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MICHAEL CONNELLY AVVOCATO DI DIFESA (The Lincoln Lawyer, 2005) Per Daniel F. Daly e Roger O. Mills Non c'è cliente più angosciante di un cliente innocente J. MICHAEL HALLER, avvocato difensore penalista. Los Angeles, 1962 PARTE PRIMA ISTRUTTORIA PRELIMINARE 1 Lunedì 7 marzo In tutta la contea di Los Angeles non si respira aria più pura e cristallina di quella che proviene dal deserto di Mojave nelle mattinate di fine inverno. È la brezza che porta con sé il profumo della promessa. Quando comincia ad alzarsi e sono in ufficio mi piace lasciare una finestra aperta. Sono poche le persone al corrente di questa mia abitudine e una di queste è Fernando Valenzuela. Il garante, non il giocatore di baseball. Mi chiamò mentre stavo arrivando a Lancaster per un'udienza fissata alle nove. Probabilmente riconobbe il sibilo del vento in sottofondo nel cellulare. «Mick,» mi disse «stai andando a nord?» «Indovinato» risposi rialzando il finestrino per sentirlo meglio. «Trovato qualcosa?» «Sì, credo di sì. Ho un pesce grosso per le mani. Però la prima comparizione è alle undici. Ce la fai a rientrare in tempo?» L'ufficio di Valenzuela è al pianoterra su Van Nuys Boulevard, a due passi dal centro civico dove hanno sede due palazzi di giustizia e le carceri di Van Nuys. Lui si definisce "Garante delle Cauzioni per la Libertà". Il suo numero di telefono, una scritta al neon, in rosso, sul tetto del palazzo del suo ufficio, si riesce a leggere dall'ala di sicurezza al terzo piano del carcere. Lo stesso numero è inciso sull'intonaco dei muri vicino ai telefoni pubblici di tutti i reparti del carcere.
Il suo nome è inciso in maniera altrettanto indelebile nell'elenco dei destinatari dei miei regali natalizi. Quelli che a fine anno ricevono un barattolo di noccioline salate. Una confezione regalo di noccioline miste Planters. Tutte ben confezionate, con tanto di nastro e fiocco. Dentro però non ci sono noccioline. Solo soldi. Nella lista figurano i nomi di diversi garanti. Le noccioline che tolgo dai barattoli le metto in un contenitore Tupperware e mi durano fino a primavera. Dopo l'ultimo divorzio, capita che possano costituire tutta la mia cena. Per rispondere alla domanda di Valenzuela dovevo ripercorrere la successione delle cause in calendario. Il mio cliente si chiamava Harold Casey. Se la lista delle chiamate avesse rispettato l'ordine alfabetico sarei riuscito a presenziare all'udienza delle undici a Van Nuys senza problemi. Ma erano le ultime udienze presiedute dal giudice Orton Powell prima che andasse in pensione. Ragione per cui, non dovendo essere rieletto, poteva permettersi di ignorare qualsiasi tipo di pressione, prime fra tutte quelle dell'avvocatura privata. Powell si divertiva a stravolgere l'ordine delle chiamate per dimostrare la propria autonomia e forse anche per un desiderio di affrancamento da chi lo aveva sostenuto politicamente per dodici anni. A volte procedeva in ordine alfabetico partendo dalla A, a volte cominciava dalla Z, altre ancora seguiva la data di archiviazione. Fino al momento in cui si veniva chiamati, era impossibile prevedere l'orario della convocazione. A volte, nell'aula di Powell, gli avvocati rimanevano a girarsi i pollici anche per più di un'ora. Al giudice piaceva così. «Per le undici dovrei farcela» azzardai. «Di che caso si tratta?» «Il tipo deve avere una montagna di soldi. Ha la residenza a Beverly Hills e l'avvocato di famiglia è piombato qui all'istante. I fatti sono questi, Mick, la cauzione fissata è di mezzo milione di dollari e l'avvocato della madre si è presentato pronto a fornire una proprietà di Malibu a copertura. Non ha neppure discusso la cifra. Evidentemente quanto costi tirarlo fuori non deve importargli granché.» «Di cosa è accusato?» chiesi. Mi sforzai di non alterare il tono della voce. Spesso il profumo dei soldi provoca un travaso di entusiasmo, ma mi sentivo tranquillo circa l'assenza di concorrenza diretta visto che Valenzuela era abbonato ai miei regali natalizi. Potevo permettermi di non manifestare particolari emozioni. «La polizia lo accusa di aggressione, lesioni personali aggravate e tentato stupro» rispose il garante. «Ma per quanto ne so, il procuratore distrettuale non ha ancora passato le imputazioni agli atti.»
La polizia tende sempre a gonfiare l'entità dei capi d'accusa. Ciò che conta è quello che il pubblico ministero decide di portare in giudizio. Come mi piace dire, certe cause entrano da leoni ed escono da agnelli. Una causa iscritta per tentato stupro e aggressione con lesioni personali aggravate può venire rubricata come aggressione semplice. E quando l'imputato è una persona influente è cosa tutt'altro che insolita. Ragione per cui, dal mio punto di vista, è vantaggioso accordarsi con il cliente per una parcella calcolata sulla base delle accuse notificate prima che il procuratore le ridimensioni. «Altri particolari?» domandai. «Il fatto si è verificato ieri sera. A quanto pare un incontro in un bar finito male. Secondo l'avvocato della famiglia la donna sarebbe coinvolta per ragioni di soldi. Sai come funziona, prima la causa penale e a seguire quella civile. Ma non mi convince. Da quello che ho sentito la donna le ha buscate di santa ragione.» «Come si chiama l'avvocato di famiglia?» «Aspetta un momento. Da qualche parte devo avere il biglietto da visita.» Mentre aspettavo che Valenzuela recuperasse il biglietto mi misi a guardare fuori dal finestrino. Ero a due minuti di distanza dal tribunale di Lancaster e mancavano undici minuti all'inizio delle chiamate per le udienze. Mi occorrevano come minimo tre di quei minuti per conferire con il mio cliente e comunicargli le cattive notizie. «Ci sono» disse Valenzuela. «Si tratta di Cecil C. Dobbs, Esquire, così è scritto sul biglietto. L'indirizzo è in zona Century City. Te lo dicevo. Soldi a palate.» Valenzuela aveva ragione. Anche se l'indizio di ricchezza non stava tanto in Century City, quanto nel suo nome. Conoscevo di fama C.C. Dobbs e immaginavo che fossero non più di un paio i suoi clienti che non abitavano a Bel Air o a Holmby Hills. La sua clientela poteva abitare esclusivamente nei quartieri dove di notte le stelle sembrano scendere dal cielo a sfiorare quei privilegiati mortali. «Il nome del cliente?» gli chiesi. «Louis Ross Roulet.» Me lo sillabò e presi un appunto su un blocchetto del tribunale. «Si scrive quasi come roulette ma si pronuncia Roo-lay» precisò. «Pensi di venire, Mick?» Prima di rispondere trascrissi il nome di C.C. Dobbs sul taccuino legale.
Quindi gli risposi con una domanda. «Perché proprio io? Hanno chiesto espressamente di me?» gli chiesi. «O sei stato tu a suggerire il mio nome?» Dovevo muovermi con cautela. Era presumibile che Dobbs fosse il genere di avvocato che se si imbatte in un avvocato difensore che foraggia un garante per recuperare clienti si precipita a denunciarlo all'Ordine degli avvocati. In realtà cominciavo a domandarmi se l'intera faccenda non fosse una trappola architettata dall'Ordine che Valenzuela non aveva interpretato nel modo giusto. Non ero uno dei membri più amati dell'avvocatura californiana. Era già successo che mi prendessero di mira. E più di una volta. «Ho chiesto a Roulet se aveva un avvocato. Un difensore penalista, e lui ha risposto di no. Gli ho parlato di te. Non ho spinto la tua candidatura. Gli ho semplicemente detto che saresti stato adatto. Persuasione indiretta, mi spiego?» «È successo prima o dopo che entrasse in campo Dobbs?» «Prima. Roulet mi ha chiamato stamattina dal carcere. Devono averlo messo in sicurezza e immagino che abbia visto l'insegna con il mio numero. Dobbs è spuntato fuori dopo. Gli ho parlato di te, gli ho esposto il tuo curriculum professionale e lui non ha fatto commenti. Alle undici ci sarà anche lui. Potrai renderti conto tu stesso di che tipo sia.» Rimasi in silenzio per qualche secondo. Mi domandai quanto Valenzuela potesse essere sincero con me. Uno come Dobbs doveva avere un avvocato di riferimento. Anche se lui si occupava d'altro, nel suo studio o tra le sue conoscenze non poteva mancare un penalista. La ricostruzione di Valenzuela smentiva questa ipotesi. Roulet era arrivato a lui senza proporre suoi nominativi. Il che mi faceva pensare che ci fossero ancora molte incognite. «Pronto, Mick, ci sei ancora?» domandò Valenzuela. Presi la decisione. Una decisione che mi avrebbe fatto riavvicinare a Jesus Menendez e della quale mi sarei pentito più di una volta. Ma a quel punto era presa, niente di diverso da una delle tante scelte fatte per necessità e abitudine. «Ci sarò» dissi al telefono. «Ci vediamo alle undici.» Stavo per chiudere la comunicazione quando tornai a sentire la voce di Valenzuela. «E tu ti ricorderai di me per questa imbeccata, giusto, Mick? Non c'è bisogno di aggiungere altro, basta che ti ricordi che si tratta di un primo livello.» Era la prima volta che Valenzuela voleva conferme sul suo compenso.
La mia paranoia aumentò e pensai a organizzare una risposta prudente che avrebbe soddisfatto lui e l'Ordine degli avvocati, nel caso stessero ascoltando. «Non ti preoccupare, Val. Sei segnato nella lista dei regali di Natale.» Prima che potesse aggiungere qualcosa chiusi la comunicazione e dissi al mio autista di farmi scendere davanti al tribunale, all'ingresso del personale. Da quell'ingresso la coda al metal detector sarebbe stata più veloce perché in genere gli addetti alla sicurezza non perdevano tempo con gli avvocati, soprattutto gli abituali, e per non farli arrivare in ritardo in aula li facevano passare. Con il finestrino abbassato per lasciar entrare ancora un po' dell'aria fresca e pulita del mattino, mi misi a pensare a Louis Ross Roulet, ai rischi eventuali e ai possibili guadagni che avevo di fronte. Nell'aria si avvertiva ancora il profumo di una promessa. 2 Al mio arrivo, l'aula del tribunale del Dipartimento 2A era affollata di avvocati che conversavano e avviavano trattative sia nell'area esterna alla barra sia all'interno. Guardai l'ufficiale giudiziario e ne dedussi che la sessione sarebbe iniziata in perfetto orario. Il fatto che fosse seduto alla scrivania significava che il giudice stava per prendere posto. Nella contea di Los Angeles gli ufficiali giudiziari sono vicesceriffi giurati assegnati alla sorveglianza nelle carceri. Mi diressi verso la sua scrivania, collocata vicino alla barra per consentire al pubblico di avvicinarsi e parlargli senza interferire nello spazio riservato agli avvocati, agli imputati e al personale del tribunale. Sul blocco di fronte a lui era segnata la successione delle chiamate. Prima di parlare lessi il nome sul distintivo, R. Rodriguez. «Roberto, a che punto è segnato il mio cliente? Harold Casey.» L'ufficiale giudiziario cominciò a scorrere l'elenco dei nomi con il dito e si fermò quasi subito. Ero fortunato. «Sì, ecco qui, Casey. È il secondo.» «Bene, allora oggi si va in ordine alfabetico. Ho tempo di vederlo?» «No, stanno per portare in aula il primo gruppo. Li ho appena convocati. Il giudice sta per arrivare. Forse ce la fa per un attimo nel recinto degli imputati.» «Grazie.»
Mentre stavo per avviarmi verso il recinto, l'ufficiale mi richiamò. «Mi chiamo Reynaldo, non Roberto.» «Giusto, giusto. Chiedo scusa, Reynaldo.» «Gli ufficiali giudiziari americani si assomigliano tutti, vero?» Non capii se voleva essere una battuta o una semplice osservazione sarcastica nei miei confronti. Non risposi. Accennai un sorriso e proseguii. Feci un cenno di saluto a un paio di avvocati che non avevo mai visto e a un paio che conoscevo. Uno di loro mi fermò per chiedermi quanto pensavo durasse la mia udienza davanti al giudice per valutare quando ripresentarsi per la comparizione del suo cliente. Gli risposi che avevo intenzione di sbrigarmi. Gli imputati detenuti in carcere vengono portati in aula a gruppi di quattro e rimangono rinchiusi all'interno di un recinto di vetro e legno. Da lì possono conferire con gli avvocati subito prima di essere convocati in presenza del giudice. Raggiunsi il recinto mentre si apriva la porta della cella interna e venivano accompagnati in aula i primi quattro imputati sulla lista delle chiamate. Il mio cliente, Harold Casey, era l'ultimo dei quattro. Mi sistemai accanto alla parete laterale per garantirmi un po' di privacy almeno da un lato, e gli feci segno. Casey era grande e grosso. Del resto è così che devono essere i Road Saints, cioè i componenti di una banda di motociclisti o per meglio dire i membri di un club, come preferiscono definirsi loro. Durante la permanenza nel carcere di Lancaster, Harold aveva seguito il mio suggerimento di tagliarsi barba e capelli e adesso era discretamente presentabile, a parte i tatuaggi che gli avviluppavano le braccia e il collo. Ci sarebbe stato parecchio altro da fare. Non sono aggiornato sull'effetto che i tatuaggi possono produrre sui membri di una giuria ma ho il sospetto che non sia particolarmente positivo, specie sul corpo di un giovanottone dall'aria strafottente. Ma so per esperienza diretta che i giudici tollerano a malapena le code di cavallo, sia che le portino gli imputati, sia gli avvocati che li rappresentano. Casey, o Pelledura, come lo chiamavano al club, era incriminato per coltivazione, possesso e spaccio di marijuana e altre droghe e detenzione di armi. Gli uomini dello sceriffo, durante una retata notturna al ranch dove viveva e regolava i suoi traffici, avevano scoperto una baracca e un complesso di casupole trasformate in serre coperte. Erano state sequestrate oltre duemila piantine mature e ventotto quintali di marijuana già raccolta e
confezionata in buste di plastica di varie dimensioni. Inoltre erano stati confiscati più di trecento grammi di metadone, che veniva cosparso al momento dell'imballaggio per accentuare l'effetto eccitante, e un piccolo arsenale di armi quasi tutte rubate, come in seguito era stato accertato. Stando all'apparenza dei fatti, Pelledura era fottuto. Beccato in flagranza di reato. Lo avevano scoperto che dormiva su un divano dentro la baracca, vicino al tavolo usato per confezionare la droga. Come aggravante aveva due precedenti fermi per spaccio di stupefacenti e per l'imputazione più recente stava ancora usufruendo della libertà condizionata. Nello stato della California la terza volta è quella definitiva. Era ragionevole ritenere che Casey stesse rischiando almeno una decina d'anni di galera, buona condotta compresa. La sua situazione era singolare. Non capita spesso che un imputato non veda l'ora di farsi processare anche se è probabile che venga giudicato colpevole. Casey si era rifiutato di rivendicare il diritto a una procedura accelerata e ora, a quasi tre mesi dall'arresto, voleva affrontare il giudizio al più presto. L'impazienza nasceva dalla consapevolezza che la sua unica possibilità di salvezza passava per il ricorso in appello dopo la prima prevedibile condanna. Casey aveva intravisto un tenue spiraglio di speranza grazie all'abilità del suo avvocato, una fioca luce tremolante che solo un buon legale può far balenare nel buio di un caso del genere. Da quel barlume era scaturita una strategia difensiva che alla fine del suo corso avrebbe potuto rimetterlo in libertà. Si trattava di una strategia audace e sarebbe stato necessario il tempo di paziente attesa dell'appello, ma Casey sapeva quanto me che quella era la sua unica opportunità. Il punto debole dell'accusa non consisteva nell'assunto che Casey fosse un coltivatore, confezionatore e spacciatore di marijuana. L'accusa aveva tutte le ragioni del mondo e le prove non lasciavano dubbi. Era il metodo utilizzato per arrivare a formulare l'accusa che presentava aspetti poco convincenti. Durante il processo il mio compito sarebbe stato quello di indagare su quegli aspetti, sfruttarli a nostro favore, farli depositare agli atti e quindi convincere la corte d'appello a escludere le prove raccolte illecitamente, impresa che non mi era riuscita con il giudice Orton Powell nel corso dell'istruttoria precedente al processo. Il primo seme del procedimento nei suoi confronti fu piantato un martedì di metà dicembre, quando Harold Casey entrò in un emporio di articoli per la casa e fece una serie di normalissimi acquisti, comprese tre lampadine del tipo usato per l'idrocoltura. Il caso volle che l'uomo dietro di lui nella
coda alla cassa fosse un vicesceriffo fuori servizio che stava acquistando delle luci natalizie per esterni. L'agente riconobbe gli artistici tatuaggi sulle braccia di Casey. Il più appariscente era un teschio con l'aureola, una specie di sigla di riconoscimento dei Road Saints, e fece due più due. Pur essendo nel giorno di riposo, il poliziotto, con grande senso del dovere, seguì l'Harley di Casey fino al suo ranch nei pressi di Pearblossom. Quindi passò l'informazione allo sceriffo della squadra Antidroga il quale fece predisporre un elicottero senza contrassegni di riconoscimento munito di telecamera termica per sorvolare il ranch. La pellicola sensibile al calore rilevò nella baracca e nei capanni di Quonset la presenza di una ricca fioritura color rosso fuoco. Il materiale fotografico, insieme alla dichiarazione del vicesceriffo che aveva visto Casey comprare le lampadine per l'idrocoltura, fu sottoposto all'affidavit di un giudice. La mattina seguente Casey venne sorpreso mentre dormiva su un divano e arrestato in forza di un regolare mandato di cattura. In un'audizione preliminare avevo sostenuto che non tutti gli elementi di prova contro Casey potevano essere ammessi nel dibattimento. Il mandato di perquisizione costituiva una violazione del diritto della privacy dell'imputato e i costituzionalisti avrebbero potuto interpretare come abuso di potere aver utilizzato un banale acquisto in un negozio di ferramenta come pretesto per mettere sotto controllo, via terra e via aria, l'abitazione dell'imputato e ricavarne immagini a raggi termici. Il giudice Powell aveva respinto la mia tesi e la causa era proseguita verso il processo o il patteggiamento per ammissione di colpa. Intanto erano emersi nuovi elementi che avrebbero potuto sostenere l'appello contro una sentenza di condanna ai danni di Casey. I dati tecnici dell'apparecchiatura termica rivelarono che gli agenti avevano effettuato le riprese fotografiche sorvolando con l'elicottero la casa dell'imputato a meno di sessanta metri da terra. La corte suprema degli Stati Uniti ha stabilito che un volo di ricognizione della polizia sopra un obiettivo sospetto non viola il diritto individuale alla privacy qualora si mantenga all'interno dello spazio aereo pubblico. L'investigatore che lavora per me, Raul Levin, aveva controllato i dati presso gli uffici federali dell'aviazione. Il ranch di Casey non risultava sulla traiettoria di alcun aeroporto. Lo spazio aereo pubblico sopra il ranch si trovava a un'altezza di trecento metri. Quindi era evidente che nella raccolta degli elementi di prova che avevano consentito di fare irruzione nel ranch di Casey c'era stata una violazione della privacy.
Il mio compito a quel punto era portare il caso a processo e indurre gli agenti e il pilota dell'elicottero a testimoniare sull'altitudine a cui avevano sorvolato il ranch. Se avessero ammesso la verità, li avrei avuti in pugno. Se avessero mentito sarebbe stato lo stesso. E dentro di me mi auguravo che succedesse, anche se non mi divertiva l'idea di incastrare uomini delle forze dell'ordine in una pubblica udienza. Nel momento in cui una giuria si convince che un rappresentante delle forze dell'ordine al banco dei testimoni dichiara il falso, il processo può dirsi concluso. Non è più necessario ricorrere in appello per arrivare a un verdetto di non colpevolezza. Se si incorre in quella eventualità, la legge considera il caso chiuso. Perciò ero fiducioso, la causa si poteva vincere. Ci bastava arrivare a processo. Rimaneva solo un'ultima cosa da chiarire. E di quella volevo parlare a Casey prima che il giudice sedesse al suo seggio e ci convocasse. Il mio cliente si avvicinò all'angolo del recinto e non mi rivolse alcun segno di saluto. Né io lo rivolsi a lui. Lui sapeva cosa volevo. Ne avevamo già parlato. «Harold, ci siamo» dissi. «Oggi è il giorno in cui devo comunicare al giudice se siamo pronti ad andare a processo. So che da parte sua è tutto predisposto. Dipende da noi.» «E allora?» «C'è un problema. L'ultima volta che ci siamo visti qui hai detto che mi avresti pagato. Ora siamo di nuovo qui, Harold, e non vedo il denaro.» «Non ti preoccupare. Li ho i soldi per te.» «È proprio per questo che mi preoccupo. Tu hai i soldi per me. E non me li dai.» «Te li darò. Ne ho parlato ieri con i ragazzi. Te li darò.» «Me l'hai detto anche l'altra volta. Io non lavoro gratuitamente, Harold. Neanche l'esperto che ho assunto per l'esame delle fotografie lavora gratis. L'acconto che mi hai dato sulla parcella è scaduto da tempo. Voglio altri soldi o dovrai procurarti un altro avvocato. Un difensore d'ufficio.» «Nessun difensore d'ufficio. Io voglio te.» «Ho sostenuto delle spese e ho dovuto mantenermi. Sai quant'è il disturbo solo per pagare le pagine gialle tutte le settimane? Prova a immaginare.» Casey non rispose. «Mille dollari. Spendo in media mille dollari la settimana solo per avere l'inserzione con il mio nome sulle pagine gialle e questo viene prima di mangiare, pagare il mutuo, gli alimenti per mia figlia e mettere la benzina
nella Lincoln. Lavorare per te non è la mia missione, Harold. Io lavoro per il vile denaro.» Casey rimase imperturbabile. «Mi sono informato» disse Casey. «Non puoi mollarmi. Non adesso. Il giudice non te lo permetterebbe.» Quando il giudice uscì dal suo ufficio e salì i due gradini per prendere posto al seggio il silenzio scese sull'aula. L'ufficiale giudiziario richiamò l'attenzione dei presenti. Lo spettacolo stava per incominciare. Lanciai a Casey un'occhiata eloquente e andai a prendere posto. Il mio cliente conosceva l'applicazione della legge da buon dilettante, e tendeva a vederla dalla parte di chi si ritrova in carcere. Era piuttosto preparato, ma lo aspettava una sorpresa. Presi posto contro la barra dietro il tavolo della difesa. Il primo caso convocato era un riesame di una sentenza di libertà provvisoria su cauzione e fu trattato velocemente. A quel punto il cancelliere chiamò la causa California contro Casey e io feci un passo in direzione del tavolo. «Michael Haller per la difesa» dissi. Si dichiarò anche la pubblica accusa. Si trattava di un giovane di nome Victor DeVries. Non aveva la minima idea di quello che avrebbe dovuto affrontare al processo. Il giudice Orton Powell formulò le domande di prammatica per verificare se fosse possibile un accordo in extremis. I giudici sono tenuti a tentare fino all'ultimo una conciliazione perché il loro calendario è fitto di impegni. L'ultima cosa che un giudice vuole sentirsi dire è che non esiste possibilità di accordo e che il processo è inevitabile. Powell incassò la cattiva notizia da me e da DeVries senza batter ciglio e domandò se ci andava bene fissare il processo per la fine di quella settimana. DeVries disse di sì. Io dissi di no. «Vostro onore,» dissi «se possibile chiederei di far slittare il processo alla settimana prossima.» «Perché posticiparlo, signor Haller?» mi chiese il giudice infastidito. «L'accusa è pronta e io voglio procedere.» «Anch'io, vostro onore. Ma la difesa ha difficoltà nel rintracciare un testimone determinante per il processo. Un testimone indispensabile, vostro onore. Penso che dovrebbe essere sufficiente rimandare di una settimana. Entro la prossima settimana saremo pronti a proseguire.» Com'era prevedibile, DeVries non mancò di eccepire. «Vostro onore, è la prima volta che lo stato sente di un testimone che svanisce nel nulla. Il signor Haller ha avuto più di tre mesi per rintracciar-
lo. Aveva chiesto lui di procedere d'urgenza e adesso intende aspettare. Ritengo si tratti di un rinvio tattico dal momento che deve affrontare un processo...» «Può conservare il seguito per la requisitoria ai giurati, signor DeVries» lo interruppe il giudice. «Signor Haller, ritiene che una settimana sia sufficiente per risolvere il suo problema?» «Sì, vostro onore.» «Bene, rivedrò lei e il signor Casey lunedì prossimo e sarete pronti per procedere. È chiaro?» «Sì, vostro onore. Grazie.» Il segretario chiamò la causa successiva e io mi allontanai dal tavolo della difesa. Vidi che un addetto conduceva il mio cliente fuori dal recinto. Casey si girò per darmi un'occhiata. L'espressione del viso conteneva un misto di rabbia e stupore ugualmente distribuiti. Andai a chiedere a Reynaldo Rodriguez se mi autorizzava a tornare nella zona riservata agli imputati per parlare ancora con il mio cliente. Era prassi concedere questo favore agli avvocati. Rodriguez si alzò, aprì la porta chiusa a chiave dietro alla sua scrivania e mi fece entrare. Nel ringraziarlo feci attenzione a non sbagliare il suo nome. Casey era chiuso in una cella con un altro imputato, quello del caso discusso subito prima di lui. La stanza era spaziosa e su tre lati erano disposte delle panche. Gli imputati chiamati in aula per le prime udienze del mattino devono restare ad aspettare che la cella si riempia di un numero di detenuti sufficiente per giustificare il viaggio del cellulare che li riporta in carcere. Casey si avvicinò alle sbarre per parlarmi. «Di quale testimone stavi parlando?» mi domandò. «Del signor Green» risposi. «La persona indispensabile per proseguire è il signor Green.» La faccia di Casey si contrasse dalla rabbia. Provai a bloccargliela sul nascere. «Ascolta Harold, so che vuoi arrivare al processo e poi all'appello. Ma per il tragitto ti tocca pagare il biglietto. La mia lunga e tormentosa esperienza mi ha insegnato che non posso mettermi a rincorrere i clienti insolventi dopo che li ho fatti uscire di prigione. Se vuoi continuare a giocare, paghi.» Scossi il capo e feci per tornare verso la porta che conduceva alla libertà. Ma poi decisi di proseguire il discorso. «E non pensare che il giudice non sappia come stanno le cose» dissi.
«Hai un pm molto giovane e con la puzza sotto il naso che non ha bisogno di preoccuparsi per sapere da quale parte arriverà il suo prossimo introito di denaro. Ma Orton Powell ha lavorato a lungo come difensore prima di diventare giudice. Sa cosa significa rincorrere testimoni chiave come il signor Green ed è probabile che non veda di buon occhio un imputato che non paga il proprio avvocato. Gli ho fatto un cenno d'intesa, Harold. Se decido di annullare il processo so di riuscirci. Invece lunedì prossimo verrò qui e mi presenterò davanti al giudice per annunciargli che abbiamo trovato il nostro testimone e siamo pronti a procedere. Ti è chiaro?» Casey restò in silenzio. Andò nell'angolo più lontano della cella e si sedette sulla panca. Alla fine parlò senza rivolgermi lo sguardo. «Appena trovo un telefono» disse. «Ora sì che ci siamo, Harold. Dirò a una guardia che devi fare una telefonata. Fai quella telefonata, poi tieni duro e ci vediamo la settimana prossima. Vedrai che ce la faremo.» Mi affrettai all'uscita. Odio essere rinchiuso. Presumo sia perché la linea di confine a volte sembra impercettibile. Il confine tra l'avvocato e il criminale. A volte non so da quale parte delle sbarre mettermi. Mi sembra sempre un miracolo riuscire ad andarmene dalla parte da cui sono entrato. 3 Riaccesi il cellulare nell'atrio esterno del tribunale per avvisare l'autista che stavo uscendo. Controllai la segreteria telefonica e trovai i messaggi di Lorna Taylor e di Fernando Valenzuela. Decisi di aspettare di essere in macchina per richiamarli. Il mio autista, Earl Briggs, mi fece trovare la Lincoln di fronte all'ingresso principale. Earl non scese dall'auto per aprire la porta né per altri gesti di cortesia. Il suo compito era solo quello di guidare al mio posto per sdebitarsi di avergli fatto ottenere la libertà condizionata a fronte di un'incriminazione per spaccio di coca. Il suo compenso da autista ammontava a venti dollari l'ora ma ne trattenevo la metà come rimborso per l'onorario che mi doveva. Non era la somma che aveva pensato di intascare con il commercio della droga ma era un guadagno sicuro, conforme alla legge e avrebbe potuto essere citato su un curriculum vitae. Earl aveva dichiarato di voler rigare dritto e io gli avevo creduto. Via via che mi avvicinavo alla Town Car sentivo aumentare il battito della musica hip-hop all'interno della vettura. Quando raggiunsi la mani-
glia della portiera, Earl abbassò prontamente il volume. Scivolai sui sedili posteriori e gli dissi di dirigersi a Van Nuys. «Che gruppo stavi ascoltando?» gli chiesi. «I Three Six Mafia.» «Roba del Sud, giusto?» «Esatto.» Con il tempo ero diventato un esperto di musica rap e hip-hop e riuscivo a distinguere le diverse interpretazioni in base alla zona di provenienza. La maggior parte dei miei clienti ascoltava quel genere di musica e ne faceva la propria filosofia di vita. Mi allungai per raccogliere la scatola da scarpe piena di cassette registrate durante il processo Boyleston e ne scelsi una a caso. Presi nota dell'ora e del numero del nastro sul piccolo taccuino che tenevo nella scatola. Porsi il nastro a Earl che lo infilò nello stereo. Non era il caso che gli raccomandassi di impostare il volume sufficientemente alto da coprire il rumore di sottofondo. Earl lavorava con me da tre mesi. Sapeva cosa doveva fare. Roger Boyleston era uno dei pochi clienti che mi era stato assegnato dal tribunale. Sul suo capo pendevano diverse accuse per traffico di stupefacenti. Era stato arrestato in seguito alle intercettazioni telefoniche della DEA, i servizi antidroga, e al sequestro di sei chili di cocaina che stava per distribuire sul mercato attraverso una rete di ricettatori. Erano stati registrati diversi nastri per un totale di oltre cinquanta ore di conversazioni telefoniche. Dalle registrazioni si sentiva Boyleston avvisare numerose persone dell'imminente arrivo della partita di droga e prendere accordi sul luogo di consegna. Il processo fu una vittoria scontata per la pubblica accusa. Boyleston stava per essere spedito a marcire in carcere per un bel po' di tempo e in pratica non c'era nulla che potessi fare per lui se non negoziare le informazioni che avrebbe potuto fornire alla giustizia per ottenere una sentenza più mite. Ma non era questo che mi importava. A me interessavano i nastri. Avevo accettato il caso per quei nastri. Il governo federale, per consentirmi di mettere a punto la difesa del mio cliente, mi pagava per ascoltarli. Il mio obiettivo era arrivare a fatturare come minimo una cinquantina di ore di ascolto prima che tutto si fosse concluso. Per questo quando viaggiavo sulla Lincoln mi assicuravo che i nastri fossero sempre in funzione. Volevo essere certo che se fossi stato chiamato a giurare di dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità sulla Bibbia, in coscienza avrei potuto farlo sapendo che tutti i nastri che avevo fatturato al governo li avevo fatti girare.
Per prima richiamai Lorna Taylor. Lorna è la responsabile dei casi di cui mi occupo. Il numero di telefono riportato accanto al mio nome sull'inserzione di mezza pagina nelle pagine gialle e sulle panchine delle trentasei fermate d'autobus nella zona orientale e meridionale della contea, dove il tasso di criminalità è più elevato, si riferisce all'alloggio di Kings Road a West Hollywood, ufficio e sua seconda camera da letto. Anche per l'Ordine degli avvocati della California e per tutti i colleghi del tribunale il mio riferimento è quell'appartamento. Lorna è il mio primo filtro. Si deve passare attraverso di lei per arrivare a me. Il mio numero di cellulare viene dato solo a pochi ed è lei che decide a chi. Lorna è di costituzione robusta, è elegante, estremamente professionale e attraente. Anche se da un po' di tempo ho la possibilità di apprezzare quest'ultimo aspetto non più di una volta al mese, quando pranziamo insieme al ristorante e mi fa firmare gli assegni, visto che mi tiene anche la contabilità. «Ufficio legale» rispose al telefono. «Mi spiace, ero ancora in tribunale» le dissi per spiegarle perché non le avevo risposto. «Che succede?» «Hai parlato con Val, vero?» «Sì. Ora sto andando a Van Nuys. Devo essere lì per le undici.» «Val ha chiamato qui per essere sicuro. Sembrava agitato.» «È convinto che quel tipo sia la gallina dalle uova d'oro e vuole essere sicuro di poterle raccogliere. Adesso lo richiamo per tranquillizzarlo.» «Ho fatto alcune verifiche preliminari su Louis Ross Roulet. Il suo credito bancario è ineccepibile. Nell'archivio del "Times" il suo nome compare poche volte, solo in caso di transazioni immobiliari. Risulta lavorare per una società immobiliare di Beverly Hills che si chiama Windsor Residential Estates. Sembra che la società si occupi solo di una ristretta scelta di immobili esclusivi, il genere di proprietà immobiliari per le quali non si mette fuori il cartello VENDESI.» «Ottimo lavoro. C'è altro?» «Non su questo argomento. Le solite telefonate.» Lorna voleva dire che aveva risposto alle numerose chiamate che scaturivano dalle inserzioni sulle panchine alle fermate degli autobus e sulle pagine gialle, tutte di gente in cerca di un legale. Prima di parlare con me, gli aspiranti clienti dovevano convincere lei di essere in condizione di pagare la parcella. Lorna era una specie di infermiera dietro il bancone d'accoglienza del pronto soccorso. Chiunque le si rivolgesse per essere visitato
da un dottore doveva dimostrarle di avere un'assicurazione valida. Lorna tiene accanto al telefono il listino prezzi che parte da una semplice parcella da cinquemila dollari per i casi di guida sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o bevande alcoliche fino ad arrivare a una tariffa oraria per i reati più gravi. Si assicura che ogni potenziale cliente sia in grado di pagare e lo informa dei costi che comporta l'accusa da cui devono essere difesi. Esiste un detto: non commettere un reato se non hai tempo da passare in prigione. A Lorna piace ripetere che con me la versione giusta è non commettere un reato se non puoi permetterti di pagare il tempo dell'avvocato. Lorna accetta MasterCard e Visa e prima di permettere a un nuovo cliente di rivolgersi a me aspetta la conferma della disponibilità. «Nessun cliente conosciuto?» le chiesi. «Gloria Dayton da Twin Towers.» Brontolai. Twin Towers era il carcere principale della contea nell'area metropolitana. Una torre ospitava le donne e l'altra gli uomini. Gloria Dayton era una prostituta d'alto bordo che ogni tanto aveva bisogno della mia assistenza legale. La prima volta che mi era capitato di difenderla risaliva almeno a una decina d'anni prima, quando era giovane, non si drogava e aveva ancora lo sguardo vitale. Adesso era una cliente che rappresentavo pro bono. Non l'ho mai fatta pagare. Ho soltanto cercato di convincerla a smetterla con quella vita. «Quando l'hanno fermata?» «La notte scorsa. O meglio stamattina. La prima comparizione sarà dopo pranzo.» «Con questa faccenda di Van Nuys non so se riesco a occuparmene.» «C'è un'aggravante. Detenzione di cocaina, come al solito.» Sapevo che Gloria lavorava esclusivamente tramite contatti in rete, dove si reclamizzava su diversi siti con il nome di Glory Days. Non si prostituiva per strada o nei locali. Di solito veniva arrestata se un agente riusciva a infiltrarsi nel suo sistema di controllo e a fissare un incontro. Il fatto che le avessero trovato addosso della coca faceva pensare a una dimenticanza da parte sua o a una trappola che le aveva teso l'agente. «Va bene, se richiama dille che cercherò di andarci e se non ci riesco manderò qualcuno. Chiama il tribunale e conferma l'udienza.» «Subito. Ma, Mickey, quando hai intenzione di dirle che questa è l'ultima volta?» «Non lo so. Forse oggi. Altro?» «Non basta per un giorno solo?»
«Presumo di sì.» Parlammo ancora per qualche minuto degli impegni della settimana e aprii il portatile sul tavolino pieghevole per confrontare gli appuntamenti con quelli che aveva segnato lei. Avevo un paio di udienze tutte le mattine e un processo giovedì. Tutte storie di droga nella zona-rischio a sud della città. Il mio piatto forte. La salutai dicendole che l'avrei richiamata dopo l'udienza di Van Nuys per informarla se e come il caso Roulet avrebbe condizionato gli altri impegni. «Un'ultima cosa» dissi. «Hai detto che Roulet lavora in un'agenzia dove trattano solo immobili esclusivi, giusto?» «Sì. Tutte le transazioni archiviate a suo nome sono a sette cifre. In un paio di casi arrivano a otto. Holmby Hills, Bel Air, posti del genere.» Annuii e pensai che i media potevano essere interessati a un personaggio di quel calibro. «Perché non passi l'informazione a Sticks?» le dissi. «Sei sicuro?» «Sì, mi sembra una storia da sfruttare.» «Lo farò.» «A dopo.» Earl stava imboccando la Antelope Valley Freeway in direzione sud. Eravamo in orario e non sarebbe stato un problema raggiungere Van Nuys per la prima comparizione. Chiamai Fernando Valenzuela per confermarglielo. «Molto bene» disse il garante. «Ti aspetto.» Mentre mi parlava vidi dal finestrino due motociclisti che ci sorpassavano. Entrambi indossavano un giubbotto di pelle nera con un ricamo sulla schiena che raffigurava un teschio con l'aureola. «C'è dell'altro?» domandai. «Sì, c'è un'altra cosa che probabilmente dovrei dirti» disse Valenzuela. «Nel verificare con la corte quando sarebbe stata la prima comparizione ho scoperto che il caso è stato assegnato a Maggie la Spietata. Non so se per te può costituire un problema.» La donna conosciuta come Maggie la Spietata o come Margaret McPherson è uno dei pubblici ministeri più tosti e tenaci in carica al tribunale di Van Nuys. Inoltre si dà il caso che sia la mia prima ex moglie. «Nessun problema per me» dissi senza esitare. «Sarà lei ad averne.» L'imputato ha il diritto di scegliere il proprio consulente legale. Tocca al pubblico ministero ritirarsi nel caso di conflitto d'interessi tra la sua perso-
na e l'avvocato della difesa. Sapevo che Maggie mi avrebbe ritenuto personalmente responsabile se avesse perso il controllo di quello che poteva diventare un caso clamoroso, ma non potevo fare niente per evitarlo. Era già successo. Nell'archivio del mio computer esisteva una mozione, risalente all'ultima volta in cui i nostri sentieri si erano incrociati, che la dichiarava non idonea a seguire la causa. Se fosse stato necessario avrei solo dovuto cambiare il nome dell'imputato e la mozione sarebbe stata pronta per essere ristampata. A me conveniva andare avanti e lei avrebbe fatto bene a ritirarsi. I due motociclisti adesso erano davanti a noi. Mi girai a guardare dal vetro posteriore. Dietro di noi c'erano altre tre Harley. «Immagino che tu sappia cosa può succedere» dissi. «No, cosa?» «Lei non accetterà di concedere l'uscita su cauzione. Lo fa sempre quando ci sono di mezzo reati contro le donne.» «Merda... ma può farlo? C'è in ballo una montagna di soldi.» «Non lo so. Da quello che mi hai detto, dietro al ragazzo ci sono una famiglia e C.C. Dobbs. Forse qualcosa si può fare. Staremo a vedere.» «Merda.» Valenzuela vedeva sfumare il colpo della vita. «Ci vediamo lì, Val.» Chiusi il telefono e alzai lo sguardo verso Earl. «Da quanto tempo viaggiamo con la scorta?» chiesi. «Ci hanno appena raggiunto» disse Earl. «Vuoi che faccia qualcosa?» «Stiamo a vedere cosa fanno loro...» Non ebbi il tempo di finire la frase. Uno dei motociclisti si accostò da dietro alla Lincoln e ci fece segno di proseguire verso l'uscita successiva in direzione del Vasquez Rocks County Park. Riconobbi Teddy Vogel, mio ex cliente e numero uno tra i Road Saints fuori dal carcere. Doveva essere anche il più grosso. Superava i centocinquanta chili e dava l'impressione di essere un ragazzino obeso alla guida del motorino del fratello minore. «Seguiamolo, Earl» dissi. «Vediamo cosa fa.» Ci condusse in un parcheggio nei pressi della frastagliata formazione rocciosa che aveva preso il nome dal fuorilegge che ci si era nascosto un secolo prima. Vidi due persone che facevano un picnic sedute su una sporgenza scoscesa. Pensai che non mi sarei sentito a mio agio nell'addentare un panino in una posizione così pericolosa. Teddy Vogel si avvicinò a piedi e io abbassai il finestrino. Gli altri quat-
tro Saints avevano spento i motori ma erano rimasti in sella. Vogel si piegò verso di me e appoggiò sul finestrino un gigantesco avambraccio. Mi accorsi che l'automobile era sprofondata di alcuni centimetri. «Avvocato, come ti va la vita?» mi chiese. «Tutto bene, Ted» risposi. Non mi azzardai a chiamarlo Teddy Bear, il poco originale soprannome che aveva all'interno della banda. «Che mi racconti?» «Cosa è successo alla tua coda di cavallo?» «C'è chi ha avuto da ridire e io l'ho tagliata.» «Dei giurati scommetto. Dev'essere stato un branco di quei baccalà a ridurti così.» «Che cosa vuoi, Ted?» «Mi ha telefonato Pelledura dal recinto di Lancaster. Mi ha detto di raggiungerti. Dice che finché non vieni pagato terrai in sospeso il suo processo. È così, avvocato?» Il tono era quello di una conversazione di cortesia. Nessuna minaccia, nessun ordine. E io non mi sentivo in pericolo. Due anni prima Vogel era stato accusato di sequestro di persona e lesioni personali aggravate e io ero riuscito a tramutare l'accusa in turbamento della quiete pubblica. Gestiva uno strip club di proprietà dei Saints a Van Nuys, su Sepulveda. Quando aveva saputo che una delle sue ballerine più efficienti era andata a lavorare nel club concorrente sul lato opposto della strada, lui aveva attraversato, l'aveva tirata giù dal palco e l'aveva trascinata nel suo locale. Era nuda. Un motociclista di passaggio aveva avvertito la polizia e lui era stato arrestato. Ridimensionare il capo d'accusa era stata una delle mie performance migliori e Vogel lo sapeva. Aveva un debole per me. «Quello che ti ha detto è quasi tutto vero» dissi. «Io lavoro per vivere. Se Pelledura vuole che lavori per lui deve pagarmi.» «Ti abbiamo dato cinquemila dollari a dicembre» disse Vogel. «È passato parecchio tempo, Ted. Più della metà di quei soldi è andata al perito che deve testimoniare. Il resto è andato a me, ma per quella cifra ho lavorato abbastanza. Devo rifornire il serbatoio visto che sto per portare la causa in tribunale.» «Altri cinquemila?» «No, ne servono dieci, l'ho già detto a Pelledura la settimana scorsa. Il processo durerà tre giorni e dovrò andare a prendere il mio perito alla Kodak di New York. Devo pensare al suo compenso e lui è uno che vuole viaggiare in prima classe e quando è a terra pretende di alloggiare allo
Chateau Marmont. Si vede già mentre beve un drink al bar dell'hotel in compagnia di qualche star del cinema o di chissà quale personaggio famoso. Il prezzo della stanza meno cara viaggia sui quattrocento dollari a notte.» «Tu vuoi vedermi morto, avvocato. Che fine ha fatto lo slogan che mettevi sulle tue pubblicità? Ragionevole dubbio, ragionevole parcella, non diceva così? Diecimila dollari ti sembra una cifra ragionevole?» «Non era male quello slogan. Mi ha portato diversi clienti. Ma l'Ordine degli avvocati della California non lo apprezzava e me lo ha fatto togliere. La mia parcella è di diecimila dollari, una cifra ragionevole, Ted. Se non vuoi o non puoi pagare, archivierò la pratica oggi stesso. Mi ritirerò e la causa potrà essere portata avanti da un difensore d'ufficio al quale girerò tutte le informazioni che ho acquisito, anche se è poco probabile che il mio collega abbia la disponibilità finanziaria per coinvolgere l'esperto fotografico.» Vogel si scostò dal finestrino e l'automobile vibrò per lo spostamento di peso. «No, noi vogliamo te. Pelledura è strategico, sai cosa significa vero? Voglio che lui esca dal carcere e torni al lavoro.» Lo vidi infilare una mano nel giubbotto con un gesto così deciso che si graffiò le nocche. Tirò fuori una busta spessa e me la passò. «Contante?» chiesi. «Esatto. Qualcosa che non va?» «Niente, solo che devo farti la ricevuta. Sono tenuto a denunciare la somma al fisco. Ci sono tutti e dieci?» «Ci sono tutti.» Presi il classificatore di cartone che tengo sul sedile accanto al mio, sollevandolo per l'estremità superiore. Il blocco delle ricevute era sopra le pratiche dei casi in corso. Cominciai a compilare la ricevuta. La maggior parte degli avvocati radiati dall'albo si rendono colpevoli di irregolarità fiscali, applicazione di tariffe improprie o circonvenzione del cliente. Registrai la cifra e compilai la ricevuta. Non volevo correre alcun rischio. «Quindi ti eri portato dietro tutta la somma» dissi mentre scrivevo. «Cosa avresti fatto se avessi abbassato la richiesta a cinquemila?» Vogel si mise a ridere. Uno dei denti inferiori davanti era sul punto di cadere. Probabilmente una rissa al club. Tastò l'altra parte del giubbotto. «Qui c'era un'altra busta con cinquemila dollari, avvocato» disse. «Ero pronto a tutte le evenienze.»
«Dannazione, mi fa star male lasciarti con tutti quei soldi in tasca.» Strappai la sua copia della ricevuta e gliela porsi dal finestrino. «L'ho intestata a Casey. Il mio cliente è lui.» «Per me sta bene.» Prese la ricevuta, lasciò ricadere il braccio dal finestrino e raddrizzò la schiena. L'auto si riassestò a un livello normale. Avrei voluto chiedergli da dove proveniva il denaro, quale delle diverse attività criminose dei Saints lo aveva procurato, quante centinaia di ragazze avevano ballato per lui e per quante centinaia di ore, ma preferivo non conoscere la risposta. Vogel si diresse mollemente verso la Harley e lo vidi impegnarsi per ruotare la gamba e sistemare il gigantesco deretano sopra il sellino. Solo allora feci caso che montava due coppie di ammortizzatori sulla ruota posteriore. Dissi a Earl di rientrare in autostrada e proseguire per Van Nuys, dove mi sarei fermato in banca prima di affrontare il tribunale e conoscere il mio nuovo cliente. Aprii la busta e contai il denaro, in banconote da venti, cinquanta e cento dollari. L'importo era esatto. Quando ci fermammo al distributore di benzina mi sentii pronto per Harold Casey. Sarei andato al processo e avrei insegnato la lezione al suo giovane pm. Avrei vinto, se non al processo, di certo in appello. Casey sarebbe tornato a casa a lavorare con i Road Saints. Mentre compilavo la ricevuta del versamento del mio cliente, l'idea di sapere se fosse colpevole o meno del reato del quale veniva accusato non mi sfiorava nemmeno. «Signor Haller?» disse Earl dopo un attimo. «Sì, Earl?» «L'esperto che arriva da New York dovrò andarlo a prendere io all'aeroporto?» Feci di no con la testa. «Non c'è nessun esperto in arrivo da New York, Earl. I migliori esperti fotografici del mondo li abbiamo qui a Hollywood.» Earl scosse il capo a sua volta e mi fissò attraverso lo specchietto retrovisore. Poi ritornò a guardare la strada. «Capisco» disse, e scosse ancora la testa. Anch'io scossi la testa pensando a me stesso. Nessun rimpianto per quello che avevo detto e fatto. Era il mio lavoro e quello era il mio modo di lavorare. Ero arrivato serenamente a questa conclusione dopo quindici anni di pratica legale. Avevo capito che la legge era un gigantesco ingranaggio arrugginito che inghiotte gente, vite e denaro e che io ero solo un meccani-
co. Con il tempo avevo imparato a infilarmi in quell'ingranaggio e a sistemare le cose in modo da uscirne portandomi via quello di cui avevo bisogno. Nella pratica legale non c'era più nulla che mi importasse davvero. Come i volti delle statue che provengono dalle antiche civiltà vengono erose dal tempo, così le nozioni di diritto acquisite a scuola sulle virtù del sistema accusatorio, delle procedure di controllo e di equilibrio, della ricerca della verità, avevano perso tutto il loro fascino. Alla legge non interessa trovare la verità. La legge è trattativa, evoluzione, manipolazione. Io non mi occupavo di colpa o innocenza, perché tutti erano colpevoli. O quasi. Ma questo non aveva alcuna importanza, perché ogni caso che prendevo in carico era come un edificio costruito su fondamenta gettate da operai sfruttati e malpagati che tagliano gli angoli, commettono errori e poi ci passano sopra una mano di vernice e bugie. Il mio lavoro consisteva nello scrostare la vernice e portare alla luce le crepe. Poi lavorarci dentro con le mani e gli attrezzi per allargarle abbastanza da far crollare l'edificio o, se non ci riuscivo, per far sì che il mio cliente ci potesse scivolare attraverso. La gente vedeva in me il diavolo, ma sbagliava. Ero un angelo sporco di grasso. Ero io il vero santo della strada. Mi volevano, avevano bisogno di me. Da entrambe le parti. Ero il lubrificante dell'ingranaggio. Grazie a me il meccanismo girava e si metteva in moto. Io contribuivo a mantenere in buono stato di efficienza il motore del sistema. Ma il caso Roulet avrebbe cambiato tutto. A me e a lui. E di sicuro a Jesus Menendez. 4 Louis Ross Roulet si trovava nella cella blindata insieme ad altri sette uomini che erano stati trasportati in cellulare per il mezzo isolato di distanza tra la prigione e il tribunale di Van Nuys. Due di essi erano bianchi e sedevano vicini, gli altri sei, neri, occupavano il lato opposto della cella, secondo una sorta di separazione darwiniana. Non si conoscevano, ma stare uniti li faceva sentire forti. Guardai i due bianchi e fu facile indovinare quale fosse Roulet, dal momento che doveva provenire dal dorato mondo di Beverly Hills. Uno era magro come un chiodo e aveva lo sguardo umido e disperato del drogato in astinenza. L'altro aveva l'espressione atterrita di un cervo braccato. Decisi che era lui.
«Signor Roulet?» dissi, pronunciando il nome come mi aveva insegnato Valenzuela. Il cervo assentì con il capo. Volevo parlargli con tranquillità e gli feci segno di avvicinarsi alle sbarre. «Mi chiamo Michael Haller. Tutti mi conoscono come Mickey. Per la prima comparizione sarò il suo avvocato.» Eravamo nell'area dove i detenuti si trovano alle spalle dei tavoli dell'accusa e dove per consuetudine è consentito agli avvocati conferire con i propri clienti prima che la corte dia inizio alla discussione. Sul pavimento, un metro davanti alle celle, era tracciata una linea blu. Indicava la distanza che dovevo mantenere dal mio cliente. Roulet si afferrò alle sbarre di fronte a me. Come tutti gli altri, aveva delle pesanti catene ai polsi e alle caviglie. Gliele avrebbero tolte solo al momento di essere scortato in aula. Doveva essere sulla trentina e aveva un aspetto esile, nonostante fosse alto almeno un metro e ottanta e pesasse intorno agli ottanta chili. Probabilmente l'effetto della detenzione. Gli occhi erano azzurro chiaro e mi era capitato di rado di vederne altri capaci come i suoi di esprimere panico puro. Quasi tutti i clienti che incontravo dopo una permanenza in cella avevano lo sguardo gelido del rapace. L'espressione con cui tentavano di resistere al carcere. Roulet era diverso. Ricordava un animale braccato. Era terrorizzato e non faceva niente per nasconderlo. «Mi hanno incastrato.» Il tono di voce era alto e concitato. «Deve tirarmi fuori di qui. Ho commesso un errore con quella donna, nient'altro. Lei sta cercando di incastrarmi e...» Alzai le mani per interromperlo. «Stia attento a quello che dice» dissi a bassa voce. «Stia sempre attento a quello che dice finché non la tiro fuori da qui e possiamo parlarci senza essere ascoltati.» Si guardò intorno. Sembrava non capire. «Non può sapere chi la sta ascoltando» gli dissi. «E non può sapere chi potrà dire di averla sentita parlare, anche se non ha aperto bocca. La cosa migliore è non parlare per niente. Chiaro? La cosa migliore è non parlare con nessuno di niente, punto e basta.» Lui fece di sì con la testa e gli indicai di sedere sulla panca vicino alle sbarre. Io sedetti sulla panca dalla parte opposta. «Oggi sono qui solo per conoscerla e presentarmi» dissi. «Parleremo di quello che è successo solo una volta che l'avremo tirata fuori di qui. Ho già
concordato con il legale della sua famiglia, il signor Dobbs, di confermare al giudice che siamo pronti a versare la cauzione. Ho fatto bene?» Aprii una cartellina Mont Blanc in pelle e mi predisposi a prendere appunti su un blocco legale. Roulet annuì. Stava imparando. «Bene» dissi. «Mi racconti di lei. Quanti anni ha, se è sposato, che università ha frequentato.» «Ho trentadue anni. Ho sempre vissuto qui e ho studiato qui. Università di Los Angeles. Non sono sposato. Non ho figli. Lavoro...» «È divorziato?» «No, mai stato sposato. Lavoro nell'azienda di famiglia. Windsor Residential Estates. La società ha preso il nome dal secondo marito di mia madre. È una società immobiliare. Vendiamo immobili.» Presi nota di quello che diceva. Senza alzare lo sguardo, gli chiesi con calma: «Quanto ha guadagnato nell'ultimo anno?». Roulet non rispose e lo guardai. «Perché questa domanda?» chiese. «Perché prima di questa sera voglio farla uscire di qui. Per riuscirci, devo conoscere il suo status sociale. Compresa la situazione finanziaria.» «Non conosco con precisione l'ammontare dei miei guadagni. Buona parte del mio reddito proviene dagli utili societari.» «Non presenta una denuncia dei redditi?» Roulet si guardò intorno per controllare che nessuno lo ascoltasse e mormorò: «Sì. Da lì risulta che il mio reddito ammonta a duecentocinquantamila dollari». «Sta cercando di dirmi che in realtà se si aggiungono i dividendi della società guadagna parecchio di più.» «Esatto.» Si avvicinò uno dei compagni di cella di Roulet, l'altro bianco. Aveva l'aria nervosa, gesticolava in continuazione, spostando freneticamente le mani dai fianchi alle tasche e viceversa. «Ehi, ho bisogno anch'io di un avvocato. Hai un biglietto da visita?» «Non per te, amico. Laggiù trovi un avvocato per te.» Mi rivolsi a Roulet e rimasi in attesa che il tossico si allontanasse. Non lo fece. Tornai a parlargli. «Ascolta, questo è un colloquio privato. Ti spiace lasciarci soli?» Senza interrompere il movimento delle mani, il balordo tornò strascicando i piedi verso l'angolo da cui era venuto. Mi rivolsi di nuovo a Roulet.
«Associazioni di beneficenza?» gli chiesi. «Cosa intende dire?» rispose Roulet. «Fa parte di qualcuna di queste associazioni? Si dedica alla beneficenza?» «Sì, attraverso la mia società. Facciamo donazioni in favore di Make a Wish e di un ricovero di immigrati a Hollywood. Mi pare che si chiami My Friend's Place o qualcosa di simile.» «Bene.» «Pensa di riuscire a tirarmi fuori di qui?» «Ci provo. Ha delle imputazioni pesanti a suo carico, ho controllato prima di venire qui e ho la sensazione che il procuratore distrettuale abbia intenzione di chiedere che non venga presa in considerazione l'ipotesi di una cauzione, anche se questo può giocare a nostro favore. So come comportarmi.» Gli indicai i miei appunti. «Nessuna cauzione?» ripeté lui urlando. Sembrava in preda al panico. I suoi compagni di cella si girarono verso di lui. Aveva pronunciato la frase spauracchio per tutti. Nessuna cauzione. «Calma» dissi. «Ho detto che è quello che il procuratore ha intenzione di fare. Non ho detto che ci riuscirà. A quando risale il suo ultimo arresto?» Faccio sempre questa domanda a bruciapelo, guardo i miei interlocutori negli occhi e ne studio la reazione. «Mai stato arrestato. La verità è...» «Va bene, va bene, ma non dobbiamo parlarne qui e ora, ricorda?» Annuì con il capo. Guardai l'ora. Stava per entrare la corte e io dovevo ancora parlare con Maggie la Spietata. «Devo andare adesso» dissi. «Fra pochi minuti ci rivedremo in aula e valuteremo come farla uscire di qui. Durante l'udienza non dica una parola senza prima averla concordata con me. Qualsiasi domanda le faccia il giudice si consulti con me prima di rispondere. D'accordo?» «Non devo dichiararmi "non colpevole" di fronte alle accuse?» «Non le verrà chiesto. Tutto quello che succederà oggi sarà che le verranno lette le imputazioni, verrà discussa la cauzione e concordata una data per la chiamata in giudizio. Allora dovrà dichiararsi "non colpevole". Oggi non dovrà aprire bocca. Nessuna esternazione, ha capito bene?» Annuì aggrottando le sopracciglia. «È tutto a posto, Louis?» Continuò ad annuire con il capo, l'aria sempre accigliata.
«Giusto perché lei lo sappia» continuai. «In un caso come questo per la prima convocazione e la discussione della cauzione la mia parcella è di duemilacinquecento dollari. C'è qualche problema?» Scosse la testa. Mi piaceva che non parlasse tanto. Quasi tutti i miei clienti parlano sempre troppo. Di solito è per questo che finiscono in carcere. «Parleremo di tutto il resto quando sarà fuori di qui e potremo incontrarci in privato.» Chiusi la cartelletta di pelle augurandomi che l'avesse notata e ne fosse rimasto favorevolmente colpito, e mi alzai. «Un'ultima cosa» dissi. «Come mai ha scelto me? Ci sono centinaia di avvocati, perché proprio io?» Non era una questione che potesse influenzare il nostro rapporto ma volevo controllare la sincerità di Valenzuela. Roulet si strinse nelle spalle. «Non so» disse. «Ricordavo di aver letto il suo nome in qualche articolo di giornale.» «A proposito di che cosa?» «Di un reato per cui erano stati accusati dei ragazzi. Mi pare si trattasse di droga o qualcosa del genere. Ha vinto la causa perché è risultato che non avevano prove contro di loro.» «Il caso Hendricks?» Era l'unico che mi veniva in mente di cui la stampa si fosse occupata negli ultimi mesi. Anche Hendricks faceva parte della banda dei Road Saints e la polizia aveva piazzato una cimice sulla Harley per seguirne i traffici. Sul fatto che fosse controllato quando girava per la pubblica via nulla da eccepire, ma nel momento in cui parcheggiava la moto nella cucina di casa, quella cimice diventava un abuso. L'eccezione fu accolta da un giudice durante l'udienza preliminare. Il fatto ottenne un certo risalto sul «Times». «Non ricordo il nome del suo cliente» disse Roulet. «Mi sono ricordato il suo. Il suo cognome naturalmente. Quando ho telefonato al garante gli ho chiesto di chiamare questo Haller e il mio avvocato. Perché?» «Solo curiosità. Mi ha fatto piacere essere stato contattato. Ci vediamo in aula.» Archiviai nella mente, ripromettendomi di tornarci in seguito, la differente versione di Roulet a proposito del mio incarico rispetto a quella di Valenzuela e tornai in aula. Vidi Maggie la Spietata seduta a un'estremità del tavolo dell'accusa. Era insieme ad altri cinque pubblici ministeri. Il ta-
volo era grande e a forma di L per accogliere i numerosi avvocati che a rotazione si sedevano di fronte al seggio del giudice. I pm assegnati al tribunale si occupavano delle udienze di ordinaria amministrazione che costituivano la routine quotidiana. Ma per alcuni casi speciali gli imputati eccellenti venivano fatti salire negli uffici della procura distrettuale al secondo piano del palazzo di giustizia. Capitava la stessa cosa quando c'erano di mezzo le riprese televisive. Superata la barra notai un operatore che stava predisponendo una telecamera su un treppiede accanto al banco dell'ufficiale giudiziario. Né sulla telecamera né sui vestiti dell'operatore comparivano i marchi di un'emittente televisiva. Un freelance che aveva saputo dell'udienza e si era presentato per rivendere il servizio a qualche emittente locale, sempre a caccia di notizie flash. Quando mi ero presentato all'ufficiale giudiziario per verificare la posizione in agenda dell'udienza di Roulet avevo saputo che il giudice aveva autorizzato le riprese. Mi avvicinai alle spalle della mia ex moglie e mi piegai per parlarle all'orecchio. Stava guardando alcune fotografie contenute in un fascicolo. Indossava un gessato blu e grigio. Si era tinta i capelli di un nero corvino e li portava all'indietro raccolti in un nastro intonato alle righe grigie dell'abito. Mi piaceva quando si pettinava così. «Eri tu che ti occupavi del caso Roulet?» Lei alzò lo sguardo perché non aveva riconosciuto la mia voce. Il sorriso spontaneo che le era spuntato sulle labbra si trasformò di colpo in un ghigno quando si rese conto che ero io. Sapeva perfettamente che cosa avevo sottinteso usando il verbo al passato e chiuse con una manata il fascicolo. «Non posso crederci» disse. «Mi spiace. Roulet ha apprezzato ciò che avevo fatto per Hendricks e mi ha cercato.» «Figlio di puttana. Io volevo questo caso, Haller. È la seconda volta che mi fai questo.» «Immagino che questa città non sia abbastanza grande per noi due.» L'imitazione di James Cagney non fu granché. Lei emise una specie di lamento. «D'accordo» capitolò subito. E aggiunse: «Mi farò da parte dopo questa udienza. A meno che tu non sollevi obiezioni anche su questa». «Potrei farlo. Hai intenzione di opporti al rilascio su cauzione?» «Certo. E la cosa non cambierebbe con un altro pm. Direttiva dal secondo piano.»
Annuii. L'indicazione di escludere la cauzione arrivava dall'alto. «L'imputato è un benefattore e non ha precedenti penali.» Osservai la sua reazione, anche se non avevo avuto il tempo di verificare la veridicità delle affermazioni di Roulet. È sempre curioso constatare quante volte i miei clienti mentano sui loro precedenti, anche se sanno perfettamente che si tratta di bugie destinate a fare pochissima strada. Maggie non manifestò di avere informazioni contrastanti. Quindi forse era vero. Forse avevo a che fare con un delinquente incensurato e sincero. «Conta poco che non abbia precedenti» disse Maggie. «Conta quello che ha fatto la notte scorsa.» Aprì il fascicolo, frugò tra le foto fino a trovare quella che cercava e la estrasse dal mucchio. «Ecco quello che ha fatto la notte scorsa questo benefattore dell'umanità. Non m'importa che non lo abbia mai fatto prima. Voglio solo essere certa che non lo faccia mai più.» La foto era un primo piano 10x8 del volto di una donna. L'occhio destro era completamente chiuso a causa di una tumefazione che lo teneva premuto. Aveva il naso rotto e schiacciato al centro. Due garze intrise di sangue pendevano dalle narici. Una profonda ferita sul sopracciglio destro era stata suturata con nove punti. Il labbro inferiore presentava un taglio e una protuberanza delle dimensioni di una biglia. L'aspetto più terrificante dell'immagine era l'occhio sano. La donna fissava l'obbiettivo terrorizzata, in preda al panico e all'umiliazione. «Ammesso che sia stato lui» dissi. Era quello che dovevo dire. «Chiaro» confermò Maggie. «Ammesso che il colpevole sia lui. È vero che è stato arrestato in casa della vittima, sporco del suo sangue, ma il dubbio è plausibile.» «Mi piace quando sei sarcastica. Hai il verbale d'arresto? Vorrei averne una copia.» «Potrai averlo da chi seguirà il caso al posto mio. Niente favori, Haller. Non questa volta.» Rimasi in attesa di altre sfide, altre ondate di sdegno, altre frecciate, ma non aggiunse parola. Decisi che tentare di avere altre informazioni da lei sarebbe stata una causa persa. Cambiai argomento. «Allora» dissi. «Lei come sta?» «È traumatizzata e si sente molto male. Potrebbe essere diversamente?» Alzò lo sguardo e dalla disapprovazione nei suoi occhi capii che si era resa conto dell'equivoco.
«Non ti riferivi alla vittima, giusto?» Non risposi. Non volevo mentirle. «Tua figlia se la cava» rispose meccanicamente. «Le cose che le mandi le piacciono ma vorrebbe che ti facessi vedere più spesso.» Questa non era una frecciata qualsiasi. Questo era un colpo basso e lo meritavo. Davo l'impressione di essere perennemente all'inseguimento di clienti, fine settimana compresi. E invece sapevo, nel profondo del mio essere, che cominciavo a desiderare di giocare più spesso all'inseguimento di mia figlia in giardino. Il tempo per farlo stava passando in fretta. «Lo farò» dissi. «A cominciare da subito. Possiamo fare questo weekend?» «Bene. Vuoi che glielo dica stasera?» «Forse è meglio se aspetti domani, così sono più sicuro.» Lei assentì come se se lo fosse aspettato. Era già successo. «Magnifico. Fammelo sapere domani.» Questa volta il suo sarcasmo non mi piacque. «C'è qualcosa di cui ha bisogno?» cercai di recuperare. «Te l'ho appena detto di cosa ha bisogno. Una tua maggiore presenza nella sua vita.» «Okay, lo prometto. Lo farò.» Non commentò. «Dico sul serio, Maggie. Domani vi chiamo.» Mi guardò pronta a colpirmi e affondarmi. Lo aveva già fatto in passato, secondo lei come padre ero tutto parole e niente fatti. L'inizio dell'udienza fu la mia salvezza. Il giudice uscì dalle sue stanze e raggiunse la sua postazione. L'ufficiale giudiziario richiamò l'aula al silenzio. Interruppi la conversazione con Maggie e mi allontanai dal banco dell'accusa per tornare a sedermi vicino alla barra. Il giudice chiese all'ufficiale giudiziario se ci fosse qualcosa da discutere prima che fossero fatti entrare gli imputati. Non c'era nulla, per cui il giudice fece entrare il primo gruppo. Come nell'aula del tribunale di Lancaster, anche qui gli imputati erano tenuti in custodia all'interno di una grande struttura di vetro. Mi alzai e mi diressi verso l'apertura da dove sarebbero passati i detenuti. Quando vidi avvicinarsi Roulet gli feci segno. «Sarà il primo» gli dissi. «Ho chiesto al giudice di spostarla rispetto all'ordine previsto. Voglio cercare di portarla subito fuori di qui.» Non era vero. Al giudice non avevo chiesto niente e anche se lo avessi fatto il giudice non avrebbe mai fatto una cosa simile per farmi un favore.
Roulet doveva passare per primo a causa della presenza in aula degli operatori televisivi. I casi che coinvolgevano i media per consuetudine passavano davanti agli altri. Una cortesia nei confronti dei cameraman, che si supponeva avessero anche altri incarichi, e un tentativo di alleviare la tensione in aula e fare in modo che avvocati, imputati e lo stesso giudice potessero lavorare senza il fastidio delle telecamere. «Come mai quella telecamera?» sussurrò Roulet in preda al panico. «È per me?» «Sì. Qualcuno deve aver fatto una soffiata. Mi usi come riparo se non vuole farsi riprendere.» Roulet cambiò posizione e si nascose dietro di me rispetto alla posizione della telecamera. In questo modo diminuiva la possibilità che il cameraman riuscisse a vendere il servizio a una rete locale. E questo andava bene. E poi, dal momento che mi ero offerto come scudo, anche se l'operatore fosse riuscito a vendere il servizio, il punto focale delle riprese sarei stato io. E anche questo andava bene. Fu chiamato il caso Roulet, il nome fu pronunciato in modo scorretto dal segretario, Maggie annunciò la sua presenza in rappresentanza dell'accusa e io annunciai la mia. Maggie aveva calcato la mano sulla gravità delle accuse, come faceva di solito quando era in veste di Maggie la Spietata. Il capo d'imputazione nei confronti di Roulet adesso era tentato omicidio e tentato stupro. In questo modo avrebbe avuto miglior gioco nel sostenere che il rilascio su cauzione non era ammissibile. Il giudice informò Roulet dei diritti previsti dalla Costituzione e fissò al 21 marzo la data per il processo. Parlai per conto di Roulet e chiesi il rilascio su cauzione. La richiesta scatenò un botta e risposta tra Maggie e me, arbitrato dal giudice, al corrente del fatto che eravamo stati sposati, visto che era presente alla cerimonia. Maggie elencò le atrocità che l'imputato aveva perpetrato nei confronti della vittima, mentre io feci presente la sua partecipazione attiva nella società e le donazioni in beneficenza, quindi indicai fra il pubblico C.C. Dobbs e proposi di farlo testimoniare sulla sua buona condotta. Dobbs era il mio asso nella manica. La sua reputazione nell'ambiente legale poteva ribaltare l'opinione su Roulet e influire positivamente sul giudizio del giudice, il quale rivestiva quel ruolo grazie ai suoi elettori e a coloro che avevano contribuito alla sua campagna elettorale. «Signor giudice, la verità è che non si può processare quest'uomo come fosse un pericolo pubblico» dissi in chiusura del mio intervento. «Il signor Roulet è un elemento integrato nella società e intende far fronte con vigore
alle false accuse che sono state mosse nei suoi confronti.» Usai di proposito l'espressione far fronte nel caso la dichiarazione fosse stata mandata in onda e la vittima che lo aveva denunciato l'avesse vista. «Vostro onore,» intervenne Maggie «tralasciando le ostentate esibizioni di onestà dell'imputato, non si deve dimenticare che la vittima in questo caso è stata brutalmente...» «Signora McPherson» la interruppe il giudice. «Ritengo che abbiamo controbattuto a sufficienza. Sono consapevole sia delle violenze sulla vittima sia del comportamento del signor Roulet. E poi oggi abbiamo diverse udienze in calendario. Fisso la cauzione a un milione di dollari e chiedo che il signor Roulet si presenti settimanalmente in tribunale per il controllo. Se mancherà a un appuntamento, perderà la libertà.» Diedi un'occhiata verso il pubblico, dove Dobbs era seduto accanto a Fernando Valenzuela. Dobbs aveva una corporatura sottile e si era rasato la testa per mimetizzare la calvizie. La sua magrezza era esaltata dalla rotondità di Valenzuela. Restai in attesa di un cenno che mi facesse capire se dovevo accettare la proposta del giudice o cercare di contrattare un importo inferiore. Può essere controproducente insistere per chiedere di più, o di meno, come in questo caso, se il giudice è convinto di averti fatto una proposta vantaggiosa. Dobbs era seduto nel primo posto della prima fila. Si alzò e si diresse verso l'uscita, seguito da Valenzuela. Interpretai questa mossa come una conferma di lasciare le cose come stavano. La famiglia di Roulet avrebbe potuto permettersi il milione di dollari di cauzione. Tornai al recinto. «Grazie, vostro onore» dissi. Il funzionario passò rapidamente alla causa successiva. Diedi un'occhiata a Maggie, che stava chiudendo il fascicolo di una causa di cui non si sarebbe più occupata. Poi si alzò, uscì dal recinto e scese dall'isola centrale dell'aula. Si fermò a parlare con qualcuno e non mi rivolse lo sguardo. «Signor Haller?» Mi girai verso il mio cliente. Vidi arrivare dietro di lui l'ufficiale giudiziario che lo avrebbe riportato in cella. Avrebbe ripercorso sull'autobus il mezzo isolato fino al carcere e sarebbe stato rilasciato più tardi in giornata. Dipendeva dalla velocità d'azione di Dobbs e Valenzuela. «Lavorerò con il signor Dobbs per farla uscire» dissi. «Poi ci prenderemo il tempo per parlare.» «Grazie» disse Roulet mentre lo portavano via. «Grazie di essere venuto.»
«Ricordi quello che le ho detto. Non parli con gli sconosciuti. Non parli con nessuno.» «Sì, signore.» Dopo che se ne fu andato mi diressi verso il recinto. Valenzuela mi stava aspettando al cancello con un enorme sorriso. L'ammontare della cauzione di Roulet era il più alto che avesse mai assicurato. Il che significava che la percentuale per lui poteva essere la più alta mai ricevuta. Mentre uscivo dal cancelletto mi diede un colpetto d'intesa sul braccio. «Cosa ti avevo detto?» disse. «Abbiamo un pesce grosso.» «Vedremo, Val» dissi. «Vedremo.» 5 Gli avvocati che lavorano per il sistema giudiziario usano due listini di riferimento per stabilire il proprio onorario. Il listino A elenca le prestazioni professionali con le relative tariffe definite a priori sulla base dei desideri dell'avvocato. Il listino B contempla le parcelle massime che l'avvocato sa di poter incassare rispetto alle potenzialità economiche del cliente. Un cliente «di primo livello» è un imputato che vuole arrivare al processo e ha il denaro sufficiente per pagare il suo avvocato con le tariffe del listino A. Questo genere di cliente può richiedere la fatturazione di centinaia, se non migliaia, di ore di consulenza se si considera il tempo che va dalla prima comparizione in tribunale fino al momento in cui viene chiamato in giudizio, all'udienza preliminare e poi al processo, fino all'appello. Il cliente con queste caratteristiche fornisce carburante al serbatoio dell'avvocato per due o tre anni. Nella zona di caccia in cui agisco io è l'animale più raro e ricercato. Valenzuela cominciava a convincersi che quella storia potesse fruttare come un terno al lotto. Louis Roulet si configurava sempre più come un cliente di primo livello. Me ne erano capitati pochi in passato. Ed erano quasi due anni che non me ne capitava uno neppure per sbaglio. Con Roulet si potevano guadagnare soldi a palate. Sono diversi gli avvocati che si mettono alla ricerca di questi rari esemplari, ma sono in pochi a trovarli. Quando uscii vidi C.C. Dobbs in attesa nell'atrio della corte. Era accanto alla vetrata che dava sulla galleria sottostante, dove avevano sede diversi uffici pubblici. Affrettai il passo per raggiungerlo. Avevo pochi minuti prima che Valenzuela uscisse dall'aula e volevo parlargli da solo. «Mi scusi» disse Dobbs prima che potessi aprir bocca. «Non potevo re-
stare lì dentro un minuto di più. Mi era insopportabile la vista di quel ragazzo rinchiuso in un recinto come una bestia.» «Quale ragazzo?» «Louis. Sono il consulente legale della sua famiglia da un quarto di secolo. Continuo a vederlo come un ragazzo.» «Lei è in grado di farlo uscire?» «Questo non è un problema. Ho appena chiamato la madre di Louis per chiederle come intende procedere, se mettere in vendita alcune proprietà o offrirle in garanzia.» Se si voleva ricavare il milione di dollari necessario a soddisfare la richiesta di cauzione alienando delle proprietà immobiliari, il valore degli immobili doveva essere libero da ipoteche per lo meno per lo stesso importo. La corte avrebbe potuto richiedere una perizia aggiornata sugli immobili, cosa che avrebbe fatto allungare i tempi e costretto Roulet a rimanere in cella in attesa della valutazione. In caso contrario una garanzia poteva essere acquistata da Valenzuela a fronte di una commissione del dieci per cento. La differenza fra le due alternative era che quel dieci per cento era a fondo perduto, dal momento che costituiva il compenso per l'impegno e i rischi che Valenzuela avrebbe preso in carico. Per questo, in aula, Valenzuela aveva sfoderato un sorriso smagliante. Pagata la quota di assicurazione sulla cauzione di un milione di dollari, il suo guadagno poteva arrivare a una cifra molto vicina a novantamila dollari. E faceva in modo che io me ne ricordassi bene. «Posso darle un suggerimento?» chiesi. «Ma certo, la prego.» «Louis mi sembra troppo fragile per rimanere in carcere. Fossi in lei cercherei di tirarlo fuori da lì il più presto possibile. Per riuscirci è necessario che Valenzuela sottoscriva una garanzia a vostro favore. Vi costerà centomila dollari, ma tireremo fuori il ragazzo sano e salvo. Credo di essermi spiegato.» Dobbs si girò e si appoggiò alla ringhiera protettiva. Guardai di sotto e vidi che la galleria si stava affollando di funzionari degli uffici governativi che avevano sede lì intorno in uscita per la pausa pranzo. In molti portavano il cartellino bianco e rosso con il nome che distingueva i membri delle giurie. «Capisco.» «L'altra cosa che volevo dirle è che cause come questa sono come il miele per le api.»
«Cioè?» «Altri detenuti testimonieranno di aver ascoltato qualcosa da qualcuno. Accade soprattutto per un processo che finisce al telegiornale e sui quotidiani. Gli arriva una soffiata e giurano di averlo sentito dire da Louis.» «Ma è un reato» sbottò Dobbs indignato. «Non dovrebbe essere permesso.» «È così, ma succede. Più tempo Louis passa in carcere e più probabilità ci sono che possa accadere.» Valenzuela si avvicinò alla ringhiera dove io e Dobbs ci eravamo fermati a parlare e rimase in silenzio. «Proporrò di procedere con la garanzia» disse Dobbs. «Ho già provato a contattare la madre, ma era in riunione. Appena mi richiama procederemo in questo senso.» Le sue parole mi richiamarono alla mente un pensiero che mi era balenato durante l'udienza. «Per parlare del figlio finito in prigione non poteva interrompere una riunione? Mi chiedevo come mai non fosse presente in aula se questo ragazzo, come lo chiama lei, è così onesto e pulito.» Dobbs mi guardò come se non usassi il dentifricio da un mese. «La signora Windsor è una donna molto impegnata e influente. Sono certo che se le avessi prospettato una situazione di emergenza a proposito del figlio sarebbe venuta al telefono immediatamente.» «Come mai si chiama Windsor?» «Dopo il divorzio dal padre di Louis si è risposata. È successo diverso tempo fa.» Mi resi conto di avere ancora parecchi argomenti da chiarire con Dobbs, ma non volevo discuterli alla presenza di Valenzuela. «Val, perché non vai a controllare quando Louis verrà riportato a Van Nuys, così sappiamo quando potremo farlo uscire?» «Semplice» disse Valenzuela. «Rientrerà con il primo autobus dopo pranzo.» «Sì, ma tu vai ad accertartene mentre finisco di parlare con il signor Dobbs.» Valenzuela stava per dire che non c'era nessun bisogno di controllare, poi capì quello che volevo dire. «D'accordo» disse. «Vado.» Dopo che si fu allontanato, e prima di riprendere la conversazione, studiai il viso di Dobbs. Poteva essere vicino ai sessanta. Aveva un atteggia-
mento compito e deferente che doveva derivargli dall'aver avuto a che fare per trent'anni con gente ricca. Si poteva immaginare che fosse diventato ricco a sua volta, ma questo non aveva modificato il suo comportamento in pubblico. «A questo punto direi che se dobbiamo lavorare insieme è il caso che io sappia come devo chiamarla. Cecil? C.C.? Signor Dobbs?» «Cecil andrà bene.» «Allora, Cecil, la mia prima domanda è questa: nel caso dovessimo collaborare, mi verrà affidato l'incarico?» «Il signor Roulet è stato chiaro nel ribadirmi che desidera che se ne occupi lei. Se devo essere sincero, lei non sarebbe stata la prima persona alla quale avrei pensato io. E neanche la seconda, visto che non l'avevo mai sentita nominare. Ma è lei il prescelto del signor Roulet e io ne prendo atto. Devo dire che si è comportato piuttosto bene in aula, specie in considerazione dell'aperta ostilità che il pm ha manifestato nei confronti del signor Roulet.» Il ragazzo era diventato «il signor Roulet». Mi chiesi cosa lo avesse fatto salire di grado nella scala dei valori di Dobbs. «Sì, la chiamano Maggie la Spietata. È piuttosto coriacea.» «Mi sembrava lo fosse un po' troppo. Pensa che ci sia modo di farla rimuovere dal caso e di trovare qualcun altro che... abbia più i piedi per terra?» «Non saprei. Può essere pericoloso tentare di far shopping di pubblici ministeri. Ma se pensa che lei debba andarsene, posso provarci io.» «Mi fa piacere sentirglielo dire. Forse avrei dovuto conoscerla prima.» «Forse. Vuole che parliamo ora della mia parcella così non ci pensiamo più?» «Come desidera.» Mi guardai intorno per assicurarmi che nell'atrio non ci fossero altri avvocati a portata d'orecchie. Avevo intenzione di applicare le tariffe del listino A. «Per l'intervento di oggi ho chiesto duemilacinquecento dollari e Louis li ha approvati. Se vuole che da adesso calcoliamo una tariffa oraria, sappia che ne chiedo trecento all'ora e che questa cifra sale a cinquecento durante il processo perché non potrò occuparmi d'altro. Se preferisce una tariffa a forfait la mia richiesta è di sessantamila dollari da adesso fino all'udienza preliminare. Se l'istruttoria si conclude con un patteggiamento, ne voglio altri venti. Se si va a processo, ne voglio sessanta nel momento in cui viene
fissato e altri venticinque al momento della scelta dei giurati. Questa causa non dovrebbe durare più di una settimana, compresa la selezione della giuria, ma se la supera, fanno altri venticinque a settimana. Parleremo dell'appello se e quando sarà necessario.» Esitai un attimo prima di osservare la reazione di Dobbs. Visto che sembrava imperturbabile, proseguii. «Entro questa sera mi servono trentamila dollari per un assistente e altri dieci per un investigatore. Non voglio sprecare tempo. Voglio mettere in moto un investigatore prima che intervengano i media e prima che la polizia parli con qualche testimone.» Dobbs annuì lentamente. «Queste sono le sue tariffe standard?» «Quando ci riesco. So di meritarle. Lei quanto fattura alla famiglia, Cecil?» Ero certo che non sarebbe uscito a mani vuote da quella circostanza. «Questo riguarda me e il mio cliente. Ma non si preoccupi, quando sentirò la signora Windsor parlerò anche del suo onorario.» «Gliene sono grato. E si ricordi, è importante che l'investigatore cominci a lavorare oggi stesso.» Estrassi un biglietto da visita dalla tasca destra della giacca e glielo porsi. I biglietti che tenevo nella tasca destra erano quelli dove era segnato anche il numero di cellulare. In quelli che tenevo nella sinistra era riportato il numero fisso collegato a Lorna Taylor. «Devo andare in città per un'altra udienza» dissi. «Mi chiami quando Louis sarà uscito e fisseremo un incontro. Facciamo in modo di concordarlo il più presto possibile. Io sono disponibile sia più tardi sia in serata.» «Perfetto» disse Dobbs, mettendosi in tasca il biglietto senza neppure guardarlo. «Veniamo da lei?» «No, verrò io da voi. Vorrei vedere come vive l'altra metà dei comuni mortali, quelli che abitano nelle vette di Century City.» Dobbs sorrise rilassato. «Risulta evidente dall'abito che indossa che lei conosce e mette in atto la prassi consigliata a un avvocato di tribunale di non vestire troppo elegante. L'obiettivo è fare colpo sulla giuria ma senza suscitare invidia. Vede Michael, un avvocato di Century City non può avere un ufficio più prestigioso di quello dei suoi clienti. Quindi le posso assicurare che i nostri sono modesti.» Feci cenno di condividere la sua osservazione. Al tempo stesso però mi
sentivo offeso. Indossavo il mio vestito migliore. Lo facevo sempre il lunedì. «Buono a sapersi» dissi. La porta dell'aula si aprì e uscì l'operatore televisivo che si trascinava dietro la telecamera e il treppiede ripiegato. Appena Dobbs lo vide entrò in tensione. «I media» disse. «Come facciamo a controllarli? La signora Windsor non desidera...» «Aspetti un secondo.» Chiamai l'operatore, che si avvicinò. Gli porsi la mano. Per prenderla dovette appoggiare il treppiede. «Sono Michael Haller. Ho visto che avete filmato il mio cliente là dentro.» L'uso di nome e cognome per esteso era un codice. «Robert Gillen» disse il cameraman. «Tutti mi chiamano Sticks.» Per spiegarsi indicò il treppiede. Anche il fatto che lui avesse detto il suo nome per esteso era un segnale. Aveva capito che stavo recitando. «È un inviato o lavora da freelance?» «Oggi freelance.» «Come ha saputo di quest'udienza?» Fece una smorfia come se non volesse rispondere. «Una fonte. Un poliziotto.» Assentii con la testa. Gillen reggeva il gioco. «Se la vende a un'agenzia quanto ricava dalla registrazione?» «Dipende, se è un'esclusiva settecentocinquanta, altrimenti cinquecento dollari.» Tutti i direttori di notiziari sapevano che se avessero acquistato il servizio senza esclusiva lo stesso pezzo poteva essere venduto anche ad altre emittenti. Gillen aveva raddoppiato la tariffa che veniva applicata effettivamente. Una buona mossa. Doveva aver sentito quello che era stato detto in tribunale durante le riprese. «Stia a sentire» dissi. «Quanto vuole se il servizio lo compriamo noi, in esclusiva?» Gillen fu impeccabile. Esitò come se non fosse certo che l'operazione fosse eticamente corretta. «Be', diciamo mille dollari?» feci io. «D'accordo» disse. «Avete fatto un buon affare.» Tirai fuori dalla tasca un rotolo di banconote mentre Gillen appoggiava a
terra la telecamera ed estraeva la cassetta. Avevo le dodici banconote da cento dei Saints che mi aveva dato Teddy Vogel. Mi girai verso Dobbs. «Devo darglieli, vero?» «Certamente.» Era raggiante. Scambiai il nastro con il contante e ringraziai Gillen che, mentre metteva in tasca il denaro e si dirigeva verso l'ascensore, si sentiva un uomo felice. «Ottimo lavoro» disse Dobbs. «Dobbiamo stare attenti a queste situazioni. Gli affari di famiglia potrebbero letteralmente andare a rotoli... ritengo sia questo il motivo dell'assenza in aula della signora Windsor. Non voleva farsi vedere.» «Se questi incidenti dovessero ricapitare ne riparleremo. Nel frattempo farò di tutto per evitarlo.» «Grazie.» Un cellulare con la tipica musica di Bach o Beethoven o qualche altro compositore morto da tempo e fuori diritti cominciò a squillare. Dobbs lo estrasse dalla giacca e controllò il nome sul display. «È lei» disse. «La lascio solo.» Mentre mi allontanavo sentii Dobbs che diceva: «Mary, è tutto sotto controllo. Ora dobbiamo concentrarci su come tirarlo fuori. Ci occorre un po' di denaro...». In attesa dell'ascensore pensai che ero ragionevolmente certo di avere a che fare con un cliente e una famiglia che con l'espressione «un po' di denaro» intendevano una quantità maggiore di quanta ne avevo visto io in tutta la vita. Ripensai al commento fatto da Dobbs sul mio abito. Mi bruciava ancora. In verità nel mio armadio non c'erano abiti che costassero meno di seicento dollari e quando li avevo indosso mi ero sempre sentito a mio agio. Mi chiesi se Dobbs avesse avuto l'intenzione di umiliarmi o il suo scopo fosse esercitare il suo controllo su di me e sulla causa sin da subito. Decisi che con Dobbs dovevo guardarmi alle spalle. Farmelo amico, ma non troppo. 6 All'altezza di Cahuenga Pass ci trovammo imbottigliati nel traffico. Mentre eravamo bloccati in coda passai il tempo lavorando al telefono e cercando di non pensare alla conversazione avuta con Maggie McPherson circa le mie capacità nel mestiere di genitore. La mia ex moglie aveva e-
spresso un giudizio corretto su di me ed era questo che mi dava sui nervi. Da troppo tempo avevo anteposto il mestiere di avvocato a quello di genitore e dentro di me mi ero ripromesso di cambiare. Per permettermi di rallentare avevo solo bisogno di più tempo e più denaro. Pensai che Louis Roulet avrebbe potuto soddisfare entrambe le necessità. Dal sedile posteriore della Lincoln telefonai per prima cosa a Raul Levin, il mio investigatore, per avvisarlo del probabile incontro con Roulet. Gli chiesi un primo accertamento dei fatti per vedere cosa riusciva a scoprire. Levin aveva lasciato il Dipartimento di Polizia di Los Angeles e aveva mantenuto i contatti con gli ex colleghi che ogni tanto gli passavano le informazioni. È probabile che anche lui tenesse una lista di regali natalizi. Gli dissi di non sprecare troppo tempo nell'indagine finché non avessi accertato la solvibilità del mio cliente. Non facevo troppo affidamento a quello che mi aveva detto C.C. Dobbs nell'atrio del tribunale. Mi sarei convinto di aver ottenuto l'incarico solo al momento del primo pagamento. Dopo essermi fatto aggiornare su alcune pratiche in corso richiamai Lorna Taylor. Di solito la posta veniva recapitata poco prima di mezzogiorno. Lorna mi disse che non era arrivato niente di importante. Né lettere né assegni. Dovevo contattare le amministrazioni dei tribunali per sapere come mai. «Sai quando verrà convocata Gloria Dayton?» le chiesi. «Sì, sembra che vogliano trattenerla fino a domani in infermeria.» Brutta notizia. Lo stato ha quarantotto ore di tempo dal momento dell'arresto per incriminare un sospettato e portarlo davanti al giudice. Il fatto che avessero sospeso la prima convocazione di Gloria Dayton al giorno successivo per accertamenti medici significava che doveva essere imbottita di droga. Il che aiutava a spiegare come mai fosse in possesso di cocaina al momento dell'arresto. Erano almeno sette mesi che non la vedevo né le parlavo. Doveva essere peggiorata alla svelta. E aver superato la linea sottile che separa il controllare la droga dall'esserne controllati. «Hai scoperto chi segue l'istruttoria?» chiesi. «Leslie Faire» rispose. Seconda brutta notizia. «Fantastico. Okay, vado a vedere cosa posso fare. Finché non capisco come va a finire con Roulet non riesco a programmare niente.» Leslie Faire era un pubblico ministero convinto che la proposta di un abbondante periodo di sorveglianza in libertà vigilata in aggiunta alla pena detentiva offrisse alla difesa la chance di un'interruzione o il beneficio del
dubbio. «Mick, quando imparerai con quella donna?» mi chiese Lorna. «Imparare che cosa?» chiesi, anche se avevo capito benissimo. «Ogni volta che hai a che fare con lei ti deprimi. Gloria da quella vita non ne esce e quando chiama porta solo dei guai. Potrebbe anche andar bene, solo che per lei lavori gratis.» In effetti le cause che riguardavano Gloria Dayton finivano sempre per diventare più complicate di quello che sembravano in partenza e richiedevano molto più tempo del previsto perché spesso alle imputazioni per spaccio di droga si aggiungevano quelle di istigazione a delinquere e di esercizio della prostituzione. Più lavoro e nessun guadagno, questo era il pensiero di Lorna. «A tutti gli avvocati del tribunale capitano casi pro bono, Lorna, lo sai...» «Tu non mi stai a sentire, Mick» mi disse rabbuiandosi. «È per questo che non siamo più marito e moglie.» Chiusi gli occhi. Che giornata. Ero riuscito a far arrabbiare entrambe le mie ex mogli. «Che potere ha quella donna su di te?» mi domandò. «Perché non le chiedi mai neanche una minima parcella?» «Ascolta, quella donna non ha niente a che fare con me, chiaro?» dissi. «Possiamo provare a cambiare argomento adesso?» Non le avevo detto che anni prima, sfogliando i vecchi libri contabili pieni di polvere nello studio legale di mio padre, avevo scoperto che il mio vecchio aveva un debole per le cosiddette regine della notte. Ne aveva difese parecchie e si era fatto pagare da poche. Forse stavo continuando una tradizione di famiglia. «Okay» disse Lorna. «Com'è andata con Roulet?» «Vuoi dire se ho avuto l'incarico? Credo di sì. È probabile che in questo momento Valenzuela lo stia facendo uscire dal carcere. Abbiamo concordato un incontro subito dopo la scarcerazione. Ho già chiesto a Raul di cominciare a darsi da fare.» «Ti hanno dato un assegno?» «Non ancora.» «Fattelo dare, Mick.» «Ci sto provando.» «Com'è la vittima?» «L'ho vista solo in fotografia, ma sembrava messa male. Ne saprò di più
dopo che avrò verificato cosa riesce a scoprire Raul.» «E Roulet?» Avevo capito il senso della domanda. Che tipo di cliente era? Nel caso avesse dovuto presentarsi davanti a una giuria, avrebbe fatto un'impressione buona o negativa? Le cause si vincono o si perdono secondo quello che i giurati percepiscono dell'imputato. «Sembra un neonato in una foresta.» «È pulito?» «Non ha precedenti penali.» «È colpevole?» Domanda irrilevante. Che l'imputato fosse colpevole o innocente era ininfluente in termini di strategia della procedura. Importavano gli elementi contro di lui, le prove, se le prove potevano essere contestate e come. Il mio mestiere era insabbiare le prove e neutralizzarle dipingendole di grigio. Il grigio era il colore del dubbio. A lei importava solo se il cliente era colpevole o innocente. «Chi può dirlo, Lorna. Non è questa la domanda. La domanda è se è un cliente che paga o no. La risposta è credo di sì.» «D'accordo, dimmi se hai bisogno di... ah, c'è un'altra cosa.» «Cosa?» «Ha chiamato Sticks e ha detto che ti restituirà i quattrocento dollari che ti deve la prima volta che vi vedete.» «Bene.» «Oggi non è andata male.» «Non mi lamento.» Ci salutammo con una certa cordialità, per il momento la discussione su Gloria Dayton sembrava dimenticata. Quello che deve aver rassicurato Lorna e compensato il fatto che mi occupo di alcuni clienti a titolo gratuito è stato sapere che sono in arrivo dei soldi e che abbiamo per le mani un cliente danaroso. Mi chiesi se avrebbe avuto la stessa reazione se avessi difeso gratis uno spacciatore di droga invece di una prostituta. Io e Lorna avevamo vissuto una storia matrimoniale felice ma breve perché entrambi ci eravamo subito accorti che rispetto ai nostri precedenti divorzi la nostra unione era stata troppo precipitosa. Dopo la separazione eravamo rimasti in buoni rapporti e lei era rimasta a lavorare con me. Mi sentivo a disagio solo quando lei criticava i clienti che avevo già acquisito e aveva da dire su chi e quanto facevo pagare o non pagare. Si comportava di nuovo da moglie.
