MICHAEL PALMER CAUSE NATURALI (Natural Causes, 1994) Dedicato a Luke Harrison Palmer. Benvenuto, ragazzo. Ringraziamenti...
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MICHAEL PALMER CAUSE NATURALI (Natural Causes, 1994) Dedicato a Luke Harrison Palmer. Benvenuto, ragazzo. Ringraziamenti Le persone elencate qui di seguito sono molto degne di nota, e a loro vanno i miei più sentiti ringraziamenti. Beverly Lewis, mia editor e amica, che incarna il termine «dono di Dio». Linda Grey e Irwyn Applebaum, miei editori, per il loro sostegno, comprensione e incoraggiamento. Jane Rotrosen, Don Cleary, Stephanie Laidman, Meg Ruley e Andrea Cirillo della Rotrosen Agency hanno avuto grande influenza su ogni mio libro e sulla mia carriera di scrittore. Il dottor Rick Abisla di Falmouth, Massachusetts, e la dottoressa Dolores Emspak di Swampscott, sempre nel Massachusetts, mi hanno fornito preziosi consigli tecnici specialistici. Gli avvocati Marcia Divoll e Joanne Colombani Smith di Boston, e la signora Ginni Ward hanno fatto altrettanto, nel loro campo giuridico, Le infermiere Jeanne Jackson e Carolyn Moulton di Falmouth mi hanno dato libri da leggere e mi hanno aiutato ad apprezzare il potere e le potenzialità della medicina alternativa. Il dottor Bud Waisbren di Ipswich, Massachusetts, mi ha fornito informazioni e incoraggiamenti che mi hanno aiutato a superare un blocco di scrittura particolarmente forte. Il dottor Richard Dugas, che di tanto in tanto mi ha trascinato a giocare a bridge, probabilmente preservando la mia salute mentale. John Saul e Michael Sack, che hanno trovato le parole giuste nel momento giusto. E infine, il mio amore e i miei ringraziamenti a mia moglie, che ancora una volta è riuscita a farsi largo nel violento ciclone della mia scrittura con notevole classe e incomprensibile pazienza. Prologo Le contrazioni di Connie Hidalgo erano state sopportabili durante le
prime due ore di viaggio; ma mentre superavano le uscite di New London sulla I-95, il dolore cominciò a intensificarsi. «Billy, credo che stia succedendo qualcosa», disse al fidanzato. «Piantala, Connie. È un mese che lo ripeti e ne manca ancora uno.» «Avrei dovuto rimanere a casa.» «Avresti dovuto fare esattamente quello che stai facendo, cioè compiere questo viaggio a New York e aiutarmi a sbrigare quest'affare.» «Be', se non altro avresti potuto prendere la Mercedes. Questo sedile mi sta uccidendo.» Connie sapeva che prendere la lucida 500SL era fuori discussione. L'ultima cosa che Billy Molinaro voleva era attirare l'attenzione dei ladri di automobili. Inoltre, non era tipo da modificare la sua routine, specialmente quando le cose andavano bene. Avevano sempre usato la sgangherata Ford wagon per andare e venire da Manhattan. Quella sera non avrebbe assolutamente acconsentito a fare qualcosa di diverso. Non le aveva detto quanto denaro trasportavano nelle due borse da ginnastica nascoste nel cerchione, ma sapeva che era parecchio; molto più che in precedenza. Si agitò mentre un'altra contrazione l'aggrediva e guardò fuori del finestrino, cercando di perdersi nelle luci e nelle insegne che brillavano. Era una donna minuta - tutta pancia, continuava a ripeterle Billy - con grandi occhi scuri e un bel viso liscio che suscitava l'interesse degli uomini. A quattordici anni aveva dato alla luce una bambina di cui si era liberata senza troppi scrupoli. Adesso, dieci anni dopo, Dio le aveva concesso una seconda opportunità. E niente sarebbe andato storto. Niente. «Billy, ti amo», disse piano. «Allora accendimi questo.» Estrasse da sotto il sedile un grosso spinello, vi passò sopra la lingua con fare esperto e glielo porse. «Billy, no. Fa male al bambino.» «Il crack fa male al bambino», la corresse. «Ecco perché non ti ho permesso di usarlo da quando abbiamo scoperto che eri incinta. Ma l'erba non ha mai fatto male a nessuno. Fidati di me.» «Be', almeno apri il finestrino.» Connie accese lo spinello e, suo malgrado, inspirò profondamente mentre lui espirava. Come sempre, Billy aveva ragione. Aveva fumato molto durante la sua prima gravidanza, sigarette e marijuana, e il bambino era nato paffuto e perfetto. «Adesso ascoltami», disse Billy. «Manny Diaz è una merda, ma dopo
tutti gli affari che abbiamo fatto insieme, mi fido di lui; specialmente con te intorno a tradurre quando non parla inglese. Ma questo è l'affare più grosso di tutti gli altri, per cui dobbiamo prendere delle precauzioni extra. Voglio che tu rimanga fuori con il motore acceso. Tieni le portiere chiuse finché non esco e non ti dico che va tutto bene. Se noti qualcosa che non va, qualunque cosa, allontanati immediatamente e telefona a mio cugino Richie a Newark. Capito?» «Capito, capito.» Ebbe un'altra contrazione. Connie strinse i denti e premette le dita sottili sul ventre. Aveva avuto due falsi allarmi nelle ultime due settimane, ed era quasi certa che fosse così anche in quel momento. Controllò l'orologio: se le contrazioni continuavano a essere così frequenti, avrebbe cominciato a cronometrarle. Ma mentre cercava di convincersi che non stava succedendo niente di preoccupante, cominciò a provare un altro genere di dolore, alla punta delle dita. Sulle prime non poté definirlo realmente dolore; era più una sorta di intorpidimento, una spiacevole mancanza di sensibilità. All'altezza di Stamford, l'intorpidimento si era tramutato in una persistente scossa elettrica, che peggiorava quando premeva le dita, ma che non spariva del tutto quando non lo faceva. Rannicchiata nell'oscurità, controllò le dita a una a una. Le facevano male tutte. Sono i nervi, pensò. Billy aveva riacceso lo spinello. Una boccata non le avrebbe fatto male, anzi, probabilmente l'avrebbe aiutata molto. Connie gli prese lo spinello di mano, premette le labbra sulla carta umida e inspirò finché non le fu possibile trattenere il fiato. Erano quasi sei mesi che non faceva uso di droga, e una boccata non avrebbe certamente fatto male al bambino. Infatti, pensò, con quello che l'aspettava, il piccino avrebbe probabilmente avuto più bisogno di lei di stordirsi. All'altezza di New Rochelle, Connie aveva fumato l'intero spinello. Il dolore alle dita non era diminuito e le contrazioni continuavano ad arrivare circa ogni cinque minuti, ma nessuna delle due cose la preoccupava molto. «Billy, mi sento meglio», disse. «Sapevo che sarebbe stato così, amore.» Dopo qualche chilometro, però, cominciò a sentire intorpidirsi anche le dita dei piedi. Spaventata, riprese a fumare. «Ehi, lascia stare quella roba», disse Billy. «Credo che il bambino stia per arrivare.» «Be', spero che sia abbastanza intelligente da rimanersene tranquillo finché non abbiamo concluso quest'affare. Ho bisogno di te dietro il volante.
E, se le cose andassero male, il bambino farebbe meglio a non arrivare affatto.» «Billy, dico sul serio.» «Anch'io.» L'uomo guardò nervosamente l'orologio. «In perfetto orario. Concludiamo quest'affare, tesoro, e siamo a cavallo. Credimi. Questa è la prova a cui Dominic aspettava di sottopormi. E niente la rovinerà.» Connie sentì l'intensità nella voce dell'amante e strinse i denti contro il dolore che provava alle mani e ai piedi. Billy aveva ragione: non era in gioco soltanto il loro denaro, ma anche il loro futuro. Quand'era più giovane, grassa e brutta, l'unica cosa che gli uomini volevano da lei era il sesso. Quand'era dimagrita e si era fatta carina, gli uomini che s'imbattevano in lei la portavano in posti più belli, ma quello che volevano era sempre lo stesso. Soltanto Billy era stato diverso. Aveva fatto di lei la sua ragazza, e fin dall'inizio l'aveva trattata con rispetto. Adesso stavano per avere un figlio. Non appena quell'affare si fosse concluso, le aveva promesso che si sarebbero sposati. Qualunque cosa dovesse fare per aiutare Billy Molinaro quella sera, l'avrebbe fatta. Se solo le fitte si fossero calmate un po'... Allungò una mano e accese la luce interna; il dolore le provocò quasi le lacrime. «Ehi, che cosa stai facendo?» chiese Billy. «Sto cer... cercando una cassetta di musica.» Si guardò le mani, poi spense in fretta la luce e le ritrasse per impedirgli di vederle. Le dita, dalle nocche in giù, erano diventate quasi nere, il resto delle mani era grigio scuro. «Allora?» «Che cosa? Oh, pre... preferisco riposare.» Ti prego, Dio, pensò, concedimi un'altra ora. Una soltanto. Era mezzanotte passata quando percorsero Harlem River Drive e svoltarono nella Centosedicesima Strada. Le terribili contrazioni al ventre non la preoccupavano quanto la paura che, giunti sul luogo dell'incontro, non fosse in grado di stringere il volante né di guidare. La sua mano sinistra, ridotta adesso a una specie di artiglio, era quasi inutilizzabile. E benché potesse usare la destra, anche i più piccoli movimenti delle dita le procuravano un intenso dolore lungo il braccio. Ti prego, Dio... «Bene, ci siamo, tesoro», disse Billy, fermandosi sotto un lampione di fronte a una casa in rovina. «Questi ragazzi hanno una fifa nera di Dominic, per cui non mi aspetto problemi. Rimani qui con le portiere chiuse e il
motore acceso. Io salgo a controllare la loro merda. Se va bene, effettueremo lo scambio proprio qui in strada. Va bene? Connie, va bene?» Connie Hidalgo, con le mani e i piedi palpitanti, si morse il labbro mentre il dolore provocato da una contrazione particolarmente violenta le trapassava tutto il corpo. Quando cominciò a diminuire, sentì uno strano senso di calore fra le gambe: le si erano rotte le acque. «P-per favore, sbrigati», cercò di dire. «Il bambino sta per nascere. Credo che dovremmo andare all'ospedale.» Billy afferrò il suo kit per testare l'eroina e si aggiustò la fondina sotto il braccio sinistro. «Cerca di controllarti finché non abbiamo finito!» scattò. Notò il suo viso contratto dal dolore e la sua espressione si addolcì. «Connie, amore, andrà tutto bene. Te lo prometto. Concludo quest'affare con Diaz il più in fretta possibile. E poi, se vuoi, ti accompagno dal miglior medico di New York.» «Ma...» «Ricorda, tieni la portiera chiusa e gli occhi bene aperti. Ti amo.» «Anch'io ti amo», rispose Connie. Ma se n'era già andato. Con un grande sforzo, scivolò dietro il volante e chiuse la portiera. Pensò che non era il caso di allarmarsi troppo, se le si erano rotte le acque. L'ostetrica che la preparava al parto l'aveva ripetuto all'infinito. Passarono cinque minuti. Poi altri cinque. Le contrazioni erano un inferno. Ansiosa di distrarsi, di controllare le dita, Connie riaccese la luce interna. Le fredde mani grigie con le dita nere assomigliavano ai travestimenti per la festa di Halloween. Poi si guardò nello specchietto retrovisore. Qualcosa non andava nel suo viso. La sua mente impiegò qualche secondo per registrare i rivoli di sangue scuro che le scorrevano dalle narici, attraverso il labbro superiore e lungo gli angoli della bocca. «Ti prego, Billy. Ti prego, sbrigati», piagnucolò. Stava cercando un fazzolettino di carta nella borsetta quando notò la macchia rosso scuro espandersi sull'inguine e sulle gambe dei pantaloni beige. Non era il fluido chiaro o lievemente rosato di cui aveva parlato l'infermiera. Era sangue! Si sentì stordita, confusa. Cercò di tamponare il sangue che le sgorgava dal naso, che le stava entrando in bocca e macchiando la camicetta. Ma il suo braccio sinistro era di piombo. «Per carità! Qualcuno mi aiuti», gridò. Poi si rese conto che le parole erano nella sua mente, ma che non riusciva a pronunciarle. La vista sembrò confusa, il lato sinistro del suo corpo paralizzato. Fu pervasa da un terrore
mai provato prima. In quel momento, il parabrezza della Ford esplose coprendola di vetri. Del sangue sgorgò dal suo sopracciglio e le ricadde negli occhi. Lo tamponò con il dorso della mano destra, cercando di schiarirsi la vista. Il corpo di Billy era allungato sul cofano della macchina, la testa fracassata e un braccio penzolante sul sedile del passeggero accanto a lei. Senza emettere alcun suono, Connie gridò. Oltre il parabrezza in frantumi, scorse diversi uomini avvicinarsi. Senza nessun intento cosciente se non quello di fuggire, abbassò la mano sulla leva del cambio, mettendo in moto. La Ford balzò in avanti, colpendo almeno uno degli uomini e sfiorando diverse macchine parcheggiate. Mentre sbandava sulla Terza Avenue, il corpo di Billy cadde a terra. Connie, più morta che viva, guardò alla sua sinistra in tempo per vedere le luci anteriori e il muso di un autobus. Per un breve istante udì uno stridore accompagnato da un dolore diverso da qualunque altro avesse mai provato. Poi, altrettanto improvvisamente, ci fu oscurità... e pace. 1 1° luglio, giorno della promozione L'appartamento di Sarah Baldwin distava esattamente undici chilometri dal Medical Center di Boston. Quel giorno, un sabato, le strade erano asciutte, l'umidità bassa e, alle sei del mattino, il traffico praticamente inesistente. Sarah sbirciò la luce vivida del primo mattino, saggiando la giornata. Diciannove minuti e quarantacinque secondi, pensò. Si mise a cavalcioni della sua bicicletta, aggiustò il casco e regolò il cronometro sullo zero. Azzeccava quasi sempre le sue previsioni, lo scarto di quindici secondi era il massimo consentito. Guardò lungo la fila di case pittoresche che fiancheggiavano la sua stradina, fece partire il cronometro e si allontanò. Un tempo era stata molto attenta alla sua forma fisica, ma ultimamente aveva rinunciato a ogni genere di allenamento. Adesso la sua attività era correre al lavoro, fare la doccia all'ospedale e indossare gli indumenti sterili per i suoi giri di visite. Quel giorno, però, niente sarebbe andato come al solito. Al Medical Center di Boston, come nella maggior parte delle cliniche universitarie del paese, il
primo luglio era il giorno della promozione. Per ogni medico che si stava specializzando, il giorno della promozione segnava un importante passaggio. Sarah, quale medico interno in Ostetricia e ginecologia sarebbe approdata al terzo anno, quindi maggiori responsabilità e minor controllo, soprattutto in sala operatoria. Ancora un anno e Sarah sarebbe diventata primario interno del suo reparto. E quel giorno, le sue decisioni e il suo parere professionale sarebbero state risolutorie. Era un pensiero confortante. E benché essere primario in un modesto ospedale come l'MCB fosse ben lungi dall'esserlo come al White Memorial o in un'altra grande clinica universitaria, era comunque prestigioso; specialmente considerando che meno di sette anni prima diventare medico era stato l'ultimo dei suoi pensieri. Ingranò la terza e imboccò Back Bay. A qualche isolato di distanza c'era il grande caseggiato d'angolo in arenaria che aveva un tempo ospitato l'Istituto Ettinger di cure olistiche. Come sempre quando passava accanto a quell'edificio, si chiedeva perché Peter Ettinger non avesse mai risposto a nessuna delle sue telefonate o delle sue lettere. Era sposato? Era felice? E Annalee, la ragazza del Mali che aveva adottato? Aveva quindici anni quando Sarah se n'era andata. Era molto affezionata a quella bambina e il fatto che la loro amicizia non fosse sopravvissuta la rendeva molto triste. Tre anni prima, quando era tornata dall'Italia con la sua laurea in Medicina, Sarah si era fermata all'istituto. Il luogo che un tempo era stato casa sua e il fulcro della sua vita, era adesso un lussuoso condominio. Il nome di Peter non risultava più fra quelli degli inquilini. Mesi dopo aveva saputo di Xanadu, la comunità olistica di Peter situata fra le ondulate colline a ovest della città. Ci sarebbe andata un giorno, si era detta. Forse avrebbero potuto chiarire alcune cose. Ma non l'aveva mai fatto. Distrattamente, Sarah passò con il giallo, provocando un gesto osceno da parte del taxista che si stava preparando a partire con il verde. Sta' attenta, si ammonì. L'ultimo posto dove finire, il giorno della promozione, è un pronto soccorso. Mentre svoltava nel viale d'accesso dell'ospedale, Sarah controllò il tempo. Più di venti minuti. Smontò e decise di percorrere a piedi gli ultimi cento metri. Davanti a lei, alcuni dimostranti erano schierati lungo i lati, beffandosi di chi entrava a lavorare e unendosi occasionalmente in un coro. Era una settimana e più che non avvenivano dimostrazioni; il periodo più lungo
che Sarah ricordasse. C'era sempre un gruppo diverso sul sentiero di guerra. Infermiere, addetti alla manutenzione, trasporti, sicurezza o dietetica... Sarah cercò d'immaginare chi fosse questa volta: si trattava della manutenzione. ABBASSO GLENN PARIS... MCB SEMPRE PANZANE... MIGLIOR GESTIONE, NON MIGLIORI PROMESSE... I cartelli erano per la maggior parte stampati e ben curati. I messaggi su di essi andavano dal malizioso al maligno. PARIS STA BRUCIANDO? BE', PERCHÉ NO?... PAGATECI O ARRANGIATEVI... AFFIDERESTE LA VOSTRA VITA A QUESTO POSTO?!!! «Bella giornata per una dimostrazione, eh?» Andrew Truscott, un medico interno di Chirurgia vascolare si mise vicino a lei. Originario dell'Australia, possedeva uno spirito sarcastico. Trentaseienne, era l'unico interno dell'età di Sarah. Non era facile legare con lui, tradizionale, caparbio e troppo spesso faceto. Ma era anche un ottimo chirurgo. Si erano conosciuti il giorno del suo arrivo all'ospedale e avevano simpatizzato in fretta. Sarah aveva sperato che il loro rapporto si tramutasse in vera amicizia, ma quella forma di cameratismo era il massimo che Andrew accordasse in fatto di intimità a qualcuno. Sarah aveva beneficiato del suo insegnamento e se Andrew Truscott non fosse stato sposato, sarebbe stata lieta di spolverare le sue astuzie femminili per cercare di abbattere le sue riserve. Non aveva ancora risolto problema di come diventare un abile chirurgo senza sopprimere totalmente il bisogno di amore, amicizia, sesso e che cos'altro contasse nella vita al di fuori dell'ospedale. «Come potrebbe essere il giorno della promozione senza qualche picchetto, Andrew?» chiese. «Ah, sì... il giorno della promozione. Nell'ala orientale abbiamo una schiera di ricercatori professionali che ingannano i nuovi interni con esibizioni da manuale sul passaggio di un calcolo renale o sullo slittamento di un disco lombare. Nell'ala occidentale abbiamo una schiera di scontenti addetti alla manutenzione, che cercano di spremere qualche dollaro in più da questo accidenti d'ospedale. La medicina non è grandiosa?»
«Sì all'HMO, no all'MCB», lesse Sarah su un cartello. «Da quando gli addetti alla manutenzione si interessano di politica ospedaliera?» «Probabilmente da quando sono stati informati che potevano ottenere qualche dollaro in più di stipendio se subentrava l'Everwell Health Maintenance Organization.» «Non accadrà.» Truscott sorrise. «Cerca di dirglielo.» Per qualche anno l'ambiziosa, qualcuno diceva avara, organizzazione di controllo della salute era rimasta a guardare come un felino mentre l'MCB barcollava sotto il peso di problemi fiscali, agitazioni sindacali e polemiche causate dall'utilizzo di metodi curativi non tradizionali mischiati alla medicina e chirurgia tradizionale. E ogni azione intentata, ogni pubblicità negativa metteva sempre più in ginocchio la straordinaria istituzione. «Non accadrà, Andrew», ripeté Sarah. «Le cose sono migliorate da quando è subentrato Glenn Paris. Lo sai quanto me. L'MCB è diventato un ottimo ospedale. Gente da tutto il mondo viene a curarsi qui perché lavoriamo bene. Non possiamo permettere all'Everwell né a chiunque altro di rovinarlo.» «Senti, compagna», disse Truscott calcando sull'accento, «se hai intenzione di appassionarti alle cose, devi restituire il tuo distintivo al merito di chirurgo. Questa è la regola.» «Anche tu ti appassioni alle cose come me», ribatté Sarah, «ma sei troppo macho per mostrarlo.» Guardò verso la rastrelliera delle biciclette, solo due arrugginite e con le gomme all'apparenza tagliate. «Ecco perché porto la mia bicicletta nella stanza del medico di guardia. Mi sembra che le aiutoinfermiere fossero un po' meno incisive durante il loro sciopero», osservò. «Andrew, non hai la sensazione che qualcuno abbia aiutato gli uomini della manutenzione a organizzato tutto questo?» «Alludi all'Everwell?» Sarah si strinse nelle spalle. «Possibile. Ma l'HMO è l'unica candidata. Grazie ad Axel Devlin ci sono parecchie persone che hanno un'impressione sbagliata di ciò che facciamo qui.» Devlin, un giornalista dell'Herald con una vena decisamente conservatrice, aveva più volte bersagliato l'ospedale nella sua popolare rubrica «Prendere o lasciare». Quale dottore in Medicina, con una vasta conoscenza che spaziava dal training all'agopuntura e l'erboristeria, Sarah stessa era stata nominata in due occasioni nella rubrica, in maniera tutt'altro che lusinghiera. Non aveva mai scoperto come Devlin avesse saputo di lei.
«Chissà?» rispose Andrew senza grande interesse. Accennò in direzione dei dimostranti. «Sono un gruppo tosto, te lo dico io.» Si fermò sulla porta contrassegnata dalla scritta RISERVATO AL PERSONALE e si girò verso di lei. «Bene, dottoressa Baldwin, sei pronta a salire di grado?» Sarah si accarezzò pensosamente il mento, poi strinse il braccio di Truscott. «Quali alternative avrei che non siano inaccettabili o illegali, dottor Truscott?» rispose. «Procediamo.» Lisa Summer si trovava in bilico sul bordo del burrone quindici metri sopra un laghetto di montagna incontaminato. A parte le ghirlande di gigli bianchi che aveva intorno al collo e alla testa, era nuda. Il sole risplendeva sul suo lungo corpo perfetto e scintillava fra i suoi capelli biondi. Tutt'intorno a lei ondeggiavano fiori di campo, ammantando i dirupi e ricadendo lungo le rocce di fianco alle cascate luccicanti. Nel cielo un falco solitario si librava con naturalezza su uno sfondo azzurro senza nuvole. Lisa gettò indietro la testa e si lasciò riscaldare il viso dal sole. Chiuse gli occhi e ascoltò l'acqua agitata sotto di lei. Poi, con le braccia aperte, strinse i piedi sopra il bordo, trasse un'ultima profonda inspirazione ed espirò. Vento e spruzzi le accarezzavano il volto mentre fluttuava al di là delle cascate, girando e ruzzolando nell'aria cristallina... In giù... In giù... In giù... «Forza, Lisa. Bene. Forza. La contrazione è quasi finita. Un minuto e dieci... un minuto e venti. Ecco. Oh, bravissima. Ti sei comportata molto bene.» Lisa aprì gli occhi lentamente. Era coricata sul futon nella sua stanza ingombra, inondata dai raggi del sole mattutino. Heidi Glassman, sua coinquilina, amica e assistente al parto, sedeva accanto a lei accarezzandole la mano. Di fronte, in attesa, c'erano la culla e il fasciatoio che pur essendo di seconda mano erano in buone condizioni. Le settimane di pratica in classe e a casa stavano dando buoni risultati. Lisa era entrata nella terza ora di travaglio, ma grazie alla serie di immagini che aveva sviluppato, il dolore causato da ogni contrazione era stato finora facilmente controllato. La dottoressa Baldwin definiva tale processo «visualizzazione interna ed esterna». Era, aveva detto a Lisa, una modesta forma di autoipnosi, una tecnica che, se praticata diligentemente, le avrebbe permesso di superare anche un travaglio e un parto difficili senza anestesia o altri narcotici. Per
alcune contrazioni, Lisa usava la visualizzazione esterna che le permetteva di librarsi dal suo dirupo o di compiere una meravigliosa cavalcata in fondo al mare in groppa a un delfino. Per altre, usava la visualizzazione interna per vedere i muscoli attivi del suo utero e il bambino, e avvolgere mentalmente entrambi con una spessa lanugine. «Come ti senti?» chiese Heidi. «Bene. Molto bene», rispose sognante Lisa. «Sembri molto tranquilla.» «Mi sento splendidamente.» Senza accorgersene, Lisa apriva e chiudeva le mani. «Le contrazioni sono a distanza di cinque minuti l'una dall'altra da quasi un'ora. Credo che sia meglio chiamare.» «C'è tempo», disse Lisa. Chiuse gli occhi per qualche secondo. «Non credo sia già iniziata la dilatazione.» Con l'occhio della mente vedeva con chiarezza la cervice che stava cominciando ad aprirsi. «Vuoi che controlli?» chiese l'amica. Heidi era un'infermiera che aveva trascorso diversi anni nel reparto di Ostetricia. Adesso era pronta ad assistere la dottoressa Baldwin nei parti a casa. «Non credo ce ne sia bisogno», disse Lisa fregandosi le dita. «Qualcosa non va?» «No. Ho le mani un po' rigide, tutto qui...» «Potrebbe esserci una ritenzione idrica. Fammi controllare la pressione.» Le infilò la fascia intorno al braccio e posò lo stetoscopio sull'arteria brachiale. La pressione, novanta su sessantacinque, era un po' bassa, anche se nella norma, data la fase iniziale del travaglio. Heidi rimuginò sul cambiamento, poi decise che non era importante. Annotò la pressione su un taccuino e prese mentalmente nota di ricontrollarla dopo dieci o quindici minuti. «Chi vincerà la lotteria?» chiese Lisa. «Pensi che sia oggi?» «Oh, sarà certamente oggi. Puoi contarci.» «In questo caso, Kevin sarà più ricco di trenta dollari.» Kevin Dow, un pittore, era uno degli inquilini del 313 di Knowlton Street. Ce n'erano dieci in tutto. Erano perlopiù artisti e scrittori, e nessuno di loro guadagnava molto. Chiamavano il loro stile di vita «Comune», e in quella luce dividevano quasi tutto. Lisa, che vendeva le sue ceramiche e
occasionalmente restaurava mobili antichi, aveva vissuto in quella grande casa dal tetto spiovente per quasi tre anni. Benché avesse dormito due volte con uno degli uomini della Comune, era certa che il bambino che portava in grembo non fosse suo e l'aveva messo in chiaro fin dall'inizio, con gran sollievo del ragazzo. Infatti, chi fosse o non fosse il padre a Lisa non importava affatto. Il bambino sarebbe stato allevato da lei e lei soltanto. Sarebbe stato allevato in semplicità, con amore, pazienza, comprensione e senza la pressione delle aspettative. Con l'aiuto di Heidi, si alzò e si avvicinò alla finestra. Sentiva il braccio destro stanco e pesante. «Posso portarti qualcosa?» Lisa si fregò assente la spalla mentre osservava uno scoiattolo all'esterno saltare agilmente lungo una serie di rami che sembravano troppo flessibili per sostenerlo. «Una cioccolata, magari», rispose. «Arriva subito... Lisa, stai bene?» «St... sto bene. Credo che stia per arrivare un'altra contrazione. Da quanto non ne ho?» «Cinque minuti e tre secondi.» «Credo che questa l'affronterò in piedi.» Lisa si chinò in avanti e si appoggiò al davanzale. Poi inspirò profondamente, chiuse gli occhi e cercò di concentrare la mente sul suo corpo. Ma non accadde nulla: niente immagini, niente senso di pace, nulla. Niente a eccezione del dolore. Mi sto sforzando troppo, pensò. Doveva essere concentrata, questo era quanto la dottoressa Baldwin le aveva insegnato; concentrata e preparata per ogni contrazione. Per la prima volta provò un po' di paura. Non sapeva quanto sarebbe stata dura. Forse non aveva quello che ci voleva. Digrignò i denti e allungò completamente braccia e gambe. «Quanto?» chiese. «Quaranta secondi... Cinquanta... Un minuto... Un minuto e dieci...» L'intensità della contrazione cominciò a diminuire. «Un minuto e venti. Stai bene?» «Adesso sì», rispose Lisa, staccandosi dalla finestra e sistemandosi sul futon. Aveva la fronte imperlata di sudore. «Questa è stata fortissima. Non ero preparata.» Deglutì e sentì sapore di sangue. Allora esplorò con la lingua e trovò un taglietto che si era fatta morsicandosi l'interno della guancia. Il dolore pro-
vocato dalla contrazione era completamente sparito, ma lo strano dolore al braccio e alla spalla persisteva. Heidi lasciò la stanza e ritornò appena in tempo per la contrazione successiva. Con il suo aiuto e una preparazione migliore, Lisa scoprì che quella contrazione era molto più trattabile. Heidi le infilò nuovamente la fascia bracciale e le ricontrollò la pressione. Ottantotto su cinquanta, e più difficile da prendere. «Credo che dovremmo chiamare», disse. «È tutto a posto?» «Tutto a posto. La pressione va bene. Penso sia ora.» «Voglio che sia perfetto.» «Lo sarà, Lisa. Lo sarà.» Heidi le accarezzò la fronte e andò al telefono dell'anticamera. Il calo di pressione era minimo, ma se rappresentava l'inizio di una tendenza, voleva che la dottoressa Baldwin fosse presente. Dall'altra parte della strada, di fronte al 313 di Knowlton Street, Richard Pulasky si accovacciò dietro la macchina mentre toglieva il potente teleobiettivo alla sua Nikon. Era riuscito a scattare almeno due buone foto del viso della ragazza, ne era certo. Forse di più. Tirò fuori la sgualcita fotografia di Lisa Grayson dalla tasca. La ragazza nella foto non assomigliava esattamente alla donna alla finestra, ma abbastanza. Era lei, e questo era l'importante. Sei mesi di lavoro stavano finalmente dando dei risultati. Metà degli investigatori privati della città avevano tentato di trovare la ragazza, solo Dickie Pulasky c'era realmente riuscito. Sorridendo fra sé, scivolò nella macchina. Con un po' di fortuna, quella settimana avrebbe intascato quindicimila dollari. 2 Sarah legò la bicicletta al letto di metallo della stanza del medico di guardia del reparto di Ostetricia. Durante i primi due anni di internato aveva trascorso in quello stretto cubicolo tante notti quante ne aveva trascorse nel suo appartamento, e nessuna molto riposante. Dopo aver indossato gli indumenti marroni del suo reparto, indugiò presso lo specchio sbeccato del cassettone. Si truccava raramente, ma in onore del giorno della promozione si era passata un po' di rossetto rosa chiaro sulle labbra. Poi, come faceva spesso prima di iniziare una giornata
di lavoro, si osservò per qualche momento. Prendere religiosamente il sole durante gli anni trascorsi in Thailandia era stato proficuo. La sua pelle aveva un bel colore e solo qualche efelide nella parte alta delle guance. C'erano minuscole increspature agli angoli degli occhi, ma niente di drammatico. I suoi capelli scuri, lunghi fino a metà schiena per buona parte della sua vita, adesso erano corti e appena spruzzati di grigio. Nell'insieme, decise che, considerando i due anni di basso stipendio e le numerose settimane dedicate esclusivamente al lavoro, senza nessun supporto finanziario o emotivo dal mondo esterno, la donna allo specchio stava reggendo molto bene. Come negli anni passati, l'inizio del giorno della promozione era caratterizzato da una prima colazione continentale e dalla presentazione al personale e ai medici interni di alcuni primari e di uno o due membri del consiglio di amministrazione. Ciò che rendeva diverso l'inizio di quell'anno erano gli agenti della Sicurezza che controllavano le foto di riconoscimento di ogni persona che entrava nell'auditorium. Sarah raggiunse Andrew Truscott proprio mentre questi veniva fatto passare. «Hai intenzione di assistere allo spettacolo dal solito posto?» gli chiese. Per anni Truscott aveva mantenuto lo stesso posto, al centro dell'ultima fila, a quasi tutte le riunioni. «Avendo assistito ai tiri del vecchio Paris da quel posto vantaggioso per quattro anni, pensavo di tentare di avvicinarmi un po'.» «Per me va bene», rispose lei mentre avanzavano lungo il corridoio dell'anfiteatro verso la seconda fila. «Alla nostra età potremmo anche imparare come affrontare la presbiopia e l'otosclerosi. Sai il perché della presenza della Sicurezza?» Truscott rifletté un momento. «Staranno cercando dei folli», disse. «Dei folli?» «Chiunque venga a questa manifestazione senza essere costretto con la forza.» «Molto divertente.» «Grazie. Non ho alcun dubbio che il nostro impavido leader si rivolgerà a loro; prima o dopo il suo racconto annuale della storia della nostra augusta istituzione.» Spinse in fuori la mascella imitando Glenn Paris: «Nel 1951, a cinquant'anni, il Medical Center di Boston si è trasferito dal centro della città nei sobborghi per occupare i nove edifici che un tempo comprendevano il Suffolk State Hospital, meglio conosciuto come manicomio. E benché tale transazione sia stata completata decenni or sono, si racconta
ancora che a notte fonda il fantasma di Freddy Krueger si muove furtivamente nelle nostre sale operatorie...» «Andrew, che cos'hai oggi? È per via del posto di primario? Sei arrabbiato per non averlo ottenuto?» «Niente affatto.» La risata di Truscott era poco convincente. «Ciò che mi irrita è che il mio misero assegno venga firmato da un uomo che mette in palio tecniche di chirurgia plastica, invia i suoi medici interni a fare visite a domicilio ben pubblicizzate, e ha un circuito televisivo chiuso nelle sale parto.» «Ha raccolto migliaia di dollari con quei concorsi; probabilmente centinaia di migliaia di dollari. E a molte famiglie piace partecipare a una nascita. Siamo diventati il servizio di Ostetricia e ginecologia più richiesto della città.» Prima che Truscott potesse rispondere, Glenn Paris venne avanti e batté sul microfono. Immediatamente, centoventi medici dello staff, interni, infermiere e amministratori si zittirono. Glenn McD. Paris, il presidente del Medical Center di Boston, trasudava sicurezza e successo. Era solo un metro e sessantotto, ma molti lo descrivevano come alto. La sua mascella era quadrata come quella di qualunque bramino bostoniano, e l'intensità del suo sguardo straordinaria. Era stato descritto da un suo sostenitore come un misto suddiviso in parti uguali di Vince Lombardi, Albert Schweitzer e P.T. Barnum, con un pizzico di Donald Trump. Axel Devlin, invece, una volta l'aveva definito come «la più sgradevole e pericolosa afflizione che si fosse abbattuta su Boston dopo gli inglesi». Sei anni prima, un disperato consiglio d'amministrazione era riuscito a distogliere Paris da un importante ospedale di San Diego in tempo notevolmente breve. L'accordo preso con lui includeva la promessa di carta bianca nel raccogliere fondi e negli affari dell'ospedale, generosi incentivi finanziari, premi legati a qualsiasi profitto dell'ospedale e l'uso gratuito di un attico a Back Bay, donato all'istituzione qualche anno prima da un paziente grato. Paris aveva risposto con un'energica campagna per conferire all'ospedale una buona immagine e facilmente definibile e raggiungere a tutti i costi un bilancio positivo. Sotto molti aspetti, l'uomo c'era riuscito. Lo spaventoso debito dell'ospedale si era stabilizzato, se non diminuito. Nello stesso tempo la crescente enfasi sulla medicina generale e il trattamento personalizzato avevano incrementato la notorietà del luogo come centro di cura.
Ma esisteva ancora una mancanza di rispetto per l'istituzione in molte sfere, pubbliche e accademiche, e la sensazione fra gli amministratori che l'ospedale avrebbe dovuto muoversi quanto prima in altre direzioni. «Buongiorno», cominciò Paris. «Voglio darvi il benvenuto a quest'inizio ufficiale del novantesimo anno dell'MCB. Lo scopo di questa riunione annuale è di presentare il nostro nuovo personale e aiutarlo a sentirsi a casa.» Fece cenno ai nuovi medici interni di alzarsi in piedi e diede inizio a un giro di applausi. «Dovreste sapere», disse loro, «che il vostro gruppo rappresenta il meglio con il quale l'MCB si sia mai confrontato in un programma di interscambio nazionale di internato.» Altro applauso. Diversi interni si mossero a disagio, desiderando potersi sedere di nuovo. Paris, raggiante come se stesse mostrando i suoi figli, li tenne in piedi. Truscott si chinò verso Sarah. «Nota come il nostro indomito leader trascura accuratamente di aggiungere che nonostante la competizione sia il migliore nella storia dell'MCB, essa è tuttavia inferiore a quello delle altre cliniche universitarie di Boston.» «Veramente?» «Blankenship se l'è lasciato sfuggire a colazione la settimana scorsa.» Il dottor Eli Blankenship, il capo del personale, era anche il capo del programma di tirocinio degli interni. Era la sua straordinaria conoscenza della cura alternativa e il suo illuminato atteggiamento verso il desiderio di Sarah di mescolare medicina alternativa e tradizionale che aveva convinto la donna ad accettare l'offerta dell'MCB. A suo tempo, soprattutto grazie al suo eccezionale background e all'alto punteggio alla National Medical Boards, diversi prestigiosi ospedali avevano mostrato interesse per lei. «Prego, sedetevi», disse infine Paris. «Nel 1951, a cinquant'anni...» mormorò Truscott. «Prima di continuare», proseguì il presidente, «desidero rivolgermi ai membri della Sicurezza dai quali siete stati tutti controllati stamattina. Nell'ultimo anno, troppi affari di quest'ospedale sono stati condizionati da interessi particolari e sono finiti in mano a certi giornalisti, che hanno fatto del loro meglio per dipingere uno spiacevole quadro negativo dell'MCB. Alcune di queste fughe di notizie riguardano errori quotidiani minori; in realtà, la maggior parte di essi sono troppo futili per essere definiti errori, dovrei definirli problemi nella cura dei pazienti che affliggono ogni ospedale, e che non vengono mai condivisi con il pubblico. Altri riguardano scambi di vedute alle riunioni e ai convegni del nostro personale.»
Il cercapersone di Sarah suonò: si trattava di una chiamata esterna. Desiderando di poter sgattaiolare in fondo alla sala invece di doversi alzare proprio di fronte a Paris, si diresse al più vicino telefono dell'auditorium. «Tutti gli ospedali», continuò Paris, «sono in concorrenza per mantenere la loro assegnazione di letti e una ragionevole percentuale di quei letti occupata. E come sapete, tale concorrenza è spesso spietata. Ospedali grandi e prestigiosi come il White Memorial fanno adesso pubblicità sulle pagine gialle. Una pubblicità negativa per l'MCB, specialmente se infondata, ferisce ognuno di noi. D'ora in poi, personale non autorizzato non sarà ammesso nei nostri giri di visite o alle riunioni. Inoltre, verrà richiesto a chiunque parli degli affari dell'ospedale con la stampa, Ufficio pubbliche relazioni escluso, di abbandonare l'impiego...» Sarah ascoltò per un minuto la chiamata, diede alcune istruzioni e tornò al suo posto. «Una delle mie partorienti a casa è in travaglio attivo», sussurrò. «Le manca ancora un po', ma ha la pressione piuttosto bassa. Spero che questo programma non venga eliminato.» «Ti occupi tu stessa dei parti a casa?» Truscott la guardò incredulo. «No, Andrew, te l'assicuro. Io assisto silenziosa. Verrà con me il dottor Snyder. Questo sarà il nostro secondo parto.» Randall Snyder, il primario del reparto di Ostetricia e ginecologia, era uno di quelli seduti sul palco dietro Glenn Paris. Mentre Sarah gli annuiva si rese conto che Paris aveva smesso di parlare e la guardava bieco. «Scusi», mormorò, avvampando. «Grazie», farfugliò in risposta Paris. Si schiarì la gola e bevve un sorso d'acqua. Il silenzio nella sala era drammatico. «Credetemi», continuò infine, «questo sovvertimento dall'interno è un affare molto serio. Come sapete, interessi esterni e alcune istituzioni finanziariamente più sicure stanno aspettando di vederci affondare. La nostra è una struttura allettante, con una magnifica ubicazione. Ma quella gente avrà un brusco risveglio, amici miei. Un brusco risveglio. Da un po' di tempo, ormai, sto trattando con un gruppo filantropico molto facoltoso il cui scopo primario è il miglioramento della sanità. Siamo quasi riusciti a ottenere una grossa sovvenzione. Se tale sovvenzione si verificherà, e al momento tutti i segnali lo indicano, l'MCB raggiungerà una stabilità finanziaria e una vasta capacità di crescita. Questo è il fine che mi sono prefisso con voi sei anni fa, e oggi sono lieto di dichiarare che è un fine che stiamo
per raggiungere.» Ci fu l'accenno di un applauso, che a poco a poco si propagò finché tutto l'uditorio, Andrew compreso, si unì a esso. «Questo è lo spirito», gli disse Sarah. «Mi si stavano raffreddando le mani», ribatté Truscott. Dietro il podio, Glenn Paris era di nuovo raggiante. «Vi prego, non interrompetevi per causa mia», scherzò mentre gli applausi diminuivano. «È un tipo astuto», sussurrò Truscott sotto la risata che seguì il commento di Paris. «Te lo dico io.» «Sta compiendo un miracolo.» «Sta esaltando se stesso.» «Prima di presentarvi le persone sedute dietro di me», continuò Paris, «e mentre siamo in argomento di interferenze esterne negli affari dell'ospedale, desidero dire alcune parole sul gruppo di dimostranti attraverso il quale alcuni di voi sono stati costretti a passare per venire qui, stamattina. Abbiamo buone ragioni di credere che sia una tecnica per distrarci istigata e appoggiata da chi ci vuole vedere fuori gioco. Badate bene. Non permetteremo loro di interferire assolutamente nella cura dei pazienti o in qualsiasi altro affare di quest'istituzione.» Pestò il pugno sul podio per sottolinearlo. «E questo ve lo garantisco io!» Il verbo «garantire» stava ancora riecheggiando nell'anfiteatro quando si verificò un corto circuito che fece arrestare bruscamente il generatore elettrico principale dell'MCB. Il sistema di riserva, che forniva elettricità alle sale operatorie, alla rianimazione e a una parte del reparto di pronto soccorso, entrò immediatamente in funzione. Ma l'anfiteatro, che era privo di finestre, fu gettato in un'istantanea, cupa oscurità. Il programma per il giorno della promozione si concluse. 3 Se Sarah aveva preso qualcuno a modello nell'esercizio della sua professione di ostetrica e ginecologa, quel modello era il suo capo, il dottor Randall Snyder. Dai suoi modi cordiali alla sua Volvo grigia, tutto in quell'uomo era paterno e rassicurante. Aveva circa cinquantacinque anni ed esercitava la professione con esuberanza e comprensione. Quando veniva annunciata una nuova tecnica o un nuovo trattamento nel suo campo, era il primo a documentarsi. Se una paziente non assicurata dell'ambulatorio a-
veva una gravidanza problematica, lui l'accettava come paziente privata senza accennare al pagamento. Quel giorno Randall Snyder stava sottraendo tempo prezioso alla sua impegnata tabella di marcia per accompagnare Sarah a Jamaica Plains, una zona della città. Lì l'avrebbe aiutata ad assistere al parto in casa di una donna ventitreenne nubile e priva di assicurazione sanitaria, con un'assurda paura dei medici e degli ospedali. «Come riesce a farlo?» chiese Sarah mentre viaggiavano. «A fare che cosa?» Snyder abbassò il volume della sonata di Bach che stava ascoltando. «Come fa a praticare la medicina senza lasciarsi sfiorare.» Snyder represse un sorriso. «Vuoi precisare meglio?» «Oh, be', le critiche dei colleghi e gli avvocati, le compagnie di assicurazione e il governo che le dicono quello che può o non può addebitare per il suo lavoro; le montagne di scartoffie e la costante minaccia di offendere qualche paziente vendicativo o squilibrato che può presentare un reclamo contro di lei e querelarla.» «Oh, Sarah», fece Snyder, «per quello che mi riguarda non hai neppure accennato al reale stress di questa professione: i casi che non riescono bene, la gente con malattie incurabili, la gente che muore nonostante tutto ciò che facciamo.» «Ma questa è medicina. L'altra cosa è... è...» «È anch'essa medicina. Fa parte di un tutt'uno. Credimi, non sono la macchina serena che molta gente crede che sia, ma non torno neppure a casa dopo una giornata di lavoro e picchio mia moglie perché non ho vinto alla lotteria o non ho scritto il best seller che mi permetterebbe di vivere di rendita. Riesco ad affrontare le cose di cui stai parlando perché amo quello che faccio, e mi sento maledettamente fortunato ad avere avuto la possibilità di farlo. Perché mi stai rivolgendo queste domande? Sei per caso nei guai?» «Nessun guaio particolare. Oh, svolti a destra al prossimo angolo.» «Bene, Knowlton Street hai detto, vero?» «Sì.» «Conosco la strada. Adesso continua.» «Sa che prima di frequentare la facoltà di Medicina ho lavorato in un centro di cure olistiche.» «Naturalmente. Sono stato ad alcune delle tue presentazioni. Materia interessante, molto interessante.»
«Il mio tirocinio era in erboristeria e agopuntura. Ma sono accadute alcune cose che mi hanno fatto sentire il bisogno di ampliare le mie conoscenze.» «Sono accadute alcune cose» è la versione attenuata, pensò Sarah. Era incerta se entrare nei dettagli del suo conflitto finale con Peter Ettinger, ma si rese rapidamente conto che questo non era il momento né il luogo per dissotterrare quel verme. «Bene, le nostre tecniche nel centro olistico avevano le loro limitazioni», proseguì. «Non discuto questo. Ma c'era un dato certo, non lo so, lo chiami innocenza di intenti o modo in cui facevamo le cose... La maggior parte di noi, comunque, ogni giorno andava a lavorare ed era in grado di concentrarsi quasi esclusivamente su quanto poteva fare per i pazienti.» «Quindi?» «Be', da quel che posso dire, la medicina che sono abituata a praticare ora si occupa spesso di questioni finanziarie oltre che di pazienti. Ordiniamo milioni e milioni di dollari in test marginali o inutili allo scopo di avere le spalle coperte qualora finissimo in tribunale. Nel frattempo, le agenzie governative, pensando di risparmiare denaro, ci dicono per quanto tempo ci è concesso trattenere in ospedale pazienti con una determinata malattia. Che cosa succede infatti se una donna anziana, per esempio, torna a casa troppo presto dopo un'isterectomia, cade e si rompe il femore? Parliamo di statistiche, quadri e percentuali. Non di persone.» «Sarah, sei troppo giovane per essere così sfiduciata.» «Dottor Snyder, vorrei che ci fosse qualcosa per cui essere ancora troppo giovane, qualunque cosa; e sa che non sono sfiduciata. Credo di aver preso la decisione giusta nel diventare dottore in Medicina. E mi piace essere un dottore, ma a volte desidererei che fosse un po' più, come dire, puro.» Randall Snyder ridacchiò. «Il sapone Ivory è puro per il novantanove e quarantaquattro per cento», disse, svoltando in Knowlton Street. «Niente di ciò che riguarda gli esseri umani si avvicina a questo dato; specialmente nel nostro mestiere. Ma, senti, capisco quello che ti tormenta e ti prometto che continueremo questa discussione molto presto, magari durante una cena a casa mia. Per ora, dovrebbe bastarti sapere che stai diventando un ottimo medico, esattamente il genere di persona che mi piacerebbe avere come partner nel mio studio.» «Accidenti, grazie.» Sarah non riuscì a nascondere la sorpresa, o il piacere. Era la prima volta che sentiva Randall Snyder accennare al fatto di poter prendere in considerazione un partner, figuriamoci lei.
«Tienilo in serbo per il futuro», disse Snyder. «Un po' più in là o entro quest'anno, se vuoi, siederemo a parlare d'affari. E bene guardare con distacco i lati meno affascinanti della nostra professione, purché non si resti paralizzati da quello che si vede. E per carità, non mettere nessuno sul piedistallo; tantomeno me.» Si fermò presso il marciapiede di fronte al numero 313. «Adesso, prima di entrare, fammi una breve descrizione della nostra paziente.» La presentazione concisa e altamente stilizzata di un caso clinico era stata enfatizzata forse più di qualunque altra pratica durante il tirocinio di Sarah. Da studentessa rimaneva spesso sdraiata nella vasca da bagno, ignara dell'acqua che si andava raffreddando, mentre usava un cronometro e ripeteva per una decina di volte la presentazione del caso che avrebbe fatto il mattino dopo. Adesso la tecnica era una seconda natura. «Lisa Summer è un'artista nubile di ventitré anni, alla seconda gravidanza. Niente parti precedenti, aborto spontaneo tre anni fa. LMP dieci-due.» «Seconda gravidanza, nessun parto precedente a questo, un aborto, ultimo ciclo mestruale nove mesi fa.» Randall Snyder fece cenno a Sarah di continuare. «Questa gravidanza è stata assolutamente normale sotto ogni aspetto. C'è stato un aumento di peso di dieci chili. All'esame di una settimana fa, il feto era in posizione, testa incappucciata, probabilmente occipite sinistro anteriore. A parte le solite malattie infantili, Lisa ha un quadro clinico negativo. Non fuma, beve raramente. Nessuna medicina oltre all'integratore naturale prenatale che le prescrivo.» «Ah, sì», fece Snyder. «La misteriosa mistura Baldwin. Ero presente al convegno dell'anno scorso quando ne hai parlato. Molto presto desidererei saperne di più. Ti prego, continua.» «Il background familiare è ridotto. Nessun rapporto con i genitori, al momento, né con il padre del bambino.» «Oh, diamine!» «La sua ostetrica è un'amica infermiera. Evidentemente, da bambina Lisa ha avuto qualche brutta esperienza in ospedale. Adesso ne è terrorizzata.» «Ergo, il parto in casa.» «Questa è una delle ragioni. Lisa è una persona, come dire, molto riservata e molto sospettosa della gente.» «Anche di te?» «Non come all'inizio, ma sì, anche di me.»
«Be', allora, penso sia ora di entrare e tentare di farle cambiare idea.» Sarah prese gli strumenti ostetrici. «Un'altra cosa», disse. «Heidi, l'ostetrica, ha detto che la pressione di Lisa è un po' calata e che è diventato più difficile misurarla, sia nel braccio destro sia in quello sinistro. L'ultimo valore di cui sono a conoscenza è stato ottantacinque, proprio mentre Glenn iniziava il suo discorso. Il più alto, qualche ora prima, centodieci.» «E che cosa ne deduci?» chiese Snyder. «Basso-normale a questo stadio di travaglio, direi. Quando mi ha chiamata, Heidi ha detto che Lisa stava bene. Quindi probabilmente non è niente.» Sarah lesse preoccupazione negli occhi di Snyder e sentì immediatamente che non aveva preso il rapporto abbastanza seriamente. «Il numero attuale può essere basso-normale», osservò, «ma dalla mia esperienza non risulta che molte pazienti in travaglio abbiano questo calo di pressione a questo stadio.» «Avrei dovuto dirglielo prima, penso», rispose Sarah. «Sciocchezze. Sono un allarmista nato. Penso che tu abbia ragione; la pressione bassa sarà probabilmente dovuta a un po' di disidratazione. Prendi gli strumenti.» Mentre scendevano dalla macchina, udirono una sirena, probabilmente a un isolato o due di distanza. Erano ancora sotto gli alberi quando una macchina della polizia con i lampeggiatori accesi svoltò stridendo intorno all'angolo e si fermò dietro la Volvo. Un agente in uniforme balzò a terra e, ignorandoli, corse verso la porta d'ingresso. «Mi scusi», gli gridò dietro Snyder, rincorrendolo. «Sono il dottor Randall Snyder del Medical Center di Boston. Che cosa sta succedendo?» «Non lo so, dottore», rispose il poliziotto, ansimando. «Ma sono lieto che lei sia qui. Abbiamo ricevuto una chiamata urgente in cui dicevano che una donna era nei guai e aveva bisogno di un'ambulanza. Dovrebbe arrivarne una a minuti.» «Il nome della donna?» chiese Sarah, consapevole di un improvviso nodo al petto. Il poliziotto suonò il campanello diverse volte e poi cominciò a bussare sul pannello di vetro della porta d'ingresso. «Summer», rispose. «Lisa Summer.» «...Il reale stress di questa professione: i casi che non riescono bene, la gente con malattie incurabili, la gente che muore nonostante tutto ciò che
facciamo...» Le parole di Randall Snyder riecheggiavano nei pensieri di Sarah mentre seguiva il poliziotto ed Heidi Glassman lungo l'ampia scala. Dal piano superiore udiva la tosse secca di Lisa e i lamenti di dolore. E ancor prima di entrare nella stanza sentì odore di sangue. Lisa, seduta a gambe divaricate sul suo futon, stava perdendo sangue dalle narici e dalla bocca. Fresco sangue rosso copriva il davanti della sua camicia da notte e aveva macchiato il futon, il pavimento e il muro. Ma ciò che più preoccupava Sarah era la paura negli occhi della ragazza. Era uno sguardo che aveva visto poche altre volte nella sua carriera di medico, l'ultima volta in una donna anziana appena operata. Entro pochi minuti la donna avrebbe avuto un arresto cardiaco irreversibile. «È cominciato poco dopo che l'ho chiamata», disse Heidi mentre Sarah e Randall Snyder infilavano i guanti e si inginocchiavano accanto a Lisa per iniziare il loro esame. «L'avrei richiamata, ma ero sicura che lei stava arrivando. Stava andando tutto bene, a parte quella faccenda della pressione di cui le ho riferito. Poi, a un tratto, Lisa ha cominciato a lamentarsi di un acuto dolore al braccio e alla mano destra. Durante una delle contrazioni, si era morsa l'interno della guancia. Dapprima è uscito un po' di sangue dal taglietto; poi all'improvviso ha cominciato a uscirne molto. Poco prima che arrivaste voi ha vomitato, ed era tutto sangue rosso vivo; credo che provenisse dal naso, ma chi può dirlo?» «La pressione tiene?» chiese Sarah mentre infilava la fascia al braccio sinistro di Lisa. «È scesa ancora un po'. Circa ottanta. Non riesco più a sentire il braccio destro.» Sarah guardò il braccio destro di Lisa e capì immediatamente perché. Sapeva che anche Snyder aveva capito. Il braccio, o almeno dal gomito alla mano, era scuro e macchiato. Qualunque fosse la ragione, le arterie grandi e piccole che fornivano sangue all'arto erano bloccate. Sebbene in misura minore, anche il flusso sanguigno del braccio sinistro di Lisa e di entrambe le gambe sembrava compromesso. «Ancora ottanta», disse Sarah. «Lisa, so che tutto questo è spaventoso per te. Ma ti prego, fa' del tuo meglio per restare il più possibile calma mentre cerchiamo di capirci qualcosa. Questo è l'uomo di cui ti ho parlato, il dottor Snyder. È il mio capo.» In lontananza, udirono la sirena di un'ambulanza che si avvicinava. «Che cosa mi sta succedendo?» chiese Lisa, sgomenta oltre che spaventata.
