JOE R. LANSDALE BUBBA HO-TEP
(Bubba Ho-Tep, 2003) Dedicato a Chet Williams Elvis sognò di essere con l'uccello in mano,...
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JOE R. LANSDALE BUBBA HO-TEP
(Bubba Ho-Tep, 2003) Dedicato a Chet Williams Elvis sognò di essere con l'uccello in mano, intento a controllare se il bubbone sulla cappella si fosse riempito di pus un'altra volta. Se così fosse stato, avrebbe chiamato il bubbone Priscilla, come la sua ex moglie, e con una bella sega lo avrebbe fatto scoppiare. Be', almeno gli piaceva pensare che l'avrebbe fatto. I sogni ti consentono di pensarla a quel modo. Il fatto è che erano anni che non aveva un'erezione. Quella troia di Priscilla. Una nuova acconciatura e sparisce solo perché lo aveva sorpreso mentre si scopava una pettoruta cantante di gospel. Non che gliene fregasse molto della cantante. Priscilla avrebbe dovuto capirlo. Perché dunque fare tante storie? Forse perché lei non riusciva a prendere una nota altrettanto acuta e perfetta mentre stava venendo? E poi, quand'era successo? Quando se n'era andata Priscilla? Ieri? L'anno scorso? Dieci anni fa? Dio! Se ne rese conto all'improvviso mentre si destava dal sonno come uno stronzo molle espulso da un grosso buco di culo. Infatti faceva fatica a pensare a se stesso o alla vita in un contesto che non fosse la fogna, visto che spesso era troppo stanco per evitare di farsela addosso nel sonno, svegliarsi in un mare di piscio o di merda, in attesa che le infermiere o gli assistenti venissero a pulirgli il culo. In quel momento se ne rese conto. Tutto d'un tratto si accorse che erano anni che lo davano per morto e ancor di più che Priscilla lo aveva lasciato. E, a ogni buon conto, quanti anni aveva Priscilla? Sessantacinque? Settanta? E quanti anni aveva lui? Cristo! Era quasi convinto di essere troppo vecchio per essere ancora in vita e quindi doveva essere morto ma non ne era abbastanza convinto, sfortunatamente. Sapeva dove si trovava in questo momento e, in quell'attimo di lucidità, desiderò con tutto il cuore di essere morto. Era peggio che essere morto.
Dall'altra parte della stanza, il suo compagno di camera, Thomas il Toro, urlò, tossì e si lamentò per poi ripiombare in un sonno agitato mentre il cancro gli divorava l'intestino come un ratto intrappolato dentro un cocomero. Il grido di dolore, rabbia e indignazione rivolto da Thomas agli anni e alla malattia che incalzavano era l'unica cosa da toro che gli restasse; ma Elvis aveva visto delle sue fotografie da giovane e Thomas era certamente stato un toro. Torace ampio, viso squadrato e alto di statura. Probabilmente aveva pensato di essere immortale e di poter vivere felice per sempre. Un cazzone perennemente arrapato, grande bevitore e trangugiatore di pastiglie fino alla fine dei tempi. Ora il Toro si era fatto piccolo, poco più di un pallido ammasso rinsecchito di pelle nel quale, di quando in quando, pulsava quel sangue di cui il carcinoma si nutriva. Elvis afferrò il pulsante di sollevamento del letto e si mise a sedere. Diede un'occhiata a Thomas. Il Toro respirava affannosamente, alzando e abbassando i ginocchi ossuti come se stesse pedalando su una bicicletta; le rotule si pungolavano flebilmente contro il lenzuolo, a guisa di tende canadesi che si alzavano ripetutamente per afflosciarsi subito dopo. Elvis abbassò gli occhi sul lenzuolo steso sui suoi ginocchi secchi. Pensò: Mio Dio, da quanto tempo mi trovo in questo posto? Sono sveglio oppure sto sognando? È possibile che i miei piani siano falliti fino a questo punto? Quando mi serviranno il pranzo? E poi, considerato quello che servono, perché preoccuparmene? Se Priscilla scoprisse che sono vivo, verrebbe a trovarmi, desidererebbe vedermi, e noi avremmo ancora voglia di scopare oppure dovremmo limitarci a parlarne? Per farla breve, si può dire che la vita non sia solo mangiare, cagare e scopare? Elvis spinse giù il lenzuolo per fare ciò che aveva fatto in sogno. Si sollevò il camice, si piegò in avanti e si esaminò l'uccello. Era raggrinzito e piccolo. Non aveva l'aspetto di qualcosa che avesse bombardato le passere di un esercito di attricette cinematografiche o che ne avesse colmato le bocche come fosse un enorme zucchino o che vi avesse pompato un carico di sperma schiumoso come la glassa del pasticcere. L'aspetto più sano del suo fringuello era quel bubbone rosso con intorno un alone nero e con un punto bianco al centro, gonfio di pus. Fatto sta che se il bubbone non la smetteva di crescere avrebbe dovuto mettere una sedia di fianco al letto, con un cuscino su cui il bubbone avrebbe ricavato un giaciglio per la notte. In quel dannato bubbone c'era più pus di quanta sborra ci fosse nei suoi
coglioni. Già. Il vecchio pisello non era più un cannone di carne da scaricare su una bella gnocca. Era un'inezia. Era troppo piccolo da raccogliere: stava marcendo sulla vite. Le sue palle erano due acini scuri, quasi putrefatti, troppo flaccidi perché vi si potesse spremere del nettare vitale. Aveva le gambe dure e incartapecorite, i piedi troppo grandi e pieni di vene varicose e la pancia gonfia al punto da risultargli doloroso piegarsi in avanti per esaminarsi l'uccello e le palle. Abbassandosi il camice e tirandosi su il lenzuolo, Elvis si appoggiò con la schiena e desiderò di avere tra le mani un panino al burro di noccioline e alla banana fritto nel burro. C'era stato un tempo in cui lui e la sua banda sarebbero saliti sul suo jet privato e sarebbero volati sull'altra sponda del paese solo per mangiarsi un panino al burro di arachidi e alla banana, fritto apposta per loro. Ne sentiva ancora il dannato sapore. Elvis chiuse gli occhi e pensò che si sarebbe svegliato da un brutto sogno ma così non fu. Riaprì gli occhi lentamente e vide che si trovava ancora dov'era prima e che le cose non erano migliorate. Si sporse in avanti, aprì il cassetto del comodino, ne estrasse uno specchietto rotondo e si esaminò. Era uno spettacolo orrendo. Aveva i capelli bianchi come il sale ed era terribilmente stempiato. Aveva delle rughe profonde abbastanza da nascondere dei lombrichi in tutta la loro lunghezza, quelli grandi, quelli che strisciavano di notte. Le labbra carnose non erano più carnose. Sembravano la pappagorgia di un bulldog, da tanto che sbavava. Si trascinò la stanca lingua da una parte all'altra delle labbra per asciugarsi la bava e si accorse, guardandosi allo specchio, che gli mancavano un bel po' di denti. Maledizione! Come aveva fatto il Re del Rock'n'Roll a ridursi così? Un vecchio in una casa di riposo nel Texas orientale con un'escrescenza sull'uccello? E poi cos'era quell'escrescenza? Un cancro? Nessuno si esprimeva. Probabilmente nessuno ci capiva nulla. Forse quel bitorzolo era un segno dei peccati commessi in vita, molti dei quali commessi proprio con l'uccello. Ci rifletté sopra. Quella domanda se la faceva tutti i giorni oppure una volta ogni tanto? Il tempo sostanzialmente non prevedeva soluzioni di continuità quando passato, presente e futuro erano tutti uguali. Merda! Quand'era l'ora del pranzo? Si era forse addormentato, scordandosene? Era forse di nuovo l'ora della sua infermiera? Quella carina con la pelle liscia color cioccolato e le tette simili a pompelmi? Quella che veniva a la-
varlo con la spugna, che gli prendeva il pisellino nella mano guantata e spalmava una pomata sul bubbone ulceroso con tutto l'entusiasmo di un meccanico impegnato a ingrassare una parte difettosa? Sperava di no. Quella era la cosa peggiore. Una bambola del genere che si occupava di lui senza nessun trasporto o sentimento. Vent'anni prima, solo vent'anni prima, gli sarebbe bastato farle un bel sorriso arricciando le labbra e lei si sarebbe fatta fare qualsiasi cosa. Dov'era finita la sua giovinezza? Perché la fama non aveva retto alla vecchiaia e alla morte e perché, soprattutto, lui aveva abbandonato la fama? La desiderava ancora e poteva riaverla e, se avesse potuto riaverla, avrebbe fatto differenza? E, per finire, una volta che i visceri della vita lo avessero evacuato nella tazza del cesso dell'aldilà e una volta che fosse stato tirato lo sciacquone, la grande fogna lo avrebbe fatto scivolare là dove Dio - nelle vesti di un enorme stronzo che tutto vede con i suoi occhi simili a chicchi di mais - lo attendeva a braccia merdosamente aperte? E nello scarico della fogna ad attenderlo ci sarebbero stati sua madre (benedetto il suo cuoricino grassottello), suo padre e gli amici, con panini al burro di arachidi e alla banana e con coni gelato, ovviamente predigeriti? Stava riflettendo su tutto ciò e stava facendo considerazioni sulla vita nell'aldilà, quando il Toro emise un cazzo di urlo, gonfiò gli occhi fin quasi a farseli schizzare fuori dalle orbite, inarcò la schiena, proruppe in una scoreggia lorda simile a uno squillo della tromba dell'arcangelo Gabriele, e firmò le dimissioni della sua stanca, vecchia anima dalla Gasa di Riposo di Shady Rest, presso il Mud Creek; tirò lo sciacquone e la fece approdare nel merdoso aldilà. Più tardi, sempre quel giorno, Elvis rimase a letto in preda al sonno. Dalle sue labbra fuoriuscì il cattivo sapore del pranzo - zucchini al vapore e piselli bolliti - direttamente dall'intestino. Si svegliò udendo un rumore, si girò su un fianco giusto per vedere una giovane donna, di piacevole aspetto, intenta a pulire il cassetto del comodino del Toro. Le tende sulla finestra vicino al letto del Toro erano completamente aperte e da lì la luce del sole penetrava nella stanza, mettendo ben in evidenza la donna. Era bionda e aveva tratti nordici. Aveva i capelli raccolti dietro la nuca da un bel nastro rosso e portava grandi orecchini d'oro che scintillavano alla luce del sole. Indossava una blusa bianca e una gonna nera corta, calze scure e tacchi alti. I tacchi le facevano salire il culo sotto la gonna, come molli testo-
line di neonati prive di capelli sotto una coperta sottile. Aveva una grande pattumiera di plastica gialla e uno dei cassetti del comodino di Thomas era aperto. Lei ci stava frugando dentro, come una gazza in cerca di oggetti luccicanti. Trovò qualche moneta, un coltellino da tasca, un orologio di scarso valore. Li estrasse e li mise sopra il comodino poi, non senza far rumore, gettò nella pattumiera ciò che restava del cassetto - le foto del Toro da giovane, una vecchia scatola di preservativi (al Toro non aveva mai fatto difetto l'ottimismo), una stella di bronzo e un cuore di porpora, eredità delle sue ultime gesta nella Guerra del Vietnam. Elvis afferrò il comando per alzare il letto e si rizzò per poter guardare meglio. In quel momento la donna gli dava la schiena e non se ne avvide. Stava rimettendo a posto il cassetto e ne stava tirando fuori un altro. Era pieno di indumenti. Ne estrasse camicie, pantaloni, calze e biancheria intima e posò tutto sul letto del Toro - ora rifatto e privo del Toro, che era stato spedito da qualche parte per l'imbalsamazione, mummificazione, cremazione o quant'altro. «La butta, quella roba?» chiese Elvis. «Potrei avere una di quelle foto del Toro? Magari anche quel cuore di porpora? Ne andava fiero.» La giovane donna si voltò e lo guardò. «Penso di sì», disse. Si avvicinò alla pattumiera, si piegò e, mentre ci frugava dentro, mostrò le mutandine nere a Elvis. Elvis sapeva che avergli fatto vedere le mutandine non era stato né intenzionale né non intenzionale. Semplicemente non gliene poteva fregare di meno. Per lei Elvis non rappresentava una minaccia fisica e sessuale, dunque non le dava fastidio che lui godesse di una bella vista panoramica sul suo corpo; lo considerava alla stregua di un gatto di appartamento che dia una sbirciatina. Elvis osservò le mutandine sottili, sottoposte a tensione, scivolare nei recessi delle sue chiappe e provò un isolato brivido all'uccello, proprio come un volatile in preda a un attacco di cuore; poi si abbassò, si ammosciò e non diede più segni di vita. Comunque, di questi tempi persino un brivido era un fatto rassicurante. La donna emerse dalla pattumiera con una foto e il cuore di porpora, si diresse al letto di Elvis e glieli consegnò. Elvis si fece ciondolare tra le mani il nastro che teneva il cuore di porpora e disse: «Il Toro è un suo parente?» «Mio babbo», rispose. «Non l'ho mai vista prima.» «C'ero venuta solo una volta prima», disse. «Quando l'ho accompagnato
