva fatto solo un passo quando Duke lo superò di corsa, trascinandosi dietro il suo istruttore. Raggiunse direttamente il monitor cardiaco, fermandosi solo quando il suo naso toccò gli sportelli metallici del mobiletto sotto lo schermo. Si accovacciò. I tre uomini si immobilizzarono. Duke si voltò a guardarli in faccia, confuso perché non capivano che quello che stavano cercando era qui. Harper sentì la gola contrarsi. Il cuore gli stava pompando l'adrenalina nel flusso sanguigno. Era il riflesso "o-lava-o-la-spacca" che un artificiere deve imparare a ignorare. Deglutì e disse: «Meglio che chiami la sua squadra, capitano. E ordini di sgomberare...». Ma Alberghetti non lo stava ascoltando. Accovacciandosi di fronte al monitor aprì gli sportelli metallici. Il cuore di Harper fece una capriola. Era sciocco correre un simile rischio quando c'era la possibilità di una trappola esplosiva. Ma furono fortunati: non successe nulla. Il mobiletto era fin troppo grande, considerando che doveva contenere solo i fili e i circuiti elettrici dell'apparecchio. Sul suo fondo metallico c'era un sacco di spazio per la bomba - un semplice congegno detonante e un pezzo di C-4 grosso come un mattone. «Cristo santo!», esclamò Alberghetti. «Ce n'è abbastanza per demolire tutta questa sezione del piano. E anche quelli sopra e sotto». «Chiami i suoi uomini, capitano», lo sollecitò Harper. «Gli dica di portare l'attrezzatura. Questa bomba va disinnescata sul posto». Alberghetti estrasse una ricetrasmittente dalla tasca. Stavolta Harper era pronto. La sua mano sinistra schizzò in avanti e gli afferrò il braccio. «Non corriamo rischi inutili, okay?», disse in tono pacato. «Questo è un detonatore radiocomandato. Usi il telefono nella postazione delle infermiere».
L'altro non fece discussioni, felice di avere una scusa per allontanarsi dall'ordigno. Un altro capitano Brand. Duke piagnucolò e colpì con il muso la coscia del suo addestratore. Aveva fatto il suo dovere e voleva il biscotto. Harper disse al caporale: «Forse dovrebbe portare via il cane. Torni all'imbocco del corridoio. Tenga indietro la gente». «Sissignore!». Il caporale si allontanò con accanto il pastore tedesco trionfante. Duke aveva ricominciato a scodinzolare. 45 Harper era rimasto solo con la bomba. Ancora una volta la sua mente tornò all'altro corridoio silenzioso nel liceo del Queens e ancora una volta lui cercò di scacciare quel pensiero e le emozioni che lo fuorviavano. Doveva svuotare la mente. Riflettere sul da farsi. Aveva ancora l'elmetto infilato sotto il braccio. Fece per metterselo, poi cambiò idea. La tuta protettiva non sarebbe servita a granché: la potenza dell'esplosivo era tale che equivaleva a indossare dei bermuda. L'ordigno sarebbe esploso non appena Markman avesse premuto il pulsante del suo trasmettitore radio. E poteva farlo in qualunque momento. Ma lo avrebbe fatto? Se era abbastanza vicino da poter osservare la scena oppure se stava guardando la TV in un albergo, sapeva sicuramente che Delilah era ancora in attesa nella limousine. Quindi avrebbe aspettato anche lui. Non si sarebbe lasciato prendere dal panico e non avrebbe schiacciato il pulsante. Non era nel suo stile, si disse Harper per tranquillizzarsi. Se aveva ragione, per il momento non si doveva fare altro che aspettare l'arrivo della squadra artificieri. E lui non aveva motivo per restare lì. Poteva allontanarsi, raggiungendo Alberghetti nella postazione delle infermiere. Voltò la testa e guardò dentro la stanza, dove una bambina bionda di cinque o sei anni era sdraiata sul letto, priva di conoscenza e con una fleboclisi collegata al braccio. Lei non poteva andare da nessuna parte, proprio come gli altri pazienti in tutte le camere affacciate sul corridoio. Harper scoprì che non riusciva ad allontanarsi. Un po' dipendeva dalla riluttanza ad abbandonare i bambini anche se non poteva fare niente per loro, ma a trattenerlo era soprattutto un'irresistibile curiosità. Aveva braccato