Sarah guardò il suo capo. Sebbene la diagnosi avesse bisogno di una conferma di laboratorio, sapeva che egli sospettava quanto lei di essere di fronte alla rapida evoluzione di un caso di DIC, coagulopatia intravascolare disseminata, il caso più drammatico e spaventoso di coagulazione del sangue. Sarah chiese una salvietta e la porse a Lisa. «Ecco, Lisa, soffiati il naso più forte che puoi. Una volta che usciranno i grumi più grossi, la pressione che eserciterai sul naso sarà più efficace nell'arrestare l'emorragia.» Lisa, che stava ancora sputando rosso in un catino, fece come le era stato richiesto. Il centro della salvietta si inzuppò immediatamente di sangue. Ma non c'erano grumi. Nessuno. La diagnosi della DIC era adesso ancor più probabile. Qualunque fosse la ragione, un grosso numero di piccoli grumi aveva cominciato a formarsi nel circolo ematico di Lisa, ostruendo le arterie che non riuscivano più a mandare sangue alle braccia e alle gambe, mettendo fortemente a repentaglio gli arti. Ancor più spaventoso del blocco circolatorio era la rapidità con la quale gli abnormi grumi stavano utilizzando i fattori necessari alla normale coagulazione del sangue. Un colpo apoplettico causato da un'emorragia cerebrale era a questo punto un'agghiacciante possibilità. «Lisa, ti spiegherò fra un minuto quello che sta succedendo», disse Sarah. «Ti si sono rotte le acque?» Lisa scosse il capo. «Sono molto spaventata», cercò di dire. «La mano mi sta uccidendo.» «Capisco. Concedici un minuto.» Sarah guardò il suo capo. «Abbiamo bisogno che arrivi quell'ambulanza, abbiamo bisogno di un accesso venoso e abbiamo bisogno che un ematologo e un internista, preferibilmente entrambi, ci aspettino all'MCB», disse Snyder. C'era ancora la consueta calma nella sua voce, ma la sua espressione era cupa. Questo sarebbe stato il secondo caso di DIC in una paziente in travaglio attivo del Medical Center di Boston in meno di tre mesi. L'altra donna, non un caso di Snyder o Sarah, era morta sul tavolo operatorio mentre i medici cercavano disperatamente di far venire alla luce il bambino mediante taglio cesareo. Con l'emorragia nella placenta, il cervello del bambino era stato gravemente danneggiato e il piccolo era morto prima di aver superato una settimana di vita. La causa della DIC non era mai stata accertata.
«Lisa, ti prego, ascolta», continuò Snyder. «E ti prego, cerca di non essere troppo spaventata. Crediamo che qualcosa abbia impedito al tuo sistema di coagulazione del sangue di lavorare propriamente. Dobbiamo condurti appena possibile all'MCB per una diagnosi e un trattamento.» «Che cosa sarebbe qualcosa? Qual è la causa di tutto questo?» chiese. «Il mio bambino sta bene?» «Ne sapremo di più sul tuo bambino non appena disporremo di un monitor», disse Snyder. «In questo momento sento chiaramente il battito cardiaco.» «È un maschio. La dottoressa Baldwin mi ha fatto un'ecografia. Il suo nome dovrebbe essere Brian.» Sentirono la sirena dell'ambulanza spegnersi mentre si fermava di fronte alla casa. «Lisa», disse Snyder, «so che non è facile, ma più rilassata riuscirai a essere, più il tuo sangue fluirà lentamente, di conseguenza noi avremo maggiori possibilità di fermare l'emorragia. C'è qualcuno che desideri chiamare? I tuoi genitori? Un fratello o una sorella?» Lisa rifletté per un momento e poi scosse risoluta la testa. «Heidi è la mia famiglia», rispose. «Va bene. Sarah, vuoi andare a chiamare l'MCB? Sarah?» A occhi chiusi, lei aveva posato la punta del secondo, terzo e quarto dito sull'arteria radiale sinistra di Lisa, cercando di valutare i sei punti localizzati lì, che erano usati solo dagli agopuntori e i praticanti della medicina cinese tradizionale. I punti di sinistra riflettevano la condizione di cuore, fegato, reni, intestino tenue, cistifellea e vescica. Molte volte, soprattutto in pazienti con vaghi malesseri non specifici, un'accurata palpazione dei tre punti superficiali e dei tre profondi a ciascun polso forniva un appiglio sulla fonte del sintomo e aiutava a infilare propriamente gli aghi dell'agopuntura. «Oh, mi spiace», disse. Il suo esame, influenzato dallo stato agitato di Lisa e dalla profonda alterazione del flusso di sangue, non fu rivelatore. E senza circolazione nel braccio destro, non valeva la pena di controllare quella parte. «Chiamo il dottor Blankenship e gli dico di aspettarci con qualcuno dell'Ematologico.» «Grazie.» La squadra di soccorso si precipitò nella stanza. Dopo una breve spiegazione da parte di Randall Snyder, trasferirono Lisa sulla barella e predisposero un accesso venoso nel suo braccio sinistro. Sarah si avviò verso il te-
lefono del corridoio. «Dottoressa Baldwin, non mi lasci», la implorò Lisa. «Torno subito.» «Mi dica, sto per morire?» Sarah sperava che ci fosse più convinzione nella sua voce di quanta ne provasse in quell'istante. «Lisa, questo non è il momento di pensare a cose simili», rispose. «È molto importante che tu rimanga concentrata. Devi essere in grado di usare la visualizzazione interiore a cui abbiamo lavorato. Pensi di poterlo fare?» «Lo... lo stavo facendo prima che cominciasse tutto questo. Una volta ho perfino visto la mia cervice. Davvero.» «Ti credo. Magnifico. Bene, adesso devi cercare di rifarlo. Concentrati sul flusso del sangue e le strutture all'interno delle mani. È molto importante. Io ti aiuterò non appena raggiungeremo l'MCB. Il dottor Blankenship, l'internista che ti prenderà in cura, è un medico magnifico. Sto andando a telefonargli. Ci aspetterà con l'ematologo. Insieme riusciremo a superare questo brutto momento.» «Promesso?» Sarah respinse alcune ciocche di capelli dalla fronte umida di Lisa. «Promesso», disse. «Accesso venosa predisposto», annunciò uno degli infermieri della squadra di soccorso. «Ringer lattato a 2,50. Desidera che stia seduta così, dottore?» Snyder annuì. «Sarah, perché non lasci fare a me quella telefonata, e non vai tu con l'ambulanza all'MCB insieme a Lisa? Io condurrò con me Heidi.» Mentre accompagnava la squadra di soccorso fuori di casa, facendo il possibile per arrestare il flusso di sangue dal naso e dalla bocca di Lisa Summer, Sarah cercò di ricordare quello che poteva dell'altra donna affetta dalla DIC. Gravidanza normale, travaglio normale fino all'ultimo stadio, poi improvvisa, catastrofica alterazione del sistema di coagulazione del suo corpo. Esattamente come stava accadendo quel giorno. E mentre aiutava a caricare Lisa sull'ambulanza, la domanda che aveva confuso gli altri medici bruciava nella mente di Sarah: perché? 4 Sei dei nove edifici del Suffolk State Hospital acquistati a suo tempo dal
Medical Center di Boston erano ancora in uso. Dei tre rimasti inutilizzati, due erano stati rasi al suolo e sostituiti da parcheggi. L'ultimo, un cadente palazzo di mattoni a sei piani con il nome CHILTON inciso nel cemento sopra l'ingresso, era stato abbandonato e coperto di assi quando Sarah aveva cominciato il suo tirocinio, ed era così rimasto, un muto ricordo delle difficoltà finanziarie dell'ospedale. Il Chilton Building e i garage erano separati dal resto dell'ospedale da un ampio viale circolare. Racchiuso nell'area c'era un vasto prato, punteggiato di arbusti e una mezza dozzina di tavoli da picnic in plastica. Solo gli amministratori e i capireparto con posti macchina, e il traffico d'emergenza potevano accedere in auto al «Campus», come Glenn Paris aveva soprannominato l'area. Il percorso da Knowlton Street all'MCB, aperto dalle sirene della polizia e della squadra di soccorso, fu effettuato in quindici minuti. Seduta accanto a Lisa Summer nella pane posteriore dell'ambulanza, Sarah sentì l'autista dire alla radio che era in arrivo una paziente con precedenza assoluta. Immaginò il custode, a un tratto tronfio, precipitarsi ad aprire il cancello di sicurezza e deviare tutto il traffico. Le contrazioni di Lisa, che si ripetevano adesso circa ogni quattro minuti, erano forti e prolungate. Tuttavia, dal delicato esame, Sarah aveva stabilito che la dilatazione era tuttora di soli quattro centimetri. L'emorragia dal naso e dalla bocca era, semmai, più forte. E sebbene la sua mano sinistra ed entrambi i piedi avessero ancora un certo calore e fluisse sangue capillare, il suo braccio destro era adesso pallido e senza vita dal gomito in giù. «Forza, Lisa», la incalzò Sarah. «Siamo quasi arrivate.» Mentre svoltavano nel viale d'accesso dell'MCB, Sarah ripassò le sue nozioni sulla DIC. Non avendone mai riscontrato un caso grave durante il tirocinio, la sua conoscenza si basava essenzialmente su ciò che aveva appreso in un paio di lezioni alla scuola medica, alcune letture e qualche convegno. Anziché essere una singola malattia specifica, si presentava come un'insolita complicazione di svariate lesioni e infermità. E a causa della gravità della condizione di predisposizione, la DIC era quasi sempre fatale. Ma Lisa Summer non era né ferita né malata. Era una sana giovane donna al termine di una gravidanza assolutamente priva di complicazioni. Forse non si trattava affatto di DIC. La sirena venne spenta mentre si avvicinavano all'ospedale. Sarah controllò rapidamente la pressione e cominciò a preparare mentalmente la pre-
sentazione che avrebbe dovuto fare al dottor Eli Blankenship. Era suo compito presentare i fatti in maniera obiettiva, evitando accuratamente la sua impressione diagnostica o qualsiasi altra precedente dichiarazione. Finché una diagnosi non veniva provata, era sciocco e potenzialmente pericoloso presumerne una con l'esclusione delle altre. Eli Blankenship, forse la mente più acuta di tutto l'ospedale, avrebbe associato le sue informazioni con le proprie osservazioni e tentato una diagnosi e un trattamento. Nel frattempo, se la terapia non poteva essere rinviata fino a una diagnosi definitiva, non avrebbero potuto far altro che recitare una preghiera e adottare metodi verosimilmente efficaci. In questo caso, con due vite già appese a un filo, era improbabile che potessero aspettare i risultati di laboratorio prima di intraprendere una cura. E la cura per la DIC era, di per se stessa, molto rischiosa. Tutto sommato, sapeva Sarah, sarebbe stata una giornata terribile per Lisa Summer e le decine di medici, infermiere, tecnologi che avrebbero lottato per salvare lei e il suo bambino. E alla base di quella lotta ci sarebbe stata la persistente, rodente domanda: perché? Mentre si avvicinavano a marcia indietro alla piattaforma del pronto soccorso, Sarah vide Eli Blankenship in attesa presso la porta. Come sempre rimase colpita dal suo aspetto. Il capo del personale dell'MCB era un pezzo d'uomo, piuttosto basso ma con un ampio torace e una testa separata da un collo quasi invisibile. Era calvo fuorché per una scura frangia da monaco. Ma sotto l'ampia fronte le sue sopracciglia erano folte, e le sue braccia muscolose assomigliavano a quelle di Maciste. Anche se appena sbarbato gli rimaneva una persistente ombra scura. Degli attributi fisici dell'uomo, solo gli occhi, di un penetrante azzurro chiaro, lasciavano indovinare il suo genio. Era specializzato in malattie infettive e pronto intervento oltre che in medicina interna. Ma era anche rispettato come umanista, esperto di scacchi e bridge, nonché amante delle arti. Come insegnante, nessuno all'MCB era più aperto e rispettoso dei punti di vista e delle proposte degli studenti e degli interni, e nessuno insegnava loro con più efficacia. Blankenship, già con camice e guanti, accolse la barella non appena scaricata dall'ambulanza e strinse immediatamente la mano di Lisa, presentandosi. Dall'altra parte della barella, dove stava tenendo premuto il naso di Lisa, Sarah capì che con quel primo tocco il medico aveva già iniziato il suo esame e il suo accertamento.
Quando raggiunsero la sala A, una delle tre principali sale di Medicina e traumatologia, Sarah aveva quasi completato la presentazione del caso. Blankenship aveva fatto salire il flebotologo dal laboratorio per il prelievo del sangue e un'infermiera dall'Ostetricia con un monitor fetale. Con il capo fece loro cenno di entrare in azione. Il sangue cominciò a fluire attraverso la garza che proteggeva l'accesso venoso di Lisa. Blankenship notò il fatto senza cambiare espressione. «Adesso, Lisa», disse calmo, «ti chiederò di essere paziente con noi e di perdonarci se ti sembrerà di non essere tenuta al corrente di quello che sta succedendo. Ti stanno accadendo diverse cose. Fra qualche secondo non sarai più in grado di dire quanti dottori si stanno occupando di te.» «Il bambino sta bene?» chiese Lisa. Blankenship alzò lo sguardo sull'infermiera, che annuì in direzione del monitor fetale. Il battito del cuore era più alto dell'ottimale, spesso un segno precoce di complicazioni. «È sotto stress», le disse. «Lo stiamo tenendo d'occhio.» In quel momento, l'ematologo entrò nella stanza. Helen Stoddard, anch'essa professoressa, era primario di un altro ospedale e consulente dell'MCB. Appartenente alla «vecchia scuola», come le piaceva definirsi, era molto critica nei confronti di coloro che praticavano la medicina alternativa. Blankenship e Sarah facevano invece parte dell'opposizione, sostenendo l'uso di certi trattamenti empiricamente provati come l'agopuntura e la chiropratica. «A che punto siamo, Eli?» chiese la Stoddard senza neppure guardare Sarah. «Gli esami sono stati fatti, abbiamo ordinato dieci unità.» «Anche piastrine e plasma?» «Quanto più possibile.» Helen Stoddard completò un rapido esame della pelle, della bocca e del letto ungueale di Lisa. La garza che circondava l'accesso venoso era satura. La sede della flebo da cui era stato tolto il sangue stava anch'esso cominciando a trasudare. «Nessun precedente di problemi emorragici?» chiese Blankenship. «Assolutamente nessuno.» La Stoddard rifletté per qualche secondo. «Non possiamo aspettare il laboratorio. Credo che attaccheremo tutte le piastrine, il sangue e il plasma possibile, e che la tratteremo con eparina.» Randall Snyder e Heidi Glassman entrarono nella stanza, ansimanti.
Qualche attimo dopo arrivò anche Andrew Truscott. Heidi prese il posto di Sarah accanto al letto, mentre Truscott, Sarah e Snyder indietreggiarono verso la soglia. «È veramente nei guai», disse Sarah. Snyder lanciò un'occhiata al monitor fetale. «Anche il bambino», asserì. «Avete cominciato con la pitocina?» «Sull'ambulanza. Ha tuttora una dilatazione di soli cinque centimetri.» «Gesù.» Truscott ci impiegò un minuto a esaminare le braccia, le mani e i piedi di Lisa. Poi, con impressionante abilità e rapidità, iniettò un anestetico nella pelle di fianco al collo e infilò un grosso ago direttamente nella vena giugulare interna. Quindi inserì un catetere attraverso l'ago e lo suturò in quel punto. Era stato predisposto un secondo importante accesso venoso. «In un modo o nell'altro, credo che dovremo portarla in sala operatoria per quel braccio destro», disse Andrew dopo essere ritornato sulla soglia. «Non posso ancora dire niente sul sinistro o i piedi. Potete intervenire con un cesareo?» Snyder si diresse verso Helen Stoddard, tenne una breve conversazione a fior di labbra e ritornò scuotendo la testa. «Può darsi che abbiamo di nuovo a che fare con un'altra situazione di madre contro feto», sussurrò. «Helen ed Eli hanno deciso che non possono aspettare la conferma della DIC dal laboratorio. Hanno già somministrato l'eparina. Da come stanno le cose, ritengono che la ragazza non sia in grado di sopravvivere a un cesareo.» Eparina per la DIC. Per Sarah, la cui esperienza di chirurgo era costruita su una base di meticolosa attenzione al controllo dell'emorragia, il trattamento era un terrificante paradosso: immissione, cioè, di un potente anticoagulante in un paziente che era già in pericolo di morire dissanguato. Sarah guardò la donna che aveva avuto in cura negli ultimi sette mesi, adesso a malapena visibile nel gruppo di infermiere, medici e tecnologi. In pochi minuti, Andrew aveva contribuito enormemente agli sforzi di tutti. Lei non aveva ancora contribuito in niente. Eppure Lisa era una sua paziente e c'erano cose a cui loro due avevano lavorato, cose che potevano tentare, che sarebbero potute servire; ammesso, naturalmente, che Helen Stoddard e Eli Blankenship lo permettessero. Si scusò e corse giù nello scantinato dove una serie di tunnel scarsamente illuminati collegavano tutti gli edifici dell'MCB. Il suo armadietto era al quarto piano del Thayer Building, che ospitava gli uffici dell'amministra-
zione sui primi tre piani e gli alloggi del personale interno agli ultimi due. Sarah prese l'ascensore. Qualche minuto dopo scese i sei piani e si precipitò attraverso i tunnel in direzione del pronto soccorso. Portava sotto il braccio una cassetta di mogano contenente i suoi aghi per l'agopuntura. La cassetta era un dono del dottor Louis Han. Aveva conosciuto Han, un missionario cristiano cinese, mentre insegnava con i Peace Corps nei villaggi a nord di Chiang Mai, in Thailandia. Fino alla sua morte avvenuta circa tre anni dopo, era stato suo insegnante nelle arti curative. L'iscrizione sulla cassetta, elegantemente incisa in cinese dallo stesso Han, diceva: «Il potere curante di Dio è in tutti noi». Nel momento in cui Sarah rientrò nella sala A, sentì che le cose erano peggiorate. Una sonda inserita nello stomaco di Lisa attraverso il naso trasferiva un costante flusso di sangue nel contenitore di raccolta appeso al muro. Il catetere urinario stava anch'esso drenando rosso. Randall Snyder, il volto cinereo, si trovava presso il monitor fetale, dove il battito cardiaco del bambino non ancora nato di Lisa era calato sotto il ritmo necessario a mantenerlo in vita. «Che cosa sta succedendo?» chiese Sarah, avvicinandosi. «Credo che lo abbiamo perso», sussurrò Snyder. «Potremmo effettuare un cesareo qui su due piedi e magari salvarlo. Ma Lisa non sopravviverebbe mai.» «Se ne andrà lo stesso?» «Non lo so. Va male.» Sarah esitò per un momento, poi si avviò verso il punto in cui si trovavano Helen Stoddard ed Eli Blankenship. «Posso, per favore, parlarvi un momento?» chiese. Per un istante pensò che la dottoressa Stoddard l'avrebbe congedata. Poi, ricordando forse che Sarah era uno degli interni scelti da Blankenship, l'ematologa si spostò su un lato della sala. Il professore la seguì. «Vorrei tentare di fermare l'emorragia di Lisa», disse Sarah. «E che cosa pensa che stiamo cercando di fare noi?» chiese la dottoressa. Sarah sentì i muscoli della mascella irrigidirsi. Non aveva mai cercato di imporre la sua abilità e le sue tecniche su qualche medico o membro della facoltà che non le avesse richieste. Ma Lisa era sua paziente, e la terapia convenzionale non sembrava funzionare. «Dottoressa Stoddard, so che non ha molta fiducia nella medicina alternativa», disse, cercando di mantenere la voce ferma, «ma desidero la stessa
cosa che desiderate voi. Voglio che Lisa ce la faccia. Negli ultimi quattro o cinque mesi, mentre ci preparavamo al parto in casa, Lisa e io abbiamo lavorato sull'autoipnosi e sulla visualizzazione interna. Credo che sia diventata molto brava in entrambe.» «Quindi?» L'espressione della dottoressa Stoddard era gelida. «Be', combinandole all'agopuntura, potremmo essere in grado di usare il potere di Lisa per rallentare l'emorragia. Ammesso, naturalmente, che siate disposti a somministrarle abbastanza protamina da neutralizzare l'eparina.» «Che cosa?» «Se riuscissimo a rallentare a sufficienza l'emorragia da permettervi di effettuare un cesareo, potreste ricominciare con l'eparina per cercare di sciogliere i grumi.» «Questo è ridicolo.» Sarah inspirò per calmarsi. Nei quattro anni di università e nei due di tirocinio, non aveva mai avuto uno scontro del genere con un professore. Ma poteva anche non esserci alternativa. «Dottoressa Stoddard, la pressione di Lisa sta calando, l'emorragia peggiorando, e potrebbe essere già troppo tardi per il bambino.» «Piccola arrogante, ignorante...» «Un minuto, Helen», intervenne Blankenship. «Potrai dire ciò che vuoi quando la crisi sarà superata. Al momento abbiamo una donna che sta per morire, e dobbiamo concentrarci su di lei. La dottoressa Baldwin ha ragione. L'eparina non sta ancora agendo sui coaguli e ha fatto aumentare l'emorragia al punto che le trasfusioni non hanno più alcun effetto.» «Fatelo e io me ne lavo le mani», disse Stoddard. «Helen, tu sei uno dei migliori ematologi che abbia conosciuto e uno dei medici più devoti. Non riesco a immaginare che tu possa opporti a ciò che è meglio per un paziente.» «Ma...» «E, in fondo, sai che i pochi minuti che serviranno a Sarah per provare quello che sa, apporteranno poca differenza al risultato finale.» «Ma... D'accordo, dannazione. Ma quando sarà finita, indipendentemente da come andranno le cose, quest'ospedale farà meglio a chiarire la sua politica in fatto di ciarlataneria medica, o io mi dimetterò.» «Lo faremo, Helen. Te lo prometto. Lo faremo. Sarah, come possiamo aiutare?» «Be', innanzitutto somministrate a Lisa della protamina.» «Helen?»
«Dannazione, Eli. Va bene, va bene... È ridicolo», borbottò mentre tornava indietro per somministrare l'antidoto dell'eparina. «Assolutamente ridicolo.» «Bene», continuò Sarah, sentendo che il suo polso cominciava ad accelerare, «per favore, lasciate con me soltanto Heidi, allontanate più gente possibile dal capezzale e fate il meno rumore possibile.» «Fatto. Qualcos'altro?» «Una cosa. Spegnete le luci principali.» Lisa gridò mentre veniva colta da un'altra contrazione. Sarah le accarezzò la fronte, poi si inginocchiò accanto a lei. «Lisa, ora chiudi gli occhi e ascoltami», disse dolcemente. «Ci dobbiamo applicare. Questo è il momento per il quale ci siamo esercitate in tutti i nostri incontri. Capisci? Bene. Cominciamo con le cose facili, le scene, d'accordo? Servitene durante le contrazioni. Ti aiuterò, e anche Heidi è qui per aiutarti. Fra una contrazione e l'altra, voglio che ti concentri sulla mia voce e cominci a cercare di visualizzare quello che sta succedendo nel tuo circolo ematico e nel tuo cuore. Si sta muovendo tutto troppo in fretta... troppo in fretta. Può darsi che si stiano formando dei coaguli anche lì, che ti ostruiscano le arterie. Cerca di rilassarti e di vederli. Rilassati, Lisa, rilassati...» Heidi continuava a sussurrare nell'orecchio della ragazza mentre Sarah consultava un libretto sgualcito. Essendosi accertata dei punti dell'agopuntura che voleva stimolare, infilò il primo ago facendolo penetrare appena sotto la clavicola sinistra di Lisa. Poi, uno alla volta, ne infilò altri cinque in vari punti. Un silenzio spettrale dominava adesso la stanza, interrotto soltanto dell'apparato di suzione e dal leggero beep del monitor cardiaco. «Guardate», sentì Sarah sussurrare da qualcuno. «Credo che l'emorragia stia già diminuendo.» Sarah guardò il contenitore di raccolta. Il drenaggio sembrava essere significativamente diminuito. «Lisa, rilassati», ripeté Sarah, dolcemente ma con fermezza. «Rallenta il tuo cuore... Rallenta il tuo sangue, e rilassati. Lo puoi fare...» Passò un minuto. Poi un altro. Lisa giaceva immobile, ora, gli occhi chiusi. Arrivò una contrazione, annodandole visibilmente l'addome, ma lei rimase immobile e serena. «Il ritmo cardiaco è diminuito da novanta a cinquanta, Sarah», disse Blankenship. «Il sangue che filtra attraverso l'accesso venoso e le sedi della flebo potrebbe essersi fermato anch'esso. Randall,
vuoi prepararti?» «È tutto pronto», disse Snyder. «L'anestesia aspetta di sopra. Basta una parola.» La sonda nasogastrica stava adesso drenando piccole quantità. Non filtrava più liquido. Sarah estrasse con cura i sei aghi. Per dieci, quindici secondi fu tutto tranquillo. «Procedete», disse. 5 2 luglio Sarah ordinò di alzare di circa trenta centimetri il tavolo operatorio. Le bruciavano un po' gli occhi; era in piedi e correva da ventiquattr'ore senza mai riposarsi. Ma la sua concentrazione, come sempre quand'era in sala operatoria, era affilata quanto il suo bisturi. Dopo aver centrato i raggi della lampada sopra di sé, strinse la lama nella mano destra, aggiustandone lievemente la posizione finché non la sentì parte di sé. Con la sinistra, tese la pelle lungo quello che era stato il margine superiore del triangolo pubico. Poi, con un singolo colpo fermo, aprì la parete addominale e separò il sottile strato color zafferano di grasso sottocutaneo. Infine incise la membrana peritonea, esponendo il gonfio utero gravido. «Tutto bene?» chiese all'anestesista. «Stabile.» «Va bene, iniziamo.» Sarah scalfì la superficie dell'utero con il bisturi e vi fece un piccolo foro. Inserendo gli indici, separò le fibre muscolose. Poi, con il tocco della lama, aprì la membrana amniotica. «Siamo penetrati», disse al primo getto di liquido amniotico. «Suzione, per favore.» Il tempo adesso era un fattore importante. L'utero poteva contrarsi in qualsiasi momento, rendendo il parto di normale routine. Per dieci secondi Sarah smise di respirare mentre affondava la mano alla ricerca delle gambe del bimbo, tentando di stabilire nel contempo la posizione del cordone ombelicale. Le sue dita si chiusero dolcemente intorno alle sottili gambette e le tirò su attraverso l'incisione. Poi il torso e quindi, pian piano, le spalle e le braccia. Infine serrò il piccolo cranio nel palmo e lo guidò attraverso l'incisione. E così, il bambino nacque.
Sarah gli pulì frettolosamente naso e bocca con un tubo d'aspirazione. Qualche attimo dopo il silenzio nella sala operatoria fu trafitto dal grido del neonato. E immediatamente la tensione nella sala evaporò. «È una bambina, Kathy», disse Sarah troppo decisa. «Una bella bambina. Congratulazioni. Papà, se viene qui può tagliare il cordone.» Il padre, poco più di un liceale, si avvicinò nervosamente, fece come gli era stato ordinato e si precipitò in fondo al letto dove la sua giovane moglie stava alternativamente piangendo e ridendo per la gioia. Deglutendo nel sentirsi improvvisamente una stretta alla gola, Sarah porse il perfetto neonato al pediatra. Sperava che nessuno nella sala capisse com'era prossima alle lacrime, lacrime non di gioia ma di dolore, per la morte del piccolo Brian Summer diciassette ore prima. Erano le sei del mattino, un mattino preceduto da una giornata e una nottata incredibilmente stressanti, durante le quali Sarah aveva assistito a due normali nascite vaginali e adesso a questo cesareo con presentazione podalica. Ma poco dopo l'una del giorno precedente, la gioia di avere avuto un ruolo importante nel rallentare l'emorragia in Lisa Summer era stata offuscata dall'infinita tristezza di assistere all'estrazione di suo figlio morto prima ancora che avessero raggiunto la sala parto. Come il bambino dell'altra paziente affetta dalla DIC, Brian Summer era deceduto a causa di una massiccia emorragia all'interno della placenta. Se l'avessero fatto nascere mezz'ora prima, avrebbe potuto sopravvivere. La penosa scelta, però, era stata effettuata per incanalare tutti gli sforzi al fine di salvare Lisa, che quasi sicuramente sarebbe morta dissanguata se la procedura fosse stata ritardata. Con un inconsueto senso di distacco e di distrazione, Sarah osservò le sue mani estrarre la placenta della giovane donna e cominciare a suturare le incisioni che aveva fatto. La decisione di tentare di salvare la vita di Lisa era stata una decisione giusta. Ciononostante, accettarne le conseguenze non si stava rivelando facile. Sarah si stava preparando a dare i punti di sutura quando la raggiunse l'infermiera di Chirurgia. «Sarah, il dottor Truscott voleva che le dicessi che hanno ricondotto Lisa Summer in sala operatoria», sussurrò. Oh, no, pensò lei. «Sa che cosa sta accadendo?» «Be', a quanto pare gli anticoagulanti e l'eparina non hanno liberato il braccio dai blocchi. Non sono sicura di quello che intende fare ora il dottor Truscott.» «Grazie, Win. Vengo appena posso. Kathy, è quasi finito. Il pediatra mi
ha appena fatto cenno che la bambina è perfetta. Gliela porterà fra un momento.» «Grazie, dottoressa. Oh, grazie mille.» Sarah fissò una fasciatura sopra l'incisione e si tolse i guanti mentre si allontanava dal tavolo. «Siamo tutti molto felici per lei», disse. Lasciò la sala parto e si diresse verso il reparto di Chirurgia. Per due volte durante il breve percorso fu fermata, prima da un'infermiera, poi da un medico interno, che si congratularono per il lavoro svolto su Lisa. «Ne parla tutto l'ospedale», disse il medico. «Ha realmente aperto molti occhi sulla potenzialità delle cure alternative. A un tratto, per la prima volta, gli altri medici interni si informano sui miei studi, sul genere di cose che studiamo noi e non studiano gli studenti delle università di medicina tradizionale.» Le parole dell'uomo avrebbero dovuto avere su di lei un effetto tonificante, ma quel giorno non alleviarono molto il senso d'impotenza di Sarah. Nonostante il suo training e le attrezzature che valevano centinaia di migliaia di dollari, non erano riusciti a salvare il figlio di Lisa Summer. Non era la prima volta che si doleva per la perdita di bambini nati morti. Che la gente morisse era il principio basilare della medicina e, a un livello puramente intellettuale, era una verità che comprendeva. Ma, indipendentemente dalla ragione, la sua reazione emotiva a questa perdita sembrava impenetrabile alla logica o alla conoscenza. Ricordò il suo vecchio ambulatorio al secondo piano dell'Ettinger Institute. Neanche allora se la prendeva meno di quanto se la prendesse ora per i pazienti. Ma quel mondo sereno e privo di complicazioni sembrava lontano anni luce. La differenza, pura e semplice, consisteva nel grado di tecnologia e di scienza che dominava la medicina occidentale. A volte, e questa era una di quelle, le sembrava di aver smesso di volare con un aliante per pilotare un jet. La ragione per cui aveva lasciato l'Ettinger Institute dipendeva dall'inflessibilità e dal comportamento intollerabile di Peter Ettinger. Ma la sua decisione di conseguire una laurea in Medicina aveva radici più profonde. Era convinta che quando fosse diventata medico, molte limitazioni e risultanti frustrazioni della sua vita professionale sarebbero sparite. Invece, malgrado le attrezzature e l'abilità tecnica acquisita di recente, non era riuscita a salvare quel bambino.
C'erano quattro donne nel personale chirurgico dell'ospedale e tre chirurghi interni erano donne. Ciononostante, c'era solo uno spogliatoio, ed era riservato agli uomini. Sarah si tolse gli indumenti marroni nello spogliatoio delle infermiere, indossò quelli verde mare, e sostituì copriscarpe, cuffietta e mascherina. Erano trascorse dodici ore da quando aveva osservato Andrew Truscott sondare e irrigare le arterie principali che alimentavano il braccio destro di Lisa. Il loro scopo era di rimuovere più grumi possibili e sperare che l'anticoagulante facesse il resto. Ora, evidentemente, avevano bisogno di fare dell'altro, forse una dissezione dei vasi bloccati. Sarah entrò in sala operatoria. Lisa, già lì per la terza volta in ventiquattr'ore, era anestetizzata e intubata. Il suo viso era tranquillo, ma in modo ingannevole. Un basso drappeggio attraverso il collo separava la sua testa e l'anestesista dal team chirurgico. Dall'altra parte del drappeggio, Andrew e un altro chirurgo, entrambi sullo stesso lato del tavolo, erano concentrati sul braccio di Lisa. Per un momento Sarah pensò che il secondo chirurgo fosse lo stesso chirurgo vascolare che aveva assistito Andrew nel precedente esperimento. Ma mentre avvicinava lo sgabello di metallo e vi saliva per vedere meglio, si rese conto che l'altro medico non era affatto un chirurgo vascolare. Era Ken Browne, il primario ortopedico. Fu solo allora che Sarah vide il braccio reciso e la mano rattrappita nel vassoio di metallo accanto all'infermiera e realizzò che Browne e Andrew non stavano effettuando nessuna delicata procedura vascolare. Stavano aggressivamente pareggiando quel che restava del radio e dell'ulna di Lisa, le ossa dell'avambraccio, in preparazione del completamento di un'amputazione al di sotto del gomito. Sarah sentì i muscoli afflosciarsi e, per un momento, pensò che per la prima volta in vita sua sarebbe svenuta. Oh, Gesù, no. Prima il bambino... adesso questo, era tutto ciò che riusciva a pensare. Andrew alzò lo sguardo e la vide. «Stai bene?» chiese. «Andrew, era un'artista. Una ceramista. Le mani erano... Ehi, senti, mi dispiace. È solo che ho pensato che se la sarebbe cavata.» «Se la caverà probabilmente... adesso», rispose Andrew un po' stancamente. «Anche a me dispiace di aver dovuto fare questo. Ma impedire la cancrena è impedire la cancrena. Non c'era alternativa.» «Capisco.» Ma anche mentre pronunciava le parole, Sarah sapeva che c'era assai po-
co di quanto era accaduto a Lisa Summer che riusciva a capire. 6 L'Unità chirurgica di rianimazione era un reparto di dodici letti con una copertura infermieristica di ventiquattr'ore. Raramente si svolgeva un intero turno senza almeno un paziente in crisi. E ciononostante, salvo rari momenti di estrema emergenza, l'atmosfera nel reparto era sommessa e tranquilla, mai silenziosa. L'apparecchiatura di monitoraggio, i sistemi di suzione e infusione e i respiratori ronzavano costantemente. Era lì, ancor più che nelle sale operatorie, che venivano intraprese le vere battaglie fra la vita e la morte. Sarah preferiva la sala operatoria alla routine quotidiana di cure ai pazienti gravi dell'unità. Ma le piaceva il cameratismo esistente con il personale del reparto. Alle sette e mezzo del mattino del 2 luglio, sei letti erano occupati. Tutti e dodici si sarebbero riempiti quando l'elenco di interventi previsti per la mattinata fosse stato completato. Con gli occhi impastati per il sonno, Sarah sedeva sul bordo del letto numero 8 aspettando che Lisa Summer venisse portata su dalla sala postoperatoria. Le notizie riguardo l'operazione, eccetto quelle ovvie, erano eccellenti. Lisa aveva superato l'intervento senza eccessiva perdita di sangue. Il suo caso di DIC si stava infatti rapidamente risolvendo e la circolazione ai reni e alle gambe, oltre che al braccio che le restava, non sembrava adesso impedita. Era come se, stranamente, il cesareo avesse risolto la crisi ematica. La vita di Lisa era stata salvata. Il suo ventre, i suoi sensi e il suo sistema nervoso erano intatti, e poteva camminare. Con il tempo avrebbe imparato a usare meglio la mano sinistra e a controllare la protesi che sarebbe stata applicata alla destra. Avrebbe magari trovato persino un modo per continuare a esprimersi come artista. Avrebbe cominciato ad affrontare la sua sofferenza, e un giorno, forse, avrebbe intrapreso una nuova maternità. Da un punto di vista puramente clinico, Sarah sapeva che tutte queste cose erano vere. Tuttavia, non riusciva a scrollarsi di dosso la realtà che Lisa era sua paziente, e che meno di ventiquattr'ore prima si stava preparando felicemente al parto. «Si sente bene?» Sarah stava passando in rassegna un numero già consistente di test di laboratorio effettuati su Lisa, cercando un indizio, uno qualsiasi, su ciò che
aveva potuto causare la catastrofe. Trasalendo, alzò lo sguardo e vide Alma Young, un'esperta infermiera del reparto, in piedi in fondo al letto. «Oh, sì, sto bene, grazie. Sono solo un po' stanca.» «È comprensibile. Be', la sua paziente sarà qui a minuti. Ha appena chiamato la sala postoperatoria. A quanto pare si sta riprendendo ragionevolmente bene, tutto sommato.» «Magnifico», commentò Sarah con poco entusiasmo. «Continuo a fissare questi numeri, sperando che qualcosa che mi è sfuggito emerga all'improvviso dalla pagina e spieghi quello che sta succedendo.» «Forse dovrebbe chiudere gli occhi e dormire per qualche minuto.» «Temo che, se lo facessi, non riuscirei più a riaprirli.» «Vede, l'intero ospedale sta parlando di quello che ha fatto ieri. Le infermiere del pronto soccorso dicono che la ragazza sarebbe morta se lei non fosse intervenuta e non avesse tenuto testa all'ematologo.» «E allora perché non mi sento meglio, Alma?» La donna più anziana sedette in fondo al letto. «Perché è un buon dottore», rispose. «Ecco perché. È sensibile. Le importa della sofferenza e del dolore della gente, le importa sul serio, voglio dire.» «Grazie.» «Ma posso aggiungere una cosa?» «Certamente.» «A volte credo che le importi troppo. Prende tutto troppo personalmente. Rimanere qui a riflettere su quegli esami di laboratorio quando potrebbe riposare ne è un esempio. Ho visto ogni genere di medici interni, e anche infermiere qui dentro. Una cosa che ho notato, e che hanno in comune quelli realmente bravi, è questo piccolo incantesimo che sanno realizzare. Quest'incantesimo che permette loro di diventare assolutamente obiettivi quando hanno bisogno di esserlo. Lei ha tutto ciò che ci vuole per essere uno di quelli veramente bravi, ma credo che a volte si lasci sopraffare troppo dalle circostanze.» «È questo che vede in me?» «Sì. E anche altre infermiere. Il nostro sport preferito è analizzare i medici interni, vede. Lei piace a tutti, Sarah, e siamo felici di lavorare con lei. Ma siamo anche preoccupate. È come se pensasse sempre che c'è qualcosa in più che dovrebbe fare, invece di accettare che può fare solo quello che può.» Le osservazioni dell'infermiera produssero una sequenza di immagini ed
emozioni, perlopiù spiacevoli, e tutte accentrate su Peter Ettinger. «Alma», disse Sarah. «Non sono mai stata molto brava ad accettare i miei limiti. Se non pensassi, infatti, che c'è sempre qualcosa in più che posso fare per un paziente, molto probabilmente non sarei mai diventata medico.» «Che cosa intende dire?» Sarah rise a disagio. «Ha qualche ora?» C'era preoccupazione negli occhi di Alma Young. «A dire il vero», le rispose, «sono completamente libera finché non arriva la nostra amica Lisa.» Sarah rifletté per un momento prima di rispondere. Era sempre stata una persona riservata. E la suddivisione in compartimenti stagni della sua vita, la scuola superiore nella parte settentrionale dello stato di New York, il college in un sobborgo di Boston, poi i Peace Corps in Thailandia, Peter e l'Ettinger Institute, la scuola medica in Italia, e adesso quell'internato avevano facilitato la sua riservatezza. In ognuno di quei luoghi aveva cominciato a crearsi delle amicizie, ma nessuna, a eccezione di quella con il suo mentore, il dottor Louis Han, era stata abbastanza forte da sopravvivere al successivo spostamento. E a poco a poco cominciò a scoprire che quando le chiedevano di parlare di sé, anche quando si sentiva di farlo, non lo faceva. O non poteva. Adesso, una donna con la quale aveva lavorato per più di due anni sembrava interessata a sapere chi era e come reagiva a quel difficile caso. Forse era ora che si aprisse un po'. «Qualche anno fa», disse infine, «dieci, a dire il vero, vivevo sulle montagne della Thailandia settentrionale, occupandomi di un ambulatorio mentre insegnavo e studiavo agopuntura ed erboristeria. Un uomo più vecchio di me divenne mio amico e mia guida. Era un po' come il padre che non avevo mai avuto. Be', morì abbastanza repentinamente. E poco dopo, un uomo molto simile a lui, anche se assai più giovane, passò dal nostro villaggio. Era brillante, affascinante e interessato alle stesse cose a cui ero interessata io. All'epoca godeva già di fama mondiale in molte aree della medicina alternativa. Be', nel giro di un mese ero tornata negli Stati Uniti a vivere con lui e sua figlia, e a lavorare nel suo istituto...» Sarah era incerta se fare il nome di Peter, ma decise che non c'era ragione di farlo. «Per quasi tre anni ho vissuto con lui e la figlia minorenne che aveva portato con sé dal Mali e poi adottato. Durante quei tre anni fui per lei come una madre. Benché lavorassimo insieme nel suo istituto, per quel-
lo che lo riguardava, io lavoravo per lui e non con lui. Quando avvenne quanto sto per raccontarle, mi aveva in realtà chiesto di sposarlo. Ma il suo lato oscuro, un enorme, insaziabile ego e un'inflessibilità che mi spaventava, avevano cominciato ad affiorare sempre di più nella nostra vita.» «Continui, per favore», disse Alma. «Aveva un paziente, uno scultore, che aveva letteralmente guarito da un caso di artrite reumatologica che i suoi medici avevano definito incurabile.» «E come fece?» «Oh, cambiamenti dietetici ed erbe, più alcune delle stesse tecniche che ho usato io ieri con Lisa. Da storpio, l'uomo divenne un giocatore di tennis.» «Sorprendente.» «Non per noi. La medicina alternativa cura molti, molti pazienti ai quali i medici occidentali hanno rinunciato. In ogni modo, il mio amico si allontanò per un mese e mi affidò i suoi pazienti. Curava le emicranie dello scultore con erbe, agopuntura e chiropratica. Vidi l'uomo diverse volte e ogni volta ero più preoccupata per lui. Diceva che i suoi mal di testa erano migliorati, o almeno non erano peggiorati, ma a me sembrava che camminasse in modo strano. E, che ci creda o no, anche il suo sorriso sembrava decentrato.» «Un bel guaio.» «È quanto pensai anch'io. Chiamai il White Memorial e parlai con un neurologo che venne a vederlo alle undici del mattino dopo. Il mio amico avrebbe dovuto tornare dal Nepal quella sera, ma decisi che il suo paziente aveva bisogno di essere comunque visto. Così presi i debiti accordi. Può sembrare una decisione facile, Alma, ma non lo fu. C'era di mezzo la questione di spiegare perché sarei andata contro tutto ciò in cui credeva il mio amico...» Sarah non riusciva a ricordare l'ultima volta che aveva diviso con qualcuno quell'orribile, ultimo giorno con Peter. Ma Alma Young era una così buona ascoltatrice che la storia uscì con sorprendente facilità. E sebbene Sarah la narrasse piuttosto rapidamente, i pezzi a cui aveva dato voce erano solo frammenti di quello che stava ricordando... La notte che si tramutò poi in tanto tormento era stata in realtà assolutamente magica. Peter ascoltò tranquillamente e attentamente il suo racconto delle condizioni dello scultore, Henry McAllister. La reazione di Peter, la reazione che aveva così temuto fu essenzialmente: «Ehi, senti. Ti ho affi-
dato l'istituto perché sei una persona responsabile. Hai visto quel che hai visto, hai preso una decisione e l'hai messa in pratica. Che cosa può esserci di sbagliato in tutto questo?» Più tardi quella sera fecero l'amore; amore appassionato, ardente come era stato all'inizio. Peter si era ammorbidito, grazie a lei e alla loro effervescente relazione. Sapeva che non era facile per lui. Credeva onestamente che, tutto sommato, la tradizionale medicina occidentale si fosse così smarrita nella scienza, nella farmacologia competitiva, nella tecnologia disumanizzata che ora faceva più male che bene. Infatti, sopra la sua scrivania c'era una targa con inciso IATROGENO: DI MALATTIA O FERITA CAUSATA DALLE PAROLE O LE AZIONI DI UN MEDICO. Adesso aveva l'opportunità di modificare la sua opinione, di spingerle di nuovo in gola i suoi famosi punti di vista sui medici e i loro metodi. Ma non lo fece. Come Peter, comprendeva il miracoloso potenziale esistente nel rapporto guaritore-paziente. Aveva grande fiducia nel potere dei metodi olistici in fatto di diagnosi e cure. Ma, contrariamente a lui, non aveva mai visto la medicina tradizionale come un'ultima spiaggia o, meglio, come la negazione di essa. Peter aveva quarant'anni, una decina più di lei. La differenza di età, unita al suo fisico imponente - era alto quasi due metri - al suo immenso spirito di iniziativa e ai successi materiali, non l'aiutavano a mettere in evidenza i propri. Ma alla fine Peter aveva scelto di ascoltare invece di reagire, di capire che il suo modo di affrontare le cose poteva non essere l'unico. Si presero una mattinata di vacanza e la trascorsero in gran parte a fare l'amore. Quando Sarah arrivò all'istituto per affrontare un pomeriggio di appuntamenti, si sentiva più convinta e positiva rispetto alla sua vita di quanto non si fosse sentita da tempo. Alle tre del pomeriggio, però, cominciò a chiedersi perché non avesse saputo più niente del neurologo del White Memorial. Il medico aveva promesso di chiamarla in studio non appena avesse avuto qualcosa da riferirle. Tre e mezzo... Quattro... Quattro e mezzo... Controllò più volte l'ora mentre si occupava dei clienti. Infine, quando anche l'ultimo se ne fu andato, chiamò il White Memorial. «Signorina Baldwin, credevo sapesse», disse il neurologo. «Sapessi che cosa?» Si sentì improvvisamente stringere la gola.
«Quando sono arrivato in ufficio, stamattina, ho trovato un messaggio del signor McAllister sulla mia segreteria telefonica. Ha chiamato verso le dieci di ieri sera per dire che aveva parlato con il suo consulente medico e annullava l'appuntamento con me. Pensavo che il consulente medico fosse lei.» «No», rispose. «No, temo che alludesse a qualcun altro. Grazie, dottore.» «Be', mi dispiace di non essere stato più...» Lei stava già abbassando il ricevitore. Percorse il corridoio fino allo studio di Peter, che stava appoggiato allo schienale della poltrona, i piedi sull'angolo della sua scrivania. «Peter, perché ieri sera non mi hai detto che avevi chiamato Henry McAllister?» «Non credevo fosse importante.» «Importante? Mi sono probabilmente fatta venire un'ulcera a furia di chiedermi se chiamarlo o no.» «Be', adesso non devi più preoccuparti.» Tolse i piedi dalla scrivania. «Ma hai detto che avevo fatto la cosa giusta.» «Ed è così. La cosa giusta per te. Ma non necessariamente la cosa giusta per Henry.» «Ma come fai a saperlo? Come hai potuto dirgli di annullare quell'appuntamento senza neanche averlo visto?» «Innanzitutto, non credo che esista un medico che possa fare altrettanto bene o anche meglio quello che fa la nostra gente. Lo sai. E, in secondo luogo, non gli ho detto io di annullare l'appuntamento. Gli ho detto che doveva usare il suo buon senso e che, indipendentemente da quello che avesse deciso, sarei stato disposto a vederlo oggi. Bastava che chiamasse e fissasse un'ora.» «E ha chiamato?» Sentiva che cominciavano a batterle le tempie. Le bruciavano le guance. Avrebbe voluto saltare sulla sua scrivania e cancellare a furia di pugni tanta sicurezza dalla sua faccia. «Ebbene, l'ha fatto?» L'espressione di Peter si indurì. «Credo. Con tutta l'eccitazione che regnava qui, oggi, credo di aver dimenticato di controllare.» Schiacciò il tasto dei messaggi e poi chiamò la centralinista. «Pare che non abbia sentito il bisogno di chiamare», disse riagganciando. «Peter, sei veramente un figlio di puttana. Lo sai, vero?» Si girò e si precipitò nel suo ufficio. «Ehi, vacci piano, bambina», le gridò dietro. «Vacci piano.»