qui.» «Ah», disse Elvis. «Tre anni fa, dev'essere stato, giusto?» «Già. Eravate amici voi due?» Elvis soppesò la domanda. Non sapeva davvero cosa rispondere. L'unica cosa che potesse dire era che il Toro lo stava ad ascoltare quando diceva di essere Elvis e che sembrava credergli. Se aveva finto di credergli, almeno aveva avuto la delicatezza di trattarlo con condiscendenza. Il Toro lo chiamava sempre Elvis e, finché la salute glielo aveva concesso, giocava sempre a carte e a dama con lui. «Eravamo solo compagni di stanza», disse Elvis. «Stava troppo male per parlare. Odiavo vedere ciò che restava di lui spegnersi con tanta facilità. Ma era un bravo ragazzo. Parlava spesso di lei. Lei è Callie, vero?» «Sì», disse. «Già... era buono.» «Però, non è che lei sia venuta tanto spesso a trovarlo...» «Non cerchi di farmi sentire in colpa, signore. Ho fatto quello che potevo. Non fosse stato per il Sistema Assistenziale Federale, per la Previdenza pubblica, o quello che era, sarebbe finito in una fossa da qualche parte. Non avevo i soldi per occuparmi di lui.» Elvis pensò a sua figlia, quella figlia che non vedeva da tanto tempo. Se avesse saputo che lui era vivo, sarebbe venuta a trovarlo? Le sarebbe importato qualcosa di lui? Aveva paura di conoscere la risposta. «Poteva venire a trovarlo», disse Elvis. «Avevo da fare. E si faccia gli affari suoi, signore. Ha capito?» Entrò l'infermiera dalla carnagione color cioccolato e dalle tette come pompelmi. Il crepitio della sua uniforme bianca era lo stesso di quando si fanno le carte. Sulla sua testa il cappellino da infermiera aveva un'inclinazione che la diceva lunga sul suo amore per l'umanità, sul fatto che guadagnasse bene e che prendesse l'uccello regolarmente. Sorrise a Callie e poi a Elvis. «Come sta oggi, signor Haff?» «Bene», disse Elvis. «Ma preferirei mi chiamasse signor Presley, oppure Elvis. E una vita che glielo ripeto. Non mi faccio più chiamare Sebastian Haff. Non cerco più di nascondermi.» «Certo», disse la bella infermiera. «Ne ero al corrente. Me l'ero scordato. Buon giorno, Elvis.» La sua voce grondava sciroppo di sorgo. Elvis avrebbe voluto colpirla con la padella. L'infermiera si rivolse a Callie: «Non lo sapeva che abbiamo una celebrità qui, signorina Jones? Elvis Presley. Lo conosce, vero? Il cantante di
Rock'n'Roll... «L'ho sentito nominare», disse Callie. «Pensavo fosse morto.» Callie tornò alla cassettiera e si accucciò per lavorare vicino al cassetto più basso. L'infermiera guardò Elvis e sorrise di nuovo ma si rivolse a Callie. «In effetti Elvis è morto e il signor Haff lo sa bene. Non è vero, signor Haff?» «No, cazzo!» sbottò Elvis. «Sono qui. Non sono morto, non ancora.» «Senta, signor Haff, io non ho niente contro il fatto di chiamarla Elvis, ma mi sembra che lei abbia le idee un po' confuse oppure che le piacciano i giochini. Lei era un sosia di Elvis. Se lo ricorda? È caduto dal palco e si è rotto l'anca. Quand'è stato... vent'anni fa? Si è preso un'infezione ed è stato in coma per alcuni anni. Quando è uscito dal coma... aveva qualche problemino.» «Ero il sosia di me stesso», disse Elvis. «Non avrei potuto fare nient'altro. Non ho nessun problema. Sta forse cercando di dire che non mi funziona più il cervello?» Callie smise di svuotare il cassetto inferiore del comodino. Ora il discorso si era fatto interessante per lei ed Elvis non poté fare a meno di cercare di spiegarle ancora una volta chi era, ma invano. La spiegazione era diventata un'abitudine, proprio come desiderare di fumarsi un sigaro molto tempo dopo la scomparsa del piacere di farlo. «Alla fine mi sono stancato di tutto», disse. «Mi drogavo, sa... Volevo uscirne. C'era un tizio di nome Sebastian Haff, un imitatore di Elvis, il migliore. Ha preso lui il mio posto. Aveva problemi di cuore e anche a lui piacevano le droghe. E stato lui a morire, non io. Io ho preso il suo posto.» «Perché mai avrebbe voluto lasciare tutta quella fama», disse Callie, «tutti quei soldi?» e guardò l'infermiera come per dire Accontentiamo questo vecchio bastardo e facciamoci due risate. «Perché ero stanco di tutto. La donna che amavo, Priscilla, se n'era andata. Le altre donne... erano solo donne. La musica non la sentivo più mia. Nemmeno io ero più me stesso. Ero solo un fantoccio. Gli amici mi stavano spremendo come un limone. Me ne sono andato e non mi è dispiaciuto. Ho lasciato tutti i soldi a questo Sebastian, a eccezione di una riserva che potesse sostenermi se me la fossi vista brutta. Io e Sebastian abbiamo fatto un patto. Se fossi voluto tornare, lui me lo avrebbe permesso. Era tutto scritto in un contratto, nel caso volesse fare il furbo, nel caso si affezionasse troppo alla mia vita. Il fatto è che la mia copia del contratto è andata persa nell'incendio della roulotte. Conducevo un'esistenza molto nor-
male. Come quella che aveva condotto Haff. Mi spostavo di città in città per fare lo spettacolino di Elvis. Solo che mi sentivo di nuovo me stesso. Mi credete?» «Le crediamo, signor Haff... signor Presley», disse la bella infermiera. «Cantavo come ai vecchi tempi. Facevo delle canzoni nuove. Canzoni scritte da me. L'attenzione che ricevevo era su scala ridotta ma mi piaceva. Le donne si gettavano tra le mie braccia immaginando di stare tra le braccia di Elvis solo che io ero davvero Elvis e giocavo a fare Sebastian Haff che giocava a fare Elvis... Non mi dispiaceva affatto. Non me ne fregava niente se il contratto era andato perso. Non ho nemmeno cercato di tornare là e di convincere nessuno. Poi ho avuto l'incidente. Come stavo dicendo, avevo messo da parte un po' di soldi nell'eventualità di una malattia, o altre cose del genere. E con quei soldi che sto pagando la degenza qui. In questa elegante struttura!» «Bene, Elvis», disse l'infermiera. «Non esageri. Rischia di uscire di qui e di non poter tornare.» «Fanculo!» disse Elvis. L'infermiera sghignazzò. Merda, pensò Elvis. Invecchi e non puoi neanche mandare al diavolo qualcuno senza che ci rida sopra. Tutto quello che dici è 'mutile oppure tristemente divertente. «La vuol sapere una cosa, Elvis?» disse l'infermiera carina. «Qui abbiamo anche un signor Dillinger. E un Presidente Kennedy. Dice che la pallottola l'ha solo ferito e che il suo cervello è conservato in un barattolo di vetro alla Casa Bianca, collegato a una batteria tramite dei cavi: fintanto che la batteria funziona, lui può andarsene in giro senza. Senza il cervello, intendevo dire. Dice che tutti quanti hanno partecipato al suo tentato omicidio. Persino Elvis Presley.» «Testa di cazzo!» proruppe Klvis. «Non sto cercando di ferirla nei sentimenti, signor Haff», disse l'infermiera. «Sto solo cercando di ricondurla alla realtà.» «La realtà se la può infilare dritta nel suo bel culo nero», disse Elvis. L'infermiera fece una risatina. «Signor Haff! Che frasario!» «Che cosa l'ha portata qui?» chiese Callie. «Diceva di essere caduto da un palco...» «Stavo facendo roteare le anche», disse Elvis. «Stavo cantando Blue Moon, ma mi è uscito il bacino. Era un po' che avevo dei problemi con il bacino.» Ed era sostanzialmente vero. Se l'era lussato facendo l'amore con
una vecchia signora dalla chioma bluastra che si era fatta tatuare la parola ELVIS sul culo grasso. Non era riuscito a trattenersi e se l'era scopata. Assomigliava a sua mamma Gladys. «E, ancheggiando, è finito giù dal palco?» chiese Callie. «Molto sexy!» Elvis la guardò. La donna stava sorridendo. La divertiva molto starsene ad ascoltare un vecchio rimbambito che raccontava una storiella. Non si divertiva tanto dal giorno in cui aveva messo il suo vecchio nella casa di riposo. «Cazzo! Lasciatemi in pace», disse Elvis. Le donne si scambiarono un sorriso complice che Elvis non riuscì a comprendere. Callie disse all'infermiera: «Ho quello che voglio.» Fece scivolare nel borsellino gli oggetti luccicanti posati sul comodino di Bull. «Gli indumenti potete darli a un ente di beneficenza o all'Esercito della Salvezza.» La bella infermiera fece un cenno di assenso a Callie. «Molto bene. Mi dispiace molto per suo padre. Era una persona gentile.» «Già», disse Callie e fece per uscire dalla stanza. Si fermò ai piedi del letto di Elvis. «È stato un piacere, signor Presley.» «Fuori di qui, dannazione!» «Si calmi, si calmi», disse la bella infermiera, dandogli un colpetto sul piede sotto la coperta, come se si trattasse di un cagnolino tignoso. «Tornerò dopo per fare quella... quella cosina che va fatta. Capito di cosa sto parlando?» «Sì, certo», disse Elvis, a cui la parola "cosina" non piaceva. A quel punto, Callie e l'infermiera si avviarono, castigandolo con i tratti armoniosi dei loro visi e la lucentezza delle loro chiome, i movimenti scattanti dei loro culi e delle loro tette. Una volta che furono sparite alla vista, nel salone, Elvis le udì ridere di qualcosa. Poi se ne andarono definitivamente e per Elvis fu come essersi trovato senza una giacca sul lato lontano di Plutone. Sollevò il nastro a cui era attaccato il cuore di porpora e lo osservò. Povero Thomas il Toro. Alla fine, c'era qualcosa che realmente avesse un senso? Nel frattempo... La Terra turbinò intorno al sole come uno stronzo ruotante nella tazza del cesso (giusto per stare al passo con le metafore di Elvis) e la vecchia, maltrattata Terra scattò sul proprio asse e il buco nell'ozono si ampliò
sempre più, come una signora timida impegnata a tenersi aperta la passera con le dita, e gli alberi dell'America del Sud, che esistevano da secoli, furono frequentati da escavatrici, motoseghe e cose del genere, e si librarono sotto forma di nere cortine di fumo che si allargavano e si dissolvevano, a Londra scoppiarono bombe dell'IRA e in Medio Oriente la guerra non cessò. In Africa i neri morirono di fame, il virus dell'HIV ne infettò un altro milione, i Dallas Cowboys persero un'altra volta e quella Vecchia Luna Blu che Elvis e Patsy Cline avevano celebrato così bene con il loro canto fece oscillare la terra e si avvicinò per poi posarsi sulla Casa di Riposo di Shady Grove, schiarì la notte con la sua luce dolce-amara, azzurroargentea, come il raggio di una torcia elettrica che traspaia dalla chioma bluastra di una signora e, all'interno dell'ospizio, il male se ne andò a spasso come un papero in cerca di un posto in cui accucciarsi, ed Elvis si rigirò nel sonno e si svegliò con un intenso desiderio di pisciare. Bene, pensò Elvis. Stavolta ce la faccio. Basta pisciare e cagare nel letto. Le ultime parole famose... Elvis si mise a sedere e lasciò penzolare i piedi sul lato del letto. Il letto oscillò troppo a sinistra e fece il giro del soffitto e poi tornò al punto di partenza e smise di muoversi. I capogiri passarono. Elvis osservò il deambulatore e sospirò. Si sporse in avanti, afferrò le maniglie e si sollevò dal letto e, spingendo in avanti i puntali rivestiti di gomma, si avviò verso il bagno. Era impegnato a mungersi il grillo gonfio di pus quando udì un rumore nel corridoio. Un rumore simile a quello di un grosso ragno che scorrazza in una scatola piena di ghiaia. Dal corridoio provenivano sempre dei rumori, c'era sempre un viavai di gente, grida di dolore e confusione ma, a quell'ora della notte, le tre, di solito tutto taceva. Non gliene sarebbe dovuto importare, fatto sta che adesso che era in piedi e che era riuscito a pisciare nel vaso, non aveva più sonno; stava ancora pensando a quella bambola di Callie e all'infermiera (come diavolo si chiamava?) dalle tette come pompelmi e a tutto ciò che avevano detto. Elvis spinse il deambulatore a ritroso e uscì dal bagno, lo voltò e si avviò lungo il corridoio. Era nella semioscurità, con poche luci tenute accese su una sbiadita tinta tuorlo d'uovo. Il pavimento di piastrelle bianche e nere sembrava un'enorme scacchiera, lavata e lucidata per la prossima partita
della vita, e lui se ne stava lì, come un pedone semi-paralitico, pronto a essere sacrificato. Nell'ala più lontana della Casa di Riposo, la Vecchia Signora McGee, meglio nota da quelle parti come La Cantante di Yodel, si lasciò andare in uno dei suoi famosi gorgheggi (asseriva di aver cantato in un'orchestra Country & Western, da giovane), per poi smettere bruscamente. Elvis manovrò il deambulatore e proseguì. Era una vita che non metteva piede fuori dalla sua stanza. A dire il vero non era praticamente mai sceso dal letto. Quella sera si sentì tonificato perché non aveva pisciato nel letto e così sentì quel suono nuovamente, il ragno nella scatola piena di ghiaia. (Un bel ragnaccio. Una bella scatola. Un bel po' di ghiaia.) Capire da dove provenisse quel suono gli diede qualcosa da fare. Elvis girò l'angolo. Gocce di sudore gli schizzarono dalla fronte come vesciche da ustione. Cristo! In quel momento non si sentiva tonico. Pensare a quanto si sentisse tonico lo aveva sfinito. Tuttavia, non aveva una gran voglia di tornarsene a letto nella sua stanza in attesa del mattino, per poi aspettare l'ora di pranzo, poi il pomeriggio e la notte. Passò accanto alla camera di Jack McLaughlin, il tizio che era convinto di essere John F. Kenndy e che pensava che il suo cervello stesse alla Casa Bianca e che fosse caricato a batterie. La porta della stanza di Jack era aperta. Elvis diede una sbirciata, proseguendo. Sapeva fin troppo bene che Jack non avrebbe avuto molta voglia di vederlo. A volte accettava Elvis in quanto vero Elvis e, quando lo faceva, era spaventato e diceva che Elvis era il mandante del suo assassinio. In effetti Elvis sperava di sentirsi così quella notte. Almeno, sarebbe equivalso ad ammettere che lui era quello che era, nonostante quel riconoscimento fosse il terribile grido di uno svitato. Ma certo, pensò Elvis, forse sono pazzo pure io. Forse io sono Sebastian Haff sono caduto giù dal palco e mi sono rotto ben più dell'anca, ho picchiato una parte del cervello tanto da perdere la consapevolezza di me stesso e da ritenere di essere Elvis. No. Non riusciva a crederci. Era proprio quello che loro volevano fargli credere. Volevano che si convincesse di essere pazzo e di non essere Elvis bensì solo un vecchio stronzo che un tempo aveva in parte vissuto la vita di un altro perché lui non aveva una vita da vivere. Non lo avrebbe accettato. Non era Sebastian Haff. Era quel maledetto figlio di puttana di Elvis Aa-