a lungo Tony Markman, ma questa era la prima volta che si ritrovava faccia a faccia con una delle sue creazioni. Non poteva resistere alla tentazione di esaminare un ordigno costruito dal Celebrity Bomber. Si inginocchiò per guardare più da vicino il congegno nascosto nel mobiletto metallico. Era semplice ed essenziale, lo stretto necessario e niente più: un pezzo di C-4, un detonatore, un ricevitore radio e una batteria. Notò che lo strato di vernice che di solito riveste la batteria e reca il nome del produttore era stato accuratamente raschiato, lasciando in bella mostra il metallo nudo e scintillante. Persino in occasione dell'ultimo attentato, quando ormai non aveva più nessuna importanza, Markman aveva rispettato le proprie scrupolose abitudini eliminando ogni potenziale indizio. Ogni pezzo di plastica e di metallo sembrava nuovo di zecca e pulitissimo e i fili elettrici non erano più lunghi del dovuto. Tutto perfetto. Un ordigno costruito con amore, come tutti quelli del bomber. Harper si accigliò e strizzò gli occhi. C'era un filo di troppo. Strano. Raggiungeva un angolo del mobiletto che lui non poteva vedere perché il capitano Alberghetti non aveva aperto completamente lo sportello di sinistra. L'istinto gli consigliò di non spalancarlo. Si avvicinò, badando di non toccare niente, e sbirciò all'interno. Sì, eccolo lì. Accanto al cardine dello sportello brillava un pezzo di filo di rame privo del rivestimento isolante. Un secondo filo usciva da una batteria fissata all'interno dell'antina. Le loro estremità distavano solo un centimetro. Se Alberghetti avesse aperto del tutto lo sportello, si sarebbero toccate, completando il circuito. Facendo esplodere la bomba. Avevano evitato la morte per un pelo, per un solo centimetro. Allungò una mano. Era tentato di chiudere l'antina, separando ulteriormente i fili e rimettendo tutto com'era prima dell'intervento di Alberghetti. Ma come poteva essere sicuro che non ci fosse un'altra trappola esplosiva invisibile che lui rischiava di innescare? Ritrasse la mano e si alzò lentamente. Sapeva parecchie cose sulla paura. Era una componente fissa del suo lavoro, proprio come la fatica accompagna invariabilmente il lavoro di un'infermiera. Laura gli aveva spiegato che capiva quando era semplicemente troppo stanca per continuare. E adesso lui era troppo spaventato per andare avanti. Pensò che fosse venuto il momento di allontanarsi. Non era un problema suo. La squadra di Alberghetti stava arrivando. Quegli uomini disponeva-
no delle migliori attrezzature in circolazione ed erano perfettamente addestrati. Avevano cinque dita in ogni mano. Ed erano coraggiosi perché non sapevano cosa succede quando una bomba esplode, quando ti fa volare in aria come un coriandolo di carta e imbratta il muro del tuo sangue. Cominciò a indietreggiare lentamente. «Ehi!». Voltandosi vide un medico nero con gli occhiali che si avvicinava a grandi passi. «È lei il capo? Quest'uomo dice che c'è una bomba...». «Infatti», rispose Harper. «Stia indietro». Il dottore si fermò. La luce si rifletteva sui suoi occhiali, impedendo a Harper di vedere il suo sguardo. Altre persone con camici bianchi o multicolori stavano svoltando l'angolo - infermiere, inservienti, medici. Lui si parò davanti all'ordigno allargando le braccia. «Per favore, state indietro!», gridò. «Fra poco arriverà una squadra per disinnescare la bomba. Per ora dobbiamo stare attenti a non disturbarla». «Vuole dire che potrebbe esplodere in qualsiasi momento?», chiese il medico, in tono scettico ma non privo di una leggera traccia di paura. «Sì». Gli altri rimasero paralizzati per un attimo, scambiandosi occhiate allibite. Poi, senza dire una parola, si mossero. Ma invece di tornare indietro come sperava Harper si sparpagliarono in tutte le direzioni, verso le stanze. «No!», urlò. «Non potete evacuare i pazienti adesso! Dovete...». Si interruppe vedendo che era tutto inutile. Nessuno badava a lui. Un'infermiera lo superò di corsa, passando a meno di trenta centimetri dal monitor cardiaco. Bastava sfiorarlo o urtarlo e lo sportello si sarebbe spalancato, facendo esplodere l'ordigno. Un'altra infermiera e un tizio alto con i capelli rossi e la divisa da paramedico entrarono nella camera della bambina a cui era collegato il monitor. Cominciarono a staccare la fleboclisi e ad alzare le sponde del letto, ansiosi di spingerlo fuori. Solo che non c'era abbastanza spazio, con l'apparecchio sistemato sulla soglia. Harper scrutò il corridoio. Il personale ospedaliero stava uscendo dalle varie stanze: alcuni avevano in braccio dei bambini, altri spingevano delle sedie a rotelle. Un inserviente ne stava spingendo una per mano, occupando quasi interamente il corridoio.
