**** WILBUR SMITH CACCIATORI DI DIAMANTI. Johnny e Benedict hanno vissuto sempre insieme, uniti e solidali come fratelli...
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**** WILBUR SMITH CACCIATORI DI DIAMANTI. Johnny e Benedict hanno vissuto sempre insieme, uniti e solidali come fratelli. La loro non è stata un'infanzia comune: il Vecchio li ha portati con sé sulle montagne e nei deserti e loro hanno fatto tesoro della libertà selvaggia e primitiva che la natura offre a chi non ha legami né obblighi con il mondo. Ma tutto finisce quando il Vecchio mette le mani su un «vero» tesoro: un enorme, impagabile, purissimo diamante che gli consente di fondare un impero di potenza e ricchezza, la Van der Byl Diamond Company. Un cambiamento troppo radicale per non far crollare anche la più salda delle amicizie. Benedict, diventato un viscido, immorale e corrotto affarista, comincia a fare di tutto per screditare il leale e onesto Johnny agli occhi del padre. E ci riesce perché il Vecchio non accetta l'idea che Johnny, figlio adottivo, abbia piú successo nella vita e negli affari del suo primogenito. La vendetta scatta, inattesa, alla morte di Van der Byl: il testamento metterà i due uomini uno contro l'altro, in un finale di partita che potrebbe consentire a Benedict di gustare il piacere della vendetta definitiva. E sarà, come sempre in Wilbur Smith, una battaglia all'ultimo sangue, dispiegata in Sud Africa in un combattimento fatto di scontri frontali, ma costellato anche di colpi bassi e di attacchi sleali. Cacciatori di diamanti alterna, in perfetto equilibrio, una sottile trama psicologica a una sfrenata, esaltante, tesissima azione in cui, come sempre, Smith dimostra la sua strabiliante capacità di coinvolgere il lettore, facendolo partecipare «in presa diretta» a un indimenticabile duello finale. E se Johnny vorrà vincere, dovrà combattere aspramente perchè, spesso, la malvagità umana è più tenace e solida di un inattaccabile diamante. WILBUR SMITH Wilbur Smith è nato nel 1933 in Rhodesia del Nord (l'attuale Zambia), ma è cresciuto e ha studiato in Sud Africa. La stampa lo definisce «il più importante scrittore di avventure del nostro tempo». Wilbur Smith Cacciatori di diamanti. Titolo originale: The Diamond Hunters Traduzione di: Attilio Veraldi CACCIATORI DI DIAMANTI. A Dee. A Nairobi arrivarono con tre ore di ritardo e quando alla fine il Boeing del volo intercontinentale toccò terra a Londra, nonostante quattro doppi whisky Johnny Lance aveva dormito a spizzichi e male. Si sentiva come se gli avessero gettato una manciata di terra negli occhi. Alla fine, dopo il debilitante controllo dei passaporti, emerse nella sala arrivi dell'aeroporto internazionale di Heathrow di pessimo umore. L'agente londinese della Van Der Byl Diamonds Company era lí ad attenderlo. «Piacevole viaggio, Johnny?» «Quanto una puntata all'inferno», fu la risposta. Un grugnito. « Ti sarà servito da preparazione. » L'agente sorrise. Si conoscevano da tempo loro due e ne avevano viste di belle insieme. Anche Johnny sorrise, riluttante. «Mi hai fissato albergo e macchina? » «Dorchester e Jaguar.» L'agente gli porse le chiavi della macchina. «E ho anche prenotato il volo di ritorno a Città del Capo. Due posti, domani sera alle nove. I biglietti sono già alla portineria dell'albergo. » «Bravo. » Johnny si cacciò le chiavi della Jaguar nella tasca del cappotto di cashmere e s'avviò verso l'uscita. «Dov'è Tracey van der Byl? » L'agente si strinse nelle spalle. «Da quando ti ho scritto l'ultima volta è scomparsa, letteralmente svanita. E non riesco a immaginare nemmeno da dove tu possa cominciare a cercarla. » «Magnifico, davvero magnifico», ribatté Johnny, seccato. Erano arrivati al parcheggio. «Vuol dire che comincerò da Benedict. » « Il Vecchio sa di Tracey? » Johnny scosse il capo. «E' un uomo malato ormai, non gli
ho detto niente. » «Ecco la tua macchina.» L'agente s'era fermato accanto a una Jaguar grigio perla. «Pensi che ci sia la possibilità di bere qualcosa insieme, Johnny? » «Questa volta proprio no, purtroppo. » Johnny si mise al volante. « La prossima, magari. » «Ci conto», disse l'agente, e se ne andò. Quando Johnny raggiunse il cavalcavia di Hammersmith la sera umida e uggiosa era già calata e quando fu poi nel labirinto di Belgravia si perse un paio di volte prima di trovare l'angusto accesso al mews corte dietro Belgrave Square. Parcheggiò. Dall'ultima volta che era stato lí avevano rifatto la facciata della casa senza risparmio di mezzi e lui ora storse la bocca in una smorfia. Magari quel caro Benedict non si dava tanto da fare a guadagnar quattrini però ce la metteva tutta a spenderli. In casa le luci erano accese. Batté una mezza dozzina di energici colpi col batacchio di bronzo. Echeggiarono all'interno come nel vuoto e nel silenzio che seguì gli parve di sentire un mormorio di voci dietro le tende tirate. Scorse anche un'ombra. Attese un tre minuti, quindi andò a piazzarsi al centro del mews. «Benedict van der Byl, maledizione! » sbraitò. «Conto fino a dieci, dopodiché butto giú a calci questa maledetta porta! » Riprese fiato e tornò a sbraitare: «Sono Johnny Lance, Benedict! E sai che faccio sempre quello che dico! » La porta s'aprì quasi immediatamente e lui si precipitò dentro finendo di spalancarla con una spallata. Non badò a Benedict, che stava dietro al battente con la mano ancora sulla maniglia, puntò dritto sparato verso il soggiorno. Benedict gli corse dietro. «Cristosanto, Lance! Non puoi entrare li dentro! » « Perché no? » Johnny gli lanciò appena un'occhiata.» «L'appartamento appartiene alla società dopotutto, e io sono l'amministratore delegato. » E prima che Benedict facesse in tempo a ribattere l'altro aveva già varcato la porta. Una delle ragazze raccolse da terra i vestiti e corse nuda verso la porta della camera da letto. L'altra s'infilò in fretta un caffettano lungo fino ai piedi e guardò Johnny con aria seccata. Aveva i capelli scompigliati che le formavano una grottescà aureola d'irrigiditi riccioli intorno alla testa. «Una bella festicciola, a quanto vedo.» Johnny lanciò un'occhiata al proiettore sul comodino accanto al letto, poi allo schermo montato sulla parete opposta. «Coi filmini e tutto. » « Sei un piedipiatti? » chiese la ragazza. «Hai una gran bella faccia di corno, Johnny Lance. » Benedict van der Byl gli era accanto ora e stava ancora annodandosi la cintura della vestaglia di seta. « E' un piedipiatti? » chiese di nuovo la ragazza. «No», la rassicurò Benedict. «Lavora per mio padre.» Quell'affermazione parve fargli riacquistare fiducia; si drizzò in tutta la persona e, passandosi la destra tra i lunghi capelli neri, aggiunse: «Anzi, per la verità è il suo lacché». Anche la strascicata inflessione della voce aveva riacquistato la sua sciocca leziosità. Johnny si girò verso di lui rivolgendosi però, senza guardarla, alla ragazza: «Sgombra, marchetta. Va' a raggiungere la tua amica». La ragazza esitò. « Sgombra! » La voce di Johnny scoppiettò come un fuoco di fascine. Lui e Benedict si trovarono ora di fronte. Avevano la stessa età, poco oltre la trentina, ed erano ambedue alti e bruni, eppure non potevano esistere due tipi piú diversi l'uno dall'altro. Johnny aveva spalle larghe, vita e fianchi stretti e una carnagione lucida e abbronzata dal sole del deserto. La linea della mascella, grossa e sporgente, risultava netta e precisa e gli occhi erano quelli di chi è abituato a scrutare ampi orizzonti. Nella voce gli risuonavano, tutti, gli accenti di laggiú. «Dov'è Tracey?» In un'arrogante espressione di sorpresa, Benedict sollevò un sopracciglio.
Aveva il colorito olivastro perché erano mesi che non metteva piede in Africa e aveva perso l'abbronzatura. Le labbra erano molto rosse, da sembrare dipinte, e i lineamenti classici erano appesantiti dall'eccesso di peso. Aveva piccole borse allentate sctto gli occhi e l'avvolgente e morbida vestaglia di seta non riusciva a nascondere la pesantezza del fisico di chi è dedito piú al mangiare e al bere che al moto e all'esercizio. «Bello mio, cosa diavolo ti fa pensare che io sappia dove si trova mia sorella? Non la vedo da settimane. » Johnny gli voltò le spalle e attraversò la stanza. S'avvicinò a uno dei quadri sulla parete di fronte. La stanza era piena delle opere di bravi artisti sudafricani, Alexis Preller, Irma Stern e Tretchikoff: un insolito miscuglio di tecniche e di stili, ma qualcuno aveva convinto il Vecchio che si trattava di ottimi investimenti. Alla fine John, si girò verso Benedict. Lo esaminò, come aveva fatto con i quadri, paragonandolo allo scattante atleta che il giovane van der Byl era stato fino a pochi anni prima. Il ricordo che serbava di lui era quello di un Benedict che correva con l'eleganza d'un leopardo sul verde campo da gioco davanti alle tribune gremite; che seguiva inarrestabile e a capo alto l'ampio volo sfrecciante della palla ovale per bloccarla alla fine nel punto di ricaduta, caricare di nuovo verso il campo e riaprire il gioco. «Stai ingrassando, campione del cavolo», disse quasi in un sibilo. A Benedict la rabbia fece affluire il sangue alle guance, che s'arrossarono a chiazze. Ringhiò: «Vattene immediatamente! » « Immediatamente, certo. Prima però mi parli di Tracey. » «Te l'ho già detto, non so dove sia. Starà battendo dalle parti di Chelsea, immagino. » Johnny fu percorso da un immediato fremito di rabbia, ma si controllò. « Dove li prende i soldi, Benedict? » « Non lo so... Il Vecchio... » Johnny lo interruppe immediatamente: « Il Vecchio le passa appena dieci sterline la settimana, e da quel che ho sentito dire lei spende e spande ». «Santo cielo, Johnny!» Il tono di Benedict s'era fatto conciliante. «Non lo so. Non sono affari miei, dopotutto... Può darsi che Kenny Hartford le... » Johnny lo interruppe di nuovo, impaziente: «Kenny Hartford non le passa un bel niente. Lo stabilirono quando divorziarono. Ora io voglio sapere chi le finanzia questi viaggi nell'oblio. E allora, fratellino del cavolo, non ne sai proprio niente? » «Io?» Ora Benedict era indignato. «Sai benissimo che non moriamo d'amore l'uno per l'altra. » «Devo proprio dirtelo a tutte lettere? E va bene. Il Vecchio sta morendo, ma non ha perso una sola briciola di tutto il proprio disprezzo per ogni forma di debolezza e di peccato. Se Tracey diventa una barbona drogata allora può anche darsi che il nostro bravo Benedict abbia ottime probabilità di rientrare nelle grazie del vecchio genitore. Sarebbe quindi un ottimo investimento da parte sua tirar fuori qualche migliaio di sterline ora e mandare Tracey all'inferno. Tagliarla fuori completamente dal padre... e da tutti quei bei milioncini. » « Chi ha mai parlato di droga? » sbottò Benedict. «Ne sto parlando io adesso. » Johnny andò a piazzarglisi davanti. «Tu e io abbiamo un piccolo conto in sospeso, Benedict, e mi farebbe un immenso piacere farti a pezzi per vedere come funziona il tuo meccanismo. » Fissò a lungo Benedict finché questi, continuando a giocherellare con la cintura della vestaglia, abbassò lo sguardo. «Dov'è Tracey, Benedict?» «Cristiddio, non lo so! » A passo lento, Johnny s'avvicinò al proiettore e raccolse una bobina lí accanto sul comodino. Svolse un paio di metri di pellicola e li esaminò controluce. «Carino», disse, con una smorfia di disgusto. «Metti giú quella roba! » ringhiò Benedict. «Tu sai cosa pensa il Vecchio di queste porcherie, vero? » Di colpo, Benedict impallidì.
«Non ti crederebbe. » «Mi crederebbe si, altroché.» Johnny buttò la bobina sul comodino e si girò di nuovo verso di lui. «Crede sempre a quello che gli dico, perché non gli ho mai mentito. » Benedict esitava. A un certo punto, con un gesto nervoso, stasciugò le labbra col dorso della mano. «Non la vedo da piú di due settimane. L'ultima volta stava in un appartamentino in affitto a Chelsea. In Stark Street. Al ventitré. Venne a trovarmi. » « Come mai? » «Aveva bisogno di soldi. Le prestai un paio di sterline. » «Un paio? » «E va bene, un paio di centinaia. E' sempre mia sorella, dopotutto. » «Un gran bel gesto affettuoso e civile da parte tua. Avanti, su, scrivi quell'indirizzo. » Benedict andò a uno scrittoio col ripiano di pelle e scrisse l'indirizzo su un biglietto da visita, poi tornò da Johnny e glielo porse. «Tu ami crederti potente e pericoloso, Lance.» La voce, anche se bassa, gli strideva e tremava per la rabbia. «Ebbene anch'io, a modo mio, posso essere pericoloso. Il Vecchio non vivrà in eterno, Lance: il giorno stesso in cui lui chiude gli occhi ti sbrano. » «Già tremo di paura, Benedict. » Johnny gli sorrise e tornò alla macchina. A Sloane Square c'era un ingorgo e mentre cercava di districare la Jaguar per dirigersi verso Chelsea Johnny ebbe tutto il tempo per pensare. Gli ritornò vivo il ricordo dell'intimità che un tempo aveva legato tutt'e tre loro, Tracey, Benedict e lui. Come tre giovani selvaggi, correvano insieme, scatenati, per quell'immenso, interminabile campo da gioco che erano per loro le montagne, le spiagge, gli altipiani, le estensioni infinite della Namaqualand. Questo prima che il Vecchio facesse il suo clamoroso colpo lì allo Slang River, quando cioè ancora non c'erano i soldi neppure per comprarsi le scarpe, quando Tracey portava vestiti messi insieme con la tela dei sacchi di farina, quando andavano a scuola ogni giorno tutt'e tre insieme sull'unico pony senza sella, allineati in fila sulla groppa come un terzetto di scuri e spennati passeri su una staccionata. Ricordava le lunghe, assolate settimane in cui il Vecchio stava via di casa e, ridendo felici, loro s'abbandonavano ai propri giochi segreti issandosi poi ogni sera in cima al kopje dietro al capanno coi muri di fango. Da lassú scrutavano il nord al di là di quella terra sconfinata, che nel tramonto assumeva i colori della carne e della porpora, nella speranza d'avvistare lontano laggiú la nube di polvere che annunciava il ritorno del Vecchio. E ricordava la pungente, stimolante eccitazione allorché il traballante e impolverato camioncino Ford, coi parafanghi tenuti insieme con filo di ferro, compariva all'improvviso nel cortile e il Vecchio smontava dalla cabina, col cappello macchiato di sudore buttato all'indietro sul capo e la polvere tra i peli della barba lunga di chissà quanti giorni. Afferrava Tracey, che squittiva eccitata, e la lanciava in aria; poi rivolgeva la propria attenzione a Benedict e infine a lui, Johnny. Sempre in quell'ordine: Tracey, Benedict, lui. Eppure non s'era mai chiesto perché, almeno per una volta, non cominciasse da lui. Sempre quell'ordine immutabile: Tracey, Benedict, lui. Allo stesso modo, non s'era mai chiesto neppure perché mai lui si chiamasse Lance e non van der Byl. Poi, all'improvviso, quel luminoso, solare sogno d'infanzia ebbe fine, cessò di colpo. «Johnny, io non sono il tuo vero genitore. Tuo padre e tua madre morirono quando tu eri ancora molto piccolo. » Lui lo guardava incredulo. « Capisci, Johnny? » riprese il Vecchio. «Si, pa'.» In quel momento sotto al tavolo la mano di Tracey, caldo e affettuoso animaletto, cercò la sua.
Lui la ritrasse di scatto. « Forse sarà bene che non mi chiami piú così, Johnny. » Ricordava ancora il tono di quella voce, tranquilla, senza esitazioni, mentre mandava in frantumi il fragile cristallo della sua infanzia. Era stato l'inizio della solitudine. Premé sull'acceleratore e la Jaguar si tuffò in avanti verso King's Road. Sorprendente come i ricordi potessero fare ancora tanto male, eppure il tempo avrebbe dovuto addolcirli, ammansirli. Da allora la sua vita non era stata altro che un'incessante, accanita competizione per conquistare l'approvazione del Vecchio. Nel cui amore non osava neppure sperare. Poi, ben presto, seguirono altri cambiamenti. Una settimana dopo, inaspettatamente, il vecchio camioncino Ford sbucò rombando fuori dal buio della notte del deserto e la tuonante risata del Vecchio li tirò giú, assonnati e precipitosi, dalle loro cuccette. Accesa la lampada Petromax, il Vecchio li fece sedere sulle sedie da cucina intorno al traballante tavolo d'abete; poi, con l'aria del cospiratore, vi depose al centro quello che sembrava un grosso pezzo di cristallo. E loro tre, assonnati, rimasero a fissare quella specie di ciottolo senza capire. La luce cruda dell'acetilene sembrava imprigionata all'interno del cristallo, imprigionata, ingrandita e rilanciata di nuovo a loro come un fiammeggiante e azzurro lampo. «Dodici carati», gongolava intanto il Vecchio. «Bianco azzurro e perfetto. E ce n'è a carrettate là dove ho trovato questo. » Da allora ci furono vestiti nuovi e macchine, il trasferimento a Città del Capo, la scuola nuova, la grande casa sulla collina e sempre quella competizione, che non gli guadagnava come avrebbe dovuto l'approvazione del Vecchio ma piuttosto la gelosia e l'odio di Benedict van der Byl. Privo dello slancio e della motivazione che animavano lui, questi non poteva neppure sognarsi di porsi all'altezza di Johnny sia negli studi sia nello sport. In classe e sul campo da gioco non poteva stare al passo con Johnny... e l'odiava per questo. Dal canto suo, il Vecchio non s'accorgeva di niente perché ormai stava di rado con loro. Praticamente nella grande casa sulla collina vivevano loro tre soli con la governante, una donna magra e taciturna; il Vecchio ormai vi tornava sempre piú di rado e si fermava ogni volta di meno. E sempre con l'aria stanca e distratta. A volte da Londra, Amsterdam, Kimberley, gli portava regali che per loro ormai rappresentavano ben poco. Avrebbero preferito che tutto tornasse com'era prima, là nel deserto. Nel vuoto che il Vecchio s'era lasciato dietro l'ostilità e l'accanito antagonismo tra Johnny e Benedict arrivarono a tal punto che Tracey fu costretta a scegliere tra loro due. Scelse lui, Johnny. Nella loro solitudine s'attaccarono l'uno all'altra. Lei, la ragazzina chiusa in sé, e lui, il ragazzo allampanato, erano andati costruendosi un vero e proprio castello contro la solitudine. Era per loro un luminoso luogo sicuro nel quale la tristezza non poteva raggiungerli, e dal quale Benedict era escluso. Sterzando, abbandonò la corrente del traffico e imboccò la Old Church Street, nel cuore di Chelsea, dirigendosi verso il fiume. Guidava come un automa, mentre i ricordi gli s'affollavano alla mente. Si sforzò di ricatturare e rioccupare quel castello di calore e affetto che lui e Tracey s'erano costruiti tanto tempo prima, ma alla mente gli tornò immediatamente il ricordo della notte in cui esso era crollato. Una notte, nella vecchia casa su a Wymberg Hill, era stato svegliato da un pianto lontano. S'era allora alzato e, scalzo e in pigiama, s'era diretto verso quei singhiozzi strazianti. Aveva paura. Aveva quattordici anni e aveva paura del buio della grande casa.
Tracey stava piangendo, col capo affondato nel cuscino, e lui s'era chinato su di lei. « Tracey? Cosa c'è, Tracey? Perché piangi? » Lei era balzata su e, in ginocchio in mezzo al letto, gli aveva buttato le braccia al collo. «Oh, Johnny! Ho fatto un sogno orribile, un vero incubo. Stringimi, ti prego, proteggimi. Non andartene, non lasciarmi sola. » La sua voce era ridotta a un bisbiglio denso di lacrime. Lui s'era infilato nel letto con lei e l'aveva tenuta stretta finché s'era addormentata. Da allora ogni notte l'aveva raggiunta nella sua stanza, un fatto innocente e assolutamente infantile: una dodicenne e un ragazzo che le era fratello di fatto, se non di nome. Se ne stavano abbracciati nel letto e parlavano a bisbigli e ridevano a bassa voce finché il sonno li catturava e li portava via. Poi, improvvisamente una notte, era esplosa la vivida luce del lampadario al centro della stanza. Sulla soglia della porta della camera da letto di Tracey c'era il Vecchio. Dietro di lui Benedict, in pigiama, saltellava eccitato e continuava a ripetere, trionfante: «Te l'avevo detto, pa', te l'avevo detto! » Furente, con quel gran cespite di capelli grigi ritto come la criniera d'un leone ferito, il Vecchio afferrò Johnny e lo tirò via dal letto, letteralmente strappandolo dalle braccia di Tracey che lo avvincevano. «Piccola puttana! » ruggí e, tenendo con una sola mano, senza alcuna difficoltà, il ragazzo atterrito, si sporse e con la mano libera colpí in piena faccia la figlia. Dopodiché, lasciandola in lacrime, col viso nascosto nel cuscino, trascinò Johnny per tutto il corridoio fino allo studio al pianterreno. Ve lo spinse dentro con tale violenza da mandarlo a sbattere contro la scrivania. Poi andò alla rastrelliera e prese un bastone di malacca leggero e flessibile, tornò indietro, afferrò Johnny per i capelli e gli sbatté la faccia sul piano della scrivania. Già altre volte lo aveva picchiato, ma mai in quel modo, mai con tanta furia e ferocia. Fuori di sé per la rabbia, menò colpi alla cieca, ma molti colsero nel segno Pur nell'agonia di quel supplizio fu per Johnny un punto d'onore non emettere alcun grido, non mandare il minimo gemito. Si morse le labbra sino ad avvertire il sapore salato e metallico del sangue. «Non deve sentirmi urlare!» Soffocò ogni gemito e sentí i pantaloni del pigiama ormai zuppi di sangue appiccicarglisi alle gambe. Ma quell'ostinato silenzio serví solo da pungolo alla furia scatenata del Vecchio. Buttato via il bastone, tirò su la sua vittima e prese a colpirla con le mani, facendogli sbattere la testa da una parte all'altra con implacabili schiaffi che gli si ripercuotevano nel cranio con accecanti lampi. E tuttavia lui non crollava, si reggeva in piedi aggrappato al bordo della scrivania, con le labbra spaccate e gonfie, il viso tumefatto e macchiato di lividi, e questa ostinata resistenza spinse il Vecchio oltre i limiti della ragione. Strinse il pugno e lo sparò alla fine in piena faccia al ragazzo che, in una meravigliosa sensazione di sollievo, sentí il dolore schizzar via in un caldo fiotto di tenebra. Udí prima delle voci. Una era sconosciuta: «...come se l'avesse assalito una belva. Per poco non l'ha divorato. Dovrò informare la polizia». Poi un'altra, che gli parve di riconoscere ma che gli ci volle un pò per collocare. Provò ad «Prire gli occhi ma sembravano chiusi con un lucchetto. Il viso se lo sentiva gonfio e in fiamme. Con uno sforzo, riuscí ad aprire le palpebre e riconobbe Michael Shapiro, il segretario del Vecchio.
Stava parlando con quell'altro. Nell'aria c'era odore di antisettico e sul comodino accanto al letto c'era la borsa del dottore. Aperta. «Senta, dottore. Lo so che potrà sembrarle scorretto da parte mia, ma aspetti a chiamare la polizia. Non sarebbe meglio parlare prima col ragazzo? » Ambedue stavano guardando verso il letto. «Ha ripreso conoscenza.» Il dottore s'avvicinò immediatamente al letto. «Cosa t'è capitato, Johnny? Vuoi dirci cos'è successo? Ti prometto che chiunque sia stato a farti questo verrà punito. » Non erano cose da dire: nessuno al mondo poteva punire il Vecchio. Provò a parlare ma le labbra erano gonfie e pesanti. Provò di nuovo. «Sono caduto. Caduto. Non è stato nessuno. Nessuno. Sono caduto e basta. » Andato via il dottore, Mike Shapiro s'avvicinò al letto e si chinò su di lui. Quei suoi occhi scuri da ebreo erano pieni di compassione... e d'altro ancora. Rabbia, forse, o ammirazione. «Ti porto a casa mia, Johnny. Presto ti riprenderai. » Per due settimane rimase affidato alle cure di Helen, la moglie di Michael Shapiro. Le croste delle ferite vennero via, i lividi impallidirono trasformandosi in aloni giallastri, ma il setto nasale rimase definitivamente storto. Si studiava il nuovo naso allo specchio e non gli dispiaceva: sembrava un pugile, anzi un pirata. Passarono però molti mesi prima che la sensibilità scomparisse e potesse tranquillamente toccarsi il naso. «Senti, Johnny. Tu ora andrai a una nuova scuola. Un ottimo college a Grahamstown. » Michael Shapiro si sforzava d'assumere un tono entusiasta. Grahamstown distava cinquecento miglia. «Durante le vacanze tornerai nella Namaqualand, andrai a imparare tutto ciò che c'è da imparare sui diamanti e sulla loro estrazione. Ti piacerà, vedrai. Che ne dici? » Lui ci rifletté su, scrutando intanto il viso di Michael e leggendovi la vergogna che certamente doveva provare. «Quindi non tornerò piú a casa? » Per casa lui intendeva quella su a Wynberg Hill Michael scosse il capo. « Ma allora quando li... » Esitò, cercando le parole giuste. «Quando li rivedrò di nuovo? » «Non lo so, Johnny», rispose Mike, in tutta sincerità. Come Michael Shapiro aveva detto, si trattava di un ottimo college. La prima domenica dopo il suo arrivo, alla fine del servizio religioso seguí gli altri ragazzi in classe: la domenica era d'obbligo scrivere a casa. Tutti si misero subito a scrivere in fretta le loro lettere e letterine ai genitori, lui rimase lí immobile nella sua angustia finché il professore incaricato si fermò accanto al suo banco. «E tu, Lance? Non scrivi? » chiese, premuroso. «Sono sicuro che i tuoi vorranno sapere come ti trovi qui. » Obbediente, lui prese la penna e per un pò stette a fissare la pagina bianca e vuota. Alla fine scrisse Signore, spero che Le faccia piacere sapere che ora mi trovo in collegio. Il cibo è buono, ma i letti sono molto duri. Andiamo in chiesa ogni giorno e giochiamo a rugby. Suo JOHNNY
Da allora fino a quando, tre anni dopo, lasciò il college per andare all'università, scrisse al Vecchio puntualmente una lettera la settimana, in ognuna delle quali gli si rivolgeva chiamandolo Signore ed esordendo sempre nello stesso modo: Spero che le faccia piacere sapere che... Nessuna di quelle lettere ebbe mai risposta. Una volta al trimestre riceveva invece una lettera, scritta a macchina, da Michael Shapiro che lo informava di volta in volta delle decisioni prese riguardo alle sue vacanze. Di solito queste consistevano in un viaggio in treno di centinaia di miglia attraverso il Karroo fino a un villaggio sperduto in quella vasta e arida desolazione, dove un piccolo aereo della Van Der Byl Diamonds lo aspettava per portarlo ancora piú addentro nel deserto fino a una delle concessioni della società. Lí, come Michael Shapiro aveva anticipato, cominciò a imparare tutto sui diamanti e sulla loro estrazione. Quando alla fine s'iscrisse all'università risultò dunque del tutto naturale per lui scegliere la facoltà di geologia. Intanto continuava a essere tenuto alla larga dalla famiglia van der Byl. Non aveva mai piú visto nessuno di loro, né Tracey né Benedict né, meno che mai, il Vecchio. Poi all'improvviso, il pomeriggio d'un giorno memorabile, li vide tutt'e tre. Era all'ultimo anno dell'università e che avrebbe ottenuto la laurea era piú che una certezza: sin dal primo anno era sempre stato il primo di tutti i corsi e in testa a tutte le classifiche d'esami, tanto da riuscire alla fine a essere nominato Senior Student della Stellenbosch University; ora però lo attendeva un ulteriore alloro. Entro dieci giorni il comitato della Lega Nazionale di Rugby avrebbe annunciato la formazione della squadra destinata a incontrare il New Zealand All Black in tournée, e la scelta di Johnny come centroala era sicura quanto la laurea in geologia. La stampa sportiva lo aveva battezzato Jag Hond, dal nome del feroce predatore africano, il cane selvatico della regione del Capo, animale di incredibile forza, resistenza e ferocia che sfianca le sue prede nella corsa. Il soprannome aveva avuto successo e Johnny era diventato il beniamino del grande pubblico sportivo. Nella squadra della Cape Town University, poi, c'era un altro grande beniamino dei tifosi il cui posto nella nazionale che avrebbe incontrato l'All Black era sicuro quanto quello di Johnny Lance. Dalla sua posizione in terza linea Benedict dominava l'intero campo da gioco con la grazia e l'eleganza d'un eletto degli dei. Era diventato un pezzo d'uomo dalle spalle larghe e le gambe possenti, bruno e di bell'aspetto. Johnny guidò la squadra ospite al centro del verde campo e, mentre saltellava ed eseguiva piegamenti e flessioni, volse lo sguardo in alto verso le tribune gremite per accertarsi che gli alti sacerdoti della lega del rugby fossero tutti presenti. Scorse il dottor Danie Craven insieme con gli altri membri del comitato lassú nel settore a loro riservato, piú in basso di quello della stampa. Seduto davanti a lui, e piegato e girato all'indietro per rivolgergli la parola, c'era il primo ministro. Quell'incontro tra le due università era il grande evento del campionato di rugby e gli aficionedos avevano fatto migliaia di miglia per assistervi. Il primo ministro sorrideva e scuoteva il capo in segno d'assenso poi si sporse in avanti e batté sulla spalla d'una grossa figura dal capo candido che sedeva nella fila sotto di lui. Allorché quella gran testa bianca si girò e guardò dritto nella sua direzione, Johnny si sentí percorso da una vera e propria scarica elettrica. Era la prima volta in sette anni, la prima volta da quell'orribile notte, che vedeva il Vecchio. Sollevò il braccio in segno di saluto e il Vecchio guardò a lungo dalla sua parte prima di girarsi e mettersi a parlare col primo ministro. A quel punto entrarono in campo le majorettes.
Sfilarono in parata sollevando alte le gambe nel loro passo spettacolare; belle ragazze tutte, giovani e arrossate per l'eccitazione e lo sforzo, vestivano i colori della Cape Town University, con gli stivali bianchi, il gonnellino corto e il cappello alto. Come un frastornante rullo di tamburi che sembravano battere a tempo con le pulsazioni del sangue, l'urlo della folla si ripercosse nelle orecchie di Johnny: nella prima fila aveva visto Tracey van der Byl. La riconobbe immediatamente nonostante fosse diventata ormai una giovane donna. Aveva gambe e braccia abbronzate e i capelli neri e lucidi le arrivavano fin sulla spalla. Marciava a tempo con le compagne, sollevando alte le gambe e lanciando le tradizionali grida d'incitamento, sculettando in innocente abbandono, mentre la folla urlava e stagitava e la frenesia generale s'avviava a diventare scalmanata. Rimase a guardarla completamente immobile in tanta agitazione. Era la donna piú bella che avesse mai visto. Poi lo spettacolo ebbe termine, le majorettes si ritirarono, portandosi verso l'uscita degli spogliatoi, e la squadra di casa entrò in campo al trotto. Benedict van der Byl raggiunse il suo posto e si voltò. Dal calzerotto che gli arrivava al ginocchio tirò fuori un pettine e se lo passò tra i capelli scuri. Incantata da quel piccolo gesto teatrale, la folla urlò e fischiò. Lui rimise il pettine nel calzerotto e, in posa arrogante, con una mano sul fianco e il mento sollevato, scrutò la squadra avversaria. A un certo punto incontrò lo sguardo di Johnny e cambiò posa, abbassando gli occhi e strofinando lievemente un piede a terra. Risuonò il fischio e la partita ebbe inizio. Si rivelò subito per quello che la folla aveva sperato che fosse, un grande incontro con un gioco che non poteva non entusiasmare e non restare di certo nel ricordo di tutti. Cariche pesanti e ben congegnate da parte degli avanti, lunghe e veloci incursioni della terza linea mentre la palla ovale balzava di mano in mano finche una placcata rompiossa non sbatteva a terra colui che la possedeva in quel momento. Un gioco pesante e tuttavia limpido che si svolgeva veloce da un capo all'altro del campo. Cento volte la folla saltò in piedi, gli occhi spalancati e le bocche urlanti in una frenetica tensione, per rimettersi poi a sedere con un ringhio allorché un disperato intervento della difesa riusciva a bloccare la palla a pochi centimetri dalla linea di meta. A tre minuti dalla fine ancora non era stato segnato un solo punto. Al termine d'una mischia i Cape Town passarono all'attacco infilandosi in un varco nella difesa avversaria e sparando subito dopo in aria il pallone in un veloce allungo; lo bloccò al volo, senza il minimo mutamento nel ritmo della sua corsa lanciata, una delle ali dei Cape Town le cui scarpette sembravano cavar scintille persino dall'erba verde. Di nuovo la folla balzò in piedi entusiasta. Johnny si tuffò e lo placcò basso, poco sopra al ginocchio, colpendolo con la spalla. Entrambi rotolarono fuori dal limite staccando zolle di terra dalla linea bianca mentre la folla, con un boato, si rimetteva a sedere. Nell'attesa della rimessa in gioco, Johnny lanciò rapidi e rochi ordini. Aveva la maglietta marrone e oro zuppa di sudore e un rivolo di sangue da un'escoriazione sul fianco gli macchiava i calzoncini bianchi. «Rimetti, presto! Non tenertela. Passala a Dawie. Dawie, calciala in alto e in avanti! » Poi al lancio sparato della palla schizzò in aria e la colse al volo con un pugno, rimandandola esattamente tra le mani di Dawie. Contemporaneamente si girò per bloccare gli attaccanti avversari. Dawie indietreggiò di due passi e calciò. La forza con cui lo fece fu tale che il piede destro gli si sollevò al disopra della testa mentre l'impeto lo spinse in avanti facendolo ruotare.
La palla andò prendendo sempre piú quota volando come una freccia, senza la minima vibrazione. Raggiunse l'apice della traiettoria esattamente sopra la metà campo dopodiché prese a ricadere. Ventimila teste seguirono quel volo mentre campo e tribune piombavano in un improvviso silenzio. E in quell'innaturale calma Benedict van der Byl prese a indietreggiare a poco a poco nella propria parte del campo, raggiungendo il punto esatto di ricaduta della palla a passo ingannevolmente lento e tuttavia col tempismo del grande atleta. La palla andò a infilarglisi precisa tra le braccia e lui puntò calmissimo verso il centro campo aprendosi l'angolazione per il calcio di ritorno. Sul campo intanto incombeva ancora quel magico silenzio: l'attenzione generale era concentrata su Benedict van der Byl. «Jag Hond! » Una voce isolata nella folla lanciò l'allarme e ventimila teste si voltarono verso la parte opposta del campo. « Jag Hond! » Un ruggito, ora. Johnny s'era staccato dal gruppo dei centravanti e muovendo ritmicamente braccia e gambe stava puntando deciso su Benedict. Un tentativo e uno sforzo inutili: non poteva sperare d'intercettare un giocatore del calibro di Benedict da una cosí lunga distanza. Ma lui stava mettendocela tutta, bruciando in quella carica l'ultime forze rimastegli. Il suo viso era una sudata e lucida maschera di determinazione e nella sua folle carica sollevava con le scarpette intere zolle di terra. A un certo punto successe qualcosa d'irripetibile e incredibile. Benedict van der Byl lanciò un'occhiata dietro di sé, vide Johnny e cambiò passo, rallentò e con due impacciate falcate girò su se stesso e tentò di rientrare verso la propria metà campo. Tutta la sua sicurezza parve svanire di colpo, insieme con l'abilità e l'eleganza. Inciampò, fu sul punto di cadere e la palla gli sfuggí di mano, rotolando lontano. La rincorse allora goffamente, allungando le braccia alla cieca mentre continuava a lanciare occhiate dietro di sé. Johnny era molto vicino: ansimando a ogni passo come un leone ferito al ventre, l'enormi spalle già piegate in avanti per la placcata, le labbra ritratte in un ghigno di scherno. Benedict van der Byl cadde in ginocchio e si coprí la testa con le braccia, piegandosi sull'erba. Johnny lo rasentò senza rallentare e, chinandosi in corsa, raccolse con estrema facilità la palla rotolante. Quando Benedict, sempre in ginocchio, abbassò le braccia e guardò in su, Johnny era a dieci iarde di distanza, piantato in mezzo ai pali della porta, e lo guardava a sua volta. Quindi, sempre con calma, si chinò e si poggiò la palla tra i piedi, segnando cosí ufficialmente la meta. Nello stesso istante, poi, come per un accordo preso, lui e Benedict si girarono a guardare verso la tribuna centrale e videro il Vecchio: s'era alzato e, a passo lento, si dirigeva verso l'uscita facendosi largo tra la folla incantata. Il giorno successivo all'incontro Johnny se ne tornò nel deserto. Stava sul fondo d'uno scavo di sondaggio aperto nel terreno roccioso e laggiú, in quel buco profondo, il caldo era insopportabile. Indossava solo un paio di miseri calzoncini cachi e i muscoli abbronzati erano lucidi di sudore, e tuttavia lavorava di lena ai suoi prelievi. Stava ripercorrendo i limiti e il profilo d'un antico terrazzamento marino che le ere avevano seppellito sotto la sabbia. E lí, su quel letto di roccia, s'aspettava di rintracciare il sottile strato di ghiaia diamantifera. Sentí il rombo della jeep che stavvicinava e il crepitio dei passi sul terriccio lassú in alto. Si tirò allora su massaggiandosi i muscoli dolenti della schiena. Sul bordo dello scavo c'era il Vecchio e stava guardandolo.
In mano aveva un giornale piegato. Era la prima volta in tutti quegli anni che Johnny lo vedeva da vicino; rimase colpito dal cambiamento. La gran massa di capelli era bianchissima e i tratti erano segnati e incavati come quelli d'un mastino. Il gran naso arcuato risaltava ora ancor piú, stagliandosi sul viso come un promontorio. Il corpo invece non presentava appesantimenti né cedimenti e gli occhi erano sempre d'un agghiacciante e imperturbabile azzurro. Lasciò cadere il giornale nella fossa. « Leggi! » Senza staccargli gli occhi di dosso, lui lo raccolse. Il giornale era aperto alla pagina sportiva e il titolo era grosso e vistoso: JAG HOND SCELTO. VAN DER BYL SCARTATO La sorpresa fu piacevole quanto un tuffo in un torrente di montagna. Era stato scelto! Avrebbe indossato la maglia verde e oro e sulla tasca di petto del blazer avrebbe portato l'antilope saltante! Guardò in su, fiero e felice, col sole che gli batteva sul capo scoperto, e attese che il Vecchio parlasse. E quello parlò: «Ora decidi», disse a bassa voce. «Vuoi giocare a rugby o lavorare per la Van Der Byl Diamonds? Tuttte due le cose non puoi farle. » Dopodiché se ne tornò alla jeep e partí. Il giorno dopo lui telegrafò per comunicare la propria decisione di ritirarsi dallo sport. L'esplosione di proteste e accuse su tutta la stampa nazionale e le centinaia di lettere velenose che ricevé e nelle quali lo si accusava di tradimento, vigliaccheria e peggio ancora gli fecero benedire per una volta tanto la solitudine nel deserto. Lui e Benedict non giocarono piú nessuna partita. Ripensandoci ora, cosí tanto tempo dopo, avvertí il morso del rimpianto: aveva desiderato con tutta l'anima quel distintivo verde e oro. Accostò al marciapiede per studiare la carta stradale di Londra: Stark Street era mezzo nascosta poco oltre la King's Road. Rimise in moto e il ricordo di quel che aveva provato quando il Vecchio lo aveva privato di quel distintivo, un'angustia a malapena sopportabile, tornò vivo. Nel deserto l'unica sua compagnia erano gli uomini della tribú Ovambo, discesi dal nord, e quei pochi bianchi taciturni che quelle lande selvatiche producono, inaccessibili come le loro catene montuose e invincibili come la loro vegetazione. I due deserti del Namib e del Kalahari sono tra i luoghi piú isolati e sperduti del mondo e le notti, nel deserto, sono lunghissime. Neppure la stremante e ininterrotta fatica di tutto il giorno riusciva però a stancare Johnny abbastanza da impedirgli di sognare una bella ragazza in gonnellino bianco e stivali alti anch'essi bianchi, o una bionda chioma antica sopra una faccia di granito. A quei lunghi giorni e a quelle notti ancora piú lunghe risalivano due imprese destinate a segnare come pietre miliari la strada del suo successo. Portò alla luce un nuovo giacimento diamantifero, piccolo ma ricco, in una regione nella quale nessuno credeva che esistessero diamanti; s'assicurò un giacimento d'uranio che in seguito la Van Der Byl Diamonds vendé per due milioni e mezzo. Ma i suoi sforzi diedero ancora altri frutti, altrettanto preziosi anche se meno clamorosi. A venticinque anni il suo nome, Johnny Lance, veniva bisbigliato nell'ambiente chiuso e inaccessibile dell'industria diamantifera come quello di un giovane brillante che stava facendosi strada. Arrivarono quindi offerte, come socio minoritario in uno studio di consulenza geologica, come direttore dei lavori d'una piccola società che si batteva tenacemente lavorando concessioni secondarie nel Murderers Karroo e altre ancora: tutte rifiutate. Erano buone offerte, ma lui rimaneva fedele al Vecchio. Poi venne notato dalla Grande Compagnia.
Un secolo fa la prima preziosa vena di Blue Ground dell'Africa meridionale venne scoperta sul terreno pietroso della fattoria di un vecchio boero, un certo De Beer. Questi vendé la fattoria per seimila sterline mai immaginando che sotto lo strato di quell'arida terra ci fosse un tesoro del valore di trecento milioni di sterline. La scoperta venne battezzata la New Wave De Beers: orde di cercatori, minatori, piccoli affaristi, faccendieri, sbandati, imbroglioni e lestofanti si precipitarono a comprare e a sfruttare piccole insignificanti concessioni, ognuna delle dimensioni al massimo d'una grossa stanza. Da questa bella compagnia di soldati di ventura due personaggi emersero e presero rilievo sino al punto di riuscire tra loro due a possedere la maggior parte delle concessioni della New Wave. Quando questi due signori, Cecil John Rhodes e Barney Barnato, unirono alla fine le rispettive risorse dall'unione nacque un'impresa finanziaria senza uguali al mondo. Da origini umilissime la società arrivò a vette altissime di rispettabilità e dignità. La sua ricchezza è oggi favolosa, la sua influenza incommensurabile, la sua cifra d'affari astronomica. Essa controlla la produzione dei diamanti del mondo intero; controlla inoltre le concessioni minerarie su intere regioni dell'Africa meridionale e centrale per un totale di centinaia di migliaia di chilometri ed è impossibile calcolare le sue riserve di preziosi minerali base non ancora estratti. Le piccole società diamantifere riescono a coesistere con le grandi fino a quando raggiungono una certa dimensione dopodiché, di colpo, vengono fagocitate come un qualunque pesce pilota divenuto troppo grosso e audace viene inghiottito da uno squalo tigre. Una Grande Compagnia può permettersi le migliori prospezioni, la migliore attrezzatura, i migliori uomini. Fu cosí che uno dei suoi innumerevoli tentacoli provò ad avviluppare Johnny Lance. La cifra offerta fu pari al triplo del suo stipendio di allora e al doppio di quello che avrebbe mai potuto sperare di guadagnare. Eppure Johnny Lance rifiutò senza esitare. Forse il Vecchio non ne seppe nulla e forse l'offerta che in seguito venne fatta a Johnny di dirigere i lavori nell'Operazione Litorale fu una semplice coincidenza, sta di fatto comunque che gli venne fatta. L'operazione fu chiamata Re Canuto. La Van Der Byl Diamonds aveva una concessione per la prospezione di una sessantina di chilometri di spiaggia. Si trattava d'una sottile striscia di litorale profonda una quarantina di metri al di qua della linea del bagnasciuga e una quarantina al di là. Le concessioni per il territorio alle spalle di quella striscia erano invece della Grande Compagnia, che ne aveva comprato l'intera estensione, una dozzina di vastissimi ranch, al solo scopo di ottenere appunto i diritti di prospezione e sfruttamento. Anche le concessioni marine, che abbracciavano un territorio che si spingeva fino a dodici miglia al largo della costa, appartenevano alla Grande Compagnia. Le erano state assegnate per atto governativo venti anni prima. Alla Van Der Byl Diamonds era andata invece la striscia detta Oceanica, e compito della Re Canuto era appunto sfruttarla. Come una nube di polvere, la caligine marina arrivava a grandi folate dalle fredde acque della corrente del Benguela e con essa arrivavano, marciando lente, l'ondate che s'abbattevano sulla gialla spiaggia e sull'alte e corrose scogliere della Namaqualand. L'ondate stergevano alte e fiere prima d'abbattersi e le loro creste fremevano inquiete prima d'assumere un luminoso color verde e di dissolversi in una nube di spruzzi trascinata dal vento. Infine s'arcuavano e scivolavano l'une sull'altre nel mugghio della fremente e bianca risacca. Johnny sedeva al volante della Land Rover scoperta.
Contro il freddo dell'alba caliginosa aveva indossato una giacca di montone ma aveva il capo scoperto e il vento gli agitava sulla fronte il ciuffo di capelli neri. Spingeva in avanti la forte mascella e teneva le mani chiuse a pugno nelle tasche del montone. Nel valutare la forza e l'altezza delle onde aveva un'espressione aggressiva stampata sul viso. Con quel naso storto sembrava un pugile in attesa del gong della prima ripresa. A un tratto, con goffo gesto stizzito, levò di scatto la mano sinistra dalla tasca e lanciò un'occhiata all'orologio che aveva al polso. Mancavano due ore e tre minuti all'alta marea. Si cacciò di nuovo in tasca la mano chiusa a pugno e si girò sul sedile per guardare i bulldozer dietro di lui. Erano undici, undici enormi D8 Caterpillar giallo acceso, allineati lungo la battigia. Sugli alti sedili arretrati i conducenti con gli occhialoni sedevano in attesa, in grande tensione. Guardavano lui con ansia nervosa. Piú oltre, bene arretrate, c'erano le palatrici, sgraziate e grosse macchine con ventri gonfi come femmine incinte e spropositati pneumatici piú alti d'un uomo. Al momento opportuno sarebbero entrate in azione alla velocità di cinquanta chilometri l'ora, calando le lame d'acciaio che avevano sotto al ventre e raschiando con esse, raccogliendo e caricando una quindicina di tonnellate di sabbia o pietrisco per volta per poi riprecipitarsi all'asciutto a mollare il carico, girare su se stesse e correre ad azzannare un altro gargantuesco boccone di terra. In attesa del momento giusto in cui lanciare un quarto di milione di sterline di macchinario nell'oceano Atlantico, nella speranza di mettere le mani su una manciata di luccicanti ciottoli, Johnny controllò il proprio impeto. Alla fine quel momento giunse e lui perse ancora un mezzo minuto di tempo prezioso prima di passare all'azione. Quindi, urlò nel megafono: «Avanti! », e agitò il braccio nell'ampio e inconfondibile gesto di chi ordina di avanzare. «Avanti! » urlò di nuovo, ma il suono della voce si perse. Anche quello delle onde si perse nel gran rombo assordante dei motori diesel. Abbassando le loro enormi pale d'acciaio, i bulldozer avanzarono allineati come una fila di mostruose ballerine d'acciaio, e subito sotto quelle pale la dorata sabbia s'aggrinzò cedendo come burro alla lama d'un coltello, ammassandosi davanti ai mostri meccanici, formando prima un mucchio e infine un alto muro. Spingendo, scavando, spalando, sollevando, i bulldozer presero a spostare quel muro di sabbia. Le mani dei conducenti agivano sui comandi veloci come quelle di baristi impazziti intenti a riempire centinaia di boccali di birra alla spina, mentre i motori ruggivano, ringhiavano, tornavano a ruggire. Il muro di sabbia incontrò il primo lento flusso dell'onda che aveva appena risalito la spiaggia e lo frenò. E il mare, con quel che parve stupore e incertezza, si ritrasse, ribollendo e spumeggiando, davanti a quella mobile diga di sabbia. Poi i bulldozer diedero inizio a un complicato ma ben congegnato balletto, sobbalzando e avanzando, sollevando e calando le lame, retrocedendo e procedendo sotto la direzione del grande coreografo Johnny Lance. La Land Rover correva su e giú lungo il ciglio dell'enorme fossato che veniva man mano formandosi mentre Johnny urlava ordini e consigli nel megafono. Poco per volta, lentamente, una diga falciforme avanzò verso il mare mentre dietro di essa le pale dei bulldozer scavavano nella cedevole sabbia gialla fino a due, tre e poi quattro o cinque metri di profondità. Alla fine, all'improvviso, incapparono nella linea ostrea, il sottile strato di conchiglie e ostriche fossilizzate che tanto spesso nell'Africa sud occidentale copre la ghiaia diamantifera. Johnny notò il mutamento di forma del fossato, vide le conchiglie cadere giú dalle lame dei bulldozer. Urlando ordini e agitando le braccia fece spianare dai bulldozer una rampa a ciascun estremo del fossato perché le palatrici potessero accedervi.
Quindi li rispedí a sostenere la diga contro la risacca. Guardò l'ora. «Un'ora e tredici minuti», mormorò. «Ci stiamo mettendo molto. » Valutò il lavoro fatto. Il fossato era lungo poco meno di duecento metri e profondo una decina, il riporto di sabbia era stato spinto fuori, la linea ostrea appariva netta e bianca alla luce del sole e i bulldozer avevano lasciato il fondo del fossato e stavano tenendo a bada le onde. «Bene», mormorò Johnny. «E ora vediamo su cosa abbiamo messo le mani. » Si girò verso le due palatrici ferme in attesa al disopra del bagnasciuga. «Cominciate a caricare!» gridò, e fece segno agitando il braccio. Una dietro l'altra, le due macchine avanzarono rombando; compirono un ampio arco all'imbocco del fossato e quindi s'avventurarono giú per la rampa verso il fondo. Ammassarono un carico di conchiglie e ghiaia senza rallentare la velocità e risalirono ansimando la rampa opposta, accelerando una volta in alto e andando a depositare il loro carico ai piedi del costone di roccia, molto piú su della battigia. Dopodiché tornarono indietro e poi ancora su e di nuovo giú nel fossato, una dietro l'altra, mentre i bulldozer tenevano a bada il mare che cominciava a infuriarsi e inviava le sue schiere in avanscoperta lungo la diga in cerca del punto debole in cui attaccare. Johnny tornò a guardare l'orologio. «Tre minuti all'alta marea», disse ad alta voce, e sorrise. «Ce la facciamo... spero! » Accese una sigaretta, rilassandosi alla fine. Si mise al volante e diresse la Land Rover lungo la spiaggia, andando a parcheggiare oltre la montagna di ghiaia che le palatrici stavano ammassando. Smontò e si chinò a raccogliere una manciata di ghiaia. «Magnifica! » bisbigliò. «Oh, bella, bellissima! » Era come s'aspettava che fosse. L'aspetto era ottimo e in quella sola manciata individuò un piccolo granato e un'agata piú grossa. Raccolse un'altra manciata. «Diaspro» gongolò. «E siderite striata! » Tutte pietre che s'accompagnano al diamante; dove c'è questo ci sono loro. Anche la forma era quella giusta, le pietre erano tonde e levigate e brillanti come palline di vetro, non appiattite come monete, come quando vengono erose da una sola parte. Una pietra tonda significa intervento e azione di onde, vale a dire tappo diamantifero. « Abbiamo trovato uno scrigno, me lo raschierò tutto. » Su una sessantina di chilometri di spiaggia aveva scelto una striscia di duecento metri e aveva fatto centro. Non un colpo di fortuna ma un attento studio della configurazione della costa e delle fotografie aeree delle forme ondose e dei contorni del fondo marino; un'accurata analisi della sabbia delle spiagge e, infine, quell'indefinibile senso del terreno che un buon cercatore di diamanti ha sempre. Nel ritornare verso la Land Rover era dunque molto compiaciuto. Le palatrici avevano raschiato fino al letto di roccia, il loro compito era dunque terminato e infatti erano uscite dal fossato e stavano ora, ansimando, accanto all'enorme mucchio della ghiaia da loro raccolta. « Il fondo, ora! » ruggí Johnny. Il paziente esercito di ovambo che se ne stavano accoccolati in attesa sulla spiaggia calò formicolante giú nel fossato. Il loro compito era di grattarne e pulirne il fondo, perché un'enorme percentuale di diamanti poteva essere filtrata attraverso la ghiaia giú nei crepacci e tra le asperità del letto di roccia. Il mare intanto aveva cambiato umore. Stizzito per la violenza esercitata sulle sue spiagge s'avventava ora furioso e urlante contro la diga di sabbia. La marea aggiungeva la sua forza e i bulldozer dovevano raddoppiare gli sforzi per tenerla a bada. Nel fossato gli ovambo lavoravano intanto freneticamente, limitandosi a lanciare ogni tanto occhiate ansiose al muro di sabbia che tratteneva l'Atlantico.
A questo punto Johnny era di nuovo molto teso. Se li avesse fatti sgombrare prima avrebbe di sicuro abbandonato dei diamanti nel fossato, se ve li lasciava fino all'ultimo momento c'era il pericolo che tutto il macchinario venisse travolto, insieme con gli uomini. Fu tempista, fin troppo tempista. Fece ritirare gli uomini nell'istante stesso in cui il mare cominciava a irrompere oltre la diga e a infiltrarvisi sotto. Poi fece ritirare i bulldozer: dieci, uno era ancora dentro. Si ritirava in maniera insopportabilmente lenta, arrancando sul fondo del fossato vuoto. Poi il mare si precipitò dentro da due punti contemporaneamente, riversandosi ribollendo nel fossato con un'ondata alta fino alla vita. Il conducente del bulldozer la vide arrivare, esitò un attimo quindi il coraggio gli venne meno e saltò giú dal posto di guida. Abbandonando la macchina al mare, corse precipitoso davanti all'onda irrompente dritto verso il piú vicino fianco scosceso del fossato. «Bastardo!» imprecò Johnny alla vista del conducente che si metteva in salvo. « Ce l'avrebbe fatta. » Ma ce l'aveva anche con se stesso. Aveva tardato troppo a ordinare di ritirarsi e ora stava sacrificando ventimila sterline di macchinario. Ingranò con impeto la marcia della Land Rover e puntò verso il fossato. Il gippone saltò oltre il ciglio di questo come uno sciatore su una china e piombò giú sul fondo. La caduta fu attutita dal declivio sabbioso e la Land Rover si riprese e balzò in avanti incontro all'ondata d'acqua. Questa s'avventò sopra al cofano e quasi fece roteare il gippone su se stesso, ma Johnny riuscí a rimetterlo in corsa e a puntare ancora una volta sul bulldozer abbandonato. Avendo il motore completamente sigillato proprio in vista di eventualità del genere, la Land Rover avanzava ora senza difficoltà sollevando due alti spruzzi d'acqua ai lati. Ma il suo impeto perdeva forza man mano che altra acqua le s'avventava contro. Poi, all'improvviso, l'intera diga di sabbia cedette alla spumeggiante furia e l'Atlantico prese il sopravvento. L'alta ondata di verde acqua che s'abbatté sul fossato colpí la Land Rover capovolgendola e scagliando Johnny lontano nell'acqua ribollente, mentre il gippone veniva trascinato via capovolto, con le quattro ruote levate in alto come in atto di resa. Johnny andò sotto ma riaffiorò immediatamente. Nuotando e guadando insieme, sbattuto dal ribollio dell'acqua, si trascinò verso l'isola di giallo acciaio. Un'altra ondata s'abbatté e lui andò sotto di nuovo. Per un attimo ebbe piede, poi fu ancora travolto. E tuttavia all'improvviso si ritrovò sul bulldozer e prese dunque a inerpicarsi verso il sedile di guida. Tossendo e vomitando acqua salata, mise mano ai comandi. Tenuto giú sul duro letto di roccia del fossato dalle sue ventisei tonnellate di peso morto, il bulldozer se ne stava lí immobile e inamovibile nonostante l'acqua che gli piombava addosso addentandolo ai cingoli. Con la vista offuscata dall'acqua salata e dalle lacrime, Johnny controllò un attimo il pannello degli strumenti: pressione dell'olio e giri erano a posto; alto sul suo capo il tubo di scappamento prese a sbuffar fumo azzurro. Lui tossí ancora. Un rigurgito d'acqua salata gli affluí alla gola in un caldo e aspro getto, ma lui diede di colpo gas, mollò la frizione e spinse in avanti la leva. Imponente, la grossa macchina avanzò spingendo quasi con disprezzo l'acqua di lato. Di fianco non aveva ostacoli ma dietro il mare stava riversando altra acqua nel fossato. Gli crollò addosso un'ondata e Johnny si scosse tutto, come uno spaniel, poi guardò dietro di sé in cerca d'una via di scampo. Con un fremito di sorpresa vide allora il Vecchio.
Lo credeva lontano quattrocento miglia, a Città del Capo, invece eccolo lí, sul ciglio del fossato, coi bianchi capelli luminosi come un faro. D'istinto, puntò col bulldozer verso di lui, avanzando in quel gran ribollio d'acqua. Il Vecchio intanto dirigeva la manovra di altri due bulldozer, stava facendoli indietreggiare il piú possibile verso il ciglio del fossato mentre dal carro attrezzi parcheggiato sotto il costone di roccia una squadra di ovambo stava tirando via e allungando una grossa catena. Arrancavano sotto il peso e a ogni passo affondavano nella sabbia fino ai polpacci. Il Vecchio li sollecitava con ordini che erano ruggiti, ma le parole si perdevano, coperte dal rombo dei diesel e dal mugghio del vento e del mare. Alla fine si girò verso Johnny. «Accosta!» urlò, facendosi portavoce con le mani. «Ti allungo la catena. » Johnny fece cenno d'aver capito e quando l'ondata successiva s'avventò e fece vacillare il gigantesco trattore lui s'afferrò ai comandi e, per la prima volta, sentí il motore venir meno: l'acqua gli era giunta al cuore, nonostante fosse sigillato. Alla fine Johnny si trovò ai piedi dello scosceso dirupo di sabbia gialla alto venti piedi e, balzato sul cofano, arrancò incontro al Vecchio. Questi s'era piazzato proprio sul ciglio reggendo sulle spalle l'estremità a cappio della catena. Era chino sotto il peso e allorché avanzò la sabbia gli si sgretolò sotto i piedi e lui scivolò giú per la scarpata creatasi, affondando fino alla vita nella sabbia con la grande catena che gli serpeggiava dietro. Dopo aver valutato l'impeto dell'acqua, Johnny saltò allora giú per aiutarlo. E cosí, sbattuti e sballottati dall'acqua, insieme trascinarono la catena verso il bulldozer. «Fissala alla lama! » gridò il Vecchio. Fecero girare la catena intorno al grosso braccio d'acciaio. «La maniglia! » urlò Johnny, e mentre il Vecchio slegava il pezzo di corda che gli assicurava alla vita la maniglia d'acciaio lui guardò verso la scarpata di sabbia che incombeva su di loro. «Cristo! » esclamò a bassa voce: il mare stava attaccando anche quella. Tremava infatti, sgretolandosi sopra di loro, pronta a cedere e a travolgerli. Il Vecchio gli passò l'enorme maniglia e, con dita intorpidite, lui cominciò ad assicurarvi l'estremità della catena. Doveva far passare il grosso gambo attraverso due anelli e quindi chiuderlo rincastrandolo nella cassa: una fatica d'Ercole in quelle condizioni, con l'ondate che gli si riversavano sul capo, la furia dell'acqua che gli strappava la catena di mano e la scarpata di sabbia che minacciava di smottare da un momento all'altro travolgendoli. Venti piedi piú su, il caposquadra di Johnny seguiva con ansia, pronto a ordinare ai due bulldozer in attesa di tirare con tutte le loro forze combinate la catena. L'occhio del gancio prese; una mezza dozzina di volte sarebbe stata sufficiente, dopodiché il lavoro sarebbe finito in tempo prima che ai bulldozer venisse dato l'ordine di tirare. «Okay», disse Johnny facendo cenno col capo al Vecchio. « Possono tirare! » Il Vecchio sollevò il capo e ruggí in direzione della scarpata. « Tira! » Il caposquadra rispose con un cenno d'assenso. « Okay. » La sua testa scomparve oltre il ciglio allorché prese a correre verso i bulldozer. In quel momento una montagna d'acqua s'avventò sulla catena. Fu uno strappo sufficiente a catturare l'indice sinistro di Johnny tra due anelli. Il Vecchio notò l'espressione del suo viso, poi lo vide dibattersi nel vano tentativo di liberarsi. «Cos'è successo?» In quel momento l'acqua si ritrasse, concedendo un attimo di tregua, e il Vecchio vide cos'era successo. Avanzò allora arrancando per dare una mano ma dall'alto giunse il roco rombo dei motori e la catena cominciò a scorrere, serpeggiando e sussultando su per la scarpata come un pitone. Il Vecchio raggiunse Johnny e l'afferrò per le spalle per reggerlo.