ron Presley e aveva un foruncolo sull'uccello. Ovviamente era convinto, forse doveva essere convinto, che Jack fosse John F. Kennedy e che Mums Delay, un altro ospite della Casa di Riposo, fosse Dillinger. O forse no. Non è che ci fosse una grande abbondanza di prove. Per lo meno lui a Elvis gli assomigliava: un Elvis invecchiato e malato. Jack era afroamericano - sosteneva che l'autorità costituita lo avesse tinto di nero per tenerlo nascosto - e Mums era una donna convinta di aver subito un intervento che le aveva cambiato il sesso. Cristo santo! Era un ospizio o un manicomio? La stanza di Jack era speciale. Non doveva dividerla con nessuno. Da qualche parte gli arrivavano dei soldi. La stanza era piena zeppa di libri e di piccoli lussi. E nonostante Jack fosse in grado di camminare benissimo, aveva persino un'esclusiva sedia a rotelle elettrica sulla quale a volte se ne andava in giro. Una volta, Elvis lo aveva visto farci le impennate e i testacoda nel vialetto circolare esterno. Quando Elvis sbirciò nella camera di Jack, lo trovò coricato sul pavimento. Jack aveva il camice sollevato e arrotolato intorno al collo e, in quella luce fioca, il suo avvizzito culo nero sembrava fatto di liquirizia. Elvis immaginò che Jack stesse andando al cesso o che ci fosse stato e che fosse caduto. Forse gli aveva ceduto il cuore. «Jack», disse Elvis. Elvis entrò nella stanza con passo pesante, parcheggiò il deambulatore di fianco a Jack, inspirò profondamente e ne uscì, utilizzando uno dei due lati per sostenersi. Si inginocchiò vicino a Jack, nella speranza di riuscire a rialzarsi. Dio! Come gli facevano male i ginocchi e la schiena... Jack aveva un respiro affannoso. Elvis notò la cicatrice all'attaccatura dei suoi capelli. Una lunga cicatrice che rendeva la pelle più chiara, quasi grigia in quel punto. («È da lì che mi hanno estratto il cervello», era solito spiegare Jack, «per poi metterlo in quel cazzo di barattolo. Mi ci hanno messo un sacchetto di sabbia al suo posto...») Elvis toccò la spalla del vecchio. «Jack. Dico a te, stai bene?» Nessuna risposta. Elvis riprovò. «Signor Kennedy.» «Eh?» disse Jack (il signor Kennedy). «Ehi, amico. Sei sul pavimento», gli disse Elvis. «Dici sul serio? Tu chi cazzo sei?» Elvis esitò. Non era certo il momento per fare innervosire Jack. «Sebastian», disse. «Sebastian Haff.»
Elvis lo prese per le spalle e lo girò sulla schiena. Eu grosso modo difficile quanto far girare un rotolo di pan di spagna farcito di marmellata. Ora Jack era supino. Guardò Elvis di traverso. Pece per parlare, poi si fermò. Elvis afferrò il camice di Jack e riuscì in qualche modo a farglielo scendere sui ginocchi, nel tentativo di conferire un po' di dignità a quel vecchio stronzo. Finalmente Jack tornò a respirare normalmente. «Lo hai visto allontanarsi per il corridoio? È praticamente scappato via.» «Chi?» «Qualcuno che hanno mandato loro.» «Loro chi?» «Lo sai. Lyndon Johnson. Castro. Hanno mandato qualcuno a darmi il colpo di grazia. Credo fosse Johnson in persona. Davvero brutto. Ma schifosamente brutto!» «Johnson è morto», disse Elvis. «Non basterà a fermarlo!» disse Jack. In seguito quella mattina, con la luce del sole che si infilava nella sua stanza attraverso le veneziane, Elvis si mise le mani dietro la testa e rifletté sulla notte precedente mentre la graziosa infermiera nera dalle tette come pompelmi gli impomatava l'uccello. Aveva informato gli infermieri della caduta di Jack ed essi erano venuti a rimettere Jack a letto e lui sul suo deambulatore. Aveva fatto lentamente ritorno nella sua stanza (dopo una bella ramanzina per essersene andato in giro a quell'ora della notte), con la sensazione che un'atmosfera strana aleggiasse nella Casa di Riposo, un'atmosfera che solo il giorno prima non si era fatta sentire. In quel momento era a un punto basso, ma certo era ancora presente e ronzava come un generatore pronto a salire di una tacca praticamente senza preavviso. Ed era certo non fosse solo immaginazione. Il suono concitato che aveva udito la notte prima lo aveva udito anche Jack. Cos'era stato? Non era il rumore di un deambulatore, di uno storpio che si trascinava i piedi o di una sedia a rotelle. Si trattava di qualcosa d'altro e, ora che ci pensava, non erano esattamente le zampette di un ragno nel ghiaietto, piuttosto il rumore di un rotolo di filo spinato caduto sulle piastrelle. Elvis era così assorto in queste considerazioni che si era completamente scordato dell'infermiera finché quest'ultima disse: «Signor Haff!» «Sì...» disse e si accorse che l'infermiera stava sorridendo, guardandosi le mani. Le guardò anche lui. Lì, comodamente sistemato su uno dei suoi
palmi guantati, stava un enorme pisello ricoperto di vene blu, con un bubbone gonfio di pus grande quanto una noce americana. Si trattava del suo pisello e del suo bubbone gonfio di pus. «Vecchio mascalzone», disse lei mentre gli rimetteva delicatamente l'uccello fra le gambe. «Farebbe bene a farsi una doccia fredda, signor Haff.» Elvis era sbalordito. Era da molti anni che non aveva un'erezione del genere. Cos'era stato? Fu allora che si accorse di cos'era stato. Non che pensasse di non essere in grado di averne una. Stava pensando a qualcosa che lo interessava e ora quella cosa gli era scattata nella mente, insieme a vecchie memorie e pensieri confusi, preoccupazioni relative al prossimo pasto e al fatto di andare al cesso: gli era stata iniettata una nuova dose di vita! Sorrise all'infermiera mostrando le gengive e quei pochi denti che ancora gli restavano. «Mi farò la doccia se lei la fa insieme a me», le disse. «Sciocchino», rispose, abbassandogli il camice. Si tolse i guanti di plastica e li gettò nel cestino di fianco al letto. «Perché non me lo mena un po'?» chiese Elvis. «Dovrebbe vergognarsi», rispose l'infermiera, ma lo fece con il sorriso sulle labbra. Se ne andò, però lasciò la porta della stanza aperta. Ciò fu tutto sommato motivo di preoccupazione per Elvis che tuttavia pensò che l'ubicazione del letto fosse tale da risultare impossibile sbirciare dentro e, semmai qualcuno lo avesse fatto, tanto peggio. Non aveva nessuna intenzione di fornire lo spettacolo gratuito di una bella erezione per guardoni. Si tirò su il lenzuolo e infilò le mani sotto le coperte; poi si alzò il camice fin sopra la pancia. Si prese in mano il biscione e iniziò a schiacciarlo con una mano, facendo scorrere il pollice sul bubbone gonfio di pus. Con l'altra mano si massaggiò le palle. Pensò a Priscilla, alla bella infermiera nera, alla figlia di Bull e persino alla cicciona dai capelli turchini con la scritta ELVIS tatuata sulle chiappe e prese a menarselo con forza e velocità crescenti e... gli venisse un colpo se non gli diventava sempre più duro. Il bubbone sull'uccello fu il primo a scaricarsi con un'esplosione di pus caldo sulle sue cosce e poi fu la volta delle palle che lui pensava fossero irrimediabilmente vuote, piene invece di succo ed elettricità. Alla fine diede una bella frustata. La diga si ruppe e il succo iniziò a fluire. Udì se stesso urlare di piacere e avvertì un liquido caldo schizzargli sulle gambe, fino a inzaccherargli i grossi alluci. «Dio santo», disse sommessamente. «Che bello. Che bello!»
Chiuse gli occhi e si addormentò. E, per la prima volta dopo tanto tempo, non fu un sonno agitato. Mezzogiorno. Sala da pranzo della Casa di Riposo di Shady Grove. Elvis sedeva davanti a un piatto di carote e broccoli al vapore e di roastbeef sfilacciato. Un panino raffermo, un pezzetto di burro e un bicchiere non tanto grande di latte tenevano duro di fianco a lui. Il menu non ispirava particolarmente. Vicino a lui, la Cantante di Yodel si stava infilando una carota su per il naso nel bel mezzo della enunciazione di una teoria sui peccati di Dio, il Padre Celeste, colpevole di aver inguaiato la dolce Maria nel sonno dopo essersi infilato su per la sua cosina non lubrificata mentre lei russava. Benedetto il suo cuoricino! Lei nemmeno se n'era accorta; forse ne aveva ricavato un sussulto clitorideo, fatto sta che si era svegliata con la pancia piena di un bambino e non si ricordava di aver fatto nulla. Elvis quella storia l'aveva già sentita. Questo discorso su Dio stupratore una volta lo offendeva ma l'aveva sentito tante volte che ora non gli importava più. Lei continuò a blaterare. Dall'altra parte della sala, un vecchio che indossava una maschera nera e a volte pure uno Stetson bianco e che gli ospiti e il personale della Casa di Riposo conoscevano come Kemosabe fece fuoco con due pistole giocattolo spara-tappini (senza tappini) sul pavimento e ordinò a un cavallo invisibile di piegarsi cosicché lui potesse condurlo a casa. All'estremità più lontana del tavolo, Dillinger stava spiegando quanto whisky bevesse un tempo, quante sigarette fumasse prima di mozzarsi l'uccello alla base e di aprirvi un bel taglio in modo da diventare una lei e potersi nascondere camuffandosi da donna. Ora diceva di non pensare più a banche e mitragliatrici, donne e sigari costosi. Ora pensava a macchie e piatti, a colori di tende e tappezzeria che si armonizzassero con tappeti e pareti. Persino mentre di nuovo calava su di lui la depressione di quell'ambiente avvilente, Elvis continuò a pensare alla notte precedente, e diede un'occhiata a Jack (il signor Kennedy), che occupava la posizione di capotavola. Si accorse che il vecchio lo stava osservando, come se condividessero un segreto. L'umore di Elvis scese di una tacca; era un vero e proprio mistero quello che stava succedendo lì e, non appena fosse calata la notte, lui avrebbe investigato.
Fate ruotare il lato della Terra dove sta la Casa di Riposo di Shady Grove lontano dal sole e fate comparire la luna e le tonalità del blu. Spingete qualche nube trasparente nel perfido cielo nero. Ora lasciatevi condurre alle tre del mattino. Elvis si svegliò di soprassalto e girò la testa dalla parte dell'intruso. Jack era fermo vicino al letto a guardarlo. Indossava una giacca elegante sopra la vestaglia e portava spessi occhiali. Disse: «Sebastian. È in giro.» Elvis raccolse le idee, le mise insieme in un mosaico non troppo disordinato. «Che cosa è in giro?» «Lui», disse Jack. «Ascolta.» Elvis si mise in ascolto. Dal salone udì il rumore di passi della notte precedente. Quella notte gli fece venire in mente il rumore di ali di locuste che sbattevano all'interno di una scatoletta di cartone, con le punte che graffiavano il cartone, che lo tagliavano e lo strappavano. «Cristo santo, che cos'è?» chiese Elvis. «Pensavo fosse Lyndon Johnson ma non è così. Ho trovato nuove prove che indicano un altro assassino.» «Assassino?» Jack tese un orecchio. Il rumore si era spostato, si era fatto lontano, poi era sparito. «Stanotte la vittima è un'altra», disse Jack. «Seguimi. Voglio farti vedere una cosa. Non credo sia una buona idea che tu te ne torni a dormire.» «Cristo», disse Elvis. «Dillo agli amministratori.» «Quei fighetti...» disse Jack. «No grazie. Ho avuto fiducia in loro quand'ero a Dallas e guarda che fine abbiamo fatto io e il mio cervello. Qui dentro non ho altro che sabbia... forse rimane qualche onda nel mio cervello. Un giorno chi può dire che non decidano di staccarmi la batteria alla Casa Bianca?» «Un fatto di cui preoccuparsi effettivamente», disse Elvis. «Ascoltami», disse Jack. «Io lo so che tu sei Elvis e giravano delle voci... insomma sai cosa voglio dire... riguardo al fatto che tu mi odiassi ma ci ho riflettuto sopra. Se davvero mi avessi odiato, l'altra notte avresti potuto uccidermi. Tutto ciò che voglio è che tu mi guardi negli occhi e mi giuri che quel giorno a Dallas tu non c'entravi per niente e che non hai mai conosciuto Lee Harvey Oswald o Jack Ruby.» Elvis lo fissò con l'espressione più sincera che avesse. «Con Dallas non c'entro niente e non conosco Lee Harvey Oswald né Jack Ruby.»
