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ISAAC ASIMOV PRESENTA AVVENTURE NELL'OCCULTO (Tales Of The Occult, 1989) a cura di ISAAC ASIMOV, MARTIN H. GREENBERG e CHARLES G. WAUGH Indice Introduzione di Isaac Asimov AVVENTURE NELL'OCCULTO Esperienze dopo la morte Sotto il bisturi di H.G. Wells Astrologia I figli dello Zodiaco di Rudyard Kipling Chiaroveggenza La cercatrice di Henry Slesar Presagi di morte La banshee emigrata di Gertrude Henderson Adorazione del demonio Il giovane signor Brown di Nathaniel Hawthorne Il doppio In uno specchio scuro di Helen McCloy Riti propiziatori Cena muta di Kris Neville Malocchio Il cuore rivelatore di Edgar Allan Poe Esorcismo La casa e il cervello di Edward Bulwer-Lytton La "mano gloriosa" Mano d'uomo morto di Manly Wade Wellman Obblighi sovrannaturali La falce di Ray Bradbury Trasferimento di personalità Il grande esperimento di Keinplatz di Arthur Conan Doyle Possessione
Conosci Dave Wenzel? di Fritz Leiber Precognizione Calore d'agosto di W.F. Harvey Profezie Parlami di morte di Cornell Woolrich Leggere il futuro La donna che pensava di saper leggere di Avram Davidson Reincarnazione Appuntamento nel tempo di C.L. Moore Sedute spiritiche Il melo di Blood di John Hay Il corpo astrale Il cercatore di persone scomparse e il sigillo di Salomone di Robert W. Chambers Magia simpatica La signorina Esperson di August Derleth Telepatia Il guardone di Judith Merril Controllo della volontà Il dito che avanza di Edith Wharton Introduzione "Occulto" è un termine che deriva dal latino e significa "nascosto". In astronomia viene usato in senso letterale: se un oggetto astronomico passa davanti a un altro, si dice che quest'ultimo è stato "occultato" o è in fase di "occultazione". Così la luna può occultare il pianeta Venere e Venere a sua volta può occultare una stella. In un'accezione più familiare, tuttavia, qualunque cosa sfugga alla comprensione umana è considerata "occulta": nel passato eravamo abituati a pensare che molti fossero i campi a noi preclusi, non solo temporaneamente ma in via definitiva. Il meccanismo dell'universo non era compreso dagli uomini e vi era la convinzione che non lo sarebbe mai stato. Solo la sovrannaturale coscienza degli dèi era in grado di afferrare quei misteri. Nel Libro di Giobbe, per fare un esempio, il protagonista è irato e amareggiato per il male che viene inflitto in modo imprevedibile e arbitrario a uomini giusti e virtuosi; ma quando finalmente Dio gli risponde non è per spiegargliene le ragioni o per dimostrare che ciò che sembrava ingiusto e
arbitrario in fondo non lo è: si limita soltanto a proclamare l'innata incapacità degli esseri umani di comprendere l'occulto. Le parole attribuite al Signore sono queste: "Dov'eri tu quando io fondavo la terra?... Chi fissò le sue dimensioni, che tu sappia, e chi ne stabilì i confini? Su che cosa stanno fissi i suoi cardini e chi gettò la sua pietra angolare? E ancora, chi ha chiuso le porte dell'oceano quando esso cominciò a riversarsi?... Sei tu che hai comandato il mattino... e hai fatto spuntare l'alba?... Ti sei forse spinto alle sorgenti del mare, o hai passeggiato nelle profondità dell'abisso?..."1 e così via. Tanto pietosa è la mia ignoranza che quando cercai per la prima volta di svelare il mistero del Libro di Giobbe mi indignai alle parole di Dio e pensai: non è una risposta, questa. Si deve dissipare il dubbio, non proclamarlo trionfalmente. Naturalmente allora ero giovane, ma pur essendo invecchiato non ho cambiato idea. Comunque, torniamo all'occulto. Ci sono sempre stati alcuni individui che hanno affermato di conoscere le cose nascoste, o in virtù di una rivelazione divina o per loro semplice asserzione. L'occulto - ciò che è nascosto all'osservazione normale - appare spesso nei miti e nelle leggende. In realtà se ne occupa anche la scienza, nel senso che molte delle sue scoperte non sono accessibili all'uomo comune, che si limita a servirsi dei sensi con cui è nato. Nessuno, guardando il mondo che lo circonda e sfruttando l'udito, il gusto, il tatto o l'odorato può rendersi conto del fatto che la materia è composta di atomi, che l'ereditarietà è affidata alle molecole del DNA, che l'energia si conserva, che il sole dista centocinquanta milioni di chilometri eccetera eccetera. (L'autore del Libro di Giobbe avrebbe potuto mettere in bocca a Dio domande anche su questi problemi, se avesse sospettato l'esistenza di simili arcani.) La differenza fra l'occulto scientifico e quello non-scientifico, in sostanza, è questa: gli scienziati fanno del loro meglio per illustrare ogni passo delle rispettive scoperte e nessuna di esse è ritenuta valida fino a quando non sia stata confermata da altri studiosi che si servono di altri strumenti e agiscono in luoghi, tempi e circostanze differenti. La scienza si sforza di essere chiara e manifesta, lasciando quanto meno è possibile nell'oscurità e nel mistero. Gli occultisti, al contrario, non cercano di spiegare ma si limitano ad affermare. In realtà, l'ultima cosa che desiderano è dar spiegazioni, perché il loro potere poggia sulla convinzione che essi comprendano quello che gli
altri non possono e che le loro facoltà eccedano quelle dei comuni mortali. Nel mistero e nella confusione risiede la loro unica speranza di successo. È strano, ma è molto più facile credere agli occultisti che agli scienziati; molte persone che mettono in dubbio l'esistenza degli atomi e dubitano con tutto il loro essere che la velocità della luce non possa essere superata accettano senza fiatare la realtà degli UFO e sono pronte a credere che i fantasmi esistano o che la percezione extrasensoriale sia un dato di fatto. Perché avviene questo? Per quale motivo la gente respinge il reale e piega la testa dinanzi alle falsità? Per me la risposta è che la scienza descrive l'universo come in effetti è, stando almeno alle attuali cognizioni; occultisti e ciarlatani, al contrario, lo adeguano ai desideri dell'umanità. Data un'opportunità di scelta fra la fredda realtà e una dorata menzogna, per quale opteranno coloro che non sono permeati dalla ragione? Naturalmente, se in una sorta di gioco decidessimo di sospendere la nostra incredulità verso l'irrazionale (il discorso vale per chi possiede il ben dell'intelletto), scopriremmo che i racconti dell'occulto e dell'insolito sono spesso divertenti. Le storie di fantasmi, quando sono raccontate bene, possono spaventarci anche se sappiamo che i fantasmi non esistono. La fiaba di Cenerentola può toccare la corda dei nostri sentimenti più profondi anche se ci rendiamo conto che a questo mondo non ci sono fate madrine. In realtà, siamo tutti ansiosi di credere nel lieto fine, nel trionfo della virtù, nella vittoria della giovinezza e dell'innocenza sulla vecchiaia e sulla perfidia e in molte altre cose che troviamo spesso nella narrativa e quasi mai nella vita reale. In questo libro, quindi, abbiamo scelto per voi una serie di racconti che trattano i vari aspetti dell'occulto, facendoli seguire ogni volta da un mio breve commento. Isaac Asimov 1
Giobbe, 38, 4 sgg. Avventure nell'occulto Esperienze dopo la morte SOTTO IL BISTURI di H.G. Wells
"E se morissi sotto i ferri?" Quel pensiero continuava ad assillarmi sulla via di casa, di ritorno da Haddon. Era una domanda strettamente personale. Mi era risparmiata l'angoscia dell'uomo sposato e sapevo che la mia morte avrebbe angustiato gli amici intimi soprattutto per la seccatura di mostrarsi addolorati. Ero sorpreso e perfino un po' umiliato, pensandoci bene, nel rendermi conto che pochissimi di loro sarebbero sfuggiti a questa regola. Durante la passeggiata da casa di Haddon, a Primrose Hill, le cose mi apparvero senza veli, nella cruda luce della verità. C'erano gli amici di gioventù, ma ora mi rendevo conto che il nostro affetto era un'abitudine che ci sforzavamo di mantenere con una certa fatica. C'erano i rivali e gli alleati nel campo del lavoro. Immagino di essere stato freddo con tutti, di non aver manifestato i miei sentimenti: ma forse l'una cosa implica l'altra. Può darsi che persino la capacità di fare amicizia sia una questione fisica. C'era stato un tempo, nella mia vita, in cui la perdita di un amico mi aveva addolorato abbastanza; ma quel pomeriggio, mentre tornavo a casa, il lato emotivo della mia fantasia languiva. Non riuscivo a compatire me stesso, non provavo dolore per gli amici e non sapevo immaginare che si dolessero per me. M'interessava questa morte delle emozioni, senz'altro legata alle stagnanti condizioni del mio corpo, e i miei pensieri erravano nella direzione che essa pareva suggerirmi. Una volta, in gioventù, avevo avuto un'improvvisa perdita di sangue ed ero stato a un passo dalla morte. Rammentavo ora che i miei affetti, come le mie passioni, si erano prosciugati, non lasciando altro che una tranquilla rassegnazione e un lievissimo sentore di autocommiserazione. Erano passate settimane prima che le vecchie ambizioni, gli affetti e il complesso gioco di sentimenti che caratterizzano l'uomo fossero tornati a manifestarsi. Riflettei che il vero motivo di questo ottundimento poteva essere il graduale abbandono del modello piaceredolore che guida l'animale umano. Credo sia stato dimostrato (per quanto si possano dimostrare le cose a questo mondo) che le emozioni più alte, il senso morale e persino le più sottili tenerezze dell'amore si siano evoluti dai desideri e dalle paure elementari dell'animale: sono i finimenti a cui s'imbriglia la libertà intellettuale dell'uomo. Ora, non può darsi che quando la morte proietta su di noi la sua ombra e la nostra capacità d'azione diminuisce, questa complessa produzione di impulsi che si controbilanciano, di propensioni e avversioni la cui interazione ispira i nostri atti, scompaia a sua volta? Il problema è che cosa rimanga al suo posto. Fui improvvisamente riportato alla realtà dal pericolo di scontrarmi col
vassoio di un garzone di macelleria. Scoprii che stavo attraversando il ponte sopra il canale di Regent's Park, nel punto in cui corre parallelo al ponte verso il giardino zoologico. Il garzone, vestito di blu, aveva la testa girata per seguire una chiatta nera che avanzava lentamente, rimorchiata da un magro cavallo bianco. Nello zoo una bambinaia guidava tre bambini felici sul ponte. Gli alberi erano di un verde brillante, le speranze della primavera non erano ancora offuscate dalla polvere estiva; nell'acqua il cielo si specchiava limpido e chiaro, ma interrotto da lunghe onde e tremule bande nere provocate dalla chiatta in avvicinamento. La brezza era stimolante, ma per me non come un tempo. L'ottundimento dei sentimenti era di per sé un presagio? Era strano che fossi in grado di ragionare e abbandonarmi a quella ragnatela di suggestioni con la lucidità di sempre: così, almeno, mi sembrava. Era la calma, non l'ottundimento che calava su di me. C'era qualcosa di fondato nelle credenze che riguardavano i presagi di morte? Un uomo prossimo a morire si ritira istintivamente dalle pastoie della materia e dei sensi, ancor prima che la gelida mano si posi sulla sua? Mi sentivo stranamente isolato - ma senza rimpianto - dalla vita e dall'esistenza intorno a me. I bambini che giocavano al sole e raccoglievano forze ed esperienza per l'impegno della vita, il custode del parco che chiacchierava con una bambinaia, la madre che accudiva il piccino, la giovane coppia che mi passava accanto assorbita nei rispettivi sguardi, gli alberi dalla parte della strada che stendevano nuove foglie ansiose alla luce del sole, il fremito fra i rami: anch'io ero stato parte di tutto questo, ma ora non più. A un certo punto, sulla Passeggiata grande, mi accorsi di essere stanco e di avere i piedi pesanti. Era un pomeriggio caldo, sicché piegai di lato e sedetti su una delle panche verdi che sono disseminate lungo il cammino. In un attimo mi addormentai e feci un sogno che il corso dei miei pensieri plasmò in una visione della Resurrezione. Ero sempre seduto sulla panca, ma morto e rinsecchito, con il corpo macchiato e grinzoso, un occhio (come potevo vedere) beccato addirittura dagli uccelli. «Svegliatevi!» gridò una voce, e all'improvviso la terra del sentiero e quella molle sotto l'erba cominciò a sollevarsi. Non avevo mai pensato a Regent's Park come a un cimitero, ma ora, attraverso gli alberi, vidi a perdita d'occhio una piatta distesa di tombe in travaglio e di lapidi che vacillavano. Sembrava che ci fosse qualche problema e i morti lottavano per alzarsi, come se stessero soffocando; lo sforzo di uscire dalle tombe li faceva sanguinare, la pelle rossa cadeva a brandelli dalle ossa bianche. «Svegliatevi!» gridò la voce,
ma io decisi di non alzarmi affatto e di non andare incontro a quegli obbrobri. «Svegliatevi!» Non mi lasciavano in pace. «Insomma, tiratevi su!» disse una voce irata. Un angelo con l'accento cockney! Il bigliettaio mi scuoteva per incassare il mio obolo. Pagai, misi in tasca il biglietto, sbadigliai, stirai le gambe e, sentendomi meno intorpidito, mi alzai e ripresi la passeggiata verso Langham Place. Ben presto mi persi di nuovo in un labirinto di pensieri di morte. Attraversando Marylebone Road nella mezzaluna che si trova alla fine di Langham Place, sfuggii per un pelo alle ruote di una carrozza e continuai per la mia strada con il cuore che batteva forte e una spalla indolenzita. Pensai che sarebbe stato strano se le mie riflessioni sulla possibilità di morire l'indomani avessero provocato la mia fine quel giorno stesso. Ma non vi tedierò oltre con le mie esperienze di quel giorno e del successivo. Sapevo con sempre maggior certezza che sarei morto durante l'operazione e credo che a volte mi ci crogiolassi addirittura. I medici sarebbero venuti alle undici e io non mi alzai. Mi sembrava che non valesse la pena lavarmi e vestirmi, e benché leggessi il giornale e la posta che era arrivata con la prima distribuzione, non ci trovai nulla d'interessante. C'era un'amichevole nota di Addison, il mio vecchio compagno di scuola, che attirava la mia attenzione su due piccoli errori e un refuso nel mio ultimo libro; un'altra era di Langridge, che minacciava un tiro mancino a Minton. Il resto erano lettere d'affari. Feci colazione a letto. Il dolore al fianco mi sembrava aumentato; sapevo che era dolore, eppure, se riuscite a seguirmi, non lo trovavo molto doloroso. Durante la notte ero rimasto sveglio, febbricitante e con la gola secca, ma al mattino, standomene a letto, mi sentii meglio. Durante la notte avevo continuato a pensare al passato; ora sonnecchiavo sul problema dell'immortalità. Haddon arrivò spaccando il minuto, con una linda valigetta nera; Mowbray lo seguì poco dopo. Il loro arrivo mi eccitò un poco e provai un interesse più personale nei preparativi. Haddon accostò al letto il tavolino ottagonale e volgendomi le spalle nere e possenti cominciò a pescare dalla valigetta. Sentii il leggero tintinnio del ferro sul ferro. La mia immaginazione, dunque, non era del tutto stagnante. «Mi farete molto male?» chiesi, volendo sembrare casuale. «Nemmeno un po'» rispose Haddon, sempre voltandomi le spalle. «Ti daremo del cloroformio, hai il cuore saldo come una campana.» E, mentre parlava, mi arrivò una zaffata dell'anestetico, dolce e pungente. Mi fecero stendere, mi scoprirono il fianco come si conviene e, prima che mi rendessi conto di quel che accadeva, mi somministrarono il cloro-
formio. Punge le narici e all'inizio dà un senso di soffocamento. Sapevo che sarei morto, che quella era per me la fine della coscienza, e all'improvviso sentii che non ero pronto. Avevo la vaga sensazione di aver trascurato un dovere, non sapevo quale. Che cosa non avevo fatto? Non riuscivo a pensare a nulla, nella vita non era rimasto niente di desiderabile, eppure provavo questa strana mancanza d'inclinazione per la morte. Le sensazioni fisiche erano dolorose, oppressive. Ovviamente i medici non sapevano che mi avrebbero ucciso; forse lottai. Poi rimasi immobile: un grande silenzio, un mostruoso silenzio e una tenebra impenetrabile scesero su di me. Dev'esserci stato un intervallo di assoluta incoscienza, secondi o minuti. Poi, con fredda e impersonale chiarezza, mi resi conto di non essere ancora morto. Ero tuttora nel mio corpo, ma le molteplici sensazioni che vengono dal corpo e formano lo sfondo della coscienza erano sparite, lasciandomi libero del tutto. No, non del tutto, perché qualcosa ancora mi tratteneva alla povera nuda carne sul letto; mi tratteneva, ho detto, ma non abbastanza da impedirmi di sentirmene estraneo, indipendente e avviato a un progressivo allontanamento dal corpo. Non credo di essere stato in grado di sentire, ma percepivo quel che avveniva intorno a me ed era come se vedessi e sentissi. Haddon era chino su di me, Mowbray alle mie spalle. Il bisturi era uno di quelli grossi - tagliava la carne del fianco, sotto le costole. Era interessante vedermi tagliato come un pezzo di formaggio, senza provare dolore e senza uno spasimo. L'interesse era del tipo che si prova guardando una partita a scacchi fra estranei. La faccia di Haddon era rigida, la mano ferma, ma mi meravigliai di sentire (come non so) che aveva fieri dubbi sulla propria capacità di eseguire l'operazione. Potevo leggere anche i pensieri di Mowbray: pensava che i modi di Haddon tradissero eccessivamente lo specialista. Nuove considerazioni salivano a galla come bolle in un flusso di pensieri turbinanti, e una dopo l'altra scoppiavano nel piccolo punto illuminato della sua coscienza. Nonostante il carattere invidioso e la tendenza a togliere agli altri, Mowbray non poteva fare a meno di ammirare la velocità di Haddon e la sua abilità. Vidi il mio fegato messo a nudo. Le mie condizioni mi stupivano: non avevo la sensazione di essere morto, ma in qualche modo ero diverso dall'"io" vivente. La grigia depressione che aveva pesato su di me per un anno o più era scomparsa. Sentivo e pensavo senza la minima sfumatura emotiva. Mi chiesi se per effetto del cloroformio tutti provassero la stessa cosa, e se una volta superata l'esperienza la dimenticassero. Sarebbe stato imbarazzante leggere i pensieri degli altri e non dimenticare.
Benché non ritenessi di essere morto, avvertivo con una certa chiarezza che fra poco lo sarei stato. Questo mi riportò ai gesti di Haddon: lessi nella sua mente e vidi che aveva paura di recidere un ramo della vena porta. La mia attenzione era assorbita dai curiosi cambiamenti che avvenivano nella sua mente; la coscienza di Haddon somigliava alla piccola chiazza di luce tremante che è riflessa dallo specchio di un galvanometro. I pensieri correvano sotto di essa come un torrente, alcuni chiari, distinti e ben a fuoco, altri ombrosi e appena raggiunti dalla luce dei bordi. In quel momento la piccola chiazza era ferma, ma il minimo movimento di Mowbray, il più piccolo rumore dall'esterno o un impercettibile tremolio della carne viva che Haddon stava tagliando facevano agitare e impazzire la chiazza luminosa. Nel flusso dei pensieri avvertii una nuova impressione sensoriale, e, meraviglia!, la chiazza di luce guizzò nella sua direzione, più veloce di un pesce spaventato. Era meraviglioso pensare che da quella cosina instabile e agitata dipendessero i complessi movimenti dell'uomo e che dunque, per i prossimi cinque minuti, ne sarebbe dipesa anche la mia vita. Haddon diventava sempre più nervoso. La piccola immagine di una vena recisa diventava sempre più chiara e lottava per scacciare dalla sua mente quella di un'incisione che non coglieva nel segno. Aveva paura: il suo timore di tagliare troppo poco combatteva con quello di tagliare troppo. Poi all'improvviso, come acqua che erompe dalle porte di una chiusa, l'orribile scoperta affiorò alla mente di Haddon gettandone i pensieri nel caos. Nello stesso momento mi resi conto che aveva tagliato la vena. Indietreggiò con un'esclamazione soffocata e vidi il sangue che usciva in una goccia rosso-brunastra, e poi cominciava a scorrere. Lui era impietrito. Posò il bisturi macchiato di rosso sul tavolino ottagonale, poi entrambi i medici si gettarono su di me, in una serie di sforzi frettolosi e mal concertati per rimediare al disastro. «Ghiaccio» disse Mowbray, ansimando. Ma io sapevo che mi avevano ucciso, anche se il corpo mi restava attaccato. Non descriverò gli sforzi tardivi che fecero per salvarmi, anche se potei seguirli in ogni particolare. Le mie sensazioni erano più acute e veloci di quanto fossero state in vita, i pensieri mi attraversavano la mente con rapidità incredibile ma con perfetta chiarezza; la loro intensa lucidità era paragonabile solo all'effetto che si prova sotto una ragionevole dose d'oppio. Fra un attimo sarebbe tutto finito e sarei diventato libero. Sapevo di essere immortale, ma ignoravo quello che sarebbe avvenuto. Mi sarei dileguato come lo sbuffo di fumo da un'arma da fuoco, in un corpo semimateriale che era la versione attenuata dell'io vivente? Mi sarei trovato fra le innu-
merevoli schiere dei morti e avrei scoperto che il mondo circostante era la fantasmagoria che avevo sempre sospettato? Mi sarei trovato nel mezzo di una seduta spiritica a tentare stupidamente, o in modo incomprensibile, di comunicare con un medium cieco e sordo? Mi trovavo in uno stato di curiosità tutt'altro che emozionante, di incolore aspettativa. Poi mi accorsi che la tensione aumentava, come se fossi sottoposto all'effetto di un magnete umano che cercasse di attrarmi fuori del corpo. La tensione cresceva, cresceva. Mi sentivo un atomo intorno al quale lottassero forze mostruose. Per un breve, terribile istante mi tornò la sensibilità: come negli incubi in cui si precipita a velocità folle, solo mille volte più in fretta; questa sensazione, e un orrore profondo, sommersero la mia mente come un fiume. Poi i due medici, il corpo nudo col fianco aperto e la piccola stanza si allontanarono sotto di me e svanirono come una bolla di schiuma nella marea. Mi trovavo a mezz'aria. Molto più in basso vidi il West End londinese che si allontanava rapidamente, perché sembrava che stessi salendo. Man mano che rimpiccioliva, la città spariva a ovest come una veduta panoramica. Attraverso un debole velo di fumo vedevo innumerevoli camini, le strade strette e affollate di uomini e veicoli, i quadratini delle piazze e i campanili delle chiese come spine che spuntassero dal tessuto. Poi anche quello spettacolo svanì, mentre la terra ruotava sul suo asse. In pochi secondi (o così mi parve) mi trovai sulle case sparse dell'estrema periferia, dalle parti di Ealing, mentre il piccolo Tamigi era un nastro azzurro a sud e le colline di Chiltern e i North Downs avanzavano come il bordo di un bacino, ancora lontani e sbiaditi nella foschia. Continuavo a salire, senza la minima idea sul senso di quella folle ascensione. A ogni momento il raggio che potevo abbracciare con lo sguardo si ampliava; i particolari delle città e delle campagne, dei monti e delle valli si facevano sempre più indistinti, pallidi e velati, mentre all'azzurro delle colline e al verde dei campi aperti si mescolava un tono grigio luminoso; un piccolo banco di nuvole, basso e lontano a occidente, sembrava sempre più bianco e abbacinante. In alto, man mano che il velo dell'atmosfera che mi separava dallo spazio esterno andava assottigliandosi, il cielo, che in un primo momento era stato di un bell'azzurro primaverile, si fece di un colore sempre più ricco e intenso, e attraverso una serie di sfumature intermedie divenne scuro come a mezzanotte e infine nero come in mezzo alla gelida luce delle stelle; poi ancora più nero, come non l'avevo mai visto. Prima una stella, poi molte e infine una quantità incalcolabile apparve nel cielo: più stelle di quelle che potremo mai vedere dalla superficie della ter-
ra. Infatti il colore blu del cielo è prodotto dalla luce del sole e delle stelle che filtra nell'atmosfera e si diffonde, abbagliandoci; c'è luce diffusa anche nelle più nere notti d'inverno, e se di giorno non vediamo le stelle è a causa della formidabile radiazione solare. Ma ora le cose erano visibili - non so come, certo non attraverso occhi mortali - e non ero più abbacinato. Il sole era stranissimo e meraviglioso. Il corpo era rappresentato da un disco di accecante luce bianca: non gialla come sembra dalla terra, ma d'un bianco livido, attraversato da strisce scarlatte e circondato da una frangia di lingue di fiamma guizzanti. Da entrambi i lati del sole spuntavano due ali d'un bianco argenteo che si allungavano nel cielo più luminose della Via Lattea: queste protuberanze lo facevano somigliare agli unici oggetti terrestri cui potessi paragonarlo, i globi alati dell'arte egiziana. Sapevo che si trattava della corona solare, anche se nella vita terrena l'avevo osservata solo una volta in fotografia. Quando spostai la mia attenzione alla terra vidi che ormai era molto lontana. Campi e città erano da tempo invisibili e le mille sfumature della campagna si erano fuse in un grigio luminoso e uniforme, interrotto solo dal bianco splendente delle nuvole che erano sparpagliate sull'Irlanda e sulla parte occidentale dell'Inghilterra in candide masse. Adesso potevo distinguere i contorni della Francia settentrionale e dell'Irlanda, nonché tutta la nostra isola di Gran Bretagna, ad eccezione del punto in cui la Scozia scompariva a nord oltre l'orizzonte o dove la costa era velata o nascosta dalle nubi. Il mare era di un grigio opaco, più scuro della terra, e l'intero panorama ruotava lentamente verso est. Tutto questo era avvenuto così rapidamente che, fino a quando non mi trovai a diverse migliaia di chilometri dalla superficie terrestre, non pensai più a me stesso. Ora mi resi conto che non avevo né mani né piedi, né parti né organi, e che non provavo preoccupazione e dolore. Tutt'intorno sentivo che il vuoto era più freddo di quanto l'uomo riesca a immaginare (perché avevo già lasciato dietro di me l'atmosfera), ma questo non m'impensieriva. I raggi del sole dardeggiavano nello spazio, incapaci di riscaldare o fare luce fino a quando sul loro percorso non avessero incontrato la materia. Vedevo le cose con una serena noncuranza di me, come se fossi Dio. E laggiù, sempre più lontano - a ogni secondo mi alzavo di migliaia di chilometri - nella macchiolina scura che contrassegnava la città di Londra, due medici lottavano per ridare la vita al povero guscio guasto e consumato che avevo abbandonato. Provai una tale liberazione, una tale serenità da non potersi paragonare a nessuna delizia terrena.
Fu solo quando ebbi percepito tutte queste cose che il senso del mio fantastico volo divenne chiaro. Eppure era così semplice, così ovvio che mi stupii di non averci pensato prima. Improvvisamente ero stato tagliato fuori dalla materia: tutto ciò che di materiale era in me era rimasto sulla terra che ruotava nello spazio, trattenuto dalla gravità e destinato a condividere l'inerzia del nostro pianeta, insieme al quale descriveva una serie di epicicli intorno al sole; e con il sole e gli altri pianeti avrebbe proseguito nella marcia più vasta attraverso lo spazio. Ma ciò che non è materiale non ha inerzia, non subisce l'attrazione della materia sulla materia: una volta liberatosi dall'involucro di carne esso rimane immobile nello spazio, ammesso che lo spazio lo riguardi ancora. Non ero io a lasciare la terra, ma la terra ad abbandonare me: e non solo la terra, ma tutto il sistema solare. Nello spazio che mi circondava, disseminate sulla scia della terra che proseguiva nel suo viaggio, dovevano esserci innumerevoli anime invisibili, come me private della parte materiale e delle passioni individuali, ma anche delle spontanee emozioni del bruto gregario; intelligenze nude, esseri appena nati alla meraviglia e al pensiero, stupiti della straordinaria liberazione che era toccata loro in sorte! Mentre mi separavo a velocità sempre maggiore dallo strano sole bianco in mezzo al cielo nero, e dalla gran terra splendente su cui il mio essere aveva cominciato a espandersi in modo che sembrava immenso (almeno secondo i parametri del mondo che avevo lasciato e le misure della vita umana), vidi il disco completo del pianeta, un po' gobbo, come la luna quando è quasi piena ma molto più grande; il contorno argenteo dell'America splendeva ora nel sole di mezzogiorno, mentre - così mi sembrava - la piccola Inghilterra vi si era crogiolata solo pochi minuti prima. Dapprima la terra mi apparve grande e splendida nel firmamento, di cui riempiva la maggior parte; ma a ogni secondo rimpiccioliva e si faceva più lontana. Nel frattempo sul bordo del disco spuntò un'ampia luna al terzo quarto. Cercai le costellazioni: solo la parte dell'Ariete che si trovava dietro il sole e il Leone coperto dalla terra erano occultati. Riconobbi la striscia tortuosa e sfilacciata della Via Lattea, con Vega molto brillante fra il sole e la terra; Sirio e Orione splendevano contro lo sfondo d'un nero abissale nel quarto opposto del cielo. La Stella Polare era sopra di me, mentre l'Orsa Maggiore sovrastava il disco della terra. In lontananza, sotto e al di là della fulgida corona solare, c'erano strani gruppi di stelle che non avevo mai osservato direttamente: in particolare una costellazione a forma di pugnale che sapevo essere la Croce del Sud. Le stelle non erano più grandi di come appaio-
no dalla terra, ma quelle minori che a volte è difficile persino veder brillare ora splendevano come astri di prima magnitudine, mentre i mondi più grandi offrivano uno spettacolo d'indescrivibile bellezza. Aldebaran era una chiazza di fuoco rosso-sangue, Sirio condensava in un punto la luce di un mondo di zaffiri. E il loro splendore era continuo, non pulsante, d'una bellezza olimpica. Le mie sensazioni erano di una chiarezza e durezza adamantine: non c'era l'effetto dell'atmosfera che vela e ammorbidisce tutto, non c'era nient'altro che l'infinita oscurità tempestata di migliaia di punti di luce acuti e brillanti. Poi guardai di nuovo la terra e non mi parve più grande del sole, e mentre guardavo oscillò e girò su se stessa, finché, in quello che mi parve lo spazio di un secondo, ne apparve solo metà; e continuò così, oscillando rapidamente. Lontano, nella direzione opposta, un puntino rossastro non più grande della capocchia d'uno spillo era il pianeta Marte. Galleggiavo nel vuoto, immobile, senza traccia di terrore o di sbalordimento, e osservavo quella macchiolina di polvere cosmica che chi amiamo il mondo allontanarsi da me. Poi mi accorsi che il mio senso del tempo era cambiato, che la mia mente non si muoveva a velocità maggiore, ma infinitamente minore; che fra la percezione di una sensazione e l'altra c'era un periodo di parecchi giorni. Mentre ne prendevo atto la luna girò una volta intorno alla terra e mi resi conto, con chiarezza, che potevo seguire il movimento di Marte nella sua orbita. Inoltre sembrava che il tempo intercorso fra un pensiero e l'altro aumentasse di continuo, finché mille anni mi sembrarono, dal punto di vista soggettivo, un solo istante. Inizialmente le costellazioni avevano brillato immobili contro lo sfondo nero dell'infinito, ma ora sembrava che le stelle raggruppate intorno a Ercole e allo Scorpione si contraessero, mentre Orione, Aldebaran e le loro vicine andassero sparpagliandosi. Dall'abisso apparve all'improvviso una moltitudine di frammenti di roccia in volo, fulgidi come particole di polvere in un raggio di sole e circondati da un debole alone luminoso. Mi passarono intorno e scomparvero in un batter d'occhio, allontanandosi da me. Poi vidi un intenso punto di luce, che brillava un po' di lato rispetto alla mia posizione, ingrandire rapidamente: si trattava del pianeta Saturno che correva verso di me. Divenne sempre più grande e inghiottì il cielo alle sue spalle, occultando a ogni secondo che passava una moltitudine di stelle. Vidi il disco schiacciato che ruotava su se stesso, la fascia degli anelli e sette dei suoi piccoli satelliti. Era grande, sempre più grande, fino a quando divenne enorme e io mi trovai in mezzo a un torrente di frammenti di
pietra che urtavano fra loro, particole di polvere e onde gassose; per un attimo vidi sopra di me la triplice fascia di anelli, come archi concentrici di luce lunare, e la loro ombra nera sul turbinio sottostante. Tutto questo accadde in un decimo del tempo che mi serve a raccontarlo. Il pianeta passò come un lampo: per qualche secondo nascose il sole, poi divenne una semplice macchia scura, alata, che si allontanava contro la luce. La terra, madre del mio essere, era ormai invisibile. Così, con dignitosa velocità e nel silenzio più profondo, il sistema solare scivolò da me come un abito smesso, fino a che il sole fu una stella fra le tante, con il suo corteo di minuscoli pianeti persi nel confuso splendore delle luci più lontane. Non ero più un abitante del sistema solare: mi trovavo nello spazio esterno e mi pareva di scorgere e comprendere tutto il mondo della materia. Sempre più velocemente le stelle si chiudevano intorno al punto in cui Antares e Vega erano scomparse in un indistinto bagliore, finché quella parte del cielo prese l'aspetto di un turbine di nebulose, e davanti a me si aprirono squarci di tenebra sempre più ampi e le stelle cominciarono a farsi più rare. Mi sembrava di muovermi verso un punto che si trovava fra la cintura e la spada di Orione, e intorno a quella regione il vuoto si faceva a ogni secondo più vasto, un incredibile abisso di nulla in cui precipitavo. L'universo fuggiva veloce, sempre più veloce, finché mi apparve soltanto come un turbinio di particelle che si affrettavano silenziose nel vuoto. Le stelle aumentavano di splendore man mano che mi avvicinavo, circondate dai pianeti che ne catturavano la luce come fantasmi, poi scomparivano di nuovo nell'inesistenza; deboli comete, ammassi di meteoriti, particelle di materia che ammiccavano, puntini di luce che si succedevano a ondate e scomparivano, alcuni lontani da me centinaia di milioni di chilometri, altri più vicini, in viaggio a inimmaginabile velocità, costellazioni proiettate nel cielo come momentanei dardi di fuoco nella notte nera. Più che a ogni altra cosa somigliava a un soffio di polvere agitato dal vento e illuminato dalla luce del sole. Lo spazio senza stelle diventava sempre più ampio, profondo e spazioso, il vuoto Altrove da cui ero attratto. Infine un quarto del cielo fu nero e deserto, e l'universo stellato che continuava nella sua corsa scomparve dietro di me come un velo luminoso che si raccoglie su se stesso. Si allontanava come una mostruosa zucca di Halloween trascinata dal vento, e ormai ero giunto nelle distese dello spazio assoluto. Il vuoto era immenso e gli sciami di stelle parevano nient'altro che una nube di puntini lontanissimi, in fuga da me sempre più veloci; e poi il buio, il nulla e il vuoto furono da ogni parte. Il minuscolo universo della materia,
la gabbia di puntini in cui avevo cominciato la mia esistenza, rimpicciolì fino a ridursi a un disco luminoso, poi a un disco più piccolo di luce velata. Fra poco si sarebbe ridotto a un punto e alla fine sarebbe sparito del tutto. A un tratto la capacità di provare emozioni tornò sotto forma di un terrore sconvolgente, un terrore dell'immensa notte che le parole non possono descrivere, un appassionato ritorno della simpatia e del desiderio di contatto sociale. C'erano altre anime nel buio, invisibili a me come io lo ero a loro? Oppure ero solo, come il sentimento mi diceva? Ero uscito dalla condizione dell'essere per diventare qualcosa che si trovava a metà strada fra essere e non-essere? Mi era stata strappata la copertura del corpo, cioè della materia, e con essa le allucinazioni che definiamo compagnia e sicurezza. Tutto era nero e silente. Non ero più. Ero niente. Non c'era altro che l'infinitesimo punto di luce che si allontanava nell'abisso. Mi sforzai di vedere e sentire e per un poco non ci fu altro che silenzio infinito, intollerabile oscurità, orrore e disperazione. Poi mi accorsi che intorno al punto luminoso cui si era ridotto il mondo della materia c'era un debole bagliore, e in una fascia che si estendeva ai suoi lati il buio non era assoluto. Osservai quella zona per un periodo che mi sembrò durare secoli, ma dopo l'interminabile attesa l'alone si fece più distinto. Intorno alla fascia apparve una nube irregolare del più debole, pallido marrone. Provai un'ansia appassionata, ma gli oggetti acquistavano luminosità con tale lentezza che non sembravano quasi cambiare. Che cosa stava per rivelarsi? Cos'era quell'alba misteriosa nell'interminabile notte dello spazio? La forma della nube era grottesca: lungo la parte inferiore sembrava estendersi in quattro protuberanze, mentre in alto terminava in una linea retta. Che razza di fantasma era? Ero sicuro di aver già visto quella conformazione, ma non riuscivo a ricordare dove né quando, e tantomeno cosa fosse. Poi all'improvviso capii: era una mano stretta a pugno. Ero solo, nello spazio, con la grande Mano fantasma su cui l'universo materiale era adagiato come un trascurabile granello di polvere. Mi sembrò di guardarla per lunghi periodi di tempo: sull'indice aveva un anello, e l'universo dal quale ero giunto rappresentava un puntino di luce sulla curva dell'anello. L'oggetto che la Mano stringeva aveva l'aspetto di una bacchetta nera. Per un'eternità osservai la Mano, l'anello e la bacchetta, stupito e spaventato, in attesa di quello che sarebbe venuto poi. Avevo la sensazione che non potesse accadere niente, che avrei aspettato eternamente, vedendo solo la Mano e ciò che stringeva, incapace di capirne il senso. L'universo non era
che un riflesso luminoso su un Essere più vasto? I nostri mondi non erano che atomi di un altro universo, e quelli di un altro ancora, in un ciclo infinito? Cos'ero io? Ero veramente immateriale? In quell'incertezza mi parve di sentire ancora una volta il corpo. Il buio abissale intorno alla Mano si riempì di suggestioni impalpabili, di forme incerte e fluttuanti. Poi all'improvviso sentii un suono, il debolissimo e lontanissimo suono di una campana, attutito dallo spessore delle tenebre ma profondo, vibrante, con abissi di silenzio fra un rintocco e l'altro. La Mano si strinse sulla bacchetta. Vidi un che di fosforescente, una pallida sfera da cui giungevano i suoni, pulsando; e all'ultimo rintocco la Mano scomparve, perché l'ora era venuta, e sentii il rumore di molte acque. Ma la bacchetta nera restava come una grande fascia che attraversasse il cielo. Poi una voce, che tuonava fino alle profondità più recondite dello spazio, disse: «Non sentirai più dolore». Allora una gioia e una felicità quasi intollerabile si impossessarono di me: vidi il cerchio che splendeva bianco e lucente, la bacchetta nera anch'essa lucente e molte altre cose chiare e distinte. Il cerchio era il quadrante dell'orologio, la bacchetta un ornamento di ferro ai piedi del mio letto. Haddon stava in piedi, appoggiato al fondo del letto, con un paio di forbicine in mano; le lancette dell'orologio sulla mensola alle sue spalle segnavano le dodici. Mowbray lavava qualcosa in un bacile sul tavolo ottagonale, e al mio fianco sentivo una lieve pressione che a stento potrei chiamare dolore. L'operazione non mi aveva ucciso. Improvvisamente mi accorsi che la cupa melanconia degli ultimi sei mesi era scomparsa dal mio animo. Titolo originale: Under the Knife Postilla Nel corso degli anni sono usciti diversi libri che si presentano come autentiche rivelazioni di esperienze compiute da pazienti sotto osservazione medica nel momento in cui sopravviene la "morte clinica". Invariabilmente, a quel che sembra, l'esperienza riguarda visioni di luce, sensazioni di calore, l'apparizione di personaggi benigni e l'attesa della beatitudine. In breve, sembra che ci si trovi di fronte alla prima fase del passaggio verso il paradiso. Ovviamente si tratta di aneddoti e niente più. Gli elementi a nostra di-
sposizione sono ciò che l'autore del libro dice che la persona sul letto di morte ha detto. Sono racconti di terza mano, e non esistono prove. In secondo luogo, dato che il paziente è sopravvissuto per fare il suo racconto, bisogna concludere che non era effettivamente morto ma si trovava in una condizione semi-comatosa in cui avrebbe potuto benissimo provare delle allucinazioni. E che genere di allucinazioni ci si può aspettare in chi è stato allevato, fin da bambino, nella convinzione che in cielo vi sono gli angeli e che quando si muore si va in paradiso? (Considerata la prevalenza del male nel mondo, è strano che non mi sia mai imbattuto in un'esperienza extracorporea in cui al soggetto "clinicamente morto" appaia una figura maligna e munita di corna, facendogli prendere un bello spavento.) Nel racconto di H. G. Wells abbiamo le allucinazioni semi-comatose di una persona che ha una visione scientifica dell'universo, un caso molto più interessante di quelli riferiti da chi si aspetta (e spera) di andare in paradiso. Fra parentesi, quando è capitato a me di andare sotto i ferri, non ho avuto allucinazioni di sorta, forse perché sono convinto che dopo la morte c'è soltanto il nulla. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Aleister Crowley, "The Testament of Magdalen Blair", in The Stratagem and Other Stories, Mandrake Press, Londra 1929. Philip José Farmer, "Mordi il prossimo tuo" ("A Bowl Bigger than Earth"), in Urania n. 482, Mondadori, Milano 1968, H.P. Lovecraft, "L'estraneo" ("The Outsider"), in Tutti i racconti 18971922, Mondadori, Milano 1989. Oliver La Farge, "Haunted Ground", in Haunted New England a cura di Charles G. Waugh, Martin H. Greenberg e Frank D. McSherry jr., Yankee Books, Dublin, New Hampshire 1988. Mark Twain, "Viaggio in Paradiso" ("Extracts from Captain Stormfield's Visit to Heaven" o "Report from Paradise"), Longanesi, Milano 1976. Astrologia I FIGLI DELLO ZODIACO di Rudyard Kipling
Anche se l'ami come te stesso, Come un essere d'argilla più pura, E quando ella si allontana il giorno si oscura, Privando i vivi d'ogni grazia, Sappi con tutto il cuore Che quando i semidei scompaiono Giungono i veri dèi. Emerson Migliaia di anni fa, quando gli uomini erano più grandi di adesso, i Figli dello Zodiaco vivevano nel mondo. Erano in sei: l'Ariete, il Toro, il Leone, i Gemelli e la Vergine fanciulla, e temevano le Sei Case che appartenevano allo Scorpione, alla Bilancia, al Cancro, ai Pesci, al Capricorno e all'Acquario. Anche quando si avventurarono per la prima volta sulla terra e seppero di essere dèi immortali portarono con sé questa paura; e la paura crebbe quando entrarono in più intimi rapporti con l'umanità e ascoltarono le storie delle Sei Case. Gli uomini trattavano i Figli come dèi e venivano a loro con preghiere e lunghi racconti dei torti subiti, mentre i Figli dello Zodiaco ascoltavano e non riuscivano a capire. Avveniva che una madre si gettasse ai piedi dei Gemelli o del Toro, gridando: «Mio marito lavorava nei campi quando il Sagittario gli ha scoccato una freccia ed è morto. Anche mio figlio è stato ucciso dal Sagittario. Aiutatemi!». Il Toro abbassava allora la gran testa e replicava: «Come può riguardarmi?». Oppure, se si trattava dei Gemelli, continuavano a giocare perché ignoravano il motivo per cui dagli occhi della gente corresse dell'acqua. Altre volte un uomo e una donna si presentavano al Leone o alla Vergine piangendo: «Ci siamo appena sposati e siamo molto felici. Prendete questi fiori». E nel gettare i fiori emettevano certi strani suoni, per mostrare che erano felici. Il Leone e la Vergine si chiedevano anche più dei Gemelli perché la gente dovesse esclamare, senza motivo: "Ah! Ah! Ah!". Tutto questo andò avanti per migliaia d'anni secondo il computo umano del tempo, finché un giorno il Leone incontrò la Vergine fanciulla che passeggiava sulle colline, e si accorse che dall'ultima volta in cui l'aveva vista era molto cambiata. Anche la Fanciulla, osservando il Leone, si rese conto che era diverso. Allora decisero di non separarsi più, per evitare che mutamenti ancora più straordinari avvenissero quando uno non era vicino
all'altro e non potesse aiutarlo. Il Leone baciò la Fanciulla e tutta la terra sentì quel bacio; la Fanciulla sedette sul colle e l'acqua corse dai suoi occhi, cosa che non era mai avvenuta a memoria dei Figli dello Zodiaco. Mentre erano seduti insieme, un uomo e una donna si avvicinarono e l'uomo disse alla donna: «A che serve sprecare i fiori per quegli stupidi dèi? Loro non capiranno mai, tesoro». La Fanciulla balzò in piedi, mise le mani intorno al collo della donna e pianse: «Io capisco. Dammi i fiori e ti darò un bacio». Quanto al Leone, chiese all'uomo sibilando: «Quale nuovo nome hai dato alla tua donna poco fa? Ti ho sentito». L'uomo rispose: «Tesoro, naturalmente». «Già, naturalmente» replicò il Leone. «E, naturalmente, puoi dirmi che significa...» «Significa "carissima": basta guardare la propria donna per capire perché.» «Capisco» ribatté il Leone «hai ragione.» Quando l'uomo e la donna si furono allontanati disse alla Fanciulla "tesoro mio", e lei pianse di nuovo dalla gioia. «Penso» disse poi la Fanciulla, asciugandosi gli occhi «che abbiamo trascurato gli uomini e le donne per troppo tempo. Che nei hai fatto dei loro sacrifici, Leone?» «Li ho lasciati bruciare» rispose l'altro. «Mangiarli non potevo. E tu, che ne hai fatto dei loro fiori?» «Li ho lasciati avvizzire. Indossarli non potevo, ne avevo tanti per conto mio» replicò lei. «Ma adesso sono pentita.» «Non c'è motivo di rattristarsi» osservò il Leone. «Ormai apparteniamo l'uno all'altra.» Mentre parlavano gli anni degli esseri umani passarono inosservati, ed ecco l'uomo e la donna tornare di nuovo, entrambi incanutiti; l'uomo portava in braccio la compagna. «Siamo giunti alla fine» disse tranquillamente l'uomo. «Questa era mia moglie...» «Come io lo sono del Leone» ribatté svelta la Fanciulla, con gli occhi sgranati. «...Era mia moglie ed è stata uccisa da una delle vostre Case.» L'uomo depose il suo fardello e scoppiò a ridere. «Quale Casa?» si informò furente il Leone, perché le odiava tutte nella
stessa misura. «Siete dèi, dovreste saperlo» rispose l'essere umano. «Abbiamo vissuto insieme e ci siamo amati l'un l'altro; ho lasciato una buona masseria a mio figlio: di che posso lamentarmi, a parte il fatto che sono ancora vivo?» Mentre era chino sul corpo della moglie nell'aria si udì un sibilo. Lui trasalì, poi cercò di fuggire gridando: «È la freccia del Sagittario. Fammi vivere ancora un po'... solo un poco!». Ma la freccia lo colpì e l'uomo cadde morto. Il Leone guardò la Fanciulla e lei ricambiò lo sguardo, perché entrambi erano meravigliati. «Voleva morire» osservò il Leone. «Ha detto che voleva morire, ma quando la morte è arrivata ha cercato di fuggire. Era un codardo,» «No» replicò la Fanciulla. «Credo di capire quel che ha provato. Leone, per il loro bene dobbiamo saperne di più.» «Per il loro bene» fece il Leone, ben forte. «Perché noi non moriremo mai» dissero insieme il Leone e la Fanciulla, ancora più forte. «Adesso siediti qui, cara moglie» fece il Leone. «Io mi recherò alle Case che detestiamo, per imparare il modo di far vivere in eterno uomini e donne, proprio come noi.» «E per farli amare come noi?» chiese la Fanciulla. «Non credo che ci sia bisogno di insegnargli questo» rispose il Leone. Poi si avviò con molta rabbia, la pelle leonina che gli pendeva da una spalla, finché giunse alla Casa in cui lo Scorpione abita nel buio, agitando la coda sulla schiena. «Perché affliggi i figli degli uomini?» chiese il Leone, con il cuore fra i denti. «Sei sicuro che affligga soltanto i figli degli uomini?» chiese lo Scorpione. «Parlane con tuo fratello il Toro e vedi che ne pensa.» «Vengo da parte degli uomini» insisté il Leone. «Ho imparato ad amare come essi fanno, e voglio che vivano come io... cioè, noi... viviamo.» «Il tuo desiderio è stato esaudito molto tempo fa. Parlane con il Toro, è sotto mia tutela speciale» ribatté lo Scorpione. Il Leone tornò di nuovo sulla terra e vide la grande stella Aldebaran, che è posta sulla fronte del Toro, splendere molto vicina. Avvicinandosi ancora si accorse che il Toro, suo fratello, era aggiogato all'aratro di un contadino e faticava in un campo di riso allagato, con la testa china e il sudore che gli ruscellava dai fianchi. L'uomo lo spingeva con un pungolo. «Ammazza quell'insolente, dilanialo» urlò il Leone «e, per l'onore della
tua famiglia, sorgi dal fango!» «Non posso» rispose il Toro. «Lo Scorpione mi ha detto che un giorno quando non posso saperlo - mi pungerà all'attaccatura del collo e morirò urlando.» «Ma questo che c'entra con la tua disgraziata prigionia?» volle sapere il Leone, immobile sul limitare del campo allagato. «C'entra, c'entra. Quest'uomo non può arare senza il mio aiuto. Pensa che io sia un torello selvatico.» «E lui è una vecchia cariatide con i capelli impastati di fango» insisté il Leone. «Noi non siamo fatti per simili affanni.» «Tu forse no, io sì. Non so quando lo Scorpione deciderà di pungermi a morte, forse prima che io abbia finito questo solco.» Il Toro piegò il gran corpo sotto il giogo e l'aratro aprì la terra umida dietro di lui; quanto al contadino, lo pungolò finché i fianchi furono striati di rosso. «Ti piace questa situazione?» chiese il Leone, al di là dei solchi gocciolanti. «No» ammise il Toro che l'aveva sorpassato, poi districò le zampe posteriori dal fango e soffiò attraverso le narici. Il Leone lo lasciò disgustato e andò in un altro paese, dove trovò suo fratello l'Ariete in mezzo a una folla di contadini che gli avevano messo delle ghirlande al collo e lo nutrivano con granturco appena raccolto. «Ma è terribile» disse il Leone. «Carica la folla e vieni via, fratello. Le loro mani ti sciupano il mantello.» «Non posso» rispose l'Ariete. «Il Sagittario mi ha detto che un giorno, non si sa quando, mi trafiggerà con una freccia e morirò con dolore.» «Che c'entra con tutto questo?» chiese il Leone, che ormai non parlava più con la sicurezza di prima. «C'entra, c'entra» ribatté l'Ariete. «Questa gente non ha mai visto un caprino perfetto. Pensano che io sia un animale selvatico e mi porteranno di luogo in luogo come esempio per i loro allevatori.» «Ma sono soltanto sudici pastori, non è nostro destino farli divertire!» protestò il Leone. «Non sarà il tuo destino, il mio sì» replicò l'Ariete. «Non so quando il Sagittario deciderà di uccidermi, forse prima che mi abbiano visto nel villaggio a un miglio da qui!» L'Ariete abbassò la testa mentre uno stupidotto arrivato in quel momento lo incoronava con una ghirlanda d'aglio selvatico, poi attese paziente che i contadini gli tastassero il mantello. «E ti piace questa situazione?» gridò il Leone sulle teste della folla.
«No» ammise l'Ariete, mentre il polverone sollevato dai contadini lo faceva starnutire; poi annusò il grano ammucchiato davanti a lui. Il Leone tornò sui suoi passi per dirigersi di nuovo alla volta delle Case, ma passando per una certa via intravide due bambini impolverati che correvano dalla porta di una capanna e giocavano con un gatto: erano i Gemelli. «Cosa ci fate là?» chiese indignato il Leone. «Giochiamo» risposero tranquilli i Gemelli. «E non potete giocare sui bordi della Via Lattea?» insisté il Leone. «Lo stavamo facendo» risposero «ma poi sono arrivati i Pesci e ci hanno detto che un giorno, senza farci del male, sarebbero venuti a portarci via. Così adesso giochiamo a fare i bambini quaggiù. Alla gente piace.» «E a voi?» chiese il Leone. «No» ammisero i Gemelli «ma bisogna dire che nella Via Lattea non ci sono gatti.» E così dicendo tirarono pensierosi la coda dell'animale. Una donna uscì di casa e rimase alle loro spalle: il Leone riconobbe nel suo sguardo un'espressione che a volte aveva visto nella Fanciulla. «Lei pensa che siamo trovatelli» dissero i Gemelli, poi si affrettarono in casa per la cena. Allora il Leone corse da una Casa all'altra con tutto il fiato che aveva: non riusciva a capire che razza di guaio fosse capitato ai suoi fratelli. Parlò con il Sagittario e questi gli assicurò che, per quanto riguardava la sua Casa, il Leone non aveva niente da temere. L'Acquario, i Pesci e il Capricorno diedero la stessa risposta: non sapevano nulla del Leone e ancor meno se ne preoccupavano. Essi erano le Case, e il loro compito era uccidere gli uomini. Finalmente il Leone giunse nell'oscurissima Casa dove vive il Cancro o Granchio, un essere così immobile che, se non fosse per l'interminabile agitarsi delle sottili appendici intorno alla bocca, si potrebbe pensare che dorma. Quel gioco non cessa mai: somiglia all'ardere del fuoco nel legno marcito, perché è altrettanto lento e silenzioso. Il Leone rimase di fronte al Granchio e nella semi-oscurità intravide la gran schiena nero-bluastra, gli occhi immobili. Di tanto in tanto gli pareva di sentire qualcuno che singhiozzasse, ma il suono era molto debole. «Perché tormenti i figli degli uomini?» chiese il Leone. Non ci fu risposta ed egli di nuovo gridò: «Perché ci tormenti? Che ti abbiamo fatto perché tu debba tormentarci?». Stavolta il Cancro rispose: «Che ne so, che m'importa? Tu sei nato nella
mia Casa, al momento opportuno verrò a cercarti». «E quand'è il momento opportuno?» chiese il Leone, indietreggiando dalla bocca che non smetteva di muoversi. «Quando la luna piena non solleverà vera marea» disse il Granchio «io verrò in cerca del primo. Quando il secondo avrà preso la terra sulle spalle, io lo prenderò alla gola.» Il Leone si portò una mano al pomo d'Adamo, si bagnò le labbra e riprendendosi chiese: «Devo aver dunque paura per due?». «Per due» rispose il Granchio «e per quanti altri verranno.» «Mio fratello, il Toro, ha avuto un destino migliore» osservò cupo il Leone. «Lui è solo.» Una mano gli coprì la bocca prima che potesse finire la frase e si trovò la Fanciulla fra le braccia. Com'è tipico delle donne, non era rimasta dove il Leone l'aveva lasciata, ma si era affrettata a seguirlo per conoscere il peggio; e, tralasciando le altre Case, era venuta dritta a quella del Cancro. «È assurdo quel che dici» sussurrò la Fanciulla. «Ho aspettato a lungo nel buio la tua venuta. Allora avevo paura, ma adesso...» Gli appoggiò la testa sulla spalla e sospirò di contentezza. «Io ho paura in questo momento» dichiarò il Leone. «È colpa mia» replicò la giovane. «Lo so, perché io temo per te. Vieni, amore mio, andiamocene.» Uscirono insieme dall'oscurità e tornarono sulla terra, il Leone in silenzio e la Fanciulla che cercava di rallegrarlo. «Il destino di mio fratello è migliore» ripeteva lui di tanto in tanto, e alla fine sbottò: «Che ciascuno di noi prenda la sua strada e viva da solo fino al giorno della morte. Siamo nati nella Casa del Cancro e lui ci prenderà». «Lo so, lo so, ma dove vuoi che vada? E tu, dove dormirai la sera? Comunque, proviamo. Io rimango qui, tu continui?» Il Leone fece sei passi avanti, con molta lentezza, poi tre lunghi passi indietro in tutta fretta. Al terzo passo era di nuovo accanto alla Fanciulla. Stavolta fu lei a pregarlo di andarsene e lasciarla sola, ed egli dovette consolarla per tutta la notte. Decisero di non lasciarsi mai, neppure un istante, e quando ebbero preso questa risoluzione guardarono l'oscura Casa del Cancro alta sulle loro teste, e allacciati l'uno all'altra risero proprio come i figli degli uomini: "Ah, ah, ah!". Fu la prima risata della loro vita. La mattina dopo tornarono a casa e trovarono fiori e sacrifici deposti dinanzi all'uscio dagli abitanti delle colline. Il Leone calpestò il fuoco col
tallone e la Fanciulla gettò via le corone di fiori, rabbrividendo. Quando i villici tornarono, com'era loro abitudine, per vedere se le offerte erano state gradite, non trovarono rose o carne bruciata sugli altari, ma solo un uomo e una donna con la faccia bianca dallo spavento, seduti mano nella mano sui gradini dell'ara. «Non sei forse la Vergine?» chiese una donna alla Fanciulla. «Ieri ti ho mandato dei fiori.» «Piccola sorella» rispose la giovane, arrossendo fino alle orecchie «non mandarmi più fiori, perché sono soltanto una donna come te.» L'uomo e la donna se ne andarono dubbiosi. «Che faremo adesso?» chiese il Leone. «Penso che dobbiamo cercare di essere felici» rispose la Fanciulla. «Sappiamo ormai quel che può capitarci di peggio, ma ancora non conosciamo il meglio dell'amore. Abbiamo molto di cui rallegrarci.» «La certezza della morte?» chiese il Leone. «Anche i figli degli uomini vivono in quella certezza, eppure hanno imparato a ridere prima di noi. Dobbiamo imparare a ridere, Leone. L'abbiamo già fatto una volta.» Quelli che si considerano dèi, come i Figli dello Zodiaco, ridono difficilmente perché gli immortali non conoscono cose per cui valga la pena ridere o piangere. Il Leone si alzò col cuore gonfio e prese l'abitudine di recarsi periodicamente fra gli uomini con la sua compagna, lasciandosi alle spalle la paura. Una volta risero di un bambino nudo che cercava di mettersi in bocca il piede grassottello; un'altra volta di una gattina che inseguiva la sua coda. Poi risero di un ragazzo che cercava di rubare un bacio a una ragazza e si faceva tirare le orecchie. Infine risero perché scendendo dal fianco di una collina il vento soffiò sui loro volti, e quando arrivarono in mezzo al gruppo di contadini che stavano in basso ansimavano e non avevano più fiato. Anche gli abitanti del villaggio risero a vederli tutti rossi e con i vestiti al vento, e a sera li rifocillarono e li invitarono a ballare sull'erba, dove tutti risero per la semplice gioia di saper ballare. Quella notte il Leone sobbalzò accanto alla sua compagna e pianse: «Tutti quelli che abbiamo incontrato un giorno moriranno...». «Anche noi» rispose lei assonnata. «Rimettiti giù, caro.» Il Leone non poté accorgersi che anche il viso della Fanciulla era bagnato di lacrime. Ma ormai era sveglio e uscì nei campi, spinto dal timore della propria morte e di quella della donna che amava, cui teneva più che a se stesso. Finalmente arrivò davanti al Toro che sonnecchiava sotto la luna dopo una
dura giornata di lavoro, e con gli occhi semichiusi guardava i bei solchi dritti che aveva tracciato. «Salve!» disse il Toro. «Così anche a te hanno dato cattive notizie. Da quale Casa dipende la tua morte?» Il Leone indicò verso il cielo l'oscura Casa del Granchio e gemette: «Ucciderà anche la mia donna». «Bene» disse il Toro. «Che hai intenzione di fare?» Il Leone sedette sul bordo del campo e disse che non lo sapeva. «Tu non sai tirare l'aratro» osservò il Toro con un lieve cenno di disprezzo. «Io sì, e questo fa in modo che non pensi allo Scorpione.» Il Leone era furente e non disse niente fino all'alba, quando il contadino venne ad aggiogare il Toro per il lavoro. «Canta» disse il Toro, e l'attrezzo rigido e incrostato cigolò per la tensione. «Ho una spalla piagata. Canta una delle canzoni che ripetevamo insieme, quando credevamo di essere tutti dèi.» Il Leone fece qualche passo indietro e intonò la canzone dei Figli dello Zodiaco, il peana dei giovani dèi che non hanno paura di niente. Dapprima cantò senza troppa passione, poi il motivo lo trascinò e la sua voce corse nei campi. Il Toro s'incamminò seguendo il ritmo, il contadino lo frustò per pura contentezza e i solchi si aprirono dietro l'aratro a un ritmo sempre più veloce. Poi arrivò la Fanciulla che cercava l'amato, e lo trovò che cantava sul bordo del campo. Unì la sua voce a quella di lui e la moglie del contadino si mise a filare all'aperto e portò i bambini con sé. Alla pausa di mezzogiorno il Leone e la Fanciulla erano entrambi affamati e assetati, ma il contadino e sua moglie diedero loro pane di segala e latte, e molti ringraziamenti; e il Toro trovò il modo di dire: «Mi avete aiutato a fare mezzo campo in più di quello che avrei fatto. Ma la parte più dura del giorno deve ancora venire, fratello». Il Leone voleva distendersi e riflettere sulle parole del Granchio. La Fanciulla andò a parlare con la moglie del coltivatore e i bambini, e l'aratura pomeridiana ebbe inizio. «Aiutaci ora» mormorò il Toro. «La giornata volge al termine, ho le gambe rigide. Canta come non hai mai cantato prima.» «Per un villano coperto di fango?» chiese il Leone. «Deve sopportare la nostra stessa disgrazia. Sei per caso un codardo?» fece il Toro. Il Leone arrossì e cominciò di nuovo, con la gola che gli doleva e di pessimo umore. Poco a poco abbandonò le canzoni dei Figli e ne inventò una
tutta sua, cosa che non avrebbe potuto fare se non avesse incontrato il Granchio faccia a faccia. Ricordò tutta una serie di fatti che riguardavano coltivatori, torelli e campi di riso, e a cui, prima di quel fatale colloquio, non aveva mai prestato attenzione; li unì nel suo canto, a cui prese un interesse sempre maggiore, e rivelò al contadino molte più cose su se stesso e il proprio lavoro di quanto quello immaginasse. Il Toro brontolò in segno di approvazione mentre faticava nei solchi per l'ultima volta quel giorno, e il canto finì, lasciando il coltivatore con un'ottima opinione di sé nelle stanche ossa. La Fanciulla uscì dalla capanna in cui aveva tenuto tranquilli i bambini e scambiato chiacchiere di donne con la moglie, poi tutti consumarono il pasto serale. «La vostra dev'essere una vita molto piacevole» disse il coltivatore. «Seduti tutto il giorno sul bordo di un campo e pronti a cantare quello che vi passa per la testa. È da molto che lo fate, amici zingari?» «Ah!» muggì il Toro dal suo angolo. «Ecco tutta la gratitudine che puoi aspettarti dagli esseri umani, fratello.» «In realtà abbiamo appena cominciato» rispose la Fanciulla. «Ma continueremo per tutta la vita. Vero, Leone?» «Sì» fece l'altro, e se ne andarono mano nella mano. «Canti molto bene, Leone» gli disse lei, come una moglie fa col marito. «E tu cosa facevi?» volle sapere lui. «Parlavo con la mamma e i bambini» rispose la Fanciulla. «Non capiresti le piccole cose che fanno ridere noi donne.» «E devo... continuare con questo lavoro da zingaro?» chiese il Leone. «Sì, caro. Io ti aiuterò.» Non esistono testimonianze scritte sulla vita del Leone e della Fanciulla, quindi non possiamo sapere come il Leone si applicò al suo lavoro, che detestava. Possiamo solo star certi che ella lo amava tutte le volte e ovunque cantasse: anche quando, finita la canzone, toccava a lei fare il giro con l'equivalente di un tamburello e raccogliere spiccioli per il pane quotidiano. A volte, tuttavia, era il Leone a doverla consolare per l'indegnità degli apprezzamenti che la gente faceva su entrambi, per le derisorie penne di pavone che gli ponevano sul berretto e i bottoni o i pezzi di stoffa che gli cucivano sulla giacca. Come ogni donna ella sapeva aiutare e consigliare, ma la cattiveria dei protervi la disgustava. «Che importa?» diceva il Leone. «Purché i canti li facciano sentire un po' più tranquilli.» E continuavano per la loro strada, cantando sempre l'antico ritornello: che qualunque cosa avvenisse - o non avvenisse - i figli de-
gli uomini non dovevano aver paura. In un primo momento fu un duro insegnamento, ma col passare degli anni il Leone si accorse che poteva farsi ascoltare dagli uomini e farli ridere anche quando cadeva la pioggia. A volte c'erano persone che si mettevano a sedere e piangevano dolcemente, mentre la folla gridava dal divertimento; a volte sostenevano che era il Leone la causa di tutto questo. E la Fanciulla si fermava a parlare con loro nelle pause dello spettacolo, facendo del suo meglio per confortarle. Inoltre, mentre il Leone parlava, cantava e rideva c'era gente che moriva, perché il Sagittario, lo Scorpione, il Granchio e le altre Case erano indaffarati come sempre. A volte la folla si agitava, terrorizzata, ed era compito del Leone tenerla buona sostenendo che era un comportamento da vigliacchi; a volte si beffavano delle Case sterminatrici, ed era compito del Leone spiegare che quel comportamento era anche più vile. Durante le loro peregrinazioni si imbatterono nel Toro, nell'Ariete e nei Gemelli, ma erano tutti troppo occupati per scambiarsi più di un cenno attraverso la folla e continuare ognuno nel suo lavoro. Col passare degli anni non si riconobbero più, perché i Figli dello Zodiaco avevano dimenticato di essere stati dèi e di aver cominciato a lavorare per aiutare il genere umano. Sulla fronte del Toro la stella Aldebaran era incrostata di fango secco, il vello dell'Ariete era sporco e lacero, i Gemelli non erano che bambini in lite per il gatto della corte. Fu allora che il Leone disse: «Basta cantare e raccontare barzellette». Ma la Fanciulla ribatté: «No». Tuttavia non sapeva perché avesse detto "No" con tanta energia. Il Leone sosteneva che era per spirito di contraddizione, finché un giorno lei fu d'accordo con questa diagnosi ed egli replicò: «Nient'affatto!». Andò a finire che litigarono miseramente fra le siepi, ignari delle stelle che brillavano in cielo. Altri cantori, altri poeti si affermarono negli anni e il Leone, dimenticando che è una categoria di cui non c'è mai abbastanza, li odiò perché doveva dividere con loro gli applausi degli uomini, che pensava spettassero solo a lui stesso. Anche la Fanciulla a volte si arrabbiava e allora i canti riuscivano male, gli scherzi non facevano ridere nessuno e i figli degli uomini gridavano: «Tornatevene a casa, zingari. Tornate a casa e imparate qualcosa che valga la pena cantare!». Dopo una di queste giornate tristi e vergognose, la Fanciulla, che camminava nei campi a fianco del Leone, vide la luna piena sorgere sugli alberi e afferrò il braccio di lui, piangendo: «Ecco, il momento è venuto. Oh, Leone, perdonami!». «Cosa c'è?» chiese il Leone, che pensava come al solito agli altri cantori.
«Marito mio!» rispose la Fanciulla, mettendo la mano di lui sul proprio seno. E il petto che conosceva così bene parve al Leone duro come pietra. Allora egli brontolò, pensando alle parole del Granchio. «Certo, una volta eravamo dèi» sospirò. «Siamo ancora dèi» ribatté la Fanciulla. «Non ti ricordi quando andammo alla Casa del Granchio e... non avevamo tanta paura. Da allora abbiamo dimenticato perché cantassimo: abbiamo creduto di farlo per il soldo, abbiamo lottato per il soldo! Noi, i Figli dello Zodiaco!» «È stata colpa mia» disse il Leone. «Come può esserci una tua colpa senza che sia anche mia?» esclamò la Fanciulla. «La mia ora è venuta, ma tu vivrai più a lungo e...» Lo sguardo dei suoi occhi disse tutto ciò che ella non riusciva a dire. «Sì, ricorderò che siamo dèi» esclamò il Leone. È molto triste, anche per un Figlio dello Zodiaco che ha dimenticato la propria divinità, vedere la propria moglie morire lentamente e sapere che non può aiutarla. In quegli ultimi mesi la Fanciulla raccontò al Leone tutto ciò che aveva detto e fatto con le mogli e i figli degli uomini al margine dei loro spettacoli da strada, ed egli si meravigliò di conoscere così poco una che era stata tanto importante nella sua vita. Morendo, ella gli raccomandò di non lottare mai per il soldo e di non litigare con gli altri cantori; e soprattutto, di continuare a cantare immediatamente dopo la sua morte. Poi spirò, e dopo averla sepolta il Leone discese la strada verso un villaggio che conosceva e la gente sperò che si mettesse a litigare con un nuovo cantore affermatosi durante la sua assenza, ma il Leone lo chiamò "fratello mio". Costui si era sposato da poco e il Leone lo sapeva, e quando l'altro ebbe finito di cantare egli intonò "La canzone della Fanciulla", che aveva composto strada facendo. Ogni uomo sposato o che sperava di sposarsi, di qualunque colore o rango, comprese il canto, e così ogni sposa appoggiata al braccio dello sposo. E quando la canzone finì e il Leone si sentì scoppiare il cuore in petto, gli uomini piansero. «Era una triste storia» dissero infine. «Adesso facci ridere.» Poiché il Leone aveva provato tutto il dolore che un uomo può provare, compresa la certezza della sua caduta dopo essere stato un dio, cambiò rapidamente tono e fece ridere gli uomini finché non ne poterono più. Quelli se ne andarono pronti ad affrontare ogni dubbio della ragione, e diedero al Leone più monete e penne di pavone di quante si potessero contare. Sapendo che il denaro spingeva all'odio e che la Fanciulla detestava le penne di pavone, il Leone se ne liberò e riprese il cammino in cerca dei suoi fratelli, per ricordare loro che anch'essi erano
dèi. Trovò il Toro che nutriva di sangue un fossato nel sottobosco, perché lo Scorpione l'aveva punto ed egli moriva: non lentamente come la Fanciulla, ma alla svelta. «So tutto» ansimò il Toro quando il Leone si fu avvicinato. «L'avevo dimenticato, ma ora ricordo. Vai e guarda i campi che ho arato: i solchi sono dritti. Avevo dimenticato di essere un dio, ma nonostante questo ho tirato l'aratro in modo perfetto. E tu, fratello?» «La mia aratura non è ancora giunta al termine» rispose il Leone. «La morte fa male?» «No, ma morire sì» rispose il Toro, e spirò. Il coltivatore che lo possedeva ne fu molto seccato, perché c'era un altro campo da arare. Dopo quest'episodio il Leone compose la canzone del Toro che aveva dimenticato di essere un dio, e la cantò in modo tale che metà dei giovanotti del mondo immaginarono di essere dèi senza saperlo. Una parte di essi si eccitò a tal punto che morì presto, una parte cercò di emulare gli dèi e fallì e una parte lavorò più sodo di quanto qualunque altro sogno l'avrebbe spinta a fare. Alcuni anni più tardi, il Leone andava sempre ramingo nel mondo e faceva ridere i figli degli uomini quando incontrò i Gemelli seduti in riva a un ruscello: aspettavano i Pesci che venissero a portarli via. Non avevano assolutamente paura e dissero al Leone che la Donna della casa aveva avuto un bambino suo, e che quando fosse cresciuto per fare le prime birichinate avrebbe trovato un gatto ben educato pronto a farsi tirare la coda. Allora vennero i Pesci a portarli via, ma tutto ciò che la gente vide fu due bambini che affogavano nel torrente; e sebbene la madre adottiva se ne dolesse molto, strinse al petto il figlio suo e ringraziò il cielo che la morte fosse toccata ai trovatelli. Il Leone allora compose la canzone dei Gemelli che avevano dimenticato di essere dèi e giocavano nella polvere per divertire la matrigna. La canzone si sparse nel mondo intero e fu popolarissima fra le donne. Le faceva ridere, piangere e stringere i bambini al seno in un sol fiato; e alcune di quelle che ricordavano la Fanciulla dissero: «Questa è certo la voce della Vergine. Solo lei ci conosceva così bene». Dopo aver composto le tre canzoni il Leone le cantò moltissime volte, finché rischiarono di diventare per lui semplici filastrocche; la gente che le ascoltava si stancò e ancora una volta il Leone provò la tentazione di smettere di cantare per sempre. Ma poi le parole della Fanciulla morente gli
tornarono alla mente e continuò. Una volta uno degli ascoltatori l'interruppe e disse: «Leone, sono quarant'anni che ci raccomandi di non aver paura. Non potresti cantarci qualcos'altro, tanto per cambiare?». «No» rispose quello «è l'unico motivo che mi è permesso ripetere. Non dovete aver paura delle Case, anche quando vi uccidono.» L'uomo si alzò per andarsene, stanco, ma nell'aria si udì un sibilo e la freccia del Sagittario volò basso, diretta al suo cuore. L'uomo si tirò su e aspettò immobile che la freccia colpisse. «Hai paura?» chiese il Leone, chinandosi su di lui. «Sono un uomo, non un dio» rispose l'altro. «Sarei scappato, se non fosse per le tue canzoni. Il mio compito è finito e muoio senza mostrare di aver paura.» «È un grande riconoscimento, per me» pensò il Leone fra sé. «Ora che mi accorgo dell'effetto che hanno le mie canzoni, ne canterò di migliori.» Si avviò lungo la strada, raccolse il solito manipolo di ascoltatori e cominciò la Canzone della Fanciulla. Durante l'esecuzione sentì il tocco freddo della chela di Granchio sul pomo d'Adamo. Alzò la mano, si sentì strozzare e per un attimo tacque. «Continua a cantare, Leone» disse la folla. «La vecchia canzone è più bella che mai.» Il Leone continuò fermo fino alla fine, con una stretta di ghiaccio al cuore. Ma quando la canzone fu finita sentì che la morsa alla gola si stringeva. Era vecchio, aveva perso la sua donna, sapeva che la voce gli si era ridotta alla metà e che a stento riusciva a spingersi da un nugolo di spettatori all'altro, sempre più sottile; non solo, ma quando gli stavano intorno non riusciva a scorgerne bene le facce. Tuttavia gridò furibondo al Granchio: «Perché sei venuto a cercarmi adesso?». «Sei nato sotto la mia tutela. Come posso non venire a cercarti?» disse stanco il Granchio. Ogni essere umano che il Granchio uccideva gli aveva fatto la stessa domanda. «Stavo appena cominciando ad apprezzare l'effetto delle mie canzoni» ribatté il Leone. «Forse è proprio per questo» disse il Granchio, e la stretta aumentò. «Hai detto che non saresti venuto fino a quando non avessi preso il mondo sulle spalle» ansimò la vittima, cadendo. «Mantengo sempre la parola. L'hai fatto tre volte, con tre canzoni. Che altro desideri?»
«Fammi vivere fino a quando il mondo se ne accorga» supplicò il Leone. «Fammi essere sicuro che i miei canti...» «Rendano gli uomini coraggiosi?» intervenne il Granchio. «Anche in tal caso, rimarrebbe sempre uno che ha paura, Andiamo, la Fanciulla è stata più forte di te.» Il Leone era vicino alla bocca in perpetuo movimento, insaziabile. «L'avevo dimenticato» disse semplicemente. «Lei è stata più forte, ma anch'io sono un dio e non ho paura.» «Che vuoi che me ne importi?» ribatté il Granchio. Allora al Leone fu strappata la voce, ed egli rimase immobile e stupito a guardare la morte fino alla fine. Il Leone fu l'ultimo dei Figli dello Zodiaco. Dopo la sua scomparsa venne una razza di uomini piccoli e cattivi che si lagnavano e tremavano perché le Case li uccidevano insieme ai loro cari e pretendevano di vivere per sempre, senza sofferenze. Questo non li aiutò a vivere più a lungo, ma i loro tormenti aumentarono spaventosamente e non c'erano i Figli dello Zodiaco a poterli guidare; inoltre, gran parte dei canti del Leone era andata perduta. Ma egli aveva scolpito sulla lapide della Fanciulla l'ultimo verso della sua canzone: è la stessa che si trova nell'epigrafe di questo racconto. Uno dei figli dell'uomo, nato migliaia di anni dopo, scrostò i licheni, lesse i versi e li applicò a un affanno diverso da quello a cui pensava il Leone. Essendo soltanto un uomo, gli altri credettero che li avesse composti lui stesso: ma in realtà appartengono al Leone, il Figlio dello Zodiaco, e insegnano, come egli insegnava, che in ogni caso non dobbiamo avere paura. Titolo originale: Children of the Zodiac Postilla I primi osservatori dei cieli, sumeri e cinesi, si trovarono di fronte a una quantità di stelle distribuite a caso e di varia luminosità. Per potersi riferire con sicurezza a una certa stella, immaginarono ovviamente che facesse parte di un disegno geometrico o di una figura ancora più complessa che ricordava un familiare oggetto terrestre. Erano le cosiddette "costellazioni", e si poteva individuare una stella sapendo che era presente in questa o quella parte della costellazione relativa. La cosa era particolarmente vera nella fascia del cielo in cui viaggiava-
no il sole, la luna e i pianeti più luminosi. Un numero molto grande di stelle formava figure di animali: per questo la fascia in questione fu soprannominata "zodiaco", parola greca che significa "circolo di animali". Nello zodiaco vi erano dodici costellazioni e rappresentavano i dodici mesi dell'anno: infatti, nel corso del suo apparente circuito del cielo il sole rimaneva in ogni costellazione per un mese. Naturalmente, la vivida immaginazione degli esseri umani inventò miti che raccontavano la storia degli animali (o esseri umani) raffigurati nello zodiaco. Questo fatto ha indotto molti a pensare che le costellazioni fossero costituite da autentici personaggi celesti, ed è a questo livello che si situa il racconto di Kipling. Naturalmente il suo uso di tali personaggi è simbolico, ma nel mettere mano ai loro assurdi oroscopi i moderni astrologi non si fanno scrupolo di attribuire loro una certa realtà. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE L. Adams Beck, "The Horoscope", in The Openers of the Gate: Stories of the Occult, Cosmopolitan, New York 1930. Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, "I dodici segni dello Zodiaco", in Sei problemi per don Isidro Parodi, Editori Riuniti, Roma 1978. Anche in 150 anni in giallo a cura di G. Lippi, Oscar Mondadori, Milano 1989. F.R. Buckley, "Of Prophecy", in «Adventure» del 15 maggio 1932. Washington Irving, "The Legend of the Arabian Astrologer", in The Alhambra, Henry Colburn & Richard Bentley, Londra 1832. O. Henry, "Febe" ("Phoebe"), in Memorie di un cane giallo e altri racconti, Adelphi, Milano 1980. E. Hoffmann Price, "The Infidel's Daughter", in Far Lands, Other Days, Carcosa, Chapel Hill, N.C. 1975. Chiaroveggenza LA CERCATRICE di Henry Slesar Era ormai buio quando Lucas fermò il taxi nel vialetto di casa Wheeler e s'incamminò verso l'ingresso principale, seguendo il sentiero. Portava ancora gli stivali pesanti, nonostante il disgelo di primavera; il giaccone a
scacchi e il berretto di lana erano segni del durissimo inverno appena passato. Quando Geraldine Wheeler aprì la porta, con indosso un vestito leggero da viaggio, rabbrividì a vederlo. «Venga» disse bruscamente. «Il mio baule è in casa.» Lucas attraversò l'ingresso, diretto alla scala, perché conosceva la strada. I ricchi tessuti scuri e la mobilia austera gli erano familiari: era l'unico tassista di Medvale. Trovò il pesante baule nero ai piedi delle scale e se lo caricò sulla schiena. «Il bagaglio è tutto qua, signorina Wheeler?» «Tutto qua. Ho mandato il resto alla nave. Bontà del cielo, Lucas, ma non ha caldo vestito a quel modo?» Aprì un cassetto e cercò qualcosa. «Avrò dimenticato un milione di cose. Gas, elettricità, telefono... Il camino! Lucas, vuole controllarlo per favore?» «Sì, signorina» disse Lucas. Andò in soggiorno, aggirandosi fra i mobili coperti di lenzuola bianche. In mezzo ai carboni c'era ancora qualche tizzone ardente: li spense con l'attizzatoio. Un attimo dopo la donna entrò nella stanza, infilando i lunghi guanti di seta. «Va bene» disse, col fiato corto. «Immagino che sia tutto. Adesso possiamo andare.» «Sì, signorina» rispose Lucas. Gli volse la schiena e lui la seguì, con l'attizzatoio ancora in mano. Quando alzò la sbarra di ferro sporca di cenere e la colpì giusto al centro della testa, Lucas emise un gemito o forse un brontolio. Le ginocchia della donna si piegarono e cadde sul tappeto, senza nessuna grazia. Lucas non dubitò che fosse morta sul colpo, perché una volta aveva ucciso un giovane toro malato con una mazzata identica. Cercò di agire con calma: rimise l'attizzatoio a posto, purificandolo fra le ceneri calde, poi si chinò sulla vittima ad esaminare la ferita. Era brutta, ma non c'era sangue. Sollevò il corpo leggero senza sforzo e attraverso la porta schermata di cucina uscì nel cortile retrostante, dirigendosi verso il bosco che circondava la proprietà Wheeler. Quando ebbe trovato un luogo appropriato per la sepoltura di Geraldine Wheeler, andò nel capanno degli attrezzi e prese pala e badile. Era primavera, ma la terra era ancora dura. Quando ebbe finito, Lucas si era tolto giaccone e berretto di lana. Per la prima volta nell'arco di mesi, da quando era cominciato quel gelido inverno, Lucas sentì di avere caldo. Aprile aveva mantenuto fede alla sua fama di mese piovoso: c'era fango
sulle strade e pozze di acqua nera nel vialetto. Quando la grande macchina bianca si fermò, la verniciatura metallica era schizzata dell'argilla rossa di Medvale. Rowena, moglie di David Wheeler, non uscì dall'auto ma attese con un cipiglio impaziente che il marito l'aiutasse a uscire. Affondò i tacchi alti nel fango e borbottò un'imprecazione. David sorrise affabilmente, perdonando il fango, la pioggia e il malumore di sua moglie. «Andiamo, non è poi così male» disse. «Solo pochi passi.» Sentì la porta d'ingresso aprirsi e vide la zia Faith che salutava con la mano. «Ecco la vecchia zingara» aggiunse, contento. «Ricordati quello che ti ho detto, cara, quando comincia a parlare di fantasmi e sedute spiritiche tu rimani seria.» «Tenterò» disse asciutta Rowena. Sulla porta David e la zia si scontrarono affettuosamente: lui passò un braccio intorno alla sua ragguardevole circonferenza e premette il naso patrizio sulla guancia carnosa della signora. «David, mio bel ragazzo! Che piacere vederti!» «È bello vedere te, zia Faith.» Erano in casa quando David presentò le due donne. David e Rowena si erano sposati in Virginia due anni prima, ma zia Faith non superava mai i confini della contea di Medvale. L'anziana signora esaminò Rowena con l'occhio lucente. «Oh, cara, sei molto bella. David, bestia che non sei altro, come hai potuto tenertela tutta per te?» Lui rise, si tolsero i cappotti e andarono insieme in soggiorno. Lì, l'allegria del momento passò. Accanto al camino c'era un uomo che fumava nervosamente una sigaretta, e David fu riportato al poco piacevole scopo della visita. «Tenente Reese» disse zia Faith «questo è mio nipote David, con sua moglie.» Reese era un uomo quasi calvo dai lineamenti vaghi e malinconici. Strinse solennemente la mano di David. «Mi spiace conoscerla in queste circostanze» disse. «D'altra parte, la mia specialità è incontrare le persone quando capita qualche guaio. Naturalmente, conosco la signora Demerest da un po' di tempo.» «Il tenente Reese è stato di grande aiuto nel mio lavoro umanitario» spiegò la zia Faith. «E mi ha confortata non poco da quando è successa... questa terribile faccenda.» David si guardò intorno. «Sono passati anni dall'ultima volta che ho abi-
tato qui. Nessuna meraviglia che non mi ricordi dove sono i liquori.» «Ho paura che non ce ne siano» disse Reese. «Non ce n'era traccia quando siamo arrivati alcune settimane fa, dopo la scomparsa della signorina Wheeler.» Seguì un attimo di silenzio, poi David disse: «Be', io ho una bottiglia in macchina». «Non ora, signor Wheeler. In realtà, le sarei grato se potessimo scambiare qualche parola da soli.» La zia Faith si avvicinò a Rowena. «Ti dico io cosa. Andremo di sopra e ti farò vedere la vostra stanza.» «Con piacere» disse Rowena. «Ti farò vedere anche la stanza dov'è nato David e quella in cui giocava. Vuoi?» «Sarà magnifico» rispose l'altra con voce piatta. Quando furono soli, Reese domandò: «Da quanto manca da Medvale, signor Wheeler?». «Oh, più o meno dieci anni. Ogni tanto ci sono tornato, si capisce. Una volta quando è morto mio padre, quattro anni fa. Come saprà, l'industria della nostra famiglia è nel sud.» «Sì, lo so. Lei e sua sorella...» «Sorellastra.» «Infatti» disse Reese. «Lei e la sua sorellastra eravate i soli proprietari della fabbrica, vero?» «Proprio così.» «Ma era lei a occuparsi della parte amministrativa, suppongo. Quando i vostri genitori morirono, la signorina rimase a occuparsi della proprietà e lei andò in Virginia per amministrare la fabbrica. È andata così?» «È andata così» rispose David. «Con soddisfazione di entrambi, signor Wheeler?» David sedette in una poltrona d'angolo e allungò le gambe. «Tenente, le risparmierò un mucchio di tempo. Geraldine e io non andavamo d'accordo, ci vedevamo il meno possibile e le assicuro che era proprio il minimo.» Reese si schiarì la gola. «Grazie per la franchezza.» «Posso anche immaginare la sua prossima domanda, tenente. Le piacerebbe sapere quando è stata l'ultima volta in cui ho visto Geraldine.» «Quando?» «Tre mesi fa, in Virginia. In occasione della visita semestrale che faceva in fabbrica.»
«Ma dopo quella data è venuto a Medvale, non è vero?» «Sì, sono venuto a trovare Geraldine in marzo per una faccenda di una certa importanza. Come mia zia probabilmente le ha detto, in quell'occasione Geraldine si è rifiutata di vedermi.» «Qual era lo scopo della visita?» «Affari, nient'altro. Volevo che Geraldine approvasse un prestito bancario che avevo intenzione di chiedere per comprare nuove attrezzature. Lei era contraria, non ha voluto nemmeno discuterne. Così me ne sono andato e sono tornato in Virginia.» «E non l'ha più vista?» «Mai più» confermò David. Sorrise - un sorriso contagioso - e si rimise in piedi. «Non importa se lei è astemio come mia zia, tenente: io ho bisogno di un drink.» Andò nell'ingresso, ma si fermò davanti alla porta. «Nel caso se lo stia chiedendo» disse con noncuranza «non so dove sia Geraldine. Non ne ho la minima idea.» Rowena e zia Faith tornarono a pianterreno solo un'ora dopo, quando il tenente se n'era andato. Zia Faith sembrava che avesse fatto un pisolino; Rowena si era cambiata e adesso portava un pullover e una gonna grigia. In soggiorno trovò David, una bottiglia di Scotch mezza vuota e il fuoco morente. «E allora?» chiese zia Faith. «È stato molto noioso?» «Per niente» rispose David. «Rowena, sei bellissima.» «Vorrei un drink, David.» «Sì, certo.» Gliene preparò uno e canzonò zia Faith per la sua astinenza. Lei non se ne diede pensiero: voleva parlare di Geraldine. «Non riesco a capire» disse. «Nessuno ci riesce, nemmeno la polizia. Era pronta a partire per quel viaggio nei Caraibi, una parte dei bagagli era già sulla nave. Ti ricordi Lucas, il tassista? È venuta a prenderla per portarla alla stazione, ma lei non c'era più. Non era da nessuna parte.» «Immagino che la polizia abbia controllato nei soliti posti.» «Dappertutto: ospedali, obitori, ovunque. Il tenente Reese dice che potrebbe esserle capitata qualsiasi cosa. Potrebbero averla derubata e uccisa. Potrebbe aver perso la memoria; potrebbe anche...» Zia Faith arrossì. «Be', questo non lo crederò mai, ma il tenente Reese dice che potrebbe essere scomparsa volontariamente... con un uomo.» Rowena era andata alla finestra e sorseggiava il suo drink. «Io so cos'è successo» dichiarò.
David la guardò attentamente. «Se n'è andata e basta. Se n'è andata da questa vecchia casa malinconica e da questa cittadina che mette i brividi. Era stufa di vivere sola. Stufa che tutta la città aspettasse di vederla sposata. Era stufa di occuparsi dell'industria tessile, di prestiti e obbligazioni. Era persino stufa di essere se stessa. A una donna può succedere.» Allungò la mano verso la bottiglia, ma David le trattenne il polso. «No» disse. «Non hai mangiato niente, oggi.» «Lasciami» sussurrò Rowena. Lui sorrise e la lasciò. «Penso che il tenente abbia ragione» continuò Rowena. «Penso che ci fosse un uomo, zia. Un tipo volgare, magari un minatore o un camionista, qualcuno senza il minimo fascino.» Alzò il bicchiere verso David. «Senza il minimo fascino.» «Zia Faith si alzò, le guance pienotte chiazzate di rosso. «David, io ho un'idea... Per trovare Geraldine, intendo. E sono sicura che funzionerà.» «Davvero?» «Tu non sarai d'accordo. Mi farai uno di quei tuoi sorrisi e ti prenderai gioco di me, ma che tu approvi o no, David, chiederò a Iris Lloyd dov'è Geraldine.» David alzò le sopracciglia. «A chi?» «Iris Lloyd» rispose ferma la zia Faith. «Adesso non dirmi che non hai mai sentito parlare di quella bambina. C'era un articolo su di lei nei giornali non più di due mesi fa, e io te ne avrò parlato nelle mie lettere una decina di volte.» «Io me lo ricordo» disse Rowena. «È quella specie di... sensitiva, o come si dice. Un'orfana, vero?» «È affidata alla tutela dello Stato e vive nella Casa per Ragazze di Medvale. Sono stata vice-presidente dell'istituto per molti anni, quindi so tutto. Ha sedici anni ed è stupefacente, David, assolutamente straordinaria!» «Capisco.» Lui nascose il sorriso divertito dietro il bicchiere. «E cosa la rende così speciale?» «È una veggente, David, un'autentica sensitiva. Ti ho mai parlato del conte Louis Hamon, quello che si faceva chiamare Cheiro il Grande? Naturalmente ora è morto, anzi è successo nel 1936, ma aveva lo stesso dono di Iris. Bastava che guardasse un oggetto appartenuto a una persona per conoscere le informazioni più incredibili...» «Aspetta un attimo. Pensi davvero che questa trovatella possa dirci dov'è
Geraldine? In una specie di seduta spiritica?» «Iris non è una medium, immagino che potremmo definirla una cercatrice. Lei ha l'abilità di trovare le cose perdute. E anche le persone.» «Come fa, signora Demerest?» chiese Rowena. «Non saprei, e non sono sicura che lei stessa lo sappia. Il dono non l'ha resa più felice, povera bambina... in casi del genere avviene raramente. All'inizio sembrava niente più che un gioco da salotto. All'istituto c'era una certa suor Teresa, una vecchia pasticciona che perdeva sempre tutto, e Iris immancabilmente riusciva a trovarlo... Persino nei posti più impensati.» David ridacchiò. «A volte i ragazzi nascondono le cose nei posti più impensati. E se fosse una burlona?» «Ma c'è di più» aggiunse gravemente la zia. «Un giorno l'istituto organizzò un picnic al lago Crompton e a un certo punto si accorsero che una bambina di otto anni, Dorothea, era scomparsa. Non riuscirono a trovarla finché Iris Lloyd non cominciò a urlare.» «A urlare...?» fece Rowena. «Queste visioni le provocano un forte dolore. Iris fu in grado di descrivere il posto dove avrebbero trovato Dorothea: una piccola cavità naturale in cui la bambina fu effettivamente ripescata, anche se malconcia per la brutta caduta.» Rowena rabbrividì. «Avevi ragione» disse dolcemente David. «Non sono d'accordo con te, zia. Non mi fido di queste faccende di spiriti: lasciamo che se ne occupi la polizia.» Zia Faith sospirò. «Sapevo che l'avresti pensata così, David, ma io devo farlo. Ho preso accordi con l'istituto perché Iris passi un po' di tempo da noi e si familiarizzi con... l'aura di Geraldine, che aleggia tuttora in casa.» «Dici sul serio? Hai chiesto che ci mandassero quella ragazzina?» «Sapevo che non ti avrebbe fatto piacere, ma la polizia non riesce a trovare Geraldine e non ha un indizio. Iris ce la farà.» «Non lo permetterò» disse lui asciutto. «Mi dispiace, zia, ma è una cosa ridicola.» «Non puoi impedirmelo. Speravo solo che avresti collaborato.» La zia diede un'occhiata a Rowena, lo sguardo raddolcito. «Tu mi capisci, cara. Lo so.» Rowena esitò, poi toccò la mano dell'anziana signora. «Sì, signora Demerest.» Fece a David uno strano sorriso. «E non chiedo di meglio che conoscere Iris.»
L'edera non ammorbidiva la dura pietra e la fisionomia sgraziata della Casa per Ragazze. Era stata costruita in un'epoca in cui gli orfanotrofi erano considerati alla stregua di penitenziari e l'effetto che ebbe su David fu deprimente. La direttrice dell'istituto, suor Clothilde, entrò nell'ufficio, sedette senza cerimonie e incrociò le braccia. «Non ho bisogno di dirle che sono contraria a tutto questo, signora Demerest» cominciò. «Penso che sia del tutto sbagliato incoraggiare certe fantasie di Iris.» Zia Faith sembrava in soggezione, e la sua risposta fu timida. «Fantasie, sorella? Ma è un dono di Dio.» «Se questa... facoltà ha un'origine spirituale, temo che provenga da tutt'altra direzione. Non che voglia ammetterne l'esistenza.» David sfoderò uno dei suoi sorrisi più affascinanti, ma suor Clothilde ne rimase immune. «Mi fa piacere constatare che ho un'alleata» disse lui. «Come dicevo a mia zia, sono tutte sciocchezze...» Suor Clothilde s'impermalì. «È innegabile che Iris abbia fatto alcune cose straordinarie di cui non riusciamo a darci spiegazione; tuttavia spero che superi questa... qualunque cosa sia, e diventi una ragazza normale e felice. Attualmente...» «È molto infelice?» chiese commossa zia Faith. «È indisciplinata, può anche dire selvaggia. Fra meno di due anni, quando avrà la maggiore età, dovremo mandarla nel mondo e ci piacerebbe che fosse una persona migliore di adesso.» «Ma ci permetterà di portarla a casa, sorella? Potrà venire con noi?» «Lei pensa che le mie povere obiezioni abbiano qualche peso, signora Demerest?» Un attimo dopo fu introdotta Iris Lloyd. Aveva l'età in cui non si è né carne né pesce; lunghe braccia e gambe spuntavano da un vestito messo e rimesso, che i ripetuti lavaggi avevano scolorito e sformato. I capelli sottili erano biondo-sporco o forse solo sporchi: David optò per la seconda ipotesi. Camminava come una papera e incrociava continuamente le braccia. Quando suor Bertha la portò nella stanza, teneva gli occhi bassi. «Iris» disse suor Clothilde «tu conosci la signora Demerest. Questo è suo nipote, il signor Wheeler.» Iris fece un cenno. Poi, con una tale velocità che fu quasi impossibile ac-
corgersene, alzò gli occhi e li trafisse con uno sguardo di tale ostilità o malizia che David trattenne a stento un'esclamazione di sorpresa. Gli altri, a quanto pare, non l'avevano notato. «Ti ricorderai di me, Iris» disse zia Faith. «Vengo qui almeno una volta all'anno per venire a trovare voi ragazze.» «Sì, signora Demerest» sussurrò lei. «La direzione è stata così gentile da permetterci di invitarti per un po' a casa nostra. Abbiamo bisogno del tuo aiuto, Iris. Vogliamo vedere se puoi aiutarci a trovare una persona scomparsa.» «Sì, signora Demerest» rispose tranquillamente la ragazza. «Mi fa piacere venire a casa sua e sarò lieta di aiutarla a trovare la signorina Wheeler.» «Quindi tu sai della mia povera nipote?» Suor Clothilde fece schioccare la lingua. «Signora Demerest, il controspionaggio non riuscirebbe a mantenere nemmeno un segreto, qui dentro. Lei sa come sono le ragazze.» David si schiarì la gola e si alzò. «Suppongo che possiamo cominciare in qualsiasi momento. Se la signorina Lloyd ha preparato la sua roba...» Sentendosi chiamare così Iris gli fece un sorrisetto, ma suor Clothilde lo cancellò in un attimo. «Prego, signor Wheeler, la chiami Iris. Si ricordi che è ancora una bambina.» Quando i bagagli di Iris furono sistemati nel baule della macchina, lei salì fra David e la zia sul sedile anteriore. Poi guardò con interesse David che accendeva il motore. «Ehi» cominciò «non avreste mica una sigaretta?» «Ma, Iris!» boccheggiò zia Faith. Lei sogghignò. «Non fa niente» disse con noncuranza. «Non fa proprio niente.» Poi chiuse gli occhi e cominciò a canticchiare. E continuò a cantare fra sé fino a quando arrivarono a casa Wheeler. Quel pomeriggio David andò in città per comprare le cento cose che zia Faith riteneva necessarie per l'alimentazione e l'accudimento di una ragazza di sedici anni. Stava uscendo dal supermarket di Medvale quando vide il vecchio taxi di Lucas Mitchell che avanzava lentamente sul pendio posteriore del parcheggio. David aggrottò le sopracciglia e si affrettò alla propria macchina, ma quando ebbe sistemato il pacco con le provviste sul retro vide che l'auto di Lucas si era affiancata alla sua. «Salve, signor Wheeler» disse Lucas, sporgendosi dal finestrino.
«Salve, Lucas. Gli affari come vanno?» «Posso parlarle un minuto, signor Wheeler?» «No» ribatté David. Girò intorno alla macchina e salì al posto di guida. Cercò le chiavi in tasca, ma la vista di Lucas che usciva dalla sua complicò le ricerche. «Io devo parlarle, signor Wheeler.» «Non qui» disse David. «Non qui e non ora, Lucas.» «È importante. Voglio chiederle una cosa.» «Per l'amore del cielo» fece David, stringendo i denti. Finalmente trovò la chiave e l'infilò nella fessura accanto al volante. «Fuori dai piedi, Lucas, non posso fermarmi adesso.» «La ragazza, signor Wheeler. È vera quella faccenda della ragazza?» «Quale?» «Iris Lloyd. È capace di strane cose, quella. Ho paura di lei, signor Wheeler. Ho paura che scoprirà quello che abbiamo fatto.» «Vattene fuori dai piedi!» gridò David. Girò la chiave e premette l'acceleratore perché il motore suonasse minaccioso. Lucas si scansò, attonito, e David partì in quarta con una rapida manovra. A casa trovò Rowena che passeggiava nervosamente in soggiorno. L'agitazione di lei calmò la sua. «Cosa c'è?» chiese David. «Non lo so di sicuro. Chiedilo a tua zia.» «Dov'è?» «Nella sua stanza, a letto. So solo che era andata a vedere se la cara piccola Iris fosse sveglia, poi c'è stata una scena. Ho capito solo qualche parola, ma una cosa è sicura: la ragazza ha il vocabolario di uno scaricatore di porto.» David brontolò qualcosa. «Magari questo farà rinsavire zia Faith. Vado a vederla e a dirle che ho intenzione di riportare quella piccola delinquente d'una sensitiva nel posto da dove è venuta...» «Inutile, adesso. Tua zia non si sente bene.» «Allora affronterò il piccolo mostro. Dove sta?» «La porta accanto alla nostra, in camera di Geraldine.» Davanti alla porta David alzò la mano per bussare, ma si aprì prima che le nocche toccassero il legno. Iris si affacciò con i capelli che le coprivano un occhio. L'espressione della bocca passò da petulante a capricciosa e la ragazza mise le mani sull'uniforme sformata, là dove avrebbero dovuto essere i fianchi. «Ciao, bello» disse. «Zia dice che sei andato a fare la spesa per me.»
«Che hai combinato?» David entrò nella stanza e chiuse la porta. «Mia zia non sta bene, Iris, e noi non tollereremo il tuo cattivo comportamento. Adesso vuoi dirmi cosa è successo?» La ragazza si strinse nelle spalle, poi andò verso il letto. «Niente» disse cupa. «Ho trovato una cicca in un portacenere e ho fatto un tiro quando è arrivata lei. Da come gridava pareva che avessi appiccato il fuoco alla casa.» «Ho sentito che anche tu sei capace di strillare. È questo che ti hanno insegnato all'istituto?» «Non mi hanno insegnato un bel niente.» E all'improvviso cambiò: espressione, atteggiamento, tutto. Con un'incredibile trasformazione ridiventò bambina. «Mi dispiace» sussurrò. «Mi dispiace tremendamente, signor Wheeler. Non volevo fare niente di male.» Lui la guardò, stupito, non sapendo come reagire al cambiamento di personalità. Poi si rese conto che la porta alle sue spalle si era aperta ed era arrivata zia Faith. Iris si buttò sul letto e cominciò a piangere; con quattro lunghi passi la zia attraversò la stanza e strinse la ragazza fra le braccia carnose, con affetto materno. «Andiamo, andiamo» la coccolò. «Va tutto bene, Iris. So che non volevi dire quello che hai detto, è il Dono a renderti così. E non preoccuparti di quello che ti ho chiesto: usa tutto il tempo che vuoi per la faccenda di Geraldine, tutto quello che ti serve.» «Oh, ma io voglio aiutarti!» disse Iris, fervidamente. «Lo voglio davvero, zia Faith.» Poi si alzò, rianimata. «Io sento tua nipote in questa casa. Mi pare quasi che mi parli all'orecchio... e mi dica dov'è.» «Sul serio?» chiese zia Faith, timorosa. «È proprio vero?» «Quasi, quasi!» ribatté Iris, cominciando goffamente a ballare. Piroettò davanti a un armadio e aprì la porta: all'interno c'erano una decina di vestiti appesi. «Ecco i suoi vestiti. Ah, come sono belli! Dev'essere stata bellissima quando li portava!» David sbuffò. «Iris ha mai visto una foto di Geraldine?» La ragazza prese un vestito da sera di lamè dorato e lo tenne fra le braccia. «Oh, è così bello! Mi pare quasi di sentirla, sì, di sentirla!» Guardò zia Faith con selvaggia felicità. «So che riuscirò ad aiutarti!» «Dio ti benedica» rispose la signora con le lacrime agli occhi. Per il resto del giorno Iris si comportò benissimo e il buonumore durò
anche a cena. Fu un pasto infelice per tutti meno che per la ragazza: chiese di alzarsi da tavola prima che venisse servito il caffè e andò di sopra. Quando la cameriera venne a sparecchiare la tavola, si trasferirono in soggiorno. David disse: «Zia Faith, credo che stiamo facendo un terribile errore». «Errore, David? Spiegati meglio.» «Tutta questa gentilezza da parte di Iris: non vedi che è una posa?» La donna si irrigidì. «Ti sbagli, non conosci la personalità di chi è dotato di poteri paranormali. Non era lei che inveiva contro di me, era il demone che la possiede. Lo stesso che le dà il dono della chiaroveggenza.» Rowena rise. «A giudicare dal linguaggio, dev'essere lo spirito di un vecchio marinaio. Francamente, zia Faith, a me sembra una normale ragazzina e basta.» «Vedrete» insisté zia Faith, ostinata. «Aspettate e vedrete quanto è normale.» Quasi a dimostrare il punto di vista della zia, venti minuti dopo Iris scese con il vestito di lamè addosso. La faccia era pasticciata da un'overdose di trucco e i capelli filamentosi erano pettinati goffamente all'insù, in un'acconciatura che non reggeva. David e Rowena spalancarono la bocca, ma zia Faith fu solo moderatamente turbata. «Iris, cara, che hai fatto?» le chiese. Lei avanzò vezzosa verso il centro della stanza. Non si era tolta le scarpe basse e lo sforzo di apparire elegante era quasi comico, ma David non rise. «Vai su e cambiati» disse a denti stretti. «Non hai il diritto di portare i vestiti di mia sorella.» Lei fece un'espressione terribilmente delusa e guardò zia Faith. «Oh, zia!» piagnucolò. «Sai quello che ti ho detto! Devo indossare i vestiti di tua nipote per sentirne... l'aura.» «Aura un corno!» ribatté David. La ragazza lo guardò, sbalordita, poi si buttò sulla poltrona d'angolo vicino al camino e cominciò a singhiozzare. Zia Faith ripeté in fretta i gesti propiziatori del pomeriggio e rimproverò David. «Non avresti dovuto dire una cosa del genere!» scattò, furiosa. «La poverina sta cercando di aiutarci e tu rovini tutto!» «Mi dispiace» disse amaramente David. «È solo che non sono un credente, zia Faith.» «Non le dai nemmeno una possibilità!» Zia Faith aspettò che i lamenti della ragazza si fossero calmati, pensiero-
sa. Poi si chinò all'orecchio di lei e disse: «Ascoltami, Iris. Ricordi le cose che hai fatto all'istituto? Il modo in cui cercavi le cose per suor Teresa?». Iris asciugò con le ciglia le ultime lacrime. «Sì.» «Pensi di poterlo fare ancora, Iris? Ora, per noi?» «Io... non lo so. Posso provare.» «La lascerai provare, David?» «Non so cosa vuoi dire.» «Vorrei che nascondessi qualcosa o che nominassi un oggetto che hai perso o conservato nel posto sbagliato, magari qui in casa.» «Ma è una sciocchezza. Un gioco da salotto...» «David!» Lui aggrottò le sopracciglia. «Va bene, come vuoi. Come lo facciamo questo nascondino?» Intervenne Rowena: «David, che ne diresti del gatto?». «Il gatto?» «Te lo ricorderai. Una volta mi hai detto che da bambino avevi un gattino di lana. Hai detto di averlo perso in casa, da qualche parte, quando avevi cinque anni e che ti sei tanto dispiaciuto che non hai mangiato per giorni.» «Ma è assurdo. Sono cose di trent'anni fa...» «Tanto meglio» dichiarò zia Faith. «Tanto meglio, David.» Si volse alla ragazza: «Credi di poterlo trovare, Iris? Puoi trovare il gatto di pezza di David?». «Non sono sicura. Non sono mai sicura, zia Faith.» «Provaci, Iris. Non ti biasimeremo se non riuscirai. Può darsi che l'abbiano buttato via da anni, ma tu prova lo stesso.» La ragazza si mise a sedere impettita e nascose la faccia fra le mani. Le fiamme nel camino animavano le loro ombre. «Prova, Iris» la incoraggiò zia Faith, L'orologio sulla mensola faceva sentire forte il suo ticchettio. Iris lasciò cadere le mani in grembo, inerti, e si appoggiò all'alto schienale della poltrona con un lungo, faticoso sospiro. «È in trance» mormorò zia Faith. «Lo vedi, David, non puoi negarlo. La ragazza è caduta veramente in trance.» «Non lo so» disse lui. Gli occhi di Iris erano chiusi e le labbra si muovevano. Agli angoli della bocca si formarono gocce di saliva. «Che sta dicendo?» chiese Rowena. «Non riesco a sentirla.»
«Aspetta, devi aspettare!» avvertì zia Faith. La voce di Iris divenne udibile. «Fa caldo» disse. «Fa tanto caldo... caldo...» Si agitò e le dita tirarono il collo del vestito da sera. «È così caldo, qui!» ripeté forte. «Per favore, per favore! Il gattino ha tanto caldo! Il gattino ha caldo!» Poi Iris urlò e David balzò in piedi. Rowena si avvicinò per stringergli il braccio. «Non è niente» disse David. «Non vedi che è tutta scena?» «Zitti, per favore!» esclamò zia Faith. «La ragazza soffre.» Iris mugolava e si dibatteva sulla poltrona. Aveva la fronte imperlata di sudore e il corpo tormentato, in preda alle convulsioni, ricordava un'anima nel fuoco dell'inferno. «Fa caldo, fa caldo!» gridò. «Dietro la fornace! Vi prego, vi prego, vi prego... fa tanto caldo... il gattino muore di caldo...» Poi si afflosciò sulla sedia con un gemito. Zia Faith si precipitò accanto a lei e toccò i polsi sottili. Li sfregò vigorosamente, poi disse; «L'hai sentita, David, l'hai sentita con le tue orecchie. Dubiti ancora?». «Io non ho sentito niente. Un mucchio di grida, gemiti e frasi insensate sul caldo. Che dovrebbe significare?» «Sei uno sciocco ostinato! Il gattino è dietro la fornace, ovviamente, dove l'hai ficcato quando eri un marmocchio!» Rowena gli toccò il braccio. «Potremmo scoprirlo, vero? In cucina c'è ancora la vecchia fornace?» «Immagino di sì. C'è anche un forno elettronico, ma a quanto ne so non hanno rinunciato al mostro di ferro.» «Andiamo a vedere, David, ti prego!» insisté Rowena. Iris si stava svegliando. Sbatté gli occhi, li aprì e guardò le facce che la circondavano. «È là?» chiese. «È dove ho detto? Dietro il forno in cucina?» «Non abbiamo ancora guardato» rispose David. «Allora guardateci» ordinò zia Faith. Rowena e David andarono in cucina e lo trovarono, un gattino di pezza coperto di polvere, di colore bruno e quasi distrutto da tre decenni di caldo e logorio. Ma c'era. David strinse il vecchio giocattolo nel pugno, sbiancando. Rowena lo guardò con tristezza, pensando che soffrisse di nostalgia. Ma non era così: aveva paura.
All'inizio di maggio le piogge finirono e furono sostituite da una serie di giorni di sole. Iris Lloyd cominciò a trascorrere all'aperto la maggior parte del tempo, in comunione con la natura e i suoi misteriosi pensieri. Fu lì che David la trovò un pomeriggio a metà della settimana, sdraiata nell'erba fra un groviglio di margherite. Ne stava smembrando una, per un antico rituale. «Bene» disse David. «Qual è la risposta?» Lei sorrise impacciata, poi buttò il fiore sciupato. «Dimmelo tu, zio David.» «Risparmiati lo zio.» Raccolse il fiore mutilato e strappò i petali che restavano. «Non m'ama» sentenziò David. «Chi, tua moglie?» La ragazza lo guardò sfrontatamente. «Non puoi imbrogliare me, zio David. So tutto.» Lui si girò per andarsene, ma Iris lo afferrò per la caviglia. «Non andare via. Voglio parlare.» David ci ripensò e si mise a sedere accanto a lei. «Che storia è, Iris? Sei qui da una settimana e non hai fatto niente per... tu sai cosa. Per te è solo una bella vacanza, vero?» «Certo che lo è» rispose Iris. «Pensi che voglia tornare in quell'istituto fetente? Qui è meglio.» Si sdraiò sull'erba. «Niente uniformi, niente preghiere alle sei del mattino, niente robaccia che passa per minestra.» Poi rise: «E la compagnia è molto più piacevole». «Suppongo che dovrei ringraziarti.» «Non c'è niente che tu possa dire che io non conosca già.» Fece di nuovo un risolino. «Hai dimenticato che sono una sensitiva?» «È vero, Iris» chiese casualmente David «o è una specie di trucco? Voglio dire, le cose che fai.» «Ti faccio vedere se è un trucco.» La ragazza si coprì gli occhi con tutt'e due le mani. «Tua moglie ti odia» dichiarò. «Pensa che tu sia una carogna. Non eravate sposati nemmeno da un anno quando hai cominciato a correre dietro ad altre donne. Quanto alla fabbrica, ci andavi solo una o due volte al mese: era questo il tuo modo di occuparti degli affari. L'unica cosa che sapevi fare era spendere i soldi.» Durante quella litania David era diventato sempre più pallido. Ora le strinse il braccio sottile. «Razza di marmocchia! Tu non sei una sensitiva, sei una che origlia alle porte!» «Lasciami il braccio!»
«Hai la stanza di fianco alla nostra. Ci hai sentiti!» «E va bene!» si lagnò lei. «Credi che potessi farne a meno, quando litigavate?» David le lasciò il braccio. Lei se lo massaggiò, tutta compresa, poi scoppiò a ridere: aveva deciso che era molto buffo. E all'improvviso si gettò su di lui e lo baciò sulla bocca, stringendolo con le dita forti e sottili. David la respinse, stupito. «Cosa credi di fare?» scattò. «Stupida ragazzina!» «Non sono una ragazzina! Ho quasi diciassette anni.» «Ne hai compiuti sedici tre mesi fa!» «Sono una donna!» Iris gridò. «Ma tu non sei nemmeno un uomo!» Lo colpì al petto con il pugno chiuso, togliendogli il fiato. Poi scappò verso casa, lungo il pendio della collina. David tornò attraversando la parte posteriore della proprietà. Entrò dalla cucina e trovò zia Faith che, seduta al tavolo, spiegava ad Hattie come pulire l'argenteria. Vedendolo alzò gli occhi e disse: «Hai chiamato un taxi, David?». «Un taxi? No, perché?» «Non lo so, ma la macchina di Lucas è nel vialetto. Ha detto che aspettava te.» Quando David si avvicinò, Lucas scese dall'auto. Si tolse il berretto di lana e lo appiattì sullo stomaco. «Cosa vuoi, Lucas?» «Parlare, signor Wheeler, come ho detto la settimana scorsa.» David salì sul sedile posteriore. «Va bene» disse. «Portami da qualche parte. Parleremo mentre guiderai,» «Sissignore.» Lucas non aprì bocca fino a quando la proprietà non fu più in vista, poi si decise: «Ho fatto quello che lei mi ha chiesto, signor Wheeler, alla lettera. Ho colpito sodo, lei non ha sofferto e non è uscita una goccia di sangue. È andata giù come uno stambecco, signor Wheeler.» «Va bene» disse aspro David. «Non voglio sentirne più parlare, Lucas. Sono soddisfatto, dovresti esserlo anche tu. Hai avuto il denaro, adesso scordatene.» «L'ho presa in braccio» continuò il tassista, come se rivivesse un sogno «e l'ho portata nei boschi, come aveva detto lei; ho scavato una fossa profonda, più profonda che potevo. La terra era durissima, signor Wheeler, è stato un lavoro da cani. Poi ho rimesso tutto a posto, nessuno potrebbe so-
spettare che c'è sotto qualcosa. Nessuno tranne...» «La ragazza? È lei che ti preoccupa?» «Signor Wheeler, ho sentito cose stranissime su di lei. Trova le cose, ha trovato la bambina che era caduta vicino al lago Crompton. Ha gli occhi strani, forse può vedere la tomba di quella donna...» «Ferma la macchina, Lucas!» L'autista mise il grosso piede sul freno. «Iris Lloyd non la troverà» disse David a denti stretti. «Nessuno la troverà. Devi smetterla di preoccuparti, più sei teso e più ti tradisci.» «Ma è proprio dietro casa, signor Wheeler! È a due passi, appena comincia il bosco.» «Devi dimenticartene, Lucas, come se non fosse mai successo. Mia sorella è sparita e non tornerà più. Quanto alla ragazza, lascia che me ne occupi io.» Diede una pacca sulla spalla di Lucas per rassicurarlo, ma l'altro si irrigidì. «Ora portami a casa» disse David. Si preoccupò di Iris per altri cinque giorni, ma la ragazza sembrava aver completamente dimenticato lo scopo della sua visita. Era un'ospite, un sostituto della povera Geraldine, e nell'attesa del miracolo paranormale la pazienza di zia Faith sembrava inesauribile. Il giovedì sera, in camera da letto, Rowena incrociò gli occhi di David nello specchio della ballerina e disse qualcosa a proposito della fabbrica. «Stai zitta» ribatté lui gradevolmente. «Non dire un'altra parola. Ho scoperto che Iris può sentire le nostre piccole liti, quindi dichiariamo una tregua.» «Non credevo che avesse bisogno di origliare: credevo che leggesse nel pensiero.» Rowena si voltò a guardarlo. «Be', non è l'unica chiaroveggente, qui. Anch'io so quello a cui mira.» «Sì?» «È facile» continuò amara Rowena. «Posso leggere tutti i sudici pensieri che ha in testa, ogni volta che ti guarda. Sono sorpresa che tu non l'abbia notato.» «È una bambina, per l'amor del cielo.» «È innamorata di te.» David sbuffò e andò nel suo letto. «Sei il suo paladino» continuò lei, beffarda. «La tirerai fuori dall'orribile
castello in cui la tengono prigioniera. Non lo sapevi?» «Mettiti a dormire, Rowena.» «Naturalmente c'è un piccolo ostacolo ai suoi piani: una sciocchezza, una moglie. D'altronde io non sono mai stata un ostacolo per le tue scappatelle, vero?» «Ti ho chiesto una tregua» rispose David. Rowena rise. «Sei un pacifista, David, questo fa parte del tuo celebre fascino. Ecco perché sei venuto qui a marzo, vero? Per chiedere una tregua a Geraldine.» «Sono venuto per affari.» «Sì, lo so, per chiedere a Geraldine di non mandarti in galera. Erano questi i tuoi affari?» «Non ne sai niente.» «Ho occhi, David. Non come quelli di Iris Lloyd, ma ci vedo. So che ti appropriavi dei soldi della fabbrica, e in gran quantità. Anche Geraldine lo sapeva. Quanto tempo ti ha dato per coprire l'ammanco?» David si considerava un uomo che non perde mai la calma, ma questa volta si infuriò. «Non un'altra parola, hai capito? Non una sola parola!» Rimase sveglio un'altra ora, gli occhi spalancati nel buio della stanza. Era ancora sveglio quando udì un fruscio di passi in corridoio. Si mise a sedere, tese le orecchie e sentì lo scatto discreto di una porta. David uscì dal letto, poi indossò vestaglia e pantofole. Sul cuscino di sua moglie c'era una chiazza di luna: Rowena dormiva. Lui andò alla porta e aprì senza fare rumore. Iris Lloyd, in camicia da notte, si dirigeva lentamente verso la scala che andava a pianterreno; la testa bionda era rigida sulle spalle, il corpo si muoveva con la grazia meccanica di una sonnambula. In fondo al corridoio zia Faith aprì la porta e fece capolino. «Sei tu, David?» «È Iris» rispose lui. Zia Faith venne in corridoio, allacciandosi la vestaglia con mani tremanti. David cercò di convincerla a non seguire la ragazza, ma lei s'impuntò. Sul pianerottolo si fermarono. Iris, con gli occhi aperti e immobili, si muoveva freneticamente nella sala d'ingresso. «Cosa ho dimenticato?» borbottava. «Cosa ho dimenticato?» Zia Faith cercò il braccio di David. «Siamo in ritardo» disse Iris, rivolta alla porta. «È ora di andare.» Si voltò e parve che guardasse direttamente i suoi ospiti, senza vederli.