Sostenendosi a vicenda guardarono inorriditi la mano prigioniera. Con uno scatto, poi, la catena si tese e tagliò netto il dito. All'istante zampillò un getto scarlatto e Johnny stabbatté all'indietro tra le braccia del Vecchio, mentre la gran massa gialla del bulldozer veniva issata lentamente su per la scarpata, dritto sopra le loro teste. Poteva precipitare e schiacciarli da un momento all'altro. Profittando allora del momento in cui l'acqua si ritraeva, il Vecchio trascinò Johnny via dalla traiettoria del bulldozer. Johnny si premé la mano ferita contro il petto, ma lo zampillo rosso continuò a colorare l'acqua tutt'intorno. Poi non vide piú niente perché andò sotto. L'acqua salata gli entrò in bocca e infine nei polmoni; credette d'annegare e si sentí venir meno le forze. Ma ecco che riaffiorò e, con occhi brucianti, vide che il bulldozer, lucido e bagnato e gocciolante, era già arrivato a metà di quella specie di scarpata di sabbia. Un attimo dopo si sentí avvinghiato dal Vecchio, che stava stringendolo con le mani intorno al torace, e andò sotto di nuovo. Alla fine il buio gli avvolse occhi e cervello e si lasciò andare. Ma a un tratto il buio si disperse e gli occhi ripresero a vedere: stava disteso sulla spiaggia, sulla sabbia asciutta, e la prima cosa che vide fu, chino su di lui, il viso del Vecchio tutto rughe e solchi e borse, con i bianchi capelli bagnati ancora appiccicati sulla fronte. «Ce l'abbiamo fatta? » chiese in modo indistinto. « Sí », rispose il Vecchio. « L'abbiamo tirato fuori. » Si tirò su, andò alla jeep e partí, lasciando che di Johnny s'occupasse il caposquadra. Sorrise ora al ricordo. Staccò la sinistra dal volante e si leccò il lucido monconcino dell'indice. «Valeva senz'altro un dito», mormorò ad alta voce e proseguí, sempre guidando lentamente e tenendo d'occhio le targhe stradali. Quindi tornò a sorridere, piú a suo agio ora e scuotendo il capo quasi divertito, allorché ricordò la delusione e il dispiacere che aveva provato alla vista del Vecchio che s'allontanava, che lo abbandonava là sulla spiaggia. Non s'aspettava certo che gli poggiasse il capo sulla spalla, proclamasse singhiozzando la propria gratitudine e chiedesse perdono per tutti quegli anni d'angustia e solitudine, no, in verità s'aspettava molto di piú. Dopo un viaggio di trecento chilometri in jeep, di notte, nel deserto, fino al piú vicino ospedale per farsi curare e fasciare il moncherino, la mattina dopo era di nuovo sul lavoro a sorvegliare l'arrivo del primo carico di ghiaia dalla spiaggia. In sua assenza la ghiaia era stata setacciata per eliminare scorie e grosse pietre, poi era stata fatta passare attraverso una massa di fango al silicone per portare a galla tutto il materiale con peso specifico inferiore a 2,5 e, infine, quel che era rimasto era stato fatto proseguire fino al mulino o macina a palle. Questa è costituita da un lungo cilindro d'acciaio contenente palle della grandezza di quelle da baseball, anch'esse d'acciaio; facendo ruotare il cilindro queste frantumano e riducono in polvere tutti i corpi di durezza inferiore a 4 nella scala di Mohs. A questo punto di tutta la ghiaia sottratta al mare resta solo la millesima parte e, se ci sono diamanti, devono trovarsi appunto in quel residuo. Quando arrivò alla baracca di legno e lamiera in cima al costone a picco sulla spiaggia, la baracca che ospitava l'impianto di cernita, Johnny si sentiva ancora un pò stordito per la mancanza di sonno e per l'effetto degli anestetici; il polso gli batteva con l'insistenza e il ritmo di un faro, gli occhi erano arrossati e le guance erano coperte da una fitta stoppia nera. Andò a mettersi accanto al tavolo del grasso che da solo riempiva metà capanno. Barcollava leggermente nel guardarsi intorno per seguire i preparativi: il grosso bidone all'estremità del tavolo era stato riempito del concentrato di ghiaia diamantifera, le piastre erano state ingrassate e gli uomini erano ormai pronti. «Via!» ordinò lui con un cenno al caposquadra, che immediatamente tirò la leva. Il tavolo prese a vibrare come un vecchio tremante.
Era costituito, il tavolo, da una serie di piastre metalliche, leggermente inclinate e ricoperte d'uno spesso strato di grasso giallo scuro, sulle quali cominciò ora a riversarsi, dal bidone all'estremità del vibrante tavolo, una miscela d'acqua e ghiaia, la cui affluenza e consistenza veniva attentamente regolata dal caposquadra, che prese subito a spandersi come melassa, colando da una piastra alla successiva fino al bidone dei rifiuti all'altra estremità del tavolo. Il diamante, si sa, non si bagna, immerso nell'acqua e strofinato rimane asciutto. Uno strato di grasso su una piastra metallica anche non ritiene l'acqua e cosí, guidata dalle vibrazioni e dalla pendenza del tavolo, la ghiaia bagnata vi scivola sopra mentre il diamante a contatto col grasso vi si appiccica come una caramella mezza succhiata al pelo d'una coperta di lana. Nell'ansia e nell'eccitazione del momento, lui ebbe la sensazione che la propria stanchezza scomparisse, e persino il dolore al moncherino fu dimenticato. Gli occhi, ancora di piú di tutto il suo essere, si fissarono su quel giallo e lucente strato di grasso. Una pietra di peso inferiore a un carato oppure un bort, cioè un diamante nero industriale, non risultano visibili sul tavolo perché l'oscillazione troppo rapida e il vibrante scorrere delle altre pietre li nascondono. Lui era cosí profondamente assorto che passarono vari secondi prima che s'accorgesse che c'era qualcuno al suo fianco. Girò il capo di scatto. In quella sua tipica posizione, eretto e a gambe larghe, il Vecchio era lí, accanto a lui. Ma dopo aver percepito fisicamente quella massa accanto a sé come un fremito che gli attraversa il corpo, ora provò un altro fremito, d'allarme questa volta. E se quella passata di ghiaia fosse andata a vuoto? Aveva un bisogno immediato di diamanti, come non aveva mai avuto bisogno di niente in vita sua. Scrutò le vibranti piastre ingrassate in cerca della pietra che gli avrebbe ridato la stima del Vecchio, ma la sminuzzata ghiaia scorreva senza lasciar tracce sul tavolo e lui fu preso dal panico. Ma ecco che dall'altra parte del tavolo il caposquadra lancib un grido e indicò. «Eccolo là! » Il suo sguardo si spostò allora immediatamente verso l'estremità del tavolo e lí, proprio sotto la cascata che veniva giú dal bidone, mezzo sepolto nel grasso dal proprio peso, solidamente ancorato mentre la vile ghiaia scorreva oltre, c'era un diamante. Un affare grosso un cinque carati che brillava giallo e vivido come un animale selvatico che si ribella alla cattività. Mandò un lieve sospiro e lanciò di coda un'occhiata al Vecchio che guardava il tavolo impassibile, senza alcuna espressione. Dovette anche sentirsi guardato, ma non girò il capo. Alla fine lo sguardo di lui fu irresistibilmente attratto di nuovo verso il tavolo. Proprio in quel momento, per una bizzarra coincidenza, un altro diamante cadde dal bidone direttamente sull'altro già affondato nel grasso. Quando un diamante urta contro un altro diamante rimbalza come una pallina da golf sull'asfalto. Il secondo diamante infatti, bellissimo e delle dimensioni d'un nocciolo di pesca, colpí il primo e rimbalzò molto in alto. A lui e al caposquadra scappò da ridere, deliziati dalla bellezza di quella rimbalzante goccia di luce solare concentrata e solida. Poi lui allungò la mano intatta e lo afferrò a mezz'aria mentre ricadeva. Lo strofinò tra le dita, apprezzandone la sensazione viscida, poi si girò e l'offrí al Vecchio. Questi guardò la pietra e scosse il capo in segno d'approvazione, poi si scostò il polso della giacca e guardò l'orologio. « E' tardi, devo tornare a Città del Capo. » « Non si ferma sino alla fine della passata di ghiaia, signore?» Lui per primo avvertí l'ansia nella propria voce. «Dopo potremmo bere qualcosa insieme. » L'ebbe appena detto che si ricordò che il Vecchio aborriva l'alcol. « No. » Il Vecchio scosse il capo. « Devo rientrare entro sera. » Poi lo guardò dritto negli occhi. « Sai, domani pomeriggio Tracey si sposa e non posso mancare. » E sorrise, sempre fissandolo.
Nessuno al mondo era in grado d'interpretare il significato d'un sorriso su quelle labbra... perché non aveva mai nessun corrispondente riflesso negli occhi. «Non lo sapevi?» Sempre sorridendo. «Credevo che avessi ricevuto l'invito. » Lasciò il capanno e raggiunse la jeep che l'aspettava, al sole, per portarlo alla pista d'atterraggio allestita tra le dune di sabbia. Quella notte il dolore alla mano e le parole del Vecchio gli negarono quel sonno di cui aveva disperato bisogno. Alle due buttò via le coperte e accese la lampada accanto alla branda. « Ha detto che sono stato invitato, e, perdio, ci andrò. » Guidò per tutto il resto della notte e tutta la mattina seguente. I primi trecento chilometri erano di pista sabbiosa e pietrosa, all'alba raggiunse finalmente la strada asfaltata e puntò a sud attraverso il vasto altipiano e su per le montagne. Era ormai mezzogiorno quando vide la sagoma tozza della Table Mountain che si stagliava contro il cielo sopra la città raccolta ai suoi piedi. Scese al Vineyard Hotel e corse su in camera a farsi bagno e barba e a cambiarsi. Il viale della vecchia casa era pieno di macchine di lusso e altre ancora erano parcheggiate fuori su ambedue i lati della strada, ma lui riuscí a trovare un posto per l'impolverata Land Rover. Varcò il cancello bianco e attraversò il verde prato. Dall'interno della casa, attraverso le balconate aperte del salone, giungevano musica, vocio e risate. Entrò dalla porta laterale. Gli ospiti s'accalcavano sin nei corridoi e lui si fece largo cercando almeno una faccia familiare tra i gruppi d'uomini che gesticolavano e parlavano ad alta voce e di donne che ridevano. Alla fine la trovò. «Michael. » Michael Shapiro si voltò, lo riconobbe e il suo viso mostrò subito piacere, sorpresa e, ancora, allarme. « Johnny. Che piacere vederti. » « E' già finita la cerimonia? » «Sí, e anche i discorsi, grazie al cielo » Michael lo prese per un braccio e lo guidò in disparte «Lascia che ti procuri un bicchiere di champagne. » Fece cenno a un cameriere e gli piazzò poi un bicchiere di cristallo in mano. «Alla sposa», mormorò lui, e bevve. « Il Vecchio sa che sei qui? » La domanda gli bruciava sulle labbra e quando lui scosse il capo Michael si fece decisamente pensieroso. « Com'è, Michael? Il marito? » «Kenny Hartford?» Michael rifletté. «A posto, credo. Un bel ragazzo carico di soldi. » « Come si guadagna il pane? » «Babbuccio gli ha lasciato un bel pagnottone, ma per ammazzare il tempo fa il fotografo di moda. » Al che lui fece una smorfia. E Michael s'accigliò. «E' a posto, Johnny. Il Vecchio l'ha scelto con cura. » « Il Vecchio? » La mascella gli divenne piú sporgente. «Certo, lo conosci, no? Non lascerebbe mai prendere ad altri una decisione importante. » Lui finí lo champagne in silenzio, mentre Michael lo scrutava ansioso. « Dov'è lei? Sono già partiti? » « No. Sono ancora di là, nel salone. » « Grazie, Michael. Vado a fare gli auguri alla sposa. » «Johnny.» Michael gli prese il gomito. «Non fare sciocchezze... ti prego. » In cima alla scalinata di marmo Johnny si fermò: il salone di sotto era stipato di coppie che ballavano e la musica risuonava forte e allegra. La sposa e i familiari erano a un tavolo dall'altra parte del salone. Benedict van der Byl fu il primo a scorgere Johnny; arrossí e si sporse a bisbigliare qualcosa al Vecchio, quindi fece per alzarsi. Il Vecchio trattenne il figlio con una mano sulla spalla e a lui Johnny rivolse un gran sorriso. Scese allora la scala e si fece largo tra le coppie che ballavano. Tracey non l'aveva ancora visto; stava parlando con un giovanotto con una faccia da signorino e i capelli biondi e ondulati che le sedeva accanto.
« Ciao, Tracey. » Lei girò il capo, lo vide e trattenne il fiato. Era piú bella di quanto lui ricordasse «Ciao, Johnny», disse quasi in un bisbiglio. « Vuoi ballare? » Impallidí e lo sguardo le corse al Vecchio non allo sposo. La gran criniera bianca e lucente fu scossa dal cenno d'assenso che le fece il padre e lei s'alzò. Erano riusciti a fare appena un giro che l'orchestra smise. Intanto lui, che aveva in mente minimo un centinaio di cose da dirle, era rimasto invece muto; ora l'orchestra tacque e l'occasione svaní. In tutta fretta, allora, in quei pochi attimi che restavano le disse: «Spero che tu sia felice, Tracey. Ma se mai avrai bisogno d'aiuto... sempre, in qualunque occasione, correrò. Te lo prometto. » «Grazie.» La voce risultò roca e, per un attimo, lei somigliò alla ragazzina che aveva pianto quella notte. La riportò al marito. Quella promessa era stata fatta cinque anni prima, e ora lui era venuto a Londra per mantenerla. Il numero ventitré di Stark Street era un cottage a due piani con una facciata stretta e lunga. Vi parcheggiò davanti. Era buio ormai e su ambedue i piani le luci erano accese. Rimase seduto nella Jaguar: di colpo, provava una certa riluttanza a procedere oltre; sentiva che Tracey era lí, in quella casa, e sentiva anche che la cosa non sarebbe stata bella. Per un attimo rievocò l'immagine di lei che sempre conservava, di Tracey giovane e bella in un bianco abito nuziale di raso, dopodiché smontò dalla macchina e salí i gradini dell'ingresso. Stava per bussare quando s'accorse con sorpresa che la porta era accostata; l'aprì spingendola e si ritrovò in un piccolo soggiorno arredato con gusto molto femminile. La stanza era a soqquadro, una delle tende era strappata e stesa a terra e sopra v'erano ammucchiati libri e oggetti vari. I quadri erano stati tolti dalle pareti e raccolti per essere portati via. Prese uno dei libri e l'aprí. Sul risguardo era scritto, a mano, un nome: Tracey van der Byl. Udí dei passi giú per la scala e lasciò ricadere il libro sul mucchio. Dalla scala stava venendo giú un uomo. Portava sporchi pantaloni di velluto verde, stivaletti imbottiti di pelo e un vecchio soprabito di taglio militare guarnito di alamari a treccia dorati. Recava un mucchio di abiti femminili sul braccio. Alla vista di Johnny si fermò di colpo e socchiuse le rosee labbra in una sciocca espressione di sorpresa; sotto il ciuffo scompigliato di capelli biondi gli occhi erano accesi e lucidi. «Salve.» Johnny sorrise, gentile. «Cos'è, un trasloco?» Lentamente, s'avvicinò allo sconosciuto e lo guardò fisso da sotto in su. A un tratto, dal piano di sopra giunse un gemito che echeggiò giú per la scala. Uno strano gemito, né di dolore né d'altro, quasi uno sbuffo, come una fuga di vapore da un tubo, a malapena umano. Johnny s'irrigidí e l'uomo sulla scala lanciò un'occhiata nervosa dietro di sé. «Cosa le hai fatto?» chiese Johany a bassa voce. Il tono non era minaccioso. « Niente. Assolutamente niente. E' solo partita. Proprio un brutto sballo», s'affrettò a rispondere l'uomo, nervoso. «E' la prima volta che prende l'acido. » «E tu intanto fai piazza pulita, è cosí? » Il tono di Johnny era sempre calmo. «Mi deve un sacco di soldi e non ha un centesimo. Ha promesso, ma non è in grado di mantenere. » « Oh », fece Johnny. «Allora è diverso. Avevo creduto che stessi ripulendo la casa.» Si cacciò la mano in tasca e tirò fuori il portafoglio. Mostrò un fascio di banconote. «Sono un suo amico.
Quanto ti deve? » «Cinquanta sterline.» Alla vista del danaro all'uomo gli occhi brillarono. « Le ho fatto credito. » Johnny contò dieci biglietti da cinque e glieli porse. L'uomo poggiò sulla ringhiera il mucchio di vestiti e scese in fretta gli ultimi gradini. « Gliel'hai venduta tu la roba? L'acido? » L'uomo si fermò a un passo da lui e lo guardò con sospetto. «Su, via.» Johnny sorrise. «Non siamo bambini. So come vanno queste cose.» Offrí le banconote. «Gliel'hai procurata tu la roba? » Per tutta risposta, l'uomo accennò un sorriso e annuí, allungando la mano verso il danaro. Di colpo, allora, con l'altra mano Johnny gli afferrò il polso sottile e lo fece girare su se stesso, poi gli ripiegò il braccio dietro la schiena. Si rimise i soldi in tasca e lo spinse su per la scala. «Andiamo a dare un'occhiata?» Sul letto di ferro c'era un materasso con sopra stesa una coperta grigia, militare. Tracey vi stava seduta sopra a gambe incrociate. Indossava solo uno slip sottilissimo di cotone e i capelli, scomposti e non lucidi come sempre, le arrivavano sino alla vita. Le braccia, incrociate sul petto, erano sottili e bianche come gessetti; il viso era terreo e sotto la luce cruda della lampadina nuda la pelle sembrava trasparente. Si dondolava su e giú, gemendo con un filo di voce, e nella stanza gelata il fiato si rapprendeva in vapore. Ma quelli che soprattutto sgomentarono Johnny furono gli occhi. Sembravano enormi, ingranditi a dismisura, ed erano incassati in occhiaie scure come lividi. Le pupille erano dilatate e lucide e brillavano come diamanti grezzi. Quei verdi occhi lucidi si fissarono su Johnny e sullo sconosciuto fermi sulla soglia e di colpo il gemito si trasformò in urlo. Poi questo si spense e lei si piegò in avanti e si coprí viso e occhi con le mani. «Tracey», bisbigliò Johnny. «Oddio, Tracey! » «Si riprenderà. Tornerà come prima», gemé quasi l'uomo, dibattendosi. « E' la prima volta. Si riprenderà. » «Vieni via.» Johnny lo trascinò fuori dalla stanza e col piede si chiuse la porta alle spalle. Spinse l'uomo contro il muro. Aveva il viso pallido e teso e lo sguardo spietato, ma parlò con calma, paziente, come se stesse spiegando qualcosa a un bambino: «Ora ti farò male. Molto male, il piú possibile senza ucciderti. Non perché mi faccia piacere ma perché quella ragazza significa qualcosa per me, perciò voglio fare in modo che in futuro, quando t'appresterai a dare del veleno a una ragazza, ti ricorderai di quello che sto per farti » Con la sinistra lo tenne inchiodato al muro e con la destra colpí, mirando poco sotto le costole cosí da lacerargli i muscoli dello stomaco. I primi tre o quattro pugni colsero però troppo in alto e si sentirono le costole scricchiolare e spezzarsi. Quando lo mollò, indietreggiando, l'uomo s'afflosciò a faccia in giú e lui lo colse al volo sulla bocca spezzandogli vari denti e spaccandogli le labbra fragili come petali di rosa. L'uomo aveva fatto un pò chiasso cosí Johnny andò a guardare nella stanza di Tracey per assicurarsi che non l'avessero disturbata: stava ancora piegata in avanti e si dondolava ritmicamente, su e giú. Trovò il bagno e inumidí il fazzoletto per togliersi il sangue dalle mani e dal davanti del cappotto. Poi tornò nel corridoio, si chinò sull'uomo svenuto e gli sentí il polso. Il battito era forte e regolare. Provò sollievo; poi allontanò il viso dell'uomo dalla pozza di vomito e sangue perché non v'affogasse dentro. Tornò da Tracey e, nonostante si dibattesse freneticamente, l'avvolse nella sozza coperta militare e la portò in braccio sino alla Jaguar.
Alla fine lei si calmò e rimase lí nel sedile di pelle nera immobile conme una bambina addormentata, mentre lui le sistemava ben bene la coperta intorno al corpo. Alla fine lui rientrò in casa. Telefonò al 999, diede l'indirizzo e riattaccò immediatamente. Arrivato al Dorchester lasciò Tracey in macchina e andò a parlare al portiere. Pochi minuti dopo, in una sedia a rotelle, la portarono su fino alla suite al secondo piano, che aveva due camere da letto. Quindici minuti dopo arrivò il dottore. Quando anche questi se ne fu andato Johnny fece un bagno dopodiché, con un bicchiere di Chivas Regal in mano, andò nella stanza di Tracey e si fermò al suo capezzale. Qualunque cosa le aveva somministrato il dottore aveva fatto effetto: stava dormendo, stesa lí, pallida e magra e tuttavia ancora bella, d'una bellezza fragile e strana che le scure occhiaie non deturpavano ma sembravano addirittura accentuare. Si chinò per scostarle i capelli dalla guancia e sulla mano sentí il fiato caldo e lieve. Provò per lei, come non aveva mai provato per nessuno al mondo, un'infinita tenerezza la cui intensità sorprese lui per primo. Si chinò di piú e le sfiorò leggermente le labbra con le proprie: erano secche e screpolate. Quasi bianche. Ruvide come carta vetrata. Si drizzò e andò alla poltrona di fronte al letto. Vi si lasciò cadere, stanco, e prese a sorseggiare il whisky finché sentí montar su dallo stomaco un'ondata di calore che gli sciolse immediatamente i muscoli annodati. Rimase a guardare quel viso pallido e sciupato. « Ci troviamo in un brutto pasticcio. Tutt'e due. » Lo disse ad alta voce e di nuovo provò rabbia. Per alcuni lunghi minuti quella rabbia non ebbe un bersaglio, poi a poco a poco prese a concentrarsi su uno ben preciso. Per la prima volta in vita sua era furioso contro il Vecchio. «Ti ha ridotta lui a questo», disse, rivolto alla ragazza sul letto. «E anche me. » La reazione fu immediata, la lealtà faceva ormai parte integrante della sua esistenza. S'era sempre convinto a credere che le macchinazioni del Vecchio fossero giuste e sagge anche se, per quanto lo riguardava, di giustizia non aveva mai avuto nessun esempio. Ma i mortali non dubitano mai dell'onnipotenza degli dèi. Seccato del proprio tradimento prese a esaminare alla vivida luce della ragione le azioni e i motivi del Vecchio. Perché, per esempio, aveva mandato Michael Shapiro a chiamarlo quando era nel deserto? «Il Vecchio ti vuole a Città del Capo, Johnny. Benedict non è all'altezza. Gli ha affidato l'ufficio di Londra, che è una specie di esilio, e ora ha scelto te per mandare avanti l'impresa», aveva spiegato Michael. «Tracey non c'è, è anche lei a Londra col marito, quindi il Vecchio pensa che sia il caso di riportarti a Città del Capo.» Aveva poi notato la sua gioia, anche se ben controllata, e aveva proseguito: «Forse parlo a vanvera, ma per me van der Byl è davvero uno strano individuo. Singolare, quanto meno. So cosa provi per lui, Johnny, perché non m'è mai sfuggito niente... però tu ora sei in grado di fare quello che vuoi per conto tuo. Molte società ti vorrebbero... » Aveva notato il cambiamento d'espressione del suo viso e s'era interrotto. «Okay, Johnny, come non detto. Parlavo cosí perché ho simpatia per te. » Ripensandoci, ora, dopotutto quel consiglio di Michael non era affatto campato in aria. Sí, certo, lui ora era amministratore delegato della Van Der Byl Diamonds, ma non per questo era piú vicino al Vecchio di quanto lo fosse mai stato prima. Già, viveva sotto una montagna, che era però irraggiungibile e lui non era riuscito a scalarne neppure i fianchi meno scoscesi.
A Città del Capo aveva trovato la stessa solitudine che nel deserto ed era cosí stato facile bersaglio per i tentacoli della prima donna attraente che aveva incontrato. Ruby Grange era alta e sottile, con i capelli del colore che, nei diamanti, vien detto Second Cape, cioè quello che può avere il sole visto attraverso una coppa di cristallo colma di champagne. Rifletté ora sulla propria ingenuità, sulla facilità con cui s'era fatto accalappiare e sull'impeto con cui s'era precipitato a cacciare il collo nel cappio. Ruby s'era rivelata per quello che era solo dopo il matrimonio, mostrando un'avidità fredda e profonda, una sete inestinguibile per i simboli e il possesso materiale e un egocentrismo completo e totale, tanto che lui ogni volta aveva stentato a credere ai propri occhi e orecchi. Per mesi aveva respinto la certezza vieppiú crescente fino a che non era stato piú possibile negare l'evidenza e aveva allora preso a guardare con sprezzante sgomento la squallida ed egoista creatura che aveva sposato. Quindi s'era sempre piú allontanato da lei dedicando tutte le proprie energie alla Van Der Byl Diamonds Era questa dunque la sua vita: un affare vuoto, completamente scavato dalla mano del Vecchio. Per la prima volta si scoprí a nutrire il sospetto che quella del Vecchio potesse essere dopotutto una ben calcolata e sadica vendetta per l'innocente azione d'un ragazzo non ancora completamente cresciuto. Come per sfuggire, quasi, a quei pensieri troppo orribili da sopportare s'addormentò, e il bicchiere gli sfuggí di mano Jacobus Isaac van der Byl stava seduto in una poltrona di cuoio e aveva di fronte lo schermo di lettura radiografica. La paura aveva sconvolto quei suoi tratti granitici lasciandoli, sotto la gran criniera bianca, ancor piú scavati e allentati, se anche riconoscibili tuttavia sottilmente alterati. Era anche negli occhi, la paura, e si agitava sotto la superficie, in quelle due pozze azzurre, come una viscida creatura acquatica. Con quella paura addosso, dunque, che lo irrigidiva tutto e gli impediva gli arti, stava ora guardando l'ombre vaghe sullo schermo illuminato. Lo specialista intanto parlava a bassa voce, in tono staccato, come se stesse facendo lezione nella sua aula: «... avviluppa il timo, ecco, qui, e s'estende oltre la trachea». La punta della matita d'oro seguiva lo spettrale profilo lí sullo schermo. Il Vecchio deglutí a fatica. Ascoltando gli sembrava di sentirselo gonfiare in gola quel male e ai suoi stessi orecchi la propria voce suonb roca e indistinta allorché chiese: «E' operabile? » Lo specialista interruppe la spiegazione e lanciò un'occhiata al chirurgo dall'altro lato della scrivania. Si scambiarono sguardi da cospiratori. Il Vecchio si girb nella poltrona e guardb il chirurgo. «Ebbene?» chiese, brusco. «No. » Il chirurgo scosse il capo, ma con l'aria di scusarsi. «E' troppo tardi ormai. Se avesse... » «Quanto? Quanto tempo? » Al Vecchio le spiegazioni non interessavano. «Sei mesi. Non piú. » « E' sicuro? » «Sí.» Il Vecchio affondò il mento nel petto e chiuse gli occhi. Nella stanza ora regnava un silenzio assoluto e, con interesse professionale misto a compassione, chirurgo e specialista assistettero al processo con cui Jacobus Isaac van der Byl stava rassegnandosi alla propria condanna a morte. Alla fine il Vecchio aprí gli occhi e s'alzò, lentamente; accennò un sorriso ma le labbra non lo mantennero a lungo. «Grazie, signori», bofonchiò con quella sua nuova raucedine. «Ora vogliate scusarmi, vi prego, a questo punto ho molte cose da sistemare. » Raggiunse la Rolls che l'aspettava davanti all'ingresso. Camminava a passo lento, quasi strascicando i piedi, e l'autista gli si precipitò incontro ma lui allontanò immediatamente la mano che gli veniva porta e montò in macchina.
Michael Shapiro lo attendeva nello studio dell'enorme casa. Notò subito il cambiamento e s'alzò dalla poltrona in cui era seduto. Il Vecchio era rimasto fermo sulla soglia: il suo corpo sembrava rattrappito e rimpicciolito. « Sei mesi. M'hanno dato sei mesi di vita. » Andò alla scrivania e si lasciò cadere nella poltrona dietro di essa. «Dopo tutti i soldi che si son presi. » Lo disse come se si fosse aspettato d'essersi comprata un'altra vita e quelli lo avessero imbrogliato. Chiuse di nuovo gli occhi e quando li riaprí in essi brillò un lampo di malizia; anche il viso aveva assunto un'espressione di concentrata astuzia. « Dov'è? Non è ancora arrivato? » «Sí, l'aereo è arrivato stamattina alle nove. E' in ufficio ora. » Michael era sorpreso e scioccato, era la prima volta che vedeva il Vecchio senza maschera. «E la ragazza? » Non la chiamava piú « figlia» da dopo il divorzio. « Johnny l'ha messa in una clinica privata. » «Puttanella da niente», commentò il Vecchio a bassa voce, e Michael soffocò la protesta prima che gli giungesse alle labbra. «Prendi il blocco, devi scrivere.» Deglutí, roco. «Vedremo», disse poi, e suonò come una minaccia. «Vedremo! » Il medico era già all'aeroporto. «Te l'affido, Robin. Curala e ingrassala. E' piena di droga fino agli occhi e probabilmente non mangia da un mese. » Negli occhi di Tracey s'accese la prima scintilla di vita: «Dove credi... » «In una clinica», la prevenne Johnny. «E per tutto il tempo che sarà necessario. » « Io non... » «Tu non un accidente.» Reggendola lui per un braccio e Robin per l'altro, l'accompagnarono, mentre ancora debolmente protestava, fino al parcheggio. «Grazie, Robin, vecchio amico, falle una buona revisione. » «Te la rimetto a nuovo», promise Robin, e partí. Lui rimase qualche attimo a guardare la massiccia sagoma squadrata della montagna-tutta lí la sua cerimonia del «Benritrovata casa»-dopodiché andò a prendere la Mercedes nel garage dell'aeroporto. Era in dubbio se andare a casa o in ufficio; decise che non se la sentiva per ora d'affrontare l'interrogatorio di Ruby e scelse l'ufficio. Nel suo bagno privato aveva sempre una camicia pulita, oltre all'occorrente per la barba. Aveva appena varcato la porta di cristallo del lussuosissimo ingresso della direzione generale della Van Der Byl Diamonds che calarono su di lui come uno stuolo di erinni. Le due graziose receptionist attaccarono, in coro, il loro uggiolio: «Oh, dottor Lance, ho qui un intero fascio di messaggi». « Oh, dottor Lance, sua moglie... » Controllando il passo per non mettersi a correre, era quasi arrivato davanti alla porta del suo ufficio quando la segretaria del Vecchio saltò fuori, come in un'imboscata, da dietro quel suo pannello di vetro opaco. « Dottor Lance, dove diavolo è stato? Il capo non ha fatto che chiedere di lei. » Questa risvegliò Lettie Pienaar, la sua segretaria personale: «Dottor Lance, grazie al cielo è tornato! » Lui si fermò e alzò le mani in gesto di resa. «Una per volta, ragazze. Abbiamo tutto il tempo, non fatevi prendere dal panico. » Il che fece esplodere una raffica di uggiolii da parte della squadretta delle receptionist e rimandò il cane da guardia del Vecchio dietro il suo pannello di vetro opaco con la coda tra le gambe. «Cosa c'è di veramente importante, Lettie?» chiese mentre andava alla sua scrivania. Diede un'occhiata alla posta poi, liberandosi del cappotto e allentando la cravatta, si diresse verso il bagno. Mentre lui si faceva in fretta e furia barba e doccia, urlando attraverso la porta aperta Lettie lo aggiornò sulle ultime novità negli affari della società e suoi privati. «Sua moglie ha puntualmente e regolarmente telefonato.
Quando le ho detto che lei era andato a Cartridge Bay mi ha chiamata bugiarda. » Lettie tacque un attimo poi, mentre lui usciva dal bagno, chiese: «A proposito, dov'è stato? » «Non cominci anche lei ora.» Si chinò sulla scrivania e prese a scorrere le carte che vi s'erano accumulate. « Mi chiami mia moglie, per cortesia. No, aspetti. Le parli lei, le dica che sarò a casa alle sette. » Lettie si rese conto d'aver perso definitivamente la sua attenzione e uscí dalla stanza. Lui s'accomodò dietro la scrivania. La Van Der Byl Diamonds era decisamente in brutte acque. A onta delle sue proteste, a poco a poco il Vecchio aveva ritirato i propri fondi di riserva per investirli in altre imprese, una società immobiliare, una fabbrica di confezioni, la Van Der Byl Fisheries, un grande progetto d'irrigazione della zona dell'Orange River. I forzieri erano ormai vuoti. Le concessioni sul litorale erano intanto giunte alla fine di una vita breve, anche se gloriosa; ormai stavano facendo solo letteralmente buchi nell'acqua. Quanto a quella della Huib Hoch il Vecchio l'aveva venduta alla Grande Compagnia per un rapido profitto, che era stato poi immediatamente sottratto al controllo di lui Johnny. Era rimasta una sola gallina dalle uova d'oro, ma ancora non aveva cominciato a deporle. Diciotto mesi prima lui aveva rilevato due giacimenti al largo della costa da una società che ci aveva rimesso la sua stessa esistenza a sfruttarli. In altre parole, era stata strozzata dalla propria inefficienza. Cavare diamanti dal mare è una faccenda all'incirca otto volte piú costosa e impegnativa che cavarli da un giacimento all'asciutto. Bisogna tirar su la ghiaia dal fondo dell'imprevedibile e indomabile mare al largo della Skeleton Coast, caricarla su chiatte, rimorchiare queste in un posto sicuro, scaricarle e cominciare il lavoro di recupero: questo era il metodo seguito dalla defunta società. Lui Johnny, invece, aveva fatto i suoi bravi progetti dopodiché aveva commissionato una nave completamente autosufficiente. Poteva restare al largo, dragare la ghiaia dal fondo e lavorarla, rigettando in mare tutta la ghiaia residua alla stessa velocità con cui la risucchiava a bordo. Entro le paratie di quella solida nave oceanica era sistemato un sofisticato impianto di recupero completamente automatizzato, in piú occorreva un equipaggio poco numeroso e la nave poteva operare con ogni condizione di tempo al disotto d'un tornado. La Kinifisher si trovava in quel momento nei cantieri di Portsmouth e il suo completamento era prossimo; le prove in mare erano previste per gli inizi di agosto. Il finanziamento dell'impresa era però stato un vero e proprio incubo per lui. Il Vecchio non aveva concesso il minimo aiuto, quando non aveva addirittura boicottato l'impresa; non ne aveva mai parlato senza un ironico sorriso sulle labbra e aveva vietato drasticamente qualsiasi impegno economico da parte della Van Der Byl Diamonds, tanto che lui era stato costretto a racimolare due milioni di sterline al di fuori della società. Trovatili, aveva visto ricomparire quel sorrisetto sulle labbra del Vecchio. La Kingfisher avrebbe dovuto essere al lavoro ormai da tre mesi, a risucchiar diamanti dal fondo del mare, visto che dal punto di vista finanziario il progetto era interamente basato sul completamento della nave entro i termini previsti; invece i lavori d'allestimento portavano ormai un ritardo di tre mesi, e dunque l'intero edificio minacciava ormai di crollare. Seduto lí alla scrivania, Johnny stava ora chiedendosi come impedire quel crollo prima che la Kingfisher entrasse in funzione. I creditori incombevano e assillavano e per metterli a tacere e tranquillizzarli lui ormai poteva contare solo sul proprio entusiasmo. A questo punto non gli restava che chiedere un rinvio dei pagamenti di altri tre mesi. Sollevò il microfono.
«Mi chiami Larsen al Credit Finance», disse, facendosi animo, sporgendo la mascella e cacciandosi il pugno in tasca. Alle cinque s'alzò dalla scrivania e andò al bar. Si versò tre dita di whisky e tornò a sprofondare nella sua poltrona girevole. Non si sentiva affatto sollevato per il rinvio ottenuto, era troppo stanco. Il telefono privato sulla scrivania squillò. Rispose: « Lance ». «Com'era Londra?» Riconobbe immediatamente la voce e non fu affatto sorpreso che il Vecchio sapesse del suo viaggio; sapeva sempre tutto quello lí. Prima che potesse rispondere, la voce roca aggiunse: «Vieni alla casa, subito! » E la linea cadde. Guardò con rimpianto il whisky che aveva in mano e lo mise giú intatto. Il Vecchio ne avrebbe annusato l'odore con un sorrisetto. La nube stava avanzando sopra la montagna e il sole calante la tinse color mandarino e pesca. Alla finestra, il Vecchio la vide disperdersi sopra la vallata, sfioccandosi man mano che s'allungava, poi si girò verso la stanza allorché v'entrò Johnny. Questi capí subito che in sua assenza era accaduto qualcosa d'importante. Lanciò subito una rapida occhiata a Michael Shapiro in cerca d'un cenno qualsiasi, ma il capo grigio di Mike era chino sulle carte che aveva in grembo. Si rivolse allora al Vecchio. « Buonasera. » «Siedi.» Il Vecchio indicò la poltrona di cuoio grasso di fronte alla scrivania. « Leggi », ordinò poi a Michael. Prima di cominciare, questi si schiarí la voce e rimise a posto i fogli, squadrandoli ben bene. Gli occhi del Vecchio, seduto ora, erano intanto fissi sul viso di Johnny. Era un esame chiaro e diretto il suo, ma Johnny non provò alcun disagio; per lui era come se gli occhi del Vecchio stessero carezzandolo. Mike Shapiro lesse in modo molto chiaro, tirando fuori un senso da quelle frasi legalmente circonvolute e complicate. Si trattava delle « Ultime Volontà e Testamento » del Vecchio, e la lettura prese circa venti minuti. Quando Mike ebbe finito ci fu silenzio nella stanza. Alla fine il Vecchio lo ruppe: «Hai capito?» chiese. C'era in lui ora una premura che non aveva mai mostrato prima. Sí, sembrava proprio tutto rattrappito, come se la carne si fosse ritirata dalle ossa, lasciandolo asciutto e leggero come la carcassa d'un uccello marino morto da un pezzo seccata dal sole. «Sí, ho capito», Johnny annuí. «Ora spiegacelo in parole piú spoglie, Michael, senza tutto quell'addobbo avvocatesco. Tanto per essere sicuri», insisté il Vecchio. Mike obbedí: «I suoi beni privati e personali, a eccezione delle azioni della Van Der Byl Diamonds Co. Ltd, una volta pagate tasse e spese, vanno in legato fiduciario ai suoi due figli, Tracey... » Il Vecchio lo interruppe impaziente, agitando le braccia e scacciando via le parole di Mike come fossero mosche: «Non questo. La società. Digli delle azioni della società». «Le sue azioni della Van Der Byl Diamonds andranno divise in parti uguali tra te e i due giovani van der Byl, Tracey... » Il Vecchio tornò a interromperlo. «I nomi li conosce benissimo, maledizione! » Era la prima volta che lo sentivano imprecare. Mike sorrise seccato a Johnny, come a chiedergli la sua comprensione, ma Johnny stava studiando il Vecchio mentre in petto si sentiva crescere un'ondata di soddisfazione. Un terzo delle azioni della Van Der Byl Diamonds non rappresentava per niente una fortuna, questo nessuno lo sapeva meglio di lui, e tuttavia accomunare il suo nome a quelli di Tracey e Benedict equivaleva a riconoscerlo come figlio. E lui per questo aveva lavorato tutti quegli anni. La dichiarazione era pubblica, il riconoscimento ufficiale. Alla fine Johnny Lance aveva un padre. Gli venne voglia d'allungare una mano e toccare il Vecchio.
Si sentiva il petto gonfio d'emozione, gli occhi gli bruciavano. Una bella sensazione dopotutto. Batté le palpebre. «E' davvero...» La voce risultò un raschio. Tossí. «Non so proprio come... » Il Vecchio lo interruppe impaziente, zittendolo con un gesto imperioso, e ringhiò rivolto a Mike: «Ora leggigli il codicillo. No, non leggerlo: spiegaglielo». Michael cambiò espressione. Non staccò un attimo gli occhi dalle carte nel parlare, quasi volesse evitare lo sguardo di Johnny e, senza alcun bisogno, si schiariva ogni tanto la voce, agitandosi intanto nella poltrona: « Secondo il codicillo al Testamento, che reca la stessa data, e che è regolarmente firmato da Jacobus Isaac van der Byl, il legato delle azioni della Van Der Byl Diamonds Co. Ltd al nome di John Rigby Lance è condizionato alla sottoscrizione, da parte del nominato John Rigby Lance, di una garanzia personale sui debiti della Società, ivi compresi gli attuali scoperti di conto corrente e tutto quanto dovuto ai creditori a titolo di privilegi reali e opzioni ». «Cristo!» esclamò Johnny, irrigidendosi e voltandosi a guardare, incredulo, il Vecchio. Il nodo alla gola era scomparso di colpo. « Cosa ha in mente di farmi? » Tranquillo, senza neppure guardarlo, il Vecchio licenziò Mike Shapiro. «Ti chiamo, se avrò bisogno. » Quando poi Mike fu uscito dalla stanza, ripeté la domanda di Johnny: «Cosa ho in mente di farti? Ho in mente di farti rispondere di tutti i debiti, che ammontano a due milioni e mezzo di rand, ecco cos'ho in mente». Johnny scosse il capo, irritato. La cosa non aveva assolutamente senso. «Nessun creditore verrebbe a chiedermi neppure mezzo milione di rand. Avrei difficoltà a mettere insieme persino diecimila rand per il mio conto personale in banca. » «Nessun creditore verrà a chiederti niente o a citarti davanti alla legge aspettandosi un pagamento in contanti. No, lo farà solo per cavarsi una soddisfazione personale. Ti sbranerà, letteralmente, e sarà felicissimo di farlo. » Johnny non riusciva a crederci. Socchiuse gli occhi. «Benedict? » Il Vecchio annuí. «Per una volta tanto la mano tocca a Benedict. Non potrà toglierti la direzione della società perché Tracey ti sosterrà, come ha sempre fatto, ma potrà sorvegliare ogni tua mossa dalla sua poltrona di presidente. Potrà perseguitarti, ridurre sul lastrico te e la società senza subire personalmente la minima perdita finanziaria. E quando sarai a terra, be', sai che non potrai aspettarti da lui nessuna pietà. Sarai divorato dal mostro che tu stesso hai creato! » « Creato? » Johnny era stupefatto. « Ma cosa sta dicendo? » «L'hai ridotto tu al punto in cui è ora. Gli hai spezzato il cuore, l'hai reso debole e inutile. » «Lei è pazzo!» Johnny si alzò. «A Benedict io non ho fatto un bel niente. E' stato lui che... » Ma il gracchío roco del Vecchio coprí subito la replica indignata di Johnny. «Ha cercato di mettersi al passo con te e non ce l'ha fatta. S'è arreso ed è diventato quel ch'è diventato, mediocre e meschino. Oh, so benissimo cos'è mio figlio, a cosa l'hai ridotto. » « Per cortesia mi ascolti. Io non ho... » Ma il Vecchio proseguí, implacabile: «E anche Tracey, hai rovinato anche la vita di Tracey. L'hai avvinta al tuo peccato ». «Quella notte! » urlò Johnny. «Lei non mi ha mai lasciato spiegare. Non ha mai... » La voce del Vecchio suonò come lo schiocco d'una frusta: « Zitto! » E Johnny non osò sfidarlo, l'abitudine all'ossequio era troppo profondamente radicata in lui. Il Vecchio tremava, gli occhi mandavano lampi. «Tutt'e due i miei figli! Hai distrutto me, i miei figli e tutta la famiglia. Benedict è uno sbandato e un buono a niente che cerca di curare le proprie ferite col piacere, ebbene io ora gli lascio gli strumenti per distruggerti, e
quando lo avrà fatto forse diventerà un uomo. » Roca e flebile, a questo punto la sua voce era colma di dolore. Deglutí con uno sforzo, con la gola che gli fremeva tutta, eppure i lampi in quegli occhi non s'attutirono. «Anche Tracey. Perseguitata dalla propria lussuria, lussuria risvegliata da te, anche lei cerca uno scampo alle proprie colpe. La tua distruzione sarà la sua salvezza. » «Lei sta sbagliando tutto! » esclamò Johnny, tra la protesta e la supplica. « Per cortesia, mi lasci spiegare. » « Le cose andranno esattamente come ho detto. Legandoti a un'impresa che va alla deriva ti ho reso vuluerabile. Questa volta ci libereremo di te. » S'interruppe, ansimando come un cane in corsa. Il respiro era strozzato, quasi un rantolo. «Benedict ti taglierà le gambe e Tracey rimarrà a guardare. Non potrà aiutarti, la sua eredità è bloccata, non ha nessun controllo del capitale. La tua unica speranza è dunque la Kingfisher. Ma, quella nave si trasformerà in un vampiro e ti succhierà tutto il sangue. Mi hai sempre chiesto perché trasferissi sistematicamente tutti i fondi della Van Der Byl Diamonds nelle altre società: bene, ora conosci la risposta. » Johnny mosse le labbra. Era pallidissimo. La voce gli si assottigliò, divenne quasi un bisbiglio: «Posso sempre rifiutarmi di firmare quella garanzia». Il Vecchio sorrise, maligno; una contrazione delle labbra non dovuta ad alcun senso di piacere o divertimento. « Firmerai. » La sua voce era ormai un rantolo. « Orgoglio e presunzione non ti permetteranno di fare altrimenti. Sai, ti conosco. Ti ho studiato durante tutti questi anni. Ovemai però ti rifiutassi di firmare sarai schiacciato lo stesso. Le tue azioni andranno a Benedict e tu sarai fuori. Finito! Alla lunga comunque ci saremmo liberati di te! » Abbassò la voce. «Ma firmerai, lo so. » Senza accorgersene, Johnny allungò le mani verso di lui in un gesto di supplica. « Per tutto questo tempo in cui sono stato con lei, in cui... » anche a lui la voce s'arrochí e affievolí, « non ha mai, mai provato niente per me? Niente? » Il Vecchio si drizzò nella persona. Parve riacquistare imponenza e sorrise. Ora parlò con calma, non ebbe bisogno d'alzare la voce: «Va' via dal mio nido, cuculo. Vola via! » A poco a poco Johnny cambiò espressione, il profilo della mascella s'indurí, sporse in fuori aggressiva. Tirò su le spalle e si cacciò le mani in tasca chiudendole a pugno. Due ossuti martelli. Annuí scuotendo il capo. « Capisco. » Scosse di nuovo il capo, poi sorrise. Un sorriso, poco convincente, che gli storse solo la bocca e gli lasciò la cupezza negli occhi. «D'accordo, vecchio bastardo, ti farò vedere io. » E lasciò la stanza senza voltarsi. La soddisfazione, una profonda soddisfazione, quasi illuminò il viso del Vecchio. Gongolò, ma a un tratto gli venne meno il fiato. Cominciò a tossire e il dolore lo prese alla gola, violento. S'afferrò debolmente al bordo della scrivania. Si sentí muovere dentro il ragno della morte, sentí le sue zampe che affondavano piú profondamente nella gola e nei polmoni. Ebbe paura. Lanciò un grido, di dolore e paura, ma nella vecchia dimora non c'era nessuno che potesse udirlo. La Kingfisher venne varata in agosto e fece le sue prove nel Mar del Nord. Per ordine espresso del Vecchio, Benedict era anche lui a bordo.
Sarebbe stato un miracolo se una nave tanto complessa e di disegno tanto rivoluzionario avesse funzionato perfettamente sin dal principio e infatti, quell'anno, agosto non fu un mese di miracoli. Alla fine delle prove Johnny aveva già pronto l'elenco delle ventitré modifiche necessarie. « Quanto? » chiese al rappresentante dei cantieri. «Un mese. » La risposta non fu prontissima. «Intende dire due», fece Benedict, ridendo forte. Johnny lo guardò con aria assorta e capí che il Vecchio aveva parlato al figlio. «Ti dico una cosa, Johnny», aggiunse Benedict, continuando a ridere. «Sono contento che questa baracca non sia quel che io intendo per paradiso. » Johnny rimase di sasso: quelle erano parole del Vecchio, ripetute pappagallescamente. Erano la conferma di cui aveva bisogno. Tornò a Città del Capo, dove trovò i creditori sul punto di ammutinarsi, tutti quanti; volevano ritirarsi accettando le perdite. Johnny passò due preziosi giorni nell'azienda vinicola di Larsen, a Stellenbosch, per calmare i suoi timori. Quando la sera del secondo giorno, a cena, Fifi Larsen, di vent'anni piú giovane del marito, gli pizzicò la coscia sotto al tavolo lui capí che tutto era sistemato, almeno per altri due mesi. Nel corso della frenetica e stremante settimana successiva, fatta di discussioni e negoziazioni, trovò anche il tempo di vedere Tracey. Era uscita dalla clinica ormai da un mese e stava in una piccola fattoria di amici dalle parti di Somerset West. Quando smontò dalla Mercedes e Tracey gli corse incontro dalla veranda, per lui quello fu il primo momento veramente felice dopo tanto tempo. « Dio », esclamò. « Stai una meraviglia! » Tracey indossava un abito di cotone estivo e ai piedi aveva semplici sandali. Poiché i suoi amici erano via per tutto il giorno furono liberi di passeggiare e parlare. Johnny la guardava, la studiava sfacciatamente, e notò che ora aveva guance e braccia piene e che il colorito le era ritornato. I capelli erano lucidi e brillavano al sole, le occhiaie scure, però, non erano ancora scomparse. Sorrise quando lui colse e le offrí un rametto di pesco in fiore. Sembrava intimorita, insicura di sé. Alla fine Johany le si piantò davanti e le poggiò le mani sulle spalle. « E va bene. Avanti, su: cos'hai in quella testa? » Rispose immediatamente con un vero e proprio staccato di parole: «Voglio ringraziarti per essere venuto a prendermi. Voglio spiegarti perché ero... in quelle condizioni. In quello stato. Non voglio che tu creda... be', che pensi male di me». « Tracey, tu non sei tenuta a spiegarmi niente. » « Invece voglio. Devo. » E senza guardarlo in viso, giocherellando nervosamente col rametto che aveva in mano, spiegò: «Sai, non capivo. Ero arrivata alla conclusione che tutti gli uomini fossero come... Non volessero. Voglio dire, be', che non volessero farlo... » S'interruppe per riprendere subito dopo: «Era premuroso, capisci, e c'era sempre festa intorno a noi, ogni giorno, ogni sera, sempre amici. Poi è voluto andare a Londra... per il lavoro, diceva. Qui non c'erano prospettive. Allora io ancora non sapevo. Be', sí, avevo notato che aveva una quantità di amici uomini e che alcuni di loro erano diversi... ma... Poi un giorno andai al suo studio e li sorpresi... Si misero a ridere, lui Kenny e quel ragazzo, allacciati insieme come serpenti. 'Ma non potevi non sapere', esclamò lui. E qualcosa mi si spezzò dentro. Fu un brutto colpo. Mi sentii insudiciata e coinvolta e volevo morire. Non avevo nessuno a cui rivolgermi e volevo che nessuno...
Insomma, volevo solo morire». Tacque e attese che lui parlasse. «E lo vuoi ancora? » le chiese con un soffio di voce. Lo guardò sorpresa e scosse la testa, che brillava al sole. «Neppure io ho voglia di morire. » Risero entrambi, inaspettatamente. Dopodiché tutto tornò normale tra loro due e rimasero lí a parlare, senza piú strani toni, finché fu buio. «Ora devo andare», disse Johnny. «Tua moglie?» chiese lei. Le risate s'erano spente. « Sí, mia moglie. » Era già buio quando lui varcò la porta d'ingresso di quella specie di ranch nuovo e a piani sfalsati, a Bishopcourt, che era la sua dimora ma non la sua casa. Il telefono stava squillando. Sollevò il ricevitore. « Johnny? » « Ciao, Michael. » Aveva riconosciuto la voce. « Johnny, vieni subito qui, alla vecchia casa. » La voce di Michael Shapiro era carica di tensione. « Il Vecchio? » chiese Johnny, con apprensione. « Non far domande... vieni e basta. Subito! » Le tende erano tirate e nel camino scoppiettava un fuoco di ceppi. Eppure il Vecchio aveva freddo. Il freddo era giú giú, dentro di lui, dove le fiamme non potevano attaccarlo. Nel raccogliere i fogli dalla scatola di documenti aperta davanti le mani gli tremavano; vi dava un'occhiata e li buttava nel fuoco. Esplodevano in una vivida fiamma arancione, starricciavano e annerivano, diventavano cenere. Alla fine la scatola fu vuota a eccezione d'un gran fascio di buste multicolori tenute insieme con un nastro. Sciolse il nodo, prese la prima busta e ne tirò fuori un foglietto di carta da lettere: Signore, spero che le faccia piacere sapere che ora mi trovo in collegio. Il cibo è buono ma i letti sono molto duri... Buttò busta e foglietto nel fuoco e ne prese un'altra. Le lesse una per una e le bruciò. ... che sono stato scelto per giocare tra i primi quindici... sé. Ogni tanto sorrideva; a un certo punto rise anche, fra sé e ... sono riuscito primo in tutte le materie tranne la storia e la religione. Spero di far meglio la prossima... L'ultima busta la tenne a lungo nella mano ossuta e corsa da vene azzurre; alla fine, con uno scatto impaziente del solo polso, buttò anche quella nel fuoco e allungò una mano verso la mensola del camino per appoggiarsi nel tirarsi su. Una volta in piedi guardò nella specchiera dorata sopra al camino. Fissò a lungo la propria immagine, leggermente sorpreso dal cambiamento che quelle ultime poche settimane avevano prodotto nel suo aspetto. Dagli occhi era scomparso ogni lampo di vita e il loro colore s'era ridotto a uno scialbo e livido azzurro sporco. Il colore del disfacimento. Sporgevano in fuori dalle occhiaie, con lo sguardo vitreo e stupefatto tipico dello stadio terminale del cancro. La sensazione di molliccio che gli davano gli arti e il gelo da cui erano invasi, sapeva, non era conseguenza degli antidolorifici, né lo era quel passo lento e strascicato col quale s'avviò, sul soffice bukhara, verso la scrivania di prezioso legno d'ocotea. Guardò l'astuccio rettangolare di cuoio con gli angoli in metallo e tossí: un solo lacerante latrato. S'appoggiò alla scrivania per reggersi nell'attesa che la fitta passasse, quindi fece scattare la serratura dell'astuccio e sollevò il coperchio.
Nel prendere poi dall'astuccio le canne staccate e il corpo del Purdey Royal calibro dodici per montarli, le mani erano abbastanza ferme. Morí com'era vissuto: solo. «Dio, come odio il nero.» Ruby Lance stava al centro della stanza e guardava l'abito disteso sul letto matrimoniale. « Mi fa sembrare un cadavere. » Agitò il capo da una parte e dall'altra sconvolgendo la cascata di capelli color champagne, poi si girò e a passo lento e pigro attraversò la stanza e s'avvicinò alle due alte specchiere. Si lanciò un sorriso, una languida strizzatina, quindi, guardando oltre la propria immagine riflessa, chiese: «Hai detto che Benedict van der Byl è tornato dall'Inghilterra? » «Sí», rispose Johnny. Era stravaccato nella poltrona accanto alla porta dello spogliatoio e si premeva gli occhi con la punta delle dita. Ruby si alzò in punta di piedi, tirò in dentro la pancia che non aveva e spinse in fuori il petto, piccolo e sodo. «Chi altro ci sarà? » Si portò le mani a coppa sotto i seni e strizzò i capezzoli tra pollice e indice. Li studiò attentamente. Johnny allontanò le dita dagli occhi. « Mi hai sentito? » La voce di Ruby acquistò un lievissimo tono intimidatorio. «Non parlavo al muro. » Voltò le spalle allo specchio e lo guardò in viso. In piedi lí, alta e sottile e dorata come un leopardo, persino gli occhi avevano la gialla fissità di quelli d'un leopardo. Dava l'impressione che stesse per ritrarre da un momento all'altro le labbra in un soffio ringhioso. «E' un funerale», rispose Johnny, calmo, «non un cocktail party. » «Be', non t'aspetterai che sia dilaniata dal dolore. Non lo sopportavo.» Andò al letto, raccolse un paio di mutandine color pesca e si strofinò la lucida seta contro la guancia. Quindi se l'infilò con due ampie falcate. «Almeno metto qualcosa di grazioso sotto al lutto. » Fece scattare l'elastico contro il ventre dorato e il biondo, quasi incolore, ciuffo venne schiacciato e coperto dalla seta. Lentamente, Johnny s'alzò e passò nello spogliatoio. Indignata, lei gli gridò dietro: «Per l'amordiddio, Johnny Lance, piantala con quel muso. Non è la fine del mondo, dopotutto. Nessuno deve niente a quel vecchio bastardo, aveva riscosso il suo credito già da un pezzo prima della scadenza». Arrivarono con un anticipo di qualche minuto e aspettarono sotto i pini di fronte alla cappella. Quando la Rolls grigio perla varcò il cancello e fratello e sorella ne smontarono e risalirono il viale asfaltato, Ruby non riuscí a controllare la propria curiosità. «E quello Benedict van der Byl? » Johnny annuí. « E' un bell'uomo. » Ma Johnny stava guardando Tracey. Sorprendente com'era cambiata dall'ultima volta che l'aveva vista. Camminava di nuovo come la ragazzina del deserto, eretta e fiera. Andò dritto da lui. Si tolse gli occhiali scuri e lui s'accorse che aveva pianto perché gli occhi erano arrossati e leggermente gonfi. Non portava trucco e, incorniciato dal fazzoletto nero, il viso sembrava quello d'una monaca. I segni impressi dal dolore gli davano un aspetto maturo. «Ero convinta che questo giorno non sarebbe mai venuto » disse a bassa voce. «Sí, certo», fece Johnny, «eravamo convinti che sarebbe vissuto per sempre. » Tracey fece un passo avanti e allungò una mano come per toccargli il braccio, ma le dita non arrivarono neppure a sfiorare la manica della giacca. Johnny capí il senso di quel gesto: condividevano la stessa pena e la stessa perdita. Avrebbe voluto consolarla.