La cartella clinica di Henry McAllister era sulla sua scrivania. Compose il suo numero e lasciò squillare il telefono a lungo. Poi fece il 911. Se si fosse sbagliata, avrebbe fatto la figura della cretina. Ma non poteva lasciar cadere la cosa. Per la prima volta in tre anni stava reagendo come Sarah Baldwin, e non come una parassita di Peter Ettinger. Peter stava uscendo dal suo studio quando lei gli passò accanto di corsa, scese le scale e uscì dall'istituto. Lui la chiamò, ma lei non si degnò neppure di girarsi. McAllister abitava in un attico di South End a circa dieci isolati da lì. Per un momento pensò di chiamare un taxi. Poi digrignò i denti, serrò i pugni e corse via... «Dunque?» chiese Alma Young. «Scusi?» «Che ne fu dunque dello scultore? Non mi può lasciare così in sospeso!» «Oh, mi dispiace», disse Sarah, incerta su quanti dei suoi pensieri avesse in realtà condiviso con lei. «Be', in quella particolare situazione, se avessi accettato che quello che avevo fatto era tutto ciò che potevo fare, l'uomo sarebbe probabilmente morto. La polizia finì con l'irrompere nell'appartamento. Lo trovammo a terra privo di sensi. Due ore dopo era in una sala operatoria del White Memorial. Aveva un tumore maligno sul lato destro del cervello. E come qualche volta accade, si era formata un'emorragia nel tumore. La pressione all'interno del cranio era quindi in aumento.» «Grazie a Dio, l'avete raggiunto in tempo», ansimò Alma, sollevata al pensiero che l'uomo se la fosse cavata. Sarah sorrise alla reazione dell'infermiera. «Mi fu concesso di entrare in sala operatoria per vedergli asportare il tumore. Era realmente incredibile. Fu allora che decisi di diventare chirurgo. Alla fine optai per Ostetricia e ginecologia.» «E l'altro uomo? Il suo... uhm... amico?» Sarah si strinse nelle spalle. «Me ne andai il giorno dopo, e da allora non ci siamo più parlati.» «Una grande storia.» «È parte della ragione per la quale non sono mai disposta ad accettare di aver fatto tutto il possibile per un paziente.» «Forse. Ma ripeto che si sentirebbe meglio se ammettesse di essere soltanto un essere umano. I medici oggi hanno notevoli capacità, ma non sono Dio in persona. Non lo sono mai stati e non lo saranno mai. Se lei non riesce ad accettare il fatto che malgrado i suoi sforzi alcune delle sue pazienti
perderanno il figlio, il braccio, o magari entrambi, prima o poi questo mestiere la divorerà viva.» «Capisco.» «Davvero?» «Sì. Sì, capisco.» Alma Young le si avvicinò e l'abbracciò. «Nel qual caso, dottoressa, non voglio vederla tormentarsi perché una circostanza avversa, con la quale lei non aveva niente a che fare, si è portata via il figlio e il braccio di quella ragazza. Voglio sentirla vantarsi per quello che ha contribuito a fare ieri per salvarle la vita. È stato un grosso colpo per quest'ospedale. E chiunque abbia a cuore l'MCB, esulterà con lei. Capito?» Sarah cercò di sorridere. Le porte del reparto si aprirono e Lisa fu spinta dentro da un inserviente e un'infermiera. Andrew Truscott li seguì qualche attimo dopo. La notte che aveva trascorso in sala operatoria era visibile nelle piccole ombre intorno ai suoi occhi, ma nessuno avrebbe pensato che fosse già alla sua seconda giornata priva di sonno. «Come sta?» chiese Sarah. «Quelle amputazioni non sono il massimo dell'eleganza. Mi dispiace di non aver potuto fare diversamente.» «Neanch'io ho potuto. Ma sono sicura che d'ora in poi andrà tutto bene.» «Be', perché no? L'hai curata con quei tuoi begli aghetti.» «Fesserie.» Come accadeva spesso, Sarah non era sicura se il tono sarcastico di Andrew riflettesse la sua reale opinione. «Sarah, dottor Truscott», chiamò Alma Young, «uno di voi potrebbe venire qui ad aiutarci a spostare la ragazza?» «Arrivo subito», rispose Sarah. «Splendido, cara», disse Truscott, «perché mi aspetta un consulto. Che cosa ne dici di prendere un caffè insieme fra un'ora? Ho alcune domande da rivolgerti sul tuo magico spettacolo di ieri. Alma, gli ordini postoperatori per la nostra giovane paziente sono infilati sotto il materasso. La muscolosa dottoressa qui presente verrà subito a darle una mano.» Con l'aiuto di Sarah, Lisa fu trasferita dalla barella della sala postoperatoria al suo letto. Poi Sarah si fece da parte mentre Alma e un'altra infermiera attaccavano rapidamente pompa per infusione, monitor cardiaco e catetere urinario. «È tutta sua», disse Alma allontanandosi. «Sarà piuttosto dura per lei, senza denaro e sostegno familiare.»
«Mi rivolgerò ai Servizi sociali appena possibile.» «Dovrebbe anche pensare di farla vedere da uno psicologo. Non ha più detto una parola a nessuno da quando ha saputo del bambino.» «Lo so. Grazie, Alma. È un eccellente suggerimento.» Si avvicinò al letto dove Lisa giaceva immobile, fissando il soffitto. Le sue labbra, ancora macchiate da alcuni ostinati puntini di sangue rappreso, erano screpolate e gonfie. Il suo braccio destro, ridotto e fasciato, spuntava da sotto il lenzuolo inamidato. Mentre parlava, Sarah esaminò l'area del cesareo. Lisa non reagì mai. «Salve, Lisa. Benvenuta in Rianimazione. Soffri molto? Mi raccomando, se soffri dillo alle infermiere. Non sei obbligata a parlare, né con me né con nessun altro, finché non ti senti pronta a farlo. Dirò solo poche cose, poi me ne andrò. I problemi emorragici e di coagulazione sembrano finiti. Questo significa non più trasfusioni...» Sarah cercò una scintilla di risposta nei suoi occhi, ma non ne vide. «Lisa», continuò infine, «sai che ci sentiamo tutti malissimo per quanto è successo a te e...» fece un profondo sospiro, «...e a Brian. Faremo il possibile per aiutarti ad affrontare tutto questo, e a scoprire perché sia accaduto. Ti prego, cerca di essere forte...» Sarah attese mezzo minuto per una risposta. Poi le sfiorò la guancia. «Torno a controllarti più tardi.» Si girò, pensando che da qualche parte doveva esserci una spiegazione per tutto ciò. Due casi simili nello stesso ospedale a pochi mesi di distanza. Da qualche parte c'era una risposta. E si ripromise di compiere ogni tentativo per trovarla. Si girò a guardare la giovane artista che giaceva nel letto e cercò, con poco successo, d'immaginare come si potesse sopportare una simile inspiegabile tragedia. Poi uscì dal reparto. Le restavano quarantacinque minuti prima dell'appuntamento con Andrew, e aveva decine di pazienti da vedere nei suoi giri mattutini. «Dove stai andando?» «Fuori.» «'Fuori' non è mai stata una risposta accettabile a questa domanda, e non è una risposta accettabile nemmeno stasera.» «Papà, ho diciotto anni. Le altre ragazze non...» «Tu non sei come le altre ragazze. Non sei affatto come le altre ragazze.» «Ma...»
«Sei una diciottenne che gioca a polo, va in vacanza in Europa, frequenterà Harvard in autunno e soprattutto disporrà di un fondo fiduciario di venti milioni di dollari quando compirà venticinque anni. Questo non è essere come le altre ragazze, e non lo sarà mai. Ebbene, chi dovevi vedere stasera?» «Papà, ti prego...» «Chi? Quella palla di grasso di Chuck che credi ti ami per il tuo spirito e la tua anima? È stato eletto il più bel ragazzo del liceo, sì aspetta di sfondare come modello e non pensa neppure di frequentare il college. Ti sei mai chiesta perché un ragazzo simile sia rimasto all'improvviso folgorato da una giovane della Stanhope Academy che non solo non ha assolutamente niente in comune con lui, ma ha venti chili di troppo da smaltire?» «Papà, smettila. Ti prego, smettila.» «Non smetterò. Queste sono cose che devi sentire. Cose che devi conoscere. Il tuo meraviglioso Chuckie è una merda. Trascorre quasi ogni sera, quando tu non sgattaioli fuori con lui, in compagnia di una tizia di nome Marcie Kunkle. Le fotografie della coppia felice che ha scattato il mio uomo sono di sopra sulla mia scrivania. Vuoi vederle?» «L'hai fatto seguire da qualcuno?» «Ma certo. Sono tuo padre. È compito mio proteggerti finché non avrai abbastanza buon senso ed esperienza da saperti proteggere da sola.» «Come hai potuto?» «Tesoro, ascolta. Sai che ti voglio bene. A quell'uomo interessa una cosa sola e una soltanto: il denaro. Questo è il nome del gioco. E prima lo conoscerai, meglio sarà. Tu sei quello che sei. E l'unico modo che hai per assicurarti che un uomo ti voglia veramente bene è che lui abbia più denaro di te.» «Bastardo.» «Non osare mai più chiamarmi così!» «Bastardo! Maledetto bastardo! Mi rovini sempre tutto. Non toccarmi... Toccami, e giuro che non mi rivedrai più.» «Va' in camera tua.» «Va' all'inferno.» «Torna qui. Subito.» «Va' all'inferno... Lasciami andare! Ti ho detto di non toccarmi! Dannazione, lasciami andare! Ti odio! Ti odio!» «Lisa, svegliati. Sono l'infermiera. Lisa, va tutto bene. Smettila di grida-
re... Ecco. Così va meglio. Molto meglio.» La donna sbarrò gli occhi. Era tutto confuso. A poco a poco riuscì a mettere a fuoco il viso preoccupato dell'infermiera. «Avevi un incubo», disse Alma Young. «A volte l'anestesia fa quest'effetto.» Lisa distolse lo sguardo e fissò di nuovo il soffitto. «Posso portarti qualcosa? Qualche cubetto di ghiaccio? Qualcosa per il dolore?... Va bene. Sarò qui, se avrai bisogno di me.» Alma Young chiuse parzialmente le tende a lato del letto e tornò al banco delle infermiere. Lisa cominciò a piangere sommessamente. «Papà», disse. «Oh, papà.» 7 Sarah prese una brioche e un caffè e li portò nell'angolo della grande caffetteria riservata ai medici. Andrew era già in ritardo di cinque minuti, ma Sarah aveva imparato da tempo che la maggior parte dei chirurghi arriva in ritardo, ammesso che arrivino. Era riuscita a vedere tre dei suoi pazienti, uno dei quali aveva già sentito parlare della sua performance del giorno prima. E come aveva predetto Alma Young, il suo sensazionale uso della terapia non tradizionale pareva essere diventato l'argomento del giorno. Nei pochi minuti che aveva trascorso al piano di Ostetricia e ginecologia, era stata chiamata dal direttore didattico, che le aveva chiesto di illustrare l'argomento, e dalla segretaria di Glenn Paris, che le aveva chiesto di passare dal suo ufficio nel tardo pomeriggio. Numerose infermiere le strinsero la mano e il primario interno del servizio di Ostetricia e ginecologia la invitò a colazione per poter apprendere dalla fonte diretta i particolari del «salvataggio». Due internisti seduti nella caffetteria raccolsero le loro cose e si alzarono. Uno di loro, un noto endocrinologo di nome Wittenberg, si avvicinò e le strinse la mano. «George Wittenberg», disse. «Lo so. Ci siamo conosciuti al ricevimento di Glenn Paris, l'anno scorso. Metabolismo del calcio e malattie paratiroidee, vero?» «Ha un'eccellente memoria.» «Ho letto alcuni dei suoi scritti per un progetto di ricerca quando frequentavo la facoltà di Medicina. Interessanti.»
«Oh, grazie. Sono venuto a congratularmi con lei, ma accetto lo stesso il complimento. Da quello che ho saputo, ieri ha compiuto un miracolo.» «Diverse persone si stavano occupando di Lisa. Quello che ho fatto io è solo una delle ragioni per le quali si è salvata.» «Ben detto», osservò Wittenberg. «Ma se quello che stanno trasmettendo i tamburi dell'ospedale è vero, lei è stata una ragione molto significativa. La storia è finita sia sul Globe sia sull'Herald. E chiunque abbia fatto pervenire tutte quelle notizie negative sull'MCB ad Axel Devlin, questa volta ha preso un granchio. Si dà il caso che il giornalista abbia scritto un altro dei suoi articoli mordaci sull'MCB. Ma a pagina tre c'è uno splendido pezzo su come la medicina orientale incontri quella occidentale per salvare una vita al Medical Center di Boston, e Devlin ci fa la figura del cretino per non aver almeno saputo dell'avvenimento. Ha visto il giornale?» «No. No, non l'ho visto.» «Ecco», disse Wittenberg, porgendole la sua copia. «Io l'ho già letto, dunque può tenerlo.» «Grazie.» «Si figuri. Vede, non sono esattamente sulla lunghezza d'onda di Devlin, ma sono anche uno di quelli che non ha visto di buon occhio essere associato a un posto che ha alle sue dipendenze un medico indiano ayurvedico e un chiropratico che lavora nella clinica ortopedica. Ma dopo quello che lei ha fatto ieri, ho deciso di schiudere maggiormente la mente e saperne di più sulla medicina alternativa.» Le strinse con calore la mano e si allontanò. Sarah aprì il giornale sul tavolo e diede una scorsa al sensazionale ma ragionevolmente reale racconto a pagina tre. Un articolo a favore dell'MCB sull'Herald: forse c'era stato un miracolo, dopotutto. Poi aprì il giornale alla rubrica di Axel Devlin. PRENDERE O LASCIARE di Axel Devlin 2 luglio ...E infine, eccovi l'Ascia di Axel, assente da questa rubrica per qualche giorno, ma sempre pronto a vibrare un colpo contro coloro che vorrebbero menarci per il naso. Oggi, la vecchia lama sibila attraverso l'aria e affonda di nuovo nel vostro e mio ospedale preferito, il Medical Center di Boston. Il presiden-
te dell'ospedale, Glenn Paris, ha presentato ieri la sua relazione sull'ospedale alla riunione annuale per le promozioni dei medici interni. È in quest'occasione che i nuovi interni iniziano il loro tirocinio e i vecchi muovono un passo avanti. E benché il capo dell'ospedale non abbia apportato alcuna innovazione spettacolare (o imbarazzante), come il suo concorso per implantologia toracica o l'ambulatorio gratuito di cristallografia, si è impegnato affinché nulla impedisca al suo ospedale di assurgere ai massimi livelli accademici. «E», ha sottolineato, «questo ve lo garantisco io!» Ebbene, in quel momento, proprio in quel momento, è mancata l'elettricità e tutte le luci si sono spente nell'intero ospedale. Hai capito il messaggio, Glenn? Il tuo approccio avrebbe potuto funzionare a San Diego. Ma qui a Boston noi vogliamo che i nostri medici facciano le cose seguendo le corrette procedure e non seguendo l'allineamento dei pianeti. «Non ci credo.» «Non credi a che cosa?» Andrew Truscott fece scivolare un piatto di acquose uova strapazzate e sospette patate arrosto attraverso il tavolo e sedette diagonalmente rispetto a Sarah. «Questa, questa perfida, disonesta... balla.» «Mi sembra che tu abbia davanti una copia dell'Herald.» «Perché Devlin odia tanto questo posto?» «Non lo sai?» «Credo di no.» «Cinque anni fa, lo so perché capitò quando avevo appena cominciato qui, sua moglie ebbe bisogno di un intervento alla cistifellea. Devlin voleva che andasse al White Memorial, ma a lei piaceva Bill Gardner e la confortevole atmosfera che si era creata qui. Due giorni dopo Gardner effettuò l'intervento, lei ebbe un grosso embolo polmonare e ci lasciò la pelle.» «È terribile, ma sarebbe potuto capitare a chiunque in qualunque ospedale.» «A quanto pare è quello che gli avvocati hanno detto a Devlin. Così da allora ha cercato di vendicarsi da sé.» «Che cosa triste.» «Forse no. Per alcuni le vendette di un tipo o dell'altro sono terapeutiche. Non impazzire: vendicati. Prendersela con l'MCB come fa lui lo aiuta probabilmente a vivere.»
«E come pensi che ottenga le informazioni? Leggendo quest'articolo si ha l'impressione che sedesse in quell'anfiteatro quando si sono spente le luci.» «Sarah, mi auguro che non sia uno choc eccessivo per te, ma non tutti sono così entusiasti di questo posto come lo sei tu. Ma basta parlare di Devlin. Ho sete di conoscenza.» «Conoscenza su che cosa?» «Non essere schiva, adesso. Sei il medico del momento, e voglio sapere esattamente quello che hai fatto ieri.» Sarah sorrise. «Esattamente quello che hai visto», rispose. «L'unica cosa che mi è venuta in mente per fermare l'emorragia di Lisa è stato rallentare il battito cardiaco e la velocità circolatoria mentre lei stava mentalmente facendo quello che poteva per fermare le zone emorragiche nel suo corpo.» «Scusa se te lo dico, ma il fatto che Lisa Summer potesse fermare mentalmente il suo pompaggio arterioso è un po' dura da digerire per un tipo come me.» «Solo che l'hai vista farlo, Andrew. Senti, un buon ipnotizzatore può dire a un soggetto ipnotizzato che gli verrà toccato il braccio da un ferro incandescente. E quando invece il soggetto viene toccato da una gomma da matita, ecco che appare un livido e poi una bolla. Come lo spieghi? Sai, il vero problema è che ai medici occidentali viene insegnato come funziona il sistema nervoso autonomo da fisiologi e anatomisti. Se venisse loro insegnato da yoghi e agopuntori, le nostre opinioni su ciò che gli umani possono e non possono controllare nei loro corpi sarebbero molto diverse.» «Credi nei tuoi limiti e diventano tuoi, eh? Be', sono certamente colpito. Forse potresti chiedere alla giovane signorina Summer di guardare dentro il suo corpo e dirci esattamente che diavolo è successo, innanzitutto come mai si è cacciata in questo guaio. Sa di non essere la prima?» «Non credo.» «Ebbene, dovrebbe. Forse se sapesse com'è stata fortunata a sopravvivere a tutto questo si riprenderebbe più in fretta.» «Ha tutto il tempo per riprendersi. Ha appena perso un figlio e un braccio. Andrew, hai idea di quello che sta succedendo? Hai avuto l'altra ragazza come paziente?» «No. E tu?» «Non ho alcun indizio riguardo quello che sta succedendo, ed ero in vacanza quando l'altra donna è stata ricoverata ed è morta. Ma l'ho vista in
ambulatorio.» «E?» «Ed era una giovane donna sana e con una gravidanza priva di complicazioni. Proprio come Lisa. Le avevo prescritto un integratore vegetale, come sono solita fare, e le ho augurato un buon parto. È l'unica volta che l'ho vista.» «Un integratore vegetale?» «Sì, a quasi tutte le donne incinte vengono prescritte vitamine prenatali dai loro dottori. Nel nostro ambulatorio di Ostetricia e ginecologia, è una prassi normale. Ebbene, nei villaggi di montagna in Thailandia, dove ho lavorato, le donne prendevano tutte degli integratori prenatali, una combinazione di radici ed erbe, sminuzzate e bevute sotto forma di tisana, due volte la settimana. L'unico studio fatto su queste donne mostrava peso e sopravvivenza più elevata dei neonati rispetto alle donne che avevano partorito in cliniche universitarie di Chiang Mai. E credimi, la nutrizione dei villaggi Meo non era molto buona, e l'igiene persino peggiore. Ho effettuato questo studio con un medico dell'assistenza sanitaria pubblica e un erborista che mi ha insegnato molto di quello che so.» «Straordinario.» «Lo era, in realtà.» Sarah era eccitata di avere la possibilità di parlare del suo studio thailandese e del suo lavoro con le tribù Meo e Akha. Era stato un periodo molto felice e tranquillo della sua vita. Avrebbe potuto essere ancora lì a studiare e a lavorare se non si fosse verificata la morte improvvisa di Louis Han e il successivo ingresso nella sua esistenza di Peter Ettinger. «Ti servi dunque di questo miscuglio d'erbe invece delle vitamine prenatali?» «Da quando ho trovato un erborista in città che era in grado di prepararle, è così. Offro a ogni donna che visito la possibilità di scegliere campioni di vitamine di cui disponiamo al momento, oppure tisane. Alcune scelgono le vitamine, altre le tisane. Ho tenuto degli appunti sul peso e la salute dei neonati, ma le cifre sono ancora troppo esigue per notare delle differenze.» «Affascinante. Di che genere di erbe e radici stiamo parlando?» «Ti intendi di erboristeria?» «No, ma vorrei essere illuminato a riguardo.» «Nel qual caso, eccoti lo stampato che distribuisco a tutte le donne in ambulatorio. Ci sono elencati i nove ingredienti dell'integratore, e quello che apporta ciascuno di essi.»
«Angelica, Dong Quai, Consolida», disse Andrew, sbirciando la lista. «Un miscuglio estremamente esotico.» «Non proprio. Se fossimo a Pechino verrebbero presi in considerazione molti altri componenti delle nostre comuni vitamine prenatali.» «Recepito. Quest'ospedale è certamente fatto su misura per te, non è vero?» «So che hai dei dubbi, ma credo che offriamo un'assistenza migliore di qualunque altro ospedale in città.» «Può darsi. Stiamo certamente diventando il miglior ospedale per la cura del travaglio attivo complicato dalla DIC, aggiungerei.» Il cercapersone di Sarah suonò, ordinandole di chiamare l'interno 2350. «È la sala parto», disse. «Devo andare.» «Non preoccuparti della roba da buttare via. Provvedo io.» «Grazie. Andrew, pensi che dovremmo formare una specie di commissione per cominciare a indagare su questi casi?» «Credo che sia una splendida idea. Se c'è una cosa di cui quest'ospedale dovrebbe servirsi di più, sono le commissioni.» «Parlo sul serio. Non si tratta di una forma epidemica o di qualcosa di simile. Ma esistono due casi analoghi e insoliti. Ti da da pensare. Be', ne parliamo più tardi, d'accordo?» «Puoi scommetterci», disse Andrew. Seguì Sarah con lo sguardo finché non fu uscita dalla caffetteria. Poi sfilò una busta dalla tasca del camice e se la batté pensieroso sul palmo. «Non due casi, mia cara», borbottò. «Di' pure tre.» 8 L'ufficio dei chirurghi interni era una stanzetta di circa tre metri, privo di finestre, che un tempo era servito da magazzino. Per Andrew Truscott, occupare semplicemente il locale, figuriamoci dividerlo con altri due, era un affronto simile a quello di dover sopportare d'essere associato all'MCB. Quello avrebbe dovuto essere il suo anno. Sarebbe dovuto diventare primario interno e poi docente di ruolo. Non c'era giustificazione per il cretino che era stato scelto al suo posto. In qualsiasi ospedale nonnaie non sarebbe accaduto. Dopo un anno di specializzazione postuniversitaria in Australia occidentale, aveva conosciuto e sposato una turista americana e deciso di trasferirsi negli Stati Uniti. Si aspettava che le opportunità di ricerca e pratica per
un chirurgo, e le entrate, fossero di gran lunga superiori. Il Medical Center di Boston non era il massimo a cui aspirasse, ma non si era dispiaciuto di accettare l'offerta di Eli Blankenship. Dopo tre mesi all'MCB, Truscott aveva cominciato a cercare in modo discreto una sistemazione in altri ospedali. Ma gli unici posti disponibili erano negli ospedali di frontiera con ancor meno prestigio dell'MCB. Così era rimasto. Detestava Glenn Paris e l'atmosfera che circondava il posto. Non gli piaceva lavorare in un ospedale che sottostimava la ricerca clinica, considerata da alcuni accademici poco più di un gioco. E soprattutto, dopo aver investito cinque anni della sua vita, era risentito per essere stato messo da parte perché giudicato, secondo le parole del suo caporeparto, «troppo inflessibile e intollerante». Poi, quando il suo periodo di internato si era concluso, era stato informato che non c'era più denaro né spazio per poter continuare a mantenerlo nel personale. Scaricato dall'MCB: l'ignominia finale. Adesso Andrew Truscott sedeva nel minuscolo ufficio, sorseggiando succo d'arancia da un bicchiere di plastica e rileggendo una lettera che gli era stata dirottata dal primario di Chirurgia. Datata 23 giugno, la lettera era dell'ufficio del medico legale di New York. Si trattava di una richiesta del caporeparto affinché Andrew, quale presidente della Commissione di mobilità e mortalità, si interessasse alla questione e suggerisse quale azione dipartimentale intraprendere. Gentile dottore, innanzitutto voglia scusarmi per il ritardo con il quale Le invio questa lettera. Riduzioni di budget hanno notevolmente rallentato la routine del nostro laboratorio necessaria a completare un caso. E, sfortunatamente, il nostro numero di casi è in continuo aumento. Il caso di cui Le scrivo riguarda una donna di ventiquattro anni, Constanza Hidalgo, che è rimasta uccisa quando la macchina che guidava è stata investita da un autobus nel novembre dello scorso anno. I particolari riguardanti questo caso, e le scoperte del mio reparto, sono elencati nei documenti acclusi. Come noterà, la donna sembrava essere stata in travaglio e gli studi al microscopio indicano, inoltre, che soffriva di una forma emorragica acuta, molto probabilmente coagulopatia intravascolare disseminata. Un paio di mesi fa, uno dei patologi del mio personale partecipò a un convegno nazionale durante il quale sentì un altro patologo accennare a
un caso di DIC che aveva complicato un travaglio attivo. Casualmente, tornato a lavorare mi parlò del caso. L'ospedale nel quale morì questa donna era il suo. Sono stato in grado di sapere, contattando la famiglia, che anche la signorina Hidalgo era di Boston e che era seguita dal suo reparto Pazienti esterni. Che si tratti di una coincidenza o no, non posso dirlo. La prego, usi l'informazione come meglio crede, e mi tenga informato sugli sviluppi. In alcune gravidanze si riscontrano certamente casi di DIC, ma, quanto alla mia esperienza, non senza una causa molto ovvia. Cordiali saluti Marvin Silverman medico legale associato Andrew aprì la copia della cartella clinica dell'MCB di Constanza Hidalgo. Il documento risaliva all'infanzia della donna, ma non conteneva elementi di particolare interesse. Aveva rivisto la cartella diverse volte da quando aveva ricevuto la lettera di Silverman. La rilesse con nuova attenzione, facendo scorrere il dito lungo ogni pagina finché non trovò un breve appunto che portava la data del 10 agosto. Diceva: La paziente prosegue bene e continua il suo lavoro part-time di cameriera. Si lamenta di essere affaticata, ma non ci sono edemi alle caviglie, dolori addominali, frequenza urinaria, emicranie, visione offuscata o insolite emorragie. Paziente esterno, normali segni vitali, esame cardiaco non degno di nota, nessun edema, fondo uterino 22 settimane. Cuore fetale sentito facilmente a 140/min. Impressione: gravidanza intrauterina di 22 settimane. Programma: la paziente ha scelto di cambiare multivitamine prenatali con integratori vegetali. Fornite sostanze per tre mesi e date istruzioni. Ritorno all'ambulatorio: quattro settimane. L'appunto era firmato dalla dottoressa Sarah Baldwin. Truscott aprì la valigetta e tirò fuori copie delle cartelle cliniche di Lisa Summer e Alethea Worthington, la ventiduenne che era entrata in travaglio la mattina del 4 aprile, era stata colpita da un'orribile forma di DIC ed era praticamente morta dissanguata in sala parto. Come Constanza Hidalgo, Alethea Worthington era stata visitata una sola volta nell'ambulatorio di
Ostetricia da Sarah. E come Lisa Summer e Constanza Hidalgo, aveva deciso di prendere gli integratori vegetali di Sarah. Alzando i piedi sull'angolo della scrivania, Truscott rimuginò sulla situazione. Senza dubbio, il fatto che ognuna delle tre vittime della DIC avesse preso l'integratore vegetale di Sarah era una coincidenza. Sarah aveva visto decine di pazienti, centinaia forse, durante i suoi due anni all'MCB, e perlopiù avevano avuto parti assolutamente normali. Tuttavia, pensò, finché non veniva determinata la causa reale della DIC, la possibilità di servirsi della coincidenza per minare ulteriormente la fiducia pubblica nell'MCB era molto intrigante, specialmente nelle mani di Jeremy Mallon, l'avvocato che rappresentava l'Everwell. Truscott non si era curato di riferire a Mallon delle luci che si erano spente mentre parlava Glenn Paris. Ma lui l'aveva saputo comunque e aveva informato Axel Devlin. La penna acida del giornalista aveva fatto il resto. Truscott aprì l'Herald. Non sapeva come Mallon l'avrebbe pagato per la storia del giorno della promozione, ma l'equivalente di due settimane di stipendio era allettante. Il denaro era sempre ben accetto, anche se apprezzava ancor più una lettera dell'Everwell che gli garantiva una posizione nel personale chirurgico qualora l'HMO avesse acquistato il Medical Center di Boston. Mallon era stato abbastanza generoso con i suoi pagamenti, ma doveva ancora tener fede a quella promessa. Forse questa faccenda della DIC era la leva di cui aveva bisogno Andrew per avvalersi della lettera. Truscott prese una Gauloise dal portasigarette d'argento, regalo di una ex amante, e l'accese, poi fece il numero della linea privata di Jeremy Mallon. «I miei omaggi, Mallon, sono Truscott. Mi fa piacere che abbia fatto un uso così rapido del nastro del giorno della promozione. Ascolti, però: ho qualcos'altro per lei. Qualcosa di molto prezioso... No, non voglio parlarne per telefono... Benissimo... Oh, un'altra cosa. La lettera che mi ha promesso... Sì, proprio quella lettera. La porti con sé quando ci incontreremo, d'accordo? Magnifico. Assolutamente magnifico.» Truscott riagganciò, riunì le schede e le ripose nella valigetta. Di tutte le ricompense di Mallon, questa prometteva di essere la più appagante. Che le sue rivelazioni potessero causare problemi a Sarah non gli importava molto. Come chirurgo, era più abile e sicura di qualunque altra donna avesse conosciuto, ma rappresentava anche qualcosa che trovava disgustoso per il Medical Center di Boston. E adesso, con questa faccenda di Lisa Summer non si sarebbe più potuto convivere con lei e le altre stranezze dell'ospedale. Lei e i suoi amici si stavano crogiolando nella calda luce del
suo successo come un branco di pecore supernutrite. Il momento era perfetto perché le nuvole cominciassero a produrre un po' di pioggia. E poi, l'ego di Sarah Baldwin era sopravvissuto alle altre informazioni che aveva elargito a Mallon. Sarebbe sopravvissuto anche a questa. I veri premi in palio erano Glenn Paris e le attività marginali del suo ospedale. Già feriti e indeboliti, la loro sopravvivenza non era più così certa. Mentre usciva per controllare il suo turno, Andrew Truscott canticchiava fra sé: «Oh, l'MCB sta per capitombolare, mia bella signora...» 9 5 luglio A Sarah non era mai piaciuto mettersi in ghingheri. Da quel che ricordava, quel disagio risaliva alle domeniche mattina a Ryerton, la città rurale dello stato di New York in cui era stata allevata. Sua madre, biasimandosi probabilmente per avere una figlia illegittima, trascorreva almeno un'ora ogni domenica a prepararla per la chiesa. Gli abiti di Sarah erano stirati e perfetti, le scarpe immacolate. I capelli venivano spesso intrecciati una decina di volte prima che ogni ciocca fosse ritenuta a posto. E sempre, almeno finché non cominciarono ad apparire in sua madre i primi sintomi dell'Alzheimer, l'insieme era coronato da un grosso fiocco bianco. Adesso Sarah si girava e rigirava davanti allo specchio della sua camera da letto, cercando di valutare il terzo o quarto vestito che aveva provato. Erano le otto del mattino, e quindici minuti dopo sarebbe arrivato il suo taxi per l'ospedale. Due giorni prima, fomentata senza dubbio da Glenn Paris e dall'ufficio Pubbliche relazioni, la storia di come la medicina occidentale e quella orientale avessero unito le forze al Medical Center di Boston per salvare la vita di una giovane donna era finita su entrambi i giornali di Boston. Tuttavia, la pubblicità positiva per l'MCB aveva avuto breve durata. Il giorno dopo, un breve articolo non firmato era apparso sull'Herald. Fonti anonime ma attendibili avevano riferito che l'insolita e disastrosa complicazione emorragica non era la prima, ma la terza che si verificava in un paziente dell'MCB negli ultimi otto mesi. E la fonte riferì inoltre che contrariamente a Lisa Summer, entrambe le donne dei casi precedenti erano morte. La rapida reazione di Glenn Paris alla storia era stata quella di indire una conferenza stampa per le nove del mattino del 5 luglio. A essa avrebbero
partecipato i dottori Randall Snyder ed Eli Blankenship, primari di Ostetricia e Medicina interna all'MCB, e la dottoressa Sarah Baldwin, il medico interno che aveva contributo così straordinariamente a salvare la vita di Lisa Summer. Alle otto e un quarto, quando suonò il campanello dell'ingresso, Sarah indossava scarpe basse di pelle, una gonna madras increspata in vita, una camicetta di cotone beige e una cintura birmana ricamata a mano, il tutto sormontato da un morbido blazer turchese. La sua unica concessione alla formalità dell'evento fu di indossare un paio di collant; scomodi in ogni mese, ma soprattutto in luglio. «Sto arrivando!» gridò al citofono. Afferrò gli orecchini in ottone che le aveva fatto un artigiano Akha, se li infilò e si precipitò lungo le scale. Benché ammirasse Glenn Paris, partecipare a una delle sue performance non era nello stile di Sarah. Ma la denuncia di un terzo caso di DIC in un paziente dell'MCB richiedeva una rapida, rassicurante risposta da parte dell'ospedale. E Paris sentiva che lei poteva essere d'aiuto. Quella che era stata una curiosità con la prima paziente, poi una seria preoccupazione con la seconda, era a un tratto diventata una terrificante priorità. Il taxi la lasciò di fronte al Thayer Building. Glenn Paris la ricevette nel suo ufficio e la salutò con calore. Come sempre, era straordinariamente elegante. Quel giorno, il suo abito beige, la camicia azzurro cielo e la cravatta rossa sembravano fatti apposta per la televisione. Appariva un po' teso, ma c'era una fiduciosa devota energia in lui che Sarah trovò disarmante e attraente. Era lo stesso genere di aura che l'aveva inizialmente attratta verso Peter Ettinger. «Sarah, hai idea di chi potrebbe aver lasciato trapelare questa informazione all'Herald?» chiese Paris. «No, signore.» «Come gli altri con cui ho parlato. Una lettera sul caso Hidalgo è appena giunta al nostro primario di Chirurgia dal medico legale di New York. Ne ha spedito copie ai reparti di Patologia, Ostetricia, Ematologia, Medicina interna, alla Commissione di mobilità e mortalità, e infine, anche a me. Contemporaneamente, quando leggo del caso nella lettera, lo leggo anche su quel dannato giornale. Non è straordinario? Ogni persona con cui ho parlato ha consegnato una copia della lettera ad altri. Alla fine, venticinque o trenta persone avrebbero potuto lasciarlo trapelare, e tutti sostengono di non avere avuto idea che fosse così importante. Che non fosse importante!
Ebbene, lo acciufferò, Sarah! Questa volta, chiunque sia ha esagerato. Si ricordi delle mie parole: lo acciufferò.» «Ne sono certa», disse piano Sarah. Sebbene comprendesse la sua rabbia, si sentiva a disagio. Fu sul punto di ricordargli che, indipendentemente dalla fonte delle notizie, stava accadendo qualcosa di molto serio e grave. E il Medical Center di Boston c'era dentro fino al collo. Quando lasciarono l'edificio dalla parte del campus, scorsero un gran numero di persone; il personale dell'ospedale, i giornalisti e una troupe televisiva lo stavano attraversando in direzione dell'auditorium. «Si direbbe che ci sia folla», osservò Paris. «Bene. Dobbiamo far sapere al pubblico che noi siamo al di sopra di questa faccenda. Una pubblicità negativa può ancora nuocerci.» «Ha già incontrato alcuni membri del personale?» chiese Sarah, sperando di ricondurlo al problema in atto. «Il dottor Blankenship e io ci siamo consultati quasi di continuo da quando è uscito l'articolo. Ho un vecchio amico ad Atlanta che è amministratore dei Centres for Disease Control; l'ho messo in contatto con Eli, e mi ha detto che stanno cercando di mandare qualcuno qui in tempo per...» Paris s'interruppe, la mano alzata per non farla parlare. Le fece cenno di spostarsi all'ombra del padiglione Ambulatori specialistici. Davanti a loro, sull'angolo dell'edificio, un uomo ben vestito, con una valigetta in mano, era immerso in intima conversazione con uno degli addetti alla manutenzione dell'ospedale. Due giorni prima, lo sciopero selvaggio degli addetti alla manutenzione era finito in una bolla di sapone davanti alla minaccia di Paris di licenziare chiunque vi fosse coinvolto. Manifesti che condannavano la sua azione erano successivamente stati attaccati in tutto l'ospedale. E benché fossero tornati tutti al lavoro, nessuno li aveva staccati. «Conosce quell'uomo in giacca e cravatta?» chiese Paris. Sarah scrollò la testa. L'uomo, probabilmente sulla quarantina, era di costituzione snella, con i capelli pettinati con cura e un naso decisamente aquilino. Il diamante dell'anello al mignolo della sua mano sinistra era facilmente visibile da dove si trovavano, a circa venti metri di distanza. «Ha l'aria del commerciante d'automobili o dell'avvocato», osservò Sarah. «È un brutto ceffo», spiegò Paris. «Ma è avvocato. E, per la verità, è anche laureato in Medicina.» «Caspita, sono molto colpita.»
«Non lo sia. Il suo nome è Mallon. Jeremy Mallon. Mai sentito parlare di lui? No? Bene. Specula sugli incidenti stradali ed è anche al servizio dell'Everwell. Credo che ne sia perfino azionario. Da mesi, ormai, sospetto che sia dietro almeno parzialmente ai guai che stiamo avendo. Questo piccolo tête-à-tête a cui stiamo assistendo dimostra che ho ragione.» A un tratto Mallon si accorse della loro presenza. Una sua parola fece scappare in direzione opposta l'addetto alla manutenzione. Paris si avvicinò rapidamente, con Sarah a pochi passi di distanza. «Maledetto bastardo», scattò. «Sapevo che eri tu.» «Non ho idea di che cosa lei stia parlando», rispose viscidamente Mallon. «E la pregherei di fare attenzione a come chiama la gente in pubblico.» Anche se Paris non l'avesse avvertita, Sarah avrebbe immediatamente provato antipatia per quell'uomo. «La mancanza di corrente non è stata accidentale», latrò Paris. «E neanche quello sciopero fasullo. Lo sospettavo, adesso lo so. Spero che tu abbia pagato bene quel verme, mascalzone, perché resterà disoccupato.» Paris aveva talmente alzato la voce che alcuni di quelli che si stavano dirigendo verso l'auditorium si fermarono a guardare. Due amministratori dell'MCB si precipitarono verso di loro. «Paris, si sbaglia», disse Mallon. «Non ho bisogno di crearle dei guai. Ci sta già pensando da solo.» «Fuori dai piedi!» «Non ci penso proprio. È stata annunciata una conferenza stampa che non voglio lasciarmi scappare. Sarà interessante vedere come farà ad aggirare il fatto che questo posto sta diventando un centro di morte.» «Maledetto verme...» I due uomini si pararono di fronte a Paris prima che potesse lanciarsi sull'uomo. «Calma, Glenn», disse Colin Smith, uno dei due amministratori. «Non ne vale la pena.» «Vattene dal mio ospedale!» gridò Paris. «Grida e si comporta sempre di più come un uomo che sta per affogare, Paris», disse Mallon, che a un tratto apparve a Sarah come una specie di serpente. «E in quanto a essere il suo ospedale, se lo goda finché può, perché non credo che sarà suo ancora per molto.» «Fuori di qui!» Questa volta Colin Smith dovette trattenere fisicamente il suo capo.
«Ho in realtà cose più importanti da fare che osservarla mentre si scava la fossa, Paris. Verrò comunque a sapere le cose più rilevanti dai notiziari della sera.» Mallon si voltò senza attendere una risposta e se ne andò. «Mascalzone», borbottò Paris. «Calma», lo incalzò Smith. «Non ci avranno, Colin. Prima di riuscire a mettere le mani sull'MCB, l'Everwell e quel verme dovranno passare sul mio cadavere.» «Non accadrà mai, Glenn», disse Smith. «Abbiamo un asso nella manica. Lo sa, e lo so anch'io.» Le sue parole ebbero un notevole effetto calmante su Paris. Sarah vide i muscoli della sua faccia rilassarsi, i pugni dischiudersi. E alla fine sorrise. «Ha ragione, Colin», disse. «Ha ragione. Lei è un brav'uomo.» Si scusò con Sarah per aver perso il controllo, e la presentò a Smith e all'altro uomo. Poi li mandò avanti. «Sarah, nel caso in cui non l'abbia indovinato», disse, «l'asso di cui stava parlando Colin è la nostra sovvenzione. Dovrebbe venire dalla Fondazione McGrath, e li sto corteggiando da quasi tre anni, ormai. Ma la prego, non una parola con nessuno. Come ho detto prima, non è ancora certo al cento per cento. E se Mallon conoscesse l'entità della sovvenzione e da chi ci viene elargita, sono certo che farebbe di tutto per impedire che la cosa si verifichi.» «Si verificherà», disse Sarah. «Be', adesso siamo quasi alla conclusione. Se avremo i soldi, vinceremo; altrimenti, vinceranno Mallon e l'Everwell. Molto semplice.» Quando raggiunsero l'edificio che ospitava l'auditorium, sentirono e poi scorsero un lucido elicottero, che si abbassò sul campus e compì un perfetto atterraggio sulla pista che Paris aveva voluto far costruire in cima al padiglione di Chirurgia. «L'incaricato dei Centres for Disease Control?» domandò Sarah. «Dubito. Non so neppure se ci manderanno qualcuno. Più probabile che sia qualche famoso giornalista che viene alla conferenza stampa.» «Oppure uno dei nostri pazienti ha una famiglia o degli amici molto ricchi.» «Dubito anche questo. Faccio controllare ogni ammissione dal nostro ufficio di Pubbliche relazioni. Le assicuro che saprei se qui ci fosse qualcuno che vale la pena di conoscere. Entriamo dunque e facciamogliela vedere.» «Farò quel che potrò», disse Sarah.
Assicurato al sedile del suo elicottero, Willis Grayson osservava il Medical Center di Boston espandersi sotto di lui. Qualunque eccitazione provasse alla prospettiva di rivedere la sua unica figlia dopo cinque anni, era virtualmente annullata dalla rabbia che nutriva verso coloro che l'avevano mandata in un luogo del genere e ridotta in una simile condizione. Al suo ritorno dall'aver ristrutturato una società della Silicon Valley, aveva trovato un investigatore di nome Pulasky accampato fuori del cancello della sua tenuta a Long Island. Il detective aveva le prime nuove foto che Grayson vedeva di sua figlia dal giorno della sua scomparsa. L'uomo aveva anche con sé copie di entrambi i giornali di Boston. E sebbene gli articoli non contenessero fotografie di Lisa Summer, Pulasky gli assicurò che la paziente del Medical Center di Boston e sua figlia erano la stessa persona. Una visita da parte di alcune persone di fiducia all'indirizzo di Lisa a Jamaica Plain confermò le asserzioni di Pulasky. Dopo averlo pagato, Grayson aveva fatto due telefonate. La prima per convincere il suo pilota; la seconda per ordinare a Ben Harris, il suo medico personale, di annullare ogni appuntamento per compiere un volo con lui. Dopo due ore erano atterrati sul tetto dell'eliporto del Medical Center di Boston. «Tienilo caldo, Tim», disse Grayson prima di scendere. «Se Lisa è in condizioni di viaggiare, la trasferiamo immediatamente nel nostro ospedale.» Aiutò il dottore a uscire dall'elicottero. «Non mi nasconda niente, Ben», ordinò. «Lei dev'essere devoto a me, non a quell'Ordine dei medici di cui leggo in continuazione. Se qualcuno ha preso un granchio con Lisa, voglio saperlo.» Per quasi tutti i suoi cinquantaquattro anni, la forza motrice nella vita di Willis Grayson era stata la rabbia. Da bambino aveva tratto forza dalla rabbia che provava a essere legato ai letti d'ospedale mentre i medici lottavano contro i suoi pericolosi attacchi d'asma. Da grandicello, la furia per le prolungate assenze del padre, industriale, e la mancanza di disponibilità della madre si erano manifestati in ricorrente aggressività, che lo aveva portato all'espulsione da diverse scuole private. E anni dopo, quando fu infine ammesso nel «sancta sanctorum» della società del padre, era stato il suo disperato, irrefrenabile bisogno di riconoscimento che lo aveva spinto a sottrarre potere al padre e a riprogrammare l'azienda. In poco più di vent'anni, il suo valore personale era cresciuto a quasi mezzo miliardo di dollari. Ma in lui, poco era cambiato. La stanza di Lisa era al quinto piano dell'edificio sul quale era atterrato
l'elicottero. Mentre la pista era fantastica, il quinto piano aveva bisogno di essere completamente rinnovato. «Questo posto è un letamaio, Ben», osservò. «Non capisco. Avrebbe potuto comprarsi un ospedale, ed è finita in un posto come questo.» L'investigatore di Grayson aveva riferito che la stanza di Lisa era la numero 515. Con il medico a diversi passi di distanza, Grayson superò il banco delle infermiere, ignorando la donna che vi sedeva a prendere appunti. La tarchiata giovane infermiera, sulla cui targhetta d'identificazione si leggeva JANINE CURTIS, gridò loro: «Scusatemi. Posso esservi di aiuto?» «No», grugnì Grayson dietro di sé. «Stiamo andando alla stanza 515.» «Fermatevi, per favore.» Grayson si irrigidì. Poi, con i pugni che si aprivano e si richiudevano lentamente, fece come gli era stato chiesto. Dietro di lui, il dottor Ben Harris trasse un profondo sospiro di sollievo. «Il vero nome di Lisa Summer è Lisa Grayson», disse l'uomo con ostentata pazienza. «Io sono suo padre, Willis Grayson, e questo è il mio medico personale, il dottor Benjamin Harris. Possiamo andare, ora?» L'infermiera apparve momentaneamente confusa ma si riprese subito. «Gli orari di visita hanno inizio alle due», sentenziò. «Ma se Lisa è d'accordo, farò un'eccezione, per questa volta.» I pugni di Grayson si serrarono di nuovo. «Sa chi sono io?» chiese. «So chi ha detto di essere. Senta, signor Grayson, non voglio apparire...» «Ben, non ho proprio tempo per questo», scattò Grayson. «Lei rimanga qui a spiegare a questa donna chi sono e perché siamo qui. Se le crea dei problemi, chiami il direttore di questo cosiddetto ospedale e lo faccia salire. Io vado a vedere Lisa.» Si allontanò senza attendere una risposta. Uno dei cartellini sulla porta della 515 diceva L. SUMMER. L'altro era bianco. Willis Grayson esitò. Aveva fatto bene a non mandare fiori e a non telefonare prima? Se, come sospettava, altri l'avevano istigata contro di lui, non sapeva come la pensasse. No, decise, meglio non essere annunciati. Dopo che era stata costretta a lasciare la casa di Charlie, Chuck o come diavolo si chiamava, Grayson aveva speso decine di migliaia di dollari per cercare di ritrovarla. La pista si fermava a Miami. Poi, all'improvviso, il ragazzo era arrivato a casa senza di lei e nessuna idea di dove fosse andata. Per mesi Grayson l'aveva fatto seguire e aveva fatto controllare la sua posta, ma non ne aveva ricavato niente. Alla fine il ragazzo era sparito, igno-
rando come fosse stato a un pelo dall'avere le gambe spezzate, o peggio. No, pensò Grayson infuriato, ci vorrà qualcosa in più di qualche fiore. Bussò alla porta, attese, poi bussò di nuovo. Infine l'aprì. L'odore che regnava nella stanza era sgradevole e familiare. Non aveva più messo piede in un ospedale dalla sera di quasi otto anni prima, quando lui e Lisa vi erano rimasti insieme stringendo la mano di sua moglie mentre si arrendeva al tumore maligno che aveva combattuto per quasi un anno. Adesso sua figlia sedeva immobile in una poltrona, guardando fuori della finestra. La vista delle bende che le coprivano quel che restava del suo braccio destro portò un afflusso di bile alla gola di Grayson. Le girò intorno e sedette sul davanzale di marmo. Lisa lo guardò per un momento, poi chiuse gli occhi e distolse lo sguardo. «Ciao, tesoro», disse lui, «sono contento di averti trovata. Mi sei mancata tanto.» Attese una reazione, ma dalla sua espressione e dalla posizione delle spalle capì che non ci sarebbe stata. Dannazione, pensò, maledendo amici, compagni, amanti e medici che l'avevano ridotta in quel modo. «Mi dispiace per quello che ti è accaduto», tentò di nuovo. «Ti prego, Lisa. Ti prego, parlami... Voglio riportarti a casa. È venuto con me il dottor Harris. Te lo ricordi? È qui fuori. Il suo personale ti sta aspettando. Ti farò fare un controllo e, se dirà che va bene, ci arriveremo in novanta minuti. Tim è sul tetto con l'elicottero. Anche a lui sei mancata, cara. Sei mancata a tutti. Lisa?» Lei continuò a guardare altrove. Grayson si alzò e camminò per la stanza, cercando le parole che l'avrebbero indotta ad aprirgli il suo cuore. Se solo mi avessi ascoltato, avrebbe voluto gridare, se solo mi avessi ascoltato non sarebbe successo nulla di tutto questo. «So che sei arrabbiata con me», disse invece, «ma adesso tutto si aggiusterà. Sei tutto ciò che ho. e farò qualunque cosa per riaverti... Ti prego, Lisa. So che stai soffrendo. Voglio aiutarti a reagire. Voglio aiutarti a scoprire perché è successa quest'orribile cosa, a te... e a mio nipote. E se ne è responsabile qualcuno, voglio aiutarti a fargliela pagare... Va bene, va bene.» Inspirò per calmarsi e tornò alla finestra. «Capisco che può non essere facile per te dopo tutto questo tempo. Senti, alloggerò al Bostonian. Lascerò il numero di telefono accanto al tuo apparecchio. Assumerò un'infermiera privata e Ben Harris resterà in contatto con i tuoi medici. Ti prego, piccola... Ti... Ti voglio bene. Permettimi di rientrare nella tua vita.»