«È ora di andare!» ripeté, quasi piangendo. «Oh, per favore, prenda i miei bagagli. Sono così nervosa, spaventata...» «È in trance» sussurrò zia Faith, stringendo la mano del nipote. «Oh, David, forse ci siamo!» «Cosa ho dimenticato?» ripeté Iris, in tono lamentoso. «Gas, elettricità, telefono, il camino... È ancora acceso il camino? Oh!» Un gemito improvviso, poi si nascose la faccia fra le mani. David fece un passo verso di lei, ma zia Faith lo trattenne: «Non svegliarla! Non farlo!». Adesso Iris camminava, un fantasma in camicia da notte, verso la parte posteriore della casa. Andò in cucina e aprì la porta schermata. «Esce!» esclamò David. «Non possiamo permettere...» «Lasciala sola, David! Ti prego, lasciala sola!» Iris uscì nel cortiletto, seguendo una traccia di luce lunare che portava verso l'oscurità dei boschi. «Iris!» gridò David. «Iris!» «No!» pianse zia Faith. «Non svegliarla, non devi!» «Vuoi che prenda la polmonite?» scattò David, furioso. «Sei pazza? Iris!» gridò ancora una volta. A sentire il suo nome la ragazza si fermò, si girò verso la casa e lo sguardo inespressivo si colmò di stupore. Poi, mentre David l'accoglieva fra le braccia, urlò e si attaccò disperatamente a lui. David lottò per riportarla a casa, cercando di farle abbassare le braccia lungo i fianchi. Quando l'ebbe riportata dentro, Iris scoppiò in singhiozzi. Zia Faith le andò vicino, piangendo. «Come hai potuto fare questo, David? Sai che non bisogna mai svegliare un sonnambulo, mai!» «Non potevo permettere che la ragazza prendesse un colpo di freddo. Sarebbe stata una bella cosa da dire alle suore, eh, zia? Lasciar morire la loro bambina di polmonite!» Iris si era calmata, la testa ancora piegata fra le braccia della signora. Ora alzò gli occhi e osservò le facce tese dei due adulti. «Zia Faith...» «Stai bene, Iris?» Negli occhi tondi della ragazza c'era ancora una traccia dello sguardo distante della sonnambula. «Sì» disse. «Sto bene. Almeno penso, zia Faith. E credo di poterlo fare subito.» «Fare subito? Intendi... dirci dov'è Geraldine?» «Tenterò, zia Faith.» L'anziana signora si tirò su, trasformata. «Dobbiamo chiamare il tenente
Reese, David. In questo istante. Vorrà sentire tutto ciò che Iris ha da dire.» «Reese? Ma sono le due del mattino passate!» «Verrà» disse scura zia Faith. «So che verrà. Gli telefonerò io stessa. Tu porta Iris in camera sua.» David aiutò la ragazza a salire, aggrottando le sopracciglia per la forza con cui si teneva stretta a lui. Pareva più calma e cadde sul letto, con gli occhi chiusi. Poi li aprì e gli sorrise: «Hai paura» disse. David deglutì a fatica, perché era vero. «Ti manderò all'istituto» ribatté con voce roca. «Non permetterò che tu rimanga in questa casa un sol giorno ancora. Non sei d'aiuto, sei un guaio, proprio come ha detto suor Clothilde.» «È questa la ragione, David?» La ragazza cominciò a ridere. David si arrabbiò, sedette accanto a lei e le mise una mano sulla bocca. «Zitta!» disse. «Stai zitta, piccola stupida!» Lei smise di ridere. Gli occhi, sopra le dita della mano, fissarono i suoi. David ritirò il braccio. Iris si avvicinò e disse con voce sensuale: «David, io non ti tradirò se non vuoi». «Non sai di che parli» rispose lui, incerto. «Sei un'impostora.» «Davvero? Non ci credi nemmeno tu.» Gli si avvicinò ancora. David la strinse all'improvviso, baciandola sulla bocca. Iris si sfregò sul suo corpo, le dita sottili tirarono l'orlo della vestaglia. Quando si staccarono lui si asciugò la bocca, disgustato, e disse: «Da che parte dell'inferno vieni?». «David» ribatté sognante la ragazza «tu mi porterai via da quel posto, vero? Non permetterai che mi facciano tornare lì dentro?» «Sei pazza! Sai che sono sposato...» «Non importa. Puoi divorziare da lei, David. Del resto non l'ami, è così?» La porta si aprì. Rowena, imperiosa e in camicia da notte, li fissò con un misto di rabbia e disprezzo. «Vattene da qui!» urlò Iris. «Non ti voglio nella mia stanza!» «Rowena...» David si girò verso la moglie. Lei disse: «Sono venuta a dirti una cosa, David. Avevi ragione, si sente tutto dall'altra stanza.» «Ti odio!» gridò Iris. «E anche David ti odia. Diglielo, David, perché
non glielo dici?» «Sì» fece Rowena. «Perché non me lo dici, David? È l'unica cosa che non mi hai fatto, fino a questo momento.» Lui guardò ora l'una ora l'altra: la ragazza con gli occhi stralunati e la pesante camicia di flanella e la donna dallo sguardo gelido, vestita di seta, che aspettava l'ingiuria. «Al diavolo tutte e due!» borbottò David. Poi passò accanto a Rowena e uscì dalla stanza. Il tenente Reese sembrava ancora addormentato: i radi capelli sulla testa quasi calva erano arruffati, i vestiti avevano tutta l'aria di essere stati messi in fretta. Rowena, ancora vestita per la notte, era seduta accanto alla finestra, come se la cosa non la riguardasse. Zia Faith, presso il camino, agitava i tizzoni per sprigionare le fiamme. Iris era seduta nella poltrona d'angolo, le mani intrecciate sul grembo, l'espressione enigmatica. Quando il fuoco cominciò a scoppiettare zia Faith disse: «Possiamo cominciare in qualsiasi momento. David, ti spiace spegnere la lampada?». David si versò un drink prima di abbassare le luci, poi andò a sedersi di fronte a Iris. Zia Faith chiese: «Sei pronta, bambina mia?». Iris, con le labbra esangui, annuì. David incrociò i suoi occhi prima che si velassero nella prima fase di trance. Parve che si rendessero conto della muta, implorante domanda che lui esprimeva, ma non ci fu alcun cenno di risposta. Poi cadde il silenzio, che durò per cento ticchettii dell'orologio sulla mensola. Poco a poco Iris Lloyd cominciò a ondeggiare sulla poltrona e a muovere le labbra. «Comincia» mormorò zia Faith. «Comincia.» Iris si lamentò: gemiti di sofferenza, mentre il corpo si torceva negli spasimi. Aprì la bocca, ansimò, la saliva che si formò agli angoli delle labbra scivolò sul mento. «Bisogna impedire tutto questo» esclamò David, la voce tremante. «La ragazza ha una crisi convulsiva!» Il tenente Reese sembrava allarmato, «Signora Demerest, non crede...» «Per favore!» disse zia Faith. «È solo in trance. L'hai già visto prima, David, lo sai...»
Iris urlò. Reese si alzò. «Forse il signor Wheeler ha ragione. La ragazza potrebbe farsi del male, signora Demerest.» «No, no! Dovete aspettare!» Poi Iris lanciò un grido saturo di un terrore così profondo che i vetri della stanza vibrarono in assonanza. Rowena si tappò le orecchie. «Zia Faith! Zia Faith!» urlò la ragazza. «Sono qui! Sono qui, zia, vieni a cercarmi! Aiutami, zia Faith, è buio! È così buio! Oh, non c'è qualcuno che voglia aiutarmi?» «Dove ti trovi?» gridò la zia, con le guance inondate di lacrime. «Geraldine, povera cara, dove sei?» «Oh, aiuto! Aiuto, per favore!» Iris continuava a contorcersi, a tremare. «È tanto buio, ho paura! Zia Faith, mi senti? Mi senti?» «Ti sentiamo, ti sentiamo, cara!» singhiozzò la zia. «Dicci dove sei, diccelo!» Iris si alzò dalla poltrona, urlò ancora e cadde all'indietro, in una crisi di pianto. Qualche momento dopo l'ansimare del suo petto si calmò e la ragazza aprì gli occhi, lentamente. David cercò di avvicinarsi a lei, ma intervenne il tenente Reese. «Un momento, signor Wheeler.» Il poliziotto si inginocchiò e mise il pollice sul polso della ragazza. Con l'altra mano le aprì l'occhio destro e guardò la pupilla. «Mi senti, Iris? Stai bene?» «Sì, signore, sto bene.» «Sai cos'è successo?» «Sì, so tutto.» «E sai dove si trova Geraldine Wheeler?» La ragazza scrutò le facce intorno a lei, fermandosi su quella di David. Aveva uno sguardo implorante. «Sì» mormorò Iris. «Dov'è?» Lei prese un'espressione sognante. «Un posto lontano, con tante navi. C'è il sole e ci sono colline, e alberi verdi... Ho sentito le campane che suonavano nelle strade...» Reese guardò gli altri, per trovare conforto al suo sbalordimento. «Un posto con tante navi. Per voi significa qualcosa?» Nessuno rispose. «È una città» riprese Iris. «Molto lontana.»
«Al di là dell'oceano, Iris? È lì che si trova Geraldine?» «No, non al di là dell'oceano! È qui in America, ma ci sono navi. Ho visto la baia, un ponte e l'acqua azzurra...» «San Francisco!» esclamò Rowena. «Sono sicura che parla di San Francisco, tenente.» «Iris» disse con fermezza Reese «devi esserne certa, non possiamo scatenare una caccia per tutto il paese. Era San Francisco? È lì che hai visto Geraldine?» «Sì!» rispose la ragazza. «Adesso ne sono sicura. C'erano i tram, per le strade, tram che risalivano la collina... È San Francisco. Si trova a San Francisco.» Reese si alzò in piedi, grattandosi il collo. «Be', chissà? È un'ipotesi buona quanto un'altra. Geraldine era mai stata a San Francisco prima d'ora?» «Mai» rispose zia Faith. «Perché avrebbe dovuto? David?» «Non so» rispose lui con un ghigno. Poi si avvicinò a Iris e le diede una pacca sulla spalla. «Ma Iris dice così, e io penso che gli spiriti sappiano di quel che parlano. È vero, Iris?» Lei voltò la testa dall'altra parte. «Voglio tornare a casa» disse. «Voglio suor Clothilde...» Poi cominciò a piangere, dolcemente, come una bimba. Era primavera, ma sembrava un giorno d'estate. Quando David e zia Faith tornarono dalla Casa per Ragazze di Medvale, l'anziana signora osservò la scena che si stendeva oltre il finestrino senza che il fascino della campagna riuscisse a sollevare il suo umore. «Andiamo, vecchia zingara» scoppiò a ridere David. «La tua piccola veggente è stata un grande successo. Adesso, tutto quello che la polizia deve fare è cercare Geraldine a San Francisco... se a quest'ora non ha già preso una nave per i mari del sud.» «Non capisco» disse zia Faith. «Non è da Geraldine andarsene senza una parola. Perché lo avrà fatto?» «Non so» rispose David. Più tardi tornò in città. Quando vide Lucas in piedi accanto al taxi nero, al posteggio, frenò e uscì dalla macchina con un largo sorriso. «Salve, Lucas. Come vanno gli affari?» «Non potrebbero andare meglio.» Lucas cercò di decifrare la sua espressione. «E lei ha notizie per me, signor Wheeler?» «Forse sì. Se andassimo nel tuo ufficio?»
Gli diede una pacca sulla spalla. Lucas lo precedette nell'ufficio adiacente al posteggio; David chiuse accuratamente la porta e invitò l'altro a sedersi. «È tutto finito» disse. «Sono appena tornato dalla Casa per Ragazze di Medvale. Ci abbiamo riportato Iris Lloyd.» Un profondo sospiro uscì dal petto tarchiato di Lucas. «Quindi non sapeva? Non sapeva dov'era... la donna?» «Non lo sapeva, Lucas.» Il tassista si appoggiò allo schienale e si fregò le mani. «Allora ho fatto la cosa giusta. Sapevo che era la cosa giusta, signor Wheeler, ma non volevo dirglielo.» «La cosa giusta? Come sarebbe a dire?» Lucas lo fissò con gli occhi lucenti, stretti in un'espressione che a lui doveva sembrare di furbizia. «Ho immaginato che la ragazza avrebbe indovinato subito, se avessimo lasciato il corpo a pochi passi da casa. Ma se l'avessi portato da qualche altra parte, non avrebbe capito. Non avevo ragione? Un posto lontano, certo...» David sentì la gola chiudersi. Si lanciò su Lucas e lo prese per il bavero della giacca di lana. «Di che stai parlando? Che vuoi dire, con un posto lontano?» Lucas era troppo spaventato per rispondere, ma David urlò: «Che hai fatto?». «Temevo che lei si sarebbe arrabbiato» biascicò il tassista. «Per questo non ho detto niente. Una notte, la settimana scorsa, sono andato nel bosco e ho esumato il corpo della donna. L'ho messo nel baule che le apparteneva, signor Wheeler, e l'ho spedito per ferrovia il più lontano possibile. La città più lontana che conosco, signor Wheeler. Ecco perché Iris Lloyd non l'ha trovato. Ormai è troppo lontano.» «Dove? Dove, razza di idiota? San Francisco?» Lucas mormorò qualche frase smozzicata dal terrore, poi fece cenno di sì con la testa arruffata. L'addetto ai bagagli ascoltò attentamente le domande dei due agenti in borghese e quando gli mostrarono la foto della donna si strinse nelle spalle. Poi li condusse nella sala dei colli non ritirati in fondo alla stazione. Indicò il baule con le iniziali G.W. e i due si scambiarono un'occhiata, poi si diressero lentamente da quella parte. Ruppero il lucchetto e alzarono il coperchio. A cinquemila chilometri di distanza, Iris Lloyd balzò a sedere nel lettuccio del dormitorio e ansimò nel buio, chiedendosi quale sogno misterioso
avesse interrotto i suoi sonni. Titolo originale: The Girl Who Found Things Postilla I sensi dell'uomo (e quelli delle altre creature viventi, è ovvio) funzionano in base a princìpi ragionevoli e richiedono un appropriato dispendio d'energia. Siamo in grado di vedere perché un certo tipo di fotoni (contenenti energia) impressionano la retina e provocano trasformazioni chimiche che sono riflesse negli impulsi elettrici che viaggiano attraverso il nervo ottico, e che i lobi del cervello interpretano in termini visuali. In assenza di fotoni c'è il buio e non vediamo niente. Se, d'altra parte, i fotoni riflessi da un oggetto colpiscono una barriera opaca, non raggiungono i nostri occhi e quindi non vedremo l'oggetto in questione. Se poi i fotoni devono coprire una distanza molto grande, finiscono col disperdersi: il risultato è che non ne restano abbastanza per colpire i nostri occhi e rendere possibile la visione. Queste gravi limitazioni della vista ci infastidiscono fino al punto da farci perdere la pazienza (è una cosa del tutto comprensibile). Come alternativa, possiamo fingere che i fotoni non servano affatto e che noi - o quantomeno certe persone - siamo in grado di vedere nel buio, attraverso ogni sorta di barriere, a grande distanza e via discorrendo. A tutto questo diamo il nome di "chiaroveggenza" (cioè visione limpida). La chiaroveggenza è solo uno dei molti modi grazie ai quali certa gente immagina che la percezione sia possibile senza le limitazioni dei sensi a noi familiari. Si parla quindi di "percezione extrasensoriale", ossia "al di fuori dei sensi". È inutile dire che finora non è stata offerta alcuna prova definitiva a sostegno della chiaroveggenza. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Truman Capote, "Jug of Silver", in A Tree of Night and Other Stories, Random House, New York 1949. Violet Hunt, "The Operation", in Tales of the Uneasy, Heinemann, Londra 1911. Barry Pain, "Smeath", in Stories in Grey, T. Werner Laurie, Londra 1911.
Elizabeth Spencer, "The Finder", in The Stories of Elizabeth Spencer, Doubleday, Garden City 1980. Fleta Campbell Springer, "Legend", in «Harper's Magazine», n. 149, nov. 1924. Presagi di morte LA BANSHEE EMIGRATA di Gertrude Henderson Una banshee non è mai bella, anzi la bruttezza è proporzionale alla sua aristocraticità. Quella ereditaria degli O'Grady era antica e rispettabile, e proprio per questo brutta al di là di ogni immaginazione. Qualunque persona istruita, ormai, sa che la banshee è uno spirito annunciatore di sventura e che nell'oscurità della notte vola davanti alle finestre della famiglia cui appartiene, batte le ali rugose e si lamenta disperatamente: tutto per significare che uno degli abitanti della casa sta per morire. Le buone famiglie, quelle col sangue blu per intenderci, si fidano ciecamente del suo giudizio e i loro membri non muoiono mai senza averne ascoltato il lamento, ma neppure le fanno la scortesia di sopravvivergli. La faccia della banshee è immancabilmente lunga, magra e spaventosa. I capelli piovono in lunghi riccioli rossi, disordinati, intorno al volto; i denti sono neri e lunghi come zanne, le braccia lunghe e ossute. Quando vola sulle ali nere, simili a quelle dei pipistrelli, lunghe e indefinibili vesti lasciano come una traccia alle sue spalle, sicché a vederla è veramente orrenda; e queste caratteristiche della vera banshee appartenevano, in sommo grado, anche a quella degli O'Grady, che era di raffinata laidezza. Sul far di una sera d'inverno essa volò sul tetto dell'antica casa O'Grady, ondeggiando sul comignolo da cui usciva il fumo della cucina, dove stavano cuocendo le patate dei Mulligan; e cominciò a parlare con lo sventurato fantasma della Bimba Singhiozzante che stava appollaiato a un'estremità della trave maestra, in ascolto. Il fantasma della Bimba Singhiozzante svolazzava e si lamentava da più di tre generazioni per le strade e i viottoli di quelle campagne, ma a confronto della vecchissima banshee era molto giovane; per questo rimase rispettosamente a sedere e in ascolto, con le lacrime che le rigavano il volto. «Sono tempi duri quelli in cui viviamo, tempi duri!» disse la banshee. «È da sette generazioni che canto per gli O'Grady, è la verità. In tanti anni
nessuno di loro è mai morto senza che venissi a piangerlo. Annegati, ammalati, impiccati, morti di gotta e di difterite: per me era lo stesso, li ho pianti uno dopo l'altro e a volte, in tempi di carestia, ne ho salutati tre in una settimana. Non ne ho mai mancato uno: in tutta l'Irlanda - dico la verità, non faccio per vantarmi - non c'è una sola banshee che canti un lamento lugubre come il mio; a sentirlo il sangue degli uomini si rimescola nel cuore, le ginocchia si piegano, gli occhi schizzano fuor dalle orbite. Non ce n'è una come me.» «E adesso l'ultimo della famiglia se n'è andato» singhiozzò il fantasma dall'estremità della trave. «Già, proprio l'ultimo» ammise la banshee. «L'ho pianto giusto quattro settimane fa, stanotte è l'anniversario. Adesso è nel cimitero. "Pa-a-a-trick! " gli gridavo alla finestra, e loro hanno scritto sulla lapide: "Patrick O'Grady, di ottantaquattro anni e sette mesi". Non lascia eredi, non c'è più un O'Grady al mondo!.» «Che ne sarà di te, povera signora?» gemette il fantasma della Bimba. «Non lo so! Non lo so!» rispose dolente la banshee. «Non potresti adottare i Mulligan?» suggerì timido il fantasma. «Dopotutto si sono trasferiti nella vecchia casa, qui sotto: sarebbero a portata di mano.» «Adottare i Mulligan io, una banshee degli O'Grady? Gente che nessuno sa chi sia o da dove venga? No, è escluso» tagliò corto il lugubre spirito. «Io ho pianto solo le migliori famiglie: succeda quel che succeda, non farò altro.» Il fantasma alzò il viso bagnato di lacrime verso la luna e disse: «Non c'era un Danny O'Grady, unico fratello di Patrick, che andò in America a cercar fortuna quando era solo un ragazzo, sessanta o settant'anni fa?». «Si, c'era» rispose la banshee «ed è un peccato che se ne sia andato. Avrebbe dovuto restare, allevare dei figli, morire ed essere sepolto a casa. Così ci saremmo risparmiati tutti questi guai. I Mulligan!» E guardò il fumo che usciva dal camino con sommo disprezzo. «Pensavo che potresti andare in America» disse il fantasma, e l'arditezza del suggerimento fece scorrere altre lacrime. «In America io?» disse la banshee. «Sì, a cercare Danny e i suoi figli.» «E che farei laggiù?» «Piangeresti i morti» rispose la Bimba. «Che altro?» «Caro fantasma!» esclamò la banshee. «Non ci avevo mai pensato!»
«In fondo era il fratello maggiore» continuò il fantasma. «E avrà avuto dei bambini» suggerì la banshee. «Già, che nessuno piangerà mai.» «Partirò stanotte stessa, e non dimenticherò che sei tu ad avermelo suggerito. Se qualche tuo caro dovesse trapassare, sarei lieta di piangerlo nella più lugubre maniera. E lo farò, non importa il suo nome: purché non sia un Mulligan. Allora addio, caro fantasma. Mi preparo.» «Addio» rispose il fantasma della Bimba Singhiozzante. «E buona fortuna.» Le banshee non viaggiano come persone di carne e sangue e hanno un modo di cercare le cose che non è altrettanto lento e grossolano. Così, sul far della sera, fra le ombre che si addensavano sul cottage degli O'Grady americani volò un essere di cui nessuno aveva mai visto l'uguale. Si avvicinò alla finestra con ali membranose e silenziosissime e il volto pallido, lungo e smunto guardò attraverso i vetri per contare la famiglia, cosa che fece con viva soddisfazione. Poi l'ombra si appollaiò sul camino e lì restò, mormorando fra sé con una voce che somigliava al sibilo del vento: «C'è Danny O'Grady, perfetto rappresentante della famiglia. Certo comincia a farsi vecchio: si vede che mi aspettava. Poi c'è suo figlio, un uomo fatto, la moglie di lui e sette bambini. Come se non bastasse, nelle vicinanze ci sono altri O'Grady, gli altri figli del vecchio Danny e le loro famiglie. Meno male che sono venuta in America! È un bel paese, non c'è che dire». All'improvviso la banshee esclamò: «Hai sentito?» e scostò i riccioli rossi dalle orecchie per udire meglio. Qualcuno tossiva sotto il tetto, tossiva di brutto. La banshee si avvicinò di nuovo alla finestra, «È proprio lui, il vecchio Danny. Guarda che razza di tosse, povera creatura! Oh, presto avrà bisogno di me, oh sì.» Dentro la casa il vecchio signore fu preso da un'altra stizza e la banshee di famiglia lo guardò con una sorta di rapimento finché fu passata. «Non sono arrivata troppo presto» ragionò la banshee. «È una bruttissima tosse quella di Danny, ne morirà. Avrebbe potuto portarselo via nel cuore della notte, e lui non ne avrebbe saputo niente fino al momento di essere calato nella fossa. Che rischio ha corso, e io me ne stavo nel paese natale senza sospettare niente! Se sapesse che sono qui sarebbe capace di mettersi a letto e andarsene stanotte stessa, così, per gratitudine. Sarebbe una cosa decente e fatta a dovere, proprio come se fossimo a casa in Irlanda.
«Mi domando se dargli l'avvertimento stasera» meditò «o aspettare che passi la notte e vedere se resisterà ancora una settimana.» Per qualche minuto guardò la finestra, borbottando fra sé a intervalli. Finalmente, a malincuore, lasciò la presa sull'imposta. «Correrò il rischio, stanotte» decise la banshee. «Tanto, se ne andrà presto.» E volò di nuovo sul camino. La notte successiva e quella dopo lo osservò attentamente. Il terzo giorno Danny si mise a letto con la febbre. «È una benedizione che io sia qui» disse fra sé la banshee, osservando il vecchio in casa. «In quelle condizioni un O'Grady non chiede altro che la sua banshee, anche se siamo all'estero. Il momento è questo: ora o mai più.» E così dicendo strinse le imposte della finestra con le dita forti e ossute e si preparò a battere le ali membranose, preludio a un lamento funebre come in America non s'era mai sentito. Essendo la prima volta che si esibiva in terra straniera, la banshee voleva riuscire formidabile e spaventosa. Batté le ali una volta, due volte, tre volte, all'unisono, e il suono che ne ricavò fu forte e minaccioso. Prima del lamento vero e proprio fece una pausa. In casa, Danny si tirò le coperte fin sul mento. «Sul tetto dev'esserci un asse fuori posto» disse. «Non senti come batte?» La banshee lo sentì parlare, ma non capì il senso: era troppo assorta in ciò che stava per avvenire. Buttò indietro la testa e urlò lugubremente: «Da-a-a-nny!» Poi guardò in casa per constatare, come sempre, il terrore che invadeva la famiglia in seguito ai suoi sforzi. «Senti come soffia il vento, papà?» disse la giovane signora Danny, dondolandosi placidamente accanto al fuoco. «Sì» rispose egli dal letto. «È una notte fredda, altro che.» La banshee era stupita, anzi ferita. Nella sua lunga carriera nessuno le aveva mai fatto un affronto simile, e sì che aveva fatto dei sacrifici per quella famiglia. Per un attimo rimase assolutamente immobile. «Non ci sono più abituati» mormorò fra sé. «O forse non hanno sentito.» Di nuovo buttò indietro la testa e il lamento si levò in lunghe, vibranti cadenze: «Da-a-a-nny!». La banshee aprì gli occhi e guardò di nuovo. Danny era sempre a letto, con gli occhi socchiusi, e respirava regolarmente. La tranquillità della stanza era interrotta solo dallo scricchiolio della sedia a dondolo.
Mentre raccoglieva le forze per un ultimo, agghiacciante ululato, la mano ossuta della banshee tremò sull'imposta. Il terzo lamento fu un lungo, spaventoso, terribile "Da-a-a-nny!" A sentire il suono raggelante della propria voce, fu orgogliosa: in sette generazioni non aveva mai fatto niente di più orribile. Pure, per un attimo esitò ad aprire gli occhi. Quando infine guardò si rese conto che Danny si puntellava sul gomito e la sedia a dondolo non cigolava più. «Hai sentito?» chiese Danny. «Sì» rispose la donna. «Cosa credi che fosse? Non può essere solo il vento o l'asse del tetto.» Ma l'espressione della signora Danny si rasserenò e la sedia a dondolo riprese a cigolare. «Oh, dev'essere il gatto della signora Maloney, qui accanto. Gran brutta bestia!» Danny mise di nuovo la testa sul cuscino. «Ma sì» convenne. La banshee volò sul comignolo e rimase là, misera e tremante: una banshee disonorata. Dopo sette generazioni di fedeltà era venuta in America e aveva fatto un lamento funebre senza precedenti: ma gli O'Grady non avevano nemmeno battuto ciglio. Dopo un po' cominciò a lagnarsi fra sé. «Se avesse visto com'è morto suo nonno! Un lamento che non valeva nemmeno la metà di questo, eppure i bambini avevano gli occhi che schizzavano dalla testa! Al primo ululato la buonanima disse subito: "È la banshee!", poi si mise supino, incrociò le braccia sul petto e non disse più una parola. Quello sì che era un gentiluomo! Che bella veglia fecero i parenti!» Nel cuore della notte la banshee riprese a mormorare. «Comunque io l'ho avvertito. Mi hanno sentita, anche se non sapevano chi fossi. Il vecchio Danny se ne andrà e non vedrà un'altra notte. È la regola.» Molte ore dopo si agitò, a disagio, e borbottò ancora qualcosa. «Eh già, "Il gatto dei Maloney"! "Una brutta bestiaccia!"» Dopo quella notte la banshee osservò la famiglia con pietosa sollecitudine, ma in capo a una settimana Danny stava meglio e prima che passassero quattordici giorni si era alzato e si dava da fare più di prima. Per la banshee fu un colpo terribile, ma era solo l'inizio. Per qualche settimana meditò sulla sua sconfitta, poi decise di farsi vedere da qualcuno. Era una cosa che permetteva solo raramente, ma il terrore che ispirava negli uomini quando appariva era un tonico di cui i suoi nervi avevano assoluto bisogno.
Scelse una notte buia, con le nuvole e un po' di vento. Un poliziotto risalì la strada e dall'aspetto gli sembrò irlandese. Lei gesticolò con le lunghe braccia, fece tremare i riccioli rossi e lo guardò dritto in faccia, tagliandogli la strada. L'uomo continuò ad avanzare, come se niente fosse. La banshee attraversò la strada una seconda volta, una terza e una quarta, sempre più vicina. Infine fece battere i denti ed emise una specie di mugolio. Il poliziotto si fermò. «A questa povera disgraziata deve aver dato di volta il cervello» commentò. «Che notte per andare in giro da sola, vecchia com'è. Ha perso la strada, signora?» La banshee si fece piccola piccola e, confondendosi fra le ombre, spiccò il volo verso il comignolo, col cuore pesante. Il poliziotto si guardò intorno. «Dov'è andata tanto in fretta?» si chiese. Poi, non trovandola, riprese a perlustrare placidamente l'isolato. «Sono i guai che mi stanno sciupando» rifletté la banshee. «Ho perduto il mio aspetto originale. Pensare che ero un vero mostro, e adesso lui mi prende per una povera vecchia! Tanto sarebbe valso restare a casa e adottare i Mulligan.» Non ebbe cuore di fare un altro tentativo quella notte, né la successiva e quella dopo ancora. Rimase perciò nascosta in un angolo buio presso il comignolo, ruminando fra sé i propri dolori. Al crepuscolo della terza sera, mentre a ovest il cielo era ancora rosato, la banshee alzò improvvisamente la testa e guardò con gli occhi orlati di pianto attraverso il velo della capigliatura rossa. Agitò in silenzio le ali nere, scese dal comignolo fino in strada e, mantenendosi nell'ombra incerta degli alberi, risalì la via fino al punto in cui sorgeva il cottage del più giovane figlio di Danny, che ci viveva con la sua famiglia. Era ancora giorno o quasi, ma se c'era bisogno del sole perché la gente la vedesse, lei era decisa a manifestarsi e a far sì che la notassero. Il fatto la dice lunga perché a casa, in Irlanda, nessuna banshee che si rispetti esce prima che la notte sia completamente buia, e la nostra, che era un tipo aristocratico, aveva sempre amato le notti di nuvolo e completa assenza di stelle, con una predilezione per quelle temporalesche, con i tuoni e i lampi. A una certa distanza dalla casa il piccolo Timmy O'Grady stava mostrando alla sorella Norah fin dove poteva arrampicarsi sull'albero senza avere le vertigini, e in che modo spericolato potesse venir giù senza farsi male. Ma, spinto dall'ammirazione della sorellina, osò un po' troppo e cadde. Per fortuna il ramo era basso e il danno non fu grave, ma Timmy rimase immobile un attimo, cercando di capire quanto dolore provasse e se va-
lesse la pena mettersi a piangere. Norah non ebbe dubbi e scoppiò in lacrime, e con questo incoraggiamento Timmy alzò la testa e aprì la bocca, pronto a cacciare un urlo per conto suo. Ma prima di aver emesso un suono vide uno spettacolo che trasformò la sua espressione in completo sbalordimento. I capelli al vento, gli occhi rossi e le vesti che volavano nel più pazzo disordine, la banshee correva da una parte all'altra della strada proprio davanti a lui, ora agitando le dita ossute, ora frustando l'aria con le magre braccia, e quando il ragazzo la vide arricciò le labbra e dalle nere zanne uscì un sibilo, un urlo, un grido che in un colpo interruppe le grida di Norah e le fece spalancare gli occhi come piattini. «Io sono la banshee!» gridò l'apparizione. «La banshee degli O'Grady! Morii-re-te! La banshee di tutti gli O'Grady... Ti-i-immy! Sei caduto dal ramo di un albero e ti sei rotto il collo. È la verità che ti dico! Oh, Ti-i-immy!» «Macché» rispose indignato il ragazzo. «Non mi sono fatto male.» La banshee era letteralmente in delirio per l'opportunità che le si presentava e per la contentezza di essere stata vista, perciò non faceva molto caso a quel che diceva. Si strappò i capelli e continuò a latrare lugubremente: «Ti-i-immy! Ti-i-immmy!» e ancora «Ti-i-immy! Ti-i-immy!» senza far caso che l'aveva detto ben più di tre volte. Timmy si tirò in piedi e indietreggiò verso la sorella, che sembrava pietrificata. «Smettila!» disse forte, con voce che lo tradì un momento ma nel complesso coraggiosa. Norah afferrò la giacca del fratello appena le fu vicino. «Quella chi è?» riuscì a sussurrare con le labbra tese. «Solo una vecchia pazza» rispose Timmy. «Non mi fa paura.» La banshee smise di gesticolare e il lamento le morì in gola: aveva notato che Timmy era di nuovo in piedi. «Timmy» disse con un sibilo «io non sono una vecchia.» «Vattene» protestò il ragazzo. «Se spaventi un'altra volta mia sorella ti prendo a sassate.» «Timmy, tesoro» gracchiò la banshee, con voce piena d'angoscia. «Tu corri a casa, Norah» disse Timmy. «A lei penso io.» «Sono la tua banshee!» Un'improvvisa rabbia le rafforzò di nuovo la voce, che tuttavia morì in un sussurro. «La banshee degli O'Grady, per sette generazioni!» «Non è vero.» «No?»
«No.» «E allora chi sarei?» chiese in tono debole e stupito. «Non lo so, ma non sei una banshee perché queste cose non esistono.» «Non esistono?» «Non esistono!» «E chi lo dice?» «Mio padre, perché una volta ne ho sentito parlare in una storia e gliel'ho domandato.» Il coraggio della banshee si era inabissato, ma fece un'ultima disperata sortita. «Tuo padre!» sbuffò. «Che vuoi che ne sappia? Non è irlandese, non ha mai messo piede nel nostro paese. Chiedi a tuo nonno se le banshee esistono oppure no. Chiedilo al vecchio Danny e te lo dirà.» «Ah!» esclamò Timmy, ormai trionfatore. «Mio nonno dice la stessa cosa: non esistono. Vieni con me, Norah.» La bambina aveva le gambe tremanti ma ubbidì, e i due fratelli fecero a perdifiato la strada che li separava da casa. Timmy ogni tanto si guardava alle spalle per accertarsi che la pazza non li inseguisse. Quanto alla povera banshee, rimase immobile per un bel pezzo. Finalmente tornò nell'angolo vicino al comignolo del vecchio Danny. Rimase immobile e silenziosa fin nel cuore della notte: era circondata da un silenzio completo e nel cielo nero non c'era neppure una stella. A un tratto si udì un lamento che aumentava e poi si abbassava, lacerando l'aria orribilmente. La banshee si scoprì la testa, mettendosi in ascolto. «Che ce ne sia un'altra?» si chiese. «Ma no, non può essercene un'altra in questa nuova terra crudele...» Un pensiero improvviso la colpì e urlò appassionatamente in risposta. «È tutta colpa sua» disse, furente. «Quel maledetto gatto dei Maloney, cuor nero, che miagola ogni notte a squarciagola. Ecco perché in America i Maloney, gli O'Grady, Danny e tutti gli altri non credono alle banshee nemmeno quando le sentono!» Come un refolo di vento improvviso volò dal comignolo sullo steccato dietro casa, fermandosi con un battito d'ali accanto a una gobba nera nell'angolo dello steccato. «Sei tu che hai fatto questo!» gridò. «Tu, brutta bestia, con la tua voce da far pena e i continui lamenti a ogni ora. Non spaventeresti nemmeno un neonato, fidati di quello che dice una vecchia banshee che non ti ha mai fatto del male e che per sette generazioni ha pianto i morti della sua famiglia. Già, sempre in perfetto orario fino alla disgraziata notte in cui ha
messo piede in questo paese crudele e ingrato!» Il gatto girò la testa dalla sua parte ma gli occhi verdi e lucenti guardavano molto, molto più lontano. Poi alzò la voce e miagolò verso il cielo. Nella sua furia la banshee concepì un piano. «Ti farò il lamento funebre» urlò «e così morirai! Io...» Si sarebbe abbassata a piangere un gatto? Un gatto nero in America, lei che era stata per sette generazioni la banshee degli O'Grady? Per un attimo l'orgoglio ebbe la meglio, ma la rabbia spazzò ogni orgoglio, ogni umiliazione e il lamento della banshee squarciò la notte. Risuonò possente, poi si spezzò e tornò più fievole, con la voce del gatto che le faceva eco. Di nuovo si levò il lamento della banshee, di nuovo echeggiò quello del gatto. Per la terza volta il grido funebre dello spirito risuonò nell'aria, ma all'apice delle sue note spaventose il gatto alzò la faccia nera al cielo e rispose con un rantolo di tale malvagità che la banshee si coprì la testa con il velo e sprofondò nel silenzio. Quando l'ultima nota del miagolio si fu persa nell'aria, il gatto girò gli occhi verdi da una parte e dall'altra, ma senza nessuna espressione. Una notte d'estate, mentre infuriava un temporale, il fantasma della Bimba Singhiozzante se ne stava appollaiato sulla trave maestra di casa Mulligan mescolando le sue lacrime alla pioggia. All'improvviso sentì una presenza familiare. Alzò gli occhi, che naturalmente piangevano. «Come, sei tornata?» chiese la Bimba. «Che ne è degli O'Grady?» «Zitta!» disse la banshee. «Non parlarmi più degli O'Grady. Non sono loro la stirpe originaria, ma semplicemente un ramo della famiglia Mulligan. I Mulligan sono il vecchio ceppo, quello che risale alle origini. Io sono la banshee dei Mulligan, non degli O'Grady!» Ci fu un lungo silenzio. «Allora che hai fatto in America?» singhiozzò la Bimba con voce debolissima. «Non è posto per una banshee che si rispetti» rispose quella. «E neppure per un fantasma che si rispetti. Credimi sulla parola, non andare laggiù finché sei nelle tue condizioni e fin quando in Irlanda rimane una strada.» La Bimba cominciò a singhiozzare disperatamente: le lacrime scavarono altri solchi sulle guance e non disse più niente. La banshee agitò le ali membranose e si lamentò un poco, in lugubre e assoluta contentezza. Titolo originale: The Emigrant Banshee
Postilla "Banshee" è una parola irlandese che significa "donna del popolo fatato". È naturale che una famiglia voglia sentirsi importante, ma non a tutte è dato esserlo. D'altro canto, pur se poveri, è prestigioso avere un essere soprannaturale che s'interessi a noi: se determinate potenze ci prendono a cuore, è evidente che apparteniamo a una schiatta degna d'onore. La morte è un fenomeno che non è facile comprendere. Alcuni malati e feriti muoiono, altri nelle stesse condizioni sopravvivono. Non è facile prevedere se un individuo dalla salute precaria ce la farà o meno, ma si può presumere che un essere soprannaturale con una maggior conoscenza del futuro lo sappia. Una banshee fedele a una certa famiglia si lamenterà ogni volta che un membro della casa stia per morire: e benché questo si chiami malaugurio, ha tuttavia un certo fascino melanconico. Fra parentesi, a patto di essere di bocca buona potremo facilmente dimostrare l'esistenza delle banshee. La notte è piena di suoni misteriosi provocati da esseri viventi, dal vento e da oggetti inanimati. Se qualcuno è a letto malato, non gli sarà difficile udire ogni notte un lamento che potrà essere interpretato come quello della banshee. Se il malato sopravvive, vorrà dire che non si trattava di uno spirito ma di qualcos'altro. Se muore, era la banshee: in tal modo le prove aneddotiche a favore dell'esistenza di questi esseri aumentano, al punto che solo uno scettico incrollabile ne potrà dubitare. La maggior parte delle prove addotte a favore dei fenomeni occulti è di questo tipo. Non fidatevi mai di verità che poggiano solo sul sentito dire. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Katherine Fullerton Gerould, "On the Staircase", in «Scribner's Magazine», n. 54, dicembre 1913. Thomas Hardy, "The Superstitious Man's Story", in The Haunted and the Haunters a cura di Ernest Khys, Daniel O'Connor, Londra 1921. John D. MacDonald, "The Straw Witch", in The End of the Tiger and Other Stories, Fawcett, New York 1962. Saki (pseud. di Hector Hugh Munro), "The Wolves of Czernogratz", in The Toys of Peace and Other Papers, John Lane, Londra 1919.
Henry Van Dyke, "Messengers at the Window", in «American Magazine», n. 74, ottobre 1912. Adorazione del demonio IL GIOVANE SIGNOR BROWN di Nathaniel Hawthorne Al tramonto il giovane signor Brown uscì sulla strada del villaggio di Salem, ma dopo aver attraversato la soglia rimise la testa in casa per dare un bacio d'addio a sua moglie. E Faith, come la ragazza opportunamente si chiamava, sporse la graziosa testolina per salutarlo, lasciando che il vento le scompigliasse i nastri rosa della cuffia. «Amor mio» disse piano e con una certa tristezza, quando le labbra furono vicine all'orecchio del marito, «ti prego, rimanda il viaggio a domani e stanotte dormi nel tuo letto. Una donna sola è turbata da tali sogni e tali pensieri che a volte ha paura di se stessa. Per favore, marito mio, passa con me questa notte fra tutte le notti dell'anno.» «Tesoro, mia Fede» rispose il giovane Brown. «Di tutte le notti dell'anno, è proprio questa in cui debbo allontanarmi da te. Il mio viaggio, come l'hai chiamato, dev'essere compiuto dal tramonto all'alba, ritorno compreso. Cos'è, moglie mia? Siamo sposati da tre mesi e già dubiti di me?» «Che Dio ti benedica, dunque!» replicò Faith dai nastri rosa. «Che al tuo rientro possa trovare ogni cosa in perfetto ordine.» «Amen!» esclamò il giovane Brown. «Recita le tue preghiere, cara Faith, vai a letto al crepuscolo e non ti accadrà nulla di male.» Quindi si separarono e il giovanotto andò per la sua strada fino al punto in cui, arrivato all'angolo presso la chiesa, si voltò a guardare e vide Faith che ancora si sporgeva a seguirlo, con l'aria mesta non rallegrata dai nastri rosa. «Povera piccola Faith!» pensò egli, perché il cuore gli rimordeva. «Che disgraziato son io, a lasciarla per un simile viaggio. E parla di brutti sogni, per giunta. Mi pare di averla vista agitata, quando mi pregava di restare: come se un sogno l'avesse avvertita del lavoro che dev'essere compiuto stanotte. Ma no, no; il solo pensiero la ucciderebbe. Bene, è un angelo sceso sulla terra: dopo aver fatto quel che c'è da fare, una notte mi aggrapperò alle sue gonne e volerò con lei in paradiso.» Con questi eccellenti propositi per il futuro, il giovane Brown si sentì
più giustificato a compiere in fretta le malefatte attuali. Aveva imboccato un sentiero squallido, oscurato da alberi neri che a stento si dividevano per permettere allo stretto viottolo d'insinuarsi nel mezzo e immediatamente si richiudevano. La strada era la più solitaria che si possa immaginare, e la particolarità di una solitudine così estrema è che il viaggiatore ignora chi può nascondersi dietro gl'innumerevoli tronchi e i robusti rami che si parano dinanzi a lui; sicché, pur ritenendosi solo, di fatto può trovarsi in mezzo a un'invisibile moltitudine. «Può esserci un indiano feroce dietro ogni albero» disse fra sé il giovane Brown; poi si guardò intorno pieno di paura e aggiunse: «E se il diavolo in persona mi stesse alle calcagna?». Aveva la testa ancora voltata indietro quando superò una curva della strada; tornato a guardare innanzi vide un uomo, vestito severamente e con decoro, che sedeva ai piedi di un vecchio albero. Al sopraggiungere del giovane Brown l'uomo si alzò e prese a camminare al suo fianco. «Siete in ritardo, signor Brown» disse. «L'orologio dell'Old South suonava quando sono passato per Boston, e questo accadeva un buon quarto d'ora fa.» «Faith mi ha trattenuto un poco» rispose il giovane con voce tremante per l'improvvisa apparizione del suo compagno, che pure non era del tutto inaspettata. Nella foresta le ombre erano ormai profonde, più profonde ancora nel punto dove i due stavano camminando. Da quanto si poteva intuire il secondo viaggiatore era un uomo sulla cinquantina, più o meno della stessa classe del giovane Brown e con una certa rassomiglianza a lui, sebbene più nell'espressione che nei lineamenti. Avrebbero potuto scambiarli per padre e figlio, ma il più anziano, pur essendo vestito semplicemente come il giovane e mostrando la stessa spontaneità di maniere, aveva l'aria indescrivibile di chi conosce il mondo e non si sentirebbe a disagio (ammesso che i suoi affari ve lo conducessero) alla tavola del governatore o addirittura di re Guglielmo. La sola cosa notevole nella sua persona era il bastone, che riproduceva l'immagine di un gran serpente nero ed era scolpito in maniera così bizzarra che sembrava di vederlo torcersi e guizzare, come un serpente vero. Ovviamente doveva trattarsi di un'illusione ottica rafforzata dall'incerta luce. «Andiamo, signor Brown» lo esortò il compagno. «È un passo troppo lento per l'inizio di un viaggio. Prendete il mio bastone, se siete stanco.» «Amico» rispose l'altro, fermandosi addirittura. «Pur avendoti dato ap-
puntamento là dove ci siamo incontrati, ora voglio tornare nel luogo da cui sono venuto. Ho certi scrupoli, come ti sei accorto.» «Mi dici questo?» ribatté l'uomo col serpente, facendo un largo sorriso. «Continuiamo a camminare, in ogni modo, e ragioneremo strada facendo. Se ti convincerò non tornerai indietro. Ci siamo appena inoltrati nella foresta.» «Fin troppo! Fin troppo!» esclamò il giovane, e riprese a camminare senza rendersene conto. «Mio padre non s'è mai spinto nei boschi per faccende simili, né suo padre prima di lui. Siamo una famiglia di uomini onesti e buoni cristiani fin dai tempi dei martiri; devo essere io il primo Brown che imbocca questo sentiero e s'intrattiene...» «Con simile compagnia, volevi dire?» osservò il più anziano, interpretando il silenzio dell'altro. «Ben detto, giovane Brown! Anch'io conosco bene la tua famiglia, forse la più stimata fra i Puritani: e non è poco. Ho aiutato tuo nonno, il conestabile, quando dovette fustigare la quacchera per le vie di Salem, una memorabile impresa; e sono stato io a portare a tuo padre la torcia di resina, accesa al mio stesso focolare, con cui demmo fuoco a un villaggio indiano durante la guerra di re Filippo. Per me sono stati entrambi buoni amici, e abbiamo fatto molte belle passeggiate su questi sentieri, tornando in allegria dopo mezzanotte. In loro onore vorrei estendere a te la mia amicizia.» «Se è come dici» replicò il giovane Brown «mi meraviglio che non ne abbiano mai fatto parola; o meglio, non mi meraviglio affatto, visto che il più piccolo sospetto in proposito li avrebbe fatti cacciare dal New England. Siamo una comunità dedita alla preghiera e al lavoro, non tolleriamo simili nefandezze.» «Nefandezze o no» disse il viaggiatore col bastone attorcigliato «ho buone conoscenze, qui nel New England. I diaconi di molte chiese hanno bevuto con me il vino della comunione; i funzionari di parecchie città mi hanno eletto loro presidente e la maggioranza dei membri della Corte Suprema, e di quella Generale, sono fermi sostenitori dei miei interessi. Quanto al governatore e me... ma questi son segreti di stato.» «È mai possibile?» gridò il giovane Brown, fissando sbalordito il suo imperterrito compagno. «Comunque io non ho niente a che fare col governatore e il consiglio. Essi hanno i loro metodi, che non rappresentano la regola per un semplice capofamiglia come me. Ma se venissi con te, come potrei guardare in faccia quel buon uomo del nostro sacerdote a Salem? Oh, la sua voce mi farebbe tremare il giorno del sabbath e quello della pre-
dica!» Fino a questo punto il viaggiatore anziano aveva ascoltato con la dovuta serietà, ma ora scoppiò in una crisi d'irresponsabile allegrezza, torcendosi dalle risate a tal punto che il bastone, per simpatia, pareva torcersi anch'esso. «Ah, ah, ah!» tuonò ripetutamente. Poi, ricomponendosi: «Ebbene continua, giovane Brown, continua; ma, ti prego, non farmi morire dal ridere». «Dunque, per troncare immediatamente la questione» disse il signor Brown, considerevolmente turbato, «c'è mia moglie Faith. Spezzerei il suo piccolo cuore, al che preferisco spezzare il mio.» «No, se non è necessario» rispose l'altro. «Prosegui tranquillo per la tua strada, giovane Brown. Neppure per impossessarmi di venti vecchie come quella permetterei che alla tua Faith accadesse qualcosa di male.» Così dicendo il viaggiatore puntò il bastone verso una figura femminile che il giovane Brown riconobbe per una dama molto pia ed esemplare. In gioventù gli aveva insegnato catechismo ed era tuttora sua consigliera morale e spirituale, insieme con il pastore e il diacono Gookin. «È meraviglia davvero che Goody Cloyse sia nella foresta a quest'ora di notte» disse il giovanotto. «Ma col tuo permesso, amico, taglierò per i boschi finché non ci saremo lasciati alle spalle quella cristiana. Siccome non ti conosce, potrebbe chiedersi a chi mi accompagni e dove sia diretto.» «Come vuoi» rispose l'altro viaggiatore. «Prendi per il bosco, io continuerò sul sentiero.» Così il giovane si allontanò fra gli alberi, ma non perse d'occhio il compagno che avanzava tranquillamente nella strada e presto giunse vicino alla vecchia, da cui lo separava soltanto la lunghezza del bastone. Nel frattempo anche la vecchia si affrettava: era molto spedita per una donna della sua età e borbottava fra sé parole indistinte (una preghiera, senza dubbio). Il viaggiatore allungò il bastone e toccò il collo della signora con quella che pareva la coda del serpente. «Il diavolo!» gridò la pia donna. «Dunque Goody Cloyse riconosce il suo vecchio amico?» osservò il viaggiatore, mettendosi di fronte a lei e appoggiandosi al bastone serpentino. «Ah, perdiana, è proprio vostra eccellenza?» gridò la vecchia signora. «Già, avete preso le sembianze del vecchio Brown, quel pettegolo, nonno dello sciocco che attualmente porta il suo nome. Ma, eccellenza, ci credereste? La mia scopa è misteriosamente scomparsa, rubata, credo, da quella
strega svergognata che è Goody Cory; me ne sono accorta quando ero già tutta unta di unguento di sedano, cinquefoglie e aconito...» «Mescolato con frumento fine e il grasso di un neonato» disse l'uomo che aveva preso le sembianze del vecchio signor Brown. «Ah, vostra eccellenza conosce la ricetta» gridò la vecchia con un cachinno. «Dunque, come dicevo, ero pronta per il raduno ma non avevo un cavallo sopra il quale correre. Perciò decisi di farmela a piedi: dicono che stanotte c'è un simpatico giovanotto da accogliere fra noi. Ma ora vostra eccellenza mi presterà il suo braccio: saremo là in un batter d'occhio.» «Non è possibile» rispose il suo amico. «Non posso darti il mio braccio, Goody Cloyse; però eccoti il bastone, se vuoi.» E così dicendo glielo gettò ai piedi, dove parve animarsi, perché era una delle verghe che il suo proprietario aveva già donato ai maghi d'Egitto. Di questo, tuttavia, il giovane Brown non poté essere certo. Aveva alzato gli occhi dallo stupore, e riabbassandoli di nuovo non vide più né Goody Cloose né il bastone a forma di serpente, ma solo il suo compagno di viaggio che l'aspettava calmo, come se niente fosse accaduto. «Ma quella vecchia mi ha insegnato il catechismo!» esclamò il giovane, e in quel semplice commento c'era tutta una riflessione. Continuarono a camminare, mentre il viaggiatore anziano esortava il suo compare a tenere il passo e a perseverare per quella strada: e così bene esponeva i suoi argomenti che non sembravano nemmeno detti da lui, ma nati direttamente nel cuore dell'ascoltatore. A un certo punto il signore anziano staccò il ramo di un acero per farsene un bastone e cominciò a staccarne le asperità e i rametti secondari, bagnati di rugiada serotina. Appena le sue dita li toccarono, quelli avvizzirono e si seccarono, come fossero stati sotto al sole per una settimana. Dunque la coppia procedeva di buon passo, ma all'improvviso, in una conca opprimente che si apriva lungo la strada, il giovane Brown sedette sul tronco abbattuto d'un albero e rifiutò di andare oltre. «Amico» disse ostinatamente. «Io ho deciso. Non farò un altro passo in quella direzione. Una vecchia che credevo votata al paradiso ha scelto invece d'andarsene al diavolo: è questa una buona ragione per seguirla e abbandonare la mia povera Faith?» «Di questo ti ricrederai» rispose il conoscente, composto. «Siedi qui e riposati un poco, e quando sentirai di poterti muovere, ecco il mio bastone per aiutarti.» Senza aggiungere altro, gettò al compagno il bastone d'acero e scompar-
ve velocemente alla vista, come se il buio che infittiva l'avesse inghiottito. Il giovanotto rimase un po' seduto al margine della strada, lodando vivamente la sua decisione e pensando che avrebbe potuto incontrare il pastore, durante la passeggiata mattutina, in perfetta serenità di coscienza; non solo, ma non avrebbe dovuto vergognarsi sotto l'occhio del buon diacono Gookin. Come avrebbe dormito bene, quella notte: invece di dedicarla al male, come stava per fare, l'avrebbe passata in purezza e dolcezza fra le braccia di Faith! Mentre era perso in quelle piacevoli e lodevoli meditazioni, il giovane signor Brown sentì uno scalpitare di cavalli sul sentiero e decise che fosse meglio nascondersi al limitare della foresta: dopotutto, anche se ci aveva ripensato, era andato lì con brutti propositi. Il rumore di zoccoli e le voci dei cavalieri si avvicinarono: due uomini anziani, dal timbro profondo, conversavano educatamente. La cavalcata lo superò, passando a pochi metri dal nascondiglio del giovanotto, ma evidentemente a causa del buio, che in quel punto era particolarmente fitto, né i viaggiatori né le loro cavalcature furono visibili. E benché al loro passaggio smuovessero i rami, neppure per un momento i cavalieri furono illuminati dal debole riflesso d'una striscia di cielo più chiaro, contro cui avrebbero dovuto senz'altro stagliarsi. Quanto al signor Brown, ora stava rannicchiato e ora sorgeva in punta di piedi, scostando i rami e sporgendo la testa quel tanto che osava, ma senza vedere anima viva. La cosa lo innervosì parecchio, perché avrebbe giurato (ma era impossibile) di aver riconosciuto le voci del pastore e del diacono Gookin, i quali avanzavano con la stessa calma e naturalezza di quando si recavano a una cerimonia ecclesiastica. Mentre erano ancora a portata d'orecchio, uno dei cavalieri si fermò per strappare un ramo. «Per conto mio, reverendo signore» disse la voce che sembrava quella del diacono «preferirei rinunciare a un pranzo d'ordinazione che a un raduno come quello di stasera. Mi hanno detto che alcuni dei partecipanti verranno da Falmouth e ancora più lontano, altri dalle provincie del Connecticut e Rhode Island, senza contare gli stregoni indiani che, a modo loro, conoscono tante diavolerie quanto i migliori di noi. Inoltre, c'è una giovane e buona donna da accogliere fra i nostri.» «Molto bene, diacono Gookin!» rispose la voce grave del pastore. «Diamo di sprone, o arriveremo in ritardo. Come sapete, la cerimonia non può cominciare prima del mio arrivo.» Gli zoccoli risuonarono di nuovo e le strane voci che venivano dal nulla svanirono nella foresta, dove nessuna chiesa era mai stata costruita e nes-
sun cristiano osava pregare in solitudine. Perché, allora, quei santi uomini si avventuravano nei boschi dei pagani? Il giovane Brown si appoggiò a un albero per cercare conforto, ma già si sentiva venir meno per la debolezza e il pesante fardello che gravava sul suo cuore. Alzò gli occhi al cielo, dubitando che ce ne fosse uno. Ma eccolo, un arco azzurro con le stelle che splendevano. «Con il cielo su di me e Faith al mio fianco, resisterò decisamente al demonio!» gridò il giovane Brown. Mentre fissava l'arco profondo del firmamento e giungeva le mani a preghiera, una nuvola (benché non ci fosse vento) attraversò veloce lo zenit e nascose lo splendore delle stelle. Il cielo blu era ancora visibile, salvo nel punto che lo sovrastava direttamente, dove la nuvola nera muoveva rapida a nord. E dal cielo, come sprigionato dalla nuvola, venne un confuso, equivoco suono di voci. L'ascoltatore ebbe l'impressione di riconoscere quelle di certi suoi concittadini, uomini e donne appartenenti sia alla classe dei buoni cristiani sia dei malfattori; alcuni li aveva incontrati al banco della comunione, altri li aveva visti azzuffarsi nelle taverne. Ma i suoni erano così indistinti che un attimo dopo dubitò di averli uditi: forse era solo il fruscio della foresta, anche se non c'era vento. Poi le voci si fecero più forti e chiare: erano familiari, le aveva sentite tante volte nel villaggio di Salem alla luce del sole (mai, però, all'interno di una nuvola nera come la notte). C'era la voce di una giovane donna che si lamentava con dolore e confusione, chiedendo un favore che forse le costava ottenere; e la moltitudine invisibile, quell'accozzaglia di santi e peccatori, la esortava a perseverare. «Faith!» gridò il signor Brown con tormento e disperazione, e l'eco della foresta sembrò burlarsi di lui, ripetendo "Faith! Faith!", come se un coro avvilito e sbigottito la cercasse in tutta la foresta. Quel grido di dolore, rabbia e terrore lacerava ancora la notte quando il marito infelice trattenne il fiato per vedere se ci fosse risposta. Si udì un grido, annegato immediatamente in un mormorio generale, e poi una risata che scomparve in lontananza, man mano che la nuvola lasciava il cielo libero e silenzioso sul giovane Brown. Ma qualcosa volteggiò dolcemente nell'aria e si posò sul ramo di un albero. Il giovanotto lo prese e vide che si trattava di un nastro rosa. «La mia Faith è perduta!» gridò dopo un attimo di stupore. «Non esiste il bene sulla terra, il peccato è solo un nome. Vieni, demonio, perché il mondo ti è stato consegnato.» E, impazzito dal dolore, il signor Brown scoppiò in una risata inconsulta,
afferrò il bastone e si rimise in cammino a tale velocità che gli sembrava di volare sul sentiero, non di camminare o correre. Il sentiero divenne sempre più impervio, oscuro e indistinguibile, finché scomparve del tutto. Il viaggiatore si trovò in mezzo a un'orrenda desolazione e tuttavia continuò la sua corsa a precipizio, con l'istinto che guida i mortali al male. La foresta era popolata di rumori spaventosi: alberi che scricchiolavano, bestie selvatiche che ululavano, grida di indiani; a volte il vento imitava il suono di una campana remota, a volte pareva scoppiare in una risata, come se la natura stessa si facesse beffa del viaggiatore. Ma era lui l'orrore principale della scena: ormai non indietreggiava più fra gli altri orrori. «Ah, ah, ah!» scoppiò a ridere il giovane Brown quando il vento rise di lui. «Vediamo chi fa la risata più forte. Non credere di spaventarmi con le tue diavolerie. Venite streghe, venite maghi e stregoni indiani, vieni tu in persona, o diavolo: qui c'è il signor Brown. Abbiatene paura, almeno quanto lui ne ha di voi.» E, per la verità, nella foresta maledetta non vi era creatura più spaventosa del giovane Brown. Volava fra i pini neri, brandendo il bastone come un pazzo, ora sciorinando una catena di bestemmie ora scoppiando a ridere con tale forza che l'eco rispondeva come un coro di demoni ghignanti. Il diavolo è meno orrendo nella sua forma originale che quando infuria nei polmoni dell'uomo. Così l'indemoniato proseguì nel suo folle volo e infine scorse davanti a sé un bagliore rosso che guizzava fra gli alberi, simile a quello di un falò di tronchi e rami ammucchiati nel mezzo alla radura le cui fiamme, nell'ora di mezzanotte, salissero abbaglianti al cielo. Il giovane Brown fece una pausa, un attimo di quiete nella tempesta che l'aveva spinto fin laggiù, e udì levarsi un inno che pareva cantato da molte voci, in distanza. Conosceva il motivo: alla chiesa del villaggio era uno dei preferiti dal coro. Il canto morì gravemente e fu sostituito non da un insieme di voci umane, ma di tutti i rumori della notte uniti a formare una spaventosa armonia. Il giovane mandò un grido che neanche lui riuscì a sentire, perché si era levato all'unisono con le urla del maleficio. Nell'intervallo di silenzio che seguì il giovane avanzò un poco, fino a quando la luce lampeggiò direttamente nei suoi occhi. All'estremità di uno spiazzo aperto, circondato dalla muraglia nera della foresta, sorgeva un masso che ricordava vagamente - e in modo naturale - un altare o un pulpito; questo oggetto era circondato da quattro pini splendenti con la cima in fiamme e i tronchi intatti, simili a candele durante una funzione serale. La massa di fogliame che sporgeva sulla sommità del masso era tutta in
fiamme, e risplendendo nella notte da quell'altezza illuminava a sprazzi la radura. Ogni ramo pendente, ogni festone di verde era in fiamme. Negli alti e bassi della luce sanguigna una folta congrega appariva in mezzo alla radura per sparire di nuovo, inghiottita dalle ombre; poi il fenomeno si ripeteva e la folla usciva dalle tenebre, popolando il cuore della foresta solitaria. «Una severa compagnia vestita di nero» citò il giovane Brown. Ed era proprio questo. In mezzo alla folla, oscillanti fra il buio e il fuoco, apparivano facce che il giorno dopo si sarebbero viste al consiglio della provincia e altre che, un sabbath dopo l'altro, avrebbero alzato gli occhi al cielo con devozione, guardando benevolmente dai banchi affollati della chiesa o dai più sacri pulpiti del paese. Alcuni sostengono che la moglie del governatore fosse nella congrega: senz'altro c'erano gran signore a lei ben note, mogli di mariti onorati, una quantità di vedove e anziane signorine d'ottima reputazione, ma anche ragazze giovani e belle che tremavano per paura di essere viste dalle loro madri. Forse fu un abbaglio dovuto alla luce del fuoco che all'improvviso rischiarò la radura, ma al giovane Brown parve di riconoscere una ventina di membri della chiesa di Salem particolarmente noti per la loro devozione. Era arrivato il buon vecchio diacono Gookin e accanto alle sottane di quel vero e proprio santo era il suo riverito pastore. Ma a queste rispettabili, severe e devote persone, agli anziani della chiesa, alle caste signore e alle vergini fanciulle si mescolavano irriverentemente uomini dalla vita dissoluta e donne di dubbia fama, relitti dediti a ogni genere di vizi e turpitudini, sospetti dei crimini più orrendi. Era strano vedere come i buoni non si ritraessero dai cattivi, e i peccatori non provassero vergogna al cospetto dei santi. Inoltre, fra i loro avversari bianchi si mescolavano i sacerdoti indiani o pow-wow, che spesso avevano celebrato nelle foreste natie riti più terrificanti di quelli noti alla stregoneria inglese. "Ma dov'è Faith?" pensò il signor Brown, tremando perché la speranza gli era rinata nel cuore. Si udì un'altra strofa dell'inno, lenta e triste come se nascesse dall'amore religioso, ma unita a parole che esprimevano tutto ciò che di peccaminoso la natura umana può concepire e alludevano, in modo velato, a cose ancora più terribili. Le vie dei malvagi sono incomprensibili ai comuni mortali. La congrega eseguì strofa dopo strofa, e sempre in mezzo alle voci s'insinuava il coro del male, simile al tono profondo di un organo possente; le ultime note dell'orribile inno furono accompagnate da un suono particolare, come
se il vento furioso, i fiumi in piena, le bestie che ululano e ogni altra voce della natura selvaggia e senza freni si mescolasse a quella dell'uomo peccatore, seguendone il ritmo per far omaggio al principe del mondo. I quattro pini incendiati sprigionarono fiamme più alte e svelarono misteriosamente figure e volti orrendi che sovrastavano l'empia assemblea, avvolti da spire di fumo. Nello stesso momento il fuoco che brillava sul masso saettò verso il cielo, rosseggiante, e formò uno splendido arco sulla base di pietra, dove adesso era apparsa una figura. Sia detto con il dovuto rispetto, l'individuo somigliava non poco, tanto nell'aspetto che nel modo di vestire, a un essere tenebroso che è spesso raffigurato nelle chiese della Nuova Inghilterra. «Portate i convertiti!» gridò una voce che echeggiò nel campo e si ripeté nella foresta. A quelle parole il giovane Brown uscì dall'ombra degli alberi e si avvicinò alla congrega, verso la quale, in virtù di tutto ciò che il suo cuore albergava di malvagio, sentiva un'ambigua fratellanza. Avrebbe quasi giurato che l'ombra di suo padre morto gli facesse cenno di avanzare, guardandolo dal cielo in mezzo alle spire di fumo, mentre una donna dai lineamenti vaghi e contratti dall'angoscia gli segnalava con la mano di stare indietro. Era sua madre? Ma quando il pastore e il buon vecchio diacono Gookin l'afferrarono per le braccia e lo guidarono verso il masso fiammeggiante, il giovane non poté ritirarsi di un passo né resistere, sia pure col pensiero. Nella stessa direzione andava la figura slanciata di una donna velata, che stava fra Goody Cloyse (la pia insegnante di catechismo) e Martha Carrier, una vera e propria megera cui il diavolo aveva promesso di farla regina dell'inferno. Ben presto i proseliti si trovarono sotto la volta di fuoco. «Benvenuti, figli miei» disse l'essere tenebroso «alla comunione con la specie cui appartenete. Avete finalmente scoperto la vostra natura e il vostro destino, e nel fiore della giovinezza. Figli miei, guardate alle vostre spalle!» I due si voltarono e i diabolici adoratori apparvero loro in un velo di fiamma: su ogni viso aleggiava un oscuro sorriso di benvenuto. «Ecco» riprese l'essere «coloro che avete ammirato fin da giovani. Li giudicavate più degni di voi e aborrivate l'idea dei vostri peccati, paragonandoli alle vite di giustizia e preghiera di costoro, certo votati al paradiso. Eppure, eccoli tutti nella mia assemblea di fedeli. Stanotte vi sarà dato di conoscere i loro atti segreti: saprete in che modo vecchi e rispettabili an-
ziani della chiesa mormorassero parole sconce alle ragazze che frequentavano le loro case; come certe donne, ansiose di mettersi in gramaglie e diventare vedove, propinassero una certa bevanda ai mariti all'ora di andare a letto e li facessero addormentare sul proprio seno per l'ultimo sonno; verrete a sapere in che modo certi giovani imberbi abbiano affrettato i tempi per ereditare le ricchezze dei padri, e come certe belle fanciulle - non arrossite, miei cari - abbiano scavato minuscole tombe in giardino, invitando me, unico ospite, al funerale di un neonato. Grazie alla simpatia che il vostro cuore umano prova per il peccato, avrete sentore di tutti i luoghi - chiese, camere da letto, strade, campi e foreste - in cui è stato commesso un crimine, ed esulterete nel vedere che tutta la terra è una sola macchia colpevole, una grande chiazza di sangue. Molto più di questo: vi sarà dato penetrare in ogni cuore il profondo mistero del peccato e scoprire la sorgente delle arti malefiche, di ciò che fornisce senza sosta l'impulso verso il male e trascende i poteri che la natura umana ha di manifestarlo; i miei stessi poteri, in verità. Ma ora, figli miei, guardatevi l'un l'altro.» Si guardarono, e nel chiarore delle torce accese dall'inferno lo sventurato uomo vide la sua Faith e lei lo sposo, tremante dinanzi all'altare sacrilego. «Eccovi, figli miei» disse l'essere oscuro in tono profondo e solenne, quasi rattristato nella sua infinita miseria: come se la natura un tempo angelica che gli era propria fosse tuttora in grado di compatire la nostra razza sventurata. «Affidandovi al cuore l'uno dell'altra, speravate che la virtù non fosse soltanto un sogno. Ora siete stati disingannati. Il male è l'essenza della natura umana. Il male sarà la vostra unica felicità. Ancora una volta, figli miei, benvenuti alla comunione con la vostra specie.» «Benvenuti» ripeterono i diabolici adoratori, in un sol grido di disperazione e trionfo. La coppia rimase immobile: sembrava che fossero gli unici a esitare ancora sull'orlo dell'abisso. Nel masso a forma di altare era stato ricavato un recipiente naturale. Conteneva acqua, arrossata dalla luce delle fiamme? O era sangue? O forse fuoco liquido? L'essere maligno immerse la mano nel bacino e si preparò a segnare la fronte dei convertiti col marchio del battesimo: in tal modo avrebbero partecipato al mistero del peccato e avrebbero conosciuto, nei fatti e nei pensieri, le colpe segrete degli altri meglio di quanto conoscessero le proprie. Il marito guardò la moglie pallida, Faith fece altrettanto. Che razza di esseri abbietti e impuri sarebbero diventati alla prossima occhiata, tremanti per ciò che avevano dovuto svelare di se stessi e ciò che avevano scoperto?
«Faith, Faith!» gridò il marito. «Guarda in alto il cielo e resisti al maligno.» Non seppe mai se gli avesse obbedito. Aveva appena proferito quella parole che si trovò nella solitudine e nella tranquillità della notte, intento ad ascoltare il rumore del vento che sfumava nella foresta. Barcollò davanti al masso e scoprì che era freddo e umido, mentre un ramo che poco prima gli era parso in fiamme ora spruzzava le sue guance di fresca rugiada. La mattina dopo il giovane Brown fece lentamente ritorno nella strada di Salem, guardandosi intorno come un uomo che non crede più ai suoi occhi. Il buon vecchio pastore faceva una passeggiata nel camposanto per farsi venire appetito e meditare sul sermone; alla vista del giovane Brown impartì la benedizione, ma egli si allontanò dal sant'uomo come a evitare una bestemmia. Il buon diacono Gookin pregava in casa e le parole che mormorava uscirono dalla finestra aperta. Allora il giovane disse: «Quale dio pregherà quel fattucchiere?». Goody Cloyse, quell'ottima vecchia cristiana, prendeva il primo sole del giorno davanti alla finestra in ferro battuto e impartiva una lezione di catechismo a una bimba che le aveva portato una pinta di latte fresco. Il giovane Brown prese la bambina e l'allontanò dalla vecchia come se fosse stata il diavolo in persona. Girato l'angolo della chiesa vide la testa di Faith, adorna di nastri rosa, che guardava ansiosamente dalla sua parte, e al vederlo provò una tale gioia che gli corse incontro e quasi lo baciò davanti a tutto il villaggio. Ma il marito la guardò tristemente e con severità, dopodiché continuò per la sua strada senza un saluto. Si era solo addormentato nella foresta e aveva sognato il raduno delle streghe? Sia come volete, per il giovane signor Brown fu un sogno di malaugurio. Dalla notte dell'incubo spaventoso divenne un uomo triste, rigido, dedito a cupe meditazioni e sfiduciato in tutti se non disperato. Nel giorno del Signore, quando la congregazione cantava un salmo di lode, egli non poteva ascoltare perché il ricordo dell'inno sacrilego si sovrapponeva all'altro e distruggeva la pace. Quando il pastore parlava dal pulpito con forza e perfetta eloquenza e, con la mano aperta sulla Bibbia, rifletteva sulle sante verità della nostra religione, sulle vite dei più devoti e sulla loro morte trionfale, sulla beatitudine eterna o l'eterna dannazione, il giovane Brown impallidiva nel timore che la sala fosse incenerita da un fulmine e così il bestemmiatore con i suoi ascoltatori. Spesso, svegliandosi improvvisamente a mezzanotte, si allontanava dal seno di Faith e al mattino o alla sera, quan-
do la famiglia s'inginocchiava a pregare, lanciava occhiatacce tutt'intorno e borbottava qualcosa fra sé, poi guardava duramente sua moglie e se ne andava. Dopo lunga vita fu portato alla tomba che era un cadavere incartapecorito; la santa processione fu seguita da Faith, ormai vecchia, da figli, nipoti e non molti vicini, ma sulla lapide non furono incisi versi di speranza perché anche nell'ora estrema lo aveva vinto lo sconforto. Titolo originale: Young Goodman Brown Postilla I persiani elaborarono una teoria secondo cui l'universo era dominato da due princìpi: uno della luce e del bene, l'altro delle tenebre e del male. Il loro potere si equivaleva, ma l'intervento umano era sufficiente a far pendere l'ago della bilancia da una parte o dall'altra. Sotto il dominio persiano gli ebrei assimilarono parte di queste idee e Satana acquistò importanza come avversario di Dio (sebbene non fosse dotato della stessa forza). Alla fine gli ebrei si convinsero che il loro dio fosse l'unico dell'universo e che le divinità adorate da altri popoli non esistessero o fossero effettivamente demoni. Cristiani e musulmani ereditarono questo punto di vista e così ci si convinse che coloro i quali non condividevano la vera fede non fossero semplici miscredenti, ma adoratori del demonio. Alle "false" religioni non veniva riconosciuto il merito di perseguire il bene a modo loro, poiché si riteneva che consistessero nell'adorazione del diavolo e del principio del male. Nel medioevo e all'inizio dell'evo moderno chi si aggrappava a certe vecchie credenze era tacciato di stregoneria e demonolatria, e come tale terribilmente perseguitato. (Chi ha visto l'episodio "Una notte sul Monte Calvo" nel film di Walt Disney Fantasia ha un esempio di ciò che si intendeva, alla lettera, per adorazione del diavolo.) Nei tempi moderni non sono mancati coloro che hanno affermato di praticare un vero e proprio culto del demonio, ma credo si tratti di pose assunte da individui che traggono un piacere morboso dallo scandalizzare gli altri: un po' come quelli che si divertono a gridare oscenità gratuite con quanto fiato hanno in gola. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE
Algernon Blackwood, "Il culto segreto" ("Secret Worship"), in John Silence, investigatore dell'occulto (J.S., Physician Extraordinary, Eveleigh Nash, Londra 1908); ed. it. Fanucci, Roma 1977. Robert Bloch, "Sweet Sixteen" o "Spawn of the Dark One", in Pleasant Dreams, Arkham House, Sauk City 1960. August Derleth, "The Night Train to Lost Valley", in Yankee Witches, a cura di Charles G. Waugh, Martin H. Greenberg e Frank D. McSherry jr., Lance Tapley, Augusta 1988. Margaret Irwin, "The Earlier Service", in Madame Fears the Dark: Seven Stories and a Play, Chatto and Windus, Londra 1935. E. Hoffman Price, "The Stranger from Kurdistan", in Strange Gateways, Arkham House, Sauk City 1967. Il doppio IN UNO SPECCHIO SCURO di Helen McCloy Fra sé e sé la signora Lightfoot pensava alla vicenda come alla "sfortunata storia di Faustina Crayle". Cosa piuttosto tipica in lei, non cercava affatto di scoprire quel che realmente era avvenuto. Aveva poca curiosità e nessuna paura, e del resto non aveva importanza che le dicerie sul conto di Faustina Crayle fossero basate su una sfilza di bugie o fossero il frutto di allucinazioni isteriche. Il risultato, per la Brereton School, era comunque dannoso, e questa era la sola cosa che contasse per una direttrice come la signorina Lightfoot, con un sol pensiero per la testa. Alla fine della settimana era certa che non avrebbe mai più sentito il nome Crayle; poi, una limpida mattina d'ottobre, quando si era appena sistemata nello studio con la posta del mattino, Arlene le aveva portato quell'orribile biglietto da visita; DR. BASIL WILLING ASSISTENTE MEDICO DEL PROCURATORE DISTRETTUALE CONTEA DI NEW YORK L'uomo, Willing, non sembrava il detentore di una carica pubblica a New York, o almeno non corrispondeva all'immagine che se n'era fatta la
signorina Lightfoot. Entrò nell'ufficio con scioltezza e una decisione non priva di eleganza. Aveva il fisico slanciato e la pelle abbronzata di chi è abituato a vivere all'aperto, ma l'ampia fronte e gli occhi un poco infossati gli conferivano un'aria pensosa. Lo sguardo era il più sveglio, franco e inquietante che lei avesse visto. «Dottor Willing?» La signorina Lightfoot teneva il biglietto da visita fra il pollice e l'indice, nervosamente. «Qui siamo nel Massachusetts, non a New York. Inoltre, non riesco a capire in che modo la nostra scuola possa interessare un procuratore distrettuale o il suo assistente medico.» «Purtroppo era l'unico biglietto da visita che avevo» replicò Basil. «Lo uso raramente. L'ufficio del procuratore distrettuale rappresenta solo una piccola parte del mio lavoro. Sono un medico, specialista in psichiatria. Sono qui da lei perché Faustina Crayle è venuta a farsi visitare. Mia cognata, la signora Paul Willing, le aveva dato lavoro due anni fa, come governante.» Quand'era necessario la signorina Lightfoot sapeva essere diretta. «Che cosa vuole da me?» Basil rispose con altrettanta franchezza. «Sapere perché la sua insegnante di disegno, Faustina Crayle, è stata licenziata cinque settimane dopo l'assunzione senza preavviso e senza che venissero addotti motivi, e questo nonostante che, per contratto, quelle cinque settimane obbligassero la scuola a pagarle un anno di stipendio.» Dunque Faustina non gli aveva raccontato la verità... Forse non la conosceva neanche lei. «Ho escluso che potesse esserci qualcosa che non andava nel metodo d'insegnamento o nella cultura della signorina, come del resto nel suo aspetto e comportamento» continuò Basil. «Mia cognata non l'avrebbe assunta se ci fossero stati problemi di questo tipo, e al momento del licenziamento lei glieli avrebbe fatti senz'altro notare. Che altro resta? Qualcosa di vergognoso che lei sospetta ma non può provare. Una delle nostre vecchie conoscenze, come ad esempio dipsomania, cleptomania o ninfomania. L'omosessualità femminile è diffusa. A tutto questo, adesso, possiamo aggiungere il comunismo. La signorina Crayle potrebbe aver nascosto una qualunque di queste gaucheries a mia cognata, in fondo non viveva con loro. Trascorreva poche ore al giorno nell'appartamento.» La signorina Lightfoot alzò gli occhi. «Non si tratta di niente del genere.» Basil notò con sorpresa che era sinceramente commossa, e sapeva che
per una donna del genere non è facile provare forti emozioni. «Di che si tratta, allora? Penso che la signorina Crayle abbia il diritto di saperlo. Dopo il licenziamento non le sarà facile trovare un altro posto come insegnante. La gente parla, e poi... sono capitati due fatti strani, quando la signorina stava per lasciare la scuola. Non riesce a spiegarseli nemmeno lei. Sulle scale ha incontrato due alunne, Barbara Vining e Diana Chase, ragazze sui tredici anni. La mia paziente dice che avevano un'espressione "pura come il latte" e che l'hanno salutata educatamente, con voce flautata: "Arrivederci, signorina Crayle!". Ma appena lei è passata oltre ha sentito qualcosa di diverso: una specie di risolino, acuto e a stento percettibile, come quello che i giapponesi attribuiscono ai topi... Nell'atrio a pianterreno la signorina è passata accanto a una delle cameriere, Arlene Murphy, e il suo comportamento è stato anche più strano. Si è tirata indietro e ha sbarrato gli occhi, come se avesse paura della signorina Crayle.» La direttrice capitolò. «Penso che dovrò raccontarle la verità.» Lui la guardò: «Dice questo come se la spaventasse. Perché?». La risposta lo stupì. «Perché non mi crederà. Sarà meglio che ascolti direttamente i testimoni oculari. Cominceremo da Arlene.» Premette un campanello sulla parete. La cameriera aveva l'età delle ragazze che a Brereton stanno per prendere il diploma: diciotto anni, venti al massimo. Sotto il grembiule bianco portava un vestito grigio di chambray a collo alto, con maniche e gonna lunga. La signorina Lightfoot aveva vinto la battaglia a favore dei tacchi bassi e contro i cosmetici, ma Arlene si era presa una rivincita su altri due punti violentemente contestati: aveva calze color carne e non portava la cuffia. «Entra e chiudi la porta, Arlene. Vuoi ripetere per favore al dottor Willing quello che mi hai detto sulla signorina Crayle?» «Sissignora, però lei aveva raccomandato di non dirlo a nessuno.» «Sei libera dal vincolo, ma solo per questa volta.» Arlene guardò Basil con occhi castani, vacui. Non aveva quasi sopracciglia, e questo dava al suo volto un aspetto singolarmente nudo. Una deficienza ghiandolare, sospettò lui. La ragazza respirava con la bocca e questo la faceva sembrare stupida. «Ero al piano di sopra, tiravo giù i letti per la notte» cominciò Arlene. «Dopo aver finito, mi sono avviata per la scala posteriore. Cominciava a imbrunire, ma era ancora abbastanza chiaro per vedere i gradini. La scala è incassata fra le pareti, ma ci sono due finestre. Vedo miss Crayle che sale
verso di me. Mi è sembrato un po' strano che usasse la scala posteriore invece di quella principale, comunque le dico: "Sera, miss". Lei però non risponde. Non mi guardava nemmeno, ha continuato a salire fino al secondo piano. È molto strano, era sempre stata gentile con tutti. Comunque non ci ho pensato più finché sono arrivata in cucina e...» Arlene fece una pausa per deglutire. «Anche lì c'era la signorina Crayle.» Le mani della ragazza tremavano e gli occhi fissarono Basil in cerca di qualche segno d'incredulità. «Giuro, signore, che non sarebbe potuta arrivare in cucina in così poco tempo. Doveva attraversare tutto il corridoio, scendere la scala principale, passare per il refettorio e la dispensa. Io ci ho messo pochi istanti, avevo solo qualche gradino da fare. Lei non avrebbe mai potuto, nemmeno se si fosse messa a correre.» «E cosa faceva la signorina Crayle in cucina?» chiese Basil. «Aveva dei fiori appena colti in giardino. Li sistemava in un vaso con dell'acqua, sul tavolo vicino all'acquaio.» «Ed era vestita allo stesso modo dell'altra? Voglio dire, a quella che avevi incontrato sulle scale?» «Erano identiche. Cappello di feltro marrone, soprabito azzurro-grigio. Spolverino, credo che lo chiamino. Niente pelliccia, nessun gusto insomma. E scarpe marrone, il tipo senza linguetta e con i lacci intrecciati che chiamano "scarpine da ballo". Vecchi guanti ruvidi che usava per i lavori di giardinaggio,» «Il cappello aveva la tesa?» «Uh-uh. Voglio dire sì, signore.» «Hai visto la faccia della signorina, quando eravate sulla scala?» «Sissignore. Non l'ho guardata molto, non c'era motivo. E la tesa del cappello le copriva gli occhi. Ma ho visto il naso, la bocca e il mento. Potrei giurare che fosse lei.» «Le hai parlato, in cucina?» «Appena ripreso fiato le faccio: "Santo cielo, signorina, che colpo! Giurerei di averla vista salire, mentre venivo qui". Lei mi ha sorriso e ha detto: "Devi esserti sbagliata, Arlene. Sono stata mezz'ora nel giardino occidentale e sono appena rientrata. Non sono ancora andata di sopra". Sa com'è, signore: a volte capitano cose del genere e uno pensa: oh, al diav... voglio dire, be', devo essermi sbagliata. E tutto finisce lì, se non capitano altri incidenti. Ma stavolta... era solo l'inizio. Nel giro di una settimana in tutta la scuola si raccontavano storie sulla signorina Crayle, e..." La direttrice intervenne. «Va bene così, Arlene, grazie. Vuoi chiedere a
miss Vining e miss Chase di venire subito nel mio studio?» «Goethe» disse Basil quando la porta si richiuse. «Il vestito grigio con il bordo d'oro. Emilie Sagée. E La storia di Tod Lapraik. Il doppelganger dei tedeschi, il ka degli egiziani. Il doppio del folklore inglese. Vediamo un'immagine solida, colorata, a tre dimensioni, che si muove e obbedisce alle leggi dell'ottica. I suoi vestiti o i suoi gesti ci sembrano vagamente familiari, poi gira la testa e... ci troviamo di fronte una copia di noi stessi. È spaventoso, anche perché la tradizione dice che chi vede il proprio doppio sta per morire.» «Ma solo se lo guarda in faccia» aggiunse la signorina Lightfoot. «La leggenda del doppelganger ha una storia curiosa. Ultimamente mi sono chiesta se, in certe condizioni, l'atmosfera possa fungere da specchio, una sorta di miraggio che tuttavia riflette una sola persona...» Si udì bussare leggermente alla porta. Due ragazzine sui tredici anni entrarono nello studio, e quando la direttrice le ebbe presentate come Barbara Vining e Diana Chase fecero un inchino a Basil. Lo squallore mascolino dell'uniforme di Brereton faceva risaltare, per contrasto, i colori delicati e femminili di Barbara Vining: pelle bianca e rosa, capelli d'oro e argento, occhi azzurro velato come zaffiri. La linea delle labbra aveva una piega così improvvisa che anche a riposo sembravano tremare per soffocare una risata. La stessa uniforme sottolineava l'aspetto comune e grigio di Diana Chase: i capelli lisci di colore brunastro, la faccia bianca e paffuta, la bocca indolente. Solo gli occhi, di un violetto chiaro, mostravano una scintilla di potenziale malizia. Le ragazze ascoltarono attentamente la signorina Lightfoot che spiegava la situazione. «Barbara, di' per favore al dottor Willing quello che è successo. Diana, tu la correggerai se dirà qualcosa di inesatto.» «Sì, signorina Lightfoot.» Il rosa sfumato sulle guance di Barbara si accese. Ovviamente le faceva piacere essere al centro dell'attenzione. «Eravamo a pianterreno, nella sala di scrittura. Io scrivevo a mio fratello e Diana a sua madre. Le altre ragazze e la maggior parte degli insegnanti erano al campo di pallacanestro. Lei, la signorina Crayle, era fuori, la vedevamo attraverso la finestra centrale... È una porta-finestra ed era aperta, quindi potevo vederla con chiarezza. Portava un soprabito azzurro ma era senza cappello. Era divertente guardare il modo veloce e sicuro con cui maneggiava il pennello.» «Hai dimenticato la poltrona» intervenne Diana.
«Poltrona? Oh...» Barbara si voltò di nuovo verso Basil. «Nella stanza c'era una poltrona con il rivestimento azzurro sfoderabile. La chiamavamo la "poltrona della signorina Crayle" perché ci si sedeva molto spesso. Mi aspettavo di vederla entrare e prender posto appena avesse finito di dipingere, ma a un tratto... è successo.» La voce di Barbara languì, con improvvisa timidezza. Diana prese il suo posto. «Ho alzato gli occhi e ho visto che la signorina Crayle era entrata senza che la sentissi. Sedeva sulla poltrona azzurra, le mani in grembo, la testa appoggiata allo schienale. Sembrava che non mi avesse visto, quindi ho ricominciato a scrivere. Dopo un po' ho guardato di nuovo: era sempre in poltrona, ma stavolta ho guardato fuori della finestra e...» Diana perse la calma. «Diglielo tu, Babs.» «La signorina Crayle stava ancora dipingendo all'esterno?» suggerì Basil. «Immagino che la signorina Lightfoot l'abbia informata» rispose Barbara con uno sguardo tagliente. «Ho sentito Di che sobbalzava, così ho guardato anch'io e ho visto le due miss Crayle: una sulla poltrona, nella stanza con noi, l'altra sul prato, oltre la finestra. Quella sulla poltrona era perfettamente immobile, l'altra si muoveva. Però...» La voce di Barbara tremava. «Prima ho detto che i suoi movimenti erano svelti e sicuri. Bene, dopo aver visto l'immagine in poltrona ci accorgemmo che quella all'esterno era più lenta. I movimenti erano languidi, pesanti, come in un film al rallentatore.» «Io ho pensato a una sonnambula» aggiunse Diana. «La luce com'era?» «Sul prato c'era il sole» rispose Barbara. «Così forte che le imposte della sala erano accostate a metà.» «È stato orribile» continuò Diana. «Noi due sole insieme a quella... quella cosa in poltrona. E la vera signorina Crayle che dipingeva in quel modo lento e innaturale. Dopo ho pensato che avremmo potuto fare molte cose: ad esempio, toccare la cosa in poltrona, o chiamare la signorina Crayle dalla finestra e svegliarla dalla... trance o qualunque cosa fosse. Ma in quel momento ero troppo spaventata per pensare o muovermi.» «Io me ne stavo lì seduta e continuavo a ripetermi che non era vero» disse Barbara. «E invece lo era. Credo che sia durato un minuto, più o meno. Mi sono sembrati cent'anni. Poi la donna sulla poltrona si è alzata ed è andata in corridoio senza rumore. La porta era aperta e mi è sembrato che l'immagine si confondesse con le ombre del corridoio. Siamo rimaste im-
mobili per circa tre secondi, poi siamo corse alla porta. Non si vedeva nessuno. Allora siamo andate alla finestra, ma la signorina Crayle non c'era più...» Quando furono rimasti soli, la signorina Lightfoot diede un'occhiata a Basil. «Mai una donna coi piedi per terra ha dovuto affrontare una situazione così fantastica. Sei ragazze sono già state ritirate da Brereton, ecco perché la signorina Crayle ha dovuto andarsene.» «Ma Barbara e Diana sono ancora qui. Non hanno raccontato l'episodio ai genitori?» «Barbara non li ha... solo un fratello, un giovanotto di ventisei anni piuttosto farfallone che non prende sul serio i suoi doveri di tutore. I genitori di Diana sono divorziati e il padre vive in California con la seconda moglie. La madre è tutta presa dal rancore verso il marito e dai continui ricorsi in tribunale per farsi aumentare gli alimenti. Non si preoccupa molto di Diana, la ragazza è qui da quando aveva sette anni. Barbara invece è arrivata quest'autunno. Prima andava in una scuola diurna a New York.» Basil osservò il viso intelligente sotto il ciuffo di capelli bruni spruzzati di grigio. «Qual è la sua opinione?» Nella voce della signorina Lightfoot si insinuò un tono di sfida. «Sono una donna moderna, dottor Willing. Questo significa che sono nata senza fede nella religione e ho perso quella nella scienza. Non capisco a fondo le teorie di Planck ed Einstein, ma mi rendo conto che il mondo della materia potrebbe essere il regno delle apparenze, che persino i nostri corpi sono una manifestazione della danza degli elettroni. Cosa si nasconda dietro la facciata, lo ignoriamo. In che modo il mio cervello agisce sul corpo quando decido di muovere un braccio? Né la psicologia né la fisiologia sanno darmi una risposta... «In che modo Faustina Crayle ha potuto creare l'illusione di avere un doppio? E perché? Non ci ha guadagnato niente, ha perso il lavoro. Potrebbe essere un'imbrogliona congenita, un'isterica che prova piacere a stupire e spaventare la gente, ma non può farci niente perché l'impulso è inconscio. Questo spiegherebbe perché il fenomeno è avvenuto, ma non come. «C'è una terza possibilità. Immaginiamo che Faustina Crayle sia... anormale in un modo che la scienza moderna non è in grado di spiegare.» Se la signorina Lightfoot si aspettava uno scoppio di quel caparbio scetticismo che è il segno più sicuro della credulità nascosta (la paura dello sciocco di essere raggirato) aveva giudicato male il suo uomo. «C'è qual-
cuno che ha visto il doppio della signorina Crayle, a parte due ragazzine di tredici anni e una cameriera fra i diciotto e i venti?» La signorina Lightfoot colse il sottinteso. «C'è un'altra testimone: sobria, di mezz'età, ragionevolmente acuta e osservatrice. Io.» Dopo un attimo continuò: «Quella sera avevo un impegno a cena, fuori della scuola. Sono uscita dalla mia stanza verso le sei, ora in cui un paio di lampade sono già accese in corridoio. Hanno una lampadina da cento watt ognuna, protetta da un piccolo paralume; la luce arriva fino al primo pianerottolo della scala principale. Sotto il pianerottolo quella sera la scala era in penombra, perché Arlene aveva dimenticato di accendere il lampadario dell'ingresso. Ho cominciato a scendere seguendo il corrimano e muovendomi lentamente perché il vestito aveva una gonna molto lunga, da sera. Quando sono arrivata in fondo alla prima rampa qualcuno, in gran fretta, mi ha superato sfiorandomi e non ha detto una parola di scuse. Ho visto che era la signorina Crayle. «Non mi ha veramente urtata, ma ho sentito l'improvviso spostamento d'aria che si avverte quando qualcuno ci passa vicino velocemente. La sua mano mi ha sfiorato il braccio, nel punto in cui la pelle era nuda fra la manica e il guanto. Mi sono resa conto che era straordinariamente fredda. Ricordo di aver pensato: dev'essere stata fuori... Non l'ho vista in faccia, quando è passata, ma l'ho riconosciuta da dietro: portava il cappello marrone e lo spolverino azzurro, gli unici indumenti che avesse per uscire, a parte un cappotto pesante ancora in naftalina. La sua mancanza d'educazione mi ha irritata, perché a Brereton le buone maniere sono importanti. L'ho chiamata a voce alta, in tono aspro e perentorio: "Signorina Crayle!". «"Sì, signorina Lightfoot?" «La risposta, dottor Willing, è arrivata dal corridoio alle mie spalle, al piano di sopra; intanto l'altra figura, di schiena, si dileguava fra le ombre dell'ingresso sotto di me. Ho alzato gli occhi e ho visto Faustina Crayle in piedi in cima alle scale: era perfettamente illuminata dalle lampade del corridoio e portava il cappello marrone e lo spolverino azzurro. Gli occhi vivi e intelligenti hanno cercato i miei e poi ha chiesto: "Mi voleva, signorina Lightfoot?". Ho guardato in basso, ma nell'ingresso non c'era più nessuno, solo le ombre. Ho risposto: "Avevo l'impressione che mi fosse appena passata accanto. Non sapevo che fosse ancora di sopra". Al che lei: "Strano, l'ho vista scendere lentamente e avevo una tale fretta di andare a prendere la posta della sera che il mio primo impulso è stato di scendere di corsa e superarla. Non l'ho fatto perché mi sono resa conto che sarebbe stato poco
educato". «Quindi covava un proposito che non aveva messo in pratica... Mi sono ricordata che spesso i sonnambuli portano a termine intenzioni rimosse nello stato di veglia. E se le azioni autonome, non censurate dell'inconscio si manifestassero in altri modi oltre che nel sonnambulismo? E se l'inconscio fosse in grado di proiettare una parte di sé fuori del corpo? Niente di materiale, certo, eppure visibile, come sono visibili le immagini allo specchio e gli arcobaleni, che possiamo fotografare ma che non hanno consistenza materiale. Inoltre potremmo pensare a un caso di personalità divisa in cui la personalità secondaria raccoglie sufficiente energia vitale per proiettare una sorta di immagine immateriale di sé... «Le assicuro che c'è voluto tutto il mio sangue freddo per continuare a scendere le scale, nella penombra, e accendere il lampadario dell'ingresso. Ma non c'era altri che Arlene, la quale in quel momento passava dal salotto in sala da pranzo. "Hai visto nessuno, qualche secondo fa?" le ho chiesto. Lei ha fatto segno di no con la testa, poi ha aggiunto: "Nossignora, nemmeno un'anima".» «Non mi meraviglio che non abbia spiegato a Faustina Crayle il motivo per cui intendeva licenziarla!» Basil guardò il prato oltre la finestra, dove la brezza d'autunno spazzava le foglie morte e le faceva continuamente agitare, come un invisibile gattino. «Mi avrebbe creduta pazza. E lei?» «No, trovo che lo scetticismo dei conformisti sia troppo a buon mercato. Chi accetta l'incredulità del suo tempo senza farsi domande è altrettanto ingenuo di chi ne accetta la credulità,» Gli occhi di Basil tornarono sulla signorina Lightfoot. «Ha detto di aver sentito uno spostamento d'aria, quando è passato il doppio. E i rumori? Il risucchio dell'aria, il fruscio dei vestiti?» «No, niente.» «Passi?» «No, ma questo non conta. Il tappeto sulle scale è soffice e alto.» «Il corpo di qualunque persona sprigiona un debole odore o combinazione di odori» rifletté Basil. «Cipria, rossetto, tonico per capelli, lozione per la permanente o dopobarba. Spesso si tratta di iodio o altri medicinali. Poi c'è l'alito: si può sentire l'odore del cibo, del vino, del tabacco. E i vestiti: naftalina, lucido per scarpe, le sostanze che si usano per il lavaggio a secco, l'odore del cuoio e del tweed. E infine ci sono gli odori del corpo, di cui ci fa preoccupare la pubblicità del sapone. Lei è la testimone che si è
trovata più vicina al doppio, anche se per un istante: l'unica che l'abbia toccato. Ha sentito qualche odore, per quanto debole o passeggero?» La signorina Lightfoot scosse enfaticamente la testa. «Nessun odore, dottor Willing, a meno che io non me ne sia accorta.» «Su questo ho qualche dubbio.» Il medico notò una fila di vasi di fiori sul davanzale. «Solo una donna dall'olfatto molto sviluppato apprezzerebbe il profumo delicato del geranio rosa e della verbena.» La signorina Lightfoot sorrise. «Uso il profumo di verbena anche sul fazzoletto. È il mio unico strappo alla regola, ma c'è una casa francese che produce un'essenza di verveine a cui non posso resistere. Dovrebbe essere un dopobarba per uomo, quindi sono forse l'unica donna al mondo che lo usa.» «La signorina Crayle metteva qualche profumo, di solito?» «Lavanda. Lo usava sempre sui capelli.» «E nel doppio non ce n'era traccia?» «No» rispose la signorina Lightfoot con un sorriso che era diventato ironico. «Del resto non ci aspettiamo che l'immagine riflessa in uno specchio abbia qualche odore, no?» Basil prese il cappello e i guanti da guida. «Perché il doppio della signorina Crayle è apparso solo a Brereton? Non insegnava in un'altra scuola, l'anno scorso? Un posto in Virginia, Maidstone?» La signorina Lightfoot gli lanciò un'occhiata scura. «Non pensavo di doverglielo dire. Molly Maidstone è mia amica e sono riuscita a farmi confessare la verità solo da qualche giorno, con la promessa di mantenere il segreto... Tuttavia, la signorina Crayle ha lasciato Maidstone lo scorso anno nelle stesse circostanze in cui ora lascia Brereton.» Il condominio si trovava fra Lexington Avenue e il fiume. Basil entrò nel portone fiancheggiato da vasche di rame in cui cresceva l'edera e si diresse all'ascensore di servizio, dove schiacciò il pulsante con la scritta Attico. All'ultimo piano alzò il batacchio che stava sulla porta e si sentì un suono di campanelle. La giovane donna che venne ad aprire era alta per il suo sesso, ma fragile: polsi e caviglie piccoli, mani affusolate e piedi stretti, dal collo alto. I capelli erano castano chiaro, quasi color biscotto, così morbidi e sottili che non avevano quasi forma e non venivano giù a cascata, ma fluttuavano intorno alla piccola testa come una specie di aureola fatta di spighe, che fremevano delicatamente a ogni movimento. Il viso lungo era piuttosto ansioso e di colorito giallastro, le labbra sottili, il naso promi-
nente e piuttosto aguzzo. Fece strada verso la terrazza. Il sole era appena tramontato e oltre il parapetto le guglie e gli abissi della città gigantesca brillavano, eterei, in un alone d'argento. Basil le offrì una sigaretta ma lei scosse la testa, impaziente. Lui ne accese una per sé. «Signorina Crayle, conosce la leggenda tedesca del doppelganger?» Negli occhi azzurro chiaro apparvero le lacrime. Si coprì la faccia con le mani. «Dottor Willing, cosa devo fare?» «Allora lei sa. Perché non me l'ha detto, prima di mandarmi dalla signorina Lightfoot?» «Mi avrebbe creduta? E poi, non so altro che quello che la gente diceva di me a Maidstone.» Abbassò le mani e si girò verso di lui, apparentemente ignara degli occhi arrossati. «Immagino che a Brereton sia successo di nuovo. Con me la signorina Lightfoot non avrebbe parlato, ma ho pensato che con lei sì... Lei è uno psichiatra, e a New York lavora per il procuratore distrettuale.» Basil le raccontò tutto quello che aveva saputo a Brereton. «A Maidstone è accaduto lo stesso?» Mentre Faustina si asciugava gli occhi con il fazzoletto lui sentì odore di lavanda. «Più o meno. Maidstone è come Brereton, solo che si trova in Virginia e non nel Massachusetts. Le ragazze non portano uniforme ma ci sono altre restrizioni: non sono ammessi visitatori maschi eccetto la domenica e così via. Mi trovavo lì da una settimana quando mi sono accorta che mi guardavano in modo strano e parlavano di me. Le altre insegnanti rifiutavano i miei piccoli inviti per il tè o per andare a fare spese. Perfino la servitù borbottava. Pensavo fosse ostilità, invece ora so che era paura. Dopo quattro settimane ricevetti un biglietto dalla signorina Maidstone: licenziamento e un assegno pari a un anno di stipendio. Andai con la lettera nel suo ufficio e mi resi conto che la faccenda le dispiaceva non poco. Mi scrisse persino una lettera di raccomandazioni, e questo in seguito mi fece ottenere il posto a Brereton. Vede, anche se preferiva non parlarne per via della scuola, la signorina Maidstone si era occupata di ricerche psichiche. Prese alcuni libri da un armadietto chiuso a chiave e mi lesse le storie di altri "doppi" che erano state riferite alle società di ricerca europee. La signorina non mi ha mai sospettato di frode, e proprio per questo non poteva tenermi a Maidstone.» «Lei crede nel fenomeno?» Faustina sorrise amaramente. «Io so che non sono un'imbrogliona. Lei
non può esserne sicuro, ovviamente, ma io sì. E non vedo come o perché qualcuno dovrebbe prendersi la briga di farmi uno scherzo del genere. Che altro resta? Quando si è perso due volte il lavoro per lo stesso motivo, non si pensa che sia solo l'immaginazione... Sono come Madame du Deffand: non ci credo ma ne ho paura.» «Di cosa?» «Del... fenomeno. E se lo vedessi io stessa? Una volta l'ho intravisto sulla scala principale, a Brereton. Era una donna vestita come me, di schiena, che sfiorava la signorina Lightfoot. Avrebbe potuto essere un'altra persona che mi assomigliava e portava abiti identici: anche se vedessi una faccia simile alla mia, a una certa distanza e nella luce incerta, penserei a un'illusione o a una frode. Basterebbe una persona che mi somigliasse per caso o avesse deciso di copiarmi. Ma se improvvisamente dovessi trovarmi davanti alla mia faccia, a pochi passi da me e in una luce perfetta, credo che morirei. Perché non si può contraffare una faccia nei minimi dettagli.» «Quante volte il doppio è stato visto a Maidstone?» «Tre. Nel giardino antistante mentre io ero di sopra a dormire, sul portico al primo piano mentre io facevo lezione di sotto e infine davanti a una porta aperta, mentre io mi trovavo al di là della porta con una collega.» Basil schiacciò la sigaretta nel portacenere. «Signorina Crayle, c'è qualcuno che ha motivo di odiarla? O che ricaverebbe qualche vantaggio dalla sua morte?» «Nessuno, che io sappia. Non ho famiglia, mia madre è morta quando avevo sei anni e non ricordo mio padre.» «Possiede qualcosa?» «Un piccolo cottage a Seabright, sulla costa del Jersey, lasciatomi da mia madre. E qualche gioiello: roba di poco conto, immagino, perché mia madre non era ricca. Il signor Watkins, l'avvocato, li sta facendo stimare per me.» «A chi andranno il cottage e i gioielli in caso di sua morte?» «Il cottage a una compagna di scuola cui intendo lasciarlo. Quanto ai gioielli, io stessa non li erediterò fino al mio trentesimo compleanno.» «E che accadrebbe se morisse prima?» «Proprio non ricordo.» Aggrottò le sopracciglia incolori. «Nel testamento dev'esserci qualcosa.» «Sarà meglio che mi dia il nome e l'indirizzo del suo avvocato... Septimus Watkins? Cura gli interessi di metà delle grandi compagnie a New York.» Basil si alzò per andare via. «Rimarrà qui a lungo?»