«Se non sbaglio, noi due non ci conosciamo.» Ruby sfoderò il suo tono mieleveleno. «Lei è Tracey van der Byl, vero? » La giovane girò il capo e cambiò espressione, distaccata e impassibile. Si rimise gli occhiali, coprendo gli occhi. «La signora Hartford», corresse. «Piacere. » Mike Shapiro sedeva nel banco accanto a Johnny. Parlava senza muovere le labbra e forte quel tanto da farsi sentire solo da lui. « Benedict conosce le disposizioni testamentarie. Puoi aspettarti al piú presto la sua prima mossa. » « Grazie, Mike. » Johnny intanto non staccava gli occhi dalla cassa massiccia e nera dai cui manici d'argento la luce delle candele cavava un vacillante brillio. Per il momento ancora non provava grande interesse per il conflitto che lo aspettava. Ogni cosa a suo tempo, adesso era preso da quella conclusione, da quella fine di un'epoca della sua vita. Altre cose importanti sarebbero iniziate ora; la sua vita sarebbe cambiata, anzi era già cambiata. Si girò verso l'altra fila di banchi; all'improvviso l'intuito gli aveva guidato lo sguardo. Benedict van der Byl stava guardandolo infatti. In quello stesso momento il sacerdote chiese ai portatori di farsi avanti. Andarono a piazzarsi di fianco alla bara, e lui e Benedict vennero a trovarsi ai due lati opposti del lucido feretro, tra gran fasci di calle. Si lanciarono occhiate circospette, lui Johnny con l'impressione che quella scena avesse un preciso significato: loro due ai lati dei resti del Vecchio, uno di fronte all'altro, con Tracey che li guardava con ansia. Si voltò a guardare verso l'interno della cappella; cercava Tracey, incontrò invece lo sguardo di Ruby. Lo stava guardando e di colpo lui capí che la situazione era cambiata piú di quanto immaginasse. Un'altra pedina era entrata in gioco. Sentí la gomitata leggera di Mike Shapiro e fece un passo avanti. Prese la maniglia d'argento. Portarono il Vecchio fuori, al sole. Per il gran peso della cassa la maniglia gli impresse la sua forma nel palmo della mano e lui dovette continuare a massaggiarsi anche dopo che la bara fu calata nella fossa. Il mucchio della terra di riporto era coperto da verdi riquadri di tappeto d'erba artificiale. Quando poi gli altri cominciarono ad andar via lui rimase lí, col capo scoperto finche Ruby gli s'avvicinò e gli sfiorò il braccio. «Andiamo.» La voce era bassa, ma stridente, pungente. «Ti stai rendendo ridicolo. » Benedict e Tracey stavano sotto i pini presso il cancello del cimitero: salutavano, ringraziavano, stringevano mani e accettavano condoglianze. «Lei è Ruby, naturalmente.» Benedict le prese la mano con un lieve sorriso, educato, affascinante. «Devo dire che le cose lusinghiere che ho sentito sul suo conto non le fanno tuttavia giustizia. » Raggiante, Ruby sembrava una farfalla che spiana le ali al sole. «Johnny.» Benedict si rivolse a lui ora, cogliendolo di sorpresa con l'amichevole stretta di mano e il gran sorriso cordiale. « Michael Shapiro mi ha detto che hai accettato il legato di mio padre e le condizioni che l'accompagnano. Hai firmato la garanzia. E' una magnifica notizia. Proprio non so come avremmo fatto senza di te alla Van Der Byl Diamonds. E ora sei l'unico che possa tirarla fuori dalle cattive acque. Desidero però che tu sappia che ti verrò dietro sino in fondo, Johnny. Adesso voglio davvero occuparmi della società e darti tutto l'appoggio necessario. » «Sapevo di poter contare su di te, Benedict.» Johnny accettò la sfida con la stessa disinvoltura con cui gli veniva lanciata. « Ho fiducia che tutto andrà per il meglio. » «Abbiamo una riunione lunedí, dopodiché torno a Londra martedí, ma spero che prima di allora possa avervi a cena, te e la tua
bella moglie. » «Grazie. » Ruby aveva letto il rifiuto già pronto sulle labbra di Johnny e aveva deciso d'intervenire immediatamente. « Sarà un piacere. » «Stavi per rifiutare, vero? » Stava seduta girata di fianco, con le gambe ripiegate sotto, nel sedile anteriore della Mercedes. Gli occhi erano obliqui come quelli d'un gatto persiano. « Hai indovinato. » « Perché? » « Benedict van der Byl è una biscia velenosa. » « Lo dici tu. » « Certo. » « Non sarai per caso geloso di lui? » Ruby accese una delle sue sigarette col bocchino dorato e sbuffò fuori il fumo a labbra strette. «Figurati!» Johnny sbottò in una forte e breve risata, quindi tacque. Entrambi stettero a guardare la strada davanti a loro. « Io lo trovo attraente. » «Accomodati.» Lo disse in tono del tutto distaccato. La replica stridente di lei fu invece velenosa: «Non sarebbe impossibile se volessi. Comunque, tu e quella creatura svagata, quella Tracey. » «Piantala, Ruby.» «Dio del cielo, cos'ho detto di male? La delicata signora Hartford. » « Piantala, ti dico. » « La cara Miss Brachettina. Dio del cielo! A momenti se le sfilava stesso lí al cimitero. » « Chiudi quel becco da bagascia! » «Non insultarmi. » Si sporse in avanti nel sedile e lo colpí con la mano aperta dritto sulla bocca. Il labbro inferiore sfregò contro i denti e Johnny avvertí il sapore del sangue; si tolse il fazzoletto dal taschino di petto e se lo portò alle labbra, guidando intanto con una mano sola. Lei tornò ad accucciarsi nel suo angolo, tirando nervosamente alla sigaretta e nessuno dei due aprí piú bocca fino a che non furono davanti al garage dove Ruby smontò e corse, attraverso il prato, verso la porta di casa. Se la chiuse alle spalle sbattendola con tale violenza che l'alto pannello di vetro tremò. Dal canto suo, Johnny parcheggiò la Mercedes, chiuse la porta del garage e, a passo lento, la seguí in casa. S'era liberata delle scarpe abbandonandole sulla moquette nel soggiorno ed era corsa fuori sul patio, dov'era la piscina. Stava lí, scalza, e fissava l'acqua limpida e verde stringendosi, con le braccia incrociate sul petto, le spalle. «Ruby.» La raggiunse. Stava sforzandosi di mantenere un tono calmo, addirittura conciliante. « Sta' a sentire. » Lei si girò di scatto verso di lui mandando lampi dagli occhi come un leopardo intrappolato. «Ora non venirmi a blandire, bastardo. Per chi mi hai presa, per la tua serva? Dimmi quando mai si è fatto quello che voglio io? » Da un pezzo lui aveva capito che con Ruby la rappacificazione forzata era la scorciatoia per la pace e la tranquillità: quindi, immediatamente, quel sottinteso lo mise sull'avviso. « Non ti ho mai impedito niente. » «Bene! Magnifico! Quindi non m'impedirai d'andar via? » «Che intendi dire? » Con la sorpresa arrivò anche un filo di speranza. « Stai parlando di divorzio? » «Divorzio? Stai scherzando? Sei impazzito? So tutto del bel gruzzoletto che il Vecchio ti ha lasciato nel suo testamento. Be', la piccola Ruby vuol metterci anche lei la manina nel salvadanaio. A cominciare da subito. » «Cosa vuoi esattamente?» Il tono di Johnny s'era fatto gelido e distaccato. «Un nuovo guardaroba e un giretto per tutti quei bei posti dove vai sempre, Londra, Parigi e via dicendo. Tanto per cominciare. » Lui rifletté, calcolando fino a qual punto poteva scoprire il proprio conto: dal matrimonio in poi raramente questo era stato in nero. Ma ne valeva la pena, decise. Nei prossimi mesi non poteva permettersi distrazioni e senza Ruby tra i piedi sarebbe stato piú lesto nei movimenti e nelle decisioni. Andasse pure, dunque. « Va bene? Se è questo che vuoi. » Lei strinse gli occhi e si tenne le labbra tra i denti mentre l'osservava.
«Troppo facile», disse alla fine. «Cos'è? Vuoi liberarti di me? Non farti venire idee, maritino caro, fai sporgere piú del dovuto un solo dito o quel che vuoi e te lo mozzo immediatamente. » Nell'interfono, Lettie Pienaar annunciò quasi in un bisbiglio: «Una certa signora Hartford chiede di lei». Poi, a malapena udibile, aggiunse: «Sempre fortunato, lei». Johnny sorrise. «La licenzio per sfrontatezza. Prima di fare le valigie, però, faccia passare la signora Hartford. » Si alzò, fece il giro della scrivania e, quando entrò, andò incontro a Tracey, che indossava un seriosissimo completo grigio e portava i capelli tirati indietro. Eppure non riusciva ad avere un'aria austera. «Sei completamente fuori orario, Tracey. La riunione del consiglio è alle due del pomeriggio. » «Proprio una bella accoglienza.» Tracey sedette su una poltroncina girevole a forma d'uovo e incrociò le lunghe gambe dalle quali Johnny riuscí a fatica a staccare gli occhi. « Vengo a chiedere lavoro. » « Lavoro? » La guardò senza espressione. « Sí, un lavoro. Sai, un impiego, un posto. » « E come ti salta in mente? » «Be', ora che con tutto il garbo e il tatto di un cavernicolo mi hai sottratta all'accecamento della luce non penserai mica che me ne stia lí ad aspettare la morte per noia. Inoltre, quel salvatore del tuo medico è convinto che un salutare lavoro sia il complemento indispensabile della mia, diciamo, cura. » «Capisco.» Johnny si appoggiò allo schienale della poltroncina. «Ebbene, cosa sai fare? » Tracey spalancò gli occhi con esagerata affettazione e con vocetta acuta esclamò: « Via, Johnny Lance! » «D'accordo», fece lui, ridendo. «Che titoli, che qualifiche hai? » «Forse non lo sai, ma mi sono laureata in giurisprudenza all'università di Città del Capo. » « Non lo sapevo. » «In piú, ho pensato che magari nei prossimi mesi potrai aver bisogno di una persona di fiducia al tuo fianco. » Era seria e il sorriso di Johnny scomparve. «Come ai vecchi tempi, del resto», aggiunse poi, calma. Seguirono attimi di silenzio. «Si dà il caso che il nostro ufficio legale abbia appunto bisogno di un assistente. » Johnny lo disse quasi in un mormorio poi, a voce ancora piú bassa, aggiunse: « Grazie, Tracey». La sala del consiglio della Van Der Byl Diamonds era arredata in calde tinte pastello verde e marrone. Un'ampia sala lussuosa che ricordava i bei tempi floridi della società, quando i forzieri erano pieni. Ora invece l'atmosfera era carica d'una tensione che crepitava nell'aria come elettricità statica. L'argomento all'ordine del giorno era quella grande nave da pesca al diamante che era la Kingfisher, l'ultima speranza della società, l'unica sua sostanziale risorsa e autentica croce sulle spalle di Johnny. «Avrebbe dovuto essere all'opera già da nove mesi ormai. Tutte le previsioni erano basate su questa premessa e invece è ancora in allestimento in quel benedetto cantiere lí a Portsmouth», stava dicendo Benedict, con un'aria e un tono innegabilmente soddisfatti. «Di conseguenza, gli interessi debitori si vanno accumulando, mettendoci in condizioni... » « Il cantiere è stato in sciopero per quattro interi mesi durante l'allestimento, perché gli operai rivendicavano... » Con la mascella sporta in fuori, Johnny era pronto al combattimento. «Be', non credo che l'imprevedibilità della classe operaia inglese ci riguardi in particolar modo. Bisognava dare la commessa ai giapponesi. La loro offerta era anche piú bassa. » «L'avrei fatto», l'interruppe Johnny, «se tuo padre non avesse insistito... » «Per piacere, ora non scarichiamo tutte le colpe sui morti», ribatté Benedict in tono da santocchio. «Cerchiamo piuttosto di correre ai ripari. Quando scenderà in mare la Kingfisher? » « Il tredici settembre. » «Meglio per tutti se lo farà davvero.» Benedict diede un'occhiata ai propri appunti. «Ora, questo tale che hai assunto come capitano della nave, questo Sergio Caporetti:
cosa ci dici di lui? » «Quindici d'anni d'esperienza su navi per la trivellazione sottomarina nel Mar Rosso. Tre anni come capitano della draga offshore dell'Atlantis Diamonds che operava al largo della costa occidentale. E' uno dei migliori, non ci son dubbi. » «D'accordo.» Benedict accettò con evidente riluttanza e tornò a consultare i suoi appunti. «Ora, noi abbiamo due concessioni marine su due zone. La numero uno al largo della Cartridge Bay e la numero due a una ventina di miglia piú a nord. A giudicare dai risultati delle tue prospezioni immagino che vorrai cominciare dalla prima. » In attesa della mossa successiva, Johnny annuí. Benedict s'appoggiò allo schienale della sedia. «L'Atlantis Diamonds è fallita nel tentativo di sfruttare quella zona. Che cosa ti fa pensare che noi riusciremo là dove loro sono falliti? » «Ne abbiamo già discusso», ringhiò Johnny. «Senza di me, io non c'ero, l'hai dimenticato? Riparliamone, per cortesia. » Rapidamente, Johnny spiegò che i costi dell'Atlantis Diamonds erano stati ingigantiti dal metodo di lavoro adottato. Le loro draghe non erano autonome ma dovevano essere trainate da rimorchiatori. La ghiaia dragata veniva stivata e portata fino a Cartridge Bay, dove veniva scaricata e lavorata in un impianto a terra. La Kingfisher era invece una nave autonoma fornita di propri impianti. Avrebbe dragato la ghiaia lavorandola poi col piú sofisticato sistema di cicloni e controlli rontgen, per scaricare infine di nuovo in mare i residui. «I nostri costi saranno un quarto di quelli dell'Atlantis Diamonds», concluse. «Mentre l'ammontare dei nostri debiti è di appena due milioni», ribatté Benedict, secco, a bassa voce. Poi si rivolse a Michael Shapiro, in fondo al tavolo. «Signor segretario, per piacere metta a verbale la seguente mozione: 'La società intende procedere all'alienazione della nave Kirigfisher attualmente in allestimento a Portsmouth. Successivamente cercherà di disfarsi anche di tutte le concessioni diamantifere alle condizioni piú vantaggiose possibili onde dichiarare alla fine il proprio scioglimento'. Ha scritto? » Era un attacco frontale bell'e buono. Chiaramente, se quella mozione fosse passata il valore della società si sarebbe ridotto a zero. In una vendita stracciata della Kingfisher non avrebbero mai ripreso il prezzo pagato, ci sarebbe stato un deficit... e lui Johnny aveva firmato una garanzia. Era dunque una prova quella, Benedict stava disponendosi alla battaglia. Tracey poteva far pendere la bilancia da una parte o dall'altra e lui ora stava spingendola a uscire allo scoperto. Infatti non la perse d'occhio mentre la mozione veniva messa ai voti. Si sporse in avanti nella sedia imbottita di cuoio con un sorrisetto divertito sulle labbra rosse. Era ben curato e vestito, con l'eleganza che denaro e posizione possono conferire senza possibilità di equivoci, ma la prestanza fisica d'un tempo era appesantita dall'indulgenza al lusso e le guance, per esempio, erano piene tanto da dargli una certa aria petulante di bambino viziato. Tracey votò come Johnny Lance, senza esitare neppure un attimo prima di alzare il braccio e restituendo il sorriso a Benedict. Quello stampato in faccia al fratello, notò, subí un lieve cambiamento, divenne feroce: a Benedict non piaceva perdere. «Benissimo, cara sorellina. Ora almeno sappiamo da quale parte stai. » Si rivolse a Johnny. « Immagino che vorrai che continui il mio lavoro a Londra, vero? » Da anni ormai s'occupava delle vendite a Londra delle pietre della Van Der Byl Diamonds. Un lavoro per niente gravoso che il Vecchio aveva ritenuto alla sua altezza. «Sí, certo, Benedict», disse Johnny. «E ora ho anch'io una mozione da proporre: 'In segno di solidarietà, i dirigenti della società convengono di rinunciare agli emolumenti loro spettanti fino a quando la situazione finanziaria della società non poggerà di nuovo su solide basi'. » Un contrattacco abbastanza debole, ma cosí su due piedi non poteva organizzare di meglio. Decollarono alle prime luci dell'alba.
Johnny mise il bimotore Beechcraft in rotta per il nord, lasciandosi sulla sinistra l'azzurra sagoma massiccia della Table Mountain. Tracey portava una giacca a vento con cappuccio sulla camicia rosa e i pantaloni di tela infilati in stivaletti di morbida pelle. I capelli erano raccolti sulla nuca e legati con un laccetto di cuoio. Sedeva immobile e guardava oltre il parabrezza dell'aereo al paesaggio carezzato e tinto dall'alba, alle montagne viola e porpora e alle vaste pianure fulve che si stendevano fino alla caligine sospesa laggiú sul freddo Atlantico. In quella sua immobilità Johnny intuí l'eccitazione che doveva provare e ne fu contagiato. Poi il sole esplose sopra la linea dell'orizzonte invadendo di lucente oro le pianure e incappucciando di fiamme le montagne. Johnny indicò davanti a sé. « La Namaqualand. » Questa volta l'eccitazione la fece ridere, con la contentezza d'una bambina a Natale. Si girò verso di lui. « Ti ricordi... » esordí e subito s'interruppe, confusa. «Sí, ricordo.» Atterrarono prima di mezzogiorno su una pista spianata dai bulldozer nel deserto. Una Land Rover li aspettava per condurli alla spiaggia, dov'era la base. In verità, restava ben poco da fare ormai in quella striscia detta dell'Ammiragliato e lunga trentasette miglia, solo far pulizia e chiudere il cantiere. Quando l'attuale responsabile dell'operazione Re Canuto consegnò a Johnny i pochi diamanti che erano tutto quanto avevano cavato in quel mese di lavoro, si scusò: «Le hai tolto le piume, Johnny. Non è piú come ai vecchi tempi ». «Già», convenne Johnny. «Ma ogni briciola aiuta.» Frugò col dito nel misero mucchietto di pietre piccole e poco preziose. Alla fine montarono di nuovo sul Beechcraft e puntarono ancora a nord. Ora sorvolavano zone nelle quali il deserto era tutto segnato e sconvolto per tratti vastissimi. Trattori e bulldozer avevano lasciato nel soffice terreno tracce da millepiedi. «Nostri?» chiese Tracey. «Magari», rispose lui. «Non avremmo piú preoccupazioni. No, tutto questo appartiene alla Grande Compagnia. » Quindi guardò l'ora e, automaticamente, controllò il progresso del volo nei confronti dei calcoli di previsione. Alla fine prese il microfono. «Zeta Esse Pi Ti Bi chiama Controllo di Alexandra Bay. » Sapeva che lo avevano già sullo schermo radar e che stavano seguendolo, non certo per premura nei suoi confronti ma perché stava sorvolando la Proclaimed Diamond Area dell'Africa sud occidentale, un'immensa estensione tenuta sotto scrupolosa sorveglianza. La radio gracchiò immediatamente in risposta. Gli chiesero il numero del permesso di volo, il relativo piano, le sue intenzioni e la sua destinazione. Convintili della propria buonafede e ricevuto il permesso di continuare il volo, Johnny spense la radio e sorrise a Tracey. Era stato leggermente turbato da quel lieve e temporaneo contatto con gli dèi, ma capiva benissimo che, in sostanza, da parte sua si trattava di gelosia professionale. Gli bruciava la consapevolezza d'essere impegnato in un lavoro al quale la Grande e sprezzante Compagnia non si sarebbe mai abbassata. Talvolta si ritrovava a sognare di scoprire, chissà, un difetto di forma nel titolo d'una concessione o un errore di valutazione in un'ispezione eseguita superficialmente una settantina d'anni prima della scoperta del vero valore di quella terra desolata. Si vedeva a reclamare i diritti di sfruttamento minerario su alcune miglia quadrate di terreno situate proprio al centro del piú ricco territorio della Grande Compagnia. Anche ora la sola idea lo fece fremere di voluttà. Tracey lo guardava incuriosita. Lui scosse il capo e il filo dei suoi pensieri seguí un'altra direzione.
«Tracey, voglio farti vedere una cosa. » Scese planando perpendicolare alla costa con le sue file di bianche creste che correvano verso l'altrettanto bianca spiaggia. «Che cosa?» Aspettava, incuriosita dal nuovo tono che aveva assunto la voce di lui. «Thunderbolt e Suicide. » Lei storse la bocca, non capiva. «Laggiú. » Johnny indicò in basso davanti a loro e, nella foschia che si levava dal mare, lei le vide: nude, bianche e spumeggianti come due balene albine. « Isole? Cos'hanno di speciale? » «La forma. Non vedi? Sembrano la bocca di un imbuto con uno stretto passaggio in fondo. » Lei annuí. Le due isole erano quasi identiche, gemelle, due stretti spicchi di levigato granito, lungo ciascuno un tre miglia e disposti, a scaglione come in uno stemma, senza però toccarsi alle estremità. Le possenti ondate dell'Atlantico arrivavano da sud e s'infilavano nella bocca dell'imbuto; trovatesi intrappolate in quel recinto di corallo si ritraevano impazzite per lanciarsi contro la roccia in grandi esplosioni di spruzzi per poi riversarsi in spumeggiante e bianca risacca verso la stretta apertura tra le due isole. «Thunderbolt»,1 fece Tracey che, impressionata, non riusciva a staccare gli occhi da quel ribollio d'acqua, «capisco, ma perché l'altra si chiama Suicide? » «Devono averle chiamate cosí i vecchi raccoglitori di guano dopo aver tentato di sbarcarvi. » « Guano? » ripeté lei. «Questo allora spiega il colore. » Johnny si tuffò in picchiata fin quasi a rasentare le verdi onde. Davanti a loro migliaia e migliaia di uccelli marini, cormorani e sule, si levarono in volo allarmati disegnando una lunga striscia nera nel cielo. Erano stati i loro escrementi a dare col tempo alla roccia quel colore bianco gesso. Mentre sfrecciavano nella gola tra le rocce, Tracey esclamò: «Guarda, c'è una specie di torre laggiú, in fondo all'isola! » «Sí, è una vecchia impalcatura che usavano per caricare il guano sulle barcacce. » Johnny virò e fece riprendere quota al Beechcraft per guardare di nuovo dall'alto le due isole. 1 Tuono, in inglese. (N.d.T.) « Vedi come le onde si riversano nella strettoia? Ora guarda sotto la superficie, vedi gli scogli? » S'allungavano nell'acqua verde come lunghe e scure ombre, ad angolo retto, con in mezzo la corrente di bianca schiuma. «Ebbene, hai sotto gli occhi il piú gran bel pozzo di diamanti del mondo. » « Non capisco. » « Laggiú scorrevano i grandi fiumi. Alcuni di loro si sono prosciugati milioni d'anni fa ma non prima di aver depositato i diamanti che avevano trascinato fino al mare. Durante migliaia di millenni, poi, risacca e vento hanno sospinto le pietre verso nord ricacciandone alcune verso la costa e la spiaggia ma trascinando via le altre quaggiú.» Ritornati in quota, Johnny riprese il volo puntando di nuovo verso nord. «Poi, all'improvviso, quei diamanti hanno trovato sulla loro strada Thunderbolt e Suicide e, schiacciati da immani pressioni e scaraventati contro una serie di rocce acuminate, hanno finito col concentrarsi in quell'imbuto. Non sono riusciti a superarlo e si sono sistemati laggiú, proprio nell'imbuto, in attesa che qualcuno venga a tirarli fuori. » Mandò un sospiro, come un innamorato respinto. «Diomio, Tracey, io sento l'odore di quei diamanti, m'arriva chiarissimo al naso. Quasi li vedo brillare attraverso quei cinquanta metri d'acqua. » Si riscosse, come destandosi da un sogno. « E' tutta la vita che faccio questo mestiere e ho acquistato il senso, come il rabdomante. Con la massima certezza, posso dirti che in quell'ansa tra Thunderbolt e Suicide ci sono milioni di carati di diamanti. » «Ebbene, dov'è il problema?» «La concessione, Tracey, la concessione. Fu assegnata vent'anni fa alla Grande Compagnia. » « Da chi? » « Dal governo del Sudafrica. » « E allora perché non li estraggono? » «Prima o poi, nei prossimi vent'anni, lo faranno. Per ora non hanno fretta. » Tacquero e rimasero a guardare davanti a sé. Alla fine Johnny fece schioccare la lingua e scosse il capo; era agitato e irritato da quel pensiero di Thunderbolt e Suicide.
Per distrarlo, Tracey allora gli chiese: «Ma da dove vengono, innanzi tutto, i diamanti? » « Dai camini vulcanici », rispose lui. « In tutta l'Africa meridionale sono noti piú di cento camini vulcanici. Non tutti contengono pietre, ma molti sí. New Rush, Dutoitspan, Bulfontein, Premier, Mwadui. Grandi scrigni pieni del leggendario Blue Ground, il campione fondamentale del diamante. » «E qui non ci sono camini? Sicuro? » S'era girata nel sedile e lo guardava. «No. Ora stiamo dietro solo a pietre fluviali. Alcuni di quei camini esplosero con la forza d'una bomba all'idrogeno, schizzando diamanti per centinaia e centinaia di chilometri intorno. Altri erano sottomarini e scaricarono quindi il loro tesoro nell'inquieto mare; altri ancora, tra i piú tranquilli, diciamo, dei camini vulcanici vennero semplicemente erosi dai venti e dalle acque e i diamanti vennero a trovarsi esposti. » «E quindi affondarono nel mare? » Lui annuí. «Esatto. Nel corso di milioni d'anni furono spostati a poco a poco, in modo infinitamente impercettibile, da frane, smottamenti, fiumi e piogge. Mentre tutte le altre pietre e ciottoli venivano abrasi e consumati e ridotti a niente, i diamanti, quattrocento volte piú duri di qualsiasi altra sostanza naturale al mondo, rimasero immutati. Cosí alla fine raggiunsero il mare e si mescolarono a quelli provenienti dai camini sottomarini per essere successivamente spinti dalle onde sui litorali oppure sbattuti in posti come quelle due isole, Thunderbolt e Suicide. » Tracey stava per fare un'altra domanda ma Johnny la prevenne: «Ecco Cartridge Bay. Siamo arrivati». E puntò il muso dell'apparecchio verso terra. Piú che una baia era una laguna. Separata dal mare da una sottile striscia di sabbia, s'allungava per una grande estensione spoglia di alberi: un vasto specchio d'acqua bassa in tranquillo contrasto con le onde impetuose che dall'altra parte s'avventavano contro la striscia di sabbia. Questa era attraversata poi da un canale con un ingresso a fondale profondo che, visto dall'alto, si stagliava netto contro il verde piú scuro del mare. Serpeggiava tagliando la laguna fino a dove, ai margini del deserto, sorgeva un gruppo di costruzioni isolate, bianche. Johnny deviò verso queste e, sotto di loro, stuoli e stuoli di pellicani bianchi e neri e fenicotteri rosa si levarono spaventati in volo. Atterrarono e successivamente rullarono fino alla Land Rover che li aspettava. Portava dipinto su un fianco il bianco emblema della Van Der Byl Diamonds. Johnny prese la borsa termica che conteneva la loro colazione e guidò Tracey verso il gippone. La presentò al suo caposquadra, dopodiché montarono e, a gran sobbalzi, raggiunsero le costruzioni in riva alla laguna. Intanto il canosquadra fece un rapporto sullo stato dei lavori. Le costruzioni erano state abbandonate dall'ormai defunta Atlantis Diamond Company e Johnny le aveva ristrutturate e ripristinate come base per la Kingfsher, centro di ricreazione e riposo per l'equipaggio, stazione radio, deposito carburanti e officina per normali lavori di manutenzione e riparazione. Vi stava ora aggiungendo un pontile, che si spingeva nella laguna, per l'ex peschereccio che sarebbe servito come appoggio alla Kingfisher e per traghettare uomini e materiali. Ispezionarono a lungo e accuratamente la base. Johnny fu contento dell'interesse che Tracey mostrava e, essendo lui per primo entusiasta, fu ben felice di farle da cicerone e rispondere alle sue domande. Erano già quasi le due quando terminarono il giro. «A che punto sono le torri d'osservazione?» chiese Johnny al caposquadra. « Sono già tutte su, pronte. » Lui allora ebbe un'ispirazione. Dopotutto, potevano unire utile e dilettevole. «Potremmo andare a dare un'occhiata.» Lo disse in tono del tutto casuale. «Okay», rispose il caposquadra. «Vado a prendere la Land Rover. » «Conosco la strada» lo bloccò subito Johnny. «Tu va' a fare colazione. » «Nessun
fastidio...» esordí il caposquadra, poi notò l'espressione di Johnny e, interrompendosi, lanciò un'occhiata a Tracey. «Sí, certo! Bene! Okay... Ecco le chiavi.» Gli porse le chiavi della Land Rover e scomparve all'interno dell'alloggio. Johnny controllò il livello di benzina, dopodiché mise in moto la Land Rover scoperta. «Dove stiamo andando? » chiese Tracey. «A ispezionare le torri d'osservazione lungo la striscia di sabbia. » « Le torri d'osservazione? » «Abbiamo costruito una serie di torri di legno alte una ventina di metri lungo la spiaggia. Da lassú controlliamo continuamente la posizione della Kingfisher che opera al largo e cosí, per radio, le trasmettiamo l'esatta posizione rispetto al fondale con un'accettabile approssimazione. E' una verifica al lavoro dell'elaboratore di bordo. » «Accidenti, sei bravo.» Guardandolo, Tracey sbatté le ciglia in una caricata forma d'ammirazione. «Stupida», fece lui, e ingranò la marcia. Superò la baracca della radio correndo lungo la sabbia dura sul bordo della laguna, accelerò e mise la seconda e poi la terza. Fecero il giro della laguna diretti verso le grandi dune gialle modellate dal vento che segnavano la costa. Reggendosi al bordo del parabrezza, Tracey stava in piedi sul sedile. Il vento le scompigliava i capelli. A un certo punto si tolse il laccetto che li tratteneva, scosse il capo e quelli s'agitarono e fileggiarono come un lucente e nero vessillo dietro al capo. «Guarda! Guarda!» esclamò vedendo la moltitudine di fenicotteri che si levavano in volo spaventati, disegnando una striscia bianca e rosa sull'argentea acqua della brillante laguna. Johnny rise con lei, felice, e sterzò, puntando verso le dune. «Reggiti!» gridò. E lei si resse al parabrezza lanciando grida di divertito timore mentre volavano su per l'erto fianco d'una duna, levando una nube di sabbia con le ruote posteriori, per poi tuffarsi giú oltre la cresta con un balzo da sconvolgere lo stomaco. Attraversarono la striscia di sabbia e raggiunsero la spiaggia, lungo la quale presero a correre scansando l'acqua montante dell'onde che vi s'abbattevano. A dieci chilometri piú avanti, Johnny parcheggiò oltre l'alta battigia e, seduti vicini sulla sabbia, appoggiati ai cuscini dei sedili della Land Rover, mangiarono pollo freddo accompagnato da una bottiglia di vino bianco; dopodiché andarono a lavarsi le mani unte in mare. «Accidenti! E' fredda! » Tracey raccolse l'acqua nelle mani giunte a coppa; guardò Johnny e gli fece una smorfia. Lui indietreggiò ma non in tempo: l'acqua gelida lo colse al petto e quasi gli venne meno il fiato. Urlò: «Vendetta, feroce vendetta! » Era il grido di guerra di quando erano bambini. Lei se la diede subito a gambe. Corse lungo la spiaggia con Johnny che le affannava dietro. Poi sentí che stava guadagnando terreno e gridò: «Non l'ho fatto apposta! Non volevo! Mi dispiace! » All'ultimo istante, quando lui allungò una mano per afferrarla scartò di lato e corse verso l'acqua, che presto le arrivò al ginocchio. A un tratto, voltatasi, gli spruzzò contro col piede e gridò: «E va bene, avanti, fatti sotto! » Affrontando gli spruzzi, lui la raggiunse e l'afferrò che scalciava e si dimenava. Aveva l'acqua alla vita ora. «No, no, ti prego, Johnny. M'arrendo... Non lo faccio piú. » In quel momento, un'onda piú alta e piú forte e piú imprevedibile delle altre fece perdere l'equilibrio a tutt'e due. Andarono sotto e rotolarono fino a riva, dove si tirarono su barcollando, bagnati fradici, avvinti l'una all'altro. Ridevano felici. Raggiunsero la Land Rover e provarono a strizzarsi i vestiti.
« Sei un animale! » sbuffò lei, tra una risata e l'altra. Aveva i capelli bagnati e aggrovigliati come filacci, e gocce d'acqua salata le cadevano come rugiada dalle ciglia. Johnny la strinse a sé e la baciò. Smisero di ridere. Gli s'abbandonò contro il petto con gli occhi chiusi e le labbra, bagnate e salate, premute sulle sue. In quel momento il radiotelefono della Land Rover prese a stridere petulante e la luce rossa a lampeggiare. Lentamente, con riluttanza, si separarono e rimasero un attimo a fissarsi negli occhi, incantati, confusi. Alla fine lui allungò la mano all'interno della Land Rover, sganciò il microfono e se lo portò alle labbra. « Sí? » Roco. Si schiarí la voce e ripeté: « Sí? » Dall'altoparlante giunse la voce del caposquadra, distorta e stridente: «Mi dispiace di...» Era chiaro che stava per dire «interromperla» ma tacque di colpo e ricominciò da capo: «Ho ritenuto opportuno informarla che abbiamo ricevuto la segnalazione d'un temporale in arrivo. S'avvicina rapidamente da nord. Se ha intenzione di tornare a Città del Capo, farà bene a decollare prima che s'avventi su di noi, altrimenti potrà rimanere bloccato qui per giorni ». «Grazie. Torniamo subito.» Johnny riattaccò e guardò Tracey, che gli sorrise incerta. Anche la voce di lei suonò innaturale e roca: «Proprio al momento giusto! » disse. Aveva i capelli ancora umidi e scompariva nella polo troppo grande che le avevano prestato. Anche i pantaloni verdi erano imprestati e lei li portava arrotolati sui piedi scalzi. Se ne stava seduta al suo posto nel Beechcraft, silenziosa e assorta. Sotto di loro un piccolo peschereccio era avvolto in una nube d'uccelli bianchi che gli volteggiavano intorno e lei lo guardava con esagerata concentrazione. Tra loro due era calato come un senso di ritegno e riservatezza, non riuscivano piú a guardarsi negli occhi. Johnny seguí la direzione del suo sguardo. «Pesca sardine. » «Sí», fece lei. E tacquero. Dopo un pò lui riprese, di nuovo roco: « Non è successo niente ». « No. Non è successo niente. » Poi, con un gesto timido, lei allungò la mano verso la sua e gliela strinse. Gli carezzò leggermente il moncherino dell'indice mancante. «Amici come prima? » chiese. « Come prima. » Le sorrise, risollevato. Continuarono il volo verso Città del Capo. Reggendosi contro il forte rollio del peschereccio, Hugo Kramer osservò col binocolo l'aereo. « Polizia? » chiese l'uomo al timone accanto a lui. «No», rispose lui, senza abbassare il binocolo. «E' un bimotore Beechcraft bianco e rosso. La sigla è ZS-PTB. E' privato. Probabilmente appartiene a una di quelle grosse compagnie dei diamanti. » Abbassò il binocolo e andò al parapetto. «Comunque, siamo fuori dalle acque territoriali. » Il rombo dell'aereo svaní e Hugo Kramer rivolse ora la sua attenzione alla frenetica attività che si svolgeva giú di sotto, in coperta. Il Wild Goose quasi sbandava sotto il peso del pesce che riempiva la grande rete a strascico issata col verricello e lasciata appesa fuoribordo; gonfia come una tonda sacca di buoni cinquanta piedi di diametro, quella rete conteneva almeno cento tonnellate di guizzanti e argentee sardine. Sopra di essa era sospeso un vero e proprio baldacchino d'uccelli marini che volteggiavano e scartavano e picchiavano, affamati e impazziti.
Tre uomini dell'equipaggio lavoravano intorno a una rete a sacco appesa a uno dei picchi di carico, la vuotavano del pesce che avevano attinto nella strascico fuoribordo e rovesciavano nella stiva un'inquieta nube argentea di circa una tonnellata di sardine a ogni presa. Il motore del verricello sferragliava assordante, a tempo con i loro movimenti. Dall'alto, Hugo seguiva con soddisfazione il loro lavoro. L'equipaggio era bravo e anche se la pesca era soltanto una copertura per il Wild Goese nella sua pignoleria tedesca, che pretendeva appunto che quella copertura fosse il piú solida possibile, lui era ben soddisfatto. Del resto, i profitti della pesca l'intascava lui. Faceva parte dell'accordo con il Ring. Rimise con cura il binocolo nel suo astuccio di cuoio e l'appese dietro la porta della sala nautica, dopodiché scese lesto per l'erta scala metallica giú in coperta. Nonostante i grossi stivali di spessa gomma che portava, si muoveva con l'agilità di un felino. «Faccio io», disse all'uomo ai comandi del verricello. Lo disse in afrikaans, ma col vago accento tedesco dell'Africa sudoccidentale. Sotto al maglione di lana blu aveva ampie spalle e lavorava con giusta economia di movimenti. Essendo di pelle molto chiara, le mani sui comandi del verricello erano arrossate dal sole e screpolate dal vento. Anche la pelle del viso era rossa, infatti, e a scaglie, con pronunciate chiazze rosse sulle guance; le labbra, poi, erano livide. I capelli che spuntavano da sotto il berretto erano dello stesso bianco del succo d'agave mentre le folte sopracciglia erano invece incolori, il risultato era una vaga aria da miope. Gli occhi erano d'un azzurro fiordaliso pallidissimo senza essere tuttavia lucidi e indistinti come quelli di quasi tutti gli albini; li teneva socchiusi in quel momento, mentre spingeva la leva del motore e tirava quella del tamburo del freno per regolare le oscillazioni del carico sospeso sul rollio e sul beccheggio del peschereccio. «Comandante! » gridarono dal ponte di comando. «Ja!» Hugo non si lasciò distrarre dalla manovra per rispondere. «Cosa c'è?» «Hanno annunciato una burrasca! Sta per calare da nord, dove sta formandosi. » Hugo sorrise, tirò il freno e serrò la valvola. «Va bene. Sgombrate, allora. Tagliate il cavo della strascico e liberate il pesce. » Abbandonò tutto e risalí la scaletta del ponte di comando. Corse a studiare la carta. «Ci vorranno tre ore per metterci in posizione», brontolò ad alta voce, chino sulla carta. Poi andò al parapetto per sollecitare l'equipaggio. Avevano tagliato il cavo della rete a strascico e questa s'era aperta come la camicia d'una donna facendo prorompere fuori il pesce, e ora il varco andava ingrandendosi sempre piú. Intanto che i due uomini spazzavano il ponte con la pompa, spingendo in mare il pesce caduto in coperta, altri serravano le botole dei boccaporti. Quaranta minuti dopo il Wild Goose navigava a tutta forza verso sud per raggiungere la sua base. La costa detta dei Diamanti dell'Africa sudoccidentale si estende lungo la rotta degli alisei. Il vento prevalente è quello che soffia da sud est, ma periodicamente il sistema dei venti s'altera completamente e dal largo, da nord, piomba giú una burrasca di vento. Si tratta d'un vento di tipo scirocco, come il khamsin del deserto del Libano o il simoon tripolino. Insomma lo stesso vento bruciante che soffia dal deserto e riempie il cielo di polvere soffocante e nubi di sabbia, seppellendo tutto sotto un'infernale coltre, come un campo di battaglia. Le nubi di polvere erano previste, anzi ci s'era basati su di esse, facevano parte del piano del Ring, perché soffiando dal nord il vento sollevava una tale
quantità di polvere di mica che gli schermi radar della Diamond Security Police venivano offuscati e confusi da echi fantasmi che rendevano impossibile individuare la presenza di piccoli oggetti in volo a qualsiasi quota. Turn Back Point è un'isola di cinque chilometri posta a un centinaio di chilometri a nord dell'Orange River. Il nome, le è stato dato dai primi viaggiatori ed esprime la loro opinione sull'eventualità di non continuare il viaggio verso nord. Quegli antichi viaggiatori ignoravano però di trovarsi al centro di un sopraelevato terrazzamento marino, un'antica spiaggia affiorata dal mare che doveva in realtà risultare una zona talmente ricca di diamanti da essere in seguito recintata e sorvegliata con tutti i mezzi, jeep, aerei, radar e pattuglie con cani, e difesa con le armi, insomma una specie di lager recintato con misure di sicurezza cosí rigorose che se ne uscìva solo dopo un esame ai raggi X e con addosso nient'altro che i propri vestiti. Ora sul Turn Back Point sorgeva uno dei quattro grandi impianti di separazione e cernita nei quali veniva lavorata tutta la ghiaia proveniente dalle basi della Grande Compagnia lontane miglia e miglia da lí. L'insediamento era relativamente grande e dotato di officine, depositi e magazzini, oltre agli alloggi per i cinquecento dipendenti e le loro famiglie; eppure tutti gli sforzi per rendere vivibile se non piacevole quel posto urtavano contro il fatto che Turn Back Point era una bolgia in pieno spiacevole e ostile deserto. Quando poi, come in quel momento, soffiava il vento del nord ciò che prima era spiacevole diventava decisamente insopportabile. Le baracche venivano letteralmente sigillate e le piú piccole fessure a porte e finestre venivano tappate con stracci e giornali, e ciò nonostante la maledetta polvere rossa penetrava dappertutto, nei mobili, nei letti, persino nell'interno dei frigoriferi, formando una patina sottile e arenosa. La sentivi tra i capelli, granulosa tra i denti come zucchero, nel naso, che ne restava intasato. A tutto questo staccompagnava poi un caldo opprimente da fare inaridire persino il condotto lacrimale. All'aperto, poi, la polvere formava una specie di nebbia rosa e luminosa che riduceva la visibilità a una dozzina di metri, e chi era costretto a star fuori in quell'arida e soffocante nube portava occhialoni antipolvere per proteggersi gli occhi, mentre la polvere di mica gli copriva i vestiti d'uno strato scintillante che brillava persino in quella luce offuscata. In quel preciso momento, fuori dell'insediamento, un uomo avanzava nella nebbia recando un piccolo oggetto cilindrico. Piegato in avanti contro il vento, s'inoltrava arrancando nel deserto. Raggiunse un avvallamento e proseguí; alla fine si fermò per riposare e depose sulla sabbia il cilindro. Vi s'inginocchiò sopra. Col viso coperto dagli occhialoni e dalla sciarpa, il cappuccio e la giacca di pelle, appariva mostruoso. Il cilindro di fibra di vetro era dipinto con vernice gialla fosforescente. A un'estremità aveva un bulbo di plastica trasparente nel quale era alloggiata una lampada, all'altra una tasca gonfiabile di materiale sintetico collegata al cilindro con un attacco di metallo cromato al quale era collegata anche una bomboletta di idrogeno. Il tutto non superava il mezzo metro di lunghezza e i dieci centimetri di diametro e pesava circa sette chili. All'interno, il cilindro presentava due sezioni separate. La piú grande ospitava un'attrezzatura elettronica altamente sofisticata in grado di trasmettere un segnale guida, di accendere o spegnere la propria luce su ordine remoto e, sempre tramite radiocomando, di controllare l'immissione d'idrogeno nella tasca gonfiabile attraverso l'apposito collegamento. Nella sezione, o scompartimento, piú piccola c'era un semplice contenitore di plastica nel quale in quel momento erano stipati ventisette diamanti. La pietra piú piccola pesava quattordici carati e la piú grande, splendida, cinquantasei. Ognuna di queste pietre era stata scelta da esperti in base a colore, brillantezza e perfezione.
Erano tutti diamanti di prima acqua che, una volta tagliati, sul mercato libero avrebbero raggiunto settecentomila o un milione di sterline, secondo il taglio. A Turn Back Point c'erano quattro uomini del Ring. Due erano esperti e richiesti selezionatori di diamanti che lavoravano entro la ben sorvegliata cinta dello stabilimento; lavoravano insieme, controllandosi a vicenda, perché la Grande Compagnia impiegava appunto un sistema di doppio controllo, del tutto inutile naturalmente ove esistevano collusioni. Quei due selezionavano le migliori pietre e le portavano fuori dallo stabilimento. Il terzo uomo del Ring era un meccanico che lavorava nell'officina dell'insediamento. Suo compito era ricevere e montare tutto il materiale che arrivava nascosto in un barile, contrassegnato, di grasso per trattori. Era lui che stipava le pietre nel cilindro e passava questo all'uomo che in quel momento vi stava inginocchiato sopra, là fuori nel deserto, e si preparava a lanciare il cilindro nella vorticante nebbia di polvere. Completato l'ultimo controllo, ora l'uomo s'alzò, si portò sul ciglio dell'avvallamento e rimase lí a fissare quel turbinio di polvere; alla fine, apparentemente soddisfatto, tornò di corsa al cilindro. Svitò con gesto deciso la valvola di controllo della bottiglia d'idrogeno. Ci fu un sibilo da serpente e la tasca di nylon prese a gonfiarsi come un pallone. Le pieghe crepitavano man mano che si stendevano; alla fine il pallone fu pronto e prese a vibrare oscillando, come se fosse impaziente di levarsi in volo; ma l'uomo lo trattenne, con una certa difficoltà, finché non fu perfettamente teso e gonfio. Dopodiché lo lasciò andare e, con quel cilindro appeso sotto, il pallone si levò in aria. Quasi immediatamente fu inghiottito dalla nube di polvere. L'uomo rimase per un bel pò col viso rivolto verso il cupo cielo di fuoco. Gli occhialoni mandavano lievi riflessi ma, tutto sommato, l'uomo aveva un'aria di trionfo; quando alla fine si girò per tornare indietro il suo era il passo leggero di chi ha appena scansato un pericolo. «Ancora un altro lancio», disse ad alta voce. «Uno solo ancora, e mi ritiro. Mi compro quella fattoria sull'Olifants River, vado a pesca, a caccia e magari una volta l'anno mi concedo una... » Stava ancora sognando quando raggiunse la Land Rover parcheggiata. Si mise al volante, avviò il motore, accese i fari e, a marcia bassa, ripercorse la pista che portava all'insediamento. La scritta sul retro della Land Rover era in vernice bianca fosforescente, visibile anche in quella tormenta di polvere rossa. Diceva: SECURITY PATROL. Il Wild Goose era in panna, con i motori che pulsavano silenziosi per tenerlo sempre con la prua alle onde. Anche a venti miglia al largo il vento era insopportabilmente caldo, cosicché gli spruzzi che ogni tanto colpivano Hugo in faccia finivano col risultare un sollievo. Stava piantato in un angolo della plancia da dove poteva tenere d'occhio il mare di sotto e il timoniere nella cabina, ma non mostrava segni di ansia. Il Wild Goose era ormai in panna da quindici ore durante dieci delle quali il vento nordico non aveva smesso un solo attimo di soffiare e sibilare tra il sartiame. Generalmente, prima di un «recupero» Hugo si mostrava ansioso; potevano succedere tante cose, da un'incursione della polizia a un guasto all'impianto elettrico. « Che ora è, Hansie? » gridò. Il timoniere diede un'occhiata al cronometro appeso alla paratia sopra la sua testa. « Le sei e tre minuti, comandante. » «Tra mezz'ora farà buio», brontolò Hugo in tono seccato, e rivolse di nuovo il viso al vento. Poi diede una scrollata di spalle e rientrò nella cabina. Si fermò alla consolle accanto al tavolo su cui era spiegata la carta. Anche a un occhio esperto quell'apparecchio era un comune pescapesce, un adattamento del vecchio congegno antisommergibili del tempo di guerra,
l'ecogoniometro, al piú prosaico compito di individuare e localizzare i banchi di sardine sotto la superficie. Quel modello, però, aveva subito un adattamento ancora piú costoso e specialistico, eseguito da un esperto che il Ring aveva fatto venire apposta dal Giappone. In quel momento stava emettendo un lieve ronzio, i comandi brillavano verdi per la luce interna, il suono era neutro e sullo schermo tondo non compariva niente. «Vuoi del caffè, Hansie?» chiese Hugo al vecchio timoniere di colore. Il suo era un equipaggio scelto, fidato e fedele. Doveva esserlo: una sola bocca aperta avrebbe potuto mandare a monte affari per milioni di sterline. «Ja, dankie, comandante.» Il vecchio increspò ancor piú il viso rugoso in un sorriso di riconoscenza e Hugo staffacciò nel corridoio e gridò verso la cambusa: «Ehi, cuoco, che ne dici di un pò di caffè?» Ma la risposta si perse perché in quel momento la consolle acquistò improvvisamente vita: una fila di luci prese a lampeggiare sul pannello comandi, il lieve ronzio si trasformò in un rapido segnale intermittente e lo schermo s'accese d'una spettrale luce verde. «Ci siamo! » esclamò Hugo, risollevato, e corse all'apparecchio. Il primo ufficiale si precipitò fuori dalla sua cabina dietro il ponte di comando cacciandosi la camicia nei pantaloni sbottonati, col viso assonnato. «Era ora, perdio», farfugliò, con l'aria stordita. «Prendi il posto di Hansie», disse Hugo, e si sistemò sul sedile imbottito davanti all'ecogoniometro. « Bene, vira di due punti a dritta e vai cosí. » Il Wild Goose virò controvento e cambiò andatura, dalla lenta e continua correzione della deriva a un balzo in avanti affannoso. Gli schizzi arrivarono fino ai vetri del ponte di comando. Sempre seduto davanti alla consolle, Hugo seguiva il volo del pallone e teneva il Wild Goose su una rotta d'intercettazione. Spinto dal vento a quaranta miglia l'ora, il pallone venne fuori dalla linea costiera e salì veloce a poco piú di un chilometro. Girando la manopola Hugo gli inviò l'ordine di tenersi in quota espellendo gas. La reazione venne registrata immediatamente sullo schermo. «Bene, bene», bisbigliò. «Bravo palloncino. » Poi, a voce alta: «Poggia un tantino, Oscar, sta derivando verso sud». Beccheggiarono per altri venti minuti. Poi Hugo ruppe il silenzio: «Okay. Ora lo faccio ammarare». Girò lentamente la manopola in senso orario facendo espellere altro gas. «Ja. Ci siamo. E' sceso.» Guardò fuori della cabina. Le nuvole di polvere avevano anticipato la notte, fuori era buio e nel cielo basso e cupo non brillavano stelle. Rivolse di nuovo la propria attenzione all'apparecchio. « Ci siamo, Oscar. Sei sulla rotta giusta. Vai cosí. » Poi lanciò un'occhiata al vecchio Hansie e a un altro membro dell'equipaggio, piú giovane, seduto accanto a lui su una panca contro la paratia in fondo. Portavano entrambi una cerata giallo brillante lunga fino alle caviglie e stivaloni di gomma. «Okay, Hansie», fece, accennando col capo. «Puoi andare a prua adesso. Manca ancora solo un miglio. » I due marinai scesero giú sulla coperta spazzata dalle onde e Hugo li vide avanzare arrancando tra un'ondata e l'altra, piegati in avanti contro il vento. A ogni scroscio d'acqua che gli stabbatteva addosso s'accucciavano e le gialle cerate restavano chiaramente visibili anche alle offuscate luci di coperta. «Ora accendo», disse Hugo al timoniere. «Cerca d'avvistarlo. » «D'accordo.» Oscar scrutava davanti a sé mentre Hugo faceva scattare un pulsante col quale inviò al pallone l'ordine d'accendere la sua luce di posizione. Quasi immediatamente Oscar lanciò un grido.
« Eccolo! Dritto a prua! » Hugo saltò su dallo sgabello e corse a vedere. Ci vollero alcuni secondi perché gli occhi gli stadattassero al buio, alla fine però distinse una piccola lucciola rossa dritto davanti a loro, nel nero e vasto buio del mare e del cielo. Luccicò per qualche secondo dopodiché tramontò dietro l'ondata successiva. «Da' a me. » Hugo sostituí Oscar alla ruota. «Tu accendi il riflettore. » In quel buio, il raggio di luce del riflettore era una bianca striscia solida. A un tratto, nel suo cerchio luminoso brillò la vernice gialla fosforescente del cilindro. Hugo mise il Wild Goose sopravvento al cilindro dopodiche vi puntò dritto sopra. A prua, Hansie e il suo assistente erano pronti con la gaffa da venti piedi. Hugo intanto manovrava con grande delicatezza accostando al sobbalzante cilindro e lanciò un grugnito di soddisfazione allorché la gaffa s'infilò nell'anello di recupero e il cilindro fu issato a bordo al disopra della prua. Stette quindi a guardare i due uomini in cerata gialla bagnata che risalivano la scaletta fino al ponte di comando per deporre alla fine il cilindro sul tavolo dov'era spiegata la carta. « Bene! Bene! » Hugo gli batté sulla spalla in tutta cordialità. « Ora andate ad asciugarvi. Bravi. » I due ridiscesero la scaletta e Hugo passò il timone a Oscar. «A casa! Il piú presto che puoi», ordinò, e si portò il cilindro in cabina. Seduto nella sua cabina davanti al tavolo pieghevole, Hugo Kramer svitò la parte inferiore del cilindro e tirò fuori il contenitore di plastica. Lo aprí e versò il contenuto sul tavolo. Fischiettando, prese la pietra piú grossa. Non era un esperto eppure riconobbe d'istinto che si trattava di un diamante di qualità eccezionale. Neppure l'aspetto che aveva ora allo stato grezzo riusciva a nascondere il fuoco che ardeva dentro. Per lui, però, non aveva nessun valore: una pietra cosí non avrebbe potuto venderla a nessuno in nessuna parte del mondo; quindi non poteva avere la tentazione d'appropriarsene sottraendola al Ring. Quel diamante dunque per lui non era altro che il frutto del sudore d'una quindicina d'anni di duro lavoro. Dal cassetto lí accanto tirò fuori gli attrezzi e li dispose sul tavolo. Accese il fornelletto a spirito e mise a sciogliere la cera contenuta nel crogiolo, poi versò i diamanti in un piccolo recipiente di latta del tipo usato in commercio per inscatolarvi alimenti. Tenendosi poi in equilibrio nel rollio della nave, e allontanato il crogiolo dalla fiamma, versò il liquido fumante sopra i diamanti riempiendo fino all'orlo la scatoletta. La cera si raffreddò e solidificò rapidamente acquistando un colore bianco opaco. Le pietre erano ora incorporate nella cera, che impediva loro di sbattere e risuonare nella scatoletta, conferendo a questa, una volta sigillata, il giusto peso. Accese una sigaretta e attraversò lentamente la cabina per andare a dare un'occhiata fuori. Il timoniere gli ammiccò e gli sorrise. Tornò al tavolo; la scatoletta s'era raffreddata abbastanza da poterla toccare. Vi piazzò sopra il coperchio rotondo e si spostò alla giannetta portatile assicurata a un cassettone. Con grande attenzione, socchiudendo gli occhi per il fumo della sigaretta che gli pendeva dall'angolo della bocca, ribatté il coperchio finché fu saldato. A quel punto, soddisfatto, poggiò la scatoletta sigillata sul tavolo e andò alla giacca appesa al battente della porta. Dalla tasca interna tirò fuori una busta marrone e da questa un'etichetta stampata a colori vivaci. Tornò alla scatoletta e v'incollò l'etichetta tutt'intorno. Questa presentava la libera e artistica interpretazione d'una sardina balzante fuori dall'acqua come un salmone scozzese.
«SARDINE IN SALSA DI POMODORO», lesse ad alta voce, tenendo la scatoletta a distanza per ammirare il lavoro eseguito. «PRODOTTO DEL SUDAFRICA. » Sorrise soddisfatto e cominciò a porre via gli attrezzi. «Quanto?» gridò dal molo il capoaddetto alle pompe in direzione del Wild Goose che stava accostando. «Piú o meno cinquanta tonnellate», rispose Hugo, gridando anche lui. « Poi la burrasca ci ha costretti a rientrare. » «Ja, nessuna delle barche è rimasta fuori.» L'addetto si voltò a guardare i suoi uomini che stavano assicurando i cavi d'attracco e girando la manica dell'aspiratore del pesce sopra la stiva del Wild Goose. S'apprestavano ad aspirare il carico di sardine. « Prendi il mio posto, Oscar. » Hugo raccolse giacca e cappello. « Sarò di ritorno domani. » Saltò giú sul molo e s'avviò verso il conservificio e il suo orribile pazzo d'olio di sarde. Teneva la giacca buttata sulla spalla e la reggeva con un dito piegato a gancio. Infilò un passaggio tra i capannoni dei bollitori e gli essiccatoi e attraversò un vasto cortile dov'erano accatastate fino all'altezza d'un secondo piano casse e casse di scatolame. Varcò la doppia porta d'un magazzino pieno fino al soffitto di scatoloni di cartone su ognuno dei quali era scritto a pennarello: Destinatario: VDB AGENCIES LIMITED 32, BERMONDSEY STREET LONDON, S.E.I Sardine in salsa di pomodoro. Cont. n. 12 scatole Si diresse verso il cubicolo che fungeva da ufficio del capomagazziniere. «Salve, Hugo. Fatto buon viaggio?» Il capomagazziniere era suo cognato. «Cinquanta tonnellate. » Hugo appese tranquillamente la giacca a un gancio dietro la porta. «Vado a pisciare», annunciò poi, e si diresse verso i gabinetti dall'altra parte del deposito. Quando tornò bevve una tazza di tè in compagnia del cognato, dopodiché s'alzò e disse: « Jeannie starà aspettando ». « Dalle un bacione da parte mia. » « Lo aggiungerò ai miei. » Hugo ammiccò e andò a riprendersi la giacca. Era piú leggera adesso perché in tasca non c'era piú la scatoletta. Uscí dal recinto del porto, lanciando nel passare un saluto al doganiere, e tirò dritto fino a una vecchia decappottabile che aspettava nel parcheggio. Baciò la giovane donna al volante, gettò la giacca sul sedile posteriore e montò accanto a lei. «Guida tu», le disse sorridendo. «Devo avere le mani libere. » La donna squittí e gli allontanò la mano dalla gonna. « Non puoi aspettare che arriviamo a casa? » «Sono stato in mare cinque giorni e ho gli occhi da fuori. » « Sei proprio una sagoma, Hugo. » La donna scoppiò a ridere e mise in moto. Sergio Caporetti, l'uomo cui Johnny aveva affidato il comando della Kingfisher, era tutto tondo come un pupazzo di neve. Riempí tutta la soglia della porta dell'ufficio di Johnny, col ventre che sporgeva precedendolo nella stanza. Aveva la faccia tonda d'un bimbotto ma bellissimi occhi scuri d'italiano, con ciglia lunghe come quelle d'una ragazza. «Entri, Sergio», lo accolse Johnny. «Lieto di rivederla. » L'italiano attraversò la stanza con passo sorprendentemente svelto e intrappolò in un'enorme zampa pelosa la mano di Johnny. «E cosí alla fine siamo pronti», disse in un sordo brontolio. «Tre mesi sono stato con le mani in mano a non far niente. Guardi come sono ridotto. » Si batté sul pancione ricavandone una specie di boato. « Troppo grasso. Non fa bene. » «Be', non esattamente pronti», precisò Johnny. Spediva a Londra Sergio Caporetti e l'equipaggio in anticipo; voleva che l'italiano avesse tutto il tempo per studiare situazione e mezzi e imparare tutte le possibilità che offriva la nuova e rivoluzionaria attrezzatura di cui era dotata la Kingfisher.