Lui lanciò un'occhiata verso lo sportello metallico semichiuso e fissato precariamente ai cardini e prese una decisione. Entrò nella stanza, dove il paramedico stava bloccando le sponde del letto. Aveva notato gli occhielli scintillanti di un paio di forbicine che spuntavano da una specie di fodero fissato alla sua cintura. «Mi servono le sue forbici», disse. «Servono a tagliare i punti di sutura e nient'altro», rispose l'altro in tono irritato. Aveva fretta e non lo degnò nemmeno di un'occhiata. Harper sbatté lentamente le palpebre, cercando di controllarsi. Molto tempo prima Jimmy Fahey aveva ammesso di invidiargli il tono di voce capace di far fare alla gente quello che voleva. Sperava tanto di non averlo perso. «Me le dia, subito», ordinò. Il paramedico si immobilizzò per un istante, poi la sua mano raggiunse la cintura e gliele passò. Harper girò su se stesso e posò un ginocchio a terra, davanti al mobiletto. Non poteva maneggiare le forbici con la mano mutilata, quindi avrebbe usato la sinistra. Dopo l'incidente, doveva aver rimpianto almeno diecimila volte di non essere mancino, ma mai più di adesso. Fu costretto a piegarsi verso destra e a contorcersi per infilare il braccio nell'armadietto nel modo giusto e a guardare al di sopra della spalla sinistra per vedere cosa stava facendo. Il suo gomito era sgradevolmente vicino al bordo dello sportello con la trappola esplosiva. La manica rigida e pesante della tuta protettiva rappresentava un altro intralcio. Con il dito medio della mano destra sollevò il filo che collegava il trasmettitore al detonatore. Non poteva stringerlo per via delle dita: l'indice e il pollice, che gli mancavano, gli servivano per afferrare e sollevare il filo della trappola esplosiva in modo da poterlo tagliare. Era come una diabolica partita di ripiglino. Tutt'intorno regnava un notevole frastuono: grida, il tintinnio delle lettighe e delle sedie a rotelle e il pianto dei bambini. Si costrinse a non ascoltare. Niente aveva importanza, tranne il filo della trappola esplosiva. L'indice e il pollice si avvicinarono e lui riuscì a sentire la tensione in tutto il corpo dolorosamente contorto, il peso che si spostava e le suole delle scarpe che cominciavano a fare leva sul pavimento. Se si fosse spinto troppo in avanti sarebbe caduto, trascinando il mobiletto con sé. Ecco, aveva afferrato il filo. Lo sollevò e lo inserì tra le lame delle forbi-
ci. Premendo, le sentì tagliare il rivestimento di plastica. Ma non il filo di rame sottostante. Cristo, pensò - erano fatte per i punti di sutura. E se non fossero riuscite a recidere il metallo? Flettendo ogni muscolo dalla spalla in giù provò di nuovo. Il filo si ruppe. Nonostante il fracasso nel corridoio riuscì a sentire il proprio sospiro di sollievo. Guardò il filo del detonatore posato sul dito medio. Perché no?, si chiese, poi tagliò anche quello. Poi, accovacciato, fissò il pezzo di C-4. Un attimo prima, se un minuscolo impulso elettrico lo avesse raggiunto avrebbe scatenato la forza dirompente di un tornado e di un incendio. Adesso era soltanto un innocuo ammasso di plastilina. 