Kage Baker Benvenuto nell'Olimpo signor Hearst! (Welcom to Olympus, Mr. Hearst, 2003) Traduzione di Elisabetta Vernier
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Kage Baker Benvenuto nell'Olimpo signor Hearst! (Welcom to Olympus, Mr. Hearst, 2003) Traduzione di Elisabetta Vernier
IL TEMPO DI KAGE BAKER di Salvatore Proietti Sul modello del viaggio nel tempo, formalizzato a fine Ottocento dalla Time Machine di H. G. Wells, la fantascienza ha innestato un grandissimo numero di varianti: ucronie e storie alternative, universi paralleli, paradossi temporali, cronologie invertite, precognizione, proiezioni mentali, e così via. Una di queste varianti, il cui classico indiscusso è La fine dell'eternità di Isaac Asimov (1955), vede il gruppo di supervisori del tempo che agisce per di tenere la storia sotto controllo, percorrendo i tempi per impedire o promuovere lo sviluppo di alternative indesiderabili. Per Asimov, si tratta di ripristinare la sicurezza del presente. Per gli altri esempi fondanti del sottogenere, la Pattuglia temporale di Poul Anderson e il Paratempo di H. Beam Piper, si tratta di un'azione eroica, scanzonata, un'esplorazione del tempo simile all'esplorazione dello spazio; sempre affascinanti incontri con società diverse (e toni meno leggeri rovinerebbero il sense of wonder di questi incontri), le loro storie sono anche dilemmi, richiami alla responsabilità. Ma inevitabilmente le cose cambiano, e anche nella cultura popolare le certezze rassicuranti degli anni Cinquanta lasciano il posto ad altro. È quasi una risposta ad Asimov, nella serie classica di Star Trek, un celeberrimo, controverso episodio scritto da Harlan Ellison, The City on the Edge of Forever, andato in onda nella primavera del 1967: si va nel passato per riportare la storia nei binari prescritti dagli eventi, ma invece della rassicurazione, si trova la tragedia. Iniziato esattamente a trent'anni di distanza, il ciclo della Compagnia del tempo di Kage Baker, cerca di fare le due cose allo stesso tempo: riprendere i toni leggeri dell'avventura intelligente, ma senza nascondere
l'inquietante ambiguità. Come scrive l'autrice nel suo sito,1 è figlia delle paure dell'America di X-Files l'idea del gruppo segreto che cospira, dietro le quinte, per controllare e gestire i destini del passato, e dunque del presente e del futuro. Sin dall'inizio del primo romanzo, si mette in dubbio la legittimità delle operazioni della Dr. Zeus, Inc., chiamata anche la Compagnia, società creata nel 24° secolo subito dopo l'invenzione della macchina del tempo. Gli scopi apparenti possono essere benevoli, ma le sue stesse ambizioni (innanzitutto di profitto) creano ansia: in fondo, piani e motivazioni di fondo restano imperscrutabili, e gli operativi della Compagnia hanno ben poco controllo sul proprio agire. Cyborg immortali, prelevati da svariati punti del passato, fin dall'era dei Neandertal, gli agenti della Compagnia preferiscono muoversi da professionisti perfetti, anche se riluttanti e dubbiosi. Un pizzico di convenienza e forse di cattiva coscienza, che apre però possibilità quasi infinite per trame sempre accattivanti, che si sono andate moltiplicando, con giustificato successo. Nata nel 1952 in California e residente in Florida, Kage Baker inserisce nelle sue storie l'esperienza di insegnante e regista teatrale, specialista di Shakespeare e del teatro elisabettiano. E anche figlia di quella tradizione la molteplicità di personaggi, linguaggi e situazioni, l'alternanza di intensità e leggerezza, e soprattutto la consapevole autoironia, aggiornata per l'età postmoderna. Le strutture e i toni lievi e classici, quasi retro, non devono trarre in inganno: nella science fiction statunitense contemporanea, Kage Baker è una delle figure più raffinate. Il primo dei romanzi è In the Garden of Iden (1997),2 che presenta il personaggio ricorrente di Mendoza, botanica nata nella Spagna del tempo dell'Inquisizione; insieme agli altri cyborg della Compagnia, il teatro delle operazioni è l'Inghilterra rinascimentale. Nel seguente, Sky Coyote (1999),3 ci troviamo fra le tribù native della California intorno al 1700, e i loro discendenti, tutt'altro che estinti. Nel terzo romanzo, Mendoza in Hollywood (2000),4 l'ambientazione è la California di fine Ottocento, negli anni della Guerra Civile. Nel quarto libro della Compagnia, The Graveyard Game (2001),5 le 1
http://www.kagebaker.com/ La compagnia del tempo, Urania 1432, 2002 (ITABook 40) 3 La compagnia del tempo: Coyote del cielo, Urania 1455, 2002 (ITABook 41) 4 La compagnia del tempo: Mendoza a Hollywood, Urania 1465, 2003 (ITABook 42) 5 La compagnia del tempo:Il futuro in gioco, Urania 1486, 2004 (ITABook 43) 2
vicende si fanno più cupe, a partire dalla ricerca di Mendoza, inspiegabilmente scomparsa; la storia si svolge fra gli anni Novanta e il futuro, ma si articola in innumerevoli luoghi e tempi, rivelando aspetti sempre meno consolatori della Dr. Zeus. Inc. Nella miglior tradizione della fantascienza, Kage Baker non scrive soltanto romanzi, ma è anche prolifica autrice di racconti, ospite assidua delle pagine di Asimov's. La prima antologia sulla Compagnia è Black Projects, White Knights: The Company Dossiers (2002),6 e comprende alcune delle migliori prove della scrittrice, sempre alla ricerca di scenari storici e soprattutto letterari, con apparizioni di autori come Shakespeare e Stevenson, e omaggi al fantastico popolare di Chambers, Burroughs e altri. La serie continua con altri tre romanzi, The Life of the World to Come (2004), The Children of the Company (2005), The Machine's Child (2006): fra peregrinazioni e odissee temporali sempre più complesse, gli squarci sul "presente" della Dr. Zeus si approfondiscono sempre di più. La seconda antologia è Gods and Pawns (2007). Il prossimo romanzo sulla Compagnia dovrebbe anche essere l'ultimo: The Sons of Heaven, previsto per l'estate 2007. Il resto della produzione di Kage Baker è orientato verso la fantasy. Il suo primo romanzo (e altri ne sono annunciati) non fantascientifico è The Anvil of the World (2003), storia ironica che deve molto ad autori come Fritz Leiber e L. Sprague De Camp nel riutilizzo delle tradizionali situazioni del genere, mentre le antologie Mother Aegypt (2004) e Dark Mondays (2006) si muovono nel sottogenere della dark fantasy. Anche in questo campo, la Baker sta gradualmente diventando una presenza importante e rispettata, e lo dimostra la sua frequente comparsa nelle antologie del "meglio dell'anno". Fra le sue esplorazioni nei meandri dei miti culturali statunitensi, Welcome to Olympus, Mr. Hearst, pubblicato nel 2003, è una delle più brillanti. L'obiettivo dell'interesse della Compagnia è il tycoon dell'editoria e del cinema William Randolph Hearst, cioè la figura ispiratrice del Citizen Kane di Orson Welles. La storia si dipana fra il 1933 di Hollywood, in cui incontriamo Rodolfo Valentino e altre icone cinematografiche americane, e il ventunesimo secolo, con sorprese e riletture a volte eretiche di queste figure, che i cinofili non mancheranno di notare. Come tanta letteratura "alta" postmoderna (e come, alla sua epoca, lo 6
I cavalieri del tempo, Urania Oro 27, 2006 (ITABook 44)
stesso Shakespeare), anche la fantascienza di Kage Baker riscrive la storia, per riflettere sul presente tenendo sempre al centro il piacere dello storytelling.
BENVENUTO NELL'OLIMPO, SIGNOR HEARST!
Titoli di testa: 1926 – DECIMA! – esclamò il regista e, abbassando il megafono, tornò a sedersi. La sedia, sotto il suo peso, sprofondò un po' di più nella sabbia e il regista, risistemandosi con irritazione, spostò lo sguardo sullo stallone al galoppo sulla distesa di sabbia davanti a lui, mentre il suo cavaliere incappucciato nel tradizionale burnus dei beduini si teneva forte alla sella per resistere alla violenta e abrasiva corrente d'aria generata dalle macchine del vento. – Se la sta cavando bene... – cantilenò l'aiuto regista. Di fianco a lui, Rodolfo Valentino – vestito con un burnus dello stesso colore di quello del cavaliere – annuì con espressione grave. Osservarono il cavallo e il cavaliere che andavano su per una duna di sabbia, poi giù dalla successiva, avvicinandosi via via al punto in cui avrebbero potuto tagliare... – Oh-oh! – esclamò il macchinista. Dal mare alle loro spalle si levò il vento, quello vero, che si insinuò fin sulla distesa di sabbia, strappando una fronda dalle stanche palme finte che circondavano il set del Campo dello Sceicco, che andò a finire, mulinando, proprio davanti allo stallone. Il cavallo arrestò la sua corsa all'improvviso, terrorizzato, e prese a sgroppare con forza. Circa un secondo più tardi, il valoroso cavaliere fu scagliato per aria e, vorticando braccia e gambe in modo scomposto, ricadde sulla sabbia. – Oh, Cristo! – ringhiò il regista. – TAGLIA! SPEGNI IL VENTO! – STAI BENE, LEWIS? – gridò il segretario di edizione. Il cavaliere si tirò su a sedere con movimenti incerti, liberandosi la faccia dalle abbondanti pieghe di stoffa del burnus. Sollevò la mano destra e fece un gesto affermativo con la mano. – PREPARARSI PER L'UNDICESIMA! – esclamò l'aiuto regista. Il cavaliere si mise in piedi a fatica e riuscì a calmare la sua cavalcatura; quindi la prese per le briglie e si allontanarono insieme, percorrendo a
ritroso il tragitto sulla sabbia fino al loro segno. Il vento salmastro cancellò le tracce del loro passaggio. – Il vento non calerà, lo sai – sottolineò Valentino, pessimista. Si accarezzò la finta barba che lo faceva apparire più vecchio di quanto non sarebbe mai diventato. – Non è che per caso abbiamo un cavallo del posto, uno che non si lasci spaventare da quelle dannate foglie di palma? – chiese il macchinista. – Certo. Cavalli da tiro! – gli rispose il regista. – Senti, quello stallone arabo l'abbiamo pagato caro. Hai per caso sentito il nostro uomo lamentarsi? Io non l'ho sentito. – Io non riesco neppure a vederlo – puntualizzò l'aiuto regista, scrutando l'orizzonte. – Gesù, non è che è caduto ed è morto o roba simile, lì fuori? Ma in quel momento, da dietro la duna di sabbia, sbucarono cavallo e cavaliere e la coppia riprese posizione in cima alla duna più lontana. – Macché. Visto? – esclamò il regista. – Il piccoletto è un professionista. – Sollevò il megafono, guardando Lewis rimontare in sella. Il segretario di edizione aggiornò col gessetto il numero della scena e sollevò il ciak davanti alla telecamera. Ciak! – AZIONARE LE MACCHINE DEL VENTO... E... UNDICESIMA! Ed ecco che ritornavano, correndo nel vento e nella luce del tramonto, su onde del colore del manto di un leone, mentre la telecamera ronzava. Eccoli sulla cima dell'ultima duna e poi giù, scomparendo... Scomparendo. Il macchinista e l'aiuto regista gemettero in coro. Valentino fece una smorfia. – Non li vedo più, signor Fitzmaurice – disse l'assistente di edizione. – Dove diavolo sono finiti! – sbraitò il regista. – TAGLIA! TAGLIA E SPEGNI QUEL DANNATO VENTO. – Scusate! – gridò una voce lontana e, un secondo più tardi, Lewis spuntò da dietro la duna, camminando a grandi passi e tirandosi dietro uno stallone piuttosto agitato. – Ho paura che abbiamo avuto una piccola caduta, lì dietro. – ADDETTI AGLI ANIMALI! Jadaan è caduto – gridò l'aiuto regista, con voce orripilata, e dal campo sulla spiaggia una mezza dozzina di addetti agli animali giunsero di corsa. Fecero capannello intorno allo stallone, preoccupati. Lewis lo lasciò alle loro cure e proseguì con fatica verso il regista.
Il cappuccio del burnus gli era ricaduto intorno al collo e i suoi capelli biondi e lisci si agitavano nel vento, facendo apparire il trucco olivastro sulla pelle – o meglio, quello che ne restava dopo le ripetute cadute a faccia in giù contro la sabbia delle dune – del tutto incongruente. Sputò un grumo di sabbia e fece un largo sorriso, strappandosi via la barba finta, incollata con gomma arabica disciolta nell'alcol. – Ovviamente, se lei è pronto per un altro ciak, lo sono anch'io, signor Fitzmaurice – disse Lewis. – No – rispose Valentino. – Finiremo per ucciderlo o per far fuori il cavallo. O entrambi. – Oh, 'fanculo – sentenziò il regista. – Dentro la scatola abbiamo già un bel po' di girato di qualità. E poi la luce ormai sta calando. Vediamo cosa riusciamo a fare con quell'ultimo ciak, fino a quando è durato. Lewis annuì e continuò ad avanzare con fatica nella sabbia, intento a togliersi il costume. Valentino fece un passo in avanti per appoggiargli una mano sulla spalla. Lewis lo guardò strizzando gli occhi a fessura, battendo le palpebre per togliersi la sabbia dalle ciglia. – Sei un gran lavoratore, amico – gli disse Valentino. – Ma dovresti lasciar perdere i cavalli. Fa male anche solo guardarti. – Oh... Ehm... grazie. È divertente essere Rodolfo Valentino per qualche ora, comunque – rispose Lewis, facendo comparire una penna dal nulla. – Potrei avere il suo autografo, signor Valentino? – Ma certo – rispose Valentino, guardandosi intorno per cercare, inutilmente, qualcosa da autografare. Sempre dal nulla, Lewis tirò fuori un copione del film e lo porse a Valentino. – Il tuo nome, come si scrive? – L-e-w-i-s, signor Valentino. Lì come le sembra? – suggerì. – Lì, sotto a dove c'è scritto Il figlio dello Sceicco? Con una gioia curiosamente trattenuta, guardò Valentino che scriveva: "Al mio alter ego Lewis. Rodolfo Valentino". – Ecco fatto – gli disse Valentino, riconsegnandogli il copione. – Ma basta cadute di testa, eh? – Tante grazie. È molto gentile a preoccuparsi per me, ma è tutto a posto, sul serio – rispose Lewis. – Un paio di cadute non sono un problema. Sono uno stuntman professionista, dopotutto. Fece sparire il copione tra le pieghe del costume e si trascinò fino alla riva del mare, dove le comparse e la troupe si stavano ammassando nel cassone di un vecchio camion scoperto. L'autista aveva già avviato il
motore e lo faceva ruggire per tenerlo su di giri, ansioso di iniziare il viaggio verso Pismo Beach prima che la marea cambiasse e li facesse impantanare di nuovo. Valentino guardò Lewis che si allontanava, scuotendo il capo. – Non ti preoccupare per quel tizio, Rudy – gli disse il regista, ripulendo il megafono dalla sabbia. – Lo so che sembra uno spericolato, ma non l'ho mai visto farsi male. E intendo proprio mai. – La fortuna, però, a un certo punto vola via, come la sabbia. – Valentino fece un sorriso ironico, indicando le dune che si stendevano a perdita d'occhio alle sue spalle, dove la luce sempre più obliqua del sole calante faceva allungare la sua ombra fino ai confini del mondo. – Non è così? E quello lì, secondo me, ha la faccia di uno destinato a morire giovane. Ironico sentire quelle parole dette da Valentino, considerato che lui stesso sarebbe morto entro l'anno e che Lewis invece, in quel particolare giorno del 1926, fosse sul punto di compiere 1823 anni. O per lo meno, li avrebbe compiuti se noi immortali l'avessimo, il compleanno.
Salto in avanti: 1933 – Oh, guarda! Siamo arrivati a Pismo Beach – esclamò Lewis, spingendomi di lato per sporgersi a guardare. Il paese era costituito da un albergo e da numerose bancarelle di vongole allineate lungo la statale. – Perché non ci fermiamo a mangiare un po' di vongole, Joseph? – Stai cercando di dirmi che non ne hai mangiato abbastanza lavorando al Figlio dello Sceicco? – borbottai, frugandomi in tasca alla ricerca di un'altra mentina. L'ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento era di mangiare. Di solito sono in grado di mandar giù veramente di tutto (e l'ho fatto, credetemi) ma quella missione mi stava procurando un'acidità di stomaco da morire. – Può darsi – rispose Lewis, mettendosi in piedi sul sedile ma tenendo una mano stretta sul parabrezza della nostra Ford, in modo da poter godere di una vista migliore mentre passavamo sferragliando. Il vento gli soffiava dritto in faccia, con forza, e i capelli gli formavano una corona intorno alla testa. – Ma sarebbe carino fare un brindisi in memoria del povero Rudy, non pensi?
– Vuoi brindare a lui? Prendi. – Tirai fuori la fiaschetta di gin e gliela passai. – Sarebbe carino arrivare in orario dal signor Hearst, non pensi? Lewis ricadde a sedere sul sedile e mandò giù un sorso di gin tiepido. Fece una smorfia. – Ave atque vale, vecchio mio – disse, rivolgendosi allo spirito di Valentino. – Non mi dire che sei davvero nervoso per questa storia, eh, Joseph? – Io? Nervoso? – Snudai i denti. – Neanche per sogno. Perché l'idea di incontrare uno degli uomini più potenti del mondo dovrebbe innervosirmi? – Ecco, appunto. – Lewis bevve un altro piccolo sorso di gin e fece un'altra smorfia. – Grazie a dio non avrai più bisogno di questo sciacquabudella. Vale anche al Proibizionismo! Ai tuoi tempi devi aver conosciuto uomini ben più potenti, non è vero? Una volta hai lavorato per un imperatore bizantino, se non erro. – Per tre o quattro – lo corressi. – E credimi, nessuno di loro aveva un'influenza neanche lontanamente paragonabile a quella di William Randolph Hearst. Non quando consideri il quadro generale delle cose. Comunque, Lewis, le regole del gioco sono del tutto diverse ormai. Pensi che un tappo come Napoleone potrebbe governare il mondo, al giorno d'oggi? Pensi che Hitler sarebbe arrivato da qualche parte senza i mass media? Il vero potere è nella comunicazione di massa, ragazzo mio. – È soltanto un mortale, dopotutto – ribatté Lewis. – Guarda questa storia con la giusta prospettiva. Stiamo semplicemente guidando verso la residenza di campagna di un tizio, per trascorrere un piacevole fine settimana in compagnia di persone interessanti. Ci sarà aria fresca e bellezze da ammirare per tutti. La gente nuoterà, andrà a cavallo e giocherà a tennis. Ci sarà buon cibo e, speriamo, qualcosa di decente da bere... – Non contare sugli alcolici – commentai. – Al signor Hearst non piacciono gli ubriachi. – ... e noi dobbiamo soltanto eseguire un semplicissimo inserimento clandestino di documenti per la Compagnia – continuò Lewis, imperturbabile, accarezzando con una mano la valigetta portadocumenti che conteneva il copione autografato da Rodolfo Valentino. – Un regalo di compleanno un po' in ritardo per il padrone di casa, per così dire. – Per te è semplice – risposi. – Io invece ci devo negoziare, con quel tizio. Lewis scrollò le spalle, dandomi ragione. – Ma qual era la storia che mi stavi raccontando l'altra notte, di quella
volta che tu e quel faraone... Come si chiamava? Dopotutto non è che ci saranno cortigiani invidiosi pronti a ordinare la nostra esecuzione capitale. Annuii controvoglia, con un grugnito. Non potevo spiegare a Lewis perché questo lavoro mi innervosiva così tanto. Forse non ne ero sicuro neppure io. Mento spesso a me stesso, vedete. Ho iniziato a farlo circa tredicimila anni fa e ormai è diventata un'abitudine, come succhiare caramelle alla menta l'una dopo l'altra per placare un'immaginaria gastrite nervosa. Gli immortali hanno un sacco di piccole manie come questa. Viaggiammo lungo la costa sulla mia Ford Modello A fino a San Luis Obispo, una cittadina di allevatori di bestiame. Era lì che gli onorevoli ospiti del signor Hearst sarebbero giunti a bordo del suo treno privato, per essere accolti alla stazione dalle sue limousine private. Da lì sarebbero stati condotti fino a quella piccola follia architettonica che le generazioni a venire avrebbero chiamato Castel Hearst ma che per il momento era soltanto il Ranch o, per chi era in vena romantica, la Cuesta Encantada. Non ci siete mai stati? Accidenti, mi dispiace per voi. Immaginate per un momento di possedere una delle più belle colline al mondo, con una vista mozzafiato sulle montagne e sul mare. Ora immaginate di decidere di costruirci sopra una casa, sulla cima, e di poter spendere tutti i soldi del mondo per trasformare questa casa nel luogo dei vostri sogni più sfrenati, senza limitazioni, con tre interi magazzini di mobili d'antiquariato per arredarla. Oh, sì! Se lo fareste. Chiunque lo farebbe. E cosa fareste, poi? Se foste William Randolph Hearst, invitereste la gente per condividere il piacere di godersi la casa che avete costruito. Ma non sarebbero ospiti qualunque. Vi potreste permettere di radunare le menti migliori di una generazione per chiacchierare con voi, pensatori e artisti. Gli Einstein e i Thalberg, gli Huxley e i G. B. Shaw. E se aveste un'amante bionda che lavora nel cinema, potreste invitare anche i suoi amici: Gable e Lombard, Bette Davis, Marie Dressler, Buster Keaton, Harpo Marx, Charlie Chaplin. E, ogni tanto, anche i pesci piccoli della produzione come me e Lewis, visto che avevo fatto un favore a Marion Davies e le avevo chiesto di sdebitarsi con un invito. Quelli come noi non avevano diritto al trattamento di lusso, quello che
includeva il treno privato. Noi dovevamo farci tutta la strada fino a Hollywood con i nostri mezzi. Penso che se il signor Hearst avesse avuto una vaga idea di chi fossimo, avrebbe mandato una limousine anche per noi, ma alla Compagnia piace giocare a carte coperte. E noi, comunque, non sembravamo certo una coppia di cyborg immortali inviati da una onnipotente Compagnia del ventiquattresimo secolo. A guardarmi, io sono un tipo qualunque, un po' scuro e tarchiato (e va bene, basso!) e Lewis... be', è attraente ma anche lui non eccelle in altezza. È sempre stata una politica degli operativi della Compagnia quella di confondersi con la popolazione mortale: è per questo che nessuno, a San Luis Obispo o Morro Bay o Cayucos, sprecò una seconda occhiata per due tizi cibernetici che sfrecciavano sulla statale a bordo di una Ford nuova di zecca. Comunque, ammirammo di passaggio molti paesini sul mare, lungo l'ondulata costa battuta dal vento. Un sacco di panorami californiani davvero mozzafiato, se vi piacciono i panorami. A Lewis piacevano e non faceva altro che lanciarsi in commenti entusiasti sui fiori selvatici e i cipressi. Io invece mi limitavo a masticare caramelle Polo e continuavo a guidare. Quando mancavano ancora ben diciassette miglia al castello del signor Hearst, e la suddetta costruzione non si vedeva ancora nemmeno di striscio, ci trovavamo già all'interno della sua proprietà. La prima cosa che vedemmo fu una sagoma bianca e lontana in cima a una collina verde: due torri pallide e poco altro. Mi tornarono in mente le cittadelle arroccate del medioevo in Spagna, in Francia e in Italia, e di certo anche Lewis fece la stessa associazione d'idee, perché mi diede una gomitata leggera, ridacchiando. – Proprio come l'avanzata su Le Monastier, eh? A questo punto, di solito, mi esercitavo con il copione di complimenti al signorotto o all'arcivescovo o chi altro, sperando di aver portato corde a sufficienza per il liuto. E tu? – Io di solito pregavo di aver portato abbastanza contanti per corrompere il duca di turno – gli risposi, lanciandomi in bocca un'altra mentina. – Quello del Facilitatore non è un lavoro semplice, vero? – disse Lewis, con un leggero tono di compatimento. Scossi il capo. La sensazione di estraneamento dalla realtà peggiorò in modo deciso quando iniziammo a scorgere, ogni tanto, una mandria di zebre, o di yak, o di giraffe che pascolavano nei verdi prati che fiancheggiavano la strada.