Una volta pronta, poi, avrebbe portato la nave in Africa. « Segga, Sergio. Ripassiamo la lista dell'equipaggio. » Quando, un'ora dopo, l'italiano andò via Johnny l'accompagnò fino all'ascensore. « Se ha dei problemi, mi telefoni, Sergio. » «Sí.» Sergio gli intrappolò di nuovo la mano. «Non si preoccupi, ci pensa Caporetti. Andrà tutto bene. » Quando rientrò in ufficio Johnny si fermò alla scrivania delle receptionist. « E' venuta oggi la signora Hartford? » chiese. Risposero tuttte due in coro: «No, oggi non l'abbiamo vista». Era scomparsa. Da cinque giorni Tracey non s'era fatta piú viva; il nuovo ufficio allestito per lei era deserto, abbandonato. E lui era preoccupato e seccato. Preoccupato perché temeva che avesse avuto una ricaduta e seccato perché gli mancava. Era cupo in viso quando tornò nel proprio ufficio. «Dio del cielo! » Lettie Pienaar stava accanto alla sua scrivania e riordinava la posta appena arrivata. «Abbiamo proprio l'aria contenta e soddisfatta. Ecco qualcosa che la tirerà su di morale. » Gli porse una cartolina a colori della Torre Eiffel. Era la prima notizia che Ruby dava di sé da quando era partita; Johnny le diede una rapida scorsa. «Parigi è un sogno... a quanto pare», commentò poi. Buttò la cartolina sulla scrivania e si tuffò nel lavoro. Smise tardi e mangiò in una steakhouse, dopodiché se ne tornò nella silenziosa casa di Bishopcourt. Lo svegliarono il fruscio delle ruote sulla ghiaia del viale e la luce dei fari, che guizzò sulla parete della camera da letto. Un attimo dopo balzò a sedere in mezzo al letto perché il campanello della porta d'ingresso stava mandando una serie d'imperativi squilli. Accese la lampada sul comodino. Cristo, le due! Infilò una vestaglia-era nudo-e s'inoltrò nel corridoio, accendendo le luci man mano che andava. Il campanello intanto continuava a suonare. Girò la chiave e la porta d'ingresso venne spalancata di colpo e, come una folata di vento, Tracey si precipitò dentro. Stringeva una ventiquattrore contro il petto. «Dove caspita sei stata? » Era completamente sveglio ora, sempre seccato ma risollevato. «Johnny! Oh, Johnny! » Tracey saltellava, quasi danzava, per l'eccitazione, con le guance in fiamme e gli occhi che mandavano lampi. « Le abbiamo, alla fine... Tutt'e due! » « Dove sei stata? » Johnny non era affatto disposto a farsi fuorviare tanto facilmente. Con uno sforzo evidente, lei alla fine controllò la propria eccitazione; continuava a sorridere però, e dava l'impressione che ronfasse come una gatta. «Vieni.» Lo prese per mano e lo trascinò nel soggiorno. « Versati un doppio whisky e siediti », ordinò, con tono da regina. «Non voglio nessun whisky, e non... » «Ne avrai bisogno», lo interruppe lei, e andò al mobile bar, versò un triplo whisky in un bicchiere di cristallo, vi spruzzò sopra della soda e glielo portò. «Tracey, cos'è questa storia?» «Ti prego, Johnny. E' cosí bello, non rovinarmi la festa. Siedi e sta' calmo. » Riluttante, lui si lasciò cadere nella poltrona mentre lei apriva la valigetta e tirava fuori un fascio di documenti. Si piazzò al centro della stanza e assunse una posa da vecchia attrice drammatica. «Questa», spiegò, «è la traduzione letterale dell'originale della concessione rilasciata a Windhoeck dal governatore tedesco in data tre maggio 1899. Tralascio ogni preambolo e vado dritto al sodo. » Si schiarí la voce e cominciò a leggere: «'Dietro ricevimento della somma versata di diecimila marchi, di cui qui si accusa ricevuta, il diritto a scavare, perforare, estrarre, raccogliere, attribuirsi, impossessarsi e portar via tutti i metalli, sia vili sia preziosi,
le pietre, sia vili sia preziose sia semipreziose, i minerali, il guano, tutto ciò che cresce in superficie e ogni altra sostanza organica e inorganica per un periodo di Novecento Novanta Nove anni, viene con il presente atto conferito alla Farben, Hendryck e Mosenthal A.S., Commercianti in Guano al numero 14 di Bergenstrasse, a Windhoeck, su un comprensorio di forma pressappoco circolare con raggio di dieci chilometri e centro situato nel suo punto piú alto sull'isola giacente a 23° e 15' di Latitudine Sud e 15° e 12' di Longitudine Est'». Smise di leggere e guardò Johnny: era rimasto immobile, impietrito, e la guardava con la massima attenzione. Quindi disse, e quasi farfugliava adesso: «Come sai, tutte le vecchie concessioni tedesche vennero ratificate dal parlamento quando, dopo la Grande Guerra, al mandato tedesco successe l'Unione del Sudafrica». Johnny annuí, incapace d'aprir bocca. Lei continuò a sorridere, raggiante. «Quella concessione dunque è ancora legalissimamente valida. Non valida è invece qualsiasi altra sia stata aggiudicata in seguito, e anche se la concessione originale riguardava essenzialmente il guano essa s'estende esplicitamente anche alle pietre preziose. » Johnny tornò ad annuire e lei passò il foglio dietro al fascio di documenti che aveva in mano. «La società concessionaria, Farben, Hendryck e Mosenthal A.S. esiste ancora e, a parte l'ormai da tempo dimenticata concessione, il suo unico bene immobile è il vecchio edificio al quattordici della Bergenstrasse, a Windhoeck.» Quindi, come se si ricordasse solo ora della domanda di Johnny: «Mi hai chiesto dove sono stata. Bene, sono stata a Windhoeck appunto, e mi ci ha portata la strada peggiore di tutta l'Africa sudoccidentale. « La Farben, Hendryck e Mosenthal è attualmente di proprietà dei fratelli Hendryck, due allevatori di agnelli caracul. Due vecchi disgustosi. Quando poi li ho visti sgozzare quei poveri agnelli persiani per impedire che la pelliccia s'arricci, be'... » S'interruppe. Quindi riprese: «In ogni modo, non ho fatto il minimo cenno alla concessione, ho solo offerto di comprare la società. Mi hanno chiesto ventimila, io ho risposto 'Firmate' e loro hanno firmato. Li ho lasciati che ancora gongolavano, convinti d'essere stati furbissimi. Tieni, è tutto tuo! » Gli porse il contratto e, mentre lui leggeva, proseguí: «L'ho fatto a nome della Van Der Byl Diamonds, e l'ho firmato come direttore. Spero che non ti secchi ». «Cristo! » Johnny bevve un lungo sorso di whisky, quindi mise giú il bicchiere e s'alzò. «Seccarmi? Mi porti una concessione per Thunderbolt Suicide e mi chiedi se mi secca! » Aprí le braccia e, impaziente, lei si precipitò. «Tracey, sei meravigliosa! » S'abbracciarono, ambedue in estasi, e lui la sollevò di peso. Senza alcun calcolo da parte di nessuno dei due, si ritrovarono stesi sul divano, avvinghiati. Presero a baciarsi e le risate si sciolsero in confusi ansimi e gemiti. Alla fine Tracey si staccò e si tirò su. Se ne andò al centro della stanza. Affannava. I capelli erano un nero scompiglio. «Accidenti! Fermiamoci!» «Tracey! » Pazzo di lei, Johnny fece per alzarsi anche lui dal divano, ma lei lo tenne a distanza poggiandogli la mano contro il petto e indietreggiando. «No, Johnny, no!» Scuotendo freneticamente il capo. «Dammi retta. » Lui si bloccò. Dagli occhi gli scomparve lo sguardo sconvolto. «Sta' a sentire, Johnny. Dio sa se sono una santa, ma... Be', non voglio che noi due... Sí, insomma, non sul divano in casa di un'altra donna. Non è cosí che voglio. »
Benedict portò la grossa Bentley color miele fuori dalla corrente del traffico che ingorgava Bermondsey Street e imboccò il cancello del deposito. Parcheggiò di fronte alla rampa di carico e smontò. Sfilandosi i guanti, guardò verso la rampa. V'erano ammucchiate montagne di merce pronta per la distribuzione: vini del Capo, superalcolici, frutta sciroppata, pesce in scatola, pelli non conciate e rigide come assi di legno e casse e cassette dei prodotti piú vari, tutti del Sudafrica. In dieci anni, da quando lui l'aveva lanciata, la VDB Agencies Limited era diventata ormai irriconoscibile. Salí i gradini della rampa a tre per volta e s'inoltrò tra le pile di casse che arrivavano fino al soffitto del capannone. Camminava con l'andatura sicura di chi s'inoltra nel proprio territorio, col soprabito che gli sbatteva contro le gambe, alto e con le spalle larghe. Al suo passaggio facchini e magazzinieri lo salutavano deferenti e quando entrò nell'ufficio ci fu una folata di agitazione e bisbigli tra le file delle dattilografe, come quando un vento attraversa un bosco. Il direttore si precipitò fuori dal suo ufficio per andargli incontro e farlo accomodare. « Come sta? Si accomodi. Il tè arriva subito. » E lo aiutò a sfilarsi il cappotto. L'incontro durò mezz'ora. Benedict lesse i rendiconti delle vendite settimanali e del movimento di cassa, informandosi qua e là su qualche voce, soffermandosi con soddisfazione o contrarietà, a seconda, su qualche cifra. Vedendolo al lavoro molti sarebbero rimasti sorpresi; non era piú l'indolente playboy che conoscevano, era un uomo d'affari dall'aria decisa che ricavava con freddo distacco il massimo profitto dalla propria impresa. Altri ancora si sarebbero chiesti dove aveva preso il capitale per finanziare un'attività di quella portata, soprattutto quelli che sapevano che era proprietario anche dell'immobile e che la VDB Agencies non era il suo unico asso nel mondo degli affari. Dal padre non aveva ricevuto soldi: il Vecchio non lo aveva ritenuto in grado di comprare vantaggiosamente neppure un panetto di burro. Alla fine s'alzò e s'infilò il soprabito mentre il direttore andava alla grigia cassaforte nell'angolo della stanza, ne girava la manopola e apriva la pesante porta d'acciaio. «La spedizione è arrivata ieri», spiegò allungando la mano nell'interno della cassaforte e tirando fuori una scatoletta di pesce. « Da Walvis Bay, con la Loch Elsinore. » Porse la scatoletta a Benedict, che l'esaminò brevemente, sorridendo al disegno della sardina rampante e alla scritta SARDINE IN SALSA DI POMODORO. « Grazie. » Mise la scatoletta nella ventiquattrore, dopodiché si lasciò accompagnare dal direttore fino alla Bentley. Lasciò la macchina nel garage di Broadwick Street e attraversò a piedi l'animata Soho fino a un tetro edificio di mattoni poco oltre la piazzetta. Schiacciò il campanello corrispondente alla targhetta di «Aaron Cohen, Tagliatore», e quando la porta s'aprí salí a piedi al quarto e ultimo piano. Bussò di nuovo e dopo un pò un occhio comparve dietro lo spioncino. La porta venne aperta immediatamente. «Salve. Entri, prego», lo salutò il giovanotto che aveva aperto. Richiuse subito la porta. « Papà l'aspetta. » S'inoltrarono in un corridoio ed entrambi guardarono in su all'occhio d'una telecamera a circuito chiuso posta sopra una grata di ferro che sbarrava il corridoio. « Conosce la strada. Papà è nel suo ufficio. » Benedict si trovò in una squallida saletta d'attesa con un tappeto liso e un paio di sedie, residuati di chissà quale ufficio pubblico. Aprì una porta ed entrò in una stanza lunga e stretta che chiaramente occupava quasi tutto l'ultimo piano dell'edificio.
Lungo una parete di questa stanza correva un bancone al quale erano fissati venti piccoli torni, ognuno collegato con una cinghia a un asse centrale rotante sotto al bancone. Un secondo giovanotto con indosso un camice bianco stava lavorando a uno dei torni. Sorrise. « Salve, signor van der Byl. Papà l'aspetta. » Ma Benedict s'attardò un attimo a osservare il lavoro delle seghe. Nella morsa di ogni tornio era stretto un diamante contro il quale vorticava una lama circolare di bronzo fosforoso. Mentre lui guardava il giovanotto si voltò e riprese a spargere una pasta d'olio d'oliva e polvere di diamante sul filo di ciascuna lama: non è il bronzo che taglia, infatti; solo un diamante taglia un altro diamante. «Belle pietre, Larry», osservò Benedict. Larry Cohen annuì. «Tutte tra i quattro e i cinque carati. » Benedict si chinò a esaminare uno dei diamanti. La linea del taglio era segnata sulla pietra con inchiostro di china e lui sapeva quante ricerche, discussioni appassionate e ricorsi e controricorsi al ricco patrimonio d'esperienza avevano preceduto la tracciatura vera e propria. Poiché una sega può metterci due giorni per tagliare un diamante, Benedict tirò oltre, allontanandosi dal bancone. Schierati dall'altra parte della stanza c'erano ancora altri fratelli Cohen. Erano otto: nel procreare figli maschi papà Aaron non s'era posto limiti. Ce n'erano di tutte le età, dai quaranta ai diciotto; due andavano ancora a scuola e per il momento non erano li, non lavoravano nell'impresa familiare. «Che ne dice di questo, signor van der Byl? » Michael Cohen alzò il capo quando Benedict gli s'avvicinò. Stava lavorando a un bellissimo diamante, lo tagliava a brillante adoperando una pietra piú piccola come lama. La polvere delle due pietre veniva raccolta in un vassoietto posto sotto al tornio, sarebbe servita in seguito per tagliare e levigare. «Una meraviglia», osservò Benedict. Quella congrega di fratelli e artigiani lavorava diamanti tutta la vita, amandoli come gli uomini in genere amano le donne, i cavalli, la pittura. Benedict s'inoltrò nella stanza salutando uno per uno i fratelli, fermandosi ogni tanto a osservare con che amore oltre che abilità i fratelli piú grandi sfaccettavano ogni pietra con le giuste angolazioni per ottenere un brillante di forma perfetta. Le cinquantotto sfaccettature a tavola, a stella, a cuspide e via dicendo conferiscono a una pietra tagliata la sua inequivocabile vita, il suo mitico fuoco. Lasciatili chini sulle loro ruote, tanto simili a quelle dei vasai, Benedict varcò la porta in fondo alla stanza. « Benedict, amico mio. » Aaron Cohen stalzò dalla scrivania per andare ad abbracciarlo. Era alto e magro, sotto la settantina, con un'autentica criniera argentea e spalle curve per tutti gli anni in cui era stato chino su una ruota a tagliar diamanti. « Ignoravo che eri a Londra, mi avevano detto che eri a Città del Capo. Ieri è stato il compleanno di Ruth, se avessi saputo... » Benedict cavò la bustina dalla tasca e rovesciò ventisette diamanti sul sottomano della scrivania. «Che ne dici, papà? » «Ohi, ohi! » Papà si carezzò le guance deliziato e, d'istinto, allungò la mano sulla pietra piú grande. Si fissò all'occhio una loupe da gioielliere e si girò per guardare la pietra alla luce naturale che entrava dalle alte finestre. La studiò attentamente. «Be', si, c'è una macchia, ma è piccola. Un'imperfezione minima. Scomparirà al taglio. Si, caveremo due diamanti da questa pietra.
Due diamanti perfetti da dieci o dodici carati l'uno, e forse un cinque brillantini. » Col taglio si perde quasi la metà d'una pietra. «Si, si, da questa ricaveremo diamanti finiti per un centinaio di migliaia di sterline. » Attraversò la stanza e s'affacciò sulla porta. «Ragazzi, venite a vedere! Vi mostrerò un signor diamante. » I figli s'affollarono nella stanza. Michael l'osservò per primo ed espresse subito la sua opinione. «Bella pietra, proprio bella. Ma non della stessa acqua di quelle che ricevemmo nell'ultima spedizione. Ricordate quel cristallo ottaedro. » « Ma cosa dici! » lo interruppe il padre. « Non distingueresti un diamante da un pezzo di gorgonzola! » «Invece ha ragione, papà», intervenne Larry. «L'altra pietra era migliore. » «E cosí adesso il Competentone vuol mettersi a discutere con suo padre! Ora il piccolo impiastro col culo ancora sporco s'intende anche di diamanti? Ma vai a ballare il vatussi e il chachacha e lascia perdere i diamanti! » Queste parole scatenarono un gran baccano in famiglia, una discussione accesa alla quale tutti i fratelli parteciparono con entusiasmo. «Basta! Silenzio! Tornate al lavoro, tutti quanti! Fuori! Fuori! » Aaron sciolse la riunione, spingendo i figli fuori dalla stanza e sbattendogli la porta alle spalle. «Accidenti.» Alzò gli occhi al cielo. «Quante storie! Be', ora possiamo pesarle. » Quando ebbero pesato e soppesato le pietre e Aaron le ebbe chiuse nella cassaforte, Benedict disse: « Ho intenzione di ritirarmi dal Ring ». Aaron si bloccò di colpo e lo guardò dall'altra parte della scrivania. Fingevano sempre, tra loro due, che i loro rapporti d'affari fossero del tutto legali. Non parlavano mai del Ring o della provenienza delle pietre non registrate o della loro destinazione, in Svizzera, una volta tagliate. « Perché? » chiese, cauto. «Ormai sono ricco. Con i soldi che ho fatto col Ring e che ho successivamente investito, sono piú che ricco. Non è il caso di correre altri rischi. » «Un problema che mi piacerebbe avere. Ma forse hai ragione. Comunque, non mi sogno neppure di mettermi a discutere con te. » «Ancora un paio di pacchetti e chiudo. » Aaron scosse il capo. «Capisco», concluse. «Tutte le cose belle prima o poi finiscono. » Allorché Benedict parcheggiò la Bentley davanti casa, nel mews dietro Belgrave Square, mezzogiorno era passato da poco. Appena fu di sopra fece una doccia. In tutti gli anni che aveva vissuto a Londra non era mai riuscito ad abituarsi al senso di sporcizia che la città gli metteva addosso, faceva il bagno o la doccia almeno tre volte al giorno. Sotto la doccia cantò e quando ne fu fuori s'avvolse in un enorme lenzuolo a spugna e, lasciandosi dietro una serie d'impronte di piedi bagnati, andò a prepararsi un martini. Strabuzzò gli occhi al primo bruciante sorso. Il telefono squillò. « Van der Byl. » Cambiò immediatamente espressione. Mise giú il bicchiere e strinse il microfono con entrambe le mani. «Cosa diavolo ci fa qui?» Il suo stupore era autentico. «E' proprio una magnifica sorpresa! Quando posso vederla? Subito, è possibile? A colazione? Magnifico. No, niente che non possa rimandare... Sa, è una grande occasione dopotutto. In che albergo sta? Al Lancaster? Benissimo. Stia a sentire, mi dia un tre quarti d'ora di tempo e ci vediamo alla LookingGlass Room all'ultimo piano. Sí, all'una e dieci. Dio, è proprio una magnifica... Be', questo l'ho già detto. Ci vediamo fra tre quarti d'ora, allora. » Mise giú, bevve il resto del martini e si diresse verso la camera da letto. Questa, pensò mentre sceglieva tra le camicie di seta, trasforma una giornata qualunque in una davvero memorabile.
Guardò la propria immagine nello specchio e sorrise. «E' proprio il tuo quarto d'ora, Benedict», si disse. Non era nella Looking-Glass Room e neppure nel bar. Andò alle grandi finestre panoramiche dalle quali s'ammirava una delle piú belle vedute di Londra su Hyde Park e il Serpentine. Era un giorno uggioso di fitta foschia e il pallido sole aggiungeva una densa tonalità scura agli autunnali colori rosso e oro del parco. Quando voltò le spalle alle finestre la vide. Stava attraversando la sala diretta verso di lui. Ebbe un tuffo al cuore perche anche il colore di lei era oro pallido, e le lunghe gambe e le braccia nude erano abbronzate nella giusta tonalità d'oro. La grazia dell'andatura era quella che lui ricordava: aveva una maniera precisa di sollevare e poggiare sulla soffice moquette il piede lungo e ben calzato. Rimase immobile, lasciò che s'avvicinasse. Intanto non poche teste si voltarono al suo passaggio, era troppo una splendida creatura per non attirare l'attenzione. Provò, immediato e inequivocabile, il desiderio di averla tutta per sé. «Salve, Benedict», esclamò e, con un ultimo passo avanti, gli prese la mano tra le sue. «Ruby Lance! » Le strinse leggermente le lunghe dita. «E' una gioia rivederla. » Il fatto che la chiamasse per nome e cognome era un'ulteriore prova del tipo di reazione suscitata in lui: quella donna apparteneva all'uomo che lui piú odiava e invidiava al mondo. Per questo gli appariva infinitamente desiderabile. «Beviamo subito qualcosa per celebrare. Penso che l'occasione meriti almeno un cocktail allo champagne. » Sedette accavallando quelle lunghe gambe sottili e appoggiandosi allo schienale, col gambo sottile del bicchiere stretto tra le dita affusolate. I capelli le cascavano sulle spalle come un raro e serico arazzo dorato, e gli occhi non si staccavano da lui, con un candore da gatta, una fissità felina. Sembrava lo scrutasse fin nell'anima. «Non avrei dovuto disturbarla», disse, «ma conosco cosí poca gente qui a Londra. » «Quanto tempo si ferma?» chiese lui, trascurando quell'osservazione. « Cancellerò ogni mio altro impegno. » «Una settimana.» Lo disse come se fosse una proposta suscettibile di negoziazione. « Oh, no! » Era sinceramente contrariato e deluso. «Vuole scherzare? In così poco tempo non riusciremmo a fare neppure la metà di quello che ho in mente per lei. Certamente potrà fermarsi piú a lungo » «Può darsi», fece lei, e sollevò appena il bicchiere. «Sono contenta di rivederla. » «Anch'io» ammise lui, con enfasi. Bevvero lo spumeggiante vino guardandosi negli occhi. Mentre altri dovevano aspettare settimane e mesi, Benedict passava immediatamente avanti dappertutto, quasi fosse un suo diritto. Un sorriso, una parolina e i biglietti del teatro erano suoi, le porte del ristorante alla moda gli si spalancavano come per magia. La prima sera la portò al National Theatre e quindi a cena a Le Cor de France, dove un famoso attore si fermò al loro tavolo. «Ciao, Benedict. Dopo andiamo tutti allo yacht per un piccolo party. Vi unite a noi?» E quegli occhi famosi per la loro bellezza si puntarono su Ruby. «Tu e la tua bella amica? » Fecero la colazione del mattino sotto il tendone a poppa dello yacht, uova con pancetta e Veuve Clicquot, e stettero lí a guardare la baraonda del traffico dell'alba sul vecchio e inaspettatamente profumato Tamigi. Ruby era l'unica ragazza di tutta la compagnia che non aveva una pelliccia per ripararsi dal freddo dell'alba sul fiume. Benedict ne prese mentalmente nota. Nella Bentley poi, sulla via del ritorno, lei sedette con le lunghe gambe ripiegate sotto, sempre a posto e dorata nonostante la stanchezza. Aveva forse solo un vago accenno d'occhiaie. « Non ricordo d'essermi divertita tanto, Benedict. » Soffocò uno sbadiglino battendo la punta delle dita sulle labbra sottili. « Devo dire che sei un
compagno meraviglioso. » «Questa sera di nuovo, allora?» «Sí, ti prego.» Ruby Lance lo disse in un bisbigliante mormorio. Quando quella sera scese nell'atrio del Lancaster si trovò di colpo di fronte all'impeto, all'urgenza di lui. Le si precipitò incontro appena mise piede fuori dall'ascensore infatti, e l'assoluta disinvoltura con la quale la baciò sulla guancia, prendendole contemporaneamente il braccio, la colse di sorpresa. Quando poi furono nella Bentley che procedeva frusciante nel traffico della sera non dissero nulla. Ruby rifletteva. Stava pensando che aveva lí, a portata delle mani curate, da poterla toccare, una fortuna come non s'era mai sognata in vita sua. Ma aveva una gran paura; una sola mossa sbagliata, persino una parola sbagliata, l'avrebbe allontanata quella fortuna, l'avrebbe messa definitivamente fuori portata. Un'occasione come quella non le si sarebbe presentata mai piú; perciò era paralizzata dalla paura persino di muoversi. La decisione che, sapeva, da lí a poco avrebbe dovuto prendere sarebbe stata decisiva e definitiva. Doveva rispondere ai tentativi di lui ritraendosi o doveva accoglierli in tutta disinvoltura? Era cosí presa da questi pensieri che quando la Bentley si fermò si riscosse, sorpresa. Avevano parcheggiato in un mews davanti a una casa dall'aspetto lussuoso. Benedict fece il giro della macchina e andò ad aprirle lo sportello, quindi la guidò dritto nell'appartamento. Nell'ingresso lei si guardò intorno con curiosità, riconoscendo gli autori di alcuni dei quadri appesi alle pareti. Poi Benedict le fece strada introducendola in un lungo soggiorno e, premuroso, la fece accomodare in una poltrona tappezzata di stoffa a fiori che dominava la stanza come un trono. Di colpo la paura di lei svanì. Sentí d'avere in pugno la situazione. Come una regina. Ora aveva la certezza che tutto quello che la circondava sarebbe stato suo. Benedict era rimasto al centro della stanza, in un atteggiamento quasi di supplica, e cominciò a parlare. Lei ascoltò, calma, senza tradire minimamente il senso di trionfo che le stava montando dentro come un'ondata, e quando lui tacque e aspettò la sua risposta, non ebbe un attimo di esitazione: «Sí». « Ti sarò vicino quando glielo dirai. » «Non sarà necessario. So come trattare Johnny Lance. » «No.» Lesto, Benedict s'avvicinò alla maestosa poltrona e le prese le mani, facendola alzare. «Devo esserci anch'io. Promettimelo. » A questo punto, di colpo, fu evidente per lei che si trovava in una posizione di forza inattaccabile. Benedict non aveva bisogno di lei perché la desiderava fisicamente ma perché lei apparteneva a Johnny Lance. Guardandolo allora dritto negli occhi volle verificare la propria intuizione. «Non è necessario che sappia di te», disse. «Ci metteremo d'accordo sul divorzio. » « Ma deve sapere di me. Lo voglio, capisci? » « Capisco. » Ora aveva la certezza. «D'accordo, allora?» Benedict riusciva a stento a nascondere la propria ansia. « D'accordo. » Sorrisero, entrambi soddisfatti. «Vieni. » Quasi con riverenza, la condusse in camera da letto. Sulla soglia lei si fermò e lanciò un piccolo grido di sorpresa. Il letto, matrimoniale, era coperto da un'autentica montagna di splendide pellicce in una quantità di tinte diverse che andavano da un roseo crema delicato a un beige ostrica a un azzurro satinato a un nero fondo come la notte e lucido. «Scegline una», le disse. «Per suggellare il nostro patto.» Avanzò come una sonnambula verso il letto, ma era appena giunta al centro del tappeto kedivé che lui esclamò: «Aspetta» Si fermò, obbediente, e lui le si avvicinò da dietro.
Sentí le sue mani sulla nuca e chinò allora leggermente il capo in avanti, scuotendo i capelli e portandoli avanti in modo che lui potesse sganciarle la lampo e aprirla. Venne fuori dal vestito scavalcandolo quando cadde a terra e attese, paziente, che lui, con solerzia, le slacciasse il reggiseno. « Ora provale. » Con le sole calze e le scarpe dai tacchi alti, accentuando il dondolio dei fianchi, lei s'avvicinò al letto e raccolse la prima pelliccia. Quando si girò a guardarlo, Benedict stava stravaccato nella poltrona a schienale alto dall'altra parte della stanza. Era rosso e raggiante in viso, tanto che i tratti sembravano gonfi e grossolani, e la guardava a sua volta. E all'improvviso lei si rese conto che quello in cui erano entrambi impegnati era una specie di rituale. Come un imperatore romano vittorioso, Benedict stava celebrando il proprio personale trionfo passando in rivista spoglie e bottino. Tutto quello non aveva niente a che vedere col desiderio fisico ma piuttosto con il compiacimento e l'ambizione. E lei era il sacerdote di quel rito. Ma pur rendendosi conto di questo non provava nessun risentimento, anzi, la fredda perversità della scena quasi la eccitava. Sfilando, assumendo pose, roteando su se stessa e sfoggiando ermellini e visoni, si sentiva addosso, su tutto il corpo, gli occhi di Benedict van der Byl. Sapeva benissimo di avere un corpo perfetto e, forse per la prima volta in vita sua, quell'esame l'eccitò fisicamente. Sentí il sangue pulsarle piú forte, il cuore batterle impazzito nella gabbia delle costole, frullare come un uccello prigioniero, e i lombi, addirittura, contrarsi e stringersi come pugni serrati. Anche per lei quel rituale era narcisisticamente esaltante, soddisfaceva un profondo bisogno emotivo. Ogni pelliccia che scartava la lasciava cadere a terra finche ebbe ai piedi un mucchio di preziose pellicce che le arrivava fino ai ginocchi. Alla fine si voltò verso di lui avviluppandosi intorno al corpo nudo una morbida nuvola color crema, quindi aprí le braccia e poi la pelliccia e rimase lí immobile, su quei tacchi alti, tendendo i muscoli delle gambe e dei fianchi. «Questa», decise in un bisbiglio. Lui s'alzò dalla poltrona, la prese in braccio e, sempre avvolta nella pelliccia scelta, la depose sul mucchio delle altre. Si svegliò in quel gran letto con una sensazione d'infinito benessere e di grande eccitamento come non provava da quando, ragazzina, si svegliava la mattina del primo giorno delle vacanze scolastiche. Era abbastanza tardi e una striscia pallida di sole entrava nella stanza dalla finestra aperta, sembrava il raggio d'un proiettore a teatro. In vestaglia di seta gialla, Benedict stava accanto al letto e la guardava con un'espressione indefinibile in viso che cambiò però immediatamente appena vide che era sveglia. « Il mio autista ha ritirato il tuo bagaglio al Lancaster. Nel bagno troverai la tua roba da toilette. I vestiti sono nello spogliatoio. » Sedé cauto sul bordo del letto e si sporse a baciarle la fronte prima e poi tutt'e due le guance. « Quando sei pronta faremo colazione. » Si ritrasse e la guardò dritto negli occhi: chiaramente aspettava che lei dicesse qualcosa d'importante. Il che allarmò subito lei che, temendo di commettere qualche sbaglio, cercò un'indicazione nell'espressione di lui. « Stanotte è stato bello per te come lo è stato per me? » Allora la consapevolezza la invase come una calda ondata. Proprio cosí: Benedict voleva essere rassicurato, desiderava un confronto tra lui e Johnny Lance. «In vita mia» diede un'attenta enfasi alla propria voce, « non ho provato mai niente del genere. » Lui scosse il capo approvando, risollevato, compiaciuto. Poi s'alzò. « Dopo colazione andremo al centro. » Quella mattina la Bentley la guidava Edmund, l'autista di Benedict.
Smontarono nella parte nord di Bond Street e s'avviarono a braccetto sul marciapiede, con Edmund che li seguiva dignitosamente a passo d'uomo, ignorando le imprecazioni degli altri automobilisti. Poiché per Ruby la mattina era abbastanza fresca aveva indossato la nuova pelliccia color crema, e ora gli sguardi ammirati dei passanti e invidiosi delle passanti deliziavano Benedict. Dopotutto, oltre che impressionare Ruby lui voleva anche ostentare la propria ricchezza. «La moglie di un diamantiere deve avere diamanti.» Lo disse d'impulso allorché arrivarono davanti a una gioielleria di lusso. Ruby gli strinse il braccio e si girò verso la vetrina. « Santo cielo! » esclamò lui ridendo. «Non qui. » Lei lo guardò sorpresa. In tono ironico, lui lesse allora il cartello che era in vetrina: «Paradise Jewellers. Vasta scelta di diamanti bianco azzurro. Garanzia di assoluta purezza per ogni acquisto. Pietre impeccabili a prezzi concorrenziali, come annunciato nella pubblicità alla TV e nei giornali. Un piccolo deposito basta per assicurarsi un anello. Un diamante dura piú della vita. Datele una prova del vostro amore». «Ma è una ditta conosciutissima. Hanno filiali in tutto il mondo, persino in Sudafrica», protestò Ruby, un tantino indisposta dal sorriso condiscendente di lui. « Ora ti spiego una cosa. I diamanti vengono comprati per due diverse ragioni da due diversi tipi di persone. Dai ricchi, come investimento che non perde valore ma anzi lo accresce, e su consiglio di esperti comprano solo pietre eccezionali, il meglio che l'industria diamantifera offre. Cosí quando Richard Burton regala a Liz un diamante da trecentomila sterline non lo fa perché è uno stravagante ma, al contrario, perche è un ultraconservatore che tiene ai propri soldi. » «E' questo il tipo di taccagneria che mi piace», osservò lei ridendo, e Benedict sorrise davanti alla sua sincerità. « Troverai in me, allora, un gran taccagno. » « Vai avanti, parlami ancora dei diamanti. » «Bene, c'è poi un altro tipo di compratore. Di solito acquista una sola volta nella vita, per sua fortuna, e raramente cerca di rivendere ciò che compra, risparmiandosi in tal modo un brutto colpo. E' il tipo dell'Uomo Comune, che vuole solo sposarsi. E di solito va a comprare in posti come questo. » E, sempre con ironia, Benedict puntò il dito contro il cartello in vetrina. «Ci va perché ne ha sentito parlare alla televisione e può comprare un anello anche a rate. Di solito il solo deposito copre il costo della pietra, il resto copre la pubblicità, i finanziamenti e, ovviamente, i profitti. » «Che ne sai tu che Paradise è questo tipo di gioielleria? » Ruby seguiva con gli occhi spalancati, come una bambina. «Si riconoscono primo per la gran pubblicità e, secondo, per il linguaggio che adoperano. » Benedict studiò di nuovo il cartello in vetrina. «'Vasta scelta di diamanti bianco azzurro'»: su mille pietre di qualità gioielleria solo una ha un colore abbastanza bello da potersi definire biarico azzurro. Quindi è improbabile che possano averne una vasta scelta. Quanto alla parola 'pietra' essa è riservata unicamente a un diamante eccezionale sotto ogni punto di vista. 'Pietre impeccabili a prezzi concorrenziali': la mancanza di impurità o difetti in un diamante è solo uno dei tanti fattori che ne determinano il valore. Quanto ai prezzi concorrenziali, è una cosa che non esiste, un animale sconosciuto. I prezzi sono calmierati dalla fiera concorrenza tra gli esperti e i mercanti cauti, e per nessuno esistono 'vendite' o 'prezzi' speciali. » «Ma allora dove si può comprare un diamante?» Suo malgrado, Ruby sembrava impressionata e indispettita. «Non qui», rispose Benedict, gongolando. «Vieni, ti faccio vedere. » E prima che lei avesse il tempo di protestare la prese per il braccio e la sospinse nel
negozio, dove furono accolti con entusiasmo dal direttore che notò immediatamente la pelliccia di Ruby e la Bentley fuori in strada, dove aveva già causato un piccolo ingorgo di traffico. «Buongiorno, signori. Posso esservi utile? » «Sí», rispose Benedict. «Ci mostri la vostra scelta di diamanti bianco azzurro. I migliori che avete. » «Da questa parte, prego.» Rinculando, il direttore fece loro strada, quindi schioccò le dita come un ballerino di flamenco per chiamare i commessi. «Ora», esordí Benedict rivolto a Ruby, quando si furono seduti nell'ufficio del direttore con davanti un vassoio di pietre, «non è possibile esaminare come si deve un diamante montato. » Scelse il diamante piú grosso, cavò di tasca un temperino dorato con una lama speciale e, tra le proteste del personale sorpreso e inorridito, aprí le griffe della montatura. «Rispondo di ogni danno», li rassicurò, secco e deciso, e quelli si calmarono mentre lui toglieva via la pietra e la poggiava sul velluto del vassoio. «Innanzi tutto, le dimensioni. Questa è circa un carato. » Guardò per la conferma il direttore, che annuí. «Diciamo che il suo valore è sulle cinquecento sterline. Dieci pietre come questa varranno dunque cinquemila sterline, esatto? E tuttavia una sola pietra di dieci carati può arrivare fino a settantacinquemila sterline. Quindi il prezzo a carato aumenta moltissimo con l'aumentare del peso della pietra. Se dovessi fare un investimento una pietra inferiore ai tre carati non la prenderei in nessunissima considerazione. » A questo punto, il personale del negozio seguiva con lo stesso interesse di Ruby. «Passiamo ora al colore», proseguí Benedict, e lanciò un'occhiata al direttore. «Mi dia per cortesia un foglio di carta bianca. » Dal cassetto della scrivania quello tirò fuori un foglio di carta che dispose davanti a Benedict, il quale vi piazzò sopra la pietra con la parte inferiore rivolta verso l'alto. «Vediamo adesso il colore che essa trae dal bianco della carta con una buona luce naturale. » Si rivolse di nuovo al direttore: «Per cortesia, spenga questo neon e apra le tende». Il direttore obbedí, sollecito. «Ora è solo questione di esperienza. Il colore viene giudicato secondo un metro standard. Dimentichiamo per un momento tutte quelle fantasie su colori rari come azzurro e rosso verde, e prendiamo in considerazione il nostro bianco azzurro: una pietra tanto bianca da apparire leggermente azzurra, per cui le definizioni diventano bianco autentico e bianco; quindi le pietre che traggono una colorazione lievemente giallastra chiamata Cape, da Città del Capo, in varie gradazioni; infine le pietre che traggono una colorazione marrone, la quale ne abbassa il valore fino all'ottanta per cento. » Dal taschino del panciotto Benedict tirò fuori una scatoletta e l'aprí. «Ogni esperto ha sempre con sé un diamante speciale che serve da campione di colore per giudicare le altre pietre. Questo è quello che porto io. » I commessi si scambiarono occhiate apprensive mentre Benedict piazzava un piccolo diamante accanto al primo. Studiò un attimo le due pietre, quindi lo rimise nella scatoletta. «Argento Cape di seconda qualità, direi», bofonchiò, e il personale del negozio apparve adeguatamente sconcertato. «E ora passiamo alla perfezione della pietra.» Guardò il direttore. « Per cortesia, mi presti la sua loupe. » «Loupe? » Il direttore parve perplesso. « Sí, la sua lente da gioielliere. » « Be'... » Il direttore era decisamente imbarazzato. «Lei vende diamanti e non ha una loupe? » Benedict scosse il capo in segno di disapprovazione. «Non importa, ho la mia. » La cavò di tasca e se la mise all'occhio. «Le imperfezioni a volte possono essere trascurabili: una naturale sul bordo, ovvero padiglione, oppure una bolla o una puntina di carbone all'interno, nel cuore. Oppure possono presentarsi come crepe, nubi, ghiaccioli o piume, tutti difetti che rovinano invece la pietra.
Questa però è impeccabile, quindi la garanzia di purezza è del tutto veritiera. » Si rimise la lente in tasca. «Comunque, per ottenere una pietra senza difetti hanno dovuto ridurre e limitare il taglio. » Prese la pietra tra indice e pollice. «Il taglio o fattura d'una pietra è il quarto e ultimo elemento per stabilirne il valore. La fattura dovrebbe essere la piú vicina possibile a quella che è considerata l'ideale. Questa pietra è stata tagliata in modo da escludere ogni difetto e di conseguenza le proporzioni non sono rispettate: è pesante e fuori centro. Personalmente, preferisco una pietra ben tagliata con una leggerissima imperfezione a un ridicolo monconcino come questo. » Rimise il diamante sulla scrivania. «Il prezzo chiesto da Paradise per questa pietra è di cinquecento sterline, che sarebbe giusto e onesto per una buona pietra. Ma il colore è misero e anche se è priva di difetti è di mediocre fattura. Il suo vero valore dovrebbe essere, vediamo, centottantacinque sterline. » Da parte del personale del negozio, direttore in testa, si levò un coro di proteste. «Le assicuro, signore, che tutte le nostre pietre sono state passate al vaglio piú attento. » «Da quanto tempo lavora alla gioielleria Paradise? » chiese bruscamente Benedict. «Un quattro mesi, vero?» Il direttore lo guardò a bocca aperta. «Prima lavorava in una grossa ditta di imbalsamazione e pompe funebri, vero? » «Be', insomma.» Il direttore agitava le mani per aria. « Come fa a saperlo? » «Mi piace essere informato sul conto dei miei impiegati. » «Suoi impiegati? » Il direttore era assolutamente confuso. «Esatto. Mi chiamo Benedict van der Byl. Sono il proprietario della Paradise Jewellers. » Ruby batté le mani in un entusiastico applauso. «Sei proprio una miniera di sorprese! » esclamò. «A questo punto», fece lui, alzandosi e aiutando Ruby a fare altrettanto, « andiamo a comprare dei veri diamanti. » Aaron Cohen gli vendé due ottimi brillanti bianchi, gemelli, taglio marquise, e Ruby scelse la montatura d'un paio d'orecchini d'oro bianco in un catalogo rilegato in pelle. Consegnato ad Aaron un assegno di ventimila sterline, Benedict si rivolse a Ruby: «Ora», disse, «faremo colazione alla Celeste Grillroom. La cucina è pessima, ma l'arredamento è stupendo. Sarà meglio però telefonare per prenotare il tavolo. In realtà non sarebbe necessario, ma ci tengono terribilmente ». Accomodati di nuovo nel lussuoso interno in pelle della Bentley, Benedict ordinò all'autista: «Passa per Trafalgar Square, Edmund. Devo prendere i giornali alla South Africa House. » Edmund parcheggiò in doppia fila davanti all'ingresso dell'ambasciata e il portiere, riconosciuta la macchina, si precipitò dentro a prendere un fascio di giornali. Nel lasciare la piazza diretti verso Haymarket, Benedict prese dal fascio una copia del CapeArgus. «Vediamo cosa sta succedendo laggiú da noi.» Diede un'occhiata alla prima pagina e rimase di stucco. « Cosa c'è? » Ruby gli s'avvicinò, premurosa, ma venne ignorata. Benedict stava scorrendo in fretta la pagina ed era sbiancato in volto. Quando ebbe finito di leggere, le passò il giornale. Lei spiegò la pagina. LA VAN DER BYL DIAMONDS S'ASSICURA UNA PREZIOSISSIMA CONCESSIONE. LA CORTE D'APPELLO GIUDICA VALIDA UNA CONCESSIONE MINERARIA' RILASCIATA DAL KAISER. LANCE OTTIENE THUNDERBOLT E SUICIDE Bloemfontein, martedi. Avendo la Central Diamond Mines Ltd. presentato con urgenza richiesta di divieto per la Van Der Byl Diamonds Company Ltd. di eseguire prospezioni e di sfruttare minerariamente una concessione al largo della costa sud occidentale dell'Africa, il Giudice Tromp ha oggi respinto tale richiesta stabilendo che a suo giudizio «la concessione originale, rilasciata nel 1899 con decreto imperiale tedesco e
ratificata successivamente con legge del Parlamento dell'Unione n. 24 del 1920, è a tutti gli effetti valida e ha l'assoluta precedenza su qualsiasi altra concessione rilasciata successivamente a qualsiasi istante da parte del Ministero delle Miniere ». Il territorio oggetto della contesa s'estende in pratica per cento chilometri quadrati intorno a due isolotti situati a quindici miglia a sud di Cartridge Bay e a cinque al largo. Essi sono conosciuti come Thunderbolt Island e Suicide Island e alla fine del secolo venivano sfruttati come giacimenti di guano da una ditta tedesca. John Rigby Lance, amministratore delegato della Van Der Byl Diamonds Co. Ltd., s'è assicurato i diritti alla concessione allorché e subentrato all'ormai defunta ditta. Egli ha dichiarato oggi, a Città del Capo: «E' tutta la vita che aspettavo un'occasione del genere. Tutto lascia supporre che Thunderbolt e Suicide si riveleranno il piú ricco giacimento diamantifero sottomarino del mondo ». A Portsmouth, in Inghilterra, la Van Der Byl Diamonds ha in allestimento ormai prossimo alla fine una nave per il dragaggio del fondo marino e John Lance ha affermato inoltre che spera di iniziare le operazioni di sfruttamento al largo delle isole Thunderbolt e Suicide prima della fine dell'anno. Ruby abbassò il giornale, guardò Benedict e sotto gli occhi non ebbe altro che un esempio di persona profondamente scioccata. Benedict s'era come accartocciato sul sedile. Tutta la sicurezza e il savoir faire erano scomparsi. Il viso era ancora cadavericamente terreo, ma ora le labbra tremavano e, non senza raccapriccio, lei vide che aveva gli occhi pieni di lacrime. Benedict si chinò in avanti, si coprí il viso con le mani e prese a scuotere il capo lentamente, in segno di grande impotenza. «Quel bastardo», sibilò con voce soffocata. «Me la fa ogni volta. Credevo di averlo finalmente in pugno e lui inveee... Dio, come lo odio! » La guardò, con una faccia come rammollita dalla prostrazione. «Me la fa ogni volta. Ogni volta che sono convinto di averlo in pugno lui... » Lei era stupefatta da quella reazione. «Ma non sei contento? La Van Der Byl Diamonds farà milioni. » L'interruppe, impazzito: «No! No! » Poi tutti quegli anni di odio, frustrazioni e umiliazioni esplosero. Ruby ascoltò con calma, cominciando a poco a poco a capire tutto, e rimase sconcertata e stupita dal cumulo di dolore e odio che le si andava rivelando. Ricordava, Benedict, conversazioni avvenute vent'anni prima, piccoli episodi d'infanzia, osservazioni innocenti che lo avevano perseguitato e angustiato per decenni. «Tu non vuoi che abbia successo, è cosí? » gli chiese. « Io voglio umiliarlo, spezzarlo, schiacciarlo. » Lei tacque per una decina di secondi. « Bene, allora cosa faremo? » chiese poi di punto in bianco. «Niente, credo.» Il tono di Benedict la irritò. «Lui ne vien fuori sempre vittorioso, non è assolutamente possibile. » «Sciocchezze», esclamò lei, brusca. Ora anche lei era infuriata. «Studiamo attentamente la situazione e vediamo se c'è modo di fermarlo. Dopotutto non è che un uomo e tu mi hai già dato abbastanza prove d'essere brillante e abile negli affari. » Benedict cambiò faccia di colpo. S'animò, parve acquistare fiducia. Si girò verso di lei quasi con ansia. Sbatté le palpebre. « Lo credi davvero? » La cuccetta era troppo stretta, decise Sergio Caporetti, troppo stretta davvero. Bisognava che quello stesso giorno il maestro d'ascia gliela allargasse. Stava disteso sulla schiena, tutto ben rimboccato, con la coperta che copriva la montagna del pancione che gli impediva la vista verso il basso, e prese a riflettere sulle proprie condizioni fisiche. Erano sorprendentemente buone.
Avvertiva un dolorino appena dietro i bulbi degli occhi, tutto li, mentre l'agrore di fumo e vino di qualche rigurgito ogni tanto era piú che sopportabile. Quella sensazione, poi, di plumbea pesantezza alle gambe gli passò allorché si rese conto che aveva ancora ai piedi i pesanti stivaloni di gomma. Si ricordò che una delle ragazze se n'era lamentata infatti. Si sollevò su un gomito e le guardò. Una per lato: lo schiacciavano in mezzo alle loro sode forme rosee. Belle, ben piantate e ben pasciute tutt'e due. Scelte con cura, non un'oncia meno del quintaletto. Mandò un sospiro di soddisfazione. Era stato un gran fine settimana. Ora le due ragazzone stavano russando così a tempo che avresti detto che recitavano una parte. Stette ad ascoltarle ammirato qualche attimo, quindi scavalcò quella dalla parte esterna e andò a piantarsi al centro della cabina, nudo, coi soli stivaloni ai piedi. Sbadigliò in maniera forse eccessiva, si grattò i riccioli di pelo che gli coprivano petto e pancia e lanciò un'occhiata all'orologio appeso alla paratia. Le quattro d'un lunedì mattina. Il finesettimana, però, era andato davvero una meraviglia. Il tavolo era letteralmente coperto di piatti sporchi e bottiglie vuote. In un piatto c'era anche una gran matassa di spaghetti freddi. Lo prese e, mentre arrancava fuori dalla cabina e s'arrampicava sul ponte di comando della Kinisher, se li divorò cacciandoseli in bocca con le mani. S'appoggiò al parapetto della plancia, nudo, peloso, in stivaloni neri, con il piatto di spaghetti piazzato contro il petto, e da lassú diede un'occhiata in giro nella darsena. La Kingfisher era in bacino e stavano sottoponendola alle modifiche ordinate da Johnny Lance. Si levava ben dritta sulle taccate, alta sulla superficie dell'acqua nella quale sarebbe scivolata al varo. Benché stazzasse solo tremila tonnellate, alla luce dei proiettori che illuminavano il bacino appariva nera e mostruosa. Era evidente che quella sagoma insolita aveva uno scopo ben preciso. La sovrastruttura era spostata verso poppa, come in una petroliera, mentre tutto il ponte di prua era occupato da un'enorme incastellatura che serviva al dragaggio e da grossi serbatoi d'aria compressa. A quell'ora del mattino il cantiere era deserto e il vento trascinava fino alla Kingfisher filacci e batuffoli di caligine. A cinquanta piedi d'altezza, ingozzandosi di spaghetti freddi, Sergio Caporetti urinò oltre la ringhiera cavando un semplice e onesto piacere da quel lungo getto arcuato e dal suo frusciante spiaccichio sul cemento di sotto. Tornò giú in cabina e guardò con amore le due vaccone addormentate finendo intanto gli spaghetti, poi si pulì accuratamente le dita sul pelo del torace e le chiamò, a bassa voce: «Gattine, colombelle, su, su, l'ora dei giochi è finita, comincia la giornata di lavoro ». Con galanteria tutta latina, le cacciò in un taxi al cancello del cantiere, palpando ancora nello spingerle a bordo e passando una banconota e una bottiglia di Chianti. Dichiarò infine il proprio affetto imperituro e promise un altro incontro il venerdì sera successivo. Dopodiché, accesosi un lungo sigaro nero, inspirata con gran godimento la prima boccata, si fece strada nel dedalo di capannoni del cantiere fino alla Kingfisher. In vista di questa, si bloccò di colpo, sorpreso e seccato. C'era una Bentley color crema parcheggiata vicino alla passerella che dava sul ponte della Kingfisher. Non gli andavano le visite dei caporioni della Van Der Byl Diamonds, e in particolare di quello lí. Non gli andavano soprattutto a quell'ora d'un lunedì mattina. Il tubo di gomma s'allungava a spirale giú nel verde e, tenendosi per mano, loro due discendevano seguendolo.
Tracey era ancora un pò nervosa. Quello non era il Mediterraneo, non accoglieva con un caldo e azzurro abbraccio amichevole il subacqueo, era lo scatenato Atlantico, freddo e minaccioso, verde e indomito. La spaventava, ma la mano di Johnny le trasmetteva un senso di sicurezza. Le valvole Draeger ritmavano il loro fiato con un ribollente sibilo metallico e ai polsi e al collo della muta di gomma la gelida acqua riusciva a infiltrarsi in sgradevoli rivoli. A poche braccia di profondità Johnny si fermò e guardò dritto nel vetro della maschera di lei. Le sorrise, con la bocca distorta dal grosso boccaglio, e le fece segno col pollice alzato. Guardarono tutt'e due in su. La superficie era argentata come uno specchio imperfetto e la nera forma a sigaro dello scafo lassú era avvolta in una strana luce. Il tubo di gomma e la catena dell'ancora foravano quel soffitto argenteo da un lato e penetravano nella profondità verde scuro dall'altro. Poi Johnny indicò verso il fondo e lei annuì. Si piegarono a testa in giú, puntarono le pinne verso l'alto e, sempre tenendosi per mano, ripresero a scendere. A quel punto Tracey cominciò ad avvertire un sibilo crepitante e, dalla verde profondità di sotto, vide salir su, spiraleggiando verso la superficie, un guizzante banco di argentee bollicine. Aguzzò gli occhi e scrutò nel verde scuro seguendo la linea del tubo di gomma e, lentamente, nel buio di laggiú, si materializzarono le figure in muta nera dei due uomini che stavano lavorando all'estremità del tubo. Facevano una strana impressione, sembravano due sacerdoti celebranti una messa nera. Lei e Johnny raggiunsero il fondo e rimasero lí sospesi, un pò distanti dai due e dal tubo. Johnny indicò il profondimetro che portava al polso come un orologio: segnava trentasei metri; quindi si girò e, con un cenno della mano, indicò dalla parte degli scogli. Si trovavano in una gola in mezzo ai picchi sottomarini con poco distante la catena ininterrotta di nere rocce che lei aveva visto dall'alto dell'aereo. Verso quegli scogli li sospingeva una forte corrente. Johnny le strinse forte la mano e la tirò giú. Stettero distesi con la pancia sul fondo e Johnny raccolse una manciata di sabbia bianca, quindi l'agitò in modo che le particelle piú piccole venissero trascinate via come una nuvola dalla corrente e le mostrò la ghiaia piú pesante rimastagli in mano. Sorrise di nuovo e lei restitui il sorriso. Sempre tenendola per mano, poi, lui tornò verso i due che lavoravano al tubo di gomma e si fermò a guardarli. Attaccato all'estremità del tubo di gomma ce n'era un altro rigido, di metallo, di cinque centimetri di diametro e sei metri di lunghezza; in quel momento però di questo solo metà era visibile contro il fondale di sabbia. I due subacquei stavano affondandolo nella sabbia e nella ghiaia fino a raggiungere il letto di roccia. Quanto al tubo di gomma, era collegato a un compressore su a bordo che praticamente aspirava sabbia e ghiaia man mano che il tubo metallico vi affondava dentro. Stavano eseguendo lavori di prospezione sull'area delle isole Thunderbolt e Suicide. Prelevavano campioni da cinque centimetri a ogni quindici metri di distanza per stabilire la profondità del fondale, lo spessore del sovraccarico e il contenuto del letto di ghiaia. Tracciavano anche una mappa e sondavano le scogliere di modo che quando la Kinisher sarebbe arrivata avrebbero già avuto un quadro abbastanza preciso della configurazione della zona. Avrebbero saputo cioè da dove cominciare a dragare e, approssimativamente, che cosa aspettarsi una volta iniziato.
Fino a quel momento, comunque, i risultati avevano confermato i calcoli piú ottimistici di Johnny. Negli avvallamenti tra le scogliere c'era un ottimo e spesso bacino di ghiaia e, come lui s'aspettava, quella piú pesante s'era depositata negli avvallamenti piú vicini allo stretto tra Thunderbolt e Suicide, mentre la piú sottile e leggera era stata trascinata via. In alcuni avvallamenti il letto di ghiaia aveva uno spessore di qualche metro e i tipi di pietra presenti erano tutti molto promettenti. Avevano già individuato schegge di granato, diaspro, siderite e berillo e polvere di titanio. Comunque, da quel tubo calato nella profondità marina era ormai saltata fuori la prova conclusiva e definitiva. Avevano già tirato su i primi diamanti dal giacimento di Thunderbolt e Suicide. Considerata l'assoluta improbabilità di trovare una pietra in un campione da cinque centimetri con sondaggi a quindici metri di distanza l'uno dall'altro e, ancora, tenendo presente che la ghiaia piú promettente contiene al massimo una parte di diamanti su cinquanta milioni, il fatto che avessero invece trovato già quattro diamanti era quanto mai incoraggiante, oltre che eccitante. Diamanti piccoli, è vero, nemmeno uno superiore a mezzo carato, ma pur sempre diamanti, e alcuni anche di ottima qualità. Uno dei due uomini che lavoravano al tubo si voltò e fece a Johnny un segno a mano piatta col palmo in giú: il tubo era arrivato al letto di roccia. Johnny annuì, fece segno col pollice in su e, tirandosi dietro Tracey, cominciò a risalire. S'arrampicarono sulla scaletta con difficoltà, impacciati dalle grosse bombole d'aria che portavano sulla schiena, ma mani pronte e sollecite li aiutarono a montare a bordo e a liberarsi della pesante attrezzatura e delle mute di gomma. Tracey accettò ringraziando l'asciugamano che un uomo dell'equipaggio le porse e, mentre stasciugava i folti capelli bagnati, guardò verso i due isolotti a forma di balena con la loro aureola di uccelli bianchi contro il verde del mare. Le onde si riversavano sulla roccia col cupo rimbombo di un'artiglieria lontana. « Santo cielo. Questo è proprio un posto selvaggio ed eccitante!» esclamò con voce fremente per l'emozione mentre s'asciugava la testa. «Ti fa sentire vivo. » Johnny capì perfettamente cosa intendeva dire: era questa infatti l'impressione che davano quel mare inquieto e ostile e quella dura terra che non promettevano altro che pericolo e avventura. Stava per rispondere quando i due subacquei che lavoravano al tubo riaffiorarono e salirono a bordo. Il piú alto dei due sputò il boccaglio e se lo lasciò cadere sul petto. « Se per lei va bene, passiamo al punto successivo. Che dice?» Si tolse la maschera e il cappuccio rivelando una capigliatura biondo chiarissimo e un viso abbronzato. «Va benissimo, Hugo», rispose Johnny e lanciò uno sguardo d'approvazione a Hugo Kramer, che stava dando l'ordine d'issare ancora e tubo per portare il Wild Goose piú al largo, vicino al punto successivo di prospezione. Lui aveva riluttato ad affidare al Wild Goose il lavoro di prospezione e di nave appoggio della Kingfisher. Non conosceva Hugo Kramer e l'insistenza di Benedict van der Byl a suo favore lo aveva insospettito, ma dopotutto era piú che naturale che ricorressero a un comandante della flottiglia della società e lui ormai era pronto ad ammettere d'essersi sbagliato; Kramer era un lavoratore intelligente e diligente, pieno di risorse e fidato, un ottimo marinaio che manovrava il Wild Goose con tutta l'abilità necessaria, per esempio, per accostare sottobordo alla Kingfisher anche col mare grosso. Quanto al suo aspetto fisico non certo piacevole, lui Johnny quasi non ci faceva piú caso ormai, anche se al primo momento lo choc provato alla vista di quella faccia rosa, quei capelli quasi bianchi e quegli occhi da cieco era stato abbastanza forte. Tracey invece non era altrettanto generosa. Quell'uomo la metteva a disagio. C'era qualcosa in lui che suggeriva l'idea della ferocia d'un animale selvatico, faceva pensare a una violenza a malapena controllata.
A volte, poi, il modo in cui la guardava le dava la pelle d'oca. Come in quel momento, per esempio. Dopo aver lanciato i suoi ordini, s'era messo a spogliarla con gli occhi. Nel costume da bagno nero, infatti, il petto sodo di lei acquistava grande e notevole risalto e Hugo Kramer stava concupendola con quegli occhi slavati e incorniciati dal bianchiccio delle sopracciglia. Si coprì istintivamente con l'asciugamano ed ebbe l'impressione che, nel voltarsi verso Johnny, lui le rivolgesse una smorfia divertita. « Mi dicono che questa sua draga è davvero speciale. » «Lo è, Hugo», rispose Johnny Lance. «Non è una di quelle chiatte adattate e bastarde impiegate dalle altre compagnie. E' la prima nave pesca-diamanti disegnata apposta per questo lavoro. » « Cos'ha di diverso? » « Quasi tutto. Il tubo della draga opera da un'incastellatura situata sul ponte di prua e passa attraverso un'apertura ben rifinita nello scafo. » « Che tipo di tubo? » « Reticolato d'acciaio da mezzo metro con interno di gomma. Possiamo spingerlo fino a cento braccia di profondità ed è fornito di un compensatore che ne impedisce l'oscillazione al rollio e beccheggio dello scafo. » « Mezzo metro è tanto. E come ottenete l'aspirazione? » «E' questo il punto, Hugo. Noi non aspiriamo, soffiamo. Evacuiamo acqua dal tubo con la spinta dell'aria compressa. Il forte getto d'acqua dall'apertura del tubo provoca l'aspirazione della ghiaia. » «Geniale! Così piú in profondità opera piú è efficace! » «Esatto. » «E il carico effettivo? Ci sarà la solita cernita, il mulino o macina a palle e il tavolo del grasso? » «No. E' questo che ha fatto fallire le altre compagnie: setacciare col vecchio metodo. No. Tanto per cominciare, abbiamo un ciclone. » «Un ciclone? » « Ha mai visto una centrifuga? » « Sì.» « Lo stesso principio. Fa ruotare la ghiaia in un contenitore circolare espellendo tutto quanto ha un peso specifico inferiore a due virgola cinque. Quel che resta, lo sparge su un nastro trasportatore che lo passa sotto un apparecchio rontgen, il quale individua i diamanti uno per uno. Come lei sa, ai raggi x i diamanti diventano luminescenti e risaltano nitidamente. L'apparecchio poi trasmette ogni individuazione a un elaboratore centrale. » La voce, come del resto tutto l'atteggiamento di Johnny, rifletteva un entusiasmo cui era impossibile resistere. Tracey si lasciò trascinare, guardando i suoi occhi e la sua bocca mentre parlava, sorridendo quando lui sorrideva, muovendo persino anche lei le labbra, fedelmente. «Questa è la sala del ciclone», spiegò Benedict van der Byl mentre, reggendole il gomito con una mano, aiutava Ruby Lance a scendere l'ultimo gradino della scaletta. «Ti ho già spiegato come funziona. » «Si. » Ruby annuí e si guardò intorno con un certo interesse. In quel punto dello scafo della Kingfisher il fasciame di lamiera dipinto di grigio della nave formava una vera e propria scatola metallica quadrata al centro della quale c'era il ciclone, una torre circolare, a forma di cono, alta circa tre metri e dipinta anch'essa in grigio nave da guerra. « La ghiaia viene soffiata qua dentro. » Benedict indicò un grosso tubo che entrava nella sala del ciclone attraverso la paratia verso prua e andava a collegarsi alla parte inferiore del ciclone. «Va su di qua.» Indicò con la mano verso l'alto. «Le parti pesanti si separano e sono trascinate via. » Da dietro al ciclone spuntava un tubo piú piccolo che scompariva poi attraverso la paratia opposta. «Le piú leggere vengono invece sparate via dall'alto e spruzzate fuoribordo di nuovo. » « Capisco. Ma qual è il punto debole? » chiese Ruby. « Seguimi. » Benedict la guidò attraverso la sala facendosi largo tra il materiale che gli operai che ancora invadevano la Kingfisher avevano lasciato sparso dappertutto.