46 Markman si trovava nel parcheggio di fronte all'ospedale. Rannicchiato nell'esiguo spazio tra due auto fissava, al di sopra del parapetto di cemento, l'ingresso dell'edificio sottostante. In una mano stringeva il trasmettitore con cui avrebbe fatto esplodere la bomba, nell'altra una radio capace di inserirsi sulle frequenze della polizia. Sentiva un guazzabuglio di scariche statiche e grida eccitate; era evidente che l'ordigno da lui piazzato nel monitor cardiaco era stato scoperto e disinnescato. Da Harper. Fu quasi sopraffatto dalla rabbia e dallo scoramento. Avrebbe voluto urlare, sbattere sul cemento l'ormai inutile trasmettitore finché la plastica non si fosse sbriciolata. Ma, come sempre, riuscì a controllarsi. Con un movimento lento e preciso lo posò sul terreno granuloso e macchiato di olio. Poi infilò una mano in tasca ed estrasse l'altro trasmettitore. Quello per la seconda bomba. Il vialetto d'accesso all'ospedale era addirittura più gremito di prima, ma la polizia e le guardie di sicurezza tenevano sotto controllo la zona. Il fremito di eccitazione che attraversò la folla lo costrinse a guardare giù. Stavano per far scendere Delilah dalla limousine e accompagnarla nell'ospedale. Pensavano che ormai fosse al sicuro. Si sbagliavano. Persino da quassù riuscì a sentire il sospiro della folla mentre la portiera
si apriva e lei usciva. Lungo le barriere della polizia la gente cominciò a fare a gomitate e ad allungare il collo. Idioti, pensò lui. Avevano un gran bisogno della lezione che poteva impartirgli. Il suo piano di riserva non avrebbe comunicato il messaggio con la stessa chiarezza di quello originale, ma andava bene lo stesso. Doveva accontentarsi. Osservò la testa bionda, il corpo snello fasciato dall'elegante abito rosa. Oh, era bellissima, doveva ammetterlo. Fu costretto a reprimere l'impulso di prendere il binocolo per darle un'ultima occhiata. Per un attimo pensò che se la sua arma fosse stata un fucile ad alta precisione... Ma non era così. Disponeva di un'arma diversa. Più lenta di un proiettile ma altrettanto infallibile. Delilah e il cordone di guardie salirono i gradini ed entrarono nell'ospedale. Attraverso le porte a vetri la vide svoltare a sinistra. La stavano accompagnando nella sala d'aspetto adiacente all'atrio, dove due settimane prima lo stesso Markman era rimasto in attesa prima del suo tour dell'edificio. Prese il binocolo e lo puntò sulla finestra della stanza. Non riuscì a vedere Delilah. I soliti parassiti delle celebrità cominciavano a gremire la sala - tizi con l'aria preoccupata in abito scuro o in uniforme che gironzolavano e parlavano in cellulari o ricetrasmittenti. Markman poteva sentirne alcuni con la sua radio. Era una confusa mescolanza di voci e scariche statiche, ma una parola ricorreva spesso: "Harper". Era l'uomo del giorno. La celebrità. Tutti volevano parlare con lui anche se Delilah, ovviamente, aveva la precedenza. Proprio adesso lo stavano accompagnando da lei, direttamente dal terzo piano. Non gli avevano neanche lasciato il tempo di togliersi la rigida e brutta tuta protettiva che Markman gli aveva visto indossare. Un cavaliere dall'armatura non tanto scintillante che veniva condotto davanti alla sua principessa. Una scena davvero toccante. L'occasione per farsi scattare una bella foto. Chiunque avesse studiato Delilah come Markman avrebbe capito che lei avrebbe fatto proprio questo. Sorrise cupamente e mise a fuoco il binocolo puntandolo sulle porte a vetri dell'ospedale. Non riusciva a vedere tutto l'atrio fino alla fila di ascensori, ma poteva tenere d'occhio la folla assiepata attorno al bancone della reception e dalla sua reazione avrebbe capito che l'eroe era arrivato. Si accorgeva solo vagamente dei rumori provenienti dai piani sottostanti del parcheggio. I messaggi via radio avevano rivelato che la polizia si stava finalmente scuotendo dalla confusione iniziale e stava isolando la zona.