Rinfrancato da come era andata con Lorna, chiamai la procura distrettuale di Van Nuys. Chiesi di Margaret McPherson e la trovai che stava mangiando alla sua scrivania. «Volevo dirti che mi spiace per stamattina. So che volevi occuparti della causa.» «Forse lo volevi di più tu. Quello dev'essere un cliente che paga visto che si è presentato C.C. Dobbs con il rotolo.» Il rotolo di carta igienica, voleva dire. I pm considerano gli avvocati delle famiglie altolocate poco più che servi dei ricchi e famosi. «Già, uno così fa comodo... il cliente dico, non il servo. È un pezzo che non vedo un cliente di serie A.» «Be', qualche momento fa non sei stato troppo fortunato» fece Maggie a bassa voce avvicinando la cornetta alla bocca. «Il caso è stato assegnato a Ted Minton.» «Mai sentito nominare.» «È uno giovane, dello studio di Smithson. Lo hanno trasferito qui dagli uffici di downtown, si occupava di scippi. Non ha mai visto l'aula di un tribunale prima d'ora.» John Smithson era il procuratore capo della sezione di Van Nuys. Era più stimato come politico che come procuratore e aveva usato i suoi agganci per fare una carriera molto più rapida rispetto a colleghi più anziani. Tra quelli che aveva scavalcato c'era Maggie McPherson. Una volta arrivato al vertice aveva messo insieme una squadra di giovani procuratori dei quali si garantiva la gratitudine facendo in modo che non si sentissero trascurati. «Non è mai entrato in un tribunale?» domandai senza capire come avrei potuto avere delle difficoltà di fronte a un novellino. «Da noi si è occupato di alcuni casi, ma si è sempre portato dietro la baby-sitter. Roulet sarà la prima sfida che affronta da solo. Smithson è convinto di avergli offerto una grande opportunità.» Immaginai Maggie seduta nel suo piccolo ufficio, probabilmente non lontano da quello del mio nuovo avversario. «Non ci arrivo, Mags. Se è alle prime armi, perché non sono stato fortunato?» «Perché questi ragazzi scelti da Smithson sono fatti con lo stampino. Stronzetti arroganti. Credono di essere infallibili e poi...» Abbassò ancora il tono della voce. «...non sono corretti. Pare che Minton sia uno che gioca pesante. Stai at-
tento, Haller. Guardati da lui.» «Grazie di avermi avvertito.» Ma non aveva finito. «Queste nuove leve sono impossibili. Non hanno la minima vocazione per questo mestiere. Della giustizia non gliene importa un accidenti. Per loro è solo una specie di gara. Accumulano punti per fare carriera. Tutti uguali al giovane Smithson.» La vocazione. Il nostro matrimonio era naufragato per il suo senso della vocazione. In teoria, accettava solo di fare i conti con la scelta di aver sposato un uomo che stava dall'altra parte della barricata, cosa che nella nostra convivenza non funzionava. Mettere fine a otto anni di vita in comune era stata una fortuna per entrambi. Come è andata la giornata, tesoro? Sono riuscito a spuntare otto anni per un cliente che ha ammazzato il compagno di stanza con un rompighiaccio. E tu? Bene, ho fatto dare cinque anni a uno che per comprarsi una dose ha rubato lo stereo da un'auto... Non poteva funzionare. Quattro anni. Poi, l'arrivo di una figlia aveva prolungato la nostra unione di altri quattro. Ma non potevamo dare la colpa a lei. Non me ne ero mai pentito. Amavo mia figlia. Era l'unica cosa interamente bella della mia vita, della quale potevo essere orgoglioso. A voler essere sinceri fino in fondo, la ragione per cui passavamo poco tempo insieme e cercavo continuamente nuovi incarichi invece che cercare lei, era che non mi sentivo degno di lei. Sua madre invece era un mito. Lei mandava in galera i criminali. Cosa potevo raccontarle di bello e di nobile del mio lavoro, quando io per primo ne avevo perso il senso da molto tempo? «Pronto, Haller, sei ancora lì?» «Sì, Mags, ci sono. Cosa stai mangiando?» «Insalata orientale comprata qui sotto. Niente di speciale. Tu dove sei?» «Sto andando in centro. Senti, di' ad Hayley che ci vediamo sabato prossimo. Sto progettando qualcosa di speciale.» «Parli sul serio? Non voglio crearle false aspettative.» L'idea che mia figlia avesse delle aspettative su di me mi riempiva di orgoglio. L'unica cosa che Maggie non aveva mai fatto era screditare la mia figura ai suoi occhi. Non ne era capace. L'ho sempre apprezzata per questo. «Sì, sono sicuro.» «Bene, glielo dirò. Fammi sapere quando vieni a prenderla o se te la devo portare io.» «Okay.»
Esitai. Volevo continuare a parlarle, ma non avevo altro da dire. Alla fine la salutai e misi giù. Dopo poco il traffico si fece di nuovo scorrevole. Guardai dal finestrino e non vidi incidenti. Nessuna auto in panne con la gomma a terra, nessuna pattuglia della polizia autostradale ferma nella corsia di emergenza. Non vidi nulla che potesse giustificare l'ingorgo. Succedeva spesso. L'andamento del traffico nelle superstrade di Los Angeles era un mistero, come l'andamento di un matrimonio. Per un po' scorre spedito, poi si blocca, senza spiegazione logica. La mia è una famiglia di avvocati. Mio padre, il mio fratellastro, un nipote e una nipote. Mio padre era un avvocato famoso ai tempi in cui i processi non venivano ripresi perché la televisione non esisteva ancora. È stato il decano dei penalisti di Los Angeles per almeno un trentennio. Si è sempre occupato di clienti famosi che riempivano le prime pagine dei giornali, dalle ragazze Manson a Mickey Cohen. Io nacqui da un momento di incertezza della sua vita, un ospite inaspettato del suo secondo matrimonio con un'attricetta famosa per il fascino latino e meno per il talento professionale. I miei tratti somatici da irlandese bruno sono dovuti a questo mix di etnie. Alla mia nascita mio padre era già vecchio e morì prima che io raggiungessi l'età per conoscerlo veramente e per confrontarmi con lui sulla mia vocazione d'avvocato. L'unica cosa che mi ha lasciato in eredità è il nome. Mickey Haller, il leggendario principe del foro. Quel nome ancora oggi apre molte porte. Mio fratello maggiore, nato dal suo primo matrimonio, mi ha raccontato che mio padre gli parlava spesso della sua attività legale in difesa dei criminali. Diceva sempre che avrebbe difeso il diavolo in persona se avesse potuto pagare la parcella. Sirhan Sirhan fu l'unico imputato di un crimine clamoroso di cui non si era voluto occupare. Mio fratello mi raccontò che la grande stima che aveva per Bobby Kennedy gli aveva impedito di difendere il suo assassino, anche se credeva fermamente nel principio secondo cui ogni accusato merita di essere difeso con impegno e determinazione. Durante la giovinezza lessi tutti i libri che parlavano di mio padre e delle cause di cui si era occupato. Ammiravo l'abilità, la grinta e le strategie che si inventava per salvaguardare l'imputato. Era maledettamente bravo e io ero orgoglioso di portare il suo nome. Ma adesso l'attività legale era diversa. Più ripetitiva. Da tempo si dà più importanza alle norme che ai principi. E l'interpretazione delle norme è soggettiva. Suonò il cellulare e guardai il display per vedere chi fosse.
«Cosa succede, Val?» «Sta per uscire. Lo hanno riportato in cella e stiamo chiudendo le pratiche per farlo uscire.» «Dobbs ha firmato la cauzione?» «Sì.» Colsi il tono soddisfatto della voce. «Aspetta a cantare vittoria. Sei sicuro che non abbia intenzione di sparire?» «Non sono mai sicuro di niente. Pensavo di fargli mettere un rilevatore. Se perdo lui la mia casa va in fumo.» Mi resi conto che la sua era stata una reazione nervosa e non il compiacimento per il guadagno inatteso che quel milione di dollari di cauzione gli avrebbe portato. Per un motivo o per l'altro Valenzuela sarebbe rimasto in ansia fino alla conclusione della storia. Aveva chiesto di mettere un dispositivo elettronico alla caviglia di Roulet per poterlo seguire, benché la corte non lo avesse previsto. Non voleva correre rischi. «Dov'è Dobbs?» «Sta aspettando nel mio ufficio. Porterò lì Roulet appena esce. Non ci vorrà molto.» «C'è anche Maisy?» «Sì.» «Okay, proverò a chiamare.» Chiusi la telefonata e digitai il numero della chiamata veloce per l'ufficio di Valenzuela. Rispose la centralinista e assistente del capo. «Maisy, sono Mick. Puoi passarmi il signor Dobbs?» «Certo, Mick.» Dopo pochi secondi avevo Dobbs in linea. Mi sembrò che qualcosa lo avesse irritato. Interpretando la mia incertezza si presentò: «Cecil Dobbs». «Mickey Haller. Come vanno le cose?» «Be', non proprio a meraviglia se considera che me ne sono rimasto qui seduto a leggere quotidiani vecchi di anni trascurando i miei impegni verso gli altri clienti.» «Non si è portato il cellulare per continuare a lavorare?» «Certo. Ma non è questo il punto. I miei clienti non sono tipi da farsi chiamare al cellulare. Preferiscono colloqui di persona.» «Capisco. La buona notizia è che il nostro ragazzo sta per essere rilasciato.» «Il nostro ragazzo?»
«Il signor Roulet. Nel giro di un'ora Valenzuela lo avrà portato fuori. Tra poco entrerò in riunione con un cliente, ma come le ho detto, nel pomeriggio sono a disposizione. Preferisce che fissiamo un incontro per rivedere i termini della causa con il nostro comune amico o vuole che me ne occupi io?» «No, la signora Windsor desidera che io segua tutto da vicino. Potrebbe decidere di essere presente anche lei.» «Non m'importa dei convenevoli con la signora Windsor. Quando arriveremo a ricostruire come sono andate le cose, si formerà la squadra della difesa e lei potrà prendervi parte, ma non la madre di Roulet. D'accordo?» «Ho capito. Facciamo nel mio ufficio alle quattro. Louis si troverà lì.» «Ci sarò anch'io.» «Per la mia società lavora un esperto investigatore. Gli chiederò di venire.» «Non è necessario, Cecil. Ho incaricato il mio, che si è già mosso. Ci vediamo alle quattro.» Prima che Dobbs potesse provare a discutere su quale investigatore coinvolgere, chiusi la telefonata. Dovevo stare attento che Dobbs non potesse controllare le indagini, le fasi preparatorie e le strategie della difesa. Monitorare è un conto ma adesso ero io l'avvocato di Louis Roulet. Non lui. Chiamai Raul Levin che mi disse che stava andando alla sezione di Van Nuys del LAPD per recuperare una copia del verbale d'arresto. «È stato facile?» «Non esattamente. In pratica mi ci sono voluti vent'anni per ottenerlo.» Traduzione: erano servite tutte le sue relazioni, quelle che si era costruito nel tempo con l'esperienza e con una vita di lavoro, cresciute sulla fiducia e sullo scambio di favori. La copia di quel verbale giustificava i cinquecento dollari al giorno che mi costava. Quando lo informai dell'incontro delle quattro mi rispose che sarebbe venuto e che ci avrebbe illustrato quello che pensava la polizia a proposito del caso. Conclusa la telefonata la Lincoln si fermò. Eravamo davanti alle carceri di Twin Towers. La costruzione non aveva più di una decina d'anni, ma lo smog cominciava a macchiare in modo definitivo di grigio cupo i muri color sabbia. Era un luogo triste e desolato e lì dentro passavo fin troppo tempo. Scesi dalla macchina e per l'ennesima volta entrai. 7
Il banco della reception per gli avvocati permetteva di evitare la lunga coda di visitatori in attesa di andare a trovare i congiunti detenuti in una delle torri. L'impiegato dell'accoglienza, quando dissi chi volevo incontrare, digitò il nominativo sulla tastiera del computer e non aggiunse che Gloria Dayton si trovava in infermeria e quindi non era possibile vederla. Stampò un pass che fece scivolare nella custodia di plastica di un badge a clip e mi raccomandò di portarlo per tutto il periodo di permanenza nelle carceri. Quindi mi fece allontanare dal vetro e mi invitò a restare in attesa di un agente che mi avrebbe scortato all'interno. «Ci vorranno pochi minuti» mi disse. All'interno del carcere il cellulare non aveva campo, lo avevo verificato in occasione di visite precedenti, e se fossi uscito per usarlo rischiavo di perdere l'agente di scorta con la conseguenza di dover ripetere la procedura di registrazione. Rimasi in attesa a osservare le facce della gente che veniva in visita ai detenuti. La maggior parte era di pelle nera o comunque scura. Sembrava che fossero di casa. Di sicuro tutti erano più esperti di me riguardo a quel luogo. Dopo una ventina di minuti spuntò nella sala d'attesa una donna grassa in uniforme che mi venne incontro. Con quelle dimensioni, una cinquantina di chili di sovrappeso, che in pratica le impedivano i movimenti, non avrebbe passato le selezioni. Ma una volta entrati a lavorare nelle carceri, era difficile farsi mandare via. Il massimo che una così poteva fare in caso di insurrezione, era appoggiarsi contro una porta per impedirne l'apertura. «Mi spiace di averla fatta aspettare» mi disse quando fummo in mezzo alle doppie porte d'acciaio di sicurezza nella torre delle donne. «Ho dovuto cercare la detenuta e accertarmi che ci fosse ancora.» La guardia fece un segnale verso una telecamera sistemata sopra la porta del passaggio successivo per informare che era tutto a posto e la serratura si aprì. Spinse la porta ed entrò. «Gloria Dayton è in infermeria per farsi ricucire» disse. «Ricucire?» Non mi risultava che in carcere si seguisse un programma di recupero per ricucire i tossici. «Si è fatta male» disse la guardia. «È andata a sbattere durante una rissa. Glielo racconterà lei.» Lasciai in sospeso tutte le domande. In un certo senso ero sollevato all'idea che la permanenza in infermeria non fosse dovuta all'abuso di droga, per lo meno non solo a quello.
La guardia mi condusse nella sala d'attesa destinata agli avvocati, dove ero stato molte volte e con diversi clienti. La grande maggioranza di loro era costituita da uomini e a essere sincero, e non per fare discriminazioni, non mi piaceva rappresentare le donne. In genere una donna in carcere mi suscitava compassione, fosse una prostituta o un'assassina, e mi erano capitate di entrambe le categorie. Avevo potuto verificare come quasi sempre i loro reati fossero pilotati da uomini. Uomini che si erano serviti di loro, che ne avevano abusato e le avevano abbandonate o comunque avevano fatto loro del male. Il che non significa che le donne non siano responsabili delle loro azioni o che, nella maggior parte dei casi, non meritino le pene che subiscono. Alcune delinquenti valgono né più né meno dei corrispettivi maschili. Ma tutte le donne che ho conosciuto in carcere sembravano profondamente diverse dagli uomini rinchiusi nell'altra torre. Anche in carcere gli uomini continuano a vivere di espedienti e a far uso della forza. Le donne, invece, quando sentono chiudersi la cella alle spalle dimenticano il passato. La zona visitatori era composta da una fila di cabine dentro alle quali gli avvocati conferivano con i loro clienti seduti uno di fronte all'altro, separati da un foglio di plexiglas trasparente spesso quarantacinque centimetri. Una guardia controllava da una cabina vetrata in fondo alla stanza, ma si presumeva che non ascoltasse le conversazioni. L'agente doveva esaminare e approvare gli eventuali passaggi di carte tra avvocato e cliente. La scorta mi accompagnò a una cabina e se ne andò. Restai in attesa un'altra decina di minuti prima che la stessa guardia comparisse dall'altra parte del plexiglas insieme a Gloria Dayton. Mi accorsi subito che la mia cliente aveva l'occhio sinistro gonfio e un punto di sutura sopra una piccola ferita immediatamente sotto l'attaccatura dei capelli. Gloria aveva i capelli corvini e la carnagione olivastra. Doveva essere stata una donna affascinante. La prima volta che avevo lavorato per lei, sette od otto anni prima, lo era ancora. Ciò che era difficile credere era che avesse considerato come unica opportunità, o comunque la migliore, vendere quel fascino agli sconosciuti. A vederla così malconcia mi sembrava impossibile che fosse stata tanto attraente. I lineamenti del viso erano tesi. Evidentemente non era stata medicata dai migliori infermieri e comunque per quegli occhi che ne avevano viste di tutti i colori non si sarebbe potuto fare molto di più. «Mickey Mande» mi disse. «Ancora pronto a batterti per me?» Aveva usato la voce da bambina piccola che doveva piacere ai suoi clienti affezionati. Immaginai che molti le rispondessero alla stessa manie-
ra. A me quel suono che proveniva da un paio di labbra tirate e da un volto dagli occhi vivaci come biglie d'acciaio fece un effetto inquietante. Mi chiamava sempre Mickey Mantle, anche se lei era nata quando il famoso battitore di baseball si era ritirato da un pezzo e probabilmente Gloria sapeva ben poco di lui e delle sue qualità in campo. Per lei era un nome. In alternativa avrebbe potuto chiamarmi Mickey Mouse e io non avrei particolarmente gradito. «Ci provo, Gloria» le dissi. «Che cosa hai fatto in faccia? Come ti sei ferita?» Lei fece un gesto che doveva chiudere l'argomento. «Uno scambio di opinioni contrastanti con le mie compagne di cella.» «Su che cosa?» «Questioni di donne.» «Hai cominciato tu?» Prima fece l'indignata, poi mise su il broncio. «No, non ho cominciato io.» La guardai. Sembrava sincera. Forse non era vero che si drogava e non era stata la droga a provocare la rissa. «Non voglio restare qui, Mickey» disse con un tono di voce normale. «Non riesco a darti torto. Neanche a me piace stare qui e fra poco me ne vado.» Mi pentii di quell'ultima affermazione che le avrebbe ricordato come la sua situazione fosse diversa. Sembrò non farci caso. «Riesci a farmi trasferire in uno di quei posti come cazzo si chiamano dove posso rimettermi in sesto in attesa del processo?» Pensai che era curioso che i tossicodipendenti definissero allo stesso modo drogarsi e disintossicarsi... rimettersi in sesto. «Gloria, anche l'altra volta abbiamo ottenuto di farti entrare in un programma di disintossicazione, ti ricordi? Evidentemente non ha funzionato. Questa volta non so cosa fare. In quelle strutture i posti disponibili sono pochi e ai giudici e ai pm non piace rimandarci quelli che la prima volta non hanno ottenuto risultati positivi.» «Cosa significa?» protestò lei. «Io sono migliorata. Ci sono andata per tutto il maledetto tempo che è durato.» «È vero. E hai fatto bene a farlo. Ma quando hai finito, hai ricominciato a comportarti come prima ed eccoti di nuovo qui. Non si può definire un successo, Gloria. Devo essere sincero con te. Questa volta non credo di riuscire a farti inserire in un programma. Questa volta devi aspettarti che
siano più duri con te.» Abbassò gli occhi. «Non ce la faccio» bisbigliò. «Senti, esistono programmi anche dentro il carcere. Tu riga dritto e verrà fuori un'altra occasione per ricominciare da capo.» Lei scosse la testa. Sembrava smarrita. «Lo hai fatto per tanto tempo, non puoi andare avanti così» dissi. «Fossi in te farei in modo di andarmene da qui. Voglio dire da Los Angeles. Trovati un posto e ricomincia da zero.» Mi guardò risentita. «Ricominciare a far che? Guardami. Cosa potrei fare? Sposarmi, fare dei bambini, coltivare il giardino?» Non sapevo cosa rispondere e lei neppure. «Riparliamone quando sarà il momento. Per ora preoccupiamoci di questo caso. Raccontami com'è andata.» «È successo quello che succede di solito. Mi è capitato un cliente e ho controllato. Sembrava che fosse un tipo qualsiasi. Invece era un poliziotto ed è finita così.» «Sei andata da lui?» Lei annuì. «Al Mondrian. Aveva una suite... un'altra stranezza. Di solito i poliziotti non hanno delle suite. Il loro budget non glielo permette.» «Non ti avevo detto che quando andavi a lavorare non dovevi portare coca con te? E che se qualcuno ti avesse chiesto di farlo, significava che quello era un poliziotto?» «Lo sapevo e lui non me lo aveva chiesto. Avevo dimenticato di averla con me, capito? Me l'aveva data un tipo che avevo incontrato subito prima del poliziotto. Cosa dovevo fare, lasciarla in macchina perché se la prendessero i portieri del Mondrian?» «Chi era il tipo che te l'ha data?» «Uno che stava al Travelodge di Santa Monica. Me l'ha offerta in pagamento al posto del contante. Subito dopo ho ascoltato i messaggi in segreteria e ho trovato la telefonata di quello del Mondrian. L'ho richiamato, abbiamo preso gli accordi e l'ho raggiunto. Mi sono dimenticata di togliere la roba dal portafogli.» Mi sporsi in avanti annuendo con il capo. Nel suo racconto avevo intravisto un barlume di speranza, una possibilità. «Chi era il tipo del Travelodge?»
«Non lo so, uno che ha visto il mio indirizzo sul sito.» Gloria si procurava gli incontri tramite l'inserzione su un sito internet che riportava le fotografie, i numeri di telefono e gli indirizzi e-mail di chi si proponeva per offrire compagnia. «Ti ha detto da dove veniva?» «No, era messicano o cubano o qualcosa del genere. Puzzava di sudore.» «Quando ti ha dato la coca hai visto se ne aveva dell'altra?» «Sì, ne aveva ancora. Speravo che mi richiamasse... ma non credo di essere stata all'altezza delle sue aspettative.» L'ultima volta che avevo visitato il sito LA-Darlings.com per cercarla e accertarmi che fosse viva, avevo notato che le sue foto che comparivano in rete erano di cinque anni prima e sembrava che lo fossero almeno di dieci. Immagino che i clienti nel momento in cui aprivano la porta della stanza d'albergo e se la vedevano di fronte potessero rimanere delusi. «Quanta ne aveva?» «Non lo so. L'unica cosa che ho capito è che doveva averne dell'altra perché se fosse stata tutta quella che aveva, non l'avrebbe data di sicuro a me.» Osservazione acuta. L'illuminazione che avevo avuto si faceva sempre più chiara. «Hai controllato i suoi documenti?» «Naturale.» «Che cosa, la patente?» «No, il passaporto. Ha detto che non aveva la patente.» «Come si chiamava?» «Hector qualcosa.» «Dai, Gloria, avanti, Hector e poi? Cerca di ricordare...» «Hector qualcosa Moya. Aveva tre nomi, ma ricordo "Moya" perché ho detto "Hector dammi Moya" quando ha tirato fuori la coca.» «Bene, brava.» «Pensi che questo possa essermi d'aiuto?» «Forse, dipende chi è il tipo. Se è uno spacciatore sì.» «Voglio uscire di qui.» «Okay, stammi a sentire, Gloria. Vado all'incontro con il pm e vedo che cosa ha in mente, così capisco cosa posso fare per te. La tua cauzione ammonta a venticinquemila dollari.» «Cosa?» «L'importo è superiore al solito per via della droga. I soldi per pagare la
cauzione non li hai, vero?» Fece di no con la testa. Vidi che i muscoli del viso le si contraevano. Sapevo cosa mi aspettava. «Potresti prestarmeli, Mickey? Ti prometto che io...» «Non posso, Gloria. È una regola professionale e finirei nei guai se dovessi violarla. Dovrai fermarti qui per la notte e ti porteranno in giudizio domattina.» «No» disse. Sembrava un lamento più che una parola. «So che sarà dura, ma devi cercare di farcela. E domattina quando arriverai in aula devi essere a posto o non avrò nessun appiglio per cercare di abbassare la richiesta di cauzione e portarti fuori di qui. Per cui evita quelle schifezze che circolano qui dentro. Mi hai capito?» Lei sollevò le braccia sopra la testa, come se si stesse proteggendo da una caduta di detriti. La paura le fece contrarre le mani fino a stringerle a pugno. Aveva dinanzi a sé una lunga notte. «Devi fare in modo di farmi uscire di qui domani.» «Farò del mio meglio.» Feci cenno alla guardia nella cabina di controllo. Ero pronto ad andarmene. «Un'ultima cosa» dissi. «Ricordi in quale stanza alloggiasse quel tipo al Travelodge?» Prima di rispondere ci pensò un attimo. «Sì, è un numero facile. La 333.» «Grazie. Vado a vedere cosa riesco a fare.» Mi alzai e lei rimase seduta. L'agente di scorta mi raggiunse subito e mi disse che dovevo aspettare mentre lei accompagnava Gloria nella sua cella. Guardai l'ora. Quasi le due. Non avevo mangiato e mi stava venendo mal di testa. Avevo solo due ore per arrivare da Leslie Faire alla procura distrettuale per parlare di Gloria e poi precipitarmi a Century City per la riunione con Roulet e Dobbs. «Non c'è nessun altro che mi possa portare fuori di qui?» dissi irritato. «Devo andare a palazzo di giustizia.» «Mi spiace signore, ma il regolamento è questo.» «Per favore, allora faccia presto.» «Io faccio sempre presto.» Un quarto d'ora dopo mi resi conto che le mie lamentele avevano avuto il solo effetto di farmi aspettare più di quanto sarebbe successo se avessi tenuto la bocca chiusa. Non ci voleva molto a capirlo, anche a un cliente di
un ristorante succede che se rimanda in cucina la minestra servita fredda gliela riportano bollente e con l'aggiunta di un acre sapore di saliva. Chiamai Raul Levin mentre l'auto correva verso il palazzo di corte penale. Levin era rientrato nella casa-studio di Glendale e stava esaminando i verbali della polizia relativi alle indagini e all'arresto di Roulet. Gli chiesi di sospendere un secondo per fare delle telefonate. Volevo sapere cosa riusciva a trovare sull'uomo della stanza 333 del Travelodge di Santa Monica. Gli dissi che avevo bisogno di quelle informazioni per ieri. Immaginavo che avesse le sue fonti e i suoi metodi per rintracciare Hector Moya. Ma non volevo sapere chi o quali fossero. Mi interessava solo quello che riusciva a ottenere. Earl fermò la macchina davanti alla corte penale e gli chiesi se poteva fare un salto da Philippe a comprare un paio di sandwich al roast beef mentre ero dentro. Avrei mangiato andando a Century City. Gli porsi una banconota da venti dollari e scesi. In attesa dell'ascensore nell'ingresso sempre affollato della corte, presi dalla valigetta un Tylenol con la speranza che mi facesse passare l'emicrania da digiuno. Mi ci vollero una decina di minuti per raggiungere il nono piano e un ulteriore quarto d'ora in attesa che Leslie Faire mi concedesse udienza. Ma non ci feci caso perché Raul Levin mi richiamò prima che mi facessero passare. Se Faire mi avesse ricevuto prima non avrei avuto quegli argomenti da mettere sul piatto della discussione. Levin mi disse che l'uomo della stanza 333 del Travelodge si era registrato con il nome di Gilberto Garcia. Al motel non gli avevano chiesto i documenti perché aveva pagato in contanti per una settimana anticipata con l'aggiunta di una banconota da cinquanta dollari per le telefonate. Levin aveva seguito le tracce del nome che gli avevo fornito ed era arrivato a Hector Arrande Moya, colombiano ricercato dalla polizia con un mandato di cattura emesso dopo la fuga da San Diego seguita alla formalizzazione da parte del gran giurì federale dell'accusa di spaccio di sostanze stupefacenti. Mi riproposi di usare la notizia con il pm in aggiunta agli altri argomenti. Leslie Faire divideva l'ufficio con tre colleghi. Ciascuno aveva la propria scrivania in uno dei quattro angoli. Due di loro mancavano, forse erano in aula, e un quarto che non conoscevo sedeva alla scrivania all'angolo opposto di Faire. Mi toccava parlarle con quell'uomo a portata di orecchio. La cosa era fastidiosa perché sapevo che il pm di turno spesso recitava a favore dei presenti, cercando di mostrarsi inflessibile e acuto, a volte a spese
del mio cliente. Spostai una sedia da una delle scrivanie vuote e mi sedetti. Saltai i preliminari e andai dritto al punto perché avevo fame e non avevo tempo da perdere. «Stamattina è stata presentata istanza nei confronti di Gloria Dayton» dissi. «È una mia cliente. Voglio capire cosa si può fare.» «Se si dichiara colpevole può farsi da uno a tre anni a Frontera.» Lo disse con un sorriso smagliante che andava al di là del puro compiacimento. «Pensavo al PTI.*» «Invece io pensavo che ha già avuto una possibilità e l'ha sprecata. Non c'è niente da discutere.» «Stai a sentire, quanta coca aveva con sé, due grammi?» «Non importa quanta fosse, comunque è illegale. A Gloria Dayton abbiamo dato varie opportunità per rimettersi in riga ed evitare di finire dentro. Ma le ha sprecate tutte.» Si girò, aprì un fascicolo e diede un'occhiata al primo foglio. «Nove arresti negli ultimi cinque anni» disse. «Questa è la terza volta che viene fermata con della droga con sé e non ha mai passato più di tre giorni in cella. Dimenticati il PTI. Prima o poi doveva prendere una lezione e questa è la volta buona. Non sono disposta a discutere di questo caso. Se ammette la colpevolezza, le darò da uno a tre anni. Altrimenti la porto in giudizio e vediamo quello che spunterà con il giudice. Io chiederò il massimo della pena.» Annuii. Con Leslie Faire le cose stavano andando esattamente come mi ero immaginato. Una sentenza da uno-a-tre-anni significava che avrebbe finito per scontare nove mesi di carcere. Sapevo che Gloria Dayton poteva farli e che forse avrebbe dovuto. Ma avevo ancora una carta da giocare. «Che cosa succederebbe se avesse qualcosa da offrire in cambio?» Faire sbuffò come se si trattasse di uno scherzo. «Tipo?» «Un numero di stanza d'albergo dove un grosso spacciatore porta avanti i suoi traffici.» «Mi sembra un po' vago.» Era vago, ma dal cambiamento di tono di voce mi resi conto che avevo risvegliato il suo interesse. Non c'è pm cui non piaccia contrattare. «Telefona alla tua squadra Antidroga. Chiedi loro di rintracciare la scheda di Hector Arrande Moya. È un colombiano. Posso aspettare.»
Esitò. Era evidente che non le piaceva farsi manovrare da un avvocato difensore, specie in presenza di un altro pm, ma ormai aveva abboccato all'amo. Si girò e fece una telefonata. Ascoltai la sua parte di conversazione, la sua richiesta di verifica su Moya. Aspettò un secondo ed ebbe risposta. Ringraziò l'interlocutore e riagganciò. Impiegò del tempo prima di rivolgersi a me. «Okay» disse. «Cosa vuole?» Ero pronto. «Un posto al PTI e che le vengano archiviate tutte le accuse se completa con successo il programma di disintossicazione. Non intende testimoniare contro quell'uomo e il suo nome non dovrà comparire su alcun verbale. Lei si limiterà a fornire il nome dell'albergo e il numero della stanza dove alloggia Moya e la tua squadra farà il resto.» «Bisogna istruire il caso. Lei deve testimoniare che i due grammi li ha avuti da lui. E deve raccontarci com'è andata.» «No. Chiunque tu abbia appena chiamato deve averti detto che contro di lui esiste già un mandato. Potete interrogarlo per questo.» Ci pensò un po', muovendo la mascella avanti e indietro come se stesse assaggiando la proposta e dovesse decidere se andare avanti a mangiare. Sapevo che poteva dimostrarsi un passo falso. L'affare era uno scambio, ma riguardava una causa federale. Ciò significava che loro avrebbero fermato l'uomo e poi sarebbe subentrata la polizia federale. Leslie Faire non avrebbe avuto riconoscimenti, a meno che il suo obiettivo non fosse di arrivare un giorno all'ufficio della procura federale. «I federali lo apprezzeranno» dissi, cercando di infilarmi nelle pieghe della sua coscienza. «Quell'individuo è un criminale ed è probabile che sia sul punto di darsi alla fuga e allora addio occasione di prenderlo.» Mi guardò come si guarda un insetto. «Non provarci con me, Haller.» «Come non detto.» Lei ritornò ai suoi pensieri. Io ci riprovai. «Una volta che sai dove trovarlo, puoi sempre tentare di mettere in scena un acquisto.» «Vuoi tenere la bocca chiusa, per favore? Non riesco a pensare.» Alzai le mani in segno di resa e rimasi in silenzio. «D'accordo» esclamò alla fine. «Fammi parlare con il capo. Lasciami il tuo numero e ti chiamerò più tardi. Ma te lo dico sin d'ora, se concludiamo
l'affare, la tua cliente dovrà farsi un programma blindato da qualche parte, tipo County-USC. Non possiamo permetterci di sprecare un posto residenziale per lei.» Ci pensai un attimo e fui d'accordo. Il County-USC era un ospedale con un'ala carceraria dove venivano ospitati i detenuti feriti, ammalati e drogati. Il pm stava offrendo a Gloria Dayton un programma grazie al quale curare la tossicodipendenza ed essere rilasciata una volta rimessa in sesto. Non avrebbe dovuto scontare nessun'altra condanna né restare ancora in prigione. «Mi sta bene» dissi. Guardai l'ora. Dovevo andare. «La nostra offerta è valida fino alla prima comparizione di domani» dissi. «Dopo di che chiamerò la DEA per vedere se sono disponibili a un accordo diretto. A quel punto il caso ti sarebbe tolto di mano.» Mi guardò indignata. Sapeva che se avessi preso accordi diretti con i federali, loro l'avrebbero messa in un angolo. Nei testa a testa i federali hanno regolarmente la meglio sullo stato. Mi alzai e appoggiai sulla sua scrivania un biglietto da visita. «Non essere sleale con me, Haller» disse lei. «Se qualcosa dovesse andare storto le conseguenze ricadranno sulla tua cliente.» Non risposi. Rimisi la sedia dove l'avevo presa. Poi lei volle l'ultima parola. «Sono certa che troveremo il modo di essere tutti soddisfatti.» Mentre stavo aprendo la porta per uscire mi girai a guardarla. «Tutti eccetto Hector Moya» dissi. 8 Gli uffici degli avvocati Dobbs e Delgado si trovavano al ventinovesimo piano di una delle torri gemelle che siglano lo skyline di Century City. Ero in orario, ma nella sala riunioni c'erano già tutti. La stanza era arredata con un lungo tavolo di legno laccato lucido e una parete a vetri inquadrava la prospettiva che a ovest attraversava Santa Monica fino al Pacifico e alle isole paradiso fiscale. Era una giornata limpida e all'orizzonte si potevano vedere Catalina e Anacapa. Le tende erano abbassate per attutire il riverbero del sole che, tramontando, era sceso all'altezza degli occhi. Come se avessero messo gli occhiali da sole alla stanza. Anche il mio cliente li aveva. Louis Roulet sedeva a capotavola e porta-
va un paio di Ray-Ban dalla montatura nera. Ora che aveva tolto la tuta grigia da carcerato indossava un vestito marrone scuro e una T-shirt di seta chiara. Non sembrava più il ragazzo spaventato che avevo conosciuto nel recinto in tribunale, ma dimostrava di essere un giovane manager del settore immobiliare, freddo e sicuro di sé. Alla sinistra di Roulet sedeva Cecil Dobbs e, accanto a lui, una signora dall'aspetto giovanile, fresca di parrucchiere e ben ingioiellata che immaginai fosse la madre. Era evidente che Dobbs non le aveva detto che non doveva essere presente all'incontro. La sedia a destra di Roulet era vuota e aspettava me. Accanto sedeva il mio investigatore, Raul Levin, che teneva appoggiata di fronte a sé una cartelletta chiusa. Dobbs mi presentò Mary Alice Windsor, che mi strinse energicamente la mano. Mi sedetti e Dobbs spiegò che sarebbe stata la signora a pagare la difesa del figlio e che accettava le clausole che avevo specificato in precedenza. Mi allungò una busta attraverso il tavolo. Ne guardai il contenuto e trovai un assegno di sessantamila dollari intestato a me. Era quanto avevo chiesto, ma mi aspettavo di averne in acconto la metà. In alcuni casi avevo guadagnato complessivamente di più, ma era il singolo assegno dall'importo più alto che avessi mai ricevuto. L'assegno era firmato da Mary Alice Windsor. La banca era tra le più affidabili, la First National di Beverly Hills. Richiusi la busta e la feci scivolare sul tavolo verso Dobbs. «L'assegno deve essere firmato da Louis» dissi, guardando la signora Windsor. «Non importa se il denaro glielo dà lei e lui lo gira a me. Desidero che l'assegno a mio favore provenga da Louis. Io lavoro per lui e questo dev'essere chiaro da subito.» Sapevo che era una situazione diversa rispetto a quella della stessa mattina, quando avevo accettato il pagamento da un terzo soggetto. Era questione di avere un riscontro. Bastò un'occhiata attraverso il tavolo a Mary Alice Windsor e a C.C. Dobbs per convincermi che dovevo avere la certezza che entrambi sapessero che quel caso era il mio, che vincessi o perdessi. Mary Windsor assunse un'espressione dura, anche se non avevo immaginato che ne sarebbe stata capace. Non so come, ma quella donna mi ricordava un vecchio orologio del nonno, il suo viso era piatto e inespressivo. «Mamma» disse Roulet prima che intervenissero altri. «Va tutto bene.
Gli farò io un assegno appena mi darai la copertura.» La signora Windsor guardò prima me, poi suo figlio quindi tornò a me. «Molto bene» disse. «Signora Windsor» dissi. «Il suo sostegno è importante per suo figlio. E non intendo solo il sostegno finanziario. Sarà importante che lei lo mostri in pubblico nel caso non riuscissimo a far cadere le accuse e dovessimo quindi scegliere l'alternativa del processo.» «Non dica sciocchezze» lei disse. «Cascasse il mondo io sarò con lui. Queste ridicole accuse devono essere cancellate, quella donna... da noi non vedrà un soldo.» «Grazie, mamma» disse Roulet. «Sì, grazie» dissi io. «Non mancherò di farle sapere, magari tramite il signor Dobbs, dove e quando sarà richiesta la sua presenza. È bene essere certi che lei per suo figlio ci sia.» Non dissi altro e rimasi in attesa. Non impiegò molto per capire che doveva andarsene. «Lei non vuole che io mi fermi qui, giusto?» «È così. Dobbiamo discutere i fatti ed è meglio e più corretto che Louis possa parlarne solo con la squadra della sua difesa. La prerogativa del rapporto che esiste tra l'avvocato e il suo cliente è che non può riguardare altri. Potrebbe succedere che lei si trovi nella condizione di dover testimoniare contro suo figlio.» «Come tornerà a casa Louis se me ne vado?» «Ho l'autista. Lo accompagnerò io.» Lei guardò Dobbs, nella speranza che potesse avere maggiore autorevolezza e fosse in grado di contrastarmi. Dobbs sorrise e si alzò per allontanare dal tavolo la sedia della signora. Alla fine lei glielo lasciò fare e si alzò per andarsene. «Bene» disse. «Louis, ci vediamo a cena.» Dobbs accompagnò la donna fuori dalla sala riunioni e li vidi parlottare nell'ingresso. Non potevo sentire quello che si stavano dicendo. Poi lei uscì e Dobbs tornò dentro e chiuse la porta. Diedi a Roulet alcune informazioni preliminari, gli dissi che nel giro di un paio di settimane sarebbe stato chiamato a testimoniare in giudizio. Quella sarebbe stata l'occasione di far presente che non voleva rinunciare al proprio diritto di essere sottoposto a un processo per direttissima. «La prima scelta che dobbiamo fare,» dissi «è valutare se ci sta bene la procedura lunga o se vogliamo far pressioni sullo stato perché si muova in
fretta.» «Che opzioni abbiamo?» chiese Dobbs. Lo guardai e rivolsi lo sguardo a Roulet. «Voglio essere franco con voi» dissi. «In genere propendo per tirarla alle lunghe quando il mio cliente non è in prigione. Visto che il nostro obiettivo è che resti in libertà, sarebbe sciocco non cercare di far durare al massimo questa condizione prima che cada la mannaia.» «Lei sta parlando di un cliente colpevole» disse Roulet. «D'altro canto però,» dissi «se la tesi dell'accusa è debole, ritardare le cose serve solo a dare loro il tempo di rafforzarla. A questo punto il tempo è la nostra unica arma. Se rifiutiamo di rinunciare al nostro diritto di chiedere un processo per vie brevi, il pm si sentirà il fiato sul collo.» «Non ho commesso quello di cui sono accusato» disse Roulet. «Non voglio perdere tempo. Voglio che questa situazione incresciosa finisca al più presto.» «Se non vogliamo rinunciare, in teoria il processo dovrebbe celebrarsi entro sessanta giorni dalla prima comparizione in giudizio. In realtà, se si procede con un'udienza preliminare, il processo potrebbe essere fatto slittare. Durante l'udienza preliminare il giudice ascolta la presentazione delle prove e decide se sono sufficienti a giustificare un processo. Si tratta di una procedura automatica. Il giudice aggiornerebbe la data del processo, lei sarebbe di nuovo chiamato a testimoniare e si ricomincerebbe dopo sessanta giorni.» «Non posso crederci» disse Roulet. «In questo modo può durare per l'eternità.» «Esiste anche la possibilità di rinunciare all'udienza preliminare. Questo forzerebbe la mano all'accusa. Il caso è stato riassegnato a un pm molto giovane, inesperto di processi penali. Potrebbe essere questa la strada giusta da seguire.» «Aspetti un momento» disse Dobbs. «L'udienza preliminare non può essere utile per verificare le prove dell'accusa?» «Non esattamente» dissi. «Non più. Il legislatore nel tentativo di snellire la procedura ha trasformato l'udienza preliminare in una prassi standardizzata per ridurre le testimonianze indirette. Attualmente viene chiamato a testimoniare un poliziotto che racconta al giudice quello che hanno detto tutti gli altri. La difesa non chiama altri testimoni oltre a lui. Se me lo chiedete, rispondo che la strategia migliore è forzare i tempi del processo o restarsene zitti. Dobbiamo fare in modo che la causa venga discussa entro
sessanta giorni dalla prima convocazione.» «Mi piace quest'idea» disse Roulet. «Voglio che tutto sia finito il più presto possibile.» Feci di sì con la testa. Lo aveva detto come se il verdetto di non colpevolezza fosse scontato. «Magari non si arriva neppure al processo» disse Dobbs. «Se queste accuse non sono fondate...» «Il procuratore distrettuale non ha intenzione di lasciarle cadere» dissi troncando il discorso. «Di solito la polizia calca la mano con le imputazioni e il procuratore ridimensiona le accuse. Nel nostro caso non è andata così, ma esattamente al contrario. Il che mi fa pensare a due cose. Primo, che loro siano convinti che le accuse sono fondate e, secondo, che hanno aggravato le accuse in modo da negoziare con noi partendo da una base più alta.» «Intende dire contrattare sulla base di una dichiarazione di colpevolezza?» «Sì.» «Escluso, nessuna contrattazione. Non ci penso proprio a finire in prigione per qualcosa che non ho fatto.» «Potrebbe non significare finire in prigione. Non ha precedenti penali...» «Non mi interessa, neanche se resto a piede libero. Non ho intenzione di dichiararmi colpevole per qualcosa che non ho commesso. Se questo è un problema per lei, dobbiamo recedere da subito dal nostro accordo.» Lo osservai con attenzione. Quasi tutti i miei clienti durante lo sviluppo del nostro rapporto si professano innocenti almeno una volta. Soprattutto quando è la prima volta che si fanno difendere da me. Ma vedere il fervore e la franchezza con la quale Roulet aveva rivendicato la propria innocenza non mi era mai capitato. Quelli che mentono in genere balbettano. Si guardano intorno. Gli occhi di Roulet invece erano incollati ai miei come magneti. «Dobbiamo tenere in considerazione l'aspetto della responsabilità civile» disse Dobbs. «Una dichiarazione di colpevolezza consentirebbe a quella donna di...» «Ho capito» dissi, troncando di nuovo il suo discorso. «Credo che adesso stiamo andando troppo oltre. Volevo soltanto che Louis si facesse un'idea generale di come si sarebbero potute svolgere le cose. Non dobbiamo fare alcuna mossa, né prendere decisioni affrettate per almeno un paio di settimane. Dobbiamo soltanto arrivare all'udienza sapendo come compor-
tarci.» «Louis ha frequentato un anno di legge alla UCLA» disse Dobbs. «Ritengo che abbia le conoscenze legali di base per affrontare la situazione.» Roulet assentì. «Bene» dissi. «Allora procediamo. Louis, cominciamo da lei. Sua madre le ha detto che l'aspetta per cena. Vive con lei? Intendo dire in casa sua?» «Abito nel villino degli ospiti. Lei nell'edificio principale.» «Qualcun altro vive nelle vostre proprietà?» «La domestica. Insieme a mia madre.» «Nessun fratello o sorella, fidanzati o fidanzate?» «No.» «Lavora nell'azienda di sua madre?» «Si può dire che la gestisco. Ormai lei si fa vedere molto poco.» «Dov'era sabato sera?» «Sabato... vuol dire ieri sera, giusto?» «No, intendo dire sabato sera. Cominci da lì.» «Sabato sera non ho fatto niente di speciale. Sono stato a casa a vedere la televisione.» «Da solo?» «Sì.» «Cos'ha visto?» «Un dvd. Un vecchio film intitolato La conversazione. Di Coppola.» «E così era solo e nessuno l'ha vista. Ha guardato il film e poi è andato a dormire.» «Sostanzialmente sì.» «Sostanzialmente. Okay. Passiamo a domenica mattina. Cosa ha fatto ieri in giornata?» «Ho giocato a golf al Riviera, la solita partita a quattro. Abbiamo cominciato alle dieci e finito alle sedici. Sono tornato a casa, ho fatto una doccia e mi sono cambiato, ho cenato a casa di mia madre... vuole sapere che cosa ho mangiato?» «Non è necessario. Ma magari dopo mi dirà i nomi dei suoi compagni di golf. Che cosa ha fatto dopo cena?» «Ho detto a mia madre che rientravo a casa e invece sono uscito.» Notai che Levin aveva cominciato a prendere appunti su un piccolo notes che teneva in tasca. «Che macchina ha?» «Ne ho due, una Range Rover quattro per quattro che uso per portare in
giro i clienti e una Carrera che uso per me.» «Ha usato la Porsche ieri notte, vero?» «Sì.» «Dov'è andato?» «Ho fatto un giro per le colline fino alla Valley.» Lo disse come se fosse rischioso per un ragazzo di Beverly Hills spingersi fino ai quartieri popolari della San Fernando Valley. «Dov'era diretto?» «Ventura Boulevard. Ho preso un drink da Nat North e ho proseguito fino al Morgan per bere un altro drink.» «Quelli sono locali dove si rimorchia, lo sapeva?» «Sì. Ci sono andato apposta.» Apprezzai la sincerità. «Quindi stava cercando qualcuno. Una donna. Qualcuna in particolare, qualcuna che conosceva?» «Nessuna in particolare. Cercavo rapporti sessuali. Punto e basta.» «Com'è andata da Nat North?» «Era una serata moscia, così me ne sono andato. Non ho neppure finito di bere il drink.» «Ci va spesso? Quelli del bar la conoscono?» «Sì, sanno chi sono. Ieri sera dietro il banco c'era una ragazza che si chiama Paula.» «Okay, così non le piaceva il posto e se n'è andato. Ha proseguito verso Morgan. Perché proprio Morgan?» «È solo un altro posto che frequento.» «La conoscono anche lì?» «Sì. Lascio sempre delle buone mance. Dietro al banco ieri sera c'erano Denise e Janice. Mi conoscono.» Mi girai verso Levin. «Raul, come si chiama la vittima?» Levin aprì la cartella ed estrasse un verbale della polizia, ma rispose prima di leggere. «Regina Campo. Gli amici la chiamano Reggie. Ventisei anni. La polizia ha detto che fa l'attrice e lavora in un call center.» «E spera di smettere presto» disse Dobbs. Lo ignorai. «Louis, conosceva già Regina Campo prima di ieri sera?» gli chiesi. Roulet fece una smorfia.
«Più o meno. L'avevo vista girare nel bar. Ma non c'ero mai stato insieme prima. Non le avevo mai parlato.» «Ci aveva mai provato?» «No, non sono mai riuscito neppure ad avvicinarla. Sembrava sempre con qualcuno o con più di una persona. Non mi piace farmi largo tra la folla, capisce? Il mio stile è cercare chi è solo.» «Ieri sera cosa è accaduto di diverso?» «Ieri sera è venuta lei, è stata questa la differenza.» «Racconti.» «Non c'è niente da raccontare. Ero al banco da Morgan, pensavo agli affari miei e davo un'occhiata in giro per vedere chi c'era e lei era seduta all'altro capo del banco insieme a un gruppetto di uomini. Per questo lei non rientrava nel mio raggio d'azione: sembrava che fosse già impegnata, capisce?» «Sì. E cosa è successo?» «Dopo poco il ragazzo che le faceva compagnia si è alzato per andare a fare pipì o per uscire a fumare una sigaretta e appena lui si è allontanato lei si è alzata ed è sgusciata verso di me chiedendomi se ero interessato. Ho risposto di sì ma volevo sapere che ne era del tipo con lei. Mi ha risposto di non preoccuparmi di lui e che lo avrebbe messo fuori casa alle dieci e che sarebbe stata libera per il resto della nottata. Mi ha scritto l'indirizzo e mi ha detto di andare dopo le dieci. Le ho detto che ci sarei andato.» «Dove ha scritto l'indirizzo?» «Su un tovagliolino, ma la risposta alla sua domanda è no, non ce l'ho più. Ho memorizzato l'indirizzo e l'ho buttato. Lavoro nel settore immobiliare. Ricordo gli indirizzi.» «A che ora è successo tutto questo?» «Non saprei.» «Le ha detto di andare da lei alle dieci. Non ha guardato l'ora per vedere quanto tempo avrebbe dovuto aspettare?» «Penso che fossero le otto e qualcosa, non ancora le nove. Sono usciti dal locale appena l'uomo è rientrato.» «A che ora ha lasciato il bar?» «Mi sono fermato ancora pochi minuti e poi me ne sono andato. Ho fatto un'altra sosta prima di andare da lei.» «Dove?» «Lei abitava a Tarzana e così sono arrivato fino al Lamplighter. Era sulla strada.»
«Perché?» «Volevo vedere se c'erano alternative, se trovavo di meglio, qualcuna che non dovevo aspettare o...» «O cosa?» Continuava a non finire di esprimere il suo pensiero. «Non la voleva di seconda mano?» Fece cenno che avevo capito giusto. «Chiaro. Con chi ha parlato al Lamplighter? E comunque, dove si trova?» Era l'unico posto da quelle parti che non conoscevo per niente. «È sulla Ventura vicino a White Oak. Non ho parlato con nessuno. Il locale era affollato, ma di fatto non c'era nessun tipo interessante.» «Quelli del bar la conoscono?» «No, non proprio. Non ci vado spesso.» «Come si comporta di solito, non si ritiene soddisfatto se non beve almeno tre drink?» «No, di solito smetto dopo il secondo.» Presi tempo per pensare cos'altro chiedere prima di arrivare a quello che era successo in casa della vittima. «Quanto tempo è stato al Lamplighter?» «Un'oretta, penso. Forse un po' meno.» «Al banco? Quanti bicchieri ha bevuto?» «Sì, due bicchieri al banco.» «Quanti bicchieri ha bevuto in tutta la serata prima di arrivare a casa di Reggie Campo?» «Al massimo quattro. In due ore, due ore e mezza. Da Morgan me ne ero andato lasciando un drink intatto.» «Cos'ha bevuto?» «Martini. Con vodka Gray Goose.» «Ha pagato con la carta di credito nei vari locali?» chiese Levin, intervenendo per la prima volta. «No» disse Roulet. «Quando vado in giro, pago in contanti.» Guardai Levin per vedere se aveva altre domande da fare. Al momento lui aveva più informazioni di me sul caso. Desideravo che si sentisse libero di chiedere quello che voleva. Contraccambiò lo sguardo e mi fece segno che non aveva altro da chiedere. Potevo continuare. «Okay» dissi. «A che ora è arrivato a casa di Reggie?» «Mancavano dodici minuti alle dieci. Ho guardato l'ora. Volevo essere
certo di non suonare il campanello prima dell'ora stabilita.» «E allora cosa ha fatto?» «Ho aspettato al parcheggio. Lei aveva detto le dieci e io ho aspettato le dieci.» «Ha visto uscire il tipo che era con lei da Morgan?» «Sì. Lui è uscito, se ne è andato e sono entrato io.» «Che auto aveva?» chiese Levin. «Una Corvette gialla» disse Roulet. «Un modello anni Novanta. Non saprei dire esattamente di quale anno.» Levin assentì con il capo, non aveva altro da chiedere. Sapevo che stava cercando di capire chi fosse l'uomo che era stato nell'appartamento di Reggie Campo prima di Roulet. Riportai il discorso indietro. «Allora lui se n'è andato e lei è entrato. Cosa è successo?» «Sono entrato nell'edificio e lei stava al secondo piano. Sono salito, ho bussato al suo interno, lei mi ha risposto e sono entrato.» «Aspetti un attimo. Non voglio un riassunto dei fatti. È salito? Come? Scale, ascensore, come? Sia più preciso.» «Ascensore.» «Ha incontrato qualcuno? Qualcuno l'ha vista?» Roulet scosse la testa. Gli feci segno di continuare. «Lei ha socchiuso la porta, ha visto che ero io e mi ha detto di entrare. Davanti alla porta c'era un piccolo ingresso. Mi sono avvicinato a lei per consentirle di richiudere la porta. Ecco perché lei mi era dietro. Così non mi sono accorto di quello che stava per succedere. Lei aveva in mano qualcosa. Mi ha colpito e io sono caduto a terra. È stato tutto maledettamente veloce.» Pensai alla scena in silenzio, cercando di immaginarmela. «Per cui prima che succedesse qualsiasi cosa, è stato colpito e messo fuori uso? Lei non ha detto nulla, non ha gridato, si è visto solo qualcosa spuntare da dietro e bang.» «È andata così.» «Va bene, e poi? Cosa ricorda del seguito?» «Il ricordo è molto confuso. Ricordo che quando mi sono ripreso c'erano due tizi seduti su di me che mi bloccavano a terra. Poi è arrivata la polizia. E la guardia medica. Mi sono ritrovato seduto contro il muro, ammanettato, mentre un infermiere mi metteva sotto il naso dell'ammoniaca o qualcosa del genere. È stato allora che mi sono reso conto di dov'ero.» «Era ancora dentro l'appartamento?»
«Sì.» «Dov'era Reggie Campo?» «Seduta sul divano. Un altro infermiere era chino sul suo volto e lei urlava e diceva a un poliziotto che l'avevo aggredita. Tutte balle. Diceva che l'avevo assalita sulla porta e l'avevo spinta, che le avevo detto che la volevo violentare e poi uccidere, tutto falso. Allora ho spostato le braccia per guardarmi le mani dietro la schiena. Mi sono accorto che mi avevano fasciato la mano in una specie di sacchetto di plastica e che era sporca di sangue. Ho capito in quel momento che era tutta una montatura.» «Cosa intende dire?» «Mi avevano messo del sangue sulla mano per farmi sembrare colpevole. Ma era la mano sinistra. Io non sono mancino. Se volessi colpire qualcuno lo farei con la mano destra.» Mimò un gesto come per colpire qualcuno con la destra per spiegarmi meglio, nel caso non avessi capito. Mi alzai e andai verso la vetrata. Adesso sembrava che fossi più alto del sole. Guardai il tramonto. Nella storia di Roulet c'era qualcosa che non mi convinceva. Era così inverosimile che poteva essere vera. E questo mi seccava. Ero sempre preoccupato di non riuscire a riconoscere l'innocenza di un mio cliente. È un'eventualità così rara nella mia professione che lavoro con il timore di non essere pronto quando capita. Di non riconoscerla. «Okay, parliamone ancora un attimo» dissi, fermandomi di fronte al sole. «Ha detto che lei le ha sporcato di sangue la mano per incastrarla. E lo ha fatto sulla mano sinistra. Ma se avesse voluto incastrarla, non l'avrebbe fatto sulla destra, visto che la stragrande maggioranza della persone non sono mancine? Non avrebbe dovuto seguire la statistica?» Mi girai verso il tavolo e mi accorsi che tutti avevano lo sguardo nel vuoto. «Ha detto che lei ha socchiuso la porta prima di farla entrare» dissi. «L'ha vista in faccia?» «Non interamente.» «Cosa è riuscito a vedere?» «Un occhio. L'occhio sinistro.» «Per cui non ha visto per niente la parte destra del viso? Neanche quando è entrato?» «No, lei mi stava dietro.» «Ci siamo!» disse Levin in tono eccitato. «Quando lui è entrato lei era già stata ferita! Si è nascosta, lui è entrato e lei lo ha colpito. Tutte le ferite
della donna erano sulla parte destra del viso e questo determina il fatto che abbia dovuto mettere il sangue sulla mano sinistra di lui.» Annuii con il capo mentre pensavo alla logica di questa interpretazione dei fatti. Sembrava che avesse un senso. «Sì» dissi, girandomi di nuovo verso la vetrata e continuando a camminare. «Penso che stia in piedi. Louis, ci ha raccontato che aveva già incontrato quella donna al bar, ma che non l'aveva mai frequentata prima. Per cui le era estranea. Perché avrebbe fatto tutto questo, Louis? Perché avrebbe montato questa messinscena, come ha detto lei?» «Per denaro.» Non era stato Roulet a rispondere. Era stato Dobbs. Mi girai a guardarlo. Sapeva di aver parlato senza essere stato interrogato, ma non se ne curava. «È evidente» disse Dobbs. «Voleva spremere denaro da lui e dalla sua famiglia. Mentre siamo qui a chiacchierare è probabile che quella donna abbia già avviato la causa civile. Le accuse penali fanno da introduzione alla causa civile, quella di richiesta di risarcimento. Lo scopo di quella donna è questo.» Mi sedetti di nuovo e mi rivolsi a Levin guardandolo negli occhi. «In tribunale oggi ho visto una sua foto» dissi. «Aveva metà del viso spappolato. Hai detto che può essersi procurata da sola quelle ferite, sarebbe questa la tesi della difesa?» Levin aprì la cartelletta e ne estrasse un foglio. Si trattava di una fotocopia in bianco e nero di una fotografia messa agli atti che Maggie McPherson mi aveva fatto vedere. Il viso tumefatto di Reggie Campo. La fotocopia che aveva Levin era efficace, ma non quanto la foto reale. Levin passò l'immagine a Dobbs e Roulet. «Vedremo di procurarci gli originali come prova» dissi. «Sono peggio, molto peggio, e se portiamo avanti la tua versione e arriviamo al processo, la giuria dovrà credere che queste ferite se le è fatte da sola.» Vidi che Roulet osservava attentamente la fotocopia. Se era stato lui ad aggredire Reggie Campo non manifestava alcuna emozione nel verificare le conseguenze del suo operato. Non faceva trapelare assolutamente niente. «Sapete cosa vi dico?» dissi. «Credo di essere un buon avvocato e credo di poter convincere la giuria che è andata così. Anche se non dovessi credere a me stesso.» 9
Adesso toccava a Raul Levin prendere la parola. Io e lui ci eravamo parlati mentre stavo arrivando in macchina a Century City e stavo addentando il mio sandwich al roast beef. Avevo inserito il cellulare nel vivavoce dell'auto e avevo detto all'autista di mettere gli auricolari dell'iPod che gli avevo comprato subito dopo averlo assunto. Levin mi aveva fornito le informazioni di base del caso, quelle che servivano per sapere quali dovevano essere le prime domande da fare al mio cliente. Ora Levin avrebbe catturato l'attenzione di tutti noi mostrandoci i verbali della polizia per farci capire quali potevano essere i punti di forza dell'accusa in grado di smontare la versione dei fatti che ci aveva dato Louis Roulet. Per lo meno nella fase iniziale volevo che fosse Levin a farlo perché, visto che nella difesa di Roulet dovevano coesistere due ruoli, uno positivo e uno negativo, volevo sostenere quello che poteva gratificarlo di più, del quale si potesse fidare. Volevo offrirgli la speranza di potercela fare. Oltre alle copie dei verbali della polizia che aveva recuperato grazie ai suoi contatti, Levin aveva con sé i suoi appunti. Era un diritto della difesa entrare in possesso di quel materiale e di certo lo avrebbe acquisito nel corso dello scambio di documenti attinenti alle prove, ma di solito ci volevano settimane per ottenerli tramite i canali ufficiali. Durante il suo intervento Levin non tolse mai gli occhi da quei documenti. «Ieri sera, alle 10.11, il centralino del Dipartimento di Polizia di Los Angeles ha ricevuto una chiamata di emergenza codice 911 dal 17-60 di White Oak Boulevard, appartamento 2-11, l'abitazione di Regina Campo. La donna ha raccontato di essere stata aggredita da un intruso che si era introdotto nel suo appartamento. Gli agenti sono arrivati sul posto alle 10.17. Un tempo record. Evidentemente era una serata tranquilla. Hanno impiegato meno di quanto impiegano per i casi di omicidio, secondo le statistiche. La signora Campo, che li stava aspettando al parcheggio, ha dichiarato di aver lasciato l'appartamento dopo l'aggressione. La donna ha detto agli agenti che due vicini di casa, Edward Turner e Ronald Atkins, stavano tenendo bloccato l'intruso all'interno della casa. L'agente Santos ha trovato nell'appartamento il presunto aggressore, identificato poi per Roulet, che giaceva a terra sotto il diretto controllo di Turner e di Atkins.» «Allora erano loro i due molossi che mi stavano seduti sopra» disse Roulet. Lo guardai e vidi un moto di rabbia esplodergli in viso. «Gli agenti hanno preso in consegna il sospettato» continuò Levin, come se non fosse stato interrotto. «Il signor Atkins...»
«Aspetta un momento» dissi. «Dove è stato trovato? Sul pavimento di quale stanza?» «Non lo dice.» Guardai Roulet. «Ero in soggiorno. Non lontano dalla porta d'ingresso. Non mi sono allontanato da lì.» Levin prese un appunto prima di continuare. «Il signor Atkins ha consegnato un coltello a serramanico con la lama estratta che ha detto di aver trovato sul pavimento accanto all'aggressore. Gli agenti hanno messo le manette al sospettato e gli infermieri sono dovuti intervenire per soccorrere sia la Campo sia Roulet. Quest'ultimo era stato colpito alla testa e lamentava una lieve commozione cerebrale. Reggie Campo è stata trasportata all'ospedale di Holy Cross dove è stata medicata e fotografata per documentarne le ferite. Roulet è stato arrestato e rinchiuso nel carcere di Van Nuys. L'appartamento di proprietà della signora Campo è stato messo sotto sequestro per salvaguardare l'integrità della scena del crimine e il caso è stato assegnato al detective Martin Booker della sezione di Valley.» Levin sparse sul tavolo altre fotocopie degli scatti delle ferite di Regina Campo. Il volto ferito era stato ripreso di profilo e di fronte e c'erano due ingrandimenti delle lesioni sul collo e di un piccolo taglio a punta sotto la mascella. Erano fotocopie di qualità scadente e sapevo che le immagini non erano abbastanza nitide per studiare a fondo la natura delle ferite. Notai che era stato colpito solo il lato destro del volto. Roulet aveva detto la verità. La vittima era stata ripetutamente colpita da un mancino o si era ferita da sola usando la mano destra. «Queste foto sono state scattate all'ospedale dove Reggie Campo ha raccontato al detective Booker lo svolgimento dei fatti. In sintesi, la signora Campo ha dichiarato che domenica sera era rincasata intorno alle otto e mezza e si trovava sola in casa quando, alle dieci circa, qualcuno ha bussato alla porta. Ha aperto perché il signor Roulet si è fatto riconoscere. Aveva appena socchiuso la porta quando è stata colpita da un pugno dell'assalitore e ricacciata all'indietro nell'appartamento. L'uomo è entrato e ha chiuso la porta a chiave. La signora Campo ha cercato di difendersi ma è stata colpita ancora almeno un paio di volte e scaraventata al suolo.» «È tutta una menzogna!» urlò Roulet. Sferrò un pugno sul tavolo, si alzò e la sedia andò a sbattere contro la vetrata.
«Andiamo, stai calmo!» disse Dobbs. «Se rompi il vetro rischiamo di farci risucchiare fuori come in aereo.» Nessuno si divertì alla battuta. «Si sieda, Louis» dissi, senza perdere la calma. «Questi sono soltanto i verbali della polizia. Non sono oro colato. Rappresentano il punto di vista di una delle parti. Quello che oggi dobbiamo cercare di fare è un primo esame del caso per capire a cosa andremo incontro.» Roulet spostò la sedia verso il tavolo e si sedette senza commenti. Feci cenno a Levin di continuare. Notai che Roulet aveva smesso di comportarsi come l'agnellino che avevo conosciuto il giorno dell'arresto. «Secondo la signora Campo il suo aggressore aveva il pugno avvolto in un panno bianco.» Allungai lo sguardo per controllare le mani di Roulet e non vidi segni sulle nocche o sulle dita. «È registrato come prova?» chiesi. «Sì» disse Levin. «Nel verbale si parla di un tovagliolo in tessuto sporco di sangue. Sono in corso le analisi di sangue e tessuto.» Guardai Roulet. «La polizia le ha controllato e fotografato le mani?» Roulet assentì. «Mi hanno controllato le mani ma non le hanno fotografate.» Dissi a Levin di continuare. «L'aggressore è salito a cavalcioni di Reggie Campo e le ha messo una mano intorno alla gola» continuò Levin. «Le ha detto che aveva intenzione di violentarla e che non avrebbe fatto differenza se fosse stata viva o morta. La signora Campo non ha potuto rispondere perché l'aggressore la stava strozzando. Quando lui ha allentato la presa, la donna ha dichiarato di avergli detto di essere disposta ad assecondarlo.» Levin fece scivolare sul tavolo un'altra fotocopia. Era l'immagine di un coltello pieghevole nero e molto affilato che spiegava la ferita sotto il collo della vittima della foto precedente. Roulet si avvicinò la fotocopia. Scosse lentamente la testa. «Questo non è il mio coltello» disse. Non feci commenti e Levin proseguì. «Il sospettato e la vittima si sono alzati in piedi e lui le ha intimato di portarlo in camera da letto. Rimanendo dietro alla vittima l'aggressore le ha puntato la lama del coltello contro il lato sinistro della gola. La signora Campo è avanzata verso uno stretto disimpegno che porta alle due camere
da letto, si è girata e ha spinto l'uomo contro un grande vaso da fiori appoggiato sul pavimento. Lui è inciampato nel vaso e la donna ha tentato di fuggire verso l'ingresso. Quando si è resa conto che l'aggressore stava di nuovo per raggiungerla, la donna è corsa in cucina dove ha afferrato dalla credenza una bottiglia di vodka. Mentre l'aggressore passava davanti alla cucina diretto alla porta d'ingresso, lei lo ha colpito alla testa da dietro facendolo cadere a terra. Poi lo ha scavalcato, ha aperto la porta, è scappata e ha chiamato la polizia dall'appartamento del primo piano abitato da Turner e Atkins. I due vicini si sono diretti nel suo appartamento trovando l'aggressore a terra privo di sensi. Mentre riprendeva coscienza i due uomini lo hanno immobilizzato e non si sono mossi fino all'arrivo della polizia.» «Questa storia è assurda» disse Roulet. «Non posso starmene qui seduto ad ascoltare queste sciocchezze. Non posso credere che tutto questo stia succedendo proprio a me. NON HO FATTO nulla di simile. È un incubo. Quella donna mente! Lei...» «Se è tutto falso, sarà il caso più semplice che io abbia mai affrontato» dissi. «Costringerò quella donna ad ammettere di aver mentito e spargerò le sue ceneri in mare. Però, per smascherarla, dobbiamo conoscere ciò che ha dichiarato. E se già adesso le sembra difficile resistere, aspetti di arrivare al processo e i minuti le sembreranno giorni. Deve sapersi controllare, Louis. Ricordi che arriverà il suo turno. Arriva sempre il momento della difesa.» Dobbs si avvicinò a Roulet e gli diede un colpetto affettuoso sul braccio. Roulet spostò il braccio. «Maledizione, deve farla a pezzi» disse Roulet, puntandomi contro il dito dall'altra parte del tavolo. «Voglio che trovi il modo di incastrarla.» «Sono qui per questo. Ha la mia parola che farò tutto il possibile. Ora, prima di concludere mi lasci chiedere al mio socio alcune cose.» Restai in attesa per vedere se Roulet volesse aggiungere qualcosa. Non lo fece. Si appoggiò allo schienale della sedia e giunse le mani. «Hai finito, Raul?» chiesi. «Per adesso sì. Sto ancora lavorando sui verbali. Domattina dovrei avere una trascrizione della chiamata 911 e avremo nuovi elementi.» «Bene. Cosa puoi dirmi del test sulla violenza carnale?» «Non è stato fatto. Il verbale di Booker sostiene che lei si è rifiutata di farlo dal momento che l'aggressore non è arrivato fino a quel punto.» «Che genere di test è?» chiese Roulet. «Vengono analizzati campioni di secrezioni, peli e tessuti prelevati dalla
vittima di una violenza carnale» disse Levin. «Non c'è stata nessuna violenza carnale!» esclamò Roulet. «Non l'ho neanche toccata...» «Non lo metto in dubbio» dissi. «Non è per questo che ho fatto la domanda. Sto cercando di capire se ci sono dei buchi nei verbali. La vittima ha sostenuto di non essere stata violentata, ma dagli atti risulta che è stato un crimine a sfondo sessuale. Di solito, anche se la vittima dichiara di non essere stata violentata, la polizia insiste per accertarsene tramite un test specifico. Lo fanno nel caso in cui la vittima sia stata effettivamente violentata ma non lo ammetta per vergogna o per cercare di tenerlo nascosto al marito o a qualche familiare. Si tratta di una procedura di routine e il fatto che la signora Campo si sia rifiutata di sottoporsi al test può fare il nostro gioco.» «La signora Campo non voleva che nel suo corpo fossero trovate tracce del Dna dell'uomo che era stato con lei prima di Roulet» disse Dobbs. «Forse» dissi io. «Il suo rifiuto può avere diversi significati. Può essere un punto attaccabile. Andiamo avanti. Raul, viene citato da qualche parte l'uomo che era insieme a lei e che ha visto Louis?» «No, da nessuna parte. Non viene nominato.» «Cosa hanno trovato sulla scena del crimine?» «Non ho il verbale, ma mi hanno detto che durante il sopralluogo non è stata rilevata nessuna prova significativa.» «Bene. Niente sorprese. Che mi dici del coltello?» «Sul coltello hanno trovato sangue e impronte. Ma non si hanno ancora i risultati. Sarà arduo accertarne la proprietà. Quel tipo di coltellino pieghevole si compra in qualsiasi negozio di articoli da campeggio o da pesca.» «Quel coltello non è mio» ribadì Roulet. «Dobbiamo supporre che le impronte siano dell'uomo che lo ha consegnato alla polizia» osservai. «Atkins» rispose Levin. «Sì, Atkins» dissi e mi girai verso Louis. «Non mi sorprenderebbe di trovarci sopra anche le sue impronte. Come si fa a sapere quel che è successo quando era privo di sensi? Se la donna è stata capace di sporcarle la mano di sangue, è probabile che abbia messo le sue impronte sul coltello.» Roulet assentì con un cenno del capo e fece per dire qualcosa, ma non gli lasciai il tempo di farlo. «Risulta da qualche parte che la donna in serata è stata da Morgan?» chiesi a Levin.
Lui scosse la testa. «No, l'interrogatorio della vittima è avvenuto in via informale al pronto soccorso. Le sono state rivolte solo alcune domande essenziali e la polizia non è risalita alla prima parte della serata. Non ha fatto cenno al suo accompagnatore né a Morgan. Ha solo detto di essere tornata a casa alle 8.30. La polizia le ha chiesto di raccontare quello che era successo dalle dieci in avanti. Non si sono informati su quello che ha fatto prima. Verrà fuori con lo sviluppo delle indagini.» «Okay, voglio il verbale dell'interrogatorio formale, se e quando la polizia deciderà di farlo.» «Me ne sto occupando. Faranno un filmato.» «Se verrà filmata la scena del crimine, voglio anche quello. Voglio vedere l'ambiente dove viveva la vittima.» Levin assentì. Aveva capito che si trattava di una messa in scena per il mio cliente e per Dobbs per rassicurarli sul fatto che avevo la situazione in pugno. In realtà non c'era bisogno di dire a Raul Levin queste cose. Sapeva cosa fare e come comportarsi. «Che altro?» chiesi. «Cecil, ha qualche domanda?» Dobbs si dimostrò sorpreso che di colpo l'attenzione si fosse spostata su di lui. Scosse la testa. «No, no, va tutto bene. Stiamo facendo progressi.» Non avevo idea di quello che intendeva con la parola «progressi», ma non approfondii. «Allora, cosa ne pensa?» chiese Roulet. Lo guardai e risposi dopo una lunga pausa. «Lo stato considera inconfutabili le accuse contro di lei. Dalla loro parte hanno la sua presenza nella casa, un coltello e le ferite della donna. Inoltre hanno le sue mani sporche di quello che presumo sia il sangue della vittima. Ancora, le foto sono molto esplicite. E naturalmente avranno la testimonianza della Campo. Non ho idea di quanto potrà risultare convincente, visto che non le ho mai parlato.» Feci un'altra pausa e indugiai a lungo prima di riprendere a parlare. «Ci sono però tante altre prove di cui loro non sono in possesso... la prova che si sia introdotto in casa con la forza, il Dna del sospettato, il movente o il sospetto di imputazione di un reato simile nel suo passato. Ci sono invece tanti motivi, più che legittimi, per cui si trovava in quell'appartamento. Inoltre...» Guardai in successione Roulet, poi Dobbs e infine fuori dalla vetrata. Il
sole stava tramontando dietro Anacapa e colorava il cielo di rosa e rosso. I suoi raggi illuminavano quello che dalla finestra del mio ufficio non riuscivo a vedere. «...inoltre cosa?» chiese Roulet, ansioso di sentirmi finire la frase. «Inoltre lei ha me. Ho fatto in modo di escludere dal caso Maggie la Spietata. Il nuovo pm è in gamba, ma è giovane ed è la prima volta che si trova di fronte uno come me.» «Allora quale sarà la nostra prossima mossa?» chiese Roulet. «Raul continuerà a lavorare sul caso e farà in modo di trovare tutto il possibile sulla presunta vittima e di capire i motivi che l'hanno spinta a mentire evitando di dire che c'era stato un uomo da lei. Dobbiamo capire che tipo di donna è, chi è il suo uomo misterioso e stabilire che parte ha avuto nella vicenda.» «E lei cosa farà?» «Tratterò con il pm. Farò in modo di capire dove vuole arrivare e a quel punto sceglieremo che strada prendere. Sono certo di potermi presentare dal procuratore distrettuale e ridimensionare le accuse per arrivare al punto in cui lei possa dichiararsi colpevole e da lì ripartire. Ma per fare questo occorre una sua ammissione. Lei...» «Gliel'ho detto. Non lo farò...» «So quello che ha detto, ma deve ascoltarmi. Posso riuscire a ottenere una dichiarazione di non perseguibilità e fare in modo che lei non debba pronunciare la parola "colpevole", ma non vedo come lo stato possa lasciar cadere del tutto le accuse. Dovrà ammettere qualche responsabilità. Possiamo riuscire a evitare il carcere, ma è probabile che dovrà sottoporsi a qualche servizio alla comunità. Questa è la prima opzione. Ne seguiranno altre In qualità di suo avvocato sono tenuto a informarla sulle alternative che ha di fronte e devo accertarmi che lei le abbia ben comprese. So che non vuole ammettere di avere delle responsabilità né vuole essere costretto a farlo, ma il mio dovere è indicare le scelte che si presenteranno. Ha capito?» «Ho capito. Va bene.» «Come può immaginare ogni sua ammissione aumenterà le probabilità che la signora Campo spunti la causa civile contro di lei. Per cui volersi liberare della causa penale è probabile che finisca con il costarle ben più del mio onorario.» Roulet scosse il capo. Rifiutava di prendere in considerazione l'ipotesi di un qualsiasi patteggiamento per ottenere una sentenza più lieve.
«Ho capito» disse. «Il suo dovere l'ha fatto. Ma non voglio dare un soldo a quella donna per qualcosa che non ho commesso. Se arriviamo al processo, possiamo vincere?» Sostenni il suo sguardo e gli risposi. «Io non so cosa possa succedere di qui ad allora e non posso garantire nulla... ma posso dire che sì, se devo basarmi sugli elementi che abbiamo oggi, siamo in grado di vincere la causa. Ho fiducia che possa andare bene.» Adesso un'espressione di speranza gli animava lo sguardo. Aveva intravisto una luce in fondo al tunnel. «C'è una terza possibilità» disse Dobbs. Guardai prima Roulet e poi Dobbs, chiedendomi che freccia avesse al suo arco. «E cioè?» domandai. «Indaghiamo a fondo su chi è quella donna e su tutta questa storia. Possiamo offrire aiuto al signor Levin e affiancargli qualcuno dei nostri. Costruiamo una nostra teoria attendibile su quello che è successo domenica, procuriamoci delle prove e sottoponiamole al procuratore distrettuale. Dobbiamo arrivare prima che venga istruito il processo. Dimostriamo a quel pm inesperto che non può vincere la causa e convinciamolo a lasciar cadere tutte le imputazioni per evitare conseguenze dannose per la sua carriera. Sono certo che l'uomo che dirige lo studio per cui lavora il nostro pm sia sensibile a quelle che possiamo definire pressioni politiche. Seguiamo questa strada e le cose andranno come vogliamo noi.» Dobbs mi stava prendendo a calci. Non solo il suo piano avrebbe dimezzato l'onorario più alto della mia carriera, non solo il grosso del denaro del mio cliente sarebbe andato agli investigatori, lui compreso, ma quella proposta poteva arrivare solo da un avvocato che non aveva mai difeso nessuno in vita sua. «Può essere un'idea, ma è rischiosa» dissi senza perdere la calma. «Se prima del processo si riescono a smontare le imputazioni e si mostra all'accusa come si è riusciti a farlo, si fornisce loro una traccia di quello che bisogna fare o evitare durante il processo. Questa ipotesi non mi convince.» Roulet fece segno di essere d'accordo e Dobbs lasciò capire di volerci ripensare. Decisi di lasciare la questione in sospeso e di approfondirla in un'altra occasione in assenza del nostro cliente. «Come ci regoliamo con la stampa?» chiese Levin, trovando il modo di cambiare argomento.
«Giusto» disse Dobbs, altrettanto desideroso di cambiare discorso. «La mia segretaria mi ha riferito che due quotidiani e due emittenti televisive mi hanno cercato.» «È probabile che ci abbiano provato anche con me» dissi. Mi guardai bene dal dire che era stata Lorna Taylor, su mio suggerimento, a lasciare i messaggi per Dobbs. Il caso non era ancora arrivato all'attenzione dei media, fatta eccezione per il reporter freelance presente alla prima comparizione. Ma volevo che Dobbs, Roulet e sua madre credessero che da un momento all'altro avrebbero potuto finire su tutti i giornali. «Non vogliamo che questa storia diventi di pubblico dominio» disse Dobbs. «Sarebbe la peggior forma di pubblicità.» Un maestro di ovvietà. «Tutti i contatti con i media devono passare attraverso di me» dissi. «Mi occuperò io di loro e il miglior modo per farlo è ignorarli.» «Dobbiamo dire qualcosa in sua difesa» disse Dobbs. «No, dobbiamo tenere la bocca chiusa. Se si parla del caso lo si rende ufficiale. Se si entra nel giro delle dichiarazioni ai media, si accende l'interesse sul caso. Le notizie sono ossigeno. In mancanza di notizie l'interesse svanisce. Per quanto mi riguarda, lasciamo che si spenga. O per lo meno aspettiamo a intervenire finché non si può evitare di farlo. Se dovesse succedere, solo una persona deve parlare a nome di Louis. Quella persona sono io.» Dobbs assentì, anche se con riluttanza. Puntai un dito verso Roulet. «Non dovrà parlare con un giornalista in nessuna occasione, neppure per smentire le accuse. Se la contattano direttamente, li giri a me. Capito?» «Okay.» «Bene.» Decisi che per essere il primo incontro ci eravamo detti abbastanza. Mi alzai. «Louis, la accompagno a casa.» Dobbs non aveva nessuna intenzione di mollare la presa sul suo cliente. «La madre di Louis mi ha invitato a cena» disse. «Posso accompagnarlo io.» Feci cenno di essere d'accordo. A un difensore penale non è dato essere invitato a cena. «Bene» dissi. «Ci vediamo là. Voglio che Raul veda casa sua e Louis deve darmi l'assegno di cui abbiamo parlato.» Se pensavano che avessi dimenticato il denaro, avevano ancora parec-
chio da imparare su di me. Dobbs e Roulet si scambiarono un cenno d'assenso che Dobbs girò a me. «Nessun problema» disse. «Ci vediamo là.» Un quarto d'ora dopo ero in macchina con Levin, entrambi seduti sui sedili posteriori della Lincoln. Seguivamo una Mercedes color argento sulla quale viaggiavano Dobbs e Roulet. Chiamai Lorna per verificare le telefonate arrivate in ufficio. L'unico messaggio di rilievo era quello di Leslie Faire, il pm di Gloria Dayton. Confermava la fattibilità del nostro accordo. «Allora» disse Levin al termine della telefonata. «Cosa ne pensi veramente?» «Penso che con questo caso si possa guadagnare un mucchio di soldi e che siamo sul punto di incassare la prima rata. Mi spiace averti coinvolto in questa gita. Non volevo sembrare interessato solo dell'assegno.» Levin scosse il capo e non disse nulla. Dopo un po' continuai. «Non ho ancora un'idea precisa» dissi. «Qualsiasi cosa sia successa in quell'appartamento, è stato tutto molto veloce. E questo può essere un elemento valido da utilizzare nella difesa. Nessuna reale violenza sessuale, nessuna traccia di Dna. Il che ci dà un filo di speranza.» «Questa storia mi ricorda quella di Jesus Menendez, solo che qui manca il Dna. Te la ricordi?» «Sì, anche se non vorrei.» Mi sforzavo di non pensare ai miei clienti in carcere senza speranza di appello o di qualsiasi forma di riduzione della pena, che avevano da scontare ancora tanti anni. Cerco di fare il possibile per loro, ma per certi casi a volte non c'è nulla che io possa fare. Jesus Menendez era uno di questi casi. «Cos'hai in programma per Roulet?» gli chiesi, riportando il discorso all'attualità. «Alcuni indizi li ho, ora devo seguire le varie piste.» «Dovrai dedicarci nottate intere. Vorrei che frequentassi i locali coinvolti. Voglio sapere tutto di lui e di lei. Al punto in cui siamo il caso sembra semplice. Se riusciamo a smontare la ricostruzione della vittima la causa è nostra.» Levin annuì con il capo. Teneva appoggiata sulle ginocchia la valigetta portadocumenti. «Hai con te la macchina fotografica?» «Come sempre.» «Fai qualche foto a Roulet quando arriviamo. Non voglio che tu faccia
vedere in giro l'istantanea della polizia. Non gli faremmo un buon servizio. Riesci a procurarti una foto della donna con il viso non tumefatto?» «Ho quella della patente. È recente.» «Bene. Falle girare. Se troviamo un testimone che ieri sera ha visto la donna avvicinarsi a Roulet al banco del Morgan, siamo a cavallo.» «Era da lì che volevo cominciare. Dammi una settimana. Prima dell'udienza preliminare avrò finito.» Restammo in silenzio per alcuni minuti, entrambi concentrati sul caso. Stavamo attraversando Beverly Hills, dove i veri ricchi si nascondevano e la vera ricchezza ci stava aspettando. «E sai cosa ti dico?» dissi. «Che anche se mettiamo da parte i soldi e tutto il resto, penso che forse Roulet non stia mentendo. Il suo racconto è talmente assurdo che può essere vero.» Levin emise un leggero fischio. «Credi di aver trovato il vero innocente?» chiese. «Sarebbe il primo» dissi. «Se lo avessi saputo stamattina gli avrei addebitato la penalità innocenti. Il cliente innocente paga di più perché è più complicato difenderlo.» «Non hai torto.» Riflettei sul fatto di avere a che fare con un innocente e su tutti i pericoli che potevano derivarne. «Sai cosa diceva mio padre dei clienti innocenti?» «Tuo padre non è morto quando avevi sei anni?» «Per la precisione cinque. Non mi hanno neanche fatto andare al funerale.» «E quando avevi cinque anni ti parlava dei clienti innocenti?» «No, l'ho letto su un suo libro molto tempo dopo che è morto. Sosteneva che la difesa di un cliente innocente è la situazione più pericolosa per un avvocato. Se l'avvocato commette un errore e il cliente finisce in prigione, l'esperienza lo segna per tutta la vita.» «Ha detto esattamente così?» «Il significato era questo. Ha scritto che con un cliente innocente non si poteva fare assolutamente niente. Nessuna negoziazione, nessun patteggiamento, nessun compromesso. C'è un unico verdetto. Sul tabellone segnapunti si può segnare esclusivamente "non colpevole". "Non colpevole" è l'unico verdetto accettabile.» Levin assentì con l'aria pensierosa. «Il fatto è che il mio vecchio era un avvocato straordinario e non amava
i clienti innocenti» dissi. «Comincio a pensare che non piacciano neanche a me.» 10 Giovedì 17 marzo La prima inserzione della mia vita sulle pagine gialle diceva: «Per qualsiasi causa, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo». Dopo qualche anno la cambiai. Non era stato l'Ordine a criticarla, ero stato io. Dovevo essere più preciso. La contea di Los Angeles si estende come una coperta increspata su una superficie di circa diecimila chilometri quadrati che va dal deserto all'Oceano Pacifico. Ci sono oltre dieci milioni di abitanti in lotta per lo spazio vitale e per una parte significativa di loro l'attività criminosa è una scelta di vita. Le statistiche criminologiche più recenti indicano in quasi centomila i reati con ricorso alla violenza commessi annualmente all'interno della contea. Nel corso dell'ultimo anno sono stati effettuati centoquarantamila arresti per reati violenti e altri cinquantamila per reati legati alla droga e agli abusi sessuali. Se si aggiungono i casi di guida in stato di ebbrezza ogni anno con i potenziali clienti di un avvocato difensore si potrebbe riempire almeno un paio di volte lo stadio Rose Bowl. Gli spettatori dei posti più popolari sono da evitare, meglio avere a che fare con quelli che si siedono all'altezza della linea delle 50 yard. Quelli con le tasche piene di soldi. Come hamburger pronti da servire in tavola su un piatto di portata, i criminali arrestati vengono introdotti in un sistema giudiziario che conta più di quaranta palazzi di giustizia disseminati in tutta la contea. Queste fortezze di pietra rappresentano le riserve di caccia in cui i leoni del foro vanno a procurarsi il cibo. Il cacciatore scaltro impara subito quali sono le zone più redditizie, quelle in cui pascolano i clienti con migliore disponibilità finanziaria. L'attività venatoria richiede grande capacità di giudizio. La clientela base di ogni palazzo di giustizia non necessariamente riflette la struttura socioeconomica della zona circostante. Le corti che mi hanno garantito in via continuativa un indotto di clienti benestanti sono quelle di Compton, di Downey e dei quartieri orientali di Los Angeles. Di solito si tratta di spacciatori di droga, ma le banconote con cui mi pagano non sono diverse da quelle di chi traffica in Borsa a Beverly Hills. La mattina del 17 mi trovavo nel palazzo di giustizia di Compton in rap-
presentanza di Darius McGinley, in attesa di giudizio. McGinley, come quasi tutti i miei clienti, non faceva eccezione alla regola secondo cui i criminali recidivi sono i clienti più affezionati. Era stato arrestato e accusato di spaccio di cocaina per la sesta volta da quando lo avevo conosciuto. Questa volta era successo a Nickerson Gardens, complesso residenziale meglio noto a tutti i suoi abitanti come Nixon Gardens. Nessuno di quelli che avevo interrogato era in grado di dire se Nixon Gardens fosse un abbreviazione del vero nome del quartiere o un appellativo dato in onore del presidente in carica all'epoca in cui erano stati costruiti il grande complesso edilizio e il relativo mercato della droga. McGinley fu arrestato per aver venduto un palloncino contenente una dozzina di dosi di coca direttamente a un poliziotto della Narcotici. McGinley era in libertà condizionata su cauzione dopo l'arresto di due mesi prima per l'identico reato. In precedenza aveva avuto altre quattro imputazioni per traffico di droga. Le cose non giravano per il verso giusto per lui, giovanotto di ventitré anni. Il sistema giudiziario sembrava aver esaurito la pazienza dopo che lui ne aveva abusato più volte. Si era arrivati alla resa dei conti. Questa volta l'accusa era decisa a ottenere una condanna detentiva dopo che le sentenze precedenti si erano limitate alla libertà vigilata o agli arresti domiciliari. Ogni negoziazione basata sull'ammissione di colpa poteva essere presa in considerazione solo partendo dal presupposto che il ragazzo doveva in ogni caso scontare una pena detentiva. In caso contrario, nessun patteggiamento. Il pm era soddisfatto di aver portato a processo le due cause ancora in sospeso con la richiesta di un verdetto di colpevolezza e una condanna a un certo numero di anni di carcere. La scelta sarebbe stata dura, ma semplice. Lo stato aveva in mano tutte le carte vincenti. Lo avevano preso in flagranza di reato. Per dirla tutta, il processo era un esercizio affatto inutile. McGinley lo sapeva. L'arresto mentre stava vendendo cocaina per trecento dollari a un agente di polizia gli sarebbe costato almeno tre anni di galera. La prigione era una tappa inevitabile della vita, per lui come per tanti altri ragazzi dei quartieri meridionali della città. McGinley era cresciuto sapendo che prima o poi ci sarebbe finito. C'era solo da domandarsi quando e per quanto tempo e se sarebbe vissuto abbastanza per andarci. Le numerose volte che ero andato a trovarlo nel carcere destinato alla custodia cautelare avevo appreso la sua personale filosofia di vita che prendeva spunto da vita morte e miracoli musicali di Tupac Shakur, il poeta-criminale che aveva cantato le speranze e la disperazione delle strade desolate che per
McGinley rappresentavano la casa. Tupac aveva profetizzato la propria morte violenta e le strade dei sobborghi meridionali della città pullulavano di ragazzi che mettevano in conto per se stessi una fine analoga. McGinley era uno di essi. Quando ci vedevamo si metteva a declamare per me lunghi brani tratti dalle canzoni di Tupac e mi catechizzava sul significato della lingua musicale del ghetto. Il suo insegnamento mi fu molto utile perché McGinley era solo uno dei miei tanti clienti che credevano in un destino comune nella «Casa del criminale», un posto tra terra e cielo dove tutti i pregiudicati sarebbero finiti. Per McGinley la prigione non era che un rito di passaggio in direzione di quella meta e lui si sentiva pronto al viaggio. «Finirò là, diventerò più forte e più capace, poi tornerò» mi diceva. Mi incaricò di andare avanti a trattare. Mi spedì un vaglia postale di cinquemila dollari, di cui non volli sapere la provenienza, mi ripresentai dal pm, ottenni che le due cause pendenti fossero inglobate in una sola e McGinley accettò una dichiarazione di colpevolezza. L'unica condizione che mi chiese di ottenere fu di essere assegnato a un carcere non troppo lontano in modo che la madre e i suoi tre figli non dovessero fare spostamenti troppo lunghi per andarlo a trovare. La corte venne chiamata in sessione e sulla porta del suo ufficio comparve il giudice Daniel Flynn con indosso una toga color verde smeraldo che scatenò l'ilarità generale fra legali e funzionari presenti in aula. Era noto che indossava quella toga due volte l'anno in occasioni speciali, il giorno di San Patrizio e il venerdì precedente il match di football dei Notre Dame Fighting Irish contro i Southern Cal Trojans. Gli avvocati che lavoravano nella corte di Compton lo avevano soprannominato Danny Boy e ne parlavano come di «uno stronzo irlandese fatto e finito». L'impiegato annunciò l'inizio dell'udienza e io mi alzai per presentarmi. McGinley, in tuta arancione e ammanettato, fu fatto entrare da un ingresso laterale e si sistemò in piedi al mio fianco. Nella zona destinata al pubblico non c'era nessuno per lui. Aveva soltanto me. «Buona giornata a lei, signor McGinley» disse Flynn con la sua cadenza irlandese. «È consapevole di che giorno sia oggi?» Abbassai lo sguardo a terra. McGinley rispose incerto. «Il giorno della mia sentenza.» «Anche. Ma io mi riferivo al giorno di San Patrizio, signor McGinley. Un giorno di festa per il popolo irlandese.» McGinley si girò verso di me e mi diede un'occhiata. Conosceva soltanto
la vita di strada, lui. Non capiva se quello che stava succedendo facesse parte della procedura o se quello che aveva davanti fosse solo un bianco che voleva prenderlo in giro. Avrei voluto avvisarlo che quel giudice era del tutto insensibile e probabilmente razzista, invece mi piegai verso di lui e ali sussurrai all'orecchio: «Tranquillo. È soltanto uno stronzo». «Signor McGinley, lei conosce l'origine del suo cognome?» domandò il giudice. «No, signore.» «Le importa conoscerlo?» «No, signore. Credo che derivi da una famiglia di trafficanti di schiavi. Perché dovrebbe importarmi di quei bastardi?» «Mi scusi, vostro onore» mi affrettai a dire. Mi sporsi di nuovo verso McGinley. «Darius, mantieni la calma» gli sussurrai. «E modera il linguaggio.» «Mi sta prendendo in giro» mi rispose, con un tono di voce più forte. «La sentenza non è ancora stata emessa. Vuoi che il patteggiamento vada in fumo?» McGinley si spostò e disse guardando il giudice: «Mi scuso del mio linguaggio, vostro onore. Sono soltanto un ragazzo di strada». «Me ne rendo conto» disse Flynn. «È un peccato che le sue origini la mettano così a disagio. Ma se non importa a lei di sapere qualcosa del nome che porta, a me importa ancor meno. Andiamo avanti con il processo e vediamo di sbatterla in prigione, d'accordo?» Pronunciò quest'ultima frase con il sorriso sulle labbra, come se si stesse divertendo un mondo nel mandare McGinley a Disneyland, il posto più ameno sulla terra. Da quel momento la procedura proseguì veloce. Il verbale delle indagini preliminari non conteneva nulla che tutti non conoscessero già. Dall'età di undici anni Darius McGinley aveva svolto un'unica professione, il trafficante di droga. L'unica vera famiglia che aveva avuto era stata la sua banda. Guidava una BMW anche se non aveva mai preso la patente. Aveva tre figli anche se non si era mai sposato. La sua storia era identica a tutte le altre che quotidianamente affioravano nei tribunali di tutta la contea. McGinley viveva in un contesto estraneo alle consuetudini del suo paese e si confrontava con le regole solo quando si trovava davanti a una corte di giustizia. Lui rappresentava solo foraggio per il sistema. Il sistema doveva nutrirsi e McGinley veniva servito su un piatto d'argento. Flynn emise la sentenza concordata di tre-cinque anni di carcere ed elencò tutte le clausole di
rito che derivano da un accordo per ammissione di colpa. Il giudice lesse tutta la tiritera con la solita accentuata cadenza irlandese per fare lo spiritoso, ma riuscì a divertire solo il suo staff. A quel punto il processo si concluse. Anche se ero consapevole che McGinley con i suoi traffici di cocaina aveva seminato dolore e morte e probabilmente aveva commesso atti di violenza e altri reati mai confessati per cui non sarebbe mai stato condannato, soffrivo per lui. Era un ragazzo che non aveva avuto altre opportunità nella vita se non quella di diventare un delinquente. Non aveva conosciuto suo padre e aveva abbandonato la scuola dopo le elementari per imparare il mestiere di trafficante di droga. Era capace di contare senza sbagliare il denaro raccolto in un covo di spacciatori, ma non aveva mai avuto un conto corrente in banca. Non era mai stato su una spiaggia della contea e non era mai uscito dalla città di Los Angeles. Il suo primo viaggio lo avrebbe fatto su un autobus con le sbarre ai finestrini. Prima che fosse rinchiuso nella cella di transito in attesa di essere trasferito in carcere, gli strinsi la mano, che muoveva a fatica a causa delle catene, e gli augurai buona fortuna. Non mi capita spesso di farlo con i miei clienti. «Niente lacrime» mi disse. «Tornerò.» Non ne dubitavo. Darius McGinley era un cliente che garantiva un reddito continuativo non inferiore a quello di Louis Roulet. Se Roulet era un cliente da un colpo e via, la mia intuizione mi diceva che McGinley sarebbe diventato un cliente di quelli che definisco «di rendita» e che mi avrebbe garantito un'entrata costante per tutta la vita. Sistemai il fascicolo McGinley nella valigetta e uscii dal cancello mentre si cominciava a dibattere il caso successivo. Nell'atrio affollato del tribunale trovai Levin ad aspettarmi. Avevamo deciso di vederci per esaminare il materiale che aveva recuperato sul caso Roulet. Gli avevo chiesto di raggiungermi a Compton perché avevo diversi impegni in agenda. «Buona giornata a lei, signor Haller» disse Levin calcando l'accento irlandese. «Allora c'eri anche tu?» «Ho messo dentro la testa un attimo. Non è che il giudice era un po' razzista?» «Riesce a farla franca perché da quando hanno unificato le corti in un unico distretto che comprende tutta la contea, il suo nome può essere sorteggiato ovunque. Anche se gli abitanti di Compton gli si sollevassero con-
tro, se lo ritroverebbero quelli del Westside. Una bella fregatura.» «Come ha fatto a diventare giudice?» «Lo diventeresti anche tu se fossi laureato in giurisprudenza ed elargissi congrui contributi alle persone che contano. Lui è stato nominato dal governatore. La parte più difficile è rimanere in carica alle prime elezioni. E lui c'è riuscito. Non hai mai sentito raccontare della carriera di Flynn?» «No.» «Sono sicuro che la troverai istruttiva. Circa sei anni fa Flynn ottiene la nomina dal governatore. Questo è successo prima che unificassero le corti. Fino ad allora i giudici venivano eletti dagli aventi diritto al voto del distretto da loro presieduto. Il giudice supervisore per la contea di Los Angeles verifica le sue credenziali e si rende subito conto che non ha talento né esperienza, ma una fitta rete di relazioni politiche. Di fatto Flynn è un avvocato amministrativo. Se tu lo avessi pagato e poi lasciato solo a difendere una causa, è probabile che non avrebbe trovato il tribunale. E così il giudice che presiede si libera di lui e lo scarica qui al tribunale penale di Compton perché la regola dice che ci si può candidare alla votazione di riconferma l'anno successivo a quello della prima nomina. Pensava che Flynn fosse spacciato, che la gente si ribellasse e lui venisse rimosso dall'incarico. Un anno e mai più.» «Eliminato il problema.» «Esatto. Solo che non è andata così. Nella prima ora del primo giorno utile per registrare la propria candidatura, Fredrica Brown entra nell'ufficio del segretario e presenta domanda per candidarsi contro Flynn. Tu conosci Fredrica Brown?» «Non personalmente, ho sentito parlare di lei.» «Chiunque ne ha sentito parlare da queste parti. Oltre a essere un buon avvocato, Freddie è nera, è una donna ed è molto stimata. Avrebbe annientato Flynn, cinque a uno come minimo.» «E allora come ha fatto Flynn a salvare la poltrona?» «Ci arrivo. Vista la candidatura di Freddie, nessun altro si candida. La sua è una vittoria scontata, l'unico dubbio è perché decide di diventare giudice e di vedersi ridotti drasticamente gli emolumenti.» «E allora cosa è successo?» «Un paio di mesi dopo, quando manca un'ora alla chiusura delle liste, Freddie torna nell'ufficio della segreteria e ritira la sua candidatura.» Levin mi seguiva con attenzione. «Flynn finisce per ritrovarsi senza concorrenti e ottiene l'incarico» disse.