Raggiunsero un portello nella paratia. « Attenta alla testa. » Uscirono a capo chino in un lungo passaggio con portelli alle due estremità. Sulla destra un tunnel coperto correva per tutta la lunghezza della sala. «Qui corre il nastro trasportatore», spiegò Benedict. «La ghiaia concentrata passa in caduta attraverso una corrente d'aria calda proveniente da una fornace elettrica e viene così asciugata. Successivamente viene raccolta su un nastro trasportatore, che corre in questo tunnel, e trascinata nella sala dei raggi x. » «Ed è qui che lo metti? » chiese Ruby. «Esatto. Nel tunnel del nastro trasportatore. Significa spostare quella botola per l'ispezione di qualche metro per fare spazio. » Ruby approvò col capo. «E puoi fidarti dell'uomo che eseguirà il lavoro? » « Si. Ha già lavorato per me. » Benedict non aggiunse che si trattava dello stesso uomo che aveva disegnato l'attrezzatura elettronica per i palloni usati dal Ring e che era venuto dal Giappone apposta per modificare l'ecogoniometro del Wild Goose. « Benissimo. » Ruby sembrava soddisfatta. Stava ormai diventando man mano sempre piú la forza motrice di quell'alleanza, pungolando Benedict quando si mostrava titubante o quando cercava di evitare tutto ciò che, prima o poi, lo avrebbe portato a un confronto con Johnny Lance. « Ora vediamo la sala dei raggi x. » Era un compartimento piccolo, a momenti, quanto un armadio. Pavimento, soffitto e pareti erano rivestiti d'una spessa lastra di piombo. Dal soffitto, poi, pendeva l'apparecchio rantgen sotto il quale c'era un tavolo circolare la cui superficie era ricoperta da una lastra d'acciaio inossidabile formata a nido d'ape. «La ghiaia concentrata si riversa su quel tavolo che gira sotto i raggi x. Questi rendono luminescenti i diamanti, che un elaboratore individua e localizza sul tavolo, indicandone l'esatta misura e posizione. Quindi lo stesso elaboratore ordina a uno di quelli... » Benedict indicò un gran viluppo di tubi di plastica collegati ognuno a un braccio metallico «di abbassarsi sul tavolo esattamente sopra al diamante e di aspirarlo. L'elaboratore sceglie il tubo del diametro adatto alle dimensioni del diamante individuato e, dopo che il tubo ha obbedito ai suoi ordini, il tavolo passa sotto un secondo apparecchio rantgen per la conferma che il diamante è stato effettivamente recuperato. Se, per caso, il tubo non aspira la pietra allora automaticamente l'elaboratore sposta il tavolo su un altro circuito. Solo quando i diamanti sono stati sicuramente raccolti tutti il materiale residuo viene spazzato via dal tavolo, che ruota per raccogliere altra ghiaia dalla sala del ciclone e ripetere l'intero processo. Il sistema è efficace al cento per cento. Con esso si raccoglie ogni singolo diamante, anche le pietre piccole come granelli di zucchero. » « Dov'è l'elaboratore? » chiese Ruby «Là dentro.» Benedict indicò l'oblò di vetro piombato che s'affacciava sul tavolo sotto l'apparecchio rantgen e dietro al quale c'era un altro piccolo compartimento. Ruby schiacciò il naso contro il vetro per guardar dentro: l'elaboratore occupava quasi per intero il compartimento, un enorme armadio di metallo smaltato non molto diverso da un frigorifero nonostante tutte le manopole e i quadranti. Anche Benedict guardò, accanto a lei. « L'elaboratore dirige l'intera operazione. Controlla il flusso d'aria compressa nel tubo della draga, regola il ciclone, muove l'apparecchio rantgen e fa girare il tavolo, pesa e conta i diamanti recuperati prima di depositarli in una cassaforte e pilota persino la Kingfisher riferendo al ponte di comando la sua esatta posizione rispetto al fondale, controlla la lubrificazione e la temperatura delle macchine e delle dinamo e, su richiesta, riferisce in modo immediato e completo su ogni fase dell'operazione. » Ruby stava ancora guardando nell'interno del compartimento dell'elaboratore, chiese: «Una volta raccolti dal tavolo girevole, che ne avviene dei diamanti? »
«Vengono passati su una bilancia elettronica che li pesa pietra per pietra, quindi vengono inoltrati attraverso il compartimento dell'elaboratore fino alla cassaforte, dove vengono depositati. » Benedict indicò uno sportello d'acciaio inserìto nella paratia. «La cassaforte ha una serratura a tempo. Tutto il sistema funziona senza che un singolo diamante venga toccato da mano umana. » «Andiamo a parlare a quel cafone italiano», disse Ruby. Quando si girò Benedict le passò un braccio intorno alla spalla e la strinse a sé, in modo possessivo. «Non ora», sbottò lei, seccata, e si liberò dall'abbraccio. Lo precedé fuori del compartimento passando davanti al portello della sala dell'elaboratore e a quello della sala del nastro trasportatore. Era rimasta impressionata dall'ingegnosità del sistema, ma il fatto che l'avesse costruito Johnny Lance la indispettiva. Era passata ormai dalla parte opposta. In pratica, al maggiore offerente. Alla vista di Ruby Lance, Sergio Caporetti avvertì come una stretta al cuore: così magra e con quel sedere da maschietto, doveva essere di ben poco conforto a un uomo in una notte fredda. Si spostò il sigaro da un angolo all'altro della bocca, inzuppandolo ancor piú di saliva. Non era certo di sangue caldo, decise. Nel giudicare la temperatura del sangue d'una donna, la sua passionalità, lui poteva sfoderare una profondissima intuizione oltre alla competenza. Fredda come un serpente, ecco cos'era quella lí. La compassione si trasformò dunque in repulsione. Quando poi la vide sedere sul divano nella sua cabina accavallando per benino quelle lunghe gambe dorate controllò a stento un fremito. Sí, un serpente. Quella, un uomo se lo inghiottiva come fosse un ranocchietto. Ora lui ammirava Johnny Lance però-decise con al fianco una donna così quel poveretto non era al sicuro da niente. «Le piace la mia nave? » chiese, nel tentativo di mostrarsi amico. « Non è bellissima? » L'enfasi di quel «bellissima», in verità, faceva pensare che fosse convinto addirittura della capacità della Kingfisher di procreare. In segno di disgusto, Ruby storse le labbra e ignorò la domanda. Accese una sigaretta e dondolò la gamba, impaziente, voltando il capo per guardare fuori dall'oblò li accanto. Quel comportamento indispose Sergio, che però non ebbe il tempo di rimuginarci sopra perché proprio in quel momento Benedict van der Byl entrò deciso e andò a piazzarsi al centro della cabina con le mani incrociate dietro la schiena. «Signor Caporetti», chiese a voce bassa, «fino a che punto le piace il danaro? » L'italiano sorrise e si spinse indietro sul capo il berretto con visiera. «Mi piace abbastanza. Piú di mia madre, direi. E amo mia madre piú della vita stessa. » « Le piacerebbe diventare ricco? » Sergio concentrò tutta la sua nostalgia in un sospiro. Annuí ripetute volte. «Sì. Ma la cosa non può verificarsi. Troppo vino, troppe belle ragazze, e le carte, poi, spietate come... » S'interruppe il tempo di trovare un'accettabile similitudine e lanciò un'occhiata a Ruby, «...come una donna magra. No. I soldi non sono fatti per restare, vanno e vengono. » « Cosa farebbe per ventimila sterline? » «Per ventimila.» Gli occhi di Sergio erano scuri e umidi, belli come quelli d'una gazzella morente o d'una donna innamorata. «Be', non c'è cosa al mondo che non farei.» La Kingfisher salpò per In rappresentanza della Londra l'augurio di bon un'ora chiuso in cabina
l'Africa il venti ottobre. società armatrice, Benedict van der Byl le portò da voyage e prima della partenza della nave rimase piú di con Sergio Caporetti.
La prima parte del viaggio verso sud la nave la coprì in tempo debito ma giunta all'isola di Las Palmas ci fu un ritardo di dieci giorni che mandò su tutte le furie Johnny. Le sue telegrafiche richieste di spiegazioni da Città del Capo ottennero vaghe risposte: purtroppo la Kingfisher aveva avuto noie ai motori alle quali si stava cercando di porre riparo nei bacini di Las Palmas. Il viaggio sarebbe stato ripreso appena effettuate le riparazioni. Intanto il signore giapponese che aspettava la Kingfisher a Las Palmas si chiamava Kaminikoto, nome troppo difficile per Sergio Caporetti, che lo chiamò dunque Kammy. L'equipaggio fu mandato a terra con la scusa che i lavori a bordo potevano essere pericolosi e venne sistemato nel migliore albergo e generosamente fornito di inebrianti superalcolici. Sergio non rivide i suoi uomini per tutt'e dieci i giorni in cui lui e Kammy furono occupati ad apportare modifiche all'elaboratore della Kingfisher e all'attrezzatura di dragaggio. Durante quei dieci giorni i due scoprirono che nonostante la notevole diversità del loro aspetto in realtà erano fratelli nell'anima. Kammy s'era portato dietro a bordo delle misteriose cassette e tutt'e due lavoravano come furie ogni giorno, dall'alba fin dopo il tramonto. Dopodiché riposavano. E fu questo riposo a unirli, piú del lavoro. Kammy era pressappoco la metà di Sergio, con la faccia d'una scimmia cattiva e in testa, inseparabile, una lobbia. Una volta Sergio lo sorprese nel bagno senza quel copricapo e scoprì così che il giapponesino era calvo come una palla da biliardo. In fatto di donne, però, i loro gusti collimavano perfettamente, e questa coincidenza facilitò parecchio le loro scelte per quel che riguardava la compagnia femminile, perche quello che andava bene a uno andava bene anche all'altro. Era destino che Sergio si portasse poi dietro per tutto il resto del viaggio il ricordo di quel giapponesino che, nudo e con la lobbia in testa, in groppa a una giumenta da tiro, mandava gridolini d'eccitazione e incitazione. Quando finalmente Sergio riportò a bordo della Kingfisher il viziato equipaggio, l'unico segno del lavoro suo e del giapponese era lo spostamento di qualche metro subitò dallo sportello d'ispezione sul tunnel del nastro trasportatore. «E' il lavoro migliore che abbia mai fatto», disse Kammy a Sergio. La prospettiva della separazione lo rendeva triste. Dopotutto erano fratelli. « Ci ho messo la firma. Ti ricorderai di me ogni volta che lo vedrai. » « Sei un bravo ragazzo, Kammy. Il migliore! » Sergio lo abbracciò, sollevandolo da terra e baciandolo con trasporto su tutt'e due le guance, mentre quello si reggeva disperatamente la lobbia. Lo lasciarono impalato là sul molo, figuretta desolata e isolata, mentre la Kingfisher puntava a sud. Johnny Lance guardò preoccupato la montagna di bottiglie di champagne vuote accumulate dietro le griglie del barbecue. Il conto di quella festicciola sarebbe salito alle stelle, ma del resto non si trattava d'un capriccio. Gli invitati erano tutti i maggiori creditori della Van Der Byl Diamonds, con le mogli, e il party era stato dato allo scopo di mostrar loro in che modo dopotutto avevano investito il loro danaro. Agli occhi di un creditore, infatti, la ricchezza apparente è rassicurante certamente quanto quella effettiva. Bisognava dunque imbottirli di cibo e champagne, mostrargli la Kingfisher e riportarli a casa in aereo, il tutto nella sincera speranza che rimanessero abbastanza impressionati da non assillarlo piú per un pò, lasciandogli la possibilità di portare in salvo la Van Der Byl Diamonds. Incontrò lo sguardo di Tracey. L'ammicco che gli fece era senz'altro un segnale di cordiale complicità, circondata com'era in quel momento da un piccolo branco di finanzieri e banchieri di mezza età, che lo champagne aveva reso sensibili al suo fascino, e
lui rispose ammiccando a sua volta, dopodiche si guardò in giro con aria colpevole in cerca di Ruby. Fu risollevato quando la vide immersa in conversazione con Benedict van der Byl in un angolo del padiglione. S'allontanò, allora, si fece largo tra la ressa fino all'estremità della spianata; arrivato li, accese una sigaretta e si mise a scrutare l'orizzonte dalla parte di Cartridge Bay. I Dakota noleggiati per portare da Città del Capo, e riportarceli, gli ospiti, i fornitori e i camerieri, erano fermi sulla pista alle spalle degli edifici. La gran tenda a forma di padiglione era stata eretta sulla cima d'una duna di sabbia, che dava sullo stretto ingresso della baia, precedentemente spianata dai bulldozer per ben sistemare i tavoli del buffet e le griglie del barbecue intorno alle quali in quel momento s'affaccendavano i camerieri vestiti di bianco mentre i gran pezzi scalcati di tre montoni e di un vitello intero sfrigolavano sulle braci levando una nube di fragrante fumo. Tracey girò lo sguardo da quella parte e vide Johnny appartato laggiú. Ha l'aria stanca, pensò. Le fatiche di questi ultimi mesi lo hanno spossato. Ripensandoci, si rese conto che quasi ogni giorno Johnny aveva dovuto affrontare una crisi. L'ansiosa attesa della decisione del tribunale, che alla fine aveva assicurato loro la concessione per Thunderbolt e Suicide, era appena finita che s'era trovato di fronte il problema del ritardo dei lavori della Kingfisher, e tutto questo tra l'imperversare dei creditori, l'ostracismo di Benedict e centinaia di altre noie e frustrazioni. E' come un pugile al suono della campana dell'ultima ripresa, pensò intenerita, studiando quel profilo rivolto verso il mare. Aveva ancora un'aria aggressiva, certo, la mascella sporgeva e la mano col dito mancante stringeva la sigaretta nel pugno chiuso, ma c'erano ombre scure sotto gli occhi e le pieghe della tensione interna agli angoli della bocca gliela storcevano quasi in una smorfia. A un tratto Johnny parve tendersi ancor piú e si riparò gli occhi con una mano; dopodiché tornò verso il tendone. Coprendo il gran vocio, gridò: «Attenzione, tutti quanti! Sta arrivando! » Subito il vocio raddoppiò e tutta la compagnia si precipitò fuori al sole; c'era grande eccitazione soprattutto grazie al Pommery che tutti stavano bevendo sin da mezzogiorno. «Eccola! Eccola là. » «Dove? Dove?» «Non la vedo. » « Laggiú sulla sinistra di quella nuvola all'orizzonte. » «Oh, si. Guarda! Guarda! » Tracey prese due bicchieri di champagne dal vassoio di un cameriere e raggiunse Johnny. «Grazie. » Le sorrise. Tra loro ormai c'era intimità. « Ce ne ha messo ad arrivare. » Tracey guardava anche lei il puntino nero laggiú sul verde oceano. «Quando si metterà al lavoro? » « Domani. » «E quanto ci vorrà per sapere... be', se è valsa la pena? » «Una settimana. » Johnny si voltò verso di lei. «Una settimana minimo, per essere sicuri, ma come vanno le cose lo sapremo entro un paio di giorni. » Tacquero e rimasero a guardare il puntino che andava ingrandendosi sempre piú. La folla d'invitati, intanto, aveva perso interesse per l'arrivo della nave e stava tornando a poco a poco allo champagne e ai piatti di profumata e fumante carne dorata che arrivava dalle griglie del barbecue. Alla fine Tracey ruppe il silenzio tra loro due. Esitando, come se riluttasse ad affrontare un argomento spiacevole, chiese: « Da quanto tempo è tornata Ruby ormai? Dieci giorni? » «Piú o meno.» Johnny si girò subito a guardarla. «Non l'ho vista molto», aggiunse, «ma mi sembra molto piú rilassata, almeno non incombe. » « Lei e Benedict sembrano diventati molto amici. » Tracey lanciò un'occhiata in direzione dei due, che facevano parte ora d'un chiassoso gruppo d'allegroni. «L'ha incontrato a Londra. Per caso», rispose Johnny, con distacco. «Ha detto che hanno pranzato insieme un paio di volte. » Tracey aspettò che aggiungesse altro, che esprimesse qualche
sospetto, qualche riserva, invece Johnny parve aver perso ogni interesse nell'argomento, passò a parlare invece del programma che avevano concordato. « Conto su di te per quanto riguarda le mogli. Quando saliamo a bordo ti occuperai tu di loro. Tieni d'occhio soprattutto la signora Larsen, è già un pò alticcia. » La Kingfisher impiegò quasi due ore per accostare ed entrare nel canale di Cartridge Bay e nel frattempo Johnny non staccò mai gli occhi dalla sua insolita sagoma. Non era certo bella a vedersi, ma il bianco stemma della Van Der Byl Diamonds sul fumaiolo le conferiva ai suoi occhi una bellezza particolare. Quando passò sotto di loro per entrare nella baia, Larsen propose un brindisi al glorioso avvenire della nave, dopodiché tutti scesero giú dalla duna, s'imbarcarono sulle Land Rover in attesa e corsero incontro alla nave facendo il giro della baia. Quando arrivarono, la Kingfisher aveva attraccato e il capitano Sergio Caporetti stava aspettandoli per dar loro il benvenuto a bordo. Stava in cima alla passerella e, consapevole dell'importanza del momento, s'era agghindato al suo meglio: completo doppiopetto blu con camicia crema a righini viola, sulla quale risaltava la cravatta di seta rosso pomodoro. Le scarpe bicolori, bianche e nere, erano di coccodrillo ma purtroppo attiravano l'attenzione sugli enormi piedi. Quanto all'andatura, era quella di un pinguino. Con la brillantina, poi, aveva un tantino esagerato, visto che aveva un penetrante odore di violette e gli trasformava i capelli in un caschetto nero e lucido, con una drittissima fila al centro che mostrava il bianco del cuoio capelluto. In ogni modo, l'odore indefinibile di quella brillantina faceva a cazzotti col puzzo deciso del sigaro, che quel giorno era della marca che lui fumava nelle grandi occasioni, matrimoni, funerali e via dicendo. Non appena scorse Fifi Larsen i suoi begli occhi da gazzella s'accesero di passione. Gli aderentissimi pantaloni della moglie del finanziere erano infatti gonfi e bitorzoluti come se fossero imbottiti di conigli vivi, mentre la camicetta rosa era pericolosamente tesa alle cuciture. Gli occhi le brillavano come il perlage dello champagne che aveva bevuto e, sotto lo sguardo scrutatore di Sergio Caporetti, la poverina fu irresistibilmente portata a uggiolare senza alcun apparente motivo. La visita della Kingfisher ebbe inizio e l'italiano, che faceva gli onori di casa, si dispose immediatamente alle spalle di Fifi Larsen. Fu cosí che, appena ebbero imboccato la prima scaletta, quella mandò un alto squittio e, con un gran balzo, compí una mezza parabola in aria atterrando poi con tanta plumbea pesantezza da trasmettere un vero e proprio sobbalzo a tutti i propri abbondanti attributi femminili. «Mia cara Fifi, cosa ti succede?» s'informò premuroso il marito, mentre capitan Sergio distoglieva lo sguardo e assumeva un'espressione d'angelica innocenza. Johnny invece s'allarmò subito, perché aveva visto la zampona pelosa dell'italiano afferrare vogliosamente una di quelle maestose natiche. Incredulo, ma risollevato, udí poi la risposta della signora, preceduta da un uggiolio: «Credo d'essermi distorta la caviglia. Forse sarà bene che mi metta a sedere da qualche parte». Johnny cercò subito con sguardo ansioso Tracey perché l'accompagnasse fuori della portata del capitano, ma prima che riuscisse a farle segno d'intervenire Fifi stava già allontanandosi zoppicando appoggiata al braccio dell'italiano dopo aver coraggiosamente declinato ogni altra offerta di aiuto. «Vi prego, non voglio assolutamente rovinarvi la festa. Me ne starò seduta buona buona per un pò nella cabina del capitano. » Johnny raggiunse allora immediatamente il fianco del marito dai capelli d'argento e decise di non mollarlo piú. Non avendo potuto impedire a Fifi quella visita privata nei quartieri del capitano, avrebbe almeno fatto del proprio meglio perché il marito non fosse colto dalla vaghezza di raggiungerla. «Questo è l'armadio degli esplosivi.» Prese il braccio di Larsen e lo sospinse oltre. « Vi teniamo una scorta di esplosivi plastici per gli sbancamenti
sottomarini. » La preoccupazione per la storta della moglie scomparve immediatamente e, per tutto il giro della Kingfisher, Larsen si lasciò prendere dal proprio interesse. Johnny gli illustrò l'intero processo di lavorazione, dal dragaggio della ghiaia all'espulsione dei residui. Nel lasciare la sala del ciclone, Johnny lo precedé per tenergli aperto il portello. «Dal ciclone il concentrato passa attraverso questo», stava spiegando appena furono entrati nello stretto compartimento oltre la sala del ciclone, ma di colpo si bloccò, sorpreso. « Cosa c'è, Lance? » « Niente, niente. » Dopo la sorpresa iniziale della scoperta che la botola d'ispezione del tunnel del nastro trasportatore era stata spostata concluse, riflettendo, che doveva essere stata spostata per motivi di sicurezza. Probabilmente la modifica era stata voluta dagli stessi architetti navali. Riprese: « Il concentrato viene trasportato attraverso questo tunnel nel compartimento successivo e di là nella sala dei raggi x. Da questa parte, prego ». Nel far strada verso il portello successivo decise che a ogni buon conto sarebbe stato meglio controllare presso gli architetti. Larsen chiese ancora qualcosa e lui rispose, dimenticando per il momento il tunnel del nastro trasportatore. Passarono nella sala dei raggi x. «L'ha notato.» Benedict tirava rapide e nervose boccate alla sigaretta che stringeva nella mano chiusa a coppa. «Non gli sfugge niente a quel bastardo. » «L'ha notato, sí, ma l'ha anche accettato», ribatté Ruby. «Non l'ho perso di vista. E' rimasto qualche attimo sconcertato, poi deve averci ragionato su. Quasi la vedevo quella sua mente al lavoro. L'ha accettato, credimi. » Si trovavano nell'angolo piú esposto al vento della plancia della Kingfisher. A un tratto Ruby si mise a ridere. «Non fare quella faccia preoccupata», lo sollecitò, in tono vivace. «Tua sorella ci sta guardando di nuovo. E' laggiú, sul ponte di prua. Vieni, spostiamoci. » Sempre sorridendo gli fece strada dietro l'angolo della tuga. Una volta al riparo, tornò seria in volto. Terribilmente seria. «Tua sorella sospetta qualcosa. Sarà bene che noi due non ci vediamo piú finché non avrai parlato a Johnny » Benedict annuí. « Quando gli parlerai? » « Presto. » « Presto quando? » Non si sarebbe sentita tranquilla finché la cosa non fosse venuta allo scoperto, finché Benedict non si fosse esposto e impegnato davanti a tutti, e tuttavia non doveva forzargli troppo la mano. «Appena la Kingfisher avrà mandato a picco la Diamonds. Sceglierò il momento in cui sarà finanziariamente distrutto, allora glielo dirò. Sarà il coup de grace. » «Quando sarà, Benedict, tesoro? Non vedo l'ora di stare con te, senza tutti questi sotterfugi. » Benedict aprí la bocca per rispondere ma di colpo si bloccò. A poco a poco la sua espressione divenne quella di chi non crede ai propri occhi. Stava guardando oltre la spalla di lei. Immediatamente lei si girò. La tendina all'interno dell'oblò della cabina del capitano era leggermente scostata in un angolo e, da fuori, si poteva assistere a uno spettacolo di tal rubiconda e sfrenata magnificenza che si sarebbe potuto svolgere soltanto in cima all'Olimpo, tra Giove e Giunone. Nella cabina, a Fifi Larsen stavano raddrizzando la caviglia storta. «Benissimo, hai avuto il tuo giocattolo.
Speriamo, per il bene di tutti, che ora riesca utile a qualcosa.» Con un gran sorriso sulle labbra, Benedict stava avvicinandosi a Johnny e a Larsen fermi sotto l'incastellatura a forma di forca sul ponte di prua della Kingfisher. Era l'impianto che serviva a calare e issare la draga. «Giocattolo? » Le candide sopracciglia di Larsen s'inarcarono al massimo. «Spero che non abbiate piú dubbi, vero? Ora che avete la concessione per Thunderbolt e Suicide. » «Oh, non li chiamerei dubbi, signor Larsen. Riserve, piuttosto, non dubbi veri e propri. E' stato Johnny Lance a promuovere tutto questo. Il suo entusiasmo è stato il vero motore, nonostante tutte le opposizioni. Persino quella del mio defunto genitore. » «Il vecchio van der Byl s'opponeva al progetto? Non lo sapevo. » Larsen era chiaramente turbato. «No, non s'opponeva, Larsen.» Il sorriso di Benedict voleva essere rassicurante. «Non esattamente. Avrà notato però che era disposto a rischiare i vostri soldi non i propri. Questo può darle un'idea di come la pensava. » Seguí un silenzio gelido alla fine del quale Larsen si rivolse a Johnny con freddezza: «Bene, Lance, grazie per l'interessante giornata. Davvero molto istruttiva. Seguirò con attenzione i vostri progressi. Con molta attenzione». Girò sui tacchi e raggiunse la pudibonda e soddisfatta Fifi, che stava aspettandolo in compagnia d'un gruppo di altre mogli. «Ti ringrazio davvero», fece Johnny, con un sorriso velenoso. «Non c'è di che.» Il sorriso di Benedict era invece raggiante. «Entro la fine di questa settimana, però, ti farò rimangiare una per una tutte le parole di quel tuo discorsetto. Te le ricaccerò in gola», aggiunse Johnny a voce bassa e calma. Benedict cambiò espressione: socchiuse gli occhi, mostrò i denti in un ghigno e spinse in fuori la mascella con aria di sfida. « Sei lesto con la lingua, Lance. » Si fissarono negli occhi e la loro ostilità era cosí evidente, fondamentale, primordiale quanto quello di due stambecchi rivali, che di colpo si trovarono al centro dell'attenzione generale. Gli invitati stavano guardandoli incuriositi, erano consapevoli che tra quei due stava svolgendosi un dramma, ma non capivano quale. Ruby intervenne immediatamente. Si fece avanti, prese Johnny per un braccio e, con voce mielata, si rivolse a Benedict: « Benedict, ti dispiace se m'apparto un attimo con Johnny? Devo parlargli del viaggio di ritorno a Città del Capo ». Lo condusse via e la tensione svaní. Delusi, gli invitati si diressero verso la passerella, desiderosi ormai tutti di sbarcare. Piú tardi, nella confusione della partenza, Johnny riuscí a scambiare un'ultima parola con Tracey prima che salisse a bordo di uno dei due Dakota. «Rimani qui finché non saprai?» chiese lei, e quando lui annuí aggiunse, in un bisbiglio: «Buona fortuna allora, Johnny. Pregherò per te». E seguí Ruby a bordo dell'aereo. Johnny rimase a guardare i due grossi apparecchi che rullavano fino in fondo alla pista, giravano e decollavano ruggendo nel cielo rosso porpora della sera. Quando furono scomparsi il silenzio del deserto tornò completo. Tutto era immobile. Seduto nella Land Rover, fumò una sigaretta mentre intorno a lui calava la notte. Si sentiva a disagio, avvertiva dentro di sé, bene in fondo, un presentimento e un'apprensione, come un ticchettio che non riuscisse a collocare. Poi l'ultimo bagliore del tramonto si dissolse a occidente e le stelle del deserto comparvero nitide e brillanti, vicinissime alla terra, costellando d'argento la cupola del cielo con uno splendore affatto ignoto a un abitante di città. Ma lui, quasi rannicchiato nel sedile della Land Rover scoperta, era preso a indagare su quali potessero essere i motivi del proprio disagio; con cosí poco successo, tuttavia, che finí con l'attribuirlo alla stanchezza e alla fatica di
quegli ultimi mesi, al suo rapporto con Tracey, al continuo peggioramento di quello con Ruby e a quell'ultimo scontro con Benedict. Gettò lontano il mozzicone e rimase a guardare finché la brace toccò terra con un'esplosione di rosse scintille rosse che si spensero nell'arco del loro volo, quindi mise in moto e, a marcia bassa, si diresse lentamente verso il molo. Le luci della Kingfisher tracciavano sull'acque immobili della baia una via argentea, un chiaro tracciato. Ogni oblò era illuminato e l'effetto era quello d'una nave da crociera in tutta la sua festosità. Lasciò la Land Rover in punta al molo e salí a bordo. Il pulsare soffocato dei motori lo tirò su di morale, era la prova che la nave si preparava al lavoro dell'indomani. Su in coperta si fermò accanto ai giganteschi serbatoi d'aria compressa, ognuno delle dimensioni d'una locomotiva a vapore, e controllò i manometri della pressione. Gli aghi vibravano impercettibilmente e anche questo serví a tirarlo su. Salí la scaletta della plancia ed entrò nella cabina in cui Sergio e Hugo stavano bevendo del caffè. «Non è stata colpa mia», si scusò Sergio. «In fondo sono un gentiluomo, non posso rifiutarmi a una signora. » «Un giorno lei si scaverà la fossa con le sue mani», rispose lui, cupo. Andò alla carta stesa sul tavolo e si mise a esaminarla. «Ora studiamo un pò la situazione.» L'angustiante senso di disagio scomparve allorché diede un'occhiata alla grande e accurata carta nautica. I due rilievi gemelli di Thunderbolt e Suicide erano segnati in maniera nitida. «Hugo, ha i piani di prospezione? » « Lí sul tavolo. » Hugo e Sergio s'avvicinarono e si disposero ai due lati di Johnny, che aprí i fogli dattiloscritti e rilegati. «I sondaggi che abbiamo eseguito ci hanno fornito dati che non trovano riscontro sulla carta dell'Ammiragliato. Prima di stabilire dove dragare dovremo rifare i nostri calcoli. » Tutt'e tre, chini sulla carta con compassi e righe, cominciarono a segnare il tracciato che la Kinifisher doveva seguire in quel labirinto di secche e scogliere. Solo a mezzanotte passata Johnny, ormai stremato, si ritirò nella cabina degli ospiti, direttamente sotto il ponte di comando. Si liberò delle scarpe con un calcio e si stese sulla cuccetta per riposare un attimo prima di spogliarsi; s'addormentò invece di colpo. Fu svegliato da un uomo dell'equipaggio con il caffè. Prima di salire sul ponte infilò una giacca a vento. La Kingfisher stava passando proprio in quel momento dal canale di Cartridge Bay nel mare aperto e Sergio, in piedi accanto alla ruota del timone, lo accolse con un sorriso. L'alba color limone era una promessa appena sopra al deserto dietro di loro, mentre il mare era nero antracite e leggermente increspato dal vento fresco del mattino. Stettero sul ponte di comando buio a bere caffè bollente, stringendo le tazze tra le mani chiuse a coppa. Poi virarono e puntarono a sud, paralleli al deserto, che era tinto ora d'arancione vivo e di viola. Gli uccelli marini erano già svegli e in volo. Alla luce del primo sole, uno stormo di fregate si trasformò in una sfrecciante striscia di fuoco allorché passò rasente la prua. Poi, improvviso, il sole spuntò all'orizzonte e illuminò in pieno gli scogli bianco gesso di Thunderbolt e Suicide, laggiú a prua: sul freddo mare verde brillavano come falò a quella luce. Dalle due isole si levavano, schizzando alte nel cielo per poi ricadere immediatamente, vere e proprie cortine di spruzzi. Il Wild Goose li aspettava sottovento alle isole e si mosse subito per andargli incontro, arrancando laborioso e beccheggiando in modo spettacolare sul mare agitato che ribolliva intorno alle isole e nello stretto che le separava. Il radiotelefono attaccò a stridere e gracchiare allorché dalle torri d'osservazione a terra cominciarono ad arrivare alla Kingfisher le segnalazioni sulla sua posizione rispetto al fondale.
Poi tra Sergio e Hugo, che era a bordo del Wild Goose, ci fu un breve scambio di messaggi allorquando il peschereccio accostò e prese ad arrancare sottobordo alla Kingfisher, pronto a lanciare cavi se necessario. Ma Sergio, piantato in un angolo del ponte di comando, aveva la situazione sotto controllo. Il vecchio berretto spinto all'indietro sul capo e il lungo sigaro nero ficcato in un angolo della bocca, stava a gambe divaricate, con gli occhi che si spostavano lesti dal mare di sotto, di cui giudicavano di volta in volta la forza, al monitor dell'elaboratore che gli forniva la posizione e i risultati dei sondaggi. Tutto questo senza perdere uno solo dei rapporti radio da terra e dal Wild Goose. Ancora una volta, guardandolo al lavoro, Johnny fu soddisfatto della propria scelta. La Kingfisher procedeva lenta sottovento a Suicide Island, a un mezzo miglio dalle rocce bianche, poi a un certo punto s'arrestò e Sergio schiacciò un bottone sul pannello di controllo. Da prua giunse lo sferragliamento della catena dell'ancora che calava; quindi la Kingfisher fece marcia indietro lasciando una boa gialla sotto gli scogli di Suicide mentre uno degli enormi verricelli cominciava a calare automaticamente il suo spesso cavo d'acciaio. La Kingfisher indietreggiava e avanzava, scarrocciava con la corrente o la rimontava nel corso dell'elaborata e delicata operazione del calare le sue quattro ancore nei quattro punti cardinali. Sopra ogni ancora galleggiava inquieta un'enorme boa gialla e da ognuna di queste partivano i cavi di collegamento con i verricelli sul ponte della Kingfisher. Dietro istruzioni dell'elaboratore, questi quattro verricelli allentavano o issavano il rispettivo cavo in modo da tener ferma la Kinifisher sul fondale sul quale stava lavorando. Solo a metà pomeriggio la Kingfisher fu pronta, inchiodata come un insetto su una tavola, e l'elaboratore di bordo annunciò che si trovava esattamente sopra la gola che Johnny aveva scelto come punto di partenza. C'erano venticinque braccia d'acqua tra lei e lo spesso strato di ghiaia. «Siamo pronti», annunciò Sergio a Johnny, che per tutto quel tempo non aveva aperto bocca per non interferire col suo lavoro proprio mentre stava mettendo la nave in posizione. « Vuole dare inizio al programma di lavoro? » Johnny si riscosse. «Sí, certo » «Vorrei assistere», disse Sergio, e Johnny annuí. «Bene, venga.» Sergio affidò il comando al timoniere e i due scesero di sotto. Raggiunsero il portello blindato della sala dell'elaboratore. Johnny l'aprí. Di quel portello esistevano solo due chiavi: una l'aveva lui e l'altra Benedict. Questi aveva insistito per averla e, riluttante, lui gliel'aveva concessa. Ignorava che la chiave era stata adoperata a Las Palmas. La pesante porta d'acciaio s'aprí e Johnny scavalcò il battente e andò a prendere posto davanti alla consolle dell'elaboratore. Coperti di cellofan e tenuti sospesi sopra la tastiera del calcolatore da un morsetto, c'erano i fogli dattiloscritti con i vari codici del programma. Johnny scelse quello che portava l'intestazione OPERAZIONE PRELIMINARE. DRAGAGGIO E CARICO, e batté il codice sulla tastiera, comunicandolo alla macchina. «Beta, spazio, oh, oh, sette, alfa.» Un cambiamento del ronzio, il fruscio dei dischi e lo scatto dei selezionatori all'interno della consolle laccata annunciarono l'inizio del nuovo programma, mentre sul pannello di controllo lampeggiavano e ammiccavano luci. Poi la macchina cominciò a eseguire gli ordini impartiti, compitando sullo schermo la propria risposta come una macchina per scrivere. NUOVO PROGRAMMA. OPERAZIONE PRELIMINARE. DRAGAGGIO E CARICO. PRIMA FASE. INIZIATA PROCEDURA DI SICUREZZA: A) PRESSIONE ARIA ... 1 B) PRESSIONE ARIA ... 2 Johnny si sistemò sullo sgabello imbottito e seguí l'accurato controllo che
l'elaboratore stava eseguendo di tutta l'attrezzatura della Kingfisher, facendo comparire i risultati sullo schermo. «Cosa fa ora?» chiese Sergio, incuriosito, come se non avesse passato dieci giorni proprio in quel compartimento ad assistere il suo amico giapponese. Brevemente, Johnny glielo spiegò. « Come mai s'intende di queste cose? » «Ho passato un mese nella sede centrale della Computer Company in America l'anno scorso, proprio quando disegnavano questa macchina. » « Lei è l'unico della Diamonds che sa farlo funzionare? » «Benedict van der Byl ha fatto lo stesso corso anche lui», rispose Johnny, quindi si sporse in avanti. «Ecco, ha finito.» Sullo schermo l'elaboratore si dichiarò soddisfatto. PRIMA FASE COMPLETATA. INIZIATA SECONDA FASE. IMMERSIONE E POSIZIONAMENTO DELLA TESTA DELLA DRAGA. Johnny s'alzò. « Okay, andiamo di sopra. » Chiuse a chiave la porta del compartimento dell'elaboratore e seguí Sergio sul ponte di comando. Una volta lí, andò a piazzarsi davanti al monitor del ponte di comando, sul quale comparivano i segnali dell'elaboratore esattamente come li si vedeva sullo schermo nel compartimento di sotto. Contemporaneamente, dall'oblò poteva guardar fuori e in tal modo controllare la reazione automatica del grosso impianto sul ponte di prua. L'incastellatura girò su se stessa, infatti, e i bracci d'acciaio afferrarono la testa della draga e la sollevarono dalle sue calastre issandola in aria col tubo dell'aspirazione appeso sotto. L'incastellatura girò ancora e, con uno scattante movimento meccanico, calò la testa della draga in un'apertura quadrata che s'apriva sul ponte. Era un pozzo che sbucava dritto sotto la chiglia e attraverso il quale il tubo flessibile cominciò a scendere serpeggiando: un mostruoso pitone nero che scivolava nella sua tana. Le enormi ruote alle quali il tubo era avvolto giravano lentamente srotolandolo man mano che la testa della draga scendeva verso il fondo marino. TESTA SUL FONDO, annunciò l'elaboratore e, di colpo, le ruote si bloccarono. SECONDA FASE COMPLETATA. INIZIATA TERZA FASE. GIRI DEL CICLONE 300. POMPA DELLA DRAGA IN AZIONE. Ci fu ora un sibilo acuto che andò man mano aumentando, come l'avvicinarsi di un aereo a reazione. Il sibilo raggiunse un livello massimo e vi si stabilí per essere poi coperto immediatamente da un altro suono: il borbottio gorgogliante dell'aria compressa attraverso l'acqua; un suono talmente forte ed eccitante che Johnny si sentí rizzare i peli sugli avambracci. Stava immobile come una statua, con un'espressione rapita in viso, e tendeva le labbra in un sorriso pressoché impercettibile. Quel suono rappresentava il culmine di due anni di lavoro e di programmazione tenaci, il dolce premio alla dedizione totale con la quale era riuscito a trasformare in realtà un sogno. A un tratto desiderò che Tracey fosse lí con lui a dividere la gioia di quel momento, ma poi si rese istintivamente conto che lei lo aveva lasciato di proposito solo ad assaporare il trionfo di quel momento. Sorrise, allora, nel vedere il grosso tubo nero gonfiarsi e pulsare di vita interna, come una grossa arteria, e pompare, pompare, pompare. Nella sua fantasia vedeva il ricco e denso miscuglio d'acqua di mare, melma e ghiaia aspirato nel tubo e inviato nel vorticante ciclone; immaginava la testa d'acciaio della draga che frugava ritmicamente nella sabbia laggiú in fondo al mare sloggiando ogni ciottolo che la pressione dell'acqua teneva schiacciato laggiú. Dal tubo di scarico a poppa della Kingfisher, poi, si riversava di nuovo in mare un denso torrente di liquido giallastro misto a sabbia e, soprattutto, alla ghiaia che era stata respinta e sputata dal ciclone. Quella scarica fecale lasciava nella verde acqua una densa chiazza, come se fosse fuoriuscita da una fogna.
Per tre giorni e due notti le pompe pulsarono mentre la Kingfisher si spostava avanzando a poco a poco nello stretto tra le due isole come un'affaccendata casalinga che aspira elettricamente ogni granello di polvere dal pavimento. Quando la terza sera distese sul mare il suo buio mantello Johnny Lance stava ancora seduto sullo sgabello imbottito davanti alla consolle dell'elaboratore. Stette chino in avanti, con i gomiti puntati sulle ginocchia e il viso nascosto tra le mani, per una buona ora. Era l'atteggiamento di un disperato. Quando alzò il capo il viso era stravolto e le rughe della sconfitta gli avevano chiaramente alterato i tratti, incidendoli col freddo cesello del fallimento. Dal magro bottino di miseri diamanti che la Kingfisher aveva raccolto in quegli ultimi tre giorni si capiva, al di là di ogni ragionevole dubbio, che nonostante tutte le indicazioni il raccolto alle isole di Thunderbolt e Suicide non avrebbe mai compensato sia anche solo i costi di gestione della Kingfisher, per non parlare delle spese generali e degli interessi dei debitori. La Van Der Byl Diamonds era spacciata e lui era finanziariamente rovinato oltre ogni possibilità di ripresa. Agli sciacalli non restava da fare altro che calare e scalcare la carcassa. Sergio Caporetti stava appoggiato al parapetto della plancia mandando dalla bocca e dal naso lunghe sbuffate di azzurro fumo di sigaro. Stava dando una mano a insudiciare un'aria già densa e grigia di nebbia marina. Gli isolotti Thunderbolt e Suicide erano avvolti nella caligine ma l'onde s'avventavano contro le scogliere nascoste col rombo di un'artiglieria lontana mentre gli uccelli marini lanciavano gridi lagnosi e disperati come anime sperdute nel vuoto. Dalla nebbia sbucò fuori, puntuale, il Wild Goose. Accostò sottovento alla Kingfisher con a prua due uomini dell'equipaggio pronti a evitare ogni urto tra i due scafi. Hugo Kramer cacciò il biondo capo fuori dall'occhio della timoneria e gridò: « Okay, capo. Pronti! » Sergio guardò giú e vide sulla coperta della Kingfisher l'alta figura esitante; sembrava un sonnambulo. Poi Johnny Lance alzò il capo e guardò in su verso di lui in plancia, che notò subito la barba lunga che gli copriva tutta la mascella facendola sembrare ancora piú sporgente. Aveva l'aria di non aver chiuso occhio e sembrava ingobbito, col bavero della giacca a vento alzato contro il freddo della nebbia. Non sorrise, sollevò solo una mano in un gesto di saluto verso di lui Sergio, che solo allora s'accorse che gli mancava un dito indice. Quel piccolo e patetico particolare lo colpí. Gli dispiaceva, davvero gli dispiaceva; ma dev'esserci pur sempre un perdente in ogni gioco, e ventimila sterline erano un mucchio di soldi. « Buona fortuna, Johnny. » «Grazie, Sergio.» Johnny andò al parapetto reggendo la ventiquattrore e lo scavalcò. Scese lesto i pioli della biscaglina fissata allo scafo della Kingfisher, superò d'un balzo la breve distanza colma d'acqua ribollente e fu sul ponte del Wild Goose. I motori ruggirono e il peschereccio s'allontanò, virando e puntando verso Cartridge Bay. Johnny stava sul ponte e guardava indietro verso la Kingfisher. Sergio scosse il capo rammaricato. «E' un brav'uomo. » «E' un capo», bofonchiò il timoniere, «e nessun capo è un brav'uomo. » «Senti un pò, tu. Sono anch'io un capo.» «Appunto. » Il timoniere soppresse un sorriso. «La puttana di tua madre», lo aggredí Sergio in tono di grande dignità, quindi cambiò argomento: «Vado per un momento giú di sotto, prendi tu il comando». Aprí il portello della sala controllo col duplicato della chiave e se lo chiuse dietro. Sedette alla consolle e cavò di tasca un foglio dattiloscritto che portava l'intestazione: PROGRAMMA DI RECUPERO SUBORDINATO DI KAMINIKOTO. Dieci minuti dopo venne fuori dalla sala di controllo e chiuse a chiave il portello. «Kammy, ti adoro», esclamò gongolando nel chiudere i portelli a tenuta stagna che isolavano quel ponte da quello sovrastante.
Girò il volano di chiusura in modo che nessuno dell'equipaggio potesse aprire dall'esterno. Dall'armadio degli attrezzi, poi, prese un paio di chiavi fisse e si diresse verso la sala del nastro trasportatore. Gli ci vollero venti minuti per svitare i pesanti e ben stretti bulloni che assicuravano la botola. Era stata costruita in modo da impedire ogni facile accesso, ma alla fine riuscí a sollevare la piastra d'acciaio. Guardò con disgusto la piccola apertura quadrata e, riflettendo, tirò in dentro il pancione. Non era stato previsto il passaggio di nessuno delle sue dimensioni per quella botola. Si tolse berretto e giacca e li appese alla chiave d'arresto d'uno dei tubi, quindi schiacciò sotto al tacco il sigaro e si scostò i capelli dalla fronte con ambedue le mani. Controllò se aveva in tasca la torcia elettrica e montò sulla botola. Si contorse e dimenò e calciò e sudò abbondantemente per un buon cinque minuti prima di riuscire a infilarsi chissà come nel tunnel del nastro trasportatore. Là dentro, s'accoccolò ansimando, senza fiato, e volse il raggio della torcia nel tunnel. Sulla sua testa il nastro che trasportava la ghiaia si muoveva lentamente, ma il calore residuo degli asciugatoi lo rendeva quasi rovente. Prese a strisciare a quattro zampe, lesto, diretto verso la fine del tunnel. Senza misurarlo e guardandolo da fuori, era impossibile dire che all'interno il nastro trasportatore era in effetti piú corto dei dodici piedi di lunghezza che misurava all'esterno. La fine del tunnel era finta. Oltre di essa v'era un cubicolo segreto sufficiente a ospitare soltanto l'apparecchio di Kaminikoto per mezzo del quale la ghiaia diretta alla sala dei raggi x veniva deviata. L'apparecchio sistemato in quel cubicolo segreto era in realtà una prova del genio giapponese per la miniaturizzazione. Era la copia quasi identica del meccanismo di cernita situato nella sala dei raggi x, solo che era stato ridotto alla decima parte senza diminuirne l'efficienza. In piú, quel meccanismo miniaturizzato era in grado di distinguere anche i diamanti che selezionava. Da quattro carati in su una pietra non veniva lasciata passare, solo i diamanti piú piccoli e di minor valore procedevano oltre, verso la sala dei raggi x. Uno straordinario esempio di ingegneria elettronica dunque ma, steso lí su un fianco in quell'angusto tunnel rovente, Sergio non ne era affatto impressionato, pensava solo a svitare un'altra piastra piú piccola del portello posticcio. Alla fine l'aprí e allungò un braccio nell'apertura e dopo alcuni minuti di affanno e ricerca a tentoni tirò fuori una coppa d'acciaio inossidabile della capacità di due pinte. Era fornita di grappe per stare in posizione sotto lo scivolo della macchina di Kaminikoto. Era pesante e Sergio la mise giú molto lentamente accanto a sé, quindi si sollevò su un gomito e vi diresse sopra il raggio della torcia. Cambiò immediatamente espressione. Infilò la mano nella coppa e ne tirò fuori qualcosa. L'ammirò e la rimise a posto. «Per tutti i santi!» esclamò quasi senza fiato, scioccato. Ma immediatamente si pentí dell'imprecazione e, sempre stringendo in mano la torcia, si fece goffamente il segno della croce. Quindi rivolse di nuovo il raggio di luce sulla coppa e scosse il capo incredulo. Alla fine, lesto, cavò di tasca un sacchetto di tela a stringibecco, lo depose accanto a sé e, con cura estrema, vi versò dentro il contenuto della coppa; quindi tirò forte il laccio chiudendolo e se lo rimise in tasca, dove gli formò un rigonfio come un gran pacco di caramelle. Rimise a fatica la coppa al suo posto, riavvitò la piastra e indietreggiò lungo il tunnel a quattro zampe.
Moriva dalla voglia di fumare un sigaro. Quattro ore piú tardi Hugo Kramer s'arrampicò su per la biscaglina a bordo della Kingfisher mentre il suo timoniere metteva il peschereccio sottovento in attesa del suo ritorno. Dalla plancia Sergio gridò: «E' partito Johnny? » «Ja! A quest'ora dovrebbe essere già a Città del Capo. Quel Beechcraft è un aereo veloce. » « Bene. » «E a te com'è andata? » chiese Hugo. « Vieni. Ti faccio vedere. » Lo condusse nella sua cabina dietro al ponte di comando e chiuse a chiave la porta. Quindi andò ai due oblò e tirò ben bene le tende prima di andare alla scrivania e d'accendere la lampada che v'era sopra. « Siedi. » Indicò la sedia di fronte a lui. « Bevi qualcosa? » «Avanti, su», esclamò Hugo, impaziente. «Piantala di perder tempo, fammi vedere. » «Al solito! » fece Sergio, in tono rattristato. «Voi tedeschi avete sempre fretta. Non vi date mai un attimo di respiro per godervi la vita. » «Taglia corto! » Hugo gli piantò addosso quegli occhi slavati e Sergio comprese immediatamente che quell'uomo poteva essere pericoloso come uno squalo tigre. Pericoloso in maniera fredda, senza passione, senza malizia. Fu sorpreso che non se ne fosse reso conto prima; doveva andarci cauto con quello lí, decise. Aprí il cassetto chiuso a chiave e tirò fuori il sacchetto di tela. Allentò il laccio e versò i diamanti sul sottomano. Le piú piccole erano grandi quanto la capocchia d'un fiammifero, forse zero ottanta di carato, e la qualità piú mediocre era il nero granulare, pietre brutte insomma e piccole, per uso inistriale, perché Kammy era stato attento a non sottrarre solo le pietre migliori, in modo da non alterare vistosamente i risultati del lavoro di recupero della Kingfisher e non destare sospetti. C'erano centinaia di piccoli cristalli e schegge che sul mercato industriale avrebbero fatto soltanto poche sterline, ma c'erano anche altre pietre d'ogni qualità e forma e misura, grandi come piselli o biglie di vetro e alcune anche piú grandi. Alcune erano dei perfetti ottaedri, altre erano levigate, scalfite o di forma indefinita. Formavano un mucchietto dagli incerti bagliori al centro del sottomano e dovevano essere in tutto un cinquecento o poco meno; eppure tutte quante scomparivano nei confronti di quella che si trovava al centro del mucchietto, sul quale risaltava come l'Everest risalta sui monti circostanti. Esistono diamanti eccezionali, tanto grandi e insoliti da diventare leggenda, diamanti che hanno un nome e una storia riconosciuta e ricca di fantasia. Le grandi «pietre di paragone», come vengono chiamate, diamanti di prima acqua il cui peso, una volta tagliate e rifinite, supera i cento carati metrici. L'Africa ne ha prodotti parecchi: lo Jonker Diamond, per esempio, di 726 carati da cui è stato tagliato un brillante di 125 carati che la regina del Nepal porta appeso al collo; il Jubilee Diamond, superbo, di 245 carati, dal fuoco incredibile, ricavato da una pietra di 650; quindi il piú grande di tutti in assoluto, una mostruosa pietra grezza di 3106 carati, il Cullinan, da cui sono state ricavate due «pietre di paragone»: il Great Star of Africa di 530 carati e il Cullinan II di 317 carati. Ambedue queste pietre arricchiscono la raccolta dei Gioielli della Corona d'Inghilterra. E ora, là sulla scrivania di Sergio Caporetti, ce n'era uno che poteva aggiungersi all'elenco come un'altra «pietra di paragone». « L'hai pesato? » chiese Hugo. Sergio annuí. « Quanto? » « Trecentoventi carati », rispose Sergio a bassa voce. «Cristiddio! » sibilò Hugo, e Sergio si segnò per dissociarsi dalla bestemmia. Con reverenza somma, Hugo Kramer si chinò a raccogliere il grande diamante. Gli riempiva per intero il palmo della mano, e il piano di sfaldamento che costituiva la base era levigato e limpido come la lama di un'accetta.
Esistevano certo diamanti anche piú grandi, quello però aveva un aspetto singolare che lo distaccava completamente dagli altri e gli conferiva un valore particolare. Il colore era quello azzurro sereno della volta del cielo estivo. Da sola, quella pietra avrebbe coperto metà del costo della costruzione della Kingfisher... se l'avesse venduta chi quel costo aveva dovuto sostenere. Il tedesco la rimise sulla scrivania e s'accese una sigaretta senza staccare nel frattempo gli occhi dal diamante. «Il giacimento è... dunque... piú ricco, molto piú ricco di quanto avessimo mai immaginato. » Sergio annuí. «In tre giorni abbiamo preso diamanti che potevo sperare di vedere solo in cinque anni di lavoro», proseguí Hugo, scegliendo intanto dal mucchio le altre pietre piú grandi e allineandole dall'altra parte della scrivania, in ordine approssimativo di grandezza. Sergio aprí il cassetto della scrivania e tirò fuori la scatola dei sigari per le grandi occasioni. «Dobbiamo informare il capo», decise Hugo. Prese ora a disporre i diamanti grandi in cerchio intorno alla grossa pietra azzurra, e intanto rifletteva. «Bisogna che sappia quanto è ricco il giacimento prima che parli con Lance. Deve infatti organizzarsi di conseguenza. E lui riuscirà a farlo, perché è un uomo abile. » «E queste? » Sergio indicò il tesoro che era lí sulla scrivania. « Le porti via? » Hugo esitò. «No», decise alla fine. «Non riusciremo mai a liberarci di questo Grande Azzurro attraverso i soliti canali, troppo grande, troppo singolare. Lo teniamo qui a bordo. Quando il capo comanderà di nuovo la Van Der Byl Diamonds... be', allora potrà registrarlo e cosí tutto sarà regolare. Non ci saranno problemi. » S'alzò. «Abbine cura. Ora devo affrettarmi se voglio mandare in tempo un messaggio a Città del Capo. » «La società porta il nome di mio padre, è questo il punto. » Con la voce resa quasi roca dall'emozione, Benedict si guardava le mani. « Devo rispettare la memoria di mio padre. » «Bene, ragazzo mio. » Larsen gli appoggiò una mano sulla spalla. «Davvero non so cosa dire. Di questi tempi l'onore è diventato una cosa rara e preziosa. » Con l'altra mano stava schiacciando freneticamente il campanello sulla scrivania dietro di lui. Doveva mettere immediatamente nero su bianco, prima che il giovanotto cambiasse idea. «Ho voluto metterla in guardia. Mio padre e io non abbiamo mai creduto in questo progetto di ricerca sottomarina. Lance ci ha forzato la mano... » «Sí, certo, sí», convenne Larsen, e si rivolse al suo segretario, che s'era precipitato nel suo ufficio in risposta alla chiamata: «Ah, Simon. Il prestito alla Van Der Byl Diamonds. Vuole stendere subito il testo di un accordo? Benedict van der Byl risponderà del prestito e anche degli interessi, che ammontano a parecchio». Roteando gli occhi, Larsen cercò di far comprendere al suo segretario l'estrema urgenza della cosa. Il giovanotto comprese e quindici minuti dopo gli mise davanti sulla scrivania la bozza dell'accordo. Larsen svitò il cappuccio della stilografica e la porse a Benedict. Dopodiché lui e tre dei suoi giovani funzionari accompagnarono il giovane van der Byl oltre la porta a vetri della banca fin sulla strada, addirittura fino alla Rolls, che aspettava nel parcheggio privato di Adderley Street. Benedict s'accomodò sul sedile posteriore, rispose ai saluti dei funzionari della banca e picchiò sul vetro alle spalle dell'autista. Mentre s'allontanavano, Ruby Lance gli mise una mano sul braccio e glielo strinse. « Tutto a posto? » Benedict sorrise, felice. «L'ho ringiovanito di cinque anni, il vecchio Larsen.
A momenti si rompeva il collo tanto s'è precipitato ad acconsentire. » «Quindi ora abbiamo in mano tutto. » Ruby gli si accucciò ancor piú vicino sulla morbida pelle del sedile. Benedict annuí e controllò l'ora. «La riunione è tra cinque minuti. Io entrerò dall'ingresso principale ma voglio che tu prenda l'ascensore privato giú nel garage e vada ad aspettarmi nel mio ufficio. Noi staremo nella sala delle riunioni. Al momento giusto ti chiamo. » Procedendo solenne, la Rolls fece il giro dell'Herrengracht e andò a fermarsi in doppia fila davanti all'edificio. L'autista scese e aprí lo sportello e prima di scendere Benedict rivolse un gran sorriso a Ruby. «Questo sarà uno dei momenti cruciali della mia vita», disse a bassa voce. « Questa volta lo stendo quel bastardo. » «T'aspetto», rispose Ruby, e lui smontò. Attese che la macchina imboccasse la rampa del garage, dopodiché attraversò il marciapiede ed entrò nel grattacielo. A passo deciso raggiunse gli ascensori, la bocca distorta in un sorrisetto di tesa eccitazione. La Sala Riunioni aveva il soffitto altissimo e le grandi finestre panoramiche davano sulla grossa montagna squadrata dai fianchi scoscesi che scendono ripidi fino ai declivi boscosi sui quali s'inerpicano le prime case della città. Johnny Lance era in piedi al capo del tavolo. Era dimagrito in quegli ultimi giorni, tanto che sotto la camicia bianca di seta le spalle sembravano ora ossute e curve. S'era liberato della giacca e aveva allentato il nodo della cravatta. Zigomi e mascella gli formavano bruschi angoli accentuati e non certo addolciti dai segni profondi che la stanchezza gli aveva lasciato sotto gli occhi. Con le mani affondate nelle tasche della giacca stava parlando senza guardare il foglio d'appunti che aveva davanti sul tavolo. «I nostri costi di lavorazione rasentano dannatamente le cento sterline l'ora, dico bene, Mike?» Michael Shapiro annuí. «Bene, abbiamo esplorato il vallo principale di Suicide per sessantasei ore e abbiamo ricavato duecento carati della pietra piú straordinariamente vile che abbia mai visto. Se ricaveremo mille sterline in tutto da quella roba sarà anche molto. E questo contro una spesa di seimilacinquecento.» S'interruppe e guardò gli altri seduti intorno al tavolo. Michael Shapiro scarabocchiava sul suo blocco di carta con ostinata concentrazione, Tracey van der Byl era pallida e non gli staccava gli occhi di dosso; era chiaramente invasa da profonda tenerezza e impotente compassione. Benedict van der Byl guardava invece fuori della finestra verso la montagna e, stravaccato nella poltrona, ascoltava tranquillo, con un sorrisetto sulle labbra. «Il vallo principale di Suicide è una delle cinque parti piú promettenti di tutta la concessione. Bene, non ha dato niente, quindi anche tutto il resto certamente non darà niente. Abbiamo le altre due concessioni, è vero, i giacimenti originali, da esplorare, ma ci vorranno tre o quattro giorni per spostare la Kingfisher lungo la costa. » Johnny fece un'altra pausa e Benedict si girò nella poltrona, sempre con quel sorrisetto sulle labbra. « La data della prossima scadenza degli interessi è il trenta, cioè fra tre giorni. Dove troverai centocinquantamila rand? » disse. «Già.» Johnny scosse il capo. «Credo di riuscire a persuadere Larsen a concedere un rinvio di qualche settimana. Deve concedercelo se vuole proteggere i propri interessi. » «Un momento», mormorò quasi Benedict. «Larsen non c'entra. » Johany lo guardò stupito. « Spiegati. » «Ho rilevato il prestito di Larsen», disse Benedict. «E non ho intenzione di concedere rinvii. » «Larsen non avrebbe ceduto niente senza prima avvertirmi.» Johnny era profondamente colpito, per lui quella era una pugnalata. « Shapiro? » Benedict si rivolse a Michael. « Mi dispiace, Johnny. E' vero.