A quel punto, se un roc fosse planato sull'auto dal cielo per affondare gli artigli nella schiena di un bufalo, portandoselo via in volo, non ci saremmo stupiti più di tanto. Anche Lewis si fece silenzioso e buttò giù un altro sorso di gin per farsi forza. Quando però svoltammo finalmente in un vialetto defilato, indicato da un piccolo cartello che diceva "Hearst Ranch", la fiaschetta era già ben nascosta, lontana da sguardi indiscreti. Ci fermammo davanti a un cancello chiuso e un mortale si sporse fuori da una baracca per osservarci con sguardo inquisitore. – Ospiti del signor Hearst – gli gridai, facendo il possibile perché sembrasse una cosa abituale. – Nomi, per favore? – Joseph C. Denham e Lewis Kensington – rispondemmo, in coro. L'uomo scorse la lista degli invitati per accertarsi che ci fossimo, poi aggiunse: – Cinque miglia all'ora, prego, e ricordate che gli animali hanno la precedenza in ogni caso. Quindi spalancò il cancello. – Ci siamo! – Lewis mi allungò un'allegra gomitata nelle costole. Io gli rivolsi un ringhio distratto e oltrepassai con la macchina la magica soglia, con la stessa pelle d'oca che mi veniva quando attraversavo la saracinesca che conduceva alla fortezza di un barone. Anche la suspence continuava a crescere, perché la strada si snodava in salita come un cavatappi lungo cinque miglia, e durante quell'ascesa attraverso l'habitat di diverse specie, ci dovevamo fermare spesso davanti a cancelli chiusi. Lewis scendeva per aprirli, aggirando enormi torte di sterco di bufalo e altre cose che non meritavano di essere osservate più da vicino. Nei pressi del terzo cancello a salire, dovette evitare le attenzioni ostili di uno struzzo. Alla fine sbucammo in un viale fiancheggiato da aranci e oleandri in fiore. – Oh, questo posto ricorda il sud della Francia – disse Lewis. – Non trovi? – Può essere – mormorai. Davanti a noi torreggiava un altissimo cancello doppio in ferro, che si aprì senza problemi al nostro rumoroso passaggio. Accostammo davanti alla Grande Scalinata.
Ci venne incontro un drappello di tizi dall'apparenza qualunque, vestiti in pantaloni di cotone e giacca, che presero i nostri bagagli e se ne andarono, portandoceli via prima ancora che avessimo il tempo di scendere dalla macchina. Riuscii appena a trattenermi dal gridare qualcosa tipo: – Ehi, tornate indietro con quella roba! Lewis invece, come al solito, stava già porgendo i suoi omaggi a una signora dall'aria distinta che si era materializzata da dietro una statua. Un domestico prese in carico la Modello A e andò a parcheggiarla altrove. – ... la governante del signor Hearst – stava dicendo la signora. – Mi ha chiesto di accompagnarvi nelle vostre stanze. Se volete seguirmi... Siete alloggiati nella Casa del Sol. – Meraviglioso – rispose Lewis, continuando a chiacchierare e fare il simpatico con la signora. Gli lasciai prendere il controllo della situazione e mi limitai a seguirli su per la scalinata lunga e ricurva, poi oltre una terrazza. Quando giungemmo in cima, facemmo una pausa e lì, sulla mia sinistra, mi si parò davanti la piscina romana più dannatamente grande che avessi mai visto. E dire che avevo lavorato a Roma per un paio di secoli. Le statue delle ninfe, delle divinità marine e compagnia erano più che altro copie moderne o da museo. Hearst non aveva ancora importato i resti di un autentico tempio pagano, da usare come cornice per le feste a bordo vasca. L'avrebbe fatto, però. Sopra di noi si levava il primo dei "piccoli bungalow per gli ospiti". Piegammo la testa all'indietro per guardarne la cima. Per chiunque altro sarebbe stata una residenza decisamente imponente. – Deliziosa – disse Lewis. – Revival mediterraneo, vero? – Sì, signore – rispose la governante, facendoci strada su per un'altra rampa di scale. – Suppongo che questa sia la sua prima visita qui, signor Kensington. E anche per lei, signor Denham? – Già – risposi. – Il signor Hearst vuole che vi godiate il soggiorno e mi ha chiesto di darvi tutte le informazioni necessarie perché sia così – recitò la governante, conducendoci oltre l'angolo della casa, verso il cortile. La porta, finalmente! Lì di fianco attendeva un giovane filippino vestito
di tutto punto, che nel vederci ci rivolse un leggero inchino. – Lui è Jerome – ci informò la governante. – È stato assegnato alle vostre stanze. Di qualsiasi cosa abbiate bisogno, usate il telefono di servizio e lui vi risponderà subito. – Aprì la porta e si fece da parte per lasciarci entrare. Jerome ci seguì in silenzio e svanì attraverso una porta sul lato. Mentre ce ne stavamo lì ad ammirare a occhi spalancati tutti quegli oggetti d'antiquariato, con Lewis che emetteva piccole esclamazioni di meraviglia, la governante continuò: – Potrete notare che il signor Hearst ha arredato la maggior parte di questa suite con mobili provenienti dalla sua collezione personale, ma vuole che sappiate che il bagno, proprio lì dietro, signori, è perfettamente nuovo e moderno, nonché dotato di tutte le ultime comodità, inclusa la doccia. – Che pensiero gentile – rispose Lewis, e mi trasmise: Hai intenzione di partecipare a questa conversazione o no? – Davvero magnifico da parte del signor Hearst – aggiunsi. Sono anche più nervoso di prima, va bene? La governante sorrise. – Vi ringrazio. Troverete i vostri bagagli già all'interno delle camere da letto che vi sono state assegnate. Jerome li sta disfacendo per voi. Ops! – Ottimo – dissi. – Qual è la mia stanza? Posso vederla? – Certamente, signor Denham – disse la governante, stringendo leggermente gli occhi. Insieme passammo per una porta che probabilmente doveva essere appartenuta a qualche vescovo spagnolo del sedicesimo secolo, e lì vidi Jerome che tirava fuori in modo ordinato il contenuto della mia valigia più economica, quella marrone. La valigia nera se ne stava lì di fianco, intonsa. – Le dispiacerebbe aprire il lucchetto, signore, in modo che possa disfare anche quella? – mi chiese Jerome. – Non serve – risposi, riprendendomi la valigia nera e spingendola sotto il letto. – Ci penserò io stesso più tardi. Nella breve pausa che seguì, Jerome e la governante si scambiarono un'occhiata, Lewis sospirò e io sentii il bisogno impellente di un'altra Polo. La governante si schiarì la voce e disse: – Mi auguro che la stanza sia di suo gradimento, signor Denham. – Oh! Sì. È davvero deliziosa, grazie – risposi.
– Sono sicuro che la mia è altrettanto bella – aggiunse Lewis. Jerome uscì, pronto a disfare i suoi bagagli. – Molto bene. – La governante si schiarì ancora la voce. – Allora, il signor Hearst vuole che sappiate che alle sette di stasera sarà servito un cocktail nel salone delle feste, che si trova nella grande casa dall'altra parte del cortile. Il signore pensa di unirsi ai suoi ospiti verso le otto, e la cena sarà servita alle nove. Dopo cena, il signor Hearst si sposterà insieme ai suoi ospiti nel teatro, dove verrà proiettata una pellicola cinematografica. Dopo la pellicola, il signor Hearst di solito si ritira nel suo studio, ma i suoi ospiti sono invitati a tornare nelle loro stanze o a trattenersi in biblioteca. – Mi guardò fisso con sguardo d'acciaio. – Le bevande alcoliche saranno servite soltanto nell'edificio principale, ma sandwich e altri pasti leggeri possono essere richiesti per telefono al personale di cucina a qualunque ora. Pensa che abbia il liquore nascosto in valigia, lo sai? mi trasmise Lewis. Chiudi il becco. Raddrizzai le spalle, cercando di assumere un'espressione aperta e sincera. Tutti sapevano che in quel posto c'erano due regole ferree per gli ospiti: niente alcol in camera da letto e niente sesso per le coppie non sposate. Notate che ho detto "per gli ospiti". Le uniche regole a cui dovevano sottostare il signor Hearst e Marion erano le leggi della fisica. La governante ci fornì qualche altra utile indicazione su come raggiungere lo zoo, i campi da tennis e le stalle, quindi se ne andò. Io e Lewis sgattaiolammo fuori in giardino e ci mettemmo a passeggiare tra le statue. – In generale, non mi pare che sia andata molto bene – osservò Lewis. – Puoi dirlo forte – risposi. – È solo una prima impressione negativa passeggera, lo sai – aggiunse Lewis, per consolarmi. – Non appena ti sarai presentato... – Ehi! Oh-oh! Joe! Tutto bene, ragazzi? Ce l'avete fatta ad arrivare? – gridò una voce acuta che proveniva da qualche parte sopra di noi. Ci voltammo, dando il nostro primo sguardo alla Casa Grande in tutta la sua massiccia gloria. Sembrava una specie di cattedrale spagnola, ma era di certo una cattedrale pagana, perché a una finestra del terzo piano c'era Marion Davis che ci salutava agitando una mano. – Sì, grazie! – risposi, mentre Lewis la guardava a occhi spalancati.
Marion era in sottoveste. Era possibile che indossasse anche qualcos'altro, ma da quella distanza non si vedeva. – Quello lì è il tuo amico? È carino! – gridò. – Assomiglia a Freddie March! La faccia di Lewis si tinse di porpora. – In realtà sono la sua controfigura – le gridò in risposta, ridacchiando in modo un po' scomposto. – Cosa? – SONO LA SUA CONTROFIGURA! – Ah! – rispose lei. – Ok! Sentite, vi andrebbe un ginger ale o qualcos'altro? Lo sapete, niente... – fece un'espressione maliziosa, mimando il gesto di bere dalla bottiglia – fino a stanotte. – SÌ. UN GINGER ALE È PERFETTO – gridò Lewis. – Mando subito qualcuno a portarvelo giù – rispose Marion, scomparendo nei recessi della Casa. Superammo un'altra statua, quindi muovemmo qualche passo all'interno del cortile davanti alla casa. Era grande quanto diverse piazze cittadine messe insieme, abbastanza grande da poterci girare la scena della rivolta di Romeo e Giulietta, con tanto di carica a cavallo della polizia di Verona. In quel momento, tuttavia, vi era soltanto un'altra fontana e alcune sedie da giardino. Su una di esse sedeva Greta Garbo: sbucciava un'arancia, con espressione imbronciata. – Ciao Greta – le dissi, chiedendomi se si sarebbe ricordata di me. Lei mi gettò un'occhiata e continuò a pelare l'arancia. Era chiaro che si ricordava di me. Io e Lewis ci sedemmo a distanza di sicurezza da lei e un cameriere si materializzò dal nulla con due alti bicchieri di White Rock con ghiaccio. – Marion Davies mi trova carino – sottolineò Lewis, tono soddisfatto. Poi aggrottò le sopracciglia. – Non è una bella cosa, vero? Per la missione, intendo? E se il signor Hearst l'avesse sentita? Santi numi, stava gridando a pieni polmoni. – Non è successo niente di che – gli dissi, mentre stanco sorseggiavo il mio ginger ale. Marion trovava carina un sacco di gente e non le importava che qualcuno la sentisse mentre lo diceva. Restammo seduti al sole e il ghiaccio dei nostri drink si sciolse. La Garbo mangiò l'arancia. Nelle torri campanarie della casa, le colombe tubavano sonnolente e io
pensavo a cosa avrei detto a William Randolph Hearst. Molto presto iniziarono a fare capolino altri ospiti e la Garbo mostrò di non voler parlare neppure con loro. Clark Gable si sedette sul bordo della fontana e rimase impelagato in una lunga conversazione con un tizio biondiccio della Paramount sul loro comune allibratore. Uno dei cinque figli di Hearst arrivò insieme alla sua ragazza. Cercò di presentarle la Garbo, che rispose a monosillabi fino a che il giovane non gettò la spugna e, insieme alla ragazza, se ne andò a fare una nuotata nella piscina romana. Una coppia di amici di Marion dei tempi che precedevano l'avvento dei film sonori – due tizi un po' consunti di nome Charlie e Laurence che avevano l'aspetto di qualcuno che non lavora da un pezzo – si lanciarono in una accesa discussione sulla mitologia greca. Io me ne stavo lì seduto a guardare la grande casa e mi chiedevo dove fosse Hearst, e che cosa stesse facendo in quel momento. Stava forse concludendo un qualche affare da milioni di dollari? O dando indicazioni di voto a un senatore o a un membro del congresso? Oppure stava inviando l'ordine a un antiquario per acquistare l'intera biblioteca del palazzo di un duca medioevale? Faceva spesso di queste cose, il signor Hearst, ed era uno dei motivi per cui la Compagnia era interessata a lui. L'arrivo di Constance Talmadge mi distolse dalle mie riflessioni: Constance si avvicinava alla quarantina ormai, ma era ancora splendida e piena di energia come quando aveva interpretato la ragazza di montagna in Intolerance, e il suo accento di Brooklyn era deciso come allora. Constance si precipitò subito verso Lewis, che la conosceva, e si fecero un'allegra chiacchierata sui bei tempi andati. Poco dopo, le grandi porte della casa si spalancarono e ne uscì non la processione di preti e chierichetti che uno si sarebbe aspettato, ma Marion in un abito da sera leggero. – Ciao a tutti – gridò in direzione della fontana. – Scusate se vi ho fatto aspettare, ma sapete come vanno le cose... Chi prima arriva, prima alloggia! Ci furono delle risatine nervose e mi sarei quasi aspettato che la grande casa alle sue spalle facesse una smorfia, ma a lei non importava. Uscì e salutò tutti con calore. Be', quasi tutti: la Garbo sembrava incutere soggezione perfino a Marion.
Quindi la padrona di casa ci fece accomodare, accompagnandoci oltre l'ampio portone fin dentro il sancta sanctorum. – Chi è qui per la prima volta? – ci interrogò, mentre oltrepassavamo la soglia. – Tu, Joe, lo so. Il tuo amico? Date un'occhiata a questo pavimento – disse, indicando il mosaico nel vestibolo d'ingresso. – Sapete da dove viene? Da Pompei! Ve l'immaginate? C'è morta della gente sopra. Se era vero, probabilmente qualcuno lo conoscevo. E il mio stato d'animo certamente non migliorò. La grande sala in cui entrammo era fresca e scura, dopo il bagliore del cortile. E quasi confortevole, addirittura: c'erano divani moderni e gonfie sedie imbottite, piccoli posacenere su treppiedi d'ottone. A parte il fatto che era lunga circa un miglio e piena di capolavori del Rinascimento, con un caminetto abbastanza grande da poterci arrostire un bue intero e un soffitto a cassettoni circa un miglio sopra le nostre teste, si sarebbe potuto dire un posto quasi intimo. Lì, come nelle altre sale, c'erano dipinti e statue che rappresentavano la Madonna e il Bambino. Sembrava uno dei soggetti preferiti del signor Hearst. Gironzolammo senza meta fino a quando non giunsero alcuni domestici con vassoi carichi di bibite: in quel momento il nostro gironzolare divenne improvvisamente molto focalizzato. Convergemmo su quei vassoi come pirana. La Madonna ci guardava, benedicendoci con il suo sorriso. Così l'atmosfera si ravvivò un bel po'. Charlie sedette al pianoforte e iniziò a suonare canzoni famose. Gable e Laurence, insieme al tizio della Paramount, trovarono un mazzo di carte e iniziarono una partita a poker. Marion gestiva il resto della folla come un'ottima padrona di casa, accertandosi che tutti avessero un drink in mano e che nessuno si annoiasse. Il giovane Hearst e la ragazza entrarono con i capelli bagnati. Una coppia di dirigenti di Hearst (viscidi bastardi!) entrò a sua volta: videro la Garbo e si affrettarono a raggiungerla, per cercare di farsi fare un autografo. A un certo punto entrò una gran dama magra ma dall'aria autorevole, accompagnata da due cagnetti uggiolanti, e Marion la accolse con entusiasmo. Era una bizzarra scrittrice di cui un romanzo era stato opzionato per farne un film, ed era venuta a Hollywood per lavorare sulla sceneggiatura. Mi aggirai lungo i bordi dell'ampio salone, a caccia del pannello segreto
che celava l'ascensore privato di Hearst. Nel frattempo, Lewis – da uomo galante che era – ballava il Charleston con Connie Talmadge. Marion fece rotta verso di loro, con la scrittrice al seguito. – ... e lei è Dutch Talmadge, te la ricordi? E lui è... Com'è che ti chiamavi, carino? – Marion rivolse un gesto della mano a Lewis. – Lewis Kensington – rispose lui, mentre la musica scemava e taceva. Il pianista si prese una pausa per accendersi una sigaretta. – Lewis! Ecco! E da vicino sei ancora più carino – esclamò Marion, allungando una mano a pizzicargli una guancia. – Non ho ragione? Comunque, sei anche tu dell'ambiente, vero, Lewis? – Nei ranghi minori, se così si può dire – rispose Lewis. – Faccio lo stuntman. – Ma tesoro, questo significa solo che ti guadagni lo stipendio che ti passano – gli disse Marion. – A differenza di alcune di queste biondone senza talento, eh? – Rise di se stessa. – Lewis, Dutch, lei è Cartimandua Bryce! La conoscete? Scrive quelle meravigliose storie romantiche e paurose. La dama dall'aspetto autoritario fece un passo avanti. I due chihuahua fecero del loro meglio per sporgersi dalle sue braccia e avventarsi alla gola di Lewis, ma la donna li tenne con braccio fermo. – Ah... e loro sono i suoi cagnolini – aggiunse Marion in modo del tutto superfluo, allontanandosi dalle bestiole che abbaiavano furibonde. – I miei spiriti familiari – la corresse Cartimandua Bryce, con un sorriso triste. – In realtà sono spiriti antichi che si sono temporaneamente reincarnati per indicare agli altri la strada della crescita spirituale. – Oh! – disse Connie. – Ok – disse Marion. – Lui è Verme Conquistatore – continuò la signora Bryce, sporgendo in avanti il più piccolo di quei mostriciattoli con gli occhi da insetto – mentre lei è Cho-Cho. – Che carini – commentò Lewis, mentendo, e allungò una mano per cercare di stringere la minuscola zampa di Cho-Cho. Lei però gli mostrò i denti, gridando come una furia. Certi animali riescono a percepire che non siamo mortali. A volte può essere un problema. Lewis ritirò la mano, con una certa rapidità. – Mi dispiace. Forse questa bella cagnolina non è abituata agli sconosciuti? – Non è questo – disse la signora Bryce, fissando Lewis. – Cho-Cho sta
cercando di comunicare con me per via telepatica. Sente che c'è qualcosa di insolito in lei, signor Kensington. Se è in grado di rivelare alla signora che sei un cyborg è davvero un cane incredibile, trasmisi. Oh, chiudi il becco, mi trasmise Lewis. – Davvero? – disse poi, rivolto alla signora Bryce. – Accidenti, non è interessante? Ma la signora Bryce aveva chiuso gli occhi e teneva le sopracciglia aggrottate, probabilmente per sentire meglio ciò che le stava dicendo ChoCho. Dopo un attimo di imbarazzato silenzio, Marion si rivolse a Lewis dicendo: – Allora, sei la controfigura di Freddie March? Wow. Come ci si sente? – Mi limito a cadere al suo posto. Faccio le prove di illuminazione. Mi appendo ai lampadari – rispose Lewis. – Le solite cose. Charlie riprese a suonare, questa volta I'm the Sheik of Araby. – Ha fatto anche la controfigura per Rodolfo Valentino – aggiunse Constance. – Me lo ricordo. – La controfigura di Rudy? – Il sorriso di Marion si addolcì. – Povero vecchio Rudy. – Ho sempre sentito dire che fosse un culattone – buttò lì il tizio della Paramount. Marion gli si scagliò contro con rabbia. – Per tua informazione, Jack, Rudy Valentino era un vero uomo! – gli disse. – Aveva semplicemente troppa classe per passare il tempo a correre dietro a tutte le sottane. – Certa gente potrebbe imparare molto da lui – concordò Connie, con la stessa espressione di sdegno che aveva usato in Intolerance per rifiutare i mercanteggi matrimoniali dell'Antica Babilonia – Stavo solo riferendo cosa ho sentito dire – si difese il tizio della Paramount. – Forse – disse Gable, sollevando lo sguardo dalle proprie carte. – Ma hai mai sentito quell'espressione che dice "non si parla mai male dei morti"? Questo sarebbe il momento perfetto per ripassarla, amico. Oppure per giocare la tua mano. La signora Bryce, nel frattempo, aveva riaperto gli occhi e stava fissando Lewis con un'espressione sconcertante. – Signor Kensington – esclamò con voce tremante e ingoiata. – Cho-Cho mi ha rivelato che lei è un uomo infestato da uno spirito. Lewis si guardò intorno nervosamente.
