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SHARON SALA CAMPANELLO D'ALLARME (Storm Warning, 2001) PROLOGO Stato di New York, 1979 Edward Fontaine era in piedi sulla soglia a osservare le bambine nel campo giochi, mentre teneva d'occhio il tempo. Nella sua qualità di direttore della Montgomery Academy, una piccola scuola privata, era un suo preciso dovere sovrintendere a ogni aspetto della routine quotidiana, compresa la sicurezza delle allieve. Certo, gli insegnanti facevano la loro parte nel sorvegliare il campo giochi, ma Edward aveva una visuale di gran lunga migliore, dall'alto dei gradini. Mentre osservava la scena, avvertì un cambiamento nel vento e guardò il cielo. Le nuvolette leggere e soffici di poco prima stavano diventando sempre più grandi e più scure. Benché l'orario dei giochi non fosse ancora finito, non voleva correre il rischio che una bambina venisse colpita da un fulmine, perciò corse nel suo ufficio a suonare la campanella. Il suono riecheggiò per tutto l'edificio e nel giardino, e anche dall'interno Edward poté sentire il coro di proteste delle alunne. Mentre tornava in cima ai gradini, il primo rombo di tuono che preannunciava l'arrivo imminente del temporale fece tremare le finestre. La riluttanza delle bambine a porre fine ai loro giochi fu sostituita in men che non si dica dalla frenesia di mettersi al riparo. Gli insegnanti le radunarono e le ricondussero all'interno della scuola. «Svelte, svelte!» gridò Edward, richiamando le bambine più piccole, all'estremità più lontana del giardino. «Sta per scoppiare un temporale. Dovete rientrare!» Virginia Shapiro e la sua migliore amica, Georgia, erano in cima allo scivolo, quando aveva iniziato a squillare la prima campanella. Le due bambine avevano solo sei anni e, giunte a quel punto, il loro dilemma era diventato se tornare indietro scendendo la scaletta o lasciarsi scivolare, con il rischio di essere accusate dalle loro compagne di avere continuato il loro bel gioco mentre avevano ricevuto l'ordine di rientrare. Quando il secondo tuono rombò sopra di loro, Virginia cominciò a piangere. Georgia la prese per mano, incerta sul da farsi.
Edward capì all'istante il loro problema e balzò giù dagli scalini. Mentre correva, pensò che avrebbe dovuto mantenersi un po' più in forma, ma quel pensiero sparì rapidamente alle prime gocce di pioggia. «Venite, bambine, venite» si affrettò a sollecitarle, posizionandosi in fondo allo scivolo incriminato. «Va tutto bene, anzi benissimo. Ora lasciatevi scivolare. Rientreremo insieme.» Georgia strinse la mano di Virginia, scoccandole un sorriso coraggioso. «Su, Ginny... adesso noi due scenderemo insieme, come sempre...» mormorò con fare rassicurante. A quel punto Ginny tirò su col naso e annuì, e un momento dopo stavano scivolando lungo la liscia superficie metallica, finendo dritte nelle braccia del signor Fontaine. «Siete state molto brave, bambine mie...» mormorò lui, prendendole entrambe per mano. «Ma adesso dobbiamo correre. Scommetto che riesco a battervi, anche se sono molto più vecchio di voi.» Le piccole strillarono e si liberarono dalle sue mani, spiccando la corsa attraverso il campo giochi. Con un sospiro di sollievo, lui le seguì, a passo più lento, pur sapendo che sarebbe stato fradicio prima di arrivare al riparo. Se n'era quasi dimenticato. Era giovedì. La classe speciale per le allieve che erano particolarmente dotate si riuniva il giovedì. Non per la prima volta, una punta di dubbio gli attraversò la mente, mentre guardava la porta chiudersi alle loro spalle. Non che stesse permettendo a qualcuno di fare loro del male. Al contrario, anzi. Quelle particolari sette bambine avevano in comune una cosa che aveva assicurato loro l'ammissione a quella classe. E il denaro che lui aveva ricevuto in abbondanza come contribuito speciale per permettere la formazione di quel gruppo non era un elemento da trascurare. Il fatto che i genitori non fossero al corrente della natura della classe lo turbava, ma sapeva che le bambine non subivano alcun danno. Inoltre, quel che era fatto, era fatto. Una cortina di pioggia, portata da una forte raffica di vento, lo investì, inducendolo a pensieri più pratici. Chiuse rapidamente le porte dell'entrata principale e andò nel suo ufficio. C'erano sempre delle scartoffie noiose, e al contempo importanti, da evadere. Nell'ultima aula a sinistra, sette bambine sedevano in silenzio nei rispettivi banchi, aspettando che l'insegnante iniziasse la sua lezione. Le finestre di quel locale tremavano a ogni tuono, ma loro non sentivano la pioggia che tamburellava sui vetri, né vedevano i lampi accecanti. I loro occhi era-
no fissi sul maestro, le loro menti concentrate sul suono della sua voce. Quella notte, molto tempo dopo che le bambine della Montgomery Academy erano tornate a casa, il temporale infuriava ancora. Gli alberi, percossi senza un attimo di sosta dal vento, si piegavano fino a terra e i loro rami si contorcevano sotto la furia della tempesta. Poco prima di mezzanotte, una grande saetta piombò dal cielo, mandando in frantumi legno e tegole, mentre penetrava attraverso il tetto della scuola. Prima che qualcuno riuscisse ad accorgersene, il povero edificio era già completamente avvolto dalle fiamme. Al mattino non ne restava più nulla, a parte un muro perimetrale e un enorme mucchio di travi fumanti. Edward Fontaine, in piedi sul margine del campo giochi, guardava con un'espressione incredula dipinta in volto i miseri resti di quella che fino a poche ore prima era stata la sua scuola. Non possedeva le risorse per ricominciare da capo, e non gli sembrava neppure possibile tornare al suo lavoro di insegnante. Il sogno della sua vita era finito per sempre. Il suo cuore spezzato una volta per tutte. Nel giro di una settimana, tutte le allieve erano state trasferite in altre scuole, pubbliche o private che fossero. Le sette bambine che erano state scelte per la classe speciale finirono in tre diversi distretti, e la vita continuò. Impararono. Crebbero. E ogni sera i loro genitori le mettevano a letto, del tutto inconsapevoli della terribile bomba a tempo che ticchettava nella loro testa. CAPITOLO 1 Seattle, Washington, ai giorni nostri «Mamma, mamma, ho fame. Dammi un bicotto.» Emily Jackson, giovane mamma ventisettenne, alzò gli occhi dal computer e lanciò uno sguardo all'orologio a muro. Spalancò gli occhi, sgomenta, mentre balzava dalla sedia per correre a occuparsi del suo bambino di due anni. Certo che aveva fame. Erano le dodici e mezzo. Essere mamma a tempo pieno e nello stesso tempo conservare il lavoro di commercialista non era stato facile come aveva immaginato al principio, anche se poter usare il computer per tenersi in contatto con i clienti era un vero dono del cielo.
«Solo un momento, tesoro mio...» gli assicurò, porgendogli un biscotto a forma di animale e scoccandogli un bacio mentre correva al frigorifero. C'era una quantità di avanzi, e suo figlio mangiava praticamente di tutto, ormai. Non ci sarebbe voluto più di qualche minuto per riscaldare qualcosa nel microonde. Aveva posato tre ciotole coperte e il biberon sul piano di lavoro, e stava prendendo dal frigorifero una quarta ciotola quando il telefono squillò. «Sempre così...» brontolò a quel punto, sollevando il ricevitore. «Casa Jackson... Sì, sono Emily. Chi parla, prego?» Ci fu un attimo di silenzio all'altro capo della linea, poi Emily sentì un lontano rombo di tuono e una serie di tintinnii simili a quelli di un elaborato campanello per la porta. A quel suono, ogni suo pensiero razionale cessò. Si voltò verso il muro con il telefono ancora all'orecchio. L'aria fredda che usciva dal frigorifero le avvolse le gambe, ma lei non la sentì. Nella sua mente, se n'era già andata. Pochi attimi dopo, posò il telefono sul piano di lavoro, prese la scatola dei biscotti e il biberon di latte per il bambino, poi lo sollevò fra le braccia. Lo portò nel suo lettino, gli diede la scatola e il biberon e uscì senza voltarsi indietro. L'insolito spuntino bastò a placare l'appetito del piccolo. Mentre lui mangiava i biscotti, Emily stava salendo in macchina e uscendo in retromarcia dal vialetto. Una vicina, dall'altra parte della strada, le fece un cenno di saluto, ma lei non diede segno di averla vista. La donna era già tornata alle sue faccende, senza dare importanza alla cosa, quando notò che la porta di casa di Emily era socchiusa. «Oh, santo cielo!» esclamò, poi si affrettò ad attraversare la strada per compiere il suo dovere di buon vicinato. Quando raggiunse il portico, fu colta da un brutto attacco di curiosità. Anziché chiudere semplicemente la porta, pensò di dare un'occhiata all'interno. Che male c'era? Solo una sbirciatina. Dopo un'occhiata colpevole da sopra la spalla, entrò e chiuse la porta. Rimase per un momento ad ammirare l'armonia di colori e i soffici divani del soggiorno alla sua destra. Poi fece un altro paio di passi avanti per ammirare anche la vista attraverso le porte del patio. In quel momento sentì un rumore proveniente dalle camere da letto. Che stupida. Solo perché Emily era uscita, non significava che la casa fosse vuota. Suo marito, Joe, che era un controllore di volo, doveva avere la giornata libera. «Joe! Joe, sono io, Helen. Emily ha dimenticato aperta la porta di casa, e
sono venuta a chiuderla.» Nessuno rispose. Eppure si sentiva un suono di voci in sottofondo. «Joe? Sono io, Helen. Sei presentabile?» Una vocina acuta la fece sobbalzare. Fu allora che pensò al bambino. Aveva dato per scontato che fosse in macchina con Emily, che raramente usciva senza di lui. Imboccò il corridoio, timorosa che da un momento all'altro il suo vicino sbucasse da una stanza e le domandasse che cosa diavolo stava facendo. Ma più si inoltrava, più si persuadeva che Joe non era in casa. E quando entrò nella camera del bambino, sussultò. Il piccolo era seduto in mezzo al lettino, con una scatola di biscotti in una mano e il biberon nell'altra. «Bicotto?» le chiese il bambino, offrendole subito la scatola. «Oh, mio Dio» borbottò Helen, prendendolo in braccio. Doveva pur esserci una spiegazione. Emily non era certo il tipo da andarsene fuori di casa come se niente fosse, lasciando suo figlio incustodito. Con il bambino in braccio, passò da una stanza all'altra. Quando arrivò in cucina, seppe che doveva essere successo qualcosa di grave. C'erano delle ciotole di cibo sul piano di lavoro, il telefono era staccato e il frigorifero aperto. Fece per rimettere le cose a posto, ma poi qualcosa le disse che era meglio non toccare nulla. Invece, prese una provvista di pannolini e portò il bambino con sé. Quando Helen arrivò a casa sua con l'intenzione di telefonare a Joe al lavoro, Emily Jackson era in rotta di collisione con il destino. Emily guidò attraverso il traffico della caotica Seattle senza darsi alcun pensiero della sicurezza, passando semafori rossi e abbordando le curve su due ruote. Quando raggiunse il Narrows Bridge, la fila di macchine della polizia che la tallonava uguagliava, se non superava, quella che, a Los Angeles, aveva seguito la famigerata fuga di O. J. Simpson. La polizia non lo sapeva ancora, ma Emily era ormai giunta alla sua destinazione. Un cordone di autopattuglie era posizionato all'altra estremità del ponte, bloccando il traffico per diversi isolati. Ma Emily non arrivò all'altra estremità. Circa a metà del ponte, fermò bruscamente la macchina. Scese e iniziò a camminare in fretta prima che le auto della polizia che la seguivano si fermassero. E quando gli agenti balzarono giù, gridandole di fermarsi, lei era salita sul parapetto. Dopo, tutto accadde come al rallentatore. Indistintamente tutti i presenti le gridavano di non buttarsi dal ponte, fa-
cendo promesse che peraltro non avrebbero mai potuto mantenere, ma Emily non sentiva altro che un rombo nelle orecchie. Sollevò le braccia ai lati del corpo, come se fosse stata un uccello in procinto di spiccare il volo, alzò il viso verso il cielo, e poi si lanciò. Precipitò senza un grido, con il vento che le fischiava nelle orecchie... facendo quello che le era stato ordinato. Il trauma della sua morte si ripercosse per tutta Seattle per tre interi giorni, fino a quando non fu rimpiazzato da un'altra storia ugualmente tragica. Emily lasciò dietro di sé un marito desolato che non sarebbe mai riuscito a capire il motivo del suo gesto e un bambino che piangeva, chiamando la mamma che non sarebbe mai più tornata a casa. Amarillo, Texas, una settimana dopo Josephine Henley, Jo-Jo per i clienti dell'Haley's Bar, stava schivando pacche e distribuendo bibite quando Raleigh, il barista, la chiamò attraverso la sala. «Ehi, Jo-Jo, telefono!» Lei gli fece un cenno per dirgli che aveva capito, mentre intascava la mancia da un paio di camionisti sbronzi, che continuavano a chiederle un bacio. «Via, Jo-Jo, solo uno prima di rimetterci in strada» la supplicò uno dei due. «Niente da fare, Henry. Sei sposato» ribatté lei. «Sì, ma mi sento solo.» «Be', la cosa non mi riguarda.» «Allora, restituiscimi i miei cinque dollari» scherzò Henry. «Oh, no, quelli me li sono guadagnati. Inoltre, portarmi a letto ti costerebbe molto più di cinque dollari.» «Quanto?» chiese lui, interessato. «Non hai abbastanza soldi per comprarmi, amico. E ora, piantala. Devo rispondere a una telefonata.» Jo-Jo sfuggì all'uomo e attraversò la sala per raggiungere il telefono. «Un bourbon con acqua...» borbottò, passando una nuova ordinazione, poi raccolse il ricevitore che penzolava dal telefono a muro e se lo portò subito all'orecchio. «Pronto? Pronto?»
Non riusciva a sentire nulla, in tutto quel frastuono, e mise una mano sul microfono, voltandosi verso la sala. «Abbassate un po' il volume!» gridò. «Non sento neppure la mia voce.» Ritentò. «Pronto... Sì, parla Josephine Henley.» Mentre aspettava, credette di sentire un tuono e si voltò di scatto, cercando di ricordare se aveva chiuso i finestrini della macchina. Poi, ci fu un altro suono, e il solco fra le sue sopracciglia si spianò e il mento si abbassò verso il petto, quasi come se lei si fosse addormentata. Rimase così, senza parlare, con gli occhi chiusi. Raleigh lo notò e corrugò la fronte. Non era da lei stare così ferma. Le toccò una spalla. «Ehi, è successo qualcosa?» Lei non rispose, ma lasciò cadere bruscamente il telefono e cercò di allontanarsi, passandogli accanto. «Ecco il tuo bourbon con acqua» disse il barista, porgendole il vassoio. Ma Jo-Jo lo spinse bruscamente da parte, facendo cadere il vassoio. «Ehi, quello era il mio drink?» gridò qualcuno. «Chiudi il becco» ribatté Raleigh, e afferrò Jo-Jo per un braccio. «Che cosa ti prende? Non hai sentito quello che ho detto?» Poi la vide in faccia e l'espressione dei suoi occhi lo fece sussultare. Più tardi, avrebbe detto che era stato come guardare in una stanza dove non c'era nessuno. Jo-Jo stava per raggiungere l'uscita del locale quando Raleigh, colto dal panico, gridò ai clienti di fermarla. Ma l'ordine si perse nel vocio generale. «Ehi, Jo-Jo, che succede? Torna indietro!» urlò. Schizzò fuori da dietro il banco e la seguì, mentre i presenti finalmente cominciavano ad accorgersi che stava succedendo qualcosa. Quando Raleigh giunse alla porta, più di metà dei clienti lo seguiva. Lui si fermò appena fuori, scrutando il posteggio gremito per capire dov'era andata. La sua macchina era ancora ferma vicino al muro, sul lato nord dell'edificio, perciò, ovunque fosse diretta, c'era andata a piedi. Il barista cominciò ad aggirarsi fra macchine e camion, gridando il suo nome. «Jo-Jo! Jo-Jo! Torna dentro, dolcezza. Se ti senti male, ti farò accompagnare subito a casa da uno dei ragazzi.» Lei non rispose, e lui non riuscì a vederla. Ormai, una dozzina di uomini stava correndo fra i veicoli posteggiati, chiamandola a gran voce. Raleigh stava quasi per classificare l'accaduto come un qualche tipo di capriccio femminile quando sentì qualcuno urlare il nome di Jo-Jo. Il terrore in quella voce gli gelò il sangue. Si mise a correre, superando
una linea di macchine e infilandosi fra due camion, e sbucò sul margine dell'autostrada. Fu allora che la vide. Stava correndo nella corsia veloce dell'autostrada, con le braccia aperte ai lati del corpo, come una bambina che fingesse di volare, e più correva, più si avvicinava ai fari di un camion che stava sopraggiungendo. «Gesù...» mormorò Raleigh, e subito dopo riprese a correre, anche se sapeva che sarebbe giunto troppo tardi. L'odore di gomma bruciata riempì l'aria quando il camionista inchiodò, ma la ragazza era sbucata dal nulla, e gli era stato impossibile fermarsi. Lo stridio acuto dei freni superò il tonfo del corpo di Jo-Jo contro il camion. Ora, lei stava volando in aria come una bambola rotta, e ripiombò sulla riga mediana della strada con un tonfo sordo. Gli uomini fissavano la scena, sbalorditi. Raleigh si rivolse al più vicino. «Chiama un'ambulanza!» gridò, e poi cominciò a fare segnalazioni alle macchine perché rallentassero, in modo da poter attraversare la strada. Il detective che si occupò delle indagini, archiviò l'accaduto come suicidio. Caso chiuso. Tranne che per un barista di nome Raleigh, che continuava a ripetere che Jo-Jo era stata benissimo finché non aveva ricevuto quella telefonata. Chicago, Illinois, due giorni dopo A ventotto anni, Lynn Goldberg aveva raggiunto un punto chiave della sua carriera come avvocato penalista. Per tutta la vita le avevano detto a più riprese che era troppo carina per essere presa sul serio come avvocato, ma lei aveva ignorato i pessimisti e seguito il cuore. Quel giorno aveva dimostrato che non era solo una ragazza carina fra le tante. Aveva vinto il suo primo caso di omicidio, ed era una bella soddisfazione. La cosa migliore, comunque, era la convinzione che l'uomo che aveva fatto assolvere era davvero innocente, il che, nella professione che aveva scelto, non succedeva sempre. Gettò nella sua valigetta portadocumenti alcune pratiche che voleva rivedere prima dell'indomani mattina e la chiuse con un colpo secco. Aveva trentasei minuti per attraversare la città e incontrarsi con suo marito per la cena. Lui non lo sapeva ancora, ma quella sera offriva lei. Era impaziente di vedere la sua faccia quando gli avesse detto che aveva vinto. Guardandosi un'ultima volta intorno nell'ufficio, prese il telefono e chiamò un taxi. Ora che fosse scesa dal quindicesimo piano dov'era ubica-
to lo studio legale, il taxi sarebbe dovuto essere già arrivato. Si rassettò il suo completo scuro gessato, si appoggiò l'impermeabile sul braccio e, mentre stava per prendere la valigetta, il telefono squillò. «Niente da fare. La mia giornata è finita» brontolò, avviandosi alla porta. Lo squillo continuava, e Lynn pensò che potesse essere Jonathan. Sarebbe stato spiacevole attraversare tutta la città solo per scoprire che lui aveva dovuto annullare il loro appuntamento. Con quel pensiero in mente, corse alla scrivania e sollevò il ricevitore. «Pronto?... Sì, parla Lynn Goldberg.» Ci fu un momento di silenzio, e poi il rombo lontano di un tuono. Lynn rabbrividì e lanciò un'occhiata alle finestre, ringraziando il cielo per avere portato l'impermeabile. Poi, un altro suono si sovrappose a quello del tuono... una sorta di tintinnio lontano di campanelle che venivano percosse in lenta successione. Nell'attimo stesso in cui identificò il suono, i suoi occhi si chiusero e il mento si piegò sul petto. Sul telefono, la luce cominciò a lampeggiare, annunciando un'altra chiamata in arrivo, ma lei non la vide, e comunque sarebbe stata incapace di prendere la decisione di rispondere. Invece, depose lentamente il ricevitore e uscì dall'ufficio, diretta all'ascensore. Gregory Mitchell, un collega, alzò gli occhi quando passò davanti alla sua scrivania. «Ehi, Lynn, non sapevo che fossi ancora qui. Congratulazioni per la vittoria.» Fu come se lei non l'avesse sentito. Perplesso per quel comportamento, Gregory la seguì con lo sguardo mentre usciva dall'ufficio, ma non si preoccupò più di tanto fino a che non si accorse che aveva lasciato la valigetta e l'impermeabile sul pavimento, vicino alla porta. Sapendo che avrebbe dovuto risalire quindici piani per tornare a prenderli, la rincorse, pensando di raggiungerla all'ascensore. Si sarebbero fatti una bella risata, e dopo lei avrebbe proseguito per la sua strada. Ma, quando arrivò all'ascensore, la cabina stava salendo, anziché scendendo, il che non aveva senso. L'ultimo piano dell'edificio era vuoto, e in corso di ristrutturazione. «Maledizione, Lynn, dove hai la testa?» borbottò, aspettando che la cabina scendesse, e immaginando di vederla uscire, sorridendo della propria distrazione. Ma, quando arrivò, l'ascensore era vuoto. Soffocando una punta d'ansia, Gregory entrò nella cabina e salì a sua
volta, ripetendosi per tutto il tempo che doveva esserci una spiegazione razionale per ciò che Lynn aveva fatto. Quando le porte si aprirono e uscì nel corridoio, sentì solo il vento che sibilava attraverso le aperture coperte di plastica dove non erano ancora state installate le finestre. «Lynn? Lynn? Dove sei? Sono io, Greg!» Sentì una specie di fruscio in fondo al corridoio, e si mosse in quella direzione, aspettandosi di vederla uscire da dietro le impalcature tentando di giustificare la sua distrazione. Invece, entrò in un grande ufficio d'angolo, ma lo trovò vuoto. Frustrato, stava per tornare indietro quando credette di cogliere un movimento con la coda dell'occhio. Si avvicinò all'angolo riparato dalla plastica dove ci sarebbe dovuta essere una vetrata, e si rese conto all'improvviso che, dietro la plastica, c'era qualcuno sull'impalcatura. «Non può essere» borbottò, ma scattò ugualmente in quella direzione. L'istinto gli diceva che non poteva trattarsi di nessun altro. Strappò la plastica e si fermò di colpo, incredulo. Lynn era in piedi su una trave d'acciaio, sedici piani sopra la città. Il vento le incollava gli indumenti al corpo. «Mio Dio, Lynn! Che cosa stai facendo? Torna subito dentro, prima di cadere!» Ancora una volta, lei parve sorda alla sua voce. Con orrore, Gregory la vide sollevare le braccia ai lati del corpo, come un direttore che imponesse alla sua orchestra di aspettare. Fu sommerso da un'ondata di panico. La situazione era incontrollabile. Si frugò in tasca alla ricerca del cellulare, ma ricordò di averlo lasciato sulla scrivania. Era spaventato come mai in vita sua, e tuttavia non poteva starsene là senza fare niente. A quel punto cominciò a strisciare fuori della finestra, parlando con calma, mentre in realtà avrebbe voluto urlare. «Lynn, guarda solo me. Non guardare giù, okay? Adesso, prenderai la mia mano e torneremo dentro insieme. Non vorrai...» A metà della sua frase, all'improvviso Lynn guardò verso il cielo, e poi fece un passo nel vuoto. Gregory avrebbe ricordato, più tardi, di averla vista sorridere mentre lei cadeva, a braccia aperte. Non la vide schiantarsi sul marciapiede. Era in ginocchio e stava vomitando. L'incidente giunse a malapena ai giornali. In una città delle dimensioni di Chicago, una persona che si suicidava gettandosi da una finestra non faceva notizia. Nelle vicinanze di Denver, Colorado, la sera dopo
Frances Waverly era convinta, come lo era stata saltuariamente negli ultimi cinque anni, che il suo matrimonio fosse stato un grosso errore. Qualunque cosa lei facesse, agli occhi di Charlie era sbagliata. Suo marito passava tutta la giornata sbraitando e brontolando, e poi, non appena il sole tramontava, voleva sfilarle le mutandine. Non riusciva a capire perché lei non desiderava che la toccasse, ed era convinto che avesse un amante. «Un amante!» urlò Frankie. «In questo momento sono così stufa degli uomini che non vorrei neppure Donald Trump, con tutti i suoi milioni. Non che lui si interesserebbe a una nullità come me. Tu mi hai fatta invecchiare anzitempo, con tutte le tue lamentele e le tue critiche, e ne ho abbastanza! Ne ho abbastanza, hai capito?» Charlie l'afferrò per un braccio. Non era niente che non avesse già sentito altre volte, ed era stanco e voleva andare a letto. «Oh, piantala, Frankie. Non c'è proprio niente da piangere. Hai una bella casa e una macchina quasi nuova. Non ti manca niente. Tutto quello che chiedo è che tu adempia ai tuoi doveri coniugali. Sei mia moglie. Ho il diritto di fare l'amore con te.» Frankie rise, aspra. «Amore? Tu non sai niente dell'amore. Sai solo prendere e prendere. Non sapresti dare qualcosa neppure se ne andasse della tua vita.» «Non è vero!» gridò Charlie. «Diamine, ti ho dato...» Proprio mentre sbraitava, il telefono cominciò a squillare. Frankie agguantò il ricevitore, disposta a parlare con chiunque, anche se fosse stato qualcuno che voleva venderle qualcosa, piuttosto che ascoltare un'altra parole di Charlie. «Casa Waverly» disse, brusca, e quando Charlie fece per strapparle il telefono di mano lo spinse via e gli voltò le spalle. «Sì, parla Frances Waverly.» «Maledizione, Frankie, riattacca. Noi due stiamo discutendo una cosa importante. Chiunque sia, digli di richiamare.» Frankie non rispose. Invece, all'improvviso lei si appoggiò alla parete, come se le mancassero le forze. Per un momento Charlie pensò che stesse per svenire. Lei chiuse gli occhi e piegò il mento sul petto. «Che c'è?» scattò lui, immaginando che ogni sorta di disastri avesse colpito la loro famiglia. «Chi è? È la mamma? Papà sta male?» Frankie non rispose, e il suo panico aumentò. Vide una lacrima scorrerle lungo la guancia, e all'improvviso lui fu profondamente dispiaciuto per a-
verla fatta arrabbiare. «Senti, dolcezza, di qualunque cosa si tratti, andrà tutto a posto» disse. «Sono qui io.» Le fece scivolare la mano sotto i capelli e le accarezzò il collo. Invece di perdonarlo con un sorriso, lei posò il telefono sul tavolo e gli passò vicino come se fosse diventato invisibile. Quando prese le chiavi della macchina e aprì la porta, Charlie cominciò a spaventarsi sul serio. «Frankie! Aspetta! Dove stai andando? Vengo con te.» Lei lasciò il portico e uscì nella notte. Charlie riprese il ricevitore. «Pronto? Pronto? Chi è? Che cosa diavolo ha detto a mia moglie?» Non ottenne altro che il segnale della linea libera. Riattaccò e seguì Frankie all'esterno, solo per scoprire che era già salita in macchina e stava uscendo in retromarcia dal vialetto. «Frances! Maledizione! Ti ho detto di aspettare!» urlò, ma lei se n'era già andata. Charlie tirò fuori di tasca le proprie chiavi, balzò sul furgone e la seguì. Passò un chilometro, e lui si tenne incollato al suo paraurti, suonando il clacson e lampeggiando con i fari, nel tentativo di indurla a fermarsi. Dopo un altro chilometro cominciò ad avere paura. La situazione doveva essere davvero molto grave, perché lei si comportasse in quel modo. Quando si rese conto che si stavano avvicinando al passaggio a livello, tirò un sospiro di sollievo. Le luci stavano già lampeggiando, e le sbarre erano scese, bloccando il traffico fino al passaggio del treno. Grazie al cielo, pensò. Adesso potevano parlare. Accelerò leggermente, rinfrancato. Fu solo quando giunse ai piedi della collina che realizzò che le luci dei freni di Frankie non si erano accese. Anzi, andava più forte di prima. Poi, alla luce dei propri fari, Charlie la vide, tutto a un tratto, sporgere un braccio dal finestrino, e si accorse che non teneva le mani sul volante. Che cosa diavolo cercava di dimostrare? «Fermati, Frances, fermati!» cominciò a sbraitare. Era fiato sprecato. Incredulo, la guardò superare la sbarra e urtare contro la fiancata del treno. La macchina esplose, lanciando in aria frammenti di metallo rovente. Charlie inchiodò i freni quando una parte del paraurti colpì all'improvviso il parabrezza del suo furgone. Fu allora che cominciò a urlare. Seppellirono ciò che era rimasto di Frankie tre giorni dopo. L'avrebbero fatto prima, ma il giorno dopo l'incidente stavano ancora raccogliendo i pezzi del suo corpo. Nessuno, in famiglia, poté fare luce sulla telefonata ri-
cevuta, ma Charlie era convinto che fosse la ragione per cui sua moglie era morta. Doveva esserlo. Altrimenti, avrebbe dovuto accettare che il suo comportamento era stato la ragione del suicidio di Frankie, e non poteva vivere con un simile rimorso sulla coscienza. Oklahoma City, Oklahoma, una settimana dopo Marsha Butler scivolò sul sedile anteriore della macchina della sua migliore amica e sorrise. «Diamine, Allison, ti sono davvero grata di essere venuta a prendermi. La mia auto è stata in officina per tutta la settimana. Grazie al cielo, finalmente è pronta.» Allison Turner sorrise. «Non c'è problema, tesoro. Inoltre, devo depositare l'assegno dello stipendio in banca. Non voglio che tutte quelle bollette rimangano scoperte.» Marsha le ricambiò il sorriso. «Come ti capisco.» «Hanno capito qual era il guasto, o ti hanno solo preso in giro e fatto pagare un occhio della testa?» Marsha sospirò. «Chi lo sa? Sai bene come trattano le donne, in quel genere di posti. È in occasioni del genere che rimpiango di non essere ancora sposata.» Poi sorrise. «Ma non tanto da desiderare di stare ancora con Terry. Quel pidocchio.» Risero insieme e, un paio di minuti dopo, Marsha indicò un incrocio. «Ci siamo» disse. «Prendi la prima a destra.» Allison segnalò il cambio di corsia e cominciò a spostarsi a destra. Proprio allora il cellulare, che aveva posato nel vano portaoggetti, trillò. «Rispondi tu, per favore?» chiese all'amica. Marsha prese il telefono. «Pronto? No, non sono Allison. Sta guidando, in questo momento. Vuole attendere, prego?» «Grazie» disse Allison, entrando nella stazione di servizio. «Lasciami pure qui» propose Marsha. «Aspetterò fino a quando non sarò certa che la macchina è pronta.» «Oh, mi hanno già telefonato, altrimenti non sarei venuta fin qui.» «Aspetterò lo stesso» insistette Allison. «Grazie.»
Non appena Marsha scese, Allison chiuse la portiera e prese il telefono. «Pronto, sono Allison. Grazie per avere aspettato. Pronto? Pronto?» Spalancò gli occhi, sussultando. Poi, altrettanto bruscamente, cominciò a chiuderli. La testa le ricadde sul petto come se si fosse assopita, ma teneva ancora il telefono all'orecchio. Marsha stava pagando la riparazione quando notò che Allison era ancora nel posteggio. Sorrise, pensando a com'erano diventate buone amiche. Pochi momenti dopo era in macchina e si stava dirigendo verso la strada. Passando accanto all'auto di Allison si fermò e suonò il clacson per attrarre la sua attenzione, ma lei non si mosse. Marsha corrugò le sopracciglia e fece per scendere, poi notò che Allison era ancora al telefono. Esitò, temendo di essere indiscreta, e stava per allontanarsi, ma qualcosa, nell'atteggiamento della sua amica, la innervosiva. Quella strana posizione abbandonata, quasi priva di vita, poteva significare che aveva ricevuto brutte notizie. D'impulso, Marsha scese dall'auto e bussò al finestrino. «Allison! Sono io. Stai male?» Cercò di aprire la portiera, ma era bloccata. «Allison! Allison!» La sua amica non rispose. Non si mosse. Marsha cominciava a spaventarsi quando, improvvisamente, Allison alzò la testa. Posò il telefono sul sedile accanto a sé, inserì la marcia e accelerò. Marsha evitò di essere investita solo facendo un balzo indietro. Guardò, incredula, l'auto schizzare attraverso due corsie, evitando per miracolo altrettante collisioni. «Allison! Attenta!» urlò, ma l'avvertimento cadde nel vuoto. Stupefatta, Marsha vide Allison puntare dritta verso un'autobotte carica di benzina. Le altre macchine cominciarono a deviare, nel tentativo di evitare il tamponamento a catena, mentre gli automobilisti che erano già riusciti a fermarsi balzavano fuori dai veicoli e si affrettavano a correre il più lontano possibile, ben sapendo che cosa stava per accadere. Marsha ebbe, per un attimo, una visione chiarissima dell'amica prima dell'impatto, e avrebbe giurato che tenesse la braccia aperte perpendicolarmente al corpo, come se cercasse di abbracciare la morte imminente. Il fragore dell'impatto dei veicoli, metallo contro metallo, giunse fino a lei. E poi, un secondo dopo, l'esplosione la scagliò all'indietro contro la sua auto. Stava ancora urlando quando arrivarono le prime ambulanze. CAPITOLO 2
Convento del Sacro Cuore, stato di New York, una settimana dopo Cinque anni prima, la vita di Georgia Dudley era giunta a una svolta. Dopo avere cambiato quattro diversi lavori in due anni, e a conclusione di una lunga lotta per trovare il suo posto nel mondo, la certezza della sua vocazione le era giunta in sogno. Per la sua famiglia era stato uno shock, e il suo ragazzo era rimasto sconvolto dalla sua improvvisa decisione. Ma per Georgia era stato un vero momento di grazia. Per una donna che aveva amato la compagnia allegra e sperimentato assai precocemente i piaceri della carne, era un voltafaccia a dir poco incredibile. Ma lei aveva attraversato il fuoco della salvezza, mondato cuore e anima, ed era realmente felice per la prima volta in vita sua. Ora, con il nome di suor Mary Teresa, viveva nel convento del Sacro Cuore, nello stato di New York, ed era nel suo elemento. Ancora allegra, ma con la mente sempre rivolta a Dio, trascorreva la vita con grande gioia. Era popolare fra le consorelle. Perfino la Madre Superiora aveva una luce di allegria negli occhi quando c'era in giro suor Mary Teresa. E ora, appena tornata dal suo primo periodo sabbatico, suor Mary Teresa era piena di fede in se stessa e in Dio, e pronta a reinventare il mondo. La Madre Superiora alzò gli occhi dalla scrivania, indirizzando uno dei suoi rari sorrisi alla giovane suora che entrava nel suo ufficio. «E così, sei tornata a casa» commentò. Suor Mary rise e allargò le braccia. «Sì... sì... ed è una vera benedizione essere qui, gliel'assicuro. Oh, Madre, è stato magnifico! Ho visto il Papa. Gli ho baciato l'anello! E la meraviglia di Roma! Era come vivere in un film. Non avevo idea che tutto fosse così... così...» La Madre Superiora sorrise. «È l'antichità di tutto questo che ti fa impressione, vero?» Suor Mary batté le mani. «Sì! È così! È l'antichità. Cammini per quelle strade e pensi a tutti i secoli che la città ha visto passare e ai milioni e milioni di persone che si sono trovate in quel preciso punto, e ti senti così piccola e umile.» «Ed è esattamente quello che si dovrebbe provare» osservò la Madre Superiora. Suor Mary sorrise. «Sì, lo so. Il fatto è che io sono ancora troppo presuntuosa. Ma è un peso
che porto con la gioia nel cuore.» La Madre Superiora sorrise di nuovo alla giovane monaca. «E quel cuore è apprezzato da noi tutte» mormorò. «Ma cambiamo argomento. C'è della posta per te. È sulla scrivania di padre Joseph, qui accanto. Perché non vai a prenderla, prima che torni? Così non lo disturberai più tardi.» «Sì, Madre. Grazie, Madre» disse suor Mary, e schizzò alla porta dell'ufficio adiacente. «Camminare, sorella, camminare...» l'ammonì la Superiora. A quel blando rimprovero, suor Mary ridacchiò divertita, con un'ultima scivolata, poi rallentò il passo ed entrò a ritirare la sua posta. «Ho portato i bagagli in camera mia» comunicò da sopra la spalla. «Non appena li avrò disfatti, riprenderò i miei doveri.» La Superiora sorrise e scosse la testa. «Sono quasi le tre. Non c'è bisogno di preoccuparti dei tuoi doveri fino a domani. Vai pure a disfare i bagagli, goditi la tua posta e abituati al cambiamento di fuso orario andando a letto presto. Riprenderai domattina.» Suor Mary rise di nuovo. «Sì, Madre. E grazie, grazie... Oh, è così bello essere tornata.» Uscì dalla stanza rapidamente com'era entrata, con il lungo abito che le fluttuava dietro come una vela spiegata. La Madre Superiora scosse la testa e tornò al suo lavoro. Quella bambina era piena di spirito, e non c'era niente di male in questo. Ci sarebbero volute più donne come lei al servizio di Dio. Suor Mary si gettò sul letto, ignorando l'atmosfera spartana della camera, mentre sfogliava la posta. «Oh, magnifico! Una lettera della mamma, e una di Tommy.» Tommy era il fratello più vicino a lei come età. Da bambina, lei aveva seguito senza fiatare ogni suo passo, accodandosi a lui e a tutti i suoi amici fino a quando non l'avevano accettata, considerandola una monumentale seccatrice che, però, faceva parte del loro gruppo. Impaziente di avere notizie da casa, aprì per prima la lettera del fratello, aspettandosi il racconto delle scappatelle del più piccolo dei suoi nipotini. Ma le sue speranze si rivelarono vane quando cominciò a leggere. Sorellina, mi sembra di ricordare che per un certo periodo sei andata a scuola con una bambina di nome Josephine Henley, giusto? Lo so
perché frequentavo suo fratello Sammy, almeno fino a quando loro non traslocarono. Comunque, ho ricevuto da lui una brutta notizia, l'altro giorno. A quanto pare Jo-Jo, che viveva ad Amarillo, si è suicidata gettandosi sotto un camion. È stata una cosa tristissima. La famiglia non riesce ancora a crederci. Dicono che era felice e non aveva problemi, ma chi lo sa? Comunque, ti giro il ritaglio di giornale che Sammy ha mandato a me. Mi spiace darti cattive notizie, ma ho pensato che avresti voluto saperlo. Suor Mary scorse l'articolo, incredula. Aveva il cuore stretto per la famiglia e per la bambina che ricordava così bene. Ripromettendosi di pregare per loro, aprì la lettera di sua madre, sperando che contenesse notizie migliori. Si sbagliava. Carissima Georgia... oh, scusa, so che non porti più questo nome. Sono felice per te, ma non riesco a indurmi a chiamarti suor Mary, perciò perdonami, cara. Comunque, ho avuto molto da fare lavorando come volontaria per due giorni alla settimana in ospedale. Dovresti vedere l'orrenda divisa rosa che si aspettano che indossiamo! È troppo stretta di fianchi e troppo larga di petto per me. O forse sono io che sono fuori forma. Chissà? Oh, Aaron Spaulding ti manda i suoi saluti. Sai, adesso è vicedirettore della banca in cui lavora. Sarebbe stato un buon marito. Peccato che tu abbia rotto con lui quando lavorava ancora allo sportello. Oh... ti ho detto che è ancora scapolo? Anche se immagino che non ti interessi più, ormai. Suor Mary sorrise. Sua madre, protestante, era ancora sotto shock per il fatto che la sua unica figlia femmina non solo era diventata cattolica, ma aveva addirittura preso il velo. Riprese a leggere con interesse. Un'altra notizia che probabilmente non sai. Ricordi la piccola Emily Patterson? Aveva sposato quel ragazzo di nome Jackson e si era trasferita a Seattle. Be', sua madre abita ancora in fondo all'isolato, per questo sono venuta a sapere quello che è successo. È una cosa tristissima. Emily è morta. Mi dispiace tanto darti questa notizia, perché ricordo che avevate l'abitudine di giocare
insieme sul marciapiede davanti a casa, dopo la scuola. Comunque, non ci crederai! Forse dovresti dire una preghiera per la sua anima, considerando quello che ha fatto. Dicono che si sia suicidata. Proprio così. È saltata da un ponte, dritta nell'acqua, senza un pensiero per il suo bambino e suo marito. Francamente, è difficile crederlo, ma non si può mai sapere che cosa faranno i figli, una volta cresciuti. Dopotutto, io non avrei mai pensato di allevare una figlia... la mia unica figlia... per vederla diventare suora. Non che sia una brutta cosa, ma non me l'aspettavo. Ti mando un articolo di un giornale di Seattle sull'accaduto, così potrai leggerlo direttamente. Chiamami, qualche volta, se te lo permettono. Ti penso sempre dietro a quelle mura di pietra come se fossi in prigione, anche se sono certa che non è così, vero? Puoi telefonare quando vuoi, giusto? Le mani di suor Mary tremavano. Era troppo. Senza finire la lettera, si inginocchiò accanto al letto e cominciò a pregare, con il cuore pieno di tristezza per la perdita delle sue amiche e per le famiglie che avevano lasciato. La notte era finalmente scesa sul convento. Conclusi i Vespri, suor Mary Teresa si era ritirata in camera sua con il resto della posta, che non aveva ancora esaminato. Si sedette sul letto e aprì il cassetto del piccolo comodino, riponendovi le lettere della madre e del fratello. Richiudendolo non poté fare a meno di sentirsi come se avesse simbolicamente sepolto due vecchie amiche. Guardando le altre lettere non ancora aperte, provò uno strano timore. D'impulso, fece per aprire la prima, ma poi cambiò subito idea e mise da parte la posta. Aveva il cuore pesante come un macigno. Non c'era posto per nient'altro dentro di lei, quella sera. Ma sapeva esattamente come risollevare il suo spirito provato da quelle brutte notizie. Prese la Bibbia e, con un sospiro, mormorò una preghiera mentre l'apriva, cercando un po' di conforto fra le righe dell'antico testo. Il tempo passò... un lungo tempo durante il quale raggiunse l'accettazione di quanto era accaduto. E poi ci fu un colpetto alla porta. «Avanti» disse suor Mary a bassa voce. La porta si aprì. La sagoma della Madre Superiora si stagliò contro le ombre del corridoio che era alle sue spalle.
«Ho visto la luce» disse. «Non ti senti bene?» le domandò. Suor Mary sospirò. «È il cuore che sta soffrendo» disse quietamente, chiudendo la Bibbia e posandola accanto al letto. «Posso aiutarti?» «Preghi per coloro che si perdono» rispose suor Mary, pensando alle anime delle sue amiche che erano per sempre perdute per il Signore. «Ora vai a letto, bambina mia. Domani è un altro giorno.» Suor Mary annuì. La porta si chiuse dietro l'anziana suora. Suor Mary fissò la maniglia fino a quando gli occhi cominciarono a bruciarle, poi si alzò e si preparò per andare a letto. La Madre Superiora aveva ragione. Domani era un altro giorno. St. Louis, Missouri, quella stessa sera Virginia Shapiro chiuse l'acqua e uscì dalla doccia, allungando una mano verso il telo di spugna mentre si voltava verso il lungo specchio sul retro della porta del bagno. Il vapore aveva appannato la superficie e adesso stava cominciando a condensarsi, scorrendo in rivoletti sul vetro. Lei pensò di asciugarlo, ma aveva troppa fretta. Si avvolse i capelli bagnati in un asciugamano e ne prese un altro con il quale si strofinò rapidamente, prima di uscire dal bagno e dirigersi alla cabina armadio, benché il suo corpo lungo e snello fosse ancora umido. Il DNA di cui era dotata non consentiva eccessi di alcun tipo, e mentre molte donne avrebbero volentieri fatto cambio con lei per avere la sua figura alta e snella, per Ginny il fatto di potersene andare in giro priva di reggiseno senza che nessuno se ne accorgesse era una grande fonte di disgusto. Tutta colpa di sua madre, che aveva sposato un uomo esageratamente magro. Il piccolo orologio che era nell'ingresso suonò le ore. Ginny si voltò di scatto, con un vestito in una mano e un paio di scarpe nell'altra. Oh, no! Le sei meno un quarto. Joe sarebbe arrivato da un minuto all'altro. Con gesti rapidi gettò gli indumenti sul letto e cominciò a frugare in un cassetto alla ricerca della biancheria. Nello spazio di cinque minuti era di nuovo in bagno per truccarsi. Gettò il rossetto sul ripiano e agguantò il phon, accendendolo al massimo. I suoi capelli lisci, lunghi fino alle spalle, erano ancora un arruffio di ciocche bagnate quando il campanello suonò. Con un'ultima occhiata allo
specchio, se li ravviò alla meglio con le dita, scoccò un bacio alla propria immagine e corse alla porta. Un attimo prima di girare la maniglia, respirò a fondo, alzò gli occhi al cielo per l'assurdità di scaldarsi tanto per una cena con un uomo che non sarebbe mai stato niente di più di un amico, poi spalancò la porta. «Spero che tu abbia appetito. Io sono affamata, e mi dispiacerebbe mangiare più di te» disse. Joe Mallory sorrise. «Tu mangi sempre più di me.» Ginny inarcò un sopracciglio, si gettò la cinghia della borsa sulla spalla e si sbatté la porta alle spalle. Pochi momenti dopo erano in ascensore e stavano scendendo in strada, dove Joe aveva posteggiato. Il suono delle loro risate riecheggiò nella cabina, mentre ne uscivano sottobraccio. Erano ormai troppo lontani per sentire lo squillo stridente del telefono di Ginny, e poi la voce registrata della segreteria telefonica, quando l'apparecchio entrò in funzione. Qui è Virginia Shapiro. Lasciate un messaggio dopo il bip. Ma non ci fu alcun messaggio. Passò un lungo momento di silenzio prima che la comunicazione fosse interrotta. Non importava. La chiamata sarebbe stata fatta di nuovo. C'era ancora tempo. Il mattino dopo, le mani di suor Mary Teresa tremavano mentre sollevava il ricevitore per fare la sua telefonata. Le lettere che aveva in grembo e una e-mail che aveva ricevuto da una lontana cugina erano una realtà che non poteva ignorare. Cinque sue compagne di scuola della prima elementare si erano suicidate, nello spazio di un paio di mesi. E, in tutti quegli incidenti, c'era un elemento curioso di cui suor Mary non si era resa conto fino a quando non aveva telefonato alle famiglie per porgere le sue condoglianze. Tutte le donne che si erano suicidate erano state normalissime fino a quando non avevano risposto a una semplice telefonata. Ma quale notizia potevano avere ricevuto, tanto orribile da indurle a una simile autodistruzione? Non aveva senso. Inoltre, c'era il fatto che tutti quei nomi le avevano fatto tornare alla mente un altro ricordo, e adesso sapeva a chi telefonare per avere delle risposte. Respirò a fondo e compose il numero. Quando sentì la voce di sua madre all'altro capo del filo, provò un irresistibile bisogno di tornare bambina, di posarle la testa in grembo e aspettare che lei mettesse a posto ogni cosa. Poi, soffocò quella debolezza e cercò di parlare in tono allegro, mentre in
realtà avrebbe voluto piangere. «Mamma! Sono io.» Edna Dudley sorrise. «Tesoro! Sei tornata! Com'era Roma?» «Meravigliosa, e mi ha fatto tanto bene allo spirito. Senti, mamma, vorrei chiacchierare più a lungo, ma sono in ritardo. Andiamo al Children Hospital, stamattina, e non voglio che il pullmino parta senza di me. Ho bisogno di un favore.» «Tutto quello che vuoi» disse Edna. «Per caso ti ricordi dov'è il mio vecchio annuario della Montgomery Academy?» «Non ne sono sicura, ma penso che sia ancora nella libreria della tua vecchia camera. Vuoi che vada a vedere?» Suor Mary esitò. «Ci vorrà solo un minuto» continuò Edna. «Sono già di sopra.» «Allora, sì, vorresti guardare, per favore? È molto importante.» Edna posò il ricevitore. Suor Mary sentì i passi di sua madre allontanarsi e poi, un momento dopo, avvicinarsi di nuovo. Se la raffigurò camminare rapidamente sul lucido parquet del vecchio ballatoio del primo piano. «Sì, è qui» disse Edna. Suor Mary sospirò di sollievo. «Okay, magnifico! Ora aprilo e guarda la foto della nostra classe. Dev'esserci, sotto, un'altra foto più piccola.» «Un momento» borbottò Edna. «Devo posare il telefono.» Suor Mary lanciò un'occhiata all'orologio sopra la porta dell'ufficio, poi elevò una rapida preghiera. «Sì! Ecco qui» disse Edna. «Oh, avevo dimenticato com'eravate piccole a sei anni. Tu e Ginny Shapiro eravate inseparabili. Mi sembra di ricordare che lavora per un giornale, adesso, vero?» Suor Mary respirò a fondo, imponendosi di restare calma mentre avrebbe voluto urlare a sua madre di smetterla di chiacchierare. Delle persone stavano morendo, e lei voleva sapere il perché. «Sì, è cronista in un giornale di St. Louis» rispose. «Mi ha mandato una cartolina per Natale. Ora, puoi leggere i nomi delle bambine che erano con me in quella classe speciale?» «È la foto piccola sotto quella dell'intera classe?» chiese Edna. «Sì. Per favore, mamma, ho fretta.»
«Okay, ecco qui. Hai una penna?» «Mamma, per favore, leggi e basta.» «Vediamo. Emily Patterson, Josephine Henley, Lynn Bernstein, Frances Bahn, Allison Turner, Virginia Shapiro e te. Sette in tutto.» Suor Mary dovette fare uno sforzo per non mettersi a gridare. Per qualcuna il cognome era cambiato con il matrimonio, ma la memoria non l'aveva ingannata. Ciascuna delle donne che erano morte aveva fatto parte di quella classe. «Hai bisogno di qualcos'altro, cara?» le domandò Edna. «Sì, se non ti dispiace, puoi mandarmi quell'annuario per corriere espresso?» «Corriere espresso? Costa così caro! Perché non...» «Mamma, per favore, ne ho bisogno.» «E va bene. Vado subito a spedirtelo.» Suor Mary sospirò. «Grazie, mamma. Mille grazie.» Edna rise. «Non c'è di che, cara. Ci manchi, sai.» La voce di suor Mary tremò. «A dire il vero, anche voi mi mancate tanto, mamma. Oh... mamma?» «Sì, cara?» «Ti voglio bene, sai. Ti voglio tanto bene.» «Lo so, tesoro. Che Dio ti benedica.» Gli occhi di suor Mary si colmarono di lacrime. «Sì... che Dio ci benedica...» ripeté, poi depose silenziosamente il ricevitore. Guardò prima le lettere, poi la lista di nomi che sua madre le aveva dettato. La verità era là, ma non aveva senso. A meno che le leggi del caso non fossero state violate al di là del possibile, c'era qualcuno dietro a quelle morti, e lei e Ginny Shapiro erano le sole rimaste in vita. Negli ultimi due mesi, cinque donne giovani e sane, con tutte le ragioni per vivere, si erano suicidate. Non poteva fare a meno di pensare che lei e Ginny sarebbero state le prossime. Poi, la sua razionalità entrò in azione, e cominciò a riflettere su ciò che aveva appena appreso. C'erano due elementi in comune di cui era a conoscenza: la classe speciale e il fatto che ciascun suicidio era seguito a una telefonata. Ma chi poteva avere chiamato? E, più ancora, in nome del cielo, come
potevano quelle telefonate avere innescato qualcosa di così tremendo? Stava succedendo qualcosa di molto grave... di terribilmente grave... e lei non riteneva che le preghiere bastassero a fermarlo. Aveva bisogno di trovare aiuto, prima che anche lei e Ginny soccombessero. Dopo una rapida ricerca nella sua agenda degli indirizzi, trovò il numero di casa di Ginny. Quando la segreteria scattò, suor Mary si batté una mano sulla fronte, disgustata. Dove aveva la testa? Ginny doveva essere al lavoro. Compose un secondo numero, quello del St. Louis Daily, ma fu informata che Ginny era fuori ufficio per tutto il giorno. Lasciò un messaggio per lei, raccomandando di chiamarla, e riattaccò. Ora aveva davvero paura. Immediatamente dopo, pensò a Sullivan Dean, il migliore amico di suo fratello. Quando era bambina, Sully era stato il suo cavaliere dalla bianca armatura. Aveva rinunciato al sogno di sposarlo il giorno in cui aveva donato il cuore al Signore, ma Sully Dean era ancora un cavaliere dalla bianca armatura. La sola differenza, ora, era che la sua metaforica spada era diventata un pesante distintivo del Federal Bureau of Investigation. Sì, Sully Dean era un federale. Un duro, implacabile poliziotto. Lui avrebbe saputo che cosa fare, ma per muoversi aveva bisogno di ogni informazione in suo possesso. Suor Mary fece rapidamente delle fotocopie di tutto ciò che aveva ricevuto, e le mise in una busta, assieme a una breve lettera che spiegava i suoi timori. Poi preparò un'altra busta anche per Ginny. La sua amica doveva essere avvertita subito. Lei stessa avrebbe portato le buste al corriere celere immediatamente, andando all'ospedale dei bambini. Più tardi, si recò a cena con il cuore più leggero. Aveva condiviso con qualcuno il peso dei suoi sospetti e, se conosceva Sullivan, lui l'avrebbe chiamata non appena ricevuta la busta. Quando la Madre Superiora pronunciò la sua benedizione, suor Mary Teresa si azzardò ad aggiungere una piccola preghiera tutta sua. Dio, Ti prego, aiutaci nell'ora del bisogno. «Suor Mary Teresa, vuoi passare il pane, per favore?» Suor Mary alzò la testa e sorrise alla donna alla sua destra. Suor Frances Xavier amava particolarmente il pane, come testimoniava la sua figura rotondetta. «Certo» rispose, e le passò il cestino dei panini proprio nel momento in cui il rumore di un martello pneumatico rompeva bruscamente il silenzio del refettorio. Suor Mary sussultò, lasciando quasi cadere il cestino. «Sono gli operai» spiegò suor Frances.
«Quali operai?» «Quelli che lavorano nel seminterrato. Qualche riparazione alle tubature, credo. Sai come devono essere vecchie, in questo edificio.» Poi, suor Frances si fece più vicina e sussurrò, prendendo un panino dal cesto: «La Madre Superiora era molto agitata in proposito. Ha detto che avrebbero disturbato la santità e la pace del Sacro Cuore». Ridacchiò, poi aggiunse: «Ma padre Joseph ha risposto che ventitré suore senza bagni né acqua corrente avrebbero costituito il vero disturbo, non un po' di rumore». Anche suor Mary Teresa ridacchiò. «Avrei voluto vederli. Non fanno che discutere. Eppure penseresti che, visto che siamo tutti nella stessa barca, per così dire, dovrebbero andare un po' più d'accordo.» Suor Frances si strinse nelle spalle, spezzando il panino. «Solo perché entrambi amano il Signore, non significa necessariamente che si amino l'un l'altro» osservò, e poi si affrettò ad aggiungere: «In senso simbolico, naturalmente». Indicò la saliera. «Mi passi il sale, per favore?» Trentasei ore erano passate senza ricevere una parola né da Sullivan, né da Ginny, e suor Mary Teresa cominciava a preoccuparsi. Aveva provato di nuovo a chiamare Ginny al St. Louis Daily, ma le era stato detto che la sua amica era fuori per un servizio. Non aveva idea del motivo per cui Sully non aveva telefonato, ma, sapendo qual era il suo lavoro, poteva essere in qualunque punto degli Stati Uniti, in quel momento, completamente all'oscuro dell'accaduto. Pensò un paio di volte di mettersi in contatto con le autorità locali, ma abbandonò l'idea. Tutte quelle morti avevano avuto dei testimoni ed erano state archiviate come incidenti o suicidi. Non aveva prove, a parte la netta sensazione istintiva che lei e Ginny sarebbero state le prossime. Due giorni prima lei aveva chiesto di essere esonerata dal suo lavoro in ufficio per timore di dover rispondere al telefono. Quando la Madre Superiora le aveva chiesto se stava poco bene aveva mentito e aveva risposto di sì. Ora, la coscienza la tormentava. Con il cuore pesante, uscì dall'edificio principale e si diresse verso la cappella, che era sul lato opposto del giardino, grata che la pioggia dei giorni precedenti fosse finalmente cessata. Teneva gli occhi fissi sul sentiero, con il pensiero rivolto alla confessione a lungo rimandata. C'erano parecchie automobili nel posteggio dei visitatori, ma non vi prestò attenzione. Le visite erano frequenti al Sacro Cuore. Camminava a testa bassa, frettolosamente, con l'orlo della veste che le on-
deggiava attorno alle caviglie, senza notare la persona seduta sulla panchina fra gli alberi, alla sua sinistra. In lontananza sentì dei passi sul sentiero, alle sue spalle, ma non aveva motivo di voltarsi. Entrando nella cappella, la sua ansia cominciò a dissolversi. Traeva forza da quel luogo, e dalla pace che vi regnava. Diverse persone erano sparpagliate sulle panche, alcune con lo sguardo fisso sulle magnifiche vetrate multicolori, altre sedute a testa bassa, pregando in silenzio. Suor Mary non badò a loro mentre si genufletteva, si segnava e baciava il crocefisso in fondo al suo rosario, prima di dirigersi verso i confessionali, in fondo. Benché padre Joseph confessasse ogni giorno a quell'ora non lo si vedeva in circolazione, ma suor Mary non se ne preoccupò. Si sarebbe fatto vivo, prima o poi, come sempre, e lei era contenta anche solo di essere nella casa del Signore. Prese posto in un confessionale, chiuse la porta, giunse le mani in grembo e chinò la testa. Quando padre Joseph avesse visto la porta chiusa, avrebbe capito che qualcuno lo aspettava. Per il momento, lei avrebbe esercitato la pazienza. Era qualcosa che aveva imparato durante il suo noviziato. Passò un minuto, poi un altro. Il panico che l'aveva tormentata era scomparso. Dio era attorno a lei e dentro di lei, e non aveva paura. Quando sentì i passi che si avvicinavano, e poi aprirsi la porta del cubicolo adiacente, seppe che padre Joseph era arrivato. Con gli occhi colmi di lacrime, respirò a fondo. «Mi perdoni, padre, perché ho peccato. Mi sono confessata l'ultima volta tre giorni fa.» Invece del suono familiare della voce di padre Joseph, sentì un sommesso, ma distinto rombo di tuono. Poi, in un attimo, una parte del passato di suor Mary Teresa, una parte che apparteneva alla bambina che era stata, si avvolse attorno alla sua mente e la sopraffece. Non ci fu tempo per il panico. In pochi secondi, suor Mary Teresa fu preda di un maestro che l'aveva fatta sua molto prima di Quello che adesso serviva. Il tuono non si sentiva più, ora. Lentamente, molto lentamente, lei alzò la testa e aprì la porta. Mentre usciva dal confessionale, qualcuno la prese per un braccio. «Mi perdoni, sorella, sono stato trattenuto. Si sieda, prego, e riceverò la sua confessione» disse padre Joseph. Ma la piccola suora non diede segno di averlo sentito. «Suor Mary Teresa!»
Lei continuò a camminare, lasciando l'anziano prete a pensare ciò che voleva del suo strano comportamento. Padre Joseph la seguì con lo sguardo, incredulo. Mentre raggiungeva l'uscita, qualcosa... forse la voce di Dio... gli disse di seguirla. Ma quando arrivò alla porta, suor Mary non era più in vista. Preoccupato, lui scese gli scalini a due per volta, scrutando il giardino. Non vedendola, si voltò per ispezionare il terreno che scendeva con un leggero pendio dietro la cappella, fino al fiume. Stava per rinunciare quando notò qualcosa di nero che appariva e spariva fra un ciuffo di alberi, vicino al fiume. Era lei, senza dubbio. Ma perché era andata là? Ancora una volta una voce interna lo spinse a seguirla, benché la cosa non avesse senso. Non c'era niente, laggiù, tranne il fiume, ed era in piena. All'improvviso, nella sua mente risuonò una parola così autoritaria che, in cuor suo, seppe che veniva direttamente da Dio. Vai! Senza pensare alle sue vecchie giunture, si mise a correre. Più si avvicinava al fiume, più accelerava il passo. Sbucò ansante dagli alberi, sulla banchina poco al di sopra dell'acqua tumultuosa, e si appoggiò a un tronco, guardandosi attorno ansiosamente. Poi la vide, a un centinaio di metri a valle, in piedi sull'orlo di una roccia che sporgeva a strapiombo sul fiume, come un piccolo uccello nero sul punto di spiccare il volo. Sotto di lei, l'acqua ribolliva attorno a dei grossi massi. Facendosi portavoce con le mani, padre Joseph chiamò la suora, ma le sue parole furono soffocate dal rombo dell'acqua. Si sentì cadere il cuore. Non sarebbe mai riuscita a sentirlo. Quando all'improvviso la vide ondeggiare, la sua ansia si trasformò in panico. «No! Buon Dio, no!» Si mise a correre, dimentico di tutto quanto, tranne della donna sulle rocce. Un attimo dopo, lei sollevò lentamente le braccia al cielo, alzò il viso e si chinò in avanti. Padre Joseph si fermò di colpo guardandola, incredulo, cadere nel vuoto. Ci vollero solo pochi secondi perché il suo corpo toccasse l'acqua, ma lui avrebbe per sempre ricordato la scena come una serie di fotogrammi fermi. Il sorriso sulle sue labbra, gli occhi chiusi come se dormisse. Le braccia tese orizzontalmente all'altezza delle spalle, come l'immagine di un Cristo crocefisso.