Ho visto il documento. » «Grazie, Michael. » Il tono di Johnny era amaro e carico d'accuse. « Grazie per avermi avvertito. » Michael lo guardò con aria rattristata. Quindi protestò: «Me l'ha mostrato qualche minuto prima di questa riunione, Johnny. Giuro che non sapevo! » «Ottimamente.» Benedict si drizzò nella poltrona e si schiarí la voce. « Precisiamo innanzi tutto alcune cose. Tu hai rovinato la società di mio padre, Lance, ma, grazie al cielo, io forse sarò in grado di salvare la situazione. Chiamalo sentimentalismo o quel che vuoi, in cambio però voglio le tue azioni. E anche le tue. » S'era rivolto a Tracey con un cenno del capo. «Niente da fare», rispose la sorella, decisa. «Ottimamente», ripeté Benedict, e sorrise. «Allora chiamerò Johnny Lance a rispondere di tutto. In questo modo avrò lo stesso in mano la società, ma farò in modo che lui rimanga un fallito per tutto il resto della sua vita. » Tracey si portò una mano alla gola e guardò Johnny. Aspettava un cenno da lui. Seguí invece un lungo silenzio, quindi Johnny Lance abbassò lo sguardo. «Ho sempre quei tre giorni», disse poi, con voce roca e stanca. «E tre saranno.» Benedict sorrise, gelido. «Fa' pure.» Johnny raccolse le carte e se le mise sotto al braccio; tolse la giacca dal sedile della sedia e se la buttò svogliatamente sulle spalle. «Aspetta», disse Benedict, perentorio. «Cos'altro c'è?» Il sorriso di Johnny era una smorfia. «Non ti sei divertito abbastanza? » Benedict sollevò il ricevitore del telefono che era sul tavolo e compose lesto un numero. «Cara, vuoi venire, per cortesia?» Mise giú e sorrise a Johnny. Poco dopo la porta della sala s'aprí e lui andò incontro a Ruby Lance. La baciò sulla bocca. Poi tutt'e due, la mano nella mano, si girarono a guardare Johnny. «La società non è l'unica cosa che ti porto via», annunciò Benedict. «Chiedo il divorzio.» Ruby guardò Johnny dritto negli occhi. «Benedict e io ci sposeremo. » Tutti gli sguardi erano ora rivolti verso Johnny che arretrò di un passo, guardò i due, prima l'uno poi l'altra, quindi tese le labbra e corrugò la fronte. Tracey vide la rabbia montargli dentro e si girò verso il fratello: stava quasi chino in avanti, con le labbra che gli tremavano per la tensione dell'attesa e gli occhi che mandavano lampi di trionfo. Avrebbe voluto allora lanciare un urlo per fermare Johnny, impedirgli di cadere nella trappola che Benedict gli aveva teso con tanta cura. Johnny fece un passo avanti, quasi alzandosi in punta di piedi, e stava per rendere la propria sconfitta completa e irreparabile quando lo stesso Benedict rovinò tutto per il desiderio di strafare. «Scacco matto, Johnny Lance», gongolò. Il viso di Johnny non tradí lo sforzo di volontà che stava compiendo per non perdere il controllo; il passo avanti che fece parve del tutto naturale. Proseguí dritto verso la porta. «La casa è a tuo nome, Ruby, naturalmente, quindi per cortesia manda tutta la mia roba al Tulbagh Hotel», disse, calmo. Nel passare davanti ai due si fermò. «Naturalmente vorrai proteggere la tua reputazione, quindi non ti denuncio per adulterio. Chiamiamolo abbandono del tetto coniugale. » «Ti stai mangiando il fegato», ironizzò Benedict. «Lance non è riuscito a tenersi la sua donna! Van der Byl gliel'ha portata via! Avanti, su, denunciala pure per adulterio, che tutti sappiano. » «Come vuoi», ribatté Johnny. Lasciò la Sala Riunioni e si diresse verso gli ascensori. Si buttò sul letto cosí com'era, vestito, e si stropicciò gli occhi. Si sentiva confuso e gli mancava la terra sotto i piedi; la prontezza con cui di solito affrontava e risolveva i problemi era svanita, la mente gli s'era definitivamente intorpidita.
Quel problema lí, poi, era cosí arduo e complesso da farlo sentire come se si trovasse in una giungla africana e cercasse di farsi largo con un machete che non tagliava. Senza aprire gli occhi allungò la mano verso il telefono. La telefonista dell'albergo rispose immediatamente. Le diede un numero di Kimberley. «Una chiamata personale per Ralph Ellison. » «Ci sarà da attendere un quindici minuti», lo avvertí la telefonista. «Okay. Vuol dire per cortesia al servizio di camera che desidero un Chivas Regal con soda?» Ne aveva sentito il bisogno all'improvviso, forse per stordire il dolore. «Gli dica doppio, tesoro. No, due. Doppi. » Aveva vuotato ambedue i bicchieri quando gli passarono Kimberley. « Ralph? » «Johnny! Carino da parte tua chiamarmi.» C'era come un sottofondo sonoro a quelle parole di circostanza di Ralph Ellison, come una risata lontana, e Johnny capí immediatamente che la notizia aveva spiccato il volo. Maledizione, era stato troppo lento. Ovvio che Benedict cercasse di tagliargli i ponti. «V'interessa sempre l'affare della concessione su Thunderbolt e Suicide? » Sparava cosí, alla cieca, per disperazione. « Certo, lo sai che ci interessa sempre. » « Il prezzo è due milioni. » Ormai era scoraggiato; si distese e chiuse gli occhi di nuovo. Sapeva che Ralph avrebbe profittato dell'occasione per vendicarsi: non trascini uno in tribunale e lo umili lasciandotelo poi amico per il resto della vita. E infatti: «Due milioni? Be', è un pò tantino per un giacimento che rende duecento carati di diamantini industriali ogni diecimila carichi, proprio tantino. Naturalmente non vorremmo neppure quella tua corazzata, preferiremmo impiegare la nostra flotta». Chiaramente Ralph stava gongolando. « Diciamo cinquanta. Centomila, non un centesimo di piú, Johnny. » «Okay, Ralph. » Il tono di Johnny era stanco. «Grazie lo stesso. Beviamo qualcosa insieme, prima o poi? » «Quando vuoi, Johnny, quando vuoi. Chiamami pure.» Rimesso a posto il ricevitore, rimase a fissare il soffitto. Aveva sentito dire che sulle prime un colpo d'arma da fuoco intontisce: bene, lui in quel momento si sentiva intontito. Aveva perso ogni energia e, anche, il senso dell'orientamento. Il telefono squillò. Rispose. La telefonista chiese, premurosa: «Finito? » «Direi proprio di sí.» La ragazza parve un attimo perplessa. « Desidera altro? » « Sí, tesoro, della cicuta. » « Prego? » « Altri due doppi whisky, per cortesia. » Li bevve nel bagno e mentre s'asciugava bussarono alla porta. S'avvolse l'asciugamano intorno alla vita e andò ad aprire. Tracey entrò chiudendosi la porta alle spalle. Rimasero lí a guardarsi a lungo. Gli occhi di lei erano grandi e neri, e riflettevano fedelmente l'angustia di lui. «Johnny.» Aveva la voce rauca. Allungò una mano e gliela poggiò sul petto. Di colpo, in lui la tensione cessò. Le s'avvicinò e le poggiò il capo sulla spalla. Sospirò, un sospiro lungo, rotto come un singhiozzo. «Vieni», disse lei, e lo condusse verso il letto. Poi andò alla finestra a tirare le tende. E lí, nella calda e sicura penombra della stanza, si tennero abbracciati come tanti e tanti anni prima. Stretti l'uno all'altra, cosí da togliersi il respiro a vicenda, non fu necessario parlare. Quando poi divennero amanti fu come se avessero atteso quel momento tutta la vita.
Dopo lui giacque lí con lei tra le braccia e a poco a poco si sentí ritornare le forze, come se le attingesse da lei. Quando si mise a sedere in mezzo al letto l'espressione smarrita e confusa era quasi scomparsa dal suo volto. La mascella sporgeva e gli occhi gli lucevano. «Abbiamo ancora tre giorni di tempo», disse. «Sí.» Gli sedette accanto. «Presto, Johnny, presto. Non perdere un solo istante. » «Porto via la Kingfisher da quel posto maledetto. Giuro che troverò quei diamanti. Perché ci sono, lo so che ci sono. La metto dritto tra le fauci di Thunderbolt e Suicide e troverò quei maledetti diamanti. M'accechino se non li trovo. » Poggiò i piedi a terra, s'alzò e, data un'occhiata all'orologio, raccolse i vestiti. «Le quattro. Arriverò a Cartridge Bay verso sera. Per piacere, Tracey, chiama l'ufficio comunicazioni e di' loro di avvertire per radio Cartridge Bay d'illuminare la pista, e il Wild Goose di tenersi pronto. » «Telefono da qui. Poi farò un bagno. Tu vai, non perdere tempo», rispose lei annuendo. Lui le guardò ammirato il corpo. Allungò una mano e toccò, quasi con timidezza, il gran seno candido. « Sei bella. Detesto partire proprio ora. » « Vai, ora. Al tuo ritorno ritroverai tutto. Intatto. » «Non è andata come m'aspettavo. Non è stato bello come l'avevo sognato. » Irritato, Benedict passeggiava su e giú per lo studio del Vecchio. Giunto davanti alla finestra si voltò e rimase a fissare la montagna in fondo alla valle. «L'hai ferito. L'hai schiacciato.» Ruby s'agitava inquieta nella poltrona dall'altra parte della stanza. Aveva ripiegato le lunghe gambe dorate sotto di sé e stava lí, in quella grande poltrona, quasi in una posizione di difesa, acquattata come un felino. Era preoccupata e lo si capiva dalle minutissime zampe d'oca agli angoli degli occhi e dal fatto che protundeva le labbra. Avrebbe dovuto immaginare la reazione di Benedict, avrebbe dovuto capire che il momento di trionfo non sarebbe mai stato all'altezza del desiderio, dell'aspettativa, e avrebbe dovuto capire anche che alla vendetta segue sempre disgusto e senso di delusione. Si rese dunque conto che per ora la cosa saggia da fare per lei era di lasciarlo solo. Sarebbe stato meglio se non l'avesse accompagnato nella vecchia casa su a Wymberg Hill. Inquieta, s'alzò. «Caro... » Gli s'avvicinò. «Ora me ne vado. Vado a casa a impacchettare la sua roba. Me ne libero per sempre, finalmente. Cancello ogni ricordo di Johnny Lance. D'ora in poi ci saremo solo tu e io. Insieme. » S'alzò in punta di piedi per dargli un bacio ma lui girò il viso dall'altra parte. «Ah, cosí ora te ne vai! » Con aria petulante, storcendo le labbra in una smorfia di disprezzo. «Siamo tutt'e due stanchi, caro. Riposiamo un pò. Torno piú tardi. Stasera. » «Cosí ora dai ordini, vero?» Benedict fece una risatina odiosa. «Caro... » «E piantala con questo caro. Abbiamo fatto un tentativo e non è riuscito.
Tu dovevi essere la mazza con cui fracassargli il cranio. E sai una cosa? Non glien'è fregato niente. L'ho guardato bene: era contento. Sí! Era piú che felice di liberarsi di te! » « Benedict. » Ruby indietreggiò. «Di' un po'.» Le s'avvicinò e accostò il viso al suo. «Se sei tanto ansiosa d'andartene perché non muovi quelle chiappe e non te ne vai davvero... senza fermarti? Se non ti vuole lui... ebbene, certo come la morte che non ti voglio neanche io.» «Benedict..» bisbigliò lei. Il suo viso aveva perso colore, era bianco come un lenzuolo. Lo guardava inorridita e vedeva i propri sogni crollare uno per uno. «Tu non dici sul serio. » «No? Davvero?» Buttò il capo all'indietro e rise di nuovo. «Senti, hai dei bei diamanti e una pelliccia di visone, una grande casa a Bishopcourt... be', è piú che sufficiente per una marchetta. » « Benedict... » L'insulto l'aveva lasciata senza fiato. Ma lui non ascoltava certo. «Ho dimostrato che potevo averti, no? Ho dimostrato che potevo portarti via a lui... e questo è stato tutto. Ora, perché non fai la brava e scompari una volta per sempre? » «Il trucco alla macchina. Ricordati che so tutto di quella faccenda della Kingfisher. » Fu uno sbaglio, perché fino a quel momento forse avrebbe avuto ancora qualche possibilità. La faccia di Benedict cambiò, il sangue v'affluí, e la voce, quando parlò, era inceppata dalla rabbia; sembrava persino che gli si fossero gonfiate le labbra. «Provaci», sibilò. «Tu provaci. Ti daranno minimo quindici anni. Già, perché tu ci sei dentro fino al collo, mia cara. Come me, tale e quale. Pensaci, bellezza: quindici anni in una ricca prigione femminile. E pensa anche a questo... » Le mise di piatto la mano davanti alla gola, come una lama. «T'ammazzo. Lo giuro su Dio. T'ammazzo con le mie mani. E sai che lo faccio, ormai mi conosci abbastanza. » Lei arretrò e lui avanzò, incalzandola, sempre con la mano alla gola. « Sei stata pagata, ora vattene. » Gli s'attardò davanti ancora qualche secondo e lui non era stato reso ancora tanto cieco dalla rabbia da non vedere negli occhi di lei la paura mischiarsi a qualcos'altro, uno sguardo che parve trasformarglieli in due fessure. Anche le labbra s'erano ritratte e mostravano ora i denti piccoli e bianchi. « Va bene. Vado. » Uscí dalla stanza, a passo deciso, coi lunghi capelli biondi che le oscillavano sulle spalle. Guidò molto piano perché le lacrime le appannavano la vista. Da dietro due automobilisti le suonarono ma lei continuò a guardar fisso la strada stringendo freneticamente il volante. Seguiva il De Waal Drive lungo le pendici della montagna. Prima di arrivare all'università prese una laterale e s'inoltrò tra i pini finché raggiunse il parcheggio dietro il Cecil Rhodes Memorial. Smontò e scese fino all'ampia terrazza sotto il colonnato greco, circondata dal quale, lassú in alto, sul suo imponente piedistallo, la statua scruta con sguardo eterno l'orizzonte riparandosi gli occhi con la mano. S'avvicinò al parapetto e guardò verso i lontani e azzurri picchi dell'Helderberg. Incrociò le braccia sul petto perché attraverso l'abito leggero di seta il vento era freddo come la sua angustia. Alla fine le lacrime traboccarono, correndole giú per le guance fino a gocciolare sul davanti del vestito di seta. Erano lacrime di autocommiserazione ma anche e soprattutto di rabbia. Una rabbia gelida come ghiaccio secco. «Quel porco», bisbigliò a un certo punto con labbra tremanti. Poco discosti, seduti sul parapetto con le gambe ciondoloni nel vuoto e abbracciati stretti nell'abbandono del primo amore, c'erano due giovani studenti. Si voltarono a guardarla.
Il ragazzo bisbigliò qualcosa e la ragazza si mise a ridere con innocente crudeltà, ma quando Ruby le rivolse un'occhiata velenosa distolse subito lo sguardo. Alla fine, imbarazzati, smontarono dal parapetto e stallontanarono, lasciandola sola. Le minacce di Benedict non la spaventavano: non aveva nessunissima intenzione di farsi da parte, niente affatto; la sua unica preoccupazione, semmai, era di agire in modo da ferirlo in maniera definitiva, mortale. Le conseguenze, poi, non le interessavano, le premeva solo scegliere il mezzo piú rapido e implacabile per vendicarsi. E quale fosse questo mezzo le apparve subito chiaro man mano che le nere nubi che le offuscavano la ragione cominciarono a disperdersi. Johnny stava al Tulbagh Hotel. Tornò quasi di corsa alla macchina, con quella fiamma gialla ch'erano i suoi capelli che le fileggiava dietro come quella della lancia d'un cavalleggero. Ora guidò a forte velocità finché, al centro, non incontrò il traffico dell'ora di punta. Mentre, divorata dall'impazienza, avanzava nel lento fiume di macchine, le lacrime sul viso le s'asciugarono; ma la loro traccia rimase. Erano le cinque passate quando parcheggiò nella zona riservata allo scarico delle merci davanti al Tulbagh ed entrò di corsa nell'atrio dell'albergo. «Il numero della stanza di Johnny Lance», chiese alla ragazza al banco del ricevimento. «Il signor Lance ha lasciato l'albergo un'ora fa.» La ragazza studiò con curiosità quel bel viso col trucco rovinato. « Ha lasciato detto dove andava? » le ringhiò contro Ruby, indisposta dalla delusione che le montava dentro. « No, signora. Aveva fretta. » «Maledizione!» Ruby era davvero indispettita. «Maledizione!» S'allontanò dal banco, indecisa sul da fare. Forse Johnny era andato in ufficio. In fondo all'atrio le porte dell'ascensore s'aprirono e Tracey Hartford venne fuori dalla cabina. Nonostante l'impazienza, Ruby ebbe il tempo di notare la radiosità che sembrava emanare dal viso di Tracey: di certo aveva appena lasciato il letto dell'uomo amato. Su chi poi questi potesse essere non esisteva il minimo dubbio. Lo choc della scoperta la paralizzò. Immediatamente dopo, però, avvertí l'impulso d'attraversare l'atrio e d'andare a strappare con le unghie quel sorriso dalla faccia di Tracey, ma si controllò e quando quest'ultima stava per varcare la porta a vetri le tagliò la strada. « Dov'è Johnny? » chiese, senza tanti preamboli. Tracey si fermò di colpo e il suo sobbalzo fu una conferma al sospetto di Ruby. «Dov'è, maledizione?» ripeté questa, a voce bassa ma stridente e fremente per l'emozione. «Non è qui.» Tracey si riprese, mascherò immediatamente la propria sorpresa. «Dov'è andato? Devo vederlo. » «A Cartridge Bay. In aereo.» «Quando è partito? E' importante, terribilmente importante. » « Un'ora fa. Sarà già in volo ormai. » «Può mandargli un messaggio?» Nella sua impazienza Ruby le afferrò il polso e glielo strinse, tanto da lasciarle il segno. « Posso chiamarlo per radio... » Tracey liberò la mano. «No! » Ruby non voleva certo che il suo messaggio venisse urlato nell'etere perché tutti potessero sentirlo. «Può raggiungerlo? Noleggiare un aereo? » Tracey scosse il capo. « Col buio non fanno decollare nessun apparecchio per una destinazione non programmata in anticipo. » «E allora deve raggiungerlo in macchina. Deve andare da lui. » «Ma perché?» Tracey la guardava perplessa, confusa da quella strana insistenza, e notò la traccia delle lacrime su quel volto sconvolto. « Ci vogliono minimo otto ore. » «Glielo dirò, ma non qui. Possiamo andare nella stanza di Johnny. » Al ricordo del letto disfatto Tracey esitò, ma in quel momento entrò nell'atrio il direttore dell'albergo e, risollevata, si rivolse a lui.
All'improvviso il Beechcraft scivolò d'ala e perse quota e, d'istinto, Johnny corresse l'inclinazione e lo rimise in linea, poi guardò il pannello degli strumenti in cerca d'una spiegazione. Non ne trovò nessuna. Guardò allora oltre l'ala e solo ora notò la polvere laggiú, nelle grandi pianure sotto di lui. Si muoveva bassa sul terreno in lunghe strisce, come nebbia, e il sole al tramonto la tingeva di viola e d'oro. Alquanto allarmato, scrutò l'orizzonte davanti a sé e la vide avanzare, giú dal nord, come un'immensa catena montuosa semovente. Mentre guardava, la gran massa passò davanti al sole basso trasformandolo in una palla rosso fuoco. Nella carlinga la luce cambiò, si diffuse un insolito bagliore, come quando s'apre lo sportello d'una fornace. Investito da un altro soffio di vento forte, il Beechcraft s'inclinò di nuovo sfuggendo al controllo. In quello stesso istante la radio si svegliò con una sventagliata di scariche: «Zeta Esse Pi Ti Baker, qui è l'Alexandra Bay Control. Rispondete, prego». In quella tempesta di scariche la voce del controllore era quasi incomprensibile. Johnny allungò la mano per abbassare l'interruttore e rispondere ma si fermò a metà strada. Rifletté. Concluse che certamente stavano chiamandolo per ritirargli l'autorizzazione di volo. Quella laggiú nel deserto era una grande tempesta di vento, vento del nord, quindi volevano deviarlo su un'altra rotta. Controllò l'ora. Ancora venti minuti di volo per Cartridge Bay. No, stava andando dritto nell'occhio del vento, quindi ci avrebbe messo di piú, venticinque o trenta minuti. Cercò subito la linea della costa sulla destra e, nel porpora della sera che andava addensandosi, scorse le lunghe strisce bianche dell'onde spumeggianti. La costa era ancora visibile. Lo sarebbe stata ancora per un'altra ventina di minuti. «Zeta Esse Pi Ti Baker, qui è Alexandra Bay. Ripeto, Zeta Esse Pi Ti Baker, rispondete. » L'agitazione nella voce del controllore era chiara nonostante le scariche. Esisteva la vaga possibilità di arrivare a Cartridge Bay, affrontare la tormenta e vincere. Poteva spostarsi verso ovest e arrivarci dal mare, incontrando le luci della Kingfisher e, orientandosi su di esse, scivolare sotto le nubi di polvere. Se non ci riusciva poteva sempre tornare indietro col vento favorevole. La radio fischiava e gracchiava e la voce del controllore a volte si perdeva tra le interferenze e altre arrivava chiara e forte. «... annullata. Ripeto: l'autorizzazione del vostro volo è stata annullata. Mi sentite, Zeta Esse Pi Ti Baker? Rispondete, prego. Beaufort forza sette. Visibilità zero nella zona della tormenta di polvere. Ripeto, visibilità zero nella... » Il vento avrebbe soffiato per giorni ormai, portandosi via la sua ultima possibilità di sondare quel vallo tra Thunderbolt e Suicide. Spense la radio tagliando ogni contatto con il controllore e immediatamente nella cabina seguí uno strano silenzio. Si sistemò meglio nel sedile, abbassò alcune leve e seguí gli aghi dei contagiri che si spostavano lenti in avanti. Ora si trovava a trecento piedi di quota circa e il Beechcraft sobbalzava dibattendosi come una macaira all'amo. Lo pilotava con l'aiuto dei soli strumenti perché fuori era ormai completamente buio.
Non riusciva a vedere la punta delle ali ma sul suo capo le stelle erano ancora visibili. Stava cavalcando la punta della tormenta di vento e le nubi di polvere gli si paravano davanti, correndogli incontro e impedendogli la rotta per Cartridge Bay. Ogni pochi secondi lanciava un'occhiata davanti a sé sperando di scorgere le luci, dopodiché posava di nuovo lo sguardo sul pannello degli strumenti. «Qui», pensò, incupito. «Dovrebbe essere qui. Dovrei esserci sopra. Ancora trenta secondi e la mancherò. » Guardò di nuovo fuori ed eccola laggiú, dritto davanti: la Kingfisher, con tutte le luci accese. Un raggio di speranza nel buio. Sembrava navigare in tutta tranquillità perché il vento non aveva avuto ancora il tempo d'investire, sconvolgendolo, il mare. Sfrecciò sopra la nave, sfiorandone quasi la sovrastruttura, quindi cercò ansioso a terra la pista illuminata. Nel nero assoluto della notte questa si presentò come una striscia un tantino appena meno buia dello sfondo. Puntò dritto su di essa e la vide cambiare in una doppia fila di lampade a olio che fumigavano e s'agitavano al vento. Discese, immediatamente, ma non abbastanza cosí che il colpo all'atterraggio per poco non gli portò via il carrello. Quindi si ritrovò a rullare sobbalzando sulla pista di terra battuta, con le fiamme delle lampade che scorrevano ai due lati delle ali. Il vento sfuriava contro la carrozzeria e le gomme della Mercedes che affrontava i tornanti della serpeggiante strada di montagna frúsciavano sull'asfalto all'unisono con le pulsazioni del sangue e i battiti forti del cuore. Tracey guidava con calcolato distacco e nel buio vedeva le curve balzarle incontro all'improvviso. Avvertiva poi gli scoscesi costoni che incombevano sulla strada oscurando metà del cielo notturno. L'argenteo specchio del Clanwilliam Lake rifletté le stelle, poi scomparve alle sue spalle. Scese giú dalle montagne, superò l'Olifants River e a Vanrynsdorp sostò il tempo necessario per far benzina e, alle luci della stazione di servizio, dare un'occhiata ansiosa alla carta. Con un senso di scoraggiamento, lesse i numeri delle miglia lungo il tracciato rosso della strada sapendo che la sua ansia gliele avrebbe poi moltiplicate tutte. Quando fu di nuovo al volante ebbe di fronte il vasto vuoto della Namaqualand. Vi si tuffò con la Mercedes. C'è una specie di macchina che non so come fa ma filtra e tira via i diamanti. Benedict l'ha fatta installare a Las Palmas... I fari erano stretti fasci di luce bianca e la strada una lunga striscia scura che s'estendeva all'infinito. Distolse una mano dal volante e accese una sigaretta; aveva ancora la voce di Ruby nelle orecchie: ... in mezzo a tutti c'era un diamante. Benedict l'ha chiamato il Grande Azzurro. Secondo lui vale un milione... Non poteva crederci. L'inganno, il tradimento, era tanto colossale che proprio non riusciva ad accettarne anche solo l'idea. ... Quell'italiano, il capitano, guardatevi da lui. Lavora per Benedict. Anche il tedesco Hugo... Ci sono tutti dentro. Avverta Johnny. Benedict! Vile, maledetto Benedict! Playboy, scialacquatore! Possibile che avesse organizzato e messo in atto tutto questo? Uno sbuffo di vento investí la macchina di lato cogliendo Tracey di sorpresa cosí che la Mercedes fini sulla ghiaia della spalletta ai lati dell'asfalto. Tracey riuscì a fatica a impedire alla macchina di slittare.
Dalle ruote si levò una nube di polvere e ghiaia. Finalmente fu di nuovo sulla strada, diretta verso nord. «Sta' attento, Johnny! Sta' attento! » Benedict van der Byl sedeva nella poltrona di suo padre, in casa di suo padre, ed era solo. Una solitudine che lo rodeva fin nelle piú recondite fibre del suo essere. Davanti a lui, sulla scrivania di prezioso legno di ocotea, c'erano una caraffa e un bicchiere di cristallo. Il brandy non gli era di nessun conforto, il calore bruciante che gli si trasmetteva alla gola e giú nello stomaco pareva anzi accentuare ancor piú il gelo della solitudine. Nella propria immaginazione, si vedeva come un uomo assolutamente vuoto, un guscio non contenente altro che gelida malinconia. Guardò in giro nella stanza coi suoi pannelli di legno e avverti odore di muffa e di morte. Si chiese quante volte suo padre era stato seduto in quella poltrona solo e isolato. Isolato nella sua paura del cancro che lo divorava vivo. S'alzò e prese a muoversi, irrigidito, per la stanza. Toccava i mobili come se cercasse di comunicare con l'uomo che aveva vissuto ed era morto li dentro. Poi andò alla finestra con le tende tirate e vi si piantò davanti. Il tappeto era nuovo. Sostituiva l'altro che non erano riusciti a smacchiare. «Il Vecchio l'ha pensata giusta.» Lo disse ad alta voce, che suonò strana ai suoi stessi orecchi. Poi, per un impulso, andò a passo rapido al mobile che era accanto all'enorme camino di marmo e provò lo sportello. Era chiuso a chiave. Con freddezza si tirò su e menò un calcio. Riuscí solo a scheggiarlo. Si fece indietro e menò un altro calcio. Questa volta lo scardinò. Il lungo astuccio di cuoio era sul primo scaffale, lo prese e lo portò alla scrivania. Fece scattare la serratura e aprí il coperchio. Tirò fuori la doppia canna blu del Purdey Royal e avvertí tra le dita il grasso dell'olio lubrificante. Lesse ad alta voce: « Jacobus Isaac van der Byl ». Era inciso in oro nell'acciaio, tra fagiani e cani da caccia. Sorrise. « Vecchio demonio. » Scosse il capo, sempre sorridendo come per una storiella che solo lui conosceva, poi prese a montare il fucile pezzo per pezzo. « Il vecchio bastardo le decisioni le prendeva da solo. » Continuando a sorridere, prese la doppietta e andò a piazzarsi sul tappeto nuovo. Si sistemò il calcio tra i piedi con le canne rivolte in alto quindi, piegandosi lentamente, avvicinò la bocca delle due canne alle labbra, allungò le mani e poggiò un pollice su ciascun grilletto. Li premé contemporaneamente. «Click! Click!» I due cani batterono a vuoto. Si tirò su e si strofinò le labbra per toglierne il sapore dell'olio lubrificante. Tornò a sorridere. «E' così che ha fatto!» gongolò, e guardò lo sportello scardinato del mobile dall'altra parte della stanza. Le scatolette quadrate delle cartucce erano sul secondo scaffale. Si cacciò il fucile sotto al braccio e tornò al mobile, a passo deciso ora. Tirò fuori una scatoletta di S.S.G. e l'aprí. Di colpo le mani presero a tremargli e le grosse cartucce rosse caddero a terra. Si chinò a raccoglierne due. Con emozione e timore crescenti, aprì la doppietta e infilò le due cartucce negli occhi vuoti delle due canne.
Scivolarono dentro fino al bordo di metallo della capsula con due scatti metallici. Tornò allora quasi di corsa a piazzarsi davanti alla finestra. Aveva gli occhi lucidi ora e ansimava mentre faceva scattare la sicura su Fire, quindi ancora una volta si sistemò il calcio tra i piedi. Di nuovo si mise in bocca le due canne in un osceno bacio appassionato. Allungò la mano verso i grilletti. Erano freddi e oliati. Li carezzò leggermente, avvertendo sotto i polpastrelli la sottile zigrinatura dell'incavo ed eccitandosi al contatto con quel metallo come non s'era mai eccitato al contatto col corpo d'una donna. Poi, di colpo, si tirò su. A passo incerto riportò il fucile alla scrivania e lo depose sul piano di legno scuro e lucido. Mentre si versava il brandy nel bicchiere di cristallo non staccò gli occhi dalla bella arma luccicante, affascinato. Il vapore aveva appannato le pareti a specchio del bagno e l'immagine riflessa era sfocata e incerta. Ruby Lance s'asciugò con uno dei grandi lenzuoli a spugna soffici. Non aveva fretta, voleva che Tracey avesse un vantaggio di almeno quattro ore nel suo viaggio verso Cartridge Bay. Con profondo e narcisistico piacere notò nello specchio che sul suo corpo risaltavano le chiazze rosa procuratele dall'acqua troppo calda del bagno. S'avvolse in un asciugamano e si spostò nello spogliatoio; una volta lí prese una delle spazzole montate in argento e cominciò a ravviarsi i capelli mentre andava al guardaroba per scegliere il vestito adatto. Doveva essere qualcosa di speciale, magari il Louis Feraud lungo, mai messo, di raso color giunchiglia. Ancora indecisa tornò a sedersi davanti alla toilette e iniziò il complicato rituale del trucco. Lavorò con accurata meticolosità, alla fine sorrise soddisfatta alla propria immagine. Lasciò cadere l'asciugamano, tornò davanti all'armadio e stette li, magra e nuda. Serrando leggermente le labbra nella sua concentrazione, scartò il Feraud; poi all'improvviso sorrise e prese la pelliccia di Benedict. S'avvolse in quella pallida nube di morbido pelo e alzò il bavero per incorniciare il viso. Perfetto: solo il visone e un paio di babbucce dorate. Oro pallido, un accordo perfetto con i capelli. A un tratto fu presa dall'impazienza. Uscì di corsa dalla casa e raggiunse la macchina parcheggiata sul viale. Accese i fari e poco dopo imboccò l'altro viale, quello curvo della vecchia casa accoccolata in cima alla Wymberg Hill. Mescolandosi al fruscio che la brezza levava tra i castagni che fiancheggiavano il viale, il rombo del motore non disturbò il silenzio della sera. Parcheggiò nel cortile e vide che la Rolls di Benedict era ancora nel garage e che dietro le tende della finestra dello studio la luce era accesa. La porta d'ingresso era aperta. Entrò. Le babbucce che aveva ai piedi non levarono nessun'eco nei corridoi in penombra e quando provò la maniglia della porta dello studio questa si spalancò immediatamente. Sgusciò dentro e se la chiuse alle spalle. S'appoggiò poi al battente di legno scuro. La stanza era debolmente illuminata da una sola lampada con paralume. Benedict stava seduto alla scrivania. Nell'aria c'era, forte, odore di sigaro e brandy. Aveva bevuto. Era rosso in viso e il primo bottone della camicia era sganciato. Sulla scrivania davanti a lui c'era un fucile. La presenza di quell'arma la sorprese, sconcertandola tanto da dimenticare il discorso che s'era preparata.
Benedict alzò gli occhi. Aveva lo sguardo leggermente offuscato e sbatté le palpebre. Poi sorrise, un ghigno che gli storse la bocca. Quando poi parlò la voce parve impastata. « Cosí sei tornata. » Di colpo l'odio la invase di nuovo, ma rimase impassibile in viso. « Si, sono tornata. » «Vieni qui.» Spostò la poltrona a rotelle di fianco alla scrivania. Lei non si mosse, rimase appoggiata alla porta. «Vieni qui. » La voce di Benedict suonò piú forte adesso, e a un tratto lei sorrise e obbedì. Andò a piazzarglisi davanti, avvolta nella pelliccia. « Inginocchiati! » Lei esitò. La voce di Benedict crepitò: «Giú! In ginocchio, maledizione! » Cadde allora in ginocchio davanti a lui, che si tirò su nella sedia. Stava in ginocchio, in un atteggiamento di sottomissione, con la testa in avanti in modo che i capelli dorati le formavano una cortina davanti al viso. «Avanti! Chiedi perdono. » Lentamente, lei sollevò il viso e lo guardò. Poi disse, a voce bassa: «Alle cinque e mezzo di oggi Tracey è partita per Cartridge Bay». Lui cambiò faccia. « Ha un vantaggio di quattro ore. Sarà già a mezza strada. » La guardò a bocca aperta, con le labbra rosse molli e allentate. «Sta andando da Johnny», prosegui lei. «Sa tutto della faccenda a bordo della Kingfisher. Sa tutto del grande diamante azzurro. » Prese a scuotere il capo, incredulo. «Entro l'alba di domani anche Johnny saprà tutto. Come vedi, mio caro, hai perso di nuovo. Non è così? Non riuscirai mai a batterlo, vero, Benedict? Vero, tesoro? » Stava alzando la voce, trionfante. «Tu? » ruggì lui con voce strozzata. «Tu? » Lei rise, scuotendo ripetutamente il capo, incapace di rispondere a causa della risata. Con un balzo goffo, Benedict schizzò via dalla poltrona e l'afferrò alla gola; lei arretrò trascinandolo a terra con sé. La risata le morí in gola con un gorgoglio. Rotolarono a terra. Lui le teneva la gola in una morsa che andava stringendosi sempre piú e mandava intanto un vero e proprio ululato di rabbia e disperazione. Le lunghe gambe che scalciavano impazzite, le mani affondate come artigli nel viso di lui, lei si dibatteva con tutta la forza d'un animale aggredito. Rotolarono ancora finché lui urtò con la testa contro il legno duro della scrivania. La botta gli si ripercosse in tutto il corpo e cosí allentò la stretta alla gola e, respirando alla fine a bocca spalancata, mandando un rantolo sibilante, Ruby si liberò infine con uno strattone. Rotolò lontano da lui e, con un movimento solo, ininterrotto, s'alzò in piedi. Indietreggiò col lembo del visone lacerato e i capelli scompigliati davanti al viso. Aggrappandosi alla scrivania, Benedict riuscì a tirarsi su in ginocchio. Continuava a urlare, una nota acuta, altissima, incredibile e incoerente, mentre Ruby s'allontanava da lui e correva vacillando verso la porta. Con la vista impedita dai capelli, respirando ancora a fatica, armeggiò con la maniglia. Volgeva le spalle a Benedict. Questi afferrò il fucile sulla scrivania e, sempre in ginocchio, tenne l'arma bassa, piantata contro il fianco. Avvertì il rinculo come una scattante e liquida pulsazione tra le mani e, nell'ambiente limitato della stanza, l'esplosione fu assordante. Il lampo della lunga lingua gialla di fuoco illuminò la scena come il flash d'un fotografo. La terribile scarica colse Ruby alle reni. A quella distanza la rosa dei pallini non s'allargò molto e le attraversò la spina dorsale e la pelvi come un'unica, solida e squassante palla.
Fuoriuscì lacerante dalla pancia con tale impeto da mandarla a sbattere contro la parete, dove per un attimo parve inchiodata, quindi scivolò giú in posizione seduta, rivolta verso di lui, con il visone spalancato sul davanti. Sempre in ginocchio, Benedict spostò allora il fucile, seguendo la caduta, e premé il secondo grilletto. Di nuovo quel subitaneo tuono esplose nella stanza accompagnato dal lampo. A distanza piú ravvicinata della prima, la seconda scarica prese in pieno la bella faccia abbronzata. Benedict stava nel garage, con la fronte poggiata contro la fredda lamiera della Rolls Royce. Aveva ancora in mano la doppietta e le tasche piene delle cartucce che aveva raccolto da terra prima di lasciare lo studio. Tremava tutto, come in preda alla febbre. «No! » gemeva, ripetendo piú e piú volte, appoggiato alla macchina, quel monosillabo. Alla fine, sempre tremando tutto, si mise al volante. Rimase seduto lí con la testa piegata sul volante finché l'istinto di sopravvivenza prevalse. Gli sembrava, a quel punto, di avere una sola via di scampo. Il Wild Goese aveva l'autonomia sufficiente per portarlo oltre oceano, magari nell'America del Sud. Senza dimenticare poi che c'erano quei soldi in Svizzera. Accese il motore e uscì a marcia indietro dal garage con le ruote, impazzite, che al contatto col cemento levarono del fumo azzurro che vorticò nella luce dei fari. La Mercedes avanzava sulla sabbia con i fari che sondavano inutilmente la spessa e accecante nebbia di polvere arancione che vorticava incessante sulla pista. Il vento caldo sfogava la sua sabbiosa rabbia contro la macchina, che sobbalzava sulle sospensioni. Tracey guidava tutta tesa, scrutando la strada con gli occhi che le bruciavano e che sentiva gonfi per la stanchezza e la polvere di mica. Dalla strada principale fino alla costa quella pista per fuoristrada costituiva l'unico accesso via terra a Cartridge Bay. Erano centocinquanta chilometri di tortuosa pista fatta di profondi solchi sabbiosi e pietre là dove attraversava qualcuno dei molti tratti rocciosi in salita. Il radiatore bolliva, surriscaldato dalle marce basse e dall'alto numero dei giri del motore con i quali lei affrontava quel vento lacerante e la sabbia fitta. In certi punti riusciva a seguire la pista solo infilandosi nei varchi tra la folta macchia desertica che la costeggiava. Ogni tanto, spinto dal vento, un cespo d'amaranto rotolava attraverso la pista come uno spaventato animale da pelliccia. A volte Tracey veniva presa dalla certezza di aver mancato una curva e d'inoltrarsi quindi alla cieca nel deserto, poi all'improvviso la ricomparsa dei solchi paralleli nella luce dei fari davanti a lei la rassicurava. A un certo punto uscí effettivamente di strada e subito dopo la Mercedes si fermò con le ruote che giravano a vuoto nella sabbia soffice. Fu costretta a smontare e, con le mani, dovette scostare la sabbia dalle ruote e inzeppare cespi e cespi di amaranto nella buca scavata per offrire una presa alle ruote. Quasi pianse per il sollievo quando, alla fine, la Mercedes ritornò scattante sulla pista. La lenta alba spuntò tra le nubi di polvere e lei spense i fari e continuò a guidare finché, all'improvviso e del tutto inaspettatamente, raggiunse Cartridge Bay. Di colpo le spuntarono davanti i depositi e gli alloggi. Smontò e corse verso questi ultimi. Ai suoi insistenti colpi, il capocantiere aprí la porta e rimase a lungo, a guardarla, stupito, prima di farla entrare. Lei tagliò corto alle sue domande con una propria: « Dov'è il Wild Goose? » «Ha traghettato il signor Lance alla Kingfisher, ma ora ritornato ed è attraccato al molo. » «E Hugo Kramer, il capitano?» «E' a bordo, nella sua cabina. » «Grazie.
» Tracey lo piantò lì, spalancò la porta contro il vento e corse fuori nella tormenta di polvere. Il Wild Goose era attraccato al molo, trattenuto dai grossi cavi, ma dondolava e sobbalzava impazzito nella furia del vento. C'era una passerella per salire a bordo e agli oblò c'erano luci. Tracey salì senza esitare. Hugo Kramer andò ad aprire in pigiama a strisce stazzonato. Lei lo spinse di lato ed entrò nella cabina. « Ha portato Lance alla Kingfisher? » chiese con voce acuta e tono d'accusa. « Sì.» «Imbecille, non ha capito che stava succedendo qualcosa? Grandio, altrimenti perché sarebbe arrivato in volo con questo tempo? » Hugo la guardò dritto negli occhi e immediatamente lei capì che quello che aveva detto Ruby era vero. «Non capisco di cosa parla. » «Capirà benissimo quando avrà modo di rifletterci su in galera. Credo che le concederanno minimo quindici anni di riflessione. Lance ha scoperto tutto e devo fermarlo. Mi porti alla Kingfisher. » Confuso e, anche, spaventato, Hugo fece per ripetere: « Davvero non capisco ». « Sta perdendo tempo. Mi porti alla Kingfisher. » « Suo fratello, dov'è? Perché non è venuto? » Tracey rispose, pronta: « Lance l'ha conciato ben bene. E' all'ospedale. Ha mandato me». Di colpo, Hugo si convinse. «Gott! » imprecò. «Cosa facciamo ora? Con questa burrasca. Magari fin lì ci arrivo, ma non potrò lasciare il Wild Goose. L'equipaggio non ce la fa a tenerlo con questo mare. E cosa può fare lei da sola? » « Mi porti lì, mi trasbordi sulla Kingfisher e se ne torni indietro. Ci occuperemo di Lance io e quell'italiano, quel Caporetti. Con questa burrasca è molto facile che qualcuno finisca fuoribordo. » «Ja.» Il viso di Hugo s'illuminò, sembrava risollevato. «Si, l'italiano.» Andò a prendere la cerata appesa alla paratia. Mentre l'infilava sopra il pigiama guardò Tracey con nuova fiducia e rispetto. « Lei », disse. «Non sapevo che c'era dentro anche lei. » « Credeva che mio fratello e io ce ne saremmo stati a guardare mentre un estraneo ci portava via quello che ci appartiene? » Hugo sorrise. «Lei è una donna molto decisa, devo riconoscerlo. M'ero proprio ingannato sul suo conto. » E salirono sul ponte di comando. Johnny Lance e Sergio Caporetti stavano fianco a fianco sul ponte di comando. La prua della Kingfisher affrontava le grosse ondate, vere e proprie pareti d'acqua, col vento che spazzava via gli spruzzi sparandoli contro i vetri blindati. La nave aveva mollato gli ormeggi la sera prima, lasciando le grandi boe gialle legate ai cavi delle ancore, e stava lavorando ora senza quelli che erano i suoi ceppi. Seguiva la rotta stabilita dall'elaboratore, e con l'aiuto del timone e dei motori manteneva la sua posizione rispetto al fondale nonostante le ondate e il vento. «Non ce la fa», disse Sergio, incupito. «Ci avviciniamo troppo alle rocce. La loro vista mi dà la pelle d'oca. » Nonostante il forte e sibilante vento, le nubi di polvere non arrivavano così al largo dalla costa. La visibilità era dunque di un miglio e piú, abbastanza per scorgere le sagome appaiate di Thunderbolt e Suicide. Le spumeggianti onde gonfiate dal vento s'avventavano contro di esse lanciando la bianca spuma fino a duecento piedi d'altezza, contro il cielo cupo, per poi ritrarsi esponendo la bianca roccia luccicante. «La tenga cosi», borbottò Johnny. Durante la notte avevano cambiato rotta due volte, avvicinandosi sempre piú al passaggio tra le due isole. La Kingfsher si batteva coraggiosamente contro l'insidiosa corrente della risacca che aggiungeva la propria forza a quella del vento e delle onde.
Non stavano tentando di lavorare in uno dei vasti valli del fondale; col poco tempo che gli rimaneva Johnny voleva solo esplorare quanta piú parte del giacimento era possibile. Il cattivo tempo non poteva fermarlo, anche perché la nave era stata costruita per operare con tempo anche peggiore di quello. L'apparecchiatura di compensazione aveva infilato la punta della draga sul fondo del pozzo nonostante che lo scafo s'impennasse e ricadesse continuamente, sbattendo sull'acqua. «Stia tranquillo, Sergio», lo consolò Johnny, «l'elaboratore non sbaglia. » « Il maledetto elaboratore non ha occhi e non vede quelle rocce. Io li ho... e ho anche la pelle d'oca. » Due volte durante la notte Johnny era sceso nella sala controllo e aveva ordinato all'elaboratore di riferire sul ritrovamento dei diamanti, e ogni volta la risposta era stata decisa: non una sola pietra al disopra dei quattro carati, e poche di quelle veramente preziose. «Vado a ripassare la rotta. Lei stia con gli occhi aperti», disse e, barcollando per il rollio e il beccheggio, infilò il portello in fondo al ponte di comando. Si fermò un attimo davanti al monitor e con una sola occhiata vide che la Kingfisher eseguiva le operazioni stabilite in tutta normalità. Lasciò lo schermo e si chinò sul tavolo nautico. V'era distesa sopra e appuntata la carta, su grande scala, della costa sud occidentale dell'Africa, tra Luderiotz e Walvis Bay. Segnati a matita c'erano i risultati dei sondaggi eseguiti dal Wild Goose mentre il tracciato del giro della Kingfisher si svolgeva meticolosamente tutt'intorno a Thunderbolt e Suicide. Johnny prese un compasso a punte fisse e guardò sovrappensiero la carta. A un tratto provò un moto di rabbia contro quelle due isole. Avevano promesso tanto e mantenuto così poco. Fissò a lungo i due nomi stampati sulla carta e alla fine, in un moto di rabbia, con la punta del compasso vi praticò sopra un taglio a croce. Quel gesto incontrollato disperse immediatamente la rabbia. Provò imbarazzo, era stata una reazione davvero infantile. Cercò di stirare i lembi del taglio e sotto questo a un certo punto notò un pezzo di carta che qualcuno doveva avervi infilato. Introdusse il dito nel taglio e lo tirò fuori. Lesse l'intestazione a centro pagina e scorse rapidamente le righe di sigle e numeri che c'erano sotto. L'intestazione diceva: PROGRAMMA DI RECUPERO SUBORDINATO DI KAMINIMOTO. Lo studiò, sorpreso dalle parole ma riconoscendo nei numeri un programma di elaboratore. La calligrafia era quella appuntita, europea, di Sergio Caponetti. La via piú semplice per risolvere il mistero era dunque chiedere direttamente a lui. S'avviò verso il ponte di comando. «Capo!» gli si rivolse Sergio con voce ansiosa appena lo vide. «Guardi laggiú! » Indicava davanti a sé dritto nell'occhio del vento. Johnny corse subito al suo fianco, con in mano il pezzo di carta appallottolato e ormai già dimenticato. «E' il Wild Goose», disse. Spuntato fuori dalla nebbia, il peschereccio arrancava beccheggiando verso di loro. « Cosa diavolo ci fa qui? » si chiese ad alta voce Johnny. Il Wild Goose scomparve per qualche attimo dietro un muro d'acqua, poi ricomparve sollevato a un'altezza tale da mostrare il piombo rosso della chiglia. Pattinava sulla cresta dell'onde perdendo acqua dagli ombrinali e sprofondava poi nel golfo dell'onda successiva, fino a immergere il muso nell'acqua ribollente. Avanzò rapido portato dal vento, piegò e cominciò la manovra per accostare sottovento alla Kingfisher.
«Che diavolo pensa di fare?» esclamò Johnny, dopodiche, incredulo, vide un'esile figura venir fuori dalla tuga del peschereccio e correre verso il bordo dalla parte della Kingfisher. « Ma è Tracey! » gridò. Tracey raggiunse il parapetto appena in tempo: un'altra ondata investí la prua del peschereccio rovesciandosi subito dopo su di lei. Angosciato, lui s'aspettava di vederla trascinata via, invece rimase attaccata al parapetto. Cacciatosi il pezzo di carta in tasca, uscì sulla plancia e per la scaletta si precipitò giú in coperta, saltando gli ultimi gradini e mettendosi a correre appena piombò giú. Raggiunse il bordo e guardò giú alla figura di Tracey, che aveva l'aria d'una gattina bagnata. «Torna dentro! » gridò. «Non provarci! Torna dentro! » Lei gridò qualcosa che si perse nello scroscio dell'ondata successiva e quando l'acqua si ritirò lui la vide pronta a saltare. Tra i due scafi il mare ribolliva impazzito. Scavalcò lesto il parapetto della Kingfisher e scese velocissimo giú per la biscaglina. Era ancora a una decina di piedi di distanza da lei quando Tracey si preparò a saltare. «Non farlo! » urlò, disperato. Saltò. Mancò la presa e cadde nella ribollente acqua di sotto, in mezzo ai due scafi. La sua testa ballonzolava lí sotto di lui, che si rese conto benissimo che la prossima ondata che stava per abbattersi avrebbe spinto lo scafo del Wild Goose contro quello della Kingfisher, schiacciandola in mezzo e stritolandola. Scese gli ultimi pioli, si sporse reggendosi con una mano e passò l'altro braccio intorno a lei poi, con uno sforzo che quasi gli schiantava muscoli e giunture insieme, la tirò e issò appena un attimo prima del cozzo dei due scafi. Questo fu tale da scheggiare il fasciame di legno del peschereccio e asportare un bel pò di vernice dallo scafo d'acciaio della Kingfsher. Il Wild Goose virò e con i motori al massimo si tuffò sobbalzando nel vento. Con una pozza d'acqua ai piedi, bagnata fradicia, Tracey stava nella cabina degli ospiti della Kingfisher. Aveva i capelli neri appiccicati al viso e al collo e tremava tanto, per il trauma e per l'acqua gelida, da non riuscire a parlare. Batteva i denti e aveva le labbra livide. Cercava disperatamente di dire qualcosa, senza staccare gli occhi dal viso di Johnny. Lesto, lui le strappò i vestiti di dosso, le buttò un asciugamano intorno alle spalle e prese a strofinarla vigorosamente con un altro asciugamano nel tentativo di riscaldarla. «Piccola sciocca», la rimproverava intanto. «Hai perso completamente la ragione? » «Johnny», farfugliò lei, battendo i denti. «Cristo, c'è mancata poco», ringhiò lui, inginocchiandosi per strofinarle le gambe. «Johnny, ascolta.» «Ora sta' zitta e asciugati i capelli. » Obbedi, sottomessa. Lui andò all'armadio, dove trovò un maglione pesante; tornò indietro e glielo infilò: le arrivava quasi ai piedi. Ora però il tremito era diventato controllabile. «Ebbene», fece lui, prendendola con poco garbo per le spalle, «perché diavolo hai fatto questa pazzia?» Le parole ora vennero fuori come acqua da una diga crepata, e cosí lei raccontò tutto. Alla fine scoppiò a piangere, sgomenta, in quell'immenso maglione, con i capelli umidi appiccicati ora alle spalle, singhiozzando come se avesse il cuore a pezzi. Lui la prese tra le braccia e per un buon minuto lei si crogiolò al suo calore e alla sua forza. Fu però la prima a staccarsi. «Johnny, fa' qualcosa», implorò con voce ancora rotta. «Fermali.
Non devono cavarsela. » Lui tornò all'armadio e, pensando a quello che aveva appena appreso, frugò in cerca di qualcosa di adatto per lei. Stette poi a guardarla mentre s'infilava un paio di pantaloni leggeri di lana blu e li fermava in vita con una cordella, ripiegando infine i risvolti e cacciandoli nei calzini di lana prima d'infilare i piedi in un paio di stivali di gomma che erano solo di qualche numero troppo grandi per lei. « Da dove cominciamo? » gli chiese. Lui si ricordò allora del pezzo di carta. Lo tirò fuori e lo stese sul tavolo accanto alla cuccetta. Scorse rapidamente le colonne di numeri. La sua prima supposizione era giusta: era davvero un programma d'elaboratore. «Tu rimani qui», le ordinò. « No. » La risposta fu immediata e decisa. Lui sorrise. «Sta' a sentire, Tracey. Io ora vado sul ponte di comando per tenervi occupato quello lí, ma torno subito, te lo prometto. Non ti perderai niente. » «Come sta la ragazza, capo? » L'interessamento di Sergio Caporetti era sincero. D'altro canto, concluse Johnny entro di sé, certamente stava anche impazzendo dalla curiosità; il motivo dell'arrivo di Tracey doveva intrigarlo moltissimo. «E' abbastanza scossa», rispose. «Come mai. Ha corso un bel rischio, però. Per poco non è caduta in pasto ai pesci. » «Non lo so», rispose Johnny. «Ora voglio che lei assuma la direzione di tutto da quassú. Faccia continuare il lavoro alla nave. Io vado a metterla a letto. La informerò di tutto appena avrò scoperto qualcosa. » «Okay, capo.» «E attento, Sergio. Tenga d'occhio quegli scogli. Non si lasci spingere troppo vicino. » Era un buon motivo per tenerlo inchiodato sul ponte di comando. Lo lasciò e andò dritto nella cabina degli ospiti. « Vieni. » Tracey lo seguí barcollando al rollio della nave. Due ponti piú sotto raggiunsero la sala dell'elaboratore e Johnny aprí con la sua chiave il pesante portello e lo richiuse alle loro spalle. Tracey s'appoggiò alla paratia e rimase a guardare Johnny che, seduto alla consolle stava sistemando il pezzo di carta spiegazzato sul leggio. Leggendo direttamente da questo batté la prima riga di cifre sulla tastiera. Il calcolatore protestò immediatamente. ERRORE, comparve sullo schermo. Lui ignorò la reazione e batté la seconda riga. Questa volta la macchina fu piú decisa. NESSUNA PROCEDURA. ERRORE DI SINTASSI. Johnny batté la riga successiva. Immaginava che chiunque avesse inserito quel programma nella memoria dell'elaboratore doveva aver sistemato una serie di blocchi per evitare una scoperta casuale. Di nuovo lampeggiò il rifiuto: ERRORE DI SINTASSI. «Tre volte prima che il gallo canti», mormorò lui, e quella citazione biblica suonò incongrua nella tesa atmosfera della sala di controllo. Batté l'ultima riga di cifre e il rifiuto svaní dallo schermo. La consolle s'agitò come un granchio mostruoso e quindi sullo schermo comparve: PROGRAMMA DI RECUPERO SUBORDINATO DI KAMINIKOTO. INSTALLATO NELL'OTTOBRE 1969 A LAS PALMAS DA HIDEKI KAMINIKOTO. DOTTORE IN SCIENZE UNIVERSITA' DI TOKIO. Il giapponesino non aveva resistito alla tentazione di firmare il suo capolavoro. Chini sullo schermo loro due seguivano affascinati quel che la macchina andava compitando sullo schermo.
Cominciò col numero d'ore di lavoro effettuato e il peso della ghiaia lavorata durante quelle ore. Poi riferí sul peso dei concentrati recuperati dal ciclone e infine, in una serie di colonne, annunciò i pesi e le dimensioni di tutti i diamanti recuperati dal mare. Il Grande Azzurro risaltava al posto d'onore e, senza parole, Tracey volle toccare col dito la cifra: 320. Johnny intanto, d'umor nero, scuoteva il capo. L'elaboratore terminò dando il totale dei carati recuperati e, alla fine, Johnny parlò: «E vero», disse a bassa voce. «Sembra impossibile, ma è vero ». Il brontolio e il ticchettio dell'elaboratore cessarono e lo schermo s'immobilizzò. Johnny si raddrizzò sullo sgabello. « Dove li avranno messi? » si chiese, ripercorrendo in fretta le cifre. S'alzò e, attraverso il vetro dello spioncino, guardò nella sala dei raggi x. «Dev'essere avvenuto da questa parte del ciclone, da questa parte dell'asciugatoio... » Pensava ad alta voce. « Tra l'asciugatoio e la sala dei raggi x. » Intanto Sergio Caporetti passeggiava su e giú per il ponte di comando come un orso in gabbia, tirando con tanta veemenza a quel suo sigaro che dalla brace partivano scintille. Il vento soffiava violento tutt'intorno alla cabina e dal nord arrivavano sempre piú furiose le ondate. A un tratto prese una decisione. Si rivolse al timoniere: «Tieni d'occhio quei dannati scogli. Tienili bene d'occhio! » Il timoniere annuí e lui arrancò barcollando fino alla sua cabina. Chiuse la porta a chiave e andò alla scrivania. Dopo aver armeggiato con le chiavi aprì l'ultimo cassetto e, infilata la mano sotto una pila di scatole di sigari, tirò fuori il sacchetto di tela. Soppesandolo in mano, completamente assorto, si guardò in giro in cerca di un nascondiglio migliore. Attraverso la tela sentiva le irregolarità nodose delle pietre. «Quel Johnny è un furbo bastardo», mormorava. «Dev'essere un buon posto. » Alla fine decise. «E' il posto migliore. Le avrò sempre sott'occhio. » Si sbottonò la giacca e si cacciò il sacchetto nella tasca interna. La riabbottonò e si batté sul rigonfio all'altezza del cuore. «Perfetto! » esclamò. «Benissimo! » S'alzò e s'allontanò dalla scrivania. Tornò di fretta sul ponte dopo aver richiuso la porta a chiave. A metà della sala di navigazione si fermò e guardò verso il monitor che riportava tutto quanto compariva sullo schermo dell'elaboratore. Il sibilo era quello di un serpente a sonagli e la spia rossa avvertiva che era in atto una nuova procedura. Intimorito, s'avvicinò al monitor e vi si chinò sopra. Gli bastò un'occhiata, dopodiché si precipitò verso il tavolo. Vide subito il taglio a croce sulla carta. «Dio santissimo!» Finí di strappare la carta e vi frugò sotto. S'allontanò dal tavolo e si batté sul petto. « Disgraziato! » esclamò. « Imbecille! » Continuò per un'altra decina di secondi a imprecare contro se stesso, quindi si guardò in giro in cerca di un'arma. Il maniglione di chiusura del portello era una barra d'acciaio di dodici pollici con un'estremità tonda e pesante. Tolse il fermo e la tirò via. Se la cacciò nella cintura dei pantaloni. «Scendo sottocoperta», annunciò al timoniere, brusco, e si buttò giú per la scaletta. Attraversò la nave in tutta fretta, bilanciandosi con abilità contro il rollio e il beccheggio intensi. Quando raggiunse il ponte piú basso era fermo sulle gambe e avanzava sicuro. Aveva tirato fuori la barra d'acciaio e la stringeva in pugno. Ogni pochi passi si fermava e tendeva l'orecchio, ma avvertiva solo i gemiti e gli scricchiolii dello scafo della Kingfisher a ogni ondata. Nient'altro.