Avevano chiuso tutti gli ingressi del garage e la squadra speciale lo stava perlustrando, livello dopo livello. Non aveva nessuna importanza. A lui non interessava scappare. Gli serviva solo qualche altro minuto. Il tempo di concludere la sua missione e la sua vita. Continuò a guardare attraverso il binocolo e dopo un attimo la sua pazienza venne premiata. Harper stava sicuramente uscendo dall'ascensore: i segnali erano inequivocabili. Il bagliore delle luci delle telecamere e il lampo dei flash dei fotografi illuminarono le porte di vetro. L'agitazione della folla aumentò. Alcune persone in fondo alla stanza stavano saltellando per poter dare un'occhiata al grand'uomo. Markman spense la radio, poi si impose di non ascoltare le grida dei poliziotti che ispezionavano l'edificio sotto di lui. Si concentrò sull'esame della folla dietro le spesse porte trasparenti. Sarebbe riuscito sicuramente a vedere Harper per un attimo, mentre passava. A quel punto avrebbe iniziato il conto alla rovescia. Una volta perso di vista Harper, gli avrebbe concesso tre minuti di tempo per entrare nella sala d'aspetto e raggiungere Delilah. Poi... Il suo dito si posò sul pulsante del detonatore. Quando le porte dell'ascensore si aprirono sull'atrio, Harper venne accecato dal guizzo dei flash e dal costante bagliore delle lampade alogene dei tizi della TV. Laura gli aveva fatto notare che, quando appariva sui giornali, aveva sempre una smorfia stampata in viso e gli occhi socchiusi; probabilmente sarebbe successo di nuovo. Tutti gli stavano gridando delle domande ma non riusciva a sentirle e non aveva voglia di rispondere. Non era dell'umore adatto. Quando le forbici avevano tagliato il filo, era piombato in una specie di felice intontimento. Aveva già provato prima quella strana sensazione. Era come se l'intensa concentrazione necessaria per disinnescare la bomba esigesse una valvola di sfogo per la tensione, una volta passato il pericolo. La sua attenzione era solo saltuaria. Si accorgeva solo vagamente delle persone intorno a lui che gli parlavano e lo spingevano verso Delilah. Stava pensando soprattutto a quando avrebbe rivisto Laura e riflettendo sulla splendida prospettiva di poter continuare a respirare per anni e anni. Non avrebbe più dato per scontata quell'attività. Si stavano avvicinando alla soglia di una stanzetta affollata come l'atrio. Intravide per un attimo la superstar che, seduta al centro, guardava verso di
lui con aria di aspettativa. I suoi pensieri ribelli tornarono ad Anthony Markman. Questo era un lieto fine come quelli che il bomber disprezzava tanto e della cui falsità voleva così ardentemente convincere il mondo. Una vera e propria dissolvenza hollywoodiana, con la gente minuscola che si scaldava allo scintillio delle star, una delle quali, incredibilmente, era Harper. La sensazione di felicità e benessere scomparve mentre il suo cervello si rimetteva in funzione. Markman era ancora a piede libero - perché supporre che avesse finito? Lui riusciva ancora a percepirne la presenza, come sempre da quando aveva raggiunto Washington. La prima volta era successo nell'atrio dell'hotel, la mattina del suo arrivo, quando il capitano Brand gli aveva regalato la tuta protettiva... Si bloccò. Il sudore gelido cominciò a scorrere sotto la sua ingombrante armatura. E se il suo istinto avesse avuto ragione? Quel giorno l'atrio era molto affollato, quindi il bomber avrebbe avuto a disposizione un sacco di nascondigli da cui osservare indisturbato la piccola cerimonia. E Harper aveva lasciato la tuta nella sua stanza per l'intera mattinata, dandogli tutto il tempo di... Di piazzare una seconda bomba, nel caso che la prima fallisse. Nella tuta protettiva! Harper stava portando a Delilah la morte ignea che lei aveva appena evitato. E sarebbe morto insieme a lei. «No!», gridò. Si dimenò per liberarsi dalle mani che lo stavano spingendo verso la rockstar. La gente non capiva come mai il suo eroe si stesse comportando così. Continuò a sorridergli, ma