Lo sventolio della sua veste, nera e modellata attorno al suo corpo come un sudario. Il modo con cui l'acqua si divise per accoglierla. Un lampo bianco, un'ombra momentanea sotto la superficie fangosa, e poi... nulla. La piccola suora era scomparsa. «No!» urlò padre Joseph, cadendo in ginocchio. «Dio misericordioso, no!» Washington, D.C., ventiquattr'ore dopo. Sullivan Dean infilò la chiave nella serratura, ascoltandone gli scatti con soddisfazione. Gettandosi sulla spalla la cinghia della borsa da viaggio, entrò nell'appartamento e si sbatté la porta alle spalle. Un odore di chiuso pervadeva le stanze. Una pianta d'edera appesa a una finestra aveva tutta l'aria di essere ormai morta. Sully posò la borsa sul pavimento e gettò su un tavolo vicino la posta che si era accumulata durante la sua assenza. Alzando gli occhi al cielo per le condizioni della pianta, si rese conto che aveva dimenticato di affidarla al suo vicino prima di partire. Quella era la quinta, o forse la sesta, che aveva ucciso, da quando si era trasferito in quella casa. Si strinse nelle spalle. Forse doveva smettere di rimpiazzarle, così si sarebbe tolto il pensiero. Tolse l'edera dal gancio a cui era appesa, la portò in cucina e la mise nel lavello, irrorandola abbondantemente d'acqua, anche se sospettava che fosse ormai troppo tardi. Tirò leggermente una foglia, che si staccò e gli rimase in mano. «Spiacente, amica mia. Non sono tagliato per alcun genere di radici... neppure le tue.» Aprì il frigorifero, e subito dopo arricciò il naso, disgustato. Qualunque cosa fosse quella che aveva lasciato in quel sacchetto di plastica, era diventata un liquido denso e verdastro. La lasciò cadere nella pattumiera e sbatté lo sportello, prima di voltarsi a dare un'occhiata in giro. Be', il meglio che si poteva dire di quell'appartamento era che le stanze erano polverose e vuote. Sully sospirò. Era uno di quei momenti in cui lo colpiva l'idea che sarebbe stato bello, tornando a casa, trovare qualcosa di diverso dagli echi delle stanze vuote. Quel pensiero gli rammentò l'ultimo rapporto duraturo che aveva cercato di avere. A quel punto, decise che le piante morte e i mobili polverosi non erano poi tanto male. E c'era di buo-
no che non doveva presentarsi in ufficio fino a lunedì. Per allora, tutto sarebbe stato di nuovo in ordine. Soddisfatto di avere risolto tutti i suoi problemi, prese il telefono. Quella sera avrebbe ordinato una pizza, e l'indomani avrebbe chiamato un'impresa di pulizie e fatto la spesa. Poi, lunedì, avrebbe portato gli indumenti in tintoria. Forse quella sera avrebbe chiamato suo fratello. Non si sentivano da mesi. Si rammentò anche che l'indomani avrebbe dovuto chiamare la clinica e verificare le condizioni di sua madre. Lei non avrebbe sentito la sua mancanza, in compenso lui sentiva quella della persona che era stata. L'Alzheimer lo aveva privato dell'ultimo genitore vivente, e quello di cui aveva bisogno, ora, era meno caos, non un'amante per scombinargli la vita. Un paio d'ore più tardi, dopo una doccia e una pizza, Sully si dedicò a esaminare la posta. Le inevitabili fatture dovevano essere pagate. Si sedette sul divano con la posta in grembo, suddividendo fatture e bollette a sinistra, giornali sul tappeto, lettere personali a destra, cataloghi nell'immondizia. A metà del lavoro, arrivò a una grossa busta giunta con corriere celere. Incuriosito, guardò il mittente e sorrise. Era di Georgia. Suor Mary Teresa, si corresse quasi immediatamente, anche se per lui sarebbe sempre stata Georgia, la sorellina di Tommy Dudley. Mise da parte il resto della posta, ripromettendosi di esaminarla più tardi, aprì la busta e tirò fuori una manciata di fogli e una breve lettera scritta a mano da Georgia. Scorrendo rapidamente i fogli, vide che erano fotocopie di ritagli di giornali. Ancora più incuriosito, prese la lettera e cominciò a leggerla. Quasi istantaneamente, il sorriso gli morì sulle labbra. Si raddrizzò sul divano e rilesse la lettera, prima di passare alle fotocopie, prestando particolare attenzione ai punti che Georgia aveva evidenziato. «Be', diavolo...» borbottò, scorrendo ancora una volta la lettera. L'ultima riga gli strinse il cuore: Sully, ti prego, aiutami. Ginny o io potremmo essere la prossima vittima. Balzò in piedi e corse in camera da letto. L'agenda degli indirizzi era ancora sul cassettone dove l'aveva gettata la settimana precedente. Sfogliò le pagine e trovò l'indirizzo e il numero di telefono del convento del Sacro Cuore. Una sensazione di angoscia gli stringeva la gola mentre componeva il numero. Di sicuro si stava preoccupando troppo. Georgia avrebbe riso divertita, ammettendo con lui di essere giunta a conclusioni troppo affrettate. Ecco, sarebbe andata così. Non appena lui avesse sentito la sua voce,
avrebbero riso insieme. Eppure, quando gli fu risposto, ebbe difficoltà a trovare le parole. «Convento del Sacro Cuore. Che cosa posso fare per lei?» «Ho bisogno di parlare con Georgia... Voglio dire, suor Mary Teresa.» Sentì un lieve sussulto, e poi: «Un momento, per favore». In sottofondo credette di udire un rapido mormorio, e un nodo gli strinse lo stomaco. Quando una voce diversa riprese la linea, seppe che era successo qualcosa di grave. «Sono la Madre Superiora. Chi parla, prego?» La voce della donna era severa, e Sully ebbe una rapida visione di un righello sulla mano e dell'angolo del castigo. Gli ci volle uno sforzo di volontà per superare quello stato d'animo infantile e tornare alla realtà. «Sono Sullivan Dean, un amico di famiglia di suor Mary Teresa. Ho bisogno di parlare con lei.» «Mi dispiace, è...» «La prego, è importante» insistette Sully. La donna sospirò, e lui rimase sorpreso di sentire le lacrime nella sua voce. «Lei non capisce» disse la Superiora. «Non è che io non lo permetta. È solo che...» Si interruppe. «Se lei è un amico di famiglia, dovrebbe già sapere.» Sully si lasciò cadere sulla sponda del letto, perché le gambe si rifiutavano di reggerlo. «Sono stato all'estero. Che cosa dovrei sapere?» «Mi dispiace, ma abbiamo perduto suor Mary» rispose la Superiora. Il sangue cominciò a ronzargli nelle orecchie. «Che cosa significa che l'avete perduta?» «È morta, signore.» Sully si sentì mancare il respiro. Ci fu un lungo momento di silenzio mentre lottava per recuperare il fiato sufficiente per parlare. Finalmente, la parola uscì come un mormorio roco. «Come?» «Non spetta a noi giudicare in merito. Tutto quello che possiamo fare è pregare per la sua anima.» La rabbia si sovrappose alla sofferenza. «Al diavolo le preghiere. Voglio risposte!» sbraitò Sully. «Padre Joseph ha assistito alla sua morte» disse la Superiora, ancora temporeggiando.
«Madre, sono un'agente dell'FBI, e per l'ultima volta le chiedo com'è morta Georgia.» Ci fu un altro momento di silenzio, seguito da una risposta sconvolgente. «Si è suicidata.» «No! Diavolo, no. La donna che conoscevo non si sarebbe mai uccisa. Neppure in un milione di anni.» «Si è gettata in un fiume in piena.» «Non sapeva nuotare» mormorò Sully. «Sì, lo sappiamo.» I pensieri di Sully tumultuavano. Aveva bisogno di concentrarsi. Ma su che cosa? Georgia aveva chiesto il suo aiuto, e lui era arrivato troppo tardi. «Le sue cose. Che ne è stato?» «La sua famiglia verrà a ritirarle la prossima settimana.» «Sarò lì domattina presto. Non toccate niente finché non avrò avuto modo di vederle.» «Oh, ma...» «È stata assassinata» affermò Sully. «Non so come, ma lo scoprirò, anche se dovesse essere l'ultima azione della mia vita. Intende aiutarmi, o no?» CAPITOLO 3 Ginny era in ritardo. Il temporale che aveva imperversato su St. Louis la notte precedente aveva fatto mancare l'elettricità per un tempo abbastanza lungo da disattivare la sua sveglia digitale. Stava ancora lampeggiando disperatamente mentre lei si sciacquava la bocca dal dentifricio e si passava una spazzola fra i capelli con pochi gesti frettolosi. Quando la spazzola si impigliò in un nodo, trasalì, borbottando un'imprecazione, ma diede uno strattone senza badare al dolore. Le sarebbe servito di lezione per avere lasciato che il temporale avesse ragione di lei. Fin da quando poteva ricordare, il rumore del tuono l'aveva sempre fatta cadere in una specie di letargo, che spesso diventava un lungo sonno senza sogni. Agguantando l'impermeabile e l'ombrello, schizzò fuori dalla camera da letto. Se il traffico non era troppo intenso, sarebbe riuscita ad arrivare al lavoro in tempo, ma a malapena. Lei stava per girare la maniglia quando qualcuno bussò alla sua porta. Colta chiaramente di sorpresa sobbalzò, poi si sollevò sulla punta dei piedi per sbirciare dallo spioncino, e imprecò di nuovo, riconoscendo il sovrintendente del palazzo. Le faceva il filo da me-
si, e non sembrava accorgersi del fatto che lei non era interessata. Aprì la porta bruscamente, sperando che lui notasse la sua impazienza. «Sì?» Lui la spogliò con uno sguardo lascivo prima di riportare lo sguardo sul suo viso. «Buongiorno, Virginia.» «Stanley... come può ben vedere, vado un po' di fretta...» borbottò lei. «Sì, be', non è così per tutti noi?» Poi, lui tirò fuori da dietro la schiena una grossa busta espresso. «L'ho trovata sul pavimento dietro il cestino delle cartacce, stamattina. Non so proprio come ci sia finita, ma visto che è contrassegnata Urgente, ho reputato mio dovere portargliela subito.» «Grazie» disse Ginny. Prese la busta, lanciò un'occhiata al mittente e gli chiuse la porta in faccia. Il suo umore cambiò subito. Convento del Sacro Cuore. Doveva essere di Georgia! Cioè, di suor Mary Teresa, si corresse. Sembrava ancora impossibile che Georgia Dudley, la ragazza che si era tolta il pullover durante una festa di Capodanno e aveva ballato sul tavolo del suo capo fosse diventata una suora. Forse quello era esattamente il motivo per cui lo aveva fatto. Sapeva che non avrebbe mai più lavorato allo studio legale Dudson, e dover spiegare al prossimo datore di lavoro perché era stata licenziata avrebbe reso molto difficile trovare un altro impiego. Poi, Ginny sospirò. No, non era vero. Sapeva bene perché la sua amica Georgia aveva scelto la vita monastica. Gliel'aveva letto in faccia il giorno in cui aveva rivelato a tutti il suo sogno, e la visione che era seguita. Il cambiamento in lei era stato interiore, ma irradiava da tutta la sua persona. Lanciò un'occhiata all'orologio e lasciò cadere sul divano borsa, ombrello e impermeabile. Era già in ritardo. Qualche minuto in più non avrebbe fatto di certo molta differenza. Si mise a sedere, aprì la busta con il sorriso sulle labbra e tirò fuori una manciata di fogli, ma quella che attirò per prima la sua attenzione fu la lettera in cima a tutto. Cara Ginny, non so come cominciare, se non dicendo che ritengo che siamo in pericolo. Ginny corrugò le sopracciglia. Lesse con grande attenzione la frase suc-
cessiva, poi l'altra, e l'altra ancora, e quando giunse alla fine della lettera aveva lo stomaco stretto in un nodo. Scorse frettolosamente i fogli. I nomi delle defunte sembravano familiari, ma come...? Il ricordo affiorò mentre rileggeva la lettera di Georgia. La classe speciale! Erano state tutte nella classe speciale assieme. «No» mormorò. «Non può essere.» Ma era lo stesso gruppo, e cinque di loro erano morte! Emily, Josephine, Lynn, Frances... e Allison. La cara Allison. Non aveva senso. Rilesse la lettera, concentrandosi su due frasi in particolare. Qualunque cosa tu stia facendo, non devi assolutamente rispondere al telefono, a meno di non sapere con certezza chi ti sta chiamando... Per tua informazione, ho mandato una copia di questo materiale anche a Sullivan Dean. Ginny non sapeva chi fosse Sullivan Dean, ma lo avrebbe scoperto quando avesse parlato con Georgia. Certo la sua amica aveva tratto delle conclusioni affrettate. Eppure, mentre frugava nella scrivania alla ricerca dell'agenda degli indirizzi, Ginny continuava a pensare alle fotocopie di quei ritagli di giornale. Non c'erano dubbi sulle morti di cinque delle loro amiche d'infanzia, e tutte nello spazio di un paio di mesi. «Dove diavolo è quella... oh, eccola» borbottò, agguantando l'agenda proprio in fondo al cassetto. Con mano tremante, compose il numero del Sacro Cuore, poi chiuse gli occhi e respirò a fondo. Anche se si aspettava di sentire una voce femminile, quando qualcuno rispose il suo cuore mancò un battito. «Convento del Sacro Cuore.» «Sì... ecco... salve. Sono Virginia Shapiro. Sono una vecchia amica di Georgia... voglio dire, suor Mary Teresa. Non so quali siano le vostre regole, o dove sia lei in questo momento, ma è della massima importanza che le parli.» Ci fu un percettibile sussulto all'altro capo del filo, poi silenzio. «Pronto? Pronto? È ancora lì?» «Sì, mi scusi. Vuole restare in linea, prego?» Ginny sbirciò l'orologio e alzò gli occhi al cielo, mentre le giungeva all'orecchio la musica d'attesa, la registrazione di un canto religioso. Andava tutto bene. Non appena Georgia fosse arrivata e lei avesse sentito la sua voce, tutto sarebbe andato a posto. Lo sapeva.
«Pronto. Sono la Madre Superiora del convento. Chi parla, prego?» Ginny guardò la lettera che aveva in mano. «Virginia Shapiro. Ho bisogno di parlare con suor Mary Teresa, ed è una cosa urgente.» «È una parente?» «No, ma siamo vecchie amiche. Per favore, non la tratterrò a lungo, ma...» «Mi dispiace, cara» disse la suora. «Non è che io non le permetta di ricevere la telefonata. È che non può farlo.» Il nodo allo stomaco di Ginny si strinse ancora di più. «Perché?» «Perché suor Mary Teresa non è più fra noi.» Ginny tirò un sospiro di sollievo. «Oh... intende dire che si è trasferita? Non lo sapevo, davvero. Per caso, potrebbe darmi il suo nuovo indirizzo? Gliene sarei molto grata.» «Mi dispiace, cara. Non mi sono spiegata bene. Suor Mary non si è trasferita. È morta.» Ginny si lasciò scivolare seduta sul pavimento, lottando per respirare. «Non capisco. Lei non può essere morta. Mi ha appena scritto una lettera.» «Mi dispiace, ma è vero.» A quel punto lo sguardo di Ginny cadde sull'annotazione Urgente scritta sulla busta e si morse il labbro per non urlare. Avrebbe fatto qualche differenza, se avesse ricevuto quella lettera in tempo? «La prego... come? Com'è morta?» «Tecnicamente... è annegata.» Lo shock fece balzare in piedi Ginny. «È impossibile! Georgia non sapeva nuotare. Aveva una grande paura dell'acqua. Non vi si sarebbe mai neppure avvicinata.» Era qualcosa che la Madre Superiora non sapeva, e apprenderlo la turbò. Ripensò alla conversazione con l'agente dell'FBI che aveva chiamato in precedenza, sostenendo che suor Mary era stata assassinata. Era possibile? «Eppure, è così» confermò. «Non ci credo» affermò Ginny, con una voce che tremava per l'incredulità e la rabbia crescente. «C'era qualcun altro con lei? Dev'essere stata spinta.» «Oh, mia cara! Lei non sa quello che dice. Padre Joseph l'ha vista con i suoi occhi. Le ha gridato di fermarsi, ma lei non è sembrata accorgersi del-
la sua presenza.» «L'ha vista fare che cosa?» domandò Ginny rabbiosamente. «Be'... è saltata da una roccia, dritta nel fiume in piena. Non abbiamo potuto fare niente per salvarla. Ora, tutto quello che possiamo fare è pregare perché Dio abbia pietà della sua anima.» «Non capisco.» «Si è tolta la vita, mia cara. Il suicidio non è ammesso dalla Santa Chiesa. Temo che la sua anima sia perduta.» Erano le undici quando Ginny riprese contatto con la realtà, e solo perché il suo telefono cominciò a squillare. Si alzò dal divano, con gli occhi gonfi per le lacrime, e barcollò verso l'apparecchio. Aveva già la mano sul ricevitore quando le balzò alla mente la frase di Georgia. Non rispondere al telefono, a meno di non sapere con certezza chi ti sta chiamando. Colta da un improvviso panico, Ginny strappò la spina dalla parete, poi cominciò a tremare. Era folle! Che cosa aveva inteso dire Georgia? C'erano troppe domande senza risposta. Aveva bisogno di parlare con qualcuno. Ma chi? Immediatamente penso ad Harry Redford. Harry non era solo il suo capo, era anche l'uomo più capace di mantenere i nervi saldi nelle situazioni difficili che lei avesse mai conosciuto. Si trascinò in bagno, si sciacquò il viso con l'acqua fredda e riuscì a ritrovare il controllo. Pochi minuti dopo era fuori casa, con la busta di ritagli che Georgia le aveva mandato stretta al petto. Avrebbe mostrato quel materiale ad Harry. Lui avrebbe saputo che cosa fare. Ad Harry Redford bastò un'occhiata alla faccia di Ginny per rimangiarsi il commento sarcastico che stava per fare. Balzò in piedi di scatto, la spinse a sedere su una sedia e chiuse la porta dell'ufficio. «Che cosa c'è?» Ginny alzò gli occhi a guardarlo, traendo conforto dalla familiarità del suo viso rugoso, e gli consegnò la busta. «Che cosa diavolo è?» ringhiò lui, sparpagliando le fotocopie sulla scrivania. «Non lo so» rispose Ginny, e scoppiò di nuovo a piangere. «Harry, ho paura.» Lui lesse per prima cosa la lettera, poi scorse rapidamente i ritagli di
giornale. Con le sopracciglia corrugate a formare una linea diritta e cespugliosa, continuò a leggere. Finalmente, alzò gli occhi, tenendo ancora in mano la lettera di suor Mary. «È tutto qui?» Ginny annuì. «Che cosa ha da dire la tua amica... questa suor Mary Teresa... in proposito?» Ginny riprese a piangere. Harry brontolò e le porse una scatola di fazzoletti di carta. «Ecco qui, maledizione. Soffiati il naso e rispondimi.» Ginny si asciugò gli occhi. «Tu le hai parlato, vero?» insistette Harry. «È morta.» Harry si chinò in avanti, appoggiando le mani sulla scrivania. «Che cosa dici? Quando?» «Non conosco la data esatta, ma è stato dopo che ha spedito questa.» Ginny respirò a fondo, rabbrividendo. «Harry... ho paura» ripeté. «Già, capisco il perché.» Lui corrugò la fronte, passandosi la mano fra i folti capelli grigi. «Sentiamo. Parlami di quelle donne. In che modo, esattamente, eravate collegate?» «Eravamo tutte iscritte a una scuola privata nello stato di New York. È là che sono cresciuta, ricordi?» «Già. E così, eravate compagne di scuola.» «Non solo, ma c'era una classe speciale.» «Che classe speciale?» Ginny prese un altro fazzoletto e si tamponò gli occhi. «Quando avevamo sei anni, fu aperta una classe speciale per le bambine più dotate. Eravamo in sette.» Indicò la lista di nomi nella lettera di Georgia. «A parte me... sono tutte morte, e tutte negli ultimi due mesi.» Harry impallidì. «Diavolo» borbottò. Tornò a guardare la lettera. «Chi è Sullivan Dean?» «Non lo so. Intendevo chiederlo a Georgia... suor Mary... ma ora non...» «Non capisco questa faccenda di non rispondere al telefono» disse Harry. «Ma so una cosa che puoi fare.» «Che cosa?» chiese Ginny. «Vai subito alla tua scrivania e fai un bel giro di telefonate. Verifica queste storie. Parla con le famiglie. Scopri quello che puoi su quelle telefonate. Suor Mary è morta prima di poter spiegare del tutto ciò che sapeva,
ma ti ha dato un punto di partenza. Ora, non ti resta altro da fare che svolgere il compito per il quale sei stata addestrata. Indaga!» Ginny si alzò. Harry aveva ragione. Era stata sotto shock, fino a quel momento, ecco tutto. Dovevano esserci delle risposte. Non doveva fare altro che trovarle. «Fammi sapere quello che scoprirai» le raccomandò lui. Ginny annuì. «Senti... bambina...» Lei si fermò. «Giusto per precauzione... forse dovresti davvero non rispondere al telefono, okay?» Ginny deglutì a vuoto, nervosamente. «Giusto! Girerò tutte le chiamate alla casella vocale.» «No, lascia solo che risponda qualcun altro per te. Ufficialmente, sei fuori per un incarico e non puoi essere raggiunta.» Erano quasi le cinque quando Ginny depose il ricevitore per l'ultima volta. C'erano volute più di due ore per rintracciare in Oklahoma qualcuno che potesse confermare l'articolo pubblicato dall'Oklahoma Dispatch su Allison Turner. Aveva dovuto richiamare quattro volte prima che il cronista fosse tornato, poi lui aveva dovuto cercare fra i suoi appunti per darle il nome dell'amica di Allison che aveva assistito alla scena. Ginny si strofinò gli occhi e ruotò la testa per allentare un po' la tensione dei muscoli. Lo sguardo le cadde sugli appunti che aveva preso e sul materiale inviatole da Georgia. Era strano. A partire dalla prima vittima, il cui marito, tornando a casa, aveva trovato il figlio dalla vicina e il telefono posato sul piano della cucina, fino ad Allison, che era andata a scontrarsi con un'autobotte carica di benzina, doveva ammettere che la raccomandazione di Georgia circa le telefonate aveva un suo fondamento. La sola che aveva infranto quello schema era la stessa Georgia. Il prete del convento, padre Joseph, aveva affermato che era uscita dal confessionale, gli era passata accanto come se fosse invisibile ed era andata verso il fiume. Non c'erano telefoni nei confessionali. Anzi, non c'erano telefoni in tutta la cappella, ma solo negli uffici del convento. Ma Ginny sapeva che, in qualche modo, qualunque cosa fosse accaduta alle altre, era accaduta anche a Georgia. A quel punto appoggiò il viso sulle mani e respirò a fondo, stancamente. Era solo quella mattina che il suo mondo era stato sconvolto? Aveva gli occhi gonfi e brucianti, e la testa le pulsava dolorosamente. Aveva pianto
in quel solo giorno più di quanto piangesse da anni, e il solo risultato che aveva ottenuto era un feroce mal di testa. Se non rispondeva al telefono, forse sarebbe stata al sicuro, ma non poteva vivere così tutta la vita. Doveva scoprire che cosa diamine stava succedendo, e chi ne era la causa. Il telefono squillò su una scrivania vicina, e lei sussultò come se le avessero sparato. Non posso vivere così. Devo andare via, almeno per un po'. E devo riferire ad Harry quello che ho scoperto. Raccolse gli appunti e la borsa, e andò nell'ufficio del suo capo. «Niente di buono» disse, lasciandosi cadere sulla sedia davanti alla scrivania. Harry alzò gli occhi, spinse da parte i fogli su cui stava lavorando e si appoggiò allo schienale. «Racconta.» «Ecco quello che so per certo. Eravamo in sette nella prima classe speciale che la Montgomery Academy avesse mai aperto. In realtà, la sola classe speciale, visto che la scuola fu distrutta da un incendio prima della fine dell'anno scolastico. Io sono l'unica ancora viva. Inoltre, la teoria di Georgia secondo cui ciascuna aveva ricevuto una telefonata poco prima di morire è esatta.» Ginny respirò a fondo e si chinò in avanti. «Harry, sono spaventata, e non mi piace esserlo. Intendo portare queste informazioni al dipartimento di polizia di St. Louis, e poi lasciare la città. Non so dove andrò, in questo momento, ma ti telefonerò di tanto in tanto. Quello che voglio sapere è: avrò ancora un lavoro al mio ritorno?» Harry sbuffò. «Diavolo, sì, avrai un lavoro... e, spero, anche un servizio esclusivo. Voglio che tu mi prometta che telefonerai almeno una volta alla settimana, per farmi sapere che stai bene.» Ginny si alzò. «Promesso...» mormorò lei, sbattendo le palpebre per ricacciare le lacrime. «E, Harry...» «Sì?» chiese lui, burbero. «Grazie.» Harry girò attorno alla scrivania e l'abbracciò. «Tieni duro, bambina, e se pensi di non farcela torna qui immediatamente. Non c'è bisogno che tu faccia questo da sola, sai. Troveremo qualcosa.» «Lo so, ma per ora credo che mi sentirei più al sicuro se sparissi per un po'.»
Detto questo, Ginny raccolse le sue cose e andò alla porta. «Ehi, bambina!» la richiamò Harry. «Intendi sul serio andare alla polizia, vero?» «Sì. Se mi crederanno o no è un altro paio di maniche.» «Se ti trattano male, penserò io a conciarli per le feste.» Ginny sorrise per tutto il percorso fino alla sua macchina, ma nel momento in cui salì, bloccò le portiere e scrutò attentamente il posteggio, prima di partire. Sullivan Dean era all'aeroporto di Chicago, maledicendo fra sé il percorso a ostacoli che il suo viaggio era diventato. Dopo che la partenza era stata ritardata di due ore, aveva tentato di mettersi in contatto con Virginia Shapiro chiamandola da un telefono a gettone. Aveva già provato al numero di casa, senza fortuna. Poi, quando aveva chiamato il giornale, aveva trovato solo la casella vocale. Se solo avesse potuto parlarle, si sarebbe sentito molto meglio. Riattaccò, deluso, e tornò alla sua sedia, cercando di ignorare il neonato che strillava fra le braccia della madre, di fronte a lui. In un momento di frustrazione, e di sconforto, si chinò in avanti, con i gomiti sulle ginocchia, e si coprì il viso con le mani. Georgia, la sorellina di Tom, era morta. Poteva solo immaginare il dolore della famiglia. E c'erano anche i suoi rimorsi con cui fare i conti. Per anni aveva promesso a Georgia di andare a trovarla, eppure non aveva mai trovato il tempo... finora. Dover entrare nella sua camera e vedere la vita semplice e umile che si era scelta, conoscendo la gioia che aveva tratto dalla sua decisione, gli aveva praticamente tolto il respiro. Aveva passato in rassegna i suoi oggetti personali, quasi aspettandosi che lei entrasse nella stanza da un momento all'altro, rimproverandolo per avere frugato fra la sua roba. Aveva dovuto ammettere che Georgia era stata accurata nelle sue indagini. Aveva fatto delle copie di tutto ciò che sapeva circa le donne che erano morte, tranne l'annuario scolastico, e lui non aveva trovato niente di nuovo. Lottando contro la sofferenza, era andato nella cappella, aveva pregato lo stesso Dio a cui Georgia aveva donato la sua vita, e fatto una promessa a entrambi. A qualunque costo avrebbe scoperto chi c'era dietro a quelle morti, e nello stesso tempo avrebbe salvato Ginny Shapiro. Con l'annuario al sicuro in fondo alla borsa da viaggio, la sua prossima fermata era St.
Louis, Missouri. Il detective Anthony Pagillia aveva mal di testa e un principio di bruciore di stomaco quando vide una donna avvicinarsi alla sua scrivania. Corrugando la fronte, cercò di capire perché il suo viso gli sembrava familiare. Quando lei si presentò, tutt'a un tratto ricordò. Lavorava per il Daily e aveva seguito il caso del rapimento Bruhns l'anno precedente. «Signorina Shapiro, che posso fare per lei?» chiese. Ginny gli mise davanti una grossa busta marrone. «Può chiamarmi Ginny, tanto per cominciare» rispose. «E poi, per finire, dirmi che non sto perdendo il cervello.» Pagillia sorrise. «Sto sempre bene attento a non dire a una donna qualcosa che potrebbe attirarmi le sue ire.» Rovesciò il contenuto della busta sulla scrivania. «Di che si tratta?» «Penso che qualcuno mi voglia morta.» Il sorriso del detective svanì e i suoi occhi si spalancarono. «Dice sul serio?» «Legga quello che le ho portato. Quando lei avrà finito, risponderò a qualunque domanda, potendo.» Qualche minuto dopo, Pagillia si appoggiò all'indietro, in bilico su due gambe della sedia, e guardò Ginny. «Si è conquistata la mia attenzione. Ora parli.» «Dopo aver letto quegli articoli, ne sa quasi quanto me.» «La sua amica, la suora, che cos'ha da dire?» chiese il detective. Il mento le tremò leggermente, ma si controllò. Non era il momento di piangere. «È morta. Un paio di giorni fa, ufficialmente si è suicidata gettandosi da una roccia in un fiume in piena.» Ginny si chinò in avanti, battendo rabbiosamente il dito sulla scrivania. «Georgia Dudley... o suor Mary Teresa, come preferisce... non si sarebbe mai uccisa. Mai.» La sedia di Pagillia ricadde a terra con un tonfo. «Sono tutte morte... queste sue compagne di classe?» «Tranne me, sì, e tutte nello spazio di due mesi. Ho fatto qualche ricerca, prima di venire qui. A parte l'essere state tutte nella stessa classe, c'è un altro elemento in comune.» «E cioè?» «Ciascuna di loro ha ricevuto una telefonata prima di correre a suicidar-
si. Lo sappiamo perché o i parenti hanno trovato l'apparecchio staccato, o sono state viste parlare al telefono immediatamente prima di morire. Tutte tranne Georgia. E solo perché, nel suo caso, non posso provarlo.» «Non capisco. Come può una telefonata spingere sei diverse donne, in parti differenti del paese, a uscire per andare a suicidarsi?» «Non lo so» rispose Ginny. «È qui che entra in gioco lei. Mi aiuterà?» «Certo» affermò Pagillia. «Mi chiedevo... chissà se gli altri dipartimenti di polizia sono al corrente di questa connessione?» «Non credo» rispose Ginny. «Gli eventi sono così sparsi in luoghi lontani l'uno dall'altro che sono stati archiviati come incidenti o suicidi. La polizia non ha motivo di sospettare che le cose siano diverse.» «Allora, è da qui che comincerò» dichiarò Pagillia. «Grazie al cielo!» esclamò lei. «Dove posso raggiungerla?» domandò il detective. «Non può» affermò lei. «Lascio la città, e non c'è bisogno di dire che non risponderò al telefono.» «Ma se avessi bisogno di parlare con lei?» «La chiamerò io. È il massimo che posso prometterle. Oh... può tenere la lettera e i ritagli di giornale. Ne ho fatto delle copie, per ogni evenienza.» Pagillia annuì. «Si tenga in contatto.» «Può contarci» gli assicurò Ginny, e se ne andò. Erano le undici passate da pochi minuti quando Ginny si fermò sotto il tendone che copriva l'entrata dell'Hideaway Motel. Metà delle lettere al neon dell'insegna era bruciata, lasciando solo la scritta Hide Motel. Be', pensò, forse sono nel posto giusto, dopotutto. L'impiegato della reception alzò gli occhi, quando lei varcò la porta. «Ho bisogno di una stanza» disse Ginny. «Per una notte?» Lei esitò, poi annuì. «Fumatori o non fumatori?» «Non fumatori, grazie.» «Vuole una stanza singola, o c'è qualcuno con lei?» «Oh... no, no, sono sola.» «Come paga?» chiese l'impiegato. Ginny posò sul bancone una carta di credito, poi si voltò a guardarsi attorno, mentre l'uomo continuava il suo lavoro. Le bruciavano gli occhi e lo
stomaco brontolava per la fame. Le ci volle qualche momento per rendersi conto che non sapeva neppure dove si trovava. «Dove sono?» L'impiegato alzò gli occhi. «Prego?» Ginny sospirò. «So di essere in un motel. Quello che mi serve sapere è dov'è la città più vicina.» «Non definirei Hoxie una città, signorina, ma in ogni caso è a una ventina di chilometri, in quella direzione.» L'uomo indicò l'ovest. Lei annuì, constatando che aveva già attraversato la città. «E qual è la prossima città verso est?» chiese. L'impiegato rifletté. «Probabilmente dovrebbe essere Memphis.» All'improvviso, Ginny capì, sebbene vagamente, dove diamine si trovava, e prese nota mentalmente di procurarsi una carta stradale, l'indomani. Proseguire a testa bassa senza sapere dove andava non le avrebbe procurato nient'altro che ulteriori guai. «Grazie...» borbottò a quel punto, ignorando l'occhiata diffidente dell'impiegato. Non era sbronza e non era drogata, e al diavolo quello che lui pensava. Aveva solo bisogno di un posto dove posare la testa. Lui le mise davanti la ricevuta della carta di credito. «La stanza costa quarantacinque dollari per notte. Firmi qui.» Ginny firmò. Pochi momenti dopo inserì la chiave nella serratura, entrò nella stanza e chiuse la porta con la chiave e la catena. I colori erano un pugno allo stomaco. Ignorandoli, barcollò verso il bagno. Ne uscì un paio di minuti dopo, solo per buttarsi a faccia in giù sul letto, senza neppure svestirsi. In pochi secondi era già profondamente addormentata. Molto al di sopra della città di St. Louis, un 747 stava iniziando la discesa, in vista dell'atterraggio. Sullivan Dean lanciò un'occhiata dal finestrino. La notte era chiara. Le luci della città, sotto di lui, sembravano diamanti su un letto di velluto nero, eppure tutto quello che lui riusciva a vedere era la distanza fra sé e la sua meta.
Sto arrivando, Virginia Shapiro. Ti prego, non essere morta. CAPITOLO 4 Sully aveva appena ritirato il suo bagaglio e stava uscendo dal terminal quando cominciò a piovere. Si fermò sotto la pensilina, cercando di decidere sul da farsi. Problema numero uno: Virginia Shapiro non rispondeva al telefono, il che lo innervosiva. E se non avesse potuto farlo? Se fosse stata già morta? Secondo la sua opinione, la prima cosa da fare era andare a casa sua. Aveva l'indirizzo. Il resto era semplice. A quel punto, fece cenno a un taxi e, dopo avere dato l'indirizzo all'autista, si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi, ma la sua mente non cessò di arrovellarsi. Continuava a vedere Georgia a cinque anni, che correva dietro a lui e Tom... e poi la cotta che aveva avuto per lui l'estate in cui ne aveva dodici, e lui sedici. L'espressione del suo viso quando gli aveva annunciato che si sarebbe fatta suora. La passione nei suoi occhi era stata fervida come sempre, ma era la quiete del suo spirito che lo aveva fatto sentire umile. Per la prima volta l'aveva vista come una vera donna, e non solo come la sorellina di Tom Dudley. Ora le autorità volevano fargli credere che una donna come lei fosse capace di togliersi la vita? No, mai. Sully sospirò. Non poteva negare le circostanze della sua morte. Dopotutto, un prete che non aveva alcuna ragione di mentire aveva visto ogni cosa. Ma, in nome del cielo, che cosa avrebbe potuto spingerla a gettarsi da una roccia in un fiume in piena? A quel pensiero, Sully rabbrividì, poi si passò le mani sul viso. Niente, a parte il diavolo. Strinse i denti. Che Dio ci aiuti, tutti quanti, si ritrovò a pregare. Una cosa era certa: appena arrivato in un albergo avrebbe chiamato Tommy. La famiglia aveva il diritto di sapere quello che stava accadendo, e dal poco che aveva ricavato dalla lettera di Georgia, lui non riteneva che avesse comunicato ai suoi i propri sospetti. La sua mente era ancora immersa nel passato quando il taxi svoltò bruscamente a destra. Sully guardò dal finestrino e poi davanti a sé, sbirciando l'edificio a tre piani. La pioggia ostacolava un po' la vista, ma quello non era il luogo in cui aveva pensato che vivesse Virginia Shapiro. Era una casa vittoriana in un quartiere normale, l'esatto contrario dell'appartamento elegante che si poteva supporre adatto a una dinamica giornalista.
«Fanno quindici e settantacinque» gli comunicò il tassista. Sully gli consegnò una banconota da venti. «Tenga il resto.» Mentre scendeva dal taxi, il furgoncino delle consegne di una pizzeria si fermò dietro di loro. Ringraziando mentalmente la propria fortuna, Sully seguì il fattorino su per i gradini. Quando il ragazzo suonò un campanello, lui si infilò nel portone, poi salì le scale mentre il fattorino si fermava a una porta del primo piano. Sully scoprì ben presto che in tutto il palazzo c'erano appena tre appartamenti, più quello del sovrintendente, e che quello di Virginia era al secondo piano. Si fermò davanti alla sua porta e suonò il campanello. Ormai era mezzanotte passata. Se lei era in casa, probabilmente l'ultima cosa che avrebbe fatto era aprire, ma ormai era là, e non poteva fare diversamente. Suonò ancora, con insistenza, e quando non ci fu risposta cominciò a bussare. Ora, la sua immaginazione era al lavoro, raffigurandogli Virginia impossibilitata a rispondergli... morta... e certo non se ne sarebbe andato finché non avesse saputo qualcosa di preciso. Posò a terra la borsa da viaggio e frugò nella tasca della giacca. Un attimo dopo, inserì un piccolo grimaldello nella serratura e girò un paio di volte. Il rumore degli scatti parve assordante nel silenzio del piccolo ballatoio. Sully si guardò da sopra la spalla, prima di entrare. Nessun allarme scattò. Niente fischi, né campanelli. Dopo un'ultima, rapida occhiata alle scale, si chiuse la porta alle spalle e rimase immobile, in ascolto. Non sentì nulla. Neppure lo sgocciolio di un rubinetto. Esitante, accese le luci. Nel giro di pochi secondi, seppe che Virginia se n'era andata. C'era un cuscino sul pavimento, e il cassetto di un tavolo era chiuso solo a metà, come se qualcuno avesse agguantato frettolosamente qualcosa, e lo avesse dimenticato aperto. Fece il giro dell'appartamento. Il letto era rifatto, ma in mezzo alla trapunta c'era un'infossatura della misura di una valigia. L'anta dell'armadio era solo accostata, un cassetto del comodino semiaperto. Un paio di scarpe giaceva in un angolo della stanza, come se fosse stato gettato là per sostituirlo con qualcos'altro. Nel bagno adiacente, i cosmetici erano spariti. Nel lavello di cucina c'erano una ciotola e un bicchiere sporchi, e nient'altro. Distrattamente, Sully fece scorrere un po' d'acqua nella ciotola, per ammorbidire i cereali secchi, e sciacquò il bicchiere, poi rimase in pie-
di in mezzo alla stanza, ricostruendo mentalmente i movimenti di Ginny. Infine andò in soggiorno e cominciò un'accurata ricerca. In quel momento, un telefono cominciò a squillare nell'appartamento al piano di sotto. Il debole suono gli fece ricordare l'avvertimento di Georgia di evitare di rispondere al telefono, e pensò all'apparecchio di Virginia. Non lo vide subito. Cercando meglio, lo trovò sul pavimento vicino al divano. Lo raccolse e lo posò sul tavolo, poi sollevò il ricevitore. Non c'era linea. Seguendo il filo, si accorse ben presto che la spina era staccata, e tirò un sospiro di sollievo. Virginia sapeva! Buon Dio... sapeva! Ora, non era più così urgente trovarla. In qualche modo l'avrebbe rintracciata, entro un paio di giorni. Ma non quella sera. E visto che sembrava evidente che Virginia Shapiro non sarebbe tornata tanto presto, non c'era ragione di non approfittare di un ottimo letto. Sully pensò alla sua intenzione di chiamare Tommy e decise che ormai era troppo tardi. L'avrebbe fatto l'indomani mattina, prima di andarsene. Mentre si avviava verso la camera da letto, una foto appesa alla parete attirò la sua attenzione. Si avvicinò per vedere meglio e si trovò a fissare l'immagine di tre persone: un uomo e una donna di mezz'età e, in mezzo a loro, una ragazza giovane, bruna. Io, mamma e papà - Yellowstone, 1997. La ragazza in mezzo doveva essere Virginia. Sully si avvicinò di più, studiando con curiosità il suo viso. L'istantanea era di qualche anno prima, d'altra parte lei non poteva essere cambiata molto. L'immagine era sgranata, evidentemente l'ingrandimento di una foto più piccola, ma la gioia e la vitalità sul suo viso erano inequivocabili. Non poté fare a meno di sovrapporre a quell'immagine ciò che doveva provare ora. Paura. Confusione. Impotenza. A quel punto lui allungò una mano e toccò il suo sorriso, corrugando le sopracciglia quando il vetro si frappose fra lui e l'immagine. Diamine, sembrava così reale... Mentre era là in piedi, il condizionatore d'aria entrò improvvisamente in funzione, e lui si accorse degli indumenti bagnati che aveva addosso. Diede un'ultima occhiata alla foto, poi si diresse in camera da letto. Era ora di togliersi quella roba umida e andare a coricarsi. Erano le due e un quarto, e Sully non si era ancora addormentato. Il lieve e delicato aroma dello shampoo di Virginia Shapiro era sui guanciali, men-
tre echi del suo profumo indugiavano nell'aria. Frustrato, Sully rotolò sulla pancia, poi gettò con violenza il guanciale sul pavimento. In vita sua, non si era mai fissato su qualcosa di così infantile come la fotografia di una ragazza, peraltro molto carina, e non intendeva cominciare proprio adesso. Il suo unico problema era che era rimasto per troppo tempo senza una donna. Poco prima delle tre, finalmente si assopì, ma Virginia Shapiro rimase nei suoi sogni, mescolata all'incubo che quel viaggio era diventato... un bel viso sorridente, coperto di sangue, che fissava il cielo senza vederlo. Bainbridge, Connecticut «Emile, non quella cravatta, caro. Metti questa, è molto più dignitosa.» Emile Karnoff scambiò le cravatte con sua moglie e sorrise. «Lucy, cara, che cosa farei senza di te?» le domandò. Lucy Karnoff appese l'altra cravatta e poi si voltò verso il marito, squadrandolo con occhio critico. «Forse, se cambiassi il...» Emile sollevò una mano. «Rilassati. Il resto del mio abbigliamento va benissimo. È solo una conferenza stampa come un'altra, dopotutto.» «Niente affatto» lo contraddisse Lucy. «Sei un uomo importante. La gente ha il diritto di sapere quello che hai da dire.» Emile sorrise ancora mentre cominciava ad annodare la nuova cravatta. Lucy si affaccendò per la camera, raccogliendo una calza dal letto, poi riordinando le scarpe di Emile nella cabina armadio. Lui sembrava più tranquillo nei riguardi della recente fama che non nelle settimane precedenti. Quando era cominciata a correre la voce che era candidato al premio Nobel, Emile aveva passato molte notti insonni, spesso svegliandosi in un bagno di sudore freddo. Lucy lo aveva supplicato di consultare un medico, ma lui si era rifiutato, dicendo che si trattava solo di una questione di nervi. Con il passare delle settimane, i disturbi erano aumentati. Solo negli ultimi giorni sembrava più a suo agio con se stesso e con ciò che era diventato. Lucy poteva solo immaginare quanto sarebbe stato difficile per lui passare dall'essere un oscuro medico a uno scienziato che vedeva le proprie foto sulle copertine di tutte le riviste. Gli spazzolò via un filo dal dietro della giacca mentre lui si ravviava i radi capelli grigi. Far sì che Emile si presentasse nel modo migliore non era soltanto il suo lavoro, era la sua gioia. Dopo anni di difficoltà econo-
miche e di sorrisetti di compatimento dietro le spalle da parte delle altre donne della loro cerchia, suo marito, l'uomo che le era costato l'ostracismo della sua famiglia, l'uomo che era stato spesso il bersaglio delle battute ironiche delle sue amiche, aveva vinto il prestigioso premio Nobel per la medicina. Il fatto che la comunicazione fosse giunta più di un mese prima e che la storia cominciasse a essere notizia vecchia non aveva importanza. Lucy Karnoff aveva riconquistato il posto che le spettava nel mondo. «Non agitarti...» mormorò Emile. «Io sto benissimo, davvero.» «Voglio solo esserti d'aiuto» rispose lei. Emile si voltò e le sfiorò le guance con le dita, sollevandole gli angoli della bocca per costringerla a sorridere. «Lucy, amore mio, mi sei sempre stata d'aiuto» le confidò. Emile sorrise quando lei ridacchiò. Ai suoi occhi era di nuovo una ragazzina, anziché una moglie di sessantotto anni. Era una benedizione che Lucy si accontentasse di così poco. Emile sospettava che fosse l'unica ragione per cui il loro matrimonio era durato. Nei primi anni, la passione per i suoi studi aveva influito sulla sua vita privata al punto che il loro figlio, Phillip, era quasi un estraneo per lui. Ma la fede di Lucy non aveva mai vacillato, e di questo le era sinceramente grato. Si voltò verso lo specchio per darsi un'ultima occhiata mentre la moglie usciva frettolosamente dalla stanza mormorando qualcosa a proposito di assicurarsi che il salotto fosse in ordine e i fiori al posto giusto. Solo negli ultimi due o tre anni si era potuta permettere una donna delle pulizie, e per quanto fosse lusingata dal prestigio che quel fatto le conferiva agli occhi delle sue amiche, Emile sospettava che fosse gelosa della presenza di un'altra donna in casa sua. Comunque, il fatto che adesso avessero un aiuto era importante per mantenere ordine nella loro vita perché Phillip era diventato un peso gravoso per entrambi. Suo figlio era letteralmente incapace di conservare un posto di lavoro, e i suoi ricorrenti periodi di depressione sembravano destinati a farlo rimanere in eterno sotto il loro tetto, anche se loro due stavano invecchiando. A causa di Phillip, Lucy era sempre rimasta confinata a casa, senza avere la benché minima possibilità di accompagnare Emile neppure in brevi viaggi, per timore che al loro ritorno li aspettasse qualche disastro. Emile strinse il nodo della cravatta, poi prese i gemelli per i polsini. Era un peccato che la scoperta che gli aveva assicurato il premio Nobel non
avesse effetto sui disturbi mentali, benché, nei primi tempi, le sue ricerche si fossero orientate in quel senso. Dopo essersi reso conto dei pericoli che l'ipnosi rappresentava per coloro che si trovavano in uno stato mentale instabile, aveva rapidamente abbandonato la teoria. Un rumore di passi in corridoio, e poi la familiare esitazione nella voce di suo figlio, indirizzarono i suoi pensieri in un'altra direzione. «Papà?» Emile si voltò, chiedendosi ancora una volta, come faceva da ormai quasi trent'anni, come aveva potuto generare un figlio come quello. Era alto, di bell'aspetto, sia pure in un modo un po' effeminato, eppure non aveva idea di che cosa fosse in realtà la vita. «Sì, Phillip, che c'è?» Phillip Karnoff spostò il peso del corpo da un piede all'altro e si odiò per essere così intimidito di fronte a suo padre. Era di quarant'anni più giovane, più alto di metà testa, e anche solo per una volta avrebbe voluto sostenere senza tremare quello sguardo che sembrava vedere tutto, invece di essere sempre il primo ad abbassare gli occhi. «Mi stavo chiedendo... a proposito della conferenza stampa, voglio dire. È necessario che io sia presente, questa volta? In realtà, non...» «Sei mio figlio! Sarai seduto al mio fianco!» esclamò Emile. Avanti, piagnucolone, digli una buona volta come la pensi. Se tu sei troppo codardo, fatti da parte e lascia che ci pensi io. Con la gola stretta, Phillip ignorò la costante presenza della voce dentro la sua testa. «Perché, papà? Io non sono niente. Al tuo confronto sono un fallito. Non ho scopo... non ho sogni. Vivo ancora in casa, e non ho un lavoro permanente da quattro anni.» Già, in compenso io posso mostrarti come ci si diverte. «Sei mio figlio» ripeté Emile. «Troverai la tua strada, col tempo.» «E se non la trovassi?» Emile scosse la testa, come se quell'idea non meritasse di essere presa in considerazione. «Non è il momento per questa discussione» disse. «La riprenderemo un'altra volta, quando non avremo tanta fretta.» Scansò Phillip per uscire dalla stanza, dandogli una distratta pacca sulla spalla mentre passava. Lui sospirò. Il tempo non era mai stato a suo favore. Non c'era ragione di ritenere che qualcosa sarebbe cambiato. Specialmente adesso. Non sarebbe
mai stato capace neppure di avvicinarsi a ciò che suo padre aveva realizzato, e meno che mai di superarlo. A testa china, seguì Emile giù per le scale. Come competere con un uomo che aveva scoperto come scatenare il potere risanatore della mente umana, mentre lui non riusciva neppure a controllare i propri pensieri? Sully si svegliò di soprassalto e balzò a sedere sul letto. Aveva sognato... ma che cosa? Il sogno stava già svanendo dalla sua memoria, ma ricordava che era stato bello. Con una rapida occhiata all'orologio, scese dal letto e andò in bagno, aprendo il rubinetto della doccia mentre passava. Fuori dalla vecchia casa vittoriana un nuovo giorno era cominciato. Era tempo di muoversi. Dopo la doccia si vestì rapidamente, ansioso di rimettersi in strada. Ma prima doveva fare una telefonata, e non sarebbe stata facile. Si sedette sulla sponda del letto di Virginia Shapiro e prese il cellulare. Era ora di chiamare Tom Dudley. Il telefono squillò due volte, poi rispose una voce femminile. «Susan, sono Sully. Ho bisogno di parlare con Tom. È ancora lì?» «Sully! È bello sentire la tua voce» replicò Susan. «Sì, è qui, e sarà contento di parlarti.» Poi, a voce più bassa, aggiunse: «Sai di Georgia?». «Sì, è per questo che ho telefonato.» «Solo un momento, lo chiamo.» Sully aspettò. Odiava quel genere di telefonate. Non c'era niente da dire, tranne: «Mi dispiace» quando qualcuno moriva, ma quando quel qualcuno faceva parte della famiglia del tuo migliore amico, le parole erano ancora più difficili da trovare. «Sully, sei proprio tu?» chiese Tom. Lui sorrise, nonostante la tristezza della circostanza. «Già, sono io. Come stai?» Ci fu una pausa, poi Todd disse, con voce spenta: «Di sicuro siamo stati meglio». «Senti, è per questo che ho chiamato. C'è qualcosa a proposito della morte di Georgia che credo la tua famiglia debba sapere. Ma lascerò a te il compito di informarla.» «Che cosa intendi dire?» domandò Tom. «Non sto lavorando ufficialmente al caso, ma...» «Quale caso? Di che diavolo stai parlando? Georgia si è suicidata. Padre Joseph ha visto tutto.»
«Stammi bene a sentire» mormorò Sully. «E fidati di me.» Raccontò tutto ciò che sapeva su quello che Georgia aveva scoperto, e come lui aveva ricevuto la sua lettera troppo tardi per poterla aiutare, poi spiegò che stava cercando di trovare l'ultima compagna di classe, prima che fosse troppo tardi anche per lei. «Oh, Dio, Sully. Non sai che cosa significherà questo per nostra madre... no, per l'intera famiglia. Abbiamo cercato disperatamente di razionalizzare quello che Georgia ha fatto, ma non aveva alcun rapporto con la donna che conoscevamo.» «Posso ben immaginarlo» borbottò Sully. «Senti, voglio che tu mi faccia un favore. Non parlare di tutto questo con nessuno, a parte tua madre, per il momento. Non so per certo se i federali sono già coinvolti o no, ma di sicuro è solo una questione di tempo. Probabilmente sarai contattato da un agente, prima o poi, durante le indagini. Raccontagli ogni minimo particolare che riesci a ricordare, non importa quanto piccolo e insignificante possa sembrarti.» «Sì, certo» rispose Tom. «E, Sully... be', sai quello che provo per te... quello che tutti noi proviamo per te. Sei stato un buon amico per tutti questi anni, e...» «Non c'è bisogno che tu dica niente» lo interruppe lui. «Anch'io le volevo bene.» «Sì, giusto. Be', ora ti lascio andare. Chiamo subito la mamma.» «Salutala da parte mia.» Chiusero la comunicazione e, per un momento, Sully rimase seduto nella stanza silenziosa, pensando a ciò che lo aspettava. Poi, il suo sguardo cadde sul guanciale che aveva gettato sul pavimento. Si alzò, lo raccolse e lo rimise sul letto. Si fermò sulla soglia per accertarsi di lasciare tutto come l'aveva trovato. Mentre raccoglieva il resto della sua roba, passando da una stanza all'altra, immaginò la paura di Virginia quando aveva fatto altrettanto, chiedendosi che cosa portare con sé, spaventata all'idea di abbandonare la vita che si era costruita. Si fermò di nuovo davanti alla fotografia, tracciando la forma del viso di lei con la punta del dito. «Tieni duro, cara. Sto arrivando.» «Capo, un certo Sullivan Dean vuole parlare con lei. Gli ho detto che era occupato, ma ha insistito.»
Harry Redford scoccò un'occhiata alla sua segretaria e corrugò le sopracciglia. «Il nome non mi è nuovo. Dove diamine l'ho...» All'improvviso balzò in piedi. «Fallo subito entrare!» esclamò. Il cuore gli batteva all'impazzata mentre guardava il visitatore attraversare la stanza. Maledizione, il tizio della lettera di Ginny. Purché non significasse che le era successo qualcosa... «Signor Redford, le sono grato di avere trovato il tempo di...» «Lei sta bene?» Sully lo guardò, stupito. «Prego?» «Ginny! Sta bene?» Sully cominciava a sentirsi come Alice quando era caduta nella tana del coniglio. «Credo proprio che noi due dovremmo ricominciare da capo» disse. «Mi chiamo Sullivan Dean. Sono un agente dell'FBI, e...» «Ah, ecco perché la suora ha mandato a lei i suoi documenti!» Sully sobbalzò. «Lei sa?» «Qualcosa» rispose Harry. «Ginny mi ha mostrato tutto.» «Sta parlando della signorina Shapiro? Virginia Shapiro?» Harry annuì. «Sì, ma non la chiami Virginia, a meno che non voglia prendersi una strapazzata.» «Dov'è?» chiese Sully. Harry si strinse nelle spalle. «Che mi venga un colpo se lo so. Se n'è andata da qui ieri pomeriggio. Ha detto che sarebbe andata alla polizia e poi avrebbe lasciato la città. Ha promesso di tenersi in contatto. A parte questo, non so altro.» Maledizione. «Sa con chi ha parlato, alla polizia?» Harry annuì. «Sì, ho controllato. Un detective di nome Pagillia. Anthony Pagillia. È in gamba, ma a parte una sfilza di donne morte, non hanno molto su cui lavorare.» Sully gli consegnò il proprio biglietto da visita. «Se sente la signorina Shapiro, vuole chiamarmi? Sa, è importante che la trovi.»
«Sì, la chiamerò, e dirò a Ginny di starsene nascosta. Ma questo, solo se lei telefona. Non posso prometterle nulla.» «Mi sembra giusto» ammise Sully. «Ha una guida del telefono? Ho bisogno di chiamare un taxi. Intendo parlare con quel detective, prima di lasciare la città.» «Un mio cronista sta andando da quelle parti a prendere dei rapporti del tribunale. Se aspetta un paio di minuti, le darà un passaggio» gli propose Harry. «Grazie» disse Sully. «Qualunque cosa per Ginny» affermò Harry. Sully pensò alla donna sorridente della fotografia. «È benvoluta, a quanto pare.» «Oh, sì, ed è un'ottima giornalista, anche. Lei vada a cercarla e, quando la trova, la riporti indietro tutta intera.» «È esattamente quello che mi propongo di fare» gli assicurò Sully. Pochi minuti più tardi, era sulla strada del quartier generale della polizia di St. Louis. Al suo arrivo, si rese subito conto che Redford doveva avere fatto qualche telefonata. Anthony Pagillia lo aspettava all'ingresso principale. «Agente Dean, è un piacere conoscerla» disse. «Le voci corrono» osservò Sully. «Suppongo che Redford le abbia telefonato.» «È preoccupato per la signorina Shapiro, come lo siamo tutti. Giusto per curiosità, qual è il suo legame con questo pasticcio?» «Sono cresciuto con Georgia Dudley... suor Mary Teresa. Suo fratello era il mio migliore amico. Lei sapeva che l'avrei aiutata. Purtroppo, le informazioni non mi sono giunte in tempo perché potessi farlo.» «Già, brutta faccenda» commentò Pagillia. «È un po' difficile immaginare una suora che si suicida.» Sully strinse le labbra. «Georgia è stata assassinata.» «Sa qualcosa che io non so?» chiese il detective. «Sì» affermò Sully. «Conoscevo bene Georgia. Lei non sapeva nuotare e aveva paura dell'acqua. L'ultima cosa che avrebbe mai fatto era uccidersi, e anche se l'avesse fatto, non si sarebbe mai affogata.» «Sappiamo anche che un prete ha assistito alla sua morte.» «Non sto dicendo che non e annegata. Quello che sostengo è che qualcuno l'ha spinta a farlo.»
«Sarà piuttosto difficile provarlo» dichiarò Pagillia. «No, se riuscirò a trovare Virginia Shapiro» ribatté Sully. «Per quanto ne sappiamo, a parte la persona che è all'origine di tutto questo, è il solo legame ancora in vita con questa vicenda.» «Ho avvertito tutti gli altri dipartimenti di polizia interessati agli incidenti, e qui a St. Louis c'è una task force centrale che coordina la raccolta di informazioni. Visto che è diventato un crimine che interessa più stati, immagino che l'FBI assumerà il controllo?» Sully si strinse nelle spalle. «Forse, ma non tramite il sottoscritto. Il caso mi coinvolge troppo da vicino perché l'FBI mi consenta di occuparmene. Quello che faccio, è a titolo strettamente personale.» «Capisco, ma sappia che, se ne ha bisogno, ha tutta la nostra collaborazione.» «Grazie» disse Sully. «Quali sono i suoi programmi?» chiese Pagillia. «Intendo noleggiare una macchina e mantenere una promessa a una vecchia amica.» Le linee gialle sulla Mississippi Highway avevano urgente bisogno di essere rifatte, e la macchina di Ginny era a corto di benzina. Erano le tre e un quarto del pomeriggio, e sia il serbatoio sia il suo stomaco cominciavano a segnare vuoto. Uscendo da una curva, si accorse che si stava avvicinando a un paese. Con un sospiro di sollievo, rallentò per leggere il cartello. Collins, Mississippi, popolazione 2.541. Era piccolo, ma certo sufficiente alle sue necessità. Quando entrò nella piccola stazione di servizio e si fermò vicino alle pompe, un uomo uscì dall'edificio. «Il pieno?» chiese. «Sì, grazie» rispose Ginny. «E controlli anche l'olio.» «Sì, signora, sarà fatto. Piuttosto caldo per luglio, vero?» Lei annuì. «C'è un Bancomat da queste parti?» Lui indicò in fondo alla strada. «Vede quella banca laggiù? Se svolta l'angolo, lo troverà.» «Torno subito» disse Ginny, e si incamminò, mentre l'uomo riempiva il serbatoio. Quando tornò, lui stava pulendo l'ultimo finestrino.
«Quanto le devo?» gli chiese. «Ventitré e cinquanta.» Ginny contò la somma esatta. «Oh, dimenticavo. Mi serve anche una carta stradale.» L'uomo rientrò nella stazione e tornò con una carta ripiegata dello stato del Mississippi. «Signora, è diretta in qualche posto in particolare?» le domandò, mentre Ginny gli pagava la carta. «Non proprio» rispose lei. Salì in macchina e ripartì. Dopo un paio di isolati, entrò in un drive-in e ordinò un hamburger e un milkshake da portare via. L'aroma di carne alla griglia e il calore della giornata la fecero pensare ai barbecue e ai picnic di famiglia. Si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi, resistendo al bisogno di piangere. Se solo i suoi genitori fossero stati ancora vivi. Se solo... Si raddrizzò di scatto sul sedile. L'autocommiserazione non l'avrebbe portata da nessuna parte. Al confronto delle sue vecchie amiche, non aveva proprio niente di cui lamentarsi. Lei, almeno, era ancora viva. Una ragazza uscì dal drive-in con un vassoio. Ginny pagò e, dopo essersi sistemata in modo da poter mangiare mentre guidava, uscì in retromarcia dal posteggio e si lasciò rapidamente alle spalle il paese di Collins. L'urgenza di arrivare presto da qualche parte e poi nascondersi dal mondo era impellente. Prima, era stata soltanto in fuga, nel tentativo di allontanarsi il più possibile da St. Louis, ma non poteva continuare in quel modo per sempre. Inevitabilmente, avrebbe dovuto fermarsi. Quello di cui aveva bisogno era un posto fuori dalle cosiddette strade battute, un posto in cui, normalmente, non sarebbe mai andata. Ma quale? A quel punto addentò l'hamburger e cominciò a masticare. Quando ebbe finito, si sentiva molto meglio. Anzi, era fiduciosa che, al momento buono, avrebbe trovato qualcosa. Nuvole minacciose andavano radunandosi all'orizzonte ormai da un paio d'ore, e Ginny cominciava a innervosirsi. Presumibilmente stava puntando proprio nella direzione del temporale, e questo non era prudente. Doveva scendere dalla macchina e trovare un rifugio prima che scoppiasse. Solo pensare ai tuoni e ai lampi imminenti le dava un senso di patologica spossatezza. Si fermò sul ciglio della strada e aprì la carta stradale, cercando di stabilire dove si trovava, e dove poteva essere il riparo più vicino. Sapeva di es-
sere entrata già da qualche tempo nella DeSoto National Forest. E che si trovava sulla Statale 29, a una certa distanza a nord di Biloxi. Mentre studiava la carta, cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia. Nervosa, Ginny alzò gli occhi e vide che il temporale era quasi sopra di lei. Gettò da parte la carta stradale, si immise di nuovo sulla vecchia strada a due corsie e accelerò. Senza dubbio ci sarebbe stato qualche posto in cui fermarsi. Venti minuti dopo vide un cartello, attraverso la fitta cortina di pioggia, e rallentò per poterlo leggere. Tallahatchie River Fishing Dock - 1 miglio - Bungalow da affittare. «Dio, ti ringrazio» mormorò. Poco dopo vide un altro cartello. Stavolta era una grossa freccia di legno, che un tempo era stata dipinta di giallo, e che indicava una strada alla sua sinistra. Tallahatchie River Landing, diceva. La macchina sobbalzò su dei profondi solchi quando l'asfalto lasciò il posto a una vecchia strada sterrata coperta di ghiaia e disseminata di pozzanghere. I tergicristalli stridevano contro il parabrezza. «Per favore, per favore, per favore» mormorò lei, senza rendersi conto di avere parlato ad alta voce, né del fatto che la sua disperata richiesta era piuttosto vaga. Si sentiva stordita e la sua mente stentava a mettersi a fuoco, come se stesse per svenire. Doveva scendere da quella macchina. E poi, lo vide: un gruppetto di vecchi capanni rustici annidato fra un ciuffo d'alberi. Ce n'era uno un po' appartato dagli altri. Ginny pensò che fosse l'ufficio e si diresse da quella parte. Balzò dalla macchina e corse sotto la pioggia. Nel giro di pochi minuti era risalita in macchina con una chiave in tasca, e stava andando verso il capanno numero dieci, l'ultimo, in fondo alla fila. Agguantò la valigia e corse alla porta. L'ironia della sistemazione non le sfuggì. Da ore, ormai, stava esaurendo il tempo e la speranza, e adesso era giunta, letteralmente, alla fine della strada. CAPITOLO 5 Era da poco passata la mezzanotte quando Ginny si svegliò. Alquanto disorientata, scese barcollando dal letto, guardandosi attorno. Un lampo illuminò per un momento la stanza e, quando vide le pareti ruvide e il rustico pavimento di legno, ricordò. Stava fuggendo.