«Bene», disse Jack. «Mi concedi di chiamarti Elvis invece che Sebastian?» «Concesso.» «Ottimo. Ti servono gli occhiali per leggere?» «Metto gli occhiali quando voglio vederci bene», disse Elvis. «Prendili e seguimi.» Elvis fece dondolare agevolmente il deambulatore in avanti ma ebbe la sensazione di non averne davvero bisogno quella sera. Era in preda all'eccitazione. Jack era un pazzo e forse anche lui lo era, ma un'avventura era in corso. Arrivarono al gabinetto del salone. Quello riservato ai visitatori maschi. «Qui dentro», disse Jack. «Aspetta un attimo», disse Elvis. «Non è che mi fai entrare lì dentro e poi cerchi di trastullarti con il mio uccello, vero?» Jack lo fissò. «Ehi, ho fatto l'amore con Jackie e Marilyn e un'infinità di altre donne e tu pensi che avrei voglia di trastullarmi con il tuo schifoso cazzo vecchio?» «Ben detto», disse Elvis. Entrarono nel bagno. Era grande e dotato di diverse cabine e urinali. «Laggiù», disse Jack. Si avvicinò a una delle cabine, ne aprì la porta con una spinta e si fece indietro, vicino alla comoda, per consentire al deambulatore di Elvis di farsi strada. Elvis entrò e osservò quello che Jack stava indicando. Un graffito. «Che cos'è?» chiese Elvis. «Stiamo indagando su un lieve rumore di passi nel corridoio, nel tentativo di scoprire chi ti ha assalito la notte scorsa, e tu mi porti qui e mi fai vedere un disegno inciso sulla parete del cesso?» «Guarda da vicino», gli disse Jack. Elvis si sporse in avanti. Non aveva più la vista di un tempo ed era probabile che le sue lenti avessero bisogno di un adeguamento ma riuscì a vedere che, invece di una normale scritta, il graffito era una serie di semplici immagini disegnate.
L'eccitazione percorse le vene di Elvis, come un sorso di una buona bevanda alcolica. Un tempo era stato un avido lettore delle tradizioni culturali antiche ed esoteriche, come Il Libro Egizio dei Morti e L'Opera Completa di H.P. Lovecraft, e riconobbe subito quello che aveva davanti agli occhi. «Geroglifici egizi», disse. «Esatto!» disse Jack. «Amico, sei meno stupido di quanto certa gente ti abbia fatto.» «Grazie», disse Elvis. Jack infilò una mano nella tasca della giacca, ne tolse un pezzo di carta piegato e lo aprì. Lo mise contro il muro. Elvis vide che sopra c'era lo stesso tipo di disegni che si trovavano sulla parete della cabina. «L'ho copiato ieri. Sono venuto qui a cagare, perché non avevano fatto le pulizie nel mio bagno. Ho visto questa cosa sulla parete, sono tornato nella mia stanza e ho consultato i miei libri e poi me lo sono trascritto tutto. La frase in alto si traduce più o meno così: IL FARAONE FA I POMPINI AGLI ASINI. E l'ultima riga dice: CLEOPATRA È UNA SPORCACCIONA.» «Che cosa?» «Be', più o meno», disse Jack. Elvis era perplesso. «Va bene», disse. «Uno dei pazzi che sono chiusi qui dentro, esclusi i presenti, pensa di essere Tutankhamon o qualcosa del genere e disegna dei geroglifici sul muro. E allora? Voglio dire, che rapporto c'è? Perché noi ce ne stiamo qui al gabinetto?» «Non so in che rapporto siano esattamente», disse Jack. «Non ancora. Ma, questa... cosa mi ha sorpreso nel sonno la notte scorsa e io mi sono svegliato giusto in tempo per... be' mi aveva steso sul pavimento e se ne stava con la bocca sul mio buco del culo.» «Un mangiatore di merda?» chiese Elvis. «Non credo», disse Jack. «Era la mia anima che gli interessava. La puoi fare uscire da uno qualsiasi dei principali orifizi del corpo umano. L'ho letto da qualche parte.» «Dove?» chiese Elvis. «Su Hustler?» «Il libro dell'anima per l'uomo e per la donna di David Webb. Contiene anche alcune recensioni davvero buone di film su anime rubate da tergo.» «Direi che ci si può fidare», disse Elvis. Tornarono nella stanza di Jack, si sedettero sul suo letto e consultarono molti dei suoi libri sull'astrologia, sull'assassinio di Kennedy, e diversi to-
mi di esoterismo, compreso il libro di filosofia Il libro dell'anima per l'uomo e per la donna. Elvis trovò quel libro particolarmente affascinante; esso spiegava che non solo gli uomini hanno un'anima ma che l'anima può essere trafugata; c'era una sezione dedicata ai vampiri e agli spiriti maligni necrofagi, agli incubi e ai succubi, nonché ai relativi succhiatori di anime. La morale era che se c'era uno di quei tizi nei dintorni dovevi fare attenzione alle tue cavità. La cavità orale. La cavità nasale. Il buco del culo. Se eri una donna dovevi fare attenzione a un altro buco. Il foro urinario del pisello e gli orecchi - di donne o uomini che fossero - non contavano. L'anima non ci metteva piede. Per qualche ragione non erano considerate cavità principali. Sul retro del libro stava una lista di oggetti, in relazione con il libro o meno, che si potevano acquistare. Piccole piramidi di plastica. Cappelli da indossare mentre ti bucavi. Nastri sublimimali tramite cui imparare l'arabo. Tutto esente da spese di spedizione. «In questo libro c'è ogni tipo di mangiatore di anime, a eccezione dei politici e degli appassionati di fantascienza», disse Jack. «E credo che sia proprio ciò che abbiamo qui a Shady Rest. Un mangiatore di anime. Vai alla sezione egizia.» Elvis lo fece. Il capitolo veniva introdotto da un fotogramma del film I Dieci Comandamenti con Yul Brinner che recitava la parte del Faraone. Era in piedi sul suo carro e aveva un'espressione seria, un'espressione tutto sommato ragionevole considerando che il Mar Rosso, le cui acque erano appena state separate da Mosè, era sul punto di richiudersi, per fare annegare lui e il suo esercito. Elvis lesse l'articolo lentamente intanto che Jack faceva scaldare dell'acqua con la stufa elettrica e preparava delle tazze di caffè istantaneo. «Mi faccio contrabbandare questa roba da mia nipote», disse Jack. «O per lo meno lei sostiene di essere mia nipote. È una donna di colore. Non l'avevo mai vista prima che mi sparassero a Dallas quel giorno e che mi estraessero il cervello. Fa parte della nuova identità che mi hanno dato. Ha un gran bel culo!» «Dannazione», disse Elvis. «Qui dice che puoi bruciare uno e che se gli leggi le giuste pagine tannaitiche e se pronunci su di lui le giuste formule magiche... insomma tutte quelle stronzate... può tornare in vita qualche migliaio di anni dopo e che, per rimanere in vita, deve succhiare l'anima di persone viventi; se le anime sono troppo piccole, non gli resta molta energia vitale. Piccole. Cosa vorrà dire?»
«Continua a leggere... Anzi, non importa. Te lo dico io.» Jack passò una tazza di caffè a Elvis e gli si mise a sedere di fianco, sul letto. «Ma prima, vuoi un cetriolone? Non il mio... Un cetriolone di cioccolato. In effetti, immagino che il mio sia di cioccolato ora che mi hanno tinto.» «Hai dei cetrioloni?» chiese Elvis. «Un paio di Pay Day e persino un Babe Ruth», disse Jack. «Quale preferisci? Facciamo i decadenti.» Elvis si leccò le labbra. «Vada per un cetriolone.» Mentre Elvis si gustava il cetriolone, sorseggiando il caffè fra un morso e l'altro, Jack, la tazza del caffè in equilibrio sul ginocchio e un Babe Ruth in mano, enunciò la sua teoria. «Chi ha poca energia vitale ha un'anima piccola, ecco cosa significa», disse Jack. «Tu lo conosci un posto come quello?» «Se le anime fossero fuochi», disse Elvis, «le loro fiamme non potrebbero essere più basse senza spegnersi, rispetto a quanto fanno qui dentro. L'unica cosa che funzioni in questo posto è la spia di accensione.» «Exactamundo», disse Jack. «Qui a Shady Rest abbiamo un egizio che si ciba di anime. Una mummia che si nasconde, che viene qui a nutrirsi delle persone che stanno dormendo. Tutto perfetto. Le anime sono piccole e non le bastano. Se quest'essere torna due o tre volte di fila a coprire con le labbra il buco del culo di qualche vecchio degente, quel vecchio prestò morirà, e chi ne trae maggiore vantaggio? La nostra mummia probabilmente non ne ricaverà comunque molta energia. Gli andrebbe meglio con anime grandi ma le sue sono prede facili. E poi una mummia non può essere molto forte, mi pare. In pratica sono involucri. Ma in fondo anche noi lo siamo. Non ci manca molto per essere delle mummie.» «E con tutte quelle persone nuove che entrano ogni momento», disse Elvis, «questo furto di anime può andare avanti all'infinito.» «Hai ragione. E per quello che siamo qui. Per non finirci in mezzo prima che siamo morti. E lui si prende quelli che non muoiono di malattia prima, oppure di semplice vecchiaia.» Elvis ci pensò su. «È per questo che non infastidisce le infermiere e gli assistenti e gli amministratori? Così nessuno lo sospetta...» «Giusto, inoltre loro non dormono. È costretto a prenderti quando dormi o perdi conoscenza.» «Sì, ma la cosa che mi sconcerta, Jack, è come mai un antico egizio finisce in una casa di riposo del Texas orientale e perché mai scrive sui muri del cesso?»