«Esatto. Dopo di che fanno l'unificazione e a questo punto non riusciranno più a liberarsene.» Levin era indignato. «Roba da matti. Evidentemente si erano messi d'accordo, violando le regole della legge elettorale.» «Non c'erano prove. Freddie ha negato di aver ricevuto denaro da chiunque e di aver preso parte a qualsiasi piano architettato da Flynn per rimanere al suo posto. Ha detto semplicemente di aver cambiato idea perché si era resa conto che con lo stipendio da giudice non avrebbe potuto mantenere il suo tenore di vita. Vuoi saperne una? Freddie viene trattata con un riguardo speciale quando si trova a discutere una causa presieduta da Flynn.» «E la chiamano giustizia.» «Infatti.» «Cosa ne pensi di Blake?» Argomento inevitabile. Ne parlavano tutti. Robert Blake, attore televisivo e cinematografico, il giorno prima, davanti alla corte suprema di Van Nuys, era stato prosciolto dall'accusa di aver ucciso la moglie. La procura distrettuale e il Dipartimento di Polizia di Los Angeles erano usciti sconfitti da un altro caso di grande rilievo per i media e ovunque l'argomento di conversazione era questo. I media e la gente che viveva e lavorava fuori dell'ambiente non avevano capito come era andata. L'argomento in discussione non era se Blake fosse o meno colpevole, ma se al processo erano state presentate prove sufficienti per dichiararlo colpevole. Andavano fatte due considerazioni distinte, ma nel dibattito pubblico che aveva seguito il verdetto i due argomenti si erano confusi. «Cosa ne penso?» dissi. «Penso che la giuria sia stata ammirevole per essersi attenuta alle prove. Se non c'erano, non c'erano. Non sopporto quando il pm pensa di poter arrivare a un verdetto basandosi sul senso comune. "Se non è stato lui, allora chi è stato?" Insopportabile. Tira fuori uno straccio di prova se vuoi condannare un uomo e sbatterlo in galera per tutta la vita. Non sperare che una giuria si presti a pararti il culo.» «Parli come un vero avvocato difensore.» «Ehi, amico, tu ti guadagni da vivere grazie agli avvocati difensori. Per cui dimentica Blake. Sono invidioso e sono stufo di sentir parlare di questa storia. Al telefono mi hai detto di avere delle buone notizie per me.» «Confermo. Dove vuoi che andiamo a parlare?» Guardai l'ora. Avevo in programma un'udienza in città, in corte penale. Dovevo arrivare entro le undici e non potevo mancare perché lo avevo già
fatto il giorno prima. Dopo di che dovevo andare a Van Nuys a conoscere Ted Minton, il pm che aveva preso in carico la causa contro Roulet dopo la rinuncia di Maggie McPherson. «Non ho tempo per andare da nessuna parte» dissi. «Possiamo sederci in macchina e prenderci un caffè. Hai tutto con te?» Levin sollevò la valigetta e la colpì con le nocche delle dita. «Che ne facciamo del tuo autista?» «Non preoccuparti di lui.» «Andiamo allora.» 11 Salimmo sulla Lincoln e chiesi a Earl di fare un giro alla ricerca di uno Starbuck. Avevo bisogno di un caffè. «Non ci sono Starbuck nei paraggi» rispose Earl. Sapevo che era pratico della zona, ma ero più certo che non esistesse posto nella contea, e forse in tutto il resto del mondo, più lontano di un paio di chilometri da uno Starbuck. Ma non avevo voglia di discutere. Volevo solo un caffè. «Okay, allora, be' fai un giro e trova un posto dove facciano del caffè. Cerca solo di non allontanarti troppo dal tribunale. Quando abbiamo finito dobbiamo riaccompagnare Raul.» «D'accordo.» «Ancora una cosa Earl, metti le cuffie che dobbiamo discutere di una causa, d'accordo?» Earl accese l'iPod e infilò gli auricolari. Si diresse verso Acacia in cerca del caffè. Appena udimmo provenire dal sedile davanti il suono metallico dell'hip-hop, Levin aprì la valigetta sul tavolino pieghevole sul retro del sedile del guidatore. «Allora, cosa mi hai portato?» dissi. «Più tardi ho l'incontro con il pm e voglio avere in mano il maggior numero possibile di carte da giocarmi. E lunedì ci sarà l'udienza preliminare.» «Credo di averti preparato delle buone carte da giocare» rispose Levin. Selezionò i documenti che aveva in borsa e cominciò a presentarmeli. «Cominciamo con il tuo cliente prima di arrivare a Reggie Campo. A quanto pare il tuo uomo è immacolato. Non sono riuscito a trovare nulla su di lui, a parte qualche contravvenzione per sosta vietata e per eccesso di velocità. Sembra che non sia in grado di evitare queste infrazioni, che poi
regolarmente cerca di non pagare. Il tipico cittadino medio, in questo caso.» «Non paga le multe?» «Negli ultimi quattro anni ha lasciato due volte che si accumulassero senza pagarle. Un paio per eccesso di velocità e parecchie per sosta vietata. In entrambi i casi si è arrivati al sequestro amministrativo ed è intervenuto a pagare il tuo collega C.C. Dobbs.» «Felice di sapere che C.C. serva a qualcosa. Immagino che abbia pagato le multe, non i giudici.» «Auguriamocelo. Oltre a questi episodi, c'è solo un'altra piccola osservazione da fare sul suo comportamento.» «Cioè?» «Quando ci siamo incontrati la prima volta, dopo che gli hai sciorinato la tiritera di quello che doveva aspettarsi eccetera eccetera, è venuto fuori che aveva frequentato un anno di legge all'UCLA e che quindi era a conoscenza dei meccanismi della giustizia. Ho fatto dei controlli. Ho cercato di scoprire chi, tra i presenti a quella riunione, stesse mentendo e chi tra loro potesse definirsi il bugiardo più incallito. Per questo ho verificato ogni particolare. Non è difficile, è tutto registrato nei computer.» «Capisco. Dunque la storia della facoltà di legge era falsa?» «Si direbbe di sì. Ho controllato i registri e Roulet non risulta essere mai stato iscritto alla facoltà di legge dell'Università della California di Los Angeles.» Non mi stupiva. Era stato Dobbs a tirar fuori quella storia e Roulet si era limitato ad assentire con il capo. Una strana bugia che non portava a niente. Cercai di individuare i risvolti psicologici che potessero motivare quella falsità. Era qualcosa che aveva a che fare con me? Volevano farmi credere che Roulet fosse al mio livello? «Quindi se ha mentito su una cosa del genere...» pensai ad alta voce. «Esatto» disse Levin. «Volevo che lo sapessi. Ma questo è l'unico neo nel passato del signor Roulet. Può aver mentito a proposito dei suoi studi, ma sembra che non lo abbia fatto a proposito della storia che ci ha raccontato, per lo meno per quanto ho potuto verificare finora.» «Vai avanti.» «Ho controllato i suoi spostamenti. Ho testimoni che lo hanno visto prima da Nat, poi da Morgan e infine da Lamplighter, uno, due e tre. Ha fatto esattamente quello che ha raccontato. Non ha mentito neppure sul numero di martini. Quattro in tutto e almeno uno di questi lo ha lasciato sul banco
senza finire di berlo.» «Ricordano tutti i particolari così bene? Anche che non ha finito di bere?» Sono sempre sospettoso nei confronti di chi dimostra di avere una memoria troppo precisa, semplicemente perché non la credo possibile. La capacità di individuare le falle nella memoria dei testimoni fa parte del mio mestiere. Tutte le volte che mi capita qualcuno che ha ricordi troppo precisi, mi insospettisco, specie se è un testimone della difesa. «No, non sto facendo affidamento sulla memoria di un barman. Ho qualcosa con me che ti piacerà, Mick. E sarà meglio che ti piaccia visto che mi è costato mille dollari.» Levin estrasse dal fondo della valigetta un contenitore imbottito dentro il quale si trovava un piccolo lettore di dvd. Avevo già visto aggeggi simili in aereo e avevo pensato di procurarmene uno da tenere in auto. Poteva usarlo l'autista mentre mi aspettava quando ero in tribunale. E io avrei potuto usarlo ogni tanto in casi come questo. Levin inserì un dvd nel lettore, ma mentre stava per avviarlo, l'automobile si fermò e io alzai lo sguardo. Eravamo di fronte a un locale chiamato The Central Bean. «Andiamo a prendere un caffè e poi guardiamo cosa contiene il dvd» proposi. Chiesi a Earl se volesse qualcosa, ma lui declinò l'offerta. Io e Levin scendemmo dalla macchina ed entrammo nel locale. C'era da fare un po' di coda e mentre aspettavamo Levin mi anticipò il contenuto del dvd. «Sono da Morgan e voglio interrogare la barista che si chiama Janice, ma lei mi dice che prima devo rivolgermi al suo capo. Per cui vado nel suo ufficio e lui mi chiede che genere di domande voglio fare a Janice. C'è qualcosa che non mi quadra in lui. Mi domando perché voglia sapere tutto nei particolari, capisci? Tutto diventa chiaro nel momento in cui mi fa una proposta. Mi dice che l'anno prima avevano avuto dei problemi nel bar. Mancanze dal registratore di cassa. Erano girati per turno una dozzina di baristi quella settimana e lui non sapeva chi potesse essere il colpevole.» «Ha installato una telecamera.» «Esatto. Una telecamera nascosta. Ha scovato il ladro e lo ha cacciato. Siccome si era dimostrata utile, ha deciso di lasciare la telecamera installata. Il sistema di registrazione su nastri ad alta densità è in funzione tutte le sere dalle otto fino alle due. Il congegno è collegato a un timer. Su un nastro ci stanno le registrazioni di quattro serate. Nel caso si creino problemi
di funzionamento o si esaurisca il disco interviene lui a ripristinare la registrazione. Il controllo di cassa avviene settimanalmente, per cui vengono messi a rotazione due nastri in modo che lui ne abbia sempre uno da vedere.» «Quindi esiste una registrazione di quella notte?» «Sì.» «E quell'uomo voleva mille dollari per dartela.» «Non sbagli un colpo.» «La polizia ne sa qualcosa?» «Non si sono ancora presentati al bar. Si sono occupati solo della vicenda di Reggie.» Non mi sorprendeva. Gli agenti devono occuparsi di troppi casi per poter investigare nei dettagli. E in ogni caso avevano tutti gli elementi necessari. Un testimone oculare, la vittima, un presunto colpevole fermato in casa della vittima, il sangue della vittima sul presunto colpevole e l'arma del delitto. Non c'era motivo di indagare oltre. «A noi interessa quello che è successo al banco del bar, non al registratore di cassa» dissi. «Chiaro. La cassa è contro la parete dietro al banco. La telecamera è sistemata lì sopra, sul soffitto, all'interno di un rilevatore antincendio. La parete retrostante è a specchio. Ho guardato il nastro e ho subito capito che dallo specchio si può vedere tutto l'interno del locale. Bisogna solo tenere presente che la visione è capovolta. Ho trasferito il nastro su disco per poter lavorare meglio sulle riprese. Tipo fare degli ingrandimenti, centrare l'attenzione su un punto.» Arrivò il nostro turno. Ordinai un caffè in tazza grande con crema e zucchero e Levin una bottiglia d'acqua. Portammo le nostre bevande in macchina. Dissi a Earl di non partire finché non avessimo finito di vedere il dvd. Sono abituato a leggere mentre la macchina è in movimento, ma ho pensato che fissare il piccolo schermo del lettore di Levin poteva farmi venire la nausea, considerati gli scrolloni che si prendono lungo le strade sconnesse della contea. Levin avviò il dvd e cominciò a farmi un commento di massima delle immagini. Sul piccolo schermo cominciarono a scorrere le riprese dall'alto della sala rettangolare del Morgan. Si vedevano le due bariste al bancone, due ragazze fasciate in jeans scuri e camicette bianche molto attillate che mettevano in evidenza le loro curve perfette, i piercing sull'ombelico e i tatuaggi
che spuntavano sulla schiena all'altezza della cintura. Come aveva spiegato Levin, la telecamera era direzionata verso il retro del bancone e sul registratore di cassa, ma lo specchio che ricopriva la parete dietro la cassa rifletteva la fila dei clienti seduti al banco del bar. Vidi Louis Roulet seduto da solo al centro dell'inquadratura. Nell'angolo in basso a sinistra il conta frame e in quello a destra la data e l'ora. Erano le 20.11 del 6 marzo. «Qui si vede Louis» disse Levin. «E qui c'è Reggie Campo.» Lavorò sui tasti del lettore e si bloccò su un'immagine. Poi la fece scorrere e spostò il margine di destra verso il centro. Sul lato corto a destra del banco c'erano un uomo e una donna seduti vicino. Levin zoomò su di loro. «Sei sicuro?» chiesi. Di quella donna avevo visto solo immagini con la faccia massacrata. «Sì, è lei. E quello è Mister X.» «Bene.» «Adesso guarda con attenzione.» Levin fece ripartire la registrazione e ingrandì l'immagine fino a farle occupare tutto lo schermo. Quindi azionò l'avanti veloce. «Louis beve il suo martini, chiacchiera con le bariste e per circa un'ora non succede più niente» disse Levin. Cercò una pagina del taccuino dove aveva annotato i numeri di riferimento di alcuni fotogrammi. Rallentò la visione e al momento giusto la fece scorrere a velocità normale e spostò ancora il campo visivo in modo da portare Reggie Campo e Mister X al centro dello schermo. L'orologio segnava le 20.43. Sullo schermo si vide Mister X prendere dal banco un pacchetto di sigarette e un accendino e lasciarsi scivolare dallo sgabello. Poi andare verso destra e uscire dalla visuale della telecamera. «Sta andando verso l'uscita» disse Levin. «Fuori c'è un portico per fumatori.» Dopo di che sullo schermo si vide Reggie Campo guardare Mister X allontanarsi, quindi alzarsi a sua volta, camminare lungo la linea del banco dietro ai clienti seduti, e all'altezza di Roulet passargli sulle spalle le dita della mano sinistra, come per fargli una carezza. Roulet si gira e la guarda proseguire il cammino. «Si è fatta notare» disse Levin. «Mentre va in bagno.» «Non è andata così secondo il racconto di Roulet» commentai. «Ha detto che lei gli si è avvicinata e gli ha dato...» «Calma, non correre» disse Levin. «Deve ancora tornare dal bagno.»
Aspettai e guardai Roulet al banco. Controllai l'ora. Non era troppo tardi, ma non dovevo dimenticare l'impegno in corte penale. Non mi ero presentato il giorno prima e avevo già abusato della pazienza del giudice. «Eccola che torna» disse Levin. Mi avvicinai allo schermo per osservare Reggie Campo riavvicinarsi al banco. Questa volta si fece largo tra Roulet e un uomo seduto sullo sgabello alla sua destra. Doveva muoversi tenendo il corpo lateralmente ed era chiaro che stava premendo il seno contro il braccio destro di Roulet. Un invito esplicito. Lei disse qualcosa e Roulet le si avvicinò alle labbra per sentire meglio. Dopo un po' lo si vide assentire con la testa mentre lei gli metteva in mano quello che sembrava un tovagliolino spiegazzato. Ebbero ancora uno scambio di battute poi Reggie Campo gli diede un bacio sulla guancia e tornò al suo posto. «Sei un grande, Mix» dissi a Levin. Da quando aveva definito le sue origini un mix di ebreo e messicano a volte lo chiamavo così. «E la polizia non ha questa registrazione?» aggiunsi. «La settimana scorsa, quando l'ho avuta io, loro non ne sapevano nulla e finora è rimasta nelle mie mani. Per cui, no, non possono averla e probabilmente non ne conoscono neanche l'esistenza.» Secondo le regole sullo scambio delle prove tra le parti di un processo, avrei dovuto consegnare la registrazione all'accusa dopo che Roulet fosse stato formalmente chiamato in giudizio e gli fossero state contestate le accuse. Ma doveva succedere ancora qualcosa. Tecnicamente non avevo l'obbligo di consegnare niente fino al momento in cui fossi stato certo di volerlo usare come prova processuale. Il che mi garantiva tempo e flessibilità. Sapevo che il contenuto del dvd era importante e non c'erano dubbi che dovesse essere usato al processo. Da solo sarebbe bastato a sostenere un ragionevole dubbio. Dal filmato si intuiva una familiarità tra vittima e presunto aggressore che in precedenza non era emersa. Il fatto più significativo che affiorava dalla visione del video era che con il suo comportamento la vittima potesse essere ritenuta per lo meno in parte corresponsabile di quello che era successo in seguito. Il che non significava che quello che era successo in seguito potesse venire in qualche modo giustificato o non essere considerato un atto criminoso. Ma le giurie dimostrano sempre notevole interesse nelle relazioni che intercorrono tra i protagonisti coinvolti in un crimine e che potrebbero nasconderne il movente. L'episodio che veniva interpretato in bianco e nero, attraverso il filmato veniva filtrato in
una sfumatura di grigio. E la zona grigia era l'habitat naturale in cui svolgere la mia attività di avvocato difensore. In realtà quel dvd poteva rivelarsi fin troppo utile. Metteva in dubbio la veridicità della deposizione che la vittima aveva rilasciato alla polizia sul fatto di non conoscere il suo aggressore. Una falsa testimonianza è sufficiente per far crollare una causa. Il disco era quella che definivo «una prova parlante». Una prova che avrebbe potuto provocare l'archiviazione del caso prima di andare al processo. Il mio cliente poteva uscirne completamente indenne. E se così fosse stato addio lauti guadagni. Levin fece di nuovo scorrere le immagini velocemente. «Ora guarda qui» disse. «Reggie e Mister X si separano alle nove. Ma osserva a che ora lui si alza dallo sgabello.» Levin ingrandì l'immagine su Reggie Campo e lo sconosciuto. Rallentò quando l'orologio segnava le 20.59. «Si stanno preparando per andare» disse. «Guarda quello che lui tiene in mano.» Guardai. L'uomo, piegando la testa all'indietro, bevve l'ultimo sorso del suo drink e svuotò il bicchiere. Quindi scese dallo sgabello, aiutò la Campo a fare altrettanto ed entrambi uscirono dalla visuale della telecamera dirigendosi verso destra. «Che cosa?» dissi. «Cosa mi sono perso?» Levin tornò indietro al punto in cui lo sconosciuto finiva di bere. Bloccò l'immagine e indicò lo schermo. Mentre si piegava all'indietro, l'uomo per tenersi in equilibrio teneva la sinistra appoggiata al bancone. «Beve con la mano destra» disse. «E porta l'orologio al polso sinistro. Il che fa intendere che non sia mancino, giusto?» «Giusto, e allora? Che cosa significa? La vittima era stata colpita dalla parte sinistra.» «Pensa a quello che ti ho detto.» Dopo poco capii. «Lo specchio. È tutto invertito. Quell'uomo è mancino.» Levin fece segno di sì e con la mano sinistra accennò il gesto di un pugno. «La soluzione del caso è tutta qui dentro» dissi, senza essere certo che fosse un bene. «Buon San Patrizio, amico mio» disse Levin imitando di nuovo la parlata irlandese. Forse non si rendeva conto che la cuccagna dei grandi guada-
gni poteva essere già arrivata alla fine. Presi un lungo sorso di caffè e provai a immaginare la strategia da usare per il video. Non sapevo come utilizzarlo al processo. Se la polizia avesse proseguito le indagini sarebbero venuti a conoscenza della sua esistenza. Poteva essere controproducente aspettare a esibirlo. «Non so come utilizzarlo» dissi. «Ma credo che Roulet, sua madre e Cecil Dobbs saranno decisamente soddisfatti del tuo lavoro.» «Fagli sapere che possono sempre esprimere la loro riconoscenza attraverso adeguati compensi.» «Giusto. C'è dell'altro nel video?» Levin premette avanti veloce. «Niente di particolare. Roulet legge la scritta sul tovagliolino e memorizza l'indirizzo. Poi ciondola altri venti minuti e se ne va lasciando sul banco un drink non finito.» Arrivò all'immagine di Roulet che stava per andarsene e la lasciò scorrere al rallentatore. Roulet prendeva un sorso di martini e lasciava il resto sul banco. Poi raccoglieva il tovagliolino che gli aveva dato Reggie Campo, lo appallottolava e alzandosi lo lasciava cadere per terra. Quindi usciva dal bar senza più toccare il martini. Levin estrasse il dvd e lo infilò nella sua custodia di plastica. Poi spense l'apparecchio e lo ripose. «Fine delle trasmissioni.» Mi sporsi in avanti e diedi un colpetto sulla spalla di Earl. Aveva gli auricolari. Ne tolse uno e si girò verso di me. «Torniamo in tribunale» dissi. «Rimettiti gli auricolari.» Fece quello che gli avevo detto. «C'è altro?» dissi a Levin. «C'è Reggie Campo» disse. «Che non è Biancaneve.» «Cosa hai trovato?» «Nulla di particolare, ma la penso così. L'hai vista nel video. Un uomo si allontana e lei prova subito a sedurne un altro che vede solo al bar. Ho verificato cosa fa per vivere. Fa l'attrice, ma al momento non ha ingaggi. Fatta eccezione per certe audizioni private, e puoi immaginare che genere di audizioni.» Levin mi allungò una piccola raccolta di foto professionali che mostravano Reggie Campo in diverse pose e agghindata in vari modi. Il genere di foto che si mandano a tutte le produzioni. La più grande era un primissimo piano. Era la prima volta che la vedevo da vicino senza ferite e lividi.
Reggie Campo era una bella donna e c'era qualcosa nel suo viso che mi era familiare, anche se non sapevo dire che cosa. Forse avevo visto quel viso alla tv o in qualche pubblicità. Girai la foto sul retro per vedere i suoi crediti. Trasmissioni che non avevo mai visto e pubblicità che non ricordavo. «Dal verbale di polizia risulta aver dichiarato di essere impiegata nel telemarketing per Topsail. Il lavoro consiste nel fare telefonate di proposta di tutta la spazzatura che si vende nelle trasmissioni tv della notte. Attrezzi da palestra per la casa e roba del genere. È un lavoro a giornata senza obbligo di presenza. La verità è che Reggie negli ultimi cinque mesi non ci ha lavorato neanche un giorno.» «Stai cercando di dirmi che ci sta prendendo in giro?» «L'ho seguita queste ultime tre sere e...» «Cos'hai fatto?» Mi voltai a guardarlo. Se si fosse scoperto che un investigatore privato ingaggiato da un avvocato difensore pedinava la vittima di un reato violento, si sarebbe scatenato un putiferio e io avrei pagato per tutti. Sarebbe bastato che il pm si fosse rivolto a un giudice lamentando vessazioni e minacce sulla vittima e io sarei stato arrestato sul posto per inosservanza delle regole a una velocità superiore a quella del vento di Santa Ana attraverso il passo Sepulveda. Reggie Campo, nella sua qualità di vittima, doveva essere tutelata fino al momento in cui saliva al banco dei testimoni. Solo allora sarebbe stata a mia disposizione. «Tranquillo, tranquillo» disse Levin. «Non le sono stato addosso. L'ho controllata da lontano. E sono contento di averlo fatto. Gli ematomi e tutto il resto sono scomparsi o forse usa parecchio trucco per nasconderli, fatto sta che la signora riceve un gran numero di visite. Tutti uomini soli, a ore diverse della notte e riesce a incastrare bene gli appuntamenti, ne ha almeno due per notte.» «Li raccoglie nei bar?» «No, li aspetta a casa. Devono essere frequentatori abituali perché conoscono la strada di casa. Ho recuperato qualche numero di targa. Se è necessario posso andarli a cercare e farmi dire di più. Ho fatto qualche ripresa a infrarossi ma non l'ho ancora trasferita su disco.» «Per ora lasciamo stare. Potrebbe venirlo a sapere. Dobbiamo procedere con cautela. Adesso non m'importa sapere se sta recitando.» Buttai giù un altro sorso di caffè e tentai di mettere a fuoco la strategia da seguire. «Hai controllato la fedina penale? Nessun precedente, giusto?»
«Sì, è pulita. Immagino sia nuova del giro. Sai com'è per queste ragazze che vogliono fare le attrici, è difficile trovare ingaggi e l'attesa logora. Probabilmente ha cominciato chiedendo qualche favore a questo e quello e poi è diventato un lavoro. Da dilettante a professionista.» «Di tutto questo non risulta niente nei verbali che hai recuperato?» «No. Te l'ho detto, la polizia non ha sviluppato le indagini. Per lo meno finora.» «Una appena promossa da dilettante a professionista è in grado di incastrare un tipo alla Roulet. Uno che guida un'auto sportiva, che veste elegante... hai visto l'orologio che ha al polso?» «Sì, un Rolex. Se è autentico, vuol dire che si porta a spasso diecimila dollari. Lei può averlo notato dal banco. E forse è per questo che lo ha scelto.» Eravamo arrivati davanti al tribunale. Dovevo mettermi in viaggio. Chiesi a Levin dove avesse parcheggiato e indicai a Earl dove doveva accompagnarci. «Ottimo lavoro» dissi. «Anche se vuol dire che Louis ha mentito su qualcosa di più dell'università.» «Già.» Levin la pensava allo stesso modo. «Sapeva che avrebbe avuto un incontro a pagamento con lei. Doveva dirtelo.» «Adesso vado a fare due chiacchiere con lui.» Ci fermammo su Acacia vicino al marciapiede nei pressi di una macchinetta per pagare il parcheggio. Levin estrasse un fascicolo dalla valigetta. Era legato da un elastico che tratteneva un foglietto sulla copertina. Me lo porse e vidi che il documento era una fattura di quasi seimila dollari per otto giorni di servizi investigativi e spese varie. Sulla base di quello che avevo visto e sentito nell'ultima mezz'ora l'importo poteva considerarsi più che ragionevole. «Questo raccoglitore contiene la documentazione di tutto quello che ci siamo detti, oltre a una copia del video ripreso al Morgan» disse Levin. Presi i documenti con una certa esitazione. Se li avessi tenuti io non avrei potuto dire di non esserne a conoscenza. Se li avessi lasciati in custodia a Levin, mi sarebbe rimasta una scappatoia nel caso mi fossi trovato a discutere con il pm durante l'escussione delle prove. Diedi un colpetto con le dita alla fattura. «Per questa avviso Lorna e ti mandiamo un assegno» dissi. «Come sta Lorna? Mi manca.» Quando eravamo sposati Lorna veniva spesso ad assistere alle udienze in
tribunale. Qualche volta sostituiva l'autista. In quel periodo Levin la vedeva di frequente. «Sta benone. È sempre la stessa Lorna.» Levin aprì la portiera ma non scese. «Vuoi che continui a indagare su Reggie?» Questo era il dilemma. Se dicevo di sì e qualcosa andava storto non avrei potuto smentirlo. A quel punto ero a conoscenza di ciò che Levin stava facendo. Esitai e alla fine accettai. «Sii cauto. E occupatene in prima persona. Mi fido solo di te per questa indagine.» «Non preoccuparti. Me ne occuperò personalmente. C'è altro?» «L'uomo mancino. Dobbiamo scoprire chi è Mister X e se è coinvolto in questa storia o se era solo un cliente.» Levin fece di nuovo il gesto di sferrare un pugno con la mano sinistra. «D'accordo.» Si mise gli occhiali da sole e scese. Si allungò all'interno per recuperare la valigetta e la bottiglia d'acqua che non aveva neanche aperto, salutò e chiuse la portiera. Lo vidi allontanarsi nell'area di parcheggio in cerca della sua auto. Avrei dovuto essere entusiasta per quello che avevo appena saputo e che deponeva a favore del mio cliente. Ma c'era ancora qualcosa che non mi quadrava, qualcosa sulla quale non avevo ancora messo le mani. Earl aveva spento la musica ed era in attesa di ricevere istruzioni. «In città, Earl» dissi. «Okay» rispose. «Corte penale?» «Sì. Chi stavi ascoltando?» «Snoop. Lo metto a volume alto.» Feci segno di sì con la testa. La canzone raccontava una tipica storia di Los Angeles. Un tipo che aveva sfidato la legge, era stato accusato di omicidio ed era riuscito a spuntarla. Per chi vive per strada, niente di meglio per l'ispirazione. «Prendi la sette-dieci, Earl. Siamo in ritardo.» 12 Sam Scales era un truffatore di Hollywood. Era specializzato in sistemi di truffa via internet. Clonava i numeri e la data di scadenza delle carte di credito per rivenderli nel giro della malavita del settore finanziario. La prima volta che avevamo lavorato insieme era stato arrestato per aver ven-
duto a un vicesceriffo in incognito i numeri di seicento carte di credito e tutte le relative informazioni utili alla loro identificazione, data di scadenza, indirizzi, codici e password dei legittimi proprietari. Scales era entrato in possesso dei dati attraverso l'invio di una mail a cinquemila nominativi che comparivano nella lista dei clienti di una società con sede nel Delaware che vendeva tramite internet prodotti dimagranti con il marchio TrimSlim6. Un hacker che lavorava come freelance per Scales aveva sottratto la lista dal sistema informatico della società, Scales aveva inviato una mail a tutti gli indirizzi presenti nell'elenco servendosi di un computer noleggiato in un negozio della catena Kinko e di un indirizzo mail temporaneo. Qualificandosi come consulente del Food and Drug Administration comunicava che era stata revocata l'autorizzazione alla vendita dei prodotti TrimSlimó che di conseguenza venivano tolti dal mercato e che ai destinatari del messaggio sarebbe stato restituito, mediante accredito sulla carta di credito, l'ammontare di quanto avevano speso. La mail precisava che l'FDA aveva sottoposto il prodotto a diversi test e che era risultato inefficace per favorire la perdita di peso in eccesso. Scales sottolineava che i produttori dell'integratore avevano acconsentito a rifondere tutti i clienti per evitare di essere accusati di frode e concludeva con le istruzioni per l'accettazione del rimborso che comprendevano la segnalazione del numero della carta di credito sul quale appoggiarlo, la data di scadenza e tutti gli altri dati collegati. Tra i cinquemila destinatari del messaggio seicento abboccarono. Scales si mise in contatto via internet con gli ambienti della malavita e organizzò lo scambio di seicento numeri di carte di credito e relative informazioni a fronte di diecimila dollari in contanti. Nel giro di pochi giorni i numeri sarebbero stati stampati su carte di credito vergini e messe in circolazione. Una frode da milioni di dollari. L'affare fu bloccato in un bar di West Hollywood dove, tra Scales e il suo compratore, avvenne lo scambio di un tabulato a fronte di una busta gonfia di banconote. Scales fu fermato dagli agenti mentre usciva dal bar portando con sé la busta e un decaffeinato freddo con latte. Aveva venduto a un agente travestito. Scales si rivolse a me per patteggiare. A quell'epoca aveva trentatré anni e nessun precedente, anche se era evidente, e c'erano le prove, che non aveva mai svolto un lavoro consentito dalla legge. Feci in modo che il pm assegnato al caso si concentrasse sul furto dei numeri delle carte di credito piuttosto che sulle potenziali conseguenze della frode e riuscii a spuntare
una disposizione di suo gradimento. Scales si dichiarò colpevole del reato di furto di dati personali e gli venne comminata una condanna a un anno con il beneficio della condizionale, sessanta giorni di lavoro al Dipartimento dei Trasporti californiani e quattro anni di libertà vigilata. Quella era stata la sua prima volta. Erano passati tre anni. Sam Scales non si era giocato al meglio l'opportunità che gli era stata concessa di evitare il carcere. Era stato di nuovo fermato e io lo difendevo in un caso di frode talmente deprecabile che sin dall'inizio fu chiaro che evitargli la prigione sarebbe stata un'impresa che andava oltre le mie possibilità. Il 28 dicembre dell'anno precedente aveva usato un nome di copertura per registrare sul web un dominio denominato SunamiHelp.com. Sulla home page del sito aveva inserito alcune fotografie delle devastazioni e dei morti provocati due giorni prima dallo tsunami nell'Oceano Indiano che aveva colpito parte dell'Indonesia, dello Sri Lanka, dell'India e della Thailandia. Sul sito si sollecitavano fondi da inviare allo SunamiHelp che li avrebbe distribuiti alle numerose organizzazioni che si occupavano della catastrofe. Una delle immagini era la foto di un uomo bianco che si presentava come reverendo Charles e diceva di occuparsi dell'opera di cristianizzazione dell'Indonesia. Con una nota personale il reverendo chiedeva di elargire generosamente i contributi. Scales era sveglio, ma non abbastanza. Il suo scopo non era rubare le donazioni che venivano fatte al sito. Voleva solo carpire i dati delle carte di credito utilizzate per le donazioni. Le indagini che seguirono l'arresto dimostrarono che tutti i versamenti effettuati attraverso il sito in realtà venivano effettivamente inoltrati alla Croce Rossa americana e finivano alle vittime delle devastazioni. I numeri e i dati delle carte utilizzate per le donazioni venivano contestualmente girate ai malavitosi che agivano nel settore finanziario. Scales fu arrestato quando il detective Roy Wunderlich, del nucleo antisofisticazioni del Dipartimento di Los Angeles, scoprì l'esistenza del sito. Wunderlich aveva provato a digitare le denominazioni di siti in cui comparisse la parola tsunami, sapendo che a seguito di una calamità naturale i signori delle truffe approfittano della situazione. Emersero diversi siti che si occupavano correttamente delle donazioni a favore delle popolazioni colpite e Wunderlich provò a scrivere il nome sbagliando l'ortografia. Un ipotetico truffatore avrebbe utilizzato siti dal nome storpiato nella speranza di attirare navigatori sprovveduti che in genere hanno un livello basso di istruzione. SunamiHelp.com era uno dei siti contraffatti che il detective aveva
scovato in rete. Wunderlich aveva inviato la segnalazione a una task force dell'FBI che seguiva il problema su scala internazionale. Ma le prime verifiche sulla registrazione del dominio SunamiHelp.com rivelarono un indirizzo fermo posta di Los Angeles. SunamiHelp.com ricadeva nella sua giurisdizione. Doveva occuparsene da solo. Wunderlich accertò l'inesistenza della casella postale, ma non si perse d'animo ed eseguì una transazione vigilata. Il numero di carta di credito che aveva fornito il detective sul quale doveva essere prelevata la donazione di venti dollari era stato tenuto sotto controllo per ventiquattro ore dall'unità Antifrode della Visa e lui era stato informato in tempo reale di tutti gli acquisti registrati su quel conto. Nei tre giorni successivi la carta di credito era stata usata per pagare un pasto da undici dollari al ristorante Gumbo Pot nel Farmers Market tra Fairfax e la Terza. Wunderlich sapeva che quella spesa era stata effettuata per provare la validità della carta. Si era trattato di una transazione di poco valore e se l'utilizzatore della carta di credito contraffatta avesse incontrato difficoltà al momento dell'utilizzo, l'importo avrebbe potuto facilmente essere coperto dal contante. Il pagamento al ristorante andò a buon fine e Wunderlich e quattro agenti della sua sezione furono mandati al Farmers Market, un centro commerciale sempre molto affollato. Il luogo ideale in cui gli esperti in contraffazione di carte di credito potevano esprimersi al meglio. Gli investigatori si erano disposti in postazioni diverse mentre Wunderlich seguiva al telefono gli spostamenti della carta via via che veniva usata. Due ore dopo il primo utilizzo la carta venne nuovamente usata da Nordstrom, nell'area del mercato, per acquistare una giacca di pelle del valore di seicento dollari. Il consenso all'operazione avvenne con un certo ritardo, ma non venne negato. Gli agenti arrivarono nel negozio e fermarono la ragazza che stava acquistando la giacca. Da quel punto in avanti il caso si trasformò in quello che viene definito «spia a catena», un caso cioè in cui la polizia segue un sospetto dopo l'altro, ciascuno tradisce il successivo e tutti via via vengono fermati finché non si arriva in cima alla scala. In cima alla scala c'era Sam Scales. Quando la storia finì sui giornali Wunderlich definì Scales come il Persuasore Occulto dello Tsunami perché si era scoperto che le numerose vittime della truffa erano soprattutto donne che avevano voluto inviare il loro contributo a favore dell'affascinante religioso che compariva sul sito. Il soprannome irritò Scales e nei nostri colloqui lui si riferiva spesso al detective che lo aveva smascherato come a Wunder Boy.
Alle 10.45 arrivai al Dipartimento 124 al tredicesimo piano del palazzo della corte penale ma l'aula era deserta, fatta eccezione per la presenza di Marianne, l'assistente del giudice. Oltrepassai la barra e mi avvicinai. «Il calendario non c'è ancora?» chiesi. «Aspettavamo lei. Convoco tutti e informo il giudice.» «Il giudice è molto arrabbiato con me?» Marianne si strinse nelle spalle. Non intendeva rispondere al suo posto. Specie a un avvocato difensore. Ma mi aveva fatto capire che il giudice non era esattamente soddisfatto di me. «Scales c'è ancora?» «Dovrebbe. Non so dove sia andato Joe.» Mi girai, mi diressi verso il tavolo della difesa, mi sedetti e aspettai. Finalmente la porta si aprì e comparve Joe Frey, l'ufficiale giudiziario preposto al Dipartimento 124. «Il mio cliente è ancora lì dentro?» «È arrivato appena in tempo. Credevamo che non sarebbe più venuto. Vuole vederlo?» Joe mi tenne aperto il portone di ferro ed entrai in un piccolo vano sul quale davano le scale che conducevano alle carceri del tribunale al quattordicesimo piano e due porte d'ingresso su altrettante minuscole celle destinate al Dipartimento 124. Una delle porte aveva un pannello di vetro. In quella stanzetta avvenivano i colloqui tra i detenuti e i loro avvocati e dentro c'era Sam Scales seduto a un tavolo. Indossava una tuta arancione e aveva le manette ai polsi. Sam era stato trattenuto senza condizionale perché con l'ultimo arresto era decaduto il beneficio della libertà vigilata ottenuto dopo la condanna per il caso TrimSlim6. Le condizioni favorevoli che avevo conseguito allora stavano per essere cancellate. «Alla buon'ora» disse Scales quando mi vide. «Come se avessi dovuto andare da qualche parte. Sei pronto?» «Se non ho scelta.» Mi sedetti di fronte a lui. «Sam, puoi sempre scegliere un'opzione diversa. Lascia che te la spieghi ancora una volta. Stavolta ti hanno beccato, giusto? Ti hanno beccato mentre turlupinavi della gente che voleva aiutare le vittime di uno dei disastri naturali più violenti che la storia ricordi. La polizia si è servita di tre vittime della tua truffa che hanno testimoniato contro di te. Ti hanno trovato addosso la lista dei numeri di carte di credito. Quello che sto cercando di spiegarti è che alla fine è probabile che il giudice, e se si arriverà al pro-
cesso anche una giuria, sarà disposto a riservarti tanta clemenza quanta ne accorderebbe a chi rapisce un bambino. Forse meno.» «Lo capisco, ma io sono una grande risorsa per la società. Potrei occuparmi di mettere in guardia l'umanità. Mandatemi a parlare nelle scuole. Mandatemi nei circoli. Datemi la libertà vigilata e insegnerò alla gente quello a cui deve stare attenta.» «È a te che devono stare attenti. Ti sei giocato tutte le attenuanti e il pm ha detto che questa è l'offerta definitiva. Se non vuoi approfittarne sappi che non si fermeranno davanti a niente. Una cosa ti posso garantire, non avranno pietà di te.» Come tanti miei clienti continuava a coltivare la speranza che al di là della porta ci fosse la luce. Io sono l'uomo che deve dir loro che la porta è chiusa a chiave e che la lampadina si è fulminata da tempo. «Allora immagino di doverlo fare» disse Scales, guardandomi con un'espressione che mi fece vergognare di non essere riuscito a trovargli una scappatoia. «È una tua scelta. Se vuoi il processo, andremo al processo. Rischi dieci anni più uno che ti avanza dalla condizionale. Li faresti imbestialire e forse potrebbero passarti all'FBI per farti dare la mazzata finale per frode tra stati federati.» «Fammi fare una domanda. Se andiamo al processo, abbiamo una possibilità di vincere?» Fui sul punto di scoppiare a ridere, ma provavo una specie di compassione per lui. «No, Sam, non c'è alcuna possibilità di vincere. Hai sentito quello che ti sto dicendo da due mesi a questa parte? Ti hanno incastrato. Non puoi vincere. Comunque io sono qui per fare quello che vuoi tu. Te l'ho detto, se vuoi il processo, andremo al processo. Ma ti dico anche che se scegli questa opzione, devi recuperare tua madre e farmi dare altro denaro. Con oggi con te ho chiuso.» «Quanto ti ha dato finora?» «Ottomila.» «Ottomila dollari! È tutto il suo anticipo sulla pensione!» «Mi sorprende che abbia ancora qualcosa da parte con un figlio come te.» Mi lanciò un'occhiata tagliente. «Mi spiace, Sam. Non dovevo dirlo. Da quello che mi ha detto lei, sei un bravo ragazzo.»
«Cristo, dovevo andare alla tua cazzo di facoltà di legge. Tu sei un delinquente non molto diverso da me, lo sai, Haller? Solo che quella laurea che ti hanno dato rende legale quello che fai, tutto qui.» Tutti i clienti biasimano sempre il loro avvocato per come si guadagna da vivere. Come fosse un reato farsi pagare il lavoro quotidiano. Fossi stato un novellino quello che aveva appena detto Scales mi avrebbe fatto arrabbiare, ma avevo sentito insinuazioni del genere troppe volte e avevo imparato a passarci sopra. «Che dirti, Sam? Ne abbiamo già parlato.» Non aggiunse nulla. Dal suo silenzio capii che avrebbe accettato l'offerta del procuratore. Quattro anni di carcere e diecimila dollari di multa, seguiti da cinque anni di libertà condizionata. Sarebbe uscito in due anni e mezzo, ma per uno come lui, un delinquente naturale, la libertà condizionale poteva essere estremamente dannosa. Dopo pochi minuti mi alzai e me ne andai. Bussai alla porta esterna e Frey mi fece rientrare in aula. «Il mio cliente è pronto» dissi. Presi posto al tavolo della difesa e subito dopo Frey fece entrare Scales e lo fece sedere vicino a me. Aveva ancora le manette. Non mi rivolse parola. Poi Glenn Bernasconi, il pm che lavorava al Dipartimento 124, scese dal suo ufficio del quindicesimo piano e gli dissi che eravamo pronti ad accettare quanto aveva stabilito per questo caso. Alle undici in punto il giudice Judith Champagne uscì dalle sue stanze e prese posto al suo scranno. Frey intimò il silenzio in aula. Il giudice era una bella donna, bionda e di corporatura minuta, ex pm, e svolgeva la sua funzione almeno da tanti anni quanti io facevo l'avvocato. Era della vecchia scuola, imparziale ma rigorosa, e dirigeva la corte come un feudo. Qualche volta si portava in aula perfino il cane, un pastore tedesco che si chiamava Giustizia. Se avesse dovuto esercitare il proprio potere discrezionale nei confronti di Sam Scales, la sentenza sarebbe stata molto più dura. Scales non si rendeva conto di quello che avevo fatto per lui. In un certo senso lo avevo salvato. «Buongiorno» disse il giudice. «Sono lieta che oggi sia riuscito a essere presente, signor Haller.» «Le mie scuse, vostro onore. Sono stato impegnato in una causa a Compton, davanti al giudice Flynn.» Non ci fu bisogno di aggiungere altro. Il giudice conosceva Flynn. Lo conoscevano tutti. «E nel giorno di San Patrizio, niente di meno» aggiunse.
«Sì, vostro onore.» «Immagino che dobbiamo deliberare in merito al Persuasore Occulto dello Tsunami.» Lanciò un'occhiata alla cancelliera. «Michelle, elimina questa battuta.» Il giudice si rivolse di nuovo ai legali. «Intendevo dire che dobbiamo deliberare sul caso Scales. Giusto?» «È esatto» dissi. «Siamo pronti a procedere.» «Bene.» Glenn Bernasconi lesse e in parte citò a memoria la procedura legale necessaria per raccogliere la dichiarazione dell'imputato. Scales rinunciò ai suoi diritti e si dichiarò colpevole delle accuse. Non aggiunse altro. Il giudice accettò il patteggiamento e contestualmente pronunciò la sentenza. «Lei è un uomo fortunato, signor Scales» disse quando ebbe finito. «Ritengo che il signor Bernasconi sia stato piuttosto indulgente con lei. Io non lo sarei stata.» «Non mi sento così fortunato, giudice» disse Scales. Frey gli diede un colpo sulle spalle dal di dietro. Scales si alzò e si girò verso di me. «Immagino che questo sia tutto» disse. «Buona fortuna, Sam» dissi io. Fu accompagnato attraverso la porta di ferro che si richiuse dietro di lui. Non gli avevo stretto la mano. 13 Il centro civico di Van Nuys è costituito da un piazzale in cemento di forma allungata delimitato da alcune strutture pubbliche, che da un lato confina con la sezione Van Nuys del LAPD. Lungo uno dei lati si affacciano due palazzi di giustizia e su quello opposto una biblioteca pubblica e un edificio di uffici amministrativi comunali. Un palazzo dell'amministrazione federale e un ufficio postale chiudono sullo sfondo questa sorta di canale in vetro e cemento. Aspettavo Louis Roulet seduto su una panchina in pietra accanto alla biblioteca. Nonostante ci fosse bel tempo il piazzale era praticamente deserto. La scena era molto diversa rispetto al giorno prima, quando era affollato da fotografi, operatori televisivi e curiosi, tutti raccolti intorno a Robert Blake e ai suoi avvocati che cercavano di tramutare un verdetto di non colpevolezza in uno di innocenza.
Era un pomeriggio sereno e soleggiato e stare all'aperto mi piaceva. La mia professione si svolgeva per lo più dentro aule di tribunali prive di finestre o sui sedili posteriori della mia auto, per questo tutte le volte che potevo cercavo di lavorare all'aria aperta. Questa volta però non mi godevo la brezza, né assaporavo la frescura dell'aria. Ero seccato perché Louis Roulet era in ritardo e il fatto che Sam Scales mi avesse definito un delinquente laureato era un pensiero costante che mi avvelenava la mente come una malattia incurabile. Quando finalmente vidi Roulet attraversare il piazzale per venire verso di me, mi alzai per andargli incontro. «Dov'era?» gli chiesi bruscamente. «Le avevo detto che avrei fatto il prima possibile. Quando mi ha chiamato stavo facendo vedere una casa a un cliente.» «Camminiamo.» Venticinque minuti più tardi dovevo vedere Minton, il nuovo pm assegnato al caso Roulet, nella meno nuova delle due corti. Pensai che io e Roulet non dovevamo sembrare un avvocato e il suo cliente che discutevano una causa. Era più facile essere scambiati per un avvocato e il suo agente immobiliare che discutevano la compravendita di un terreno. Io indossavo il mio abito Hugo Boss e Roulet un vestito marrone sopra un dolcevita verde. Ai piedi portava dei mocassini con delle piccole fibbie argentate. «A Pelican Bay non potrà far vedere case a nessuno» gli dissi. «Cioè? Che posto sarebbe?» «È il grazioso nomignolo con cui hanno battezzato un carcere di sicurezza dove vengono rinchiusi i colpevoli di violenze sessuali. Si troverebbe proprio a suo agio con il suo dolcevita e i suoi mocassini.» «Che le succede? Cosa sta dicendo?» «Un cliente non può raccontare balle al suo avvocato. Tra venti minuti incontrerò la persona che vuole mandarla a Pelican Bay. Per cercare di evitarlo ho bisogno di tutto quello che riesco a mettere insieme e scoprire che lei mi sta mentendo non mi è stato d'aiuto.» Roulet si fermò e si voltò a guardarmi. Alzò le mani con i palmi aperti. «Non le ho mentito. Non ho fatto nulla del genere. Non so quello che vuole quella donna ma io...» «Lasci che le faccia una domanda, Louis. Sia lei sia Dobbs avete affermato che lei avrebbe frequentato un anno alla facoltà di legge all'Università di Los Angeles, giusto? Non le hanno insegnato niente a proposito del vincolo di fiducia tra cliente e avvocato?» «Non so, non mi ricordo. Non ci sono rimasto a lungo.»
Mi avvicinai a lui. «Ah, è così? Lei è un bugiardo. Lei non ha frequentato la facoltà di legge per un anno. E neanche per un maledettissimo giorno.» Lasciò ricadere le mani sui fianchi. «È tutto qua, Mickey?» «Sì, e d'ora in poi eviti di chiamarmi Mickey. Mi chiamano così i miei amici. Non i clienti bugiardi.» «Cos'ha a che fare con questo caso che dieci anni fa io abbia frequentato o meno la facoltà di legge? Io non...» «Se mi ha mentito su questo, può mentirmi su qualsiasi altra cosa e in tal caso io non posso assumere la sua difesa.» Avevo pronunciato l'ultima frase con un tono di voce troppo alto. Una coppia seduta su una panchina si mise a guardarci. Sulla giacca portavano il badge dei giurati. «Venga. Da questa parte.» Mi diressi verso la stazione di polizia. «Ascolti» disse Roulet con un filo di voce. «Ho mentito per mia madre, lo capisce?» «No, non capisco. Mi spieghi.» «Allora, Cecil e mia madre credono che io abbia frequentato l'università per un anno. Voglio che continuino a crederci. Cecil ha sollevato l'argomento con lei e io mi sono limitato a non contraddirlo. Si tratta di dieci anni fa! Che male c'è?» «Non doveva mentire con me» dissi. «Può farlo con sua madre, con Dobbs, con il suo confessore e con la polizia. Ma non con me quando le chiedo qualcosa direttamente. Voglio svolgere il mio lavoro partendo dal presupposto di essere informato da lei su come si sono svolti i fatti. Senza ombra di dubbio. Per cui quando le chiedo qualcosa lei è pregato di dirmi la verità. In qualsiasi altra occasione può dire quello che le pare e le piace.» «Va bene, va bene.» «Se non ha frequentato legge, cos'ha fatto?» Roulet scosse la testa. «Nulla. Per un anno non ho fatto assolutamente nulla. Ho passato il tempo nella casa vicino al campus universitario dove abitavo, a leggere e a pensare a quello che volevo fare davvero nella vita. L'unica cosa di cui ero certo era che non volevo diventare avvocato. Senza offesa.» «Non mi offendo. Allora si è riposato per un anno e ha deciso che vole-
va vendere delle proprietà ai ricchi.» «No, questo è venuto dopo.» Roulet sorrise. Esitò qualche istante, poi proseguì. «Avevo una specializzazione in letteratura inglese e in realtà avevo deciso di fare lo scrittore. Tentai di scrivere un romanzo ma non mi ci volle molto a scoprire che non ero in grado di farlo. Alla fine sono andato a lavorare con mia madre. Lei insisteva...» Mi calmai. Del resto gran parte della mia collera era una messinscena. Una tattica per renderlo più vulnerabile prima di passare alle domande più impegnative. Decisi che era arrivato il momento di farle. «Ora che si è liberato la coscienza, mi parli di Reggie Campo.» «Cosa vuole sapere?» «Aveva intenzione di pagare le sue prestazioni sessuali, è così?» «Cosa le fa pensare...» Mi fermai ancora una volta, lo zittii prendendolo per uno dei suoi costosi baveri della giacca. Era più alto e più robusto di me, ma in quella conversazione il potere lo avevo io. «Risponda alla domanda.» «Va bene, d'accordo, l'avrei pagata. Ma come fa a saperlo?» «Perché sono un avvocato maledettamente bravo. Perché non me lo ha detto subito? Non si rende conto che questo cambia radicalmente le cose?» «Per via di mia madre. Non volevo che mia madre sapesse che io... be' ha capito.» «Louis, sediamoci.» Arrivammo alla stazione di polizia davanti a una delle panchine più lunghe di tutto il piazzale. C'erano diversi posti a sedere e nessuno che potesse sentirci. Io mi sedetti nel mezzo e lui alla mia destra. «Sua madre non era più presente mentre lei raccontava i fatti di quella notte. Non credo fosse presente neppure quando abbiamo parlato della facoltà di legge.» «Ma c'era Cecil e lui le racconta tutto.» Annotai mentalmente di escludere da quel momento Cecil Dobbs dai nostri discorsi. «Va bene, credo di aver capito. Quanto tempo avrebbe lasciato passare prima di dirmelo? Non capisce che questo cambia tutto?» «Non sono un avvocato.» «Louis, lasci che le spieghi come funzionano le cose. Sa cosa faccio io? Io sono uno che cerca di neutralizzare le accuse. Il mio mestiere è renderle
infondate, prendere ciascun elemento di prova e provare a tirarlo fuori dal contesto. Immagini uno di quei giocolieri di strada che si incontrano sui marciapiedi di Venice. Non va mai a fare un giro da quelle parti? Non ha mai visto quelli che fanno girare i piatti in cima a quei bastoncini?» «Me li posso immaginare. Non ci vado da tanto tempo.» «Non importa. Hanno delle specie di stecche sottili su cui fanno roteare i piatti in equilibrio. Ne fanno girare diversi in contemporanea e loro si spostano da un piatto all'altro e da un bastoncino all'altro assicurandosi che tutto ruoti diritto e in equilibrio. Mi segue?» «Sì. Ho capito.» «Allora, questa è una causa, Louis. Un insieme di piatti che roteano. E ciascuno di quei piatti rappresenta ogni singola prova contro di lei. Il mio lavoro è prendere un piatto alla volta, fermarlo e sbatterlo a terra con tanta forza da mandarlo in mille pezzi in modo che non possa più essere rimesso insieme. Se il piatto blu contiene le tue mani macchiate del sangue della vittima, devo trovare il modo per spezzarlo. Se nel piatto giallo c'è un coltello con le impronte del tuo sangue, devo distruggere anche questo. Devo renderlo inutilizzabile. Mi segue?» «Sì, la seguo. Io...» «Allora, in mezzo a quell'insieme di piatti ce n'è uno più grande, uno enorme. È il più bastardo di tutti e se cade quello si porta dietro tutto il resto. Tutti gli altri piatti. Tutta la causa si sgretola. Sa di quale piatto si tratta, Louis?» Lui fece di no con la testa. «Quello più grande è la vittima, il principale testimone d'accusa. Se riusciamo a distruggerla, decade la causa e tutto si sistema.» Lasciai il discorso in sospeso per dargli il tempo di controbattere. Non disse nulla. «Louis, sono quasi due settimane che lei fa di tutto per nascondermi gli elementi che mi consentirebbero di mandare in frantumi il piatto più grosso. Sorge spontaneo chiedersi come mai un giovane benestante con il Rolex al polso, una Porsche parcheggiata qui accanto e una casa a Holmby Hills debba usare un coltello per convincere una donna, che di mestiere vende il proprio corpo, a fare sesso con lui. Se riduce il caso a questo interrogativo, il castello si sgretola perché la risposta è semplice. Non è stato lui a usare il coltello. La logica dice che non può averlo usato lui. Arrivati a questa conclusione, tutti i piatti si bloccano. Ci si rende conto che si è stati incastrati, che si è caduti in trappola e che l'imputato diventa vittima.»
Lo guardai e lui assentì. «Mi dispiace» disse. «Deve dispiacerle» replicai. «La causa avrebbe potuto cominciare a essere smontata già da un paio di settimane e se lei fosse stato sincero con me dall'inizio probabilmente ora non saremmo seduti qui.» Mi resi conto in quel momento da dove proveniva la rabbia che provavo. Non era il ritardo di Roulet o il fatto che mi avesse mentito o quello che mi aveva detto Sam Scales. Avevo capito che il guadagno che avevo calcolato stava per volatilizzarsi. Non ci sarebbe stato il processo né un onorario a sei zeri. Avrei dovuto accontentarmi di trattenere l'anticipo che mi aveva versato. Il caso si sarebbe risolto quello stesso giorno nel momento in cui fossi entrato nell'ufficio del procuratore distrettuale e avessi raccontato a Ted Minton quello di cui ero venuto a conoscenza e le prove in mio possesso. «Mi dispiace» disse di nuovo Roulet piagnucolando. «Non intendevo creare tutto questo casino.» Con gli occhi fissi a terra mi avvicinai a lui senza alzare lo sguardo e gli misi una mano sulla spalla. «Mi dispiace aver alzato la voce con lei prima, Louis.» «E ora che facciamo?» «Ho ancora qualche domanda da farle su quella notte e poi vado in quell'edificio laggiù per incontrare l'accusa e far crollare tutti i piatti. Penso che quando uscirò di lì potrebbe essersi già risolto tutto e lei sarà libero di tornare a mostrare le proprietà ai suoi clienti nababbi.» «Cosa può succedere?» «Il pm potrebbe andare in tribunale e chiedere formalmente al giudice di cancellare il caso.» Roulet spalancò la bocca dallo stupore. «Signor Haller, non so da che parte cominciare a dirle come...» «Ascolta, chiamami Mickey e scusami per prima.» «Nessun problema. Grazie. Che domande vuoi farmi?» Ci pensai per un po', ma a dire il vero non mi serviva chiedergli altro per affrontare l'incontro con Minton. Mi sentivo sicuro e determinato. Avevo delle prove inconfutabili. «Cosa c'era scritto sul biglietto?» chiesi. «Quale biglietto?» «Quello che ti ha dato la vittima al bar, da Morgan.» «C'era il suo indirizzo e sotto lei aveva segnato "quattrocento dollari" e
sotto ancora "Ti aspetto dopo le dieci".» «Peccato che non lo abbiamo. Ma credo che quel che abbiamo sia sufficiente.» Guardai l'ora. Avevo ancora un quarto d'ora prima dell'incontro e non avevo più nulla da chiedere a Roulet. «Puoi andare, Louis. Ti chiamerò quando sarà tutto finito.» «Sicuro? Posso aspettarti qui fuori, se vuoi.» «Non so quanto tempo ci vorrà. Devo illustrargli tutto. È probabile che lui debba riferire al suo capo. Potrebbe volerci del tempo.» «Va bene, allora me ne vado. Ma tu chiamami, d'accordo?» «Sì, lo farò. L'udienza dal giudice potrebbe essere lunedì o martedì e poi sarà tutto finito.» Mi porse la mano e io la strinsi. «Grazie, Mick. Sei il migliore. Quando ti ho dato l'incarico sapevo che avevo scelto il meglio.» Lo vidi riattraversare la piazza e passare tra le due corti per raggiungere il parcheggio pubblico. «Sì, sono il migliore» dissi tra me. Avvertii una presenza alle spalle, mi girai e vidi un uomo seduto accanto a me sulla panca. Lui mi guardò e ci riconoscemmo. Era Howard Kurlen, un detective della squadra Omicidi della sezione di Van Nuys. Nel corso degli anni qualche volta era capitato di trovarci uno contro l'altro. «Bene, bene» disse Kurlen. «L'orgoglio dell'avvocatura della California. Non stavi parlando da solo, vero?» «Chissà.» «Non è una buona cosa che un avvocato non possa fare a meno di farlo.» «La cosa non mi preoccupa. Cosa fai, detective?» Kurlen aveva estratto un sandwich da un sacchetto marrone e lo stava scartando. «Giornata intensa. Pranzo in ritardo.» Era un panino al burro di arachidi. Oltre al burro c'era uno strato di qualcos'altro che non era marmellata. Non riconobbi cosa potesse essere. Guardai l'ora. Avevo ancora qualche minuto prima di mettermi in coda per il controllo al metal detector, ma non ero certo di volerli passare con Kurlen e il suo sandwich dall'aspetto disgustoso. Pensai di prendere spunto dalla sentenza Blake e passare subito dopo a qualche commento sul LAPD, ma Kurlen fu più veloce a proporre un altro argomento di conversazione. «Che ne è del mio Jesus?» chiese il detective.
Nel caso Jesus Menendez, Kurlen era stato l'investigatore principale. Lo aveva marcato così stretto che l'imputato non aveva avuto altra scelta che dichiararsi colpevole e sperare per il meglio. Menendez doveva essere ancora vivo. «Non ne so nulla» risposi. «Non gli ho più parlato.» «Lo immagino, una volta che i clienti si dichiarano colpevoli e finiscono in galera non servono più a un avvocato come te. Se non danno lavoro per un appello, di loro non sapete più cosa farvene.» Annuii. Non c'è poliziotto che non guardi con sospetto un avvocato difensore. I detective sembrano convinti che il loro comportamento e le indagini che portano avanti non debbano mai essere messe in discussione né tanto meno possano avere qualcosa di cui vergognarsi. I poliziotti non credono a un sistema giudiziario basato su un'equilibrata valutazione dei fatti. «Immagino che per voi sia lo stesso» dissi. «Avanti il prossimo. Mi auguro che la tua intensa giornata di lavoro abbia procurato nuovi clienti per me.» «No, io non la penso così. Sai cosa mi domando? Tu riesci a dormire bene la notte?» «E tu sai invece cosa mi domando io? Cosa diavolo c'è dentro a quel sandwich?» Mi mostrò quello che era rimasto del panino. «Burro d'arachidi e sardine. Tante buone proteine per farmi superare un'altra giornata a caccia di delinquenti. O parlando con loro. Non hai risposto alla mia domanda.» «Dormo ottimamente, detective. Sai perché? Perché svolgo un ruolo importante nel sistema giudiziario. Un ruolo indispensabile, come il tuo. Il sospettato di un reato ha l'opportunità di valutare come funziona il sistema. Se vogliono, per farlo possono rivolgersi a me. Tutto qui. Se si è consapevoli di questo, non si hanno problemi di sonno.» «Bella storia. Spero che tu ci creda quando chiudi gli occhi.» «E tu come fai, agente? Non ti capita mai di appoggiare la testa sul cuscino e domandarti se hai messo in prigione un innocente?» «No» rispose immediatamente, con la bocca piena. «Non mi è mai successo e non succederà mai.» «Dev'essere bello avere tante certezze.» «Una volta un tipo mi ha detto che quando raggiungi la fine del tuo cammino, devi guardare la catasta di legno dell'umanità e decidere se durante la tua permanenza al mondo l'hai aumentata o ti sei limitato a pren-
derne dei pezzi. Io aggiungo qualcosa a quella catasta, Haller. Io dormo bene la notte. Ma mi chiedo di te e dei tipi come te. Voi avvocati da quella catasta vi limitate a prendere.» «Grazie per la predica. La prossima volta che spaccherò della legna me ne ricorderò.» «Se non ti è piaciuta questa storia, ho un indovinello da farti. Che differenza c'è tra un pescegatto e un avvocato difensore?» «Hmm, non lo so, detective.» «Uno è un parassita che si nutre d'immondizia, l'altro è un pesce.» Scoppiò in una fragorosa risata. Mi alzai. Era arrivato il momento di andare. «Spero che ti laverai i denti dopo aver mangiato una schifezza del genere» dissi. «Nel caso tu non lo facessi sappi che non sopporterei di essere il tuo compagno di squadra.» Me ne andai, pensando a quello che Kurlen aveva detto a proposito della catasta di legna e a quello che aveva detto Sam Scales paragonandomi a un delinquente con la laurea in legge. Nel corso di quella giornata mi erano arrivati insulti da tutte le parti. «Grazie per la dritta» mi gridò Kurlen alle spalle. 14 Ted Minton aveva fatto in modo di discutere con me del caso Roulet a quattr'occhi, organizzando l'incontro all'ora in cui il viceprocuratore distrettuale con il quale condivideva l'ufficio sarebbe stato fuori per un'udienza. Minton mi venne incontro nella sala d'attesa e mi accompagnò dentro. Sembrava poco più che trentenne, ma aveva un atteggiamento sicuro di sé. Nei miei confronti non mostrava segni di deferenza anche se era probabile che fossi più vecchio di lui di una decina d'anni e avessi l'esperienza di un centinaio di processi più di lui. Sembrava infastidito da quell'incontro. Era un bene che fosse così ed era normale che succedesse. E mi stimolava ancora di più. Arrivati nel suo piccolo ufficio senza finestre, mi fece accomodare sulla sedia del suo compagno di stanza e chiuse la porta. Ci sedemmo e ci guardammo negli occhi. Lasciai che parlasse per primo. «Bene» disse. «Per prima cosa volevo incontrarla. Sono nuovo qui nella Valley e non ho ancora avuto l'occasione di incontrare molti suoi colleghi della difesa. So che lei è uno di quelli che opera in tutto il paese, ma non è
mai capitato di incrociarci prima d'ora.» «Forse perché non si è occupato di molti processi penali.» Lui sorrise e fece di no con la testa come se avessi segnato un punto a mio vantaggio. «Potrebbe essere una ragione» disse. «Comunque, devo dirle, quando frequentavo la facoltà di giurisprudenza nel Sud Carolina ho letto un volume su suo padre e i casi che aveva seguito. Mi pare che si intitolasse Haller per la difesa. O qualcosa del genere. Quelli erano bei tempi e suo padre doveva essere un tipo interessante.» Gli risposi con un cenno. «Morì prima che potessi conoscerlo davvero, ma c'erano diversi libri su di lui e li ho letti tutti più volte. Forse è per questo che ho finito per fare lo stesso mestiere.» «Conoscere il proprio padre attraverso dei libri deve essere doloroso.» Feci una smorfia. Non pensavo fosse il caso che io e Minton andassimo oltre un certo grado di confidenza, soprattutto in vista di quello che stavo per fargli. «Immagino che potrebbe esserlo» disse. «Già.» Batté le mani, un gesto di esortazione a iniziare a lavorare. «Allora, noi siamo qui per parlare di Louis Roulet, vero?» «Si pronuncia Roo-lay.» «Roooo-lay. Ho capito. Dia un'occhiata qui, ho qualcosa per lei.» Ruotò la sedia per girarsi verso la sua scrivania. Raccolse un fascicolo poco voluminoso e me lo porse. «Voglio essere leale. Questo è l'ultimo elemento che è emerso. So che dovrei darglielo solo dopo che l'imputato sarà chiamato in giudizio, ma che diavolo, vediamo di essere collaborativi.» La mia esperienza mi insegna che se un pm ti dice che vuole essere leale o addirittura amico, devi stare attento. Esaminai il contenuto del fascicolo, ma non lessi nulla di interessante. Il materiale che Levin aveva raccolto per me era quattro volte più voluminoso. Non mi preoccupai di quello di cui Minton era entrato in possesso perché comunque il contenuto del fascicolo mi sembrò scarno. Mi venne il sospetto che ci fosse dell'altro. Capita che si sia costretti a chiedere ripetutamente al pm di essere informati delle prove attinenti al processo, fino al punto di doversene lamentare in aula davanti al giudice. In via informale, Minton me ne aveva appena consegnato una parte. O aveva da imparare sui processi penali più di quanto avessi imma-
ginato o stava recitando. «È tutto qui?» chiesi. «Tutto quello che sono riuscito a ottenere.» La solita scappatoia. Il fatto di non essere riusciti a entrare in possesso di una parte del materiale probatorio avrebbe potuto giustificare il ritardo nel consegnarlo alla difesa. Ero stato sposato con un pm e sapevo che la loro prassi era chiedere agli agenti di polizia tutta la documentazione relativa a un caso. Dopo di che potevano permettersi di girarsi e di dire all'avvocato difensore che volevano essere leali per poi in pratica lasciarlo a becco asciutto. Spesso la difesa quando si riferiva alle regole dello scambio delle prove denunciava l'abitudine alla scorrettezza. Naturalmente era vero per entrambe le parti. Lo scambio delle prove si suppone che avvenga a doppio senso. «Andrà al processo con questo?» Sventolai il fascicolo sottintendendo che il suo contenuto era inconsistente, esattamente come il caso. «Questo caso non mi preoccupa. Se vuole parlare di ammissione di colpa starò ad ascoltarla.» «No, nessuna ammissione. Vogliamo andare avanti. Abbiamo intenzione di saltare i preliminari e andare dritti a processo. Senza proroghe.» «Il suo cliente non rinuncerà alla procedura d'urgenza?» «No. Lei ha sessanta giorni di tempo a partire da lunedì per incriminarlo o archiviare il caso per sempre.» Minton fece un ghigno come se quello che gli avevo appena detto non lo avesse sorpreso più di tanto e fosse solo una trascurabile seccatura. Era un bravo incassatore. Mi accorsi di avergli sferrato un colpo potente. «Allora presumo che dobbiamo parlare di scambio delle prove unilaterale. Cosa mi ha preparato?» Aveva abbandonato il tono amichevole. «Sto ancora mettendo insieme i materiali» dissi. «Li avrò pronti per l'udienza di lunedì. Gran parte di quello che ho raccolto è probabile sia già contenuto nel file che mi ha trasmesso lei, non crede?» «È molto probabile.» «Lei è a conoscenza del fatto che la presunta vittima è una prostituta e che aveva abbordato il mio cliente, non è così? E che ha continuato a esercitare la sua professione fino al momento della presunta aggressione?» Minton schiuse le labbra e poi le richiuse, un gesto esplicito. Lo avevo colpito per la seconda volta. Ma recuperò in fretta.
«Io so che mestiere esercita la vittima. Mi sorprende però che lo sappia già anche lei. Signor Haller, mi auguro che non abbia fatto indagini sulla mia vittima.» «Puoi chiamarmi Mickey. Quello che faccio io dovrebbe essere l'ultimo dei tuoi problemi. Faresti meglio a esaminare bene questo caso, Ted. So che non sei esperto di processi penali e che non vuoi esporti proprio in un caso perdente come questo. Soprattutto dopo il fiasco di Blake. Questa storia è come un cane che sta per morderti le chiappe.» «Davvero? In che senso?» Guardai il computer sulla scrivania dietro di lui. «In quell'aggeggio girano i dvd?» Minton si voltò verso il computer. L'apparecchio aveva un aspetto obsoleto. «Sì. Che cosa hai portato?» Ero consapevole che facendogli vedere il video del Morgan, gli avrei anticipato il vero asso nella manica che tenevo in serbo per lui, ma ero convinto che una volta che lo avesse visto la chiamata in giudizio di lunedì sarebbe saltata e la causa sarebbe stata archiviata. Il mio obiettivo era di far annullare il caso e di evitare qualsiasi implicazione legale al mio cliente. La condivisione del video era il modo per raggiungere quello scopo. «Non ho portato con me tutte le prove che ho raccolto, ma questa sì» dissi. Porsi a Minton il dvd che mi aveva dato Levin. Il pm lo introdusse nel suo computer. «È stato girato da Morgan» gli dissi mentre lui cercava di metterlo in funzione. «I tuoi uomini non ci sono ancora andati, ma lo ha fatto il mio detective. Era la domenica sera precedente alla presunta aggressione.» «Il filmato potrebbe essere contraffatto.» «Potrebbe, ma non è così. Puoi farlo verificare. Il mio detective ha l'originale e gli dirò di metterlo a disposizione dopo l'udienza di lunedì.» Minton, senza nascondere la sua perplessità, fece girare il filmato sul computer. Lo guardò in silenzio mentre gli facevo notare l'orario dello svolgimento e gli stessi dettagli che Levin aveva evidenziato a me, compresa la dimostrazione che Mister X doveva essere mancino. Minton seguì le mie istruzioni, fece avanzare il filmato e lo arrestò per seguire con calma il momento in cui Reggie Campo adescava il mio cliente al bar. Minton era molto concentrato. Alla fine fece uscire il disco e lo sollevò fra le dita.
«Posso tenerlo fino a quando mi procuro l'originale?» «Prego.» Lo ripose nella custodia e lo appoggiò in cima a una pila di dischetti che teneva sulla scrivania. «Bene, cos'altro?» chiese. Fui io a fare un'espressione stupita. «Cos'altro? Non è abbastanza?» chiesi. «Abbastanza per cosa?» «Ted, perché non la piantiamo di prenderci in giro?» «D'accordo.» «Di che cosa stiamo discutendo? Quel disco manda il caso alle ortiche. Dimentichiamoci della chiamata in giudizio di lunedì e del processo e concordiamo di andare la settimana prossima in tribunale con una mozione congiunta di non luogo a procedere. Ted, voglio che il mio cliente venga prosciolto dalle accuse. Se uno di noi due non decide di cambiare idea, io dal mio cliente non ci torno.» Minton sorrise e scosse la testa. «Mickey, non posso farlo. Quella donna è stata ferita gravemente. È stata vittima di una violenza bestiale e non ho intenzione di prosciogliere nessuno...» «Gravemente? È tutta la settimana che simula. Lei...» «Come lo sai?» Scossi la testa. «Amico, sto cercando di aiutarti, voglio evitarti delle brutte figure, l'unica cosa di cui ti devi preoccupare è se nell'indagare sulla vittima sono andato oltre le mie competenze. Sai che c'è di nuovo? La vittima non è quella donna. Non ti rendi conto di cosa ti ho dato? Ted, se una giuria prende visione di questo disco crolla tutta l'impalcatura. La tua causa è finita e tu devi tornare qui a spiegare al tuo capo Smithson perché non te ne sei accorto in tempo. Non conosco bene Smithson, ma so una cosa di lui. Non gli piace perdere. E credo di poter essere certo che per lui questa esigenza sia diventata ancora più pressante dopo quello che è successo ieri.» «Anche le prostitute possono essere delle vittime. Persino quelle non professioniste.» Scossi la testa. Decisi di scoprire tutte le carte. «Quella donna lo ha incastrato» dissi. «Sapeva che era ricco e gli ha teso una trappola. Lei vuole farlo incriminare per poi spillargli del denaro. O le ferite se l'è procurate da sola o lo ha fatto il ragazzo con il quale è uscita
dal bar, il mancino. Nessuna giuria al mondo crederebbe alle prove che lei può produrre. La mano insanguinata o le impronte digitali sul coltello... è tutta una messinscena predisposta dopo che il mio cliente è stato colpito.» Minton seguiva la mia esposizione dei fatti con cenni di assenso, ma poi se ne uscì con una considerazione imprevista. «Mi preoccupa che tu stia tentando di intimorire la vittima pedinandola e standole addosso.» «Che cosa?» «Tu sei a conoscenza delle regole. Lascia perdere quella donna o parleremo di questa faccenda al giudice.» Scossi la testa e allargai le braccia. «Hai sentito quello che ti ho detto finora?» «Sì, ho ascoltato tutto e non cambio idea sulla strada da seguire. Comunque ho una proposta da farti che sarà valida solo fino all'udienza di lunedì. Dopo di che, i patti decadono. Il tuo cliente corre i suoi rischi presentandosi davanti al giudice e alla giuria. Non mi faccio intimidire da te e dai sessanta giorni. Sarò pronto ad aspettare.» Mi sembrava di essere sott'acqua. Tutto quello che dicevo mi sembrava imprigionato dentro a delle bolle che salivano a galla e poi sparivano. Nessuno riusciva a sentirmi. Poi realizzai che mi stava sfuggendo qualcosa. Qualcosa di fondamentale. Minton, anche se era molto giovane, non era uno stupido e avevo sbagliato a pensare che si comportasse come tale. I migliori laureati in legge vengono destinati all'ufficio del procuratore distrettuale della contea di Los Angeles. Sapevo che la facoltà di legge della Southern Cal, cui aveva accennato Minton, sfornava avvocati preparati. Era solo una questione di esperienza. E Minton ne aveva poca, ma questo non voleva dire che avesse poco acume in campo legale. Per riuscire a capire mi resi conto che avrei dovuto osservare me stesso, non Minton. «Cosa mi è sfuggito?» chiesi. «Non saprei» disse Minton. «Tu sei uno dei migliori avvocati difensori della contea. Cosa può esserti sfuggito?» Fissai il suo sguardo e capii. In quel materiale probatorio c'era qualcosa di strano. Nel sottile fascicolo di Minton c'era qualcosa che mancava dalla voluminosa raccolta di materiale di Levin. Oltre al modo in cui Reggie Campo si guadagnava da vivere l'accusa era a conoscenza di altri elementi. Minton mi aveva già detto molto. Anche le prostitute possono essere vittime. Avrei voluto fermare tutto per esaminare il fascicolo dell'accusa e met-
terlo a confronto con tutto quello che già sapevo. Non potevo farlo di fronte a lui. «Okay» dissi. «Che cosa mi offri? Roulet non vorrà accettare, ma gli sottoporrò la tua proposta.» «Roulet deve fare un periodo di carcere. Questo è un dato di fatto. Siamo disponibili a ridimensionare l'imputazione in aggressione a mano armata e tentato stupro. Ci orienteremo sulla media delle condanne che prevedono una pena di circa sette anni.» Assentii. Aggressione a mano armata e tentato stupro. Una sentenza di sette anni facilmente sarebbe diventata di quattro. Partendo dal presupposto che Roulet avesse commesso il crimine, non era un'offerta malvagia. Se era innocente non era accettabile nessuna offerta. Mi strinsi nelle spalle. «Riferirò la proposta al mio cliente» dissi. «Ricorda, vale fino a lunedì... Nel caso accettasse sarebbe bene che mi avvertissi in prima mattinata.» «Okay.» Chiusi la valigetta e mi alzai per andare. Pensai che molto probabilmente Roulet fosse in attesa di una mia telefonata di conferma che l'incubo era finito. Invece avrei dovuto chiamarlo per informarlo della proposta dei sette anni. Ci stringemmo la mano e dissi a Minton che gli avrei telefonato, poi uscii. Nell'atrio che portava alla reception mi imbattei in Maggie McPherson. «Hayley sabato si è molto divertita» disse riferendosi a nostra figlia. «Ne parla ancora adesso. Mi ha detto che saresti venuto a trovarla anche il prossimo weekend.» «Sì, se non ci saranno problemi.» «Stai bene? Mi sembri strano.» «Sta per iniziare un lungo fine settimana. Per fortuna domani non devo vedere nessuno. Per Hayley è meglio sabato o domenica?» «È indifferente. Hai incontrato Ted per il caso Roulet?» «Sì. Mi ha fatto la sua offerta.» Sollevai la cartella per dimostrare che portavo con me la proposta dell'accusa. «Ora devo tentare di farla accettare» aggiunsi. «Sarà dura. Roulet non è disposto a dichiararsi colpevole.» «Dicono tutti così.»
«Lui è convinto.» «Buona fortuna.» «Grazie.» Nell'atrio prendemmo due direzioni diverse. Poi qualcosa mi passò nella mente e la richiamai. «Ehi, buon San Patrizio.» «Oh.» Si girò e tornò verso di me. «Stacey si ferma con Hayley un paio d'ore di più e con un gruppetto di colleghi si va al Four Green Fields a fine turno. Ti va una pinta di birra d'Irlanda?» Il Four Green Fields era un pub irlandese non lontano dal centro civico. Lo frequentavano avvocati dell'accusa e della difesa. Sotto l'effetto di una Guinness a temperatura ambiente le ostilità si stemperavano. «Non so» dissi. «Credo di dover incontrare il mio cliente ma non si sa mai, posso tornare.» «Io ho tempo fino alle otto, poi devo rientrare a liberare Stacey.» «Okay.» Le nostre strade si divisero di nuovo e io lasciai il tribunale. La panchina dove ero stato seduto prima con Roulet e poi con Kurlen era libera. Mi sedetti, aprii la cartella e ne estrassi il fascicolo che mi aveva dato Minton. Diedi una rapida scorsa ai verbali di cui Levin mi aveva già fornito copia. Non mi sembrava che ci fosse nulla di diverso fino al punto in cui arrivai al risultato delle analisi delle impronte digitali a cui tutti avevamo pensato. Le impronte insanguinate sul coltello appartenevano al mio cliente, Louis Roulet. Questo non bastava per giustificare il comportamento di Minton. Continuai a cercare e alla fine trovai qualcosa nel verbale dell'analisi del coltello. Quello che mi aveva dato Levin era completamente diverso, come se riguardasse un altro caso e un altro coltello. Via via che leggevo cominciai a sudare, ero madido. Mi avevano incastrato. Nell'incontro con Minton mi ero sentito in imbarazzo e peggio ancora gli avevo fatto vedere anzitempo tutte le mie carte. Ora lui aveva il video di Morgan e aveva tutto il tempo che occorreva per prepararsi a usarlo durante il processo. Chiusi violentemente la cartella e presi il cellulare. Levin rispose dopo due squilli. «Come è andata?» mi chiese. «Gratifiche per tutti?» «Non esattamente. Sai dov'è l'ufficio di Roulet?»
«Sì, a Beverly Hills sulla Canon. Nel fascicolo c'è l'indirizzo esatto.» «Vediamoci lì.» «Adesso?» «Ci sono nel giro di mezz'ora.» Schiacciai il tasto per chiudere la telefonata e poi quello per la chiamata veloce a Earl. Doveva avere gli auricolari dell'iPod nelle orecchie perché non rispose prima del settimo squillo. «Vieni a prendermi» dissi. «Si va in collina.» Mi alzai e mi diressi verso il varco tra le due corti per raggiungere il punto dove Earl mi avrebbe raccolto. Ero furioso. Nei confronti di Roulet, di Levin e soprattutto nei confronti di me stesso. Al tempo stesso ero consapevole del risvolto positivo di quanto era accaduto. Per come stavano adesso le cose era sicuro che rientrava in gioco il cliente di primo livello con conseguenti parcelle. A meno che Roulet non avesse accettato l'offerta dell'accusa, il caso sarebbe andato a processo. Le probabilità che Roulet accettasse erano poche. Al massimo quelle di vedere la neve a Los Angeles. Può succedere, ma ci crederei solo se la vedessi. 15 I ricchi di Beverly Hills vanno a Rodeo Drive quando vogliono devolvere piccole fortune in abiti e gioielli. Quando vogliono investire grandi capitali in case e palazzi salgono qualche isolato fino a Canon Drive, dove hanno sede le agenzie immobiliari che espongono in vetrina le fotografie delle proposte di vendita da decine di milioni di dollari su cavalletti dorati come fossero quadri di Picasso o Van Gogh. Fu lì, quel giovedì pomeriggio, che trovai la Windsor Residential Estates e Louis Roulet. Avevo impiegato del tempo ad arrivare e Raul Levin mi stava aspettando. Si era sistemato nello showroom con una bottiglia di acqua fresca mentre Louis continuava a telefonare dal suo ufficio privato. La ragazza alla reception, esageratamente bionda e abbronzata con una pettinatura a onda che le calava come una falce da un lato del viso, mi disse che c'era da aspettare ancora qualche minuto prima di entrare. Mi allontanai dalla sua scrivania. «Vuoi dirmi che cosa sta succedendo?» chiese Levin. «Sì, quando saremo lì dentro con lui.» Alle pareti poggiavano strutture di tubi d'acciaio, alte dal soffitto al pavimento, dove erano attaccate delle cornici 20x25 con le foto e le caratteristiche degli immobili in vendita. Passai in rassegna case che non avrei po-
tuto permettermi neanche di lì a un paio di secoli e mi avvicinai all'ingresso che dava sugli uffici. Da lì notai una porta aperta e riconobbi la voce di Roulet. Louis stava organizzando la visita a una villa di Mulholland Drive a un cliente la cui identità, come stava dicendo all'agente immobiliare con il quale stava parlando al telefono, doveva restare segreta. Mi girai verso Levin, rimasto all'altezza dell'ingresso. «Questa è una balla» dissi indicandomi le spalle. Percorsi il corridoio ed entrai nell'elegante ufficio di Roulet. Sulla scrivania d'ordinanza erano accatastate pratiche d'ufficio e voluminosi cataloghi contenenti le offerte. Roulet però non era seduto alla scrivania, ma semisdraiato su un divano, nella zona relax a destra della scrivania, con una sigaretta in una mano e il telefono nell'altra. Parve sorpreso di vedermi e immaginai che la ragazza della reception non lo avesse ancora avvisato delle visite. Levin entrò nell'ufficio dopo di me seguito quasi di corsa dalla ragazza con la virgola nei capelli che oscillava pericolosamente. La lama della falce poteva mozzarle il naso. «Signor Roulet, sono spiacente, queste persone sono passate dal retro...» «Lisa, devo lasciarti adesso» disse Roulet al telefono. «Ti richiamo.» Ripose il ricevitore nel sostegno, sopra il tavolino di cristallo. «Va tutto bene, Robin» disse. «Puoi andare adesso.» Con il dorso della mano fece un gesto come per allontanarla. Robin mi guardò come se fossi stato grano che voleva tagliare con la sua lama dorata e se ne andò. Chiusi la porta e mi girai verso Roulet. «Cos'è successo?» disse. «È tutto finito?» «Per niente» dissi. Avevo con me il dossier dell'accusa. Il rapporto sull'arma del delitto era immediatamente visibile. Avanzai verso di lui e lo lasciai cadere sul tavolino di cristallo. «Nell'ufficio del procuratore distrettuale mi sono sentito un idiota. La causa contro di te è aperta e molto probabilmente si arriverà al processo.» L'espressione di Roulet si fece seria. «Non capisco» disse. «Hai detto che a quel ragazzo avresti dato del cretino incompetente...» «E invece l'unico cretino là dentro ero io perché ancora una volta non mi hai detto la verità.» Poi, girandomi verso Levin, aggiunsi: «E perché tu ti sei lasciato incastrare».
Roulet aprì il dossier. Nella prima pagina c'era una fotografia a colori di un coltello sporco di sangue sull'impugnatura scura e sulla lama. Non era lo stesso coltello delle fotocopie che Levin aveva raccolto dalle sue fonti in polizia. «Cosa diavolo è quello?» disse Levin, guardando la foto. «Un coltello. Il coltello vero, quello che Roulet aveva con sé quando è andato in casa di Reggie Campo. Quello sporco di sangue della vittima e con incise le iniziali di lui.» Levin si sedette sul divano dalla parte opposta di Roulet. Io rimasi in piedi ed entrambi sollevarono lo sguardo verso di me. Cominciai da Levin. «Ho incontrato il procuratore distrettuale convinto di prenderlo a calci in culo ed è finita che lui ha preso a calci in culo me. Raul, chi ti ha dato il materiale? Chiunque sia stato ti ha servito una mano truccata.» «Aspetta un momento, aspetta un momento. Quello non è...» «No, aspetta un momento tu. Il rapporto sul coltello scomparso che mi hai portato tu era falso. Messo lì per confondere le cose. Per prenderci in giro. E ha funzionato alla grande. Sono entrato in quell'ufficio convinto di essere imbattibile e gli ho consegnato il video di Morgan. Credevo di fare una rivelazione-bomba e ho fatto flop, Cristo santo!» «È stato il fattorino» disse Levin. «Cosa?» «Il fattorino. Quello che porta i rapporti dalla stazione di polizia all'ufficio della procura. Gli segnalo i casi che mi interessano e lui fa qualche copia in più da passarmi.» «Allora hanno fregato lui. Faresti bene a chiamarlo e a dirgli che se dovesse aver bisogno di un buon avvocato difensore io non sono disponibile.» Stavo misurando a grandi passi lo spazio di fronte al divano dove erano seduti loro e non mi fermai. «E tu?» dissi a Roulet. «Ora che ho il vero rapporto sull'arma scopro che non solo il coltello è un manufatto artigianale fatto su commissione, ma che è anche riconducibile a te perché ci sono le tue cazzo di iniziali incise sopra. Mi hai mentito un'altra volta!» «Non ho mentito» gridò Roulet. «Ho provato a dirtelo. Ho detto che non era mio il coltello. L'ho detto un paio di volte, ma nessuno è stato ad ascoltarmi.» «E allora dovevi spiegarti! Se dici solo che quello non è il tuo coltello è come ripetere che non sei il colpevole. Dovevi dire: "Mick, sai cosa, forse potrebbe esserci un problema con il coltello, perché io ce l'ho un coltello,
ma non è quello della foto". Cosa pensavi, che sparisse nel nulla?» «Abbassa la voce per piacere» protestò Roulet. «Potrebbero esserci dei clienti fuori.» «Me ne frego! Affanculo i tuoi clienti. Dove stai per andare non avrai bisogno di clienti. Non capisci che l'esistenza di questo coltello fa svanire tutto quello che abbiamo ottenuto finora? Sei andato a un incontro con una prostituta portandoti dietro un'arma letale. Il coltello non era un corpo estraneo. Era il tuo. E tutto il castello crolla. Come facciamo a sostenere che quella donna si è inventato tutto se l'accusa può provare che avevi un coltello con te quando sei entrato in casa sua?» Roulet non rispose, ma non gli diedi molto tempo per farlo. «Sei stato tu e loro ti hanno smascherato» dissi puntandogli il dito contro. «Non c'è da stupirsi che non gliene freghi niente delle indagini nei locali. Non servono troppe indagini quando si ha in mano il tuo coltello macchiato del tuo sangue.» «Non sono stato io! È una messinscena. TE LO DICO IO! È stata...» «Chi è che grida adesso? Quello che stai per dirmi non mi importa. Non posso avere a che fare con un cliente che non si comporta correttamente con me, che non si rende conto del vantaggio che avrebbe se raccontasse al suo difensore come stanno le cose. Il procuratore distrettuale ha fatto la sua offerta e faresti bene ad accettarla.» Roulet, restando seduto, si sporse per prendere il pacchetto di sigarette dal tavolino. Ne tirò fuori una e spense quella che stava fumando. «Non mi dichiaro colpevole di qualcosa che non ho commesso» disse in tono pacato dopo aver tirato una profonda boccata. «Sette anni. Dopo quattro sei fuori. Hai tempo fino all'udienza davanti alla corte di lunedì. Pensaci bene e poi dimmi che accetti.» «Non accetto. Non accetto e se tu non vuoi affrontare il processo troverò qualcun altro che lo faccia.» Levin teneva in mano il dossier dell'accusa. Lo raggiunsi e glielo strappai di mano per leggere direttamente il verbale sul coltello. «Non sei stato tu, eh?» dissi a Roulet. «D'accordo, se è così ti spiace spiegarmi come mai sei andato a incontrare questa prostituta con un coltello artigianale modello Black Ninja con una lama di dodici centimetri e le tue iniziali incise non in un punto solo, ma su entrambi i lati della lama?» Lanciai il verbale a Levin. Gli sfuggì di mano e gli scivolò addosso. «Perché lo porto sempre con me.» La forza della risposta di Roulet fece scendere il silenzio nella stanza.