– Davvero? – Cho-Cho riesce a percepire lo spirito di un'anima che cerca invano di parlare con lei. Ma lei non è abbastanza in sintonia con le vibrazioni cosmiche per udirlo – affermò la signora Bryce. Digli di provare su un'altra frequenza, fu il mio pensiero irriverente. – Be', è proprio tipico di me, temo. – Lewis scrollò le spalle, mostrando le mani aperte. – Da questo punto di vista sono davvero negato, capisce. Non saprei distinguere una vibrazione cosmica nemmeno se ci andassi a sbattere contro. Altro che vibrazioni cosmiche! Sapevo cosa stava facendo quella donna. I sensitivi di tipo Carney lo fanno sempre: la chiamano "lettura fredda". Si studia da vicino una persona e si fanno alcune deduzioni sulla base di quello che si vede. Poi si inizia a tessere una storia a partire dalle proprie deduzioni, osservando le reazioni del soggetto per capire se si è colto nel segno, aggiustando la storia per adattarsi alla persona mentre si va avanti. In quel momento, l'unica cosa che la donna aveva in mano era quel commento sul fatto che Lewis aveva conosciuto Valentino. Lewis aveva scritto "Preda Facile" in fronte, ma avevo come l'impressione che la donna fosse lì a caccia di pesci più grandi. – Cho-Cho vede un uomo, un uomo magro dalla pelle scura... – continuò la signora Bryce, rovesciando gli occhi all'indietro in maniera quasi preoccupante. – Indossa abiti orientali... – Ehi, signora Bryce, guardi! C'è Greta Garbo! – esclamò Marion, dopo aver buttato giù il suo cocktail tutto d'un sorso. – Scommetto che è una grande appassionata dei suoi romanzi. Gli occhi della signora Bryce scattarono al loro posto in un attimo e la donna si guardò intorno. – La Garbo? – esclamò. Poi si lanciò dritta verso la Fiamma di Ghiaccio, mollando Lewis come un sasso, anche se Cho-Cho continuava a ringhiare contro di lui, sporgendosi dalla spalla della donna. La Garbo le vide arrivare e sprofondò ancor più a fondo nella sua sedia. Avevo ragione. La signora Bryce era a caccia di pesci più grandi. Tuttavia non vidi quel che accadde dopo, perché fui distratto dal rumore di un cancello d'ottone e di ingranaggi che giravano, da qualche parte al piano di sopra. Il pesce più grande di tutti stava scendendo col suo ascensore privato, facendo il suo ingresso con studiato ritardo. Mi sporsi verso il pannello segreto. Avevo la bocca riarsa e le mani
sudate. Mi chiedo se Mefistofele abbia mai le mani sudate prima di affrontare un potenziale cliente. Tump. Eccolo. Nell'aprirsi, il pannello non fece alcun rumore. Neanche un'anima mortale si accorse che W. R. Hearst era entrato nella stanza, e neppure Lewis, se è per quello, visto che aveva ripreso a ballare il Charleston con Connie Talmadge. Quindi c'ero soltanto io, che fissavo quell'uomo molto molto grosso e anziano che andò a sedersi in silenzio in un angolo. Mi si rizzarono i capelli in testa, ve lo giuro, ma non sapevo perché. William Randolph Hearst aveva festeggiato il suo settantesimo compleanno qualche settimana prima. Aveva i capelli bianchi, era curvo nel modo in cui i vecchi sono curvi, ma le sue ossa non si erano arrese alla gravità. La sua postura eretta suggeriva una potente determinazione. Se ne stava lì seduto nell'ombra a guardare tutta quella gente festosa nel suo grande salone. Io lo guardavo. Quello era l'uomo che aveva dato i natali al giornalismo moderno, l'uomo che – con incredibile energia e audacia – aveva fondato un impero finanziario che includeva quotidiani, riviste, cinema, radio, miniere, allevamenti di bestiame. Sceglieva i presidenti come si sceglie un segretario personale. Costringeva il mondo a confrontarsi con lui secondo i suoi termini, in modo spietato. Era lui a dettare le regole della moralità e tuttavia, a guardarlo dall'esterno, in quel vecchio seduto non traspariva nessun fuoco interiore; nessun genio inquieto era visibile a occhio nudo. Sapete chi mi ricordava? Alice, il personaggio delle strisce di Braccio di Ferro. Grossa come una montagna e spaventosa, ma allo stesso tempo triste, con quegli strani occhi profondi sopra il lungo naso dritto. Mi ricordava anche qualcos'altro, ma niente che avessi voglia di ricordare in quel momento. – Oh, hai fatto di nuovo il tuo solito scherzo – disse Marion, fingendo di essersi accorta di lui solo in quel momento. – Eccolo qui, gente. Gli piace apparire dal nulla come se fosse Houdini o qualcosa del genere. Da bravo, W. R., di' ciao a queste simpatiche persone. – Lo tirò in piedi e lui, obbediente, sorrise. Il suo sorriso era ancora più temibile di tutto il resto della sua persona. Era largo e affilato, e famelico, e giovane. – Salve, gente – disse, in quella sua voce ultraterrena che Ambrose
Pierce aveva descritto come la versione acustica del profumo di violetta. Flautata e senza risonanze. Una voce non umana. Accidenti, sembro più umano io di lui. Ma dopotutto noi siamo fatti apposta. E avreste dovuto vederla, tutta quella gente, che si girava a fissarlo, che sorrideva e si inchinava... inchini appena accennati, e non credo che si rendessero conto di inchinarsi al suo cospetto, ma io sono stato un cortigiano e so riconoscere uno che si prostra, quando lo vedo. Marion era l'unica mortale nella stanza a non avere paura di lui. Anche la Garbo si era alzata dalla sedia. A uno a uno, Marion li accompagnò da lui, i grandi nomi e i signor nessuno, presentandogli quelli che non conosceva. Lui stringeva le mani come un ragazzino timido. Diavolo, ma quant'era timido! Ecco qual era il problema, intuii: Hearst non si sentiva a suo agio tra la gente e Marion, in aggiunta ai suoi altri doveri, era la sua interfaccia verso la società. Okay, quell'informazione poteva essermi utile. Mi tenni a debita distanza dalla folla, senza farmi notare, in attesa che Marion finisse di presentare tutti gli altri. Mi feci avanti solo quando si guardò intorno per cercarmi, uscendo dall'ombra per entrare nel suo campo visivo. – E poi... oh, Joe, quasi mi dimenticavo di te! Papi, lui è Joe Denham. Lavora per il signor Mayer, ricordi? È quel tipo simpatico che... In quel momento, dietro di noi scoppiò un vero pandemonio. Uno di quei dannati chihuahua si era liberato e si era lanciato contro qualcuno con l'intento di uccidere: da quanto riuscivo a sentire, probabilmente si trattava di Lewis. Marion si voltò e corse via per affrontare il problema. Io mi sporsi in avanti e strinsi la mano del signor Hearst, mentre lui – con fronte aggrottata – guardava Marion allontanarsi alle mie spalle. – Piacere di conoscerla, signor Hearst – gli dissi, a bassa voce. – Il signor Shaw mi ha suggerito di farle una visita. Aspetto con ansia di poter fare due chiacchiere con lei in privato, più tardi. Accidenti se quelle parole attirarono la sua attenzione! Il suo sguardo prima distante si fissò di scatto su di me, mettendomi a fuoco, e mi sentii come se un blocco di granito mi avesse colpito dritto in faccia. Inghiottii a vuoto, cercando di concentrarmi sulla parte che dovevo
interpretare, e mentre gli lasciavo andare la mano per tornare a ritirarmi nelle ombre, gli rivolsi un sorriso carico di mistero. In quel momento Hearst non riuscì a dire niente, perché Cho-Cho stava spingendo Lewis verso di noi: il mio amico cercava di sfuggirle saltellando via dai suoi dentini affilati con gridolini di scusa, mettendosi in salvo su vari pezzi d'arredamento. Cercando di afferrare lo schifoso cagnetto, Marion rideva a crepapelle. La signora Bryce si limitava a osservare la scena con un'espressione rapita e saputa. Davanti a quella scena, Hearst sporse le labbra all'infuori, ma non era una persona che restava distratta a lungo. Si voltò lentamente a guardarmi e annuì, una volta soltanto, per mostrarmi che aveva capito. Poi un cameriere apparve sulla porta per annunciare che la cena era in tavola. Hearst ci precedette fuori dalla stanza e noi lo seguimmo, obbedienti. La sala da pranzo era meno accogliente di quella in cui ci eravamo intrattenuti prima. Nonostante il fuoco che ruggiva nel caminetto in stile Gotico Francese, faceva un freddo cane e l'oscurità era ravvivata soltanto un po' dagli stendardi rinascimentali di seta appesi in alto e da un gran numero di massicci candelieri d'argento. Lungo le pareti erano allineati gli stalli di un coro spagnolo del quindicesimo secolo. Forse mi ci ero addirittura appisolato in uno di quegli scanni, in passato, quand'ero un frate. Magari era proprio così. Avevano un aspetto familiare. Ci fecero accomodare intorno al lungo tavolo del refettorio. Hearst e Marion sedettero al centro, l'uno di fronte all'altra, e gli ospiti furono disposti secondo il loro status sociale. Più si stava vicino al padrone di casa e alla sua signora, maggiore era la propria posizione nei suoi favori, o la propria importanza. Gli ospiti che il signor Hearst trovava noiosi o maleducati venivano fatti scivolare, con discrezione, verso il fondo del tavolo. Be', la nostra posizione può solo migliorare, mi trasmise Lewis, individuando i nostri segnaposto proprio alla fine del tavolo. Quando prendemmo i piatti (dei vecchi e semplici Blue Willow che sua madre aveva utilizzato per i picnic) e ci dirigemmo verso il buffet, mi sentii addosso lo sguardo di Hearst. Scommetto che migliorerà anche in fretta, risposi. Ah! Hai stabilito il contatto? Lewis sbirciò oltre la schiena di Gable, occhieggiando un vassoio di bistecche di cervo dall'aspetto invitante.
Ho soltanto gettato l'esca. Cercai di non guardare Hearst: aveva appena finito di riempirsi il piatto di anatra pressata e stava ritornando, a passo lento, verso il tavolo. Ma deve essere per forza così complicata, questa faccenda? domandò Lewis, scivolando oltre la Garbo per servirsi di soufflè di asparagi. Dopotutto vogliamo soltanto il permesso di nascondere il copione dentro quel particolare scrigno spagnolo. In realtà vogliamo anche qualcos'altro, Lewis. Osservai tutto quel cibo da ricchi e decisi di restare sul semplice. Patate, ecco. Capisco. È una di quelle informazioni riservate, è così? Risposta esatta, ragazzo. Mi riempii il piatto giusto il tanto da non sembrare maleducato poi me ne tornai al mio posto. Hearst mi guardava. I suoi occhi mi seguirono come la luce di un faro per tutto il percorso lungo il tavolo. Io gli rivolsi un educato cenno del capo, da quel bravo ragazzo che sono, e mi sedetti di fronte a Lewis. Immagino che qui ci sia in ballo molto di più di quanto la Compagnia ha reputato di farmi sapere, mi trasmise Lewis, dispiegando il tovagliolo di carta e sollevando il bicchiere da vino, speranzoso. Il cameriere glielo riempì e procedette oltre. Non fare l'offeso, gli trasmisi in risposta. Sai come è fatta la Compagnia. Probabilmente qui c'è in ballo molto più di quanto io stesso non sappia, ok? Lo dissi solo per farlo sentire meglio. Se solo avessi saputo quanto avevo ragione... Così cenammo a quel tavolo degno del banchetto di un barone, insieme ai mortali. Gable era impegnato in una virile conversazione con il signor Hearst sull'allevamento del bestiame; Marion e Connie scherzavano ridacchiando l'una di fronte all'altra, insieme agli ospiti uomini; il giovane Hearst e la sua ragazza sussurravano tra loro e un servitore dovette portare fuori ChoCho e Verme Conquistatore perché non volevano smettere di abbaiare contro il timido piccolo bassotto tedesco che era apparso sotto la sedia del signor Hearst. La signora Bryce non protestò: era occupata a raccontare alla Garbo di una sua vita precedente, ma non riuscivo a capire se si riferisse alla propria o a quella dell'attrice. I dirigenti di Hearst si limitavano a mangiare in
silenzio, al loro lato del tavolo. Io e Lewis mangiammo in silenzio, in fondo al nostro lato. Non che ci ignorassero, badate. Ogni tanto Marion ci gridava qualcosa di simpatico e Hearst continuava a spostare la luce azzurra e fredda del suo sguardo su di me, con un'espressione che – che io sia dannato – proprio non riuscivo a decifrare. Quando la cena ebbe fine, il signor Hearst si alzò e prese in braccio il bassotto, invitandoci a seguirlo fino alla sua sala cinema privata. Serve che dica che anche quest'ultima era in scala con tutto il resto? Pareti rivestite di damasco rosso, splendido soffitto con travi di legno a vista sostenuto da file di cariatidi dorate solo leggermente più grandi della dimensione naturale. Scorremmo in buon ordine fino alle nostre poltrone, conservando – penso, in modo inconsapevole – lo stesso ordine che avevamo avuto intorno al tavolo, perché io e Lewis finimmo ancora una volta all'estremità della fila. Hearst si sistemò nella sua ampia poltrona di pelle dotata di telefono, chiamò il proiezionista e gli ordinò di iniziare. Le luci si spensero e, dopo un lungo momento di buio, lo schermo si illuminò. Il film era Verso Hollywood, l'ultimo film di Marion insieme a Bing Crosby. Quando la donna vide il proprio nome passare sullo schermo, lo salutò con una pernacchia lunga e sonora, e tutti ridacchiarono. Tutti tranne me. Io non ridacchiavo, nossignore. Il signor Hearst non era più seduto nella sua grande poltrona in pelle. Si stava dirigendo lentamente verso di me, nel buio, con il cagnolino in braccio, e quando la sua grossa mano calò sulla mia spalla, se non fossi stato in grado di vedere grazie all'infrarosso, probabilmente avrei gridato e fatto un salto così alto da restare conficcato nel costoso soffitto. Si chinò per sussurrarmi in un orecchio. – Signor Denham? Potrei parlarle in privato, per favore? – mi disse. – Sì, certamente, signor Hearst! – risposi, col fiato corto, e mi alzai. Di fianco a me, Lewis mi guardò sorpreso. In bocca al lupo, mi trasmise, e poi tornò a rivolgere la sua attenzione allo schermo. Io uscii dalla fila di poltrone e seguii Hearst, che si stava già allontanando, senza il minimo dubbio sul fatto che gli avrei obbedito. Una volta fuori dal cinema, mi disse soltanto: – Da questa parte. Faremo prima. – Ok – risposi, come se avessi un'idea di dove stavamo andando.
Ripercorremmo la casa a ritroso. Intorno non si sentiva nessun rumore, a parte quello dei nostri passi che echeggiava contro quelle alte pareti. Emergemmo nel salone delle feste, illuminato in modo irreale, e Hearst mi condusse verso il pannello che celava il suo ascensore personale, che si aprì. Entrammo – io, lui e il cagnolino – e salimmo ai piani superiori della casa. Avevo la bocca riarsa, le mani sudate e la cena mi si agitava nello stomaco... be', quest'ultima è una bugia. Sono un cyborg e non posso soffrire di acidità di stomaco. Ma diciamo che mi sentivo come un mortale con lo stomaco sottosopra per il nervosismo, se capite cosa intendo. E in quel momento avrei dato volentieri la metà dei capolavori rinascimentali custoditi in quella casa in cambio di un tubetto di caramelle Polo. Il bassotto mi guardava con compassione. Raggiungemmo il terzo piano ed entrammo nello studio privato di Hearst. Quella era la stanza da cui mandava avanti il suo impero quando alloggiava alla Cuesta Encantada, il luogo dove tutti i telefoni lo mettevano in contatto diretto con le sale stampa di tutto il Paese, dove Hearst teneva d'occhio le telescriventi prima di impartire ordini a tutte le persone influenti del mondo. Nell'istante in cui mettemmo piede sul tappeto, una minuscola macchina da presa nascosta in un angolo iniziò a ronzare, e riuscii a sentire il click di un dittafono modificato, nascosto dentro un mobile, che iniziava a registrare. Un sistema di sicurezza davvero all'avanguardia, per il 1933. La stanza era più bella rispetto alle altre che avevo visto fino a quel momento. Enorme, ovviamente, con un soffitto spagnolo d'antiquariato da cui pendevano lampade d'oro, tuttavia le pareti rivestite di legno, libri e tappeti persiani Bakhtiari le donavano un certo tepore. Il mio sguardo seguì la luce delle lampade lungo l'immenso tavolo da conferenze di mogano lucido e si fermò di scatto sul ritratto a grandezza naturale di Hearst, sul muro di fronte. Era un buon ritratto, fatto quando era ancora sulla trentina, il giovane imperatore che guardava il mondo con quegli occhi così seri. Aveva un'aria innocente. E pericolosa. – È molto somigliante – dissi. – Il pittore aveva un gran talento – rispose Hearst. – Era un mio caro amico. È scomparso prematuramente. Secondo lei, perché accade? – Che la gente scompaia prematuramente? – domandai, balbettando
leggermente, poi cercai di costringermi a calmarmi: si trattava solo di affari con un mortale, tutto qui, e questo tizio mi aveva appena servito un aggancio perfetto su un piatto d'argento. Gli rivolsi il mio miglior sorriso enigmatico e scossi il capo con tristezza. – Morire è il destino dei mortali, signor Hearst. Anche di coloro che hanno abilità e talento straordinari. Davvero un peccato, non trova? – Oh, sì – rispose Hearst, senza mai staccarmi gli occhi di dosso. – E suppongo che sia proprio di questo che ci accingiamo a parlare, non è così, signor Denham? Si accomodi. Mi indicò dove sedermi, non intorno al grande tavolo bensì in una delle comode poltrone. Prese posto nella poltrona di fronte alla mia, come se fossimo una coppia di vecchi amici che si ritrovano per una chiacchierata. Il cagnolino si acciambellò sulle sue gambe, con un sospiro. Per dio, era proprio una stanza silenziosa. – Quindi la manda George Bernard Shaw – affermò Hearst. – Non esattamente – risposi, intrecciando le dita. – Il signor Shaw ha detto che lei poteva essere interessato a ciò che la nostra Compagnia può offrirle. Hearst si limitò a fissarmi, in silenzio. Io mi schiarii leggermente la gola e continuai. – Ci ha parlato bene di lei, nella misura in cui il signor Shaw è capace di parlare bene di qualcuno. E da quanto ho visto, lei ha molte cose in comune con i soci fondatori della nostra Compagnia. Lei apprezza la magnificenza delle opere d'arte che l'umanità è capace di creare. Lei odia vederle andare distrutte o rovinate per colpa del caso cieco. Ha trascorso gran parte della sua vita a preservare dalla distruzione oggetti rari e meravigliosi. «E, cosa altrettanto necessaria, lei è un uomo con una visione. La scienza moderna e tutto il suo potenziale non la spaventano. Non è un uomo superstizioso. È un uomo con una morale ma non lascia che dei miopi moralisti le dicano cosa è giusto e cosa è sbagliato! Quindi non è un codardo. Non sembrava provare compiacimento per le mie parole, né sembrava sentirsi adulato: mi ascoltava e basta. Che cosa gli frullava per la mente? Io andai avanti a parlare, cercando di interpretare al meglio quella scena,
come avrebbe fatto Claude Rains. – Vede, è da un po' di tempo che la osserviamo con attenzione, signor Hearst – gli dissi. – Non facciamo quest'offerta con leggerezza, o a mortali qualunque. Ma ci sono certe domande che ci sembra giusto rivolgerle, prima. Hearst si limitò ad annuire. Quando pensava di dire qualcosa? – Quello che le possiamo offrire – continuai – non è una cosa per tutti. Potrebbe credere di desiderarlo profondamente, ma deve guardare dentro di sé con onestà e chiederselo una volta per tutte: è mai stanco di vivere? Ci sono mai dei momenti in cui desidera solo addormentarsi per sempre? – No – rispose Hearst. – Se fossi stanco della vita, mi arrenderei e mi lascerei morire. Non mi interessano pace e tranquillità, signor Denham. Voglio più tempo da vivere. Ho molte cose da fare! Il momento esatto in cui rallenterò e deciderò di stare a guardare le nuvole che passano, morirò di noia. – Forse – risposi, annuendo. – Ma deve tenere presente un'altra cosa: pensi a quanto è cambiato il mondo da quando lei era giovane. Guardi quel ritratto. Quando è stato dipinto, lei era nel fiore degli anni... proprio come tutta la sua generazione. Era il suo mondo. Conosceva le regole del gioco e tutto aveva senso. Ma lei è nato prima che Lincoln facesse il discorso di Gettysburg, signor Hearst. Lei non vive più in quel mondo. Tutte le regole sono cambiate. La musica è così rumorosa e stridente, le danze così sguaiate. Tutti i re stanno morendo e piccoli dittatori con le mani sporche di sangue stanno conquistando il potere. «Non si sente sopraffatto, nemmeno un po', dall'incredibile velocità con cui tutto cambia al giorno d'oggi? Lei ha solo settant'anni anni, ma non ci sono delle volte in cui si sente come una specie di dinosauro, un sopravvissuto di un'epoca ormai perduta? – No – rispose Hearst, convinto. – Mi piace il presente. Mi piace la velocità e la novità delle cose. Sono certo che il futuro mi piacerebbe ancora di più. Oltretutto, studiando la storia, bisogna concludere che l'umanità è migliorata in modo costante nei secoli, nonostante il parere dei cinici. Le generazioni future saranno migliori di noi, non importa quanto potranno sembrarci estranee le loro mode oggi. Inoltre, cos'è la moda? Cosa m'importa della musica che ascoltano i giovani? Saranno più sani e più intelligenti, e avranno il beneficio di poter imparare dai nostri errori. Mi piacerebbe molto sentire cosa avranno da dire in proposito. Tornai ad annuire, lasciando trascorrere un attimo di silenzio prima di
rispondere, per migliorare la resa scenica. Quindi parlai. – Ci sono anche questioni di cuore da tenere in considerazione – lo avvertii. – Quando un uomo ha delle persone care, certi eventi lo faranno soffrire, se vive abbastanza a lungo da vederli accadere. Ci pensi, signor Hearst. Lui annuì piano e finalmente abbassò gli occhi, smettendo di fissarmi. – Sarebbe peggio per un uomo che è profondamente attaccato alla propria famiglia – rispose. – E tutti gli uomini dovrebbero esserlo. Ma le cose non vanno sempre come ci piacerebbe, signor Denham. Non so il perché, ma mi piacerebbe saperlo. Intendeva forse dire che gli sarebbe piaciuto sapere perché non aveva mai sentito un grande attaccamento paterno verso i propri figli? Mi limitai a guardarlo con espressione comprensiva. – Per quanto riguarda l'amore – continuò, poi fece una breve pausa. – Ebbene, a certe cose bisogna rassegnarsi. È inevitabile. L'amore porta sempre con sé la sofferenza. Si stava chiedendo ancora una volta perché Marion non smetteva di bere per lui? – E l'amore non dura per sempre, e questo fa male – dissi, dolente. Hearst riportò gli occhi su di me. – Fa male anche quando dura. Le posso assicurare che sono in grado di sopportare il dolore. Bene, quelle erano tutte le risposte giuste. Mi accorsi di aver sollevato una mano per lisciarmi la barba che non portavo più da tempo. – Un atteggiamento concreto e ottimista, signor Hearst – gli dissi. – Ottimo. Penso che ora sia arrivato il momento di parlare d'affari. – Quanto tempo mi potete dare? – chiese subito Hearst. Be', non ci sarebbe voluto molto. – Vent'anni – risposi. – Anno più, anno meno. Argh! Che espressione rapace nei suoi occhi. Mi ero forse dimenticato che stavo facendo affari con William Randolph Hearst? – Vent'anni? – sbottò. – Quando ne ho solo settanta? Mio nonno è vissuto fino a novantasette anni. Potrei arrivarci da solo, a quell'età. – Non con il cuore in quelle condizioni e lo sa bene – ribattei. Capitolò, stringendo le labbra. – Va bene. Se la sua Compagnia non può fare di meglio... Vent'anni potrebbero essere un tempo accettabile. E in cambio, signor Denham? – Due cose, signor Hearst – dissi, sollevando la mano con due dita tese.
– La Compagnia vorrebbe il diritto di nascondere degli oggetti qui alla Cuesta Encantada, di quando in quando. Niente di pericoloso o di contrabbando, ovviamente. Solo alcuni libri, certi dipinti, qualche altra piccola rarità che, se fosse conservata in un luogo meno protetto di questo, non sopravviverebbe al passare dei secoli. In un certo senso, ci limiteremmo ad aggiungere qualche pezzo alla sua collezione. – Allora vuol dire che sapete che questa casa sopravviverà al passare dei secoli – disse Hearst, con uno sguardo felice e triste allo stesso tempo. – Oh, sì signore – risposi. – È così. Questa casa è una delle cose che ama che non scomparirà. A quelle parole si alzò dalla poltrona, appoggiando delicatamente il cane per terra, e poi si allontanò, dirigendosi verso il fondo della sala. Poi si voltò e tornò indietro, cercando di nascondere un sorriso. – Ok, signor Denham – disse. – La sua seconda richiesta deve essere veramente difficile da digerire. Qual è l'altra cosa che la sua gente vuole da me? – Dovrà dare alcune disposizioni nel suo testamento, signor Hearst – risposi. – Un fondo segreto che darà alla mia Compagnia il controllo di alcuni dei suoi beni. Solo alcuni, ma molto specifici. Sorrise, snudando i denti. Quel sorriso risvegliò in me ogni genere di terrore atavico. Mi accorsi di avere la fronte sudata e le ascelle umide. – Ma insomma. Per che razza di vecchio imbecille mi ha preso, la sua gente? – chiese in tono gioviale. – Be', lo sarebbe certamente se accettasse la loro proposta al volo, senza voler approfondire – risposi, ricambiando il sorriso e resistendo eroicamente alla voglia di tagliare la corda come un missile. – Non vogliono i suoi soldi, signor Hearst. Lasci pure tutto quello che vuole a sua moglie e ai suoi figli. Lasci a Marion più che abbastanza perché sia protetta. Ciò che la mia Compagnia vuole da lei non creerà nessun problema ai suoi eredi. Ma in questo momento, e lei è abbastanza in gamba da capirlo, vengono pianificate alcune cose che non porteranno frutto prima di un secolo o due. Qualcosa che non ha valore per lei, stanotte nel 1933, potrebbe essere una carta vincente in una partita che si giocherà nel futuro. Capisce cosa intendo? – Forse sì – rispose Hearst, risistemandosi i pantaloni sulle ginocchia per rimettersi a sedere. Il cagnolino tornò a saltargli in braccio.