«È andato a farsi una cagata, era annoiato, e ha scritto sul muro. È probabile che secoli fa lui scrivesse sui muri delle piramidi.» «E che cosa cagherebbe?» chiese Elvis. «Non si può certo dire che mangi, giusto?» «Mangia le anime», disse Jack, «dunque immagino che caghi residui di anime. Ciò significa, secondo me, che se la sua bocca ti uccide, non vai all'altro mondo o in qualsiasi altro posto in cui le anime vadano. Lui digerisce le anime finché cessano di esistere...» «E alla fine non sei altro che un po' di colore in acqua di cesso», aggiunse Elvis. «Io l'ho capita così», disse Jack. «Quando ha voglia di farsi una cacata non è diverso da chiunque altro. E preferisce sempre un bel posto pulito, con uno sciacquone. Ai suoi tempi non c'erano queste cose e sono certo che la nostra mummia le trova comode. Le scritte sul muro non sono altro che un'abitudine. Forse per lui il Faraone e Cleopatra sono solo un passato vicino.» Elvis terminò il cetriolone e sorseggiò il caffè. Lo zucchero gli diede una botta d'energia e la cosa gli piacque. Avrebbe voluto chiedere a Jack il Pay Day che aveva menzionato ma si trattenne. Dolci, cibi fritti, lunghe notti e droghe erano state l'inizio della sua spirale autodistruttiva. Stavolta avrebbe dovuto mantenere il controllo della situazione. Avrebbe dovuto essere pronto a lottare contro la minaccia egizia del succhiatore di anime. Minaccia del succhiatore di anime? Dio. Era davvero annoiato. Era tempo che tornasse nella sua stanza e andasse a letto così da potersi cagare addosso e tornare alla normalità. Ma per Dio e per Ra! Quello che era accaduto fino ad allora era diverso! Forse erano tutte stronzate ma, considerato ciò che stava succedendo in quel momento nella sua vita, erano stronzate coinvolgenti. Forse sarebbe valsa la pena di stare al gioco fino in fondo, anche se avesse significato farlo con un negro che era convinto di essere John F. Kennedy e che credeva che una mummia egizia infestasse i corridoi della Casa di Riposo di Shady Grove, scrivesse dei graffiti sui divisori del bagno, togliesse l'anima delle persone succhiandogliela dal buco del culo, la digerisse, e la cagasse nel cesso degli ospiti. Tutto d'un tratto, Elvis venne sviato dalle sue meditazioni. Dal salone provenne ancora quel suono. Un suono che, ogni volta che lo sentiva, gli ricordava qualcosa di diverso. Stavolta si trattava di lolle di mais essiccate e scosse dal vento. Si accorse di avere la pelle d'oca lungo la schiena e i
peli della nuca e delle braccia gli si drizzarono. Si piegò in avanti, poggiò la mano sul deambulatore e si tirò in piedi. «Non andare nel salone», disse Jack. «Non sto dormendo.» «Questo non significa che la mummia non ti farà del male.» «La mummia dei miei coglioni! Non c'è nessuna mummia egizia.» «Sono contento di conoscerti, Elvis.» Elvis spinse il deambulatore leggermente in avanti. Si trovava a metà strada verso la porta aperta quando scorse la figura nel corridoio. Mentre quella cosa giungeva in corrispondenza della porta, le luci del salone si abbassarono e crepitarono. Intorno a quella figura, si contorcevano frulli di ombre, simili a corvi addomesticati. Quella cosa camminava e incespicava, si trascinava e procedeva celermente. Le sue gambe si muovevano come quelle di Elvis, cioè non troppo bene, tuttavia c'era un non so che nel suo movimento che era impossibile identificare. Rigida ma spettralmente uniforme. Indossava jeans di cattivo gusto, una camicia nera, un cappello nero da cowboy che era portato così basso da coprire il punto in cui si sarebbero dovute trovare le sopracciglia. Portava enormi stivali da cowboy con le punte all'insù ed emanava una sorta di puzzo misto: una miscela di fango, foglie marce, resina, frutta decomposta, polvere secca e odore di fogna. Elvis si accorse di non essere in grado di avanzare di un solo centimetro. Era completamente bloccato. La cosa si fermò, voltò la testa con cautela sul collo simile al picciolo di una mela e le sue orbite vuote fissarono Elvis. Era davvero più brutta di Lyndon Johnson. Con sua grande sorpresa, Elvis scoprì di gonfiarsi come se fosse ritratto dallo zoom di una telecamera a giraffa. Si trovò immerso nell'orbita destra della cosa, orbita che si stava allargando rapidamente fino a raggiungere le dimensioni di un ampio canyon aperto su un abisso. Ed Elvis andò giù, continuando a girare, e da quella voragine uscirono memorie che sapevano di resina, memorie di piramidi e barche su un fiume, cieli caldi e azzurri, e un enorme torpedone color argento sferzato duramente da una pioggia nera, un ponte in rovina e un gran flusso di acqua scura e un balenio d'argento. E poi le tenebre si fecero così caliginose da risultare impossibile definirle scure ed Elvis avvertì e gustò il fango in bocca e una inesplicabile sensazione di claustrofobia. E percepì la fame della cosa, una fame che lo punzecchiava come spilli incandescenti, e poi...
...e poi si udì una serie di crepitii in rapida successione ed Elvis si sentì turbinare ancor più velocemente, venne precipitato al di fuori del profondo canyon della memoria di quella testa polverosa, e poi fu di nuovo lì, con l'armatura del suo deambulatore, e la mummia - perché Elvis non nascondeva più a se stesso che di quello si trattava - volse la testa dall'altra parte e riprese a muoversi, a procedere a fatica, a procedere bene, a inciampare, a librarsi per il salone, le sue ombre che le schiamazzavano intorno alla testa con voci antiche. Bum! Bum! Bum! Mentre la cosa si spostava, Elvis si impose di sollevare il deambulatore e di entrare nel salone. Jack gli scivolò dietro e insieme videro la mummia vestita da cowboy che puntava all'uscita posteriore della casa. Quando giunse alla porta chiusa a chiave, si appoggiò al punto in cui essa incontrava lo stipite e, contorcendosi e avvitandosi, si infilò nel pertugio invisibile che li divideva. Le sue ombre la seguirono, come fossero succhiate da un aspirapolvere. I crepitii continuarono. Elvis girò la testa in quella direzione e lì, mascherato, la fondina doppia incastonata di madreperla intorno alla vita, stava Kemosabe, un revolver "Fanner Fifty" d'argento in entrambe le mani. Esplodeva rapidamente dei tappini verso il punto in cui la mummia era sparita. Le cartucce rosse macchiate di nero defluivano dietro i cani dei revolver con ripetizioni fumose. «Stronzo!» disse Kemosabe. «Stronzo!» Poi Kemosabe rabbrividì, abbassò entrambe le braccia, sparò a terra un tappino con le due pistole, si irrigidì e cadde. Elvis capì che era morto di infarto prima di picchiare sul pavimento bianco e nero; morto con entrambe le pistole in azione, l'anima intatta. Con un tremolio, le luci della sala tornarono alla normalità. Fu allora che giunsero gli amministratori, le infermiere e gli assistenti sanitari. Girarono Kemosabe e gli misero le mani sul petto ma lui non respirò più. Niente più "Yoho Silver!" Lo piansero, esprimendo il loro disappunto, e alla fine un assistente si allungò su Kemosabe e gli sollevò la maschera, gliela sfilò dalla testa e la fece cadere sul pavimento con nonchalance e, senza rispetto, svelò la sua identità. Non era nessuno che qualcuno conoscesse davvero. Ancora una volta, Elvis ricevette un rimprovero e gli venne chiesto che cosa fosse successo a Kemosabe e la stessa cosa avvenne con Jack ma nessuno dei due disse la verità. Chi avrebbe creduto a quei due pazzi di Elvis
e Jack Kennedy se avessero spiegato che Kemosabe aveva sparato a una mummia vestita da cowboy, un Bubba Ho-Tep con uno stormo di ombre che gli turbinavano intorno al cappello da cowboy? Così non fecero altro che raccontare delle balle. «È arrivato sparando tappini e poi è caduto», disse Elvis e Jack confermò la sua versione. Quando ebbero portato via Kemosabe, Elvis si inginocchiò, non senza difficoltà, aiutandosi con il deambulatore, raccolse la maschera abbandonata e se la portò con sé. Avrebbe voluto anche le pistole ma un assistente sanitario le aveva prese per regalarle al figlio di quattro anni. Più tardi, lui e Jack vennero a sapere che il compagno di stanza di Kemosabe, un uomo sull'ottantina che era praticamente in coma da diversi anni, era stato trovato privo di vita sul pavimento della camera. Si era dedotto che Kemosabe avesse perso la ragione e che lo avesse trascinato giù dal letto e che l'ottantenne avesse tirato le cuoia cadendo sul pavimento. Quanto a Kemosabe, avevano supposto che avesse perso la testa quando si era accorto di ciò che aveva fatto, che se ne fosse andato in giro a sparare nel salone e che avesse avuto un attacco di cuore. Elvis sapeva che le cose stavano diversamente. La mummia era venuta e Kemosabe aveva cercato di proteggere il compagno di camera nel solo modo che conoscesse. Ma, invece di proiettili d'argento, la sua pistola sputava zolfo. Elvis avvertì uno slancio di orgoglio per quel vecchio coglione. Più tardi lui e Jack si ritrovarono a parlare di ciò che avevano visto. Dopodiché non ci fu più nulla da dire. La notte se ne andò lasciando il posto al sole ed Elvis, che non aveva chiuso occhio, si alzò con esso e si infilò i pantaloni kaki e una camicia kaki e utilizzò il deambulatore per uscire. Era un'eternità che non usciva ed ebbe una strana sensazione a trovarsi lì fuori con tutta quella luce e il profumo dei fiori e il cielo del Texas che era così alto e le nuvole così bianche. Era difficile credere che avesse trascorso tanto tempo a letto. Il semplice esercizio che aveva fatto con il deambulatore negli ultimi giorni gli aveva rafforzato i muscoli delle gambe e ora sentiva di potersi muovere meglio. L'infermiera carina con le tette come pompelmi uscì e disse: «Signor Presley, ha un aspetto decisamente più florido. Ma non dovrebbe stare fuori troppo a lungo. E quasi l'ora del pisolino e per noi... insomma...» «Fanculo, razza di una troia altezzosa», disse Elvis. «Ne ho abbastanza
delle tue stronzate. La trasmissione me la lubrifico da solo. Se mi tratti ancora come un bambino ti avvolgo questo stramaledetto deambulatore intorno alla testa.» La bella infermiera rimase impietrita, poi scappò via. Elvis proseguì lentamente con il deambulatore lungo il viale che circondava la casa. Mezz'ora dopo raggiunse il retro della casa e la porta da cui se n'era andata la mummia. Era ancora chiusa a chiave e lui si fermò a guardarla, sbalordito. Come diavolo aveva fatto la mummia a sgattaiolare da una fessura invisibile tra la porta e la cornice? Elvis osservò il cemento dietro la porta, in basso. Nessuna traccia. Si aiutò con il deambulatore per raggiungere le piante sul retro, un boschetto di querce, eucalipti e noci americani fiancheggianti entrambe le rive del grande torrente che scorreva dietro la casa. Lì la terra si inclinava bruscamente. Per un istante esitò, poi rifletté. Echeccazzo! Pensò. Piantò il deambulatore e iniziò ad avanzare, mentre la terra si inclinava sempre più drammaticamente. Giunto sulla riva del torrente e, di lì, in una radura, si sentì esausto. Provò l'impulso di mettersi a invocare aiuto ma non volle sfigurare, non dopo la grande scena con l'infermiera. Sapeva di avere ripreso un po' della vecchia fiducia in se stesso. Quella volta, le sue bestemmie e le sue parolacce non le erano parse carine. Le parole avevano lasciato il segno, seppur lieve. La verità era che lui avrebbe sentito la mancanza di quelle mani che gli ungevano l'uccello. Guardò oltre la riva del torrente. C'era un bel dislivello. Il torrente stesso era stretto e su entrambe le sponde stava una spiaggetta profonda un paio di metri e rivestita di ghiaia. Alla sua sinistra, dove il torrente passava sotto un ponte, vide un punto in cui una massa di erbacce e di fango si era ammonticchiata nel tempo e lì in mezzo notò qualcosa di luccicante. Elvis si sedette per terra, all'interno del deambulatore, e osservò l'acqua che avanzava turbinando. Un enorme picchio cantava su un albero vicino e una ghiandaia intimava sonoramente a un uccello più piccolo di uscire dal suo territorio. Dove se n'era andato il vecchio Bubba Ho-Tep? Da dove veniva? Come diavolo c'era arrivato fin lì? Si ricordò di ciò che aveva visto nella testa della mummia. L'autobus d'argento, la pioggia, il ponte andato in pezzi, il flusso di acqua e fango. Ma... aspetta un attimo, pensò. Anche qui ci sono acqua, fango e un ponte, benché non sia rotto, e c'è qualcosa che luccica in mezzo a quelle foglie
e a quei rami e a quei detriti che si sono raccolti. Tutte quelle cose erano gli elementi di ciò che aveva visto nella testa di Bubba Ho-Tcp. Naturalmente c'era un legame. Ma quale? Quando ebbe riacquistato energia, Elvis si tirò in piedi, voltò il dcambulatore e tornò indietro. Quando giunse nella sua stanza e si trascinò a letto, era coperto di sudore e intirizzito. Il bubbone sull'uccello pulsava. Si slacciò i pantaloni e si calò la biancheria intima. Il bubbone si era di nuovo riempito di pus e aveva un aspetto più brutto del solito. Cancro, stabilì. Fece questa conclusione piuttosto frettolosamente. Mi stanno tenendo all'oscuro perché sono vecchio e a loro non importa. Pensano che la vecchiaia mi ucciderà prima e probabilmente hanno ragione. Be', che si fottano! So di cosa si tratta e, se ho torto, forse sarebbe meglio che avessi ragione. Prese la pomata e medicò la lesione purulenta; mise via la pomata, si tirò su le mutande e i pantaloni e si strinse la cintura. Elvis estrasse il telecomando del televisore dallo stipetto e lo accese in attesa del pranzo. Mentre faceva scorrere i canali, capitò su uno spot pubblicitario della settimana dedicata a Elvis Presley. Trasalì. Era già successo altre volte ma in quel momento il colpo fu duro. Mostrava scene tratte da alcuni dei suoi film, Miliardario... ma bagnino, Il cantante del Luna Park, e diversi altri. Tutti film di merda. Si era lamentato della perdita d'orgoglio e del trattamento ricevuto dalla vita e ora si accorse che di orgoglio non ne aveva mai avuto, che la vita per lui era stata tutto sommato buona e che gran parte delle cose negative erano colpa sua. In quel momento rimpianse di non aver licenziato il Colonnello Parker, il suo manager, ai tempi in cui aveva iniziato a fare cinema. Quel vecchio stronzo era stato un idiota ed Elvis era stato ancor più idiota a dargli retta. Rimpianse anche di non essersi ben comportato con Priscilla. Gli sarebbe piaciuto poter dire a sua figlia che le voleva bene. Sempre domande e mai risposte. Sempre speranze e mai soddisfazioni. Elvis spense la TV e gettò il telecomando sullo stipetto proprio mentre Jack faceva il suo ingresso nella stanza. Sotto il braccio aveva una carpetta. Aveva l'aspetto di uno che sta per tenere un briefing alla Casa Bianca. «Mi sono fatto venire a prendere dalla donna che dice di essere mia nipote», disse. «Mi ha portato in città all'archivio del giornale. Mi ha aiutato a fare qualche ricerca.»