aveva lo sguardo perplesso. «Cosa c'è? Deve fare pipì?», chiese scherzosamente qualcuno. «Deve vomitare, lo fanno sempre dopo aver disinnescato una bomba», spiegò una reporter con il tono di chi la sa lunga. Una voce cominciò a farfugliare: «Delilah... Delilah...». Lui non aveva il tempo di dare spiegazioni. Non voleva urlare "Bomba!" e provocare un'ondata di panico che avrebbe potuto ostacolare ulteriormente il suo tentativo di raggiungere l'uscita. Scrollandosi di dosso le mani che lo stringevano, si aprì faticosamente un varco tra la folla confusa che protestava, e si diresse verso la scritta "EXIT" che campeggiava sopra le loro teste. Finalmente raggiunse la porta e la aprì, ritrovandosi davanti una rampa di scalini di cemento che portava nel seminterrato. Scese di corsa. L'uscio
alle sue spalle si spalancò. Lo stavano ancora inseguendo, gridandogli delle domande. Lui si voltò e urlò: «Sono io la bomba! Markman mi ha messo addosso dell'esplosivo! State indietro!». Funzionò: la gente risalì rapidamente i gradini e la porta si chiuse con un tonfo. Adesso Harper era solo in un umido e stretto corridoio nel seminterrato. Tastò la rigida stoffa della tuta. Non c'erano tasche. Il plastico doveva essere stato cucito nel tessuto, talmente spesso da impedirgli di sentire una piccola carica piatta che però, se posta a contatto della pelle, lo avrebbe letteralmente sventrato. Molto probabilmente c'era anche un detonatore grande come un ditale e un timer in miniatura - oppure un trasmettitore. Quale dei due? Non aveva il tempo per pensarci. Doveva levarsi la tuta protettiva e allontanarsene. Un uomo con due mani perfettamente funzionanti poteva riuscirci nel giro di pochi secondi, ma per lui fu una vera impresa. Staccò le linguette di velcro nei polsini e nel colletto. Poi aprì con forza la cerniera, e la falda rinforzata che proteggeva l'inguine gli cadde pesantemente tra le gambe. Incrociò le braccia e sollevò la casacca fin sopra la testa, ritrovandosi al buio. Il rigido e pesante indumento non voleva saperne di staccarsi. Lui si dimenò, continuando a tirare. Il suono del suo respiro soffocato e affannoso gli riempì le orecchie. Finalmente, con uno sforzo disperato, unito a un sordo lamento, riuscì a sfilarsela da una spalla. Anche la camicia madida di sudore si sollevò e lui sentì, l'aria fresca sulla schiena nuda. Si liberò di entrambi gli indumenti e li lasciò cadere a terra. Poi abbassò lo sguardo sui pantaloni. E si rese conto che, per toglierli, avrebbe dovuto prima levarsi le scarpe. Doveva sfilarsi tutto oppure allontanarsi di corsa? Cercò di entrare un'ultima volta nel cervello di Markman. L'imbottitura più spessa era nella casacca: era più facile nascondere lì la bomba che, inoltre, sarebbe stata anche più vicina agli organi vitali. Guardò l'indumento posato per terra. Poi cominciò a correre. Schizzò lungo lo stretto corridoio semibuio, ansimando. Poteva soltanto sperare di essersi lasciato l'ordigno alle spalle, invece di portarlo con sé. Vide che il corridoio svoltava e accelerò, cercando di girare l'angolo prima che la bomba... Un boato gli riempì le orecchie e il pavimento sembrò franargli sotto i piedi. L'onda d'urto lo sollevò e lo scagliò contro il muro. Quando rinvenne si ritrovò sdraiato scompostamente sul pavimento di
cemento. Le orecchie gli fischiavano dolorosamente. Sollevando la testa, si esaminò il torace nudo, le gambe, i piedi. Era ancora tutto intero. Grazie a Dio! Aveva indovinato: la bomba era nella casacca. Tutto il suo corpo cominciò a tremare. Rimase sdraiato ad aspettare, sapendo che alla fine il tremito sarebbe cessato. E poi... avrebbe avuto tutto il resto della vita! Markman sollevò la testa sopra il parapetto e fissò incredulo l'ospedale. Aveva appena premuto il pulsante. Avrebbe dovuto sentire l'esplosione, vedere le finestre disintegrarsi, la folla sul vialetto che urlava e si gettava a terra. Cosa poteva essere successo? Dove aveva sbagliato? «Fermo!», gridò una voce alle sue spalle. Proprio