Con la memoria, tornò la sofferenza. Georgia era morta. Con la gola stretta, si trascinò in bagno, svestendosi lungo il percorso. Ignorando le strisce di sporcizia fra le vecchie piastrelle, si insaponò come se non sperasse di sentirsi mai più pulita. La paura e il sudiciume di quell'orrore erano come macchie sulla sua anima. Come poteva combattere un nemico che non poteva vedere? Alla fine, l'acqua cominciò a diventare fredda, e lei si rese conto che doveva avere consumato tutto il contenuto dello scaldabagno. Allungando una mano attraverso la tenda di plastica, tastò intorno fino a trovare un asciugamano, lo afferrò e cominciò ad asciugarsi. Nuda, con la pelle arrossata dal ruvido tessuto di spugna, frugò nella valigia alla ricerca di qualcosa di pulito da mettersi. Anche se non sentiva più la pioggia battere sul tetto, sapeva che il temporale non era finito. Il vento soffiava ancora, e i rami degli alberi che circondavano il capanno seguitavano a graffiare le assicelle di legno del tetto come fantasmi che la supplicassero di farli entrare. Indossò i pantaloni di una tuta e una morbida maglietta, subito dopo andò alla finestra e spinse da parte le tende, cercando l'interruttore del condizionatore d'aria. Ignorando il sottile strato di polvere, lo accese, nella speranza che avrebbe sia rinfrescato il capanno, sia coperto i rumori. Arricciando il naso per l'odore di muffa emanato dall'apparecchio, tornò a letto, tirandosi le coperte fino al mento. Anche mentre si sentiva scivolare di nuovo nel sonno, il bisogno di stare nascosta dominava la sua mente. Sully lasciò l'Interstatale 55 per entrare in Grenada, Mississippi, poco dopo mezzogiorno. Aveva bisogno di benzina, ed era tempo che si mettesse in contatto con il direttore. Non ci sarebbe voluto molto perché si accorgessero della sua assenza e, visto che era più che probabile che l'FBI si stesse ormai occupando del caso, lui non voleva dare nel modo più assoluto l'impressione di pestare i piedi a qualcuno. Spiegare perché aveva cominciato quelle indagini senza avvertire il capo poteva diventare imbarazzante, ma, per quanto lo riguardava, come impiegava il tempo libero era affar suo. Dopo avere fatto il pieno all'automobile ed essersi procurato una bella bibita fresca e un pacchetto di biscotti, si fermò sul ciglio della strada e tirò fuori il telefono. Mentre aspettava che gli passassero la comunicazione, si ficcò in bocca un biscotto e svitò il tappo della bibita. Stava bevendo un sorso quando sentì la voce familiare della segretaria del direttore, Myrna
Page. «Myrna, sono io, Sully. Ho bisogno di parlare con il capo.» «Buongiorno, agente Dean. Un momento, prego...» mormorò la donna. Sorridendo fra sé, Sully scosse la testa, mentre aspettava. Si conoscevano da quasi sei anni, eppure Myrna non si era ancora abituata a chiamarlo per nome. «Dean. Mi aspettavo che chiamassi ieri.» Sully posò la bottiglia e si passò una mano fra i capelli. Benché il suo capo non potesse vederlo, per forza d'abitudine provava l'impulso di mettersi sull'attenti. «Sì, signore, lo so, ma è sopravvenuto qualcosa...» borbottò. «È un qualcosa femmina?» Sully sospirò. «Sì, ma non nel senso che pensa lei» tenne a precisare. «Allora illuminami.» Sully respirò a fondo. «Sono nel Mississippi.» Ci fu un breve silenzio all'altro capo della linea, e poi un leggero sbuffare disgustato. «E per quale ragione?» «È cominciato come un viaggio personale, signore, ma sospetto che stia diventando lavoro... il nostro lavoro.» «Ti ascolto.» «Sono certo che a quest'ora sarà già stato informato della triste vicenda delle allieve della Montgomery Academy morte suicide, l'ultima delle quali è stata suor Mary Teresa del convento del Sacro Cuore, nello stato di New York.» «Come diavolo sai di quel caso?» gli domandò il suo capo. Sully esitò un attimo. Era qui che la faccenda si ingarbugliava. «È cominciato tutto con una lettera di un'amica, ed è stato solo dopo che sono andato al convento del Sacro Cuore che...» «Sei stato al convento? Lo sai in che cosa ti stai immischiando?» «Sì, signore, e questo è il motivo per cui le telefono.» Sully cominciò a spiegare e, quando ebbe finito, il tono del direttore era un po' meno tagliente. «E così, vede, signore» concluse, «non solo ritengo mio dovere rintracciare la signorina Shapiro, ma è anche l'ultima cosa che posso fare per la mia amica Georgia.» Aspettò un momento, poi aggiunse: «Ho bisogno di
farlo, signore. Per la mia coscienza. Non ho potuto salvare Georgia, ma Virginia Shapiro ha ancora una possibilità». «Sai qualcosa che io non so?» chiese il direttore a quel punto. «No, signore. Il detective Pagillia della polizia di St. Louis sa tutto quello che so io... e, potrei aggiungere, tutto quello che sa la signorina Shapiro. Sta fuggendo, signore, e probabilmente è spaventata a morte. Mi permetta di trovarla. Se lo riterrò prudente, la porterò lì. Altrimenti resterò con lei fino a quando questa storia non sarà finita.» «Sì, capisco il tuo punto di vista, anche se non posso dire di essere del tutto convinto. La prossima volta, ti suggerisco caldamente di telefonare prima di agire in una situazione esplosiva come questa...» borbottò il suo capo. «Assolutamente, signore. E grazie.» «Mi aspetto che ti tenga in contatto.» «Sì, certo.» «Hai bisogno di qualcosa?» gli chiese ancora il direttore. «Sì, ieri ho fatto una ricerca per rintracciare la signorina Shapiro tramite la sua carta di credito, o eventuali contravvenzioni stradali. Ho trovato traccia del suo Bancomat. L'ha usato in un posto chiamato Collins, Mississippi, ed è là che sono diretto.» «Chiederò a Myrna di fare qualche controllo. Hai avvertito la polizia stradale?» «Non ancora. Volevo prima parlare con lei, signore.» «Allora aspetta di vedere che cosa troverà Myrna» disse il direttore. «Per ora, hai la mia autorizzazione a prendere qualunque provvedimento tu ritenga opportuno per la sua sicurezza. Comunque, se avrai ulteriori informazioni, chiama subito. L'incaricato del caso è l'agente Howard.» Dan Howard era un tipo decisamente in gamba. Sapere che era lui a occuparsi del caso era un sollievo per Sully. «Sì, signore, lo farò.» «Okay, questo è tutto, per ora» concluse il direttore. «Solo, stai ben attento a quello che fai. Dopo l'ultimo scandalo alla Casa Bianca, la stampa sta addosso a ogni dipartimento come uno sciame di mosche. Non voglio cattiva pubblicità.» «Può contare su di me, signore. E grazie.» «Già, be'... tu trovala, intanto.» La comunicazione fu interrotta. Sully gettò il telefono sul sedile, si ficcò in bocca un altro biscotto e mise in moto la macchina.
Meno di un'ora dopo, il telefono trillò. Sully si fermò sul ciglio della strada prima di rispondere, in caso dovesse prendere appunti. «Sullivan Dean.» «Agente Dean, sono Myrna. Ho alcune informazioni per lei.» Lui prese un taccuino. «Okay, sono pronto.» «La carta di credito della signorina Shapiro è stata usata altre due volte. Una ieri sera, in un posto chiamato Tallahatchie River Landing. Un bungalow è stato affittato sotto il nome di Leigh Foster, che risulta essere il nome da nubile della madre della signorina Shapiro. E poi ha usato di nuovo la carta circa un'ora fa, a un emporio di alimentari in un posto chiamato Wingate. Si direbbe che ha intenzione di fermarsi.» Sully sorrise. Benché non avesse mai lavorato sul campo, Myrna aveva fiuto. «Ha localizzato questo Tallahatchie River Landing?» le chiese. «Ma certo.» La segretaria gli diede le coordinate. Quando ebbe finito, Sully disse: «È in gamba, Myrna. Se mai fosse stanca di rispondere al telefono del capo, forse le piacerebbe lavorare in coppia con me». «No.» Lui ridacchiò. «Non sono poi tanto male.» «Certo che no, signore. C'è altro?» «Per ora, no. Le farò sapere se ci sarà qualche novità, okay?» «Sì» rispose Myrna, e riattaccò. Le preoccupazioni di Sully erano un po' diminuite quando tornò sulla strada. Sapeva dov'era Virginia! Ora, non gli restava che arrivarci. Ginny portò le provviste nel capanno e chiuse la porta a chiave. L'unico punto a favore di quel posto squallido era il minuscolo cucinino adiacente alla camera da letto. Il fatto di poter mangiare e dormire nello stesso posto, ne faceva un rifugio perfetto. L'assenza di un telefono nella stanza era il tocco finale. Se ne aveva bisogno, poteva usare il cellulare, che aveva lasciato in macchina. O, in caso d'emergenza, c'era un telefono pubblico nell'ufficio. Così, perlomeno, lei non correva il rischio di svegliarsi nel cuore della notte e rispondere al telefono prima di essere abbastanza lucida da ricordare quanto poteva risultare rischioso. Gli armadietti erano piccoli, ma sufficienti a contenere le provviste che
aveva comprato. Mise il latte nel frigorifero, assieme alle uova, al succo d'arancia, un sacchetto di verdura e un paio di confezioni monoporzione di carne. Nel piccolo scomparto del ghiaccio, accanto al contenitore dei cubetti, c'era giusto lo spazio sufficiente per una vaschetta di gelato al cioccolato. Ginny svuotò l'ultima borsa, sistemando il suo ridotto assortimento di cibi in scatola nell'armadietto vicino al lavello. Mentre chiudeva lo sportello, notò un pezzo di carta che era rimasto attaccato alla parte superiore di una scatola. Incuriosita, lo staccò e vide che era la ricevuta della carta di credito, che doveva conservare. Andò al tavolo e aprì la borsa, con l'intenzione di mettere la ricevuta assieme alle altre che aveva collezionato lungo la strada, ma tutt'a un tratto si fermò. Con mani tremanti, frugò nella borsa e tirò fuori le ricevute, sparpagliandole sul tavolo. La prova dell'errore che aveva commesso era là, davanti ai suoi occhi. «Oh, Dio, oh, Dio, che cos'ho fatto?» si ritrovò a mormorare. Senza rendersene conto, aveva lasciato una traccia chiara quanto una carta stradale, a cominciare dalla stazione di servizio più vicina a casa sua, poi a sud, a un Git and Go in Arkansas, a Collins, Mississippi, fino alla sua destinazione finale, il Tallahatchie River Landing e a un emporio di Wingate. Tanto valeva che si fosse attaccata un cartello con relative spiegazioni sulla schiena. In preda al panico, corse alla finestra e sbirciò fra le tende. Non si vedeva nessuno. A parte il gestore, un tale di nome Marshall Auger, che viveva sul posto, era ancora la sola cliente. Ma fino a quando? Doveva andare via? E, in quel caso, dove? Quello sarebbe stato un posto ideale, se lei non avesse rovinato tutto quanto. Guardò il letto, chiedendosi quanto tempo le sarebbe occorso per preparare i bagagli, e quante delle sue provviste avrebbe dovuto lasciare là. In quel momento, un suono familiare penetrò attraverso il suo panico. Si voltò di scatto, guardando freneticamente il cielo, che si stava nuovamente coprendo di nuvole. Un altro temporale. Quell'ondata di maltempo non sarebbe mai finita? Non fidandosi dell'unica serratura, ficcò una sedia sotto la maniglia, e poi si lasciò cadere sul letto. Partire adesso era impensabile. Quell'orribile spossatezza che la coglieva durante i temporali le rendeva quasi impossibile guidare. Era già abbastanza in pericolo così. Non era proprio il caso di accrescere i suoi problemi con un incidente. Avrebbe voluto piangere. Invece, si raggomitolò sul letto, tremando. Per
il momento era bloccata là, che le piacesse o no. Poco più tardi cominciò a piovere. Non il diluvio accompagnato dal vento della notte precedente, ma una pioggia lenta, monotona, che alzava paurosamente il livello del Tallahatchie. Sully si fermò davanti all'ufficio del Tallahatchie River Landing e spense il motore. Non si era reso conto di quanto avesse tenuto stretto il volante fino a quando non cercò di lasciarlo. Aveva le dita irrigidite, e anche le gambe, ma era arrivato. Benché fosse buio, scorgeva la sagoma di una macchina, in fondo alla fila di capanni. Incassando la testa fra le spalle, corse a bussare alla porta del gestore. Aspettò un momento, poi bussò di nuovo. Quando una luce si accese all'interno, e un pezzo d'uomo con un aspetto da vecchio orso aprì la porta, schizzò dentro senza aspettare di essere invitato. «Mi chiamo Marshall Auger» disse l'uomo. «È un po' tardi per arrivare, eh?» «Sono stato sorpreso dalla pioggia» rispose Sully. «Ho bisogno di un posto dove fermarmi.» «È solo?» chiese Marshall, sbirciando sopra la spalla di Sully, nell'oscurità. «Sì.» «Il prezzo aumenta, se c'è qualcuno con lei» insistette l'altro. Sully, con il portafogli in mano, lo guardò. «Ho detto che sono solo. Se vuole controllare, faccia pure. La macchina non è chiusa.» Marshall sbirciò il diluvio, poi i rivoli d'acqua che scorrevano sui capelli e sul viso di Sully e scrollò le spalle. «Sono venticinque dollari a notte, più le tasse...» borbottò. Sully mise una banconota da cento dollari sul bancone. «Quanto si ferma?» «Glielo farò sapere.» Marshall incassò il denaro e gli consegnò una chiave. «Vorrei l'ultimo capanno, per favore.» «Già occupato. Vuole quello vicino?» «Sì, va bene» rispose Sully. «Purché non ci sia qualche famiglia con una tribù di ragazzini» aggiunse. «Nossignore. Solo una donna. Molto tranquilla» rispose il gestore. Ah, ecco la mia risposta. E senza neppure chiedere.
«Okay, allora» disse Sully, e prese la chiave. «Non c'è né telefono né televisione, nei capanni» lo avvertì Marshall. «Qui la gente viene solo per pescare, perciò, se si aspettava qualcosa di diverso, ha avuto sfortuna.» «Cerco solo un posto per dormire» tenne a precisare lui. «Sogni d'oro» gli augurò Marshall, mostrando i denti ingialliti in una specie di sorriso. Pochi momenti dopo, Sully era risalito in macchina e si stava dirigendo verso la fila di capanni, ma non si fermò a quello che gli era stato assegnato. Invece, proseguì fino all'ultimo e posteggiò direttamente dietro la macchina di Ginny. Un rapido controllo della targa gli disse che era proprio la sua, e per un momento tutto quello che poté fare fu restare seduto a fissare il capanno. Grazie a Dio, l'aveva trovata. Fece per scendere, poi esitò. Le finestre erano buie. Doveva svegliarla adesso, a rischio di spaventarla ancora di più, o aspettare fino al mattino? L'istinto gli diceva di farlo subito. Troppe persone erano morte, per preoccuparsi dell'etichetta. Mentre si avvicinava alla porta, continuò a raffigurarsela come l'aveva vista nella foto con i suoi genitori. Felice e ridente. Poi, mise da parte quel pensiero. Perlomeno, era ancora viva. Sollevò il pugno e cominciò a bussare. Ginny si svegliò di soprassalto, stringendosi le coperte sotto il mento. Qualcuno stava bussando alla porta! Rimase distesa, immobile, con il cuore che le martellava nel petto. Forse era uno sbaglio. Forse se ne sarebbero andati. Il suono si interruppe, e lei provò un attimo di speranza, ma un secondo dopo i colpi ripresero, e stavolta credette di sentire qualcuno che chiamava il suo nome. Non era possibile! Aveva firmato con il nome da nubile di sua madre, Leigh Foster. Ma adesso aveva sentito distintamente una voce maschile chiamare Virginia Shapiro. In preda al panico, lei balzò fuori dal letto e cominciò ad aggirarsi per la stanza in cerca di qualcosa che potesse servire da arma. Proprio mentre si impadroniva dell'attizzatoio, l'uomo chiamò di nuovo. «Signorina Shapiro! Signorina Shapiro! Per favore, mi faccia entrare!» Ginny si avvicinò in punta di piedi alla finestra e sbirciò fra le tende, ma non vide altro che una sagoma scura davanti alla porta. «Se ne vada!» gridò. «Non c'è nessuno con quel nome, qui!»
L'uomo smise di bussare. Ginny si avvicinò silenziosamente alla porta e appoggiò l'orecchio al legno, pregando di sentire un suono di passi che si allontanavano. Sully respirò a fondo, cercando di ignorare l'acqua che gli scorreva giù per il colletto. «Signorina Shapiro, sono Sullivan Dean. Georgia era mia amica. Mi ha mandato le stesse informazioni che ha mandato a lei. La cerco da quasi due giorni. Devo parlarle.» Oh, Dio, gemette Ginny fra sé. Poteva davvero essere l'uomo a cui Georgia si era riferita nella sua lettera? Se solo avesse potuto crederlo... «Come posso fidarmi di lei?» chiese. Sully sospirò. «Non so che cosa dirle» rispose. «Forse, se lei accendesse la luce del portico, potrebbe vedere il mio distintivo.» «Distintivo?» «Sissignora. Sono un agente federale. Per favore, signorina, se solo...» La luce quasi lo accecò. Si coprì il viso con una mano per permettere ai suoi occhi di adattarsi, e nello stesso tempo tirò fuori il distintivo. Alla sua destra, una tenda si sollevò lentamente, ed ebbe una fugace visione di due occhi scuri in un viso pallido. La tenda ricadde. Lui trattenne il respiro. «Oh, Dio, Ti prego, fai che vada tutto bene» mormorò Ginny, e aprì adagio la porta. Allora, Sully la vide del tutto, in piedi nell'ombra e con l'attizzatoio in mano. A dispetto della pericolosità di quell'arma improvvisata, e della sua statura, rimase sorpreso da quanto appariva fragile. «Signorina Shapiro?» «Sì.» «Posso entrare?» Ginny esitò, poi si fece da parte, stringendo ancora in mano l'attizzatoio. Sully accese la luce, entrando, poi si chiuse la porta alle spalle. L'acqua cominciò a formare una pozza ai suoi piedi, scorrendo verso l'angolo della stanza. «Se ha un asciugamano o qualcosa del genere, mi farebbe piacere...» Ginny scosse la testa e accennò a una sedia. «Per favore... si sieda.» «Bagnerò anche quella» l'avvertì Sully. «Prima o poi si asciugherà, immagino...» borbottò lei. Lui si sedette.
Ginny si passò una mano fra i capelli, nervosamente. Dio solo sapeva che aspetto aveva, così, appena scesa dal letto. Batté l'estremità dell'attizzatoio sul pavimento, scoccò a Sully un'occhiata nervosa, poi distolse lo sguardo. Sully la guardò, studiando il suo viso addolcito dal sonno e chiedendosi come sarebbe stato svegliarsi accanto a una donna come lei ogni giorno, per il resto della vita. «Vorrebbe...» «Le dispiacerebbe...» Avevano parlato all'unisono, e si interruppero entrambi. Sully si passò una mano sul viso. «Prima lei.» Ginny esitò. «Le prendo un asciugamano.» Sully la guardò uscire dalla stanza e, quando i suoi pensieri cominciarono a concentrarsi sulla lunghezza delle sue splendide gambe, distolse gli occhi, rammentandosi che era là per aiutarla, non per andare a letto con lei. Ginny gli porse l'asciugamano e indietreggiò, chiedendosi ancora se aveva lasciato entrare un assassino, anziché un salvatore. Sully si asciugò per prima cosa i capelli, e stava passando alla faccia quando lei parlò. «Se Georgia era sua amica, e lei è già morta, perché è venuto a cercare me?» Sully si fermò, colpito dalla paura nella sua voce. La capiva, ma, in un certo senso, si sentiva ferito. L'aveva cercata freneticamente, e ora lei metteva in dubbio i suoi motivi. «Georgia ha chiesto il mio aiuto, e sono arrivato troppo tardi per salvarla. È evidente che le voleva bene, e io volevo bene a lei.» La voce gli si spezzò, e distolse lo sguardo. Non voleva che Ginny sorprendesse le sue emozioni così vicine alla superficie. Ma era troppo tardi. Lei aveva visto il fugace luccichio di lacrime nei suoi occhi, sentito il tremito della sua voce. Fece un passo avanti, toccandogli brevemente una spalla, poi indietreggiò di nuovo. «Mi dispiace» disse. «Ma, vede... ho avuto tanta paura.» Qualcosa, nei suoi occhi, spinse Sully ad alzarsi dalla sedia. «Lo so» disse a bassa voce. «Sono venuto più in fretta che ho potuto.» Tutta un tratto, Ginny stava piangendo, e lui la teneva fra le braccia. «La bagnerò tutta» osservò, burbero, e cercò di staccarla da sé.
Ginny soffocò un singhiozzo, fissando il suo viso. Le condizioni dei suoi indumenti erano l'ultima cosa che aveva in mente. «Non mi lascerà morire?» Sully imprecò fra i denti e la strinse nuovamente fra le braccia. «Giuro sulla mia vita che io non la lascerò morire...» borbottò. Ginny si irrigidì a quelle parole. «Potrebbe essere più difficile di quanto pensa...» mormorò. «Che cosa intende dire?» Lei accennò al tavolo, dove aveva lasciato le ricevute. «La carta di credito. Non ci avevo pensato.» «Sì, lo so» disse lui. «Andrà tutto bene.» «Lo sa?» Sully quasi sorrise. «Come pensa che l'abbia trovata?» A quel punto Ginny scoccò un'occhiata inquieta alla porta. «Non è così facile» continuò lui. «Io ho maggiore accesso di una persona comune a quel genere di informazioni.» «E che cosa le fa pensare che il responsabile di quello che sta accadendo sia una persona comune?» gli domandò lei. Sully sospirò. «Non intendevo fare lo spiritoso. Mi scusi tanto...» borbottò lui. «Scuse accettate» dichiarò lei. Poi aggiunse: «Gliene devo anch'io, credo». Sully corrugò le sopracciglia. «Per che cosa?» «Non l'ho ancora ringraziata.» Stavolta lui sorrise davvero, sia pure solo per un attimo. «Non ho ancora fatto niente.» «Oh, sì, invece» ribatté Ginny. «È qui.» Sully la guardò quasi come se la vedesse per la prima volta. I capelli scuri, lunghi fino alle spalle e i sorprendenti occhi azzurri nel viso ovale erano indimenticabili, non c'era dubbio. Ma il tratto più rivelatore era la linea decisa del mento. Quella donna non era il tipo che mollava facilmente. «Già, sono qui» convenne. Poi, alleggerì il momento guardandosi i piedi. «Questa pozzanghera sta crescendo di minuto in minuto. Credo che sia meglio che vada a cambiarmi, prima di provocare un'alluvione.» Ginny parve stupita. Era appena arrivato, e parlava di andarsene. «Dove va?» chiese con voce tremante.
«Alla porta accanto. Ho affittato il capanno qui vicino. Adesso è al sicuro, signorina Shapiro, ma se qualcosa la spaventa, non dovrà fare altro che gridare. Sarò qui in pochi secondi.» Spaventata all'idea di restare sola, Ginny disse: «Potrei scaldarle una minestra». Sully esitò. Desiderava disperatamente togliersi quegli indumenti bagnati e mettersi a letto, d'altra parte vedeva che lei non era ancora pronta a lasciarlo andare. «Facciamo così. Che ne dice se io mi infilassi prima addosso qualcosa di asciutto? Mi dia un quarto d'ora, e tornerò.» Imbarazzata per averlo praticamente supplicato di restare, Ginny si sentì in dovere di rispondere: «Okay, ma solo se ha davvero voglia di mangiare qualcosa. Altrimenti, non fa niente». Si stava sforzando con tanto impegno di essere coraggiosa che lui non poté fare a meno di ammirarla. «Sì, lo so» rispose. «Ma credo che quella minestra mi farebbe proprio piacere.» Gli occhi di Ginny si colmarono di sollievo e, quando si diresse verso la cucina, sorrideva. «Non ci metterò molto» aggiunse Sully, ma lei stava già tirando fuori una casseruola e frugando fra la magra provvista di utensili alla ricerca di un apriscatole. Lui non si scomodò a correre verso la macchina. Tanto, non avrebbe potuto bagnarsi più di quanto lo fosse già. Invece, andò senza affrettarsi a prendere la valigia e la portò al capanno vicino, senza neppure spostare la macchina. Se qualcuno fosse arrivato là in cerca di Ginny, vedere due macchine anziché una lo avrebbe decisamente reso più cauto. Poteva fare la differenza fra la vita e la morte per entrambi. I cardini cigolarono quando aprì la porta. Accese la luce e si richiuse la porta alle spalle con una smorfia. Il capanno non aveva un aspetto migliore di quello di Ginny, ma lui non era là per le comodità. Gettò la valigia sul letto e cominciò a togliersi gli indumenti bagnati mentre si dirigeva verso il bagno. Meno di dieci minuti più tardi aveva fatto la doccia, si era rivestito ed era pronto a uscire di nuovo. La pioggia era diminuita d'intensità, ma raggiunse ugualmente il capanno di Ginny correndo, con gli stivali che schizzavano tutto attorno l'acqua delle pozzanghere. Con suo sollievo lei non aveva chiuso a chiave. Entrò senza fermarsi. Sorpresa dal rumore, Ginny si voltò, poi si rilassò quando vide che era
lui. Dean. Sullivan Dean. Stava ancora cercando di abituarsi al suo nome. «La minestra è pronta, signor Dean. Devo chiamarla signor Dean, o agente Dean, o...» «Sully. Mi chiami Sully.» «Se lei mi chiamerà Ginny.» Lui sorrise. «Già, Harry Redford mi ha detto che non avrebbe risposto a un altro nome.» Ginny spalancò gli occhi. «Conosce Harry?» «Ci siamo incontrati» rispose Sully, laconico. «È preoccupato per lei.» Ginny cominciò a versare la minestra in due ciotole. «È una brava persona. Si lavora bene con lui. Mi piace.» Sully annuì. «Il profumino è stuzzicante.» Ginny posò le ciotole sul tavolo. «È solo zuppa di manzo e verdure in scatola. Non ho fatto altro che aggiungere acqua e scaldarla. Vuole dei cracker?» «Certo» disse Sully. «Posso aiutarla?» Ginny scosse la testa. «Faccio io. Come vuole il caffè?» «Nero» rispose lui, mentre Ginny gli metteva una tazza vicino alla ciotola. Si sedettero a tavola l'uno di fronte all'altro e mangiarono in un silenzio punteggiato solo dall'occasionale tintinnio del cucchiaio contro la ciotola. Ginny aveva notato la cicatrice lunga e sottile vicino all'orecchio di Sully e ne aveva seguito il percorso attraverso il collo con una rapida occhiata, cercando di non immaginare come se la fosse procurata. Tutto sommato, era un pezzo d'uomo, robusto, con le spalle larghe. Le gambe erano lunghe e muscolose. Ma già, con il lavoro che faceva, probabilmente doveva mantenersi in forma. I capelli erano corti, folti e lisci, di un castano appena un po' più chiaro degli occhi, che sembravano quasi neri. All'improvviso si accorse che lui l'aveva sorpresa a studiarlo. «Scusi» mormorò. «Non intendevo fissarla. Ma le ha mai detto nessuno che lei assomiglia molto ad Harrison Ford?» Lui fece una smorfia. «Forse.»
Ginny si strinse nelle spalle. «Solo un'osservazione.» Si alzò, raccolse la propria ciotola e la tazza e le portò nel lavello. «Un altro goccio di caffè?» «Se ne prendo ancora non dormirò» affermò Sully. Ginny consultò l'orologio. «A proposito, dev'essere esausto. È l'una passata.» Sully interpretò quel commento come un invito ad andarsene. «Grazie per la cena.» Ginny gli tolse di mano le stoviglie. «Faccio io» disse. «E non c'è di che.» Ora che era il momento di lasciarla, Sully scoprì di non averne molta voglia. «Sarò qui alla porta accanto.» Lei annuì. «Se ha bisogno di qualcosa, qualunque cosa, mi avverta. Ho il sonno leggero.» «Va bene.» «Be', allora... se è sicura che non avrà problemi...» Ginny intrecciò le mani davanti a sé come una bambina sul punto di recitare una lezione. «Starò benissimo... ora che lei è qui.» La fiducia che il suo viso esprimeva lo spaventò. Dio, fai in modo che io non fallisca, pregò, andando alla porta. L'aprì, poi si fermò e si voltò. Ginny lo fissava, dalla parte opposta della stanza. Lui fece per parlare, poi si rese conto che non c'era altro da dire. Invece, annuì e chiuse la porta. Un attimo dopo la sentì tirare il chiavistello. Il vento gli scompigliò i capelli mentre rimaneva là, in piedi nell'oscurità, aspettando che lei spegnesse la luce. L'aria era umida, ma la pioggia era cessata. In lontananza poteva sentire il rombo del fiume in piena. Pochi secondi dopo, il capanno divenne buio. Sully si voltò, scrutando la zona circostante fino a quando non si convinse che non c'era nessuno. Poi andò nel suo capanno, si sedette sulla sponda del letto e si sfilò di tasca il cellulare. Era tempo di fare la sua chiamata. «Signore, parla l'agente Dean.» Il direttore rotolò sul fianco e parlò a bassa voce per non disturbare la moglie che dormiva. «Lo sai che diavolo di ora è?» brontolò. «Sì, signore, mi dispiace, signore, ma ho pensato che volesse saperlo.
L'ho trovata.» «Ottimo lavoro. Informerò l'agente Howard domani stesso.» «Sì, signore.» «Come vedi la situazione?» Sully sospirò, pensando alla donna che aveva pianto fra le sue braccia. «È spaventata, ma discretamente tosta, tutto considerato.» «Il posto è sicuro?» Sully si guardò attorno e resistette all'impulso di sbuffare. «Questo è discutibile, ma se ci sposteremo glielo farò sapere. Immagino che non abbia niente di nuovo sul caso?» «No. Cerca di riposare.» «Sì, signore, è proprio quello che intendo fare.» «Oh... Sully?» Lui rimase sorpreso. Il capo non aveva l'abitudine di chiamare i suoi agenti per nome. «Sì, signore?» «Ottimo lavoro» ripeté il direttore. «La ringrazierei, ma in realtà il merito è di suor Mary Teresa. È stata lei a vedere il nesso fra gli avvenimenti. Mi dispiace solo di non essere arrivato in tempo per salvare anche lei.» «Sì, be'... sono cose che capitano, a volte. Dormi un po' e tieniti in contatto.» Sully posò il cellulare sul tavolino da notte e andò alla finestra a dare un'ultima occhiata al posteggio. L'unica luce di sicurezza, vicino al capanno del gestore, traeva piccoli riflessi dalle pozzanghere, mentre il ronzio del condizionatore di Ginny rompeva il silenzio della notte. Tranquillizzato, Sully si staccò dalla finestra e stava per accendere anche lui il condizionatore quando si rese conto che, se l'avesse fatto, forse non sarebbe riuscito a sentire Ginny, se l'avesse chiamato. Decise di aprire invece la finestra vicino al letto, si svestì, posò la pistola e la fondina accanto al cellulare e si infilò fra le lenzuola. Chiuse gli occhi, ma, per quanto fosse esausto, passò molto tempo prima che si addormentasse. CAPITOLO 6 La pioggia era dappertutto, filtrava attraverso le pareti, usciva dai pavimenti. Il tetto si stava sciogliendo, i colorì del mobilio si mescolavano gli
uni con gli altri. Il terreno sotto i suoi piedi cominciò a cedere, e Ginny si sentì affondare. Sulle prime fu solo il fastidio di sentire il fango penetrarle nelle scarpe, ma presto si trasformò in terrore, mentre lottava inutilmente per mantenersi sul terreno solido. Il tuono rombò all'improvviso sopra la sua testa, privandola delle forze fino a quando non fu troppo debole per muoversi. Sbucata dal nulla, l'acqua le arrivò alle ginocchia, poi al petto. Aggrappandosi alla riva che si stava dissolvendo, lei cominciò a piangere. Quando l'acqua raggiunse il mento, gettò indietro la testa è urlò. «Aiuto! Qualcuno mi aiuti, per favore! Non lasciatemi annegare. Vi prego, non lasciatemi morire...» A quel punto Ginny finalmente si svegliò con un sussulto e balzò a sedere sul letto. Le lenzuola le si erano attorcigliate attorno alle gambe e, nonostante l'aria condizionata, aveva i capelli madidi di sudore e incollati al collo. Ancora tremante, lei si sedette sulla sponda del letto, poi appoggiò i gomiti alle ginocchia e si coprì il viso con le mani. Un sogno. Era stato solo uno stupido sogno. Quando ebbe ritrovato un certo equilibrio, si trascinò in bagno, si spruzzò il viso e il collo con l'acqua tiepida e se li strofinò con l'asciugamano. Poco propensa a tornare a letto, con il ricordo dell'incubo ancora così fresco in mente, accese la luce in cucina e preparò il caffè. Le due ciotole rimaste nel lavello le rammentarono che lei non era più sola. Quella consapevolezza le sollevò di parecchio lo spirito mentre la bevanda scura e fragrante cominciava a gocciolare nella caraffa di vetro. Se ne versò una tazza, infilò le scarpe da tennis e aprì la porta. Curiosa di sapere che giornata sarebbe stata, uscì all'aperto e respirò a fondo. Il cielo si andava rasserenando, benché rimanessero alcune soffici nuvole grigie. Dietro di loro, la prima, pallida luce dell'alba stava prendendo il posto della notte, preparando l'arrivo del sole. Ginny bevve un sorso di caffè, confortata dal tepore e dalla caffeina. Dopo avere ispezionato attentamente i gradini malandati, si sedette sull'ultimo a finire il caffè. Solo allora si accorse che Sullivan Dean aveva posteggiato la macchina dietro la sua. Guardò in direzione del suo capanno, ma non vide alcun segno della sua presenza. Probabilmente il federale dormiva ancora. Una leggera brezza le arruffò i capelli, finendo di asciugarli. Alzò il viso, studiando il cielo. Si stava decisamente rasserenando. Bene. Niente più temporali. Niente più pioggia.
I temporali le davano una sensazione così inquietante, e le cose erano già per loro conto abbastanza complicate. Mentre era seduta là, sentì il suono sommesso di una radio e pensò che si trattasse della sveglia del gestore. Quando il suono cessò improvvisamente, sorrise e bevve un altro sorso di caffè. La sua ipotesi doveva essere giusta. Marshall non voleva svegliarsi bruscamente. Un uccello lanciò un richiamo da un albero vicino, e un altro rispose da un punto dietro il capanno. Incuriosita, Ginny posò la tazza, svoltò l'angolo e si allontanò di pochi metri per sbirciare fra i rami. In quel momento si accorse di un altro suono, assai più pauroso. Più minaccioso. Uno scrosciare d'acqua corrente. Il fiume! Ma certo. Dopo tutta quella pioggia doveva essere in piena. Quel pensiero le riportò subito alla memoria un altro fiume gonfiato dalle piogge, e l'immagine di Georgia che cadeva nel vuoto, con l'abito che svolazzava dietro di lei come ali aperte. La gioia della mattinata era svanita. Voltò le spalle al fiume, e in quel momento sentì il rumore di un veicolo che si avvicinava. Benché lei si sentisse ragionevolmente al sicuro, non poté fare a meno di ricordare che Sullivan Dean l'aveva trovata, e se c'era riuscito lui, poteva farlo chiunque altro. E non potendo attribuire una faccia al pericolo in cui si trovava, Ginny schizzò verso il capanno. Sbucò dal passaggio fra le due costruzioni proprio mentre un grosso fuoristrada si fermava davanti all'ufficio del gestore. Il cassone era pieno di attrezzi da pesca, che ruzzolarono rumorosamente l'uno sull'altro quando il guidatore frenò bruscamente. Tre uomini scesero dalla cabina, ridendo e parlando ad alta voce. Uno di loro gettò a terra una lattina di birra vuota, poi allungò una mano nel cassone e ne tirò fuori un'altra da una ghiacciaia portatile parzialmente sepolta sotto l'attrezzatura da pesca. Mentre apriva la lattina e beveva il primo sorso, si accorse di Ginny. Il sorriso che gli si allargò sulla faccia la innervosì. In quel momento, seppe che non si sarebbe mai dovuta fermare a osservare i nuovi venuti. Cercando di apparire noncurante, si costrinse ad avviarsi verso il suo capanno a passo normale, mentre in realtà lei avrebbe voluto correre a gambe levate. «Ehi, bambola! Aspettami!» sbraitò l'uomo. «Ho qualcosa per te!» Ginny credette di sentire gli altri due consigliargli di smetterla, ma, qualunque cosa gli avessero detto, lui sembrava propenso a ignorarla. Stava calcolando che non le mancavano più di una quindicina di metri per raggiungere la sua porta quando sentì dei passi avvicinarsi sulla ghiaia.
Si voltò di scatto. L'uomo stava correndo verso di lei. Non si fermò a pensare. Reagì d'istinto. Sully le aveva detto che, se avesse avuto bisogno di lui, non doveva fare altro che gridare, quindi gridò. Due volte. A pieni polmoni. Sarebbe stato difficile dire chi fosse più stupito, Ginny o lo sconosciuto, ma l'uomo seminudo che balzò fuori dal capanno, interponendosi fra loro, era armato e minaccioso. Sully aveva i capelli arruffati, i piedi e il torace nudi, ma l'espressione del suo viso e la pistola che aveva in mano dicevano tutto. Scoccò a Ginny solo una rapida occhiata, per assicurarsi che fosse ancora tutta intera, poi ringhiò un ordine. «Entri nel capanno.» Lei girò sui talloni e non si fermò fino a quando non poté sbattersi la porta alle spalle. Corse alla finestra e sbirciò fra le tende. Sully aveva gettato a terra lo sconosciuto e stava perquisendo le sue tasche, tenendo a bada gli altri due con la pistola. Ginny non riuscì a sentire che cosa dicevano. Pochi minuti dopo, lui tirò in piedi l'uomo con uno strattone, e tenne d'occhio i tre fino a che non si furono allontanati. Quando il fuoristrada fu sparito, si voltò a guardare Ginny. Lei avrebbe voluto correre a ringraziarlo. Quando lo vide dirigersi verso il suo capanno, scelse qualcosa di meno drammatico e si limitò ad aspettarlo sulla porta. «Immagino di avere avuto una reazione eccessiva» esordì. Sully avrebbe voluto dirle che gli aveva quasi fatto venire un infarto. Che le sue grida spaventate lo avevano svegliato di soprassalto da un sonno profondo. Che era saltato nei jeans senza altro pensiero che quello di agguantare la pistola e correre da lei, e che era stato terrorizzato all'idea di non giungere in tempo. Invece, si limitò a scrollare le spalle e a scuotere la testa. «Ha fatto quello che le avevo ordinato di fare...» borbottò lui. Ginny annuì, poi, all'improvviso, rabbrividì e si strinse le braccia attorno al corpo. «Era ubriaco?» «E drogato.» «Buon Dio» mormorò lei. «Pensa che torneranno?» «Probabilmente. Sono i figli del gestore» le spiegò lui a quel punto. Ginny trasalì. «Niente di meglio per ingraziarsi la direzione» mormorò, avvilita.
«Ho detto loro a chiare lettere che lei apparteneva a me, e di lasciarla in pace.» Sully non rimase sorpreso dall'espressione sbalordita della ragazza, ma non si dilungò in spiegazioni. Poteva arrivarci da sola. Abbastanza stranamente, Ginny preferì non fare commenti, e questo lo sorprese. Poi, quando lei indicò il portico alle sue spalle, l'ultima cosa che si era aspettato di sentirle dire fu: «Per favore, vuole prendere la mia tazza?». Sully si voltò, vide la tazza vuota e si affrettò a raccoglierla. «Ne vuole un po'?» chiese lei, quando entrò e gliela porse. Le sue parole gli diedero un inaspettato fremito di eccitazione. Un po' di che cosa? In quel momento, quello che voleva non aveva niente a che vedere con la caffeina. «Sì, certo» rispose. «Se le avanza.» Ginny annuì. «Sono di nuovo in debito con lei.» Allora, Sully la toccò sulla spalla, ma solo per un attimo. Era tutto quello che poteva permettersi. «Non teniamo i conti, okay?» Lei sorrise, poi andò a versare il caffè. Sully sospirò, guardandola allontanarsi. La sua maglietta aveva un buco vicino all'orlo ed era sbiadita fino a un grigio sporco. I pantaloni non erano molto meglio. Alta e snella al punto da essere quasi ossuta, tuttavia era così maledettamente bella da farlo stare male. Posò la pistola sul tavolo e si ravviò i capelli con le dita. Quando lui si sedette, scelse una sedia che gli avrebbe permesso la migliore vista di Ginny mentre lavorava. Non gli ci vollero più di cinque secondi per capire che quella faccenda stava diventando troppo personale. Sospirò. Maledizione, non avrebbe dovuto dormire nel suo letto. Quando Ginny si voltò, Sully mascherò le sue emozioni con uno sbadiglio e la ringraziò con un cenno quando gli tese il caffè. «Visto che è sveglio...» Lui sorrise. «... Ho intenzione di cucinare delle uova. È interessato alla cosa?» Fra la possibilità di un altro paio d'ore di sonno e quella di starsene seduto di nuovo a tavola di fronte a lei, fu quest'ultima a vincere. «Buona idea. Serve aiuto?»
Ginny drizzò le orecchie. «Sa cucinare?» «Niente male.» «Allora è più di quanto possa dire io» borbottò lei. «Si porti il caffè. Può friggere la pancetta.» «E lei che cosa farà?» chiese Sully. «E se stessi a guardare?» Lui inarcò un sopracciglio, mentre Ginny gli faceva strada nel cucinino. Maledizione, c'era dentro fino al collo. Mentre cucinavano la colazione, il terzetto che Sully aveva messo in fuga stava studiando un piano. A Carney, Dale e Freddie Auger non piaceva affatto di essere stati scacciati in malo modo dal campeggio del padre. Tutto quello che cercavano era un posto per farsi una bella dormita dopo una partita di pesca di tre giorni. Non era la prima volta che passavano più tempo a bere che a pescare, e non sarebbe stata l'ultima. Ma nessuno dei tre aveva intenzione di tornare a casa in quelle condizioni. Le loro consorti non avrebbero più smesso di brontolare. Carney, quello che aveva cercato di abbordare Ginny, era il più infuriato dei tre, e aveva passato la maggior parte dell'ultima ora minacciando di vendicarsi. «Maledizione! Ve lo dico io, non c'è figlio di buona donna che possa gettarmi a terra e vivere abbastanza per raccontarlo.» Freddie stava guidando e non si scomodò a rispondere, lasciando il compito di commiserarlo al fratello minore. Dale era sempre stato uno yesman. Qualunque cosa facessero, lui ci stava sempre, anche se sapeva che stava commettendo un errore. Freddie non aveva molto rispetto per Dale, anche se non gli dispiaceva averlo intorno. «Ti capisco» disse Dale. «Non c'era bisogno di puntarti addosso una pistola in quel modo. Non facevi altro che divertirti un po'.» «Giustissimo!» approvò Carney, e bevve un altro sorso di birra. Passarono alcuni chilometri, nel corso dei quali Carney continuò a bere. Tutt'a un tratto, batté una gran manata sul cruscotto del fuoristrada di Freddie. «Torna indietro» ordinò. «Voglio vedere papà. Siamo andati a trovare papà. Voglio vederlo.» «Dannazione, Carney, mi rompi il cruscotto. Calmati. Vedremo papà domani, quando sarai sobrio, va bene?» «No, voglio vedere il mio vecchio adesso, subito. È avanti negli anni. E
se morisse stanotte, e io non avessi la possibilità di dirgli addio?» Le lacrime nella voce di Carney si mutarono in rabbia, mentre i suoi pensieri di ubriaco continuavano a vagabondare. «Sarebbe colpa di quella dannata sgualdrina. Che bisogno aveva di strillare a quel modo?» Freddie lo guardò male. «Sai come diventi quando hai preso troppa roba. Probabilmente ha pensato che volessi stuprarla, stupido, e non posso fargliene una colpa. L'ho pensato perfino io.» «Già, Carney, più o meno le hai detto che cosa l'aspettava» commentò Dale. Carney gli batté una pacca sulla spalla. «Chiudi il becco» brontolò, e gettò la lattina vuota dal finestrino. «Troviamoci un motel e dormiamoci sopra. Vedremo papà domani» suggerì Freddie. I tre rimasero in silenzio per un po', ma la rabbia di Carney continuò a ribollire. L'avrebbe fatta pagare a quei due. Molto cara. Sully aveva quasi finito di vestirsi quando il suo cellulare trillò. Girò attorno al letto e lo afferrò al terzo squillo. «Sullivan Dean.» «Ehi, Sully, sono Dan Howard. Come va?» Sully si sedette sulla sponda del letto. «Bene. Immagino che il capo ti abbia chiamato...» mormorò. «Sì. Ho pensato di aggiornarti sulla situazione. Ho agenti in tutte le sei città, a raccogliere informazioni sulle vittime. Sai, questa storia mi dà i brividi. Benché abbiano tutta l'apparenza del suicidio, le loro morti sono maledettamente strane.» «Già, capisco quello che intendi dire» convenne Sully. «E, se vuoi la mia opinione, la più strana è quella di suor Mary.» «Ho sentito che era una tua amica. Mi dispiace molto.» «Grazie. In effetti, è la ragione per cui sono stato coinvolto.» «E la Shapiro? Credi che sappia qualcosa?» gli domandò Dan. «No. È spaventata a morte, si nasconde ed evita di avvicinarsi a qualunque telefono, ma devo riconoscere che è un tipo tosto.» «Bene. Può essere quello che l'aiuterà a restare in vita.» «Sono d'accordo» affermò Sully. «C'è qualcos'altro che devo sapere?» chiese Dan a quel punto. «Stamattina ho avuto a che dire con tre tizi del posto. Non credo che sia niente di grave, ma voglio fare un controllo su di loro, per sicurezza.»
«Credi che abbiano qualche rapporto con la vicenda?» «No. Il loro padre gestisce il campeggio in cui alloggiamo. Credo che sia stato solo un caso sfortunato.» «Okay, ma se sai qualcosa, fammelo sapere.» «Anche tu» disse Sully, e riattaccò. Rimase seduto per un momento, studiando il modo migliore per fare un controllo sui tre fratelli, poi decise di chiamare Myrna. Se fosse passato attraverso le autorità locali, si sarebbe risaputo che era un agente federale, e questo avrebbe suscitato una curiosità di cui lui e Ginny non avevano affatto bisogno. Compose il numero dell'ufficio del direttore e aspettò di sentire la voce della segretaria. «Federal Bureau of Investigation.» «Myrna, sono Sully.» «Buongiorno, agente Dean. Mi dispiace, ma il direttore è sul Colle in riunione per tutto il giorno» si affrettò a spiegargli. «Non è con il capo, ma con lei che ho bisogno di parlare, Myrna.» «Che cosa vuole?» Sully sorrise, divertito. Quella donna era una vera tigre. «So che non fa esattamente parte del suo lavoro, ma ho bisogno di condurre una ricerca su tre fratelli. Pensa di poterlo fare per me, e vedere se quei tre pagliacci hanno dei precedenti?» «Sì, potrei.» Quando lei sottolineò la parola potrei, anziché rispondere semplicemente: Sì, Sully sorrise di nuovo. «Allora lo farà?» chiese. «È qualcosa che farà arrabbiare il mio capo?» gli domandò lei di rimando. Il sorriso di Sully si allargò. Myrna aveva decisamente più pepe di quanto avesse immaginato. «Nossignora. Non avrà guai di alcun genere con il direttore. Inoltre, l'agente Howard è al corrente, e il caso è suo.» «Allora mi serve il numero di targa, e dei nomi...» borbottò. «Sissignora.» Sully si affrettò a snocciolare le informazioni richieste. «È tutto?» chiese Myrna. «È sicura di non voler prendere in considerazione l'idea di lavorare con me?» Sully credette di sentirla sbuffare, prima che la comunicazione fosse in-
terrotta. Sorrise, infilando il cellulare nella tasca dei pantaloni, e uscì per raggiungere Ginny nel suo capanno. C'erano delle decisioni da prendere riguardo alla sua sicurezza. Personalmente, era incline a portarla in una casa sicura. Là, almeno, il perimetro sarebbe stato più facile da controllare. «Sono io» disse, bussando alla porta prima di entrare. Ginny era seduta in mezzo al letto, con un blocco per appunti in grembo e le fotocopie che aveva ricevuto da Georgia sparpagliate tutt'attorno. Non alzò neppure gli occhi quando Sully entrò. «Che cosa sta facendo?» chiese lui. «Compilo degli elenchi.» «Che genere di elenchi?» «Somiglianze. Differenze.» Sully sbirciò il blocco, colpito dalla meticolosità delle annotazioni di Ginny. «Come lo sa?» chiese, indicando un elemento su Jo-Jo Henley che lei aveva elencato sotto la voce: Differenze. «L'ho chiesto al proprietario del locale in cui lavorava.» «Aveva un cancro alle ovaie?» «Questo è ciò che ha detto. Ha detto anche che nessun altro lo sapeva.» Sully prese una sedia e si sedette, sempre più incuriosito. «È un fatto che può cambiare la percezione di molte persone riguardo alla morte. Sa... forse ha avuto un momento di sconforto e ha deciso di suicidarsi.» «Sì, lo so. Ma se intendeva uccidersi per evitare di soffrire più tardi, allora perché non prendere dei sonniferi, o qualcosa del genere? Se temeva la sofferenza, non credo che avrebbe scelto di gettarsi contro un camion come mezzo per lasciare questo mondo» ribatté Sully. Ginny lo guardò. «Niente di tutto questo ha senso.» «Okay, certo, ci sono molte variabili. Nessuna di loro si è puntata una pistola alla testa e ha premuto il grilletto, ma ciascuna si è messa in una situazione che ne ha causato la morte. Voglio dire, che altro risultato si può ottenere buttandosi da un ponte... o, nel caso di Georgia, in un fiume?» Ginny gettò da parte il blocco e balzò dal letto, troppo nervosa per rimanere seduta. «Non lo so, maledizione! Se avessi delle risposte, non me ne starei qui nascosta ad avere paura della mia ombra!»
Sully lasciò che si sfogasse. Essere infuriata era di gran lunga meglio che essere spaventata a morte. «Che altro sa che io non so?» Ginny allargò le braccia. «Non lo so. Ho telefonato alle famiglie delle vittime. E lei?» Sully si dondolò all'indietro sulla sedia, sorpreso. «Quando ha fatto tutto questo?» «Prima di lasciare St. Louis. Dopo avere scoperto che Georgia era morta.» «Ha preso appunti?» «Sono una giornalista, agente Dean. Lei che cosa crede?» «Giunto a questo punto io credo proprio di averla sottovalutata, e il mio nome è Sully» gli rammentò lui. La collera di Ginny sfumò. «Mi scusi» disse, e si lasciò cadere sulla sponda del letto, a pochi centimetri da lui. Sully poté vedere una vena pulsare sul suo collo e le goccioline di sudore sul labbro. Dovevano sapere di sale. Sobbalzò come se fosse stato schiaffeggiato, benché Ginny Shapiro non avesse idea della direzione imboccata dai suoi pensieri. «Non c'è bisogno di scusarsi. Abbiamo solo necessità di collaborare.» «Prendo i miei appunti» disse Ginny, e si allungò all'indietro sul letto per afferrare il blocco che aveva gettato da parte. In quel momento, il cellulare di Sully trillò all'improvviso. Lei sussultò e rimase immobile, con gli occhi spalancati per lo shock, mentre lo osservava frugarsi in tasca. «Ginny... non faccia così! Il mio telefono non può costituire un pericolo per lei.» Ginny si rilassò, imbarazzata di avere reagito in quel modo. Certo che il suo cellulare non costituiva un pericolo. Che cosa le saltava in testa? «Lo so...» borbottò, poi uscì, lasciandolo solo nel capanno. Sully imprecò fra i denti e rispose al telefono. Era Myrna. «La targa corrisponde a un furgone Ford di proprietà di Freddie Joe Auger, di Hemphill, Mississippi. È stato arrestato un paio di volte per ubriachezza molesta, ma niente di grave. Dale Wayne Auger, anche lui di Hemphill, ha nove multe per eccesso di velocità. Nient'altro. Carney Gene Auger ha una fedina penale lunga un chilometro. Vuole che gliela legga tutta?»
Sully si irrigidì. Avrebbe dovuto sapere che quella storia non sarebbe stata semplice come aveva creduto all'inizio. «No, mi dia solo le informazioni più importanti...» borbottò. «Parecchie denunce e arresti per possesso di droga, furto, aggressione a mano armata. Un vero boy-scout.» «Immagino che non ci sia alcun mandato di cattura in corso?» «No.» Sully sospirò. «Certo. Sarebbe stato troppo facile.» «Il padre, Marshall Auger, è fratello di un giudice locale. È proprietario e gestore di una riserva di pesca sul fiume Tallahatchie, circa centocinquanta chilometri a nord di Biloxi.» Questo, Sully lo sapeva già. «Okay, Myrna. Sono davvero in debito, stavolta. Quando tornerò a Washington, le offrirò la più grossa bistecca della città.» «Sono vegetariana.» Sully rise. «Neanche per sogno. L'ho vista personalmente divorare mezza dozzina di scampi al party di Natale dell'anno scorso.» «È stato un momento di debolezza. Ora è passato.» «Myrna, posso farle una domanda personale?» «No.» La linea si interruppe. Sully chiuse la comunicazione, prendendo mentalmente nota di mandarle dei fiori, quando quella storia fosse conclusa, e andò a cercare Ginny. Lei era seduta sui gradini del portico, con gli occhi fissi a terra. «Voglio trasferirla in una casa sicura.» Sorpresa, lei balzò in piedi. «Perché? Che cos'era quella telefonata? Sanno chi sta causando...» Sully la prese per un braccio. «No, no, si calmi un momento e mi lasci parlare.» Ginny tacque, ma non si rilassò. Sully poteva sentire la tensione dei suoi muscoli. «Non si tratta della morte delle sue compagne, ma di quel tizio che l'ha abbordata stamattina.» Ginny corrugò la fronte. «Che c'entra con tutto questo? Credevo che fosse solo uno del posto che...»
«In effetti, è uno del posto. Quell'imbecille è il figlio del gestore, il che significa che potrebbe tornare a vendicarsi. L'ho fatto arrabbiare parecchio, stamattina.» Ginny sospirò e si passò le dita fra i capelli, frustrata. «No! Maledizione, no!» «Che cosa, no?» «Sto già fuggendo da qualcuno che non posso identificare. Non intendo darmi di nuovo alla fuga. Meglio il nemico che conosco che quello che non conosco. Non voglio andare in una città. Ci sono troppe persone e troppi posti da cui guardarsi. Non voglio andare in una casa sicura dove ci sarebbe qualcuno a sorvegliarmi dall'alba al tramonto, prendendo appunti su tutto, dal fatto che piango nel sonno a quante volte vado in bagno.» Sully non sapeva che cosa dire. Lo aveva colto di sorpresa con la sua franchezza. «Piange nel sonno?» Ginny si strinse nelle spalle. «Qualche volta.» Lui avrebbe voluto toccarla, ma qualcosa gli suggerì di mantenere le distanze. «Perché?» «Non lo so. Sogni, immagino. Non li ricordo mai, ma mi sveglio in lacrime.» «Gesù» brontolò Sully, pensando alle altre sei donne e chiedendosi se anche loro piangevano nel sonno. «Non mi costringa ad andare via» continuò Ginny. Odiava supplicarlo in quel modo, ma una voce interna la spingeva a restare dov'era, e faceva la giornalista da troppo tempo per ignorare il suo istinto. Sully sospirò. «Vedremo» disse. «Se le cose peggiorassero, con quei tre, non avrà scelta.» Lei si strinse nelle spalle. «Mi sembra giusto.» «Ora, riguardo ai suoi appunti... Vuole farmeli vedere?» Era una domanda, non un ordine, e la stima di Ginny per lui salì di un gradino. Era maledettamente attraente, e se quello che aveva visto quella mattina era un'indicazione, senza i vestiti era anche meglio. Era andato in suo soccorso non per dovere, ma per affetto verso la loro comune amica,
Georgia, e per onorarne la memoria. Doveva stare molto attenta a non lasciarsi coinvolgere sentimentalmente da un virtuale sconosciuto. Accennò con la mano al capanno. «Dopo di lei... Sully.» Lo aveva chiamato per nome. Lui la guardò e sorrise. Lentamente. Ginny si sentì mancare il respiro. Ragazzi, perché non poteva somigliare a Walter Matthau, anziché ad Harrison Ford? CAPITOLO 7 Le dita di Phillip Karnoff volavano sulla tastiera del computer e i suoi occhi erano fissi sullo schermo. Non riuscendo a dormire, era in piedi da parecchie ore a chiacchierare in una chat room. Ora, restavano solo lui e un altro irriducibile, che usava il nome di CyberRat. Phillip si trovò a rivelare a quello sconosciuto paure che non avrebbe mai potuto confessare ad alta voce. Babydoc: «La pressione sta diventando intollerabile. Non so per quanto tempo potrò ancora resistere». CyberRat: «Farai quello che devi fare, amico. È la tua vita. Non lasciare che siano gli altri a prendere le decisioni». Babydoc: «Già, ma tu non capisci. Non riesco a conservare un lavoro. Ogni volta che ne trovo uno, qualcosa dentro di me comincia a spingere e spingere, e finisco per rovinare tutto». CyberRat: «Sembra una cosa seria, amico. Forse dovresti sentire un medico. Mai provato con uno psicanalista? Io sono in terapia da anni». Le lacrime cominciarono a scorrere sul viso di Phillip. Sentire un medico? Quella era buona. Viveva con un medico, e non gli era mai servito a nulla. Babydoc: «Esigenze diverse per persone diverse. Io non sono il tipo». CyberRat: «Andiamo, amico. Hai bisogno di vuotare il sacco, in un modo o nell'altro, o il cattivo karma ti divorerà vivo». A quel punto Phillip esitò. Dire di più poteva essere pericoloso, ma il bisogno di mettere a nudo la sua anima era impellente. Che male poteva esserci? Non conosceva quel tizio... non l'avrebbe mai conosciuto. L'anonimità l'avrebbe protetto, e forse CyberRat aveva ragione. Forse aveva bisogno di vuotare il sacco. Babydoc: «Credo di stare impazzendo». CyberRat: «Perché?».
Babydoc: «Sento delle voci». CyberRat: «Questo è grave, amico. Ti sei mai fatto visitare? Hai mai preso qualche farmaco?». Babydoc: «No». CyberRat: «Qualcun altro lo sa?». Babydoc: «No». CyberRat: «Senti, ragazzo mio, non ti conosco personalmente, ma se fossi mio amico ti consiglierei di correre da uno strizzacervelli. Non vuoi finire per fare del male a te stesso o alla tua famiglia, vero?». Phillip stava tremando così forte che non riusciva a pensare. I suoi occhi erano fissi sulla tastiera. Vedeva le dita sui tasti, ma non poteva muoversi. Dio. Oh, Dio. Che cosa stava succedendo? Disconnettiti, Phillip. Fallo, piccolo bastardo imbroglione. CyberRat: «Amico? Sei ancora lì?». Phillip scosse la testa, come se cercasse di liberarsi dal suono della voce dell'altro. E poi scoppiò in singhiozzi. Altro? Quale altro? Non c'era nessuno, tranne lui. CyberRat: «Amico! Amico! Ti prego, dimmi qualcosa». Phillip rabbrividì, poi crollò in avanti. Quando alzò la testa, il suo sogghigno diceva tutto. Babydoc: «Babydoc non può più parlare con te. Se n'è andato, e tu mi fai arrabbiare. Vai al diavolo. Sono io che ho il controllo». Phillip spense il computer e si alzò bruscamente, strappandosi gli indumenti di dosso. Phillip è una lagna. Sono stufo di sopportarlo e di portare questi vestiti dall'aria così perbene. Andò all'armadio, spingendo gli indumenti che conteneva prima da un lato, poi dall'altro. Finalmente, in fondo, trovò quello che cercava. Prese dall'attaccapanni un paio di pantaloni neri e li indossò. Erano aderenti al punto giusto per mettere in evidenza i suoi attributi, come piaceva a lui. Chiuse la lampo e vi passò sopra la mano, prima di tuffarsi di nuovo nell'armadio. Frugò tra la pila di camicie e pullover piegati, trovò una maglietta nera altrettanto aderente e la indossò. Davanti allo specchio sul retro della porta del bagno si arruffò i capelli con le dita, dando al suo taglio classico un aspetto disordinato, da cattivo ragazzo. Poi sorrise. «Tony, ragazzo mio, sei un gran bel bastardo...» mormorò. «Phillip! Sei sveglio?» Il colpetto alla porta, accompagnato dalla lamentosa domanda di Lucy,
lo fece voltare di scatto. In pochi passi decisi fu alla porta. «Sono sveglio» disse, brusco, fissando la madre di Phillip. A suo parere, era colpa proprio della madre, se era così maledettamente inetto. Lucy Karnoff corrugò le sopracciglia di fronte all'abbigliamento del figlio. «Phillip, non puoi uscire vestito così. Devi accompagnare tuo padre all'aeroporto, stamattina. Domani ha un importante consulto in Irlanda, e non ha tempo da perdere.» «Può prendere un taxi. Io ho altro da fare.» Lucy afferrò il figlio per un braccio, decisa a non mollarlo finché non avesse sentito quello che aveva da dirgli. «Di qualunque cosa si tratti, può sicuramente aspettare» affermò. «Dopotutto, non è che tu debba timbrare il cartellino da qualche parte, no?» Lui strinse i pugni, e si trattenne a malapena dal colpirla. «Tu non sai un bel niente dei miei affari, perciò togliti dai piedi, vecchia.» Lucy sussultò mentre Phillip la spingeva da parte. Negli ultimi mesi aveva avuto, a tratti, comportamenti del genere, ma era la prima volta che diventava minaccioso. «Phillip! Come ti permetti?» esclamò. «Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te, il minimo che potresti...» «Phillip è morto, brutta bastarda. E lo sarai anche tu, se non stai alla larga dalla mia vita.» L'odio sul viso del figlio era pauroso, ma non quanto l'espressione dei suoi occhi. Era come guardare uno sconosciuto. E che cosa significava che Phillip era morto? Nel tempo che Lucy impiegò a riprendersi, lui era già salito in macchina e si era allontanato. L'impulso di correre a piangere da Emile era irresistibile, ma non poteva farlo. Non quando era sul punto di partire per quel viaggio così importante. Ravviandosi i capelli, scese le scale. Quando arrivò in cucina, si era convinta che l'incidente non era mai realmente accaduto. Fu solo diverse ore più tardi, quando Emile fu partito e lei fu sola con la domestica, che Lucy si concesse di ripensare agli avvenimenti della mattinata. Phillip aveva un grave problema, era chiaro. Era quasi come se in lui ci fossero due persone diverse. Quel pensiero accrebbe la sua paura. E se Phillip fosse stato ammalato, gravemente ammalato? Se fosse stato così mentalmente instabile da fare
qualcosa che avrebbe attirato su di loro l'attenzione dei media? Lucy cominciò a camminare avanti e indietro, torcendosi le mani. Non poteva succedere. Non adesso! Non quando sembrava che ogni loro movimento fosse documentato dalla stampa. Doveva fare qualcosa. Ma che cosa? Se solo il lavoro di Emile avesse potuto applicarsi ad altre malattie, a parte quelle organiche. Nei primi tempi, quando lavoravano a fianco a fianco, lei come sua assistente e segretaria, lui aveva sperimentato alcune teorie in quella direzione. Lucy si fermò, tentando di ricordare dove Emile poteva avere riposto i suoi appunti su quegli esperimenti. Forse, se lei... In pochi secondi, Lucy aveva recuperato tutta la sua razionalità. Riprese a camminare avanti e indietro, rimproverandosi di avere anche solo preso in considerazione una cosa del genere. Phillip era suo figlio, non una cavia da laboratorio sul quale fare degli esperimenti. Nell'ingresso il pendolo suonò le due. Lucy guardò fuori dalla finestra, pregando di vedere arrivare la macchina di Phillip. Non c'era niente in vista, a parte il giardiniere del loro vicino che potava una siepe. Se solo ci fosse stato Emile... Avrebbe dovuto dirgli qualcosa quella mattina, prima che partisse. Niente poteva essere più importante della loro famiglia... del loro figlio. Si lasciò cadere su una poltrona e scoppiò a piangere. Era tutto così complicato. Non era giusto. Aveva lavorato tanto per assicurarsi che avessero una famiglia perfetta... e ora questo. Che cosa doveva fare? Carney Auger si svegliò sul pavimento e, per un attimo, non riuscì a ricordare dov'era. Un sonoro russare proveniente dal letto sopra di lui bastò a fargli capire che, ovunque si trovasse, non era solo. Si sollevò sulle mani e sulle ginocchia per sbirciare sul letto, e si trovò a faccia a faccia con suo fratello Dale. «Be', diavolo» borbottò. Questo eliminava la speranza che potesse essere una donna. Irritato, allungò uno schiaffo a Dale e si mise faticosamente in piedi. Dale si svegliò spaventato, con i pugni stretti e gli occhi arrossati e vacui. «Qualcuno mi ha colpito!» urlò, svegliando anche suo fratello Freddie, che dormiva sul divano dall'altra parte della stanza. «Chiudi il becco» brontolò Freddie, tirandosi un cuscino sulla testa.