«Su che cosa?» chiese Elvis. «Sulla nostra mummia.» «Hai scoperto qualcosa?» chiese Elvis. «Un sacco di cose.» Jack avvicinò una sedia al letto ed Elvis utilizzò il pulsante di sollevamento del letto per alzare la schiena e la testa in modo da vedere il contenuto della carpetta di Jack. Jack aprì la carpetta, ne estrasse alcuni ritagli di giornale e li dispose sul letto. Mentre Jack parlava, Elvis li osservò. «Una delle mummie meno importanti, concessa in prestito dal governo egiziano, stava facendo un tour degli Stati Uniti. Musei e posti simili. Non una gran mostra, niente di paragonabile a quella del Faraone Tutankhamon di alcuni anni fa ma comunque interessante. La mummia viaggiava in aereo o in treno, spostandosi di stato in stato. Una volta giunta in Texas, è stata trafugata. «Ci sono prove del fatto che sia stata portata via di notte da un paio di tizi su un torpedone color argento. C'è un testimone, un tipo che portava a spasso il cane o qualcosa del genere. Insomma, i ladri si sono introdotti nel museo e l'hanno trafugata, probabilmente nella speranza di ottenere un riscatto. Ma a quel punto c'è stato il peggior ciclone della storia del Texas orientale. Trombe d'aria. Pioggia. Grandine. Chi più ne ha più ne metta! Torrenti e fiumi straripati. Roulotte spazzate via dall'acqua. Bestiame annegato. Non ti ricordi? Non fa niente... è stata una cazzo di inondazione. «Questi tizi sono scappati e non se n'è mai più sentito niente. Dopo che tu m'hai detto cosa hai visto dentro la testa della mummia - il torpedone color argento, il ciclone, il ponte e così via - mi è venuto in mente uno scenario più interessante e, credo, decisamente più preciso.» «Fammi indovinare. Il torpedone è stato travolto dalle acque. Credo di averlo visto oggi. Proprio qui dietro, nel torrente. Deve esserci finito anni fa.» «Questo ne è la conferma. Il ponte che hai visto infrangersi... ecco com'è che il torpedone è finito nell'acqua che in quel momento deve essere stata profonda quanto un fiume in piena. Il torpedone è stato trascinato dalla corrente. Si è fermato da qualche parte in queste vicinanze e la mummia è rimasta intrappolata sotto i detriti e di recente è riuscita a liberarsi.» «Ma come ha fatto a tornare in vita?» chiese Elvis. «E com'è che io sono finito nelle sue memorie?» «Qui siamo nel campo delle congetture vere e proprie ma, da quello che
ho letto, a volte le mummie venivano inumate senza nome, una maledizione sul sarcofago o sulla bara, in un certo senso. La mia supposizione è che il nostro amico fosse uno di quelli. Dentro la bara era un cadavere in essiccazione. Ma quando il torpedone è finito fuori strada per colpa dell'acqua, la bara si è capovolta oppure si è aperta e il nostro ragazzo si è liberato della bara e della maledizione. O, più probabilmente, il tempo ha fatto marcire il legno della cassa e così anche il sortilegio si è rotto. E prova a pensare a tutto il tempo che è rimasto laggiù, in attesa della libertà, vivo ma non vivo, affamato e impossibilitato a nutrirsi. Ho detto che si era liberato della maledizione ma non è del tutto vero. Non è più recluso ma gli servono ancora un po' di anime.» «E ora può averle e continuerà a nutrirsene a meno che non lo si distrugga per sempre... Strano a dirsi, ma credo che una parte di lui voglia una nuova vita. Tornare a essere umano. Non sa bene che cosa è diventato. Risponde a vecchie pulsioni e a pulsioni nuove. Ecco perché ha messo in atto il trucco dei vestiti, probabilmente per copiare gli abiti di una delle sue vittime.» «Le anime gli danno forza. Ne accrescono i poteri spettrali, uno dei quali è stato ipnotizzarti, attirarti nella sua testa. Ma in quel modo non gli è stato possibile rubarti l'anima; per poterlo fare, avresti dovuto essere privo di conoscenza, anche se è riuscito a indebolirti, a distrarti.» «E quelle ombre che gli stanno intorno?» «Sono i suoi guardiani. Lo mettono in guardia. Hanno anche qualche piccolo potere. Ho letto qualcosa in proposito su Il libro dell'anima per l'uomo e per la donna.» «Che cosa facciamo?» chiese Elvis. «Credo che trasferirci in un'altra casa di riposo sarebbe una buona idea», disse Jack. «Non mi viene in mente altro. Facciamo così: la nostra mummia ha abitudini notturne. Compare alle tre del mattino, per la precisione. Dunque, ora mi metto a dormire e dormirò pure dopo pranzo. Monto la sveglia per essere in piedi poco prima che faccia buio, in modo da potermi fare un paio di tazze di caffè. Se stanotte viene, non voglio che mi schiaffi ancora le labbra sul buco del culo. Credo che ti abbia sentito scendere nel corridoio più o meno nel momento in cui ha iniziato a lavorarmi l'altra notte e così è scappato. Non perché avesse paura ma perché non voleva che nessuno si accorgesse della sua presenza. Pensaci. Qui ha il suo proverbiale nido d'uccello.» Dopo che Jack se ne fu andato, Elvis decise di seguire il suo suggeri-
mento e di farsi un pisolo. Ovviamente, alla sua età pisolava volentieri ed era in grado di assopirsi in qualsiasi momento oppure si rigirava nel letto per ore. Non c'era una spiegazione. Affondò la testa nel cuscino e cercò di dormire ma il sonno non venne. Invece pensò a un sacco di cose. Per esempio a che cosa gli restava della vita oltre a quel posto. Non si poteva dire che fosse casa sua ma non aveva altro. Che lui fosse dannato se avrebbe lasciato che un figlio di puttana straniero, che disegnava graffiti e succhiava anime, che indossava un cappello troppo grosso e stivali da cowboy, si portasse via le anime dei membri della sua famiglia per poi cagarle nel bagno degli ospiti... Nei film aveva sempre interpretato ruoli da eroe. Ma quando le luci della ribalta si spegnevano, era il momento delle droghe, della stupidità, e della fornicazione. Ora era giunta l'ora di iniziare a essere quello che aveva sempre sognato di essere. Un eroe. Elvis si sporse, prese il telefono e digitò il numero della stanza di Jack. «Signor Kennedy», disse quando Jack rispose. «Non chiederti che cosa può fare per te la tua Casa di Riposo. Chiediti che cosa puoi fare tu per essa.» «Ehi, mi stai fregando le battute migliori», disse Jack. «Allora, per parafrasare una delle mie... "Diamoci da fare."» «Dove vuoi arrivare?» «Lo sai dove voglio arrivare. Ammazzeremo una mummia!» Il sole, un foruncolo sul luminoso culo azzurro del giorno, avanzava gradualmente e allargava bene le gambe per esporre la zazzera pubica della notte, un'oscurità pelosa sulla quale le stelle strisciavano come pidocchi e la luna sgambettava lentamente verso l'alto, come la zecca di un cane albino che cerchi di raggiungere la voragine anale. Nel corso di questo lento passaggio, Elvis e Jack discussero i loro piani, poi dormirono un po', consumarono il loro pranzo a base di cavoli bolliti e polpettone, dormirono un altro po', cenarono con pane bianco e asparagi e un piatto di sbobba da caserma, tornarono a dormire, si svegliarono più o meno quando comparve la zazzera pubica e i pidocchi siderali iniziarono a strisciare. Nonostante la notte fosse ormai arrivata, dovettero attendere sino a mezzanotte per fare ciò che dovevano fare. Jack strabuzzò gli occhi sotto le lenti degli occhiali ed esaminò la sua li-
sta. «Due bottiglie di alcol per frizioni?» disse. «Positivo», disse Elvis. «E non saremo costretti a lanciarlo. Guarda qui.» Elvis gli mostrò uno spruzzatore per la vernice. «L'ho trovato nello sgabuzzino.» «Pensavo lo tenessero chiuso a chiave», disse Jack. «In effetti è così. Ma ho fregato una spilla da balia di Dillinger e ho forzato la serratura.» «Fantastico!» disse Jack. «Fiammiferi?» «Positivo. Ho persino scroccato un accendino.» «Bene. Divise?» Elvis mostrò il suo abito bianco. C'erano qualche macchia grigia e una bella chiazza di chili davanti. Una sciarpa di seta bianca e la grande cintura borchiata d'oro, argento e rubini completavano l'abito steso sul letto. C'erano anche gli stivali con la cerniera lampo che aveva acquistato in un supermercato K-Mart. «Positivo.» Jack sollevò un elegante vestito grigio su una gruccia. «Nella mia stanza ho anche un bel paio di scarpe e una cravatta...» «Positivo», disse Elvis. «Forbici?» «Positivo.» «Ho oliato la mia sedia a rotelle motorizzata; è pronta», disse Jack, «e ho cercato alcune parole magiche in uno dei miei libri di magia. Non so se possano fermare una mummia ma c'è scritto che tengono lontano gli spiriti maligni. Me le sono scritte su un pezzo di carta.» «Useremo ciò che abbiamo», disse Elvis. «OK. Alle tre meno un quarto si va!» «Considerata la nostra velocità, meglio muoverci verso le due e mezza», disse Jack. «Jack», chiese Elvis. «Sappiamo ciò che stiamo facendo?» «No, ma qualcuno ha detto che il fuoco purifica dal male. Speriamo che chiunque lo abbia detto avesse ragione.» «OK», disse Elvis. «Sincronizziamo gli orologi.» Lo fecero, ed Elvis aggiunse: «Ricordati: le parole chiave di stanotte sono Attenzione e Infiammabile. E Parati il Culo.» La porta d'ingresso era provvista di un sistema di allarme ma non fu difficile manometterlo dall'interno. Una volta che Elvis ebbe tagliato i cavi con le forbici, fecero pressione sulla porta e Jack spinse fuori la sedia a ro-
telle e tenne aperta la porta mentre Elvis passava con il deambulatore. Elvis gettò le forbici fra gli arbusti e Jack infilò un libro tascabile tra le porte in modo da poter rientrare nel caso più tardi gli fosse servito farlo. Elvis portava un enorme paio di occhiali con una montatura color cioccolato su cui erano incastonate gemme di ogni colore e indossava la tuta bianca macchiata, con tanto di sciarpa, cintura e stivali con zip. La tuta era aperta sul davanti ed era abbondante a eccezione della pancia. Perché fosse ancor più attillata in quel punto, Elvis aveva riempito di robacce una piccola borsa e l'aveva infilata nella tuta. La borsa conteneva la maschera di Kemosabe, il cuore di porpora di Bull e i ritagli di giornale su cui aveva appreso per la prima volta della sua presunta morte. Jack portava il suo elegante vestito grigio con una cravatta a strisce rossonere che aveva annodato con cura e calze nere di nylon. Il vestito gli andava su misura. Sembrava un ex-presidente. Sul seggiolino della sedia a rotelle stavano lo spruzzino della vernice, riempito di alcol per frizioni e, di fianco a esso, un accendino e una confezione di carta di fiammiferi. Jack consegnò lo spruzzatore a Elvis. Al congegno era stata aggiunta una tracolla ottenuta da un lenzuolo strappato. Elvis si mise lo spruzzino a tracolla, infilò una mano nella cintura e ne estrasse un mezzo sigaro schiacciato e in parte consumato che aveva serbato per un'occasione speciale. Un'occasione che aveva iniziato a temere non ci sarebbe stata mai. Tenne stretto il sigaro fra i denti, prese i fiammiferi dal seggiolino della sedia a rotelle e se lo accese. Sapeva di stronzo di cane ma diede una boccata comunque. Gettò di nuovo la scatola dei fiammiferi sul seggiolino, guardò Jack e disse: «Facciamolo, amigo!» Jack si mise i fiammiferi e l'accendino nella tasca della giacca. Si sedette sulla sedia a rotelle, con un calcio aprì i poggiapiedi e ci si mise comodo. Appoggiò leggermente la schiena e fece scattare un interruttore sul bracciolo. Il motore elettrico emise un ronzio e la sedia si mosse in avanti. «Ci vediamo là», disse Jack. Scese dalla rampa di cemento, si avviò sul viale circolare e scomparve dietro l'angolo dell'edificio. Elvis diede un'occhiata all'orologio. Erano quasi le tre meno un quarto. Doveva fare in fretta. Strinse le mani sul deambulatore e iniziò a muoversi. Quindici spossanti minuti più tardi, sul retro, Elvis si accomodò contro la porta, nel posto in cui Bubba Ho-Tep era entrato e uscito. Le tenebre incombevano su di lui come un ombrello. Puntellò lo spruzzino contro il deambulatore e utilizzò la sciarpa per detergersi il sudore dalla fronte. Ai vecchi tempi, dopo un concerto, la usava per asciugarsi la faccia e la