Sentendomi sollevato dal fatto che l'uomo non torreggiasse più sopra di me, proseguii: – Ovviamente, le forniremo una bozza delle condizioni che dovrà approvare, anche se non sarà possibile farla esaminare dai suoi legali... – E posso anche capire il perché – commentò Hearst, sollevando una mano enorme. – Ma va bene. Penso di essere ancora in grado di valutare un contratto. Ma signor Denham! Mi ha appena detto che possiedo qualcosa che un giorno vi sarà molto utile. Ora, non si aspetta che io alzi la posta? Inoltre vorrei avere qualche informazione in più sulla sua gente. Vorrei avere una prova che la sua storia è vera, e anche quella del signor Shaw. Cosa mi ero detto, poco prima? Che non ci sarebbe voluto molto tempo? – Certamente – risposi, brillante. – Ho portato con me tutte le prove di cui ha bisogno. – Bene – mi disse Hearst, quindi sollevò la cornetta del telefono posto sul tavolino di fianco alla poltrona. – Anne? Mandaci su un po' di caffè, per favore. Sì, grazie. – Si allontanò un attimo dalla cornetta per chiedere: – Per lei latte o zucchero, signor Denham? – Tutt'e due – risposi. – Latte e zucchero, per favore – disse al telefono. – E per favore, passami Jerome. – Rimase in attesa per qualche secondo. – Jerome? Avremmo bisogno della valigia nera che si trova sotto il letto del signor Denham. Sì. Grazie. – Riattaccò e colse il mio sguardo attonito. – E lì che le tiene, no? Le prove che mi ha portato, intendo. – In effetti, sì – risposi. – Bene – disse lui, e si allungò sulla poltrona. Il cagnolino, in realtà una cagnetta, gli insinuò la testa sotto la mano, chiedendo un po' di coccole. Lui la guardò leggermente divertito e iniziò a grattarle la testa, in mezzo alle orecchie. Anche io mi allungai sulla poltrona, notando che avevo la camicia appiccicata alla schiena per il sudore. Teso com'ero, ringraziai che non mi scorresse a rivoli sulla faccia. – Lei è una creatura mortale, signor Denham? – mi chiese Hearst, a bassa voce. Ora il sudore mi scorreva davvero a rivoli sulla faccia. – Ehm, no, signore – risposi. – Però all'inizio lo ero anch'io. – Lo era, eh? – sottolineò Hearst. Poi chiese – Quanti anni ha? – Circa ventimila – risposi. Bang, mi osservò ancora con quella espressione decisa.
– Davvero? – esclamò. – Un piccoletto come lei? Voglio dire, un metro e sessantacinque vi sembra così poco? – A quei tempi eravamo più bassi – gli spiegai. – Tutta la gente lo era, voglio dire. Per via dell'alimentazione, probabilmente. Lui si limitò ad annuire. Dopo un attimo, chiese: – Ha vissuto attraverso i secoli come un testimone oculare della storia? – Già. Sì, signore. – Ha visto la costruzione delle piramidi? – In effetti, sì. – Pregai che non mi chiedesse come le avessero costruite, perché non mi avrebbe mai creduto. Ma lui continuò. – Ha visto la guerra di Troia? – Be', sì, ma non è andata proprio come l'ha descritta Omero. – Le storie della Bibbia, sono vere? Sono accadute realmente? Ha incontrato Gesù Cristo? I suoi occhi mi fissavano, in fiamme. – Be'... – dissi, con un gesto vagamente impotente. – No, non ho incontrato Gesù, perché in quel periodo lavoravo a Roma. Non ho mai lavorato in Giudea prima delle Crociate, ed è stato molto più tardi. E per quanto riguarda la veridicità delle storie della Bibbia... alcune sono vere, altre no. E poi, comunque, dipende da cosa si intende per "essere vere". Mi arresi e tirai fuori un fazzoletto per asciugarmi la faccia. – Ma le domande teologiche! – esclamò Hearst, piegandosi in avanti. – Abbiamo un'anima che sopravvive dopo la nostra morte fisica? Che mi dice del Paradiso e dell'Inferno? – Mi dispiace – dissi, scuotendo il capo. – Come faccio a saperlo? Non ci sono mai stato. Non sono mai morto, ricorda? – E i suoi padroni lo sanno? – Se lo sanno, non me l'hanno detto – dissi, in tono di scusa. – Ci sono tante cose che non mi dicono. Hearst strinse ancora le labbra, eppure percepii in lui un certo senso di soddisfazione. Mi abbandonai di nuovo contro lo schienale della poltrona, sentendomi come una spugna strizzata, dicendo addio alla sottile interpretazione mefistofelica che avevo in mente. D'altra parte, a Hearst piaceva condurre il gioco. In quel modo, forse, sarebbe stato più ricettivo. Arrivò il caffè. Hearst se ne versò mezza tazza, poi la riempì fino all'orlo di latte. Nel mio versai il latte e quattro cubetti di zucchero.
– Le piace lo zucchero – osservò Hearst, sorseggiando il caffè. – Ma dopotutto immagino che non abbia avuto molte occasioni di mangiare dolci nelle prime migliaia di anni della sua vita, o sbaglio? – Infatti – ammisi. Assaggiai il caffè e lo appoggiai da una parte a raffreddare. – Niente negozi di caramelle nel Neolitico. In quel momento qualcuno bussò due volte, in modo discreto. Il signor Hearst disse "Avanti!" e Jerome entrò portando la mia valigia. La appoggiò tra le due poltrone. – Grazie – gli dissi. – Di niente, signore – rispose, senza alcuna traccia di sarcasmo nella voce, e uscì altrettanto silenziosamente come era entrato. Restai ancora una volta solo con Hearst e il suo cane. Entrambi mi fissavano in attesa. – Va bene – dissi, traendo un lungo respiro. Mi sporsi in avanti, inserii il codice nel lucchetto e aprii la valigia. Mi sentivo come un commesso viaggiatore. E forse lo ero, in un certo senso. – Ecco qui – dissi a Hearst, tirando fuori una bottiglia d'argento. – Questo è il suo campione gratuito. Lo beva e si sentirà come se avesse di nuovo quarant'anni. Gli effetti dureranno soltanto un giorno o due, ma dovrebbe essere sufficiente per mostrarle che possiamo darle quei vent'anni in più senza alcuna difficoltà. – Quindi il vostro segreto è una pozione – disse Hearst, bevendo un altro sorso di caffè. – Non è del tutto esatto – gli risposi, con onestà. Avrei dovuto eseguire un intervento di criptochirurgia per riparare temporaneamente il suo cuore, ma questa parte ai clienti non la raccontiamo mai. – Guardi. Ecco qualcosa che credo troverà assai più interessante. Presi lo schermo visore e lo appoggiai sul tavolino tra le due poltrone. – Se fossimo, uhm... diciamo mille anni fa, se lei fosse un qualche imperatore e io la volessi impressionare, le direi che questo è uno specchio magico. Ma tutto considerato... Ha già sentito parlare della Televisione, quell'idea su cui stanno lavorando in Inghilterra proprio in questo periodo? – Sì – rispose Hearst. – Questo è il frutto di quell'invenzione, tra circa duecento anni – gli dissi. – Ora purtroppo non riesce a captare nessuna trasmissione, perché ancora non ce ne sono, ma questo modello può anche riprodurre programmi registrati.
Estrassi un piccolo disco dorato da un involucro nero e lo infilai in una fessura collocata sul davanti del dispositivo, poi azionai il tasto PLAY. Lo schermo si accese all'istante, azzurro pallido. Un attimo dopo vi apparve una sequenza di immagini e i minuscoli altoparlanti diffusero musica ad alto volume: lo staccato di una fanfara che annunciava le notizie della sera del 18 aprile 2106. Hearst fissava lo schermo a bocca aperta. Mentre i brevi servizi si susseguivano, si sporse in avanti a osservare i visi attraenti dei giornalisti televisivi che parlavano con toni vivaci: nuove colonie minerarie sulla Luna, un'altra bomba dei terroristi della Ulster Revenge League a Londra, la firma di nuovi accordi internazionali per inasprire i divieti sulla ricerca sul DNA ricombinante, manifestanti in Messico che picchettavano le fabbriche di automobili di proprietà giapponese. – Aspetti – disse Hearst, sollevando una mano. – Come si ferma questa cosa? Può rallentarla? Azionai il tasto di pausa. L'immagine dei lavoratori del sindacato messicano che davano fuoco a un sushi bar si bloccò. Hearst fissò lo schermo. – Sarà così il giornalismo, nel futuro? – chiese. – Be', sì, signore. Non ci saranno più i quotidiani stampati, vede. Per allora tutto verrà già pubblicato online. Una sorta di trasmissione mista di stampa e filmati – gli spiegai, anche se sapevo che quella rivelazione avrebbe probabilmente dato un bello shock temporale a quel povero vecchio. Dopotutto, quello era sempre stato il suo campo. – Ma, voglio dire... – aggiunse Hearst, strappando gli occhi dallo schermo per fissarmi in modo inquisitorio. – Questi sono solo pezzetti di notizie, non c'è una vera copertura degli eventi: sono al massimo tre frasi e una foto per ogni storia. Non c'è nemmeno la metà della sostanza di un notiziario di oggi! Neppure una parola di sorpresa sulle colonie lunari. – No, le notizie saranno molto superficiali – ammisi. – Ma vede, signor Hearst, quello sarà ciò che la gente comune si aspetta dalle notizie, nel ventiduesimo secolo. Qualcosa di breve e facile da capire. La gran parte della gente sarà troppo occupata e troppo poco interessata per seguire una storia in modo approfondito. – Me lo faccia rivedere, per favore – mi ordinò Hearst e io feci ripartire il filmato. Lo guardò con espressione intenta. Sentii un moto di pena. Quanto
poteva capire di quegli spezzoni audio, del montaggio caotico delle immagini, del ritmo veloce, sobbalzante e senza tregua? Lo guardò fino al punto in cui era arrivato la volta precedente, con la fronte aggrottata, poi mi fece cenno di fermarlo di nuovo. Io obbedii. – Proprio così – disse. – Esattamente. Le notizie per l'uomo della strada. Anche uno scaricatore di porto illetterato potrebbe capire questa roba. È al livello di un libro per l'asilo. – Mi rivolse uno sguardo di sbieco. – E mi pare, signor Denham, che debba essere abbastanza semplice manovrare l'opinione pubblica con questa specie di pappetta. Una fotografia vale come mille parole, non è così? L'ho sempre pensato anche io. Qui ci sono soprattutto immagini. Propinando al pubblico i frammenti giusti di una storia, sarebbe possibile manipolare la loro percezione della realtà. Non è vero? Io lo fissai a bocca aperta. – Ehm... ha ragione, ma ovviamente non sarebbe un comportamento molto etico – mi trovai a rispondere. – No, se uno lo facesse con motivazioni non etiche – concordò Hearst. – Tuttavia, se uno fosse dalla parte dei buoni, non vedo cosa ci sarebbe di sbagliato nell'usare tutti i possibili trucchi della retorica al servizio della propria causa! Mi faccia vedere il resto di quella roba. Sta guardando quei pulsanti di controllo, vero? Cosa sono quelle immagini, quei geroglifici? – Icone universali – gli spiegai. – Vengono attivate dal movimento dell'occhio. Per farlo ripartire, basta guardare questa qui... Ma mentre stavo ancora indicando, lui l'aveva già fatto ripartire da solo. Sul disco non rimaneva molto. Un piccolo insieme di fatti e notizie a proposito di una nuova centrale a fusione, le previsioni del tempo e due piccoli scoop di cronaca locale. Il primo consisteva in una foto e dieci secondi di commento audio, realizzato a San Francisco da un reporter alla festa di commemorazione per il duecentesimo anniversario del terremoto del 1906. Il secondo – la storia che aveva influenzato la Compagnia a scegliere quella particolare notizia per convincere il signor Hearst – era un pezzo sulla contestazione che bloccava la suddivisione di Hearst Ranch, che correva il rischio di essere trasformato da un urbanista in una nuova comunità pianificata, con villette a schiera, campi da golf e centri commerciali. Davanti a quella notizia, Hearst trattenne il fiato, e se poco prima il suo viso mi aveva fatto paura, in quel momento mi accorsi di quanto vaga
fosse la mia idea di paura. Il suo sguardo colpiva i pulsanti di attivazione con una forza quasi fisica: replay, replay, replay. Dopo aver guardato quello spezzone una mezza dozzina di volte, spense l'apparecchio e mi fissò. – Non possono farlo – disse. – Lei ha visto quei progetti? Rovinerebbero la costa. Taglierebbero tutti gli alberi! E il traffico, il rumore e lo smog e... e che ne sarebbe degli animali? Anche gli animali hanno dei diritti. – Temo che per allora la gran parte degli animali selvatici di questa zona si sarà già estinta, signor Hearst – gli dissi, in tono di scusa, rimettendo il lettore nella sua custodia. – Ma forse ora si è fatto un'idea del perché la nostra Compagnia ha bisogno di controllare alcune delle sue proprietà. Hearst rimase in silenzio, con il respiro accelerato. La cagnetta lo guardava dal basso verso l'alto, con espressione preoccupata. – Va bene, signor Denham – disse poi, a bassa voce. – Parafrasando Dickens, "Questa è l'immagine di quel che accadrà, o di quel che potrebbe accadere"? Scrollai le spalle. – Io conosco gli avvenimenti futuri soltanto in generale, signor Hearst. Le cose principali, come le guerre e le invenzioni. Il resto non me lo dicono. Spero sinceramente che le cose non si mettano così male per il suo ranch, e se può consolarla, le faccio notare che il servizio parlava soltanto della proposta di un piano di sviluppo. Il problema è che la storia non può essere cambiata, una volta che è accaduta. – La storia vera o quella documentata, signor Denham? – controbatté Hearst. – Non sono necessariamente la stessa cosa e glielo dico per esperienza personale. – Ci scommetto – risposi, tergendomi ancora una volta il sudore. – Va bene, ha capito una cosa importante: ci sono un gran numero di piccole zone d'errore nella storia documentata. La mia Compagnia lavora proprio su quel margine d'errore. Se la storia non può essere cambiata, ci si può lavorare attorno, capisce? – Perfettamente – rispose Hearst. Si allungò sulla poltrona e la sua voce si fece dura. Le violette sonore si fecero marmo. – Mi ha convinto che la sua gente è in grado di fare quello che promette, signor Denham. Quindi. Lei andrà a dire loro che, per quanto mi riguarda, vent'anni sono praticamente mangime per polli. Non mi basta, neanche lontanamente. Mi accontenterò soltanto se mi concederanno la stessa immortalità di cui gode lei, capisce?
La vita eterna. Ho sempre pensato che avrei potuto farne un buon uso e, ora che mi ha mostrato il futuro, mi accorgo che il mio lavoro mi calza a pennello. E voglio anche entrare a far parte degli azionisti della vostra Compagnia. Voglio essere parte integrante del gioco. – Ma... – balbettai, raddrizzandomi di scatto sulla poltrona. – Signor Hearst! Posso riuscire a farla diventare azionista, ma darle l'immortalità è impossibile! Lei non capisce come funziona questa cosa. Il processo che conduce all'immortalità non può essere eseguito su un vecchio. Possiamo iniziare soltanto con giovani mortali. Io ero solo un ragazzino quando sono stato assoldato dalla Compagnia. Non capisce? Il suo corpo è troppo vecchio e danneggiato per poterlo far funzionare in eterno. – E chi ha detto che voglio l'immortalità in questo corpo? – disse Hearst. – Perché dovrei andarmene in giro per sempre in una Ford Modello T arrugginita quando posso avere una di quelle lucenti automobili moderne? I suoi padroni sembrano in grado di fare praticamente tutto, dannazione. Scommetto che hanno anche un modo per trasferirmi in un nuovo corpo, e se la tecnica non esiste ancora sono sicuro che possono tirarla fuori, se ci provano. Dovranno provarci, se vogliono la mia cooperazione. Glielo vada a dire. Aprii la bocca per protestare, poi mi dissi: A che serve discutere? Promettigli qualunque cosa. – Va bene – gli assicurai, annuendo. – Ottimo – rispose Hearst. – Le serve un telefono per contattarli? Il mio centralino può collegarla con qualunque parte del mondo in pochi minuti. – Grazie, ma usiamo qualcosa di diverso – gli risposi. – Lo tengo nella mia stanza e non penso che Jerome riuscirebbe a trovarlo. Cercherò di farle avere una risposta entro domani mattina, comunque. Hearst annuì. Allungò una mano, prese la bottiglia d'argento e la soppesò con lo sguardo. – È questa la pozione che l'ha resa ciò che è? – chiese, spostando gli occhi su di me. Il cane sollevò il muso verso di lui. – Più o meno. A parte il fatto che il mio corpo è stato modificato per produrre quella roba, che quindi mi scorre nelle vene tutto il tempo – gli spiegai. – Non ho bisogno di assumerla per via orale. – Ma non avrebbe nessuna obiezione se le chiedessi di assaggiarla, prima che la beva?
– Assolutamente no – risposi, e gli tesi la tazza di caffè ormai vuota. Al mio gesto, Hearst alzò le sopracciglia. Studiò per qualche secondo il tappo prima di capire come funzionava, poi mi versò nella tazza circa tre once del cocktail di Pineal-Tribrantina 3. Io lo ingoiai, cercando di non storcere il naso. Non era PT3 pura. C'era una base di succo di frutta, forse succo di mirtillo e un mucchio di ormoni e sostanze euforizzanti per farlo sentire bene, oltre che in forma, e qualcosa per stimolare la produzione di telomerase. Assolutamente benefica, ma lontana mille miglia da una vera pozione dell'immortalità. Avrebbero dovuto impiantargli dispositivi biomeccanici e prostetici progettati ad hoc per lui, per non parlare degli anni di addestramento alla vita eterna, che dovevano iniziare già a tre anni d'età. Ma perché andarglielo a raccontare? E Hearst aveva già un aspetto più giovane solo a guardarmi: meravigliato, spaventato e impaziente. Quando vide che non mi contorcevo e non cadevo morto stecchito, versò il resto del contenuto della bottiglia nella propria tazza e bevve con avidità, lanciando uno sguardo furtivo alla sua telecamera nascosta. – Ehi – disse. – Ha un sapore strano. Annuii. E ovviamente, mentre il tempo trascorreva nella grande sala, neppure lui morì. Mi fece mille domande sulle mie vicende personali, voleva sapere come fosse la vita nel mondo antico e quante persone famose avevo incontrato. Gli raccontai tutto sui mercanti fenici, sui sacerdoti egiziani e sui senatori romani che avevo conosciuto. Dopo un po' Hearst si accorse di sentirsi alla grande, lo intuii dalla sua espressione: mentre parlavamo, si alzò, mise giù la cagnetta e iniziò a camminare su e giù per la stanza, non con il passo pesante e cauto del vecchio che era, ma con un passo leggero che era quasi una danza. – Allora dissi ad Apuleio: "Ma così rimangono soltanto tre pesci, e comunque che cosa intendi fare a proposito del suonatore di flauto?" – raccontavo, quando una porta nell'angolo opposto della stanza si aprì e Marion si precipitò dentro. – Do-do-dov'eri finito? – gridò. Marion balbettava quando era stanca o arrabbiata, e in quel momento era entrambe le cose. – Grazie tante per essertela fi-filata in quel modo e avermi lasciato a pa-parlare con tutti.
Sono anche i tuoi ospiti, lo sa-sai? Hearst si voltò a guardarla, a bocca aperta. Penso che si fosse veramente dimenticato di lei. Io saltai in piedi, con espressione di scusa. – Ops! Ehi, Marion, è tutta colpa mia. Avevo bisogno di chiedergli un consiglio su una cosa – le spiegai. Lei si voltò, sorpresa di vedermi. – Joe? – disse. – Mi dispiace di averci messo così tanto, mia cara – aggiunse Hearst, cingendole la vita con le braccia. – Il tuo amico è davvero interessante. – La guardava con lo stesso sguardo di un lupo quando guarda una bistecca d'agnello. – Hanno apprezzato il film? – N-no! – rispose lei. – La metà delle persone se n'è andata prima della fine. Avrei detto che sarebbero rimasti per vedere Bing Cro-Crosby. Se c'è una cosa che ho imparato nei millenni è riconoscere il momento di levare il disturbo. – Grazie per la chiacchierata, signor Hearst – dissi, afferrando la mia valigia e dirigendomi verso l'ascensore. – Vedrò se riesco a trovare quel prospetto. Forse può dargli un'occhiata per conto mio domani. – Forse – mormorò Hearst, con la bocca sul collo di Marion. Pur di lasciare quella stanza sarei stato disposto a calarmi come una scimmia sul cavo dell'ascensore, ma per fortuna la cabina era ancora al piano, così saltai dentro e discesi sferragliando al piano di sotto, come Mefistofele che sparisce dentro una botola. Quando emersi nel salone delle feste era buio, ma non appena il pannello si chiuse alle mie spalle, le lampade sul soffitto si accesero da sole. Battei le palpebre, guardandomi intorno. Una rapida scansione rivelò la presenza di una telecamera, montata molto in alto, che prima non avevo notato. Le rivolsi un saluto romano e mi affrettai a uscire nella notte, passando sul pavimento pompeiano. Non appena varcai la soglia, alle mie spalle le luci si spensero. Un altro sistema di sorveglianza. Quanti fedeli Jerome aveva il signor Hearst, seduti davanti a uno spioncino, ad attendere pazienti dentro minuscole stanze? L'aria della notte era fredda, carica del fresco profumo dei boccioli d'arancio e di limone. Le stelle parevano tanto vicine da cascarmi sulla testa. Mi aggirai per un po' tra le statue, domandandomi come diavolo avrei fatto a fregare il padrone di quella casa, come l'avrei convinto a credere che la Compagnia avesse accettato le sue condizioni. E, restando in argomento, come avrei fatto a informare la Compagnia che avevano
sottostimato William Randolph Hearst? Be', non sarebbe stata la prima volta che portavo cattive notizie alla Doctor Zeus. Alla fine mi arresi e ritrovai la strada verso l'ala riservata agli ospiti in cui alloggiavamo. Nel salotto decorato splendidamente d'oro, la luce era accesa. Lewis se ne stava scomodamente appollaiato su una sedia del sedicesimo secolo. Aveva un'aria colpevole. Non appena mi vide entrare balzò in piedi e disse: – Joseph, abbiamo un problema. – Davvero, eh? – gli risposi, guardandolo con occhi stanchi. In quel momento, la cosa che desideravo di più al mondo era una doccia calda, seguita da qualche ora di sonno. – Che c'è? – Il... ehm, copione di Valentino è stato rubato – disse. Le mie priorità subirono un brusco cambiamento. Raggiunsi il telefono a grandi passi, borbottando tra me e me, quindi sollevai la cornetta. Dopo qualche istante mi rispose una voce impastata. – Jerome? Come va, amico? Senti, avrei bisogno del servizio in camera. Potresti farmi portare un gelato affogato al cioccolato, qui alla Casa del Sol? Abbonda con il cioccolato, eh? – Facciamo due – suggerì Lewis. Lo pugnalai con lo sguardo e proseguii. – Facciamo due. No, niente nocciole. E se vi è rimasto un po' di pudding al cioccolato o torta al cioccolato, oppure qualche tavoletta di cioccolato Hershey o roba del genere, facci portare pure quelli. Va bene? Sarai ricompensato a dovere per il disturbo, amico. – ... così ho pensato di dargli un'ultima occhiata prima di andare a letto, ma quando ho aperto la scatola, non c'era più – mi spiegò Lewis, leccando il cucchiaino. – Hai verificato se c'è termoluminescenza? O impronte digitali? – gli chiesi, mettendo giù il piattino del gelato con una mano e allungando l'altra verso la torta al cioccolato. – Certo che sì. Niente impronte e, a giudicare dalla debolezza della termoluminescenza, chiunque abbia frugato nella mia roba doveva portare i guanti – disse Lewis. – L'unica cosa di cui sono certo è che un mortale è entrato nella mia stanza, circa un'ora o al massimo un'ora e mezza prima del mio arrivo. Pensi che sia stato uno dei domestici?