Esitò, poi si voltò e si diresse alla porta. «Torna più tardi, papà», disse lei all'improvviso. Grayson si fermò. Che le parole fossero solo nella sua mente? «Questo pomeriggio», prosegui lei, «alle tre. Prometto di parlarti.» Nel suo tono non c'era né rabbia né perdono. Willis Grayson si girò a guardarla. Lisa sedeva di nuovo immobile, guardando fuori della finestra. «Va bene», disse infine. «Alle tre.» Baciò lievemente la figlia sulla testa. Lei non reagì. «Sarò qui alle tre», mormorò. «Grazie, piccola. Grazie.» Si fermò presso la porta e si girò di nuovo a guardare il moncherino dove prima c'erano stati la mano e il braccio. Qualcuno avrebbe pagato. 10 Sarah seguì Glenn Paris attraverso l'ingresso anteriore fino all'anfiteatro e sul palco. Solo le ultime file del salone erano libere, e altra gente stava ancora entrando. Le tre stazioni televisive di Boston, che rappresentavano tre grandi network, disponevano ciascuna di un gruppo di luci, di un cameraman e di un reporter. Sebbene Sarah guardasse raramente la televisione, riconobbe due giornalisti. Chiaramente, la possibilità del diffondersi di qualche rara malattia era un argomento molto affascinante per il pubblico. Il podio, coperto da velluto rosso scuro, era circondato di microfoni, una decina o più. Dietro di esso c'erano cinque sedie pieghevoli, tre su un lato e due sull'altro. Eli Blankenship e Randall Snyder erano già seduti, con una sedia vuota fra loro. Paris fece cenno a Sarah di sedervisi. Se Paris era nervoso sull'eventuale arrivo o meno di un rappresentante dei Centers for Disease Control, centri per il controllo delle malattie, non lo dava a vedere. Camminò per un po' avanti e indietro per la sala, poi si abbottonò la giacca e si diresse verso i tre medici. «Ebbene, non si può certo parlare di apatia», disse piano. «L'intero spettacolo avrebbe potuto essere un po' più mirato se quelli dei CDC avessero mandato qualcuno, ma dovremo cavarcela. Farò qualche osservazione introduttiva, poi parlerà prima lei, Eli, poi lei, Randall, e infine lei, Sarah. Consiglierei di fare dichiarazioni brevi e di rispondere se vi verranno rivolte delle domande. L'unico suggerimento che posso darvi è che meno direte, più difficile sarà per loro citarvi erroneamente. Concederò a ciascuno di
voi non più di dieci minuti, domande comprese. E non preoccupatevi, ve la caverete tutti benissimo.» Sarah sapeva che quel «tutti» era diretto a lei. «Gli piace questa messinscena, non è vero?» osservò mentre Paris si avvicinava al podio. «Dovrebbe», rispose Blankenship. «Ci sa fare molto bene. Tu invece hai l'aria tesa. Pensi di cavartela?» «Stavo bene finché non sono venuta qui. Guardi quanta gente.» Blankenship le diede un affettuoso colpetto sulla spalla. «Ricordati del nostro adagio», disse. «Ogni emorragia alla fine si ferma.» «Questo è molto rassicurante. Grazie.» Le osservazioni introduttive di Paris dipinsero il quadro di un'istituzione consacrata alla salute e al benessere dei cittadini di Boston, per nulla timorosa di confrontarsi con i problemi dell'opinione pubblica. «Siamo rimasti in stretto contatto con la divisione di Epidemiologia dei CDC di Atlanta», disse, «e hanno promesso di mandarci uno dei loro pezzi grossi per incrementare le nostre ricerche. Avevo sperato che fosse qui in tempo per partecipare a questa conferenza stampa...» indicò la sedia vuota accanto a sé, «...ma sfortunatamente non è stato possibile.» I tre casi di DIC, proseguì, avrebbero potuto non risultare altro che una coincidenza. Tuttavia, il Medical Center di Boston aveva deciso di prendere il toro per le corna e di iniziare un'indagine immediata, mantenendo il pubblico al corrente degli avvenimenti in corso. Sarah rimase turbata dal fatto che Paris strombazzasse l'imminente arrivo dell'epidemiologo dei CDC quando le aveva appena detto che non sapeva neppure se sarebbe venuto. Ma poi pensò che le sue esagerazioni erano abbastanza innocue e, date le circostanze, comprensibili. Infatti, quando presentò Eli Blankenship, fu come se l'articolo dell'Herald non gli avesse forzato affatto la mano. Sostenuta dalla performance del presidente, Sarah sentì parte della tensione dissiparsi. Tuttavia, non fu che quando Blankenship stava per concludere le sue formali osservazioni che si sentì abbastanza a suo agio da voltarsi verso il pubblico. Molte delle persone presenti erano interni oppure della facoltà di Medicina, compreso Andrew, che aveva ripreso il suo tradizionale posto al centro dell'ultima fila. Ma un numero significativo, a giudicare dall'aspetto e dall'abbigliamento, sembrava appartenere semplicemente alla comunità. Fra essi, Sarah riconobbe una donna con la quale si stava esercitando nel parto in casa, così come aveva fatto con Lisa. Non
era difficile immaginare i suoi pensieri e le sue preoccupazioni. Ma era un'altra donna, seduta non lontano da Andrew, che Sarah trovava molto interessante. Era un'africana, con pettinatura, abiti e gioielli tipici. E nonostante le luci e la distanza, la sua insolita bellezza era evidente. Sarah stava osservando il pubblico quando si rese conto che quella splendida giovane donna la fissava, sorridendo. Ti conosco, non è vero? pensò Sarah. Ma dove ti ho conosciuta? Blankenship ritornò al suo posto, accompagnato dagli applausi. Sarah si congratulò a fior di labbra, benché si rendesse conto che, essendosi preoccupata della donna nell'ultima fila, le era sfuggita la sua ultima risposta. Come Sarah si era aspettata, Randall Snyder si mostrò realistico e rassicurante nella sua esposizione e nelle risposte alle domande che gli venivano rivolte. I tre casi di DIC erano certamente motivo di preoccupazione, disse. Ma senza un attento riesame di come erano state elaborate le diagnosi, era ancora troppo presto persino per collegarli. Nel frattempo, concluse, il pubblico doveva sentirsi rassicurato dal fatto che il suo reparto avrebbe accuratamente vagliato tutti i pazienti di Ostetricia per qualunque anomalia che suggerisse un'accresciuta predisposizione. L'applauso per Snyder fu sensibilmente più sonoro di quanto lo fosse stato per Eli, anche se la sua esposizione non era stata altrettanto sostanziale. Infine fu il suo turno. Nello sforzo di essere organizzata, Sarah aveva annotato i punti che voleva esaminare. E quando la sua esposizione di cinque minuti si concluse, constatò di averli toccati quasi tutti. Durante le osservazioni, tuttavia, sentiva un mare separarla dal pubblico. Sapeva che, suo malgrado, aveva un'intonazione pomposa. Concludendo, ringraziò tutti per l'interesse e la partecipazione di ognuno e li invitò a rivolgere domande. In un secondo, il pubblico che era sembrato indifferente e mezzo addormentato, divenne una foresta di mani e braccia in movimento. Sarah guardò Paris per vedere se desiderasse salire accanto a lei. Ma l'uomo si limitò a sorridere e ad ammiccare. Lei si strinse nelle spalle e si voltò verso gli astanti. «Crede onestamente che sia stata la sua agopuntura e il fatto che Lisa Summer immaginasse le cellule del suo sangue a fermare l'emorragia?» Certo, idiota! «Credo fermamente che siano stati due dei fattori determinanti. Come ho detto, si stavano compiendo altri sforzi.» «Le era mai capitato prima di fermare l'emorragia di qualcuno con le sue
tecniche?» «Non specificamente. Ma ho assistito a diversi interventi chirurgici in cui veniva usata solo l'agopuntura come anestesia. Ogni volta, l'emorragia era ridotta al minimo.» «Ci racconti di più del suo background. Ha detto di aver lavorato in un centro di cure olistiche. Dov'era?» Glenn, non è ancora scaduto il mio tempo? «Proprio qui a Boston. Si chiamava Ettinger Institute.» Annalee! Incredula, Sarah guardò attraverso il pubblico verso la donna dell'ultima fila. Annalee Ettinger sorrise e salutò. Erano sette anni che Sarah non vedeva la bambina che Peter aveva portato dal Mali e successivamente adottato. Ma non era il tempo ad aver ritardato il riconoscimento. Quando Sarah aveva abbandonato il condominio di Back Bay, Annalee era una cara e interessante quindicenne. Ma era anche penosamente timida e notevolmente grassa. La sua trasformazione aveva del miracoloso. Il suo viso, con gli zigomi straordinariamente alti, sembrava quasi scolpito. Lo sguardo di Sarah si posò su di lei abbastanza a lungo da confermare che era stato fatto il collegamento. Annalee sorrisse e annuì. «Ettinger», continuò l'interlocutore. «È lo stesso Ettinger che pubblicizza in televisione il prodotto dimagrante?» «Io... io non lo so», rispose Sarah, «non ho quasi mai il tempo di vedere la televisione. E non sono in contatto con il signor Ettinger da molti anni.» «È lui», gridò una donna. «È lo stesso uomo. Io prendo quella roba e sono già calata di quindici chili. È fantastica.» Il pubblico scoppiò a ridere e Sarah capì di aver perso il controllo della situazione. Paris salì rapidamente sul podio. «Dottoressa Baldwin, grazie mille.» Le indicò il suo posto e invitò il pubblico a un applauso. Forse era stata la natura controversa della sua esposizione, forse la mancanza di una vivace frase conclusiva; qualunque fosse la ragione, Sarah sentiva che la reazione del pubblico era stata educata ma difficilmente entusiastica. Ignara dei bisbigli di sostegno da parte di Blankenship e Snyder, Sarah si concentrò su un punto del pavimento accanto alle scarpe di Glenn Paris, in attesa delle parole che avrebbero mandato tutti a casa. La sua performance era stata tutt'altro che sbalorditiva, ma neanche disastrosa. Grazie a Dio, comunque, era finita. Glenn Paris concluse l'incontro con la promessa di mantenere il pubblico informato su qualsiasi sviluppo. Immediatamente, un certo numero di
giornalisti si precipitò sul palco. Preoccupata per il ritardo, Sarah cercò con gli occhi Annalee che la rassicurò con un gesto. Infine, il gruppo degli astanti cominciò a disperdersi. Sarah accettò un colpetto sulla schiena da Paris e stava per allontanarsi quando si avvicinò a loro una donna più anziana, con una cartella di pelle sotto un braccio. Sarah l'aveva notata in piedi in fondo all'auditorium durante la conferenza stampa. Era tutt'altro che imponente e vestiva in modo classico, con gonna dritta e blazer scuro. I corti capelli permanentati erano un misto di grigio e castano. E benché la sua faccia avesse un'espressione piacevole e tranquilla, i suoi lineamenti sparivano dietro grossi occhiali tondi dalla montatura di tartaruga. Nell'osservare la folla, Sarah l'aveva giudicata come una specie di nonna della comunità. «Dottoressa Baldwin, signor Paris», disse, «mi chiamo Rosa Suarez.» «Sì, signora Suarez», fece Paris incapace di nascondere l'impazienza dalla voce, «in che cosa possiamo esserle utili?» La donna sorrise bonariamente. «Quel tale dei CDC di cui ha parlato, l'importante epidemiologo che le era stato promesso...» «Sì», ripeté Paris, «mi dica?» «Ebbene, sono io.» 11 Il parco, un'oasi sabbiosa con alcune panchine e un vecchio campo giochi, si trovava a diversi isolati dall'MCB. Sarah fece le consegne a un altro interno e si avviò con la donna che un tempo era stata sul punto di diventare sua figliastra. Ma questa Annalee Ettinger, snella, sicura di sé e sorprendentemente estroversa, assomigliava assai poco alla timida ragazzina rotonda che Sarah aveva un tempo cercato di farsi amica. Fin dai primi esitanti minuti della loro conversazione, Sarah percepì un legame più forte tra loro di quanto ci fosse mai stato quando Peter faceva parte dell'equazione. «Ti ho scritto dalla facoltà di Medicina», disse Sarah mentre sedevano su una delle panchine. «Due o tre volte. Non hai mai risposto.» Annalee annuì. «Lo so», disse. «Dopo circa un anno che te n'eri andata, stavo cercando qualcosa nella scrivania di mio padre e ho trovato una delle tue lettere. Non aveva busta né indirizzo del mittente. Ne ho fatto una copia e me la sono tenuta. Ma non ho mai affrontato mio padre su questo argomento. A quell'epoca ero una piccola cicciona egocentrica, tutta presa da me stessa e dai miei problemi. Forse avrei dovuto spingere le cose e cerca-
re di rimettermi in contatto con te. Ma qualunque fossero le tue ragioni, ci avevi lasciati. Credo che in realtà, allora, non m'importasse molto farlo.» La sua voce era profonda e melodica, le unghie perfettamente curate e laccate di rosso. Se da bambina era spesso sciocca, egoista e immatura, adesso irradiava una maturità superiore ai suoi anni. «Mi dispiace per essermene andata in quel modo», disse Sarah. «Ero così arrabbiata. Non riesco tuttora a immaginare come Peter possa averti negato le mie lettere.» «Era molto ferito e arrabbiato quando ci hai piantati. E anch'io, se per questo; o almeno finché non ho trovato quella lettera.» Tirò fuori un pacchetto di Virginia Slims dalla borsetta. I braccialetti d'oro e d'argento, otto o dieci su ciascun polso, tintinnarono mentre ne estraeva una. «Immagino che tu non fumi.» «Da anni, ormai.» «Meglio. Meglio per te.» Accese e inalò profondamente attraverso naso e bocca. «Ho cercato di spiegare le ragioni per cui me n'ero andata in una delle lettere indirizzate a te», continuò Sarah. «Dio, rabbrividisco nel pensare alla versione della storia che ti avrà dato Peter.» «Mio padre è un uomo meraviglioso, ma ha i suoi difetti. Tenere il broncio è uno di essi. Sapevi che si è risposato circa un anno dopo che te n'eri andata? Un matrimonio di ripiego. Una vera bellezza di origine anglosassone, di una famiglia facoltosa che è probabilmente approdata con la Mayflower. Mi sorprende che non ti abbia mandato un invito.» «Molto buffo. Senti, Annalee, le cose vanno come devono andare. Io la penso così. Amavo il novantacinque per cento di quello che era tuo padre, ma non mi era possibile accettare e condividere l'altro cinque per cento per il resto della vita. E non credo ci fossero molte possibilità che la situazione cambiasse. Trovo magnifico che si sia sposato.» «Be', non penso che condivida la tua opinione, dottoressa. Il matrimonio è durato solo un anno.» «Oh, capisco. Andavi d'accordo con lei?» «Considerando che ero probabilmente la prima donna di colore che non lavorasse per lei a cui Carole fosse mai stata vicina, direi di sì. Non la vedevo molto, in realtà. Poco dopo che te ne eri andata, Peter mi spedì in collegio. Questa è un'altra ragione per la quale non mi sono affannata a cercarti. Ero confusa. Spedirmi in collegio era stata magari un'idea giusta, ma non in quel momento. Credo che quando mi portò a casa con sé dal Mali,
si aspettasse che diventassi una persona diversa da quella che stavo diventando, una professoressa universitaria, una concertista o qualcosa del genere. In ogni modo, lontana com'ero, ebbi l'impressione che la vecchia Carole un momento ci fosse e un momento dopo, puff.» «E quando ha chiuso l'istituto?» «Non molto dopo tutto questo. Abbiamo vissuto ancora un po' a Boston, poi ha cominciato a prendere forma l'idea del suo Xanadu.» «Ah, il sogno di Peter», disse Sarah. «Sapevo che un giorno ce l'avrebbe fatta.» Xanadu, la prima di una catena di comunità residenziali basate sul principio di vivere una lunga vita sana grazie a diete, ginnastica, controllo dello stress e medicina olistica. Peter aveva parlato del suo ambizioso progetto il giorno in cui si erano conosciuti, e avevano trascorso innumerevoli ore a discuterne e approfondirlo durante gli anni passati insieme. All'epoca della loro rottura, lui stava cominciando a cercare un posto adatto e persone disposte a investire nel progetto. Aveva persino un modello del complesso, racchiuso nel vetro, ben in mostra nel salone conferenze dell'istituto. Tutta la costruzione, diceva, sarebbe stata fatta in conformità alle vecchie regole di salute e armonia a cui aderivano i guaritori indiani ayurvedici. «Sta cominciando ad andare molto bene», disse Annalee. «Ma per un po' è stato tutto assai incerto. A un certo punto, Peter parlava persino di bancarotta.» «Poi che cos'è accaduto?» «È arrivato quel prodotto, ecco che cos'è accaduto.» «Quale prodotto?» «Il prodotto di cui parlavano alla conferenza stampa. Da quel che posso giudicare, l'ha tirato veramente fuori dai guai.» Scoppiò in una fragorosa risata. «Senti, adesso che ci penso, quel prodotto ha salvato il didietro di Peter e ha fatto sparire il mio. Assolutamente fantastico.» «Non capisco.» «Il Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico in uso allo Xanadu», spiegò. «Accidenti, Sarah, ne avrai sentito sicuramente parlare.» «Oggi è stata la prima volta. Sono rimasta molto confusa quando hanno cominciato a discuterne alla conferenza stampa: sembrava che tutti sapessero quello che stava succedendo, eccetto me.» «È proprio così. Accidenti, Peter è stato così spesso in televisione ultimamente a reclamizzare quel prodotto che è un miracolo che non sia stato
proposto per un Emmy. Non guardi la televisione?» «Non ne ho il tempo.» Annalee spense la sigaretta e qualche secondo dopo ne accese un'altra. «Vedi», continuò, «fa queste televendite. Sono organizzate come dei veri programmi, mezz'ora con ospiti importanti, clip cinematografici e così via; ma in realtà sono pubblicità. Le trasmettono perlopiù a tarda sera e la domenica mattina. E gli stanno procurando un bel po' di soldi. Peter ha persino dei grafici sulla parete del suo ufficio che mostrano la costante crescita delle vendite. Da quando ha cominciato questa campagna qualche mese fa, è stato fenomenale. E a un tratto il lupo cattivo si è allontanato dalla porta di Xanadu.» «Funziona veramente questo prodotto?» chiese Sarah. «Mi affascinerebbe sapere quali erbe ci sono dentro.» «Accidenti, funziona sì», confermò Annalee. «Non è stato Peter a inventare la mistura, però. È stato quel dottore indiano, il dottor Singh. Non è dottore in Medicina, è un dottore ayurvedico. Immagino che tu sappia tutto in merito.» «La medicina ayurvedica era insegnata in India secoli prima che nascessero Ippocrate e Galeno. Ci sono delle ragioni piuttosto concrete per spiegare come è sopravvissuta tutto questo tempo.» «Be', il dottor Singh ha portato il suo prodotto a Peter qualche anno fa e gli ha offerto una sorta di società, credo. Non conosco i particolari, ma sono sicura che includono il fatto che Peter funga da portavoce della società. Sembra che il dottor Singh sia molto brillante, ma non è esattamente la creatura più fotogenica e dinamica che conosca. Ne hai sentito parlare?» «No. No, non mi è mai capitato.» «Neanch'io ne so molto. Comunque, vedendo che avevo provato centinaia di diete diverse senza molto successo, Peter mi ha chiesto se volevo fungere da cavia e provare quella roba prima dell'investimento. Il risultato?» Si alzò e girò su se stessa per permettere a Sarah di vedere. «Brava. E non ti pesa stare a dieta?» «Quale dieta? Il metodo dimagrante ayurvedico a base di erbe raccomanda di non fare diete, soltanto moderazione e astensione da alcuni cibi proibiti. E adesso arriva il bello», proseguì Annalee. «All'inizio, quando ho cominciato a prendere il prodotto, ho cercato di essere moderata, e sono dimagrita. Dopo un paio di mesi, poiché sono come sono, ho ripreso a mangiare come un maialino. Ma ho continuato a dimagrire. È questo che ha realmente convinto Peter. Non è straordinario?»
Sarah si alzò e l'abbracciò affettuosamente. «Sì», ammise. Trattenne Annalee per le spalle e la fece indietreggiare a sufficienza per guardarla in viso. «Ho sempre pensato che eri molto speciale e che, problemi o non problemi, avevi un'eccezionale potenzialità. Devi sapere che ti ho sottovalutata. Sei realmente diventata una straordinaria, magnifica persona.» «Ehi, grazie. Anche tu sei molto speciale. Ma hai tralasciato una parola, mentre mi descrivevi.» «Vediamo, magnifica... bella.» «E incinta.» Annalee notò l'ombra che attraversò il viso di Sarah. «E felice», aggiunse in fretta. «Molto felice. Questo bambino verrà al mondo, qualunque cosa accada, e se le cose andranno come voglio io, sarai tu a farlo nascere.» «Ehi, splendido. Grazie per avermelo chiesto. Chiederò al mio capo di farci da sostegno. Annalee, sono molto eccitata per te. Sei sicura riguardo alla gravidanza?» «Ho fatto il test.» «Be', congratulazioni. Ti farò una visita e magari un'ecografia. Annalee, sarà divertente.» «So che lo sarà. Dovevo decidere da chi andare a farmi visitare quando ho letto di te sui giornali. Poi ho saputo della conferenza stampa in televisione e ho detto al mio ragazzo: 'Taylor, le prime mani che toccheranno questo bambino saranno quelle di Sarah Baldwin'.» «Taylor, uhm, mi piace il nome. Dimmi qualcosa di più. Com'è? Che cosa fa?» «Vediamo... ha una faccia come quella di Denzel Washington, un didietro come quello di Wesley Snipes, e si muove come Michael Jordan.» «Cielo!» «Ed è un musicista molto bravo. Basso, chitarra, corno!» «Rock and roll?» «Accidenti, no. Jazz. Ho cantato con il suo gruppo per un po'. È così che ci siamo conosciuti. Vedi, il prodotto del dottor Singh ha avuto una specie di ritorno di fiamma su Peter; e anche su di me, credo. Ero all'università del Massachusetts, e me le cavavo abbastanza bene in psicologia; ma non mi piaceva molto, o forse non mi piaceva molto la mia misera vita sociale. Così all'improvviso, è emersa la donna che era sotto tutto quel grasso e ho cambiato rotta, potremmo dire.» «Comprensibile.» «Sono finita sulla West Coast a cantare con questo gruppo e a cercare di
fare un film. Alla fine ho incontrato Taylor. Il suo cognome è West. Ho cambiato immediatamente modo di vivere. Lui è spesso in giro e non sguazziamo certamente nell'oro. Così qualche mese fa, ho accettato l'offerta di Peter e sono tornata a casa ad aiutarlo a Xanadu.» «E che cosa ne pensa di diventare nonno?» «Uhm... non lo sa. Ha appena conosciuto Taylor ed è convinto che tornerò all'università a gennaio.» Sarah rifletté per un momento. «Mi auguro che un giorno riuscirai a laurearti», disse infine. «Ma vedi, credo che dovresti dirglielo. Concedigli il beneficio del dubbio.» «Ci penserò.» «Be', parlando da un punto di vista puramente biologico, Annalee, molto presto comincerà a chiedersi perché il suo favoloso prodotto ayurvedico non ha avuto successo per quanto riguarda specificamente il basso ventre.» «Un punto a tuo favore.» «Grazie. E sai, purché tu gli conceda il beneficio del dubbio, credo che mi sentirei molto più a mio agio se gli dicessi anche di avermi rivista. In sette anni si rimarginano quasi tutte le ferite; anche quelle di Peter. Inoltre, prima o poi salterà fuori, esattamente come il tuo ventre.» «Se vuoi, lo farò.» «Lo voglio. Ma dovresti fare quello che ritieni giusto tu. Mi sembra che, vivendo e lavorando con lui...» «Capisco.» «Inoltre, non credo che servirebbe parlargli delle lettere che ha fatto sparire.» «Storia vecchia.» «Appunto. Dio, continuo a chiacchierare. Pensi che potrei essere nervosa al pensiero di rivedere tuo padre dopo tutto questo tempo?» «Diciamo che appariresti molto più rilassata nel far nascere il nostro bambino.» Annalee scoppiò di nuovo a ridere. E ciò fece apparire il suo viso ancora più attraente. «Mi ci applicherò», disse Sarah. «Un'ultima cosa...» «Parla.» «Se diventerò la tua ostetrica e desideri che tuo figlio nasca sano, devi lasciar perdere quelle sigarette.» Gli occhi a mandorla della giovane donna si restrinsero. «Non potrei rinunciare a qualcos'altro, invece?» chiese. Sarah scosse il capo. «Temo sia importante.»
«D'accordo, va bene. Il fumo è diventato storia.» «Perfetto.» Sarah guardò l'orologio. «Senti», disse, «adesso devo tornare all'ospedale. Ma se mi accompagni, sarò lieta di ampliare un po' di più la mia versione di ciò che è successo, del motivo per cui me ne sono andata.» «Non è necessario che tu lo faccia.» Sarah infilò il braccio sotto quello di Annalee. «Lo so.» Quando arrivarono al cancello del campus dell'MCB, Annalee, scuotendo la testa mestamente, aveva circondato con il braccio le spalle di Sarah. «Niente di quello che mi hai detto mi sorprende troppo», fece. «Non è una persona cattiva, soltanto difficile, a volte. E a proposito di sorprese, probabilmente non ti sorprenderà sapere che Henry McAllister è più che mai devoto a Peter. È stato a Xanadu a pranzo, e sta disegnando una grande fontana per il prato davanti.» «Hai ragione», ammise Sarah. «Non mi sorprende...» La sua voce si spense. Sebbene avesse fatto visita a McAllister una volta in ospedale dopo l'operazione, l'uomo non aveva mai lasciato intendere di conoscere il ruolo da lei sostenuto nel salvargli la vita. E aveva preferito non essere lei a dirglielo. Sapeva, ed era ciò che contava; o almeno era così che la pensava all'epoca. «Bene», disse Annalee, cambiando chiaramente argomento. «Sia io sia il bambino che c'è qui dentro, abbiamo intenzione di divertirci un mondo nei prossimi mesi. Smetterò di fumare, smetterò di bere, smetterò di rimanere alzata fino a tardi la notte e smetterò di mangiare cioccolatini. E dimmi dovrò anche smettere di...» «No», rispose Sarah. «No, puoi continuare a farlo fin quasi alla fine.» «Nel qual caso, quello che vedi davanti a te è un esempio di gravidanza perfetta.» «Un caso da manuale. Senti, dato che sei qui, perché non passi in ambulatorio? Puoi già iscriverti come paziente esterna e fare i normali test del sangue e delle urine prima di tornare a casa. Ho abbastanza tempo per farti una rapida visita e assicurarmi che vada tutto bene. Poi, facciamo un salto di sopra, al mio armadietto. Ho una provvista di integratori naturali prenatali che prendono molte delle mie pazienti. Dovresti cominciare subito. Ammesso che tu lo preferisca a quello delle case farmaceutiche.» «Sono pur sempre la figlia di mio padre», disse Annalee. «E poi se mi prescrivi qualcosa tu, la prendo. Dopotutto, sei il medico.» Rosa Suarez posò l'ultimo dei suoi indumenti nel cassettone di acero e
poi sistemò le fotografie di suo marito Alberto, tre figlie e quattro nipotini, sul tavolino da notte coperto da un centrino. La camera che aveva preso in affitto scegliendola dalla lista fornitale dal suo reparto era tutt'altro che elegante, ma abbastanza comoda e a breve distanza dal Medical Center di Boston. Dopo quasi venticinque anni di lavoro e decine di indagini, la routine di disfare i bagagli le era familiare quanto la sua vestaglia. Ma c'era qualcosa di speciale in quell'incarico. Breve o lungo, quell'incarico sarebbe stato l'ultimo. Aveva lasciato la sua lettera di dimissioni sulla scrivania del caposezione e promesso ad Alberto che questa volta faceva sul serio. Così sarebbero stati tutti contenti. Suo marito, settant'anni, e più vecchio di lei di circa dieci, avrebbe avuto davanti a sé ancora qualche anno buono per godersi con lei la pensione. Il suo reparto avrebbe ricevuto sangue giovane. E, cosa più importante, avrebbero potuto lavarsi le mani di una collega che era diventata fonte d'imbarazzo per loro: la vecchia signora in cui credevano in molti aveva preso un grosso granchio in un'indagine importante. «Signora Suarez, ci sono qui due pacchi per lei. Pesanti», gridò la sua padrona di casa fuori della porta. «Basta che firmi, signora Frumanian. Ma non cerchi di sollevarli. Sono libri. Vengo ad aiutarla fra un minuto.» Per occuparsi del caso di Boston, Rosa aveva trascorso molte ore in biblioteca. Posò la cartella sul letto e ne trasse gli appunti che aveva preso. Preparazione diligente e attenzione ossessiva ai particolari: queste erano sempre state le sue caratteristiche. Non l'avevano mai tradita, nemmeno a San Francisco. E si augurava che non la tradissero neppure per quell'incarico. Sapeva che il suo caposezione era stato tutt'altro che felice di affidare a lei quell'indagine. Il fiasco precedente, il caso BART, gli era probabilmente costato una promozione. E da allora aveva cercato di metterle il bastone fra le ruote. Ma al momento della chiamata da Boston, lei era l'unica epidemiologa disponibile. E la gente stava morendo. Indossò la tuta grigia che le figlie le avevano regalato per Natale e scese la stretta scala. La signora Frumanian stava facendo la guardia alle due casse in attesa, era chiaro, di controllarne il contenuto. Era un gradevole donnone dai lineamenti marcati che Rosa trovava interessante. «Posso cavarmela da sola, signora Frumanian, grazie.» «Sciocchezze, io sono il doppio di lei, e lei è mia ospite. Se ha libri da
trasportare, anch'io ho libri da trasportare.» Il suo marcato accento era dell'Est europeo, ma Rosa non era in grado di andare oltre. La signora Frumanian aprì le casse con un coltello che estrasse dalla tasca del grembiule. «Ematologia... Programmazione avanzata per computer... Calcoli differenziali... Coagulazione...» La donna più anziana lesse i titoli nell'infilarsi ciascun volume sotto il braccio. La sua pronuncia era sorprendentemente buona. «Due dei miei figli hanno frequentato l'università», disse. «Portavano a casa libri come questi durante le vacanze, ma non li leggevano mai.» «Ebbene, io intendo trascorrere un bel po' di tempo a leggerli, signora Frumanian.» Rosa spinse la donna fuori della porta il più cortesemente possibile. Doveva porre dei limiti, se voleva lavorare. Le era stata offerta quell'unica possibilità per andarsene da vincente. Questa volta non si sarebbe fidata di nessuno. Proprio di nessuno. 12 Willis Grayson, stringendo fra le mani un mazzo di fiori esotici da 150 dollari, salì le scale fino al quinto piano del reparto di Chirurgia. Un leggero raffreddore lo aveva tenuto lontano dalla piscina, e quel po' di esercizio gli era gradito. Aveva lasciato l'ospedale quella mattina felice per la decisione di Lisa di parlargli. Più tardi, lui e Ben Harris avevano trascorso un'ora con il dottor Randall Snyder. L'ostetrico gli era sembrato abbastanza decente, anche se non un cervellone. Tuttavia, Ben ne era rimasto favorevolmente impressionato, e ciò era bastato ad attenuare la rabbia di Willis verso i medici che avevano curato sua figlia. Servì anche ad attenuare alcuni dei suoi dubbi sull'MCB. Le cure che Lisa aveva ricevuto sembravano adeguate, specialmente considerando che Snyder e l'ospedale avevano creduto che non fosse in grado di pagare. Era spiacevole sapere che Snyder e gli altri membri del team non avevano idea di che cosa potesse aver causato il problema emorragico. Ciononostante, sembrava che stessero compiendo uno sforzo per far chiarezza sulle cose. Grayson incaricò Ben Harris di farsi dare il nome dei principali esperti nel campo per poter affidare loro il caso. Sull'agenda di Grayson era anche segnata una visita più tardi quel pome-
riggio, al primario di Terapia e riabilitazione fisica. L'avrebbe informato con tatto che, per quanto apprezzasse gli sforzi del suo reparto, sarebbero stati gli specialisti del Rusk Rehabilitation Institute di New York a occuparsi della scelta della protesi per Lisa. E infine, probabilmente in mattinata, avrebbe cercato di incontrare l'ostetrico interno che, si diceva, avesse fatto più di ogni altro per salvare la vita di Lisa. Se, infatti, Sarah Baldwin aveva avuto un simile ruolo, avrebbe dato ordine alla sua gente di saperne di più sulla donna e le sue necessità, e di offrirle un'adeguata ricompensa. Stimolato dall'aver riconquistato il controllo che lo aveva eluso per quasi cinque anni, Grayson percorse il corridoio fino alla camera 515. Bussò lievemente e dischiuse la porta. Entrambi i letti erano stati rifatti di fresco, e la stanza non era occupata. «Che diamine!» Respingendo ansia, confusione e rabbia, Grayson aprì i due armadi di metallo e la stanza da bagno. Tutto era pulito e vuoto. Dopo aver lasciato Lisa quella mattina, aveva cercato di farla spostare in una camera singola. Quando gli avevano fatto presente che ogni stanza sul piano era doppia, aveva lasciato istruzioni alla capoinfermiera perché lo informasse su eventuali ricoveri. Era disposto a risarcirle, se necessario, purché l'altro letto della camera 515 rimanesse vuoto. Come diamine poteva essere successo? Gettò i fiori sopra uno dei letti e si precipitò al banco delle infermiere. Janine Curtis, la donna con la quale aveva parlato al mattino, apparve preparata al confronto. «Signorina Curtis», domandò, «che cos'è successo a mia figlia?» Lei sostenne il suo sguardo. «Non è successo niente a sua figlia, signore», rispose con eccessiva pazienza. «Sta procedendo bene. È stata trasferita in un'altra stanza.» «Ma avevamo stabilito che sarebbe rimasta dove si trovava, e che non avrebbero messo nessun altro nella sua stanza.» «So quello che ha richiesto, signore. Ma Lisa ha voluto essere trasferita, e noi l'abbiamo accontentata.» «Ebbene dunque, dov'è ora?» scattò. «Temo di non poterglielo dire, signore», rispose la donna. «Signorina Curtis, non sono in vena di scherzare.» «Sono la signora Curtis, e questo non è uno scherzo. Sua figlia ci ha detto piuttosto energicamente che non desidera vederla.» «Che cosa?» «Ha detto che, se desidera parlarle, può tentare di tornare domani matti-
na. Vedrà come si sentirà allora.» «Dannazione, mi ha detto poche ore fa di tornare alle tre del pomeriggio. Dov'è adesso?» «Signor Grayson, abbassi la voce, per favore. La nostra paziente ci ha dato un chiaro ordine, e intendiamo onorarlo. Le suggerirei di fare come ha chiesto e tornare domani.» «E io le suggerirei di stare molto attenta a come parla e con chi.» «Signor Grayson, ha messo bene in chiaro stamattina chi è lei. In tutta onestà, la cosa non fa alcuna differenza per me. Lisa è una persona adulta e ha il pieno controllo delle decisioni che coinvolgono la sua vita. È anche mia paziente. Ha sofferto molto e intendo fare qualunque cosa mi sia possibile per rispettare i suoi desideri.» Gli sorrise freddamente e si rimise a lavorare. Con un'occhiataccia, Grayson pensò per un attimo di controllare ogni stanza del piano. Poi se ne andò. L'incontro iniziale fra Andrew Truscott e l'avvocato Jeremy Mallon, circa due anni e mezzo prima, aveva avuto luogo durante una partita dei Red Sox contro gli Yankees. Prima che Glenn Paris annullasse il contratto dell'Everwell con l'MCB, l'organizzazione aveva usato l'ospedale per una modesta percentuale dei suoi pazienti interni. Ogni anno, come ringraziamento, l'HMO noleggiava un autobus, lo caricava di birra, e trasferiva tutto il personale dell'MCB sulla spiaggia per un picnic e poi al Fenway Park per la partita di baseball. Avendo sentito delle voci sul profondo scontento di Andrew Truscott all'MCB, Mallon aveva fatto in modo di sedersi accanto a lui. Alla fine del terzo inning, avevano stabilito un codice privato di frasi per l'ospedale e il personale chiave, ed esternato la loro antipatia per Glenn Paris e le sue pesanti battute. Alla fine del quinto inning, Truscott aveva lasciato intendere che era disponibile a fornire informazioni riservate sugli avvenimenti dell'ospedale in cambio di certe considerazioni. E alla fine del settimo si erano scambiati i numeri di telefono e avevano deciso di incontrarsi nuovamente quanto prima. Adesso, trentamila dollari dopo, Andrew scribacchiò un nome fittizio sul registro delle firme e salì con l'ascensore al ventinovesimo piano, dove si trovava lo studio legale di Waserman e Mallon. Il suo rapporto con l'avvocato era piuttosto precario. Non c'era fiducia reciproca ma, innegabilmente, ognuno aveva tratto profitto dall'altro. E con l'informazione che Andrew
aveva nella cartella quella sera, la loro collaborazione sembrava destinata a continuare. Le targhette d'ottone con i nomi sulle porte di mogano dello studio elencavano quattro soci e venti collaboratori. Jeremy Mallon era l'unico con una laurea in Medicina e una in Giurisprudenza. Lo spazioso interno, con la libreria a vetri e le scrivanie multiple, esibiva sulle pareti un'esposizione di dipinti a olio che includeva un Sargent, un O'Keeffe e un piccolo Wyeth. Passando, Truscott si chiese quante disoneste vittorie fossero state necessarie per arricchire una simile collezione. Non appena entrò nell'area della reception, Andrew sentì profumo di cibo cinese e lo seguì lungo il corridoio fino all'ufficio di Mallon. Sebbene il numero dei contenitori bianchi sparpagliati sul tavolo di tek suggerisse un piccolo banchetto, Mallon era solo. «Entri, Andy. Entri.» Con le sue bacchette, gli fece cenno di sedere. «Non sapevo che cosa le piacesse, così ho ordinato un po' di tutto.» Andrew trasalì nel sentirsi chiamare con il suo diminutivo, che non gli era mai piaciuto. Nonostante i grossi pagamenti, era guardingo riguardo a Mallon. Se non gli fosse più servito, sospettava Andrew, l'avvocato l'avrebbe divorato con lo stesso indifferente entusiasmo che mostrava in quel momento per l'anatra alla pechinese. «C'è birra, vino o qualunque altra cosa desideri nel frigorifero sotto il bar», disse Mallon. «Mi scusi se do l'impressione di essere un po' precipitoso, ma Axel sta aspettando una telefonata prima di scrivere il suo articolo, e c'è un ricevimento al mio club a cui mia moglie esige la mia presenza.» «Nessun problema.» Il mio club. Sebbene Andrew non si sentisse a suo agio con l'uomo, ammirava il suo potere e il suo stile. Più di una volta aveva pensato alla possibilità di ricalcarne le orme. Su una targhetta d'ottone, un giorno, si sarebbe potuto leggere WASSERMAN, TRUSCOTT E MALLON. «Ha già visto il telegiornale di stasera?» chiese Mallon. «No, ho appena smesso di lavorare.» «Quel fottuto di Paris ha parlato su tre canali diversi. Sono nauseato di vedere la faccia di quell'individuo in televisione.» «Chi la fa, l'aspetti», osservò Andrew battendo le dita sulla cartella. «Be', spero che quello che ha sia buono, ma siamo a corto di tempo.» «Che cosa intende dire?» «Esattamente questo. La competizione nel campo sanitario si sta facendo
ogni giorno più accanita. I pesci grossi stanno già divorando quelli piccoli. In questo momento l'Everwell è in buona posizione, ma sono così a corto di letti e uffici che hanno deciso di non poter aspettare ancora per molto che l'MCB venga messo all'asta. Stanno prendendo in considerazione altre possibilità che costeranno loro parecchi milioni in più. Abbiamo assolutamente bisogno di quell'ospedale.» «Ho sentito delle voci riguardanti massicci licenziamenti che penderebbero sull'MCB. Questo non le suggerisce che i problemi finanziari siano peggiorati?» «C'è una grossa differenza fra voci e azioni, Andy. La gente può parlare di licenziamenti, ma le mie fonti dicono che l'MCB ha invece iniziato a fare assunzioni. E c'è dell'altro. Per diversi anni ho avuto un filo diretto con alcuni creditori realmente importanti dell'ospedale. Mi hanno detto che recentemente Paris e il suo consigliere finanziario, Colin Smith, hanno smesso di affannarsi a cercare denaro. Hanno anche cominciato a pagare alcuni conti. Credo si tratti di quella fondazione di cui parlava Paris nel discorso che ha registrato.» «Quella era la prima volta che la sentivo nominare», disse Truscott. «Ed è sicuro che non ne abbia mai fatto il nome?» «Ha sentito il nastro.» «Be', deve scoprire quel nome, Andy, e in fretta. Se sappiamo che cosa ci troviamo di fronte, c'è la possibilità che riusciamo a escogitare una sorta di contromisura. Se Paris e Smith riescono a sbrogliare la matassa, non è detto che ci capiti un'altra occasione.» «Ammettendo che riesca a scoprire il nome», si sentì dire Andrew, «mi aspetto che una piccola porzione di quei milioni trovi la strada nella mia direzione.» Gli occhi di Mallon brillarono. «Si risparmi, Andy», disse con calma agghiacciante, «e non cerchi di mettermi alle strette... Va bene? Mi procuri quel nome e lasci scegliere a me la ricompensa. Sappiamo entrambi che non ha futuro all'MCB. Ed è necessario che le ricordi che, a parte qualche ospedale fuori mano, il mercato è già saturo di chirurghi? Il suo futuro è con noi, Andy. Lo sa, e lo sappiamo anche noi. Ci aiuti dunque come può e mi procuri quel nome.» Truscott arrossì. Chiaramente non era alla sua altezza. Mallon era un professionista nella manipolazione e nel controllo. Tutto quel che poteva fare Andrew era starsene lì e imparare da quell'uomo. Il suo giorno sarebbe arrivato.
«Recepito», disse. «Perfetto. Che cos'ha dunque per me in quella cartella?» Andrew gli porse il foglio che gli aveva dato Sarah, insieme alle fotocopie delle tre cartelle cliniche e alcuni appunti che aveva preso. «Questo coinvolge Sarah Baldwin», disse. «Ah, sì. Un'altra grossa spina nel fianco. Quella donna è certamente diventata una cocca dei media.» Andrew ricordò Sarah, il futuro primario in Ostetricia, seduta di fronte a lui nella caffetteria, che gli faceva una compiaciuta lezione sul potere della medicina alternativa. «Ebbene, il suo amico Devlin può essere in una posizione capace di cambiare tutto questo», disse. Mallon diede una scorsa ai componenti del prodotto prenatale di Sarah. «Sono, bene o male, tutte erbe?» «Sì, è così. Vengono bollite e bevute come una specie di tisana. Come può vedere, ognuna di esse ha diversi nomi. La Baldwin le raccomanda al posto dell'integratore standard che si prescrive solitamente alle donne. Sostiene che uno studio fatto da qualche parte nella giungla ha dimostrato che le erbe sono assolutamente superiori a quella che definisce 'vitamine trattate'.» «Affascinante. Continui, Andy.» «Be', all'MCB ritengono che la Summer sia stata il secondo caso di DIC nel nostro ospedale. Non è vero. È stata il terzo.» Gli porse la lettera del medico legale di New York. «Come constaterà dallo studio delle cartelle cliniche che ho copiato, tutte e tre le donne sono vittime della DIC: le due che sono morte e quella che è ancora in ospedale hanno una cosa in comune, oltre al fatto che erano tutte pazienti dell'MCB: tutte e tre avevano optato per la mistura di erbe.» Era chiaro dall'espressione di Mallon che non era necessaria nessuna ulteriore spiegazione. «Le prescrive anche qualche altro ostetrico?» «No.» «Dove le prende?» «Da un erborista di Chinatown. Vuole che scopra chi è?» «Certo. Ma non c'è tempo, stasera. Appena avremo finito invierò questi via fax a Devlin. E non si preoccupi. Nessun altro metterà le mani su questi documenti. Mi dica, pensa che sia stata l'assunzione di queste erbe a provocare il problema emorragico?»
«Non da sole, no. Ma ci sono esempi, molti esempi in realtà, di un'allergia a una sostanza che sensibilizza i pazienti all'azione di qualcos'altro.» «Mi faccia un esempio», disse Mallon buttando giù appunti su un blocco. «Be', vediamo. Un numero di antibiotici. La tetraciclina è probabilmente il più noto; causa estrema sensibilità alla luce del sole in taluni pazienti. La reazione non è facile da rilevare e può essere molto, molto grave. Così raccomandiamo a tutti i pazienti che ne fanno uso di rimanere coperti.» «Sì, lo ricordo. Ha avuto modo di studiare questa lista?» «Le ho dato una scorsa. Niente in essa ha molto senso per me. Ho cercato di rintracciare alcune delle erbe.» «Ebbene?» «Ci vuole qualcuno con più tempo di me, e accesso a una biblioteca migliore. I vari nomi scientifici, occidentali e asiatici, rendono la cosa piuttosto complicata.» «Più è complicata meglio è», disse Mallon. «Ci sono potenziali problemi di incomunicabilità dappertutto. Problemi linguistici, ordini di spedizione sbagliati...» «Mancanza di serio controllo dei dosaggi», aggiunse Andrew. «Contaminazione con altre erbe e pesticidi.» «Spaventoso, soprattutto se qualcuna di queste erbe ha effetti potenziali sulla coagulazione del sangue.» Mallon trascorse mezzo minuto a battere assente la gomma sul tavolo. «Ebbene, tutta la faccenda avrebbe maggior impatto se ne sapessimo di più di biologia», disse infine. «Ma finché non sarà così, penso che Devlin sarà in grado di trarre qualcosa anche da quello che abbiamo qui. Questo materiale ha un potenziale, Andy. Un grosso potenziale.» «Ne convengo.» «Mi dica, qual è il suo rapporto con Sarah Baldwin?» Truscott rifletté un momento, poi disse semplicemente: «Non ne ho alcuno». «Bene, allora faccia quello che può per scoprire qualcos'altro su di lei, Andy. Qualunque cosa.» Mallon prese due buste dalla scrivania. «Una ricompensa per la sua lealtà e per quest'informazione», disse, passandogliene una. «E qui c'è la lettera che ha richiesto dal direttore medico dell'Everwell. La posizione promessa presuppone che l'Everwell assuma la direzione dell'MCB. Niente decollo, niente posizione. Chiaro?» «Chiaro.»
«Bene, mi piace la chiarezza. Se la sta cavando bene, Andy. Benissimo.» Mallon infilò il materiale nella sua valigetta e la chiuse. «Invece di spedire tutto questo a Devlin via fax, glielo porto di persona. Spiacente di darle l'impressione che la stia mandando via, ma mia moglie mi sta aspettando.» «Nessun problema», disse Andrew Truscott mentre si avviavano all'uscita. «Ho una settimana di sonno arretrato, e dovrei cercare di rimettermi almeno parzialmente in pari; visto che domani mattina dovrei incontrarmi con Willis Grayson.» «Quel Willis Grayson?» «Sì. Non gliene ho accennato? Dio, che sciocco. Volevo parlargliene quando sono arrivato qui, ma sono rimasto così coinvolto con il...» «Mi dica, per che cosa?» Mallon aveva smesso di camminare. «La ragazza che è sopravvissuta alla DIC, quella che è ancora in ospedale...» «Sì?» «E la figlia di Grayson.» «Che cosa?» «Non conosco tutta la storia, ma so che ha vissuto per anni un'esistenza da hippy come Lisa Summer. Grayson è comparso in elicottero questa mattina e ha fissato appuntamenti con tutti i medici che hanno avuto a che fare con il suo caso.» «Perché?» «Non lo so. Immagino voglia scoprire esattamente quello che è successo. Io dovrei vederlo domani alle undici.» Mallon si fregò il mento. «Sa dove alloggia?» chiese. «Grayson? No. Non ne ho idea.» «Non importa. Posso scoprirlo. Come sta sua figlia, ora?» «È maledettamente depressa. Ma dal punto di vista medico sta andando bene. Il braccio, o almeno ciò che resta di esso, sta guarendo perfettamente.» «E ha perduto il bambino?» «Esatto.» «Il nipote di Willis Grayson...» «Scusi?» «Niente, niente.» Senza più tenere in considerazione Andrew, Mallon afferrò il telefono da una scrivania vicina, chiamò Axel Devlin e lo avvertì che gli sarebbe arrivato presto un pacchetto speciale. Poi compose un altro numero. «Chi par-
la, Brigitte? Oh, Luanne, come va? Sono Jeremy Mallon... Bene, sto bene, grazie. Senti, sai del ricevimento?... Sì, bene. La signora Mallon si trova lì in questo momento e mi sta aspettando. Vorresti per favore cercarla e dirle che arriverò tardi? Dille anzi che se non sarò lì per le dieci non ci andrò affatto. Capito?... Grazie, Luanne. Grazie mille. Mi metterò in contatto con te in settimana.» Posò il ricevitore. «Non credo che Mary Ellen getterebbe diciassette anni di matrimonio alle ortiche per via di questo ricevimento», disse più a se stesso che a Truscott. «Senta, Andy, resto qui a fare delle telefonate. Conosce la strada, vero?» «Certamente. Ha intenzione di mettersi in contatto con Willis Grayson?» «Quell'uomo ha tonnellate di avvocati, ma dubito che qualcuno di loro sia dottore in Medicina. Uomini come Grayson vogliono il meglio. Devo cercare di indurlo a capire chi, in questo genere di lavoro, è il meglio. Abbia cura di sé.» Senza attendere che Truscott se ne andasse, si riprecipitò nel suo ufficio. PRENDERE O LASCIARE di Axel Devlin 6 luglio Medical Center di Boston (MCB). A una conferenza stampa a cui partecipava praticamente chiunque in città fosse dotato di un microfono, Glenn Paris ha informato il pubblico sull'ultima tribolazione che si è abbattuta sulla sua istituzione. Sembra che alcune pazienti d'Ostetricia, siamo a conoscenza di tre, siano state colpite da una terribile forma emorragica nota come DIC. Una di queste poverine ha perso un braccio. Le altre due la vita. E in tutti e tre i casi, i figli sono morti prima di venire alla luce. CINQUE VITTIME, UNA MENOMATA. Questa è una faccenda seria, amici miei. Seria e terrificante. Preoccupandosi sempre dell'immagine, ieri Paris ha inscenato un simpatico show, il cui scopo era di saggiare la preoccupazione del pubblico su quest'improvvisa epidemia letale. Sono state date delle spiegazioni. Paris ha promesso un'immediata indagine da parte della sezione di Epidemiologia dei Centers for Disease Control di Atlanta. E, ultima cosa ma non meno importante, l'erborista, agopuntore e ostetrica Sarah Baldwin ha spiegato come sia subentrata all'ultimo momento con i suoi fidati aghi per salvare la vita dell'ultima vittima della DIC. Bene, ne è risultato un fatto che né la dottoressa Baldwin né il signor
Paris hanno deciso di condividere con il pubblico, un fatto essenziale che accomunava le donne: tutte e tre avevano preso un INTEGRATORE VEGETALE PRENATALE ideato dalla stessa dottoressa Baldwin. È composto da nove tipi diversi di erbe e radici. La buona dottoressa lo raccomanda a tutte le sue pazienti esterne al posto di sperimentate e sicure vitamine prenatali. Ora, due di queste pazienti che hanno fatto uso del preparato sono morte e la terza è rimasta menomata. Coincidenza? Bene, ho passato tutto questo a un amico farmacista. Stiamo ancora cercando di cancellare l'espressione attonita dalla sua faccia. Adesso lui ha l'elenco delle radici e delle erbe della pozione della dottoressa Baldwin e ha promesso di svolgere alcune ricerche per tutti noi. Frattanto neanche lui sarà in grado di rispondere a domande come: «Da dove vengono queste erbe e queste radici? Chi le controlla per un'eventuale contaminazione? Chi le controlla per la composizione?» Incredibile, vero, quello che può succedere quando a un'istituzione sanitaria è concesso di allontanarsi sempre di più dalla medicina tradizionale. Ebbene, restate sintonizzati... E poi non dite che il vecchio Axel non vi aveva avvertiti. 13 6 luglio Sarah era in sala operatoria sotto una gelida luce biancoazzurra. Stava facendo venire alla luce un bambino con un cesareo davanti a un gruppo di osservatori, gruppo che sembrava includere ogni persona con la quale aveva avuto qualche contatto nell'ultima settimana densa di avvenimenti. «Peccato che il suo bambino sia morto», disse alla paziente che aveva la faccia coperta da un lenzuolo. Si girò verso il pubblico e si inchinò. «Peccato che il bambino sia morto.» Glenn Paris le sorrise approvante, e così fecero Randall Snyder e Annalee Ettinger. Alma Young, in uniforme, applaudì e le soffiò un bacio. Diversi giornalisti della conferenza stampa le fecero cenni di approvazione. Altri la fotografarono. Poi, con un ampio gesto, lei tirò indietro il lenzuolo e vide se stessa. I suoi occhi erano due buchi, la sua bocca era aperta in un silenzioso grido di morte. Sarah si svegliò gridando, in un bagno di gelido sudore. Erano le quattro e mezzo del mattino.
Tremando, scese dal letto e indossò la vestaglia. Poi si preparò un po' di tè e un bagno caldo. Sapeva di essere terrorizzata non solo per l'incubo in sé, ma per l'intensità con cui l'aveva vissuto. Per buona parte della sua infanzia era stata schiava di ogni genere di incubi. Lo scenario più ricorrente, anche di due o tre volte la settimana, la vedeva legata, imbavagliata e resa completamente inerme. Poi veniva ripetutamente pugnalata, picchiata, soffocata, lanciata da una grande altezza, o gettata in mare. Mai in quegli orribili sogni vedeva la faccia del suo aggressore. In rare occasioni l'uomo, non dubitava che fosse un uomo, le spegneva le sigarette addosso. A volte quegli incubi la perseguitavano e la dominavano così tanto che si rifiutava di addormentarsi. Quando aveva circa dieci anni, dietro suggerimento di una insegnante preoccupata, cominciò ad andare da una psicologa. Sembrava ovvio alla donna che un evento nel passato di Sarah, isolato o ricorrente, fosse alla base di quel terrore. La terapeuta fece quel che poté per risalire alla fonte. Ma la madre di Sarah, affondando sempre di più nella sua demenza, poteva fornire poche informazioni utili. La psicologa mandò Sarah a fare alcune sedute di ipnosi, e una volta si prese un giorno libero per accompagnarla a Syracuse per un consulto al centro universitario. Non servì a nulla. Sarah non riusciva a collegarsi ad alcun avvenimento della sua infanzia che avrebbe potuto causare simili fantasie. Durante il college quei sogni perturbanti parvero ricorrere meno frequentemente, ma non erano certo meno terrificanti. Tentò un altro corso di psicoterapia e di ipnosi, e consentì persino a prendere delle pillole che, diceva il suo medico, dovevano alterare il corso neurologico del suo sonno. Alla fine sopraggiunse la pace. Trovò la risposta nei semplici montanari per aiutare i quali aveva viaggiato per mezzo mondo. In un villaggio sulle colline di Luang Chiang Dao, a qualche chilometro dal confine birmano, il suo mentore, il dottor Louis Han, l'affidò alle mani di un guaritore, un uomo avvizzito ricurvo che aveva, a detta di Han, più di centodieci anni. Il guaritore, parlando un dialetto mandarino che Sarah non riusciva a capire, comunicava con lei attraverso Han. Che i suoi incubi si fondassero su un avvenimento passato o magari su uno futuro non aveva importanza, diceva. Quello che importava era che al momento di dormire non era a suo agio. Lo spirito che la guidava durante il giorno rimaneva racchiuso in lei. I sogni distruttivi non erano altro che lo spirito di quel giorno, che esprimeva la sua rabbia per essere trattenuto e richiedeva una netta separazione
da lei perché potesse a sua volta riposare e rinnovarsi. Quel che Sarah doveva fare per porre fine a quegli incubi, consigliò il vecchio, era trascorrere un po' di tranquillo tempo contemplativo alla fine di ciascuna giornata, abbracciando il suo spirito guida e poi liberandolo. Nemmeno Louis Han conosceva l'esatta natura della tisana che il guaritore preparò per lei quella sera, ma Sarah la bevve volentieri e presto si addormentò. Quando si svegliò, due giorni dopo, sapeva che lo spirito che c'era in lei era un elegante cigno bianco. Ogni sera da allora fece meditazione prima di andare a letto, vedendo spesso il suo cigno alzarsi in volo. Le sue giornate, anche le più difficili, cominciarono a concludersi pacificamente. E i vividi incubi che avevano sfidato lei e tanti medici non si erano più ripresentati o almeno non fino a quella sera. La provvista d'acqua calda nel palazzo di Sarah, che durante la mattinata sarebbe stata inadeguata anche per una semplice doccia, era copiosa di buon mattino. Sarah tenne la vasca piena finché non le fu passato del tutto il tremito. Le cose avvengono per un motivo, rammentò a se stessa. La fede era una delle colonne su cui aveva edificato la propria vita. Le cose avvengono per insegnarci o spingerci in altre, più importanti direzioni. Quando si asciugò e infilò la vestaglia, il messaggio nel suo incubo, due in realtà, sembrò molto chiaro. Comprensibilmente, ma in modo inaccettabile, aveva cominciato a permettere alle esigenze lavorative di avere la precedenza nella sua vita. I suoi momenti di meditazione e riflessione erano diventati brevi e generalmente vani. Stava via via prestando sempre meno attenzione a se stessa, credendo sempre di più che il suo lavoro a beneficio degli altri fosse sufficiente a darle la forza di affrontare ciascuna giornata. Gli incubi le dicevano altrimenti. Le dicevano anche qualcos'altro: aveva fatto abbastanza apparizioni sul palcoscenico dell'ospedale. Basta telecamere, basta interviste. Si avvicinò alla finestra. 1 primi raggi dell'alba brillavano contro un opaco cielo color ardesia e facevano scintillare una nebbiosa pioggerellina. Un'altra cosa positiva che le aveva procurato il suo incubo era un po' di tempo extra prima del lavoro. Tempo per concentrarsi, per riacquistare prospettiva. Dall'indomani, decise, quando non fosse stata in ospedale, avrebbe caricato la sveglia venti minuti prima. Mise una cassetta con suoni dell'oceano, posò un grosso cuscino sul pavimento e sedette in posizione fior di loto. Per favore, fa' che io faccia la cosa giusta oggi, pensò, sistemandosi con qualche profonda inspirazione. Per i miei pazienti e per me,
fa che io faccia la cosa giusta. Il suo respiro divenne più lento, più basso. La rigidità nei suoi muscoli cominciò a sparire. I suoi pensieri si fecero più diffusi e meno inquietanti. Poi suonò il telefono. Il quinto squillo le disse che la segreteria telefonica non era inserita; il decimo, che chi chiamava era determinato, o in difficoltà. Scommettendo che avevano sbagliato numero o, peggio, che era uno scherzo, Sarah si trascinò fino al telefono accanto al divano. «Pronto», disse, schiarendosi la gola dagli ultimi residui del sonno. «Dottoressa Baldwin?» «Sì?» «Dottoressa Baldwin, sono Rick Hochkiss. Sono un corrispondente dell'Associated Press, ed ero alla conferenza stampa che ha tenuto ieri.» Si chiese se non dovesse semplicemente riattaccare. «Che cosa vuole?» domandò infine. «Be', innanzitutto vorrei i suoi commenti sulle accuse rivoltele nella rubrica di Axel Devlin stamattina...» Lisa Grayson sedeva davanti allo specchio posato sul vassoio, cercando di sistemarsi i capelli come meglio poteva. Fra qualche minuto suo padre avrebbe compiuto la sua terza visita all'ospedale. Questa volta era disposta a vederlo. Aveva preso la decisione la sera prima. Ma, neanche un'ora prima, un fattorino aveva consegnato una collana d'oro con sopra elegantemente inciso il suo nome e una scheggia di diamante che punteggiava la «i». Se fosse stato solo quello, se suo padre avesse continuato a non mostrare alcun intuito per ciò che era e quello che era importante per lei, avrebbe anche potuto decidere di rimandarlo via. Ma allegato al dono c'era un biglietto. Era scritto sulla carta da lettera che sua madre aveva ordinato anni prima, con un'incisione di Stony Hill, la loro casa. Lisa posò la spazzola e studiò l'immagine, chiedendosi se la sua stanza fosse cambiata. Poi rilesse le parole del padre. Cara Lisa, so che sei arrabbiata con me per le cose che ti ho fatto. Mi dispiace di non aver cercato di conoscerti meglio. Ho bisogno di te. Ti prego, perdonami e rientra nella mia vita. Ti prometto che questa volta sarà come vorrai tu.