«Parto stasera. Gli amici che vivono qui tornano stanotte, mi hanno prestato l'appartamento per il week-end. Ho bisogno di riposo e tranquillità, credo che me ne andrò al cottage di Seabright.» «Non lo faccia.» Basil le diede un'occhiata significativa. «Vada in un albergo, il più grande, luminoso e chiassoso che riesca a trovare. E mi faccia sapere dove si trova appena si sarà sistemata...» Quando Basil arrivò, Septimus Watkins stava per lasciare lo studio. Posò cappello, guanti e bastone di malacca con pomello d'argento sul piano della scrivania e si mise a sedere, senza togliersi il soprabito. Mentre Basil parlava, lo sguardo indifferente di Watkins si spostò alla finestra e al panorama dell'Old Trinity, scuro e oppresso dagli edifici più alti. «Tutta questa storia mi sa di umorismo da adolescenti.» «Chi erediterà i gioielli in caso di morte della signorina Crayle?» «Dottor Willing, la conosco di fama. Credo che questa conversazione rimarrà fra noi e le dirò quanto posso, perché è l'unico modo di liberare la sua mente dall'assurda idea che qualcuno minacci la signorina Crayle. Faustina, sfortunata ragazza, è una figlia illegittima.» Il modesto sorriso di Watkins apprezzava gli scandali del passato, ormai sterilizzati dal tempo. «Ha mai sentito parlare di Rosa Diamond? Era la figlia di un compositore di inni e viveva a Philadelphia. Aveva i capelli rossi. Negli anni novanta del secolo scorso fuggì da casa: prima New York, poi Parigi. Lì divenne una stella del demimonde, una di quelle favolose cortigiane che Balzac descrive con tanta ricchezza di particolari. Una ragazza americana di provincia che imparò dai suoi amanti a parlare e scrivere perfettamente il francese, a interessarsi di musica, arti e lettere. È difficile far capire a un uomo della sua generazione l'essenza di una simile etera. Solo Parigi e Atene, in determinati periodi, le hanno prodotte.» «Non è stata implicata in un divorzio consensuale ai primi del Novecento?» «Sì, nel 1912. Un avvocato di New York che lavorava per una grande società voleva ottenere il divorzio senza accusare la moglie. Rosa Diamond era così famosa che a lui bastò andare a Parigi, vederla una volta e portarla a spasso nel Bois in un calesse scoperto per ottenere il divorzio. Quell'unica gita fu considerata prova sufficiente di adulterio: si disse che Rosa avesse ricevuto in cambio mille dollari e che l'avvocato si fosse separato da lei sulla porta di casa senza nemmeno baciarle le dita. Ma poi si videro di nuovo e... Faustina Crayle è loro figlia. Rosa conosceva il suo me-
stiere, avrebbe dovuto essere uno strumento e nient'altro. Invece cambiò completamente la vita dell'avvocato, che si innamorò di lei...» Di nuovo il sorrisetto in omaggio ai vecchi scandali. «La riportò in America, le regalò una casa di città a Manhattan e un cottage vicino al mare a Seabright, nel New Jersey. Ma non la sposò, a quei tempi uomini come lui non sposavano donne di un certo genere.» «E queste sono le origini della magra, esangue ragazza!» Basil pensò al seno piatto, ai fianchi stretti. «Lei lo sa?» «Ho tentato di nasconderglielo, secondo la volontà dei genitori. Molte volte la signorina Crayle mi ha chiesto se era figlia illegittima: ho mentito, ma temo che non mi abbia creduto... Faustina è nata nel 1918, quando Rosa aveva quarantatré anni. Il padre aveva già un erede legittimo, datogli dalla moglie divorziata. Era sulla cinquantina, allora, e sapeva che non gli restava molto da vivere: soffriva di una malattia di cuore che Faustina ha ereditato. L'avvocato intendeva provvedere alla ragazza senza pubblicità indesiderata, perché questo avrebbe potuto pesare sul suo futuro. Per non dover includere Rosa nel testamento ufficiale, le regalò un'importante collezione di gioielli che erano appartenuti a sua madre. Stanziò una certa somma per pagare gli studi di Faustina, ma i gioielli erano la cosa principale. Vendendoli a un prezzo equo, e investendo opportunamente il ricavato, le avrebbero fruttato un bel vitalizio: diciamo intorno ai diecimila dollari nel 1918, oggi ancora di più. Negli ultimi trent'anni il valore dei gioielli è cresciuto, mentre, per sfortuna, il crollo del 1929 ha polverizzato la fortuna dell'erede legittimo. Il giovanotto si è sparato un colpo, lasciando due eredi minori: nipoti legittimi del padre di Faustina, i quali oggi hanno meno soldi di lei.» «Ma se Faustina muore prima dei trent'anni i gioielli tornano ai figli del suo fratellastro?» «Quando il nonno regalò i gioielli di famiglia a Rosa Diamond ci furono brutte reazioni. Rosa si fece un senso di colpa per quello che aveva ricevuto e lasciò un testamento in cui Faustina avrebbe ereditato a trent'anni, ma se fosse morta prima, io, come esecutore, avrei dovuto disporre dei gioielli secondo le istruzioni contenute in una busta chiusa che custodisco, e che può essere aperta solo in caso di decesso della ragazza e in presenza di un magistrato. Rosa in persona mi disse che la busta conteneva istruzioni per consegnare le pietre agli eredi legittimi. La busta chiusa era un sistema studiato per consentire la lettura del testamento a Faustina senza che lei venisse a sapere il nome del fratellastro o sospettasse la parentela. È un
nome che non posso confidare nemmeno a lei, dottor Willing. Se rivelassi uno scandalo del genere, tradirei la fiducia che è stata riposta in me.» «Gli eredi legittimi sanno del testamento di Rosa e delle istruzioni sigillate?» «Naturalmente. La famiglia seppe dal primo momento quello che ne era stato dei gioielli. Quando mi chiesero se ci fosse un modo legale per recuperarli io li convinsi che non c'era e spiegai con esattezza quali erano le disposizioni di Rosa.» «Fece apertamente il nome di Faustina Crayle?» «Penso di si. Perché no?» Basil si alzò stancamente e fece per andarsene. «Mi dica un'ultima cosa: l'uno o l'altro degli eredi legittimi ha delle conoscenze presso l'istituto Maidstone? O Brereton?» «Su questo non posso assolutamente rispondere.» Era ormai notte quando Basil raggiunse la stretta casa di arenaria dove aveva vissuto per tanti anni, nella parte bassa di Park Avenue. Prima della guerra l'aveva considerata un povero sostituto della casa paterna a Baltimora, ma ora, dopo anni trascorsi all'estero, sapeva che quella era la sua dimora e lo sarebbe sempre stata. Amava il flusso di auto che si dirigevano verso la parte alta della città dopo la chiusura degli uffici, il dolce alone delle lampade schermate nelle case basse, antiche, sui due lati della grande strada, lo scintillio dell'edificio in cui sorgeva la stazione di Grand Central, stagliata contro il blu vellutato della notte, il mormorio degli pneumatici, il ticchettio dei tacchi e il sentore di gelo nell'aria che annunciava l'inverno e una nuova stagione di allegria. Juniper gli venne incontro nell'ingresso. «Ci sono dei signori che l'aspettano in biblioteca.» Basil salì la rampa di scale che portava alla lunga "biblioteca" dai pannelli bianchi che fungeva anche da soggiorno e studio. Juniper aveva chiuso le tende color vino e acceso le luci. Sentendo il passo di Basil un giovanotto si girò rapidamente verso la porta. La luce splendeva sui capelli biondo-cenere, tagliati corti sulla piccola testa. «Il dottor Willing? Scusi questa intrusione, ma è una questione urgente. Sono Raymond Vining, il fratello di Barbara. È stata la signorina Lightfoot a consigliarci di vederla. Il dottor Willing... la signora Chase, madre di Diana. E la mia fiancée, signorina Aitchison.» Le donne erano ombre oltre la lampada. Basil premette l'interruttore del
lampadario centrale. La signora Chase conservava il naso all'insù, le guance paffute e il mento tondeggiante di quand'era giovane, ma agli angoli della bocca c'erano solchi profondi. Il colore dei capelli chiari, un castano che andava sul rosso, era visibilmente artificiale, come il rosso pomodoro delle labbra. Vestiva con ostentazione: visone scuro, velluto nero e diamanti. La signorina Aitchison era una prorompente bellezza di diciotto o vent'anni con magnifici occhi neri, pelle dorata e labbra rosse, succose, vestita con un bell'abito marrone e una sciarpa vivace arancio brunito. Basil avvertì per un attimo un profumo familiare, vaghissimo: verbena. Ma non sapeva quale dei tre l'avesse portato nella stanza. «Pensa che dovrei ritirare Diana dalla scuola?» chiese la signora Chase. «Non posso darle un consiglio su questo.» Basil si rese conto che era il tipo di donna che cerca di scaricare ogni responsabilità sul primo uomo che capita. «Almeno ci dirà cosa è successo laggiù!» «Nelle scuole capitano ogni sorta di strane cose» intervenne la signorina Aitchison con aria d'insolenza, le gambe incrociate e una sigaretta fumante nella mano guantata. Basil trovò uno spiraglio. «È stata a Brereton?» «No, io sono una Maidstone e...» Raymond Vining l'interruppe. «Dottor Willing, può dirci cosa è successo? Un caso d'isterismo, una frode?» Basil esaminò Vining. Aveva la pelle fresca e rosea di Barbara e gli occhi, come quelli di lei, erano dell'azzurro velato degli zaffiri. Anche le labbra erano le stesse: la piega improvvisa dava l'impressione che stessero per scoppiare in una risata. Il volto emaciato e il corpo sottile corrispondevano all'ideale che i romanzieri vittoriani definivano "aristocratico", ma che Basil aveva visto troppe volte nelle famiglie di contadini e operai per accettare il bizzarro pregiudizio biologico secondo cui la struttura delle ossa umane può essere alterata in poche generazioni grazie alla ricchezza e alla proprietà. «La signorina Crayle è stata un agente o una vittima?» continuò Vining. Basil prese un libro da uno scaffale. «Qui è descritto un caso che si suppone avvenuto in Livonia nel 1845. È stato pubblicato in più di una versione da Robert Dale Owen, Aksakoff e Flammarion.» Cominciò a leggere ad alta voce: la storia era quasi identica a quella di Faustina, ma la scuola interessata si trovava a Volmar, cento chilometri da Riga, e l'insegnante era una ragazza francese di Digione, Emilie Sagée, bionda, gentile e
trentaduenne. La classe di ricamo, composta da quarantadue ragazze, aveva visto simultaneamente due immagini identiche: una era apparsa per alcuni minuti su una sedia in classe, l'altra era visibile nel giardino oltre la finestra, dove stava raccogliendo fiori. Fino a quando l'apparizione sulla sedia era rimasta al suo posto, la ragazza all'esterno si era mossa "con lentezza, pesantemente, come chi è sopraffatto dalla fatica". C'erano state apparizioni ancora più curiose, finché dodici delle quarantadue allieve erano state ritirate dai genitori e mademoiselle Sagée licenziata. Era scoppiata a piangere e aveva gridato: "Da quando ho sedici anni è la diciannovesima volta che perdo il lavoro per questi fenomeni!". Dal momento in cui aveva lasciato la scuola di Neuwelcke, tuttavia, era scomparsa per sempre e nessuno sa cosa ne è stato. Nel 1895 Flammarion aveva fatto una ricerca all'anagrafe di Digione per l'anno 1813, quello in cui mademoiselle Sagée doveva esser nata se aveva trentadue anni nel 1845. Non risultava nessuna Sagée, ma il 13 gennaio 1813 era nata una bimba di nome Octavie Saget, che in francese si pronuncia come Sagée. Dopo il nome, nel registro appariva una parola significativa: illegittima. «C'è un solo fatto sorprendente in tutta la faccenda» concluse Basil. «Il perfetto parallelismo fra i due casi. La vicenda Crayle si può considerare un plagio di quella Sagée, fin nei particolari.» «Tranne per quello che riguarda l'illegittimità» mormorò Vining. «E allora?» sbottò rudemente la signorina Aitchison. «Qualcuno che vuole fare del male alla signorina Crayle ha letto la storia di mademoiselle Sagée e l'ha adattata ai suoi scopi. Ma non è ancora il peggio: secondo la tradizione, chi vede il proprio doppio deve morire. La signorina Crayle vive nel terrore di vedere se stessa e quest'ossessione rappresenta per lei una minaccia di morte. Sul piano psicologico ha lo stesso valore di una serie di lettere anonime e minacciose. La storia potrebbe concludersi con la follia, il suicidio... o addirittura con un delitto.» «Ma come si potrebbe contraffare un fenomeno del genere?» gridò Vining. «Con degli specchi?» «Non quando la signorina Crayle dipingeva sul prato e il doppio era seduto in una poltrona all'interno dell'edificio.» «Alice...» Vining si volse alla signorina Aitchison. «Io devo ritirare Barbara da quella scuola, tu non lo faresti?» «Suppongo di sì.» La signorina Aitchison pareva annoiata. «Ha ragione!» La signora Chase si univa sempre alla maggioranza con entusiasmo. «La prima cosa che farò domani sarà andare a prendere Dia-
na...» Dopo cena Basil chiamò l'assistente ispettore capo Foyle nella sua casa di Flatbush. «Stasera non possiamo fare nulla» disse Foyle quando Basil gli ebbe esposto i fatti e alcune ipotesi. «Le ha detto di andare in un grande albergo: lì non è facile combinare guai. Domani andrò a trovare quest'avvocato Watkins nel suo ufficio. Se mi precipitassi a casa sua adesso, sarebbe due volte più difficile...» Erano le sei e quarantacinque del mattino quando il telefono accanto al letto squillò. «Dottor Willing?» La voce della signorina Lightfoot lo svegliò. «Mi spiace disturbarla, ma un poliziotto ha appena chiamato dal New Jersey. Faustina Crayle è morta.» Basil andò a prendere la signorina Lightfoot che arrivava alla stazione di Grand Central con uno dei primi treni dal Massachusetts, quindi l'accompagnò in macchina in Centre Street. «Dopo la sua telefonata di stamattina ho cercato di sapere tutto quel che potevo dalla polizia del New Jersey» disse Foyle a Basil. «Non ci sono motivi per credere che sia stato un suicidio, tanto meno omicidio. Neppure un incidente: semplice morte per attacco cardiaco. Lei mi ha detto che secondo Watkins la signorina soffriva di cuore.» «Mi chiedo a quante altre persone l'ha rivelato.» «Non è andata in un albergo» proseguì Foyle. «I suoi amici, i proprietari dell'attico, affermano che la signorina Crayle ha ricevuto una telefonata che le ha fatto cambiare idea in proposito. È andata al cottage che ha ereditato e il corpo avrebbe potuto rimanervi per settimane se la donna incaricata delle pulizie non vi fosse passata verso le tre del mattino, di ritorno a casa dopo aver partecipato a una cena di beneficenza nella chiesa vicina. La donna ha visto la luce accesa e ha avvertito la polizia dello stato. Hanno trovato la porta d'ingresso socchiusa, la chiave della signorina ancora infilata nella toppa dall'esterno e il portachiavi che si muoveva. Dentro era accesa una sola luce: la lampada dell'ingresso. Sulla destra ci sono un paio di salottini divisi da porte di vetro trasparente. La signorina Crayle era supina nel primo salottino, la testa verso il divisorio di vetro; aveva indosso cappello, soprabito e guanti, mentre la borsa e il nécessaire erano accanto a lei. Nella stanza non era stato toccato niente, il denaro era al suo posto. La polizia del New Jersey ha rintracciato il tassista che l'aveva accompagnata
dalla stazione al cottage e che l'aveva lasciata intorno alle undici e cinquanta. Il medico dice che dev'essere morta al più tardi a mezzanotte. «Quello che è successo è chiaro. La ragazza ha aperto la porta di casa e l'ha lasciata così per un attimo, con la chiave nella toppa, mentre andava ad accendere le luci all'interno. Lo fanno tutte le donne che entrano in casa da sole di notte. Ma appena entrata nel primo salottino, il cuore si è fermato.» «Ha controllato gli alibi?» «Sicuro. La signora Chase si è trattenuta con amici a cena dalle undici di sera alle tre. La signorina Aitchison e Vining erano al Crane Qub: il barista ricorda di averli visti arrivare insieme alle dieci e uscire all'una e mezza.» «Nient'altro?» «Veramente...» Foyle esitò. «È una cosa piuttosto stupida. Lei sa come siano superstiziosi i campagnoli: be', uno dei sempliciotti di quel villaggio, Seabright, afferma di essere passato accanto a Faustina Crayle alle tre e mezza del mattino, in una stradina laterale. Quando ha reso la sua testimonianza non lo sapeva, ma a quell'ora i poliziotti avevano già trovato il cadavere...» Quando furono in macchina Basil lanciò un'occhiata alla signorina Lightfoot. «Vado a Seabright.» «Posso venire con lei? Comincio a sentirmi responsabile di quello che è successo alla signorina Crayle. Se non l'avessi licenziata così su due piedi...» Il cottage di miss Crayle si trovava a quasi cinque chilometri dal villaggio vero e proprio, tra la pineta e il mare; era fatto di assi bianche, con la porta e le imposte di un verde grigiastro. Benché la strada non fosse frequentata, qualcuno aveva coltivato alberi di olivo, lauri e pini marittimi per mascherare le finestre. Un prato accidentato si arrampicava sulla cima di una collinetta coperta di erba stenta. Nessuno era in vista, ma la porta d'ingresso non era chiusa. «Possibile che la polizia sia tanto negligente?» mormorò Basil. La signorina Lightfoot lo seguì all'interno, riluttante. «Dottor Willing, è possibile che un doppio... sopravviva alla morte della personalità che lo proiettava, sia pure per poche ore?» Ma lui non ascoltava, era intento a esaminare l'ingresso: legno bianco, carta da parati bianca con puntini verdi. Nell'alcova sotto la scala c'era il tavolo del telefono con un lume. Basil guardò la lampadina: cento watt, l'unica fonte di luce della stanza. Più che sufficiente a rischiarare l'ambien-
te, ma dal basso: il soffitto e la patte alta delle pareti sarebbero rimasti in ombra. Un po' di luce sarebbe filtrata nel salottino a destra attraverso l'ampia arcata, ma ancora dal basso; il salotto numero due, oltre le porte a vetri, sarebbe rimasto al buio. Basil entrò nel primo salottino e premette l'interruttore accanto all'arcata. Niente luce: le lampadine della plafoniera erano opache, probabilmente fulminate. Al secondo salotto si accedeva attraversando il primo, e i due locali erano quasi identici. Erano arredati in legno bianco e all'estremità avevano una profonda finestra con tende bianche ricamate; un sedile imbottito di verde era collocato sotto i vetri. In tutti e due gli ambienti il tappeto era di un rosa sbiadito, mentre sulle poltrone c'era un rivestimento ornato di rose dello stesso colore e foglie verdi pure sbiadite. Solo un'accurata ispezione avrebbe rivelato le minime differenze nel colore dei portacenere e nella disposizione delle sedie. «Monotono» disse Basil. «Due stanze con gli stessi colori.» «Sarebbe stato peggio se le avessero decorate con tinte contrastanti» ribatté la signorina Lightfoot. «E oltretutto le stanze, nettamente divise, sarebbero sembrate più piccole. Proprio come una donna che quando indossa camicia e gonna di colori diversi sembra più bassa di quando porta un vestito di un unico colore. Così l'occhio vaga da un ambiente all'altro senza interruzione e si ha l'effetto di un'unica lunga stanza, anche con le porte a vetri chiuse.» «Ma perché le porte? Perché non farne davvero un ambiente unico?» La signorina Lightfoot si guardò intorno. «Non ci sono radiatori. Probabilmente in un cottage estivo come questo non c'è caldaia. Ma con le porte a vetri chiuse, il primo salottino è abbastanza piccolo da potersi riscaldare con una stufa portatile, elettrica o a gas.» Basil si diresse verso le porte a vetri. «Cosa pensa di questi segni?» Erano piccoli graffi sul legno che separava i minuscoli riquadri di vetro. «È difficile dipingere la parte in legno senza sporcare il vetro» rispose la signorina Lightfoot. «A volte i pittori dilettanti ritagliano un pezzo di cartone grande come il riquadro e lo incastrano nel telaio, appoggiandolo sul vetro. Dopo bisogna rimuoverlo: a quanto pare il nostro pittore ha usato un ago.» «Non è stato il pittore. I graffi sono stati fatti quando la pittura era già secca e...» «Cos'è questo?» esclamò la signorina Lightfoot. «Sembrano passi al piano di sopra!»
«Infatti» convenne Basil, calmo. «Li sento anch'io da un po'.» Qualcuno scendeva le scale senza la minima aria furtiva: i tacchi si muovevano con sicurezza e chiarezza. Poi all'improvviso ci fu una pausa; Basil immaginò lo stupore dello sconosciuto che evidentemente aveva visto la porta aperta, così come lui l'aveva lasciata. I passi ripresero con maggior cautela. Sotto l'arcata dell'ingresso apparve la grande, formidabile figura di Septimus Watkins. «Dottor Willing!» La sorpresa parve superare l'indignazione. «Immagino che abbia saputo dalla polizia locale tutto quel che c'è da sapere, e che accetti come me le sue conclusioni: si è trattato di morte naturale. Come le ho detto ieri, il cuore della signorina...» La voce esitò, tacque. Tutti e tre ascoltavano il rumore di altri passi - più agili, più giovani - che scendevano le scale. «Quindi non è venuto solo?» Basil si avviò verso l'arcata. I passi cessarono improvvisamente. Il primo a parlare fu Basil: «Sono lieto che Alice Aitchison mi abbia detto di essere andata a Maidstone». Raymond Vining avanzò verso di lui. «Che c'entra questo con...?» «L'assassinio da lei commesso di Faustina Crayle, figlia illegittima di suo nonno? Tutto.» «Non dire una parola, Ray!» gridò Watkins. «Ti procurerò il miglior penalista che si possa avere!» Basil riprese a parlare, come pensando ad alta voce. «Alice Aitchison deve aver saputo o intuito la verità. Ce n'è abbastanza per incolparla come complice? Direi di sì, dal momento che, diventata sua moglie, avrebbe beneficiato dei soldi ricavati dalla vendita dei gioielli, una volta che lei li avesse ricevuti. E Barbara? Ha solo tredici anni ma è intelligente. Deve aver sospettato...» «No!» gridò Vining. «Alice non sapeva niente, nemmeno Barbara! Lei può accusare me ma non loro! Non glielo permetterò!» «Mio Dio, è una confessione!» esclamò la signorina Lightfoot. Solo quando si misero in macchina per tornare a New York Basil ebbe il tempo di raccontarle i particolari. «Ho sospettato Vining fin dal momento in cui ho scoperto la sua notevole somiglianza con Faustina, figlia di suo nonno. Era l'unico individuo coinvolto nella faccenda che avrebbe potuto impersonare il doppio della signorina Crayle nelle condizioni più favorevoli. Sia Vining sia Faustina avevano un fisico "aristocratico": fianchi stretti, polsi e caviglie finemente modellati, mani sottili, piedi arcuati. Ve-
stito da donna sarebbe apparso come lei, e a una certa distanza la sua faccia avrebbe potuto passare per quella di Faustina. Entrambi avevano la testa piccola e "aristocratica", faccia ovale, naso prominente e labbra sottili. Entrambi avevano i capelli biondo-cenere e gli occhi azzurro velato come zaffiri. La cipria di Rachel avrebbe trasformato la carnagione rosea di Vining in quella giallastra di Faustina. E il giovanotto era un buon attore, sapeva imitare l'espressione fra il serio e il corrucciato delle labbra della ragazza. Specialmente con la parte superiore del viso protetta dalla tesa larga del cappello. «Vining si rese conto della somiglianza quando Alice Aitchison entrò a Maidstone un anno fa. Il giovane voleva infrangere il divieto che impediva ai visitatori maschi di entrare a scuola nei giorni feriali: era innamorato e voleva andare dalla sua ragazza quando gli pareva e piaceva, di giorno e di notte. Così escogitò un trucco vecchio come l'antica Roma. Ricorda l'episodio del giovane Clodio che, in abiti femminili, si introdusse in una cerimonia riservata esclusivamente alle donne? Bene, questo fatto indusse Cesare a divorziare da una moglie che non era più al di sopra di ogni sospetto... Come Clodio Vining era giovane, snello e imberbe. Se avesse indossato abiti da donna e si fosse tenuto a una certa distanza dagli altri, sfruttando magari la penombra, avrebbe potuto passare per una ragazza. Ma non venne scambiato per una ragazza qualunque: lo presero per una giovane insegnante, Faustina Crayle. Quanto ai libri di parapsicologia della signorina Maidstone, erano sotto chiave ma c'erano. Immaginiamo che una delle allieve si sia impossessata della chiave e abbia letto il mito del doppelganger: ecco cristallizzarsi intorno a Faustina le storie di un "doppio" misterioso. Alice Aitchison riferì certamente la cosa al fidanzato, e con gran divertimento perché di certo aveva notato la somiglianza e sapeva quale fosse l'origine delle dicerie, Vining, d'altronde, non riusciva a spiegarsi le ragioni della sua affinità fisica con Faustina; poi attraverso l'avvocato Watkins venne a sapere tutto quello che c'era da sapere sulla figlia naturale del nonno, che portava il nome piuttosto insolito di Faustina Crayle. Vining decise di vedere la ragazza coi propri occhi e si accorse che la somiglianza era veramente notevole, nonostante che le differenze di sesso - e quindi di abbigliamento - potessero nasconderle all'occhio di un osservatore superficiale. Tutto questo gli diede l'idea di un delitto che non avrebbe lasciato alcun segno sul corpo di Faustina e che non avrebbe richiesto nemmeno la sua presenza al momento in cui sarebbe morta. «Quando Faustina si trasferì a Brereton, Vining mandò la sorellina Bar-
bara in quella scuola per servirsene come inconsapevole spia. La bambina gli riferiva tutto quello che era necessario sapere. La scala principale, quella posteriore e le porte-finestre dell'edificio permettevano a Vining di entrare e uscire con facilità, soprattutto se si considera che a una certa distanza veniva scambiato per Faustina, la quale aveva tutto il diritto di esserci. Per gli effetti più stupefacenti Vining scelse i suoi testimoni con accortezza: una cameriera piuttosto stupida e suggestionabile, due ragazzine di tredici anni una delle quali era sua sorella e non l'avrebbe denunciato neanche se avesse intuito la verità. Penso che l'incontro con lei sulla scala sia stato accidentale, signorina Lightfoot, perché è un'osservatrice troppo acuta per invogliare Vining a sceglierla deliberatamente. Ma qualche incidente era inevitabile e Vining ha risolto la situazione infilandosi in salotto e uscendo da una porta-finestra poco prima che arrivasse Arlene dalla sala da pranzo. Le ha sfiorato il braccio di proposito, perché sapeva di avere la mano fredda (era appena arrivato da fuori) e sapeva che il freddo avrebbe fatto io stesso effetto del tocco viscido e irreale attribuito al doppio della Sagée, che lui non avrebbe potuto imitare. A Brereton si aggirava con un cappello e uno spolverino che erano l'esatta copia di quelli di Faustina e ha imitato uno degli aspetti più sensazionali del caso Sagée: i movimenti lenti durante l'apparizione del suo doppio. Probabilmente ha ottenuto questo effetto drogando il cibo e le bevande di Faustina, e calcolando i tempi in modo da farla cadere sotto l'effetto della droga nel momento in cui egli si manifestava come "doppio". «Non mi meraviglio che la stessa Faustina abbia cominciato a credere in quella storia e a temerla. Ecco come l'ha uccisa: sfruttando la sua paura. Vining conosceva la pianta del cottage di Seabright perché era appartenuto a suo nonno. Sapeva dei due salottini che avevano la stessa forma e le stesse dimensioni, delle finestre profonde sistemate una di fronte all'altra alle estremità del locale e delle porte a vetri che fungevano da divisorio. Watkins deve avergli detto che le due stanze erano ancora decorate con gli stessi colori. Il resto è stato facile: Vining è andato a Seabright in assenza di Faustina, si è procurato degli specchi che avevano le stesse misure dei pannelli di vetro nelle porte divisorie e ha sistemato uno specchio su ogni pannello, all'interno del telaio di legno. Poi ha sistemato le lampadine fulminate nella plafoniera del primo salotto. E questo è tutto, se si esclude la telefonata che ha fatto a Faustina quella sera stessa. Si è presentato come un membro della misteriosa famiglia sul conto della quale la ragazza si era interrogata già da tempo e le ha fissato un appuntamento per incontrarla
più tardi in casa di lei. Era in grado di raccontarle certe cose, su Watkins e sua madre, che l'avrebbero convinta del tutto. «Alle undici Faustina è entrata nel cottage vuoto e buio: ha lasciato la chiave nella serratura per il tempo necessario ad accendere le luci nell'ingresso. Per caso è entrata subito nel salottino, ma era certo che prima o poi vi sarebbe andata, nell'arco della sera, e allora... sarebbe potuta accadere una cosa soltanto. Avrebbe premuto l'interruttore vicino all'arcata d'ingresso e non sarebbe successo niente, perché le lampadine erano fulminate. In compenso avrebbe visto un movimento in fondo al salottino, sulla porta a vetri coperta dagli specchi. Il movimento di chi? Il suo, riflesso: ma lei non l'avrebbe saputo! Avrebbe pensato con assoluta convinzione che le porte a vetri fossero trasparenti come al solito e che lei stesse guardandoci attraverso. In quella prima, rapida occhiata nessun elemento le avrebbe permesso di capire che stava guardando l'immagine riflessa del primo salottino anziché il secondo al di là dei vetri. Tenga presente che le due stanze sono simili per forma e colore e che la luce bassa e irregolare dell'unica lampada nell'ingresso poteva diventare ingannevole, all'altezza della porta a vetri. «Ora si rende conto di quello che è successo? Faustina è stata uccisa dal proprio riflesso! Aveva un cuore debole e per oltre un anno era stata sottoposta a un martellante condizionamento psicologico che la spingeva a credere al mito del doppelganger. Come lei stessa ha detto: quando si è perso due volte il lavoro a causa dello stesso fenomeno, non si è più disposti a credere che si tratti soltanto d'immaginazione. È morta, stroncata dalla più semplice e antica delle illusioni: il proprio riflesso. Il terrore l'ha schiantata quando non c'era assolutamente niente da temere, e poi è rimasta solo l'immagine di una ragazza senza vita. «Vining doveva togliere gli specchi prima che venisse trovato il corpo, e infatti è andato a Seabright dopo aver dato a Faustina tutto il tempo di morire. Per l'ultima volta ha indossato abiti da donna: forse non l'avrebbe visto nessuno, ma in caso contrario era bene che lo scambiassero per Faustina, e così è stato. Quando la polizia ha controllato i tempi e si è accorta che la ragazza era stata vista dopo la sua morte, è successo l'inevitabile: il mito del doppio si è trasformato nel mito del fantasma di Faustina Crayle. La polizia non ne ha tenuto conto, attribuendo il tutto alle superstizioni locali. «Nei panni del doppio Vining era convincente: portava senza dubbio scarpe di gomma per ingannare l'orecchio, perché il doppio non fa rumore. Con la mano gelida ha ingannato il suo tatto, signorina Lightfoot. Ma c'è
un senso più forte e primitivo che non ha potuto deviare: l'olfatto.» «Ma il doppio non aveva odore!» obbiettò la direttrice. «È questo il punto. Qualsiasi corpo umano ne ha uno, eppure lei afferma che nel caso del doppio non era così. Ne dobbiamo concludere che non era umano? O ci sono circostanze in cui un individuo può sembrare inodore? In un solo caso si può avere questa sensazione: quando l'odore di due persone è identico, perché ad esempio portano lo stesso profumo. Un nonfumatore che bacia un fumatore ha subito il sentore di nicotina; due fumatori che si baciano penseranno che l'altro abbia l'alito fresco perché nessuno dei due avverte l'odore. «Lei, signorina, usa un profumo alla verbena. In questo modo ho capito, dopo la nostra prima conversazione, che anche il doppio di Faustina usava la verbena. A qualsiasi altro odore lei sarebbe stata sensibile, ma non a quello che portava addosso. Faustina, d'altro canto, si profumava di lavanda: me lo ha detto lei e ho avuto modo di constatarlo personalmente quando l'ho incontrata. Dunque, il doppio non poteva essere la stessa Faustina. Questo restringeva notevolmente le mie ricerche: la persona che m'interessava somigliava a Faustina, usava un profumo alla verbena e aveva rapporti sia con l'istituto Maidstone sia con Brereton; inoltre, aveva buoni motivi per desiderare la morte o la rovina di Faustina Crayle. Solo Vining rispondeva a tutti i requisiti. L'altra sera, entrando in biblioteca, ho colto subito il profumo alla verbena. Non sapevo con certezza quale dei tre io usasse: la signora Chase, la signorina Aitchison o Vining. Il più probabile tuttavia era Vining, perché lei mi aveva detto che è una lozione maschile. Oggi, quando è sceso a pianterreno, ho notato di nuovo quel profumo. Credo sia talmente abituato alla sua lozione alla verbena che ha continuato a usarla anche quando impersonava il doppio.» «Lei ha risolto il mistero di Faustina Crayle» disse la signorina Lightfoot. «Ma quello di Emilie Sagée?» Basil rallentò su una brutta curva, poi accelerò di nuovo. «Quello rimane avvolto nel mistero. In uno specchio scuro...» Titolo originale: Through a Glass, Darkly Postilla Il termine tedesco "doppelganger" deriva dalla fusione di due parole che significano "doppio che cammina". Vale a dire una persona identica a
noi che fa la nostra stessa vita: un doppione, appunto. Si può immaginare che, essendo gli spiriti incorporei, possano assumere qualunque forma piaccia loro, proprio come un essere umano nudo può indossare un vestito o l'altro. Dunque, uno spirito potrà decidere di assumere un corpo identico al nostro. Questa scelta può essere dettata da una serie di ragioni, ad esempio la gentilezza: il doppio potrà prendere il nostro posto e sostituirsi a noi nei momenti più difficili, o farsi punire in vece nostra, lasciandoci liberi di sfuggire a qualunque conseguenza sgradevole. Tuttavia gli uomini sanno che il male è più diffuso del bene, o almeno più rimarchevole. Per questo si ha la sensazione che il doppelganger non sia qui per farci un favore, ma che anzi ci procurerà dei guai, (Nella vita reale ci sono ovviamente dei sosia, e non sono rari i casi di persone accusate di un crimine o condannate per un misfatto commesso da un sosia.) Se tuttavia crediamo nell'esistenza del "doppio che cammina" (uno spirito del male in grado di assumere il nostro aspetto, non un semplice sosia), la vita si arricchisce di un elemento d'incertezza: è facile capire perché si pensi che guardare in faccia il proprio doppio voglia dire la morte. Ovviamente non è mai stato provato che i doppi esistano, e il racconto della McCloy ce ne offre una spiegazione razionale. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE John Kenrick Bangs, "Carleton Barker, First and Second", in Ghosts I Have Met and Some Others, Harper, New York 1898. Henry James, "L'angolo prediletto" ("The Jolly Corner"), in Racconti di fantasmi di Henry James, Einaudi, Torino 1988. Ediz. economica Einaudi, 1992. John Metcalfe, "The Double Admiral", in The Smoking Leg, Jarrolds, Londra 1925. Edgar Allan Poe, "William Wilson", in Racconti del terrore, racconti del grottesco, racconti di enigmi, Oscar Mondadori, Milano 1987. Riti propiziatori CENA MUTA di Kris Neville
(«Ma come, lo sanno tutti che il nero è il colore della morte. Se in sogno vedi venirti incontro una cosa nera puoi dire addio a tutto, perché non sei più di questo mondo.») Rosalynn si agitò sulla sedia e raccolse un filo di lana dal vestito, continuando a guardare la ragazza che parlava. («Avresti dovuto vedere il vestito che Nellie ha comprato a Joplin: una cosa deliziosa.») Rosalynn tese le gambe e le guardò. («Dicono che sia costato cinquanta dollari. Mamma mia!») Rosalynn agganciò un dito sotto il dondolo della sedia che aveva davanti e la mise in movimento. «No, non fare così, cara!» disse Marsha. «"Chi fa dondolare una sedia vuota, tutti i mali si ritrova".» Rosalynn alzò gli occhi. «Mi dispiace» disse. («Naturalmente può essere un po' troppo lungo per lei... Sai com'è, non ha il fisico.») Arrivò Jean Towers e sedette accanto a Rosalynn. «Non stare a sentire Marsha, è solo una superstiziosa.» «Non importa» rispose Rosalynn. «Tu ci consideri poco gentili?» «No» disse Rosalynn. («E dicono che si sposeranno il mese prossimo. Era ora, se volete sapere il mio parere.») «Non vi considero poco gentili. Ho solo bisogno di un po' di tempo per conoscervi, poi starò bene.» («Vorrei che Jude si decidesse e mi chiedesse di sposarlo.») «Amy mi ha detto che la tua famiglia si è trasferita da queste parti solo una settimana fa.» «Sì» ammise Rosalynn. «Dalla California. Fresno.» «Che ne pensi di Carthage?» «Oh» fece Rosalynn. «È... voglio dire, penso che mi piacerà. Anzi, sono sicura che mi piacerà.» «Ma certo.» «È solo che adesso... in questi primi giorni, sapete, tutti parlano di posti e persone che non...» («Anche a me!» disse qualcuno, provocando uno scoppio di risa fra le ragazze.) Jean Towers fece un sorriso di simpatia. «Poi ti abituerai a tutto.»
«Uh-uh. Ehm, potresti dirmi...» Ma Jean Towers non era più al suo fianco. («Così gli ho detto: "Se hai pensato per un minuto che..."») Rosalynn prese di nuovo il filo di lana. Si trovava in una città nuova ed era la prima festa a cui partecipasse. Voleva fare a tutti i costi una buona impressione, perché in caso contrario, forse, non l'avrebbero più invitata. Come sapeva benissimo, spettava a lei mostrarsi amichevole. («Voialtre fareste meglio a organizzare una cena muta.») «Che ne diresti di una cena muta, Rosalynn?» chiese Jean Towers. Rosalynn ribatté: «Cena muta? Ma... penso, cioè, va bene, se anche voi volete. Credo che mi piacerebbe.» «Nel posto da cui vieni si fanno cene mute?» chiese Amy. Rosalynn disse: «È un gioco, non è vero?». «Non proprio... Ma puoi dire così, se preferisci. Una specie.» «Allora forse abbiamo qualcosa del genere, a Fresno» ribatté Rosalynn, ridendo. Per la prima volta era stata coinvolta nella conversazione generale ed era felice. «Perché non mi dite di che si tratta? Così posso dirvi se lo facciamo anche noi.» «Be'» rispose Jean Towers «è una specie di leggenda. Nessuno ci crede più, tranne gli ignoranti che abitano nelle colline e forse un vecchio o due, come zio Alvin giù al fiume.» Fece un piccolo gesto di disapprovazione. «Si sa, sono tutte favole...» «Forse dovresti raccontarle la storia che ripete sempre nonna Wilson.» «Non so. Tu, Rosalynn, vuoi sentirla?» Rosalynn rispose: «Sì». «È successo nella famiglia Rush. (Adesso i Rush non abitano più nella zona, ma ce ne sono parecchi dalle parti di Pierce City e i Roberts di Webb City sono primi cugini... Comunque la storia risale a parecchio tempo fa, forse cent'anni, quando si erano appena trasferiti dal Kentucky.) Dunque nella famiglia c'era una giovane ragazza che si chiamava Sarah. Molto carina e gentile, da come la descrive nonna Wilson.» Rosalynn si guardò la punta delle scarpe e desiderò essere carina. Le sarebbe piaciuto credere a quello che diceva sua madre: «Non è il tuo aspetto che conta, tesoro, ma la persona che sei». A volte si guardava nello specchio chiedendosi dove avrebbe trovato marito, con una faccia come quella. Jean Towers continuò: «Una sera, a una festa più o meno come questa, quando i grandi se ne furono andati, qualcuno propose di fare una cena muta. Lo disse per metà scherzando e per metà sul serio, come quando si
propone qualcosa. Sarah pensò che fosse una buona idea (anche in Kentucky facevano cose del genere) e non ebbe affatto paura». Sarah si era comportata sportivamente; Rosalynn si domandò come facesse la gente a essere così, dove imparasse a dire e fare le cose giuste e a piacere agli altri. «Naturalmente una cena muta non è una vera cena. Lo è solo a metà: nessuno mangia niente perché non c'è niente da mangiare, tranne due pezzetti di pane di granturco.» Rosalynn si domandò perché gli altri la mettessero sempre a disagio; perché dovesse dare fondo a tutto il suo coraggio anche per andare a una festa come quella. In cuor suo voleva la compagnia della gente e voleva piacere. Dopotutto, lì tutti erano gentili: la sua presenza era gradita, o Amy non le avrebbe chiesto di venire. E poi erano simpatiche, un po' diverse dalle ragazze che conosceva in California ma simpatiche. Fra poco non si sarebbe più sentita un'estranea. «E così Sarah cominciò a preparare la cena muta. Capisci, bisogna farlo in un certo modo.» In un primo momento Rosalynn aveva pensato che ce l'avessero con lei perché i suoi vestiti erano più belli dei loro e suo padre aveva un lavoro più importante dei loro; o ancora, perché viveva in una grande casa su South Main e non aveva accento, ma sapeva parlare in fretta. Ora, in mezzo alle altre ragazze, si rese conto che non la odiavano affatto e che si era immaginata tutto. «Bisogna fare ogni cosa alla rovescia; tutto, dal mescolare il burro ad accendere un fiammifero e persino a camminare. Tutto al contrario.» Forse aveva paura della gente perché temeva che volessero ferirla. (Ancora le bruciava il ricordo di quello che aveva sentito dire alla sua migliore amica durante il secondo anno delle superiori.) Suo padre aveva spiegato tutto: «Vedi, la gente non è cattiva come pensi; può darsi che dica le cose senza pensare, ma è raro che sia crudele. La maggior parte delle persone non è come la tua amica Betty, e se tu le dai un'opportunità si dimostrerà amichevole piuttosto che malvagia». «Sarah cucinò il pane di granturco facendo tutto alla rovescia, come bisogna fare in questi casi. Poi preparò i piatti, uno per sé e l'altro per suo marito.» Rosalynn sarebbe diventata una ragazza diversa. Avrebbe fatto nuove amicizie (ad esempio con Jean, Amy e Marsha, la superstiziosa) e si sarebbe divertita moltissimo a parlare con loro. Avrebbe dato feste nella sua
grande casa e forse avrebbe avuto qualche appuntamento: in fondo non era così brutta, è solo che spaventava i ragazzi, timida com'era. Ma stavolta sarebbe andata diversamente. Poi, forse... «La leggenda dice che se fai le cose nella maniera giusta, quando ti siedi davanti al tuo piatto con il pezzo di pane preparato alla rovescia vedrai arrivare tuo marito: non in carne e ossa, certo, ma come una specie di fantasma che siederà davanti all'altro piatto. In questo modo ce l'avrai di fronte e potrai sapere chi è l'uomo che ti sposerà.» «Oh» disse Rosalynn, decisa ad ascoltare con maggiore attenzione perché, se voleva fare amicizia, doveva ricordarsi di non passare il tempo a compiangersi ma essere educata e prestare attenzione anche alle cose che non le interessavano. «Sarah mise un coltello davanti a ogni piatto. (A quei tempi avevano buffi coltelli col manico d'osso, e quello che capitò sul piatto di suo marito aveva un graffio a forma di stella sull'impugnatura.) «Nel frattempo si era alzato il vento del nord (succede sempre così, nelle cene mute) e ululava tra gli alberi. In casa era tutto silenzio, perché durante una cena muta non bisogna parlare. Nessuno deve aprire bocca. «Sarah mise un pane di granturco in ogni piatto e poi sedette calma ad aspettare. «Tutti trattenevano il fiato e il vento ululava sempre più forte.» Rosalynn rabbrividì: non voleva ascoltare il resto della storia. «Poi, bang! La porta d'ingresso si spalancò e batté contro il muro, facendo tremare la casa. Il vento soffiò e fece ondeggiare le candele (la storia risale a molto tempo fa, prima della luce elettrica). «Appena la fiamma delle candele si fu spenta, una figura vestita di bianco entrò nella stanza e andò a sedersi vicino a Sarah.» Jean Towers fece una pausa e Rosalynn sentì il cuore batterle forte nel silenzio. «Quando le candele vennero riaccese, la figura bianca era scomparsa. Anche il coltello che si trovava sul suo piatto era scomparso. «È... è tutto?» chiese Rosalynn. «No, no, è solo la prima parte. Perché Sarah era riuscita a vederlo in faccia (o così disse). «Bene, più o meno un anno dopo in città arrivò uno straniero di nome Hall. Giovane, bello, gran lavoratore, anche se un tipo tranquillo che non parlava molto. Quando Sarah lo vide seppe che era l'uomo che sarebbe diventato suo marito, perché il volto era quello della figura in bianco.
«Si sposarono e andarono a vivere in una capanna sulla proprietà del padre di lei. «Le cose andarono bene per un anno, perché lui era un buon agricoltore e un marito sobrio e premuroso. Ma un giorno... «Be', il padre della ragazza si mise in cammino per andare a trovarli e quando fu arrivato sulla parte più alta del costone (la capanna, invece, era a valle) si accorse che dal comignolo non usciva fumo. Non era normale, perché si era in un freddo giorno d'autunno. La capanna era immersa nel silenzio, come se non ci fosse nessuno (sai com'è, a volte vedi una casa e capisci che è deserta.) Il padre capì che qualcosa non andava e si precipitò a valle. «Cosa credi che abbia trovato? Sarah, stesa sul pavimento. Aveva gli occhi chiusi e un coltello piantato nel petto. «Non era morta, ma è stata una fortuna che suo padre arrivasse in quel momento. Sarah si salvò ma passò parecchio tempo prima che potesse alzarsi dal letto, perché a quell'epoca i medici non ne sapevano granché. «Finalmente lei raccontò l'accaduto. «Quella mattina, quando suo padre l'aveva trovata quasi morta nella capanna, Sarah aveva rivelato per la prima volta al marito come l'avesse visto durante la cena muta. «In un primo momento il marito non aveva risposto affatto, ma si era limitato a guardarla; poi si era alzato e aveva preso una scatoletta che teneva sempre con sé, e di cui portava la chiave al collo per evitare che qualcuno ne scoprisse il contenuto. L'aveva aperta e aveva preso il coltello che riposava su un cuscinetto di velluto. «Poi si era avventato su Sarah. «"Allora sei tu la strega che mi ha mandato fuori in quella notte d'inferno!" aveva gridato, piantandole il coltello nel petto. «Era quello con il graffio a forma di stella sul manico d'osso. Quanto al marito, Sarah non lo rivide più.» Rosalynn deglutì. «È... è spaventoso.» Marsha rise debolmente. «E voi fate ancora queste cene mute?» chiese Rosalynn. «Be'» rispose Jean Towers «non molto spesso. Ogni tanto. Voglio dire, non c'è niente di vero: gli ignoranti dicono che è stregoneria, ma è solo per ridere. Noi non ci crediamo, ma è divertente e ti fa venire i brividi.» «Penso che dovremmo farne una» disse Amy. «Allora Rosalynn vedrebbe... che giochi abbiamo da queste parti.»
«Ma sì, facciamola.» «E il pane lo cuocerà Rosalynn.» «Che ne dici, Rosalynn?» Lei rispose: «Va bene, cioè, se volete. Ma il pane lo cuocerà un'altra, eh? Io... ho paura di non aver mai imparato a cucinare. Non so fare nemmeno un panino di granturco.» «Se è solo per questo, ti insegneremo noi.» «Ehm» disse piano Rosalynn «lo farò se anche un'altra lo farà.» Si voltò verso Marsha. «Tu?» «Nemmeno per tutto l'oro del mondo!» ribatté l'altra ragazza. «Stai zitta!» scattò Jean. Poi, a Rosalynn: «Lei non crede che succederà qualcosa, naturalmente. È solo che... non vuole correre rischi. Tutte noi abbiamo preparato la cena muta, una volta o l'altra». «Sì» confermò Marsha. «Proprio così.» «E tu, Amy?» «Io? È più divertente se lo fa una persona sola.» «Ah... ehm, se proprio ci tenete, allora...» Rosalynn si rendeva conto che con tutta probabilità era solo uno scherzo fra ragazze: volevano spaventarla. Forse un rito d'iniziazione. Se voleva che diventassero sue amiche, doveva sottoporsi alla prova, non far vedere che aveva paura. «E va bene» disse. «Lo farò.» In vita sua Rosalynn aveva desiderato un milione di volte di essere meno impressionabile. Quando era piccola i genitori dovevano rimanere in camera sua fino a quando non si era addormentata; ora, ogni tanto, doveva accendere la luce nel cuore della notte (cosa che richiedeva tutto il suo coraggio) solo per essere sicura che non ci fosse niente. Si disse qualcosa che di solito serviva: «La settimana prossima ne rideremo tutte. Allora io confesserò di essermi spaventata moltissimo, ma non importerà a nessuno». Guardò l'orologio a muro. Non c'era niente da fare: il signor e la signora Pierce, i genitori di Amy, non sarebbero tornati da Carthage fino a mezzanotte. La casa era una fattoria a sei chilometri dalla città. Rosalynn non aveva modo di fuggire, anche se avesse voluto, perché dipendeva dai Pierce che al loro rientro l'avrebbero accompagnata a casa. «Andiamo» disse Jean. Passarono in cucina, dove Amy prese gli ingredienti: ce n'erano tre coppette già pronte. Rosalynn capì che si erano preparate.
«Farina di frumento» disse Amy, indicandogliela. «Farina di granturco e lievito.» Prese un bicchiere d'acqua dal rubinetto. «Mescola tutto e aggiungi acqua fino a ottenere una pasta.» «E il sale?» chiese Rosalynn. «Credevo che non sapessi come si fa un panino di granturco.» «I... io non lo so. Ma ho pensato che ci volesse il sale... voglio dire, nella maggior parte delle cose c'è il sale.» «Non in questo pane, Rosalynn. Qui non ce n'è.» «Oh! Capisco.» «Andiamo. Come mescoleresti gli ingredienti?» «Io... metterei il lievito e la farina di granturco in quella di frumento e... mescolerei, penso. Poi aggiungerei l'acqua.» «Bene. Adesso ascolta: metti la farina di frumento, quella di granturco e il lievito nell'acqua. Poi agita. Alla rovescia, come vedi. E se di solito agiti in senso orario, ora devi farlo al contrario. Tutto al contrario.» «Va bene, Amy, lo farò. Non preoccuparti.» Amy spiegò tutti i particolari a Rosalynn che ascoltava, cercando di ricordare e stare al gioco, in modo che la invitassero ancora. Era solo una sciocca superstizione, e lì, nella cucina illuminata della fattoria, Rosalynn decise che non c'era nulla di cui aver paura... Solo uno sciocco scherzo infantile, nient'altro. «Sei pronta, allora?» «Sì, credo di sì.» «Va bene. Ricordati, qualunque cosa succeda non devi parlare. Nessuna di noi deve farlo. È questa la cosa più importante: che nessuno parli finché è tutto finito.» «Non dirò una parola» promise Rosalynn. «Okay. Allora sei pronta?» «Sì, ma prima... voglio dire, so che è ridicolo, ma sentite... voi non credete che succederà qualcosa, vero? L'arrivo di mio marito o storie del genere...?» Amy la guardò dritto in faccia, poi fece una pausa prima di rispondere. «No» disse. «Basta parlare» incalzò Jean Towers. E tutte tacquero. Rosalynn eseguì le istruzioni punto per punto, meno per quanto riguardava il fiammifero. Di solito li accendeva sfregando verso di sé, e stavolta, come fanno le bambine che incrociano le dita prima di combinare qualche
marachella, fece lo stesso. Dopo aver messo il panino nel forno, tornò in soggiorno camminando all'indietro e sedette, in attesa che passassero dieci minuti prima di apparecchiare la tavola. Le altre ragazze, silenziose come fantasmi, si erano sistemate nei vari angoli della stanza; la guardavano tutte e Rosalynn si sentiva a disagio, come la prima volta che... be', anche allora l'avevano guardata tutti. Qui era lo stesso: aspettavano che accadesse qualcosa. Le sembrò che la faccia di Jean Towers fosse tesa, e gli occhi di Marsha... ma di nuovo aveva permesso alla sua immaginazione di scatenarsi. Silenzio assoluto, tranne il ticchettio dell'orologio. Cominciò a sentire di nuovo il tocco vago e inquietante della paura. La cosa più strana era questa: nessuna delle ragazze rideva. Erano tutte immobili, in attesa. Erano... serie. Rosalynn si concentrò sul monotono tic-tac dell'orologio. Sulla parete c'era la riproduzione di un indiano che guardava senza speranza nel burrone. Con la lancia abbassata. (Tic-tac) E nell'angolo c'erano i pesci rossi. Nuotavano lentamente. (Tic-tac) C'era... Il cuore le balzò in gola. L'orologio si era fermato! Rosalynn soffocò un grido e si piantò le unghie nella mano. Pian piano si rilassò. Si era solo fermato un orologio, una cosa che succede continuamente, notte e giorno. Forse le ragazze l'avevano fatto apposta, anche se era difficile immaginare come... Le guardò una a una e la tensione cominciò a montare di nuovo. Avevano gli occhi lucenti e sembravano tese verso di lei, la osservavano, pronte a balzare. Suo padre le aveva detto: «La gente non è cattiva come credi; raramente è crudele». Si sforzò di crederci. Era ora di apparecchiare la tavola. Rosalynn dovette lottare contro se stessa per mettersi in piedi, e nel farlo alzò gli occhi. Anche se la odiavano, non avrebbe mollato... non avrebbe mostrato di aver paura, non ora... (Ma domani avrebbero riso tutte.)
Rosalynn si avviò, all'indietro, verso la cucina. I capelli le si rizzarono sul collo. Silenzio. Cominciò il lento, goffo processo di apparecchiare la tavola per sé e per l'ospite. E poi, in lontananza...! Cercò di non sentirlo. Il secondo piatto cadde rumorosamente sul tavolo. Rosalynn sentì le lacrime riempirle gli occhi, il naso pungere. Ma non poteva urlare. Poteva solo muoversi verso il cassetto, prendere i due coltelli. L'espressione sulle loro facce... Adesso sapeva. La odiavano davvero, tutte quante. Erano tese, in ascolto, trattenevano il fiato per sentire meglio, e il rumore era sempre più forte! La odiavano: forse perché il lavoro di suo padre era migliore di quello dei loro, o forse perché lei non aveva accento e parlava speditamente. Ma la odiavano! Rosalynn se ne dimenticò. Era di nuovo a tavola, ma i suoi movimenti erano forzati. Avrebbe voluto correre, urlare e piangere. Mise il secondo coltello davanti al secondo piatto. (Aveva un buon manico d'acciaio.) Vento d'inverno! Vento del nord che ululava fra gli alberi: vento d'inverno nel Missouri meridionale. ("Soffia sempre, durante una cena muta" aveva detto Jean Towers.) ...Quella sera la signora Pierce aveva detto che sarebbe stato un brutto inverno. Per via del vento?... Gli occhi di Marsha erano vitrei, aveva il fiato corto. Il vento ululava e stringeva la casa in una morsa, la scuoteva, la strappava via. In pieno inverno... Rosalynn prese il pezzo di pane con una presina per non scottarsi e lo tagliò in due. Era molle, avrebbe dovuto cuocere di più. Depositò la porzione più grande nel piatto di lui. Sedette automaticamente, perché non c'era nient'altro da fare. Cercò di resistere, ma i suoi muscoli erano stretti in una morsa gelida. La mente di Rosalynn era in preda al terrore, ne era sopraffatta. (In soggiorno i tre pesci rossi continuavano a nuotare lentamente.) Era come se il vento gelato avviluppasse il corpo di Rosalynn: come se l'accarezzasse, la baciasse, sussurrando le parole di un amante osceno. E lei era debole. Debole. Aveva la pelle d'oca.
Qualcosa che veniva da Fuori... Fuori dove? Soltanto Fuori... al di là di tutto. Ora le facce delle ragazze erano svuotate, stanche, gli occhi sgranati. E aspettavano, aspettavano. Rosalynn cercò di muovere le labbra ma il vento le fermò con un bacio gelato. Il vento era dappertutto: furia, follia che rideva, un alito freddo e umido. Tutto era gelo, il tempo si era fermato. Rosalynn aspettava l'arrivo di suo marito. E arrivò. Rosalynn alzò gli occhi dal piatto e lo vide. Un essere vago, tenue, irreale che scivolava nella stanza. Scivolava verso di lei. E il cuore batteva, batteva, batteva. Stava per sedersi di fronte a lei, lo sposo! Fuori il vento, il vento malefico. Le luci si abbassarono, sempre più tenui. L'essere vestito di bianco sedette nella sedia preparata per lui. Girò la testa e guardò Rosalynn negli occhi. Poteva urlare, adesso: la sua voce isterica si liberò nel buio... Finalmente tornò la luce. Le ragazze erano raggruppate intorno a lei, con aria preoccupata. «Com'era?» chiese Marsha. «Lui... quella cosa... non aveva faccia. Non era mio marito. Era solo... tenebra. Buio, più buio di una notte nera...» Rosalynn singhiozzava. «Andiamo, andiamo» disse Jean Towers. «Non devi piangere. Prendi il mio fazzoletto, non c'è niente per cui piangere.» «No» ripeté Marsha «non devi piangere.» D'un tratto le ragazze si affrettavano intorno a lei, meravigliosamente dolci e care: le asciugavano gli occhi, le dicevano parole di conforto e cercavano in ogni modo di rendersi utili. Ma Rosalynn tremava. «Lasciatemi sola» supplicò. «Per favore, lasciatemi sola. Voi mi odiate. So che mi odiate.» «Ma no, nient'affatto» protestò Marsha. Per un lungo momento quelle parole risuonarono nella sua mente, poi richiamarono altre parole. Poco a poco Rosalynn ricordò: una frase che aveva sentito all'inizio, per
caso. Conosceva il significato del colore nero, sapeva perché le ragazze erano così gentili con lei. Marsha aveva detto: "Nero è il colore della morte". E Rosalynn capì chi sarebbe stato il suo unico, vero amico e sposo. Titolo originale: Dumb Supper Postilla Per molti secoli le donne hanno potuto realizzarsi solo attraverso i loro mariti. Alcune, è vero, hanno influenzato la società al pari degli uomini (pensiamo a Cleopatra, Boadicea o Eleonora di Aquitania), ma si tratta di eccezioni. In genere la donna non sposata rappresentava per la famiglia un fardello poco gradito: è stata ripetutamente caratterizzata come la "vecchia zitella", una figura acida e velenosa che a volte corrispondeva effettivamente a questa descrizione, perché la sua posizione sociale era pari a zero e spesso poteva cavarsela solo grazie alla carità del prossimo o svolgendo mansioni poco ambite come quella di governante e dama di compagnia. In circostanze del genere è ovvio che le donne, uscite dall'adolescenza, si rendessero conto della necessità di attrarre l'attenzione di qualche giovanotto: uno che, possibilmente, avesse un po' di proprietà o altri mezzi di sussistenza e che fosse ragionevolmente bello e buono. Ma se questo non riusciva, bisognava ripiegare su un giovanotto qualsiasi e magari anche su un vecchio, perché qualunque marito era meglio che nessun marito. Intorno al matrimonio, quindi, sono fiorite numerose superstizioni per propiziarne la riuscita (anche oggi le ragazze giocano ad afferrare il bouquet da sposa) o, meglio ancora, per permettere alla giovane di individuare il futuro marito. Tutto questo, come mostra il racconto di Neville, può avere conseguenze psicologiche poco piacevoli; per fortuna viviamo in un'epoca e in una parte del mondo in cui le donne possono desiderare di sposarsi, ma non sono condannate a farlo. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Paul Green, "Supper for the Dead", in Salvation on a String and Other Tales of the South, Harper, New York 1946.
Blanche Bane Kuder, "From What Strange Land" in A Century of Horror Stories, a cura di Dennis Wheatley, Hutchinson, Londra 1935. Charles Robert Maturin, "Leixlip Castle", in The Grimoire and Other Supernatural Stories, a cura di Montague Summers, Fortune Press, Londra 1936. Manly Wade Wellman, "Dumb Supper", in Who Fears the Devil, Arkham House, Sauk City 1963. Malocchio IL CUORE RIVELATORE di Edgar Allan Poe Questo è vero, sono un uomo nervoso, spaventosamente nervoso, e lo sono sempre stato; ma perché pretendete che sono pazzo? La malattia mi ha reso i sensi più acuti - mica me li ha distrutti - logorati. E già avevo l'udito finissimo, e tutto ho sentito del cielo e della terra. Anche dell'inferno ho sentito parecchio. Com'è dunque che sarei pazzo? State attenti! E osservate con quanto senno, con quale calma sono capace di raccontarvi tutta la storia. Come in principio l'idea mi venne non è possibile dirlo; ma una volta che mi entrò in testa ne fui ossessionato notte e giorno. Un motivo, non c'era. La passione non c'entrava per nulla. Gli volevo bene, al caro vecchietto. E lui non mi aveva fatto alcun male. Mai mi aveva offeso. Né io volevo il suo oro. Fu per il suo occhio, credo. Sicuro, fu per quello! Aveva un occhio che pareva un occhio di avvoltoio, azzurro chiaro, con un velo sopra. Ogni volta che quell'occhio si posava su di me, mi si gelava il sangue; e così, lentamente, a grado a grado, mi misi in testa di togliergli la vita, al vecchio, e in tal modo sbarazzarmi per sempre dello sguardo di quell'occhio. Ecco il punto! Voi mi credete pazzo, E i pazzi non sanno quel che fanno. Se mi aveste visto, invece! Se aveste visto con quanta assennatezza operai; con quanta circospezione, dissimulazione, previdenza! Mai ero stato tanto gentile col vecchio come durante la settimana che precedette l'assassinio. E ogni sera, verso mezzanotte, giravo la maniglia della porta che metteva nella sua camera e aprivo: oh, piano, piano! Quando avevo aperto abbastanza per cacciar dentro la testa, facevo passare una lanterna cieca, perfettamente chiusa, eh, perfettamente chiusa, che
non lasciasse filtrare un solo raggio, e poi affacciavo la testa. Oh, avreste riso a vedere con quale destrezza l'affacciavo! La muovevo lentamente, con infinita lentezza, per non turbare il sonno del vecchio. Certo ci mettevo un'ora a introdurla tutta, e a spingerla quanto occorreva per vederlo disteso nel suo letto. Un pazzo sarebbe stato così prudente? E quando avevo cacciato tutta la testa nella camera, cominciavo con cautela - infinita, infinita cautela - a schiudere la lanterna, che strideva un poco sui cardini. L'aprivo appena il necessario per lasciar cadere un impercettibile filo di luce sull'occhio d'avvoltoio. Sette volte, per sette lunghe notti, feci questo - a mezzanotte precisa, ogni volta - e sempre trovai chiuso quell'occhio, così che mi fu impossibile compiere l'opera che mi ero proposto; perché non era lui, il vecchio, che mi irritava, ma il suo occhio malefico. Quando poi faceva giorno, ogni mattina, entravo baldanzosamente nella sua camera, e gli parlavo senza scrupolo alcuno, chiamandolo per nome nel modo più cordiale, e chiedendogli come avesse passato la notte. Vedete, avrebbe dovuto essere un vecchio molto fine d'acume, per sospettare che ogni sera, a mezzanotte precisa, io l'osservavo durante il suo sonno. L'ottava notte fu con maggior precauzione del solito che aprii la porta. La freccia piccola di un orologio impiega a muoversi meno di quanto ci impiegò la mia mano. Io non sapevo ancora di poter arrivare a tanto nella sagacia. E potevo appena contenere le sensazioni di trionfo che provavo. Pensate, ero lì che aprivo la porta millimetro per millimetro, e lui non aveva il minimo sospetto delle mie azioni, dei miei pensieri segreti! A quest'idea mi lasciai sfuggire una risatina; ed egli forse mi udì; poiché all'improvviso si mosse nel suo letto, come se stesse per risvegliarsi. Voi magari crederete che mi ritirai, e invece no. Nella camera c'era nero di pece, tanto il buio era fitto, perché, per timore dei ladri, le imposte venivano chiuse con molta cura, e io che sapevo com'egli non avrebbe potuto scorgere il varco della porta continuai a spingere questa, sempre più e più. Avevo poi affacciata la testa e stavo già per schiudere la lanterna, quando il pollice mi scivolò sul metallo della serratura, e il vecchio si rizzò in mezzo al letto, urlando: «Chi è?». Rimasi fermo in immobilità assoluta, e non dissi nulla. Per tutta un'ora non mossi un muscolo, e in tanto tempo non sentii il vecchio ricoricarsi. Egli era sempre seduto in mezzo al letto, teso in ascolto, come avevo fatto io per notti e notti a sentire i tarli nella parete. Ma d'un tratto mi giunse un gemito sommesso, e io riconobbi ch'era un gemito di terrore mortale. Non di dolore o di pena, era il suono sordo e
soffocato che s'alza dal fondo di un'anima piegata dallo spavento. Conoscevo quel suono. Per notti e notti, alla mezzanotte in punto, mentre il mondo dormiva, era sgorgato dal mio petto a scuotere con la sua eco terribile i terrori che mi ossessionavano. Dico che lo conoscevo bene. Sapevo quel che provava il povero vecchio, e, per quanto la voglia di ridere mi riempisse il cuore, ebbi pietà di lui. Sapevo ch'egli era rimasto sveglio, da quando aveva avvertito il primo leggero rumore, e s'era rigirato nel letto. I suoi timori erano andati crescendo. Aveva certo cercato di persuadersi ch'erano privi di fondamento; ma non aveva saputo. Si era certo detto tra sé: non è nulla, sarà stato il vento nel caminetto, sarà stato un topo, sarà stato un grillo. Sicuro, si era sforzato di farsi coraggio con queste ipotesi, ma invano. Tutto era stato vano, perché la morte che si avvicinava gli era passata davanti con la sua grande ombra nera, nella quale lo aveva avviluppato. Ed era per il funebre influsso di quell'ombra invisibile ch'egli sentiva, benché nulla vedesse né udisse, la presenza della mia testa nella sua camera. Quando ebbi aspettato a lungo, con pazienza infinita, che si ricoricasse, mi decisi infine a socchiudere un po' la lanterna, ma tanto poco ch'era nulla quasi. Lo feci furtivamente come non potreste immaginare, e un solo pallido raggio, un filo di ragnatela, scaturì dalla fessura per cadere diritto sull'occhio d'avvoltoio. Era aperto, quello, spalancato, così che il furore mi prese non appena l'ebbi guardato. Lo vidi perfettamente, azzurro opaco e ricoperto dell'orribile velo che mi agghiacciava il midollo nelle ossa; e nient'altro all'infuori di esso vedevo della faccia del vecchio; dappoiché, come per istinto, avevo diretto il raggio proprio sul punto maledetto. Non vi ho già detto che la pazzia di cui mi ritenete affetto è soltanto un'estrema acutezza dei sensi? Ebbene, ecco che un sordo e intermittente rumore soffocato mi giunse in quella all'orecchio, come il ticchettio di un orologio inviluppato nei cotone. E io riconobbi quel rumore. Era il cuore del vecchio che batteva. E, come il rullo del tamburo eccita il coraggio dei soldati, quel suono esasperò il mio furore. Tuttavia seppi ancora contenermi, e non mi mossi. Quasi non osavo respirare. E tenevo ferma la lanterna, col raggio diretto sull'occhio. La marcia infernale del cuore batteva frattanto sempre più forte; si faceva precipitosa, e a ogni istante più alta, più alta. Il terrore del vecchio doveva essere estremo! Il battito del suo cuore diventava sempre più forte, di minuto in minuto! Mi seguite con attenzione? Vi ho detto ch'ero un uomo nervoso; e
lo sono in effetti. Ebbene, quello strano rumore, in mezzo al cuor della notte, nel pauroso silenzio di quella vecchia casa, mi riempi di un irresistibile terrore. Ancora per qualche minuto mi contenni, senza muovermi dal mio posto. Ma il battito si faceva più forte, più forte. Pareva che il cuore dovesse scoppiare. E così una nuova angoscia mi prese. Se il rumore fosse sentito da qualche vicino? L'ora del vecchio era suonata! Con un urlo spalancai la lanterna, e mi slanciai nella camera. Il vecchio non diede un grido, non un grido solo. In un attimo lo tirai giù sul pavimento, e gli rovesciai addosso il peso stritolante del letto. Allora, vedendo che avevo compiuto il più della mia opera, sorrisi contento. Tuttavia il cuore continuò per qualche minuto a battere, d'un battito velato. Ma io non me ne preoccupai; non si poteva mica sentirlo attraverso il muro. Poi cessò. Era morto, il mio vecchio. Risollevai il letto ed esaminai il cadavere. Era rigido, sicuro, era morto stecchito. Portai la mano al posto del cuore e ve la tenni per alcuni minuti. Nessuna pulsazione. Era proprio morto, il mio uomo. Il suo occhio, ormai, non mi avrebbe tormentato più. Se persistete a credermi pazzo, la finirete una buona volta quando vi avrò riferito le accorte precauzioni ch'io presi per nascondere il cadavere. La notte avanzava, e io mi davo vivamente da fare, in perfetto silenzio, E tagliai dal corpo la testa, le braccia, le gambe. Poi tolsi tre assi dall'impiantito della camera, e nascosi tutto di sotto. Poi rimisi al loro posto le tavole con tanta perizia e destrezza che nessun occhio umano, neanche il suo, avrebbe potuto accorgersi di nulla. E non c'era niente da lavare, non una macchia di sudicio, non una traccia di sangue. Ero stato ben accorto. Avevo lasciato scolare ogni cosa in un mastello: ah, ah! Erano le quattro quando mi fui sbrigato, e ancora faceva buio come a mezzanotte. Intanto che le ore suonavano sentii bussare alla porta di strada. Scesi per aprire, perfettamente tranquillo. Che avevo da temere, ormai? Entrarono tre uomini che si dissero, con aria soave, ufficiali di polizia. Un vicino aveva sentito gridare, cosicché, sorto il sospetto d'un qualche delitto, una denuncia era stata trasmessa all'ufficio di polizia, e i tre signori erano stati mandati per visitare il quartiere. Sorrisi: che avevo da temere? Così diedi il benvenuto ai tre signori. Il grido, dissi, me l'ero lasciato sfuggire io, sognando. Soggiunsi che il vecchio mio amico si trovava in viaggio. Condussi i visitatori per tutta la casa. Li invitai a cercare, che cercassero bene. Infine li portai nella sua camera. Mostrai loro i suoi tesori, perfettamente in ordine, in salvo. Nell'entusia-
smo della mia sicurezza presi delle seggiole e li pregai di riposarsi. Io, con la folle audacia del trionfo assoluto, andai a mettermi proprio sul punto dove si trovava nascosto il corpo della vittima. I poliziotti erano soddisfatti. I miei modi li avevano convinti. Quanto a me, mi sentivo stranamente a mio agio. Sedettero, i tre, e parlarono di cose banali. A tutto io rispondevo con buonumore. Ma a un certo punto, mi sentii impallidire, ed ebbi voglia che se ne andassero. Mi doleva il capo, e mi pareva d'avvertire un battito alle orecchie. Ma quelli se ne restavano seduti e continuavano a chiacchierare. Il battito, una specie di tintinnio, si fece più distinto; e mi diedi a parlare più che potei per non sentirlo; ma esso tenne duro, e prese un carattere ben definito, tanto che infine compresi che non lo avevo dentro alle orecchie. Allora mi feci certo pallidissimo, ma mi ostinavo a chiacchierare, a voce alta, e con sempre maggiore accanimento. Il rumore aumentava sempre, che potevo fare? Era un sordo e intermittente rumore soffocato, come d'un orologio inviluppato nel cotone. Respiravo a fatica; quanto agli agenti, essi non lo sentivano ancora. Parlai più in fretta, con maggiore veemenza; ma il rumore cresceva senza tregua. Mi alzai a discutere di sciocchezze da nulla, ad altissima voce e gesticolando con violenza, ma il rumore cresceva, saliva sempre. E perché non se ne andavano, quei tre? A grandi passi pesanti misurai su e giù il pavimento come esasperato dalle osservazioni dei miei contraddittori, ma il rumore cresceva regolare, costante. Signore Iddio, che potevo fare? Mi agitavo, smaniavo, bestemmiavo! Smuovevo la seggiola sulla quale stavo seduto, la facevo stridere sull'impiantito; ma il rumore sovrastava ormai tutto, e cresceva, cresceva ancora, senza fine. Diventava più forte, più forte, e gli uomini chiacchieravano sempre, scherzosi, sorridenti. Era possibile che non sentissero? Dio onnipossente; no, no, essi sentivano, sospettavano, essi sapevano e si divertivano al mio terrore, così mi parve e lo credo tuttora. Ma tutto era da preferire a quella derisione. Io non ero più capace di sostenere quei loro sorrisi ipocriti. Sentii che mi occorreva gridare, o sarei morto. E intanto, ecco, lo sentite? Ascoltate, si fa più forte! Più forte, più forte, sempre di più! «Miserabili!» gridai. «Smettetela di fingere! Confesso tutto! Togliete lì, quelle assi! È lì sotto! È il suo terribile cuore che batte!» Titolo originale: The Tell-Tale Heart Postilla
"Se un'occhiata potesse uccidere" è l'espressione che usiamo familiarmente quando qualcuno guarda un altro con odio. Perché no? È facile immaginare che chi ha imparato a servirsi del potere di uno spirito malefico possa fare incantesimi o attirare il male sui nemici con un semplice gesto. Ma perché complicare le cose? Perché affidarsi a parole e movimenti superflui? Meglio concentrarsi sul desiderio di nuocere, punto e basta. È molto più pratico: non solo ci permette di risparmiare tempo e fatica, ma non ci tradisce. Se qualcuno ci sorprendesse a borbottare qualcosa o a fare gesti strani, infatti, potrebbe sopprimerci prima che noi riuscissimo a sopprimere lui. Ma limitandoci ad augurargli il male lo coglieremmo di sorpresa. Tuttavia è difficile pensare a qualcosa di malvagio senza avere una certa espressione o senza, almeno, aggrottare le sopracciglia. Purtroppo, avere lo sguardo carico d'odio e di rabbia tradisce pensieri sinistri nei confronti della persona cui l'occhiata è diretta. "Per questo la gente si guarda da chi manifesta un'espressione ostile o alterata, specie se la persona in questione è poco piacevole anche nei momenti di "riposo" (e ha, magari, una faccia brutta o deforme). In tal caso qualunque occhiata risulta sgradevole: un individuo di questo tipo potrà vedersi affibbiata l'etichetta di "iettatore". Ricordo che quando ero giovane i miei amici e io facevamo le corna con le dita e al tempo stesso dicevamo la parola: "Corna". Come in seguito ho appreso, si tratta di uno scongiuro basato su una rappresentazione del diavolo e serve a scacciare il male con un male diverso. In questo modo eravamo sicuri di vincere a qualunque gioco. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Leonid Andreev, "Lazzaro", in L'abisso e altri racconti, BUR Rizzoli, Milano 1955 e 1989. William Hemmingway, "O'Tunnaigh and the Evil", in «Munsey's Magazine», n. 94, giugno 1928. Luigi Pirandello, "La patente", in L'innesto, La patente, L'uomo, la bestia e la virtù, Oscar Mondadori, Milano 1992. Richard Sale, "The Medusa of 49th Street", in «Detective Fiction Weekly», n. 135, 30 marzo 1940.
George Ethelbert Walsh, "The Glass Eye", in «Black Cat» del 15 giugno 1910. Edith Wharton, "Gli occhi" ("The Eyes"), in Storie di fantasmi, Sonzogno, Milano 1974. Esorcismo LA CASA E IL CERVELLO di Edward Bulwer-Lytton Un amico, filosofo e letterato, un giorno mi disse, fra il serio e il faceto: «Pensa un po'! Da quando ci siamo visti l'ultima volta ho scoperto una casa infestata nel cuore di Londra». «Veramente infestata? E da che? Dagli spiriti?» «Be', non posso darti la risposta esatta. Questo è tutto ciò che so: sei mesi fa, io e mia moglie cercavamo un appartamento ammobiliato. Passando per una strada tranquilla, abbiamo scorto un avviso a una finestra: "Appartamento ammobiliato". La posizione ci conveniva; siamo entrati in casa, le stanze ci sono piaciute, le abbiamo affittate per una settimana e lasciate dopo tre giorni. Nessun potere al mondo sarebbe riuscito a convincere mia moglie a restarvi più a lungo, e non me ne meraviglio.» «Che cosa avete visto?» «Scusa, non desidero passare per un superstizioso, uno che si sogna le cose, né d'altronde posso chiederti di accettare le mie affermazioni su cose che giudicheresti incredibili, senza che tu stesso ne abbia fatto esperienza. Lasciami solo dire che non si trattava tanto di ciò che abbiamo visto o udito, perché potresti pensare che ci siamo fatti fuorviare da una immaginazione sovraeccitata, o essere stati vittime di qualche inganno a opera di altri. Ciò che ci ha fatto allontanare era un terrore indefinibile che ci prendeva entrambi tutte le volte che varcavamo la soglia di una stanza non ammobiliata, in cui pure non vedevamo né sentivamo nulla. E la cosa più stupefacente è che per una volta mi trovai d'accordo con mia moglie - sciocca com'è - e riconobbi, dopo la terza notte, che era impossibile rimanere una quarta notte in quella casa. Dunque, la quarta mattina chiamai la donna che aveva in custodia la casa e che ci faceva da domestica e le dissi che l'appartamento non ci conveniva del tutto e che non ci saremmo fermati per l'intera settimana. "So perché," rispose lei con fredda ironia "siete rimasti più a lungo di tutti gli altri inquilini. Pochi sono rimasti per due notti; nes-
suno, prima di voi, è rimasto tre notti. Ne deduco che siano stati gentili con voi." «"Siano... chi?" chiesi studiandomi di sorridere. «"Quelli che abitano la casa, di chiunque si tratti. Io non mi curo di loro; li ricordo molti anni fa, quando vivevo in questa casa non come domestica; ma so che un giorno o l'altro mi faranno morire. Non importa: sono vecchia, e dovrò comunque morire presto; e allora starò con loro, e sempre in questa casa." La donna si esprimeva con una calma così terribile, che una sorta di timore reverenziale mi impedì di parlare ancora con lei. Pagai la settimana, e mia moglie e io fummo sin troppo felici di essercela cavata così a buon mercato.» «Hai risvegliato la mia curiosità» osservai. «Dormire in una casa visitata dai fantasmi mi piacerebbe più di qualsiasi cosa al mondo. Dammi, se non ti dispiace, l'indirizzo di quella che hai lasciato così ignominiosamente.» Il mio amico mi diede l'indirizzo; e, dopo che ci fummo congedati, io mi diressi subito alla casa che mi era stata indicata. Si trova sul lato nord di Oxford Street (in una zona poco animata ma rispettabile). La casa era chiusa, non c'erano cartelli alla finestra e nessuno rispose quando bussai. Mi stavo allontanando, quando un ragazzo che portava la birra e che stava raccogliendo i boccali di peltro nelle zone vicine mi disse: «Non cercate mica qualcuno in quella casa, signore?». «Sì, ho sentito che era da affittare.» «Affittare! La donna che la custodiva è morta, da tre settimane, e non si trova nessuno che voglia stare qui, per quanto il signor J. abbia offerto molto per questo. Lo ha proposto a mamma, che farebbe qualunque cosa per lui. Una sterlina alla settimana solo per aprire e chiudere le finestre, e lei non ha voluto.» «No! E perché?» «La casa è infestata; la vecchia custode è stata trovata morta sul suo letto, con gli occhi sbarrati. Dicono che l'abbia strangolata il diavolo.» «Sciocchezze! Hai parlato di un certo signor J. È il proprietario della casa?» «Sì.» «E dove sta?» «In G. Street, al numero...» «Svolge una qualche attività?» «No, signore, nulla di particolare. È un gentiluomo scapolo.» Diedi al garzone una mancia per le sue informazioni e mi recai dal si-
gnor J., in G. Street, prossima alla strada che vantava la casa infestata. Fui abbastanza fortunato da trovare in casa il signor J., un uomo anziano dall'espressione intelligente e dal contegno cordiale. Mi presentai e gli esposi con franchezza la mia intenzione. Dissi che avevo sentito di una casa che si riteneva infestata, che avevo un forte desiderio di esaminare una casa con una reputazione così equivoca e che gli sarei stato assai grato se mi avesse consentito di prenderla in affitto, sia pure per una notte soltanto. Ero disposto a pagare per questo privilegio qualunque somma egli ritenesse di chiedere. «Signore» mi disse il signor J. con grande cortesia «la casa è a vostra disposizione, per il periodo che vorrete. Non si parla di affitto. Sarò io a esservi obbligato se riuscirete a scoprire la causa degli strani fenomeni che al presente la privano di ogni valore. Non posso darla in affitto se non posso nemmeno mettervi una persona di servizio per tenerla in ordine e rispondere alla porta. Disgraziatamente la casa è infestata, se posso usare l'espressione, non solo di notte, ma anche di giorno, per quanto nottetempo i fastidi siano ancora più spiacevoli, e talvolta assumano un aspetto allarmante. La povera vecchia che vi è morta tre settimane fa era una disgraziata che ho tolto da una fabbrica, poiché nella sua giovinezza è stata in rapporto con la mia famiglia e in condizioni economiche così buone da poter prendere in affitto quella casa da un mio zio. Era una donna di elevata cultura e di carattere forte, l'unica persona che sia mai riuscito a convincere a restare in quella casa. In effetti, dopo la sua morte improvvisa e l'inchiesta del coroner che diede notorietà a questo fatto nel vicinato, avevo disperato a tal punto di trovare qualcuno che si prendesse cura della casa e, a maggior ragione, di trovare un inquilino, che sono disposto ad affittarla gratuitamente per un anno a chiunque paghi le imposte su di essa.» «Da quanto tempo la casa ha acquistato questa fama sinistra?» «Non ve lo saprei dire, comunque ormai da molti anni. La vecchia di cui ho parlato diceva che era già infestata quando lei l'aveva presa in affitto, da trenta a quaranta anni fa. Il fatto è che io ho trascorso la mia vita nelle Indie Orientali, al servizio della Compagnia. Sono tornato in Inghilterra l'anno scorso, avendo ereditato il patrimonio di mio zio, in cui era compresa la casa in questione. L'ho trovata chiusa e disabitata. Mi venne detto che era infestata e che nessuno voleva abitarvi. Sorrisi a quella che mi pareva essere una storia tanto sciocca. Ho speso parecchio denaro per restaurarla, ho aggiunto all'arredamento fuori moda qualche mobile moderno, ho messo un annuncio, e ho trovato un inquilino per un anno. Si trattava di un colon-
nello a riposo, a mezza paga. Venne con la sua famiglia, un figliolo e una figliola, e quattro o cinque persone di servizio. Lasciarono tutti la casa il giorno dopo esservi entrati e, benché ciascuno dicesse di aver visto qualcosa di diverso rispetto a ciò che aveva terrorizzato gli altri, tuttavia per tutti si trattava di qualcosa ugualmente terribile. Non potei in coscienza citare il colonnello per rottura di contratto, e nemmeno biasimarlo. Allora vi sistemai la vecchia di cui vi ho parlato e la incaricai di affittare i singoli appartamenti. Non ho mai avuto un inquilino che vi sia rimasto per più di tre giorni. Non vi riferisco i loro racconti, poiché non si sono trovati due inquilini che abbiano notato gli stessi fenomeni. È meglio che giudichiate voi stesso, piuttosto che entrare già influenzato da precedenti racconti; siate soltanto pronto a vedere o sentire qualcosa e a prendere qualsiasi precauzione riteniate conveniente.» «Non vi è venuta la curiosità di trascorrere voi stesso una notte in quella casa?» «Sì, vi ho passato non una notte, ma tre ore, da solo, in pieno giorno. La mia curiosità non è soddisfatta ma spenta. Non desidero ripetere l'esperimento. Come vedete, signore, non potete dire che io non sia stato sufficientemente schietto. A meno che il vostro interesse non sia straordinariamente vivo e i vostri nervi particolarmente forti, aggiungo in tutta onestà che vi consiglio di non trascorrere una notte in quella casa.» «Il mio interesse è particolarmente vivo» dissi «e per quanto solo un incosciente possa vantarsi del proprio coraggio in situazioni per lui del tutto insolite, ciò nonostante i miei nervi sono stati messi alla prova in una tale varietà di pericoli che ho motivo di confidare su di essi, anche in una casa infestata.» Il signor J. non disse molto di più; prese le chiavi della casa dalla sua scrivania, me le diede, e, dopo averlo ringraziato per la sua franchezza e la cortese accondiscendenza alla mia richiesta, me ne andai con la mia preda. Impaziente di fare l'esperimento, appena rientrato in casa chiamai il servitore che godeva della mia fiducia, un giovanotto di umore allegro, senza paura e assolutamente alieno da ogni superstizione e pregiudizio. «F.» gli dissi «ti ricordi la delusione che provammo in Germania a non trovare un fantasma in quel vecchio castello, che si diceva fosse infestato dall'apparizione di un fantasma senza testa? Bene, ho sentito di una casa a Londra che, ho ragione di sperare, è sicuramente infestata. Mi propongo di dormirci questa notte. Da quanto ho sentito, non vi è dubbio che qualcosa si mostrerà o si farà sentire, qualcosa, forse, di particolarmente orribile.
Pensi che, se ti porto con me, io possa contare sulla tua presenza di spirito, qualunque cosa accada?» «Oh, signore, vi prego, contate su di me» replicò F., ridacchiando compiaciuto. «Molto bene. Ecco le chiavi della casa e questo è l'indirizzo. Vai, ora. Scegli per me la stanza da letto che vorrai; poiché la casa non è abitata da settimane, accendi un buon fuoco, arieggia bene il letto e controlla che vi siano candele e legna. Prendi il mio revolver e il mio pugnale, che serviranno a me, e armati anche tu. Se non saremo pronti ad affrontare una dozzina di fantasmi, saremo una ben misera coppia di inglesi.» Per il resto della giornata fui impegnato in affari così urgenti da non aver modo di pensare molto all'avventura notturna sulla quale avevo impegnato il mio onore. Cenai solo, molto tardi, leggendo durante il pasto com'era mia abitudine. Scelsi un volume dei saggi di Macaulay. Mi ripromisi di portare con me il volume; lo stile era così sano e i contenuti così concreti che mi sarebbe servito da antidoto contro l'influenza di fantasie superstiziose. Di conseguenza, intorno alle nove e mezza, infilai il libro in tasca e mi avviai tranquillamente a piedi verso la casa. Presi con me il mio cane preferito, un bull-terrier particolarmente lesto, forte e sveglio, un animale cui piaceva aggirarsi di notte attorno a strani angoli o ambulacri spettrali in cerca di ratti. Il cane ideale avendo a che fare con un fantasma. Era una notte d'estate, ma fresca, con il cielo piuttosto scuro e coperto. Vi era comunque la luna, alquanto debole e malaticcia, ma pur sempre la luna che, se le nuvole lo avessero permesso, sarebbe stata più brillante dopo la mezzanotte. Raggiunsi la casa, bussai, e il mio servitore aprì, con un allegro sorriso. «Tutto a posto, signore, e tutto molto confortevole.» «Oh» dissi, piuttosto deluso «non hai visto o sentito qualcosa di notevole?» «Be', signore, devo riconoscere che ho sentito qualcosa di strano.» «Cosa, cosa?» «Un suono di passi dietro di me; e una o due volte rumori leggeri, come sussurri, in prossimità del mio orecchio; nulla di più.» «Non ti sei spaventato?» «Io! Nemmeno un po', signore.» L'aspetto fiero dell'uomo mi rassicurò su un punto: qualunque cosa potesse accadere, non mi avrebbe abbandonato.
Ci trovavamo nell'atrio, con la porta d'ingresso chiusa, e la mia attenzione venne attirata dal cane. All'inizio egli era corso dentro casa entusiasta anzi che no, ma poi si era ritirato presso la porta, che grattava lamentandosi per uscire. Dopo averlo rassicurato dolcemente, con qualche pacca sul capo, il cane sembrò accettare la situazione e ci seguì attraverso la casa, ma tenendosi dietro a me anziché correre avanti come era sua abitudine in tutti i posti per lui nuovi. Per prima cosa visitammo i locali sotterranei, la cucina, gli altri servizi e, specialmente, le cantine, dove trovammo due o tre bottiglie di vino ancora riposte su uno scaffale, coperte da ragnatele e, con tutta evidenza, rimaste indisturbate da molti anni. Era chiaro che gli spiriti non erano amanti del vino. Non trovammo null'altro di interessante. Vi era un piccolo cortile interno, lugubre e con le pareti molto alte. Le pietre del cortile erano bagnate per l'umidità e, in parte a causa di questa, in parte per la polvere e la fuliggine, i nostri passi vi lasciarono leggere impronte. A questo punto si manifestò il primo strano fenomeno di cui fui testimone in quella strana dimora. Scorsi, proprio davanti a me, l'impronta di un piede che si era formata all'improvviso. Mi arrestai e, afferrato per un braccio il mio servitore, gliela mostrai. Davanti a quell'orma altrettanto improvvisamente se ne formò un'altra. La vedemmo entrambi. Mi diressi rapidamente verso di loro; le orme continuavano ad avanzare davanti a me; si trattava di piccole orme, le orme di un bambino, Erano troppo deboli per riconoscersene la forma, ma sembrò a entrambi che fossero impronte di piedi nudi. Il fenomeno cessò quando giungemmo alla parete e non si ripeté al nostro ritorno. Risalimmo le scale ed entrammo nelle stanze del piano terra: una sala da pranzo, un salottino e una terza stanza più piccola, probabilmente destinata a un servitore, tutte immerse in un silenzio di tomba. Visitammo quindi le stanze di soggiorno, che avevano un aspetto fresco e nuovo. Mi sedetti su una poltrona della stanza principale. F. sistemò un candeliere sul tavolo per farci luce. Gli dissi di chiudere la porta. Mentre si girava per farlo, una poltrona di fronte a me si mosse rapida e silenziosa e cadde a quasi un metro di distanza davanti alla mia. «Be', questo è meglio dei tavoli che ballano» dissi, con una risatina. E mentre ridevo, il cane levò il capo e ululò. F., tornando, non aveva osservato lo spostamento della poltrona. Cercò di calmare il cane. Io continuavo a guardare la poltrona ed ebbi l'impressione di scorgere il vago e pallido profilo azzurrino di una figura umana, ma così vago da dubitare della mia vista. Il cane si era ormai quietato.
«Sistema questa poltrona davanti a me accanto alla parete» dissi a F. Egli obbedì. «Siete stato voi, signore?» disse girandosi all'improvviso. «Io!... cosa?» «Be', qualcosa mi ha colpito. Ho avvertito un forte colpo sulla spalla, proprio qui.» «No» dissi «ma abbiamo qui degli imbroglioni e, benché non riusciamo a scoprirne i trucchi, dobbiamo prenderli prima che ci spaventino.» Non restammo a lungo nelle stanze di soggiorno. In realtà erano così umide e fredde che ben volentieri mi diressi verso il fuoco che era stato acceso al piano di sopra. Chiudemmo le porte di quelle stanze, una precauzione che avevamo preso con tutte le stanze visitate in precedenza. La camera da letto che il mio servitore aveva scelto per me era la migliore della casa, ampia e con due finestre che davano sulla strada. Il vasto letto era posto di fronte al fuoco, che ardeva chiaro e brillante; sulla parete sinistra, fra il letto e la finestra, si apriva una porta che comunicava con la camera che il mio servitore aveva scelto per sé. Era una stanzetta con un divano letto e non aveva nessun mezzo di comunicazione con il piano terreno, né altre porte se non quella che dava sulla stanza da me occupata. Sul lato opposto al caminetto vi era un armadio senza serrature, rasente il muro e ricoperto dalla stessa carta da parati marrone scuro. Ne esaminammo l'interno; solo appendiabiti per vestiti da donna, nient'altro. Controllammo anche le pareti; suonavano piene, evidentemente erano i muri esterni della casa. Terminato l'esame di questi locali, dopo essermi scaldato al fuoco, mi accesi un sigaro e, sempre accompagnato da F., proseguii per completare l'ispezione. Sul pianerottolo vi era ancora una porta, solidamente chiusa. «Signore» disse il mio servitore, sorpreso, «ho aperto questa porta come tutte le altre quando sono venuto. Non può esser stata chiusa dall'interno, perché...» Prima che avesse terminato la frase, la porta, non toccata da nessuno di noi, si aprì lentamente da sola. Ci scambiammo un'occhiata, entrambi con lo stesso pensiero: forse avremmo potuto scoprire una presenza umana. Entrai per primo, seguito dal servitore. Era una piccola stanza, spoglia e tetra, senza mobilio, poche scatole vuote e alcuni cesti in un angolo, una finestrella dalle imposte chiuse, niente caminetto o altre porte oltre a quella da cui eravamo entrati; nessun tappeto sul pavimento che appariva assai vecchio, irregolare, tarlato, rappezzato qua e là come risultava da zone di legno più chiaro. Non vi era anima viva né un posto dove una persona avrebbe potuto nascondersi. Mentre ci guardavamo attorno immobili, la
porta da cui eravamo entrati si chiuse altrettanto silenziosamente quanto prima si era aperta: eravamo imprigionati. Per la prima volta provai un brivido di spavento indefinibile. Ma non il mio servitore. «Bene, non penseranno di averci intrappolato, signore. Posso sfondare questa miserabile porta con un calcio.» «Prova prima ad aprirla a mano» gli dissi, scuotendo via il vago timore che mi aveva preso. «Intanto io apro le imposte e guardo cosa c'è fuori.» Aprii le imposte; la finestra dava sul piccolo cortile che ho descritto in precedenza; non vi era un davanzale, nulla che interrompesse la parete. Nessuno, uscendo dalla finestra, avrebbe potuto trovare un appoggio per evitare di cadere sulle pietre sottostanti. F. intanto cercava invano di aprire la porta. Si volse infine verso di me, chiedendomi il permesso di usare la forza. Devo qui riconoscere, per rendere giustizia al mio servitore, che lungi dal mostrare timore superstizioso, il suo animo, il suo contegno e il suo buonumore in circostanze così straordinarie mi costrinsero all'ammirazione e mi indussero a congratularmi con me stesso per essermi procurato un compagno così adatto all'occasione. Gli diedi ben volentieri il permesso che chiedeva. Ma, benché egli fosse un uomo di notevole robustezza, l'esercizio della forza fu altrettanto inutile dei suoi tentativi meno violenti. La porta non si mosse nemmeno al suo calcio più forte. Infine, ansimante e senza fiato, desistette. Tentai allora io, sempre invano. Mentre abbandonavo i miei tentativi, di nuovo il brivido di terrore mi prese, questa volta più gelido e persistente. Avvertivo la sensazione di una strana e spaventosa esalazione proveniente dalle fessure di quel pavimento sconnesso, che riempiva l'atmosfera con un influsso velenoso, ostile alla vita umana. La porta allora si aperse lentamente e dolcemente, come di sua volontà. Ci precipitammo all'esterno sul pianerottolo e scorgemmo entrambi una pallida luminosità, larga come una figura umana, ma sprovvista di forma e sostanza, che si muoveva davanti a noi, salendo le scale che conducevano dal pianerottolo verso l'attico. Seguii la luce e il servitore a sua volta mi seguì. La luce entrò in una piccola soffitta, a destra del pianerottolo, la cui porta rimase aperta. Vi entrai nel medesimo istante. La luce allora si ridusse a un piccolo globulo, straordinariamente vivido e brillante; si arrestò un attimo su un letto, nell'angolo, oscillò e scomparve. Ci avvicinammo al letto e lo esaminammo: era un letto con una sola testiera, come si usa in genere nelle soffitte abitate dalla servitù. Sulla cassettiera accanto scorgemmo un fazzoletto di seta, vecchio e consunto, con l'ago ancora infilato in uno strappo rammendato a metà. Il fazzoletto pro-
babilmente apparteneva alla vecchia morta ultimamente nella casa e quella doveva essere stata la sua camera da letto. Mosso da curiosità, aprii i cassetti; vi erano pochi capi di abbigliamento femminile e due lettere legate assieme da un nastro giallo stinto. Mi presi la libertà di impadronirmi delle lettere. Non trovammo altro nella stanza degno di attenzione e la luce non riapparve, ma udimmo distintamente, come ci voltammo per uscire, un calpestio sul pavimento, proprio davanti noi. Visitammo le restanti soffitte, quattro in tutto, sempre preceduti dal rumore di passi. Nulla da notare, nulla da udire salvo il calpestio. Tenevo in mano le lettere e mentre scendevo le scale mi sentii afferrare per il polso e avvertii un debole tentativo di sottrarre le lettere alla mia presa. Le tenni più strette e il tentativo cessò. Rientrammo nella mia camera da letto e notai allora che il cane non ci aveva seguito quando l'avevamo lasciata. Stava tremante accanto al fuoco. Ero ansioso di leggere e, mentre lo facevo, il mio servitore aprì la scatola in cui erano contenute le armi che gli avevo ordinato di portare. Le estrasse e le pose su un tavolo accanto al letto; quindi si adoperò a calmare il cane che, peraltro, sembrava badargli assai poco. Le lettere erano brevi e portavano una data di esattamente trentacinque anni prima. Erano evidentemente dirette da un innamorato alla sua bella, o da un marito a una giovane moglie. Non solo le parole impiegate ma anche un preciso riferimento a un precedente viaggio indicavano che l'autore con ogni probabilità era marinaio. L'ortografia e la grafia erano quelle di un uomo poco colto, ma il linguaggio era vigoroso. Nelle espressioni di tenerezza trapelava un amore rude e selvaggio ma qua e là vi erano oscure e incomprensibili allusioni a un segreto non d'amore, a un segreto che sembrava essere criminale. "Dobbiamo amarci l'un l'altro" diceva una frase che ricordo "poiché ogni altra persona ci esecrerebbe se si sapesse tutto." Ancora: "Non permettere a nessuno di stare nella tua stessa stanza di notte, perché tu parli nel sonno". E ancora: "Ciò che è stato fatto non può essere disfatto; ma ti dico che non vi è nulla contro di noi, a meno che i morti non tornino in vita". A questo punto vi era un'annotazione sottolineata, con una migliore grafia di donna: "Lo fanno!". Al termine della lettera con la data più recente, la stessa mano femminile aveva scritto queste parole: "Scomparso in mare il 4 di giugno, lo stesso giorno in cui...". Deposi le lettere e iniziai a congetturare intorno al loro contenuto. Temendo peraltro che il tipo di pensieri in cui ero caduto potesse indebolire i miei nervi, mi risolsi a prepararmi mentalmente a far fronte a qualunque fatto straordinario che la notte avanzante potesse portare con sé. Mi alzai,
lasciai le lettere sul tavolo, ravvivai il fuoco, che era ancora allegro e brillante, e apersi il libro di Macaulay. Lessi tranquillamente fino alle undici e mezza. Quindi mi distesi vestito sul letto e dissi al mio servitore che poteva ritirarsi nella sua stanza, ma restando sveglio. Lo pregai di lasciare aperta la porta fra le due stanze. Rimasto solo, tenni due candele accese sul tavolo accanto al letto. Posi l'orologio fra le armi e ripresi tranquillamente la lettura del mio Macaulay. Di fronte a me il fuoco ardeva con vivido chiarore e il cane sembrava dormire steso sul tappeto innanzi al caminetto. Dopo una ventina di minuti, sentii un soffio d'aria particolarmente gelida sfiorarmi la guancia, come una corrente improvvisa. Pensai che la porta alla mia destra, comunicante con il pianerottolo, potesse essersi aperta; ma no, era chiusa. Mi volsi quindi a sinistra e vidi la fiamma delle candele agitarsi violentemente, come mossa dal vento. Nel medesimo momento l'orologio accanto al revolver scivolò lentamente, molto lentamente dal tavolo, senza che si vedesse alcuna mano, e sparì. Balzai dal letto afferrando il revolver con una mano, e il pugnale con l'altra; non desideravo che le mie armi condividessero la sorte dell'orologio. Così armato, guardai attorno sul pavimento: nessuna traccia dell'orologio. A questo punto si udirono tre colpi forti e distinti sulla testiera del letto. Il mio servitore chiamò: «Siete stato voi, signore?». «No. Stai in guardia.» Il cane si rizzò a sedere sulle anche, muovendo rapidamente avanti e indietro le orecchie. Teneva lo sguardo fisso su di me, con una espressione così strana da concentrare su di sé la mia attenzione. Si alzò lentamente, con il pelo ritto, e rimase perfettamente rigido, sempre con la stessa espressione selvaggia. Non ebbi tempo, tuttavia, di esaminare il cane. In quel momento il mio servitore uscì dalla sua stanza: se mai ho scorto l'orrore su un volto umano, fu quella volta. Mi passò accanto velocemente, dicendo in un sussurro che sembrava a malapena provenire dalle sue labbra: «Fuggite, fuggite! È alle mie calcagna!». Raggiunse la porta sul pianerottolo, l'aprì e si precipitò fuori. Lo seguii meccanicamente sul pianerottolo, gridandogli di fermarsi; ma lui, senza badarmi, scese a balzi le scale, afferrandosi alla balaustra e facendo più scalini alla volta. Sentii, da dove mi trovavo, la porta sulla strada che si apriva, e la sentii richiudersi. Ero rimasto solo nella casa infestata. Per un momento rimasi indeciso se seguire il mio servitore; l'orgoglio e la curiosità mi impedirono una fuga così vergognosa. Rientrai nella mia stanza, chiudendo la porta dietro di me, e procedetti cautamente nella stan-
zetta interna. Non trovai nulla che potesse giustificare il terrore del mio servo. Esaminai di nuovo con cura le pareti, per vedere se vi fosse qualche porta nascosta. Non riuscii a trovarne traccia, nemmeno una giunzione nella carta da parati marrone scuro che ricopriva le pareti. Allora, come la cosa, qualunque essa fosse, che aveva terrorizzato il mio servitore, poteva essere entrata, se non attraverso la mia stessa stanza? Ritornai nella stanza, chiusi a chiave la porta di comunicazione con la stanza interna e rimasi in attesa ben preparato. Notai allora che il cane si era rincantucciato in un angolo della parete e si schiacciava contro di essa, come cercando di aprirsi a forza una via. Mi avvicinai e gli parlai; la povera bestia era evidentemente fuori di sé dal terrore. Mostrava i denti, aveva la bava alla bocca, e mi avrebbe di certo morso se l'avessi toccata. Sembrava non riconoscermi. Chi abbia visto allo zoo un coniglio affascinato da un serpente acquattarsi in un angolo, può farsi un'idea dell'angoscia che il cane dimostrava. Vedendo vani tutti i tentativi di calmare l'animale, e temendo che nelle sue condizioni un morso potesse essere pericoloso come se fosse stato idrofobo, lo lasciai stare, posi le armi sulla tavola accanto al fuoco, mi sedetti e ricominciai a leggere. Forse, affinché non sembri che io voglia vantarmi di un coraggio, o piuttosto di una freddezza, che il lettore può ritenere esagerati, mi si perdonerà se indugio su una o due considerazioni personali. Poiché ritengo che la presenza di spirito o ciò che è chiamato coraggio sia proporzionato alla familiarità con le circostanze che lo producono, dovrei dire che da abbastanza tempo tutti gli esperimenti che appartengono al Meraviglioso mi erano familiari. Ero stato testimone di molti fenomeni straordinari in varie parti del mondo, fenomeni che non verrebbero assolutamente creduti se li raccontassi, oppure imputati ad agenti soprannaturali. Ora, la mia teoria è che il Soprannaturale è l'Impossibile, e ciò che è chiamato soprannaturale è soltanto il prodotto di leggi naturali da noi ancora ignorate. Perciò, se davanti a me appare un fantasma, non ho il diritto di dire: "Allora il soprannaturale è possibile", ma piuttosto: "Allora, l'apparizione di un fantasma è, contrariamente all'opinione comune, all'interno delle leggi naturali, cioè non è soprannaturale". Orbene, per tutto ciò che avevo osservato fino ad allora e per tutte le meraviglie che nella nostra epoca gli amatori del mistero annoverano come fatti realmente accaduti, è sempre necessario un agente vivente e materiale. Sul continente si possono ancora trovare maghi che asseriscono di poter evocare gli spiriti. Supponete per un momento che dicano la verità, e non
di meno avrete pur sempre la forma vivente e materiale del mago; egli costituisce l'agente materiale grazie al quale, per qualche peculiarità costituzionale, alcuni fenomeni inconsueti appaiono ai vostri sensi. E ancora, accettati come veri i resoconti delle Manifestazioni dello spirito in America, musiche o altri suoni, scritture sulla carta prodotte da mani invisibili, mobili spostati senza apparente agente umano, o la vista e il tocco di mani che non sembrano appartenere ad alcun corpo, si troverà pur sempre un medium o un essere umano con peculiarità costituzionali capaci di produrre questi fenomeni. In definitiva, riguardo a questi fatti meravigliosi, anche supponendo che non vi sia inganno, deve esservi un essere umano simile a voi, a opera del quale o per mezzo del quale gli effetti notati da altri esseri umani sono prodotti. Tale è il fenomeno ormai ben noto dell'ipnotismo o dell'elettrobiologia; la mente della persona su cui si opera è influenzata attraverso un agente materiale evidente. E, supponendo sia vero che un paziente ipnotizzato possa rispondere alla volontà di un ipnotizzatore distante un centinaio di miglia, la sua condotta non è per questo meno influenzata da un fluido materiale (chiamatelo elettrico o come volete), con il potere di attraversare lo spazio e superare gli ostacoli, che se l'effetto materiale fosse comunicato da una persona all'altra. Perciò, tutto quanto avevo sin qui osservato o che mi attendevo di osservare in quella strana casa, lo ritenevo prodotto da un qualche agente o medium, mortale come me; e questa idea necessariamente mi impediva di provare il terrore da cui quanti considerano come soprannaturali cose che non rientrano nella normalità dei fatti naturali avrebbero potuto essere sopraffatti nel corso delle avventure di quella notte memorabile. Poiché congetturavo che tutto quanto si era presentato o si sarebbe presentato ai miei sensi doveva trovare origine in qualche essere umano, dotato per sua costituzione del potere di farlo, avvertivo un interesse più filosofico che superstizioso. Posso quindi dire sinceramente che allora ero predisposto all'osservazione con lo stesso stato d'animo tranquillo di un ricercatore sperimentale in attesa di qualche rara reazione chimica, ancorché pericolosa. Naturalmente quanto più avessi tenuto la mia mente lontana dall'immaginazione, tanto più sarei stato in una condizione d'animo adatta per l'osservazione; perciò rivolsi di nuovo gli occhi e il pensiero al forte e luminoso buon senso delle pagine di Macaulay. Mi accorsi allora che qualcosa si interponeva fra la pagina e la luce e che sulla pagina cadeva un'ombra. Guardai in alto e vidi qualcosa che mi è difficile, forse impossibile, descrivere.
Era un'Oscurità, che prendeva forma dall'aria con contorni molto indefiniti. Non posso dire che fosse una forma umana, eppure era più simile a una forma umana o, piuttosto, a un'ombra che a qualsiasi altra cosa. Mentre si delineava, completamente separata e distinta dall'aria e dalla luce che la circondavano, le sue dimensioni apparivano gigantesche e la sommità quasi sfiorava il soffitto. Osservandola, mi prese una sensazione di freddo intenso. Se mi fossi trovato dinnanzi un iceberg, non sarei stato gelato di più e il freddo dell'iceberg non avrebbe potuto essere più puramente fisico. Ero convinto che non si trattasse di gelo causato dalla paura. Mentre continuavo a osservare pensai, ma non lo posso affermare con precisione, di distinguere due occhi che mi guardavano dall'alto. Per un momento ebbi l'impressione di distinguerli chiaramente, un attimo dopo sembravano scomparsi. Eppure frequentemente due raggi di una luce azzurro chiara balenavano attraverso l'oscurità, come provenienti dal punto in alto in cui mi era parso di scorgere gli occhi. Tentai di parlare ma la voce mi mancò: potevo solo pensare rivolgendomi a me stesso: "Si tratta di paura? No, non è paura". Cercai di alzarmi, ma invano. Mi sentivo come schiacciato da una forza irresistibile. La mia impressione, invero, era di un potere immenso e opprimente che si opponesse a ogni volontà; avvertivo moralmente la completa impossibilità di far fronte a una forza sovrumana, quale si può avvertire fisicamente in una tempesta in mare, in una esplosione o di fronte a un terribile animale selvaggio o, piuttosto, forse allo squalo dell'oceano. Opposta alla mia, si trovava un'altra volontà, la cui forza era tanto superiore quanto la forza fisica della tempesta, del fuoco o dello squalo è superiore a quella dell'uomo. Fu allora, nel momento in cui questa impressione cresceva in me, che infine sopravvenne l'orrore, un orrore di grado tale da non potersi descrivere a parole. Pure mantenevo il mio orgoglio, se non il mio coraggio, e mi dicevo: "Questo è orrore, ma non paura; finché non ho paura, non mi si può fare del male; la mia ragione respinge questa cosa, si tratta di un'illusione. Non ho paura". Con uno sforzo violento riuscii infine ad allungare la mano verso l'arma che si trovava sul tavolo; come lo feci, ricevetti sulla spalla e sul braccio uno strano colpo, e il braccio mi ricadde lungo il fianco, impotente. A questo punto, per aumentare il mio orrore, la luce delle candele cominciò ad attenuarsi; non venivano veramente spente, ma la loro fiamma sembrava ritirarsi gradatamente. Lo stesso avveniva al fuoco nel camino; la luce veniva sottratta alla legna. In pochi minuti la stanza rimase nella più completa oscurità.
Il terrore che si impadronì di me a restare al buio assieme all'oscura Cosa di cui avvertivo così intensamente il potere mi provocò una reazione nervosa. In realtà il terrore aveva raggiunto un punto in cui o i miei nervi avrebbero ceduto o sarei riuscito a superarlo. Ci riuscii. Ritrovai la voce, anche se la voce emessa fu un urlo. Ricordo che pronunciai parole come queste: «Non ho paura. La mia anima non prova paura» e al contempo trovai la forza di alzarmi. Sempre nella profonda oscurità mi precipitai verso una delle finestre, scostai le tende e spalancai le imposte; il mio primo pensiero era "Luce". Quando vidi la luna alta nel cielo, chiara e calma, provai una gioia che quasi compensò il mio precedente terrore. Vi era la luna, vi era pure la luce dei lampioni a gas nella via deserta e assopita. Mi volsi per guardare all'interno della stanza; la luce della luna vi penetrava in parte debolmente, ma era pur sempre luce. La Cosa oscura, qualunque cosa fosse, era scomparsa, salvo per una lieve ombra, che sembrava l'ombra di quell'ombra, sulla parete di fronte. Posai allora lo sguardo sul tavolo, un vecchio tavolo rotondo di mogano non coperto da un panno o da una tovaglia, e da sotto si levò una mano, visibile fino al polso. Era apparentemente una mano di carne e ossa, come la mia, ma di persona anziana; una mano piccola, scarna, rugosa, una mano di donna. La mano si richiuse lentamente sulle due lettere che si trovavano sul tavolo; quindi, mano e lettere svanirono. Si udirono quindi gli stessi tre colpi distinti sulla testiera del letto, che avevo udito prima che quello strano dramma incominciasse. Nel momento in cui i colpi cessarono di risuonare, sentii l'intera stanza vibrare e nel punto più lontano sorsero, come provenienti dal pavimento, scintille o globuli simili a bolle di luce multicolori, verdi, gialle, rossofuoco, azzurre. Queste scintille si muovevano lentamente o velocemente, ciascuna a suo capriccio, su e giù, qua e là, vicino e lontano, come piccoli fuochi fatui. Una seggiola, come prima al piano terra, avanzò dalla parete senza un visibile agente e si arrestò al lato opposto del tavolo. All'improvviso, come generata dalla seggiola, apparve una figura di donna. Era chiaramente visibile come una figura vivente: spettrale come una morta. Il volto era giovane, di una strana luttuosa bellezza; il collo e le spalle erano nudi, il resto del corpo avvolto in un largo abito dal biancore di nuvola. Prese a sciogliersi i lunghi capelli biondi che le ricaddero sulle spalle; i suoi occhi non erano rivolti a me, ma verso la porta. Sembrava ascoltare, guardare, attendere. L'ombra sul fondo divenne più scura e di nuovo pensai di
scorgere degli occhi brillare dall'alto dell'ombra, occhi fissi su quella figura di donna. Un'altra figura apparve come generata dalla porta, per quanto questa non si fosse aperta, pure distinta, ugualmente spettrale, la figura di un uomo giovane. Portava un abito del secolo scorso o piuttosto l'apparenza di un abito simile, poiché entrambe le figure, dell'uomo e della donna, per quanto distinte, erano palesemente irreali, impalpabili: dei simulacri, dei fantasmi. Vi era qualcosa di incongruo, grottesco eppure spaventoso nel contrasto fra l'elaborata eleganza, la perfezione di stile di quell'abito antiquato, con i suoi merletti, le pieghettature, le fibbie, e l'aspetto cadaverico e l'immobilità spettrale di chi lo indossava. Appena la figura maschile si avvicinò a quella femminile, l'ombra scura si mosse dalla parete, e tutte e tre rimasero per un momento avvolte dall'oscurità. Quando ritornò una pallida luce, i due fantasmi apparvero come stretti nella presa dell'Ombra che torreggiava su di loro. Il fantasma maschio era piegato sulla sua spada e il sangue sembrava scorrere dalle guarnizioni e dai pizzi. Poi l'oscurità dell'ombra li inghiottì, erano scomparsi. Di nuovo le bolle di luce si accesero, si alzarono e ondeggiarono, divenendo sempre più fitte e confuse nel loro movimento. La porta dello stanzino a destra del caminetto si aprì e ne uscì l'immagine di una vecchia. Teneva in mano alcune lettere, le lettere sulle quali avevo visto richiudersi la Mano, e dietro a lei udii un rumore di passi. Si volse come per ascoltare; quindi aprì le lettere e sembrò leggerle. Scorsi sopra la sua spalla un volto livido, il volto di un annegato rimasto a lungo nell'acqua, gonfio, sbiancato, con alghe fra i capelli sgocciolanti. Ai piedi di lei vi era la forma di un corpo e accanto a esso si acquattava un bambino, un bimbo misero e sudicio, con la fame dipinta sul viso e il terrore negli occhi. Come fissai lo sguardo sul volto della vecchia, le rughe scomparvero e divenne quello di una giovane, un volto di pietra dall'espressione dura, ma pur sempre giovane. L'Ombra balzò innanzi e oscurò questi fantasmi come prima aveva oscurato gli altri. Infine non rimase nulla se non l'Ombra e rivolsi il mio sguardo su di essa sino a che nuovamente apparvero gli occhi, occhi maligni, di serpente. Di nuovo le bolle luminose salirono e scesero e nel loro moto disordinato, irregolare, turbolento, si confusero con la luce lunare. Poi da questi globuli, come dal guscio di altrettante uova, uscirono creature mostruose; l'aria ne era piena, larve così esangui e orribili che non trovo modo di descriverle se non ricordando al lettore la vita formicolante che il microscopio rivela in
una goccia d'acqua; esseri trasparenti, elastici, agili che si inseguono, si divorano a vicenda, forme mai viste a occhio nudo. Così come queste forme erano prive di simmetria, altrettanto il loro movimento era privo di ordine. Ma il loro vagare non era casuale; mi vennero attorno, sempre più fitte e veloci, sciamando sul mio capo, strisciando sul mio braccio destro che era disteso come per una inconscia difesa contro tutti quegli esseri maligni. Talvolta mi sentivo toccare, ma non da quelle cose, bensì da mani invisibili. A un certo punto avvertii la presa di fredde dita morbide attorno alla gola. Ero sempre ben conscio che, se mi fossi lasciato afferrare dalla paura, sarei stato in pericolo fisico e concentravo tutte le mie facoltà su una ostinata volontà di resistenza. Distolsi il mio sguardo dall'Ombra e, soprattutto, da quegli strani occhi da serpente; essi ormai erano divenuti chiaramente visibili. Ero conscio che là, e non altrove attorno a me, vi era una volontà, una volontà di intensa, creativa, attiva malvagità che avrebbe potuto schiacciarmi. La pallida luminosità della stanza incominciò allora ad arrossarsi come l'aria in prossimità di un'esplosione. Le larve rosseggiarono come creature abitatrici del fuoco. La stanza vibrò di nuovo, ancora si udirono i tre colpi a intervalli regolari e ancora tutte le cose vennero inghiottite nell'oscurità dell'Ombra, come se essendo nate tutte dall'oscurità in essa dovessero ritornare. Le tenebre si ritirarono e l'Ombra scomparve. Con la stessa lentezza con cui si erano spente, le fiamme ricrebbero sulle candele e nel caminetto. La stanza tornò a essere quieta e tutta illuminata. Le due porte erano ancora chiuse, quella comunicante con la stanza del servitore a chiave. Il cane giaceva nell'angolo ove si era acquattato così convulsamente. Lo chiamai ma non si mosse. Mi avvicinai e notai che era morto, con gli occhi fuori dalle orbite, la lingua pendente e la bava attorno alle fauci. Lo presi in braccio e portandolo accanto al fuoco sentii un forte dolore per la perdita del mio animale preferito, e un senso di colpa. Mi accusai per la sua morte, ritenendo fosse stata causata dalla paura. Ma quale fu la mia sorpresa quando mi accorsi che aveva l'osso del collo spezzato! Questa azione era stata compiuta nel buio? Da una mano umana come la mia? Non avrebbe potuto esserci una presenza umana nella stanza per tutto quel tempo? Avevo una buona ragione per sospettarlo. Non posso dire di più. Non posso fare altro che presentare i fatti con correttezza; il lettore può trarre le sue conclusioni. Un'altra circostanza sorprendente: il mio orologio era stato rimesso sul
tavolo da cui era stato tolto così misteriosamente, ma si era fermato al momento della sua sottrazione. Nonostante tutta l'abilità dell'orologiaio, non ha mai più ripreso a funzionare, ovvero funziona in modo irregolare per qualche ora, poi si ferma; è divenuto inservibile. Per il resto della notte non accadde più nulla, né ho dovuto attendere molto prima del sorgere dell'alba. Non lasciai la casa se non con la piena luce del giorno. Prima di farlo, rivisitai la strana stanza in cui il mio servitore e io eravamo rimasti imprigionati per un certo tempo. Avevo la forte impressione, pur senza poterla giustificare, che da quella stanza avesse avuto origine il meccanismo dei fenomeni, se posso chiamarli così, di cui avevo fatto esperienza nella mia stanza. E per quanto vi entrassi ormai a giorno fatto, con la luce del sole che penetrava attraverso la finestra polverosa, pure avvertii, soltanto restando in essa, il brivido di orrore che avevo provato la notte prima e che era stato a tal punto aggravato da quanto era avvenuto nella mia stanza. Non riuscii infatti a resistere più di mezzo minuto fra quelle pareti. Discesi le scale e udii ancora il rumore di passi dietro di me; quando aprii la porta sulla strada, ebbi l'impressione di avvertire una risata soffocata. Raggiunsi casa mia, pensando di ritrovarvi il servo fuggitivo, ma non si era presentato. Non avemmo notizie di lui per tre giorni, quando infine ricevetti una sua lettera, da Liverpool, del seguente tenore: "Onorevole signore, imploro umilmente il vostro perdono, benché non osi sperare che voi me ne riteniate degno, a meno che, Dio non voglia, abbiate visto quello che ho visto io. Penso ci vorranno anni prima che io possa riprendermi. Quanto a essere in grado di riprendere il mio servizio, è fuori questione. Perciò vado da un mio cognato a Melbourne. La nave parte domani. Forse il lungo viaggio mi ristabilirà. Per ora non faccio altro che tremare, avere soprassalti e pensare che quella cosa sia dietro di me. Vi prego umilmente, onorevole signore, di disporre che i miei abiti e il salario che mi sia ancora dovuto vengano inviati a mia madre, a Walworth. John conosce l'indirizzo." La lettera terminava con ulteriori espressioni di scusa, alquanto incoerenti, e dettagli sugli affari che erano stati di incombenza dello scrivente. Questa fuga potrebbe giustificare il sospetto che quell'uomo desiderasse andare in Australia, e fosse stato in qualche modo fraudolentemente coin-
volto negli eventi della notte. Non dico nulla per respingere questa congettura; la propongo piuttosto come quella che a molti sembrerebbe la più probabile soluzione per eventi improbabili. La fede nella mia teoria restò intatta. Ritornai la sera in quella casa, per portar via con una carrozza da nolo le cose che vi avevo lasciato e il corpo del mio povero cane. Non fui disturbato durante questo lavoro, e non mi accadde nulla degno di nota, salvo che sempre, salendo o scendendo le scale, sentii l'usuale rumore di passi che mi precedevano. Lasciata la casa andai dal signor J. Lo trovai a casa sua. Gli restituii le chiavi, gli dissi che la mia curiosità era stata sufficientemente soddisfatta e stavo per narrargli quanto era accaduto quando egli mi fermò, dicendo, se pur con molta cortesia, di non avere più interesse in un mistero che nessuno aveva mai risolto. Decisi almeno di riferirgli delle due lettere che avevo letto e del modo straordinario con cui erano scomparse; gli chiesi se pensava che fossero state dirette alla donna morta nella casa e se vi fosse qualcosa nella storia della sua vita che potesse confermare gli oscuri sospetti che quelle lettere ingeneravano. Il signor J. sembrò sorpreso e, dopo qualche attimo di meditazione, rispose: «So ben poco della storia passata di quella donna se non che, come vi ho riferito, le nostre famiglie si conoscevano. Ma voi svegliate qualche vago ricordo a suo carico. Farò delle ricerche e vi informerò dei risultati. Eppure, anche se potessimo accettare la superstizione popolare sul fatto che una persona, autore o vittima in vita di oscuri delitti, possa rivisitare come un fantasma senza pace la scena ove tali delitti sono stati commessi, devo osservare che la casa è stata infestata da strane apparizioni e rumori prima della morte della donna. Noto che sorridete; che cosa vorreste dire?». «Vorrei dire di avere la convinzione che, se potessimo andare a fondo di questi misteri, troveremmo una presenza umana vivente.» «Come! Pensate sia tutta un'impostura? E a qual fine?» «Non un'impostura nel senso ordinario del termine. Se io stessi improvvisamente per cadere in un sonno profondo dal quale non fossi in grado di svegliarmi, ma nel sonno fossi capace di rispondere a domande con una precisione che non avrei da sveglio, ad esempio su quanto denaro avete in tasca o descrivere i vostri stessi pensieri, non è necessario figurarsi un'impostura e nemmeno che si tratti di un fatto soprannaturale. Io sarei, inconsciamente, sotto l'influenza ipnotica, trasmessami a distanza da un essere umano che ha acquistato potere su di me in un rapporto precedente.» «Ma se un ipnotizzatore potesse influenzare in tal modo un altro essere
vivente, potete anche supporre che eserciti la sua influenza su cose inanimate, muovere seggiole, aprire o chiudere porte?» «O piuttosto influenzare i miei sensi a credere a tali effetti, senza essere mai stati in rapporto con la persona che agisce su di me? No. Ciò che è comunemente chiamato ipnotismo non può far questo. Ma vi può essere un potere prossimo all'ipnotismo o superiore a esso, un potere che in tempi passati era chiamato magia. Non dico che questo potere possa estendersi anche agli oggetti inanimati; ma se lo facesse, non sarebbe contro natura; sarebbe soltanto un raro potere naturale che potrebbe essere dato a costituzioni dotate di certe peculiarità e sviluppato con la pratica fino a un livello straordinario. «Che questo potere possa estendersi anche ai morti, cioè a certi pensieri e memorie che i morti ancora conservino, e costringere ciò che propriamente non può essere chiamato anima, la quale è al di là della portata umana, ma piuttosto un simulacro di ciò che era stato più terrestre a rendersi percepibile ai nostri sensi, questa è una credenza assai antica, sebbene abbandonata, sulla quale non mi azzardo ad esprimere un'opinione. Non credo tuttavia che un tale potere sia soprannaturale. Lasciate che vi illustri il mio pensiero con un esperimento che Paracelso descrive come non difficile e che l'autore delle Curiosità della Letteratura cita come credibile: un fiore muore e voi lo bruciate. Gli elementi che componevano il fiore, quali che fossero, se ne sono andati, dispersi, e non sapete dove. Non potrete mai ritrovarli né ricomporli. Ma voi potete, con un processo chimico, produrre con le sue ceneri lo spettro di quel fiore; proprio come appariva in vita. Con gli esseri umani potrebbe avvenire la stessa cosa. L'anima vi è sfuggita, proprio come l'essenza o gli elementi del fiore, eppure potete produrne lo spettro. «Questo fantasma, benché nella superstizione popolare sia ritenuto essere l'anima dello scomparso, non deve essere confuso con la vera anima. Non è altro che l'immagine della forma morta. Per questa ragione, come risulta dalle più attestate storie di fantasmi o spiriti, quanto maggiormente ci colpisce è l'assenza di ciò che riteniamo essere l'anima, cioè un'intelligenza superiore emancipata. Queste apparizioni giungono con scarso o nessun motivo: raramente parlano quando appaiono; e se parlano, non esprimono idee superiori a quelle di un comune terrestre. I medium americani hanno pubblicato volumi sulle comunicazioni in prosa e in versi che asseriscono essere state fatte nel nome dei defunti più illustri: Shakespeare, Bacone, Dio sa chi. Queste comunicazioni, per prendere le migliori, non sono certo
di qualità superiore a quelle che proverrebbero da persone viventi di buon talento e cultura; sono straordinariamente inferiori a ciò che Bacone, Shakespeare o Platone hanno detto o scritto sulla terra. Ciò che è ancora più notevole, esse non contengono una sola idea che già non fosse sulla terra. Per quanto questi fenomeni possano essere meravigliosi, dando per scontato che siano autentici, io vi vedo molto su cui la filosofia può interrogarsi, nulla che essa debba negare; in altre parole, nulla di soprannaturale. Non sono altro che idee trasmesse in un modo o nell'altro, non abbiamo scoperto come, da una mente umana mortale a un'altra. Se in questo processo i tavoli si muovono da soli, o figure demoniache appaiono entro un cerchio magico, o mani senza corpo alzano e spostano oggetti, o Entità tenebrose, quale quella che mi è apparsa, vi gelano il sangue, pure io sono persuaso che non si tratta che di qualcosa trasmesso alla mia mente, come da cavi elettrici, da un'altra mente. In talune costituzioni vi è come un laboratorio chimico naturale e queste costituzioni possono produrre meraviglie chimiche; in altre vi è un fluido naturale, chiamiamolo elettrico, che può produrre meraviglie elettriche. «Queste meraviglie differiscono dalla Normale Scienza in quanto sembrano prive di motivo, di scopo, puerili, frivole. Non portano a grandi risultati. Perciò il mondo non le cura e i veri sapienti non le hanno coltivate. Ma io sono certo che un uomo, umano come me, è stato l'origine remota di tutto ciò che ho visto e sentito; e credo inconsciamente in lui come negli effetti prodotti per questa ragione: nemmeno due persone, come voi dite, vi hanno mai riferito di aver fatto la stessa esperienza. Bene, due persone, vedete, non fanno mai lo stesso sogno. Se si trattasse di un comune inganno, il meccanismo sarebbe predisposto per produrre effetti che varierebbero di poco; se si trattasse di un agente soprannaturale, consentito dall'Onnipotente, agirebbe sicuramente per qualche scopo preciso. Questi fenomeni non sono né dell'uno né dell'altro tipo; io sono persuaso che traggono origine da una mente ora distante e che questa mente non ha una precisa volizione riguardo a nulla di quanto accade; quanto accade riflette soltanto i suoi pensieri formati a metà, erratici, confusi, mutevoli, in breve i sogni di questa mente posti in azione e semisostanziati. Questa mente ha un immenso potere, tale da mettere le cose in movimento, e credo sia maligna e distruttiva. Qualche forza materiale deve avere ucciso il mio cane; la stessa forza, per quanto ne so, avrebbe potuto uccidere anche me, se fossi stato soggiogato dal terrore come il cane, se il mio intelletto, il mio spirito non avessero fornito alla mia volontà la forza necessaria a controbilanciarla.»