gettava a qualche donna del pubblico, e poi la osservava eccitarsi mentre se la passava sul corpo. A quel punto, sul palco volavano mutandine e chiavi di stanze d'albergo, bouquet di rose. Quella notte, sperò che Bubba Ho-Tep non usasse la sciarpa per pulirsi il culo dopo averlo espulso cagandolo nel cesso. Elvis guardò nel punto in cui il viale circolare di cemento si alzava leggermente sulla destra e vi scorse Jack, seduto sulla sedia a rotelle, paziente e silenzioso. La luna propagava la sua luce su Jack, facendolo sembrare ancor più simile a un nanetto di cemento, di quelli che si mettono in giardino. L'inquietudine si impossessò di Elvis come una dose di morbillo. Pensò: Bubba Ho-Tep spunta dal letto di quel torrente, è affamato e incazzato e, quando cerco di fermarlo, mi infila questa pistola spruzza-vernice su per il culo, poi infila me e quella sedia a rotelle su per il culo di Jack. Diede un tiro di sigaro così forte da avere i capogiri. Guardò la riva del torrente e, laddove le piante si diradavano, vide spuntare una figura simile a un nugolo di termiti, la vide annaspare come un granchio, scorrere come l'acqua, risuonare come un ammasso di apparecchiature di un giacimento petrolifero che rotolino lungo un pendio. Le sue orbite prive di occhi intrappolarono il chiaro di luna e lo trattennero per un po', prima di permettergli di attraversargli la testa e di uscire dall'altra parte sotto forma di irregolari raggi dorati. Quella figura, che sembrava al tempo stesso trascinarsi a fatica e muoversi agilmente, ora non era null'altro che un'ombra circondata da ombre più attive, ora un mucchio di pezzetti di legno marroni e deformi e di fango plasmato fino ad assumere una sembianza umana, ora una cosa con gli stivali e un cappello da cowboy che faceva ogni passo come se fosse destinato a essere l'ultimo. A metà strada rispetto alla Casa di Riposo, scorse Elvis, fermo sulla intelaiatura della porta, nell'ombra. Elvis sentì che stava per farsela addosso ma decise che non avrebbe cagato nel suo unico vestito decente da palco. Gli tremarono i ginocchi come sottili steli di bambù sbatacchiati da un vento forte. Il sigaro che sapeva di stronzo di cane gli cadde dalle labbra. Prese la spara-vernice e si accertò che fosse pronta all'opera. Si infilò la canna nella cintola e attese. Bubba Ho-Tep non si mosse. Aveva smesso di avanzare. Elvis si mise a sudare più di prima. Aveva il volto, il petto e le palle madidi. Se Bubba Ho-Tep non si faceva avanti, il loro piano andava a puttane. Dovevano tenerlo a tiro della spara-vernice. L'idea era che lo avrebbe inzuppato di al-
col e Jack gli sarebbe spuntato alle spalle sulla sedia a rotelle, avrebbe lanciato i fiammiferi o l'accendino contro Bubba, e gli avrebbe dato fuoco. Elvis disse, a bassa voce «Ora sono cazzi tuoi, pezzo di merda defunta.» Jack si era appisolato un istante ma si destò in quel momento. I muscoli gli formicolavano. Si sentiva come se sotto la pelle gli stessero roteando dei minuscoli cuscinetti a sfera. Alzò gli occhi e vide Bubba Ho-Tep fermo tra la riva del torrente, lui stesso ed Elvis sulla porta. Jack fece un profondo respiro. Le cose non stavano andando secondo il loro piano. La mummia si sarebbe dovuta scagliare contro Elvis dato che bloccava la porta. Ma... niente da fare. Jack estrasse i fiammiferi e l'accendino dalla tasca della giacca e se li mise fra le gambe, sul seggiolino. Poggiò la mano sulla scatola del cambio della sedia a rotelle e si mise velocemente in movimento. Doveva fare qualcosa; doveva fare in maniera che Bubba Ho-Tep lo seguisse, che venisse a trovarsi a distanza di tiro dalla spara-vernice di Elvis. Bubba Ho-Tep sporse il braccio e afferrò Jack Kennedy. Si udì la detonazione di un fucile (la Commissione Warren non avrebbe potuto dire niente, questa volta il colpo era stato esploso dal davanti) e la sedia si capovolse disarcionando Jack, che finì a gambe all'aria sul viale. Il cemento gli strappò il vestito sui ginocchi, fino a scorticargli la pelle. La sedia, orba del suo passeggero, si capovolse per poi tornare in posizione eretta e, continuando a rotolare, cambiò direzione, avviandosi giù per la discesa in direzione di Elvis che, sulla porta, si sosteneva con il deambulatore, spruzzino in mano. La sedia a rotelle colpì il deambulatore di Elvis. Elvis rimbalzò contro la porta, schizzò in avanti, fece appena in tempo ad afferrare il deambulatore, ma si lasciò scappare la spara-vernice. Alzò lo sguardo e scorse Bubba Ho-Tep piegato su Jack, che aveva perso conoscenza. La bocca di Bubba Ho-Tep si allargò, e poi si allargò di nuovo, e divenne una voragine nera priva di denti che pulsava al chiaro di luna, rosa come una ferita aperta; a quel punto, Bubba Ho-Tep girò la testa e il rosa non fu più visibile. La bocca di Bubba Ho-Tep si abbassò sulla faccia di Jack e, mentre Bubba Ho-Tep succhiava, le ombre intorno a lui si dimenarono e fecero un verso che ricordava il richiamo dei tacchini. Elvis utilizzò il deambulatore per piegarsi e afferrare la spara-vernice. Dopo che l'ebbe raccolta e che si fu alzato, spinse il deambulatore di lato, ne uscì e si accomodò sulla sedia a rotelle. Lì trovò i fiammiferi e l'accen-
dino. Jack aveva fatto ciò che aveva fatto per distrarre Bubba Ho-Tep e per cercare di farlo avvicinare alla porta. Ma non c'era riuscito. Tuttavia, per pura combinazione, aveva fornito a Elvis gli strumenti per distruggere la mummia e ora stava a lui fare ciò che aveva sperato di fare insieme a Jack. Elvis si mise i fiammiferi nella tasca interna della giacca e si spinse l'accendino sotto il culo. Elvis iniziò a giocherellare con i comandi della sedia a rotelle, con la stessa agilità con cui un tempo aveva messo le mani sulle tastiere negli studi di registrazione. Diresse con grande fragore la sedia a rotelle per il pendio su cui stava Bubba Ho-Tep. Avanzando, terrorizzato ma determinato, iniziò a cantare Don't be cruel con voce spezzata ma certamente memore delle sue migliori performance. Nel giro di pochi istanti fu addosso a Bubba Ho-Tep e alle sue indaffarate ombre. Bubba Ho-Tep alzò gli occhi mentre Elvis gli si avvicinava fragorosamente, cantando. La bocca aperta di Bubba Ho-Tep tornò a una dimensione normale e dalle gengive gli spuntarono denti che prima non esistevano, simili a piccole radici nere. Locuste elettriche crepitarono e saltellarono nelle sue orbite vuote. Gridò qualcosa in egiziano. Elvis vide le parole uscire dalla bocca di Bubba Ho-Tep sotto forma di geroglifici visibili, come scarabei e legnetti scuri.
PER L'IMPASSIBILE OCCHIO ROSSO DI RA! Elvis piombò su Bubba Ho-Tep. Quando lo ebbe a distanza utile, smise di cantare e premette il grilletto della spara-vernice. Dallo spruzzino schizzò fuori dell'alcol per frizioni che colse Bubba HoTep in faccia. Elvis scartò, girò intorno a Bubba Ho-Tep con un ampio movimento circolare e tornò alla carica con l'accendino in mano. Nell'avvicinarsi a Bubba Ho-Tep, le ombre che sciamavano intorno alla testa della mummia si separarono e volarono alte su di lui come pipistrelli spaventati. Il cappello nero che Bubba Ho-Tep portava sfarfallò e mise le ali e gli volò via dalla testa, diventando ciò che era sempre stato, cioè un'ombra vivente. Ben presto le ombre furono su Elvis, stridendo come arpie. Sciamarono sulla faccia di Elvis, che ebbe la sensazione che sulla sua carne venis-
sero trascinate delle pelli animali, dalla parte viva. Bubba Ho-Tep si piegò in avanti sulla cintola come una marionetta caduta e picchiò la testa sul viale in cemento. Il cappello nero simile a un pipistrello era ridisceso dalle tenebre, si stava rapidamente allargando e stava cadendo sul corpo di Bubba Ho-Tep, insudiciandolo come inchiostro. Bubba Ho-Tep si allargò rapidamente a macchia d'olio sotto le ruote della cavalcatura di Elvis, si alzò come un'onda scura sotto la sedia, attraverso i raggi delle ruote, fluttuò davanti alla sedia e lo incalzò dal basso, facendo spuntare la faccia devastata, sempre diversa, tra le ombre svolazzanti, dirigendosi proprio verso Elvis. Elvis, attraverso le ombre, intravide quella faccia che gli parve una vecchia zucca cava annerita e putrescente, nella quale erano stati intagliati gli occhi, il naso e la bocca. E la bocca si fece grande a dismisura e in fondo a quella bocca Elvis vide l'eternità tetra e disgustosa che rappresentava il destino di Bubba Ho-Tep. Elvis accese l'accendino. La fiamma sussultò e l'alcol accese la faccia di Bubba e la testa di Bubba si fece di una tinta azzurra quanto gli occhi di un bambino, si allontanò a una velocità supersonica, schizzò in alto come un'onda nera che si portasse appresso una chiazza di petrolio in fiamme. Poi Bubba scese in una cascata di legni incendiati e di fango scuro, come un fantoccio di catrame in fiamme, e scappò verso il torrente, attraversando il viale di cemento. I guardiani-ombra gli svolazzarono dietro, nel timore di essere abbandonati. Elvis diresse la sedia a rotelle verso Jack, si sporse in avanti e sussurrò: «Signor Kennedy.» Le palpebre di Jack furono percorse da un fremito. Riusciva a malapena a muovere la testa e, quando lo faceva, gli cigolava il collo. «Al Presidente non resta molto da vivere», disse e il suo pugno chiuso vibrò e si aprì lasciando cadere un rotolo di carta. «Devi prenderlo.» Il corpo di Jack si allentò, la sua testa tornò sul collo lesionato e nei suoi occhi la luna segnò una doppia. Elvis deglutì e rese omaggio a Jack. «Signor Presidente», disse. Almeno era riuscito a impedire che Bubba si prendesse l'anima di Jack. Elvis si chinò, raccolse il pezzo di carta che Jack aveva lasciato cadere. Lo lesse ad alta voce, al chiaro di luna: «Schifosissima creatura che vieni dal mondo dei morti. Qualunque cosa tu pensi e faccia, non ti capiterà mai nulla di buono. Se il tuo disegno oscuro è il male, puoi scommettere che il bene che sta nelle Forze della Luce ti prenderà a calci nel tuo brutto culo.» Tutto qui? Pensò Elvis. Era quello il salmo contro il male contenuto nel
Libro delle anime? Proprio così, capo. E quale sarebbe stata la chiave di volta? Merda! Non faceva neppure rima. Elvis alzò gli occhi. Bubba Ho-Tep era sprofondato in una fiamma bluastra ma si stava rialzando, pronto a superare il margine del torrente e a raggiungere il suo rifugio, dovunque si trovasse. Elvis girò intorno a Jack e mise la sedia a rotelle a tutto gas. Lo fece lasciandosi andare a un grido ribelle. La sua sciarpa bianca ondeggiò nel vento mentre rombava in avanti. Le fiamme che avevano avvolto Bubba Ho-Tep si erano spente. Era di nuovo in piedi. La sua testa soffiava fumo grigio nell'aria frizzante della notte. Si voltò ad affrontare Elvis, rimase fermo, con aria di sfida, alzò un braccio e agitò il pugno. Gridò e ancora una volta Elvis vide uscirgli i geroglifici dalla bocca. I caratteri fluttuarono in fila, in rapida successione...
SUCCHIA IL CAZZO DI ANUBI, BASTARDO! ... e scomparvero. Elvis ruppe gli indugi. Erano tutte stronzate. Bisognava fare qualcosa. Quando Bubba Ho-Tep vide arrivare Elvis, lo spruzzatore in una mano, la sedia a rotelle assestata sulla marcia più veloce, si voltò per darsi alla fuga ma Elvis era già su di lui. Elvis allungò un piede e colpì Bubba Ho-Tep alla schiena. Il piede passò il corpo di Bubba da parte a parte. La mummia si contorse e sputò sulla gamba di Elvis. Elvis sparò un colpo mentre finiva insieme a Bubba HoTep e alla sedia a rotelle oltre la riva del fiume, in un bagliore di luce lunare e in un caos di ombre. Elvis gridò sentendosi il corpo addentato dalla dura terra e da pietre aguzze, come fosse una pignatta. Fece il volo con Bubba Ho-Tep attaccato alla gamba e quando finì di scivolare piombò a poca distanza dal torrente. Bubba Ho-Tep, come se fosse fatto di gomma, si contorse intorno alla gamba di Elvis e lo guardò. Elvis reggeva ancora la spara-vernice. Se l'era tenuta stretta come un
salvagente. Gliene diede un'altra dose. Il braccio destro di Bubba volò via, all'altezza del suolo, finché non trovò un pezzo di legno che la corrente aveva trascinato sulla riva, lo afferrò e lo fece roteare indietro. Il braccio tornò e il legno colpì Elvis sulla tempia. Elvis cadde all'indietro. Lo spruzzino gli scivolò di mano. Bubba HoTep ora era piegato su di lui. Colpì Elvis nuovamente con il legno. Elvis si sentì venire meno. Sapeva che se lo avesse fatto non solo sarebbe stato un figlio di puttana morto ma che lo stesso sarebbe successo alla sua anima. Non sarebbe stato altro che merda; niente vita eterna per lui; niente reincarnazione; niente cherubini con l'arpa. Qualunque cosa lo avesse atteso nell'altro mondo, lui non l'avrebbe conosciuta. Ecco quale sarebbe stata la fine di Elvis Presley. Un bello sciacquone. Nient'altro. La bocca di Bubba Ho-Tep si profilò minacciosa sulla faccia di Elvis. Sembrava un tombino aperto. Ne fuoriuscì un gran puzzo di fogna. Elvis infilò una mano nella tuta aperta e afferrò la scatola dei fiammiferi. Restando sdraiato, fingendo di aver perso conoscenza, in modo da spingere Bubba Ho-Tep ad avvicinarsi a lui con la sua bocca puzzolente, scoperchiò la scatola, con un dito fece scendere uno dei fiammiferi di carta e ne schiacciò la testa di zolfo sulla striscia nera. Nel momento in cui Elvis avvertì sulla sua faccia la nauseante bocca di Bubba Ho-Tep, simile a una Dionea Pigliamosche, l'intera confezione di fiammiferi si accese nella mano di Elvis e lo bruciò facendolo gridare. L'alcol sul corpo di Bubba fu un richiamo per le fiamme. In un istante, Bubba fu un'enorme vampata blu che andò a strinare la chioma di Elvis, a ustionargli le sopracciglia riducendole a protuberanze, accecandolo fino al punto da non fargli vedere null'altro che una bruciante luce bianca. Elvis si accorse che Bubba Ho-Tep non era più sopra di lui e nemmeno nei pressi. La luce bianca si sporcò e si trasformò in una luce grigia e infine il mondo, come un negativo di una Polaroid che stia sviluppandosi, tornò visibile, inizialmente con tinte verdastre, poi nella completa gamma dei colori della notte. Elvis rotolò su un fianco e vide la luna galleggiare sull'acqua. Inoltre vide uno spaventapasseri galleggiare nell'acqua, mentre la paglia si staccava e la corrente lo trascinava via. No, non era uno spaventapasseri. Era Bubba Ho-Tep. Con tutta la sua magia nera e la sua grande capacità di spostarsi, o di fingere di spostarsi, il fuoco lo aveva fatto fuori. O forse erano state quelle stupide parole del libro di Jack sulle anime? O entrambe le cose?