Ripresi a camminare avanti e indietro, senza staccargli gli occhi di dosso. «Lo porti sempre con te» ripetei. «Sì. Sono un agente immobiliare. Guido macchine costose. Porto gioielli costosi. E spesso devo incontrare degli sconosciuti in case deserte.» La risposta mi obbligò a fermarmi di nuovo. Anche se ero alterato, ero ancora in grado di riconoscere uno spiraglio quando mi si presentava. Levin si sporse in avanti e guardò prima Roulet e poi me. Anche lui lo aveva riconosciuto. «Cosa stai dicendo?» dissi. «Tu vendi case ai ricchi.» «Quando ti telefonano per fissare una visita a un immobile, come fai a sapere se sono ricchi o no?» Gesticolai qualcosa. «Avrete un sistema di controllo, no?» «Certo, si può verificare la situazione creditizia e chiedere referenze. Ma ci accontentiamo di quello che i clienti ci comunicano spontaneamente perché a quel genere di persone non piace aspettare. Quando vogliono vedere una proprietà, vogliono vederla punto e basta. In giro ci sono parecchi agenti immobiliari. Se non si agisce in fretta, c'è qualcun altro che agisce al posto tuo.» Lo spiraglio si faceva sempre più luminoso. Ora c'era qualcosa su cui potevo lavorare. «Ci sono stati degli omicidi» disse Roulet. «Ogni agente immobiliare sa del pericolo che corre quando va in certi posti da solo. Per un po' c'è stato un tipo che ha fatto parecchi colpi. Aggrediva e derubava le donne nelle case vuote. Mia madre...» Non terminò la frase. Io aspettai. Niente. «Cos'è successo a tua madre?» Roulet esitò prima di rispondere. «Stava mostrando una proprietà a Bel Air. Era sola ed era tranquilla perché era Bel Air. Quell'uomo la violentò. La lasciò tutta legata. Visto che non rientrava in ufficio, andai a cercarla. E la trovai.» Roulet sbarrò gli occhi al ricordo. «Quanto tempo fa è successo?» chiesi. «Circa quattro anni fa. Dopo questo episodio smise di occuparsi della vendita. Restò in ufficio e non fece più vedere case a nessuno. Me ne sono occupato io da allora. Ecco perché mi comprai un coltello. L'ho tenuto per quattro anni e me lo sono portato ovunque, sempre nella sua custodia. Lo avevo in tasca quando sono entrato in quell'appartamento. Non ci pensavo
neppure.» Mi lasciai cadere sulla poltrona dall'altro lato del tavolino. Il mio cervello stava girando vorticosamente. Stavo pensando se poteva stare in piedi. La difesa doveva basarsi sulle coincidenze. Roulet era stato incastrato da Campo e la messinscena che lei aveva architettato era stata facilitata dal fatto che dopo averlo colpito, per coincidenza, gli aveva trovato addosso il coltello. Poteva starci. «Tua madre sporse denuncia?» chiese Levin. «Ci fu un'indagine?» Roulet scosse la testa spegnendo la sigaretta nel portacenere. «No, era troppo a disagio. Aveva paura che la notizia finisse sui giornali.» «Chi altri ne è a conoscenza?» chiesi. «Vediamo... io... e Cecil, sono certo che lui lo sa. Probabilmente nessun altro. Non puoi usare quest'informazione. Lei...» «Non la userò senza il suo permesso» dissi. «Ma potrebbe essere importante. Dovrò parlargliene.» «No, non voglio che tu...» «Louis, c'è in gioco la tua vita. Stai per finire in prigione e non credo che tu abbia intenzione di farlo. Non preoccuparti di tua madre. Una madre fa quello che c'è da fare pur di proteggere il suo bambino.» Roulet abbassò lo sguardo e scosse la testa. «Non so, non sono sicuro...» disse. Feci un sospiro per cercare di allentare la tensione. Il disastro poteva essere evitato. «Di una cosa io sono sicuro» dissi. «Adesso tornerò dal procuratore e gli dirò che rifiutiamo il patteggiamento. Andremo al processo e ci giocheremo le nostre carte.» 16 Continuavano a succedere situazioni impreviste. Affrontai la successiva dopo che avevo fatto scendere Earl al parcheggio dei pendolari dove tutte le mattine lasciava la sua macchina. Ero tornato con la Lincoln a Van Nuys ed ero arrivato al Four Green Fields. Era un locale lungo e stretto come una canna di pistola - forse per questo piaceva agli avvocati -, sulla sinistra correva il bancone e sulla destra una fila di séparé in legno un po' sfasciati. Era molto affollato, come può esserlo un pub irlandese la sera di San Patrizio. C'era ancora più gente del solito perché la festa cadeva di giovedì e
molti cominciavano a festeggiare un lungo ponte. Anch'io avevo cercato di liberarmi il più possibile per il giorno successivo. Lo faccio tutti gli anni il giorno dopo San Patrizio. Cominciai a lavorare di gomiti per farmi largo tra la folla alla ricerca di Maggie McPherson mentre da un jukebox nascosto chissà dove attaccava a suonare a tutto volume Danny Boy. Una versione rock punk primi anni Ottanta che azzerava la possibilità di sentire le risposte di quelli che conoscevo, che salutavo e ai quali chiedevo se avevano visto la mia ex moglie. Da quanto riuscivo a capire, i frammenti di conversazione che mi arrivavano all'orecchio mentre fendevo la calca riguardavano tutti l'anomalo verdetto emesso il giorno prima nei confronti di Robert Blake. Tra la folla mi imbattei in Robert Gillen. Il cameraman tirò fuori dalla tasca quattro banconote spiegazzate da cento dollari e me le diede. Dovevano far parte della mazzetta da dieci che gli avevo dato due settimane prima nel tribunale di Van Nuys, quando avevo dimostrato a Cecil Dobbs la mia capacità di manipolazione dei media. Mille li avevo già spesi per Roulet. I quattrocento erano guadagno. «Sapevo che ti avrei trovato qui» mi urlò nelle orecchie. «Grazie, Sticks» risposi. «Mi serviranno per prendere il controllo del bar.» Lui rise. Lo superai alla ricerca della mia ex moglie. «Sempre a disposizione, amico» disse. Mentre mi appiattivo contro di lui per passare, mi diede una pacca sulla spalla e si allontanò. Trovai Maggie nell'ultimo séparé sul fondo. Lo spazio era occupato da sei donne, pm o segretarie della sezione di Van Nuys. Le conoscevo quasi tutte di vista e la situazione era piuttosto imbarazzante perché dovevo stare in piedi e per farmi sentire ero costretto a urlare sopra la musica e il rumore della gente. La circostanza era complicata dal fatto che tutte quelle signore stavano dalla parte dell'accusa e mi vedevano come se fossi il socio del diavolo. Sul tavolo c'erano due caraffe di Guinness, una delle due era piena. Considerai che fosse impossibile riuscire a fendere la folla per raggiungere il banco del bar e recuperare un bicchiere. Maggie si rese conto della mia condizione e mi offrì di condividere il suo. «Prendilo pure» gridò lei. «In passato ci siamo scambiati la saliva.» Io sorrisi e dedussi che le caraffe sul tavolo non dovevano essere le prime. Presi un sorso abbondante di birra e la trovai buona. La Guinness è sempre stata un mio punto fermo. Maggie era seduta sulla sinistra del séparé tra due giovani pubblici mini-
steri che aveva preso sotto la sua ala protettrice. Le giovani professioniste di Van Nuys gravitavano intorno alla mia ex moglie mentre Smithson, il capo in testa, si circondava di legali alla Minton. Alzai il bicchiere per brindare con Maggie, ma lei non poteva farlo visto che il suo bicchiere l'avevo io. Allora si allungò verso la caraffa e la sollevò. «Cin-cin!» Si astenne dal bere dalla caraffa. La appoggiò e disse qualcosa all'orecchio dell'amica che le sedeva accanto sul lato esterno. La ragazza si spostò per farla passare. Maggie si alzò, mi baciò sulla guancia e disse: «In certe situazioni per una donna è più facile recuperare un bicchiere». «Specie per le donne belle» dissi io. Mi diede una delle sue tipiche occhiate e si girò verso il muro di folla che ci separava dal bancone. Lanciò un fischio acuto per richiamare l'attenzione di uno dei giovanotti irlandesi purosangue addetti alla spina, tutti in grado di scolpire sulla schiuma in cima al bicchiere la sagoma di un'arpa, un angelo o una donna nuda. «Un boccale da pinta» gridò lei. Il barista dovette leggerle le labbra. Un bicchiere pulito passò di mano in mano fino a noi, come si fa con i ragazzini che vengono fatti passare sulla testa del pubblico nei concerti dei Pearl Jam. Maggie mi riempì il boccale dalla caraffa più fresca e fece un brindisi. «Allora» mi disse. «Va un po' meglio di oggi?» Annuii. «Abbastanza.» «Minton è andato giù duro?» Annuii di nuovo. «Sì, lui e la polizia.» «Quel Corliss, vero? L'ho detto che era un pezzo di merda. Lo sono tutti.» Non risposi e feci come se sapessi a cosa si riferiva e avessi già sentito nominare Corliss. Presi una lunga sorsata di birra. «Lo so che non avrei dovuto dirlo» disse Maggie. «Ma tanto quello che penso io non conta. Se Minton è così stupido da servirsi di lui, sono sicura che vinci facile.» Pensai che si riferisse a un testimone, ma nel dossier non avevo notato nessun riferimento a un teste di nome Corliss. Se era un testimone che a lei non piaceva poteva trattarsi di un informatore. Probabilmente uno del car-
cere. «Come sai di lui?» le chiesi alla fine. «Te ne ha parlato Minton?» «No, sono stata io a mandarlo da Minton. Il mio dovere era indirizzarlo al pm incaricato, a prescindere dalla mia opinione su quello che aveva da dire, e stava a Minton valutare se servirsene o meno.» «E perché è venuto da te?» Fece una smorfia perché la risposta era ovvia. «Ero io il pm durante la prima comparizione. Lui era nel recinto e ha pensato che il caso fosse ancora in mano mia.» A quel punto capii com'era andata. Corliss era sotto la lettera C, Roulet era stato chiamato senza seguire l'ordine alfabetico ed era passato prima di lui. È probabile che Corliss fosse nel gruppo di detenuti portato nell'aula insieme a Roulet e avesse visto me e Maggie discutere la cauzione. Per questo aveva creduto che Maggie seguisse il caso. Doveva averle fatto una soffiata al telefono. «Quando ti ha chiamato?» le chiesi. «Ti sto dicendo troppo, Haller. Non sono...» «Dimmi solo quando ti ha telefonato. L'udienza era di lunedì, è successo subito dopo?» La notizia dell'udienza non era stata riportata né dai giornali né dalla tv, quindi ero curioso di capire dove Corliss potesse aver preso le informazioni che cercava di contrattare con l'accusa. Immaginavo che non le avesse avute da Roulet. Ero abbastanza certo di averlo spaventato abbastanza per convincerlo a tacere. Visto che i media non avevano riportato niente, Corliss doveva aver sentito qualcosa in aula, quando erano stati letti i capi d'accusa e io e Maggie avevamo discusso la cauzione. Doveva essergli bastato. Per impressionare il giudice e respingere la richiesta di cauzione, Maggie era stata piuttosto precisa nel dettagliare le ferite subite da Regina Campo. Corliss era al corrente di tutto quello che c'era da sapere per ottenere una confessione del mio cliente in carcere. E poi stava vicino a Roulet. È così che si diventa informatori. «Sì, mi ha telefonato lunedì sera» rispose Maggie alla fine. «Perché dicevi che è un pezzo di merda? Lo aveva già fatto, no? È un informatore professionista, giusto?» Stavo cercando di farla parlare ancora e lei lo sapeva, ma scosse la testa. «Scoprirai quello che ti serve sapere durante il confronto delle prove. Non possiamo berci una pinta di Guinness in amicizia? Devo andarmene tra un'oretta.»
Feci segno di sì, ma volevo sapere di più. «La Guinness che hai bevuto dovrebbe bastare per celebrare San Patrizio. Cosa ne dici se usciamo di qui e andiamo a mangiare qualcosa?» «Così puoi chiedermi dell'altro sul tuo caso?» «No, così possiamo parlare di nostra figlia.» Maggie strinse gli occhi. «C'è qualcosa che non va?» mi chiese. «Che io sappia no. Ma ho voglia di parlarti di lei.» «Dove mi porti a cena?» Proposi un ristorante italiano a Sherman Oaks su Ventura e lei mi fece gli occhi dolci. Era il locale dove andavamo per i nostri anniversari e dove avevamo festeggiato quando era rimasta incinta. L'appartamento dove abitavamo insieme, e dove ancora stava lei, era pochi isolati più in là, su Dickens. «Ce la facciamo a cenare in un'ora?» mi chiese. «Se usciamo subito e ordiniamo senza studiare troppo il menu, sì.» «Venduto. Fammi salutare al volo.» «Prendo la macchina.» Andare con la mia macchina era una buona idea perché Maggie si reggeva male sulle gambe. Arrivammo alla Lincoln barcollando e l'aiutai a salire. Mi diressi verso Ventura. Dopo pochi secondi Maggie si accorse di essersi seduta su qualcosa e si sfilò un cd da sotto le gambe. Era di Earl, uno di quelli che ascoltava mentre ero in tribunale per risparmiare energia all'iPod. Un cantante del sud che si chiamava Ludacris. «Ecco perché stavo scomoda» disse Maggie. «È questo che senti mentre ti sposti da un tribunale all'altro?» «A dire il vero è di Earl. Da un po' di tempo è lui che guida. Ludacris non è tra i miei preferiti. Preferisco la vecchia scuola, tipo Tupac e Dre o roba del genere.» Si mise a ridere perché pensava che stessi scherzando. Pochi minuti dopo eravamo nel vialetto d'ingresso al ristorante. Lasciai l'auto a un portiere ed entrammo. La hostess ci riconobbe e si comportò come se fossero passate non più di un paio di settimane dall'ultima volta che eravamo stati lì. E probabilmente era vero, c'eravamo stati tutti e due di recente, ma con partner diversi. Senza guardare il menu ordinai una bottiglia di Singe Shiraz e due piatti di pasta. Saltammo insalate e antipasti vari e raccomandai al cameriere di
servirci il più velocemente possibile. Quando il cameriere si fu allontanato guardai l'ora e vidi che ci restavano quarantacinque minuti. Un sacco di tempo. La Guinness aveva fatto effetto. Maggie rideva in modo così travolgente da farmi pensare che fosse ubriaca. Meravigliosamente ubriaca. Non l'avevo mai vista così euforica. Era sempre molto più controllata. Forse avevamo smesso di fare dei figli anche per questo. «Meglio che lasci perdere il vino» le dissi. «O domani avrai un gran mal di testa.» «Non preoccuparti per me. Vivi e lascia vivere.» Ci sorridemmo. «Come stai, Haller? Voglio dire, come stai davvero?» «Io bene. E tu? Davvero, voglio dire.» «Niente male. Hai superato i problemi con Lorna?» «Sì, riusciamo persino a essere amici.» «E noi cosa siamo?» «Non lo so. Qualche volta avversari, credo.» Lei scosse la testa. «Se non possiamo occuparci dello stesso caso non possiamo essere avversari. E poi con te devo sempre stare in guardia. Come con Corliss.» «Grazie del pensiero, ma lui i suoi danni li ha già fatti.» «Non ho nessun rispetto per un pm che si serve di un informatore avanzo di galera. Anche se il tuo cliente è peggio.» «Il pm non mi ha spiegato nei dettagli quello che ha detto Corliss del mio cliente.» «Cosa dici?» «Mi ha detto solo di avere un informatore. Non che cosa gli ha raccontato.» «Non è corretto.» «Non sarà corretto ma è così. Fino all'udienza di lunedì non ci verrà assegnato un giudice. Per cui non posso lamentarmi ancora con nessuno. Minton lo sa. È come hai detto tu. Non si comporta in modo corretto.» Maggie avvampò. Le saliva la rabbia. Avevo toccato il tasto giusto. Per lei l'unico modo di vincere era usare metodi corretti. Per questo era un ottimo pubblico ministero. Eravamo seduti, entrambi d'angolo, in fondo a una panca in legno sistemata lungo la parete di una saletta interna. Maggie si sporse verso di me, prese troppo slancio e ci scontrammo con la testa. Lei scoppiò a ridere e ci
riprovò. Parlò a voce bassa. «Corliss ha chiesto al tuo cliente perché era andato a casa della vittima e lui ha risposto: "Per darle la lezione che si meritava". Secondo Corliss il tuo cliente gli ha detto di averla colpita appena ha aperto la porta.» Maggie indietreggiò con la schiena e perse l'equilibrio. «Stai bene?» «Sì, ma possiamo cambiare argomento? Basta parlare di lavoro. Troppa gente di merda, troppe frustrazioni.» «Va bene.» In quel momento il cameriere servì il vino e i piatti. Il vino era buono e il cibo aveva un buon sapore di casa. Cominciammo a mangiare con calma. Poi Maggie inaspettatamente attaccò. «Di Corliss non ne sapevi nulla, vero? Almeno finché non me lo sono lasciata scappare.» «Sapevo che Minton stava nascondendo qualcosa. Immaginavo che ci fosse una spia in carcere...» «Balle. Mi hai fatto bere per farmi parlare.» «Veramente quando sono arrivato avevi già bevuto.» Restò con la forchetta sospesa sopra il piatto e lunghe fila di linguine al pesto che penzolavano. Mi puntò contro la forchetta. «Uno a zero per te. Parliamo di nostra figlia.» Credevo se ne fosse dimenticata. Feci una smorfia. «Quello che hai detto la settimana scorsa è vero. Ha bisogno della presenza del padre.» «Quindi?» «Quindi voglio partecipare di più alla sua vita. Mi piace guardarla. Me ne sono accorto sabato quando siamo andati al cinema. Mi sono seduto di fianco in modo da poterla osservare mentre guardava il film. Le guardavo gli occhi, capisci?» «Benvenuto nel club.» «Per cui non lo so. Pensavo che potremmo programmare una serie di incontri, che ne dici? Farla diventare una cosa regolare. Magari potrebbe anche fermarsi la notte qualche volta, naturalmente se a lei fa piacere.» «Sei certo di tutto quello che hai detto? Per me è una novità.» «Non lo sapevo neppure io, fino a ora. Quando era più piccola non riuscivo a comunicare, quando eravamo insieme non sapevo cosa fare. Mi sentivo inadeguato. Adesso non più. Mi piace parlarle. Stare con lei. Imparo molte più cose io da lei che non viceversa, questo è sicuro.»
D'improvviso avvertii la mano di Maggie su una gamba sotto il tavolo. «Quello che dici è fantastico» disse. «Sono felice di sentirti dire queste cose. Ma andiamo per gradi. Non ti sei fatto vedere un granché in questi quattro anni e non ho intenzione di farle nascere delle speranze solo perché tu hai ammesso le tue mancanze.» «Giusto. Regolati tu come credi meglio. Volevo solo dirti che io ci sarò. Lo prometto.» Maggie volle crederci e sorrise. E io feci a me stesso la promessa che avevo appena fatto a lei. «Bene» disse. «Sono davvero contenta. Proviamo a fare un prospetto con delle date e vediamo se funziona.» Ritrasse la mano e continuammo a mangiare in silenzio. Avevamo quasi finito quando Maggie mi sorprese un'altra volta. «Non credo di essere in grado di guidare la mia macchina stasera» disse. «Stavo pensando la stessa cosa.» «Non mi sembra che tu sia ubriaco. Hai bevuto appena una mezza pinta...» «No, mi riferivo a te. Nessun problema, ti accompagno io.» «Grazie.» Allungò la mano sul tavolo e l'appoggiò sulla mia. «E domattina mi accompagni alla mia macchina?» Mi fece un sorriso dolcissimo. La guardai, cercando di capire la donna che quattro anni prima mi aveva cacciato di casa. La donna che mi aveva respinto e con la quale non ero mai più riuscito a comunicare. «Certo» le risposi. «Ti ci porto io.» 17 Venerdì 18 marzo Quando la mattina mi svegliai trovai mia figlia che dormiva tra me e la mia ex moglie. La luce filtrava da una vetrata a mosaico in alto sulla parete. Quando vivevo lì mi dava fastidio perché lasciava passare la luce troppo presto la mattina. Mi misi a guardare il riflesso sul soffitto a mansarda e ripensai a quello che era successo la sera prima. Al ristorante avevo bevuto praticamente una bottiglia di vino intera, avevo accompagnato Maggie, ero entrato in casa e avevamo trovato nostra figlia che già dormiva nel suo letto.
Quando la baby-sitter se ne era andata Maggie aveva aperto un'altra bottiglia di vino. Ce l'eravamo scolata insieme, poi lei mi aveva preso per mano e mi aveva guidato fino al letto che avevamo condiviso per quattro anni e che da altrettanto tempo non dividevamo più. Ma più in là il mio ricordo non andava. L'effetto del vino mi impediva di ricordare quello che era successo dopo, se era stato un ritorno da trionfatore o da sconfitto. Non ricordavo se c'erano state delle parole. O delle promesse. «Non è corretto verso di lei.» Girai la testa sul cuscino. Maggie era sveglia. Stava guardando il viso di nostra figlia che dormiva come un angelo. «Cosa non è corretto?» «Che si svegli e ti trovi qui. Potrebbe farsi delle illusioni o semplicemente immaginare qualcosa che non c'è.» «Come è arrivata qui?» «Ce l'ho portata io. Aveva un incubo.» «Le capita spesso?» «Quando dorme da sola. Nella sua stanza.» «E allora dorme sempre qui?» Qualcosa nel mio tono la irritò. «Non cominciare. Tu non hai idea di cosa vuol dire allevare un figlio da soli.» «Lo so, non posso controbattere. Allora cosa vuoi che faccia, che me ne vada prima che si svegli? Mi vesto e faccio finta di essere appena arrivato a prenderti per accompagnarti alla tua macchina.» «Non lo so. In ogni caso vestiti e cerca di non svegliarla.» Scivolai dal letto, raccolsi i vestiti e scesi nel bagno degli ospiti. Il cambiamento di atteggiamento di Maggie nei miei confronti era sconcertante. Diedi la colpa ai postumi dell'alcol. O forse a qualcosa che avevo fatto o detto dopo che eravamo rientrati. Mi vestii in fretta, tornai di sopra e sbirciai in camera. Hayley continuava a dormire. Le braccia stese tra i due cuscini sembravano le ali di un angelo. Maggie si stava mettendo una maglietta a maniche lunghe sopra un vecchio paio di pantaloni della tuta che portava già quando eravamo sposati. Entrai e mi avvicinai a lei. «Esco e ritorno» le sussurrai. «Che cosa?» disse infastidita. «Non dovevamo andare a recuperare la macchina?» «Mi sembrava di aver capito che preferivi che non mi vedesse sveglian-
dosi. Vado a prendermi un caffè e nel giro di un'ora sono di ritorno. Andiamo tutti insieme a prendere la tua macchina e poi accompagno io Hayley a scuola. Se vuoi più tardi posso anche venire a prenderla. Oggi non ho impegni.» «Cosa? Mi stai dicendo che hai intenzione di portarla a scuola?» «È mia figlia. Hai dimenticato quello che ti ho detto ieri sera?» Fece una smorfia. Sapevo per esperienza che quell'atteggiamento preannunciava l'entrata in campo dell'artiglieria pesante. Dovevo essermi perso qualcosa. Maggie si stava caricando. «Ricordo perfettamente, ma ero sicura che lo avessi detto così, tanto per dire» fece lei. «Spiegati.» «Credevo che stessi cercando di farmi parlare della causa o di portarmi a letto. Non so.» Sorrisi e scossi la testa. Di colpo le fantasie sulla notte appena trascorsa erano svanite. «Quello di noi due che ha portato l'altro in camera non sono stato io» dissi. «E allora era la causa. Volevi che ti dicessi quello che sapevo.» La fissai a lungo. «Non ho modo di convincerti, vero?» «No, se fai l'ipocrita e ti comporti come un difensore di criminali.» Quando si arrivava allo scontro verbale, aveva sempre la meglio lei. Ringraziavo che fra noi esistesse un comprovato conflitto di interessi perché non avrei mai voluto trovarmela come controparte in un processo. Alcuni colleghi della difesa passati sotto le sue grinfie erano arrivati a insinuare che l'avessi sposata per evitare di trovarmela contro sul lavoro. «Decidi tu» dissi. «Io torno fra un'ora. Se vuoi un passaggio alla macchina, fatti trovare pronta e prepara anche Hayley.» «Lasciamo stare. Prendiamo un taxi.» «Vi accompagno.» «No, prendiamo un taxi. E parla piano.» Guardai mia figlia che continuava a dormire nonostante il nostro battibecco. «E lei? Vengo domani o domenica?» «Non lo so. Chiamami domani.» «Va bene. Ciao.» La lasciai in camera da letto. Imboccai a piedi la Dickens e camminai ol-
tre un isolato prima di ritrovare la Lincoln mal parcheggiata contro il marciapiede. Sul parabrezza c'era una multa per posteggio vicino a un idrante. Entrai in macchina e gettai la multa sui sedili posteriori. Me ne sarei occupato la prima volta che fossi tornato in zona. Non volevo fare come Louis Roulet che lasciava scadere le multe. La contea era piena di poliziotti cui non sarebbe dispiaciuto incriminarmi per omesso pagamento di sanzione amministrativa. Discutere mi mette appetito e mi resi conto di avere una fame da lupo. Tornai verso Ventura e passai per Studio City. Era presto, soprattutto considerato che era la mattina dopo San Patrizio e arrivai da DuPar, nei pressi di Laurel Canyon Boulevard, prima che il locale si riempisse di gente. Occupai un séparé sul fondo e ordinai pancake e caffè. Per cercare di dimenticare Maggie la Spietata tirai fuori dalla valigetta un blocco legale e il fascicolo di Roulet. Prima di prenderlo in esame svegliai al telefono Raul Levin. «Ho qualcosa per te» dissi. «Niente che non possa aspettare fino a lunedì? Sono arrivato a casa da un paio d'ore al massimo e volevo far partire il weekend da oggi.» «No, non può aspettare e tu da ieri sei in debito con me. E poi non sei neanche irlandese. Ho bisogno di notizie su una persona.» «Aspetta un attimo.» Lo sentii appoggiare il microfono per recuperare carta e penna. «Ci sono, vai avanti.» «Il tipo si chiama Corliss ed è stato chiamato in giudizio il giorno 7, subito dopo Roulet. Faceva parte del primo gruppo ed erano insieme nel recinto degli imputati. Ora lui sta cercando di incastrare Roulet e io voglio sapere tutto quello che c'è da sapere su di lui.» «Conosci il suo primo nome?» «No.» «Sai perché era stato messo dentro?» «No, e non so neppure se è ancora in carcere.» «Grazie dell'aiuto. Roulet cosa gli avrebbe detto?» «Che aveva picchiato selvaggiamente una puttana perché se lo meritava.» «Cos'altro sai?» «Che è un informatore abituale. Se riesci a scoprire chi ha inguaiato in passato potrei avere qualcosa da usare contro di lui. Risali indietro fin dove riesci. I pm in genere non lo fanno. Perché hanno paura di quello che
potrebbero trovare. Preferiscono non sapere.» «Ricevuto.» «Appena sai qualcosa dimmelo.» Chiusi la telefonata mentre mi stavano portando i pancake. Li inondai di sciroppo d'acero e li mangiai leggendo il verbale delle prove dell'accusa. L'unico elemento sorprendente restava il rapporto sull'arma. Tutto il resto del materiale, salvo le foto a colori, era contenuto nel fascicolo di Levin. Cominciai a scorrerlo. Levin aveva arricchito il fascicolo con tutto quello che aveva trovato, come è normale che faccia un investigatore a contratto. Aveva recuperato persino copie delle multe per divieto di sosta e dei verbali per eccesso di velocità che Raul aveva accumulato negli ultimi anni senza pagare. Da principio quella meticolosità mi irritò. Per tirare fuori quello che era veramente pertinente alla difesa di Roulet bisognava lavorare. Stavo per cominciare il lavoro di repulisti quando si avvicinò la cameriera per rabboccarmi la tazza di caffè. Scorse una fotografia a colori del volto tumefatto di Reggie Campo che avevo messo a lato del fascicolo e istintivamente fece un passo indietro. «Mi scusi» dissi. Coprii la foto con la cartellina e le feci cenno che poteva avvicinarsi. Con esitazione tornò a versarmi il caffè. «Si tratta di lavoro» dissi quasi per giustificarmi. «Non intendevo fare lo stesso con lei.» «Spero che riesca a prendere il bastardo che l'ha ridotta così.» Annuii. Mi aveva scambiato per un poliziotto. Forse perché nelle ultime ventiquattro ore non mi ero fatto la barba. «Ci provo» dissi. La ragazza si allontanò e tornai al mio fascicolo. Feci scorrere verso il basso la foto di Reggie Campo e a poco a poco vidi spuntare il lato del viso non sfigurato dalle percosse. La parte sinistra. Sistemai il fascicolo in modo da lasciare in vista solo la parte intatta del viso. Ancora una volta mi capitò di avvertire qualcosa di familiare. Ma ancora una volta non riuscii a capire perché. Sapevo che questa donna era uguale a un'altra che conoscevo o che per lo meno le assomigliava. Ma chi? Sapevo anche che mi sarei arrovellato su quella domanda finché non ne fossi venuto a capo. Continuai a pensarci sorseggiando il caffè e tamburellando le dita sul tavolo. Poi decisi di fare un altro tentativo. Presi l'immagine del viso di Reggie Campo e la piegai in verticale all'altezza della metà
in modo che da un lato della piegatura si vedesse la parte offesa e dall'altra il lato non colpito. Infilai la foto così piegata nella tasca interna della giacca e mi alzai. La toilette era vuota. Mi avvicinai al lavabo e tirai fuori la foto. Mi allungai sul lavandino e la appoggiai alla superficie dello specchio tenendola piegata dalla parte del lato integro. L'immagine riflessa era quella del viso intero e senza un livido. La fissai a lungo e finalmente capii perché quei lineamenti mi fossero familiari. «Martha Renteria» dissi. All'improvviso la porta della toilette si spalancò ed entrarono due ragazzi con le mani all'altezza della cerniera dei pantaloni. Tolsi in fretta la foto dallo specchio e la ficcai nella giacca. Mi girai e mi avvicinai alla porta. Mentre uscivo sentii che ridevano. Non riuscivo a capire cosa si fossero immaginati. Raccolsi i documenti e le foto e misi tutto nella valigetta. Lasciai sul tavolo denaro più che sufficiente per il conto e una congrua mancia e uscii. Sentivo come uno strano malessere. Avvertii una vampata di calore in viso e la pelle bruciare fin sotto il colletto della camicia. Il cuore mi batteva forte. Un quarto d'ora dopo parcheggiavo di fronte al mio magazzino di Oxnard Avenue a North Hollywood. Era un locale di circa centoquaranta metri quadrati che si apriva oltre a una doppia porta da garage. Mi ero occupato della difesa del figlio del proprietario, accusato di detenzione di sostanze stupefacenti. Lo avevo tirato fuori di galera e fatto mettere in una struttura di recupero. Invece di pagarmi la parcella, il padre mi aveva affittato il magazzino per un anno a canone zero. Il figlio aveva continuato ad avere problemi di droga e io continuavo ad avere il locale a disposizione. Nel magazzino tenevo gli scatoloni con i fascicoli dei casi chiusi e altre due Lincoln. L'anno precedente, in un momento in cui avevo abbondanza di liquidi, avevo comprato a condizioni particolarmente vantaggiose quattro Lincoln in un colpo solo. La mia intenzione era di usarle fino ai centomila chilometri ciascuna e poi cederle a un service di limousine per il trasporto dei viaggiatori da e per l'aeroporto. Il piano aveva funzionato. Adesso stavo usando la seconda Lincoln e presto sarebbe arrivato il momento di passare alla terza. Sollevai la porta ed entrai nella zona destinata all'archivio dove su una serie di scaffalature metalliche erano sistemate le scatole divise per annate. Individuai quelle di un paio d'anni prima e con il dito scorsi la lista dei
nomi dei clienti scritta sul lato di ciascuna scatola finché trovai il nome di Jesus Menendez. Estrassi la scatola dallo scaffale, la depositai sul pavimento e la aprii. Il caso Menendez aveva avuto una vita breve. Menendez si era dichiarato colpevole prima ancora che il procuratore passasse il fascicolo, quindi per le copie dei documenti delle indagini della polizia bastavano quattro classificatori. Li sfogliai alla ricerca delle foto e nel terzo classificatore trovai quello che stavo cercando. Martha Renteria era la donna che Jesus Menendez aveva confessato di aver ucciso. Era una bella ballerina di colore di ventiquattro anni con un grande sorriso e i denti bianchissimi. Era stata trovata ferita a morte nel suo appartamento di Panorama City. Prima di essere colpita a coltellate era stata percossa e le ecchimosi si trovavano sul lato sinistro del viso, all'opposto di Reggie Campo. Nel rapporto relativo all'autopsia ritrovai la foto del primo piano. Ripetei l'operazione di poco prima. Piegai la foto in verticale, da una parte il lato ferito, dall'altra quello sano. Congiunsi sul pavimento le due metà delle foto di Reggie e di Martha. Formavano un volto intero perfetto, se non si considerava che una era morta e l'altra no. Erano così uguali da sembrare gemelle. 18 Jesus Menendez stava scontando l'ergastolo a San Quentin perché aveva usato un asciugamano da bagno per asciugarsi il pene. Ci si poteva girare intorno all'infinito, ma alla fine la verità era quella. L'asciugamano era stato il suo errore più grave. Con il contenuto del classificatore su Menendez sparso sul pavimento me ne stavo seduto a gambe larghe per terra, riesaminando i fatti del caso cui avevo lavorato un paio d'anni prima. Menendez era stato accusato dell'omicidio di Martha Renteria. L'uomo aveva seguito la vittima da uno strip club di East Hollywood, il Cobra Room, fino al suo alloggio di Panorama City. L'aveva violentata e le aveva inferto una cinquantina di coltellate. Le ferite avevano causato un'abbondante perdita di sangue, che si era raccolto in una pozza sul pavimento di legno ai piedi del letto e di lì, attraverso le crepe del pavimento, era gocciolato al piano di sotto. A quel punto era stata chiamata la polizia. Il procedimento contro Menendez era praticamente inattaccabile, ma si era svolto su base indiziaria. Prima che venissi incaricato del caso, lui ave-
va peggiorato la situazione confessando di essere stato in casa della vittima la notte dell'omicidio. Ma quello che lo aveva incastrato definitivamente era stato l'esame del Dna effettuato su un asciugamano rosa rinvenuto nel bagno della vittima. Risultò una prova impossibile da neutralizzare. Un piatto rotante impossibile da distruggere. Gli avvocati difensori definiscono "iceberg" quel genere di prova. Mi ero occupato del caso Menendez in un modo che potrei definire da «sconfitto a testa alta». Menendez non aveva il denaro per giustificare l'impiego di tempo e di energie che aveva richiesto montare una difesa accurata, ma il processo aveva scatenato l'attenzione dei media e io contavo di ripagarmi con una buona campagna pubblicitaria a costo zero. Menendez era venuto da me perché pochi mesi prima del suo arresto avevo difeso con successo il fratello maggiore, Fernando, accusato di spaccio di eroina. Secondo il mio metro di giudizio, in quell'occasione avevo ottenuto un buon risultato. Ero riuscito a ridimensionare l'accusa di consumo e spaccio in quella di detenzione. Fernando aveva ottenuto la libertà condizionata e non era finito in galera. Dopo quel successo, la notte in cui Jesus fu arrestato per l'omicidio di Martha Renteria, Fernando mi aveva interpellato. Jesus si era presentato spontaneamente alla polizia di Van Nuys. Tutte le televisioni locali avevano ripetutamente mostrato il suo identikit, in particolare le reti di lingua spagnola. Jesus aveva detto ai familiari che sarebbe andato alla polizia per sistemare le cose e che sarebbe tornato. Invece non era tornato e suo fratello mi aveva cercato. Gli dissi quello che insegnava questa esperienza: mai andare alla polizia con l'intento di chiarire le cose senza aver consultato un avvocato. Quando Fernando Menendez mi aveva interpellato avevo già visto numerosi notiziari sul delitto della ballerina esotica, come ormai era definito il caso Martha Renteria. Nei notiziari veniva sempre inquadrato l'identikit, realizzato da un artista della polizia, dell'uomo latinoamericano sospettato di aver seguito la donna all'uscita del locale. Se i media si interessavano al caso prima del fermo del presunto colpevole significava che la vicenda avrebbe fatto breccia nell'immaginario popolare e io ne avrei potuto trarre vantaggio. Accettai l'incarico, consapevole dei rischi che comportava. E del fatto che non avrei ricevuto compensi. A titolo gratuito. Pro bono. Per il bene della collettività. Inoltre i casi di omicidio non sono frequenti e in genere tra uno e l'altro passa del tempo, quindi, quando mi capitano, tendo ad accettare l'incarico. Quello di Menendez è stato il dodicesimo caso di
omicidio della mia carriera. Gli imputati dei primi undici sono ancora in carcere, ma nessuno di loro si trova nel braccio della morte. Lo considero un risultato eccellente. Prima che arrivassi nel carcere di Van Nuys dove era detenuto, Menendez aveva già rilasciato alla polizia una dichiarazione compromettente. Aveva raccontato agli agenti Howard Kurlen e Don Crafton che non aveva seguito la vittima fino a casa come insinuavano i notiziari televisivi, ma che era stata la donna a invitarlo e dal momento che quello stesso giorno aveva vinto millecento dollari al lotto, aveva deciso di investire parte della vincita per comprarsi le sue prestazioni. Raccontò che dopo un rapporto sessuale consensuale - anche se non erano state queste le sue esatte parole lui se ne era andato lasciando la donna viva e vegeta e più ricca di cinquecento dollari. Kurlen e Crafton riscontrarono parecchie lacune nella sua versione dei fatti. Non c'erano state estrazioni del lotto il giorno del delitto e neppure il giorno precedente e al mini-market del quartiere dove aveva detto di aver incassato la vincita non risultavano pagamenti di millecento dollari a Menendez né a nessun altro. Nell'appartamento della vittima non erano stati rinvenuti più di ottanta dollari. Infine nel verbale dell'autopsia si sosteneva che ferite e abrasioni riscontrate all'interno della vagina escludevano che si fosse trattato di rapporto consensuale. Il medico legale concluse che la donna era stata violentata. Nell'appartamento furono rinvenute solo le impronte della donna. Tutto era stato pulito. Nel corpo della vittima non era stato trovato liquido seminale, il che significava che era stato usato un preservativo o che lo stupratore non aveva eiaculato durante il rapporto. Nella stanza da bagno, lontana dalla camera da letto dove erano avvenuti stupro e delitto, un detective della scientifica, utilizzando una lampada per il rilevamento delle impronte, aveva rinvenuto una piccola quantità di liquido seminale su un asciugamano rosa appeso su un trespolo accanto al water. Si era formulata l'ipotesi che l'assassino, stuprata e uccisa la vittima, fosse andato in bagno, si fosse tolto il preservativo, lo avesse gettato nel water, si fosse asciugato il pene con l'asciugamano che aveva trovato a portata di mano e lo avesse riappeso. Quando aveva ripulito la scena del delitto doveva essersi dimenticato dell'asciugamano. Gli investigatori mantennero segreta l'analisi della traccia del Dna e la loro ricostruzione dei fatti, e i media non vennero a conoscenza dell'asso nella manica di Kurlen e Crafton.
Menendez fu arrestato come presunto colpevole e incarcerato senza possibilità di cauzione a causa delle false dichiarazioni e dell'ammissione di essere stato in casa della vittima. La polizia ottenne l'autorizzazione a prelevare un campione di saliva da confrontare con la traccia dell'asciugamano. Fu a questo punto delle indagini che presi l'incarico. Come si dice nel gergo dei difensori, a quel punto il Titanic aveva già preso il largo. E l'iceberg lo stava aspettando. Nonostante la situazione di Menendez fosse compromessa, ma senza sapere che era in corso il confronto del Dna, cominciai a intravedere una possibilità di salvezza. Era necessario fare qualcosa per neutralizzare l'effetto delle sue dichiarazioni che, oltretutto, venivano riportate dai media come una confessione completa. Menendez era messicano ed era arrivato negli Stati Uniti all'età di otto anni. Nella sua famiglia si parlava solo spagnolo e fino all'età di quattordici anni aveva frequentato una scuola per madrelingua spagnoli. Parlava un inglese elementare e la sua capacità di comprensione della lingua mi sembrava addirittura inferiore alla sua capacità d'espressione. Per Kurlen e Crafton fu facile procurarsi un traduttore ma, come dimostra la registrazione del colloquio, a nessuno venne in mente di chiedere se a lui ne servisse uno. Era quello lo spiraglio sul quale dovevo lavorare. Quel colloquio era il capo d'accusa principale contro Menendez. Era il piatto rotante indistruttibile. Se fossi riuscito a confutarlo tutte le altre prove sarebbero state messe in dubbio. La mia strategia consisteva nell'insinuare che l'interrogatorio avesse rappresentato una violazione dei diritti dell'imputato perché non poteva essere stato in grado di comprenderli nel momento in cui Kurlen glieli aveva letti e gli aveva fatto firmare il documento che li elencava in inglese. Due settimane dopo l'arresto di Menendez arrivarono i risultati dell'esame di laboratorio che dimostravano che il suo Dna ero lo stesso di quello rinvenuto sull'asciugamano trovato nel bagno della vittima. Dopo quella conferma l'accusa smise di interessarsi all'interrogatorio e alle sue dichiarazioni. La prova del Dna era sufficiente a reggere le accuse di stupro e omicidio. L'unica possibilità era ricorrere a una difesa alla O.J. Simpson, ricusando le analisi di laboratorio. Quella disgraziata esperienza però era servita di lezione ai rappresentanti della pubblica accusa e ai tecnici di laboratorio e secondo la casistica di cui ero a conoscenza sarebbe stato estremamente difficile riuscire a spuntarla di fronte a una giuria. Il Dna rappresentava l'iceberg e la velocità che aveva acquisito la nave le impediva di riuscire a evitarlo.
Il procuratore distrettuale in persona annunciò in conferenza stampa il ritrovamento del Dna e l'intenzione di chiedere la pena capitale per Menendez. Aggiunse che tre testimoni oculari avevano visto l'imputato gettare un coltello nel Los Angeles River, e che nonostante il fiume fosse stato setacciato, l'arma non era stata ritrovata. Con una certa superficialità, il procuratore aveva ritenuto attendibili le dichiarazioni dei testimoni, i tre compagni di stanza di Menendez. Tenuto conto delle argomentazioni dell'accusa e della minaccia della richiesta della pena di morte, decisi che la difesa O.J. sarebbe stata troppo rischiosa. Mi recai nel carcere di Van Nuys e dissi a Jesus, servendomi del fratello Fernando come interprete, che la sua ultima speranza era il patteggiamento che il procuratore distrettuale mi aveva proposto. Se si fosse dichiarato colpevole avrei potuto ottenere l'ergastolo e la libertà condizionata. Gli dissi che sarebbe potuto tornare in libertà entro una quindicina d'anni e che non aveva alternative. Fu una discussione straziante. I due fratelli gridarono e mi supplicarono di trovare un'altra strada. Jesus insisteva nel proclamarsi innocente. Mi disse di aver mentito alla polizia per proteggere Fernando, il quale gli aveva dato del denaro che si era procurato grazie ai buoni affari che aveva fatto quel mese con l'eroina. Jesus pensava che se avesse raccontato della generosità del fratello ci sarebbe stata un'altra indagine e Fernando avrebbe potuto venire arrestato. I fratelli mi spinsero a compiere degli ulteriori accertamenti. Jesus mi disse che quella notte Renteria aveva avuto altri clienti al Cobra Room e che lui aveva pagato una cifra così alta per le sue prestazioni perché aveva dovuto giocare al rialzo con un altro pretendente. Jesus mi disse infine che aveva effettivamente gettato un coltello nel fiume, ma solo perché aveva avuto paura. Non era l'arma del delitto. Era semplicemente il coltello che aveva usato nei giorni che aveva lavorato a Pacoima. Quel coltello era simile a quello che avevano descritto nei canali tv di lingua spagnola e se ne era sbarazzato prima di andare alla polizia per chiarire la sua posizione. Stetti ad ascoltarlo e dissi loro che nessuna di quelle giustificazioni aveva valore. Il Dna era l'unica cosa che contava. Jesus aveva un'unica possibilità da scegliere. Poteva accettare i quindici anni o andare al processo e rischiare la pena di morte o l'ergastolo senza libertà condizionata. Gli ricordai che era ancora un ragazzo e che a quarant'anni avrebbe potuto tornare in libertà. Poteva rifarsi una vita.
Conclusi il colloquio in carcere con Jesus con il suo consenso al patteggiamento. Da allora lo rividi solo un'altra volta. Ero al suo fianco di fronte al giudice per suggerirgli la dichiarazione di colpevolezza in occasione dell'udienza durante la quale gli venne contestualmente notificata la sentenza. Dapprima fu incarcerato a Pelican Bay, poi venne mandato a San Quentin. Dalle voci che circolavano in tribunale venni a sapere che suo fratello era stato nuovamente arrestato, questa volta per uso di eroina. Ma non mi aveva interpellato. Si era presentato con un altro avvocato e io non dovevo chiedermi come mai. Aprii il verbale dell'autopsia di Martha Renteria sul pavimento del mio magazzino. Cercavo due passaggi specifici che probabilmente erano sfuggiti anche a chi lo aveva esaminato con attenzione. Il caso era chiuso. Era un dossier dimenticato. Non importava più a nessuno. Il primo passaggio si riferiva alla parte riguardante le cinquantatré pugnalate inferte alla vittima. Nel paragrafo intitolato «Caratteristiche delle ferite» l'arma da taglio, non meglio identificata, veniva descritta come una lama lunga non più di una dozzina di centimetri, larga due-tre e con uno spessore di tre millimetri. Nel verbale veniva anche evidenziata la presenza di lacerazioni frastagliate della pelle sulla parte superficiale delle ferite che indicavano che la punta della lama aveva un andamento irregolare: si trattava, cioè, di un'arma che aveva provocato ferite sia in entrata sia al momento in cui veniva estratta dal corpo della vittima. Il fatto che la lama fosse così corta faceva pensare che si potesse trattare di un coltello pieghevole. Nel verbale era contenuto lo schizzo del profilo di una lama senza impugnatura. Mi sembrò di averla già vista. Tirai accanto a me la mia valigetta e l'aprii. Dal dossier dell'accusa estrassi le foto del coltello pieghevole aperto con l'incisione delle iniziali di Louis Roulet sulla lama. Lo misi a confronto con il disegno riportato sul verbale autoptico. Non era identico, ma molto simile. Estrassi il rapporto sulle analisi effettuate sul coltello ritrovato e lessi lo stesso paragrafo che avevo letto il giorno prima durante l'incontro nell'ufficio di Roulet. L'arma descritta in quel rapporto consisteva in un coltello pieghevole modello Black Ninja di fabbricazione artigianale con una lama lunga una dozzina di centimetri, larga due-tre e spessa tre millimetri, le stesse caratteristiche riscontrate nel coltello non rinvenuto usato per uccidere Martha Renteria. Quello che Jesus Menendez avrebbe gettato nel Los Angeles River.
Ero consapevole che non poteva esistere un solo coltello dalla lama di dodici centimetri. Non era un indizio decisivo, ma l'istinto mi diceva che mi stavo muovendo nella direzione giusta. Cercai di tenere a freno l'ondata di emozioni che mi stava crescendo dentro e che mi prendeva la gola. Tentai di non perdere la concentrazione. Proseguii. Volevo controllare una determinata ferita, ma non volevo guardare le foto sul retro del verbale, quelle che documentavano con crudezza il corpo straziato di Martha Renteria. Andai invece alla pagina che conteneva due immagini generiche del corpo di profilo sui due fianchi, una del davanti e una di schiena. In queste immagini le ferite erano numerate dai medici legali. Era stato utilizzato solo il profilo davanti. Punti e numeri dall'uno al cinquantatré. Sembrava la versione macabra di "Unisci i puntini e scopri cosa apparirà" ed ero assolutamente certo che Kurlen o qualche altro agente avesse provato a farlo nei giorni precedenti la deposizione di Menendez, con la speranza che l'assassino avesse voluto indicare le sue iniziali o qualche altra sigla particolare. Esaminai il profilo frontale del collo e vidi che entrambi i lati erano segnati. Numeri 1 e 2. Girai pagina e rilessi la lista delle descrizioni di ogni coltellata. La numero 1 veniva descritta così: Ferita superficiale alla base del lato destro del collo con livelli di istamina precedenti la morte che indicano come la ferita sia stata forzosa. La numero 2: Ferita superficiale alla base del lato sinistro del collo con livelli di istamina precedenti la morte che indicano come la ferita sia stata forzosa. Taglio di un centimetro più largo del n. 1. Secondo le descrizioni le ferite erano state inferte alla vittima mentre era ancora in vita. Per questo erano state registrate per prime. Chi aveva eseguito l'analisi aveva ipotizzato fossero state causate in modo indotto da un coltello premuto sul collo della vittima. Così l'assassino la teneva in suo potere. Tornai a guardare il dossier dell'accusa del caso Campo. Estrassi le foto di Reggie Campo e il rapporto sulle sue condizioni fisiche redatto dall'Holy Cross Medical Center. Il collo presentava una piccola ferita sulla parte sinistra inferiore mentre sulla destra non se ne vedeva alcuna. Rilessi velocemente le dichiarazioni che Reggie aveva rilasciato alla polizia e trovai la parte in cui descriveva come si era procurata le ferite. La donna aveva detto che l'aggressore l'aveva immobilizzata sul pavimento del soggiorno intimandole di condurlo in camera da letto. Lui la teneva sotto controllo trattenendola da dietro, con la mano destra, per l'elastico del reggiseno
mentre, con la sinistra, teneva premuto il coltello contro il lato sinistro del collo. Appena aveva sentito che, per riposare il polso, l'uomo stava allentando la presa, lei si era mossa, si era girata e, piegandosi all'indietro, aveva fatto cadere l'aggressore contro un grande vaso appoggiato sul pavimento ed era fuggita. Pensai di capire il motivo per cui Reggie Campo mostrava solo una ferita sul collo, a differenza delle due di Martha Renteria. Se l'aggressore di Campo fosse riuscito a portarla in camera da letto e l'avesse fatta sdraiare, nel momento in cui le fosse salito addosso si sarebbero trovati faccia a faccia. Se avesse tenuto il coltello nella stessa mano, la sinistra, la lama si sarebbe spostata sull'altro lato del collo. In quel caso sul letto si sarebbe ritrovato il cadavere della donna e avrebbero riscontrato ferite indotte su entrambi i lati del collo. Misi da parte il dossier e incrociai le gambe. Restai immobile a lungo, perso nei miei pensieri. Mi martellava nella mente l'immagine del viso di Jesus Menendez rigato di lacrime mentre mi diceva di essere innocente e mi supplicava di credergli e la mia voce che gli diceva che doveva dichiararsi colpevole. Era stato qualcosa di più di un parere legale. In ordine di gravità quell'uomo era povero, non era in grado di difendersi e non aveva chance. Io gli avevo detto che non aveva scelta. Sebbene alla fine fosse stata una decisione sua e la parola colpevole di fronte al giudice fosse uscita dalle sue labbra, mi sentivo come se fossi stato io, il suo avvocato, a tenergli premuta sul collo l'arma del sistema per costringerlo a farlo. 19 All'una lasciai gli sterminati piazzali di autonoleggio dell'aeroporto internazionale di San Francisco e puntai a nord. La Lincoln che mi avevano noleggiato puzzava come se l'avesse appena usata un fumatore, forse il proprietario del noleggio o il ragazzo che l'aveva pulita prima di consegnarmela. A San Francisco non sono in grado di raggiungere nessuna destinazione precisa. So solo come si fa ad attraversare la città. Tre o quattro volte l'anno devo andare alla prigione di San Quentin, sulla baia, per incontrare clienti o testimoni. Sarei in grado di spiegare a chiunque come ci si arriva senza confondermi. Ma se mi chiedono come andare a Coit Tower o a Fisherman's Wharf comincio ad avere dei problemi. Erano quasi le due quando attraversai la città e il Golden Gate. Ero in
orario. Sapevo che l'orario di visita degli avvocati finiva alle quattro. San Quentin è una struttura vecchia di oltre un secolo e l'anima di ogni carcerato vissuto o morto là dentro sembra incisa sulle sue mura tenebrose. Mi è capitato di visitare più o meno tutte le carceri della California e San Quentin è di gran lunga la più lugubre. Al metal detector mi ispezionarono la valigetta e mi fecero entrare. Non prima di avermi passato per sicurezza una bacchetta sopra la testa. Nonostante le precauzioni, non ero autorizzato ad avere contatti diretti con Menendez, perché non avevo seguito la regolare procedura di prenotazione del colloquio che doveva essere fatta cinque giorni prima della visita. Fui fatto entrare in una stanza con una parete divisoria di plexiglas con dei piccoli fori per far passare la voce. Mostrai alla guardia le sei fotografie che volevo dare al detenuto e mi disse che dovevo fargliele vedere attraverso il plexiglas. Mi sedetti, riposi le foto e poco dopo Menendez fu accompagnato dall'altra parte del divisorio. Jesus era un ragazzo quando era stato chiuso in prigione un paio d'anni prima. Adesso dimostrava i quarant'anni che avrebbe avuto una volta scontata la pena. Lo sguardo con cui mi guardava era spento come la ghiaia del parcheggio. Quando mi vide fu sul punto di non sedersi. Non sopportava più la mia vista. Saltammo i convenevoli e andai dritto al punto. «È inutile che ti chieda come sei stato, Jesus. Lo so. Ma è successo qualcosa che potrebbe riguardare il tuo caso. Vorrei farti qualche domanda. Mi hai capito?» «Perché adesso vuoi farmi delle domande? Nessuno prima me ne ha fatte.» «Hai ragione. Avrei dovuto fartele allora e non l'ho fatto. Ma allora non ero a conoscenza di quello che so adesso. O per lo meno quello che credo di sapere. Sto cercando di fare tutto per il meglio.» «Cosa vuoi da me?» «Che mi racconti la notte al Cobra Room.» Fece una smorfia. «Ci sono stato, ma non ho ucciso quella donna.» «Prova a tornare con la mente al locale. Mi hai detto che per far colpo sulla ragazza le hai fatto vedere il denaro e hai speso più di quanto volevi. Lo ricordi?» «È andata così.» «Mi avevi detto che c'era un altro che voleva stare con lei. Ricordi anche
questo?» «Sì, era lì che parlava. Lei è andata da lui, ma poi è tornata da me.» «Hai dovuto offrire di più, vero?» «Già.» «Okay, ti ricordi quel tipo? Se vedessi una sua foto, saresti in grado di riconoscerlo?» «Quel tipo che faceva il gradasso? Penso di sì.» «Bene.» Estrassi dalla valigetta le foto segnaletiche. Erano sei scatti, quella di Louis Ross Roulet e di altri cinque pregiudicati che avevo scelto dai miei archivi. Mi alzai e cominciai a mostrargliele dal vetro una per una. Allargando le dita pensai di riuscire a mostrargliele tutte insieme. Menendez si alzò per guardarle da vicino. All'improvviso una voce tuonò da un altoparlante in alto. «State lontano dal vetro. Allontanatevi dal vetro e restate seduti fino alla fine del colloquio.» Scossi la testa e imprecai. Raccolsi le foto e mi sedetti. Anche Menendez lo fece. «Guardia!» chiamai a voce alta. Guardai Menendez e aspettai. La guardia non arrivava nella stanza. «Guardia!» chiamai più forte. Finalmente la porta si aprì e la guardia entrò nella stanza dalla mia parte. «Finito?» «No. Ho bisogno che lui esamini queste foto.» Le sollevai e le porsi alla guardia. «Gliele faccia vedere attraverso il vetro. Il detenuto non è autorizzato ad accettare nulla da lei.» «Voglio solo che le guardi un attimo.» «Non importa. Non posso dargli nulla da parte sua.» «Ma se non gli permette di avvicinarsi al vetro come farà a vederle?» «La cosa non mi riguarda.» Con la mano feci segno di arrendermi. «Va bene, d'accordo. Può aspettare un attimo allora?» «Perché?» «Voglio che si fermi a guardare. Ora mostrerò le foto al detenuto e se dovesse identificarne una vorrei averla come testimone.» «Non mi coinvolga nelle sue stronzate.» La guardia si diresse verso la porta e uscì.
«Maledizione» dissi. Guardai Menendez. «Allora Jesus, te le mostrerò comunque. Vedi se da dove sei seduto riesci a riconoscere qualcuno di loro.» Sollevai le foto una per una portandole a circa trenta centimetri dal divisorio. Menendez si piegò in avanti. Guardò le prime cinque, si fermò a pensare e poi scosse la testa. Alla sesta però gli brillarono gli occhi. Sembrò che avessero preso vita. «Quella» disse. «È lui.» Girai la foto verso di me per sicurezza. Era Roulet. «Mi ricordo» disse Menendez. «È lui.» «Sei sicuro?» Menendez annuì. «Come fai a esserlo?» «Perché lo so. Da quando sono rinchiuso qui dentro penso di continuo a quella notte.» Feci un cenno di assenso con il capo. «Chi è quell'uomo?» mi chiese. «Non posso dirtelo, ora. Sappi solo che sto tentando di portarti fuori di qui.» «Cosa devo fare?» «Quello che hai sempre fatto. Comportati bene, abbi cura di te e stai al sicuro.» «Al sicuro?» «Sì. Appena avrò raccolto qualche elemento ti farò sapere. Sto cercando di portarti fuori di qui, ma ci vorrà un po' di tempo.» «Sei stato tu a dirmi di venire qui.» «All'epoca pensavo che non ci fosse altra scelta.» «Come mai non mi hai mai chiesto: "Hai ammazzato tu quella donna?". Eri il mio avvocato. Non te ne importava. Non sei mai stato a sentirmi.» Mi alzai e chiamai la guardia a voce alta. Poi risposi a quella domanda. «Non avevo bisogno di conoscere la risposta a quella domanda per farti da avvocato difensore. Se chiedessi a tutti i miei clienti se sono colpevoli dei reati di cui sono accusati, in pochi mi direbbero la verità. Se lo facessero è probabile che non riuscirei a difenderli al meglio delle mie capacità.» La guardia aprì la porta e mi guardò. «Sono pronto» dissi. Guardai l'ora e calcolai che, se fossi stato fortunato con il traffico, per
tornare a Burbank sarei riuscito a prendere lo shuttle delle cinque. Al più tardi quello delle sei. Lasciai cadere le foto nella valigetta e la richiusi. Mi girai verso Menendez, ancora seduto dall'altra parte del divisorio. «Posso appoggiare la mano al vetro?» chiesi alla guardia. «Si sbrighi.» Mi allungai sul bancone e misi la mano con le dita aperte sul vetro. Stetti ad aspettare che Menendez rispondesse a quella sorta di stretta di mano in versione carceraria. Menendez si alzò e piegandosi in avanti sputò nel vetro in corrispondenza della mia mano. «Tu non mi hai mai stretto la mano» disse. «Io non stringo la tua.» Me l'ero cercata. La guardia sorrise compiaciuta e mi disse di uscire. Tempo dieci minuti ero fuori dalla prigione e camminavo sulla ghiaia verso la mia Lincoln presa a nolo. Avevo viaggiato seicento chilometri per cinque minuti di colloquio, ma quei pochi istanti erano stati sconvolgenti. Un'ora dopo, mentre viaggiavo sul trenino dell'autonoleggio che mi riportava al terminal della United, dovetti affrontare il momento più sconfortante della mia vita e della mia carriera professionale. Senza il pensiero della guida e con la certezza di non perdere l'aereo potevo concentrarmi solo sul caso. In realtà erano due i casi che occupavano i miei pensieri. Appoggiai i gomiti sulle ginocchia e posai il viso fra le mani. La cosa che temevo di più era successa, era successa da due anni e io non lo sapevo. Fino a quel momento non lo avevo saputo. Avevo avuto a che fare con un innocente, ma non me n'ero accorto, non lo avevo capito. Lo avevo gettato nelle fauci dell'ingranaggio, come tutto il resto. Adesso mi sentivo schiacciato dal peso dell'innocenza di quell'uomo dallo sguardo spento come la ghiaia del cortile e rimasto sepolto in una fortezza di pietra e acciaio. E dovevo conviverci. Non mi dava conforto neppure pensare a quello che sarebbe successo se avessimo scelto di arrivare al processo e ora Jesus si trovasse nel braccio della morte. Non mi bastava sapere che lo avevo salvato dalla morte perché ero certo più di ogni altra cosa al mondo che Jesus Menendez fosse innocente. Un uomo innocente era venuto da me, un fatto più unico che raro, un vero miracolo, e non me ne ero accorto. Gli avevo voltato le spalle. «Brutta giornata?» Alzai lo sguardo. Di fronte a me, poco più in giù nella carrozza, era se-
duto un uomo. Non c'era nessun altro. Dimostrava una decina d'anni più di me e la stempiatura dei capelli gli conferiva un'aria saggia. Forse era un avvocato anche lui, ma non mi interessava saperlo. «Sto bene» dissi. «Sono solo stanco.» Sollevai una mano con il palmo rivolto verso l'esterno, per indicare che non volevo fare conversazione. In genere viaggiavo con gli auricolari come quelli che usa Earl. Me li infilavo e facevo correre il filo nella tasca della giacca. Il filo non era collegato a niente, ma impediva che la gente mi parlasse. Quella mattina avevo troppa fretta per pensare agli auricolari. Troppa fretta di arrivare a quello stadio di abbattimento. L'uomo del treno incassò il messaggio e non aggiunse parola. Ritornai ai miei cupi pensieri su Jesus Menendez. Il nocciolo del problema era semplice. Avevo preso coscienza di avere un cliente colpevole di un delitto e un altro che stava scontando l'ergastolo per lo stesso crimine. Non potevo favorire uno senza penalizzare l'altro. Mi servivano risposte. Mi servivano strategie. Mi servivano prove. Al momento però su quel treno riuscivo a pensare soltanto allo sguardo spento di Jesus Menendez, perché ero consapevole di essere stato io a spegnere la luce di quegli occhi. 20 Accesi il cellulare appena sceso dallo shuttle a Burbank. Non avevo ancora stabilito un piano d'azione, ma sapevo che per prima cosa avrei telefonato a Raul Levin. Il telefono fece una vibrazione, avevo ricevuto dei messaggi. Decisi che li avrei ascoltati dopo aver detto a Levin che volevo vederlo. Per prima cosa Levin mi chiese se avevo sentito il suo messaggio. «Sono appena sceso dall'aereo» dissi. «Non ancora.» «Un aereo? Dove sei stato?» «A nord. Cosa diceva il messaggio?» «Era un aggiornamento su Corliss. Se non chiamavi per questo, qual era il motivo della telefonata?» «Cosa fai stasera?» «Mi riposo. Non mi piace uscire il venerdì e il sabato. Lo fanno i provinciali. E ci sono troppi ubriaconi per le strade.» «Allora vorrei vederti. Devo parlare con qualcuno. Sono successe cose particolari.» Evidentemente Levin avvertì dal tono della mia voce che era necessario
stravolgere la politica del venerdì casalingo e stabilimmo di incontrarci alla Smoke House, nei pressi degli studi della Warner. Non era lontano da dove mi trovavo io e nemmeno da casa sua. Consegnai il biglietto per il ritiro dell'auto all'impiegato in divisa con la giacca rossa e mentre aspettavo che mi portassero la Lincoln, ascoltai i messaggi in segreteria. Ce n'erano tre, tutti lasciati nell'ora di volo da San Francisco. Il primo era di Maggie McPherson. «Michael, volevo dirti che mi spiace per come mi sono comportata stamattina. A essere sincera ero arrabbiata con me stessa per le cose che ti ho detto e per quello che ho scelto di fare ieri sera. Me la sono presa con te e non dovevo. Se vuoi venire a prendere Hayley domani o domenica, a lei farebbe piacere e, chissà, magari potrei venire anch'io con voi. Comunque fammi sapere.» Maggie non mi chiamava spesso Michael, neppure quando eravamo sposati. Era il tipo di donna cui riusciva di trasformare il cognome in un vezzeggiativo. Cioè, quando ne aveva voglia. Mi aveva sempre chiamato Haller. Dal giorno in cui ci eravamo incontrati in coda al metal detector della corte penale. Lei stava andando nell'ufficio del procuratore distrettuale e io in pretura per una causa di guida in stato di ebbrezza. Salvai il messaggio per poterlo riascoltare e passai al successivo. Pensavo fosse quello di Levin ma la voce registrata diceva che la chiamata era di un numero che cominciava con il prefisso 310 e di seguito c'era la voce di Louis Roulet. «Sono io, Louis. Volevo solo avere notizie. Mi chiedevo a che punto stavano le cose dopo quello che è successo ieri. E avevo anche qualcosa da dirti.» Schiacciai il tasto per cancellare il messaggio e passai alla terza e ultima registrazione. Era Levin. «Ehi, capo, chiamami. Ho scoperto qualcosa su Corliss. Il suo nome è Dwayne Jeffery Corliss. Dwayne si scrive d, w, a. Si tratta di un drogato che ha fatto la spia un paio di altre volte qui a Los Angeles. Niente di nuovo sotto il sole? Comunque ora è in carcere per aver rubato una bicicletta che sembra volesse barattare con una dose di roba messicana. Ha sfruttato la soffiata su Roulet spuntando un soggiorno di novanta giorni di programma di recupero in isolamento al County-USC. Per cui non possiamo vederlo né parlargli, a meno che non si trovi un giudice che ti dia il permesso di farlo. Bella mossa della procura. Comunque sto ancora cercando
di rintracciarlo. Su internet ho trovato un indizio a Phoenix che potrebbe esserci utile se si trattasse della stessa persona. Potremmo scoprire che faccia ha. Sarò in grado di confermartelo lunedì. Per ora questo è quanto. Chiamami durante il weekend. Ho intenzione di starmene a riposo.» Cancellai il messaggio e chiusi il cellulare. «Non più» dissi fra me. Saputo che Corliss era un drogato, non c'era bisogno di sapere altro. Capii perché Maggie non si fidava di lui. Per il sistema giudiziario i tossicomani erano le persone più disperate e inaffidabili nelle quali poteva capitare di imbattersi. Erano capaci di rubare alla propria madre pur di procurarsi una dose. Sono tutti bugiardi e spesso in tribunale recitano. Perciò ero sconcertato dal comportamento dell'accusa. Il nome di Dwayne Corliss non compariva nel dossier delle prove che Minton mi aveva dato. Il pubblico ministero stava seguendo la prassi che avrebbe usato con un testimone. Lo aveva messo in isolamento per tre mesi per proteggergli la vita. Nel frattempo il processo a Roulet avrebbe avuto il suo svolgimento e si sarebbe concluso. Minton stava tenendo nascosto Corliss? Lo nascondeva solo per tenerlo sotto controllo e per sapere dove trovarlo in caso fosse necessaria la sua testimonianza al processo? Era evidente che Minton aveva agito in questo modo pensando che non sapessi di Corliss. E sarebbe stato così, se non fosse stato per il lapsus di Maggie McPherson. Comunque aveva fatto una mossa rischiosa. I giudici non guardano con favore un pubblico ministero che disprezza così apertamente le regole sulla procedura di scambio degli elementi probatori. Il suo comportamento mi suggerì una possibile strategia di difesa. Se durante il processo Minton fosse stato così dissennato da rivelare all'improvviso la presenza di Corliss, avrei potuto evitare di sollevare obiezione per mancanza di conformità alle regole dello scambio delle prove. In quel caso avrei potuto lasciare che facesse testimoniare l'eroinomane per avere poi l'opportunità di ridurlo a brandelli di fronte alla giuria, come si fa con la ricevuta di una carta di credito. Dipendeva da quello che Levin riusciva a scoprire. Stavo pensando di dirgli di continuare a scavare nella vita di Dwayne Jeffery Corliss. Senza rendere pubblico il risultato. Pensai anche a Corliss in isolamento al County-USC. Levin si sbagliava, e anche Minton, se credevano che non sarei riuscito a rintracciarlo. Per combinazione anche la mia cliente Gloria Dayton era stata messa in isolamento al County-USC per aver denunciato il suo spacciatore. Siccome non erano tanti i programmi di recupero per tossicodipendenti che si facevano
al County, era facile che fosse in terapia nello stesso gruppo di Corliss o si incontrassero durante la pausa pranzo. Forse non sarei riuscito ad arrivare direttamente a lui, ma in qualità di avvocato di Gloria Dayton avrei potuto andare da lei e lei a sua volta avrebbe potuto portare un messaggio a Corliss. Arrivò la Lincoln e diedi un paio di dollari di mancia all'autista dalla giacca rossa. Lasciai l'aeroporto e mi diressi su Hollywood Way verso il centro di Burbank, dove avevano sede tutti gli studi delle case cinematografiche. Arrivai alla Smoke House prima di Levin e ordinai un martini al banco. Alla tv alla parete trasmettevano le prime battute del torneo di basket dei college. Al primo turno Florida aveva battuto Ohio. Sollevai il bicchiere per salutare la scritta sul fondo dello schermo che diceva: «Gli imprevisti di marzo». Sugli imprevisti di marzo cominciavo a saperne qualcosa. Arrivò Levin e prima di sederci a tavola per la cena, ordinò una birra. Il menu era ancora irlandese, probabilmente fatto con gli avanzi della sera prima. Il locale era deserto. Forse erano andati tutti al Four Green Fields. «Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia...» disse Levin facendo la voce da vecchio. Prese un sorso di birra, abbassando il livello nel bicchiere in modo da riuscire a camminare portandolo con sé, e ci spostammo verso il banco della reception dove una hostess ci avrebbe accompagnato al tavolo. La ragazza ci fece accomodare in un séparé a forma di U foderato di tessuto rosso. Ci sedemmo uno di fronte all'altro e appoggiai la valigetta accanto a me. Quando arrivò la cameriera per prendere l'ordine degli aperitivi ordinammo il pasto completo: insalate, bistecche e patate. Chiesi anche del pane al formaggio agliato, specialità della casa. «Per fortuna non ti piace uscire nel weekend» dissi a Levin dopo che la cameriera si fu allontanata. «Se mangi il pane al formaggio il tuo fiato potrebbe stendere chiunque ti si avvicini.» «Correrò il rischio.» Restammo in silenzio per qualche secondo. Sentivo che l'alcol faceva bene al mio senso di colpa. Decisi che all'arrivo delle insalate avrei chiesto il bis. «Allora?» disse Levin alla fine. «Sei tu che hai chiamato.» Annuii con il capo. «Voglio raccontarti una storia. Non ho ancora messo a punto tutti i particolari e tanti non li conosco. Te la racconto come credo che sia andata, tu
mi dici cosa ne pensi e cosa dovrei fare. Va bene?» «Mi piacciono le storie. Vai avanti.» «Non credo che questa ti piacerà. È cominciata due anni fa con...» Mi bloccai per l'arrivo della cameriera che ci portava le insalate e il pane al formaggio. Ordinai un altro martini anche se avevo ancora metà del primo. Volevo essere certo di non rimanere senza. «Allora» dissi quando se ne fu andata. «La storia è cominciata due anni fa con Jesus Menendez. Te lo ricordi, vero?» «Sì, ne abbiamo parlato l'altro giorno. Il Dna. Hai sempre raccontato di questo tuo cliente che stava in carcere per essersi asciugato l'uccello con un asciugamano rosa.» Levin sorrise. Era vero, spesso avevo ridotto il caso Menendez a quell'episodio volgare. Lo avevo usato per fare lo spiritoso con i colleghi al Four Green Fields. Accadeva prima che venissi a sapere quello che sapevo adesso. Non ricambiai il sorriso. «Già. Succede che non è stato Jesus.» «Che vuoi dire? È stato un altro a sfregarsi l'uccello sull'asciugamano?» Questa volta Levin scoppiò a ridere. «Non esattamente. Voglio dire che Jesus Menendez è innocente.» L'espressione di Levin si fece seria. Assentì con il capo e riordinò nella mente le informazioni che aveva. «Lui è a San Quentin. Oggi tu sei andato...» Feci di sì con la testa. «Fammi raccontare dall'inizio» dissi. «Tu non avevi lavorato per me su quel caso perché non c'era motivo di fare indagini. La polizia aveva il Dna, la sua confessione e tre testimoni che lo avevano visto gettare un coltello nel fiume. L'arma non fu mai rinvenuta, ma c'erano i testimoni, le persone con le quali coabitava. Era un caso senza speranza. A essere sinceri avevo accettato l'incarico solo per farmi pubblicità, di conseguenza mi ero limitato a fare in modo che si arrivasse a una dichiarazione di colpevolezza. Lui non voleva, diceva che era innocente, ma non c'era scelta. Il pm era intenzionato a chiedere la pena di morte. E lui poteva beccarsi quella o l'ergastolo. Ho fatto in modo di salvargli la vita.» Chinai lo sguardo verso l'insalata che non avevo ancora toccato. Mi accorsi che non avevo fame. Mi andava solo di bere per sedare il senso di colpa che mi tormentava. Levin era in attesa che io proseguissi. Neppure lui mangiava.
«Ti ricordo che il caso riguardava l'assassinio di una donna che si chiamava Martha Renteria. Era una ballerina al Cobra Room su East Sunset. Non c'eri dovuto andare, giusto?» Levin scosse la testa. «Nel locale non c'è un palco» dissi. «Al centro c'è come un'arena e ogni volta che fanno lo spettacolo, si presentano in scena dei ragazzi vestiti da Aladino che trasportano tra due aste di bambù un grande cesto tipo quelli dove si mettono i cobra. Lo appoggiano per terra e la musica parte. Si solleva il coperchio, esce una ragazza e comincia a ballare e a spogliarsi. Una specie di nuova versione del numero della ballerina che esce dalla torta.» «Siamo a Hollywood, baby» disse Levin. «Lo spettacolo prima di tutto.» «Già, e a Jesus Menendez piaceva. Suo fratello, uno spacciatore, gli aveva dato millecento dollari e lui si era tolto il capriccio di soddisfare le sue fantasie su Martha Renteria. Forse perché era l'unica ballerina più bassa di lui. Forse perché si era rivolta a lui in spagnolo. Quando Martha finì il suo numero si sedette a parlare con lui, poi andò a fare un giro e al ritorno gli disse che nel locale c'era un altro uomo che le aveva chiesto di stare con lei. Per battere la concorrenza, Jesus le offrì cinquecento dollari per andare a casa sua.» «E una volta arrivati non l'ha uccisa?» «Lui seguì con la sua macchina quella di lei. Arrivati a destinazione, ebbe un rapporto sessuale con lei, si tolse il preservativo, si pulì nell'asciugamano e se ne tornò a casa sua. La storia vera ebbe inizio dal momento in cui lui se ne andò.» «Il vero killer.» «Il vero killer bussa alla porta, magari fingendo di essere Jesus che si era dimenticato qualcosa. La donna gli apre. Oppure poteva essere un appuntamento concordato. Lei aspetta che lui arrivi e lo fa entrare.» «Era il tipo del locale? Quello contro il quale Menendez aveva rilanciato l'offerta?» Annuii con la testa. «Esatto. L'uomo entra in casa, la colpisce ripetutamente per stordirla, tira fuori il coltello pieghevole e glielo punta al collo mentre la spinge verso la camera da letto. Non ti sembra di averlo già sentito? Solo che Martha non è fortunata come Reggie Campo due anni dopo. Lui la getta sul letto, si mette un preservativo e le salta addosso. Le punta il coltello dall'altra parte del collo e lo tiene fermo mentre la violenta. E, alla fine, la uccide. La ferisce con il coltello una volta, poi un'altra e poi ancora e ancora. La
colpisce un numero esagerato di volte, così pensa di risolvere quello che gli tormenta la mente malata.» La cameriera arrivò con il mio secondo martini, glielo presi di mano e ne buttai giù metà. Ci chiese se pensavamo di finire le insalate, ma entrambi le facemmo segno di portarle via, anche se non le avevamo sfiorate. «Le vostre bistecche sono pronte» annunciò la cameriera. «Volete che per risparmiare tempo le butti direttamente io nella spazzatura?» La guardai. Sorrideva, ma ero così concentrato nella storia che stavo raccontando che non l'avevo sentita. «Non importa» disse lei. «Le vostre bistecche stanno per arrivare.» Ripresi il racconto. Levin mi ascoltava in silenzio. «Il killer, dopo averla uccisa, pulisce la scena del delitto. Fa con calma perché non ha premura, la donna ormai non ha impegni e non deve chiamare nessuno. Elimina tutte le impronte che può aver lasciato. Così facendo elimina anche quelle di Menendez. Il che mette in dubbio la credibilità di quest'ultimo quando si presenta alla polizia per spiegare che il tipo dell'identikit è lui, ma che non è colpevole dell'omicidio di Martha. Gli agenti lo guardano e commentano: "E allora quando sei stato da lei avevi i guanti?".» Levin scosse il capo. «Amico mio, se è andata così...» «Non ho dubbi, è andata così. Menendez ingaggia un avvocato che in precedenza era riuscito a spuntarla per il fratello, ma questo avvocato non è capace di riconoscere un innocente neppure se ci va a sbattere contro. Questo avvocato pensa solo a concludere un accordo. Non gli chiede neppure se è colpevole o innocente. Si limita a presumere che lui sia colpevole perché la polizia ha trovato il suo maledetto Dna sull'asciugamano e dei testimoni lo hanno visto buttare il coltello. L'avvocato si mette al lavoro per ottenere il massimo che può ottenere. Alla fine si sente piuttosto soddisfatto per essere riuscito a evitare al suo cliente la pena di morte e aver ottenuto la possibilità che possa usufruire prima o poi della libertà condizionata. Per cui lo convince ad abbandonare la lotta e fa in modo che accetti le condizioni pattuite e che si dichiari colpevole di fronte alla corte. Quindi Jesus finisce in prigione e sono tutti felici e contenti. Lo stato è soddisfatto di aver risparmiato il denaro del processo e la famiglia di Martha Renteria è contenta di evitarsi un processo nel corso del quale avrebbe dovuto vedere tutte quelle orrende fotografie scattate durante l'autopsia e ascoltare le storie della figlia che ballava nuda in un locale e che si portava a casa degli
uomini per denaro. L'avvocato è felice di essere finito almeno sei volte in tv e per aver evitato a un altro suo cliente la pena di morte.» Scolai quel che restava del martini e mi guardai in giro in cerca della nostra cameriera. Ne volevo un altro. «Jesus Menendez è entrato in prigione che era un ragazzino. L'ho rivisto ora che ha ventisei anni e ne dimostra quaranta. È di corporatura minuta. Lo sai cosa succede là dentro a quelli come lui.» Un piatto ovale che conteneva una bistecca fumante con contorno di patate al vapore riempì lo spazio vuoto che avevo di fronte e che non smettevo di fissare. Alzai lo sguardo verso la cameriera e le ordinai un altro martini. Senza chiedere neppure per favore. «Meglio che ci vai piano» disse Levin quando la ragazza se ne andò. «Occhio che non c'è agente di questa contea che non aspetti il momento di sbatterti in galera per un paio d'anni, chiudere la serratura e ficcarti la torcia elettrica su per il culo.» «Lo so, lo so. Non ne prenderò altri. E se ho esagerato evito di guidare. Sono sempre appostati qui fuori.» Mangiai un pezzo di bistecca per vedere se il cibo mi faceva bene. Poi presi dal cestino una fetta di pane al formaggio avvolto in un tovagliolo, ma si era raffreddato. Lo lasciai ricadere sul piatto e posai la forchetta. «Senti, lo so che per te questa faccenda è pesante, ma stai dimenticando qualcosa» disse Levin. «Ah sì? E che cosa?» «Si è dichiarato colpevole. Rischiava la pena di morte, amico, e il caso era segnato. Io non avevo lavorato per te perché non c'era niente che potessi fare. Lui era già andato a costituirsi e tu lo hai salvato dalla forca. Era quello il tuo compito e lo hai svolto a regola d'arte. E adesso sei convinto di sapere quello che è accaduto davvero. Non puoi prendertela con te stesso per una cosa di cui non sei ancora certo.» Alzai la mano per cercare di fermarlo. «Quel ragazzo è innocente. Dovevo accorgermene. Dovevo fare qualcosa. Invece mi sono limitato a comportarmi come sempre e ho portato avanti la mia istanza con gli occhi bendati.» «Sciocchezze.» «No, non sono sciocchezze.» «D'accordo, vai avanti con la storia. Chi era il secondo uomo che voleva entrare in casa di Martha?» Aprii la valigetta che avevo accanto e cercai dentro.
«Oggi sono andato a San Quentin e ho mostrato a Menendez sei immagini. Tutte foto segnaletiche di miei clienti. Per lo più ex clienti. Dopo pochi secondi Menendez ne ha scelta una.» Gli lanciai la foto di Louis Roulet all'altro capo del tavolo. La foto atterrò a faccia in giù. Levin la raccolse e rimase a guardarla per un po', poi la riappoggiò sul tavolo capovolta. «E c'è dell'altro» dissi. Tornai a frugare con la mano dentro la valigetta e tirai fuori le due foto piegate di Martha Renteria e Reggie Campo. Mi guardai intorno per assicurarmi che la cameriera non stesse arrivando con il martini e le porsi a Levin. «È come un puzzle» dissi. «Mettile vicine e guarda cosa ne esce.» Levin mise la faccia numero uno accanto alla numero due e assentì con la testa per dimostrare che aveva capito. L'assassino, Roulet, aveva preso di mira donne dello stesso tipo fisico. A quel punto mostrai a Levin lo schizzo dell'arma fatto dal medico legale che aveva eseguito l'autopsia di Martha Renteria e gli lessi la descrizione delle due ferite che la vittima aveva sul collo. «Hai presente il video che sei riuscito ad avere dal bar?» chiesi. «Mostra un assassino in azione. Anche lui si era accorto, esattamente come te, che Mister X era mancino. Durante l'agguato Roulet ha colpito Reggie Campo con la mano sinistra e dopo ha impugnato il coltello con la stessa mano. Sapeva quel che faceva. Ha preso al volo l'occasione che gli si era presentata. Reggie Campo è fortunata ad averla scampata.» «Pensi che ce ne siano stati altri? Altri omicidi, intendo.» «Forse. Voglio che lo scopra tu. Voglio che controlli i casi di tutte le donne assassinate con un'arma da taglio negli ultimi anni. Procurami le foto delle vittime e verifichiamo se corrispondono allo stesso tipo fisico. E non solo i casi irrisolti. Martha Renteria era un caso chiuso.» Levin si sporse in avanti. «Ascoltami. Io non mi sostituirei alla polizia. Quello che devi fare è informare gli investigatori. O andare all'FBI. Loro hanno a disposizione degli specialisti per i serial killer.» Scossi la testa. «Impossibile. È un mio cliente.» «Anche Menendez è un tuo cliente e tu devi fare in modo di tirarlo fuori di galera.» «È quello che sto facendo. Ed è per questo che ho bisogno del tuo aiuto,
Mix.» Sapevamo entrambi che lo chiamavo Mix quando dovevo chiedergli un favore che superava i limiti della collaborazione professionale per sconfinare nell'amicizia. «Cosa ne pensi di un killer?» disse Levin. «Risolverebbe tutti i nostri problemi.» Sapevo che stava scherzando. «Già, potrebbe funzionare» dissi. «E cambiare il mondo in un posto dove vivere meglio. Ma non servirebbe a rimettere Menendez in libertà.» Levin mi si avvicinò di nuovo sporgendosi sopra il tavolo. Adesso era serio. «Farò del mio meglio, Mick, ma non sono convinto che sia la strada giusta. Potresti mollare Roulet denunciando un conflitto di interessi. E dopo fare in modo di tirar fuori Menendez da San Quentin.» «E come?» «Il riconoscimento delle sei foto. È un fatto certo. Non conosceva Roulet e lo ha identificato immediatamente in mezzo agli altri.» «Chi sarebbe disposto a crederci? Io sono il suo avvocato. A partire dalla polizia fino al comitato di clemenza, chiunque penserebbe che è una mia messinscena. Il tuo ragionamento funziona solo in teoria, Raul. Io e te sappiamo la verità, ma non siamo in grado di dimostrare niente di niente.» «E le ferite? Si potrebbe verificare se quelle rinvenute sul corpo di Martha Renteria sono compatibili con il coltello trovato nel caso di Reggie Campo.» Scossi la testa. «Martha Renteria è stata cremata. Esistono solo le descrizioni delle ferite e le foto eseguite durante l'autopsia e queste non sono prove decisive. Non bastano. E poi non posso fare la parte di chi dà addosso a un proprio cliente. Se volto le spalle a un cliente, è come se lo facessi con tutti. Non posso farlo così perché non me ne rimarrebbe neanche uno. Devo inventarmi qualcos'altro.» «Ti sbagli. Secondo me...» «Per ora andrei avanti come se non avessi scoperto niente. Ma tu puoi investigare. Su tutta la storia. Tenendola separata da quella di Roulet, in modo che io non possa essere accusato di aver eluso la procedura di scambio delle prove. Archivia tutto quello che trovi sotto il nome di Jesus Menendez e fatturami il tempo che ci lavori. Va bene?» Prima che Levin potesse rispondermi, la cameriera servì il terzo martini.
Lo rimandai indietro. «Non lo voglio. Mi porti il conto.» «Non posso riversarlo nella bottiglia» lei disse. «Nessun problema, lo metta in conto. Solo che non lo voglio più bere. Lo dia a quello che prepara il pane al formaggio e a me porti il conto.» La cameriera, forse seccata perché non l'avevo offerto a lei, ritornò sui suoi passi. Mi girai verso Levin. Mi sembrava preoccupato per quello che gli avevo raccontato. Sapevo quello che provava. «Il pesce grosso, vero?» «Sì. Come fai a comportarti in modo trasparente con Roulet se da una parte lavori per lui e dall'altra tiri fuori una montagna di schifezza a suo carico?» «Roulet? Farò in modo di incontrarlo il meno possibile. Solo quando è indispensabile. Oggi mi ha lasciato un messaggio che dice che ha qualcosa da dirmi. E io non l'ho richiamato.» «Perché ha scelto te? Voglio dire, perché ha scelto l'unico avvocato che avrebbe potuto mettere insieme i due episodi?» Scossi la testa. «Non lo so. Ci ho pensato in aereo durante tutto il viaggio di ritorno. Forse temeva che sarei comunque venuto a conoscenza del tentato omicidio e che avrei potuto comunque collegarlo con il caso Renteria. E se fosse stato mio cliente mi sarei sentito eticamente obbligato a difenderlo. Per lo meno all'inizio. E poi di mezzo ci sono i soldi.» «Quali soldi?» «Quelli che ci mette sua madre. È lei il vero pesce grosso. Lui sa a quanto ammonta il mio compenso giornaliero. È il più alto che abbia mai richiesto. Forse pensava che avrei lasciato perdere l'altra storia pur di non rinunciare a tutto quel denaro.» Levin assentì. «Quasi quasi lo faccio, cosa ne pensi?» dissi. Il martini mi faceva dire delle stupidaggini, ma Levin non sorrise e a me tornò alla mente la faccia di Jesus Menendez dietro il divisorio di plexiglas e mi si spense il sorriso sulle labbra. «C'è un'altra cosa che vorrei che tu facessi» dissi. «Vorrei che lo controllassi. Parlo di Roulet. Cerca di scoprire il più possibile senza stargli troppo addosso. E controlla la storia della madre violentata nella casa di Bel Air.» Levin assentì. «Lo farò.»
«E non passare il lavoro ad altri.» Era una raccomandazione scherzosa che ci facevamo sempre. Come me, Levin era una ditta individuale. Non aveva nessuno che potesse lavorare al posto suo. «Non lo farò. Me ne occuperò personalmente.» Era la solita risposta, ma questa volta mancava il tono scherzoso di finta sincerità che usava di solito. Aveva risposto meccanicamente. La cameriera ci portò il conto senza un grazie. Vi lasciai cadere sopra la carta di credito senza controllarlo. A quel punto volevo solo uscire di lì. «Vuoi farti impacchettare la bistecca?» domandai. «Sì, grazie» rispose Levin. «Per ora ho perso l'appetito.» «E il cane da combattimento che ti aspetta a casa?» «Buona idea. Mi ero dimenticato di Bruno.» Cercò la cameriera per chiederle una scatola. «Prendi anche la mia» dissi. «Io non ho cani.» 21 Nonostante la vista appannata dall'alcol riuscii a fare lo slalom su per Laurel Canyon senza rigare la Lincoln o farmi fermare da un agente. Abito a Fareholm Drive all'altezza delle terrazze che si affacciano sull'imboccatura meridionale della valle. Tutte le abitazioni danno sul marciapiede e tornando a casa a volte capita di trovare qualche deficiente che ha parcheggiato il Suv davanti al mio garage, impedendomi di entrare. È complicato parcheggiare in una strada stretta e in genere lo slargo di fronte all'ingresso del mio garage risulta particolarmente invitante, specie nelle serate del weekend, quando è facile che qualcuno dei residenti abbia organizzato un party. Arrivai nei pressi di casa e trovai uno spazio sufficiente per la Lincoln a poco più di un isolato di distanza. Più ero costretto ad allontanarmi da casa e più cresceva la rabbia nei confronti dei possessori di Suv. Le mie fantasie di vendetta andavano dallo sputo sul parabrezza allo sradicamento dello specchietto retrovisore, dal foro nelle gomme alla riga sulle fiancate. Mi limitai a scrivere un appunto dal tono pacato su un foglietto strappato dal blocco di carta legale gialla: Questo non è un parcheggio! ha prossima volta chiamo il carro attrezzi. Dopo tutto non si può mai sapere chi è il proprietario di un Suv a Los Angeles e se minacci qualcuno per aver parcheggiato davanti al tuo garage, lui viene a sapere dove abiti.
Stavo per mettere il biglietto sotto il parabrezza, quando vidi che si trattava di una Range Rover. Passai la mano sul cofano e sentii che era freddo. Alzai lo sguardo sopra al garage verso le finestre del mio appartamento, ma erano spente. Infilai con forza il biglietto piegato sotto il tergicristalli e salii le scale che portano all'ingresso di casa. Sentii di avere il cinquanta per cento di probabilità di trovare Louis Roulet seduto su una delle poltrone da regista a godersi la vista notturna della città, ma non c'era. Arrivai sull'angolo della veranda e mi fermai a guardare il panorama. Era per quella vista che avevo comprato la casa. Gli interni erano anonimi e datati. Ma la veranda e la vista su Hollywood Boulevard erano da sogno. Per l'acconto avevo utilizzato il denaro dell'ultimo cliente ricco che avevo avuto, ma una volta fatto il trasloco, visto che non ne avevo un altro sotto mano, dovetti fare un mutuo. A dirla tutta facevo fatica a pagare la rata tutti i mesi. Avrei voluto andarmene da lì, ma quella vista me lo impediva. Il giorno in cui sarebbero venuti a riprendersi le chiavi e a chiudere il mutuo mi avrebbero trovato incantato a guardare il panorama. Conosco la domanda che può generare la mia casa. Per quanta fatica comporti tenerla, ci si chiede se sia giusto che a seguito del divorzio tra un pubblico ministero e un avvocato difensore, l'avvocato si prenda la casa in collina con un panorama da un milione di dollari e il pm, che vive con la loro figlia di otto anni, si accontenti di un appartamento con due camere da letto nella Valley. La risposta è che Maggie McPherson avrebbe potuto comprarsi una casa di suo gradimento e io l'avrei aiutata a farlo al meglio delle mie possibilità. Lei però aveva rifiutato di trasferirsi perché era in procinto di essere promossa a un incarico più impegnativo nella procura del centro. Se avesse acquistato una casa a Sherman Oaks o da qualsiasi altra parte avrebbe comunicato un messaggio non rispondente al vero, cioè quello di aver tirato i remi in barca, di essere professionalmente appagata. Invece non era soddisfatta del ruolo di Maggie la Spietata della sezione di Van Nuys. Non le andava bene che John Smithson o qualche altro giovane assistente le facesse le scarpe. Lei era ambiziosa e il suo obiettivo era arrivare a lavorare in centro, dove era scontato che dovessero lavorare i pubblici ministeri più brillanti e preparati ad affrontare i crimini più impegnativi. Maggie si rifiutava di accettare l'ovvia constatazione che più sei in gamba e più fai paura ai potenti, specie se i potenti rivestono una carica elettiva. Io sapevo che non l'avrebbero mai chiamata a lavorare in centro. Era troppo brava. Quando il dubbio di non farcela le si insinuava nella mente, Maggie rea-
giva nei modi più inaspettati. Durante una conferenza stampa rilasciava una dichiarazione provocatoria, si rifiutava di collaborare a un'indagine portata avanti in città oppure, se aveva alzato il gomito, si lasciava sfuggire un particolare che non andava detto a un avvocato difensore nonché ex marito. Dentro casa il telefono cominciò a squillare. Mi diressi verso la porta d'ingresso e cercai freneticamente le chiavi per entrare. Con i miei numeri di telefono e i nomi di chi ne era in possesso si poteva formare un grafico a forma di piramide. Il numero sulle pagine gialle lo avevano tutti o per lo meno potevano procurarselo. Dalle parti del vertice della piramide si poteva collocare il numero del cellulare perché lo avevano colleghi, detective, garanti, clienti e altre rotelle dell'ingranaggio. Il numero del telefono di casa, la linea fissa, era sulla vetta della piramide. Lo conoscevano in pochi. Neanche uno dei miei clienti e solo un legale. Entrai e afferrai la cornetta del telefono a muro in cucina un istante prima che partisse la segreteria. Chi chiamava era l'unico legale ad avere quel numero. Maggie McPherson. «Hai ricevuto i miei messaggi?» «Ne ho trovato uno sul cellulare. Che succede?» «Nulla. Ne ho lasciato un altro a questo numero molte ore fa.» «Sono stato fuori tutto il giorno. Sono rientrato in questo momento.» «Dove sei stato?» «A San Francisco e ritorno e poi a cena con Raul Levin. Qualcosa da ridire?» «Ero solo curiosa. Cosa sei andato a fare a San Francisco?» «Un cliente.» «Quindi sei andato e tornato da San Quentin.» «Troppo astuta per i miei gusti, Maggie. Mai una volta che riesca a fregarti. Hai chiamato per un motivo specifico?» «Volevo solo sapere se ti erano arrivate le mie scuse e se domani pensi di fare qualcosa con Hayley.» «Doppio sì. Maggie, non mi devi nessuna scusa e dovresti saperlo. Mi spiace per come mi sono comportato prima di andarmene. Se mia figlia avrà piacere di stare un po' con me domani sarà così anche per me. Dille che possiamo andare al porto o al cinema se vuole. Ovunque le faccia piacere.» «Se è così, avrebbe voglia di andare al centro commerciale.» Il tono era imbarazzato. «Centro commerciale? Perfetto. Ce la porto. Perché non dovrebbe an-
darmi bene il centro commerciale? Vuole comprare qualcosa di particolare?» Di colpo avvertii un odore estraneo in casa. Odore di fumo. Controllai senza spostarmi i fuochi e il forno. Spenti. Il telefono non era un cordless, per cui non potevo allontanarmi per controllare dovunque. Tirai il filo verso la porta e diedi un colpetto all'interruttore della luce della stanza da pranzo. Non c'era nessuno e la luce illuminava anche il soggiorno lì accanto, che avevo attraversato quando ero entrato in casa. Anche lì sembrava non esserci nessuno. «C'è un negozio dove si può personalizzare il proprio teddy bear con vestiti, accessori, la voce che gli vuoi dare e dentro l'imbottitura ci puoi mettere un cuoricino. È molto divertente.» A quel punto volevo chiudere la comunicazione per controllare meglio l'appartamento. «Bene. Ce la porterò. A che ora va bene?» «Pensavo intorno a mezzogiorno. Magari prima potremmo pranzare insieme.» «Noi?» «Non ti fa piacere?» «No, Maggie, anzi. Va bene allora se vengo per mezzogiorno?» «Perfetto.» «Ci vediamo domani.» Riagganciai prima che potesse salutarmi. Possedevo un fucile, ma era un pezzo da collezione che per quanto ne sapevo non aveva mai sparato e lo tenevo in una scatola nell'armadio della mia camera che dava sul retro. Quindi, senza fare rumore, aprii un cassetto della cucina e presi un coltello da bistecca, corto ma affilato. Attraversai il soggiorno fino al corridoio che portava sul retro. Sull'ingresso davano tre porte. Una portava alla mia camera da letto, una al bagno e una a un'altra camera che avevo adibito a ufficio, l'unico vero ufficio che avevo. In quella stanza la luce sulla scrivania era accesa. Dall'angolo del corridoio dove mi trovavo non si vedeva, ma sapevo che era accesa. Erano quarantotto ore che mancavo da casa e non ricordavo di averla lasciata accesa. Lentamente mi avvicinai alla porta aperta dello studio. Era la mossa che chiunque si sarebbe aspettato. L'intruso avrebbe potuto servirsi della luce dello studio per attirare la mia attenzione mentre mi stava aspettando nel buio della camera da letto o del bagno. «Entra, Mick. Sono io.»
Riconobbi la voce e non mi tranquillizzai. Ad aspettarmi nello studio c'era Louis Roulet. Arrivai sulla soglia e mi fermai. Sedeva sulla poltroncina da scrivania in pelle nera. Girò la seduta in modo da avermi di fronte e accavallò le gambe. Nel farlo, il pantalone della gamba sinistra lasciò intravedere il dispositivo di rilevamento che gli aveva fatto indossare Fernando Valenzuela. Se Roulet era venuto per uccidermi, avrebbe lasciato una traccia. Quella consapevolezza non mi fu di particolare conforto. Mi accostai allo stipite della porta in modo da tenere il coltello dietro il fianco senza farlo notare. «Allora è qui che sbrighi il tuo ottimo lavoro legale» disse Roulet. «In parte. Cosa ci fai qui, Louis?» «Sono venuto per vederti. Non mi hai più richiamato e volevo essere sicuro che tu e io fossimo ancora nella stessa squadra, capisci?» «Ero fuori città. Sono appena rientrato.» «E la cena con Raul dove la metti?» «Raul è un amico. Abbiamo cenato di ritorno dall'aeroporto di Burbank. Come hai scoperto dove abito, Louis?» Si schiarì la voce e sorrise. «Lavoro nel settore immobiliare, Mick. Sono in grado di scoprire la casa di chiunque. Un tempo passavo le notizie al "National Enquirer". Lo conosci? Fornivo gli indirizzi delle star anche se compravano le case con nomi di facciata o le intestavano a delle società. Dopo un po' ho smesso. Il denaro mi faceva comodo, ma era così... così di cattivo gusto. Sono sicuro che mi capisci, Mick. Comunque, ho smesso. Però riesco ancora a rintracciare qualsiasi indirizzo e a sapere se chi abita a quell'indirizzo ha acceso un mutuo e persino se rispetta le scadenze di pagamento delle rate.» Mi guardò. Aveva lo sguardo di chi sapeva. Sapeva che la casa era ipotecata, che nulla di quello che vedeva intorno era mio e che di solito pagavo la rata doppia con un mese di ritardo. E che probabilmente, su una cauzione di cinquemila dollari, Fernando Valenzuela non l'avrebbe accettata neppure come garanzia accessoria. «Come hai fatto a entrare?» gli chiesi. «Questa è stata la cosa più divertente. Ho scoperto di avere la chiave. Da quando questa casa era in vendita, poteva essere più o meno un anno e mezzo fa. All'epoca avevo voluto vederla perché pensavo di avere un cliente interessato per via del panorama. Per cui mi ero procurato la chiave dall'agenzia immobiliare. Venni a visitarla, ma mi resi subito conto che non era adatta al mio cliente, lui voleva qualcosa di meglio, e me ne andai.