– No. So che il signor Hearst ha mandato qui Jerome per prendere una cosa dalla mia stanza, ma non penso che il nostro amico si sia fatto un giro anche nella tua stanza, per mettersi a frugare nei cassetti. Un domestico che fa sparire roba dai cassetti degli ospiti del signor Hearst non resterebbe in servizio molto a lungo, in questa casa – risposi. – Se venisse mai rubato qualcosa a un ospite, lo saprebbero tutti quelli dell'ambiente. Il pettegolezzo viaggia veloce in questa città. Stavo parlando di Hollywood, ovviamente, non di San Simeon. – C'è una prima volta per tutto – commentò Lewis, in tono avvilito. – Hai ragione. Ma penso che il nostro amico Jerome abbia scritto "domestico fedele" in fronte – dissi, spazzolando via il dolce in tre bocconi. – Allora chi potrebbe essere stato? – si domandò Lewis, attaccando la sua porzione di pudding. – Be', sei tu lo Specialista Letterario. Non hai mai visionato i romanzi di Agatha Christie? – dissi, appoggiando il piattino del dolce da una parte per avventarmi su una tavoletta Hershey. – Sai qual è la nostra prossima mossa. Dobbiamo procedere per eliminazione. Chi si trovava dove, e a che ora? Lascia che ti dica una cosa: non sono stato io, né il nostro papino Hearst. Sono stato con lui da quando ci siamo allontanati dal teatro fino a quando Marion ci ha raggiunto di sopra, e io ho dovuto battere in ritirata. – Chiusi gli occhi ed esalai un sospiro di beatitudine, mentre il teobromo iniziava finalmente a fare effetto. – Allora... – mormorò Lewis, guardandosi intorno distratto mentre cercava di pensare. – Quindi... Deve essere stato uno di quelli che è rimasto nel teatro a guardare Verso Hollywood. – Già. E Marion ha detto che più o meno la metà degli spettatori ha lasciato la sala prima della fine del film – aggiunsi. – Tu te ne sei andato, Lewis? – No! Sono rimasto fino alla fine. Non riesco a capire perché la gente se ne sia andata. Ho trovato il film davvero piacevole – mi disse Lewis, infervorandosi. – C'era anche Bing Crosby! – Hai un po' di budino sul mento. Va bene, quindi sei rimasto in sala per tutto il film – dissi, rendendomi conto che, in quel momento, le mie sinapsi non erano al massimo ma erano comunque determinate a risolvere la situazione. – E anche Marion. Chi altro era in sala, quando si sono riaccese le luci? Lewis si mordicchiò il labbro inferiore, concentrandosi intensamente tra
i fumi di teobromina. – Sto verificando sulla mia registrazione video – mi comunicò. – C'è Clark Gable. Ci sono anche il giovane signor Hearst e la sua amica. Anche quei tizi antipatici in giacca e cravatta. E Connie. – La Garbo? – Uhm... no. – I due tizi silenziosi? Charlie e Laurence? – No. – E... Come si chiama? Jack della Paramount c'è? – No, non c'è. – Che mi dici della tizia pazza con i cani? – Non c'è neppure lei – disse Lewis, guardandomi con occhi pieni d'orrore. – Santo cielo, potrebbe essere stato chiunque di loro. – Poi si ricordò del budino, e si pulì la faccia con un fazzolettino. – Oppure il ladro può essersi defilato di nascosto, può essere entrato a rubare nella tua stanza per poi ritornare in sala senza dare nell'occhio – gli dissi. – Oh, perché complicare le cose? – gemette Lewis. – Che facciamo ora? – Che io sia dannato se lo so, stanotte – risposi, alzandomi in piedi con fatica. – Domani scoprirai chi ha rubato il copione di Valentino e lo recupererai. Io ho altri problemi, capito? – Cosa vuoi dire? – Il signor Hearst ha alzato la posta. Mi ha affidato un ultimatum per la Dr. Zeus. – Wow – esclamò Lewis, a bocca aperta. – Pensa di poter dettare condizioni alla Compagnia? – Ci sta provando, no? – risposi, avviandomi a passo lento verso la camera da letto. – E indovina un po' a chi tocca portare i messaggi tra le due controparti? Ora capisci perché ero così nervoso? Ero sicuro che sarebbe successo. – Dai, tirati su – mi gridò dietro Lewis. – Le cose non possono andare peggio di così. Io accesi la luce della camera da letto e scoprii a mie spese che davvero non c'è mai un limite al peggio. Da sopra il mio letto, qualcosa mi si avventò sulla faccia, e mi trovai dentro un nugolo confuso di dentini aguzzi e rumore assordante. Ero strafatto, stanco, confuso e così, per scacciar via quella cosa la colpii con tutta la forza che avevo. Che, vista la mia natura cibernetica e tutto il resto, era notevole. La cosa volò fino al lato opposto della stanza, andando a spiaccicarsi contro la parete con un rumore di ossa spezzate. Poi ricadde
immobile sul pavimento, a parte le zampe posteriori che si agitavano in aria, debolmente e per poco. Lewis fu subito al mio fianco, fissando la scena a occhi spalancati. Si portò il fazzoletto alla bocca e si voltò, pallido come un morto. – Santi numi! – esclamò. – Hai ucciso Cho-Cho! – Magari l'ho solo tramortita – dissi e, barcollando, andai a controllare. Lewis mi seguì, barcollando anche lui. Ci fermammo a guardare il corpicino di Cho-Cho, sul pavimento. – Macché – disse Lewis con voce triste, scuotendo il capo. – Accidenti al diavolo, a sua madre e al suo... agente assicurativo – imprecai, brancolando all'indietro finché non trovai una sedia in cui lasciarmi cadere. – E adesso che facciamo? – dissi, distogliendo gli occhi dal cadavere di quella bestiolina odiosa. Il mio sguardo ricadde su alcuni brandelli di stoffa, e mi resi conto che stavo guardando i resti della mia scarpa da tennis sinistra. – Ehi! Guarda cosa ha fatto alla mia scarpa quella dannata bestia! – Come ha fatto a entrare, comunque? – disse Lewis, torcendosi le mani. – Pare proprio che domani non giocherò a tennis con nessuno – ringhiai. – Ma... Ma se è rimasta nella stanza abbastanza a lungo da fare a pezzi la tua scarpa... – disse Lewis, poi tacque. Il suo sguardo tradiva pensieri tortuosi. – Oh! Vorrei non essermi fatto tutto quel teobromo. È sempre la stessa storia, vero? Proprio quando pensi che sia sicuro rilassarsi e riposarsi un po'... – Ehi! Questo significa che è stata Cartimandua Bryce a prendere il tuo copione di Valentino – dissi, saltando in piedi e afferrandomi alla sedia per restarci. – Vedi? Quel maledetto cane deve averla seguita senza che lei se ne accorgesse! – Hai ragione – disse Lewis, spalancando gli occhi. – Eccetto che... Be', no, non necessariamente. La Bryce non aveva i cani con sé, ricordi? Si comportavano male a tavola. Li hanno riportati nella stanza della donna. – Hai ragione – dissi, tornando a sedermi. – Diavolo. Se qualcuno si è infilato nelle stanze, forse il cane è fuggito e se n'è andato in giro fino a quando non è entrato qui, mi ha masticato la scarpa e si è messo a dormire sul mio letto. – E questo vuol dire... Vuol dire... – Lewis scosse il capo. – Sono troppo stanco per capire che cosa vuol dire. Cosa hai in mente di fare con quel povero cane? Immagino che dovremo dare la triste notizia alla signora Bryce.
– Neanche per sogno – sbottai. – Proprio quando mi trovo nel bel mezzo di una trattativa d'affari con il signor Hearst, che è un fanatico del rispetto degli animali? "Mi dispiace, WR, ma ho appena ucciso brutalmente un caro piccolo chihuahua alla Casa del Sol." Grazie a dio non ci sono telecamere di sorveglianza, qui dentro! – Ma dovremo pur fare qualcosa – protestò Lewis. – Non possiamo lasciarlo qui sul tappeto. Che dici, lo portiamo fuori e lo seppelliamo? – No. Quando la signora Bryce si accorgerà della sua scomparsa, lo cercheranno – risposi. – Se trovano la fossa e la riaprono, capiranno che il cane non è morto di morte naturale, altrimenti perché qualcuno si sarebbe preso il disturbo di occultarne il cadavere? – A meno che non lo seppelliamo dove nessuno lo troverà mai – suggerì Lewis. – Potremmo gettarlo oltre la recinzione. Lì forse gli animali selvatici faranno sparire le prove! – Temo che le zebre non si nutrano di cadaveri, Lewis – dissi, stanco, massaggiandomi le tempie. – E non so tu, ma per come sto io penso che non riuscirei a gettarlo oltre la recinzione al primo lancio. Ci manca solo che ci facciamo beccare da una delle telecamere di sorveglianza di Hearst mentre cerchiamo di gettare un chihuahua stecchito oltre la recinzione – commentai, poi, colto da una improvvisa illuminazione, esclamai: – Ehi! Hearst ha anche uno zoo, qui vicino. E se gettassimo Cho-Cho nella gabbia del leone? – E se sbagliamo mira? – chiese Lewis. – Al diavolo – dissi, alzandomi. – Succede spesso che un cane muoia per cause naturali. Così finimmo per schizzare nella notte stellata in iperfunzionamento, lasciando soltanto una traccia sfocata nelle eventuali telecamere di sorveglianza sulla nostra strada, e un povero piccolo cadavere si materializzò sulla scalinata principale della Casa Grande, in quella che speravamo risultasse una credibile posa di morte naturale canina. Con un po' di fortuna, al mattino il cane sarebbe stato rigido come un asse di legno e sarebbe stato più difficile accorgersi del nostro gioco sporco. Dopo essermi rinfrescato un po' le idee sotto la doccia, aprii il portatile da campo che tenevo in valigia, e mi ci accovacciai davanti per digitare sui minuscoli tasti il mio rapporto. WRH DISPONIBILE, AVUTO CAMPIONE PT3 MA PRETENDE DI PIÙ. CONDIZIONI: STOCK OPTION PIÙ PROCESSO DI
IMMORTALITÀ. HO SPIEGATO IMPOSSIBILE. RIFIUTA DI ACCETTARE. SUGGERIMENTO: MENTIRE. EROGARE 18 ANNI PER DOCUMENTAZIONE STORICA PROMETTENDO DI PIÙ, POI RINEGOZIARE TERMINI CON EREDI. ISTRUZIONI, PREGO. Non mi sembrò il caso di riferire che il copione di Valentino era scomparso. Perché far preoccupare la Compagnia? Dopotutto, ero certo che l'avremmo recuperato e che avremmo completato con successo almeno quella parte della missione, visto che i documenti storici dicono che il giorno 20 del mese di Natale del 2326 – cioè al culmine del revival della Vecchia Hollywood – un restauratore di mobili d'antiquariato ritroverà il copione nascosto dentro uno scrigno spagnolo, appartenuto a W. R. Hearst ma acquistato di recente dalla Dr. Zeus Inc. Una volta accertata in modo inequivocabile la sua autenticità, sarà messo all'asta per una somma incredibilmente alta, anche tenendo conto della forte inflazione del ventiquattresimo secolo. E la storia non si può cambiare, no? Certo che no. Sbadigliai soddisfatto, preparandomi a chiudere il portatile per la notte, quando l'apparecchio emise un bip per avvisarmi che era arrivato un messaggio. Gli rivolsi uno sguardo irritato e mi avvicinai allo schermo per vedere cosa diceva. CONDIZIONI ACCETTABILI. INFORMARE HEARST ED EFFETTUARE ALLA PRIMA OCCASIONE RIPARAZIONE E AGGIORNAMENTO. QUINTILIUS LO CONTATTERÀ PER LE STOCK OPTION. Lo lessi due volte. Oh, chiaro: la Compagnia voleva senz'altro dire che accettava il mio suggerimento. Gli avrei promesso la luna ma gli avrei dato soltanto i diciotto anni previsti dalla storia. Se non gli avessi riparato il cuore, però, tutti quegli anni non li avrebbe visti neppure da lontano. Tuttavia, che cosa intendevano con aggiornamento! Mah! Dettagli. E non avevo nessun motivo di sentirmi in colpa, quando avrei mentito al vecchio. Quanti sono i mortali che arrivano a ottantotto anni, eh? E poi, quando i miei rattoppi avrebbero smesso di funzionare, avrebbe chiuso gli occhi e sarebbe morto felice, come accade a molti altri mortali, pregustando la vita eterna dopo la morte. Di certo sarebbe andato in Paradiso, se esiste, e non quaggiù come gli avevamo promesso, ma a quel punto non avrebbe potuto più farci causa per inadempienza contrattuale.
Segnalai che avevo ricevuto la trasmissione e finalmente richiusi il portatile. Sbadigliando ancora, strisciai dentro il mio favoloso letto dorato d'antiquariato rinascimentale, intagliato a mano e di inestimabile valore. Il chihuahua non ci aveva pisciato sopra. Era già qualcosa. Dormii fino al mattino, anche se ero al corrente che Hearst preferiva che i suoi ospiti si alzassero all'alba per fare qualcosa di salutare, tipo cavalcare per tre chilometri prima di colazione. Immaginai che nel mio caso avrebbe fatto un'eccezione. Inoltre, se il cocktail di PT3 aveva fatto il suo effetto, Hearst sarebbe rimasto a letto fino a tardi, e Marion con lui. Con gli occhi a fessura, rivolsi lo sguardo verso la torre di sinistra della Casa Grande, mentre camminavo nella luce accecante del sole. Quando spalancai l'ampio portone di ingresso, il cane morto non c'era più. La dipartita di Cho-Cho doveva essere stata scoperta senza troppa agitazione. Bene. Percorsi i corridoi freschi e ombrosi della grande casa fino al soggiorno, sull'altro lato. La luce del sole si riversava all'interno attraverso ampie porte-finestre. La colazione era servita a buffet. Lewis mi aveva preceduto e si stava riempiendo il piatto di frittelle. Io impilai un po' di frittelline di patate sul mio piatto e, a beneficio dei mortali che occupavano i vari angoli della sala, esclamai con voce gioviale: – Allora, Lewis! Camera fantastica, eh? Come hai dormito? – Bene, grazie – rispose Lewis. A parte i postumi di una sbronza da teobromo. – Ma sai, è successa una cosa triste! Uno dei cagnolini della signora Bryce è scappato fuori durante la notte ed è morto di freddo. I domestici l'hanno trovato stamattina. – Oh, come mi dispiace! – Qualcuno ha dei sospetti? No. – Sai, la signora Bryce è veramente a pezzi. – Mi sento uno schifo. Ehi, non sei stato tu ad attirare quel dannato cane nella mia stanza, no? E allora? Abbiamo cose più importanti a cui pensare, stamattina. Mi versai il caffè e, con il piatto in mano, andai verso la sala da pranzo e mi sedetti intorno al lungo tavolo. Lewis mi seguì. Certo. Il copione di Valentino. Ti è venuta qualche altra idea su chi potrebbe averlo rubato? No. Attaccai le frittelline di patate. Qualcun altro si è lamentato per la scomparsa di qualcosa dalla propria stanza?
No, nessuno ha detto niente. Il problema è... nessuno sapeva che l'avevi lì con te, vero? Non hai detto a nessuno che ti portavi dietro un copione autografato del Figlio dello Sceicco? No, certo che no! Lewis sorseggiò il suo caffè, con espressione leggermente offesa. Faccio questo lavoro solo da due millenni o giù di lì, dopotutto. Magari uno degli ospiti cercava la Garbo o Gable, ed è finito nella tua stanza per errore. Mi voltai a guardare verso il soggiorno con nonchalance, osservando Gable. Era profondamente immerso nella lettura della pagina sportiva di uno dei quotidiani del signor Hearst. Be', se si fosse trattato di un fan ossessivo della Garbo si sarebbe accorto molto in fretta che non si trattava della camera di una signora. Lewis appoggiò entrambi i gomiti sul tavolo, in una posa che aveva qualcosa di virile. Quindi, e se invece fosse stata una signora a caccia di Gable...? Ma questo ancora non spiega perché avrebbe dovuto rubare il copione. Gettai un'occhiata verso Connie, che faceva colazione seduta su una poltroncina, tenendo il piatto di uova strapazzate in equilibrio sulle ginocchia. Connie non l'avrebbe mai fatto, e neppure Marion. Dubito che sia stata l'amichetta del giovane Hearst. Quindi restano soltanto la Garbo e la signora Bryce, che hanno entrambe lasciato la sala prima della fine del film. Ma perché la Garbo avrebbe dovuto rubare il copione? Lewis aggrottò le sopracciglia. Perché mai la Garbo fa una qualunque cosa? trasmisi, scrollando le spalle. Lewis si guardò intorno, a disagio. Non riesco proprio a immaginarmela che fruga tra le mie cose, tuttavia. Quindi ci resta solo la signora Bryce. Già. La signora Bryce. Il cui cagnolino è apparso misteriosamente dentro la mia camera da letto. Mi alzai e ritornai in soggiorno con il pretesto di riempirmi la tazza di caffè. La signora Bryce, abbigliata con un pigiama nero, sedeva tutta sola su una sedia imponente, mentre Verme Conquistatore si sbafava con
ingordigia un piatto di uova Benedict da un piattino appoggiato sul pavimento. La signora Bryce però non mangiava. Teneva gli occhi chiusi e la faccia rivolta all'insù, verso il soffitto. Probabilmente stava meditando, perché teneva la posizione del loto e tutto il resto. Mentre passavo, Verme Conquistatore smise di mangiare giusto il tempo necessario per sollevare la piccola testa e ringhiare verso di me. – Spero che mi vorrà scusare, signor Denham – disse la signora Bryce, senza aprire gli occhi. – In questo momento si sente molto protettivo nei miei confronti. – Non c'è problema, signora Bryce – le risposi, affabile, ma mi tenni a distanza di sicurezza dal cane. – Sono dispiaciuto per la sua triste perdita. – Oh, Cho-cho è ancora tra noi – rispose la donna, serena. – È semplicemente ascesa al prossimo piano astrale. Ho appena ricevuto un suo messaggio, sa. Ha abbandonato il suo corpo mortale per portare a compimento la sua opera più importante. – Accidenti, è fantastico – risposi. Gable staccò gli occhi dal giornale e li alzò platealmente al cielo. Io scrollai le spalle e mi versai un po' di caffè. Pensavo ancora che la signora Bryce fosse una ciarlatana, ma se le faceva piacere fingere che Cho-cho fosse morta di propria volontà invece che spiaccicata come una pallina da tennis contro un muro, per me andava bene. Pensi che possa essere stata lei, dopotutto? Mi chiese Lewis, quando tornai al tavolo. Si era fissata su di me, in un certo senso, prima che Marion la aizzasse contro la Garbo. Può darsi. Tuttavia penso che sia troppo fuori di testa per essere in grado di commettere un furto acrobatico. E poi, perché avrebbe rubato il copione e nient'altro? Non ne ho idea. Ora che cosa facciamo? Lewis torse un angolo del suo tovagliolo di carta. Dovremmo segnalare il furto al signor Hearst? Neanche per sogno. La cosa mi romperebbe le uova nel paniere. Che bei rappresentanti di una Compagnia onnipotente saremmo, se permettessimo a un mortale di rubare nella nostra stanza? No. Ecco cosa devi fare: vedi se riesci a parlare con le persone che hanno lasciato la sala in anticipo, una per una. Cerca di farle parlare, chiacchierando del più e del meno. Scopri dove si trovava ciascuno dei sospettati e fai una verifica incrociata tra la loro versione e quella degli altri. Lewis sembrava in preda al panico.
Ma... ma io sono soltanto uno Specialista di Conservazione della Letteratura. Questa storia degli interrogatori non sarebbe più di tua competenza, visto che sei un Facilitatore? Forse, ma in questo momento ho già le mani piene, gli risposi, nel momento esatto in cui il padrone di casa entrava a grandi passi nella stanza. Vestiva pantaloni e stivali per cavalcare e aveva il visto arrossato dall'attività fisica. Non si era svegliato tardi, era evidente, ma doveva essersi fatto una bella cavalcata per controllare i suoi possedimenti, proprio come un vecchio Don californiano. Passandomi vicino, mi rivolse uno sguardo trionfante ma non si fermò. Raggiunse invece la sedia della signora Bryce e si tolse il cappello per parlarle. Verme Conquistatore lo guardò dal basso verso l'alto, si fece piccolo piccolo e corse a nascondersi sotto la sedia. – Signora, mi dispiace così tanto per il suo cagnolino! Spero che mi farà l'onore di scegliere un altro cucciolo dai miei canili. In questo momento non abbiamo chihuahua, ma l'esperienza mi insegna che un cucciolo è la cosa migliore per consolarsi della perdita di un vecchio amico cane – le disse, con molta più energia e fiato nella voce di quanta ne avesse avuto la notte prima. La PT3 stava facendo effetto, questo era sicuro. La signora Bryce aprì gli occhi con un sobbalzo, interrompendo la meditazione. Con un sorriso radioso si alzò in piedi. – Oh, signor Hearst! Lei è troppo generoso – rispose. Non potei fare a meno di notare che, con lui, evitava le stronzate sull'ascendere a piani astrali superiori. Hearst le offrì il braccio e uscirono dalla porta-finestra, con Verme Conquistatore che correva loro dietro disperato. Cosa succede quando abbiamo accorciato la lista dei sospettati? chiese Lewis, distogliendo la mia attenzione dalla scena. Ci riprendiamo il copione, ovviamente. E come facciamo? Lewis tagliò a metà il suo tovagliolino di carta. Anche se ci muoviamo abbastanza in fretta da confondere le telecamere di sorveglianza nei corridoi... Ci inventeremo qualcosa, risposi, e quindi lo zittii perché Marion era appena entrata nella stanza, con passo così leggero che sembrava fluttuare a qualche centimetro dal pavimento. Stava proprio fluttuando, non sto esagerando, ma non era per via dell'alcol, quella mattina. Marion Davies era una mortale felice.
Vide Connie e si diresse subito verso di lei. Connie la vide arrivare e le porse un bicchiere. – Ti ho messo da parte un po' di succo d'arancia, Marion – disse, con espressione carica di significato. Probabilmente il succo era corretto col gin. Lei e Marion erano compagne di bevuta. – Lascia stare! Vieni qui – le disse Marion, e insieme raggiunsero un angolo della stanza, mettendosi a sussurrare e ridacchiare. Connie aveva un'espressione incredula. E sei certo che possiamo escludere i domestici, insistette Lewis. Forse, risposi, e tornai a zittirlo perché Marion mi aveva visto. Troncò le chiacchiere con Connie e il sorriso le scomparve dal volto. Si alzò e mi si avvicinò, esitante. – J-Joe? Devo chiederti una cosa. – Prego, si accomodi al mio posto, signorina Davies – Lewis si alzò e le porse la sedia. – Io stavo andando a fare un giro. – Accidenti, è anche un gentiluomo – disse Marion, ridacchiando, ma si capiva che era tesa. Si abbandonò sulla sedia e attese che Lewis prendesse il suo piatto vuoto e se ne andasse. Poi mi domandò: – Sei venuto qui... per chiedere dei soldi a Papi? – Oh, diavolo, no! – risposi, con il mio miglior tono da bravo ragazzo. – Non farei mai una cosa simile, Marion. – Bene, non lo pensavo sul serio – ammise, guardando il tavolo e spingendo via con i polpastrelli qualche granello di sale caduto dai piatti. – Lui non paga mai quelli che lo ricattano, lo sai. Ma h-hai la reputazione d'essere un uomo con molti segreti, e ho pensato che... se mi avessi usato per arrivare fin qui per parlargli... – Mi fissò con occhi a fessura. – Non sarebbe una cosa molto carina. – No, per niente – concordai. – E ti giuro che non sono qui per fare niente del genere. Sul serio. Marion si limitò ad annuire. – L'altra cosa che ho pensato – continuò, – è che fossi venuto per vendergli una qualche medicina brevettata. Molta gente sa che è interessato alla longevità e ieri sera sembrava che avesse bevuto qualcosa di rosso nella tazza da caffè, capisci. – La sua bocca prese una piega dura. – Può anche essere un milionario, e pure dannatamente in gamba, ma c'è gente che si approfitta continuamente di lui. – Io no di certo – dissi, e mi guardai intorno come se volessi controllare chi ci stava ascoltando. Poi mi allungai sul tavolo per parlarle all'orecchio.