Con affetto, papà Mi dispiace! Cinque anni. Cinque anni sottratti alla loro vita insieme. Se solo avesse capito che quelle erano le uniche parole che aveva bisogno di sentire. Mi dispiace... Ho bisogno di te! Lisa toccò la benda che copriva quel che restava del suo braccio. Adesso aveva anche lei bisogno di lui. Forse ne aveva sempre avuto. Il telefono del comodino interruppe i suoi pensieri. «Pronto?» «Lisa, sono Janine, al banco delle infermiere. C'è di nuovo qui tuo padre.» «Bene. È ora. Può mandarlo qui, per favore?» Quando Willis Grayson bussò ed entrò nella stanza, Lisa era in piedi, di fronte a lui. L'uomo stringeva una rosa in mano e un giornale nell'altra. Rimase per un po' sulla soglia, osservando la ragazza, poi lasciò cadere il giornale e il fiore sul letto e corse ad abbracciarla. «Non hai idea di come abbia sofferto senza di te», disse. «Papà, hai scritto di essere dispiaciuto per come mi hai trattata, per avermi allontanata da te. Era tutto quello che dovevi dire.» «Ti rivoglio a casa con me. Oggi.» «Credo che non mi dimetteranno fino a domani.» «Lo faranno se glielo chiederai tu. Ho già parlato con il dottor Snyder e con il dottor Blankenship. I tuoi valori sono normali, e possiamo farti togliere i punti nel nostro ospedale.» «Com'è la mia stanza?» «A Stony Hill?» «Sì.» «Be', è... è come prima. Come il giorno in cui l'hai lasciata. Come sempre. Verrai?» «Ho alcune cose da ritirare a casa mia. E voglio salutare i miei amici.» «Tim e io ti aiuteremo», disse Grayson eccitato. «La tua amica Heidi può venire e restare con noi quando e quanto vuole. Le ho parlato diverse volte. È una gran brava persona.» «Possiamo andarcene, ora?» «Avvertiamo le infermiere e, non appena arriveranno i medici a dare il benestare, ce ne andremo di qui.» «Vorrei vedere la dottoressa Baldwin, prima di andarmene.» L'espressione di Grayson si indurì. «Lisa, potresti sederti per qualche
minuto? C'è qualcosa di cui dobbiamo parlare.» Le porse la pagina dell'Herald con la rubrica di Devlin. «Due donne morte? È vero?» «Temo di sì. Hai preso quelle erbe?» «Ogni settimana. Due volte la settimana verso la fine. Le hanno prese anche le altre due donne?» Grayson annuì. «Lisa, ci sono due uomini con i quali vorrei che parlassi. Sono avvocati. Voglio che ci rappresentino.» «Che ci rappresentino?» Grayson indicò la sua fasciatura. «Se qualcuno, chiunque, è responsabile di questo e di quello che è successo a mio nipote, tuo figlio, voglio che paghi duramente come hai pagato tu.» «Ma la dottoressa Baldwin...» «Lisa, non sto dicendo che ne è responsabile lei, o chiunque altro. Voglio solo che parli con quegli uomini.» «Ma...» «Tesoro, altre due donne e i loro figli sono morte a causa di questa cosa. Dobbiamo arrivare in fondo. Per il loro bene, per il tuo bene, e soprattutto per il bene di chiunque possa venire dopo.» «Purché tu mi prometta che non verrà fatto niente senza la mia approvazione», disse esitante. «Te lo prometto.» «Papà, sto parlando sul serio.» «Niente verrà fatto senza la tua approvazione. Vuoi dunque parlare con queste persone?» «Se proprio lo desideri.» «Lo desidero.» Grayson si diresse alla porta e fece un cenno. Qualche attimo dopo entrarono due uomini con le loro valigette. Uno era molto grasso. L'altro aveva lineamenti sottili e affilati, con duri occhi grigi. «Signorina Lisa Grayson», disse orgoglioso suo padre, rivolgendosi al più pesante dei due, «questo è Gabe Priest. Il suo studio si occupa di molti dei nostri affari a Long Island.» L'avvocato mosse un passo avanti, sul punto di offrire a Lisa la mano destra. All'ultimo momento si rese conto di quello che stava facendo, indietreggiò e annuì. «E quest'uomo si occuperà delle nostre cose a Boston», continuò Grayson facendo cenno all'altro di venire avanti. «Lisa, vorrei presentarti Je-
remy Mallon.» 14 All'una e un quarto del pomeriggio, per la prima volta nella sua vita professionale, Sarah chiese di essere sostituita in sala operatoria. Il caso era abbastanza semplice e desiderava occuparsene da tempo. Ma la mattinata era stata un susseguirsi di conferenze, spiegazioni e telefonate. E per quanto si sforzasse, non riusciva a concentrarsi a sufficienza per sentirsi a suo agio in sala operatoria. «Per un medico con problemi personali o professionali che lo distraggono, non c'è luogo più difficile o pericoloso in cui trovarsi che un ospedale.» Sarah aveva sentito più volte questa dichiarazione, ma non l'aveva mai sperimentata di persona. Portò una tazza di tè in una delle stanze riservate agli interni e si sdraiò, cercando di dominare il mal di testa. La telefonata delle cinque e mezzo del mattino da parte del cronista dell'Associated Press era stata rapidamente seguita da altre tre, tutti giornalisti che volevano conoscere la sua opinione sulla rubrica di Axel Devlin. Dopo il suo decimo «No comment» e il suo quarto «La prego, non mi richiami», aveva staccato il telefono. Il breve tentativo di riprendere la meditazione era stato infruttuoso. Infine, aveva indossato un impermeabile giallo e si era incamminata con la bicicletta al fianco fino al piccolo negozio in fondo alla strada. C'erano altre tre persone. Sarah si sentiva appariscente e a disagio mentre pagava il caffè, la brioche e poi, con la massima disinvoltura, una copia dell'Herald. Rannicchiata sulla soglia deserta di un negozio lungo la strada, dapprima sbirciò e poi lesse con più attenzione l'articolo di Axel Devlin. Il pezzo la disturbò enormemente, ma più per i pregiudizi e il chiaro intento di ferirla che per il contenuto. Quello che Devlin aveva scritto era essenzialmente reale. Tutte e tre le vittime della DIC avevano visto Sarah in ambulatorio. E tutte e tre avevano optato per l'integratore vegetale. Ma qualunque cosa avesse causato il problema emorragico non aveva niente a che fare con quella scelta. Le erbe che aveva prescritto erano l'esatta mistura che un apposito studio aveva rivelato superiore al prodotto sintetico. Disponeva di fotocopie dell'articolo, pubblicato in inglese su una delle riviste mediche più prestigiose dell'Asia, e gliene avrebbero fornita una copia originale se l'avesse richiesta.
Il contenuto e la genuinità del suo preparato era garantito da Kwong Tian-Wen, uno dei più vecchi, esperti e rispettati erboristi del Nordest. La purezza del suo prodotto, poteva facilmente dimostrare, rivaleggiava o persino superava quella della maggior parte dei prodotti farmaceutici, soprattutto generici. Ogni tanto, da quando le norme governative avevano cominciato a richiedere l'uso di sostituzioni generiche, dove possibile, l'una o l'altra delle molte transitorie società industriali erano state citate per immettere sul mercato medicinali scadenti. E molte volte i prodotti coinvolti avevano una potenzialità di vita, o di morte. Ciononostante, la punizione inflitta alle società era perlopiù un semplice ammonimento. Sarebbe stato un piacere, pensava Sarah, divulgare simili questioni. Se solo Devlin avesse fatto onestamente il suo lavoro. Se solo avesse chiesto la sua opinione. Adesso doveva affrontare la prospettiva di tenere una conferenza stampa solo per accertarsi che le sue risposte alle di lui asserzioni fossero esposte chiaramente e totalmente. Durante la mattinata appena trascorsa, l'atmosfera che la circondava era stata in netto contrasto con le acclamazioni e le manate sulla spalla che erano seguite alle cure impartite a Lisa Summer. Quando arrivò al piano di Ostetricia e ginecologia per i soliti giri di visite, copie dell'Herald erano dappertutto, sul banco delle infermiere, sui comodini dei pazienti, perfino nel bagno riservato al personale. C'era una freddezza quasi palpabile da parte di molte delle infermiere, oltre a bisbigli mormorati alle sue spalle e gesti che coglieva con la coda dell'occhio. Ma praticamente nessuno le nominò la rubrica, nessuno tranne il suo primario, il capo del personale, il presidente dell'ospedale e il responsabile delle Pubbliche relazioni. A mezzogiorno cercò di evitare la follia di andare a trovare Lisa. Se qualcuno poteva confutare le implicazioni di Devlin, quel qualcuno era lei. La stanza vuota, pulita e in attesa del prossimo paziente era inquietante, ma non più della notizia che Lisa aveva lasciato l'ospedale con suo padre meno di quarto d'ora prima senza neanche tentare di chiamare Sarah. Non era stato lasciato nessun messaggio. Solo un ordine di dimissione da parte di Randall Snyder, e se n'era andata. Un'ora dopo Sarah aveva chiesto a qualcuno di occuparsi del suo caso di laparoscopia. Ma per le quattordici e mezzo, un breve sonnellino e tre aspirine avevano alleggerito la pressione nella testa di Sarah. Aveva posato il suo Herald sulla piccola scrivania di metallo e tirato fuori da un cassetto un blocco per appunti. Era sempre stata combattiva. Per due volte in passato aveva deci-
so di non degnare di una risposta le frecciate di Axel Devlin. Questa volta non avrebbe girato la schiena alle sue angherie. Avrebbe affermato e riaffermato la sua posizione e le sue qualifiche. E non avrebbe smesso finché le sue distruttive, irresponsabili tecniche giornalistiche non fossero state smascherate. A Wellesley la sua tesi in antropologia era stata altamente apprezzata, sia per il contenuto sia per lo stile. Non c'era ragione per cui non potesse stilare un comunicato stampa che avrebbe rimesso al suo posto Devlin ed evidenziato la validità di alcune terapie vegetali. Rilesse attentamente l'articolo, questa volta sottolineando parole e frasi chiave. Sebbene non fosse essenziale, l'avrebbe aiutata a conoscere la fonte d'informazione di Devlin. Glenn Paris aveva parlato di costanti, dannose fughe di notizie dall'ospedale. Che quella rubrica fosse il risultato di un'altra di quella serie di indiscrezioni? O forse qualcuno stava esplicitamente cercando di colpirla? «Integratore prenatale vegetale... Nove diverse qualità di radici ed erbe...» Era possibile che una sua paziente fosse andata da Devlin con la ricetta? Non aveva senso. Non aveva mai tenuto segreto l'integratore o il suo contenuto. E nessuno, nemmeno Devlin, aveva mostrato particolare interesse. Finora, almeno. «Ora due di queste pazienti sono morte e la terza è rimasta menomata...» Sarah scarabocchiò assente con la penna il bordo del blocco. Chi sapeva che aveva visitato in tempi diversi le tre vittime nell'ambulatorio? Chi aveva avuto accesso alle loro cartelle cliniche? Possibile che si fidasse di una fonte che non fosse medica? «Da dove provengono queste erbe e queste radici? Chi le controlla per un'eventuale contaminazione? Per la composizione?» Anche il tono delle domande di Devlin era professionale. Qualcuno gli aveva suggerito le parole. Inoltre, quel qualcuno doveva essere quasi certamente un medico. Per qualche minuto, Sarah chiuse gli occhi, frugando nella memoria, vagliando i fatti e le possibilità. «No», sussurrò all'improvviso. «Oh, no.» Tirò la penna contro il muro. Poi afferrò il camice e uscì precipitosamente dalla stanza. «Perché, Andrew?» gridò mentre scendeva di corsa le scale. «Mio Dio, perché?»
«Denaro, naturalmente», rispose Truscott con semplicità. Sarah pestò il pugno sull'Herald. «Andrew, so che non ti piace Glenn, e che non ti piace questo posto. Ma siamo amici da più di due anni. Mi avresti fatto questo per denaro?» «No, non per denaro, cara. Per molto denaro. E sul fatto di essere amici, l'ultimo amico che ricordo di aver avuto mi ha fregato la bicicletta al liceo e l'ha regalata a una ragazza che gli piaceva.» «Oh, Andrew.» «Puoi farcela, cara. Sei forse la donna più competente che conosco. E ricorda, non esiste una cosa come la cattiva pubblicità. Esiste solo la pubblicità. Quest'articolo farà conoscere la tua causa.» «È una stronzata, Andrew, e lo sai. Chi ti ha pagato? Devlin? L'Everwell?» Guardò bieca il chirurgo attraverso la scrivania. «Non sono affari tuoi sapere chi mi ha pagato», rispose Truscott. «Vedi, Sarah, non mi sono inventato bugie su questo posto o su di te. Hai visitato quelle tre donne e hai dato loro la tua pozione.» «Andrew, prima di passare queste informazioni a una persona come Devlin, avresti potuto prenderti la briga di parlarmi, o leggere gli studi fatti su questo prodotto integrativo. Sai che quello che hai fatto, il modo in cui l'hai fatto, è sbagliato. Puoi almeno ammetterlo?» «Ascoltami bene», ribatté Truscott con veemenza. «Ammetterò che ciò che ho fatto è sbagliato quando tu ammetterai che da quando sei arrivata in questo posto hai scocciato tutti con quel tuo atteggiamento riguardo le inadeguatezze e l'insensibilità con cui noi, poveri limitati medici, facciamo le cose. Ti aggiri con quell'espressione compiaciuta che dice 'se-soloconosceste-i-segreti-che-conosco-io', un'espressione che tutti in questo posto giudicano minacciosa.» «Ma...» «Lasciami finire! Puoi essere convinta di aiutarci a diventare dottori più completi. Ma anche in questo posto, anche all'MCB, dove non funziona quasi niente, sei considerata una mezza pazza. Le donne dello staff pensano che tu non sia abbastanza professionale, e gli uomini sono così intimiditi da te che ti evitano come i comandanti di una nave evitano gli iceberg. Dunque prima di aggredirmi, faresti bene ad analizzare meglio te stessa.» Sarah si sentì vicina alle lacrime. Era stata offesa, palesemente offesa da quell'uomo. Durante quegli anni all'MCB aveva percepito quasi universale rispetto e consenso da parte del personale maschile e femminile. Molti, come Alma Young, si erano persino presi la briga di dirglielo. Dopo ven-
t'anni che operava da solo, Randall Snyder la stava prendendo in considerazione per una collaborazione. Perché permettere a quel clone di Peter Ettinger di aggredirla a quel modo? Si morse l'interno del labbro finché non fu certa di trattenere le lacrime. Poi afferrò l'Herald e si girò verso la porta. «Dove stai andando?» domandò Truscott. «Sto tornando a lavorare.» «Che cosa intendi fare a questo riguardo?» «Se vuoi chiedermi se sto andando da Glenn, la risposta è che non lo so ancora.» «Non mi licenzieranno. Non senza una prova schiacciante.» «Andrew», disse senza voltarsi, «ora, grazie a quello che hai fatto, ho cose più importanti di cui preoccuparmi che se ti licenzieranno o no.» 15 7 luglio La palestra, un ampio solarium sul retro di Great House, era attrezzata come un centro di bellezza. Annalee Ettinger, sebbene non fosse fanatica quanto suo padre in fatto di esercizio fisico, ne usufruiva quasi quotidianamente. Quel giorno Peter aveva appena finito una lezione con il suo istruttore e si stava esercitando ancora un po' con i pesi. Annalee fingeva di fare esercizi in attesa di parlargli. Benché non provasse più la stessa meraviglia e lo stesso timore che aveva provato per anni, non si sentiva comunque del tutto a suo agio con lui. E per quanto lo capisse a sufficienza da prevedere la sua reazione di fronte a gran parte delle situazioni, era completamente all'oscuro di come avrebbe reagito a quello che stava per rivelargli. Lo guardò e non poté fare a meno di rimanere colpita. A quarantotto anni aveva il fisico di un trentenne. Nella vita professionale e personale non era abituato alla debolezza e all'insuccesso. Come avrebbe giudicato le decisioni che lei aveva preso? Annalee non aveva ancora due anni quando l'aveva portata a casa dal Mali. Nei suoi racconti sull'adozione, Peter aveva sempre lasciato intendere che le aveva salvato la vita. Sua madre era morta di dissenteria e le possibilità che lei rimanesse in vita erano scarse. «Avrei voluto portare ogni bambino orfano di quel villaggio a casa con
me», aveva ripetuto più di una volta. «Ma non era possibile. Così ho valutato attentamente decine di fattori in decine di bambini, e alla fine ho scelto te perché non mi lasciavi andare la gamba.» Fin dal principio, gli standard di successo che aveva prefisso per sé erano gli stessi che aveva prefisso per lei. Durante gli anni scolastici, i suoi persistenti problemi di peso e di noia erano stati fonte di costante preoccupazione. Tuttavia, benché si sentisse spesso giudicata e inadeguata, non aveva mai dubitato del suo affetto. Nei loro vent'anni insieme era uscito con molte donne, aveva vissuto con due, e ne aveva sposata una. Ma non l'aveva mai fatta sentire seconda a nessuna di esse. E adesso, malgrado gli anni di ribellione e insensibilità nei suoi confronti, l'aveva riaccolta a casa, aveva provveduto a lei e l'aveva resa partecipe di Xanadu, partecipe del suo sogno. La Xanadu Holistic Health Community era edificata su circa seicento chilometri quadrati di terreno agricolo e boschivo, attraversato da mura centenarie di pietra grezza. La casa principale, un ampio edificio di tredici stanze, era stata costruita nel 1837. Quando Peter aveva acquistato la proprietà, la casa era così in rovina che diversi architetti avevano ritenuto impossibile restaurarla. Lui aveva dimostrato loro che si sbagliavano. E adesso la casa era il capolavoro di Xanadu. Peter aveva assegnato ad Annalee un piccolo ufficio al pianterreno e l'aveva nominata vicedirettore dell'ufficio Marketing e pubbliche relazioni. Avevano deciso insieme, lui in realtà, che quando avesse ripreso gli studi a tempo pieno in gennaio, si sarebbe specializzata in Economia. Nel frattempo, durante le estati e i periodi di vacanza, avrebbe continuato ad ampliare il suo ruolo a Xanadu. Adesso, in un modo o nell'altro, quei piani accuratamente predisposti avrebbero dovuto cambiare. «Ehi, papà, stai bene. Stai proprio bene», disse. Peter stava eseguendo piegamenti con un peso per ciascuna mano. La fronte e i capelli argento tagliati a spazzola brillavano di quella che Annalee riteneva fosse la giusta quantità di sudore. «Goditi la giovinezza finché ce l'hai», ribatté lui senza rallentare. «Te ne vai?» «Sì. Non non mi sento molto in forma, oggi.» Il commento pose bruscamente fine agli esercizi di Peter. «Adesso che ne parli, ho notato che non avevi una bella cera negli ultimi due giorni», disse asciugandosi. Sciocchezze, pensò lei. Dubitava che si fossero visti più di cinque minuti
nella settimana precedente. «Un po' smunta, eh?» fece. «Sì, sì. Esattamente.» Diede un'occhiata al suo bel faccino color ebano. «Oh, molto buffo.» Annalee rammentò a se stessa che il senso umoristico di suo padre era meno sviluppato di altri suoi attributi. Tese al massimo il lungo corpo snello e si chiese se avesse notato la piccola bassa protuberanza sotto la calzamaglia. «Ho un po' di mal di stomaco», disse. «Forse ti farebbe bene un po' di tisana al ginseng.» Guardò fuori della finestra verso la collina. «E sono un po' gonfia.» «In questo caso, allora, dovremmo aggiungere un po' di buccia di mela e dello zafferano.» «E... e non ho il mio ciclo da cinque mesi.» Peter si tese visibilmente e si girò pian piano verso di lei. «Quanto?» «Cinque mesi.» Lui strinse gli occhi. «Devo supporre che tu sia incinta?» Annalee abbozzò un sorrisetto. «È una supposizione saggia», ammise. «West? Il musicista?» «Sì. Il suo nome è Taylor, papà, nel caso te lo sia dimenticato.» «Sei certa?» «Sul fatto che sia Taylor?» «No, sulla gravidanza.» Annalee analizzò il volto e la voce del padre, cercando di capire quel che stava pensando e provando. A prima vista i segni non erano incoraggianti. «Ne sono certa, ho fatto il test. E, Peter, prima che tu mi rivolga la prossima domanda ovvia, voglio che tu sappia che sono molto felice ed eccitata per questo.» «Bene.» «Ti prego, non essere così distaccato.» Peter s'infilò una maglietta. Annalee lo vedeva analizzare le implicazioni della notizia che gli aveva appena dato. Il suo scontento era palese. Ma questo non era una sorpresa. «E Taylor?» chiese. «Starà ancora spesso in giro con la band, ma prima o poi ci sposeremo.» Peter afferrò un manubrio da dieci chili e compì una mezza dozzina di
esercizi prima con un braccio, poi con l'altro. «Lo ami?» chiese all'improvviso. La domanda la fece trasalire. «Sì... Sì, lo amo molto.» «E prende seriamente la sua musica?» «Sì. Molto seriamente.» Annalee stentava a credere alle sue orecchie. Questo era un lato del padre che per anni aveva creduto fosse riservato soltanto ai clienti. «Ho un amico, un paziente, in realtà, che è vicepresidente della Blue Note Records. Conosci questa società?» «I migliori produttori di musica jazz.» «Potrei procurare un'audizione al gruppo di Taylor.» «Peter, sarebbe meraviglioso.» «Dopo il matrimonio.» «Questo è una specie di...» «E se il mio amico dirà che sono abbastanza bravi, appoggerò la produzione del loro album.» «Capisco.» «Ammesso che scegliate di rimanere qui a Xanadu, almeno finché non sarete finanziariamente in piedi.» «È un'offerta molto generosa.» «Annalee, sei la mia unica figlia. Voglio che tu faccia una bella vita.» «Capisco», ripeté, ancora sorpresa e un po' stupita della sua reazione. «Non posso dare per scontato che Taylor accetterà le tue condizioni. Ma credo che lo farà.» «Lo penso anch'io», asserì Peter. «E, naturalmente, mi piacerebbe che il bambino nascesse qui a Xanadu. Ci rivolgeremo alle migliori levatrici del mondo per assisterti.» «Peter, io... io ho più o meno deciso che avrò il bambino in un ospedale, assistita da un'ostetrica.» «Ah.» Annalee comprese che suo padre aveva già capito tutto. «Sono già stata da una. Ha acconsentito a prendermi in cura.» «Una?» Annalee sospirò. «Sarah. Sarah Baldwin. Sono stata da lei all'ospedale.» L'esplosione che si aspettava non ebbe luogo. «Capisco», disse semplicemente Peter. «Che cosa?»
«Ti ho vista fra il pubblico al telegiornale della sera. Dire che spiccavi tra la folla non ti renderebbe giustizia.» «Perché non hai detto niente?» «Lo sto dicendo adesso. Ora che conosco il motivo della tua visita lì, sto dicendo molto. Non voglio che mio nipote venga al mondo in un ospedale infestato da germi e puzza di antisettico. E soprattutto non aiutato da Sarah Baldwin.» «Ma...» «Annalee, ci sono una copia dell'Herald di ieri e del Globe di stamattina sulla panchina laggiù. Entrambi contengono articoli su Sarah. Immagino che tu non li abbia letti né abbia sentito il telegiornale di ieri sera, altrimenti vi avresti accennato.» Attese pazientemente che lei scorresse i giornali. «Ti ha già ordinato quelle erbe?» chiese. «Sì. Credevo... credevo che fosse qualcosa che avresti approvato.» «Mai approverei quello che potrebbe fare Sarah Baldwin, se non il fatto di rinunciare ai suoi sforzi distruttivi di combinare la medicina con le cure olistiche.» «Ma...» «Annalee, verranno due uomini alle due di questo pomeriggio. Credo che dovresti essere presente all'incontro.» «Chi sono?» «Alle due nel mio ufficio. E, per favore, non una parola con Sarah Baldwin. Almeno finché non saprai quello che hanno da dire questi uomini. D'accordo?» Annalee studiò la pena e la rabbia sul volto di suo padre. Sapeva che Sarah lo aveva ferito andandosene. Ma finora non l'aveva realizzato. «D'accordo», disse infine. 16 8 luglio Lydia Pendergast si piegò dalla vita in giù e lentamente, molto lentamente allungò le mani verso il pavimento. Su un lato del piccolo ambulatorio, Sarah, il chiropratico Zachary Rimmer e una delle infermiere del Centro di terapia del dolore guardavano con aspettativa. «Ecco che va giù, giù», disse Lydia, «e fin dove arriva nessuno lo sa
più.» Era una donna vivace sulla settantina, ridotta praticamente a letto da dolore e rigidità al fondo schiena. Diversi ortopedici e neurochirurghi avevano diagnosticato un'artrite degenerativa quale causa della sua invalidità. Ma uno di essi, alla fine, l'aveva indirizzata al Centro di terapia del dolore dell'MCB, un ambulatorio specializzato in diverse discipline che stava rapidamente acquisendo notorietà ed era rispettato in tutto il Nordest. Poco dopo il suo arrivo all'ospedale, Sarah si era offerta come esperta di agopuntura all'ambulatorio. In genere riusciva a dedicarvi mezzo pomeriggio la settimana. Le punte delle dita di Lydia toccarono le mattonelle. «Voilà!» canticchiò, senza raddrizzarsi. «Dottoressa Baldwin, questo è per lei.» Spostò lievemente i piedi, continuò a restare piegata finché non appiattì le palme sul pavimento, e attese che Sarah scattasse una fotografia con una vecchia Polaroid. Poi, all'applauso del suo piccolo pubblico, si raddrizzò e s'inchinò. «Che Dio vi benedica. Che Dio vi benedica tutti quanti...» Le parole di Lydia Pendergast riecheggiavano nella mente di Sarah mentre trasportava la sua cassetta di aghi lungo le scale fino al suo armadietto al quarto piano del Thayer Building. Una cura azzeccata, una paziente grata, lavoro da fare. La giornata sembrava quasi normale, soprattutto se paragonata alle due che l'avevano preceduta. Da parte di molti membri del personale c'era ancora una certa freddezza che Sarah trovava sgradevole, ma certamente non insopportabile. E diverse volte, proprio mentre sentiva che avrebbe potuto crollare, qualcuno diceva qualcosa di gentile e incoraggiante. L'irritante problema della stampa rimaneva. Aveva smesso di rispondere al telefono di casa e aveva chiesto alla centralinista dell'ospedale di vagliare le sue telefonate. Non era divertente ma sapeva che, come tutto il resto, sarebbe passato. Sarah aveva aperto il suo armadietto ed era parzialmente nascosta quando le porte dell'ascensore si aprirono e Andrew Truscott uscì. Si precipitò lungo il corridoio ed entrò nella 421, una delle stanze per riposare che Sarah usava spesso. È strano che Andrew faccia una pausa a quest'ora, pensò, benché sia quasi ora di pranzo. Forse sperava di farsi passare un mal di testa. Sorrise al pensiero.
Un mal di testa che non sarebbe riuscito a farsi passare dormendo era quello dovuto al fatto che Sarah lo denunciasse a Glenn Paris. Aveva optato di non farlo qualche ora dopo il loro scontro nell'ufficio di Andrew, e l'aveva informato della sua decisione il giorno successivo. Non si era aspettata che la ringraziasse e, in questo senso, non era rimasta delusa. «Fa' come vuoi», aveva risposto irritato. «Senza prove e nella tua attuale situazione in quest'ospedale, dubito che Paris o chiunque altro presterebbe molta attenzione a quello che hai da dire.» Truscott aveva perfettamente ragione, lo sapeva. Sarah aveva abbastanza problemi senza tuffarsi in una battaglia con il rispettabile chirurgo interno. Ciononostante, sarebbe andata dritta alla meta e l'avrebbe denunciato se l'avesse ritenuto di qualche utilità. Se però le fughe di notizie fossero continuate, non avrebbe avuto scelta. Stava per chiudere l'armadietto quando le porte dell'ascensore si riaprirono. Questa volta uscì Margie Yates, una pediatra interna. Madre di due figli, era sposata con un bravo ragazzo che dirigeva il Servizio sociale dell'ospedale. Era bella e intelligente, ma anche insicura e terribilmente civettuola. Da dietro la porta dell'armadio, Sarah non poté fare a meno di sbirciare Margie mentre si sistemava la gonna bianca, si controllava il viso nello specchio del portacipria, bussava leggermente alla porta della stanza 421 e scivolava dentro. Andrew e Margie Yates! Non è una così gran sorpresa, pensò Sarah richiudendo pian piano l'antina dell'armadio e dirigendosi verso la scala vicina. Andrew parlava raramente di sua moglie o di suo figlio. E Margie, di tanto in tanto, era stata legata, secondo le chiacchiere, ad altri medici dell'ospedale. Entrambi erano egocentrici e avevano bisogno di approvazione. La loro relazione aveva perfettamente senso. Alla caffetteria, Sarah scelse un sandwich al tonno, patatine e succo d'ananas, e si portò la colazione fuori a un tavolo del campus. Prima l'ammissione di tradire l'ospedale, e adesso Margie Yates. Negli ultimi giorni le azioni di Andrew erano precipitate. Mangiò velocemente e rientrò nell'ospedale. Stavano chiamando Andrew con l'altoparlante, lo volevano alla camera 227. Un medico interno del primo anno, di nome Bruce Lonegan, le passò accanto di corsa e salì le scale che portavano al secondo piano. «Ehi, Bruce, che cosa sta succedendo?» chiese. «Non lo so», rispose eccitato. «Un aneurisma addominale aortico, forse.» Una tripla A, aneurisma addominale aortico. Anche se aveva avuto pres-
santi obblighi di servizio, Sarah non avrebbe mai mancato di rispondere a un simile appello. La camera 227 era agli stadi iniziali del caos organizzato che accompagna in genere le crisi in una clinica universitaria. Bruce Lonegan e un altro chirurgo interno si stavano affaccendando intorno a un attempato signore, che era in evidente grave difficoltà. Incosciente o quasi, si contorceva e gemeva. «Portate subito dieci unità di sangue compatibile e assicuratevi che la sala operatoria sia pronta», gridò Lonegan. «Art, predisponi un accesso arterioso e che qualcuno gli misuri la pressione. Dannazione, dov'è Andrew?» «In che cosa posso aiutarvi?» chiese Sarah, mentre Andrew veniva di nuovo chiamato con l'altoparlante. «Quest'uomo è un paziente di Truscott», spiegò Lonegan. «È stato ricoverato tre o quattro giorni fa per l'asportazione di un aneurisma. Aveva un'insufficienza cardiaca, così l'intervento è stato rinviato. Avrebbe dovuto essere operato domani. Un'infermiera è entrata e l'ha trovato in questo stato. La pressione è molto bassa. Nulla. Il ventre sembra teso. Deve trattarsi di un aneurisma aortico addominale. Accidenti, stanno chiamando Andrew anche con il cercapersone.» In quel momento, Sarah ricordò che non c'era altoparlante sui piani di servizio del Thayer. Andrew non aveva ovviamente lasciato il numero della stanza alla centralinista. Se il suo cercapersone era spento, nessuno sarebbe stato in grado di raggiungerlo. Nessuno tranne lei. Alzò il telefono del comodino e suggerì all'operatore di chiamare la 421 del Thayer. «Se il dottor Truscott non risponde, per favore mi richiami immediatamente», ordinò. Lonegan e l'altro chirurgo interno erano stati raggiunti da qualcuno di Medicina interna. Era chiaro che il paziente stava peggiorando di minuto in minuto. Lonegan stava facendo pratica esattamente da una settimana. Senza l'intervento di qualcuno più esperto in chirurgia vascolare, era perduto. E appariva tale. «Può darsi che il cercapersone di Andrew non funzioni», disse Sarah, rendendosi conto che doveva sostituirlo finché non fosse arrivato un chirurgo più esperto. «Ho dato alla centralinista alcune istruzioni per raggiungerlo. Nel frattempo, accertati degli accessi venosi, somministragli dei liquidi, usa uno stetoscopio doppler per controllare le pulsazioni, cateterizzalo e fa' preparare tutto per la sala operatoria. Perché si contrae in quel modo?»
«La pressione sanguigna è circa sessanta», rispose il medico interno. «Ecco perché.» Sebbene ammettesse fra sé che l'internista poteva avere ragione, Sarah non era soddisfatta di tale spiegazione. Aveva visto molti pazienti in stato di choc, ma qui c'era qualcosa di diverso. Senza farsi scorgere, controllò i punti per l'agopuntura. Alcuni di essi sembravano deboli e filiformi. Non aveva abbastanza esperienza per conoscere l'esatto significato delle sue scoperte, ma sentiva che qualunque cosa stesse succedendo era più generalizzata di un'emorragia arteriosa, forse si trattava di uno squilibrio metabolico. Il flebotomo aveva appena finito di prelevare il sangue. Sarah spinse la donna da parte. «Fagli fare un esame chimico completo, per favore», disse. «Il più in fretta possibile. Specialmente elettroliti, zucchero, calcio, fosforo e magnesio.» Il telefono accanto al letto suonò. Sarah lo tirò su, ascoltò per un momento, poi posò il ricevitore. «Il dottor Truscott sarà qui fra un minuto», disse. Passarono quasi cinque minuti prima che Andrew entrasse nella stanza. Quando arrivò, l'anestesista era accanto al letto e i portantini erano fuori della stanza in attesa di precipitarsi in sala operatoria. Anche la famiglia del paziente era stata avvertita del peggioramento improvviso. «Scusatemi», disse Truscott, assumendo immediatamente il controllo della situazione. «Il mio maledetto cercapersone non funziona.» Ignorando completamente Sarah, valutò lo stato fisico dell'uomo e poi ordinò che venisse trasportato in sala operatoria. Quindi si rivolse al suo interno, che gli fece un resoconto nervoso e un po' approssimativo di quanto era successo. «La sala operatoria è pronta», concluse Lonegan, «ed è già stato prelevato il sangue per gli esami chimici.» «Bene, ragazzo», scattò Truscott, auscultando di nuovo l'addome dell'uomo con lo stetoscopio, «perché interverremo immediatamente.» I portantini si precipitarono nella stanza e cominciarono a trasferire il paziente sulla barella. Solo allora Truscott si rivolse a Sarah. «Che cosa ti ha portata qui?» le chiese. «Il mio paziente ha per caso dei problemi ginecologici oltre a tutto il resto?» Un'infermiera scoppiò a ridere. Sarah si controllò, ricordando che quel-
l'uomo le interessava troppo poco per permettergli di turbarla. «Pensavo fossi un po' stanco e avessi bisogno di un piccolo aiuto extra», ribatté. «Sapevo che stavi, uhm, riposando nella stanza 421. Ero accanto al mio armadietto quando sei entrato. È così che la centralinista è riuscita a rintracciarti.» La faccia di Truscott impallidì. Gli angoli della bocca gli si contrassero. «Grazie», cercò di dire. «Sei molto gentile.» «Non pensarlo nemmeno», rispose Sarah con gli occhi fissi nei suoi. I portantini avevano finito di trasferire il vecchio sulla barella e Truscott fece loro cenno di recarsi in sala operatoria. Dopo qualche secondo la stanza fu deserta, a eccezione di Sarah e un'infermiera. Il pavimento, cosparso di tamponi e garze, cappucci per gli aghi, guanti di gomma e via dicendo, assomigliava a una zona di guerra. Sarah si infilò i guanti e cominciò a raccogliere il pattume. «Me ne occupo io», disse l'infermiera. «Sei più specializzata di me in questo lavoro?» L'infermiera sorrise. «Grazie», disse. In quel momento, il flebotomo si precipitò nella stanza con uno stampato del computer. «Dove sono finiti tutti quanti?» chiese ansimante. «In sala operatoria. Perché?» Le porse lo stampato. «Il suo livello magnesio è di 0,4», dichiarò. «Hanno detto di riferirvi che l'hanno controllato due volte e...» Sarah non stava più prestando attenzione. Guardò il telefono, ci ripensò e corse fuori della stanza. Un livello 0,4, molto più basso del normale, spiegava perfettamente il quadro clinico. Era pericoloso in qualsiasi circostanza, ma sarebbe stato fatale se non corretto prima di un intervento chirurgico. La causa, pensò, poteva essere dovuta all'intolleranza dell'uomo verso il vigoroso trattamento diuretico che veniva usato per correggere l'insufficienza cardiaca. Iatrogeno: di malattia o ferita causata dalle parole o dalle azioni di un medico. Sarah pensò alla targhetta che un tempo era stata appesa sopra la scrivania di Peter Ettinger. C'era ogni motivo di credere che il peggioramento improvviso del paziente fosse dovuto al trattamento, non alla malattia, ai diuretici, non all'aneurisma. Raggiunse le porte della sala operatoria proprio mentre il lettino veniva spinto dentro.
«Andrew, aspetta!» gridò. L'uomo impiegò meno di mezz'ora a rispondere all'infusione di magnesio e a svegliarsi. Fino al giorno del pensionamento, avvenuto un anno prima, Terence Cooper era stato un buon costruttore di barche. Aveva una risata gracchiante e un magnifico sorriso senza denti. Nel conoscere Sarah, le chiese immediatamente un appuntamento, assicurandole che sua moglie non se la sarebbe presa troppo. «Mia moglie continua a ripetermi di provare cose nuove», disse. Sarah si lasciò stringere la mano, poi si girò per andarsene. Fino a quel momento, Andrew le aveva detto molto poco. Adesso si mise fra lei e la porta. «Posso spiegare a proposito della stanza 421», asserì piano. «Non me ne importa niente», rispose lei. «Avresti solo dovuto essere più attento quando sei sceso qui. Se non avessi... dormito, credo che avresti controllato quei valori chimici prima di portarlo in sala operatoria.» «Penso che tu abbia ragione.» «Bene», disse Sarah uscendo in corridoio. «Grazie per avermi salvato la pelle», le gridò dietro. «Sei un medico fantastico.» Sarah pensò di ribattere, poi si limitò a scrollare il capo e a proseguire. Il suo cellulare suonò non appena raggiunse il piano di Ostetricia e ginecologia. Rispose aspettandosi di sentire Andrew, ansioso di continuare a rinforzare la propria posizione. Invece, la voce al telefono era quella di Annalee Ettinger. Sarah sedette sul bordo del letto nella piccola stanza del medico di guardia, ascoltando mestamente il racconto di Annalee di quello che era successo con suo padre. «Non saprei dire che cosa l'ha sconvolto di più», dichiarò Annalee, «se il fatto che mi sia rivolta a un medico, o che mi sia rivolta a te in particolare.» «Sono il fattore meno importante di quest'equazione. Conosco un'ostetrica a Worcester che sarebbe felice di aiutarti a partorire in casa.» «Peter insiste perché non mi rivolga a un medico. Levatrici soltanto. Parla anche di far venire qualcuno dal Mali.» «Che cosa ne pensi di tutto questo?» «Penso che sono molto dispiaciuta per quanto è stato scritto di te sui
giornali. Ma non ne sono rimasta influenzata.» «Bene.» «E nemmeno da quanto ha promesso Peter: denaro per me e un'eventuale audizione per Taylor e gli altri. Ma per quanto mi sforzi, non riesco a dimenticare tutte le cose che ha fatto Peter per me, fin dall'inizio.» «Capisco.» «So che non è perfetto, ma...» «Annalee, non mi devi spiegazioni. Capisco. E poi, sei una giovane donna sana in ottima forma. Non ho ragione di credere che ci saranno dei problemi. Ti invierò i nomi delle ostetriche di Worcester, nel caso tu voglia rivolgerti a loro.» «Grazie per non rendermi le cose troppo difficili, Sarah.» «Sciocchezze.» Ci fu un prolungato, imbarazzante silenzio. «Sarah, c'è qualcos'altro», disse infine Annalee. «Peter ha insistito perché partecipassi a una riunione nel suo ufficio.» «Continua.» «Quattro uomini e Peter. Vogliono incaricarlo di controllare la composizione di quel tuo integratore vegetale e di indagare su qualcuno di nome Kwang o Kwok o qualcosa del genere. Sai chi è?» Sarah cominciava a sentirsi nauseata. «Sì, so chi è», rispose. «Chi erano gli uomini?» «Due erano legali di New York. Erano lì con quel tale, Willis Grayson, il padre della ragazza che hai salvato. Quel tizio dev'essere importante, perché Peter era come un cagnolino con lui. Si comportava come se sapessi anch'io chi era, ma non era così.» «Chi era l'altro uomo?» chiese Sarah. Le sue mani erano di ghiaccio intorno al telefono. «Un altro avvocato. Più viscido degli altri, se sai quello che voglio dire. Si chiama Mallon.» «Sfortunatamente, conosco anche lui.» «Sarah, Peter ha detto delle cose poco gentili su di te. Credo fosse questo che voleva che udissi. Ha detto che non sei mai stata un così bravo erborista o agopuntore, come vorresti ritenerti. Stavo per dirgli di piantarla, o andarmene, ma non sono riuscita a fare nessuna delle due cose. Mi dispiace tanto.» «Annalee, non dispiacerti», disse Sarah. «Fa quello che ritieni giusto, e mantieniti in contatto con me. Apprezzo molto che tu mi abbia chiamata.»
«Mi dispiace», ripeté. Sarah interruppe la comunicazione senza rispondere. Sentiva che se avesse tentato di parlare, sarebbe scoppiata in lacrime. E Annalee non meritava questo stress negativo. Che follia. Quand'erano stati insieme, al lavoro o da amanti, Peter aveva detto a lei e a chiunque altro ascoltasse che era uno dei migliori erboristi e agopuntori che avesse mai conosciuto. Adesso, all'improvviso, era un'imbrogliona. Spinse il cuscino sotto la testa e fissò stancamente il soffitto. La verità era che diventare medico, tentando di mescolare il meglio della medicina occidentale e di quella orientale, rappresentava una minaccia per i professionisti di entrambe le parti. Che Andrew e Peter, i due professionisti che l'attaccavano adesso, fossero uomini poteva e non poteva avere rilevanza. Ma sospettava che ne avesse. Per un po', ammantata da una cappa di solitudine e isolamento, pianse. Presto, però, sentì la rabbia crescere. Se era guerra che volevano, non si sarebbe tirata indietro. Alzò il telefono e fece chiamare Blankenship. «Dottor Blankenship», disse. «Non so esattamente con chi dovrei parlare, o che cosa dovrei fare, ma desidererei incontrarla appena possibile. Credo che stiano per citarmi in giudizio.» 17 20 luglio Sarah era certa che una volta nella vita doveva essersi sentita appariscente e a disagio come si sentiva quella sera, ma non riusciva a ricordare quando. La Milsap Board Room all'MCB era lunga e piuttosto stretta, con un bel tappeto orientale, grandi finestre che si affacciavano sulla città e un massiccio tavolo in noce circondato da venti sedie di pelle rossa. Sebbene Sarah non avesse mai visto quella stanza, ne aveva sentito parlare. Cinque uomini, Paris, i dottori Snyder e Blankenship, il direttore finanziario Colin Smith e un affettato avvocato di nome Arnold Hayden, sedevano a un capo del tavolo, bevendo drink da un bar a specchio e chiacchierando amichevolmente. Sarah si avvicinò all'altro capo, osservando alternativamente la fitta pioggia all'esterno e il suo orologio. Qualche giorno prima, una lettera inviata dall'avvocato Jeremy Mallon all'assicurazione di Sarah, la Mutual Medical Protective Organization, l'aveva reso ufficiale: lei stava per essere citata in tribunale per negligenza
colposa da Lisa Grayson. Due giorni dopo, il liquidatore della MMPO aveva assegnato un legale di nome Matthew Daniels al suo caso. La riunione di quella sera era stata richiesta da quest'ultimo. Sarah aveva parlato con il suo legale al telefono per quasi un'ora, ma la conversazione era stata piuttosto infruttuosa. «Sarah», chiamò Paris, «venga qui a bere un bicchiere di Chablis. Ci stiamo innervosendo tutti a vederla aggirarsi così solennemente.» Lei esitò, poi accettò l'offerta. Paris, come i due primari, era stato abbastanza cordiale con lei da quando aveva saputo della citazione, ma avrebbe potuto dire che ognuno di loro nutriva dei dubbi. «Mi chiedo perché questo Daniels ci abbia voluti qui insieme all'ospedale invece che nel suo studio», borbottò Arnold Hayden. «Irregolare. Altamente irregolare.» «Arnold, ha mai sentito parlare di lui?» chiese Smith. «No. Ho iniziato a fare qualche indagine, ma non sono andato troppo lontano. Si è laureato in Giurisprudenza a Essex.» «Non esattamente Harvard.» «Lo studio si chiama Daniels, Hannigan e Goldstein», asserì Hayden. «Mai sentiti nominare, ma sto facendo controllare da qualcuno.» «Sono sicura che la compagnia d'assicurazione non avrebbe affidato il mio caso a una persona di scarso valore», intervenne Sarah. «I soldi sono loro. E poi, non credo che ci voglia un Clarence Darrow per dimostrare che non sono colpevole di negligenza. Tutto quello che ha Mallon per costruire l'accusa è che tre donne hanno preso il mio integratore. Noi possiamo presentarne molte altre che l'hanno preso e hanno avuto un parto perfettamente normale.» «Vero», disse Blankenship. «Ciò di cui abbiamo veramente bisogno per chiudere il cerchio, però, è un caso di DIC come gli altri, ma in una donna che non abbia mai preso altro che vitamine prenatali standard.» «Preferirei essere giudicata colpevole che veder sopportare tutto questo da un'altra donna», ribatté Sarah. «Certo. Inutile dire che la pensiamo anche noi così. Ma se si verificasse un simile caso, o si fosse verificato da qualche parte, servirebbe a scagionare lei e la sua mistura.» Sarah guardò l'ora e riprese a camminare. Matthew Daniels era già in ritardo di cinque minuti. Con il suo arrivo il gruppo avrebbe contato due avvocati, due professori in Medicina, due amministratori dell'ospedale e lei. Essendo l'unica donna presente era più o meno neutralizzata dalla sua con-
dizione di semplice medico, ma niente poteva compensare lo sbigottimento di essere l'accusata. L'intera serata sarebbe stata significativamente più facile da affrontare se Rosa Suarez avesse acconsentito a venire. Ma l'epidemiologa aveva rinunciato, sostenendo che era più auspicabile per lei restare lontana dalle politiche e dalle personalità dell'ospedale. Dal suo arrivo sulla scena, sembrava che la Suarez avesse sempre vissuto all'MCB. Sarah l'aveva vista a tutte le ore e impegnata in tutte le situazioni. Aveva anche dovuto rispondere a diverse sue domande, in più occasioni. Benché Rosa Suarez fosse riluttante a parlare di qualcosa che non fosse pertinente alla sua missione, aveva detto di avere un marito, Alberto, in Georgia, e di non avere né amici né parenti a Boston. Sarah aveva risposto con un invito a cena, che la donna aveva educatamente declinato. I suoi modi erano cordiali e certamente non aggressivi, ma Sarah non aveva avuto difficoltà a discernere la sua intelligenza e la sua determinazione. «Sarah», disse Paris, «ha messo insieme lei questa lista degli ingredienti delle sue vitamine?» «La lista sì, la spiegazione di ogni componente, no. L'ha fatto Rosa Suarez. Ha intenzione di ampliare le informazioni quando avrà l'opportunità di svolgere la ricerca.» «Lo sta facendo. Che lavoratrice è quella donna. Vorrei solo che mi tenesse maggiormente informato sull'andamento delle cose. Ho la sensazione di non piacerle molto, anche se non so esattamente perché. L'ho lasciata libera di muoversi come vuole. Sappiamo se è arrivata a qualcosa?» «Ha preso in prestito uno dei miei tecnici e ha attrezzato un laboratorio per effettuare delle colture», disse Blankenship. «Sarah, sono d'accordo con Glenn. La signora Suarez è eccezionalmente abile, ma è anche molto riservata. Penso, però, che in un modo o nell'altro arriverà in fondo alla questione.» «Il che renderebbe opinabile sia questa riunione sia il suo avvocato in ritardo», aggiunse Paris. «In ritardo alla riunione indetta da lui stesso», ridacchiò Arnold Hayden. «Irregolare. Altamente irreg...» Come se avesse avuto l'imbeccata, Matt Daniels entrò all'indietro, scuotendo l'ombrello e l'impermeabile in corridoio. Nel momento in cui si girò, Sarah fu lieta di osservare che l'idea che si era fatta di lui non discordava molto dalla realtà. Era alto e robusto, con un volto dai lineamenti forti e irregolari. Ed era anche bagnato fradicio. «Daniels, Matt Daniels», disse, asciugandosi la fronte e i capelli scuri
con un fazzoletto ancora più inzuppato di lui. «Scusate il ritardo. Ho bucato. Tutta colpa mia. Oggi ho commesso delle sciocchezze imperdonabili.» Il suo accento era inequivocabile, anche se non così pronunciato come ricordava Sarah. Le vibrazioni iniziali che stava ricevendo erano tutte positive, soprattutto quelle che le dicevano che era abbastanza ingenuo da sentirsi fuori posto in quella riunione quasi quanto lei. Si mosse per stringere la mano all'uomo più vicino, che era Randall Snyder. Ma poi, quando fu chiaro che il primario di Ostetricia preferiva restare asciutto, indietreggiò e si limitò ad annuire. Irregolare, pensò Sarah soddisfatta. Altamente irregolare. Daniels girò in tondo per andare a sedersi in un posto libero, posò la cartella sul tavolo e l'asciugò con la manica della giacca sportiva. Se era consapevole dell'espressione divertita e incredula stampata sulle facce degli altri cinque uomini, non lo diede certamente a vedere. «Signor Daniels, sono Sarah Baldwin», disse lei, tendendogli la mano, che si perse nella sua. «Matt», disse lui. «Basta Matt.» Quindi Sarah gli presentò gli altri cinque, ma tralasciò di fare il nome di Arnold Hayden. «Bene, vorrei scusarmi di nuovo e ringraziarvi per essere venuti in una sera come questa», cominciò Daniels. «Il nostro avversario in questo caso è l'avvocato Jeremy Mallon. Ho deciso di indire questa riunione dopo avergli parlato quest'oggi. Come saprete, sembra determinato a proseguire.» Nessun commento sul suo avversario. Sarah notò che gli uomini dell'MCB si stavano scambiando occhiate e non ebbe difficoltà a leggere i loro pensieri. Nell'ambito dei casi di negligenza, secondo quanto le era stato riferito da Glenn Paris, Mallon era una specie di leggenda. «Signor Daniels, sa chi è Jeremy Mallon?» chiese Arnold Hayden. Oh-oh, pensò Sarah. Eccoci. «Be', in realtà no, signore.» «Bene, signor Daniels», proseguì l'avvocato, schiarendosi la gola. «Io, uhm, credo che prima di continuare potrebbe esserci utile sapere qualcosa di più sul suo background in fatto di negligenza medica. L'ospedale non è ancora stato citato, ma tutto lascia pensare che lo saremo se Sarah dovesse perdere, e non solo dai Grayson, ma anche dalle famiglie delle altre donne. E la stampa ci farà a pezzi. Così, spero non ritenga presuntuoso che le abbia posto questa domanda.» «Affatto, signor Hayden», disse pacatamente Daniels. «Lei non mi sem-
bra proprio un tipo presuntuoso. Vediamo, la riposta alla sua domanda: ho difeso solo un medico per negligenza. Era un dentista, per la verità. Una donna sosteneva che le sue emicranie erano causate dall'estrazione di un molare extra e dalla masticazione rovinata. Per quello che può valere, è stato istruito un processo e abbiamo vinto.» «Questo è molto rassicurante», asserì Hayden poco gentilmente. «Ha idea del perché la MMPO abbia scelto lei per questo caso?» «A essere sinceri mi sono meravigliato anch'io, benché ne sia lieto. Da due anni sono fra i nomi dei suoi avvocati disponibili, ma è la prima volta che mi affidano un caso.» «Bene, splendido!» eruppe Paris. «Signor Daniels, non voglio sembrarle sgarbato, ma deve capire che ci sono parecchie cose in gioco. Il suo avversario, come definisce Jeremy Mallon, è totalmente dedito a voler mettere in ginocchio quest'ospedale. Ed è molto bravo in quello che fa, che consiste perlopiù nel citare in giudizio i medici. Non crede che dovremmo chiamare la MMPO e farci assegnare qualche altro studio legale per questo caso?» Sarah studiò Daniels mentre rifletteva sulla proposta. Se era irritato dal duplice attacco di Hayden e Paris, non lo dava a vedere. La sua espressione era abbastanza severa, ma c'era una scintilla nei suoi occhi azzurri, una sfida, che soltanto Sarah era certa di apprezzare. «Bene», disse infine, «per una serie di ragioni, detesterei che questo accadesse. Ma dato che l'avete proposto voi, sarà bene rifletterci.» «D'accordo», fece Paris. «Tuttavia», proseguì Matt, «ci sono un paio di punti che vorrei chiarire. Innanzitutto, la mia cliente è la dottoressa Baldwin, qui presente. Che io rimanga o me ne vada dipende da lei. In secondo luogo, dopo averle parlato l'altro giorno, ho fatto delle letture e ho discusso con alcune persone. Mallon o non Mallon, credo di poter fare un buon lavoro rappresentandola.» «Come può dirlo, senza quasi nessuna esperienza in materia?» domandò Hayden. «Perché la legge è la legge, signor Hayden. E io sono ancora abbastanza ingenuo da identificare il processo legale con la ricerca della verità. E ricercare la verità è qualcosa che mi è sempre piaciuto fare.» Glenn Paris si rivolse a Sarah. «Sarah, è nostra opinione che lei possa ottenere una miglior difesa da qualcuno più, diciamo, esperto del signor Daniels. Ma ha ragione. È lei la sua cliente e sta a lei decidere.»