«Ha ucciso il vostro cane! Spaventoso! È strano, invero, come nessun animale possa essere indotto a restare in quella casa. Nemmeno un gatto. Non vi si sono mai visti topi o ratti.» «L'istinto degli animali scopre influssi pericolosi per la loro esistenza. La ragione umana ha una sensibilità meno sottile, perché ha un potere di resistenza maggiore. Ma ho parlato abbastanza. Avete compreso la mia teoria?» «Sì, per quanto non completamente. E accetto ogni ubbia, perdonate il termine, per quanto strana, piuttosto che ammettere l'esistenza di fantasmi e di folletti che ci è stata istillata nella nostra infanzia. Comunque sia, per la mia sfortunata casa le cose non cambiano. Che cosa posso fare?» «Vi dirò che cosa farei io. Sono convinto, per un'intima sensazione, che la piccola stanza non arredata, a destra della camera da letto da me occupata, costituisca il punto di partenza o il ricettacolo delle influenze che infestano la casa. Vi consiglio fermamente di abbattere le pareti, togliere il pavimento, insomma di eliminare la stanza. Ho osservato che questa è staccata dal corpo della casa ed è costruita su un piccolo cortile, si che può essere eliminata senza danno per il resto dell'edificio.» «E pensate che se lo facessi...» «Tagliereste i fili del telegrafo. Provate. Sono così persuaso di avere ragione che sono disposto a sostenere metà delle spese, se mi lascerete dirigere le operazioni.» «No, sono in grado di affrontare la spesa, quanto al resto permettete che vi scriva.» Circa dieci giorni dopo, ricevetti una lettera dal signor J. Mi riferiva di avere ispezionato la casa dopo la mia visita; di aver trovato le due lettere che avevo descritto riposte di nuovo nella cassettiera da dove le avevo prese; di averle lette con la mia stessa diffidenza e di aver disposto un'accurata indagine sulla donna a cui giustamente congetturavo fossero state scritte. Pareva che trentasei anni prima (un anno prima delle lettere) la donna avesse sposato, contro la volontà dei parenti, un americano piuttosto sospetto, che si riteneva fosse stato un pirata in passato. Lei era la figlia di commercianti molto per bene e aveva lavorato come istitutrice prima del matrimonio. Aveva un fratello, vedovo e considerato agiato, con un figlio di circa sei anni. Un mese dopo il matrimonio, il corpo del fratello venne trovato nel Tamigi, accanto al ponte di Londra; sembrava vi fossero segni di violenza attorno alla gola ma non vennero ritenuti sufficienti per concludere l'inchiesta con altro verdetto che "trovato annegato".
L'americano e la moglie si presero cura del bambino, poiché il defunto nel suo testamento aveva designato la sorella come tutrice dell'unico figlio e, nel caso di morte di lui, come erede. Il bambino morì sei mesi dopo; si supponeva fosse stato trascurato e maltrattato: i vicini riferivano di averlo sentito gridare di notte. Il medico che lo esaminò dopo la morte disse che era emaciato come se gli fosse mancato il nutrimento e che il corpo era coperto di lividi. Sembrava che una notte il bambino avesse tentato di fuggire, scivolando nel cortile e cercando di scalare il muro, ma fosse caduto esausto e ritrovato morente sulle pietre al mattino. Ma, per quanto vi fossero prove di crudeltà, non ve ne erano di assassinio. La zia e il marito cercarono di mitigare l'accusa di crudeltà, riferendo della testardaggine e della cattiveria del bambino, che si diceva essere semideficiente. Comunque stessero le cose, la zia ereditò il patrimonio del fratello in seguito ala morte del bimbo. Prima che fosse trascorso un anno dal matrimonio, l'americano lasciò all'improvviso l'Inghilterra e non vi fece mai più ritorno. Aveva assunto il comando di un battello che si perse nell'Atlantico due anni dopo. La vedova era ricca, ma fu colpita da vari rovesci di fortuna: il fallimento di una banca, un investimento non riuscito, un piccolo commercio andato male; alla fine andò a servizio, scendendo sempre più in basso, da governante a donna tuttofare, non restando mai a lungo in un posto benché nulla potesse dirsi contro di lei. Anzi, era considerata sobria, onesta e particolarmente tranquilla. Eppure nulla le andava mai bene. E così era finita all'ospizio da dove il signor J. l'aveva tolta per affidarle la custodia di quella stessa casa che aveva preso in affitto nel primo anno di matrimonio. Il signor J. aggiungeva di aver trascorso un'ora da solo nella stanza non ammobiliata che io gli avevo insistentemente chiesto di distruggere, e di avervi provato una così forte impressione di terrore, per quanto non avesse udito o visto nulla, da desiderare di abbattere le mura e rimuovere il pavimento, come gli avevo suggerito. Aveva assunto il personale per questo lavoro e vi avrebbe dato inizio nel giorno che gli avessi proposto. Il giorno venne fissato. Mi recai nella casa infestata: lui entrò nella stanza, tolse lo zoccolo e quindi il pavimento. Sotto il tavolato e coperta di spazzatura si scoprì una botola, larga a sufficienza per lasciar passare un uomo. Era solidamente chiusa con graffe e chiodi di ferro. Dopo averli tolti scendemmo in una stanza sottostante, di cui non si era mai sospettata l'esistenza. Nella stanza vi erano stati una finestra e l'apertura di un camino, murati evidentemente da molti anni. Con l'aiuto delle candele esaminammo il luogo; vi si trovava ancora del mobilio consunto: tre seggiole, una
cassapanca di quercia, un tavolo, tutto nello stile di circa ottant'anni fa. Vi era una cassettiera accostata alla parete, ove trovammo, ormai mezzo ammuffiti, antiquati capi di abbigliamento maschile, quali potevano essere portati ottanta o cento anni fa da un gentiluomo di rango, preziose fibbie e bottoni, tipici di un abito da cerimonia, una bella spada, un panciotto un tempo adorno di passamaneria dorata, ora annerita e macchiata dall'umidità, cinque ghinee, alcune monete d'argento, e un gettone d'avorio, probabilmente per qualche gioco da tempo dimenticato. Ma la nostra scoperta più importante fu senza dubbio una specie di cassaforte di ferro, ancorata alla parete, per aprire la cui serratura durammo molta fatica. Dentro alla cassaforte vi erano tre scaffali e due cassettini. Ordinate sugli scaffali vi erano molte boccettine di cristallo, perfettamente sigillate. Contenevano essenze volatili e incolori, riguardo alla cui natura posso dire soltanto che non erano veleni, e che in alcune entravano come componenti zolfo e ammoniaca. Vi erano pure alcuni strani tubetti di vetro, una piccola sbarra di ferro con un globo di cristallo di rocca e un'altra di ambra, e ancora una calamita di grande potenza. In uno dei cassetti trovammo una miniatura montata in oro che conservava straordinariamente la freschezza dei colori originali, tenuto conto del tempo da cui si trovava con probabilità in quel luogo. Era il ritratto di un uomo di mezza età, forse sui quarantasette o quarantotto anni. Era un volto notevole, impressionante. Se poteste immaginare qualche grosso serpente trasformato in uomo, ma che conservi nei lineamenti umani la tipologia serpentesca, avreste un'idea del suo aspetto, migliore delle lunghe descrizioni che potrei darne. L'osso frontale ampio e piatto; l'eleganza affusolata dei contorni che nascondeva la forza della mascella letale; i lunghi, larghi, terribili occhi, verdi e scintillanti come uno smeraldo, e un'espressione di calma spietata, propria della consapevolezza di un potere immenso. Meccanicamente voltai la miniatura per esaminarne il verso e vi trovai incisa una stella a cinque punte con inscritto un pentagono; al suo centro una scala il cui terzo scalino era formato da una data, il 1765. Osservando con maggior attenzione, scoprii una molla, premendo la quale il fondo della miniatura si aprì come un coperchio. All'interno del coperchio era inciso: "Per te, Marianna. Sii fedele in vita e in morte a...". Seguiva un nome che non menzionerò, ma che non mi era sconosciuto. L'avevo sentito fare in gioventù da alcune persone anziane, riferendosi a un fascinoso ciarlatano che aveva destato sensazione a Londra per un anno o due, ed era quindi
fuggito dal paese per l'accusa di duplice omicidio, commesso nella sua stessa dimora, sulle persone dell'amante e del rivale. Non dissi nulla di ciò al signor J., cui consegnai a malincuore la miniatura. Non avevamo incontrato difficoltà ad aprire il primo cassetto della cassaforte, ma molta ad aprire il secondo. Non era chiuso a chiave, ma resistette ai nostri sforzi, finché non lo forzammo con la lama di un coltello. Quando infine lo estraemmo, vi trovammo un singolare apparato, in perfetto ordine. Al di sopra di un sottile librino, o piuttosto una tavoletta, era posto un piatto di cristallo; questo era riempito con un liquido chiaro ove galleggiava una specie di bussola il cui ago girava rapidamente in tondo; ma in luogo degli usuali punti cardinali vi erano degli strani segni, non molto dissimili da quelli usati dagli astrologi per indicare i pianeti. Un odore particolare, ma non forte né spiacevole, si levava dal cassetto, foderato di un legno che poi scoprimmo essere nocciolo. Quale che ne fosse l'origine, produceva un effetto sensibile sui nervi. Tutti avvertimmo, anche i due operai che si trovavano nella stanza, una sensazione di strisciante formicolio, dalle punte delle dita alla radice dei capelli. Impaziente di esaminare la tavoletta, tolsi il piatto. Mentre lo facevo, l'ago della bussola si mise a girare vorticosamente e io avvertii un urto che mi si ripercosse in tutto il corpo, sì che lasciai cadere il piatto a terra. Il piatto si ruppe e il liquido si sparse. La bussola rotolò sino al limite della stanza e in quell'istante le pareti si scossero come se un gigante le avesse fatte oscillare. I due operai ne furono così spaventati che si arrampicarono su per la scala da cui eravamo scesi dalla botola, ma, vedendo che non accadeva più nulla, si lasciarono convincere a ritornare. Intanto avevo aperto la tavoletta. Era rilegata in cuoio rosso senza fregi, con una chiusura d'argento. Conteneva soltanto un foglio di spessa pergamena ove erano iscritte, entro una doppia stella, alcune parole in latino medioevale che si possono tradurre letteralmente così: "Su tutto ciò che può raggiungere all'interno di queste mura -sensibile o inanimato, vivo o morto - così come si muove l'ago, così agisce il mio volere. Dannata sia la casa e senza pace i suoi abitatori." Non trovammo altro. Il signor J. bruciò la tavoletta e il suo anatema. Rase al suolo la parte dell'edificio che conteneva la stanza segreta e la camera sopra di essa. Ebbe quindi il coraggio di abitare lui stesso la casa, per un mese. In tutta Londra non avrebbe potuto trovarsi una casa più quieta e in migliori condizioni. Poi l'affittò vantaggiosamente e il suo inquilino non ha mai fatto rimostranze.
Titolo originale: The House and the Brain, noto anche come The Haunters and the Haunted Postilla "Esorcismo" è una parola che deriva dal greco e significa "fare un giuramento". Si giura affermando qualcosa nel nome degli dèi, il che vuol dire che se poi si dice una bugia si incorre nell'ira delle divinità, indignate per essere state chiamate in causa inutilmente o in modo falso (l'espressione relativa è "in vano"). Se gli spiriti maligni si impadroniscono di una persona o di un luogo è possibile scacciarli, di solito, invocando il nome di Dio: dunque anche questo può essere considerato un esorcismo. Fra parentesi, non tutti gli esorcismi si servono esclusivamente di mezzi spirituali. Un tempo, quando in una casa moriva qualcuno che aveva contratto la peste o altra malattia virulenta, i locali venivano purificati bruciandovi pece o zolfo, nella speranza che gli spiriti che avevano provocato la malattia trovassero i fumi sgradevoli (come gli esseri umani) e lasciassero la casa. La cosa può funzionare anche se agli "spiriti" sostituiamo i "germi": le esalazioni potrebbero ucciderli, anche se mi chiedo quanto tempo dovesse passare prima che la casa, dopo un trattamento del genere, tornasse abitabile. Seguendo lo stesso criterio, gli "sterminatori" esorcizzano topi e scarafaggi usando pallottole di veleno o gas velenosi di vario tipo. Ma la parola "esorcismo" si usa soprattutto per indicare la rimozione di un pericolo spirituale, e negli ultimi anni è diventata popolare grazie al film L'esorcista e alle sue imitazioni. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Sir Andrew Caldecott, "A Room in the Rectory", in Not Exactly Ghosts, Arnold, Londra 1947. R.S. Hawker, "The Botathen Ghost", in The Haunted and the Haunters, a cura di Ernest Rhys, Daniel O'Connor, Londra 1921. Richard Matheson, "Da luoghi ombrosi" ("From Shadowed Places"), in Shock II, Oscar Mondadori, Milano 1984. Seabury Quinn, "The Wolf of Saint Bonnot", in The Phantom Fighter,
Mycroft and Moran, Sauk City 1966. Isaac Bashevis Singer, "Il violinista morto", Longanesi, Milano. La "mano gloriosa" MANO D'UOMO MORTO di Manly Wade Wellman Apri la porta, che bussa il morto! Togli paletto, catenaccio e lucchetto! Non ti muoverai, non piegherai un muscolo, Questo è l'incantesimo della mano morta! Dormirete, voi che dormite! Veglierete, voi che vegliate! E sarete come morti, per via del morto! Thomas Ingoldsby, The Hand of Glory Gli uomini davanti al negozio ridevano nella luce del tramonto, ma nessuno era veramente allegro. «Hai sentito, Sam?» chiese uno all'ultimo arrivato. «Il forestiero vuol sapere la strada per andare alla casa del vecchio Monroe. Dev'essere quello che l'ha comprata.» Altre risate, alle quali si unì anche l'ultimo arrivato. Ma il padre di Berna si era fatto abbastanza nero e minaccioso per vendicare quell'aria di sfottò. Nel semplice vestito nero di cotone era alto e magro, con il naso lungo, mento lungo e in mezzo una bocca che sembrava una trappola per volpi. «Conosco la barzelletta» disse, piegandosi sul volante. «Voi pensate che la casa è infestata.» «No» ghignò un piccoletto rinsecchito che stava appollaiato su un grosso piolo di legno. «Infestata non è la parola giusta. Maledetta, sì. Non mi rimangono molte notti da campare e non ne passerei nemmeno una, nella casa del vecchio Monroe.» «So tutto di quella stupida storia» proclamò il padre di Berna. «Tutto?» lo provocò qualcuno. «Stupida storia?» «E ringrazio Dio che ci credete in tanti. È per questo che ho potuto comprarla a così buon prezzo.» «Mi domando» borbottò il vecchietto rinsecchito «se l'hai comprata dai legittimi proprietari. A quanto ne so, il patto che il vecchio Monroe aveva firmato gliel'assegnava solo finché era in vita... il che, in tutta coscienza,
non è poco.» Sputò in una fessura sul marciapiede di assi. «Comunque, chi gli ha comprato l'anima non ha fatto un buon affare, perché il vecchio Monroe sarebbe andato lo stesso all'...» «Se avete finito di ridere» interruppe spazientito il padre di Berna «forse qualcuno si ricorderà un minimo di buona creanza e ci darà le indicazioni che abbiamo chiesto.» «Per favore, signori» disse timidamente Berna, che sedeva a fianco di suo padre. Come lui era magro, lei era slanciata; come lui era duro, lei era attraente. Con i grandi occhi neri interrogò uno sfaccendato che si tolse il cappello di paglia. «Se proprio siete decisi» attaccò quest'ultimo «seguite la strada finché è asfaltata. Superate la curva che porta ad Hanksville e girate a sinistra su una via sterrata. Cercate il ponticello di pietra sul ruscello, ci crescono parecchi salici. Oltre il ruscello e i salici c'è una strada privata. È completamente coperta di erbacce, nemmeno i conigli selvatici ci vanno a caccia. In fondo alla strada c'è la vostra nuova casa. Vi auguro buona fortuna.» Giocherellò con il cappello. «Ne avrete bisogno.» «Grazie davvero» disse il padre di Berna. «Mi chiamo Ward Conley e sarò il vostro vicino alla fattoria del vecchio Monroe. Se pensate di giocarmi qualche scherzo di notte, fantasmi o roba del genere, ricordatevi che vado in giro con un fucile a canne mozze e so usarlo abbastanza bene.» Avviò la macchina. Berna sentì che gli uomini ricominciavano a parlare, ma non ridevano più. «Non sapevo» disse la ragazza quando si avventurarono oltre i confini della piccola città, nell'ultima luce rossa del tramonto «che prendessero così seriamente le vecchie storie.» Diede un'occhiata al padre. «Io non ci ho nemmeno fatto caso, quando l'agente immobiliare ne ha accennato. Raccontami tutto.» «Sei nervosa, Berna?» chiese Ward Conley. «No, solo curiosa.» «In ogni angolo di mondo con un po' di storia si raccontano fatti del genere su questa o quella casa. I creduloni amanti dei fantasmi abbondano dappertutto. Quello che ho sentito io è che il vecchio proprietario, quello che chiamano vecchio Monroe, si stabilì nella regione ottant'anni fa e prese un pezzo di terra che sembrava non valesse niente. Lavorando e progettando le cose con cura lo fece fruttare, ma non si sposò mai, non fece amicizia con i vicini e spese una minima parte di quello che aveva accumulato. Visse fino a cent'anni e più, e siccome di lui si sapeva poco i contadini buon-
temponi di quaggiù hanno inventato la loro storia. Che il vecchio Monroe avesse fatto una specie di patto con... ehm...» «Il diavolo?» «Forse, o forse con uno spirito indiano del male. Dicono che in cambio del patto il vecchio ricevesse una casa costruita per magia, i raccolti migliori e più denaro di quanto ne avessero mai guadagnato da queste parti. Comunque il vecchio Monroe si è meritato la sua fama: quando morì delirava, e del resto molti eremiti e meschini sono pazzi. Da allora in poi nessuno si avvicina più alla casa. Un secondo cugino di Richmond ha ereditato la fattoria e ce l'ha venduta per quattro soldi.» «Un patto col diavolo» sorrise Berna. «Sembra un racconto di Hawthorne.» «Sembra una sciocchezza!» scattò Conley. «Il primo diavolo che si presenta a fare affari, lo tratterò come si merita. Vedrai che chi ci rimetterà le penne sarà lui.» In una città del nord, il grosso John Thunstone ascoltava il suo interlocutore con attenzione, chino sulla scrivania. «Non mi dirà, signor Thunstone» disse il professore davanti a lui «che crede letteralmente al mito degli Shonokin?» «Non scarto nessuna ipotesi, fino a quando non ho raccolto elementi a sufficienza per giudicare» replicò Thunstone. «Oggi ho sentito una diceria piuttosto vaga, e lei è l'unico uomo ad aver studiato rigorosamente l'argomento.» «Purtroppo dovevo concludere la mia enciclopedia delle tradizioni popolari americane» disse l'altro con rammarico. «Ebbene, gli Shonokin sono una razza di maghi che secondo le tradizioni abitarono l'America prima che i pellerossa arrivassero da... da dovunque siano arrivati. Un paio di commentatori insistono che i racconti sui poteri magici degli Shonokin e la loro ostilità siano alla base di quasi tutte le leggende indiane sugli spiriti del male, dalla Wendigo agli orribili serpenti che cantano e ai nani Pukwitchee. Oggi i pochi accenni che abbiamo sugli Shonokin - pochissimi davvero - sono di terza o quarta mano. Originariamente la fonte erano gli antichi indiani, poi i racconti furono tramandati alle nuove generazioni e di qui, attraverso i primi coloni, sono giunti a studiosi come me. Qualcuno si diverte a immaginare che qua e là gli Shonokin esistano ancora, o almeno i loro discendenti. Specialmente nella regione di...» «Mi chiedo» lo interruppe John Thunstone, piuttosto scortesemente per
il suo carattere «se non sia la regione che m'interessa tanto.» I Conley superarono la curva di Hanksville nel crepuscolo, raggiunsero la strada sterrata e attraversarono il ponte di pietra. Oltre i salici apparve una densa siepe di alberi coperti di rovi, con un varco che terminava in un tronco intagliato e sorretto da due pali forcuti. Sul tronco era applicata un'insegna che diceva: PRIVATO. Conley scese dalla macchina, spostò la barriera e si rimise alla guida. Il sentiero era fiancheggiato da cespugli e coperto per ampi tratti da erba grassa e selvatica. La prima volta che si percorre una strada, sembra inevitabilmente più lunga. Berna ebbe la sensazione che passasse un secolo prima che il padre tirasse il freno. «Eccoci a casa» disse lui. In quel momento sorse la luna, bianca e brillante come un disco d'osso fresco e pulito. La luce bianca rivelò una casa quadrata come le vecchie ville padronali che sorgevano in mezzo alle piantagioni, ma più piccola. Una volta era stata dipinta di grigio, ed era tuttora pulita e ben conservata. Non c'erano finestre rotte, le colonne del portico sembravano solide. Tutt'intorno crescevano folte, scure masse di vegetazione e in fondo lunghi alberi fioriti. Un sentiero lastricato conduceva agli ampi gradini. Berna pensava che le sarebbe piaciuta, ma non fu così. Conley prese valigie e pacchi con la biancheria dal sedile posteriore. Berna cercò il paniere che conteneva la cena. Seguì il padre sul vialetto lastricato, chiedendosi come mai le notti fossero così fredde in quella stagione. Conley posò i bagagli, salì sul portico e tentò la porta. «Chiusa a chiave» borbottò. «Eppure, l'agente ci ha detto che non ce n'è mai stata una.» Si voltò e studiò una finestra. «Dovremo rompere il vetro.» «Posso aiutarla?» chiese una voce gentile. Poi un uomo sbucò da qualche parte, forse dai cespugli che crescevano tutt'intorno al portico. L'uomo non era perfettamente illuminato dalla luna e in seguito Berna si chiese come avesse capito che era bello. Asciutto, elegantemente vestito di bianco, il volto chiarissimo ma sano sotto un grande cappello, lineamenti regolari, occhi castani e sopracciglia folte ma delicate: così lo vide Berna. Conley scese dal portico. «Sono Ward Conley, il nuovo proprietario della fattoria» si presentò bruscamente. «E questa è mia figlia Berna.» Lo straniero si inchinò. «Io sono uno Shonokin.»
«Piacere di conoscerla, signor Shannon.» «Shonokin» corresse l'altro. «In città la gente dice che nessuno osa avventurarsi qui» continuò Conley. «Mentono. Come al solito mentono.» Gli occhi profondi dell'uomo osservarono Berna, forse con ammirazione. Lei non sapeva se sentirsi confusa o irritata. «Signor Conley» continuò la voce gentile «ha qualche difficoltà?» «Sì, la porta è incastrata o chiusa a chiave.» «Mi permetta di aiutarla.» L'uomo salì con grazia sul portico, chinandosi su qualcosa. Splendette una fiamma: a quanto pare aveva con sé un fascio di candele fatte in casa, come Berna aveva visto nelle fattorie più antiche. Le candele erano sottili e bitorzolute, ma la luce era quasi accecante. L'uomo si chinò sulla porta, tenendo una candela davanti a sé. Dopo un attimo si voltò. «Adesso la porta è aperta» disse. E infatti l'uscio scivolò dolcemente verso l'interno. «Grazie, signor Shonokin» disse Conley, con più calore che in ogni altra conversazione di quella sera. «Vuole entrare con noi?» «Non ora.» L'uomo si inchinò di nuovo, fece passare la punta delle dita sulle candele e le spense. Scese velocemente i gradini e s'incamminò per il vialetto lastricato. Arrivato in fondo, si voltò e salutò col cappello. Berna vide i capelli lunghi, ondulati e neri come pece. Era scomparso. «Sembra una brava persona» brontolò Conley. «Che ne diresti di prendere le nostre candele, Berna?» La ragazza ne scelse una dal paniere, lui la accese e fece strada. «So che non è un viaggio da poco e che gli indizi sono esili.» John Thunstone formò il numero della Pennsylvania Station. «Ma una volta sul posto mi farò raccontare tutto. Mi dispiace che lei e il signor Trowbridge non possiate venire. Mi farò vivo quando tornerò.» Rimase un attimo ad ascoltare, poi sorrise sotto i baffi ben curati. «Sono sempre tornato, finora. E adesso addio, o perderò il mio treno.» Ward Conley alzò la candela di cera e valutò l'interno con soddisfazione. «Comprare la casa senza averla vista mi preoccupava un po', Berna, anche a un prezzo che renderebbe vantaggioso il terreno peggiore.» Gli brillavano gli occhi. «Ma questa è una signora fattoria, eh?»
La vecchia mobilia sembrava confortevole e in buono stato. Berna si domandò se il ricco tappeto nell'ingresso non fosse di qualche valore. Nella stanza successiva c'era un tavolo di legno scuro con sedie massicce e più oltre credenze con porte a vetri in cui erano allineati piatti di porcellana, posate d'argento e bianche tovaglie ripiegate. Conley pescò una lampada portatile, di quelle che si appendono. «C'è già l'olio e lo stoppino è rifilato» annunciò. Con la candela accese la lampada e l'appese al soffitto. «Berna, qualcuno si è dato la pena di mettere tutto a posto per noi. Hanno persino spazzato e spolverato. Che sia stata la famiglia del signor Shonokin? Vicini di prim'ordine, te lo dico io.» La faccia dura cominciava a rilassarsi. Entrarono in cucina, ordinata ma fredda. Nella cesta c'era della legna. Berna posò il paniere, poi andarono al piano di sopra. «I letti sono pronti» esultò Conley. «Questa sarà la tua stanza, Berna. Io prenderò la prossima. E se mangiassimo, lasciando a domani il resto del giro d'esplorazione? Voglio alzarmi presto per andare nel granaio e nei campi.» Tornati in cucina presero i panini, la frutta e un bricco con il caffè. «Si sta raffreddando» disse Conley, guardando nel bricco. «Accendiamo il fuoco e scaldiamolo.» Berna pensava che il caffè fosse abbastanza caldo, ma fu contenta che suo padre avesse proposto di accendere il fuoco. In cucina si gelava, e anche con le fiamme che scoppiettavano prese un maglione dalla valigia e lo indossò. Mangiarono in silenzio, perché a Conley non piaceva parlare mentre si dedicava all'importante funzione del pasto. Dopo che Berna ebbe spazzolato le briciole, Conley sbadigliò. «E adesso a letto» decretò, prendendo di nuovo la candela. Attraversò la stanza da pranzo, staccò la lampada portatile e la spense. Sulle scale Berna gli stava alle calcagna. La candela di Conley proiettava una folla di ombre strane e curiosamente dritte. Sola nella stanza che suo padre le aveva assegnato, Berna tirò la coperta dal letto: le lenzuola erano così fredde che sembravano bagnate, ma lei aveva portato un rotolo di coperte dalla macchina. Rifece il letto daccapo e prima di coricarsi si inginocchiò. La preghiera gliel'avevano insegnata da piccola, quando sua madre era ancora viva: "Marco, Matteo, Luca e Giovanni, benedite questo letto e via gli affanni,
Quattro angoli ha il mio letto, Quattro santi sotto questo tetto: Uno per guardarmi, uno per pregare Dio, Due per portarsi l'anima mia." Poi ricordò che gli ultimi due versi la facevano rabbrividire. Benché seria e riflessiva, Berna era giovane: non voleva che la sua anima fosse portata via alla sua età. E a un tratto le venne in mente un'altra preghiera che diceva prima di andare a letto. L'aveva sentita molti anni prima da una mammy nelle piantagioni. Ripeté anche quella: "Proteggimi dalla strega e dal vudù, Tienimi lontana dall'ospizio dei poveri..." La tensione in lei sembrò allentarsi. Berna andò a letto, ascoltò per un pezzo il fruscio di un albero sferzato dal vento oltre la finestra e finalmente si addormentò. Dormì sodo fino a quando suo padre picchiò alla porta e le disse che era il momento di alzarsi. Mangiarono uova fritte e bacon, ma la cucina era fredda nonostante che le braci, dietro la grata, fossero rimaste accese tutta la notte. Quando ebbe finito di fare colazione Ward Conley si pulì le labbra e si diresse alla porta posteriore, tentando la maniglia: ma per quanto si sforzasse, non cedeva. «Vorrei che quel tale Shonokin fosse qui e aprisse anche questa» disse lui. «Be', usciremo dalla porta principale.» Uscirono insieme. Era presto, e l'aria era limpida e asciutta; Berna vide che i cespugli erano fioriti di blu, rosso e giallo, ma erano fiori che le sue conoscenze di botanica e giardinaggio non le permettevano di riconoscere. Fiancheggiarono la casa e videro un tranquillo cortile con un grande granaio rosso e alcuni capanni più piccoli. Più oltre si stendevano i campi, fertili a quanto pareva. «Laggiù hanno piantato qualcosa» disse Conley, proteggendosi gli occhi con una mano. «Ma se qualcuno pensa di poter usare i miei campi... be', perderà il raccolto. Berna, vai a casa e prepara un elenco delle cose che ci servono. Più tardi andrò in città, Hanksville o il paesotto di superstiziosi dove siamo passati ieri.» Conley si incamminò, con le mani in tasca, verso la terra oltre il granaio.
Berna fiancheggiò di nuovo la casa ed entrò dalla porta principale. Per la prima volta era sola nella casa nuova: immaginò il rumore dei suoi passi, anche sul tappeto dell'ingresso. In cucina lavò i piatti (c'era un acquaio, con acqua corrente che arrivava da qualche parte) e poi sedette per fare l'elenco che suo padre le aveva chiesto. Ci fu un piccolo rumore alla porta, come se un uccellino vi svolazzasse davanti. Berna alzò gli occhi sgranati. Ma non ci fu altro. Rimase dov'era, con la matita in mano, gli occhi aperti e immobili. Non mosse un muscolo ma non si sentiva rigida, oppressa e tantomeno accerchiata. Una parte della sua mente stupefatta e atterrita cercò di analizzare la situazione; decise che era un po' come l'esperimento che si fa alle medie, quando si intrecciano le dita e si ripete: "Non posso liberarmi, non posso", finché si è veramente incapaci di districare una mano dall'altra. Forse Berna respirava, forse il suo cuore continuava a battere; ma non ne fu sicura, in quel momento o in seguito. La porta che aveva resistito a tutti gli sforzi di suo padre si aprì dolcemente. Il signor Shonokin entrò, sorridendo. Aveva sempre le candele accese; ora le spense, poi le infilò in tasca. Di nuovo Berna fu in grado di muoversi. In un primo momento spostò soltanto gli occhi, osservandolo. L'uomo indossava il vestito bianco di buon taglio, di un tessuto che Berna non riuscì a identificare (ammesso che fosse tessuto e non una sorta di pelle, sottilissima e morbida oltre che perfettamente sbiancata). Le mani, che teneva graziosamente lungo i fianchi, erano lunghe e un po' strane, con gli anulari forse un po' troppo lunghi, più del medio. In una mano teneva l'ampio cappello, mentre i riccioli neri coprivano in onde morbide la fronte spaziosa. Quando gli occhi di Berna incontrarono i suoi, sorrise. «Ho parlato con suo padre» disse. «Ora voglio parlare con lei.» Berna si alzò, contenta di poterlo fare di nuovo. «Parlare?» ripeté. «Parlare di cosa?» «Di questa casa» le disse, posando il cappello sul tavolo. «Vede, l'atto di vendita non è molto chiaro.» Berna scosse subito la testa. Conosceva bene suo padre, non era tipo da farsi imbrogliare. «È assolutamente chiaro, signor Shonokin. Tutto a posto, fino alla concessione originaria da parte degli indiani.» «Ah» disse Shonokin, ancora gentile. «Ma agli indiani chi ha concesso questa terra? E quando? Glielo dico io: l'hanno avuta da noi, gli Shono-
kin.» Berna tremava per l'immobilità forzata di poco prima. Era stata ipnotizzata, pensò, come Trilby nel libro. Non doveva succedere di nuovo. Avrebbe affrontato lo sconosciuto con decisione e coraggio. «Non vorrà sostenere» replicò, tentando di mostrarsi altera «che la sua famiglia si trovava in questa parte del paese prima degli indiani.» «Eravamo dappertutto, prima degli indiani» affermò lui con un sorriso. Aveva denti bianchi, perfetti, leggermente appuntiti; anche gli incisivi sembravano acuminati come scalpelli. «Allora è indiano anche lei» disse la ragazza, ma l'altro fece un segno di diniego con la testa. «Gli Shonokin non sono indiani. Noi...» Si interruppe, come per scegliere le parole. «Non apparteniamo ad alcuna razza a lei familiare. Siamo vecchi anche quando siamo giovani. Abbiamo sottratto questa terra a creature troppo orrende perché lei possa immaginarle, anche se ormai sono morte e ne restano soltanto le ossa fossili. Abbiamo governato bene questa terra, con mezzi che purtroppo lei non capirebbe.» Parlava con un misto di tristezza e senso di superiorità. «Per ragioni che le sarebbero ugualmente incomprensibili, a un certo punto ci stancammo di governare. Fu per questo che permettemmo agli indiani di venire qui, ritirandoci in alcuni angoli del paese. Come questo, ad esempio.» «La nostra fattoria?» esclamò Berna. Stringeva ancora la matita, con tanta forza che le graffiava le dita. «La vostra fattoria» rispose il visitatore. «Gli indiani non hanno mai avuto alcun diritto su questo territorio: è sacro agli Shonokin, dove la loro sapienza e il loro dominio continueranno per sempre. Dunque, qualsiasi atto che risalga agli indiani è illegale. L'ho detto anche a suo padre, è la verità: non serve a nulla andare su tutte le furie e fare la figura degli stupidi.» «Così lei pensa che mio padre sia uno stupido» disse Berna. «Perché non glielo dice in faccia? Voglio vedere che cosa le farà.» «Gliel'ho detto» ribatté l'uomo che avevano battezzato signor Shonokin. «E non mi ha fatto niente. È rimasto in silenzio, paralizzato, come lei adesso. È bastato che accendessi le mie...» La mano dalla forma insolita accarezzò la tasca dove aveva messo il pacchetto di candele. «Se ne vada da questa casa e dalla nostra proprietà» disse Berna. Era un modo di parlare audace e coraggioso per una ragazza tranquilla come lei, ma notò con soddisfazione che se la cavava splendidamente. Fece un passo verso di lui: «E intendo adesso».
L'uomo sorrise di nuovo, facendo guizzare i denti appuntiti. Si diresse verso la porta aperta, fermandosi sulla soglia. «Quanta fretta» protestò dolcemente. «Noi volevamo essere chiari, tutto qui. Potrete godervi questa casa e relativa proprietà: godervela molto, come il vecchio Monroe... se accetterete lo stesso patto.» «Vendere le nostre anime?» scattò Berna. In vita sua non era mai stata tanto furiosa con qualcuno. «Gli Shonokin» rispose lui «non ammettono l'esistenza dell'anima.» Poi sparì, improvvisamente com'era sparito la sera prima in fondo al viale. Berna si rimise a sedere, con il cuore che batteva forte. Dopo un minuto arrivò suo padre e Berna si domandò se fosse pallida come lui. «Quel... quell'imbroglione, lestofante e puzzone» ansimava Conley. «Nessuno può permettersi di fare uno scherzo del genere a Ward Conley.» Si guardò intorno. «È stato anche qui? C'è ancora? Guarda che prendo il fucile.» «Se n'è andato» rispose Berna. «L'ho mandato via io. Ma chi è? Ha raccontato anche a te quel mucchio di frottole?» Mentre suo padre parlava Berna si rese conto che aveva creduto a tutto: alla storia degli Shonokin che dominavano il paese prima degli indiani, che ora volevano dominare di nuovo e che reclamavano la loro terra, dove nessuno poteva vivere se non in qualità di inquilino e vassallo. «Mi ha ipnotizzato o affatturato» disse Conley, ancora col fiato corto. «Se non avesse escogitato quel trucco l'avrei ammazzato, nel granaio c'è un forcone per il fieno. Ha cercato di farmi credere che per vivere qui, sulla mia terra, avrei dovuto fare non so che pasticcio insieme a lui.» Poi improvvisamente disse: «Berna, credo che cercherà di infilarsi ancora in casa nostra. Ma stavolta sarò pronto». «Fammi venire con te, quando vai in città» cominciò la ragazza, ma Conley fece un gesto d'impazienza con la mano. «Ci andrai da sola, sai guidare. Comprerai quello di cui abbiamo bisogno e intanto io starò qua ad aspettare il signor Furbone Shonokin.» Conley si alzò e andò nella camera da pranzo, dov'era sistemata la maggior parte delle valigie. Tornò col fucile a canne mozze, che stava montando. Era un modello automatico, ben tenuto. Conley mise solennemente un proiettile in canna. «Vedremo quanto piombo riesce a digerire» borbottò sinistro. Così Berna andò in macchina al villaggio. Nel general store, davanti al
quale gli sfaccendati si erano fatti beffe di loro la sera prima, comprò farina, patate, carne, lardo, cibo in scatola. Suo padre le aveva chiesto chiodi e qualche attrezzo per la casa, e di sua iniziativa Berna comprò due nuovi, pesanti catenacci. Quando tornò Conley approvò quest'ultimo acquisto e installò i catenacci, uno alla porta principale e uno a quella sul retro. «Anche le imposte si possono chiudere con il lucchetto» le riferì. «Che provi a entrare adesso, voglio proprio vedere.» Quando ebbe finito il suo lavoro Conley prese di nuovo il fucile e se lo mise sulle ginocchia. «Adesso siamo pronti a ricevere il signor Shonokin.» Ma era teso, nervoso, agitato. Tagliando la verdura per la cena Berna si tagliò e non fu contenta quando il sole calò all'orizzonte. Ad Hanksville parecchia gente era andata ad assistere all'arrivo del treno pomeridiano. L'oggetto della loro benevola attenzione era un passeggero che scendeva in quel momento, un gigante con piccoli baffi che si rivolse alla folla con voce autoritaria e carica d'intenzione. «È la casa del vecchio Monroe» risposero alla prima domanda. «Ma guardi, signore, che là non ci va nessuno.» «Io ci andrò subito. Questione di vita o di morte. C'è qualcuno disposto a prestarmi l'automobile?» Nessuna risposta. «Come ci si arriva?» fu la prossima domanda. Qualcuno gli descrisse l'incrocio, la strada sterrata, il ponte di pietra, i salici e il sentiero laterale. «Quanto è lontano?» Sedici, diciassette chilometri, osservò un altro. Un terzo spettatore opinò che fossero addirittura venti. «Allora non ho tempo da perdere» disse l'uomo «se devo andarci a piedi.» Attraversò Hanksville e quelli che avevano parlato con lui lo videro allontanarsi. Poi si guardarono in faccia, scossero la testa e qualcuno fece schioccare la lingua. Per Conley non fu facile spiegare alla figlia quello che era avvenuto fra lui e Shonokin. Innanzi tutto si era infuriato e aveva preso un bello spavento, che non gli era passato del tutto. In secondo luogo, c'erano troppe cose che non riusciva a capire. L'intruso si era materializzato a un passo da Conley, con quello speciale talento che consisteva nell'apparire e scomparire tanto rapidamente. Aveva ammirato cortesemente i campi dove crescevano granturco e fagioli e
quando Conley si era lamentato che qualcuno, dunque, usava liberamente la sua terra, gli aveva risposto che si trattava di prodotti piantati e coltivati a uso esclusivo dei Conley. A lui stesso, Shonokin, andava il merito di aver seminato e curato quello che prometteva di diventare un magnifico raccolto. «A questo punto» disse Conley a Berna «ha sollevato la questione del pagamento. Ho detto che naturalmente sarei stato lieto di dargli qualcosa in cambio del disturbo. Qualunque ragionevole somma, ho aggiunto. E lui giù con una proposta che non crederesti mai... nemmeno se giurassi su ognuna delle sue parole.» Shonokin voleva che i Conley vivessero piacevolmente, senza mancare di nulla e anzi nel benessere. Era disposto ad assicurare che niente avrebbe ostacolato o messo in pericolo la prosperità materiale della famiglia, ma Conley doveva firmare ora e subito un documento in cui riconosceva il proprio debito e la propria dipendenza. «Dipendenza!» urlò Conley, che poco ci mancava esplodesse mentre rievocava la scena alla figlia. «Dipendenza da un giovanotto che fino alla sera prima non avevo mai visto! Mi sono limitato a fissarlo, cercando le parole per rispondergli, e lui ha continuato con questa storia degli Shonokin, la sua gente, che si sarebbero assunta la responsabilità dei raccolti e della terra, decidendo che cosa convenisse piantare e facendo in modo che i risultati fossero sempre i migliori. Allora sono esploso.» Si interruppe e la sua faccia acquistò un colorito ancora più pallido. Era improvvisamente invecchiato. «Ti ho detto quello che è successo poi. Ho preso il forcone ma lui ha alzato la mano, sì, la mano luminosa.» «Vuoi dire le candele?» suggerì Berna. «È una mano, te l'assicuro, una specie di mano magrissima. Sulle dita appare la luce. Io mi sono immobilizzato come la statua di legno d'un indiano davanti a un negozio di sigari e quello mi ha sorriso nel modo odioso che sai, dicendo che adesso potevo pensarci con calma. Mi conveniva essere un buon inquilino, perché lui e io potevamo esserci di grande aiuto reciproco se non perdevamo tempo a litigare. Non ho potuto muovermi finché non se n'è andato.» Conley rabbrividì. «Ma a che cosa mira?» si domandò furioso. «Perché vuole immischiarsi negli affari nostri?» Una domanda, rifletté Berna, che nel corso della storia si erano poste milioni di persone che non capivano il senso della tirannia. Solo un altro ti-
ranno avrebbe potuto comprendere, tormentato dal bisogno e dall'urgenza di dirigere gli altri. «Non tornerà» disse la ragazza cercando di essere convincente senza riuscirvi. «Sì che lo farà» replicò Conley, sinistro. «Ma stavolta sarò pronto per lui.» Accarezzò il fucile che teneva in grembo. «La cena è pronta?» Lo era, ma non avevano molta fame. Dopo Berna lavò i piatti, pensando che non aveva mai sentito un'acqua così fredda. Conley andò in soggiorno e poco dopo Berna lo raggiunse. Il padre si era sistemato su una robusta sedia a dondolo e teneva il fucile in grembo. «La mobilia è buona» disse la ragazza per fare conversazione. «Mi fa venire in mente un'altra cosa che ha detto quel puzzone» ribatté Conley. «Che gli Shonokin avevano costruito la casa e fatto i mobili. Che i mobili gli appartenevano e... avrebbero fatto la loro volontà. Che significa?» Berna non lo sapeva e non rispose. «Quei catenacci nuovi, però, non li ha fatti lui» continuò il padre. «Non gli obbediranno. Che provi a venire dentro.» Quando Conley ripeteva sempre la stessa cosa voleva dire che era confuso e spaventato. Le ombre della sera si addensavano e la lampada appesa alla parete non riusciva a disperderle. Berna avrebbe voluto avere la radio. Ce n'era una in macchina e quella sera i programmi erano ottimi, ma Berna non si sarebbe avventurata all'aperto nemmeno per incontrare di persona tutti i beniamini della radio. In seguito, forse, avrebbero comprato un apparecchio da camera per il soggiorno: a patto, rifletté, di uscire vivi da quella notte e dai giorni e le notti che li aspettavano. A patto di sconfiggere o ignorare l'uomo bruno e snello che li minacciava. Conley aveva tolto dai pacchi i pochi libri che possedevano. Uno era sul tavolino accanto alla sedia di Berna, un grosso volume con le opere di Shakespeare che un rappresentante di libri aveva venduto alla madre della ragazza anni prima. Berna apprezzava la poesia né più né meno di altre ragazze di limitata educazione ed esperienza, ma ricordò le parole di un vicino quando avevano acquistato il volume: Shakespeare, come la Bibbia, poteva essere usato per "indovinare la sorte". Era una vecchia abitudine di campagna, e nell'America rurale qua e là qualcuno ancora la seguiva. Si apriva il libro a caso e si toccava con il dito un certo passo, che rappresentava la risposta al problema del momento. La moglie di Enoch Arden non aveva fatto qualcosa del genere, se i ricordi scolastici di Berna non la tra-
divano? Si mise in grembo il volume e lasciò che si aprisse. Senza guardare la pagina stampata fitta su due colonne, puntò rapidamente l'indice. Era l'atto primo del Macbeth, scena III. Berna si chinò a leggere le parole illuminate dalla lampada: "Gli esseri dei quali parliamo sono stati qui veramente o abbiamo mangiato di quella radice insana che fa prigioniera la ragione?" Piuttosto appropriato, date le circostanze. Shakespeare, a quanto ne sapeva, era pieno di scene terribili, profezie, streghe, fantasmi eccetera. Ma cos'era "la radice insana"? Non suonava rassicurante. Comunque, Shonokin aveva momentaneamente imprigionato la loro mente con i suoi vili trucchi ipnotici. Berna giurò a se stessa di non farsi sorprendere un'altra volta: aveva sentito che una forte volontà può resistere a cose del genere. Prese il libro per rimetterlo sul tavolino. Non ci riuscì. Come prima, le palpebre dei suoi occhi non si chiudevano e i muscoli rifiutavano di obbedirle. Poté solo guardare la porta che si apriva in fondo all'ingresso, lentamente, facendo trapelare la bianca luce cadaverica di Shonokin. L'uomo entrò in casa, vestito di bianco ed elegante come al solito, con il sorriso sulle labbra. Teneva la sorgente di luce ben in vista: Conley aveva ragione, si trattava di una mano. Quello che in un primo momento poteva sembrare un fascio di candele tenute insieme da uno spago era in realtà una mano con cinque dita, da ognuna delle quali sprigionava una vivida fiamma. Berna si accorse che erano rinsecchite e rimpicciolite, e che dalla pelle ruvida sul dorso di ciascun dito sporgevano ossa e tendini. Shonokin posò la mano, accuratamente, su un piccolo tavolo accanto alla porta che dava nell'ingresso: in fondo al polso era piatta e stava dritta come un orribile candelabro. Shonokin si avvicinò con un'occhiata di trionfo a Conley e una a Berna, entrambi paralizzati. «Adesso possiamo sistemare tutto» disse con la sua voce gentile, facendo seguire le parole da una lieve e terribile risata. Si fermò davanti agli occhi sbarrati di Berna che poté osservare da vicino il vestito bianco, il cui
misterioso tessuto era crivellato di pori. Le mani dall'anulare eccezionalmente lungo non avevano unghie umane ma artigli stretti e curvi, curati in modo tale da terminare in una punta acuminata. «Il signor Conley non è un uomo ragionevole» disse la creatura. «È anziano, ma fin da giovane ha un carattere duro, meschino, da spaccone. Berna, tuttavia...» I suoi occhi scivolarono sulla ragazza. Le pupille avevano una piega perpendicolare, come quelle dei gatti. «Miss Berna è giovane» continuò l'intruso. «Non è inquieta, avida o violenta. Ascolterà e obbedirà il saggio consiglio degli Shonokin, anche quando non comprenderà del tutto.» Appoggiò le mani, con le dita aperte, sul grosso tavolo: al suo toccò sembrò che ondeggiasse come un pezzo di legno sulla corrente. «E obbedirà tanto più volentieri» continuò il loro carceriere «quando vedrà con quale facilità elimineremo suo padre e le sue sciocche resistenze.» Lo sguardo si spostò sull'uomo paralizzato. «Conley, oggi sei stato così scortese da farmi capire che mettevi in dubbio molte delle cose che dicevo. In particolare, ti sei fatto beffe dell'idea che questi mobili si muovessero al mio comando. Ma osserva.» La mano sottile aveva appena sfiorato la superficie del tavolo. Shonokin accostò le dita aperte e gli artigli duri e acuminati grattarono leggermente il legno. Il tavolo tremò di nuovo, cigolò e si mosse. Spiritismo, continuò a dirsi Berna. I medium sapevano come creare illusioni del genere per i clienti, durante le sedute a pagamento. Uomini come il dottor Dunninger e John Mulholland ne avevano parlato sui giornali, spiegando i trucchi. Quello Shonokin doveva essere un prestigiatore professionista. Alzò la mano e il tavolo si sollevò in sintonia col gesto, come se non pesasse affatto. Poi si attaccò alle sue dita. «Come vedi obbedisce» sottolineò la voce tranquilla. «Ma ora ti darò la dimostrazione completa, Conley. Questo tavolo ti ucciderà.» Shonokin si avviò verso la sedia a dondolo di Conley e il tavolo lo seguì. «È pesante, Conley, anche se io lo faccio sembrare leggero. Il legno è scuro e antico, duro e solido quasi come metallo. Il tavolo può ucciderti e nessuno potrà mai dire che è stato un assassinio. La vostra legge non punisce o mette in prigione un mobile insensibile, anche se molto pesante.» Continuò ad avanzare verso Conley e il tavolo gli teneva dietro. Sembrava un animale domestico, un grosso animale quadrato che il padrone spingesse con leggeri colpetti sul fianco. «Ti schiaccerà, Conley. Berna, mi senti? Osserva bene e ricordatelo,
perché quando sarà tutto finito capirai di non poterlo raccontare agli altri. Nessuno crederà alla vera causa della morte di tuo padre, sembrerà una disgrazia: un grosso tavolo che gli cade addosso e lo schiaccia. Quale sceriffo o capo della polizia sarebbe così stupido da credere alla verità?» Anche se fosse riuscita a parlare, Berna non avrebbe negato la logica di quel ragionamento. «E una volta morto tuo padre, qui diventerai la padrona. Imparerai a obbedirmi e a obbedire alla mia gente, riconoscerai la nostra supremazia e ti sottometterai alla nostra guida. Questa fattoria è isolata e ricca: costituirà il nostro punto d'incontro per preparare ciò che vogliamo fare di nuovo nel mondo. Ma prima...» Ancora una volta la mano si mosse. Il tavolo si sollevò in verticale, ormai vicino alla poltrona di Conley. Era lungo e massiccio e scricchiolava minacciosamente, come un vecchio ponte levatoio che si alzasse. Le grosse gambe levate nell'aria si muovevano come le zampe anteriori di un cavallo che scalcia, o così sembrava. Ma forse era solo il riflesso del candeliere a forma di mano, davanti alla porta. «Più vicino» disse Shonokin e il tavolo avanzò, con le gambe che tremavano. Fra un momento sarebbero cadute sulle loro vittima, come due pali. «Più vicino. Adesso...» Qualcosa si mosse davanti alla porta d'ingresso; una figura grande e grossa che non faceva rumore. Un braccio scattò, più simile a un serpente. La mano luminosa volò dal punto in cui era stata sistemata e finì sul pavimento. Un piede la schiacciò e le fiammelle si spensero contemporaneamente. Shonokin si girò, fulmineo, e la mano lasciò il tavolo. Il mobile cadde di lato, con un fracasso che fece tremare le finestre. Un attimo dopo si udì un fragore ancora più lacerante. Conley si era alzato, aveva spinto la canna del fucile fra le costole di Shonokin e aveva premuto il grilletto. La scarica tagliò quasi a metà la snella figura dell'intruso. Ci volle tutta la forza dei muscoli di John Thunstone per raddrizzare il tavolo; fatto questo, sedette sul bordo e cominciò a parlare con Berna e Conley, che ricaddero sulle rispettive poltrone. Erano troppo stanchi per fare altro che ringraziare. «Un incantesimo ben noto» disse Thunstone. «La "mano gloriosa" è nota anche in Europa e in Messico.» Diede un'occhiata all'orrenda reliquia che
aveva calpestato, sul pavimento. «Se ne parla nell'Encyclopedia of Occultism di Spence e nelle Ingoldsby Legends, dove esiste un racconto in versi che la riguarda. La mano di un assassino morto - che individui come gli Shonokin non fanno fatica a procurarsi - viene trattata con benzina e salnitro in modo da essere infiammabile. Una formula che qui non c'è bisogno di ripetere le conferisce i suoi poteri. Accesa dallo stregone cui appartiene può aprire le porte e paralizzare tutti quelli che si trovano in casa, che diventano rigidi come morti.» «Ma lei ha potuto muoversi» osservò Conley. «Perché sono arrivato dopo che la mano aveva scagliato l'incantesimo. Non c'entravo, come del resto il vostro visitatore.» Thunstone guardò il corpo sottile e silenzioso nascosto da una coperta sul pavimento. «La mano gloriosa fa parte della magia Shonokin?» chiese Berna. «Sono stati loro i primi a impararne il segreto e a svelarlo agli altri popoli?» «Sugli Shonokin non ne so molto più di voi. Sembra evidente che esistano, che stiano tramando per tornare all'azione nel mondo e che pretendano di possedere alcune terre, come ad esempio la vostra. Ma la morte di uno di loro potrebbe fermare gli altri.» «Come?» chiese Conley. «Lo seppelliremo sotto le pietre del vialetto lastricato. Il suo corpo terrà lontani gli altri Shonokin dalla sua porta. Hanno una mentalità magica e sono pericolosi, ma se c'è una cosa di cui hanno paura sono i loro morti.» «Cosa diremo alle autorità?» chiese Berna con voce tremante. «Niente se voi non parlerete, e che cosa potreste dire? Quando stavo per entrare ho sentito le parole di quell'individuo, del resto molto vere: nessuno crederebbe a una storia del genere, anche in una regione superstiziosa come questa. Facciamo come vi ho detto: giustizia è stata fatta, in un certo senso. Non credo che verrete disturbati da altri Shonokin, anche se forse ne sentiremo parlare in altri angoli del mondo.» «Chi o che cosa sono?» gridò Berna. «Che cosa sono?» Thunstone scosse la testa poderosa. «I miei studi non sono affatto completi. Tutto ciò che so è che sono una vecchia razza, molto furba e molto sicura della propria superiorità. E che la loro strada non è la nostra. Signor Conley, è pronto?» Conley andò a prendere pala e piccone. Sola con Thunstone e il cadavere sotto la coperta, Berna disse: «Non so come ringraziarla...» «Allora non ci provi.» Lui sorrise. Berna gli mise la piccola mano sul
braccio poderoso. «Pregherò sempre per lei» promise. «Le preghiere sono la cosa di cui ho più bisogno» rispose Thunstone, grato a sua volta. Titolo originale: The Dead Man's Hand Postilla Esistono al mondo lingue parlate da centinaia di milioni di persone e piccoli idiomi isolati che servono solo agli abitanti di qualche valle nascosta, poche migliaia di individui. Allo stesso modo ci sono pratiche occulte diffuse ovunque e altre regionali o locali. Manly Wade Wellman si è specializzato in racconti che riguardano superstizioni e credenze magiche di alcune comunità arretrate americane, in particolare quelle che vivono in regioni montagnose. Ha persino creato leggende artificiali come quella degli Shonokin. Ma, proprio come ci sono idiomi locali parlati da poche persone e grandi lingue internazionali, così le pratiche occulte possono essere circoscritte oppure universali. Quella della "mano gloriosa", come dice anche Wellman, è una credenza piuttosto diffusa: forse è naturale pensare che "la mano di un assassino morto" abbia assorbito il principio spirituale del male e quindi goda di vita propria. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Sir Gilbert Edward Campbell, "The Thief's Taper", in Wild and Weird Tales of Imagination and Mystery: Russian, English and Italian, Ward, Lock, Londra 1889. August Derleth, "Glory Hand", in Someone in the Dark, Arkham House, Sauk City 1941. R. H. Maiden, "The Blank Leaves" in Nine Ghosts, Arnold, Londra 1943. Seabury Quinn, "The Hand of Glory" in The Hellfire Files of Jules de Grandin, Popular Library, New York 1976. Manly Wade Wellman, "Larroe Catch Meddlers" in Worse Things Waiting, Carcosa, Chapel Hill 1973.
Obblighi sovrannaturali LA FALCE di Ray Bradbury All'improvviso la strada finì. Attraversava la valle come ogni altra strada, fra colline di roccia nuda e macchie di querce, e a un tratto fiancheggiava un campo di grano ampio e solitario in mezzo a una regione desolata. La strada risaliva alla casetta bianca annessa al campo e lì scompariva, come se non ce ne fosse più bisogno. Non che avesse molta importanza, perché comunque la benzina era finita. Drew Erickson tirò il freno della vecchia automobile e rimase dov'era, senza parlare, con gli occhi fissi sulle grandi mani da contadino. Senza muoversi dall'angoletto che occupava al suo fianco, Molly disse: «Si vede che all'incrocio abbiamo preso la biforcazione sbagliata». Drew annuì. Molly aveva le labbra bianche quasi come la faccia. La sola differenza è che erano asciutte, mentre la pelle era imperlata di sudore. Aveva una voce piatta, inespressiva. «Drew» disse. «Drew, e adesso che facciamo?» Drew si guardò le mani. Mani di contadino cui il vento che non è mai sazio di mangiar terra aveva portato via il podere. I bambini sul sedile posteriore si svegliarono e si tirarono fuori dai fagotti impolverati di coperte e lenzuola. Le testoline si affacciarono sullo schienale del sedile e uno disse: «Che ci fermiamo a fare, pà? È ora di mangiare, pà? Pà, abbiamo una fame da lupi. Possiamo mangiare, pà?». Drew chiuse gli occhi. Non sopportava la vista delle sue mani. Le dita di Molly gli toccarono il polso. Molto piano, molto dolci. «Drew, forse in quella casa hanno avanzato qualcosa da mangiare. Dovremmo fare il tentativo.» La mano di Molly strinse il polso del marito. Egli la guardò negli occhi: vide lo sguardo di Susie e del piccolo Drew che lo fissavano, e a un tratto il collo e la schiena irrigiditi cominciarono a rilassarsi. La faccia si ammorbidì e perse ogni espressione, informe come una cosa battuta troppo forte e troppo a lungo. Drew uscì dalla macchina e risalì il sentiero che portava alla casa. Camminava incerto, come un uomo che sta male o è quasi cieco.
La porta era aperta. Drew bussò tre volte ma dentro non c'era che silenzio e una tendina bianca che si muoveva nell'aria calda e greve. Lo capì prima di entrare. Capì che nella casa era arrivata la morte: il silenzio era di quel tipo. Drew attraversò un piccolo soggiorno lindo e un breve corridoio. Non pensava a niente, non pensava più. Puntava alla cucina senza farsi domande, come un animale. Poi guardò al di là di una porta aperta e vide il morto. Era vecchio, giaceva su un letto bianco e pulito. Non era morto da molto e non aveva perso l'ultima, serena espressione di pace. Doveva aver capito che stava per morire, perché indossava il vestito con cui sarebbe sceso nella tomba: un vecchio completo nero decente e spazzolato, una camicia bianca pulita e una cravatta nera. Sulla parete accanto al letto era appoggiata una falce. Il vecchio teneva nelle mani una spiga di grano ancora fresca: una spiga matura, dorata e pesante nell'infiorescenza. Drew entrò nella camera da letto, camminando piano. Aveva addosso un senso di torpore. Si tolse il cappello sfondato e pieno di polvere e rimase in piedi accanto al letto, guardando in basso. Il pezzo di carta si trovava sul cuscino, vicino alla testa del morto. Era aperto, dunque era lì per essere letto. Forse conteneva la richiesta che lo seppellissero, o forse voleva che chiamassero un parente. Drew posò gli occhi sul messaggio, aggrottando le sopracciglia. Muovendo le labbra pallide e secche, lesse: "A colui che si trova presso di me su questo letto di morte. Essendo nel pieno possesso delle mie facoltà e solo al mondo come è stato accertato, io, John Buhr, dono e consegno questa fattoria con tutto quanto le appartiene all'uomo che verrà. Qualunque sia il suo nome o la sua origine, la fattoria e il campo di grano gli appartengono, e così la falce e la servitù che ad essa è legata. O tu, prendi liberamente possesso di tutto e ricordati che io, John Buhr, sono semplicemente il donatore, non colui che ha istituito la servitù. A questo posi mano addì tre aprile 1938. (Firmato) John Buhr. Kyrie eléison!" Drew andò sul retro della casa e aprì la porta con la zanzariera. Poi disse: «Molly, vieni qui. Bambini, voi restate in macchina».
Molly venne in casa ed egli la portò in camera da letto. Molly vide il testamento, la falce e il campo di grano che ondeggiava nel vento caldo oltre la finestra. Aveva la faccia tesa e bianca, e stringendosi a lui si morse un labbro. «È troppo bello per essere vero. Dev'esserci qualche trucco.» Drew disse: «La nostra fortuna sta cambiando, ecco tutto. Avremo un lavoro, qualcosa da mangiare e un tetto per ripararci dalla pioggia». Toccò la falce che brillava come una mezzaluna. Sulla lama erano incise queste parole: CHI MI IMPUGNA REGGE IL MONDO! Per il momento non significava granché. «Drew» chiese Molly, guardando le dita intrecciate del vecchio. «Perché... perché stringe quella spiga di grano così forte?» Ma in quel momento il silenzio fu interrotto dal rumore dei bambini che si arrampicavano sul portico di casa. Molly trasalì. Si erano stabiliti nella casa. Avevano seppellito il vecchio su una collina e recitato qualche parola sulla tomba, poi erano tornati dentro. Avevano spazzato l'alloggio, e dopo aver scaricato la macchina avevano preparato qualcosa da mangiare, perché in cucina c'era una quantità di cibo. Per tre giorni non avevano fatto altro che adattare la casa alle loro esigenze, contemplare la terra e dormire in quei buoni letti, guardandosi l'un l'altro con meraviglia perché tutto questo capitava a loro, perché lo stomaco era pieno e per il capofamiglia c'era persino un sigaro da fumare la sera. Sul retro della casa c'era una piccola stalla con un toro e tre vacche; inoltre c'erano una dispensa costruita su un pozzo e una su una sorgente, che alcuni grossi alberi mantenevano fresche. Nella prima dispensa c'erano grossi pezzi di carne, prosciutto, maiale e montone, quanto bastava per mantenere una famiglia come la loro per un anno, due anni e forse tre. Poi c'erano una zangola e una scatola per il formaggio, e grandi bidoni di metallo per il latte. Il mattino del quarto giorno Drew Erickson era a letto e guardò la falce. Sapeva che era venuto il momento di mettersi al lavoro, perché nel grande campo c'era grano maturo: l'aveva visto coi suoi occhi e non voleva diventare un uomo pigro. Tre giorni a far niente erano abbastanza per chiunque. Si alzò nel primo fresco profumo dell'alba, prese la falce e la tenne davanti a sé mentre avanzava nel campo. Poi la impugnò con entrambe le mani e la calò sulle spighe. Era un campo veramente grande, troppo grande perché potesse occuparsene un uomo solo. Eppure così era stato,
Alla fine del primo giorno di lavoro Drew tornò in casa con la falce tranquillamente appoggiata in spalla, ma nei suoi occhi c'era uno sguardo perplesso. Un campo come quello non l'aveva mai visto: il grano maturava in ammassi separati, ognuno distante dagli altri. Una cosa del genere non si era mai sentita e lui non disse niente a Molly. Non le disse niente di ciò che riguardava il lavoro: ad esempio, che il grano marciva poche ore dopo essere stato tagliato; il grano normale non fa così e questo lo preoccupava. Non troppo, però: in casa c'era da mangiare a sufficienza. La mattina dopo il frumento tagliato che aveva lasciato a marcire si era ripreso e aveva messo piccoli germogli verdi, con minuscole radici nuove. Era rinato. Drew Erickson si massaggiò il mento, chiedendosi come e perché il grano si comportasse in quel modo e a che gli sarebbe servito: venderlo non si poteva. Durante il giorno s'incamminò un paio di volte verso la collina dov'era sepolto il vecchio, forse con l'idea di poterci vedere più chiaro. Guardò in basso e vide quanta terra possedeva. Il frumento si stendeva per oltre cinque chilometri verso le montagne e occupava un'ampiezza di circa due acri: parte in germoglio, parte color dell'oro e parte tagliato da lui stesso. Ma il vecchio non poté dirgli niente: sopra di lui c'era un mucchio di terra e di pietre. La tomba era al sole, silenziosa e accarezzata dal vento, Drew Erickson tornò nel campo a usare la falce, con soddisfazione perché gli sembrava una cosa importante. Non sapeva perché, ma sentiva che era così. Molto, molto importante. Non poteva limitarsi a lasciarlo crescere: c'erano sempre zone mature. Riflettendo ad alta voce e senza rivolgersi a nessuno in particolare, Drew disse: «Se taglio questo grano appena è maturo per i prossimi dieci anni, non passerò due volte nello stesso punto. È un campo enorme». Scosse la testa. «E poi, matura un poco alla volta: non è mai troppo, ogni volta riesco a falciare tutto quello pronto. Così alla fine della giornata restano solo le spighe verdi. E la mattina dopo, è sicuro, un'altra fascia è maturata...» Era da stupidi tagliare un grano che marciva appena caduto, e alla fine della settimana Drew decise di sospendere il lavoro per qualche giorno. Rimase a letto fino a tardi, ascoltando il silenzio della casa che non era un silenzio di morte ma di creature che vivevano bene e felici. Si alzò, si vestì e fece colazione lentamente. Non sarebbe andato a lavorare. Uscì per mungere le vacche, rimase sul portico a fumare una sigaretta, passeggiò un poco nel cortile sul retro e quando tornò chiese a Molly cosa fosse uscito a fare.
«A mungere le vacche» rispose lei. «Ah, sì» disse il marito e andò fuori di nuovo. Trovò le vacche in attesa e piene di latte; le munse, mise i bidoni di metallo nella dispensa sulla sorgente e continuò a pensare ad altre cose. Il grano, la falce. Per tutta la mattina rimase sul portico dietro casa ad arrotolare sigarette. Costruì una barca giocattolo per il piccolo Drew e una per Susie, poi sbatté una parte del latte per farne burro e separò il siero, ma il sole picchiava forte e la testa gli faceva male: bruciava. All'ora di colazione non aveva fame, continuò a guardare il grano mosso e agitato dal vento. Sedette di nuovo sul portico, le braccia piegate; a un tratto le dita appoggiate alle ginocchia cominciarono a prudergli e le mani afferrarono l'aria, perché i palmi scottavano e gli davano i tormenti. Drew si alzò, sfregò le mani sui pantaloni e sedette di nuovo, cercando di arrotolare un'altra sigaretta. Ma la miscela lo faceva impazzire e buttò via tutto borbottando. Aveva la sensazione che gli avessero tagliato un terzo braccio, che avesse perso una parte di sé. Sì, aveva a che fare con le sue mani e braccia. Sentì il vento soffiare nei campi. Verso l'una cominciò a entrare e uscire di casa come un'anima in pena e a far progetti per scavare un canale d'irrigazione; ma continuava a pensare al grano e a quanto era bello e maturo, impaziente di essere tagliato. «Dannazione!» Andò in camera da letto, staccò la falce dai pioli cui era assicurata e la impugnò. Si sentiva più calmo, le mani avevano smesso di prudere e la testa non gli faceva male. Il terzo braccio era tornato, era intatto di nuovo. Era un istinto, illogico come un fulmine che ti colpisce senza farti male. Ogni giorno il grano doveva essere tagliato. Assolutamente. Perché? Perché era così, e questo è tutto. Drew guardò la falce nelle sue grandi mani e rise. Poi, fischiettando, la portò nel campo maturo e in attesa e fece il lavoro. Pensò di essere un po' pazzo. Diavolo, era un campo come tutti quanti gli altri, no? Quasi. I giorni galoppavano come bei cavalli. Drew Erickson cominciò ad associare il suo lavoro a una specie di dolore sordo, di fame o bisogno. Tutte cose che aveva in testa. Un giorno, a mezzogiorno, Susie e il piccolo Drew ridevano e giocavano con la falce mentre il padre mangiava in cucina. Lui li sentì e gliela tolse di mano. Non li sgridò, ma fece un'espressione corrucciata e da allora in poi tenne la falce sotto chiave.
Non passava giorno senza che andasse a falciare. Su e giù, su e giù e di lato; e poi di nuovo, su e giù e di lato. La falce: dall'alto in basso. Su. Pensa al vecchio e alla spiga che teneva in mano quando morì. Giù. Pensa a questa terra morta, dove solo il grano vive. Su. Pensa all'assurda sequenza di grano verde e maturo, e al modo in cui cresce! Giù. Pensa... Il frumento ondeggiava intorno alle sue caviglie come una marea gialla. Il cielo diventò nero, Drew Erickson posò la falce e si piegò per reggersi lo stomaco, mentre la vista davanti ai suoi occhi si annebbiava. Il mondo vacillò. «Ho ucciso qualcuno!» ansimò, soffocando e stringendosi il petto; poi cadde in ginocchio accanto alla falce. «Ho ucciso un mucchio...» Il cielo turbinava come una giostra azzurra alla fiera della contea nel Kansas. Ma non c'era musica, a parte il sibilo nelle sue orecchie. Quando entrò barcollando in cucina, portandosi appresso la falce, trovò Molly che sbucciava patate sul tavolo azzurro. «Molly!» La figura di sua moglie ondeggiava in un velo di lacrime. Era lì, con le mani aperte, aspettando che parlasse. «Fai subito le valigie!» disse Drew, guardando a terra. «Perché?» «Ce ne andiamo» rispose senza enfasi. «Ce ne andiamo?» «Il vecchio. Sai chi era? Si tratta del grano, Molly, e di questa falce. Ogni volta che la uso nel campo, migliaia di persone muoiono. È come se le spezzassi io...» Molly si alzò, mise da parte il coltello e le patate e disse, comprensiva: «Abbiamo viaggiato parecchio e non abbiamo mangiato a sufficienza fino al mese scorso, quando siamo arrivati qui. Tu lavori ogni giorno e sei stanco...». «Sento delle voci, tristi voci, in mezzo al grano» ribatté lui. «Mi pregano di fermarmi, di non ucciderli!»
«Drew!» Ma non l'ascoltava. «In quel campo il grano cresce senza nessuna regola, in modo assurdo e selvaggio. Non te l'avevo detto, ma è tutto sbagliato.» Sua moglie lo guardava. Gli occhi di Drew sembravano due pezzi di vetro azzurro, nient'altro. «Pensi che sono pazzo» le disse. «Ma aspetta, ho ancora qualcosa da dirti. Oh, Molly, aiutami, ho appena ucciso mia madre!» «Smettila!» esclamò lei, dura. «Ho tagliato una spiga di grano e l'ho uccisa. L'ho sentita morire, ecco come finalmente ho scoperto...» «Drew!» La voce di Molly fu come uno schiaffo in piena faccia, e oltre che furiosa era incrinata dalla paura. «Stai zitto!» Lui mormorò: «Oh, Molly...». La falce gli cadde di mano e risuonò sul pavimento. Molly la raccolse con uno scatto d'ira e la mise in un angolo. «Sono con te da dieci anni» disse. «A volte abbiamo mangiato solo polvere e preghiere. All'improvviso ci capita questa fortuna e tu non riesci a sopportarla!» Andò a prendere la Bibbia in soggiorno. Sfogliò le pagine, che frusciavano come il grano mosso da un vento debole e leggero. «Siediti e ascolta» disse Molly. Dal sole veniva il rumore dei bambini che giocavano all'ombra della grande quercia vicino alla casa. Molly lesse un passo dalla Bibbia, alzando gli occhi di tanto in tanto per vedere l'espressione di Drew. Da allora in poi lesse la Bibbia ogni giorno. Il mercoledì seguente, una settimana dopo, Drew andò alla città lontana per vedere se ci fosse posta ordinaria e trovò una lettera. Tornò a casa invecchiato di duecento anni. Porse la lettera a Molly e riassunse il messaggio con voce gelida, fragile. «Mia madre è morta all'una del pomeriggio di martedì. Il cuore...» Tutto ciò che Drew Erickson disse fu: «Metti i bambini in macchina è caricala di provviste. Andiamo in California». «Drew...» cominciò sua moglie, reggendo la lettera. «Lo sai anche tu» ribatté lui. «Questa terra non produce buon grano, eppure guarda com'è maturo in quel campo. Non ti ho detto tutto: matura a chiazze, un po' al giorno. Non è giusto. E quando lo taglio, marcisce! Poi al mattino, non si sa come, è ricresciuto! Martedì scorso, quando tagliavo
il grano, mi è sembrato di strapparmi la pelle di dosso. Ho sentito dei lamenti, come se... E oggi, questa lettera.» Lei disse: «Noi restiamo qui». «Molly.» «Restiamo qui perché siamo certi di mangiare, dormire e vivere decentemente, e a lungo. Non voglio che i miei bambini patiscano la fame, mai più!» Oltre le finestre il cielo era azzurro. Il sole entrava obliquamente e illuminava metà della faccia tranquilla di Molly, facendo risplendere un occhio azzurro. Prima che Drew replicasse, quattro o cinque gocce d'acqua si gonfiarono all'estremità del rubinetto di cucina e caddero, brillando. «Va bene» disse lui con un sospiro. «Resteremo.» Prese debolmente la falce. Le parole incise sul metallo balenarono in un lampo di sole: CHI MI IMPUGNA REGGE IL MONDO! «Resteremo...» La mattina dopo Drew s'incamminò verso la tomba del vecchio. In mezzo c'era una singola spiga di grano che cresceva tutta sola: la stessa spiga, rinata, che il vecchio aveva stretto fra le dita alcune settimane prima. Drew parlò al vecchio senza avere risposte. «Hai lavorato il campo tutta la vita perché dovevi; un giorno hai falciato lo stelo della tua esistenza che cresceva in mezzo agli altri. Sapevi che era il tuo, così l'hai tagliato e sei andato a casa, hai messo il vestito della sepoltura e il cuore ti è mancato. Sei morto. È andata così, vero? Poi mi hai passato la mano, e quando io morirò la passerò a qualcun altro.» La voce di Drew era piena di timore. «Da quanto tempo va avanti tutto questo? Nessuno sa dell'esistenza del campo e del suo scopo, a parte l'uomo con la falce...» A un tratto si sentì molto stanco. La valle era antica, mummificata, segreta, asciutta e concava, potente. Quando gli indiani ballavano sulla prateria il campo era già lì. E prima degli indiani? Un uomo di Cro-Magnon, peloso e bitorzoluto, si era forse aggirato nel grano vivente con una rozza falce di legno... Drew tornò al lavoro. Su, giù. Su, giù. Ossessionato dall'idea di essere quello che impugnava la falce. Lui, proprio lui! L'idea lo travolse con forza terribile, e orrore. Su! CHI MI IMPUGNA... Giù!... REGGE IL MONDO! Dovette rassegnarsi al suo compito con una certa filosofia. Non era altro
che un modo di procurare cibo e alloggio alla sua famiglia. Pensò: meritano di mangiare e vivere una vita decente, dopo tutti questi anni. Su e giù. Ogni stelo una vita che lui spezzava diligentemente in due. Se fosse stato attento... lui, Molly e i bambini avrebbero potuto vivere in eterno! Una volta trovato il punto in cui crescevano i germogli di Molly, Susie e del piccolo Drew non li avrebbe mai tagliati. E poi, come se avesse letto un segnale, li trovò. Proprio davanti a lui. Un altro movimento del braccio e li avrebbe falciati. Molly, Drew, Susie. Ne era sicuro. Si inginocchiò, tremando, e guardò quei piccoli steli di frumento. Quando li toccò, brillarono. Drew brontolò di sollievo. E se li avesse falciati, senza immaginare che fossero loro? Lasciò andare il fiato, si alzò e prese la falce. Poi si allontanò dal campo e rimase per un pezzo a guardare in basso. A Molly parve molto strano che tornasse a casa presto e la baciasse sulla guancia, per nessuna ragione al mondo. A cena Molly disse: «Sei tornato presto, oggi. Il grano... va sempre a male quando lo tagli?». Lui annuì e prese dell'altra carne. Molly riprese: «Dovresti scrivere al dipartimento dell'agricoltura e farli venire a dare un'occhiata». «No» rispose Drew. «Era solo un'idea» ribatté lei. Drew spalancò gli occhi. «Devo restare qui tutta la vita. Nessuno deve pasticciare con quel grano. Non saprebbero dove tagliare e non tagliare. Potrebbero falciare nel punto sbagliato.» «Quale punto sbagliato?» «Niente» rispose Drew masticando lentamente. «Proprio niente.» Poi mise giù la forchetta, con forza. «Chissà che combinerebbero, quelli del governo! Potrebbero addirittura... arare il campo completamente, da cima a fondo!» Molly annuì. «È proprio quel che ci vuole. Ricominciare daccapo, con nuovi semi.» Lui non finì di mangiare. «Non scriverò al governo e non affiderò questo campo alle mani di estranei, è tutto!» Poi uscì, sbattendo la porta schermata dietro di lui.
Girò intorno al punto in cui le vite di sua moglie e i suoi figli germogliavano al sole e usò la falce all'estremità opposta del campo, dove sapeva che non avrebbe fatto errori. Ma il lavoro non gli piaceva più. Dopo un'ora capì di aver dato la morte a tre vecchi e cari amici del Missouri, Lesse i loro nomi nel grano tagliato e non poté più andare avanti. Chiuse la falce in cantina e mise via la chiave. Era stanco di mietere, stanco una volta per tutte. A sera andò sul portico a fumare la pipa e raccontò ai bambini storie che li fecero ridere. Ma non ridevano molto: sembravano chiusi in se stessi, stanchi e un po' strani, come se non fossero più i suoi bambini. Molly disse che aveva il mal di testa, girò in casa per un po' e andò a letto presto, dove si addormentò profondamente. Strano, perché Molly stava sempre alzata fino a tardi ed era piena di pepe. Il campo si agitava sotto la luna, come il mare. Voleva essere tagliato. Certe parti dovevano essere tagliate adesso. Drew Erickson deglutì tranquillamente e rimase al suo posto, cercando di non guardarlo. Che sarebbe successo se non fosse più andato nel campo? Che ne sarebbe stato della gente matura per la morte, che aspettava il colpo della falce? Avrebbe aspettato anche lui, per vedere. Quando spense la lampada e andò a letto Molly respirava profondamente. Ma Drew non riusciva a dormire: sentiva il vento che soffiava nel grano, e le sue braccia e gambe bramavano il lavoro. Si trovò a camminare nei campo nel cuore della notte, con la falce in pugno. Camminava come un pazzo, sveglio solo a metà, e aveva paura. Non ricordava di aver aperto la porta della cantina e di aver preso la falce, eppure eccolo sotto la luna che avanzava nel grano. Molte spighe erano vecchie, stanche, volevano assolutamente dormire. Il lungo sonno tranquillo senza luna. Era la falce che impugnava lui, gli cresceva nel palmo e lo costringeva a muoversi. Lottando, se ne liberò. La gettò via e corse in mezzo al grano, dove si fermò e cadde in ginocchio. «Non voglio uccidere più» disse. «Se continuo a usare la falce dovrò uccidere anche Molly e i bambini. Non chiedetemi di fare questo!»
Ma le stelle brillavano mute. Poi udì un rumore sordo alle sue spalle, un tonfo. Qualcosa volò dalla collina verso il cielo. Era una creatura viva, con due lingue rosse che puntavano alle stelle. Sulla faccia di Drew caddero scintille. E poi l'odore acre, caldo del fuoco. La casa! Drew urlò e si mise in piedi lentamente, senza speranza, guardando l'incendio. La casetta in mezzo alle querce bruciava in un gigantesco abbraccio di fuoco. Il calore risaliva la collina e lui fu costretto a immergersi nell'inferno, a nuotarci attraverso, barcollando. Gli sembrava di affogare nel fuoco. Quando arrivò ai piedi della collina non c'erano una porta, un paletto o un architrave che non fossero divorati dalle fiamme. Era tutto un crepitare, ardere, scoppiettare. Dentro, nessuno gridava. Nessuno correva o si disperava. Dal cortile, Drew urlò: «Mollie, Susie, Drew!». Nessuna risposta. Si avvicinò alla casa, finché le sopracciglia si abbrustolirono e la pelle si increspò come carta che brucia, gonfiandosi e piegandosi in riccioli sottili. «Molly! Susie!» Il fuoco divorava tutto allegramente. Drew girò una decina di volte intorno alla casa, alla ricerca di un varco per entrare. Poi sedette in un punto in cui il fuoco gli arrostiva la carne e aspettò che le pareti cadessero con uno schianto e l'ultimo soffitto crollasse, inondando il pavimento di pezzi di intonaco fuso e parti del tetto abbrustolite. Le fiamme morirono e il fumo si alzò nel cielo, mentre il nuovo giorno spuntava lentamente. Non c'erano che ceneri fumanti e un acre sentore di fuoco. Senza curarsi del calore che emanava dalla struttura abbattuta, Drew si incamminò fra le rovine. Era ancora buio per vedere con chiarezza, e sul collo sudato di Drew brillava un alone rossastro. Gli sembrava di essere uno straniero in una terra nuova e sconosciuta. Ecco la cucina... Un tavolo carbonizzato, sedie, la stufa di ferro, la credenza. Ed ecco l'ingresso. Qui il soggiorno e più avanti la camera da letto, dove... Molly era ancora viva. Dormiva fra le travi crollate, pezzi di metallo e fili metallici dal colore allarmante. Dormiva come se non fosse successo niente. Le piccole mani bianche stese lungo i fianchi, punteggiate di scintille. Dormiva, con un pezzo di tet-
to sulla guancia. Drew si fermò, incredulo. Fra le rovine della camera da letto fumante lei riposava in un letto di tizzoni ardenti, la pelle intatta, il petto che si alzava e si abbassava nel respiro. «Molly!» Viva e addormentata dopo l'incendio, dopo che le pareti erano crollate e le fiamme avevano divorato ogni cosa. Mentre avanzava fra i mucchi di detriti roventi, le scarpe di Drew fumavano. Se i piedi gli fossero bruciati fino alle caviglie, non se ne sarebbe accorto. «Molly...» Si chinò su di lei. Sua moglie non si mosse, non lo sentì e non parlò. Non era morta e non era viva. Stava li e il fuoco la circondava senza toccarla, senza farle male. La camicia da notte di cotone era coperta di cenere ma non bruciava. E i capelli castani poggiavano su un mucchio di carboni ardenti. Drew le toccò la guancia: era fredda, fredda in mezzo a quell'inferno. Piccoli respiri le increspavano le labbra quasi sorridenti. Anche i bambini erano là. Dietro un velo di fumo Drew vide due figurette rannicchiate sulle ceneri, addormentate. Le portò fuori tutte e tre, sui bordi del campo di grano. «Molly, Molly, svegliati! Bambini, svegliatevi!» Respiravano, ma non si mossero; continuavano a dormire. «Bambini, svegliatevi! Vostra madre è...» Morta? No, non morta. Ma... Scuoté i bambini come se fosse colpa loro. Non gli badarono, erano presi dai loro sogni. Drew li rimise giù e stette a guardarli, la faccia segnata. Sapeva perché avevano dormito durante l'incendio e continuavano a dormire adesso. Sapeva perchè Molly era così e non voleva più ridere. Il potere del grano e della falce. Le loro vite erano finite ieri, trenta maggio 1938, ed erano state prolungate solo perché lui si era rifiutato di tagliare il grano. Sarebbero dovuti morire nell'incendio, questo era scritto. Ma siccome Drew non aveva usato la falce, niente poteva far loro del male. La casa era bruciata e crollata, ma essi continuavano a vivere: erano rimasti sospesi a metà, non morti e non vivi. Così, sospesi. E in tutto il mondo migliaia di persone come loro, vittime di incidenti, malattie, suicidi, aspettavano e dormivano come Molly e i suoi bambini. Incapaci di morire, incapaci di vivere. E tutto perché un
uomo temeva di tagliare il grano maturo. Tutto perché un uomo pensava di poter abbandonare la falce e non riprenderla più, Drew abbassò gli occhi sui bambini. Il lavoro andava fatto ogni giorno, senza mai fermarsi, senza una pausa nell'eterna mietitura. Va bene, pensò. Va bene, userò la falce. Non disse addio alla sua famiglia. Si voltò, invaso da un'ira sorda, trovò la falce e s'incamminò a passi svelti, sempre più lunghi; cominciò a correre in mezzo al campo, impazzito, con le braccia che spasimavano dal desiderio di mettersi al lavoro e il grano che batteva contro le sue gambe, frustandole. Avanzava sempre più veloce, urlando. Poi si fermò. «Molly!» gridò, e diede un terribile colpo con la falce. «Susie!» urlò. «Drew!» La lama ondeggiò di nuovo nell'aria. Qualcuno lanciò un grido. Drew non si voltò a guardare la casa distrutta dal fuoco. Poi, singhiozzando disperatamente, si erse sul grano e menò la falce a destra e a sinistra, a destra e a sinistra. Ancora, ancora e ancora! Incideva ferite profonde nel grano verde e in quello maturo, senza scegliere e senza badare a niente, lanciando maledizioni e imprecazioni continue, accompagnate da risate isteriche. La lama si alzava al cielo e calava con un fischio, lampeggiando al sole. Giù! Londra, Mosca e Tokyo furono devastate dalle bombe. La falce volava impazzita. I forni di Belsen e Buchenwald presero fuoco. La falce cantava, bagnata di rosso. A White Sands, Hiroshima, Bikini e nei cieli continentali della Siberia i funghi partorirono soli ciechi. Il grano schizzava dappertutto come pioggia verde. Corea, Indocina, Egitto e India tremarono; l'Asia fu percorsa da un fremito, l'Africa si svegliò nel cuore della notte... E la falce continuò a volare, a schiacciare, a tagliare con la furia e la rabbia di un uomo che ha perso tutto e non si preoccupa più del mondo. E tutto questo a pochi chilometri da una grande arteria, in fondo a una strada sterrata che non porta da nessuna parte, non lontano da una marea di traffico diretto in California. Ogni tanto, nel corso degli anni, una vecchia automobile si allontana dalla strada principale e arranca fino alle rovine carbonizzate di una casetta bianca all'estremità di un sentiero in terra battuta: è per chiedere istruzioni al vecchio contadino che si vede da lontano, l'uomo che lavora come un
pazzo notte e giorno, senza fermarsi mai, immerso negli sconfinati campi di grano. Ma i viaggiatori non ricevono aiuto, nemmeno una risposta. Il contadino è troppo occupato, anche dopo tutti questi anni; troppo occupato a tagliare e falciare il grano verde invece di quello maturo. E Drew Erickson continua la sua opera, la luce dei soli ciechi e del fuoco bianco negli occhi insonni, ancora e ancora e ancora... Titolo originale: The Scythe Postilla I popoli primitivi ignoravano il nesso logico naturale per cui i fenomeni inanimati sono prodotti da forze inanimate. Nel mondo intorno a loro le cose avvenivano perché c'era qualcuno che le faceva avvenire. E se l'agente non era umano, doveva essere soprannaturale. Il sole si muoveva nel cielo perché era un potentissimo carro guidato da un dio. Il lampo saettava perché era l'immenso giavellotto scagliato da un'altra divinità. Il vento si scatenava quando il dio dei venti soffiava dalle guance. La cosa sembrava tanto più sensata in quanto alcuni fenomeni inanimati (ad esempio, tempeste e malattie) cominciavano e finivano arbitrariamente: cosa poteva esserci di più capriccioso e imprevedibile di un agente umano o sovrumano? La morte veniva "super-umanizzata" alla stessa maniera. Il dio greco del tempo, Crono, era raffigurato con una clessidra e una falce. La clessidra rappresentava il passare del tempo, la falce la morte: infatti col tempo gli esseri umani venivano inesorabilmente falciati, proprio come le spighe di grano durante la mietitura. L'Angelo della Morte come personaggio indipendente dal tempo è presente in molte mitologie. Ad esempio, quando Dio puniva il popolo d'Israele con una pestilenza lo faceva per suo tramite. "E quando l'angelo stese la mano su Gerusalemme per distruggerla, il Signore lo rimproverò per la sua severità e disse che i mali inflitti al popolo erano sufficienti" (Sam. II, 24, 16). Fra parentesi, anche i compilatori di antologie hanno le loro preferenze. Dei racconti contenuti in questo volume, quello di Bradbury è secondo me il migliore. I.A.
CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Robert Arthur, "The Crystal Bell", in Ghosts and More Ghosts, Random House, New York 1963. Oliver La Farge, "Spud and Cochice", in A Pause in the Desert, Houghton Mifflin, Boston 1957. M.P. Shiel, "Vaila", in Shapes in the Fire: Being a Mid-Winter-Night's Entertainment in Two Parts and an Interlude, John Lane, Londra 1896. Manly Wade Wellman, "His Name on a Bullet", in Worse Things Waiting, Carcosa, Chapel Hill 1973. Henry S. Whitehead, "The Tree Man", in Jumbee and Other Uncanny Tales, Arkham House, Sauk City 1944. Trasferimento di personalità IL GRANDE ESPERIMENTO DI KEINPLATZ di Arthur Conan Doyle Di tutte le scienze che suscitano la curiosità degli uomini, nessuna vantava un'attrattiva più forte sull'erudito professor von Baumgarten di quella che studia la psicologia e gli incerti rapporti fra mente e materia. Celebre anatomista, profondo chimico, uno dei primi fisiologi d'Europa, von Baumgarten provava un vero e proprio senso di sollievo quando poteva allontanarsi da quelle discipline e piegare la sua vasta conoscenza allo studio dell'anima e dei misteriosi legami fra lo spirito e il corpo. In gioventù, quando aveva cominciato a tuffarsi nei segreti del mesmerismo, gli era parso che la sua mente vagasse in uno strano territorio dove tutto era caos e tenebra, tranne pochi inesplicabili fatti in cui s'imbatteva casualmente e che, per di più, non sembravano collegabili fra loro. Tuttavia, col passare degli anni, e man mano che le conoscenze del celebre scienziato aumentavano, molte cose che gli erano sembrate misteriose e inspiegabili cominciarono ad apparirgli in una luce diversa, perché la conoscenza produce conoscenza come il denaro frutta interessi. Si abituò a nuovi modi di ragionare e individuò inediti collegamenti dove prima tutto appariva incomprensibile e misterioso. Grazie a una serie di esperimenti durati vent'anni, dimostrò un'indiscutibile serie di fatti su cui intendeva costruire una nuova scienza esatta che avrebbe abbracciato il mesmerismo, lo spiritismo e tutti gli argomenti connessi. In ciò fu aiutato dall'intima conoscenza dei più ri-
posti segreti della fisiologia animale, quelli che riguardano le correnti nervose e il funzionamento del cervello; non per nulla Alexis von Baumgarten era Regio professore di fisiologia all'Università di Keinplatz e aveva tutte le risorse di un moderno laboratorio al servizio delle sue profonde ricerche, Il professor von Baumgarten era alto e sottile, con una faccia affilata e occhi grigio-acciaio singolarmente luminosi e penetranti. Molti pensieri avevano corrugato la sua fronte e contratto le pesanti sopracciglia, di modo che pareva sempre corrucciato; questo spingeva molti a giudicarlo male, perché, pur essendo un uomo austero, aveva un cuore d'oro. Dagli studenti era ben visto, e dopo le lezioni si affollavano regolarmente intorno a lui per ascoltare le sue straordinarie teorie. A volte il professore cercava fra gli allievi i volontari per i suoi esperimenti e quindi non c'era ragazzo che, prima o poi, non fosse stato mesmerizzato dal suo docente. Fra questi giovani devoti della scienza nessuno aveva un entusiasmo paragonabile a quello di Fritz von Hartmann. Spesso i compagni si meravigliavano che un giovane inquieto e scatenato come Fritz - un vero diavolo se mai ve ne furono nella terra del Reno - dedicasse tante ore e tante energie a leggere astrusi tomi e ad assistere il professore nei suoi misteriosi esperimenti. Il fatto è, tuttavia, che Fritz era un ragazzo previdente e che sapeva il fatto suo. Mesi prima aveva perso la testa per la giovane Elise, la figlia bionda e con gli occhi azzurri del professore. E sebbene avesse avuto modo di sentire, dalle labbra della ragazza, che ella non era indifferente alle sue profferte, non aveva mai avuto il coraggio di presentarsi alla famiglia come pretendente ufficiale. Di conseguenza, gli sarebbe stato difficile incontrare la signorina se non avesse adottato l'espediente di rendersi utile al luminare; così, invece, lo chiamavano spesso in casa del vecchio, dove Fritz si sottoponeva volentieri a ogni sorta di esperimenti, purché ci fosse la speranza di ricevere un'occhiata affettuosa da Elise o di essere sfiorato dalla sua manina. Fritz von Hartmann era un ragazzo piuttosto bello e, quando suo padre fosse morto, parecchi ettari di terra sarebbero diventati suoi. A molti sarebbe parso un fidanzato accettabile, ma quando lo vedeva in casa Madame corrugava la fronte e a volte rimproverava il professore perché permetteva a un lupo come quello di aggirarsi intorno al loro agnellino. A dire la verità, Fritz si era fatto una brutta nomea a Keinplatz. Non c'era rissa o duello, e se è per questo altra bricconata, in cui il giovane renano non figurasse in prima fila. Nessuno usava un linguaggio più libero e violento del suo, nessuno beveva di più, nessuno giocava a carte con maggiore as-
siduità ed era più pigro, a parte gli esperimenti del professore. Nessuna meraviglia, quindi, che la buona Frau professoressa proteggesse la Fraulein sotto la propria ala e giudicasse sgradevoli le attenzioni di un tale mauvais sujet. Quanto all'eminente scienziato, era troppo preso dai suoi formidabili studi per farsi un'opinione in materia. Da molti anni una domanda l'ossessionava; tutti i suoi esperimenti e teorie gravitavano intorno a un unico punto. Cento volte al giorno il professore si chiedeva se lo spirito umano potesse sopravvivere, per un limitato periodo di tempo, fuori del corpo e poi farvi ritorno. Quando questa possibilità gli si era affacciata alla mente per la prima volta, il suo intelletto scientifico si era ribellato. L'idea cozzava troppo violentemente con i pregiudizi della sua educazione giovanile. Ma poco a poco, inoltrandosi sulla strada della ricerca originale, la sua intelligenza si era liberata dei vecchi legami e si era preparata ad accettare qualsiasi conclusione che permettesse di spiegare i fatti. Molti indizi lo spingevano a credere che la mente fosse in grado di esistere senza il supporto della materia, e finalmente immaginò l'ardito e originalissimo esperimento che avrebbe risolto definitivamente la questione. "È evidente", scrisse nel celebre articolo sulle entità invisibili che apparve più o meno a quell'epoca sul «Keinplàtz wochenliche Medicalschrift», sorprendendo la comunità scientifica, "è evidente che in determinate condizioni la mente, o anima, si stacca dal corpo. Nel caso di una persona mesmerizzata, il corpo giace in catalessi e lo spirito l'ha abbandonato. Voi obbietterete che l'anima è sempre al suo posto, magari addormentata; io rispondo che non è così, o non riusciremmo a spiegare i fenomeni di chiaroveggenza che avvengono in questi casi e che le imposture di alcuni ciarlatani hanno in parte screditato, ma che sono realtà inconfutabili e di agevole dimostrazione. Io stesso, servendomi di un soggetto sensibile, sono riuscito a ottenere un'accurata descrizione di quello che accadeva nella stanza di un'altra casa. Come si può spiegare un fatto simile se non con l'ipotesi che l'anima del soggetto abbia lasciato il corpo e abbia cominciato a vagare nello spazio? Naturalmente, per un breve periodo la mente viene richiamata nella sua sede dalla voce dell'operatore e descrive ciò che ha visto, poi vola di nuovo nell'aria. Siccome lo spirito è per sua natura invisibile, non ci accorgiamo di questo vai e vieni se non attraverso l'effetto che si determina nel corpo del soggetto: ora rigido e inerte, ora in lotta per riferire esperienze che non avrebbe mai potuto fare con mezzi naturali. A mio parere c'è un solo modo per dimostrare la realtà di questi fenomeni. I nostri
sensi corporei ci impediscono di vedere l'anima che si libra, ma se potessimo separare dal corpo anche lo spirito dell'osservatore, è certo che si accorgerebbe della presenza di altre entità del genere. È mia intenzione, perciò, mesmerizzare per breve tempo uno dei miei studenti; poi mi automesmerizzerò con una tecnica che ho imparato a padroneggiare. A questo punto, se la teoria è valida il mio spirito non avrà difficoltà a comunicare con quello del mio allievo, perché entrambi saranno separati dal corpo. Spero di comunicare i risultati di questo interessante esperimento in uno dei prossimi numeri del «Keinplatz wochenliche Medicalschrift»". Ma quando il buon professore mantenne la promessa e pubblicò un resoconto di quello che era avvenuto, i fatti apparvero così straordinari che furono accolti con generale incredulità. Il tono dei commenti di alcuni giornali fu così offensivo che lo scienziato, furibondo, dichiarò che non avrebbe mai più aperto bocca né menzionato l'argomento, cosa che fece puntualmente. Tuttavia il nostro racconto attinge a fonti di prima mano e gli avvenimenti narrati si possono considerare sostanzialmente esatti. Avvenne, dunque, che poco dopo aver concepito l'idea dell'esperimento il professor von Baumgarten stesse tornando a casa dal laboratorio, immerso nei suoi pensieri; quando a un certo punto incontrò una folla di studenti appena usciti da una birreria e che facevano baldoria. Il capobanda, chiassoso e semiubriaco, era il giovane Fritz von Hartmann. Il professore se li sarebbe lasciati alle spalle, ma il pupillo gli attraversò la strada e lo fermò. «Eh, il mio illustre maestro» disse, afferrando il vecchio per una manica e guidandolo in fondo alla strada. «Devo dirle qualcosa, ed è più facile farlo ora che la buona birra mi fa ronzare la testa.» «Di che si tratta, Fritz?» chiese il fisiologo, guardandolo con moderata sorpresa. «Mi è giunta voce, mein Herr, che lei sta per effettuare un meraviglioso esperimento in cui porterà l'anima di un uomo fuori dal corpo e poi di nuovo al suo posto. È così?» «È vero, Fritz.» «Non ha riflettuto, caro signore, che forse le sarà difficile trovare una cavia? Potztausend! Supponiamo che l'anima esca dal corpo e non voglia più tornarci. Sarebbe un brutto guaio. Chi vuole che corra un rischio simile?» «Ma, Fritz» gridò il professore, stupito da questo modo di vedere le cose. «Confidavo sul tuo aiuto. Non vorrai abbandonarmi. Pensa all'onore e alla gloria.»
«Un fico secco!» rispose furibondo lo studente. «La mia ricompensa dev'essere sempre così astratta? Sono stato due ore su un isolatore di vetro mentre lei faceva passare elettricità nel mio corpo, è o non è così? E quella volta che ha stimolato i miei nervi frenici, oltre a rovinarmi la digestione con una scarica galvanica dalle parti dello stomaco? Trentaquattro volte mi ha mesmerizzato, e io che ne ho ricavato? Niente. Adesso vuole strapparmi l'anima dal corpo, come se fosse il meccanismo di un orologio. È più di quanto possa sopportare un individuo di carne e sangue!» «Dio, Dio!» gridò il professore in preda alla più grande agitazione. «È tutto vero, Fritz. Non ci avevo pensato. Se hai un'idea del modo in cui posso compensarti, lo farò subito e volentieri.» «Allora senta» disse solennemente Fritz. «Se mi dà la parola d'onore che dopo questo esperimento avrò la mano di' sua figlia, la aiuterò; in caso contrario non voglio saperne più niente. Sono queste le mie condizioni.» «E mia figlia che dirà?» chiese il professore dopo una pausa di stupore. «Elise ne sarà felice» rispose il giovanotto. «Ci amiamo da tempo.» «Allora sarà tua» disse il fisiologo con decisione. «In fondo sei un bravo ragazzo e uno dei migliori soggetti neurologici che abbia conosciuto... quando non sei sotto i fumi dell'alcol. L'esperimento avverrà il quattro del mese prossimo. Trovati al laboratorio di fisiologia a mezzogiorno. Sarà una grande occasione, Fritz: Von Gruben verrà da Jena e Hinterstein da Basle. Ci saranno i maggiori scienziati della Germania meridionale.» «Sarò puntuale» rispose brevemente lo studente, e i due si separarono. Il professore continuò verso casa, pensando al grande avvenimento; il giovanotto raggiunse i rumorosi compagni, tutto preso da Elise dagli occhi azzurri e dal patto che aveva concluso col padre. Quando parlava del grande interesse suscitato dall'annuncio dell'esperimento, il professore non esagerava. Molto prima dell'ora stabilita il laboratorio si riempì di luminari. A parte le celebrità che von Baumgarten aveva menzionato, arrivò da Londra il grande professor Lurcher che si era appena fatto una reputazione con un importante trattato sui centri cerebrali. Alcuni ispiratori del movimento spiritico avevano attraversato enormi distanze per non mancare, e così un prelato che seguiva le teorie di Swedenborg e riteneva che l'esperimento potesse far luce sulle dottrine dei Rosacroce. Quando il professor von Baumgarten e il soggetto dell'esperimento apparvero sulla pedana, l'eminente assemblea ruppe in un grande applauso. Con poche e scelte parole lo scienziato spiegò il suo punto di vista e il modo in cui si proponeva di verificarlo. «Ritengo» disse «che quando un in-
dividuo si trova sotto l'influenza del mesmerismo venga privato dello spirito, che lascia il corpo. Sfido chiunque a formulare qualsiasi altra ipotesi per spiegare i fenomeni di chiaroveggenza. Spero, quindi, che dopo aver mesmerizzato il giovane amico qui presente e aver indotto uno stato di trance in me stesso, i nostri spiriti siano in grado di comunicare, pur rimanendo i corpi del tutto inerti. Dopo un certo tempo la natura riprenderà il sopravvento, gli spiriti torneranno nei relativi corpi e tutto sarà come prima. Col vostro gentile permesso, tenteremo ora di realizzare l'esperimento.» Questo discorso provocò un altro applauso e finalmente l'uditorio si pose a osservare, in silenzio. Con pochi e rapidi accorgimenti il professore mesmerizzò il giovanotto, che si abbandonò alla sedia pallido e rigido. Poi von Baumgarten prese dalla tasca un globo di cristallo: concentrandovi lo sguardo e con un grande sforzo di volontà riuscì a mettersi nelle stesse condizioni. Erano uno spettacolo strano e impressionante, il vecchio e il giovane seduti fianco a fianco nello stesso stato di catalessi. Dove si erano rifugiate le loro anime? Ecco la domanda che si presentava agli spettatori, nessuno escluso. Passarono cinque minuti, poi dieci, poi quindici e altri quindici, ma il professore e il suo pupillo erano sempre rigidi e immobili sulla pedana. Nell'assemblea degli scienziati non volava una mosca, tutti gli sguardi erano puntati sui due volti pallidi e aspettavano i primi segni di risveglio della coscienza. Passò quasi un'ora prima che i pazienti spettatori fossero premiati. Un leggero rossore si diffuse sulle guance del professor von Baumgarten: l'anima tornava nel suo guscio terreno. A un tratto il professore stiracchiò le braccia lunghe e sottili, come chi si sveglia dal sonno, e sfregandosi gli occhi si alzò e si guardò intorno, come se non ricordasse dov'era. «Tausend teufel!» esclamò, proferendo una terribile bestemmia della Germania meridionale che stupì il pubblicò e disgustò il seguace di Swedenborg. «Ma dove henker sono, e che diavolo è successo? Ah sì, adesso ricordo. Uno di quegli assurdi esperimenti mesmerici. Ma stavolta non c'è nessun risultato, perché non ricordo niente; questo significa, miei eruditi amici, che avete fatto i vostri lunghi viaggi per niente. Un bello scherzo, non c'è che dire!» A questo punto il Regio professore di fisiologia scoppiò in una risata fragorosa e si batté indecorosamente la mano sulla coscia. Il pubblico era così oltraggiato dall'incredibile comportamento dell'anfitrione che avrebbe potuto scoppiare uno scandalo; per fortuna intervenne giudiziosa-
mente il giovane Fritz von Hartmann, il quale aveva ripreso conoscenza. In piedi sulla pedana, il giovane si scusò per la condotta dello scienziato. «Mi spiace dire» esordì «che è un tipo piuttosto discolo, anche se all'inizio dell'esperimento si comportava così bene. Soffre di reazione mesmerica e non si può fargli una colpa di quel che dice. Quanto all'esperimento in sé, non lo considero un fallimento: è possibile che durante l'ora trascorsa i nostri spiriti abbiano comunicato nello spazio; purtroppo, la grossolana memoria del corpo non è all'altezza di quella spirituale e non ci permette di ricordare quello che è avvenuto. D'ora in poi le mie energie saranno votate a escogitare un metodo che consenta agli spiriti di ricordare ciò che avviene durante lo stato di libertà. Quando l'avrò scoperto, spero di potervi nuovamente ricevere in questa sala e dimostrarvi il risultato.» Venendo da un giovane studente, questo discorso produsse notevole sconcerto nell'uditorio; alcuni si considerarono offesi, giudicando che il ragazzo volesse darsi troppa importanza, ma la maggioranza guardò a lui come a un giovane di grandi promesse. Vennero fatti paragoni fra la sua condotta dignitosa e l'eccessiva leggerezza del professore, il quale, durante il discorso dell'allievo, se ne era rimasto in un angolo a ridere di cuore, per nulla contrariato dal fallimento della prova. E benché quel consesso di scienziati abbandonasse l'aula con la sensazione di non aver visto niente di interessante, in realtà sotto i loro occhi era avvenuto uno dei più grandi prodigi della storia. Il professor von Baumgarten aveva avuto ragione nel pensare che il suo spirito e quello dell'allievo si fossero allontanati dal corpo per un certo periodo, ma si era verificata un'imprevista complicazione. Al momento di tornare nella carne, lo spirito di Fritz von Hartmann era entrato nel corpo di Alexis von Baumgarten e viceversa. Di qui il gergo scurrile che era uscito dalle labbra del compunto professore e le gravi parole, i propositi meditati che erano venuti fuori dalla bocca dello scavezzacollo. Era un avvenimento senza precedenti, ma nessuno se ne rendeva conto: men che meno i diretti interessati. Il corpo del professore si limitò a registrare una fastidiosa sensazione di sete e si avviò in strada ridendo dell'esperimento, perché l'anima di Fritz non vedeva l'ora di presentarsi alla sposa che aveva ottenuto così facilmente. Il suo primo impulso fu di andare a casa a trovarla, ma poi si disse che era meglio aspettare che Madame Baumgarten venisse informata dell'accordo. Quindi si diresse al Gruner Mann, uno dei luoghi di raduno preferiti dagli studenti più scalmanati, e agitando il bastone nell'aria con l'abituale spavalderia si fece strada verso il salottino dove sedevano Spiegel, Muller
e altri cinque o sei compagni di baldoria. «Ah, ah, ragazzi!» esclamò. «Sapevo che vi avrei trovati qui. Bevete tutti, ordinate quel che vi pare perché oggi offro io.» Se l'uomo verde che è dipinto sull'insegna della nota locanda fosse entrato nella stanza per chiedere una bottiglia di vino, gli studenti non avrebbero potuto essere più sbalorditi. L'arrivo dello stimato professore era un fatto senza precedenti, e i giovani rimasero a guardarlo allibiti per un minuto o due, incapaci di rispondere alla sua cordiale proposta. «Donner e Blitzen!» gridò irato il professore. «Che diamine avete, eh? State lì a guardarmi come una fila di mammalucchi. Si può sapere cosa c'è?» «È l'inatteso onore» balbettò Spiegel, seduto a capotavola. «Onore un corno!» esclamò infuriato il professore. «Pensate che solo perché ho fatto un esperimento di mesmerismo davanti a un branco di vecchi fossili sono diventato troppo orgoglioso per tornare dai miei cari, vecchi compagni? Alzati da quella sedia, Spiegel, ragazzo mio, adesso sono io il presidente. E voialtri, amici: birra, vino o schnapps... ordinate quel che vi pare perché offro io.» Al Gruner Mann non ci fu mai un pomeriggio come quello. Enormi boccali di birra schiumante e verdi bottiglie di vino del Reno circolavano liberamente. Poco a poco gli studenti persero ogni ritegno in presenza del professore: quanto a lui, gridava, cantava, ruggiva e teneva in equilibrio sul naso una lunga pipa da tabacco. A un certo punto si offrì di correre i cento metri sfidando tutti i membri della compagnia. L'oste e la ragazza che serviva al banco stavano sulla porta a confessarsi il reciproco stupore per un tale comportamento da parte d'un Regio professore dell'antica Università di Keinplatz. Ne avrebbero avute, di chiacchiere da fare! A un certo punto l'uomo di scienza allontanò l'oste e baciò la ragazza dietro la porta di cucina. «Signori» disse il professore, alzandosi con una certa difficoltà dal posto d'onore e tenendo in equilibrio il calice di vino con la mano ossuta. «Devo spiegarvi il motivo di questi festeggiamenti.» «Sentiamo, sentiamo!» gridarono gli studenti, picchiando i boccali di birra contro il bordo del tavolo. «Un discorso, un discorso! Silenzio, fa un discorso!» «Il fatto è, amici miei» disse il professore, con gli occhi raggianti dietro gli occhiali «che spero di sposarmi presto.» «Sposarsi!» gridò uno studente più audace degli altri. «Vuol dire forse
che Madame è morta?» «Madame chi?» «Madame Baumgarten, è ovvio!» «Ah, ah!» scoppiò a ridere il professore. «Vedo che sapete tutto delle mie precedenti difficoltà. No, non è morta ma ho ragione di credere che non si opporrà al mio matrimonio.» «Molto accomodante da parte sua» disse uno della compagnia. «Anzi» continuò il professore «spero che mi aiuti lei stessa a prender moglie. Lei e io non siamo mai andati troppo d'accordo, ma adesso spero che sia tutto finito. Quando mi sposerò verrà a stare con me.» «Che famigliola felice!» esclamò un buontempone. «Proprio così. E spero che verrete al matrimonio tutti quanti. Non faccio nomi, ma questo lo dedico alla mia piccola sposa!» E il professore alzò il calice. «Alla sua piccola sposa!» gridarono i compagni di baldoria, in mezzo alle risate. «Alla sua salute. Sie soll leben... Hoch!» E i divertimenti ripresero con foga anche maggiore, mentre i giovani seguivano l'esempio del professore e brindavano ognuno alla ragazza del cuore. Mentre al Gruner Mann accadeva tutto questo, una scena molto diversa si verificava altrove. Subito dopo l'esperimento il giovane Fritz von Hartmann, dotato ormai di un'espressione solenne e modi riservati, aveva consultato e messo a punto certi strumenti matematici e poi, separatosi dal portinaio con poche e perentorie parole, si era incamminato per la strada, imboccando lentamente la via che conduceva a casa del professore. Strada facendo si era imbattuto in von Althaus, il professore di anatomia, e affrettando il passo l'aveva raggiunto... «Caro von Althaus» cominciò il giovane, prendendolo per una manica. «L'altro giorno mi ha chiesto certe informazioni sul rivestimento mediano delle arterie cerebrali. Ora io trovo...» «Donnerwetter!» gridò von Althaus, che era un vecchietto irascibile. «Come si permette una tale insolenza? Con chi crede di aver a che fare? Signore, la porterò davanti al Senato accademico per questo.» E ciò detto girò i tacchi e se ne andò. Von Hartmann fu non poco sorpreso da quell'accoglienza. «Dev'essere perché il mio esperimento è fallito» disse fra sé, continuando cupo per la sua strada. Ma lo aspettavano altre sorprese. Procedeva a passo svelto per i fatti suoi quando fu raggiunto da due studenti. I giovani, anziché togliersi il berretto o mostrare un altro segno di rispetto, appena lo videro scoppiarono
a ridere e, precipitatisi su di lui, lo afferrarono per ciascun braccio e tentarono di portarlo con loro. «Gott in Himmel!» scoppiò von Hartmann. «Che significa quest'insulto senza precedenti? Dove volete portarmi?» «A scolarti una bottiglia con noi» dissero i due studenti. «Vieni, è un invito che non hai mai rifiutato.» «Non ho mai sentito un'insolenza simile in vita mia!» esplose von Hartmann. «Lasciatemi le braccia! Vi farò espellere per questo. Lasciatemi, vi dico!» E scalciò furibondo fra i suoi catturatori. «Se fai tanto il difficile puoi andartene dove ti pare» dissero gli studenti, lasciandolo. «Ce la spasseremo anche senza di te.» «Vi conosco. Me la pagherete per questo!» disse furioso von Hartmann, e riprese la strada di quella che credeva essere casa sua. I due episodi che gli erano appena capitati lo avevano sconvolto. Madame Baumgarten, che si era affacciata alla finestra meravigliandosi che il marito fosse in ritardo per la cena, fu non poco stupita nel veder arrivare lo studente. Come abbiamo già detto nutriva per lui una forte antipatia, e le rare volte che il giovanotto metteva piede in casa era a malapena tollerato, e sempre per intercessione del professore. Ma lo stupore della signora aumentò quando lo vide aprire il cancello del giardino e risalire il sentiero con l'aria del padrone di casa. Madame credeva a stento ai suoi occhi e si affrettò alla porta, con l'istinto materno in allarme. Dalle finestre al piano di sopra la bella Elise aveva osservato a sua volta l'audace mossa dell'innamorato, e il cuore le batteva con un misto di orgoglio e costernazione. «Buon giorno, signore» disse Madame Baumgarten all'intruso, piantandosi maestosa davanti alla porta. «Proprio una bella giornata, Martha» ribatté l'altro. «Ma non startene lì come una statua di Giunone, datti da fare e portami la cena. Muoio di fame.» «Martha... la cena...» balbettò la donna, vacillando dallo stupore. «Sì, la cena, Martha, la cena!» Von Hartmann era diventato irascibile e alzava la voce. «Che c'è di strano? Sono stato fuori tutto il giorno. Aspetterò in sala da pranzo, andrà bene qualunque cosa: schinken, salsicce, prugne... Qualsiasi cosa ti trovi sottomano. E dagli, continui a guardarmi. Vuoi muoverti sì o no?» Quest'ultima frase, pronunciata con un grido di rabbia, ebbe l'effetto di far precipitare la povera Madame Baumgarten nel corridoio e di qui in cu-
cina, dove si chiuse nella dispensa abbandonandosi a una violenta crisi isterica. Nel frattempo von Hartmann entrò in salotto e si buttò sul divano, di pessimo umore. «Elise!» gridò. «Accidenti anche a te, Elise!» Chiamata con tanta scortesia, la signorina scese timidamente al piano di sotto e si trovò al cospetto dell'innamorato. «Caro!» esclamò, buttandogli le braccia al collo. «So che hai fatto tutto per me! È un ruse che hai escogitato per vedermi.» A quel nuovo attacco l'indignazione di von Hartmann salì al punto che per un minuto ammutolì dalla rabbia. La fissava, agitava i pugni e cercava di svincolarsi dall'abbraccio. Quando finalmente ritrovò la parola, lanciò un tale urlo di passione che la ragazza, pietrificata, cadde in una poltrona. «In vita mia non ho mai passato un giorno come questo!» esclamò von Hartmann, pestando i piedi sul pavimento. «Il mio esperimento è fallito. Von Althaus mi ha insultato. Due studenti mi hanno preso per il bavero nella pubblica via. Mia moglie per poco non sviene quando le chiedo la cena e mia figlia mi afferra e mi strizza come un orso.» «Stai male, caro» pianse la ragazza. «La tua mente vaneggia. Non mi hai baciata nemmeno una volta.» «No, e non intendo farlo» ribatté von Hartmann con decisione. «Dovresti vergognarti di te stessa. Perché non vai a prendermi le pantofole e aiuti tua madre a portarmi la cena?» «È per questo...» scoppiò a piangere la ragazza, nascondendo la faccia nel fazzoletto «...è per questo che ti ho amato appassionatamente per più di dieci mesi? È per questo che ho sfidato la collera di mia madre? Oh, mi hai spezzato il cuore. Sì, ne sono sicura!» E continuava a singhiozzare istericamente. «Non ne posso più» sbottò von Hartmann, furioso. «Che diamine vorrà dire la ragazza? Che ho fatto, dieci mesi fa, per ispirarti un affetto così particolare? Se mi vuoi veramente bene vai in cucina e prendimi lo schinken e un po' di pane, invece di dire sciocchezze.» «Oh, caro!» gridò la fanciulla infelice, gettandosi fra le braccia di quello che credeva essere il suo innamorato. «Ti prendi gioco della tua piccola Elise per spaventarla.» Per combinazione, al momento di questo nuovo abbraccio von Hartmann era ancora appoggiato a un'estremità del divano che, come spesso accade alla mobilia tedesca, era in cattive condizioni. Fra l'altro sotto il divano c'era un contenitore pieno d'acqua in cui il fisiologo conduceva certi esperi-
menti sulle uova dei pesci, e che teneva in salotto per assicurargli temperatura costante. Il peso aggiuntivo della ragazza, combinato con l'impeto con cui si era lanciata su di lui, fece sì che il già provato mobile cedesse e il corpo del povero studente fosse scaraventato nel contenitore, dove la testa e le spalle si conficcarono saldamente. Quanto alle altre estremità del corpo, si agitavano nell'aria inutilmente. Fu la goccia che fa traboccare il vaso. Liberatosi con qualche difficoltà da quell'infelice posizione, von Hartmann diede in un grido inarticolato e, precipitatosi fuori a dispetto dei richiami di Elise, prese il cappello e corse in città, tutto in disordine e gocciolante d'acqua; avrebbe cercato in una locanda il cibo e il relax che gli erano mancati a casa. Mentre lo spirito di von Baumgarten intrappolato nel corpo di von Hartmann percorreva i sentieri tortuosi che portavano nella cittadina, ripensando infuriato ai molti smacchi di quel giorno, vide un vecchio che veniva dalla sua parte e sembrava piuttosto ubriaco. Von Hartmann si mise sul ciglio della strada e osservò l'uomo che veniva avanti barcollando, spostandosi da un lato all'altro del sentiero e cantando una canzone studentesca con voce impastata da beone. In un primo momento l'interesse di von Hartmann fu suscitato dal semplice fatto di vedere un uomo di aspetto così venerabile in una condizione tanto disgraziata, ma all'avvicinarsi dell'altro individuo si rese conto di conoscerlo bene, anche se non ricordava dove o quando l'avesse incontrato. Era una sensazione così forte che quando lo sconosciuto gli passò vicino, von Hartmann gli si parò davanti e lo guardò ben bene. «E allora, figliolo» disse l'ubriaco osservando von Hartmann mentre barcollava. «Dove henker ti ho visto prima d'ora? Ti conosco come me stesso. Chi diamine sei?» «Sono il professor von Baumgarten» rispose lo studente. «Posso chiedere chi è lei? Il suo aspetto mi è stranamente familiare.» «Non si dicono le bugie, giovanotto» ribatté l'altro. «Non puoi essere il professore: lui è vecchio e brutto, tu sei un ragazzone grande e grosso. Quanto a me sono Fritz von Hartmann, riverisco.» «No che non lo sei» esclamò il corpo di von Hartmann. «Potresti essere suo padre. Ma dico, signor mio, lo sai che porti i miei gemelli e la catena del mio orologio?» «Donnerwetter!» tossì l'altro. «Se quelli non sono i calzoni per cui il mio sarto sta per farmi causa, non assaggerò mai più un goccio di birra.» Sopraffatto dai molti e straordinari avvenimenti di quel giorno, von Har-
tmann si passò una mano sulla fronte e abbassò gli occhi: e allora, in una pozzanghera lasciata dalla pioggia, vide il riflesso del suo volto. Con assoluto sbalordimento vide che il suo aspetto era quello di un giovane, che l'abbigliamento all'ultima moda era da studente e che, in tutti i sensi, era l'antitesi della seria figura di studioso in cui la sua mente si riconosceva. In un attimo il suo cervello allenato ripercorse gli avvenimenti della giornata e balzò alla conclusione. Poco ci mancò che stramazzasse a terra. «Himmel!» gridò. «Adesso capisco. Le nostre anime sono nei corpi sbagliati. Tu sei me e io sono te. La mia teoria è dimostrata... ma a che prezzo! È mai possibile che il più famoso scienziato d'Europa vada in giro in un corpo frivolo come questo? Oh, le fatiche di una vita rovinate!» E si percosse il petto dalla disperazione. «Ehi!» protestò il vero von Hartmann dal corpo del professore. «Capisco benissimo la forza dei suoi argomenti. Non c'è bisogno di picchiare il mio petto in quel modo. Ha ricevuto un corpo in condizioni perfette, ma vedo che l'ha graffiato e bagnato e che ha versato qualche porcheria sulla mia camicia.» «Poco importa» fece l'altro, cupo. «Siamo condannati a restare così. La dimostrazione della mia teoria è avvenuta, ma a un prezzo terribile.» «Se anch'io la pensassi così» disse lo spirito dello studente «sarebbe veramente dura. Che potrei fare con due gambe rigide come queste? Come convincerei Elise che non sono suo padre? Ma grazie al cielo, e nonostante la birra che mi ha offuscato più di quanto potrebbe mai offuscare il mio vero me, penso di intravedere una via d'uscita.» «Come?» ansimò il professore. «Ripetendo l'esperimento. Liberando ancora una volta le nostre anime. Ci sono buone probabilità che troveranno la strada verso i rispettivi corpi.» Neanche un uomo che sta per annegare si aggrapperebbe a un travicello con più foga di von Baumgarten all'idea del suo allievo. Con ansia febbrile accompagnò il proprio corpo in un angolo riparato della strada e lo mesmerizzò, quindi gli prese la sfera di cristallo dalla tasca e ottenne su di sé lo stesso risultato. Studenti e contadini che passavano da quelle parti furono sorpresi di vedere l'esimio professore di fisiologia e il suo pupillo seduti sul ciglio fangoso della strada, completamente insensibili. Prima che un'ora fosse trascorsa si era radunata una folla non indifferente e la gente discuteva sull'opportunità di mandare a chiamare un'ambulanza per trasportare i due all'ospedale, ma l'illustre scienziato aprì gli occhi e si guardò intorno con
aria assente. In un primo momento sembrò non ricordare perché si trovasse in quel posto, ma poi sbalordì il pubblico alzando al cielo le braccia ossute e gridando con gioia: «Gott sei gedanket! Sono di nuovo me stesso. Lo sento!». Lo stupore della gente non diminuì quando lo studente, che era balzato in piedi, proruppe nello stesso grido e i due improvvisarono una specie di pas de joie in mezzo alla strada. Per qualche tempo la gente dubitò della sanità mentale dei due protagonisti, e quando il professore pubblicò le sue esperienze nel «Medicalshrift» come aveva promesso, persino i suoi colleghi gli consigliarono di farsi curare e garantirono che in caso di un'altra pubblicazione del genere l'avrebbero consegnato al manicomio. Anche lo studente scoprì con l'esperienza che era meglio tacere il misterioso episodio. Quando l'eminente studioso tornò a casa, quella sera, non ricevette il cordiale benvenuto che avrebbe potuto aspettarsi dopo tante disavventure. Anzi, fu aspramente attaccato da tutt'e due le donne di casa perché puzzava di birra e di tabacco e perché era stato assente mentre un giovane insolente invadeva la casa e insultava le occupanti. Passò parecchio tempo prima che l'atmosfera familiare tornasse serena, e ancora di più prima che la faccia allegra di von Hartmann osasse presentarsi sotto quel tetto. La perseveranza, tuttavia, vince ogni ostacolo e lo studente riuscì a riconciliare le signore adirate e a tornare nella posizione di prima. Ma ormai non ha più motivo di temere l'inimicizia di Madame, perché è Hauptmann von Hartmann degli ulani dell'imperatore e la sua cara moglie Elise gli ha già dato due piccoli ulani come segno tangibile del suo affetto. Titolo originale: The Great Keinplatz Experiment Postilla Distinguere il corpo dalla propria personalità è una forte tentazione. In fondo, si può perdere una parte del corpo (i denti, gli occhi, le membra) e continuare a vivere, ad essere se stessi. Il corpo può essere scambiato per un semplice involucro, una casa vivente all'interno della quale, da qualche parte, c'è qualcosa che rappresenta l'"io". (Quando ero giovane mi concentravo profondamente cercando di penetrare l'"io" che viveva in me, forse nel mio cervello, e una volta, per un attimo indimenticabile, pensai di avercela fatta: ma non era così.) Questo "io", il vero individuo all'interno del corpo, può essere chiamato
"ego" se ci piace il latino, "mente" se vogliamo esprimerci in termini psicologici oppure, con un termine religioso, "anima"; comunque lo si chiami, è probabile che alla gente sembri più reale del corpo stesso. (A me sembra probabile che ciò che forma l'"io" sia la complessa organizzazione dei cinquanta milioni di milioni di cellule del nostro corpo, e dei milioni di milioni di molecole all'interno delle cellule; che la morte sia l'interruzione di questa organizzazione e che l'"io" muoia irrevocabilmente con il corpo. Anzi, esso può spegnersi quando il corpo, almeno nelle sue parti essenziali, è ancora apparentemente intatto.) Comunque, a chi pensa che l'"io" sia un'entità immateriale che esiste indipendentemente dal corpo deve sembrare logico che in certe circostanze le personalità di due individui diversi possano scambiarsi e produrre effetti comici come nel racconto di Doyle. Fra parentesi: "Keinplatz" è una parola tedesca che significa "nessun luogo". I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Karen Blixen, "La scimmia" ("The Monkey"), in Sette storie gotiche, Adelphi, Milano 1980. Jerome K. Jerome, "The Soul of Nicholas Snyders", in The Passing of the Third Floor Back, Dodd, Mead, New York 1908. Gerald Kersh, "Fantasy of a Hunted Man", in On an Odd Note, Ballantine Books, New York 1958. H.P. Lovecraft, "La cosa sulla soglia" ("The Thing on the Doorstep"), in Tutti i racconti 1931-1936, Oscar Mondadori, Milano 1992. Mary Shelley, "The Transformation", in Collected Tales and Stories a cura di Charles E. Robinson, John Hopkins University Press, Baltimora e Londra 1976. Possessione CONOSCI DAVE WENZEL? di Fritz Leiber Quando Don senior disse: «È il campanello» e spinse la sedia per alzarsi, Wendy aveva appena rovesciato la sua coppetta, la mano di John strisciava verso il bordo del piatto per dare man forte al cucchiaio e Don ju-
nior aveva cominciato a dare calci alla gamba del tavolo, con gli occhi persi nel vuoto a seguire un invisibile fumetto di avventure. Katherine scoccò un'occhiata a Don senior, pur essendo presa nel non facile compito di raccogliere il purè di carote che Wendy aveva rovesciato, a rimetterlo nella coppa e a tenere lontane le mani della bambina. «Io non l'ho sentito» disse. «Vado io» ribatté Don senior. Tre minuti dopo Wendy aveva ripreso a mangiare normalmente, la mano di John aveva fatto una ritirata strategica e le ultime carote erano state tolte da tavola. Don junior era andato tranquillamente alla finestra e, con la testa infilata fra le pesanti tende rosa, guardava fuori, sul prato scuro. Forse vede il seguito della sua invisibile avventura, pensò Katherine. Lo guardò con affetto: i maschietti sono completamente in balia dei loro sogni. Quando arriva il "richiamo", devono rispondere. Le ragazze sono diverse. Quando tornò a tavola, Don sembrava pensieroso. È cambiato tutto a un tratto, pensò Katherine, proprio come Don junior. «Chi era, caro?» Lui la guardò in modo strano, prima di rispondere. «Un vecchio compagno d'università.» «E non l'hai fatto entrare?» Lui scosse la testa, guardando i bambini. «È uno che conosce fin troppo il mondo» disse a bassa voce. «Persona non molto rispettabile.» Katherine si puntellò sui gomiti. «Va bene, ma se una volta era tuo amico...» «Temo che non ti piacerebbe» disse Don per chiudere l'argomento, ma a Katherine sembrò che nel suo tono ci fosse una punta di rimpianto. «L'ho conosciuto?» chiese lei. «No. Si chiama Dave Wenzel.» «Voleva farsi prestare dei soldi?» In un primo momento Don sembrò non fare caso alla domanda. Poi: «Soldi? Oh, no!». «Ma perché voleva vederti?» Don non rispose e aggrottò la fronte. I bambini avevano finito di mangiare. Don junior si staccò dalla finestra e le tende si chiusero dietro di lui. «Se n'è andato, papà?» chiese il bambino. «Ma certo.» «Io non l'ho visto uscire.»