– Senti, tesoro, la verità è che... avevo veramente bisogno di un consiglio su una certa faccenda. E lui è stato così gentile da stare a sentirmi. Ma si tratta di una faccenda privata e credimi, non è lui quello sotto ricatto. Capisci? – Oh! – esclamò, pensando di capire. – Allora è il signor Mayer? – Ma no, certo che no – risposi, frettoloso, con un tono che sottintendeva esattamente il contrario. Il suo viso si rilassò. – Accidenti, povero signor Mayer – disse. Aggrottò le sopracciglia. – Quindi non hai dato a WR nessun tipo di... tonico energizzante o qualcosa del genere? – E dove potrei andare a prendere qualcosa del genere? – dissi, con espressione confusa, come se fossi un lacchè di studio di basso rango che gestiva le crisi per conto dei dirigenti e non avessi mai sentito parlare della PT3. – Già – disse Marion, allungando una mano per appoggiarla sulla mia. – Mi dispiace. Volevo soltanto essere sicura. – Non ti biasimo – risposi, alzandomi in piedi. – Ma per favore, smettila di preoccuparti, va bene? Non aveva proprio niente di cui preoccuparsi, lei. A differenza di me. Io dovevo ancora andare a parlare con il signor Hearst. Feci un giro per la casa per cercarlo. Ma alla fine fu lui a trovarmi per primo, spuntando davanti a me all'improvviso. – Signor Denham – mi disse, rivolgendomi un sorriso. – Devo complimentarmi con lei per quella roba. Funziona. Ha sentito con i suoi superiori? – Sì, signore – lo rassicurai, mantenendo un tono di voce tranquillo e sincero. – Bene. Facciamo quattro passi insieme, vuole? Sono ansioso di sentire cosa le hanno detto. Si avviò e io dovetti correre per raggiungerlo e tenere il suo passo. – Be', hanno accettato le sue condizioni. Devo confessarle di essere un po' sorpreso – dissi, ridacchiando con un leggero imbarazzo. – Non avrei mai pensato che fosse possibile concedere a un mortale ciò che lei ha chiesto, ma sa come vanno queste cose... A quelli come me non dicono mai tutta la verità, evidentemente. – Sospetto che sia proprio così – mi rispose Hearst, placido. La bassottina gli corse incontro. Lui la prese in braccio e la cagnetta gli leccò la faccia, eccitata.
– Allora. Come vogliamo procedere? – Per quanto riguarda le stock option, molto presto sarà contattato da un mio collega – gli dissi. – Non le so dire con certezza che nome utilizzerà, ma le sarà facile riconoscerlo. Farà riferimento a me, proprio come io ho fatto con il signor Shaw. – Molto bene. E l'altra faccenda? Ragazzi, l'altra faccenda. – Posso darle la ricetta di un tonico che dovrà bere tutti i giorni – dissi, improvvisando. – Può farlo produrre direttamente dal suo personale. – Tutto qui? – Mi rivolse uno sguardo obliquo, e il cane fece lo stesso. – È la ricetta di quella roba che ho bevuto ieri notte? – Oh, no, signore – gli dissi, con sincerità. – No, questo è in grado di prolungarle la vita fino alla data in cui, secondo la storia, lei dovrebbe morire. In apparenza, però. Capisce? Sarà tutto finto. Uno dei nostri medici sarà presente per dichiararla morta, ma invece di portare il suo corpo all'obitorio, sarà portato in uno dei nostri ospedali e reso immortale in un corpo nuovo. Quella parte era un'enorme bugia sfacciata, ovviamente. Mentre continuavamo a passeggiare nel giardino e il signor Hearst si prendeva il tempo necessario per valutare la controfferta, mi accorsi di avere di nuovo la fronte sudata. – Mi sembra plausibile – sentenziò alla fine. – Anche se non ho nessun modo per sapere se la sua Compagnia manterrà la parola data, non è così? – Dovrà fidarsi di noi – gli dissi. – Ma guardi un po' come è in forma in questo momento! Non è una prova sufficiente? – È abbastanza persuasiva – rispose, ma lasciò la frase a metà. Continuammo a passeggiare. Va bene, dovevo stupirlo un'altra volta. – Vede quella pianta di rose rosa? – dissi, indicando un cespuglio a cento metri da noi, in cui si stava aprendo un grosso bocciolo. – La vedo, signor Denham. – Conti fino a tre, va bene? – Uno – disse Hearst, poi vide che tenevo la rosa davanti ai suoi occhi. Impallidì. Poi tornò a sorridere, un sorriso ampio e sincero. La cagnolina mi odorò rumorosamente, incerta. – Davvero sorprendente – disse. – E può anche cingere la Terra con un filo in quaranta minuti? – Potrei, se fossi in grado di volare – gli risposi. – Niente ali, purtroppo. Lei non vuole avere anche le ali, vero, signor Hearst?
Lui rise e basta. – Non ancora. Penso che adesso andrò a farmi una doccia e poi farò un salto al campo da tennis. Lei gioca, signor Denham? – Sì, io adoro giocare a tennis – risposi. – Ma sa, mi sono accorto di essere venuto fin qui con una sola scarpa da tennis in valigia. – Oh, gliene farò portare un paio nuovo – disse Hearst, poi mi guardò i piedi. – Quanto calza? Direi... trentanove? – Sì, signore – risposi, sentendomi sprofondare. – Gliele farò trovare pronte direttamente sul campo – mi informò Hearst. – Cerchi di limitarsi e di giocare alla mia stessa velocità, per favore. – Strizzò un occhio e se ne andò. Stavo rientrando verso la sala della colazione, con la vaga speranza di attaccarmi a una bottiglia di sciroppo d'acero o qualcosa di simile, quando incappai in Lewis. Stava strisciando furtivamente lungo il sentiero del giardino, intento a osservare una figura bionda allungata su una panchina di marmo tra i cespugli di rose. – Che stai facendo, Lewis? – gli chiesi. – Cosa ti sembra che stia facendo? – mi rispose, in un sussurro. – Sto spiando la Garbo. – Va bene. – Dovevo avere un'espressione dubbiosa, perché Lewis si tirò su, indignato. – Ti viene in mente un modo migliore per intavolare una conversazione con lei, per caso? – mi chiese. – E ho anche trovato un modo... – Smise di parlare e iniziò a trasmettere il resto. E ho anche trovato un modo molto furbo per scoprire il colpevole. Oh, davvero? Vedi, ho intenzione di mettermi a parlare con la Garbo e poi buttare lì ad arte il fatto che ho perso la fine di Verso Hollywood perché mi è venuta una terribile emicrania, così sono rientrato presto in camera. Quindi le chiederò come è finito il film. Se lei non è la ladra, mi risponderà che anche lei se n'è andata prima della fine del film e non ha la più pallida idea di come sia andata a finire la storia. Ma? Ma se invece è stata lei a prendere il copione, allora saprà che sto mentendo, perché è stata nella mia stanza e ha visto che non c'ero. E sarà così confusa che le salirà la pressione, le aumenteranno le pulsazioni, le si dilateranno le pupille e mostrerà tutte quelle altre manifestazioni fisiche che un poligrafo potrebbe registrare, ma io non ne ho bisogno. E così scoprirò la verità. Ingegnoso, ammisi. Con me ha sempre funzionato, quando facevo
l'Inquisitore. Grazie, rispose Lewis, raggiante. Ovviamente, prima dovrai riuscire a parlare con la Garbo. Lewis annuì, con espressione determinata, e riprese la sua avanzata furtiva verso la Fiamma di Ghiaccio. Io scrollai le spalle e ritornai alla Casa del Sol per indossare la tenuta da tennis. In quella partita con W. R. Hearst, credetemi, fui costretto a fare appello a ogni singolo granello di quella astuzia e raffinatezza che avevano fatto di me un campione nella Black Legend All-Stars. Dovetti dare dimostrazione di tutte le capacità di iperfunzionamento, facendo cose impossibili per un mortale – come apparire su entrambi i lati della rete nello stesso istante – soltanto per impressionarlo con la mia immortalità. In più, dovetti evitare di far fuori il vecchio con la palla e – ah, certo – dovetti pure lasciarlo vincere, in qualche modo. Vorrei proprio vedere quel grande campione di Bill Tilden fare altrettanto, una volta o l'altra. Fu un vero inferno. Ma almeno Hearst lo trovava divertente: fermo al centrocampo, solido come una torre, era proprio di buon umore mentre mi guardava correre da una parte all'altra del campo. Rispondeva ai miei servizi da smidollato con delle cannonate. La sua cagnetta lo guardava da dietro la recinzione, in piedi sulle zampette posteriori, abbaiando sospettosa. Ormai la piccola era sicura che in me ci fosse qualcosa di strano. Grazie a dio, dopo circa un'ora di questo tormento Gable ci raggiunse e io, finalmente, mi ritirai a bordo del campo, ansimante, giurando di non aver mai fatto tanta fatica in un'ora di gioco. Prima di iniziare la nuova partita, Hearst si attardò giusto il tempo per fare una breve chiamata da un telefono posto a bordo campo. Due minuti più tardi, un domestico sorridente mi offrì un bicchiere di ginger ale ghiacciato. Neppure Gable riuscì a battere Hearst, e penso che ci provasse sul serio. Clark non era un gran che come leccapiedi. Mi congedai con la scusa di fare una doccia – gli uomini pelosi come me tendono a puzzare dopo una partita a tennis in iperfunzionamento – e subito dopo scivolai via inosservato per investigare. Quella notte avevo pianificato di effettuare alcune micro-operazioni sul cuore di Hearst mentre lui dormiva, per assicurargli quei diciotto anni di
vita in più che la Compagnia gli aveva accordato. Il problema era riuscire a entrare nella sua stanza senza farsi beccare. Ci doveva pur essere un altro modo per raggiungere l'appartamento di Hearst, oltre al suo ascensore privato, ma non avevo notato scale in nessuna delle stanze in cui ero passato. Come facevano a salire, i domestici? Aggirandomi furtivo per la casa e analizzandola dall'esterno con onde sonar, alla fine individuai un paio di sistemi per salire ai piani alti. Il più adatto ai miei scopi era una piccola scala a chiocciola a cui si accedeva dalla terrazza orientale. Avrei potuto attraversare il giardino di soppiatto, salire al piano di sopra, raggiungere la camera da letto di Hearst e, una volta rappezzato il cuore del vecchio, me ne sarei potuto andare da dove ero venuto. Avrei anche potuto indossare le scarpe da tennis che Hearst mi aveva premurosamente prestato. Mi aggiravo nei pressi della piscina di Nettuno quando, da dentro i cespugli, uscì un baccano furioso. Ne schizzò fuori Verme Conquistatore, latrando come un pazzo. Quando il cagnolino mi si avventò sulle caviglie, fui abbastanza pronto da non assestargli un calcio. Invece, gli mostrai i denti nel modo più amichevole e lui arretrò. – Ciao cagnetto – dissi. – Povero piccolino, dov'è la tua padrona? Una figura velata di scuro, che fino ad allora era rimasta perfettamente immobile dietro la siepe, decise che era arrivato il momento di palesarsi, e Cartimandua Bryce si fece avanti, esclamando: – Conquistatore! Oh, Conquistatore! Non devi provocare il signor Denham. La donna svoltò l'angolo e mi vide. Fece una pausa. Penso che si aspettasse che le chiedessi, sorpreso, come facesse a sapere che ero proprio io, invece le chiesi soltanto: – Dov'è il suo nuovo cane? – Ancora nei canili del signor Hearst – rispose lei, con un moto orgoglioso della testa. – Il caro signor Hearst sta facendo preparare una cesta da viaggio tutta per lei. Che uomo gentile! – Davvero un grand'uomo, assolutamente. – E in questa vita è altrettanto generoso quanto in quelle precedenti – continuò lei. – Ma sa, l'ha imparato quando era uno dei Cesari. Governare l'Impero poteva rendere un uomo più nobile, o tirare fuori i suoi vizi peggiori. Chiaramente il nostro ospite era uno di quegli uomini a cui gli allori conferivano raffinatezza. Il suo è uno spirito molto antico, è ovvio. – Sul serio?
– Oh, sì. Si è reincarnato molte, molte volte. E sono numerosi i nomi che ha portato: Faraone e Cesare e Sovrano – mi comunicò la signora Bryce, in un tono così concreto che sembrava elencare trofei di football. – Ha ancora molto lavoro da svolgere in questo piano d'esistenza. Certo si starà chiedendo come faccio a sapere queste cose. – Wow, signora Bryce. Come fa a sapere queste cose? – le domandai, solo per gentilezza. – È un dono – rispose, con un piccolo sorriso triste, poi sospirò. – Un dono e una maledizione, vede. La mia mente è sempre piena del sussurro degli spiriti. Ho raccontato questa esperienza terribile e meravigliosa nel mio romanzo Patto Oscuro, che ovviamente è ispirato a una delle mie vite precedenti. – Temo di non averlo letto – ammisi. – È una storia triste, come ce ne sono tante – rispose lei, tornando a sospirare. – Nel romantico paesaggio delle Highland scozzesi del tredicesimo secolo, una ragazza giovane e bellissima scopre di avere l'innata capacità di percepire le vite passate e future di tutte le persone che incontra. Questo dono la mette in pericolo, ovviamente. Ritrova il suo amore da tempo perduto, un giovane che era un soldato di Marco Antonio quando lei era una delle ancelle di Cleopatra, e che ora è un bandito gentiluomo, intendo dire il suo amante, ovviamente. Sentendo che per lui la morte per impiccagione è ormai vicina, sceglie di morire con lui. – È proprio triste – le dissi. – Quanto ha venduto? – È stato accolto con l'usuale simpatia dai lettori di una certa cultura – rispose la signora Bryce. – È per caso quello di cui stanno scrivendo la sceneggiatura? – le chiesi. – No – rispose lei, squadrandomi dall'alto in basso. – Quello è Appassionata, la storia di Mary, regina di Scozia, raccontata dallo straordinario punto di vista del suo fedele terrier. Potrei ancora riuscire a persuadere la signorina Garbo ad accettare il ruolo della protagonista. Ma, signor Denham, percepisco qualcosa su di lei. Aspetti... Lei lavora nel cinema... – Già, per Louis B. Mayer – risposi. – Tuttavia... tuttavia... – fece un passo indietro e i suoi occhi si velarono mentre mi guardava. – Sento che c'è dell'altro. Lei getta un'ombra molto lunga, signor Denham. Ma certo... Anche lei è uno spirito antico! – Oh, davvero? – risposi, esaminando in modo critico le sue emissioni di radiazione Crome. Possibile che fosse una di quei mortali che proiettano
un campo elettromagnetico fluttuante? Tendono a percepire cose che i comuni mortali non percepiscono – come la gente che capta le trasmissioni radio con le otturazioni dei denti – perché il loro campo magnetico personale si fonde con l'onda temporale. Tuttavia nella signora Bryce non percepii nulla di fuori dal comune. Forse mi stava circuendo perché credeva che potessi convincere la Garbo ad accettare la parte in Appassionata alla MGM? Be', allora non aveva capito proprio niente dei miei rapporti con Greta. – Sì... Sì... La vedo sulle rive del Mediterraneo. .. La vedo che combatte contro una banda di giovani di strada... È forse Venezia al tempo dei Dogi? Sì. E prima di allora, la vedo in Egitto, signor Denham, durante la cattività degli Israeliti. Era innamorato di una ragazza... però c'era un altro uomo, un sovrintendente... Forse Verme Conquistatore era in grado di sentire che c'era qualcosa di diverso in me, ma la sua padrona stava totalizzando un grosso zero in metafisica. – Davvero? – Sì – rispose lei, abbassando gli occhi dalla quercia su cui sembrava aver letto tutta quella roba. – Ha mai delle visioni che la lasciano scossa, signor Denham? Sogni, forse, di altri luoghi? Di altri tempi? – Sì, in realtà sì – risposi, incapace di resistere. – Ah! Se desidera approfondirli... potrei esserle d'aiuto. – Si avvicinò e mi appoggiò una mano sul braccio. Verme Conquistatore le stava alle caviglie, uggiolando come una zanzara. – Ho una certa esperienza in quelle che possiamo chiamare... questioni dell'arcano. Non sarebbe la prima volta che assisto uno spirito inquieto a svelare i misteri delle sue vite precedenti. In realtà potrebbe quasi definirmi un'investigatrice... perché percepisco il suo amore per l'opera del signor Dashiell Hammett – concluse, con un sorriso enigmatico da Monna Lisa. Io le restituii il sorriso. Verme Conquistatore mise la coda tra le gambe e prese a ululare. – Accidenti, signora Bryce. È davvero sorprendente – le dissi, prendendole la mano per stringergliela. – Mi piacciono sul serio i romanzi gialli. – E lei non poteva averlo scoperto in altro modo che frugando nei cassetti della mia stanza, in cui doveva aver trovato la mia copia consunta del Falcone Maltese. – Gliel'hanno detto i suoi spiriti? – Sì – rispose, modesta, e a giudicare dai valori di conduttività della sua pelle e le sue pulsazioni, la donna stava mentendo spudoratamente.