Solo che ho dimenticato di riportare la chiave. È una mia cattiva abitudine. Non è curioso che dopo tanto tempo venga a scoprire che il mio avvocato abita proprio qui? Tra parentesi vedo che l'hai lasciata com'era. Certo, hai una bella vista, ma qualche lavoretto di ristrutturazione ci vorrebbe.» Mi aveva tenuto sotto controllo dai tempi del caso Menendez. Quasi sicuramente sapeva che ero appena stato a San Quentin a trovarlo. Mi venne in mente il tipo sul trenino dell'autonoleggio. Brutta giornata? L'avevo rivisto sulla navetta per Burbank. Mi stava seguendo? Lavorava per Roulet? Era l'investigatore che Cecil Dobbs aveva cercato di sistemare nell'indagine? Non conoscevo le risposte a queste domande, ma l'unica ragione per cui Roulet poteva aspettarmi in casa mia era che sapeva quello che sapevo io. «Cosa vuoi da me, Louis? Stai cercando di spaventarmi?» «No, no, sono io che dovrei essere spaventato. Immagino che dietro la schiena tu nasconda una pistola o qualcosa del genere. Cos'è, una pistola?» Serrai le dita sul coltello, ma non lo tirai fuori. «Cosa vuoi da me?» ripetei. «Voglio farti un'offerta. Non sulla casa. Sui tuoi servizi professionali.» «Li hai già.» Prima di rispondere Louis fece ruotare la sedia avanti e indietro. Cercai con lo sguardo se sulla scrivania mancava qualcosa. Notai che aveva usato come posacenere un piattino di ceramica che mi aveva fatto mia figlia. Doveva servire per raccogliere le graffette. «Stavo pensando alla parcella che abbiamo concordato e alle difficoltà che presenta il mio caso» disse. «Francamente Mick, penso che tu sia sottopagato. Per cui voglio sottoporti una nuova proposta. Sarai pagato per quanto abbiamo già stabilito e verrai saldato prima dell'inizio del processo. Ma ho intenzione di aggiungere un premio a valere sulle tue prestazioni. Il tuo onorario raddoppierà automaticamente se potrò contare su una giuria composta da miei pari che mi giudichi non colpevole di questo orribile reato. Ti staccherò l'assegno appena salirai sulla Lincoln per andartene a processo concluso.» «Ottima idea, Louis, ma l'Ordine degli avvocati della California vieta ai difensori di accettare premi in base ai risultati. Non posso accettare la tua offerta. È molto generoso da parte tua, ma non posso accettare.» «L'Ordine degli avvocati non è qui ad ascoltarci, Mick. E non intendevo considerarlo un premio sul risultato. Fa parte del compenso concordato. E poi, dopo tutto, tu vuoi vincere la mia causa, no?»
Mi guardò intensamente con aria minacciosa. «Non si può mai sapere quello che può succedere in aula. Può succedere che le cose vadano peggio del previsto. Io però sono ancora convinto che andrà tutto bene.» L'espressione di Roulet a poco a poco si illuminò in un sorriso. «Cosa posso fare perché tutto vada ancora meglio?» Pensai a Reggie Campo. Era ancora viva e decisa ad affrontare il processo. Non aveva la minima idea del tipo d'uomo contro il quale doveva testimoniare. «Niente» risposi. «Startene fermo e tranquillo ad aspettare. Non farti venire strane idee. Non fare nulla. Lascia che la causa abbia uno sviluppo naturale e andrà bene.» Non rispose. Volevo che non pensasse al pericolo che poteva rappresentare Reggie Campo. «Qualcosa è successo, però» dissi. «Davvero? E che cosa?» «Non ho i particolari. Quello che so mi arriva da una fonte che non poteva dirmi di più. Sembra che il pubblico ministero abbia un informatore che è stato in carcere con te. Tu non hai parlato con nessuno quando eri dentro, vero? Ricordi che ti avevo detto di non farlo?» «E non l'ho fatto. Chiunque abbiano trovato, è un impostore.» «Lo sono quasi tutti. Volevo solo esserne certo. Se dovesse saltar fuori cercherò un accordo.» «Bene.» «Un'altra cosa. Hai parlato a tua madre della possibilità che venga chiamata a testimoniare sull'aggressione che ha subito? Ci serve per sostenere il fatto che avevi un coltello con te.» Roulet contrasse le labbra, ma non rispose. «Ho bisogno che tu la convinca» dissi. «Potrebbe essere un elemento importante per guadagnarsi la fiducia dei giurati. E la simpatia.» Roulet assentì e intravide la via di salvezza. «Puoi chiederglielo per favore?» dissi. «Ci proverò. Ma farà resistenza. Non ne ha mai parlato. Lo ha detto solo a Cecil.» «Abbiamo bisogno che venga a testimoniare e che Cecil faccia una deposizione di avallo. Non è efficace come un verbale di polizia, ma può servire. Abbiamo bisogno di lei, Louis. Penso che la sua testimonianza possa convincere la giuria. I giurati adorano le signore di una certa età.»
«D'accordo.» «Ti ha mai raccontato che tipo era l'aggressore e che età poteva avere?» Lui scosse la testa. «Non era in grado. Portava passamontagna e occhiali da sci. Le piombò addosso appena lei aprì la porta. Agì in fretta e con una violenza brutale.» Mentre raccontava gli tremava la voce. Io ero sempre più perplesso. «Non avevi detto che doveva incontrare un potenziale cliente?» dissi. «Invece era già lì?» Sollevò lo sguardo sino a incontrare il mio. «Sì. Non so come fosse riuscito a entrare ma l'aggressore la stava aspettando. È stato terribile.» Non volevo insistere sull'argomento. Volevo che se ne andasse. «Grazie per la tua offerta, Louis. Adesso, se mi vuoi scusare, vorrei andare a dormire. La giornata è stata lunga.» Con la mano libera indicai il corridoio. Roulet si alzò dalla scrivania e venne verso di me. Indietreggiai per il corridoio fino ad arrivare nella mia camera da letto. Tenevo il coltello nascosto, pronto a usarlo. Ma Roulet mi superò senza dar segni di volermi colpire. «E domani devi portare tua figlia a divertirsi» disse. Mi si gelò il sangue nelle vene. Aveva sentito la telefonata con Maggie. Non dissi nulla. Parlò lui. «Non sapevo che avessi una figlia, Mick. Dev'essere bello essere padre.» Mi diede un'occhiata, sorrise e proseguì verso l'ingresso. «Tua figlia è una bella bambina» disse. La mia impassibilità si trasformò in aggressività. Piombai nell'ingresso e lo seguii, con la rabbia che aumentava a ogni passo. Rafforzai la presa sul coltello. «Come fai a sapere com'è?» gli chiesi. Lui si fermò e io pure. Vide il coltello che stringevo in mano e mi guardò in faccia. Prese a parlare lentamente. «C'è una sua foto sulla tua scrivania.» L'avevo dimenticata. Una piccola foto incorniciata che la raffigurava dentro una delle tazze da tè di Disneyland. «Oh» esclamai. Capì cosa avevo pensato e sorrise. «Buona notte, Mick. Divertiti domani con tua figlia. Immagino che tu non riesca a passare abbastanza tempo con lei.» Si girò per attraversare il soggiorno e aprì la porta per uscire, ma prima
si voltò ancora. «Hai bisogno di un buon avvocato» mi disse. «Uno che ti faccia ottenere la custodia della piccola.» «No. Meglio che stia con la madre.» «Buona notte, Mick. Grazie per la conversazione.» «Buona notte, Louis.» Andai a richiudere la porta. «Bella vista» disse quando fu nel porticato. «Sì» dissi, mentre richiudevo a chiave. Mi bloccai con la mano sulla manopola in attesa di sentire i passi scendere le scale e raggiungere la strada. Pochi istanti dopo sentii ribussare alla porta. Chiusi gli occhi, strinsi il coltello fra le dita e aprii. Roulet sollevò una mano. Io feci un passo indietro. «La tua chiave» disse. «Meglio che la tenga tu.» Raccolsi la chiave sul palmo aperto della mano. «Grazie.» «Non c'è di che.» Richiusi la porta e feci scattare di nuovo la serratura. 22 Martedì 12 aprile La giornata era cominciata nel migliore dei modi. Qualunque avvocato difensore non avrebbe potuto chiedere di più. Non dovevo andare in tribunale e non avevo appuntamenti con i clienti. Avevo dormito fino a tardi, avevo passato la mattinata a leggere il giornale dall'inizio alla fine e avevo trovato un biglietto per l'esordio casalingo dei Dodgers. La partita si giocava di giorno e parteciparvi era una tradizione consolidata tra i miei colleghi della difesa. Il biglietto me lo aveva procurato Raul Levin, il quale ne aveva comprati cinque da regalare agli avvocati per cui lavorava. Ero certo che alla partita i colleghi si sarebbero lamentati perché con la preparazione del processo Roulet stavo monopolizzando Levin. Non avevo nessuna intenzione di farmene un problema. Stavamo attraversando uno dei periodi di apparente immobilità che precedono il processo, quando l'ingranaggio si mette in moto con un movimento lento ma costante. Il processo a Louis Roulet era stato fissato entro un mese. Via via che la data si avvicinava facevo in modo di diminuire il
numero dei clienti di cui occuparmi. Avevo bisogno di tempo per preparare la strategia difensiva. Dalle informazioni raccolte in quel periodo, anche se mancavano ancora settimane al processo, l'esito appariva incerto. Evitavo di prendermi nuovi impegni. Portavo avanti solo le cause dei clienti abituali e solo se mi garantivano un compenso congruo e puntuale. Un processo è come un colpo di fionda. Il segreto è una buona preparazione di base. Nel periodo precedente al processo si deve caricare la fionda di una pietra di misura adeguata e si deve tirare l'elastico lentamente e fino alla massima tensione. Quando si arriva al processo si lascia andare l'elastico e il proiettile viene lanciato in modo da seguire una traiettoria certa per centrare il bersaglio. Il bersaglio è ottenere l'assoluzione. La non colpevolezza. Si riesce a raggiungere l'obiettivo solo se la pietra scelta è di dimensioni giuste, si è sistemata sulla fionda con cura e l'elastico è stato teso il più energicamente possibile. Levin stava facendo il grosso del lavoro di preparazione per tendere al massimo l'elastico della fionda. Non aveva mai smesso di scavare nelle vite dei miei clienti, sia nel caso di Roulet sia in quello di Menendez. Avevamo organizzato insieme la strategia e chiamavamo il piano "doppia fionda" perché si prefiggeva due obiettivi. Ero certo che entro maggio, quando sarebbe iniziato il processo, avremmo finito di tendere l'elastico e saremmo stati pronti a lasciarlo andare. Anche l'accusa contribuì a caricare la nostra fionda. Nelle settimane successive la chiamata in giudizio di Roulet, gli indizi a suo sfavore aumentarono a seguito dei rapporti della scientifica e di nuovi sviluppi emersi dall'approfondimento delle indagini. Tra questi, il più significativo fu l'identificazione di Mister X, l'uomo, rivelatosi mancino, che si era intrattenuto con Reggie Campo da Morgan la notte dell'aggressione. Per scoprire la sua identità i detective della polizia di Los Angeles si erano serviti del video della cui esistenza avevo informato io l'accusa. Gli agenti facevano vedere il filmato alle prostitute individuate dalla buoncostume e ai loro accompagnatori. Il nome di Mister X era Charles Talbot. Era stato riconosciuto perché era un cliente abituale. Si diceva che lavorasse, o fosse il proprietario, di un negozio su Reseda Boulevard. Nei verbali investigativi che mi arrivarono dopo che ne feci regolare richiesta, si diceva che i detective avevano interrogato Talbot, il quale aveva dichiarato che la sera del 6 marzo aveva lasciato l'appartamento di Reggie Campo subito dopo le dieci per andare a lavorare nel suo negozio che re-
stava aperto ventiquattro ore al giorno. Talbot era il titolare. Quella sera era andato per controllare le vendite e per aprire il distributore di sigarette, essendo l'unico in possesso della chiave. La registrazione delle apparecchiature di sorveglianza del negozio confermò che dalle 22.09 alle 22.51 Talbot aveva provveduto a rifornire il contenitore di sigarette posizionato sotto il bancone. La polizia lo prosciolse dai sospetti in quanto estraneo ai fatti accaduti nell'appartamento di Reggie Campo. Talbot era solo uno dei suoi clienti. Il nome di Dwayne Jeffery Corliss, l'informatore, compagno di cella di Roulet, che aveva contattato il pubblico ministero per spifferare una storia inventata, non compariva mai nel fascicolo delle prove dell'accusa. Minton aveva deciso di non chiamarlo a testimoniare o lo teneva in serbo in caso di necessità. Ero più portato a credere alla seconda ipotesi. Il pm, confinandolo in una struttura di recupero, lo aveva fatto sparire dalla circolazione. Sapeva che, tenendolo dietro le quinte, poteva contare su un testimone pronto a comparire in scena all'occorrenza e che non avrebbe procurato alcun problema. Era una situazione favorevole alla mia strategia. Minton non sapeva che Corliss rappresentava la pietra con la quale stavo caricando la mia fionda. Il fascicolo dell'accusa conteneva poche informazioni sulla vittima, mentre Raul Levin aveva indagato su di lei in profondità. Levin aveva individuato il sito PinkMink.com sul quale venivano reclamizzate le prestazioni di Reggie Campo. La scoperta era importante non solo perché costituiva un'ulteriore conferma del suo coinvolgimento diretto nel mondo della prostituzione, ma anche perché nella pubblicità promuoveva la sua personalità «selvaggia e aperta a tutte le esperienze» e il fatto che fosse «disponibile per ogni genere di gioco erotico, mi sculacci tu o lo faccio io» costituiva un buon motivo per avergliene date di santa ragione. Il sito poteva servire per colorire il personaggio della vittima o del testimone agli occhi della giuria. Nel suo caso, era vittima e testimone. Levin stava lavorando anche sulla vita e sul passato di Louis Roulet. Aveva scoperto che era stato uno studente mediocre e che aveva frequentato cinque diverse scuole pubbliche a Beverly Hills e dintorni. Roulet aveva continuato gli studi fino al conseguimento della laurea in letteratura inglese all'UCLA, ma Levin aveva rintracciato alcuni suoi vecchi compagni di classe che avevano dichiarato che aveva comprato numerosi compiti scritti, le risposte ai test e una tesi di una novantina di pagine sulla vita e le opere di John Fante.
Della sua personalità di adulto emerse un quadro ancora più sconfortante. Levin recuperò diverse testimonianze di maltrattamenti fisici e psicologici su donne che aveva frequentato. Due ex compagne di università avevano avuto il sospetto che Roulet, durante una festa al college, avesse messo della droga nelle loro bevande per abusare di loro sessualmente. Le ragazze non avevano sporto denuncia ma il giorno seguente una delle due si sottopose ad analisi del sangue in cui furono rinvenute tracce di una sostanza allucinogena usata di solito come anestetico in campo veterinario. Levin indagò anche su quanto era accaduto cinque anni prima, cioè sul cosiddetto «violentatore delle agenti immobiliari». Quattro donne, tutte agenti immobiliari, raccontarono di essere state assalite e violentate da un uomo che le stava aspettando all'interno della casa che dovevano mostrare a dei potenziali compratori e che credevano fosse stata lasciata vuota dai proprietari. L'aggressore non venne mai identificato, ma dopo undici mesi dalla prima denuncia, gli episodi smisero di verificarsi. Levin intervistò un esperto di crimini a sfondo sessuale del Dipartimento di Polizia di Los Angeles che aveva investigato sui fatti. Lui disse di aver avuto sin da subito la sensazione che l'uomo dovesse essere dell'ambiente. Sembrava sapere come introdursi nelle case e come individuare le donne che esercitavano l'attività da sole. L'investigatore era convinto che l'uomo facesse parte del mondo immobiliare ma, siccome non venne mai fermato alcun presunto colpevole, la sua teoria non trovò mai conferma. Levin non riuscì a scoprire abbastanza per confermare che Mary Alice Windsor fosse una delle vittime che non avevano sporto denuncia. La signora Windsor aveva accettato di rispondere alle nostre domande e, solo se si fosse rivelato strettamente necessario, si disse d'accordo a testimoniare su quel tragico episodio che aveva mantenuto segreto. Dichiarò di essere stata violentata nello stesso periodo in cui altre donne erano state aggredite e fornì un'agenda e altri documenti che dimostravano come fosse davvero lei l'agente incaricata alla vendita della casa di Bel Air in cui affermava di essere stata aggredita. In definitiva però l'unica traccia era la sua testimonianza. Non esistevano verbali medici od ospedalieri che confermassero di averla presa in cura a seguito di una violenza sessuale. E non esisteva denuncia alla polizia. Il racconto di Mary Windsor combaciava con quello del figlio in tutti i dettagli. Io e Levin fummo colpiti dal fatto che Louis conoscesse così dettagliatamente i particolari dell'aggressione. Come mai aveva condiviso i dettagli di quello straziante episodio con il figlio, pur avendo deciso di te-
nere segreto il fatto e non denunciarlo? L'interrogativo aveva portato Levin a ipotizzare una teoria tanto avvincente quanto ripugnante. «Credo che conosca i particolari perché era presente al fatto» commentò Levin quando restammo soli dopo averle parlato. «Vuoi dire che è rimasto a guardare senza intervenire?» «No, voglio dire che era lui l'uomo con il passamontagna e gli occhiali.» Non dissi nulla. A livello inconscio pensavo la stessa cosa, ma per me l'ipotesi era troppo raccapricciante per lasciarla affiorare. «Ma...» dissi. Levin pensò che non fossi d'accordo e portò avanti la sua tesi. «La madre di Louis è una donna forte» continuò. «Ha tirato su l'azienda dal niente e in questa città la concorrenza nel settore immobiliare è accanita. È una donna energica e non riesco a capire perché non abbia denunciato la violenza subita, impedendo nei fatti che il colpevole potesse essere catturato. Credo che le persone possano classificarsi in due categorie. Quelli "occhio per occhio, dente per dente" e quelli "porgi l'altra guancia". Di sicuro lei appartiene alla prima categoria e non vedo per quale ragione non avrebbe dovuto denunciare il crimine se non per proteggere qualcuno. E se quel qualcuno non fosse stato il nostro uomo. So quello che dico, amico, Roulet è il diavolo in persona. Non so da dove gli venga la cattiveria né per quale motivo sia diventato così, ma più lo guardo e più vedo in lui il diavolo.» Questo insieme di informazioni era stato raccolto in modo non ufficiale. Erano notizie che non dovevano essere utilizzate in alcun modo come elementi a difesa. Non dovevano venire a conoscenza dell'accusa per cui solo una piccola parte di quello che avevamo scoperto fu messa per iscritto da me o da Levin. Ma erano elementi che dovevo conoscere per decidere come improntare la difesa al processo. Alle 11.05, mentre ero davanti allo specchio a provarmi un berretto dei Dodgers, il telefono di casa squillò. Verificai il numero prima di rispondere e vidi che si trattava di Lorna Taylor. «Come mai hai il cellulare spento?» mi chiese. «Perché sono fuori servizio. Te l'avevo detto, oggi niente telefonate. Sto andando alla partita con Mix e mi aspetta tra poco.» «Chi è Mix?» «Volevo dire Raul. A cosa devo il disturbo?» Lo dissi senza malizia. «Perché sono sicura che avresti voluto essere disturbato. Stamattina pre-
sto è arrivata una mail che conteneva una notifica da parte del Secondo.» Il Secondo distretto della corte d'appello riesamina i casi provenienti dalla contea di Los Angeles e rappresenta l'istanza cui appellarsi prima della corte suprema. Sapevo che Lorna non mi avrebbe chiamato per comunicarmi che avevo perso un appello. «Quale caso?» Di solito avevo quattro o cinque casi pendenti in appello. «Uno dei tuoi Road Saints. Harold Casey. Hai vinto!» Fui molto sorpreso. Non perché avessi vinto, ma per il tempismo della sentenza. Avevo cercato di muovermi molto rapidamente con quell'appello. Ancora prima che fosse pronunciato il verdetto avevo redatto il ricorso e avevo pagato un somma extra per accelerare la trascrizione quotidiana del processo. Il giorno dopo il verdetto avevo presentato la richiesta di appello e chiesto che venisse presa in considerazione con procedura d'urgenza. Ma, nonostante tutto, non mi aspettavo che succedesse qualcosa prima di altri due mesi. Chiesi a Lorna di leggere il dispositivo e sul viso mi si stampò un sorriso. Grosso modo era il mio verbale appena rimaneggiato. I tre giurati avevano convenuto con me che il fatto che l'elicottero della polizia avesse sorvolato a bassa quota il ranch di Casey costituiva una violazione della privacy. La corte aveva rovesciato il verdetto di colpevolezza di Casey, affermando che la ricerca che aveva condotto alla scoperta della serra di produzione idroponica di marijuana non era stata effettuata secondo la normativa di legge. A quel punto lo stato doveva decidere se riprocessare Casey. Il che, realisticamente, sembrava fuori discussione. Dal momento che la corte d'appello aveva decretato che tutti gli elementi raccolti durante il sopralluogo nel ranch dovevano ritenersi non producibili in giudizio, l'accusa si sarebbe trovata senza la minima prova. Era chiaro che la decisione della corte d'appello costituiva una vittoria per la difesa. Circostanza assai rara. «Ragazzi, che giornata per quel disgraziato!» «Dove lo trovo?» chiese Lorna. «Potrebbe essere ancora al centro di accoglienza, ma stavano per trasferirlo a Corcoran. Sta a sentire cosa dovresti fare. Fai una decina di copie della sentenza, mettile in una busta e spediscile a Casey, presso il carcere di Corcoran. Dovresti avere l'indirizzo.» «Okay, ma lo lasceranno uscire?» «Non ancora. La libertà condizionata è stata sospesa dopo l'arresto e la
sentenza in appello non interrompe la sospensione. Non uscirà finché non si rivolgerà al comitato per la libertà condizionata e non lo persuaderà del fatto che le indagini non autorizzate lo hanno danneggiato. Ci vorranno almeno sei settimane.» «Sei settimane? Ma è incredibile.» «Non commettere un reato se non hai il tempo da passare in prigione.» Cantai il ritornello alla maniera di Sammy Davis. «Mick, ti prego, non cantare.» «Scusa.» «Perché dovrei spedirgli una decina di copie? Non ne basta una?» «Perché una la terrà per sé e distribuirà le altre nove per la prigione. A quel punto il tuo telefono comincerà a squillare. Un avvocato che vince in appello è manna dal cielo per i detenuti. Cominceranno a telefonarti e tu dovrai selezionare quelli che dimostrano di avere una famiglia alle spalle in grado di pagare.» «Il tuo solito punto di vista.» «Infatti. Non è successo nient'altro?» «Niente di particolare. Le telefonate che non volevi sapere. Sei riuscito a passare da Gloria Days ieri?» «Gloria Dayton, sì, l'ho vista. È depressa. Le manca ancora più di un mese.» A dire il vero Gloria Dayton non era così depressa. Negli ultimi anni non l'avevo mai vista così in forma e con lo sguardo così luminoso. Come al solito Lorna prevedeva il peggio. «Questa volta quanto passerà prima che ritelefoni per dirmi: "Sono in prigione. Ho bisogno di Mickey"?» Pronunciò la frase imitando l'inflessione nasale e lamentosa di Gloria Dayton. Non era stata una cattiva imitazione, ma mi aveva infastidito lo stesso. Poi superò se stessa cantando un ritornello con una musichetta alla Disney. «M-I-C..., vediamoci presto. K-E-Y..., perché tanto non mi fai mai pagar! M-O-U-T-H. Mickey Mouth... Mickey Mouth, l'avvocato che ogni...» «Lorna, ti prego non cantare.» Si mise a ridere. «Un punto per me.» Mi strappò il sorriso, ma feci finta di niente. «Bene. D'accordo. Ora devo andare.» «Okay, stai bene... Mickey Mouth.»
«Potresti cantarmi quella canzoncina tutto il giorno, i Dodgers potrebbero perdere venti a zero con i Giants e io continuerei a essere di buon umore. Dopo la notizia che mi hai dato, cosa può andarmi storto?» Quando chiudemmo la telefonata andai nel mio studio a cercare il numero di cellulare di Teddy Vogel, il capo dei Saints. Gli diedi la buona notizia e gli suggerii di trasmetterla a Pelledura perché era più facile che riuscisse a raggiungerlo più in fretta di me. In tutte le prigioni c'era almeno un Road Saint. Il loro sistema di comunicazione poteva fare invidia alla CIA e all'FBI. Vogel disse che ci avrebbe pensato lui. E aggiunse che i diecimila dollari che mi aveva dato si erano rivelati un ottimo investimento. «Mi fa piacere che tu lo dica, Ted» risposi. «Quando hai bisogno di un avvocato ricordati di me.» «Lo farò, avvocato.» Tirai fuori dall'armadietto in corridoio il mio primo guanto da baseball e mi diressi verso la porta. Avevo dato un giorno di ferie a Earl e dovetti cavarmela da solo per raggiungere il tempio dei Dodgers. Il traffico era scorrevole finché non arrivai dalle parti dello stadio. La partita d'esordio casalinga significava sempre un tutto esaurito, anche se si giocava di pomeriggio e in un giorno feriale. L'inizio della stagione del baseball è un rito di primavera che richiama in città migliaia di lavoratori. Nell'indifferente Los Angeles è l'unico evento sportivo dove si incontrano uomini in giacca e cravatta. Impiegati che escono dal lavoro. La partita di inizio stagione è unica. Speranze e illusioni. Prima che la cruda realtà abbia il sopravvento. Fui il primo a sedermi. I nostri posti erano a tre file di distanza dal terreno di gioco ed erano stati aggiunti nel periodo di lavori durante la sosta del campionato. Levin doveva avere speso una fortuna. Mi chiesi se poteva farla rientrare nelle spese di rappresentanza deducibili. Anche Levin doveva arrivare in anticipo. Mi aveva chiamato la sera prima per chiedermi un colloquio in privato. Dovevamo discutere della mia visita a Gloria Dayton e Raul doveva aggiornarmi sui vari filoni di indagine che riguardavano Roulet. E poi volevamo seguire il riscaldamento dei battitori e commentare i cambiamenti che il nuovo proprietario aveva apportato allo stadio. Ma Levin non si presentò in tempo per il riscaldamento. Arrivarono prima gli altri quattro avvocati, tre dei quali, quelli che venivano direttamente dal tribunale, in giacca e cravatta. L'occasione di un colloquio privato era sfumata.
Avevo conosciuto quei miei quattro colleghi perché ci eravamo trovati a lavorare insieme su alcuni casi di traffici illegali marittimi. La tradizione degli avvocati difensori che andavano insieme alle partite dei Dodgers aveva avuto inizio allora. All'epoca era stato dato ampio mandato alla guardia costiera di fermare le imbarcazioni sospette in navigazione in qualsiasi punto dell'oceano, nel tentativo di bloccare l'ingresso di sostanze stupefacenti negli Stati Uniti. Gli ispettori sequestravano le imbarcazioni con gli equipaggi a bordo ogni volta che si imbattevano in un carico prezioso, in quel periodo cocaina. E tutte le cause venivano concentrate presso la corte distrettuale degli Stati Uniti di Los Angeles. Così facendo decine di imputati venivano processati in contemporanea. Ognuno aveva il suo avvocato, quasi tutti nominati dalla corte e pagati dallo stato. Erano cause che si presentavano a cadenza regolare, venivano ben retribuite e per noi erano una pacchia. A qualcuno venne l'idea di organizzare delle riunioni per discutere i casi allo stadio dei Dodgers. Una volta, per una partita contro i Cubs, capitò che ci fossimo tutti e prenotammo un palco privato. Quella volta, a dire il vero, finimmo per parlare del processo solo per pochi minuti durante l'intervallo del settimo inning. Lo spettacolo pre-partita ebbe inizio e di Levin nessuna traccia. Centinaia di colombe trattenute dentro una fila di ceste vennero rilasciate. Volarono per un po' intorno allo stadio, manifestarono il loro incoraggiamento alla squadra di casa e scomparvero in cielo. Subito dopo, il boato di un caccia che incrociava sopra lo stadio suscitò applausi ancora più caldi. Los Angeles era così. Una città aperta a tutti i gusti e da prendere con molta ironia. Cominciò la partita e Levin continuava a non arrivare. Accesi il cellulare e cercai di chiamarlo, anche se non era facile sentire qualcosa. La folla urlava, c'era un rumore assordante, tutti speravano che la nuova stagione non si sarebbe conclusa con un'altra delusione. La mia telefonata fece scattare la segreteria telefonica. «Mix, dove sei finito? Siamo alla partita, i posti sono fantastici, ma ne è rimasto uno vuoto. Ti stiamo aspettando.» Conclusi il messaggio e mi rivolsi agli altri stringendomi nelle spalle. «Non capisco» dissi. «Non risponde al cellulare.» Lasciai il mio acceso e lo infilai nella cintura. Prima della fine del primo inning mi ero già pentito di quello che avevo detto a Lorna a proposito del fatto che non mi importava se i Giants ci battevano venti a zero. I Giants si portarono sul cinque a zero prima che i Do-
dgers riuscissero a fare la prima battuta della stagione. La delusione nel pubblico cresceva. Sentii qualcuno lamentarsi dei prezzi, dei lavori allo stadio e del numero eccessivo di cartelloni pubblicitari. Roger Mills, uno degli avvocati, guardandosi intorno ci fece notare che tutta la superficie dello stadio era tappezzata di pubblicità più di un rally Nascar. I Dodgers riuscirono a tornare in vantaggio, ma al quarto inning la situazione si ribaltò e i Giants batterono un fuoricampo con Jeff Weaver. Durante il cambio del lanciatore approfittai per segnalare ai colleghi la velocità dei tempi d'appello del caso Casey. Gli altri furono colpiti dalla notizia e solo uno di loro, Dan Daly, insinuò che ero riuscito a ottenere una revisione veloce perché i tre giudici erano sulla mia lista dei regali natalizi. Feci notare a Daly che sembrava dimenticare la nota ufficiale dell'Ordine in cui si sottolineava la diffidenza dei giudici nei confronti degli avvocati con la coda di cavallo. La sua arrivava a metà schiena. Fu durante la stessa pausa di gara che riuscii a sentire lo squillo del cellulare. Lo sfilai dal fianco e lo aprii senza guardare lo schermo. «Raul?» «No, signore, sono il detective Lankford del Dipartimento della Polizia di Glendale. Parlo con Michael Haller?» «Sì» dissi. «Ha un momento?» «Ce l'ho, ma non sono certo di riuscire a sentirla. Sono a vedere i Dodgers. Può aspettare che la richiami appena possibile?» «No, signore, non posso aspettare. Conosce un uomo che si chiama Raul Aaron Levin? Si tratta di un...» «Sì, lo conosco. Cosa è successo?» «Mi spiace comunicarle che il signor Levin è morto, signore. È stato assassinato in casa sua.» La testa mi scivolò in avanti a poco a poco fino a fermarsi contro la schiena di chi stava seduto sotto di me. Mi risollevai. Con una mano mi tappai un orecchio e con l'altra premetti il telefono. Ogni cosa intorno a me si annebbiò sino a scomparire. «Come è successo?» «Non lo sappiamo» disse Lankford. «Per questo siamo qui. Sappiamo che ultimamente lavorava per lei. Può venire a rispondere a qualche domanda e a darci una mano?» Espirai e cercai di mantenere un tono di voce calmo e misurato. «Sto arrivando» risposi.
23 Il corpo di Raul Levin era steso a terra nella stanza sul retro del suo bungalow, a pochi isolati da Brand Boulevard. In origine la stanza doveva essere destinata a veranda o forse a locale per la tv, ma Raul la usava come studio. Come me, non aveva bisogno di uno spazio di rappresentanza. La sua attività non prevedeva visite, incontri o riunioni con la clientela. Non compariva neppure sulle pagine gialle. Lavorava per gli avvocati e otteneva gli incarichi con il passaparola. I cinque legali con cui doveva vedere la partita di baseball testimoniavano del suo talento e del suo successo. I poliziotti, informati del mio arrivo, mi fecero aspettare in soggiorno che i detective finissero sulla scena del delitto. Un agente in divisa rimase di guardia nel corridoio per dissuadermi da scatti inconsulti verso la stanza sul retro o la porta d'ingresso. Io rimasi lì ad aspettare e a pensare al mio amico. Uscito dallo stadio, in macchina verso la casa di Levin, decisi che sapevo chi lo aveva ucciso. Per sapere chi era l'assassino non avevo bisogno che mi portassero sul luogo del delitto. Sapevo benissimo che Raul si era avvicinato troppo a Louis Roulet. E che il responsabile ero io. L'unico interrogativo aperto era come dovevo comportarmi adesso. Dopo una ventina di minuti due detective entrarono in soggiorno arrivando dal retro. Mi alzai e parlammo rimanendo in piedi. L'uomo si presentò come Lankford, l'investigatore che mi aveva telefonato. Dei due era il veterano, il socio anziano. Il partner era una donna, di nome Sobel. Non sembrava avesse una grande esperienza di omicidi. Non ci stringemmo la mano. I due indossavano guanti di lattice. Portavano sovrascarpe di carta. Lankford masticava un chewing-gum. «Dunque, quello che abbiamo è questo» disse lui con voce roca. «Levin era nello studio, seduto alla scrivania. La sedia era girata rispetto alla scrivania, perciò si trovava di fronte all'aggressore. È stato raggiunto da una sola pallottola, al torace. L'arma era di taglia piccola, direi una calibro ventidue, ma lo confermerà il medico legale.» Lankford si diede un colpetto al centro del petto. Riconobbi il suono sordo del giubbotto anti proiettile sotto la camicia. Lo corressi. Come al telefono, aveva pronunciato il cognome di Raul come Levine. Gli dissi che faceva rima con heaven. «Levin, allora» disse in modo corretto. «Dopo lo sparo, ha cercato di al-
zarsi o forse è semplicemente caduto in avanti sul pavimento. È morto a faccia in giù. L'aggressore ha messo sottosopra l'ufficio e per il momento non siamo in grado di stabilire cosa stesse cercando o cosa possa essersi portato via.» «Chi ha trovato il corpo?» chiesi. «Una vicina che ha trovato il suo cane che vagava in libertà. Prima o dopo l'omicidio l'assassino deve averlo fatto uscire di casa. La vicina l'ha trovato che girava qui attorno, l'ha riconosciuto e l'ha riportato indietro. La porta d'ingresso era aperta, è entrata e ha trovato il cadavere. Come cane da guardia non vale granché, è una pallina di pelo.» «Uno shih-tzu» dissi. Avevo già visto quel cane e avevo sentito Levin che ne parlava, ma non riuscivo a ricordarne il nome. Qualcosa tipo Rex o Bronco, comunque un nome in contrasto con la piccola taglia del cane. Prima di proseguire, Sobel consultò un taccuino che teneva in mano. «Non abbiamo trovato nulla che possa farci risalire a un parente» disse. «Sa se aveva famiglia?» «Non so esattamente dove viva sua madre. Lui era di Detroit. Forse lei abita ancora lì. Non credo fossero in buoni rapporti.» Lei annuì. «Abbiamo trovato l'agenda della vittima. Nell'ultimo mese il suo nome è segnato quasi ogni giorno. Stava lavorando per suo conto a un caso particolare?» Annuii. «A un paio di casi. Soprattutto uno.» «Le spiace parlarcene?» chiese. «Sto seguendo una causa che sta per andare a processo. Il mese prossimo. Violenza e tentato omicidio. Stava raccogliendo gli elementi e mi aiutava a preparare la difesa.» «Vuol dire che l'aiutava a manipolare le indagini, giusto?» fece Lankford. Capii che i modi gentili al telefono erano stati lo zuccherino per farmi andare fin lì. Adesso era libero di comportarsi in modo diverso. Mi pareva perfino che masticasse il chewing-gum con più aggressività di quando era entrato nella stanza. «Come preferisce, detective. Tutti hanno diritto a una difesa.» «Sì, certo, e tutti sono innocenti, la colpa è dei genitori che li hanno mandati fuori di casa troppo presto» disse Lankford. «Lasciamo perdere.
Prima questo Levin era un poliziotto, giusto?» Aveva ripreso a storpiare la pronuncia del nome. «Sì, lavorava nel LAPD. Detective nella squadra Reati contro la persona, si era ritirato dopo una dozzina di anni di servizio. Credo fossero dodici. Dovreste controllare. E il suo nome era Leven.» «Sì, come heaven. Immagino che non riuscisse a lavorare dalla parte delle persone oneste, no?» «Dipende da che parte si vede la cosa.» «Possiamo tornare a noi?» intervenne Sobel. «Come si chiama il suo cliente?» «Louis Ross Roulet. Il processo si terrà presso la corte suprema di Van Nuys davanti al giudice Fullbright.» «È detenuto?» «No, uscito su cauzione.» «C'era qualche problema tra Roulet e il signor Levin?» «Non che io sappia.» Avevo deciso. Avrei trattato con Roulet e adesso sapevo in che modo. Mi sarei attenuto al piano studiato con l'aiuto di Raul Levin. Lo dovevo al mio amico Mix. Lui avrebbe voluto così. Non l'avrei passato ad altri. Me ne sarei occupato personalmente. «Potrebbe essere una storia di gay?» chiese Lankford. «Cosa? Perché dice così?» «Il cane da checca e le foto in giro, solo di ragazzi e del cane. Dappertutto. Alle pareti, vicino al letto, sul pianoforte.» «Guardi meglio, detective. Probabilmente si tratta di un unico ragazzo. Il suo compagno è morto qualche anno fa. Non credo sia stato con nessun altro da allora.» «Morto di Aids, scommetto.» Non confermai. Mi limitai ad aspettare. Mi ero stancato del modo di fare di Lankford. E il suo modo di interrogarmi lo avrebbe tenuto lontano da Roulet. Il che poteva anche starmi bene. Mi bastava tenerlo in stallo cinque o sei settimane e da lì in avanti chi se ne frega se riuscivano a incastrare i pezzi del puzzle o no. A quel punto la mia parte sarebbe finita. «Il suo amico frequentava locali gay?» chiese Lankford. Io alzai le spalle. «Non ne ho idea. Ma se si tratta di un omicidio gay, perché hanno messo sottosopra l'ufficio e non il resto della casa?» Lankford annuì. Per un attimo parve colto alla sprovvista dalla razionali-
tà della mia domanda. Poi però mi colpì con un colpo a sorpresa. «Allora, lei dove si trovava stamattina, avvocato?» «Prego?» «Semplice formalità. La scena del delitto lascia intendere che la vittima conosceva il suo assassino. L'ha fatto entrare nella stanza. Come le dicevo, probabilmente è stato colpito mentre era seduto alla sua scrivania. Direi che si sentiva sicuro con il suo assassino. Dovremo verificare tutte le conoscenze, professionali e sociali.» «Sta dicendo che sono un sospettato?» «No, sto solo cercando di far luce su quello che è successo e di mettere a fuoco alcuni punti.» «Sono rimasto in casa tutta la mattina a prepararmi per incontrare Raul al Dodger Stadium. Intorno a mezzogiorno sono uscito per andare allo stadio dove lei mi ha chiamato.» «E prima?» «Come ho già detto, ero in casa. Da solo. Intorno alle undici ho ricevuto una telefonata che prova che ero in casa e io abito ad almeno mezz'ora da qui. Se è stato ucciso dopo le undici, sono innocente.» Lankford non abboccò. Non mi disse l'ora della morte. Forse non si sapeva ancora. «Quando è stata l'ultima volta che gli ha parlato?» mi chiese. «Ieri sera al telefono.» «Chi ha chiamato e perché?» «Ha chiamato lui e mi ha chiesto se potevo arrivare in anticipo alla partita. Gli ho detto di sì.» «Perché?» «Gli piace... gli piaceva guardare il riscaldamento dei battitori. Mi ha detto che potevamo approfittarne per fare il punto sul caso Roulet. Non aveva nulla di particolare da dirmi, ma non mi aggiornava da quasi una settimana.» «Grazie per la collaborazione» disse Lankford in tono pesantemente sarcastico. «Si rende conto che ho appena fatto esattamente quello che dico a ogni cliente di non fare? Ho risposto alle sue domande senza la presenza di un avvocato e le ho fornito il mio alibi. Devo essere fuori di testa.» «Ho detto grazie.» Intervenne la detective Sobel. «C'è altro che può aggiungere, signor Haller? A proposito del signor
Levin e del suo lavoro.» «Sì, un'altra cosa c'è. Qualcosa che è meglio verificare. E che desidero resti riservata.» Rivolsi lo sguardo verso l'agente in divisa ancora fermo in corridoio alle loro spalle. La detective Sobel seguì il mio sguardo e capì che volevo un colloquio riservato. «Agente, vada fuori ad aspettare, per cortesia» disse. L'agente si allontanò con l'aria seccata, forse perché a ordinarglielo era stata una donna. «Bene» disse Lankford. «Parli pure.» «Qualche settimana fa, eravamo in marzo, devo controllare la data esatta, Raul ha lavorato per me su un altro caso in cui era coinvolto un mio cliente che aveva parlato e incastrato uno spacciatore. Levin aveva fatto alcune telefonate per aiutarmi a identificare il pregiudicato. In seguito ho saputo che si trattava di un colombiano e che aveva contatti influenti. Potrebbe aver avuto degli amici che...» Lasciai loro il compito di completare la frase. «Non lo so» disse Lankford. «Qui sembra una cosa pulita. Non una vendetta. Niente gola tagliata, niente lingua strappata. Un colpo solo e l'ufficio messo sottosopra. Cosa dovrebbero cercare gli uomini dello spacciatore?» Scossi la testa. «Forse il nome del mio cliente. Nel patteggiamento con l'accusa avevo concordato che non venisse rivelato.» Lankford annuì pensieroso. «Come si chiama il suo cliente?» «Non posso dirlo. Segreto professionale.» «Ed eccoci con le solite stronzate. Come facciamo a seguire questa pista se non sappiamo neanche il nome del suo cliente? Del suo amico steso di là sul pavimento con un pezzo di piombo nel cuore non le importa proprio niente?» «Certo che me ne importa. Mi pare chiaro che qui dentro sono l'unico a cui importi qualcosa. Ma sono anche legato alle regole e all'etica della mia professione.» «Il suo cliente potrebbe essere in pericolo.» «Il mio cliente è al sicuro. Si trova in prigione.» «È una donna, giusto?» domandò Sobel. «Continua a ripetere "cliente" invece di lui o lei.» «Non ho intenzione di parlarvi del mio cliente. Se volete il nome dello
spacciatore, è Hector Arrande Moya. È in una prigione federale. Credo che l'accusa originaria provenisse da un caso della DEA di San Diego. È tutto quel che posso dirvi.» La detective Sobel prese nota di tutto. Pensai di aver fornito loro indicazioni sufficienti per distrarli da Roulet e dalla pista omosessuale. «Signor Haller, è mai stato nell'ufficio del signor Levin?» chiese Sobel. «Qualche volta. Non ci venivo da almeno un paio di mesi.» «Le spiace tornarci ora con noi? Magari riesce a notare qualcosa fuori posto o che manca.» «È ancora là dentro?» «La vittima? Sì, come lo abbiamo trovato noi.» Annuii. Non ero sicuro di voler vedere il corpo di Raul Levin al centro di una scena del delitto. Ma in quell'istante decisi che dovevo vederlo e dovevo imprimere bene nella mia mente quell'immagine. Mi sarebbe servita per non muovermi dalla determinazione di portare avanti il mio piano. «D'accordo, vengo.» «Allora indossi questi e là dentro non tocchi nulla» disse Lankford. «Ci stiamo ancora lavorando.» Estrasse dalla tasca un paio di sovrascarpe di carta ripiegate. Mi sedetti sul divano di Raul e le indossai. Poi li seguii lungo il corridoio verso la stanza del delitto. Il corpo di Raul Levin era lì, come era stato trovato. Steso a pancia in giù sul pavimento, il viso rivolto alla sua destra, la bocca e gli occhi aperti. Era in una posizione innaturale, un fianco più alto dell'altro e le braccia e le mani sotto di sé. Sembrava evidente che fosse caduto dalla sedia della scrivania alle sue spalle. Mi pentii subito della decisione di entrare nella stanza. All'improvviso mi resi conto che l'ultima immagine del volto di Raul si sarebbe sovrapposta a tutti gli altri ricordi visivi che avevo di lui. Per non dover rivedere nella mente quegli occhi sarei stato costretto a cercare di dimenticarlo. Con mio padre era stato lo stesso. L'unica memoria visiva che avevo di lui era quella di un uomo in un letto. Pesava al massimo quarantacinque chili ed era divorato dal cancro. Gli altri ricordi erano traslati. Venivano da foto di libri che avevo letto. Nella stanza c'erano alcune persone che lavoravano. Investigatori e personale dell'ufficio di medicina legale. Il mio volto doveva esprimere l'orrore che provavo. «Sa perché non possiamo coprirlo?» mi chiese Lankford. «Per colpa del-
la gente come lei. Per colpa della vicenda OJ. Quello che viene chiamato occultamento delle prove. Un precedente al quale voi avvocati amate attaccarvi. Perciò niente più lenzuoli sopra i cadaveri. Almeno finché non lo portiamo via di qui.» Non dissi nulla. Mi limitai ad annuire. Aveva ragione. «Le spiace avvicinarsi alla scrivania e dirci se vede qualcosa di insolito?» chiese Sobel, che sembrava avere una certa simpatia nei miei confronti. Le fui grato perché potevo dare le spalle al corpo. Mi avvicinai alla scrivania, una combinazione di tre tavoli da lavoro che formavano una curva. Riconobbi i mobili del magazzino Ikea di Burbank. Niente di ricercato. Semplicità e praticità. Sul piano centrale appoggiavano un computer e un ripiano a scomparsa per la tastiera. I tavoli laterali erano piani di lavoro ed è probabile che Levin li utilizzasse per evitare di confondere i fascicoli delle indagini. Il mio sguardo si fermò sul computer e mi chiesi cosa potesse aver memorizzato Levin sul conto di Roulet. La detective Sobel se ne accorse. «Non abbiamo in squadra un esperto informatico» disse. «Il Dipartimento è troppo piccolo. Abbiamo recuperato un uomo dell'ufficio dello sceriffo, ma sembra che sia stato portato via tutto il drive.» Indicò con la penna sotto il tavolo dove la colonna del pc era ancora in piedi, ma con un lato del rivestimento in plastica esterno manomesso e appoggiato sul retro. «Probabilmente lì dentro non ci sarà niente per noi» disse. «Cosa le sembra dei tavoli?» Guardai per primo il piano a sinistra del computer. Era ingombro di fogli e schedari. Lessi alcune etichette e riconobbi i nomi. «Alcuni di questi sono miei clienti, ma sono vecchi casi. Casi chiusi.» «Probabilmente provengono dallo schedario nel ripostiglio» disse Sobel. «L'assassino può averli lasciati qui per confonderci e nascondere quello che stava davvero cercando. Che mi dice di questo?» Ci avvicinammo al piano di destra, meno in disordine. C'era solo un calendario da scrivania su cui Levin teneva il conto delle ore lavorate con la specifica dei nomi degli avvocati che gli avevano commissionato le indagini. Nelle ultime cinque settimane vidi segnato il mio nome numerose volte. Praticamente aveva lavorato a tempo pieno per me, esattamente come mi avevano riferito. «Non lo so» dissi. «Non so cosa cercare. Non vedo niente che possa es-
sere d'aiuto.» «Be', la maggior parte degli avvocati non sono così disponibili» disse Lankford alle mie spalle. Non mi voltai per replicare. Si trovava vicino al corpo e non volevo vedere cosa stesse facendo. Allungai una mano per girare la rubrica Rolodex sul tavolo in modo da leggere i nomi sulle schede. «Non la tocchi!» esclamò Sobel. Ritrassi bruscamente la mano. «Mi scusi. Volevo solo leggere i nomi. Non...» Non terminai la frase. Ero disorientato. Volevo andarmene a bere qualcosa. Sentii che stavo per vomitare l'hot dog che allo stadio mi era sembrato così buono. «Guardate qui» disse Lankford. Io e la detective Sobel ci voltammo e vidi gli addetti dell'ufficio di medicina legale che stavano lentamente girando il corpo di Levin. Il sangue aveva inzuppato la maglia dei Dodgers che indossava. Ma Lankford stava indicando le mani del morto, che prima erano sotto il corpo e non si vedevano. Le due dita centrali della mano sinistra erano piegate verso il palmo, mentre le due esterne erano tese in fuori. «Era un amante dei tori texani o cosa?» chiese Lankford. Nessuno rise. «Cosa ne pensa?» mi chiese Sobel. Fissai l'ultimo gesto del mio amico e mi limitai a scuotere la testa. «Ma sì, ho capito» disse Lankford. «È un segnale. Un codice. Ci sta dicendo che è stato il diavolo.» Pensai a Raul che definiva Roulet il diavolo e diceva di avere le prove che fosse un uomo malvagio. E capii cosa voleva dirmi con quell'ultimo messaggio. Aveva trovato il modo di farmelo sapere mentre moriva sul pavimento del suo ufficio. Aveva cercato di mettermi in guardia. 24 Andai al Four Green Fields e ordinai una Guinness, ma mi ci volle poco per passare alla vodka con ghiaccio. Pensai che non avesse senso rimandare le cose. Alla tv sopra il banco la partita dei Dodgers stava per concludersi. I ragazzi in blu si stavano raccogliendo in cerchio per il grido di battaglia, sotto di soli due punti e pronti a giocarsi il nono inning. Il barista aveva gli occhi incollati allo schermo, ma a me dell'esordio stagionale non
importava più niente: né di noni inning né di grida di battaglia. Dopo aver buttato giù il secondo giro di vodka, tirai fuori il cellulare, mi appoggiai al banco e cominciai a telefonare. Per primi chiamai i quattro avvocati alla partita con me. Dopo che avevo ricevuto la notizia ce ne eravamo andati tutti, ma loro erano rientrati a casa sapendo solo che Levin era morto, nient'altro. Poi chiamai Lorna, che scoppiò a piangere. Cercai di dirle qualche parola di conforto e lei mi fece la domanda che speravo di evitare. «C'entra il tuo caso? Roulet è coinvolto?» «Non lo so» mentii. «Ne ho accennato agli investigatori, ma sembravano più interessati al fatto che fosse gay.» «Era gay?» Sapevo che sarebbe servito a distrarla. «Non metteva i cartelli.» «Tu lo sapevi e non me l'hai mai detto?» «Non c'era niente da dire. Era la sua vita. Se avesse voluto farlo sapere, lo avrebbe fatto.» «La polizia dice che è per questo?» «Che cosa?» «Andiamo, dai, che è morto perché era gay.» «Non lo so. Continuavano a chiedermelo. Non so cosa pensino. Esamineranno tutto e mi auguro che scoprano qualcosa.» Restammo in silenzio. Alzai lo sguardo verso il televisore nel momento esatto in cui i Dodgers passavano in vantaggio e lo stadio esplodeva in un boato di gioia. Il barista lanciò un urlo e prese il telecomando per alzare il volume. Io distolsi lo sguardo e mi misi una mano sull'orecchio libero. «Ti fa pensare, vero?» disse Lorna. «A cosa?» «Al lavoro che facciamo. Mickey, quando prenderanno l'assassino, quel bastardo potrebbe chiamarmi e chiedere di essere difeso da te.» Feci tintinnare il ghiaccio nel bicchiere vuoto per attirare l'attenzione del barista. Volevo un altro giro. E non volevo dire a Lorna che credevo di lavorare già per il bastardo che aveva ucciso Raul. «Lorna, stai tranquilla, tu...» «Può succedere!» «Ascolta, Raul era un collega e anche un amico. Ma non ho intenzione di cambiare quello che faccio o quello in cui credo perché...» «E invece dovresti. Tutti dovremmo. Basta, non farmi aggiungere altro.»
Ricominciò a piangere. Il barista mi portò un nuovo drink e con un sorso ne scolai un terzo. «Lorna, vuoi che venga lì?» «No, non voglio niente. Non lo so cosa voglio. È tutto così orribile.» «Posso dirti una cosa?» «Cosa? Certo che puoi.» «Ti ricordi Jesus Menendez? Il mio cliente?» «Sì, ma cosa c'entra...» «Era innocente. E Raul ci stava lavorando. Ci stavamo lavorando insieme. Lo tireremo fuori.» «Perché me lo dici?» «Perché non possiamo fermarci di colpo per quello che è successo a Raul. Stiamo facendo una cosa importante. E necessaria.» Mentre le pronunciavo, quelle parole mi suonarono vuote. Lorna non rispose. Dovevo averla confusa, e mi sentivo confuso anch'io. «Okay?» chiesi. «Okay.» «Adesso devo fare delle altre telefonate, Lorna.» «Appena lo sai, mi dici quand'è il funerale?» «Va bene.» Chiusi il telefono e decisi di prendermi una pausa prima della chiamata successiva. Pensai all'ultima domanda di Lorna e mi resi conto che forse ero l'unico a poter organizzare la cerimonia funebre. A meno che un'anziana signora di Detroit che venticinque anni prima aveva ripudiato Raul Levin non si facesse viva. Spinsi il bicchiere sul bordo del bancone e dissi al barista: «Dammi una Guinness e versane una anche per te». Decisi che era arrivato il momento di moderarmi e un modo per farlo era bere Guinness, visto che ci voleva del tempo per riempire un boccale alla spina. Quando il barista me la portò vidi che aveva disegnato un'arpa sulla schiuma. L'arpa di un angelo. Sollevai il bicchiere prima di bere. «Dio benedica i morti» dissi. «Dio benedica i morti» disse il barista. Ne presi un lungo sorso e sentii la birra densa come calce scendermi nello stomaco per tenere insieme i mattoni che avevo dentro di me. Di colpo mi venne voglia di piangere. Me lo impedì lo squillo del telefono. Risposi senza guardare lo schermo. L'alcol mi aveva impastato la voce. «Sei Mick?» chiese una voce.
«Sì, chi parla?» «Louis. Ho appena saputo di Raul. Mi spiace, amico.» Allontanai il telefono dall'orecchio come se fosse un serpente che cercava di mordermi. Piegai il braccio, pronto a scagliarlo contro lo specchio dietro il banco. Mi vidi riflesso e mi fermai. Riavvicinai il microfono. «Sì, figlio di puttana, come hai fatto...» Mi interruppi e iniziai a ridere quando mi resi conto di come lo avevo chiamato. «Hai bevuto?» disse Roulet. «Ci puoi giurare» risposi. «Come cazzo fai a sapere quello che è successo a Mix?» «Se con Mix intendi il signor Levin, ho appena ricevuto una telefonata dalla polizia di Glendale. Una detective mi ha detto che voleva farmi delle domande su di lui.» Quella risposta mi iniettò direttamente nel fegato almeno due delle vodka che avevo bevuto. Mi raddrizzai sullo sgabello. «Si chiamava Sobel? È lei che ha chiamato?» «Sì, mi pare di sì. Ha detto che le hai dato tu il mio nome. E che sarebbero state domande di routine. Sta venendo qui.» «Dove?» «In ufficio.» Riflettei un attimo, ma mi convinsi che Sobel non correva pericoli, anche se si presentava senza Lankford. Roulet non avrebbe provato a far niente contro un poliziotto, tanto meno nel suo ufficio. La mia preoccupazione maggiore era che i detective potessero aver scoperto qualcosa su Roulet e volessero privarmi della possibilità di vendicare personalmente Raul Levin e Jesus Menendez. Roulet aveva lasciato un'impronta? Un vicino lo aveva visto entrare in casa di Levin? «Ha detto altro?» «Sì. Ha detto che stavano parlando con tutti i suoi clienti più recenti e che io ero il più recente.» «Non parlargli.» «Sei sicuro?» «Non senza che il tuo avvocato sia presente.» «Non diventeranno più sospettosi se mi rifiuto di farlo, se non fornisco un alibi o roba del genere?» «Non importa. Non ti parleranno finché non darò il mio permesso. E io non te lo do.»
Serrai la mano libera in un pugno. Non tolleravo dover dare consigli legali all'uomo che ero certo che quella mattina avesse ucciso un mio amico. «Va bene» disse Roulet. «La manderò via.» «Tu dov'eri stamattina?» «Ero qui, in ufficio. Perché?» «Ti ha visto nessuno?» «Be', è venuta Robin alle dieci. Prima nessuno.» Pensai alla donna con i capelli a forma di falce. Non sapevo cosa chiedergli d'altro perché non conoscevo l'ora della morte. Non volevo dire nulla sul dispositivo di rilevamento che verosimilmente portava alla caviglia. «Dopo che la detective Sobel se ne sarà andata chiamami. E ricorda, indipendentemente da quello che ti diranno lei o il suo socio, non parlare con loro. Possono dirti tutte le bugie che vogliono. È un classico. Considera falsa ogni cosa che ti diranno. Cercano solo di confonderti per farti parlare. Se ti dicono che sono stato io a dire loro che potevano parlarti, è una bugia. Prendi il telefono e chiamami, gli dirò di andarsene.» «Va bene, Mick. Farò così. Grazie.» Chiusi il telefono e lo lasciai ricadere sul banco come se fosse sporco. «Non c'è di che» dissi. Mi scolai un buon quarto di pinta, poi ripresi il telefono. Con la ricerca rapida chiamai Fernando Valenzuela sul cellulare. Era a casa, appena rientrato dalla partita. Voleva dire che era uscito prima per evitare il traffico. Tipico tifoso di Los Angeles. «Roulet porta ancora il rilevatore?» «Sì, ce l'ha.» «Come funziona? Ti dice solo dove qualcuno si trova in quel momento o anche dove è stato?» «Serve a localizzare le persone in generale. Emette un segnale. Se ne segui le tracce a ritroso sai dove è andato.» «Ce l'hai lì o in ufficio?» «Ce l'ho sul portatile, amico. Che succede?» «Voglio sapere dove è stato Roulet oggi.» «Be', fammelo accendere. Aspetta.» Rimasi in attesa. Finii la Guinness e mentre Valenzuela stava avviando il portatile ne ordinai un'altra. «Dove sei, Mick?» «Four Green Fields.» «Qualcosa non va?»
«Sì. L'hai acceso o no?» «Sto guardando. Fino a quando vuoi risalire?» «A stamattina.» «D'accordo. Be'... oggi non ha fatto granché. È andato da casa sua in ufficio alle otto. Direi che ha fatto un giro nelle vicinanze, un paio di isolati al massimo, probabilmente per pranzo, e poi di nuovo in ufficio. Adesso è ancora lì.» Riflettei qualche istante. Il barista servì la nuova pinta. «Val, come si fa a togliersi quell'affare dalla caviglia?» «Non si può. Da soli è impossibile. Il morsetto che lo chiude è unico. È come una serratura. Io possiedo l'unica chiave che esiste.» «Ne sei sicuro?» «Sicuro. Ce l'ho qui, nel portachiavi, amico.» «Non esiste nessuna copia?» «Non dovrebbe. E poi non sarebbe determinante. Se la cavigliera si rompe, anche se lui riesce ad aprirla, io ricevo un allarme sul sistema. Una volta applicata la cavigliera, io ricevo un allarme sul computer, se dovesse registrarne la mancanza. E non è successo, Mick. L'unica alternativa è la sega. Taglia la gamba e lascia la cavigliera. Non c'è altra soluzione.» Presi un sorso di birra. Questa volta il barista non si era disturbato con nessuna incisione. «E la batteria? Che succede se si scarica, perdi il segnale?» «No, Mick. Rimane coperto. Sul rilevatore c'è un carica-batterie e un ricevitore. Deve tenerlo inserito un paio d'ore ogni tanto per caricarlo. Mentre è alla scrivania o fa un sonnellino. Se la carica della batteria scende sotto il venti per cento io ricevo un allarme sul computer, lo chiamo e gli dico di inserirlo. Se non lo fa, ricevo un altro allarme quando la batteria raggiunge il quindici per cento, poi al dieci inizia a suonare e lui non può più spegnerlo. Non è facile fregarlo. E l'ultimo dieci per cento mi lascia ancora cinque ore di rilevamento. Ho cinque ore per rintracciarlo, senza problemi.» «D'accordo, d'accordo.» La scienza mi aveva convinto. «Cosa è successo?» Gli raccontai di Levin e gli dissi che era probabile che la polizia volesse controllare l'alibi di Roulet e che lui avrebbe rimandato alla cavigliera. La notizia aveva sconvolto Valenzuela. Forse non era stato vicino a Levin come me, ma lo conosceva da altrettanto tempo.
«Cosa credi che sia successo, Mick?» mi chiese. Voleva sapere se credevo che Roulet fosse l'assassino o ne fosse il mandante. Valenzuela non sapeva tutto quello che sapevo io e che Levin aveva scoperto. «Non so cosa pensare» dissi. «Ma devi fare attenzione con quell'individuo.» «Anche tu.» «Lo farò.» Chiusi il telefono, chiedendomi se esistesse un metodo di fuga di cui Valenzuela non fosse a conoscenza. Se Roulet poteva aver scoperto il modo per togliersi il rilevatore dalla caviglia o neutralizzare il sistema. Il lato scientifico mi convinceva, quello umano meno. L'errore umano è sempre possibile. Il barista fece due passi nella mia direzione. «Hai perso le chiavi della macchina, amico?» chiese. Mi guardai intorno per essere sicuro che parlasse con me e scossi la testa. «No» risposi. «Sicuro? Qualcuno ha trovato delle chiavi nel parcheggio. Meglio che controlli.» Infilai una mano nella tasca della giacca, la tirai fuori e l'allargai, il palmo verso l'alto. Gli mostrai il portachiavi. «Visto, ho dett...» Con uno scatto improvviso, il barista mi prese le chiavi dalla mano. Poi sorrise. «Il fatto che ci sei cascato è una prova di sobrietà» disse. «In ogni caso, amico, è meglio che tu non guidi, almeno per il momento. Quando ti senti pronto per andare, ti chiamo un taxi.» Si allontanò dal bancone per prevenire reazioni violente. Io invece mi limitai ad annuire. «Mi hai fregato» dissi. Lanciò le chiavi sulla mensola alle sue spalle, dov'erano allineate le bottiglie. Guardai l'orologio. Non erano neanche le cinque. Nello stordimento dell'alcol si stava facendo largo la vergogna. Avevo preso la strada più semplice. La strada del vigliacco. Ubriacarsi di fronte a un avvenimento terribile. «Toglimi questo» dissi, indicando il bicchiere di Guinness. Presi il telefono e premetti i tasti della chiamata veloce. Maggie
McPherson rispose al volo. I tribunali chiudevano alle quattro e mezza e di norma i pubblici ministeri restavano in ufficio ancora un'ora o due prima della fine della giornata. «Ehi, non è l'ora di andarsene?» «Haller?» «Sì.» «Che succede? Hai bevuto? Hai la voce strana.» «Credo che stavolta dovresti essere tu a portarmi a casa.» «Dove sei?» Borbottai una spiritosaggine che lei non capì. «Cosa?» «Al Four Green Fields. Sono qui da un po'.» «Michael, che cosa...» «Raul Levin è morto.» «O mio Dio, che cosa...» «Assassinato. Allora puoi portarmi tu a casa? Io ne ho avuto abbastanza.» «Chiamo Stacey, le chiedo di fermarsi con Hayley e arrivo. Non cercare di andartene da lì, d'accordo? Non provarci.» «Non ti preoccupare, il barista non mi lascia.» 25 Dissi al barista che avevo cambiato idea e che mentre aspettavo che mi venissero a prendere volevo un'altra pinta. Presi il portafogli e appoggiai una carta di credito sul banco. Mi fece pagare e mi portò la Guinness. Impiegò tanto a riempire il bicchiere, togliendo con una spatola la schiuma che fuoriusciva, che quando arrivò Maggie avevo appena iniziato ad assaporare la birra. «Hai fatto in fretta» dissi. «Vuoi bere qualcosa?» «No, è troppo presto. Andiamo a casa.» «D'accordo.» Scesi dallo sgabello, mi ricordai di prendere la carta di credito e il telefono, e lasciai il bar con il braccio attorno alle sue spalle e la sensazione che avessi versato giù per i tubi di scarico più Guinness e vodka di quante ne avessi bevute. «Quanto hai bevuto, Haller?» chiese Maggie. «Non saprei, una via di mezzo tra troppo e tanto.»
«Vedi di non vomitare nella mia auto.» «Promesso.» Arrivammo alla macchina, uno dei modelli economici della Jaguar. Era la prima auto che aveva comprato senza che l'accompagnassi io e senza che mi coinvolgesse nella ricerca. Aveva preso una Jag perché la faceva sentire una donna di classe, ma chiunque capisse di automobili sapeva che quella era solo una Ford travestita. Non gliela denigrai. Ero felice di qualunque cosa rendesse felice lei, escluso la volta in cui pensò che divorziare da me l'avrebbe resa più felice. Allora non condivisi la sua felicità. Mi aiutò a salire e partimmo. «E non svenire» disse mentre usciva dal parcheggio. «Perché non conosco la strada.» «Devi imboccare Laurel Canyon. Quando sei in cima, basta svoltare a sinistra.» Anche se avremmo dovuto essere in direzione opposta rispetto al traffico dei pendolari, per arrivare a Fareholm Drive ci vollero quasi quarantacinque minuti. Lungo la strada le raccontai di Raul Levin e di quel che era successo. Non reagì come Lorna, perché non aveva mai conosciuto personalmente Levin. Anche se erano anni che lo utilizzavo come investigatore, avevo cominciato a frequentarlo come amico solo dopo il nostro divorzio. Nella fase in cui cercavo di superare la fine del nostro matrimonio era stato Raul a riaccompagnarmi a casa dal Four Green Fields più di una volta. La chiave per aprire il garage era rimasta nella Lincoln vicino al bar, così le dissi di parcheggiare di fronte all'ingresso. Mi resi conto che anche la chiave di casa era nel portachiavi confiscato dal barista. Girammo intorno alla fiancata della casa fino alla pedana d'ingresso sul retro per prendere da sotto un posacenere sul tavolo da picnic la chiave di riserva, quella che avevo avuto da Roulet proprio qualche giorno prima. Entrammo dalla porta posteriore, che portava direttamente nel mio ufficio. Meglio così, perché visto il mio stato evitavo volentieri di salire le scale dell'ingresso principale. Non solo lo sforzo mi avrebbe messo fuori uso, ma Maggie, di fronte al panorama, si sarebbe ricordata dell'iniquità tra la vita del pm e quella di un avvocato qualsiasi. «Carina questa» disse. «La nostra tazzina da tè.» Seguii i suoi occhi e vidi che stava guardando la foto di nostra figlia sulla scrivania. Ebbi un brivido di piacere all'idea di aver segnato, del tutto involontariamente, un punto a mio favore. «Sì» farfugliai, giocandomi ogni possibilità di trarne vantaggio.
«Da che parte è la camera da letto?» chiese. «Be', non essere impertinente adesso. Sulla destra.» «Scusami, Haller, non ho intenzione di fermarmi a lungo. Ho chiesto a Stacey un paio d'ore in più al massimo e con il traffico che c'è devo sbrigarmi.» Mi accompagnò in camera e ci sedemmo sul letto uno accanto all'altra. «Grazie per quello che stai facendo» dissi. «Un favore va ricambiato» rispose. «Credevo che lo avessi già fatto la sera che ti ho accompagnato a casa io.» Mi appoggiò una mano sulla guancia e mi girò la faccia verso la sua. Mi baciò. La considerai una conferma che quella sera avevamo fatto l'amore. Mi sentivo terribilmente idiota a non ricordarlo. «Guinness» disse sentendosi il sapore sulle labbra mente si allontanava. «E un po' di vodka.» «Ottima combinazione. Domattina sentirai che piacere.» «È così presto che starò male già da stanotte. Senti, perché non ce ne andiamo a cena da Dan Tana? C'è Craig alla porta e...» «No, Mick. Io devo andare a casa da Hayley e tu devi andare a dormire.» Feci un gesto di resa. «Va bene, va bene.» «Chiamami in mattinata. Quando sarai sobrio vorrei parlarti.» «Va bene.» «Vuoi che ti tolga i vestiti e ti metta sotto le coperte?» «No, me la cavo. Farò da solo...» Mi appoggiai alla spalliera del letto e mi liberai delle scarpe con un paio di calci. Poi mi rotolai fino al bordo e aprii un cassetto del comodino. Tirai fuori un tubetto di Tylenol e un cd che mi aveva regalato un cliente di nome Demetrius Folks. Era un drogato di Norwalk conosciuto nell'ambiente con il nome di Lil' Demon. Una volta mi aveva detto che una notte aveva avuto una visione e che sapeva di essere destinato a morire giovane e di morte violenta. Mi consegnò il cd e mi disse di ascoltarlo quando sarebbe morto. E io lo feci. La sua profezia si avverò. Circa sei mesi dopo rimase ucciso in una sparatoria da un'auto in corsa. Con il pennarello aveva scritto sul cd Wreckrium for Lil'Demon. Era una compilation di ballate che aveva selezionato da varie raccolte interpretate da Tupac. Infilai il cd nello stereo Bose sul comodino e il ritmo sincopato di God Bless the Dead cominciò a diffondersi per la stanza. Un omaggio ai com-
pagni scomparsi. «Tu ascolti questa roba?» chiese Maggie, guardandomi incredula. Mi strinsi nelle spalle come meglio riuscii, visto che ero appoggiato a un gomito. «A volte. Mi aiuta a capire meglio certi miei clienti.» «Gente che dovrebbe stare in galera.» «Forse qualcuno. Molti hanno qualcosa da dire. Alcuni sono dei veri poeti e questo era il migliore.» «Sul serio? Chi è, quello a cui hanno sparato fuori dal museo dell'automobile nel Wilshire?» «No, tu parli di Biggie Smalls. Questi sono gli ultimi pezzi del grande Tupac Shakur.» «Non posso credere che tu ascolti questa roba.» «Te l'ho detto. Mi aiuta.» «Fammi un favore. Non ascoltare questa musica quando c'è Hayley.» «Non ti preoccupare, non lo farò.» «Devo andare.» «Rimani ancora un momento.» Brontolò, ma rimase a sedere rigida sul bordo del letto. Mi accorsi che stava cercando di capire le parole. Bisognava avere orecchio e ci voleva un po' di esercizio. La canzone successiva era Life Goes On e via via che coglieva il significato di alcune parole vidi che irrigidiva il collo e le spalle. «Adesso posso andare, per favore?» chiese. «Solo un minuto.» Allungai una mano e abbassai un po' il volume. «Se canti per me come facevi una volta lo spengo.» «Non stasera, Haller.» «Maggie la Spietata che conosco io non la conosce nessuno.» Sorrise appena e io mi rilassai per un attimo al ricordo dei tempi andati. «Maggie, perché stai con me?» «Come? Quando?» «No, non dico stasera. Parlo di come mi sopporti, del fatto che non parli male di me con Hayley e che ci sei quando ho bisogno di te. Come stasera. Non conosco tante persone che continuano a piacere alle ex mogli.» Rifletté un po' prima di rispondere. «Non lo so. Credo che sia perché dentro di te mi sembra di vedere un uomo buono e un buon padre che un giorno o l'altro riusciranno a venir fuori.»
Annuii e sperai che avesse ragione. «Dimmi una cosa. Cosa faresti se tu non fossi un pubblico ministero?» «È una domanda seria?» «Sì, cosa faresti?» «Non ci ho mai pensato davvero. Solo adesso sono riuscita a fare quello che ho sempre desiderato. Sono una donna fortunata. Perché dovrei cambiare?» Aprii il tubetto di Tylenol e ne ingoiai due senz'acqua. La canzone successiva era So Many Tears, un'altra ballata dedicata a tutti coloro che non c'erano più. Sembrava appropriata. «Credo che farei l'insegnante» disse alla fine. «Scuola elementare. Ragazzine come Hayley.» Sorrisi. «Signora la Spietata, signora la Spietata, il mio cane si è mangiato i compiti a casa.» Mi diede un pugno scherzoso sul braccio. «In effetti non sarebbe male» dissi. «Saresti una brava insegnante... tranne quando spediresti i ragazzini in prigione senza cauzione.» «Divertente. E tu?» Scossi la testa. «Io non sarei un bravo insegnante.» «Cosa faresti se non facessi l'avvocato?» «Non lo so. Però ho tre Lincoln. Potrei aprire un servizio di limousine, per portare la gente all'aeroporto.» Adesso mi sorrise. «Io ti chiamerei.» «Bene. Ecco una cliente. Dammi un dollaro e lo attacco al muro.» Ma lo scherzo non stava funzionando. Mi appoggiai alla spalliera del letto, appoggiai i palmi delle mani sugli occhi e cercai di esorcizzare quella giornata, di scacciare il ricordo di Raul Levin steso sul pavimento di casa sua, lo sguardo fisso verso un cielo che sarebbe rimasto nero per sempre. «Lo sai di cosa ho sempre avuto paura?» chiesi. «Di cosa?» «Di non saper riconoscere l'innocenza. Di averla davanti e non vederla. Non parlo di colpa o non colpa. Parlo di innocenza. Solo di innocenza.» Lei non disse nulla. «E lo sai invece di che cosa avrei dovuto aver paura?» «Di che cosa, Haller?»
«Del male. Del male puro e semplice.» «Che cosa vuoi dire?» «Voglio dire che la maggior parte delle persone che difendo non sono malvagie, Mags. Sono colpevoli, d'accordo, ma non sono malvagie. Capisci cosa voglio dire? C'è differenza. Tu stai ad ascoltarli, poi ascolti queste canzoni e capisci perché fanno le cose che fanno. La gente cerca solo di tirare avanti, di vivere con ciò che gli è stato dato, e ad alcuni di loro non è stato dato assolutamente niente. Però il male è un'altra cosa. È diverso. È come... non lo so. È là fuori e quando si mostra... non lo so. Non riesco a spiegarlo.» «Sei ubriaco, ecco perché.» «Quello che so è che avrei dovuto temere una cosa e invece ho temuto l'esatto contrario.» Allungò un braccio e mi accarezzò una spalla. L'ultima canzone era To live & die in l.a. ed era la mia preferita di tutta la compilation. Cominciai a canticchiare piano a bocca chiusa, poi quando arrivò intonai il ritornello. To live & die in l.a. it's the place to be you got to be there to know it ev'ybody wanna see. Smisi di cantare e levai le mani dal viso. Mi addormentai con i vestiti addosso. Non mi accorsi quando se ne andò la donna che avevo amato più di chiunque altro in vita mia. In seguito mi disse che l'ultima cosa che avevo borbottato prima di crollare era stata: «Non posso continuare a farlo». Non mi riferivo al canto. 26 Mercoledì 13 aprile Dormii quasi dieci ore, ma mi svegliai che era ancora buio. Lo stereo diceva 5.18. Cercai di ritornare al sogno, ma la porta era chiusa. Alle 5.30 mi buttai giù dal letto, rimasi a fatica in equilibrio e aprii la doccia. Restai sotto il getto finché il serbatoio dell'acqua calda si svuotò e arrivò quella fredda. A quel punto uscii e mi vestii per un'altra giornata in prima linea. Era troppo presto per chiamare Lorna e controllare gli appuntamenti del-
la giornata, ma l'agenda che tengo sulla scrivania di solito è aggiornata. Andai nello studio e la prima cosa che notai fu una banconota da un dollaro attaccata alla parete dietro la scrivania. L'adrenalina mi schizzò verso l'alto di un paio di tacche mentre la mia fantasia cominciò a correre e pensai che un intruso avesse lasciato i soldi sulla parete per non so quale minaccia o avvertimento. Poi ricordai. «Maggie» dissi a voce alta. Sorrisi e decisi di lasciare la banconota dov'era. Estrassi l'agenda dalla valigetta e controllai gli appuntamenti. La mattinata era libera fino all'udienza delle undici alla corte di San Fernando. Il processo riguardava una cliente recidiva accusata di possesso di utensili per il consumo di droga. Era un'accusa modesta, che a stento valeva la perdita di tempo e denaro, ma Melissa Menkoff si trovava già in libertà vigilata per numerosi reati legati alla droga. Se l'avessero condannata anche per un reato di poco conto come quello, la libertà condizionale si sarebbe interrotta e lei sarebbe finita dietro una porta d'acciaio per un periodo dai sei a nove mesi. Sull'agenda era segnato solo questo impegno. Dopo di che avevo la giornata a disposizione e mi congratulai con me stesso per la lungimiranza che avevo avuto nel tenermela libera. Ovviamente, quando avevo organizzato gli appuntamenti non sapevo che la morte di Raul Levin mi avrebbe portato al Four Green Fields così presto, ma in ogni caso si era rivelata una buona pianificazione. L'udienza per la questione Menkoff prevedeva la mia istanza per escludere dalle prove il ritrovamento di una pipa da crack avvenuto durante una perquisizione della sua auto dopo un fermo per guida pericolosa a Northridge. La pipa era stata trovata nel cassetto del cruscotto centrale chiuso a chiave. Lei mi aveva raccontato di non aver dato l'autorizzazione alla polizia di perquisire l'auto, ma loro l'avevano fatto ugualmente. La mia argomentazione si basava sul fatto che non era stato dato il consenso alla perquisizione e che non c'era un motivo fondato per effettuarla. Melissa Menkoff era stata fermata dalla polizia per guida pericolosa e quindi non c'era alcuna ragione di perquisire i cassetti chiusi della sua auto. Era un'impresa senza speranza e lo sapevo, ma suo padre mi pagava bene per cercare di salvare quella figlia che viveva in modo così tormentato. Ed era esattamente ciò che avrei fatto a San Fernando alle undici in punto. A colazione buttai giù altri due Tylenol e li accompagnai con uova fritte, pane tostato e caffè. Innaffiai generosamente le uova di pepe e salsa. L'in-
sieme raggiunse il giusto livello di calorie e mi diede il carburante per riprendere la battaglia. Mangiando sfogliai le pagine del «Times», alla ricerca di un articolo sull'omicidio di Raul Levin. Inspiegabilmente non c'era alcun accenno. In un primo momento non capii perché. Perché Glendale avrebbe dovuto tenere nascosta la notizia? Poi ricordai che il «Times» pubblicava quotidianamente diverse edizioni regionali. Io vivevo nel Westside, e Glendale era considerata parte della San Fernando Valley. I giornalisti del «Times» potevano considerare irrilevante per i lettori del Westside, che dovevano già preoccuparsi dei loro omicidi, la notizia di un omicidio nella vallata. Non trovai nessun pezzo su Levin. Decisi che avrei dovuto comprare un'altra copia del «Times» da un'edicola sulla strada per la corte di San Fernando e controllare di nuovo. Mentre pensavo a quale edicola dire a Earl Briggs di fermarsi, mi ricordai che mi mancava la macchina. La Lincoln era nel parcheggio del Four Green Fields, a meno che non l'avessero rubata durante la notte, e non potevo riprendere le chiavi fino all'apertura del pub alle undici per il pranzo. Era un problema. Avevo visto l'auto di Earl nel parcheggio dei pendolari dove andavo a prenderlo tutte le mattine. Una Toyota che non passava inosservata, carrozzeria abbassata e cerchioni cromati. Inoltre ero convinto che dentro ci fosse un perenne odore di marijuana. Non volevo salirci. Nel nord della contea era un invito a farsi fermare dalla polizia. A sud, a farsi sparare addosso. Non volevo neppure che Earl venisse a prendermi a casa. Preferisco che i miei autisti non sappiano dove abito. Il mio piano prevedeva di prendere un taxi fino al magazzino di North Hollywood e usare una delle nuove Lincoln. Quella del Four Green Fields aveva più di ottantamila chilometri. Forse inaugurare la nuova macchina mi avrebbe aiutato a superare lo sconforto che mi avrebbe di sicuro colpito al pensiero di Raul Levin. Sciacquai il piatto e la padella per friggere e decisi che era abbastanza tardi per correre il rischio di svegliare Lorna e farmi confermare gli appuntamenti. Tornai nello studio e quando presi in mano il ricevitore sentii il segnale di un messaggio ricevuto. Chiamai il numero della ricerca e una voce elettronica mi disse che il giorno prima avevo perso una chiamata alle 11.07 di mattina. Quando la voce pronunciò il numero da cui proveniva la chiamata persa, mi sentii gelare il sangue. Era il numero del cellulare di Raul Levin. Avevo perso la sua ultima telefonata. «Ehi, sono io. Devi essere già uscito per la partita e avrai spento il cellu-
lare. Se non senti questo messaggio ci vediamo lì. Ma ho un altro asso per te. Immagino che tu...» Si interruppe un attimo e sullo sfondo si udì un cane che abbaiava. «...possa dire che ho trovato il biglietto di uscita per Jesus. Devo andare, ragazzo.» Nient'altro. Riattaccò senza un saluto. Alla fine aveva usato quella sua stupida parlata dialettale. Mi aveva sempre dato fastidio. Adesso mi faceva tenerezza. Mi mancava già. Schiacciai il tasto per risentire il messaggio e lo riascoltai tre volte prima di salvarlo e riattaccare. Mi sedetti alla scrivania e cercai di collegare il messaggio con quello che sapevo. Il primo enigma riguardava l'ora della chiamata. Ero uscito per andare alla partita non prima delle 11.30, eppure la telefonata persa di Levin era arrivata più di venti minuti prima. Non riuscii a dare un senso alla cosa finché non ricordai la telefonata di Lorna. Alle 11.07 ero al telefono con Lorna. Usavo talmente poco il telefono di casa e così poche persone avevano il numero che non mi era sembrato il caso di far inserire l'attesa di chiamata. Per questo mentre parlavo con Lorna non mi ero accorto che l'ultima chiamata di Levin era rimbalzata alla segreteria telefonica. Avevo dato una spiegazione alle circostanze della chiamata, ma non ai suoi contenuti. Era chiaro che Levin aveva scoperto qualcosa. Non era un avvocato, ma sapeva riconoscere e valutare una prova. Aveva scoperto qualcosa che poteva aiutarmi a far uscire Menendez di prigione. Aveva trovato il biglietto che avrebbe scagionato Jesus. L'ultimo elemento da considerare era l'interruzione dovuta al cane che abbaiava e questo era di facile interpretazione. Ero stato a casa sua e sapevo che il suo cane era piuttosto nervoso. Ogni volta lo avevo sentito abbaiare prima ancora che suonassi il campanello. Quindi il cane che abbaiava sullo sfondo e la brusca interruzione della conversazione lasciavano intendere che qualcuno si stava avvicinando alla porta d'ingresso di casa sua. Stava per ricevere una visita, molto probabilmente quella del suo assassino. Mi fermai a fare il punto e decisi che in coscienza non potevo tenere nascosta alla polizia l'ora della chiamata. Il contenuto del messaggio avrebbe sollevato nuove domande alle quali avrei potuto rispondere con difficoltà, ma sarebbe stato di secondaria importanza rispetto all'ora della chiamata. Andai in camera da letto e cercai nei jeans che avevo messo il giorno pri-
ma per andare allo stadio. In una delle tasche posteriori trovai la matrice del biglietto della partita e i biglietti da visita che i detective Lankford e Sobel mi avevano dato prima di uscire dall'appartamento di Levin. Scelsi quello della detective Sobel e mi accorsi che c'era scritto soltanto Detective Sobel. Nessun nome proprio. Mentre componevo il suo numero mi chiesi perché. Forse faceva come me, due tipi diversi di biglietti da visita a seconda della tasca. Quelli con il nome completo in una tasca, quelli con l'indicazione più formale nell'altra. Rispose subito e pensai di verificare cosa potevo avere da lei prima di darle quello che avevo io. «Niente di nuovo sull'indagine?» chiesi. «Non molto. Non molto che possa dirle. Stiamo cercando di mettere in fila gli indizi che abbiamo. Sono arrivati parte dei risultati della balistica e...» «Hanno già fatto l'autopsia?» chiesi. «Sono stati veloci.» «No, l'autopsia non sarà fatta prima di domani.» «Allora come fate ad avere già i risultati balistici?» Non rispose, allora capii. «Avete trovato un bossolo. È stato ucciso con un'automatica che ha espulso il bossolo.» «Lei è in gamba, signor Haller. Sì, abbiamo trovato un bossolo.» «Ho fatto centinaia di processi. E mi chiami Mickey. Strano, l'assassino rovista dappertutto, ma non raccoglie il bossolo.» «Forse perché è rotolato sul pavimento ed è caduto sotto la griglia dell'impianto di riscaldamento. Per toglierlo l'assassino avrebbe avuto bisogno di un cacciavite e di parecchio tempo a disposizione.» Annuii. Un colpo di fortuna. Il numero di volte in cui uno dei miei clienti era finito dentro perché i poliziotti avevano avuto un colpo di fortuna era infinito. E d'altra parte altrettanti miei clienti l'avevano fatta franca per lo stesso motivo. Alla fine tutto ritrovava un suo equilibrio. «Allora, aveva ragione il suo socio? Era una calibro ventidue?» Esitò prima di rispondere. Doveva decidere se oltrepassare la soglia delle informazioni generiche proprio con me, persona coinvolta nel caso e, in quanto avvocato difensore, persona nemica. «Aveva ragione. E grazie alle tracce sulla cartuccia sappiamo con esattezza quale pistola cercare.» Per aver interrogato negli anni diversi esperti balistici e analisti di armi da fuoco sapevo che le tracce lasciate sui bossoli dei proiettili durante lo
sparo potevano identificare l'arma anche senza averla fisicamente a disposizione. Sia il percussore, sia l'otturatore, l'espulsore e l'estrattore di una pistola automatica lasciano tracce di identificazione sul bossolo del proiettile nella frazione di secondo dello sparo. Analizzare insieme i quattro segni porta a identificare una marca e un modello di pistola specifici. «Risulta che anche il signor Levin possedesse una ventidue» disse Sobel. «Ma l'abbiamo ritrovata in casa dentro una cassaforte all'interno di un armadio e non è una Woodsman. L'unica cosa che non abbiamo trovato è il suo cellulare. Sappiamo che ne aveva uno, ma...» «L'ha usato per chiamare me poco prima di essere ucciso.» Ci fu un attimo di silenzio. «Ieri lei ci ha detto che l'ultima volta che gli ha parlato è stato venerdì sera.» «È così. Ma è per questo che la sto chiamando. Raul mi ha telefonato ieri mattina alle 11.07 e mi ha lasciato un messaggio. Non l'ho sentito fino a oggi perché ieri dopo avervi lasciato sono andato in un pub e mi sono ubriacato. Poi sono venuto a dormire e non mi sono accorto di aver ricevuto il messaggio fino a un momento fa. Mi ha chiamato a proposito di uno dei casi a cui stava lavorando per me praticamente a tempo perso. È un ricorso in appello e il cliente è in prigione. Una questione senza urgenze particolari. Comunque, il contenuto del messaggio non è importante, ma la telefonata consente di stabilire l'ora. Inoltre in sottofondo alla registrazione si sente il cane che comincia ad abbaiare. Lo faceva sempre quando qualcuno arrivava alla porta. Tutte le volte che sono stato lì il cane abbaiava sempre.» Rimase ancora in silenzio per un po' prima di rispondere. «Non capisco una cosa, signor Haller.» «Che cosa?» «Ieri lei ci ha detto di essere rimasto a casa fino circa a mezzogiorno prima di andare alla partita. E ora dice che il signor Levin le ha lasciato un messaggio alle 11.07. Perché non ha risposto al telefono?» «Perché stavo parlando al telefono e non ho l'avviso di chiamata. Potete controllare le registrazioni, vedrete che ho ricevuto una telefonata dalla responsabile del mio ufficio, Lorna Taylor. Stavo parlando con lei quando Raul ha chiamato. Senza l'avviso di chiamata non potevo saperlo. E naturalmente lui ha pensato che fossi già uscito per andare alla partita e ha lasciato solo un messaggio.» «D'accordo, capisco. Per controllare le registrazioni probabilmente a-
vremo bisogno del suo permesso scritto.» «Nessun problema.» «Dove si trova adesso?» «Sono a casa.» Le diedi l'indirizzo e lei mi disse che lei e il suo socio sarebbero venuti. «Fate presto. Devo essere in tribunale tra un'ora circa.» «Veniamo subito.» Riattaccai e provai un senso di disagio. Per anni, difendendo decine di assassini, ero entrato in contatto con diversi investigatori della Omicidi. Ma non mi era mai capitato di essere interrogato in prima persona per un omicidio. Mi era parso che Lankford, e ora anche Sobel, avessero delle riserve sulle mie risposte. Mi domandai cosa potessero sapere che io non sapevo. Riordinai la scrivania e chiusi la valigetta. Non volevo che vedessero nulla che io non volessi fargli vedere. Feci un giro per la casa e controllai ogni stanza. Mi fermai in camera da letto. Feci il letto e riposi nel cassetto del comodino la custodia di Wreckrium for Lil' Demon. Fu allora che capii. Mi sedetti sul letto e ripensai a quello che aveva detto la detective. Aveva commesso un errore e non me n'ero accorto subito. Aveva detto che avevano trovato la calibro ventidue di Raul Levin, ma che non poteva essere l'arma del delitto. Aveva precisato che non era una Woodsman. Inavvertitamente mi aveva rivelato la marca e il modello dell'arma del delitto. Sapevo che la Woodsman era una pistola automatica prodotta dalla Colt. Lo sapevo perché possedevo una Colt Woodsman modello sportivo. Mi era stata lasciata in eredità molti anni prima da mio padre. Alla sua morte. Da quando ero diventato abbastanza adulto per tenerla in mano, non l'avevo mai neppure tolta dalla sua scatola di legno. Mi alzai dal letto e mi diressi verso la cabina armadio. Mi muovevo come in mezzo a una fitta nebbia. I miei passi erano incerti e allungai una mano per appoggiarmi al muro e poi al telaio della porta come se avessi bisogno di trovare sostegno. La scatola di legno lucido era sul ripiano dove doveva essere. Allungai entrambe le mani per tirarla giù, quindi la portai in camera da letto. Appoggiai la scatola sul letto e girai il chiavistello di ottone per aprirla. Sollevai il coperchio e spostai il rivestimento di tela cerata. La pistola era scomparsa. PARTE SECONDA
UN MONDO SENZA VERITÀ 27 Lunedì 23 maggio L'assegno di Roulet era coperto. Il primo giorno del processo avevo più soldi sul conto in banca di quanti ne avessi mai avuti in vita mia. Volendo, potevo abbandonare le fermate degli autobus e finire su veri tabelloni pubblicitari. Potevo anche prendermi tutto il retro della copertina delle pagine gialle invece della mezza pagina interna. Potevo permettermelo. Finalmente mi era capitato un cliente garantito che mi aveva riconosciuto il massimo compenso. Per lo meno in termini economici. La scomparsa di Raul Levin avrebbe trasformato per sempre quella situazione di privilegio in una sconfitta. Dopo i tre giorni di selezione della giuria eravamo pronti a mettere in scena lo spettacolo. La durata programmata del processo era di altri tre giorni al massimo, due per l'accusa e uno per la difesa. Per presentare la mia tesi davanti alla giuria avevo chiesto al giudice una giornata di tempo, ma in verità la maggior parte del mio lavoro si sarebbe svolta durante l'esposizione dell'accusa. All'inizio di un processo l'atmosfera è sempre elettrica. Un nervosismo che prende allo stomaco. Ci sono tante cose in gioco. La reputazione, la libertà personale, la stessa integrità del sistema. Ci si agita sempre quando si hanno seduti di fronte quei dodici sconosciuti chiamati a giudicare la tua vita e il tuo lavoro. E mi riferisco a me, all'avvocato difensore. I sentimenti dell'imputato sono completamente diversi. Non mi è mai capitato di trovarmi in questa situazione e mi auguro che non succeda mai. Posso solo immaginare di paragonarlo all'ansia e alla tensione che si provano davanti alla chiesa il giorno del matrimonio. Avevo fatto due volte quell'esperienza e ogni volta che un giudice dichiarava aperto un processo, mi tornava in mente. Anche se la mia esperienza processuale superava di gran lunga quella del mio avversario, la mia condizione non lasciava dubbi. Ero un uomo solo di fronte alle gigantesche fauci del sistema. Ero il più debole, al di là di ogni ragionevole dubbio. Era vero che affrontavo un pubblico ministero al primo processo per un reato grave. Tuttavia il vantaggio era pareggiato, e forse superato, dal potere e dalla forza dello stato. La potenza dell'intero
apparato giudiziario era agli ordini del pubblico ministero. Ancora una volta tutto quello che avevo era me stesso. E un cliente colpevole. Ero seduto accanto a Louis Roulet al tavolo della difesa. Eravamo soli. Non avevo secondi avvocati né investigatori alle mie spalle. In nome di una stravagante forma di rispetto nei confronti di Raul Levin non avevo voluto sostituirlo. In realtà non mi serviva. Levin mi aveva dato tutto quello che poteva essermi utile. Il processo e il modo in cui si sarebbe svolto avrebbe rappresentato l'ultima testimonianza delle sue capacità di investigatore. Nella prima fila della galleria sedevano C.C. Dobbs e Mary Alice Windsor. In accordo con un'ordinanza che aveva preceduto il processo, il giudice concedeva alla madre di Roulet di essere presente in aula solo durante le dichiarazioni preliminari. Dato che il suo nome faceva parte dell'elenco dei testimoni a difesa, non le sarebbe stato concesso di ascoltare alcuna deposizione successiva. Sarebbe rimasta fuori, in corridoio, con accanto il fedele tirapiedi Dobbs, finché non l'avessi chiamata a testimoniare. Sempre in prima fila, ma non accanto a loro, sedeva la mia unica sostenitrice: la mia ex moglie Lorna Taylor. Indossava un vestito color blu marino e una camicetta bianca. Era bellissima e avrebbe potuto confondersi facilmente con la moltitudine di avvocatesse che ogni giorno frequentavano il tribunale. Lei però era lì per me e io l'amavo per questo. Le altre file della galleria non erano completamente occupate. C'erano alcuni giornalisti della carta stampata venuti per rubare citazioni dalle dichiarazioni di apertura e alcuni avvocati e cittadini spettatori. Non si era visto nessuno delle tv. Il processo aveva attirato solo un'attenzione superficiale da parte del pubblico e questo era positivo. La nostra strategia di contenimento della comunicazione aveva funzionato bene. Roulet e io eravamo in silenziosa attesa che il giudice prendesse posto e ordinasse alla giuria di sedersi per poter cominciare. Io stavo cercando di riconquistare la calma interiore ripetendo tra me quello che volevo dire ai giurati. Roulet aveva lo sguardo fisso di fronte a sé sullo stemma dello stato della California che campeggiava davanti allo scranno del giudice. Il cancelliere rispose a una telefonata, disse alcune parole e riattaccò. «Tra due minuti, signori» disse a voce alta. «Due minuti.» Nel momento in cui un giudice richiama l'attenzione dell'aula, tutti devono essere al loro posto e pronti a cominciare. Noi lo eravamo. Lanciai un'occhiata verso Ted Minton al tavolo dell'accusa e vidi che stava facendo quello che facevo anch'io. Cercava di ritrovare la calma ripassando il suo
intervento. Mi sporsi in avanti e studiai gli appunti sul taccuino legale che avevo di fronte. Poi, inaspettatamente, anche Roulet si sporse in avanti e mi venne quasi addosso. Mi parlò sussurrando, anche se non era ancora necessario. «È il momento, Mick.» «Lo so.» Dopo la morte di Raul Levin, il mio rapporto con Roulet era stato di fredda sopportazione. Lo tolleravo perché era mio dovere farlo. Nei giorni e nelle settimane precedenti al processo lo avevo visto lo stretto necessario, e da quando era iniziato gli avevo parlato il meno possibile. Sapevo di essere io l'elemento debole del mio piano. Temevo che qualunque interazione con Roulet potesse portarmi ad agire sull'onda della rabbia e a desiderare di vendicare il mio amico di persona, fisicamente. I tre giorni di selezione della giuria erano stati una tortura. Giorno dopo giorno avevo dovuto sedermi accanto a lui e ascoltare i suoi commenti condiscendenti sui probabili giurati. L'unico modo per sopportare quella tortura era stato fingere che lui non ci fosse. «Sei pronto?» mi chiese. «Ci provo» risposi. «E tu?» «Io sono pronto. Ma volevo dirti una cosa prima di cominciare.» Lo guardai. Era troppo vicino. Avrei considerato quell'intimità un'invadenza anche se lo avessi amato. E invece lo odiavo. Mi spostai all'indietro. «Che cosa?» Lui mi venne ancora più addosso. «Tu sei il mio avvocato, giusto?» Cercai ancora di allontanarmi. «Louis, che significa? Lavoriamo insieme da più di due mesi e adesso siamo seduti qui, con una giuria pronta al processo. Mi hai pagato più di centocinquantamila dollari e mi chiedi se sono il tuo avvocato? Certo che sono il tuo avvocato. Che cosa significa? Cosa c'è che non va?» «Non c'è nulla che non va.» Si sporse in avanti e proseguì. «Voglio dire, cioè, se sei il mio avvocato, posso dirti delle cose e tu devi tenerle segrete, anche se ti parlo di un reato. O più di uno. Le mie dichiarazioni sono coperte dal segreto professionale, giusto?» Avvertii un brontolio allo stomaco. «Sì, Louis, è vero, a meno che tu mi parli di un crimine in procinto di essere commesso. In quel caso sarei esonerato dal codice professionale e
potrei informare la polizia perché impedisca che il reato venga commesso. Anzi, sarebbe mio dovere informarli. Un avvocato è un funzionario della giustizia. Allora, cosa mi vuoi dire? Hai sentito l'avviso dei due minuti. Stiamo per cominciare.» «Ho ucciso delle persone, Mick.» Lo guardai un attimo negli occhi. «Che cosa?» «Mi hai sentito.» Aveva ragione. Lo avevo sentito. E non avrei dovuto fingere nessuna sorpresa. Sapevo che aveva ucciso delle persone. Raul Levin era una di queste e per farlo aveva usato la mia pistola, anche se non ero riuscito a capire come avesse manomesso il rilevatore GPS che portava alla caviglia. Mi sorprendeva soltanto che avesse deciso di dirmelo in maniera così diretta, due minuti prima dell'inizio del processo a suo carico. «Perché me lo dici?» domandai. «Sto per cercare di difenderti da questa accusa e tu...» «Perché so che lo sai già. E perché so qual è il tuo piano.» «Il mio piano? Quale piano?» Mi sorrise con aria furba. «Avanti, Mick. È semplice. In questo processo sei il mio avvocato difensore. Fai del tuo meglio, vieni pagato con dei bei bigliettoni, vinci e io sono libero. A quel punto, una volta che è tutto finito e hai i tuoi soldi in banca, puoi rivoltarti contro di me perché non sono più tuo cliente. Mi dai in pasto alla polizia, così puoi far uscire Jesus Menendez e redimerti.» Non risposi. «Be', io non posso permettere che succeda tutto questo» proseguì lui con tranquillità. «Vedi, io sarò tuo per sempre, Mick. Ti ho appena detto che ho ucciso delle persone e ti dico anche che, guarda un po', Martha Renteria è una di queste. Le ho dato solo quello che meritava e se tu ti rivolgi alla polizia o usi quello che ti ho detto contro di me, non eserciterai più a lungo il mestiere legale. Sì, potresti riuscire a resuscitare Jesus, ma io non verrò mai condannato a causa del tuo cattivo comportamento. Mi pare si dica "frutto dell'albero avvelenato", e tu sei l'albero, Mick.» Non riuscivo a rispondere. Mi limitai di nuovo ad annuire. Roulet ci aveva pensato bene. Mi chiesi che aiuto avesse ricevuto da Cecil Dobbs. Era evidente che qualcuno l'aveva istruito su quanto prevede la legge. Mi allungai verso di lui e sussurrai. «Seguimi.»