«Qualcuno mi ha colpito» ripeté Dale, fissando rabbiosamente Carney, che stava andando in bagno. Non appena la porta si fu richiusa alle sue spalle, tornò il silenzio. Dale lanciò un'ultima occhiata malevola in direzione del bagno, poi rotolò sul fianco e cercò una posizione comoda. Dopo un minuto era di nuovo addormentato. Carney, però, non era dell'umore di dormire. Aveva i nervi tesi e la testa pulsante. Aveva bisogno di un drink, e di una donna. Nudo come il giorno in cui era nato, entrò nella doccia e cominciò a lavarsi, notando il terriccio e i fili d'erba che si raccoglievano in fondo alla vasca. Doveva essere stata una bella rissa, anche se non riusciva a ricordare dov'erano stati. L'acqua calda gli diede una sensazione piacevole, mentre si insaponava, usando quasi tutta la minuscola saponetta del motel. Fu solo quando si chinò a lavarsi i piedi che ebbe un rapido flashback, il ricordo di essere caduto in avanti. Lentamente, si raddrizzò, poi rimase immobile, cercando di mettere a fuoco le immagini sconnesse che gli fluttuavano nel cervello. Mentre il vapore si alzava attorno a lui, chiuse gli occhi e vide una faccia. La faccia di una donna. Corrugò la fronte. Ma dove? Dove l'aveva vista? Respirò a fondo e si costrinse a rilassarsi. Per qualche secondo, tutto fu buio, ma poi, all'improvviso, un'altra faccia gli lampeggiò davanti. Un uomo, stavolta. Un uomo grande e grosso. C'era una pistola, e qualcuno che gridava. Carney aprì di colpo gli occhi. Si vide gettato a faccia in giù sul terreno, e poté quasi sentire il sapore del proprio sangue quando si era morsicato la lingua. Ma dove diavolo... Il campeggio. Erano rimasti al campeggio per tutta la notte, bevendo e guardando i detriti trascinati dal fiume in piena, scommettendo quante birre sarebbe riuscito a bere Dale prima di vomitare. Qualcuno, forse lui, forse Freddie, aveva suggerito di darsi una ripulita in uno dei capanni di papà, prima di fare ritorno a casa dalle rispettive mogli. Fissò la parete, senza vedere la muffa fra le piastrelle né sentire l'acqua che scorreva nei tubi rugginosi. Un clacson risuonò fuori dalla finestra del bagno. Con un sussulto, Carney si voltò verso il suono, e in quel momento ricordò. Quella dannata sgualdrina! Aveva strillato come se stessero per assassinarla, ed era saltato fuori quel bastardo. Lui aveva cercato di spiegare che stava solo scherzando, ma nessuno aveva voluto ascoltarlo. Quel figlio di
buona donna mezzo nudo lo aveva gettato a terra e lo aveva minacciato di sparargli se faceva un solo movimento. Carney lasciò cadere la saponetta nella vasca e chiuse il rubinetto, poi agguantò un telo di spugna e cominciò rabbiosamente ad asciugarsi. Ancora gocciolante, uscì dal bagno, sbattendo la porta contro il muro. Quando Dale balzò dal letto con i pugni stretti, Carney sbuffò. «Puzzi, fratellino. Vai a lavarti. Io devo andare in un posto.» Freddie rotolò su se stesso e guardò il fratello con disgusto. «In caso tu lo abbia dimenticato, sei al verde, e io non intendo darti un centesimo per pagare droga o alcol.» «Non voglio droga» ribatté Carney. «Voglio vendetta.» Stavolta, Freddie si alzò a sedere. Aveva visto altre volte quell'espressione sul viso di Carney. «L'ultima volta che hai voluto vendetta, sei finito in galera. Per caso vuoi tornarci?» gli domandò. Carney non esitò. «Nessuno mi mette faccia a terra e vive abbastanza a lungo per raccontarlo.» Dale impallidì. «Io non voglio avere niente a che fare con un omicidio.» Carney sbuffò. «Non ricordo di avertelo chiesto, fratellino. Adesso vestiti. E anche tu, Freddie. Ho voglia di fare una visita a papà.» «Puoi lasciarne fuori anche me» ritorse Freddie. Carney si voltò verso il fratello e sogghignò. «Niente da fare. Mi ci porterai tu. Io non posso guidare, dopo l'ultima diffida per guida in stato di ebbrezza, ricordi?» «No e poi no» affermò Freddie. «Sei pieno di droga fino agli occhi. Lascia perdere.» Il sogghigno di Carney si allargò. «Chissà che cosa direbbe Wanda se sapesse che il suo caro, piccolo Freddie se la intende con la cassiera del Supermart?» Freddie avvampò per la rabbia, alzandosi. «Il giorno in cui sei nato, papà avrebbe dovuto metterti in un sacco di iuta, come ha fatto una volta con i miei cuccioli, e gettarti nel Tallahatchie.» Gli occhi di Carney si strinsero. «Forse, ma non l'ha fatto. E ora, vuoi fare come ti ho detto, o vuoi andare nell'ufficio del motel a pagare per tutto il mese? Perché, se sarò costretto
a parlare, Wanda non ti farà mai tornare a casa.» Freddie andò in bagno e si sbatté la porta alle spalle. Carney guardò Dale. Lui impallidì visibilmente, poi cominciò a raccogliere i propri indumenti. «Sei tu quello che papà avrebbe dovuto affogare» dichiarò Carney. «Io vado qui di fronte a prendere un caffè. Dammi un po' di soldi.» Dale lasciò cadere il portafogli sul letto fra loro, e trasalì quando Carney tirò fuori le banconote e poi lo gettò da parte. «Mi hai preso i soldi della benzina, Carney. Ne ho bisogno per andare al lavoro la prossima settimana.» Carney non lo degnò di una risposta e uscì dalla stanza, sbattendo anche lui la porta. Dale borbottò un'imprecazione al suo indirizzo, ma aspettò, prudentemente, che fosse troppo lontano per sentirla. «Aspetti» disse Ginny, e si fermò sotto un albero. «C'è qualcosa che mi punge una caviglia.» «Mi faccia vedere» rispose Sully. Si accosciò davanti a lei. «Metta il piede sul mio ginocchio.» «Ho le scarpe infangate, le sporcherò i pantaloni.» Lui alzò gli occhi. «Si possono lavare.» Ginny fece come le aveva detto, tenendosi in equilibrio e appoggiandogli la mano sulla spalla, mentre lui si sistemava il suo piede sul ginocchio. Camminavano da quasi un'ora, parlando di ciò che Ginny ricordava delle altre sei bambine di quella classe maledetta, ma senza grandi risultati. Erano molto piccole, ed era passato tanto tempo. Una folata di brezza le sollevò i capelli sul collo. Ginny si morse il labbro e cercò di non concentrare l'attenzione sull'ampiezza delle spalle di Sullivan Dean, mentre lui le faceva scivolare un dito fra la calza e la pelle. «Ecco qui» mormorò Sully, alzando gli occhi. «Una spina aveva trapassato la calza. Va meglio?» Ginny si trovò a fissarlo... aspettandosi, inconsciamente, da lui qualcosa di più delle sole parole. Finalmente, si rese conto che le aveva fatto una domanda. «Scusi, come ha detto?» «La caviglia... va meglio?» «Sì, grazie» rispose Ginny, e distolse gli occhi. «Il fiume dev'essere vi-
cino.» Sully cercò di non darlo a vedere, ma il suo livello di frustrazione con quella donna stava crescendo. Un momento era amichevole e disinvolta con lui, e il momento dopo sembrava nervosa e distante. Era stanco di camminare sulle uova, quando era con lei. «Virginia?» Quell'espediente attirò l'attenzione di Ginny. «Preferirei che non...» «So tutto su quello che non piace a lei» la interruppe Sully, brusco. «Quello che non so è che cosa faccio io di sbagliato. Se l'ho offesa, oppure ho ferito in qualche modo i suoi sentimenti, le chiedo umilmente scusa.» Ginny parve stupita. «Ma no, certo che non mi ha offesa. Perché dice questo?» «Per il modo in cui si comporta. Se non l'ho offesa, allora che cos'è? Dobbiamo passare questo tempo insieme, che le piaccia o no, e sarebbe molto più facile per tutti e due se mi dicesse quando devo smetterla, anziché chiudersi come un'ostrica e cambiare discorso.» Ginny sospirò. Sully la rendeva nervosa, ma non sapeva perché, perciò, come poteva spiegarglielo? «Non è lei» disse. «Lo giuro.» Gli fece scivolare una mano nella piega del gomito e tirò leggermente. «Proseguiamo. Rifletto meglio mentre mi muovo.» «Sì, anch'io» convenne Sully. «Vede, abbiamo qualcosa in comune» commentò lei. «Avevamo già qualcosa in comune» ribatté Sully. Ginny si fermò. «Che cosa?» «Georgia. L'ha dimenticato? È lei la ragione per cui sono qui.» Gli occhi di Ginny si colmarono di lacrime. «Non dimentico niente» disse, brusca, e riprese a camminare senza guardare se la seguiva. Ma Sully la seguì. «Parliamone, Ginny. Parliamo di quello che ha in mente. Perché continua a cambiare atteggiamento con me, un po' caldo, un po' freddo? Così non va bene, sa. Non posso proteggerla, se non si fida di me.» Ginny esitò, poi si voltò e lo affrontò, sollevando il mento con aria decisa. «Io mi fido di lei.»
«E allora, che cos'è?» «Non sono abituata ad appoggiarmi a qualcuno, tranne a me stessa. Sono stata sola per la maggior parte della mia vita adulta. I miei genitori sono morti. Ho pochi parenti, e non li vedo mai.» «Non c'è qualcuno... non so... una persona speciale? Forse un uomo, nella sua vita? È di questo che si tratta?» Nel momento in cui pose la domanda, Sully si trovò a trattenere il respiro, per timore della risposta che sarebbe giunta. Ginny sbuffò in un modo assai poco da signora. «L'ultimo uomo che ho avuto nella mia vita andava a letto con la vicina di fronte. È stato quattro anni fa, e da allora non mi sono più scomodata ad approfondire la conoscenza con qualcuno.» Sully si sentì in colpa per l'impeto di gioia che provò nel sapere che era libera. «Dev'essere stato duro.» Lei si strinse nelle spalle. «Ho imparato una lezione, quel giorno, e non ho alcuna intenzione di ripetere l'errore.» Nel momento in cui lo disse, Ginny seppe qual era il problema. Si teneva a distanza da Sullivan Dean perché era attratta da lui e non voleva esserlo. Non voleva più essere ferita nello stesso modo. Sully le prese la mano e la strinse leggermente mentre riprendevano a camminare. Sorpresa dalla sensazione delle dita di lui che si incurvavano attorno al suo palmo, Ginny quasi inciampò. Ma Sully l'afferrò sotto il gomito e la sorresse senza fare commenti, poi proseguì, sempre tenendola per mano. Un paio di minuti dopo, si fermò di colpo e si voltò. Ginny liberò la mano, guadagnandosi un'altra occhiata dura, che ignorò puntigliosamente. «Sono curioso» disse lui. «Non ho mai sentito Georgia parlare di lei, eppure dovete essere state molto amiche, in qualche momento della vostra vita.» «Neppure io ho mai sentito Georgia parlare di lei, ma è evidente che le voleva molto bene.» «Suo fratello Tommy era, ed è, il mio migliore amico. Li ho conosciuti quando si sono trasferiti nel Connecticut. Georgia aveva quasi sette anni, mi pare.» Ginny spalancò gli occhi. «Ma allora è stato poco dopo l'incendio alla Montgomery Academy. Pri-
ma, abitavamo a porta a porta. Quando traslocarono, andavo ugualmente a trovarla in estate, e siamo state compagne di stanza al college per un semestre, fino a quando io non ho cambiato facoltà.» «È strano che non ci siamo mai incontrati. Sono stato a trovare Georgia al college più di una volta.» Ginny corrugò la fronte. «C'era un tizio per cui aveva una cotta, ricordo. Solo che era più grande di lei, e Georgia diceva che non la vedeva neppure.» Sully abbassò gli occhi. «Dovevo essere io. La vedevo, eccome, ma non come una possibile innamorata. L'avevo vista crescere, santo cielo. Per me, era solo la sorellina di Tommy.» Ginny scosse la testa. «Che ironia. Un tempo, ho avuto una cotta per Tommy. Avevo nove o dieci anni, credo. È durata fino a quando non mi ha messo un grillo nel taschino della camicetta. Dopo, ho cominciato a pensare che i ragazzi erano stupidi.» L'angolo della sua bocca si sollevò in un mezzo sorriso. «Qualche volta, lo penso ancora.» Sully scoppiò a ridere, e il cuore di Ginny mancò un battito. Era la prima volta che lo vedeva realmente ridere, e il suo aspetto cambiava completamente. «Dovrebbe farlo più spesso» commentò. «Che cosa?» «Ridere. Le dona.» Disgustata con se stessa per quell'affermazione, Ginny stava per distogliere lo sguardo quando la mano di Sully le si posò all'improvviso sulla sua guancia. «Ecco che lo sta facendo di nuovo» disse lui. «E non finga di non sapere di che cosa sto parlando. Ha detto qualcosa di carino, e ora drizza tutti gli aculei. Che cosa sta pensando?» Gli occhi di Ginny si strinsero. «Credevo che fosse la mia guardia del corpo, non il mio psicanalista.» «Ginny.» Lei sospirò. «Non ha niente a che vedere con lei» borbottò. «Sono io.» «Non sono d'accordo. Sono io che subisco i suoi atteggiamenti, dolcezza.» Il sarcasmo nella voce di Sully fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Ginny si voltò di scatto, con i pugni stretti. «Vuole sapere che cosa c'è?» chiese, con voce tremante di collera. «Glielo dico subito, che cosa c'è! Sono attratta da lei, e non voglio esserlo. Qualcuno sta cercando di uccidermi, e io mi prendo una cotta per un federale che sparirà dalla mia vita un attimo dopo che tutto questo sarà finito! Ecco che cosa c'è! Sono sicura che è quella... quella... quella sindrome cinese, ma questo non mi fa sentire affatto meglio!» «Di Stoccolma» borbottò Sully, troppo stupefatto per dire di più. «Di che sta parlando?» scattò Ginny. «La sindrome cinese era un film. Credo che lei intendesse la sindrome di Stoccolma, quando una vittima sviluppa un'attrazione romantica per il suo rapitore.» Ginny alzò le mani in un ironico gesto di sconfitta. «Oh, bene! Grazie per avermi corretta mentre rimedio la figura dell'idiota, il che non fa che sottolineare la mia stupidità!» Avendo detto tutto quello che poteva dire senza scoppiare in lacrime, Ginny girò rabbiosamente sui tacchi e si diresse verso il capanno a testa alta e a passo deciso. Sully rimase a guardarla allontanarsi. La sola alternativa era spararsi subito e smettere di soffrire, ma non era ancora pronto a togliersi di mezzo. Non ancora. Non quando la donna più carina che avesse incontrato in molti anni aveva appena affermato di essere attratta da lui. Un lento sorriso cominciò a disegnarsi sulle sue labbra. Maledizione. Le piaceva. Le piaceva sul serio. Certo, avrebbe dovuto trovare un modo per vincere i suoi rancori, e ne aveva parecchi. Ma lui amava le sfide. Le aveva sempre amate. E trovare il modo per superare le diffidenze di Virginia Shapiro poteva dimostrarsi la più grossa sfida della sua vita. Quando si rese conto di averla quasi persa di vista, si mosse per seguirla. Mentre tornava sul sentiero, uno sterpo si spezzò fra gli alberi alla sua destra. Si fermò, guardando con curiosità fra i cespugli. Quando un coniglio balzò all'improvviso fuori dal sottobosco, si rilassò. Non gli passò per la mente che il coniglio era troppo piccolo per produrre quel genere di rumore. I suoi pensieri erano concentrati su Ginny. Carney tirò un sospiro di sollievo quando l'uomo grande e grosso si allontanò. Era stato sul punto di rovinare tutto, e se non fosse stato per quel dannato coniglio... Era stato troppo lontano da Ginny e Sully per sentire quello che si dicevano, ma aveva visto abbastanza per capire che stavano litigando. Aveva
anche visto abbastanza per cambiare idea circa la sua vendetta. Avrebbe conciato male l'uomo... molto male. Ma non prima di avergli portato via la sua donna. Un uomo era più vulnerabile quando era innamorato. «Ti pentirai amaramente» brontolò, aspettando fino a quando Sully non fu fuori vista. «Appena farà buio, rimpiangerai di essere nato.» CAPITOLO 8 Benché fossero passate ore dalla loro discussione nei boschi, Ginny stava ancora sulle sue, e Sully era abbastanza intelligente da non insistere sull'argomento. Invece, l'aveva messa a sedere come se fosse stata un'indiziata di qualche delitto e l'aveva torchiata spietatamente sui più minuti dettagli della sua infanzia. L'interrogatorio era stato faticoso e sgradevole, eppure, in qualche strano modo, aveva calmato i nervi di Ginny, contribuendo a rammentarle perché erano là insieme, e che cosa era necessario fare perché quell'incubo finisse. Comunque, non avevano scoperto niente di nuovo. La sola cosa che Sully riteneva strana era il fatto che Ginny ricordasse così poco della classe speciale alla Montgomery Academy. A parte il fatto che si riuniva una volta alla settimana, e solo per un'ora, non riusciva a ricordare nulla di ciò che avevano studiato, e neppure perché lei era stata scelta. Era una bambina normale, senza particolari talenti o abilità, e certo non un genio. Per la verità era piuttosto malaticcia, soffrendo di periodici attacchi di asma che, per fortuna, erano diventati sempre meno gravi, ed erano del tutto scomparsi prima che Ginny raggiungesse l'adolescenza. Finalmente, Sully aveva smesso, e Ginny era andata in cucina a preparare dei panini. Lui si era offerto di aiutarla, ma aveva ricevuto un netto rifiuto. Invece di offendersi, aveva sorriso. E così, la innervosiva. Bene. Sempre meglio che essere ignorato. «Vuole del caffè?» chiese Ginny, mentre preparava i panini. «Preferirei una birra, ma mi accontenterò di una Coca.» «Quello di cui si dovrà accontentare è ciò che abbiamo.» Il sarcasmo irritò Sully abbastanza da renderlo incauto. «Mi sembra una proposta interessante» commentò. «Dal mio punto di vista, lei ha tutto il necessario. Ne prenderò un po'.» Ginny si immobilizzò, con le spalle voltate, una fetta di pane in una mano, un coltello nell'altra. Si sorprese a sorridere, poi si affrettò a ricomporsi prima che lui la vedesse. Sully non si lasciava mettere sotto i piedi, la ri-
cambiava della stessa moneta. Era qualcosa che aveva sempre ammirato in un uomo. Si voltò, con espressione blanda. «Non si faccia illusioni, agente Dean. Può darsi che sia attratta da lei, ma non sono in calore. Vada a versarsi un bicchiere di quello che vuole e si sieda su quella sedia. Il pranzo è pronto.» Il sorriso di Sully si allargò mentre le passava accanto per andare a prendere due bicchieri in un armadietto, e poi a sbirciare in frigorifero. «Latte, succo d'arancia... Ehi! Questi me li aveva nascosti» disse, tirando fuori un paio di quartini di vino. Ginny posò i panini sul tavolo e spinse Sully da parte per prendere i piatti. Lui si spostò senza fretta, di proposito, traendo un infantile piacere dalla morbida rotondità delle sue parti posteriori che gli sfioravano la coscia. «Ne vuole una?» chiese, mostrandole una bottiglia. «No, grazie. Bevo latte.» «Buon Dio» brontolò lui, rimettendo una bottiglia in frigorifero e tirando fuori la caraffa del latte. «Davvero le piace questa roba?» «Non ho l'abitudine di mettermi in bocca cose che non mi piacciono. Credo di avere superato quello stadio verso i due o tre anni.» Sully fissò le sue labbra, immaginando di baciarla e chiedendosi che reazione avrebbe suscitato... chiedendosi se i suoi baci sarebbero stati pepati come le sue parole. Ginny gli porse il proprio bicchiere, ma lui sembrava avere la testa altrove, perciò gli prese di mano la caraffa e si versò il latte. «Salute» disse, sollevando il bicchiere, prima di bere un sorso. «Mmh... buono e freddo. Avanti, agente, mangiamo.» Si sedette al tavolo, si mise la metà di un panino nel piatto e vi aggiunse una manciata di patatine, prelevandole da un sacchetto che lei aveva appena aperto. Sully si riscosse. Svitò il tappo del vino e prese posto sull'altra sedia, mettendosi nel piatto due mezzi panini e voltando verso di sé il sacchetto delle patatine, per avere un accesso migliore all'apertura. Ficcò dentro la mano, ne tirò fuori un pizzico e se le mise in bocca tutte assieme. «Buone» bofonchiò, masticando. Ginny sollevò un sopracciglio. «Perché non le ho fatte io.» Sully sorrise divertito e addentò il panino. Qualcosa scricchiolò, mentre masticava, e questo lo stupì. Non l'aveva vista metterci dentro altro che maionese, mortadella e formaggio. «Oh... c'è qualcosa che scricchiola» osservò.
«Devono essere i ravanelli.» Sully inghiottì il boccone e poi posò il panino sul piatto, chiedendosi come sezionarlo senza offenderla. Lei gli risparmiò la fatica. «Se non le piacciono, basta toglierli.» Sully annuì, sollevò la fetta superiore di pane e cominciò a togliere i cerchietti bianchi, orlati di rosso, appiccicati alla maionese. «Ginny... non se la prenda a male, ma posso chiederle una cosa?» Lei annuì, senza smettere di masticare. «Non ho detto che non mi piacciono. Solo non li avevo mai mangiati con mortadella e formaggio.» «Davvero?» Sully annuì. «Perciò... ecco, perché prepara i panini in questo modo?» Lei aprì il proprio panino e indicò. «Si tratta semplicemente dei gruppi base di alimenti. Pane e came, s'intende. Il formaggio è a base di latte, oltre a essere un'altra fonte di proteine. La maionese è un grasso, e i ravanelli sono verdure. Poi ho delle mele, come frutta. Perciò... pane, carne, latte, verdura, frutta e grassi. Un pasto equilibrato, giusto?» A corto di parole, Sully la guardò ricomporre il panino e addentare un altro boccone. Anche dal punto in cui era seduto poteva sentire il lieve scricchiolio dei ravanelli, mentre masticava. Guardò il panino che aveva nel piatto, si strinse nelle spalle e cominciò a rimettervi dentro i ravanelli che aveva tolto. «Cambiato idea?» chiese lei. «Paese che vai...» borbottò Sully, poi addentò un altro boccone e cominciò a masticare. Il cuore di Ginny diede un balzo. In vita sua, nessun uomo aveva mai finito di mangiare un pasto preparato da lei, neppure suo padre, che l'aveva amata sopra ogni cosa al mondo. Sullivan Dean non lo sapeva, ma la sua bianca armatura stava diventando sempre più lucente. Loro due stavano mangiando la frutta quando furono disturbati da una serie di rapidi colpi alla porta. Sully era già in piedi e stava andando alla porta prima ancora che Ginny potesse muoversi. Lui sbirciò attraverso la tenda, poi si voltò per farle cenno che andava tutto bene. Era il gestore, Marshall Auger. «Volevo solo accertarmi che andasse tutto bene prima di fare una corsa a
Wingate.» «Sì, tutto bene» disse Sully. Il vecchio cercò di sbirciare sopra la sua spalla, ma con scarsa fortuna. Sully si era posizionato direttamente fra Ginny e il mondo esterno. Il cuore di lei mancò un battito davanti all'immagine di Sully che si stagliava, alta e possente, nel riquadro della porta, le gambe leggermente divaricate, le mani appoggiate ai due stipiti, come se li reggesse. In un momento di collera, gli aveva detto che era la sua guardia del corpo, non il suo psicanalista, e adesso si vergognava nel rendersi conto che era esattamente quello che lui si era proposto di essere. «Be', allora vado. Non starò via più di due o tre ore. Se succedesse qualcosa, c'è un telefono pubblico proprio fuori dall'ufficio» borbottò Auger. «Sì, grazie» rispose Sully. «Staremo benissimo.» «Okay... a più tardi.» Sully stava per chiudere la porta quando il vecchio l'afferrò all'improvviso, tenendola aperta. «Quasi dimenticavo» disse. «Volevo chiedere... per quanto tempo pensate di restare?» Sully corrugò le sopracciglia. «Glielo farò sapere» rispose. Gli chiuse la porta in faccia, poi lo guardò dalla finestra finché non si fu allontanato. A quel punto si voltò verso Ginny, e si accorse che stava portando le stoviglie in cucina. «Ehi» disse, «lei ha cucinato, io lavo i piatti.» «Ho sporcato un coltello, due bicchieri e due piatti. Questo non è cucinare.» Sully le mise un dito sotto il mento, sollevandole il viso fino a quando lei fu costretta a guardarlo negli occhi. «Mi ha preparato da mangiare.» «E lei si prende cura di me.» Quelle parole sommesse lo colsero di sorpresa. «Ed è il miglior lavoro che abbia mai avuto in vita mia» ribatté. Poi le prese il viso fra le mani e le sfiorò la fronte con le labbra. Ginny si immobilizzò. Sentire la bocca di lui sulla pelle era inebriante. Quando Sully alzò la testa, nei suoi occhi c'era una luce di desiderio inconfondibile. A suo credito, e con una certa delusione di Ginny, non diede voce a quello che stava pensando, e il momento passò, lasciando fra loro un
silenzio imbarazzato. «Vada a riposare un po'. Legga un libro. Io laverò questi piatti, e poi devo fare alcune telefonate, okay?» Ginny avrebbe voluto passargli le braccia attorno alla vita e appoggiargli la testa sul petto. Invece, annuì. Provando il bisogno di frapporre una certa distanza tra loro, Sully le voltò le spalle e cominciò a far scorrere l'acqua nel lavello. Lei rimase a guardarlo per un momento, poi uscì dal piccolo locale. Quando Sully ebbe finito, lei era distesa sul letto, fingendo un grande interesse per un libro. «Torno subito» le promise, uscendo. Ginny annuì senza alzare gli occhi. Ancora una volta, si era rifugiata nel suo guscio, ma non così lontano come prima. Sperando di apprendere qualcosa di nuovo da Dan Howard, Sully si sedette sul gradino per fare qualche telefonata. Stava per comporre il numero quando credette di vedere un movimento fra gli alberi, dalla parte opposta del posteggio, ma, guardando più da vicino, decise che si era trattato solo di alcuni uccelli che volavano da un albero all'altro. Per maggiore cautela osservò la scena per un po', fino a quando non si fu convinto che non c'era niente di anormale da vedere. Quello che notò fu che un altro paio di bungalow era stato affittato. C'era un fuoristrada con una barca sul rimorchio davanti a uno di essi, e una jeep accanto all'altro. Entrambi i veicoli erano carichi di attrezzi da pesca, ma anche se il livello del fiume stava scendendo, Sully non immaginava che si potesse pescare qualcosa, con l'acqua che scorreva così veloce. Dopo alcuni minuti, cinque uomini uscirono dai due capanni, e cominciarono a trasferire l'attrezzatura sul fuoristrada. Quando videro Sully, lo salutarono con cenni amichevoli, ma distanti, e partirono, seguendo una stretta strada sterrata che, passando dietro ai capanni, conduceva direttamente al fiume. Persuaso che tutto andasse bene, Sully fece le sue telefonate. Dan Howard non aveva niente di nuovo da dirgli, e neppure il detective Pagillia di St. Louis. L'unica notizia era che avevano messo sotto controllo i telefoni di Ginny, sia a casa, sia in ufficio, ma per il momento senza alcun risultato. Quando chiuse la comunicazione e rientrò nel capanno, Sully si sentiva più frustrato che mai. Stava per rivolgere la parola a Ginny, quando aprì la porta, ma dimenticò immediatamente quello che stava per dire.
Si era addormentata. Il libro era sul pavimento, e lei si era raggomitolata su se stessa, con i piedi nascosti sotto un guanciale e le mani strette sotto il mento, come se avesse freddo. Sully chiuse silenziosamente la porta e si avvicinò al letto. La solitudine della sua vita lo colpì, mentre la guardava dormire. Come sarebbe stato essere libero di scivolare nel letto accanto a lei e avvolgere il proprio corpo attorno al suo come uno scudo... per scaldarle il corpo e l'anima, senza il pensiero delle conseguenze e senza ostilità? Invece di cedere all'impulso, le tirò una coperta sulle spalle e uscì dal capanno, finché aveva ancora il buonsenso di farlo. Carney era accaldato, stanco e nauseato come un cane assalito da una puzzola, il che serviva solo a farlo arrabbiare ancora di più. Freddie e Dale lo avevano scaricato a circa quattrocento metri dal campeggio gestito dal loro padre, e lo avevano lasciato a covare la sua vendetta, giurando che loro due non volevano averci nulla a che fare. Perdipiù, il suo vecchio gli aveva rifiutato un capanno, affermando che aveva bisogno di tenerli liberi per affittarli. Carney se n'era andato dall'ufficio sbattendo la porta e si era addentrato nei boschi, borbottando un: «All'inferno tutti quanti». Avrebbe dato il fatto suo a quel figlio di buona donna dell'ultimo capanno, e poi avrebbe lasciato per sempre il Mississippi. Non c'era niente per lui, là, a parte altra rabbia. Se un uomo non poteva contare sulla sua famiglia, allora non poteva contare su nessuno. Quanto a sua moglie, non gli importava di non vederla mai più. Tutto quello che faceva era tormentarlo perché trovasse un lavoro decente. Fiamme dell'inferno, non era colpa sua se i conciatetti non avevano orari regolari come tutti gli altri. Il loro lavoro dipendeva dal tempo, e quando pioveva o faceva freddo non si lavorava affatto. Mentre se ne stava seduto rimuginando sui suoi rancori e lottando contro un mal di testa infernale vide il suo vecchio uscire di casa e dirigersi verso l'estremità della fila di capanni. Pochi minuti dopo tornò indietro, salì in macchina e si allontanò. Carney si alzò di scatto, sogghignando. Dopo essersi accertato che nessuno lo osservava, girò attorno alla casa di suo padre e si intrufolò dalla porta posteriore. La casa puzzava di grasso di pancetta bruciato e di legna umida, muffita, ma Carney non era schizzinoso. Sapeva dove suo padre teneva il liquore, e aveva bisogno di bere. Dopo due rapide dosi di bourbon
cominciò a frugare nel frigorifero in cerca di qualcosa da mangiare. Infine, si sistemò in soggiorno, sulla sdraio di Marshall, prese il telecomando e accese il televisore. Tanto valeva divertirsi un po', mentre aspettava il buio. Conosceva le abitudini del vecchio, e c'erano buone probabilità che non tornasse per almeno due o tre ore. Con l'aria fresca che circolava nella piccola stanza polverosa e lo stomaco pieno di liquore e di cibo, Carney si appoggiò all'indietro e chiuse gli occhi. Quando si svegliò, era quasi il crepuscolo. Si stiracchiò sulla sdraio e si grattò la testa, cercando di stabilire perché si era svegliato così bruscamente. Nello stesso momento sentì la portiera di un'auto sbattere e si alzò a sedere di scatto. Papà era a casa! Frugò intorno alla ricerca del telecomando che gli era caduto in grembo e spense il televisore, poi scivolò fuori dalla porta posteriore mentre suo padre entrava da quella principale. Muovendosi rapidamente, si diresse verso gli alberi dietro i capanni e sparì. Non appena fu certo di non essere stato visto, tornò indietro facendo un lungo giro nei boschi, fino a quando non si trovò direttamente dietro il capanno di Ginny. Là si dispose ad aspettare. Dopotutto, era solo questione di tempo, prima che facesse una visitina a quella donna. Un sorriso crudele gli si dipinse sul viso al pensiero del suo corpo snello e delle lunghe gambe. Stavolta, le avrebbe dato una buona ragione per strillare. Il telefono di Sully trillò mentre stava tagliando le verdure per l'omelette che aveva intenzione di cucinare. Senza riflettere, gridò da sopra la spalla: «Ehi, Ginny, può rispondere?». Nel momento in cui le parole gli uscirono di bocca, stava già correndo, con il coltello ancora in mano. «Mi scusi, mi scusi» disse, agguantando il telefono dal tavolo. «Non ci ho pensato.» «Non si preoccupi, ci ho pensato io» borbottò lei, guardando il cellulare come se fosse stato un serpente. Gli tolse di mano il coltello e andò in cucina. «Tagli solo le verdure!» le gridò dietro Sully. «Il resto lo farò io.» Ginny sorrise fra sé, senza fermarsi. Sully aveva proprio captato il messaggio a proposito delle sue abilità culinarie. Prese il peperone che lui stava affettando e continuò il lavoro. E così, lei non sapeva cucinare troppo bene. E allora? Forse, quando quella storia fosse finita, avrebbe seguito un corso di cucina. Non era che non sapesse seguire una ricetta. Più che altro, trascurava di leggerle. Di solito, ricorda-
va gli ingredienti di un piatto, ma erano le dosi e i tempi di cottura che la mettevano in crisi. Finito di tagliare le verdure, posò il coltello sul piano di lavoro e si sciacquò le mani. Mentre si voltava per asciugarsele, notò l'espressione di Sully e fece qualche passo avanti per cercare di sentire la conversazione, ma poi lui riattaccò. Fu allora che la vide. «Che c'è?» chiese Ginny. Sully respirò a fondo, giudicando l'espressione del suo viso a fronte di ciò che aveva da dirle. Sarebbe stata colta dal panico, o era solo un altro fatto da aggiungere alla confusione di ciò che già sapevano? «Ho il diritto di sapere» asserì lei. «Non ho alcuna intenzione di tenerla all'oscuro» ribatté lui, e gettò il telefono sul letto. «E allora? Era l'agente Howard?» «No, era Pagillia, della polizia di St. Louis.» Sully la guardò. «Sapeva che hanno messo sotto controllo il suo telefono di casa e quello dell'ufficio?» Ginny scosse la testa. «Be', l'hanno fatto. Pagillia dice che sono entrati in casa sua, hanno riattaccato il telefono e acceso la segreteria. Ci sono state quattro chiamate, negli ultimi due giorni, e ogni volta chiunque fosse a chiamare, ha riattaccato.» Ginny rabbrividì e si strinse inconsciamente le braccia attorno al corpo. «Sono riusciti a rintracciarle?» «No.» «Non posso credere che al giorno d'oggi non ci sia un modo per scoprire almeno da dove vengono le telefonate.» «Pagillia ha detto qualcosa a proposito di un blocco all'altro capo della linea. Comunque, possono confermare che le chiamate provenivano da un altro stato.» Ginny si lasciò cadere sulla sponda del letto. Sully le posò una mano sulla testa. «Tutto bene?» chiese a bassa voce. Lei sospirò, poi alzò gli occhi e annuì. «C'è qualcosa che posso fare per lei?» chiese Sully, desiderando con tutto il cuore di poter far sparire la disperazione che le leggeva negli occhi. Ginny si costrinse a sorridere. «Forse darmi da mangiare?» si azzardò a proporgli. «Solo se mi tiene compagnia» si affrettò a ribattere lui. Sully le tese la mano, aspettando. Lei mise la mano nella sua, assorben-
do la sua forza mentre le stringeva le dita attorno al polso delicato e la tirava gentilmente in piedi. Pochi minuti dopo, lui le fece scivolare nel piatto una perfetta omelette e cominciò a cuocerne una per sé. «Non mi aspetti» le disse. «Si raffredda.» Ginny prese la forchetta e cominciò a mangiare, sospirando di soddisfazione quando sentì sulla lingua il sapore delle uova e del formaggio fuso. Le verdure saltate all'interno erano cotte alla perfezione, come i crostini di pane tostato che Sully aveva preparato per accompagnare l'omelette. «Sa, se mai decidesse di lasciare lo zio Sam, potrebbe aprire un ristorante. È davvero bravo» si complimentò lei. Sully si voltò, con la paletta in mano. «Sono bravo a fare una quantità di cose, Ginny...» mormorò. Lei lo fissò a bocca aperta, con nella mente un turbinio di possibilità risvegliate dal suo commento. Sully ammiccò, tornando al suo lavoro. Con calma, ripiegò l'omelette sopra la farcitura e la fece scivolare nel proprio piatto. Si mise a sedere e prese la forchetta, poi sorrise con aria innocente. «Che c'è? Già sazia?» Lei lo incenerì con lo sguardo e gli puntò contro la forchetta. «Non tenti questi giochetti con me, agente. Li ho già sentiti tutti.» Sully sorrise e tagliò un grosso boccone, alzando gli occhi al cielo in segno di esagerato apprezzamento mentre lo masticava. Ginny provò l'impulso di rovesciargli il contenuto del piatto in grembo, ma era troppo affamata per sprecarlo, perciò si accontentò di una seconda occhiataccia e riprese a mangiare. Finirono la cena in relativo silenzio. Fu solo mentre riordinavano che Sully lasciò cadere un'altra bomba. «Mi parli di Yellowstone» disse. «Qual è la parte che le è piaciuta di più?» Ginny si immobilizzò, con le mani ancora nell'acqua dei piatti, poi, lentamente, si voltò a guardarlo. «Come diamine sa che io sono stata a Yellowstone?» gli domandò. «Ho visto la foto in casa sua.» «Lei è stato a casa mia?» L'indignazione nella voce di Ginny era inequivocabile. «La stavo cercando, ricorda?» «Ma perché...»
Sully la prese per il polso, gentilmente. «Virginia, lei non capisce. Quando non ha risposto al campanello, ho avuto paura.» Abbassò gli occhi, ricordando, poi scosse la testa, come per liberarsi dall'apprensione che aveva provato. «Non potevo andarmene in un albergo senza sapere se lei stava bene, okay?» «Oh, giusto.» «E allora, che mi dice di Yellowstone?» Ginny sospirò. «Sembra che sia passata una vita. Mamma e papà rimasero uccisi quello stesso anno, poco prima di Natale.» «Mi dispiace. Come successe?» La vecchia rabbia ribollì dentro di lei. «Era così facile da prevenire. Una perdita di monossido di carbonio dall'impianto di riscaldamento della loro casa. Sono morti nel sonno.» Non c'era niente da dire, perciò Sully lasciò che continuasse. «Ci eravamo tanto divertiti, quell'estate. Era la prima volta dopo anni che facevamo qualcosa insieme... come una famiglia, voglio dire. Passammo due settimane in una locanda a Yellowstone, e avevamo in programma di tornarci l'anno seguente.» Ginny si strinse nelle spalle e guardò Sully, sostenendo per la prima volta il suo sguardo. «Comunque, ho quella fotografia per ricordo, ed è una delle cose che mi sono più care.» «Mi dispiace» ripeté Sully, e aprì le braccia. «Ha voglia di un abbraccio?» Il mento di Ginny tremò. Poi, lei annuì. Il solo modo in cui avrebbe potuto descrivere la sensazione di essere fra le braccia di Sully sarebbe stato dire che lui l'avvolse completamente. La saldezza del suo corpo e il battito forte e regolare del suo cuore erano il baluardo fra lei e la disfatta. Rimasero così a lungo, senza parlare, ciascuno abituandosi alla sensazione di essere così vicini, e chiedendosi come sarebbe stato trasformare quell'abbraccio in qualcosa di più. Poi, Sully sussultò all'improvviso. Afferrando Ginny per le braccia, si staccò da lei. «Diavolo! Non posso credere di essermene dimenticato.» «Dimenticato di che cosa?» chiese lei. «L'annuario!» rispose Sully. «Bell'agente federale che sono. Mi sono completamente dimenticato dell'annuario di Georgia. L'ho in macchina.» «Quale annuario?» «Un annuario della Montgomery Academy.»
Ginny spalancò gli occhi per la sorpresa. «Oh, mio Dio! Non credo di avere mai neppure saputo che ne esistesse uno.» «Era fra le cose di Georgia rinvenute al convento. A quanto pare aveva chiesto a sua madre di mandarglielo, ma è morta prima che arrivasse.» «È sicuro che sia proprio quello dove ci siamo noi? Sa, la scuola andò a fuoco prima della fine dell'anno scolastico.» «Sì, sono sicuro. L'ho vista nella foto della sua classe.» Sully le tirò un ricciolo. «Era maledettamente carina, se non si bada al sorriso sdentato.» «Avanti, si diverta» brontolò Ginny. «Scommetto che le sue foto di prima elementare non sono affatto meglio.» «Peggio, anzi» ammise lui. «Avevo un occhio nero e un cerotto sul naso, grazie a un nuovo skateboard e a un cancello chiuso.» Ginny sorrise. «Ahi.» «Già, proprio ahi. Ma l'occhio nero era fantastico. Divenne un arcobaleno di colori diversi, prima di guarire del tutto.» Ginny stava cercando di raffigurarsi quell'uomo così grande e grosso come un bambino di sei anni quando Sully si diresse alla porta. «Mi chiedo come gli annuari hanno potuto salvarsi dall'incendio» osservò. Lui si fermò. «Già, l'ho pensato anch'io, e ho controllato. Erano ancora in tipografia, quando accadde.» «Chissà perché io non ne ho uno?» «Forse i suoi genitori non l'avevano ordinato. O forse la scuola non aveva il vostro nuovo indirizzo, quando avete traslocato. Se non sbaglio, lei mi ha detto che, dopo l'incendio, vi sparpagliaste in direzioni diverse, qualcuna in scuole pubbliche, qualcuna cambiando addirittura stato. Immagino che sarebbe stato difficile rintracciarvi tutte.» Ginny annuì. «Sì, lo immagino.» Poi intrecciò le mani, chiaramente emozionata. «Non vedo l'ora di vederlo. Dov'è?» «Nel portabagagli della mia macchina. Vado a prenderlo. Non ci vorrà più di un minuto.» «Faccia presto» disse Ginny. «Forse c'è qualcosa che ci aiuterà a capire di più su quest'incubo.» «Vuole chiudersi dentro a chiave?» chiese Sully, aprendo la porta.
«Non c'è bisogno. Tornerà subito.» Sully chiuse la porta e scese i gradini. Per abitudine, si guardò attentamente intorno, prima di dirigersi verso la macchina. Il cielo era sereno e punteggiato di stelle. L'aria, umida e immobile, era piena di suoni, dal frinire dei grilli al gracidare delle rane. La jeep e il fuoristrada erano di nuovo là, il che gli disse che i cinque pescatori erano tornati. Riusciva a sentire un debole suono di risate, proveniente da uno dei capanni, e immaginò che stessero raccontando delle storie e bevendo birra. Da un punto di vista maschile, era la parte migliore di una spedizione di pesca. Stava cercando di ricordare dove aveva messo l'annuario quando sentì dei passi sulla ghiaia, alle sue spalle. Si voltò, ma troppo tardi. Provò un dolore acuto sul lato della testa, e il mondo divenne nero. Ginny era in bagno quando sentì cigolare i cardini della porta del capanno. «Arrivo subito!» gridò, finendo di asciugarsi le mani. Corrugò la fronte quando il volume della radio, nell'altra stanza, fu improvvisamente alzato. Prima che potesse fare commenti, la porta del bagno si aprì. La sorpresa si tramutò subito in paura. «Non si disturbi» disse Carney Auger. «Vengo dentro io.» CAPITOLO 9 Ginny urlò, ma il suo grido si spense ben presto quando Carney la schiaffeggiò sulla bocca e poi l'afferrò per le braccia e la scaraventò contro la parete. Il suo collo scricchiolò quando la testa andò a sbattere contro lo specchio. Continuava a pensare che non era possibile che tutto questo stesse davvero accadendo, ma il rumore del vetro infranto era assolutamente reale. Ebbe una rapida visione della faccia del suo aggressore. Poi, lui cominciò a palparle rudemente il seno, cercando di strapparle la maglietta. «No!» urlò Ginny, colpendolo con i pugni. «Vada via! Mi lasci in pace!» «Non vado da nessuna parte, brutta bastarda, e neppure tu!» ringhiò Carney, premendosi con violenza contro il suo corpo. La furia superò la paura. Ginny si ribellò, graffiandogli la faccia con entrambe le mani, e poi ficcandogli i pollici negli occhi. Carney urlò per il dolore, e cominciò a imprecare, cercando freneticamente di afferrarle le mani, di riacquistare il controllo. Ma aveva sottova-
lutato l'avversaria. Ginny scalciò, graffiò, morse e urlò, determinata a fargli male in ogni parte più sensibile del corpo. Mentre lottavano, la musica allegra che proveniva dalla radio nella stanza accanto era un'oscenità, diventando complice di ciò che le stava accadendo. «Smettila! Smettila!» sbraitò Carney, sempre cercando di prendere il sopravvento. Finalmente lui riuscì ad afferrarle una mano, e contemporaneamente agguantò il cordone elettrico dell'asciugacapelli, con l'intenzione di usarlo per legarla. Gliel'aveva avvolto attorno al polso sinistro, e stava cercando di prenderle l'altro quando Ginny strinse il pugno e lo colpì dritto sul naso. Il sangue sprizzò, mentre Carney ruggiva per il dolore e la rabbia. Fu un riflesso istintivo che lo spinse a coprirsi il naso con entrambe le mani, e Ginny colse l'opportunità per dargli una spinta. Lui barcollò all'indietro nel box doccia, cercando disperatamente di mantenere l'equilibrio. Ginny schizzò fuori dal bagno, urlando il nome di Sully, ma Carney era solo pochi passi dietro di lei. Aveva già la mano sulla maniglia quando lui l'afferrò di nuovo, stavolta per i capelli. Strattonandola all'indietro, la gettò sul pavimento. In pochi secondi era sopra di lei, e le possibilità di Ginny di sfuggirgli erano diventate quasi nulle. Non poteva reggere il confronto con il suo peso e la sua forza. Cercò disperatamente di pensare a un modo per sottrarsi a quell'orrore. Lui la schiaffeggiò, e Ginny si abbandonò, fingendo di avere perso i sensi. Carney impiegò diversi secondi a rendersi conto che non stava più lottando, e anche allora non poté resistere alla tentazione di assestarle un pugno al ventre, prima di mettersi a cavalcioni sulle sue gambe. Il sangue gli gocciolava dal mento, e gli occhi cominciavano a gonfiarsi. Quella dannata sgualdrina gli aveva rotto il naso. Adesso era arrabbiato sul serio. Ormai non si trattava più di vendicarsi per essere stato gettato faccia a terra. Quando avesse finito con lei, a quel bastardo nel posteggio non ne sarebbe rimasto abbastanza da seppellire. Mentre il programma di musica country della radio passava dalla canzone allegra di prima a una ballata malinconica, lui agguantò la maglietta di Ginny e la lacerò, scoprendo la pelle chiara e liscia e un reggiseno di pizzo rosa, di cui si liberò prontamente. Fu quando infilò le mani nella cintura dei calzoncini e cominciò a sfilarglieli che Ginny reagì. Roteando entrambe le braccia, lo colpì prima ai testicoli, poi di nuovo sul naso. Momentaneamente accecato dal dolore, Carney si abbatté da un lato, tenendosi l'in-
guine con le due mani. A quel punto, Ginny riuscì a liberare una gamba. Sfortunatamente, Carney le afferrò la caviglia. Si arrabattò in piedi, quasi piegato in due per la sofferenza, ma senza mollare la presa. «Aiuto! Qualcuno mi aiuti!» gridò lei, scalciando freneticamente con l'altro piede. Carney allungò una mano e alzò al massimo il volume della radio. Delle lacrime gli scorrevano sul viso, mescolandosi al flusso ininterrotto del sangue. «Dannata bastarda...» singhiozzò. Poi, la sua mano sparì dietro la schiena, e ne uscì con un coltello. Ginny guardò con orrore la lama scattare fuori dal manico. A quel punto, gettò indietro la testa e urlò come non aveva mai urlato in vita sua. Il suono superò il volume della musica, assordando Carney e facendogli dolere ancora di più la testa. Non gli erano mai piaciute molto le donne, tranne quando aveva voglia di sesso. Non si fidava dei loro modi subdoli, ed era giunto alla conclusione che, probabilmente, odiava quella più di tutte le altre. «Non c'è nessuno che possa aiutarti, perciò tanto vale che tu stia zitta.» Lo sparo fu sorprendente, come lo furono i frammenti di plastica che schizzarono dappertutto quando la pallottola mandò in frantumi la radio, riducendola all'improvviso al silenzio. Sia Carney, sia Ginny si immobilizzarono, guardandosi dapprima l'un l'altro, e poi nella direzione da cui era venuto lo sparo. «Brutto bastardo...» sibilò Sully. Ginny ebbe solo una rapida visione del sangue che gli scorreva sul viso, prima di vedere la pistola che aveva in pugno. Una frazione di secondo dopo, lui sparò di nuovo, piantando una pallottola nella spalla di Carney. Il coltello cadde a terra, e l'uomo lo seguì con un tonfo. Per qualche attimo, non ci fu alcun suono, a parte il respiro ansimante di Sully e il martellare del cuore di Ginny nelle sue orecchie. Poi, Sully barcollò in avanti, liberò Ginny dal corpo privo di conoscenza di Carney e la sollevò fra le braccia. In quel momento, degli uomini cominciarono a riversarsi nel vano della porta. Erano i pescatori del capanno vicino, che parlavano e gridavano tutti assieme. Sully riuscì ad arrivare al letto prima che le ginocchia gli si piegassero. Si sedette, ancora stringendo Ginny così forte da toglierle quasi il respiro. «Qualcuno chiami la polizia, e in fretta, perché se quel figlio di buona donna riprende i sensi prima che arrivi l'ambulanza, lo uccido.»
Due uomini schizzarono in direzione del telefono pubblico, mentre gli altri entravano per dare una mano. Non c'era da sbagliarsi su ciò che era successo, o su quello che Carney Auger aveva tentato di fare. Le condizioni del viso e degli indumenti di Ginny erano paurose, e lo era anche l'espressione degli occhi di Sully. «Che cosa possiamo fare, amico?» chiese uno. Sully sentì che stava per perdere i sensi e scosse la testa, sapendo che il dolore gli avrebbe dato la scossa necessaria per conservare la lucidità. Stringendo i denti per soffocare un gemito, indicò una coperta che era stata gettata su una sedia. «Mi dia quella coperta» mormorò. «Quel bastardo l'ha quasi spogliata nuda.» Delicatamente, coprì Ginny. Ma restava il fatto che era giunto troppo tardi per impedire che quel bastardo le facesse del male. La testa di Ginny pulsava, ed era dolorante in tutto il corpo. Perdipiù, lo shock cominciava ad avere il sopravvento. Quando cominciò a tremare, Sully le strinse addosso la coperta e cominciò a cullarla. «Va tutto bene, piccola...» le sussurrò. «Va tutto bene. Sei con me, adesso. Non potrà più farti del male.» Ginny aveva bisogno di parlare, di sapere perché un lato della faccia di Sully era coperto di sangue, ma i denti le battevano troppo forte per formulare le parole. Qualcuno le mise un panno bagnato sul lato del viso, dove si stava allargando un livido. Lei gemette. «Piano, maledizione» borbottò Sully. «Scusi» rispose l'uomo. «Ecco, forse è meglio che faccia lei.» Tenendola ancora stretta con un braccio, Sully la staccò da sé quel tanto che bastava per ripulirle la bocca dal sangue. Solo guardare la spaccatura sul labbro inferiore e il sangue che le colava dal naso gli fece quasi perdere il controllo. Stava prendendo in considerazione l'idea di cacciare un'altra pallottola in corpo a Carney Auger quando il vecchio Marshall irruppe come una furia nel capanno. «Che diavolo sta succedendo qui?» sbraitò. Sully indicò Carney. «Suo figlio ha tentato di ucciderci, e prima che dica qualunque cosa in suo favore, sarà meglio che sappia che c'è voluto tutto il mio autocontrollo per non ficcargli quella pallottola in testa.» Marshall fissò la scena, momentaneamente troppo scosso per parlare.
Poi, scosse il capo, incredulo, e disse con voce tremante: «A volte un padre sa sui suoi figli delle cose che non vuole riconoscere». Guardò prima Sully, poi la donna fra le sue braccia. «È... Lui l'ha...?» «È ferita, ma non ha avuto il tempo per stuprarla, se è quello che vuole sapere.» L'uomo chinò la testa, e parve invecchiare di dieci anni davanti ai loro occhi. «Non ci sono parole per dire quanto mi dispiace.» Guardò il corpo immobile del suo primogenito. «Avrebbe fatto un favore a tutti noi se il primo colpo fosse anche stato l'ultimo.» Poi, alzò la testa e respirò a fondo. «Vado sulla strada principale per assicurarmi che l'ambulanza e la polizia imbocchino la svolta giusta. È difficile vederla, al buio.» I due pescatori raggiunsero i loro amici, e tutti e cinque rimasero di guardia alla porta e attorno a Sully e Ginny. Non perché fosse necessario, ma perché era la sola cosa che potevano fare, giunti a quel punto. I paramedici li portarono con l'ambulanza ad Hattiesburg a tempo di record. L'ululato acuto delle sirene era come una lama conficcata nel cervello, per Sully, eppure il dolore non era nulla a paragone della paura che aveva nel cuore. I paramedici gli avevano medicato la testa direttamente sul posto, ma sarebbero stati necessari dei punti, e sapeva, da passate esperienze, di avere riportato una commozione cerebrale, più o meno leggera. Quella sarebbe passata. Ma ciò che era accaduto a Ginny era, per lui, una ferita che non si sarebbe rimarginata tanto facilmente. Avrebbe dovuto capire dalla fedina penale di Auger che non era il tipo da lasciarsi mettere al tappeto senza vendicarsi. Avrebbe dovuto portare via Ginny dal campeggio il giorno stesso in cui era accaduto l'incidente, che le piacesse o no. E avrebbe dovuto stare più attento quando era andato in macchina a prendere l'annuario. Continuava a guardare Ginny distesa sulla lettiga, mentre l'ambulanza volava lungo la strada. Aveva pagato cari gli errori commessi da lui. Quando giunsero all'ospedale, sentiva ormai che le forze lo stavano abbandonando. I suoi pensieri continuavano a sfuocarsi, e non si fidava che le autorità locali fossero in grado di tenere Ginny al sicuro. Quando scaricarono la lettiga su cui era distesa, fece per seguirla. «Aspetti un momento, amico» disse un inserviente, e lo fece sedere su una sedia a rotelle. Sully lo tollerò per il tempo necessario per entrare, ma appena passata la
reception si arrabattò in piedi e barcollò verso il telefono più vicino. «Mi dispiace, signore, ma quell'apparecchio non è a disposizione del pubblico» lo avvertì un'infermiera. «Venga, amico. Ha bisogno che qualcuno dia un'occhiata a quella testa» lo sollecitò l'inserviente, cercando di farlo sedere di nuovo sulla sedia a rotelle. Ignorandoli entrambi, Sully tirò fuori il distintivo. «Si tratta di un'emergenza. Come faccio a prendere una linea esterna?» L'infermiera spalancò gli occhi. «Prema il nove.» Sully indicò la barella su cui si trovava Ginny, che si stava allontanando. «Infermiera, lei rimanga con quella donna e non stacchi gli occhi da lei finché non glielo dirò io. Non la lasci avvicinare da nessuno, tranne il medico di guardia.» La donna esitò solo un momento, poi chiamò una collega. «Rimani alla reception fino al mio ritorno» le disse, e seguì i paramedici che avevano portato Ginny in una delle stanze per le visite. Sully chiuse gli occhi, cercando di ricordare i numeri che aveva bisogno di chiamare, ma erano tutti confusi. Se solo avesse avuto il suo cellulare, avrebbe potuto usare la composizione rapida e risparmiarsi il pensiero. Finalmente respirò a fondo, imponendosi di rilassarsi, e i numeri andarono a posto. La risposta arrivò al secondo squillo. «Howard.» Sully represse un gemito quando un dolore acuto gli batté alle tempie. «Dan, sono io, Sully. Abbiamo avuto un problema che non ha nulla a che vedere con il caso, ma ho bisogno d'aiuto.» L'agente Howard corrugò la fronte. Sullivan Dean non era il tipo da chiedere aiuto, a meno che la situazione non fosse davvero grave. «Che è successo?» «È una storia lunga» mormorò Sully. «Ma siamo in ospedale. Io ho una commozione cerebrale, e in questo momento stanno lavorando sulla nostra testimone.» «Maledizione, Sully, che cosa significa che stanno lavorando su di lei? Avete avuto un incidente?» «Un'aggressione da parte di un tizio del posto... senza alcun rapporto con il resto.» «Ne sei sicuro?»
«Sicurissimo. Ma non mi fido delle autorità locali, in questo caso. Ci sono troppe variabili che potrebbero comportare la fine della vita di Virginia Shapiro.» «Dove siete?» «Ad Hattiesburg, Mississippi, ma non so in quale ospedale.» «Non preoccuparti, lo saprò dall'identificazione della tua chiamata. Tu tieni duro, amico. Manderò lì qualcuno entro un'ora.» «Grazie» disse Sully. «Sono in debito con te.» «Sully...?» «Sì?» «La donna... si riprenderà?» Lui sospirò. «Fisicamente, sì.» Dan Howard brontolò fra sé. Era quello che Sully non aveva detto che lo preoccupava. «Che le è successo?» «Ha subito un'aggressione e un tentativo di stupro.» «Oh, Gesù.» «Manda qualcuno alla svelta» lo pregò Sully. «Non ce la faccio più a parlare.» Howard stava ancora rispondendo quando lui scivolò sul pavimento. Emile Karnoff corrugò le sopracciglia, riattaccando il telefono. Maledizione a quell'epoca di segreterie telefoniche. Se non riusciva a fare quella chiamata, non avrebbe mai potuto riposare. Tra meno di un quarto d'ora l'autista sarebbe andato a prenderlo per riportarlo all'ospedale. Ancora una sessione quel giorno, e lui avrebbe finito il suo lavoro a Dublino. La giovane paziente ammalata di cancro cominciava già a dare segni di miglioramento. Un paio di medici dell'ospedale di Dublino sosteneva che si trattava solo dei risultati della chemioterapia, ma perlopiù gli altri erano meravigliati dal risultato delle sue cure. Benché Emile lavorasse sempre solo nella stanza con la paziente aveva consentito che delle telecamere lo riprendessero in azione. Sembrava così semplice, all'occhio inesperto. Mettere qualcuno in trance ipnotica, e poi, fondamentalmente, ordinargli di guarire. Solo, non era affatto semplice. Era una cura complessa... complessa quanto la mente umana. Emile aveva scoperto, durante le fasi sperimentali, che le diverse parti
del cervello rispondevano a differenti stimoli musicali. In seguito aveva cominciato a manipolare la mente con i suoni, usando una serie di note non diverse dalle scale di uno xilofono per bambini. Programmando il paziente per ascoltare i suoni, otteneva di entrare in contatto con il suo subconscio, poi oltre, con quella parte del cervello che controllava il sistema nervoso, e infine con le profondità che inviavano segnali d'allarme quando il corpo era in pericolo di morte. E con ciascuna nota, progressivamente più acuta, otteneva accesso ai punti in cui il dolore era avvertito e registrato... e perfino nei recessi profondi della mente umana che avvelenavano il corpo con lo stress e la tensione. Era solo una questione di fiducia. Insegnava ai pazienti a fidarsi di lui. Dopo, gli permettevano sempre di entrare. Una volta all'interno della mente umana, lui stabiliva una serie di comandi con i quali la mente ordinava al corpo come e dove risanarsi. Sembrava assurdo, come un qualcosa uscito da un vecchio film di fantascienza. Ma c'era stato un tempo, nella storia, in cui la gente riteneva assurdo che ci fossero cose chiamate germi che potevano farla ammalare, e perfino ucciderla. Come poteva qualcosa di invisibile essere così mortale? Ma il tempo aveva dimostrato la giustezza della teoria. E lui non aveva combattuto una battaglia del tutto solitaria. L'ipnosi veniva usata da anni per la cura della dipendenza dal fumo e dal cibo, oltre che per il trattamento di traumi di origine sessuale e consimili. Molti studi erano stati condotti su certi ordini religiosi asiatici i cui monaci potevano, teoricamente, controllare il dolore e la perdita di sangue con il semplice ausilio della mente. Tutto quello che lui aveva fatto era portare quelle teorie avanti di un passo. Servirsi della mente umana per guarire il corpo sembrava così facile... così logico. Niente trapianti. Niente farmaci antirigetto. Niente ferri chirurgici. Bastava entrare, come faceva lui, nella mente umana con parole sommesse e comandi gentili. Era un altro passo verso un mondo perfetto, ed Emile Karnoff era all'avanguardia. Certo, aveva commesso alcuni errori, nei primi anni, ma c'era da aspettarselo. Tutte le ricerche avevano i loro vicoli ciechi, alcuni più ciechi di altri. Almeno, lui non aveva passato tutta una vita seguendo strade sbagliate. Questo era stato evidente abbastanza presto, ma solo quando aveva cominciato gli esperimenti su veri pazienti, con autentiche malattie, aveva potuto vedere tutte le possibilità. Ripensò a quei tempi, ricordando i visetti delle bambine che tanto fiduciosamente lo lasciavano entrare nella loro mente. I bambini erano i più facili da curare e quelli che reagivano meglio
ai suoi metodi. Un colpetto alla porta gli segnalò che l'autista era arrivato. Più tardi, mentre andava all'ospedale, Emile pensò a suo figlio quando era bambino e corrugò la fronte. Era un peccato che l'innocenza dei bambini scomparisse, con il crescere. Phillip non aveva scopi, non aveva sogni. Esisteva, semplicemente... un'ombra dell'amore che lui e Lucy avevano provato l'uno per l'altro. E, pensando a Lucy, Emile guardò di nuovo fuori dal finestrino dell'auto, desiderando di poter vedere la campagna che circondava la città. Sospirò. Si era innamorato dell'Irlanda. Il semplice stile di vita e la bellezza del paese, assieme alla genuina cordialità della gente, avevano parlato alla sua anima. Durante tutti i percorsi per andare a venire dall'ospedale, continuava a pensare a come proporre a Lucy di comprare una seconda casa. Niente di lussuoso, perché la vita, là, era semplice. Lui avrebbe avuto pace e silenzio per i suoi studi, e sarebbe stato facile raggiungere qualunque località, come lo era da Bainbridge, Connecticut, dove vivevano adesso. Non era come se avesse avuto un orario d'ufficio o dei pazienti fissi. Si era dedicato alla ricerca per la maggior parte della vita, e solo dopo che gli era stato conferito il premio Nobel aveva cominciato a ricevere richieste di consulti. Se avesse voluto, avrebbe potuto facilmente diventare ricco in breve tempo. Ci sarebbero voluti anni perché i suoi metodi potessero venire insegnati ad altri medici qualificati, e per allora lui sarebbe stato troppo vecchio per pensare ad arricchirsi ancora di più. Inoltre, si rammentò, lo scopo del suo lavoro era il bene dell'umanità. «Signore, siamo quasi all'ospedale» lo avvertì l'autista. «Vuole che l'aspetti?» Emile consultò l'orologio e scosse la testa in segno di diniego. «No, grazie. McGarrity, vada a casa. Prenderò un taxi per tornare all'albergo.» «Non mi dispiace aspettarla» insistette l'autista con garbo. «No, la prego. Non ho idea di quanto tempo mi ci vorrà. Vada a casa e passi la serata con la sua famiglia. Vorrei poter fare lo stesso.» «Sì, signore. Grazie, signore.» Pochi momenti dopo Emile entrò in ospedale, con i pensieri già orientati verso la giovane donna e il lavoro ancora da fare. Aveva solo trentadue anni, e aveva dei bambini da crescere. Gli faceva bene al cuore sapere che il suo cervello stava già trovando una diversa strada per risanare il corpo.