Ci fu qualche secondo di silenzio, poi Don senior disse: «Forse ha tagliato dall'altra parte». «Che strano» osservò Katherine, Fece un rapido sorriso ai bambini e chiese: «Dopo l'università l'hai più visto, Don?». «No, dal giorno in cui mi sono laureato.» «Fammi pensare, quanti anni sono passati?» Lei aveva un'espressione incredula, quasi per gioco. «Santo cielo, un bel pezzo. Quattordici, quindici anni. E siamo nello stesso mese.» Il marito la guardò di nuovo, intensamente. «Per la verità» disse «siamo nello stesso giorno.» Quando, la mattina dopo, Katherine passò nell'ufficio del marito, pensava al misterioso signor Wenzel. Non perché l'episodio l'avesse colpita particolarmente, ma perché un incontro casuale che aveva fatto in treno, mentre veniva in città, gliel'aveva ricordato. Si era imbattuta in un altro amico di Don. Katherine si sentiva bene. È piacevole incontrare un ex corteggiatore e scoprire che ti trova ancora attraente, anche se per fortuna le dolorose ed elettrizzanti incertezze della gioventù erano passate. Come sono fortunata ad avere Don, pensò. Altre donne devono preoccuparsi delle rivali (come farà la moglie di Carleton Hare?) o del fallimento del loro uomo (sarà sposato, il signor Wenzel?). E poi c'è il malumore, l'inquietudine, l'infantile ribellione di certi uomini contro la fatica di vivere. Ma Don è diverso, è un bell'uomo ed è sincero. Romantico eppure posato. Ha un cuore tranquillo. Salutò la sua segretaria. «Il signor McKenzie è occupato?» «C'è una persona con lui. Un certo signor Wenzel, mi pare.» Katherine non cercò di nascondere la sua curiosità. «Mi parli di lui, vuole? Che tipo è?» «Veramente non lo so» rispose la signorina Korshak, sorridendo. «Il signor McKenzie mi ha detto che sarebbe venuto un certo signor Wenzel e penso che sia arrivato qualche minuto fa, mentre non ero alla scrivania. So che in questo momento c'è qualcuno perché ho sentito suo marito parlare con un'altra persona. Vuole che lo chiami, signora McKenzie?» «No, aspetterò un poco.» Katherine sedette e si tolse i guanti. Pochi minuti dopo la signorina raccolse delle carte e uscì. Katherine si avvicinò alla porta dell'ufficio di suo marito: di tanto in tanto sentiva la voce di Don, ma non riusciva a capire le parole. Il pannello di vetro smeri-
gliato mostrava chiazze indistinte di luce e ombra. Katherine sentì un improvviso senso di disagio. Alzò la mano, coperta di lentiggini dello stesso colore dei capelli, e bussò. I rumori al di là della porta cessarono, poi si udirono dei passi e la porta si aprì. Don la guardò stupito per un momento, poi la baciò. Katherine lo precedette nell'ufficio con la moquette grigia. «Ma dov'è il signor Wenzel?» chiese, voltandosi verso di lui con un gesto di stupore solo in parte scherzoso. «Avevamo appena finito» disse Don senza dar peso alla cosa. «Così è uscito dalla porta del corridoio.» «Dev'essere un uomo molto timido... e silenzioso» osservò Katherine. «Don, ieri sera ti sei messo d'accordo con lui perché venisse in ufficio?» «In un certo senso.» «Cosa vuole?» Suo marito esitò. «Penso che lo potresti definire un pazzoide.» «Vuole pubblicare un articolo impossibile sulla tua rivista?» «No, non proprio.» Don fece una smorfia e agitò la mano, come se la cosa lo esasperasse un po'. «Conosci il tipo, cara. Il vecchio compagno di università fallito che vuole rivangare i vecchi tempi. L'uomo che ricava un piacere morboso dall'abbandonarsi a vecchie idee e rivivere sensazioni ammuffite. Un seccatore nato.» Poi spostò il discorso sulle compere di Katherine e lei accennò all'incontro con Carleton Hare. Non si parlò più di Dave Wenzel. Ma quando Katherine tornò a casa nel pomeriggio, dopo essere passata da zia Martha a prendere i bambini, scoprì che Don aveva telefonato per dire di non aspettarlo a cena. Quando finalmente rincasò era preoccupato. Addormentati i bambini, Don e Katherine sedettero in soggiorno davanti al camino. Don accese il fuoco e l'odore penetrante della legna che bruciava si mescolò al profumo delle fresie messe in un vaso azzurro sul camino, sotto la riproduzione di Monet. Appena le fiamme guizzarono fra i ciocchi, Katherine chiese seria: «Don, cos'è questa faccenda di Dave Wetzel?». Lui cercò di buttarla sul ridere, ma Katherine lo interruppe. «No, Don, parlo sul serio. Da quando hai aperto la porta a quell'uomo, ieri sera, c'è qualcosa che ti preoccupa. Non è da te allontanare un vecchio amico o farlo sgattaiolare dall'ufficio come un ladro, anche se è diventato un po' noio-
so. Cosa c'è, Don?» «Niente di cui ti debba preoccupare, sul serio.» «Io non sono preoccupata, Don, sono curiosa.» Esitò. «E forse ho un po' paura.» «Paura?» «Ho uno strano presentimento su questo Wenzel, forse per il modo in cui si è dileguato tutt'e due le volte, e... oh, non lo so, Don, voglio capire di che si tratta.» Lui guardò il fuoco, che gli tingeva la pelle di un riflesso arancione. Poi si voltò verso sua moglie con un sorriso imbarazzato: «Te lo dico, non m'importa. Solo che è molto stupido, e anch'io farò la figura dello stupido». «Per me va bene» ribatté Katherine con una risata. Raggomitolò i piedi sotto il corpo e guardò il marito da un angolo del divano. «Ho sempre desiderato sentire qualcosa di stupido su di te, Don.» «Non so» fece lui. «Potresti trovarlo un po' assurdo e molto infantile. Sai, giuramenti e roba del genere.» Lei ebbe un'ispirazione. «Alludi a questa faccenda dei quindici anni esatti, spaccato il giorno?» Don annuì. «Sì, in parte si tratta di questo. C'è stata una specie d'intesa fra noi. Un patto.» «Oh, bene. Un mistero» disse lei giocando a fare la bambina. Ma non si sentiva sicura come sembrava. Lui fece una pausa, poi si allungò verso Katherine e le prese una mano. «Devi tenere presente» riprese, stringendogliela «che il Don McKenzie di cui ti parlerò non è il Don McKenzie attuale e non è nemmeno quello che tu hai sposato. È un Don diverso, più giovane, con molta esperienza in meno. È timido e goffo, un sognatore solitario con molte idee sbagliate sulla vita e pregiudizi d'ogni sorta...» «Lo terrò presente» promise Katherine, restituendogli la stretta sulle dita. «E Dave Wenzel? Come devo immaginarmelo?» «Più o meno della mia età, si capisce. Ma con una faccia più sottile e gli occhi infossati. Era il mio grande amico.» Aggrottò la fronte. «Sai, all'università si fanno molte amicizie casuali: i compagni con cui dividi la stanza, con cui giochi a tennis o vai agli appuntamenti. Di solito sono ragazzi a posto e di cui ti puoi fidare, insomma gente del tuo tipo. Ma poi c'è l'amico speciale, e stranamente lui non è altrettanto a posto e fidato.» Di nuovo aggrottò la fronte. «Non so perché, ma è probabile che sia un
tipo poco rispettabile, qualcuno di cui hai un po' vergogna e non vorresti che i tuoi genitori lo incontrassero. «Però è più importante degli altri, condivide i tuoi sogni e impulsi più fantastici. Il motivo principale per cui sei attratto da lui è la sensazione che nutra quei sogni e quegli impulsi in modo ancora più profondo.» «Credo di capire» disse saggiamente Katherine, pur non essendone affatto sicura. Sentì Don junior che chiamava nel sonno e rimase un momento ad ascoltare, guardando il marito. I suoi occhi brillano in modo straordinario, pensò. «Dave e io facevamo lunghe discussioni nella mia stanza e uscivamo a passeggiare di. notte; giravamo per tutto il campus, poi andavamo verso il lago e negli slum più poveri. L'idea era quella di mantenere in vita un sogno meraviglioso, seducente. Qualche volta parlavamo dei libri che leggevamo e delle cose più strane che ci fossero capitate. A volte inventavamo esperienze assurde e ce le raccontavamo come se fossero vere. Ma parlavamo soprattutto delle nostre ambizioni, delle cose straordinarie e rivoluzionarie che avremmo fatto un giorno.» «Ad esempio...?» Lui si alzò e cominciò a passeggiare inquieto. «È qui che la cosa diventa stupida» disse. «Saremmo diventati due grandi studiosi e contemporaneamente avremmo girato il mondo, vivendo ogni sorta di avventure.» Proprio come Don junior, lei pensò. Ma Don junior è tanto più giovane. Quando andrà all'università sarà ancora...? «Avremmo sfidato ogni sorta di pericoli, conosciuto tutti i piaceri. Credo che saremmo stati una coppia di Casanova, fra l'altro.» La battuta umoristica di Katherine andò perduta perché lui continuò in fretta; nonostante tutto, le parole di Don cominciavano ad accenderle l'immaginazione. «Avremmo compiuto miracoli, con la nostra mente, proprio come i sensitivi. Telepatia, chiaroveggenza. Avremmo usato le droghe e scoperto non so quale segreto antico come il mondo. Credo che se Dave mi avesse detto: "Andremo sulla luna, Don", gli avrei creduto.» Si fermò davanti al fuoco. Socchiudendo gli occhi disse piano, come per riassumere: «Eravamo cavalieri che si preparavano alla ricerca di un moderno, sconosciuto e ambiguo Graal. Un giorno le nostre avventure ci avrebbero permesso di scoprire la verità che si nasconde dietro la vita, la morte, il tempo e gli altri grandi misteri». Per un attimo, solo per un attimo, a Katherine parve di sentire il mondo che girava sotto di lei e di vedere, al di là delle pareti e del soffitto che si
erano dileguati, il corpo poderoso di suo marito stagliato contro lo sfondo nero dello spazio e le stelle. Pensò: Non è mai stato così meraviglioso. E non mi ha mai fatto tanta paura. Don agitò un dito davanti a lei: quasi con rabbia, si disse Katherine. «E poi una notte, una terribile notte poco prima che mi laureassi, ci rendemmo conto all'improvviso di come eravamo deboli, di come fosse impossibile realizzare la più piccola delle nostre ambizioni. Eravamo assillati da problemi secondari come i soldi, il lavoro, l'indipendenza e il sesso e sognavamo il cielo! Ci rendemmo conto che dovevamo affermarci nel mondo, capire come si tratta con la gente, diventare esperti uomini d'azione, risolvere tutti i problemi secondari prima di lanciarci nella grande ricerca. Ci concedemmo quindici anni per portare sotto controllo tutti questi aspetti pratici. Poi ci saremmo incontrati e avremmo cominciato.» Katherine non sapeva come sarebbe andata a finire, ma all'improvviso scoppiò a ridere quasi istericamente. «Scusami, caro» disse dopo un attimo, notando l'espressione perplessa di Don. «Ma tu e il tuo amico avete messo il carro davanti ai buoi! A quell'epoca avevi qualche possibilità di darti all'avventura, se non altro eri libero. Ma adesso... hai scelto il momento in cui sei legato mani e piedi.» E cominciò a ridere di nuovo. Per un attimo Don sembrò ferito, poi si mise a ridere con lei. «È naturale, cara, lo capisco benissimo. Mi sembra la cosa più ridicola del mondo! Ieri sera, quando ho aperto la porta e ho visto Dave che stava in piedi davanti a me con un soprabito gualcito, meno capelli di quanti ricordassi e l'aria di chi sta lì ad aspettare, mi sono sentito un cretino. Ovviamente avevo dimenticato il nostro patto da anni, molto prima che tu e io ci sposassimo.» Lei scoppiò a ridere di nuovo. «E così ero uno dei tuoi problemi secondari, Don?» chiese, maliziosa. «Certo che no, tesoro!» L'aiutò ad alzarsi dal divano e se la strinse al petto, con forza. Katherine cercò di non pensare che Don fosse cambiato nel momento stesso in cui lei aveva cominciato a ridere, e che avesse tenuto per sé il resto. Si abbandonò al senso di sicurezza che le dava l'abbraccio di suo marito. Quando si furono seduti di nuovo, lei disse: «Il tuo amico scherzava, quando è venuto ieri sera. C'è gente che aspetterebbe anni per farsi una risata». «No, era abbastanza serio.»
«Non posso crederci. Fra parentesi, come se l'è cavata con la sua parte della promessa? Voglio dire, ad affermarsi nel mondo?» «Per niente bene. Anzi, così male che ieri non ho voluto farlo entrare in casa.» «Allora scommetto che quello che cerca sono i finanziamenti per la vostra missione.» «No, onestamente non credo che cerchi soldi.» Katherine gli si avvicinò. Improvvisamente avvertiva l'antico bisogno di misurare ogni pericolo, per quanto piccolo. «Ti dico io cosa, Don. Farai in modo che il tuo amico si dia una rassettata e poi lo inviteremo a cena. Forse daremo una festa. Scommetto che se frequentasse un po' le donne sarebbe tutto risolto.» «Oh no, è fuori discussione» disse brusco Don. «Non è affatto quel tipo di persona. Non funzionerebbe.» «Va bene» disse Katherine, stringendosi nelle spalle. «Ma in tal caso, come pensi di liberarti di lui?» «Questo è facile» rispose Don. «Come l'ha presa quando tu hai rifiutato?» «Piuttosto male» ammise lui. «Eppure, non posso credere che facesse sul serio.» Don scosse la testa. «Non conosci Dave.» Katherine gli prese una mano. «Dimmi una cosa: fino a che punto hai preso sul serio questo patto, quando l'avete fatto?» Lui guardò nel fuoco prima di rispondere: «Ti ho già spiegato che allora ero un altro Don McKenzie». «Don» riprese lei «c'è qualcosa di pericoloso in questa storia? Dave è un uomo a posto? È... sano? Non avrai qualche problema a liberarti di lui?» «Certo che no, tesoro. Anzi, è già tutto sistemato.» La prese fra le braccia, ma per un attimo Katherine ebbe l'impressione che la sua voce, per quanto ansiosa di rassicurarla, non esprimesse un'assoluta certezza. Nei giorni che seguirono Katherine ebbe motivo di credere che la sua sensazione fosse esatta. Ormai Don si tratteneva in ufficio più del solito e per due volte, chiamandolo durante il giorno, scoprì che era uscito e la signorina Korshak non sapeva dove trovarlo. Le sue spiegazioni, date casualmente, erano sempre convincenti, ma non aveva un buon aspetto e si notava in lui un certo nervosismo, A casa cominciò a rispondere al telefono prima di lei e una o due volte fece delle conversazioni piuttosto miste-
riose. Persino i bambini, secondo Katherine, si erano accorti di qualcosa. Lei cominciò a osservare Don junior con una certa attenzione, cercando nel bambino qualche elemento che l'aiutasse a capire suo padre. Ripassò mentalmente quello che sapeva dell'infanzia di Don senior e scoprì con fastidio che c'era poco da sapere. (Ma non è così per molti bambini che crescono in città?, si chiese.) Era stato un bravo ragazzo, ubbidiente, allevato in gran parte da due zie piuttosto rigide ed emotive. L'unica scappatella di cui Katherine fosse a conoscenza era il giorno in cui Don era rimasto al cinema tutto il pomeriggio e metà della sera. Katherine si rese conto che una parte importante dei pensieri di suo marito le erano preclusi, e dato che non era mai successo provò un senso di panico. Don l'amava come sempre, di questo era sicura; ma qualcosa lo tormentava. Il successo, una moglie affettuosa e dei bambini, si chiese, non erano abbastanza per un uomo? Erano abbastanza, ma da un punto di vista "serio"; ognuno poteva avere le sue debolezze, i suoi sogni un po' frivoli (anche se Don non era tipo da stravaganze, di questo era certa). E se ci fosse qualcos'altro, nella vita? Non la religione, non il potere, non la gloria, ma... Katherine aveva bisogno di stare fra la gente, così quando telefonò Carleton Hare lo invitò impulsivamente a cena. Sua moglie, disse Carleton, non era in città. Era una di quelle sere in cui Don chiamò all'ultimo momento per dire che non sarebbe tornato a mangiare. (No, non poteva farlo nemmeno per Carleton: era successo un guaio in tipografia. Gli faceva piacere che Carleton venisse a casa e sperava di vederlo più tardi, ma forse sarebbero passate parecchie ore. Non lo aspettassero.) Dopo che i bambini furono andati a letto e Katherine e Carleton si furono trasferiti piuttosto ufficialmente in soggiorno, lei domandò: «Conosci un compagno d'università di Don che si chiama Dave Wenzel?». Katherine ebbe l'impressione che la domanda allontanasse Carleton da una conversazione di tutt'altro tipo, alla quale si stava già preparando. «No, non lo conosco» rispose lui in fretta. «Il nome devo averlo sentito, ma non credo di averlo mai incontrato.» Poi sembrò ripensarci. Si voltò verso Katherine, in modo che le ginocchia dei pantaloni grigi dalla piega impeccabile fossero qualche centimetro più vicine alle sue.
«Aspetta un momento, Don aveva un amico un po' strano. Mi pare si chiamasse Wenzel. A volte Don ne parlava in termini entusiastici: com'era brillante, che esperienze sensazionali ed elettrizzanti aveva fatto. Ma nessuno degli altri amici lo conobbe. «Spero che non ti dispiaccia se dico questo» continuò Carleton, con una risata da ragazzino che stupì Katherine, tanto l'imitazione era perfetta. «Ma all'università Don era piuttosto timido e di umore cupo. Non aveva molto successo in società e veniva canzonato per questo. Alcuni di noi pensavano addirittura che quest'amico... sì, sono sicuro che si chiamasse Wenzel... fosse un essere immaginario che Don aveva inventato per impressionarci.» «Davvero?» chiese Katherine. «Sì. Una volta insistemmo perché portasse Wenzel a una festa. Don acconsentì, ma all'ultimo momento ci disse che aveva dovuto lasciare la città per una misteriosa e importante missione.» «Non può essere che Don si vergognasse di Wenzel, per un motivo o per l'altro?» domandò Katherine. «Sì, forse sì» acconsentì Carleton, ma con aria di dubbio. Poi riprese: «Dimmi, Kat, come te la cavi con una persona introversa e umorale come Don?». «Benissimo.» «Sei felice?» chiese lui, in tono più insinuante. Katherine sorrise. «Penso di sì.» La mano di Carleton si allungò sul divano e coprì la sua. «Ma certo. Una persona intelligente ed equilibrata come te non può che essere felice. Tuttavia, quanto è intensa la tua felicità? Quante volte ti rendi conto che sei una donna assolutamente affascinante? Non ci sono momenti... non sempre, è ovvio... in cui con una persona più semplice e vitale potresti...» Katherine scosse la testa, fissandolo con infantile solennità. «No, Carleton, non ce ne sono» rispose. Poi ritirò dolcemente la mano. Carleton annuì e la testa, che aveva cominciato a muoversi impercettibilmente verso la sua, si fermò di scatto. Katherine piegò le labbra e cominciò a parlare dei bambini. Durante il resto della serata Carleton non rinunciò all'attacco, ma lo portò avanti senza ispirazione e per rispettare i canoni del comportamento maschile. Katherine si sarebbe messa a ridere, tanto era serio e ostinato nelle sue manovre. Una volta lui si accorse che reprimeva una risata e assunse un'espressione ferita. Katherine, da parte sua, lo tempestava di domande su Dave Wenzel e Don (piuttosto crudelmente, pensò) ma a quanto sembrava
Carleton non sapeva altro. Se ne andò piuttosto presto e lei non poté fare a meno di pensare che fosse sollevato. Andò a letto. Il divertimento crudele alle spalle di Carleton Hare svanì e i minuti passarono mentre aspettava Don. La svegliò una voce, un mormorio lontano. Aveva molto sonno e le pareti buie della camera da letto pulsavano dolorosamente, come se fossero dentro i suoi occhi. In un primo momento pensò che fosse di Don junior. Si incamminò brancolando nel corridoio, ma poi si rese conto che la voce veniva dal piano di sotto. Andava avanti per un po', si interrompeva per alcuni secondi e ricominciava. Sembrava che pulsasse nel buio. Katherine scese a piedi nudi. La casa era immersa nel buio, il rettangolo della porta che dava nello studio di Don si vedeva appena. Era chiusa, non filtrava luce dalle fessure. Eppure, la voce veniva da lì. «Per l'ultima volta, Dave, ti dico che non lo farò. Sì, ho mancato alla parola, ma non me ne importa. La faccenda è chiusa.» La mano di Katherine tremò sul pomo del corrimano. Non era il tono normale di Don, era una voce torturata, disperata e tremendamente controllata, come non le era mai capitato di sentire. «Che senso ha la promessa fatta da un bambino? E poi la cosa è assurda, impossibile.» Lei si diresse alla porta, in punta di piedi. «E va bene, Dave, ti credo. Potremmo fare tutto quello che dici, ma non voglio. Preferisco non perdere le cose a cui sono affezionato.» Si era inginocchiata accanto alla porta, ma nei momenti di silenzio non riusciva a sentire la voce dell'altro. La ricostruì con l'immaginazione: un sussurro che aveva in sé autorità, ricchezza e una sfumatura beffarda, più una viscida capacità di persuasione. «Che importa se la mia vita è banale e monotona?» La voce di suo marito si era fatta più forte. «Te l'ho detto, non m'interessano le città lontane e le stradine buie che sanno di pericolo. Non voglio notti seducenti e giorni di fuoco. Non voglio lo spazio e non voglio le stelle!» Di nuovo silenzio, di nuovo la sensazione di un sussurro indefinibile, carico di fascino e malvagità. Poi: «E va bene, le persone che conosco sono una massa di miserabili vermi, uomini di cartone, vecchi e ammuffiti burattini. Non m'importa. Hai capito? Non m'importa! Non voglio conoscere gente che prova emozioni scintillanti, che si muove in un mondo di sogno e raffinatezza. Non voglio
farmela con dei semidei e non voglio che l'incontro delle nostre menti sia un trionfo paragonabile a un grande concerto o alla musica delle onde.» Katherine tremava di nuovo. La mano sfiorava la maniglia come una falena, senza osare toccarla. «Ho una mente limitata? Mi sta bene. Ci pensi la coscienza di qualcun altro a espandersi e ad allungare i suoi sensori. Non me ne faccio niente dei tuoi sogni d'oppio, né di tutto il resto. Non m'importa se non svelerò i segreti dei mondi lontani. Morirò con i paraocchi, va bene? Non me ne importa niente, hai capito? Niente!» Katherine vacillò, come se dalla porta soffiasse un vento terribile. Soffriva come se le parole bruciassero. «Non voglio altra donna che Kat!» La voce di suo marito esprimeva un tormento insopportabile. «Non m'importa se le altre sono più giovani e belle. Non m'interessa se hanno solo vent'anni. Kat mi basta. Hai capito, Dave? Kat mi basta! Finiscila, finiscila!» Poi, un rumore di pugni sulla porta. Katherine si rese conto di essersi gettata con violenza in avanti e di aver bussato furiosamente prima di stringere la maniglia, aprirla ed entrare nello studio. Nel buio ci fu un movimento rapido, un'esclamazione soffocata, poi tre passi pesanti, un gran fracasso di vetro e uno stormire di foglie. Qualcosa urtò la spalla di Katherine e lei barcollò, trovò la parete, la tastò con una mano e premette l'interruttore. La luce faceva male agli occhi. La faccia di Don era disfatta: si era voltato in quel momento dalla finestra panoramica che era ormai un grande buco dentato e aperto sulla notte, attraverso il quale si insinuava un ramo verde. Restavano solo pochi frammenti e spuntoni della vetrata. Sul pavimento era rovesciata una sedia, Don guardò Katherine come se fosse un'estranea. «È... saltato dalla finestra?» chiese lei, tremando e inumidendosi le labbra. Don annuì distogliendo lo sguardo, poi un'espressione furiosa si disegnò sul suo volto. Avanzò verso di lei, lentamente, barcollando. «Don!» Si fermò e l'espressione furiosa fu sostituita da un graduale riconoscimento. Poi all'improvviso fece una smorfia che avrebbe potuto essere di vergogna, sofferenza o tutt'e due e si girò dall'altra parte. Katherine si avvicinò, stringendolo fra le braccia. «Cosa c'è, Don?» chiese. «Per favore, Don, lascia che ti aiuti.»
Lui cercò di sottrarsi. «Don» disse Katherine dopo un momento, costringendosi a finire la frase. «Se vuoi andare veramente con quell'uomo...» Ma lui, che le voltava le spalle, tremò. «No! No!» «Allora cosa c'è, Don? Come può ridurti in questo stato? Quale potere ha su di te?» Lui scosse la testa, inerme. «Dimmelo, Don, come può tormentarti fino a questo punto? Ti prego, Don!» Silenzio. «Cosa faremo? Lui... dev'essere pazzo, per fare una cosa del genere» ricominciò Katherine, guardando la finestra. «Tornerà? Si nasconderà qui intorno? Farà... ma non vedi che non possiamo vivere in questo modo? Ci sono i bambini. Don, credo che dovremmo chiamare la polizia.» Suo marito si guardò intorno rapidamente, abbastanza calmo. «Oh no, niente polizia» disse pacato. «Per nessuna ragione.» «Ma se continua...» «No» disse Don, fissandola. «Sistemerò tutto io, Kat. Non voglio parlarne adesso, ma ti prometto che sarà tutto risolto, e non ci saranno più incidenti come stanotte. Hai la mia parola.» Fece una pausa. «E allora, Kat?» Per un attimo i loro sguardi s'incontrarono. Poi, contro voglia - ebbe la sensazione che fosse l'intensità del suo sguardo a costringerla - Katherine abbassò la testa. Nelle due settimane che seguirono desiderò più volte di aver chiarito tutto quella notte, perché fu l'inizio di un regno di terrore tanto più snervante in quanto non poteva essere ricondotto a nulla di preciso. Ombre sul prato, piccoli rumori alle finestre, la sensazione che qualcuno stesse in agguato, porte aperte che avrebbero dovuto essere chiuse... Tutte cose in cui non c'era niente di decisivo, ma che minavano il coraggio. I bambini se ne accorgevano, di questo Katherine era sicura. Don junior cominciò a fare domande sulle streghe e altre cose orribili, e la sera gli mancava il coraggio di andare da solo al piano superiore. A volte Katherine lo sorprendeva a guardare lei o suo padre in modo tale che avrebbe voluto non essere costretta a mostrarsi allegra e spensierata a tutti i costi, ma di potergli parlare più liberamente. Nel cuore della notte John chiese più spesso di venire nel loro letto, mentre Wendy si svegliava piangendo. Nei primi giorni il comportamento di Don fu molto rassicurante. Era at-
tivo e preso dal lavoro, mai in preda a sbalzi d'umore. Scherzava con i bambini e per lei aveva sempre un'osservazione gentile, ma Katherine non poteva liberarsi dalla sensazione che fosse tutto preparato e gli costasse un notevole sforzo. D'altra parte non riusciva ad avvicinarlo. Don mostrava un'abilità nell'evitare i discorsi seri che non faceva parte della sua personalità normale. Le due o tre volte in cui Katherine riuscì finalmente a fare qualche domanda su Dave Wenzel e su come si sentisse, lui si limitò ad aggrottare le sopracciglia e a rispondere evasivamente: «Ti prego, non parliamone ora. Mi rende tutto più difficile». Katherine cercò di sentirsi più vicina a lui, ma quando il contatto fra una donna e l'uomo che ama si è interrotto, le intenzioni non servono a molto. E quando si ha la sensazione che l'amore c'è ancora, le cose diventano più difficili perché non c'è nessuno con cui prendersela. Don si allontanava da lei, diventava più sfuggente. E non c'era niente che Katherine potesse fare per impedirlo. E il lungo, tormentoso succedersi dei suoi pensieri veniva immancabilmente interrotto da un piccolo ma sinistro incidente che le scuoteva i nervi. Poi gli aspetti rassicuranti della personalità di Don cominciarono a svanire. Si fece silenzioso e preoccupato, tanto con lei che con i bambini. Le emozioni cominciarono a leggerglisi in faccia: un misto di angoscia e disperazione. I bambini lo notarono: il cuore di Katherine aveva un tuffo ogni volta che lo sguardo di Don junior, a tavola, si alzava furtivamente dal piatto a suo padre. Inoltre, sembrava che Don non stesse bene. Era dimagrito, aveva cerchi scuri sotto gli occhi e i suoi movimenti erano agitati e nervosi. In casa aveva preso l'abitudine di stare sempre vicino al corridoio, per cui era sempre lui a rispondere al telefono e ad andare alla porta. A volte usciva di sera tardi, dicendo che era stanco e aveva bisogno di fare una passeggiata. Poteva tornare a casa dopo un quarto d'ora... o quattro ore. Katherine fece ancora qualche sforzo per avvicinarsi a lui, ma sembrava che Don sapesse in anticipo quello che stava per dire e l'espressione di dolore e sconforto che gli si dipingeva in faccia le troncava a metà la domanda. Finché non riuscì più a sopportare la paura e l'incertezza. A darle il coraggio di agire fu un'avventura di Don junior. Un giorno tornò da scuola e raccontò la storia di un uomo che si era fermato davanti al campo da gioco, in un angolo, e che l'aveva seguito mentre tornava a casa.
Quella sera, prima di cena, Katherine affrontò Don e disse semplicemente: «Io chiamo la polizia». Lui la guardò per alcuni secondi e poi rispose con voce altrettanto calma: «Benissimo. Ti chiedo solo di aspettare fino a domani mattina». «Non servirebbe, Don. Devo farlo adesso. Siccome non vuoi dirmi cos'è che ti tormenta, devo prendere le mie precauzioni. Non so cosa dirai alla polizia quando parleranno con te, ma...» «Dirò tutto domani mattina» promise. «Oh, Don» fece Katherine, irrigidendo la faccia per trattenere l'emozione. «Non voglio farti del male, ma tu non mi lasci scelta. La volta scorsa ho ceduto, ti ho dato tempo di sistemare questa faccenda a modo tuo. Ero disposta a dimenticare tutto, di qualunque cosa si trattasse, ma le cose si sono messe male. Se cedo adesso, domani mattina mi chiederai di farlo un'altra volta. E io non ne posso più.» «Non è giusto» ribatté lui con l'aria del bravo ragazzo. «Non avevo mai fissato una data, prima. Ora sì, Kat, ed è una piccolezza quella che ti chiedo. Solo qualche ora per...» all'improvviso l'espressione del suo volto s'indurì «...chiudere questa faccenda una volta per tutte. Dammi qualche ora, Kat, ti prego.» Dopo un attimo lei sospirò e abbassò le spalle. «E va bene. Ma stanotte i bambini non dormiranno in questa casa. Li porto da zia Martha.» «Sono d'accordo.» Don chinò brevemente la testa e salì al piano superiore. Telefonare a zia Martha, inventare una scusa, convincere i bambini che era una gita imprevista e divertente, furono compiti che Katherine si accollò volentieri per il sollievo che le diedero. E ci fu un momento, mentre guidava verso casa della zia con i bambini ammucchiati sul sedile al suo fianco, in cui si sentì quasi spensierata. Tornò a casa immediatamente, dopo aver detto a zia Martha che Don aveva ricevuto un invito inatteso alla festa di un editore cui teneva molto e che dovevano andare in città. Quando arrivò, Don se n'era già andato. La casa non le era mai sembrata così vuota, così simile a una trappola. Ma attraversando la soglia Katherine affidò il comando alla stessa forza di volontà di cui si era servita poco prima, per affrontare Don. Non cominciò a vagare per casa, non si concesse un momento di pigrizia. Prese un libro e si mise a leggere in soggiorno, seguendo scrupolosamente le parole senza significato. Non permise al suo sguardo di alzarsi all'improvviso verso le
finestre e le porte buie, anche se sarebbe stato normale. Ecco tutto. Alle dieci e mezza posò il libro, andò al piano superiore, fece il bagno, scese in cucina e scaldò un po' di latte. Lo bevve e poi andò a letto. Se ne stava immobile, supina, senza quasi pensare a nulla. Di tanto in tanto i fari di un'automobile sfrecciavano sul soffitto. Molto raramente, perché era una notte senza vento, le foglie al di là della finestra stormivano. Katherine sentì che quella specie di trance avrebbe sostituito il sonno per il resto della sua vita. Dovevano essere almeno le tre quando sentì la chiave girare nella serratura della porta d'ingresso. Rimase immobile. La porta si aprì e si richiuse, poi una serie di passi misurati salirono le scale e attraversarono il corridoio. Una sagoma scura si fermò davanti alla porta socchiusa della camera da letto, proseguì. Ci fu lo scatto di un interruttore e il corridoio si illuminò debolmente. Poco dopo arrivò il rumore dell'acqua che scorreva. Katherine si alzò in silenzio e si affacciò in corridoio. La porta del bagno era aperta e la luce accesa. Don era in piedi davanti al lavandino, e in mano teneva qualcosa che era avvolto in carta di giornale. Katherine lo vide disfare il pacchetto e la luce balenò su una lama: un lungo coltello da caccia. Don lo ispezionò scrupolosamente, poi lo mise sul giornale. Si tolse la giacca e la esaminò, specialmente le maniche. Aggrottò la fronte, insaponò uno strofinaccio e sfregò uno dei polsini. Allo stesso modo si comportò con i pantaloni e la camicia. Si tolse le scarpe e le sfregò minuziosamente con lo strofinaccio, suole comprese. Ispezionò le sue mani e le braccia nude centimetro per centimetro, poi si guardò nello specchio con occhio critico, provando diverse espressioni della faccia. Katherine si sentì vacillare. Batté un polso sullo stipite e Don si girò di scatto, teso e in guardia. Lei fece qualche passo sulle gambe malferme. «Don» ansimò «che hai fatto?» Adesso l'espressione di suo marito era di totale stanchezza e apatia. Aprì e chiuse gli occhi più volte. «Ho fatto quello che volevi» rispose senza intonazione, evitando di guardarla. «Mi sono liberato di Wenzel. Non ci disturberà più.» Ansimando Katherine formò le parole: «No, no». Don alzò una mano verso di lei. «Dave Wenzel è morto, Katherine» disse con chiarezza. «L'ho sistemato per sempre. Mi senti, Katherine?» Mentre parlava l'espressione di stanchezza lasciò il posto, nei suoi occhi,
a una fermezza che Katherine non gli aveva visto da settimane. Era come se avesse pronunciato un esorcismo. Ma Katherine non si limitava a guardarlo negli occhi; la loro chiarezza si era comunicata alla sua mente e adesso pensava: Chi era Dave Wenzel? La prima volta non ho sentito il campanello perché in realtà non ha mai suonato. Don junior non ha visto Wenzel allontanarsi da casa, la signorina Korshak non l'ha visto entrare e Carleton Hare non l'ha mai conosciuto. Io non ho visto la sua ombra, non ho sentito la sua voce. Don ha fracassato la finestra con la sedia, e... sul coltello non ci sono macchie. Non è mai esistito Dave Wenzel. Mio marito era ossessionato da un uomo immaginario e adesso l'ha esorcizzato con un delitto di fantasia. «Dave Wenzel è morto» ripeté Don. «Doveva morire, non c'era altra soluzione. Vuoi chiamare la polizia?» Katherine scosse lentamente la testa. «Bene» disse lui. «Adesso rimane soltanto una cosa, Katherine. Non parlare mai di lui, non chiedermi com'è morto. Non dobbiamo più nominarlo.» Di nuovo lei annuì lentamente. «E adesso vorrei andare a letto. Sono piuttosto stanco.» Si avviò verso la loro stanza. «Aspetta, Don» disse Katherine, incerta. «I bambini...» Suo marito spinse la porta della camera da letto. «...Sono da zia Martha» finì per lei, sorridendo con aria assonnata. «Credevi che l'avessi dimenticato, Kat?» Katherine fece segno di no con la testa e andò sorridendo verso di lui, felice dell'attimo presente. Poi ricacciò in gola la prima delle mille domande che non avrebbe mai potuto fargli. Titolo originale: Do You Know Dave Wenzel? Postilla Prendiamo nuovamente in considerazione la dicotomia anima/corpo, ossia la sensazione che dentro il nostro involucro fisico abiti un "io" spirituale. Se le cose stanno così, non può darsi che un "io" estraneo invada il nostro corpo e pretenda di insediarvisi? E questo estraneo non potrebbe costringerci a compiere azioni del tutto anormali? Secondo la fraseologia dell'occultismo, tale fenomeno è detto "possessione", Non è mai stata tro-
vata alcuna prova in favore della possessione intesa in senso occulto, ma nel mondo reale vi è uno strano fenomeno che le somiglia. Un virus è un piccolissimo frammento di materia che ricorda, tanto nelle dimensioni che nella struttura chimica, il cromosoma di una cellula. Anzi, molto probabilmente è un cromosoma libero. Il virus può invadere una cellula e piegarne la struttura ai suoi scopi, costringendola a fabbricare altre unità-virus invece degli acidi nucleici e delle proteine originariamente previsti. Alla fine la cellula scoppia e al suo posto troviamo parecchie centinaia di virus, ognuno dei quali può invadere un'altra cellula. È lecito affermare che in questi casi le cellule sono state "possedute". Non solo i virus, ma tutta una serie di disturbi fisici come traumi, tumori e disordini della personalità (ad esempio stati di fuga e personalità multipla) possono creare alterazioni nel comportamento che dall'esterno potrebbero essere erroneamente giudicati come fenomeni di possessione. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Philip José Farmer, "Father's in the Basement", in The Book of Philip José Farmer, DAW Books, New York 1973. Talmage Powell, "A Hunger in the Blood", in Curses! a cura di Isaac Asimov, Charles G. Waugh e Martin H. Greenberg, New American Library, New York 1989. Charles Schafhauser, "I'm Yours", in The Playboy Book of Horror and the Supernatural, Playboy Press, Chicago 1967. Robert Silverberg, "Passeggeri" ("Passengers"), in «Fantascienza», n. 1, Ciscato, Milano 1976. William J. Stuart, "Visto dal di dentro" ("Inside John Bardi"), in «Galaxy», n, 30, La Tribuna, Piacenza 1960. Precognizione CALORE D'AGOSTO di W. F. Harvey Phenistone Road, Clapham, 20 agosto, 190... Questo è stato quello che ritengo il giorno più straordi-
nario della mia vita, e finché gli avvenimenti sono ancora freschi nella mia mente, voglio metterli giù con la maggior chiarezza possibile. Diciamo subito che mi chiamo James Clarence Withencroft. Ho quarant'anni, una salute di ferro, e non sono stato male un solo giorno in tutta la mia vita. Di professione faccio il pittore, non molto famoso, ma i miei disegni in bianco e nero mi permettono di guadagnare quanto basta a soddisfare le mie esigenze. La mia unica parente prossima, una sorella, è morta cinque anni or sono, cosicché sono del tutto indipendente. Questa mattina ho fatto colazione alle nove, e dopo avere scorso il giornale del mattino ho acceso la pipa e ho lasciato vagabondare la mente nella speranza di imbattermi in qualche soggetto per la mia matita. Sebbene porta e finestre fossero aperte, il caldo della stanza era opprimente, e avevo appena deciso che il posto più fresco e confortevole di tutto il vicinato sarebbe stata la piscina comunale, quando arrivò l'idea. Incominciai a disegnare. Ero così preso dal mio lavoro che non toccai il desinare, smettendo di disegnare solo quando l'orologio di St. Jude batté le quattro. Il risultato, per uno schizzo affrettato, era senza dubbio la cosa migliore che avessi mai fatto. Rappresentava un criminale sul banco degli imputati subito dopo che il giudice aveva pronunciato la sentenza. L'uomo era grasso, enormemente grasso. La carne gli pendeva a rotoli intorno al mento; formava pieghe sull'enorme collo tozzo. Era sbarbato (dovrei dire forse che qualche giorno prima si era sbarbato) e quasi calvo. Stava sul banco degli imputati, afferrando con le dita tozze la sbarra, lo sguardo fisso davanti a sé. Il sentimento al quale la sua espressione faceva pensare non era tanto di orrore, quanto di profondo, assoluto collasso. Non sembrava esserci niente, in quell'uomo, tanto forte da sostenere quella montagna di carne. Arrotolai il disegno, e senza sapere esattamente perché, me lo infilai in tasca. Poi, con la squisita sensazione di felicità che dà la consapevolezza di avere fatto bene un buon lavoro, uscii di casa. Credo di essermi messo in cammino con l'idea di andare a trovare Trenton, perché ricordo di avere percorso Lytton Street; e di avere voltato a destra in Gilchrist Road ai piedi della collina dove gli operai sono al lavoro per deporre le nuove rotaie del tram.
Da quel momento in poi ho solo un vaghissimo ricordo di dove mi recai. L'unica cosa della quale ero pienamente consapevole era il caldo spaventoso, che saliva dall'asfalto polveroso quasi come un'ondata tangibile. Bramavo il temporale promesso dai grandi cumuli di nuvole sulfuree che incombevano basse nel cielo a occidente. Devo aver camminato per cinque o sei miglia, quando un ragazzino mi destò dal mio sogno a occhi aperti chiedendomi l'ora. Erano le sette meno venti. Quando si allontanò incominciai a fare il punto della situazione. Mi ritrovai in piedi davanti a un cancello che conduceva a un cortile bordato da una striscia di terra assetata, sulla quale crescevano alcuni fiori, violacciocche, violette e gerani scarlatti. Sull'ingresso c'era una targa con l'iscrizione: CHAS. ATKINSON MARMISTA IN MARMI INGLESI E ITALIANI Dal cortile giungeva un fischiettio cordiale, il rumore dei colpi di martello, e il suono freddo dell'acciaio che incontrava la pietra. Un impulso improvviso mi spinse a entrare. Un uomo sedeva dandomi le spalle, occupato a lavorare una lastra di marmo dalle curiose venature. Si voltò al suono dei miei passi e si interruppe di colpo. Era lo stesso uomo che avevo disegnato, il cui ritratto si trovava nella mia tasca. Sedeva lì, enorme ed elefantesco, con il sudore che gli scorreva dallo scalpo, e che asciugava con un fazzoletto di seta rossa. Ma sebbene la faccia fosse la stessa, l'espressione era completamente diversa. Mi accolse sorridendo, come se fossimo vecchi amici, e mi strinse la mano. Mi scusai per la mia intrusione. «Fuori tutto è caldo e accecante» dissi. «Questa sembra un'oasi nel deserto.» «Per quanto riguarda l'oasi non saprei, ma è certo che fa caldo, caldo come all'inferno. Accomodatevi, signore!» Accennò all'altro capo della pietra tombale alla quale lavorava, e vi sedetti.
«Avete messo le mani su un bel pezzo di marmo» dissi. Lui scosse il capo. «In un certo senso» rispose «la superficie è bella quanto si potrebbe desiderare, ma sotto c'è un grosso difetto, anche se non credo che lo notereste mai. Non riuscirei mai a fare veramente un buon lavoro con un pezzo di marmo come questo. Va benissimo in estate; questo maledetto caldo non gli farebbe fare una piega. Ma aspettate che venga l'inverno. Non c'è niente come il freddo per trovare il punto debole in una pietra.» «A che cosa serve allora?» chiesi. L'uomo scoppiò a ridere. «Non mi crederete se vi dirò che è per una mostra, ma è la verità. I pittori fanno mostre; e anche i droghieri e i macellai; e anche noi. Tutte le ultime piccole novità nelle pietre tombali, sapete.» Continuò a parlare di marmi, quale tipo resistesse meglio al vento e alla pioggia, e quale fosse più facile da lavorare; quindi del suo giardino, e di una nuova specie di gerani che aveva acquistato. A ogni momento lasciava cadere gli arnesi, si asciugava la testa luccicante, e malediceva il caldo. Io parlavo poco, perché mi sentivo a disagio. C'era qualcosa di misterioso, di innaturale nell'incontro con quest'uomo. Cercai sulle prime di convincermi che lo avevo già visto, che il suo volto, a me sconosciuto, aveva trovato un posto in qualche recesso della mia memoria, ma sapevo di non fare altro che mettere in atto un tentativo poco più che plausibile di ingannarmi. Il signor Atkinson terminò il suo lavoro, sputò per terra, e si alzò con un sospiro di sollievo. «Ecco! che ne pensate?» disse, con un'espressione di palese orgoglio. L'iscrizione, che leggevo per la prima volta, era la seguente: ALLA MEMORIA DI JAMES CLARENCE WITHENCROFT NATO IL 18 GENNAIO 1860 TRAPASSO REPENTINAMENTE IL 20 AGOSTO 190... "Mentre viviamo siamo già morti." Sedetti in silenzio per qualche tempo, Poi un brivido freddo mi serpeggiò per la spina dorsale. Gli chiesi dove avesse visto quel nome. «Oh, non l'ho visto da nessuna parte» rispose il signor Atkinson. «Avevo
bisogno di un nome e ho preso il primo che mi è venuto in mente. Perché volete saperlo?» «È una strana coincidenza, ma si dà il caso che sia il mio.» Si lasciò sfuggire un fischio basso e prolungato. «E le date?» «Posso rispondere solo per una di esse, ed è esatta.» «E una faccenda che puzza!» disse. Ma ne sapeva meno di me. Gli dissi del disegno. Estrassi lo schizzo dalla tasca e glielo mostrai. Mentre lo guardava, la sua espressione si trasformò fino ad assomigliare sempre più a quella dell'uomo che avevo disegnato. «E solo l'altro ieri ho detto a Maria che i fantasmi non esistono!» disse. Nessuno di noi aveva visto uno spettro, ma sapevo che cosa volesse dire. «Probabilmente avete sentito il mio nome» dissi. «E voi dovete avermi visto da qualche parte e averlo dimenticato. Eravate a Clacton-on-Sea lo scorso luglio?» Non ero mai stato a Clacton in vita mia. Restammo in silenzio per un po'. Guardavamo entrambi la stessa cosa, le due date sulla pietra tombale, una delle quali era esatta. «Venite dentro a mangiare qualcosa» disse il signor Atkinson. Sua moglie è una donnina cordiale, con le guance rosse spellate della gente nata in campagna. Il marito mi presentò come un suo amico pittore. Il risultato fu disgraziato, perché dopo aver portato via le sardine e il crescione, ritornò con una Bibbia di Doré, e dovetti restare seduto a esprimere la mia ammirazione per quasi mezz'ora. Quando uscii, trovai Atkinson che fumava, seduto sulla pietra tombale. Riprendemmo la nostra conversazione al punto in cui l'avevamo interrotta. «Dovete scusarmi se ve lo chiedo» dissi «ma sapete di qualcosa che abbiate fatto per cui potreste essere sottoposto a un processo?» Lui scosse il capo. «Non ho mai fatto bancarotta, gli affari vanno abbastanza bene. Tre anni fa ho regalato tacchini ai sorveglianti a Natale, ma è tutto quello a cui riesco a pensare. Ed erano anche piccoli» aggiunse ripensandoci. Si alzò, prese un annaffiatoio sotto il portico, e incominciò ad annaffiare i fiori. «Due volte al giorno con questo caldo» disse, «e con tutto ciò qualche volta il caldo ha la meglio sui più delicati. E le felci, buon Dio! Non ci resisterebbero mai. Dove abitate?»
Gli diedi il mio indirizzo. Ci sarebbe voluta un'ora buona camminando in fretta per fare ritorno a casa. «Le cose stanno così» disse. «Guarderemo la realtà in faccia. Tornando a casa stanotte, potreste correre qualche rischio. Un carro potrebbe mettervi sotto, e c'è sempre la probabilità di un incidente provocato da una buccia di banana o di arancia, per non parlare delle scale cadute.» Discuteva dell'improbabile con una profonda serietà che sarebbe stata risibile sei ore prima. Ma io non risi. «La cosa migliore che possiamo fare» proseguì «è che restiate qui fino a mezzanotte. Saliremo a fumare; forse dentro sarà più fresco.» Con mio stupore accettai. Siamo seduti in una stanza lunga e bassa, sotto le grondaie. Atkinson ha mandato a letto la moglie. Quanto a lui è occupato ad arrotare alcuni arnesi su una piccola cote, fumando nel frattempo uno dei miei sigari. L'aria sembra carica di elettricità. Scrivo tutto questo a un tavolino traballante davanti alla finestra aperta. Ha la gamba rotta, e Atkinson, che sembra molto abile con i suoi arnesi, la riparerà non appena avrà finito di affilare il cesello. Sono le undici passate. Fra meno di un'ora me ne sarò andato. Ma il caldo è soffocante. Ce n'è abbastanza da fare impazzire chiunque. Titolo originale: August Heat Postilla A volte si pensa al futuro come a qualcosa di fisso e immutabile come il passato. L'unica differenza è che il passato può essere ricordato o studiato nei libri di storia, mentre il futuro è ignoto. La concezione di un futuro fisso e predeterminato deriva, in parte, dalla diffusa convinzione nell'onniscienza di Dio, il quale conosce tutto. Questo implica che debba conoscere anche il futuro e abbia progettato la storia, nei minimi dettagli, per scopi che solo egli può comprendere. Ecco perché si parla di "fato" o "kismet", e si dice che "quando la tua ora è venuta, te ne devi andare". (Nella realtà scientifica è quasi certo che il futuro risponda alla definizione che i matematici oggi danno del concetto di "caotico": qualcosa che
non si può prevedere a meno che il presente non sia noto anche nei più infinitesimi particolari. E poiché il presente non può essere conosciuto nei più infinitesimi particolari - nemmeno in teoria - ecco che il futuro non può essere previsto.) Il concetto di un futuro inevitabile, tuttavia, si presta bene alla narrativa. Molti sono i racconti scritti intorno al tentativo di evitare un futuro tutt'altro che desiderabile, e al fatto che siano proprio quei tentativi a precipitare gli avvenimenti temuti. "Calore d'agosto" è uno dei migliori. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Dana Burnett, "Fog", in Haunting New England, a cura di Charles G. Waugh, Martin H. Greenberg e Frank D. McSherry jr., Yankee Books, Dublin, NH 1988. D.H. Lawrence, "The Rocking-Horse Winner", in The Ghost Book, a cura di Cynthia Asquith, Hutchinson, Londra 1926. Ann McKenzie, "I Can't Help Saying Goodbye", in Young Mutants, a cura di Isaac Asimov, Martin H. Greenberg e Charles G. Waugh, Harper & Row, New York 1984. George H. Smith, "The Great Secret" in Science Fiction A to Z, a cura di Isaac Asimov, Martin H. Greenberg e Charles G. Waugh, Houghton Mifflin, Boston 1982. Jesse Stuart, "Fast-Train Ike", in Nightmares in Dixie, a cura di Frank D. McSherry jr., Charles G. Waugh e Martin H. Greenberg, Augusta House, Little Rock 1987. Profezie PARLAMI DI MORTE di Cornell Woolrich Una lussuosa automobile aperta si fermò alle nove circa di quella sera davanti alla Centrale di polizia. La ragazza che la guidava esitò un momento prima di spegnere il motore, come se non fosse ben sicura di quel che voleva fare. Era sola. La vettura rivelava ricchezza, una grande ricchezza ma senza ostentazione. La ragazza prese una sigaretta dall'astuccio fissato alla portiera, tirò a sé l'accendino dal cruscotto, aspirò una boccata profonda quasi volesse farsi coraggio. Poi scese e salì la scalinata dell'edificio, fra
le due lampade verde scuro. Era alta, snella, giovane. Portava un bolerino di leopardo molto corto, che doveva essere costato qualche migliaio di dollari. Era pallida, di un pallore quale nessuna cipria avrebbe potuto conferirle. Davanti alla porta aperta tirò una seconda e ultima boccata. Poi gettò via la sigaretta, la calpestò, entrò. Chiese di vedere il tenente di servizio. Il tenente si chiamava McManus. Nel suo ufficio portò alla ragazza una sedia, la fece accomodare. Era il tipo di ragazza che andava trattato così. Lei disse: «Mi chiamo Ann Bridges.» Poi abbassò gli occhi a terra. Teneva le mani congiunte, abbandonate su un ginocchio; e le tremavano. Si vedeva perché la vibrazione dei polsi faceva corruscare i brillanti incastonati nell'orologio. «Forse parente di John T. Bridges?» chiese McManus. Ann Bridges tornò a sollevare gli occhi. «Sono sua nipote» rispose. «In effetti sono la sola parente che lui abbia.» Lo disse con naturalezza, quasi con indifferenza. McManus invece ne rimase sbalordito: era come trovarsi davanti a una principessa ereditaria. Neppure per un istante dubitò che lei non dicesse la verità. In lei tutto era genuino, tutto portava il marchio dell'oro puro. «Non è proprio una cosa molto piacevole venire così alla polizia...» S'interruppe bruscamente, ma subito riprese: «Non so nemmeno cosa possiate fare voi. Pure, si deve fare qualcosa...» McManus esortò con voce gentile: «Ditemi di che cosa si tratta.» «È questo il peggio. A raccontarla, è una storia senza senso. Impossibile. E invece è possibile, sta accadendo!» La voce di lei si alzò, divenne quasi isterica. «Non posso star lì a guardarlo sprofondare nella tomba davanti ai miei occhi! Dovevo parlarne a qualcuno... dovevo togliermi questo peso dal cuore! Ho già perso troppo tempo!» Gli occhi le si inumidirono di lacrime. «Sono venuta qui quattro sere di seguito... ma le prime tre volte mi è mancato il coraggio e ho fatto il giro dell'isolato senza fermarmi. Mi dicevo: "Ann, penseranno che sei pazza. Ann, rideranno di te..."» McManus le andò vicino, le posò paternamente una mano sulla spalla. «Noi non ridiamo della gente» disse cortese, pacato. «Nel nostro mestiere ne vediamo e ne sentiamo di tutti i colori... ma non ridiamo di chi si trova nei guai.» Non si comportava così perché lei era Ann Bridges, ma solo perché era tanto giovane e tanto bella e portava scritta in viso tanta disperazione. «Qualcosa si è impadronita di noi» disse lei. «Qualcosa che è cominciata
dal nulla, che al principio è stata solo una frase scherzosa detta a tavola, durante il pranzo; e che poi è cresciuta e cresciuta, finché ora è come una piovra che ci sta soffocando. Non posso darle un nome perché non so come chiamarla, non so che cosa sia. Minaccia lui, non me; ma vedete, io gli voglio tanto bene! E così la minaccia è rivolta contro di noi, tutt'e due.» Un singhiozzo profondo le lacerò la gola. «Chiamatela profezia, chiamatela predizione, chiamatela destino... chiamatela come volete. Ho lottato contro di essa con tutte le mie forze, Dio lo sa. Ma ormai devo credere a quello che mi attestano i miei occhi, le mie orecchie, tutti i miei sensi. E adesso è rimasto così poco tempo! Non ho il coraggio di far finta di niente, di rimanere inerte. Non si può giocare d'azzardo con una vita umana. Oggi è il tredici, vero? Siamo troppo vicini al quattordici: non rimane abbastanza tempo per continuare a essere scettici, a tenere per noi la cosa impossibile. Giorno per giorno l'ho visto cancellare la data sul calendario della sua scrivania e avvicinarsi sempre più alla morte. Ora rimangono solo due giorni e io ho bisogno di aiuto! Perché il quattordici... esattamente allo scoccare della mezzanotte, quando comincerà il quindici...» Si coprì il viso con le mani, scossa da sussulti silenziosi. «Ebbene?» insisté McManus. «Ebbene?» «Lui è convinto... oh, e anch'io sono ormai quasi convinta... che dovrà morire esattamente alla mezzanotte del quattordici. E non soltanto morire, ma incontrare la morte nella pienezza del vigore e della salute... una morte che precipita su di lui dalla stella sotto la quale è nato, che lo ha preso di mira prima ancora che lui esistesse. Una morte inesorabile, inevitabile. Una morte violenta e orrenda, inconcepibile nella parte di mondo in cui viviamo!» Le mancò il fiato. Cercò di tirare un lungo respiro, forzò un filo di voce fra le labbra tremanti: «Morte nelle fauci di un leone.» Per un tempo terribilmente lungo McManus rimase in silenzio. Quando parlò non si rivolse a lei. Aprì la porta, chiamò qualcuno, disse: «Che nessuno mi disturbi... fino a nuovo ordine, capito?» Quando le tornò accanto, lei disse stentatamente: «Grazie... per non aver riso, per non avermi annusato il fiato, per non avermi consigliato di farmi visitare da un medico. Grazie! Comunque vadano le cose, grazie!» Lui tirò fuori dal cassetto della scrivania un pacchetto di sigarette, gliele offrì. «Vi conosco, voi ragazze moderne» disse con aria paterna. «Fumate. Cercate di calmarvi. E raccontatemi la storia a modo vostro. Cominciate
dal principio... e proseguite fino alla fine.» Tutto cominciò (disse Ann Bridges) a proposito di un viaggio in aeroplano. Mio zio John doveva andare a San Francisco per affari e aveva comprato il biglietto. Me lo mostrò durante il pranzo e io vidi che la data della partenza era venerdì 13. In tono mezzo scherzoso gli suggerii di rimandare la partenza al giorno dopo. Una settimana prima c'era stato un brutto incidente aereo... ma Dio mio, tutti e due stavamo scherzando, non prendevamo certo sul serio l'argomento! La mia cameriera doveva averci sentiti. Più tardi venne da me e mi disse: «Scusatemi, signorina, ma se fossi in voi non gli permetterei di fare una cosa simile.» «Non fare la bambina» risposi io. Lei insisté: «Io conosco qualcuno che potrebbe dirvelo, se quel viaggio è destinato a finir male o no. Un uomo che ha il dono della seconda vista. Perché non mi permettete di accompagnarvi da lui?» Le diedi un'occhiata gelida e dissi: «Per chi mi prendi? Davvero mi stai proponendo di andare da qualche pulcioso indovino, con la testa avvolta in un panno sporco e...» «Quell'uomo non è un indovino» ribatté lei. «Si risente se lo chiamano così. Non predice la sorte per mestiere e non chiede denaro.» «Scommetto che non lo rifiuta neppure» feci io in tono cinico. «È un brav'uomo» lo difese lei energicamente «non un imbroglione qualsiasi. È nato con quel dono, non è colpa sua. Comunque non ne fa commercio, anzi non gli piace di servirsene. Io e la mia famiglia lo conosciamo da anni...» Sorrisi fra me, come avrebbe fatto chiunque. «Hai davvero un'ottima opinione di lui, Elaine.» «Bene, non ne parliamo più, signorina» scattò lei, sostenuta. «Soltanto... ricordate quando mi sono trovata nei guai?» Elaine si era messa nei pasticci con un uomo e io l'avevo aiutata a cavarsene fuori: non è il caso che ve ne dia i particolari. «Voi sola siete venuta a conoscenza di quella faccenda, signorina Bridges. Non avevo detto una parola in casa, non osavo. Ma una sera lui mi tirò in disparte e mi raccontò tutto ciò che era successo. Mi disse anche come sarebbe andata a finire. Disse che l'uomo sarebbe morto presto e io ne sarei stata sbarazzata una volta per sempre. Io caddi svenuta sul pavimento. Ricordate che due mesi più tardi sapemmo che quell'uomo era stato travolto da una macchina per strada?»
Me ne ricordavo, ma il mio scetticismo rimase intatto. «Allora non mi dicesti niente di tutto questo, come mai?» «Lui mi aveva fatto promettere di non parlarne, Oggi ho mancato alla parola che gli avevo data. Lui non vuole che si sappia del suo dono. Lo odia, dice che per lui è solo fonte di dispiaceri...» La cosa pareva abbastanza ragionevole, ma io non me ne lasciai assolutamente impressionare. Sono stata una donna di buon senso per tutta la mia vita, e del resto è un dovere essere diffidenti... quando avete un patrimonio di venti milioni di dollari. Mio zio partì da Newark la mattina dopo, molto presto, e quando tornai a casa dall'aeroporto la cameriera si lasciò sfuggire: «Non avete da preoccuparvi signorina Bridges. Io... io ho parlato a quell'uomo del viaggio e lui ha detto che non succederà niente.» «Davvero gliel'hai chiesto?» dissi severamente. «E chi te ne aveva dato il permesso?» «Non gli ho detto di chi si trattava, non gli ho dato alcun particolare. Ho chiesto solo notizie del volo» si difese lei. «Ma non era proprio necessario che il signor Bridges partisse, poteva risparmiarsi il fastidio. Lui ha detto che chiunque viaggi con quell'aeroplano, uomo o donna, soffrirà una delusione: non ricaverà niente dal viaggio, avrà solo sprecato tempo.» Mio zio si occupa di importazioni ed esportazioni; era andato a ricevere un'importante consegna di seta dal Giappone, ma la cameriera non lo sapeva e ancor meno poteva saperlo il suo indovino. Temo che le risi in faccia maleducatamente. Per nulla scossa, lei continuò: «Ma non permettete al signor John di tornare indietro in aeroplano, signorina, a nessun costo! Telegrafategli di prendere il treno. L'aereo diretto a est avrà davvero un incidente, lui l'ha visto chiaramente. Non si fracasserà precipitando, ma dovrà atterrare fra le Montagne Rocciose e metà delle persone a bordo moriranno di freddo prima che giungano i soccorsi. Lui ha visto l'apparecchio sprofondato nella neve e gente con mani e piedi congelati, che dovranno essere amputati...» Io esplosi. Dissi: «Ancora una parola e ti do gli otto giorni!». Da quel momento lei non aprì più bocca, solo mi guardava come se le dispiacesse per me. Lo zio John mi aveva detto che sarebbe ripartito da San Francisco il sabato seguente. Doveva decollare alle sette, ora del Pacifico, cioè alle dieci di qui. Ammetto che il venerdì sera ero un tantino preoccupata; mi chiedevo se dopo tutto non avrei fatto meglio a telegrafargli. Ma avevo paura che
lui ridesse di me. E ancor più mi seccava darla vinta alla cameriera dopo il modo in cui le avevo parlato. Andai a letto senza aver spedito alcun telegramma. Quando mi svegliai la mattina dopo era troppo tardi: lo zio doveva esser già partito. Sarebbe dovuto arrivare a mezzogiorno di domenica. Andai a prenderlo all'aeroporto in macchina, ma lui non era sull'apparecchio. Ne rimasi sconvolta. Chiesi informazioni e mi dissero che lo zio e diverse altre persone avevano prenotato i posti sull'aereo in partenza da Chicago, quello che era appena arrivato, ma nessuno di loro aveva preso la coincidenza: l'aereo da San Francisco non era ancora arrivato quando l'altro era partito da Chicago. Tornai a casa preoccupatissima. Già i giornali e la radio stavano annunciando che l'aereo si era perduto fra le Montagne Rocciose, con quattordici persone a bordo! La cameriera mi vide in uno stato da far pietà e finì per dirmi: «Suppongo che mi licenzierete, ma ho avuto più buon senso di voi... mi son presa la libertà di mandare un telegramma al signor John a vostro nome, pregandolo di tornare col treno...». Licenziarla? L'avrei abbracciata e baciata! Ma poi l'ansietà mi riprese. «Lo zio è cocciuto, non darà mai retta a un telegramma simile...» «Io... gli ho telegrafato che uno dei suoi soci voleva consultarlo per un affare importantissimo, e gli ho indicato una località che non si può raggiungere in aereo, così che lui fosse obbligato a prendere il treno. L'uomo di cui vi ho parlato dice che l'aereo sarà trovato solo fra tre giorni... Il signor John non sarebbe morto, la sua ora non è ancora giunta, ma avrebbe perso entrambi i piedi e sarebbe stato uno storpio per il resto della sua vita...» Tutto questo mi fece rabbrividire. E il mio disagio non diminuì affatto quando, tre giorni dopo, mio zio scese dal treno sano e salvo. La prima cosa che mi disse fu che aveva fatto un viaggio inutile: i marittimi erano in sciopero su tutta la costa californiana e la sua partita di seta era bloccata a Honolulu per un tempo indeterminato: lui non aveva potuto concludere nulla. L'aeroplano costretto ad atterrare fra la neve venne avvistato dall'aria quello stesso giorno, e quando le squadre di salvataggio lo raggiunsero, sette delle persone che aveva a bordo erano morte assiderate; e alcuni dei sopravvissuti dovettero subire l'amputazione delle mani o dei piedi appena trasportati in ospedale. Tutto come lui aveva predetto... data del salvatag-
gio, circostanze, numero delle vittime, tutto insomma! Non volevo crederci. Mi ribellai, non volevo credere, assolutamente. Eppure i fatti erano fatti. Naturalmente raccontai allo zio tutta la storia... chi non l'avrebbe fatto? E lui ne fu colpito come me. Quel che facemmo poi fu quello che chiunque avrebbe fatto dopo quanto era accaduto. Chiedemmo alla cameriera di accompagnarci da quell'uomo: volevamo vederlo coi nostri occhi. Elaine non doveva dirgli chi eravamo, doveva presentarci come due amici. Io indossai perfino un vecchio cappotto di lei e non arrivammo in macchina, ma a piedi. Da principio fu davvero una delusione. L'indovino non era che un uomo di mezza età, seduto in una camera d'affitto con le bretelle penzoloni! Si chiamava Jeremiah Tompkins, trovatemi un nome più banale! Peggio che mai, era un contabile. O meglio lo era stato, perché in quel momento era disoccupato. Se ben ricordo, quando entrammo stava leggendo le offerte di lavoro in un giornale. Potei vedere che mio zio era rimasto anche più deluso di me, anzi quasi risentito. Dopo tutto, lo zio John è un uomo d'affari intelligente e con la testa sulle spalle. Che un ometto qualsiasi come quello fosse in grado di fare profezie, che sapesse meglio di lui quel che gli sarebbe accaduto... era una cosa che proprio non riusciva a mandar giù. «Sta' attenta» mi disse sottovoce. «Ti farò vedere io. Ti dimostrerò che è un imbroglione. La sua profezia non è stata che una coincidenza. Ho qui qualcosa con cui si può demolire qualsiasi miracolo al mondo!» Tirò fuori cinquecento dollari in contanti e li ficcò in mano a Tompkins. L'uomo stava consultando le offerte di lavoro, ricordatelo; ed Elaine poi mi raccontò che la sua famiglia lo ospitava ai pasti per pura compassione. «Avete fatto per me qualcosa per la quale non riuscirò mai a ricompensarvi a sufficienza» cominciò lo zio. «Questo non è che un pegno della mia gratitudine. Venite a trovarmi quando volete e io sarò felice di...» Tompkins non lo lasciò finire. Gettò le banconote ai piedi di mio zio. «Non mi piace di essere insultato» disse con calma. C'era un'aria di quieta dignità nel suo modo di parlare. «È come essere pagato per... per esibire una ferita ripugnante o qualche deformità. Questa ragazza» additò Elaine «è mia amica. Mi ha rivolto certe domande su un aeroplano e io le ho risposto, tutto qui. Per favore, andatevene. Non desidero essere considerato un santone.» «Ma voi non sapete chi sono io» protestò lo zio.
Tompkins sorrise tristemente e si portò la mano alla fronte come se soffrisse di emicrania; non con quel gesto teatrale che fanno i chiaroveggenti quando entrano in trance, ma come se qualcosa gli facesse male, lo tormentasse e lui non fosse capace di liberarsene. «Voi siete John Bridges» disse. «Vostra madre morì quando avevate quattordici anni, e in realtà fu la vista delle bellissime vestaglie e degli abiti di seta portati da lei che più tardi vi indusse a dedicarvi alle importazioni ed esportazioni...» Elaine poteva avergli detto tutto questo, pensai in cuor mio. Lui si volse a me e mi rispose come se avessi parlato a voce alta. Impallidii e quasi caddi a terra! «Ma vi è qualcosa che lei non può avermi detto» fece. «Riguarda voi. Una sera, la settimana scorsa, vi toglieste le scarpine da ballo sotto il tavolo di un ristorante; e il cameriere accidentalmente, con un calcio, ne fece rotolare una in mezzo alla sala. Piuttosto che ammettere che era vostra, ve ne andaste via scalza. E avete una collana di diamanti e rubini, venti pietre in tutto, nella cassetta di sicurezza numero 1805 alla National Security Bank. Ci tenete anche un pacchetto di lettere che vi faceste restituire da un gigolò a Parigi per cinquantamila franchi.» Mio zio stesso non sapeva nulla di questo! «Non vi domando di credermi, non me ne importa niente» continuò cupamente Tompkins. «Tanto per cominciare, non sono stato io a chiedervi di venire. Comunque, un giorno andrete alla polizia a parlare di me e mi metterete in un mare di guai.» Le mie mani tastarono la parete cercandovi una porta che non c'era. Mi pareva di non vederci più. Gemetti: «Portatemi via di qui!» Il mondo si stava capovolgendo sul proprio asse, mi sentivo come una mosca che camminasse sul soffitto. Lo zio mi ricondusse a casa. I cinquecento dollari erano rimasti sul pavimento della stanza di Tompkins. Elaine li riportò quando tornò a casa, dopo di noi. «Non ha voluto toccarli» mormorò. «Cosa credete che abbia fatto, però? Si è fatto prestare cinque dollari da me, per tirare avanti.» La faccenda dei cinquecento dollari conquistò mio zio più di tutte le predizioni imbroccate del mondo. Ora era convinto che Jeremiah Tompkins non era un imbroglione, un simulatore, un ricattatore. Tompkins era un fenomeno: un comune essere umano (in effetti piuttosto al di sotto del comune) che aveva il dono tremendo... o la maledizione... della profezia. In altre parole, le fondamenta della credulità erano state predisposte. Il re-
sto segui a suo tempo. Tanto per cominciare, lo zio John tentò nuovamente di fare a quell'uomo un dono in denaro, non più per smascherarlo ora, ma in tutta sincerità e con tutto il rispetto. Gli inviò un assegno personale, di mille dollari questa volta. Tornò indietro a giro di posta, stracciato in otto pezzi. Fallito questo tentativo, lo zio trovò a Tompkins un lavoro... e per essere certo che lo accettasse fece in modo che il suo nome non fosse coinvolto. Convinse un suo amico a pubblicare un annuncio di offerta d'impiego per un contabile. L'amico, senza conoscere i particolari, acconsentì a non prendere in considerazione nessuno degli eventuali concorrenti tranne Tompkins. Elaine fu incaricata di attirare l'attenzione di lui sull'annuncio in caso gli sfuggisse. Tutto andò secondo il piano, e Tompkins ebbe il posto. «Però» insistetti io, ostinata, con lo zio e con Elaine «se lui è davvero capace di leggere nel pensiero, come ha dimostrato, come mai non ha saputo subito chi c'era dietro l'annuncio che gli hai fatto vedere? Perché non ha visto che stava ottenendo il posto per tramite dello zio John?» «Non si aggira dalla mattina alla sera leggendo nella mente della gente... si ammazzerebbe se lo facesse» protestò Elaine, come se stessi calunniando quell'uomo. «Pare che la seconda vista gli venga a sprazzi, quando lui glielo permette... e non ama farlo. Per il resto del tempo, riposa nel suo inconscio.» Voleva dire subconscio. «E lui ne lascia uscire qualche scintilla di tanto in tanto, oppure vien fuori da sé, contro la sua volontà... non ne sono sicura.» Comunque Tompkins ebbe l'impiego, e se come mistico era di prim'ordine, come contabile valeva ben poco. L'amico dello zio dovette licenziarlo sei settimane dopo. L'amico naturalmente non sapeva cosa c'era sotto la raccomandazione ricevuta; disse che l'uomo era troppo suscettibile e troppo distratto... in parole povere, un nullafacente. Ma intanto mio zio ne veniva conquistato sempre più totalmente. Lo sciopero sulla costa del Pacifico dava tutti i segni di voler durare l'intera estate. La partita di seta, del valore di molte migliaia di dollari, era sempre a Honolulu e rischiava di rovinarsi. Un commerciante giapponese residente sul posto fece a mio zio un'offerta che non solo non gli avrebbe consentito alcun guadagno, ma era largamente inferiore al valore intrinseco della merce. Pareva proprio che lui dovesse esser costretto ad accettare una perdita parziale per evitarne una totale. Non era tanto una questione di denaro per lo zio: lui odiava trovarsi nella posizione del perdente in una transazione, odiava ammettere di essere sconfitto.
Aveva già redatto un cablogramma accettando l'offerta del giapponese, ma all'ultimo momento si astenne dall'inviarlo. Andò invece a consultarsi con Tompkins, solo, senza dir nulla a nessuno. Non so cosa si dissero. So solo che quella sera lo zio John tornò a casa e dichiarò di aver telegrafato al giapponese che poteva andare all'inferno: lo sciopero dei marittimi si sarebbe concluso entro quarantott'ore, sebbene in quel momento la situazione sembrasse più disperata che mai. Vi devo ricordare cosa avvenne? Avete letto anche voi che il Presidente in persona intervenne due giorni dopo e lo sciopero venne risolto con un arbitrato praticamente dall'alba al tramonto. Gli stessi consiglieri del Presidente non erano stati informati della sua intenzione di agire, così si disse. La partita di seta di mio zio arrivò a San Francisco prima di tutte le altre, e lui ne ottenne un prezzo che era esattamente il doppio di quello corrente. Un uomo che viveva in una misera camera ammobiliata, un disoccupato, aveva fatto guadagnare alla sua ditta esattamente duecentomila dollari! Da allora in poi mi tenni fuori della faccenda. Non volevo perdere la pace dell'anima, anzi la sanità mentale. Non volevo diventare una nevrastenica, ossessionata da fantasmi, candidata al manicomio. Non volevo nemmeno discutere di Tompkins con lo zio John, né lasciare che lui me ne parlasse. Così non posso dirvi cosa sia successo nel frattempo. Ma alfine l'incubo si abbatté sullo zio, come chiunque avrebbe potuto prevedere. Tre mesi fa notai in lui un grande cambiamento e gli chiesi di cosa si trattasse. Si era ritirato all'improvviso dagli affari, aveva venduto, o meglio gettato via, le sue interessenze quasi per nulla. Non s'interessava più di niente e di nessuno. Dimagriva, era pallido e sparuto. Potevo leggere nei suoi occhi un terrore mortale, che aumentava di giorno in giorno. Era tornato da Tompkins per consultarlo su una nuova avventura commerciale alla quale si accingeva, una cosa di enorme importanza. Giocava sempre più d'azzardo su queste "informazioni confidenziali", diventava sempre più temerario. Ma questa volta ricevette una risposta diversa, una risposta catastrofica. L'avventura in discussione era una transazione a lunga scadenza, che avrebbe cominciato a dare i suoi frutti dopo circa sei mesi. «Che riesca o no, non importa» gli disse Tompkins con indifferenza. «A meno che non vi preoccupiate del futuro della ditta e non del vostro futuro personale.» E poi, con perfetta calma, come se si trattasse di una cosa che lui aveva sempre saputo: «Perché in quel momento voi sarete morto. La vostra vita avrà fine alla mezzanotte fra il quattordici e il quindici marzo.»
Non so se Tompkins gliel'abbia detto così, tutto d'un colpo, o se si sia lasciato strappare l'informazione a pezzi e bocconi. Non so quante volte mio zio sia tornato da lui... per implorarlo forse. Non so nulla di tutto questo. Ma lo zio John non sarebbe stato un essere umano se non avesse chiesto a quell'uomo come sarebbe morto, di quale genere di morte e cosa si poteva fare per impedirlo. «Nulla» fu la risposta spietata. «Non potete impedire che avvenga, non potete sfuggire al destino. Anche se volaste in capo al mondo, anche se vi nascondeste nelle viscere della terra, anche se radunaste intorno a voi un migliaio di uomini per proteggervi, la morte vi troverà. È scritto: morte nelle fauci di un leone.» E allora lo zio John cominciò lentamente ad annichilirsi. Oh, non è per il denaro, tenente McManus! Non è perché lui regala a Tompkins somme di centinaia di migliaia di dollari, non è perché dissipa la sua fortuna, la mia eredità cercando di comprare minuti, secondi di vita da un uomo che ammette lui stesso di non poter influenzare il destino, di non poter fare nulla. Non m'importa di questo. È che mio zio sta morendo a poco a poco, sotto i miei occhi, giorno per giorno. E che né l'Inquisizione di Spagna, né i cinesi, né gli irochesi hanno mai immaginato torture simili a quelle che lui sta soffrendo. E l'incubo si è comunicato a me: sono terrorizzata, malata di orrore e non so a chi o a che cosa aggrapparmi, brancolo nel buio. Il sole è tramontato per noi, è come se fossimo intrappolati in un pozzo tenebroso. E ormai rimane solo la giornata di domani. Voglio aiuto! Ho bisogno di aiuto! Era talmente fuori di sé che si lasciò andare sulla scrivania di McManus, vi nascose il viso martellandola disperatamente, convulsamente coi piccoli pugni. Il tenente dovette mandare a prendere un calmante. Quando lo ebbe preso, lei si stese su una branda in un'altra stanza e riposò, sonnecchiò per un poco. McManus la coprì con le sue mani, col proprio cappotto. Quando tornò in ufficio esclamò: «Dio mio, cosa ci tocca di vedere!». Diciotto anni, venti milioni di dollari, e le stavano strappando l'anima. Era ridotta quasi agli estremi, fisicamente e psichicamente. E lo zio... McManus poteva immaginare in che stato si trovasse. Sedette alla scrivania e rimase lì, gli occhi fissi nel vuoto, come se avesse dimenticato l'intero incidente. Dopo cinque minuti prese in mano il ricevitore, molto lentamente, e disse ancora più lentamente: «Mandatemi subito Tom Shane. E Schafer. E
Sokolsky. E Dominguez. Chiamateli per radio se necessario. Li voglio qui immediatamente. Che lascino andare quello che stanno eventualmente facendo, di qualunque cosa si tratti...» Tom Shane era un ragazzo simpatico con un abito di serie. Non aveva l'aria stupida, ma neppure particolarmente intelligente. Era giusto il tipo col quale si berrebbe volentieri un bicchiere di birra. Si mise in linea alla sinistra degli altri tre agenti. «Shane» chiese McManus «hai paura dei leoni?» «Non ci andrei a letto volentieri» ammise Shane francamente. «Shane» insisté McManus «credi di poter impedire che un milionario venga maciullato da un leone esattamente alla mezzanotte di domani?» Non era una domanda. Pareva che McManus parlasse distrattamente, mentre la sua mente era impegnata in un lavorio frenetico dietro la cortina di fumo delle parole. «Meglio che ti dica subito che il "leone" potrebbe assumere quasi qualsiasi forma. Potrebbe essere un proiettile. Potrebbe essere una tazza di caffè avvelenato. E potrebbe anche essere un leone vero e proprio. Potrei riempire quella casa di agenti, appenderli ai lampadari come rami di vischio, ma non voglio farlo. Il leone potrebbe semplicemente rimandare la sua visita, arrivare un'altra volta, magari fra sei mesi, quando meno lo si aspetta. Io non voglio che avvenga niente del genere; voglio che arrivi quando deve arrivare, così da essere sicuro che non tornerà più. Perciò mando un solo uomo in quella casa, con quelle due persone, e guai se fallisce in questo incarico. Che è a due facce, io penso. Se le cose stanno come credo, anche la ragazza è condannata come lo zio. In tal modo il "leone" potrebbe radunare tranquillamente i venti milioni di dollari, mentre se restasse in vita la ragazza potrebbe sempre ricorrere in tribunale per farsi restituire il denaro che lui ha già intascato. «Così, Tom Shane, tu vai nella stanza accanto e siedi accanto ad Ann Bridges, e quando si sentirà meglio accompagnala a casa. Non sei un agente... sei un amico che va a passare il week-end a casa sua, o il suo nuovo maggiordomo, o un rappresentante che tenta di venderle un aspirapolvere, non me ne importa. Ma tieni in vita quei due. Fino a mezzanotte di domani.» Tom Shane girò sui tacchi e uscì senza una parola. Continuava a non aver l'aria molto intelligente, ma non pareva neppure uno stupido. Era un bel ragazzone in un abito di serie. McManus continuò: «Schafer, tu ti occuperai di una ragazza di nome Elaine O'Brien... e anche di tutta la sua famiglia. Voglio sapere di quella
gente più di quanto ne sappiano loro stessi. E tieniti pronto a pizzicarli.» «Sokolsky, tu ti metterai alle calcagna di un tizio che si chiama Jeremiah Tompkins. E non lasciarti illudere dal suo aspetto. Pare una persona insignificante, ma in questa partita è il re di coppe. Tienilo d'occhio minuto per minuto. Usa microfoni, serviti di tutti i trucchi del mestiere. E cerca di non pensare mentre fai il tuo lavoro, pare che l'uomo sia un lettore del pensiero. Prendi qualcuno con te, guarda che non si tratta di uno scherzo. E tieniti pronto a pizzicare l'individuo, tieniti anche più pronto di Schafer. Tompkins dev'essere in cella molto prima della mezzanotte di domani... che si trovi qualcosa a suo carico o meno.» Restava uno solo degli agenti, un tipo che somigliava a Rodolfo Valentino, solo che era più bello. «Dominguez» disse McManus «per te c'è un mucchio di lavoretti diversi. Ma bada che sono importanti quanto i compiti che ho assegnato agli altri, non farti illusioni. Prima di tutto trova quanti zoo ci sono in un raggio di cinquecento miglia da qui. Controlla telefonicamente ciascuno e fatti dire se tengono leoni. Accertati che nessun leone sia fuggito o sia stato rubato. «Rubato? Un leone?» fece l'agente sbigottito. «Avverti tutti i direttori di organizzare uno speciale servizio di sorveglianza intorno alle gabbie dei leoni, stanotte e per tutta la giornata di domani. Eventuali rapporti siano trasmessi a me direttamente. Capito? Poi trova in quale locale notturno una scarpetta della signorina Ann Bridges è stata calciata in mezzo alla pista da ballo tempo fa. Informati di cosa ne è stato della scarpetta. E della sua compagna. Usa il tuo fascino latino, fatti assumere come cameriere o quello che vuoi. Trova chi ha raccolto le scarpette dopo che lei se n'è andata, e cosa ne ha fatto. Se possibile portami qui l'individuo. Poi, attacca un bottone a uno dei pezzi grossi della National Security Bank, chiedigli di cooperare con noi, vedi se puoi scoprire come il numero della cassetta di sicurezza della signorina Bridges... il 1805... e il suo contenuto siano venuti a conoscenza di una terza persona. Non c'è nulla di criminoso in questo, di per se stesso, ma a noi fornirebbe un ottimo indizio. «Hai meno di ventiquattr'ore per fare tutto questo. Da questo momento non mangerai, non dormirai, non dirai neppure una parola di troppo! Avanti, sbrigati!» E quando fu nuovamente solo, McManus si attaccò al telefono e chiese una comunicazione transcontinentale. «Datemi Parigi Francia» chiese. «Il
capo della Sûreté.» Molti gigolò ricattatori hanno ricevuto telefonate amorose, ma pochi hanno provocato conversazioni telefoniche attraverso l'Atlantico fra funzionari di polizia! L'edificio dell'University Club ha due ingressi, uno sul viale, uno su una stradetta laterale. Li connette un vestibolo a L. Naturalmente è un club esclusivamente maschile, per universitari, e le donne non possono salire al primo piano, ma il vestibolo di solito è pieno di ragazze in cerca di giovanotti di buona volontà che le accompagnino a ballare, a teatro eccetera. Ann Bridges e Tom Shane vi arrivarono contemporaneamente, lei scendendo dall'automobile all'ingresso principale, lui da un tassì a quello secondario. Lui aveva una ventiquattr'ore di pelle e si era cambiato proprio in tassì. Aveva l'università di Princeton stampata addosso, e senza offesa adesso aveva un'aria assai più stupida che intelligente. Portava sulle spalle uno spolverino, aveva una cravatta a righe sottilissime arancione e nere, le solite scarpe sportive. Se avesse avuto la giacca sbottonata, si sarebbe veduto appuntato al gilè il distintivo della sua "fraternità" universitaria. Non dimostrava più di ventitré anni e s'intonava perfettamente all'ambiente. La ragazza stava sbucando da una parte del vestibolo mentre Shane spuntava dall'altra, la valigia in mano. Si salutarono alla studentesca, senza cerimonie. Lui neanche si toccò il cappello, lei gli diede una manata sulla spalla: «Ciao, gioia.» «Addio, pulcino!» Lui la prese per un braccio e si avviarono alla macchina di lei con la foga spensierata di due giovani senza un pensiero al mondo. Molte teste si voltarono verso di loro. Qualcuno menzionò il nome di lei; tutti si chiesero chi era lui. La scena era stata predisposta per ingannare eventuali occhi indagatori che altrimenti avrebbero potuto vederla partire dalla Centrale con Shane, e avrebbero capito che lui era un agente. Una multa che Ann aveva effettivamente ricevuta due giorni prima era servita a fornire il pretesto per la sua visita di quella sera. McManus aveva fatto registrare dal sergente di servizio una falsa denuncia contro di lei e un giornalista aveva abboccato, telefonando la notizia al suo giornale. In macchina, lei sedette al posto di guida. Shane scaraventò la valigia sul sedile del retro e si distese su quello anteriore, la nuca contro lo schienale. Ma dopo che furono partiti si raddrizzò. «State abbastanza bene da essere in grado di guidare?» chiese. «Mi terrà la mente occupata finché arriveremo a casa. Comunque agli
universitari non piace toccare un volante. E voi sembrate proprio un esemplare autentico! Come avete fatto... e così presto?» «Ho preso a prestito tutto l'insieme da un amico che è stato davvero all'università, mi sono cambiato in tassì... Ma ora chi c'è con vostro zio?» domandò a bruciapelo. «Abbiamo una cuoca, un portiere; poi c'è Elaine e il segretario dello zio. Lui sta benissimo... so cosa state pensando... ma continuerà a star bene fino a domani a mezzanotte. È troppo attaccato alla vita per... per abbandonarla prima del termine che gli è stato annunciato, È di domani notte che dobbiamo preoccuparci.» Ebbe un piccolo singhiozzo di terrore e ripeté: «Domani notte!». «Accelerate un poco» disse lui calmo. «Se corriamo di più non sarà male.» L'orologio del cruscotto segnava mezzanotte. La mezzanotte prima della mezzanotte fatale. Casa Bridges era una specie di palazzo nascosto in mezzo a un parco. Non si vedeva dalla strada tanto era in dentro, ma vi si arrivava da un vialetto privato illuminato da lampioni. Due leoni accovacciati a guisa di sfingi ai due lati del portone furono la prima cosa che si presentò agli occhi di Shane quando scese dall'automobile. Parevano un presagio. «Scommetto che a vostro zio non avrà fatto certo bene vedersi dinanzi questi cosi ogni volta che entrava in casa o che ne usciva, in queste ultime settimane» mormorò cupo Shane. «Ha parlato parecchie volte di farli portar via e di sostituirli con qualcosa d'altro» disse la ragazza. «Ma la tremenda letargia che si è abbattuta su di lui non gli ha lasciato fare nemmeno questo.» Il maggiordomo li fece entrare. Shane, fotografando l'uomo con gli occhi attraverso la sua maschera di vacuità universitaria, decise che non era uno di quei maggiordomi da romanzi gialli che vanno sospettati a prima vista. Era anziano, poteva avere sessant'anni o più, aveva la fedeltà stampata in fronte e oltretutto pareva molto preoccupato. «Come sta, Weeks?» chiese la ragazza in un sussurro. L'uomo scosse la testa. «Non posso quasi resistere più neanche io, signorina Ann. Solo a guardarlo sto male. Da quando siete uscita è rimasto seduto allo stesso posto, fissando un orologio appeso alla parete.» Il vecchio lanciò un'occhiata speranzosa a Shane, ma notandone l'aspetto generale parve che la luce di speranza si spegnesse nei suoi occhi. «Sì, lui è al corrente, Weeks» disse la ragazza. «È qui per questo. Porta
su questa valigia... mettila nella camera adiacente a quella di mio zio.» Alle pareti laterali del lungo vestibolo due immensi pannelli di vetro colorato, alti fino al soffitto, erano stati posti davanti al muro cieco, illuminati elettricamente dalla parte posteriore così da metterne in rilievo le stupende tonalità medievali di rubino, zaffiro, smeraldo e ametista. Erano formati di rettangoli impiombati, e ogni rettangolo portava la testa di qualche animale mitologico o araldico: un unicorno, un cinghiale, un leone rampante, una fenice... Lei notò che Shane li guardava mentre passavano. «Queste vetrate vengono dall'Inghilterra» disse indifferente. «Da non so che abbazia. Sono del tempo dei Plantageneti.» Shane non sapeva chi fossero i Plantageneti, e del resto non c'era da aspettarsi nulla di simile da lui. «Piuttosto vecchi, eh?» arrischiò. E gli venne in mente, dato il numero di animali decorativi che si vedeva intorno, che la profezia potesse aver avuto origine proprio in quella casa, nell'immaginazione fertile e malvagia di qualcuno. «Lui è mai stato qui, che voi sappiate?» chiese. «Chi, Tompkins? No, mai.» Condusse il poliziotto a vedere il condannato, John Bridges. Bridges sedeva al centro di un salone, e si era radunati attorno tre orologi. Uno molto grosso sulla parete, uno di media misura sul tavolo che aveva davanti, un costoso aggeggio d'oro bianco al polso. Tutti e tre ticchettavano spietatamente nel silenzio, come il meccanismo di una bomba a orologeria. Shane notò che c'era un minuto di differenza fra l'orologio alla parete e quello sul tavolo. Bridges volse verso la nipote, quando lei entrò, due occhi ardenti e febbrili, infossati nelle orbite. «Quale dei due è giusto?» supplicò. «Che ora fa il tuo?» «Sono le dodici e ventinove, non le dodici e trenta» rispose la ragazza. Il volto di lui s'illuminò di gioia. «Oh, Ann!» gridò. «Oh, Ann! Questo mi dà un minuto di più! Pensa, un minuto di più!» Tom Shane pensò: "Per quello che ha già fatto a questo disgraziato, Tompkins merita la sedia elettrica, a prescindere da quello che ha intenzione di fargli." A voce alta e in tono allegro disse: «Voi e io adesso berremo un doppio scotch... e poi andremo a letto!» «Sì, sì» approvò Bridges pietosamente. «La penultima notte che passerò sulla terra! Devo festeggiarla, devo...» La voce gli si spezzò. «Oh, aiutatemi a dimenticare, amico, solo per cinque minuti! Null'altro che cinque mi-
nuti, è tutto quel che domando!» Aprì un cassetto, ne trasse un libretto degli assegni, vi scribacchiò qualcosa. «Se potete distrarre la mia mente per soli cinque minuti, scrivete la cifra che volete qui, sopra la mia firma! Cinque, diecimila dollari, non m'importa!» Shane pensò: "Mi chiedo quante volte l'amico Tompkins ha ricevuto assegni in bianco?". Andò lui stesso a versare lo scotch nei bicchieri, e ne propinò a Bridges una dose tale che avrebbe fatto saltare un cavallo fuori dai suoi zoccoli. All'improvviso ricordò le parole di McManus: "Può essere una tazza di caffè avvelenato". Assaggiò per primo il liquore, sciacquandosene la bocca con cura. Il sapore era magnifico, peccato sprecarlo: così lo mandò giù. "È un modo piacevole di morire, comunque" si consolò. Depose i bicchieri sul tavolo. «Andate a letto, bambina» disse alla ragazza. «E chiudete la porta a chiave. D'ora in poi questo è affar mio.» Lei disse: «Siete grande. Tenetevi in vita» con una curiosa vibrazione nella voce. Gli passò accanto e s'incamminò per le scale. L'orologio appeso alla parete suonò l'una con un lugubre, orrendo rintocco. «Mi restano ventitré ore» disse John Bridges. Shane fece cozzare il suo bicchiere con quello dell'altro, tanto forte da spezzarli quasi ambedue. «Al delitto!» disse con voce profonda, e deliberatamente strizzò l'occhio al condannato. Ore 3. «Sono Schafer, tenente. Spiacente di avervi svegliato, ma ho perso la pista Elaine O'Brien, la cameriera della signorina Bridges...» «L'hai persa? Be', ritrovala! Che diavolo vuoi dire...» «Non è questo. So dov'è lei, ma a noi ormai non serve più. È morta.» «Morta? Cosa le è successo?» «Suicidio. Proprio mentre stavo per arrivarle addosso è scappata in bagno e ha inghiottito qualcosa. Ho chiamato immediatamente un'ambulanza, ma era troppo tardi.» «Dunque era davvero implicata nella faccenda! Sapeva qualcosa e aveva paura che la facessimo parlare!» «Non sapeva che ce l'avevamo con lei. Avevo appena trovato la casa quando ho sentito uno strillare d'inferno venire da dentro. Quando ho fatto irruzione, tutto era finito. Ho qui tutti gli altri della famiglia. Sostengono che la profezia le ha fatto dare di volta il cervello. Era venuta a casa stasera e aveva detto ai suoi che non poteva resistere allo strazio di star là ad aspettare che la tragedia avvenisse. Ho controllato presso la farmacia dove si era procurata quella roba. L'aveva comprata tre giorni fa, molto prima che la signorina Bridges venisse da noi. Che ne faccio degli altri?»
«Portali qua, Schafer... e impedisci loro d'ingoiare alcunché.» Ore 10. «Dominguez, tenente. Mi son fatto assumere come lavapiatti al Club Cuckoo, dove la signorina Bridges perse le scarpette. Ho le mani rosse come aragoste!» «Al diavolo le tue mani, non sono un chiromante. Cos'hai trovato?» «Qui sapevano chi era lei, quindi sapevano di chi erano le scarpe. Dapprima il direttore aveva pensato di mandargliele a casa il giorno dopo: si tratta di roba che costa duecento dollari al paio, sapete. Ma un tizio, un francese che sedeva a uno dei tavolini, attaccò un bottone al direttore, gli raccontò un mucchio di storie... che era un vecchio amico della signorina Bridges, che l'aveva conosciuta a Parigi, che ci avrebbe pensato lui a farle riavere le scarpe. Tutto questo me l'ha raccontato un cameriere al quale ho dato certe informazioni su un cavallo, mentre facevo i massaggi alle porcellane.» «Be', qualcosa hai trovato, Don. Proprio poco fa stavo cercando di farmi dare qualche notizia su quell'individuo al prezzo di venti dollari a sillaba. L'abitudine ai ricatti gli ha fatto scottare la terra sotto i piedi a Parigi, così circa due anni fa è venuto qui. Immagino che tu ti sia fatto dare i suoi connotati!» «Certo. Baffetti alla malandrina, e quando frequenta i posti eleganti porta una caramella all'occhio destro. Molto bello. Piccolo di statura, circa uno e sessanta...» «Basta così. Uno dei suoi nomi è Raoul Berger, ma ne ha altri venti. Le ha avute poi le scarpe?» «No. Il direttore voleva tutto il merito per sé e non se le è lasciate scappare. Il francese pare non se ne sia curato molto...» «Naturale che no. Quel che gli premeva era sapere cos'era avvenuto, così da poter informare Tompkins in modo che facesse la debita impressione alla ragazza. Trasmetto subito un allarme generale per l'arresto di Berger. Probabilmente lui e l'indovino lavorano insieme con l'intenzione di dividersi, alla fine, i milioni di Bridges. Probabile che l'idea originale sia venuta a Berger, visto che aveva già una volta ricattato la ragazza in Europa.» «Ora vi dirò della cassetta di sicurezza, capo. Ho parlato con Cullinan... è il direttore dell'agenzia della National Security di cui sono clienti i Bridges... e abbiamo interrogato l'impiegato addetto. Credo che abbiamo chiarito definitivamente com'è stato che il numero della cassetta della signorina sia venuto a conoscenza di terzi; quanto al contenuto, però, conti-
nua a essere un mistero. L'impiegato pare degno di fiducia, lavora lì da anni. Lui ricorda esattamente che un giorno, circa un anno e mezzo fa, la signorina Bridges portò la sua cassetta in una delle piccole cabine disposte nel locale proprio perché i clienti possano guardare nelle cassette indisturbati. Se ne ricorda perché, quando lei uscì, distrattamente lasciò la sua chiave in cabina... Vedete, per le cassette si usano due chiavi: una ce l'ha l'impiegato, l'altra il cliente. Il numero della cassetta è inciso su ciascuna chiave. La signorina Bridges tornò a cercarla in cabina e l'impiegato andò con lei per dare una mano. Ma la chiave non c'era. Uscirono, lei vuotò la borsetta, guardò dappertutto... niente. Lui allora rientrò nella cabina e la chiave era là, proprio sulla mensola! L'impiegato giurerebbe che la cabina attigua era occupata in quel momento, ma non sa da chi. Però questo non importa. I divisori fra le cabine non arrivano al soffitto. Ovviamente era l'amico Berger, e certo aveva l'abitudine di seguirla nel locale delle cassette ogni volta che lei ci andava, in attesa di una simile occasione. E quando gli si è presentata, probabile che abbia usato un amo da pesca o una calamita assicurata a uno spago per tirar su la chiave, osservarne il numero e poi rimetterla a posto. Tutto per gonfiare la reputazione di Tompkins come stregone agli occhi di lei... Ma in che modo abbia saputo qual era il contenuto della cassetta non ne ho idea, a meno che non si sia servito di uno specchio sistemato tipo periscopio...» «Più probabile che lei abbia comprato quella collana a Parigi. Berger gliel'avrà veduta indossare colà e avrà immaginato che la tenesse nella cassetta. Quanto alle lettere che lei gli aveva scritte, si sarà buttato a indovinare e ha fatto centro. Per entrare liberamente nel locale non doveva fare altro che prendere in affitto una cassetta sotto falso nome per cinque o sei dollari, riempirla di giornali vecchi e andare a farsela dare ogni volta che lei capitava alla banca. Pure, la cosa non è facile quanto sembra. Berger doveva tenersi defilato, lei lo conosce e doveva introdursi ogni volta nella cabina attigua, non in un'altra...» «Per venti milioni di dollari io mi darei da fare anche il doppio.» «Occupati degli zoo, o finirai per non guadagnarti nemmeno la tua paga.» «Gli zoo! Bella gratitudine.» Ore 17. «Qui Sokolsky, tenente.» «Era ora che ti facessi vivo! Dove sei stato tutto questo tempo? Che mi dici?»
«Che mi è venuto l'esaurimento nervoso, tanto per cominciare. E Dobbs... mi ero scelto lui come compagno per questo incarico... è fuori combattimento. Non credo che servirà più a niente per il resto dell'operazione.» «Non ti ho chiesto un bollettino della salute tua e di Dobbs. Io voglio sapere...» «Quel tizio, voglio dire Tompkins... pare impossibile, sapete, ma può vedere attraverso i muri...» «Meno chiacchiere e più fatti!» «Sissignore. Abbiamo affittato una camera nella stessa casa in cui vive. Siamo stati tanto fortunati da averne una proprio sopra la sua. Tompkins era fuori in quel momento, così abbiamo fissato i microfoni e ci siamo dati un'occhiata attorno. La padrona di casa non può soffrire Tompkins, perché le ha letto nel pensiero quel che aveva intenzione di fare quando ha fatto assicurare per una bella somma il terzo marito, dopo che i primi due le sono morti nello spazio di un anno. Inoltre lui ha indovinato quanti anni ha. Tutto questo lei non me l'ha detto chiaramente, l'ho capito io interpretando i commenti che si è lasciata sfuggire. Comunque l'ho fatta parlare e ho saputo che un tizio francese ha fatto spesso visita a Tompkins durante quest'ultimo anno.» «Questa è musica per le mie orecchie! Facciamo progressi in fretta, adesso!» «La padrona crede che il pazzo sia il francese, ma questo non ci interessa. Il fatto importante è che lui è l'unica persona, a parte la ragazza O'Brien e il vecchio Bridges, che abbia frequentato Tompkins da quando vive in quella casa...» «Be', la ragazza O'Brien è fuori causa adesso. Ma non credo che fosse una complice. Era lo strumento di cui si servivano per pompare informazioni sulla famiglia Bridges. Io penso che lei si sia accorta troppo tardi che c'era in ballo una grossa porcheria; e allora, rendendosi conto del male che aveva fatto ai suoi benefattori, si è suicidata. Va' avanti, Sock! Che cosa c'è ancora?» «Abbiamo dato alla camera di Tompkins una bella ripassata e abbiamo trovato un sacco di assegni firmati dal vecchio Bridges. Dovreste vedere che cifre, sembrano numeri telefonici! Una cosa sola non quadra, ed è che molti portano date di sei mesi fa e anche più. Lui arraffa, ma poi non si piglia la briga d'incassare! Chissà, forse non vorrà andarci pesante mentre il vecchio è ancora vivo, forse se li tiene da parte per il momento in cui
Bridges e la ragazza non saranno più fra i piedi...» «Con quegli assegni potremo incriminare lui e il suo complice francese! Che ne hai fatto?» «Avevo paura che se ne accorgesse se li portavamo via. Dobbs e io ne abbiamo prelevato alcuni dei più sostanziosi, li abbiamo I atti fotografare e poi li abbiamo rimessi a posto.» «Molto bene!» «Tompkins è rientrato verso mezzanotte, proprio mentre stavamo uscendo dalla sua camera, così siamo corsi di sopra per metterci in ascolto. Alle due di mattina il suo compagno francese viene a fargli una visita. Dobbs ha stenografato tutto finché non gli ha dato di volta il cervello. Ora vi leggo. «Tompkins dice: "Ancora voi? Cosa volete adesso?" «"Fatemi la girata a uno di quegli assegni. Sono a corto di denaro". «L'altro rifiuta sulle prime, dice che non vuole i soldi di Bridges e che nemmeno il francese ha diritto ad averli. «Il francese lo minaccia con una pistola o altro e lo costringe a firmare. Poi dice: "Dovete vedere Bridges, domani, e fargli cambiare il testamento mentre siamo ancora in tempo. Io procurerò il legale, un amico mio. Deve lasciare tutto a voi, capite? Fategli credere che manderete a vuoto la profezia se lo farà". «Tompkins dice: "Ma non posso. Non è in mio potere farlo. E una cosa che deve accadere". «Il francese sghignazza. "Pensate che io creda a queste frottole? Tenetele per lui! Badate a fare quello che vi dico, o..." «Tompkins risponde calmissimo: "Voi non avrete mai quel denaro, Berger. Non vivrete abbastanza a lungo per questo. Diamine, voi morirete anche prima di Bridges! La sua ora è domani notte, ma la vostra suonerà stanotte stessa! Non arriverete neppure a uscire vivo da questa casa. Sopra la mia camera ci sono due poliziotti che stanno ascoltando ogni parola che diciamo... Si chiamano Sokolsky e Dobbs..." «Le note finiscono qui, perché Dobbs è caduto dalla sedia, svenuto. Verità di Dio! Io stesso ho avuto uno scossone di quelli! Anche se Tompkins avesse trovato i microfoni, e sono certo di no, questo non gli avrebbe detto i nostri nomi o fatto sapere quanti eravamo... «Cito il resto a memoria. "La morte vi sta piombando addosso in questo stesso momento" dice Tompkins. "Sento il battito delle sue ali. La sento, la vedo, sta arrivando! Vi restano solo pochi minuti. Me, mi aspetta la prigione e una lenta fine in una piccola cella di pietra..."