Vedete, Lewis aveva ragione su questo: quando si tratta di capire se un mortale sta mentendo o dice la verità siamo meglio di un poligrafo. – Ma non mi dica. – Lasciai andare la sua mano. – Bene, bene. È stato davvero interessante parlare con lei, signora Bryce. Ora però devo andare a vedere come se la sta cavando il mio amico. Ma sa, mi piacerebbe riprendere questa conversazione con lei. Presto. – Ah! Il suo amico con i capelli biondi – disse lei, con espressione saputa. Poi mi si avvicinò, abbassando la voce. – L'uomo tormentato. Mi dica, signor Denham. Per caso il suo amico è... incline al culto di Apollo? Per un attimo rimasi interdetto, perché ogni tanto Lewis si lascia un po' andare a parlare della sua identità culturale Romana, ma poi capii che la signora Bryce stava parlando di ben altro. – Intende dire se è omosessuale? – Dedito ai peccati di natura purpurea e cremisi – mi corresse, annuendo. Ora ero certo che avesse lei il copione di Valentino, che avesse visto la simpatica dedica di Rudy e che ne avesse tratto le sue personali conclusioni. – Ehm... Accidenti. Non lo so. Potrebbe essere. Perché? – C'è uno spirito maschile che non avrà pace fino a che non comunicherà con il suo amico – mi disse la signora Bryce, respirando profondamente. – Uno spirito focoso con un grande attaccamento personale al signor Kensington. Uno che è scomparso di recente. Un'ombra bellissima, dritta come una fiamma senza fumo. L'unica domanda che rimaneva, ora, era: perché? Una cosa era sicura: non so se Lewis avesse ballato il tango con Rodolfo Valentino o meno, ma era chiaro che alla signora Bryce sarebbe piaciuto. Stava forse architettando qualche numero per impressionare tutta quella bella gente del mondo del cinema, utilizzando i suoi poteri magici per svelare il nascondiglio del copione non appena Lewis ne avesse annunciato la scomparsa? – Chissà chi è – dissi. – Glielo riferirò, comunque. Però, lei può capire, potrebbe anche essere una questione imbarazzante per lui... – Ma è chiaro – disse lei, con un grazioso gesto della mano, come se volesse scacciare tutte le considerazioni conformiste sui vizi nascosti. – Se accetta di parlarmi in privato, potrei essergli di grande aiuto. – Va bene, signora Bryce – le risposi, strizzando l'occhio. Poi andammo ciascuno per la sua strada, nel giardino. Sotto il lungo pergolato, trovai Lewis che barcollava tra gli alberi di
kumquat. Aveva la cravatta storta, i capelli dritti in testa e gli occhi azzurri che brillavano come riflettori ad arco. – Mi è appena successa la cosa più incredibile – mi disse. – Come è andata con la Garbo? – gli chiesi. E poi rimasi a bocca aperta, perché lui si tirò su, sforzandosi di recuperare un po' di dignità, e disse: – Ti pregherei di non fare insinuazioni sulla vita privata di una signora. – Oh, ma per favore! – Sperai che fosse stato abbastanza furbo da tenersi lontano dal raggio d'azione delle telecamere di sorveglianza. – Una cosa però posso dirtela con certezza – disse, mentre sulla sua faccia rifioriva il sorriso stupido di poco prima. – La Garbo non ha assolutamente rubato il mio copione di Valentino. – Sì, lo so – risposi. – È stata davvero Cartimandua Bryce, dopotutto. – Lei? Sul serio? – esclamò Lewis, mettendo a fuoco la questione a fatica. – E come hai fatto a scoprirlo? – Stavamo parlando, poco fa, e lei si è tradita – gli spiegai. – È il trucco più vecchio del manuale del finto sensitivo. Frugare di nascosto nella roba della gente per conoscere piccoli dettagli della loro vita che altrimenti non potrebbero mai sapere, e poi tirarli fuori durante una conversazione per stupire tutti quanti con le loro abilità sovrannaturali. «Quanto scommetti che quando ha lasciato il teatro di soppiatto è andata a fare proprio questo? Deve aver sfruttato il tempo per frugare nelle stanze degli ospiti. È così che quel dannato cane è entrato nella nostra suite. Deve averla seguita, in qualche modo, ed è rimasto indietro. – Davvero squallida – rispose Lewis. – Come facciamo a riprenderci il copione, allora? – Ci verrà in mente un modo – risposi. – Ho come la sensazione che sarà lei ad avvicinarti, comunque. Muore dalla voglia di chiuderti in un angolo e darti un grosso bacio con la lingua da parte dello spirito di Rodolfo Valentino, che lei crede sia il tuo appassionato nonché defunto amante. Tu lasciala fare e basta. Lewis rabbrividì. – Ma è disgustoso. Scrollai le spalle. – Se recuperi il copione, che ti importa di che cosa pensa quella donna? – M'importa eccome – protestò Lewis. – Ho una reputazione da mantenere! – Come se tra cento anni l'opinione di un pugno di mortali avesse la benché minima importanza – gli dissi. – E, comunque, sono sicuro che hai
dovuto fare cose ben più imbarazzanti, al servizio della Compagnia. A me è capitato di peggio. – Per esempio? – chiese Lewis, imbronciato. – Per esempio cose che non mi sembra il momento di approfondire adesso – gli risposi, allontanandomi con uno svolazzo e un sorriso. Lui afferrò una melagrana e me la tirò addosso, ma io sparii giusto in tempo per scansarla e ricomparii pochi metri più avanti, ridendo. Poi la campana che annunciava il pranzo suonò. Non so come Lewis trascorse il resto del pomeriggio, ma ho il sospetto che sia rimasto nascosto tutto il tempo. Per quanto mi riguardava, me la presi comoda: mi feci un pisolino al sole, una nuotata nella piscina Romana, e mi rilassai con un buon libro nella biblioteca degli ospiti. Quando tornammo a radunarci nuovamente nel Salone delle Feste, all'ora del cocktail, mi sentivo riposato e pronto per una lunga notte di lavoro. La festa era decisamente più divertente ora che non ero più così nervoso a causa del signor Hearst. Connie tirò fuori il Parcheesi, un gioco di società, e ci sedemmo a giocare insieme a Charlie e Laurence. Il giovane Hearst e la ragazza si appropriarono di uno dei pianoforti, lanciandosi in duetti da dilettanti. La signora Bryce fece una delle sue grandiose apparizioni e chiuse Gable in un angolo, mettendo in pratica su di lui la solita tecnica per scoprire le sue vite precedenti. Marion gironzolò per un po' tra gli ospiti, poi si immerse in una impegnativa discussione sugli investimenti nel settore immobiliare con Jack della Paramount. Il signor Hearst scese con l'ascensore e fu subito circondato dai suoi dirigenti, per discutere d'affari. La Garbo si fece vedere più tardi e, sorridendo tra sé e sé, raggiunse l'altro pianoforte. Quindi prese a cercare melodie, suonando con un dito. Lewis scivolò dentro la sala all'ultimo momento, proprio mentre ci accingevamo ad alzarci per andare a cena, e cercò di fingere di essere sempre stato lì dov'era. Le signore entrarono per prime. Passandogli vicino, la Garbo allungò una mano per accarezzargli i capelli, senza dire una parola. Noialtri – incluso il signor Hearst – fissammo Lewis a bocca aperta. Lui si limitò a raddrizzare la schiena, tirare indietro le spalle, e poi si accodò alle signore, dirigendosi verso il salone. Il mio segnaposto era proprio alla destra del signor Hearst e Lewis era
seduto alla mia destra. Non poteva andarci meglio di così. Con la stessa aria soddisfatta di Lewis, mi sedetti davanti a un piatto pieno. Tuttavia l'altro posto d'onore, alla destra di Marion, era stato riservato a Cartimandua Bryce, probabilmente come premio di consolazione per la perdita di Cho-cho. E stavolta Verme Conquistatore poté restarle in braccio per tutta la cena. Il cane mi guardò e si fece piccolo piccolo, buono come un agnellino, limitandosi ad alzare il muso per prendere i bocconcini che la signora Bryce gli allungava. Durante la cena, la donna continuò con la storia della reincarnazione; Marion le dava corda e ogni tanto ci guardava strizzando l'occhio, ma solo quando Hearst era distratto. Il padrone di casa aveva delle idee molto severe sulla cortesia nei confronti degli ospiti, anche se era chiaro che anche lui considerava la Bryce una pazza. – Quindi, quello che sta dicendo è che tutti noi continuiamo a vivere nella storia, le stesse persone che ritornano, secolo dopo secolo? – la istigò Marion. – Non tutti – ammise la signora Bryce. – Alcuni, penso, hanno uno spirito più debole e si dissolvono quando il primo impetuoso torrente della vita li abbandona. Sono come quelle persone che lasciano una festa dopo il primo ballo, troppo stanchi per rispondere all'imperioso richiamo della musica della vita. – Diciamo che raggiungono la coppa del punch e poi ci restano attaccati, eh? – commentò Connie, con un accento marcato. – In un certo senso – le rispose la signora Bryce, ignorando con grazia il suo tono canzonatorio. – La coppa del punch del Lete, se vuole. Bevono l'oblio e lì rimangono. Ah, ma gli spiriti più forti si rituffano subito a capofitto nel maelstrom delle passioni mortali! – Be', ma allora che ne è dell'andare in Paradiso e tutto il resto? – volle sapere Marion. – Non ci arriviamo mai? – Oh, indubbiamente sì – rispose la signora Bryce. – Perché esistono piani astrali più elevati oltre il semplice piano terrestre in cui viviamo. Gli spiriti veramente grandi vi ascendono col tempo, perché quella è la loro vera casa, ma anche loro si piegano all'impulso di reincarnarsi e ridiscendere nella realtà dei mortali, specialmente se hanno un compito importante da svolgere quaggiù. – Si piegò in avanti verso Hearst. – E io sento che lei l'ha fatto spesso, caro signor Hearst. – Be', ho intenzione di reincarnarmi dopo questa vita, senz'altro – rispose lui con un sorriso, toccandomi un ginocchio con il suo, sotto il
tavolo. Per un pelo non mi cadde la forchetta di mano. – Non so se vorrei farlo – disse Marion, un po' seccata. – Santo cie-cielo, penso che preferirei prendermi un bel periodo di riposo, dopo la morte, e non tornare indietro per ricominciare tutto da capo con questa dannata vita. Hearst sollevò la testa e la fissò per un lungo istante. – Non vorresti, mia cara? – le chiese. – N-no – insistette Marion, poi rise. – Sarebbe meraviglioso potersene stare in pace e tranquillità, tanto per cambiare. La signora Bryce si limitò ad annuire, come se quelle parole avvalorassero la sua tesi. Hearst abbassò lo sguardo sul piatto e, per il momento, non aggiunse altro. – Ma comunque, signora Bryce – continuò Marion. – Chi altri è uno spirito antico, secondo lei? Che cosa mi dice delle persone che governano il mondo di oggi? – Il cancelliere Hitler, lo è senz'altro – ci informò la signora Bryce. – Basta soltanto guardare l'immenso dinamismo di quell'uomo. Lui era di certo un cavaliere teutonico, o forse uno dei capitani barbari che sfidarono Cesare. – Invano – puntualizzò Hearst, in tono asciutto e a voce bassa. – È vero, ma comprendere la reincarnazione significa vedere la storia sotto la sua vera luce – spiegò la signora Bryce. – Nei secoli, la sua stella è ascesa inesorabilmente e continuerà a farlo. È un uomo molto determinato. – Non la pensa così anche di Franklin Delano Roosevelt, vero? – le chiese Hearst. – Roosevelt ci prova – disse la signora Bryce, liquidandolo. – Ma credo che il suo sia uno spirito ancora giovane. Forse cerca goffamente la giusta via. – Personalmente, trovo che sia solo un idiota disonesto – rispose Hearst. – A differenza di Mussolini! Ecco un altro uomo che capisce cosa significhi avere un destino nella storia, così bene che è chiaro che ha conservato l'esperienza delle sue vite passate. – Temo di non avere una grande opinione dei dittatori – disse Hearst, in quel castello dove ogni sua parola era legge. La signora Bryce spalancò gli occhi, accorgendosi della propria gaffe. – No, perché i secoli... forse anche gli eoni... le hanno dato la saggezza per capire che la dittatura è soltanto un povero sostituto di un governo illuminato – disse subito. – Con questo intende dire la cara vecchia democrazia americana? –
chiese lui. Wow! La signora Bryce stava sudando. Devo ammettere che era piacevole rilassarsi mentre, per una volta, succedeva a qualcun altro. – Be', certo che sì – disse Marion. – Ora, questi discorsi storici mi hanno stufato, Papi. – Ma io voglio sapere di più su chi eravamo noi nelle nostre vite precedenti – insistette Connie. A quel punto, la risata della signora Bryce, resa penetrante dal sollievo, si unì alla risata generale. – Be', come dicevo poco fa al signor Gable... sono sicura che lui è stato Marco Antonio. Tutti gli occhi si spostarono su Gable. Lui arrossì come un peperone e fece un sorriso storto. – Non contraddico mai una signora – disse. – Forse lo sono stato davvero. – Oh, lo siete stato senza dubbio, signor Gable – insistette la signora Bryce. – Perché io stessa sono stata una delle ancelle di Cleopatra, e l'ho riconosciuta nel momento esatto in cui l'ho vista. Ci doveva essere in ballo anche una sceneggiatura di Patto Oscuro, evidentemente. Intorno al tavolo, molti ridacchiarono. – Come fa a scoprire il passato degli altri? – domandò Connie. – Usa una di quelle tavole Ouija o roba del genere? – Oh, quelle sono solo volgari giochi di società – commentò la signora Bryce. – Secondo me, almeno. No, il modo migliore per indagare i segreti del passato è quello di parlare direttamente con coloro che vivono oltre lo scorrere del tempo. – Vuol dire che faremo una seduta spiritica? – esclamò Connie, intrigata. A Marion si illuminarono gli occhi. – Sarebbe divertente, no? Accidenti, anche l'ambiente è perfetto, con questa vecchia roba in giro! – Mah, non saprei... – disse Hearst, ma Marion ormai aveva affondato i denti nell'idea e la teneva ben stretta. – Oh, per favore, non può succedere niente di male. Avete tutti finito di cenare? Che ne dite, ragazzi? – Non bisognerebbe avere un tavolo tondo? – chiese Jack, dubbioso. – Non necessariamente – rispose la signora Bryce. – Anche questo tavolo può andare bene, se facciamo sparecchiare la cena e spegniamo le
luci. Seguì un attimo di confusione, mentre tutti facevano come aveva detto la donna. Hearst si voltò a guardarmi con espressione imbarazzata, poi probabilmente colse il lato divertente della cosa: un immortale che partecipa a una seduta spiritica. Strinse le labbra per trattenersi dal sorridere. Io scrollai le spalle, con espressione ironica. Marion ritornò di corsa dalla cucina e prese posto intorno al tavolo. – Ora! – gridò al maggiordomo e l'uomo, da qualche parte, azionò un interruttore. La sala da pranzo piombò nell'oscurità. – E ora cosa facciamo? – chiese Connie, senza fiato. – Contemplate per un attimo l'oscurità totale e il gelo terribile – rispose la signora Bryce, in tono serio. – E se vi viene la tentazione di ridere di questa nostra esperienza, pensate alla tomba. Ora, se siete tutti pronti a mostrare il giusto rispetto per gli spiriti... prendetevi per mano, per favore. Obbedimmo, tra scricchiolii e fruscii. Sentii l'enorme mano destra di Hearst chiudersi intorno alla mia sinistra. Lewis mi strinse l'altra mano. Buon dio, è molto buio qui dentro, mi trasmise. Allora usa gli infrarossi, gli risposi, seguendo il mio stesso consiglio. La stanza mi apparve davvero lugubre, ma nutrivo dei sospetti su ciò che sarebbe accaduto di lì a poco e volevo essere preparato. – O spiriti del mondo invisibile – cantilenò la signora Bryce. – O anime ascese! Lasciate per un attimo le vostre eterne meditazioni e ascoltate la nostra richiesta. Cerchiamo l'illuminazione! Ah, sì. Inizio a sentire delle vibrazioni... C'è qualcuno che si sta avvicinando. Può essere...? Ma certo, è la mia cara amica Cho-cho! Libera dalla maschera della carne terrena, ancora una volta varca il velo tra i mondi. Cho-cho, percepisco la tua fretta. Cosa ci devi comunicare, amica mia? Parla! Penso che a quel punto la maggior parte dei presenti si aspettasse dei finti latrati ma, cosa alquanto strana, non se ne sentirono. In quell'attimo teso di silenzio che seguì, la signora Bryce lasciò cadere la testa in avanti. Poi, lentamente, tornò a sollevarla e la fece ricadere all'indietro. Ansimò un paio di volte, poi prese a gemere con una vocetta in falsetto, emettendo suoni incoerenti, come se cercasse di formare delle parole. –Auuuuh – gemette, piano. – Auuuuh-uuh-uuh-uuh! Auu-auuuuh! In quel momento si sentirono davvero delle vibrazioni: provenivano dalle quattordici persone presenti che cercavano di trattenersi dal ridere.
La signora Bryce girò la testa da una parte, poi dall'altra. – Auuuuh – continuò la donna. Verme Conquistatore le saltò in braccio, sollevando il muso verso il soffitto, e iniziò a conversare insieme a lei come fanno i cani, con una specie di Auh-auh, auh-uuh uuh! Di fianco a me, Hearst tremava dalle risate trattenute, muto. La signora Bryce dovette accorgersi di essere sul punto di perdere il proprio pubblico, perché all'improvviso gli auuh si trasformarono in parole comprensibili. – Sono tornata – disse la donna. – Sono tornata dalla valle della felicità perché ho un conto in sospeso qui sulla terra. O creature che appartenete a questo piano inferiore, ci sono altri spiriti che attendono con me e vogliono comunicare con voi. Gettate via le vostre ignoranti paure. Ascoltateli! Dopo un altro momento di silenzio, Marion, con voce un po' strozzata, disse: – Ehm... Ci stavamo chiedendo... Potresti dirci chi eravamo nelle nostre vite passate? – Sì... – La signora Bryce finse di ascoltare con attenzione. – Una di voi... Nata il diciannovesimo giorno di aprile. Connie raddrizzò la schiena e scrutò nel buio verso la signora Bryce. – Ehi, ma quello è il mio compleanno – disse, con un sussurro teatrale. – Sì... La vedo a Babilonia, la città caduta... Sì, lei visse davvero a Babilonia, regina di tutte le città, e portava rose all'altare di Ishtar. – Accidenti, ci pensate? – esclamò Connie. – Dovevo essere una sacerdotessa o qualcosa del genere. – Ma ora andiamo avanti... Vedo un uomo, duro e violento... lavora con fatica, a mani nude. Sta in piedi davanti alle torri che puntano verso il cielo... scorre oro nero. E stato troppo duro. Si pente. .. prega di essere perdonato. Riuscivo a vedere Gable che digrignava i denti, così forte che gli si vedevano i muscoli della mandibola. Aveva uno sguardo furioso. Mi chiesi se per caso la donna avesse visto una foto di suo padre dentro il suo bagaglio. O forse la signora Bryce aveva recuperato quell'informazione da una rivista di pettegolezzi cinematografici? Tuttavia, l'attore si rifiutò ostinatamente di abboccare all'amo, e dopo un lungo silenzio la voce tremolante continuò. – Andiamo avanti, andiamo avanti... C'è una persona che ha salpato per i grandi oceani. La vedo con un cappello bianco... Uno dei dirigenti di Hearst inspirò rumorosamente. Qualcuno che amava
navigare? – Eppure ha navigato per i sette mari, in un'altra vita... La vedo che si inginocchia davanti a una grande regina, offrendole tutto lo splendore della flotta spagnola... quest'entità portava il nome di Francis Drake. Un piccolo pirata rapace diventato un dirigente tagliagole? Ehi, poteva anche essere. – Andiamo avanti... – Vidi la signora Bryce girare leggermente la testa in direzione di Lewis, con occhi socchiusi. – Oh, c'è un messaggio urgente... c'è uno spirito che implora di parlare... uno spirito con uno sguardo scuro e rabbioso... Chiede di essere accolto senza vergogna, perché non c'è niente di vergognoso nella vera passione... Cerca la sua metà. Ahia! trasmise Lewis, orripilato. Va bene. Voleva farci credere che Rodolfo Valentino stava cercando di dirci qualcosa? Ebbene, l'avrebbe detta. Non mi interessava affatto se Lewis o Rudy fossero etero o gay o frequentassero entrambe le sponde, ma questa faccenda era davvero troppo bastarda. Tirai via la destra dalla mano di Lewis e divincolai la sinistra da quella di Hearst. Lui si voltò verso di me e percepii una certa dose di curiosità divertita, ma non disse nulla per fermarmi. Ed ecco cos'hanno registrato le telecamere di sorveglianza e i dittafoni di Hearst di quello che successe poi. Un'ombra sfocata che attraversa il buio e un forte rumore metallico, come di piatti musicali. La voce di Cho-cho si zittì, con un gridolino. Quindi si udì la voce di un uomo uscire dall'oscurità, ma proveniva da un punto molto in alto, nell'aria, dove nessun mortale avrebbe mai potuto trovarsi... Come, per esempio, dalla minuscola cornice sopra il muro di scranni del coro. Se aveste mai sentito parlare Valentino (come avevo fatto io, per esempio), avreste potuto giurare che si trattava di lui che, furibondo, gridava: – Sono stanco di queste bugie! C'è un ladro nella stanza, e se ciò che è stato rubato non viene restituito questa notte stessa, i djinni del deserto esigeranno vendetta. Gli spiriti punitori dell'aldilà gli daranno la caccia. Osate forse farmi arrabbiare? Poi si udì un sibilo e un leggero odore di zolfo, quindi, quando qualcosa comparve per un attimo nell'aria, ci furono singhiozzi e piccole grida dai presenti: era il volto di Valentino e come potevamo non riconoscerlo? La bocca aveva una piega triste e gli occhi velati da severa determinazione avevano la stessa espressione dello Sceicco Ahmed mentre avanzava verso
Vilma Banky. In più, quegli occhi erano di un pallore ultraterreno, sullo sfondo di un'ombra scarlatta. Qualcuno gridò, un vero grido di terrore. L'immagine svanì e si udì un altro rumore sordo, poi ci fu un attimo di confusione quando i domestici accorsero nella stanza e le luci si accesero. Tutti erano seduti esattamente dov'erano prima che le luci si spegnessero, me incluso. In fondo al tavolo, tuttavia, dove non era seduto nessuno, uno dei vassoi d'argento della collezione del signor Hearst girava su se stesso come un disco su un fonografo. Tutti lo fissavano, terrorizzati, e l'unico rumore in quel luogo cavernoso era il leggero tintinnio di quell'affare che girava sempre più piano. – Wow! – esclamò il figlio di Hearst, stupito. Suo padre si voltò lentamente a guardarmi. Io sostenni il suo sguardo e tirai fuori il fazzoletto. Avevo ricominciato a sudare, ma a chi non sarebbe successo? Sfruttai quel gesto per gettare il fiammifero bruciato che tenevo nascosto nel palmo della mano. – Che diavolo sta succedendo? – chiese Gable, alzandosi in piedi. Raggiunse l'altro capo del tavolo, fermò il vassoio e rimase a fissarlo. – Che cosa c'è? – disse Jack. Gable allungò una mano con cautela e sollevò il vassoio. Lo inclinò in modo che tutti potessero vedere. Sull'argento vi era il volto di Valentino, tracciato con una strana sostanza rossa. – Gesù! – gridò Connie. – Cos'è quella roba? – disse Laurence. – È sangue? – È forse ectoplasma? – chiese un dirigente. Gable lo osservò da vicino. – È ketchup – annunciò. – Oh, per l'amor del cielo. Gli occhi di tutti si spostarono subito sulla bottiglia di ketchup appoggiata proprio sulla destra del signor Hearst. Ma per quanto la guardassero fisso, non penso che nessuno si fosse accorto che si trovava dieci centimetri più a destra di quanto non fosse quando le luci si erano spente. O forse il signor Hearst se n'era accorto. Si pulì la bocca con il fazzoletto e iniziò a tremare come un vulcano sul punto di esplodere, strizzando gli occhi che lacrimavano abbondantemente. – P-P-Papi! – esclamò Marion, scavalcando praticamente il tavolo per raggiungerlo, per paura che stesse avendo un attacco di cuore. – Sto bene – disse Hearst, fermandola con una mano, respirando a fatica, e lei si accorse che stava ridendo. La tensione si ruppe. Risatine nervose e
sciocche uscirono dalla bocca di tutti i presenti, eccetto Cartimandua Bryce, che se ne stava al suo posto, pallida e muta. Verme Conquistatore se ne stava accucciato sulle sue gambe, tremante, cercando di trasformarsi nel cagnolino invisibile. – Accidenti, era un trucco davvero ben fatto, chiunque sia stato! – disse il giovane Hearst. La signora Bryce trasse un lungo respiro e si alzò in piedi, stringendo a sé Verme Conquistatore. – Ma... Siamo sicuri che fosse un trucco? – disse, composta. Abbracciò la stanza con lo sguardo. – Se qualcuno, qui dentro, ha fatto arrabbiare lo spirito di Rodolfo Valentino, lascio che sia lui o lei a farsi perdonare il più presto possibile. Signor Hearst? Questa esperienza mi è costata gran parte della mia energia vitale. Devo riposare. Mi vuole scusare? – Certamente – sibilò Hearst, congedandola con un gesto della mano. Lei fece un'uscita piena d'orgoglio e dignità. Io rivolsi un'occhiata a Lewis, che mi fissò a sua volta a occhi spalancati. Ottimo lavoro, mi trasmise. Gli rivolsi un sorriso furbesco. Se fossi in te non ritornerei troppo presto in camera, gli dissi. Lasciale almeno il tempo per rimettere a posto il copione. Va bene. – Allora, non so a voi – disse alla fine Hearst, sospirando. – Ma a me, dopo tutto questo trambusto, è venuta voglia di gelato. Così mangiammo il gelato e poi entrammo a guardare un altro film, intitolato Pranzo alle otto. Tutti rimasero fino alla fine. Io la trovai una storia strepitosa. Più tardi, io e Lewis ritornammo alla Casa del Sol, setacciando i dintorni con lo scanner, ma sui sentieri del giardino non si celava nessuno. Quando accesi la luce della mia stanza, non mi si avventò contro nessun orribile cagnetto. – È qui – disse Lewis, compiaciuto. – Il copione? Tutto intero? – Ogni pagina! – Lewis comparve sulla soglia della mia stanza, stringendolo al petto. – Grazie a dio. Penso che stanotte me lo terrò sotto il cuscino. – E sognerai Rudy? – gli chiesi, ironico. – Oh, piantala! – Mise il broncio e ritornò in camera sua.