La prova era nei suoi esami del sangue, oltre che nel suo aspetto. Emile prevedeva che nel giro di sei mesi sarebbe completamente guarita. Un vero miracolo, per una donna che era stata data per spacciata. Quando giunse al terzo piano, il suo passo era leggero come se volasse. E perché no? Lui stava camminando con Dio. Solo un altro uomo sulla terra aveva guarito in quel modo, ed era stato crocefisso. Ma non c'era pericolo che accadesse a lui. «Mmh... tesoro, sei sveglio?» Quando una mano lo toccò intimamente, Phillip sussultò, poi balzò dal letto. «Chi diavolo sei?» borbottò, fissando incredulo la bionda ossuta che era distesa a braccia e gambe larghe sul letto da cui era appena sceso. «Avanti, tesoro, ho voglia» pigolò lei, e cominciò ad accarezzarsi mentre lui la guardava. «Mio Dio, mio Dio» gemette Phillip. Si guardò attorno in cerca dei propri indumenti. Non si vedevano da nessuna parte. E quella non era la parte peggiore del suo risveglio. Non aveva idea di dove fosse, o di come ci fosse arrivato. «I miei vestiti» disse. «Dove sono i miei vestiti?» La donna si limitò a fare una smorfia, mostrando la lingua. «Vieni a giocare con Teena, e poi ti dirò dove sono.» Lo stupore di Phillip si tramutò in panico. Giocare con lei? Buon Dio, non sarebbe riuscito neppure a indursi a toccarla. C'erano segni di aghi sulle sue braccia, e una moltitudine di piccole croste sulle gambe a cui non voleva neppure pensare. Invece cominciò ad aggirarsi per la stanza, aprendo cassetti e guardando negli armadi. «Avanti, tesoro, mi sto davvero scaldando...» mormorò la donna, chiudendo gli occhi mentre le sue dita si muovevano più in fretta. Phillip non la guardò per timore di vomitare. Si rifugiò nel bagno adiacente, e poi rimpianse di averlo fatto. C'era sudiciume dappertutto. «No, no, no» gemette, e schizzò in soggiorno. Sulle prime non li riconobbe, ma quando si rese conto che i pantaloni e la camicia neri sul pavimento vicino alla porta erano indumenti maschili, li agguantò e cominciò a vestirsi. Con suo orrore, scoprì che gli si adattavano perfettamente. Altri pezzi di un rompicapo che non sapeva spiegare. Quando tirò fuori il portachiavi dal giubbotto appeso alla spalliera di una sedia, lo riconobbe. Era il suo.
Nell'altra stanza, poteva sentire la voce della donna farsi sempre più acuta all'avvicinarsi dell'orgasmo. Si gettò alle spalle un'ultima occhiata terrorizzata, pregando di non lasciare là niente di suo, e afferrò la maniglia della porta. Lei gemette e poi cominciò a urlare. Phillip spalancò la porta, uscì e se la sbatté alle spalle, senza guardare indietro. Lucy Karnoff posò il ricevitore e scoppiò in lacrime. Tutto era stato così perfetto, e ora il mondo le stava crollando addosso. Erano due giorni che tentava inutilmente di trovare Phillip. Aveva telefonato in ogni posto che avesse mai frequentato e passato ore preziose in taxi, cercandolo in luoghi di tale degradazione che, al ritorno a casa, aveva bruciato gli abiti che indossava. Non era giusto. Non era giusto, semplicemente. Per tutta la vita aveva cercato di rendere ogni cosa perfetta e piacevole per Emile, in modo che lui potesse concentrarsi sul suo lavoro, e ora che lui aveva ricevuto il riconoscimento che meritava ampiamente, tutto cadeva in rovina. Era suo dovere rimediare. Ma negli ultimi due anni aveva visto i cambiamenti di Phillip crescere di intensità. E ogni volta che accadevano, aveva fatto in modo che suo marito non ne sapesse nulla. Aveva dato fondo a buona parte dei suoi risparmi pagando cauzioni per tirare mori Phillip di prigione e ogni genere di spese, dalle multe per infrazioni al codice stradale ai danni procurati ad altri veicoli, in modo che non fossero denunciati all'assicurazione. Una volta le era costato mille dollari pagare i danni che Phillip aveva procurato durante una rissa in un locale notturno in una città vicina. Ma prima non era mai sparito. Non per così tanto tempo. Lucy si lasciò cadere sulla poltrona dietro la scrivania di Emile e si coprì il viso con le mani. Non riusciva a trovare suo figlio ed era combattuta fra la vergogna per ciò che poteva avere commesso e il timore di non rivederlo mai più. Con sgomento, si sorprese a propendere per quell'ultima eventualità come la migliore. Poi scoppiò a piangere. Phillip era il suo bambino. Il suo prezioso, unico figlio. Chiese perdono a Dio per quei pensieri orribili. Voleva che tornasse, qualunque cosa avesse fatto. Poi alzò la testa e si asciugò le lacrime. Era il loro figlio, non solo il suo. Era tempo che Emile si facesse carico di una parte della paura e della responsabilità. Aprì il cassetto della scrivania, frugando fra le carte alla ricerca del numero di telefono e dell'indirizzo dell'albergo di Dublino in cui
alloggiava. Pochi momenti dopo trovò quello che cercava e si appoggiò allo schienale con un sospiro di sollievo. Emile avrebbe saputo che cosa fare. Sollevò il ricevitore, e aveva cominciato a comporre il numero quando sentì la porta di casa sbattere. Si alzò di scatto, con il cuore in gola. «Phillip? Sei tu?» Un passo risuonò sul parquet, avvicinandosi allo studio. Incapace di sopportare l'attesa, Lucy si mosse verso la porta. E poi, Phillip era là, in piedi sulla soglia con il volto rigato di lacrime. Aveva i capelli in disordine, gli occhi spiritati e iniettati di sangue. Il labbro inferiore tremò, e poi lui le tese le mani. «Mamma?» Lucy se lo strinse sul seno, battendogli colpetti affettuosi sulla schiena, come faceva quando era bambino. «Sì, caro, la mamma è qui. Qualunque cosa sia successa, andrà tutto bene.» CAPITOLO 10 Sullivan si svegliò di soprassalto, trasalendo quando la luce proveniente dalla finestra gli ferì gli occhi. «E così, è sveglio... Come si sente, signor Dean?» gli chiese una voce femminile. «Come mi sento? Dove...» Oh, mio Dio, Ginny! «Da quanto tempo sono qui?» L'infermiera controllò la cartella. «Quasi due giorni.» «Santi numi...» gemette Sully a quel punto. «Devo alzarmi.» Cominciò a respingere le coperte e ad armeggiare con la flebo che gli avevano inserito sul dorso della mano. «No! No! Non può farlo» esclamò l'infermiera, tirandolo per un braccio. Le dita di Sully si chiusero sul suo polso, ma fu la calma della sua voce che le disse che parlava sul serio. «Signora, adesso io mi alzo, che lei mi aiuti o no. Che cosa preferisce?» Sapendo di non poter avere la meglio da sola su un uomo della sua stazza, l'infermiera fece per suonare il campanello, ma era troppo tardi. Sully stava già tirando via il cerotto dall'ago della flebo. «Aspetti solo un attimo...» gemette l'infermiera. «Sporcherà tutto di san-
gue.» «Qualcuno pulirà» ribatté lui. «Ho bisogno di vedere Ginny.» «Chi?» «Virginia Shapiro. Siamo arrivati in ospedale con la stessa ambulanza.» «Oh. Lei.» Sully si sentì cadere il cuore. «Come sarebbe a dire, lei?» «Quella con la guardia alla porta» si affrettò a precisare l'infermiera. Lui sospirò. «Grazie al cielo. Come sta? Le sue condizioni, intendo dire.» «Se ci dà qualche minuto, potrà vederlo con i suoi occhi.» «Questo non mi dice nulla» brontolò Sully. «Il fatto è che le sue condizioni sono un'informazione che deve restare fra la paziente e il suo medico.» «Lei non capisce» protestò Sully. «Era sotto la mia protezione quando è successo. Se avessi...» All'improvviso, l'infermiera si rese conto della situazione. «Non avevo capito» ammise, a bassa voce. «Senta, lasci solo che trovi il suo medico e gli chieda il permesso. Se non avrà obiezioni di sorta, lei potrà fare visita alla signorina Shapiro e vedere da sé. Ma, per favore, non si alzi fino al mio ritorno. Ha riportato una commozione cerebrale. Non sarà utile a nessuno se cadrà lungo disteso sul pavimento e poi finirà di nuovo a letto.» Sully corrugò le sopracciglia. «Mi sento benone.» «Niente affatto» lo contraddisse lei. «È pallido e sudato, e scommetto i soli cinque dollari che ho nel borsellino che quando si alzerà le girerà la testa.» Sully la guardò male, ma lei non si lasciò commuovere. «Intende restare a letto, o devo chiamare gli inservienti?» L'idea di essere tenuto a letto con la forza non gli sorrideva. «Sono qui, no?» Poi, mentre l'infermiera andava alla porta, aggiunse: «Ma non ho intenzione di aspettare in eterno». «Farà quello che le diremo» ribatté lei, e si chiuse la porta alle spalle. Tutt'altro che propenso all'obbedienza, Sully mise le gambe giù da letto e si alzò. Come gli era stato pronosticato, la stanza gli oscillò sotto i piedi. Si rimise a sedere, con un'imprecazione. Sembrava che l'infermiera avesse ragione, dopotutto. Dieci minuti dopo,
tuttavia, rientrò nella stanza accompagnata da un medico, segno che era una donna di parola. «E così, signor Dean, ho sentito che vuole svignarsela.» «Mi toglie lei la flebo, o lo fa l'infermiera?» chiese Sully. Il fatto che aveva risposto alla domanda con un'altra domanda non sfuggì al medico. E non gli sfuggì neppure l'espressione del viso di Sully. «Ha preso un bel colpo in testa» gli rammentò. «Non è la prima volta.» Conoscendo l'occupazione di Sully, il medico sorrise. «Sì, lo immagino.» Girò attorno al letto e si chinò su di lui per controllargli le pupille, poi lesse la sua cartella. «Si è alzato?» «Sì» rispose Sully, ignorando il brontolio di disapprovazione dell'infermiera. «E come si è sentito?» si affrettò a chiedergli il medico. «Un po' stordito. Un po' debole.» Il dottore sorrise spudoratamente. «Grazie per la franchezza, signor Dean. Se avesse risposto in qualunque altro modo, avrei capito che mentiva.» «Oh, io dico sempre la verità. Dipende da lei se le piace o no. Intendo alzarmi e andare nella stanza di Virginia Shapiro, con o senza il suo permesso.» Il dottore corrugò la fronte. «La questione, in realtà, non è se lei è in grado o no di farlo, ma se la signorina vorrà vederla.» Sully incenerì con lo sguardo l'infermiera. «Mi era stato dato a intendere che stava migliorando. Che cosa diavolo vuole dire?» «Sta molto meglio, infatti. Ma non ha detto una parola a nessuno dal giorno in cui è arrivata.» «Oh, diavolo...» borbottò Sully. Mise di nuovo le gambe giù dal letto e riprese a staccare il cerotto. «O mi togliete questa, o me ne vado immediatamente dall'ospedale.» «Infermiera, vuole aiutare il signor Dean, prima che si faccia male?» chiese il medico. «Certo, dottore.» «Dove sono i miei vestiti?» volle sapere Sully a quel punto. «Nell'armadietto» rispose la donna. «Se aspetta un momento, glieli prendo.»
«Signor Dean, resta inteso che io non approvo» affermò il medico. «Sì, lo so, e se cadrò e mi romperò il naso, non farò causa a nessuno, okay? Adesso datemi i pantaloni...» borbottò lui. Il dottore aggrottò le sopracciglia di fronte alla sua impazienza. «Non sarà utile né alla signorina Shapiro né a se stesso se avrà una ricaduta, sa.» Sully si fermò e lo guardò freddamente. «Allora dovrò fare in modo di restare in piedi, giusto?» Il medico sospirò. «Infermiera, mentre il signor Dean si veste, faccia portare una sedia a rotelle. Il minimo che possiamo fare è dargli un passaggio fino alla stanza della signorina.» L'infermiera annuì, posò gli indumenti di Sully sul letto e uscì per provvedere. Senza badare al medico, Sully si alzò lentamente, appoggiandosi al letto per essere certo di riuscire a muoversi. Stavolta, non provò altro che un breve attimo di stordimento, che passò subito. «Come si sente?» chiese il medico, mentre lui cominciava a infilarsi i pantaloni. «Male» rispose Sully. «La signorina Shapiro... è molto importante per lei?» Sully si fermò, respirò a fondo, poi annuì. «Be', se la signorina contraccambia i suoi sentimenti, faccio i miei migliori auguri a entrambi» concluse il medico. Diede a Sully un colpetto sul braccio e se ne andò. Per un lungo momento, lui non si mosse. Senza saperlo, il medico aveva messo il proverbiale dito sulla piaga, individuando la preoccupazione principale di Sully. Come se avesse ricevuto un pugno, ricadde a sedere sulla sponda del letto, fissando senza vederlo il pavimento di linoleum. Riviveva l'ultima volta in cui aveva visto il viso insanguinato di Ginny. Chiuse gli occhi, e gli balenò davanti la fotografia di famiglia scattata nel parco nazionale di Yellowstone. Dio del cielo, e se non gli avesse mai più sorriso? Con mani tremanti si abbottonò i jeans. Prese la camicia, ma quando vide le macchie di sangue sul davanti la gettò da parte, optando invece per la camicia dell'ospedale. Era alla porta quando arrivò un inserviente con la sedia a rotelle. «Salti su, amico» lo invitò. «Ho sentito che è pronto per andare a fare un giro.»
«Mi porti alla stanza di Virginia Shapiro...» borbottò lui. «Sì, me l'hanno detto. Quella con la guardia» annuì l'uomo. Il bastone di uno spazzolone per i pavimenti cadde a terra nel corridoio fuori dalla camera di Ginny. Lei sobbalzò al rumore, e il movimento le fece saettare fitte di dolore in tutto il corpo. Un velo di lacrime le offuscò la vista mentre soffocava un lamento. Stava guarendo. Non aveva niente di rotto, solo delle terribili contusioni, e non erano stati neppure necessari dei punti. Si considerava fortunata, pensando alle dimensioni del coltello con cui Carney Auger l'aveva minacciata. Se Sullivan non fosse entrato al momento giusto, l'avrebbe fatta a pezzi. A quel pensiero, Ginny chiuse strettamente gli occhi per allontanare l'orrore di quello che aveva subito. Ma le immagini non si cancellavano mai, né quando dormiva né quando era sveglia. Erano con lei in ogni momento, fino da quando era stata portata in ospedale. E in più c'era il rimorso di sapere che era a causa sua che Sully era stato ferito. Nascose il viso nel guanciale. Aveva sentito il personale parlare, mentre la credevano addormentata. Sully era ancora privo di conoscenza, dopo avere perso i sensi nell'atrio. E se fosse morto? Non avrebbe potuto vivere con quella colpa sulla coscienza. Ma non era tutto. Carney Auger era ricoverato nello stesso ospedale. Sotto sorveglianza, le avevano detto, ma era là, sotto il suo stesso tetto. Il solo pensiero le dava la nausea. E se fosse sfuggito alle guardie? Se fosse andato da lei o da Sully per finire il lavoro? Aveva visto andare e venire medici e infermiere e un uomo che pensava potesse essere un agente federale, come Sully. Era entrato due volte, il primo giorno. Dopo non l'aveva più visto, ma gli altri non la lasciavano in pace. Volevano che parlasse dell'accaduto, che raccontasse i rivoltanti particolari di come Auger l'aveva spogliata e picchiata e le aveva messo le mani dappertutto. Volevano che dicesse come lui aveva sobbalzato e poi urlato quando la pallottola di Sully l'aveva colpito. Volevano sapere come il suo sangue le era finito sul viso e sulle mani. Lo chiedevano in nome della medicina e della legge. Perché non riuscivano a capire che quelle parole erano un veleno sulle sue labbra? Non sapevano che pronunciarle ad alta voce le avrebbe rese più vive? Che rivelare ciò che le era successo lo avrebbe fatto diventare ancora più reale, e che il solo modo in cui poteva conservare il suo equilibrio mentale era fingere che fosse tutto un incubo da cui, alla fine, lei si sarebbe svegliata?
All'improvviso, si tese. Sentiva delle voci fuori dalla camera, che parlavano di cose che era meglio tacere, come se le persone ammalate diventassero tutt'a un tratto anche sorde. Di solito, dopo un po' si allontanavano, ma non questa volta. La porta si stava aprendo. Ginny si tirò il lenzuolo fino al mento e trattenne il respiro, sapendo di non avere più forza per nulla, neppure per se stessa. E poi lo vide. Si stava alzando da una sedia a rotelle e si dirigeva verso il suo letto. Oh, Dio. Oh, Dio. Sully. Il suo cuore cominciò a battere all'impazzata. Il passo di Sully non era sicuro come al solito, e l'ansia che era evidente sul suo viso le fece provare un senso di vergogna. Era brutta. Bruttissima, non sarebbe più stata carina. Azzardò un'altra occhiata al viso di Sully, concentrandosi sugli occhi. Stava piangendo. Ginny non aveva mai visto un uomo adulto piangere. Buon Dio, piangeva per lei. Chiuse gli occhi, incapace di sopportare la sua pietà. «Ginny... Ginny, piccola, guardami.» Quando la mano di Sully le sfiorò la spalla, lei trasalì. «Scusami... scusami» disse lui a bassa voce. «Non ho pensato...» Lo sentì sospirare, e fu il senso di sconfitta espresso da quel suono che la fece vergognare di se stessa. Quell'uomo non era come Carney Auger. Quell'uomo aveva promesso che non l'avrebbe lasciata morire. Aveva mantenuto la parola data. Ora, tutto quello che voleva era che lei lo guardasse. Era il minimo che potesse fare. Quando aprì gli occhi, Sully si sentì mancare. Lo stress di reggersi in piedi, unito alla paura per lei, lo aveva esaurito. Barcollò, e immediatamente un inserviente balzò nella stanza. Nel momento in cui Ginny vide lo sconosciuto, i suoi occhi si colmarono di paura. Sully si voltò, rabbioso. «Fuori. Vada fuori e ci lasci soli. Sto bene.» «Ma signore, lei è troppo debole per...» «Fuori!» ruggì Sully. La porta si richiuse alle spalle dell'inserviente. Sully tornò a voltarsi verso Ginny. Lei lo guardava, adesso. Capì che stava facendo l'inventario delle sue ferite... il bendaggio sulla fronte e i punti che c'erano sotto. «Piccola... ti prego...» cominciò, con voce tremante. «Giuro che non ti farò del male, ma ho bisogno di toccarti. Solo per sapere...» La voce gli si
spezzò. «È tutta colpa mia. Ho lasciato che arrivasse fino a te, e...» Gli occhi di Ginny si colmarono di lacrime. «Mi hai salvato la vita» sussurrò, e gli prese la mano. Sully si irrigidì. Soffocato com'era dal rimorso, quella era l'ultima cosa che si era aspettato di sentirle dire. Ginny si portò la sua mano alla guancia, poi appoggiò il viso sul palmo. Era umido di lacrime. Le labbra le tremavano mentre faceva uno sforzo per parlare. «Ho pensato che ti avesse ucciso. Non sapevo dov'eri, e ho pensato che ti avesse ucciso.» «Gesù» gemette Sully, poi si sedette sulla sponda del letto, prima di cadere. La voce di Ginny si abbassò fino a un sussurro. «È qui, sai. Proprio qui in questo ospedale...» gli rivelò. Sully si irrigidì. «Stai parlando di Carney?» Lei gli affondò le dita nel braccio, nervosamente. «Non bisogna addormentarsi» bisbigliò. «È pericoloso.» «Buon Dio» brontolò Sully. Si alzò bruscamente. «Torno subito.» Andò alla porta. La guardia in servizio balzò in piedi e mise mano alla pistola. Sully gli afferrò il braccio. «Vada a dire a chiunque sia responsabile del ricovero di Carney Auger che farà meglio a portare via quel dannato bastardo da sotto questo tetto, o lo farò io.» «Non posso lasciare il mio posto» dichiarò la guardia. «Ha una radio, no?» L'altro annuì. «Allora la usi. Voglio che Auger sia trasferito. Se qualcuno fa storie, lo mandi da me.» Il giovane agente era nell'FBI da meno di un anno, ma conosceva bene la reputazione di Sullivan Dean. Il fatto che il direttore in persona fosse coinvolto in quel caso bastava a convincerlo a non discutere. Se Dean parlava, era molto meglio che lui lo ascoltasse. «Sì, signore. Subito, signore.» «Ancora una cosa» disse Sully. «Signore?» «Grazie per essersi preso cura di lei.» L'agente annuì.
«È stato un piacere, signore.» Poi si azzardò ad aggiungere: «Mi dispiace molto per quello che le è successo». «Già» rispose Sully. «Anche a me.» Rientrò nella stanza e chiuse la porta. Ginny era come l'aveva lasciata. Riattraversò la camera, sentendosi più debole a ogni passo. Ma non poteva cedere al bisogno di sdraiarsi. Non ancora. Non fino a quando quell'orribile paura non fosse sparita dagli occhi di Ginny. «Lo porteranno via prima di notte, te lo prometto.» Lei annuì, poi si aggrappò di nuovo alla sua mano, stringendogli le dita attorno al polso e tirando leggermente. «Resta con me» supplicò. Sully si sentì stringere il cuore. «Piccola... non andrò in nessun posto.» Poi, con un mezzo sorriso, aggiunse: «Sono così maledettamente debole che non ci riuscirei neppure se lo volessi». «Allora sdraiati vicino a me.» Sully si sentì come se gli avessero assestato un pugno allo stomaco. Sdraiarsi vicino a lei? Dio del cielo, dammi la forza di fare questa cosa nel modo giusto. «Sei sicura?» Ginny annuì. Lui respirò a fondo, adagio. «Non lo so. E se ti facessi male?» le domandò Sully. «Per favore, Sully. Finora io ho avuto paura a chiudere gli occhi.» Fu quel per favore che risolse la situazione. Sully si sedette accanto a lei, per prima cosa, poi le fece scivolare un braccio sotto il collo. Quando Ginny trasalì, si fermò. «Non sei tu» disse lei. «Per un attimo ho sentito le sue mani sul...» Deglutì a vuoto. «Tienimi stretta.» Sully si sdraiò completamente sul letto, poi se la strinse vicino. Dall'altro lato, la spondina era alzata. Perlomeno non sarebbe caduta. «Sono troppo vicino?» chiese, temendo che il semplice peso del proprio corpo accanto al suo scatenasse un flashback dell'aggressione. Lei sospirò. «No.» «Dovrò tirare su anche l'altra spondina, o finirò per cadere.» «Okay.» Sully allungò una mano dietro di sé, tastò il tubo di metallo e diede uno
strattone. La spondina si alzò bruscamente e andò a posto con uno scatto. Ora erano racchiusi nel piccolo letto, uniti nel corpo quanto nello spirito. «Soffri?» chiese Sully. «Non più.» La udì sospirare, poi la sentì rilassarsi. Passarono alcuni minuti, durante i quali vide le sue palpebre abbassarsi, e finalmente chiudersi. Il suo respiro si fece più lento, regolare. Solo di tanto in tanto un muscolo si irrigidiva e si contraeva, e allora Sully la stringeva un po' di più e le sussurrava all'orecchio: «Sono qui con te, piccola. Non ti lascerò morire». E si addormentarono. Curiosa di sapere perché il paziente della camera 411 non era tornato nel suo letto, l'infermiera che lo aveva in cura andò a cercarlo. Li trovò addormentati, stretti l'uno fra le braccia dell'altro. Conosceva la loro storia. Sapeva anche che la donna non aveva detto una parola a nessuno da quando era stata ricoverata, e sapeva il perché. Lo stupro, anche se solo tentato, era un'esperienza orribile. E perdipiù la donna era stata picchiata a sangue. Se aveva bisogno che quell'uomo la tenesse fra le braccia, per lei andava bene. Era contro ogni regola dell'ospedale, ma l'infermiera girò sui tacchi e se ne andò come se non avesse visto nulla. Dan Howard era in piedi vicino alla porta d'entrata dell'ospedale, in attesa dei suoi passeggeri. Avrebbe potuto mandare qualcun altro a prendere Sullivan, ma voleva parlare con Virginia Shapiro, e quello sembrava il modo migliore per farlo. Dopo qualche minuto le porte dell'ascensore nell'atrio si aprirono all'improvviso. Sullivan ne uscì per primo, si guardò attorno e scorse Howard all'entrata. «È qui» disse. Un attimo dopo Ginny comparve a sua volta, seduta su una sedia a rotelle. Dopo una settimana in ospedale, si sentiva come se fosse stata rilasciata da una prigione. «Posso camminare» mormorò. «Non appena l'avrò portata fuori» ribatté l'inserviente. «Regole dell'ospedale.» Alcune teste si voltarono al loro passaggio, perlopiù per la curiosità di vedere chi veniva dimesso, ma ci fu chi scoccò una seconda occhiata alla donna, interrogandosi sui lividi che si andavano scolorendo sul suo viso e sui tagli sul labbro e sulla fronte.
Ginny odiava quella curiosità. Provava l'impressione che, solo guardandola, tutti potessero sapere che cosa le era successo. Era come essere spogliata nuda un'altra volta, e in balia di quell'uomo. «Signorina Shapiro, è un piacere rivederla.» Lei sussultò. Rivederla? Dunque lo aveva già visto prima? Dan Howard capì che non si ricordava di lui, e benché gli dispiacesse rinfrescarle la memoria, non poteva evitarlo. Aveva parecchie cose da chiederle, mentre raggiungevano la casa sicura. «Sono venuto a vederla quando è stata ricoverata» spiegò. «Forse non lo ricorda. Erano brutti momenti per lei.» «Oh. Sì, ora ricordo.» «Salga in macchina dove c'è un bel fresco» la sollecitò Dan. «Sully può sedersi davanti con me, così lei potrà stendersi comodamente sul sedile posteriore. Non ci vorrà molto ad arrivare all'eliporto, e poi con un paio d'ore di volo saremo a casa.» Lei scoccò a Sully un'occhiata nervosa. «Va tutto bene, Ginny.» Rassicurata, lei salì in macchina e allacciò la cintura, ma non si rilassò realmente fino a quando non furono in moto. Dopo, si appoggiò all'indietro e finse di sonnecchiare, sapendo che in quel modo avrebbe appreso sugli sviluppi del caso assai più che facendo delle domande specifiche. Mentre si allontanavano dall'ospedale, l'ironia della situazione la colpì. Era stata vittima di un'aggressione ed era sopravvissuta, ma il pericolo per la sua vita era ben lungi dall'essere cessato. Sembrava impossibile, che potesse succederle ancora qualcosa, eppure ciò che aveva subito poteva non essere nulla a paragone di quello che l'aspettava. Il suo nemico era ancora senza volto. Se non fosse stato per l'uomo seduto accanto a Dan Howard, lei avrebbe rischiato di perdere non solo la vita, ma anche la ragione. «Dove stiamo andando?» chiese Sully. «La casa sicura libera più vicina è alla periferia di Phoenix. So che fa un caldo d'inferno laggiù, in questa stagione, ma la casa ha una piscina e una vista favolosa.» «Non importa dov'è» ribatté Sully. «Ginny ha bisogno di tempo per ritrovare se stessa.» «Ho bisogno di parlare con lei.» «Non adesso» affermò Sully. «Maledizione, Sully, è la sua vita che stiamo cercando di salvare. Ti suggerisco di lasciare che sia lei a decidere.»
Sully abbassò la voce per non farsi sentire da Ginny. «Non capisci. Mentalmente è a malapena in grado di arrivare alla fine di una giornata, e solo se è lasciata assolutamente in pace. Falle delle pressioni, e potrebbe crollare del tutto.» «Non intendo farle pressioni. Voglio solo parlarle» ribatté Dan. «Quando arriveremo a Phoenix, vedremo. Okay?» Sully corrugò la fronte, ma sapeva che il collega aveva ragione. Avevano bisogno di informazioni per risolvere il caso, e fino a quando tutto non fosse finito, Ginny non avrebbe potuto riavere una vita. «Okay» convenne. «Ecco l'elicottero che sta atterrando.» «Bene. Giusto in tempo» commentò Dan. «Ehi, Dan, volevo chiederti... La nostra roba che era nei bungalow, dov'è finita?» «Nel baule della mia auto.» «Tutto quanto? Anche quello che avevo in macchina?» «Sì. Abbiamo restituito l'auto che avevi noleggiato e messo quella della signorina Shapiro in un garage a Biloxi. La ricevuta e le chiavi sono nella tua valigia» gli spiegò l'amico. «Grazie.» «Conosci la procedura. L'hai fatto anche tu. Oh, e un'altra cosa. Il vecchio del campeggio... ha restituito la somma che avevi pagato e strappato il conto di Ginny. Ha detto che era il minimo che poteva fare.» Sully annuì, poi guardo da sopra la spalla, per assicurarsi che Ginny non stesse ascoltando, prima di chiedere: «A proposito di Auger...». «Ha patteggiato per un'accusa di aggressione e tentato stupro, piuttosto che essere processato per tentato omicidio, come voleva fare il procuratore distrettuale.» Sully strinse i pugni. «Avrei dovuto finire il lavoro quando ne avevo la possibilità» borbottò. «Il solo pensiero che quell'uomo se ne vada di nuovo in giro per strada mi dà la nausea.» «Sì, capisco quello che intendi dire. Il sistema giudiziario fa schifo, a volte, e lo sappiamo entrambi. Tuttavia rimarrà fuori dalla circolazione per qualche anno.» La macchina si fermò. Ginny si riscosse. «Sully?» Lui le mise immediatamente la mano sul braccio. «Sono qui, Ginny. Adesso scarichiamo il bagaglio. Aspetta fino a quan-
do non verrò a prenderti, va bene?» «Va bene.» Ginny guardò i due uomini scendere dalla macchina e poi si raddrizzò sul sedile. Purtroppo si era davvero assopita, e si era persa tutta la conversazione fra Dan e Sully. Poco dopo, Sully aprì la portiera posteriore. «Vieni, Cenerentola. La tua carrozza ti sta aspettando.» «Dove andiamo?» chiese Ginny, mentre lui l'aiutava a scendere. Sully le sollevò il mento e le batté un colpetto sulla punta del naso. «Al ballo.» Ginny sorrise, poi dovette soffocare un singhiozzo. Due giorni prima, avrebbe giurato che non sarebbe mai più stata capace di ridere. Forse c'era ancora speranza per lei. «Ma non ho le scarpine di cristallo.» «Non importa. L'elicottero si trasformerà in zucca, se non ci sbrighiamo.» Ginny lasciò che Sully la conducesse via, ma non poté fare a meno di lanciare un'occhiata da sopra la spalla. Due uomini avevano smesso di lavorare per osservare la scena, e c'era un camion che si avvicinava lungo la strada che avevano appena percorso. Rabbrividì mentre l'aiutavano a salire sull'elicottero e le allacciavano la cintura. Quando sarebbe finito quell'incubo? Avrebbe passato il resto della vita guardandosi sempre alle spalle? Sully scivolò sul sedile accanto a lei, mentre Dan prendeva posto vicino al pilota. Ginny chiuse gli occhi quando il velivolo si sollevò da terra. Ma il suo panico svanì come d'incanto non appena Sully le strinse la mano. «Tutto okay?» A quel punto Ginny deglutì il nodo che le stringeva la gola. «Fino a che questo coso resterà in aria e l'agente Howard e il pilota non si trasformeranno in topi, starò bene.» Sully stava ancora ridendo quando l'elicottero virò bruscamente e si diresse a est. CAPITOLO 11 «Dottor Karnoff, ha altre valigie da portare dabbasso?» «No, solo quelle due» rispose Emile. «Devo ancora fare un paio di telefonate, poi scenderò. Oh... e ho bisogno di un taxi per l'aeroporto.» «Sì, signore.»
Emile aspettò fino a quando il fattorino dell'albergo chiuse la porta, poi tirò fuori dalle tasche della giacca diversi oggetti, compresa un'agenda di indirizzi, prima di andare al telefono. «Centralino, ho bisogno di una linea esterna, per favore. Voglio fare una telefonata negli Stati Uniti.» «Sì, signore. Un momento, signore...» mormorò l'operatore. Emile aspettò il segnale di linea libera e poi compose il numero. Pochi attimi dopo il telefono cominciò a squillare. Quando la chiamata per Virginia Shapiro giunse al St. Louis Daily, la persona all'altro capo del filo non aveva certo idea che la telefonata venisse trasferita all'apparecchio dell'agente Bonnie Smith della polizia di St. Louis. Nel momento in cui il telefono cominciò a squillare, si mise in moto una serie di avvenimenti. Mentre l'agente Smith rispondeva alla chiamata, un nastro si attivò per registrarla e un altro agente si accinse a rintracciarne la provenienza. «St. Louis Daily. Parla Shapiro.» Ci fu un breve momento di silenzio, poi un leggero scatto. In sottofondo, l'agente credette di sentire un rombo, come il suono distante di un tuono. E poi, un altro suono, simile al tintinnio del campanello di una porta, solo più forte del tuono. L'agente corrugò le sopracciglia, aspettando che qualcuno parlasse, ma il tintinnio continuò a ripetersi, una, due volte. Quando ricominciò per la terza volta, lei disse: «Pronto? Pronto? C'è qualcuno?». Avvertì un sussulto di sorpresa, poi un clic. La linea fu interrotta. «Hai scoperto qualcosa?» chiese al collega. «Non sono rimasti in linea abbastanza a lungo per rintracciare la chiamata.» «Accidenti» brontolò Bonnie. «Forse richiameranno. Intanto fai una copia del nastro, poi chiama il detective Pagillia per dirgli che sta arrivando.» Lucy Karnoff era in piedi in corridoio, davanti alla porta della camera di suo figlio. Aveva passato tutta la mattinata dedicandosi ai piccoli dettagli necessari per mantenere presentabili la sua casa e la sua famiglia... e ora questo. Si assolse dai sensi di colpa riguardanti l'origliare con la necessità di essere una buona madre. Come poteva aiutare Phillip, se non sapeva che cosa stava succedendo? Ma quello che suo figlio stava facendo non aveva senso. Sapeva che era solo, eppure stava distintamente parlando come se ci fosse qualcuno in
camera con lui. Lucy premette l'orecchio sulla porta proprio mentre Phillip riprendeva a parlare, rabbiosamente. «Stammi bene a sentire, pazzo bastardo, sono stufo di dover porre rimedio ai tuoi pasticci. Non hai mai sentito parlare di AIDS? E il tuo gusto in fatto di donne... Mio Dio! Vuoi beccarti qualche schifosa malattia?» Non sono io quello che è pazzo, Phil. Sei tu che non riesci a mantenere la testa a posto. Io so chi sono. Sono quello che comanda. Sono quello che sa come mandare al diavolo la gente, il che è più di quanto tu riesca a fare. Se avessi un po' di spina dorsale, diresti al tuo vecchio di andare al diavolo. «Sei disgustoso» affermò Phillip. «Non sono obbligato ad ascoltarti un minuto di più.» Oh, ma è qui che ti sbagli. Io sono Tony. Sono io che conduco il gioco, e non andrò da nessuna parte, idiota, perché sono dentro la tua testa. La sconvolgente verità era più di quanto Phillip potesse sopportare. Cadde in ginocchio, premendosi le mani sulle orecchie, come se potesse bloccare il suono della voce che parlava dentro la sua testa, ma inutilmente. Tony continuava a stuzzicare e a scuotere il sottile diaframma che lo separava dalla follia, e non intendeva smettere. Quello che spaventava maggiormente Phillip era che sentiva che Tony stava diventando più forte, mentre lui perdeva terreno di giorno in giorno. C'erano momenti in cui non credeva di poter continuare. Oh, no. Non ti toglierai di mezzo. Non te lo permetterò. Perdipiù, sei il cocco di mamma, ricordi? Che cosa farebbe senza il suo bambino? «Stai zitto... Stai zitto...» borbottò Phillip a quel punto. Bene. Adesso sono stanco, comunque. Perché non vai un po' a giocare da solo, piccolo? Quando torno, ti mostrerò che cosa significa essere un vero uomo. Phillip si trascinò carponi fino al letto, poi vi si issò e vi cadde di traverso, esausto. «Padre del cielo, perdonami, perché ho peccato» mormorò, e chiuse gli occhi. Lucy si premette le dita sulla bocca e si allontanò silenziosamente. Era peggio, molto peggio di quanto avesse immaginato, e più di quanto potesse affrontare da sola. Corse al telefono e compose il numero dell'albergo di Dublino dove alloggiava Emile, ma lui era già partito. Non aveva modo di sapere come mettersi in contatto, fino a quando lui non avesse chiamato. Per quello che sapeva, poteva essere impegnato in un altro consulto chissà
dove, e il problema di Phillip non poteva aspettare. Doveva esserci qualcosa, nello studio di Emile, che poteva esserle utile. Dopotutto, all'inizio era stata la sua assistente. Sapeva dove teneva i registri e i nastri. L'aveva perfino aiutato a catalogare quelli dei primi tempi. Senza esitazione corse nello studio, ignorando il fatto che Emile si sarebbe molto arrabbiato se avesse saputo che cosa stava per fare. I nastri erano tutti ordinatamente contrassegnati quanto a date e argomenti. Quello di cui aveva bisogno era qualcosa che riguardasse l'automotivazione. Sì, era quello che ci voleva. Phillip aveva bisogno di una spinta nella giusta direzione. Cominciò a far scorrere il dito lungo l'elenco, leggendo mentalmente i titoli. Esplorazione della psiche umana. Schemi comportamentali: genetici o appresi? Rafforzamento della personalità. L'elenco era lunghissimo. Lucy tirò fuori diversi nastri, solo per scartarli subito dopo. Fu solo quando giunse a Messaggi subliminali che si fermò. Ecco quello che le serviva! Phillip non avrebbe mai accettato volontariamente la sua idea. Aveva bisogno di qualcosa che funzionasse mentre dormiva. Mise il nastro nel registratore e lo ascoltò per qualche momento, per assicurarsi che l'etichetta non fosse sbagliata. Il suono familiare della voce di suo marito le fece salire le lacrime agli occhi. Oh, Emile, Emile... ho tanto bisogno di te. Sì, questo avrebbe funzionato, ne era certa. Prese sia il nastro sia il registratore. Quella sera, quando Phillip si fosse addormentato, glielo avrebbe fatto scivolare sotto il letto. Anche se Emile non era fisicamente presente per aiutare suo figlio, lei avrebbe usato le meraviglie della sua scienza per operare la magia. Il detective Anthony Pagillia depose il ricevitore, palesemente soddisfatto. Aveva appena parlato con l'agente Smith. Il fatto che non erano stati in grado di rintracciare la chiamata era quasi irrilevante, rispetto a quello di avere il nastro. Aveva detto alla Smith di farne due copie, una per lui e una da mandare al quartier generale dell'FBI, all'attenzione dell'agente Dan Howard. Batté le mani, palesemente soddisfatto, poi balzò dalla sedia. Quella era la loro prima apertura nel caso. Doveva contattare subito Howard e avvertirlo che il nastro stava arrivando.
Dan Howard stava aiutando Sully a scaricare i bagagli dall'elicottero quando il suo cellulare trillò. «Rispondi pure» disse Sully. «Prendo io l'ultima valigia.» Si incamminò verso la casa, mentre Dan si fermava per rispondere al telefono. «Howard.» «Agente Howard, sono il detective Pagillia, della polizia di St. Louis.» «Sì, Anthony, che c'è?» «Abbiamo fatto centro con il telefono dell'ufficio della signorina Shapiro.» Dan alzò gli occhi. Sully era già in casa. «Magnifico! Avete rintracciato la chiamata?» domandò. «No, è durata troppo poco, ma l'abbiamo registrata. Forse i vostri esperti a Quantico riusciranno a tirarne fuori qualcosa. Mi dicono che per la maggior parte sono rumori. Se qualcuno ha parlato, la mia agente non è riuscita a sentire che cosa diceva.» Dan si incamminò rapidamente verso la casa, mentre Pagillia gli riassumeva ciò che l'agente Smith gli aveva riferito circa il contenuto della telefonata. «In effetti è una gran bella notizia» affermò. «Mandi il nastro al mio ufficio a Washington. Sarò là stasera.» «Sì, signore.» «Ottimo lavoro, detective.» «Grazie, signore. Più presto prenderemo questo pazzo, meglio riusciremo tutti a dormire la notte.» «Proprio così» convenne Dan. «Oh... agente Howard... se è consentito chiederlo, come sta la signorina Shapiro? Ho ricevuto il suo messaggio su ciò che le è successo.» Dan si fermò, non volendo parlare dell'argomento in casa, dove Ginny poteva sentire. «Sta tenendo duro, ed è tutto quello che posso dire. Se l'è vista brutta.» «E l'agente Dean? So che anche lui è rimasto ferito.» Dan ridacchiò. «Oh, sì. Quel farabutto gli ha quasi spaccato la testa, ma è riuscito ugualmente a controllare la situazione prima che fosse troppo tardi. È peggio di una chioccia, con la sua protetta, se capisce quello che intendo dire.» «Sì, lo immagino. Il giorno in cui l'ho conosciuto era piuttosto deciso a
trovare la signorina Shapiro, Be', grazie ancora per le informazioni.» «E grazie a lei per le sue» rispose Dan, e chiuse la comunicazione. «Ehi, Sully!» gridò subito dopo. «Buone notizie!» Ginny aveva fatto per due volte il giro di tutte le stanze della casa, familiarizzando con la disposizione dei bagni e delle camere da letto, e incontrando le inevitabili guardie che sarebbero state loro compagne per la durata della loro permanenza. La casa in sé era carina. Anzi, era più che carina. In un'altra situazione, le sarebbe piaciuto molto viverci. Il lungo edificio in stile ranch guardava a ovest, verso una catena montuosa, e Ginny aveva sentito gli uomini parlare di una riserva indiana verso est. A parte questo, non aveva la minima idea di dove si trovavano. Quello che sapeva era che ogni filo di verde che vedeva era frutto del sistema di irrigazione. Il resto del terreno era arido e desertico, anche se, durante il volo, aveva visto dall'alto molti campi coltivati. Una vera foresta di saguros giganti circondava la casa in ogni direzione, assieme a molte altre varietà di cactus che non riuscì a identificare. Ma i lunghi, massicci cactus con le lunghe braccia spinose puntate verso il cielo le erano familiari, anche se non avrebbe saputo dire il perché. Si trattava probabilmente di qualche ricerca che aveva fatto per un articolo, e che aveva dimenticato fino a quel momento. Seguendo le voci, tornò sui suoi passi fino al soggiorno, notando ancora una volta gli spessi muri a stucco, le finestre alte e strette e gli alti soffitti a cupola. Tutti espedienti per mantenere il fresco e risparmiare energia. Entrò nella stanza giusto mentre Sully batteva una pacca sulla spalla di Dan Howard, sorridendo. «Mi sono persa qualcosa di divertente?» Sully si voltò verso di lei, sempre sorridendo. «Abbiamo un'apertura nel caso. Hanno il nastro di una telefonata sospetta fatta al tuo ufficio al Daily» si affrettò a spiegarle. Ginny si immobilizzò. «Un nastro? Che genere di nastro? Che cosa c'è sopra? Che cos'ha detto la persona che ha chiamato?» «Non l'abbiamo ancora ascoltato» rispose Dan. «So solo quello che mi ha riferito il detective Pagillia. Dice che perlopiù sono rumori di fondo, ma probabilmente in laboratorio riusciranno a tirarne fuori qualcosa.» «Che genere di rumori?» chiese Ginny.
«Be', l'agente che ha preso la telefonata ha detto che sembrava che stesse cominciando un temporale, nel luogo da cui proveniva, perché ha sentito il rumore distante di un tuono. E poi si sentiva come il suono ripetuto, insistente, di una campanella. Pensa che forse la persona che stava chiamando sia stata disturbata da qualcuno che suonava alla porta, e abbia riattaccato.» Un fremito di qualcosa sepolto da molto tempo si agitò nella mente di Ginny. Chiuse gli occhi, cercando di afferrare il pensiero, ma non ci riuscì. Sully notò l'espressione del suo viso. «Ginny, che c'è?» Lei corrugò la fronte, poi scosse la testa. «Non lo so. Niente, immagino. Potremo ascoltarlo?» «Sì, certo, non appena...» cominciò Dan. «No, tu no» lo interruppe Sully, rivolto a Ginny. Lei parve perplessa. «Ma...» «Fino a quando non saprò per certo che la telefonata non innescherà qualche bomba a orologeria nella tua mente, tu non lo ascolterai, okay?» Lei impallidì. «Certo. Non so che cosa stavo pensando.» Sully le appoggiò una mano sulla schiena, poi se l'attirò vicino. «Sai, è per questo che sono qui» le disse. Gli occhi di Ginny scintillarono di lacrime. «Sì... ma per quanto tempo ci sarò io?» Non c'era niente che gli uomini potessero dirle per confortarla. A testa bassa, lei girò sui tacchi e si allontanò. «Il suo atteggiamento non è molto ottimistico» commentò Dan. Sully lo guardò male. «Non lo sarebbe neppure il tuo, se una settimana fa un pazzo avesse cercato di sventrarti come un pesce.» «Scusami tanto» ribatté Dan a quel punto, sollevando le mani in un gesto di resa. «Non intendevo calpestare qualche piede... o qualche cuore.» Lo sguardo di Sully si fece anche più duro, e Dan sorrise divertito. «Non hai qualche altro posto dove andare?» chiese Sully. L'altro consultò l'orologio. «In effetti, sì. Ora, senti, oltre a te ci sono tre uomini di guardia, nessuno dei quali vi starà fra i piedi. Alloggiano nella foresteria, e hanno i loro ordini. A meno che tu e Ginny abbiate bisogno di qualcosa di particolare, a-
vrete pochi o nessun contatto con loro. A proposito, due di loro, Franklin e Webster Chee, sono cresciuti nella zona. Sono Navajos, e fratelli... due dei migliori agenti dell'FBI. Anche l'altro, Kevin Holloway, è in gamba. Ho lavorato con lui in diverse occasioni.» Sully annuì. «Conosco le procedure.» «Già, lo so. Ma non cercare di fare tutto da solo. Sei appena uscito dall'ospedale anche tu, ricordi? Se c'è del lavoro pesante da sbrigare, chiedi aiuto.» Sully sorrise. «Sì, mamma.» Dan gli ricambiò il sorriso. «Bene, se è così che la pensi, allora vieni a dare un bacio alla mamma. Devo partire.» Stavolta, fu Sully a sollevare le mani. «Hai vinto, Howard. Sei troppo brutto per baciarti.» «Sì, ma sono fedele» ribatté Dan. «Dillo a tua moglie. Io non sono interessato.» Dan agitò una mano in segno di saluto. «Mi terrò in contatto.» Sully guardò l'elicottero levarsi in aria e poi sparire nel sole. Si voltò, entrando immediatamente in servizio mentre cominciava il giro della casa, controllando i punti più sicuri e prendendo nota di quelli eventualmente vulnerabili. Fu solo quando uscì nel cortile posteriore, cintato da muri, che ritrovò Ginny. Era seduta presso una piccola piscina, con i piedi a penzoloni nell'acqua. «Perché non fai una bella nuotata?» le chiese. «Probabilmente ti farebbe bene, dopo quel lungo volo.» «Non ho un costume» rispose lei. «Vieni con me» la invitò Sully, e la prese per mano. Lei lo seguì, lasciando impronte bagnate sulle mattonelle rosso scuro, mentre attraversavano la casa. Nella prima camera lungo il corridoio, Sully le indicò un armadio. «Ho ficcato un po' il naso in giro, prima. Guarda dentro. Forse uno di quelli ti andrà bene.» Ginny aprì gli sportelli e trovò un assortimento di costumi da bagno, sia da uomo sia da donna.
«Non sono la prima a fare i bagagli e scappare, immagino» commentò. «Un bel po' di gente dev'essere venuta a rifugiarsi qui.» «Trovane uno anche per me» suggerì Sully. «Intanto io vado a preparare qualcosa di fresco da bere.» Ginny sorrise e cominciò a frugare sui ripiani e nei cassetti. Forse la permanenza là non sarebbe stata troppo spiacevole, dopotutto. Sully stava aggirandosi nella ben fornita dispensa alla ricerca di uno spuntino quando Ginny entrò in cucina. Si era raccolta i capelli in una coda di cavallo in cima alla testa, e il solo costume della sua misura che aveva trovato era un bikini nero. Era abbastanza castigato, nel suo genere, ma era proprio quello che non c'era da mostrare a preoccuparla. Ancora una volta desiderò di avere più carne sulle ossa per riempire un bikini, e se si fosse trovata con chiunque altro che non fosse stato Sully non avrebbe avuto il coraggio di indossarlo. «Ho messo sul letto qualche costume che potrebbe andarti bene» gli disse. «Che cosa abbiamo da bere?» gli domandò poi. Lui sorrise e si voltò, con un pacchetto di cracker in mano. Il sorriso gli morì sulle labbra. Aveva visto molte volte i lividi sul viso e sulle braccia di Ginny, ma era la prima volta che vedeva quelli che aveva sul corpo. Anche se stavano scolorendo, erano un ricordo anche troppo vivido di ciò che aveva subito. «Rimpiangerò di non avere ucciso quell'uomo per il resto della vita» mormorò a denti stretti. Ginny arrossì e si strinse le braccia attorno alla vita in un gesto di difesa. «Non fare così» disse Sully, e le staccò le braccia dal corpo. «È solo...» Lui le prese il viso fra le mani. Ginny rimase immobile, osservando il mutare delle espressioni sul suo viso... e seppe che stava per baciarla. Era come se avessero aspettato quel momento fino dalla notte in cui lui aveva bussato alla sua porta, fradicio di pioggia. «Sully...» «Zitta...» sussurrò lui, poi le passò gentilmente il pollice sul taglio del labbro. «Non voglio farti male.» «Sono un tipo tosto, ricordi?» E inoltre, mi farai male in ogni caso quando te ne andrai. Lui respirò a fondo, lentamente, e chinò la testa. Le labbra di Ginny erano morbide. Affondandole le dita fra i capelli, Sully l'attirò più vicino, avvertendo l'esitazione, e poi la risposta a una domanda inespressa... una
domanda che non era sicuro di poter porre. Fu lui il primo a interrompere il bacio, con un gemito represso. Poi appoggiò la fronte a quella di Ginny, sentendo il tepore del suo respiro sul petto. «Perdonami, Ginny. Non dovevo farlo.» Due piccole rughe le comparvero fra le sopracciglia, mentre studiava l'espressione del suo viso. Poi, scosse la testa e si allontanò. Sully fece per richiamarla, ma non sapeva che cosa dire. Diavolo, sì, voleva fare l'amore con lei. Più di quanto avesse mai desiderato qualsiasi altra cosa in vita sua. Ma si era già distratto una volta, e la sua imprudenza era quasi costata la vita a Ginny. Rimase sulla porta di cucina fino a quando non fu certo che lei fosse al sicuro nell'acqua. Uno degli uomini di guardia fece capolino da dietro l'angolo della casa, giusto per il tempo sufficiente a mostrare a Sully che era là. Tranquillizzato, per il momento, circa la sicurezza di Ginny, lui andò a cambiarsi. Ginny aveva tentato di nuotare per una vasca, ma aveva trovato eccessivo lo sforzo e si era accontentata di aggrapparsi al bordo della piscina, lasciandosi avvolgere dall'acqua. Era un vero refrigerio, in quella calura quasi insopportabile, e lei ebbe finalmente modo di guardarsi intorno e di scoprire qualcosa di più sull'ambiente che la circondava. Fu il silenzio a colpirla. Niente automobili. Niente aerei. Niente sirene. Neppure un suono di voci. Solo l'acqua che sciabordava contro il lato della piscina e l'occasionale ronzio dell'impianto centralizzato di condizionamento che entrava in funzione. «Ginny, esci un momento dall'acqua.» Lei alzò gli occhi. Sully era in piedi poco distante, con in mano un flacone di plastica. Da quella angolazione, sembrava alto tre metri. «Lozione solare» spiegò lui. Ginny si toccò le braccia. Scottavano già. «Oh, giusto.» Gli porse una mano, e lui la tirò fuori dall'acqua. «Ahi, il cemento brucia» brontolò, saltellando da un piede all'altro. Sully gettò a terra un asciugamano. «Sali su questo» le consigliò. Lei posò i piedi sulla spugna con sollievo. «Non ci vorrà molto» disse lui. «Devo slacciare il reggiseno per cospargerti la lozione sulla schiena.» Ginny annuì e afferrò la parte anteriore del reggiseno con entrambe le
mani. E poi le mani di Sully, scivolose per la lozione, cominciarono a massaggiarle le spalle. Fu un riflesso incontrollabile che la spinse a irrigidirsi, ma Sully lo avvertì. Si fermò immediatamente. «Maledizione, Ginny, mi dispiace. Non ci ho pensato. Forse preferisci farlo da te, piuttosto che sentirti addosso le mani di un uomo.» Lei scosse la testa. «No. Non essere sciocco. Era solo una reazione istintiva. La lozione era fredda, ecco tutto.» Mentiva, e lui lo sapeva, e questo lo rese anche più attento a non lasciare che i suoi desideri gli prendessero la mano. «Farò presto» le assicurò. «China la testa, per favore. Devo metterti un po' di lozione sul collo.» Ginny ubbidì, assorbendo la sensazione delle sue dita che le strofinavano e le massaggiavano la pelle. L'immagine di Carney Auger a cavalcioni sul suo corpo le balenò alla mente, ma prima che il panico potesse sopraffarla, i lineamenti dell'uomo cominciarono a trasformarsi in quelli di Sully. Tutto a un tratto, anche il terrore era sparito, sostituito dalla sensazione del corpo di Sully sopra il suo. Sapeva, senza bisogno di provare, che avrebbe fatto l'amore magnificamente, come peraltro faceva tutto il resto. Interamente concentrato su di lei, senza altro pensiero che quello di darle piacere. Si lasciò sfuggire un gemito. Lui si fermò. «Ti faccio male, cara?» «No, è bellissimo.» Gesù. «Okay, penso che ora basti» sostenne Sully. «Ora mettila sulle gambe.» Le porse il flacone e si tuffò nella piscina, grato di potersi nascondere nell'acqua tiepida. Doveva frapporre una barriera fra sé e quella donna, ed era la sola cosa che avesse a disposizione. Ginny si allacciò il reggiseno e si passò rapidamente la lozione sulle gambe. Quando si rialzò, Sully era davanti a lei, in attesa, immerso nell'acqua fino al petto. «Sei pronta a tornare dentro?» le domandò lui a quel punto. «Sì.» «Hai bisogno d'aiuto?» «Posso farcela da sola» rispose Ginny... e poi rimase un po' delusa,
quando lui si allontanò con poche bracciate. La cena, quella sera, si svolse in un'atmosfera tesa quasi quanto quella volta, nel capanno, in cui avevano litigato. Solo che adesso Sully era in grado di guardare indietro e sapere che cosa c'era stato alla base della loro ostilità. Attrazione. Diavolo, sì. Attrazione sessuale. Ma c'era di più, almeno da parte sua. Nel momento in cui ne aveva visto la fotografia, Ginny era diventata qualcosa di più di un'amica di Georgia... più di una possibile vittima. Era diventata reale. E poi, quando si era infilato fra le lenzuola del suo letto e aveva posato la testa sul guanciale su cui lei aveva dormito la sera prima, era stato come toccare la sua pelle. Le era arrivato troppo vicino, troppo in fretta, e ormai era tardi per rimediare. Si stava innamorando, e il momento non era di certo dei migliori. Ginny cercò di non fissarlo, ma la sua disinvolta grazia era impossibile da ignorare. In polo bianca e pantaloni sportivi azzurri, sembrava appena uscito da un catalogo di moda maschile. Quell'aria hollywoodiana era inaspettata, specie dopo i jeans e le magliette che aveva indossato al campeggio. Si chiese se avesse portato quegli indumenti con sé, o se li avesse racimolati sul posto. Anche la piccola chiazza di capelli che avevano dovuto rasargli per ricucirgli il cuoio capelluto stava cominciando a ricrescere. Si sposava benissimo con la pettinatura piuttosto arruffata che sembrava prediligere. «Il tuo hamburger non è abbastanza cotto?» chiese lui, notando che non ne aveva mangiato più di tre bocconi. Ginny sbatté le palpebre e guardò il piatto. «Oh... no... è buonissimo.» Improvvisamente affamata, prese il panino con entrambe le mani e gli diede un bel morso. Sully scosse la testa e si servì una seconda porzione di insalata di patate. Non era saporita come quella di sua madre, ma, conoscendo il talento di Ginny per la cucina, qualunque piatto pronto era il benvenuto. «Ti sei scottata un po', oggi pomeriggio» commentò, indicando il suo naso. Lei annuì, inghiottendo un boccone. «Dubito che si spellerà, comunque» aggiunse Sully. «È solo un po' arrossato.» Ginny posò l'hamburger e si tamponò le labbra con il tovagliolo di carta.
Quel modo di girarsi attorno in punta di piedi la stava innervosendo, e non poco. Dovevano smettere. «Sully, finiscila.» Sorpreso, lui inghiottì il boccone masticato solo a metà. «Finire che cosa?» «Questo... questo chiacchierare del più e del meno. Santo cielo, negli ultimi giorni ne abbiamo passate insieme abbastanza da superare quella fase.» Sully posò la forchetta e si appoggiò allo schienale. «E così, basta chiacchierare del più e del meno, eh?» «Sì, per favore» rispose Ginny, spazzolando via distrattamente una briciola dal suo unico vestito e pensando che avrebbe dovuto trovare al più presto una tintoria, o sarebbe rimasta del tutto senza indumenti. Poi ricordò la lavatrice e l'asciugatrice che aveva visto poco prima. «E allora, di che cosa vogliamo parlare? Di sicuro non dell'incidente che ci ha spediti entrambi in ospedale. E senza dubbio non sei dell'umore giusto perché io ti trascini di nuovo sui carboni ardenti a proposito della Montgomery Academy?» «Be', no, non esattamente.» «Allora, a parte scambiarci storie sulla nostra infanzia, argomento che, più o meno, abbiamo esaurito al capanno, rimangono il sesso e i giochi da tavolo, e sono sicurissimo che non abbiamo un Monopoli.» Ginny sussultò, ma non poteva lasciar passare quel commento. Non un'altra volta. «Di che cosa parlano gli uomini quando si incontrano?» «Sport, lavoro, ragazze e sesso.» Ginny fece una smorfia di disgusto. «Non dirai sul serio?» Sully sorrise. «No, ma sono riuscito a scuoterti, non è vero?» Lei lo guardò male per un intero secondo, poi sorrise. «Sei proprio impossibile, eh?» Il sorriso di Sully si spense di colpo. La sua voce si abbassò. «Tesoro, sono così possibile che scoprirlo potrebbe farti girare quella dolce testolina.» Ginny ebbe una rapida visione di corpi nudi e sudati, prima di alzarsi bruscamente. «Dove vai?» chiese Sully.