Sarah guardò Daniels, che sostenne il suo sguardo. «Ebbene, signor Paris», disse lei, «ammesso che il mio lavoro non ne risenta, ritengo che se il signor Daniels si comporterà in tribunale come si sta comportando qui, sarò in buone mani. Signor Daniels, Matt, sono sicura che se avesse bisogno di coinvolgere il signor Hayden o qualunque altro legale dell'MCB, lo farebbe, non è vero?» «Certamente.» «Nel qual caso, signor Paris», disse Sarah, «mi sento tranquilla nel farmi rappresentare da quest'uomo.» «Mio Dio!» esclamò all'improvviso Eli Blankenship. «Credo di aver capito chi è il nostro signor Daniels. Vediamo se ci ho azzeccato, Matt. Baseball... Toronto...» «Sì, sì», fece lui, un po' impaziente, «sono io. Grazie per essersene ricordato. Ma quella è storia vecchia, ormai.» «Ricordato di che cosa?» fece Sarah. «Nove lanci, nove strike, tre out, ball game over», proseguì Blankenship. «Una delle più grandi performance di un lanciatore di riserva. Quando ho sentito il nome m'è sembrato familiare.» «Sarà stato 'Matt' a metterla fuori strada», osservò Daniels cordialmente. «Non molti ricordano che ho un vero nome.» «Ehi, posso essere messa al corrente? Sono io l'imputata.» «Anch'io sto brancolando nel buio», s'intromise Paris. «Black Cat Daniels», spiegò Blankenship. «Dieci anni come lanciatore di riserva per i Red Sox.» «A dire il vero, dodici», lo corresse Daniels. «Adesso, se non vi dispiace, torniamo agli affari...» «Perché Black Cat?» chiese Paris. Daniels sospirò. «Dottoressa Baldwin, Sarah, sono molto spiacente per questo», disse. «Immagino che quello che sta passando non sia piacevole. E doversene stare lì seduta mentre vengono messe in discussione le mie qualifiche, e poi si fanno tutte queste chiacchiere sul baseball non deve esserle certamente di grande aiuto.» «Va tutto bene», ribatté Sarah. «E poi voglio sapere anch'io.» «D'accordo, signor Paris, il mio soprannome è dovuto al fatto che ero piuttosto superstizioso quando giocavo.» «Passava sempre sulla prima base entrando in gioco», spiegò Blankenship. «Non sedeva mai nell'area riservata ai battitori. Non lanciava mai senza un nastrino rosso legato alla cintura.»
«Azzurro», lo corresse Matt. «Sì, certo, era azzurro. È ancora così? Superstizioso, voglio dire?» «Provo tuttora interesse per il ritualismo e per la fortuna, se è questo che mi sta chiedendo. Ma si fidi di me, dottor Blankenship, tutto ciò non interferirà: quando sono in tribunale tengo il nastrino legato sul retro della cintura e nascosto sotto la giacca. Adesso credo proprio che si debba ritornare agli affari. Come ha eloquentemente fatto presente il signor Paris, ci sono molte cose in gioco. E, sfortunatamente, sembra che il nostro stimato avversario abbia un certo vantaggio su di noi.» «Che cosa intende dire?» chiese Paris. Daniels tirò fuori alcuni appunti dalla valigetta. «Sarah, l'uomo che le fornisce le erbe e le radici, si chiama Kwong?» «Esatto. Kwong Tian-Wen.» «Ebbene, questo pomeriggio il signor Mallon ha ottenuto un ordine del tribunale per far sigillare il negozio del signor Kwong. Domani mattina alle otto sarà lì con un chimico, qualcuno dell'ufficio dello sceriffo e Dio solo sa con chi altri. Ha in mente di prelevare dei campioni da quel posto e farli analizzare.» «Può fare qualcosa a questo riguardo?» chiese Paris. «Mi rimetto al signor Hayden per rispondere a questa domanda, signore.» «Non a questo punto, Glenn», disse Hayden. «Siamo stati battuti. Dottoressa Baldwin, ha idea di come Mallon abbia potuto ottenere questo nome così in fretta?» «Mi sono venute in mente un paio di possibilità», rispose. «E?» chiese Paris. «Credo che dovrei effettuare qualche controllo prima di fare dei nomi. Inoltre, ho fiducia assoluta nel signor Kwong. È uno dei migliori. Prima Mallon farà effettuare questi controlli e prima saprà di non avere niente in mano.» «Credo che dovrebbe esserci presente qualcuno dell'ospedale», asserì Daniels. «Ci incontreremo domattina a quest'indirizzo.» Passò l'ordine del tribunale ad Hayden. «Io non posso», disse l'avvocato. «Sono in tribunale.» «Eli, lei?» domandò Glenn Paris. «Sarebbe un rappresentante perfetto.» «Credo di poter venire», disse Blankenship. «Magnifico. Dessert extra per lei, Eli. Speriamo che Sarah abbia ragione riguardo a tutto questo, Daniels. Ma ha capito che cosa vogliamo dire su
Mallon? Si è già occupato di decine, probabilmente centinaia, di casi di negligenza. Ha uno staff imponente e non lascerà nulla di intentato.» «Non mi sembra il tipo da prendere all'amo e tirare a riva», ammise Daniels. «Lo ammetto.» «Forse», suggerì Hayden, «potrebbe coinvolgere i suoi colleghi in questo caso. Il signor Hannigan o il signor Goldstein hanno qualche esperienza in materia?» «Sono lieto che l'abbia suggerito», fece Daniels. «Allora hanno esperienza in materia di negligenza», ripeté Hayden. «Magnifico! La collaborazione è la chiave del successo in questo mestiere.» «Ebbene, signore, non esattamente. Vede, a Billy Hannigan non è mai piaciuto fare l'avvocato, ma sua moglie non l'ha lasciato smettere. Poi, l'anno scorso, quando lei è fuggita con un altro avvocato, ha piantato in asso tutto. Ho saputo che lavora come dj in una stazione radio di Lake Placid.» «E Goldstein?» Daniels si fregò il mento e sospirò. «Be'», fece, «la verità è che Goldstein è qualcuno inventato da Billy. Prima che arrivassi io, lavorava da solo, ma il suo studio si chiamava Hannigan e Goldstein. L'aveva fatto per attirare clienti ebrei. Ho appena fatto fare dei biglietti da visita nuovi con soltanto il mio nome, ma mi dimentico sempre di far cambiare quello delle pagine gialle.» «Questo è altamente irregolare», borbottò Hayden. «Sarah», disse Paris, «credo che quest'inganno le permetta di riconsiderare la sua decisione.» «Signor Paris, inganno mi sembra una parola un po' forte», ribatté. «Chiaramente, non c'è stato alcun tentativo di nascondere la verità. Credo che ci troveremo bene con il signor Daniels, anche senza il signor Goldstein.» «Molto riconoscente», disse Matt Daniels. «Adesso, se siamo tutti d'accordo, credo che dovremmo cominciare a mettere insieme il nostro caso. Domani mattina alle otto ha inizio il primo round.» «Altamente irregolare», sentì Sarah borbottare da qualcuno. 18 A parte l'addetta al turno di notte, Rosa Suarez era sola nell'archivio me-
dico. Erano quasi le dieci e mezzo e non mangiava da mezzogiorno. Schiena e collo le dolevano a forza di restare china sul tavolo da lavoro. Ma, in un certo senso, quel disagio era piacevole. Erano due anni che non dedicava tante ore a un progetto, due anni che non si sentiva stimolata. La fase iniziale della sua indagine si sarebbe conclusa quella sera, e sia Alberto sia il suo caporeparto aspettavano ansiosamente il suo ritorno ad Atlanta. Nessuno dei due sarebbe stato molto soddisfatto di quello che aveva da dire loro. Finora non aveva spiegazioni per gli strani casi di DIC. Tuttavia, due cose erano chiare: da un punto di vista puramente statistico, non esisteva alcuna possibilità che i tre casi fossero fortuiti, e quasi certamente, a meno che la causa delle tragedie non venisse determinata e affrontata, ce ne sarebbero stati altri. C'erano diversi dati e molte combinazioni che doveva ancora verificare attraverso la banca dati dei CDC, e alcuni risultati preliminari di colture che dovevano essere controllati. Poi, con tutta probabilità, sarebbe tornata a Boston. Finora aveva scoperto decine di elementi comuni, demografici e fisici, tra le tre donne, alcuni molto significativi, altri troppo incerti per essere presi seriamente in considerazione. Doveva raccoglierne ancora, naturalmente, ma fino a quel momento l'aspetto più inquietante della ricerca era l'integratore prenatale prescritto a ciascuna donna da Sarah Baldwin. Un botanico dello Smithsonian Institute e un amico di facoltà dell'Emory University le avevano fornito alcuni dati preliminari sui nove componenti. Ma erano necessarie informazioni più dettagliate. L'istinto le diceva che per quanto i componenti del preparato potessero servire come una sorta di co-fattore in una reazione letale biologica, erano di per sé assolutamente innocui. «Mi scusi, Ramona», disse all'impiegata la cui scrivania si trovava dall'altra parte dell'ampio archivio, «vorrei assicurarmi che non ci siano altre schede nel gruppo al quale stiamo lavorando.» «Sette anni di donne che hanno partorito qui e hanno avuto bisogno di trasfusioni durante e dopo il parto; le ha tutte. Signora Suarez, sa che da quando è venuta all'MCB ha trascorso più tempo qui lei di tutto il personale?» «Molto probabile. Be', questa sarà la mia ultima sera per un po'. Domani torno a...» Rosa s'interruppe a metà frase e fissò la cartella clinica di fronte a lei. Apparteneva ad Alethea Worthington, il secondo caso di DIC. Ciò che attirò la sua attenzione in quel momento, però, non fu qualcosa sulla pagina,
bensì fra quella pagina e la precedente. «Signora Suarez, va tutto bene?» chiese l'impiegata. «Oh, sì. Tutto bene, cara. Ramona, ha per caso un temperino o una lima per le unghie?» «Ho un temperino svizzero nella borsetta.» «Perfetto. E potrebbe per favore riportarmi le cartelle...» «Di Summer e Hidalgo. Lo so. Lo so.» «Grazie, cara.» Usando gli occhiali bifocali come lenti di ingrandimento, Rosa analizzò il dorsetto della cartella clinica, che copriva dei punti metallici. Nel punto in cui essi s'inserivano fra le pagine, spuntavano pezzettini di carta frastagliata. All'interno del plico, Rosa segnò a matita la pagina prima e dopo i pezzetti di carta, poi allentò un po' il dorsetto. Quindi, armeggiando con il temperino, fece ricadere due minuti pezzetti sul tavolo. Li spinse in una busta e si convinse che ce n'erano altri, ma li lasciò dov'erano e rinserì nuovamente il dorsetto metallico. Alcune pagine, probabilmente due, erano quasi sicuramente state asportate dalla cartella. Ci impiegò dieci minuti a trovare frammenti identici in quella di Constanza Hidalgo. I pezzetti di carta rappresentavano due o forse tre pagine mancanti. La cartella di Lisa Summer era senza dubbio la più consistente. Quando Rosa si convinse che non esisteva ulteriore prova fisica delle pagine mancanti, erano quasi le undici. Il significato della scoperta non era affatto chiaro. Ma benché la cartella di Lisa Summer apparisse intatta, scoprire che almeno due dei tre raccoglitori erano stati manomessi era significativo. Su questo aveva pochi dubbi. La pioggia era cessata e le stelle visibili sullo sfondo nero del cielo. Rosa si sentiva stimolata dalla nuova svolta e avrebbe voluto restare alzata tutta la notte a lavorare. Ma aveva sessant'anni, ormai, e l'aspettava una giornata pesante ad Atlanta. Doveva ancora preparare i bagagli e dormire almeno un paio d'ore prima del volo del mattino dopo. Desiderava follemente condividere con qualcuno quello che aveva scoperto. Tuttavia le ferite causate dal caso BART, anche se risalivano a due anni prima, erano ancora penose. E quella pena refrattaria le rammentava di continuo di fidarsi il meno possibile. Rosa raccolse le sue cose, ringraziò l'impiegata e promise di tornare presto. Poi uscì dall'edificio dalla parte del campus. Due donne morte per una misteriosa complicazione clinica, e le cartelle di entrambe manomesse. Frugò nell'immaginazione alla ricerca di un'innocente spiegazione, ma non
riuscì a trovarla. Sarah strinse la mano ai cinque rappresentanti dell'MCB e ringraziò ognuno di loro per la disponibilità ad aiutarla nella sua difesa. Erano tutti d'accordo nel riconoscere che la chiave per una rapida risoluzione della causa Grayson stava nello scoprire un identico caso di DIC in una paziente all'ultimo stadio di travaglio, all'MCB o in qualsiasi altro ospedale, che non avesse mai avuto alcun contatto con Sarah. Su suggerimento di Matt Daniels, Paris e Snyder acconsentirono a mettersi in contatto con i loro colleghi nel paese, e Blankenship a istituire un'approfondita ricerca di letteratura medica. Hayden promise di rimanere in stretto contatto con Daniels, e Colin Smith assicurò che tutte le spese a carico di Hayden o del suo gruppo sarebbero state coperte dall'ospedale. Infine, il gruppo si impegnò a presentare un fronte unito a Jeremy Mallon e alla stampa. Finché non fosse stata provata la sua colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, Sarah Baldwin sarebbe stata considerata innocente. L'indomani mattina, Eli Blankenship avrebbe accompagnato, a titolo di sostegno, Sarah e Matt al negozio del suo erborista cinese. «È andata bene, stasera», osservò la donna mentre l'avvocato recuperava ombrello e impermeabile. «Trovo che abbia affrontato una situazione difficile con molto contegno e molta classe.» «Sciocchezze. Se non si fosse battuta per me, sarei stato fuori gioco.» «Non sono una fanatica di baseball», disse Sarah, «ma è vero che se qualcuno non batte per te, sei fuori gioco?» Il sorriso di Matt fu spontaneo e naturale. «Non sono ancora riuscito a capire come mai il liquidatore della MMPO abbia scelto me per questo caso», dichiarò, «ma ne sono lieto. Non sono spigliato come la gran parte degli avvocati a cui mi oppongo, ma le assicuro che mi piace combattere e sopravvivere. Faccio i compiti a casa e, fortunatamente, sono più sveglio di quel che sembro.» «Non sono affatto preoccupata. Mi creda, non lo sono. Inoltre, dopodomani spero che si possa uscire a festeggiare la conclusione del suo caso più breve. Mi dica, come ha fatto a giocare a baseball e a laurearsi in Giurisprudenza?» «Be'», rispose Matt, «ero un lanciatore di riserva. Ho sempre avuto un buon controllo, ma non sono mai stato così sfolgorante. A partire dal mio secondo anno fra i major, la stampa cominciò a scrivere commenti negativi su di me. Alla fine mi stancai talmente di leggere articoli denigratori che
decisi che dovevo ripiegare su qualcos'altro. Così iniziai a frequentare Giurisprudenza durante la stagione morta. Dopo otto stagioni morte avevo finito. Ero stato con i Red Sox diverse volte, oltre che con gli Expos nella lega nazionale, e i Pawtucket nella lega internazionale.» «È stato bravo.» «Rettifica, sono stati bravi due zampe di coniglio, un amuleto egiziano di duemila anni e quell'infame nastrino azzurro di cui ha parlato il dottor Blankenship. Più una decina di piccoli rituali.» «Crede veramente in queste cose?» «Per parafrasare qualcosa che Mark Twain disse una volta su Dio, ho scelto di credere in queste cose nel caso ci sia qualcosa di vero.» «Un avvocato superstizioso che cita Mark Twain e faceva il lanciatore in importanti squadre di baseball», disse Sarah. «Non la si può certamente definire una persona mediocre.» «Neanche lei», ribatté Matt. «Dio, sono quasi le undici. Ho promesso alla baby sitter di essere a casa per quest'ora.» «Alla baby sitter?» Sebbene la loro relazione fosse strettamente professionale e Sarah sapesse che Matt era eticamente costretto a mantenerla tale, trovò irritante la notizia che fosse sposato. «Ho un figlio dodicenne, Harry. Vive con sua madre per buona parte dell'anno.» «Oh, capisco.» «Bene, ci vediamo domattina dal signor Kwong?» «Se crede che riuscirà a trovarlo.» «Ci sono già passato davanti. Gliel'ho detto, faccio i compiti a casa. Ora vado a Brookline, ha bisogno di un passaggio?» «Grazie, ma abito nel North End, e ho la bicicletta. Inoltre ha smesso di piovere, e andare in bicicletta dopo un temporale è una cosa che mi piace moltissimo.» Matt tese la mano per salutarla. I loro sguardi si incontrarono e, per un breve istante, si sostennero. Ma altrettanto in fretta lui distolse il suo. «Non si preoccupi», disse. «Ce la caveremo.» «Lo so. Un'ultima domanda, però. Prima che lei arrivasse, Arnold Hayden ha insinuato che la maggior parte dei legali avrebbe indetto una riunione preliminare come questa nel proprio studio. Perché lei non l'ha fatto?» Matt infilò l'impermeabile, strinse la valigetta in una mano e l'ombrello
nell'altra. «Be', la verità è che volevo fare buona impressione su Glenn Paris e il suo gruppo, ma soprattutto su di lei. E il mio attuale studio è ben lungi dall'essere il più spazioso e opulento della città.» «Capisco», ripeté Sarah. «E a peggiorare le cose, il mio dannato socio, il signor Goldstein, non è capace a tenere pulito il posto. La prossima volta, forse, può darsi che glielo faccia vedere. Nel frattempo, si riposi. Ci aspetta una giornata pesante.» Sarah osservò Matt muoversi con andatura dinoccolata verso l'ascensore. L'apprensione che poteva nutrire per l'incontro del giorno dopo nel negozio di Kwong Tian-Wen era controbilanciata dall'idea che nove ore e mezzo dopo avrebbe rivisto il suo avvocato. «Avete finito, là dentro?» La donna delle pulizie stava pazientemente spolverando e pulendo con l'aspirapolvere il corridoio da circa un'ora, in attesa che la Milsap Room si liberasse. «Oh, sì, mi dispiace», rispose Sarah. «Nessun problema. È un bell'uomo, quello. Proprio un bell'uomo.» Gli occhi della donna scintillavano. «È vero», disse Sarah. «Stavo pensando anch'io la stessa cosa. Ma ho la sensazione che lei l'abbia capito.» «Direi di sì, a giudicare dal suo sguardo», la rimbrottò la donna. Assaporando la dolce aria estiva, Sarah lasciò il padiglione di Medicina e attraversò il campus verso il punto in cui aveva legato la bicicletta. Il campus era illuminato e sorvegliato e benché di tanto in tanto ci fossero rapporti di donne che venivano infastidite la sera o aggredite, Sarah non trovava l'ampio viale particolarmente minaccioso. Aveva legato la sua bicicletta a una bassa ringhiera di ferro accanto all'ingresso del padiglione di Chirurgia. Era un posto comodo e che aveva usato spesso senza problemi. In quel momento, mentre girava l'angolo, rimase colpita dall'oscurità che la circondava. La luce sopra l'ingresso era spenta, sebbene non ricordasse che lo fosse mai stata. Sbirciò attraverso il buio e mosse un passo incerto... poi un altro. L'uomo era appoggiato contro il muro alla sua sinistra. Percependo una presenza, Sarah si raggelò. Strizzò gli occhi, ma la sua vista non si era ancora sufficientemente adattata all'oscurità della notte silenziosa. Tese l'orecchio per captare un respiro o un movimento. C'era
qualcuno lì vicino. Spostò il peso sul piede destro, preparandosi a scattare. «So che sei lì. Che cosa vuoi?» si sentì dire all'improvviso. Cinque interminabili secondi passarono... Dieci. «P-per favore, non s-scappi», balbettò prima l'uomo. Sarah si allontanò istintivamente dalla voce mentre si girava verso di essa. L'uomo, una sagoma adesso, si staccò dall'oscurità protettiva. Non era molto più alto di lei, e piuttosto esile. Sarah riuscì a distinguere i contorni del suo viso. «Dottoressa Baldwin la s-seguo da giorni. Devo p-parlarle.» «Sarah, è lei?» Sarah si girò: Rosa Suarez non era a più di tre metri di distanza, girata in modo da poter vedere Sarah ma non l'uomo. Al suono della voce dell'intrusa, questi spiccò un salto. A testa bassa passò accanto a Rosa, facendole perdere l'equilibrio e quasi cadere a terra. «Si fermi, per favore!» gridò Sarah. Ma l'uomo stava già attraversando il prato del campus, dirigendosi veloce verso il cancello d'ingresso. Con il cuore che le batteva forte, Sarah si accostò precipitosamente a Rosa. «Sta bene?» «Bene, credo.» La donna respirava affannosamente mentre fissava il campus deserto in direzione dell'uomo che era fuggito. Si batté il petto. «Chi era?» «Non lo so. Mi ha chiamata per nome e ha detto che doveva parlarmi. Poi, quando mi ha chiamata lei, è scappato.» «Strano.» «Balbettava terribilmente, più di chiunque riesca a ricordare. E ha detto che mi aveva seguita. Vede, adesso che ci penso, credo di averlo notato. Guida una macchina straniera blu, forse una Honda. Dio, non riesco a credere di essere rimasta lì senza fuggire. Adesso non riesco a smettere di tremare.» Rosa le prese le mani fra le sue e, quasi istantaneamente, il tremito diminuì. Sarah slegò la bicicletta e la tenne al fianco mentre camminavano insieme verso il cancello principale. «Mi dispiace di non averla potuta sostenere alla riunione di stasera», disse Rosa. «Com'è andata?» «Piuttosto bene, credo. L'avvocato di Lisa ha un ordine del tribunale per ispezionare il negozio del mio erborista domattina e prelevare dei campioni.»
«È preoccupata per questo?» «In verità sono sollevata al pensiero. Prima controllano i campioni e prima quest'avvocato capirà che non posso essere ritenuta responsabile.» Rosa si fermò a guardarla. Sarah capì che aveva qualcosa in mente; qualcosa di cui voleva parlare. «Sarah, sarei molto contenta se potesse accompagnarmi a casa», disse infine. «La mia camera è a pochi isolati da qui. Vorrei spiegarle perché ho preferito non discutere delle mie scoperte e delle mie idee alla vostra riunione.» «Non è necessario che lo faccia.» «Il fatto che lei sia stata seguita mi preoccupa. Quello che ho scoperto dev'essere molto importante, soprattutto se quanto le è appena successo ha qualcosa a che fare con il caso.» «Continui.» «Tanto per cominciare, nel mio paese natale, Cuba, ero un medico...» Sarah ascoltò, rapita, il conciso ed eloquente riassunto della sua vita. Esule politica da Cuba, Rosa Suarez si ritrovò in una serie di campi profughi con un minimo d'inglese e la penosa consapevolezza che non avrebbe avuto modo di documentare la sua istruzione e la sua laurea in Medicina. Dopo una serie di lavori umili, riuscì tuttavia a conquistarsi un posto di impiegata ai CDC. Suo marito, poeta e insegnante in patria, lavorava in una legatoria, dove rimase fino al pensionamento avvenuto qualche anno prima. Nel giro di pochi anni, però, la mente vivace di Rosa e la sua esperienza in campo medico le fecero trovare un posto di epidemiologa. Alcuni dei successi erano noti persino a Sarah. Poi, al culmine di quella che era stata una brillante carriera, fu incaricata di indagare su alcuni rapporti di un'insolita infezione batterica che aveva cominciato ad apparire nell'area di San Francisco. L'insolito virus aveva già ucciso un certo numero di pazienti immunodepressi o comunque debilitati. I suoi dati, raccolti in quasi un anno e concernenti migliaia di interviste e colture, puntavano il dito direttamente sull'esercito degli Stati Uniti. L'esercito, sosteneva, si serviva di quello che considerava un battericida biologicamente inattivo per testare le teorie del virus da guerra nei tunnel del BART, Bay Area Rapid Transit system, il sistema di transito rapido nell'aera della baia. A causa della natura delicata della sua accusa, Rosa non rivelò le sue scoperte finché il caso non fu, a tutti gli effetti, inattaccabile. Ma durante quel periodo, ne aveva parlato con la persona sbagliata.
Una commissione altamente qualificata di epidemiologi del paese e di specialisti di malattie infettive fu incaricata dal Congresso di convalidare le sue conclusioni. Quello che scoprirono, invece, furono importanti serie di dati mancanti. Programmi di computer che la stessa Rosa aveva ideato funzionavano male o per nulla. Calcoli di probabilità non riuscirono a sostenere le ipotesi. Tecnici di laboratorio negarono di aver mai ricevuto campioni che lei giurò di aver inviato. Infine, e molto ignominiosamente, un esperto della commissione rintracciò con facilità la fonte del batterio in un luogo di scarico ai margini della città. I direttori del laboratorio privato responsabile del luogo di questo scarico lo ammisero facilmente. Furono multati ma poco dopo, scoprì Rosa, divennero i beneficiari di un grosso contratto militare. «Così», disse, «il luogo di scarico fu ripulito e, naturalmente, il grado d'infezione cominciò a calare. Venni messa in naftalina, tanto per intenderci, e tirata fuori per quest'indagine solo quando nessun altro era disponibile a condurla.» «Hanno sabotato il suo lavoro. Incredibile», commentò Sarah. «Mi correggo. Credibilissimo.» «Be', se non altro adesso può capire perché ho mantenuto le distanze da tutti coloro che sono coinvolti in questo caso, lei compresa.» «La prego, Rosa, non si preoccupi. Faccia il suo lavoro.» «Domani mattina torno ad Atlanta per un po'. La mia indagine è ancora in fase preliminare. Ma mi sono imbattuta in alcune cose che mi turbano, e volevo avvertirla.» «Avvertirmi?» «Non è quello che pensa», disse Rosa, accarezzandole rassicurante il braccio. «Sono infatti diversi giorni che volevo dirle che i miei studi iniziali puntano verso una sorta d'infezione, e non verso una tossina o un veleno. Ma ero riluttante a parlare del mio lavoro con chiunque.» Avevano raggiunto la porta della vecchia casa vittoriana dove alloggiava Rosa. «Di che cosa mi deve dunque avvertire?» «Sarah, lei è una persona gentile e premurosa, e questo va a credito della sua professione. Vedo il dolore che hanno causato le accuse contro di lei. Non voglio entrare ancora nei dettagli, ma ho ragione di credere che qualcuno stia cercando di impedirmi di raggiungere la verità. Supponendo che questa persona non sia lei, ed è una supposizione che ho deciso di accettare, sia prudente nel confidarsi.»
«Ma...» «La prego, Sarah. Dirle tutto questo è stato difficile per me. Le dirò di più quando mi sembrerà giusto farlo. Nel frattempo, ho ancora molto lavoro da svolgere, e lei deve preparare la sua difesa.» Lei sospirò. «La sua supposizione è giusta, sa. Non sono quella persona.» Di nuovo Rosa le accarezzò il braccio. «Lo so, cara. Sia paziente con me e sia molto, molto prudente.» Sarah attese che l'epidemiologa fosse entrata, poi pedalò lentamente verso il centro della città. Per un po' cercò di schiarirsi completamente la mente. Non riuscendoci, tentò di concentrarsi sul suo nuovo avvocato e sullo strano ometto balbuziente, ma i suoi pensieri ritornavano sempre all'ammonimento misterioso di Rosa Suarez. «Sia paziente con me, e sia molto, molto prudente.» Se l'intenzione della donna era di spaventarla, si rese conto Sarah, aveva fatto un ottimo lavoro. 19 21 luglio Il negozio dell'erborista Kwong Tian-Wen occupava il pianterreno e lo scantinato di un decrepito edificio di mattoni a quattro piani. Sarah prestò più attenzione del solito al proprio aspetto, poi uscì dall'appartamento alle sette e un quarto e percorse a piedi i pochi chilometri che separavano North End da Chinatown. Provava una certa apprensione nel dover trattare con Jeremy Mallon, ed era ancora sbigottita dallo spaventato uomo balbuziente e dallo strano ammonimento di Rosa Suarez. Ma la mattina era luminosa e insolitamente chiara, ed era lieta di muovere quel passo per eliminare ogni sospetto dal suo integratore vegetale e rivedere Matt Daniels. Conosceva Kwong Tian-Wen dai tempi dell'Ettinger Institute e, dopo il suo ritorno dall'università di Medicina, aveva fatto effettuare dei controlli su di lui da alcuni membri della comunità olistica di Boston, scoprendo che era ancora molto considerato. Ciononostante, gli aveva parlato due volte prima di sceglierlo come suo fornitore. Non parlava quasi inglese, ma il discreto cinese di Sarah era sufficiente a permetterle di trattare con lui. Quando aveva bisogno di un traduttore, Kwong batteva il bastone sul soffitto o contro le tubature e, dopo un minuto o due, arrivava uno dei suoi tanti nipoti nati in America.
Sarah era rimasta colpita dalla conoscenza dell'uomo e attratta dalla sua visone ottimistica. E, naturalmente, c'erano eccezionali similarità, fisiche e metafisiche, fra lui e Louis Han. Non poteva fare a meno di credere di intravedere in Kwong il suo maestro, se fosse vissuto fino a settant'anni. Inizialmente Sarah passava personalmente a ritirare le ordinazioni ma, a mano a mano che i suoi impegni di lavoro aumentavano, aveva cominciato a farsi consegnare il preparato. In quel momento, si rese conto forse per la prima volta di come le mancavano quelle visite al negozio. La bottega si affacciava su una stradina nei pressi di Kneeland. Mentre Sarah svoltava l'angolo, scorse il vecchio e Debbie, una delle sue nipoti, in piedi presso la casa. Si stava chiedendo perché i due non fossero dentro quando notò le strisce gialle di vinile incrociate sulla porta d'ingresso e sulle vetrine. Si sentì morire pensando all'umiliazione e alla confusione di Kwong quando un vicesceriffo o un agente si era presentato con l'ordine del tribunale per sigillare il posto. «Salve, signor Kwong», disse Sarah in cantonese. «Salve, Debbie. Mi dispiace per questo.» Indicò le strisce. Kwong respinse la scusa con una mano nodosa, ma Sarah capì che era agitato. A un tratto si rese conto che era almeno un anno che non lo vedeva. La sua barbetta grigiastra era incolta e macchiata di nicotina sotto il labbro; la veste di seta azzurra, logora e sfilacciata. Era invecchiato di colpo, o lei l'aveva semplicemente visto attraverso occhi più giovani e più ingenui? «Un uomo sta a guardia del negozio da quando hanno messo quelle strisce», disse Debbie. «Va e viene dal vicolo. Dice che vuole essere sicuro che non venga manomesso niente. Che cosa vuol dire?» «Niente, Debbie», rispose Sarah. «Le cose torneranno presto alla normalità. Mi dispiace che tu e tuo nonno dobbiate sopportare tutto questo.» La fragilità del vecchio era impressionante. Sarah si augurava che Mallon e la sua gente prelevassero semplicemente i campioni che volevano e se ne andassero. Se avessero tentato di intimidire in qualche modo Kwong, sarebbe toccato a Matt proteggerlo. Stava per cercare di spiegargli la situazione attraverso Debbie quando vide Matt imboccare la strada. Eli Blankenship gli camminava accanto, gesticolando animatamente, come se stesse chiarendo un punto difficile. Sarah si sentì sollevata al pensiero che fosse presente anche lui. Non c'era un intelletto migliore all'MCB né una presenza fisica più imponente. Matt era piuttosto alto e robusto, ma accanto al professore sembrava esile.
Con l'aiuto di Debbie, presentò gli uomini a Kwong. Era chiaro che l'erborista non nutriva per loro altro interesse se non quello che se ne andassero. Matt porse le dovute scuse e condusse Sarah e Blankenship dall'altra parte della strada. «Il vecchio sa quello che sta accadendo?» bisbigliò. Sarah si strinse nelle spalle. «Ritengo che ne abbia idea. Ma non sono sicura che abbia capito che ha a che fare con me, e non con lui.» «Si direbbe che abbia trascorso gran parte della sua vita con le labbra strette intorno al cannello di una pipa d'oppio.» «E allora? L'oppio fa parte della sua cultura. Nessuna idea di dove sia Mallon?» «No. Mi aspetto che arrivi in ritardo, però. È un vecchio trucco del mestiere per innervosire e irritare l'altra parte.» Matt si avvicinò nuovamente a Kwong e alla ragazza. «Debbie», disse dolcemente, «la prego di scusare la nostra presenza con suo nonno, e gli prometta che lo ricompenseremo per l'incomodo.» La ragazzina, vestita con un largo paio di jeans e un maglione, aveva circa tredici anni, un viso allegro e corti capelli neri. Sarah stava per suggerire a Matt di scegliere parole più semplici e comprensibili, quando la ragazzina attaccò a tradurre per Kwong. Il vecchio rispose semplicemente con un grugnito e un gesto della mano. «Dice che è un piacere servirla, e che non deve pensare a pagarlo», ripeté Debbie. In quel momento, una Lincoln Town si fermò in fondo alla strada. Sarah si girò verso Kwong per rassicurarlo sui nuovi arrivati. «L'uomo grassoccio è lo sceriffo Mooney», sentì Matt dire a Eli, «e quello alto non è quello del prodotto dimagrante che si vede in televisione?» Le sfuggì un gemito e si girò a guardare la Lincoln. Peter Ettinger, dritto come un fuso e torreggiante sopra Mallon e lo sceriffo, stava guardando verso di lei. Anche nel pallido sole indiretto del mattino i suoi capelli argento sembravano fosforescenti. «Bastardo», borbottò fra sé. Era lui l'esperto di Mallon. Sfiorò dolcemente Kwong, che appariva un po' confuso, poi indietreggiò e osservò il gruppo di uomini avvicinarsi per le presentazioni. Colse il momento in cui Matt allungò la mano per stringere quella di Peter e lo congelò nella memoria.
Tutta la faccenda stava diventando ridicola. Fra pochi minuti, quando gli otto fossero entrati, le cose sarebbero apparse ancora più bizzarre: la bottega di Kwong era un impressionante guazzabuglio, senza passaggi ben definiti. Otto persone l'avrebbero riempita ancora di più. Matt riaccompagnò gli avversari fin dove si trovava Sarah. Peter arrivò a farsi presentare e a tendere la mano, ma lei la rifiutò. «Dunque», disse lui, «si direbbe che ci siamo cacciati in un piccolo guaio.» La sua espressione sussiegosa assomigliava a quella che Sarah ricordava in occasione dell'ultima terribile giornata nel suo ufficio. «E si direbbe che siamo diventati ancora più dispotici e antipatici di quanto eravamo normalmente», ribatté lei. Questa non è la ragazzina dagli occhi sbarrati che hai portato dalla giungla, Peter, stava pensando. Se è la guerra che vuoi, non resterai deluso. «Vi conoscete?» chiese Matt. «La dottoressa Baldwin un tempo ha svolto del lavoro per me», si affrettò a rispondere Ettinger. «Lavoro duro sarebbe un termine più appropriato, Matt. Non ne sono orgogliosa, ma abbiamo vissuto insieme per tre anni prima che mi svegliassi e me ne andassi.» «Vissuto insieme!» esclamò Matt. «Mallon, che diamine?» Un secondo prima che questi rispondesse, Sarah riuscì a scorgere la confusione nei suoi occhi. Peter non gliel'aveva detto! Il bastardo voleva talmente vendicarsi che non aveva detto una parola sul loro passato. «Il signor Ettinger ci aiuta solo a organizzare il caso», rispose Mallon, irritato. «Non è mai stato nelle mie intenzioni farlo apparire in tribunale. Funge solo da consulente.» «Be', pensavo che aveste da proporre qualcosa di meglio come esperto che un corteggiatore respinto», osservò Matt. «Che cosa ne dite di entrare e sbrigarci?» Mallon non rispose, ma era chiaro dalla sua espressione dura che Matt aveva colpito nel segno. «Sta andando bene», disse Sarah. «Ma adesso si assicuri che Mallon non si rifaccia su Kwong.» Le strisce di vinile furono tagliate e il gruppo, guidato da Kwong TianWen e sua nipote, entrò nella bottega. Il luogo era più ingombro e fragrante di quanto Sarah ricordasse. Mazzi di canne e fiori secchi erano disseminati dappertutto, insieme a barili di radici, farine di vario genere, riso e foglie. Il vecchio banco di vetro e gli
scaffali dietro di esso erano carichi di barattoli di diverse misure, forme e contenuti. Su alcuni di essi c'erano etichette scritte in cinese, ma molti non ne avevano. Due gatti rognosi e a pelo lungo, uno bianco candido, l'altro nero come il carbone, dormivano rannicchiati in un angolo, e al centro di quel disordine c'era uno scaffale in ferro ben fornito di prodotti Dr. Scholl's. «Non credo che far venire una giuria in questo posto aiuterebbe molto la nostra causa», sussurrò Blankenship. «Speriamo che non si arrivi mai a questo», osservò Sarah. «Ebbene, avvocato, come intende procedere?» chiese Matt. Mallon, apparentemente ignaro che il suo abito di Armani fosse premuto contro un polveroso mazzo di girasoli secchi, passò in rassegna il negozio con aria sprezzante. Chiaramente, era di nuovo in sella. «Abbiamo un'elenco degli ingredienti dell'integratore della dottoressa Baldwin», disse infine. «Chiederemo di essi, uno per volta. La nipote del signor Kwong potrà tradurre, se necessario. Il campione verrà poi infilato in due sacchetti etichettati. Il primo verrà sigillato dallo sceriffo Mooney, e il sigillo porterà le iniziali sue o della dottoressa Baldwin. Il secondo verrà ispezionato dal signor Ettinger, che compilerà tutte le osservazioni che desidera. Oggi stesso lavorerà con una squadra di botanici e di chimici per identificare scientificamente ciascun componente. Questo approccio incontra la sua approvazione, avvocato?» «Sarah, Eli, per voi va bene?» chiese Matt. «Quale rappresentante del Medical Center di Boston, desidererei esaminare anch'io i campioni», asserì Blankenship. «S'intende di erboristeria?» «Oh, un po'», rispose il dottore con un mezzo sorriso che suggeriva in realtà un'ampia conoscenza in materia. Sarah si rivolse a Blankenship e a Matt. «C'è qualcosa che vorrei discutere», sussurrò. «Con noi o con tutti?» «Con tutti.» Si schiarì nervosamente la gola. «Faccia molta attenzione», l'ammonì Blankenship. «Ricordi che loro sono il nemico.» «Capisco. Ma, signor Mallon, prima che inizi questo processo, desidero spiegare che ho portato la composizione di questa mistura dal Sudest asiatico. È stata annotata in cinese da un brillante erborista e guaritore. Ho qui con me una copia di quella versione. È quest'elenco che il signor Kwong
ha usato per preparare le tisane che dispenso. Alcuni dei nomi che ha sull'elenco sono l'equivalente inglese delle radici ed erbe che usa.» «Purché i due elenchi siano nello stesso ordine, e lei e il signor Kwong ammettiate che ciò che mette in questi sacchetti è proprio quello che lei ha dato a Lisa Grayson, non ho problema sui nomi con i quali chiama le cose. A tempo debito, il signor Ettinger e i suoi collaboratori ci forniranno i nomi scientifici e le composizioni chimiche. Desidererei una copia di quell'elenco cinese, però.» Debbie tradusse a Kwong quello che era stato deciso, e gli porse l'elenco. Sarah era sicura che il vecchio ricordava a memoria i componenti del prodotto. Ma rendere partecipe Mallon di quell'informazione non avrebbe aiutato la loro causa. «Va bene», disse Mallon. «Il primo è ginseng orientale.» «Panax pseudoginseng», sussurrò Blankenship. Debbie disse al nonno di procedere. L'erborista annuì un po' impaziente e, dando una breve occhiata all'elenco, prese un grosso barattolo di frammenti di pianta marroni da sotto il banco. Usando una vecchia paletta di metallo, riempì due sacchetti di plastica. Sarah autenticò il sigillo su uno e lo porse a Matt, che lo consegnò allo sceriffo. L'altro fu passato prima a Blankenship e poi a Peter. Blankenship ci impiegò solo qualche secondo a valutare il contenuto. Peter l'annusò, l'assaggiò e lo arrotolò fra le dita. Poi, dopo qualche «mmm» che Sarah era sicura avesse emesso per irritarla, infilò il campione nella sua cartella. La seconda voce sull'elenco, una nodosa radice, venne trattata allo stesso modo, e così la terza, che Sarah aveva chiamato Moondragon. «Sono in realtà trucioli di corteccia di medarah», spiegò. «Magnifico per i disturbi all'intestino e allo stomaco. E per la nausea mattutina.» Mentre parlava, Sarah notò che in fondo al banco, sulla destra, lo sceriffo Mooney aveva cominciato a guardare con insistenza verso uno dei contenitori di vetro. Era sullo scaffale più alto, dietro a diversi barattoli più grandi. Sarah cercò di vedere che cosa ci trovasse l'agente di tanto interessante e stava per informare Matt, quando Kwong cominciò ad agitare le braccia e a gridare. «No, no, no!» urlava. La sua espressione era uno sconcertante miscuglio di rabbia e stupore. «No, no, no!» Era quasi isterico quando inveì contro la nipote, gesticolando verso il barattolo che conteneva il campione che aveva appena distribuito; il quarto componente dell'elenco. Sarah non aveva mai sentito l'uomo alzare in quel
modo la voce, ma l'espressione spaventata e frustrata dei suoi occhi la conosceva bene. L'aveva vista spesso negli occhi di sua madre mentre l'Alzheimer della donna progrediva inesorabilmente. Qualcosa era andato storto; molto storto. 20 «Debbie, che cosa sta succedendo?» La ragazzina, che stava cercando senza successo di calmare il nonno, si limitò a scuotere la testa. Sarah afferrò una piccola sedia dallo schienale di bambù e aiutò il vecchio a sedersi. Kwong continuò, con voce rauca ora, a inveire contro Debbie e ogni altro in cantonese. Sarah si inginocchiò accanto a lui e gli accarezzò la mano finché non cominciò a calmarsi. «Non so che cosa sia successo», disse Debbie. «Ha messo le erbe nei sacchetti, e sembrava che tutto andasse bene. Poi, a un tratto, ha preso un pezzetto di qualcosa dal barattolo, l'ha annusato e ha cominciato a gridare. Sono molto spaventata per lui. Non è stato bene.» Il colorito di Kwang, giallastro di natura, sembrava a Sarah ancora più pallido. Di riflesso gli controllò la frequenza del polso. Per un momento pensò che il cuore gli battesse all'impazzata, poi si rese conto che era la propria frequenza che sentiva nei polpastrelli. Chiaramente, la svolta degli eventi si era ripercossa sul suo sistema nervoso, se non completamente sulla sua mente. La confusione, l'apparente errore, la reazione isterica... Queste erano le ultime cose che si sarebbe aspettata dal suo erborista. Ma Kwong Tian-Wen non era, dopotutto, l'uomo che ricordava. «Dottor Blankenship, crede che sia a posto?» chiese. «E lei?» sussurrò. Sarah si morse il labbro inferiore e annuì. «Non riesco a credere che stia accadendo tutto questo.» «Che cosa sta succedendo lì?» domandò Mallon. Sarah si girò verso di lui come un gatto spaventato. «Sta male, ecco che cosa sta succedendo!» scattò. Trasse una profondo respiro per calmarsi. «Mi dispiace, non intendevo aggredirla. Senta, devo parlare con l'avvocato Daniels, e credo che il dottor Blankenship debba visitare il signor Kwong.» Mallon indietreggiò mentre Sarah bisbigliava con il suo avvocato.
«Va bene», disse Matt dopo aver sentito Sarah. «La situazione è questa. La quarta erba sull'elenco avrebbe dovuto essere camomilla. Evidentemente il signor Kwong è sconvolto perché l'erba nel barattolo non è quella che si aspettava.» «Che cos'è allora?» chiese Mallon con l'avidità di un pescecane. «È sull'elenco? Debbie, chiedigli che cos'è quella roba. Chiedigli se l'ha messa nella mistura che ha dato alla dottoressa Baldwin.» «Debbie, non farlo», ordinò Matt. «Dio, Mallon. Che cosa le prende? Eli, come le sembra?» «Vorrei avere lo stetoscopio», rispose Blankenship. «Credo stia bene, ma non ne sono sicuro.» Kwong era molto più calmo, ora, sebbene non meno sgomento. Sedeva con le mani sulle ginocchia a fissare il barattolo colpevole, scuotendo la testa. «Debbie, tua madre è in casa?» chiese Sarah. «Credo che dovremmo portarlo di sopra e farlo sdraiare.» «Non c'è nessuno», rispose la ragazza. «Posso occuparmene io. Dargli magari un po' di vino cinese. Gli piace.» «Un momento», fece Mallon. «Vorrei che rispondesse alle mie domande.» «La pianti, avvocato», scattò Matt. «Questa sessione è finita.» Peter, che stava effettuando un esame dell'erba, si schiarì la gola per richiamare l'attenzione. «Potrei sbagliarmi», disse con un tono che suggeriva il contrario, «ma credo che quest'erba si chiami noni. Morinda critfolia è il nome scientifico. È usata nella isole del Pacifico come cataplasma per fermare le emorragie, come tisana per regolare il flusso mestruale e l'emorragia interna anormale. Molto efficace. Molto potente.» I sottintesi della dichiarazione di Ettinger, se corretta, non sfuggirono a nessuno. Una potente erba che influiva sulla coagulazione del sangue, dispensata erroneamente da Kwong come camomilla. Per un momento, sembrò che tutti stessero parlando insieme, con Mallon che incitava Peter a preparare un rapporto biologico e chimico sull'erba appena possibile; Matt che diceva a Mallon di piantarla; Blankenship che rassicurava Kwong, e gli chiedeva se se la sentiva di continuare; Sarah che domandava se Debbie potesse andare a prendere le medicine del nonno per riuscire a capire qual era il problema. La confusione e il rumore vennero fatti cessare di colpo dallo sceriffo
Mooney. «Scusatemi, tutti quanti», disse a voce alta. «Ho una riunione in ufficio a cui non posso mancare. Tuttavia, prima di andarmene, temo che il qui presente signor Kwong debba dare un'altra piccola spiegazione.» Si rivolse a Blankenship. «Dottore, il signor Kwong sta abbastanza bene da venire qui a tirare giù quel barattolo? Quello con la polvere marrone là dietro. In fondo allo scaffale.» «Immagino che se è importante, c'è...» «Un momento», intervenne Matt. «Sceriffo Mooney, che cosa sta facendo? Non ha il diritto di tormentare quell'uomo.» Mooney puntò un tozzo indice verso l'avvocato. «Non ci siamo mai conosciuti prima d'oggi, Matt», disse, «ma mi sembra di conoscerla. Mi piaceva vederla lanciare. Ero infatti alla famosa partita di Toronto. Tuttavia, non mi va che lei mi dica quello che ho o non ho il diritto di fare.» «Ma...» «Specialmente quando sbaglia.» Estrasse un foglio dalla tasca interna della giacca e la passò a Matt. «Questo è il mandato emesso dal giudice John O'Brien ieri pomeriggio. Mi autorizza a entrare in questo negozio e a prelevare tutti i campioni che voglio.» «Emesso su quale base?» chiese Matt. «Sulla base di una telefonata riguardante quest'uomo fatta alla linea diretta della Narcotici. Mi sono fatto dare il mandato. Non era mia intenzione usarlo finché avessi avuto il tempo di effettuare qualche controllo. Ma lavoravo per la DEA, e riconosco l'oppio quando lo vedo. E credo che questo sia precisamente quanto c'è in quel barattolo laggiù.» L'inglese di Kwong, per quanto limitato, includeva chiaramente la parola «oppio». La sua agitazione cominciò automaticamente ad aumentare. «Oppio no! Non mio!» gridò. Sarah non vedeva soltanto confusione sul suo volto, ora, ma puro terrore. «Dannazione, Mooney», esclamò Matt. «Non vede che il vecchio non è in grado di sopportare una cosa come questa?» «Signorina, vuole chiedere a suo nonno di prendermi quel barattolo?» insistette lo sceriffo. Matt tirò giù il barattolo dallo scaffale e lo posò sul banco. «Lo voleva? Eccolo. Che genere di poliziotto è mai? Fare questo a un vecchio di fronte a sua nipote?»