Mi alzai, passai velocemente attraverso il cancello e mi diressi verso la porta posteriore dell'aula. Sentii la voce del cancelliere alle mie spalle. «Signor Haller, stiamo per cominciare. Il giudice...» «Un minuto» gridai senza voltarmi. Alzai anche un dito. Spalancai le porte ed entrai nell'anticamera debolmente illuminata che fungeva da zona cuscinetto per attutire i rumori del corridoio rispetto all'aula. Sul lato opposto una serie di doppie porte conduceva al corridoio. Mi spostai da un lato per lasciare che Roulet entrasse. Appena passò la porta lo afferrai e lo attaccai al muro. Lo tenni schiacciato premendogli entrambe le mani sul petto. «Cosa cazzo credi di fare?» «Rilassati, Mick. Pensavo solo che entrambi dovevamo sapere dove...» «Figlio di puttana. Tu hai ucciso Raul e l'unica sua colpa era lavorare per te! Stava cercando di aiutarti!» Volevo mettergli le mani al collo e strangolarlo sul posto. «Su una cosa hai ragione. Sono un figlio di puttana. Però su tutto il resto hai torto, Mick. Levin non stava cercando di aiutarmi. Stava cercando di affossarmi e c'era quasi riuscito. Ha avuto quello che si meritava.» Pensai all'ultimo messaggio di Levin sulla mia segreteria di casa. Ho trovato il biglietto di uscita per Jesus. Qualunque cosa avesse trovato, era stata la causa della sua morte. Ed era stato ucciso prima che potesse passarmi l'informazione. «Come hai fatto? Ora che stai confessando tutto, voglio sapere come hai fatto. Come hai fregato il GPS? La cavigliera ha rilevato che non eri neppure nelle vicinanze di Glendale.» Mi sorrise, come un bambino alle prese con un giocattolo che non vuole condividere. «Diciamo solo che è un'informazione riservata e lasciamo le cose così. Non si sa mai, potrei dover rifare il vecchio trucco di Houdini.» Avvertii nelle sue parole un tono di minaccia e nel suo sorriso vidi la malvagità che vi aveva trovato Raul Levin. «Non farti illusioni, Mick» disse. «Come è probabile che tu abbia intuito, io possiedo una polizza di assicurazione.» Lo strinsi con più forza e mi avvicinai ancora. «Ascolta, pezzo di merda. Rivoglio la pistola. Credi di avere in pugno questa storia? Tu non hai un cazzo. Io ce l'ho in pugno. E se non rivedo quella pistola tu non arrivi alla fine della settimana. Hai capito?» Roulet allungò lentamente le braccia, mi afferrò i polsi e si allontanò le
mie mani dal petto. Iniziò a sistemarsi camicia e cravatta. «Posso suggerirti un accordo» disse con calma. «Alla fine di questo processo io esco dall'aula come uomo libero. Tu mi assicuri che la mia libertà sarà mantenuta e in cambio la pistola non finirà mai, diciamo, nelle mani sbagliate.» Ovvero quelle di Lankford e Sobel. «Perché mi dispiacerebbe davvero molto che succedesse, Mick. Un sacco di gente dipende da te. Un sacco di clienti. E tu, naturalmente, non vorresti finire dove sono loro.» Mi allontanai da lui, facendo appello a tutta la mia forza di volontà per non alzare i pugni e colpirlo. Mi accontentai di un tono di voce che esprimeva con calma tutta la mia rabbia e il mio odio. «Ti prometto,» dissi «che se mi incastrerai non ti libererai mai di me. Ci siamo capiti?» Roulet iniziò a sorridere. Ma prima che potesse rispondere la porta si aprì e si affacciò il delegato Meehan, l'ufficiale giudiziario. «Il giudice è seduto al suo scranno» disse severamente. «Vuole che entriate. Immediatamente.» Guardai Roulet. «Ci siamo capiti?» «Sì, Mick» disse con allegria. «Ci siamo capiti benissimo.» Mi allontanai da lui ed entrai in aula, avanzando a grandi passi per il corridoio verso il cancello. Il giudice Constance Fullbright fissava con insistenza ogni mio passo. «È molto gentile da parte sua pensare di unirsi a noi questa mattina, signor Haller.» Dove l'avevo già sentita? «Mi spiace, vostro onore» dissi superando il cancello. «Avevo una situazione di emergenza con il mio cliente. Dovevamo discutere.» «Le discussioni con i clienti possono essere fatte al tavolo della difesa» rispose. «Sì, vostro onore.» «Io non credo che stiamo cominciando in maniera corretta, signor Haller. Quando il mio cancelliere annuncia che la seduta avrà inizio entro due minuti, io mi aspetto che tutti, compresi gli avvocati della difesa e i loro clienti, siano al loro posto pronti a cominciare.» «Chiedo scusa, vostro onore.» «Questo non è abbastanza, signor Haller. Oggi stesso, prima della chiu-
sura del tribunale, voglio che faccia visita al mio cancelliere con il suo libretto degli assegni. La multo di cinquecento dollari per inosservanza di un provvedimento del giudice. Lei non è il responsabile di quest'aula, signore. Io lo sono.» «Vostro onore...» «E adesso possiamo far entrare la giuria per favore» ordinò, interrompendo la mia protesta. L'ufficiale giudiziario aprì la porta della stanza della giuria e i dodici giurati e due sostituti iniziarono a sfilare tra i banchi loro destinati. Mi sporsi verso Roulet che si era appena seduto e sussurrai: «Mi devi cinquecento dollari». 28 La strategia di apertura di Ted Minton fu un esempio da manuale di esagerazione accusatoria. Il pm si sforzò di spiegare alla giuria il significato di quello che voleva dimostrare invece di comunicare loro quali prove avrebbe prodotto. Voleva dipingere un affresco e quasi sempre questo comportamento si rivelava un errore. L'affresco comporta illazioni e suggestioni. Estrapola i dati a livello di ipotesi. Qualsiasi pubblico ministero, dopo l'esperienza di alcuni processi per gravi reati, può confermare che la tattica migliore è volare basso. L'obiettivo di un pm è convincere i giurati a dichiarare l'imputato colpevole, non è necessario che capiscano perché. «Questo processo ha per protagonista un predatore» disse loro Minton. «La notte del 6 marzo scorso quest'uomo era all'inseguimento della sua preda. E se non fosse stato per l'assoluta volontà di sopravvivenza della vittima, oggi qui staremmo giudicando un caso di omicidio.» Mi accorsi subito che Minton aveva individuato una segnapunti. È il mio modo di chiamare il componente della giuria che prende nota durante tutto il corso del processo. La donna, seduta nella prima sedia della prima fila, si era appuntata l'intervento di Minton sin dalle prime parole, nonostante il giudice Fullbright avesse avvertito la giuria che non si sarebbe trattato dell'esposizione delle prove. Trovo che sia un bene che ci sia qualcuno che prende nota di tutto. I segnapunti mi piacciono perché registrano quello che i legali dichiarano di presentare e provare durante il corso del processo e alla fine sono in grado di controllare se hanno mantenuto fede alle aspettative. I segnapunti marcano il punteggio delle parti contrapposte per assegnare la vittoria.
Scorsi la lista della giuria e vidi che la segnapunti era Linda Truluck, casalinga di Reseda. Era una delle sole tre donne della giuria. Minton aveva cercato in tutti i modi di contenere al minimo il numero delle rappresentanti di sesso femminile perché credo temesse di perdere l'appoggio delle donne, e quindi i loro voti per il verdetto, una volta provato che Regina Campo aveva offerto le sue prestazioni sessuali in cambio di denaro. Quella supposizione poteva rivelarsi fondata e quindi avevo lavorato con altrettanta diligenza per inserire delle donne nella lista. Finimmo entrambi per usare tutte le nostre venti ricusazioni e questa fu la ragione principale per cui ci vollero tre giorni per definire la giuria. Alla fine ottenni tre donne in lista e me ne sarebbe bastata una sola per evitare la condanna. «Bene, ascolterete dalla voce stessa della vittima la testimonianza sul suo stile di vita, uno stile di vita che noi non intendiamo giustificare» disse Minton ai giurati. «Mi riferisco al fatto che vendesse prestazioni sessuali agli uomini che invitava a casa sua. Però voglio che vi ricordiate che la materia del processo non è lo stile di vita della vittima di questo crimine. Chiunque può essere la vittima di un crimine violento. Chiunque. La legge non consente che una persona venga picchiata, minacciata con la punta di un coltello o messa in pericolo di vita, indipendentemente dall'attività che svolge per mantenersi. Alla legge non importa cosa si faccia per guadagnarsi da vivere. Anche loro godono dello stesso diritto ad avere le medesime tutele cui abbiamo diritto tutti noi.» Era abbastanza evidente che Minton, per paura di nuocere alla sua tesi, non volesse pronunciare le parole prostituzione o prostituta. Trascrissi quella parola sul taccuino legale che avrei portato con me al leggio quando sarebbe stato il mio turno. Avrei posto rimedio alle omissioni del pubblico ministero. Minton fornì una presentazione d'insieme delle prove. Parlò del coltello con le iniziali dell'imputato sulla lama. Parlò del sangue ritrovato sulla sua mano sinistra. E mise in guardia i giurati dal farsi ingannare dagli sforzi della difesa di confondere o mescolare le prove. «Questo è un caso molto chiaro e semplice» disse mentre si avviava alla conclusione. «Un uomo ha aggredito una donna nella sua casa. Aveva intenzione di violentarla e quindi ucciderla. È solo per grazia di Dio che lei è qui a raccontarvi la storia.» Dopo queste parole ringraziò i giurati per la loro attenzione e si sedette al tavolo dell'accusa. Il giudice Fullbright guardò l'orologio e quindi guardò me. Erano le 11.40 e probabilmente stava valutando se concedere una
pausa o lasciarmi procedere con la mia apertura. Uno dei compiti principali del giudice durante il processo è la gestione della giuria. È dovere del giudice assicurarsi che la giuria sia a proprio agio e concentrata. Spesso pause ripetute, brevi e lunghe, servono per ottenere lo scopo. Conoscevo Connie Fullbright da almeno dodici anni, da molto prima che diventasse giudice. Era stata pubblico ministero e avvocato difensore. Quindi aveva esperienza diretta di entrambi i punti di vista. A parte la tendenza a un'eccessiva rapidità nel comminare citazioni per inosservanza, Connie Fullbright era un giudice comprensivo e giusto fino al momento in cui si arrivava alla sentenza. Il difensore entrava nell'aula della Fullbright sapendo di essere trattato allo stesso livello del pubblico ministero, ma doveva essere preparato al peggio se la giuria decideva per la condanna dell'imputato. Il giudice Fullbright era tra i più severi della contea nelle sentenze di colpevolezza. Si comportava come se dovesse punire l'avvocato difensore e il suo cliente per averle fatto perdere tempo con un processo. Se, all'interno delle indicazioni trasmesse dalla giuria, aveva potere discrezionale, sceglieva sempre la condanna più punitiva, si trattasse di periodi detentivi o di libertà vigilata. Si era guadagnata un efficace soprannome tra gli avvocati difensori che lavoravano nel tribunale di Van Nuys. La chiamavano il Mastino. «Signor Haller,» disse lei «ritiene di dover rinviare la sua dichiarazione?» «No, vostro onore, mi riprometto di essere abbastanza rapido.» «Molto bene» disse. «Allora l'ascolteremo e dopo andremo a pranzo.» A dire il vero non sapevo quanto tempo avrei impiegato. Minton si era preso circa quaranta minuti e sapevo che ci sarei andato vicino. Avevo detto al giudice che sarei stato rapido unicamente perché non mi piaceva l'idea che i giurati andassero a pranzo avendo solo il punto di vista del pubblico ministero nella mente mentre masticavano i loro hamburger e le loro insalate di tonno. Mi alzai e andai verso il leggio posto tra i tavoli dell'accusa e della difesa. L'aula era ricavata da uno dei locali del vecchio tribunale da poco ristrutturati. Aveva due banchi della giuria identici su entrambi i lati del seggio del giudice. Tutte le strutture erano di legno chiaro, compresa la parete dietro lo scranno. La porta che conduceva ai locali del giudice era seminascosta, il profilo mimetizzato tra i contorni e le venature del legno. Il pomello era l'unico segnale della sua esistenza. Connie Fullbright dirigeva i processi come un giudice federale. Non era
concesso agli avvocati avvicinare i testimoni senza autorizzazione né avvicinarsi per alcun motivo ai banchi della giuria. Si doveva parlare esclusivamente dal leggio. Mi ritrovai in piedi davanti al leggio con la giuria posizionata nei banchi alla mia destra, più vicina al tavolo dell'accusa che a quello della difesa. Non mi dispiaceva. Non volevo che osservassero Roulet troppo da vicino. Volevo che per loro restasse un personaggio avvolto nel mistero. «Signore e signori della giuria,» cominciai «mi chiamo Michael Haller e rappresento il signor Roulet in questo processo. Sono lieto di dirvi che con ogni probabilità questo processo si concluderà rapidamente. Porterà via solo pochi giorni del vostro tempo. Alla fine potrete verificare che la procedura seguita per scegliere ciascuno di voi si sarà rivelata più lunga della discussione del caso portata avanti da entrambe le parti. Con l'intervento di questa mattina il pubblico ministero, il signor Minton, ha voluto illustrarvi la sua interpretazione del significato delle prove e chi sia davvero il signor Roulet. Io vorrei semplicemente consigliarvi di mettervi comodi, ascoltare quali sono le prove e lasciare che il vostro buon senso vi dica come interpretarle e chi sia il signor Roulet.» Muovevo lo sguardo da giurato a giurato. Solo ogni tanto abbassavo lo sguardo sul taccuino appoggiato sul leggio. Volevo che pensassero che stavo conversando con loro, che parlavo senza pensare troppo a quello che dicevo. «Di solito preferisco rinviare la requisitoria iniziale. In un processo penale la difesa ha la possibilità di tenerla all'inizio del processo, come ha fatto il signor Minton, o subito prima della presentazione delle tesi della difesa. Di solito mi servo della seconda possibilità e aspetto di fare la mia dichiarazione prima di annunciare i testimoni e le prove a difesa. Ma questo caso è diverso. Diverso perché la tesi della difesa sarà identica alla tesi dell'accusa. Certo, ascolterete alcuni testimoni di parte della difesa, ma il cuore e l'anima di questo processo saranno le prove dell'accusa e come voi deciderete di interpretarle. Vi posso garantire che in quest'aula emergerà una versione degli avvenimenti e delle prove molto diversa da quella che Minton ha appena delineato. E quando sarà il momento di produrre la tesi della difesa, è probabile che non sarà neppure più necessario farlo.» Controllai la segnapunti e vidi la sua matita correre sulle pagine del taccuino. «Sono certo che alla fine di questa settimana sarete arrivati alla conclusione che questo processo si basa esclusivamente sulle azioni e le motiva-
zioni di una singola persona. Una prostituta che ha individuato un uomo di cui ha intuito la ricchezza e che per questo ha deciso di sceglierlo come bersaglio. Le prove lo dimostreranno con chiarezza e la conferma verrà dagli stessi testimoni dell'accusa.» Minton si alzò e sollevò un'obiezione, affermando che il mio tentativo di screditare il principale testimone dello stato con insinuazioni prive di fondamento era scorretto. L'obiezione non aveva fondamento legale. Era solo un tentativo dilettantesco di mandare un messaggio alla giuria. Il giudice rispose invitandoci a confrontarci con lei in privato. Andammo accanto al seggio e il giudice premette un pulsante su un neutralizzatore del suono che emetteva, da un altoparlante sopra il banco, un rumore neutro in direzione della giuria per impedire l'ascolto delle opinioni che ci scambiavamo a voce bassa. Con Minton il giudice fu rapido come un assassino. «Signor Minton, so che lei è nuovo a processi per reati gravi, perciò ritengo che dovrò istruirla durante il percorso. Tuttavia nella mia aula lei non si permetta mai più di obiettare durante una requisitoria iniziale. L'avvocato difensore non sta presentando le prove. Anche se affermasse che il testimone dell'alibi dell'imputato è la madre del pubblico ministero, non me ne importerebbe nulla, lei non deve fare obiezioni di fronte alla mia giuria.» «Vostro on...» «Questo è tutto. Tornate ai vostri posti.» Tornò con la seggiola al centro dello scranno ed eliminò il rumore neutro. Minton e io ritornammo alle nostre posizioni senza ulteriori parole. «Obiezione respinta» disse il giudice. «Prosegua, signor Haller, e lasci che le ricordi che ha dichiarato l'intenzione di essere rapido.» «Grazie, vostro onore. È ancora nelle mie intenzioni.» Consultai i miei appunti e guardai di nuovo verso la giuria. Sapendo che il giudice aveva costretto Minton al silenzio, decisi di abbandonare gli appunti, calcare la mano con la retorica e arrivare direttamente alla conclusione. «Signore e signori, in sostanza, quello che voi deciderete in quest'aula è chi sia stato in questa vicenda il vero predatore. Il signor Roulet, un uomo d'affari di successo con una fedina penale immacolata, oppure una prostituta di professione che il successo negli affari lo ottiene ricevendo soldi dagli uomini in cambio di prestazioni sessuali. Vi fornirò le prove che la presunta vittima di questo processo solo qualche attimo prima che avesse
luogo questa supposta aggressione svolgeva la sua attività di prostituta con un altro uomo. E avrete le prove che pochi giorni dopo questo presunto attentato alla sua vita, era tornata nuovamente in affari, a vendere sesso.» Lanciai un'occhiata a Minton e vidi che si stava innervosendo. Teneva lo sguardo rivolto verso il basso sul tavolo di fronte a sé e scuoteva lentamente la testa. Guardai il giudice. «Vostro onore, può chiedere al pubblico ministero di astenersi dal fare azioni dimostrative di fronte alla giuria? Io non mi sono permesso obiezioni né ho cercato in alcun modo di distrarre la giuria durante la sua requisitoria iniziale.» «Signor Minton,» recitò il giudice «la prego di non intervenire e di mostrarsi corretto con la difesa come la difesa lo è stata con lei.» «Sì, vostro onore» rispose Minton docilmente. A quel punto la giuria per due volte aveva visto il giudice riprendere il pubblico ministero e non avevamo ancora terminato i discorsi di apertura. Lo considerai un buon segno che alimentò il mio slancio. Guardai di nuovo la giuria e notai che la segnapunti non smetteva di scrivere. «Infine, ascolterete le dichiarazioni di molti degli stessi testimoni dell'accusa che forniranno una spiegazione perfettamente credibile circa molte delle prove materiali di questo processo. Sto parlando del sangue e del coltello citati dal signor Minton. Considerati singolarmente o nel complesso, vi lasceranno un dubbio più che ragionevole sulla responsabilità del mio cliente. Potete scriverlo sui vostri taccuini. Sono certo che alla fine del processo scoprirete di avere una sola scelta. Ovvero dichiarare il signor Roulet non colpevole delle accuse. Grazie.» Mentre tornavo al mio posto feci l'occhiolino a Lorna Taylor. Lei annuì per dire che ero andato bene. A quel punto la mia attenzione venne attratta da due figure sedute un paio di file dietro di lei. Lankford e Sobel. Dovevano essere entrati dopo che avevo memorizzato i presenti fra il pubblico prima dell'inizio dell'udienza. Mi sedetti e ignorai il gesto di approvazione a pollici alzati che mi fece il mio cliente. Stavo pensando ai due detective di Glendale, mi chiedevo cosa ci facessero in aula. Guardavano me? Aspettavano me? Il giudice congedò la giuria per il pranzo e mentre la segnapunti e i suoi colleghi procedevano in fila verso l'uscita tutti gli altri si alzarono. Dopo che i giurati si furono allontanati Minton chiese al giudice di potersi avvicinare di nuovo alla barra. Voleva cercare di spiegare la sua obiezione e riparare al danno, ma non di fronte all'aula. Il giudice disse di no.
«Ho appetito, signor Minton, e il tempo è scaduto. Vada a mangiare anche lei.» Lasciò il suo scranno e a quel punto nell'aula, che era stata così silenziosa se non per le voci dei legali, si alzò un brusio incontrollato. Infilai il taccuino nella valigetta. «È andata molto bene» disse Roulet. «Credo che siamo già in vantaggio.» Lo guardai con gli occhi spenti. «Non è un gioco.» «Lo so. Era solo un modo di dire. Senti, vado a pranzo con Cecil e mia madre. Ci piacerebbe che venissi con noi.» Scossi la testa. «Devo difenderti, Louis, ma non sono tenuto a mangiare con te.» Presi il libretto degli assegni dalla valigetta e lo posai sul tavolo. Feci il giro del tavolo e andai verso la postazione del cancelliere per compilare un assegno da cinquecento dollari. Pagare la multa non faceva male quanto le critiche che sarebbero arrivate al bar, come accade puntualmente dopo ogni ammenda per inosservanza di un provvedimento del giudice. Dopo aver consegnato l'assegno mi voltai e trovai Lorna che mi aspettava al cancello con un sorriso. Decidemmo di andare a pranzo insieme, poi lei sarebbe tornata nel suo appartamento a ricevere telefonate. Sarei rientrato al lavoro entro tre giorni e avevo bisogno di clienti. Cominciare a riempire l'agenda dipendeva da lei. «È meglio se oggi il pranzo lo offro io» disse. Gettai il libretto degli assegni nella valigetta e la richiusi. La raggiunsi al cancello. «Sarebbe gentile» risposi. Spinsi il cancello e controllai la panca dove qualche attimo prima erano seduti Lankford e Sobel. Se ne erano andati. 29 Nella sessione pomeridiana l'accusa esordì con la presentazione della sua tesi e la strategia di Ted Minton mi divenne subito chiara. I primi quattro testimoni furono il centralinista del 911, i due agenti di polizia che avevano risposto alla richiesta di aiuto di Regina Campo e l'infermiere che si era occupato di lei prima che venisse portata in ospedale. In attesa della
strategia della difesa, era evidente che Ted Minton volesse mettere un punto fermo su un elemento: la Campo era stata brutalmente aggredita e pertanto doveva essere considerata la vittima di un crimine. Non era una cattiva strategia. In molti casi avrebbe funzionato. Il centralinista che aveva preso la chiamata venne usato semplicemente per introdurre la registrazione della richiesta di soccorso di Regina Campo al 911. Ai giurati venne fornita la trascrizione della chiamata in modo che seguissero la registrazione sonora con un testo sottomano. Obiettai, sulla base del fatto che la trascrizione sarebbe stata sufficiente e l'ascolto della registrazione audio pregiudiziale, ma il giudice respinse l'obiezione prima ancora che Minton decidesse di opporsi. La registrazione venne fatta ascoltare e non rimasero dubbi che l'accusa avesse iniziato con il piede giusto. I giurati udirono Regina Campo urlare e supplicare di aiutarla. Sembrava sconvolta e terrorizzata. Era quello che Minton voleva che i giurati ascoltassero e aveva raggiunto lo scopo. Decisi di non sottoporre il centralinista al controinterrogatorio perché avrebbe potuto dare all'accusa l'opportunità di far riascoltare la registrazione. I due agenti di polizia chiamati subito dopo fornirono testimonianze differenti, perché al momento dell'arrivo nel condominio di Tarzana su segnalazione del 911, avevano agito separatamente. Uno era rimasto con la vittima, mentre l'altro era salito nell'appartamento e aveva ammanettato Louis Ross Roulet, l'uomo sul quale i due vicini di casa di Regina Campo erano seduti per immobilizzarlo. L'agente Vivian Maxwell disse che aveva trovato la vittima scarmigliata, ferita e spaventata. Raccontò che Regina Campo continuava a chiederle se era al sicuro e se l'aggressore era stato preso. Persino dopo essere stata rassicurata su entrambe le domande, la donna era rimasta sconvolta, al punto di chiedere all'agente di estrarre la pistola e tenerla pronta nel caso l'aggressore fosse riuscito a scappare. Quando Minton terminò con la testimone, mi alzai per condurre il mio primo controinterrogatorio del processo. «Agente Maxwell,» chiesi «ha chiesto alla signora Campo che cosa le fosse successo?» «Sì, l'ho fatto.» «Che cosa le chiese esattamente?» «Le chiesi cosa fosse successo e chi l'aveva ridotta in quel modo. Sì, chi l'aveva ferita.» «Che cosa le rispose?» «Disse che un uomo aveva bussato alla sua porta e quando aveva aperto
l'aveva percossa. Disse che l'aveva colpita diverse volte e poi aveva estratto un coltello.» «Disse che aveva estratto il coltello dopo averla colpita?» «È così. In quel momento era sotto shock.» «Capisco. Le disse chi era l'uomo?» «No, disse che non lo conosceva.» «Le chiese espressamente se lo conosceva?» «Sì. E lei rispose di no.» «Quindi le disse che aveva aperto la porta alle dieci di sera a uno sconosciuto.» «Non si è espressa in questo modo.» «Però lei ha riferito che le disse di non conoscere quell'uomo, giusto?» «È vero. Disse così. Disse: "Io non so chi sia".» «E questo lo ha riportato nel suo verbale?» «Sì.» Presentai il verbale dell'agente di polizia come una prova della difesa e chiesi a Vivian Maxwell di leggerne alcune battute alla giuria. Quelle in cui Regina Campo affermava che l'aggressione non era stata provocata ed era stata fatta per mano di uno sconosciuto. «La vittima non conosce l'uomo che l'ha aggredita e non sa perché l'abbia percossa» lesse dal suo verbale. Il collega di Vivian Maxwell, John Santos, testimoniò dopo di lei, dichiarando ai giurati che era stata Regina Campo a indicargli la strada per arrivare al suo appartamento, dove aveva trovato un uomo steso a terra vicino all'entrata. L'uomo era in stato di semicoscienza e veniva tenuto bloccato al suolo da due vicini di casa, Edward Turner e Ronald Atkins. Uno gli stava a cavalcioni sul petto e l'altro gli era seduto sulle gambe. Santos identificò l'uomo immobilizzato a terra nell'imputato, Louis Ross Roulet. Riferì che aveva tracce di sangue sui vestiti e sulla mano sinistra. Disse che Roulet manifestava i sintomi di una commozione cerebrale, o di qualche altro tipo di lesione alla testa, e che in un primo momento non rispondeva agli ordini. Santos lo girò su se stesso e lo ammanettò con le braccia dietro la schiena. Quindi prese una busta di plastica per la raccolta delle prove che teneva in uno scomparto della cintura e l'appoggiò sopra la mano sanguinante di Roulet. Santos dichiarò che uno degli uomini che teneva Roulet gli consegnò un coltello pieghevole aperto, con tracce di sangue sul manico e sulla lama. Santos disse ai giurati di aver messo in un sacchetto anche questo oggetto
e di averlo consegnato al detective Martin Booker appena arrivato sulla scena. Nel controinterrogatorio posi a Santos due sole domande. «Agente, c'era del sangue sulla mano destra dell'imputato?» «No, sulla mano destra non c'era sangue, altrimenti avrei raccolto anche quello.» «Capisco. Dunque avete rinvenuto sangue solo sulla mano sinistra e un coltello con del sangue sul manico. Quindi è ipotizzabile che se l'imputato avesse impugnato quel coltello avrebbe dovuto tenerlo con la sinistra?» Minton obiettò sostenendo che Santos era un agente di polizia e la domanda superava la sfera delle sue competenze. Ribattei che la domanda implicava solo una risposta dettata dal buon senso, non una risposta da esperto. Il giudice respinse l'obiezione e il cancelliere rilesse la domanda al testimone. «Direi di sì» rispose Santos. Dopo di lui testimoniò l'infermiere Arthur Metz. Descrisse ai giurati come si era comportata Regina Campo e quanto fossero estese le sue ferite quando lui la medicò, meno di mezz'ora dopo l'aggressione. Disse che gli sembrò che avesse subito almeno tre colpi significativi al volto. Descrisse una piccola perforazione al collo. Descrisse tutte le ferite come superficiali, ma dolorose. Un ingrandimento della stessa fotografia del suo viso che avevo visto il primo giorno in cui mi ero occupato del caso venne messa su un cavalletto di fronte alla giuria. Obiettai, sostenendo che mostrare quella foto era pregiudizievole in quanto ingrandita più del naturale ma l'obiezione venne respinta dal giudice Fullbright. Quando fu il mio turno di controinterrogare Metz, utilizzai la foto che avevo appena contestato. «Quando sostiene che doveva aver subito almeno tre colpi al volto, cosa intende per "colpi"?» «Che venne colpita con qualcosa. Un pugno o un corpo contundente.» «Quindi sostanzialmente che qualcuno l'ha colpita tre volte. Con questo indicatore laser potrebbe per favore indicare sulla fotografia alla giuria i punti in cui sarebbe stata colpita?» Presi un indicatore dalla tasca della camicia e lo tenni alzato per farlo vedere al giudice. Lei mi accordò il permesso di portarlo a Metz. Lo accesi e glielo porsi. Lui puntò il raggio sulla foto del volto tumefatto della donna e disegnò dei cerchi nelle tre zone che aveva individuato. L'occhio destro, la guancia destra e una zona compresa fra la parte destra della bocca e del
naso. «Grazie» dissi, riprendendo il laser e riportandolo al leggio. «Quindi se è stata colpita tre volte nella parte destra del volto, i colpi avrebbero dovuto provenire dal lato sinistro del suo aggressore, è corretto?» Minton obiettò, ripetendo che la domanda andava oltre la sfera delle competenze del testimone. Ribattei nuovamente richiamandomi al buon senso e il giudice respinse l'obiezione del pubblico ministero. «Se l'aggressore fosse stato di fronte a lei l'avrebbe colpita da sinistra, a meno che non si trattasse di un rovescio» disse Metz. «In quel caso avrebbe potuto essere un destro.» Annuì, come soddisfatto di sé. Era convinto di aver aiutato l'accusa, ma il suo sforzo suonava così studiato che in realtà aveva dato una mano alla difesa. «Lei sta suggerendo che l'aggressore della signora Campo l'abbia colpita tre volte con un rovescio riuscendo a causarle questo genere di ferite?» Indicai la foto sul cavalletto. Metz si strinse nelle spalle, rendendosi conto probabilmente di non essere stato troppo utile all'accusa. «Tutto è possibile» disse. «Tutto è possibile» ripetei. «Le viene in mente quale altro atto violento, oltre ai pugni diretti di un mancino, possa giustificare questo genere di ferite?» Metz si strinse ancora nelle spalle. Non era un testimone in grado di impressionare la giuria, specie dopo due poliziotti e un centralinista molto precisi nelle loro testimonianze. «E se la signora Campo si fosse autocolpita? Non avrebbe usato il destro...» Minton saltò in piedi come una molla e obiettò: «Vostro onore, questo è un oltraggio! Insinuare che la vittima si sia colpita da sola è non solo un affronto a questa corte, ma a tutte le vittime della violenza nel mondo. Il signor Haller ha toccato il fondo...». «Il testimone ha dichiarato che tutto è possibile» ribattei, cercando di interrompere la tirata demagogica di Minton. «Sto cercando di analizzare quello che...» «Accolta» disse il giudice, interrompendomi. «Signor Haller, lasci perdere, a meno che non voglia fare una carrellata di tutte le ipotesi possibili.» «Sì, vostro onore» dissi. «Non ho altre domande.» Mi sedetti, lanciai un'occhiata ai giurati e capii dalle loro facce che avevo commesso un errore. Avevo trasformato in negativo un controinterroga-
torio positivo. Il punto a mio favore assegnatomi grazie all'intuizione dell'aggressore mancino era stato oscurato dal punto perso con l'insinuazione che la vittima si fosse procurata le ferite da sola. Le tre donne in giuria sembravano particolarmente seccate. Cercai di concentrarmi su un aspetto positivo. Era bene conoscere i sentimenti della giuria nei confronti di Regina Campo prima che salisse al banco dei testimoni e io le rivolgessi la stessa domanda. Roulet si sporse verso di me e sussurrò: «Cosa cazzo hai combinato?». Gli voltai la schiena senza rispondergli e diedi un'occhiata all'aula. Era quasi vuota. Lankford e Sobel non erano tornati e anche i giornalisti se n'erano andati. Rimanevano solo pochi altri spettatori. Una apparente raccolta eterogenea di pensionati, studenti di legge e avvocati che si riposavano prima di iniziare le loro udienze in altre aule. Ma contavo sul fatto che uno di loro fosse un inviato della procura distrettuale. Ted Minton era stato lasciato libero di agire da solo, ma ero convinto che il suo capo avesse trovato il modo di tenere sotto controllo lui e il processo. Ero consapevole di recitare la mia parte sia per l'infiltrato sia per la giuria. Dovevo far arrivare un segnale d'allarme al secondo piano entro la fine del processo e da lì farlo rimbalzare a Minton. Avevo bisogno di spingere il giovane procuratore a gesti estremi. Il pomeriggio passò lentamente. Minton aveva molto da imparare sulla procedura e sulla gestione di una giuria, competenze che si ottengono solo con l'esperienza dell'aula. Io tenevo gli occhi puntati sui banchi della giuria, dove sedevano i veri giudici, e mi accorsi che i giurati assistevano annoiati all'avvicendamento di testimoni le cui deposizioni arricchivano solo di piccoli dettagli la presentazione degli eventi del 6 marzo fatta dal pubblico ministero in modo esauriente. Nel controinterrogatorio mi limitai a poche domande e cercai di mantenere un'espressione del volto che rispecchiasse quello che mi trasmettevano i giurati. Ragionevolmente Minton aveva tenuto per il secondo giorno di processo le argomentazioni più significative. Avrebbe portato al banco dei testimoni il detective Martin Booker, il quale avrebbe fatto chiarezza su tutti i dettagli, e quindi la vittima, Regina Campo, per il gran finale. Era una formula collaudata e sicura, quasi sempre vincente, che si sarebbe conclusa con un momento di grande intensità e commozione, ma consentiva che il primo giorno procedesse alla velocità di un ghiacciaio che si scioglie. Con l'ultimo testimone della giornata le cose iniziarono a movimentarsi. Minton fece entrare Charles Talbot, l'uomo che aveva rimorchiato Regi-
na Campo al Morgan ed era andato con lei nel suo appartamento la notte del 6. Talbot offriva particolari irrilevanti per la tesi dell'accusa. Era stato portato in tribunale soprattutto per testimoniare che lui aveva lasciato la donna in buona salute e incolume. Nient'altro. Tuttavia Talbot salvò il processo dalla trappola della noia perché il suo stile di vita, non esattamente da timorato di Dio, stimolava i giurati, sempre curiosi di esplorare l'altra parte della barricata. Talbot aveva cinquantacinque anni, i capelli biondi e non faceva nulla per nascondere che fossero tinti. Sugli avambracci aveva dei tatuaggi scoloriti che testimoniavano il suo passato in marina. Era divorziato da una ventina d'anni ed era il proprietario di un piccolo supermercato di quartiere aperto ventiquattro ore chiamato Kwik Kwik. Il lavoro gli garantiva un tenore di vita agiato, un appartamento nel Warner Center, una Corvette ultimo modello e una vita notturna che prevedeva la frequentazione di un vasto campionario di professioniste del sesso. Minton fece in modo che la personalità di Talbot emergesse sin dalle prime battute dell'interrogatorio. I giurati si mostrarono subito molto interessati a lui e nell'aula l'atmosfera si fece immobile. Quindi il pubblico ministero dirottò in fretta l'attenzione della giuria sulla notte del 6 marzo e fece raccontare a Talbot il suo incontro con Reggie Campo al Morgan in Ventura Boulevard. «Conosceva la signora Campo prima dell'incontro al bar quella sera?» «No.» «Come mai vi siete incontrati proprio lì?» «L'avevo chiamata, le avevo detto che volevo un incontro con lei e lei ha suggerito di vederci al Morgan. Conoscevo il posto, perciò le ho detto che mi andava bene.» «Come ha fatto a contattarla?» «Le ho telefonato.» Diversi giurati risero. «Mi scusi. Avevo immaginato che avesse usato un telefono per chiamarla. Intendevo, come faceva a sapere come contattarla?» «Mi è piaciuto l'annuncio che ho visto sul suo sito web, così mi sono fatto avanti, le ho telefonato e ci siamo dati appuntamento. Semplice. Il suo numero è nell'annuncio sul suo sito.» «E vi siete incontrati al Morgan.» «Sì, mi ha detto che è lì che dà i suoi appuntamenti. Perciò ci sono andato, abbiamo bevuto un paio di bicchieri, abbiamo parlato, ci siamo piaciuti
ed ecco fatto. L'ho seguita a casa sua.» «Quando siete arrivati nell'appartamento avete avuto rapporti sessuali?» «Certo. Ero lì per quello.» «E l'ha pagata?» «Quattrocento dollari. Ne valeva la pena.» Vidi il volto di un giurato farsi rosso e mi congratulai con me stesso per averlo classificato alla perfezione durante la selezione della settimana prima. Lo avevo voluto perché si era portato una Bibbia da leggere mentre gli altri aspiranti giurati venivano intervistati. Il particolare a Minton era sfuggito perché si concentrava sulla valutazione dei candidati solo durante l'intervista. Invece io avevo notato la Bibbia e, quando era arrivato il suo turno, gli avevo fatto poche domande. Minton lo accettò come membro della giuria e io pure. Pensavo che sarebbe stato facile rendergli invisa la vittima per il suo modo di guadagnarsi da vivere. Quel volto che arrossiva confermava la mia supposizione. «A che ora ha lasciato l'appartamento della signora Campo?» chiese Minton. «Alle dieci meno cinque circa» rispose Talbot. «Le aveva detto di avere un altro appuntamento?» «No, non mi ha detto nulla al riguardo. In realtà si è comportata come se per quella sera avesse finito.» Mi alzai e obiettai. «Non credo che il signor Talbot sia autorizzato a interpretare quello che la signora Campo pensava o aveva intenzione di fare.» «Accolta» disse il giudice prima che Minton potesse ribattere. Il pubblico ministero gli andò vicino. «Signor Talbot, potrebbe per favore descrivere le condizioni fisiche della signora Campo quando lei lasciò il suo appartamento la sera del 6 marzo poco prima delle dieci?» «Completamente soddisfatta.» In aula vi fu un fragoroso scoppio di risa e anche Talbot sorrise orgoglioso. Controllai l'uomo della Bibbia e mi sembrò che avesse serrato la mascella. «Signor Talbot» disse Minton. «Intendo le sue condizioni fisiche. Quando l'ha lasciata era ferita o sanguinante?» «No, stava bene. Tutto a posto. Quando l'ho lasciata era sana come un pesce e io lo so perché l'avevo appena pescata.» Sorrise, fiero del suo uso del linguaggio. Questa volta nessuno rise e il
giudice decise di averne abbastanza dei suoi doppi sensi. Lo ammonì di tenere per sé i suoi commenti volgari. «Mi scusi, giudice» disse lui. «Signor Talbot» disse Minton. «La signora Campo non era ferita in alcun modo quando l'ha lasciata?» «No. Assolutamente.» «Non sanguinava?» «No.» «E lei non l'ha colpita o maltrattata fisicamente in alcun modo?» «Le dico di no. Quello che abbiamo fatto era consensuale e piacevole. Nessuna sofferenza.» «La ringrazio, signor Talbot.» Guardai i miei appunti per qualche istante prima di alzarmi. Volevo una pausa per definire chiaramente il confine tra interrogatorio e controinterrogatorio. «Signor Haller?» mi incalzò il giudice. «Vuole controinterrogare il testimone?» Mi alzai e mi avvicinai al leggio. «Sì, vostro onore.» Appoggiai il taccuino e guardai direttamente Talbot. Mi sorrideva affabile, ma sapevo che non gli sarei piaciuto a lungo. «Signor Talbot, lei è destro o mancino?» «Sono mancino.» «Mancino» gli feci eco. «E lei può affermare che non è vero che la notte del 6, prima di lasciare l'appartamento di Regina Campo, quella donna le abbia chiesto di colpirla ripetutamente al viso con il pugno?» Minton si alzò. «Vostro onore, questo genere di domande non ha fondamento. Il signor Haller sta cercando di confondere il teste servendosi di affermazioni oltraggiose e trasformandole in domande.» Il giudice mi guardò aspettando una risposta. «Signor giudice, la domanda rientra nella teoria della difesa che ho anticipato nella requisitoria iniziale.» «Glielo concedo. Però arrivi al punto, signor Haller.» La domanda venne riletta a Talbot e lui sorrise ammiccando e scosse la testa. «Non è vero. Non ho mai fatto del male a una donna in vita mia.» «L'ha colpita con il suo pugno tre volte, non è così signor Talbot?»
«No, non è vero. È una bugia.» «Lei ha detto che non ha mai fatto del male a una donna in vita sua.» «È vero. Mai.» «Conosce una prostituta di nome Shaquilla Barton?» Talbot dovette pensare prima di rispondere. «Non mi dice niente.» «Sul sito web dove pubblicizza i suoi servizi usa il nome di Shaquilla Shackles, Shaquilla Manette. Ora le dice qualcosa, signor Talbot?» «Oh, sì, credo di sì.» «L'ha mai frequentata come prostituta?» «Una volta, sì.» «Quando è successo?» «Sarà stato almeno un anno fa. Forse di più.» «E le ha fatto del male in quella occasione?» «No.» «E se quella donna dovesse venire in quest'aula e testimoniare che lei l'ha ferita colpendola con il pugno sinistro, secondo lei testimonierebbe il falso?» «Certo che sì, diavolo. Quella roba violenta l'ho provata, ma non mi è piaciuta. A me piace rigorosamente solo la posizione del missionario. Non l'avevo toccata.» «Non l'aveva toccata?» «Intendo dire che non l'ho presa a pugni e non le ho fatto in alcun modo del male.» «La ringrazio, signor Talbot.» Mi sedetti. Minton rinunciò a un secondo controinterrogatorio. Talbot venne congedato e Minton disse al giudice che gli restavano solo due testimoni da presentare, ma che la loro testimonianza sarebbe stata lunga. Il giudice Fullbright controllò l'ora e sospese la seduta per la giornata. Ancora due testimoni. Sapevo che dovevano essere il detective Booker e Reggie Campo. Il che significava che Minton avrebbe fatto a meno della testimonianza della spia del carcere nascosta nell'ambulatorio per detenuti della contea e sottoposta a un programma di recupero. Il nome di Dwayne Corliss non era mai comparso in nessuna lista di testimoni né in qualunque altro documento di presentazione collegato all'accusa. Pensai che Minton potesse aver scoperto su Corliss quello che aveva scoperto Raul Levin prima di venire ucciso. In ogni caso, sembrava evidente che Corliss era stato abbandonato dall'accusa. Dovevo far qualcosa per ribaltare la situa-
zione. Mentre raccoglievo le mie carte e i miei documenti nella valigetta, raccolsi anche la forza per decidermi a parlare con Roulet. Gli lanciai uno sguardo. Stava seduto ad aspettare che gli dicessi di andarsene. «Allora, cosa ne pensi?» chiesi. «Penso che sei andato molto bene. Più di qualche momento di ragionevole dubbio.» Chiusi con uno scatto le serrature della valigetta. «Oggi ho solo piantato i semi. Domani germoglieranno e mercoledì sbocceranno. Non hai ancora visto niente.» Mi alzai e sollevai la valigetta dal tavolo. I documenti del processo e il computer la rendevano pesante. «Ci vediamo domani.» Attraversai il cancello. Cecil Dobbs e Mary Windsor aspettavano Roulet nel corridoio vicino alla porta dell'aula. Quando mi videro si voltarono per parlarmi, ma io proseguii. «Ci vediamo domani» dissi. «Aspetti un minuto, aspetti un minuto» gridò Dobbs alle mie spalle. Mi voltai. «Noi siamo bloccati qui fuori» disse mentre lui e la signora Windsor venivano verso di me. «Come sta andando là dentro?» Mi strinsi nelle spalle. «Per ora il processo è in mano all'accusa» risposi. «Fino a questo punto ho dato piccoli pugni e schivato i colpi, cercando di proteggermi. Credo che domani sarà il nostro round. E mercoledì cercheremo di metterli al tappeto. Devo andare a prepararmi.» Mentre mi dirigevo verso l'ascensore, vidi che un certo numero di giurati del processo mi aveva preceduto e stava aspettando di scendere. Tra loro c'era la segnapunti. Entrai nei bagni accanto agli ascensori in modo da non dover scendere con loro. Appoggiai la valigetta sul ripiano tra i lavandini e mi lavai il viso e le mani. Mentre mi guardavo allo specchio cercai i segni dello stress provocato dal processo e tutto ciò che vi era collegato. Per essere un avvocato difensore che stava cercando di battere contemporaneamente sia il proprio cliente sia l'accusa avevo un aspetto piuttosto sano e sereno. L'acqua fredda mi fece piacere e uscendo dal bagno mi sentii rinvigorito e sperai che i giurati se ne fossero andati. I giurati non c'erano più. Ma nel corridoio accanto all'ascensore c'erano i
detective Lankford e Sobel. Lankford teneva in mano un fascio di documenti arrotolati. «Eccola» disse. «La stavamo cercando.» 30 Lankford mi porse un mandato di perquisizione per il mio appartamento, il mio ufficio e la mia auto che aveva come obiettivo la ricerca di una pistola calibro 22 Woodsman Sport Model prodotta dalla Colt con il numero di serie 656300081-52. Sul mandato era scritto che si riteneva che quella pistola fosse l'arma del delitto dell'omicidio di Raul A. Levin avvenuto il 12 aprile. Lankford mi aveva passato il mandato con un sorriso orgoglioso. Io feci del mio meglio per comportarmi come se si trattasse di un documento di lavoro qualsiasi, il genere di problematiche di cui mi occupavo almeno una volta al giorno e due volte al venerdì. In verità mi sentii quasi cedere le ginocchia. «Come siete riusciti a ottenerlo?» chiesi. Era una domanda assurda fatta in un momento assurdo. «Firmato, sigillato e consegnato» disse Lankford. «Allora, da dove vuole cominciare? Ha qui l'auto, giusto? La Lincoln su cui si fa scarrozzare in giro come un damerino.» Andai all'ultima pagina per controllare la firma del giudice e vidi che era un giudice di un tribunale municipale di Glendale che non avevo mai sentito nominare. Erano andati da uno del posto che al momento delle elezioni avrebbe avuto bisogno dell'appoggio della polizia. Iniziai a riprendermi. La perquisizione poteva essere una messa in scena. «Questa è spazzatura» dissi. «Il mandato non è valido. Mi basterebbero dieci minuti per invalidarlo.» «Il giudice Fullbright non la pensa allo stesso modo» disse Lankford. «Il giudice Fullbright? Cos'ha a che fare con questa roba?» «Be', sapevamo che era in corso il processo, così abbiamo pensato di doverle chiedere se potevamo venire a consegnarle il mandato. Non volevamo far inquietare una donna del genere, sa com'è. Il giudice ci ha detto che bastava che lasciassimo finire l'udienza, e non ha trovato assolutamente niente da dire sull'autorizzazione né su nient'altro.» Dovevano essere andati dal giudice Fullbright durante la pausa pranzo, subito dopo che li avevo visti in aula. Pensai che fosse stata un'idea della detective Sobel andare a chiedere il parere del giudice. Un tipo come Lan-
kford si sarebbe divertito a interrompere il processo per trascinarmi fuori dall'aula. Dovevo farmi venire un'idea immediatamente. Guardai Sobel, la meglio disposta dei due. «Sono nel mezzo di un processo che durerà tre giorni» dissi. «Non c'è modo di lasciare in sospeso la cosa fino a giovedì?» «Con il culo» rispose Lankford prima che potesse farlo la collega. «Finché non effettueremo la perquisizione non la perderemo di vista. Non le lasceremo il tempo di liberarsi della pistola. E adesso dov'è la sua auto, avvocato della Lincoln?» Controllai com'era formulata l'autorizzazione sul mandato. Avrebbe dovuto essere molto specifica e mi era andata bene. L'autorizzazione si riferiva alla perquisizione di una Lincoln con la targa della California NT GLTY. Realizzai che avevano trascritto il numero di targa della Lincoln sulla quale viaggiavo il giorno in cui ero stato chiamato allo stadio per andare in casa di Raul Levin. Era la targa della vecchia Lincoln, quella che guidavo quel giorno. «È sotto casa. Non uso l'autista quando sono impegnato per un processo. Stamattina mi sono fatto dare un passaggio dal mio cliente e stavo per tornare con lui. Probabilmente è giù che mi sta aspettando.» Mentii. La Lincoln che avevo usato era nel parcheggio del tribunale. Non potevo lasciare che i poliziotti la perquisissero perché in uno scompartimento dentro il bracciolo del sedile posteriore avrebbero trovato una pistola. Non era la pistola che stavano cercando, ma quella che la sostituiva. Quando, dopo l'assassinio di Raul Levin, avevo trovato il contenitore vuoto, avevo chiesto a Earl Briggs di procurarmi una pistola per sicurezza. Sapevo che con Earl non ci sarebbero voluti i dieci giorni di attesa. Non sapevo nulla della storia di quella pistola, né il suo numero di immatricolazione e non volevo venirne a conoscenza tramite il Dipartimento di Polizia di Glendale. La mia fortuna comunque consisteva nel fatto che la Lincoln con dentro la pistola non era quella descritta nel mandato. Quella era nel garage di casa mia, in attesa che passasse a darle un'occhiata il compratore del service di limousine. Lankford mi tolse il mandato di mano e se lo ficcò in una tasca interna del cappotto. «Non si preoccupi del suo passaggio» disse Lankford. «Glielo diamo noi un passaggio. Andiamo.»
Non ci capitò di imbatterci in Roulet o nel suo seguito mentre scendevamo le scale per uscire dal tribunale. E presto mi ritrovai sul sedile posteriore di una Grand Marquis e pensai che con la Lincoln avevo fatto la scelta giusta. La Lincoln era più spaziosa e più comoda. Lankford era alla guida e io mi sedetti dietro di lui. I finestrini erano chiusi e quindi riuscivo a sentirlo masticare un chewing-gum. «Mi lasci rivedere il mandato» dissi. Lankford non si mosse. «Non vi farò entrare in casa mia finché non avrò avuto la possibilità di esaminare a fondo il mandato. Potrei farlo nel tragitto e farvi risparmiare un po' di tempo. Oppure...» Lankford infilò una mano nella tasca del cappotto e lo tirò fuori. Me lo porse. Sapevo perché aveva esitato a farlo. Nel compilare una richiesta di un mandato in genere la polizia doveva specificare i particolari dell'indagine che stava conducendo per convincere un giudice di avere sufficienti elementi di prova relativi alla commissione di un certo reato. Quindi i poliziotti facevano in modo che il destinatario non lo leggesse per evitare che venisse a sapere informazioni riservate. Lanciai un'occhiata fuori dal finestrino mentre oltrepassavamo i parcheggi su Van Nuys Boulevard. Di fronte al concessionario della Lincoln vidi su un piedistallo un nuovo modello di Town Car. Abbassai lo sguardo sul mandato, lo aprii nella sezione dell'indice e lessi. Lankford e Sobel erano partiti facendo un buon lavoro. Dovevo riconoscerglielo. Uno di loro aveva sparato a caso, supponevo fosse stata la detective Sobel, aveva messo il mio nome nel sistema automatizzato dei porto d'armi e aveva fatto tombola. Il computer dell'AFS diceva che ero il proprietario registrato di una pistola della stessa marca e modello dell'arma del delitto. Era stata una mossa abile, ma non era ancora abbastanza per affermare di avere le prove che fosse stato commesso un reato. La Colt produceva la Woodsman da più di sessant'anni. Il che significava che in giro ce n'erano milioni e che la possedevano milioni di sospetti. I detective avevano il fumo. Dopo di che avevano prodotto il fuoco strofinando altri legnetti. Nella sintesi della richiesta del mandato si affermava che avevo nascosto agli investigatori il fatto di possedere la pistola in questione. Si diceva inoltre che quando all'inizio ero stato interrogato sulla morte di Levin mi ero inventato un alibi fornendo ai detective un indizio fasullo su uno spacciatore di droga chiamato Hector Arrande Moya per
metterli fuori strada. Per ottenere un mandato di perquisizione non era necessario indicare quale potesse essere l'eventuale movente del crimine, ma qui vi si alludeva comunque, affermando che la vittima, Raul Levin, mi aveva estorto incarichi investigativi che in seguito mi ero rifiutato di ricompensare. A parte lo sdegno per quella tesi, la fabbricazione di un alibi era il punto cruciale per affermare di avere sufficienti elementi di prova. Secondo il rapporto avevo detto ai detective che al momento dell'omicidio ero in casa, ma sulla mia segreteria telefonica era stato lasciato un messaggio appena prima della presunta ora della morte e questo indicava che in realtà non ero a casa, facendo così crollare il mio alibi e dimostrando allo stesso tempo che ero un bugiardo. Rilessi lentamente il rapporto della polizia altre due volte, ma la mia rabbia non si placò. Lanciai il foglio sul sedile accanto a me. «In un certo senso è davvero un peccato che io non sia l'assassino» dissi. «Sì, e perché?» chiese Lankford. «Perché questo mandato è una stronzata e lo sapete tutti e due. Non reggerà l'invalidazione. Vi ho detto che il messaggio sulla segreteria è arrivato mentre ero al telefono e questo può essere controllato e dimostrato, solo che siete stati troppo pigri per farlo o avete pensato che un controllo vi avrebbe complicato l'ottenimento del vostro mandato. Perfino con il vostro giudice di Glendale. Avete mentito ripetutamente. Questo mandato è stato ottenuto in malafede.» Ero seduto dietro Lankford e avevo una visione migliore della detective Sobel. Mentre parlavo rimasi a osservarla cercando di cogliere sul suo volto segni di incertezza. «E l'insinuazione che Raul mi avrebbe estorto del lavoro e che io non l'avrei pagato è una sciocchezza bella e buona. Che cosa mi avrebbe estorto? E per cosa non l'avrei pagato? Lo pagavo ogni volta che mi presentava una fattura. Amico, te lo dico io, se è così che lavorate su tutti i vostri casi, sarà bene che io apra un ufficio a Glendale. Ficcherò questo mandato su per il culo del vostro capo.» «Lei ha mentito sulla pistola» disse Lankford. «E doveva dei soldi a Levin. È marcato sul suo libro contabile. Quattromila dollari.» «Io non ho mentito su niente. Non mi avete mai chiesto se avevo una pistola.» «Ha mentito per omissione. Lei questa volta.» «Stronzate.»
«E i quattromila dollari.» «Oh sì, i quattromila dollari, l'ho ucciso perché non volevo pagargli quattromila dollari» dissi con tutto il sarcasmo che riuscii a mettere insieme. «Mi ha beccato, detective. Questo è il movente. Immagino però che non le sia venuto in mente di controllare se mi avesse già fatturato quei quattromila dollari o che gli avevo appena pagato una fattura di seimila dollari una settimana prima che venisse ucciso.» Lankford era impassibile. Ma vidi che sul volto della detective Sobel cominciava a insinuarsi il dubbio. «Non importa quanto o quando l'ha pagato» disse Lankford. «Un ricattatore non è mai soddisfatto. Non si finisce mai di pagarlo finché non si raggiunge il punto di non ritorno. Ecco cos'è. Il punto di non ritorno.» Scossi la testa. «E cosa sapeva esattamente su di me per costringermi a dargli degli incarichi e a pagarlo fino al punto di non ritorno?» I due detective si scambiarono un'occhiata e Lankford annuì. Sobel allungò una mano per prendere una valigetta da terra e tirò fuori una cartella. Me la passò. «Dia un'occhiata» disse Lankford. «Quando ha svaligiato la casa di Levin se l'è dimenticata. L'aveva nascosta in un cassettone.» Aprii la cartella e vidi che conteneva diverse foto a colori 20X25. Erano scattate da lontano e io ero presente in tutte. Il fotografo aveva seguito la mia Lincoln in giorni diversi e in posti diversi. Ogni immagine fissava un momento particolare e le foto mi mostravano con vari individui che riconobbi facilmente come miei clienti. Prostitute, spacciatori e Road Saints. Le foto potevano essere interpretate come sospette perché mostravano solo una frazione di secondo del momento. Un travestito in pantaloncini cortissimi che scendeva dal sedile posteriore della Lincoln. Teddy Vogel che mi passava uno spesso rotolo di banconote attraverso il finestrino posteriore. Chiusi la cartella e la gettai sul sedile accanto a me. «Mi state prendendo in giro, vero? State insinuando che Raul era venuto da me con quella roba? Che era con quello che mi ricattava? Quelli sono miei clienti. È uno scherzo o mi sfugge qualcosa?» «L'Ordine degli avvocati della California potrebbe non considerarlo uno scherzo» disse Lankford. «Pare che lei sia ai ferri corti con l'Ordine. Levin lo sapeva e ha sfruttato la cosa.» Scossi la testa. «Incredibile» dissi.
Sapevo che dovevo smettere di parlare. Stavo sbagliando tutto. Sapevo che dovevo solo tacere e superare la tempesta. Tuttavia sentivo un bisogno quasi irresistibile di convincerli. Iniziai a capire perché tanti processi venivano decisi nelle stanze per gli interrogatori delle stazioni di polizia. La gente non riusciva a stare zitta. Cercai di individuare dove erano state riprese le foto nella cartella. Vogel che mi consegnava il rotolo di banconote era nel parcheggio fuori dal Saints' strip club su Sepulveda. Era successo dopo il processo ad Harold Casey e Vogel mi stava pagando per l'istanza d'appello. Il travestito si chiamava Terry Jones, mi ero occupato di un'accusa di adescamento contro di lui la prima settimana di aprile. Per essere certo che si sarebbe presentato all'udienza, la sera prima ero dovuto andare a cercarlo sulla passeggiata di Santa Monica Boulevard. Era chiaro che tutte le foto erano state scattate tra la mattina in cui avevo accettato il caso di Roulet e il giorno in cui Raul Levin era stato ucciso. Successivamente erano state nascoste sulla scena del crimine dall'assassino. Faceva tutto parte del piano di Roulet per incastrarmi e potermi controllare. La polizia avrebbe avuto tutto ciò che serviva per accusarmi dell'omicidio di Levin, tranne l'arma del delitto. Finché Roulet aveva l'arma, aveva me. Dovetti ammirare il piano e ammettere al tempo stesso la mia ingenuità, che mi fece provare il terrore della disperazione. Cercai di abbassare il finestrino, ma il bottone non funzionava. Chiesi alla detective Sobel di aprire un finestrino e lei lo fece. L'aria fresca cominciò a entrare in macchina. Era un po' che Lankford mi guardava dallo specchietto retrovisore e cercò di riprendere la conversazione. «Abbiamo ricostruito la storia di quella Woodsman» disse. «Lei sa a chi apparteneva un tempo, non è vero?» «A Mickey Cohen» risposi impassibile, fissando dal finestrino i fianchi scoscesi delle colline del Laurel Canyon. «Com'è finita nelle sue mani la pistola di Mickey Cohen?» Risposi senza smettere di guardare dal finestrino. «Mio padre era un avvocato. Mickey Cohen era un suo cliente.» Lankford fece un fischio. Cohen era uno dei più famosi gangster mai esistiti a Los Angeles. Apparteneva all'epoca in cui i gangster si contendevano i titoli delle rubriche di gossip con le stelle del cinema. «E così? Ha regalato una pistola al suo vecchio?» «Cohen venne incriminato per una sparatoria e mio padre lo difese. In-
vocò la legittima difesa. Ci fu un processo e mio padre ottenne un verdetto di non colpevolezza. Quando l'arma gli fu restituita, Mickey la diede a mio padre. Una sorta di pegno, se così si può dire.» «Il suo vecchio si è mai chiesto quanta gente ha fatto fuori Mick con quell'arma?» «Non lo so. Non ho quasi conosciuto mio padre.» «E Cohen? L'ha mai incontrato?» «Quando mio padre lo rappresentò io dovevo ancora nascere. La pistola mi è arrivata con il suo testamento. Non so perché abbia scelto me. Avevo cinque anni quando è morto.» «E crescendo è diventato avvocato come il suo caro vecchio papà ed essendo un bravo avvocato l'ha registrata.» «Pensai che se per caso mi fosse stata rubata o qualcosa del genere volevo essere in grado di riappropriarmene. Giri qui su Fareholm.» Lankford seguì le mie indicazioni e iniziammo a salire verso casa mia. A quel punto diedi loro la brutta notizia. «Grazie per il passaggio» dissi. «Potete perquisire casa, ufficio e auto per tutto il tempo che volete, però devo dirvi che perdete il vostro tempo. Non solo non sono io la persona che state cercando, ma non troverete neppure quella pistola.» Vidi Lankford alzare di scatto la testa e guardarmi nello specchietto retrovisore. «E come mai, avvocato? Se n'è già liberato?» «Perché quella pistola mi è stata rubata da casa e non so dove si trovi.» Lankford iniziò a ridere. Gli vidi la felicità negli occhi. «Uh-uh, rubata. Comodo. Quando è successo?» «Difficile dirlo. Erano anni che non controllavo se era al suo posto.» «Ne ha fatto denuncia alla polizia o presentato una richiesta di risarcimento danni?» «No.» «Così qualcuno entra e le ruba la sua vecchia pistola di Mickey Cohen e lei non lo denuncia. Dopo averci appena detto di averla registrata proprio in caso fosse successa una cosa del genere. Dal momento che lei è un avvocato e tutto il resto, non le sembra lievemente bizzarro?» «Sì, solo che sapevo chi l'aveva rubata. Un cliente. Mi ha detto che l'aveva presa e che se lo avessi denunciato, avrei violato il segreto professionale perché la mia denuncia avrebbe portato al suo arresto. Una sorta di comma ventidue, un circolo vizioso, detective.»
La detective Sobel si voltò a guardarmi. Doveva aver pensato che mi ero inventato quella storia in quel preciso momento, e in effetti era così. «In gergo legale questa mi sembra una gran bella stronzata, Haller» disse Lankford. «Però è la verità. Siamo arrivati. Parcheggi di fronte al garage.» Lankford entrò con l'auto nello spiazzo di fronte al mio garage e spense il motore. Si voltò per guardarmi prima di scendere. «Quale cliente ha rubato la pistola?» «Ve l'ho detto, non posso dirlo.» «Be', Roulet è il suo unico cliente al momento, non è così?» «Ho un sacco di clienti. Ripeto, non ve lo posso dire.» «Pensa che potremmo seguire i diagrammi del rilevatore che porta alla caviglia e controllare se è stato a casa sua di recente?» «Fate quello che volete. In effetti c'è stato. Abbiamo avuto un incontro qui, nel mio ufficio.» «Potrebbe averla presa in quella occasione.» «Non sto dicendo che l'ha presa lui, detective.» «Sì, be', la cavigliera scagiona Roulet per la storia di Levin, in ogni caso. Abbiamo controllato il GPS. Quindi rimane solo lei, avvocato.» «E rimanete voi a perdere tempo.» Mi venne un'illuminazione a proposito della cavigliera di Roulet, ma cercai di non darlo a vedere. Forse avevo una traccia per individuare il trucco da Houdini usato da Roulet. «Restiamo seduti qui?» Lankford si voltò e scese. Poi mi aprì la portiera. La maniglia interna era inutilizzabile per il trasporto di sospettati e prigionieri. Guardai i due detective. «Volete che vi mostri la custodia della pistola? Forse quando vedrete che è vuota, ve ne potrete andare e far risparmiare tempo a tutti noi.» «Non direi proprio, avvocato» disse Lankford. «Controlleremo dappertutto. Io mi occuperò dell'auto e la detective Sobel inizierà dentro casa.» Scossi la testa. «Non direi proprio, detective. Non funziona così. Io non mi fido di voi. Il vostro mandato è disonesto, perciò per quanto ne so io, anche voi lo siete. O rimanete insieme in modo che possa controllarvi entrambi o aspettate che riesca a far arrivare qui un secondo osservatore. La mia assistente potrebbe essere qui in dieci minuti. Magari potreste approfittare per chiederle della telefonata che mi ha fatto la mattina in cui è stato ucciso Raul
Levin.» Il volto di Lankford si fece scuro per la rabbia. Sembrò sul punto di perdere il controllo. Decisi di insistere. Tirai fuori il cellulare e lo aprii. «Ora chiamerò il vostro giudice e vediamo se lui...» «D'accordo» disse Lankford. «Inizieremo con la macchina. Insieme. Poi proseguiremo dentro casa.» Chiusi il telefono e lo rimisi in tasca. «D'accordo.» Andai verso una tastiera magnetica sul muro esterno del garage. Digitai la combinazione e la porta del garage iniziò a sollevarsi, rivelando la Lincoln blu notte che aspettava l'ispezione. La targa era NT GLTY. Lankford la guardò e con la testa fece un cenno di assenso. «È questa.» Entrò nel garage, il volto ancora teso per la rabbia. Decisi di alleggerire un po' la situazione. «Ehi, detective» dissi. «La sa la differenza tra un pescegatto e un avvocato difensore?» Non rispose. Fissava con rabbia la targa della Lincoln. «Uno è un parassita che si nutre d'immondizia» dissi io. «L'altro è un pesce.» Per un attimo il suo volto rimase impassibile. Poi lo attraversò un sorriso e proruppe in una lunga risata fragorosa. Entrò nel garage la detective Sobel che non aveva sentito la barzelletta. «Che succede?» chiese. «Te lo dico dopo» disse Lankford. 31 Impiegarono mezz'ora a perquisire la Lincoln, poi entrarono in casa e iniziarono dall'ufficio. Rimasi a guardarli tutto il tempo e parlai solo per fornire spiegazioni se qualcosa faceva interrompere la loro ricerca. Tra loro non parlavano molto, il che rendeva sempre più evidente la divergenza di opinioni sulla direzione che Lankford aveva dato all'indagine. A un certo punto Lankford ricevette una chiamata sul cellulare e per non essere ascoltato uscì sulla veranda. Avevo messo gli occhiali da sole e dal corridoio riuscivo contemporaneamente a tenere d'occhio lui e la detective Sobel nel mio ufficio. «Non mi pare molto convinta di quello che sta facendo» dissi quando fui
sicuro che il suo collega non potesse sentire. «Non importa come la penso io. Stiamo seguendo il caso e questo è quanto.» «Il suo collega fa sempre così, o solo con gli avvocati?» «L'anno scorso ha speso cinquantamila dollari di avvocato per cercare di ottenere l'affidamento dei figli. Non c'è riuscito. E subito prima abbiamo perso un grosso caso, un omicidio, per un cavillo legale.» Annuii. «E lui ha dato la colpa all'avvocato. Ma chi è stato a sbagliare?» Non rispose, e il suo silenzio mi confermò che il passo falso lo aveva fatto lui. «Credo di aver capito» dissi. Controllai Lankford sulla veranda. Gesticolava come se cercasse di spiegare qualcosa a un deficiente. Doveva essere il suo avvocato per la custodia. Decisi di cambiare argomento con la detective Sobel. «Non crede che qualcuno possa aver cercato di alterare gli indizi per manovrare l'indagine?» «Di cosa sta parlando?» «Le foto nascoste nel cassettone, il bossolo del proiettile nella griglia sul pavimento. Tutto troppo a puntino, non le pare?» «Che sta dicendo?» «Niente. Sto facendo delle domande a cui il suo collega non sembra interessato.» Controllai Lankford. Digitava dei numeri sul cellulare, stava per fare un'altra telefonata. Mi voltai ed entrai in ufficio. La detective stava guardando in un cassetto dietro gli schedari. Non trovò pistole, lo richiuse e si spostò verso la scrivania. Parlai a bassa voce. «Cosa pensa del messaggio che mi ha lasciato Raul?» chiesi. «Il fatto di aver trovato il biglietto di uscita per Jesus Menendez, cosa crede che volesse dire?» «Non siamo ancora riusciti a capirlo.» «Un vero peccato. Credo sia importante.» «Tutto è importante fino a prova contraria.» Annuii, senza capire bene cosa intendesse. «La causa che sto seguendo è piuttosto interessante, lo sa? Dovrebbe tornare a seguirla in aula. Potrebbe essere istruttivo.» La donna distolse lo sguardo dalla scrivania e mi guardò. Per un attimo ci fissammo. Poi socchiuse gli occhi sospettosa, come se stesse cercando
di capire se di fronte aveva davvero un omicida. «Dice sul serio?» «Sì, perché non dovrei?» «Be', per cominciare, se finisce dentro per lei non sarà così facile raggiungere il tribunale.» «Sì, ma senza pistola il caso non sta in piedi. È per questo che siete qui. O no?» Non rispose. «E poi questa è un'idea del suo collega. Lei non la condivide. Si capisce.» «Lei è un avvocato da manuale. È convinto di conoscere il punto di vista di tutti.» «No, non è il mio caso. Non ne conosco neanche uno. E ne sono consapevole.» Cambiò argomento. «È sua figlia?» Indicò la foto incorniciata sulla scrivania. «Sì. Hayley.» «Bella allitterazione. Hayley Haller. C'entra la cometa?» «Più o meno. Si scrive in modo diverso. Un'idea della mia ex moglie.» A quel punto Lankford entrò riferendo a voce alta alla sua socia della chiamata che aveva ricevuto. Un ispettore li avvisava che si sarebbero occupati anche del successivo omicidio che fosse avvenuto a Glendale anche se il caso Levin non si fosse ancora chiuso. Sulla telefonata fatta da lui non disse nulla. La detective gli disse che aveva finito di perquisire l'ufficio. E che non aveva trovato la pistola. «Ve l'ho detto, non è qui» dissi. «State perdendo tempo. E lo fate perdere a me. Domani ho udienza e devo prepararmi per i testimoni.» «Passiamo alla camera da letto» disse Lankford ignorando la mia protesta. Feci un passo indietro per lasciarli uscire da una stanza ed entrare nell'altra. Ciascuno si diresse verso uno dei due comodini. Lankford estrasse un cd dal primo cassetto di quello dalla sua parte. «Wreckrium for Lil' Demon» lesse. «Lei vuole prendermi per il culo.» Non risposi. La sua partner spalancò i due cassetti del suo comodino e trovò solo una striscia di preservativi. Mi girai dall'altra parte. «Mi occupo dell'armadio» disse Lankford lasciando aperti i cassetti del
comodino. Entrò nella cabina armadio e quasi subito si sentì la sua voce dall'interno. «Eccola.» Uscì dalla cabina con in mano la custodia in legno. «Bingo» dissi. «Ha trovato una custodia vuota. Lei deve essere un detective.» Prima di appoggiarla sul letto Lankford la scosse per sentire il contenuto. O si prendeva gioco di me o nella custodia c'era qualcosa di solido. Rabbrividii al pensiero che per Roulet sarebbe stato facilissimo reintrodursi in casa mia e mettere a posto la pistola. Il luogo perfetto dove nasconderla. L'ultimo posto che avrei pensato di controllare. Ricordai lo strano sorriso sul volto di Roulet quando gli avevo detto che rivolevo la mia pistola. Sorrideva perché me l'aveva già restituita? Lankford premette la serratura a scatto e sollevò il coperchio. Sollevò il rivestimento di tela. La sagoma di sughero che una volta conteneva la pistola di Mickey Cohen era vuota. Tirai un profondo sospiro di sollievo. «Cosa vi avevo detto?» dissi in fretta, cercando di fare l'indifferente. «Sì, lo aveva detto» disse Lankford. «Heidi, hai un sacchetto? Ci portiamo via la custodia.» Mi girai verso di lei. Non assomigliava a una che potesse chiamarsi Heidi. Mi chiesi se fosse un soprannome che le avevano dato i colleghi. O la ragione per cui non metteva il nome sul biglietto da visita. Non suonava abbastanza duro per una detective della squadra Omicidi. «Ne ho uno in macchina» rispose. «Vai a prenderlo» disse Lankford. «Volete portarvi via una custodia vuota?» chiesi. «A che cosa vi serve?» «Tutto rientra nelle prove, avvocato. Dovrebbe saperlo. E poi, dal momento che ho la sensazione che non troveremo mai la pistola, anche la custodia potrà essere utile.» Scossi la testa. «Magari nella sua immaginazione. La scatola non è una prova di niente.» «È la prova che lei possedeva la pistola di Mickey Cohen. È scritto su questa piccola placca di ottone che ha fatto suo papà o non so chi.» «E allora?» «Quando ero fuori in veranda ho fatto una telefonata, Haller. Vede, abbiamo chiesto a chi di dovere di andare a rileggersi il caso di legittima difesa di Mickey Cohen. Pare che nell'archivio del LAPD ci siano ancora
tutti i referti balistici del processo. È un colpo di fortuna, visto che il processo risale a quanto, cinquant'anni fa?» Capii al volo. Avevano intenzione di recuperare i proiettili e i bossoli dal caso Cohen e confrontarli con quello raccolto nel caso Levin. Pensavano di mettere in relazione i due omicidi per arrivare a me attraverso la custodia originale della pistola e il mio nome nel registro informatico dei possessori di armi da fuoco. Dubitavo che Roulet, quando aveva escogitato il piano per ricattarmi, avesse messo in conto la capacità della polizia di ricostruire un caso senza l'arma del delitto. Rimasi lì in silenzio. Heidi Sobel lasciò la stanza senza guardarmi e Lankford alzò lo sguardo dalla custodia con un sorriso da assassino. «Qual è il problema, avvocato?» chiese. «La prova le ha tagliato la lingua?» Dopo un po' tornai in grado di parlare. «Quanto ci vorrà per i referti balistici?» riuscii a chiedere. «Be', per lei vedremo di fare il più in fretta possibile. Perciò esca di qui e finché può si diverta. Ma non lasci la città.» Rise, quasi stordito per la soddisfazione. «Ma guarda tu, credevo che queste cose le dicessero solo nei film. E invece le ho appena dette io! Peccato che non ci fosse la mia partner a sentirmi.» Lei tornò con un grosso sacchetto marrone e un rotolo di nastro adesivo rosso. La guardai infilare la custodia nel sacchetto e sigillarlo con il nastro adesivo. Mi domandavo quanto tempo mi sarebbe rimasto e se il meccanismo che avevo messo in moto non si fosse appena rotto. Mi sentivo svuotato, come la custodia di legno che la detective aveva appena sigillato nel sacchetto marrone. 32 Fernando Valenzuela abitava a Valencia. Sul finire dell'ora di punta da casa mia ci voleva un'ora buona di macchina. Valenzuela se n'era andato da Van Nuys qualche anno prima perché temeva per la sicurezza e l'educazione delle sue tre figlie ormai alla soglia delle scuole superiori. Si era spostato in un quartiere abitato da altri che come lui avevano lasciato la città e il tempo che impiegava per andare al lavoro era aumentato da cinque a quarantacinque minuti. Ma era felice della scelta. Aveva una casa più bella e le figlie erano più al sicuro. Viveva in una casa in stile spagnolo
con il tetto di mattoni rossi in un quartiere dove le case erano tutte in stile spagnolo e con il tetto di mattoni rossi. Era più di quanto un garante potesse mai sognare, ma costava parecchi soldi al mese. Arrivai quasi alle nove. Il garage era stato lasciato aperto ed entrai. Un posto era occupato da un minivan e l'altro da un pick-up. Uno scatolone di cartone con la scritta Sony era appoggiato per terra tra il pick-up e un banco degli attrezzi molto fornito. L'imballaggio era lungo e stretto. Mi avvicinai e vidi che era la scatola di un televisore al plasma da cinquanta pollici. Uscii dal garage, mi diressi verso l'ingresso e bussai. Aspettai un bel po', poi Valenzuela rispose. «Mick, cosa ci fai da queste parti?» «Lo sai che la porta del garage è aperta?» «Merda! Mi hanno appena consegnato un plasma.» Mi spinse da una parte e attraversò di corsa il giardino per infilarsi dentro il garage. Chiusi la porta di casa sua e lo seguii. Quando lo raggiunsi era in piedi accanto al suo televisore, sorridente. «Oh, amico mio, lo sai che a Van Nuys non sarebbe mai successo» disse. «Questo aggeggio sarebbe sparito da un pezzo. Vieni, entriamo da qui.» Si diresse verso una porta che dal garage portava in casa. Premette un interruttore e la porta del garage iniziò a richiudersi. «Val, aspetta un momento» dissi. «Parliamo qui. È più appartato.» «Maria vorrà salutarti.» «Magari la prossima volta.» Tornò verso di me, lo sguardo preoccupato. «Cosa succede, capo?» «Succede che oggi ho passato un po' di tempo con i poliziotti che lavorano sull'omicidio di Raul. Dicono di aver scagionato Roulet per via della cavigliera.» Valenzuela annuì energicamente. «Sì, sì, sono venuti da me pochi giorni dopo che è successo. Ho mostrato loro il sistema e come funziona e ho ricostruito i movimenti di Roulet di quel giorno. Hanno verificato che era al lavoro. Poi gli ho mostrato l'altra cavigliera che ho e gli ho spiegato che è impossibile manometterla. Il rilevatore è ad ampio raggio. La prerogativa fondamentale è che chi lo porta non può toglierselo da solo. Io verrei a saperlo.» Mi appoggiai con le spalle al pick-up e incrociai le braccia. «Ti hanno chiesto dov'eri tu quel sabato?»
Fu come colpire Valenzuela con un pugno. «Che cos'hai detto, Mick?» Abbassai gli occhi sulla scatola del televisore, poi puntai di nuovo lo sguardo su di lui. «In qualche modo, non so come, Roulet ha ucciso Raul, Val. Ora io sto rischiando il culo e voglio sapere come ha fatto.» «Mick, dai retta a me, è innocente. Te lo garantisco, quel rilevatore non si è mai staccato dalla sua caviglia. La macchina non mente.» «Sì, lo so, la macchina non mente...» Dopo un attimo capì. «Che cosa stai dicendo, Mick?» Venne verso di me, il corpo irrigidito in posizione di attacco. Mi staccai dal mio appoggio e lasciai ricadere le braccia lungo i fianchi. «È solo una domanda, Val. Tu dov'eri?» «Figlio di puttana, come osi chiedermi una cosa simile?» Si mise in posizione di lotta. Per un attimo vacillai, pensai che mi aveva apostrofato con lo stesso epiteto di cui avevo gratificato Roulet quella stessa mattina. Valenzuela si scagliò contro di me e mi sbatté con forza contro il pickup. Io lo respinsi e lui andò a sbattere contro la scatola del televisore che si rovesciò per terra con un boato fragoroso. Poi vi cadde sopra seduto. Dentro la scatola si udì un rumore secco. «Oh, cazzo!» gridò. «Oh, cazzo! Hai rotto lo schermo!» «Mi hai attaccato tu, Val. Io ho reagito.» «Oh, cazzo!» Si mise carponi a lato della scatola e cercò di rimetterla in piedi, ma era troppo pesante. Andai dall'altra parte e lo aiutai a raddrizzarla. Quando la scatola tornò diritta sentimmo scivolare all'interno frammenti di materiale. Sembrava vetro. «Bastardo!» gridò Valenzuela. Si aprì la porta che portava in casa e sua moglie si affacciò nel garage. «Ciao, Mickey. Val, cos'è tutto questo baccano?» «Torna dentro, Maria» le ordinò il marito. «Be', che cosa...» «Chiudi quella cazzo di bocca e tornatene in casa!» Lei rimase immobile per un attimo, lo sguardo fisso su di noi, poi richiuse la porta. Sentii che chiudeva a chiave. Da come si erano messe le cose, quella notte Valenzuela avrebbe dormito con il televisore rotto. Lo guardai
di nuovo. Aveva la bocca spalancata. «È costato ottomila dollari» mormorò. «Fanno dei televisori che costano ottomila dollari?» Ero sconvolto anch'io. Dove stava andando il mondo? «Con lo sconto.» «Val, dove hai preso i soldi per un televisore da ottomila dollari?» Mi guardò e la rabbia tornò a montargli. «Dove cazzo credi che li abbia presi? Lavoro, amico. Grazie a Roulet sto vivendo un anno alla grande. Ma Cristo santo, Mick, non l'ho liberato io dalla cavigliera per lasciargli uccidere Raul. Conoscevo Raul da quando lo conoscevi tu. Non ho fatto niente di simile. Non ho messo io la cavigliera mentre lui andava a uccidere Raul. E non sono andato a uccidere Raul per conto suo per un cazzo di televisore. Se non ci credi, allora vattene via da qui e dalla mia vita!» Era disperato, come un animale ferito. Tutto a un tratto mi venne in mente Jesus Menendez. Non ero riuscito a riconoscere la sua innocenza mentre lui mi pregava di credergli. Non volevo che succedesse mai più. «D'accordo, Val» dissi. Andai verso la porta di casa e premetti il bottone che apriva la porta del garage. Quando mi voltai vidi che aveva preso un taglierino dal banco degli attrezzi e stava tagliando il nastro adesivo sulla cima della scatola del televisore. Voleva la conferma di quello che già sapevamo del plasma. Gli passai accanto e uscii dal garage. «Ti darò la metà, Val» dissi. «Lorna domattina ti manderà un assegno.» «Lascia perdere. Dirò che lo hanno consegnato così.» Raggiunsi la portiera della mia auto e guardai di nuovo verso di lui. «Allora chiamami quando ti arresteranno per truffa. Dopo che ti sarai garantito la libertà vigilata.» Salii sulla Lincoln e feci il viale in retromarcia. Quando guardai di nuovo dentro il garage, vidi Valenzuela in piedi che mi osservava. Il traffico in direzione della città era scarso e feci presto. Ero appena entrato in casa quando il telefono iniziò a squillare. Lo presi in cucina, pensando che fosse Valenzuela che mi chiamava per dirmi che passava il lavoro a un altro avvocato. In quel momento la cosa non mi preoccupava. Era Maggie McPherson. «Va tutto bene?» chiesi. Non chiamava mai così tardi. «Sì.» «Dov'è Hayley?»
«Dorme. Non volevo chiamare prima che fosse a letto.» «Cosa succede?» «In ufficio circola una strana voce su di te.» «Cioè che sarei l'assassino di Raul Levin?» «Haller, è una cosa seria?» La cucina era troppo piccola per un tavolo con le sedie e non potevo andare lontano con il filo del telefono, così mi sedetti sul piano di lavoro. Dalla finestra sopra il lavandino potevo vedere le luci del centro che brillavano in lontananza e un bagliore all'orizzonte che sapevo provenire dallo stadio dei Dodger. «Direi di sì, la situazione è seria. Mi hanno incastrato per affibbiarmi la colpa dell'omicidio di Raul.» «Oh mio Dio, Michael, com'è possibile?» «Un insieme di ingredienti diversi, un cliente cattivo, un poliziotto pieno di rancore, un avvocato stupido, aggiungi zucchero e spezie ed ecco la ricetta.» «Si tratta di Roulet? È lui?» «Non posso parlare dei miei clienti con te, Mags.» «Allora cosa intendi fare?» «Non ti preoccupare, è tutto sotto controllo. Me la caverò.» «E Hayley?» Sapevo cosa intendeva. Voleva tenere la cosa lontana da Hayley. Impedire che a scuola i ragazzini parlassero di suo padre come di un assassino, la faccia e il nome sbattuti in prima pagina. «Hayley non avrà problemi. Non lo saprà mai. Nessuno verrà mai a saperlo se riesco a gestire bene la cosa.» Lei non disse nulla e non c'era nient'altro che potessi fare per rassicurarla. Cambiai argomento. Cercai di sembrare sicuro di me, perfino allegro. «Che aspetto aveva oggi il tuo giovane Minton dopo l'udienza?» Non rispose subito, forse perché avrebbe preferito non cambiare argomento. «Non lo so. Mi sembra che stesse bene. Ma Smithson aveva mandato un osservatore, era la sua prima volta da solo.» «Nessuna reazione?» «No, non ancora. Niente che abbia sentito io. Ascolta, Haller, sono davvero preoccupata per questa storia. La voce che ho sentito diceva che ti hanno notificato un mandato di perquisizione in tribunale. È la verità?» «Sì, ma non devi preoccuparti. Te l'ho detto, ho la questione sotto con-
trollo. Andrà tutto bene. Promesso.» Sapevo di non aver calmato le sue paure. Pensava a nostra figlia e allo scandalo. Era probabile che stesse pensando un po' anche a se stessa e a quanto avrebbe influito sulla sua carriera un ex marito radiato dall'albo o accusato di omicidio. «E poi, se tutto dovesse andare a farsi fottere, sarai sempre la mia prima cliente, vero?» «Di cosa stai parlando?» «Del Servizio Limousine dell'Avvocato della Lincoln. Lo sarai, vero?» «Haller, non mi sembra il momento di scherzare.» «Non è uno scherzo, Maggie. Ho pensato di mollare. Prima che venisse fuori questa stronzata. Non riesco più a fare questo lavoro, te l'avevo detto quella sera.» Rimase in silenzio a lungo prima di rispondere. «A me e ad Hayley andrà bene qualunque cosa deciderai di fare.» Annuii. «Non sai quanto mi faccia piacere.» La sentii sospirare. «Non so come tu faccia, Haller.» «A fare cosa?» «Sei un sordido avvocato difensore con due ex mogli e una figlia di otto anni. E tutte noi ti amiamo ancora.» Adesso fui io a restare in silenzio. Nonostante tutto sorrisi. «Grazie, Maggie la Spietata» dissi infine. «Buonanotte.» E riattaccai. 33 Martedì 24 maggio Il secondo giorno di processo per me e Minton cominciò con una convocazione nello studio del giudice. Constance Fullbright voleva parlare solo con me, ma le regole del processo stabilivano che non fosse corretto incontrarsi in privato, escludendo la parte avversa, su qualsiasi questione. Lo studio era spazioso, una scrivania e un angolo riunioni circondato da tre pareti di scaffali contenenti testi giuridici. Ci invitò a sederci sulle sedie di fronte alla scrivania. «Signor Minton,» cominciò «non posso chiederle di non ascoltare, ma
esigo che lei non partecipi né interrompa la conversazione che intendo avere con il signor Haller. Non riguarda direttamente la sua persona né, per quanto ne so, il caso Roulet.» Minton, preso alla sprovvista, non seppe come reagire e rimase a bocca aperta. Il giudice si girò verso di me e si appoggiò alla scrivania a mani giunte. «Signor Haller, ha qualche osservazione da sottopormi? Si ricordi di essere seduto di fronte a una rappresentante della giustizia.» «No, giudice, va tutto bene. Mi dispiace che ieri sia stata disturbata.» Feci del mio meglio per esibire un sorriso contrito, come se il mandato di perquisizione non fosse stato altro che un imbarazzante inconveniente. «Non è stato un gran disturbo, signor Haller. Su questo caso si è investito parecchio. La giuria, l'accusa, tutti noi. Spero che non sia stato inutile. Non ho intenzione di ricominciare da capo. La mia agenda è stracolma di impegni.» «Chiedo scusa, giudice Fullbright» intervenne Minton. «Posso chiedere solo che cosa...» «No, non può» lo interruppe. «La nostra conversazione ha attinenza con il processo solo per quanto riguarda la sua tempistica. Se il signor Haller mi assicura che non ci saranno ritardi, mi fido della sua parola. Lei non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.» Il giudice mi guardò fisso negli occhi. «Ho la sua parola al proposito, signor Haller?» Esitai prima di annuire. Il giudice mi stava facendo capire che se non avessi tenuto fede alla parola e l'indagine di Glendale avesse causato uno sconvolgimento o l'annullamento del procedimento giudiziario del processo Roulet le conseguenze sarebbero state pesanti. «Ha la mia parola» dissi. Si alzò di scatto e si voltò verso l'attaccapanni nell'angolo dove la sua toga nera era appesa a una gruccia. «D'accordo, allora, signori, torniamo al lavoro. La giuria sta aspettando.» Io e Minton lasciammo l'ufficio ed entrammo in aula passando per la postazione del cancelliere. Roulet era seduto sulla sedia dell'imputato e aspettava. «Di cosa diavolo stava parlando?» mi sussurrò Minton. Faceva il finto tonto. Nei corridoi della procura doveva aver sentito le stesse voci che aveva raccolto la mia ex moglie.
«Niente, Ted. Una cazzata che riguarda un altro mio caso. Hai intenzione di finire oggi?» «Dipende da te. Più ci metti tu, più io ci metterò a ripulire le stronzate che spari.» «Stronzate, eh? Stai per morire dissanguato e fai finta di non saperlo.» Mi sorrise sicuro di sé. «Io non credo.» «Morte per mille rasoiate, Ted. Una sola non raggiunge lo scopo. Tutte insieme sì. Benvenuto nella pratica dei crimini violenti.» Mi allontanai e raggiunsi il tavolo della difesa. Appena seduto, Roulet mi parlò all'orecchio. «Cosa voleva il giudice?» sussurrò. «Niente. Mi ha messo in guardia sul modo di trattare la vittima durante il controinterrogatorio.» «Chi, la donna? L'ha chiamata vittima?» «Louis, prima di tutto, abbassa la voce. E in secondo luogo, lei è la vittima in questa vicenda. Tu avrai l'eccezionale capacità di convincerti di tutto, ma noi, o meglio, io ho ancora bisogno di convincere la giuria.» Ricevette il rimprovero come se gli avessi soffiato delle bolle di sapone sul viso e proseguì. «Be', cos'ha detto?» «Ha detto che non mi lascerà grande libertà d'azione nel controinterrogatorio. Mi ha ricordato che Regina Campo è la vittima.» «"Costringerò quella donna ad ammettere di aver mentito e spargerò le sue ceneri in mare." Lo hai detto tu il giorno in cui ci siamo conosciuti.» «Sì, ma le cose sono molto diverse dal giorno in cui ci siamo conosciuti, non credi? E il piano che hai fatto con la mia pistola sta per scoppiarmi in faccia. Te lo dico chiaro e tondo, Louis, io non finirò dentro per questo. Se devo accompagnare la gente in macchina all'aeroporto per il resto della mia vita, lo farò e lo farò con piacere se è l'unico modo per uscire da questa storia. Hai capito, Louis?» «Ho capito, Mick» disse prontamente. «Sono sicuro che te la caverai in qualche modo. Sei un uomo intelligente.» Mi voltai e lo guardai. Fortunatamente non dovetti aggiungere altro. L'ufficiale giudiziario richiamò all'ordine l'aula e il giudice Fullbright si sedette al suo scranno. Il primo testimone di Minton fu il detective del Dipartimento di Polizia di Los Angeles Martin Booker. Era un testimone fondamentale per l'accu-
sa. Una roccia. Le sue risposte furono chiare e concise e fornite senza esitazioni. Booker presentò la prova più importante, il coltello con sopra le iniziali del mio cliente, e attraverso le domande di Minton illustrò alla giuria tutta la sua indagine sull'aggressione a Regina Campo. Il detective testimoniò che la notte del 6 marzo era in servizio notturno al Valley Bureau di Van Nuys. Era stato mandato a casa di Regina Campo dal comandante di guardia della West Valley Division che, a seguito della relazione che gli avevano fatto i suoi agenti, aveva ritenuto che l'aggressione alla Campo meritasse l'intervento immediato di un investigatore. Booker spiegò alla giuria che i sei uffici investigativi della vallata erano dotati di personale solo nelle ore diurne, quindi l'investigatore del turno di notte ricopriva una posizione che richiedeva interventi immediati e spesso gli venivano assegnati casi di natura urgente. «Cosa rendeva di natura urgente questo caso, detective?» chiese Minton. «Le ferite alla vittima, il fermo di un sospettato e la convinzione che si fosse evitato un crimine più grave» rispose Booker. «Quale sarebbe stato questo crimine più grave?» «L'omicidio. Tutto faceva credere che l'imputato avesse intenzione di ucciderla.» Avrei potuto obiettare, ma decisi di sfruttare il controinterrogatorio. Minton accompagnò Booker attraverso i progressi investigativi che aveva fatto sulla scena del crimine e in ospedale, dove Regina Campo era stata soccorsa e interrogata. «Prima di arrivare in ospedale gli agenti Maxwell e Santos l'avevano informata su quello che la vittima aveva riferito, è esatto?» «Sì, mi fornirono una visione d'insieme.» «Le dissero che la vittima si guadagnava da vivere attraverso il commercio delle sue prestazioni sessuali?» «No, non me lo dissero.» «Quando lo scoprì?» «Be', me ne feci un'idea abbastanza precisa quando mi recai nel suo appartamento e vidi alcune delle cose che possedeva.» «Quali cose?» «Cose che descriverei come strumenti sessuali; in una delle camere da letto, inoltre, c'era un armadio che conteneva solo négligé e abbigliamento provocante. In quella stanza c'era anche un televisore e dentro ai cassetti sottostanti una collezione di nastri pornografici. Mi era stato detto che non aveva una compagna di stanza, ma mi sembrò che entrambe le camere da
letto fossero utilizzate. Pensai che una camera fosse sua, cioè quella in cui dormiva quando era sola, e l'altra fosse riservata alle sue attività professionali.» «Una casa d'appuntamenti?» «Si potrebbe definirla così.» «Cambiò la sua opinione su di lei come vittima di questa aggressione?» «No.» «Perché no?» «Perché chiunque può essere vittima di un reato. Prostituta o papa, non importa. Una vittima è una vittima.» Minton spuntò un argomento che si era appuntato sul suo blocco e proseguì. «Dunque, quando giunse in ospedale, chiese conferma alla vittima della sua teoria riguardo alle due camere da letto e le chiese cosa facesse per vivere?» «Sì, glielo chiesi.» «Che cose le disse?» «Rispose con chiarezza che faceva quel mestiere. Non cercò di nasconderlo.» «Le disse nulla di diverso rispetto ai resoconti dell'aggressione che aveva già fornito sulla scena del crimine?» «No, assolutamente. Mi disse che aprì la porta all'imputato, che lui la colpì immediatamente al viso e che la spinse dentro l'appartamento. L'aggredì ancora ed estrasse un coltello dicendole che l'avrebbe stuprata e poi uccisa.» Minton continuò ad approfondire l'indagine con ulteriori dettagli fino al punto di annoiare la giuria. Quando non ero impegnato a prendere nota delle domande da fare a Booker durante il controinterrogatorio, osservavo i giurati e constatavo che la loro attenzione si affievoliva sotto il peso di tanti particolari. Finalmente, dopo novanta minuti di interrogatorio, arrivò il mio turno. Avevo in mente una toccata e fuga. Se Minton aveva compiuto l'autopsia dell'intero caso, io volevo entrare in campo e sbucciarmi appena le ginocchia. «Detective Booker, Regina Campo le ha spiegato perché aveva mentito alla polizia?» «A me non ha mentito.» «Forse non a lei, ma ai primi agenti che giunsero sulla scena, Maxwell e
Santos, aveva detto di non sapere perché il sospettato fosse venuto nel suo appartamento, non è così?» «Io non ero presente al loro colloquio, perciò non posso affermarlo. So solo che al momento del primo interrogatorio quella donna era spaventata perché era stata appena picchiata e minacciata di stupro e di morte.» «Quindi lei sta dicendo che in simili circostanze è accettabile mentire alla polizia.» «Non ho detto questo.» Controllai i miei appunti e proseguii. Non avevo intenzione di seguire una scaletta lineare. Sparavo sventagliate a raffica, cercando di confonderlo. «Ha catalogato gli indumenti trovati nella camera da letto che, secondo quanto lei ci ha riferito, la signora Campo usava per il suo lavoro di prostituta?» «No, non l'ho fatto. Era solo una mia osservazione. Non era importante per il caso.» «Qualcuno degli accessori che lei ha visto nell'armadio sarebbe stato adatto ad attività sessuali sadomasochiste?» «Non saprei. Non sono un esperto in quel campo.» «E i video pornografici? Ha trascritto i titoli?» «No, non l'ho fatto. Ancora una volta non ho ritenuto che fosse attinente all'indagine il cui soggetto era l'individuo che aveva brutalmente aggredito quella donna.» «Si ricorda se l'argomento di qualche video riguardasse il sadomasochismo, il bondage o qualcosa di quel genere?» «No, non ricordo.» «Ha ordinato lei alla signora Campo di liberarsi di quei nastri e dei vestiti nell'armadio prima che i rappresentanti della difesa del signor Roulet potessero vedere l'appartamento?» «Certo che no.» Depennai quel punto dal mio elenco e proseguii. «Ha mai parlato con il signor Roulet di ciò che è successo quella notte nell'appartamento della signora Campo?» «No, aveva indicato un avvocato prima che riuscissi a raggiungerlo.» «Intende dire che ha esercitato il suo diritto costituzionale di non rilasciare dichiarazioni?» «Sì, è esattamente ciò che ha fatto.» «Così, per quanto ne sa lei, il signor Roulet non ha mai parlato con la
polizia di quello che è successo.» «Precisamente.» «Secondo lei, la signora Campo è stata colpita con molta violenza?» «Direi di sì. Il suo viso era gonfio e presentava ferite molto profonde.» «La prego di illustrare lo stato in cui ha trovato le mani del signor Roulet.» «Per proteggersi le mani si era avvolto un panno intorno al pugno. Non gli ho riscontrato alcuna ferita sulle mani.» «L'assenza di ferite è stata documentata?» Booker sembrò perplesso. «No» rispose. «Lei ha fatto eseguire una documentazione fotografica delle ferite della signora Campo, ma non ha sentito la necessità di documentare anche l'assenza di ferite del signor Roulet, è corretto?» «Non mi è parso necessario fotografare qualcosa che non c'era.» «Come faceva a sapere che si era avvolto il pugno in un panno?» «La signora Campo mi aveva raccontato che mentre si trovava sulla porta, prima di venire colpita, gli aveva visto la mano fasciata.» «Il panno con cui presumibilmente l'imputato si è fasciato la mano è stato ritrovato?» «Sì, era nell'appartamento. Era un tovagliolo, come quello di un ristorante. Sopra c'era il sangue di lei.» «C'era anche quello del signor Roulet?» «No.» «C'era qualcosa che potesse identificare il tovagliolo come appartenente all'imputato?» «Nulla.» «Perciò per questo indizio si deve contare solo sulla parola della signora Campo, esatto?» «Esatto.» Lasciai passare un po' di tempo mentre scarabocchiavo un appunto sul mio taccuino. Poi ripresi a interrogare il detective. «Detective, quando è venuto a sapere che Louis Roulet aveva negato di aver aggredito o minacciato la signora Campo e che si sarebbe difeso con forza dalle accuse?» «Dev'essere stato quando ha assunto lei.» Ci fu un mormorio divertito in aula. «Ha cercato altre spiegazioni per le ferite della signora Campo?»