Io mi rilassai sul letto e lo ascoltai mentre si cambiava, si metteva il pigiama, si lavava i denti, faceva i gargarismi e tutte quelle belle cose che anche gli immortali devono fare prima di andare a dormire. Poi si mise a letto e spense la luce, e forse sognò Rudy, o perfino la Garbo. Monitorai le sue onde cerebrali fino a che non fui sicuro che stava dormendo profondamente. Era giunto il momento di occuparsi di quella parte dell'affare che Lewis non aveva bisogno di sapere. Mi cambiai d'abito, indossando vestiti scuri, e mi allacciai le scarpe da tennis che Hearst mi aveva gentilmente prestato. Aprii la valigia nera, feci scorrere il doppio fondo e tirai fuori il kit medico preconfezionato e sigillato che mi era stato dato in dotazione dal Quartier Generale della Compagnia a Hollywood prima di partire. Insieme, c'era un generatore di campo silenzioso delle dimensioni di una scatola di fiammiferi. Intascai il generatore silenzioso e feci scivolare il kit medico dentro la camicia. Poi strisciai fuori dalla casa e attraversai di corsa i giardini della Cuesta Encantada, più veloce di Robin Goodfellow e perfino di Evar Swanson. L'unica volta che dovetti fermarmi fu davanti alla porta della terrazza orientale, per disabilitare in pochi secondi il sistema d'allarme e forzare la serratura. Poi mi lanciai sulle scale, girando in tondo fino al piano di sopra e alle stanze private di Hearst. Attivai il generatore di campo silenzioso ben prima di avvicinarmi a lui, e fu una scelta saggia. Nella sua camera da letto la luce era ancora accesa. Mi avvicinai ugualmente in punta di piedi, sperando che Marion non ci fosse. Non c'era. Dormiva profondamente nella sua stanza, dall'altra parte della suite. Tuttavia, entrando nella stanza di Hearst, mi fermai ugualmente di scatto quando vidi Marion che mi fissava con espressione serena dal suo ritratto in nudo a dimensione naturale appeso al muro. Mi guardai intorno. La donna era in ben strana compagnia: sul muro c'erano anche il ritratto della madre e del padre di Hearst, insieme ad altri dipinti di valore inestimabile della Madonna col Bambino. Mi chiesi per un attimo cosa si sarebbero dette le persone ritratte in quei quadri, se avessero potuto parlare. Hearst era disteso, addormentato, nella grande poltrona vicina al telefono. Grazie a dio non lo stava utilizzando quando il campo silenzioso si era attivato, o ci sarebbe stato un telefono ancora aperto e un operatore
notturno con un attacco isterico, che mandava segnali d'allarme a tutta la casa. Hearst si era soltanto trattenuto a lavorare fino a tardi, probabilmente per scrivere un editoriale, vergato con tratto energico e sicuro su un taccuino a righe. Il bassotto era acciambellato ai suoi piedi e russava leggermente. Lo spostai con delicatezza e poi, come una formica che solleva uno scarabeo morto, sollevai Hearst e lo appoggiai sul letto a baldacchino. Poi accesi entrambe le luci, gli tolsi la camicia e aprii il kit medico. Quando ruppi il sigillo, la confezione sibilò. Tirai indietro la pellicola protettiva, rivelando... Il kit medico sbagliato. Rimasi a fissarlo, sconvolto. Che cos'era tutta quella roba? Non era quello che mi serviva per eseguire un intervento di riparazione cardiaca di routine su un mortale! Quello era uno dei nostri kit personali, di quelli che tenevano nel magazzino della sezione riparazioni del Quartier Generale Principale. Indietreggiai, barcollando, e mi accasciai nella comoda poltrona di Hearst. Cavolo, oh cavolo, quanto avrei voluto una caramella Polo in quel momento. Rimasi seduto lì per un minuto ad ascoltare il mio battito del cuore in quella grande casa silenziosa. Va bene, mi dissi, il talento per l'improvvisazione è il tuo forte, no? Hai operato d'urgenza in condizioni peggiori, vero? Certo che sì. Diavolo, hai usato coltelli di selce e specchi di bronzo e sanguisughe e... deve pur esserci qualcosa di utile, dentro quel kit. Mi tirai in piedi e presi a frugarvi dentro. Perfetto, c'erano delle salviette sterili. Pulii con cura l'area dove avrei praticato l'incisione. E c'erano anche un paio di guanti sterili, ottimo. Li infilai. Un bisturi. Non male. E un emostim e un saldatore epidermico. Potevo farcela! E c'era anche un laser osseo. In definitiva, sembrava proprio che sarei riuscito a farcela. Somministrai a Hearst un farmaco per rallentare il metabolismo, gli aprii il torace e mi preparai a operare, ripetendomi che quando avrei inoltrato il mio rapporto alla Doctor Zeus qualcuno avrebbe passato dei guai. Le costole di Hearst avevano qualcosa di strano. Nei punti dove avrei dovuto usare il laser, proprio dove avrei dovuto fare le mie incisioni, l'osso era ispessito. Un vecchio trauma? Dannatamente vecchio. E strano. Anche il suo cuore aveva un aspetto strano. Ovviamente me lo
aspettavo. Hearst aveva un difetto cardiaco, dopotutto. Eppure, non mi immaginavo di trovare un microscopico chip collegato alla parete di una cavità cardiaca. In quel momento potevo davvero sentire il sapore di una caramella Polo. Il mio corpo stava simulando quella sensazione per darmi conforto, una difesa contro lo stress incredibile che stavo sopportando. Gettai uno sguardo distratto al kit medico e mi accorsi che all'interno vi era un duplicato quasi identico di quel chip, un po' più grande, che mi aspettava all'interno di un compartimento della stessa forma. Ed era in compagnia di una manciata di altri piccoli impianti. Riparazione e aggiornamento. Quello era davvero il kit giusto, dopotutto. Misi giù il bisturi, mi sfilai i guanti, tirai fuori il mio cronofase e ne aprii il retro, estraendo un piccolo componente. Mi voltai verso il telefono di Hearst, fissai il componente sul filo e sollevai il ricevitore. Sentii dei rumori strani, poi una voce suadente mi informò che ero in contatto con il Quartier Generale di Hollywood. – Sono il Facilitatore Joseph e vorrei sapere CHE DIAVOLO STA SUCCEDENDO QUI? – chiesi, un po' alterato. – File in download – rispose la voce. Quando il segnale codificato mi raggiunse attraverso la linea telefonica, mi irrigidii. Dietro i miei occhi scorrevano immagini vivide: stavo ricevendo il rapporto di una missione avvenuta nel 1862, reso da un certo Facilitatore Jabesh... assegnato al monitoraggio di una giovane donna che viaggiava come passeggero su un vaporetto partito da New York e diretto a San Francisco, attraverso l'istmo di Panama. Si era sposata di recente e viaggiava in compagnia del marito, molto più anziano di lei. Era incinta di due mesi. Vidi la ragazza vestita di rosa. Vidi il mare agitato, vidi donne con la crinolina e uomini con i favoriti e il cilindro. La ragazza stava molto male. Normale nausea mattutina delle donne gravide, aggravata dal mal di mare? Jabesh, eccolo, vestito di nero, che si leva il cappello a cilindro per salutarla, che si prende cura di lei tutti i giorni, fingendo di essere un dottore gentile. Una mattina era svenuta nella sua cabina e suo marito aveva convocato con urgenza Jabesh sotto coperta per visitarla. Jabesh l'aveva spedito a farsi una passeggiata in giro per la nave e si era preparato a effettuare un esame ostetrico di routine sulla giovane svenuta. Vidi l'espressione d'orrore sul volto di Jabesh: la ragazza gli abortì praticamente tra le mani, espellendo un feto gravemente danneggiato. Non era utilizzabile. La sua angosciata comunicazione, subito
dopo, sul portatile da campo nascosto nella sua borsa da medico. La risposta: PRIORITÀ ORO, con un'autorizzazione supportata dal Dirigente Facilitatore Generale Aegeus. Il bambino doveva sopravvivere, a tutti i costi. Jabesh doveva renderlo utilizzabile. Perché? Forse la Compagnia si stava accertando ancora una volta che la storia accadesse come era stata scritta? Ma come poteva salvare quel bambino? Con cosa? Da dove avrebbe dovuto iniziare? Scaricò le informazioni sulla sua famiglia. C'era una nota che diceva che il marito aveva avuto un fratello "reso incapace" da una malattia non meglio specificata, che lo aveva fatto morire da giovane. Qualche gene recessivo letale? Nessuno avrebbe potuto far vivere quel minuscolo pezzo di carne! Ma la Compagnia gli aveva assegnato una Priorità Oro. Vidi la primitiva cabina, il bacile d'acqua insanguinata, Jabesh con le maniche rimboccate, la sua disperazione. La Priorità Oro che lampeggiava davanti a lui sullo schermo del portatile da campo. Noi non siamo legati dalle leggi dei mortali, ma abbiamo le nostre regole. Regole che non possiamo mai infrangere, in nessuna circostanza; regolamenti che, se non rispettati, comportano pene terribili. Possiamo essere puniti con la cancellazione della memoria, o peggio. A meno che non ci venga chiesto di ubbidire a una Priorità Oro. O così dicono le voci di corridoio. Jabesh aveva riparato il feto, gli aveva fatto ripartire il minuscolo cuore. Ma non era abbastanza. In preda al panico, tirò fuori alcuni strumenti speciali dalla borsa (ne avevo appena visto uno) e fece qualcosa di palesemente illegale: praticò un limitato intervento di augmentazione sull'embrione. Ma non era ancora sufficiente. Fu allora che tirò il dado, rischiando. Fece una cosa ancor più palesemente illegale. Riparò ciò che era rotto nella doppia elica del suo materiale genetico. Lo fece con un risequenziatore di cromosomi, una vecchia dotazione standard presente nel kit di riparazione da campo di qualunque operativo. Non erano fatti per essere utilizzati su un mortale, e tanto meno su un embrione di due mesi, ma Jabesh non sapeva cos'altro fare. Lo regolò su automatico e quando capì l'effetto che stava generando, era ormai troppo tardi per arrestare il processo. Il risequenziatore aveva riprogettato il genotipo del bambino. Aveva verificato i danni, analizzato cosa mancava e aveva riempito i vuoti con materiale genetico proveniente dal proprio arsenale di DNA precaricato. Aveva inserito sequenze cromosomiche sane in quel casino come in una sorta di meccano genetico di lusso, fino a quando non aveva
ottenuto un organismo con probabilità ottimali di sopravvivenza. Era stato programmato per quello, dopotutto. Ma non aveva mai dovuto sostituire tanto materiale genetico in un soggetto, non aveva mai dovuto frugare tanto a fondo nel proprio arsenale alla ricerca di materiale genetico, e parte del DNA che vi era contenuto era molto antico e davvero molto strano. Quei kit erano stati progettati per la prima volta centomila anni prima, dopotutto, quando i geni dell'Homo Sapiens non erano ancora omogenei. Quando il risequenziatore aveva finito il suo lavoro, l'embrione era stato trasformato in un ibrido sano, un essere appartenente a un genere che non era più nato da almeno cinquanta millenni, con un potenziale totalmente sconosciuto. Vidi Jabesh che riusciva a reimpiantare il feto e a ripulire la ragazza prima che il marito ritornasse. Poi raccontava al marito che la ragazza doveva restare a letto e riposare, e che niente è mai certo nella vita, e poi lo vidi togliersi il cappello a cilindro per salutare, buona giornata, signore, e trascinarsi esausto nella sua cabina, dove si era seduto, tremante, a bere bourbon direttamente dalla bottiglia, senza il minimo effetto. Sapeva cosa aveva fatto. Ma Jabesh aveva obbedito a una Priorità Oro. Lo vidi che aspettava, temendo ciò che gli sarebbe accaduto. Ma non gli accadde niente: le settimane passarono e la ragazza smise di essere pallida, riacquistando vigore. La vidi mentre attraversavano Panama – ecco la giungla verde, ecco la madre ora visibilmente incinta, seduta in sella a un mulo – ed eccola che sbarcava a San Francisco. Passarono mesi prima che Jabesh riuscisse a trovare il coraggio di andare a farle visita. Ora veniva fatto accomodare in salotto, con il cappello in mano. Niente da vedere, a parte una giovane madre che culla il suo adorato bambino. La Madonna e il Bambino, versione dal vivo. I bambini sorridenti sono tutti uguali, no? Allora chi avrebbe mai scoperto cosa aveva fatto Jabesh? Ed ecco Jabesh che si accomiatava, sorridendo, voltandosi per scomparire in qualche anfratto buio della storia. La cosa divertente era che ciò che Jabesh aveva fatto non era neppure contro le leggi dei mortali. Be', non sarebbe diventato illegale prima del 2093, perché prima di allora i mortali non avrebbero capito le conseguenze dell'ingegneria genetica. Ma io capivo. E ora sapevo perché mi era venuta voglia di fuggire con la coda tra le gambe nel momento esatto in cui avevo visto William Randolph Hearst, proprio come fanno certi cani quando mi vedono.
Le ultime immagini corsero davanti ai miei occhi: il bambino che cresce, trasformandosi in un giovane alto con un qualcosa di impercettibilmente diverso, quella voce ultraterrena, quel qualcosa di indefinibile che gli aveva donato un'infanzia in apparenza infinita, tanto da preoccupare i suoi genitori. E poi? Sorpresa! Scaricata direttamente nel mio cranio prima che potessi anche solo battere le palpebre, una frase lampeggiante: PRIORITÀ ORO. RIPARARE E AGGIORNARE. Autorizzato dal Facilitatore Generale Aegeus, lo stesso alto papavero che aveva fregato Jabesh. Ero in trappola. Mi era stato dato l'ordine. Quindi che cosa potevo fare? Riattaccai la cornetta, ripresi in mano l'adattatore, mi infilai un paio di guanti nuovi e ripresi in mano il bisturi. Cosa poteva succedermi di male, dopotutto? Stavo per arrivare alla fine di quella storia, in un modo o nell'altro. Altri diciotto anni non erano poi così tanti, anche se Hearst non sarebbe dovuto proprio esistere, da principio. Qualunque strano materiale genetico che aveva passato ai figli sembrava essere diventato inattivo, in loro. E guardando il tutto in un contesto più grande, Hearst aveva mai fatto qualche danno? Era perfino un brav'uomo, a modo suo. Troppi soldi, troppo entusiasmo, appetito per la vita, una volontà di ferro e una sicurezza di sé incrollabile... e una mente capace di pensare in più dimensioni rispetto a una normale mente umana. Ok, quella era la formula per un disastro. Lo sapevo, perché ricordavo certi altri uomini con lo stesso zelo e abilità. Erano stati utili alla Compagnia, nei tempi lontani prima dell'inizio della storia, fino a che non avevano cominciato a contestare le sue politiche interne. A quel punto, la Compagnia aveva avuto un bel problema tra le mani, perché quei tizi grossi e pericolosi erano immortali. Così, la Compagnia aveva dovuto giocare sporco e prendere delle decisioni che avrebbero impedito qualunque tipo di dissenso all'interno dei propri ranghi. Ma era accaduto un sacco di tempo prima, e ora avevo una Priorità Oro da affrontare, così mi dissi che Hearst doveva essere umano, dopotutto. Era nato da una donna, no? C'era un quadro che la ritraeva, appeso al muro, di fronte al ritratto di Marion. E aveva avuto una vita breve. Gli sostituii i vecchi impianti ormai usurati con quelli nuovi, ed eseguii un intervento di riparazione sul suo cuore, per farlo durare il tempo necessario. Poi lo richiusi, feci un po' di lavoro estetico e rimisi la camicia addosso al suo vecchio corpo. Lo riappoggiai sulla poltrona, gli rimisi in grembo l'editoriale che stava
scrivendo, riappoggiai il cagnolino ai suoi piedi, raccolsi la mia roba, spensi l'altra lampada e mi guardai intorno un'ultima volta per verificare di non aver dimenticato niente. No. In un'ora circa il suo cuore avrebbe ripreso a battere e sarebbe stato benone, almeno per qualche anno. – Vivi per sempre, o re! – gli dissi, in tono ironico, poi lasciai la stanza, spegnendo il campo silenzioso. Ma le mie parole riecheggiarono un po' troppo forti mentre attraversavo di corsa i giardini del suo palazzo, sotto lo sguardo orripilato delle stelle. Quando Lewis fece scivolare il copione di Valentino dietro il pannello dell'antico scrigno, Hearst lo guardò con espressione affascinata. Con dita esperte, Lewis fece rientrare il pannello al suo posto, spingendolo e muovendolo di qua e di là fino a che non si sentì un click e il legno si incastrò nella posizione che avrebbe occupato per i prossimi quattro secoli. – E pensare che il prossimo uomo che vedrà quell'oggetto non nascerà ancora per anni e anni – mormorò Hearst, affascinato. Quindi richiuse lo sportello anteriore dello scrigno e girò la chiave nella serratura. Lasciò cadere la chiave nella tasca del panciotto, poi guardò Lewis con espressione interrogativa. – Suppongo che anche lei sia un immortale, signor Kensington, è così? – domandò. – Be'... sì, signore, è vero – ammise Lewis. – Santo dio. E quanti anni ha? – Quasi ottocentotrenta, signore. – Quasi? Accidenti, quindi è praticamente un neonato in confronto al signor Denham, no? – Hearst ridacchiò, in modo stranamente chioccio. – E lei ha conosciuto molti personaggi famosi? – Ehm... ho conosciuto San Patrizio – disse Lewis. – E un gran numero di romanzieri inglesi sconosciuti. – Ma che bello – commentò Hearst, sorridendogli dall'alto in basso e assestandogli una pacca sulla spalla. – E ora potrà dire in giro che ha conosciuto anche Greta Garbo. – Sì, signore – disse Lewis, poi rimase a bocca aperta, ma il signor Hearst si era già voltato verso di me, facendo frusciare il foglio di carta che gli avevo consegnato. – Ed è sicuro che il mio personale di cucina possa mettere insieme questa roba, signor Denham? – Certo. Se avesse problemi a trovare tutti gli ingredienti, ho incluso il
nome di un tizio a Chinatown che le può mandare i semi e le piante per posta – gli dissi. – Molto bene – rispose, annuendo. – Be', mi dispiace proprio che voi ragazzi non possiate trattenervi oltre, ma conosco bene le tabelle di marcia degli studios. Immagino che ci incontreremo ancora, tuttavia, vero? Sorrise, e Lewis e io ci congedammo dal suo cospetto con una specie di rispettoso inchino, indietreggiando. Nessuno dei due disse gran che mentre scendevamo dalla montagna, in mezzo a tutti quei tornanti e alle mandrie di animali selvatici. Penso che Lewis avesse paura che Hearst fosse ancora in grado, in qualche maniera, di sentirci, e in realtà non avrei escluso del tutto la possibilità che fosse riuscito a mettere qualche cimice nella nostra Modello A. Per quanto mi riguardava, io me ne stavo in silenzio perché avevo iniziato a pormi una certa domanda, e non avevo nessun modo per avere una risposta. Non avevo prelevato un campione di DNA da Hearst. Non sarebbe servito a nulla. Non è possibile rendere immortale un vecchio, perché il suo DNA – anche se molto insolito – ha già da tempo iniziato il lungo e inevitabile processo di deterioramento, e gli errori di replicazione lo rendono inutilizzabile come modello di base. Questo è uno dei motivi per cui, per creare un immortale, bisogna utilizzare un bambino, capite? Più sei giovane, più chiaro e nuovo di zecca è il tuo DNA. Io dovevo avere quattro o cinque anni quando la Compagnia mi ha salvato; non il massimo assoluto dal punto di vista della qualità del DNA, ma ancora all'interno delle specifiche. Lewis era ancora un neonato: in quella situazione, il processo dovrebbe funzionare molto meglio. E se con il DNA fetale fosse ancora meglio? In quel caso... E se Jabesh avesse conservato un campione del lavoro furtivo che aveva compiuto all'interno di quella angusta cabina del vaporetto? Perché se lo aveva fatto, se la Doctor Zeus l'aveva in archivio, da qualche parte... ci sarebbe voluto molto lavoro, ma forse la Compagnia avrebbe potuto veramente soddisfare i termini dell'accordo posti da William Randolph Hearst. Ma non si sarebbero mai spinti a fare una cosa simile sul serio, no? Parcheggiammo davanti al supermercato di San Simeon e mi comprai cinque pacchetti di caramelle Polo. Quando arrivammo a Pismo Beach, dovetti fermarmi a comprarne delle altre.
Titoli di coda: 2333 Il giovane si sporse in avanti sulla sua console, con le dita che volavano mentre modificava immagini, le sovrapponeva e riorganizzava in composizioni incredibili. Quando ottenne un risultato che lo lasciava soddisfatto, indossò una cuffia e vi inserì l'audio, brevi brani di musica e dialoghi. Poi lo riprodusse dall'inizio e annuì, soddisfatto. I suoi sforzi avevano prodotto trenta secondi di storia che avrebbero tenuto gli spettatori attaccati allo schermo, lasciando loro l'impressione che le Truppe Imperiali giapponesi avessero sconfitto brutalmente una rivolta filo Repubblicana a Mazatlan, e che i Californiani di tutte e cinque le province si stessero radunando per portare aiuto ai loro oppressi fratelli e sorelle del sud. Niente del genere era veramente accaduto, ovviamente, ma se un numero sufficiente di persone pensava che fosse vero, lo sarebbe potuto diventare. Sono cose che succedono. Ed era per il bene di tutti, dopotutto, perché avrebbe messo in movimento certe forze che erano necessarie. Lui credeva che la democrazia fosse il miglior sistema di governo possibile, ma aveva imparato da tempo che il governo del popolo funzionava di rado, perché la gente era così stupida. Ma andava bene così, tuttavia. Se una bellissima auto d'epoca non funzionava, potevi sempre legarla a un mezzo più efficiente e trainarla, facendo finta che muovesse di volontà propria. Se alla fine arrivava comunque dove volevi che andasse, che differenza faceva? Inviò il pezzo alla distribuzione globale e iniziò a lavorare su un altro, fatti di per sé insignificanti ma presentati in modo da costruire un'immagine deprecabile del trattamento riservato dal Commonwealth Canadese ai propri vicini Nativi Americani sul problema delle miniere di ghiaccio. Quando ebbe completato i circa dieci secondi di amalgama visivo, tuttavia, un immortale in abito grigio entrò nella stanza, portando con sé una scatola di dischi. – Capo? Questi sono i messaggi provenienti da Ceylon Central. Vuole vederli prima o dopo la sua cavalcata? – Accidenti, è già così tardi, eh? – disse il giovane, gettando uno sguardo al diagramma temporale che occupava l'angolo in basso a sinistra del monitor. – Lasciali pure qui, Quint. Li vedrò questa sera. – Sì, signore. – L'immortale fece un inchino, appoggiò la scatola e uscì. Il giovane si alzò, si stiracchiò e attraversò la stanza, diretto alla sua suite.
Da sotto la sedia uscì un cagnolino, che era rimasto lì a dormire tutto il tempo, e lo seguì assonnato. Dietro le finestre, la vista era più o meno la stessa da circa quattro secoli: il profilo selvaggio e incontaminato delle montagne di Santa Lucia che si estendeva in tutte le direzioni a perdita d'occhio, a parte verso ovest, dove il mare era azzurro e calmo. Gli speculatori erano stati bloccati. Ci aveva pensato lui. Si cambiò, indossando la tenuta da equitazione, poi si fermò a pettinarsi i capelli davanti allo specchio. Andare a cavallo era un tipo di sfruttamento animale illegale, e lui lo sapeva bene, visto che era stato proprio lui a spingere i legislatori in quella direzione. Era una buona cosa che alla gente malvagia non fosse più consentito di andarsene in giro galoppando su povere bestie sudate. Lui le amava, invece, ed era un fantino attento e gentile, ed era per quel motivo che a lui quelle leggi pubbliche non si applicavano. Si girò, volgendo le spalle allo specchio, e si trovò davanti al ritratto di Marion, la ragazza sorridente dei suoi sogni, per sempre giovane, felice e sobria. Le rivolse un leggero inchino cortese e le mandò un bacio. Tutte le persone che amava erano ormai al sicuro, oltre i cambiamenti. A parte il suo cane: stava invecchiando. Era sempre così, ovviamente. C'erano alcune cose che neppure la Compagnia poteva prevenire, per quanto fosse utile. Dal cortile, delle voci giunsero fino a lui. – ... perché quando il governo è collassato, ovviamente i Servizi del Parco non avevano più denaro – stava spiegando una guida turistica. – Per un po' sembrò che il popolo della California fosse sul punto di perdere la Cuesta Encantada, che stava per finire nelle mani di investitori stranieri. I tesori d'arte venivano messi all'asta, a uno a uno. Quanti di voi ricordano quella sceneggiatura d'epoca che fu ritrovata in quel vecchio mobile? Qualche anno fa, durante il revival della vecchia Hollywood? Il giovane venne distratto dai suoi pensieri assorti. Con un sorriso, si avvicinò alla finestra bifora e guardò in basso verso il gruppo di turisti radunati di sotto. Il cane lo seguì e lui lo prese in braccio, iniziando a grattargli la testa in mezzo alle orecchie, mentre ascoltava. La guida continuò: – Ebbene, quel vecchio scrigno proveniva da qui! Sappiamo che Rodolfo Valentino era un amico di Marion Davies, e pensiamo che lo abbia lasciato qui durante una visita, e in qualche modo sia finito chiuso dentro lo scrigno e dimenticato fino a che il mobile non è
stato messo all'asta e i nuovi proprietari hanno aperto lo scomparto segreto. Uno dei turisti sollevò la mano. – Ma se tutto è stato venduto... – No, vedete, all'ultimo momento è successo una specie di miracolo – disse la guida, sorridendo. – William Randolph Hearst ha avuto cinque figli, come sapete, ma la gran parte dei loro discendenti hanno lasciato la California. È venuto fuori che uno di loro viveva in Europa. È davvero molto ricco e quando ha scoperto che il Castello era stato messo in vendita, è volato fino in California per proporre un affare alla Repubblica. Ha acquistato il castello, ma ha detto che avrebbe consentito al popolo della California di visitarlo per godere della sua bellezza. – Quanto è ricco? – chiese uno dei visitatori, curioso. – Nessuno sa esattamente quanti soldi abbia – disse la guida, dopo un attimo, leggermente imbarazzata. – Ma siamo tutti molto grati all'attuale signor Hearst. In verità, ha anche arricchito la collezione di oggetti d'arte che state per vedere e, anche se a certa gente non va giù l'idea, sta progettando di continuare a costruire qui. – Possiamo conoscerlo? – chiese un altro. – Oh, no. È un uomo molto riservato – disse la guida. – E molto impegnato, anche. Ma adesso avrete modo di godere della sua ospitalità, visto che ci recheremo nel Refettorio per un pranzo a buffet. Avete tutti il vostro buono pasto? Allora seguitemi all'interno, per favore. E ricordate di restare all'interno dei cordoni di velluto... Gli ospiti entrarono ordinatamente, felici ed eccitati. Il giovane li osservò dall'alto della sua finestra. Appoggiò il cagnolino sul letto, gli disse di stare seduto, poi lasciò la stanza attraverso una scala privata che lo portò fin nel giardino. Gli piaceva avere ospiti. Gli piaceva guardarli da lontano, vedere il loro volto illuminarsi mentre osservavano a bocca aperta la casa, mentre condividevano la bellezza di quella meravigliosa casa e tutte le sue delizie. Gli piaceva far felici i mortali. Gli piaceva anche guidare le loro vite. Non aveva alcun dubbio sulla propria abilità di guidarli, o sulla saggezza dei suoi piani a lungo termine per l'umanità. Inoltre, era divertente. In realtà, rifletté, era uno dei pochi piaceri che rendeva la vita eterna degna d'essere vissuta. Si fermò per un attimo all'ombra delle antiche querce e si guardò intorno, rivolgendo uno dei suoi terribili sorrisi al mondo che stava plasmando con le sue stesse mani.