«Un poliziotto a cui non piacciono gli spacciatori, indipendentemente dall'età che hanno.» In quel momento, Kwong, che stava gridando e agitando le braccia magre, si calmò di colpo. Il suo respiro si fece all'improvviso affannoso, e il suo colorito si ingrigì. «Nonno!» gridò la ragazza. Sarah ed Eli compresero quasi simultaneamente quello che stava accadendo. Edema polmonare acuto; insufficienza cardiaca, quasi certamente di origine coronarica. Adagiarono velocemente Kwong sul pavimento. «Chiamate un'ambulanza», ordinò Blankenship a nessuno in particolare. «Sarah, può comunicare con lui?» «Un po'.» «Venga qui accanto a lui e faccia del suo meglio per calmarlo. Dobbiamo prendere tempo finché non arriva la squadra di soccorso con ossigeno e morfina.» Sarah asciugò la fronte del vecchio, bagnata di sudore. Gli sussurrò all'orecchio e gli carezzò la schiena. Ossigeno e morfina, stava pensando. Ossigeno e morfina... «Dottor Blankenship», disse all'improvviso. «L'oppio.» Il professore capì immediatamente. L'insufficienza cardiaca acuta anche se di origine coronarica, rispondeva spesso magnificamente all'effetto calmante di un narcotico. La morfina era uno dei trattamenti previsti. E la morfina era un derivato chimico dell'oppio. «Siamo sicuri di quello che c'è in quel barattolo?» chiese. Sarah asciugò di nuovo la fronte di Kwong. Il suo colorito adesso era spettrale. Era possibile che il suo edema polmonare si tramutasse in arresto cardiaco prima che arrivasse la squadra di soccorso. «Debbie, vieni qui, presto», disse. «Non avere paura. Abbiamo bisogno del tuo aiuto... Chiedi a tuo nonno se c'è realmente oppio in quel barattolo. Digli che è molto importante.» La ragazza rimase dov'era. «Debbie, ti prego», la implorò Sarah. «Può salvargli la vita. Dobbiamo sapere. Ti prego, chiediglielo.» «Non è necessario farlo», rispose lei all'improvviso. «È oppio. È il suo oppio. Tutti in famiglia lo sanno: lo fuma con gli amici. Ma non lo fa quasi più. E l'ha sempre tenuto nascosto nel ripostiglio. Non so come sia finito su quello scaffale.» «Grazie, Debbie», disse Sarah. «Hai fatto bene a dircelo. Non preoccu-
parti.» Eli Blankenship gli stava già somministrando dei cristalli sotto la lingua. Sarah riconcentrò la sua attenzione su Kwong, rassicurandolo e asciugandolo. Dopo un minuto, Blankenship gli somministrò un'altra dose. «Lei ha fatto pratica nella giungla», disse. «Per un vecchio medico come me, operare in questo modo è spaventoso.» Ma la respirazione di Kwong aveva già cominciato a rallentare e il suo colorito a migliorare. «La frequenza del polso sta rallentando ed è più forte», disse eccitata Sarah. Per la prima volta durante la crisi, alzò gli occhi su Matt. «Sta andando bene», spiegò. Quando arrivò la squadra di soccorso, Eli aveva somministrato un terzo pizzico di oppio, e Kwong non era più in pericolo. Poi, benché la situazione fosse ormai sotto controllo, insistette per accompagnare l'uomo. Lo caricarono sull'ambulanza e, con sorprendente grazia, Blankenship saltò su dietro la barella. Quindi, con un ultimo cenno del capo e il segno di vittoria in direzione di Sarah, partirono. Jeremy Mallon farfugliò qualcosa a Matt sul fatto di tenersi in contatto e accompagnò fuori dal negozio i due colleghi sbalorditi. Debbie corse di sopra a lasciare un biglietto alla madre perché li raggiungesse al White Memorial. Sarah, solo un poco meno pallida di quanto non lo fosse stato Kwong, si lasciò cadere su una sedia. Matt le portò un bicchiere d'acqua. «Ha fatto un lavoro straordinario», disse. «Sono contenta che ci fosse Blankenship. È il migliore.» «È lei che ha pensato di usare l'oppio, ricorda? Il vecchio si riprenderà?» «Non lo so. È... è così fragile. È come se fosse diventato improvvisamente vecchio, dall'ultima volta che l'ho visto.» «Non lo era, allora?» «Affatto. Matt, sono nei guai, vero?» «Be', dipende. Crede che Kwong le abbia dato la roba sbagliata per tutto questo tempo?» «Non lo so. Non so che cosa credere.» «Ebbene io invece sento odore di bruciato. Che cosa ci faceva quell'oppio sullo scaffale?» «Può darsi che Tian-Wen soffra di demenza senile. Se così fosse, potrebbe anche averlo lasciato in vetrina e non essersene reso conto.»
«Non ci credo, o almeno non ancora. Una telefonata anonima alla linea diretta della Narcotici. Figuriamoci!» «E la famosa erba noni? Se Peter ha ragione, e credo sia così, come lo spiega?» «Non lo so. Forse il vecchio si è confuso, in quel caso. Forse quella parte è legittima. La parte dell'oppio è troppo chiara. Troppo preparata.» «Ma non ha idea di come provare che Tian-Wien è stato raggirato, se lo è proprio stato?» «Neanche un indizio.» «Così io sono lo stesso nei guai.» «Be', devo ammettere che ci aspetta un duro lavoro», ammise cupo. «Ma il duro lavoro non mi ha mai spaventato. Andrà tutto bene.» In quel momento, il gatto nero di Kwong si stiracchiò, si avvicinò a Matt e gli si sedette sulle scarpe. 21 La boccia partì dritta, rombando lungo la pista a neanche un centimetro dalla scanalatura laterale, molto più vicina di quanto Leo Durbansky avrebbe voluto. Dieci uomini, i cinque della sua squadra Precinct Four, perennemente bistrattati, e i cinque della Dorchester, i perenni campioni della Police and Fire League, trattennero il fiato mentre l'effetto sulla boccia cominciava a trascinarla indietro verso la buca unotre. Ci stava impiegando un'eternità a raggiungere i birilli. «Vai, piccola», sentì Leo sussurrare da Mack Peebles. «Vai, piccola, vai.» Tutto quanto ha dell'incredibile, stava pensando Leo. L'ultima boccia dell'ultima partita della stagione. Gli eterni perdenti contro gli eterni vincitori. Ed ecco che Leo Durbansky, con la sua media uno-cinquanta, effettua la serie di tre game della sua vita. Due-quarantacinque, due-sessantotto, e adesso forse, solo forse, un... La Brunswick marrone di Leo finì autorevolmente nella buca, esplodendo come un obice attraverso nove birilli. Ma il decimo birillo rimase in piedi. Diversi compagni di squadra gemettero, uno batté sulla spalla di Leo. Poi a un tratto, da chissà dove, un birillo tornò rumorosamente indietro sulla pista e cominciò a girare con movimento penosamente lento. Le squadre si raggelarono. Il birillo traditore, come se fosse tirato da una corda invisibile, sbatté contro il decimo. Il momento era giusto. Le stelle
erano giuste. Il decimo birillo, leggermente inclinato per l'impatto, si piegò oltre il suo centro di gravità, rimase in bilico per un interminabile secondo, poi ruzzolò. Le grida e gli applausi esplosero come mai Leo aveva sentito in vita sua. Era un agente con vent'anni di servizio, che non aveva mai fatto niente che lo disonorasse, ma anche ben poco che lo distinguesse. Adesso il suo nome e le sue imprese sarebbero state immortalate. Erano le undici passate quando Leo decise che era ora di tornare a casa. Aveva già chiamato Jo per raccontarle dell'incredibile serata e dirle di non aspettarlo alzata. Ma forse lo avrebbe aspettato lo stesso. La notte era fresca e senza luna. Sapendo di aver bevuto un paio di birre, Leo guidava ancora più cautamente del solito. Se fosse andato più in fretta, il movimento sulla soglia buia del seminterrato proprio di fronte a lui, alla sua destra, avrebbe potuto sfuggirgli. Frenò di colpo la sua Taurus e istintivamente spense i fari. Un uomo, spinto da un altro, incespicò lungo la breve scala. L'aggressore, un uomo dai capelli biondi, aveva la mano infilata nella tasca della giacca a vento, e Leo non ebbe alcun dubbio che stringesse una pistola. Spense il motore, aprì il cruscotto e tirò fuori il suo revolver di servizio. Se fosse stato con la macchina della polizia, il protocollo avrebbe voluto che chiedesse immediati rinforzi. In altre circostanze si sarebbe magari comportato diversamente, ma quella notte era fatata. Controllò il caricatore e osservò l'uomo più basso mentre veniva spinto sul sedile del passeggero della Olds blu scuro e nero ultimo modello. Ripeté a se stesso il numero di targa della Olds mentre la seguiva attraverso il South End e sull'autostrada. Aveva la bocca asciutta, le palme umide. Tuttavia, nonostante la situazione, continuava a rivivere il suo momento di trionfo. Mentre attraversavano il Neponset Bridge, vide un certo movimento attraverso il finestrino posteriore della Olds e si chiese se l'uomo non fosse già stato fatto fuori. Scrollò le spalle. Se era accaduto, non c'era assolutamente niente che potesse fare. Ma se non era così, allora quella magica notte aveva in serbo ben altro che un trofeo di bowling per Leo Durbansky. Stava immaginando come sarebbe stata orgogliosa sua moglie del riconoscimento che avrebbe certamente ricevuto, quando la Olds abbandonò il ponte e imboccò una strada buia. Leo rallentò e si tenne indietro dicendosi che questo non sarebbe stato il primo cadavere che veniva scaricato in quella particolare area. La sua uniforme era piegata sul sedile posteriore.
Senza staccare gli occhi dalla preda, cercò le manette e se le infilò in tasca. I fari della Olds erano spenti, ma lui riusciva lo stesso a distinguerne la sagoma sullo sfondo scuro della città. Era parcheggiata accanto al muro di un edificio bruciato. Leo escogitò un paio di modi per avvicinarsi senza essere notato. La luce interna si accese per qualche secondo mentre l'aggressore apriva la portiera del passeggero, spingeva il prigioniero fuori e lo seguiva. Forse non è un vero professionista, pensò Leo. Un vero professionista non avrebbe mai acceso la luce interna. Poi aprì la portiera, scivolò fuori e cadde su un ginocchio. Sentiva le voci dei due uomini, ma erano troppo distanti per captare le parole. Non aveva idea di quanto tempo gli restasse. Doveva avvicinarsi in fretta. Attento, si ammonì. Mantieniti freddo come hai fatto sulla pista 9, e inchioderai quel delinquente al muro. Strinse la pistola, il dito sul grilletto, e coprì rapidamente i trenta metri che lo separavano dai due uomini. «L-la prego, n-non lo faccia... Non s-sono un p-pericolo per nessuno.» «Hai un minuto per dirmi con chi hai parlato. Sono solo sessanta secondi... Cinquanta.» «L-la p-prego... L-la prego.» La vittima, balbettando quasi ogni parola, era in ginocchio, singhiozzante. Leo si spostò sull'angolo di uno steccato in rovina. Non era che a quindici metri dai due, ora. Avrebbe voluto avere una torcia nella Taurus, accecare il biondo, e tutta la faccenda si sarebbe conclusa in un batter d'occhio. Si avvicinò di un metro e mezzo. Poi di un alto metro. «Il tempo è scaduto», disse l'uomo con la pistola. «Fermi!» gridò Leo. Il cuore gli batteva all'impazzata. «Che nessuno si muova. Che nessuno...» Il biondo girò lievemente la testa, e Leo capì in quel momento che non avrebbe rinunciato senza lottare. Il suo dito stava premendo il grilletto quando l'uomo si lanciò da una parte con una mezza capriola. Leo sparò un istante prima di vedere una fiammata scaturire dall'ombra in movimento. Udì l'esplosione dell'avversario sovrapporsi quasi al grido di dolore dell'uomo. Preso! pensò Leo. Preso! Il bandito era caduto pesantemente a terra e si stringeva la gamba, contorcendosi di qua e di là. La sua vittima balbuziente era sgattaiolata via, ed
era adesso in piedi, pronta a darsela a gambe. Probabilmente un pivellino, pensò Leo vedendolo sparire nell'oscurità. Il premio che desiderava, i titoli a caratteri cubitali e il riconoscimento del suo reparto, stavano cadendo sul terreno di fronte a lui insieme all'uomo biondo. Ricercato, probabilmente, pensò. Sulla lista dei pezzi grossi, magari. «Bene, asino. Rimani lì dove sei e non muoverti. Sono un poliziotto!» abbaiò Leo. Ma, stranamente, non emise alcun suono. A un tratto si sentì stordito, distaccato, nauseato... Solo allora si rese conto di una fitta al lato destro del collo, appena sotto l'orecchio. Goffamente se lo toccò: caldo sangue appiccicoso colò sulla sua mano e sul braccio. Lo stordimento e la nausea aumentarono. Si piegò su un ginocchio. Poi, lentamente, ruzzolò su un fianco. L'ultimo suono che Leo Durbansky udì fu l'enorme rimbombo di migliaia di bocce da bowling che tuonavano lungo migliaia di piste e finivano dritte in migliaia di buche uno-tre. 22 29 agosto Poco dopo mezzogiorno, Sarah attraversò il giardino pubblico e si diresse al Boston Common verso il punto in cui avrebbe dovuto incontrare Matt. La giornata, già calda all'alba, era adesso afosa. Uomini d'affari con camicie a maniche corte e cravatte allentate stavano pranzando sotto grandi alberi ombrosi, le giacche accuratamente piegate accanto a loro. Tutto intorno al campo dove i volontari si erano addestrati un tempo alla Rivoluzione, gruppetti di madri in pantaloncini e top chiacchieravano languidamente, con i figli che correvano accanto a loro sulla folta erba estiva. Sarah avrebbe voluto sdraiarsi e rilassarsi. Avrebbe voluto incontrare Matt per un picnic e passeggiare piacevolmente lungo il Charles. Qualunque altra cosa sarebbe stata preferibile a quello che l'aspettava. All'una, infatti, lei e Matt si sarebbero trovati in una stanza del secondo piano del Suffolk Superior Court Building davanti a una commissione, con l'accusa di negligenza medica. Matt, che aveva già assistito a tre udienze simili negli ultimi anni, le aveva spiegato il processo nei particolari, suggerendole di non intervenire. Ma con una rotazione flessibile di pazienti esterni dell'ospedale e un'esigenza quasi morbosa di vivere in prima persona la sua battaglia legale non
aveva potuto fare a meno di presenziare. La commissione, formata da un giudice, un avvocato e un medico con la stessa specialità dell'imputato, non era istituita per determinare la colpa o l'innocenza, aveva spiegato Matt. «Le commissioni sono però molto spesso in favore dei querelanti. E anche nel caso in cui essi perdano, possono continuare l'azione legale purché disposti a versare una cauzione. Nel Massachusetts è di seimila dollari, per coprire le spese processuali e gli onorari del difensore, con facoltà del giudice di rinunciare alla cauzione se non ritiene che il querelante possa permettersela. Ma questo non è il caso dei Grayson.» Una consumata palla da baseball macchiata d'erba rimbalzò sul prato e rotolò sul marciapiede, proprio davanti ai piedi di Sarah. Lei la raccolse e la tirò al ragazzo che la stava rincorrendo. Il giovane, probabilmente ispanico, parò il colpo con la mano coperta dal guantone e le sonise timidamente da sotto un berretto dei Red Sox. «Non male come lancio per una ragazza, eh, Ricky?» sentì dire da Matt. Le fece cenno con la mano al di là del prato e abbandonò il gruppo di ragazzi con i quali aveva giocato. Portava scarpe da ginnastica, una maglietta di Greenpeace e i pantaloni del completo. Mentre parlava, gesticolava con il guantone come se fosse stato parte della sua mano. «Grazie, Ricky, ottima presa», disse passando accanto al ragazzo. «Anche il tuo lancio sta notevolmente migliorando. Ehi, forse vi vedrò domani, ragazzi.» «È carino», osservò Sarah. «È un briccone», ribatte Matt. «Stavo scherzando. Quei ragazzi laggiù sono una gang, Los Mucachos. Un paio d'anni fa, il tribunale mi assegnò la difesa di uno di loro. Niente di troppo serio, fortunatamente. Comunque, mostrai loro alcuni miei ritagli di giornale, solo quelli positivi naturalmente, e diventammo amici. Adesso tutta la gang gioca a baseball, e alcuni di loro stanno lavorando con i più piccoli. Ricky ha formato la sua squadra al liceo. Ha notevole talento.» «È stato lei a far accadere tutto questo?» «Be', no. Io ho fatto semplicemente capire loro che era tutt'altro che poco audace pestare una palla da baseball invece che la testa di qualcuno. La settimana prossima finirà il periodo di libertà condizionata di Ricky. Ho un paio di biglietti di prima fila per una partita dei Sox Baltimora. Inizialmente li avevo comprati per me ed Harry, mio figlio, ma ha dovuto tornare a casa per ragioni scolastiche. Così ci porto Ricky. Avrebbe dovuto essere
una sorpresa, ma gliel'ho già detto. Non sono molto bravo in fatto di sorprese.» «Dove abita Harry?» chiese Sarah. Un'ombra di tristezza gli oscurò il viso. «In California.» Il suo tono scoraggiò ulteriori domande sull'argomento. Dopo alcuni imbarazzanti momenti di silenzio, lui abbozzò un sorriso e annuì verso il lato più lontano del Boston Common. «Il mio ufficio è da quella parte.» Sarah si sentì sollevata nel cambiare argomento e poter semplicemente camminare. Gli abiti da lavoro di Matt erano nel suo ufficio, al quinto piano di un edificio in arenaria ristrutturato. L'appartamento di tre stanze non era deprimente o disorganizzato come l'aveva dipinto, osservò Sarah. «Tutto è relativo», disse lui. «Sfortunatamente in campo legale, con la concorrenza spietata che c'è, l'immagine conta. Prima o poi la porterò a vedere l'ufficio di Jeremy Mallon.» «Mi risparmi», fece Sarah. La presentò alla sua segretaria, una simpatica donna dall'aria materna di nome Ruth. Sarah capì che era desiderosa di chiacchierare ancor prima che avesse pronunciato una parola. «Il signor Daniels è un uomo meraviglioso», cominciò Ruth qualche attimo dopo, quando Matt fu entrato nel suo studio per cambiarsi. «Ne ha tutta l'aria.» «Un buon avvocato e un gran padre. Dice che lei è la cliente più importante che abbia mai avuto. Lavora sempre sodo, ma non l'ho mai visto dedicare tante ore come al suo caso.» «Questo è rassicurante.» Sarah sorrise imbarazzata e sbirciò il tavolino alla ricerca di qualche rivista vagamente interessante. Finì con una copia sgualcita di quattro mesi prima della rivista dei consumatóri Consumer Reports. Il messaggio che aveva sperato di trasmettere a Ruth cadde nel vuoto. «È qui quando me ne vado la sera», continuò la donna, «ed è qui quando arrivo al mattino. La donna che frequentava prima non riusciva a capire com'era importante per lui crearsi quest'attività, dopo quello che era successo con Harry e tutto quanto. Credo sia per questo che l'ha piantato, perché non le prestava abbastanza attenzione. Non mi è mai piaciuta molto. Troppo snob, se capisce che cosa intendo dire. Il signor Daniels può trovare di meglio.» A un tratto Sarah si sentì dibattuta tra il chiedere alla donna di smettere
di dividere informazioni così personali sul suo capo o, al contrario, carpirle ogni indizio utile che potesse fornirle. Decise per una via di mezzo. «Che cos'è successo con Harry?» domandò, riflettendo sul volto triste di Matt e pensando al peggio. «Oh, non si tratta di Harry, ma della sua ex. Qualche anno fa, ha praticamente rapito il figlio e si è trasferita in California. Los Angeles, nientemeno. Il signor Daniels le ha fatto causa, ma non è arrivato a nulla, anche se tutti sapevano benissimo che lei beveva molto e che lui sarebbe stato un genitore migliore.» «Molto triste.» «L'ha detto. E ama troppo Harry per rifiutare qualunque cosa gli chieda quella donna. Scuola privata, scuola estiva, denaro extra per i vestiti. Più il costo di biglietti aerei per venire avanti e indietro quando lei glielo permette. Ho compilato parecchi assegni, per cui so quanto gli vengono a costare quei viaggi. Credo sia per questo che il suo caso è così importante per lui. Se gli va bene, la compagnia di assicurazioni gli manderà probabilmente degli altri clienti... Sto parlando troppo? Il signor Daniels continua a sgridarmi perché parlo troppo con i clienti. Ma la verità è che se ci fossero più clienti, parlerei probabilmente meno.» Sarah si chiese per quanto tempo avrebbe dovuto conoscere il suo avvocato, e come, prima di apprendere su di lui tutto ciò che in due minuti gli aveva detto la sua segretaria. Il vecchio citofono sulla scrivania di Ruth gracchiò. «Sarah, mi dispiace di averci impiegato tanto», disse Matt. «Ho chiamato un cliente per una piccola faccenda e mi ha tenuto al telefono finora. Non ci vorrà ancora molto. Ruth, lasci perdere quello che sta facendo e la intrattenga. Non vogliamo che ci veda come uno di quegli studi freddi e distaccati.» Il Suffolk Superior Court Building, una reliquia di granito, era a cinque minuti a piedi dall'ufficio di Matt. «Voglio accertarmi che non si aspetti una specie di Perry Mason», disse questi mentre aspettavano a un semaforo di attraversare Washington Street. «Oggi Mallon si infilerà i guanti e ci martellerà spietatamente: affidavit, lettere di esperti e così via. Dopodiché, toccherà a noi intrattenere la commissione con argomenti che riescano a stendere ben bene Mallon. Questa sarà la prima vera battaglia che combatteremo, solo che loro avranno i fucili e noi no. Per cui non sarà molto gradevole. Ma ricordi, è solo
una scaramuccia.» «Mi sembra orribile.» «Non si preoccupi, avremo la nostra opportunità. Non si lasci tuttavia turbare da quello che sentirà. Come le è stato fatto presente quel giorno nel negozio del signor Kwong, queste persone non sono sue amiche. L'ho visto ieri, fra l'altro.» «Tian-Wen?» «Sì, ci sono andato alcune volte. Non l'ho accettato come cliente, dato il conflitto di interessi con il suo caso, ma gli ho procurato Angela Cord, un eccellente avvocato. Mi piace molto quel vecchio. In ogni modo, ha detto che non è andata a trovarlo da quando è uscito dall'ospedale.» «Con tutto quello che mi sta succedendo, be', non ci sono voluta andare. È un caro vecchio. Mi dispiace che sia stato male e che sia stato accusato per l'oppio. Ma la verità è che sono arrabbiata: quell'oppio era suo. Non lo nega.» «Sì», fece Matt. «Ma se ricordo bene, è lei che mi ha rammentato che fumare oppio fa parte della sua cultura e non è un crimine. E poi, continua a negare di aver tenuto oppio nel suo negozio. E sostiene ancora che anche se avesse fumato la pipa una cinquantina di volte, non avrebbe mai potuto confondere l'erba noni con la camomilla...» «Ma l'ha fatto. Negare responsabilità non modifica la realtà. Matt, ho fumato oppio diverse volte quand'ero in Thailandia. So quello che può fare. Ed è possibile che a causa della trascuratezza, dell'età, dell'oppio o di una combinazione delle tre cose, Tian-Wien si sia confuso. E per via dei suoi errori nel preparare il mio prodotto integrativo, la gente è morta.» «Non abbocco.» «Be', spero proprio di no. Lei è il mio avvocato. Ma finché non può dimostrare che qualcuno l'ha raggirato, compreso chi e perché, sono costretta a credere che potrebbe essere responsabile di quanto è accaduto a quelle donne. E ciò mi rende altrettanto responsabile per essermene servita.» Svoltarono l'angolo del viale antistante la Corte Suprema. Davanti a loro un piccolo gruppo di dimostranti, una ventina di persone, stava girando in tondo. Un poliziotto in uniforme le teneva lontano dai gradini. In disparte, una troupe televisiva di Canale 7 stava intervistando uno dei dimostranti, un uomo sparuto, con la barba, che indossava una lunga veste cremisi con cappuccio. «Non mi piace tutto questo», borbottò Matt fermandosi a una certa distanza per soppesare la situazione.
«Qual è lo scopo?» «A meno che non mi sbagli, lo scopo è lei. Ha letto l'Herald stamattina?» Sarah scosse il capo. «Ero in ambulatorio alle sette. Ho a malapena avuto il tempo per una tazzina di caffè. Non mi dica che ci sono di nuovo.» «Lei e il suo ospedale, in realtà. A pagina quattro c'è un articolo su una certa sovvenzione che l'MCB ha appena ricevuto per costruire un immenso centro dove studiare certe aree di medicina alternativa. Esiste un Charlton Building?» «C'è il Chilton Building», disse Sarah. «È abbandonato e chiuso, al momento. Fra qualche mese lo demoliranno per iniziare i lavori del centro. Ma questa è una vecchia storia. Tutti all'MCB ne sono informati da settimane.» «Be', per l'Herald è nuova. E di fronte a quell'articolo, a pagina cinque, c'è l'annuncio che oggi lei si sarebbe presentata davanti a una commissione per rispondere all'accusa di negligenza. Vi ha accennato anche Axel Devlin. L'inizio della fine, è il modo in cui credo l'abbia messa. Qualcosa del genere. Il mio ufficio ha ricevuto diverse chiamate da gente che voleva conoscerne i particolari. Non ho parlato con nessuno, ma Ruth mi ha detto che era come se qualcuno stesse organizzando una dimostrazione in suo favore. E credo si tratti di questa.» «Oh, no», gemette Sarah. «Non credo ci resti altra alternativa che accettare la sfida. Così, come suo avvocato, le suggerisco di limitare il suo vocabolario a tre parole per il prossimo minuto: 'Grazie' e 'No comment'. Va bene?» «No comment... Grazie», rispose Sarah. La piccola dimostrazione era stata indetta soprattutto da professionisti di varie forme di medicina alternativa. Sarah ne riconobbe alcuni, compreso un chiropratico di grande talento e un agopuntore che un tempo era professore a Pechino. C'erano anche tre donne che avevano preso l'integratore di Sarah, avevano avuto un travaglio normale e partorito senza incidenti. Due di esse portavano i figli in spalla. Mentre Sarah e Matt si avvicinavano, il gruppo indietreggiò e applaudì. «Tieni duro», gridò qualcuno. «Buona fortuna, dottoressa», disse una donna. «Noi la sosteniamo.» Stringeva un cartello in mano che diceva: LA MEDICINA ALTERNATIVA SI PRENDE CURA DI NOI. Lo spettro dalla veste rossa finì la sua intervista con Canale 7 e si preci-
pitò verso di loro, tendendo una mano ossuta. «Dottor Misha Korkopovitch, pranoterapeuta e seguace dello sciamanismo», disse. «Siamo con lei in tutto, dottoressa Baldwin. Ci sta tenendo uniti come non è mai accaduto in precedenza.» «Grazie», cercò di dire Sarah, mentre Matt la spingeva lungo le scale. «Matt, questo è molto strano e un po' difficile da capire. Alcune di queste persone le riconosco come guaritori. Altre, come quel Misha, sono probabilmente degli esaltati.» Lui si girò a guardare mentre entravano nell'edificio. «Non molto diverso, allora, che se fossero un gruppo di dottori in Medicina, vero?» disse. «...Guardiamo quello che abbiamo qui, e come intendiamo provare la nostra accusa.» Jeremy Mallon consultò brevemente i suoi appunti e prese a camminare tronfio. Era osservato attentamente dagli altri due avvocati seduti al tavolo dei querelanti, uno della sua età e uno un po' più vecchio. «Gli avvocati di Grayson», sussurrò Matt, poi accennò con la testa in direzione dell'aula di giustizia, che era quasi deserta quand'erano arrivati. Diversi dimostranti vi avevano preso posto, e Willis Grayson e il suo entourage di quattro persone si stavano muovendo lungo una fila. Prima che Sarah potesse distogliere lo sguardo, i freddi occhi grigi di Grayson incontrarono i suoi. Il potere e la rabbia che c'erano in essi la fecero rabbrividire. Mentre riportava la sua attenzione su Mallon, si domandò come stesse Lisa, se le fosse stata concessa la possibilità di presenziare quel giorno. Il medico della commissione, un'ostetrica di Harvard di nome Rita Dunleavy, e l'avvocato, un uomo calvo e dagli abiti sgualciti di nome Keefe, erano pigiati dietro il banco accanto al giudice Judah Land. Le osservazioni d'apertura di Mallon avevano incluso le parole «pericoloso, avventato, irresponsabile, negligente, arrogante, difettoso, fatale». Sarah, asserì, aveva prescritto un potente miscuglio di droghe a pazienti che erano particolarmente sensibili e vulnerabili, in un momento in cui preparavano il loro corpo a dare la vita. «Data la mancanza di controllo sulle medicine vegetali», proseguì Mallon, «esistono diversi punti, nel passaggio fra il suolo del Sudest asiatico e il sangue di una donna di Boston, in cui qualcosa può andare storto. La nostra prova oggi consiste nelle lettere di un ostetrico, il dottor Raymond Gorfinkle, e di uno specialista in erboristeria, il signor Harold Ling. Le let-
tere di questi due esperti dimostrano come la dottoressa Baldwin abbia agito al di fuori della prassi medica consueta nel prescrivere un integratore vegetale alle sue pazienti invece di vitamine prenatali, e al di fuori della prassi olistica consueta per come il suo integratore è stato preparato e dispensato.» Mallon passò poi a leggere le due lettere di condanna. Quella dell'ostetrico di West Roxbury, Gorfinkle, e quella dell'erborista di Chinatown a New York, Ling, il quale definiva Kwong Tian-Wen «un noto consumatore d'oppio», «un uomo che non è affidabile né responsabile». Costui pensava inoltre che l'erba noni contenuta nel barattolo di Kwong e ritenuta camomilla potesse causare problemi di coagulazione del sangue. «Ling è uno dei più vecchi amici di Peter», sussurrò Sarah. «E Gorfinkle è un venduto. Si è fatto una fortuna testimoniando contro i medici.» «Non mi sorprende», commentò Matt. «Sono sicuro che la mia ex moglie sarebbe felice di potermi fare quello che Ettinger sta facendo a lei.» «Signor Daniels», disse il giudice Land con un'intonazione piuttosto annoiata, «ha circa cinque minuti per presentare i suoi argomenti. Sa che per quanto la riguarda né lettere di esperti né altre prove potranno essere prese in considerazione.» «Lo so, vostro onore, sì. Grazie... Sarah, senta», sussurrò, «non voglio dire niente ora che possa offrire a Mallon un appiglio su come intendiamo orientarci. Da come stanno le cose non vedo come potremo vincere. Potremmo solo fare del male a noi stessi.» «Capisco.» Ma non era affatto certa di capire. «Vostro onore, dottoressa Dunleavy, signor Keefe», disse Matt. «Quello che noi ci aspettavamo oggi era la presentazione di un caso prima facie da parte del mio collega, il signor Mallon. Ma ciò che abbiamo ottenuto è invece una cortina di fumo. Che cosa manca? Quale vuoto sta cercando di nascondere il signor Mallon dietro tutto questo fumo? Be', immagino che vediate la risposta a queste domande come la vedo io: sta cercando di nascondere il fatto che non ha niente che associ l'azione intrapresa o non intrapresa dalla dottoressa Sarah Baldwin alla forma di DIC sviluppatasi in Lisa Grayson. «Francamente, con il materiale di poco conto che ha prodotto oggi, sono sorpreso che il signor Mallon abbia avuto il coraggio di portare in tribunale questo caso. Non esiste una scienza, un esperto, che affermi che ciò che questo premuroso, devoto medico ha fatto è sbagliato, e che a causa delle sue azioni, un bambino è nato morto e una madre è rimasta gravemente
menomata. Senza un tale esperto, il signor Mallon non è riuscito a provare il suo caso prima facie. Su questa base, richiedo un ritiro delle accuse contro la mia cliente.» «Bravo», sussurrò Sarah quando Matt sedette. «Bravo.» «Balle», sussurrò lui di rimando. «Che cosa?» «Sono io che sto sollevando una cortina di fumo. E lei può vedere dalle facce degli esperti che lo sanno anche loro. Mallon ha fatto più di quello che doveva, per vincere.» Il giudice ringraziò i partecipanti, promise di prendere una decisione entro un'ora e congedò la commissione. Matt non pronunciò una parola quando lasciarono il tribunale e si diressero verso il suo ufficio. «Allora?» chiese Sarah infine. «Allora, che cosa?» «Allora, che cosa ne pensa?» «Penso su che cosa?» Sembrava distratto e perplesso. «Su come sono andate le cose, naturalmente», disse irritata lei. «Credo che abbiamo perso.» «E allora? Mi ha detto che sarebbe accaduto ancor prima che entrassimo.» «Questo non mi fa sentire meglio. Siamo stati piuttosto bistrattati là dentro. E Mallon ci è riuscito senza neanche sudare troppo.» Si lasciò cadere su una panchina lungo il marciapiede. «Sarah, senta», proseguì. «Bambini morti e giovani donne menomate sono il genere di cose che fanno arrabbiare le giurie. Qualche volta arrabbiare molto. Non so quanto sia solido il legame che Mallon riuscirà a forgiare tra le erbe del signor Kwong e la DIC di Lisa Grayson. O se un giudice gli permetterà di citare gli altri due casi di DIC; ma la mia opinione è che con l'arresto per droga di Kwong e la fragile, graziosa Lisa priva d'un braccio che verrà a testimoniare, l'accusa sarà in grado di toccare abbastanza corde, emotivamente parlando, da indurre la giuria ad accollarci l'onere della prova. E questa è una posizione in cui la difesa non vorrebbe mai trovarsi.» C'era un nervosismo in lui, una tensione nei suoi occhi e nella sua mascella che Sarah non aveva mai visto. «Forse farebbe meglio ad andare dritto al punto», gli disse. Lui alzò lo sguardo, sorpreso che gli avesse letto nel pensiero così velocemente e così accuratamente. «Ebbene, il punto è che ci rimane un'alter-
nativa di cui non le ho mai parlato, ma che penso dovremmo prendere seriamente in considerazione.» «Vale a dire?» Black Cat Daniels si morse il labbro inferiore e schiacciò il mozzicone della sigaretta con la punta del piede. «Vale a dire, rinunciare.» 23 La casetta trifamigliare rivestita in legno si trovava in una strada senza uscita di un decadente rione di Dorchester. Aveva paurosamente bisogno di un rivestimento nuovo, di canali di scolo e di una mano di vernice. Trascinandosi dietro una pesante cartella, Rosa Suarez risalì il viale d'accesso. La sua raccolta di dati era ben avviata, ora, ma niente era ancora emerso che spiegasse i tre casi di DIC al Medical Center di Boston. Sotto sua pressione, i CDC avevano inviato richieste a centinaia di ospedali per rintracciare casi analoghi. Ma quelli di cui avevano riferito finora avevano tutti spiegazioni logiche. Adesso, nella speranza di far emergere qualcosa che poteva esserle sfuggito, Rosa stava tornando sui suoi passi. Stava cioè facendo colloqui supplementari con le famiglie delle due vittime decedute e, più in là in settimana, avrebbe parlato con Lisa Grayson. Aveva deciso nello stesso tempo di controllare e ricontrollare il consistente numero di colture che stava eseguendo. Benché il suo supervisore le avesse detto poco direttamente, i primi segni della sua impazienza erano già affiorati sotto forma di un breve memorandum. Il dottor Wayne Werner, epidemiologo, avrebbe completato il suo attuale progetto e sarebbe stato disponibile per un nuovo incarico fra tre o quattro settimane, diceva. Chiunque nel reparto avesse avuto bisogno dell'aiuto di Werner per un'indagine in corso avrebbe dovuto fare richiesta per iscritto nelle due settimane successive. Rosa sapeva che il memorandum era, nel migliore dei casi, una richiesta di probabili ipotesi di chiusura del caso da parte sua, e nel peggiore una minaccia di sostituzione. Il nome BARAHONA era rozzamente dipinto sopra la fessura della buca delle lettere dell'appartamento del primo piano. Fredy Barahona, un manovale, era a casa tutto il giorno, ogni giorno, con una pensione di invalidità a causa di problemi alla schiena. Sua moglie, Maria, faceva il turno di notte in una fabbrica di scarpe. La sua unica figlia, avuta dal precedente matri-
monio, era Constanza Hidalgo. Rosa cominciava a risentire dello sforzo della sua intensa indagine che durava ormai da quasi sette settimane. Era dimagrita, aveva litigato con suo marito per la prima volta in diversi anni, e le era venuto un tic nervoso all'angolo di un occhio. Ma era abbastanza spaventata e determinata ad andare fino in fondo. Desiderava disperatamente concludere la sua professione da vincente. Soprattutto, desiderava stornare quello che riteneva fosse un incombente disastro. Qualcuno aveva deliberatamente strappato alcune pagine dalle cartelle cliniche di almeno due dei tre casi di DIC sui quali stava investigando; Sarah Baldwin era stata seguita e avvicinata una volta, e i meticolosi ricercatori che avevano servito Rosa così lealmente negli anni non le fornivano più alcun aiuto. Le sembrava di camminare intorno a una bomba a orologeria, senza una chiara idea di come disinnescarla. L'unica cosa che le sembrava certa a questo punto era che, a meno che non venissero trovate delle risposte, e presto, altre donne e altri bambini non ancora nati sarebbero morti. Maria Barahona era una donna grassoccia e sfinita dal lavoro che un tempo doveva essere stata piuttosto bella. Cercava di mostrarsi allegra, ma nei suoi occhi si leggeva il dolore per aver perso la sua unica figlia. Durante il primo colloquio avuto con lei, si era messa a piangere, ma si era ricomposta altrettanto in fretta, si era scusata a aveva ripreso a rispondere alle domande. Adesso, con il marito dall'altra parte della stanza che sonnecchiava in una logora poltrona, servì il tè a Rosa e parlò di nuovo di Connie. Sebbene il suo inglese fosse abbastanza buono, sembrò sollevata di conversare in spagnolo. «C'era della droga nella macchina, sa», disse. «Ci hanno riferito che Connie aveva marijuana nel sangue, ma non ci credo. Era una ragazza felice, e brava, anche. E così, così bella... Il suo unico errore è stato quello d'innamorarsi di quel bastardo, Billy Molinaro. La prego, signora Suarez, la prego. Mi perdoni per le parolacce.» «Signora Barahona, non c'è bisogno che si scusi.» «Era così bella. Avrebbe dovuto vederla, signora Suarez, gli uomini si giravano a guardarla quando passava. Avevamo già scelto il nome per il bambino: Guillermo. Anche se sarebbe stato chiamato Billy.» Come durante il primo colloquio, Maria Barahona stava divagando ed era di nuovo prossima alle lacrime. Rosa intervenne con un certo accanimento.
«Signora Barahona», disse, «in questi ultimi cinque anni sua figlia dev'essere in cura per qualcosa al Medical Center di Boston. Ha idea di che cosa si trattasse?» Il volto della donna si rasserenò lievemente mentre si concentrava sulla domanda di Rosa. «No, non ricordo niente. Soffriva di mal di testa e di problemi allo stomaco, soprattutto in concomitanza con il ciclo. Ma niente che non migliorasse quando prendeva le medicine. Ha sempre avuto molta fiducia nei dottori del Medical Center. Se le dicevano di prendere una pillola tre minuti dopo le quattro, la mia Constanza teneva d'occhio l'orologio finché non erano le quattro e tre minuti.» Altra pausa. Rosa fissò il pavimento, cercando di immaginare il montante terrore di Connie Hidalgo durante le ultime raccapriccianti ore della sua vita. C'era qualcos'altro? Qualcosa che potesse tentare? «Signora Barahona, Maria, so che Connie viveva con Billy Molinaro», disse infine. «Quando lasciò la vostra casa definitivamente?» «Avevano deciso di sposarsi», rispose Maria, palesemente imbarazzata. «E trascorreva ancora molte notti qui.» «La prego, Maria, mi dispiace. Non intendevo insinuare niente. Mi chiedevo semplicemente se nella sua stanza ci fossero ancora le sue cose. Tutto qui. Se è così, con il suo permesso, mi piacerebbe dare un'occhiata.» «Oh. Be', se pensa che possa servire, può dare un'occhiata a tutto ciò che vuole. È la stanza a destra, sul retro. Non ho cambiato niente. Se non le dispiace, però, preferisco cominciare a preparare la cena. Faccio il turno di notte, sa.» «Lo so», rispose Rosa, dando un'occhiata a Fredy Barahona, che aveva bisogno di sbarbarsi e non si era quasi mosso dal suo arrivo. Si chiese se avesse mai preparato un pasto da sé, e pensò per un attimo a come fosse fortunata a essere sposata da quarant'anni con Alberto Suarez. «Grazie, Maria. Me la caverò.» La camera di Connie Hidalgo parlava di una donna che non aveva mai smesso realmente di essere bambina. Il cassettone e il letto, probabilmente dipinti dalla stessa Connie, erano bianchi con accenni di rosa. Le fodere dei cuscini, anch'esse rosa, avevano sopra orsacchiotti e palloncini dipinti a mano. E c'erano animali di pezza dappertutto; un centinaio o più. Zebre ed elefanti, orsi e scimmie, gattini e ogni genere di cane. Le pareti erano coperte di poster di isole romantiche e città illuminate al neon. Rosa deglutì per respingere l'amaro che aveva in bocca. Malgrado il rapporto che parla-
va di ritrovamento di marijuana nel sangue della ragazza, Rosa sentiva che Connie sarebbe stata una madre affettuosa e devota. Prese una fotografia dal cassettone e spostò la tenda della finestra per vederla meglio. Connie, che appariva ancor più raggiante che nella fotografia del giornale che Rosa aveva in archivio, stava sottobraccio a un bel ragazzo dalla pelle olivastra che sorrideva fiducioso, probabilmente Billy Molinaro. La foto era stata scattata a bordo di una barca. Dietro di loro c'era il profilo dei grattacieli di Manhattan. Connie, con la pelle abbronzata, snella e con un seno prosperoso, era deliziosa. Incerta su ciò che cercava, Rosa controllò dapprima i cassetti del comò e poi il contenuto di una piccola libreria. I libri erano quasi tutti romanzi in edizione economica e della biblioteca comunale a cui non erano mai stati restituiti. Non c'erano album di fotografie o ritagli, ma trovò un annuario scolastico. Rosa sfogliò le pagine di fotografie in bianco e nero, alla ricerca di qualcuna che includesse anche Connie. Accanto a ogni fotografia c'era un riassuntino delle attività dello studente durante gli anni trascorsi al St. Cecilia. Constanza Hidalgo era stata cameriera e membro del Club di arti culinarie. Nient'altro. Niente musica, teatro, sport. Rosa fissò la fotografia di Connie, dubitando che l'avrebbe mai riconosciuta se non gliel'avessero detto. La ragazza sull'annuario era quasi certamente la donna in compagnia di Billy Molinaro... eppure no. La bocca era la stessa, e anche gli occhi, sebbene in essi non ci fosse lo scintillio che si poteva vedere nella fotografia più recente. Ma la faccia sull'annuario era più rotonda e molto meno interessante. Rosa posò l'annuario sul letto e completò l'ispezione della stanza. Non c'era nient'altro di interessante nella libreria o sul pavimento. Aprì un piccolo armadio. Insieme agli abiti premaman c'erano numerosi vestiti abbastanza eleganti e una decina di paia di scarpe. Se quello che Rosa stava vedendo erano gli abiti che Connie aveva scelto di non trasferire a casa di Billy Molinaro, l'ex cameriera era diventata una legittima candidata all'elenco delle donne meglio vestite. Il fondo dell'armadio, come buona parte della stanza, era coperto di animali di pezza. Rosa non seppe mai che cosa avesse colto il suo sguardo, o quale istinto l'avesse indotta a piegarsi e a spostare le cose. Ma lì, sotto gli orsacchiotti e i leopardi di peluche, c'era una scatola da scarpe chiusa con degli elastici. E dentro la scatola c'era un diario.
Matt rese felice la sua segretaria mandandola a casa per il resto del pomeriggio. Poi Sarah e lui divisero il sandwich che avevano comprato da Gold, e per un po' parlarono di cose assolutamente prive d'importanza. «Deve tornare presto in ospedale?» chiese lui mentre versava del caffè per entrambi. «Ho dei pazienti da passare al medico di turno e devo ritirare la bicicletta. Ma posso restare ancora un po'.» «Bene. Ci sono alcune cose di cui dovremmo discutere.» «Come rinunciare?» «Come capire contro che cosa dobbiamo batterci, e come operano le agenzie assicurative come la MMPO in casi di negligenza.» La tensione che Sarah aveva visto svilupparsi nel suo avvocato durante le ultime sei settimane sembrava indelebilmente incisa sulla sua fronte. Quando si erano incontrati inizialmente, la sua innocenza e il caso erano apparsi così chiari, così lineari. E adesso? Bevve un sorso di caffè e gli chiese di continuare. «Innanzitutto», disse Matt, «voglio sappia che ritengo ci sia qualcosa di strano in tutta questa faccenda. So che non è convinta, ma credo che qualcuno abbia raggirato Kwong Tian-Wen per farvi apparire responsabili di questi tre casi di DIC.» «Ma da come stanno le cose, non abbiamo prove che lui e io non siamo responsabili. Solo la parola di Tian-Wen.» «E della sua famiglia. Potremmo mettere insieme una difesa basata sulla supposizione che qualcuno sta cercando di farvi apparire colpevoli. Ma senza chi e perché non reggerebbe.» «Il che significa che se andremo in tribunale, perderemo.» «Sarah, siamo veramente nei guai.» Gli venne meno la voce e il suo pugno si serrò. «Ma, ehi», fece la ragazza, «non è stato lei a dirmi che molto spesso il sistema legale riesce a stabilire quello che è vero e quello che non lo è?» «Molto spesso non è sempre. Le cose non sono così semplici in questo caso. Tian-Wian è fragile, si confonde spesso. Potrei ottenere un certificato medico per non farlo deporre, ma è un po' complicato perché non sta più così male. E anche se riuscissimo a ottenerlo, Mallon lo farebbe deporre a casa.» «Ma come farà Mallon a spiegare perché tante donne che hanno preso il mio integratore non hanno avuto problemi?» «Immagino che conosca la risposta.»
«Vuol dire che dichiarerà che Tian-Wen ha confuso alcune misture e altre no.» «Oppure che l'erba o le quantità sbagliate hanno reagito in alcune donne e, per qualche ragione, non in altre. In questa situazione deve avere una risposta che funzioni. Non deve necessariamente essere quella giusta. Con Lisa Grayson dalla loro parte e Kwong Tin-Wen dalla nostra, temo che saremo praticamente costretti a dimostrare in tribunale che non siamo colpevoli. Riesco a immaginarmi Mallon.» Raccolse la palla da baseball e il guantone e cominciò a camminare, facendo saltare la palla nella tasca mentre parlava. «Questa giovane artista, con due buone braccia forti e un feto sano, si affida alle cure della dottoressa Sarah Baldwin. La dottoressa Baldwin fa qualcosa di insolito e di irregolare alla graziosa, giovane artista incinta con due buone braccia forti, qualcosa di inaccettabile per la comunità medica. E a un tratto, la giovane artista perde il bambino e il braccio destro. Visto che non è successo nient'altro durante la gravidanza della giovane artista, la dottoressa Baldwin deve provare a questa corte che non è stata lei la causa di questa tragedia.» «Davvero raccapricciante.» «In termini legali, si dice che i fatti parlano da sé. Questo è qualcosa che nessun difensore vorrebbe affrontare. Ma accade, soprattutto, da quanto sono stato in grado di leggere, nei processi per negligenza medica.» «Credevo che sarei stata considerata innocente finché non fossi stata giudicata colpevole.» «Se Mallon trova un giudice che accetta il res ipsa loquitur, cioè che i fatti parlano da soli, noi non possiamo provare che non siamo responsabili, e siamo fritti. E quel che è peggio, se dovessimo perdere, è che altre due famiglie cercherebbero di mettere le mani sulla sua assicurazione, o qualunque cosa possieda o possa mai possedere.» Smise di camminare e si lasciò cadere nella poltrona. «Che cosa pensa che dovremmo fare?» chiese Sarah. «Be', prima di rispondere c'è un'altra cosa che dovrebbe sapere che mi tormenta da quando è iniziato il caso. Ha a che fare con Willis Grayson. Oggi, vedendo lui e il suo esercito di legali in aula, credo di aver capito che cos'è: Sarah, non vuole soltanto vederla perdere questa causa. Vuole distruggerla.» «Non capisco», fece lei sentendosi raggelare. «Da come la vedo io, Willis Grayson ha più denaro di Dio, giusto?»
«Immagino.» «Sono sicuro che non è contrario a intascare il sessanta per cento del grosso premio di una giuria. Ma sono anche dell'avviso che questo non eguaglierebbe lo stesso l'interesse che percepisce dal suo conto corrente personale. Da come vedo la cosa, Mallon mira al denaro, ma anche al suo ospedale. Ma Grayson vuole che lei, o chiunque sia responsabile della tragedia di Lisa, venga messo da parte per molto, molto tempo.» «Non riesco a crederci. Wills Grayson che vuole distruggermi. È pazzesco, assolutamente pazzesco. Ma sa che cos'è ancora più pazzesco, Matt? La cosa in assoluto più pazzesca? È che io non so neppure se sia giustificato o no.» «Le ho già detto come la penso a riguardo.» «Sì. Che cosa ritiene che dovremmo fare?» «Be', potremmo cercare una sorta di accordo senza ammissione di colpa. Non sono certo di riuscire a farli abboccare, ma non si sa mai. La nostra parte dice che avremmo vinto al processo, ma che le spese legali sarebbero state superiori all'accordo. La parte avversa dice che anche se non c'è ammissione di colpa, il fatto che la MMPO paghi implica che avevano ragione di perseguirci. Allora la retorica si spegne e tutti tornano alla loro vita. In un batter d'occhio le increspature spariscono e il grande lago è di nuovo calmo.» «Possiamo farlo?» «Possiamo tentare.» «E pensa che dovremmo?» Matt congiunse le punte delle dita e guardò fuori della finestra. Le rughe sulla sua fronte erano più marcate. «Se accettassero, la risposta sarebbe sì», disse infine. «Sì, credo che dovremmo.» «Ho bisogno di pensarci. Quanto tempo ho?» «Una settimana, forse. Un po' di più se occorre.» «Grazie.» Si sentiva distratta, a disagio, e a un tratto molto stanca. Kwong TienWen, il Mallon, Lisa, Willis Grayson, L'ospedale, Il maledetto Peter... Accuse incriminanti... Altri processi... Come poteva una volta il caso esserle sembrato tanto semplice? Posò la tazza e si girò per andarsene. «L'accompagno all'ospedale», disse Matt. «Non importa.» «No. Desidero farlo. Lo desidero moltissimo.»