«No, lei mi aveva detto quello che era successo. Io le ho creduto. Lui l'ha colpita e stava per...» «Grazie, detective Booker. Cerchi di rispondere solo alla domanda che le ho fatto.» «Lo stavo facendo.» «Se lei non ha cercato di darsi spiegazioni alternative, come mai ha creduto alla parola della signora Campo? Possiamo affermare con certezza che tutto questo processo si basa sulla parola della signora Campo e su quello che ha detto essere accaduto nel suo appartamento la notte del 6 marzo?» Booker rifletté un momento. Si rese conto che avevo usato le sue stesse parole per trascinarlo in trappola. Come si usa dire, bisogna stare attenti a non ferirsi con le proprie mani. «Non si tratta solo della sua parola» disse, quando si fu convinto di aver trovato una via d'uscita. «Ci sono le prove concrete. Il coltello. Le ferite. Tutto questo è più della sua semplice parola.» Annuì come per sottolineare la sua affermazione. «Ma la spiegazione delle ferite da parte dell'accusa e le altre prove non cominciano con il racconto di quanto è successo alla signora Campo?» «Si può dire così» disse con riluttanza. «Regina Campo è l'albero dal quale nascono tutti i frutti, giusto?» «Forse non mi esprimerei così.» «Allora come si esprimerebbe, detective?» Lo avevo nelle mani. Booker si stava letteralmente contorcendo sulla sedia. Minton si alzò e fece obiezione, affermando che stavo intimorendo il teste. Doveva averlo sentito alla televisione. Il giudice gli disse di sedersi. «Può rispondere alla domanda, detective» disse il giudice. «Qual era la domanda?» chiese Booker, cercando di guadagnare un po' di tempo. «Lei non era d'accordo con me quando ho definito la signora Campo l'albero da cui nascono tutte le prove di questo processo» dissi. «Se ho sbagliato, come definirebbe la posizione della signora in questo processo?» Booker alzò le mani in un rapido gesto di resa. «È la vittima! Ed è un teste fondamentale, ci ha raccontato lei come sono andate le cose. Dobbiamo fidarci di lei per stabilire il corso dell'indagine.» «In questo caso vi siete fidati parecchio di lei, vero? Vittima e principale teste a carico dell'imputato, è corretto?» «Precisamente.»
«Chi altri ha visto l'imputato aggredire la signora Campo?» «Nessun altro.» Annuii, per sottolineare la risposta per la giuria. Alzai lo sguardo e scambiai un'occhiata con quelli seduti nella prima fila. «D'accordo, detective» dissi. «Ora voglio chiederle di Charles Talbot. Come ha scoperto l'esistenza di quest'uomo?» «Il pubblico ministero, il signor Minton, mi ha chiesto di trovarlo.» «E lei sa come ha fatto il signor Minton a sapere della sua esistenza?» «Credo sia stato lei a informarlo. Lei aveva un video del bar che lo mostrava con la vittima un paio d'ore prima dell'aggressione.» Poteva essere il momento di presentare il video, ma volevo aspettare ancora. Volevo che al banco dei testimoni ci fosse la vittima quando lo avrei mostrato alla giuria. «E fino a quel momento non pensava che fosse importante trovare quest'uomo?» «No, semplicemente non sapevo che esistesse.» «Così, quando finalmente ha saputo dell'esistenza di Talbot e lo ha localizzato, ha fatto esaminare la sua mano sinistra per stabilire se avesse qualche ferita dovuta al fatto di aver ripetutamente colpito qualcuno al volto?» «No, non l'ho fatto.» «Questo perché era certo di non aver sbagliato nel ritenere che fosse il signor Roulet la persona che aveva preso a pugni Regina Campo?» «Non era una mia opinione. Mi aveva fatto arrivare a lui l'indagine. Riuscii a rintracciare Charles Talbot solo due settimane dopo il crimine.» «Perciò quello che vuole dire è che anche se avesse avuto delle abrasioni, a quel punto si sarebbero rimarginate, è corretto?» «Non sono un esperto al riguardo, ma pensavo proprio a questo, sì.» «Perciò non gli ha mai guardato la mano, vero?» «Non in particolare, no.» «Ha chiesto a qualche collega del signor Talbot se avesse notato dei lividi, delle abrasioni o altre ferite sulla mano più o meno nei giorni in cui è avvenuto il crimine?» «No, non l'ho fatto.» «Perciò la sua indagine non è mai andata oltre all'ipotesi di colpevolezza del signor Roulet, è esatto?» «Questo non è vero. Io affronto qualsiasi caso senza pregiudizi mentali. In questo caso Roulet era sulla scena del crimine ed era già sotto sorveglianza. La vittima lo aveva identificato come il suo aggressore. Era ovvio
che fosse un bersaglio per l'indagine.» «Era un bersaglio o il bersaglio, detective Booker?» «Entrambe le cose. All'inizio uno dei bersagli, in seguito, dopo che abbiamo rinvenuto le sue iniziali sull'arma che era stata puntata alla gola di Reggie Campo, è diventato il bersaglio, se si può definire così.» «Come faceva a sapere che quello era il coltello che è stato puntato alla gola della signora Campo?» «Perché ce lo ha detto lei e la ferita da perforazione lo dimostrava.» «Vuol dire che un medico legale ha eseguito una qualche analisi di confronto del coltello con la ferita al collo di Regina Campo?» «No, questo non è stato possibile.» «Allora abbiamo nuovamente solo la parola della signora Campo a dirci che è stato il mio cliente a puntarle il coltello alla gola.» «Non ho avuto motivo di dubitare di lei allora e non ne ho adesso.» «Quindi, senza essersene dato alcuna spiegazione, immagino che lei consideri il coltello con sopra le iniziali dell'imputato una prova di colpevolezza importante, non è vero?» «Sì. E mi sono dato una spiegazione. Lui si è portato quel coltello là dentro con un solo proposito in mente.» «Lei sa leggere nel pensiero, detective?» «No, io sono un investigatore. Le sto solo dicendo quello che penso.» «Sottolineo quel penso.» «Quello che deduco dalle prove di questo caso.» «Sono lieto che lei sia così sicuro di sé, signore. Ora non ho altre domande. Mi riservo il diritto di richiamare il detective Booker come testimone della difesa.» Non avevo intenzione di richiamare Booker al banco dei testimoni, ma pensavo che la minaccia potesse avere un buon effetto sulla giuria. Ritornai al mio posto mentre Minton cercava di mettere una pezza controinterrogando Booker. Il danno era nell'aria e lui non poteva farci un granché. Con Booker la difesa aveva solo scherzato. Il danno vero e proprio sarebbe arrivato dopo. Dopo che Booker fu sceso dal banco, il giudice chiamò la pausa di metà mattina. Convocò i giurati entro quindici minuti, ma sapevo che la pausa sarebbe durata di più. Il giudice Fullbright era una fumatrice e per aver fumato di nascosto delle sigarette nel suo studio aveva già ricevuto sanzioni amministrative che avevano suscitato scalpore. Ciò significava che se voleva mantenere le sue abitudini ed evitare ulteriori scandali, doveva
prendere l'ascensore, lasciare l'edificio e recarsi al portone d'ingresso dove arrivavano i bus dalle prigioni. Calcolai di avere almeno una mezz'ora. Uscii in corridoio per parlare con Mary Alice Windsor e fare qualche telefonata al cellulare. Come se mi occupassi dei testimoni che avrei fatto entrare in scena nell'udienza pomeridiana. Mi si avvicinò Roulet che voleva commentare il mio controinterrogatorio a Booker. «Mi sembra che sia andata davvero bene per noi» disse. «Per noi?» «Sai cosa voglio dire.» «Non si può dire che sia andata bene finché non arriva un verdetto positivo. Ora lasciami in pace, Louis. Devo fare delle telefonate. Dov'è tua madre? È probabile che abbia bisogno di lei oggi pomeriggio. Verrà?» «Stamattina aveva un appuntamento, ma verrà. Chiama Cecil e lui la porterà.» Quando si allontanò prese il suo posto il detective Booker che mi si avvicinò puntandomi un dito contro. «Non prenderà il volo, Haller» disse. «Che cosa?» domandai. «Tutta la sua stronzata di difesa. Precipiterà e prenderà fuoco.» «Vedremo.» «Sì, vedremo. Lo sa, lei deve avere davvero le palle per cercare di fare a pezzi Talbot con questa storia. E che palle. Avrà bisogno di una carriola per portarsele in giro.» «Sto solo facendo il mio lavoro, detective.» «Bel lavoro. Mentire per vivere. Evitare che la gente sappia la verità. Vivere in un mondo senza verità. Lasci che le chieda una cosa. Conosce la differenza tra un pescegatto e un avvocato?» «No, me la dica.» «Uno è un parassita che si nutre d'immondizia. L'altro è un pesce.» «Questa è buona, detective.» Se ne andò e io rimasi lì con il sorriso stampato in volto. Non per la barzelletta o perché avevo capito che doveva essere stato Lankford a estendere l'insulto dagli avvocati difensori agli avvocati in genere. Sorridevo perché la barzelletta era la conferma che Lankford e Booker erano in contatto. Si parlavano e questo significava che le cose si stavano muovendo. Il mio piano restava in piedi. Avevo ancora una possibilità.
34 Ogni processo ha un evento principale. Un testimone o una prova che diventano il fulcro attorno al quale, in un modo o nell'altro, ruota tutto il resto. In questo caso l'evento principale era Regina Campo, vittima e accusatrice, e la causa si sarebbe basata sulla sua interpretazione e la sua testimonianza. Tuttavia un buon avvocato difensore ha sempre un attore che fa da sostituto e io avevo il mio, un testimone che aspettava in segreto dietro le quinte e sul quale intendevo spostare il peso del processo. Ma dopo la pausa, quando Minton chiamò a deporre Regina Campo, si può dire con assoluta certezza che, mentre veniva condotta in aula e andava verso il banco dei testimoni, tutti gli occhi fossero puntati su di lei. Era la prima volta che i membri della giuria la vedevano di persona. Ed era la prima volta anche per me. Rimasi sorpreso, ma non in senso positivo. Era minuta e la sua camminata esitante e il fisico esile smentivano l'immagine della mercenaria senza scrupoli che avevo costruito nella coscienza collettiva della giuria. Con il passare del tempo Minton stava imparando, dovevo ammetterlo. Con lei doveva essere giunto alla conclusione che "meno è meglio". La portò a testimoniare senza troppe divagazioni. La fece iniziare con le informazioni personali e poi passò agli eventi del 6 marzo. La storia di Regina Campo era tristemente banale e Minton contava su questo. Raccontò la storia di una giovane donna attraente che una decina di anni prima era arrivata a Hollywood dall'Indiana piena di speranze di gloria nel mondo della celluloide. La carriera aveva avuto degli alti e bassi, qui e là un'apparizione in qualche spettacolo televisivo. Era un volto nuovo e gli uomini che le proponevano particine insignificanti in qualche produzione non mancavano. Quando smise di essere un volto nuovo, trovò lavoro in una serie di film per la tv via cavo dove spesso le veniva richiesto di spogliarsi. Integrava le entrate posando nuda come modella e scivolò inesorabilmente nel sistema di scambio sesso-favori. Con il tempo, il salto definitivo e lo scambio si trasformò in sesso-soldi. Per arrivare alla sera in cui incontrò Louis Roulet. La versione che diede in aula sugli avvenimenti di quella notte non fu diversa dai resoconti di tutti i testimoni precedenti. Quello che fu diverso fu il suo modo di parlare. Regina Campo, il volto incorniciato dai capelli ricci e scuri, sembrava una ragazzina smarrita. Nella seconda parte della deposizione si mostrò spaventata e quasi sul punto di scoppiare in lacrime.
Indicò l'imputato, che identificò come il suo aggressore, con il labbro inferiore e il dito che tremavano di paura. Roulet la fissava, privo di espressione. «È stato lui» disse alzando la voce. «È un animale che dovrebbe finire in prigione!» Non obiettai. Mi sarei rifatto presto. Minton proseguì l'interrogatorio, facendole ricostruire il modo in cui era riuscita a fuggire, poi le chiese perché non avesse detto subito la verità agli agenti sul fatto che l'uomo che l'aveva aggredita non era uno sconosciuto e sul motivo per cui si trovava lì. «Ero spaventata,» disse «se avessi detto perché si trovava in casa mia temevo che non mi avrebbero creduto. Volevo solo essere sicura che lo avrebbero arrestato perché avevo paura di lui.» «Adesso si pente di quelle omissioni?» «Sì, perché ora so che avendo agito in quel modo posso averlo aiutato a ottenere una sentenza favorevole che lo renderà libero di fare ad altre donne quello che ha fatto a me.» Obiettai che quella risposta era pregiudizievole e il giudice accolse l'obiezione. Minton le porse qualche altra domanda, ma era consapevole di aver superato l'apice della testimonianza e di doversi fermare prima che il ricordo di quel dito tremante che riconosceva nell'imputato il suo aggressore si offuscasse. L'interrogatorio di Regina Campo era durato poco meno di un'ora. Erano quasi le 11.30, ma il giudice non interruppe per il pranzo come mi sarei aspettato. Disse ai giurati che nel corso della giornata voleva raccogliere il maggior numero di testimonianze possibili e che quindi sarebbero andati a pranzo più tardi e la pausa sarebbe stata più breve. Mi domandai se sapesse qualcosa che io non sapevo. Forse i detective di Glendale l'avevano chiamata per avvertirla del mio arresto imminente? «Signor Haller, il testimone è suo» disse il giudice invitandomi ad accelerare le cose. Andai al leggio portandomi appresso il taccuino legale e consultai gli appunti. Se la strategia di difesa prevedeva mille rasoiate, su questo testimone dovevo usarne almeno la metà. Ero pronto. «Signora Campo, per citare in giudizio il signor Roulet circa i presunti avvenimenti del 6 marzo si è servita delle prestazioni di un avvocato?» Sembrò che si aspettasse la domanda, ma non che fosse la prima di una serie. «No, non l'ho fatto.»
«Ha parlato di questo processo con qualche avvocato?» «Non ho assunto nessun avvocato. In questo momento mi interessa solo vedere che giustizia sia...» «Signora Campo» la interruppi. «Non le ho chiesto se abbia assunto o meno un avvocato né a che cosa lei sia interessata. Le ho chiesto se ha parlato con un avvocato, qualsiasi avvocato, di questo processo e di una possibile azione legale contro il signor Roulet.» Mi scrutava per cercare di leggere cosa si nascondesse dietro le mie parole. Mi ero rivolto a lei in tono autoritario, come se sapessi qualcosa, come se avessi gli strumenti per ribaltare l'accusa. Era probabile che Minton l'avesse messa in guardia sull'aspetto più importante di una deposizione: non mentire per non restare intrappolati nelle proprie menzogne. «Sì, ho parlato con un avvocato. Non è stato niente di più di una chiacchierata. Non ho ingaggiato nessun avvocato.» «È stato il pubblico ministero a suggerirle di non farlo fino alla conclusione del processo penale?» «No, non mi ha detto niente del genere.» «Perché ha parlato di questo caso con un avvocato?» Ogni volta esitava prima di rispondere. La sua esitazione segnava un punto a vantaggio della difesa. Per architettare una bugia ci vuole tempo. Le risposte sincere vengono automaticamente. «Ho parlato con un avvocato per conoscere i miei diritti e sentirmi protetta.» «Gli ha chiesto se poteva citare il signor Roulet per danni?» «Credevo che quello che si dice al proprio avvocato fosse segreto.» «Può dire ai giurati di che cosa ha parlato con l'avvocato, se desidera farlo.» Il primo colpo di rasoio. L'avevo messa in una posizione di debolezza. Non avrebbe fatto bella figura, qualunque fosse la risposta. «Preferisco tenere il colloquio riservato» disse alla fine. «D'accordo, torniamo al 6 marzo, anche se vorrei risalire un po' più indietro del signor Minton. Torniamo al bancone del Morgan, quando ha parlato per la prima volta con l'imputato, il signor Roulet.» «D'accordo.» «Cosa faceva al Morgan quella sera?» «Avevo un appuntamento.» «Con Charles Talbot?» «Sì.»
«Lo doveva incontrare per una specie di valutazione, prima di portarlo a casa sua per avere rapporti sessuali con lui dietro compenso, è corretto?» Esitò, ma poi annuì. «La prego di rispondere verbalmente» le disse il giudice. «Sì.» «Si può definire quell'incontro preliminare una procedura di sicurezza?» «Sì.» «Una forma di sesso sicuro, giusto?» «Direi di sì.» «Deve trovare il modo di cautelarsi visto che nella sua professione lei ha rapporti sessuali con sconosciuti, è corretto?» «Sì, è corretto.» «Le persone che fanno il suo lavoro lo chiamano il freak test, il test "antimostro", non è vero?» «Io non l'ho mai chiamato così.» «Però è vero che prima di portarsi in casa un aspirante cliente, lo vuole incontrare in un luogo pubblico, come il Morgan, per conoscerlo e verificare che non sia pazzo o pericoloso. Non è così?» «Si può dire di sì. Ma la verità è che non si può mai essere sicuri di nessuno.» «Questo è vero. E così, mentre era al Morgan con il signor Talbot, ha notato il signor Roulet seduto al banco?» «Sì, era lì.» «E non lo aveva mai visto prima?» «Sì, lo avevo già visto lì e in qualche altro locale.» «Aveva mai parlato con lui?» «No, non avevamo mai parlato.» «Aveva mai notato che portava un orologio Rolex?» «No.» «Lo aveva mai visto arrivare o andare via da uno di questi locali su una Porsche o una Range Rover?» «No, non l'ho mai visto al volante.» «Però l'aveva già visto al Morgan e in altri locali simili.» «Sì.» «Ma non gli ha mai parlato.» «Esatto.» «Allora perché ha deciso di avvicinarlo?» «Sapevo che era nel giro, tutto qui.»
«Cosa intende con "nel giro"?» «Intendo che le altre volte in cui l'avevo visto avevo notato che era uno che ci stava. L'ho visto uscire con ragazze che fanno quello che faccio io.» «L'ha visto uscire con altre prostitute?» «Sì.» «Uscire per andare dove?» «Non lo so, uscire dal posto dove eravamo. Per andare in un albergo o in casa delle ragazze. Non so dove.» «E allora come fa a dire che se ne andavano dal locale? Magari uscivano fuori solo per fumarsi una sigaretta.» «Li avevo visti salire sull'auto di Roulet e andare via.» «Signora Campo, un attimo fa ha dichiarato di non aver mai visto il signor Roulet al volante. Ora afferma di averlo visto salire sulla sua macchina con una prostituta come lei. Qual è la verità?» Si rese conto del passo falso e per un attimo si bloccò. Poi le venne in mente una risposta. «L'ho visto salire su un'auto, ma non sapevo di che tipo fosse.» «Lei non fa caso a particolari del genere, è così?» «Non abitualmente.» «Conosce la differenza tra una Porsche e una Range Rover?» «Una è grande e l'altra è piccola, suppongo.» «Su che tipo di auto ha visto salire il signor Roulet?» «Non me lo ricordo.» Mi fermai un momento e decisi che avevo sfruttato a sufficienza le sue contraddizioni. Diedi un'occhiata alla lista delle domande e proseguii. «Le è capitato di rivedere le donne che ha visto uscire con il signor Roulet?» «Non capisco.» «Sono scomparse? Le ha più riviste?» «Sì, le ho riviste.» «Erano state picchiate o ferite?» «Non che io sappia, ma non gliel'ho chiesto.» «Comunque, alla luce di tutto ciò, lei si è sentita sicura al punto di avvicinarlo e adescarlo, è corretto?» «Non so se mi sentissi sicura. Sapevo solo che probabilmente era lì per cercare una ragazza e l'uomo con cui mi trovavo mi aveva già detto che avrebbe finito entro le dieci perché doveva andare al lavoro.» «Bene, può dire alla giuria come mai non ha sentito il bisogno di sedersi
con il signor Roulet, come ha fatto con il signor Talbot, per sottoporlo al freak test?» Regina Campo spostò lo sguardo verso Minton. Sperava che le venisse in aiuto, ma non accadde. «Pensai che era una persona conosciuta, tutto qui.» «Pensava che fosse fidato.» «Credo di sì. Non lo so. Avevo bisogno di soldi e con lui ho commesso un errore.» «Pensava che fosse ricco e che potesse risolvere le sue necessità finanziarie?» «No, niente del genere. L'ho visto come un potenziale cliente che non era nuovo a quelle esperienze. Uno che sapeva quello che stava facendo.» «Lei ha dichiarato che in precedenti occasioni aveva visto il signor Roulet con altre donne che svolgono la sua stessa professione?» «Sì.» «Prostitute.» «Sì.» «Le conosce?» «Superficialmente.» «Con queste donne le è capitato di usare la cortesia professionale di metterle in guardia da clienti che potrebbero essere pericolosi o restii a pagare?» «Qualche volta.» «E loro contraccambiano con la stessa cortesia professionale, giusto?» «Sì.» «Quante di loro l'hanno messa in guardia a proposito di Louis Roulet?» «Be', nessuna, altrimenti non sarei andata con lui.» Annuii e prima di continuare rilessi con attenzione i miei appunti. Quindi la portai a fornire sempre maggiori dettagli su quello che era successo al Morgan e a quel punto presentai il video registrato dalla telecamera sopra il banco. Minton obiettò che il filmato veniva mostrato alla giuria senza una motivazione fondata, ma l'obiezione fu respinta. Un televisore sistemato sopra un carrello industriale fu spinto di fronte alla giuria e il video fu fatto partire. Notai l'attenzione con cui i giurati lo guardavano e ne dedussi che erano affascinati dall'idea di guardare una prostituta al lavoro e di vedere i due protagonisti del processo in pieno relax. «Cosa diceva l'appunto che passò a Roulet?» chiesi dopo che il televisore venne spostato su un lato dell'aula.
«Credo di avergli scritto solo il mio nome e l'indirizzo.» «Non gli riportò il prezzo delle prestazioni che avrebbe svolto?» «Forse. Non lo ricordo.» «Qual è la tariffa corrente che applica?» «Di solito prendo quattrocento dollari.» «Di solito? Che cosa può renderla differente?» «Dipende dalle richieste del cliente.» Lanciai un'occhiata ai banchi della giuria e vidi che l'imbarazzo stava irrigidendo il volto dell'uomo della Bibbia. «Si dedica mai al bondage o a pratiche di dominazione con i suoi clienti?» «Qualche volta. Ma sono solo giochi di ruolo. Nessuno si fa mai del male. È soltanto una recita.» «Può affermare che prima della notte del 6 marzo nessun cliente le ha mai fatto del male?» «Sì, è così. Quell'uomo mi ha picchiata e ha cercato di uccider...» «La prego di rispondere solo alla mia domanda, signora Campo. Grazie. E ora torniamo al Morgan. Risponda sì o no. Nel momento in cui ha dato al signor Roulet il tovagliolino con sopra il suo indirizzo e il costo della prestazione, era sicura che non avrebbe rappresentato un pericolo e che disponesse di contante sufficiente per la cifra richiesta?» «Sì.» «Allora perché il signor Roulet non aveva denaro con sé quando la polizia l'ha perquisito?» «Non lo so. Io non l'ho preso.» «Sa chi l'ha fatto?» «No.» Mi fermai un attimo, preferivo enfatizzare il succedersi delle domande sottolineandole con il silenzio. «Lei oggi continua a lavorare come prostituta, è corretto?» chiesi. Regina Campo esitò prima di dire di sì. «Ed è felice di lavorare come prostituta?» chiesi. Minton si alzò. «Vostro onore, cos'ha a che fare questo con...» «Accolta» disse il giudice. «D'accordo» dissi. «Dunque signora Campo, è vero che lei ha detto a diversi suoi clienti che spera di lasciare l'attività?» «Sì, è vero» rispose senza esitazione per la prima volta dopo molte do-
mande. «E non è forse vero anche che lei ha visto i potenziali aspetti finanziari di questo processo come un mezzo per lasciare la sua attività?» «No, questo non è vero» disse con forza e senza esitazione. «Quell'uomo mi ha aggredita. Stava per uccidermi! È di questo che stiamo parlando!» Sottolineai qualcosa sul mio taccuino, un'altra pausa di silenzio. «Charles Talbot era un suo cliente abituale?» chiesi. «No, l'ho incontrato per la prima volta quella sera da Morgan.» «E ha passato il suo test di sicurezza.» «Sì.» «È stato Charles Talbot a colpirla al volto con un pugno la sera del 6 marzo?» «No, non è stato lui» rispose subito. «Ha offerto al signor Talbot di dividere con lei i guadagni che avrebbe ottenuto da un'azione legale contro il signor Roulet?» «No, non l'ho fatto. È una bugia!» Alzai lo sguardo verso il giudice. «Vostro onore, posso chiedere al mio cliente di alzarsi in piedi?» «Prego, signor Haller.» Feci cenno a Roulet di alzarsi al tavolo della difesa e lui obbedì. Guardai di nuovo Regina Campo. «Dunque, signora Campo, è sicura che questo sia l'uomo che l'ha colpita la notte del 6 marzo?» «Sì, è lui.» «Quanto pesa, signora Campo?» Si allontanò dal microfono come fosse offesa da quella che era una domanda un po' troppo intima, nonostante arrivasse dopo una sfilza di domande sulla sua vita sessuale. Mi accorsi che Roulet accennava a risedersi e gli feci segno di rimanere in piedi. «Non lo so per certo» disse lei. «Nel suo sito lei dichiara di pesare quarantotto chili» dissi. «È giusto?» «Credo di sì.» «Perciò se la giuria deve credere al suo racconto del 6 marzo, deve anche credere che lei sia stata in grado di sopraffare Roulet e di sfuggirgli.» Indicai Roulet, che era alto più di un metro e ottanta e pesava almeno trenta chili più di lei. «Be', così ho fatto.» «Sempre stando alla sua esposizione dei fatti lei ci è riuscita mentre lui
le puntava un coltello alla gola.» «La forza dell'istinto di sopravvivenza. Quando la vita è in pericolo si riescono a fare cose sorprendenti.» Usò l'ultima arma di difesa. Cominciò a piangere, come se la mia domanda avesse risvegliato in lei l'orrore di essere arrivata così vicina alla morte. «Può sedersi, signor Roulet. Non ho altre domande per la signora Campo per ora, vostro onore.» Mi sedetti accanto a Roulet. Sentivo che il controinterrogatorio era andato bene. Il mio lavoro di rasoio aveva aperto diverse ferite. La tesi dell'accusa stava sanguinando. Roulet si piegò da un lato e mi sussurrò una sola parola. «Fantastico!» Minton tornò per un secondo interrogatorio, ma era solo un moscerino che svolazzava intorno a una ferita aperta. Non tornò su nessuna delle risposte che la sua testimone principale aveva dato e non riuscì a cambiare certe immagini che avevo fissato nelle menti dei giurati. Concluse in una decina di minuti e io rinunciai a un secondo controinterrogatorio perché ritenevo che Minton durante il secondo intervento non avesse ottenuto granché e che quindi potessi lasciar perdere senza problemi. Il giudice chiese al pubblico ministero se avesse ulteriori testimoni e Minton disse che avrebbe voluto riflettere durante la pausa prima di decidere se considerare conclusa la presentazione delle prove dell'accusa. A una proposta del genere normalmente avrei obiettato perché avrei voluto sapere se alla ripresa avrei dovuto chiamare io un testimone a deporre. Tuttavia non lo feci. Ritenevo che Minton sentisse la pressione e stesse vacillando. Volevo spingerlo a una decisione e pensai che forse concedergli quella pausa gli sarebbe stato di aiuto. Il giudice congedò i giurati, accordando loro solo un'ora di interruzione invece degli abituali novanta minuti. Voleva mantenere fluida la situazione. Disse che la seduta era sospesa fino all'una e mezza e lasciò bruscamente lo scranno. Pensai che avesse bisogno di una sigaretta. Chiesi a Roulet se sua madre fosse in grado di raggiungerci per il pranzo così che potessi parlarle della sua testimonianza, visto che pensavo di chiamarla a deporre nel corso del pomeriggio o immediatamente dopo la pausa. Rispose che avrebbe fatto in modo di farla venire e suggerì di incontrarci in un ristorante francese su Ventura Boulevard. Gli risposi che avevamo meno di un'ora e che sua madre poteva raggiungerci al Four Green Fields. Non mi piaceva l'idea di portarli nel mio santuario, ma sapevo
che vi avremmo mangiato in fretta e saremmo tornati in tempo in tribunale. Probabilmente il cibo non era all'altezza del bistrot francese su Ventura Boulevard, ma di questo non mi preoccupavo. Quando mi alzai e voltai le spalle al tavolo della difesa, vidi che le file della galleria erano vuote. Tutti a mangiare. Solo Minton mi stava aspettando accanto alla ringhiera. «Posso parlarti un momento?» chiese. «Certo.» Aspettammo entrambi che Roulet passasse dal cancello e uscisse dall'aula prima di iniziare il colloquio. Sapevo cosa stava per succedere. Al primo intoppo l'accusa è solita ridimensionare i capi di imputazione. Minton sapeva di essere in difficoltà. Quella che avrebbe dovuto essere la testimone principale gli era valsa al massimo un pareggio. «Che succede?» chiesi. «Stavo pensando a quello che hai detto a proposito delle mille rasoiate.» «E?» «E... be', voglio farti un'offerta.» «Sei nuovo in questo campo, ragazzo. Non hai bisogno di qualche responsabile per approvare un patteggiamento?» «Ho una certa autonomia.» «D'accordo, allora, dammi quello che sei autorizzato a offrire.» «Scendo ad aggressione con lesioni personali aggravate.» «E...?» «Quattro anni.» L'offerta prevedeva una notevole riduzione ma Roulet, se avesse accettato, sarebbe stato comunque condannato a quattro anni di prigione. La concessione principale era di superare la definizione di reato a sfondo sessuale. All'uscita di prigione Roulet non sarebbe stato registrato dalle autorità locali come criminale sessuale. Lo guardai come se avesse appena insultato la memoria di mia madre. «Non vorrei che tu stessi esagerando, Ted, visto come ha retto l'interrogatorio il tuo asso nella manica. Hai visto il giurato che porta sempre con sé la Bibbia? Mentre lei stava testimoniando lui si comportava come se stesse infangando le sacre scritture.» Minton non rispose. Ero sicuro che non avesse neppure notato un giurato con una Bibbia. «Non lo so» dissi. «È mio dovere presentare la tua offerta al mio cliente e lo farò. Però gli dirò anche che sarebbe un pazzo ad accettarla.»
«D'accordo, allora cosa vuoi?» «In un caso come questo c'è un solo verdetto, Ted. Gli direi di andare fino in fondo. Credo che da adesso in poi tutto filerà liscio come l'olio. Buon appetito.» Lo lasciai accanto al cancello e mi aspettavo che a metà del corridoio centrale della galleria mi urlasse alle spalle una nuova offerta. Invece Minton mantenne il punto. «L'offerta è valida solo fino all'una e mezza, Haller» gridò alle mie spalle, con uno strano tono di voce. Alzai una mano e feci un cenno di saluto senza voltarmi. Mentre uscivo dalla porta dell'aula, fui certo di aver colto un timbro di disperazione nella sua voce. 35 Tornati in tribunale dopo il Four Green Fields ignorai di proposito Minton. Volevo tenerlo sulle spine il più a lungo possibile. Faceva parte del piano per spingere lui e il processo nella direzione che volevo. Quando fummo tutti seduti ai tavoli e pronti per l'ingresso del giudice, finalmente gli rivolsi lo sguardo. Aspettai di incontrare il suo, poi scossi semplicemente la testa. Niente da fare. Nessun patteggiamento. Lui annuì e fece del suo meglio per ostentare fiducia nella sua vittoria e turbamento per la decisione del mio cliente. Un minuto dopo il giudice prese il suo posto, fece entrare la giuria e Minton levò velocemente le tende. «Signor Minton, ha altri testimoni?» chiese il giudice. «Vostro onore, a questo punto l'accusa ha concluso.» Il giudice Fullbright replicò dopo un minimo di esitazione. Fissò Minton di più di quanto avrebbe dovuto. Era un modo per manifestare ai giurati la sua sorpresa. Poi guardò nella mia direzione. «Signor Haller, è pronto a procedere?» A questo punto la procedura abituale avrebbe previsto una richiesta al giudice di un verdetto guidato di assoluzione al termine della presentazione delle prove dell'accusa. Tuttavia non lo feci, temendo che fosse una delle rare occasioni in cui la richiesta aveva la possibilità di essere accolta. Non potevo ancora permettere che il processo terminasse. Dissi al giudice che ero pronto a procedere con la difesa. Il mio primo testimone era Mary Alice Windsor. Venne accompagnata in aula da Cecil Dobbs che poi sedette nella prima fila della galleria. La si-
gnora Windsor indossava un vestito blu cobalto con una camicetta di chiffon. Mentre passava di fronte al seggio del giudice e prendeva posto al banco dei testimoni aveva un portamento regale. Nessuno avrebbe immaginato che per pranzo avesse mangiato pasticcio di carne. Tagliai corto con i preliminari e stabilii il rapporto di parentela e di lavoro che la legava a Louis Roulet. Poi chiesi al giudice il permesso di mostrare alla testimone il coltello che l'accusa aveva inserito tra le prove del processo. Accordato il permesso, andai dal cancelliere del tribunale per recuperare l'arma, ancora avvolta in un sacchetto di plastica trasparente. Il coltello era piegato in modo che le iniziali sulla lama fossero visibili. Lo portai al banco dei testimoni e lo appoggiai di fronte alla teste. «Signora Windsor, riconosce questo coltello?» Lei sollevò il sacchetto e cercò di lisciare la plastica sulla lama per individuare le iniziali. «Sì» disse infine. «È il coltello di mio figlio.» «Come fa a riconoscere un coltello di proprietà di suo figlio?» «Perché me l'ha mostrato in più di un'occasione. Sapevo che lo portava sempre con sé e talvolta tornava utile in ufficio quando arrivavano i pacchi dei nostri opuscoli e avevamo bisogno di tagliare i nastri dell'imballaggio. Era molto affilato.» «Da quanto tempo aveva il coltello?» «Quattro anni.» «Sembra abbastanza sicura di questo.» «Lo sono.» «Come fa a essere così sicura?» «Perché quattro anni fa lo ha preso per proteggersi. Esattamente quasi quattro anni.» «Proteggersi da che cosa, signora Windsor?» «Nel nostro lavoro ci capita spesso di mostrare case a perfetti sconosciuti. A volte restiamo da soli in casa con queste persone. Si è verificato più di un incidente che ha visto agenti immobiliari derubati o feriti... o perfino uccisi o stuprati.» «Per quanto lei sappia, Louis è mai stato vittima di un crimine simile?» «Non personalmente, no. Però conosceva una persona che è entrata in una casa e...» «Cosa le è accaduto?» «Venne violentata e rapinata da un uomo con un coltello. Fu Louis a trovarla dopo che tutto ebbe fine. La prima cosa che fece dopo quell'episo-
dio fu di andare a comprarsi un coltello per proteggersi.» «Perché un coltello? Perché non una pistola?» «Mi disse che in un primo momento aveva intenzione di prendere una pistola, ma voleva qualcosa da poter avere sempre con sé e che non fosse visibile. Così si procurò un coltello e ne prese uno anche per me. Ecco perché so con precisione che è accaduto quasi quattro anni fa.» Tenne sollevato il sacchetto che conteneva il coltello. «Il mio è esattamente identico, solo le iniziali sono diverse. Da allora entrambi lo portiamo sempre con noi.» «Perciò secondo lei il fatto che suo figlio la notte del 6 marzo avesse quel coltello con sé era un fatto del tutto abituale per lui?» Minton sollevò obiezione, accolta dal giudice, e sostenne che non avevo raccolto motivazioni sufficienti perché la signora Windsor potesse rispondere a quella domanda. Mary Windsor, inesperta di diritto penale, interpretò che il giudice le stesse concedendo di rispondere. «Lo portava con sé tutti i giorni» disse. «Il 6 marzo non sarebbe stato div...» «Signora Windsor» tuonò il giudice. «Ho accolto l'obiezione. Questo significa che lei non deve rispondere. La giuria non terrà conto della sua risposta.» «Mi dispiace» disse Mary Windsor con un filo di voce. «La prossima domanda, signor Haller» ordinò il giudice. «È tutto, vostro onore. La ringrazio, signora Windsor.» Mary Windsor fece per alzarsi, ma il giudice la richiamò nuovamente, dicendole di restare seduta. Tornai al mio posto mentre Minton si alzava dal suo. Scrutai la galleria e non vidi alcun volto conosciuto eccetto quello di C.C. Dobbs, che mi fece un sorriso di incoraggiamento. Lo ignorai. La deposizione di Mary Windsor era stata perfettamente coerente con la coreografia che avevamo elaborato a pranzo. Aveva fornito alla giuria la spiegazione a proposito del coltello in maniera stringata e chiara e aveva lasciato a Minton un terreno minato da attraversare. La deposizione della signora Windsor non aggiungeva nulla a quanto avevo già detto io al pm durante uno degli incontri di scambio degli elementi probatori. Se avesse cercato di deviare rispetto al percorso tracciato, presto avrebbe avvertito il click mortale sotto ai suoi piedi. «Quando ebbe luogo esattamente l'incidente che fornì a suo figlio l'ispirazione per prendere l'abitudine di portarsi in giro un coltello pieghevole da dodici centimetri?»
«Accadde il 9 giugno 2001.» «È sicura?» «Assolutamente.» Mi girai sulla sedia per riuscire a cogliere meglio l'espressione di Minton e interpretare il suo pensiero. Credeva di avere acquisito un elemento positivo a sostegno della tesi dell'accusa. Il fatto che la signora Windsor avesse ricordato la data esatta era segno evidente di testimonianza concordata. Era eccitato. Si capiva. «Fu data notizia sulla stampa di questa presunta aggressione a una collega agente immobiliare?» «No.» «Ci fu un'indagine della polizia?» «No.» «Eppure lei ricorda la data esatta. Come mai, signora Windsor? Le è stata suggerita da qualcuno prima della sua deposizione?» «No, la ricordo perché non dimenticherò mai il giorno in cui venni aggredita.» Si fermò un attimo. Vidi almeno tre dei giurati spalancare la bocca senza fiatare. Minton fece lo stesso. Mi parve di sentire il click. «E neppure mio figlio lo dimenticherà mai» proseguì la Windsor. «Quando mi venne a cercare mi trovò in quella casa, legata, nuda e insanguinata. Avermi visto in quello stato fu un trauma per lui. Credo sia stata una delle ragioni che lo hanno spinto ad armarsi di un coltello. Penso si sia pentito di non aver deciso prima di portarselo appresso, forse avrebbe potuto impedire quello che è successo.» «Capisco» disse Minton, abbassando lo sguardo sui suoi appunti. Si irrigidì, incerto se procedere. Non osava sollevare il piede per paura che la mina esplodesse. «Signor Minton, nient'altro?» chiese il giudice, senza mascherare una nota di sarcasmo nella voce. «Un momento, vostro onore» disse Minton. Minton si ricompose, riguardò gli appunti e cercò di recuperare. «Signora Windsor, lei o suo figlio, dopo che lui la ritrovò ferita, avete chiamato la polizia?» «No, non l'abbiamo fatto. Louis avrebbe voluto, ma io no. Pensavo che sarebbe servito solo ad acuire il suo trauma.» «Perciò di questo crimine non esiste alcuna documentazione ufficiale della polizia, è così?»
«Sì.» Sapevo che Minton avrebbe voluto tirarla avanti e chiederle se fosse ricorsa a cure mediche dopo l'aggressione. Tuttavia intuì che poteva cadere in un'altra trappola e non fece la domanda. «Quindi a questo punto abbiamo solo la sua parola che l'aggressione sia avvenuta. La sua parola e quella di suo figlio, se sceglierà di testimoniare.» «Quell'increscioso episodio è accaduto, purtroppo. Convivo con il ricordo ogni giorno della mia vita.» «Ma abbiamo solo la sua deposizione.» La donna guardò il pubblico ministero con occhi inespressivi. «È una domanda?» «Signora Windsor, lei è qui per aiutare suo figlio, è vero?» «Se posso. So che è un bravo ragazzo e che non avrebbe mai commesso lo spregevole crimine di cui è accusato.» «Lei sarebbe disposta a qualunque cosa in suo potere per salvare suo figlio dalla condanna e dal rischio di finire in prigione, non è così?» «Sì, ma non mentirei mai su una cosa del genere. Giuramento o non giuramento, non mentirei.» «Tuttavia lei vuole salvare suo figlio, non è così?» «Sì.» «E salvarlo significa mentire per lui?» «No, non è così.» «La ringrazio, signora Windsor.» Minton tornò rapidamente al suo posto. Io avevo una sola domanda per il controinterrogatorio. «Signora Windsor, quanti anni aveva quando ebbe luogo questa aggressione?» «Avevo cinquantaquattro anni.» Mi risedetti. Minton non aveva altro da chiedere e la signora Windsor venne congedata. Ora che aveva deposto chiesi al giudice di permetterle di sedersi in galleria per il resto del processo. Minton non si oppose e la richiesta venne esaudita. Il mio testimone successivo era un detective del Dipartimento di Polizia di Los Angeles di nome David Lambkin, un esperto a livello nazionale di crimini sessuali che aveva partecipato alle indagini sul violentatore delle agenti immobiliari. Con un breve interrogatorio inquadrai i fatti di questo caso e dei cinque casi di denuncia di stupro sui quali furono fatte indagini. Giunsi rapidamente alle cinque domande chiave che mi servivano per so-
stenere la deposizione di Mary Windsor. «Detective Lambkin che età avevano le vittime del violentatore?» «Erano tutte professioniste di successo. Erano mediamente più anziane di una comune vittima di stupro. Credo che la più giovane avesse ventinove anni e la più anziana cinquantanove.» «Perciò una donna che aveva cinquantaquattro anni sarebbe rientrata nel profilo delle vittime del violentatore, è corretto?» «Sì.» «Può dire alla giuria quando hanno avuto luogo la prima e l'ultima aggressione denunciate?» «Sì. La prima il 1° ottobre 2000 e l'ultima il 30 luglio 2001.» «Perciò il 9 giugno 2001 rientrava nell'arco di tempo delle aggressioni di questo stupratore ai danni di donne che lavoravano nelle agenzie immobiliari, è corretto?» «Sì, è corretto.» «Nel corso della sua indagine su questo caso, è giunto alla conclusione o alla convinzione che vennero commessi più di cinque stupri da questo individuo?» Minton obiettò, dicendo che la domanda era tendenziosa. Il giudice accolse l'obiezione, ma la risposta non era fondamentale. Ciò che importava era aver formulato quella domanda e il fatto che la giuria vedesse che il pubblico ministero impediva loro di sentire la risposta era un punto a mio favore. Nel controinterrogatorio Minton mi sorprese. Recuperò dei punti rispetto a quelli persi per il passo falso con la signora Windsor e attaccò Lambkin con tre eccellenti domande ottenendo risposte favorevoli all'accusa. «Detective Lambkin, la task force che indagava su questi stupri mise in qualche modo in allarme le donne che lavoravano nelle agenzie immobiliari?» «Sì. Per due volte facemmo circolare dei volantini. Il primo era rivolto a tutte le agenzie immobiliari della zona e quello successivo fu spedito per posta ai nominativi di tutti gli agenti immobiliari autorizzati, maschi e femmine.» «Questi volantini spediti per posta contenevano la descrizione dello stupratore e informazioni sui suoi metodi?» «Sì.» «Perciò se qualcuno avesse voluto inventare una storia sul fatto di essere stato aggredito da questo stupratore, i volantini avrebbero fornito tutte le
informazioni necessarie, è corretto?» «È possibile, sì.» «Nient'altro, vostro onore.» Minton si sedette compiaciuto e Lambkin venne congedato perché io non avevo altre domande. Chiesi al giudice qualche minuto per conferire con il mio cliente e mi chinai vicino a Roulet. «Questo è tutto» dissi. «Tu sei quello che ci resta. A meno che non ci sia qualcosa che non mi hai detto, tu sei innocente, e non c'è molto che Minton possa farti dire. Se non gli permetti di confonderti non dovresti trovare difficoltà durante l'interrogatorio. Ti senti ancora sicuro di te?» Roulet aveva sempre detto che avrebbe testimoniato e negato le accuse. Lo aveva ripetuto a pranzo. Esigeva di farlo. Lasciar deporre un cliente era rischioso e aveva conseguenze ambivalenti. Ogni cosa che diceva poteva rivoltarsi contro di lui se l'accusa riusciva a girarla a proprio favore. Tuttavia sapevo che alla giuria piaceva ascoltare la dichiarazione di innocenza dell'imputato, per quanto fosse avvertita che non parlare era un suo diritto. La giuria può serbare rancore se privata di questo piacere. «Voglio testimoniare» rispose Roulet con un sussurro. «Con quel pm me la caverò.» Spinsi indietro la sedia per alzarmi. «Vostro onore, la difesa chiama a deporre Louis Ross Roulet.» 36 Louis Roulet si diresse verso il banco dei testimoni a passo spedito, come un giocatore di basket che si alza dalla panchina e va al tavolo del segnapunti per entrare in partita. Si dimostrava ansioso di cogliere l'opportunità di difendersi. Sapeva che la giuria non sarebbe stata insensibile a questa solerzia. Terminati i preliminari, andai dritto alla materia del processo. Roulet ammise apertamente che la sera del 6 marzo era andato al Morgan in cerca di compagnia femminile. Disse che non era alla ricerca delle prestazioni di una prostituta in particolare ma che era disponibile a verificare le possibilità che avrebbe incontrato. «Ero stato altre volte con delle prostitute» disse. «Perciò ero disponibile a incontrarne.» Dichiarò che prima che Regina Campo lo avvicinasse al banco del bar, non aveva cercato di farsi notare da lei, ma che fu lei a puntarlo con lo
sguardo, anche se all'inizio non ci aveva fatto caso. Il modo in cui lei lo adescò poteva essere soggetto a diverse interpretazioni. Lei gli disse che sarebbe stata libera dopo le dieci e che se lui non aveva altri impegni poteva fare un salto a casa sua. Roulet raccontò che durante l'ora successiva, sia al Morgan sia al Lamplighter, provò a trovare la compagnia di una donna che non richiedesse di essere pagata, ma non ebbe successo. Quindi si recò in auto all'indirizzo che gli aveva dato Regina Campo e bussò alla porta. «Chi rispose?» «Lei. Aprì uno spiraglio e mi guardò da dentro.» «Si trattava di Regina Campo? La donna che ha testimoniato qui questa mattina?» «Sì, lei.» «Riuscì a vedere il suo volto per intero dall'apertura della porta?» «No. Socchiuse soltanto la porta e non riuscii a vederla. Intravidi solo l'occhio sinistro e una piccola parte dello stesso lato del viso.» «Da che lato si aprì la porta? Era a destra o a sinistra lo spiraglio attraverso il quale la intravide?» «Se penso a come ero messo io rispetto alla porta direi che l'apertura fosse sulla destra.» «Cerchiamo di chiarire questo punto. L'apertura era sulla destra, è esatto?» «È esatto.» «Perciò se la donna era in piedi dietro la porta e guardava attraverso l'apertura, avrebbe dovuto guardarla con l'occhio sinistro.» «Esatto.» «Le ha visto l'occhio destro?» «No.» «Dunque non si sarebbe accorto se la donna avesse già un livido o un taglio o qualsiasi altra ferita sul lato destro del volto?» «No.» «D'accordo. Dopo cosa accadde?» «Lei mi riconobbe e mi disse di entrare. Aprì maggiormente la porta, ma rimase comunque in buona parte dietro di essa.» «Non riuscì a vederla?» «Non del tutto. Usava il bordo della porta come una sorta di blocco.» «Cosa accadde dopo?» «Mi ritrovai in una specie di zona d'ingresso, un'anticamera, e lei indicò
un passaggio ad arco che portava in soggiorno. Io andai nella direzione che mi indicò.» «Ciò significa che la signora era dietro di lei?» «Sì, quando mi diressi verso il soggiorno era dietro di me.» «Chiuse la porta?» «Credo di sì. La sentii richiuderla.» «E a quel punto?» «Qualcosa mi colpì sulla nuca e caddi. Persi i sensi.» «Sa per quanto tempo rimase svenuto?» «No. Credo a lungo, ma nessuno me l'ha detto, né gli agenti né altri.» «Cosa ricorda di quando riprese conoscenza?» «Ricordo di avere avuto difficoltà a respirare e quando aprii gli occhi mi sono ritrovato un uomo che mi schiacciava a terra. Ero supino e lui mi era seduto sopra. Cercai di muovermi e a quel punto mi accorsi che sulle gambe stava seduto qualcun altro.» «Poi cosa è successo?» «Facevano a turno a dirmi di non muovermi e uno di loro mi disse che avevano preso il mio coltello e se avessi cercato di muovermi o di scappare l'avrebbero usato contro di me.» «Arrivò il momento in cui giunse la polizia e lei venne arrestato?» «Sì, qualche minuto dopo arrivò la polizia. Mi misero le manette e mi fecero alzare. Mi accorsi che avevo del sangue sulla giacca.» «E la sua mano?» «Non potevo vederla perché ero ammanettato dietro la schiena. Però sentii uno degli uomini che mi stavano seduti addosso dire al poliziotto che avevo la mano insanguinata e l'agente vi mise un sacchetto sopra. Me ne accorsi.» «Come c'era finito del sangue sulla sua mano e sulla sua giacca?» «Tutto quello che so è che deve avercelo messo qualcuno perché io non ho commesso alcun reato.» «Lei è mancino?» «No.» «È stato lei a colpire con un pugno sinistro la signora Campo?» «No, non sono stato io.» «Ha minacciato di stuprarla?» «No.» «Le ha detto che se non fosse stata accondiscendente l'avrebbe uccisa?» «No, non le ho mai detto niente del genere.»
Speravo che perdesse il controllo come aveva fatto nell'ufficio di C.C. Dobbs il primo giorno, ma Roulet manteneva la calma. Decisi che prima di concludere il suo interrogatorio dovevo lievemente calcare la mano per fargli tornare un po' di quella rabbia. A pranzo gli avevo detto che doveva mostrarla e non capivo perché la stesse nascondendo. «Essere stato accusato dell'aggressione alla signora Campo la rende furioso?» «Sì.» «Perché?» Aprì la bocca, ma non parlò. Sembrò che la domanda lo avesse offeso. Alla fine rispose. «Cosa significa perché? Lei è mai stato accusato di qualcosa che non ha commesso senza poter fare altro che aspettare? Per settimane e mesi aspettare e basta, finché finalmente arriva l'occasione di presentarti in tribunale e dire che sei stato fregato. Ma a quel punto sei costretto ad aspettare ancora, mentre il pubblico ministero mette in scena un gruppo di bugiardi e tu sei costretto ad ascoltare le loro bugie e aspettare la tua occasione. Sopportare tutto questo farebbe infuriare chiunque. Io sono innocente! Io non ho commesso questo crimine!» Era stato perfetto. Era stato chiaro. La voce di chiunque fosse mai stato accusato ingiustamente di qualcosa. Avevo altro da chiedergli, ma ricordai a me stesso la regola: toccata e fuga. Meno è meglio. Mi sedetti. Se mi fossi accorto di aver dimenticato qualcosa sarei stato ancora in tempo a rimediare nel controinterrogatorio. Guardai il giudice. «Nient'altro, vostro onore.» Prima ancora che io raggiungessi il mio posto Minton si alzò. Senza allontanare da Roulet il suo sguardo d'acciaio si avvicinò al leggio. Voleva dimostrare alla giuria quello che pensava di lui. I suoi occhi erano come laser che proiettavano il loro fascio di luce in giro per l'aula. Afferrò i lati del leggio con tale forza da far sbiancare le nocche delle dita. Un'esibizione a beneficio della giuria. «Lei nega di aver toccato la signora Campo» disse. «È esatto» ribatté Roulet. «Secondo lei quella notte la signora si è presa a pugni da sola o ha fatto partecipare alla truffa che aveva architettato un uomo che non aveva mai visto chiedendogli di prenderla a pugni, è andata così?» «Io non so chi sia stato. Tutto quello che so è che non sono stato io.»
«Però lei sta dicendo che questa donna, Regina Campo, mente. Oggi è venuta in quest'aula e ha mentito in toto al giudice, alla giuria e al resto del mondo.» Minton diede enfasi alla frase scuotendo la testa disgustato. «Tutto quello che so è che non sono stato io a fare le cose che lei mi attribuisce. L'unica spiegazione è che uno di noi sta mentendo. E non sono io.» «Non crede che deciderlo sia compito della giuria?» «Sì.» «Mi parli del coltello che avrebbe preso per difendersi. Lei sta cercando di convincere questa giuria che la vittima di questo processo era a conoscenza del fatto che lei aveva un coltello e che l'ha usato per mettere in atto il suo stratagemma?» «Io non so di cosa fosse a conoscenza. Non le avevo mai fatto vedere il coltello né l'ho mai mostrato in un locale pubblico. Perciò non vedo come potesse sapere che lo avevo. Credo che abbia trovato il coltello infilandomi le mani in tasca in cerca dei soldi. Tengo sempre coltello e soldi nella stessa tasca.» «E così adesso afferma che le ha rubato anche i soldi di tasca. Quando la finirà, signor Roulet?» «Avevo con me quattrocento dollari. Al momento del mio arresto erano spariti. Qualcuno li ha presi.» Invece di tentare di ottenere qualcosa da Roulet sulla questione soldi, Minton fu abbastanza saggio da capire che comunque avesse affrontato il discorso, al massimo sarebbe arrivato al punto di rottura. Nel caso avesse cercato di costruire la tesi che Roulet non aveva portato i soldi con sé perché invece di pagarla aveva in mente di aggredirla e stuprarla, Minton sapeva che avrei tirato fuori la dichiarazione dei redditi di Roulet, elemento sufficiente per dubitare seriamente che non potesse permettersi di pagare una prostituta. Gli avvocati di solito definivano la piega che poteva prendere una testimonianza in casi del genere un «groviglio bastardo» e lui ne stava alla larga. Si preparò a concludere. Con un gesto teatrale Minton sollevò la fotografia del volto ferito e contuso di Regina Campo. «E così Regina Campo sarebbe una bugiarda» disse. «Sì.» «Si è fatta picchiare così o magari si è ridotta così da sola.» «Non so chi lo abbia fatto.»
«Ma non lei.» «No, non sono stato io. Non farei mai una cosa del genere a una donna. Non farei mai del male a una donna.» Roulet indicò la foto che Minton continuava a tenere sollevata. «Nessuna donna lo merita» disse. Mi sporsi in avanti e aspettai. Roulet aveva appena pronunciato la frase che gli avevo detto di trovare il modo di infilare in una delle risposte. Nessuna donna lo merita. Adesso stava a Minton abboccare all'amo. Era intelligente. Doveva capire che Roulet gli aveva appena aperto una porta. «Che cosa intende con merita? Crede che i reati violenti si riducano alla questione se la vittima merita o meno quello che le tocca?» «No, intendevo dire che non avrebbe dovuto essere picchiata in quel modo qualunque cosa facesse per vivere. Nessuno può meritarlo.» Minton abbassò il braccio con cui teneva la foto. La guardò lui stesso per un istante e poi alzò di nuovo lo sguardo su Roulet. «Signor Roulet, non ho altro da chiederle.» 37 Continuavo ad avere la sensazione di essere in vantaggio nella lotta a rasoiate. Avevo fatto del mio meglio per manovrare Minton in modo che gli restasse un'unica possibilità. Adesso era arrivato il momento di verificare se quello che avevo fatto era stato sufficiente. Lasciai che il giovane pubblico ministero riprendesse posto e scelsi di non fare altre domande al mio cliente. Aveva retto bene l'attacco di Minton e sentivo il vento soffiare dalla nostra parte. Mi alzai e mi voltai a guardare l'orologio sulla parete dell'aula, in fondo in alto. Erano solo le tre e mezza. Mi volsi di nuovo verso il giudice. «La difesa ha finito, vostro onore.» Annuì anche lei e guardò l'orologio alle mie spalle. Invitò la giuria a cominciare la pausa di metà pomeriggio. Quando i giurati furono usciti dall'aula, guardò il tavolo dell'accusa dove Minton stava scrivendo a testa bassa. «Signor Minton?» Il pubblico ministero alzò lo sguardo. «L'udienza è ancora in corso. Mi stia a sentire. L'accusa ha qualcosa da replicare?» Minton si alzò.
«Vostro onore, vorrei chiedere se l'udienza di oggi può essere aggiornata in modo che l'accusa abbia il tempo di prendere in considerazione altri testi a carico.» «Signor Minton, abbiamo ancora almeno novanta minuti a disposizione. Le ho detto che volevo che oggi fosse una giornata produttiva. Dove sono i suoi testi?» «Onestamente, vostro onore, non mi aspettavo che la difesa terminasse dopo soli tre testimoni e io...» «Nella requisitoria iniziale la difesa l'aveva ampiamente avvertita.» «Sì, tuttavia il processo si è svolto più rapidamente di quanto avessi previsto. Siamo in anticipo di mezza giornata. Chiederei l'indulgenza della corte. Portare in tribunale i testimoni a cui penso prima delle sei di stasera mi metterebbe in seria difficoltà.» Mi voltai e guardai Roulet, che era tornato a sedersi accanto a me. Gli feci un cenno con il capo e gli strizzai l'occhio sinistro senza farmi vedere dal giudice. Sembrava che Minton avesse abboccato all'amo, ora dovevo solo assicurarmi che il giudice non glielo facesse sputare. Mi alzai. «La difesa non ha obiezioni per quanto riguarda la proroga, vostro onore. Potremmo utilizzare il tempo restante per preparare le argomentazioni conclusive e le istruzioni per la giuria.» Il giudice, aggrottando lo sguardo con aria perplessa, si rivolse prima a me. Succedeva di rado che la difesa non si opponesse all'accusa, quando questa faceva rallentare il processo. Il seme che avevo piantato iniziava a fiorire. «La sua idea potrebbe non essere sbagliata, signor Haller. Se oggi ci aggiorniamo, esigo però che domani si arrivi alle dichiarazioni di chiusura subito dopo la replica. Non ammetto nessun ulteriore ritardo oltre le istruzioni alla giuria. È chiaro, signor Minton?» «Sì, vostro onore, sarò pronto.» «Signor Haller?» «Era la mia idea, giudice. Sarò pronto.» «Molto bene, allora. Abbiamo un accordo. Appena torneranno i giurati li congederò per la giornata. Oggi si eviteranno il traffico del rientro e domani le cose scorreranno così lisce e veloci che entro l'udienza pomeridiana arriveremo alla sentenza.» Guardò prima Minton e poi me, come se ci sfidasse a contraddirla. Quando vide che non lo facevamo, si alzò e lasciò lo scranno, probabilmente per andare a fumare.
Venti minuti dopo i giurati erano diretti verso casa e io stavo raccogliendo le mie cose al tavolo della difesa. Minton mi si avvicinò e disse: «Posso parlarti?». Guardai Roulet e gli dissi che poteva andare con sua madre e Dobbs e che l'avrei chiamato se avessi avuto bisogno di lui. «Ma anch'io ti voglio parlare» disse. «Di cosa?» «Di tutto. Come ti pare che me la sia cavata?» «Ti sei comportato bene e tutto procede per il meglio. Mi sembra che siamo in ottima forma.» Poi indicai il tavolo dell'accusa dove nel frattempo era tornato Minton e abbassai la voce fino a un sussurro. «Ne è consapevole anche lui. Sta per fare un'altra offerta.» «È meglio che rimanga nei paraggi per sentire di cosa si tratta?» Scossi la testa. «No, non importa cosa propone. C'è un solo verdetto possibile, giusto?» «Giusto.» Quando si alzò mi diede una pacca sulla spalla e dovetti sforzarmi per non sfuggire al contatto. «Non mi toccare, Louis» dissi. «Se vuoi fare qualcosa per me, restituiscimi quella cazzo di pistola.» Non rispose. Si limitò a sorridere e si avviò verso il cancello. Dopo che se ne fu andato mi voltai verso Minton. Adesso nei suoi occhi si leggeva la disperazione. In questo processo gli serviva una condanna, qualsiasi tipo di condanna. «Che cosa c'è?» «Ho un'altra offerta da farti.» «Ti ascolto.» «Ridimensiono ancora i capi d'accusa. Li riduco ad aggressione semplice. Sei mesi da scontare in un carcere della contea, che è facile diventino sessanta giorni effettivi, visto quanta gente fanno uscire ogni mese per creare nuovi posti.» Annuii. Stava parlando del mandato federale per combattere il sovraffollamento del sistema carcerario della contea. Le sentenze spesso venivano drasticamente ridotte per necessità, a prescindere dalle decisioni del tribunale. La sua offerta era buona, ma non lasciai trapelare niente. Sapevo che l'offerta doveva essere arrivata dal secondo piano. Minton non aveva l'autorità per decidere di abbattere così drasticamente la richiesta di pena.
«Se accetta, nella causa civile lei lo ridurrà sul lastrico» dissi. «Dubito che lo farà.» «Questa è un'ottima offerta» disse Minton. Nella sua voce c'era un pizzico di indignazione. Immaginai che l'osservatore non avesse dato buoni voti al lavoro di Minton e che gli avessero ordinato di concludere il processo con una ammissione di colpevolezza. Gli dovevano aver detto: spreca pure il tempo del processo, del giudice e della giuria, ma porta a casa il risultato. All'ufficio di Van Nuys non piaceva perdere i processi ed erano passati solo due mesi dal fiasco di Robert Blake. Quando le cose si mettevano male per loro, cercavano di chiudere in qualsiasi modo. Minton era autorizzato a ridimensionare i capi d'accusa quanto gli serviva pur di ottenere la vittoria. Roulet doveva finire in galera, anche fosse stato solo per sessanta giorni effettivi. «Dal tuo punto di vista è probabile che sia un'ottima offerta. Ma prevede che dovrei convincere un cliente a confessare qualcosa che dice di non aver fatto. E per di più la legge lascia aperta la porta alla responsabilità civile. Così, mentre lui se ne sta in galera a cercare di proteggersi il buco del culo per sessanta giorni, Reggie Campo e il suo avvocato rimangono qui a mandarlo in rovina. Mi spiego? Se guardi la tua offerta dalla sua prospettiva non è poi così buona. Dovessi scegliere io, lascerei finire il processo. Credo che vinceremo. So che il tizio della Bibbia è dalla nostra parte, perciò come minimo un punto d'appoggio lo abbiamo. Ma chi sa, magari li abbiamo tutti e dodici.» Minton sbatté con violenza le mani sul tavolo. «Si può sapere di cosa cazzo stai parlando? Lo sai che è stato lui, Haller. E sei mesi, ancor meglio sessanta giorni, per quello che ha fatto a quella donna sono uno scherzo. Perderò il sonno per questa cazzo di farsa, ma chi ci ha seguiti è convinto che la giuria sia in mano tua, perciò devo farlo.» Con uno scatto richiusi la valigetta e mi alzai. «Allora spero che tu abbia preparato qualcosa di buono per l'arringa finale, Ted. Sappi che stiamo per soddisfare il tuo desiderio di arrivare a un verdetto della giuria. E devo dirtelo, amico, hai sempre più l'aspetto di chi è arrivato nudo a una lotta a rasoiate. Faresti meglio a toglierti le mani dalle palle e cominciare a combattere.» Mi diressi verso il cancello. A metà strada mi fermai e guardai di nuovo verso di lui. «La sai una cosa, Ted? Se perdi il sonno per questo o per qualsiasi altro processo, è meglio che lasci perdere questo lavoro e vai a fare dell'altro.
Perché altrimenti non ce la puoi fare.» Minton era seduto al suo tavolo, lo sguardo fisso verso lo scranno vuoto. Non mostrò di aver capito quello che avevo detto. Lo lasciai lì a riflettere. Pensai di aver agito per il meglio. L'indomani mattina ne avrei avuto la conferma. Ritornai al Four Green Fields a lavorare alla mia arringa di chiusura. Non avrei avuto bisogno delle due ore che ci aveva concesso il giudice. Ordinai una Guinness al banco e la portai a un tavolo per starmene seduto tranquillo. Il servizio ai tavoli ricominciava dopo le sei. Delineai alcuni punti fondamentali, ma sapevo che in gran parte avrei reagito d'istinto all'arringa dell'accusa. Nelle istanze preliminari al processo, Minton aveva chiesto di servirsi di una relazione in PowerPoint per spiegare il caso alla giuria e il giudice Fullbright gli aveva già concesso il permesso. Tra i giovani pm era diventato di gran moda issare lo schermo e proiettarvi grafici al computer, come se non ci si fidasse che i giurati fossero in grado di pensare e di fare i collegamenti con la loro testa. Ultimamente era diventato indispensabile fornire loro le imbeccate come in tv. Accadeva di rado che i miei clienti avessero i soldi per pagare le mie parcelle, figuriamoci le relazioni in PowerPoint. Roulet rappresentava un'eccezione. Tramite sua madre, se avesse voluto, avrebbe potuto permettersi di assumere Francis Ford Coppola per predisporre un PowerPoint. Ma io non avevo neppure sollevato l'argomento. Appartenevo rigorosamente alla vecchia scuola. Mi piaceva salire da solo sul ring. Minton sul grande schermo blu poteva proiettare quello che gli pareva. Quando era il mio turno volevo che la giuria guardasse solo me. Se non fossi stato capace di convincerli io, non vedo come avrebbe potuto riuscirci un computer. Alle 17.30 chiamai Maggie McPherson nel suo ufficio. «È ora di uscire» dissi. «Forse per gli avvocati difensori famosi. Noi pubblici funzionari dobbiamo lavorare fino a dopo il tramonto.» «Prenditi una pausa e raggiungimi per una Guinness e del pasticcio di carne, poi puoi tornare al lavoro e finire.» «No, Haller. Non posso. E poi so dove vuoi arrivare.» Risi. Non c'era occasione in cui non pensasse di sapere quello che volevo. La maggior parte delle volte aveva ragione, ma non questa. «Davvero? Che cosa voglio?» «Vuoi cercare di nuovo di corrompermi e scoprire cos'ha in mente Min-
ton.» «Impossibile, Mags. Minton è un libro aperto. L'osservatore di Smithson gli sta appioppando brutti voti. Perciò Smithson gli ha detto di levare le tende, ottenere qualcosa e andarsene. Minton però sta lavorando alla sua piccola relazione in PowerPoint e vuole rischiare, fare di tutto per vincere. Inoltre è offeso nel profondo, perciò non gli piace l'idea di dover ridimensionare le accuse.» «Neppure a me. Smithson ha sempre paura di perdere, specie dopo Blake. Vuole sempre svendere. Non ci si può comportare così.» «Ho sempre pensato che abbiano perso il processo Blake nel momento in cui ti hanno scartata. Devi dirglielo, Maggie.» «Se ne avrò l'occasione.» «Un giorno l'avrai.» Non le piaceva soffermarsi sulla sua carriera in stallo. Passò ad altro. «Allora, mi sembri allegro» disse. «Ieri eri sospettato di omicidio. Oggi tieni al guinzaglio la procura distrettuale. Cos'è cambiato?» «Niente. Credo sia solo la quiete prima della tempesta. Senti, lascia che ti chieda una cosa. Tu hai mai chiesto di accelerare un'indagine balistica?» «Che tipo di indagine balistica?» «Confrontare rivestimento con rivestimento, pallottola con pallottola.» «Dipende da chi la deve fare, intendo dire quale dipartimento. Però se gli si mette fretta davvero, possono dartela in ventiquattr'ore.» Il terrore mi stringeva lo stomaco. Sapevo di avere poco tempo. «Di solito ci vuole di più» proseguì. «Di solito ci vogliono due o tre giorni anche se è urgente. E se si vuole il servizio completo, comparazione dei rivestimenti e delle pallottole, potrebbe volerci più tempo perché la pallottola potrebbe essere danneggiata e difficile da esaminare. Devono lavorarci su.» Annuii. Non pensavo che qualcosa di quel che aveva detto potesse essermi di aiuto. Sapevo che sulla scena del delitto avevano raccolto un rivestimento di proiettile. Se Lankford e Sobel avessero trovato una corrispondenza tra quello e il rivestimento di un proiettile sparato dalla pistola di Mickey Cohen mezzo secolo prima, sarebbero venuti a cercarmi e solo dopo si sarebbero preoccupati della comparazione delle pallottole. «Ci sei ancora?» «Sì. Stavo pensando a una cosa.» «Non mi sembri più così allegro. Vuoi che ne parliamo, Michael?» «No, non adesso. Ma se finisco per aver bisogno di un buon avvocato,
sai chi chiamerò.» «Magari accadesse.» «Potresti restare sorpresa.» Rimasi ancora un po' in silenzio. Il solo fatto di avere lei dall'altro capo del telefono mi calmava e mi dava conforto. Mi piaceva. «Haller, ora dovrei tornare al lavoro.» «D'accordo, Maggie, manda in prigione quei cattivoni.» «Lo farò.» «Buonanotte.» Chiusi il telefono e riflettei qualche istante, poi lo riaprii e chiamai lo Sheraton Universal per vedere se avevano una stanza disponibile. Avevo deciso che per precauzione quella sera non sarei andato a casa. Avrebbero potuto esserci due detective di Glendale ad aspettarmi. 38 Mercoledì 25 maggio Dopo una notte insonne in un brutto letto da hotel, il mercoledì mattina arrivai presto in tribunale e non trovai nessuna festa di benvenuto, nessun detective di Glendale che mi aspettava con il sorriso e con un mandato di arresto. Mentre passavo attraverso il metal detector mi sentii sollevato. Indossavo lo stesso vestito del giorno prima, ma speravo che nessuno se ne accorgesse. Almeno avevo camicia e cravatta pulite. Ne tengo delle scorte nel portabagagli della Lincoln per le giornate estive quando lavoro nel deserto e anche il condizionatore d'aria non è sufficiente. Quando entrai nell'aula del giudice Fullbright fui sorpreso di scoprire che non ero il primo degli attori del processo a presentarsi. Minton si trovava in galleria, intento a sistemare lo schermo per la sua relazione in PowerPoint. Dal momento che l'aula era stata progettata prima dell'era delle relazioni supportate dal computer, non era prevista la giusta postazione per uno schermo da dodici pollici che consentisse alla giuria, al giudice e agli avvocati di vederlo comodamente. Una grossa fetta dello spazio della galleria sarebbe stato occupato dallo schermo, e qualsiasi spettatore seduto dietro di esso non sarebbe riuscito a vedere lo spettacolo. «Il mattino ha l'oro in bocca» dissi a Minton. Alzò lo sguardo dal suo lavoro e sembrò un po' sorpreso di vedere che anch'io arrivavo così presto.
«Devo sistemare questo aggeggio. È un vero strazio.» «Potresti sempre comportarti all'antica, parlare alla giuria guardandola negli occhi.» «No, grazie. Preferisco così. Hai parlato dell'offerta al tuo cliente?» «Sì, niente da fare. Sembra che dovremo giocarcela fino alla fine.» Appoggiai la valigetta sul tavolo della difesa e mi chiesi se il fatto che Minton si stesse preparando per l'arringa finale volesse dire che aveva deciso di rinunciare ad altre testimonianze. Mi prese il panico. Esaminai il tavolo dell'accusa e non vidi nulla che mi desse un indizio sulle intenzioni di Minton. Potevo chiederglielo direttamente, ma non volevo perdere l'aria di indifferente sicurezza in me stesso. Invece mi diressi a passi lenti verso il tavolo dell'ufficiale giudiziario per parlare con Bill Meehan, il funzionario amministrativo della corte del giudice Fullbright. La sua scrivania era cosparsa di documenti. Meehan teneva l'agenda della corte e la lista dei detenuti che quella mattina sarebbero stati condotti in tribunale. «Bill, vado a prendere una tazza di caffè. Vuoi qualcosa?» «No, amico, grazie. Ho deciso di stare alla larga dalla caffeina. Almeno per un po'.» Sorrisi e annuii. «Quella è la lista dei detenuti? Posso dare un'occhiata e vedere se c'è qualche mio cliente?» «Certo.» Meehan mi porse diverse pagine tenute insieme da una graffetta. Era un elenco in ordine alfabetico di ogni detenuto ospite delle celle del tribunale. Di seguito al nome era indicata l'aula in cui ciascun detenuto era diretto. Esaminai la lista con l'aria il più possibile indifferente e subito vi trovai il nome di Dwayne Jeffery Corliss. La spia di Minton era nell'edificio ed era diretta all'aula del giudice Fullbright. Mi lasciai quasi scappare un sospiro di sollievo. Minton aveva intenzione di comportarsi nel modo in cui avevo sperato e che avevo programmato. «Qualcosa che non va?» chiese Meehan. Lo guardai e gli restituii la lista. «No, perché?» «Non so. Sembra che ti sia successo qualcosa, tutto qui.» «Non è ancora successo niente, ma succederà.» Uscii dall'aula e scesi al self-service del secondo piano. Mentre ero in coda per pagare il caffè vidi Maggie McPherson entrare e dirigersi diret-
tamente verso i distributori del caffè. Dopo che ebbi pagato la raggiunsi e mi misi dietro di lei mentre versava nel caffè una polverina da un pacchetto rosa. «Dolce e ristretto» dissi. «La mia ex moglie mi diceva sempre che le piaceva così.» Si voltò e mi vide. «Piantala, Haller.» Però sorrise. «Piantala Haller o mi metto a urlare» dissi. «Deve avermi detto anche questo. Un sacco di volte.» «Cosa ci fai qui? Non dovresti essere al sesto piano a prepararti a staccare la spina durante il PowerPoint di Minton?» «Nessun problema. Dovresti venire su a goderti lo spettacolo. La vecchia scuola contro la nuova, una battaglia storica.» «Più o meno. Fra parentesi, non è lo stesso vestito che avevi addosso ieri?» «Sì, è il mio vestito fortunato. Ma come fai a sapere che cosa avevo addosso ieri?» «Oh, per un paio di minuti ho infilato la testa nell'aula del giudice Fullbright. Eri troppo impegnato a interrogare il tuo cliente per accorgertene.» Dentro di me ero soddisfatto di sapere che notasse come mi vestivo. Sapevo che aveva un suo significato. «Allora perché non ci infili la testa dentro anche stamattina?» «Oggi non posso. Sono troppo occupata.» «Cosa devi fare?» «Andy Seville mi ha incaricato di un omicidio di primo grado. Lui sta lasciando per occuparsi solo della professione privata e ieri hanno diviso i processi di cui si stava occupando. A me è toccato quello buono.» «Bene. L'imputato ha bisogno di un avvocato?» «Assolutamente no, Haller. Non perderò un'altra occasione per colpa tua.» «Stavo scherzando. Sono già abbastanza impegnato.» Con uno scatto chiuse la tazza con un coperchio e la sollevò dallo sportello usando uno strato di tovagliolini per non scottarsi le dita. «Anch'io lo sono. Per questo ti auguro buona fortuna per oggi, ma non posso passare.» «Ho capito. Devi fare fronte comune con il gruppo. Però tira su di morale Minton quando verrà di sotto con il cappello in mano.»
«Ci proverò.» Lei uscì dal self-service e io mi diressi verso un tavolo vuoto. Avevo ancora un quarto d'ora prima dell'udienza. Tirai fuori il cellulare e chiamai la mia seconda ex moglie. «Lorna, sono io. Corliss sta per entrare in gioco, sei pronta?» «Sono pronta.» «D'accordo, era solo un controllo. Ti richiamo.» «Buona fortuna per oggi, Mickey.» «Grazie. Ne avrò bisogno. Tieniti pronta per la prossima chiamata.» Chiusi il telefono e stavo per alzarmi quando vidi infilarsi tra i tavoli e venire verso di me il detective Howard Kurlen del LAPD. L'uomo che aveva messo in prigione Jesus Menendez non aveva l'aria di essere venuto a farmi una visita per un sandwich al burro di arachidi e sardine. Teneva in mano un documento piegato. Quando arrivò al mio tavolo lo lasciò cadere di fronte alla mia tazza di caffè. «Cos'è questa merda?» domandò. Cominciai a spiegare il documento, anche se sapevo di cosa si trattava. «Si direbbe un mandato di comparizione, detective. Dovresti sapere come sono fatti.» «Sai cosa voglio dire, Haller. A che gioco giochiamo? Io non ho niente a che fare con quel processo e non voglio prendere parte alle tue stronzate.» «Nessun gioco e nessuna stronzata. Sei stato chiamato a comparire in tribunale come teste a discarico.» «Per confutare cosa? Te l'ho detto e tu sai che non ho niente a che fare con questo processo. È di Martin Booker. L'ho appena sentito e mi ha detto che dev'esserci un errore.» Annuii come se volessi sembrargli compiacente. «Stammi a sentire, sali in aula e trovati un posto. Se si tratta di un errore lo sistemo al più presto. Farò in modo che tu non debba trattenerti neanche un'ora. Ti lascerò libero di tornare a dare la caccia ai delinquenti.» «Sai cosa ti dico? Io me ne vado adesso e tu sistema il cazzo che vuoi.» «Non posso lasciarti andare, detective. Questo è un mandato di comparizione valido e legittimo e salvo indicazioni contrarie sei obbligato a comparire in quell'aula. Te l'ho detto, appena posso ti lascerò andare. L'accusa ha un solo testimone, poi sarà il mio turno e vedrò subito cosa posso fare.» «Questa è proprio una stronzata.» Mi diede le spalle e si diresse verso l'uscita del self-service con andatura maestosa. Per fortuna mi aveva lasciato il mandato. Perché era falso. Non
l'avevo mai registrato alla cancelleria del tribunale e la firma scarabocchiata in fondo era la mia. Stronzate o no, non pensavo che Kurlen potesse davvero andarsene dal tribunale. Era un uomo che conosceva i suoi doveri e la legge. Viveva in funzione di quello. E io avevo contato esattamente sulla sua professionalità. Sarebbe rimasto in aula finché non fosse stato congedato. O finché non avesse capito perché l'avevo fatto venire fin lì. 39 Alle 9.30 il giudice fece accomodare la giuria e avviò immediatamente le attività della giornata. Lanciai un'occhiata alle mie spalle verso la galleria e intravidi Kurlen nell'ultima fila. Aveva uno sguardo pensieroso, per non dire infuriato. Stava vicino alla porta e non sapevo quanto avrebbe resistito. Pensai che quell'ora di cui gli avevo parlato sarebbe servita tutta. Diedi un'altra occhiata in giro per l'aula e vidi che i detective Lankford e Sobel erano seduti su una panca riservata al personale delle forze dell'ordine accanto alla scrivania dell'ufficiale giudiziario. I loro volti non rivelavano nulla, ma mi misero ugualmente in ansia. Mi chiesi se sarei riuscito almeno ad avere l'ora che mi serviva. «Signor Minton,» recitò il giudice «l'accusa ha qualcosa da replicare?» Mi voltai di nuovo verso la corte. Minton si alzò, si aggiustò la giacca, quindi parve esitare per farsi coraggio prima di rispondere. «Sì, vostro onore, lo stato chiama a testimoniare Dwayne Jeffery Corliss.» Mi alzai e notai che alla mia destra anche Meehan, l'ufficiale giudiziario, si era alzato. Stava per raggiungere la guardina dell'aula per andare a prendere Corliss. «Vostro onore?» dissi. «Chi è Dwayne Jeffery Corliss e perché non sono stato informato prima della sua esistenza?» «Signor Meehan, attenda un attimo» disse il giudice Fullbright. Meehan rimase immobile con la chiave della porta della guardina in mano. Il giudice si scusò con la giuria e disse loro che avrebbero dovuto ritirarsi nella sala dove si dibattono le sentenze finché non fossero stati richiamati. Dopo che ebbero finito di sfilare dai banchi per scomparire dietro la porta, il giudice rivolse l'attenzione verso Minton. «Signor Minton, vuole parlarci del suo testimone?» «Dwayne Corliss è un collaboratore di giustizia che parlò con il signor
Roulet quando si trovava in custodia in seguito al suo fermo.» «Stronzate!» urlò Roulet. «Io non ho parlato con...» «Stia zitto, signor Roulet» tuonò il giudice. «Signor Haller, informi il suo cliente dei rischi degli accessi d'ira nella mia aula.» «Grazie, vostro onore.» Ero ancora in piedi. Mi abbassai per sussurrare all'orecchio di Roulet. «Sei stato perfetto» dissi. «Adesso stai calmo e d'ora in poi me ne occupo io.» Annuì e si appoggiò alla sedia. Incrociò rabbiosamente le braccia al petto. Mi raddrizzai. «Mi spiace, vostro onore, ma condivido l'indignazione del mio cliente nei confronti di questo tentativo dell'ultimo minuto da parte dell'accusa. Questa è la prima volta che sentiamo nominare il signor Corliss. Mi piacerebbe sapere quando si è fatto avanti con questa presunta conversazione.» Minton era rimasto in piedi. Pensai che dall'inizio del processo era la prima volta in cui ci trovavamo uno accanto all'altro a discutere con il giudice. «Il signor Corliss ha contattato l'ufficio attraverso un pubblico ministero che fu responsabile della prima comparizione dell'imputato» disse Minton. «Tuttavia questa informazione non mi era mai stata trasmessa fino a ieri, quando in una riunione del personale mi è stato chiesto come mai non avessi mai utilizzato quella testimonianza.» Stava mentendo, ma non volevo smentirlo. Se lo avessi fatto si sarebbe saputo del passo falso del giorno di San Patrizio di Maggie McPherson e questo avrebbe potuto far deragliare il mio piano. Dovevo muovermi con attenzione. Mi serviva discutere con energia contro Corliss e tenere le posizioni, ma dovevo anche perdere la discussione. Assunsi la miglior espressione di sdegno che mi riuscì. «Questa storia ha dell'incredibile, vostro onore. Solo perché l'ufficio del procuratore distrettuale ha un problema di comunicazione, il mio cliente deve subire le conseguenze di non essere stato informato che l'accusa aveva un testimone contro di lui? È chiaro che a quest'uomo non dovrebbe essere permesso di testimoniare. È troppo tardi per farlo entrare adesso.» «Vostro onore» disse Minton intervenendo prontamente. «Io stesso non ho avuto il tempo di interrogare o far testimoniare il signor Corliss. Mi sono limitato a prendere accordi perché venisse portato qui oggi visto che stavo preparando la mia arringa finale. La sua deposizione è cruciale per la tesi dell'accusa perché contrasta le affermazioni tendenziose del signor
Roulet. Si arrecherebbe serio danno allo stato non permettendogli di testimoniare.» Scossi la testa e sorrisi scoraggiato. Con la sua ultima battuta Minton stava minacciando il giudice di perdere il sostegno dell'ufficio del procuratore distrettuale se avesse dovuto affrontare un'elezione contro un altro candidato. «Signor Haller?» chiese il giudice. «Non ha nulla da dire prima che prenda una decisione?» «Voglio solo che la mia obiezione sia messa a verbale.» «Verrà registrata. Se dovessi concederle il tempo di indagare sul signor Corliss e interrogarlo, quanto le servirebbe?» «Una settimana.» A quel punto Minton fece un sorriso di circostanza e scosse la testa. «È ridicolo, vostro onore.» «Vuole uscire per intervistarlo?» mi chiese il giudice. «Le darò il permesso.» «No, vostro onore. Per quanto ne so io, tutti gli informatori del carcere sono bugiardi. Non mi servirebbe a nulla intervistarlo perché qualunque cosa uscisse dalla sua bocca sarebbe una bugia. Qualunque cosa. Inoltre, non conta quello che deve dire lui. Ma quello che gli altri devono dire di lui. Per questo mi servirebbe del tempo.» «Allora decido che può testimoniare.» «Vostro onore» dissi. «Se gli permetterà di entrare in quest'aula, posso chiederle una concessione per la difesa?» «Di cosa si tratta, signor Haller?» «Vorrei andare in corridoio a fare una rapida telefonata a un investigatore. Mi ci vorrà meno di un minuto.» Il giudice rifletté un momento quindi annuì. «Vada. Nel frattempo farò entrare la giuria.» «Grazie.» Passai in fretta dal cancello e percorsi la corsia centrale. Incontrai lo sguardo di Howard Kurlen che mi fece uno dei suoi migliori sorrisi ammiccanti. In corridoio chiamai il cellulare di Lorna Taylor e lei rispose immediatamente. «Quanto sei lontana?» «Più o meno un quarto d'ora.» «Ti sei ricordata il tabulato e il nastro?»
«Ho tutto qui.» Guardai il mio orologio. Erano le dieci meno un quarto. «D'accordo, bene, adesso inizia la partita. Non fare tardi, ma quando arrivi fermati ad aspettare nell'anticamera fuori dall'aula. Alle dieci e un quarto entra in aula e consegnameli. Se sto controinterrogando il testimone, siediti in prima fila e aspetta che ti veda.» «D'accordo.» Spensi il telefono e tornai in aula. La giuria era seduta e Meehan stava accompagnando un uomo con una tuta grigia attraverso la porta della guardina. Dwayne Corliss era un uomo magro con i capelli in disordine che non era stato abbastanza ripulito dal programma di recupero dell'ospedale per detenuti. Al polso portava una banda di identificazione da ospedale in plastica blu. Era l'uomo che mi aveva chiesto un biglietto da visita mentre interrogavo Roulet nella cella di detenzione il primo giorno in cui mi ero occupato del caso. Corliss venne condotto da Meehan al banco dei testimoni e l'ufficiale giudiziario lo fece giurare. Da quel momento Minton prese in mano la regia dello spettacolo. «Signor Corliss, è stato arrestato il 5 marzo di questo anno?» «Sì, la polizia mi ha arrestato per furto con scasso e possesso di droga.» «Ora si trova in carcere?» Corliss si guardò intorno. «Uhm, no, non credo. Sono solo in un'aula.» Sentii la rozza risata di Kurlen alle mie spalle, ma nessuno si unì a lui. «Intendo dire se attualmente è detenuto in carcere. Quando non si trova in questa aula.» «Partecipo a un programma di recupero nell'ospedale per detenuti della contea di Los Angeles.» «È tossicodipendente?» «Sì. Sono un eroinomane, ma al momento sono pulito. Non ne ho più presa da quando mi hanno arrestato.» «Più di sessanta giorni.» «Esatto.» «Riconosce l'imputato di questo processo?» Corliss guardò verso Roulet e annuì. «Sì.» «Come mai?» «Perché l'ho incontrato in cella dopo che sono stato arrestato.»
«Vuol dire che dopo essere stato arrestato si è trovato nelle immediate vicinanze dell'imputato, Louis Roulet?» «Sì, il giorno dopo.» «Com'è successo?» «Be', eravamo entrambi nella prigione di Van Nuys, ma in celle diverse. Poi, quando ci hanno portati qui in tribunale, eravamo insieme, prima sul bus e dopo in cella e poi quando ci hanno portati in aula per la prima comparizione. Siamo stati insieme tutto quel tempo.» «Quando dice "insieme", che cosa intende?» «Siamo rimasti vicini perché eravamo gli unici bianchi del nostro gruppo.» «Dunque, vediamo, vi siete parlati mentre vi siete trovati insieme per tutto quel tempo?» Corliss fece cenno di sì con la testa e nello stesso momento Roulet scosse la sua. Toccai il braccio del mio cliente per avvertirlo di non fare rimostranze. «Sì, abbiamo parlato» disse Corliss. «Di che cosa?» «Soprattutto di sigarette. Entrambi ne avevamo bisogno, ma in carcere non ti lasciano fumare.» Corliss con entrambe le mani fece un gesto come per dire "che ci vuoi fare" e qualche giurato, probabilmente fumatore, sorrise e annuì. «Quindi è arrivato al punto di chiedere al signor Roulet per quale motivo fosse in prigione?» chiese Minton. «Sì.» «Che cosa rispose?» Mi alzai rapidamente e feci obiezione, ma altrettanto rapidamente la mia obiezione venne respinta. «Signor Corliss, che cosa le rispose?» lo imbeccò Minton. «Be', prima mi chiese perché io mi trovassi lì e gli risposi. Poi gli chiesi perché lui fosse dentro e lui disse: "Per aver dato a una puttana quello che si meritava".» «Quelle furono le sue esatte parole?» «Sì.» «Aggiunse ulteriori particolari su quello che intendeva dire?» «No, veramente no. Non aggiunse altro.» Mi sporsi in avanti, in attesa che Minton ponesse l'ovvia domanda successiva. Però non la fece. Proseguì.
«Dunque, signor Corliss, in cambio della sua testimonianza le sono state fatte delle promesse da me o dall'ufficio del procuratore distrettuale?» «No. Ho pensato solo che questa era la cosa giusta da fare.» «A che punto è la causa contro di lei?» «Le accuse contro di me ci sono, ma dicono che verranno ridimensionate se completerò il mio programma. Per quanto riguarda la droga, almeno. Non so ancora niente del furto con scasso.» «Però da me non ha ricevuto promesse di benefici, vero?» «No, signore.» «Qualcun altro nell'ufficio del procuratore distrettuale le ha fatto qualche promessa?» «No, signore.» «Non ho altre domande.» Io rimasi seduto immobile e mi limitai a fissare Corliss. Si capiva che ero arrabbiato e che ero incapace di reagire. Alla fine fu il giudice a spingermi a fare qualcosa. «Signor Haller, vuole fare un controinterrogatorio?» «Sì, vostro onore.» Mi alzai e lanciai un'occhiata verso la porta alle mie spalle come se mi aspettassi un miracolo. Poi controllai l'ora sul grosso orologio sopra la porta posteriore e vidi che erano le 10.05. Mentre mi voltavo di nuovo verso il testimone constatai che non avevo perso Kurlen. Era ancora nell'ultima fila e aveva ancora lo stesso sorriso ammiccante sul viso. Ne dedussi che doveva essere la sua espressione normale. Mi rivolsi al testimone. «Signor Corliss, quanti anni ha?» «Quarantatré.» «Il suo nome è Dwayne?» «Esatto.» «Nessun altro nome?» «Cominciarono a chiamarmi D.J. da quando ero ragazzino. Tutti mi chiamavano così.» «E dove viveva allora?» «A Mesa, Arizona.» «Signor Corliss, quante volte è già stato arrestato?» Minton fece obiezione, ma il giudice la respinse. Sapevo che mi avrebbe concesso molto spazio con questo testimone perché era convinta che fossi stato penalizzato dal fatto di non conoscerne l'esistenza.
«Quante volte è già stato arrestato, signor Corliss?» chiesi di nuovo. «Credo più o meno sette.» «Per cui è stato rinchiuso in diverse prigioni, non è vero?» «Si può dire di sì.» «Tutte nella contea di Los Angeles?» «La maggior parte. In passato anche a Phoenix.» «Perciò sa come funziona il sistema, non è vero?» «Cerco solo di sopravvivere.» «E qualche volta sopravvivere significa tradire anche i compagni detenuti, non è così?» «Vostro onore?» disse Minton, alzandosi per obiettare. «Si sieda, signor Minton» disse il giudice Fullbright. «Ammettendo questo testimone le ho dato prova di grande flessibilità. Ora il signor Haller si prende la sua parte. Il testimone risponderà alla domanda.» Lo stenografo rilesse la domanda a Corliss. «A volte sì.» «Quante volte ha fatto la spia nei confronti di un altro detenuto?» «Non lo so. Qualche volta.» «Quante volte ha testimoniato in aula in favore dell'accusa?» «Compresi i miei processi?» «No, signor Corliss. Per l'accusa. Quante volte ha testimoniato per l'accusa contro un compagno detenuto?» «Credo che questa sia la quarta volta.» Mi mostrai sorpreso e sconvolto, anche se non ero né l'uno né l'altro. «Così lei è un professionista. Si potrebbe quasi dire che il suo mestiere è la spia carceraria tossicodipendente.» «Dico solo la verità. Se la gente mi racconta cose cattive, mi sento obbligato a riferirle.» «Però lei cerca di far sì che la gente le racconti delle cose, non è vero?» «No, in verità no. Credo solo di essere un tipo cordiale.» «Un tipo cordiale. Quindi lei si aspetta che questa giuria creda al fatto che un uomo, che lei neppure conosceva, sia spuntato all'improvviso e abbia raccontato a lei, un perfetto sconosciuto, di aver dato a una puttana ciò che si meritava. È così?» «È quello che ha detto.» «Lui le ha accennato quella cosa e poi avete ricominciato tutti e due a parlare di sigarette, è giusto?» «Non esattamente.»