Arrivò fino al portello della sala controllo e, con cautela, spiò nella finestrella di vetro blindato. Era vuota. Provò la maniglia. Era chiuso. Poi udí delle voci. Venivano dal portello aperto della sala del nastro trasportatore alle sue spalle. Vi si avvicinò quasi di corsa e s'appiattí di fianco allo stipite. La voce di Johnny giungeva soffocata e indistinta: «C'è un'altra botola qui. Vai a prendermi una chiave da mezzo pollice nell'armadio degli attrezzi ». « Che aspetto ha una chiave da mezzo pollice? » « E' una chiave grossa. La misura è incisa sopra. » Sergio sbirciò da dietro lo stipite. Il coperchio della botola d'ispezione del tunnel del nastro trasportatore era stato rimosso e la testa di Tracey era infilata nell'apertura. Era chiaro che Johnny Lance stava là dentro e che aveva trovato il compartimento segreto. Poi Tracey ritrasse il capo e lui arretrò lanciando un'occhiata nel corridoio. L'armadio degli attrezzi era fissato alla paratia sotto la scala che portava al ponte di sopra. Si girò e svoltò lesto l'angolo del corridoio. Tracey venne fuori dalla sala del nastro trasportatore e andò all'armadio. Aprí lo sportello ed ebbe davanti la lucida fila di attrezzi assicurati ognuno al suo posto. Mentre la ragazza era completamente occupata a cercare la chiave da mezzo pollice, Sergio sbucò da dietro l'angolo e scivolò alle sue spalle. Sollevò la sbarra e s'alzò in punta di piedi, pronto a colpire. Tracey intanto brontolava qualcosa tra sé e sé, col capo leggermente chino in avanti. Cercava tra quelle chiavi: Sergio sapeva che il colpo le avrebbe fracassato il cranio. Allontanò quel pensiero e mirò accuratamente alla base del cranio. Stava per colpire ma si trattenne. Per un attimo, che parve durare un'eternità, rimase bloccato in quella posizione. Non se la sentiva. Con un'esclamazione soddisfatta, Tracey trovò intanto quello che cercava e fece per girarsi. Lui allora schizzò via, si riparò dietro l'angolo formato dalla paratia e Tracey tornò di corsa nella stanza del nastro trasportatore. «L'ho trovata, Johnny», gridò affacciandosi alla botola. «Portamela giú. Presto, Tracey. Sergio s'insospettirà», gridò Johnny, e lei si tirò su i pantaloni troppo grandi e s'infilò contorcendosi nella botola. Scivolò carponi fino a Johnny. Faceva molto caldo in quello stretto tunnel. Johnny prese la chiave che lei gli porgeva. «Tieni la torcia», disse Johnny. Tracey la prese e indirizzò il fascio di luce sulla cassetta dalla quale Johnny stava svitando dei bulloni e della quale alla fine staccò il coperchio. Steso su un fianco, poi, guardò nell'interno. «C'è una specie di contenitore», borbottò, e cacciò dentro la mano. Armeggiò per un pò con i morsetti quindi, lentamente, tirò fuori la coppa d'acciaio inossidabile. Proprio in quel momento la Kingfisher s'impennò e si tuffò nel golfo di un'ondata e la coppa gli sfuggí di mano. Ne saltarono fuori i diamanti: una cascata di pietre luccicanti d'ogni misura e colore che si rovesciò su loro due. Alcuni rimasero impigliati tra i capelli di Tracey, altri rotolarono e saltellarono spargendosi tutt'intorno, rifrangendo la luce della torcia e sminuzzandola in mille schegge di sole.
«Accidenti!» esclamò Tracey, e si mise a ridere vedendo la faccia trionfante di Johnny. Accoccolati uno accanto all'altra, si misero dunque a raccogliere quel tesoro sparso tutt'intorno a loro. «Guarda questo! » esultava ogni tanto Tracey. «E questo! » Erano impazziti per l'eccitazione, con le mani piene di diamanti. Poi s'abbracciarono e baciarono, estasiati, felici, ridendo con le labbra schiacciate sulle labbra. Johnny fu il primo a riprendersi. «Andiamo. Usciamo da qui. » Ritornarono strisciando in fondo al tunnel, sempre ridendo, sempre eccitati. Poi uno per volta uscirono fuori e si ritrovarono nella sala del nastro trasportatore. Mentre si sistemavano i vestiti e riprendevano fiato, Tracey chiese: « E ora? » «Per prima cosa mettiamo sotto chiave, bene al sicuro, quel Sergio. E anche il suo equipaggio. » Poi Johnny cambiò espressione. «Quei porci bastardi!» aggiunse, ripensandoci con rabbia. « E poi? » «Poi ritiriamo la draga e portiamo la Kingfisher a Cartridge Bay. Una volta lì, chiamiamo la polizia per radio e avremo una bella spiegazione con tutta la banda di bastardi. Tuo fratello compreso. » S'avviò verso il portello. Li giunto, chiese: « Perché hai chiuso, Tracey? » «Io non ho chiuso niente», rispose lei raggiungendolo. Di nuovo Johnny cambiò espressione. Poi si precipitò contro il pesante portello con tutto il peso del corpo. La lastra d'acciaio non si mosse, naturalmente. Si girò allora verso l'altro, quello che dava nella sala del ciclone. Era anche chiuso. Afferrò il volano e lo girò con tutta la forza. Alla fine fece un passo indietro e con ansia si guardò in giro nella stretta e lunga cabina. Non c'erano altri ingressi né botole né boccaporti, niente, solo lo spioncino quadrato al centro del portello d'acciaio che dava nella sala del ciclone. Spioncino che era costituito da una lastra di vetro blindato spessa tre pollici inattaccabile quanto l'acciaio in cui era incastrata. Vi guardò dentro. Il grosso ciclone andava dal pavimento al soffitto, dominando la sala. Al di là di esso, il tubo che portava la ghiaia dal mare attraversava il soffitto proveniente dal ponte di sopra. La sala era deserta. Lentamente, Johnny si girò verso Tracey e le passò un braccio intorno alla spalla. «Siamo in un pasticcio», disse. Dopo aver chiuso ambedue i portelli che davano nella sala del nastro trasportatore, Sergio ritornò immediatamente sul ponte di comando. Il timoniere lo guardò con curiosità. Chiese: « Come sta la donna? » «Bene», rispose lui, brusco. «E' sana e salva.» Poi, con non necessaria aggressività, aggiunse: «Perché non badi ai fatti tuoi, eh? Cosa credi di essere, il capitano di questa nave? » Stupito, il timoniere tornò a dedicare la propria attenzione alla burrasca che ancora imperversava violenta intorno a loro. Quanto a lui, Sergio, prese a passeggiare su e giú per il ponte di comando tenendosi senza difficoltà in equilibrio nell'esasperato rollio. Quel suo glabro viso da bambino era tutto raggrinzito in una gran smorfia di preoccupazione mentre tirava energiche boccate al sigaro. Era pentito con tutta l'anima d'essersi lasciato trascinare in quell'affare. Desiderò non aver mai sentito neppure parlare della Kingfisher. Ormai s'era giocato ogni speranza di ritirarsi un giorno a vivere a Ostia dove, seduto sul lungomare e sorseggiando grappa, sarebbe stato ad ammirare le ragazze a passeggio. Preso da un impulso, spalancò la controporta nell'angolo del ponte di comando e uscì fuori sulla plancia. Il vento lo investi in pieno scompigliandogli i capelli. Tirò fuori il sacchetto dalla tasca interna.
« Sono queste la causa di tutto! » brontolò, contemplandolo. « Queste pietre schifose! » Buttò il braccio all'indietro come un lanciatore di baseball, pronto a scagliare il sacchetto nell'infuriato mare verde di sotto, ma ancora una volta non riuscì a portare a termine il suo gesto. Imprecando contro se stesso, si rimise le pietre in tasca e ritornò dentro. «Chiama il radiotelegrafista», ordinò. Il timoniere chiamò nel portavoce. Il radiotelegrafista salì sul ponte di comando abbottonandosi la giubba e con gli occhi ancora pieni di sonno. «Mettiti in contatto con il Wild Goose», gli disse Sergio. «Non sarà facile con questa burrasca» replicò quello, guardando fuori. «Chiamalo.» Sergio gli si avvicinò minaccioso. «E continua a chiamarlo finché non entri in contatto. » Rollando e beccheggiando su quel mare gonfio e inquieto, il Wild Goose guadagnò alla fine l'ingresso di Cartridge Bay e s'inoltrò nell'acque calme del canale. La tensione di Hugo Kramer diminuí visibilmente. Quello del ritorno da Thunderbolt e Suicide era stato un brutto viaggio e addosso gli era rimasto uno sgradevole senso di disagio. Sperava che la ragazza riuscisse a sistemare Lance. Un osso duro quel Johnny Lance. Sarebbe stato meglio se fosse andato con lei, in tal modo si sarebbe assicurato che tutto era andato liscio. Quindici anni erano una schifosa di pena! Già, sarebbe uscito di galera piú o meno a cinquant'anni! Segui i segnali galleggianti del canale che si susseguivano come pietre miliari, visibili nel turbinio della polvere, finché davanti a sé scorse il pontile e i depositi. Sul pontile c'era qualcuno. Stava accoccolato accanto ai barili di nafta accatastati. Allarmato, lui aguzzò gli occhi; la visibilità era proprio pessima. « Chi diavolo sarà? » si chiese ad alta voce. La figura si tirò su in piedi e avanzò fino all'estremità del pontile. A testa scoperta, con indosso un completo grigio scuro tutto stazzonato, l'uomo aveva un fucile in mano. Passarono alcuni secondi prima che Hugo lo riconoscesse. «Cristiddio! E' il capo!» L'allarme gli divampò come un incendio nello stomaco e nel petto, mozzandogli il fiato. Benedict van der Byl saltò a bordo del Wild Goose appena accostò al pontile. «Cos'è successo?» chiese precipitandosi sul ponte di comando. «Credevo che lei fosse in ospedale», esclamò Hugo. « Chi le ha detto una cosa del genere? » « Sua sorella. » « L'ha vista? Dov'è? » «L'ho portata alla Kingfisher. Come del resto lei stesso voleva. E' andata lí a sistemare Lance. » « Sistemare Lance? Imbecille, lei è d'accordo con lui. Non è dalla parte nostra. Sa tutto. Tutto! » « Ma mi ha detto... » Hugo rimase senza parole. «L'affare è saltato. Dobbiamo filarcela. Faccia caricare quei barili di nafta dall'equipaggio. Come stiamo ad acqua? » « I serbatoi sono pieni. » « E a vettovaglie? » « Ne abbiamo. » « Per quanto tempo? » «Tre settimane. Stringendo, quattro. » «Meno male.» Benedict parve risollevato. «Questa tormenta durerà ancora altri tre giorni. Saranno tutti a nostro vantaggio. Con questa tormenta non ci troveranno. Quando sarà finita saremo in piena navigazione. » « Per dove? Angola? » «Figurarsi. No. Dobbiamo filarcela sul serio. America del Sud. » «America del Sud? » « Si.
Possiamo farcela, caricando altra nafta. » Hugo tacque per un pò, doveva abituarsi all'idea. «Possiamo farcela», insisté Benedict. « Sí », ammise alla fine Hugo. « Possiamo farcela. » Era assorto. Per la prima volta stava studiando attentamente Benedict. Vide che era diventato l'ombra di se stesso, fisicamente e psicologicamente; gli occhi iniettati affondati in profonde e scure occhiaie, le guance coperte da una barba lunga e nera, aveva una certa aria da cane bastonato, l'aria sgomenta dell'animale che fugge. In piú era tutto coperto di polvere e sul davanti della giacca aveva una macchia, forse vomito seccato. «Ma una volta arrivati là cosa facciamo?» Per la prima volta da quando conosceva Benedict van der Byl si sentì padrone di se stesso. Era arrivato il momento di trattare, di venire a patti. « Sbarchiamo in un posto deserto. Li ci separiamo e scompariamo, ognuno per conto proprio. » « E il danaro? » Andava cauto Hugo Kramer nel fare quelle domande, e non perdeva d'occhio la doppietta. Le mani che la stringevano sembravano oltremodo nervose. « L'ho io. » « Quanto? » «Abbastanza. » Benedict sbatté le palpebre, anche lui stava facendosi cauto. « Anche per me? » Benedict annuí. « Quanto per me? » « Diecimila. » « Sterline? » « Sterline. » « Non bastano. » Hugo scosse il capo. « Mi serve di piú. » «Venti», raddoppiò subito Benedict, sapendo che non stava certo trattando da una posizione di forza. Ruby giaceva massacrata nel suo studio e a quell'ora probabilmente stavano già dandogli la caccia. «Cinquanta», ribatté Hugo, deciso. «Non le ho.» « Sta scherzando, bellezza? Ha messo da parte per anni. » Benedict gli puntò contro il ventre, in maniera convincente, le due canne del fucile. «Faccia pure», lo invitò Hugo con un sorriso, spalancando quei pallidi occhi da albino. « Così ci arriverà a nuoto nell'America del Sud. Vuole provare? Oppure manderebbe questo battello a sbattere contro l'ingresso della baia, ecco cosa riuscirebbe a fare. » Benedict abbassò il fucile. «D'accordo, cinquanta», disse. «Bene! » Hugo era risollevato. « E ora filiamocela. » Il Wild Goose era lontano dalla costa e dalla tormenta di polvere. Le onde arrivavano grosse da poppa sollevandolo e sospingendolo nella sua rotta verso ovest, mentre il sibilo stridente del vento tra il sartiame l'incitava nella corsa. « Perché non scende di sotto a dormire un pò? » disse Hugo. Trovava la presenza dell'inquieto Benedict sul ponte di comando già affollato un vero e proprio incubo. Benedict ignorò la domanda. «Accenda la radio», disse. « Perché? Non prenderemmo niente. » « Siamo fuori dalla tormenta di polvere. Potremmo captare un messaggio della polizia. » Benedict aveva ben chiara davanti agli occhi l'immagine di Ruby. Voleva sapere se a quell'ora l'avevano già trovata. Avvertí di nuovo il rigurgito alla gola. Quella faccia. Oddío! Quella faccia! Andò immediatamente alla radio e l'accese. «Ancora non ci stanno addosso», disse Hugo, ma Benedict già girava la manopola frugando tra l'inquiete onde radio. Scariche e gemiti sembravano urla. «La spenga», sbraitò Hugo, ma in quel momento s'udí una voce. «... Wild Goose», stava dicendo, chiara, nell'altoparlante. Benedict s'accoccolò subito davanti all'apparecchio dandosi da fare con le manopole; Hugo gli s'avvicinò. «... Rispondete Wild Goose. Qui è la Kingfisher.
Ripeto, rispondete, Wild Goose. » I due si guardarono. «Non risponda», disse Hugo, ma non mosse dito quando Benedict staccò il microfono dal gancio. «Kingfisher, qui è il Wild Goose. » «Rimanete in ascolto, Wild Goose», fu la risposta immediata. «Rimanete in ascolto, il capitano Caporetti vuole parlarvi. » «Qui Wild Goose, rimaniamo in ascolto. » Hugo afferrò Benedict per la spalla. Era infuriato, ma la sua voce era incerta: « Lasci perdere, non faccia sciocchezze! » Benedict allontanò la mano dalla spalla e proprio in quel momento nell'altoparlante tuonò la voce di Sergio: « Parla Caporetti. Chi è da... » «Non faccia nomi», lo avvertí Benedict. «Dove sono i suoi ospiti? » « Sono al sicuro. Li ho tolti di mezzo. » « Tolti di mezzo? Tutt'e due? » «Si. Li ho messi al sicuro. » «Aspetti. » Chino sull'apparecchio, Benedict rifletté. Johnny Lance era in suo potere. Quella era l'ultima possibilità che gli si presentava. Nella sua mente cominciò rapidamente a prendere forma un piano. « I diamanti. Caporetti ha i diamanti. Da solo, quel Grande Azzurro vale un milione», disse Hugo. «Se Caporetti li ha davvero sistemati, varrebbe la pena correre il rischio. » « Sí. » Benedict si girò verso di lui. Stava appunto chiedendosi in che modo convincere Hugo a tornare indietro. Aveva dimenticato i diamanti. «Certo, varrebbe la pena», convenne. «Raggiungiamo la Kingfisher, facciamo una rapida accostata, imbarchiamo Caporetti coi diamanti e ce la filiamo. » «No, devo salire a bordo», obiettò Benedict. « Perché? » «Devo cancellare il programma dal calcolatore. C'è su il nome del giapponese. Lo scoprono e io l'ho pagato dal mio conto in Svizzera. Rintraccerebbero questo e quindi me. » Hugo esitò. «Niente sparatorie. Né robe del genere, però. Abbiamo già abbastanza problemi. » « Mi prende per pazzo? » «D'accordo», concluse Hugo. Nel microfono, Benedict disse: «Kingfisher. Veniamo da voi. Salirò a bordo per concludere la faccenda». « Benissimo. » Attraverso le scariche avvertirono la nota di sollievo nella voce di Caporetti. « Vi aspetto. » Occorsero quasi due ore al Wild Goose per raggiungere la Kingfisher al largo delle due spettrali sagome bianche di Thunderbolt e Suicide ed era già mezzogiorno passato quando Hugo iniziò la manovra per accostare sottovento alla Kingfisher. «Non perda tempo», disse poi a Benedict. «Piú presto ci rimettiamo in viaggio meglio sarà per tutti. » «Non ci metto piú di mezz'ora», rispose Benedict. «Lei si tenga al largo e aspetti. » «Cosa fa, si porta dietro quel maledetto fucile?» Hugo indicò con un cenno del capo. « Perché? » Ma Benedict non rispose, guardò su in cielo. In cielo, dietro quel turbinio di polvere incalzato dal vento e spruzzato dall'onde, il sole non era altro che una luminosa macchia d'argento mentre sul mare la burrasca ancora infuriava impietosa. «Le sarà d'impedimento nel salire su per la biscaglina», insisté Hugo. Voleva proprio che Benedict mollasse il fucile, aveva anzi voglia di buttarlo in mare, perché la presenza di quell'arma a bordo pregiudicava il piano che gli s'era venuto formando in mente in quelle ultime ore; piano che teneva conto del facile mercato per i diamanti lí nell'America del Sud e della nessunissima voglia da parte sua di dividere il ri cavato con due soci. «Me lo porto dietro. » Benedict strinse ancor piú il pugno intorno al calcio della doppietta. Senza quell'arma si sarebbe sentito nudo e inerme, inoltre nel suo piano personale per il prossimo futuro essa aveva una sua parte ben precisa. Anche lui infatti s'era elaborato un pò di programmi durante quelle ultime due ore. «Come vuole.» Hugo dovette rassegnarsi al rifiuto di Benedict; in seguito, ragionò, durante la lunga traversata dell'Atlantico, certamente non gli sarebbe mancata l'occasione.
« Meglio se si piazza a prua. » Questa volta la manovra gli riuscí molto bene; nell'intervallo tra un'immensa ondata e l'altra puntò la prua del peschereccio sul lato sottovento della nave-laboratorio e accostò facilmente. Benedict saltò e s'arrampicò su per la biscaglina raggiungendo la murata della Kingfisher prima che l'ondata successiva gli si rovesciasse addosso. Sporgendosi poi dal parapetto, fece segno a Hugo d'allontanarsi, dopodiché s'inoltrò tra le sovrastrutture sulla coperta della nave. «Dov'è Lance?» chiese a Sergio appena ebbe messo piede sul ponte di comando, ma Sergio gli indicò con un cenno del capo il timoniere che tendeva le orecchie, curioso, e condusse Benedict nella sua cabina. « Dov'è Lance? » ripeté Benedict appena la porta fu chiusa. «E' chiuso nella sala del nastro trasportatore insieme con sua sorella. » « La sala del nastro trasportatore? » Benedict non credeva ai propri orecchi. « Sì. Hanno scoperto la macchina di Kammy. Hanno aperto la botola e sono entrati nel tunnel. Non mi restava da fare altro che chiudere i due portelli, imprigionandoli. » «E ora sono lí? » chiese Benedict per guadagnare tempo e formare un piano d'azione. « Sì. Sono ancora chiusi là dentro. » «Benissimo.» Benedict raggiunse la sua decisione. «Ora stia a sentire, Caporetti. Ecco cosa faremo. L'affare è saltato, come avrà capito. Dobbiamo dunque cancellare quante piú prove contro di noi è possibile e battercela. Noi stiamo andando in America del Sud con il Wild Goose. Lei ha i diamanti, vero? » « Sì. » Sergio si batté sulla tasca di petto. « Me li dia. » Benedict allungò la mano. Sergio sorrise. «Penso sia meglio che li custodisca io. Mi tengono il cuore al caldo. » Benedict s'accigliò, seccato, ma lasciò che gli passasse. «D'accordo.» Il tono era sempre amichevole. «Ora, lei deve fare una sola cosa: andare nella sala controllo e cancellare il programma di Kaminikoto. Togliere il nome dalla memoria della macchina. Lui le ha mostrato come fare? » «Sì.» « Quanto tempo le ci vorrà? » « Una mezzoretta, non di piú. » Benedict diede un'occhiata all'orologio da polso e calcolò che intanto lui avrebbe avuto tutto il tempo per fare quello che aveva in mente. « Bene. Si dia da fare, allora. » Sulla porta della cabina Sergio esitò. «Capo e i miei ragazzi? Il mio equipaggio? E' brava gente dopotutto, non finirà col trovarsi nei pasticci? » «Loro sono fuori dalla faccenda», rispose seccato Benedict. «Ora li raduno e gli spiego che lei deve venire a terra con me. Saranno pur in grado di tenere la Kingfisher al largo, in attesa che lei torni a bordo. Una volta placata la burrasca, poi, si collegheranno per radio con la base e scopriranno che siamo scomparsi. A loro non succederà niente. » Sergio approvò col capo. « Li faccio salire sul ponte di comando. Gli parli lei. » Quando i cinque uomini dell'equipaggio si furono radunati sul ponte di comando della Kingfisher, Sergio era già scomparso giú di sotto. « Qualcuno di voi parla inglese? » chiese Benedict. Due di loro si fecero avanti. «Benissimo.» Benedict si rivolse ai due. «Vi sarete certamente chiesti cosa è mai tutto questo andirivieni con una burrasca in corso. Bene, voglio che voi siate pronti a lasciare la nave. Voglio che prendiate tutti i vostri oggetti di valore. Subito! » Rapidamente i due tradussero agli altri, che guardarono preoccupati Benedict: una strana figura, con gli occhi spiritati e un fucile in mano. «Bene, andiamo.» Non ci furono obiezioni da parte di nessuno di loro, e così s'avviarono alla scaletta. Benedict li seguí nel corridoio verso l'alloggio dell'equipaggio dando ogni tanto un'occhiata all'orologio. Erano passati sette minuti.
Guardò gli uomini che lo precedevano. Quelle nuche formavano un ottimo bersaglio. Nella Namaqualand lui sparava alle faraone quando erano a terra e gli correvano davanti in fila; s'inginocchiava e mirava alle teste, abbattendo mezzo stuolo con solo due colpi. Era dunque certo di poter abbattere quei cinque con due colpi soltanto, bastava che li lasciasse avanzare ancora un altro pò e la rosa di pallini si sarebbe allargata abbastanza. Si ricordò però di Ruby e fu preso dal voltastomaco. L'altro sistema era altrettanto sicuro. «Alt!» ordinò quando i cinque uomini arrivarono all'altezza del deposito vernici. Quelli obbedirono e si girarono. Ora lui imbracciava il fucile in modo inequivocabile. I cinque rimasero a fissarlo intimoriti. «Aprite quella porta. » Indicò il deposito vernici. Nessuno si mosse. «Tu! » Benedict indicò uno dei due che parlava inglese. Come in trance, quello andò al portello d'acciaio e girò il volano. Poi aprí. «Dentro!» Anche ora in modo inequivocabile, Benedict indicò loro di entrare. Riluttanti, i cinque entrarono nel cubicolo senza aperture esterne e Benedict gli sbatté dietro il portello, quindi girò il volano poggiandosi sopra con tutta la forza per stringerlo ben bene. Finalmente il campo era sgombro. Stando al suo orologio, aveva altri venti minuti. S'affrettò verso prua; voleva tenersi alla larga dalla sala controllo e da Sergio Caporetti. Per il passaggio di prua, scese giú al ponte inferiore armeggiando intanto con la serie dei duplicati delle chiavi. ATTENZIONE: ESPLOSIVI VIETATO L'INGRESSO AI NON AUTORIZZATI Aprí la porta, appoggiò a terra il fucile e prese dalla mensola un grosso barattolo di venticinque libbre di esplosivo plastico. Nella fretta d'aprire il coperchio, si spezzò un'unghia, ma non s'accorse neppure del dolore. Srotolò un sei piedi di cordone di esplosivo color cacao e se l'avvolse intorno al collo, poi scelse una scatola di detonatori a tempo. Lesse l'etichetta. «Quattordici minuti. Piú che sufficienti.» Il sangue che gli usciva dal dito lasciò delle macchie scure sul cartone della scatola allorché ne tirò fuori quattro detonatori. Raccolse il fucile da terra e corse verso poppa. Il sibilo da motore a reazione del ciclone diventava sempre piú assordante man mano che vi stavvicinava. Tracey se ne stava acciambellata sul pavimento d'acciaio del ponte con la giacca di Johnny piegata sotto la testa. Il suo era il sonno profondo della spossatezza, tanto profondo da somigliare alla morte. Ogni pochi minuti Johnny interrompeva le sue inquiete passeggiate per la sala del nastro trasportatore per fermarsi accanto a lei priva di coscienza e osservarla. La sua espressione tesa stallentava un pò ogni volta che scrutava il bel volto pallido di lei. A un certo punto si chinò e, teneramente, le scostò un ciuffo di capelli neri dalla guancia prima di riprendere a passeggiare su e giú per la stretta cabina. Ogni volta che arrivava davanti al portello guardava attraverso lo spioncino. Il vetro aveva resistito ai suoi attacchi quando aveva cercato d'infrangerlo con la chiave inglese. Voleva aprirlo per invocare aiuto, ma i suoi colpi non avevano neppure intaccato il vetro blindato. Aveva tentato ogni possibile soluzione, ma non c'era modo di uscire da quella cabina.
Le aperture del sistema del nastro trasportatore davano da una parte nella fornace e dall'altra sul movimento d'un macchinario che avrebbe stritolato chiunque vi rimanesse impigliato. Erano proprio in gabbia, e lui stava passeggiando su e giú per la gabbia, appunto. Di nuovo si fermò davanti allo spioncino ma questa volta si precipitò contro il portello coi pugni chiusi. L'acciaio, naturalmente, gli sbucciò le nocche allorché lo martellò di colpì e il dolore lo fece rientrare in sé. Schiacciò il viso contro il vetro e da lí vide Benedict van der Byl. Stava entrando nella sala del nastro trasportatore e, senza guardare dalla parte di lui, s'avviò verso il ciclone. Lo vide poggiare a terra il fucile che aveva in mano e studiare per un attimo il grosso tubo d'acciaio che trasportava la ghiaia giú dal ponte delle pompe. Quando poi vide il grosso cordone di esplosivo plastico che portava appeso al collo capí immediatamente le sue intenzioni. Stette a guardare affascinato. Benedict montò su per la scaletta di fianco al ciclone e, tenendosi poi con una mano a questa, allungò l'altra e, con movimenti maldestri, avvolse il cordone di plastico intorno al tubo della ghiaia. Alla fine quel cordone sembrava una collana appesa al collo di un osceno mostro preistorico. «Bastardo! Assassino schifoso! » gridò, e di nuovo prese a pugni il portello. Ma lo spessore dell'acciaio e il sibilo del ciclone spensero la sua voce. Non parve infatti che Benedict avesse udito. Tracey invece si tirò su e si guardò intorno, stordita. Poi s'alzò in piedi e, barcollando per il rollio della nave, raggiunse Johnny e schiacciò il viso accanto al suo contro il vetro. Benedict stava cacciando i detonatori a tempo nella pasta soffice dell'esplosivo. Infilò tutt'e quattro i detonatori, non volendo correre il rischio di fare cilecca. «Cosa sta facendo?» chiese Tracey, dopo essersi ripresa dalla sorpresa alla vista del fratello. «Taglia il tubo, cosí la Kingfisher si riempie della ghiaia che essa stessa pompa a bordo. » « Vuole affondarla? » Tracey era molto allarmata. «La nave si pomperà a bordo acqua e ghiaia a pressioni che faranno saltare tutti i portelli interni. » « Anche questo? » Tracey batté sul portello d'acciaio. «Scoppierà come un sacchetto di carta. Santo cielo, non hai idea della potenza di quelle pompe. » «No! » esclamò Tracey. «E' mio fratello. Non può farlo, Johnny! Non può volerci uccidere! » «Quando avrà finito», ribatté lui, con voce cupa, «la Kingfisher giacerà sul fondo a duecento piedi di profondità. Il suo scafo sarà cosí zeppo di ghiaia che sarà come un blocco di cemento. Noi, e tutto ciò che c'è a bordo, compresa questa piccola macchina, saremo schiacciati al punto da essere irriconoscibili. Costerebbe milioni recuperare la Kingfisher... e nessuno ci terrà a farlo. » «No, non può farlo, non Benedict! In fondo non è tanto cattivo! » Il tono della voce di Tracey era quasi implorante. Johnny la interruppe bruscamente. «E' una maniera per cavarsela e quindi per lui vale la pena tentare. E' la sua ultima carta. Fonde in un blocco di cemento tutte le prove contro di lui e l'inabissa per sempre. » «No, Benedict! » Tracey guardava il fratello che, ridiscesa la scaletta, stava raccogliendo il fucile da terra. «Ti prego, non farlo!» Quasi l'avesse udita, Benedict si girò di colpo e vide le due facce inquadrate nella finestrella. Un senso di colpa scioccante lo irrigidì per qualche attimo. Rimase li a fissare la sorella, che con le labbra formulava parole che lui non poteva sentire, e Johnny, che stava fulminandolo con gli occhi.
Abbassò gli occhi e fece il gesto quasi patetico di chi è indeciso; alzò il capo e guardò il cordone di plastico... Alla fine fece un ghigno, una smorfia ironica. Quindi uscì dalla sala del ciclone e scomparve. «Tornerà», bisbigliò Tracey. «Non vorrà che succeda davvero. » « Se fossi in te non ci scommetterei », rispose Johnny. Benedict raggiunse il parapetto della Kingfsher e vi s'appoggiò. Guardò verso il Wild Goese, che rollando s'innalzava sulla cima delle onde, e vide la faccia di Hugo, una macchia bianca dietro i vetri del ponte di comando; ma mentre il piccolo peschereccio accostava per il trasbordo lui gli fece segno d'allontanarsi. Controllò di nuovo l'ora poi si voltò a guardare indietro con ansia. I minuti passavano lentissimi. Dove caspita era finito l'italiano? Non poteva certo lasciarlo lí a bordo, non certo con quei diamanti in tasca; senza contare che poteva fermare le pompe della draga e liberare i prigionieri rinchiusi di sotto. Controllò ancora una volta l'ora: erano passati dodici minuti da quando aveva innescato i detonatori a tempo. Gli toccava tornare indietro a cercare quel Caporetti. S'avviò lungo il parapetto e proprio in quel momento lo vide lassú, sulla plancia. Gli stava urlando qualcosa che si perse nel vento. «Venga!» gli urlò lui, facendo segni frenetici. «Venga! Presto!» Dopo aver lanciato un'ultima occhiata verso il ponte di comando, Sergio corse alla scaletta e scese in coperta. « Dove sono i miei ragazzi? » chiese gridando. «Come mai non c'è nessuno al timone? Cosa gli ha fatto? » «Stanno benissimo», lo rassicurò Benedict. S'era girato e stava tornando verso il parapetto segnalando intanto al peschereccio di accostare. « Dove sono? Dove sono i miei ragazzi? » « Li ho mandati a... » La risposta di Benedict fu interrotta dal fremito da cui all'improvviso fu corso il ponte tutto, un tremoto sotto i loro piedi. L'esplosione, poi, fu un sordo boato che ne scosse il ventre. Sergio rimase a bocca aperta. Benedict indietreggiò, allontanandosi da lui lungo il parapetto. «Porco! » ringhiò l'italiano. La rabbia sembrò ingrossargli ancor piú il fisico immane. «Li hai uccisi, brutto porco. Hai ucciso i miei ragazzi. Hai ucciso Johnny... la ragazza. » «Non si avvicini!» Benedict s'appoggiò con le spalle al parapetto e con le mani libere puntò il fucile. Sergio non se la sentí di avanzare dritto contro le bocche di quelle canne: si fermò, incerto. «Le faccio schizzare le budella per tutta la coperta», lo avvertì Benedict, e piegò l'indice sul primo grilletto. Si guardarono negli occhi, col vento che gli scompigliava i capelli e faceva sbattere i vestiti. «Mi dia i diamanti», ordinò Benedict, e poiché l'italiano non si muoveva aggiunse subito: «Non faccia l'eroe, Caporetti. Posso ucciderla e prendermeli comunque. Me li dia lei... il nostro patto vale ancora. La porto via da qui. Glielo giuro. » L'espressione indignata di Sergio s'attenuò. Esitò ancora. « Su, Caporetti. Non abbiamo molto tempo. » Forse era la sua immaginazione, ma a Benedict parve che il corso della nave fosse cambiato, ora affrontava le onde pesantemente e il rollio era accentuato. «Okay», disse alla fine l'italiano, e cominciò a sbottonarsi la giacca. « Ha vinto lei. Glieli do. » Con sollievo, Benedict si rilassò. Sergio si ficcò la mano sotto la giacca avanzando contemporaneamente verso di lui.
Tirò fuori il sacchetto di tela stringendolo per il collo come un manganello. Era molto vicino a Benedict adesso, troppo perché quello potesse prenderlo di mira col fucile, e aveva un'espressione feroce in viso; l'intenzione gli lampeggiava negli occhi scuri allorché sollevò il sacchetto e si mise in posizione per colpire l'altro alla testa. Non aveva calcolato però i riflessi eccezionali dell'ex atleta che aveva di fronte. Mentre lui menava il colpo Benedict si scansò ruotando il torso e al tempo stesso sollevò il calcio del fucile per ripararsi. Il polso urtò contro il duro legno stagionato e Sergio mandò un grugnito di dolore. Istintivamente apri le dita e il sacchetto di tela gli sfuggì di mano. Rimbalzò contro la tempia di Benedict e cadde sul ponte, andando a fermarsi vicino a uno dei serbatoi d'aria compressa, a una decina di passi di distanza. Benedict indietreggiò con un balzo e mosse le canne del fucile finché furono all'altezza degli occhi di Sergio. «Fermo li, bastardo! » gli ringhiò contro. «Ormai ha fatto la sua scelta. Ora vediamo fino a che punto ha fegato. » Mentre Sergio si premeva il polso indolenzito contro il ventre, mezzo piegato in avanti s'avvicinò al serbatoio d'aria compressa. Aveva la faccia rossa e stravolta per la rabbia ma continuava a lanciare occhiate di sbieco al sacchetto di tela li a terra. In quel momento la Kingfsher venne investita di traverso da un'altra ondata e l'acqua scrosciò copiosa sulla coperta, raccogliendo il sacchetto e trascinandolo verso uno degli ombrinali. «Attento! » gridò Sergio. «Il sacchetto! Sta per essere trascinato via! » Benedict si tuffò cadendo lungo disteso a terra; con la mano libera afferrò la tela inzuppata proprio mentre stava per imboccare l'ombrinale e scomparire fuoribordo. Era sí a una decina di passi da Sergio ma ancora stringeva il fucile nell'altra mano: Sergio non poteva sperare di raggiungerlo senza prendersi tuttte due le scariche nella pancia. Ma l'italiano girò su se stesso, invece, e partí di corsa in direzione della scaletta della plancia. Inginocchiato sul ponte, Benedict cercava freneticamente di cacciarsi nella tasca della giacca il sacchetto dei diamanti; gridò in direzione di Sergio: «Fermo! Fermo o sparo! » Sergio non si voltò né rallentò la corsa e, cacciatosi finalmente in tasca il sacchetto, Benedict ebbe ora entrambe le mani libere. Sollevò il fucile e, cercando di non perdere l'equilibrio al rollio e beccheggio della nave, mirò. Quando il colpo parti Sergio quasi inciampò ma continuò a correre. Raggiunse la scaletta e s'arrampicò. Benedict prese di nuovo la mira e lo schianto dell'esplosione fu portato via dal vento. Questa volta Sergio avvertì come una staffilata su tutta la schiena e si fermò di colpo a metà scaletta. Benedict si frugò in tasca in cerca di altre cartucce ma prima che riuscisse a ricaricare Sergio aveva ripreso a salire. Benedict aprì il fucile e ficcò le cartucce nelle canne. Lo richiuse con uno scatto e guardò in su proprio mentre Sergio scompariva dietro la controporta della plancia. I due colpi che Benedict scaricò nella sua direzione scrostarono la vernice della paratia e crearono stelle di crepe nel vetro della cabina del ponte di comando. Hugo intanto seguiva la scena dal ponte di comando del Wild Goose. «Quell'imbecille! Quel bastardo! » esclamò. «E' completamente impazzito.» Aveva sentito l'esplosione e assistito agli spari. «Passino quindici anni, ma il capestro no. » Diede mano alla ruota del timone e il peschereccio piegò sottobordo alla Kingfisher. Scrutando tra gli spruzzi e il sale che macchiava i vetri, vide poi Benedict che s'alzava in piedi e correva dietro a Sergio. Staccò allora dal gancio sulla parete il megafono elettrico, alzò il vetro laterale della tuga e portandosi il megafono alla bocca gridò: «Ehi! Stupido
bastardo! E' impazzito? Cosa diavolo sta facendo? » Benedict lanciò un'occhiata verso il peschereccio e lo ignorò per mettersi a ricaricare il fucile. Continuava intanto a inoltrarsi sulla coperta per tentare di raggiungere Sergio e finirlo. « Ci farà impiccare tutti, imbecille! » gridò ancora nel megafono Hugo. « Lo lasci perdere. Andiamo via da qui. » Inciampando e scivolando, Benedict continuava ad andare verso la scaletta della plancia della Kingfisher. «Io me ne vado, subito, ora! Mi ha sentito? Lei cuocia pure nel suo brodo, io taglio la corda. » Questa volta Benedict si fermò e si voltò a guardare verso il peschereccio. Poi, indicando il ponte di comando, gridò qualcosa. Hugo afferrò la parola «Diamanti ». «E va bene, amico. Fa' come ti pare. Ci vediamo! » E Hugo spinse fino in fondo la leva del telegrafo di macchina. Il ruggito dei motori e la schiuma bianca delle eliche convinsero subito Benedict. «Hugo! Aspetti! Aspetti, vengo subito! » Corse alla biscaglina e s'apprestò a scendere. Hugo tirò a sé la leva e portò il peschereccio dritto sotto la biscaglina. «Salti! » gridò nel megafono. Obbediente, Benedict saltò e cadde pesantemente sulla coperta del peschereccio. Il fucile gli sfuggí di mano, cadde in mare e per un pò lui rimase a guardare in quella direzione, alla fine si tirò su e, zoppicando, raggiunse il ponte di comando. Il peschereccio intanto s'era già tuffato nel vento e arrancava ora contro le onde. Appena Benedict fu sul ponte di comando Hugo lo aggredì, con quella sua faccia da albino stravolta dalla furia. «Che caspita crede di aver fatto, imbecille? Mi ha mentito. Cos'era quell'esplosione? » «Esplosione? Non so. Quale esplosione? » Hugo gli mollò uno schiaffo che lo colse bruciante in piena faccia. «Eravamo d'accordo che non ci sarebbero stati morti e invece ci ha esposti tutti quanti, brutto imbecille! » Di fronte a quella furia, Benedict era arretrato in un angolo della plancia e se ne stava lí ora, alla larga, massaggiandosi la guancia su cui era comparsa una gran chiazza rossa. «Ha fatto esplodere delle cariche lì a bordo della Kingfisher, vero, brutto figlio di puttana? Cristiddio, non voglio neppure pensare a quello che ha fatto a Lance e alla ragazza. » Fuori la burrasca stava chiaramente avvicinandosi al massimo della sua furia. Ora il peschereccio era investito anche da forti scrosci di pioggia, segno comunque che il vento era prossimo a calare. Automaticamente, Hugo mise in funzione i tergicristalli mentre continuava a imperversare su Benedict. «L'ho vista che tentava d'uccidere anche quell'italiano, Cristiddio! Perché mai? Non era dei nostri? E ora sono io il prossimo nella sua lista? » «Aveva i diamanti», mormorò Benedict. «Cercavo di farmeli consegnare. » L'espressione di Hugo mutò di colpo, dalla ruota del timone si girò verso Benedict. «Perché? Non li ha forse lei i diamanti? E' questo che mi sta dicendo? » A giudicare dal tono, sembrava che fosse addirittura offeso. « Ho cercato. Non voleva. » Hugo piantò la ruota del timone e, con un balzo da leopardo impazzito, schizzò attraverso la cabina. Afferrò Benedict per il bavero della giacca e gli urlò dritto in faccia: « Ha lasciato lì i diamanti? Mi caccia la testa in un cappio e non ne ricavo niente? » Era furibondo e gli occhi gli uscivano letteralmente dalle orbite. E guardando appunto in quegli occhi Benedict si rese ora conto del pericolo che correva. Gli era bastato il tempo necessario per lasciare la nave e raggiungere il ponte di comando del peschereccio per decidere di dire a Hugo che i diamanti erano rimasti in mano all'italiano.
Ora si rese improvvisamente conto che, nonostante le storie che aveva fatto a proposito della morte di Johnny e Tracey, nonostante la sua insistenza perché non ci fossero morti, quell'Hugo non aveva mai avuto la minima intenzione di dividere con lui un milione di sterline in diamanti. Quindi se ora avesse scoperto che invece le pietre erano lì, nella sua tasca, era chiaro che a lui Benedict non sarebbe rimasta nessunissima probabilità di raggiungere l'America del Sud vivo. La traversata sarebbe durata settimane, l'equipaggio del peschereccio era al soldo di Hugo e gli era fedele e lui Benedict avrebbe pur dovuto dormire: lo avrebbero certo colto nel sonno. D'altro canto, neppure lui naturalmente aveva la minima intenzione di dividere quel milione di sterline con Hugo Kramer. Dibattendosi ora nella stretta del tedesco la voce gli si trasformò in un gemito acuto: «Ho cercato. Li aveva Sergio. Non ha voluto. Per questo gli ho sparato ». Hugo ritrasse la mano e stava per mollargli un altro schiaffo quando lui, in un lampo, si girò di lato e lo colpì al basso ventre con una ginocchiata. Il tedesco arretrò con un urlo e un attimo dopo prese a saltellare per tutta la cabina tenendo le mani tra le gambe e lanciando guaiti di dolore. «Bene, Kramer», disse Benedict parlando a bassa voce. «Questa è solo una piccola lezione. Si comporti bene e una volta che saremo dall'altra parte dell'Atlantico avrà le sue cinquantamila sterline. » Si guardarono dritto negli occhi, Hugo stremato e pallido per il dolore, Benedict eretto nella persona, ora, e di nuovo arrogante. «Mi porti rispetto, Kramer. Sono il suo benefattore, non lo dimentichi. » Hugo lo guardava a bocca aperta. Le posizioni s'erano dunque invertite in un attimo. Si drizzò e, con voce ancora alterata dal dolore ma ormai umile, disse: «Mi dispiace, ma ho perso la calma. E' stato un maledetto... » «Capitano! Attento! » Era il marinaio di colore, Hansie. Hugo Kramer si trascinò al timone che aveva abbandonato e scrutò fuori nella burrasca. Il Wild Goose stava precipitando giú per un altro pendio di verde acqua e dritto a prua il tedesco scorse una delle enormi boe gialle che la Kingfisher aveva calato e poi abbandonato. Era tenuta ferma tra quelle ondate dal cavo dell'ancora. Questo era teso in quel momento come una barra d'acciaio di traverso alla prua del peschereccio, sollevato al disopra della superficie dell'acqua e gocciolante per la tensione provocata dagli strattoni della boa. «Oddio!» Hugo girò la ruota e lanciò i motori del peschereccio a marcia indietro, ma stavano precipitando giú dall'onda che li aveva sollevati e la loro velocità era incontrollabile, passarono dunque dritto sopra al cavo, che gli raschiò tutta la chiglia. Poi, allorché incappò nell'albero dell'elica e successivamente in questa, s'udí un clangore metallico seguito subito dopo dallo schianto dell'albero dell'elica che si spezzava. A retromarcia, i motori del peschereccio urlarono impazziti, girando a vuoto. Hugo spinse sino in fondo la leva del telegrafo di macchina e spense così i motori, e lì nella cabina ci fu silenzio. Il peschereccio virò mettendosi di traverso alle onde che le piombavano addosso furiose. Senza elica, da rabbioso e piccolo mastino il Wild Goose era ormai ridotto a un semplice relitto in balia delle onde, della corrente e dei capricci del vento. Hugo girò il capo lentamente finché si trovò a guardare sottovento alle sagome minacciose di Thunderbolt e Suicide che in quel momento spuntavano fuori dagli scrosci della pioggia. «Tappati le orecchie! Tappale bene! » Johnny spinse Tracey contro la paratia il piú lontano che riuscirono a riparare rispetto alla sala del ciclone. «Ci sono venticinque chili di plastico là fuori. Esploderanno come un vulcano.
Avrà usato i detonatori a breve. Quattordici minuti. Non dovremo aspettare molto. » La sistemò con le spalle appiattite contro il freddo acciaio e le si piazzò davanti premendole addosso, facendole scudo col proprio corpo. Guardandosi dritto negli occhi, stringendo i denti e tappandosi le orecchie con i palmi delle mani, rimasero cosí in quella posizione in attesa dell'esplosione che stava per venire. Passarono alcuni minuti che per Tracey furono i piú lunghi di tutta la sua vita e che, se non ci fosse stato quel corpo duro e forte che la copriva letteralmente, non avrebbe certo sopportato senza mettersi a urlare istericamente; ma anche cosí, durante quei minuti che scorrevano lenti come densa melassa, sentì la paura montarle incontrollabile dentro. A un tratto, di colpo, l'aria stessa le s'avventò addosso, togliendole il fiato, e Johnny fu schiacciato con forza contro di lei. Lo scoppio le si ripercosse violento nei timpani e le deflagrò nel cranio facendole vedere scintille e lampi accecanti. Sentì l'acciaio della paratia premerle contro le spalle. Poi la testa le si sgombrò e, pur ancora assordata dal fischio nelle orecchie, scoprì con immenso sollievo d'essere ancora viva. Allungò una mano in cerca di Johnny e non lo trovò. Presa dal panico, aprì gli occhi. Stava laggiú, in fondo alla sala del nastro trasportatore, e correva verso il portello chiuso. Quando l'ebbe raggiunto schiacciò il viso contro lo spioncino. Il fumo che riempiva ancora la cabina era come una vorticante nebbia azzurrognola attraverso la quale s'intravedeva chiaramente la rovina provocata dall'esplosione. Divelto e scaraventato contro la paratia opposta, l'enorme ciclone era ora lì, completamente abbattuto. A Johnny bastò una sola breve occhiata per inorridire. Il tubo della ghiaia era stato troncato netto proprio sotto la giuntura col ponte superiore. Sporgeva di un sei buoni piedi ma la forza del getto che lo attraversava lo sbatteva e scuoteva tutto come se non fosse acciaio ma una semplice canna di gomma per innaffiare il giardino. Quel getto si presentava come una solida colonna, un vero e proprio pilastro di magma giallo scuro, un miscuglio di ghiaia e sabbia, melma del fondo e acqua di mare, che premeva contro il fasciame dello scafo con un sordo e martellante sciabordio. Nei pochi secondi trascorsi dall'esplosione la sala del ciclone era già mezza piena di quella densa massa di fango che ciangottava da una parte all'altra a tempo col movimento della nave. Faceva pensare a una mostruosa quantità di colla di pesce che acquistasse peso e consistenza di secondo in secondo. Tracey corse accanto a Johnny che le passò un braccio intorno alla spalla. Continuando a guardare nel vetro blindato, la sentì irrigidirsi tutta. In quel momento il mostro giallastro si spiaccicò contro lo spioncino oscurandogli completamente la vista. Sotto le mani Johnny avvertì il primo flettersi delle lastre d'acciaio. Quasi si piegarono, frementi, e fu come se protestassero con forza contro l'insopportabile pressione. Cedette per prima una giuntura, e subito un getto sottile d'acqua sibilò nel piccolo varco e inzuppò, gelido, il maglione di Johnny. «Fatti indietro! » Johnny trascinò via Tracey, lontano dalla paratia gonfia e scricchiolante. Corsero inciampando nella stretta sala del nastro trasportatore; si muovevano con difficoltà perché sotto i loro piedi il ponte s'inclinava man mano che la nave cedeva al peso che le andava aumentando nel ventre. Sempre tirandosi dietro Tracey, Johnny raggiunse il portello opposto, chiuso, e desisté dall'idea di attaccarlo con le sole mani, senza l'aiuto di uno strumento.
Si sforzò invece di riflettere, cercando di prevedere quale sarebbe stata la successione degli avvenimenti che avrebbero portato alla distruzione definitiva della Kingfisher... e di tutti quelli che si trovavano a bordo. Benedict aveva lasciato l'altro portello della sala del ciclone spalancato e ora la gran massa viscosa di fango e acqua certamente stava filtrando ai ponti inferiori, seguendo sempre la strada sulla quale incontrava minor resistenza, individuando i punti deboli e filtrando irresistibile attraverso quelli. Nel caso le paratie della sala del nastro trasportatore avessero resistito alla pressione il resto dello scafo si sarebbe riempito e loro si sarebbero ritrovati tra i tentacoli del grande mostro giallastro: una bollicina d'aria intrappolata all'interno di quella massa e trascinata giú con essa quando sarebbe ritornata nell'abisso dal quale veniva. Quanto avrebbero retto quelle paratie? La risposta arrivò immediatamente con uno schianto di metallo contro metallo e un crepitio di mille zampilli. Il mostro aveva trovato il punto debole, aveva aperto una breccia attraverso la fornace dell'asciugatoio che dava sopra il nastro trasportatore e aveva strappato via quel fragile diaframma, precipitandosi nella fornace stessa accompagnato da una nuvola di vapore e rovesciandosi subito dopo nella sala del nastro trasportatore. Si portava dietro il fetore da chiavica della melma del fondo marino. La Kingfisher fece un'altra beccata, diversissima dalle solite, e la massa di fango si riversò giú lungo il tunnel, una massa quasi solida che arrivava fino al ginocchio. Li mandò a sbattere contro il portello d'acciaio con traumatica violenza e il contatto con essa fu terrificante e nauseabondo quanto può esserlo il contatto con tutto ciò che è morto e putrefatto. La Kingfisher si raddrizzò e la massa si ritirò, sbatté contro la paratia di fronte e si riversò di nuovo verso di loro. Gli s'avventò addosso coprendoli fino alla vita e nell'ondata successiva cercò di tirarli addirittura sotto. Tracey ora urlava, con nervi e muscoli sul punto di cedere definitivamente. Si teneva aggrappata a Johnny, coperta fino alla vita dal puzzolente magma, con la bocca e gli occhi spalancati dal terrore alla vista di quella massa che andava raccogliendosi per l'attacco successivo. Dal canto suo Johnny brancolava, cercava qualcosa a cui aggrapparsi e ancorarsi. Dovevano mantenersi in piedi se volevano sopravvivere all'ondata successiva. Trovò il volano del portello e vi s'aggrappò, reggendo Tracey con l'altro braccio e tirandola a sé con tutta la forza. La fanghiglia partì di nuovo all'attacco, silenziosa, assassina. Gli si rovesciò sul capo mandandoli a sbattere con forza contro la paratia. Poi si ritrasse ancora una volta e li lasciò li in ginocchio, trattenuti soltanto dalla presa di Johnny sul volano del portello. Tracey stava vomitando quel sozzo fango che l'accecava e le riempiva orecchie e narici, assordandola e ribollendo al suo fiato. Johnny la sentiva afflosciarsi, sentiva la sua resistenza cedere e la forza di rialzarsi venir meno. Poi il volano gli girò sotto le dita e il portello al quale si teneva aggrappato parve cedere. Barcollò all'indietro, senza piú appoggio ma sempre stringendo Tracey. Gli occorse qualche attimo per riconoscere la gran figura rassicurante di Sergio Caporetti accanto a lui e sentire contemporaneamente un braccio grosso quanto un tronco di pino reggerlo prima che l'ondata di fango l'investisse abbattendoli tutt'e tre e facendoli rotolar via prima che la forza del proprio impeto si disperdesse nel nuovo spazio apertosi oltre il portello della sala del nastro trasportatore. Johnny si tirò su contro la paratia. Aveva perso Tracey. Accecato e disperato la cercò, farfugliando il suo nome. La trovò che galleggiava a faccia in giú nel fango poco lontana da lui. Afferrò allora un ciuffo di capelli infangati e le sollevò il viso, ma il mostro la teneva per i piedi e, gonfiandosi ancora, fece perdere l'equilibrio anche a lui.
«Aiuto, Sergio! » gridò. «Per l'amordiddio, Sergio. » E Sergio accorse, sollevando Tracey, prendendola in braccio come fosse una bambina e guadando la massa inquieta fino alla scaletta che portava al ponte superiore. Il fango abbatté ancora una volta Johnny, che tuttavia quando riaffiorò vide Sergio che saliva su per la scaletta. Nonostante fosse accecato da quella roba, vide che l'ampia schiena dell'italiano, dalle spalle alla vita, era punteggiata da una dozzina di buchi, come se fosse stato ripetutamente trafitto da uno spillone. E da ogni buco gocciolava sangue che si spargeva come scuro inchiostro sulla carta asciugante della giacca. Arrivato in cima alla scaletta Sergio si voltò, sempre reggendo Tracey in braccio, e rimase lì come un colosso a guardare Johnny che si dibatteva nel viscido fango di sotto. «Ehi, Lance. Vada a spegnere quella sua maledetta macchina. Sta affondando la mia nave. La piloto io ora, con le mie mani, come si deve. Senza quella macchina del cavolo! » Johnny si resse alla paratia e rispose, urlando: « Sergio, che ne è di Benedict van der Byl? Dov'è? » «Credo che se ne sia andato col Wild Goose... ma prima mi ha vigliaccamente sparato addosso. Ora vada a fermare quella macchina, non è il momento di chiacchierare. » E sparí, portandosi via Tracey. Un'altra ondata di fango trascinò Johnny in fondo al corridoio allagato e lo mandò a sbattere contro il portello della sala di controllo. Era già tutto pieno di lividi brucianti e, nel provare ad aprire quel portello, continuava a essere sbattuto da una parte all'altra. Alla fine, sfruttando il risucchio di quella specie di fangosa risacca, riuscì a spalancare il portello. Venne subito precipitato dentro da una successiva ondata giallastra, che invase il compartimento fino all'altezza della spalla. S'aggrappò in tempo alla consolle dell'elaboratore e allungò una mano verso i tasti delle funzioni principali. DRAGAGGIO: CESSATO. MOTORI DRACA: SPENTI. MOTORI NAVE: MANUALI. SISTEMA DI NAVIGAZIONE: MANUALE. TUTTI I PROGRAMMI: ABORTITI. Immediatamente il possente brontolio del tubo spezzato della draga, che durante tutti i loro tentativi era echeggiato per l'intera nave, andò diminuendo come quello d'una grande cascata cui cessi l'afflusso d'acqua. Quindi ci fu silenzio; un silenzio però relativo, perché lo scafo ancora gemeva e scricchiolava per il carico da infarto che ora trasportava e perché il fango sbatacchiava contro il fasciame. Stremato e sfiancato, Johnny si teneva aggrappato alla consolle. Tremava dal freddo e ogni muscolo del corpo gli doleva. A un tratto il corso della nave chiaramente cambiò, gli parve addirittura di sentirsela crescere sotto i piedi allorché, come una balena arpionata, virò offrendo il fianco alla burrasca. Si tirò su, allarmato. Il viaggio attraverso i corridoi allagati fino alla scaletta fu un'agonia per la mente e per il corpo: perché ora la Kingfisher stava comportandosi in modo strano e innaturale. Quando riuscì a raggiungere il ponte di comando la scena che ebbe davanti agli occhi gli gelò l'anima come il fango gli aveva gelato il corpo. Thunderbolt e Suicide erano a meno di duecento metri a dritta e ambedue erano avvolte da una nuvola di spruzzi; si levavano dalle ondate infuriate che s'abbattevano come tante cannonate sulla roccia. Il flauto impazzito del vento s'univa ai timpani sordi della risacca producendo una sinfonia buona per le sale da concerto dell'inferno, e tuttavia al disopra di quella musica diabolica Sergio fece sentire il suo ruggito: « Il motore di sinistra non tira! » Johnny si girò verso di lui: stava piegato sopra la ruota e ai suoi piedi, come una bambola abbandonata, era distesa Tracey.
«L'acqua lo ha spento. » Sergio stava muovendo su e giú la leva del telegrafo di macchina; poi abbandonò ogni tentativo e guardò di lato. Le fumanti rocce bianche erano piú vicine adesso, sembrava di poterle toccare allungando una mano. La nave scarrocciava lesta col vento. L'italiano fece compiere alla ruota un intero giro a sinistra cercando di mettere la prua al mare e al vento mentre la nave rollava come nessuna nave può permettersi di rollare, spingendosi a ogni rollio fino al limite così che i vetri della cabina sembravano a pochi palmi dalle creste delle verdi onde. La nave allora s'impennava come se non intendesse tornare piú dritta per poi, riluttante, lenta, riabbassarsi e quindi tornare ancora a impennarsi allorché la gran massa d'acqua e fango all'interno dello scafo si spostava sbattendo e risbattendo contro i fianchi, inchiodando la nave in quella posizione per secondi eterni prima che si raddrizzasse e preparasse a ripetere tutto da capo. Sergio teneva la ruota sotto giro completo e tuttavia la Kingfisher puntava ostinata su Thunderbolt e Suicide. Il vento la teneva come un cane tiene un osso tra i denti. Con metà della sua forza di propulsione e con i ponti allagati, la nave non riusciva a liberarsi da quella stretta. Di tutto questo Johnny non era altro che spettatore impotente, inchiodato dall'angoscia al punto di non poter neppure soccorrere Tracey, che stava sempre stesa lì a terra. Vedeva tutto con soprannaturale chiarezza, dai goccianti buchi nella schiena di Sergio agli irresistibili e inarrestabili rovesci d'acqua sulla roccia così minacciosamente vicina. «Non risponde al timone. E' troppo malata.» L'italiano parlava ora con un tono pacato che risultava sorprendentemente chiaro pur in tutto quell'infuriare di elementi. «E va bene, vuol dire che allora puntiamo dall'altra parte. C'infiliamo nello stretto. » Sulle prime Johnny non capí, poi vide. La prua della Kingfisher stava puntando sullo stretto passaggio tra le due isole. Un paesaggio di meno di cento metri nel suo punto piú stretto, dove feroci correnti opposte si scontravano balzando, nel cozzo, fino a cinquanta piedi d'altezza. Lí la superficie del mare era coperta da una spessa spuma che si gonfiava ed esplodeva come se l'oceano stesso lottasse per riprendere fiato sotto la spessa coltre color crema del cielo. «No!» Johnny scuoteva il capo guardando il pericoloso passaggio. « Non ce la faremo, Sergio. Non ce la faremo. » Ma l'italiano aveva già fatto compiere un giro completo alla ruota e, incredibilmente, questa volta la nave rispose. Aiutata dal vento, ruotò lentamente su se stessa quasi sfiorando, cosí parve, i bianchi scogli di Thunderbolt per stabilire alla fine il proprio corso e puntare verso il passaggio. Fu allora che Johnny la scorse. « Santo cielo! C'è una nave dritto a prua! » Le alte ondate la nascosero un attimo ma subito dopo riapparve, cavalcando una cresta. Era un piccolo peschereccio con sul tozzo albero, come vela di straglio, uno sporco straccio che fileggiava al vento. Stava dibattendosi penosamente tra le granitiche fauci di Thunderbolt e Suicide. « Il Wild Goose! » urlò Sergio, e allungò la mano verso il tirante della sirena da nebbia sopra al suo capo. «Ora si che ci divertiremo. » Tirò e il lungo muggito della sirena echeggiò tra le rocce che li stringevano da ambo i lati. «Hai ucciso i miei ragazzi, eh? Mi hai sparato alla schiena, eh? Mi hai fottuto, eh? E ora fotto io te, definitivamente! » Sergio sottolineava ogni esclamazione con un muggito di sirena. « Dio del cielo, no! Non può farlo! » Johnny s'aggrappò alle spalle del grosso italiano, che se lo scrollò di dosso e puntò la nave dritto sul peschereccio che ostruiva il passaggio. « L'ho avvertito in tempo. » Sergio mandò un altro muggito a echeggiare tra le rocce. «Lui invece non mi ha avvertito quando mi ha sparato, il bastardo. » Sul ponte di prua del peschereccio c'era un gruppo d'uomini.