come un attore in un film TV scadente, pensò. Così i poliziotti che perlustravano il garage lo avevano scovato, alla fine. Per Markman era un dettaglio del tutto insignificante in confronto alla sensazione di fallimento, alla scioccante consapevolezza di non aver completato lo schema, non aver compiuto la sua missione né consegnato il suo messaggio al mondo. Forse doveva lasciarsi arrestare e poi trasformare il suo processo in un palcoscenico, un podio da cui poter svelare la grossa menzogna delle celebrità. No, non avrebbe funzionato. In cattività sarebbe diventato un animale da circo, da guardare a bocca aperta e deridere ma non certo da prendere sul serio. Gli psicologi televisivi avrebbero spiegato il suo comportamento. No, impossibile. Così non restò fermo. Si voltò e si alzò. Non si aspettava di poter completare il movimento ma di essere crivellato dai proiettili. Un attimo di caldo e di dolore e poi l'oblio. Ma il poliziotto non sparò. Aveva un viso giovane e spaventato, gli occhi sgranati e la bocca aperta sotto l'elmetto con visiera della squadra speciale. La pistola, benché impugnata con entrambe le mani e a braccia tese, stava ancora tremando mentre gliela puntava contro. «Fermo!», gridò di nuovo. Markman sorrise e fece un passo verso di lui. Il poliziotto non premette il grilletto. Cristo, pensò Markman, cosa ci voleva per convincerlo?
«Butta l'arma!», urlò l'altro. Si riferiva al trasmettitore, che Markman stringeva ancora nella mano sinistra. Bell'arma. Solo un inutile pezzo di plastica. «Lasciala cadere! Subito!». Markman sorrise. Forse non era inutile, dopo tutto. Forse gli avrebbe fatto ottenere l'unica cosa che desiderava. Sollevò il trasmettitore e lo puntò contro il giovane agente. Ecco cosa ci voleva. Epilogo Lontano dai brillanti riflettori della TV, dalle macchine fotografiche, dai registratori, i flash e i microfoni, Harper era sdraiato insieme a Laura nella stanza della casa di Brooklyn, che odorava di vernice fresca, legno sabbiato e lacca appiccicosa. Era una notte tranquilla e silenziosa. Solo il rumore di auto sporadiche ma veloci, un'occasionale sirena lontana o il rombo di un jet riuscivano a raggiungere il buio della camera. Lui ascoltò questi suoni e il ritmato respiro della moglie e fissò il soffitto in ombra, sentendo che il passato allentava la sua morsa. Markman era indubbiamente, definitivamente ed eternamente morto. Come Jimmy Fahey. Il Bureau aveva trasferito Frances Wilson nella divisione rapine in banca di New York. Secondo Addleman, questo significava che sarebbe stata impegnata nel lavoro di squadra e non nella supervisione, almeno nell'immediato futuro. La sua carriera nell'FBI era entrata in una fase di stallo. Addleman era stato oggetto delle congetture dei media; gli avevano offerto un contratto per scrivere un libro e un posto in agenzie di sicurezza private. Aveva rifiutato, preferendo svolgere attività di consulenza dal suo appartamento di Philadelphia. Adesso che poteva scegliere, aveva spiegato a Harper, era felicissimo di restare dov'era. Lui sapeva cosa voleva dire perché aveva rifiutato lo stesso genere di proposte. Quasi tutte, almeno. Aveva accettato di scrivere un libro collaborando con un romanziere raccomandato da un'agenzia specializzata e dal suo editore. Il contratto non avrebbe reso lui e la moglie favolosamente ricchi, ma prevedeva un compenso che Harper non si sarebbe neanche sognato, qualche mese prima. Il denaro non sarebbe mai più stato un problema se i suoi investimenti si rivelavano giusti. E Laura avrebbe potuto avere qualunque cosa volesse,
nei limiti del ragionevole, e lasciare il posto all'ospedale. Se avesse voluto lasciarlo. Forse, proprio come Addleman, avrebbe deciso che preferiva continuare a fare quello che stava facendo. Non ci sarebbero state obiezioni da parte di Harper, che sarebbe andato a Rodman's Neck ogni volta che lo avessero invitato. Perché adesso era contento di godersi la pensione accanto a Laura, nella loro casetta di arenaria. FINE