«Non esattamente. Cosa intende con "non esattamente"?» «Mi raccontò che l'aveva già fatto. Disse che l'aveva fatta franca in passato e che l'avrebbe fatta franca anche adesso. Se ne vantava perché la volta precedente aveva ucciso la puttana e l'aveva fatta franca comunque.» Per un attimo mi sentii gelare. Lanciai un'occhiata a Roulet, che sedeva immobile come una statua con la sorpresa stampata sul volto, poi di nuovo al teste. «Lei...» Iniziai e mi fermai, mi comportai come se fossi io l'uomo nel campo minato che aveva appena sentito il click sotto i piedi. Con la mia visione periferica notai che la postura del corpo di Minton si irrigidiva. «Signor Haller?» mi imbeccò il giudice. Smisi di fissare Corliss e guardai il giudice. «Non ho altre domande per ora, vostro onore.» 40 Minton si alzò dalla sedia come un pugile si alza dall'angolo per affrontare l'avversario sanguinante. «Controinterrogatorio, signor Minton?» chiese il giudice Fullbright. Lui era già di fronte al leggio. «Assolutamente sì, vostro onore.» Guardò la giuria come per sottolineare l'importanza dell'imminente scambio di battute e si girò verso Corliss. «Dice che si vantava, signor Corliss? In che modo?» «Mi raccontò della volta in cui uccise davvero una ragazza e la fece franca.» Mi alzai. «Vostro onore, questo non ha nulla a che fare con il processo in corso e non confuta alcuna prova presentata in precedenza dalla difesa. Il testimone non può...» «Vostro onore,» intervenne Minton «questa è un'informazione introdotta dall'avvocato difensore. L'accusa ha il diritto di utilizzarla.» «Glielo concedo» disse il giudice Fullbright. Mi sedetti e mi mostrai abbattuto. Minton procedette. Stava andando esattamente dove volevo che andasse. «Signor Corliss, il signor Roulet le fornì qualche dettaglio di questo precedente episodio?»
«Definì quella ragazza una ballerina con il serpente. Ballava in qualche bettola dove stava come in una fossa dei serpenti.» Sentii Roulet che mi circondava i bicipiti con le dita e stringeva. Il suo fiato caldo mi arrivò all'orecchio. «Che cazzo di roba è?» sussurrò. Mi voltai verso di lui. «Non lo so. Cosa diavolo hai detto a questo tizio?» Mi rispose digrignando i denti. «Non gli ho detto nulla. Questo è un imbroglio. Tu mi hai imbrogliato!» «Io? Di cosa stai parlando? Te l'ho detto, non potevo raggiungere questo tizio in galera. Se tu non gli hai raccontato questa merda, l'ha fatto qualcun altro. Inizia a pensare. Chi?» Mi voltai e guardai verso Minton in piedi davanti al leggio che continuava a interrogare Corliss. «Il signor Roulet le disse altro della ballerina che ammise di aver ucciso?» chiese. «No, mi ha detto solo questo, in realtà.» Minton controllò i suoi appunti per vedere se ci fosse qualcos'altro, poi annuì. «Nient'altro, vostro onore.» Il giudice mi guardò. Riuscii quasi a scorgere della solidarietà sul suo viso. «La difesa pensa di controinterrogare il teste?» Prima che potessi rispondere, si udì un rumore sul fondo dell'aula, mi voltai e vidi entrare Lorna Taylor. Si affrettò lungo la corsia di passaggio in direzione del cancello. «Vostro onore, posso avere un attimo per consultarmi con la mia collaboratrice?» «Faccia presto, signor Haller.» Raggiunsi Lorna al cancello e presi dalle sue mani una videocassetta fasciata con un unico foglio di carta stretto da un elastico. Come le avevo chiesto di fare, mi sussurrò all'orecchio. «Faccio come se ti stessi sussurrando all'orecchio qualcosa di molto importante» disse. «Come sta andando?» Io annuii mentre toglievo l'elastico dal nastro e guardavo il foglio di carta. «In perfetto orario» sussurrai. «Sono pronto ad andare.» «Posso restare a guardare?»
«No, voglio che resti fuori di qui. A processo concluso non voglio che nessuno cerchi di parlare con te.» Lorna annuì, poi se ne andò. Tornai al leggio. «La difesa rinuncia al controinterrogatorio, vostro onore.» Mi sedetti e aspettai. Roulet mi afferrò il braccio. «Cosa stai facendo?» Lo spinsi via. «Smettila di toccarmi. Abbiamo delle nuove informazioni che non possiamo presentare nel controinterrogatorio.» Mi concentrai sul giudice. «Altri testimoni, signor Minton?» chiese. «No, vostro onore. Nessuno.» Il giudice annuì. «Il teste è congedato.» Meehan iniziò ad attraversare l'aula in direzione di Corliss. Il giudice mi guardò e io mi alzai. «Signor Haller, ha qualcosa da controreplicare?» «Sì, vostro onore, la difesa vuole richiamare al banco D.J. Corliss.» Meehan si fermò a metà strada e tutti gli occhi si puntarono su di me. Sollevai il nastro e il foglio che mi aveva portato Lorna. «Ho delle nuove informazioni sul signor Corliss, vostro onore. Non avrei potuto presentarle nel controinterrogatorio.» «Molto bene. Prosegua.» «Posso avere un momento, giudice?» «Breve.» Mi consultai di nuovo con Roulet. «Ascolta, io non so cosa stia succedendo, ma non importa» sussurrai. «Che cosa significa non importa? Sei...» «Stammi a sentire. Non importa perché posso ancora distruggerlo. Non importa se dirà che hai ucciso venti donne. Se è un bugiardo, è un bugiardo. Se lo distruggo, non conta quello che dice. Capisci?» Roulet annuì e sembrò calmarsi. «Allora distruggilo.» «Lo farò. Però devo sapere. C'è qualcos'altro che lui sa e che potrebbe venire fuori? C'è qualcosa a cui devo stare attento?» Roulet parlò sottovoce lentamente, come se stesse spiegando qualcosa a un bambino. «Non saprei, perché non gli ho mai parlato. Non sono così stupido da
mettermi a chiacchierare di sigarette e omicidi con un bastardo sconosciuto!» «Signor Haller» mi sollecitò il giudice. Alzai lo sguardo verso di lei. «Sì, vostro onore.» Mi alzai e tornai al leggio, portando con me il nastro e il foglio in cui era avvolto. Nel frattempo lanciai una rapida occhiata verso la galleria e vidi che Kurlen se n'era andato. Non avevo modo di sapere quanto si fosse fermato e cosa avesse sentito. Anche Lankford se n'era andato. Era rimasta solo Heidi Sobel, che distolse lo sguardo dal mio. Mi rivolsi a Corliss. «Signor Corliss, può dire con esattezza alla giuria dove si trovava quando il signor Roulet le fece queste presunte rivelazioni sull'omicidio e l'aggressione?» «Eravamo insieme.» «Insieme dove, signor Corliss?» «Be', sul bus non parlammo perché eravamo seduti lontani. Però quando arrivammo in tribunale eravamo nella stessa cella con circa sei altri tizi, ci sedemmo vicini e parlammo.» «E quegli altri sei uomini furono testimoni che lei e il signor Roulet vi parlaste, è corretto?» «Avrebbero dovuto. Erano lì.» «Perciò mi sta dicendo che se io li portassi qui a testimoniare uno per uno e chiedessi loro se hanno osservato lei e il signor Roulet parlare, lo confermerebbero?» «Be', dovrebbero. Però...» «Però cosa, signor Corliss?» «È solo che probabilmente non parlerebbero, tutto qui.» «Perché a nessuno piacciono le spie, signor Corliss?» Corliss si strinse nelle spalle. «Penso di sì.» «D'accordo, allora assicuriamoci che sia tutto chiaro. Lei non ha parlato con il signor Roulet sul bus però gli ha parlato quando eravate nella stessa cella. In nessun altro luogo?» «Sì, abbiamo parlato quando ci hanno trasferiti in aula. Ti infilano in questa zona chiusa da vetrate e tu aspetti che venga chiamato il tuo caso. Abbiamo parlato un po' anche lì dentro, finché è stato chiamato il suo caso. Lui è andato per primo.» «È questo il tribunale dove ha fatto la sua prima comparizione di fronte a
un giudice?» «Esatto.» «Perciò voi due avete parlato in tribunale e qui siamo dove il signor Roulet le avrebbe rivelato il suo ruolo nei crimini che ha descritto.» «Esatto.» «Si ricorda in particolare che cosa le ha detto quando vi trovavate nell'aula?» «In realtà no. Non nei dettagli. Credo che potrebbe essere stato quando mi ha raccontato della ragazza che faceva la ballerina.» «D'accordo, signor Corliss.» Sollevai la videocassetta, la presentai come il video della prima comparizione di Louis Roulet e chiesi di registrarla come documento della difesa. Minton cercò di impedirlo perché si trattava di qualcosa che non avevo prodotto durante la presentazione delle prove, ma venne rapidamente zittito dal giudice senza che dovessi discutere l'argomento. Poi fece di nuovo obiezione, citando la mancanza di autenticazione del nastro. «Sto solo cercando di far risparmiare un po' di tempo alla corte» dissi. «Se è necessario in un'ora circa posso far venire qui la persona che ha girato il video per farlo autenticare. Tuttavia ritengo che vostro onore sarà in grado di autenticarlo lei stessa con una sola occhiata.» «Ammesso» disse il giudice. «Dopo che l'avremo visionato, se lo desidera, l'accusa potrà obiettare nuovamente.» Vennero portati in aula il televisore e il videoregistratore che avevo usato in precedenza e furono sistemati in un punto visibile sia da Corliss sia dalla giuria e dal giudice. Per vederlo bene Minton dovette spostare una seggiola accanto al banco dei testimoni. Venne fatto partire il nastro. Durava venti minuti e mostrava Roulet dal momento in cui entrava nella zona di custodia dell'aula finché veniva condotto fuori dopo l'udienza per la determinazione della cauzione. In nessun momento Roulet aveva parlato con nessuno tranne che con me. Quando il nastro terminò lasciai il televisore al suo posto nel caso fosse servito di nuovo. Mi rivolsi a Corliss con una sfumatura di sdegno nella voce. «Signor Corliss, ha visto su questo nastro lei e il signor Roulet parlare per un attimo e in qualsiasi punto dell'aula?» «Uh, no. Io...» «Eppure lei ha dichiarato sotto giuramento, e a rischio di falsa testimonianza, che mentre entrambi vi trovavate in aula lui le aveva confessato dei crimini, non è vero?»
«So di averlo detto, ma devo essermi sbagliato. Deve avermelo detto quando ci trovavamo in cella.» «Lei ha mentito alla giuria, non è vero?» «Io non ne avevo intenzione. Ricordavo quello che ho raccontato, ma credo di essermi sbagliato. La sera prima mi ero fatto di brutto. Avevo le idee confuse.» «Sembrerebbe di sì. Lasci che glielo chieda, aveva le idee confuse anche quando testimoniò contro Frederic Bentley nel 1989?» Corliss aggrottò le sopracciglia per concentrarsi, ma non rispose. «Si ricorda di Frederic Bentley, non è vero?» Minton si alzò. «Obiezione. 1989? Dove vuole arrivare?» «Vostro onore» dissi. «Voglio dimostrare l'affidabilità del testimone. È da mettere in discussione.» «Colleghi i punti, signor Haller» ordinò il giudice. «In fretta.» «Sì, vostro onore.» Raccolsi il foglio di carta e lo usai come traccia per le domande finali a Corliss. «Nel 1989 Frederic Bentley venne condannato, con il suo contributo, per aver violentato una ragazza di sedici anni nel suo letto a Phoenix. Se lo ricorda?» «A malapena» rispose Corliss. «Da allora mi sono fatto parecchio.» «Al processo Bentley lei ha testimoniato che lui le aveva confessato il crimine mentre vi trovavate insieme nella cella di una stazione di polizia. È così?» «Gliel'ho detto, faccio fatica a ricordare una cosa così lontana.» «La polizia l'aveva messa in quella cella perché sapevano che lei è disposto a fare la spia, anche a costo di inventarsi una storia, non è così?» Il mio tono di voce si alzava a ogni domanda. «Non me lo ricordo» rispose Corliss. «Però io non invento le cose.» «Poi, otto anni dopo, l'uomo che secondo la sua deposizione le aveva detto di essere colpevole venne scagionato quando un test del Dna determinò che lo sperma dell'aggressore della ragazza era di un altro uomo. Non è vero, signore?» «Io non... voglio dire... è successo un sacco di tempo fa.» «Si ricorda di essere stato intervistato da un cronista del quotidiano "Arizona Star" in seguito al rilascio di Frederic Bentley?» «Vagamente. Ricordo che qualcuno aveva telefonato, ma non rilasciai
alcuna dichiarazione.» «Le disse che il test del Dna aveva scagionato Bentley e le chiese se avesse inventato la sua confessione, è così?» «Non lo so.» Sollevai il foglio che stringevo in mano in direzione del seggio del giudice. «Vostro onore, qui ho un articolo di archivio del quotidiano "Arizona Star". È datato 9 febbraio 1997. L'ha trovato un membro del mio staff dopo aver cercato il nome di D.J. Corliss tramite Google sul computer del mio ufficio. Chiedo che venga registrato come reperto della difesa e riconosciuto come prova in qualità di documento storico che riporta un'implicita confessione.» La mia richiesta scatenò uno scontro violento con Minton sull'autenticità e l'adeguata attendibilità. Alla fine, il giudice decise in mio favore. Mostrava di provare un po' dello sdegno che io stavo fingendo e Minton non aveva grandi chance. L'ufficiale giudiziario portò a Corliss la pagina stampata dal computer e il giudice gli ordinò di leggerla. «Non sono troppo bravo a leggere, giudice» disse lui. «Ci provi, signor Corliss.» Corliss tenne il foglio sollevato e allungò il viso in avanti mentre leggeva. «A voce alta, per piacere» urlò il giudice Fullbright. Corliss si schiarì la gola e lesse con voce esitante. «Un uomo condannato ingiustamente per stupro è stato rilasciato sabato dall'istituto di pena dell'Arizona e ha promesso di chiedere giustizia per altri detenuti falsamente accusati. Frederic Bentley, trentaquattro anni, ha scontato quasi otto anni di prigione per l'aggressione di una ragazza di sedici anni di Tempe. La vittima dell'aggressione ha identificato Bentley, un vicino di casa, e gli esami del sangue hanno confermato che il suo gruppo sanguigno combaciava con lo sperma ritrovato sulla vittima dopo l'aggressione. La tesi era stata sostenuta durante il processo dalla testimonianza di un informatore che affermò che Bentley gli aveva confessato il crimine mentre si trovavano insieme in una cella. Bentley ha sempre sostenuto la sua innocenza durante il processo e dopo la sua condanna. Quando la verifica del Dna venne accettata come prova valida dai tribunali dello stato, Bentley assunse degli avvocati per ottenere la verifica dello sperma raccolto sulla vittima dell'aggressione. All'inizio di quest'anno un giudice ha
concesso il confronto e il risultato dell'analisi ha dimostrato che Bentley non era l'aggressore. Ieri durante una conferenza stampa tenutasi all'Arizona Biltmore, Bentley, appena scarcerato, ha inveito contro gli informatori nelle carceri e invocato una legge statale che imponga rigide direttive alla polizia e ai pubblici ministeri che vogliono utilizzarli. L'informatore che ha dichiarato sotto giuramento che Bentley aveva ammesso lo stupro è stato identificato come D.J. Corliss, un uomo di Mesa che era stato arrestato per reati di droga. Sabato, quando gli è stato riferito dell'assoluzione di Bentley e chiesto se avesse inventato la sua testimonianza contro di lui, Corliss ha declinato ogni commento. Durante la sua conferenza stampa, Bentley ha sostenuto che Corliss era ben noto alla polizia, che lo aveva utilizzato più volte come informatore per avvicinare i sospettati. Bentley ha affermato che, se non riusciva a estorcere le confessioni ai sospettati, era abitudine di Corliss inventarsele. Il processo contro Bentley...» «D'accordo, signor Corliss» dissi. «Credo sia sufficiente.» Corliss mise giù la pagina stampata e mi guardò come un bambino che ha aperto la porta di un armadio pieno e si accorge che sta per cadergli tutto sulla testa. «È stato mai accusato di falsa testimonianza nel processo Bentley?» gli chiesi. «No» disse deciso, come se il fatto lo assolvesse. «Questo perché la polizia era stata sua complice nell'incastrare il signor Bentley?» Minton obiettò, dicendo: «Sono sicuro che il signor Corliss non abbia idea di cosa abbia determinato la decisione di accusarlo o meno di falsa testimonianza». Il giudice Fullbright accolse l'obiezione, ma non lo ritenni importante. Ero andato così lontano con questo testimone che non mi potevano più prendere. Proseguii con la domanda successiva. «Ci fu un pubblico ministero o un agente di polizia che le chiese di avvicinarsi al signor Roulet e fare in modo che si confidasse con lei?» «No, è stato solo il caso.» «Non le è stato chiesto di ottenere una confessione dal signor Roulet?» «No.» Lo fissai a lungo con il disgusto negli occhi. «Non ho altre domande.»
Mi diressi verso il mio posto mantenendo l'atteggiamento di collera e prima di sedermi lasciai cadere rabbiosamente di fronte a me il contenitore del nastro. «Signor Minton?» chiese il giudice. «Non ho altre domande» rispose con un filo di voce. «D'accordo» disse in fretta il giudice Fullbright. «Congedo la giuria per un pranzo anticipato. Vi voglio tutti di ritorno qui all'una in punto.» Fece un sorriso forzato in direzione dei giurati e lo mantenne finché sfilarono tutti fuori dall'aula. Nel momento in cui la porta venne richiusa il sorriso sparì dal suo viso. «Voglio entrambi gli avvocati nel mio studio» disse. «Immediatamente.» Non aspettò risposta. Lasciò lo scranno così rapidamente che la toga sventolò alle sue spalle come il mantello nero della morte. 41 Quando io e Minton entrammo nel suo studio, il giudice Fullbright si era già accesa una sigaretta. Dopo una lunga boccata la spense contro un fermacarte di vetro, quindi infilò il mozzicone in un sacchettino che aveva tirato fuori dalla borsa. Chiuse il sacchetto, lo piegò e lo rimise nella borsa. Non avrebbe lasciato prove della sua trasgressione, né agli addetti alle pulizie notturne né a chiunque altro. Espirò il fumo in direzione di una presa d'aria sul soffitto e poi abbassò lo sguardo verso Minton. A giudicare da quello che esprimevano i suoi occhi fui contento di non essere lui. «Signor Minton, cosa cazzo ha fatto al mio processo?» «Vostro...» «Zitti e seduti. Tutti e due.» Ubbidimmo. Il giudice si ricompose e si sporse in avanti sulla scrivania. Continuava a guardare Minton. «Chi ha fatto le verifiche necessarie su questo testimone?» chiese con calma. «Chi ha raccolto le informazioni sul suo passato?» «Cioè... dovrebbe... a dire il vero, abbiamo preso informazioni a suo nome solo per quanto riguarda la contea di Los Angeles. Non aveva diffide, né segnalazioni di alcun tipo. Avevo controllato il suo nome al computer, ma senza utilizzare le iniziali.» «Quante volte ci si è serviti del teste in questa contea prima di oggi?» «In tribunale solo una volta. Ma aveva fornito informazioni su altri tre casi. E dal computer non è venuto fuori nulla a proposito dell'Arizona.»
«Nessuno ha pensato di controllare se questo individuo era stato in altri posti o aveva cambiato nome?» «Suppongo di no. Mi è stato passato dal pubblico ministero che si era occupata per prima del caso. Immaginavo che l'avesse controllato lei.» «Balle» dissi io. Il giudice si voltò verso di me. Avrei potuto rilassarmi e guardare Minton che affondava, ma non avevo intenzione di consentirgli di portare Maggie McPherson con sé. «Il primo pubblico ministero era Maggie McPherson» dissi. «Si è occupata del caso in tutto circa tre ore. È la mia ex moglie e dal momento che mi ha visto al primo appello ha saputo che avrebbe dovuto lasciarlo. Tu hai preso il caso quello stesso giorno, Minton. Come avrebbe potuto prendere informazioni sui tuoi testimoni, in particolare su questo tizio che non è venuto fuori fino a dopo la prima comparizione? Lei ti ha passato il caso ed è finita lì.» Minton aprì la bocca per dire qualcosa, ma il giudice lo bloccò. «Non importa chi doveva farlo. Non è stato fatto correttamente e comunque far testimoniare quell'uomo è stata un'evidente scorrettezza da parte dell'accusa.» «Vostro onore» si animò Minton. «Io...» «Risparmi il fiato per il suo capo, Minton. È lui quello che dovrà convincere. Qual è stata l'ultima offerta che lo stato ha fatto al signor Roulet?» Minton rimase immobile, incapace di rispondere. Risposi al suo posto. «Aggressione semplice, sei mesi in un carcere della contea.» Il giudice sollevò le sopracciglia e mi guardò. «E lei non ha accettato?» Scossi la testa. «Il mio cliente non accetta una sentenza di condanna. Lo rovinerebbe. Rischierà e aspetterà il verdetto.» «Vuole un annullamento del processo?» domandò. Risi e scossi la testa. «No, nessun annullamento. Voglio dare all'accusa il tempo di sistemare i suoi pasticci, rimettere le cose a posto e poi tornare da noi.» «Dunque che cosa vuole?» chiese il giudice. «Che cosa voglio? Un verdetto guidato andrebbe bene. Un verdetto in cui non siano previsti ripensamenti da parte dello stato. Altrimenti, ce la giocheremo.» Il giudice annuì e congiunse le mani sulla scrivania.
«Un verdetto guidato sarebbe assurdo, vostro onore» disse alla fine Minton ritrovando la voce. «Siamo arrivati alla fine del processo. Possiamo anche arrivare a un verdetto. La giuria lo merita. Solo perché lo stato ha commesso un errore, non c'è ragione di sovvertire l'intero processo.» «Non sia stupido, signor Minton» disse il giudice in tono conclusivo. «Qui non stiamo parlando di cosa meriti o non meriti la giuria. E per quanto ne so, un errore come quello che ha commesso lei è sufficiente. Non voglio che dal secondo piano mi rimbalzino la palla e di sicuro lo faranno. Per cui dovrò accollarmi io il peso della sua cattiva cond...» «Non ero a conoscenza della storia di Corliss!» Minton disse con energia. «Giuro su Dio che non lo sapevo.» L'intensità delle sue parole provocò un momentaneo silenzio nell'ufficio. Fui io a riempire il vuoto. «Così come non sapevi del coltello, vero Ted?» Il giudice Fullbright distolse lo sguardo da Minton, guardò me e poi di nuovo Minton. «Quale coltello?» chiese. Minton non disse nulla. «Diglielo» dissi. Minton scosse la testa. «Non so di cosa stia parlando» disse Minton. «Allora me lo dica lei» disse il giudice rivolta a me. «Giudice, se uno aspetta lo scambio delle prove da parte della procura può anche rinunciarci sin da subito» dissi. «Se si limita ad aspettare, i testimoni scompaiono, le storie cambiano, si può arrivare a perdere un processo.» «Cosa c'entra il coltello?» «Avevo bisogno di dare un'accelerata a questa causa. Perciò ho chiesto al mio investigatore di raccogliere notizie passando dalla porta di servizio. Niente di insolito, un gioco scoperto. Invece loro lo aspettano al varco, lo ingannano e gli passano un falso rapporto sul coltello in modo che io non venga a sapere delle iniziali sulla lama. L'ho saputo solo quando sono riuscito a ottenere il rapporto ufficiale delle prove.» Il giudice serrò le labbra. «Haller fa riferimento alla polizia, non alla procura» ribatté Minton con prontezza. «Trenta secondi fa ha detto che non sapeva di cosa stesse parlando» disse il giudice Fullbright. «Ora tutto a un tratto lo sa. Non mi importa di chi
è stata la colpa. Lei mi sta dicendo che questa cosa è accaduta sul serio?» Minton annuì a disagio. «Sì, vostro onore. Però lo giuro, io non...» «Lo sa cosa mi fa capire questa storia?» disse il giudice interrompendolo. «Mi fa capire che in questo processo l'accusa non ha giocato pulito dall'inizio alla fine. Non ha importanza chi ha fatto che cosa o che l'investigatore del signor Haller abbia agito scorrettamente. Lo stato deve essere superiore. E come si è dimostrato oggi nella mia aula, è stato tutto tranne che superiore.» «Vostro onore, questo non...» «Basta, signor Minton. Credo di aver sentito abbastanza. Ora voglio che ve ne andiate entrambi. Tra mezz'ora mi siederò al mio seggio e comunicherò come intendo procedere. Non so ancora quali decisioni prenderò, ma indipendentemente da quello che sarà, non credo le piacerà ciò che avrò da dire, signor Minton. E le ordino di far venire in aula con lei il suo capo, il signor Smithson, in modo che possa ascoltare anche lui.» Mi alzai. Minton non si mosse. Sembrava ancorato alla sedia. «Ho detto che potete andare!» sbraitò il giudice. 42 Seguii Minton in aula passando attraverso l'ufficio del cancelliere. La stanza era occupata solo da Meehan, che sedeva alla scrivania dell'ufficiale giudiziario. Presi la mia valigetta dal tavolo della difesa e mi diressi verso il cancello. «Haller, aspetta un secondo» disse Minton raccogliendo i documenti dal suo tavolo. Mi fermai davanti al cancello e mi voltai. «Che c'è?» Minton mi si avvicinò e mi indicò con un cenno del capo la porta posteriore dell'aula. «Usciamo di qui.» «Il mio cliente mi starà aspettando da questa parte.» «Vieni.» Si diresse verso la porta e io lo seguii. Minton si fermò nell'anticamera dove mi ero confrontato con Roulet due giorni prima. Rimase in silenzio. Stava mettendo insieme le parole. Ancora una volta decisi di provocarlo. «Mentre tu vai a chiamare Smithson, io pensavo di fare un salto nell'uf-
ficio del "Times" al secondo piano per assicurarmi che un cronista sappia che tra mezz'ora da queste parti ci saranno i fuochi d'artificio.» «Ascolta» farfugliò Minton. «Dobbiamo risolvere questa storia.» «Dobbiamo?» «Vedi di aspettare un attimo con il "Times", okay? Dammi il tuo numero di cellulare e dieci minuti di tempo.» «Per fare che cosa?» «Lasciami scendere nel mio ufficio a vedere cosa posso fare.» «Non mi fido di te, Minton.» «Be', per una decina di minuti dovrai fidarti di me, se per il tuo cliente vuoi ottenere qualcosa di più di uno stupido articolo.» Distolsi lo sguardo e mi comportai come se stessi considerando l'offerta. Alla fine tornai a guardarlo. Eravamo a un passo uno dall'altro. «Sai, Minton, avrei anche potuto passar sopra a tutte le tue stronzate. Il coltello, l'arroganza e tutto il resto. Sono un professionista e ogni giorno della mia vita so di dover convivere con la merda che spandono intorno i pubblici ministeri. Ho deciso di non concederti alcuna pietà nel momento in cui hai cercato di dare la responsabilità di Corliss a Maggie McPherson.» «Ascolta, io non l'ho fatto con l'intenzione...» «Minton, guardati attorno. Qui ci siamo solo noi. Niente telecamera, niente nastro, niente testimoni. Hai intenzione di startene lì a dirmi che non hai mai sentito parlare di Corliss fino alla riunione del personale di ieri?» Rispose puntandomi stizzito un dito contro il viso. «E tu hai intenzione di startene lì a dirmi che non hai mai sentito parlare di lui fino a stamattina?» Ci fissammo per un po'. «Posso essere inesperto, ma non sono stupido» disse. «Per tutto il processo la tua strategia è stata di spingermi a usare Corliss. Hai sempre saputo quello che potevi fare con lui. E probabilmente te l'ha detto la tua ex.» «Se puoi dimostrarlo, fallo» dissi. «Oh, non preoccuparti, potrei... se ne avessi il tempo. Però ho solo mezz'ora.» Alzai lentamente il braccio per guardare l'ora. «Ventisei minuti.» «Dammi il tuo numero di cellulare.» Lo feci e lui si allontanò. Aspettai quindici secondi nell'anticamera prima di uscire dalla porta. Roulet era in piedi vicino alla vetrata da cui si ve-
deva la piazza sottostante. Sua madre e C.C. Dobbs erano seduti su una panca contro la parete di fronte. Più avanti nel corridoio scorsi la detective Sobel. Roulet mi vide e mi si fece incontro in fretta. Sua madre e Dobbs lo seguirono. «Che succede?» chiese Roulet. Aspettai che fossero tutti intorno a me prima di rispondere. «Credo che stia per esplodere tutto.» «Che cosa intende dire?» chiese Dobbs. «Il giudice sta prendendo in considerazione un verdetto guidato. Lo sapremo presto.» «Cos'è un verdetto guidato?» chiese Mary Windsor. «Un verdetto di assoluzione emesso direttamente dal giudice escludendo la giuria. La Fullbright è furiosa perché Minton si è comportato scorrettamente con Corliss e in altre occasioni.» «Può farlo? Assolverlo e basta?» «È il giudice. Può fare quello che vuole.» «Oh, mio Dio!» La Windsor si portò una mano alla bocca e sembrò sul punto di mettersi a piangere. «Ho solo detto che sta considerando questa ipotesi» precisai. «Non significa che accadrà. Però mi ha già offerto l'annullamento del processo e l'ho rifiutato con fermezza.» «L'ha rifiutato?» strillò Dobbs. «Perché?» «Perché non ha senso. L'accusa potrebbe tornare all'attacco e processare di nuovo Louis, questa volta con una strategia migliore perché conoscerebbero le nostre mosse. Lasciamo perdere l'annullamento. Non diamo vantaggi all'accusa. Vogliamo un verdetto senza ritorno o andiamo avanti con questa giuria fino al verdetto di oggi. Anche se dovesse essere contrario avremmo solide motivazioni per ricorrere in appello.» «Non è una decisione che dovrebbe prendere Louis?» chiese Dobbs. «Dopo tutto, lui è...» «Cecil, stai zitto» disse bruscamente la signora Windsor. «Stai zitto e smettila di sindacare tutto quello che quest'uomo sta facendo per Louis. Ha ragione lui. Non dobbiamo affrontare un'altra volta tutto questo!» Dobbs reagì come se l'avesse schiaffeggiato. Si mise in disparte. Guardai Mary Windsor e le vidi un volto diverso. Il volto di una donna che aveva iniziato un'attività da zero e l'aveva portata ai vertici del successo. Guardai
anche Dobbs in maniera differente e mi resi conto che sin dall'inizio doveva averle dolcemente sussurrato all'orecchio pareri negativi sul mio conto. Lasciai perdere e mi concentrai sulle priorità. «C'è solo una cosa che la procura odia più di un verdetto di assoluzione» dissi. «Ed è essere messa in imbarazzo da un giudice con un verdetto guidato, soprattutto dopo aver verificato la cattiva condotta del pubblico ministero. Minton è sceso a parlare con il suo capo, un uomo di potere, sempre pronto a puntare il dito contro qualcuno. Tra pochi minuti forse riusciremo ad avere notizie.» Roulet si trovava davanti a me. Guardai alle sue spalle e vidi che la detective Sobel era ancora in corridoio. Stava parlando al cellulare. «Ascoltate» dissi. «Voi rimanete tutti qui. Se tra venti minuti non ho ancora avuto notizie dall'ufficio del procuratore, ce ne torniamo in aula e vediamo cosa vuole fare il giudice. Perciò non vi allontanate. Se volete scusarmi, devo andare in bagno.» Percorsi il corridoio in direzione della detective Sobel. Roulet si staccò dagli altri e mi raggiunse. Mi afferrò il braccio per fermarmi. «Voglio ancora sapere come sono venute in mente a Corliss quelle stronzate che ha detto» mi chiese. «Che cosa importa? Ha fatto il nostro gioco. Questo è quello che conta.» Roulet avvicinò il suo viso al mio. «Quell'individuo mi ha dato dell'assassino dal banco dei testimoni. Come fa a esserci utile?» «Perché nessuno gli ha creduto. Ed è per questo che il giudice è così arrabbiato, perché per dire le cose peggiori sul tuo conto hanno usato la testimonianza di un bugiardo di professione. È stata considerata malafede aver sbattuto quelle informazioni in faccia alla giuria e poi aver scoperto che quel teste è un bugiardo. Non hai visto? Ho dovuto alzare i paletti. Era l'unico modo per spingere il giudice a fare pressione sull'accusa. Sto facendo esattamente quello che volevi che io facessi, Louis. Ti sto tirando fuori.» Lo guardai mentre rifletteva. «Perciò lascia perdere» dissi. «Torna da tua madre e da Dobbs e fammi andare a fare pipì.» Scosse la testa. «No, non lascio perdere, Mick.» Mi piantò un dito nel petto. «Qui sta succedendo qualcos'altro che non mi piace. Devi ricordarti una
cosa, Mick. Io ho la tua pistola. E tu hai una figlia. Tu devi...» Chiusi la mia mano sulla sua e allontanai il dito dal torace. «Non osare minacciare la mia famiglia» dissi controllando a fatica la collera. «Se vuoi colpire me, va bene, colpiscimi e finiamola. Ma se mai minaccerai di nuovo mia figlia, io ti seppellirò così profondamente che non ti ritroveranno mai più. Mi hai capito, Louis?» Annuì lentamente e fece una smorfia simile a un sorriso. «Certo, Mick. Ci siamo capiti.» Gli liberai la mano e lo lasciai lì. Iniziai a camminare verso il fondo del corridoio dove c'erano i bagni e dove la detective Sobel, mentre parlava al cellulare, sembrava aspettare qualcuno. Il pensiero della minaccia a mia figlia mi annebbiava la mente. Mentre mi avvicinavo alla detective cercai di allontanarlo. La raggiunsi quando terminò la chiamata. «Detective Sobel» dissi. «Signor Haller» rispose lei. «Posso chiederle come mai è qui? Ha intenzione di arrestarmi?» «Sono qui perché mi ha invitato lei, ricorda?» «Veramente no.» Strinse gli occhi. «È stato lei a dirmi che avrei dovuto controllare il suo processo.» Di colpo capii che si riferiva alla conversazione che avevamo avuto nello studio di casa mia durante la perquisizione di due sere prima. «Giusto, lo avevo scordato. Be', sono contento che mi abbia preso in parola. Prima ho visto il suo collega. Che fine ha fatto?» «Oh, è in giro.» Cercai di interpretare le sue parole. Non aveva risposto alla domanda se avesse intenzione di arrestarmi. Feci un cenno in direzione dell'aula. «Allora cosa ne pensa?» «Interessante. Avrei voluto essere una mosca nello studio del giudice.» «Rimanga nei paraggi. Non è finita.» «Forse resterò.» Il mio cellulare iniziò a vibrare. Infilai una mano nella giacca e lo presi dalla tasca sul fianco. La chiamata proveniva dall'ufficio del procuratore. «Devo rispondere» dissi. «Ma certo» disse lei. Aprii il telefono e cominciai a risalire il corridoio dove Roulet stava passeggiando. «Pronto?»
«Mickey Haller, sono Smithson, procura distrettuale. Come va la sua giornata?» «Ne ho conosciute di migliori.» «Non dirà la stessa cosa dopo che avrà sentito cosa sto per offrirle.» «La ascolto.» 43 Il giudice uscì dal suo studio un quarto d'ora dopo la mezz'ora concordata. Eravamo tutti in attesa, io e Roulet al tavolo della difesa, sua madre e Dobbs dietro di noi in prima fila. Al tavolo dell'accusa Minton non era più solo. Accanto a lui sedeva Smithson. Doveva essere la prima volta dall'inizio dell'anno che partecipava di persona a un processo. Minton sembrava depresso, frustrato. Lì, seduto accanto a Smithson, poteva essere scambiato per un imputato in compagnia del suo avvocato. Un imputato colpevole. Il detective Booker non si trovava in aula. Mi chiesi se fosse in servizio o semplicemente nessuno si fosse preoccupato di dargli la brutta notizia. Mi voltai per controllare l'ora sul grande orologio a muro e per guardare fra il pubblico. Lo schermo per la presentazione in PowerPoint di Minton era sparito, un preavviso di quanto stava per accadere. Seduta in ultima fila, la detective Sobel. Del suo collega e di Kurlen ancora nessuna traccia. Non c'era nessun altro, a parte Dobbs e la signora Windsor, e loro non contavano. La fila riservata ai media era vuota. Nessuno li aveva avvisati. Avevo rispettato la mia parte di accordo con Smithson. Meehan richiamò l'aula all'ordine e il giudice Fullbright prese posto al suo scranno con un movimento plateale, tanto che il profumo di lillà si diffuse tra i tavoli. Ne dedussi che doveva essersi fumata più di una sigaretta nel suo studio e che aveva usato la mano pesante con il profumo per nasconderlo. «Apprendo dal cancelliere che abbiamo una richiesta in relazione alla vertenza dello stato contro Louis Ross Roulet.» Minton si alzò. «Sì, vostro onore.» Non aggiunse altro, come se non fosse in grado di parlare. «Ebbene, signor Minton, ha intenzione di sottopormela telepaticamente?» «No, vostro onore.»
Minton abbassò lo sguardo verso Smithson che gli fece cenno di proseguire. «Lo stato chiede di prosciogliere Louis Ross Roulet da tutte le accuse.» Il giudice annuì come se si fosse aspettata la richiesta. Sentii distintamente un sospiro alle mie spalle e capii che proveniva da Mary Windsor. Si era aspettata quella richiesta, ma aveva tenuto a freno le emozioni fino al momento in cui l'aveva sentita pronunciare in aula. «Con o senza pregiudizio?» chiese il giudice. «Assoluzione con pregiudizio.» «Ne è certo, signor Minton? Questo significa nessuna possibilità da parte dello stato di tornare sulla materia.» «Sì, vostro onore, lo so» disse Minton con tono infastidito perché il giudice aveva sentito l'esigenza di spiegargli la legge. Il giudice scrisse qualcosa e tornò a guardare Minton. «Ritengo vada messo a verbale come l'accusa sia arrivata a formulare questa richiesta. Abbiamo formato una giuria e ascoltato più di due giorni di testimonianze. Come mai una richiesta del genere arrivati a questo punto, signor Minton?» Smithson si alzò. Era un uomo alto e magro dalla carnagione chiara. Il prototipo del rappresentante dell'accusa. Nessuno avrebbe accettato un procuratore distrettuale grasso e quello era esattamente ciò che si augurava di diventare. Indossava un vestito grigio scuro con quello che era diventato il suo marchio di fabbrica: un farfallino marrone rossiccio e un fazzoletto in tinta che spuntava dal taschino della giacca. Tra gli avvocati difensori, girava voce che un consulente politico gli avesse consigliato di cominciare a costruirsi un'immagine riconoscibile dai media in modo che gli elettori lo avrebbero riconosciuto quando si fosse candidato. Questa era una delle situazioni in cui non aveva voluto che i media informassero i suoi elettori della sua presenza. «Se mi è concesso, vostro onore» disse. «A verbale la deposizione del procuratore distrettuale aggiunto John Smithson, responsabile della divisione di Van Nuys. Benvenuto. Vada avanti, prego.» «Giudice Fullbright, è stata sottoposta alla mia attenzione l'ipotesi di lasciar cadere le accuse contro il signor Roulet nell'interesse della giustizia.» Pronunciò in modo sbagliato il nome di Roulet. «Nessun'altra motivazione da aggiungere?» chiese il giudice. Smithson si prese il tempo per riflettere prima di rispondere. Anche se
non erano presenti giornalisti, il verbale dell'udienza sarebbe stato reso pubblico e le sue parole avrebbero avuto una loro visibilità. «Giudice, è stato sottoposto alla mia attenzione il fatto che vi siano state delle irregolarità nel corso dell'indagine e nello svolgersi del conseguente procedimento giudiziario. L'attività del nostro ufficio si basa sulla certezza dell'inviolabilità del nostro sistema giudiziario. Alla divisione di Van Nuys è mia personale cura salvaguardare questo principio fondamentale e prendo questo impegno in modo estremamente serio. Perciò, secondo il nostro modo di pensare, è meglio chiedere un proscioglimento piuttosto che vedere la giustizia compromessa, in un modo o nell'altro.» «La ringrazio, signor Smithson. Le sue parole mi sono di grande conforto.» Il giudice prese un altro appunto e abbassò di nuovo lo sguardo verso di noi. «La richiesta dello stato viene accolta» disse. «Louis Roulet è prosciolto con pregiudizio da tutte le accuse. Signor Roulet, lei è assolto e libero di andare.» «La ringrazio, vostro onore» dissi. «Rimane il problema della giuria che rientrerà all'una» disse il giudice Fullbright. «Li radunerò e spiegherò loro che il caso è stato risolto. Se gli avvocati vorranno tornare, sono certa che i giurati avranno delle domande da sottoporre. Comunque, non è richiesto che si ripresentino.» Annuii, senza dire che sarei tornato. Sapevo che non l'avrei fatto. Le dodici persone che nell'ultima settimana avevo considerato così importanti erano appena uscite dall'orbita dei miei interessi. Mi erano diventate insignificanti, come gli automobilisti che incrocio in autostrada in direzione opposta alla mia. Erano passati, il nostro rapporto si era concluso. Il giudice lasciò lo scranno e Smithson fu il primo a uscire dall'aula. Non aveva nulla da dire, né a Minton né a me. La sua priorità più pressante era prendere le distanze da un risultato catastrofico del pubblico ministero. Alzai lo sguardo e il pallore di Minton mi colpì. Immaginai di veder comparire presto il suo nome sulle pagine gialle. Il suo primo confronto con un reato penale di una certa gravità gli era costato parecchio: la sopravvivenza in procura. Presto si sarebbe unito alla schiera degli avvocati difensori. Roulet si sporse oltre la ringhiera per abbracciare la madre. Dobbs gli teneva una mano sulla spalla in segno di congratulazione, ma l'avvocato di famiglia non si era del tutto ripreso dall'aspro rimprovero che gli aveva fatto la signora Windsor in corridoio.
Quando gli abbracci furono terminati, Roulet si girò verso di me e, con una certa esitazione, mi strinse la mano. «Non mi sbagliavo sul tuo conto» disse. «Sapevo che eri quello giusto.» «Voglio la pistola» dissi impassibile. Il mio volto non esprimeva nessuna gioia per la vittoria appena ottenuta. «Certo.» Si voltò di nuovo verso la madre. Esitai un attimo, poi mi girai verso il tavolo della difesa. Aprii la valigetta e cominciai a riporre i documenti. «Michael?» Mi voltai. Era Dobbs che allungava una mano oltre la ringhiera. La strinsi e annuii. «Ha fatto un buon lavoro» disse Dobbs, come se avessi bisogno di sentirlo dire da lui. «Noi tutti lo apprezziamo molto.» «Grazie per avermi dato la possibilità di provarci. So che all'inizio non era troppo sicuro sul mio conto.» Fui abbastanza cortese da non fare parola sullo scoppio d'ira della signora Windsor in corridoio. «Solo perché non la conoscevo» disse Dobbs. «Adesso la conosco. Adesso ho chi raccomandare ai miei clienti.» «Grazie. Anche se spero che il suo genere di clienti non abbia mai bisogno di me.» «Lo spero anch'io» disse con un sorriso. Fu il turno di Mary Windsor. Allungò la mano oltre la barra. «Signor Haller, grazie per quello che ha fatto per mio figlio.» «Prego» dissi senza entusiasmo. «Si prenda cura di lui.» «È quello che faccio sempre.» Annuii. «Perché non uscite tutti in corridoio? Sarò fuori tra un minuto. Devo terminare alcune cose qui con il cancelliere e il signor Minton.» Mi voltai di nuovo verso il tavolo. Vi girai attorno e mi avvicinai al cancelliere. «Quanto ci vorrà per avere una copia firmata dell'ordinanza del giudice?» «La trascriveremo oggi pomeriggio. Se non vuole tornare, possiamo fargliene avere una copia.» «Sarebbe perfetto. Potete mandarmela per fax?» Disse di sì e lasciai il numero di fax dell'appartamento di Lorna Taylor. Non sapevo ancora a cosa mi potesse servire, ma era naturale pensare che
un'ordinanza di proscioglimento potesse aiutarmi ad accalappiare un paio di clienti. Quando mi voltai per andarmene mi accorsi che la detective Sobel aveva lasciato l'aula. Era rimasto solo Minton. Era in piedi a raccogliere le sue cose. «Mi spiace non aver potuto vedere la tua arringa in PowerPoint» dissi. Annui. «Sì, era fatta bene. Credo che li avrebbe convinti.» «Cos'hai intenzione di fare adesso?» «Non lo so. Vedrò se riesco a superare questa tempesta e a trovare il modo di tenermi questo lavoro.» Si infilò i documenti sotto braccio. Non aveva una valigetta. Gli bastava tornare al secondo piano. Si voltò e mi fissò con sguardo severo. «L'unica certezza che ho è che non voglio passare il segno. Non voglio diventare come te, Haller. Mi piace troppo dormire la notte.» Poi si diresse verso il cancello e uscì a grandi passi dall'aula. Lanciai un'occhiata al cancelliere per vedere se aveva sentito le parole di Minton. Da come si comportava sembrava di no. Prima di seguire Minton esitai. Sollevai la valigetta e, mentre spingevo il cancello, mi voltai indietro. Guardai lo scranno del giudice vuoto e lo stemma dello stato sul pannello anteriore. Feci un cenno di saluto e uscii. 44 Roulet e il suo seguito mi stavano aspettando in corridoio. Guardai in entrambe le direzioni e vidi la detective Sobel sul fondo, vicino agli ascensori. Stava parlando al cellulare e sembrava in attesa dell'ascensore, ma il tasto della discesa non pareva illuminato. «Michael, vuole pranzare con noi?» chiese Dobbs appena mi vide. «Vogliamo festeggiare!» Mi accorsi che adesso mi chiamava per nome. La vittoria rende tutti affabili. «Uhm...» dissi, continuando a guardare la detective. «Non credo di farcela.» «Perché no? Non credo che abbia udienze nel pomeriggio, o mi sbaglio?» Lo guardai. Avevo voglia di dirgli che non volevo pranzare con loro perché non intendevo rivedere mai più né lui, né Mary Windsor, né Louis
Roulet. «Rimarrò nei paraggi per parlare con i giurati quando torneranno.» «Perché?» chiese Roulet. «Mi aiuterà a capire che cosa pensavano e a che punto eravamo arrivati.» Dobbs mi diede una pacca sull'avambraccio. «Sempre imparare, sempre migliorare per il prossimo processo. Non la biasimo.» Sembrava felice che non mi unissi a loro. E aveva una buona ragione. Mi voleva fuori dai piedi per dedicarsi al recupero del suo rapporto con Mary Windsor. Voleva che la loro tornasse a essere una relazione esclusiva. Sentii il suono attutito del campanello di un ascensore in arrivo e guardai di nuovo in fondo al corridoio. Di fronte all'ascensore che si stava aprendo era in attesa Heidi Sobel. Pensavo che stesse per scendere. Invece dall'ascensore uscirono Lankford, Kurlen e Booker e si unirono a lei. Si voltarono e cominciarono ad avanzare verso di noi. «Allora la lasciamo al suo lavoro» disse Dobbs, che dava le spalle ai detective in avvicinamento. «Abbiamo prenotato da Orso e prima che arriviamo lassù si sarà fatto tardi.» «Bene» dissi, continuando a guardare in fondo al corridoio. Dobbs, Mary Windsor e Roulet si voltarono per andarsene nel momento in cui i quattro detective ci raggiunsero. «Louis Roulet» annunciò Kurlen. «Lei è in arresto. Si volti, per cortesia, e metta le mani dietro la schiena.» «No!» strillò Mary Windsor. «Lei non può...» «Che significa?» gridò Dobbs. Kurlen non rispose né aspettò che Roulet ubbidisse. Si fece avanti e fece voltare Roulet di forza. Mentre lui si girava, incontrò il mio sguardo. «Che sta succedendo, Mick?» disse con voce tranquilla. «Questo non era previsto.» Mary Windsor si avvicinò al figlio. «Tolga le mani da mio figlio!» Afferrò Kurlen da dietro, ma Booker e Lankford la raggiunsero e la bloccarono, con gentilezza ma fermamente. «Signora, stia indietro» ordinò Booker. «O arrestiamo anche lei.» Kurlen iniziò a leggere a Roulet i suoi diritti. Mary Windsor si ritrasse ma continuando a urlare.
«Come osate? Non potete farlo!» Il suo corpo era in preda a sussulti incontrollabili e sembrava che delle mani invisibili la trattenessero dall'aggredire di nuovo Kurlen. «Mamma» disse Roulet con un tono che esprimeva più autorità di tutti i detective messi insieme. Mary Windsor si calmò. Si arrese. Ma non Dobbs. «Con quale accusa lo state arrestando?» domandò. «È sospettato di omicidio» disse Kurlen. «L'omicidio di Martha Renteria.» «Non è possibile!» urlò Dobbs. «È stato dimostrato che ciò che ha detto il testimone, quel Corliss, era falso. Siete impazziti? Il giudice ha annullato il processo proprio per le falsità che ha raccontato quell'uomo.» Kurlen interruppe la lettura dei diritti di Roulet e guardò Dobbs. «Se non c'era niente di vero, come fa a sapere che stava parlando di Martha Renteria?» Dobbs si accorse dell'errore e si allontanò dal gruppo di un passo. Kurlen sorrise. «Lo immaginavo» disse. Afferrò Roulet per un gomito e lo fece voltare. «Andiamo» disse. «Mick?» disse Roulet. «Detective Kurlen» dissi. «Posso parlare un attimo con il mio cliente?» Kurlen mi guardò, come per valutare le mie intenzioni e quindi annuì. «Un minuto. Gli dica di comportarsi bene e per lui le cose saranno più facili.» Spinse Roulet nella mia direzione. Lo presi per un braccio e lo portai a qualche passo di distanza fino a dove gli altri non avrebbero potuto sentirci. Mi avvicinai a lui e gli parlai sussurrando. «È finita, Louis. Questo è un addio. Io ti ho fatto uscire. Adesso arrangiati. Trovati un nuovo avvocato.» Era sconvolto. Poi sul suo volto cominciò a farsi strada una rabbia incontenibile. Una manifestazione di puro furore, la stessa che dovevano aver visto Regina Campo e Martha Renteria. «Non avrò bisogno di nessun avvocato» mi disse. «Credi che possano costruire una causa basandosi su quello che hai fatto dire a quella spia bugiarda là dentro? Farai meglio a ripensarci.» «Non avranno bisogno della spia, Louis. Credimi, troveranno di più. Probabilmente hanno già di più.»
«E tu, Mick? Non stai dimenticando qualcosa? Io ho...» «Lo so. Non ha più nessuna importanza ormai. A loro la mia pistola non serve più. Hanno già tutto quello di cui hanno bisogno. Comunque, qualsiasi cosa mi succeda, saprò che ti ho distrutto. Alla fine, dopo il processo e tutti gli appelli, quando ti infileranno quell'ago nel braccio, sarà come se lo stessi facendo io, Louis. Ricordatelo.» Sorrisi senza allegria e mi avvicinai. «Tutto questo è per Raul Levin. Magari non finirai dentro per lui, ma dentro ti ci sbatteranno di sicuro, puoi starne certo.» Gli lasciai il tempo di registrare quello che gli avevo detto, poi mi allontanai e feci un cenno a Kurlen. Lui e Booker vennero ai lati di Roulet e gli afferrarono gli avambracci. «Mi hai incastrato» disse Roulet, mantenendosi calmo. «Tu non sei un avvocato. Tu lavori per loro.» «Andiamo» disse Kurlen. Fecero per spostarlo, ma lui per un attimo si liberò di loro e mi fissò con gli occhi infuriati. «Non finisce qui, Mick» disse. «Entro domattina sarò fuori. E tu cosa farai? Pensaci. Cos'hai intenzione di fare? Non puoi proteggere tutti.» Lo afferrarono con più forza e lo voltarono bruscamente verso gli ascensori. Questa volta Roulet se ne andò senza opporsi. A metà strada verso l'ascensore, con sua madre e Dobbs che lo seguivano, voltò la testa per guardare alle sue spalle nella mia direzione. Sorrise e attraverso quel sorriso mi trasmise ciò che voleva che io ricordassi. Non puoi proteggere tutti. Un brivido gelido di paura mi trafisse il petto. Un uomo era in attesa dell'ascensore che si fermò al piano nel momento in cui il gruppo lo raggiunse. Lankford fece segno all'uomo di restare indietro e salì sull'ascensore. Roulet venne spinto all'interno. Dobbs e Mary Windsor stavano per seguirlo quando vennero bloccati dalla mano tesa in avanti del detective Lankford. La porta dell'ascensore iniziò a chiudersi e Dobbs schiacciò ripetutamente e con rabbia il tasto accanto senza riuscire a fermarlo. Speravo che fosse l'ultima immagine di Louis Roulet che mi sarebbe toccato vedere ma la paura mi era rimasta intrappolata nel petto e si agitava come una farfalla attratta dalla luce di una veranda. Distolsi lo sguardo e andai quasi a sbattere contro la detective Sobel. Non mi ero accorto che era rimasta indietro.
«Gli indizi che avete raccolto sono abbastanza, vero?» dissi. «Mi confermi che se non aveste avuto abbastanza per tenerlo dentro non vi sareste mossi così in fretta.» Mi guardò a lungo prima di rispondere. «Non saremo noi a deciderlo. Lo farà il procuratore distrettuale. Dipende da quello che gli tireranno fuori durante l'interrogatorio. Fino a oggi però ha avuto un avvocato piuttosto in gamba. Avrà imparato che non deve aprir bocca.» «Allora perché non avete aspettato?» «Non era di mia competenza.» Scossi la testa. Volevo dirle che si erano mossi troppo in fretta. Non faceva parte del piano. Io volevo piantare il seme e basta. Avrei voluto che si muovessero con più calma e che facessero le cose per bene. La farfalla si agitava dentro di me e abbassai lo sguardo. Non riuscivo a scrollarmi di dosso l'idea che tutte le mie macchinazioni avessero fallito, lasciando me e la mia famiglia in balia di un feroce assassino. Non puoi proteggere tutti. Era come se la detective avesse letto le mie paure. «Ma faremo il possibile per trattenerlo» disse. «Abbiamo la dichiarazione che ha fatto l'informatore in aula e la multa. Stiamo lavorando sui testimoni e sul rapporto del medico legale.» Alzai lo sguardo verso di lei. «Quale multa?» Assunse un'espressione sospettosa. «Credevo l'avesse immaginato. Noi ci siamo arrivati appena l'informatore ha nominato la ballerina con il serpente.» «Sì. Martha Renteria. L'ho capito. Ma quale multa? Di cosa sta parlando?» Mi ero avvicinato troppo e la detective indietreggiò di un passo. Non era colpa del mio alito ma della mia reazione disperata. «Non so se devo dirglielo, Haller. Lei è un avvocato difensore. È il suo avvocato.» «Non più. Mi sono appena dimesso.» «Non importa. Lui...» «Ascolti, voi avete appena fermato quell'individuo per merito mio. Potrei essere radiato dall'albo per questo. Potrei perfino finire in prigione per un omicidio che non ho commesso. Di quale multa sta parlando?» Esitò e io aspettai, ma poi alla fine parlò.
«Sono state le ultime parole di Raul Levin. Diceva che aveva trovato il biglietto di uscita per Jesus.» «Cosa voleva dire?» «Davvero non lo sa?» «Senta, me lo dica e basta. La prego.» Si intenerì. «Abbiamo ricostruito gli ultimi movimenti di Levin. Prima di essere ucciso aveva fatto delle ricerche sulle contravvenzioni di Roulet. Si era fatto stampare delle copie. Abbiamo confrontato le multe che risultavano registrate a computer con le stampe che avevamo trovato nel suo ufficio. Ne mancava una. Mancava una stampa. Non sapevamo se l'assassino l'avesse portata via il giorno dell'omicidio o se Levin si fosse semplicemente scordato di farsela stampare. L'abbiamo stampata noi. La multa era stata emessa la sera dell'8 aprile di due anni prima. Una contravvenzione per aver parcheggiato di fronte a un idrante dell'isolato 167 di Blythe Street a Panorama City.» Adesso tutto tornava, come l'ultimo granello di sabbia che cade dentro una clessidra. Raul Levin aveva davvero trovato la chiave della salvezza di Jesus Menendez. «Martha Renteria è stata uccisa l'8 aprile di due anni fa» dissi. «Viveva su Blythe a Panorama City.» «Sì, ma noi non lo sapevamo. Non ci eravamo accorti del collegamento. Lei ci aveva detto che Levin stava lavorando a diversi casi per lei. Jesus Menendez e Louis Roulet erano due indagini separate. Anche Levin le aveva catalogate divise.» «Voleva evitare di confondere gli elementi probatori. Tenendo i due casi separati si evitava il pericolo che io mi servissi di quello che lui aveva scoperto su Menendez per il caso Roulet.» «Tipico cavillo da avvocato. Be', questo sistema ci ha impedito di giungere a una conclusione finché l'informatore nella sua testimonianza ha nominato la ballerina con il serpente. A quel punto ogni tassello è andato al suo posto.» Annuii. «Quindi chi ha ucciso Raul Levin si è anche portato via quella stampa?» «Riteniamo di sì.» «Avete verificato se i telefoni di Raul erano sotto controllo? Qualcuno era venuto a sapere che aveva trovato la multa.» «Sì. Non è risultato nulla. Le cimici potrebbero essere state tolte al mo-
mento dell'omicidio. O forse era il telefono di qualcun altro a essere sotto controllo.» Cioè il mio. Si sarebbe spiegato come mai Roulet conoscesse tanti miei movimenti e fosse venuto ad aspettarmi a casa mia la sera in cui ero tornato dall'incontro con Jesus Menendez. «Farò controllare il mio telefono» dissi. «Tutto ciò significa che non sono più sospettato dell'omicidio di Raul?» «Non è detto» rispose la detective Sobel. «Aspettiamo di vedere cosa risulta dai rapporti balistici. Speriamo che arrivi qualcosa oggi stesso.» Annuii. Non sapevo come rispondere. Lei indugiava, come se volesse dirmi o chiedermi qualcos'altro. «E allora?» dissi. «Non so. Non ha nulla da dirmi?» «Non so. Non c'è niente da dire.» «Davvero? In aula sembrava che avesse molto da dirci.» Rimasi un momento in silenzio, cercando di leggere tra le righe. «Che cosa vuole da me, detective Sobel?» «Lo sa cosa voglio. Voglio l'assassino di Raul Levin.» «Be', anch'io. Anche se volessi, però, non potrei darle Roulet per Levin. Non so come abbia fatto a ucciderlo.» «E allora lei resta ancora un indiziato.» Guardò in fondo al corridoio verso gli ascensori, la sua allusione era stata chiara. Se il rapporto balistico corrispondeva, avrei potuto avere ancora delle noie per il caso Levin. Il risultato balistico sarebbe servito loro come leva per farmi uscire allo scoperto. Se non fossi stato in grado di rivelare come Roulet aveva ucciso Levin, sarei finito dentro io con la stessa accusa. Cambiai argomento. «Quanto tempo crede ci vorrà prima che Jesus Menendez venga scarcerato?» chiesi. Lei si strinse nelle spalle. «Difficile a dirsi. Dipende dalla causa che costruiranno contro Roulet, se una causa si farà. Però una cosa è certa. Non possono perseguire Roulet finché un'altra persona si trova in prigione per lo stesso crimine.» Mi voltai e mi diressi verso la vetrata. Appoggiai la mano libera sulla ringhiera che correva lungo il vetro. Avvertii una sensazione di euforia mista a terrore. La farfalla continuava a sbattere le ali dentro il petto. «Mi importa solo di due cose» dissi con calma. «Fare uscire Menendez e trovare l'assassino di Raul.»
Lei mi raggiunse e mi restò accanto. «Non so cosa intende fare» disse. «Ma lasci a noi il resto.» «Lo farò, ma il suo collega probabilmente mi metterà dentro per un omicidio che non ho commesso.» «È un gioco troppo pericoloso» disse. «Lasci perdere.» La guardai e tornai ad abbassare lo sguardo sulla piazza. «Va bene» dissi. «Lascerò perdere.» Ora che aveva sentito quello che voleva sentirsi dire, fece il gesto di andarsene. «Buona fortuna» disse. La guardai di nuovo. «Anche a lei.» Lei se ne andò e io rimasi lì. Mi voltai di nuovo verso la finestra per guardare la piazza. Vidi Dobbs e Mary Windsor attraversare i riquadri in cemento e dirigersi verso il parcheggio. Lei si appoggiava all'avvocato per sostenersi. Dubitavo che avessero ancora intenzione di pranzare da Orso. 45 Da quella sera la voce aveva cominciato a diffondersi. Non i dettagli riservati, ma la versione per tutti. E cioè che avevo vinto il processo, ottenuto una richiesta di proscioglimento non appellabile da parte della procura, per poi vedere il mio cliente arrestato per omicidio nei corridoi del tribunale in cui lo avevo appena fatto scagionare. Tutti gli avvocati difensori che conoscevo mi chiamarono. Ricevetti una telefonata dopo l'altra finché il cellulare si scaricò. Tutti i colleghi si congratulavano. Non essendo a conoscenza dei retroscena, per loro era stata una vittoria piena. Roulet costituiva l'apice della mia carriera. Gli avevo applicato le tariffe più alte che si possano pretendere per un processo, quindi avrei potuto farlo anche per il successivo. Era quello che la maggior parte degli avvocati difensori poteva solo sognare. E naturalmente, quando dissi ai colleghi che non mi sarei occupato della difesa del nuovo processo, tutti mi chiesero se potessi presentarli a Roulet. L'unica telefonata che arrivò sulla linea di casa era quella che desideravo di più. Quella di Maggie McPherson. «È tutta la sera che aspetto che mi chiami» dissi. Stavo passeggiando su e giù per la cucina, impigliato nel cavo del telefono. Quando ero arrivato a casa avevo controllato gli apparecchi e non
avevo trovato tracce di cimici per le intercettazioni telefoniche. «Scusa, ero in sala conferenze» disse. «Ho sentito che ti hanno trattenuta per Roulet.» «Sì, ed è per questo che chiamo. Lo lasceranno libero.» «Cosa stai dicendo? Lo lasciano uscire?» «Sì. L'hanno tenuto nove ore in una stanza e non è crollato. Forse gli hai insegnato troppo bene a non aprire bocca, perché è una roccia, non gli hanno cavato niente e questo significa che non hanno abbastanza elementi per trattenerlo.» «Ti sbagli. Ne hanno più che a sufficienza. Hanno la multa e devono esserci dei testimoni che l'hanno visto al Cobra Room. Anche Menendez può confermare che si trovava lì.» «Sai quanto me che Menendez è un bugiardo. Identificherebbe chiunque pur di uscire. E se ci sono altri testimoni che erano al Cobra Room, ci vorrà del tempo per rintracciarli. La multa dimostra che si trovava nel quartiere, non necessariamente nell'appartamento di lei.» «E il coltello?» «Ci stanno lavorando, ma anche per quello ci vorrà tempo. Ascolta, vogliamo fare le cose per bene. Era di turno Smithson e, credimi, voleva trattenerlo anche lui. Se ci fosse riuscito avrebbe reso più accettabile il fiasco che hai causato oggi in tribunale. Però non c'è riuscito. Non ancora. Lo faranno uscire, esamineranno i rapporti del medico legale e cercheranno i testimoni. Se Roulet è colpevole, lo prenderemo, e l'altro tuo cliente uscirà. Non devi preoccuparti. Ma dobbiamo fare le cose per bene.» Sferrai un inutile pugno nell'aria. «Sono stati troppo precipitosi. Non avrebbero dovuto muoversi oggi, diavolo!» «Immagino che abbiano pensato che nove ore di interrogatorio sarebbero servite a qualcosa.» «Si sono comportati da stupidi.» «Nessuno è perfetto.» Il suo atteggiamento mi infastidiva, ma evitai di dirglielo. Avevo bisogno che mi tenesse aggiornato. «Quando lo lasceranno andare esattamente?» chiesi. «Non lo so. L'interrogatorio è appena terminato. Kurlen e Booker sono venuti qui per riferire com'era andata e Smithson non ha fatto altro che rispedirli al LAPO. Immagino che lo faranno uscire quando arriveranno là.» «Ascoltami, Maggie. Roulet sa di Hayley.»
Ci fu un momento di silenzio terribilmente lungo prima che rispondesse. «Cosa stai dicendo, Haller? Hai lasciato che nostra figlia...» «Io non ho lasciato che succedesse niente. Si è infilato in casa mia e ha visto la sua fotografia. Non significa che sappia dove vive né come si chiami. Però sa della sua esistenza e vuole vendicarsi di me. Perciò devi andare immediatamente a casa. Voglio che tu rimanga con Hayley. Valla a prendere e portala via con te. Sii prudente.» Qualcosa mi trattenne dal raccontarle tutto, del fatto che in tribunale Roulet avesse formulato esplicite minacce alla mia famiglia. Non puoi proteggere tutti. Glielo avrei detto nel caso in cui lei avesse fatto resistenza. «Ora vado» disse. «E veniamo da te.» Sapevo che l'avrebbe detto. «No, non potete venire da me.» «Perché no?» «Perché lui potrebbe venire da me.» «Questa è una follia. Cos'hai intenzione di fare?» «Non lo so ancora con certezza. Tu vai solo a prendere Hayley e andate in un luogo sicuro. Poi chiamami con il cellulare, ma non dirmi dove sei. Sarà meglio che non lo sappia nemmeno io.» «Haller, chiama la polizia. Loro possono...» «E cosa gli dico?» «Non lo so. Di' loro che sei stato minacciato.» «Un avvocato difensore che dice alla polizia che si sente minacciato... sì, arriveranno di corsa. Probabilmente manderanno una squadra speciale.» «Qualcosa devi fare.» «Credevo di averla fatta. Credevo che sarebbe rimasto in carcere per il resto della sua vita. Invece vi siete mossi troppo in fretta e adesso vi tocca lasciarlo andare.» «Te l'ho detto, non avevamo elementi a sufficienza. E non ne abbiamo neppure ora che si aggiunge la minaccia ad Hayley.» «Allora vai da nostra figlia e prenditi cura di lei. Lascia a me il resto.» «Vado.» Non riattaccò. Come se volesse darmi la possibilità di aggiungere qualcosa. «Vi voglio bene, Mags» dissi. «A tutte e due. State attente.» Riagganciai prima che potesse rispondere. Ripresi immediatamente la cornetta e chiamai il numero di cellulare di Fernando Valenzuela. Rispose dopo cinque squilli.
«Val, sono io, Mick.» «Merda. Se avessi saputo che eri tu non avrei risposto.» «Ascolta, mi serve il tuo aiuto.» «Il mio aiuto? Mi chiedi aiuto dopo quello che mi hai detto l'altro giorno? Dopo che mi hai accusato?» «Ascoltami, Val, questa è un'emergenza. Quello che ti ho detto l'altro giorno non aveva senso e me ne scuso. Ti ripagherò il televisore, farò tutto quello che vuoi, ma mi serve subito il tuo aiuto.» Aspettai. Dopo una pausa rispose. «Cosa vuoi che faccia?» «Roulet ha ancora la cavigliera, giusto?» «Sì. So cos'è successo in tribunale, ma da lui non ho più avuto notizie. Uno dei miei collaboratori in tribunale mi ha detto che la polizia lo ha arrestato di nuovo, perciò non so cosa stia succedendo.» «Lo hanno arrestato, ma sta per essere rilasciato. Probabilmente ti chiamerà per farsi togliere la cavigliera.» «Sono già rientrato a casa, amico. Mi troverà domattina.» «È questo che voglio. Fallo aspettare.» «Non è un favore, amico.» «Questo è quanto. Voglio che tu apra il portatile e lo tenga d'occhio. Voglio sapere dove va quando lascerà il Dipartimento di Polizia. Puoi fare questo per me?» «Intendi subito?» «Sì, subito. È un problema?» «In un certo senso.» Mi preparai a un'altra discussione, ma rimasi sorpreso. «Ti ho detto dell'allarme batteria sulla cavigliera, no?» disse Valenzuela. «Sì, mi ricordo.» «Ebbene, ho ricevuto l'allarme del venti per cento circa un'ora fa.» «Quindi per quanto tempo riesci a individuarlo prima che la batteria si scarichi?» «A piena energia forse dalle sei alle otto ore circa; poi continua a bassa energia, il segnale comparirà ogni quarto d'ora per altre cinque ore.» Riflettei. Avevo bisogno di far passare la nottata e sapere che Maggie e Hayley erano al sicuro. «Quando funziona a bassa energia si mette a suonare» aggiunse Valenzuela. «Quindi il suo arrivo viene preannunciato. Se il rumore finisce per dargli fastidio è costretto a ricaricare la batteria.»
Pensai che avrebbe scelto di nuovo la tecnica Houdini. «Chiaro» dissi. «Mi hai detto che potevi inserire nel programma di rilevamento anche altri segnali di allarme.» «È così.» «Puoi regolarlo in modo che se si avvicina a un obiettivo specifico tu riceva un segnale?» «Sì, nel caso per esempio di un pedofilo puoi mettere un particolare segnale di allarme se si avvicina a una scuola. O casi del genere. Si deve impostare un obiettivo prestabilito.» «Ho capito.» Gli diedi l'indirizzo dell'appartamento su Dickens a Sherman Oaks dove vivevano Maggie e mia figlia. «Se arriva nell'area entro dieci isolati da quel posto mi chiami. Non importa a che ora, chiamami. Questo è il favore che ti chiedo.» «A cosa corrisponde l'indirizzo?» «È dove vive mia figlia.» Dopo un lungo silenzio Valenzuela ribatté. «Insieme a Maggie? Credi che abbia intenzione di andare lì?» «Non lo so. Spero che non faccia sciocchezze finché ha la cavigliera.» «D'accordo, Mick. Lo farò.» «Grazie, Val. E chiamami sul telefono di casa. Il cellulare è scarico.» Gli diedi il numero e rimasi un momento in silenzio, chiedendomi cosa potessi aggiungere per rimediare al mio tradimento di due sere prima. Alla fine lasciai perdere. Dovevo concentrarmi sulla minaccia attuale. Uscii dalla cucina e percorsi il corridoio fino al mio ufficio. Feci ruotare il Rolodex sulla scrivania finché trovai un numero, poi afferrai il telefono. Composi il numero e attesi. Guardai dalla finestra a sinistra della scrivania e mi accorsi che stava piovendo. Mi chiesi se le condizioni del tempo avrebbero influenzato il rilevamento via satellite di Roulet. Scacciai il pensiero quando al telefono rispose Teddy Vogel, il capo dei Road Saints. «Pronto.» «Ted, Mickey Haller.» «Avvocato, come va?» «Stasera non tanto bene.» «Allora sono felice che tu mi abbia chiamato. Cosa posso fare per te?» Prima di rispondere mi misi a guardare la pioggia fuori dalla finestra. Ero consapevole che se avessi formulato la mia richiesta di aiuto mi sarei sentito in debito con persone con le quali non avrei mai voluto avere lega-
mi. Tuttavia non avevo alternativa. «C'è per caso qualcuno dei tuoi dalle mie parti stasera?» chiesi. Ci fu un attimo di esitazione prima che Vogel rispondesse. Sapevo che doveva suonargli strano che il suo avvocato lo chiamasse in cerca d'aiuto. Era chiaro che avevo bisogno di quel tipo di aiuto che prevede l'uso di muscoli e pistole. «Ho un paio di ragazzi che tengono d'occhio le cose al club. Che succede?» Il club era lo strip bar sulla Sepulveda, non troppo lontano da Sherman Oaks. Ci contavo. «La mia famiglia è stata minacciata, Ted. Mi servono degli uomini che possano proteggerla e, se necessario, siano in grado di fermare un individuo.» «Armato e pericoloso?» Esitai, ma non troppo. «Sì, armato e pericoloso.» «Sembra il nostro genere. Dove li vuoi?» Era stato pronto. Sapeva che se gli fossi stato riconoscente avrebbe potuto evitare di pagarmi l'onorario. Gli diedi l'indirizzo dell'appartamento su Dickens. Gli diedi anche una descrizione di Roulet e di quello che indossava quel giorno in tribunale. «Se dovesse arrivare a quell'indirizzo, voglio che venga fermato» dissi. «E mi serve che i tuoi ci vadano adesso.» «Già fatto» disse Vogel. «Grazie, Ted.» «No, grazie a te. Siamo felici di aiutarti visto quante volte ci hai aiutato tu.» Giusto, pensai. Riattaccai, con la consapevolezza che avevo appena attraversato uno di quei confini che si spera di non raggiungere mai, tanto meno di superare. Guardai di nuovo fuori dalla finestra. Ora la pioggia era fitta e colava direttamente dal tetto. Non avevo grondaia sul retro e la pioggia offuscava le luci della città. Non fa che piovere quest'anno, pensai. Quest'anno abbiamo solo e soltanto pioggia. Tornai in soggiorno. Sul tavolo della sala da pranzo c'era la pistola che mi aveva dato Earl Briggs. Restai a contemplare l'arma ripensando a tutte le mosse che avevo fatto. Il risultato finale era che mi ero messo in un vicolo cieco e con il processo avevo messo in pericolo non solo me stesso.
Fui preso dal panico. Afferrai il telefono a parete in cucina e chiamai il cellulare di Maggie. Rispose al volo. Mi accorsi che era in macchina. «Dove sei?» «Sto arrivando a casa adesso. Prendo qualcosa e usciamo.» «Bene.» «Che cosa dico a Hayley, che suo padre ha messo in pericolo la sua vita?» «Non è così, Maggie. È colpa sua. È colpa di Roulet. Non ho potuto controllarlo. Una sera sono tornato a casa e l'ho trovato qui seduto. È un agente immobiliare. Sa come trovare i posti. Ha visto la sua foto sulla mia scrivania. Cosa dovevo...» «Possiamo parlarne più tardi? Ora devo entrare a prendere mia figlia.» Non nostra figlia. Mia figlia. «Certo. Chiamami quando sei da un'altra parte.» Riattaccò senza aggiungere altro e io riappesi lentamente il telefono al muro. La mia mano si fermò sulla cornetta. Mi sporsi in avanti fino a toccare il muro con la fronte. Non mi restavano altre mosse. Potevo solo aspettare che Roulet facesse Quella successiva. Il suono del telefono mi fece trasalire e feci un salto all'indietro. L'apparecchio cadde sul pavimento e lo tirai su per il cavo. Era Valenzuela. «Hai avuto il mio messaggio? Ho appena chiamato.» «No, ero al telefono. Che succede?» «Meno male che ho richiamato. Si sta muovendo.» «Dove?» Urlai troppo forte. Stavo uscendo di senno. «È su Van Nuys, diretto a sud. Mi ha chiamato e ha detto che voleva togliere la cavigliera. Gli ho detto che ero già a casa e se poteva chiamarmi domani. Gli ho detto che avrebbe fatto meglio a caricare la batteria in modo che non si mettesse a suonare nel mezzo della notte.» «Bella pensata. Dov'è adesso?» «Sempre su Van Nuys.» Cercai di immaginarmi Roulet al volante. Se stava puntando a sud su Van Nuys significava che si era diretto subito verso Sherman Oaks o nei dintorni, dove vivevano Maggie e Hayley. Però poteva anche semplicemente attraversare Sherman Oaks in direzione sud e oltrepassare la collina per andare a casa sua. Dovevo aspettare per esserne sicuro. «Quanto è puntuale il GPS su quell'aggeggio?» chiesi. «Funziona in tempo reale. Segnala dove si trova adesso. Ha appena at-
traversato un incrocio sotto la 101. Potrebbe semplicemente andarsene a casa, Mick.» «Lo so, lo so. Aspetta finché attraversa Ventura. La strada successiva è Dickens. Se svolta lì, non sta andando a casa sua.» Mi alzai. Non sapevo cosa fare. Cominciai a passeggiare avanti e indietro, il telefono schiacciato contro l'orecchio. Anche se Teddy Vogel aveva messo immediatamente i suoi uomini in movimento dovevano essere ancora a qualche minuto di distanza. Non potevano ancora essermi d'aiuto. «E la pioggia? Influenza il GPS?» «Non dovrebbe.» «Meglio così.» «Si è fermato.» «Dove?» «Dev'essere un semaforo. Credo che sia Moorpark Avenue.» Era a un isolato da Ventura e due da Dickens. Sentii un suono provenire dal telefono. «Cos'è questo?» «L'allarme dei dieci isolati che mi hai chiesto di installare.» Il suono si interruppe. «L'ho disattivato.» «Ti richiamo subito.» Non aspettai risposta. Riattaccai e chiamai il cellulare di Maggie. Rispose subito. «Dove sei?» «Mi hai detto di non dirtelo.» «Sei fuori casa?» «No, non ancora. Hayley sta prendendo i pastelli e i libri da colorare che vuole portarsi dietro.» «Maledizione, uscite di lì! Adesso!» «Stiamo facendo il più presto poss...» «Uscite e basta! Ti richiamo. Mi raccomando, rispondi.» Riattaccai e richiamai Valenzuela. «Dov'è?» «Ora è su Ventura. Deve aver beccato un altro semaforo perché è fermo.» «Sei sicuro che sia per strada e non parcheggiato?» «No, non ne sono sicuro. Potrebbe... non importa, ora si sta muovendo. Merda, ha girato su Ventura.»
«In che direzione?» Iniziai a camminare, il telefono premuto cosi forte contro l'orecchio che mi faceva male. «Allora, dunque, a ovest. Sta andando a ovest.» Ora era parallelo a Dickens, a un isolato di distanza, in direzione dell'appartamento dove abitava mia figlia. «Si è appena fermato di nuovo» annunciò Valenzuela. «Non è un incrocio. Sembra al centro dell'isolato. Credo che abbia parcheggiato.» Mi passai la mano libera tra i capelli. Ero disperato. «Basta, devo andare. Il mio cellulare è scarico. Chiama tu Maggie e dille che sta andando da lei. Dille di salire subito in macchina e di andarsene da lì!» Gli urlai il numero di Maggie nella cornetta e mentre uscivo dalla cucina la lasciai cadere. Sapevo che avrei impiegato almeno venti minuti per arrivare alla Dickens, calcolando di prendere le curve su Mullholland a cento all'ora, ma non potevo starmene lì a urlare ordini al telefono mentre la mia famiglia era in pericolo. Afferrai la pistola dal tavolo e andai alla porta. Mi ficcai l'arma nella tasca laterale della giacca. Aprii la porta e feci per uscire. Fuori c'era Mary Windsor, i capelli bagnati dalla pioggia. «Mary, che cosa...» Sollevò la mano. Abbassai lo sguardo e vidi il luccichio metallico della pistola che stringeva in pugno mentre il colpo partiva. 46 Il rumore fu secco e il bagliore intenso come quello di una macchina fotografica. L'impatto del proiettile che mi colpì fu come quello che nella mia immaginazione doveva essere il calcio di un cavallo. Mi ritrovai scagliato all'indietro in una frazione di secondo. Colpii con violenza il pavimento di legno e venni sbattuto contro il muro accanto al camino in soggiorno. Cercai di tamponare con entrambe le mani il buco nello stomaco, ma la destra era bloccata nella tasca della giacca. Mi sostenni con la sinistra e cercai di mettermi a sedere. Mary Windsor entrò in casa. Dovetti alzare lo sguardo verso di lei. Attraverso la porta aperta riuscivo a vedere la pioggia scendere alle sue spalle. Sollevò l'arma e la puntò contro la mia fronte. All'improvviso, per un attimo, vidi il volto di mia figlia e seppi che non
l'avrei lasciata andare via. «Tu hai cercato di portarmi via mio figlio!» urlò Mary Windsor. «Credevi che avrei potuto lasciartelo fare?» A quel punto seppi. Mi fu tutto chiaro. Seppi che aveva detto parole simili a Raul Levin prima di ucciderlo. E seppi che non c'era stato alcuno stupro in una casa vuota di Bel Air. Era una madre che faceva quello che una madre sa di dover fare. Mi tornarono alla mente le parole di Roulet. Su una cosa hai ragione. Sono un figlio di puttana. E seppi anche che l'ultimo gesto di Raul Levin non era stato fatto per rappresentare il simbolo del diavolo, ma per indicare la lettera M o la W, a seconda di come lo guardavi. Mary Windsor fece un altro passo verso di me. «Vai all'inferno» disse. Tenne ferme le mani per sparare. Io sollevai la mano destra, ancora coperta dalla giacca. Dovette credere che fosse un gesto difensivo, perché non si affrettò. Stava assaporando il momento. Ne ero certo. Poi sparai. Il corpo di Mary Windsor fu sbalzato all'indietro e lei finì supina sulla soglia di casa. La sua pistola ricadde sul pavimento con un gran rumore e la sentii emettere un suono acuto e sibilante. Poi sentii il rumore di passi affrettati sui gradini d'ingresso. «Polizia!» urlò una donna. «Mettete giù le armi!» Guardai attraverso la porta e non vidi nessuno. «Mettete giù le armi e uscite fuori con le mani bene in vista!» Questa volta era stato un uomo a gridare e ne riconobbi la voce. Tirai fuori la pistola dalla tasca della giacca e l'appoggiai sul pavimento. La feci scivolare lontano. «Ho messo giù la pistola!» urlai, con la forza che mi permetteva il buco nello stomaco. «Ma sono ferito. Non posso alzarmi. Siamo feriti entrambi.» Prima vidi la canna di una pistola comparire sulla porta. Poi una mano e quindi un impermeabile nero bagnato contenente il detective Lankford. Entrò in casa prontamente seguito dalla sua collega, la detective Sobel. Mentre entrava, Lankford allontanò con un calcio la pistola di Mary Windsor. Tenne la sua arma puntata contro di me. «C'è nessun altro in casa?» chiese a voce alta. «No» risposi. «Ascolti...» Cercai di sedermi, ma il dolore mi trafisse il corpo e Lankford urlò. «Non si muova! Resti lì!»
«Mi ascolti, la mia fam...» La detective Sobel urlò un comando su una radio portatile e ordinò infermieri e ambulanze per due persone con ferite d'arma da fuoco. «Una sola ambulanza» la corresse Lankford. «Lei è morta.» Lankford indicò con la pistola il corpo di Mary Windsor. La detective Sobel infilò la radio nella tasca dell'impermeabile e venne verso di me. Si inginocchiò e mi allontanò la mano dalla ferita. Mi tolse la camicia dai pantaloni per sollevarla e vedere la ferita. Poi mi premette di nuovo la mano sul foro del proiettile. «Tenga premuto più forte che può. È un'emorragia. Capito? Tenga premuta la mano.» «Mi ascolti» ripetei. «La mia famiglia è in pericolo. Dovete...» «Aspetti.» Infilò una mano nell'impermeabile e dalla cintura tirò fuori un cellulare. Lo aprì con uno scatto e premette un bottone per le chiamate rapide. Chiunque chiamò rispose subito. «Sobel. Sarà il caso che lo riportiate dentro. Sua madre ha appena cercato di uccidere l'avvocato. Lui è stato più veloce.» Rimase un attimo in ascolto e chiese: «Allora dov'è?». Ascoltò ancora e poi salutò. La fissai mentre richiudeva il telefono. «Lo arresteranno. Sua figlia è al sicuro.» «È sotto sorveglianza?» Annuì. «Abbiamo attuato il suo piano, Haller. Avevamo parecchi indizi su di lui, ma speravamo di ottenerne di più. Glielo avevo detto che volevamo chiarire la questione Levin. Speravamo che se l'avessimo fatto uscire ci avrebbe svelato il suo gioco, cioè come aveva fatto ad arrivare a Levin. E la madre ci ha appena risolto il mistero.» Capii. Anche con il sangue e la vita che stavano scorrendo via dal foro nello stomaco, ero in grado di mettere insieme i pezzi. Rilasciare Roulet era stata una mossa studiata. Avevano sperato che, se mi fosse venuto a cercare, avrebbe rivelato il metodo usato per manomettere il GPS nella cavigliera quando aveva ucciso Raul Levin. Solo che non era stato lui a uccidere Raul. Lo aveva fatto sua madre per conto suo. «Maggie?» chiesi debolmente. La detective Sobel scosse la testa. «Sta bene. Ha dovuto stare al gioco perché non sapevamo se Roulet avesse messo sotto controllo la sua linea o meno. Non poteva dirle che lei e
Hayley erano già al sicuro.» Chiusi gli occhi. Non sapevo se essere semplicemente felice che stessero bene o arrabbiato con Maggie per aver usato il padre di sua figlia come esca per un assassino. Cercai di tirarmi a sedere. «Voglio chiamarla. Lei...» «Non si muova. Rimanga fermo e basta.» Appoggiai la testa al pavimento. Avevo freddo e quasi tremavo, eppure mi sembrava anche di sudare. Percepivo che stavo diventando sempre più debole mentre il mio respiro si andava affievolendo. La detective Sobel tirò di nuovo fuori dalla tasca la radio e sollecitò l'arrivo del soccorso medico. Il centralinista riferì che sarebbero arrivati entro sei minuti. «Tenga duro» mi disse Heidi Sobel. «Andrà tutto bene. Dipende dai danni che ha fatto il proiettile dentro, ma dovrebbe andare tutto bene.» «Graaa...» Volevo dire grande con una nota di sarcasmo, ma stavo perdendo conoscenza. Lankford raggiunse Sobel e mi guardò. In una mano guantata teneva la pistola con cui Mary Windsor mi aveva sparato. Riconobbi il calcio di madreperla. La pistola di Mickey Cohen. La mia pistola. Quella con cui aveva sparato a Raul. Fece un cenno con la testa e io lo presi come una specie di segnale. Forse voleva dirmi che ai suoi occhi mi ero guadagnato maggiore considerazione e che sapeva che facendo venire l'assassino allo scoperto mi ero comportato come uno di loro. Forse poteva intendersi perfino per un'offerta di una tregua, forse dopo questa storia lui non avrebbe più odiato tanto gli avvocati. O forse non era niente di tutto questo. Comunque gli feci un cenno di risposta e il piccolo movimento mi fece tossire. Sentii un gusto strano in bocca e capii che era sangue. «Non ci molli proprio adesso» mi ordinò Lankford. «Se fossimo costretti a fare la respirazione bocca a bocca a un avvocato, non glielo perdoneremmo mai.» Sorrise e sorrisi anch'io. O cercai di farlo. Poi la vista iniziò a oscurarsi. Presto mi trovai a fluttuare nel buio. PARTE TERZA
CARTOLINA DA CUBA 47 Martedì 4 ottobre Sono cinque mesi che non entro in un'aula di tribunale. In questo periodo ho subito tre interventi chirurgici, sono stato processato due volte da un tribunale civile e indagato sia dal Dipartimento di Polizia di Los Angeles sia dall'Ordine degli avvocati della California. Ho prosciugato i miei conti in banca per le spese mediche, quelle per il mio sostentamento, il mantenimento di mia figlia e perfino per le spese legali. Sono sopravvissuto a tutto questo e oggi è il primo giorno da quando Mary Windsor mi ha sparato in cui camminerò senza il bastone e l'intontimento dovuto agli analgesici. Lo considero il primo vero passo verso il recupero. Il bastone è un segno di debolezza. Nessuno vuole un avvocato difensore dall'aspetto debole. Prima di sentirmi pronto a entrare di nuovo in un'aula di tribunale dovrò riuscire a stare ben eretto, tendere i muscoli recisi dal chirurgo per arrivare al proiettile e camminare autonomamente. Non ho più frequentato un'aula di tribunale, ma questo non significa che non sia oggetto di procedimenti legali. Sia Jesus Menendez sia Louis Roulet mi hanno fatto causa e probabilmente i processi andranno avanti per anni. Si tratta di due distinte richieste di risarcimento, entrambi i miei ex clienti mi hanno accusato di negligenza professionale e di violazione dell'etica legale. Roulet non è riuscito a scoprire come ho fatto ad arrivare a Dwayne Jeffery Corliss nella prigione della contea e ad avergli fatto arrivare certe informazioni riservate che lo riguardavano. Ed è probabile che non ci riuscirà mai. Gloria Dayton è uscita da tempo. Ha terminato il suo programma, si è presa i venticinquemila dollari che le ho dato e si è trasferita alle Hawaii per cominciare una nuova vita. E Corliss, che forse è consapevole più di chiunque altro di quanto sia importante tenere la bocca chiusa, oltre a ciò che aveva dichiarato in tribunale - e cioè che Roulet, mentre erano in custodia insieme, gli aveva raccontato dell'omicidio della ballerina con il serpente - non ha mai rivelato alcun altro dettaglio. Corliss non è stato mai perseguito per falsa testimonianza perché l'accusa avrebbe messo in discussione il processo contro Roulet e quindi per la procura sarebbe stato un gesto autolesionistico. Secondo il mio avvocato l'azione legale di Roulet contro di me è un tentativo senza alcun costrutto di salvarsi
la faccia che con il tempo svanirà nel nulla. Probabilmente quando non avrò più soldi per pagargli le parcelle. Menendez non svanirà mai nel nulla. Viene a visitarmi tutte le notti quando sto seduto a bearmi del panorama che si gode dalla mia casa gravata da un mutuo da un milione di dollari. Menendez è stato graziato dal governatore e rilasciato da San Quentin due giorni dopo che Roulet venne accusato dell'omicidio di Martha Renteria. Purtroppo però ha solo scambiato una condanna a vita con un'altra. In prigione ha contratto l'Hiv e il governatore non ha il potere di grazia per quello. Non lo ha nessuno. Qualunque cosa accada a Jesus Menendez la colpa è mia. Lo so. Convivo ogni giorno con questa colpa. Mio padre aveva ragione. Difendere un cliente innocente è angosciante. E l'innocente è l'uomo più angosciato. Per punirmi di quello che ho fatto e di quello che non ho fatto Jesus Menendez mi tratta con disprezzo e vuole portarmi via più denaro possibile. Penso che ne abbia tutti i diritti. Tuttavia, indipendentemente da quali siano stati i miei errori di giudizio e le scorrettezze etiche, so che alla fine mi sono impegnato per fare la cosa giusta. Ho scambiato il male con l'innocenza. Roulet è dentro grazie a me. Menendez è fuori grazie a me. Roulet non tornerà in libertà nonostante gli sforzi dei suoi nuovi legali (mi ha sostituito con la coppia Dan Daly e Roger Mills). Da quello che ho saputo da Maggie McPherson, per l'omicidio di Martha Renteria i pubblici ministeri hanno costruito un processo blindato contro di lui. Inoltre hanno seguito le tracce delle indagini lasciate da Raul Levin e sono arrivati a collegare Roulet a un altro omicidio, quello di una barista di un locale di Hollywood seguita fino a casa, stuprata e accoltellata a morte. Gli esperti di medicina legale hanno confrontato le caratteristiche del suo coltello con le ferite inflitte a questa vittima. Nel caso di Roulet, i progressi scientifici provocheranno conseguenze analoghe all'iceberg individuato con troppo ritardo. La sua nave farà naufragio e colerà a picco. La sua è una lotta per la sopravvivenza. I suoi legali stanno facendo di tutto per evitargli l'iniezione letale. Trattano lo scambio della sua vita con la confessione di altri omicidi e stupri. Comunque vada a finire, vivo o morto, questo spregevole individuo ha finito di far danni nella nostra società e questo risultato è stato il mio riscatto. È la cosa che mi ha curato più di qualsiasi chirurgo. Anche io e Maggie McPherson stiamo cercando di curare le nostre ferite. Ogni weekend accompagna mia figlia a trovarmi e spesso si ferma tutto il giorno. Ci sediamo e parliamo. Sappiamo entrambi che è merito di nostra figlia se cerchiamo di recuperare il nostro rapporto. Non le serbo ran-
core per avermi usato come esca per un assassino. E credo che Maggie non mi serbi più rancore per le scelte che ho fatto. L'Ordine degli avvocati della California, dopo aver preso in esame il mio comportamento, mi ha mandato in vacanza a Cuba. È così che gli avvocati difensori chiamano la sospensione dall'attività di un avvocato per condotta disdicevole. Cuba, conduct unbecoming an attorney, condotta disdicevole per un avvocato. Sono stato messo a riposo per novanta giorni. È stato un provvedimento privo di logica. Riguardo a Corliss non sono riusciti a provare nessuna particolare violazione al codice etico, per cui mi hanno attaccato per aver preso in prestito dal mio cliente Earl Briggs una pistola. In quel caso mi è andata bene. Non si trattava di una pistola rubata o non registrata. Apparteneva al padre di Earl, perciò la mia infrazione al codice è risultata di minore entità. Non mi interessava contestare il provvedimento dell'Ordine né ricorrere in appello per la sospensione. Novanta giorni di riposo non mi sono sembrati un'idea così disprezzabile dopo essermi beccato un proiettile nello stomaco. Ho scontato la sospensione durante la convalescenza, guardando Court in tv, per lo più in accappatoio. Nel ruolo che ho avuto nell'uccisione di Mary Alice Windsor né l'Ordine né la polizia hanno riscontrato violazioni del codice etico o penale. La madre di Roulet si è introdotta in casa mia con una pistola rubata. Ha sparato per prima e io ho risposto al fuoco. I due detective Lankford e Sobel da un isolato di distanza l'hanno vista sparare il primo colpo sulla mia porta d'ingresso. Legittima difesa, senza il minimo dubbio. I sentimenti che provo per quello che ho fatto tuttavia non sono senza contraddizioni. Volevo vendicare il mio amico Raul Levin, ma non volevo che per questo fosse versato del sangue. Adesso sono un omicida. Il consenso dello stato allevia di poco il turbamento che provo. Nelle questioni Menendez e Roulet, considerate globalmente, ora sono consapevole di essermi comportato in modo disdicevole, a prescindere da tutte le indagini e da tutte le rivelazioni ufficiali. La pena che provo è più pesante da sopportare di qualunque condanna dello stato o dell'Ordine. Non importa. Questa esperienza mi sarà preziosa una volta tornato a esercitare la mia professione. La mia professione. So qual è il mio posto in questo mondo e la prima volta che dovrò tornare in tribunale l'anno prossimo tirerò fuori la Lincoln dal garage, la metterò in strada e andrò in cerca del perdente di turno. Non so dove andrò né quali processi seguirò. So solo che sarò guarito e pronto a muovermi nuovamente in un mondo senza veri-
tà. Ringraziamenti Questo romanzo prende spunto da un incontro e una conversazione casuali con l'avvocato David Ogden durante una partita di baseball dei Los Angeles Dodgers di molti anni fa. L'autore ricorderà per sempre quell'episodio con gratitudine. Anche se il personaggio e le imprese di Mickey Haller sono interamente frutto dell'immaginazione dell'autore, questa storia non avrebbe potuto essere scritta senza lo straordinario aiuto e la guida degli avvocati Daniel F. Daly e Roger O. Mills, i quali mi hanno permesso di osservarli durante la preparazione delle strategie processuali e si sono dimostrati estremamente disponibili a far sì che in queste pagine il mondo del diritto penale venisse descritto fedelmente. Qualunque errore o forzatura riguardante il diritto e la sua applicazione è da addebitarsi interamente all'autore. Il giudice di corte suprema Judith Champagne (e il suo gruppo del Dipartimento 124 nella corte penale metropolitana di Los Angeles) ha concesso all'autore libero accesso alla sua aula, alle sue stanze e alle celle di detenzione e ha risposto a qualunque interrogativo posto dall'autore. Pertanto l'autore ha un forte debito di riconoscenza nei suoi confronti e nei confronti di Joe, Marianne e Michelle. Anche Asya Muchnick, Michael Pietsch, Jane Wood, Terrill Lee Lankford, Jerry Hooten, David Lambkin, Lucas Foster, Carolyn Chriss e Pamela Marshall sono stati di grande aiuto e hanno fornito il loro contributo al romanzo. Per ultimi, ma non per importanza, l'autore desidera ringraziare Shannon Byrne, Mary Elizabeth Capps, Jane Davis, Joel Gotler, Philip Spitzer, Lukas Ortiz e Linda Connelly per il loro aiuto e sostegno durante la stesura di questo romanzo. FINE