Non importava. Elvis si alzò su un gomito e osservò il cadavere. L'acqua lo stava dissolvendo più rapidamente e la corrente se lo stava portando via. Elvis cadde riverso sulla schiena. Dentro di sé sentì qualcosa urtare contro qualcosa di soffice. Si sentì un gommone bucato. Stava arrivando la sua ora e lo sapeva. Ma ho ancora un'anima, pensò. È ancora mia. Tutta mia. E la gente della casa di cura, Dillinger, La Cantante di Yodel... tutti hanno la loro anima e se la possono tenere stretta. Elvis fissò le stelle oltre i rami forcuti e contorti di una quercia. Vide un sacco di quelle meravigliose stelle e si accorse per la prima volta che le costellazioni sembravano degli enormi geroglifici. Distolse lo sguardo e, alla sua destra, vide ancora molte stelle e molti geroglifici, che sembravano seduti sulla riva. Tornò a fissare le figure sopra di lui, poi girò la testa a destra e guardò quelle altre. Le mise insieme nei suoi pensieri.
Sorrise. D'improvviso, dopo tutto, pensò di essere in grado di leggere i geroglifici. Ciò che dicevano nel meraviglioso cielo di quella notte buia era semplice e profondo al tempo stesso. VA TUTTO BENE. Elvis chiuse gli occhi e non li non aprì più.
FINE INTERVISTA CON JOE R. LANSDALE di ANDREA G. COLOMBO I fans di Lansdale sono persone fortunate. Quando hai un mito - che sia uno scrittore, un attore o un cantante - e hai la possibilità di incontrarlo di persona, corri sempre il rischio di una bruciante delusione. Il tuo idolo potrebbe essere un pallone gonfiato, una insopportabile primadonna, potrebbe essere antipatico, noioso, potrebbe essere distante anni luce dalle cose che scrive, canta o recita. I lettori di Joe, invece, possono dormire sonni
tranquilli, perché se mai capiterà loro di incontrare di persona il loro scrittore preferito, non potranno restarne delusi: Joe è una persona eccezionale prima ancora che uno scrittore eccezionale, è un vulcano traboccante emozioni e sentimenti, quello che riversa su carta non è altro che una parte di quello che ribolle al suo interno. Quel texano biondo e piazzato dall'incedere rapido e gigione è l'esempio vivente di quanto siano miopi le persone convinte che chi scrive libri in cui la gente viene ammazzata sia un serial killer mancato. E modesto, paziente, adora moglie e figlia tanto da non separarsene in nessun viaggio, sopporta sgroppate e appuntamenti sotto il sole cocente senza un solo lamento, senza pretese da star, a tavola spara una battuta dietro l'altra ma non gli senti mai dire una sola cattiveria verso nessuno. Provate a sedervi allo stesso tavolo di un qualche scrittore italiano che abbia pubblicato solo mezza riga su un'antologia uscita per Pincopallo Editore e subito vi tedierà con le sue avversioni per Questo o Quello. Entrambi - ovviamente - molto più noti di lui. Insomma, Joe è come vorresti fosse il tuo scrittore preferito. Joe è proprio come speravo che fosse e questa intervista è solo una piccolissima parte della tempesta di domande a cui l'ho sottoposto nella sua visita italiana a Trieste nel maggio scorso. L'ultima volta che ci siamo parlati per un'intervista "ufficiale" è stato ben quattro anni fa, nel 1999. Nel frattempo hai pubblicato Freezer Burn che ci avevi annunciato nella precedente intervista, sei venuto in Italia, ospite del Salone del libro di Torino, dal tuo romanzo breve Bubba Ho-Tep hanno fatto un film e hai cambiato editore. Successo niente altro? Ci hai azzeccato. Adesso vengo pubblicato da Knopf (prima ero con Warner). Bubba Ho-Tep sta spopolando ai festival in cui viene presentato e una distribuzione come Dio comanda è imminente. Cosa ne pensi del film tratto dal tuo racconto? Tutto il meglio. Il film è fedele a quanto ho scritto e Bruce Campbell mi sembra abbia centrato lo spirito del "mio" Elvis ormai vecchio e disilluso. Un prodotto divertente. Ai ragazzi dovrebbe piacere. Hai mai pensato di scrivere una sceneggiatura apposta per il cinema? Oppure preferisci, come nel caso di Bubba Ho-Tep, che qualcuno tragga
ispirazione da un tuo libro? Ho scritto tre sceneggiature tratte da miei lavori, tutte opzionate o comprate. Ho collaborato ai soggetti dei cartoni animati di Batman, Superman, Batman & Robin: un lavoro divertente che sto continuando a fare. Sempre a proposito di cinema: negli ultimi tempi pare che il cinema horror viva una seconda giovinezza. Sono state proposte molte pellicole di discreto successo, prodotti curati nella realizzazione tipo Darkness o The Ring. Li hai visti? Che ne pensi? Mi sono piaciuti un sacco The Ring, Signs e pure L'acchiappasogni. Non male anche Tredici spettri e Nave fantasma. Sono di bocca abbastanza buona, in effetti... Difficile che un film horror mi deluda, per quanto mediocre. Ecco, no, Jeepers Creepers mi ha lasciato con l'amaro in bocca: i primi venti minuti sono da antologia, il resto è da dimenticare. Se il cinema horror pare godere di ottima salute, l'impressione è che invece la letteratura sia un malato cronico. Le vendite dei libri stentano anche negli USA sotto l'attacco di cinema e videogames oppure se la cavano? Sì, le vendite dei libri hanno risentito della concorrenza di altre forme di intrattenimento, ma credo si stia soltanto pagando il boom degli anni passati. Io vado meglio che mai... Ti sei mai chiesto quale sia il tuo "lettore tipo"? Quanti anni ha, i suoi gusti in fatto di letteratura e cinema, le sue idee sulla vita e roba simile? Uno scrittore di successo come te, riesce a gestire il rapporto con i suoi fans? Non credo di avere un lettore tipo. I miei romanzi piacciono un po' a tutti; c'è chi apprezza di più quelli "normali" e chi ama le serie mystery stile Hap & Leonard. I libri davvero strani li pubblico con piccoli editori, così sono sicuro di raggiungere il mio zoccolo duro, la mia nicchia di scoppiati. Parliamo di libri "strani", allora. Siamo nei paraggi dell'horror: pensi che ci sia ancora qualcosa che gli scrittori possano fare per conquistare lettori soprattutto tra i più giovani - rintuzzando l'assalto dei nuovi media, oppure
è una battaglia persa in partenza? L'horror ha cambiato pelle. Puoi trovarne elementi in libri non necessariamente di genere, persino nella narrativa tout court. Cinematograficamente parlando, mi pare funzioni alla grande. Editorialmente, non sparirà mai; è persino sopravvissuto all'inflazione degli anni Ottanta. Esistono ancora minuscole case editrici che ci campano sopra o giù di lì. Be', ma qualcosa si deve essere "rotto" davvero se Stephen King non fa che ripetere che vuole smettere di pubblicare. Il panorama editoriale statunitense è davvero così asfissiante da portare uno scrittore di successo a voler scappare? Stephen sta continuando a produrre, no? E allora... Quanto tempo dedichi alla scrittura? Ti obblighi a scrivere sistematicamente oppure solo quando hai l'ispirazione? Butto giù quattro o cinque pagine al giorno, talvolta di più, raramente di meno. Poi procedo alla revisione e spero in Dio. Tutto questo per cinque giorni alla settimana, tre ore ogni benedetta mattina. Se capita, sacrifico i weekend. Qual è il libro che hai scritto con più facilità? Freddo a luglio, senza alcun dubbio. E stato facile: mi sono sognato più o meno tutta la storia, poi appena sveglio mi sono detto: UAO! Ho cercato un foglio e ho scritto di getto tutto quanto il sogno. Nel giro di 24 ore la storia a grandi linee c'era già tutta e in brevissimo tempo il romanzo era finito. Liscio come l'olio. E qual è quello per il quale hai penato di più? Il secondo episodio del Drive In. Una storia troppo complicata... troppo folle, forse. Una vera fatica. E pensa che sto addirittura progettando il terzo capitolo della scoria. Si vede che non mi è bastata l'esperienza... Sei universalmente noto tra i tuoi lettori per l'ironia tagliente, per il ri-
corso divertente e dissacrante, per volgarità e orrori, per il tuo cinismo irresistibile. C'è un modello al quale ti sei ispirato, oppure è il tuo naturale modo di scrivere? Non credo di possedere uno spirito cinico. Satirico, forse. I miei personaggi possono sembrare disillusi e disincantati, ma io non lo sono. Però guardacaso nei tuoi libri fai sempre fare una fine terribile ai protagonisti più stupidi. Sembra esserci un messaggio chiaro nelle tue storie: il male succede per caso. E per caso colpisce il più imbecille della storia. È vero... di solito gli stupidi nei miei libri fanno fini terribili. Sul male che accade per caso... è la vita. Succede così ogni giorno. Perfettamente d'accordo. Dimmi: è difficile spaventare qualcuno quando si ha uno stile ironico come il tuo? Pensi di aver trovato l'equilibrio perfetto tra orrore e ironia? Oppure non te ne frega niente del terrore e preferisci andare a ruota libera? Si tratta sempre e solo di azzeccare il giusto mix. Non è facile ma continuo ma provarci. Da appassionato e scrittore di horror, pensi che i vecchi archetipi del genere (vampiri, demoni, spettri) siano ancora adatti a rappresentare le paure e gli orrori delle nuove generazioni, oppure iniziano a risentire del peso degli anni? Pensi che occorra reinterpretarli oppure abbandonarli per nuove e più smaglianti "metafore"? Oppure credi che vadano bene così come sono perché fanno parte di noi? I vecchi mostri mi divertono più che spaventarmi. Prendi la mummia di Bubba Ho-Tep per esempio. Ultimamente preferisco un tipo di orrore più realistico, anche se proprio in questi giorni sto ultimando un lungo racconto con un gruppo di supereroi impegnato a salvare Satana da un demone che l'ha posseduto. Parecchio sopra le righe, ma esilarante. O almeno spero. Ci sono anche altri mostri di cui parli di solito: il razzismo e la discriminazione, per esempio. Però lo fai sempre da un punto di vista particolare.
Hap e Leonard sono due carissimi amici, uno è bianco e un po' ignorante, l'altro è nero, gay e più colto. Le battute tra i due si sprecano, non c'è traccia di politically correct, eppure si capisce chiaramente quali siano le tue idee su chi discrimina gli omosessuali e le persone di colore. Sì, tratto sempre dell'argomento perché mi sta molto a cuore. In Texas (dove vive e lavora, NdA) non sempre è facile essere nero. O gay. O un nero gay. E per parlare di tutto questo non sempre bisogna fare pistolotti moralistici. Bastano poche battute per far capire ai miei lettori come la penso a proposito. Sei un appassionato di arti marziali e hai fondato una tua scuola con uno stile di combattimento, la Shen Chuan-Martial science. So che mette insieme molti stili di combattimento, dal Kung fu, al Judo alla Kick boxing. Mi sembra che riproponga la stessa filosofia di vita che si può leggere nei tuoi romanzi: concreta, senza troppi fronzoli, flessibile ed efficace. Secondo me la scrittura e le arti marziali sono molto simili: in entrambi i campi bisogna possedere sintesi, stile, logica e versatilità. Imparando ad accettare la vita così come viene, fallimenti e trionfi compresi. (Un grazie di cuore a Giovanni Ardui no per il prezioso aiuto come interprete) FINE