«Il francese strilla: "Così mi avete tradito, lurido verme! Bene, proviamo se avete visto anche questo nel vostro globo di cristallo!". «E a questo punto la pistola fa fuoco, con un rumore che quasi mi spacca i timpani. Il francese aveva sparato al suo complice. «Non ho aspettato altro. Ho tirato fuori la mia rivoltella, sono corso fuori, mi sono precipitato per le scale. Ma Berger era stato più svelto di me: era più in basso di una rampa. «Ho gridato: "Fermatevi! Restate dove siete!". Lui invece si è voltato e ha fatto fuoco contro di me. Io ho sparato a mia volta. È ruzzolato giù fino al pianterreno, e quando l'ho raggiunto era morto. «Tompkins era uscito dalla sua camera illeso, ma con una bruciacchiatura di polvere sulla fronte. Berger doveva avergli sparato a bruciapelo, eppure non l'aveva colpito! Lui ha cominciato a scendere lentamente le scale per raggiungermi. Non aveva niente in mano. Dobbs si era ripreso e lo seguiva, con l'aria di uno che aveva visto un fantasma. «E adesso viene la parte più dura da inghiottire: se non mi credete potete anche sospendermi, tenente, ma è verità di Dio, parola! Dunque, Tompkins è sceso dove mi trovavo io, chino sul cadavere, al piede della scala. Io mi sono raddrizzato e gli ho puntato contro la rivoltella. Lui non ci ha fatto caso, mi ha oltrepassato e ha continuato a camminare verso la porta di strada. E nemmeno si affrettava, andava piano come se volesse fare solo una passeggiata. Ha detto: "La mia ora non è suonata. Non potete farmi nulla con quell'arma". «Io ho ribattuto: "Nulla, eh? Fate un altro passo e non solo sarà la vostra ora, ma sarete in ritardo di un minuto!". «Dobbs era praticamente fuori uso, sembrava spaventato a morte dall'individuo. «Tompkins mi ha voltato le spalle e ha fatto quel passo. Io ho sparato un colpo intimidatorio al di sopra della sua testa. Ha posato la mano sulla maniglia della porta. Ho abbassato la canna e gli ho sparato al ginocchio, per farlo cadere. Il proiettile dev'essergli passato fra le gambe, l'ho sentito colpire il legno accanto allo stipite. Tompkins ha aperto la porta ed era sulla soglia. Io sono diventato matto. Gli sono corso dietro e gli ho sparato alla nuca. Sarà stato a due metri da me, anche meno. È stato un atto brutale, lo so. Sarebbe stato un assassinio, lo ammetto io stesso, anche se tecnicamente lui stava opponendo resistenza all'arresto! Ma lui non ha barcollato nemmeno, vi dico: non l'avevo preso. Ha continuato a camminare e presto è stato inghiottito dall'oscurità.
«Sono rimasto per un minuto appoggiato alla porta; mi vedevo circondato da spettri, non sapevo più in che mondo ero. Poi mi sono ripreso, gli sono corso dietro. Ma era sparito. «Guardate, sono in uno stato d'animo tale che non m'importa quel che mi farete. Il mio mestiere è di battermi con tipi in carne e ossa che quando sono colpiti da un proiettile lo sentono, non con protoplasmi che non sanno nemmeno che quando vengono colpiti devono cadere...» «Su, su, Sokolsky, torna in te. Provvedi per il cadavere e tirati su con una bella sorsata di bourbon, forse ti aiuterà a eseguire meglio le tue istruzioni un'altra volta! Tutto quello che so è che ti sei lasciato scivolare di mano Tompkins, così ci troviamo di nuovo al punto di partenza. Dobbiamo ricominciare da capo. Abbiamo fermato per sempre il truffatore; ma il maniaco, il pazzo o comunque vorrai chiamarlo, insomma il più pericoloso dei due, ha preso il largo. E con lui in libertà, Bridges e sua nipote sono in pericolo di morte! L'uomo non bluffava quando è uscito da quella porta. Ci crede lui stesso alle sue fandonie; e se la profezia non funziona, la farà funzionare personalmente! Abbiamo sette ore di tempo per ripescarlo, in mezzo a sette milioni di persone! «No!» gridò brutalmente Shane all'uomo. «Piantatela di fissare quell'orologio! Farete venire i brividi anche a me se continuate così, dopo tutto anch'io non sono che un essere umano!» Fu accanto al tavolo d'un balzo e rovesciò l'orologio col quadrante in giù. John Bridges abbozzò un sorriso da teschio, tutto denti e niente allegria. «Non siete che un essere umano, è vero. La cosa più vera che abbiate mai detta, figliolo. E siete anche un poliziotto, no? Ecco perché siete rimasto qui tutto il giorno. Non cercate d'ingannarmi. Lo so. Questa povera bambina crede che voi possiate salvarmi. E anche voi credete di potermi salvare. Poveri sciocchi! Nulla può salvarmi... nulla! Lui ha detto che morirò e dovrò morire!» «Lui ha detto una spudorata bugia!» ribatté Shane quasi gridando. «Quel Tompkins è un simulatore, un mascalzone, un truffatore. Brucerà nell'inferno prima che chiunque o qualunque cosa si avvicini a voi. E io vivrò per vederlo bruciare, e così lei... e così voi!» Bridges si lasciò cadere la testa sul petto. «Farà molto male?» gemette. «Immagino di sì. Quelle zanne terribili che hanno in bocca! Quegli artigli aguzzi, crudeli, che vi lacerano la carne a brandelli! Ma non saranno gli artigli... saranno le fauci a stritolarmi, a martoriarmi come fa il gatto col to-
po! Nelle fauci di un leone, lui ha detto... nelle fauci di un leone!» Ann Bridges si premette le mani sulle orecchie. «No» mormorò piano. Diede un'occhiata a Shane. «Sto mettendocela tutta per... per non andare a pezzi.» Shane versò un bicchiere di dinamite, tutto scotch con appena un'ombra di selz. Lo porse a Bridges: «Bevete un po' di coraggio» suggerì a voce bassa. Il milionario deliberatamente prese il bicchiere e lo gettò via. Il liquore schizzò sul tappeto, il bicchiere rimbalzò e rotolò senza rompersi. «Alcol! Cercare di tenere lontana la morte con robaccia in bottiglia!» Shane tirò fuori la pistola, la mostrò al vecchio milionario. «Questa non significa niente per voi? Non significa niente il fatto che ogni finestra e ogni porta di questa casa è chiusa ermeticamente, e che ognuna è munita di un segnale d'allarme? Che ci sono decine di uomini armati a portata di voce, nascosti nel parco, pronti a saltare addosso a chiunque, a qualsiasi cosa, nel momento stesso che provi a comparire? Che noi cinque siamo sigillati qui dentro?» Il segretario, in preda al panico, si era dileguato la notte prima. Proprio com'era fuggita anche Elaine O'Brien. Shane aveva trovato un suo biglietto quella mattina, in cui diceva che non poteva resistere e che dava le dimissioni. Bridges emise un orribile suono chiocciante, come un pollo al quale stiano tirando il collo. «Cinque contro il Destino. Cinque contro le stelle. E che quintetto! Una grassa cuoca finlandese, un vecchio maggiordomo, una ragazzina, un ragazzo che fa la voce grossa perché ha una pistola, e io... io!» «Al diavolo il destino! Al diavolo le stelle!» Shane vibrò due colpi feroci con la canna della pistola al quadrante dell'orologio appeso alla parete. Pezzi di vetro spesso caddero sul pavimento. «Questo è per il destino, e questo per le stelle!» Qualcosa avvenne all'interno dell'orologio. Il meccanismo danneggiato cominciò a ronzare, le sfere girarono tumultuosamente, quella delle ore più piano, quella dei minuti con rapidità vertiginosa. Finirono per unirsi, sovrapposte, in una linea diritta che puntava alla sommità del quadrante. Rimasero così, immobili. Il ronzio cessò, il meccanismo si arrestò. Bridges additò con l'indice esangue l'infausto presagio. Qualunque parola era inutile. Nel silenzio il vecchio maggiordomo comparve sulla porta, rimase a
guardarli per un momento. Poi disse, con voce inespressiva: «La cena è servita.» «L'ultima cena» disse Bridges rabbrividendo. Si alzò, vacillò, si avviò barcollando verso la sala da pranzo. «Mangiamo, beviamo e stiamo allegri, perché... stanotte moriremo!» Ann Bridges corse accanto al poliziotto, si strinse a lui. Che importava, in un momento come quello, se Shane era ancora un estraneo per lei, se ventiquattr'ore prima non lo conosceva neppure? «Io sostengo che è stata una combinazione» mormorò lui bellicosamente. «Ditelo anche voi! Guardatemi e ditelo! È stata una combinazione. Sul quadrante le dodici erano per caso il punto più vicino dove le due sfere potevano incontrarsi e sovrapporsi. I miei colpi le avevano ammaccate. Sono rimaste immobilizzate quando il meccanismo si è fermato, tutto qui. Qualunque cosa succeda, non perdete la testa. Ditelo e ripetetelo. È stata una pura combinazione!» Fuori delle alte porte-finestre, nel vellutato cielo notturno, le stelle in tutta la loro gloria li guardavano beffarde. Ore 22,45. «Qui Dominguez, Mac. Sono quindici minuti che cerco di mettermi in comunicazione. Dev'esserci qualche guasto sulla linea. Sono a casa del diavolo, a un casello ferroviario chiamato Sterling Junction... sì, è circa a dieci miglia dalla casa di Bridges, nell'altra direzione. Ci sono guai, sapete. Controllando gli zoo come avevate detto, ho dissotterrato un serraglio di quelli che vanno per le fiere... baracconi e così via... che ha fatto sosta qui stasera. «Be', avevano due leoni... sì, ho detto avevano, questo è il guaio. Due mostri, un maschio e una femmina, chiusi nella stessa gabbia. Quando sono arrivato io erano scappati da una ventina di minuti... Non so se la gabbia fosse rimasta aperta per disattenzione dell'inserviente o se qualcuno abbia manomesso la serratura. Sono rimasto qui per fare accertamenti, se mi sarà possibile. La femmina è stata uccisa proprio fuori del recinto della fiera, ma il maschio è riuscito a squagliarsela. Gli stanno dando la caccia con ogni sorta di aggeggi, dai fucili agli estintori, sperando di farlo fuori prima che lui se la prenda con qualcuno. Si pensa che si stia dirigendo verso la proprietà di Bridges. Qualcuno che viaggiava in una Ford ha detto di aver visto fra i cespugli, da quelle parti, quello che ha preso per un enorme cane fulvo con occhi verdi che scintillavano. «L'inserviente mi ha raccontato che nel pomeriggio un tizio dall'aria
scombinata si stava aggirando intorno alla gabbia. Guardava fisso le due bestie come se stesse cercando di ipnotizzarle. L'inserviente poi lo ha colto che le stuzzicava con un pezzo di stoffa... pareva un vestito da donna, dice, e l'uomo lo agitava attraverso le sbarre. Lo ha scacciato, ma non ha avuto il buon senso di chiedergli che intenzioni avesse. Può essere che si sia trattato del nostro amico Tompkins e può essere che no. C'è sempre qualche scemo del villaggio che non può resistere alla tentazione di stuzzicare gli animali in gabbia. «Ma credete che le bestie si possano in qualche modo ipnotizzare, tenente? Credete che si possa indicar loro una persona in particolare facendogliene annusare l'odore, magari con un vestito, come si fa coi segugi? Sì, lo so, ma questa faccenda è stata talmente pazza fin dal principio che non mi meraviglierei più di nulla. Comunque mettetevi subito in contatto con Shane e avvertitelo che si troverà di fronte l'articolo genuino e non una metafora. C'è una bella differenza fra un leone autentico e uno scricciolo come quel Tompkins, quando si viene al corpo a corpo!» John Bridges era semisdraiato su una poltrona imbottita; gli occhi fissi nel nulla. Shane stava appollaiato sul bracciolo, la pistola senza sicura appoggiata alla coscia, il dito sul grilletto. Ann Bridges era in piedi dietro la poltrona, china sullo zio, e gli passava le mani sulla fronte per calmarlo. Le tende erano state tirate davanti alle porte-finestre, velando così le stelle... che però erano sempre là. Inoltre le due finestre erano state bloccate l'una con un pesante scaffale, l'altra con un tavolo massiccio. Le porte erano chiuse dall'interno e le chiavi erano nella tasca di Shane. Il maggiordomo e la cuoca finlandese erano stati rinchiusi nel retrocucina dietro loro richiesta. Se la morte doveva colpire il capo di casa, forse avrebbe trascurato loro. Il destino non li aveva segnati. Era quel tremendo silenzio a essere così insopportabile. I due giovani non erano più riusciti a cavare una parola dal vecchio milionario; e le loro stesse voci avevano un suono macabro alle loro orecchie, così dopo un poco Shane e Ann avevano smesso di parlare. Bridges non voleva nemmeno bere, e anche se l'avesse fatto aveva ormai superato i confini della ricettività: non gli avrebbe prodotto alcun effetto. Il viso della ragazza era bianco come talco. Quello dello zio era una maschera di morte, una struttura ossea ricoperta di pergamena. La faccia di Shane pareva di granito, con una riga di sudore luccicante alla radice dei capelli. Non avrebbe mai dimenticato quella notte, lo sapeva, qualunque altra cosa gli fosse successa durante il resto della sua vita. Le loro anime
portavano le cicatrici di quelle ore, la sorta di cicatrici che conoscevano i nostri antenati degli Evi Bui, quando diavoli e magia nera rendevano paurosa la notte. Il cibo e il vino che Shane aveva ingoiato durante quella lugubre finzione di cena gli erano rimasti sullo stomaco. Come può riscaldarvi il vino quando la morte verrà a mezzanotte a ricevere il brindisi? Aveva cercato d'indurre la ragazza ad andarsene finché era in tempo, a lasciare loro due soli ad affrontarla. Non era rimasto sorpreso del suo reciso rifiuto, anzi l'aveva ammirata ancora di più. Pure l'avrebbe costretta con la forza, se necessario... l'atmosfera si era fatta troppo macabra, troppo mortale... non fosse stato per un fatto, un fatto importantissimo di cui non le aveva parlato. Quando aveva cercato di mettersi in contatto con McManus perché mandasse una scorta personale a condurre via Ann, si era accorto che il telefono non funzionava. Erano tagliati fuori. E lei non poteva certo andar via da sola, sarebbe stato peggio che rimanere. Avevano di nuovo un orologio nella stanza. Bridges aveva tanto pregato e supplicato per averlo che Shane aveva ceduto. L'agonia mentale di Bridges, la tensione sua e di Ann erano molto peggiori senza piuttosto che con un orologio, aveva notato. Era meglio sapere precisamente quanto tempo rimaneva. Shane dunque aveva portato dal vestibolo un grande orologio a pendolo. Mancavano quattordici minuti alla mezzanotte, ormai. Tic tac, tic tac... Tredici minuti ora. Il pendolo, come un pianetino d'oro affaccendato, balenava avanti e indietro nel suo involucro di cristallo. Ann continuava a massaggiare dolcemente le tempie del condannato, con dita gentili. «Corre così in fretta, così in fretta» gemette John Bridges, fissando l'orologio. La lancetta dei minuti, foggiata a testa di lancia, era scattata ancora in avanti. Dodici minuti a mezzanotte. «Dannazione!» ringhiò Shane. «Maledizione!» Cominciò ad agitare nervosamente la canna della pistola, su e giù sulla propria coscia. Qualcosa cui sparare, pensava, datemi qualcosa cui sparare! Una goccia di sudore gli scese dalla fronte verticalmente, fino alla radice del naso, e da lì all'angolo dell'occhio. Tic tac, tic tac... undici minuti a mezzanotte. Bridges disse all'improvviso, senza distogliere gli occhi dall'orologio: «Figliolo... Shane, o come vi chiamate... chiamate Warren 2424 per me. Chiedete a lui ancora una volta... oh, gliel'ho chiesto tante volte ormai, tan-
te migliaia di volte!... Ma chiedetegli per l'ultima volta, non c'è proprio più speranza per me? Devo assolutamente andarmene? Lui continua a vedere la mia morte?» Shane mormorò: «A chi lo devo chiedere?» Ma sapeva a chi. Bridges ignorava che Tompkins doveva essere ormai in prigione da un pezzo, che McManus senza dubbio aveva provveduto a ciò per prima cosa, subito dopo la visita di Ann. «Tompkins» rispose il moribondo. «Sono due giorni che non ho... che non so più niente di lui. E se... se non c'è più speranza, ditegli addio per me.» Sapendo che il telefono era guasto Shane cercò di guadagnar tempo. «Volete dunque che apra la porta» chiese «e che vada nell'altra stanza dov'è l'apparecchio?» «Sì, sì» rispose Bridges. «Ancora non succederà niente, c'è tempo... ecco, mancano ancora dieci minuti. Potrete tornare qui subito. Vi risponderà la sua padrona di casa. Ditele di affrettarsi, di farlo venir subito al telefono...» A Shane balenò un'idea. Si alzò dal bracciolo della poltrona. "Forse posso ridare la vita a questo povero disgraziato" pensò. "Come mai non ci ho pensato prima?" Diede un'occhiata alla ragazza. «Rimanete accanto a lui, signorina Ann. Io sarò lì, appena dietro la porta.» Tirò fuori la chiave, aprì i due alti battenti, corse al telefono nella stanza attigua. Le luci erano accese in tutta la casa, regnava un silenzio assoluto. Il telefono era ancora muto, naturalmente. Forse avevano tagliato i fili. Disse a voce alta nel microfono silenzioso: «Datemi Warren 2424, presto!» Dopo una pausa riprese: «Fate venire subito al telefono Jeremiah Tompkins! Chiamo da parte del signor John Bridges.» Simulò un'altra attesa, un poco più lunga della prima. Il silenzio era tale che poteva udire il ticchettio spietato dell'orologio nella stanza dov'erano Ann e lo zio. Stringeva la pistola nella destra. Una folata di vento, o chissà cosa, frusciò contro una delle porte-finestre e la canna della pistola si volse istantaneamente in quella direzione, come l'ago della bussola verso il nord. C'era qualcosa di animalesco quasi, in quel suono: come un soffio rumoroso, uno sbuffare. Ma non si ripeté, e il fatto che stava recitando una scena, una scena destinata a salvare forse una vita, distolse la mente di Shane dall'interruzione. Disse forte, nel vuoto: «Tompkins? Parlo a nome del signor Bridges. È ancora valida la vostra predizione per mezzanotte? Ci siamo quasi, sapete.»
C'era un grande specchio sulla parete che aveva davanti, e in esso poteva vedere la stanza dalla quale era uscito, poteva vedere la ragazza e lo zio protesi in avanti, angosciati, a bere ogni parola che lui pronunciava. "Bisogna combattere il fuoco col fuoco" pensò. "Non so perché McManus non abbia fatto sudar sangue a Tompkins, costringendolo a rimangiarsi la profezia davanti a Bridges. Si sarebbe rimediato al danno più in fretta che con qualsiasi altro mezzo!" Alzò di nuovo la voce. «Oh, così va meglio!» disse. «Quando ve ne siete accorto? Avete controllato di nuovo, eh? Avreste dovuto farglielo sapere subito... era tanto preoccupato! Glielo dico immediatamente!» Riattaccò, chiedendosi se si sarebbe dimostrato un attore abbastanza bravo. Rientrò in salotto a passo vivace, diede loro il falso annuncio. Dalla faccia della ragazza poté vedere subito che, col suo intuito femminile, aveva già capito che si trattava di un bluff; e forse si era anche accorta, prima, che il telefono non funzionava. Ma se solo fosse riuscito a ingannare il candidato alla morte... «È tutto finito!» annunciò allegramente. «Me l'ha appena detto Tompkins in persona. C'è stato un cambiamento in... ehm... nelle stelle. Lui non percepisce più le vibrazioni mortali. Non morirete stanotte a mezzanotte. Vi spiegherà poi tutto lui stesso quando...» Qualcosa nella faccia del vecchio lo fece interrompere. «Che succede, perché mi guardate così? Non avete udito quello che vi ho detto?» John Bridges aveva gettato la testa all'indietro, affranto, la bocca spalancata. Scosse il capo lentamente da sinistra a destra come in atto di negazione. «Non burlatevi di me» sussurrò. «La morte è una cosa troppo seria per burlarsene così. Ho ricordato subito... appena vi ho mandato là... che un mese fa la sua padrona di casa ha fatto togliere il telefono. Le dava troppo noia chiamare continuamente gli inquilini all'apparecchio, diceva. Non c'è più telefono nella casa dove Tompkins vive.» Shane prese la sconfitta virilmente. Si voltò in silenzio, richiuse la porta, si appoggiò con la schiena ai battenti. Facendosi ballare la chiave nel palmo della mano, contorse le labbra a un sorriso senza allegria. L'uomo in poltrona ora gli tendeva la mano, una mano tremante. «Mancano cinque minuti» rantolò quasi. «Vi dico addio, ora. Grazie per essermi rimasto accanto, comunque, figliolo. Ann, mia cara, vieni qui, davanti a me. Dammi l'ultimo bacio.» Shane parlò con voce rauca, aggressiva: «Che cosa volete domattina per colazione?» Finse di non vedere la mano tesa.
Bridges non rispose. La ragazza gli s'inginocchiò davanti e lui la baciò sulla fronte. «Addio, cara. Cerca di essere felice. Cerca di dimenticare... qualsiasi orrore di cui sarai testimone nei prossimi minuti.» Shane disse bellicosamente, cercando di provocarlo: «Non voler morire è una cosa. Non alzare un dito per non morire è un'altra cosa! Siete stato sempre così, tutta la vostra vita?». Il condannato rispose: «È facile essere coraggiosi con davanti almeno quarant'anni di vita. Non altrettanto facile quando si hanno solo quattro minuti...» Il ticchettio dell'orologio, il sibilo del pendolo sembravano più rumorosi delle loro voci. Tre minuti a mezzanotte... due minuti. Gli occhi di John Bridges sembravano due palle da biliardo, così tondi, così duri, così bianchi, fissi alle due lancette che si andavano avvicinando l'una all'altra. L'indice di Shane fremeva sul grilletto, spasimando dalla bramosia di premere, di sparare... ma in quale direzione lui non sapeva, non poteva dire. Quella era la cosa peggiore: non c'era bersaglio a cui sparare! Ancora un minuto. Lo spazio fra le due lancette si ridusse a una fettina bianca di quadrante, a un filo, a un'ombra. Tre paia di occhi vi erano inchiodate sopra. Occhi spauriti di un moribondo; occhi sgomenti di una donna; duri, scettici occhi di un poliziotto che si rifiutava di credere. E di colpo lo spazio scomparve. Le due lancette si erano fuse in una sola. La suoneria del telefono squillò due volte, stridente. Il telefono che Shane aveva creduto guasto, che era rimasto muto fino a quel momento, aveva ripreso a funzionare. La sorpresa lo fece sobbalzare. Anche la ragazza fremette. Soltanto Bridges non diede segno di aver udito, come se fosse per metà già nell'altro mondo. Dan! Suonò l'orologio con timbro morbido, maestoso. Prima che la vibrazione fosse svanita, Shane era già fuori al telefono. La sua pistola copriva in tutte le direzioni il vuoto che lo circondava. Un trucco? Una trappola per indurlo ad allontanarsi? Ci aveva pensato. Ma Bridges e la ragazza erano a portata dei suoi occhi; prima di giungere a loro bisognava passare davanti a lui. E lui doveva pur sapere cosa annunciasse quella chiamata. Doveva esser vitale per venire proprio in quel momento... Era vitale. Dan! Fece l'orologio una seconda volta, accompagnando la voce lontana di McManus. «Pronto! Pronto... Shane? La linea era giù, non vi ho potuti raggiungere prima. E un'ora che provo... Tutto sotto controllo,
Shane. Ce l'abbiamo fatta, il nostro uomo è salvo! Non ho tempo di raccontarti ora. Arrivo subito, più presto che posso...» Dan! Il terzo rintocco della mezzanotte coprì la voce. «Datemi un'idea in fretta, capo» disse Shane. «Quel poveraccio si sta sudando l'anima dal terrore. Voglio fargli capire che davvero ora tutto va bene.» «Avevo dato l'allarme generale per l'arresto di Tompkins. E lui questa sera, alle dieci e mezzo, è venuto qui a costituirsi spontaneamente! Sì, alla Centrale! Dice che lo sapeva che comunque lo avremmo arrestato. Parole sante! Continua a sostenere che Bridges deve morire. E afferma che anche lui morirà in prigione, aspettando il suo processo. Su questo punto ha tutta la mia approvazione, amen. Ma c'è qualcosa anche per te, ragazzo, dopo quello che devi aver passato stasera... secondo Tompkins sposerai venti milioni di dollari entro l'anno, Ann Bridges! Dan! «Oh, un'altra cosa. Ho appena saputo che hanno sparato a un leone lì, dalle vostre parti, ai confini della proprietà di Bridges. Un leone autentico, che era scappato dalla gabbia qualche ora prima. Pensavamo da principio che ci fosse lo zampino di Tompkins, ma lui ha potuto provare che non era neanche nelle vicinanze quando il leone è fuggito. È una di quelle stravaganti coincidenze...» L'urlo frenetico della ragazza attraversò la carne di Shane come un ferro rovente. Lasciò cadere il ricevitore quasi gli scottasse, si girò. Bridges gli passò accanto come un fulmine, prima che potesse fermarlo. Volò fuori della porta, corse nel vestibolo come se avesse perduto la ragione. «Trattenetelo! È impazzito!» gridò Ann Bridges. Dan! Rintoccò l'orologio, lugubre. Shane spiccò la corsa. In fondo al vestibolo illuminato si udì uno scroscio di vetri rotti. Bridges era lì ritto, immobile, quando Shane sopraggiunse. Il milionario sembrava reclinato contro la parete, dove erano le grandi vetrate abbaziali. Il poliziotto non si rese conto di ciò che era avvenuto finché non gli fu vicino. E allora rimase agghiacciato, incapace perfino di respirare. Perché John Bridges sembrava senza testa: il suo corpo finiva al collo... Solo dopo un poco Shane vide che il capo dell'uomo era passato attraverso uno dei rettangoli piombati con le teste di animali araldici. Schegge acuminate e taglienti di vetro spesso gli serravano il collo in un'orribile morsa, gli avevano reciso la giugulare. L'ombra scura del san-
gue zampillante era visibile attraverso il vetro illuminato. E con quel sangue la vita del milionario era colata via. Era morto, morto... E il riquadro di vetrata che aveva scelto nella sua fuga cieca e terrorizzata era, fra tutti, quello che recava il leone rampante! Dan! La criniera, gli occhi feroci e le piatte narici feline del leone apparivano intatti sopra il collo squarciato di John Bridges, come se la belva dipinta stesse ingoiandolo intero. E al posto delle zanne c'erano ora quelle schegge seghettate di vetro, quelle punte taglienti che penetravano nelle carni di Bridges da tutte le parti del buco che lui stesso aveva aperto. Un gelido brivido di orrore corse per la schiena di Shane, agghiacciandogli il sangue. Morte nelle fauci di un leone! Dan! L'orologio batté il dodicesimo colpo. Poi tutto fu silenzio. McManus alzò due occhi inquieti dal rapporto che stava scrivendo. «Che cosa ci metto? Come lo chiameresti tu: omicidio mediante suggestione mentale?» «Non ne sono affatto sicuro» mormorò Shane. «Adesso anche tu mi cominci a diventare superstizioso?» scattò il tenente. Ma i suoi occhi si volsero crucciati alla finestra, al di là della quale le stelle impallidivano alle prime luci dell'alba. E i due uomini continuarono a guardare, turbati, quei lontani e imperscrutabili puntini scintillanti che nessun uomo può sfidare o deviare dal loro corso. Titolo originale: Speak to Me of Death Postilla Eccoci di nuovo a parlare del futuro. Un'altra facoltà extrasensoriale consiste nel conoscere in anticipo ciò che non è ancora avvenuto: in altre parole, vedere il futuro. Questa capacità è definita "precognizione" dalle parole latine che significano appunto "sapere in anticipo". È un dono che tutti vorremmo avere, perché una delle grandi cause dell'insicurezza umana dipende dal non sapere ciò che avverrà domani. Non sappiamo quello che ci aspetta, ci minaccia o è sul punto di portarci via le cose a cui teniamo. Se solo sapessimo cosa si prepara, potremmo
studiare il metodo per evitarlo o per cambiare il corso degli avvenimenti. Ma a volte la precognizione non è chiara. Le cose appaiono attraverso un velo diafano, non perfettamente trasparente, e quindi la predizione del futuro avviene in termini sibillini. Anzi, vi sono casi in cui la previsione avviene per mezzo di un agente malvagio che dice la verità in termini così ambigui da ingannarci. Ad esempio, le streghe rivelano a Macbeth che "nessun nato di donna" gli farà del male: questo è vero nel senso che MacDuff non era stato partorito nel modo tradizionale, ma per taglio cesareo. Quando Macbeth lo viene a sapere, si lamenta che le streghe si divertono a trarci in inganno con i loro doppi sensi. In altri casi l'indovino ha le migliori intenzioni, ma la visione è incerta e lo porta comunque fuori strada. Se uniamo queste difficoltà all'idea che il futuro sia comunque inevitabile, avremo che ogni tentativo di evitare un pericolo interpretato letteralmente ci condurrà proprio dove volevamo evitare di andare, e il pericolo si manifesterà nel suo aspetto simbolico. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Algernon Blackwood, "By Water", in Day and Night Stories, Cassell, Londra 1917. Wilkie Collins, "Mad Monckton", in Curses!, a cura di Isaac Asimov, Charles G. Waugh e Martin H. Greenberg, New American Library, New York 1989. Mrs. Gaskell, "The Doom of the Griffiths" in Isaac Asimov Presents the Best Horror and Supernatural Stories of the 19th Century, a cura di Isaac Asimov, Charles G. Waugh e Martin H. Greenberg, Beaufort Books, New York 1983. Sir Henry Rider Haggard, "Cuore nero e cuore bianco" ("Black Heart and White Heart") in Streghe, a cura di Isaac Asimov, Martin H. Greenberg e Charles G. Waugh, Fanucci, Roma 1989. "Oliver", "The Red Pipe", in «Catholic World», n. 99, luglio-agosto 1914. Leggere il futuro LA DONNA CHE PENSAVA DI SAPER LEGGERE di Avram Davidson
La casetta fu costruita quasi cent'anni fa da un uomo che si chiamava Vanderhorn. La fece a un piano e mezzo, con i soliti capanni attorno: alcuni uniti alla costruzione principale e altri staccati. Poi la rivestì di tavole di legno tagliate nella sua officina: aveva una piccola segheria in fondo al ruscello, il signor Vanderhorn. Dopodiché visse nella casetta con sua figlia e il marito di lei (personalmente era vedovo) fino a quando un giorno vi morì. La figlia e il genero, un certo signor Hooten, Wooten o come diavolo si chiamava, ereditarono i soldi che il vecchio aveva guadagnato vendendo moschetti durante la Guerra Civile e costruirono una nuova, grande casa vicino alla vecchia, ma più lontana dalla strada. Questo signor Wooten, Hooten o come diamine si chiamava, non ebbe figli maschi e suo genero trasformò la segheria in un'assurda fabbrica. Be', lo sapete come andò a finire! Finalmente un uomo di nome Carmichael che fabbricava carri per il latte, mezzi per il trasporto merci e derrate alimentari comprò tutta la proprietà Vanderhorn. Ristrutturò la grande casa, suddividendola in appartamenti, e la vendette a mio padre prima di ritirarsi dagli affari. Se ne andò da qualche parte. Ero solo un ragazzo quando ci trasferimmo laggiù, mia sorella era molto più vecchia. La casetta originaria di Vanderhorn non faceva più parte della proprietà: ci viveva una signora di nome Grummick, cui il signor Carmichael aveva venduto il terreno che andava dalla strada fino al retro della costruzione, ai confini con l'appezzamento successivo (che fronteggiava la strada dietro casa nostra). Mio padre diceva che era una delle proprietà più piccole del paese, e solo uno steccato la separava da noi. Di fronte alla casetta c'erano un antico salice e un grosso cespuglio di lillà che sembrava piuttosto un alberello. Sul retro, un fazzoletto di giardino e qualche aiuola. La casetta della signora Grummick era così vicina alla nostra che potevo guardare nelle sue finestre e un giorno lo feci: stava sbucciando fagioli. La signora guardò fuori e mi sorrise. Aveva una di quelle facce larghe con gli zigomi alti, e quando mi sorrise i piccoli occhi neri scomparvero o quasi. «Salve, ragazzo!» gridò. Io risposi "salve" e continuai a guardare, mentre lei sbucciava i suoi fagioli. In testa aveva un fazzoletto (ma questo avveniva prima che diventassero di moda) e i lobi carnosi si fregiavano di piccoli orecchini d'oro. I fagioli erano in due recipienti sul tavolo e in un mucchio davanti a lei. La signora Grummick li muoveva e li sbucciava in piccoli gruppi. Sugli scaffali c'erano altri recipienti; boccali di vetro, muc-
chi di erbe, file di cipolle, peperoni e trecce d'aglio pendevano dappertutto. Guardai dalla finestra all'altro capo della stanza, quella che dava sulla strada, e vidi che davanti alla casetta c'era un'insegna che pendeva da una specie di forca con un sol braccio. L'insegna diceva: Anastasia Grummick, casalinga. «Cos'è una casalinga?» le chiesi. «Sono io» rispose. Poi continuò a sbucciare fagioli, mettendoli in fila e prendendone alcuni da una parte per spostarli in un'altra. «Ha figli, signora Grummick?» «Uno. Io ho un ragazzo. Grande ragazzo.» Si mise a ridere. «E dov'è?» «Io dico che oggi torna a casa. So che torna a casa.» Fece segno di sì con la testa. «E come lo sa?» «Perché lo so. Lui torna a casa e io gli preparo una zuppa di fagioli. Vuoi farmi un piacere?» «Va bene.» Lei si alzò, prese il borsellino dalla tasca del grembiule e contò degli spiccioli, passandomeli dalla finestra. «Di' al macellaio che la signora Grummick vuole un po' di carne per la zuppa di fagioli. Il signor Schloutz sa. E prenditi un gelato con resto, tu.» Mi avviai, ma mi diede un altro nichelino. «Prendi due gelati. Io mangio pure.» Si mise a ridere. «Io mangio pure... io mangio purè. Che strana lingua, l'inglese!» Poi tornò al tavolo, rimise una parte dei fagioli nei recipienti e fece cadere gli altri nel grembiule. Comprai la carne, mangiai il gelato alla vaniglia e andai a giocare. Alcune ore dopo un taxi si fermò davanti alla casetta grigia e ne uscì un uomo grande e grosso. Veramente grosso. Per un bambino, si capisce, tutti gli adulti sono grandi, ma questo era gigantesco... terribile addirittura, nel senso della larghezza. In compenso non era molto alto. La signora Grummick venne alla porta. «Eddie!» disse. Si baciarono e si abbracciarono, per cui capii che era suo figlio anche prima che la chiamasse mamma. «Mamma, sento odore di zuppa di fagioli.» «Io fatto apposta per te.» L'uomo si mise a ridere. «Sapevi che stavo arrivando, eh? Ti sei messa di nuovo a leggere i fagioli, eh, mà?» Poi entrarono in casa insieme. Anch'io andai a casa, pensando. Mia madre era affaccendata con il bluetto intorno al lavatoio. «Mamma» domandai «si possono leggere i fagioli?»
«Hai bevuto il latte di magnesia?» ribatté lei, come se non avessi parlato. «L'hai bevuto?» Decisi di bluffare. «Sì-sì.» «No che non l'hai fatto. Dammi un cucchiaio.» «Se non mi credi, perché me lo chiedi?» «Apri la bocca» ordinò. «Di più. Inghiottisci. Prendi il resto, tutto. Se ti potessi guardare la faccia! E se si irrigidisse per sempre con questa smorfia? Va', lava il cucchiaio.» La mattina dopo Eddie si piazzò all'estremità del giardino con una zappa. Si era tolto la camicia. Che spalle, che braccia! E che petto! Mia madre era fuori, davanti casa nostra, quindi vicinissima alla madre di Eddie sul retro della sua. Naturalmente mia madre doveva sapere tutto di tutti. «Quello è suo figlio, signora Grummick?» «Mio figlio, sì.» «E che fa nella vita?» «Lotte.» «No, io parlavo di suo figlio... che mestiere fa...» «Lui fa lotte. In tutto paese. Ti faccio vedere.» Mostrò la fotografia di un uomo in calzoncini e un cappuccio sulla testa. "Il fenomeno mascherato! Il più grande mistero nel mondo della lotta!" Le spalle, le braccia e il petto potevano essere solo quelli di Eddie. C'erano altre foto di lui che gonfiava i muscoli e sotto erano stampigliati nomi del tipo, che so, Ammazzacrucchi, Capo Ala di Tuono, Il giovane Kehoe e così via. Ogni mese Eddie Grummick mandava una nuova fotografia a sua madre: era l'unica forma di comunicazione che potessero permettersi, perché lei non sapeva leggere: né l'inglese né altre lingue. Nel giardino-fazzoletto Eddie cominciò a cantare una canzone molto popolare a quell'epoca, Vado giù e faccio bum! Quell'anno ci fu una lunga estate, lunga e calda. A settembre si bolliva come a luglio e un pomeriggio abbacinante la signora Grummick chiamò mio padre. Lui si era tolta la camicia e sedeva sotto un albero, in canottiera. Stavamo bevendo una limonata. «Quando ero bambino» disse mio padre «facevamo la limonata con lo zucchero marrone e la vendevamo per strada. La reclamizzavamo così: "Bruna limonata Nell'ombra mescolata
Da una vecchia zitella." La gente lo trovava divertente.» La signora Grummick gridò: «Hu-hu! Signor Huhuu!». «Credo che voglia me» disse mio padre, attraversando il prato. «Sì, signora... eccomi signora» andava ripetendo. Lei chiese: «Tu hai già comprato karbone, signore?». «Ah, carbone! No, non l'ho ancora comprato. Credo che avremo un inverno mite, non le pare?» Lei strinse le labbra, poi chiuse gli occhi e agitò la testa. «No! Meglio comprarlo subito. Molto! Presto verrà inverno bruttissimo!» Mio padre si grattò la testa. «Be', signora Grummick, lei mi sembra piuttosto sicura del fatto suo, ma... uh...» «Io so, signore. Se te lo dico è perché lo so.» Allora intervenni io e chiesi: «L'ha letto nei fagioli, signora Grummick?». «Ehi!» Mi guardò, meravigliata. «Come lo sai, ragazzino?» Mio padre disse: «Vuol dire che prevede come sarà l'inverno in base ai fagioli?». «È vero, io so. Io leggo.» «Be', questo è molto interessante. Nel mio paese c'era un uomo - profeta del tempo, lo chiamavano - che faceva le previsioni meteorologiche studiando le striature delle puzzole. Diceva che suo nonno l'aveva imparato dagli indiani. E un anno dopo l'altro, non sbagliava mai. Lei usa i fagioli?» A quel punto intervenni io con una storia. «Però scommetto che non ha i fagioli che l'uomo diede a Giovannino in cambio della mucca. Lui li piantò e vide che erano di tutti i colori, finché la pianta di fagioli cominciò a crescere e arrivò in cielo e lui ci si arrampicò...» Mi interruppe mio padre: «Non seccare la signora Grummick, ragazzo». Ma lei si affacciò sullo steccato, mi sollevò da terra e mi trasportò dalla sua parte. «Tu, ragazzino, vieni in casa e raccontami. E tu, signore, compra molto karbone.» La signora Grummick mi diede un bicchiere di latte di capra (ne aveva una che viveva in un capanno) e una fetta di pane di segala, e io le raccontai la storia di Giovannino e la pianta di fagioli. Ed ecco la cosa strana: lei ci credette. Ne sono sicuro, non era quello che i bambini chiamano "far finta". Era fede autentica, e quando ebbi finito fu lei a raccontarmi una sto-
ria. Era avvenuta dall'altra parte dell'oceano, in una zona arretrata dell'Europa da cui forse la signora proveniva. In quel paese insegnavano a leggere ai ragazzi, ma non alle bambine. A che sarebbe servito? Un giorno una ragazzina rimase sola a casa a sbucciare fagioli, mentre i fratelli andavano a scuola. Doveva scartare tutti i fagioli cattivi e i vermi, e quando pensò al lavoro che l'aspettava e a tutto il resto cominciò a piangere. All'improvviso la bambina alzò gli occhi e vide che c'era una vecchia, che le chiese perché piangesse. Perché i maschi possono imparare a leggere e io no. Tutto qua? disse la vecchia. Non piangere, continuò. Ti insegnerò io a leggere, ma non i libri. Lasciali agli uomini, i libri: sono cose nuove, quelli, e la gente sapeva leggere anche prima della loro esistenza. E poi, dai libri puoi sapere solo quello che è stato, mentre tu avrai la facoltà di sapere quello che sarà. Così la vecchia insegnò alla bambina a leggere i fagioli invece dei libri, e mi pare che la signora Grummick accennasse qualcosa a proposito della lettura delle ossa, che un tempo era una cosa frequente. Ma forse si è espressa male, voleva dire un'altra cosa... Ora, so che sembra buffo, ma se guardate i fagioli secchi vi accorgerete che ognuno ha una forma un po' diversa dagli altri, o venature differenti. Però, pensavo, una "A" è sempre una "A", che la facciate grande o piccola, storta o... In ogni caso, questa è la storia che la signora Grummick mi raccontò, e non c'è da stupirsi che credesse alla favola di Giovannino e della pianta di fagioli. Lo strano è che tutto a un tratto il caldo finì e da ottobre fino ad aprile avemmo un inverno rigidissimo. Tormente di neve una dopo l'altra, i fiumi e i canali gelati e persino il servizio ferroviario fu sospeso, mentre le strade rimasero bloccate la maggior parte del tempo. Il carbone? Introvabile. La gente moriva dal freddo a destra e a sinistra, ma la casetta della signora Grummick era sempre calda e profumava davvero, con tutte quelle erbe e fiori secchi e la roba che pendeva dalle mensole. Qualche anno dopo mia sorella si sposò. Da allora in poi, d'estate, lei e suo marito Jim tornavano dalle nostre parti e venivano a trovarci. Jim e io giocavamo a pallone e ci divertivamo, e siccome non avevano bambini si dedicavano completamente a me. Ricorderò sempre quelle estati felici. Ebbene, ogni estate le varie parrocchie si univano e affittavano un battello per fare delle escursioni. Le coppie giovani ci andavano regolarmente, ma mia sorella aveva sempre trovato una scusa: fin da bambina aveva pau-
ra dell'acqua. Una certa estate, però, non poté resistere agli amici che la pregavano di andare con loro. Quanto a mio cognato, la cosa gli era indifferente. Fu così che, scherzando scherzando, qualcuno disse: chiediamo alla signora Grummick di leggere i fagioli per noi (la cosa infatti era risaputa). Tutti risero e, più che altro per divertimento, andarono a trovarla e le fecero la richiesta. La signora disse che mia sorella e Jim potevano entrare, ma gli altri avrebbero dovuto aspettare fuori. Così restammo a guardare dalla finestra. La signora Grummick sparse i fagioli sul tavolo e cominciò a mescolarli con le dita. Alcuni li sistemò da una parte e con gli altri, poco a poco, formò delle file. Ogni tanto pescava da una fila e aggiungeva qualche fagiolo a una fila diversa, poi li spostava da una parte all'altra. Nel frattempo, badate bene, borbottava fra sé come i vecchi che leggono ad alta voce seguendo le parole con un dito. E quale fu la risposta? «Non andare sull'acqua.» Questo è tutto. Mia sorella, come ho detto, cercava una scusa per non andarci e a Jim non importava. Così il giorno dell'escursione andarono a fare un picnic in macchina. Mi sarebbe piaciuto andarci anch'io, ma penso che volessero stare un po' per conto loro e Jim mi diede un quarto di dollaro con cui andai al cinema, comprai il gelato e una bibita. Quando uscii la prima cosa che vidi fu un ragazzo della mia età, Bill Baumgardner, che correva piangendo. Aveva la camicia fuori dai pantaloni, il naso gli colava e gridava come un disperato, Lo chiamai, ma non mi badò. Ancora non so dove stesse andando, forse non lo sapeva neanche lui, perché un vecchio idiota che non sapeva tenere la bocca chiusa gli aveva detto che il battello aveva preso improvvisamente fuoco con i suoi genitori a bordo. La notizia fece il giro del paese e tutti quelli che avevano un parente sul battello furono nelle stesse pessime condizioni del povero Billy. Prima si disse che fossero morti tutti, bruciati o annegati oppure schiacciati dagli altri; più tardi si seppe che le cose non erano così gravi, anche se erano gravi abbastanza. I miei genitori furono impressionati, certo, ma è facile ritrovare la calma quando non si tratta della vostra pelle o del vostro sangue. Ricordo che l'orologio della chiesa batté le sei e mia madre disse: «Non riderò più della signora Grummick finché campo». E così fu. Quasi tutti quelli che avevano un congiunto sul battello andarono al fiume dove finalmente lo avevano tirato a riva; qualcuno aspettò al posto di polizia per avere notizie. Nella nostra via abitava una signora sorda; credo
che sua figlia si fosse seccata dell'atmosfera monotona di casa e le avesse detto una bugia, ossia che andava in campagna con un'amica. Così, quando il poliziotto venne a dirle - a gridarle - che avevano ripescato il corpo della figlia, per un momento la signora non capì di che stesse parlando. Poi, quando si rese conto cominciò a urlare, urlare e urlare. Il poliziotto venne verso casa nostra e mia madre disse: «Sarà meglio che vada a vedere». Si preparò a uscire. Il poliziotto era giovane e aveva la faccia pallida. Teneva una mano davanti a sé e scuoteva la testa. Mia madre gli andò incontro e lui si avvicinò, col fiato grosso; poi disse il nome di Jim. «Oh, no» reagì mia madre, parlando in fretta. «Loro non sono andati sul battello.» Il poliziotto fece per dire qualcosa, ma lei lo interruppe: «Le ho detto che non sono andati...» Poi si guardò intorno, disperatamente, come se sperasse nell'arrivo di qualcuno che mandasse via il poliziotto. Ma non venne nessuno e dovemmo sentire quello che aveva da dirci. Si trattava di mia sorella e di Jim, proprio così. L'autista di un grosso camion aveva perso il controllo ("...Ma non sono andati sul battello", continuava a ripetere mia madre istupidita, "li avevano avvertiti...") e aveva schiacciato la loro macchina. Era uscita di strada e piombata nel canale. La polizia, chiamata subito, l'aveva tirata in secco. ("Oh, oh! Allora stanno bene!" gridò mia madre. Poi finalmente decise di ascoltare.) No, non stavano bene. Erano affogati. Così ci dimenticammo della signora sorda perché fu mia madre a diventare isterica. Mio padre e il poliziotto la aiutarono a tornare in casa e dopo un po' lei si acquietò sul divano, gemendo. La porta si aprì e la signora Grummick entrò in punta di piedi. Si mordeva il labbro inferiore e aveva gli occhi spalancati, e ondeggiava la testa da una parte all'altra. In ogni mano teneva una bottiglietta: sali, probabilmente, e un cordiale. Fui contento di vederla e credo anche mio padre. Il poliziotto lo fu di sicuro, perché sospirò di sollievo, fece un rapido cenno a mio padre e uscì. Mia madre ripeteva con voce debole, sottile: «Non sono andati in barca. Non ci sono andati perché erano stati avvertiti, ecco perché...». Poi vide la signora Grummick. Il sangue le affluì alle guance, balzò dal divano e cercò di afferrarla, coprendola dei peggiori insulti con una voce roca che non le avevo mai sentito; insulti di cui cominciavo appena a capire il significato. Credo che fui più turbato dal sentire mia madre esprimersi in quel modo che dalla morte di Jim e mia sorella. Mio padre la trattenne con le braccia e ricordo che anch'io l'afferrai per
una mano, ma lei cercava di svincolarsi. «Tu sapevi!» urlò mia madre, dibattendosi, mentre i capelli si scioglievano intorno al viso. «Tu sapevi! L'avevi letto, strega, e non hai detto niente! Non hai detto niente! A quest'ora sarebbe viva, se fosse andata sul battello. Non sono morti tutti... ma tu non hai detto una parola!» La signora Grummick aprì la bocca e cominciò a parlare, ma era così confusa che si servì della sua lingua. Mia madre urlò di nuovo. Mio padre si voltò verso la signora: «È meglio che se ne vada». La signora Grummick fece uno strano verso con la gola, poi disse: «Ma, signora... signor... io ho detto cose che ho visto. Io ho letto: Non andare sull'acqua. Posso dire solo quello che vedo davanti a me, quello che leggo. Niente altro. Forse significa una cosa, forse l'altra; io posso solo leggere. Prego, signora...». Ma noi sapevamo che li avevamo persi, ed era per colpa sua. «Loro chiesto me» insisté la signora Grummick. «Loro chiesto che io leggo.» Mia madre svenne quasi, in preda ai singhiozzi. Mio padre disse: «Se ne vada. Volti i tacchi ed esca di qui». Sentii la voce di un ragazzo, acuta e tremante: «Non ti vogliamo qui, vecchia strega! Ti odiamo!». Ebbene, era la mia voce. Allora la vecchia incassò la testa fra le spalle, mi guardò e per la prima volta mi sembrò davvero una vecchia donna. Se ne andò trascinando i piedi, ma sulla porta si fermò e girò un poco la testa, per guardarci. «Io non leggo più» disse. «Mai più. Meglio non sapere.» Poi uscì. Non molto tempo dopo il funerale, una mattina ci svegliammo e scoprimmo che la casetta era vuota. Non abbiamo mai saputo dove siano andati i Grummick, ed è solo ora che comincio a chiedermelo, a ripensarci. Titolo originale: The Woman Who Thought She Could Read Postilla Eccoci ancora una volta a parlare del futuro. Nella "lettura" dell'avvenire, tuttavia, i veggenti non si servono di facoltà precognitive ma piuttosto di oggetti come i fagioli, le foglie di tè, il palmo della mano e le carte. Si è visto che il successo di predizioni del genere è casuale e che, come dimostra il racconto, anche il più benevolo indovino può essere vittima di
una visione imperfetta o incompleta. In tal caso egli, pur non soffrendo materialmente, si sentirà schiacciato da un terribile senso di colpa. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Josephine Daskam Bacon, "Oracles", in «Woman's Home Companion», n. 38,11 nov. 1911. Nathaniel Hawthorne, "I quadri profetici" ("The Prophetic Pictures"), in Racconti narrati due volte, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1983. O. Henry, "La palma di Tobin" ("Tobin's Palm"), in Memorie di un cane giallo e altri racconti a cura di Giorgio Manganelli, Adelphi, Milano 1980. Oscar Wilde, "Il delitto di Lord Arthur Savile" ("Lord Arthur Savile's Crime"), in Il delitto di Lord Arthur Savile e altri racconti a cura di Jorge Luis Borges, Oscar La biblioteca di Babele, Mondadori, Milano 1989. Reincarnazione APPUNTAMENTO NEL TEMPO di C.L. Moore A vent'anni Eric Rosner, dopo essersi guadagnato da vivere girando il mondo su mercantili che trasportavano bestiame, dopo aver per la prima volta ucciso un uomo in un tafferuglio di strada a Shanghai, e dopo essere sfuggito per un pelo al fuoco della polizia, se la filò da clandestino su una nave diretta al Polo in missione esplorativa. A venticinque anni si era perso nelle plaghe disabitate della Siberia, si era ritrovato a capo di una masnada di banditi tartari, aveva preso il comando di un reggimento cinese, combattendo in tutto un centinaio di battaglie, dall'una come dall'altra parte. A trent'anni non c'era continente né capitale che non avesse conosciuto il suo passaggio, non c'era giungla, né deserto, né catena montuosa che non avesse lasciato il segno sul suo robusto fisico vichingo. Artigli di tigri e scudisci sovietici, proiettili cinesi e coltelli di selvaggi guerrieri neri delle foreste africane avevano scritto sulla sua pelle le gesta di una vita intensa e piena di pericoli. A soli trent'anni gettava indietro lo sguardo su un'esisten-
za entusiasmante, tumultuosa e pittoresca che ben pochi potrebbero vantare a sessanta. Ma lui, a trent'anni, non era soddisfatto. La sua era stata una vita piena, eppure con il passar degli anni provava sempre più il bisogno di qualcosa che in tutto quel tempo non aveva mai avuto. Di che cosa, non lo sapeva. Non era nemmeno consapevole di sentirne la mancanza, ma cominciò a cercare, con sempre maggiore accanimento, un che di nuovo, qualunque cosa nuova. Forse era il suo subcosciente a brancolare nel buio in cerca di ciò che la vita gli aveva negato. Erano così poche le cose che Eric Rosner non avesse fatto in quei suoi tempestosi trent'anni, che la sua caccia alla novità divenne presto febbrile, e non condusse quasi a nulla. Aveva conosciuto la ricchezza ma anche la miseria, aveva sofferto molto e gli estremi dell'esperienza umana erano per lui come racconti troppe volte riascoltati. La noia aveva preso il posto di quel gusto di vivere che così lietamente l'aveva sospinto attraverso gli anni esultanti della sua giovinezza. E per un uomo come Eric Rosner la noia era una specie di morte. In parte, forse, tutto questo accadeva perché gli era mancato l'amore. Nessuna, fra tutte le ragazze che l'avevano baciato, che l'avevano adorato e che avevano pianto quando erano state lasciate, aveva mai contato veramente per Eric Rosner. Lui continuava a cercare senza tregua. Si trovava immerso in questa frenetica ricerca del nuovo quando conobbe Walter Dow, lo scienziato. Avvenne per caso, e avrebbero potuto non tornare a incontrarsi mai più, se Eric non avesse accennato vagamente alle scarse occasioni di avventura che la vita ha in serbo per l'uomo. Dow aveva riso. «Che cosa ne sa lei dell'avventura?» gli chiese. Era un ometto di bassa statura con un cespuglio di capelli prematuramente bianchi e la faccia ridente percorsa da minuscole rughe canzonatorie. «Lei avrà magari passato la vita fra pericoli e sparatorie, ma quelle non sono avventure. La scienza è l'unico campo che consenta la vera avventura. Sicuro! Ciò che ancora attende di essere scoperto offre opportunità di gran lunga più entusiasmanti di qualunque cosa lei possa avere in mente. Uno potrebbe dedicarvi la vita intera senza neppure avvicinarsi ai confini di quel che c'è da scoprire. Le assicuro che io...» «Certo» lo interruppe Eric con poca convinzione. «Capisco che cosa intende dire, ma non fa per me. Io sono un uomo d'azione, non sono capace di starmene lì a pensare. Farsi venir la gobba su un microscopio non è certo il mio ideale di divertimento.»
La discussione iniziata quel giorno si sviluppò in una curiosa amicizia, in parte antagonistica, che spinse i due uomini a rivedersi più volte durante le settimane successive. Ma dovettero conoscersi molto più a fondo prima che la loro autentica spinta interiore potesse manifestarsi con chiarezza a entrambi. Walter Dow aveva dedicato tutta la sua esistenza alla venerazione di un'unica divinità: l'inerzia. «Vi è un fondo roccioso» era solito dire con una certa solennità «su cui le maree del tempo fluiscono e rifluiscono, su cui ogni cosa, materiale o immateriale che sia, a seconda del giudizio soggettivo del profano, cambia e si dissolve per poi nuovamente prendere forma. Ma il fondo roccioso rimane: l'inerzia assoluta! Che cosa non potremmo fare se solo riuscissimo a raggiungerla!» «Ma cos'è» chiese Eric «quest'inerzia?» Dow gli lanciò un'occhiata di commiserazione. «Tutti sanno che cos'è l'inerzia. La prima legge del moto, formulata da Newton, è la legge dell'inerzia. Dice che qualunque corpo rimane in uno stato di perfetta immobilità, o di moto costante lungo una linea retta, se non sopravviene una forza a cambiare la situazione. Ecco perché la gente in automobile si sente spinta di lato mentre la macchina imbocca una curva. Ecco perché un cavallo fa tanta fatica a smuovere un carico pesante, mentre poi, una volta preso l'abbrivio, lo sforzo si allenta. Non c'è nulla che non obbedisca a questa legge, nulla! «Ma Newton non immaginava neppure gli incommensurabili abissi di forza potenzialmente racchiusi in quella sua semplice affermazione. Non si rese conto di quanto fosse riduttiva, in fondo. Descrivere l'inerzia citando la legge di Newton è come descrivere il mare dicendo che in cima alle onde c'è la schiuma. La forza d'inerzia è contenuta in ogni cosa, così come ogni cosa contiene umidità. Ma dietro questa tendenza all'inerzia, che si manifesta in modo così poco percettibile nella materia, c'è la vastità di una forza che a confronto è molto più grande di quanto non sia la vastità dei mari in rapporto ai quantitativi relativamente modesti di umidità contenuti in ogni cosa visibile. «Mi è difficile fartelo capire. Ti manca la terminologia adatta. E a volte mi chiedo se riuscirei mai a spiegare, sia pure a un collega, tutto quel che ho scoperto negli ultimi dieci anni. Ma sono fermamente convinto che sarebbe possibile ancorarsi a quel fondo roccioso di inerzia quintessenziale e fondamentale, la quale non è poi che la base su cui la materia si costruisce,
per... ehm, per lasciarsi scorrere il tempo tutt'attorno!» «Eh, sì, e poi magari trovarsi alla deriva nello spazio quando si leva l'àncora» sogghignò Eric. «Lo so anch'io che l'universo è movimento attraverso lo spazio. Non so niente del tempo, ma ho idea che lo spazio ti darebbe non poco filo da torcere.» «Non intendo dire che sia per forza necessario... ehm, fissare la nostra àncora direttamente alla roccia» spiegò Dow con sussiego. «Dovrebbe essere piuttosto una specie di zavorra, per rallentare il movimento, capisci, senza strappi che ti proietterebbero fuori dall'atmosfera. Si tratterebbe, certo, di distanze enormi. Eppure è possibile. Per Dio, devo farcela!» La faccia abbronzata di Eric si fece seria. «Stai scherzando?» disse. «Uno potrebbe trascinarsi dietro la sua àncora e lasciar scorrere il tempo in avanti, e poi tirarla su e navigare in un'altra epoca? Caspita! Datemi un'ancora e io sarò la cavia!» Dow non sorrise. «È proprio questo il problema» annuì. «È tutta teoria, destinata a rimanere tale a dispetto delle mie manie di grandezza. Ogni sperimentazione sarebbe del tutto incontrollabile: è la natura stessa dell'elemento su cui intendo fare esperimenti a precludermi ogni prova di successo o insuccesso. Potrei - e per esser sincero, l'ho già fatto - spedire qualche oggetto al di là del tempo...» «Accidenti!» Eric si sporse con un sobbalzo attraverso il tavolo e posò una mano sul braccio di Dow come per incitarlo a parlare. «Davvero l'hai fatto?» «Be', li ho fatti sparire. Credo di poter dire che ci sono riuscito, ma non ho modo di verificarlo. C'è una probabilità su innumerevoli milioni che uno di quegli oggetti finisca nel mio immediato futuro, considerata l'immensa vastità del tempo. E, naturalmente, io non sono in grado di scegliere.» «E se, per esempio, una persona finisse nel proprio passato?» domandò Eric. Dow sorrise. «La solita vecchia questione» disse. «L'inevitabile obiezione all'idea stessa di viaggio nel tempo. Ebbene, a te non è mai capitato, no? Sai benissimo che non è mai capitato! Credo ci debba essere una qualche legge inflessibile che impedisce il ripetersi di una stessa disposizione della materia, il ricollocarsi di uno stesso "io" nella medesima dimensione spaziotempo, fosse un campo in cui ogni diverso disporsi degli atomi è possibile,
purché nessuno schema si ripeta esattamente uguale per due volte. «Vedi, tutto quel che sappiamo del tempo serve solo a farci capire che le sue leggi sfuggono a ogni umana comprensione. Benché io ritenga che il passato e il futuro possano essere visitati, il che implica la concezione di un futuro assolutamente preordinato e di un passato fisso una volta per sempre, tuttavia non mi sento di negare l'arbitrarietà del tempo. Ci devono essere molti futuri possibili. Il modo in cui entriamo nel nostro futuro non è mai l'unico. Hai mai sentito parlare di questa teoria? Non è una novità: l'idea che a ogni passo incontriamo dei bivi, e siamo liberi di scegliere la strada da prendere. Ogni strada promette un futuro diverso. «Posso trasportarti nel passato, e laggiù tu puoi produrre degli eventi che nel passato a noi noto non sono mai accaduti: eppure quegli eventi non saranno del tutto nuovi. Erano stati preordinati fin dall'inizio, a condizione che tu imboccassi quella determinata strada. Si tratta soltanto di avventurarsi su un cammino diverso verso un futuro diverso, prestabilito e preordinato, certo, ma pur sempre nuovo per te in quanto estraneo al tuo bagaglio di esperienze. Ecco, la tua libertà d'azione è infinita, benché ogni possibilità sia già fissata nel tempo.» «Ma allora... Ma allora, con la navigazione nel tempo, non ci sarebbero limiti alle emozioni» disse Eric, quasi con venerazione. E poi, con impeto improvviso: «Dow, tu devi riuscirci, devi provare con me! È quello che cercavo!». «Sei pazzo? Non saremo mai sicuri che funzioni, se non con un esperimento, e la cavia potrebbe non ricomparire mai più. Te ne rendi conto? Da quel poco che ho saputo capire, brancolando alla cieca, mi sembra che il tempo non sia un flusso costante, ma una marea che fluisce e rifluisce e che non è possibile misurare. Non è facile spiegartelo. Ma tu, tu potresti non tornare, potresti perdere il controllo dei tuoi spostamenti. Non sarai mica così pazzo da volere una cosa simile!» «Sono stufo di stabilità e certezze! E per quanto riguarda il ritorno, non vedo proprio a cosa dovrei tornare. No, non ce la fai a spaventarmi. Devo provarci!» «Non se ne parla neppure» disse Dow con fermezza. Ma tre mesi dopo, sotto il grande lucernario del laboratorio di Dow, Eric era occupato ad allacciarsi una piatta cassettina metallica alle spalle robuste. Sebbene lo scienziato avesse la fronte ancora corrugata dall'incertezza, sotto il cespuglio di capelli bianchi bruciava un'esaltazione pari a quella
del giovane per l'incomparabile azzardo di ciò che stava per accadere. C'erano volute settimane di discussioni e di ragionamenti, e ancora lo scienziato non si sentiva del tutto persuaso, ma la febbre che si era impossessata di Eric Rosner non ammetteva repliche. Ora che stava per compiere il primo passo, a Eric parve di aver vissuto tutta la sua vita in vista di quel momento nel laboratorio. Il bisogno di immergersi nel grande fiume del tempo era lo stesso impulso che l'aveva spinto freneticamente e senza posa attraverso le insignificanti avventure che la vita gli aveva messo davanti. Ora, per la prima volta dopo mesi e mesi, si sentiva pacificato. «Guarda bene qui» lo richiamò Walter Dow dal suo stato di estasi. «Sei sicuro di capirci qualcosa?» «Non ho idea di come funzioni, ma non è che me ne importi molto» disse Eric. «So solo che quando voglio spostarmi» posò le sue grandi mani abbronzate sulle cinghie strette intorno alla vita «devo premere questi interruttori. Servono a gettare l'ancora. Giusto?» «In un certo senso sì. Questo aumenterà la tua inerzia quanto basta per renderti immune al tempo, allo spazio e alla materia. Sarai mentalmente e fisicamente inerte. Ti inabisserai, per così dire, fino al fondo roccioso, mentre il tempo scorrerà sopra di te. Nella cassetta che porti sulla schiena, collegata agli interruttori, ho predisposto i mezzi per aumentare la tua inerzia in modo che nessuna forza esterna possa interromperla. C'è poi un meccanismo che permette agli interruttori di rimanere premuti finché un piccolo dispositivo, isolato dall'inerzia in una sua propria dimensione spazio-temporale, libererà gli interruttori e leverà l'àncora. E se i miei calcoli sono esatti, come credo, a quel punto ti troverai in un'epoca diversa dalla nostra. Potrai abbandonarla agendo di nuovo sugli interruttori e ritornando all'inerzia, per poi essere automaticamente rilasciato dopo un intervallo previsto dal dispositivo contenuto nella cassetta. Ci sei?» «Perfettamente!» La bella faccia abbronzata di Eric si aperse in un largo sorriso. «Siamo pronti, adesso?» «Sì, ehm, sì, solo che... Sei sicuro di voler rischiare? Questo potrebbe essere un assassinio in piena regola! Io non so che cosa succederà!» «È questo il bello: non saperlo. Non preoccuparti, Walter. Chiamalo suicidio, non omicidio, se può farti sentire meglio. Io adesso vado. Addio.» Dow ebbe un nodo alla gola mentre stringeva forte la mano del giovane, ma il volto di Eric era illuminato dalla frenesia di partire, e alla fine lo scienziato si sentì quasi tranquillizzato da quell'espressione estatica.
Nell'ultimo istante, prima che gli interruttori scattassero, intravide, dietro il proprio lavoro e l'esultanza del giovane di fronte a lui, una volontà più vasta della sua soddisfare un'esigenza che non sarebbe mai stato in grado di comprendere. Poi le mani di Eric si abbassarono sulla cintura. Ancora per un attimo fu lì, alto nella luce solare del laboratorio, biondo e abbronzato, la storia del suo tumultuoso passato scritta nelle cicatrici del suo volto di ragazzo, animato da un entusiasmo e un'impazienza che trafissero la mente dello scienziato con un lampo di irragionevole fiducia. Certo, il successo avrebbe arriso all'esperimento. La palpitante vitalità, la forza e la provata solidità di quel giovane robusto, lì, davanti a lui, non potevano ridursi a uno sbuffo di fumo una volta premuti gli interruttori. Il pericolo lo attendeva, certo, pericoli contro cui una pistola, e la sua cintura, avrebbero forse potuto ben poco. Ma anche la gloria era ad attenderlo. La gloria. L'invidia annebbiò per un attimo lo sguardo di Dow, e gli interruttori scattarono. Dinanzi agli occhi di Eric fluì accecante l'eternità. Un nulla vorticoso si chiuse sopra di lui. Era consapevole di un moto infinito, dell'infinito dispiegarsi del cambiamento sopra, ai lati, attraverso di sé, dello scorrere di avvenimenti al di là della sua immaginazione mentre rimaneva ancorato all'eterno fondo roccioso dell'inerzia. Tutto questo per una durata incalcolabile. E poi... E poi... Cominciò ad arrivargli all'orecchio una lontana confusione di suoni. Quel velocissimo caos prese a calmarsi, a rallentare, e a poco a poco assunse una forma nebulosa. Stava guardando, da una decina di metri d'altezza, una scena di strada che gli parve di poter collocare in epoca elisabettiana, a giudicare dagli abiti della folla che si muoveva sotto di lui. C'era qualcosa che non andava. Forse la macchina non aveva funzionato bene, perché l'impressione non era quella di trovarsi effettivamente sul posto. La scena era indistinta e tremolante, come un film difettoso proiettato su uno schermo non del tutto piano. Forse si trattava di una falla in quella particolare sezione temporale, ma quale ne fosse la causa non lo seppe mai. Rimase chino a guardare per qualche minuto, cercando di penetrare l'indefinibile alone che velava la vista. Non gli pareva di poggiare su niente, eppure aveva la netta sensazione di doversi chinare in avanti per guardar giù. Era inspiegabile. I suoni salivano fino a lui, ora più forti, ora più deboli, dalla calca che si
muoveva a fatica. Ai lati della via i negozianti decantavano a gran voce la merce. I ragazzi di bottega sfrecciavano in tutte le direzioni nella ressa, avvicinando i passanti. Una ragazza con una mantellina scarlatta spalancò una finestra e si sporse per fare un gesto con la mano a qualcuno giù in strada e i capelli le ricaddero luminosi ai lati del viso. Nella stanza alle sue spalle, in penombra, una seconda ragazza venne avanti e le buttò le braccia intorno alla vita, poi, ridendo, la tirò indietro. La loro allegria giunse distintamente all'orecchio di Eric. Ma tutto questo non era realtà. Quella sorta di nebbia si diradò e tornò a infittirsi, finché gli occhi non cominciarono a fargli male per lo sforzo di seguire la scena. Con rammarico, premette il pulsante sulla cintura e in un attimo la visione fremette e svanì. L'oblio si rovesciò su di lui come un fiume, mentre i secoli scorrevano a precipizio sul fondo roccioso dell'inerzia cui era ancorato. I dispositivi automatici che portava sulle spalle entrarono in azione. Gli interruttori scattarono e il velo si sollevò nuovamente dalla mente di Eric. Si ritrovò a guardare attraverso il fogliame un pascolo percorso da un ruscelletto. Questa volta era effettivamente e tangibilmente lì, sentiva l'erba soffice sotto i piedi e lo stormire delle foglie alla brezza. Sul pendio erboso davanti a lui si muovevano lente alcune pecore grigiastre. Un ragazzino ricciuto con una corta tunichetta di agnello se ne stava pigramente sdraiato a sorvegliarle. La luce gialla del sole si stendeva su tutta la scena. Pareva un idillio pacifico e sognante, ma per qualche ragione le mani di Eric si portarono quasi automaticamente sulla cintura, mentre una sorta di delusione gli si insinuava nella mente. Non era questo quel che cercava. Cercava? Stava forse cercando qualcosa? Vien quasi da pensarlo, si disse. Questo pensiero lo preoccupò, mentre premeva gli interruttori. Che cosa mai aveva potuto fargli abbandonare la scena idilliaca dopo una sola occhiata? Che cosa gli era mancato? Stava dando la caccia a qualcosa, cercando senza tregua nei secoli... una cosa. Poi la corsa oceanica del tempo trascinò via quella domanda, insieme a tutto il resto, nell'oblio. La luce solare si abbatté su di lui fisicamente, come una mazza. Il sole al massimo del suo fulgore colpiva con violenza il pavimento di marmo e gli si riverberava accecante negli occhi. Per qualche secondo non fu cosciente d'altro che di quel bagliore intollerabile. A poco a poco, nella calura soffo-
cante, le pareti marmoree si delinearono intorno a lui. Si trovava in fondo a un pozzo di un bianco abbacinante, tutto rivestito di marmo, di circa sei metri quadri. Accanto alla parete opposta giaceva un uomo nudo, imbrattato di sangue, così immobile nel calore torrido che Eric non avrebbe saputo dire se fosse vivo. Se ne rese conto molto prima che un brusio di voci entusiaste sopra di lui diventasse così forte da far breccia nel suo stupore. Guardò in su. Dal bordo del pozzo sporgevano facce e braccia, qua e là un lembo di tessuto bordato di porpora, la frangia lucente di un manto. Erano volti di aristocratici, raffinati, dissoluti e crudeli. Ma erano tutti privi di espressione, ora. A giudicare da quella prima occhiata pensò che fossero antichi romani. Non aveva molti elementi per dirlo, oltre alle loro acconciature, che osservò solo per brevi istanti; infatti, appena alzò la testa, i suoi occhi furono catturati da quelli azzurro-fumo di una donna che si sporgeva dal parapetto di marmo proprio davanti a lui. Una breve distanza la separava da coloro che stavano ai due lati. Eric intuì che apparteneva a un rango superiore a quello degli altri, forse per un non so che di altero e orgoglioso nel suo viso. Un viso che gli era familiare. Non poteva dire perché, ma era sicuro di averlo già visto prima; non ricordava dove, ma era un fatto recente. In quel momento lei allungò un braccio nudo sull'orlo bianco reso sfolgorante dal sole, e col dito fece un cenno verso il basso. Dietro di lei si udì un clangore di metallo battuto contro la pietra, e nella luce accecante Eric vide guizzare la mano di un uomo, armata di una lunga asta d'acciaio. La lancia già volava dritta verso il suo petto, quando mise le mani sulla cintura. Gli interruttori scattarono, e un grande gorgo inghiottì la scena. Seguì un indefinibile intervallo di inattività senza pensiero. I secoli correvano a fiotti. Infine, quando gli interruttori furono rilasciati, la realtà esplose nuovamente intorno a lui. All'improvviso si sentì soffocare e boccheggiò come se un'atmosfera ancor più densa e più umida di quella di una palude tropicale gli opprimesse i polmoni. Dovette lottare per qualche minuto, cercando di controllare il respiro, mentre con sguardo attonito osservava la scena intorno a sé. Si trovava entro un perimetro quadrato di macerie, che certo avevano costituito un piccolo edificio. Il tetto e le pareti erano andati ed era rimasto poco più che un riquadro smozzicato a ricordo della casa ormai da tempo crollata. Da una parte, una quinta di pietra un po' più alta delle altre, che era tutto quanto rimaneva della parete ovest, gli impediva di vedere in quella direzione. Oltre le pietre ammucchiate davanti a lui, si stendeva una
vasta piazza selciata circondata da altre costruzioni in rovina. Più in là, sotto un cielo fitto di nuvole pesanti fra le quali il sole opaco proiettava un'inquietante luce grigiastra, si ergevano, nelle loro dimensioni ciclopiche, edifici dai colori barbarici e dall'architettura sconosciuta, imponenti come le mura di Karnak, ma costruiti in modo così strano da non richiamare alla sua mente nulla che avesse già visto. Anche a quella distanza Eric riconobbe nelle chiazze più scure che affioravano sulle mura colossali i segni di una generale fatiscenza. Era la città più terribile e impressionante che si potesse immaginare, e si levava gigantesca sotto il cielo basso e grigio di quel mondo acquitrinoso. Ma la sua gloria apparteneva ormai al passato. Qua e là, falle nelle pareti smisurate testimoniavano di massi crollati ed edifici pericolanti. Da quell'aria densa, primordiale, palustre, e da quell'architettura irriconoscibile, capì di trovarsi di fronte a una scena di immemorabile antichità e, mentre la contemplava, gli mancò il respiro: si chiese dove fossero andati gli abitatori di quella città titanica, quale fosse stato il loro nome e se la storia ne conservasse il ricordo. Una mescolanza di suoni curiosi che si avvicinavano lo scosse dallo sbigottimento in cui era sprofondato. Rumore di piedi sul selciato, un vibrare metallico, un ansito roco, e uno strano sibilo intermittente che non riuscì a identificare. Venivano dalia parte che non poteva vedere per quell'unico moncone di muro. Era un sibilo bizzarro, che si fece più forte. Qualcuno urlava in tono gutturale, poi si udì un trepestio di piedi in corsa, barcollanti e incerti, farsi più vicino. Ed ecco che una figura, o piuttosto un barbaglio bianco e rosso, entrò a precipizio dall'apertura nel muro diroccato che prima doveva aver contenuto una porta. Era una ragazza. Il suo respiro soffocato risuonava chiaro nel breve spazio che li divideva, e il rosso che la macchiava rigandola tutta era sangue fresco, che le sgorgava in orribili fiotti da un profondo squarcio nel fianco. Era incredibilmente bianca, nel giorno senza sole di quella città primordiale. In seguito Eric non riuscì a ricordare molto più di questo: il suo luminoso biancore, il sangue che usciva a fiotti regolari dalle arterie recise e l'azzurro-fumo dei suoi occhi. Non seppe mai cosa indossasse, non notò nulla di lei, perché i suoi occhi furono catturati dall'oscurità fumosa di quelli della ragazza. Per un momento infinito stettero a guardarsi l'un l'altra, immobili entrambi. La conosceva. Era lei la nobile romana che l'aveva condannato a morte nel pozzo
torrido di sole; era lei la fanciulla ridente, vestita di rosso, che si era affacciata alla finestra elisabettiana. Incredibile, ma indubbio, tutte e tre erano la stessa ragazza dagli occhi azzurri. Ancora un urlo e un rumore, come di qualcuno che avanzasse carponi, lo risvegliarono dalla sua contemplazione. Eric si chiese, del tutto irrazionalmente, se negli occhi annebbiati di lei non fosse comparso un lampo di incerto riconoscimento, prima che si gettasse zoppicando verso la porta. Sapeva che stava morendo, ma un inspiegabile impulso interiore lo trattenne dall'aiutarla. Restò a guardare. Dopotutto non c'era niente da fare, ormai. Gli occhi azzurro-fumo si stavano velando e la vita le scorreva via a fiotti dal fianco lacerato. La vide vacillare all'indietro contro il muro smozzicato e, nel momento in cui la destra della ragazza si alzò, impugnando un cilindro luccicante da cui uscì una lunga fiammata azzurra, Eric udì lo strano sibilo di prima. Da fuori giunse un grido. Poi il silenzio pulsante fu interrotto soltanto dal gocciolare del sangue sul pavimento. Fu allora che successe una cosa stranissima. Lei voltò la testa, guardando al di sopra della spalla, e incontrò i suoi occhi. Eric si sentì soffocare da una stretta alla gola. Quando quello sguardo azzurro ormai velato trattenne il suo gli parve di capire molte cose. Comprese perché avesse provato per tutta la vita il bisogno di qualcosa che non l'aveva mai sfiorato, almeno fino ad allora. Alle sue labbra salirono delle parole, ma non le disse. L'istante passò in un lampo. Nell'attimo della rivelazione anche la ragazza dovette provare un'emozione, che tuttavia Eric non poté conoscere perché le labbra di lei tremarono mentre un'infinita tenerezza ammorbidiva i suoi occhi già vitrei. Contemporaneamente la mano si alzò di nuovo, e per l'ultima volta il giovane udì quel sibilo rovente. Aveva puntato su di sé l'arma senza nome. La vide letteralmente disfarsi nel bagliore bluastro. Le pietre emanavano calore e l'aria era satura di un odore di carne umana bruciata. Eric provò nausea e una sensazione di perdita devastante. Lei era morta, non c'era più, non era più possibile trovarla, e l'universo era così vuoto che... Ma non ebbe tempo da sprecare con i sentimenti, perché dalla breccia nelle mura della città si riversava fuori un corteo di esseri dinoccolati che ancora non potevano dirsi uomini. Grossi e pelosi bruti scimmieschi armati di clave o macigni emersero disordinatamente dalle rovine. Uno o due di loro brandivano spade rugginose di forma sconosciuta. Allora Eric capì.
Morendo, la ragazza non aveva voluto abbandonare il proprio corpo indifeso al loro oltraggio. L'orgoglio l'aveva spinta a usare su di sé il raggio dissolutore, un orgoglio innato che soltanto un'ancestrale fierezza avrebbe potuto instillarle. Il suo era stato un gesto aristocratico e sofisticato come l'arma che l'aveva distrutta. Da quel gesto soltanto, anche senza lo strano lanciafiamme e senza l'inconfondibile raffinatezza della sua figura e del suo volto, Eric avrebbe potuto intuire che era lontana ere geologiche dalle bestie cui era sfuggita. Nel breve attimo in cui i bruti sostarono stupiti sulla soglia, fissando il mucchietto carbonizzato ai loro piedi e l'uomo alto dai capelli d'oro che avevano di fronte, Eric trovò il tempo di porsi e formulare alcune rapide ipotesi, con le dita pronte a premere gli interruttori. In un'epoca remota la stirpe di quella ragazza doveva aver governato la città immensa, sovrumana. Una razza dimenticata, la sua, in possesso di tecniche scomparse. Probabilmente di origine extraterrestre. E le orde di esseri immondi che un giorno sarebbero diventati uomini dovevano averla aggredita, aiutati in questo dal tempo che insidiava la ciclopica città e ne assottigliava la popolazione ormai costretta a connubi fra consanguinei. La ragazza sconosciuta - incommensurabilmente distante e forse nata fra le stelle, figlia di un altro mondo - era morta, così come tutta la sua stirpe era condannata a morire; poi l'ultimo barlume di quella civiltà meravigliosa sarebbe stato calpestato e la terra avrebbe dimenticato l'esistenza della razza umana snella e longilinea che aveva vissuto un giorno sulla sua superficie, quando ancora il suo uomo primordiale era allo stato scimmiesco. Eppure la ragazza non era morta per sempre. Lui l'aveva vista in altre epoche. I suoi occhi di fumo si erano posati su di lui quando si trovava nel pozzo romano; la sua voce allegra aveva risuonato sulla strada elisabettiana. Ne era sicurissimo. E lo strano, paralizzante senso di perdita che l'aveva pervaso nel vederla morire si fece più lieve. Era morta, sì, ma c'era ancora. Le sue figlie vivevano in innumerevoli età. L'avrebbe ritrovata, chissà dove, chissà come, in chissà quale epoca e paese. Avrebbe rastrellato i secoli fino a incontrarla. E le avrebbe domandato che cosa significasse quel suo ultimo sguardo, così tenero e struggente, così certo di riconoscerlo, nell'attimo in cui volgeva verso di sé il lampo bluastro. Doveva trovarla. Un profondo barrito proveniente dal vano della porta lo riscosse dai suoi pensieri, proprio mentre si rendeva conto della loro assurdità. Quello che sembrava il capo dei bruti aveva superato lo sbigottimento iniziale. Impu-
gnava una spada rugginosa, evidentemente forgiata da mani straniere per uno scopo ignoto e per sempre dimenticato. Si gettò in avanti. Appena in tempo, Eric fece scattare gli interruttori e la stupefacente città emersa dal tempo turbinò e si dissolse per sempre negli abissi del passato. Nell'inerzia fisica e mentale che lo risucchiava verso l'oblio mentre la corrente si chiudeva sopra di lui, attese immobile e ancora una volta i secoli volarono via. Il meccanismo inesorabile scattò. Dopo un intervallo imprecisato si fece di nuovo luce. Si risvegliò in un'afa più che tropicale, nel tanfo di fango e muffe delle ribollenti paludi preistoriche. Non c'era nulla, salvo grandi mostri diguazzanti e le viscide forme di vita dei mari caldi. Premette subito gli interruttori. La volta successiva si trovò in una vasta pianura, sempre uguale fino all'orizzonte, irriconoscibile; quella dopo vide un'orda di uomini pelosi e urlanti lanciarsi alla carica verso la sommità della collina rocciosa sulla quale si era materializzato. E poi visitò e abbandonò, in rapida successione, un tempio in rovina nel cuore della giungla, un accampamento di nomadi cenciosi dagli occhi mongoli e le gambe storte, e un inesplicabile luogo nebbioso in cui echeggiava il crepitio di armi a ripetizione che non assomigliavano a nessuna di quelle che lui conosceva. La ragazza dagli occhi di fumo non era più ricomparsa. Cominciava a disperare, e aveva ormai perso il conto delle scene rapidissime cui aveva assistito, quando l'oscurità dei secoli si dissolse in un'alba di rumore e confusione. Posava i piedi sulla terra battuta di un grande cortile, sotto i raggi roventi del sole di mezzogiorno. Udì delle grida in una lingua sconosciuta, uno scalpitio di cavalli, l'impaziente scossa delle briglie, lo scricchiolio delle ruote. Attraverso la polvere dorata che si alzava, come una nuvola, sotto i piedi della folla affaccendata all'interno del recinto, distinse un convoglio di pesanti carri. Strani uomini barbuti, di bassa statura, si accalcavano intorno ai veicoli in alacre confusione, caricandovi casse o grossi involti e urlando indecifrabili suoni gutturali. Altri uomini, a cavallo, trottavano avanti e indietro senza curarsi della folla, mentre i buoi attendevano pazienti, due per ogni carro. Eric si trovava in un angolo, accanto al muretto che circondava il cortile, e passava del tutto inosservato in quel trambusto. Rimase lì immobile, con la mano posata sull'impugnatura della pistola, a osservare la scena. Non riusciva a capire dove fosse capitato, in quale paese e in che epoca, né di che razza fossero gli uomini davanti a lui. Erano piccoli, scuri e villosi,
come ingobbiti, simili a gnomi. Non aveva mai sentito una lingua con suoni gutturali simili ai loro. A un certo punto, dal lato opposto del cortile, si aprì un varco fra la folla, e venne avanti a passo di marcia una colonna di quegli omuncoli olivastri, armati di picche dai denti ricurvi. Portavano una prigioniera: una ragazza alta, snella e diritta, che incedeva con fierezza. Eric cercò disperatamente di vederla meglio. Sì, era lei. Inconfondibile il portamento della testa bruna, l'ondeggiare del suo corpo mentre camminava. Man mano che si avvicinava poté distinguere i suoi occhi, ma non ebbe bisogno di ritrovare l'oscurità fumosa di quell'azzurro per essere sicuro che fosse lei. Aveva i polsi ammanettati e fra le caviglie trascinava delle catene. Una tunica di pelle ormai a brandelli le pendeva da una spalla, fermata in vita da una cinghia ritorta da cui oscillava un fodero vuoto. Avanzava solenne fra i soldati deformi, guardando con alterigia al di sopra delle loro teste. Bastava un'occhiata per riconoscere in lei un che di nobile e aristocratico, ed era evidente che la sua gente doveva essere avanti di secoli rispetto al popolo scuro e deforme che la teneva prigioniera. Ora il clamore s'era quietato. La polvere si posava sulla lunga carovana, sui buoi a testa bassa. Gli uomini a cavallo sostavano a intervalli lungo la processione. In silenzio, la folla si ritrasse, mentre i soldati e la loro preda sdegnosa marciavano lentamente attraverso il cortile. L'aria era carica di tensione. Eric ebbe la vaga sensazione di sapere quel che sarebbe successo. Un persistente senso di già visto lo tormentava. Cercò invano nella memoria mentre osservava la processione che s'avvicinava al centro del grande cortile. Proprio in mezzo c'era un blocco di pietra, scalfito e macchiato. Soltanto quando la ragazza ebbe raggiunto il masso, e i soldati la costrinsero a inginocchiarsi, Eric ricordò. Il sacrificio. Immancabile a ogni partenza di carovana, nei tempi antichi in cui gli dèi erano avidi di vite umane. Strinse la pistola e si gettò fra la folla attonita, prima ancora di sapere esattamente che cosa stesse per fare. Lo lasciarono passare per puro sbigottimento, ritraendosi con gli occhi fuori dalle orbite di fronte all'apparizione improvvisa di un angelo vendicatore altissimo e dai capelli d'oro, che urlava come un pazzo precipitandosi avanti. Finché non raggiunse la fila dei soldati non incontrò alcuna resistenza. Lo attaccarono con furia, gridando, lui sparò con tutta la rapidità del suo revolver. A quella distanza non poteva mancare la mira, e sei di quegli
gnomi deformi crollarono a terra nel fumo azzurrognolo dell'arma da fuoco. Dovettero crederlo un dio, dispensatore di morte col fragore del tuono e il bagliore bruciante del lampo. Gridarono dal terrore, completamente presi dal panico, e il cortile si vuotò come per magia. I cavalli strattonavano e si impennavano, nitrendo. La folla terrorizzata si riversò fuori dal recinto, lasciando dietro di sé soltanto un turbinio di polvere. Attraverso il riverbero tremulo del pulviscolo, al di sopra dei cadaveri ammucchiati, Eric guardò finalmente negli occhi color fumo della ragazza, quelli stessi che aveva visto per l'ultima volta sotto le mura stupefacenti di una città sepolta dal tempo. Ed ebbe di nuovo l'impressione di leggere nel suo volto, luminoso nonostante la paura, un accenno d'incerto riconoscimento. Lo fronteggiava risoluta, dritta e fiera nelle catene, fissandolo con occhi spaventati che non avrebbero mai ammesso il loro timore. «Non aver paura» le disse, nella voce più dolce che riuscì a trovare, sapendo che il tono le avrebbe suggerito il senso di parole per lei incomprensibili. «È meglio andarcene di qui, prima che tornino.» Mentre parlava ricaricava la pistola. Lei restò a fissarlo, con gli occhi sbarrati, paralizzata dal terrore severamente represso. Non c'era tempo, ora, per quietare i suoi timori. Vedeva già facce scure e barbute che lo spiavano dagli angoli. Aggirò il mucchio di soldati caduti e sollevò la ragazza da terra. Lei ebbe un sussulto quando le sue braccia la afferrarono, ma non le sfuggì alcun suono quando lui se la issò su una spalla, tenendola stretta ai ginocchi, in modo da avere una mano libera per la pistola. Con lunghi passi misurati, lasciò il cortile. Un villaggio di capanne di fango circondava il grande recinto. Con calma, il giovane discese la strada polverosa, sorvegliando ogni apertura con occhi circospetti, la pistola carica in una mano e la ragazza in catene abbandonata sulla spalla robusta. Dai loro nascondigli lo guardarono andar via, alto e dorato sotto il sole di mezzogiorno, un dio venuto dal nulla. Sarebbero fiorite leggende intorno a quell'avvenimento: un dio sceso sulla terra a riscuotere di persona la sua vittima sacrificale. Quando si fu allontanato dal villaggio si fermò e rimise giù la ragazza per occuparsi dei ferri che la imprigionavano. Le catene dovevano essere destinate a un uso cerimoniale, più che pratico, perché si spezzavano facilmente fra le sue mani robuste. Dopo una breve lotta con il metallo la ragazza fu libera, anche se ai polsi e alle caviglie le restavano gli anelli di ferro. Neppure Eric riuscì a forzarli, ma non erano pesanti e pensò che lei
potesse sopportarli senza troppo disagio. Quando l'ultima catena cedette, il giovane si alzò in piedi e osservò il vasto orizzonte ondulato di colline che li circondava. «E ora, che facciamo?» domandò, abbassando lo sguardo su di lei. La sua incertezza e il tono interrogativo della voce dovettero rassicurarla e persuaderla, almeno, che era un essere umano, perché il terrore si attenuò un poco nei suoi occhi, e si girò verso la strada per vedere che non ci fossero inseguitori. Poi gli parlò: per la prima volta Eric udiva la sua voce. Era una lingua sommessa e cantilenante che lo stupì per la vaga familiarità delle sue cadenze. Eric aveva un'infarinatura di molte lingue, ed era sicuro di averne già sentito una simile, anche se per il momento non ricordava quale. Alla sua mancata risposta, lei gli posò sul braccio una mano impaziente e lo condusse avanti di qualche passo, quindi si fermò e alzò gli occhi verso i suoi per avere una risposta. Certo, era ansiosa di lasciare il villaggio. Lui scosse le spalle e con un gesto le fece capire di sapere meno di lei. La ragazza annuì e s'incamminò a passo rapido verso le colline. Egli la seguì. Era instancabile, come se gli anelli di metallo ai polsi e alle caviglie non le dessero il minimo fastidio. Lo condusse, collina dopo collina, attraverso fitte distese di boschi e un paio di acquitrini, senza mai rallentare il passo. Marciarono per ore. Il sole scivolava lungo il cielo, le ombre si allungavano fra le colline. Ma lei non si fermò finché non fu buio. Avevano raggiunto un piccolo avvallamento circondato da alberi. Da una parte uno spuntone roccioso offriva un rifugio e una sorgente gorgogliava fra le pietre. Era il posto ideale per accamparsi. La ragazza si voltò e parlò per la seconda volta, e allora lui capì perché la sua lingua gli suonasse familiare. Somigliava al basco. Gli era capitato di imparare qualche parola di quello strano, antichissimo idioma, forse il più antico ancora parlato nel mondo. Si pensa che il basco sia l'ultimo residuo delle lingue preariane e che risalga a razze scomparse e a tempi dimenticati. Ipotesi che doveva essere vera, perché il linguaggio della ragazza sembrava ricalcarlo in frasi sorprendentemente familiari. Oppure, egli rifletté, questo era il futuro, non il passato. Ma che importanza aveva? Lei stava dicendo qualcosa che non suonava affatto incomprensibile, sul fuoco da accendere e sulla legna da raccogliere. Eric si riscosse dalle sue riflessioni linguistiche e si dette ad aiutarla. Per qualche minuto i fiammiferi la affascinarono e la terrorizzarono,
mentre la fiamma veniva allestita sotto una roccia sporgente sul fianco della collina. Dopo un po' la ragazza si calmò e alla fine lo spinse a sedere accanto al fuoco, per poi scomparire nel buio. Lui attese inquieto finché riapparve silenziosa nel cerchio di luce con un coniglio scalciante fra le mani. Eric non seppe mai, neppure in seguito, come potesse dileguarsi così fra le colline e tornare con piccole prede incolumi fra le braccia. Non poteva essere così veloce da rincorrerle e acchiapparle con le mani, eppure non aveva nulla con sé per fabbricare delle trappole. Fu uno dei tanti misteri che lui non riuscì mai a svelare. Scuoiarono e pulirono la bestiola con il coltello da caccia di Eric, poi la ragazza la arrostì sulla brace. Era un coniglio più grosso e più forte di quelli che conosceva, e la sua carne era dura e aveva un sapore pungente. Più tardi sedettero presso il fuoco accuratamente riparato, e cercarono di parlare. Lei si chiamava Maia. Il suo popolo viveva da qualche parte a est, a circa una giornata di cammino, in una città dalle mura bianche. Eric tentò in tutti i modi di capire in che epoca si trovasse, ma non riuscì a ricavare molto dalle sue parole. Gli parve di cogliere dalle incomprensibili spiegazioni della ragazza che la sua stirpe era molto antica e che lei stessa discendeva direttamente, attraverso innumerevoli generazioni, da una razza divina che aveva abitato una città così alta da toccare il cielo, agli inizi del mondo. Ma era tutto così vago e frammentario che non poteva esserne sicuro. Parlandogli, Maia lo guardò a lungo con i solenni occhi blu, la cui profondità sembrava abitata da un ricordo ossessivo. In seguito Eric avrebbe rammentato quel suo sguardo più di ogni altra cosa. Più volte si accorse che lei, interrogativa e pensierosa, stava esplorando il suo volto con perplessità. Restò a sedere in silenzio, senza troppo badare alle cadenze intermittenti e sommesse della voce di lei. Si imprimeva nella mente i nobili e dolci tratti del giovane viso, la lievissima inclinazione agli angoli degli occhi, la delicata superficie della guancia, la curva su cui si chiudevano le sue labbra. E a tratti lo stupore per il loro incontro attraverso la vastità dei tempi lo sopraffaceva, lasciandolo senza fiato, come l'improvvisa intuizione di qualcosa di così grande e straordinario da non poter essere espresso a parole. E intanto osservava quasi con venerazione quel dolce volto ormai familiare, pensando agli altri occhi solenni e scuri, agli altri volti sereni, così simili al suo, che si susseguivano nel tempo. Doveva esserci un disegno soprannaturale dietro a questo identico ripetersi di volti attraverso i secoli,
qualcosa che andava al di là della sua comprensione. La guardava parlare, mentre il fuoco rosseggiava su quel viso teneramente familiare e si riverberava nella profonda e turbata oscurità dei suoi occhi, e all'improvviso un ignoto struggimento si impossessò di lui. Si chinò in avanti, con un nodo alla gola, e posò le mani su quelle di lei, catturato dalla profondità di quegli occhi colmi di ricordi. Non disse una parola, ma la fissò intensamente e a lungo, finché fu sicuro di cogliere nel suo sguardo l'accendersi repentino di una risposta, perché in un attimo quel suo sforzo di ricordare parve dissolversi, pacificando il bel viso in un'espressione di dolce consapevolezza. Rimasero immobili come per un incantesimo, nel totale benessere di una tenerezza così delicata che Eric si sentì salire alle tempie un'ondata di calore. In quell'attimo, ogni turbamento, ogni incomprensione fu spazzata via, e il segreto dell'immane disegno sotteso ai loro incontri sembrava aleggiare ovunque, quasi a portata di mano. Quindi, senza preavviso, la ragazza scoppiò a piangere, ritirò bruscamente le mani e scattò in piedi, con il lungo balzo spaventato di un animale selvatico; poi rimase a fissarlo alla luce del fuoco, i pugni serrati e gli occhi traboccanti. Non era una ribellione alla stretta delle sue mani, certo capiva che non c'era alcuna violenza in quel gesto, ma la lotta contro un nemico che si annidava in lei, dietro i suoi occhi scintillanti di lacrime. Se ne stette in piedi per un po', esitante, poi, con un breve gesto di scusa, si lasciò andare di nuovo a terra e rimase curva, a testa bassa, con lo sguardo perso nelle braci. Finalmente riprese a parlare, sottovoce, con brevi frasi sconnesse che cadevano monotone nel silenzio. A lui bastò per comprendere la sua improvvisa resistenza al meraviglioso e arcano momento di fusione che li aveva catturati entrambi. La ragazza era già promessa. Gli fece intendere che si trattava di qualcosa di più di un semplice scambio di pegni fra innamorati. Accennò vagamente a cerimonie religiose, a unioni di grandi sacerdoti con vergini elette, a riti nei templi e alla furia gelosa di un dio. Questo è quanto gli riuscì di capire. Doveva adempiere ai voti della sposa sacerdotale del dio. Nessun uomo poteva toccarla finché non si fosse ritualmente congiunta nel tempio. Non doveva neppure concepire un sentimento d'amore per un uomo. Ecco perché era balzata indietro, lottando fra le lacrime contro un nemico interiore capace di spingerla a tradimento verso lo straniero dorato che le aveva pre-
so le mani. La sua devozione al precetto era incrollabile. Eric sapeva, fin da quando aveva visto per la prima volta i suoi occhi pieni di ombre, che sarebbe stata fedele a qualsiasi ideale l'avesse animata. Una ragazza come quella aveva distrutto il proprio corpo, da cui l'anima stava scivolando via, perché i barbari non potessero violarlo. Una ragazza come quella, sdegnosamente patrizia e terribilmente crudele, aveva assistito alle peggiori torture in un pozzo reso rovente dal sole, rifiutando di mettere in dubbio il diritto di vita e di morte degli imperatori sui loro sudditi. Era testarda, quella ragazza. Convinta dei suoi ideali, nobili o crudeli che fossero. Aveva la stoffa della martire. Quella notte montarono la guardia a turno, fu lei a voler condividere quel compito, con un'insistenza che non ammetteva repliche. Quali pericoli impedissero loro di dormire entrambi non gli fu dato sapere. Una volta Eric si lasciò andare al sonno e l'ultima cosa che vide, prima di chiudere gli occhi, fu l'immagine di Maia, snella e flessuosa nella sua tunica lacera, calda alla luce del fuoco, serena nella determinazione del suo progetto di vita. Nulla avrebbe potuto smuoverla. Era così perfetta che una fitta lancinante gli trafisse la gola mentre abbassava le palpebre. Al mattino, quando si svegliò, lei aveva già portato una bracciata di uccelli tondi come quaglie e li stava spennando sul bordo del ruscello. Sorrise con sussiego quando lui si alzò a sedere, ma non disse nulla e non lo guardò più, a meno che non fosse necessario. Non voleva correre rischi con il traditore dentro di lei. In silenzio mangiarono gli uccelli che lei aveva cotto sulla brace, poi lui cercò di farle capire che intendeva accompagnarla fino alle porte della sua città. A tutta prima lei rifiutò. Conosceva bene la zona. Era giovane e forte, sapeva tutto su quelle colline. Non aveva bisogno di una scorta. Ma Eric non poteva lasciarla, almeno finché non vi fosse costretto. Quel momento di comprensione cristallina e la calda, dolce fusione che li aveva uniti per lo spazio di un respiro aveva stretto fra loro un legame che lui non si sentiva di infrangere. E alla fine lei acconsentì. Parlarono pochissimo dopo la breve discussione. Spensero il fuoco e si rimisero in cammino lungo le colline ondulate, verso la parte più chiara del cielo, dove il sole stava sorgendo. Marciarono per tutta la mattinata. Verso mezzogiorno, quando si fecero sentire i morsi della fame, in quel suo modo misterioso e segreto lei trovò un altro coniglio e si fermarono a mangiare. Nel pomeriggio il peso dello zaino che
conteneva la macchina del tempo cominciò a incrinare la forza vichinga di Eric. Dovette spostare le cinghie, nel tentativo di alleviare il disagio, e questo sembrò incuriosirla. Il crepuscolo calava sulle colline quando Maia si fermò sulla cresta di una piccola altura e indicò davanti a sé. Eric vide a breve distanza un gruppo di case bianche, circondate da un muro rotto in più punti, sulla sommità di una collina un po' più alta delle altre. Non ebbe il permesso di accompagnarla fino alle porte della città. Rimase lassù, a guardarla andar via. Lei non si voltò indietro. Camminava leggera, sicura, fra l'erba che si apriva come un'onda verde all'altezza delle sue ginocchia, con la testa alta e risoluta. La guardò finché non la vide giungere, piccola figura lontana, sotto il muro sbrecciato, dove la porta della città la inghiottì sottraendola per sempre ai suoi occhi. Nel cuore di Eric si alternavano il dolore del distacco e la più accesa impazienza. Perché era sempre più sicuro, ora, che ci fosse qualcosa di più del caso dietro i brevi e apparentemente futili incontri con quell'unica ragazza immortale dagli occhi blu. Appena la fiera sagoma di lei scomparve dietro la porta, Eric posò fiducioso le mani sulla cintura. L'aveva perduta, ma non per molto. Da qualche parte, nell'ignoto e lontano futuro o nell'inesplorato passato, lei lo attendeva. Le sue dita si abbassarono sugli interruttori. La fuga dei secoli passò tenebrosa su di lui, cancellando le colline, le verdi radure e la bianca città senza nome che cadeva in rovina. Non avrebbe mai più rivisto Maia, ma c'erano altre Maia ad attenderlo. L'oblio risucchiò Eric, la sua impazienza e la crescente fiducia che nutriva in un vasto disegno sotteso a quel viaggio nell'immenso grigiore del nulla. E dal nulla emerse la luce azzurra del giorno, sui merli di un castello circondato da un fossato. Dalla cima di un colle a qualche centinaio di metri vide l'assalto di uomini in armi sotto le mura, udì grida e clangori metallici trasportati dalla brezza leggera. Pensò a quanto spesso gli capitasse di trovarsi di fronte a scene di lotta e di morte in seguito ai suoi casuali spostamenti. Si chiese se nel passato la violenza fosse così frequente da rendere improbabile il suo imbattersi in momenti di calma, o se la sua vita intessuta di pericoli e avventure non influenzasse le frazioni di tempo che rapidamente visitava. Ma non aveva importanza. Si guardò intorno, chiedendosi se un'altra Maia dagli occhi blu si nascondesse in quel mondo medievale. Ma non c'e-
ra nulla: la foresta si stendeva fitta fino ai piedi delle colline. Tranne che per il castello, non c'erano segni di civiltà, non c'era anima viva, soltanto gli assedianti armati. Forse lei viveva da qualche parte, in quel mondo azzurro e primitivo, ma non poteva arrischiarsi a cercarla. E comunque era anche altrove. All'improvviso si sentì sopraffatto da quella certezza, dall'incomprensibile vastità di quella certezza e della sua presenza. Lei era dappertutto. Dall'inizio alla fine dei tempi, lei era. Non c'era epoca storica che non l'avesse conosciuta, non c'era punto della superficie terrestre che non fosse stato calcato dal suo piede. E benché l'infinito futuro e l'infinito passato la contenessero in ogni più riposto angolo di mondo, tutte le sue incarnazioni erano qui e ora. Poteva raggiungerla, solo la fulminea corsa dei secoli resa possibile dalla macchina lo separava dalle sue innumerevoli figlie. Lei era onnipresente, eterna. Sentì la sua presenza nell'oblio che lo inghiottì appena le sue mani fecero scattare gli interruttori e il castello stretto d'assedio si dissolse nel passato. Due bambini giocavano presso un fiume poco profondo. Eric si avviò lentamente verso di loro, camminando sulla sabbia tiepida. Una femminuccia e un maschietto vestiti di brevi tuniche che erano state bianche. Potevano avere dieci anni ed erano assorti nel loro gioco sul bordo dell'acqua. Finché la sua ombra non scivolò sul castello di sabbia e ciottoli, non alzarono lo sguardo. Gli occhi della bambina erano azzurri come il fumo, nella faccina abbronzata. Quegli occhi così familiari incontrarono i suoi. Lei lo guardò per un lungo momento, poi sorrise esitante, con grande dolcezza, e si alzò a piedi nudi, scuotendosi la sabbia dalla veste, continuando a fissarlo con l'espressione dolce e tenerissima che le illuminava il visetto. Una strana incertezza le impediva di parlare. Alla fine disse: «Qu e'voo?» con la voce più dolce e delicata che si potesse immaginare. Le sue parole erano lontanamente riconducibili a una lingua che un giorno avrebbe potuto essere, o era stata, francese. «Chi è lei?» «Je suis Eric» le rispose, con solennità. Lei scosse leggermente la testa. «Zh n'compren...» riprese, dubbiosa, in quella strana lingua che sembrava una distorsione del francese. Ma si interruppe, perché anche se il nome le era sconosciuto, nei suoi occhi azzurrofumo comparve un barlume di riconoscimento. Ne era certo. «Zh voo z'ai
vu?» «Mi hai già visto?» chiese Eric con estrema delicatezza, cercando di modificare il suo francese per riprodurre gli strani suoni della piccola. «Davvero mi hai visto, prima d'ora?» «Forse» lei mormorò intimidita e lo stupore ridusse la sua voce al sussurro appena udibile di un bimbo. «Ho già visto la tua faccia, da qualche parte, molto tempo fa. L'ho vista? L'ho proprio vista? Eric. Non conosco questo nome. Non l'ho mai sentito. Ma la faccia, tu... Oh, Eric, caro, ti voglio tanto bene!» Mentre parlava era passata dal «voo» al «tu», e alla fine si era abbandonata alla precipitazione dell'affetto infantile: «Eric, cher, zh t'aime!». Da qualche parte dietro di loro, fra i salici che costeggiavano il fiume, si udì un severo richiamo di donna. Il suono di passi sulle foglie morte si avvicinava. Il ragazzino balzò in piedi, ma la piccola parve non sentire. Guardava Eric con i grandi occhi blu spalancati, la faccia incantata dalla repentina adorazione dei bambini. Se avesse avuto dieci anni di più si sarebbe chiesta il perché di quel riconoscimento improvviso, che avrebbe forse bloccato l'insorgere spontaneo del sentimento dentro di lei; invece la sua mente infantile l'accettava senza domande. Adesso la donna era molto vicina. Eric capì che non doveva spaventarla: si chinò e baciò la bambina sulla guancia. Poi la prese per le spalle e la fece girare verso i boschi in cui il bambino era già scomparso. «Vai dalla mamma» disse dolcemente. E posò nuovamente le mani sugli interruttori. Lei cominciava a riconoscerlo, pensò mentre la riva del fiume scorreva nel nulla. Ogni volta che si rivedevano il riconoscimento era più deciso. Non c'era continuità nei loro incontri, perché lui probabilmente saltava avanti e indietro nel tempo, e questa bambina avrebbe potuto essere una lontana antenata così come una remota discendente della sua risoluta Maia, eppure, in qualche modo, cominciavano a riconoscerlo. Ma non poteva trattarsi di memoria genetica, perché Eric non procedeva lungo una linea diretta di donne, ma saltava qua e là, a caso, nella loro moltitudine. L'ondata di oblio dissolse le sue elucubrazioni. Dalla tenebra turbinante divampò bruscamente alla vita una città dalle mura d'acciaio. Eric si trovava su una delle tante torri e con lo sguardo si perdeva in distanze da capogiro inondate dai riflessi del sole sul metallo. Per un po' rimase fermo a osservare, schermandosi gli occhi con le mani. Ma bruciava d'impazienza. Un presentimento istintivo, fattosi più forte e
più certo man mano che il concatenarsi degli incontri si avviava alla sua conclusione, gli disse che la donna che cercava non si trovava in quel luogo fuori del tempo. Senza alcuna considerazione per la stupefacente meraviglia della città d'acciaio, premette ancora una volta gli interruttori e, con uno sfavillio, l'abbagliante metropoli si dissolse nel nulla. Uno scoppio folle di grida, simili a ululati belluini provenienti da esseri allo stato selvaggio, lo aggredì nell'oscurità prima ancora che riuscisse a vedere quel che stava accadendo. Poi Eric sentì sotto i piedi un pavimento di tavole e vide dall'alto una distesa di teste scarmigliate, di pugni levati e armi brandite contro una piattaforma di pietra. La piattaforma era alta come quella su cui lui stesso si trovava, dal lato opposto del mare tonante di folla. Un crepitio di fiamme si levò a poco a poco sul tumulto. Sull'altra piattaforma, legata a un palo bruciacchiato, circondata da mucchi di fascine e da lingue di fuoco, si ergeva fiera la ragazza dagli occhi azzurri. Se ne stava ritta, a testa alta, senza degnare di uno sguardo la gente sotto di lei. Per una frazione di secondo Eric valutò la situazione, cercando freneticamente un appiglio per salvarla. Dietro di lui, sul palco di legno, lo sbigottimento aveva ammutolito un gentile consesso di signore e signori in variopinti abiti cinquecenteschi. Dovevano essere nobili, riunitisi per contemplare il rogo dai posti migliori. Eric li degnò a mala pena di un'occhiata per la loro pietrificata sorpresa. Si girò, setacciò la folla disperato. Da quella parte nessuna speranza. Reclamavano la vita della ragazza in un unico tremendo latrato che prorompeva da ogni gola. «Strega!» urlavano. «Morte alla strega!» riuscì a capire senza troppa difficoltà in quell'inglese arcaico, urlato con rabbia sanguinaria. Per il momento non l'avevano ancora visto. Ma la ragazza sì. Sopra le loro teste, attraverso lievi onde di calore che cominciarono ad alzarsi intorno a lei come aliti roventi, i suoi occhi azzurro-fumo cercarono quelli di lui. L'incontro fu tangibile, quasi fossero le loro mani a toccarsi. E come la stretta delle mani durò quello sguardo, fermo e sicuro, per alcuni istanti. La strega sul rogo nella vecchia Inghilterra e il giovane avventuriero americano del ventesimo secolo, gli occhi negli occhi, sicuri di riconoscersi... Il cuore di Eric prese a battere precipitosamente nel leggere la certezza negli occhi azzurro-fumo che aveva così a lungo cercato. Lei lo conosceva, senza alcun dubbio, lo riconosceva. Sul frastuono della marmaglia urlante udì la sua voce, in un grido alto e distinto. «Sei arrivato! Sapevo che saresti venuto!»
E il peso del silenzio si abbatté sulla folla. Tutti si volsero, come un sol uomo, per seguire lo sguardo estatico della ragazza. Proprio nell'istante della loro sorpresa di fronte al giovane alto e biondo che vedevano stagliarsi contro il cielo, estraneo a tutto ciò che avevano visto fino ad allora, la voce della strega risuonò chiarissima: «Sei arrivato! Sapevo che saresti venuto, alla fine. Loro lo dicevano. Loro sapevano! Ora devo morire per le conoscenze che mi hanno trasmesso, ma grazie a Loro so che questa non è la fine. Da qualche parte, un giorno, ci incontreremo. Arrivederci, arrivederci, mio caro!» La sua voce non si era incrinata, benché il suo corpo fosse lambito dalle fiamme. Ora, in una vampata cremisi, il fuoco raggiunse le fascine e si levò furioso avvolgendola completamente in un inferno. Sconvolto dall'orrore, Eric alzò la mano armata. Il frastuono dello sparo gettò metà della folla in ginocchio, terrorizzata. In mezzo alle fiamme l'alta figura della ragazza si accasciò sulle corde che la imprigionavano. Fu tutto quello che poté fare per lei. Quindi, in un silenzio così profondo che si udiva soltanto lo scricchiolio delle tavole sotto i suoi piedi, Eric rinfoderò la pistola e allungò le mani sugli interruttori. L'impazienza ribolliva in lui mentre la folla prostrata, la strega avvolta dalle fiamme e tutta l'orribile scena vorticarono nel nulla. Si stava avvicinando al suo obiettivo. Ad ogni passo vedeva negli occhi di lei un riconoscimento più certo. In quest'ultima incarnazione la ragazza già lo conosceva: sicuramente la soluzione era vicina. Anche se ostacoli sempre nuovi avevano loro impedito di avvicinarsi veramente, e di giungere a quell'unione d'amore e comprensione che ogni volta sembrava promessa, lui sapeva che alla fine l'avrebbero avuta vinta. Tutto quel che era accaduto non poteva essere invano. La sua onnipresenza, nei secoli che scorrevano veloci, in tutte le terre che quei secoli attraversavano, nel tempo, nello spazio, nella vita stessa, era così evidente che fu grato alle tenebre dell'oblio perché gli parve di abbracciare in esse la ragazza stessa. L'oscurità era piena di lei, tutt'uno con lei. Non poteva perderla o essere lontano da lei, non poteva nemmeno sentire la sua mancanza, ormai. Lei era ovunque, sempre. E la fine stava arrivando. Presto, molto presto, avrebbe saputo. Si risvegliò accecato dal buio che stendeva le sue ali su di lui. Non gli sembrava di posare i piedi sul terreno. Si sforzava di penetrare l'oscurità con tutti i cinque sensi, ma non ci riusciva. Era una tenebra vivente, gravida di promesse. Attese in silenzio.
Alla fine lei parlò. «Ti ho atteso così a lungo» disse nell'oscurità la voce dolce e cristallina di lei, una donna che lui conosceva così bene da non aver bisogno di vederne gli occhi per sapere chi fosse. «È questa la fine?» le chiese con ansia. «È questo il punto d'arrivo del nostro lunghissimo viaggio?» «La fine?» mormorò lei, con un accenno di riso nella voce. «O forse l'inizio? Dove sono l'inizio e la fine di un cerchio? L'importante è che ora finalmente siamo insieme.» «Ma che cosa... perché?» «In qualche punto qualcosa non ha funzionato» rispose la ragazza, sommessamente. «Lasciamo stare. Abbiamo espiato gli antichi peccati che ci hanno tenuti separati fino alla fine. I nostri tormentati riflessi si sono cercati nel fiume del tempo e non si sono mai completamente incontrati. E noi, che avremmo potuto essere padroni del tempo, abbiamo lottato contro correnti avverse, sapendo soltanto che qualcosa era sbagliato perché non ci conoscevamo. «Ma ora tutto questo è finito. Le nostre vite sono state vissute fino in fondo e possiamo uscire dal tempo e dallo spazio, per trovare la nostra casa. Il nostro amore è stato così grande che, senza mai realizzarsi, ha colmato il tempo e lo spazio fino a traboccarne, facendo sì che ovunque tu ti avventurassi, la consapevolezza della mia presenza ti tormentasse mentre io ti aspettavo invano. Ma ora dimentica. È tutto finito. Abbiamo finalmente trovato noi stessi.» «Se solo potessi vederti» disse Eric inquieto, allungando una mano nel buio. «È così buio qui. Dove siamo?» «Buio?» la dolce voce di lei rise piano. «Buio? Mio caro, questo non è buio! Aspetta un attimo, ecco!» Dalla profondità della notte una mano afferrò la sua. «Vieni con me.» Insieme si avviarono. Titolo originale: Tryst in Time Postilla Forse la causa più profonda delle credenze nell'occulto è la tendenza, tutta umana, a negare la realtà della morte. In fondo solo gli esseri umani, per quanto ci è dato conoscere, sono consapevoli dell'inevitabilità della
morte. Peggio ancora, gli esseri umani ne sono consapevoli non solo in generale, ma in ogni singolo caso, compreso quello che li riguarda personalmente. In altre parole, ognuno di noi sa che un giorno dovrà morire, e che quella particolare porzione del suo futuro è già perlomeno fissata, irrevocabile, ineluttabile, anche se non ne conosce i particolari. Quando, probabilmente nella preistoria, gli uomini cominciarono a rendersi conto di questa realtà, lo shock dovette essere enorme. L'uomo tende naturalmente a negare la morte: sostenendo che non è un evento reale ma che sembra soltanto tale, illudendosi che solo il corpo muoia, mentre l'"Io" in esso contenuto, la "personalità", l'"anima" vive in eterno. Si può supporre, ad esempio, che l'anima, venuta dal regno della beatitudine, abiti il corpo per un breve periodo e poi ritorni là donde è venuta. Oppure si può ipotizzare che l'anima, dopo la morte, sia destinata alla beatitudine o alla sofferenza a seconda che il corpo da essa abitato sia stato o meno virtuoso, e in entrambi i casi non muoia. Un'altra convinzione diffusa è che l'anima, dopo la morte del corpo, rimanga sulla terra e penetri nel corpo di un neonato per vivere una nuova vita, continuando così indefinitamente. Questo trasferimento dell'anima da un corpo all'altro si chiama "reincarnazione" o "metempsicosi". Tuttavia, la fede nella reincarnazione o in una vita ultraterrena non è altro che uno stratagemma dell'uomo per negare la morte, e nessuna delle due ipotesi è mai stata provata. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE L. Adam Beck, "The Interpreter. A Romance of the East", in The Ninth Vibration and Other Stories, Dodd, Mead, New York 1922. Jane Roberts, "The Red Wagon", in Ladies of Fantasy: Two Centuries of Sinister Stories by the Gentler Sex, a cura di Seon Manley e Gogo Lewis, Lothrop, Lee and Shepard, New York 1975. Saki (pseud. di H.H. Munro), "Laura", in Beasts and Superbeasts, John Lane, London 1912. Evelyn E. Smith, "Teragram", in Young Witches and Warlocks, a cura di Isaac Asimov, Martin H. Greenberg e Charles G. Waugh, Harper and Row, New York 1987. Jay Williams, "The Beetle", in «The Magazine of Fantasy and Science Fiction», marzo 1961.