«A prendere un po' d'aria.» «Ma fuori fa più caldo che qui.» «Non ci scommetterei...» brontolò Ginny, e uscì dalla sala da pranzo, lasciandolo a interpretare come meglio poteva il suo commento. Sully fece per seguirla, poi si fermò. Ecco che c'era ricascato. Aveva flirtato mentre avrebbe dovuto starsene zitto. Rabbiosamente, cominciò a raccogliere le stoviglie per portarle in cucina. Le avrebbe lavate più tardi. Anche se Ginny non voleva compagnia, non poteva perderla di vista. CAPITOLO 12 Ginny credeva di essere sola, ma ben presto si rese conto che non era così. Un momento era in piedi vicino alla piscina ad ascoltare lo sciabordio dell'acqua contro i bordi... e un attimo dopo sentì all'orecchio la voce di Sully. «Vieni dentro con me.» Lei si voltò a guardarlo, nel chiaro di luna, e desiderò di potergli leggere nella mente. «Ti prego» aggiunse Sully. Lei sospirò, poi sorprese entrambi rifugiandosi fra le sue braccia e appoggiandogli la testa sul petto. «Non conosco le regole di questo gioco» mormorò. «Abbiamo attraversato una linea che non ho visto fino a quando non è stato troppo tardi per tornare indietro. La verità è che non sono sicura che mi sarei fermata, in ogni caso.» Fu l'istinto che spinse Sully a stringerla a sé, ma fu lo stupore che gli impedì di parlare. Ginny stava mettendo a nudo la propria anima, e lui non trovava il coraggio per rispondere. «Non è neppure culto dell'eroe» aggiunse lei, alzando gli occhi a guardarlo, nell'ombra. «Anche se tu hai dimostrato per ben due volte di essere il mio eroe.» Sully scosse la testa, costringendosi a rimanere immobile. Ma, buon Dio, desiderava fare l'amore con lei là, al chiaro di luna, più di quanto avesse mai desiderato qualunque altra cosa in vita sua. «So che ci tieni a me, Sully. Ma quello che non so è quanto. È il senso del dovere che fa di te il mio cavaliere dalla bianca armatura, o non è nient'altro che sesso?» «Diavolo» borbottò lui. Avrebbe voluto scrollarla, ma non poteva di-
menticare i suoi lividi. «Non c'è niente da fare, è proprio tipico delle donne. Avete sempre bisogno di analizzare ogni cosa.» «Forse. O forse è solo la giornalista che è in me. Ho bisogno di conoscere tutti i fatti, prima di procedere.» Lui non rispose, e la sua freddezza le spezzò il cuore. Ma non aveva alcuna intenzione di farglielo sapere. «Scusa» disse. «Credo di avere commesso una gaffe, ma non preoccuparti, non avrò una crisi isterica solo perché un uomo non mi vuole.» Si liberò dalle braccia di Sully e poi, all'improvviso, rabbrividì. «Sai una cosa, Sully? Ti sbagliavi. A proposito della temperatura, intendo. Fa più fresco qui fuori che in casa. E io sono stanca. Molto stanca. Me ne vado a letto, e quando mi sveglierò domattina tutto questo non sarà stato nient'altro che un brutto sogno.» Lui sentì le lacrime nella sua voce, e fu perduto. Che fosse giusto o sbagliato, aveva raggiunto il limite della resistenza. «Aspetta.» L'intensità nella sua voce fermò Ginny, ma non poté indursi a voltarsi a guardarlo. «Che c'è?» mormorò. «Credi forse che io non ti voglia? Mia cara, resto sveglio la notte a pensare a tutti i modi in cui vorrei fare l'amore con te. Sogno di essere dentro di te così profondamente che lasciarti è una sofferenza, e di guardare il tuo sguardo farsi liquido di piacere. E non è né dovere, né sesso. Non so come chiamarlo, ma so che passerò il resto della vita con il tuo viso impresso nella mente.» Le sfiorò la nuca, stringendo per un momento nel pugno una manciata dei suoi morbidi capelli scuri. «Vuoi la verità? Eccola. Ho paura di toccarti. Ho una tremenda paura che se lo facessi, tu rivedresti quello che ti è successo con Carney Auger... che se ti prendessi fra le braccia, vedresti lui, e non me.» Ginny si voltò, sbalordita. «Oh, Sully, no! Mai. Mai con te. Ho dormito fra le tue braccia, ricordi? Mi hai tenuta stretta a te in ospedale, e quando mi sono svegliata, il mattino dopo, è stato con il profondo rimpianto che le cose non fossero diverse. Tante volte avevo pensato come sarebbe stato... svegliarmi accanto a te, voglio dire. Mi ero aspettata che avremmo fatto l'amore, quella notte, prima che... E dopo... non volevo che mi vedessi tutta ammaccata, e brutta, e sconvolta.» Le parole di Ginny affondarono nella mente di Sully come un coltello,
penetrando attraverso difese che non sapeva neppure di avere. Senza riflettere, l'attirò a sé, e quando lei gli fece scivolare le braccia attorno alla vita, seppe di essere perduto. «Ginny, tu sei bellissima. Quello che hai subito è brutto... non tu.» Lei alzò gli occhi a guardarlo. Riusciva appena a distinguere i suoi lineamenti, nonostante il chiaro di luna. Ma la colpì il pensiero che non aveva bisogno di vederlo per sapere la verità. Bastava il tono della sua voce e la tenerezza del suo tocco. Sospirò e chinò la testa, appoggiandogli la fronte sul petto. «E così...?» Sully fu costretto a sorridere. Ginny era davvero tenace come un cane che non volesse mollare un osso. «E così, sto ammettendo che c'è qualcosa di importante fra noi. Dunque è questo che tu volevi sentire?» «Sì.» «C'è qualcos'altro che posso fare per te?» brontolò Sully. «Come tagliarmi la gola prima di apparire ancora più stupido?» Lei non rispose. Per un lungo momento, rimasero a fissarsi intensamente. «C'è una parte di me che ha paura di lasciarsi andare e fidarsi fino in fondo. Oh... so che fisicamente ti prenderai cura di me nel modo migliore, ma è il mio cuore che è in pericolo, e in questo momento ho bisogno di credere che stai dicendo la verità.» «Maledizione, Ginny, non so che cos'altro...» «Aspetta» supplicò lei, posandogli un dito sulle labbra. «Quello che sto cercando di dire è che... che se questa è solo un'illusione, se mi stai solo dicendo quello che pensi abbia bisogno di sentirmi dire... non voglio saperlo.» Ferito, Sully lottò contro l'impulso di andarsene. Ma c'era una parte di lui che la capiva... quasi. Aveva già perduto tanto. Ed era ancora in pericolo. Non era il momento di donare a qualcuno l'unica cosa che le era rimasta... il suo cuore. «Te lo chiedo ancora una volta...» mormorò lui a quel punto. «Torna dentro con me...» «Sì, penso che sia l'ora.» La luna disegnava chiazze di luce sul pavimento mentre Sully spogliava Ginny. Razionalmente, lei sapeva che cosa stava per succedere, ma era
come se guardasse se stessa da una grande distanza. Niente sembrava reale. Il suo vestito blu scuro giaceva come una pozza di inchiostro sul pavimento, quasi invisibile nell'ombra. Il respiro di Sully era tiepido contro il suo viso mentre le passava le mani dietro la schiena per slacciare il reggiseno. Il fresco dell'aria condizionata fece inturgidire i capezzoli, come in attesa di essere toccati. E fu quello che lui fece. Ginny sussultò quando la lingua di Sully tracciò un cerchio intorno al primo. Quando lui passò all'altro, prendendolo fra i denti, lei lo strinse più vicino, per accrescere il piacere di quella piccola sofferenza. E, mentre Ginny respirava sempre più affannosamente, Sully le fece scivolare le mani sui fianchi, poi sotto l'elastico delle mutandine, finendo di svestirla. Ancora una volta chinò la testa, mordicchiandole, succhiandole il lobo dell'orecchio. Poi, lui la sollevò fra le braccia e la depose in mezzo al letto, passando alla seconda fase della sua opera di seduzione. Ginny lo guardò mentre si svestiva, rivelando il petto ampio, il ventre piatto, le lunghe gambe muscolose. Ancora prima che finisse, la sua eccitazione era evidente... e vagamente inquietante. Lui la sentì trattenere il respiro e allora si azzardò a guardarla. «Non ti farò male.» «Non è questo.» «Hai paura? Tutto quello che devi fare è dire di no, e me ne andrò.» «No... non è come pensi.» «Che cos'è allora?» chiese Sully. «Voglio che questo accada... lo voglio tanto. Voglio che sia importante per te quanto lo è per me» gli confidò. «Perché mi sembra di avvertire un ma?» «Non fraintendermi.» Lui sospirò. «Ginny, sono qui davanti a te, indifeso quanto può esserlo un uomo. Dimmi quello che hai da dire. Vedrai la mia reazione, buona o cattiva che sia.» «Questa prima volta... non so come sarà. Ma ho bisogno di cancellare i brutti ricordi. Puoi farlo per me? Puoi perdonarmi se esiterò... se trasalirò o comincerò a piangere? Mi amerai in ogni caso? Ho bisogno di chiudere gli occhi e vedere qualcos'altro, oltre alla faccia di quell'uomo sopra di me.» Le mani di Sully tremavano, quando si sdraiò accanto a lei. Dio, Ti prego, aiutami a non fare niente di sbagliato. Quando le sfiorò l'addome con
la mano, lei trasalì. «Sully, io...» «Zitta. Non parlare. Senti, e basta. Se ti aiuta, chiudi gli occhi, piccola. E qualunque cosa tu faccia, per l'amor del cielo, ricordati che sono io.» Due lacrime traboccarono agli angoli degli occhi di Ginny e affondarono nel guanciale. Sully si sollevò sul gomito e le asciugò con un bacio. Poi, cominciò un viaggio attorno a Ginny che nessuno dei due avrebbe mai dimenticato. Strisciò verso il fondo del letto e si mise a sedere, poi prese fra le mani un suo piede e cominciò a massaggiarlo delicatamente, prima la pianta, poi il tallone e la caviglia, cancellando tutta la tensione. Ginny cominciò a rilassarsi e, quando lui passò all'altro piede, era preparata al sollievo che il massaggio le avrebbe arrecato. Quando, a un certo momento, Sully cominciò a risalire lungo le gambe, lei sapeva, ormai, che sarebbe andato tutto bene. Quella totale accettazione del tocco di Sully sul suo corpo non era stata facile, ma l'aveva conquistata. Adesso, le sue mani si muovevano su tutta la lunghezza delle gambe, sui polpacci, poi sulle cosce. Sempre massaggiando, qualche volta affondando i pollici in un nodo di muscoli irrigiditi, mescolando un lieve dolore a uno squisito piacere. Quando le mani si fermarono sulle cosce, lei comprese la meta di quel lungo viaggio. Il bisogno di aprirsi a lui la sbalordì. Ma, con suo stupore, Sully si limitò a sfiorarla appena e passò all'addome. Leggermente, senza mai dimenticare le sue contusioni, le passò con delicatezza le mani sulla pelle fino a quando Ginny si sentì come una corda di chitarra troppo tesa. Quando le sfiorò i seni e poi strinse i capezzoli fra le dita, si inarcò verso di lui, con una reazione istintiva, aggrappandosi alle sue braccia. «Non ancora, piccola, non ancora» lo sentì sussurrare. Riluttante, Ginny lo lasciò, affondando invece le dita nel materasso. Sully era quasi al limite della resistenza, eppure non poteva... non voleva... soddisfare il proprio desiderio fino a quando non fosse stato certo che il piacere di lei sarebbe stato pari al suo. Il respiro di Ginny era rovente contro il suo viso, quando si chinò a baciarla. Appena lei gli affondò le dita fra i capelli e gli afferrò il labbro inferiore fra i denti, seppe che era il momento. Si mosse rapidamente, posizionandosi sopra di lei, ma sempre attento a non gravarla con il suo peso. Poi, le posò le mani sulle cosce, facendole scivolare verso l'alto, fino a toccare il cuore della sua femminilità. Quello era il punto dove il piacere iniziava e finiva. Quello era il momento della
verità. «Ginny, apri gli occhi.» Mentre lei sollevava le palpebre, il tocco di Sully si fece più intimo. Ma il panico che avrebbe potuto coglierla vedendolo sopra di sé sparì di fronte al piacere che provava. Lui la sentì sospirare e, quando gli si inarcò contro, seppe che il momento era davvero venuto. La guardò. Aveva di nuovo chiuso gli occhi, e si era completamente abbandonata al tocco delle sue mani. Quasi pazzo di desiderio, doveva agire adesso, prima che fosse troppo tardi. «Piccola...» Fu la nota di supplica nella sua voce che la riportò alla realtà. Aprì gli occhi proprio nel momento in cui Sully cambiava posizione. Lo vide per un attimo abbassarsi... e poi lo sentì dentro di sé, fino in fondo. «Guardami. Guardami.» L'urgenza della sua voce era inconfondibile. Ginny lo guardò, e per un attimo il tempo parve fermarsi. Il suo corpo vibrava sull'orlo di un orgasmo interminabile. Il viso di Sully era cupo, i muscoli contratti nello sforzo di tenersi al di sopra di lei, deciso a non pesarle addosso fino a quando non fosse certo che sapesse che era lui. Ma Ginny lo sentiva profondamente dentro di sé, pulsante, e voleva di più. Senza parole, gli strinse le braccia attorno al collo e lo attirò contro il proprio corpo. Era tutto quello che lui aveva bisogno di sapere. Affondò dentro di lei ancora più profondamente e, quando Ginny si inarcò per andargli incontro, cominciò a muoversi. L'orgasmo la travolse in pochi secondi. Sully lo avvertì nel suo gemito soffocato, negli spasmi dei suoi muscoli... e smarrì del tutto la razionalità. L'orologio digitale segnava le quattro del mattino passate da poco quando Ginny si svegliò. Aveva bisogno di andare in bagno, ma sciogliersi dalle braccia di Sully senza svegliarlo sarebbe stato impossibile. «Sully, ho bisogno di alzarmi.» Lui fu immediatamente sveglio. «Stai bene?» «Sì. Devo solo andare in bagno.» «Okay.» Sully la lasciò, poi rimase a guardare il riflesso della luce morente della luna sul suo corpo, mentre attraversava la stanza. Quando fu scomparsa, rotolò su se stesso e chiuse gli occhi, ma la consapevolezza che lo aveva
accompagnato durante il sonno era più viva che mai. Era innamorato di lei, punto e basta, e il sesso non c'entrava affatto. Oh, certo, quello somigliava al sogno di un adolescente. Ma in vita sua lui non aveva mai fatto l'amore essendo anche innamorato, e la combinazione era stata qualcosa di molto vicino a un'esplosione nucleare. I suoi istinti protettivi funzionavano al massimo, scontrandosi con il bisogno di dominio. Non sapeva se mettere Ginny su un piedistallo o trascinarla giù e usare il piedistallo come guanciale mentre faceva l'amore con lei come un pazzo. Quando la sentì tornare a letto, rotolò sul fianco e le aprì le braccia. Lei vi si rifugiò senza protestare, appoggiandogli la testa sulla spalla e posandogli un braccio sul petto. Pochi secondi dopo era di nuovo profondamente addormentata. Sully rimase così, senza muoversi, mentre il cuore gli si gonfiava nel petto. E così, quello era l'amore. Maledizione. Se era così bello, perché lui era tanto spaventato? Il vento si era levato dopo il tramonto, annunciando un cambiamento nel tempo. Lucy sperò di tutto cuore che piovesse. I suoi fiori avvizzivano nelle aiuole, e l'erba cominciava a ingiallire. Prese mentalmente nota di trovare lo spruzzatore, l'indomani, e di metterlo in funzione. Emile non doveva tornare in una casa meno che perfetta. Era seduta alla scrivania, occupata a rispondere distrattamente ad alcune lettere personali ricevute la settimana prima, ma senza la gioia che quel compito le procurava abitualmente. Continuava a pensare a Phillip. Era tanto cambiato, negli ultimi due anni! Un tempo era stato così docile, disposto ad aiutarla senza fare questioni. Quel lato così brutto di lui era più che preoccupante. C'erano momenti in cui ne aveva addirittura paura. Scosse la testa. Che sciocca. Avere paura di suo figlio! Era ridicolo. Lanciò un'occhiata all'orologio mentre applicava il francobollo all'ultima lettera. Era il momento. Phillip sarebbe stato addormentato, ormai. Lo aveva osservato prendere una pillola di sonnifero, mentre gli scopriva il letto. Normalmente gli avrebbe contestato l'opportunità di un rimedio così drastico, ma stavolta favoriva i suoi piani. I suoi passi erano leggeri mentre si affrettava lungo il corridoio con il registratore stretto al seno. Oh, Emile sarebbe stato orgoglioso di lei, se avesse conosciuto l'iniziativa che stava prendendo. E avrebbe funzionato. Doveva funzionare. Niente doveva interferire con il sorgere della stella di suo marito, neppure i problemi del loro unico figlio.
Trattenne il respiro, sbirciando nella camera. Phillip era disteso sul fianco, con le spalle alla porta. Il suo respiro regolare, interrotto di quando in quando da un leggero russare, indicava chiaramente che poteva procedere. Si sfilò le scarpe davanti alla porta e attraversò la stanza a piedi nudi, poi si inginocchiò accanto al letto e vi fece scivolare cautamente sotto il registratore. Il volume era già regolato, tuttavia avrebbe aspettato il tempo sufficiente per essere certa che non fosse abbastanza alto da svegliare Phillip. Dopotutto, il nastro era programmato per raggiungere la mente a livello subliminale. A quel punto Lucy si fermò per un lungo istante a guardare il suo ragazzo, chiedendosi al contempo se sarebbe mai diventato un uomo. Le sarebbe piaciuto avere una nuora, qualcuno con cui potersi confidare, un'altra donna che avrebbe condiviso il suo amore per la casa, che le avrebbe dato quei nipotini che desiderava disperatamente. Ma Phillip sarebbe dovuto essere assai più di quello che era in quel momento, perché ciò accadesse. Non aveva neppure un lavoro fisso. Mantenere una famiglia, per il momento, era impensabile. Lucy non aveva mai notato il suo scarso interesse per l'altro sesso. Era convinta che, quando avesse incontrato la donna giusta, tutto sarebbe andato a posto. Mettendo da parte le sue preoccupazioni, si chinò a premere il tasto Play, poi si affrettò a rialzarsi. Ascolterai la mia voce e solo la mia voce. Libererai del tutto la tua mente. Tutti i pensieri sono cancellati, come il gesso da una lavagna. Sei ai piedi di una lunga scala, e in cima c'è una bellissima luce. Seguirai la mia voce su per la scala, e insieme giungeremo alla luce. Tu con me. lo con te. Lucy rabbrividì. Dopo tutti quegli anni, la sola cosa di Emile che non era cambiata era la voce. Quella bellissima, autoritaria, magnifica voce. Diede un'ultima occhiata a Phillip per assicurarsi che fosse ancora addormentato, uscì in punta di piedi dalla stanza e raccolse le scarpe. Prima di chiudere la porta, si voltò a lanciargli un bacio. «Dormi bene, amore mio» sussurrò. «La mamma sta mettendo tutto a posto.» Dan Howard gettò da parte il rapporto che gli era stato consegnato poco prima e represse un'imprecazione, mentre andava alla finestra.
«Non posso credere che non ci sia niente che possiamo usare.» Il tecnico si strinse nelle spalle. «Mi dispiace, signore, ma abbiamo fatto del nostro meglio. Non ci sono messaggi nascosti, né parole sussurrate. Niente, a parte quello che sente anche lei...» mormorò. «Un maledetto campanello che suona e un lontano rombo di tuono. Ci manca solo qualcuno che fischietti, per rendere la cosa un po' più divertente.» «Mi dispiace, signore. Se non c'è altro...» Il tecnico lasciò la frase in sospeso, aspettando di essere congedato, cosa che l'agente Howard fece prontamente. Rimasto solo nella stanza, cercò di fare il punto sul caso. Fondamentalmente, quello che avevano era zero. Sei donne morte, e nessun nuovo indizio. Doveva chiamare Sully. Forse il cielo si era aperto mentre dormiva e gli aveva lasciato cadere in grembo la soluzione di quel pasticcio. Tornò alla scrivania e sfogliò lo schedario fino a quando non trovò il numero che cercava, poi lo compose. Solo dopo guardò l'orologio e si rese conto che forse era un po' troppo presto. Oh, al diavolo. Il tempo e il crimine non aspettavano nessuno. Quando il telefono cominciò a squillare, Ginny si svegliò di soprassalto, con il cuore in gola e la mente confusa. Sulle prime, non riuscì a ricordare dov'era. Si aspettava che Sully rispondesse da qualche altro apparecchio, e impiegò un momento ad accorgersi di un rumore d'acqua che scorreva. Guardò in direzione del bagno. Lui doveva essere sotto la doccia. «Sully!» gridò, ma non ottenne risposta. Il telefono squillò ancora, e ancora. Ginny balzò giù dal letto e corse alla porta del bagno. «Sully! Telefono!» Il rumore dell'acqua cessò. Un attimo dopo lui uscì di corsa, lasciandosi dietro una scia bagnata. «Pronto?» «Sully, sono io, Dan.» Sully fece a Ginny un segnale di okay, e poi, sempre a cenni, le chiese un asciugamano. Lei sparì in bagno con un sorriso. «Che succede?» chiese Sully. «Il nastro è stato un fallimento.»
«Sei sicuro?» «Il laboratorio non ha potuto identificare assolutamente niente che possa fornirci un indizio.» «Maledizione.» «Senti, a rischio di farti infuriare, e di far correre un pericolo a Ginny, vorrei che lei ascoltasse la registrazione.» «Non lo so» disse Sully, scoccando un'occhiata a Ginny, che stava uscendo dal bagno portando un paio di asciugamani. «Che c'è?» chiese lei. «Solo un momento» disse Sully a Dan. Coprì il microfono con la mano. «Dan dice che il nastro è inutile. Il laboratorio non ha trovato niente che possa aiutarci.» «Sono sicuri?» Sully si strinse nelle spalle. «Pensano che non ci sia niente, ma Dan vuole che tu lo ascolti lo stesso.» Ginny rimase per un lungo momento a testa bassa, fissando la scia di impronte bagnate che Sully si era lasciato dietro. «Senti, tesoro, non sei obbligata a farlo. Anzi, preferirei che non...» «Digli di portarlo.» Ora che era stata Ginny a prendere la decisione, fu Sully a farsi assalire dal panico. Sarebbe stato molto più facile dire semplicemente di no. Ma era la vita di lei a essere in una fase di stallo, e Dan aveva detto che in realtà non c'era niente da sentire. Non se la sentiva di rifiutare. «Sei sicura?» Ginny annuì. Lui sospirò e riprese a parlare al telefono. «Dan, Ginny dice di portare qui il nastro. Lo ascolterà. Ma ti avverto... Se succede qualcosa di brutto...» «È tutto sotto controllo» rispose Dan. «Sarò lì questo pomeriggio.» «Va bene. Oh... Dan?» «Sì?» «Intanto che vieni, ti dispiacerebbe portare un paio di bottiglie di champagne millesimato e dei cioccolatini?» Gli occhi di Ginny si illuminarono di compiaciuto interesse. «Che cosa diavolo abbiamo da festeggiare?» gli domandò l'amico. «Non ho detto che sia qualcosa che ti riguarda» borbottò Sully, vagamente imbarazzato. «Tu portali, okay?»
Dan ridacchiò. «Oh. Lei. Non dirmi che il grande Sullivan Dean ci è cascato.» «Non sono affari tuoi» scattò Sully. «Fai come ti ho chiesto, e basta.» «Okay, okay, non scaldarti. O... magari, sì» aggiunse Dan, sempre ridacchiando. Sully riattaccò e stava per voltarsi quando qualcosa di morbido e tiepido gli strofinò i polpacci. Buon Dio, Ginny lo stava asciugando. Rimase immobile, in silenzio, godendosi la sensazione delle sue mani sul corpo, fino a quando lei non gli passò l'asciugamano fra le gambe. Allora si voltò, glielo tolse dalle mani e lo gettò sul pavimento. «Vuoi stare sotto o sopra?» «L'uno e l'altro» rispose lei, e lo sorprese con una risata. A quel punto Sully la spinse all'indietro sul materasso e, senza neppure un bacio che potesse passare per un preliminare, penetrò dentro di lei. Era ancora bagnato, ma in pochi istanti avrebbe giurato che tutta l'acqua si era trasformata come d'incanto in vapore. CAPITOLO 13 Erano passate due ore dalla telefonata di Dan Howard, e Sully sapeva di dover scendere dal letto e vestirsi. L'ultima cosa che voleva era dover subire commenti salaci sul fatto che si era innamorato della donna che avrebbe dovuto proteggere. Circolava tutta una serie di vecchie battute a proposito di situazioni del genere, all'FBI. Ma quello che provava per Ginny non aveva nulla a che vedere con le chiacchiere da spogliatoio. Era innamorato, e il suo stato d'animo variava fra l'ossessionato e il semplicemente possessivo. Ginny era in bagno, adesso. Sully sentiva scorrere l'acqua della doccia, e la tentazione di raggiungerla era quasi troppo forte per resistervi. Ma la represse scendendo dal letto e andando in camera sua, dall'altra parte del corridoio, e poi cercando qualcosa da mettersi fra la sua limitata scorta di indumenti. Mentre frugava nel cassetto in cui teneva le camicie pulite, sentì qualcosa di duro sotto la stoffa. Spostando le camicie, vide il retro della copertina di un libro, ma fu solo quando lo prese e lo voltò che si rese conto di che cos'era. Gli uomini di Howard dovevano averlo infilato fra le camicie quando avevano impacchettato la sua roba e quella di Ginny, e nel disfare frettolosamente i bagagli lui non lo aveva notato. Non riusciva a credere di
essersene di nuovo dimenticato. «Be', diavolo» borbottò. «Dev'essere colpa della botta in testa che mi ha assestato Auger.» Ginny non l'aveva ancora visto, e c'era sempre la possibilità che facesse scattare qualche ricordo utile. Sully si vestì rapidamente e si affrettò a tornare in camera di lei con l'annuario in mano. Ginny, con i capelli ancora bagnati, si stava infilando una maglietta. «Il mio asciugacapelli non funziona più. Ne hai uno?» Sully notò un tremito nelle sue labbra, ma non vi badò molto, sul momento. «Sì, tesoro, aspetta solo un minuto. Vado subito a prenderlo.» Era a metà strada quando ricordò. Auger aveva cercato di legare Ginny con il cordone dell'asciugacapelli. Dio solo sapeva che cosa le era passato per la mente quando aveva preso in mano quel maledetto aggeggio. Tornò con il proprio, deciso a far sparire quell'espressione sconvolta dal viso di Ginny. «Siediti, e io ti asciugherò i capelli mentre tu darai un'occhiata all'annuario di Georgia.» «Oh, santo cielo!» esclamò Ginny. «Me n'ero completamente dimenticata.» «Già, anch'io» ammise lui, e subito dopo si strofinò la cicatrice sulla testa. «Non c'è troppo da stupirsi, eh?» Lei annuì, cercando di non pensare al sangue sul viso di Sully e al peso del corpo di Auger che la inchiodava sul pavimento. «È troppo caldo?» chiese Sully, orientando il getto dell'aria verso la sua testa. «Un po'. Prova la temperatura media, okay?» «Detto fatto, piccola. Ora tira su i piedi e fatti un giretto sul sentiero dei ricordi. E se vedi qualcosa che possa aiutarci a risolvere il caso, fammi un fischio. Abbiamo un tremendo bisogno di un'apertura. Ho segnato le pagine con le foto della tua classe e di quella speciale.» «Okay.» Mentre si concedeva il piacere di concentrarsi sulla sensazione delle mani di Sully che le ravviavano i capelli, separando le ciocche in modo che l'aria calda potesse circolare meglio, i brutti ricordi cominciarono a impallidire. «Se mai decidessi di cambiare lavoro, saresti un buon parrucchiere» commentò.
«Non lo farei per nessun altro, all'infuori di te...» mormorò lui. «Troppo macho?» «Sì.» «Perlomeno sei onesto» concesse Ginny, sorridendo fra sé, mentre apriva l'annuario alle pagine che lui aveva segnato. In quel momento le tornò alla mente il primo giorno di scuola, e come lei era stata spaventata... fino a quando non aveva conosciuto Georgia. Georgia, con le treccine e le lentiggini, tutta risate e vivacità, saltava dalle altalene allo scivolo come una farfalla troppo felice di volare per fermarsi. Che bei momenti avevano passato! Non sembrava possibile che Georgia non ci fosse più, che nessuna di loro ci fosse più... tranne lei. Sospirò. Guardare quei visetti sorridenti, così inconsapevoli di ciò che il destino aveva in serbo per loro, era come guardare dei fantasmi. Sully spense l'asciugacapelli e si chinò su di lei. «Tutto bene?» Ginny annuì. Lui sapeva bene che era difficile per lei, ma era necessario farlo. «Niente che faccia risuonare qualche campanellino?» «Non proprio. Non ho più rivisto Frances, dopo l'incendio della scuola. Con le altre, ci siamo viste di tanto in tanto. Alcuni dei loro genitori sono rimasti a vivere nella zona in cui siamo cresciute.» Ginny toccò i visi nella fotografia con la punta del dito. «Eravamo così giovani.» Sully si accosciò accanto a lei. «Ricordo di avere notato qualcosa di diverso in questa fotografia, quando l'ho vista per la prima volta fra le cose di Georgia.» «Che cosa?» «Be'... vedi quest'altro gruppo di foto? In ognuna c'è un insegnante o uno dei finanziatori della scuola. Ma non nella vostra. Perché?» Ginny corrugò le sopracciglia. «Non lo so.» «Probabilmente non significa nulla. Forse era ammalato, quel giorno.» Il solco fra le sopracciglia di Ginny si approfondì. «Ma il nome dovrebbe essere elencato, no?» «Ammalato?» ripeté Sully. «Era un uomo?» Lei sbatté le palpebre e alzò gli occhi. «Non so perché ho parlato al maschile. Non ricordo se era un uomo o una donna. Mi è venuto così, d'istinto.» «Hai detto che non ricordi chi fosse, ma lo riconosceresti se lo vedessi in
queste foto, vero?» le chiese lui. «Non lo so. Era il mio primo anno di scuola, ricordi? Ed ero così timida. Se non fosse stato per Georgia, probabilmente non avrei pronunciato una parola per tutto l'anno.» «Tu? Timida?» Lei sorrise. «Devi sapere che è una fase che io ho superato crescendo» gli confidò. «Guarda di nuovo l'annuario, attentamente. Se vedi qualcuno che ti è familiare, dimmelo. Io vado a mettere su il caffè. Dan dovrebbe essere qui da un momento all'altro, ormai, e se lo conosco sarà la prima cosa che chiederà, ancora prima di varcare la porta» disse Sully. «Okay.» «Continua a guardare. Torno subito.» Ginny fissò la copertina del libro, poi cominciò a studiare il viso di ciascun insegnante. Alcuni li ricordava vividamente, altri erano solo nomi che aveva sentito. La signora Milam era stata la sua maestra di prima elementare, e la trovò subito in mezzo agli altri. Quando arrivò alla fine, si era convinta che, chiunque fosse stato l'insegnante della classe speciale, non era nell'annuario. «Che cos'hai trovato?» chiese Sully, rientrando nella stanza. «Niente. Chiunque fosse, lui non c'è.» «Continui a dire lui.» Lei esitò, poi annuì. «Sì, per qualche ragione mi sembra corretto. Ma non riesco a ricordare un viso o un nome, solo la sensazione di una presenza imponente.» Sully corrugò la fronte. Era una strana parola da associare a un insegnante. «Che cosa ne pensa Dan?» chiese Ginny. Sully sorrise. «Vorrà la mia testa, per prima cosa. Non gli ho mostrato il libro.» «Perché?» «Non lo avevo, al principio. La mia conversazione iniziale è stata con il direttore, e principalmente a proposito delle altre donne. Gli ho passato tutte le informazioni che avevo ricevuto da Pagillia. Georgia era morta, e io ero sotto shock.» Sully cominciò a camminare avanti e indietro, ricordando. «Mi sentivo in colpa per non essere stato presente quando aveva bisogno di me, ed ero infuriato perché credevano che si fosse suicidata. Conosco... conoscevo Georgia come una sorella, e so che è l'ultima cosa che a-
vrebbe mai fatto.» Si passò le mani fra i corti capelli, scompigliandoli più di quanto lo fossero già. «Poi, è diventata una corsa contro il tempo per trovarti prima che ci riuscisse qualcun altro. Dopo avere ritirato l'annuario al convento, l'ho gettato nella valigia e non ci ho più pensato. Quando ti ho trovata, avevo altre cose per la testa. E dopo Carney Auger... be', non avevo gran che in mente, a parte te. Non molto professionale, eh?» Lei sorrise. «Non mi sto lamentando.» «Tu no, ma Dan lo farà.» «Ma adesso ho visto l'annuario, e non ho trovato niente che abbia un qualche rapporto con il caso. A parte il fatto che non c'è l'insegnante di quella classe, s'intende.» «Sì, ma se Dan riuscisse a rintracciare qualcuno degli insegnanti della scuola, loro potrebbero dirci qualcosa che tu non sai.» «Oh, non ci avevo pensato.» Ginny sfogliò rapidamente il libro, in cerca di una pagina che aveva visto poco prima. «Ecco» disse, indicando una foto. «Questo è il signor Fontaine. Era il direttore. Era così gentile... Se qualcuno può ricordare quell'insegnante, credo proprio che sia lui. Aveva fondato la scuola, e assumeva o licenziava tutto il personale.» Sully guardò Ginny con nuovo rispetto. «Ottimo lavoro, cara. Può darsi che tu mi abbia tirato fuori dai guai con Dan.» «Non c'è problema, è stato un vero piacere» ribatté lei. «Riscuoterò il mio compenso più tardi... in baci.» Sully fece l'atto di prenderla fra le braccia per cominciare subito a saldare il debito, ma proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta. «Vado io...» borbottò lui. «Probabilmente è una delle guardie.» Infatti, quando aprì la porta, Franklin Chee lo salutò con un cenno, poi entrò. Vestito con una camicia troppo grande che penzolava fuori dai jeans, poteva passare per un turista in vacanza. «Che c'è?» chiese Sully. «Ha appena chiamato il capo. Dice che tarderà un po'. Qualcosa a proposito di certi cioccolatini che ha dimenticato.» Sully rise. «Okay, grazie.» Poi fece cenno a Ginny di avvicinarsi. «Ginny, ti presento Franklin Chee. Lui e suo fratello, Webster, sono cresciuti nella zona. L'altro agente è Kevin Holloway. L'hai visto ieri mentre eri in piscina.» Ginny sorrise e tese la mano.
«Grazie per essere qui» disse. «Quando questo incubo è cominciato, pensavo di dovermela cavare da sola. Non sa che cosa significa per me la vostra presenza qui.» Franklin Chee annuì, evitando con cura di fissare i tagli e i lividi ancora evidenti sul suo viso. «È il nostro lavoro, ma stavolta è anche un piacere» rispose quietamente. «Sarebbe così gentile da comunicare la mia gratitudine anche a suo fratello e al suo amico?» «Sì, signorina.» L'agente si rivolse a Sully. «Hai bisogno di qualcosa?» «Un miracolo?» Stavolta, Franklin sorrise. «Sono in gamba, Sully, ma non fino a questo punto. I Navajos sono tipi notevoli, ma non abbiamo ancora imparato a camminare sull'acqua.» Ginny sorrise mentre Sully rideva di cuore. Per un momento, si sentì quasi tranquillizzata. Se non si concentrava troppo sul loro problema, poteva fingere che Franklin fosse solo un amico che era venuto a trovarli. Ma poi lui si voltò per andarsene, e in quel movimento lei ebbe una rapida visione della pistola sotto la camicia... e all'improvviso il gioco fu finito. Sully chiuse la porta. Quando si voltò, Ginny era sparita. «Ginny?» «In cucina.» Lui la raggiunse. «E così, abbiamo un po' di tempo. Dan è per strada, ma il suo arrivo non è imminente quanto avevo immaginato.» Lanciò un'occhiata all'orologio. Era già l'una passata. «Hai fame, tesoro? Se è così, dillo.» «Quegli uomini rischiano la vita ogni giorno, vero, Sully?» Lui si appoggiò al piano di lavoro e incrociò le braccia sul petto, studiando la sua espressione seria. «Sì, ma è una scelta che abbiamo fatto quando siamo entrati nell'FBI. Non è molto diverso dall'essere un poliziotto. Semplicemente, pattugliamo un'area più vasta.» «Sì, lo immagino. Ma questo non mi impedisce di sentirmi in colpa perché siete qui a causa mia.» «No, ti sbagli. Siamo qui perché qualcuno ha causato la morte di sei donne. Non sappiamo ancora come, ma sappiamo che è così.» Ginny sospirò. «Credo che la parte più difficile di tutto questo, per me, sia che non posso essere in mezzo all'azione. Sono una giornalista. Sono abituata a inda-
gare per scoprire i fatti, non a nascondermi.» «Situazioni straordinarie richiedono misure straordinarie. Tu sei un bersaglio, Ginny. Se vuoi vivere, devi stare nascosta.» «Ma è una cosa che odio...» borbottò lei. «Già, anch'io. Ma c'è una parte di me che sa riconoscere una sgradevole verità. Se niente di tutto questo fosse successo, non ti avrei mai incontrata, e non riesco a immaginare che tu non faccia parte della mia vita. Ho imparato una cosa, facendo per anni questo lavoro, ed è che se vuoi sopravvivere devi rimanere obiettivo. Non posso essere obiettivo per quello che riguarda te. Sono troppo vicino al fuoco, per così dire.» Sully sorrise e la prese fra le braccia, accarezzandole la schiena per allentare la tensione che sentiva in lei. «In un modo o nell'altro, noi scopriremo chi fa quelle dannate telefonate, e allora avremo il nostro uomo. Fino ad allora, tu resti qui.» «Okay.» «Okay. Ora, che ne dici di mangiare qualcosa? Probabilmente Dan arriverà quando avremo finito, e potrà godersi gli avanzi mentre gli spieghiamo ciò che sappiamo dell'annuario. Forse questo lo metterà di buonumore.» «Hai fame anche tu?» chiese Ginny. «Sì, ma non di cibo... di te.» Sully le mordicchiò il labbro e vi passò lievemente sopra la lingua. «Sully, io...» Lui scosse la testa e se la tenne stretta sul cuore, lottando contro la paura di non riuscire a proteggerla. «Ti vanno dei panini al prosciutto?» Ginny sospirò. «Ci metterò dei ravanelli, se ti fa piacere.» Lei gli nascose il viso sul petto. «Non la smetterai mai di prendermi in giro per quei ravanelli, eh?» Sully sorrise. «Solo perché sei una donna, non vuole automaticamente dire che tu sappia cucinare. Ora, vuoi quei panini, o no?» «Sì, ma posso prepararli io.» Lui esitò, poi si strinse nelle spalle. Non era facile rovinare un panino al prosciutto, neppure per Ginny. «Sicuro, perché no? Nel mio ci voglio la senape.» «Formaggio?» «Sì, certo, mettici anche un po' di formaggio. Pane, prosciutto, senape e
formaggio.» «Non agitarti» brontolò Ginny. «Non saboterò il tuo panino.» «Grazie» ribatté lui. Diceva sciocchezze di proposito, e lei lo sapeva. «Non c'è di che» rispose, e poi sorrise. «Ora vattene e lasciami fare la brava massaia.» «Io sarò in soggiorno a guardare la televisione.» «Come preferisci» concluse Ginny, cominciando a tirare fuori dal frigorifero gli ingredienti per il pranzo. Sully la guardò un'ultima volta nervosamente e se ne andò, rammentandosi che l'amava, e perciò avrebbe mangiato qualunque cosa le sue manine avessero preparato. Anche a rischio della vita. Fu solo quando ebbe allineato tutti gli ingredienti sul tavolo e fu pronta a mettere insieme i panini che Ginny si rese conto che sarebbero stati molto normali. E allora, come poteva impressionare Sully con la sua arte culinaria? Ignorando completamente il fatto che non possedeva alcuna abilità da esibire, cominciò a frugare in cassetti e scaffali, alla ricerca di qualcosa che potesse rendere più emozionante il pranzo. Si rammentò che Sully aveva chiesto una specifica combinazione, perciò avrebbe dovuto averla. Comunque, non aveva detto nulla circa il modo in cui doveva essere presentata e, quando le capitò in mano un set di stampini per biscotti, il suo genio creativo entrò in azione. Sully stava facendo distrattamente zapping, mentre tendeva l'orecchio per sentire arrivare Dan, quando Ginny lo chiamò dalla cucina. «Sully?» «Sì?» «Il pranzo è pronto.» «Sto morendo di fame» commentò lui. «Spero che tu abbia preparato...» Il suo sguardo si posò sul vassoio dei panini, e per quanto tentasse di nascondere lo sbalordimento, l'espressione del viso di lei gli disse che non c'era riuscito molto bene. «Sono conigli.» Ginny lottò contro l'impulso di dargli una botta in testa, mentre versava il tè freddo nei bicchieri. «No. Sono panini al prosciutto e formaggio a forma di coniglio.» «Già, giusto, è proprio quello che intendevo.» «Allora, non ti siedi?» chiese lei. «Dopo di te» rispose Sully, e le accostò la sedia, il che gli fece guada-
gnare un punto a suo favore. Ma quando si sedette a sua volta, e poi toccò il primo coniglio della pila con la punta della forchetta, Ginny sbuffò. «Sono morti, credimi.» Lui la guardò male. «Non assumere quell'atteggiamento difensivo, Virginia. Non ho detto una sola parola contro la tua cucina.» «Sei così convenzionale» brontolò lei. Si mise nel piatto due conigli, poi vi aggiunse una manciata di bastoncini di carote e un paio di olive farcite, per guarnizione. Sully si sentì al sicuro, servendosi delle verdure. Perlomeno, avevano una forma riconoscibile. «Non sapevo che ti piacessero le olive» commentò, mettendosene in bocca un paio. «In effetti non mi piacciono» rispose Ginny, e diede un morso all'orecchio di un coniglio. Sully fissò il suo piatto, sapendo che stava per dire la cosa sbagliata. Ma aveva bisogno di sapere, non foss'altro per futura referenza. «Se non ti piacciono le olive, perché te le sei messe nel piatto?» Ginny alzò gli occhi al cielo, come se quella fosse la domanda più stupida che avesse mai sentito. «Perché sono carine, ecco perché. Le guarnizioni sono importanti nella presentazione delle vivande.» «Oh. Già. Giusto.» «Santo cielo» borbottò Ginny, addentando un altro orecchio. «Che domanda sciocca.» Sully si mise in bocca un bastoncino di carota, ritenendo più sicuro avere qualcosa da masticare. Ma il suo stomaco brontolava, e il profumino del prosciutto e del formaggio era troppo stuzzicante per ignorarlo. Scoccò un'occhiata in direzione della finestra, per assicurarsi che nessuno vedesse quello che stava per fare, e poi si mise furtivamente tre conigli nel piatto. Finì il primo in due bocconi e, con sua sorpresa, lo trovò ottimo. «Davvero buono, Ginny.» Resistendo alla voglia di sorridere, lei annuì. «Grazie.» «Credo di avere visto una bottiglia di condimento in frigorifero. Ne vuoi un po' sulle carote?» le propose lui. «Sicuro. Buona idea.» Ora che si muoveva di nuovo su un terreno più sicuro, Sully si alzò e
andò al frigorifero. Stava cominciando a imparare come si trattava con una donna. Qualunque cosa facesse, apprezzarla. Se faceva qualcosa di strano, ignorarlo. Quando piangeva, tenerla abbracciata. E se era arrabbiata, non chiedere il perché, ma scusarsi in ogni caso. Avrebbe risparmiato un sacco di tempo più tardi. Prese la bottiglia di condimento e stava per tornare al tavolo, ammirando la tenera curva del suo collo, quando sentì il rumore familiare di un elicottero che si avvicinava. «Dev'essere Dan» osservò Ginny, alzandosi. «Prendo un altro piatto.» Sully guardò nervosamente il tavolo. Oh, diavolo, Dan non la finirà mai di prendermi in giro per questo. «Probabilmente non avrà fame» affermò. «Hai finito? Ti aiuto a riordinare.» Ginny prese la bottiglia e lo spinse fuori dalla cucina. «No, non ho finito. Abbiamo appena cominciato. Ora vai incontro al tuo amico e digli di affrettarsi. Il pane si sta seccando.» «Sembra impossibile» brontolò Sully, uscendo. «Maledizione, come ho lasciato che succedesse?» Dan entrò senza bussare. «Sono venuto portando doni» annunciò, consegnandogli lo champagne e una grande scatola, avvolta in carta dorata, dei migliori cioccolatini che era riuscito a trovare. E, di sua iniziativa, aveva aggiunto una dozzina di rose rosse a gambo lungo. «Ho pensato che lei meritasse qualche coccola, giusto, amico?» «Grazie» rispose Sully. «Ti sono debitore.» «Esatto. Un paio di centinaia di dollari dovrebbe coprire la maggior parte della spesa.» «Avrai i tuoi soldi» promise Sully, e poi esitò. L'ultima cosa che voleva era che i sentimenti di Ginny venissero feriti. Doveva avvertire Dan di che cosa stava per mangiare, in modo che non dicesse niente di sbagliato. Ma aveva aspettato troppo, Ginny li aveva già raggiunti. «Ehi, bellissima!» l'apostrofò Dan. «Ti sono mancato?» Ginny sorrise. «Questo posto ti è piaciuto tanto che non hai potuto starne lontano, eh?» «Per te» si affrettò a dire Sully, mettendole in mano i fiori, nella speranza di ritardare l'inevitabile. Il sorriso di Ginny fu tanto luminoso da rischiarare la stanza.
«Oh, Sully... non ricordo neppure l'ultima volta in cui qualcuno mi ha offerto dei fiori.» Visto che se la stava cavando così bene, Sully pensò di puntare al massimo e le consegnò anche i cioccolatini. «Oh, santo cielo!» esclamò lei deliziata. «Sono in paradiso.» «Lo champagne dopo, visto che hai le mani occupate.» Sully guardò Dan freddamente. «E poi, aspetterò che lui se ne sia andato.» Ginny esitò, poi seguì il proprio istinto e gli diede un rapido bacio sulla guancia. «Grazie» mormorò. «È meglio che metta le rose nell'acqua.» Il suo sorriso era particolarmente luminoso quando guardò Dan. «Abbiamo appena cominciato a pranzare. Vieni a mangiare con noi.» «Magnifico!» esclamò lui. «Sto morendo di fame.» Le prese il braccio e lasciò la stanza. Sconfitto, Sully li seguì. Oh, che diavolo. Sono solo conigli. «Devo lavarmi le mani, prima di mangiare» disse Dan. «Il bagno è in fondo al corridoio» lo informò Ginny. «Non occorre. Userò il lavello di cucina...» mormorò lui. Si lavò rapidamente e si voltò, asciugandosi le mani. «Che cosa c'è per pranzo?» chiese, avvicinandosi al tavolo. «Solo panini al prosciutto e formaggio» rispose Ginny. «Siediti.» Dan prese una sedia, poi lanciò un'occhiata curiosa al tavolo. «Dove sono i...» Il calcio negli stinchi non solo lo sorprese, ma quasi gli vece salire le lacrime agli occhi per il dolore. «Che diavolo ho...» Sully gli porse il vassoio. «Prendine un paio» disse lentamente, scandendo le parole. L'occhiata che si scambiarono fu breve, ma una volta che Dan ebbe visto i panini, non gli ci volle molto a capire. Con viso impassibile, si mise tre conigli al prosciutto e formaggio nel piatto, aggiungendovi debitamente carote e olive, anche se avrebbe preferito delle vecchie, semplici patatine. Ammiccando a Ginny, addentò un panino e poi alzò gli occhi al cielo con aria esageratamente estatica. «Mmh... Non ricordo quando è stata l'ultima volta che ho mangiato coniglio.» Ginny gli lanciò in testa un'oliva, con aria disgustata.
Lui sorrise e masticò un altro boccone. Dopo qualche momento, commentò: «Sono davvero molto buoni». «Lo so» ribatté Ginny. «Allora posso farti una domanda. E non è per essere faceto, okay? Voglio saperlo sul serio.» Ginny sospirò. «Avanti.» «Perché conigli?» Anche Sully si chinò in avanti per sentire meglio, grato che Dan avesse chiesto quello che anche lui moriva dalla voglia di sapere. «Perché sono carini» rispose Ginny. I due uomini la guardarono, poi si scambiarono un'occhiata. A loro credito, mantennero un'espressione assolutamente seria. «Be', sicuro. Sono carini» convenne Dan. E per dimostrare che diceva sul serio ne fece danzare uno nell'aria, prima di metterselo in bocca. CAPITOLO 14 Il pranzo era ormai finito da tempo, e Sully aveva confessato la sua dimenticanza a proposito dell'annuario. Con suo sollievo, Dan non sembrava arrabbiato, e stava esaminando le fotografie, trascrivendo rapidamente i nomi e prendendo nota, accanto a ciascuno di loro, delle risposte che Ginny dava alle sue occasionali domande. «Bene... molto bene» affermò. E poi, scoccando un'occhiata a Sully: «Mi fa piacere che ti sia deciso a mettermi a parte». Sully sospirò. Si era aspettato anche di peggio. Ginny guardò male Dan e decise di cambiare discorso. «Sarà difficile rintracciare questi insegnanti? So che il signor Fontaine ha cessato ogni attività, dopo l'incendio. La mamma mi ha raccontato la storia un'infinità di volte.» «Si possono trovare» la rassicurò Sully. «È duro nascondersi allo zio Sam.» «Ma se lo trovaste e lui non ricordasse nulla? Ormai deve avere almeno ottant'anni, forse più. Sono passati oltre vent'anni, e a me sembrava già vecchio.» «Non lo so» disse Dan. «Dovremo procedere un passo alla volta, ecco tutto.» Poi aggiunse: «Ma ci hai aiutato moltissimo. Questo ci offre una
nuova prospettiva da cui procedere. Avevamo già cercato di ottenere una lista degli insegnanti, ma tutto è andato distrutto in quell'incendio». «Devi ringraziare Georgia per questo, non noi» precisò Sully. «È stata lei a mettere insieme tutte queste informazioni.» Abbassò improvvisamente gli occhi, e la sua voce si fece più sommessa. «Peccato che non siano servite a salvarle la vita.» Ginny gli appoggiò la testa sulla spalla e fece scivolare la mano nella sua. «Se lo avessi chiesto a lei, ti avrebbe risposto che la sua vita era già stata salvata.» La semplice verità delle parole di Ginny fu un balsamo per l'anima di Sully. Le passò un braccio attorno alla vita e la strinse a sé per un momento. Dan si alzò bruscamente. «Devo fare rapporto. Torno fra pochi minuti.» Uscì dalla stanza, lasciandoli soli. «Passerà la notte qui» disse Sully. Lei si strinse nelle spalle. «Ci sono due camere libere.» Sully le sfiorò le labbra con le sue. «Non ti dispiace che sappia che stiamo insieme?» «No.» Poi Ginny corrugò la fronte, riflettendo. «Non è visto di buon occhio che un agente fraternizzi con una testimone? Non avrai delle grane o qualcosa del genere, vero?» Sully si strinse nelle spalle. «No, e inoltre non è un caso mio, ma di Dan. Io sono qui perché ho chiesto di esserci, non per servizio. Perciò, quello che faccio sono affari miei. Pensavo piuttosto a te.» «Io ho ventisette anni, quasi ventotto. Sono una donna moderna in ogni senso della parola. Non voglio, né ho bisogno del permesso di nessuno per fare sesso, o, quanto a questo... per innamorarmi.» Sully rimase senza parole. Era la prima volta che Ginny pronunciava la parola amore, e lui non aveva il tempo per rispondere. Dan era già di ritorno. «Quasi dimenticavo questo» disse, e lanciò un oggetto a Sully. «È la registrazione?» Dan annuì. Ginny afferrò il braccio di Sully.
«Voglio sentirla.» Quando lui esitò, aggiunse: «Vi prego. Siete entrambi qui. Non posso assolutamente farmi del male. Inoltre, Dan dice che il laboratorio non ha trovato niente di utile, ricordi?». «Sì, ricordo» brontolò Sully, sfiorando la piccola scatola di plastica. «Ma la cosa non mi piace affatto.» «Ne prendiamo nota» dichiarò Ginny. «Hai portato il registratore?» Dan consegnò anche l'apparecchio a Sully. Lui inserì la cassetta, poi esitò, con il dito sul pulsante Play. «Voglio sentirlo prima io» disse. «Per me va bene» rispose Ginny. «Me ne starò seduta qui ad aspettare che voi due abbiate finito di governare la mia vita.» Ignorando il suo sarcasmo, Sully si spostò in corridoio, senza pensare che il soffitto a volta era un ottimo conduttore del suono. Lanciò ancora un'occhiata a Ginny, decise che era a distanza di sicurezza e premette il pulsante. La prima cosa che sentì fu il tuono, lontano, ma distinto. Poi cominciò il suono della campanella, prima grave, poi sempre più acuto, come se si muovesse lungo una scala. La serie si ripeté tre volte, prima che il nastro diventasse muto. «Non ha molto senso, vero?» commentò Sully. «Solo un tuono e un campanello a cui nessuno risponde.» «Lo so, ed è questo che è così maledettamente frustrante» convenne Dan. «Perciò, facciamolo sentire a lei, okay? Forse le dirà qualcosa, o forse no. Non vedo che male potrebbe farle.» «Sì, va bene, ma...» Sully guardò dentro la stanza e dimenticò quello che stava per dire. C'era qualcosa nel modo in cui Ginny stava seduta che non sembrava normale. «Ginny?» Lei aveva gli occhi chiusi, il mento chinato sul petto, e nella sua postura c'era una specie di tensione, come se aspettasse qualcosa. «Oh, diavolo...» borbottò Sully, affidando il registratore a Dan e balzando attraverso la stanza. Cadde in ginocchio e guardò in faccia Ginny. «Dan! Vieni qui. Subito!» Afferrò Ginny per entrambe le braccia. Quando era successo? E, peggio ancora, che cosa diavolo avevano fatto? «Ginny!» La scosse leggermente, e lei gli si afflosciò sul petto. Dan lo afferrò per la spalla.
«Che succede?» «Dimmelo tu!» sbraitò Sully. Tirò in piedi Ginny con uno strattone. «Ginny! Ginny! Per l'amor di Dio, svegliati!» La testa di Ginny ciondolò sul collo come quella di una bambola di stracci. Sully la scosse di nuovo, poi le prese il viso fra le mani e cominciò a urlare. «Ginny! Ginny! Svegliati!» Con immenso sollievo, vide le sue palpebre vibrare, ma quando finalmente lei aprì gli occhi il sollievo fu di breve durata. L'espressione di Ginny era vacua. «Gesù» sussurrò Sully. Non era mai stato altrettanto spaventato in vita sua. E poi, l'istinto di conservazione ebbe la meglio sulla paura. «Virginia! Guardami, maledizione! Apri gli occhi, è tutto finito. Qualunque cosa sia successa, è tutto finito. Mi senti?» Lei sbatté le palpebre una, due volte e Sully colse l'attimo in cui la realtà riprese il sopravvento, perché glielo lesse negli occhi. «Sully?» «Oh, Dio» mormorò lui, stringendola forte fra le braccia. Le mani gli tremavano e il cuore gli martellava nel petto. Avevano scherzato imprudentemente con qualcosa che loro non capivano, e l'avevano quasi perduta senza sapere il perché. «Mi dispiace, mi dispiace. Lo giuro, cara, non sapevamo...» «Non sapevate che cosa?» chiese Ginny. «Quando potrò sentire quel nastro?» Dan fischiettò fra i denti, poi scosse adagio la testa. «Credo che sia quello che hai appena fatto.» Ginny cominciava a spaventarsi. «Che cos'è successo? Che cosa ho fatto?» domandò lei. «L'acustica» sbottò Sully, lanciando un'occhiata all'alto soffitto a volta. «Diavolo, non abbiamo pensato all'acustica. Deve avere sentito tutto quello che abbiamo sentito noi.» «Già, ma noi che cosa abbiamo sentito?» chiese Dan. «Che cosa ho fatto?» ripeté Ginny, alzando sempre più la voce a ogni parola.«Qualcuno vorrebbe rispondere alla domanda, prima che mi metta a urlare?» «Hai perso conoscenza come se si fosse spenta una luce» disse Sully. «Per noi non ha significato nulla. Solo la registrazione di un tuono lontano e poi di qualcuno che suonasse con insistenza un campanello.»
Qualcosa si agitò in fondo alla mente di Ginny, ma era troppo indistinto per identificarlo. «Il tuono mi fa sempre sentire...» «Insonnolita» completò Sully. «È vero. Me l'avevi già detto.» Guardò Dan. «I temporali la fanno cadere quasi in uno stato di...» «Trance» intervenne Ginny, chiedendosi per la prima volta se quello stato letargico che ricordava di avere sperimentato per tutta la vita non fosse naturale, dopotutto. «Fatemelo risentire» disse. «Diavolo, no» scattò Sully. «Mi avete già fatta riprendere una volta. Potete rifarlo. E inoltre, se fosse stato un equivoco? Avete visto che cos'è successo? Mi stavate osservando?» Nessuno dei due rispose. «È quello che immaginavo. Nessuno di voi può essere certo cha la causa sia stata la registrazione. Fatemela risentire. Adesso. Davanti a voi, in modo che non ci sia possibilità di errore.» «Allora facciamo venire anche gli altri» propose Sully. «Voglio tutti i testimoni possibili. Qualcuno potrebbe notare qualcosa in più di noi.» «Buona idea» commentò Dan, e si diresse alla porta. Sully avrebbe voluto discutere ancora, ma quello era un lato di Ginny che non aveva mai visto. Aveva assunto il controllo della situazione, ed era determinata a fare a modo suo. Preoccupato, le ravviò una ciocca di capelli dal viso. «Tanto perché tu lo sappia...» «Ho capito. Prendo nota del tuo voto contrario.» Lui corrugò le sopracciglia, ma, prima che potesse fare altri commenti, Dan tornò con gli altri agenti. Evidentemente aveva spiegato loro la situazione, poiché nessuno sembrava sorpreso della richiesta. «E va bene» disse Sully. «Voglio che osserviate attentamente il comportamento di Ginny. Qualcosa in questo nastro le ha fatto perdere conoscenza. Quando sarà tutto finito, voglio delle opinioni. A meno di portarla di corsa da uno dei nostri specialisti, ipotesi che non ho ancora scartato...» Ginny gli mise una mano sul braccio. «Sully... sentiamo il nastro.» Lui avrebbe voluto agguantare quel dannato aggeggio e dargli fuoco, ma non avrebbe risolto nulla. Da qualche parte il colpevole stava aspettando che abbassassero la guardia, e a quel punto Ginny sarebbe diventata un'al-
tra delle sue vittime. La guardò ancora una volta e vide la determinazione nei suoi occhi. Allora annuì. Quando lei si appoggiò allo schienale della poltrona, premette il pulsante di avvio e alzò il volume. Si sentì il tuono, come un'eco di una distante montagna. Ginny rabbrividì. I suoi occhi si spalancarono. Sully trattenne il respiro mentre cominciavano a risuonare le note della campanella, sovrapponendosi al rumore del temporale, dapprima basse, poi sempre più acute. Gli occhi di Ginny divennero vacui. La testa ciondolò sul collo, poi il mento si piegò verso il petto. Sully emise un grugnito come se gli avessero assestato un pugno allo stomaco. Anche se il suono di campanelle si ripeté ancora due volte, Ginny non ebbe altre reazioni. Era come se stesse aspettando. Ma che cosa? Sully spense il registratore, poi guardò gli altri. Erano sbalorditi quanto lui. Mise da parte l'apparecchio, e aveva allungato le mani verso Ginny quando Franklin Chee gli afferrò all'improvviso il braccio, trattenendolo. Lascia fare a me, gli comunicò con il solo movimento delle labbra. Poi si accosciò davanti a lei, studiando il suo viso senza toccarla. «Ginny... mi senti?» Quando lei annuì, per Sully fu come un secondo pugno. «Ginny, è tempo che ti svegli, adesso. Conterò all'indietro a partire da dieci, e quando dirò: Ora, aprirai gli occhi e ti sentirai bene. Sei pronta?» Lei sospirò, poi annuì di nuovo. «Dieci. Nove. Otto. Sette. Ti senti più leggera, più sveglia. Puoi sentire il suono della mia voce meglio di prima. Sei. Cinque. Quattro. È quasi mattino, e tu sei pronta a svegliarti. Quando aprirai gli occhi ti sentirai contenta e riposata, e non avrai paura. Tre. Due. Uno. Ora!» Ginny alzò gli occhi, vide l'agente Navajo in ginocchio e sorrise. «È una proposta di matrimonio?» Franklin Chee sorrise, alzandosi. «Credo che l'agente Dean vorrebbe la mia testa, se solo ci pensassi» affermò. Poi si voltò a guardare gli altri uomini. «Come hai fatto?» chiese Sully. «In qualche momento della sua vita deve essere stata sottoposta a una suggestione post-ipnotica che non è mai stata rimossa.» «Ma non ho sentito parole sul nastro» osservò Dan.
«Non è necessario che si tratti di parole. Può essere qualunque cosa, anche una serie di suoni. A qualunque stimolo sia stata condizionata a rispondere, è quello che le fa perdere i sensi. Dopo, si tratta solo di aspettare le istruzioni. Dovete sapere che è un metodo piuttosto comune, come un trucco da salotto in cui un ipnotizzatore di professione può esibirsi a un party.» «Come lo sapevi?» chiese Sully. Franklin si strinse nelle spalle. «L'ho letto in un libro.» «Sto cominciando a pensare che tu abbia più risorse di quelle che saltano all'occhio» commentò Dan. «Forse dovrei leggere più attentamente il tuo fascicolo.» «Ragazzi...» Gli uomini smisero di parlare fra loro e guardarono Ginny. «Perdonatemi se interrompo la discussione, ma l'ho fatto di nuovo?» «Oh, sì» rispose Sully. «Che cos'ho fatto... esattamente?» chiese lei. «Hai semplicemente chiuso gli occhi, come ti era stato insegnato, e hai aspettato la voce» rispose Franklin. «Quale voce?» «La voce della persona che ti ha fatto questo.» Ginny provò un senso di disgusto, chiedendosi che cos'altro quell'uomo poteva avere fatto a sette bambine in stato di incoscienza. «Okay» concluse Dan. «Grazie per il vostro aiuto, ragazzi.» Batté una pacca sulla spalla di Chee e accompagnò i tre alla porta. «Specialmente tu, Franklin. Sei un uomo dai molti talenti.» L'altro annuì, poi lanciò un'occhiata maliziosa al fratello e sorrise. «Webster sa fare un'ottima imitazione di John Wayne, se a qualcuno interessa.» Il tono solenne fece ridere tutti, il che era precisamente l'intenzione di Franklin. Guardò un'ultima volta Ginny, poi andò alla porta, seguito dagli altri. Dan si passò le mani fra i capelli in un rapido gesto di frustrazione, poi si frugò in tasca alla ricerca del telefono. «Che cosa intendi fare, adesso?» chiese Sully. «Trovare Edward Fontaine, e sperare che ricordi chi era l'insegnante della classe speciale.»