Johnny vide che stavano armeggiando con un grosso canotto di gomma nera, stavano calandolo dal bordo piú vicino alla Kingfisher ma al muggito di questa parvero bloccarsi. Rimasero a guardare l'alto muro implacabile che stava precipitandosi addosso a loro. Nella penombra le loro facce erano delle macchie bianchissime. «Sergio! Questo è un omicidio. Viri, maledizione! Fa ancora in tempo a evitarli. Viri! » Di nuovo Johnny si buttò verso la ruota e fece per afferrarla. Sergio si girò e gli mollò un manrovescio che lo colse alla tempia e quasi gli fece scricchiolare il cranio, mandandolo a sbattere, mezzo stordito, contro la paratia. «Chi comanda questa maledetta nave?» All'italiano era affluito del sangue alla bocca, quell'urlo doveva avergli lacerato qualcosa dentro. La prua della Kingfisher si sollevava e abbassava come una minacciosa mannaia sul peschereccio. Ora erano abbastanza vicini perché Johnny riconoscesse gli uomini sulla coperta del Wild Goese, ma la sua attenzione fu attratta da uno solo di loro. Benedict van der Byl stava aggrappato al parapetto con tutt'e due le mani. Soffici e scuri, i capelli gli si agitavano al vento. Gli occhi risaltavano come due grossi buchi neri, quelli di un teschio, sul viso bianchissimo e le labbra erano un livido cerchio che esprimeva terrore. Poi, di colpo, il peschereccio scomparve sotto la prua massiccia della Kingfisher e immediatamente dopo risuonò fortissimo lo scricchiolio prima e lo schianto poi del suo fasciame che andava in frantumi. La nave continuò il suo corso tra le rocce dello stretto senza rallentare. Johnny armeggiò con la maniglia della controporta che il vento alla fine spalancò. Avanzò allora barcollando sulla plancia e raggiunse il parapetto. Rimase lí, in piena burrasca, e guardo giú al relitto che in quel momento stava scorrendo lungo la fiancata della Kingfisher per scomparire infine a poppa. C'erano teste umane sballottate tra i rottami e il ribollio dell'elica della Kingfisher li spingeva ancor piú verso gli scogli di Suicide. Poi un'ondata afferrò uno di quegli uomini, lo trasportò velocemente dritto verso gli scogli, lo sollevò in alto e si ritirò subito dopo, lasciando il corpo steso sul liscio declivio di granito bianco. Era ancora vivo quell'uomo, Johnny lo vide aggrapparsi con le mani alla roccia per tirarsi piú su, fuori della portata delle onde. Era Hugo Kramer. Pur sotto la pioggia di spruzzi era impossibile non riconoscere la testa di capelli quasi bianchi e quel fisico nerboruto. L'ondata successiva lo raggiunse e lo trascinò sulla roccia sottostante, strappandogli via le unghie dalle dita uncinate alla roccia alla quale si sforzava di tenersi aggrappato. Fu dunque proiettato giú e sbattuto nella risacca intorno alla roccia prima che un'altra ondata ancora lo risollevasse e riprecipitasse sulla roccia soprastante. Nell'urto una delle gambe si spezzò all'altezza del ginocchio e la parte inerte sbatté come la pala d'un mulino nell'acqua che le ribolliva tutt'intorno. Di nuovo Hugo venne abbandonato all'asciutto ma questa volta non si mosse. Rimase lí, steso sulla roccia a braccia spalancate, con la gamba ripiegata in fuori all'altezza del ginocchio formando un angolo affatto innaturale. Poi tra quelle onde possenti si levò una montagna d'acqua verde che giganteggiò tra tutte. Si raccolse ammassandosi con lenta maestosità e rimase quasi sospesa sulla roccia di granito prima d'abbattersi sul corpo disfatto del tedesco con un boato che parve scuotere e far tremare la roccia stessa. Quando quella gigantesca massa d'acqua si ritirò, la roccia era completamente sgombra. Hugo era scomparso. Ma quella stessa ondata che aveva distrutto l'albino s'avventò ora sul passaggio tra i due isolotti e, al confronto di come aveva trattato Hugo, si comportò ora
con tenerezza addirittura materna con la Kingfisher, sollevandola e trascinandola verso il mare aperto, al di là di quelle infide e crudeli rocce. Voltatosi a guardare indietro al passaggio tra i due isolotti, l'ultima cosa che Johnny vide del Wild Goose fu il nero gommone sballottato violentemente dall'acque impazzite in quel gran ribollio di bianca e spietata risacca sotto la pioggia di ancor piú bianchi scrosci. «Non servirà piú a nessuno ora», disse ad alta voce. Cercò con lo sguardo qualche eventuale superstite ma non ne vide nessuno. Erano stati tutti stritolati tra le fauci di Thunderbolt e Suicide e ricacciati poi nella gelida e verde gola del mare. Si voltò e rientrò nel ponte di comando. Sollevò Tracey e la portò nella cabina del comandante. Nel depositarla sulla cuccetta le bisbigliò: «Sono contento. Contento che tu non abbia visto, tesoro ». A mezzanotte il vento ancora staccaniva contro la nave ululando e riversando solidi scrosci di pioggia contro i vetri del ponte di comando; quaranta minuti piú tardi girava di centottanta gradi e si trasformava in una leggera brezza da sud-est. Il cielo nero s'aprí come un sipario e la luna piena venne fuori cosí luminosa da fare impallidire le stelle. Anche se le nere onde ancora avanzavano a ranghi stretti da nord, la lieve brezza cominciò a calmarle e tranquillizzarle. «Sergio, ora deve riposare. Prendo io il timone. Lasci che Tracey le curi la schiena. » « Prendere lei il timone? » esclamò l'italiano, in tono sprezzante. «Lei? Cosí, io salvo la nave e lei l'affonda? Un fottuto no! » «Stia a sentire, Sergio. Non sappiamo quanto sia grave la sua ferita. In questo modo lei si ammazza. » Per tutta la notte, per tutte le lunghe ore durante le quali l'italiano si tenne ostinatamente aggrappato alla ruota del timone e pilotò l'affannata nave verso Cartridge Bay, non fecero che discutere, animandosi, sempre dello stesso argomento. Sergio intanto continuava a tenersi al largo per evitare gli isolotti e cosí quando l'alba spuntò la terra non era altro che una bassa linea scura all'orizzonte e le montagne dell'interno lontane macchie azzurre. Un'ora dopo l'alba Johnny riuscí a mettersi in contatto con l'agitatissimo operatore radio di Cartridge Bay. « E' da ieri che tentiamo di metterci in contatto con lei. » «Ho avuto da fare.» Nonostante la spossatezza, sorrise lui per primo a quella battuta. «Ora stia a sentire. Stiamo rientrando a Cartridge Bay. Saremo lí tra un paio d'ore. Voglio che lei faccia venire in aereo da Città del Capo il dottor Robin Sutherland. Voglio anche che sia presente la polizia. Voglio qualcuno della polizia privata della Van Der Byl Diamonds e della Squadra Omicidi. Ha capito? » « La polizia è già qui. Cercano Benedict van der Byl. Hanno trovato la sua macchina qui. C'è un mandato. » La voce dell'operatore svaní e Johnny udí sullo sfondo un mormorio di altre voci, quindi: «Lance, è sempre in ascolto? Si prepari a parlare con l'ispettore Stander del C.i.D... » «Negativo!» lo interruppe Johnny, brusco. «Non parlo con nessuno. L'ispettore può aspettare finché arriviamo a Cartridge Bay. Avverta piuttosto il dottor Sutherland. Ho un uomo malamente ferito a bordo. » Spense l'apparecchio e a passo lento tornò sul ponte di comando. Gli facevano male tutti i muscoli e i nervi del corpo ed era stremato, ma riprese la discussione con Sergio nel punto nel quale l'avevano interrotta. «Ora mi stia a sentire, Sergio. Lei deve stendersi un pò.
Ci porterà lei in porto, stia tranquillo, ora però deve riposare almeno un'oretta. » Ma Sergio non mollava la ruota del timone, consentí solo a denudarsi fino alla vita perché Tracey gli esaminasse la schiena. In quella gran massa bianca e muscolosa c'erano dei piccoli fori incorniciati ognuno da un livido. Alcuni erano chiusi da una crosta, altri ancora perdevano un liquido chiaro o color rosa e ogni ferita mandava un odore dolciastro. Tracey e Johnny si scambiarono un'occhiata preoccupata, poi Tracey prese la cassetta del pronto soccorso e si mise all'opera. «Come si presentano, Johnny?» Il tono spensierato di Sergio contrastava vivamente con la faccia, che sembrava un grosso impasto di macabri colori, dal livido al verdiccio. Johnny volle sfoggiare la stessa disinvoltura: «Dipende da come preferisce la carne, se al sangue o ben cotta». Sergio fece per sorridere ma s'interruppe con una smorfia. Johnny gli mise un sigaro tra le labbra e gli porse la fiamma di un fiammifero. Mentre poi lui accendeva sbuffando gli chiese, in tono del tutto casuale: « Che cosa le ha fatto cambiare idea, Sergio? » L'italiano alzò gli occhi dalla fiamma con, dietro alla cortina di fumo, l'aria colpevole. «Ci aveva tolti di mezzo. Magari poteva cavarsela», insisté Johnny, calmo. « Che cosa l'ha fatta rientrare in sé? » «Senta, Johnny. Io ho fatto tante porcherie in vita mia, ma non ho mai ucciso nessuno. Mai. Lui aveva detto niente morti. Benissimo, ci sto. Poi sento quell'esplosione e so che voi due siete chiusi di sotto nella sala del nastro trasportatore, allora mi dico: al diavolo, a questo punto non ci sto piú. Ma le cose precipitano e mi ritrovo impallinato. » Per un pò tacquero. Tracey era occupata a chiudere le ferite con dei cerotti. Poi Johnny ruppe il silenzio: «C'era un grosso diamante, Sergio? Un grosso diamante azzurro? » «Sì.» L'italiano mandò un sospiro. «Come quello non ne rivedrò mai piú in vita mia. » « Lo aveva Benedict? » «Sì, lo aveva lui. » « Lo aveva con sé? Addosso? » «Nella tasca. Se l'è messo nella tasca della giacca. » Tracey fece un passo indietro. «E' tutto quello che possiamo fare per il momento», disse a bassa voce, e incontrò lo sguardo di Johnny. Scosse allora il capo, preoccupata. «Piú presto lo affidiamo a un dottore meglio sarà per lui. » Poco prima di mezzogiorno Sergio guidò la Kingfisher nel canale di Cartridge Bay manovrando la nave carica di fango con la perizia del grande marinaio, ma quando raggiunsero la prima curva del canale crollò, scivolò giú afflosciandosi, e la ruota gli sfuggí di mano. Prima che Johnny facesse in tempo a prendere il timone, la nave aveva già sbandato, ma le era rimasto tanto poco abbrivio che quando andò a sbattere contro la lingua di sabbia e vi montò sopra ebbe solo un piccolo sussulto, dopodiché s'inclinò di qualche grado. Johnny spinse la leva del telegrafo di macchina sullo Stop. «Dammi una mano, Tracey. » Si chinò su Sergio e lo afferrò sotto le ascelle. Tracey gli prese le caviglie. Reggendolo e trascinandolo insieme, riuscirono a trasportarlo nella sua cabina e a depositarlo sulla cuccetta. «Ehi, Johnny. Mi dispiace, Johnny» farfugliava intanto l'italiano. «E' la prima volta che incaglio una nave, la prima volta! Imbecille! Eravamo quasi arrivati e... to'! Mi dispiace, Johnny. » La lancia a motore si staccò dal pontile e risalí il canale puntando verso la striscia di sabbia sulla quale la Kingfisher s'era incagliata. Era carica di gente e il motore fuoribordo col suo stridore fece levare in volo uno stormo di uccelli marini che, con un gran frullio d'ali, volteggiarono impazziti tutt'intorno prima di fuggir via. Quando la lancia fu abbastanza vicina Johnny riconobbe alcuni degli occupanti: Mike Shapiro e, accanto a lui, Robin Sutherland; ma c'erano anche due poliziotti
in uniforme e un altro in borghese, che s'alzò in piedi appena furono a portata di voce. Si portò le mani alla bocca: «Sono un funzionario di polizia. Ho un mandato d'arresto per Benedict ». Mike Shapiro lo tirò per una manica e gli parlò a bassa voce. Il poliziotto esitò, guardò verso Johnny, quindi annuí col capo e tornò a sedere. «Robin, salì subito a bordo», gridò Johnny in direzione della lancia, e quando Robin Sutherland fu su in coperta lo trascinò verso la scaletta della plancia. Mike Shapiro gli corse dietro. « Johnny, devo parlarti. » « Piú tardi. » «No, ora. Subito.» Mike Shapiro si rivolse a Tracey. «Vuole occuparsi lei del dottore, per cortesia, devo parlare a Johnny prima della polizia. » Quando furono soli, coi poliziotti che si tenevano a discreta distanza, gli offrí una sigaretta. «Johnny, ho un'orrenda notizia, e devo dartela di persona. » «Sí? » Johnny stava chiaramente facendosi forza. « Si tratta di Ruby. » Johnny fece la sua deposizione all'ispettore di polizia nella cabina degli ospiti. Per raccontare l'intera storia gli ci vollero due ore durante le quali i poliziotti in divisa scoprirono l'equipaggio chiuso nel deposito delle vernici sottocoperta. Erano mezzo asfissiati dalle esalazioni ma si dissero pronti lo stesso a fare le loro deposizioni. L'ispettore li fece aspettare nella cabina accanto intanto che finiva d'interrogare Johnny. «Ancora due domande. Secondo lei la collisione tra le due navi è stata accidentale o deliberata? » Johnny lo guardò negli occhi grigio ferro e, per la prima volta in vita sua, mentí: «Era inevitabile». L'ispettore annuí e scrisse qualcosa nel suo taccuino. «L'ultima. I superstiti del peschereccio, che probabilità avevano di cavarsela? » «In quella burrasca nessuna. Né da parte della Kingfisher c'era la minima possibilità di tentare un'operazione di salvataggio, considerate appunto le condizioni della nave e la forza delle onde in quello stretto passaggio tra gli isolotti. » «Capisco.» L'ispettore annuí. «Grazie, signor Lance. E' tutto per ora. » Lasciata la cabina, Johnny salí immediatamente sul ponte di sopra. Tracey e Robin Sutherland erano ancora indaffarati intorno a Sergio, ma Robin si voltò e andò immediatamente da lui, fermo sulla soglia. « Come sta, Robin? » «Non ha nessuna probabilità di cavarsela», rispose Robin, tenendo bassa la voce. «Un polmone ha ceduto e tutto fa pensare che abbia viscere e intestino perforati. Sospetto una grave peritonite. Se lo muoviamo c'è il rischio di un'emorragia interna. » « E' cosciente? » Robin scosse il capo. «Sta andandosene. Dio sa come ha fatto a resistere cosí a lungo. » Johnny s'avvicinò alla cuccetta e poggiò una mano sulla spalla di Tracey. Lei gli si strinse contro e rimasero lí a guardare Sergio. Aveva gli occhi chiusi e la parte bassa del viso coperta da un nero velo di barba. Il respiro era un rantolo che risuonava nel silenzio della cabina; la febbre gli aveva acceso delle chiazze sulle guance. «Vecchio imbroglione eroico», esclamò Johnny a bassa voce. Le palpebre di Sergio batterono e s'aprirono. Johnny si chinò immediatamente su di lui. « Sergio... il suo equipaggio... i suoi ragazzi sono salvi. » L'italiano sorrise. Chiuse di nuovo quegli occhi scuri da gazzella poi li riaprí e bisbigliò, con pena: «Johnny, mi darà un lavoro quando esco di prigione? » « Non la metteranno
in prigione, rovinerebbe l'ambiente. » Provò a ridere ma riuscí solo a emettere un uggiolio soffocato. Poi s'alzò su un gomito, con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, in cerca di fiato. Tossí una volta, un suono crudo e lacerante, e dalle labbra gli uscí un fiotto di sangue denso di scuri coaguli. Ricadde sui cuscini e morí prima che Robin facesse in tempo ad accorrere. Tracey dormiva nella camera accanto. Robin le aveva dato un sedativo sufficiente a farla dormire dodici ore di fila. Lui stava invece disteso nudo nella stretta cuccetta della seconda stanza degli ospiti degli alloggi di Cartridge Bay, e quando accese la lampada sul comodino il suo orologio segnava le 2 e 46. Si guardò il corpo. I lividi sul petto e sui fianchi, nei punti in cui la massa di fango lo aveva sbattuto contro la paratia, s'erano molto scuriti. Era pentito di non avere accettato il sonnifero che Robin gli aveva offerto perché il dolore fisico e il tumulto di pensieri gli avevano impedito di chiudere occhio per tutta la notte. Si sentiva la mente intrappolata in un incessante incubo, quello delle due morti di cui Benedict van der Byl doveva rispondere da laggiú dove sicuramente era sprofondato: Ruby e Sergio. Ruby e Sergio. Uno lui l'aveva visto morire, la morte dell'altra poteva immaginarla in tutti i suoi raccapriccianti particolari. Si mise a sedere in mezzo al letto e accese una sigaretta, cercando di distrarsi dalle angustianti immagini con le quali la mente stressata lo bombardava. Cercò di concentrarsi invece su ciò che era necessario fare per riparare i danni di quegli ultimi disastrosi giorni. Aveva parlato quella sera stessa, per radio, con Larsen, e aveva ricevuto da lui la promessa di un completo sostegno finanziario per tutto il tempo che sarebbe stato necessario per rimettere in sesto la Kingfisher e per recuperare i diamanti sul nastro trasportatore, oltre a tutte le altre riparazioni necessarie per rimettere la draga in condizione di riprendere il lavoro sui ricchi giacimenti di Thunderbolt e Suicide. Una squadra di operai specializzati sarebbe arrivata in aereo l'indomani stesso per cominciare il lavoro sulla nave. Aveva poi telegrafato all'IBM chiedendo l'invio di tecnici per un controllo degli eventuali danni provocati dall'acqua al calcolatore. Secondo i suoi calcoli occorrevano un sei settimane per rimettere la Kingfisher in condizioni di riprendere il mare. Dopodiché, ormai lanciati, i pensieri ritornarono a Ruby, al suo funerale: era fissato per il martedí della settimana successiva. Si girava e rigirava nella cuccetta, agitato, cercando di riparare la mente dagli assalti di quei pensieri che avanzavano accalcandosi come un'armata nemica. Ruby, Benedict, Sergio, il GrandeAzzurro. Tornò a sedere in mezzo al letto, spense la sigaretta e allungò una mano per spegnere la lampada. Ma rimase bloccato in quel gesto allorché un nuovo pensiero prevalse sugli altri, incalzante. Udí la voce di Sergio, l'aveva incisa nella memoria: Come quello non ne rivedrò mai piú in vita mia. Poi, gelida come un brivido, l'idea gli montò letteralmente lungo tutta la spina dorsale facendogli rizzare i capelli in testa e i peli sulle braccia. « Red Gods! »' esclamò. Quasi gridò quel nome. E di nuovo sentí la voce di Sergio: Nella tasca. Se l'è messo nella tasca della giacca. Saltò giú dalla cuccetta e allungò una mano verso i vestiti. Mentre s'abbottonava la camicia sentí i battiti impazziti del cuore sotto le dita. Si tirò su i pantaloni, infilò il maglione, s'allacciò le scarpe, afferrò a volo la giacca di montone appesa a un gancio e corse fuori.
Stava ancora infilandosi la giacca quando entrò nella piccola stazione radio, deserta, e accese la luce. Andò subito alla carta spiegata sul tavolo e vi si chinò sopra. Trovò il nome sulla mappa e lesse ad alta voce: «Red Gods! » A nord di Cartridge Bay la costa s'estende dritta e senza rilevanti particolari per una cinquantina di chilometri poi, di colpo, la sua linea è interrotta da una punta di roccia rossa che si protende sul mare come un dito accusatore. Lui la conosceva bene. Il suo lavoro consisteva proprio nel trovare ed esaminare quelle caratteristiche naturali che possono fungere da barriera alle correnti dirette verso la costa. In quei posti i diamanti e tutti gli altri oggetti trascinati dal mare vengono gettati a riva. Ricordava dunque benissimo quelle rocce rosse scolpite dal vento e dal mare fino a formare come delle grottesche statue naturali, statue di dèi, che davano appunto il nome al posto; ma ricordava soprattutto ciò che l'oceano trascinava sotto di esse. Rottami d'ogni specie, pezzi di legno, tavole fradice d'acqua, bottiglie vuote, contenitori di plastica, brandelli di reti di nylon e sugheri, tutto ciò che cade e viene buttato fuoribordo e che la corrente trascina via depositando su quel promontorio. Fece scorrere il dito sulla carta e lo fermò sui punti neri di Thunderbolt e Suicide. Lesse le laconiche annotazioni sopra le minuscole freccette che stallontanavano dai due isolotti puntando verso la sagoma decisa di Red Gods. CORRENTE: DIREZIONE SUD SUD EST. NODI 5. Poco discosta dal tavolo dov'era distesa la carta c'era la rastrelliera delle chiavi dei magazzini e depositi, ognuna con la sua etichetta e il suo numero. Scelse quella del garage e quella della Land Rover. La luna era piena e alta nel cielo. La notte era tranquilla e senza traccia di vento. Aprí la porta a due battenti del garage e accese le luci di posizione della Land Rover; alla loro luce controllò: il serbatoio era pieno, le taniche da cinque galloni erano al loro posto e piene, il contenitore dell'acqua potabile era pieno e anch'esso al suo posto. Svitò il tappo e v'immerse dentro il dito. Dolce e bevibile. Sollevò il sedile del passeggero e perlustrò il compartimento sotto di esso: cricco e chiave inglese, cassetta del pronto soccorso, torcia elettrica, razzi da segnalazione e fumogeni, cavo da traino, cassetta degli attrezzi, zainetto, coltello e bussola, c'era tutto. La Land Rover era equipaggiata per affrontare tutte le emergenze d'un viaggio nel deserto. Sedette al volante e accese il motore. Superò i capannoni dei magazzini e gli alloggi a bassa velocità, per non svegliare quelli che dormivano, ma quando ebbe raggiunto la laguna accese i fari e schiacciò a fondo l'acceleratore. Tagliò per le dune di sabbia fino all'ingresso della baia dopodiché puntò verso nord lungo la spiaggia. I fari proiettavano solidi fasci di luce nella caligine che saliva dal mare e destavano gli uccelli marini, che stalzavano sbattendo l'ali in volo, spaventati dalla Land Rover lanciata. La marea era bassa e il bagnasciuga era duro e lucido, liscio come asfalto. Procedeva veloce dunque, schiacciando sotto le ruote i bianchi granchi accecati dai fari. L'alba si levò presto, e i profili esaltati delle dune si stagliarono contro il cielo rosso. A un certo punto spaventò una iena bruna, la razza che ripulisce quel tratto desolato di litorale. Corse via, ingobbita, in preda a un ripugnante panico, a cercar scampo tra le dune. Pur nella sua fretta, lui avvertí un fremito di repulsione per l'odiosa creatura.
Il freddo e umido alito del vento in faccia lo rinfrescò. Gli attutiva anche la sensazione di bruciore agli occhi e la pulsazione, accelerata dall'insonnia, alle tempie. Poi il sole esplose all'orizzonte e illuminò Red Gods laggiú, a otto chilometri di distanza, con tutta la spettacolarità d'una messinscena. Il promontorio baluginava rosso dorato nell'alba con quella sua fila di sagome mezzo umane che parevano avanzare sul mare. Mentre guidava in quella direzione e luce e ombra giocavano con le rocce, gli parve a un tratto di vedere un immenso Nettuno alto qualche centinaia di metri avanzare fino a immergere la fluttuante barba rossa nel mare; aveva al fianco un gobbo mostruoso con la testa di iena. File di vergini vestali, in lunghi mantelli di rossa roccia, camminavano fianco a fianco con quelle strane e fantastiche figure. Uno spettacolo irreale e inquietante. Trattenne la propria fantasia e rivolse l'attenzione alla spiaggia ai piedi dei dirupi di roccia. Ciò che vide gli fece accapponare la pelle. Premé a tavoletta e volò sull'umida sabbia verso una gran nuvola bianca d'uccelli che volteggiavano e si tuffavano e zampettavano caracollando intorno a qualcosa sulla battigia. Mentre si dirigeva da quella parte un gabbiano lo sorvolò bassissimo: dal becco gli pendeva qualcosa di gocciolante e rossiccio e, senza perder tempo, l'uccello volava e mangiava contemporaneamente, inghiottendo avido. Aveva il gozzo teso e gonfio di cibo. Quando la Land Rover s'avvicinò gli uccelli si sparpagliarono con rochi gridi lasciando steso al centro d'un tratto sabbioso, segnato dalle tracce del loro zampettio frenetico e dalle piume cadute nel loro agitato frullare e dagli abbondanti escrementi, un corpo umano. Frenò e saltò giú. Lanciò una lunga occhiata al cadavere, poi gli voltò le spalle e s'appoggiò alla Land Rover. Ebbe un acido, infuocato rigurgito, ma riuscì a controllarsi. A parte i resti zuppi di quel che doveva essere un vestito e a parte uno stivale di gomma infilato a un piede solo, il corpo era nudo. Gli uccelli avevano beccato ogni pezzetto di carne esposta tranne il cuoio capelluto. Il viso era irriconoscibile: il naso era scomparso, le occhiaie erano vuoti buchi neri e non c'erano labbra a coprire i denti ghignanti. Sopra quel volto distrutto i capelli incolori da albino sembravano una parrucca piazzata lí per un odioso scherzo privo di buongusto. Hugo Kramer aveva concluso il lungo viaggio da Thunderbolt e Suicide fino a Red Gods. Da sotto al sedile del passeggero prese il telone impermeabile e, distogliendo lo sguardo, avvolse con cura il cadavere, lo legò ben bene con un pezzo della corda da traino e, a fatica, lo trascinò piú su sulla spiaggia, al disopra del bagnasciuga. La spessa tela avrebbe tenuto lontano gli uccelli, ma per essere ancora piú sicuro raccolse molti dei pezzi di legno che il mare aveva sparso lungo il bagnasciuga e li accumulò sul cadavere. Alcune tavole s'erano chiaramente schiantate da poco e su di esse la vernice era intatta e distinguibilissima. Immaginò che fossero del Wild Goose. Tornò alla Land Rover e si diresse verso Red Gods, che distava un miglio appena. Il sole era alto ormai e il caldo già impazzava. Guidando, si liberò della giacca di montone senza smettere di scrutare intanto la spiaggia davanti a lui. Cercava un altro raduno di gabbiani, vide invece un grosso oggetto nero arenato in un angolo formato dai rossi scogli. Capí cos'era solo quando fu a una cinquantina di passi di distanza. Avvertì allora una forte contrazione allo stomaco e quindi il fremito incontrollabile della sorpresa. Era un canotto di gomma nera, ed era stato tirato a secco sulla spiaggia oltre il bagnasciuga.
Nello smontare dalla Land Rover sentì che le gambe gli tremavano, come se fosse appena reduce dalla scalata d'una montagna mentre la stretta che avvertiva al petto quasi gli mozzava il fiato. S'avvicinò cauto al gommone e le tracce sulla sabbia gli rivelarono molte cose. C'erano la striscia che il gommone aveva lasciato sulla soffice sabbia quando era stato tirato a secco e due serie d'impronte di piedi. Una lasciata da un piede nudo, un piede che doveva essere grosso, con pianta arcuata e dita ripiegate, l'orma del piede d'un uomo che va abitualmente scalzo. Doveva averle lasciate uno degli uomini dell'equipaggio del Wild Goose, decise, e le lasciò perdere. Rivolse invece la propria attenzione all'altra serie di orme. Piedi calzati, questi, suole lunghe e strette di soffice cuoio; le impronte erano pronunciate alla punta e al tacco, ciò che faceva pensare a scarpe nuove, poco consumate, mentre la distanza tra esse e la profondità di ciascuna facevano pensare a un uomo alto dal passo lungo e dalla costituzione robusta. Con leggera sorpresa, si accorse che ora gli tremavano anche le mani. E le labbra. Si sarebbe detto che avesse la febbre, fosse scosso, confuso e indebolito. Quelle orme le aveva lasciate Benedict van der Byl! Ne era piú che certo. Benedict era dunque sopravvissuto alla furia di Thunderbolt e Suicide. Strinse i pugni, li strinse forte, e spinse in fuori la mascella tendendo le labbra. Si sentì investito ancora una volta da un'ondata violenta di odio. «Dio ti ringrazio», sibilò. «Ti ringrazio davvero. Ora posso ucciderlo con le mie mani. » Lo scalpiccio aveva sconvolto la sabbia tutt'intorno al gommone. Lí accanto c'era un grosso pezzo di legno che era stato chiaramente adoperato per scardinare e forzare la tanica dell'acqua potabile e la cassetta del cibo della riserva a bordo del canotto. La cassetta era stata saccheggiata e abbandonata; certamente s'erano cacciati in tasca le scatolette delle razioni; la tanica era invece sparita. Le due serie di orme si dirigevano verso le dune. Le seguí di corsa e giunto alla sabbia smossa dal vento della prima duna le perse immediatamente. Non si lasciò abbattere. Le dune arrivavano solo fino a un chilometro circa da li, dopodiché cedevano il posto al piatto terreno salato dell'interno. Corse alla Land Rover. Ora aveva ripreso il controllo delle proprie emozioni; l'odio era ridotto a un groppo allo stomaco abbastanza sopportabile e per qualche attimo pensò di usare la radio della Land Rover per chiamare Cartridge Bay. L'ispettore Stander aveva l'elicottero della polizia parcheggiato sulla pista d'atterraggio dietro i depositi, in una trentina di minuti sarebbe stato lí e nel giro di un'ora avrebbero trovato e preso Benedict van der Byl. Ma scartò subito l'idea. Benedict era ufficialmente morto affogato, nessuno lo avrebbe cercato nella vasta desolazione del deserto del Namib. L'uomo che era con lui poteva eventualmente rappresentare una complicazione, ma certo si sarebbe lasciato corrompere o spaventare da minacce. Nessun ostacolo doveva presentarsi alla sua vendetta, assolutamente nessuno. Nel compartimento sotto al sedile della Land Rover trovò il coltello. Andò al gommone e piantò una dozzina di volte la lama nella spessa gomma. L'aria uscí sibilando dagli squarci e lentamente il gommone cominciò a sgonfiarsi. Lo caricò poi sul retro del gippone: lo avrebbe seppellito da qualche parte nel deserto. Non dovevano esserci prove dello sbarco di Benedict. Avviò il motore, inserì la trazione integrale e segui la pista fino alle dune. Avanzava tra gli avvallamenti e su per le cime di sabbia. Nel venir giú dal declivio dell'ultima duna avvertì immediata l'oppressione del silenzio e della vastità della regione che lo circondava. L'influenza moderatrice della fredda corrente del Benguela non arrivava fin li, eppure era a solo un miglio di distanza dal mare.
Il calore era terrificante. Sentiva il sudore sgorgare dai pori della pelle e asciugarsi immediatamente in quella secca aria letale. Corse parallelamente alla linea delle dune poi rallentò fino a procedere a passo d'uomo, sporgendosi tutto in fuori per esaminare il terreno. I punti luminosi di mica nella sabbia gli riflettevano in faccia il calore del sole. Incontrò di nuovo la pista nel punto in cui veniva giú dalle dune e prese a seguirla, puntando dritto verso la remota catena di monti che già svanivano nell'azzurra caligine del calore che si levò verso mezzogiorno. Nei punti in cui, sul terreno scabroso e roccioso, sulla pista s'alternavano fosse e colate di roccia procedeva a sbalzi. Due volte smontò per individuare la pista su quel terreno difficile, ma quando fu su uno dei tratti avvallati e piatti della salina riuscí a fare piú di sei chilometri in altrettanti minuti. Impresse come i grani di un rosario, le orme affondavano nette e nitide nella luccicante crosta di sale. Oltre la salina si perdevano invece in un groviglio di rocce nere alternate a gole e guardate, come da sentinelle, da alti monoliti informi. Trovò Hansie, il piccolo e vecchio timoniere di colore del Wild Coose, in una di quelle gole. Gli avevano fracassato il cranio con un sasso che era lí accanto, insanguinato. Il sangue era rappreso e luccicava al sole e il poveretto fissava con occhi spenti e disseccati il cielo spietato. L'espressione era di lieve sorpresa. La storia di quella nuova tragedia era scritta sul fondo sabbioso della gola. I due avevano avuto un alterco lasciando una confusione d'impronte; lui però riuscì a capire, a leggere, che Hansie doveva aver deciso di tornare indietro verso la costa. Certamente aveva capito che la strada era al di là delle montagne, cioè a un centinaio di miglia di distanza, e aveva deciso d'abbandonare quel pazzo tentativo per provare a raggiungere Cartridge Bay lungo la costa. L'alterco doveva essere cessato allorché lui aveva voltato le spalle a Benedict per tornare indietro. C'erano orme nella sabbia nel punto in cui l'assassino aveva raccolto la pietra prima di seguirlo. Guardando quella testa penosamente fracassata, Johnny ora si rese conto che stava inseguendo un maniaco. Benedict van der Byl era pazzo. Non era piú un uomo ma un animale inferocito e demente. « L'ammazzo », promise alla vecchia testa coperta di lanugine bianca ai suoi piedi. A quel punto, niente piú esitazioni. Se avesse raggiunto Benedict e l'avesse ammazzato, nessun tribunale al mondo avrebbe messo in dubbio che s'era trattato di legittima difesa. Benedict s'era posto fuori delle leggi dell'uomo. Andò a prendere il gommone sgonfio e lo distese su Hansie. Fermò i lembi di quel nero sudario di gomma con delle pietre. Poi riprese a sobbalzi il viaggio puntando contro quell'inquieto e luccicante muro di calore con una nuova disposizione d'animo: assetato di vendetta e pieno di speranza. Si rendeva conto d'essersi corrotto dalla disumana ferocia dell'uomo cui stava dando la caccia, trasformato ormai anche lui in un animale; ma voleva che Benedict van der Byl venisse ripagato nella stessa moneta. Occhio per occhio, dente per dente. Un miglio piú avanti trovò la tanica dell'acqua. Era stata scagliata via con violenza e aveva pattinato sulla sabbia per un bel tratto, lungo il quale l'acqua uscita dal becco aperto aveva lasciato una traccia ormai asciutta nel terreno assetato. La guardò incredulo. Neppure un pazzo si condannerebbe a una fine tanto orribile. Raccolse la tanica da cinque galloni abbandonata, la scosse e avvertí lo sciabordio dell'acqua rimasta. Doveva essere una buona pinta o piú.
«Dio! » esclamò in un bisbiglio, sgomento e, suo malgrado, con un vago senso di pietà. «Non resisterà a lungo ormai. » Si portò la tanica alle labbra e bevve un sorso. Rimase immediatamente disgustato e sputò, lasciando cadere la tanica e asciugandosi le labbra col dorso della mano. «Acqua salata!» mormorò. Corse alla Land Rover e si sciacquò la bocca con acqua dolce. Non avrebbe mai saputo com'era potuta succedere una cosa del genere; probabilmente a bordo del Wild Goose non avevano controllato per anni né rinnovato le riserve a bordo del gommone. Da quel punto in poi Benedict doveva aver capito d'essere ormai spacciato. Era facile leggere la sua disperazione nelle orme confuse che si lasciava dietro. S'era messo a correre, probabilmente spinto dal panico. Cinquecento metri piú avanti era rotolato in fondo a una gola ed era rimasto li disteso per un pò prima d'alzarsi e risalire la scarpata. Poi aveva perso l'orientamento. La pista compiva una lunga curva verso nord riprendendo poi a correre dritta; descriveva quasi un cerchio completo e nel punto in cui intersecava il tracciato originario Benedict s'era messo a sedere. Le impronte delle natiche erano inconfondibili. Li doveva essere riuscito a controllare il panico, visto infatti che la pista puntava di nuovo dritto verso le montagne. Comunque mezzo miglio piú avanti era inciampato e caduto di nuovo. Quindi aveva ripreso ad andare, ma barcollando, deviando verso sud. Era caduto un'altra volta e aveva perso una scarpa. C'era una scritta stampigliata in oro che luccicava sulla soletta interna. «Bally of Switzerland. Specially made for Harrods. E' il nostro caro Benedict, non ci sono piú dubbi ormai. Capretto nero da quaranta ghinee», mormorò, stizzito. Montò in macchina. L'eccitazione era al culmine: presto sarebbe stato suo, molto presto. Piú avanti Benedict era sceso nel letto d'un vecchio corso d'acqua e aveva preso a seguirlo. Doveva avere il piede destro ferito dalle schegge, taglienti come rasoi, della roccia sul letto del fiume e a ogni passo s'era lasciato dietro una macchia di sangue scuro. Barcollava come un ubriaco. La Land Rover zigzagò tra le asperità dell'infossato corso d'acqua. La gola affondava sempre piú e su ambo i lati sporgevano a raggiera acuminate lame di roccia nera. L'aria laggiú era irrespirabile, lacerava la gola e seccava il muco nel naso, che si trasformava in croste dure come mattoni. Poi dalle montagne giunse una lievissima brezza, un movimento appena di quell'aria pesante che non procurava certo nessun sollievo, anzi sembrava aumentare l'implacabilità del sole e l'opprimente senso di soffocamento. Qua e là lungo il letto del fiume asciutto spuntavano aridi cespugli, piccole piante grottescamente inaridite e malformate da una siccità perenne. Da uno di quei cespugli laggiú, davanti alla Land Rover, un mostruoso uccello nero sbatté le ali in una specie di letargo. Johnny aguzzò gli occhi, incerto se si trattava di realtà o di miraggio, figlio di quel tormentoso caldo. Ma all'improvviso l'uccello si trasformò in una giacca di stoffa blu scuro. Era appesa ai rami spinosi del cespuglio e la brezza agitava le pieghe di quella stoffa costosa. Nella tasca. Se l'è messo nella tasca della giacca. Non avendo altro che quella giacca davanti agli occhi, schiacciò senza riflettere l'acceleratore e la Land Rover fece un balzo in avanti. Non vide in tempo il grosso masso di siderite che gli si parò davanti e lo prese in pieno alla velocità di quaranta chilometri l'ora.
La Land Rover si fermò di colpo con un fracasso metallico e lui sbatté col petto contro il volante. La botta lo lasciò senza fiato. Piegato in due per il dolore e ansimando, si precipitò sulla giacca e la strappò dal ramo. Sentì subito il peso nella tasca. Quindi il sacchetto dl tela fu nelle sue mani, gonfio come di ciottoli. Una sensazione senza pari al mondo. Tirò il laccio. Come quello non ne rivedrò mai piú in vita mia. Il nodo del laccio era stretto. Corse alla Land Rover e frugò freneticamente nel contenitore sotto al sedile. Trovato il coltello tagliò il laccio e rovesciò il contenuto del sacchetto sul cofano. «Dio del cielo! Dio santissimo del cielo!» sibilò con le labbra asciutte e screpolate. La vista gli s'appannò e il grande diamante azzurro brillò con un luccichio sfalsato dalle lacrime che gli alteravano la vista. Passò un intero minuto prima che si sentisse in grado di toccarlo, e fu con immensa riverenza che lo fece poi, come se si trattasse d'una reliquia sacra. Johnny Lance aveva lavorato tutta la vita per trovare una pietra come quella. Tenendola con ambedue le mani crollò a sedere a terra nella striscia d'ombra proiettata dalla Land Rover. Dovettero passare poi ben cinque minuti prima che avvertisse in maniera consapevole l'odore dell'olio caldo del motore. Girò il capo e vide la macchia sotto lo chassis della Land Rover. S'andava lentamente spandendo. Sempre stringendo in mano il diamante, si buttò allora ventre a terra e strisciò sotto al gippone. L'urto contro il masso aveva rotto la coppa dell'olio e la Land Rover stava ora dissanguandosi sulla sabbia rovente del letto del fiume asciutto. Uscí strisciando da lí sotto e s'appoggiò alla ruota anteriore. Guardò l'ora e con sorpresa vide che le due del pomeriggio erano già passate da un pezzo. Lo sorprese anche il fatto che per mettere a fuoco il quadrante dell'orologio aveva dovuto fare un vero e proprio sforzo. Due giorni e due notti senza dormire, la grande tensione e gli sforzi di quei giorni e quelle notti, i danni subiti dal fisico, le lunghe ore di quel caldo torrido e l'avvilente desolazione di quel paesaggio lunare, tutto questo evidentemente aveva il suo prezzo. Sapeva d'essere, a quel punto, inebriato come al primo stadio di una sbronza e di cominciare ad agire in modo irrazionale. Quella improvvisa e irriflessiva corsa sul letto del fiume disseminato di pietre e massi, che aveva danneggiato la Land Rover, era una prova della sua presente instabilità. Carezzò il grande diamante, ne sfiorò la levigata superficie con le labbra, lo girò e rigirò tra i polpastrelli del pollice e dell'indice, se lo passò da una mano all'altra, intanto che ogni fibra del suo corpo sino al midollo osseo richiedeva immediato riposo. Un infido, pericoloso letargo invase il suo corpo arrivando sino al cervello. Chiuse gli occhi un attimo per evitare quel bagliore accecante e quando con uno sforzo li riaprì erano le quattro. Si tirò su in piedi. Nella gola le ombre erano piú lunghe ora e la brezza era cessata. Anche se ora si muoveva con la rigidità d'un vecchio, il breve sonno era riuscito a schiarirgli la mente, e mentre divorava un pacchetto intero di gallette spalmate di pasta di carne, accompagnandole con vari sorsi d'acqua tiepida, prese la sua decisione. Seppellí il sacchetto di tela pieno di diamanti grezzi sotto la Land Rover ma non riuscì a separarsi dal grande diamante azzurro. Lo mise al sicuro nella tasca posteriore dei pantaloni, che poi abbottonò.
Nello zainetto che prese da sotto al sedile mise la fiaschetta d'acqua da un litro, la cassetta del pronto soccorso, una piccola bussola tascabile, due dei razzi fumogeni e il coltello. Controllò se aveva l'accendino in tasca, nel caso ne avesse avuto bisogno. Quindi, senza lanciare neppure un'occhiata alla radio nel cruscotto della Land Rover s'allontanò barcollando e uscì dalla gola, sempre all'inseguimento di Benedict van der Byl. Dopo aver camminato per circa un chilometro l'irrigidimento dei muscoli era passato; allungò il passo, ora procedeva abbastanza bene. L'odio e il desiderio di vendetta, che aveva quasi dimenticato quando aveva trovato il diamante, ripresero vigore. E questo gli mise forza nelle gambe e gli acuí i sensi. La pista piegava bruscamente correndo lungo la gola e sul bordo di roccia nera di questa a un tratto lui la perse, per ritrovarla però subito al primo tentativo. Ormai stava avvicinandosi rapidamente; la pista s'inoltrava sempre piú in quella desolazione e Benedict andava visibilmente e rapidamente indebolendosi. Era caduto ripetute volte, aveva strisciato carponi sull'insidiosa ghiaia e sulla roccia tagliente, aveva brancolato tra i cespugli lasciando brandelli di vestito sulle spine macchiate di rosso. Poi la pista cominciò ad allontanarsi dal terreno roccioso e cespuglioso per inoltrarsi in una zona di basse colline di sabbia color arancione; a quel punto lui si mise a correre. Il sole stava calando nel cielo, gettava lunghe ombre scure negli avvallamenti tra le dune, e il caldo era diminuito tanto che lo stesso sudore, asciugandosi, ora rinfrescava. Non perdeva d'occhio l'orme incerte e cominciava ormai a chiedersi se per caso non avrebbe trovato Benedict già morto: le tracce che si lasciava dietro erano quelle d'un uomo in condizioni estremamente pietose. E tuttavia continuava ad andare. Non notò le altre orme, quelle che provenivano perpendicolarmente dalle dune e correvano poi parallele a quelle di Benedict, finché non s'avvicinarono a queste fino a coprirle. Si fermò e cadde su un ginocchio per esaminare le larghe impronte non umane. Sembravano quelle d'un cane. « Iene! » Avvertì nello stomaco un fremito di repulsione. Si guardò intorno e piú a sinistra notò un'altra serie di orme. «Due! Hanno sentito l'odore del sangue! » Si mise a correre seguendo la pista. Gli s'accapponava la pelle all'idea di quello che succede a un uomo indifeso quando due iene lo assalgono. L'animale africano piú vile di tutti, ma con fauci tali da frantumare lo stinco d'un bufalo adulto, per la quotidiana dieta di putride carogne ha tali nidi di batteri tra quelle forti zanne che un suo morso può essere mortale quanto quello d'un mamba nero. «Dio, fammi arrivare in tempo! Fammelo trovare ancora vivo! » Poi le udì. Da dietro il rilievo della duna laggiú. E l'orrore di quel suono agghiacciante lo bloccò di colpo: un grido acuto, intermittente e incerto, che si spense in una serie di singhiozzi. Rimase in ascolto, affannando per la corsa. L'udi di nuovo: una risata di demoni assetati di sangue ed eccitati. «Gli sono addosso. » S'inerpicò su per il soffice pendio di sabbia. Quando fu in cima guardò giú in quella specie di arena circolare formata dalle pendici delle dune. Benedict stava riverso sulla sabbia. La camicia bianca era fuori dei pantaloni del completo blu che erano lacerati all'altezza dei ginocchi. Questi erano esposti e insanguinati e il piede scalzo era ridotto a un grumo solo di sangue, calzino e terra. Le due iene avevano tracciato quasi un cerchio nella sabbia intorno al suo corpo a furia di girargli intorno per ore, aspettando che la fame prevalesse sulla codardia. Una stava a pochi passi da lui, in disgustoso atteggiamento, con la testa, piatta come quella d'un serpente, abbassata rispetto alle spalle ingobbite.
Marrone e ispida, con chiazze d'un marrone piú scuro, le orecchie tonde puntate in avanti, gli occhi neri che mandavano lampi d'avidità ed eccitazione alla vista di ciò che faceva la compagna. Questa stava con le zampe anteriori sul petto di Benedicit e aveva la testa abbassata e le fauci sulla faccia di Benedict. Tutta tesa, con le zampe ben piantate sul petto dell'uomo, dava violenti stratti cercando di strappar via un boccone di carne. La testa di Benedict sobbalzava e scattava a ogni stratto, le gambe scalciavano debolmente e le mani sbattevano sulla sabbia come bianchi uccelli feriti. Alla fine la carne della faccia si lacerò. Nel profondo silenzio della sera del deserto Johnny ne sentì chiaramente il rumore frusciante: come quello di seta strappata di netto. Lanciò un urlo. Le due iene sobbalzarono e scapparono via arrampicandosi veloci sulla cima della duna piú lontana, in preda a un disgustoso, goffo panico, e lasciando Benedict li disteso con una maschera di sanguinante dilacerazione al posto del viso. E guardandolo ora, quel viso, lui capí che non sarebbe mai stato capace di ucciderlo. Non poteva certo vendicarsi su quella miserabile creatura svisata e malata di mente. Gli cadde accanto in ginocchio e, con dita frenetiche, aprì la patta dello zaino. Un orecchio e una guancia, un unico grosso brandello continuo di carne lacerata, erano rivoltati e pendenti sulla bocca. Da quel lato della faccia di Benedict i molari erano esposti e il sangue sgorgava scorrendo vìa in rivoli sottilissimi. Strappò in fretta l'involucro di carta d'un tampone assorbente e, aiutandosi con questo, stirò e rimise il brandello al suo posto, dove lo tenne premendo con le dita allargate. Il sangue inzuppò il tampone ma la pressione cominciò a fermarlo. «E' tutto a posto, Benedict. Ci sono io. Te la caverai», bisbigliò mentre tamponava. Con la mano libera estrasse dal pacchetto un altro tampone e sostituì il primo, completamente inzuppato. Mantenendo con una mano la pressione sul nuovo tampone pulito, con l'altra sollevò la testa di Benediet e se la poggiò in grembo. «Ora asciughiamo tutto questo sangue e poi ti diamo da bere. » Frugò nella cassetta del pronto soccorso in cerca d'un pezzo di cotone idrofilo e, con grande premura, prese a pulirgli della sabbia e del sangue narici e labbra. Il respiro impedito di Benedict parve piú libero ora, ma dalle labbra nere gli usciva sempre un rantolo. La lingua era gonfia e gli riempiva la bocca come una grande spugna rosso scuro. «Ecco, così va meglio. » Sempre senza allentare la pressione sul tampone, svitò il tappo della fiasca dell'acqua e, tenendo il pollice sull'apertura per regolare il flusso, lasciò cadere alcune gocce in quello scuro pozzo asciutto di bocca. Dopo una decina di gocce piantò la fiasca nella sabbia e massaggiò leggermente la gola per stimolare i riflessi; incosciente, Benedict inghiottiva con penosa difficoltà. «Ecco, così. Bravo.» Riprese a dargli una goccia per volta, confortandolo intanto a bassa voce: «Ora ti sentirai meglio, vedrai. Bravo, bravo, ingoia, su». Gli ci volle una ventina di minuti per somministrargli una metà della fiaschetta di acqua dolce, alla fine la perdita di sangue era diventata quasi trascurabile. Frugò ancora nella cassetta e scelse due pasticche di cloruro di sodio e due di glucosio; se le mise in bocca e le masticò fino a ridurle a poltiglia, quindi si chinò sul viso mutilato dell'uomo che aveva giurato di uccidere, premé le proprie labbra su quelle gonfie e secche di lui e gli spinse nella bocca la poltiglia di sale e glucosio. Quindi si tirò su e riprese a dargli da bere a gocce.
Quando gli ebbe somministrato in questo modo altre quattro pasticche e ancora un pò del contenuto della fiasca, la chiuse e la rimise nello zaino. Inzuppò il tampone di gialla soluzione di acriflavina e provò a fissarglielo sul viso con delle bende. Risultò piú difficile di quanto s'aspettasse e dopo cinque tentativi falliti passò la benda sotto la mascella e sugli occhi, avvolgendo completamente la testa e lasciando liberi solo il naso e la bocca. A quel punto il sole era ormai basso sull'orizzonte. S'alzò e, contemplando la splendida, dorata e rossa fine del giorno nel deserto, si stiracchiò. Si rendeva conto che stava rimandando la seconda decisione che gli toccava prendere. Calcolò che da lì alla Land Rover abbandonata non dovevano essere meno di dieci chilometri. Dieci chilometri di disagevole cammino, un viaggio d'andata e ritorno di quattro ore, probabilmente cinque col buio. Poteva lasciare lí Benedict, raggiungere il gippone, mettersi in contatto radio con Cartridge Bay e tornare indietro? Si voltò e guardò le dune. La risposta era lí: una delle iene stava accoccolata lassú, in cima a una duna, e lo guardava fisso. La fame e l'approssimarsi della notte la rendevano insolitamente audace. Le lanciò un'imprecazione e fece un gesto minaccioso. La iena balzò via e scomparve dietro la duna. «Stasera la luna sorge alle otto. Fino allora riposerò, quindi avremo il fresco. » Si stese sulla sabbia accanto a Benedict. Il rigonfio nella tasca posteriore del calzone gli ricordò il diamante; lo prese e lo tenne in mano. Nel buio le iene presero a ridere e gridare e quando la luna sorse le loro brutte sagome si stagliarono in cima alla duna sopra l'avvallamento. «Avanti, su, Benedict. Ora ce ne torniamo a casa. Ci sono due simpatici poliziotti che t'aspettano. » Lo sollevò mettendolo a sedere, si passò il suo braccio sulla spalla e lo sollevò da sotto. Rimase fermo un attimo, affondato nella soffice sabbia fino alle caviglie, impedito dal peso morto del corpo che stava reggendo. «Ogni mille passi ci fermiamo», si ripromise. E cominciò ad arrancare su per la duna, contando a bassa voce ma sapendo che senza una base di roccia come punto d'appoggio solido non sarebbe mai piú riuscito a sollevare di nuovo Benedict da terra. Doveva uscire da quelle dune di sabbia in una sola tirata. « ... novecentonovantanove. Mille. » Contava solo mentalmente ora, amministrandosi le forze, piegato sotto il peso, con le spalle e la schiena irrigidite in un'agonia di dolore e la sabbia che gli impacciava ogni passo. «Altri cinquecento. Ne facciamo altri cinquecento. » Dietro di lui zampettavano le due iene. S'erano inghiottite i tamponi inzuppati di sangue che lui aveva buttato via e ora il sapore del sangue stava facendole impazzire. «Bene. Ancora altri cinquecento.» Diede inizio al terzo conteggio, e poi al quarto e al quinto. A un tratto avvertì il gocciolio continuo dietro la gamba. Inclinata, la testa di Benedict aveva ripreso a sanguinare, e all'odore le iene ululavano e guaivano. «Ci siamo quasi, Benedict. Resisti. Ci siamo quasi.» Gli venne incontro il primo ammasso di rocce inargentate dalla luna e lui vi s'inoltrò in mezzo per crollare poi alla fine a faccia in giú. Passò molto tempo prima che riacquistasse abbastanza forza da sollevare sulle spalle il peso di Benedict. Risistemò le bende intorno alla testa e gli diede un sorso d'acqua della fiasca che Benedict ingoiò immediatamente.
Poi con altri due sorsi gli fece buttar giú due manciate di pasticche di cloruro di sodio e glucosio. Riposò una ventina di minuti, controllati sull'orologio, dopodiché usando una delle rocce come sostegno si mise di nuovo sulle spalle Benedict e proseguì. Riposava un dieci minuti ogni ora. Alla una avevano finito l'acqua e alle due capì, al di fuori di ogni possibile dubbio, di aver perso il corso d'acqua asciutto e d'essersi perso. S'appoggiò a una lastra di siderite, intorpidito dalla fatica e dalla disperazione, e stette in ascolto dell'ululante coro di morte che risuonava tra le rocce poco distanti. Provò a capire dove aveva sbagliato; forse il corso d'acqua compiva una curva e lui stava procedendo parallelo a esso, forse l'aveva già incrociato senza rendersene conto. Era possibile, sapeva di certuni che avevano attraversato una strada asfaltata senza neppure accorgersene. Su quanti rilievi rocciosi s'erano inerpicati e quanti ne avevano discesi? Non ricordava. A un certo punto era inciampato in un cespuglio e una spina gli aveva graffiato la gamba. Forse il letto del fiume asciutto era lí. S'avvicinò carponi a Benedict. « Forza, giovanotto. Torniamo indietro. » Crollò per l'ultima volta poco prima dell'alba. Quando girò il capo e sbirciò l'orologio c'era abbastanza luce da poter vedere il quadrante e le lancette. Erano le cinque. Chiuse gli occhi e giacque lì. S'era arreso. Era stata una buona prova, dopotutto, un coraggioso tentativo. Ma non aveva funzionato. Entro un'ora il sole si sarebbe levato e sarebbe stata la fine. Qualcosa stava muovendosi poco lontano con passo leggero e furtivo. Niente d'interessante, decise. Ora che tutto era finito, voleva solo starsene disteso li in pace. Poi sentí l'annusare e l'ansimare d'un cane affamato. Aprì gli occhi. La iena non era neppure a una decina di passi e stava guardandolo. La mascella inferiore appesa e la lingua rosa che dondolava da una parte all'altra della bocca. Ne sentiva il puzzo, come quello d'una gabbia d'animale allo zoo, escrementi e interiora e carogna putrida. Provò a urlare ma dalla bocca non gli uscì nessun suono. Aveva la gola bloccata e la lingua gli riempiva completamente la bocca. Si tirò a fatica su un gomito. La iena si fece indietro ma senza il vergognoso panico dell'altre volte. Si ritrasse con calma, poi si girò a guardarlo da una ventina di metri di distanza. Gli fece un ghigno, ritraendo la lingua in bocca per deglutire. Lui si trascinò allora fino a Benedict e lo guardò. Lentamente, la testa bendata e cieca si girò verso di lui e le labbra nere si mossero. « Chi è? » Un bisbiglio roco. Cercò di rispondere ma ancora una volta la voce gli venne meno. Si raschiò la gola e mosse penosamente la mascella, cercando di risucchiarsi in bocca una traccia appena di saliva. Ora che Benedict era cosciente l'odio tornò a divampare. «Johnny», riuscì a dire alla fine, con un grugnito. «Sono Johnny. » «Johnny?» Benedict sollevò la mano e se la portò sulla benda all'altezza degli occhi. «Come...?» Lui allungò una mano e, steso su un fianco, sciolse il nodo alla tempia di Benedict. Gli scostò la benda dagli occhi e Benedict batté le palpebre. «Acqua? » Lui scosse il capo.
«Per piacere. » «Non ce n'è.» Benedict chiuse gli occhi e li riaprí, guardandolo atterrito. «Ruby! » sibilò lui. «Sergio! Hansie! » Uno spasmo storse il viso di Benedict e lui gli s'avvicinò di piú per sibilargli una sola parola nell'orecchio: «Bastardo! » Poi si sollevò sui gomiti, deglutì ripetutamente, e parlò di nuovo. «Su!» Gli strisciò alle spalle e lo tirò su a sedere. «Guarda! » A una ventina di metri di distanza le due iene erano accoccolate in attesa, ghignando scioccamente con lampi d'impazienza negli occhi. Benedict cominciò a tremare. Sembrava che frignasse, un piagnisteo. A fatica, lui lo tirò su finché riuscì a poggiarlo contro una roccia. Poi riposò, addossato anche lui alla roccia, lì al suo fianco. «Io vado», bisbigliò alla fine. «Tu resti.» Benedict riprese a frignare, scuotendo debolmente il capo, guardando le due bestie sbavanti di fronte a lui. Johnny si mise lo zaino in spalla. Chiuse gli occhi e radunò le ultime riserve di energia. Con uno sforzo si tirò su in ginocchio. Buio e luci accecanti gli impedivano la vista. Svanirono e con un altro sforzo lui fu in piedi. Le ginocchia gli si piegarono e dovette appoggiarsi alla roccia per reggersi. « Ciao », bisbigliò. « Divertiti! » Barcollando, trascinandosi, s'inoltrò tra la distesa desolata di nere rocce. Dietro di lui il lamento di Benedict si trasformò in un urlo straziante. « Johnny! Ti prego, Johnny! » Lui si rifiutò di sentire e continuò a trascinarsi. «Assassino! » L'accusa lo bloccò. S'appoggiò a una roccia e si voltò a guardare indietro. Il viso di Benedict era convulso e sulle labbra s'era formata una sottile striscia di bava rosso sangue. Le lacrime gli scorrevano giú per le guance mescolandosi al sangue e inzuppando la benda bagnata di antisettico. « Johnny! Fratello mio! Non lasciarmi! » Il tono della voce arrochita era tornato straziante. Lui allora si scostò dalla roccia. Vacillò e stava per cadere ma riuscì a trascinarsi fino a Benedict. Gli crollò a sedere accanto. Dallo zaino tirò fuori il coltello e se lo poggiò in grembo. Benedict singhiozzava e frignava. « Sta' zitto, maledetto! » Il sole era alto ormai, gli ardeva dritto in faccia. Sentiva la pelle delle guance tendersi fino a screpolarsi. Attimi di buio ancora gli oscuravano di tanto in tanto la vista, ma se ne liberava battendo le palpebre. Quel battito di palpebre era l'unico movimento ch'era riuscito a fare nell'ultima ora. Le iene s'erano avvicinate. Passeggiavano nervosamente su e giú poco discoste. A un certo punto una delle due si fermò, allungò il collo e annusò avida il piede insanguinato di Benedict, avanzando lentissima. Lui allora si mosse e quella balzò via, agitando servilmente il capo, ghignando come per chiedere scusa. Era arrivato il momento di arretrare sulla loro ultima linea di difesa. Sperava solo di non aver rimandato troppo. Era molto indebolito. Le forze stavano venendogli meno, la vista gli s'appannava e c'era un ronzio in quel silenzio, come se il deserto fosse un giardino affollato di api. Agí sulla rotellina dell'accendino e la fiamma sprizzò alta. Con cautela l'avvicinò alla miccia del razzo fumogeno che s'accese sprizzando scintille. Puntò il razzo contro le iene e quando la nube di fumo colorato di rosa si levò improvvisa quelle fuggirono gridando atterrite. Un'ora dopo erano di ritorno.
Sgusciarono da dietro le rocce, caute, quasi strisciando, ma lui ora riusciva a vederle a tratti, fra l'uno e l'altro di quegli scoppi di buio che gli avvenivano in testa. Intanto il ronzio d'insetto gli risuonava ora piú forte negli orecchi. Lo confondeva, gli rendeva difficile pensare con chiarezza. Gli ci vollero dieci minuti per accendere il secondo razzo. Il lancio, poi, fu così debole, che quello s'accese solo a poca distanza dai suoi piedi e il fumo color rosa avvolse lui e Benedict. Sentiva il pulsare del sangue nelle orecchie mentre quella navola rosa lo inghiottiva. L'agrore dello zolfo in gola gli tolse il fiato mentre il rombo nelle orecchie diventava un pulsante boato, un sibilante e assordante mugghio. Poi, nell'immobilità del deserto si levò un vento scatenato che, miracolosamente, spazzò via il fumo. Riuscì ora ad alzare lo sguardo al cielo, da dove soffiava quel gran vento. A una ventina di metri sopra di lui, sospeso come una libellula alla luccicante elica del suo rotore, c'era l'elicottero della polizia. Il viso di Tracey era incorniciato dietro il finestrino della cabina. Prima di svenire, lui vide le labbra di lei formare il suo nome.
Questo volume è stato impresso nel mese di novembre dell'anno 1991 presso Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa di Mondadori Cles (TN) _