Sedute spiritiche IL MELO DI BLOOD di John Hay In un lembo di pascolo che saliva, restringendosi gradualmente, verso l'altopiano che terminava nella prateria, per poi allargarsi digradando sulle sabbie umide e bordate di salici del Grande Fiume, in una soleggiata mattina primaverile intorno al 1840 un giovane dalle spalle robuste piantava un piccolo melo. La valletta era chiusa, a sud e a est, da colline rocciose, maculate dal verde perenne dei cedri e allietate dai tenui colori dell'aquilegia. Di fronte, il Mississippi, mansueto dopo il precipitare delle rapide, scivolava pigramente fra i banchi di sabbia dorata e le isole basse che si mostravano in tutta la loro bellezza primaverile, vestite di tenero verde. Il giovanotto scavava con energia esasperata, configgendo la vanga nel terriccio morbido e scuro con movimenti pieni di malanimo represso. Le sopracciglia nere e diritte erano corrugate fino a formare una sola linea bruna sugli occhi infossati. La barba, ancora rada, non riusciva a nascondere il profilo massiccio della mascella quadrata. I denti serrati, il volto teso, le esclamazioni inarticolate che sfuggivano di tanto in tanto alle sue labbra contratte, mostravano con chiarezza come i pensieri del giovane agricoltore fossero ben lontani dal lavoro. Una fresca fanciulla discese lungo il sentiero che attraversava il boschetto di noccioli lungo la falda della collina e, poggiata una mano paffuta e abbronzata sulla traversa più alta del recinto, volteggiò leggera, posandosi sulla soffice erbetta con un tonfo che ne denunciò la struttura fisica sana e generosa. Spesso i poeti, e gli innamorati, amano descrivere le dame del loro cuore come creature così aeree e delicate da infondere nuovo rigoglio ai fiori toccati dal loro passaggio. Ma non essendo poeti, né innamorati, dobbiamo ammettere che non c'era alcuna speranza di resurrezione per la speronella e le viole su cui erano atterrati gli stivaletti di Susie Barringer. Certo non aveva nulla della grossolanità contadina, ma le sue guance erano così rosee da causarle non poco imbarazzo la domenica mattina, e il suo vestito di lino azzurro era ben teso dal busto pieno. Era una linda, allegra e graziosissima ragazza di campagna, con qualche lentiggine sparsa sul viso, onde di capelli bruni e due occhi azzurri pieni di stupore, eppure sapeva il fatto suo e si muoveva leggiadra come una piccola quaglia. Gli orecchi di un giovanotto avvertono subito il fruscio di una sottana: il
volo di quell'uccelletto rubicondo, il frullo del suo piumaggio azzurro sopra il recinto, fecero sì ch'egli alzasse lo sguardo dal lavoro della vanga. Il suo cipiglio fu prontamente debellato dal rossore e la sua bocca fu vinta da un sorriso impacciato. La signorinetta salutò con il capo mentre correva via, ed ecco che il cipiglio riguadagnò la posizione perduta, e il sorriso fu respinto con decisione dalla bocca barbuta: «Signorina Tudie, siete di fretta?». La dama così interpellata si voltò e disse, con una voce fra l'insolente e il vezzoso: «Niente affatto. Al, ti ho detto centinaia di volte di non chiamarmi con quel nome ridicolo». «Insomma, Tudie, ti ho sempre chiamata così da quando eri piccola. Avresti dovuto saperlo qual era il tuo nome, e chiamarti così fin dall'inizio. Comunque, visto che da quando sei stata a Jacksonville i tuoi gusti sono cambiati, ti chiamerò signorina Susie, se non ricordo male.» Una resa così franca sembrò soddisfare la signorina, che intervenne nel più gentile dei modi: «Non importa, Al Golyer. Puoi chiamarmi come ti pare e piace». Poi, come consapevole della volubilità femminile, cambiò argomento e chiese: «Che cosa ci fai con quella buca? Sembra che devi seppellire qualcuno». «Ci voglio mettere il melo che è nato chissà come nel pascolo del colonnello Blood. Forse qualcuno che mangiava una mela ha buttato il torsolo proprio lì. L'anno prossimo tirerò su un frutteto in questo prato. Ma con il colonnello abbiamo pensato che la pianta sarà già troppo grande fra un anno, è meglio spostarla adesso e vedere come crescerà. È un gran bell'alberello, verrà su bene.» «Sì. Mi raccomando, le prime mele tienile per me. Non te ne scordare. Arrivederci.» «Aspetta, signorina Susie, che prendo la giubba. Ti accompagno per un pezzo. Ho qualcosa da dirti.» La signorina Susie si fece leggermente rossa, e leggermente pallida. Simili occasioni non le erano del tutto ignote nonostante la sua breve esperienza di vita. Nei tempi andati, quando i giovanotti di campagna avevano qualcosa da dire, il loro era sempre un argomento serio e impegnativo. Allen Golyer era un bel giovane aitante, un agricoltore agiato, onesto, in grado di provvedere a una famiglia. Non era dunque per presunzione che aspirava alla mano della più bella ragazza di Chaney Creek. Quando erano bambini l'aveva portata centinaia di volte a cavalluccio fino a Bambury
Cross e ritorno, ingannando la noia del percorso con piccoli baci e il suono dei campanelli. Quando Susie fu grande abbastanza per andare a scuola, lui le portava i libri e sceglieva per lei la mela più rossa dal suo cestino della merenda. Al aveva combattuto in nome suo ogni zuffa, aveva scritto tutti i suoi temi (cosa che, fra l'altro, aveva finito per non giovarle molto). Quando lei ebbe quindici anni e lui venti, gli toccò l'onore di accompagnarla due volte alla settimana, per un lungo e felice inverno, a scuola di canto. Fu il periodo più bello della sua vita: nulla, né prima né dopo di allora, poté reggere il paragone con quei pomeriggi. La fatica di tirare a lucido le scarpe, di spazzolarsi i capelli duri, ispidi ed elettrici, sempre dritti per il gelo e la speranza, la lotta per infilarsi nell'armatura della camicia inamidata, per allacciarsi la portentosa e incontrollabile cravatta davanti allo specchio, continuamente appannato dall'affanno del suo fiato, tutti quei dettagli prosaici erano resi luminosi e come irreali dalla magia della gioventù e dell'amore. Poi venivano la camminata sulla neve asciutta e friabile verso la casa della vedova Barringer, le impacciate quattro parole con l'anziana signora mentre Susie "si preparava" e, finalmente, la lunga, incantevole passeggiata fino alla Scuola del Distretto. Non c'è uomo o donna nato e cresciuto in campagna, che non consideri come la miglior cosa nella vita l'innocente piacere dei corteggiamenti di una volta, praticati presso le scuole di canto, alla luce delle stelle e delle candele, verso la prima metà del secolo. Sono rimasti in pochi a poterne parlare, ma il loro cuore stanco e rattrappito a volte batte più veloce quando si odono, nelle vecchie chiese, le note struggenti o esultanti di Bradstreet, China o Coronation, e la loro mente scivola, lungo la corrente delle melodie del passato, nel ricordo di quei giorni freschi di speranze e illusioni, di voci soavi seppur stonate, di notti dorate di sogni, seppur sotto zero, di ragazze che arrossivano senza motivo e di innamorati che parlavano per ore, di tutto, fuorché d'amore. So di risvegliare lo scherno dell'ingenua gioventù contemporanea rivelando che nulla, in quelle lunghe passeggiate notturne, avrebbe potuto essere paragonato al "fare all'amore" dalla nostra civiltà superiore. Il cuore di Allen Golyer, sotto il panciotto di raso, si gonfiava di gioia, d'amore, di devozione, mentre camminava per le strade scricchiolanti in compagnia della sua graziosa tiranna. Ma parlava di mele e maiali, dei miscredenti e del maestro con la sua bacchetta, azzardando qualche volta un'allusione agli amoreggiamenti altrui, sempre in modo distaccato e scherzoso, mentre sui moti del proprio cuore manteneva il più assoluto riserbo. Susciterà cer-
to un compassionevole sorriso sulle labbra ancora imberbi dei giovani Casanova di oggi, che vantano una nuova conquista a ogni ballo, e snocciolano una dichiarazione a ogni figura di quadriglia, sapere di questi ragazzi che trascorrevano insieme varie sere la settimana senza mai dirsi una parola d'amore finché non si sentivano pronti a stabilire il giorno delle nozze. Eppure queste erano le sobrie abitudini di quei luoghi e quei tempi. Non era stata dunque scambiata alcuna promessa fra Allen e Susie, benché il giovane amasse la fanciulla con tutto il vigore della sua fresca, intatta natura, e lei lo sapesse molto bene. Lui non aveva mai pensato di sposare una donna che non fosse Susie Barringer e lei talvolta provava un nuovo pennino tracciando, e poi cancellando con cura, le tre iniziali S.M.G. che, essendo lei stessa battezzata con il nome di Susan Minerva, potevano essere considerate una prova delle sue inclinazioni. Se Allen Golyer fosse stato meno riservato, o più intraprendente, questa storia non sarebbe mai stata scritta, perché Susie molto probabilmente gli avrebbe detto di sì, non avendo nient'altro da dire, e quando fosse andata da sua zia Abigail a Jacksonville ci sarebbe andata già fidanzata, con un anello al dito e la sua verginale fantasia tenuta a freno dalle promesse. Ma lei ci andò, invece, del tutto libera, e non c'è miccia più infiammabile dell'immaginazione di una bella ragazza di campagna di sedici anni. Un giorno uscì con la compiacente zia Abigail a comprare dei nastri, giacché quelli portati da Chaney Creek non rispondevano ai dettami della buona società di Jacksonville. Mentre attraversavano la piazza del tribunale, dirette al negozio di Deacon Pettybone, gli sguardi errabondi della signorina Susie si posarono su un arcobaleno di nastri esposti nella vetrina di fronte. «Andiamo lì» proruppe, con l'impetuosa risolutezza della sua età e del suo sesso. «Andiamo dove vuoi tu, cara» disse la compiacente zia Abigail. «Non fa differenza.» La zia Abigail si era sbagliata. Fece una grandissima differenza per molte persone che quel giorno Susie Barringer comprasse i suoi nastri da Simmons anziché da Pettybone. Se solo avesse potuto saperlo... Ma, del tutto inconsapevole del Fato che si affacciava invisibile sulla soglia, la signorina Susie fece il suo ingresso nell'Emporio Simmons e chiese di vedere dei nastri. Al banco c'erano due giovanotti. Uno era il signor Simmons, proprietario del negozio, che si fece avanti con il più coscienzioso sorriso: «Nastri, signora? Certo, signora. Ne abbiamo di tutti i tipi. Rosso ciliegia? Certamente, signora. Ho appena avuto uno splendido
arrivo da Saint Louis stamattina, signora. Prego, si accomodi, da questa parte.» Le due gentili dame si abbandonarono ben presto alle delizie degli occhi. La voce del signor Simmons accompagnava la festa dei colori, suadente ma inascoltata. L'altro giovanotto si avvicinò: «Ecco quello che cerca, signorina. Raffinato ed elegante, proprio il suo stile. Adattissimo al suo colore di occhi e di capelli». Le signore alzarono lo sguardo. Una voce più decisa di quella del signor Simmons. Mani più bianche porgevano le strisce di seta. Occhi più arditi di quelli sfuggenti e cerchiati di rosso del signor Simmons guardavano con impavida ammirazione il viso grazioso di Susie Barringer. «Senti, Simmons, vecchio mio, perché non presenti un amico?» Il signor Simmons obbedì come un agnello: «Signora Barringer, permetta che le presenti il signor Leon di Saint Louis, rappresentante della Draper & Mercer». «Bertie Leon, per servirla» dichiarò l'intraprendente giovanotto, afferrando la mano di Susie con energia. La mano di lui era tanto più morbida e bianca della sua che la fece sentire agitata e contrariata. Quando le due signore ebbero fatto i loro acquisti, il signor Leon insistette per accompagnarle a casa, e fa molto spiritoso e cortese per tutto il tragitto. Aveva sulla punta delle dita tutta la sapienza distillata dai giornali, dalle sale da concerto e dai bar sui battelli a vapore. Nella sua vita girovaga aveva incontrato ogni tipo di persone: aveva venduto nastri in una dozzina di Stati. Non aveva mai avuto un attimo di dubbio su di sé e non aveva mai esitato a concedersi una distrazione che non interferisse col suo lavoro. Aveva una sola ambizione nella vita: sposare la signorina Mercer e diventare comproprietario della ditta. Ma la signorina Mercer era brutta come la lapide di un milionario. Bertie Leon che, se non si fosse tinto i baffi e non si fosse dato troppa brillantina, era piuttosto un bel tipo, riteneva che il suo sacrificio in nome del commercio dovesse in qualche modo tornare a suo vantaggio. E così, "per pareggiare i conti" faceva una corte appassionata a tutti i begli occhi che incontrava nei suoi viaggi d'affari, «per aver qualcosa a cui pensare quando avesse conquistato gli strabici favori dell'erede», soleva commentare lui stesso con assai poco rispetto. La semplice Susie, che in fatto di giovanotti non aveva visto altro che gli impacciati campagnoli di Chaney Creek, era come abbagliata dalla lingua sciolta e dalle maniere disinvolte dello sfrontato agente di commercio. Ep-
pure qualcosa, nel piglio delle sue parole e nei suoi complimenti a bruciapelo, risvegliò in lei un lieve risentimento che non riuscì a spiegarsi. La zia Abigail era incantata dalla nuova conoscenza e quando lui, al cancello, si congedò con un inchino, secondo gli usi più attuali della mondanità, lo invitò cordialmente a farle visita. Che capitasse pure quando voleva, doveva sentirsi solo, poverino, così lontano da casa. Lui rispose che non avrebbe certo mancato di farlo, ripetendo l'inchino. «Che giovanotto delizioso!» disse zia Abigail. «Troppo presuntuoso e per niente educato» ribatté Susie togliendosi la cuffia, e lanciandosi in un festino di fiocchi e falpalà. Quanto più si infittivano le visite di Albert Leon al civettuolo villino della signora Barringer, tanto più il giovane riusciva simpatico all'anziana signora, e più ferocemente la fanciulla lo criticava, finché non fu chiaro che la zia Abigail si stava stancando di lui, mentre la bella Susan nutriva un sempre più vivo e pericoloso interesse nei suoi riguardi. Ma proprio a quel punto l'inesorabilità degli affari trascinò il commesso viaggiatore a una città vicina, e Susie, poco dopo, fece ritorno a Chaney Creek. I nastri e i cappellini di Jacksonville le conquistarono un ruolo che i suoi occhi da soli non avrebbero mai saputo meritarle: quello di reginetta del circondario. Non cuivis contingit adire Lutetiam, non tutti hanno la fortuna di andare a Parigi, ma in un villaggio dove nessuno è mai stato a Parigi, il capoluogo della provincia è un santuario della moda. Allen Golyer provò un raggelante senso di diffidenza quando vide i nastri del signor Simmons sormontare la graziosa testolina al coro domenicale e, pungolato da una nascente gelosia per ciò che ancora non sapeva, decise di conoscere il suo destino senza por tempo in mezzo. Ma la signorina lo ricevette con una gentilezza così fredda e distaccata, parlò così tanto e così concitatamente del suo viaggio, che il bravo giovane rimase del tutto interdetto e dovette andarsene a casa a riflettere sul da farsi, rompendosi il capo per capire se lei fosse stata soltanto più brillante del solito o se gli fosse definitivamente sfuggita di mano. Allen Golyer era, dopotutto, un uomo di polso. Sprecò solo un giorno o due fra dubbi e timori, e una domenica pomeriggio, con il cuore palpitante ma risoluto, abbandonò il consueto corso di catechismo per scendere a Crystal Glen a risolvere la questione e apprendere la sua sorte. Quando fu a pochi passi dalla casetta della vedova, vide un calesse fermo al cancello. «Il sauro di Dow Padgett, accidenti! Che cosa ci fa Dow qui?» È naturale, se non logico, che i giovanotti considerino le visite dei coe-
tanei alla loro ragazza preferita come un gravissimo affronto. Ma non fu il suo amico e compare, il cocchiere Dow Padgett, ad apparire sulla porta mano nella mano con la ritrosa Susie. Fu una stupefacente incarnazione del tipico dandy dell'epoca: capelli chiari intrisi di grasso d'orso, occhi azzurri e baffi neri come il giaietto, un'enorme spilla di vetro appuntata sul petto, panciotto e pantaloni in stridente contrasto di toni, e piccolissimi stivaletti di vernice all'ultima moda. Gli scommettitori e i viaggiatori di commercio del Mississippi sono senza dubbio gli uomini meglio calzati del mondo. Golyer ebbe un tuffo al cuore di fronte allo splendore di un essere così straordinario. Ma, con la sua rustica immediatezza, si diresse verso la coppia che si avviava ridendo verso il cancello, e disse: «Tudie, sono venuto a trovarti. Posso entrare a far due chiacchiere con tua madre finché non torni?». «Non le conviene» rispose prontamente l'estraneo. «Mi sa che staremo via per un bel pezzo. Questo è un cavallo molto lento» aggiunse, con una strizzatina d'occhi diretta a Susie. «Signor Golyer» disse la signorina «mi permetta di presentarle il mio amico, il signor Leon.» Golyer stese meccanicamente la mano secondo l'uso cordiale dell'Ovest. Ma Leon fece un cenno con il capo e disse: «Spero di rivederla». Aiutò Susie a salire sul calesse, ci saltò sopra leggero anche lui e partì con una risata, assestando un colpo di frusta al sauro di Dow Padgett. Il giovane agricoltore se ne tornò a casa desolato, schiacciato dal paragone fra il suo aspetto qualunque e l'abbigliamento sontuoso del rivale, fra le sue maniere impacciate e la sfrontata sicurezza dell'altro, finché il suo cuore non fu pieno fino all'orlo di quell'infernale miscela d'odio e d'amore che si chiama gelosia, dalla quale pregate Iddio di essere risparmiati. Fu proprio il mattino successivo a questo episodio che la signorina Susie volteggiò leggera al di sopra del recinto, e atterrò nel prato dove Allen Golyer stava scavando la buca per piantare il melo del colonnello Blood. «Ho da dirti una cosa abbastanza importante.» «Non è il caso di interrompere il lavoro» ribatté la signorina Barringer. «Posso benissimo rimanere ad ascoltarti.» Il povero Allen esordì nel peggiore dei modi; «Chi era quel tipo con te ieri pomeriggio?». «Grazie tante, signor Golyer, i miei amici non sono "tipi". E poi a te che te ne importa?»
«Susie Barringer, è quasi un anno che ci parliamo. Ti ho voluto bene con tutta l'anima: darei la vita per risparmiarti un piccolo dispiacere. Non ho mai pensato ad altre che a te. Non che io mi consideri abbastanza per te, ma non conosco nessuno meglio di me qui intorno. Se non è troppo tardi, Susie, ti chiedo di diventare mia moglie. Ti vorrò bene e avrò cura di te, questo è sicuro.» Prima ancora che questo solenne discorsetto fosse finito, Susie era scoppiata a piangere e mordeva le stringhe della sua cuffia senza la minima signorilità. «Basta, Al Golyer!» proruppe. «Non devi nemmeno dirle certe cose. Tu sei troppo per me. Io sono mezza fidanzata con quel tipo. Come vorrei non averlo mai conosciuto!» Allen si gettò verso di lei e la prese fra le braccia, ma lei si divincolò. In un attimo l'emozione risvegliata in lei dal discorso appassionato svanì. Si asciugò gli occhi e disse, con convincente fermezza: «Non c'è niente da fare, Al: non saremmo stati felici insieme. Addio. Penso che me ne andrò molto presto da Chaney Creek». Si allontanò rapida per la strada che scendeva al fiume. Allen rimase come paralizzato; seguì con lo sguardo la figura florida e graziosa che si allontanava, finché il vestito azzurro non scomparve dietro la collina, poi si appoggiò sulla vanga e perse completamente il senso del tempo. Quando arrivò a casa, Susan trovò Leon al cancello. «Ah, mio bocciolo di rosa! Rischiavo di non incontrarti. Parto per Keokuk questa mattina, starò via qualche giorno. Mi sono fermato un minuto per darti una cosa da tenere fino al mio ritorno.» «Che cosa?» Lui prese fra le mani le sue guance paffute e depose su quelle labbra piene come ciliegie mature un pegno che non avrebbe mai richiesto indietro. Lei rimase a guardarlo dal cancello, finché una macchia di salici non lo sottrasse alla sua vista, e pensò: "Passerà vicino a dove Al sta lavorando. Sarebbe proprio da lui saltare il recinto per farsi una bella chiacchierata. Mi piacerebbe sapere cosa si direbbero". Circa un'ora dopo, mentre sedeva a cucire nella piccola veranda, un'ombra cadde sul suo lavoro e, quando alzò gli occhi, trasalì nell'incontrare lo sguardo accusatore dello spasimante respinto. Un momentaneo rimorso strinse il cuore spensierato di Susie di fronte al volto pallido e agitato di Al. Non l'aveva mai visto così, con l'orribile espressione dei falliti. I capelli neri, bagnati di sudore, gli pendevano appiccicosi sulle tempie. Appariva
abbattuto, scoraggiato, del tutto esausto dal conflitto delle emozioni. Ma scrutando con più attenzione nei suoi occhi vi si sarebbe scorta una strana luce segreta, come di chi, contro ogni speranza plausibile, conservi ancora intatta la sua forza di volontà. La signora Barringer, che l'aveva visto salire lungo il sentiero, si precipitò nella stanza: «Buongiorno, Allen. Che aria distrutta! Certo, mi piace che un ragazzo si dia da fare, ma non pensi di esagerare un po' con tutto questo lavoro nei campi?». «Già, forse» disse Golyer, con un sorriso sfinito. «È per lo meno tutta la mattina che mi affatico a scavare, e...» «Vorresti un bel bicchiere di latticello, non è vero?» «Lei ormai conosce i miei punti deboli, signora.» La brava donna corse alla dispensa, mentre Susie rimase compunta a fargli compagnia, domandandosi con una certa trepidazione che cosa sarebbe successo. «Susie Barringer» disse una voce bassa e roca, a mala pena riconoscibile come quella di Golyer, «sono venuto a chiederti perdono, non per qualcosa che ho fatto, perché non ho mai fatto né mai farei nulla di male, ma per quel che ho pensato quando te ne sei andata questa mattina. È tutto finito, ora, ma ti dico che il Demonio ha piantato i suoi artigli nel mio cuore per un bel pezzo. Ora è passato, e ti auguro ogni bene possibile. Anche a tuo marito. Se mai ti trovassi in difficoltà e io potessi aiutarti, mandami a chiamare, ne ho il diritto. È l'ultimo favore che ti chiedo.» La sensibile Susie pianse un altro po'. Allen, guardandola con occhi insinuanti, disse: «Non prendertela, Tudie. Forse mi attendono giorni migliori». Questo non sembrò confortare la signorina Barringer. Era molto addolorata quando pensava di aver spezzato il cuore di un giovanotto, e lo sarebbe stata ancora di più al solo pensiero di non esserci riuscita. Se mai fosse necessaria una spiegazione di questo paradosso, potrei osservare, citando un'espressione oggi molto in voga fra gli autori più brillanti, che la signorina Susie Barringer era "una donna molto femminile". I singhiozzi della bella Susan si placarono in un broncio vezzoso quando la madre rientrò nella stanza con una brocca schiumante di acidulo nettare e ne offrì ripetutamente al giovane Golyer grossi bicchieri colmi fino all'orlo, con la benefica letizia di una dea dell'abbondanza. «Basta, grazie, signora Barringer, così è veramente troppo. Moderazione in ogni cosa.»
«Benissimo, allora, lavora di meno e distraiti un po' di più. Non ti vediamo mai ultimamente. Vieni qualche volta a giocare a scacchi con Tudie.» Il cuore materno della signora Barringer accarezzava da tempo il desiderio di vedere la sua figliola sposata e sistemata con «un bravo ragazzo di cui conosci tutto, e soprattutto i genitori». Aveva assistito con grande inquietudine alla spettacolare comparsa del signor Leon e all'evidente orgoglio della figlia per la preda dalle piume lucenti che s'era spinta fino a Chaney Creek, vittima delle sue ingenue arti venatorie. «Non mi piace neanche un po' quel damerino.» È un'abitudine tipica dell'Ovest chiamare "damerino" qualunque uomo ben vestito. Anche l'Ercole Farnese si attirerebbe un simile epiteto se andasse a spasso per l'Illinois vestito all'ultima moda. «La gente onesta non si fa crescere la barba sul labbro di sopra. Non mi stupirei se fosse uno che vive di scommesse.» Dopo che Allen Golyer se ne fu andato con la vanga sulla spalla, apparentemente senza accorgersi, nella sua fatica, della vittoria che la signora Barringer gli stava preparando, la brava donna si diede da fare per incrinare la sicurezza di Susie con pungenti frecciatine vernacole contro l'idolo del suo cuore. I giorni passarono ma, con soddisfazione della signora Barringer e sgomento di Susie, il signor Leon non tornò. «Ha tanto lavoro» pensò Susan fiduciosa. «L'avranno trattenuto a Keokuk, ma sicuramente mi scriverà.» E così Susie si mise la cuffia e corse all'ufficio postale: «Ci sono lettere per me, signor Whaler?». L'indeterminatezza studiata del plurale non parve abbastanza discreta alla signorina, che trovò necessario aggiungere: «Aspetto posta da mia zia». «Non c'è niente qui, né da tua zia, né da tuo zio, Da nessuno della tribù» disse il vecchio Whaler, che era passato dalla parte del presidente Tyler per conservare il posto, e aveva perduto l'uso delle buone maniere. «Quel Tommy Whaler è un vecchiaccio sfacciato» sentenziò Susie quella sera. «Non metterò mai più piede nel suo squallido ufficio postale.» Ma il giorno dopo il giuramento di vendetta era già dimenticato e, spinta dal suo tenero affetto di nipote, andò ancora una volta a chiedere se non ci fosse una lettera della zia Abbie. La terza volta il burbero Whaler ruggì con vera impudenza: «Lascia perdere la zia. Tu devi averci un moroso da qualche parte. Ecco come stanno le cose». La povera Susan fu così sconvolta da quel lampo di chiaroveggenza che scappò via dall'orrido ufficio postale e udì a mala pena le parole tremende
che il vecchio beone le scagliava dietro: «E si è scordato di te! Ecco qual è il problema!». Susie Barringer tornò a casa lungo la strada per il fiume, riflettendo su molte cose. Andò in camera sua, bloccò la porta con un temperino piantato sopra il saliscendi e si lasciò andare a un bel pianto. Poi, schiaritasi in tal modo le facoltà intellettive, rifletté seriamente per un'ora filata. Se riuscite a ricordarvi di quando andavate ancora a scuola, allora saprete che in un'ora si possono pensare un sacco di cose. Ma è presto detto a che cosa approdò. Si può percorrere tutto il Louvre in un'ora, anche se non basta un'intera settimana per vederlo. Susan Barringer (fra se): "Tre settimane ieri. Già, dev'essere così. Che stupida sono stata! Uno che va dappertutto e dice a tutti le stesse cose, come vendere nastri. Che mascalzone! Mamma l'ha visto subito! Meno male che non ci ho detto niente". [Certo, cara Susan, che i tuoi principi son peggio della tua grammatica.] "Si sposerà di certo con una ragazza ricca, non la invidio, ma la odio, e io senz'altro non valgo meno di lei. Forse tornerà. No, meglio di no. Come vorrei essere morta!". (Fazzolettino) Malgrado tutto, nel suo dolore, un unico pensiero la confortava: nessuno sapeva nulla. Lei non aveva una confidente, non aveva neppure aperto il proprio cuore a sua madre: le ragazze dell'Ovest hanno il raro dono della reticenza. Alcune delle sue amiche e rivali avevano visto con invidia e ammirazione la graziosa coppia il giorno dell'arrivo di Leon. Ma con tutti i loro complimenti velenosi erano riuscite a farsi dire soltanto che il prestante straniero era un amico di zia Abbie conosciuto a Jacksonville. Non avrebbero potuto riderle dietro, né sogghignare sulla sorte delle sedotte e abbandonate, quando fosse andata al corso di cucito. Le sue lacrime amare erano addolcite dalla certezza che in ogni caso nessuno l'avrebbe compatita. Trasse una tale consolazione da questo pensiero che all'ora del tè affrontò la madre senza battere ciglio ed evase le domande sui suoi occhi rossi con la scusa inattaccabile e sempre pronta di un terribile mal di testa. Non passò meno di una settimana prima che incontrasse Allen Golyer alle prove del coro. Improvvisamente ricordò che il ragazzo conosceva il segreto delle sue speranze tradite. Le guance le si fecero di fuoco quando lui le rivolse la parola: «Hai chi ti accompagna a casa, signorina Susie?». «Sì. Sai, sono venuta con Sally Withers e...» «Dai, non è bello per Tom Fleming. Non fa mai piacere essere in tre. Verrò io con te.» Susie prese il solido braccio che le veniva porto e vi si appoggiò con un
senso di fiducia misto a timore, mentre camminava con lui verso casa nella notte profumata, sotto il chiaro cielo stellato della primavera. L'aria era piena del sensuale respiro di maggio. La ragazza attese invano l'inizio delle ostilità. Allen Golyer parlò più del solito, ma in tono grave, tranquillo, protettivo, molto diverso dall'adorante timidezza di prima. La sua voce aveva qualcosa di paternamente carezzevole che fu di immenso sollievo alla sua graziosa dama, stanca della lotta silenziosa e solitaria del mese precedente. Quando arrivarono al cancello e lui le augurò la buona notte, Susie gli prese una mano e, stringendogliela tremante, disse d'impulso: «Al, ti avevo detto una cosa che non ho detto a nessuno. Ora te ne dirò un'altra, perché so che mi posso fidare di te». «Puoi esserne certa, Susie Barringer.» «Ecco, Al, il mio fidanzamento è rotto.» «Mi dispiace molto per te, Susie, se tieni ancora a lui.» La signorina rispose con un eccesso d'impeto: «Non ci tengo affatto, per mia fortuna!». Poi scappò in casa per chiudersi in camera, tutta affannata al pensiero della sua sfrontatezza, ma sollevata all'idea di avere un amico cui aprire il suo cuore. Sono certo che non ci fosse nulla di premeditato nella repentina confessione di Susan Barringer al suo ex spasimante sotto la complice luce del cielo di maggio. Ma Allen Golyer sarebbe stato uno stupido se non ne avesse tratto un incoraggiamento. Ridivenne un assiduo e gradito ospite a Crystal Glen. In breve il gioco degli scacchi si trasformò per entrambi in una passione così esclusiva da farli incontrare ogni sera. Le camicie bianche di Allen si logorarono ai polsi per l'uso ripetuto, e le sue mani robuste si screpolarono per eccesso di acqua e sapone. Tanto che la signora Barringer non fu per nulla sorpresa quando, entrando nel salottino un pomeriggio di fine maggio, sorprese i due ragazzi economicamente seduti su una sola sedia, mentre Susan gridava senza successo: «Mamma, mamma, fallo star buono!». «Non interferisco mai nelle faccende dei giovani, specialmente quando vanno bene così come sono» disse con tenerezza tutta materna, e baciò il suo "figliolo" Allen, per poi scappar via asciugandosi le lacrime di commozione. Si sposarono così presto che fu quasi un'indecenza. Talmente presto che quando la signorina andò a Keokuk con sua madre a comprare la stoffa per l'abito da sposa, a ogni negozio in cui entrava si aspettava di trovare l'elegante figura del signor Leon chinata sul bancone. In ogni modo l'abito fu
scelto, confezionato e indossato alla cerimonia, durante il ricevimento e in un giro di visite familiari fra i Barringer e i Golyer, infine accuratamente riposto fra spighe di lavanda, quando la coppia tornò dal modesto viaggio di nozze per iniziare la sua nuova vita nella prospera fattoria di Allen. E in tutto quel tempo nessuna notizia di Bertie Leon giunse a turbare la felicità della giovane signora Golyer. Nella sua vita tranquilla e laboriosa quel nome le sparì del tutto di mente. I sani cuori di campagna non sanguinano a lungo. Dove la vita è concreta gli occhi non perdono tempo a piangere. Mio caro Lothario Urbanus, quelle pesche sono certo sode e deliziose, ma non dureranno per sempre. Se non te le assicuri oggi, potrebbero sfuggirti, e non hai affatto il diritto, l'ha detto il Signore, di rimanertene lì a tastarle. Nella contea non c'era casa più felice, né fattoria più florida. Il buon senso e l'industriosità di Golyer, uniti all'attiva collaborazione della moglie, trovarono il loro pieno dispiegamento nel moltiplicarsi dei campi e nella crescita dei frutteti. I commercianti di Warsaw si disputavano il suo frumento e la fama delle sue mele giungeva fino a Saint Louis. La signora Golyer, con quel pizzico di romanticismo che alberga in ogni cuore di donna, si era particolarmente affezionata al melo che aveva visto piantare poco prima del suo matrimonio. Allen la assecondava, come in tutti i suoi capricci, e lo curava come un bambino. A un certo punto affidò ad altri la cura del frutteto, ma riservò a quella pianta le sue più esclusive premure. Ne dissodava il terreno, lo concimava, lo potava, d'inverno lo preservava dai conigli selvatici, e d'estate dagli insetti nocivi. E i suoi sforzi furono ricompensati. L'albero crebbe bello e forte, e produsse frutti squisiti con una buccia scarlatta che pareva di seta, e una polpa del colore delicatissimo di una conchiglia rosata. Il primo raccolto venne donato a Susie con grandi cerimonie, e l'anno successivo il primo cesto di mele venne portato in omaggio al colonnello Blood, allora deputato al congresso. Egli fu generoso nelle lodi, visto che le elezioni d'autunno si avvicinavano: «Caspita, Golyer, preferire l'onore di un trionfo ortofrutticolo a quello di essere eletto senatore!». «Non c'era che da dirlo, colonnello» rispose Golyer. «Mia moglie e io abbiamo chiamato l'albero con il suo nome fin dal giorno in cui l'ho trapiantato dal suo pascolo. Il melo Blood.» L'albero suscitava l'orgoglio e l'invidia del vicinato. Molti chiesero getti e tentarono innesti, ma non riuscirono a ottenere nulla. «Il fatto è» diceva il vecchio Silas Withers «che chi si aspetta di avere dei buoni frutti con gli innesti, e poi si siede a leggere il giornale, avrà un
bell'aspettare. L'olio di gomito è il segreto delle mele Blood, non è vero, Al?» «Be', io penso, signor Withers, che nessuno ottiene niente di buono senza una dura lotta, ma ai segreti, se devo dir la verità, io non ci credo affatto.» Un uomo posato, risoluto, silenzioso, maturo, amante della sua casa più che di ogni altra distrazione, sempre presente in chiesa e alle elezioni, ogni Natale un po' più ricco di quanto non lo fosse il Capodanno precedente, un uomo benvoluto da tutti e molto amato da pochi, questo era diventato Allen Golyer con il passare degli anni. Se mi sono troppo a lungo soffermato su questo banale quadretto di vita rurale dell'Ovest, è perché ho provato un'istintiva riluttanza a riferire dell'incidente straordinario e del tutto insolito che occorse una notte in quelle tranquille campagne, inaspettato come un fulmine a ciel sereno. La storia che ora racconterò potrà essere recisamente negata e facilmente confutata. È assurda e fantastica ma, a meno che le testimonianze oculari non contino nulla di fronte ai fatti più sorprendenti è certamente vera. In cima al canalone roccioso attraverso cui il torrente Chaney corre verso il fiume, viveva la famiglia che gli aveva dato il nome. I Chaney erano stati fra i primi pionieri della contea. Nella tozza casa di pietra gialla dove abitavano, il nonno dell'attuale Chaney aveva sostenuto l'assedio di Falco Nero per tutta un'estate, giorno e notte, finché non era giunta la guarnigione di Fort Edward a dargli manforte. Ma la famiglia non era cresciuta con il progresso del Paese. Come molti pionieri, i Chaney non riuscirono a tenersi al passo con lo sviluppo della civiltà di cui erano stati l'avanguardia. Nel giro di mezzo secolo vendettero, appezzamento dopo appezzamento, un territorio che, mantenuto integro, avrebbe potuto rendere una fortuna. Conducevano una vita ritirata, lavorando abbastanza da assicurarsi un modesto sostentamento, e considerando con un misto di disprezzo e insofferenza ogni tipo di iniziativa pubblica o privata che venisse condotta sotto i loro occhi. Il maggiore dei Chaney aveva sposato qualche anno prima, nella città mormone di Nauvoo, la bionda figlia di un mistico svedese che aveva attraversato l'oceano allettato dal sogno di una perfetta teocrazia ed era morto, poco dopo il suo arrivo alla città dei Santi degli Ultimi Giorni, con il cuore spezzato dalle illusioni tradite. L'unica dote che Seraphita Neilsen portò allo sposo, oltre alla sua delica-
ta bellezza e ai grandi occhi azzurri, fu una raccolta completa degli ultimi scritti del teosofo Swedemborg tradotti in inglese, che divennero il nutrimento quotidiano della solitaria famiglia. Saul Chaney leggeva per ore e ore le esaltate rapsodie del visionario del Nord, senza che il minimo barlume di cosa significassero gli attraversasse la mente. Ma qualcosa, nel linguaggio maestoso e nel ritmo solenne del loro svolgimento poetico, esercitava su di lui un fascino irresistibile. Il piccolo Gershom, l'unico figlio dei Chaney, ascoltava con la meraviglia dei bambini le strane cose che suo padre, tetro e malinconico, estraeva da quei logori volumi, finché non gli si abbassavano le palpebre sui grandi occhi chiari e sporgenti. Più cresceva e più gli occhi sembravano sporgergli in fuori, e la testa sembrava sempre più grossa rispetto al gracile corpo. Il ragazzo rimuginò su quei volumi meravigliosi fino a conoscerne lunghi brani a memoria, capendone ancora meno di quanto non ne capisse il padre, il che comunque non cambiava nulla. Somigliava a sua madre, ma mentre lei, in gioventù, aveva avuto qualcosa della lieve e luminosa bellezza delle aurore boreali, il povero Gershom non avrebbe potuto suggerire nulla di più radioso di un chiaro di luna nella nebbia. Quando ebbe quindici anni andò a scuola alla vicina Warsaw. Non la passò molto liscia fra i ragazzi di città, tutti uniti fra loro e senza troppi scrupoli, e si sarebbe completamente perso d'animo se non fosse stato per una fortunata coincidenza. Alla pensione dov'era alloggiato era molto in voga un divertimento chiamato il "tavolino parlante". Un gruppo di ragazzini, sovraccarichi del più vario magnetismo animale, con una certa dose di credulità e molta voglia di divertirsi, si riunivano ogni sera intorno a un leggero tavolo di pino e lo sottoponevano a un complicato rituale di ginnastica occulta. Era un tavolino molto disponibile: ballava, saltava o sbatteva come gli veniva ordinato e, se gli esercizi prendevano una piega più intellettuale, rispondeva a ogni domanda che gli venisse rivolta con una sagacia non inferiore all'intelligenza media dei suoi aguzzini. Gershom Chaney prese tutto questo con la massima serietà e ne rimase profondamente impressionato fin dal primo momento. Giaceva a letto sveglio per notti intere, a occhi chiusi, preso dalle più folli fantasticherie. Trascorreva le ore di scuola in uno stato contemplativo prossimo alla trance e tollerava le punizioni corporali con l'indifferenza di un fachiro. Attendeva con ansia il giorno in cui avrebbe potuto comunicare in solitudine con gli spiriti e gli immortali. Così germogliarono i semi caduti nella sua mente infantile, quando arrostiva la sua testolina presso il grande camino della
casa di pietra all'imbocco del canalone, e suo padre leggeva a stento quei libri che parlavano di mondi invisibili. Ma, con sua grande mortificazione, non riuscì mai a vedere nulla, a udire nulla, a provare nulla, se non in compagnia di altri. Doveva affrontare il dileggio dei profani per potersi abbandonare ai rapimenti prediletti dalla sua anima. La sua fede ingenua e fiduciosa fece di lui lo zimbello della combriccola. Non ci volle molto perché quei discoli scoprissero la sua estrema sensibilità a ogni fenomeno strano. Uno dei ragazzi, un certo Thomas Fay, bruno e muscoloso, trovava particolare soddisfazione nell'esercitare le sue arti su di lui. La tavola, sotto le mani tremanti di Gershom, saltellava come un capretto, agli ordini di Fay. Una sera Tom Fay ebbe il suo trionfo. Stavano cercando di fare in modo che il "medium", giacché Gershom era assurto a tale ruolo, rispondesse a certe domande segrete, ma non avevano ottenuto gran che. Fay all'improvviso si avvicinò al tavolo, scribacchiò una frase, piegò il foglietto e lo gettò davanti a Gershom, poi si chinò in avanti, a fissarne il volto pallido ed emaciato con tutta l'energia dei suoi occhi neri. Chaney afferrò convulsamente la matita e scrisse: «Balaam!». Fay scoppiò in una sonora risata e disse: «Ora leggi la domanda». Era: «Chi ha cavalcato sulla groppa di tuo nonno?». Ecco un esempio dell'umorismo di bassa lega e delle innocue cattiverie che il povero Gershom dovette subire per tutto il periodo della scuola. Non si offese mai, ma era spesso penosamente perplesso per l'evidente tradimento dei suoi invisibili consiglieri. Alla fine fu espulso dall'istituto per la sua estrema e incorreggibile indolenza. Accettò questa disgrazia come una corona del martirio e tornò orgoglioso dai suoi comprensivi genitori. A casa, meno esposto a critiche e con fede più incrollabile, rinnovò l'esercizio di quelli che considerava i suoi misteriosi poteri. I digiuni e le veglie, uniti alla mancanza di moto e aria fresca, avevano compromesso la sua salute al punto da renderlo dieci volte più nervoso e sensibile di quanto già non fosse prima. Ma i suoi svenimenti, le crisi isteriche ed epilettiche, furono accolti come prove sempre più evidenti della sua eccelsa missione. Suo padre e sua madre lo ascoltavano come un oracolo, per la semplice ragione che rispondeva sempre quello che si aspettavano. Qualche vicino curioso, o superstizioso, fu ammesso talvolta al loro circolo, e grazie a ciò si diffuse nella zona un certo interesse per la strana famiglia dei Chaney. Fu in un'umida sera di primavera che Allen Golyer, presso il cancello, vide passare Saul Chaney nella luce offuscata del crepuscolo e gli gridò a
mo' di saluto: «Niente di nuovo dagli spiriti, Saul?». «Niente per te, Al Golyer» disse Saul con malumore. «Di quelli come te si occupa già abbastanza il Dio di questo mondo.» Golyer sorrise, come tutti gli uomini agiati quando un vicino più povero ironizza sulla loro buona sorte, e replicò: «Non sono fortunato come credi, Saul Chaney. Proprio ieri ho perso un maiale Barksher. Magari dovrei venire su da te per chiedere a Gershom dov'è finito». «Vieni pure, se ti fa piacere. È da un pezzo che non metti piede in casa mia. Ma sto diventando famoso. Stasera viene il giovane avvocato Marshall a trovare mio figlio.» Prima di partire, Golyer riempì un cesto delle più belle e più rosse mele del suo albero preferito, tanto per rendersi gradito e "pagare il biglietto per lo spettacolo". Sua moglie lo seguì fino al cancello e lo baciò, attenzione piuttosto insolita fra la gente di campagna. Il suo viso, ancora roseo e piacevole, era emozionato e sorridente: «Al, lo sai che giorno è oggi?». «Il diciannove aprile, no?» «Sì, e proprio il diciannove aprile di vent'anni fa, mentre tu piantavi il melo di Blood, io ti ho dato il benservito!» Poi si voltò e rientrò in casa, ridendo di cuore. Allen salì lentamente per il canalone, fino alla casa dei Chaney, diede le mele a Seraphita e le raccontò la loro storia. Si era riunita una piccola compagnia: due o tre persone di Chaney Creek, piccoli agricoltori, con gli occhi scuri come l'uva passa e le mani rosse come il ribes che coltivavano nei loro orti; il signor Marshall, un giovane avvocato senza causa venuto da Warsaw, e un suo amico dalla carnagione scura che sembrava uno spagnolo. «Prendete posto, cari amici, e formate un cerchio di armonia» disse Saul Chaney. «Il medium è nelle migliori condizioni: ha avuto due crisi oggi pomeriggio.» Gershom appariva spaventosamente debole e malato. Sedeva curvo su una grande poltrona di noce americano, con gli occhi semichiusi e le labbra che si muovevano senza alcun suono. Tutti i presenti formarono un cerchio e unirono le mani. Non appena il cerchio fu completato da Saul e Seraphita, che si disposero ai due lati di Gershom, il suo volto pallido fu attraversato da un'espressione dolorosamente perplessa, ed egli cominciò a scrivere e mormorare. «Ha delle visioni» informò Saul. «Sì, troppe» aggiunse Gershom con voce lamentosa. «Un ragazzo su una
barca, un uomo in una cuccetta, e un uomo con una vanga. Tutti insieme. È troppo. Datemi una matita. Uno alla volta, per favore. Uno alla volta!» Il cerchio si ruppe e fu portato un tavolo. Gershom afferrò una matita e disse, con impazienza febbrile e imperiosa: «Forza, non sprechiamo il tempo di coloro che vengono dall'ai di là». Una donna anziana gli prese la mano. Lui scrisse rapidissimo con la sinistra per un istante e poi le gettò il foglio, sempre con gli occhi chiusi. La vecchia signora Schrichter lesse con difficoltà: «Un ragazzo su una barca... La barca si rovescia». Poi si lasciò andare a un commovente lamento: «Oh, povero il mio piccolo Ephraim! L'ho sempre saputo!». «Silenzio, donna!» intimò l'implacabile medium. «Signor Marshall» disse Saul «vuol provare lei?» «No, grazie» rispose il giovane avvocato. «Ho portato il mio amico, il signor Baldassano, che viaggia molto ed è interessato a queste cose.» «Allora prenda la mano del medium, signor... Come si chiama?» Il giovane straniero strinse la mano ossuta e febbricitante di Gershom, e di nuovo la matita volò rapida sul foglio. Poi Gershom spinse via il biglietto e ritirò la mano da quella di Baldassano, che divenne mortalmente pallido nel vedere lo scritto. «Dios mio!» esclamò rivolto a Marshall. «È in castigliano!» I due si ritirarono all'altro capo della stanza per leggere quelle note scarabocchiate alla luce di una candela di sego. Baldassano tradusse: «Un uomo in una cuccetta... vicino a lui un tavolo, coperto di bottiglie... faccia gialla come l'oro... le bottiglie cadono senza essere toccate». «Che diavolo vuol dire?» «Mio fratello morì di febbre gialla in un viaggio per mare, l'anno scorso.» Entrambi i giovanotti si fecero pensierosi e si accinsero a osservare con estremo interesse la "prova" di Golyer. Egli sedette accanto a Gershom, tendendogli stretta la mano, con lo sguardo perso nelle fiamme morenti del grande camino. Sembrava aver dimenticato dove si trovasse: un susseguirsi di pensieri oscuri pareva assorbirlo interamente. Le sue sopracciglia erano unite come per esprimere una severa, quasi feroce, determinazione. Il suo respiro, che all'improvviso si era fatto lento e pesante, un attimo dopo era rapido e interrotto. Tutto questo mentre le dita di Gershom correvano sulla carta, indipendentemente dai suoi occhi, che a volte erano chiusi e a volte strabuzzati come di fronte a un pericolo.
Un vento che si era preparato per tutta la sera salì mugghiando lungo il canalone, facendo sbattere le persiane e gemere i rami degli alberi spogli. La sua voce fredda e lugubre entrò nella stanza polverosa dove il fuoco morente gettava i suoi ultimi barbagli, e gli unici suoni erano lo scricchiolio della matita di Gershom, il bisbiglio di Marshall con il suo amico e il debole lamento della signora Schrichter seduta in un angolo. La scena era sinistra. Improvvisamente una raffica impetuosa spalancò la porta. Golyer balzò in piedi, tutto tremante, e guardò dietro di sé nella notte. Ripresosi, si girò per tornare al suo posto. Ma nel momento in cui aveva lasciato cadere la mano di Gershom, questi aveva abbandonato la matita e si era accasciato sulla poltrona cadendo in un sonno profondo simile alla morte. Golyer prese il foglietto e, non appena ne ebbe letto una riga, subì un'orribile trasformazione. Gli occhi gli schizzarono fuori dalle orbite, presero a battergli i denti, si passava meccanicamente la mano sulla fronte e i capelli gli si rizzarono come setole di un maiale infuriato. La sua faccia era chiazzata di bianco e di roseo. Per un attimo si guardò intorno come smarrito, poi, accartocciando il foglio, gridò con voce roca e soffocata: «Sì, è vero: sono stato io. È inutile negarlo. È tutto scritto qui, nero su bianco. Tutti lo sanno: gli spiriti sono venuti a spifferare tutto. A che serve negare? Sono stato io». Si fermò, come folgorato da un ricordo improvviso, poi scoppiò in lacrime scosso come un albero al vento. Crollò in ginocchio e si trascinò davanti a Marshall: «Ecco, avvocato Marshall, qui c'è scritto tutto. In nome di Dio, faccia il possibile per risparmiare a mia moglie e ai miei figli ogni dispiacere. Sistemi per loro la mia piccola proprietà. Dio gliene sarà grato!». Ma, mentre ancora parlava, con un rapido mutamento di stato d'animo, si alzò in piedi, tornò alla sua abituale compostezza e disse: «Ma non mi prenderanno. Nessuno nella mia famiglia è mai morto così. Ho la pelle dura, non mi farò prendere. Addio, amici!». Uscì deciso nell'infuriare della bufera. Marshall gettò subito lo sguardo sul biglietto fatale che aveva in mano. Era pieno di capricciosi dettagli che ricostruivano in modo sconnesso una scena del passato. Ma qua una riga, là una frase raccontavano la storia in modo abbastanza chiaro: come lui fosse uscito a piantare l'albero di mele, come Susie fosse passata di lì e lo avesse respinto, come il Demonio avesse preso possesso di lui, come Bertie Leon si fosse fermato a parlare con lui, gli avesse dato una pacca sulla spalla e gli avesse raccontato della vita di città, come lui l'avesse odiato, con quei vestiti e quella faccia da sedutto-
re, come si fossero presi a male parole e fossero venuti alle mani, come lui l'avesse colpito con la vanga e come l'altro fosse caduto nella buca per essere poi seppellito alle radici del melo. Marshall, d'impulso, gettò il foglio sulle braci quasi spente. Avvampò per un istante e volò su per il camino con un suono simile a un singhiozzo. Andarono in cerca di Golyer per tutta la notte, ma al mattino lo trovarono disteso, come addormentato, con il volto pallido acquietato dall'espiazione e la roncola piantata nel cuore. Il rosso fluido della sua vita tingeva di porpora l'erba ai piedi del melo di Blood. Titolo originale: The Blood Seedling Postilla Un altro modo di negare la morte consiste nel supporre che la personalità contenuta nel corpo - lo spirito - rimanga in vita senza trasmigrare in un altro corpo e senza andare in paradiso o all'inferno, ma semplicemente passando a un altro piano dell'esistenza (piano che noi comuni mortali non possiamo percepire). Vi sarebbe dunque un "mondo degli spiriti" coesistente con il nostro mondo materiale. Questa credenza si chiama "spiritismo". Alcune persone sarebbero in grado di entrare in contatto con il mondo degli spiriti e fungere da ponte fra il nostro mondo e il loro. Temporaneamente, per lo meno, queste persone verrebbero a trovarsi, per così dire, a metà fra i due mondi. Sono dei mediatori e per questo sono chiamati "medium". Il contatto di solito avviene quando il medium siede con un gruppo di persone intorno a un tavolo. Tutti uniscono le mani mentre il medium cade in stato di trance. Questo tipo di incontro è chiamato "seduta spiritica". Lo spiritismo esercita un fascino particolare su coloro che, avendo perduto una persona cara, desiderano disperatamente credere che sia ancora in vita, che stia bene e che si possa entrare in contatto con essa, udendone la voce e ricevendone rassicurazioni sulla sua felicità. Per questa ragione molti personaggi famosi del passato credettero nello spiritismo. Tuttavia, poiché i medium si sono quasi sempre rivelati degli impostori e l'esistenza degli spiriti none mai stata provata, possiamo soltanto concluderne che molti grandi personaggi del passato furono vittime di una superstizione senza fondamento. I.A.
CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Agatha Christie, "Il segnale rosso" ("The Red Signal"), in Il segugio della morte, Oscar Mondadori, Milano 1983. Katharine Fullerton Gerould, "Belshazzar's Letter", in Valiant Dust, Scribners, New York 1922. Joseph Hergesheimer, "The Meeker Ritual", in «Century Magazine», n. 98, giugno 1919. Alice Mary Schnirring, "The Dear Departed", in Who Knocks? Twenty Masterpieces of The Spectral for the Conoisseur, a cura di August Derleth, Rinehart, New York 1946. Jesse Stuart, "Red Jacket: the Knocking Spirit", in Head o' W-Hollow, University of Kentucky Press, Lexington, Kent 1979. Il corpo astrale IL CERCATORE DI PERSONE SCOMPARSE E IL SIGILLO DI SALOMONE di Robert W. Chambers Capitolo 1. Il caso Il giovane Harren estrasse un cartoncino dalla tasca. Era il biglietto da visita della Keen & Co. Con un'occhiata al signor Keen, lo lesse ad alta voce, parola per parola: KEEN & CO. RICERCA DI PERSONE SCOMPARSE La Keen & Co. è in grado di localizzare chiunque in qualunque punto del globo. Non è previsto alcun pagamento finché la persona scomparsa non viene ritrovata. Moduli su richiesta Direttore: WESTREL KEEN Harren alzò i chiari occhi grigi. «Posso fidarmi di quanto c'è scritto qui,
vero signor Keen?» «Certo, può stare tranquillo» disse il signor Keen, sorridendo. «Ciò significa che non vi assumete la responsabilità di incarichi d'altro tipo?» L'investigatore lo squadrò con freddezza. «Che cosa intende dire, capitano? Io mi impegno a ritrovare persone scomparse. Sono addirittura in grado di scovare le dolci metà di giovani che non sono riusciti a trovarsele da soli. Che altro tipo di incarico suggerirebbe?» Harren gettò uno sguardo al cartoncino che teneva fra le dita guantate; poi, molto lentamente, rilesse: "In qualunque punto del globo" insistendo sulle ultime due parole, quindi tornò a incontrare gli occhi penetranti di Keen. «E allora?» chiese il signor Keen con indulgenza. «Non le sembra abbastanza? I nostri clienti non possono certo aspettarsi che invadiamo il cielo in cerca di defunti.» «Eppure esistono anche altre regioni» disse Harren. «Esatto. La pregherei soltanto di attendere qualche minuto. Là c'è una piccola biblioteca a sua disposizione, se vuole passare il tempo. Si serva pure, mentre io sbrigo qualche faccenda. Sarò subito da lei.» Harren rimase per qualche attimo a rigirarsi il biglietto fra le dita, con gli occhi grigi persi in qualche ricordo, poi si avviò a passi lenti verso gli scaffali e si mise a leggere i titoli dei libri. L'investigatore lo osservò per un istante, si voltò e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza. Infine premette un pulsante. Al suono del campanello comparve una ragazza dal viso dolce, con un grembiule nero, il collettino bianco e i polsini rimboccati a scoprire i polsi. «Scriva questo promemoria» disse Keen. La ragazza prese una matita e un blocco per appunti. Il direttore, sempre camminando su e giù, dettava con voce tranquilla. «Il figlio della signora Reagan sta scontando sei mesi a Butte, nel Montana. Glielo faccia sapere con la massima delicatezza. È un caso spiacevole. Non mandi la parcella. Becker, il carrettiere, può trovare sua moglie a casa della suocera, a Leonia, New Jersey. Gli dica di fare meno il cretino, se non vuole che un giorno o l'altro se ne vada sul serio. Dieci dollari. La signora M., n. 3601, ritroverà il suo maggiordomo al 79 di Vine Street, Hartford, Connecticut, dove ora presta servizio. Può sporgere denuncia alla polizia se lo desidera. Il ritratto che cerca è alla Rogues Gallery, numero di catalogo: 170529. Cinquecento dollari. La signorina K., n. 3679, può mandare la sua lettera presso la Cisneros & co, a Rio, dove la persona in que-
stione sta lavorando nel commercio del caffè. Se decide di amarlo veramente, lui non avrà problemi a tornare. Duecentocinquanta dollari. Il signor W., n. 3620, dovrà rivolgersi all'obitorio per ulteriori informazioni. Si è pentito troppo tardi, ma può almeno provvedere a un funerale dignitoso. Onorario: mille dollari da devolvere alla Florence Mission. Può aggiungere che abbiamo un intero dossier su di lui.» L'investigatore tacque, e attese che la stenografa avesse finito di scrivere. Quando lei alzò gli occhi, le chiese: «Chi altro è rimasto?». La ragazza lesse una serie di iniziali e di numeri. «Dica a quel poliziotto che Kid Conroy si imbarca domani sul Carania. Cinquanta dollari. Per gli altri casi, non ho ancora niente di definitivo. Registri il tutto e diffonda un allarme generale per quanto riguarda il cassiere del n. 3608. Troverà i dati nel volume 34, alla lettera B.» «È tutto, signor Keen?» «Sì. Fino a domani sarò molto occupato con questo signore» la informò, voltandosi lentamente verso Harren. «Il capitano Harren, della Guarnigione filippina. Un caso molto complicato, signorina Borrow, che ci porterà a occuparci di codici cifrati e fotografia.» Harren si riscosse bruscamente e tornò al centro della stanza, mentre la graziosa stenografa gli passava accanto gettandogli di sbieco uno strano sguardo. «Perché ha parlato di fotografia in relazione al mio caos?» «Non è così, forse?» «Sì, ma come...» «Oh, è soltanto una supposizione» disse Keen con un sorriso. «Ho anche immaginato che il suo caso comporti la decifrazione di un codice. Mi sbaglio?» «N-no» disse il giovane, sbalordito «ma non vedo come...» «E poi c'è anche la questione del'occultismo» aggiunse Keen tranquillo. «Potremmo aver bisogno della signorina Borrow, lei ci sarebbe d'aiuto.» Sbalordito, Harren fissò l'investigatore con gli occhi spalancati. Questi scoppiò in una sonora risata, si sedette e invitò Harren a fare altrettanto. «Non si stupisca, capitano Harren» disse. «Forse lei non ha alcuna idea di come funzioni il nostro mestiere, di quanto si estendano i mezzi a nostra disposizione: la rete di agenzie informative sparse in tutto il mondo civile, la miriade di fonti, la potenza della strumentazione sempre più sofisticata, l'infinità e la minuziosità dei dati cui abbiamo accesso. Lei, naturalmente, non può avere idea del numero di persone di ogni tipo e condizione che la-
vorano per noi, e dell'incessante seppure inoffensiva sorveglianza che noi esercitiamo. Ad esempio, quando arrivò la sua lettera, la settimana scorsa, telefonai immediatamente alla persona che controlla le liste di tutti gli uomini arruolati nell'esercito. Lei vi compariva: Kenneth Harren, capitano, Guarnigione delle Filippine, con la data del suo diploma a West Point. Poi chiamai un certo dipartimento che si occupa dei dati personali, e in cinque minuti conobbi tutta la sua storia. Quindi premetti un altro pulsante, e in un minuto ebbi davanti a me la data del suo arrivo a New York, il suo indirizzo attuale...» A questo punto rivolse ad Harren uno sguardo enigmatico «oltre ad alcuni ragguagli generali, come il suo bizzarro uso della macchina fotografica, e la lista dei libri su fenomeni fisici e crittogrammi da lei acquistati negli ultimi tempi.» Harren si fece paonazzo. «Intende dire che sono stato spiato, signor Keen?» «Non più di tutti coloro che si sono rivolti a noi in qualità di clienti. Mi creda, non vi è stato nulla di offensivo nella nostra sorveglianza.» Alzò le spalle come infastidito. «Il nostro è un lavoro come qualunque altro, mio caro signore. Dobbiamo pur sapere chi si rivolge a noi. La settimana scorsa lei mi ha scritto e io ho messo in moto la macchina. In altre parole, l'ho tenuta sotto osservazione dal giorno in cui ho ricevuto la sua lettera fino a ora.» «Lei pensa di sapere molte cose su di me?» chiese Harren a bassa voce. «Certo, caro signore.» «Eppure» continuò Harren, con una sfumatura di malignità «non sapeva che la mia licenza dura solo fino a domani.» «Sì, sapevo anche questo.» «E allora perché inizialmente voleva darmi un appuntamento per dopodomani?» domandò il giovane sfacciatamente. L'investigatore lo guardò dritto negli occhi. «La sua licenza sarà prolungata» disse. «Cosa?» «Certo. È stata prolungata di una settimana.» «E lei come lo sa?» «Ha inoltrato lei stesso una domanda di proroga, no?» «Sì» disse Harren, arrossendo «ma non vedo come lei possa sapere che ho...» «A mezzo telegrafo?» «S-sì.»
«In questo preciso momento un cablogramma la attende nella sua stanza» disse l'investigatore con tono distaccato. «Ha ottenuto la proroga che desiderava. E ora, capitano Harren» aggiunse, con un sorriso particolarmente cortese «che cosa posso fare per aiutarla a raggiungere l'autentica felicità garantita a ogni buon cittadino dalla nostra Costituzione?» Il capitano Harren accavallò le lunghe gambe e osservò con calma il suo interlocutore. «In realtà io non ho motivo di rivolgermi a lei» cominciò lentamente. «Il vostro biglietto dice a chiare lettere che la Keen & Co si impegna a ritrovare soltanto persone vive, e io non so se la persona che sto cercando sia viva o... o...» La sua voce ferma si incrinò; l'investigatore lo guardò con aria interrogativa. «Certo, questo è un aspetto importante della questione» disse. «Se lei fosse morta...» «Lei?» «Non l'ha forse detto lei stesso, capitano?» «No, affatto.» «Allora le chiedo scusa per aver anticipato le sue parole» replicò l'investigatore tranquillamente. «Anticipato cosa? Come fa lei a sapere che la persona che sto cercando non è un uomo?» domandò Harren. «Capitano, lei è scapolo e non ha figli; non ha padre, né fratelli o sorelle. Da ciò posso dedurre varie cose... Che lei è innamorato, ad esempio.» «Io? Innamorato?» «Disperatamente, capitano.» «Mi fa piacere che le sue deduzioni la soddisfino» rispose Harren quasi in malo modo «purtroppo non soddisfano me, anche se devo riconoscere che sono molto brillanti.» «Benissimo. Allora lei non è innamorato?» «Non lo so.» «Io sì, invece» disse l'investigatore. «Vuol dire che ne sa più di me» ribatté Harren, tagliente. «Infatti saperne più di lei fa parte del mio lavoro» concluse il signor Keen, con pazienza. «Se no, perché dovrebbe consultarmi?» E visto che Harren non diceva nulla, continuò: «Ho visto migliaia e migliaia di persone innamorate. Ho ricondotto i fenomeni muscolari superficiali e gli aspetti sintomatici del volto a una scienza esatta fondata su uno schema simile
al sistema antropometrico di Bertillon. E» aggiunse con un sorriso «su ventisette variazioni sonore della voce, la sua ne tradisce venticinque che sono sintomi inequivocabili; dei sedici riflessi muscolari conosciuti, lei ne mostra sei nel viso, tre nelle mani, sei nelle gambe e nei piedi. Poi ci sono altri sintomi superficiali...». «Buon Dio!» lo interruppe Harren «come si fa a provare che uno è innamorato se nemmeno lui lo sa? Se un uomo non è innamorato nessun sistema Bertillon potrà mai farlo innamorare. E se nemmeno l'interessato sa di esserlo, chi mai può dirgli la verità?» «Io posso dirgliela.» «Ma come! Se le assicuro che non lo so nemmeno io!» «Appunto questo è il sintomo conclusivo. Lei non lo sa. E io so perché lei non lo sa. Questo è il modo più semplice per capire che lei è innamorato, capitano Harren, perché chi non è sicuro di esserlo lo è sempre. Se lei non fosse innamorato, ne sarebbe più che sicuro. Ma adesso, mio caro signore, mi esponga con fiducia il suo problema.» Harren, ancora perplesso, rimase accigliato a mordersi le labbra e a torcersi il corto baffo arricciato che il sole tropicale aveva reso color della paglia. «Mi sento uno stupido a parlargliene» disse. «Io non sono uno che si lascia andare facilmente alle fantasie, signor Keen. Non sono un sognatore, un romantico. Sono perfettamente sano, perfettamente normale, mi impegno moltissimo nella mia professione e non ho tempo, né inclinazione, per gli affari di cuore.» «Proprio il tipo d'uomo che s'innamora» commentò Keen. «Continui.» Harren si agitò un poco sulla sedia, guardò fuori dalla finestra, gettò un'occhiata al soffitto, poi si raddrizzò incrociando le braccia, finalmente deciso. «Non mi piace affatto parlarne. Preferirei essere impalato, piuttosto» disse. «Forse, in fondo, sono pazzo; forse ho preso un colpo di sole sull'isola di Luzon, e non me ne sono accorto.» «Saprò rendermene conto» disse l'investigatore, sorridendo. «Va bene. Comincerò con il dirle che ho visto un fantasma.» «A volte capita» osservò Keen senza scomporsi. «Oh, non una di quelle creature con il lenzuolo, di cui si dice si aggirino di notte svolazzando. Parlo di un fantasma, un vero fantasma, alla luce del sole, proprio davanti a me, in pieno giorno...! Si sente ancora propenso a occuparsi del mio caso, signor Keen?»
«Certamente» rispose l'investigatore con serietà. «La prego di continuare, capitano Harren.» «Benissimo. Ecco come cominciò. Un pomeriggio di tre anni fa, qui a New York, mentre seguivo la corrente della folla lungo la Quinta Strada, alzai lo sguardo e incontrai gli occhi più belli che avessi mai visto, che qualunque uomo avesse visto! I più... meravigliosamente belli...» Rimase assorto così a lungo nel suo ricordo, che l'investigatore dovette intervenire: «La sto ascoltando, capitano» e il giovane si scosse con un sussulto. «Che cosa stavo dicendo? Dov'ero arrivato?» «Eravamo rimasti agli occhi.» «Ah, già. Erano occhi scuri, signore, scuri e adorabili al di là di ogni immaginazione. Anche i capelli erano scuri, molto morbidi e folti e... come dire? Ondulati e scuri. Il viso era di una giovinezza e di una grazia tali da giungere all'estremo limite della bellezza, una bellezza così squisita che se tentassi di descriverne le singole attrattive finirei per venir meno ai confini imposti dalla discrezione a un gentiluomo nel pieno possesso delle sue facoltà.» «Esattamente» disse fra sé l'investigatore. «Inoltre» continuò il capitano Harren con crescente animazione «sarebbe del tutto inutile cercare di descrivere il suo aspetto, perché io sono un uomo d'azione, non un poeta, non leggo versi e non spreco il mio tempo con inutili romanzi o libri sentimentali di sorta. Quindi posso soltanto aggiungere che aveva un fisico, un portamento assolutamente perfetto, giovane, grazioso, diritto, sano, gentile, aggraziato, sereno e... Be', non sono capace di descrivere il suo aspetto, e non ci proverò.» «Esatto. Non ci provi.» «No» disse Harren tristemente «è inutile» e si abbandonò di nuovo ai suoi ricordi. «Chi era?» chiese il signor Keen con delicatezza. «Non lo so.» «Non l'ha più rivista?» «Signor Keen, io... io ho ricevuto una buona educazione, ma devo ammettere che non potei fare a meno di seguirla. Era così bella da far male, e io volevo soltanto guardarla: non mi importava di soffrire. Così continuai a camminare, a camminare, qualche volta la superavo, qualche volta lasciavo che fosse lei a superare me e quando non guardava dalla mia parte la guardavo, certo non in modo offensivo, e soltanto perché non potevo farne
a meno. Per tutto il tempo la mia mente ribolliva e il cuore continuava a balzarmi in petto come per arrivarmi in gola, e non sapevo assolutamente dove stessi andando, che ora fosse o quale giorno. Lei non mi vedeva, non immaginava neppure che io la stessi osservando, non mi distinse fra i mille altri uomini in redingote e cappello a cilindro che passavano e ripassavano accanto a lei sulla Quinta Strada. Quando entrò nella chiesa di San Bertoldo vi entrai anch'io e rimasi in un angolo da dove potessi guardarla senza essere visto. Era come un colpo di sole sull'isola di Luzon, signor Keen. Poi lei uscì e salì su un omnibus. Vi salii anch'io. E ogni volta che distoglieva lo sguardo la osservavo, senza la minima intenzione oltraggiosa, signor Keen, finché lei non incrociò i miei occhi.» Si passò una mano tremante sulla fronte. «Per un attimo ci guardammo, direttamente negli occhi» continuò. «Arrossii e me ne accorsi, ma non riuscii a staccare lo sguardo da lei. E quando fui del colore di una barbabietola matura, lei cominciò a farsi rosea come un bocciolo, sempre guardandomi negli occhi con una purezza così meravigliosa, un'innocenza così squisita che... che mai in vita mia m'ero sentito così vicino... vicino al paradiso! No, signore, nemmeno quando ci tesero un'imboscata presso Manoa. Ma quella è un'altra cosa. Fa parte del servizio.» Strinse le mani intrecciate intorno al ginocchio finché le nocche non gli si fecero bianche. «Ecco la mia storia, signor Keen» concluse in tono asciutto. «Sicuro che sia tutto?» Harren guardò il pavimento, poi disse a Keen: «No, certo. Ma lei mi crederebbe completamente pazzo se le raccontassi il resto». «Allora l'ha rivista.» «M-mai! Cioè...» «Proprio mai?» «Non... Non in carne e ossa.» «In sogno, dunque?» Harren appariva a disagio. «Non saprei come dire. Da allora l'ho vista molte volte, in pieno sole, all'aperto, nei miei alloggiamenti a Manila, in piedi davanti a me, perfettamente reale, che mi guardava con quei suoi occhi strani e bellissimi...» «Vada avanti» disse l'investigatore, annuendo. «Che altro c'è da dire?» mormorò Harren. «Dunque l'ha vista, o ha visto un fantasma che le somigliava. Le rivolse
la parola?» «No.» «E lei, ha mai cercato di parlarle?» «N-no. Una volta ho allungato le... le braccia.» «E che cos'è successo?» «Non c'era» rispose Harren, semplicemente. «È svanita?» «No. Non so. Non... non la vedevo più.» «Ma non è scomparsa a poco a poco?» «No. Non so spiegarlo. Lei... C'ero solo io nella stanza.» «Quante volte le è apparsa?» «Moltissime volte.» «Nella sua stanza?» «Sì. E su una strada sotto il sole a picco, e nella foresta, e nelle risaie. La vidi attraversare l'ingresso in casa di un amico, salire la scala e girarsi a guardarmi! La vidi proprio dietro la linea del fuoco, a Manoa, quando stavamo per attaccare il forte, mi spaventai tanto che cercai di tirarla in salvo. Ma lei non era lì. Signor Keen... «Me la trovai davanti sul ponte della nave, in una sera di luna, per ben cinque minuti. La vidi a San Francisco. La vidi seduta due volte nel vagone che mi portava da Denver a Frisco. E poi, nella mia camera al ViceRegent, sedette di fronte a me a mezzogiorno, così nitida, così bella, così reale che... che io non potevo crederci, non potevo credere che fosse solo... solo...» esitò. «L'apparizione del suo "Io" subconscio» disse l'investigatore tranquillamente. «La scienza è ormai costretta ad ammettere questi fenomeni e, come lei sa, stiamo per penetrare il funzionamento di forze sconosciute che un giorno o l'altro dovremo tenere in debita considerazione.» Harren, teso, piuttosto pallido, lo fissò molto serio. «Lei crede a queste cose?» «Come potrei non crederci?» disse l'investigatore. «Ogni giorno, in una professione come la mia, appare evidente l'esistenza di forze per le quali non possediamo ancora una spiegazione o, quando va bene, ne possediamo una assai grossolana. Ho conosciuto da vicino moltissimi casi di premonizione, di sdoppiamento e addirittura di moltiplicazione della personalità; casi in cui le apparizioni avevano un ruolo importante nell'intreccio che dovevo districare. Posso dirle questo, capitano: io personalmente non ho mai visto un'apparizione, non sono mai stato ossessionato da premonizioni,
né ho mai ricevuto comunicazioni dall'aldilà. Ma ho avuto a che fare con persone che indubbiamente hanno sperimentato questi fenomeni. Quindi sono preparato ad ascoltare con la massima serietà e con il massimo rispetto tutto quel che ha da dirmi.» «Anche se le dicessi» azzardò Harren, diventando improvvisamente rosso «che sono riuscito a fotografare il fantasma?» L'investigatore rimase in silenzio. Era sbalordito, ma non lo dette a vedere. «Lei ha conservato quella fotografia, capitano Harren?» «Sì.» «Dov'è?» «Nel mio appartamento.» «Potrei vederla?» Harren esitò. «Io... ecco... quella fotografia ha qualcosa... qualcosa di sacro, per me. Lei mi capisce, non è vero? Ma se questo potesse servire a ritrovarla...» «Ma allora» disse l'investigatore, sinceramente stupito «lei desidera ritrovare la signorina. Perché?» Harren sbarrò gli occhi. «Perché? Perché voglio trovarla? Ma perché io... io non posso vivere senza di lei!» «Mi pareva che lei non fosse certo dei suoi sentimenti.» Un colore acceso salì dalle guance abbronzate del capitano fino all'attaccatura dei capelli. «Proprio come le dicevo» concluse trionfante il signor Keen, guardando fuori dalla finestra. «Allora, che ne direbbe se passassi da lei dopo pranzo? Le dispiace?» Harren raccolse il cappello e i guanti, esitando, attardandosi sulla soglia. «Lei crede che sia... che sia... morta?» «No» disse Keen «non credo.» «Perché» aggiunse Harren assorto «la sua apparizione sembra sempre così sana, così traboccante di gioventù e bellezza...» «Forse proprio grazie a questo ha attraversato mezzo mondo per incontrarla» disse pensoso l'investigatore. «Gioventù e bellezza irradiano energia spirituale. È probabile, capitano, che anche la signorina abbia visto lei, in questi tre anni. Forse soltanto in sogno... Il subconscio della ragazza dev'essere andato a cercarla, attraversando continenti e oceani, senza che da sveglia lei ne avesse la minima consapevolezza.» Il capitano arrossì di nuovo come uno scolaretto, dondolandosi sulla por-
ta, con il cappello in mano, Poi si raddrizzò, in tutta la sua ragguardevole statura. «Alle tre?» si informò in tono neutro. «Alle tre in punto al suo appartamento, Hotel Vice-Regent. Arrivederla, capitano.» «Arrivederla» disse Harren trasognato, e se ne andò, a testa bassa, con gli occhi grigi persi nei ricordi e un tocco di colore sul bel volto abbronzato che gli donava decisamente. Capitolo 2. Il codice cifrato Quando il cercatore di persone scomparse entrò nell'appartamento del giovane capitano Harren all'Hotel Vice-Regent, lo trovò seduto a un tavolo in mezzo al soggiorno, con una matita in mano, a studiare un foglio coperto di lettere e cifre. I due uomini si guardarono per un attimo in silenzio, poi Harren indicò con malumore la confusione di lettere e segni che copriva decine di fogli sparsi sul tavolo. «Anche questo fa parte della mia follia» disse, con un risolino. «Riesce a capirci qualcosa?» L'investigatore prese un foglio coperto di lettere e numeri, sia arabi che romani. Poi lo lasciò cadere e ne sollevò uno dall'aspetto relativamente più semplice, su cui apparivano i seguenti segni:
Lo esaminò per un po', quindi si rivolse ad Harren con aria interrogativa. «Niente da fare» disse Harren. «Sono tre anni che mi muovo a tentoni, ma è tutto inutile. È un lavoro da pazzi.» Si alzò guardando dritto negli occhi l'investigatore. «Lei non pensa che abbia preso un colpo di sole, vero?» «No» disse il signor Keen, avvicinando una sedia. «Uomini ben più savi di lei hanno speso una vita su questo famoso sigillo di Salomone.» Posò un dito sui due simboli.
Poi, guardando Harren: «Che cosa c'entra il sigillo di Salomone con il suo caso?». «Lei...» Harren cominciò, ma poi tacque. L'investigatore attese; Harren non disse nulla. «Dov'è la fotografia?» Harren tirò fuori una chiave e aprì un cassetto del tavolo, esitò e guardò il suo ospite in modo strano. «Signor Keen» disse «non c'è nulla di più sacro per me sulla terra. Una sola ragione al mondo può giustificare che io la mostri ad anima viva. Il mio... Il mio desiderio di trovarla.» «No» replicò Keen con sicurezza. «Il mero desiderio non è una ragione sufficiente. L'unica giustificazione accettabile è l'amore.» Harren trattenne la fotografia, continuando a fissare il suo interlocutore negli occhi. Poi un'ondata di rossore gli colorò la fronte, ed egli posò l'immagine sul tavolo. «Quando è stata scattata?» domandò l'investigatore senza scomporsi. «Il giorno dopo il mio arrivo a New York. Mi trovavo in questa stanza, solo. Stavo fumando la pipa e dando una scorsa al giornale, nell'attesa di cambiarmi d'abito per la cena. A un certo punto cominciò a farsi buio: non avevo acceso la luce. La macchina fotografica era qui sul tavolo, eccola: una Kodak. Avevo fatto qualche fotografia in viaggio, e mi restava uno scatto.» Si appoggiò sul gomito con maggiore abbandono, lo sguardo perso nella contemplazione dell'immagine. «Era quasi buio» ripeté. «Posai il giornale e mi alzai dalla poltrona, pensando di andarmi a preparare. Ma mi cadde l'occhio sulla macchina fotografica. Mi venne in mente che potevo scaricarla, anche perdendo l'ultima fotografia, per mandare il rullino a sviluppare. Così presi la macchina...» «Sì» lo incoraggiò l'investigatore quasi sottovoce. «La presi e inquadrai la finestra, dove c'era ancora abbastanza luce e...» L'investigatore annuì lievemente. «E la vidi!» disse Harren quasi senza fiato. «Dove?» «Là, davanti alla finestra. La finestra e la tenda si vedono nella fotografia.» L'investigatore osservò attentamente l'immagine. «Lei mi guardava» disse Harren, con voce più calma. «Era reale quanto
lei e me e se ne stava lì, in piedi, accennando un sorriso, con i suoi meravigliosi occhi neri.» «Cercò di parlarle?» «No.» «Per quanto tempo rimase lì?» «Non lo so. Il tempo sembrava essersi fermato. Tutto divenne... immobile. Poi, a poco a poco, qualcosa cominciò ad agitarsi nella mia mente paralizzata dallo stupore, un senso di sospetto, lo spaventoso dubbio di essere impazzito... Non avevo idea di che cosa stessi facendo quando premetti l'otturatore; oltretutto si era fatto buio, e potevo appena distinguerla, ormai.» Si raddrizzò sulla sedia con un movimento nervoso. «Com'è possibile che l'abbia fotografata, al buio?» domandò. «Raggi N» disse l'investigatore in tutta tranquillità, «È stato sperimentato in Francia.» «Sì, con persone vive, ma...» «I raggi N emanati da un organismo vivente possono essere considerati analoghi, in mancanza di conoscenze più approfondite, alla sub-aura di un fantasma.» Si chinarono entrambi sulla fotografia. Alla fine l'investigatore domandò: «È veramente così bella?». «È bella o no?» ripeté l'investigatore, girandosi verso il giovane. Le labbra asciutte di Harren si aprirono, ma non ne uscì alcun suono. «Non lo vede da sé?» «No» disse l'investigatore. Harren lo guardò stupefatto. «Capitano Harren» continuò l'investigatore «io non vedo nulla, su questo pezzo di carta, che assomigli lontanamente a una figura umana.» Il volto di Harren sbiancò. «Non dubito che lei possa vederla» proseguì conciliante. «Ripeto soltanto che io non vedo assolutamente niente in questa fotografia eccetto parte di una tenda, il vetro di una finestra, e... e...» «Che cosa? Lo dica, in nome di Dio!» esclamò Harren, alzando la voce. «Non lo so ancora. Aspetti, mi lasci guardare meglio.» «Ma come fa a non vedere il suo viso, i suoi occhi? Non vede la grazia squisita della sua figura snella, lì, accanto alla tenda?» chiese Harren, avvicinando l'indice tremante alla fotografia. «Perbacco! È evidentissima, nitida e a fuoco, come se fosse stata ripresa in piena luce! Intende dire che non si vede proprio nulla? Che sono pazzo?»
«No. Aspetti.» «Aspettare! Ma come posso aspettare mentre lei se ne sta lì a guardare la mia fotografia dicendomi che non riesce a vederla? E poi ha il coraggio di affermare che non dubita di me. Mi sta prendendo in giro, signor Keen? O sta solo cercando di assecondarmi, di essere conciliante, visto che sono pazzo?» «Abbia pazienza, insomma! Lei non è più pazzo di quanto lo sia io. Le dico che vedo qualcosa sul vetro di quella finestra.» Scattò in piedi all'improvviso e si avvicinò alla finestra, curvandosi per esaminare il vetro. Harren lo seguì e vi posò la mano. «Vede dei segni, per caso?» Harren scosse la testa. «Ha una lente d'ingrandimento?» chiese l'investigatore. Harren, voltandosi, indicò il tavolo. I due tornarono alla fotografia, e l'investigatore vi si chinò sopra per osservarla con la lente. «Vedo soltanto» disse, mentre ancora esaminava l'immagine «l'angolo di una tenda e una finestra su cui sembra siano state incise delle cifre... Guardi, capitano, le vede anche lei?» «Vedo dei segni. Come dei quadratini.» «Non le pare di vedere qualcosa scritto sul vetro, come fosse inciso con una punta di diamante?» «Non in modo preciso.» «La ragazza, invece, la vede.» «Perfettamente.» «Nei minimi dettagli?» «Sì.» L'investigatore rifletté per un attimo: «Porta un anello?». «Sì, non lo vede?» «Me lo disegni.» Sedettero l'uno accanto all'altro, e Harren tracciò uno schizzo approssimativo dell'anello, secondo lui visibilissimo nella fotografia:
«Sorprendente» osservò l'investigatore. «L'anello è decorato con il sigillo di Salomone.» Harren lo guardò. «Questo simbolo mi ossessiona da tre anni» disse. «Lo trovo dappertutto: sui più svariati oggetti che mi capita di comprare,
su mobili, cinture di nemici catturati, impugnature di armi, fumaioli di bastimenti, finimenti di cavalli. Se una lavandaia cuce un segno di riconoscimento sulla mia biancheria, è certamente questo!»
«Se compro una scatola di fiammiferi ce lo ritrovo sopra. L'ho visto addirittura sulle elitre iridescenti di certi insetti tropicali! Non ne posso più. Lo sogno di notte.» «E intanto compra dei libri che ne parlano e cerca di studiarne il significato occulto?» suggerì l'investigatore, con ironia. Ma gli occhi grigi di Harren rimasero seri. Disse: «Lei non compare mai senza che questo simbolo sia in qualche modo presente. Le ho detto che non mi ha mai rivolto la parola. È vero, eppure una volta, in un sogno particolarmente vivido, lei parlò. Io... provavo un certo ritegno a dirglielo.» «Mi dica.» «Un sogno? Lei vuol sapere che cos'ho sognato?» «Sì. Ammesso che sia stato un sogno.» «Lo era. Dormivo sul ponte del Mindinao, esausto dopo una marcia infruttuosa. Sognai che lei veniva verso di me attraverso un boschetto tutto illuminato dal sole, e fra le mani reggeva fasci di quei fiori selvatici che vengono chiamati Sigilli di Salomone. Disse, con una voce che era sicuramente la sua: "Se solo tu potessi leggere! Se solo potessi capire il mio messaggio! Lo trovi ovunque, devi solo leggerlo!". «Allora io le chiesi: "Ha a che fare con il sigillo? È quella la chiave?". «Lei annuì, ridendo, affondando il viso fra i fiori, e aggiunse: "Forse riuscirò a scrivertelo più chiaramente un giorno. Ci proverò, te lo prometto". «E poi se ne andò via, ma non di colpo. La vidi allontanarsi attraverso il boschetto, ma poi la confusi con i raggi obliqui del sole. In poco tempo il boschetto si fece buio e io mi svegliai con il frastuono di una colt automatica negli orecchi.» Si passò sulla fronte la mano abbronzata, esitò, poi si chinò ancora una volta sulla fotografia che l'investigatore stava scrutando con la lente. «Su quel vetro c'è qualcosa che vorrei copiare» disse infine il signor Keen. «Per favore, mi passi carta e matita.» Sempre intento a esaminare la fotografia attraverso la lente che teneva con la destra, prese la matita con la sinistra e cominciò a tracciare, senza guardare il foglio, la seguente serie di simboli:
«Che cosa diamine sta facendo?» mormorò il capitano Harren, torcendosi il baffo con perplessità. «Sto copiando quello che vedo scritto sul vetro» disse l'investigatore. «Non vede anche lei questi segni?» «Sì, ora sì. Non ci avevo fatto troppo caso prima, mi sembravano solo dei graffi.» Quando finalmente ebbe terminato il suo lavoro, l'investigatore rimase a esaminare il foglio in silenzio, con il mento appoggiato sul palmo della mano. Infine si girò verso Harren, sorridendo. «Allora?» chiese il giovane con impazienza «questi graffi a forma di sigillo di Salomone significano qualcosa?» «È il più strano codice cifrato che mi sia mai capitato» disse il signor Keen. «Il più strano di cui abbia mai sentito parlare. Ho visto centinaia di codici, centinaia: cifrati segreti del Dipartimento di Stato, codici militari, elaborate crittografie orientali, simboli usati nelle transazioni commerciali, segni convenzionali usati da criminali e malfattori di ogni specie. E non ce n'è uno che non possa essere risolto con tempo, pazienza e qualche conoscenza dell'argomento. Ma questo...» rimase a guardarlo con gli occhi socchiusi. «Questo è troppo semplice.» «Semplice?» «Certo. Così semplice da essere sconcertante.» «Intende dire che riuscirà a trarre un significato da tutti quei quadrati e quelle croci?» «Be', non credo sia molto difficile decifrarlo.» «Per mille cannoni!» disse il capitano. «Davvero ci riuscirà?» L'investigatore rise. «Vediamo. Esaminiamo prima le ripetizioni. Ad esempio il simbolo
compare cinque volte. Potrebbe essere la lettera "E". Credo...» La sua voce si fermò. Per circa un quarto d'ora si diede da fare sul foglio, con la matita in mano, contrassegnando certi simboli, sostituendoli qua e là con una lettera. «No» disse. «Il solito sistema in questo caso non funziona. È un codice di una semplicità disarmante. Ho idea che c'entrino in qualche modo i numeri. Vede: certi rettangoli sono uniti da parentesi, devono essere numeri a due cifre...» Ridivenne silenzioso e, per un altro quarto d'ora, rimase immobile, immerso nel problema davanti a sé, mentre Harren aggrottava la fronte e sbirciava il foglio da sopra la sua spalla. Capitolo 3. La soluzione «Accidenti!» proruppe l'investigatore. «Non funziona. I simboli sono troppo pochi per darci una chiave: non si ripetono abbastanza spesso. Forza, capitano, usiamo il cervello. Mettiamo il foglio in mezzo e riflettiamoci insieme ad alta voce. È un codice semplicissimo, un gioco da bambini, se ci mettiamo tutto il nostro acume. Dunque, quella che vediamo davanti a noi, ripetuta sul foglio, è una delle tante raffigurazioni del simbolo noto come sigillo di Salomone. Ogni sigillo
è composto di otto segmenti, di cui alcuni barrati, o segnati, da un trattino. Alcuni sigilli, poi, sono accoppiati da parentesi e lineette.» «E allora?» domandò Harren con aria assente. «Be', signore, in primo luogo, questo simbolo
dovrebbe rappresentare l'unità di spirito e materia, come lei sa. Che altro ne sappiamo?» «Personalmente, nulla. Ho comprato un libro sull'argomento, ma ne ho ricavato ben poco.» «Non dovrebbe contenere in sé» prosegui il signor Keen «le nove cifre dei numeri arabi, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, nonché il segno dello zero?»
«Credo di sì.» «Esatto. Ecco qui il sigillo.
«Ora metterò in evidenza l'uno, il due e il tre segnandone i segmenti, così:
«Eliminando tutti i segmenti non segnati ci rimangono delle cifre: l'uno, il due, il tre, «Ed ecco la serie completa:
«e lo zero: » Harren fu preso da un'esaltazione improvvisa: si chinò sul foglio, osservandone i segni con impegno. Intanto l'investigatore si alzò in piedi e si guardò intorno come cercando qualcosa. «C'è un telefono, qui?» chiese. «Per l'amor del cielo, non se ne vada proprio sul più bello!» esclamò Harren. «Questi sono numeri, lo vede? Guardi qui!» aggiunse, indicando una coppia di segni.
«Questo è un diciannove! Basta guardare solo le linee barrate.
Non vede, signor Keen?» «Sì, capitano Harren, il codice è, effettivamente, molto chiaro. Si legge come una qualunque scrittura. Ecco perché vorrei usare il suo telefono. E subito, se non le dispiace.»
«È in camera da letto; non le importa se vado avanti a studiarmelo, mentre lei è di là?» «Per nulla» disse l'investigatore con condiscendenza, poi andò al telefono. Staccò il ricevitore e chiamò il suo ufficio. «Buon giorno. Sono Keen. Vorrei parlare con la signorina Borrow.» Dopo qualche attimo la segretaria rispose: «Eccomi, signor Keen». «Bene. Dovrebbe controllarmi un nome: Indwood. Provi a New York, prima. Edith Inwood. Faccia in fretta, io rimango in linea.» Attese per dieci minuti buoni, prima che la voce sommessa della segretaria lo raggiungesse di nuovo. «Dica» la sollecitò l'investigatore. «C'è una sola Edith Inwood a New York, signor Keen. La signorina Edith Inwood, diplomata alla Barnard nel 1902, rimasta orfana nel 1903, e costretta a provvedere al proprio sostentamento, ora lavora come assistente del professor Boggs al Museo delle Iscrizioni. È considerata un'autorità nel campo dei crittogrammi arabi. Ha scritto una monografia sul simbolo di Herati e un breve saggio sulla svastica. Ha ventiquattro anni. Desidera sapere altro?» «No, grazie» disse l'investigatore. «Arrivederla.» Poi chiamò l'Ufficio Informazioni. «Vorrei il Museo delle Iscrizioni. Mi passi la linea, per favore.» E, dopo un attimo: «Museo delle Iscrizioni?». «C'è il professor Boggs?» «Parlo con il professor Boggs?» «Potrebbe trovare il tempo di decifrarmi un'iscrizione, per favore?» «Certo, lo so che è sempre estremamente occupato, ma non avrebbe un assistente cui possa rivolgermi?» «Può ripetermi il nome per cortesia? Signorina Inwood?» «Oh! E la signorina potrebbe occuparsene subito, se le mando l'iscrizione tramite un fattorino?» «Grazie mille, professore. Manderò un fattorino dalla signorina Inwood con una copia dell'iscrizione. Buongiorno.» Riappese il ricevitore, si girò meditabondo, riaprì la porta e tornò nel
soggiorno soleggiato. «Guardi!» gridò il capitano, entusiasta. «Ho già decifrato un bel po' di numeri.» «Benissimo!» mormorò l'investigatore, guardando da sopra la spalla di Harren il foglio che recava le seguenti cifre: 9 - 14 - 5 - 22 - 5 - 18 - 19 - 1 - 23 - 25 - 15 - 21 - 2 - 21 - 20 -15 14 - 3 - 5 - 9 - 12 - 15 - 22 - 5 - 25 - 15 - 21 - 5 - 4 - 9 - 20 - 8 - 9 14 - 23 - 15 - 15 - 4. «Meraviglioso!» ripeté l'investigatore, con un sorriso. «E questi numeri, secondo lei, che cosa rappresentano?» «Delle lettere!» annunciò trionfante il capitano. «Prenda il nove, ad esempio. La nona lettera dell'alfabeto è la I! Signor Keen, proviamo a sostituirli con le lettere secondo questo sistema!» «Proviamo» assenti l'investigatore, con la massima serietà. «Così, contando sottovoce, il giovane scrisse tutte le lettere in quest'ordine, senza cercare di dividerle in parole: INEVERSAWYOUBUTONCEILOVEYOUEDITHINWOOD. Poi si lasciò andare sullo schienale della sedia, felice, vittorioso. «Ecco!» disse. «Solo che non significa niente.» Esaminò la scritta in silenzio, e gradualmente un'espressione smarrita prese il posto della sua esaltazione. «Come diavolo faccio a separare questa sfilza di lettere in parole?» gemette. «Così» disse l'investigatore, bonariamente, prendendogli gentilmente la matita: I NEVER SAW YOU BUT ONCE I LOVE YOU EDITH INWOOD. Quindi posò la matita sul tavolo e andò alla finestra. Una o due volte gli parve di udire dei suoni incoerenti alle sue spalle. Dopo un po' tornò senza fretta sui suoi passi. Il capitano Harren, rosso come un gambero, guardava ancora le carte sulla scrivania, pizzicandosi il baffo. «Ebbene?» fece l'investigatore, divertito. Il giovane indicò la trascrizione con un dito tremante. «Che senso ha tutto questo?» domandò con voce malferma. «Chi è Edith Inwood? Che cosa ci fa quel crittogramma sul vetro nella fotografia? Come ci è arrivato? Sul-
la mia finestra non c'è, l'abbiamo controllato!» L'investigatore disse tranquillamente: «Quella non è una fotografia della sua finestra». «Che cosa?» «No, capitano. Ecco: guardi anche lei con la lente. Il telaio della finestra è suddiviso in sedici riquadri. Ora guardi là: i riquadri sono otto! Oltretutto, osservi la tenda. È fatta di un tessuto stampato, una specie di chintz. Ora guardi la sua! È di velluto unito.» «Ma quella fotografia l'ho scattata io! Lei era lì, vicino alla finestra!» L'investigatore si chinò sulla fotografia, per esaminarla ancora una volta con la lente. E, mentre era così occupato, disse: «E la vede ancora, nella fotografia, capitano Harren?». «Certo. Lei non ci riesce proprio?» «No» mormorò l'investigatore «ma vedo la finestra presso la quale effettivamente si trovava quando il suo fantasma venne a cercarla. E questo mi basta. Venga con me, capitano Harren, siamo attesi.» Il capitano lo guardò intensamente: sembrava che qualcosa, negli occhi del signor Keen, lo affascinasse. «Lei... Lei pensa che potremmo incontrarla!» balbettò. «Se fossi in lei» disse l'investigatore, unendo le punte delle sue lunghe dita in atteggiamento riflessivo «se fossi in lei indosserei una redingote e un cappello a cilindro. In ogni caso, è pomeriggio» aggiunse a mo' di giustificazione. «E stiamo andando a fare una visita.» Il capitano Harren assunse un'espressione sognante e scomparve in camera da letto. Quando ne riemerse era abbigliato e rassettato con una meticolosità commovente. «Signor Keen» disse «n-non so perché io n-nutra una simile speranza. Mi rendo conto che lei non mi ha garantito nulla. Ma nutro nel mio cuore l'assurda illusione di poterla rivedere.» «Forse» rispose l'investigatore, con un lieve sorriso. «Signor Keen! Lei non lo direbbe se... se non intravedesse qualche possibilità, vero? Lei non frustrerebbe le speranze di un pover'uomo...» «No, non lo farei» disse il signor Keen. «Le dico francamente che sono convinto di trovarla.» «Oggi?» «Vedremo» rispose il signor Keen con riserbo. «Forza, capitano, non metta su quella faccia. Coraggio. Siamo sul punto di eseguire una manovra determinante, ma lei mi sembra un generale russo diretto al fronte meri-
dionale.» Harren si sforzò di ridere. Uscirono, l'uno accanto all'altro, presero l'ascensore e trovarono una vettura di piazza al portone. Il signor Keen diede l'indirizzo al cocchiere e seguì il capitano sulla carrozza. «Prima» disse, mentre si dirigevano verso sud «passeremo al Museo delle Iscrizioni per far verificare la nostra traslitterazione. Ho preso la copia dei crittogrammi. La tenga lei, capitano. Manca solo qualche isolato.» Infatti erano quasi arrivati. Il cocchiere accostò davanti a un severo edificio di granito, incuneato fra palazzi residenziali dalle decorazioni pretenziose. Sulla porta campeggiava una scritta in bronzo: MUSEO AMERICANO DELLE ISCRIZIONI. I due uomini scesero dalla carrozza per entrare in un ampio atrio di marmo le cui pareti erano coperte di teche contenenti i calchi in gesso di antiche iscrizioni, oltre ad alcuni originali in pietra e in bronzo. Parecchie signore dall'aria scialba stavano osservando i reperti. Un usciere in livrea si teneva da parte. L'investigatore si diresse verso di lui. «Ho un appuntamento con la signorina Inwood» disse sottovoce. «Da questa parte, prego» indicò l'usciere, e l'investigatore fece segno al capitano di seguirlo. Salirono varie rampe di scale marmoree, attraversarono un salone rotondo ed entrarono in una stanza, una specie di biblioteca. In fondo c'era una porta che recava scritto: ASSISTENTE DEL CURATORE. «Ora» disse il cercatore di persone scomparse «le chiederei di attendermi qui per qualche minuto, mentre parlerò con l'assistente del curatore. Non le dispiace, vero?» «No, va benissimo» rispose Harren contrariato. «Solo che... quando cominceremo a cercarla?» «Molto presto. Direi prestissimo» lo rassicurò Keen. «A proposito, potrebbe darmi la copia del crittogramma? Grazie. Non ci metterò molto.» L'usciere era scomparso. Il capitano Harren sedette accanto a una finestra e guardò fuori, nel sole del tardo pomeriggio. L'investigatore attraversò senza rumore il pavimento coperto da un tappeto, si avvicinò al sacrario, girò la maniglia, entrò, e richiuse accuratamente la porta dietro di sé. C'era una ragazza seduta alla scrivania, vicino a una finestra aperta. Alzò lo sguardo quando lui entrò, poi si alzò con calma. «La signorina Inwood?» «Sì.» Era snella, con gli occhi scuri e i capelli neri. Una creatura giovane e
fresca, gradevole e aggraziata. Niente di più, giacché l'investigatore non poteva vederla con gli occhi del capitano Harren, e forse per questo non era in grado di riconoscere un miracolo di avvenenza nella ragazza carina che aveva di fronte. Non vide la magia incomparabile di una bellezza trascendente, ma solo una ragazza tranquilla, dal viso dolce e gli occhi neri, con un aspetto attraente così come lo è sempre la gioventù. Ma è un dono degli dei vedere attraverso occhi consacrati dall'amore. L'investigatore si toccò il baffo grigio e piegò il busto in un inchino; la ragazza si chinò a sua volta in modo molto gentile. «Lei è il signor Keen» disse. «Mi ha portato un'iscrizione da tradurre.» «Un mistero da svelare per i suoi giovani occhi» annunciò con un sorriso. «Posso sedermi e raccontarle tutta la storia, prima di mostrarle l'iscrizione?» «Certamente» lei rispose, riprendendo il suo posto alla scrivania e appoggiando l'ovale del viso su una mano bianca e sottile. L'investigatore avvicinò un poco la sedia. «È una faccenda curiosa» disse. «Posso scendere nei dettagli?» «Prego, signor Keen.» «Le dirò, allora, che l'iscrizione di cui posseggo una copia fu probabilmente incisa sul vetro di una finestra con una punta di diamante.» «Ah! Ma allora non è un'iscrizione antica, signor Keen.» «Il tema è antico. Il più antico del mondo: l'amore! Il codice è antico, risale ai tempi di re Salomone.» Lei alzò gli occhi di scatto. L'investigatore, che sembrava tutto preso dalla sua storia, continuò. «Tre anni fa la ragazza che ha tracciato questi segni sul vetro della finestra, nella sua... camera da letto, credo, si era innamorata. Mi segue, signorina?» La signorina Inwood sedeva perfettamente immobile e lo fissava con gli occhi neri spalancati. «Si era innamorata» ripeté l'investigatore con aria pensosa «ma non come accade di solito. Questo è il punto, capisce? L'amore l'aveva colta a prima vista per un uomo che non aveva mai incontrato prima, che non rivide più ma che non dimenticò. Mi sta ancora seguendo, signorina?» Lei mosse le labbra in modo quasi impercettibile. «No» riprese l'investigatore «non riuscì a dimenticarlo. Non ne sono certo, ma credo che qualche volta lo sognasse. Ci pensava anche da sveglia. Una sera scrisse un messaggio per lui, incidendolo con il diamante del suo anello sul vetro della finestra...» Dalle labbra della signorina Inwood sfuggì un lieve suono. «Scusi» disse
Keen. «Voleva dire qualcosa?» La ragazza si era alzata, pallida, attonita, incredula. «Chi è lei?» balbettò. «Che cos'ha a che fare questa... questa storia con me?» «Bambina» disse l'investigatore «il sigillo di Salomone è uno splendido mistero. Tutto il cielo e tutta la terra sono racchiusi nel suo simbolo. E molto, molto più di quanto lei non immagini, più di quanto io stesso possa afferrare. E io sono vecchio, cara bambina, vecchio e solo, senza nessuno di cui preoccuparmi, senza più nulla da temere, nemmeno la fine, perché sono ormai pronto anche per quella. Eppure, pur non avendo più nulla da temere, non mi azzardo a indagare sul significato di questo simbolo, sui suoi poteri. Solo Dio li conosce. Potrebbe essere il contrassegno del Fato, il segno del Destino.» Estrasse il foglio dalla tasca, lo srotolò e lo distese sotto gli occhi stupefatti della ragazza. Lei rimase a guardarlo per un attimo, poi, rabbrividendo, si coprì gli occhi con le mani. Il cercatore di persone scomparse si voltò e aprì la porta. «Capitano Harren!» disse con calma. Harren, che camminava in anticamera, venne avanti. Quando entrò nella stanza vide la ragazza seduta accanto alla finestra, con il viso nascosto tra le mani. In quel momento lei lasciò cadere le mani e lo guardò. «Lei!» esclamò senza fiato. L'investigatore richiuse la porta. Per un attimo sostò nell'anticamera, alto, magrissimo, grigio, assorto. «Sì, era bella quando lo guardò» disse fra sé. Restò lì ancora un minuto, esitando, guardando di tanto in tanto la porta chiusa. Infine se ne andò, leggermente curvo, con il cappello a cilindro stretto sul petto e la redingote perfettamente abbottonata. Titolo originale: The Tracer of Lost Persons and the Seal of Solomon Cypher Postilla Un'altra conseguenza della fede nella separazione fra il corpo e l'"Io" che la occupa è l'idea che l'"Io" incorporeo (o corpo astrale) possa viaggiare per il mondo mentre il corpo se ne sta a casa. Ciò si presta a varie complicazioni romantiche, come mostra la storia di
Chambers, ma non ci sono mai state prove di contatti fra corpi astrali o della possibilità del corpo e della personalità di separarsi. A un certo punto, nel corso del racconto, si fa riferimento a una fotografia scattata al buio e si esprime una certa perplessità sulla possibilità di una simile impressione. Su questo argomento uno dei personaggi dice: «Raggi N. È stato sperimentato in Francia». Ecco un esempio di idea bislacca superata dal tempo. All'epoca in cui fu scritto il racconto, fece molto scalpore in Francia la scoperta di certe radiazioni misteriose che furono chiamate "raggi N". Non si trattò di un imbroglio, ma di un caso di autoinganno da parte degli scienziati francesi che si prodigavano nel patriottico sforzo di uguagliare la scoperta tedesca dei raggi X. Purtroppo i raggi N sopravvissero solo due anni, finché la loro inesistenza non fu dimostrata in modo palmare. Questo ci insegna, ancora una volta, che bisogna andare molto cauti con le scoperte scientifiche che non sono state ancora pienamente verificate, specialmente se sembrano spingersi molto lontano. Molte scoperte, come le bugie, hanno le gambe corte. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE L. Adams Beck, "The Ninth Vibration", in The Ninth Vibration and Other Stories, Dodd, Mead, New York 1922. Walter C. Everett, "The Lady in Gray", in Other Worlds, a cura di Phil Stong, Funk, New York 1941. Davis Grubb, "The Horsehair Trunk", in Twelve Tales of Suspense and Supernatural, Scribners, New York 1964. Kurt Vonnegut, "Unready to Wear", in Welcome to the Monkey House, Delacorte Press, New York 1968. H.G. Wells, "Il corpo rubato" ("The Stolen Body"), in Storie di fantasie e fantascienza, Mursia, Milano 1966-1980. Magia simpatica LA SIGNORINA ESPERSON di August Derleth Mi ricordai della signorina Esperson quasi per caso, quando lessi il no-
me della sua famiglia nella colonna degli annunci mortuari di un giornale cittadino. Suppongo che certi ricordi, e in particolare quelli dell'infanzia, ci tornino alla memoria sempre grazie a strumenti banali come questi, anche se non si può prevedere il corso che poi prenderanno i pensieri. Nel caso della signorina Esperson, probabilmente, riflettei sulla differenza tra l'uomo che ero adesso e il bambino di una volta. Fra l'altro, non credo che ci fosse alcun rapporto di parentela fra il signore recentemente scomparso di cui parlava il giornale e la dolce vecchietta di una piccola città della Louisiana in cui avevo trascorso buona parte della mia infanzia. In realtà avevo dimenticato tutto della signorina Esperson. Per vent'anni non avevo più pensato a lei e la vista del cognome fra i necrologi fu un semplice caso, perché mi capitò sotto gli occhi sfogliando le pagine. Immediatamente, però, l'immagine della signorina uscì dall'oscurità della memoria e io fui di nuovo un ragazzino in quella dimenticata città della Louisiana. Ecco la signorina Esperson, alta, con la strana faccia rettangolare e le mascelle forti - una faccia equina, penso oggi - e meravigliosi occhi scuri incorniciati dai capelli che ingrigivano; ed ecco la minuscola "proprietà", circondata da file d'alberi e da un giardino in cui abbondavano siepi e piante, separata dal resto della città, discosta dalla strada ombrosa che le passava davanti e con le spalle rivolte al fiume che costituiva il vero confine del podere: un paradiso per i bambini che sapevano come arrivare fin laggiù. Ed ecco ancora una volta la superstizione, le paure che circondavano la signorina, ma che per un bambino non avevano alcun significato. Perché la signorina Esperson - che era la quintessenza della cortesia e non disturbava nessuno, ma faceva tranquillamente la sua vita come ci si sarebbe potuti aspettare da una zitella che era anche l'ultima della sua famiglia - era vittima di una bizzarra trama di paure imbastite dagli abitanti più poveri della città. Dico bizzarra perché sembrava davvero una cosa infondata. In tutta la vita la signorina Esperson non aveva mai detto una parola contro qualcuno, eppure molti al solo vederla attraversavano la strada, evitavano il suo sguardo o la osservavano con la coda dell'occhio. Credevano che la signorina Esperson fosse una donna terribile e dotata di certi "poteri", perché era nata nelle Indie occidentali britanniche e suo padre era stato console laggiù, dove la piccola aveva imparato molte cose dai sacerdoti vudù. I bambini negri la chiamavano con un soprannome che certo avevano sentito borbottare ai genitori: dicevano che era una "obiooman" e la corru-
zione di questa espressione era diventata obi woman, che per noi non aveva alcun significato ma che a volte ripetevamo tale e quale. Ma noi bambini della zona non avevamo alcuna paura della signorina Esperson, anzi sapevamo che la sua casa era una mecca in cui avremmo trovato ogni sorta di bontà per i ragazzi: torte, paste, gelati, fragole, miele, angurie e persino giochi che la signorina era disposta a fare con noi. Si sentiva sola, forse? Probabilmente, anche se aveva una scelta cerchia di amici che andava a trovare e a volte riceveva in casa, e che l'amavano in modo direttamente proporzionale alla diffidenza che suscitava negli altri. Ricordai tutto questo: come ho detto emerse dal passato senza alterazioni, senza rimpianti, ma con un'indefinibile differenza che non riguardava i fatti in sé, quanto la loro immediata interpretazione: la prospettiva era cambiata. Dall'ultima volta in cui avevo visto la signorina Esperson nella dignità della morte (ero solo un ragazzo, allora) non avevo più ripensato a quegli anni giovanili; e oggi, qui, stranamente, da un giornale che era estraneo tanto a lei quanto alla cultura che rappresentava, ecco emergere una signorina Esperson che, pur essendo indubbiamente la donna che avevo conosciuto, mi offriva a un tratto qualcosa di più, annunciava una rivelazione, per così dire, a un adulto che da un lato era meno sicuro del significato della vita e della morte, mentre dall'altro era più maturo del ragazzo di vent'anni fa. E ricordandomi della signorina Esperson ricordai Jamie. Jamie viveva accanto alla casa della signorina con suo padre e la matrigna; anch'io vivevo accanto alla signorina, ma dalla parte opposta. Tutti e due consideravamo casa Esperson come una sorta di rifugio, ma non ero io ad averne più immediato bisogno: era Jamie, maltrattato crudelmente dalla matrigna. Ricordo che a volte mi prendeva una furia impotente per quello che gli faceva non appena suo padre usciva di casa, mi faceva rabbia come faceva rabbia alla signorina, ma poi un istinto di protezione prendeva il sopravvento davanti alle sue pene e sofferenze. Penso che Jamie avesse più o meno sette anni, a quell'epoca; sua madre era morta due anni prima e suo padre si era risposato con una donna appariscente, dai capelli fiammanti, che aveva conosciuto a New Orleans. Fin dall'inizio la donna aveva odiato Jamie, forse perché lui si aggrappava al ricordo di sua madre e la signora la prendeva come una critica nei suoi confronti, cui rispondeva non con la pazienza richiesta dalla situazione ma con un antagonismo che il ragazzo non tardò a sentire; così la speranza che un giorno i due si riappacificassero andò irrimediabilmente per-
duta. Come se non bastasse, la matrigna lo attaccava nel suo punto più vulnerabile, cercando di privarlo di tutti gli oggetti personali che gli ricordassero la madre: cose che gli erano state regalate da lei e addirittura vestiti che gli aveva comprato, fatto o riparato (anche se bisogna ammettere che ormai Jamie era troppo grande per portarli). Quella della matrigna era una raffinata forma di crudeltà che andava ben oltre la sprezzante scortesia, e quando il ragazzo le mostrò apertamente il suo odio e le fece capire che la sua devozione alla madre non sarebbe mai diminuita, finì per degenerare in animalesca brutalità fisica. Appena poteva sfuggirle Jamie veniva a casa mia o della signorina Esperson, che aveva conosciuto sua madre e rappresentava un altro legame con il passato che gli era caro, prima di tante crudeltà e sofferenze. A noi e a nessun altro - nemmeno a suo padre, perché aveva imparato che la matrigna riusciva a trasformare le sue lagnanze in trionfi personali - Jamie raccontava tutto quello che gli capitava; non lo faceva con compiacimento, ma, al contrario, con una riluttanza che nasceva dalla dolorosa necessità di alleviare un poco il suo fardello facendone partecipe qualcuno. E la signorina Esperson lo consolava coi suoi modi gentili, confortandolo con grande abilità. «Niente è così brutto come sembra» diceva. «Non mi ha permesso di mangiare nulla, a colazione, solo un po' di latte acido» confessava Jamie. Ne parlava sempre in modo impersonale, senza nominarla: nemmeno a frustate lo si sarebbe potuto obbligare a chiamarla con una parola che suggerisse, anche alla lontana, un rapporto materno. «Allora mangerai qui quello che ti piace.» E, mentre mangiava le cose che la signorina gli aveva messo davanti, Jamie continuava a recitare le sue disgrazie. Non era un bambino piagnucoloso: voglio dire che in lui non c'era traccia di lagne o patetismi, anche se con i grandi occhi dolci e la pelle chiara attraverso cui le vene apparivano azzurrine, aveva un'aria molto fragile. No, recitava la storia dei suoi supplizi con una voce piatta, monotona e che conteneva una nota di dubbio, come avesse l'impressione che quello che doveva dire era troppo incredibile per essere accettato anche da persone come noi, di cui si fidava. Verso la fine - perché le disgrazie di Jamie ebbero improvvisamente fine, anche se allora non eravamo in grado di prevederlo - si lasciò convincere dalla signorina Esperson e le mostrò i segni che aveva sulla piccola schiena; ripensando a lei ora, da quest'osservatorio vantaggioso, l'immagi-
nazione mi permette di ricostruire con chiarezza la smorfia con cui ella reagì la prima volta, il modo in cui i suoi lineamenti si indurirono e il volto impallidì, mentre una luce implacabile si accendeva nei suoi occhi. «Oh, povero bambino!» esclamò, portandolo subito in casa per medicargli la schiena ferita. Poi gli regalò qualcosa di buono per distrarlo dai suoi guai: cioccolatini o forse un dolce di miele che faceva di tanto in tanto. Ma la mente di Jamie non poteva mai staccarsi completamente dai suoi problemi, benché a volte non se ne lamentasse. Glielo si leggeva in faccia tutte le volte che guardava casa sua, anche se gli alberi e la siepe la nascondevano quasi del tutto. La sua casa, come la mia e quella della signorina Esperson, aveva un bel giardino posteriore che si stendeva verso il fiume, anche se adesso c'erano meno fiori e piante di quando era viva sua madre. Evidentemente la matrigna, che già non trovava il tempo di occuparsi della sua persona, non aveva intenzione di perdere delle ore in giardino, né direttamente né assumendo un giardiniere fra la popolazione nera. Si capiva inoltre che al bambino era stato proibito di andare a trovare la signorina Esperson: la matrigna doveva aver intuito che la vecchietta parteggiava per lui e una volta, prima di cominciare a battere Jamie regolarmente, aveva fatto irruzione nel giardino della signorina, aveva afferrato Jamie e l'aveva trascinato letteralmente a casa, senza rinunciare di dire alla vicina quello che pensava di lei: e non era niente di piacevole. La signorina Esperson era rimasta in piedi, tremante, con il fazzoletto di pizzo premuto sulle labbra e gli occhi sgranati a seguire la coppia che si allontanava fra gli alberi. Il ragazzo gridava e protestava, e insieme alle sue grida arrivava il rumore delle percosse che la signora Fallon non risparmiava al figliastro. In quell'occasione avevo ripetuto una frase che avevo sentito a mia madre: «Mrs. Fallon non è una signora, vero?». «Temo di no, Stephen» aveva risposto la signorina Esperson. «Non si comporta nel modo in cui dovrebbe comportarsi una signora, ti pare?» Ma Jamie continuò a venire. Aveva disperatamente bisogno del rifugio che gli offriva la signorina Esperson, ed era un bisogno più forte del timore della punizione che la matrigna gli avrebbe inflitto quando avesse scoperto dov'era andato. Così, la ricerca di quel rifugio nasceva da un istinto più vitale della pur comprensibile avversione all'idea del castigo sicuro in cui sarebbe incorso, corporale o di altro tipo. Mia madre diceva sempre che il signor Fallon era "un uomo fatuo". Benché nessuno sapesse quali storie gli venissero raccontate dalla seconda moglie, certo non poteva ignorare quello che avveniva in casa. Forse la signora Fallon fingeva di cercare l'affetto
del ragazzo quando il marito era in casa, ben sapendo di poter contare sulla freddezza e la ripulsa di Jamie che era stato maltrattato tutto il giorno. Esistevano molti modi in cui avrebbe potuto ingannare il marito, molti sistemi per nascondere la realtà dei fatti e mettere l'uomo subdolamente contro il proprio figlio. In ogni caso, come diceva mio padre, Fallon era "uno stupido con le donne". Credo che la tortura di Jamie sia durata un anno, più o meno. Ora, vent'anni dopo, non posso dirlo con certezza: per certi aspetti i miei ricordi sono perfetti, ma la stima del tempo varia con gli anni. Fu comunque un periodo lungo, forse più di dodici mesi, perché alla fine fu evidente che la salute di Jamie ne aveva risentito e altrettanto chiaro che la matrigna avrebbe usato qualunque mezzo per liberarsi di lui, meno l'omicidio. E forse non si sarebbe fermata neppure davanti a quello, se avesse pensato di poterla fare franca... Ma per un ragazzo era facile giudicarla duramente sapendo quello che faceva a Jamie, e io sono sempre stato un emotivo. Non mi considero, insomma, il miglior testimone. Un giorno Jamie venne a raccontarci una storia; faceva caldo, ma la notte precedente era stata insolitamente fredda e lui aveva preso un brutto raffreddore. Com'era successo? chiese dolcemente la signorina Esperson, preoccupata dalla brutta tosse di Jamie. «Non avevo abbastanza coperte» rispose lui. «Ma bastava che mettessi la trapunta, Jamie» disse la signorina Esperson, sapendo che di solito dormiva con una trapunta leggera arrotolata ai piedi del letto, come molti di noi. In questo modo, se la notte fosse diventata fredda sarebbe bastato allungare un braccio per averne il tepore. «Lei me l'ha presa.» Per qualche secondo la signorina Esperson non seppe cosa dire; dalla sua espressione si capiva che c'era in lei un conflitto, addirittura un certo stupore. «Quando?» chiese alla fine. «Quando è entrata nella mia stanza per aprire le finestre.» Era una notte troppo fredda per stare con le finestre aperte. Troppo fredda. «Tu dormivi?» domandò gentilmente la signorina. «Lei pensava di sì.» Quello che non era evidente a un ragazzo di otto anni come me dev'essere apparso chiarissimo alla signorina Esperson. Se la matrigna di Jamie era entrata nella sua stanza mentre dormiva per togliergli la coperta e, al tempo stesso, aprire le finestre, poteva averlo fatto solo allo scopo di fargli pren-
dere freddo... o peggio. Peggio, c'era da scommettere. Entro certi limiti lui ne aveva frustrato il tentativo e la signorina Esperson gli diede man forte portandolo in casa, sfregandogli il petto con grasso d'oca e dandogli da bere qualcosa di caldo. Era un infuso che aveva preparato con ingredienti presi da strani sacchetti di stoffa che teneva sulle mensole più alte della credenza, e che per un ragazzo aveva un profumo meraviglioso, dolce ma speziato; erbe, senza dubbio, perché si sapeva che andava a raccoglierle lungo il fiume, alla periferia della città, nella zona degli acquitrini. Così l'infreddatura di Jamie passò. Ma il dolore della signorina Esperson non passò altrettanto presto. C'era in lei una continua apprensione, il timore che un giorno o l'altro Jamie non avrebbe più attraversato le siepi, non si sarebbe più rifugiato in quel porto tranquillo e che lei avrebbe tradito la sua fiducia; o meglio, che noi l'avremmo tradita, perché la signorina aveva l'abilità di farmi credere che nel compito di proteggere Jamie fossimo una persona sola. E in un certo senso lo eravamo davvero, perché se ira e odio avessero potuto uccidere la signora Fallon, io ce l'avrei fatta agevolmente. Ricordo che spesso piangevo per la rabbia impotente, piangevo sapendo che era impossibile difendere Jamie dalla crudeltà della sua matrigna. E così non dividevamo soltanto il miele, i dolci o i piccoli giochi che facevamo insieme, ma il dolore e la preoccupazione. Un'altra volta Jamie si trascinò attraverso la siepe in pessime condizioni. Non si reggeva in piedi e la signorina Esperson, che lo vide dal soggiorno, si precipitò a soccorrerlo. Lo portò nella sua camera da letto e lì lo trovai quando più tardi arrivai da casa mia. Era ancora a letto e stava male, ma la signorina gli aveva dato qualcosa e al mio arrivo la trovai che andava avanti e indietro per la stanza, bianca come una delle margherite nel vaso alla finestra; appena mi vide raccolse un po' di quello che Jamie aveva vomitato in un piatto accanto al letto e lo mise in un barattolo da frutta, poi scrisse un biglietto d'accompagnamento e mi mandò dal dottor Lefevre, un anziano signore in pensione che apparteneva, come la signorina Esperson, alle vecchie famiglie della Louisiana. In seguito, quando si sentì un po' meglio, la signorina chiese a Jamie cosa avesse mangiato. Soltanto la colazione. E in che consisteva? «Latte e pane tostato. Aveva uno strano sapore.» Durante la mattinata si era sentito sempre peggio e a mezzogiorno aveva
cominciato a vomitare. La matrigna lo aveva chiuso in bagno, poi lo aveva abbandonato. Proprio così. Jamie, spaventatissimo, era riuscito a trascinarsi sul davanzale della finestra e a scavalcarlo, nonostante la debolezza. Senza dubbio la signorina Esperson pensò che avesse capito l'entità del pericolo. Dopo aver ascoltato il racconto di Jamie la signorina mise il cappellino, prese l'ombrello e uscì di casa. Ma in ultima analisi non andò dalla signora Fallon né dal padre di Jamie. L'intenzione iniziale era evidente, perché si diresse verso la casa dei vicini, ma arrivata alla siepe cambiò idea e tornò dove io ero seduto con Jamie e lo tenevo d'occhio secondo le sue istruzioni. Tornò e senza dire una parola si tolse il cappellino e depose l'ombrello. Jamie era ancora debolissimo, ma cominciava a sentirsi meglio. Ricordo l'aspetto che aveva la signorina quando rientrò. Gli occhi avevano una strana espressione, e se non l'avessi conosciuta mi avrebbe fatto paura. Si sedette accanto a Jamie e gli prese una delle mani fra le sue, poi cominciò a parlare. Gli disse cose molto strane, e anche se la gentilezza era quella di sempre non era il suo solito modo di esprimersi. «Jamie, la tua matrigna ha bei capelli» disse. «Non mi piacciono i capelli rossi.» «E quando se li pettina, alcuni rimangono impigliati.» «Vorrei che le cadessero tutti. Vorrei strapparglieli io.» «Jamie, la tua matrigna conserva i suoi capelli?» «Sì.» «Me ne porteresti un po'?» «Sì.» Allora lei sorrise e Jamie la imitò; l'atmosfera della stanza si alleggerì come se fosse stato tolto un peso. Era tutto molto strano, anche se forse all'epoca mi sembrò solo un po' fuori dell'ordinario. I bambini accettano le cose molto più facilmente degli adulti perché il mondo dell'infanzia è una costante rivelazione e per conoscere non c'è bisogno del principio di causa ed effetto. Ovviamente la signora Fallon, come molte donne bianche della città - e senza dubbio delle altre cittadine di provincia, almeno in quegli anni - conservava i capelli che rimanevano impigliati nel pettine per usarli successivamente e dare volume alla pettinatura. Non so che razza di intuito avesse Jamie, ma certo si rese conto che si trattava di una congiura ordita da lui e dalla signorina Esperson. Sapeva che la matrigna non avrebbe voluto che le sottraesse i capelli e bastò questo a fargli mantenere la promes-
sa. Così un giorno arrivò con una manciata di capelli e li diede alla signorina Esperson, che li esaminò alla luce del sole e disse: «Guarda come brillano rossi al sole!» e «Chissà come si arrabbierebbe se sapesse che me li hai portati». Scoppiammo tutti a ridere, inebriati dal nostro segreto. «Non li avrai presi tutti... non avrai vuotato lo scrigno?» «Oh no, signorina Esperson.» «Perché in tal caso avrebbe capito... così sarà solo seccata e si domanderà che fine abbiano fatto gli altri.» Poi si infilò i capelli rossi in tasca. Da quel momento i capelli della signora Fallon non vennero più nominati, ma interesse e preoccupazione per la sorte di Jamie non diminuirono. Sul cibo era stato messo in guardia: non doveva mangiare niente che avesse un sapore strano, e se per caso fosse capitato - o ci fosse stato costretto dalla matrigna, perché la signorina Esperson considerò anche questa eventualità - avrebbe dovuto prendere le pilloline che gli aveva mandato il dottor Lefevre, e che servivano a far vomitare immediatamente. Circa due settimane dopo cominciammo a fare un nuovo gioco, guidati dalla signorina Esperson. Si trattava di fabbricare un "laghetto" per i suoi pesci rossi, e la signorina ci diede le istruzioni. Innanzi tutto avremmo dovuto scavare una buca nel prato, con qualche pietra qua e là e della sabbia; quindi avremmo costruito il tubo per il trasporto dell'acqua corrente da casa al bacino. Infine sarebbe stata la volta del canale di scolo per l'acqua in eccesso, che sarebbe confluita nel fiume al limitare del prato. Per abbellire il tutto avremmo preparato una specie di paesaggio in miniatura, in modo che il laghetto sembrasse molto più grande o addirittura uno stagno all'interno del fiume, dato che l'acqua ne correva dentro e fuori, Ci lavorammo ogni giorno, consigliati ogni tanto dalla signorina Esperson; di quando in quando lei cambiava qualcosa e finalmente l'opera fu completata, l'acqua riempi il bacino e cominciò a scorrere. Al di là del "laghetto" c'era un bosco di alberi nani, come quelli che crescevano sulla sponda opposta del fiume rispetto al giardino della signorina Esperson; al di qua, invece, i giardini digradavano e una siepe li separava proprio a metà della sponda del laghetto. Nonostante tutto fosse pronto, la signorina Esperson non si decideva a portare i pesci rossi e ogni giorno faceva qualche piccolo cambiamento alla nostra opera; in questo modo non avevamo tempo di interrogarci sui pesci e pensavamo che lei avesse paura di affidarli al laghetto perché poteva passare un gatto e afferrarli con una zampata, per divorarseli. In ogni caso, non erano i pesci che contavano: il laghetto
era un'impresa nuova e noi progettammo altri giochi di quel tipo; pensammo di creare un vero e proprio ruscello con diga e cascate, e la signorina dichiarò che era senz'altro fattibile e forse l'avremmo fatto, ma non ora... non ancora. Ogni giovedì Jamie aveva lezione di musica. Se la matrigna avesse sospettato che la musica gli piaceva non gli avrebbe permesso di andarci, ma lui fingeva di detestarla. In questo modo veniva costretto a seguire le lezioni, perché la signora credeva di aggiungere un altro tormento alla sua giovane vita. Di solito lo accompagnavo, ma quel giovedì faceva caldo e la casa della signorina Quentin, dove Jamie studiava, era vecchia, umida e ammuffita, e in un pomeriggio così torrido aspettare che Jamie avesse finito e sentirlo suonare in quell'ambiente non sarebbe stato piacevole. Faceva troppo caldo anche per andare nel Campetto all'angolo a giocare con George Washington Osmond e gli altri bambini, per cui non uscii di casa; dormii più a lungo che potevo, nonostante il caldo, e poi mi alzai con l'intenzione di andare dalla signorina Esperson. Naturalmente non mi aspettava, perché il più delle volte accompagnavo Jamie. Mi avvicinai alla finestra della mia stanza, che era al primo piano. A pianterreno mia madre stava facendo qualcosa con i piatti e parlava con Libby, la cuoca nera; seduta sull'altalena in giardino la mia sorellina, che si era svegliata prima di me, giocava a fare la mamma per le bambole. I bambini neri, maschi e femmine, gridavano e schiamazzavano nel Campetto all'angolo: il caldo non li infastidiva mai. E al di là della siepe, nel suo giardino, la signorina Esperson giocava vicino al laghetto. Forse aveva finalmente portato i pesci rossi. Mi venne voglia di correre da lei, ma c'era qualcosa nei movimenti della signorina che mi trattenne: qualcosa, nel suo comportamento, che non quadrava. Era in ginocchio, cosa strana per lei perché di solito stava in piedi a dare gli ordini e quando si chinava era per cambiare decisamente qualcosa. Inoltre aveva un modo strano di stare in ginocchio, con la schiena dritta, a parte i rari momenti in cui si piegava. Faceva strani e bruschi movimenti, come se imitasse qualcosa di meccanico, e sembrava che parlasse fra sé. Dopo averla osservata per un po' mi parve che avesse qualcosa sul terreno davanti a lei e lo spingesse man mano verso il laghetto. Mi inginocchiai accanto alla finestra e la guardai fra le tende di pizzo, con la strana sensazione di chi osserva un gatto che gioca col topo, ora permettendogli di scappare e ora afferrandolo di nuovo, proprio quando si è illuso
di potersi salvare. E così di nuovo, di nuovo. Era orribile, ricordo quella sensazione orribile ancor oggi, forse proprio perché all'epoca non avevo saputo darle un senso. Ma era quasi l'ora che Jamie rincasasse e io sapevo che sarebbe venuto da me oppure sarebbe andato dalla signorina Esperson, domandandosi dove fossi sparito. Mi alzai e mi allontanai dalla finestra, e appena la signorina Esperson scomparve alla mia vista l'orribile sensazione svanì. Uscii. Oh, era caldo quel giorno! Troppo caldo anche per far arrabbiare Clara, così continuai per la mia strada. «Ecco vostro zio Stephen, bambini» disse Clara alle bambole. Faceva così caldo che il cane non aveva la forza di scodinzolare: se ne stava in un angolo all'ombra e mi guardava con un occhio assonnato. Attraversai la siepe. La signorina Esperson era ancora inginocchiata. Pensavo che l'avrei sorpresa, addirittura spaventata; mi sarebbe piaciuto vederla trasalire. Attraversai il prato senza fiatare, scivolando da un cespuglio all'altro. Man mano che mi avvicinavo riuscivo a captare la sua voce, che aveva un suono diverso: era rauca, di gola, un po' come la voce di Libby quando parla da sola mentre fa i lavori di cucina, o quella del vecchio Mose che lavorava nella stalla del paese e aveva l'abitudine di parlare con i cavalli. Anche la voce della signorina Esperson aveva un tono basso e intimo ma allo stesso tempo rozzo e gutturale, masticato: uno strano modo di parlare, per lei. Ero sorpreso ma non spaventato, anche se la lingua in cui si esprimeva non era l'inglese: somigliava piuttosto al vocio di certi animali, e sentirlo sulle labbra della signorina era come sentire una santa persona che bestemmia oppure dice oscenità. Arrivai alle sue spalle e mi sentì. Rapida come il lampo la sua mano coprì qualcosa che aveva davanti a sé e vidi il lungo dito indice spingere un oggetto sott'acqua, perché un attimo prima si trovava sulla sponda del laghetto, dove l'acqua è più bassa, in piena luce del sole. Comunque ero riuscito a vederla: si trattava di una bambolina vestita di bianco e una ciocca di capelli rossi in testa, come quelli della signora Fallon. «Oh» gridò la signorina Esperson con finta paura. «Mi hai spaventata! Sei un ragazzaccio, Steve!» «No davvero» risposi. In quel momento Jamie attraversò correndo la siepe e mi gridò: «Dove ti sei cacciato, oggi?». «Faceva troppo caldo» dissi.