Orlando, Florida Edward Fontaine scese cautamente i gradini del suo piccolo cottage, fermandosi solo per scacciare un insetto dalla sua strada con la punta del bastone, prima di proseguire. Un bambino che pedalava alacremente su un triciclo svoltò l'angolo, seguito a breve distanza dalla madre. «Salve, Martin, come va stamattina? Bella giornata, eh?» lo salutò Edward. Il piccolo sorrise e gridò, in risposta: «Guarda come vado forte!». Edward lo osservò, cercando di ricordare se lui era mai stato così giovane, o così agile. «Buongiorno, signor Fontaine» disse la giovane mamma, salutandolo con un rapido cenno della mano, prima di proseguire lungo il suo percorso quotidiano. «Buongiorno a lei, Patricia. Martin sembra in gran forma, stamattina.» Lei annuì e scomparve dietro il ciuffo di palme all'angolo. Edward alzò la testa e respirò a fondo. Sì, era proprio una bella mattinata. E per un uomo della sua età, era una fortuna essere ancora là a godersela. Con il sorriso sulle labbra, attraversò la strada, proseguendo la sua passeggiata giornaliera fino alla spiaggia. Amava l'oceano e la carezza tiepida del sole. Il sole e quelle passeggiate facevano bene alla sua artrite. Il suo pontile preferito era quasi deserto, quella mattina. Proprio come piaceva a lui. Lo avrebbe percorso fino all'estremità, come faceva tutti i giorni, quando non pioveva, e poi, sulla via del ritorno, si sarebbe fermato nella piccola caffetteria all'angolo a prendere un caffè e una ciambella. Il medico gli consigliava di non concedersi troppi dolci, ma lui aveva deciso di non dargli ascolto. Aveva ottantatré anni. Preferiva avere una ciambella a colazione ed essere felice piuttosto che diventare un centenario infelice, ma con tutti i denti sani. Un gabbiano sfrecciò attraverso il pontile a poco più di un metro da lui, ed Edward lo minacciò con il bastone. «Indietro, mendicante alato. Voglio passare» lo ammonì. Poi rise di cuore della propria stupidità. Diede solo un'occhiata di sfuggita a una coppia che faceva colazione gettando ogni tanto un boccone ai gabbiani che si tuffavano a raccoglierlo. Turisti, pensò fra sé. Noialtri non ci caschiamo. La brezza dell'oceano gli scompigliava le rade ciocche di capelli bianchi,
facendole somigliare a lievi, candide piume. Ancora qualche passo, e sarebbe giunto all'estremità del pontile. Gli sembrava già di sentire il sapore della ciambella. Magari ne avrebbe presa una senza farcitura, quel giorno. Di solito sceglieva sempre quelle ripiene al lampone, ma forse oggi avrebbe cambiato. Arrivò in fondo al pontile e sottolineò la meta raggiunta con un colpetto del bastone, poi rimase là per un momento, fissando in lontananza l'azzurro dell'Atlantico. C'era una vela all'orizzonte, e un piccolo stormo di uccelli marini, sopra di lui, strideva disapprovando la sua presenza. «Mi scusi. Lei è Edward Fontaine?» Lui si voltò. «Sì, ma non credo di avere il piacere...» «Per la verità, lo ha. Mi dispiace, ma tutto questo è per il meglio...» «Prego? Che cosa...» Non ci volle una gran spinta. Edward cadde facilmente all'indietro, così sorpreso che dimenticò di gridare. E quando l'acqua gli si richiuse sulla faccia, il suo ultimo pensiero fu che, dopo tutti quegli anni in cui era stato al mondo, avrebbe dovuto almeno imparare a nuotare. Emile Karnoff pagò il tassista, prese la valigia e fece per incamminarsi verso casa sua, quando la porta si aprì all'improvviso. «Emile! Sei a casa! Che bella sorpresa!» Emile posò la valigia e abbracciò affettuosamente la sua piccola moglie. «È bello essere tornato» disse, chiudendo gli occhi e baciandola sui capelli. Era vestita del colore dei lillà, i suoi fiori preferiti, e odorava di limone e di timo. Emile sorrise. Era stata in giardino. Erano momenti come quello che lo spingevano a chiedersi perché mai andava via da casa così spesso. «Vieni, entra» lo invitò Lucy. «Hai mangiato? Phillip sarà così contento. Solo ieri sera ci stavamo lamentando della tua lunga assenza.» Lucy preferì omettere che Phillip aveva avuto uno dei suoi momenti di malumore. Era stato arrabbiato, piuttosto che triste, per l'assenza di suo padre. Ma non era preoccupata come qualche tempo prima. Gli faceva ascoltare i nastri ogni notte ed era convinta di avere la situazione sotto controllo. Emile decise di non fare commenti sul fatto che Phillip era a casa, anziché al lavoro. Non era il momento di irritare Lucy, o suo figlio. Era il suo ritorno a casa, dopotutto.
«Ho preso qualche nocciolina e una bibita sull'aereo» rispose. «Ma niente mi farebbe più piacere di una tazza del tuo tè e una bella fetta della tua torta con le noci fatta in casa. Ti prego, dimmi che l'hai preparata.» La brezza arruffò i riccioli argentei di Lucy, mentre batteva le mani, felice. «Ma certo» rispose. «Ed è la tua preferita, noci e mirtilli.» Emile raccolse la valigia e le passò il braccio libero attorno alle spalle. «Sei la mia Wonder Woman. Lo sai, vero?» Lucy sorrise. Lo sapeva. E il fatto che lui lo riconoscesse era il suo premio speciale. Phillip era fermo in cima alle scale, ascoltando i genitori chiacchierare mentre entravano in casa. Era sempre così, per lui. Gravitava alla periferia del loro universo, in attesa di essere notato. Ehi, piagnucolone... non scendi ad abbracciare il tuo paparino? «Stai zitto...» sussurrò Phillip. La sua espressione si incupì quando la risata gli risuonò dentro la testa. Mentre i suoi genitori entravano nello studio, strinse i pugni e girò sui tacchi. Niente cambiava mai. Perché aveva pensato che stavolta sarebbe stato diverso? Se vuoi che le cose siano diverse, sai che cosa fare. «Non ti sento» disse Phillip, con una voce lamentosa, cantilenante, la voce di un bambino. Sì che mi senti, piccolo. Mi senti, e uno di questi giorni mi ubbidirai. Phillip si sbatté la porta alle spalle e si diresse verso il cassettone. Chinandosi in avanti, si aggrappò al ripiano con le due mani e si guardò nel grande specchio quadrato. «Ubbidire? Come ti sei fatto un'idea simile?» sibilò. «Credi che non abbia già abbastanza gente che mi dice che cosa devo fare? Pensi che sia così stupido da piegarmi a un'altra volontà? Se è così, disilluditi. Mi sto stancando di tutto questo. Hai capito? Non sopporterò più questa porcheria. Lasciami in pace, o metterò fine a tutto, ora, subito.» Tremando di rabbia, rimase in piedi davanti allo specchio, aspettando un altro commento ironico, un'altra battuta che avrebbe fatto del resto della giornata un ennesimo inferno. Stranamente, la voce rimase in silenzio. Un lento sorriso spianò le linee corrucciate del suo viso. Gli occhi cominciarono a scintillare, e i muscoli della mascella a contrarsi. Si raddrizzò in un gesto di sfida, e per la prima volta da quando poteva ricordare sentì di avere il controllo di una situazione.
Mentre andava a salutare suo padre, nel suo cervello c'era un tale tumulto che non gli passò neppure per la mente che aveva ridotto al silenzio la voce minacciando di porre fine alla propria vita. Dabbasso, Emile si crogiolava nell'amore e nelle attenzioni di Lucy. A parte piccoli, trascurabili dettagli che certo si sarebbero risolti da soli, la sua vita era praticamente perfetta. «Cara, siediti qui con me» disse Emile. «Raccontami che cos'hai fatto mentre ero via.» Lucy si sedette con grazia su una poltrona, incrociando le caviglie e intrecciando le mani in grembo, come le era stato insegnato da bambina. «Le mie giornate sono così poco importanti, rispetto alle tue. Ti prego, parlami del tuo viaggio. Il consulto ha avuto successo?» Emile sorrise. Un'altra occasione di parlare del suo lavoro alla persona che lo amava di più. «Sì» rispose. «La paziente stava migliorando, quando sono partito. Ho istruito un giovane medico sulle mie tecniche, in modo che il processo di guarigione continui.» Poi cambiò argomento, ma non di molto. «Oh, Lucy cara, dovresti vedere l'Irlanda! È il più bel luogo del mondo. Piccoli villaggi, colline verdi e ondulate, con in mezzo valli nascoste. Pecore che punteggiano i pascoli, in lontananza, come batuffoli bianchi d'ovatta. E l'aria! Ah... è il mondo come doveva essere cento... no, duecento anni fa. Pulito... puro. Oh, e non devo dimenticare la gente. È sorprendente... così gentile, così amichevole. Molti si spostano a piedi per la campagna, altri in bicicletta, senza preoccuparsi del pericolo di essere borseggiati. Sono sicuro che te ne innamoreresti.» Lucy annuì doverosamente, anche se, in privato, era tutt'altro che d'accordo. Non voleva andare a piedi o in bicicletta da nessuna parte. E quanto alla vita in campagna, ne aveva avuto più che abbastanza crescendo nella fattoria di suo padre, nel Kansas. Aveva sognato una vita più lussuosa per molti anni, e ora che l'aveva non intendeva rinunciarvi per niente e nessuno... neppure per Emile, benedetto lui. Sospirò, poi sorrise e annuì mentre lui continuava a parlare di Dublino. Non era stupida, anche se di tanto in tanto sospettava che Emile non ne fosse certo. Stava preparando il terreno, lasciando cadere degli accenni. Ma lei non intendeva vivere in un paese straniero, per bello che fosse, punto e basta. E quando vide Phillip entrare nella stanza, fu contenta che fosse venuto. Era tempo di cambiare discorso. «Papà! Bentornato a casa!»
Emile corrugò un momento la fronte. Non gli piaceva essere interrotto. Phillip non vedeva che stava parlando? «Phillip. Hai un ottimo aspetto.» «Questo perché non sono stato ammalato» replicò lui, e baciò doverosamente suo padre sulla guancia. Il tono secco del figlio sorprese Emile. Di solito, il ragazzo era alquanto docile. Lucy ritorse fra le dita il tessuto della gonna e ridacchiò nervosamente. Dio, Ti prego, fai in modo che questa non sia una della cattive giornate di Phillip. «Phillip ha anche lui qualche sorpresa da comunicarti» disse. Sollevò il viso verso suo figlio e gli sorrise. «Diglielo, caro. Devi dire a tuo padre che cosa stai facendo.» Phillip corrugò le sopracciglia. Avrebbe preferito tenere quella parte della sua vita per sé... almeno per un po'. Ma, come sempre, sua madre aveva interferito. Quasi rimpianse di essersi confidato con lei, ma poi scrollò le spalle. Se non aveva lei a sostenerlo, non avrebbe avuto nessuno. «Sì, Phillip, raccontami che cosa fai di bello.» Fu la condiscendenza nel tono di suo padre a far pendere la bilancia. «Ho deciso di mettere a frutto la mia laurea in lettere. Sto scrivendo un libro.» Dire che Emile era sorpreso sarebbe stato poco. Ma era una sorpresa piacevole. E, guardando suo figlio, lo colpì il pensiero che poteva proprio essere un lavoro adatto a lui. «Diamine... è magnifico» commentò. Si alzò addirittura per stringere la mano a Phillip. «E visto che credo di saperne abbastanza sul genio creativo per capirti, non interferirò con il tuo lavoro chiedendoti di che cosa tratta. Sono sicuro che ce lo dirai a tempo debito.» Phillip avrebbe voluto piangere. Per tutti quegli anni si era sforzato di compiacere suo padre... di fare qualcosa che suscitasse in lui quel tipo di reazione... di vedere una luce di approvazione nei suoi occhi. «Sì, hai ragione. Sono nella fase iniziale di una prima stesura, ma sta venendo bene.» Emile sorrise, e poi fece qualcosa che non faceva da più di venticinque anni. Abbracciò suo figlio e gli batté una pacca sulla schiena. È fatta, adesso. Ora dovrai davvero scrivere il libro, o sarai di nuovo nei guai con il vecchio. Ma il sorriso di Phillip era diventato una risata, e il suono fu quasi abba-
stanza forte da soffocare la voce sarcastica nella sua testa. CAPITOLO 15 Ginny gemette nel sonno e rotolò su se stessa, staccandosi da Sully. Lui si svegliò in pochi secondi, con il cuore in gola. Rimase immobile fino a quando non fu certo che andasse tutto bene, poi scivolò silenziosamente giù dal letto, indossò un paio di calzoncini da ginnastica e andò alla porta. Le mattonelle color ruggine erano fredde sotto i suoi piedi nudi, mentre si dirigeva verso il davanti della casa. L'unico suono era il russare sommesso e regolare di Dan che filtrava in corridoio. La verità, era che Sully era agitato. Dormire gli era riuscito pressoché impossibile. Anche dopo avere fatto appassionatamente l'amore con Ginny, non era riuscito a rilassarsi. E sapeva il perché. Non riusciva a liberarsi da quell'immagine: come gli occhi di Ginny erano diventati opachi, e la sua testa era ciondolata sul petto. Continuava a pensare a Georgia e a quelle altre cinque donne. La stessa cosa era accaduta anche a loro. Solo, avevano ricevuto anche qualche orribile messaggio che le aveva condotte alla morte. Sully avrebbe voluto piangere. Buon Dio, che tragedia. E per che cosa? Che cosa mai aveva fatto loro quell'uomo, per ricorrere a quel mezzo estremo per tenerlo nascosto? E perché proprio ora? Perché aspettare tutti quegli anni per cominciare a staccare le spine? Aveva paura dei ricordi rimossi? Era questo? Aveva messo le mani sui loro piccolo corpi e le aveva derubate della loro innocenza? Rabbrividì. C'era qualcos'altro che gli era passato per la mente, e che non aveva ancora espresso ad alta voce. E se l'insegnante di quella classe fosse stato lo stesso Fontaine? Sembrava ragionevole. Altrimenti, quel particolare insegnante sarebbe dovuto comparire nelle foto scolastiche. Sully aprì il frigorifero e tirò fuori una Coca. Avrebbe preferito una birra... una bella birra fresca bevuta direttamente dalla bottiglia... ma non adesso. Non quando la cosa più importante di tutte era mantenere in vita Ginny. Dopo avere disattivato l'impianto d'allarme, aprì la porta del patio e uscì. Pensò di sfilarsi i calzoncini e fare un tuffo in piscina, ma poi cambiò idea. Erano passati anni dall'ultima volta in cui aveva fatto il bagno nudo. Gli riportava alla mente ricordi d'infanzia, quando si tuffava dalla riva nelle acque del fiume Arkansas, vicino alla sua casa, alla periferia di Little Rock.
Lui e suo fratello erano stati come due piccole otarie, sempre in acqua nelle torride giornate dell'Arkansas. Provò un'ondata di nostalgia. Erano mesi che non parlava con Joe. Che sciocchezza. Se non fosse servito ad altro, quel caso gli aveva rammentato quanto poteva essere breve la vita. Gli avrebbe telefonato non appena quella storia fosse finita, anche solo per salutarlo. E poi sarebbe andato a trovare sua madre. Era ancora viva, ma non nel modo che contava. Non riconosceva più nessuno. Grazie al cielo, papà non era vissuto abbastanza per vederla in quelle condizioni. Sully guardò l'acqua, ma poi finì per andare invece a sedersi su una sdraio. Poco dopo, sentì lo scricchiolio di un passo sulla ghiaia. Franklin Chee era in piedi vicino al lato della casa. Evidentemente era il suo turno di guardia. «Vuoi una Coca?» chiese Sully. «Ce n'è in abbondanza, in casa.» Franklin scosse la testa. «Caffeina.» Sully sollevò la lattina nel gesto di un brindisi. «Alle notti tranquille e ai casi risolti.» «Buona idea» approvò Franklin. Sully bevve un altro sorso, posò la lattina accanto alla sdraio e si chinò in avanti, con i gomiti sulle ginocchia. «Parlami di Ginny.» «Che cosa intendi dire?» «Parlami di come funziona... quella faccenda della suggestione ipnotica. Si può eliminare?» «Certo. Potrei provarci io stesso, ma questo è un caso piuttosto unico. Non abbiamo modo di sapere esattamente che cosa quel tizio le ha fatto, o di quanto profondamente la suggestione è radicata nella sua mente. Potrei finire per farle più male che bene.» «E allora, come possiamo curarla?» Franklin si strinse nelle spalle, come se la risposta fosse semplice. «Bisogna trovare l'uomo e farlo fare a lui...» borbottò. «Gesù» borbottò Sully. «Non puoi dire sul serio. Stiamo cercando un uomo che ha ucciso sei donne innocenti con la facilità con cui si chiude un rubinetto, e ti aspetti che rimetta tutto a posto? Dev'esserci un altro modo.» «Probabilmente» ammise Franklin. «Ma io non sono qualificato. Devi cercare le risposte dove puoi trovarle.» Sully sorrise.
«Dunque è un giro di parole complicato per dire che non ne sai un bel niente?» «Sì.» Sully rise. Il suono si propagò nell'aria, oltre la piscina e nel deserto. In lontananza, un coyote interruppe il suo inseguimento a un ratto e sparì nella notte, mentre all'interno della casa la risata penetrò nel sonno di Ginny. Rotolò nel letto e si accorse di essere sola. A disagio, senza la presenza di Sully, stava già andando alla porta quando ricordò che c'era Dan in casa. Indossò rapidamente camicia da notte e vestaglia e uscì in corridoio, seguendo la direzione del suono. Quando vide che Sully non era solo, si fermò appena dentro la soglia, nell'ombra, e in quel momento sentì pronunciare il suo nome. Stavano parlando del caso e di ciò che le era successo quel pomeriggio. E perché no? Era il loro lavoro, ma lei non poté reprimere la sensazione di essere tradita. Cercò di rammentarsi che non era che stessero parlando alle sue spalle. Lei era la ragione per cui si trovavano là. Dovevano parlare di lei. Chiedendosi se c'era qualcosa che le tenevano nascosto, lei si avvicinò ancora di più alla porta per ascoltare. «Dan parte domattina, vero?» chiese Franklin. Sully annuì. «Ha inoltrato via fax la lista degli insegnanti all'FBI prima di andare a letto. Ha detto che il direttore avrebbe messo qualcuno a lavorarci, per cercare di reperire qualche traccia.» Franklin rimase in silenzio mentre Sully finiva la sua Coca, ma era evidente che stava riflettendo su qualcosa. «A che stai pensando?» gli chiese alla fine. «Dicono che non si può costringere una persona sotto ipnosi a fare qualcosa che non farebbe da sveglia.» Sully si irrigidì. «Che cosa stai dicendo? Che quelle donne volevano morire? È una sciocchezza, perché Georgia Dudley non era proprio il tipo.» «Sto solo ripetendo quello che mi hanno insegnato. E stavo anche pensando che ci vuole qualcosa di molto possente per sopraffare l'istinto di conservazione.» La parola possente riecheggiò nella mente di Sully. Quando l'aveva già sentita usare? Oh, diavolo, sì. Era la parola che Ginny aveva usato per descrivere la sensazione che aveva suscitato in lei l'uomo che era stato il loro
insegnante. Possente. Aveva detto che faceva balenare l'immagine di un uomo grande e possente. «È in grave pericolo, vero?» chiese. Franklin esitò, e poi guardò, oltre la spalla di Sully, la casa dietro di loro. «Sì.» «Hai qualche suggerimento?» «Non perderla di vista.» Le parole stavano ancora risuonando nell'orecchio di Sully quando Franklin riprese la sua guardia, scomparendo dietro l'angolo della casa. Ginny stava tremando come una foglia. La conversazione era stata sommessa, ma l'aveva sentita bene ugualmente. Era in pericolo. Non che il concetto le riuscisse nuovo. L'aveva saputo fin dal momento in cui aveva appreso che Georgia era morta. Ma sentirlo dire ad alta voce sembrava renderlo più concreto. Guardò, fuori nella notte, l'uomo seduto vicino alla piscina. Era diventato molto importante per lei, e in un tempo così breve. Non era solo perché era andato in suo soccorso. Aveva imparato a stare in ascolto per cogliere il suono dei suoi passi, ad apprezzare il suo spirito. La faceva infuriare e la faceva ridere, e sapeva fare in modo che lei dimenticasse tutto fra le sue braccia. Era così innamorata di lui che non riusciva a pensare con un minimo di lucidità. Se fosse stata ancora viva quando quell'incubo fosse finito, lo avrebbe costretto a rendersi conto che non poteva vivere senza di lei. Poi sospirò. Una cosa era certa. Se non faceva come le dicevano, le probabilità che accadesse erano molto ridotte. Sconfitta in ogni fibra del suo essere, tornò in camera, si svestì e si mise a letto. Poco dopo sentì le porte del patio aprirsi, poi richiudersi, e infine il bip del sistema d'allarme che veniva rimesso in funzione. Ancora qualche momento, e Sully entrò nella stanza. Il materasso cedette quando si insinuò di nuovo nel letto accanto a lei, e nel momento in cui le fece scivolare un braccio attorno alla vita e se la strinse contro, lei cominciò a piangere. Silenziosamente. Senza lasciare trapelare nulla, tranne le lacrime. «Okay, ragazzi, facciamo il punto» disse Dan, preparandosi a partire. «Io tomo dritto a Washington a prendere un cambio d'abiti, e poi volo in
Florida. Secondo le informazioni che ho avuto stamattina dal quartier generale, almeno quattro degli insegnanti della lista sono andati in pensione e si sono trasferiti a vivere là. Ne saprò di più quando ci arriverò.» «C'è anche Edward Fontaine?» chiese Sully. «Non era nell'elenco che ho ricevuto» rispose Dan. «Ma lo troveremo presto. È piuttosto facile rintracciare le persone che ricevono gli assegni della Sicurezza sociale.» «E se fosse morto?» domandò Ginny. «Allora chiederemo a qualcun altro» rispose Sully. «Non preoccuparti. Dan è in gamba nel suo lavoro.» Ginny si appoggiò al suo petto, assaporando la sensazione delle sue braccia attorno a lei. «Ci terrai informati?» chiese. «Sissignora. Puoi contarci» le assicurò Dan. Puntò un dito contro Sully. «Tu tienila d'occhio, Dean. Non possiamo perdere una come lei. Chissà quando potrebbe venirmi voglia di quei conigli al prosciutto e formaggio?» Ginny alzò gli occhi al cielo. «Vai a scovare i cattivi e smettila una buona volta di prendere in giro la mia cucina.» Dan rise e salutò con la mano mentre saliva sull'elicottero. Sully attirò Ginny indietro nel portico, riparandola dalla pioggia di sassi e sabbia, mentre il velivolo si sollevava in aria. Lo guardarono fino a quando non fu più che un puntino in lontananza, poi Ginny si liberò dalle braccia di Sully e si voltò. «Dove vai?» chiese lui. «A fare qualche pazzia» rispose lei. «Vuoi venire?» Sully rise e la sollevò fra le braccia. La portò in casa e chiuse la porta. «Fino a dove pensi che dobbiamo arrivare?» chiese, facendola roteare. Ginny sorrise, suo malgrado, e gli batté un colpetto sul braccio. «Fino in camera da letto. Dopo, lascio a te il programma di viaggio.» Anche Sully sorrise. «Sei tutto quello che un uomo può desiderare, e anche di più. Ti rifiuti di parlare al telefono. Mi fai impazzire a letto. Certo, c'è qualche piccolo difetto... ma diavolo, è facile passarci sopra, considerando tutto il resto che hai da offrire.» Lei sapeva che la stava attirando in una trappola, ma non poté fare a meno di chiedere: «Dove vuoi arrivare, esattamente... oltre al letto, s'intende?».
«Be', dolcezza, odio dirtelo, ma lo sai che russi?» Ginny si era aspettata una battuta sulla sua cucina, e quella la colse di sorpresa. «Mettimi giù immediatamente. Io non russo.» «Oh, sì, invece. Non c'è problema, però. Non si nota poi tanto, finché non cominci a sbuffare. Ma posso farci l'abitudine.» «Farci l'abitudine? Non c'è niente a cui fare l'abitudine. Io non russo. Lo saprei.» Sully conservò un viso impassibile. «E come? Dormi, quando succede.» Ginny si accorse di arrossire. Accidenti a lui! «Non russo» insistette. «Ma anche se così fosse, un gentiluomo non ne parlerebbe.» Sully sorrise, lasciandola cadere sul letto. Poi si mise a cavalcioni sulle sue gambe e cominciò a sfilarle la maglietta da sopra la testa. In men che non si dica, il reggiseno era sul pavimento, e i seni nelle sue mani. «E ora, piccola, dimmi la verità. Non sei forse contenta che non sia un gentiluomo?» Non le diede la possibilità di rispondere. Lucy prese una pila di camicie dal cassetto del comò e le mise nella valigia, lisciando accuratamente il tessuto, benché fossero ancora avvolte nel sacchetto di plastica della tintoria. «Vorrei che non dovessi andare di nuovo via così presto» disse. «Sei a casa solo da un paio di giorni.» «Lo so, cara, ma è il mio lavoro.» Lei si voltò, con un sorriso forzato. «Certo, e non vorrei niente di diverso per te. Sono stata egoista. Mi perdoni?» Emile sorrise, mettendo il portafogli nella tasca della giacca. «Non c'è niente da perdonare.» Si guardò attorno nella stanza, assicurandosi di non dimenticare nulla. «Hai i biglietti?» chiese Lucy. «Nella borsa.» «Hai preso dei contanti allo sportello automatico stamattina, quando sei uscito?» «No, me ne sono dimenticato.» «Allora aspettami qui, vado giù a prenderli. Tengo sempre un po' di de-
naro di scorta nella mia scrivania, dabbasso, sai.» «Non è necessario» protestò Emile. «Posso usare il Bancomat dell'aeroporto.» «Non c'è problema» rispose Lucy. «Mi ci vorrà solo un minuto. Perché, intanto, non vai a salutare Phillip?» «Sì, buona idea» commentò lui. La seguì fuori dalla stanza, e in corridoio svoltò a sinistra, mentre lei andava a destra. Corrugando le sopracciglia per via del genere e del volume della musica che suonava all'interno, bussò due volte alla porta del figlio e chiamò: «Phillip! Sono io. Hai un minuto?». La porta si aprì di colpo e, per un istante, Emile credette di trovarsi davanti uno sconosciuto. «Sì? Che cosa vuoi?» «La musica... Il volume è così alto...» cominciò Emile, fissando Phillip quasi a bocca aperta. «È così che mi piace.» Emile dovette alzare la voce solo per riuscire a sentire le proprie parole. «Phillip, va tutto bene?» Un sogghigno contorse il viso del figlio. «Oh, certo, papà, va tutto magnificamente.» Colto alla sprovvista dal suo tono sarcastico, la prima reazione di Emile fu di pretendere delle scuse, ma qualcosa gli disse che era meglio tacere. «Sto uscendo per andare all'aeroporto. Sono venuto a dirti arrivederci.» La risposta fu un'aspra risata. «Che novità sarebbe? Okay, arrivederci. Adios. Hasta la vista.» Emile si sentì drizzare i capelli. Buon Dio, chi... no, che cosa... era quell'uomo? Fece per mettere una mano sul braccio di Phillip, ma lui si scansò di scatto e attraversò la stanza a passo di danza, diretto allo stereo che suonava ancora a tutto volume. «Phillip! Ho bisogno di parlarti. Devi...» Lucy afferrò Emile per un braccio, lo trascinò in corridoio e chiuse rapidamente la porta. I suoi occhi avevano un'espressione quasi spaventata, e la voce aveva un suono nervoso che Emile non aveva mai sentito prima. «Ecco un po' di contanti... quasi duecento dollari. Devi affrettarti, o perderai l'aereo.» «Phillip... Ha qualcosa che non va.» «Oh, no, caro, devi esserti sbagliato. Ecco, metti questo denaro nel por-
tafogli, in modo da non perderlo.» «Ma ti dico che...» cominciò Emile. «Va tutto bene» lo interruppe Lucy. «È solo stanco. Poveretto, è rimasto alzato tutta la notte a lavorare al suo libro. Probabilmente ha bisogno di sfogare un po' di stress, non credi?» «No... è più di questo.» Emile afferrò la moglie per le braccia. «Non mi stai ascoltando. Sembrava uno sconosciuto.» «Allora dovresti restare di più a casa, mio caro, se non riconosci neppure più tuo figlio.» Lucy scoccò un rapido bacio al marito, per addolcire il rimprovero, poi lo prese per mano e cominciò a tirarlo per il corridoio. «Adesso vieni. Il taxi sarà qui da un momento all'altro.» Emile la seguì, ma riluttante, e anche quando fu sul taxi non riuscì a liberarsi dal pensiero che stava lasciando sua moglie a casa sola con un mostro. «Ehi, signore... che cosa diavolo sta cercando di dimostrare? Questo è il mio territorio, e se c'è qualcosa di riciclabile lì dentro, è mio.» Phillip sbatté le palpebre. C'era un barbone grande e grosso che lo stava pungolando con un bastone. Stava per scoppiare a ridere per l'assurdità della situazione, ma poi si rese conto che era chino sopra un cassonetto dell'immondizia. Tirò fuori le mani di scatto, come se lui se le fosse scottate. Erano coperte di sudiciume. Guardando più da vicino, si accorse che una parte di quel sudiciume era sangue secco. Cominciò a tremare. Quella donna non era altro che immondizia. L'ho messa al posto che le spettava. Phillip sobbalzò, e poi cominciò a gemere. «Oh, mio Dio, oh, mio Dio, che cos'hai fatto?» Ha importanza? Qualcosa ha ancora importanza? Aveva paura di guardare, ma doveva sapere. Si aggrappò all'orlo del cassonetto e guardò dentro. Con suo immenso sollievo, c'era solo immondizia. Non lì dentro, stupido. Non preoccuparti. Non la troveranno mai. All'improvviso, Phillip si piegò in due e vomitò. Il vecchio barbone si coprì il naso e indietreggiò. «Diavolo, amico. Guarda che cos'hai fatto al mio vicolo. Non metterò i piedi in quella pozza di vomito per un paio di scatole vuote. Me ne vado.» Quando finalmente si raddrizzò, Phillip ansimava. Con un'ultima occhiata terrorizzata, indietreggiò di qualche passo, poi si girò di scatto e si mise
a correre, solo per accorgersi, quando raggiunse la strada, che non sapeva dove si trovava. Aveva bisogno di andare a casa. Di ripulirsi e cercare di dimenticare che tutto questo fosse mai accaduto. Si tastò le tasche dei pantaloni, tirando un sospiro di sollievo quando sentì il portachiavi attraverso il tessuto. La macchina. Dove aveva posteggiato la macchina? Si incamminò. Dall'altra parte, stupido. Non ne azzecchi proprio una. Girò bruscamente su se stesso e riprese a camminare con passi lunghi, scattanti. La paura e la frustrazione lo spinsero per tre isolati e mezzo, prima che si rendesse conto che ce l'aveva fatta. La sua macchina! Aveva trovato la macchina. Fece per attraversare la strada, senza riflettere. Il suono stridente di un clacson lo fece balzare indietro sul marciapiede, evitando il disastro per una frazione di secondo. «Guarda dove vai!» gridò il guidatore, senza neppure rallentare. Phillip respirò a fondo e stavolta guardò nelle due direzioni prima di attraversare. Poco dopo, scivolò dietro il volante e si affrettò a bloccare le portiere. Nell'abitacolo erano sparpagliate bottiglie vuote di whisky e bustine di profilattici. «Almeno non morirò di AIDS» borbottò. Poi accese il motore e si allontanò. Quando arrivò a casa, era riuscito quasi del tutto a dominare il panico. Non poteva continuare così. Doveva fare qualcosa. Entrando nel vialetto, notò che la macchina di sua madre non c'era. Bene. Questo gli avrebbe dato il tempo di ripulirsi e di inventare qualche scusa per spiegare dov'era stato. Forse poteva dire che aveva condotto delle ricerche per il suo libro. Sì, avrebbe funzionato. Balzò fuori dall'auto quasi prima ancora che fosse ferma, impaziente di lavare via quel sudiciume che aveva addosso, e solo in quel momento si chiese per quanto tempo era stato via da casa. Curioso, raccolse il giornale del mattino, mentre entrava in casa, e tirò un sospiro di sollievo. Una sola notte. Non era rientrato a casa la notte precedente. Niente di grave. Era un uomo adulto, non un bambino. Non era tenuto a dare conto dei suoi movimenti. Quando giunse in camera sua, stava correndo. Aprì la porta e si fermò di colpo. La stanza era stata devastata. I suoi indumenti erano stracciati e il computer era stato ridotto in mille pezzi sparpagliati sul pavimento. «No... non il libro» gemette, cadendo in ginocchio.
Tu non fai proprio niente senza di me. Sono io che comando. «Bastardo. Sudicio bastardo!» gridò Phillip a quel punto, poi cominciò a battersi la testa. «Ti avevo avvertito di lasciarmi in pace.» Il cuore di Lucy mancò un battito quando entrò nel vialetto. Phillip era tornato. Lasciando i sacchetti della spesa sul sedile posteriore della macchina, si precipitò in casa. Ancora prima di arrivare ai piedi delle scale, sentì le urla di Phillip che riecheggiavano per tutto l'edificio. Mettendo piede sul primo gradino, pensò che era un bene che fosse il giorno libero della domestica. Non voleva che assistesse a quella scena. Pochi momenti dopo raggiunse la cima delle scale e imboccò correndo il corridoio. Le giunse un frastuono di vetri infranti, seguito da un urlo selvaggio, primordiale, che la fece barcollare. Stringendosi le mani sul seno, represse l'impulso di girare sui tacchi e fuggire nella direzione opposta. Quello era suo figlio. Aveva bisogno di lei, qualunque cosa accadesse. Eppure, lo spettacolo che l'accolse le fermò quasi il cuore. «No! Oh, no, Phillip! Che cos'hai fatto?» Lui si voltò, ansimante, con le vesti stracciate. «Devo fermarlo, prima che sia troppo tardi.» Phillip la spinse da parte e corse in corridoio. «Fermare chi?» gridò Lucy, seguendolo. Non riuscì a raggiungerlo. Era già in fondo alle scale e stava irrompendo in sala da pranzo. «Phillip! Fermati immediatamente e rispondimi!» Lui non ubbidì. Terrorizzata, Lucy scese gli scalini a due per volta, e sarebbe caduta se non si fosse aggrappata alla balaustra con entrambe le mani. Quando arrivò in sala da pranzo, il contenuto dei cassetti della credenza era sparso sul pavimento. «Phillip, tesoro, che cosa diamine stai...» Lui aveva in mano un coltello. Oh, Dio, no. Ho bisogno di Emile. Sta andando tutto nel peggiore dei modi. Poi, si rammentò che Emile non c'era. Non c'era mai, quando aveva bisogno di lui. Perciò respirò a fondo e tese la mano. «Tesoro, dai quel coltello alla mamma. È molto affilato, e non vorrai farti male.»
Phillip scoppiò a ridere. «È qui che ti sbagli» disse, e si puntò il coltello alla gola. «Voglio che tutto questo finisca. Deve finire adesso.» Spinse il coltello abbastanza da far sprizzare una goccia di sangue, che scivolò lungo la lama. «No!» urlò Lucy, e cadde in ginocchio. «Ti prego, Phillip, tesoro. Qualunque cosa sia successa, possiamo rimediare. Raccontami tutto, e ci penserò io, lo giuro.» Le lacrime cominciarono a scorrere sul viso di Phillip, tracciando due segni paralleli nella sporcizia che gli copriva il viso. «Tu non puoi rimediare a questo, mamma. Ma io sì. Ci penso da settimane, ormai. Ogni mattina, quando mi sveglio, nella mia mente c'è una sicurezza che non c'è mai stata prima.» Lucy sussultò. La registrazione. Nelle ultime settimane Phillip aveva ascoltato la cassetta di Emile. «Ma avrebbe dovuto aiutarti» sussurrò. «Che cosa? Di che diavolo stai parlando?» sbraitò Phillip. «No! Non dirmelo! Qualunque cosa sia, non ho bisogno di saperlo. Sono io ad avere il controllo.» «Figlio mio, ti prego, non farlo...» Il panico nella voce di sua madre fu come una scarica di adrenalina. «Adesso mi supplichi!» gridò Phillip, agitando il coltello in aria. Lucy balzò indietro nell'angolo, certa che stava per morire. «Ti voglio bene, Phillip. Ti prego, fermati. Ti prego, prima che sia troppo tardi» lo supplicò. Dalle ascolto, idiota. Ti vuole bene. Vuoi far piangere tua madre? «Veramente, no» disse Phillip, e cominciò a ridere. «Ma non piangerà neppure la metà di te.» Si piantò il coltello nella gola, perforando all'istante la giugulare. Il sangue sprizzò sulla credenza, sul tavolo, sul pavimento, perfino sul viso di Lucy. Il sorriso di Phillip si spense quasi altrettanto rapidamente come la luce vitale nei suoi occhi. Cadde in ginocchio, e poi in avanti, trapassandosi completamente il collo con la lama. Lucy si toccò il viso, con gli occhi spalancati per lo shock. Quando vide il sangue sulle dita, cominciò a urlare. La vicina di casa sentì le grida, si preoccupò e chiamò la polizia. Prima di sera, il mondo di Lucy Karnoff era in frantumi. Troppo isterica per dare spiegazioni che avessero un qualunque senso, era ricoverata in ospedale
sotto sedativi, mentre le autorità cercavano disperatamente di rintracciare il marito. A Santa Fe, Emile si stava crogiolando nella gloria di un ennesimo successo. Essere ospite d'onore al Congresso Medico Nazionale del Nuovo Messico era la realizzazione di un sogno. La sua agenda si stava riempiendo di appuntamenti, a mano a mano che prometteva la sua collaborazione a un ospedale dopo l'altro. Aveva già messo da parte i problemi che aveva sentito covare sotto la cenere a casa. Era la scelta di sacrificare i pochi per il bene di molti, e c'erano tante persone che lui aveva bisogno di istruire sulla sua tecnica che poteva salvare innumerevoli vite. Era l'eredità che avrebbe lasciato al mondo. CAPITOLO 16 Ginny era in piedi sull'orlo del trampolino, in attesa che Sully si allontanasse abbastanza per potersi tuffare. Ma lui si fermò a metà strada e si voltò, rimanendo a galleggiare sul posto e facendole cenno di buttarsi. «Fatti indietro» gridò lei. «Sei troppo vicino.» «Niente affatto.» Webster Chee era appoggiato contro il lato della casa. La pistola che portava nella fondina a spalla spiccava nettamente contro la camicia bianca a maniche corte. Kevin Holloway stava uscendo dalla casa portando due lattine di Coca. Indossava un paio di calzoncini corti e una camicia di cotone sbottonata, ma Ginny sapeva che anche lui aveva una pistola sotto la camicia. Probabilmente Franklin Chee stava dormendo, pensò. Stava cominciando ad abituarsi a essere oggetto di tanta attenzione, ma le guardie sembravano un accessorio incongruo, nell'atmosfera vacanziera che regnava attorno alla piscina. «Avanti, Ginny, adesso non farti prendere dalla paura» scherzò Sully. «Non ho paura» ribatté lei. Prese un bel respiro, ma, invece di tuffarsi direttamente, balzò più in alto che poté, per poi piombare come una palla da cannone proprio dove Sully la stava aspettando. Vide l'espressione sorpresa del suo viso un attimo prima di sprofondare sott'acqua, e seppe di avere segnato un punto. Pochi secondi dopo, sentì le mani di lui sulla schiena. La stava tirando a galla. Riemerse ridendo. «E così, hai pensato che fosse divertente, eh?» Il ringhio nella voce di Sully era finto, e lei rise di nuovo e gli strinse le
braccia attorno al collo, lasciando che riportasse entrambi sul terreno solido. Kevin Holloway le tese un asciugamano, mentre Sully la deponeva sul bordo della piscina. «Ti ha dato il fatto tuo, Sully.» Lui sorrise, ma solo a metà. Holloway era il più giovane dei tre agenti, e lui sospettava che fosse più che un po' infatuato di Ginny. Ma tutto finiva lì. Holloway era un tipo ligio alle regole, esattamente come i suoi due colleghi. «Già, proprio così» ammise, e si issò fuori dalla piscina. «Se voi ragazzi volete farvi una nuotata e rinfrescarvi un po', sarò felice di fare la guardia al vostro posto.» «Grazie, ma no. Gli ordini sono ordini. Inoltre, ho fatto un tuffo ieri sera, prima di andare a letto» rispose Kevin. Guardò Webster. «Faccio un controllo del perimetro.» Webster annuì, poi bevve un lungo sorso della sua Coca. Nel frattempo Ginny si allungò sulla sdraio, si appoggiò all'indietro e chiuse gli occhi. Sully si stava asciugando i capelli quando il suo cellulare trillò. Ginny si tirò un asciugamano sul viso per ripararsi dal sole, mentre Sully si protendeva sopra di lei per raggiungere il tavolo dov'era posato il telefono. «Dean.» «Sono io» disse Dan. «Ho notizie, e non sono buone.» Sully si immobilizzò. All'improvviso, il divertimento della giornata sembrava sciocco, come se avessero dimenticato perché erano là. «Che è successo?» «Abbiamo trovato Fontaine.» «E...?» «Ed è morto.» «Diavolo.» «E non è tutto.» Sully raddrizzò le spalle, come preparandosi inconsciamente a ricevere un colpo. «Non è morto da molto tempo» continuò Dan. «A quanto pare, è andato a fare una passeggiata mattutina, circa una settimana fa, esattamente come ha fatto per gli ultimi vent'anni. Solo che stavolta è caduto da un pontile. E senti questa. Il pontile ha tutto attorno una ringhiera alta un metro e mezzo.» «Non il migliore trampolino del mondo, per fare un tuffo» borbottò
Sully. «Niente testimoni, immagino.» «Diavolo, no. Ed è curioso che parli di tuffarsi» commentò Dan. «La gente dice che il vecchio non aveva mai imparato a nuotare.» Sully si sentì drizzare i capelli in testa. «Stai pensando quello che penso io?» chiese. «Sì, solo che abbiamo controllato in casa sua. Tutto era in perfetto ordine. Il telefono era al suo posto, e ci sono testimoni che l'hanno visto mentre andava al pontile. Si è fermato a parlare con loro, proprio come faceva ogni mattina, e quindi non era affatto in trance. Se è morto a causa di quelle donne, allora qualcuno gli ha dato una mano.» «Avete rintracciato qualcuno degli altri insegnanti?» «Tutti, tranne due. Uno è morto, e l'altro ha l'Alzheimer. Quelli con cui abbiamo parlato ricordano un tizio che andava alla scuola una volta alla settimana, nell'ora in cui si teneva la lezione alla classe speciale, ma nessuno ricorda il suo nome o il suo aspetto. Dicono che se ne andava sempre appena finita la lezione.» «Magnifico. Proprio magnifico» commentò Sully, e cominciò a camminare avanti e indietro. Ginny si tolse l'asciugamano dal viso e si rialzò a sedere. «Che c'è? Che cos'è successo?» Sully era troppo immerso nella sua conversazione per rispondere. «Non c'è qualcun altro? Un bidello, per esempio... o qualche cuoco della mensa. Non può finire così, maledizione, qualcuno deve pur ricordare qualcosa!» Dan sospirò. «Ci stiamo lavorando, Sully. Se controlli sull'annuario, vedrai che non ci sono foto del personale. Oggi abbiamo intenzione di interrogare di nuovo un paio di insegnanti che forse potrebbero dirci alcuni nomi, ma è solo una speranza. A quanto ci hanno detto, la maggior parte del personale era prossimo all'età della pensione, e sono passati vent'anni. Le probabilità che siano ancora vivi non sono a nostro favore. Non appena saprò qualcosa, la saprai anche tu, va bene?» «Deve andarmi bene, no?» scattò Sully, e riattaccò. Ginny si alzò. Capiva, dall'espressione di Sully, che era meglio che fosse in piedi quando le avrebbe riferito le novità. «Niente di buono, vero?» chiese. Lui scosse la testa.» «No, piccola.»
«Non sono riusciti a trovare il signor Fontaine?» «Era morto.» «Oh, che peccato» commentò lei. «Be', doveva essere piuttosto vecchio. Dovevamo aspettarcelo, immagino.» «Non è questo che intendevo» disse Sully. «Lo hanno ripescato nell'oceano una settimana fa. Sembra che abbia dimenticato di non saper nuotare e che si sia tuffato oltre una ringhiera alta un metro e mezzo.» Ginny si premette una mano sulla bocca per impedirsi di urlare. Il mondo le stava crollando attorno. Quando Sully la prese fra le braccia, scoppiò a piangere. «Sta uccidendo tutti, vero? Mi troverà, Sully, e quando succederà non avrò scampo.» «Non permetterò che accada» affermò lui. «Ricordi quello che ti ho promesso?» Lei rabbrividì. «Guardami, Ginny.» Un'ondata di calma l'attraversò tutta. Quelle erano le stesse parole che Sully aveva usato la prima notte in cui avevano fatto l'amore. Guardami, Ginny. E lei lo aveva guardato, e aveva visto gli occhi dell'amore. «Ti vedo» mormorò. «Che cosa ti ho promesso?» «Che non mi avresti lasciata morire.» «Esattamente. E non dimenticarlo mai.» «Okay.» Lui le passò le mani sulle braccia, più volte, e poi la baciò delicatamente. «Tesoro, hai preso troppo sole. Perché non ce ne andiamo da qui, ora, e torniamo dopo il tramonto?» Lei annuì, raccolse l'asciugamano e rientrò in casa. Nel momento in cui fu fuori vista, Sully si avvicinò a Webster. Gli uomini dovevano essere informati su che cos'era accaduto e stare all'erta. Non c'era modo di sapere per quanto tempo sarebbero riusciti a tenere segreto il luogo dove si trovava Ginny. Il pasto serale si era svolto in un'atmosfera cupa. Ginny aveva praticamente finto di mangiare, e ogni boccone che Sully aveva inghiottito gli bruciava nello stomaco. Una conversazione oziosa sembrava superflua, ma
discutere del problema reale era troppo penoso. Finalmente Ginny portò il proprio piatto al lavello e versò il contenuto nel tritarifiuti. «Mi dispiace» disse. «Era buono, ma non ho appetito.» «Non fa niente, tesoro. Abbiamo ricevuto cattive notizie, oggi. È un contrattempo, ma non è la fine del mondo. Perché non guardi un po' la televisione? Trova qualcosa di interessante, e io verrò a guardarlo con te non appena avrò sparecchiato.» «No, ti aiuto. Quando avremo finito, andremo a guardare la televisione insieme.» «Affare fatto.» Sully vuotò anche il proprio piatto nel tritarifiuti mentre Ginny sparecchiava la tavola. Poi lui caricò la lavastoviglie mentre Ginny metteva alcuni indumenti in lavatrice. Era un momento molto casalingo, per una donna che si nascondeva da un killer che minacciava la sua vita. Poco dopo, erano l'uno accanto all'altro sul divano. Ginny sfogliava una rivista che aveva già letto due volte, mentre Sully faceva passare tutti i canali della televisione. «Che ora è?» chiese lui. «Ho lasciato l'orologio in camera, sul cassettone.» Ginny si chinò in avanti per leggere l'ora sull'orologio digitale dalla parte opposta della stanza. «Quasi le dieci. Guardiamo il notiziario, okay? Mi sono tanto concentrata su quello che stava succedendo a me che non ho la minima idea di quello che sta accadendo nel mondo.» Sully puntò il telecomando. Lo schermo si spense e si riaccese, poi comparve il logo familiare di una rete televisiva nazionale. «Giusto in tempo» commentò lui. Ginny gettò da parte la rivista, tirò su i piedi dal pavimento e si sedette a gambe incrociate sul divano. Sully sorrise fra sé, meravigliandosi che una donna alta e snella come Ginny riuscisse a raggomitolarsi in così poco spazio. «E ora le notizie nazionali. Il recente vincitore del premio Nobel, il dottor Emile Karnoff, è a Santa Fe, questa settimana, per intervenire a un congresso medico. La sua tecnica rivoluzionaria di usare l'ipnosi come mezzo di cura sta suscitando la viva curiosità e l'approvazione di molti suoi giovani colleghi, nonostante le perplessità dure a morire di alcuni. Il dottor Karnoff è tornato di recente dall'Irlanda, dove ha contribuito in modo determinante a capovolgere la prognosi negativa di una giovane
madre che stava morendo di cancro.» Quando comparvero per pochi momenti sullo schermo le immagini di Emile Karnoff che usciva da un albergo, salutava con la mano in direzione delle telecamere e poi saliva su un taxi, qualcosa scattò nella mente di Ginny. Si chinò in avanti, con i gomiti sulle ginocchia e il mento appoggiato alle mani. Sully notò il suo interesse, e ricordò qual era stata la vita di Ginny prima che quella terribile storia cominciasse. «Sai, non abbiamo mai parlato della tua professione, scommetto che hai conosciuto persone molto interessanti, nel corso degli anni. Qual è quella che ti è piaciuto di più intervistare?» «Sully, io...» Il servizio passò dal filmato d'archivio a un breve passaggio dell'intervento di Karnoff alla comunità medica del Nuovo Messico. «Alza il volume!» ordinò Ginny. Il tono della sua voce era sorprendente, ma Sully prese il telecomando senza commenti. Quando lo puntò verso l'apparecchio, la voce profonda, risonante di Emile Karnoff riempì la stanza. «... una vita di ricerca sullo spirito umano, oltre che sulla mente. Come sapete, non usiamo che una piccola parte del meraviglioso cervello che Dio ci ha dato. Per me era logico pensare che fossimo capaci di tanto...» «Lo conosco. Lo conosco.» Sully guardò Ginny, e un brivido gli corse lungo la schiena. Non solo il modo infantile, cantilenante, in cui Ginny aveva parlato era inquietante, ma stava anche seduta con gli occhi chiusi, ascoltando la voce dell'uomo. Oh, diavolo. «Ginny?» «Senti il potere?» Lui la fissò, con la mente attraversata da un turbinio di pensieri diversi. «Che cosa intendi dire?» «Nella sua voce. Lo senti? Io lo conosco.» «Be', certo che lo conosci. Karnoff è passato in televisione parecchie volte, negli ultimi mesi. Non capita tutti i giorni che un americano vinca il premio Nobel.» Ginny si stava dondolando avanti e indietro, ora, sempre a occhi chiusi, e le sue mani tremavano impercettibilmente. «Lo conosco.» Colto da un improvviso panico, Sully schizzò in cucina, dove aveva la-
sciato il walkie-talkie. Mentre premeva il pulsante di trasmissione, una breve scarica di elettricità statica eruppe dal microfono. «Franklin! Sono Sully, ho bisogno di te, immediatamente.» Quando tornò in soggiorno, Franklin Chee stava entrando dalla porta principale, pistola in pugno. Sully scosse la testa e accennò a Ginny. Franklin rinfoderò l'arma e le si avvicinò. Si stava dondolando avanti e indietro con un movimento ritmico, infantile, con gli occhi chiusi e le mani intrecciate in grembo. «Quando è successo?» chiese l'agente. «Proprio ora.» «Sai che cosa lo ha scatenato?» Sully indicò lo schermo. Le ultime immagini di Emile Karnoff si stavano dissolvendo, mentre il giornalista passava a un altro servizio. «Chi è?» chiese Franklin. «Emile Karnoff, il medico che...» «Ha vinto il premio Nobel usando l'ipnosi per curare le malattie» completò Franklin. Si guardarono l'un l'altro, poi guardarono di nuovo Ginny. Franklin le mise una mano sul ginocchio. «Ginny?» «Sì, maestro?» Al suono della propria voce, lei sussultò, poi aprì gli occhi. «Franklin. Per un momento ho pensato che fossi qualcun altro.» «Dio mio...» mormorò Sully a quel punto, cominciando a comprendere le implicazioni di quello che Ginny aveva detto. Per tutto quel tempo avevano cercato un educatore. Ma, e se...? «Ginny, dove sei andata un momento fa?» chiese Franklin. Ginny ondeggiò lievemente e guardò Sully, in cerca d'aiuto, con occhi un po' vacui. «Siamo andati da qualche parte?» «Maledizione, Franklin, dimmi che mi sbaglio pensando quello che penso» ringhiò Sully. L'altro si strinse nelle spalle. «Non posso farlo. Non so che cosa avete visto, o perché Ginny è... scivolata via. Ma so che cosa hai intenzione di fare. Chiami tu Dan, o lo faccio io?» Ginny si coprì il viso con le mani. Sully fu al suo fianco in un attimo.
«Va tutto bene, piccola. Io sono rimasto qui con te per tutto il tempo. Non ti è successo niente.» Lei lo respinse con un gesto rabbioso. «Niente? Ti sembra niente perdere il contatto con la realtà?» Franklin si alzò in piedi. «Chiamo Dan.» «Usa il telefono in cucina, se vuoi.» L'agente si batté un colpetto sulla tasca. «Ho il mio. Torno subito.» Uscì dalla casa, lasciando soli Ginny e Sully. «Perché mi è successo questo?» mormorò lei. «Che cosa è successo? Non mi hai fatto sentire il nastro. E allora, che cos'è stato a...» «Non lo ricordi?» «No» disse Ginny, e balzò in piedi incapace di rimanere ancora ferma. «Stavamo guardando il notiziario, santo cielo, e poi...» Corrugò le sopracciglia e fissò il pavimento, ripassando mentalmente la sequenza degli avvenimenti. «E poi... hanno trasmesso quel servizio su...» Alzò gli occhi. «Su quel medico che ha vinto il premio Nobel, giusto?» Sully annuì. «Che altro ricordi?» Lei cominciò a camminare avanti e indietro, facendo mentalmente l'inventario delle immagini che le indugiavano nella testa. «C'era un breve filmato... e noi stavamo parlando di... di...» Scosse la testa. «Non ricordo nient'altro, fino a quando Franklin non mi ha parlato. Che cos'ho fatto? Che cos'ho sentito?» «La voce di un uomo. Continuavi a ripetermi che lo conoscevi, ma non guardavi me, tesoro. Ascoltavi il suono della sua voce.» «E poi?» «L'hai chiamato maestro.» Le ginocchia di Ginny si piegarono. Sully l'afferrò prima che cadesse, e lei gli abbandonò la testa sul braccio mentre la portava sul letto. Quando la depose sulla trapunta, lei si coprì il viso con le mani e cominciò a piangere. Singhiozzi sommessi, desolati, che quasi gli spezzarono il cuore. «Tesoro? Via, non fare così. Parlami. So che sei un tipo tosto. Ho visto quello che puoi fare. Non mollare adesso.» «Sto crollando, vero, Sully? Prima il nastro, e adesso qualcosa di così semplice come il suono di una voce. Che cosa succederà la prossima volta? Come farò a imparare di nuovo a cavarmela? Non avrò più il coraggio
di guidare una macchina per timore di perdere i sensi a causa di un qualsiasi suono inaspettato. Non potrò più fare il mio lavoro, se ho paura di rispondere al telefono. Non so che cosa pensare, e per la metà del tempo non voglio neppure ricordare. Eravamo bambine, Sully. Bambine di sei anni. Che cosa ci ha fatto? Mio Dio... che cos'ha fatto?» Sully si sdraiò accanto a lei e la strinse a sé per trasmetterle la propria forza. «Non lo so, ma lo scopriremo. E tu starai bene. Tutto questo finirà. E io sarò con te a ogni passo.» Ginny gli nascose il viso sul petto e finalmente si concesse il lusso di piangere tutte le sue lacrime... non solo per se stessa, ma anche per Georgia, e per Emily, Jo-Jo e Lynn, per una donna di nome Frances e una giovane insegnante chiamata Allison. Pianse perché era rimasta la sola a poterlo fare. Non molto tempo dopo, il telefono squillò. Sully estrasse delicatamente il braccio da sotto il collo di Ginny per rispondere. «Dean» disse a bassa voce. «Ho ricevuto il messaggio di Chee. Devo parlarti.» «Resta in linea un momento» mormorò Sully. «Ginny si è addormentata. Vado in un'altra stanza.» Dopo un'ultima occhiata per assicurarsi che Ginny stesse ancora riposando, si diresse verso il soggiorno. «Okay, dimmi.» «Prima le cose più importanti. Come sta Ginny?» «Sta per crollare» rispose Sully, passandosi una mano fra i capelli in un gesto di frustrazione. «Mi uccide starmene seduto qui senza poter fare nulla. Voglio trovare il bastardo che sta provocando tutto questo e spezzare il suo maledetto collo.» «Che cosa ne pensi della reazione di Ginny al servizio su Karnoff?» chiese Dan. «Che mi venga un colpo se lo so, ma avresti dovuto vederla. E quando Franklin è entrato e le ha parlato, un attimo prima di svegliarsi lo ha chiamato maestro.» La voce di Sully salì di tono, rabbiosa, mentre batteva il pugno sulla parete. «Maestro! Per tutto questo tempo abbiamo cercato un comune insegnante. E se ci fossimo sbagliati? Se fosse solo un titolo con cui si faceva chiamare per fare impunemente quello che stava facendo?» «Tu che cosa credi che stesse facendo?» chiese Dan. «Non lo so» scattò Sully. «Ma sta distruggendo Ginny. Fatti dare qualche brano con la voce di Karnoff dall'emittente televisiva e portalo con te.
Dobbiamo essere sicuri che non sia una falsa pista. Ma giuro che se reagisce di nuovo nello stesso modo, voglio un controllo dell'intero passato di quel figlio di buona donna. Voglio sapere dov'era nel millenovecentosettantanove. Voglio sapere che cosa stava facendo e a chi lo stava facendo, in ogni momento... anche quante volte faceva l'amore con sua moglie.» «Nient'altro?» ironizzò Dan. «Scusa. Il caso è tuo, ma lei è...» Sully si interruppe. Che cos'era Ginny, a parte la donna che amava? «Non hai completato la frase» gli fece notare Dan. «Non sai come farlo, o non vuoi?» aggiunse subito dopo. «Diciamo solo che non voglio pensare a un futuro di cui lei non faccia parte.» «È sufficiente. Sarò lì fra poche ore. Devo dare il via alle ricerche su Karnoff e procurarmi qualche filmato su di lui.» Dan interruppe la comunicazione e Sully gettò il telefono sul divano e uscì all'aperto. Era tardi, e sarebbe dovuto essere buio, ma la luce della luna piena si rifletteva sulla sabbia chiara del deserto, e lo illuminava quasi a giorno. In lontananza, riuscì a distinguere uno dei fratelli Chee seduto su un cumulo di rocce. Una minuscola lucertola sfrecciò attraverso la ghiaia, davanti a lui, e sparì fra due cactus bassi e tondeggianti, che contrastavano nettamente con i maestosi saguros sparsi per tutta la zona. Al confronto con le lussureggianti montagne verdi e i profondi torrenti fra cui era cresciuto, era come guardare la superficie della luna. Sully rifletteva meglio camminando, perciò si ficcò le mani in tasca e si avviò verso il retro della proprietà. Era quasi troppo improbabile per pensarlo, ma al mondo accadevano cose anche più strane. Era possibile che Emile Karnoff, attuale beniamino dell'ambiente medico e destinato, probabilmente, a essere l'uomo dell'anno su tutte le riviste, fosse coinvolto in qualcosa di così sinistro? Se si basavano esclusivamente sulle reazioni di Ginny, la sua colpevolezza sembrava evidente. Ma c'erano tante cose da considerare. Tabulati delle chiamate telefoniche da rintracciare. Viaggi che potevano coincidere con le date della morte di Georgia o di Edward Fontaine. Ma doveva lasciare a Dan quella parte delle indagini. Quello che poteva fare lui era assicurarsi che Ginny rimanesse tutta intera, sia fisicamente, sia mentalmente, fino a quando qualcuno non fosse stato incriminato. E dopo... Si fermò, fissando il deserto, oltre la piscina. Dopo... che cosa? Ginny sarebbe stata così nauseata da quella storia che avrebbe voluto liberarsi da
tutto ciò che vi era connesso, lui compreso? O i suoi sentimenti avrebbero resistito? Poteva solo sperare. Tutto quello che sapeva era che quando lei gli era crollata fra le braccia, poco prima, non era mai stato così spaventato in vita sua. In quei pochi attimi, lui aveva desiderato di prenderla con sé e fuggire senza mai voltarsi indietro. Se Ginny lo avesse voluto, avrebbe passato il resto della vita con lei, e l'avrebbe considerato una benedizione. Ma fino a quando il mistero non fosse stato risolto, e il colpevole consegnato alla giustizia, quello che lui voleva avrebbe dovuto aspettare. Emile si stava preparando un drink prima di cena quando qualcuno bussò alla porta della sua camera d'albergo. Posò il bicchiere e andò ad aprire, ravviandosi i capelli lungo il percorso. Si trovò di fronte il direttore dell'albergo e un agente di polizia. «Il dottor Karnoff? Emile Karnoff di Bainbridge, Connecticut?» Perplesso per via della presenza del poliziotto, Emile sorrise nervosamente al direttore e annuì, rivolto all'agente. «Sì, sono Emile Karnoff.» «Dottor Karnoff, possiamo entrare un momento?» Il cuore di Emile diede un piccolo balzo, ma poi riprese il suo ritmo normale. Non poteva trattarsi di cattive notizie. Piuttosto di qualche paziente che aveva bisogno delle sue cure. «Certo. Stavo preparandomi un drink prima di scendere a cena. Posso offrirvi qualcosa?» «No, dottore» disse l'agente. «Ma grazie lo stesso.» Il direttore scosse la testa per rifiutare anche lui, ma si tenne indietro. Era evidente che era là solo per accompagnare il poliziotto. «Agente, che cosa posso fare per lei?» «Dottore, sono spiacente di doverle dare delle gravi notizie. Suo figlio, Phillip, è morto e sua moglie, Lucy, è in ospedale, sotto sedativi.» Emile impallidì. Per un attimo pensò di avere capito male, ma la compassione espressa dai visi dei due uomini era inequivocabile. «Morto? Buon Dio, come? È stato un incidente? Anche Lucy è rimasta ferita?» «Tutto quello che so è che la polizia di Bainbridge ci ha chiesto di rintracciarla e di informarla. Posso dirle che suo figlio non ha avuto un incidente. Ci è stato riferito che si è trattato di suicidio. Sua moglie ha assistito
al fatto, ed è per questo che al momento necessita di cure mediche. Comunque, non siamo stati informati che sia in alcun modo ferita.» «No.» Emile barcollò. «Non suicidio. Non posso crederlo. Non c'è stato alcun segnale...» In un lampo, ricordò Phillip in camera sua, che farneticava e rideva ed esibiva il suo sarcasmo e il suo disprezzo per la comune cortesia. Si coprì il viso con le mani. In quel momento, aveva saputo che stava succedendo qualcosa di terribilmente grave, eppure aveva voltato le spalle e se n'era andato. «Se avessi prestato maggiore attenzione. Oh, Dio... ho aiutato tutti, tranne la mia famiglia. Che razza d'uomo sono diventato?» «Dottor Karnoff, credo proprio che farebbe meglio a sedersi» suggerì il direttore. Lo aiutò a raggiungere una sedia. «Da parte di tutti noi dell'albergo, la prego di accettare le nostre condoglianze. Se c'è qualcosa che posso fare... qualunque cosa, non ha che da chiedere.» Emile scosse la testa, come un cane che uscisse dall'acqua, e cominciò ad aggiustarsi la cravatta, poi la piega dei pantaloni, come se apparire in ordine fosse la cosa più importante della sua vita. «A casa. Devo andare a casa. Ho bisogno di chiamare l'aeroporto e di annullare i miei appuntamenti qui. E Lucy... cara Lucy. Che una madre abbia dovuto assistere a qualcosa di così orribile...» Le lacrime cominciarono a scorrergli sul viso. «Dottor Karnoff, se ha un'agenda dei suoi impegni, farò in modo di avvertire tutte le persone che doveva vedere qui. E se me lo permette, farò il necessario per procurarle un posto sul primo volo in partenza da Santa Fe.» Emile annuì. «Sì. Sì, gliene sarei molto grato.» Ricordando le buone maniere, si alzò bruscamente e strinse la mano all'agente e al direttore dell'albergo. «Signori... ora devo preparare le valigie.» L'agente uscì, lasciando il direttore ad aspettare che Emile gli fornisse il suo itinerario. Poco dopo, Emile si ritrovò solo. Ora non c'era più nessuno fra lui e quella che sapeva essere la verità. Aveva visto in Phillip qualcosa di pericoloso, e si era lasciato persuadere da Lucy perché non voleva essere disturbato. Ora la morte di suo figlio e la salute mentale di sua moglie sarebbero pesate sulla sua testa.