«Tua madre lo sa che sei venuto senza cambiarti?» chiese con severità la signorina. «No, non è a casa» rispose Jamie. Poi guardò il laghetto e domandò, con aria d'accusa: «Che cosa stavate facendo? Perché non mi avete aspettato?». «Non facevamo niente» lo rassicurai. «Sono appena arrivato.» La signorina Esperson sorrise. «Non essere egoista, Jamie. Ora cominceremo a fare il ruscello come vi avevo promesso.» Poi si affacciò sul laghetto e cominciò a distruggere il paesaggio che gli avevamo costruito intorno. I finti alberi, la siepe alla sua destra (quella che confinava con la casa di Jamie), il punto in cui aveva fatto sparire la bambola, immergendola nell'acqua e forse nella sabbia: in pochi momenti fu tutto cancellato. Poi la signorina prese degli arbusti e li gettò nell'acqua. Manovrò un poco all'estremità del bacino e formò una cascatella. Noi due, ormai, eravamo in ginocchio accanto a lei e aspettavamo con impazienza le sue istruzioni. Ci furono impartite con estrema chiarezza. «Jamie prenderà la paletta per la sabbia e spianerà il letto del ruscello fino al fiume» disse la signorina. «Tu, Stephen... arginerai l'acqua in modo che non tracimi. Immaginiamo che i miei pesci rossi siano nel torrente: non permetteremo che scappino, vero?» Scoppiò a ridere e anche noi ridemmo, poi cominciammo a giocare. Ed è così che l'ho ricordata per tutta l'adolescenza: una donna strana sotto molti aspetti. Spesso mi domando: c'era veramente qualcosa che non voleva perdere, in quel laghetto? E ricordo che, in fin dei conti, il "paesaggio" da noi costruito sul bordo del bacino era molto simile a quello reale, con la siepe e tutto, e che la bambola che non ho più rivisto era stata spinta nell'acqua vicino alla siepe in miniatura che rappresentava quella confinante con la casa dei Fallon. Penso di non averci riflettuto, da bambino: solo la mente di un adulto può essere così contorta. Quella sera mio padre tornò a casa tardi, con un'espressione molto seria. Mia madre se ne accorse subito. «John, è successo qualcosa!» gridò. «Non hai saputo niente?» «No, di che si tratta?» «La signora Fallon. Si è annegata nel fiume questo pomeriggio.» «Oh, è orribile!» «Abbiamo appena trovato il corpo. Era piuttosto in fondo, perché qualcosa lo tratteneva: radici, una pietra o che so io. Dio sa perché si è voluta togliere la vita, ma è andata così.» Ricordo quanto fui contento per Jamie: e anche lui era contento, anche
se cercava di non farlo vedere a nessuno tranne alla signorina Esperson e a me. Ma ora, ripensandoci, ricordo il soprannome che i negri avevano affibbiato alla signorina; ricordo la strana bambola con i capelli rossi e intuisco la caratteristica principale dei suoi meravigliosi occhi neri: il profondo, insondabile mistero che nascondeva qualcosa di più di quanto ai bambini sia dato vedere. Titolo originale: Miss Esperson Postilla In una civiltà prescientifica doveva sembrare naturale che il simile agisse sul simile: è questo il principio della "magia simpatica". Così, se si vuole propiziare la crescita del raccolto si organizzeranno orge lungo i solchi appena scavati: non solo è divertente, ma è un modo per dare qualche buon suggerimento agli dei e dee della natura. Ancora: se si vuole provocare la pioggia si verserà dell'acqua al suolo, accompagnando il procedimento con opportune parole d'incoraggiamento alla divinità, o se si preferisce con suppliche abbiette. Dato che la natura della gente è tendenzialmente malvagia, uno degli obbiettivi più ambiti è procurare il male del nemico: in tal caso si fabbricherà una bambola di cera della persona odiata e la si farà sciogliere lentamente al fuoco. Come l'immagine perde la sua forma e si scioglie, così il nemico soffre e infine morirà. Un'alternativa consiste nel trafiggere la figura di cera con spilloni: il nemico sentirà dolore dove entra la spilla. Ovviamente, bisogna che l'immagine sia veramente quella della persona odiata: e poiché non è probabile che siamo tanto bravi da rendere la somiglianza perfetta, potremo aiutarci attaccando alla bambola qualcosa che appartenga effettivamente alla vittima: una ciocca di capelli o le unghie, per esempio. C'è qualcosa di efficace in questo metodo, ma in modo indiretto. Se il nemico sa che stiamo lavorando contro di lui e crede nella magia simpatica, può darsi che muoia veramente: a volte la suggestione è nefasta. Se un medico di cui ci fidiamo leggesse la radiografia sbagliata e prevedesse la nostra morte nel giro di sei mesi per un cancro incurabile, non mi stupirei se ciò accadesse davvero. (Fra parentesi, chi è dotato di facoltà extrasensoriali o ESP viene definito "esper"; di qui il titolo del racconto.) I.A.
CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Stuart Cloete, "The Second Nail", in «Ellery Queen's Mystery Magazine», gennaio 1968. Stephen King, "So di cosa hai bisogno" ("I Know What You Need") in A volte ritornano, Sonzogno, Milano 1982. R. H. Le Normand, "Moroccan Spring", in The Best French Short Stories of 1923-24, a cura di Richard Eaton, Small, Maynard & Co., Boston 1924. Theodore Sturgeon, "Un modo di pensare" ("A Way of Thinking") in E Pluribus Unicorn, Fanucci, Roma 1985. William Tenn, "Mistress Sary", in Young Witches and Warlocks, a cura di Isaac Asimov, Martin H. Greenberg e Charles G. Waugh, Harper & Row, New York 1987. Telepatia IL GUARDONE di Judith Merril Prendete un ragazzo come Tommy Bender: un bravo ragazzo americano venuto su in una famiglia simpatica, normale, della classe media; un giovanotto imbottito di vitamine e pronostici sul baseball, di maniere cortesi, sempre rasato, con un linguaggio decente, rispettoso delle donne e degli anziani. Prendete un ragazzo come questo, mettetegli un'uniforme, insegnategli a usare gli ultimi strumenti di massacro, premiatelo con una mostrina d'oro e mandatelo in un'esotica terra d'oriente a dimostrare la sua virilità e il suo patriottismo. Prendete un ragazzo come questo. Mandatelo a combattere in un inferno di giungla fumante, insegnategli a sudare e a bestemmiare con convinzione, poi aspettate che faccia una mossa sbagliata, raccoglietelo da una pozza di sangue raggrumato, scacciate le mosche e mettetelo al sicuro in una branda d'ospedale, in una di quelle basi male organizzate nelle retrovie; tagliatelo fuori da tutti e da tutto, tranne il piccolo villaggio indigeno nei paraggi. Lasciatelo riposare e marcire un poco laggiù, poi portatelo a casa e appuntategli una medaglia, restituitegli i diritti civili e una pensione che accompagni la sua gamba zoppa. Prendete un ragazzo come Tommy
Bender, fategli tutto questo e non aspettatevi che sia ancora il giovanotto perbene di una volta, con le guance rosse come mele. Infatti non lo era più. Quando Tommy Bender tornò a casa, era totalmente disilluso e nutriva propositi minacciosi. Sapeva che cosa voleva dalla vita, non aveva troppe speranze di ottenerlo e il resto gli importava poco. In un tempo sorprendentemente breve fece capire ai vicini e agli amici di una volta che avrebbe raggiunto qualunque scopo si fosse prefisso: e infatti guadagnò denaro, fece l'amore, si fece dei nemici. Finalmente il suo successo fu tale che poté permettersi di ignorare i nemici come si ignora una ragazza che si è lasciata: a prendersene cura bastavano il denaro e le cose che con esso si possono comprare. Per quasi cinque anni dopo essere tornato a casa, Tommy Bender continuò a costruirsi una carriera e a rovinare reputazioni. La gente cercava di capire cosa gli fosse successo, ma non ci riusciva. E all'improvviso avvenne qualcosa che trasformò Tommy. Prima lo notarono i suoi soci in affari, poi i membri della famiglia. Le ragazze che frequentava all'epoca furono le ultime a saperlo, perché Tommy non si era mai legato a nessuna e il non sentirlo per due o tre settimane non era affatto insolito. La novità era appunto una ragazza. Si chiamava Candace e quando sposò Tommy, sette settimane dopo il suo arrivo, i giornali raccontarono la romantica avventura: era lei che l'aveva curato e guarito in quel remoto villaggio nella giungla, diversi anni prima. A quell'epoca Tommy se ne era già innamorato, ma lei l'aveva respinto. Quest'ultimo particolare sui giornali non c'era, ma fece il giro della città con la velocità del fulmine. La durezza di Tommy, a quanto sembrava, era dovuta a quest'amore inappagato. Chiunque poteva vedere come fosse cambiato da quando Candace era tornata da lui. I suoi dipendenti e i debitori, gli amici di una volta e le donne che aveva messo da parte, la mamma nervosa e il fratello furibondo sospirarono di sollievo e decisero che d'ora in poi tutto sarebbe andato per il meglio. Finalmente capivano. Ma non era così. Tanto per fare un esempio, non sapevano che cos'era successo a Tommy Bender nella piccola città dimenticata da Dio dove aveva passato due mesi a reggersi sulle stampelle, aspettando che la gamba guarisse quel tanto che bastava per permettergli di tornare a casa. Nella capanna faceva caldo ed era umido. Il materasso era tutto noduli.
La gamba gli prudeva fino a farlo impazzire e l'uomo alla sua destra russava in modo irregolare, imprevedibile, facendogli perdere la ragione. Quel che ci voleva per rendere completa la tortura erano il tizio alla sua sinistra... e l'infermiera. L'infermiera era giovane, morbida e liscia e portava una tenuta da guerra: pantaloni e una camicia kaki che con quel caldo le si appiccicava sempre al petto alto, sodo. I capelli, biondo scuro o nocciola chiaro, erano lunghi quel tanto che bastava a essere annodati in una piccola coda di cavallo, ma abbastanza corti da scappare al fermaglio per arricciarsi intorno alle orecchie e sulla fronte. Quando si chinava su di lui per aiutarlo a fare uno dei piccoli, umilianti servizi che non poteva più fare da solo, Tommy vedeva piccole gocce di sudore sul labbro superiore della ragazza, e questa era sempre la goccia che faceva traboccare il vaso. Così, quando lei si avviava verso il prossimo letto e usciva dalla baracca, era una tortura dover subire Dake - il tizio a sinistra - che si voltava verso di lui e descriveva esplicitamente quello che avrebbe fatto se avesse potuto estrarre dal gesso, per un quarto d'ora soltanto, il braccio che gli restava. Vedete, a quell'epoca Tommy Bender era ancora un ragazzo a posto: nonostante la guerra, la ferita, le mosche e l'ospedale che era quel che era. Dake non era niente di simile. Conosceva la vita, lui, e sapeva a che serve una donna. E gli piaceva parlarne. Tommy ascoltava perché non c'era modo di evitarlo, ma sudava e soffriva, e il prurito alla gamba peggiorò e il puzzo del mucchio d'immondizie davanti alla baracca diventò insopportabile. Continuò così, giorno dopo giorno e ora dopo ora, con l'unico diversivo della visita medica quotidiana, quando l'ufficiale si fermava davanti a lui, scuoteva la testa scoraggiato e passava al prossimo uomo. La gamba ci mise molto a guarire, ma tutto andò meglio quando Dake se ne andò e fu sostituito da un tizio che stava morendo tranquillamente, perché l'avevano colpito alla pancia. Dopo di lui arrivò un simpatico soldato nero, piuttosto imbarazzato di essere in mezzo a loro perché aveva solo i postumi di una banale appendicite. Se non altro, adesso Tommy poteva tenere per sé i suoi sogni su Candace e non vederseli rovinare. Ma un giorno, quando sembrava che niente sarebbe più cambiato a parte gli occupanti dei letti accanto al suo, avvenne qualcosa che interruppe la monotonia dello sconforto e dell'avvilimento. L'ufficiale medico si fermò un po' più a lungo davanti al letto, osservò l'ordinata cartella che Candy
aggiornava continuamente e aggrottò la fronte, preoccupato. Poi mormorò qualcosa a Candace, e anche lei sembrò preoccupata. Dopodiché si voltarono entrambi verso Tommy e lo guardarono come se lo vedessero per la prima volta. Candy sorrise, ma il medico aggrottò la fronte ancora più severamente. «Ebbene, giovanotto, adesso ti permetteremo di alzarti.» «Grazie, doc» disse Tommy, parlando come si suppone che debba fare un GI. «E della gamba che ne faccio, la lascio a letto?» «Ah-ah» rise il dottore. Proprio così. «Mi fa piacere vedere che non hai perso il tuo spirito.» Poi passò al letto successivo e Tommy cominciò a farsi qualche domanda. Che ne avrebbe fatto della gamba? Quel pomeriggio vennero da lui con una barella e lo portarono nella baracca medica, dove gli tolsero il gesso. Stavano tutti intorno a lui, cinque o sei quanti erano, e guardavano la gamba scuotendo la testa. Tutti d'accordo che era un brutto affare. Poi gli fecero un'ingessatura nuova, più leggera dell'altra, e gli diedero un paio di stampelle, dicendo: «Okay, ragazzo, adesso te la devi cavare da solo». Un infermiere gli insegnò come usarle e lo aiutò a tornare a letto. Il giorno dopo Tommy fece un po' di pratica e quello successivo riusciva a camminare. Ma c'era una bella differenza. Tommy Bender era un normalissimo ragazzo americano, con tutte le inclinazioni del caso. Era stato per settimane e settimane nella giungla, e altre settimane steso a letto in ospedale. Non era strano che avesse una netta tendenza a seguire Candy dovunque andasse, adesso che poteva muoversi di nuovo. L'inseguimento non implicava particolari speranze, era un fatto istintivo. Non le fece mai una proposta diretta. Sbrigava per lei certe piccole commissioni, l'aiutava in qualunque modo potesse ora che sapeva usare le stampelle. Lei non era certo scontenta di questa devozione, ma non era nemmeno portata, come lui sapeva, a provare un qualsiasi sentimento romantico nei suoi confronti. Una volta o due, su consiglio dei camerati più esperti, fece qualche avance alle altre infermiere, ma ricevette sempre la stessa, cortese risposta; dare la caccia alle infermiere non avrebbe giovato alla sua gamba. In gran parte Tommy accettava i loro rimbrotti, come ogni bravo ragazzo, e continuava a trafficare intorno a Candy. Fu lei che, quasi inavvertitamente, gli offrì l'occasione giusta. La vide al-
lontanarsi dalla base una sera presto, carica di pacchetti e a piedi. Era sola, e se per un GI tutto questo sarebbe stato perfettamente normale, per un'infermiera era straordinario. Inoltre, Candace uscì dal campo così furtivamente che solo Tommy se ne accorse. In un primo momento esitò a seguirla, poi i pericoli a cui poteva andare incontro lo impensierirono e, buttata al vento ogni cautela, si incamminò sulla piccola strada dietro di lei. Candy lo sentì e si voltò a guardarlo, poi si fermò ad aspettarlo. In un primo momento fu irritata, ma all'improvviso cambiò idea. «Va bene, vieni con me» disse. «Vado solo a fare una visita. Non puoi entrare nel posto dove vado, ma se vuoi puoi aspettarmi e riportarmi indietro.» Tommy non avrebbe potuto essere più contento. O curioso. Poco dopo arrivarono nel villaggio indigeno, dove Candace perse un po' l'orientamento. Guidò Tommy e le sue stampelle su e giù per una quantità di stradine sudice e di vicoli dall'aspetto malsano prima di individuare la piccola capanna di fango che cercava, con una larga striscia di argilla azzurra sopra la porta. Mentre la cercavano Candy spiegò nervosamente a Tommy che era lì per mantenere una promessa fatta a un soldato morto, il quale, in un momento di apparente miglioramento prima della fine, aveva fatto amicizia con un vecchio del villaggio. Il GI moribondo le aveva affidato una serie di messaggi e doni per l'amico, i più importanti fra i quali erano una busta chiusa e la sua razione di sigarette del mese scorso. Questo era avvenuto tre settimane prima, ma lei ci aveva messo un po' a trovare il coraggio di compiere l'impresa. Adesso, ammise, era proprio contenta che Tommy fosse venuto con lei. Quando finalmente trovarono la capanna, davanti a loro apparve un vecchio relativamente pulito che sedeva a gambe incrociate accanto alla porta e indossava una lunga tunica grigia con un cappuccio ripiegato dietro la testa rasata. Accanto al vecchio c'era una ciotola da mendicante e Tommy propose che Candace lasciasse i doni nella ciotola. Ma quando lei si chinò per farlo, il vecchio alzò la testa e le sorrise. «Sei un'amica del mio amico Karl?» chiese in un inglese sorprendentemente buono. «Be'... sì» rispose Candace. «Sì, Karl Larsen. Mi ha detto di portarti questi...» «Ti ringrazio. Sei stata molto gentile a venire così presto.» Il vecchio si
alzò e aggiunse, rivolgendosi a lei e ignorando Tommy: «Vuoi entrare a bere un po' di tè con me e a parlarmi della sua morte?». «Ma io...» Poi sorrise anche lei, di nuovo a suo agio. «Sì, ne sarò lieta, grazie.» E aggiunse: «Tommy, ti dispiace aspettarmi? Sarei... contenta di tornare indietro in compagnia. Non ci vorrà molto; più o meno...». Guardò il vecchio che aspettava, sorridendo. «... Mezz'ora» concluse. «Sì, più o meno» disse il vecchio, nella sua chiarissima pronuncia americana. «Il tuo amico vorrà visitare il nostro piccolo villaggio, nel frattempo. Potrete incontrarvi più tardi davanti alla mia porta.» «Ma certo» disse Tommy, che non lo era affatto. Perché aveva appena cominciato a parlare quando si rese conto che non aveva intenzione di muoversi di lì finché Candy fosse rimasta dentro. Avrebbe fatto la guardia, con le orecchie tese. Eppure, nel giro di qualche secondo gli si formò nella mente una vivida immagine di come avrebbe ingannato l'attesa. E andò proprio così. Candy aveva appena attraversato la porta sormontata dalla banda azzurra quando all'altezza del gomito di Tommy apparve un ragazzetto. L'inglese del ragazzo non era assolutamente paragonabile a quello del vecchio: sapeva solo due frasi, ma erano sufficienti. La prima era: «Tu sigarè?». E la seconda: «Io sorè». Tommy si frugò nelle tasche, prese un pacchetto mezzo pieno, osservò lo sguardo di approvazione del ragazzo e mosse le stampelle per seguirlo. Attraversarono parecchie stradine tortuose e sbucarono su un sentiero che portava nella foresta. Tommy aveva cominciato a preoccuparsi quando arrivarono in una piccola radura e un attimo dopo "Sorè" uscì da dietro un albero in fondo. Era giovanissima, ma anche molto attraente: pelle liscia, graziosa, un po' formosa... Qualche tempo dopo, quando ritrovò la strada verso la porta con la banda azzurra, vide Candy che lo aspettava già e sembrava impensierita, o forse un po' triste. Non aveva molta voglia di fare conversazione, proprio come Tommy, e tornarono alla base senza quasi rivolgersi la parola. Una volta o due Tommy notò che il silenzio di lei era dovuto a riflessioni meno allegre delle sue, ma in quel momento si sentiva troppo bene nell'anima e nel corpo per preoccuparsi troppo di un simbolo pur desiderabile della femminilità americana come Candace, la bella infermiera. Non per questo la sua devozione nei confronti della ragazza diminuì. La sognava ancora, ma i sogni erano più piacevolmente romantici e meno os-
sessivamente carnali. E quando scopriva che le fantasie su di lei prendevano una strada impropria, faceva una passeggiata al piccolo villaggio e riguadagnava quella che gli sembrava un'attitudine più adatta e naturale verso la vita e l'amore in generale. Ma venne il giorno, inevitabilmente, in cui il piccolo intermediario non si fece più vedere e Tommy andò da solo nella radura in cui di solito incontravano la sorella, ma era tranquilla e deserta. Tornato al villaggio, vagabondò senza meta fra le strade strette e tortuose finché si trovò davanti alla porta sormontata da una banda azzurra dove viveva il vecchio la cui amicizia con un GI morto aveva messo in moto tanti avvenimenti. «Buongiorno, signore» disse il vecchio, e Tommy si fermò educatamente a restituire il saluto. «Cercavi il tuo giovane amico?» Tommy annuì e sperò che il calore che sentiva sotto le guance non si vedesse. Le chiacchiere di paese, a quanto pare, sono le stesse in ogni parte del mondo. «Penso che sarà occupato ancora per un po'» disse il vecchio spontaneamente. «Forse un'ora... Sua madre gli ha chiesto di fare una commissione in un altro villaggio.» «Bene, grazie» ribatté Tommy. «Forse tornerò oggi pomeriggio, se posso. Grazie mille.» «Puoi aspettarlo con me, se vuoi. Sei il benvenuto» disse il vecchio in fretta. «Posso invitarti a bere un tè in casa mia?» Tommy era un ragazzo educato. Gli avevano insegnato a rispettare gli anziani, anche il vecchio giardiniere di colore che veniva a tagliare la siepe. Sapeva che l'invito a bere un tè si può rifiutare solo per ottime ragioni. Lui non ne aveva, anzi, non vedeva l'ora di rivedere la sua bruna bellezza. Quindi vinse la naturale ritrosia a entrare in una delle capanne indigene infestate senz'altro dai parassiti, ringraziò cortesemente il vecchio e accettò l'invito. Quei pochi passi, l'attraversamento della porta sotto la fascia azzurra e l'ingresso nella capanna di terra e fango furono, senza dubbio, i più importanti della sua giovane vita. Quando Tommy uscì, due ore dopo, in superficie non c'era niente che mostrasse il cambiamento... tranne, forse, un'espressione più pensierosa del solito. Ma quando il fratellino della ragazza lo inseguì nelle strade del villaggio, lui si limitò a scuotere la testa. E siccome il ragazzo insisteva, il soldato rispose brevemente: «Non ho sigarette».
Era un'affermazione senza sfumature di rimpianto, come pure ci si sarebbe potuti aspettare. Era l'impaziente congedo di un uomo immerso in affari troppo importanti per pensare alle sigarette o al loro valore come merce di scambio. Non che Tommy avesse perso il suo vivace interesse per i piaceri della carne: aveva semplicemente acquisito una maggior lungimiranza. Ormai aveva piani per il futuro, e nei suoi progetti non c'era posto per una ragazza indigena il cui affetto si poteva ottenere in cambio di mezzo pacchetto di Camel. Seguendo il sentiero nella giungla con l'aiuto delle stampelle, Tommy concepì speranze e ambizioni su cui non si era mai soffermato. Obbiettivi che una volta gli erano sembrati irraggiungibili adesso erano a un passo da lui, ed era già pronto a fare quanto necessario per colmare quell'ultima lacuna. Tommy era diventato apprendista di un telepate. Il modo in cui era avvenuto e l'incredibile idea della lettura del pensiero sembravano, adesso, fatti del tutto naturali. Dentro la capanna formata da una sola stanza il vecchio si era presentato come Armod Così-e-così. (Il cognome era una confusione di consonanti che cozzavano una contro l'altra e di vocali dalla strana inflessione che Tommy non riuscì mai a decifrare.) Poi il vecchio l'aveva invitato a mettersi comodo e aveva cominciato a preparare il tè, versando l'acqua da un'ampolla di vetro a forma di cigno in una teiera di rame brunito che due graziose catene tenevano sospesa a un tripode in ferro battuto su una stufa di ferro Sterno, di quelle più diffuse. Un accomodamento tipico, perché nella capanna l'oriente e l'occidente si incontravano continuamente e con il minimo attrito, una volta superato il primo impatto e vinta la sensazione psicologica di spaesamento. In un primo momento Tommy si era sistemato su un basso divano, in realtà poco più di un materasso indigeno appoggiato a un reticolo intrecciato e messo a coprire un'intelaiatura che si alzava pochi centimetri dal suolo, sorretta da zampe scolpite nell'avorio. Dopo un poco, però, si era accorto che non era molto comodo per un ragazzo dalle gambe lunghe e il fisico robusto come il suo: la maggior parte del corpo sporgeva sul linoleum che riproduceva un disegno a mattonelle rosse e bianche e copriva quasi tutto il pavimento di terra. Tommy aveva notato che le stampelle avevano lasciato una traccia di impronte tonde e polverose sulla superficie altrimenti immacolata. Aveva strofinato l'estremità imbottita delle stampelle con il fazzoletto pulito e si era rimesso in piedi, dolorosamente.
La capanna era incredibilmente pulita. Tommy si era guardato intorno, lieto dell'assenza di qualunque forma visibile di insetti, e aveva esaminato il bizzarro contenuto della stanza, trattenendosi per educazione dal fare le molte domande che gli erano venute in mente. L'arredamento consisteva principalmente in bassi tavolinetti e sgabelli, con qualche mensola fissata chissà come alle pareti d'argilla. C'era un grande, magnifico baule di mogano che avrebbe potuto contenere il tesoro di Alì Babà e in un angolo, su un tavolo di teak con un cuscino per sedile, stava una grande e lucente macchina da scrivere americana ultimo modello. Uno scaffale di libri vicino al tavolo aveva attratto la curiosità di Tommy e il vecchio, senza voltarsi, lo aveva invitato a esaminarlo. Anche lì una strana miscela di oriente e occidente: libri nuovi di filosofia, psicologia, semantica e cibernetica pubblicati in Inghilterra e America; altri, in minor quantità, riguardavano lo spiritismo, i fenomeni occulti e la radiestesia. Mescolati a questi volumi, apparentemente a caso, ce n'erano alcuni bassi e tozzi, altri alti e sottili, scritti in alfabeti a lui non familiari o addirittura coperti di ideogrammi. Sulla parete che sovrastava lo scaffale c'erano due strisce di pergamena (come a volte si vedono nelle case orientali) coperte di ideogrammi vivacemente illuminati. In mezzo alle pergamene era incorniciato un documento che riconosceva ad Armod il diritto a praticare la medicina nello stato dell'Idaho, USA. Tutto considerato, a Tommy non era parso strano che il vecchio rispondesse prontamente e in modo esplicito alle molte domande che la sua collezione di bizzarrie faceva venire in mente. Anzi, c'era voluta più di un'ora perché si rendesse conto che l'ospite rispondeva coerentemente ai suoi pensieri, più che alle parole. E c'era voluto anche di più perché lui accettasse di sottoporsi al semplice esperimento che l'aveva avviato al nuovo campo di studi. Non molto, comunque. Un'ora dopo aver messo piede nella capanna per la prima volta, Tommy Bender si era trovato a fissare otto strisce di carta bianca su cui erano scritti, una parola per ogni striscia, i nomi di altrettanti oggetti della stanza. La grafia era chiara, precisa e meticolosa, non come i pensieri nella testa di Tommy. Aveva "indovinato" cinque degli otto oggetti prendendo in mano, successivamente, le varie strisce di carta ingiallita e aveva cercato di convincersi che si trattava di una coincidenza, o che sotto ci fosse un trucco. La mano è più svelta dell'occhio... Ma era la sua mano a
tenere le strisce di carta, ed era lui a srotolarle dopo aver tentato di indovinare il nome. E la calma di Armod non l'aiutava sulla strada dello scetticismo. «E va bene» aveva detto Tommy, incerto. «Cosa ti fa credere che io possa farlo?» «Chiunque può farlo» aveva risposto tranquillamente Armod. «Per alcuni è più facile che per altri. Altra cosa è tenere la facoltà sotto controllo, imparare a servirsene bene e ogni volta che si vuole, ma è un senso di cui disponiamo tutti.» Tommy era rimasto un po' deluso: che ci credesse o no, preferiva pensare che fosse una dote speciale. Armod aveva sorriso della sua delusione. «Per te credo sia più facile che per altri. Tu sei... ah, disprezzo il vostro gergo psicologico, ma non c'è altro modo per farti capire. Ebbene, sei in pace con te stesso. Rilassato. Nella tua personalità ci sono pochi conflitti fondamentali, quindi puoi pescare più facilmente nel... No, non si tratta dell'inconscio. È una parte della mente che finora non hai mai usato. Puoi farlo, con l'opportuno addestramento. Ti basta esserne cosciente ed esercitarti.» Tommy ci aveva riflettuto, e una a una le potenzialità della cosa si erano affacciate alla sua mente. «Vuoi dire che potrei leggere il pensiero come fanno a teatro? Potrei diventare un professionista?» «Se volessi. Ma pochi di quelli che sostengono di leggere nella mente per divertimento sono capaci di farlo. E pochi di quelli che hanno la dote e hanno imparato a disciplinarla la usano in questo modo. Tu... ah, vedo che cominci a renderti conto di alcune possibilità» aveva detto il vecchio, sorridendo. «Continua» l'aveva esortato Tommy con un'espressione di complicità. «Dimmi cosa sto pensando adesso.» «Sarò molto scortese, ma te lo dirò... Non credo che tu abbia molte possibilità di successo con lei. È una ragazza strana. Altre... penso che ti stupirebbe scoprire che le ragazze riservate come lei molto spesso sembrano promettenti anche se in realtà non vogliono affatto.» «Sei ingaggiato» aveva detto Tommy. «Quando cominciano le lezioni, e a che prezzo?» Il prezzo era niente, ma la pratica era dura. Tommy dovette smettere di fumare, ne soffrì, superò il brutto momento e rivolse tutta la sua attenzione ai procedimenti che servivano a risvegliare la "consapevolezza". Rimaneva
sdraiato per ore sulla branda o andava a sedersi su una collina solitaria nel sole del pomeriggio, imparando a sentire la presenza di ogni parte di sé e del mondo che lo circondava. Imparò una decina di modi diversi di respirare e scoprì come ognuno di essi cambiava, almeno entro certi limiti, il modo in cui il resto del corpo "avvertiva" le cose. Scoprì come diventare assolutamente ricettivo alle impressioni e sensazioni che avevano origine fuori di lui, e in seguito come escluderle ed essere consapevole solo del funzionamento del proprio organismo. Si rese conto che poteva sentire il cuore che batteva e lo stomaco che digeriva il cibo, e più tardi immaginò di sentire la ferita alla gamba che poco a poco guariva. Pensò di poterla addirittura aiutare. Riferì quest'ultima notizia ad Armod con eccitazione, mentre gli consegnava l'intera razione di sigarette; ma fu deluso dall'indifferenza con cui il suo mentore accolse queste concitate rivelazioni. «Se sprechi la tua sostanza in cose banali come queste» rispose Armod finalmente, costretto dalle sue insistenze «impiegherai molto più tempo ad arrivare alla piena comprensione.» Mentre percorreva il sentiero nella giungla reggendosi sulle stampelle, Tommy rifletté e arrivò alla conclusione che avrebbe fatto a meno della telepatia per un bel pezzo, se in cambio fosse riuscito a camminare di nuovo con i suoi piedi. I progressi che stava facendo erano puramente illusori, si disse: ma cambiò idea quando i medici gli cambiarono il gesso. Da allora in poi fu convinto. Quella strana faccenda stava producendo un qualche effetto. Forse gli avrebbe veramente permesso di fare quello che Armod diceva. Due settimane dopo Tommy ebbe la prima certezza. Ormai era piuttosto bravo nel leggere i pensieri di Armod, ma sapeva che il vecchio lo "aiutava" eliminando tutte le barriere che si frapponevano alla sua invasione. La gente aveva difese abituali che non sapeva nemmeno come abbassare. Passare attraverso le mura della verbalizzazione, delle reazioni abituali, della sofferenza, della rabbia e della paura per scoprire quello che avveniva nel cervello telepaticamente "inerte" di una persona richiedeva abilità e determinazione. Quel primo lampo non si poté assolutamente definire "lettura del pensiero". Tommy non sentì parole e non vide immagini, ma fu sopraffatto da un'ondata di sensazioni. Era sicuro che non appartenessero a lui perché stava tornando da una seduta in collina in cui era riuscito a individuare con notevole chiarezza tutte le sensazioni espresse in quel momento dal suo
corpo. Stava attraversando quello che chiamavano risibilmente "prato" - una striscia di terreno nudo decorato con erbacce tropicali inradicabili che si estendeva dalla mensa comune all'infermeria ed era circondata dagli edifici delle baracche - quando fu raggiunto da un'ondata di emozioni senza precedenti. Conteneva elementi di affetto, interesse e (qui Tommy dovette controllare una seconda volta per esserne certo) desiderio. Desiderio di un uomo. Era praticamente certo che la sensazione non appartenesse a lui ma a qualcun altro. Si guardò intorno, improvvisamente sgomento e consapevole di una difficoltà a cui non aveva pensato. Che stesse ricevendo le emozioni di un'altra persona era sicuro, ma non sapeva di chi. Di fronte alla baracca medica un gruppo di infermiere stavano insieme e chiacchieravano. Non erano in vista altre persone. Tommy si rese conto, con tristezza, che la signora in amore non doveva trovarsi necessariamente davanti ai suoi occhi. Aveva imparato diverse cose sulla natura della telepatia e sapeva che poteva penetrare le barriere fisiche con relativa facilità. Poi ebbe un'intuizione... Ne sapeva abbastanza, ormai, per capire almeno in parte il senso della parola "intuizione". Smise deliberatamente di pensare, almeno per quanto poteva, e seguì il proprio intuito attraverso il prato, verso il gruppo di infermiere; quando si fu avvicinato fece in modo che l'istinto prendesse totalmente il sopravvento. Invece di mettersi a parlare con loro, fece l'atto di avviarsi verso la baracca. «Ehi, tenente» disse una di loro, e Tommy tese i muscoli per non ridere di piacere. Si voltò con aria innocente e uno sguardo interrogativo. «L'infermeria è chiusa, ormai» disse la piccola rossa con fermezza. Non era quella che l'aveva chiamato: doveva essere la gran bionda, ne era quasi sicuro. «Ah sì?» ribatté Tommy. «Mi sono allontanato dalla base e laggiù, sulla collina, un insetto mi ha morso. Ho pensato che dovevo farci mettere qualcosa: non si può mai dire, con le bestiacce che allevano da queste parti.» L'osservazione era diretta a tutte, e Tommy l'accompagnò con un sorriso furbesco che, gli avevano detto, lo rendeva affascinante perché sembrava un ragazzino; contemporaneamente si tirò i pantaloni sulla gamba buona e mostrò un gonfiore che per fortuna era lì da due giorni. «Una gamba fuori uso è abbastanza, per me» aggiunse. «Così ho pensato che devo trattare
con un occhio di riguardo quella che funziona.» Poi alzò gli occhi e fece un sorriso alla gran bionda. Lei osservò il quadrato di pelle esposta con apparente indifferenza, esitò, fece tintinnare una chiave in tasca e disse all'improvviso: «Va bene, signorino». Una volta entrati nella baracca lei chiuse a chiave senza aver l'aria di fare niente di straordinario. Prese un tubetto da un armadio appoggiato alla parete e gli disse di mettere la gamba sul tavolo. Fu in quel momento che Tommy capì il grande valore di quello che aveva imparato e in che modo poteva servirsene. Nelle parole e nei rapidi movimenti di lei non c'era niente che facesse trapelare le sue emozioni. Mentre stendeva la pasta disinfettante sul morso e lo copriva con una striscia di garza continuò a parlare del più e del meno senza far trasparire minimamente il fatto che lui le piacesse. Tommy non doveva far altro che dare le risposte giuste: ma ce n'erano due tipi. A voce alta descrisse con appropriato umorismo le dimensioni e l'aspetto mostruoso dell'insetto che tutti e due sapevano non l'aveva morso, e mentre continuava a parlare e a scherzare come se fosse ancora un bravo ragazzo americano sentì che lei lo desiderava a tal punto che si creò una momentanea confusione tra ciò che lei voleva e il modo in cui lui si comportava. Poi i suoi occhi incontrarono quelli della ragazza, senza più alcuna relazione con le frasi che continuavano a scambiarsi, e le fecero capire che anche lui sapeva. Ogni volta che la mano di lei toccava la sua gamba, era più difficile scherzare. Quando si fece troppo difficile, Tommy non ci provò più. Più tardi, sdraiato sulla branda nelle baracche, riesaminò l'episodio con approvazione e prese mentalmente nota di un fatto importante. L'unico atto scoperto che la ragazza avesse fatto (chiudere a chiave la porta) era stato accompagnato da un forte e isolato pensiero che era sorto in lei all'improvviso: "Non mi toccare!". Allo stesso modo, più lo desiderava più si comportava in maniera professionale. Senza l'aiuto della speciale finestra a senso unico nella mente della ragazza, Tommy si rese conto che avrebbe fatto la sua mossa nel momento sbagliato, ammesso pure che ne avesse il coraggio. Così, invece, aveva aspettato fino a quando lei non aveva più avuto ragione di credere che Tommy avesse notato la manovra alla porta. Questa era la Lezione Numero Uno con le donne: Aspetta! Aspetta di essere sicuro che lei sia sicura. Tommy se lo ripeté contento mentre prendeva sonno, e solo un piccolo rimpianto offuscò la sua gioia: non era Candace...
La Lezione Numero Due arrivò più lentamente, ma Tommy era un ottimo allievo e la imparò altrettanto bene: Non aspettare troppo! La stessa manovra che poteva indurre una ragazza bendisposta a sollevare letteralmente le gambe da terra, dieci minuti più tardi avrebbe potuto fruttargli nient'altro che uno schiaffo in piena faccia. Nel giro di dieci minuti, infatti, la ragazza poteva decidere che lui non era interessato (e quindi sentirsi offesa), che non aveva abbastanza esperienza per combinare qualcosa (e perciò meritava disprezzo) oppure che mancava della minima sensibilità e non l'avrebbe mai capita (risultato: una combinazione di offesa e disprezzo). Erano due lezioni che Tommy studiò assiduamente perché definivano i limiti di quel notevolissimo punto nel tempo che si chiama il momento giusto. L'aiuto più consistente che gli veniva dalla sua nuova facoltà era la capacità di individuare quel punto con sempre maggiore abilità. La qualità più notevole della mente umana è la sua attività costante: è raro l'uomo - e ancor più rara la donna, com'è noto - che su un determinato argomento ha un solo punto di vista ed è capace di mantenervisi fedele. Tommy scoprì ben presto che per ottenere qualsiasi cosa, da una vincita di cinque dollari a poker a un appuntamento con una delle infermiere, il modo migliore consisteva nell'aspettare il particolare momento in cui l'altra persona voleva effettivamente dargliela. Bisogna notare che durante questa fase Tommy Bender mantenne una certa etica. Dopo le prime due partite smise di giocare a poker. Forse fu frenato dal fatto che le voci sulla sua "fortuna" giravano un po' troppo liberamente, ma è più probabile che il gioco avesse perso mordente, E poi, in un posto sperduto come quello non aveva bisogno di denaro. Quanto alla sua progressiva amarezza, il processo era appena cominciato. Tre settimane dopo l'episodio all'infermeria, Tommy ricevette l'ordine di trasferimento in un ospedale governativo. E in quel breve periodo, benché impedito dal gesso e dalle stampelle, fece tali e tante esperienze con le donne che i successi di tutta la sua vita furono eclissati. Né mancò qualche sorpresa. Che Tommy fosse un ragazzo educato e avesse un comportamento etico l'abbiamo già detto. Aveva anche una morale: pensava di dover andare in chiesa più spesso, dava per scontato, e fino a prova contraria, che tutte le donne non sposate fossero vergini e in compagnia non usava mai (o quasi mai) un linguaggio volgare. Cose del genere. Una delle sorprese - una delle più modeste - fu il linguaggio che alcune delle ragazze conoscevano. La maggior parte, in fin dei conti, erano infer-
miere, rifletté; quando i soldati soffrivano o erano in delirio le obbligavano a sentire di tutto, ma questo non spiegava la chiarezza con cui esse capivano certe parole. E quelle che parlavano in maniera educata erano spesso le più sboccate a livello mentale. I difetti degli uomini Tommy riusciva ad accettarli; erano le donne che lo lasciavano sbigottito. Non che mancassero le ragazze "pure": c'erano, come lui scoprì con orrore. Ma un certo tipo d'innocenza femminile in cui aveva creduto fin da ragazzo semplicemente non esisteva. Le poche che restavano vergini rientravano in due categorie: quelle che erano così convinte della propria mancanza di attrattiva da non accorgersi quando qualcuno si interessava a loro e quelle vittima di un malsano miscuglio di paura e disgusto su cui Tommy non riusciva mai a soffermarsi a lungo. In linea generale, le ragazze che non andavano in cerca degli uomini (cosa che le altre facevano con gratificante ma immorale entusiasmo) erano vittime del terrore e del disgusto, oppure abili calcolatrici che decidevano pro o contro una storia d'amore a seconda del profitto che potevano ricavarne, che si trattasse di denaro immediato o delle promesse racchiuse in un futuro e vantaggioso matrimonio. In questo quadro generalmente sgradevole c'era una sola eccezione. Nonostante il suo disincanto, e con vivo piacere, Tommy scoprì che Candace rispondeva veramente al suo ideale di ragazza americana. La sua mente era un luogo ordinato e piacevole, pieno di dolcezza e una sorta di simpatia generalizzata verso gli altri. I pensieri che nutriva sulla maggior parte delle cose erano interessanti e anch'essi ordinati. Era ben informata ma in modo indiretto, come se non avesse esperienza personale della vita e aspettasse con trepidazione e in maniera un po' vaga il giorno in cui avrebbe fatto quell'esperienza anche lei: un giorno che apparteneva a un futuro ancora incerto, in cui si vedeva felicemente innamorata e sposata. Quando fu sicuro che le cose stavano così, Tommy le chiese di sposarlo e Candace prontamente rifiutò. Questo, almeno per il momento, mise fine al loro rapporto. L'infermiera continuò a occuparsi dei suoi doveri e delle faccende personali - quali che fossero - cui dedicava il tempo libero. Il soldato tornò alla parapsicologia, alle donne e alle sue delusioni. Tommy non aveva intenzione di portare questi problemi al suo maestro, ma Armod non aveva bisogno di aspettare che il giovane parlasse. Stavolta non fu né intransigente né impaziente, ma parlò ancora una volta della necessità di continuare lo studio fino a giungere alla "vera comprensione". Il suo tono era alternativamente supplichevole e incoraggiante, e a un certo
punto si scusò addirittura. «Non sapevo che avresti imparato così presto» disse. «Se l'avessi previsto... avrei fatto comunque quello che ho fatto. Non si può trattenere la conoscenza, e...» Armod s'interruppe, sorridendo gentilmente ma con grande tristezza. «La verità è che tu non hai chiesto la conoscenza. Sono io che te l'ho offerta, che te l'ho venduta! Perché non riuscivo a negarmi il piccolo piacere delle tue sigarette!» «Be'» disse Tommy, a disagio «ne hai fatto un buon uso, ti pare? Hai mantenuto la tua parola.» «Sì... no» si corresse il vecchio. «Non ho fatto altro che mostrarti la via. Il resto l'hai fatto da solo, come tutti gli uomini devono fare. Io non posso vedere, odorare o gustare qualcosa al tuo posto; allo stesso modo, non posso aprirti la strada verso il cuore degli uomini. Diciamo che ti ho dato una chiave e con essa hai aperto la porta. Ora sei in grado di vedere dall'altra parte, ma non capisci, non puoi capire ciò che vedi. È come se si mostrasse a un neonato, che sta appena imparando a usare gli occhi, uno spettacolo di morte violenta o un parto difficile. Il neonato vede, ma non sa...» Tommy si agitò sul basso divano, dove adesso riusciva a sedere comodamente perché imitava il vecchio e teneva le gambe incrociate sotto di lui. Ma in quel momento non era a suo agio: prese il bastone che aveva sostituito le stampelle e cominciò a giocherellare, sperando di potersene andare. Armod capì e disse in fretta: «Ascoltami, ora: sono vecchio e a mio modo debole, ma ti ho mostrato di avere certe conoscenze. C'è molto che devi ancora imparare. Se vuoi percepire con chiarezza le profondità dell'animo umano, è indispensabile che tu impari anche a capire...». Il vecchio continuò a parlare, ma il giovane l'ascoltava appena. Sapeva che fra una settimana sarebbe tornato a casa e non aveva senso parlare con Armod di continuare gli studi. Non c'era bisogno di continuare, e forse nemmeno voglia. Quello che aveva imparato, pensava Tommy, era abbastanza. Rimase seduto più calmo che poteva, pazientando finché il vecchio ebbe finito di parlare. Poi si alzò e mormorò qualcosa sul fatto che doveva tornare in tempo per il rancio. Armod scosse la testa e sorrise, ancora triste. «Non mi ascolterai. Forse hai ragione; come posso parlare a te di vera comprensione quando io stesso sono vittima dei desideri del mio corpo? Non sono adatto. Non sono adatto...» Tommy Bender era un ragazzo turbato. Poteva finalmente ottenere quel-
lo che voleva e non gli piaceva. Era grato ad Armod ed era arrabbiato con lui. La sua vita sembrava una serie di contraddizioni. Nella settimana che ancora gli restava di servizio al fronte, vagabondò in questo stato alterato. Poi, vinto dall'affetto e dal bisogno di scusarsi col suo maestro, decise di vederlo un'ultima volta. Passò la maggior parte del mattino a correre intorno alla base, rastrellando tutte le sigarette che poteva col denaro a sua disposizione e facendo un uso alquanto disinvolto delle facoltà insegnategli da Armod. Poi fece in fretta i bagagli. Doveva trovarsi all'aeroporto alle 14,00 e alle 11,30 lasciò la base per un'ultima passeggiata al villaggio, il bastone in una mano e due stecche di sigarette nell'altra. Trovò Armod che l'aspettava in uno stato di agitazione, come se attendesse la sua visita. Seguì la breve formalità del dono di Tommy e la sua accettazione; poi il vecchio lo invitò per l'ultima volta a bere il tè, e mise cerimoniosamente a bollire l'acqua nel recipiente di rame. Fecero entrambi uno sforzo e riuscirono a bere il tè senza allontanarsi da una conversazione cortese. Ma quando Tommy si alzò per andarsene, Armod sbottò. «Torna» lo supplicò. «Quando avrai finito il servizio militare e avrai il denaro per viaggiare, torna qui a studiare.» «Ma certo, Armod» disse Tommy. «Appena me lo potrò permettere.» «Sì, capisco. È quella che si chiama una bugia cortese. Non serve a convincermi, solo a mettere fine alla discussione. Ma ti prego, ascoltami ancora un momento. Adesso puoi vedere e udire nella mente, ma non sai parlare e tuttavia non puoi stare zitto. La tua interiorità è aperta a chiunque venga a guardarci e sappia come fare...» «Armod, ti prego, io...» «Tu puoi imparare a proiettarti come faccio io. A costruire barriere contro l'intrusione. Puoi...» «Stammi a sentire, Armod» lo interruppe Tommy, deciso. «Non ho bisogno di conoscere tutte quelle cose. Nella città dove sono nato non c'è nessuno che sappia farle, quindi non c'è ragione per cui debba tornare qui. Stai a sentire quello che farò: una volta a casa, ti manderò tutte le sigarette che vorrai...» «No!» Il vecchio balzò dal materasso sul pavimento e fece due rapidi passi verso lo scaffale su cui si trovava il dono di Tommy. Prese le due stecche e le gettò con disprezzo all'altro capo della stanza, in modo che cadessero sul divano accanto al soldato.
«No!» disse ancora, solo un po' meno agitato. «Non voglio le tue sigarette, non voglio niente, hai capito? Niente per me stesso! Voglio solo riguadagnare la pace mentale che ho perduto per la mia debolezza. Vai da un altro maestro, se vuoi.» Lottava per riconquistare la calma. «Ce ne sono molti in India, in Cina. Forse anche nel tuo paese. Vai da uno che sia più adatto di me, ma non fermarti adesso! Puoi imparare di più, molto di più!» Parlava e tremava dall'emozione, il corpo sottile scosso, gli occhi neri strabuzzati come se volessero schizzare dalla testa. «Quanto alle tue sigarette» concluse «non le voglio. Giuro adesso, e fino al giorno della mia morte, che non cederò più a questa debolezza.» Era un uomo sciocco ed eccitabile che avrebbe rimpianto le sue parole. Tommy si alzò, rendendosi conto che aveva sfoderato uno stupido sorriso di scusa e che non era capace di cancellarlo. Non raccolse le sigarette. «Addio, Armod» disse, uscendo per l'ultima volta dalla porta sormontata dalla fascia azzurra. Ma qualunque cosa i due uomini si aspettassero, e malgrado la volontà di Tommy, la sua educazione non si fermò a quel punto. Era già andata troppo lontano per fermarsi. Il processo di percezione e consapevolezza si perpetuava da solo, e benché non facesse più gli esercizi i suoi sensi diventavano sempre più acuti: sia a livello fisico che psicologico. Nell'ospedale governativo, dove la gamba migliorò rapidamente, Tommy ebbe l'opportunità di mettersi alla prova e indagare le sue capacità con le brave ragazze vecchio stampo che restavano a casa e non andavano alla guerra. A quell'epoca egli "vedeva" e "sentiva" con molta chiarezza. Quello che scoprì non gli piacque e fu la goccia che fece traboccare il vaso. Per tutto il tempo in cui era rimasto alla base-ospedale si era aggrappato all'idea che a casa le donne fossero diverse, che le ragazze mandate in avamposti così lontani dalla civiltà fossero esposte a tutta una serie di indecenze di cui le ragazze normali non avrebbero mai sentito parlare, né avrebbero dovuto. Non c'era da stupirsi che le ausiliarie diventassero ciniche e maligne. Ma a casa, come Tommy scoprì, le donne appartenevano molto più al secondo tipo che al primo. Quando Tommy Bender rientrò in patria nutriva minacciose intenzioni e una profonda delusione. Sapeva quel che voleva dalla vita, non sperava di ottenerlo e non si faceva molti scrupoli sui metodi che occorrevano a pro-
curarsi il resto. In breve tempo fece capire ai vicini e agli amici di una volta che era praticamente certo di ottenere tutto quello che voleva. Guadagnò molti soldi, fece l'amore e naturalmente si fece dei nemici. Nel frattempo, amici e vicini cercavano di capire. E credettero di esserci riusciti: possono succedere molte cose a un uomo quando è passato attraverso l'inferno della guerra e poi ha dovuto passare mesi a marcire e recuperare in un isolato ospedale da campo dell'Estremo Oriente. Ma ovviamente non potevano neanche immaginare quello che era capitato a Tommy. Non sapevano cosa vuol dire vivere in una spirale sempre più profonda di rabbia e delusione, imparando ad amare la gente sempre meno e inevitabilmente cosciente di quanto poco essa ci ami. Firmare un contratto con qualcuno e sapere che se potesse ti froderebbe: naturalmente non potrà se tu lo precederai. Ma la prossima volta in cui lo vedrai la scarica d'odio e invidia che ti scaglierà addosso ti farà tremare. Fare l'amore con una donna sapendo che non è quella giusta per te, o che tu non sei l'uomo giusto per lei. E incontrarla dopo... Tommy era uscito dal letto dalla parte sbagliata, nel peggior senso dell'espressione. La prima volta che si era aperto alla mente degli altri aveva visto brutture e paura da ogni parte, e quella prima impressione di amarezza nella sua mente aveva colorato tutto ciò che aveva visto da allora in poi. Per quasi cinque anni dopo essere tornato a casa, Tommy Bender non fece altro che pensare alla sua carriera e rovinare reputazioni. La gente cercava di capire quello che gli era successo... ma come poteva? Poi accadde qualcosa. Cominciò con una busta recapitata dalla posta del mattino. Sulla busta era scritto "Personale", quindi la segretaria non l'aprì e la lasciò sulla scrivania di Tommy insieme con altre tre o quattro buste quadrate, sottili e ovviamente non di lavoro. Come conseguenza, Tommy non lesse il messaggio fino al pomeriggio inoltrato, quando stava cercando di decidere quale ragazza vedere quella sera. Il mittente era "C. Harper, Hotel Albemarle, Topeka, Kansas". Non conosceva nessuno a Topeka, ma il nome Harper gli diceva vagamente qualcosa. Ne fu abbastanza incuriosito da aprirla per prima e le altre non furono aperte mai. "Caro Tommy", diceva. "Innanzi tutto spero che ti ricordi di me. È passato un bel pezzo, vero? Ho appena saputo da Lee Potter (la brunetta piccolina che arrivò al campo poco prima della tua partenza, te la ricordi?)" -
Tommy se la ricordava, e con un certo piacere - "che vivi ad Hartsdale e hai qualche conoscenza laggiù nel campo immobiliare. Ora volevo chiederti un favore... Ho appena saputo di essere stata nominata Aiuto Sovrintendente del Servizio sanitario ad Hartsdale e devo cominciare il lavoro il 22. Il problema è che non posso lasciare il mio posto qui fino al giorno prima. Mi chiedevo perciò se tu potessi aiutarmi a trovare un alloggio per quell'epoca. Una specie di servizio immobiliare per corrispondenza! "So di essere un po' presuntuosa a chiederti questo, perché probabilmente non ti ricorderai di me, ma spero che la cosa non ti secchi. Per favore non darti troppi pensieri: da quello che ha detto Lee mi sono fatta l'idea che ti occupi proprio di questo. Se non è così, non fa niente. Sono certa di potermi comunque arrangiare quando arrivo. "Grazie in anticipo per tutto quello che potrai fare. "Cordialmente", concludeva la lettera, "Candace Harper". Tommy rispose quello stesso giorno, inviandole un ricco elenco di case e prezzi preparato dal suo agente immobiliare. Che possedesse degli immobili era vero; che lavorasse nel campo non lo era affatto. Ma nella risposta a Candy non si addentrò in questi particolari: le disse solo con quanto piacere la ricordasse e che sarebbe stato felice di vederla di nuovo; poi aggiunse alcune domande sull'arredamento e le tappezzerie che preferiva. "Se il 21 arriverai abbastanza presto, che ne diresti di cenare con me? Fammi sapere quando arrivi, comunque. Mi farebbe piacere venirti a prendere e aiutarti a sistemarti." Negli undici giorni che seguirono Tommy visse in un felice turbine di preparativi, ricordi e aspettative. Negli anni che erano passati da quando aveva chiesto a Candace di sposarlo, non aveva incontrato nessun'altra che incarnasse così perfettamente l'ideale di donna che aveva quando era partito da casa. Tommy continuava a ripetersi che lei non era, non poteva essere la stessa persona. Anche un non-telepate si sarebbe sentito deluso e amareggiato, dopo cinque anni nel Meraviglioso Mondo del Dopoguerra. Non poteva essere la stessa... E infatti non lo era. Era più matura, più comprensiva e tollerante e, se possibile, più cordiale e gradevole di prima. Tommy andò a prenderla alla stazione, le offrì la cena e l'accompagnò al delizioso appartamentino dove, a sua insaputa, Candy avrebbe pagato solo metà dell'affitto. Lui rimase un'ora, sbrigò qualche commissione per suo conto, rimase un'altra mezz'ora e si rese conto che per quanto riguardava gli aspetti fondamentali non era cambiata affatto.
Non ci sarebbe mai stato un "momento giusto", con Candy: non prima del giorno del matrimonio. Tommy non avrebbe potuto essere più soddisfatto, tuttavia era cauto. Non le chiese di nuovo di sposarlo fino a tre settimane dopo, quando per due giorni consecutivi non riuscì a vederla per affari e impegni sociali. Se fossero stati sposati, avrebbe potuto portarla con sé. Quando glielo chiese, Candy fu all'altezza dell'opinione che si era fatta di lei. Disse che voleva pensarci. Quello che pensò fu: Oh, sì! È lui che voglio! Ma è troppo presto! Come faccio a essere sicura? In tutti questi anni non ha mai pensato a me... Eppure io aspettavo, speravo di sentirlo... Come fa ad essere così certo all'improvviso? Potrebbe pentirsi... «Fammici pensare qualche giorno, Tommy, va bene?» disse lei, e Tommy esitò a stringerla fra le braccia per paura di farle male. Quattro settimane dopo si sposarono, e quando Candy gli diede la risposta gli confessò quello che ormai Tommy già sapeva: che si era pentita di averlo respinto fin da quando lui aveva lasciato l'ospedale da campo e che aveva pensato a lui, con amore, nei lunghi anni trascorsi da quel momento. Candy era una moglie perfetta, proprio com'era stata un'infermiera perfetta, e una ragazza dei sogni ideale. Per anni si parlò del matrimonio dei Bender: fu una di quelle rare occasioni in cui va tutto per il suo verso. E la sposa era così bella... In luna di miele fu lo stesso. Impiegarono sei settimane a fare il giro dei Caraibi in aereo, nave e auto. Si fermavano dove volevano per il tempo che volevano e facevano tutto quello di cui avevano voglia. E in sei settimane non trovarono alcuna seria differenza fra ciò che piaceva all'uno e all'altra. Il più grande desiderio di Candy era far contento Tommy, e questo rendeva le cose molto facili per entrambi. E nel frattempo Tommy educava con dolcezza e in modo ardente la bella sposa nelle arti dell'amore coniugale. Era tenero, paziente, comprensivo, come si era reso conto fin dall'inizio che avrebbe dovuto essere. Una ragazza che arriva illibata all'età di ventisei anni ha diritto a un po' di tempo per abituarsi alle cose. Eppure, quando tornarono dalla luna di miele Tommy cominciò a sentire un senso di fallimento. Sentiva che Candace non aveva ancora sperimentato la completa realizzazione dei suoi sogni, che lui si era proposto di farle raggiungere. Osservandola di fronte a lui, mentre facevano colazione sulla terrazza della casa nuova, era affascinato come sempre. Lei era adorabile nel suo
negligèe, i capelli morbidi che ricadevano intorno al viso, gli occhi colmi d'amore. Era una giornata calda e Tommy vide, guardandola, goccioline di sudore sul labbro superiore di sua moglie. Un particolare che lo riportò indietro... indietro... e dalla chiarezza della scena in ospedale passò a un ricordo, altrettanto vivido, dell'ultima visita al maestro Armod. Sorrise, prese la mano di sua moglie e si domandò se sarebbe mai stato in grado di dirle quale fosse stato il risultato della passeggiata che avevano fatto insieme al villaggio indigeno. Strinse la sua mano più forte, sorrise di nuovo e si rese conto che ora, per la prima volta, sentiva il bisogno degli insegnamenti ulteriori che il vecchio gli aveva promesso. Sarebbe stato un modo per permettere a sua moglie di attingere a piaceri che non conosceva ancora. Se avesse potuto proiettare verso di lei i suoi pensieri ed emozioni... Lasciò la sua mano e sorseggiò il caffè, felice e soddisfatto, con solo un piccolo problema nella mente. Forse sarei dovuto tornare laggiù per un poco, si disse. «Forse sì, caro» disse Candace, innocente. «Io l'ho fatto.» Titolo originale: Peeping Tom Postilla La comunicazione, se ci pensate un momento, è un fatto sorprendente. Com'è possibile modulare le onde sonore con rapidi e precisi movimenti del palato, della lingua e delle labbra, in modo da ottenere combinazioni di suoni che rappresentino migliaia di parole diverse? E a loro volta, sole o in combinazione, le parole rappresentano miriadi di oggetti, azioni, qualità e astrazioni... Se il linguaggio non esistesse, lo giudicheremmo impossibile. Per scrivere bisogna ricorrere a un secondo ordine di simboli. Determinati segni, tracciati velocemente dalla nostra mano, possono convertire il linguaggio in un'espressione grafica che a sua volta torna ad essere linguaggio alla velocità con cui l'occhio è in grado di muoversi. Se la scrittura non esistesse, la riterremmo impossibile. Il linguaggio è un fatto indiretto e la scrittura è più indiretta ancora. Ciò che l'uomo fa "realmente" è creare immagini mentali, sentire un flusso di emozioni o, tutt'al più, rivolgersi silenziosamente a se stesso.
Perché non dovrebbe essere possibile aggirare i mezzi indiretti di comunicazione (le interminabili righe di scrittura o le onde sonore modulate nel linguaggio) e interpretare i pensieri degli altri? Non è possibile "sentire" o "avvertire" ciò che pensa un altro individuo? È proprio una cosa così antiscientifica? L'azione dei nervi - in particolare quelli del cervello - è accompagnata da minuscole impennate e cadute nel voltaggio. Questo fenomeno potrebbe creare campi magnetici variabili capaci di determinare impennate e cadute analoghe nel voltaggio cerebrale di un'altra persona: è così che avremmo la "telepatia" (dalle parole greche che significano "sentire o avvertire a distanza"). Tuttavia, a parte alcuni casi di valore puramente aneddotico o gli ingenui esperimenti di studiosi come J.B. Rhine, non è mai stato dimostrato che questa forma di comunicazione esista davvero. I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Edward Bellamy, "To Whom This May Come", in Isaac Asimov Presents the Best Science Fiction of the 19th Century, a cura di Isaac Asimov, Charles G. Waugh e Martin H. Greenberg, Beaufort Books, New York 1981. Rebecca Harding Davis, "The Captain's Story", in Little Classics, Volume Two: Intellect, a cura di Rossiter Johnson, J.R. Osgood, Boston 1875. Katharine MacLean, "Defense Mechanism", in The Diploids and Others Flights of Fancy, Avon, New York 1962. Walter M. Miller jr., "Azione a comando" ("Command Performance" ow. "Anyone Else Like Me?"), in "I romanzi di Urania" n. 44, Mondadori, Milano 1954. Irving Shaw, "Whispers in Bedlam", in Arena: Sports SF, a cura di Edward Ferman e Barry Malzberg, Doubleday, Garden City, NY 1976. Controllo della volontà IL DITO CHE AVANZA di Edith Wharton I La notizia della morte della signora Grancy mi colpì come un terribile
errore, uno dei peggiori e irreparabili atti di vandalismo della sorte. Era come se ogni sorta di forza rinnovatrice fosse stata all'improvviso frenata dal bloccarsi di quell'unico ingranaggio. Non che la signora Grancy avesse dato un percettibile contributo al movimento della macchina sociale: anzi, si era distinta unicamente per aver saputo occupare alla perfezione il suo singolare posto nel mondo. Molte persone sembrano statue mal riuscite, al punto che o ingombrano eccessivamente oppure lasciano vuote le loro nicchie: quella della signora Grancy era la vita di suo marito, e se è possibile sostenere che non fosse abbastanza grande perché il fatto di essere lasciata vuota venisse notato, vorrei aggiungere che in ultima analisi quest'ordine di grandezza richiede, per essere definito, strumenti ben più sofisticati di ogni preconcetto modello di utilità. Per dirla in breve, quella di Ralph Grancy era stata una sorta di utilità disincarnata: una di quelle influenze costruttive che invece di cristallizzarsi in una forma finita restano per così dire un mezzo attraverso cui si possano sviluppare il retto pensiero e la squisitezza dei sentimenti. Innaffiava coscienziosamente il polveroso orticello della sua vita e quella feconda umidità trapelava ben oltre i suoi confini. Se, per continuare nella metafora, la vita di Grancy era un giardino ricco di semi, sua moglie era il fiore piantato nel mezzo, o meglio l'albero frondoso che dava ombra e riposo quando egli sedeva ai suoi piedi, e dai rami più alti soffiava su di lui il vento dei sogni. Noi tutti - piccolo ma devoto gruppo di seguaci - avevamo prima o poi attraversato un momento in cui ci era parso che Grancy dovesse tradirci. L'avevamo visto lottare contro uno stupido ostacolo dopo l'altro: malattie, povertà, incomprensione e, peggio di tutto per un uomo della sua stoffa, l'egoismo sottile e insidioso della prima moglie. L'avevamo visto annegare nell'abbraccio ferreo di lei come un nuotatore in un vortice, ma proprio quando disperavamo egli riaffiorava, accecato e alla disperata ricerca d'aria, eppure orgogliosamente diretto a riva. Quando finalmente la morte lo liberò di lei, ci domandammo quanta parte del povero Grancy fosse scesa nella tomba. Rimasto solo, sembrava coperto di cicatrici biancastre come il tronco di un albero da cui abbiano strappato un parassita. Ma poco a poco cominciò a mettere nuove foglie e quando incontrò la donna che sarebbe diventata la sua seconda moglie - la sua vera moglie, come dicevano gli amici - quell'uomo rifiorì completamente. Quando la sposò, la seconda signora Grancy aveva passato i trent'anni, ed era evidente che raccoglieva i frutti di quella gioia di mezz'età che affonda le radici nel dolore della giovinezza. Ma se non aveva più l'aspetto
di una diciottenne, internamente ne conservava la freschezza; e se le guance non avevano il lustro dell'età acerba, gli occhi erano giovani d'una giovinezza tenuta in serbo per metà della vita. Grancy l'aveva conosciuta in Oriente -credo fosse la sorella di un nostro console laggiù - e quando la portò a casa a New York scese fra noi come una straniera. L'annuncio del secondo matrimonio di Grancy era stato uno shock per tutti. Dopo un'esperienza così disastrosa la maggior parte degli uomini si sarebbero tenuti lontani dal fuoco, ma convenimmo che Grancy era predisposto alle disavventure sentimentali e attendemmo con impazienza l'incarnazione del suo ultimo abbaglio. Poi arrivò la signora Grancy e capimmo: era la più bella e completa delle spiegazioni. Ci sbarazzammo della nostra onniscienza sconfitta e la seppellimmo frettolosamente sotto una montagna di auguri. Per la prima volta in tanti anni Grancy non ci preoccupava. «Farà qualcosa di grande, adesso!» profetizzò il meno sanguigno di noi; e il sentimentale del gruppo corresse: «L'ha già fatto sposando quella donna!». A rischiare quest'iperbole fu Claydon, il pittore: e poco dopo, su richiesta del felice marito, si accinse a difenderla in un ritratto della signora Grancy. Eravamo tutti disposti ad ammettere - anche Claydon - che l'eccezionalità della signora fosse, in qualche misura, un fatto d'ambiente. Le sue grazie erano del tipo complementare: occorreva il richiamo del compagno per rivelare il lampo di colore sotto le ali dalla tinta neutra. Ma se lei aveva bisogno di Grancy per essere interpretata, quanto più grande era il servizio che rendeva a lui! Claydon la descriveva professionalmente come la cornice ideale per il marito: e se nel fargli da sfondo lo definiva, allo stesso tempo gli dava respiro; se era la misura della sua prospettiva, pure gli apriva nuovi orizzonti, illuminando parti della sua attività che si erano atrofizzate nel rapporto deprivante con l'altra moglie. Questa interazione di sentimenti non mancava di espressioni visibili. Claydon non era l'unico a sostenere che la presenza di Grancy - o la semplice menzione del suo nome avessero un effetto percettibile sull'aspetto della moglie. Era come se una fonte di luce venisse spostata, una tenda sollevata, o come se Amore, l'infaticabile artista (tanto per usare un'altra metafora del pittore) cercasse una "posa" più felice per la sua modella. In questa luce la signora Grancy acquistava il fascino che rende alcuni volti di donna simili a libri dei quali l'ultima pagina non sia mai scorsa. Nei suoi occhi c'era sempre qualcosa di nuovo da leggere: quel che vi lesse Claydon - o almeno i frammenti del rituale che aveva intravisto dalle porte del tempio - ci venne rivelato a suo tempo dal ritratto. Quando il quadro fu esposto venne accolto come il suo
capolavoro, ma chi conosceva la signora Grancy sorrise e disse che era idealizzato. Claydon, tuttavia, non aveva voluto dipingere la signora che la gente conosceva, e neppure quella che conoscevamo noi; aveva dipinto quella che vedeva il marito, Ralph, il quale la riconobbe subito. Gli bastò un'occhiata per decidere che Claydon aveva capito. Quanto alla signora Grancy, alla vista del quadro finito disse semplicemente al pittore: «Ah, mi avete fatta che guardo a oriente!». Ma il ritratto, nonostante il suo valore, parve un trascurabile episodio nel dispiegarsi del loro destino, una nota a piè di pagina sul testo illuminato delle loro vite. Solo in seguito acquistò il significato di una frase definitiva pronunciata sulla soglia da cui non si torna più indietro. Un anno dopo il matrimonio Grancy aveva rinunciato alla casa in città e si era trasferito con il suo amore a un'ora di distanza circa, in una piccola località fra le colline. Numerosi doveri e interessi lo portavano spesso a New York, ma per forza di cose lo vedevamo meno di quando la sua casa fungeva da punto di raccolta per spiriti affini. Sembrava un peccato che la sua benevola influenza dovesse lasciarci, ma sentivamo che i suoi lunghi arretrati di felicità dovessero essere saldati con la moneta che più gli si confaceva. La distanza da cui la fortunata coppia irradiava su di noi la sua benevolenza non era troppo grande perché degli amici non potessero attraversarla, e la nostra idea d'una magnifica gita finì per coincidere con quella di una domenica trascorsa nella biblioteca di Grancy, con il suo tranquillizzante aspetto campagnolo e il ritratto della signora che illuminava le pareti tappezzate di libri. In quell'ambiente il quadro risaltava al meglio, e cominciammo ad accusare Claydon che le sue visite alla signora fossero una scusa per ammirare la sua opera. Lui rispose che il ritratto era la signora Grancy, e c'erano momenti in cui non si riusciva a controbattere a quell'affermazione. Uno di noi, anzi - credo fosse il romanziere - disse che Claydon aveva potuto evitare di innamorarsi della signora perché si era innamorato del quadro, ed era notevole che un uomo come lui (per il quale un lavoro finito era solo il guscio ancora vuoto dell'opera successiva) mostrasse un attaccamento così costante a quella fatica. Poi sorridevamo al pensiero che spesso, quando la signora era nella stanza e la sua presenza si rifletteva nella nostra conversazione come uno sprazzo di cielo nella corrente, Claydon si astraesse dalla donna reale e sembrasse intento ad ascoltare il quadro. Il suo atteggiamento, a quell'epoca, sembrava far parte dell'atmosfera insolita di quei pomeriggi pittoreschi, quando le più familiari combinazioni della vita subivano una magica metamorfosi. Vi sono felicità che somigliano a
un lago in mezzo alla terra, ma quella dei Grancy era un mare aperto che stendeva la sua benigna e illimitata superficie sott'ogni trascorrente interesse della vita. In quelle acque c'era spazio in abbondanza per le nostre personali imprese: e sempre, oltre il tramonto, appariva il miraggio delle isole fortunate alla volta delle quali le nostre prue erano destinate. II Fu a Roma, tre anni più tardi, che appresi della morte di lei. L'articolo diceva "improvvisa" e ne fui lieto. Fui lieto anche - per egoismo, forse - di essere lontano da Grancy in un momento nel quale il silenzio doveva sembrargli penoso e qualsiasi parola suonava probabilmente come una beffa. Ero sempre a Roma quando, alcuni mesi dopo, egli arrivò improvvisamente in città. Era stato nominato segretario della legazione americana a Costantinopoli ed era diretto verso quella meta. Aveva accettato l'incarico, ammise francamente, "per fuggire". I nostri rapporti con l'impero ottomano promettevano un duro lavoro e questo, spiegò, era ciò di cui aveva bisogno. Non avrebbe potuto sopportare di rimanere seduto fra le rovine. Mi accorsi che, come molti di noi in momenti di estrema tensione morale, Grancy recitava una parte e si comportava come pensava debba comportarsi un uomo che è stato colpito da una tragedia. L'atteggiamento che si assume per istinto di fronte al dolore è un imbarazzante compromesso fra senso di sfida e prostrazione, e di fronte a un tale nemico l'orgoglio sente il bisogno di farci assumere un cipiglio più fiero. Grancy, per natura pensoso e con una tendenza a meditare sul passato, aveva scelto il ruolo dell'uomo d'azione che risponde colpo su colpo e oppone una corazza di ferro ai rovesci del destino. Ma proprio la durezza dell'equipaggiamento testimoniava della sua intima debolezza. Parlavamo solo di ciò a cui non pensavamo e ci separammo, qualche giorno dopo, con un senso di sollievo che dimostrava l'inadeguatezza dell'amicizia a svolgere, in casi del genere, il ruolo affidatole dalla tradizione. Poco tempo dopo il lavoro mi richiamò a casa, ma Grancy rimase in Europa parecchi anni. La diplomazia internazionale mantenne la promessa di dargli molto lavoro, e negli anni in cui ricoprì la posizione di chargé d'affaires si comportò anche nelle circostanze più difficili con zelo e discrezione notevoli. Una ridistribuzione politica degli incarichi lo tolse dal suo ufficio proprio quando aveva dimostrato la propria utilità al governo, e l'estate successiva seppi che era tornato a casa e abitava di nuovo nella sua
casa in campagna. Al mio ritorno in città gli scrissi e Grancy mi rispose a stretto giro di posta. Il tono sembrava quello di una volta e mi invitava a passare da lui la domenica successiva, proponendo che portassi con me chiunque fosse disposto a seguirmi del vecchio gruppo di amici. Pensai che fosse un buon segno, ma - devo confessarlo? - ne fui vagamente deluso. Forse vorremmo che il dolore dei nostri amici rimanesse intatto come quei monumenti storici da cui periodicamente ci si limita a strappare l'edera. Quella sera stessa, al club, incontrai Claydon. Gli parlai dell'invito di Grancy e proposi che andassimo a trovarlo insieme, ma lui rispose che aveva un impegno. Mi dispiacque, perché avevo sempre avuto la sensazione che fosse più vicino degli altri al nostro amico Ralph, e se l'abitudine delle domeniche insieme doveva riprendere, mi sarebbe piaciuto che la prima fosse dedicata a noi tre soltanto. Lo dissi apertamente a Claydon e mi offrii di partire all'ora che lui giudicasse più comoda, ma il rifiuto fu deciso. «Non voglio andare da Grancy» disse apertamente. Io aspettai un momento, ma non ci furono spiegazioni. «L'hai visto, da quando è tornato?» chiesi infine. Clayton annuì. «E sta tanto male?» «Male? No, sta benissimo.» «Come può essere, a meno che non sia diventato irriconoscibile?» «Oh, lo riconoscerai» disse Claydon, con uno sconcertante cambiamento di tono. La sua ambiguità cominciava a esasperarmi e mi sentii tagliato fuori da un segreto che avevo il diritto di conoscere quanto lui. «Sei già stato a casa sua, dunque?» «Sì, ci sono stato.» «E vi siete lasciati freddamente? L'amicizia è finita?» «Lasciati freddamente? Magari!» Si alzò con nervosismo e gettò la rivista dalla quale il mio arrivo l'aveva distratto. «Senti» disse, standomi davanti. «Ralph è la persona migliore di questo mondo e non c'è niente che non farei per lui... tranne andare in quella casa di nuovo.» E con queste parole uscì dalla stanza. Claydon era stato abbastanza sibillino perché le sue parole si prestassero a una decina di interpretazioni diverse, ma nessuna mi soddisfaceva. Decisi, comunque, di non cercare un compagno e la domenica successiva andai da solo a casa di Grancy. Venne a prendermi alla stazione e mi accorsi su-
bito che era cambiato. All'epoca del nostro ultimo incontro indossava la corazza dell'uomo battagliero, ma se ora il dolore abitava ancora nel suo cuore, non era più un nemico. Fisicamente la metamorfosi era altrettanto evidente ma meno rassicurante. Se lo spirito trionfava il corpo non poteva nascondere le sue ferite. A quarantacinque anni era grigio e curvo, con il passo stanco di un vecchio. Nella sua serenità, tuttavia, non c'era la rassegnazione della vecchiaia: mi resi conto che non aveva affatto intenzione di uscire dal gioco. Quasi immediatamente cominciò a parlare dei nostri vecchi interessi e non con sforzo, come all'epoca del nostro incontro precedente, ma semplicemente e con naturalezza, nel tono di un uomo la cui vita è rifluita nei suoi canali naturali. Ricordai, con un'ombra di autorimprovero, quanto poco mi fossi fidato dei suoi poteri di recupero; ma la mia ammirazione per quell'eccezionale riserva di energie fu offuscata dalla sensazione che, dopotutto, quell'estrema felicità doveva essergli costata la sua ultima moneta. La sensazione aumentò mentre ci avvicinavamo a casa e mi rendevo conto che il ricordo di sua moglie era legato inestricabilmente a quei luoghi: anzi, il panorama non era che un'estensione della sua vivida presenza. All'interno niente era cambiato e non mi sarei meravigliato di sentirmi stringere la mano da lei. Era ora di colazione e Grancy mi guidò subito verso la sala da pranzo, dove le pareti, l'arredamento e perfino le stoviglie sembravano uno specchio in cui il volto di sua moglie si fosse veduto un momento prima. Mi domandai se Grancy, sotto la riacquistata serenità dello sguardo, provasse la stessa sensazione della vicinanza di lei, se vedesse eternamente frapposto tra sé e la realtà il fantasma splendente e insopprimibile della donna. Ne parlò una volta o due, in modo agevole e discorsivo, e il nome di lei rimase sospeso nell'aria dopo che lo ebbe pronunciato, come una corda che continua a vibrare. Se Grancy avvertiva la sua presenza, era evidente che si trattava d'un elemento che avviluppava tutto, l'atmosfera stessa che respirava. Prima di allora non mi ero reso conto che i morti possono sopravvivere così intensamente. Dopo pranzo uscimmo per una lunga passeggiata nei campi e boschi autunnali, e quando tornammo a casa era il crepuscolo. Grancy fece strada in biblioteca, dove sua moglie ci aveva sempre accolti con il fuoco acceso e una tazza di tè. La stanza dava a occidente e continuava a essere luminosa anche quando il resto della casa si era fatto buio. Ricordai come apparisse giovane, la signora Grancy, nel pallido alone d'oro che traeva riflessi dai suoi occhi e dai suoi capelli, facendo risaltare la figura giovanile di ragazza
ogni volta che passava davanti alle finestre. Di tutte le stanze quella che più le apparteneva era la biblioteca, e lì ebbi la sensazione che la sua vicinanza dovesse prendere una forma visibile. Poi in un attimo, quando Grancy aprì la porta, la sensazione svanì e una sorta di resistenza mi fermò sulla soglia. Mi guardai intorno. La stanza era cambiata? Una mano sacrilega aveva cancellato le tracce della sua presenza? No, anche lì l'ambiente era immutato. I miei piedi affondarono nel morbido Daghestan; le rilegature sugli scaffali catturavano la luce del fuoco allo stesso modo; la poltrona che le era appartenuta stava al solito posto, accanto al tavolino da tè. E dalla parete di fronte mi guardava il suo ritratto. Ma era davvero lei? Mi avvicinai per guardare meglio il volto. Lo sguardo di Grancy aveva seguito il mio e lo sentii muoversi al mio fianco. «Noti un cambiamento?» chiese. «Che significa?» domandai a mia volta. «Significa... che sono passati cinque anni.» «Anche per lei?» «Perché no? Guardami!» Indicò i suoi capelli grigi e la fronte coperta di rughe. «Cosa credevi che la mantenesse giovane? La felicità! Ma ora...» Alzò gli occhi verso il quadro con infinita tenerezza. «La preferisco così» disse. «È quello che anche lei avrebbe voluto.» «Avrebbe voluto?» «Che invecchiassimo insieme. Pensi che le avrebbe fatto piacere essere lasciata indietro?» Ero senza parole e muovevo lo sguardo dai lineamenti consumati dal dolore di Grancy al volto dipinto sulla parete. Non era coperto di rughe come il suo, ma il velo degli anni sembrava esservi disceso. I capelli lucenti avevano perso la loro elasticità, le guance non erano così luminose, la fronte non più radiosa. La donna si era come offuscata. Grancy mi mise la mano sul braccio. «Non ti piace?» chiese tristemente. «Così? L'ho perduta!» sbottai. «E io l'ho ritrovata» replicò. «In quel modo?» gridai, con un gesto di rimprovero. «Sì, in quel modo.» Mi affrontò quasi con aria di sfida. «L'altra era diventata un'impostura, una bugia! È questo l'aspetto che avrebbe avuto... che ha, per meglio dire. Claydon dovrebbe sapere il fatto suo, non ti pare?» Mi girai di scatto. «Lui ha fatto questo per te?» Grancy annuì. «Dopo il tuo ritorno?»
«Sì, l'ho mandato a chiamare una settimana dopo essere arrivato...» Si voltò e riattizzò le braci nel camino. Lo seguii, lieto di lasciarmi il quadro alle spalle. Grancy si buttò in una poltrona accanto al fuoco, sicché la luce colpiva la sua faccia mobile e sensibile. Poi piegò la testa, si riparò gli occhi con la mano e cominciò a parlare. III «Voi eravate i miei amici: conoscevate la storia della mia vita per immaginare cosa rappresentasse per me quel secondo matrimonio. Dico immaginare perché nessuno avrebbe potuto veramente capirlo. Ho sempre avuto in me, credo, una vena femminile: il bisogno di un paio d'occhi che vedano con i miei, di un cuore che batta all'unisono col mio. La vita è una gran cosa, certo, un meraviglioso spettacolo, ma ero così stanco di guardarlo da solo! E tuttavia è sempre bello vivere, in me c'era la felicità... del tipo più evoluto. Quelle che non avevo mai gustato erano le gioie semplici, quasi inconsce, che si respirano con l'aria. «E poi l'ho incontrata. È stato come scoprire l'aria in cui avrei sempre voluto vivere. Tu sai com'era, conosci la sua capacità di moltiplicare all'infinito i nostri punti di contatto con la vita, di illuminare gli angoli bui e gettare un ponte su qualunque abisso! Ebbene, ti giuro (anche se credo che fosse una sensibilità già latente nel mio animo) che ciò a cui pensavo alla fine della giornata, tornando a casa, era semplicemente questo: aprendo la porta della biblioteca l'avrei vista seduta laggiù, con la luce della lampada che cadeva in quel modo particolare su un piccolo ricciolo del collo. Quando Claydon le ha fatto il ritratto, ha colto esattamente l'espressione che avevano i suoi occhi quando io entravo e alzava lo sguardo su di me; a volte mi sono chiesto come facesse un pittore a sapere com'era la sua espressione quando eravamo soli. Che gioia mi ha dato quel quadro! Qualche volta le dicevo: "Sei mia prigioniera, adesso, non ti perderò mai. Se ti stancassi di me e mi abbandonassi, lasceresti la tua anima su quella parete!". Uno dei nostri giochi preferiti era che lei si stancasse di me. «Tre anni di felicità, poi è morta. È successo così all'improvviso che non c'è stato senso di cambiamento, di perdita. È stato come se tutt'a un tratto fosse diventata immobile, immutabile come il ritratto; come se il tempo si fosse fermato nell'ora più felice, proprio come Claydon che un giorno ha buttato i pennelli esclamando: "Meglio di così non posso fare". «Come sai sono andato all'estero e ci sono rimasto cinque anni. Ho lavo-
rato più duramente che potevo, e dopo i primi mesi neri ho cominciato a vedere di nuovo un po' di luce. In un primo momento ho pensato che lei avrebbe trovato interessante quello che facevo: poi mi sono reso conto che lo trovava interessante davvero, che era lì con me e sapeva. Non voglio tirare in ballo il gergo degli spiritisti: sto cercando semplicemente di esprimere la sensazione che provavo in quel momento, e cioè che una personalità così piena, così coinvolgente come la sua non potesse finire come una pioggia di primavera. Avevamo vissuto a tal punto nel cuore e nella mente l'uno dell'altro che la consapevolezza di quello che lei avrebbe pensato e provato illuminava ogni circostanza della mia vita. Dapprima lei si manifestava timidamente, incerta, come se non fosse sicura di trovarmi, ma poi rimase con me sempre più a lungo, fino a diventare la stessa aria che respiravo. Ovviamente c'erano dei brutti momenti, come quando quel senso di vicinanza mi appariva beffardo per la perdita della donna reale, ma poco a poco la distinzione fra le due scomparve e il semplice pensiero di lei bastò a scaldarmi come se fosse di carne e sangue. «Poi sono tornato a casa. Approdato la mattina, mi sono diretto qui immediatamente. Il pensiero di vedere il ritratto si era impadronito di me e dei battiti del mio cuore come se fossi un innamorato, e in questo stato d'animo ho aperto la porta della biblioteca. Era pomeriggio, la stanza era piena di luce che cadeva sul quadro: il ritratto di una donna giovane e splendida. Sorrideva con freddezza attraverso la distanza che ci separava e ho avuto la sensazione che non mi riconoscesse. Poi ho visto la mia immagine in quello specchio: un uomo disfatto, dai capelli grigi, che lei non conosceva! «Per una settimana abbiamo vissuto insieme... l'estranea e l'estraneo. Sera dopo sera me ne stavo davanti al ritratto interrogando il suo viso sorridente, ma non c'era risposta. Cosa sapeva di me, dopotutto? Eravamo irrevocabilmente separati dai cinque anni che ci dividevano. A volte, guardandola, arrivavo persino a odiarla, perché la sua presenza aveva scacciato il mio fantasma gentile, la moglie autentica che aveva pianto, lottato ed era invecchiata con me in quei cinque terribili anni. È stato il momento di peggior solitudine che abbia attraversato. Poi, lentamente, ho cominciato a notare negli occhi del ritratto un'ombra di tristezza, uno sguardo che sembrava dire: "Non vedi che anch'io sono sola?" E a un tratto mi sono reso conto di quanto le sarebbe dispiaciuto essere lasciata indietro! Mi sono ricordato che una volta aveva paragonato la vita a un libro pesante che non può essere letto facilmente a meno che due persone non lo reggano insie-
me, e ho pensato con quanta impazienza la sua mano avrebbe sfogliato le pagine che ci separavano! Così mi è venuta l'idea: "È il ritratto che si frappone tra noi; è il ritratto a essere morto, non mia moglie. Stare in questa stanza è come fare la veglia a un cadavere". E più questo sentimento metteva radici in me, più il quadro mi sembrava un bel mausoleo nel quale l'avessero sepolta viva: la sentivo picchiare contro le pareti dipinte e gridare debolmente che l'aiutassi. «Un giorno non ne ho potuto più e ho mandato a chiamare Claydon. È arrivato subito, gli ho raccontato le mie sofferenze e ho detto cosa volevo che facesse. In un primo momento ha rifiutato decisamente di toccare il ritratto, ma la mattina dopo sono uscito per una lunga passeggiata e al ritorno l'ho trovato qui solo. Mi ha guardato intensamente per un momento, poi ha detto: "Ho cambiato idea, lo farò". Ho disposto che una delle stanze a nord venisse attrezzata a studio e lui ci si è rinchiuso per un giorno, poi mi ha mandato a chiamare. Il ritratto era diventato quello che vedi adesso, ed è stato come se lei mi fosse venuta incontro e mi avesse gettato le braccia al collo! Ho cercato di ringraziare Claydon, di fargli capire quello che significava per me, ma mi ha interrotto subito. «"C'è un treno che va in città alle cinque, vero?" mi ha chiesto. "Ho un impegno a cena, stasera. Mi resta appena il tempo di fare un salto alla stazione, puoi mandarmi a casa le mie cianfrusaglie." E da allora non l'ho più visto. «Immagino quello che dev'essergli costato mettere le mani sul suo capolavoro; ma dopotutto, per lui è solo un quadro perduto, per me vuol dire aver ritrovato mia moglie!» IV Dopo questo episodio, e per oltre dieci anni, fui spettatore dello strano spettacolo offerto da un'esistenza ricca e produttiva basata su un sogno. Chi frequentava Grancy in quel periodo non poteva avere dubbi che traesse forza e coraggio dal mistico sentimento della presenza di sua moglie. Quando alcuni mesi dopo andai a trovarlo, scoprii che il ritratto non era più in biblioteca ma era stato collocato in un piccolo studio al piano di sopra, in cui egli aveva trasferito la scrivania e alcuni libri. Mi disse che quando era solo viveva lassù, riservando la biblioteca agli amici della domenica. Quelli che sentivano la mancanza del ritratto, ovviamente, non fecero commenti, e i pochi che erano al corrente del segreto lo rispettarono.
Poco a poco tutti gli amici di una volta si raccolsero intorno a lui e i pomeriggi della domenica riacquistarono un po' del loro antico sapore; ma Claydon non si fece più vedere. Guardando le cose in retrospettiva, penso che Grancy avesse cominciato a declinare fin dal momento in cui era tornato a casa. Il suo spirito indomabile nascondeva o mascherava i segni della debolezza che in seguito si imposero nel ricordo di lui. Pareva che avesse un inesauribile fondo vitale cui attingere, e più d'uno fra noi approfittava delle sue riserve di energia. Nondimeno, quando una certa estate tornai da una vacanza in Europa e sentii che Grancy era stato in punto di morte, mi resi conto che ci era sembrato in buona salute solo perché aveva voluto che lo credessimo. Mi affrettai ad andare in campagna e lo trovai a metà di una lenta convalescenza. Capii che presto l'avremmo perduto e lui se ne rese conto con un'occhiata. «Ah» disse «sono vecchio, ormai non ci sono dubbi. Immagino che dovremo andare a velocità ridotta, dopo questa botta, ma non abbiamo ancora bisogno del rimorchiatore!» Il fatto che avesse parlato al plurale mi colpì, e involontariamente guardai il ritratto della signora Grancy. Rifletteva i miei timori in ogni tratto del volto, perché era la faccia di una donna consapevole che suo marito sta morendo. Il mio cuore si fermò al pensiero di quello che Claydon aveva fatto. Grancy aveva seguito il mio sguardo. «Sì, questa storia l'ha cambiata» disse tranquillamente. «Per mesi, sai, sono rimasto più di là che di qua... abbiamo dovuto lottare duramente, e per lei è stato peggio che per me.» Dopo una pausa aggiunse: «Claydon è stato molto buono. Ormai è così impegnato che lo vedo raramente, ma quando l'altro ieri l'ho mandato a chiamare è venuto subito». Rimasi in silenzio e non parlammo più della malattia di Grancy, ma quando mi congedai mi sembrò di averlo lasciato solo con la sua condanna a morte. La volta successiva aveva un aspetto decisamente migliore. Era domenica e mi ricevette in biblioteca, quindi non vidi il ritratto. Grancy continuò a migliorare e verso la primavera sentimmo che, proprio come aveva detto, avrebbe continuato a viaggiare per un pezzo senza bisogno del rimorchiatore. Una sera, tornato in città dopo una visita che aveva confermato questo mio senso di sicurezza, trovai Claydon che cenava solo al club. Mi chiese
di unirmi a lui e mentre bevevamo il caffè la conversazione cadde sul suo lavoro. «Se non sei troppo occupato» dissi finalmente «dovresti trovare il tempo per fare un'altra visita a Grancy.» Alzò gli occhi rapidamente. «Perché?» «Perché sta di nuovo abbastanza bene» risposi con una punta di crudeltà. «I pronostici di sua moglie erano sbagliati.» Claydon mi guardò un momento. «Oh, lei sa» disse con un sorriso che mi fece rabbrividire. «Vuoi dire che lascerai il ritratto così com'è?» insistei. Si strinse nelle spalle. «Grancy non mi ha mandato a chiamare.» Arrivò il cameriere con i sigari, Claydon si alzò e raggiunse un altro gruppo. Due settimane dopo mi telegrafò la governante di Grancy. Venne a prendermi alla stazione dicendo che lui aveva avuto "un attacco" e che i medici erano in casa. Dovetti aspettare un po' in biblioteca prima che apparissero i dottori. Avevano il fare imbarazzato degli uomini pratici che sono stati presi in contropiede dalla Grande Guaritrice e rimasi con loro quel tanto che bastava a sentirmi dire che la mia presenza non gli avrebbe fatto male. Grancy era seduto sulla poltrona nel piccolo studio. Mi tese la mano con un sorriso. «Come vedi, in fondo lei aveva ragione» disse. «Lei?» ripetei, perplesso per un attimo. «Mia moglie.» Grancy indicò il quadro. «Ovviamente sapevo fin dall'inizio che non aveva alcuna speranza per me. Me ne sono reso conto...» abbassò la voce «...da quando Claydon è venuto qui. Solo che non volevo crederci!» Presi le sue mani fra le mie. «Per amor di Dio, non crederci neanche adesso!» lo scongiurai. Scosse gentilmente la testa. «È troppo tardi» disse. «Avrei dovuto capirlo, che lei sapeva.» «Ma, Grancy, ascoltami» cominciai. Poi mi interruppi: cosa avrei potuto dire per convincerlo? Non avevamo un terreno comune su cui portare avanti la discussione, e forse per Grancy sarebbe stato meglio morire nella convinzione che lei sapesse. Cosa abbastanza strana, capii che Claydon aveva fallito nel suo obbiettivo.
V Nelle sue ultime volontà Grancy faceva di me uno dei suoi esecutori testamentari, e poiché l'altro amico che avrebbe dovuto occuparsene aveva parecchio da fare, mi pregò di assumermi l'incarico da solo e fare in modo che i desideri dello scomparso venissero rispettati. Questo mi pose nella condizione di dover comunicare a Claydon che il ritratto della signora Grancy era stato lasciato a lui, e il pittore rispose a giro di posta che avrebbe subito mandato qualcuno a ritirarlo. Mi trovavo nella casa deserta quando il quadro fu portato via: appena la porta si chiuse mi resi conto che anche la presenza di Grancy si era dissolta. Era venuto il suo turno di seguire la donna? Può uno spettro ossessionarne un altro? Dopo questo episodio, per un anno o due non seppi nulla del quadro, e sebbene ogni tanto incontrassi Claydon ammetto che non avevamo molto da dirci. Non avevo niente di preciso contro di lui e cercavo di tener presente che aveva fatto un bel gesto nel sacrificare il suo capolavoro per un amico, ma il mio risentimento aveva la tenacia dell'irrazionalità. Un giorno, tuttavia, una signora il cui ritratto era stato appena completato mi pregò di andare con lei a vederlo. Rifiutare era impossibile e la seguii con minor riluttanza perché sapevo di non essere l'unico invitato. Quando entrammo gli altri erano tutti raggruppati intorno al cavalletto, e dopo aver contribuito al coro di approvazione mi voltai dall'altra parte e cominciai a passeggiare nello studio. Claydon era una specie di collezionista e aveva parecchie cose interessanti da vedere. Lo studio era una lunga stanza dalle pareti tappezzate, e a un'estremità c'era un arco con un tendaggio. In quel momento il tendaggio era raccolto in parte e al di là si vedeva un appartamento più piccolo con libri, fiori e alcuni squisiti oggetti in bronzo e porcellana. C'era anche un tavolo da tè, il che dimostrava che l'ambiente interno non era precluso agli ospiti; dunque, ci andai. Il primo oggetto che attrasse la mia attenzione fu un vaso bleu poudré, poi esaminai uno snello Ganimede di bronzo e nel voltarmi mi trovai faccia a faccia con il ritratto della signora Grancy. Lo fissai a bocca aperta, perché lei sorrideva in tutto lo splendore della ritrovata giovinezza. L'artista aveva cancellato ogni traccia dei ritocchi successivi e il quadro originale era riapparso. Dominava da solo la parete rivestita di pannelli e affermava la sua brillante supremazia sugli oggetti pur scelti e squisiti che lo circondavano. Mi resi conto immediatamente che tutta la stanza gli era debitrice: Claydon aveva gettato i suoi tesori ai piedi della donna che amava. Sì, era della donna che
si era innamorato, non del quadro: il mio istintivo risentimento era spiegato. All'improvviso sentii una mano sulla spalla. «Oh, ma come hai potuto?» gridai, girandomi verso di lui. «Come?» replicò. «Dimmi come non avrei potuto, piuttosto. Ma finalmente mi appartiene, non è così?» Mi scostai, impaziente. «Aspetta un momento» disse, cercando di trattenermi. «Gli altri se ne sono andati e io voglio dirti una parola. Oh, so cosa pensi di me... posso immaginarlo! Magari credi che abbia ucciso Grancy.» Fui sorpreso dalla sua foga improvvisa. «Credo che tu abbia cercato di fare una cosa crudele.» «Ah... che bassezze vedete voialtri nella vita!» mormorò. «Siediti un momento qui, dove possiamo vederla... ti dirò tutto.» Si gettò sull'ottomana accanto a me e guardò a lungo il quadro, con le dita intrecciate intorno al ginocchio. «Pigmalione» cominciò lentamente «trasformò la sua statua in una donna vera. Io ho trasformato la mia donna in un'immagine. Magra consolazione, penserai: è perché ignori quanta parte di una donna diventi tua, dopo averla dipinta! Ho cercato di fare del mio meglio, questo è certo: le ho dato il meglio che avevo in me e in cambio lei mi ha dato quello che una donna del genere può dare con la sua sola esistenza. Un grande premio, perché mi ha permesso di dipingere come non riuscirò mai più a fare. Inoltre, c'era un aspetto di lei che era mio soltanto: la bellezza. Nessun altro l'ha capita. Anche per Grancy era solo un'espressione della sua personalità, un po' come il linguaggio sta al pensiero. E quando ha visto il ritratto Grancy non ha intuito il mio segreto... era troppo sicuro che lei gli appartenesse! Come se si potesse avere la luna solo perché è riflessa in una pozzanghera davanti alla nostra porta. «Ebbene, quando tornò a casa e mi mandò a chiamare per cambiare il ritratto fu come se mi chiedesse di commettere un delitto. Voleva che la trasformassi in vecchia... lei, che era stata così divinamente e immutabilmente giovane! Come se un uomo veramente innamorato potesse chiedere a una donna di sacrificare la sua bellezza e gioventù per il proprio egoismo! In un primo momento gli risposi che non me la sentivo, ma poi, quando mi lasciò solo col quadro, accadde qualcosa di strano. Forse fu perché volevo troppo bene a Grancy per rifiutare: in ogni modo, mentre la guardavo sembrò che lei dicesse: "Non sono tua ma sua, e voglio che tu faccia come
chiede". Per questo obbedii. Quando il lavoro fu completato mi sarei tagliato la mano, e Grancy ti avrà detto che non andavo più a trovarlo e non volevo rivedere il quadro. Pensava che fossi troppo occupato... non ha mai capito. «L'anno scorso mi ha mandato a chiamare di nuovo, come sai. Fu dopo la malattia, quando mi disse che si sentiva invecchiato di vent'anni e voleva che invecchiassi anche lei "per non lasciarla indietro". A quell'epoca i medici pensavano che si sarebbe ripreso, e lo pensava anche Grancy. Devo ammettere che in un primo momento fui anch'io di questa opinione, ma quando vidi il ritratto... ah, non ti chiedo di credermi, ma ti giuro che fu l'espressione di lei a dirmi che quell'uomo stava morendo; ed era lei a volere che lo sapesse! La moglie aveva un messaggio per il marito: io fui incaricato di consegnarlo.» A un tratto si alzò e andò verso il ritratto, poi sedette di nuovo accanto a me. «Crudele! Sì, all'inizio mi sembrò crudele. Se in un primo momento resistei fu per il bene di Grancy, non per il mio. Nel frattempo gli occhi di lei continuavano a cercarmi, e poco a poco mi fecero capire. Se ella fosse stata fra noi in carne e ossa (sembravano dirmi), non avrebbe mostrato apertamente il suo dolore? E lui non le avrebbe letto in faccia la verità? Non sarebbe stato orribile se ora l'avesse scoperta negli occhi di un estraneo? Bene, questo era ciò che lei voleva e questo ho fatto... Ho permesso loro di restare uniti fino alla fine!» Poi alzò gli occhi verso il quadro. «Ma ora appartiene a me» ripeteva... Titolo originale: The Moving Finger Postilla Fino a tempi relativamente recenti ottenere un'immagine reale e "vivente" di una certa persona, un'immagine così somigliante da essere inconfondibile è stato un fatto abbastanza raro. Una polla d'acqua può riflettere la nostra faccia, ma di solito è in movimento e l'immagine è distorta. Il metallo lucido riflette, ma alcuni metalli si macchiano rapidamente e perdono il potere di riflessione, e se immuni dalle macchie sono troppo costosi per essere posseduti da chiunque non sia molto ricco. I veri specchi (ottenuti passando una pellicola di mercurio su vetro) erano tanto insoliti, quando cominciarono a diffondersi, che in essi c'era
quasi un che di magico. (Ricordate quello di Biancaneve?) Inoltre erano così rari e costosi che romperne uno faceva presagire sette anni di guai, ossia il tempo necessario a racimolare i soldi per comprarne un altro. Quando erano accurati, dunque, ritratti e immagini sembravano possedere un che di fantastico. Che si tratti di un quadro o di una fotografia, l'esistenza di un'inconfondibile riproduzione di noi stessi è equivalente all'esistenza di un vero e proprio "pezzo" di noi. Le tribù primitive temono la fotografia, perché pensano che una parte dell'energia vitale umana venga risucchiata dal corpo e fissata su carta. Se qualcuno possiede una nostra foto, possiede una parte di noi. (Prima che si diffondessero le immagini un potere del genere era attribuito ai nomi. Ecco perché siamo riluttanti a servirci del nome di Dio e parliamo piuttosto del "Signore" o dell'"Onnipotente".) La capacità di un quadro di prendere vita, o di competere con le persone reali per ottenere gli attributi della vita, è il tema del magistrale "Ritratto di Dorian Gray" di Oscar Wilde, ma anche Edith Wharton dice la sua nel "Dito che avanza". I.A. CONSIGLI PER ULTERIORI LETTURE Algernon Blackwood, "The Wendigo", in Best Ghost Stories of Algernon Blackwood, a cura di E.F. Bleiler, Dover, New York 1973. Mary Wilkins Freeman, "Luella Miller" in "Vampire, a cura di Martin H. Greenberg e Charles G. Waugh, Oscar Mondadori, Milano 1992. Richard Marsh, "Strange Occurrences in Canterstone Jail", in Amusement Only, Hurst and Blackett, Londra 1901. Richard Matheson, "L'aspetto di Julie" ("The Likeness of Julie"), in Shock, vol. II, Oscar Mondadori, Milano 1984. Mack Reynolds, "Optical Illusion" in Young Monsters, a cura di Isaac Asimov, Martin H. Greenberg e Charles G. Waugh, Harper & Row, New York 1985. *** "The Occult" by Isaac Asimov, © 1989 by Nightfall, Inc. "The Girl Who Found Things" by Henry Slesar, © 1973 by HSD Publications "Through a Glass, Darkly" by Helen McCloy, © 1948 by Helen McCloy;
renewed © 1976 by Helen McCloy "Dumb Supper" by Kris Neville, © 1950 by Fantasy House, Inc.; renewed © 1978 "The Dead Man's Hand" by Manly Wade Wellman, © 1944 by Weird Tales, Inc. for «Weird Tales», November 1944 "The Scythe" by Ray Bradbury, © 1943 by Weird Tales, Inc.; renewed © 1970 by Ray Bradbury "Do You Know Dave Wenzel?" by Fritz Leiber, © 1974 by Fritz Leiber "Speak to Me of Death" by Cornell Woolrich, © 1937 by Cornell Woolrich; renewed ©1965 "The Woman Who Thought She Could Read" by Avram Davidson, © 1958 by Mercury Press, Inc.; renewed © 1986 by Avram Davidson "Tryst in Time" by C.L Moore, © 1936 by Street & Smith Publications, Inc.; renewed © 1964 by C.L. Moore "Miss Esperson" by August Derleth, © 1962 by August Derleth "Peeping Tom" by Judith Merril, © 1954 by Judith Merril; renewed © 1973 by Judith Merril FINE