Andò all'armadio e cominciò a mettere gli indumenti in valigia. A metà del lavoro fu colto da un tremito. Pochi minuti dopo, era in bagno, in ginocchio, a vomitare fino a quando non ebbe più nulla dentro, tranne il rimorso. CAPITOLO 17 L'arrivo di Dan Howard alla casa sicura coincise con la partenza di Emile Karnoff da Santa Fe. Sarebbe bastata mezz'ora di ritardo per l'uno o per l'altro, e si sarebbero incrociati in aria senza saperlo. Dan bussò una volta ed entrò. Benché all'esterno ci fossero trentotto gradi all'ombra, Ginny era seduta su una poltrona, avvolta in uno scialle, e tremava ancora per lo shock. Quando si era svegliata, quella mattina, era tesa, sobbalzava a ogni più piccolo movimento e si rifiutava di lasciare accendere un televisore o una radio in qualunque punto della casa. Ogni volta che Sully usciva dalla stanza, rimaneva in ansia fino a quando non lo vedeva rientrare. Era praticamente una bomba a tempo, in attesa di esplodere. «Avanti» disse Sully. Dan entrò in soggiorno, seguito a ruota da Franklin Chee. Holloway e Webster Chee erano da qualche parte, lungo il perimetro della proprietà, ad assicurarsi che nessun ospite sgradito tentasse di rovinare la festa. Dan fece un cenno di saluto a Sully, poi squadrò duramente Ginny. Sully aveva ragione. Stava crollando a pezzi. Poteva leggerglielo negli occhi, nelle sottili rughe di tensione attorno alla bocca. Era evidente, in lei, un nervosismo che prima non c'era. «Ehi, sono arrivato troppo tardi per la cena?» chiese, cercando di estorcerle un sorriso. Lei si strinse un po' di più lo scialle attorno alle spalle. «Troppo tardi? Siamo arrivati tutti troppo tardi» mormorò, e guardò, oltre Dan, nel cortile, come se si aspettasse di vedere qualcun altro. Sully corrugò la fronte e scosse la testa. Dan annuì. Aveva ricevuto il messaggio. La conversazione oziosa era decisamente esclusa. «Hai ottenuto la registrazione?» chiese Sully. Dan gliela porse. Sully inserì la cassetta nel videoregistratore, ma non lo accese. «Ginny, ricordi di che cosa abbiamo parlato?» «Sì.»
«Sei pronta a vedere la cassetta? Si tratta di un collage di brevi filmati di Karnoff, giusto, Dan?» «Circa quindici minuti in tutto» rispose lui. «Ho pensato che non ci serviva di più, anche se posso averne altri, se necessario.» «Se si verificherà quello che è successo ieri sera, non ci serviranno più di quindici secondi» affermò Sully. Dan si voltò di scatto. I suoi occhi si strinsero mentre fissava intensamente Ginny. «Così in fretta?» borbottò. «Oh, sì» confermò Sully. Franklin Chee si avvicinò a Ginny, si accosciò davanti a lei e ammiccò. Lei lo guardò, poi sbatté le palpebre. Le sue reazioni erano così lente che sembrava quasi drogata. «Che cosa c'è? Aspetti forse di vedere se la mia testa comincia a girare vertiginosamente?» Franklin sorrise. «Sì. Ma non vomitarmi addosso, okay? Ho lo stomaco delicato.» L'incongruità di un duro agente dell'FBI delicato di stomaco era troppo buffa per essere ignorata. Ginny sorrise e scosse la testa. «Sei bravo a far stare meglio la gente, vero?» «Già. In confidenza, sono il dottor Kildaire in incognito.» La battuta era ancora più sciocca, e stavolta Ginny riuscì a ridere. Poi sospirò e gettò indietro lo scialle, come se si preparasse a una battaglia. «Sully?» «Sono qui, tesoro.» «Non perdermi, okay?» Lui provò un nodo allo stomaco. «Non succederà.» Ginny fece scorrere lo sguardo sugli uomini che la circondavano, poi annuì. «Okay, sono pronta. Accendi il videoregistratore.» Il primo brano era stato ripreso alla conferenza stampa tenuta poco dopo che a Karnoff era stata notificata l'assegnazione del premio Nobel. Lui era in piedi alla destra del podio, un signore alto e distinto prossimo alla settantina. Al suo fianco c'erano una donna piccola, vestita elegantemente, e un giovanotto sulla trentina che sembrava una versione sbiadita dello stesso Karnoff. Non così alto. Non così sicuro di sé. Ed evidentemente non altrettanto a proprio agio davanti al pubblico.
Ginny fissò il terzetto, cercando di attribuire quella faccia all'uomo nel suo passato, ma non ci riuscì. Karnoff non sembrava diverso da qualunque signore anziano e distinto che aveva visto in vita sua. Guardò Dan e Sully e si strinse nelle spalle. «Allora?» E poi partì il sonoro. «Signore e signori, è ufficiale. Al dottor Emile Karnoff è appena stato attribuito il premio Nobel per la medicina, per le sue scoperte sull'uso dell'ipnosi come base per la guarigione di malattie organiche. Dottor Karnoff, a nome del pubblico americano, voglio essere il primo a congratularmi per il suo successo.» Emile salì sul podio, sorrise alla moglie e al figlio, poi annuì in direzione delle dozzine di cronisti di fronte a lui. Si schiarì la gola. Ginny trattenne il respiro. «Oggi è un gran giorno per me e la mia famiglia...» L'aria le sfuggì dai polmoni, come se fosse stata colpita da un pugno. «... che ha fatto tanti sacrifici perché io potessi seguire la mia intuizione. Mi è stato conferito un grande onore, ma niente può essere così grande quanto...» Le palpebre di Ginny erano pesanti... tanto pesanti. La voce di Karnoff la stava risucchiando sempre più in basso. «... la consapevolezza che le mie scoperte continueranno a vivere molto tempo dopo che io non ci sarò più.» Il timbro della voce saliva e scendeva con il ritmo del suo cuore. Come le era stato insegnato tanto tempo addietro, Ginny lasciò che passasse su di lei, calda, autoritaria, inesorabilmente persuasiva. Sully premette il pulsante Pausa, con lo stomaco ancora contratto. Sentiva che giocare con la mente di Ginny diventava di minuto in minuto più pericoloso. Non gli importava che cosa la stessa Ginny o chiunque altro poteva dire. Tutto questo non sarebbe accaduto mai più. «Lo vedi» disse. «È andata.» Dan le agitò una mano davanti al viso. Lei non si mosse. Aveva le palpebre abbassate, e il suo corpo sembrava in uno stato di animazione sospesa. Non era addormentata... solo in attesa che qualcuno andasse ad accendere le luci nella sua testa. Dan le toccò un braccio. «Ginny?»
Lei prese un lento respiro. Sully fece un cenno a Franklin, che prontamente intervenne per riportarla indietro. «Ginny, ascolta il suono della mia voce. Puoi sentirmi chiaramente da dove ti trovi, non è vero?» Lei annuì. «Ora conterò all'indietro a partire da cinque. Quando io dirò: Adesso, tu ti sveglierai e ti sentirai bene, riposata, e ricorderai tutto quello che abbiamo detto. Sei pronta?» «Sì.» La voce suonava vuota. Franklin le prese la mano. «Sono con te. Senti la mia mano. Odi la mia voce. Ora comincerò a contare, e quando dirò: Adesso, ti sveglierai. Cinque. Quattro. Tre. Due. Uno. Adesso!» Ginny respirò a fondo e alzò gli occhi. Sorrideva. «È successo di nuovo, vero? Ha qualcosa a che vedere con quello che sta accadendo, non è così, Dan?» Era difficile negare l'evidenza, anche se Dan doveva essere cauto, considerando la notorietà dell'uomo che era diventato tutt'a un tratto il loro principale indiziato. «Sembra che esista questa possibilità» concesse. «Ne saprò di più fra qualche ora.» «Che cosa stiamo aspettando?» chiese Ginny. «Di che cosa abbiamo bisogno per collegare Karnoff alla morte di quelle altre donne?» Sully si sedette sul bracciolo della sua poltrona e le mise una mano sulla nuca. «Tanto per cominciare, tesoro, dobbiamo trovare un qualcosa di concreto che lo colleghi al caso, come dei tabulati telefonici che dimostrino che ha chiamato le vittime, o prove che si trovava in quelle città nel momento in cui sono accaduti gli incidenti... cose del genere.» «E se non le trovaste? Mi sembra evidente che quell'uomo ha una mente brillante. Non credo che sia stato tanto stupido da lasciare dietro di sé delle prove che lo colleghino a un crimine come questo.» Nessuno di loro aveva una risposta, e questo, ovviamente, a Ginny non poteva bastare. «Vi do due giorni di tempo per indagare a fondo sulla sua vita, e se non salterà fuori niente di utile, me ne andrò da qui.» Sully balzò in piedi. «Che diavolo intendi dire?»
Anche Ginny si alzò, con le mani sui fianchi e gli occhi fiammeggianti. «Sono stufa a morte di essere la vittima. Sono stanca di nascondermi. Stanca di essere un bersaglio. Per come la vedo io, se esco dal mio nascondiglio, il tizio che è la fuori, chiunque sia, viene a cercarmi, ed è compito di voi ragazzi mantenermi in vita. Che ne dite di questo piano?» «Fa schifo» scattò Sully. «Anche il vostro» replicò Ginny. «Non è una buona idea» commentò Franklin. «Chee ha ragione» aggiunse Dan. «Non ho detto che sia una buona idea, ma è quello che succederà.» Poi, la voce di Ginny cominciò a tremare, e tutti si resero conto di quanto le costava indossare quella maschera coraggiosa. Dopodiché, furono come cera nelle sue mani. «E così, ragazzi... avete intenzione di essere la mia rete, se cadrò?» Sully la guardò, e poi sospirò. «Sai che ci sarò.» «Webster e io ci stiamo stancando di tutto questo caldo. Quando sarai pronta ad andartene, lo saremo anche noi.» Dan si mise a sedere e rifletté un momento. «Affiderò il compito a Holloway. È un vero cane da caccia, sempre capace di fiutare i guai nell'aria, e io gli guarderò le spalle. Ho un altro paio di ragazzi che posso tirare dentro, se necessario. Ma non cominciate ancora a preparare i bagagli. Forse avremo fortuna. Forse si è lasciato dietro una traccia così lunga e larga che non avrai più bisogno di mostrare la tua faccia.» «Grazie» disse Ginny. Chee annuì e uscì per informare i due colleghi degli ultimi sviluppi, mentre Dan tirava fuori il cellulare e si spostava in un'altra stanza per fare alcune telefonate. «Sei arrabbiato con me?» chiese Ginny. Sully ficcò le mani nelle tasche dei jeans. «No.» «Be', sono nei guai e ho bisogno che tu sia dalla mia parte.» «Sono dalla tua parte. Sto anche cercando di trovare il coraggio per dirti una cosa, ma sono sicuro che questo non è il momento giusto.» «La sola garanzia che abbiamo, nella vita, è il presente.» «Lo so» rispose Sully. «La scelta è tua» disse lei, e fece per uscire dalla stanza.
«Okay.» Ginny si fermò e si voltò. «Okay, che cosa?» «Ho deciso di dirtelo.» Lei si mise le mani sui fianchi e resistette all'impulso di battere nervosamente il piede per la frustrazione. Aspettare non era il suo forte. Sully respirò a fondo, consapevole che ciò che stava per dire avrebbe cambiato tutto fra loro. Se in meglio o in peggio, restava ancora da vedersi. «Sully...» «Ci sto arrivando, maledizione» brontolò lui. «Niente che tu possa dire sarà peggio di ciò che è già successo.» «Non sto dicendo che sarà peggio» protestò lui. Ginny allargò le braccia in un gesto di sconfitta. «E allora di che si tratta, per l'amor del cielo?» «Sono innamorato di te. Non mi importa un bel niente se non sai cucinare. Non mi interessa se sei polemica. Non mi importa neppure che occupi più della metà del letto. E non voglio perderti, quando tutto questo sarà finito.» Ginny era senza parole. Per tutto quel tempo aveva saputo che la loro intesa sul piano sessuale era praticamente perfetta, e aveva accettato che i suoi sentimenti per Sully erano più forti di quelli di lui per lei. Ma quelle affermazioni buttavano all'aria ogni teoria che aveva elaborato su Sullivan Dean. Cominciò a sorridere. «Parli sul serio, vero?» Lui si passò una mano sudata sul viso e rimpianse di non avere a disposizione qualcosa di forte da bere. «Oh, sì.» «Sei innamorato di me? Come a dire: Io prendo te, Ginny, come mia...» «Virginia. Mi piace il tuo nome, e tu dovrai accettarlo, almeno quando ci sposeremo.» Il sorriso di Ginny si allargò. «Quando ci sposeremo.» «Già. Lo faresti?» «Sì. Se tu me lo chiedessi.» Anche Sully cominciò a sorridere. Poi attraversò a passo deciso la stanza e la sollevò da terra. «Piccola, non so da che parte cominciare. Ho un fratello a cui voglio bene e una madre che non ricorda neppure il proprio nome, ma ho un lavoro
fisso, degli incentivi e un ottimo piano di pensionamento.» Le solleticò il lato del collo con le labbra, poi le mordicchiò il lobo dell'orecchio sinistro, sapendo di farla vibrare in tutti i posti giusti. «Perciò, se te lo chiedessi in modo davvero carino, mi sposeresti e faresti dei bambini con me e mi gratteresti la schiena dove non riesco ad arrivare da solo?» Ginny scoppiò a ridere, proprio mentre Dan rientrava nella stanza. «Mi sono perso qualcosa?» chiese lui, sorridendo di fronte alla scena che aveva evidentemente interrotto. «Niente di importante» rispose Ginny, mentre Sully la rimetteva a terra. «Ma se mancherai al nostro matrimonio, non daremo il tuo nome a nessuno dei nostri figli.» «Oh, diavolo, che cosa mi dici» brontolò Dan, e batté le mani. «Qui bisogna festeggiare. Ehi, Sully, hai già stappato quello champagne?» «No, ma...» «Fantastico. Prendo dei bicchieri.» Dan schizzò fuori dalla stanza prima che Sully potesse fermarlo. Ginny si voltò, guardando Sully con gli occhi colmi di tutti i sentimenti che provava in quel momento. «Ti amerò per sempre» sussurrò. «Grazie, piccola.» «Aspetta a ringraziarmi» ribatté lei. «Non hai ancora assaggiato una delle mie torte.» Emile era seduto al capezzale di Lucy, cercando la sua piccola, perfetta moglie in quella donna vecchia e distrutta, con i capelli arruffati, gli occhi orlati di rosso e perennemente lucidi di lacrime. Anche mentre dormiva, le lacrime le filtravano da sotto le palpebre. Emile era in ospedale da quasi ventiquattr'ore, e non era riuscito a suscitare in lei alcuna reazione. Lucy aveva continuato a mormorare qualcosa a proposito di registrazioni, un argomento strano su cui fissarsi, considerando che dovevano ancora seppellire il loro figlio. Appoggiò la fronte al materasso, così stanco nel corpo e nello spirito che non credeva di poter tirare avanti. Il Signor Importante, ecco come si era sentito. Indaffarato a badare alla salute e ai problemi di chiunque, tranne della sua famiglia... a mettere il suo ego e la sua gloria al di sopra del loro benessere. Lucy agitò la testa sul guanciale e cominciò a stropicciare il lenzuolo fra le dita come se cercasse di raccogliere qualcosa. Emile le coprì la mano
con la sua, dandole un leggero colpetto. «Lucy, cara, sono io, Emile. Sono qui. Non sei più costretta a portare tutto il peso da sola.» «... forte e concentrato... sotto il letto... il bravo ragazzo della mamma...» Emile si coprì il viso con le mani. «Dottor Karnoff?» Lui alzò la testa. Il medico di Lucy era entrato nella stanza. «Dottor Rader...» «Mi dispiace che ci siamo conosciuti in queste circostanze, dottor Karnoff, ma voglio dirle che ammiro da molto tempo il suo lavoro.» Emile chinò leggermente la testa. Sembrava così poco importante, ora. «È un peccato che le sue tecniche non si possano applicare ai traumi mentali» continuò Rader. «Posso solo immaginare come sia frustrante per lei... essere in grado di aiutare tanti pazienti, eppure impotente in questo tipo di situazione.» L'espressione di Emile non rivelò nulla di ciò che provava, anche se avrebbe volentieri strangolato il medico che sproloquiava con tanta indifferenza sulla sua tragedia. «Quando potrò portare a casa Lucy?» chiese. «Be', vede in che condizioni è. Non può certo badare a se stessa, a questo punto, e...» «Deve tornare a casa. Assumerò delle infermiere ventiquattr'ore su ventiquattro, se necessario.» «Lei è stato a casa? Mi hanno detto che è in condizioni terribili.» Le proteste di Emile gli si gelarono sulle labbra. Non aveva pensato a quell'aspetto. Nella sua mente, si era raffigurato la casa com'era sempre stata, pulita e odorosa di cera profumata al limone, con i fiori freschi del giardino di Lucy in ogni stanza. «Abbiamo una donna per le pulizie. Con il tempo, non c'è niente che non si possa sistemare. La dimetterà?» Il dottor Rader annuì. «In questa situazione, mi rimetto alla sua superiore competenza, per l'assistenza a sua moglie. Lei è la persona che la conosce meglio. Forse l'ambiente familiare l'aiuterà a uscire da questo stato di shock.» Questo, e niente più farmaci che le alterino la mente. Ma Emile non espresse ad alta voce la sua opinione. Invece, tese la mano. «Dottore, la ringrazio per essersi preso cura della mia Lucy.»
«Certo. E, ancora una volta, le mie più sincere condoglianze per la perdita di suo figlio.» «Adesso andrò a casa» disse Emile. «Ma tornerò domani per far dimettere Lucy.» «Darò gli ordini necessari» rispose Rader, e se ne andò per finire il suo giro. Emile guardò ancora una volta la moglie, poi si chinò e la baciò lievemente sulla guancia. «Ora vado, cara. Ma tornerò domani per portarti a casa.» «... sotto il letto... sotto il letto...» Lui sospirò e le batté un colpetto sulla mano. «Sì, guarderò sotto il letto.» Con sua sorpresa, Lucy parve calmarsi. Mentre prendeva un taxi per tornare a casa, Emile si ripromise di guardare davvero sotto il letto, giusto per controllare. Il percorso in taxi parve interminabile, ma più si avvicinava a casa, più si sentiva teso. E se il medico avesse avuto ragione? Se la casa fosse stata nel caos più completo? «Prima le cose più importanti» borbottò. «Ha detto qualcosa, signore?» chiese il tassista. «No, parlavo da solo.» Cinque minuti dopo entrarono nel vialetto. Emile gettò qualche banconota sul sedile anteriore e scese. «Prendo io il bagaglio» disse. «Buona giornata» gli augurò il tassista, e si allontanò. Emile rimase davanti alla porta di casa per cinque minuti buoni, prima di indursi a entrare. Fu la curiosità della vicina a smuoverlo. Non era nello stato d'animo giusto per parlare con chicchessia. Lui arrivò fino nell'ingresso, chiudendosi accuratamente la porta alle spalle, poi rimase immobile, timoroso di farsi avanti... spaventato all'idea di che cosa poteva trovare. La casa sembrava vuota, come se tutta la vita ne fosse uscita quando Lucy era stata portata via. Perfino l'orologio a pendolo era fermo. Allora, Emile avanzò, aprì lo sportello e rimise a posto le lancette, prima di dare un delicato colpetto al pendolo. Immediatamente il familiare tic, tic gli diede l'energia necessaria per procedere. C'era un segno nero sul pavimento, probabilmente l'impronta del tacco di una scarpa. Poteva solo immaginare quanta gente era stata fra quelle
mura, dopo ciò che era successo. In un certo senso, si sentiva violato, come un uomo che avesse sorpreso la moglie a tradirlo... come se ciò che era suo fosse diventato improvvisamente di tutti. Mentre si muoveva verso le scale, gli balenò alla mente il pensiero che non sapeva dov'era morto suo figlio. Aveva dato per scontato che fosse successo in camera sua, perché raramente Phillip si trovava in qualche altra stanza della casa. Ma quando guardò in sala da pranzo e vide le macchie sul pavimento e la sagoma tracciata con il gesso, nel punto dov'era stato il corpo, barcollò. Per non cadere, si trascinò fino alla soglia e si appoggiò alla parete. «Phillip. Mio povero, povero Phillip. Che tormento devi avere provato.» Si voltò di scatto e quasi corse su per le scale, pensando alla camera sua e di Lucy come a un rifugio dall'orrore di quella vista. Ma quando arrivò sull'ultimo gradino, si rese conto che il caos doveva essere cominciato là. In corridoio c'erano suppellettili rotte, e un mazzo di fiori secchi giaceva in mezzo a schegge di vetro. Come in trance, Emile si mosse verso la porta aperta della camera di Phillip. Anche se si era aspettato la distruzione, non avrebbe mai immaginato che raggiungesse quel livello. Rimase fermo per un momento, cercando di immaginare la furia che poteva condurre un uomo a quegli estremi, ma la sua mente non riusciva a concepirla. Troppo esausto per calcolare la quantità di tempo e di denaro necessaria per rimettere tutto a posto, si voltò per andarsene, ma proprio allora qualcosa sotto il letto attrasse la sua attenzione. In quell'istante ricordò la sua promessa a Lucy. Lei continuava a parlare di qualcosa sotto il letto. Forse alludeva a quell'oggetto. Facendosi strada attraverso il caos, si avvicinò al letto e si mise in ginocchio. Con un piccolo sforzo, tirò fuori l'oggetto e scosse la testa, deluso. Era solo un registratore. Niente di importante. Si rialzò faticosamente e gettò l'apparecchio sul letto. In quel movimento, il coperchio si aprì, rivelando il nastro all'interno. Emile lo fissò, dicendosi che senza dubbio gli occhi lo ingannavano. Ma le lettere nere sull'etichetta bianca erano inequivocabili. Messaggi subliminali - 1980 - Studi a Yarmouth. Strappò la cassetta dal registratore e la rigirò per qualche istante fra le mani. Non si era sbagliato. Era uno dei suoi nastri. Com'era arrivato là? Faceva parte di uno studio fallito, con cui aveva cercato di dimostrare che la paura della morte era l'elemento che poteva spingere l'organismo umano
a lottare contro le proprie malattie. Non era approdato a nulla, e lui era rimasto sorpreso e frustrato di fronte alle reazioni violente che aveva suscitato nei pazienti che lottavano contro la depressione. Stava attraversando il corridoio per andare in camera sua, quando lo colpì un pensiero improvviso. Come faceva Lucy a sapere che il nastro era là? Non poteva certo averlo visto durante la scena che aveva condotto al suicidio di Phillip. Si fermò, guardando ancora una volta la cassetta. E se fosse stata lei a darla a Phillip, pensando di aiutarlo a superare la sua depressione, e gli avesse invece fornito, metaforicamente, la pallottola per mettere fine alla propria vita? «Dio, Ti prego, non questo...» bisbigliò lui a quel punto. Poi cadde sul letto, schiacciato sotto il peso del rimorso e della disperazione. Era la una e dieci del mattino quando Dan uscì correndo dalla sua camera. Sully lo sentì e rotolò giù dal letto. Stava succedendo qualcosa, ma non sapeva che cosa. Agguantò un paio di calzoncini da ginnastica e uscì in corridoio. Trovò Dan in cucina, occupato a prepararsi uno spuntino. «Che succede?» chiese, stropicciandosi gli occhi, assonnato. «Mi dispiace. Ti ha svegliato il mio telefono?» «No, sei stato tu, quando caricavi per il corridoio come un alce infuriato.» Dan sorrise. «Sto festeggiando» spiegò. «Hai bevuto l'ultimo bicchiere di champagne.» «La mortadella va benissimo» dichiarò Dan, spalmando la maionese su una fetta di pane. «Avanti, parla. Che è successo per mangiare mortadella nel cuore della notte?» insistette Sully. «Tabulati, ma non del telefono di casa di Karnoff. Di un cellulare registrato a suo nome. Non è furbo come credeva.» Sully spalancò gli occhi. «Vuoi dire che i numeri corrispondono?» «Tutti fino all'ultimo, compresa una chiamata al numero di casa di Ginny. Probabilmente una di quelle a cui ha risposto la segreteria telefonica, e lui ha riattaccato.» Sully si lasciò cadere sulla sedia più vicina. «Non posso crederci.»
«Non ci riuscivo neppure io, ma i tabulati non mentono. Abbiamo abbastanza per ottenere un mandato di perquisizione. Mi divertirò a far crollare il mondo addosso a Karnoff.» «C'è un panino anche per me?» I due si voltarono. Ginny era in piedi sulla soglia, con indosso soltanto una maglietta di Sully e un sorriso. «Non intendevo svegliarti» disse lui, e se l'attirò sulle ginocchia. «Ma visto che ti sei alzata, puoi sentire le buone notizie. Abbiamo avuto fortuna, tesoro. I tabulati del cellulare di Karnoff corrispondono a tutti i numeri delle vittime.» «Oh, mio Dio! Non posso credere che sia stato così stupido.» «Forse non è molto pratico del mondo reale» commentò Dan. «È quello che si dice un secchione, anche se è un genio. Forse il suo rapporto con le tecnologie moderne non è pari alle sue tecniche mediche. Chissà? A ogni modo, partirò fra un paio d'ore e sarò nel Connecticut domattina presto. Voglio consegnare di persona questo mandato di perquisizione.» «Lasciami venire con te» disse Ginny. Sully la strinse più forte. «Niente da fare.» «Che male può farmi?» chiese lei. «Ci saranno poliziotti dappertutto, no? E se gli resta una traccia di umanità, forse rimuoverà la maledizione che ha lasciato nel mio cervello, prima che lo impicchino all'albero più vicino.» «Non credo che sia una buona idea» osservò Dan. «Forse più tardi potrò organizzarti un incontro con lui.» «Non voglio vederlo dopo che sarà in prigione. Una buona azione in favore della vittima che gli è sfuggita potrebbe essere il suo solo elemento di scambio per ottenere un minimo di clemenza.» Sia Sully sia Dan sapevano che aveva qualcosa in mente, accennando alla possibilità di uno scambio. Ma nessuno dei due voleva autorizzare un incontro che poteva rivelarsi pericoloso. Frustrata, Ginny costrinse Sully a guardarla. «Vuoi che la madre dei tuoi figli salti da qualche ponte, un giorno, perché ha sentito alla radio la canzone sbagliata?» Lui impallidì. «Giochi duro, eh, piccola?» «È la mia vita, Sully. Concedimi la dignità di viverla.» Nel giro di un'ora, avevano fatto i bagagli ed erano partiti.
CAPITOLO 18 L'elicottero dell'FBI atterrò alla periferia di Bainbridge, Connecticut, alle dieci passate da poco, dopo avere fatto una sosta a Washington. I loro piani erano stati rimandati, dopo avere appreso che cos'era successo alla famiglia Karnoff, ma solo di poco. Dan era stato avvertito dalla sua squadra di sorveglianza che nella casa dei Karnoff regnava una frenetica attività, che un'impresa di pulizie era al lavoro fino dall'alba e che il dottor Karnoff era uscito attorno alle nove per andare, presumibilmente, all'ospedale a prendere sua moglie, perciò in casa non c'era nessuno per ricevere un mandato di perquisizione. Dopo la tensione al pensiero di incontrare a faccia a faccia l'uomo che aveva sconvolto tante vite, la notizia era stata come una doccia fredda per Ginny. Ora erano tutti seduti in un furgone, dall'altra parte della strada, in attesa del ritorno di Karnoff. Ginny non poteva fare a meno di pensare alla donna che stava tornando a casa dall'ospedale. Aveva appena perso suo figlio, e ora stava per perdere anche il marito. Sul sedile anteriore, Sully e Dan stavano discutendo a bassa voce i pro e i contro dell'imminente perquisizione, mentre i fratelli Chee sedevano in silenzio dietro Ginny, aspettando pazientemente lo svolgersi degli eventi. Lei si appoggio al sedile e chiuse gli occhi, improvvisamente stanca fino in fondo all'anima. Due mesi prima aveva vissuto la sua vita senza una preoccupazione al mondo, e ora essere là, sul punto di confrontarsi con un assassino, era quasi più di quanto potesse sopportare. Voleva che tutto questo finisse. Quando sospirò, Sully si voltò a guardarla. «Stai bene? Puoi ancora tirarti indietro, sai» le ricordò. Lei scosse la testa. «Va bene, ma dipende solo da te» insistette lui. «Lo so.» Sully le strizzò l'occhio. Ginny sorrise e poi fu assalita da un altro pensiero. «Sully?» «Sì, tesoro?» «Da qualunque parte la si prenda, è molto triste che il loro figlio si sia suicidato, vero?» «Dal mio punto di vista è una maledetta ironia. Karnoff spinge sei donne
innocenti a uccidersi, e poi anche suo figlio si toglie di mezzo. Spero che questo pensiero lo perseguiti per il resto della vita.» «Stavo pensando piuttosto al peso che ricadrà sulla madre.» Per qualche momento all'interno del furgone regnò il più completo silenzio. Poi Sully annuì e si voltò di nuovo a guardare la strada. Franklin Chee si chinò in avanti. «È così che va il mondo» commentò. «Il peso che grava sulla madre è sempre il più grande. Dal giorno in cui concepisce a quello in cui viene sepolta, il suo amore per i figli sarà la sua più grande gioia e la sua più grande sofferenza.» «È triste» sospirò Ginny. «Sì, ma bisogna affrontare la vita e goderla.» Ginny rimase in silenzio, assimilando la saggezza di quelle semplici parole. «Grazie, Franklin.» Lui le toccò lievemente la spalla in un gesto di comprensione. «Non c'è di che.» Ci fu un altro, lungo momento di silenzio, poi Franklin aggiunse: «Qualcuno vuole sentire l'imitazione di John Wayne di Webster?». Dan scoppiò a ridere, e Sully si voltò e sorrise. Ginny si sentì riscaldare il cuore dal cameratismo del gruppo e seppe che, quando tutto fosse finito, ne avrebbe sentito moltissimo la mancanza. Lucy Karnoff stava ancora stropicciando fra le dita la stoffa, stavolta quella del suo vestito. Era uno di quelli che Emile preferiva e, quando glielo aveva portato perché lei lo indossasse per tornare a casa, aveva pensato che l'avrebbe aiutata a riprendere il suo ruolo di moglie devota. Ma la mente di Lucy si era troppo smarrita per essere recuperata da un abito lilla. «Siamo quasi a casa» annunciò Emile, e le coprì la mano con la sua, perché smettesse di giocherellare con il tessuto della gonna. «... sotto il letto» borbottò lei. «Non più, cara» disse Emile a bassa voce. «Non più.» Per un attimo, un lampo della vecchia Lucy le balenò sul viso, mentre si voltava a guardarlo. «Non più?» Lui sorrise. «No, non più.» «Non più... non più... non più...»
Emile sospirò. Un ostacolo era caduto, solo perché scoprisse che dietro ce n'era un altro. «Ci siamo, signore» annunciò il tassista a quel punto, fermandosi davanti alla casa. Saltò giù e si affrettò a girare attorno al taxi per aiutare il vecchio e sua moglie. Quando Emile gli tese una banconota da venti dollari, la intascò con un sorriso. «Grazie, signore. E auguri per la salute della signora.» «Sì, grazie» rispose Emile, raccogliendo la valigetta degli articoli da toeletta e prendendo Lucy per mano. «Vieni, cara, andiamo dentro, al riparo dal caldo.» «Al riparo dal caldo... al riparo dal caldo...» Emile aveva inserito la chiave nella serratura quando sentì il rumore dei veicoli che si avvicinavano. Pensando che si trattasse di cronisti, era ansioso di far entrare Lucy in casa, lontano dalle telecamere. Era già nell'ingresso e stava per chiudere la porta, quando si rese conto che non era affatto la stampa. «Emile Peter Karnoff?» Lui corrugò le sopracciglia. Era insolito sentire il suo nome completo dalle labbra di un uomo che non aveva mai visto. «Sì?» «Sono l'agente federale Dan Howard. Abbiamo un mandato per perquisire la sua casa.» Emile si trovò in mano il mandato, e fu spinto da parte prima ancora di avere la possibilità di aprire bocca. «Signori! Devo protestare contro questa intrusione in un momento così tragico. Che cosa potete mai avere bisogno di cercare in casa mia? La morte di mio figlio è stata archiviata come suicidio. Certo non sospetterete qualche reato?» Dan non gli prestò attenzione. «Agente Chee, tu e tuo fratello cominciate al piano di sopra. Sai che cosa cerchiamo» ordinò. Poi si rivolse agli altri agenti che avevano fatto parte della squadra di sorveglianza e li mandò nel resto della casa. In mezzo a tutto quel trambusto, qualcosa scattò nella mente devastata di Lucy. C'erano ospiti. Aveva dei doveri, come padrona di casa. La sua voce sottile, incerta, risuonò in mezzo alla confusione, paralizzando tutti. «Emile! Caro! Non mi avevi detto che avremmo avuto ospiti.» Cominciò ad agitare una mano verso la biblioteca, come se dirigesse il traffico.
«Vi prego, accomodatevi tutti nello studio di mio marito. Porterò dei rinfreschi fra pochi minuti. Vi piacerà moltissimo la mia torta di noci e mirtilli. È uno dei dolci preferiti di Emile.» Sully non poté guardare Ginny. Sapeva che cosa doveva pensare. Aveva già espresso le sue preoccupazioni riguardo a quella povera donna, e sembrava che avesse avuto ragione. «Signore, deve portare via sua moglie e assicurarsi che non ci sia d'intralcio» disse Sully. «Ma io devo protestare per questo inqualificabile comportamento!» esclamò Emile. «Perché siete qui? Che cosa mai possiamo avere fatto per meritare un simile trattamento da parte del governo? Sapete chi sono?» Sully si voltò, guardandolo dritto in faccia per la prima volta. «Sì, sappiamo bene chi è» rispose lui a bassa voce. «È l'uomo che ha condotto alla morte sei giovani donne.» Emile impallidì, si portò una mano al petto e barcollò all'indietro, incredulo. Stranamente, fu Lucy che lo guidò verso una vicina poltrona dell'ingresso. «Vieni, caro. Sei un po' pallido. Perché non ti siedi un momento, mentre io preparo un po' di tè per i nostri ospiti?» Ginny si teneva ancora indietro, in disparte, limitandosi a osservare la scena, ma quando Karnoff, involontariamente, si separò dagli altri mettendosi a sedere, varcò la soglia e si chiuse silenziosamente la porta alle spalle. Gli agenti si erano dispersi nei vari punti della casa, mentre Dan e Sully erano rimasti nell'ingresso. Era solo una questione di tempo prima che arrestassero l'anziano medico, ma prima volevano che fosse terminata la perquisizione. Anche se non avessero trovato molto, in casa, che potesse servire come prova, erano convinti che i tabulati telefonici e la testimonianza di Ginny sarebbero stati più che sufficienti a togliere Karnoff dalla circolazione per il resto della vita. Il cuore di Emile martellava come se volesse scoppiare. Si mise la mano sul petto e si impose di calmarsi. Chiudendo gli occhi, mise in pratica una tecnica di rilassamento mentale, utilizzando su se stesso le proprie capacità. «È così che l'ha fatto?» Emile sussultò al suono della voce, e poi alzò gli occhi. «Mi scusi. Parlava con me?» chiese. Si sentiva troppo male per preoccuparsi del fatto che Lucy si aggirava
per l'ingresso, fingendo di versare tè e servire torta. Ginny lo guardò a lungo negli occhi, duramente. La rabbia superava ormai di gran lunga la paura. La sua voce era bassa, l'atteggiamento calmo, ma l'odio che provava per quell'uomo ribolliva, bruciante, sotto la superficie. «Perché l'ha fatto?» Lui si tolse un fazzoletto dalla tasca della giacca e cominciò ad asciugarsi il viso. «Mi dispiace, signorina, ma dovrà essere più precisa. Non so di che cosa sta parlando.» La sua voce la fece sentire debole, ma l'odio l'aiutò a conservare la lucidità. Voleva espellerlo dai propri sensi come il residuo tossico che era. «Noi non le facevamo alcun male...» mormorò, pensando a un bambino che sarebbe cresciuto senza madre, e a Georgia, che aveva avuto tanto da dare al mondo. «Ha fatto quello che voleva di noi quando eravamo bambine, ma non le è bastato, vero? Doveva distruggere le prove. Aveva paura che ricordassimo? È stato questo?» «Signorina, non so di che cosa sta parlando!» gridò Emile. Poi si coprì il viso con le mani. «Questo è un incubo!» esclamò. «Un incubo senza fine! Dio, Ti prego, fai in modo che io mi svegli!» Sully si voltò di scatto e balzò verso l'estremità dell'ingresso. Non aveva visto Ginny entrare, ma era evidente dal comportamento di Karnoff che lei lo aveva affrontato. L'afferrò per un braccio, deciso a sottrarla al pericolo, ma lei si liberò con uno strattone, mantenendo tutta la propria attenzione concentrata sull'uomo seduto sulla poltrona. «No, lasciami» mormorò. «Devo farlo.» Lucy seguì il suono della voce del marito e poi, come una bambina, si sedette sulle sue ginocchia e gli passò un braccio attorno al collo mentre parlava. «Questo è mio marito» disse. «È un uomo molto importante, sapete.» Emile cercò di liberarsi dal suo braccio, ma lei gli si aggrappava come un gattino con gli artigli impigliati in una tenda. «Mi manca terribilmente, quando è via» continuò Lucy. «Ma so che il suo lavoro è importante per il mondo. È mio compito mantenere tranquilla la sua casa, in modo che abbia un ambiente piacevole in cui lavorare.» «Sì, signora» disse Sully. Passò un braccio attorno alle spalle di Ginny e l'attirò dolcemente verso il proprio petto. «Vedo che lo sa fare molto bene.»
Lucy sorrise beata, accarezzando la guancia di Emile. «C'è tanto da fare. Tante ragnatele da togliere. Dopo tutti questi anni, tante ragnatele...» «Sì, signora. Ha una casa molto pulita» convenne Sully. Emile appoggiò la testa sul seno di Lucy e chiuse gli occhi, combattuto fra l'impulso di ridere e quello di seguirla nella sua follia. Quell'educata conversazione era risibile, considerando quello che stava succedendo sotto il suo tetto. «Ho una domestica, sapete» continuò Lucy. «Ma tendo a fare da sola le cose importanti. Non posso assolutamente fidarmi di lei per pulire gli archivi di mio marito. Lo faccio di persona. Nessuno tocca gli archivi di mio marito, tranne me... e lui, s'intende.» Ridacchiò. «Lucy, cara, questi signori non vogliono sapere chi spolvera la nostra casa» disse Emile, pregando Dio che tacesse. «Oh, non è la polvere che è importante. Lascio che ci pensi la domestica. Io tolgo le ragnatele.» Emile guardò Sully, con negli occhi una supplica che non poteva esprimere ad alta voce. Poi sospirò. Se tutto questo stava accadendo, aveva bisogno di sapere il perché. «So che pensate di avere una ragione per quello che state facendo, ma Dio mi è testimone che non la capisco. Con quale diritto siete qui?» Dan Howard si avvicinò giusto mentre Karnoff poneva la domanda. Indicò il documento che il dottore aveva in tasca. «Quel mandato di perquisizione spiega tutto, signore. Siamo qui perché i suoi tabulati telefonici dimostrano che ha contattato ciascuna delle vittime nel giorno della loro morte, a eccezione di suor Mary Teresa al convento del Sacro Cuore. Non siamo ancora riusciti esattamente a dimostrare come l'ha contattata, ma sappiamo che lei è il responsabile.» Karnoff scosse la testa. «Mi dispiace, ma non so...» «Ragnatele!» esclamò Lucy, e batté le mani. «Emile, devi vedere il convento, una volta o l'altra. Le vetrate sono così belle! Tutti i colori splendono, con il sole, come i fiori del mio giardino.» Sully fu il primo ad afferrare l'importanza di ciò che la donna aveva detto. Abbassò la voce, come se lui e Lucy Karnoff fossero soli nella stanza. «Lei è stata al convento, vero?» si azzardò a domandarle. «Oh, sì» rispose Lucy. «E non molto tempo fa. Non è stato neppure un
viaggio lungo. Circa un'ora e mezzo, in treno. Sono tornata a casa in tempo per preparare la cena a Phillip.» Il suo viso si scompose solo per un momento, mentre guardava Sully. «Mio figlio è morto, sa. Ha sanguinato su tutto il mio pavimento. Ho cercato di aggiustargli la testa, ma ho usato il nastro sbagliato.» Le sue mani cominciarono a tremare e gli occhi si colmarono di lacrime. «Bisogna che pulisca il sangue. Non possiamo mangiare in sala da pranzo fino a quando non avrò pulito il sangue.» Mentre parlava, Sully e Dan si guardarono, colpiti dallo stesso pensiero. Un nastro? Lucy aveva fatto qualcosa anche a suo figlio, oltre che a tutte quelle donne? Emile capì dalla loro espressione che era accaduto qualcosa di determinante, ma era così preoccupato che Lucy potesse avere un attacco isterico che non si curò di chiedere spiegazioni. «Il pavimento è pulito, mia cara. Ho fatto venire un'impresa di pulizie stamattina. È tutto a posto. È di nuovo tutto come piace a te.» Lei gli batté un colpetto sulla guancia. Il suo sorriso era inadatto, in quel momento, quanto le lacrime che le si stavano ancora asciugando sulle guance. «Magnifico, è tutto pulito» annunciò. «Devo andare a preparare il tè.» «Aspetti» disse Dan. Poi aggiunse: «La prego. Signora Karnoff, posso farle una domanda?». «Sì, certo, anche se sono sicura di non avere niente di importante da dire. Mio marito è la star della famiglia, non è vero, caro?» Dan insistette, cercando di trovare un senso nella sua pazzia. «Signora Karnoff, lei sa chi è Emily Jackson?» Lucy annuì. «Ragnatele.» Sully sobbalzò. Buon Dio, era lei! Ginny cominciò a piangere, silenziosamente e desolatamente. Quando Sully le aprì le braccia, gli nascose il viso sul petto e si lasciò andare. «E Josephine Henley?» insistette Dan. «Ragnatele.» «E Lynn Goldberg e Frances Waverly e Allison Turner?» A quel punto, Emile sbottò. «Basta!» gridò. «Mia moglie non le dirà un'altra parola, a meno che non mi spieghi che cosa sta succedendo.» Lucy corrugò la fronte. «Non è gentile alzare la voce con i nostri ospiti» affermò. «Mi stanno
solo chiedendo delle ragnatele. Ci ho pensato io per te. Tu sei un uomo importante. Non possiamo avere ragnatele negli armadi. Ho cercato di rimettere a posto anche Phillip, ma credo di avere usato il nastro sbagliato.» Emile guardò Dan, nella speranza di capire. «Per favore, agente. Perlomeno, mi dovete una spiegazione.» «Nei mesi scorsi, delle telefonate sono state fatte da un cellulare registrato a suo nome a sei...» Dan guardò Ginny e si corresse. «No, a sette numeri, in differenti parti del paese. Subito dopo avere ricevuto quelle telefonate, sei donne hanno fatto qualcosa di completamente insensato, che ha avuto come risultato la loro morte.» «È tutto passato. Finito. Concluso. Affronta la tua paura più grande e poi apri le braccia a Dio» cinguettò Lucy battendo le mani. «Le ragnatele sono sparite.» «Dio. Oh, mio Dio» sussurrò Sully. «La più grande paura di Georgia era l'acqua. Non sapeva nuotare. Il prete ha detto che un attimo prima di buttarsi ha aperto le braccia, ha guardato il cielo e ha sorriso.» Ginny si voltò, fissando la donna, ma incapace di collegare l'innocenza della sua espressione con l'orrore di ciò che aveva commesso. «I parenti con cui ho parlato prima di lasciare St. Louis mi hanno detto che, secondo i testimoni, sembrava che prima di suicidarsi quelle donne cercassero di volare» mormorò. Il discorso di Lucy aveva sbalordito tutti, compreso Emile. Tutt'a un tratto stava cominciando a rendersi conto che sua moglie aveva fatto qualcosa di terribile, ma non sapeva che cosa, né come. «Per favore...» supplicò. «Dottor Karnoff, mi riconosce?» chiese Ginny a quel punto. Lui scosse la testa. «No. Dovrei?» «Il mio nome è Virginia Shapiro.» Il viso di Lucy si rabbuiò. «Non sono riuscita a trovare quella ragnatela...» borbottò. «E dobbiamo ringraziare Dio e Georgia per questo» scattò Sully. Emile stava ancora fissando Ginny. Alla fine scosse la testa. «No, mi dispiace.» «Ricorda la Montgomery Academy? Stato di New York, millenovecentosettantanove?» «Oh, sì! Certo!» La risposta sorprese tutti, compresa Ginny. Si era aspettata che Karnoff
si mostrasse reticente, che mentisse, perfino che negasse, ma non questo. «Davvero?» «Certamente. È stato il primo luogo in cui ho cominciato a sperimentare le mie teorie sulle persone.» Poi guardò di nuovo Ginny e si illuminò. «Oh, santo cielo! Lei è la piccola asmatica!» «No, si sbaglia» replicò lei. «Non soffro di asma fino da quando...» All'improvviso, capì. Karnoff sorrise. «La gioia di vedere quel panico svanire dai suoi occhi, di sapere che aveva imparato a fermare gli attacchi prima che cominciassero a impedirle di respirare... ah, non può capire che cosa ho provato.» Ginny stava cercando di assimilare il fatto che l'uomo che aveva creduto fosse un mostro l'aveva guarita da una fastidiosa malattia, quando Sully cambiò argomento. «Ricorda Edward Fontaine?» chiese. «Un volo per la Florida costa quattrocentosettantacinque dollari» cinguettò Lucy. Dan la guardò, incredulo. Era chiaramente pazza. Non sarebbero mai riusciti a ottenere una condanna, perché non era in grado di subire un processo. Avrebbe passato il resto della vita in un manicomio criminale. E, ammise fra sé, data la fragilità delle sue condizioni, non sarebbe durata un mese. Inconsapevole del quadro completo delle azioni di Lucy, Emile rispose alla domanda di Sully senza preoccupazioni, né remore. «Certo che ricordo Fontaine. Era un uomo notevole, totalmente dedito ai bambini e alla loro educazione. Per questo fu così disponibile a farmi entrare nella sua scuola. Si occupò perfino di tutte le formalità relative all'ottenimento delle autorizzazioni delle famiglie. Immagino di avere ancora i moduli firmati, da qualche parte nei miei archivi. Sono meticoloso circa i documenti.» Guardò di nuovo Ginny. «È difficile rendersi conto di quanti anni sono passati. Ma guardandola adesso... Lei è una bella ragazza, mentre era una bambina così quieta e malaticcia. Chissà se le sue compagne sono riuscite bene come lei, nella vita? Lo sa?» «Dottor Karnoff, lei non ha capito» intervenne Sully. «Sono i nomi di quelle bambine che l'agente Howard le ha elencato... e sono morte. E se non fosse stato per l'aiuto di Dio e di una piccola suora coraggiosa, lo sarebbe anche Ginny.» Un senso di angoscia strinse la gola di Emile. All'improvviso le accuse degli agenti e le strane, incomprensibili parole di Lucy cominciarono ad
acquistare un senso. Aveva paura a porre la domanda, eppure lo fece, sapendo che era l'unico modo di accertare perché erano là. «Come...?» «Ciascuna ha ricevuto una telefonata, durante la quale ha sentito la registrazione di un suono di campane, preceduto da un tuono in sottofondo. Non so esattamente che cosa sia stato detto loro, ma so che immediatamente dopo si sono suicidate.» Lucy aggrottò le sopracciglia. «Ve l'ho già detto. Ora è tutto passato. Finito. Concluso. Affronta la tua più grande paura e sali a Dio.» Emile balzò dalla poltrona, facendo quasi piombare la moglie sul pavimento. «Lucy! Che cosa hai fatto?» Lei scosse la testa e si strofinò le mani, come se le spolverasse da un po' di terriccio. «Te l'ho detto. Erano ragnatele. Mi sono liberata dalle ragnatele.» Il suo viso si scompose un momento. «Con Phillip non ha funzionato. Cercavo di aiutarlo, ma credo di avere usato il nastro sbagliato.» Emile pensò al registratore che aveva trovato sotto il letto di Phillip, e capì che in qualche modo l'intervento di Lucy doveva avere esacerbato i disturbi mentali di suo figlio, al punto da fargli perdere la ragione. Mentre la fissava, lo colpì il pensiero che non conosceva, e forse non aveva mai conosciuto, la donna che era sua moglie. La sua voce tremava quando l'affrontò. «Hai ucciso quelle donne?» «Si sono uccise» replicò lei in tono pratico. «Tu hai lasciato il pulsante. Io l'ho premuto.» «Ma perché?» L'espressione di lei cambiò, e per un momento fu come parlare con la vecchia Lucy, prima che tutto andasse a rotoli. «Perché il direttore della scuola aveva falsificato le autorizzazioni, e io lo sapevo. Avevamo acceso quell'ipoteca sulla casa per poterlo pagare perché ti lasciasse condurre quegli esperimenti nella sua scuola, e se avessi fallito gli avremmo dato tutto quel denaro per niente.» Sembrava arrabbiata, come se Emile non avesse il diritto di farle domande. Poi aggiunse: «Erano passati tanti anni, e la cosa non aveva più importanza, ma poi tu hai vinto il premio, vero, caro? Dopo, ho avuto paura che qualcuno ricordas-
se». Emile fece appena in tempo ad arrivare in bagno per vomitare. Fuori, in corridoio, Lucy cominciò a muoversi in piccoli cerchi. «Emile non sta bene. Dov'è l'aspirina?» Dan tirò fuori il walkie-talkie e richiamò gli agenti che stavano ancora perquisendo la casa. «Scendete» ordinò. «Portate quello che avete trovato, anche se dubito che ne avremo bisogno.» Poi fece un'altra chiamata. Lucy Karnoff sarebbe andata in prigione, ma non secondo la trafila normale. «È tutto finito» affermò. «No, non tutto» ribatté Sully. Poi si voltò a guardare Emile che era uscito dal bagno, pallido e disfatto, asciugandosi il viso con un fazzoletto. «Dov'è mia moglie?» domandò. Sully gli toccò il braccio. «La stanno tenendo d'occhio, dottore. Credo che stia cercando un'aspirina.» «Che cosa ne sarà di lei?» chiese Emile. «Sarà arrestata, e poi valutata da un gruppo di psicologi, e infine, probabilmente, affidata a un manicomio criminale» rispose Dan. «Mio Dio!» esclamò Emile. «Sono stato in quei posti. Non sopravvivrà. È troppo fragile. Vi prego, dovete avere pietà.» «Dottore, se chiedessimo alle famiglie di quelle donne che ha ucciso, quanta pietà crede che raccomanderebbero?» Emile rimase in silenzio, schiacciato dall'enormità delle azioni della moglie. «Buon Dio... darei qualunque cosa perché tutto questo non fosse mai accaduto» mormorò alla fine, disperato. «Dottore, è troppo tardi per questo» affermò Sully. Poi prese Ginny per mano. «Ma non lo è per togliere ciò che ha lasciato nel cervello di Ginny.» Lei trattenne il respiro. Aveva paura di sperare. Ma il vecchio medico sospirò e le tese la mano. «Se non fosse stato per l'incendio, sarebbe già stato fatto. Venga, bambina, è tempo di dare un taglio netto al passato.» Lei esitò. «Io sarò con te» disse Sully. Ginny sospirò e lasciò che Emile la conducesse via. Nella sua mente, si
vide camminare mano nella mano con Georgia fino all'ultima porta a sinistra della Montgomery Academy. EPILOGO Il cartello dell'agenzia immobiliare, In vendita, era da mesi davanti alla casa dei Karnoff. Fino a quel momento, pochi si erano presentati per cogliere l'occasione di acquistarla. Ci sarebbe voluto del tempo perché i pettegolezzi e i ricordi della tragedia che vi era avvenuta fossero dimenticati. Karnoff era stato assediato dalla stampa al punto che aveva chiesto e ottenuto un ordine del tribunale per impedire a chiunque di mettere piede sulla sua proprietà, ma neppure quello era bastato. I vicini provavano compassione per lui, e tuttavia mormoravano alle sue spalle, scambiandosi pettegolezzi e falsità. E poi, un giorno, era scomparso. Nessuno aveva visto arrivare o partire un furgone dei traslochi. Nessuno lo aveva visto andare via. Un cumulo di giornali si era ammucchiato sul prato. Il giorno in cui fu collocato sulla proprietà il cartello In vendita, fu palese che Karnoff non sarebbe tornato. Nello scorrere della vita quotidiana, la sua tragedia divenne notizia vecchia, e solo di tanto in tanto qualcuno azzardava ancora un'ipotesi su dove fosse andato. Lucy Karnoff era morta in prigione il decimo giorno dopo l'arresto, soccombendo a un attacco di cuore nella sua cella. Quando l'aveva sepolta accanto a suo figlio, Emile aveva lasciato in quella tomba assai più che sua moglie. Era il suo ultimo legame con un peso che era diventato troppo grande per portarlo. «Che cosa ne pensi di questo?» chiese Sully, studiando l'espressione del viso di Ginny mentre passavano da una stanza all'altra di un appartamento libero di Washington. Fuori, il cielo si stava rapidamente oscurando, benché fosse solo tarda mattinata, ma erano così concentrati sulla necessità di trovare una nuova casa prima del matrimonio che non lo notarono. «Mi piace perché ha tante finestre» commentò Ginny. «Ma è grande abbastanza? Non voglio venire ad abitare qui, dopo sposati, solo per scoprire che abbiamo bisogno di più spazio. Inoltre, non sono sicura di voler crescere un bambino in un appartamento. Io avevo un cortile in cui giocare, quando ero bambina.»
La menzione del matrimonio e dei bambini fece sorridere Sully. «Voto ancora per la casa in Virginia» affermò. «La vita del pendolare non è nulla, a paragone della privacy e dello spazio di cui godremmo.» Ginny corrugò le sopracciglia. «Anch'io la preferisco, ma penso ancora che non sia giusto che tu debba passare così tanto tempo in viaggio.» Lui rise. «Tesoro, pensa al lavoro che faccio. Sono sempre in viaggio.» Lei sorrise. «Già, immagino di sì.» «Allora è deciso» disse Sully, e la tirò per il cappotto fino a quando lei cedette e lo abbracciò. «Hai freddo?» le chiese. «Fa insolitamente caldo per novembre, ma l'aria è ugualmente pungente.» «Sto bene» rispose Ginny. «Allora andiamo. Conosco un posto favoloso per il chili.» «Hanno anche il pane di granturco?» chiese lei. «Oh, sì, grosse, spesse fette gialle di pane di granturco.» «Ci sto» dichiarò Ginny. Si incamminarono sottobraccio verso l'ascensore. «Dobbiamo passare di nuovo nell'ufficio dell'amministratore?» «No, ha detto di lasciargli le chiavi nella cassetta della posta, uscendo.» Lei annuì, pensando già al grazioso cottage a due piani che avevano visto la settimana prima. Sully aveva ragione. La Virginia non era affatto lontana, e lei poteva piantare fiori nel giardino, e... Mentre uscivano dall'ascensore, i suoi pensieri furono interrotti dal rombo di un tuono. Sully lasciò cadere le chiavi dell'appartamento nella casella della posta dell'amministratore e si tirò su il colletto del cappotto, uscendo in strada. Non poté fare a meno di osservare il viso di Ginny in cerca di qualche segno del lavoro di Emile Karnoff, ma non vide nulla di preoccupante. Mentre percorrevano il mezzo isolato che li separava dal punto in cui avevano posteggiato la macchina, cominciò a piovere. Ginny rise e alzò il viso verso il cielo, acchiappando una goccia sulla punta della lingua. «Manca di sale» affermò. «E magari un po' di spezie.» «Tu e la tua abilità culinaria» rise Sully, poi la prese per mano e si mise a correre verso la macchina. Si rifugiarono nell'abitacolo mentre cominciava a diluviare. «Accendo un po' il riscaldamento, prima di partire» disse Sully. «Non voglio che tu prenda freddo.»
«Il pane di granturco e il chili mi scalderanno. Tutt'a un tratto sto morendo di fame. Andiamo.» Sorridendo, Sully avviò la macchina e si inserì nel traffico. Pochi isolati dopo, passarono vicino a un'edicola, e Ginny si voltò istintivamente, per scorrere quanto poteva dei titoli dei giornali, attraverso il diluvio. «Ti manca il tuo lavoro?» chiese Sully. Lei si strinse nelle spalle. «A volte.» Poi sorrise. «So bene che Harry Redford era molto dispiaciuto quando me ne sono andata. Specialmente dopo il pezzo che gli avevo portato. Abbiamo battuto sul tempo i giornali dell'intero paese. Devi sapere che è stato il più grosso scoop della sua vita, e mi amerà in eterno per questo» commentò lei, soddisfatta. «Già, ma non potrà mai amarti quanto me» ribatté Sully. «E quanto a riprendere la tua professione, praticamente potresti scegliere qualunque giornale, da queste parti, e ti assumerebbero all'istante.» «Lo so.» «Mi pare di avvertire un ma nel tuo tono. Ho ragione?» Ginny annuì. «Se non ti dispiace, credo che preferirei rimanere a casa per qualche tempo, dopo che ci saremo sposati. Vorrei dedicarmi ancora un po' a imparare a cucinare.» «Stai migliorando» le assicurò Sully. «Gli spaghetti di ieri sera erano proprio buoni.» Lei alzò gli occhi al cielo. «Sully, erano in scatola.» Lui sorrise. «Lo so.» Ginny gli assestò un colpetto scherzoso sul braccio, poi si appoggiò allo schienale, assaporando la consapevolezza che quell'uomo meraviglioso accanto a lei amava sentirsi il capo della famiglia, e che lei voleva lasciarlo fare. «Voglio avere dei bambini subito» annunciò. «Io sono pronto e disponibile a fare la mia parte» si offri Sully, facendola ridere. Benché ne avessero parlato molto fra loro, era la prima volta che la sentiva dire qualcosa di così preciso in proposito. Si fermò a un semaforo e le scoccò un'occhiata. Credette di vedere i suoi occhi lucidi di lacrime. Allungò una mano e prese la sua, dolcemente.
«Ginny?» Lei sospirò. «Se avremo una bambina, vorrei chiamarla...» «Georgia» completò Sully in sua vece. Ginny spalancò gli occhi, sorpresa. «Come lo sai?» Il semaforo divenne verde, e proseguirono. Passò qualche momento, e Sully non rispose. «Sully» insistette Ginny, «ti ho fatto una domanda.» «Lo so perché me l'hai detto ieri notte nel sonno.» «Non è vero.» «E invece sì, tesoro. Mi hai svegliato, borbottando qualcosa, e sulle prime ho pensato che parlassi con me. Poi mi sono reso conto che, in realtà, parlavi nel sonno. Hai detto: Quando avremo una bambina la chiameremo come te. Ho pensato che stessi sognando Georgia.» Le lacrime che colmavano gli occhi di Ginny traboccarono. Lei si voltò a guardare dal finestrino, attraverso la pioggia. «La sogno spesso» confessò. «A volte è così reale che mi pare di poterla toccare.» «Forse è il modo di Georgia per dirti che sta bene.» Ginny guardò Sully attraverso un velo di lacrime. «Lo credi davvero?» Benché il bisogno di piangere con lei fosse forte, lui riuscì, invece, a sorridere. «Non lo credo soltanto, lo so. Inoltre, se chiameremo nostra figlia con il nome di una suora, pensa a quanti angeli custodì potrà avere.» Ginny rise fra le lacrime. «Ecco» disse Sully, porgendole il suo fazzoletto. «Asciugati gli occhi. Siamo quasi al ristorante.» Lei ubbidì, poi si ficcò il fazzoletto nella tasca del cappotto. Mentre guardava il movimento ritmico dei tergicristalli attraverso il parabrezza, la colpì l'idea che a volte la gente aveva bisogno di piangere, proprio come la terra aveva bisogno della pioggia. Erano due diversi modi di riaffermare che la vita continuava. A mezzo mondo di distanza, un uomo anziano percorreva in bicicletta una stradina sterrata nella campagna irlandese, senza altro pensiero in mente che raggiungere il suo cottage e prepararsi una tazza di tè. Aveva
bisogno di un taglio di capelli. Le fini ciocche bianche si posavano sul colletto del suo cappotto come piume, fluttuando lievemente alla brezza, mentre pedalava. I pantaloni di velluto a coste erano di un caldo color tortora. Le scarpe avevano tacchi e punte consumati, a riprova di quanto aveva camminato per le colline sassose. Si guardava continuamente attorno, scrutando con curiosità infantile la campagna che lo circondava. Superando una curva, vide davanti a sé due bambini, in mezzo alla strada. Una bambina di non più di sei o sette anni era seduta a terra e piangeva, mentre un maschietto di poco più grande, molto probabilmente suo fratello, era inginocchiato accanto a lei. Un piccolo carrettino rosso era rovesciato nella polvere. Il vecchio li raggiunse e scese dalla bicicletta. «Che cos'è successo?» chiese gentilmente, tirando fuori il fazzoletto e inginocchiandosi accanto alla bambina. «È caduta dal carrettino» rispose il fratello, con un marcato accento celtico. «Sanguina» singhiozzò la piccola. «Sì, lo vedo» rispose l'uomo. Consegnò il fazzoletto al bambino. «Legale questo attorno al ginocchio, fino a quando non arriverete a casa.» «Sì, signore. Grazie, signore» disse lui, e cominciò maldestramente a bendare il ginocchio della sorellina. L'uomo fece l'atto di alzarsi, poi guardò le guance rigate di lacrime della bambina e si fermò. Esitò solo un momento, poi le toccò il viso. «Vuoi che ti mostri un modo per far passare il dolore?» Lei tirò su col naso e guardò il fratello, che si affrettò ad annuire. «Sì, grazie» mormorò la bambina. «Mi fa proprio tanto male.» «Lo so... ma devi chiudere gli occhi.» Lei ubbidì, e il vecchio la toccò sulla testa, esercitando con la mano una pressione leggera, ma decisa, in modo che potesse sentire la sua presenza, oltre a udirlo. E poi cominciò. «Ascolta il suono della mia voce...» FINE