Sarah si girò di nuovo a guardarlo, ma lui distolse in fretta lo sguardo e cominciò a riempire la cartella di documenti. Lo desidero. Lo desidero moltissimo. Aveva detto questo? «Offerta accettata», rispose. Matt fissò lo sguardo sulla macchina davanti a loro mentre si allontanava pian piano dalla città con la sua Legacy rossa. Sarah non avrebbe mai immaginato di sentirsi grata per il traffico intenso, ma quel pomeriggio lo era. Il percorso dall'ufficio di Matt all'MCB, che normalmente richiedeva quindici minuti, ne avrebbe richiesti quasi quaranta. A parte qualche chiacchiera insignificante e non riguardante il caso, viaggiarono in silenzio. Lo guardava in viso quando gli parlava, ma continuava a studiare la sua faccia con la coda dell'occhio anche quando taceva. Il momento non avrebbe potuto essere peggiore, si disse. Innamorarsi dell'avvocato che la rappresentava in un caso di negligenza non era certo la cosa più auspicabile del mondo. Ma stava succedendo. E non c'era proprio niente che potesse fare. Sebbene non lo avesse mai detto, sentiva che anche Matt era attratto da lei. Ma c'erano problemi etici che lo spingevano a non agire in base a quei sentimenti e a non esprimerli. Forse, se fossero riusciti a risolvere il caso, avrebbero potuto conoscersi meglio e magari innamorarsi. Ma prima di acconsentire a un eventuale accordo, c'era un'altra cosa che doveva conoscere. «Matt, senta. Se potesse scrivere il copione di tutta questa faccenda esattamente nel modo in cui vuole lei, nel modo in cui trarrebbe maggior beneficio, come andrebbe a finire?» Lui la guardò perplesso. «Che domanda buffa. Che cosa vuol dire con 'nel modo in cui lei trarrebbe maggior beneficio'?» «Finanziariamente, in fatto di carriera, capisce.» Sarah si interrogò, e poi respinse l'idea di dividere con lui quello che le aveva detto Ruth. Per un momento temette che Matt stesse per immaginare che ne sapeva di più sulla sua situazione di quanto le aveva rivelato lui stesso. «Ebbene», rispose infine, «immagino che se le ipotetiche opzioni fossero in ordine di priorità, la numero uno sarebbe una battaglia all'ultimo sangue con Jeremy Mallon che mi generasse tonnellate di pubblicità e denaro, seguita da un verdetto della giuria di non negligenza per lei.» «E l'ultima?» «Lo stesso scenario, immagino, ma con la nostra sconfitta. Ciò signifi-
cherebbe la mia fine nei casi di negligenza, per non parlare delle referenze. In questo gioco tutti sanno chi vince e chi no. E a nessuno piace affidare la propria vita a un perdente.» «È per questo che consiglia di trovare un accordo?» Matt frenò bruscamente e la guardò bieco, ignaro dei clacson che suonavano dietro di lui. «È questo che pensa?» chiese. «Mi dispiace. No, non è questo che penso, e non è questo che volevo dire. Dannazione, Matt, non riesco a mettere insieme le cose in modo chiaro. Voglio soltanto chiudere con questa faccenda.» La sua espressione si addolcì immediatamente. Le prese la mano, poi affiancò la macchina al marciapiede. «Sarah, mi lascerei infilare schegge di bambù sotto le unghie se pensassi che potrebbe aiutarci ad avere la meglio in tribunale. Ma ho preso in considerazione ogni possibilità e continuo a trovarmi in un vicolo cieco. Se spingo un po' troppo per arrivare a un accordo è probabilmente perché oggi ho capito quale piega potrebbero prendere le cose. «Tuttavia, se questo è quanto desidera, o se loro rifiutano la nostra offerta, sono pronto a sferrare battaglia. Lei probabilmente non sa molto in fatto di lanciatori di riserva, ma siamo notoriamente carenti in quella parte del cervello che dice a una persona che c'è una ragione legittima per essere spaventati di qualcosa. Suggerire di arrivare a un accordo è quanto ritengo più conveniente per lei. Potrebbe essere meglio anche per me ma, mi creda, è marginale. Ci pensi, però. Questo caso ha già generato molta pubblicità, e non è ancora cominciato. Se arriveremo al processo, lei diventerà la protagonista principale, e Axel Devlin sarà soltanto uno dei suoi problemi.» «Capisco. Matt, mi dispiace per quello che ho detto prima. Le farò sapere appena ho deciso.» Lui annuì e si reinserì nel traffico. «Non si preoccupi», disse. «In un modo o nell'altro, le cose si sistemeranno. E qualunque cosa accada...» «Sì?» Continua, Matt, dillo, lo incalzò silenziosamente. Dimmi che qualunque cosa accada, l'affronteremo insieme. Dimmi che sei felice di avermi incontrata. «...io desidero sappia che la sostengo al cento per cento.» Due minuti dopo si fermò presso l'ingresso principale dell'MCB. Sarah lo ringraziò e pensò per un attimo di esprimere i propri sentimenti. Alla fi-
ne si voltò. Lui era già sufficientemente sotto pressione anche così. Se non aveva visto male, le sue parole sarebbero servite solo a peggiorare la situazione. Entrò nel campus attraverso il cancello di sicurezza e si diresse verso il padiglione di Chirurgia dove aveva lasciato la bicicletta. Una breve corsa le avrebbe fatto bene. I suoi pensieri stavano divagando. Si trovava a pochi metri dall'edificio quando si rese conto di ciò che era accaduto. Un secchio di vernice rosso vivo era stato rovesciato sulla sua bicicletta. Legata al sedile c'era una bambola di pezza, anch'essa dipinta di rosso. Le era stato strappato un braccio e gettato a terra. Il suo addome era squarciato. Appuntato sul petto c'era un biglietto che diceva: CIARLATANA ASSASSINA. Sarah cercò invano di calmarsi. Con le lacrime che le rigavano le guance corse verso il padiglione di Chirurgia. La prima telefonata fu per il Servizio di sicurezza dell'ospedale. La seconda per Matt. «Per favore, mi richiami all'ospedale, Matt», disse alla segreteria telefonica. «Devo vederla appena possibile, è molto importante. Ho deciso che cosa voglio fare.» 24 «Le colture in vitro sono rovinate. Tutte. Non era mai successo prima. Assolutamente mai.» Il microbiologo, un giovanotto brillante di nome Chris Hall, scosse la testa incredulo. Rosa gli accarezzò il braccio per consolarlo, sebbene in verità fosse la più turbata dei due. «Quando le hai controllate l'ultima volta?» chiese. «Ieri pomeriggio. Controllo gli incubatoli ogni pomeriggio. Non è andata persa solo la sua roba, ma tutto. Decine e decine di esperimenti e colture. Dio, non riesco a crederci. Il dottor Wheelock, il dottor Caro, il dottor Blankenship... saranno tutti furiosi. Ho cambiato il terreno di coltura ieri, e quello che ho buttato via era perfetto, cristallino. Il terreno sostitutivo doveva essere stato contaminato da qualche citotossina.» «Prenditela con calma, Chris», disse Rosa. «Sono cose che succedono. Chiunque abbia fatto microbiologia lo capisce, soprattutto se ha lavorato con colture in vitro. Citami un laboratorio che non abbia mai avuto problemi di contaminazione di colture», proseguì. «Hai dei campioni surgelati?»
«Qualcuno.» «Qualcuno di quelli che ti ho dato io?» «Non credo. Dottoressa Suarez, mi dispiace. Mi dispiace molto.» «Chris, senti. Se l'avessi fatto apposta, potresti scusarti. Altrimenti, va' a riordinare il tuo laboratorio, e non preoccuparti. Andrà tutto a posto.» Era determinata a non accrescere il turbamento dello zelante ricercatore rimproverandolo. Ma una spiacevole emicrania dovuta alla fatica la stava rendendo più irritabile a ogni secondo. Infatti, sebbene non intendesse dividere l'informazione con Chris Hall, le colture perdute non erano il disastro che avrebbero potuto essere; o almeno non ancora. Dopo il caso BART era diventata paranoica nell'accumulare anche l'appunto più banale. Aveva inviato duplicati di tutto a Ken Mulholland, un vecchio amico del laboratorio CDC di Atlanta. All'ultimo controllo, circa una settimana prima, non aveva riscontrato niente. «Spero che gli altri siano comprensivi quanto lei», disse Chris. «Oh, sono sicura che lo saranno. Hai la registrazione delle colture che stavi facendo per me?» Le porse un comune registro dalla copertina di cartone con su scritto R. SUAREZ. Rosa aprì la sua valigetta e posò il registro sopra il diario di Connie Hidalgo. Dopo un Tylenol e un sonnellino, il diario era ciò di cui si sarebbe dovuta occupare per prima. «Le ho per caso detto che cominciavo a vedere qualcosa in un paio di contenitori?» chiese Chris. «No, non l'hai detto.» «Ho segnato i campioni con degli asterischi a margine del registro, per controllarli un po' più di frequente. Niente di definito, badi bene. Solo una leggera torbidità che a volte si intravede durante il processo iniziale di un'infezione. Notiamo lo stesso genere di cambiamenti quando le cellule delle colture rimangono prive di gas. È così che si capisce di doverne sgelare delle altre.» «Grazie, Chris. Decifrerò il codice quando tornerò in camera mia e stabilirò quali campioni c'erano in quei contenitori.» «Se quelle colture cominciavano a produrre qualcosa, e francamente ne dubito, di qualunque cosa si trattasse era un virus con la proliferazione più lenta che mi sia mai capitato di vedere.» «Probabilmente non è niente. Ti sono grata di avermelo detto, Chris. E anche per come hai collaborato. Lascerò un biglietto al dottor Blankenship e gli dirò la stessa cosa.»
«Grazie. Dopo questo disastro ne avrò bisogno.» Rosa tirò fuori altri due Tylenol extraforti dalla borsetta, li inghiottì con un po' d'acqua e lasciò l'ospedale. L'umido caldo pomeridiano che irradiava dal suolo e dai tronchi d'albero le ricordò casa sua. Le ricordò anche che nessuno, né il suo capo né suo marito né i suoi figli, avevano voluto che ritornasse a Boston. Nessuno tranne lei. Adesso, nonostante la contaminazione delle colture in vitro, sentiva che forse, forse, il suo duro lavoro stava cominciando a dare dei frutti. Quando raggiunse la sua camera, aveva ascelle e scollatura del vestito inzuppate di sudore. Chiacchierò per un momento con la signora Frumanian, poi salì pesantemente le scale fino alla sua camera, grata che la padrona di casa non avesse tolto la piccola ventola alla finestra. Dopo aver indossato un paio di pantaloncini e una maglietta, Rosa controllò le colture codificate che Chris Hall aveva segnato con un asterisco. Ce n'erano due, 172A e 172B, entrambe cresciute in terreno fibroso. La chiave del codice, che teneva infilata in uno dei suoi libri di testo, identificò la fonte di entrambi i campioni come siero preso da quel poco che rimaneva del sangue di Lisa Grayson. Rosa sfogliò il resto del libro e poi chiamò Ken Mulholland ad Atlanta. Il virologo riferì che non risultava nessuna crescita nei campioni che gli aveva inviato. Vicolo cieco. Rosa sollevò i piedi, chiuse gli occhi e cercò di sonnecchiare come aveva deciso di fare. Dopo qualche istante ci rinunciò. Avrebbe potuto dormire a lungo quando quel caso fosse stato risolto. Posò penna e blocco sul comodino, inforcò gli occhiali e aprì il diario di Constanza Hidalgo. Sul diario, una testimonianza di cinque anni, c'erano annotazioni quasi ogni giorno. Alcune erano solo poche parole. Altre erano pagine di appunti battuti a macchina e graffati alla pagina corrispondente. Alcuni nomi erano soltanto iniziali e altri parevano stenografati. E sulle pagine c'erano disegnini, facce perlopiù, piccoli schizzi veramente ben fatti. Le annotazioni cominciavano con il diciassettesimo compleanno di Connie e finivano con il suo ventiduesimo. Dal tono della prima annotazione sembrava che esistesse un altro volume analogo, precedente. Subito Rosa si immerse nella triste esistenza e nelle penose fantasie di una timida e maleducata ragazzina che viveva con una madre che aveva poco tempo da dedicarle e un patrigno che, per anni, la toccava troppo e troppo intimamente. Mentre leggeva, Rosa si ripromise di non mostrare il diario a Maria Barahona. Connie era in qualche modo riuscita a respingere buona parte delle avance di Fredy Barahona, e dopo il ventunesimo compleanno,
non vi aveva più fatto cenno. Se Maria non ne era stata a conoscenza mentre Connie era in vita, non c'era ragione che le procurasse adesso tanta angoscia. Visite ai diversi ambulatori dell'MCB erano anch'esse menzionate di tanto in tanto. C'erano stati, come aveva riferito Maria Barahona, occasionali mal di gola e mal di testa. C'era stato anche un episodio di gonorrea a diciott'anni. Era stata curata in ambulatorio, e presa da un tale di nome T.G. che, diceva il diario: «mi ha mentito quando ha detto di amarmi, ma sapevo che mi mentiva». Poi Connie aveva scritto in fondo all'annotazione: «Oh, be', è stato divertente finché è durato. O mangi questa minestra o salti dalla finestra». Rosa cominciava a sentirsi di nuovo stanca e stava per mettere da parte il diario quando notò un altro accenno all'MCB. Connie aveva all'epoca diciannove anni. 3 aprile All'ambulatorio dell'MCB oggi per emicrania. Uno strano piccolo dottore, il dottor S., mi ha avvicinata... Un arabo o qualcosa del genere. Ha detto che non devo più essere grassa. Io gli ho risposto che le diete non mi aiutano, ma lui ha replicato che non devo stare a dieta se non in minima parte. Vuole rivedermi fra una settimana. Non credo che ci andrò. Chissà. È gentile. A un tratto Rosa fu sveglissima. Molte altre visite all'ambulatorio per vedere il dottor S. erano annotate dopo quella. A volte accennava a un prodotto dietetico. Ma la cosa più importante era che il peso calava. In quattro mesi, Connie Hidalgo aveva perso 25 chili! In tutto, ne aveva persi 35 in quasi sei mesi, raggiungendo un peso di 59 kg. Tale notevole trasformazione era, di per se stessa, straordinaria. Ma ancor più straordinario per Rosa era la constatazione che la data della prima visita di Connie con il dottor S. e quelle successive corrispondevano alle pagine mancanti della sua cartella clinica. Non c'era niente, oltre alle pagine mancanti, che collegasse le visite di Connie al dottor S., chiunque egli fosse, con la sua morte violenta. Ma se esisteva tale collegamento Rosa non dubitava che l'avrebbe scoperto. Stava passando in rassegna il resto del diario quando Ken Mulholland telefonò da Atlanta. «Rosa, spero di non averla svegliata», disse. «Mi era sembrata esausta,
prima.» «Lo ero, Ken, ma mi sto riprendendo. Giù in un momento, su in quello dopo. Sai come sono le vecchie signore.» «Dovremmo essere tutti vecchi come lei. Senta, Rosa, dopo averle parlato, sono tornato a fare una rapida analisi sui due campioni che aveva nominato. Uno di essi, solo uno, ha uno strano DNA che gli fluttua intorno. Il mio tecnico lo sta controllando di nuovo. Penso che potrebbe essere virale, ma la coltura in vitro sembra pulita e non c'è abbastanza materiale presente per poterlo stabilire. Potrebbe farmi avere in qualche modo ancora qualche campione?» «Dallo stesso paziente, forse», disse Rosa. «Ma era ammalata quando è stato prelevato quel sangue, e ora non lo è più.» «Capisco.» «Senta, il massimo che posso ottenere è sangue della convalescenza. Ma non sono sicura al cento per cento. Il paziente in questione sta perseguendo uno dei medici di quest'ospedale per negligenza. A questo punto potrebbe non essere troppo ansiosa di collaborare.» «E le altre pazienti con lo stesso problema?» «Sono entrambe morte.» «E non ci sono altri casi?» «No», disse Rosa. Poi aggiunse: «Almeno, non ancora». Quando Matt la richiamò, Sarah era a casa, rannicchiata sul divano, con addosso il suo più comodo e logoro paio di jeans, e al suo secondo bicchiere di Chardonnay. Aveva compilato i moduli con il Servizio di sicurezza dell'ospedale e la polizia, e lasciato un biglietto per Glenn Paris, che era a una sorta di riunione. Poi aveva passato le consegne al medico di turno e accettato un passaggio a casa dalla segretaria del reparto di Ostetricia e ginecologia. «Nessuna idea su chi può essere stato?» chiese Matt, dopo che gli ebbe esposto gli avvenimenti delle ultime ore. «Nessuna. Può essere stato chiunque... Quelle tre ragazze hanno amici e parenti. Per non parlare dei pazzi che vedono servizi di trenta secondi in televisione e si trasformano in crociati. Non sono cinica, Matt, ma so che la gente può essere molto cattiva.» «Sì. Ha detto di aver preso una decisione riguardo al caso. Vuole parlarmene al telefono o di persona?» Sarah aveva sperato che glielo chiedesse e aveva già deciso sulla rispo-
sta. «Le andrebbe di venire qui?» domandò. «Mi piace cucinare e non lo faccio quasi più, ormai. E lei può fare la sua parte impedendomi di finire da sola questa bottiglia di Chardonnay.» «D'accordo, sarò lì fra mezz'ora. Vuole almeno accennarmi che cos'ha deciso?» «Credo di poter fare di più», rispose. «Posso dirle che ho deciso che non posso acconsentire di giungere a un accordo riguardo a questo caso, qualunque siano le circostanze.» «Vede, Matt, credo di aver capito quello che dovevo fare quando l'ho lasciata questo pomeriggio», disse Sarah. «Poi, nel momento in cui ho visto quello che avevano combinato alla mia bicicletta, ne sono stata certa.» Sedevano sul divano a bere caffè decaffeinato e a mangiare quello che restava della torta che lei aveva trovato in fondo al frigorifero. Il pranzo, crêpes di pollo e funghi e alcune verdure al burro, era andato abbastanza bene. Ciononostante, Sarah non era affatto rilassata come avrebbe voluto. L'incidente all'ospedale costituiva naturalmente una ragione, ma un'altra dipendeva dal fatto che Matt era il primo uomo con il quale stava da sola a casa sua negli ultimi due anni. «Senta», disse lui, «faremo come dirà.» Se era sconvolto dalla sua decisione di andare contro il proprio consiglio, lo nascondeva bene. «Sono terrorizzata per quello che potrebbe accadere in tribunale, Matt», proseguì, «ma accordarci senza aver scoperto nulla non fermerebbe quelli della vernice rossa. E non intendo trascorrere la mia vita fuggendo o venendo molestata. Se sono innocente, devono saperlo. E se sono colpevole, devo saperlo io. Mi creda, non cadrò in pezzi se avvenisse il peggio, neanche se Willis Grayson ottenesse ciò che vuole e io finissi in prigione. Ecco, dunque.» «Ecco, dunque», ripeté lui. «In realtà, immaginavo che avrebbe deciso di continuare. Dopo averla lasciata, ho iniziato a programmare le deposizioni, cominciando dal suo vecchio amico Ettinger. Una cosa sono in grado di prometterle: Mallon non avrà vita facile.» «E io sono lieta che lei mi rappresenti», disse Sarah. «C'è un problema, però. E ho bisogno del suo aiuto.» «Mi dica.» Matt si mosse a disagio. Poi, a un tratto, si girò verso di lei e le prese le
mani fra le sue. «Sarah, non possiamo permettere che accada qualcosa fra noi, almeno finché questo caso non sarà chiuso. Io... Dannazione, non so neanche quello che sto cercando di dire. Devi smetterla di guardarmi così.» Sarah intrecciò le dita con le sue. Il suo viso, il suo gentile meraviglioso viso stava dicendo tutto quello che aveva bisogno di sapere su ciò che provava per lei. «Vorrei poterti aiutare», cercò di dire, «ma non ho alcun controllo su ciò che provo o su come guardo qualcuno. Come tu non puoi avere alcun controllo su come stai guardando me in questo momento.» Lei si passò lentamente la lingua sulle labbra. Matt si sbottonò il colletto della camicia. «Ehi, smettila di fare così o mi vedrai sciogliere», disse. «Sarah, senti, lavoro novanta ore la settimana, sono solo come un cane, e la verità è che ho cominciato a pensarti incessantemente. Ma se continuo a essere il tuo avvocato, non è una buona idea. Gli avvocati sono fortemente scoraggiati ad avere relazioni con le loro clienti. Va a discapito della loro obiettività. In alcuni casi lo vieta la legge. Fra un po' potrebbe accadere anche nel Massachusetts.» «Capisco.» «Allora mi aiuterai? Almeno per ora? Io non ho troppa forza di volontà.» «Ci penserò. Ma, Matt, sono una ragazza grande, adesso. So badare piuttosto bene a me stessa, e non ho intenzione di trascinarti in giudizio. Inoltre, che cosa potrebbe chiedere di più una cliente che essere difesa da un avvocato che pensa continuamente a lei?» «Sarah, dico sul serio. Ci sono molte scelte da compiere in un caso come il tuo. Molte decisioni da prendere. La decisione di stasera l'hai presa pressoché da sola. Ma per le altre avrai bisogno di un legale obiettivo e distaccato. Se apparirà evidente che sono troppo coinvolto per rappresentarti, dovrò abbandonare.» «Troppo coinvolto», ripeté lei. «Mi piace sentirtelo dire... Matt, scusa. Non arrabbiarti. Capisco, davvero. Non sto cercando di causarti dei problemi. Se hai bisogno di un avvocato che ti aiuti, sono certa che lo troverai. Confido nel tuo giudizio in questo; e nel mio. Il mio caso è importante, certo. Ma sono le parole di qualcuno che ha passato troppo tempo dietro uno stetoscopio in questi ultimi anni.» Gli strinse di nuovo le mani e i loro occhi si incontrarono. Questa volta Matt fece solo un vago tentativo di distogliere lo sguardo. Sarah aveva la bocca asciutta. Da quanto tempo non si sentiva più così con un uomo?
Lentamente chiuse gli occhi, mentre le mani di lui scivolarono sulle sue braccia e l'attirarono a sé. Lo sentì piegare la testa, avvicinare le labbra. Poi il telefono cominciò a suonare. Istantaneamente la fragile tensione creatasi fra loro andò in frantumi. Matt sorrise imbarazzato, abbassò le mani e indietreggiò. «C'è la segreteria telefonica», disse Sarah, desiderando strappare il telefono dal muro. «D'accordo, ma va' a rispondere», ribatté lui. «Ti prego, rispondi.» «Sarah, sono Andrew Truscott. Se stai per riattaccare, per favore non farlo.» Non sentiva quella voce al telefono da almeno sei settimane. Dannazione, pensò Sarah. Coprì il ricevitore. «È Andrew Truscott», sussurrò. «Il chirurgo di cui ti ho parlato... Sì, Andrew», fece con esagerata freddezza. «Che cosa vuoi?» «Sei stata veramente gentile a non crearmi problemi con Paris», disse. «E anche per come hai affrontato quella... quell'altra faccenda.» «È per questo che hai telefonato?» «Paris mi ha appena offerto un ottimo incarico all'MCB, con tanto di cattedra alla scuola medica e un mio laboratorio in quel nuovo centro; quello che costruiranno dove c'è il Chilton Building. Sta preparando dei programmi molto interessanti. Evidentemente i suoi metodi sono riusciti a cavare finanziariamente d'impaccio questo posto.» «Non grazie a te.» «Be', se ti fossi lagnata di me con lui, questa cattedra avrebbe potuto non esserci.» «Ed è per questo che hai chiamato?» «No. Sarah, ti prego, ascolta. Non so per quanto tempo questo tizio resterà ancora qui. Sta accadendo qualcosa che ha a che fare con te. E voglio aiutarti. Lo voglio veramente.» «Non capisco.» «Sono a Chinatown, in questo momento. Stavo pranzando con un vecchio amico australiano in un posto chiamato Szechuan Terrace, in Hudson Street. Il mio amico ha dovuto tornare al suo albergo. Dopo che se n'è andato, ho deciso di restare per un ultimo drink. È allora ho sentito qualcuno nel separé vicino fare il tuo nome. Stava dicendo qualcosa su come tu fossi in tribunale oggi, e su come fosse stato facile cambiare quella roba nel negozio del tuo erborista. Ha aggiunto che gli sarebbe piaciuto vedere te e Kwong penzolare per il didietro.»
Sarah sentì la rabbia montare. Il corpo tendersi. «Dov'è adesso?» chiese. «È proprio qui. Dall'altra parte della sala. Ho appena sganciato venti dollari alla cassiera, e mi ha detto come si chiama. Tommy Sze-to. Lo conosci?» «No. Non l'ho mai sentito nominare.» «Be', è con altri due tizi. La cassiera m'è sembrata un po' spaventata. Ha detto che non sa dove abita e, merda, ascolta Sarah. Credo che stiano per andarsene. Cercherò di seguirli. Incontriamoci qui fra tre quarti d'ora, vuoi? Szechuan Terrace, Hudson Street. Ci vediamo. Ti prego, credimi. Ti prego, vieni...» Sarah ascoltò il segnale del ricevitore per dieci secondi o più prima di posarlo. Erano quasi due mesi che Andrew non le rivolgeva la parola, tantomeno una scusa, e adesso questo. Dal suo angolo del divano Matt la osservava incuriosito. Non c'era ragione di credere ad Andrew Truscott, eppure non riusciva a trovare una spiegazione che avesse senso. Se quello che Andrew aveva appena detto era vero, e potevano provarlo, tutto nella sua vita sarebbe cambiato in meglio. «Dice che sta chiamando da un ristorante di Chinatown, e che l'uomo che ha cambiato le erbe nel negozio di Kwong era nel separé accanto al suo, e parlava di quello che aveva fatto. Vuole che lo incontri lì fra tre quarti d'ora. Mi accompagni?» «Naturalmente. Gli credi?» «Ha importanza? Voglio farla finita, Matt. Lo voglio tanto.» La circondò con le braccia e la tenne stretta. «Anch'io», disse. 25 «In questo posto si mangerà incredibilmente bene», disse Matt, «altrimenti non si spiega come possa rimanere aperto.» Lo Szechuan Terrace era tutto realizzato in materiale plastico. Lanterne di plastica pendevano dai soffitti; sui tavoli tovaglie di plastica; alle pareti un bassorilievo di plastica con paesaggi cinesi. Persino i separé, anch'essi di una specie di vinile rosso, erano divisi da tende di plastica. Sarah e Matt avevano raggiunto a piedi Chinatown dall'appartamento di lei. L'aria si era notevolmente rinfrescata, e verso est si scorgeva un baglio-
re di lampi. Ma la brezza era piacevole e la città piena di vita. Erano quasi le nove e mezzo. Lo Szechuan Terrace aveva ancora occupati circa un quarto dei posti. La maggior parte dei clienti erano asiatici. «Credi che la qualità di un ristorante cinese dipenda dal numero di cinesi che vi stanno pranzando?» sussurrò Sarah. «Naturale. Non è ciò che pensano tutti?» «Lo pensavo anch'io prima di trascorrere tutti quegli anni in Estremo Oriente. Come ci sono probabilmente molti americani che non capiscono niente in fatto di buon cibo occidentale, così devono esserci molti asiatici che non capiscono niente in fatto di buon cibo cinese. È solo una questione di tempo prima che qualcuno apra un McEgg Roll a Pechino.» Matt sedette lungo il bancone di mogano del bar, mentre Sarah vagava avanti e indietro disinvolta fra i separé. «Andrew non c'è», disse, scivolando sullo sgabello di plastica accanto al suo. «Stando alla tua descrizione di questo Truscott, il suo voltafaccia è molto strano.» «Non proprio. Andrew sa che avrei potuto causargli un sacco di guai all'ospedale e non l'ho fatto. Ho persino rilevato un risultato di laboratorio anormale che gli era sfuggito non molto tempo fa. Il paziente avrebbe potuto morire sul tavolo operatorio. D'altronde, Matt, che scelta avevamo? Questo Tommy Sze-to può essere la chiave di tutto.» Alle dieci meno dieci Sarah si avvicinò al cassiere. Questi s'informò brevemente con i camerieri e poi le riferì che nessuno corrispondente alla descrizione di Andrew era stato visto al ristorante. Comunque, aggiunse, c'era stata molta gente. Negli occhi scuri dell'uomo ci fu un barlume di riconoscimento al nome di Tommy Sze-to, ma negò di conoscere tale persona. «Nessuno laggiù ricorda Andrew», sussurrò Sarah a Matt. «Ma credo che quell'uomo sappia chi è Tommy Sze-to. Sostiene che non lo sa, ma la sua espressione dice altrimenti.» «Ma dove diavolo può essere Andrew?» «Non lo so, ma ho un brutto presentimento. Aspettiamo altri dieci minuti.» «Ho un'idea migliore.» Matt andò a un telefono a gettoni proprio accanto alla soglia e consultò la rubrica telefonica. Sarah notò che da dove era situato il telefono, Andrew sarebbe stato in grado di vedere Sze-to lasciare qualsiasi separé. L'in-
tuizione le diceva che Truscott aveva sentito precisamente la conversazione che le aveva riferito. Ma se è così, si chiese preoccupata, dov'è adesso? «S-z-e-trattino t-o... è così che si scrive il nome dell'uomo?» chiese Matt, ritornando al bar. «È quanto ha detto Andrew.» «Be', ci sono alcuni Sze-to nella rubrica, ma non Tommy.» «Non mi sorprende.» «Ma c'è un tale che conosco a Chinatown, Benny Hsing. E quasi certamente, Bennett Hsing è sull'elenco.» «E allora?» «Benny era un uomo della clubhouse con i Sox prima che lo licenziassero. Sapeva sempre i fatti di tutti, e raccontava sempre i fatti di tutti a tutti. Se questo Sze-to è qualcosa di più di un parto della fantasia di Truscott, il vecchio Benny lo conoscerà.» «Dove abita?» «In Regal Street. A pochi isolati da qui.» «E parlerà con te?» «Può darsi. Mi aveva in simpatia. Innanzitutto, la mia vita era così monotona che non si è mai preso la briga di far chiacchiere su di me. E in secondo luogo, quando Steve Matz lo accusò di aver rubato la sua collana d'oro e alla fine lo fece licenziare, io cercai di far notare che legalmente, non essendoci un testimone né l'oggetto rubato, il caso non sussisteva.» «E allora, perché questo Benny è stato licenziato?» «Be', io ero solo al secondo anno di Giurisprudenza, allora, e non così scafato. Inoltre Matz conquistava vittorie per la squadra. Finché avesse continuato a giocare a quel modo avrebbe potuto far licenziare chiunque.» «Dobbiamo prima chiamarlo, questo Benny?» «Benny non è mai stato tipo da rischiare per qualcuno. Credo che gli sarebbe più difficile trovare una ragione per scaricarci se ci presentassimo direttamente a casa sua.» Alle dieci lasciarono il ristorante. Ma prima Sarah telefonò a casa di Andrew. Aveva incontrato la moglie di Truscott, Claire, diverse volte e l'aveva sempre giudicata dolce anche se un po' troppo timida. Certamente non la compagna ideale per il suo difficile marito dalla lingua mordace. «Io credevo lo sapessi», disse Claire. «Tu e Andrew siete molto amici.» «Sapessi che cosa?» «Ci siamo separati. Andrew se n'è andato sei mesi fa. Abita in un appar-
tamento non lontano dall'ospedale. Ho il suo numero di telefono, se vuoi.» «Claire, mi dispiace.» «Grazie, ma ce la caviamo bene. Sembrava che fosse sposato con l'ospedale in questi ultimi anni. Adesso mi ha detto di essere da un po' di tempo legato a qualcun altro. Non ha detto chi. Che tu mi creda o no, pensavo che se l'intendesse con te.» «Nient'affatto, Claire. Anzi, sono settimane che non ci scambiamo una parola.» Sarah annotò il nuovo numero di Andrew e tentò di chiamarlo prima di tornare da Matt. Nessuna risposta. Regal Street non era lontana da ciò che restava della Combat Zone, un quartiere di Boston a luci rosse un tempo famoso. La casa di Benny Hsing era un edificio poco invitante di mattoni rossi con l'ingresso che puzzava di urina e una colonna con troppi campanelli per le dimensioni del luogo. Il nome di Benny era accanto a uno di essi. Dopo due squilli apparve in cima alle scale, sbirciò verso di loro e si precipitò al portone. «Black Cat!» esclamò. «Sei sempre una gioia per i miei occhi.» Parlava in modo rapido e discontinuo. «Ciao, Benny. Come va?» disse Matt. «Questa è Sarah Baldwin. Hai un minuto?» «Per te? Per Black Cat? Naturalmente. Venite, venite.» Era un uomo panciuto e tendente alla calvizie, con brutti denti dietro un sorriso che mancava di sincerità. I suoi calzoni di cotone e la maglietta erano macchiati, e puzzava di tabacco, sudore e birra. Forse è cambiato da quando non lavora più per i Red Sox, pensò Sarah. Ma da come stavano le cose, non ci voleva molta fantasia a immaginare che Benny Hsing avesse pizzicato la collana d'oro di qualcuno. «Mia moglie sta dormendo», disse Benny, indicando la porta della camera da letto. Fece loro cenno di sedere sul divano sul quale era stesa una coperta marrone dell'esercito. «Posso offrirvi qualcosa? Una birra? Una Coca? Dio, Cat, che coincidenza. Ho visto i Sox giocare a Detroit un po' di tempo fa, e stavo pensando, capisci, ai vecchi tempi. Quest'uomo era un magnifico lanciatore, signorina. Un magnifico lanciatore.» «L'ho sentito dire», ammise Sarah. «E in gamba. Glielo dico io, non ce ne sono tanti di così in gamba. Sei avvocato, adesso, vero Cat?» «Sì, Benny, e abbiamo bisogno del tuo aiuto», disse Matt.
«Del mio aiuto?» «Stiamo cercando qualcuno. Un certo Tommy Sze-to.» Benny si girò e puntò un dito nodoso verso Sarah. «Il dottore! Ecco chi è lei. Il dottore di Kwong Tian-Wen. Dio, mi scusi per averlo detto così, signorina, ma è molto più carina che in fotografia.» «Grazie», cercò di dire Sarah. «Kwong sostiene che qualcuno l'ha raggirato», disse Matt. «Giura che qualcuno ha mescolato le erbe nel suo negozio e portato su l'oppio dal seminterrato. Ne hai sentito parlare?» «Black Cat Daniels, proprio qui nel mio appartamento. Te lo devo, Cat. Sei stato l'unico a batterti per me contro quel bastardo di Matz. L'unico. È stata dura da quando mi hanno licenziato, Cat. Molto dura.» Indicò il piccolo appartamento. Matt rispose tirando fuori il portafoglio e posando due biglietti da venti sul tavolino. «È importante, Benny», disse. Benny guardò con sdegno il denaro. «Non so molto», disse. «Niente, in realtà.» «Benny, sono tutti i contanti che ho. Credimi. Ehi, aspetta, ascolta.» Infilò di nuovo la mano nel portafoglio e tirò fuori i due biglietti della partita, porgendoglieli come se fossero cristallo prezioso. «Sono due posti in prima fila per vedere i Sox giocare con gli Orioles, la settimana prossima. Dicci quel che abbiamo bisogno di sapere su Tommy Sze-to, e i soldi e i biglietti sono tuoi.» Sarah fece per obiettare, ma Matt la interruppe. Benny guardò avidamente i biglietti. «Sai da quanto tempo non vado a una partita?» «La settimana prossima ci vai, Benny. Dicci quello che vogliamo sapere su Sze-to, e dove possiamo trovarlo.» «Sono solo chiacchiere quelle che so, Cat. Solo chiacchiere. Sze-to non è buono. Non è affatto buono. Se viene a sapere che ho parlato di lui con qualcuno vende il mio corpo a pezzi. È tong. Sai che cosa significa?» «Fa parte di una società segreta cinese, giusto?» «I tong sono più duri di qualsiasi altra gang, Cat. Le gang operano qui intorno solo se i tong dicono loro di farlo.» «Continua.» «Voci, solo voci, ricorda, dicono che Sze-to abbia intascato un bel po' di soldi per combinare quel casino a Kwong. Molti, molti soldi.» «Lo sapevo», sussurrò Matt. «Da chi?» chiese Sarah, sgomenta e spaventata al pensiero.
Benny Hsing si strinse nelle spalle e scrollò il capo. «Dove possiamo trovarlo?» chiese Matt. «Va e viene. È spesso a New York. Qui è con una donna, ma più spesso gioca a poker da Maurice Fang.» Benny guardò il denaro e i biglietti, ma Matt non accennò a spingerli verso di lui. «Dov'è questo Maurice Fang?» «Ti prego, Cat. Se Sze-to scopre che ho detto qualcosa sono morto.» «Non scoprirà niente. Dov'è, dunque?» Benny esitò, poi scribacchiò un indirizzo sul dietro di una busta. «Secondo piano. Porta verde. Giocano a poker ogni notte fino alle cinque del mattino. Ricominciano alle dieci. Maurice è a posto, ma è amico di Sze-to. Sze-to è un serpente. Dovete stare attenti.» «Ci staremo. Come riconosceremo Sze-to?» Benny disegnò una linea immaginaria da sotto il suo occhio all'angolo della bocca. «Ha una grossa cicatrice, Cat», disse, prendendo denaro e biglietti. «Coltello, credo.» Poi si precipitò in camera da letto e ritornò con una palla da baseball. «Ecco, Cat», disse. «Sei stato buono con me. Allora e adesso. Questa è la palla che hai tirato contro il Toronto. Ricordi? L'ho quasi venduta per una mezza dozzina di volte, ma poi ho sempre detto: 'No. Questa è la palla di Cat, e un giorno avrò l'opportunità di dargliela'.» «Sei molto gentile, Benny. Grazie.» Matt soppesò la palla un paio di volte, poi se la lasciò cadere nella tasca della giacca. «Sta' attento a Sze-to», gli raccomandò Benny. «Attento, e non fare il nome di Benny Hsing. Buona fortuna, signorina.» Sarah lo ringraziò e poi precedette Matt lungo le scale scarsamente illuminate fino al fetido ingresso. Fuori della porta a vetri la pioggia era più forte ora, e più sferzante. «Andiamo in quel ristorante all'angolo per riflettere su che cosa vogliamo fare», disse Matt. Sarah indicò quello che li circondava e si chiuse il naso. «Qualunque cosa che ci allontani da questo posto. È stato molto carino da parte di Benny, non credi?» «Che cosa?» «Darti quella palla.»
«Sì», ammise Matt. «È stato molto carino. Solo che ho già una palla di quella partita nel mio studio.» La pioggia continuava, anche se non era esattamente un temporale. Dopo un caffè e una fetta di torta di mele, Sarah e Matt lasciarono il piccolo ristorante e saltellarono di porta in porta fino a un bancomat della Bank of Boston. Avevano considerato e respinto tutte le possibilità, e alla fine avevano ripreso in considerazione la prima: trovare Tommy Sze-to e indurlo a dire chi l'aveva assunto, e perché. Sarah non aveva più alcun dubbio, ora, sul fatto che qualcuno aveva assunto Tommy Sze-to per manomettere le erbe nella bottega di Kwong Tian-Wen. Qualcuno là fuori voleva vedere il vecchio rovinato e la carriera di Sarah distrutta. Possibilmente entrambe le cose. Ma le possibilità di avere un gangster come Sze-to a Boston abbastanza a lungo per interrogarlo attraverso canali legali erano molto esigue. Tuttavia dovevano affrontarlo prima che lui sapesse che gli davano la caccia e sparisse. Molto semplice. Il bancomat si rifiutò di versare più di duecentocinquanta dollari. Percorsero i quattro isolati fino all'indirizzo della sala da gioco di Maurice Fang aperta tutta la notte che aveva dato loro Benny. Il pensiero di quel che poteva essere successo ad Andrew Truscott continuava a tormentare entrambi. Il loro piano, se così si poteva definire, era di agire come se avessero in corso degli affari con Sze-to. Di dovergli magari dei soldi. «E se non abbocca?» chiese Sarah. «Allora passiamo al piano B, qualunque esso sia. Alla fine si ridurrà tutto a chi dei due è il più forte.» «O più armato...» Il decrepito edificio a tre piani era incuneato in una stradina laterale a un isolato dal negozio di Kwong. La porta d'ingresso si apriva su un atrio ingombro di vecchia corrispondenza e non meglio illuminato di quello che dava su Regal Street. La porta laccata di verde si trovava in cima alla prima rampa di scale. Sarah e Matt udirono musica d'archi e un'acuta voce di donna che cantava provenire dall'appartamento. «Ricorda di mantenere un'espressione risoluta», le bisbigliò Matt prima di bussare. La porta si aprì di un centimetro, a sufficienza per vedere un pezzetto di faccia e un unico occhio cisposo. Il canto, più elevato ora, era cinese, e
chiaramente una registrazione. «Che cosa volete?» La voce era stridula e impaziente. «Mi chiamo Matt Daniels.» Matt mostrò un biglietto da visita, poi altrettanto in fretta lo mise via. «Faccio parte dello studio legale di Hannigan, Daniels e Chung. Se lei è Maurice Fang, ho bisogno di parlarle.» «Di che cosa?» «In realtà, si tratta di denaro che uno dei suoi clienti deve ricevere. Molto denaro. Signor Fang, la prego. So della bisca che c'è qui, e la cosa non potrebbe interessarmi di meno. Ma non tratto affari sui ballatoi. Può, per favore, farmi entrare? È molto tardi, vorrei concludere questa faccenda e andare a dormire.» Con la coda dell'occhio, Sarah gli fece cenno che la sua performance era stata perfetta. Dopo una momentanea esitazione, il catenaccio venne tolto e la porta aperta. L'appartamento di Maurice Fang era arredato molto meglio di quello di Benny Hsing, ma era anche più fumoso. Una nuvoletta bianca usciva da una stanza lungo il corridoio. «Chi state cercando?» chiese Fang. Era un uomo alto e snello, con una camicia nera e una grossa cravatta bianca. Matt si spostò immediatamente in modo da trovarsi tra Fang e la stanza piena di fumo. «Come ho detto, sono un avvocato. Questa è la mia collega, la signorina Sharp. Siamo giunti a un accordo. Stiamo cercando un uomo di nome Szeto, Tommy Sze-to. Siamo stati autorizzati a sborsare cinquanta dollari per chi mi aiuterà a trovarlo onde sistemare la faccenda. È tutto il giorno che lo cerchiamo. Alla fine qualcuno ci ha suggerito di tentare qui.» «Chi?» «Signor Fang, sono un avvocato. Tutto quello che mi viene detto è in massima confidenza. Così nessuno deve preoccuparsi. Lei compreso.» «Vediamo i cinquanta dollari», disse Maurice Fang. Prese i soldi e ordinò a Matt e a Sarah di aspettare in salotto. Poi girò loro intorno ed entrò in una sala da gioco. Matt rimase dov'era. Sarah si mosse accanto a lui. Dopo un minuto, Fang tornò e restituì i cinquanta dollari. «Nessuno sa dov'è Sze-to», disse. «Ehi! Un minuto!» Matt si era precipitato oltre la porta. «Voglio chiederlo io stesso», disse. «Abbiamo avuto una giornataccia.» Sarah lo seguì e scorse immediatamente Tommy Sze-to fra i sei cinesi che stavano giocando a carte e fumando. Era snello e pallido, con linea-
menti scimmieschi, baffi sottili e una grande cicatrice esattamente come Benny l'aveva descritta. Maurice Fang cercò di trascinare via Matt dalla soglia, ma lui lo scansò facilmente. «Non so se uno di voi è il signor Tommy Sze-to», mentì, «ma devo parlargli del denaro di cui è in credito; molto denaro.» Gli uomini al tavolo lo fissarono. Nessuno si mosse. «Vede?» protestò Fang. «Vede? Adesso fuori di qui!» Matt si girò a guardare Sarah. Sapevano entrambi che poteva non esserci una seconda possibilità. Sze-to non aveva chiaramente bevuto la storia di Matt. «Credo che dobbiamo passare al piano B», sussurrò Matt. Soppesò la stanza per un momento, poi balzò in avanti e afferrò la mano destra di un sorpreso Tommy Sze-to. «Piacere di conoscerla, signor Sze-to. Piacere», disse. Prima che questi potesse reagire, Matt lo fece alzare in piedi, gli girò la mano destra dietro la schiena e passò il suo braccio sinistro intorno al piccolo collo dell'uomo. «Che cazzo c'è?» farfugliò Sze-to. «Non ti farò del male, Tommy», disse Matt, trascinandolo in corridoio, «ma dobbiamo parlare.» Lo strinse maggiormente. «Capito?» Sze-to annuì. Matt non allentò la presa e fece girare l'uomo verso Sarah. «Sai chi è?» domandò. «Lo sai?» Sze-to si dibatté un momento, ma rinunciò quasi subito. Era molto più basso ed esile di Matt. «Lasciami andare», cercò di dire. «Sai chi è?» «Sì.» «E perché siamo qui?» «Sì, sì. Lasciami andare.» Matt allentò la stretta. Con improvvisa, sorprendente rapidità, Sze-to liberò la mano, colpì Matt in viso e gli tirò un calcio nell'inguine. Lui gemette e finì pesantemente contro il muro. Sze-to si mosse per continuare, ma Matt stava già raddrizzandosi. Dopo un attimo di esitazione, il gangster gridò qualcosa in cinese a Maurice Fang, corse alla finestra in fondo al corridoio e si precipitò verso scala di sicurezza all'esterno. Matt, con gli occhi appannati e pieni di lacrime, l'angolo della bocca sanguinante, si lanciò dietro di lui, con Sarah alle calcagna. Videro Sze-to sparire dalla piatta-
forma della scala. Poi lo sentirono gridare di dolore nel vicolo sottostante. «Si è fatto male», disse Matt, sbirciando nell'oscurità piovosa attraverso quel che restava della finestra. «Possiamo raggiungerlo.» Senza aspettare che Sarah rispondesse, uscì sulla scivolosa piattaforma di metallo. Dopo qualche secondo, lei gli era accanto. «Vaffanculo, stupido bastardo!» sentirono gridare da Maurice Fang. Sze-to, evidentemente incapace di staccare la scala di sicurezza, era saltato. Adesso era a circa due metri di distanza e saltellava a fatica nella pioggia in direzione di un altro vicolo. «Dobbiamo sbrigarci», disse Matt, inginocchiandosi e liberando la scala. «Stai bene?» chiese Sarah mentre lui sgattaiolava giù verso il fangoso vicolo mal pavimentato. «Più tardi!» le gridò. «Vieni.» Sarah si lasciò quasi scivolare lungo la scala e lo rincorse, raggiungendolo all'angolo del vicolo successivo, fiancheggiato da bidoni della spazzatura e traboccanti scatole di cartone. Non c'erano luci accese. Sbirciarono attraverso l'oscurità e la pioggia, ma non riuscirono a vedere nessuno. «Che cos'ha gridato Sze-to a Maurice?» chiese Matt, muovendo qualche passo incerto lungo il vicolo. «Hai capito?» «Non ne sono sicura. 'Chiama Guo Ming', o qualcosa di simile.» Si avviarono cautamente lungo il vicolo. Davanti c'erano un'infinità di posti dove Tommy Sze-to avrebbe potuto essersi nascosto, magari in attesa di tendere loro un'imboscata. A un tratto un lampo illuminò il vicolo. Qualche attimo dopo esplose il tuono. Poi ci fu un altro lampo. «Laggiù!» gridò Matt, puntando il dito davanti a sé. Sze-to era un'ombra che stava scivolando lungo l'edificio, dirigendosi verso il fondo del vicolo. Nell'istante in cui udì la voce di Matt, scappò via. Lo rincorsero, attraverso una strada deserta e lungo i binari ferroviari che portavano a South Station. Davanti a loro, Sze-to zoppicò verso una fila di vagoni vuoti e s'infilò fra due di essi. Ansimante nell'aria afosa, Matt lo seguì, con Sarah, chiaramente più in forma, a pochi passi di distanza. Riuscirono a infilarsi fra i due vagoni. Poi si raggelarono. Sze-to era, forse, a quindici metri di distanza. Ma aveva smesso di correre e si girò verso di loro. Accanto a lui nella pioggia c'erano altri tre uomini. Due erano asiatici, e uno di essi stringeva una pistola. Il terzo era Andrew Truscott. «Gesù», mormorò Truscott. «Matt, quello è Andrew», sussurrò lei, socchiudendo gli occhi nel buio.
«L'ho immaginato», disse lui beffardamente. «Andrew, che cosa stai facendo?» gridò Sarah. «Che cosa sta succedendo?» «Venite qui», urlò Sze-to al di sopra dello scroscio della pioggia sui vagoni. «Muovetevi lentamente. Guo-Ming è un eccellente tiratore. Non costringeteci a dimostrarlo.» «Andrew, che cosa sta succedendo?» implorò Sarah. «Sarah, non vedi?» disse Matt in un pressante bisbiglio. «Mettiti dietro di me e torna indietro verso le vetture. Presto!» Sarah non capiva che cosa volesse dire, ma fece come le aveva chiesto. «Un altro passo e siete morti tutti e due», li ammonì Sze-to. «Come il vostro amico qui.» Gli uomini che si trovavano di fianco ad Andrew si mossero, e il corpo senza vita si afflosciò in avanti sui binari. «Guo-Ming, per favore, uccidili», disse calmo Sze-to. «Sarah, scappa!» gridò Matt, mentre Sze-to zoppicava dietro gli altri due uomini. «Scappa!» La mano destra di Matt era infilata nella tasca della sua giacca sportiva, le dita strette intorno alla palla da baseball. Con movimento fluido estrasse la palla, si piegò in avanti e la tirò. Il gangster, ora a non più di nove metri, ci impiegò un secondo a capire quel che stava succedendo. Ma quel secondo fu per lui troppo lungo. La palla lo colpì in piena gola, la pistola cadde inoffensiva e finì sul selciato. L'uomo scattò indietro come se fosse stato preso a calci da un mulo, cadde pesantemente a terra e vi giacque gemente. Sarah stava già indietreggiando attraverso lo spazio fra i vagoni. «Scappa, Sarah!» gridò di nuovo Matt. «Torna nel vicolo.» Riattraversarono la strada. Quando raggiunsero il vicolo, si girarono in tempo per vedere Sze-to e l'altro uomo sbucare fra i due vagoni. La pistola, adesso in mano di Sze-to, fece fuoco. Il mattone a destra della testa di Sarah andò in frantumi. Matt le prese la mano e la fece abbassare. Poi si voltarono e si lanciarono lungo il vicolo. 26 «Li vedi?» chiese Sarah. Erano in una strada buia e deserta, rannicchiati dietro una macchina parcheggiata. Era quasi mezzanotte. L'implacabile pioggia pungente continuava. Matt sbirciò attraverso i finestrini della macchina.
«Sono dall'altra parte della strada», mormorò. «Non credo che l'altro voglia allontanarsi troppo senza Sze-to, e Tommy ha difficoltà a muoversi con quella gamba così conciata. Penso che potremmo farcela ad andarcene da qui.» «Sai dove siamo?» «Non esattamente. Ma il centro è da quella parte.» Sarah si spinse in avanti pian piano finché non poté vedere i due uomini. Sembrava che non si muovessero con grande urgenza. «Sono pazzi! Hanno ucciso Andrew. Matt, sono veramente spaventata. Non riesco a smettere di tremare.» «Questo significa che passerai tu al comando, perché io sono messo peggio di te. Senti, penso che possiamo farcela. Sze-to si muove a stento. Quel vicolo laggiù: lanciamoci verso di esso, poi cerchiamo di raggiungere Stuart Street, o almeno dove c'è un po' di gente. Sei d'accordo?» «Matt, guarda!» Dove qualche attimo prima erano stati in due, adesso erano in quattro. Un paio di uomini erano emersi da dietro Sze-to, e ora gli stavano accanto, scrutando la strada. Uno dei nuovi arrivati stringeva una pistola. L'altro stava parlando a un cellulare. Entrambi apparivano rilassati e atletici. «Gesù, sono come un esercito.» «I tong. Ricordi quello che Benny ha detto di loro?» «Dobbiamo andarcene da qui.» «Oh, Dio, Matt. Laggiù. Credo che ce ne siano altri.» C'erano altri tre uomini, infatti, che isolavano la strada da una parte. «Quel vicolo laggiù è la nostra unica via di salvezza. Dobbiamo raggiungerlo. Tieniti bassa finché non arriviamo all'angolo di quell'edificio, poi corri come un fulmine. Sei pronta?» «Sì.» «Sarah, tengo molto a te. Su. Andiamo.» Rannicchiati, indietreggiarono a poco a poco, tenendo le mani sul marciapiede per non perdere l'equilibrio. «Adesso!» disse Matt. Si girarono e corsero verso il vicolo. Dietro di loro uno degli inseguitori gridò. Un istante dopo udirono i colpi secchi di due spari. «Sta' bassa!» l'ammonì Matt. «Continua a correre.» Il vicolo era stretto e pieno di detriti e immondizia. Matt, correndo, rovesciò il coperchio di un bidone, poi di un altro. «Piega a destra!» gridò Sarah, puntando il dito davanti a loro.
In fondo al vicolo erano apparsi altri due uomini. A un tratto Chinatown, formata da non più di una decina di isolati, sembrò interminabile. Rispondendo al comando di Sarah, Matt roteò nella stretta fessura tra due edifici, scivolò e cadde, si rialzò e riprese a correre. «Si stanno moltiplicando come funghi», disse, ansimante. «Sarah, non sono sicuro che riusciremo a fuggire di qui. Credo che dovremmo trovare un posto dove nasconderci.» Sarah era chiaramente la più veloce dei due. Era circa quattro metri più avanti di lui quando raggiunsero una traversa. Rallentò e guardò alla sua destra. L'ingresso di un vecchio teatro era a pochi metri di distanza. Il teatro, chiuso e all'apparenza inutilizzato, esibiva ancora cartelloni strappati che pubblicizzavano film cinesi, e uno che mostrava Humphrey Bogart e Katharine Hepburn nel film La regina d'Africa. «Matt!» ansimò Sarah, indicando la porta. «Ce la facciamo a entrare?» Lui la colpì una volta con una spallata, poi indietreggiò e la spalancò con un calcio. Scivolarono all'interno e richiusero in fretta la porta dietro di loro. L'ingresso era illuminato dalla luce che proveniva da due piccole finestre in alto su una delle pareti. A eccezione di un logoro tappeto, il luogo era completamente spoglio. Mano nella mano, entrarono nel teatro vero e proprio. Come nell'ingresso, vicino al soffitto c'erano piccole finestre strette che durante le rappresentazioni venivano probabilmente coperte. La luce che filtrava da esse era sufficiente per illuminare il palcoscenico. Le poltrone, salvo per alcune piuttosto malconce, erano state rimosse. «Risale probabilmente ai tempi del vaudeville», osservò Matt. «Dobbiamo trovare un posto per nasconderci o una porta laterale per uscire da qui, e in fretta.» Sarah balzò sul palcoscenico e poi chiamò in un bisbiglio: «Matt, quassù. Guarda». Accanto al palcoscenico c'era una scala di ferro la cui base si trovava a pochi centimetri dal pavimento. Conduceva dritta verso una stretta passerella sospesa al soffitto e a malapena visibile nell'oscurità. Senza aspettare il suo consenso, Sarah afferrò una coperta da un mucchio vicino al palcoscenico e cominciò a salire. «È solido, Matt», disse. «Vieni su.» Qualche attimo dopo udirono la porta dell'ingresso aprirsi. Poi tre voci. Matt sbirciò verso l'alto ma non riuscì a vedere Sarah. Si gettò altre due coperte in spalla e si arrampicò in fretta lungo la scala. La passerella di
metallo era in realtà molto robusta. Matt posò una delle coperte accanto alla sua e piegò l'altra a mo' di cuscino. Le coperte erano umide e sapevano di muffa. Ma, terrorizzati e bagnati di sudore, i due si sentivano tutt'altro che a disagio. Matt si rannicchiò accanto a Sarah e tirò su le ginocchia, proprio mentre alcuni uomini entravano nel teatro. «Vedi qualcosa?» sussurrò Sarah, le labbra contro il suo orecchio. Matt scosse la testa e si distese, augurandosi che fossero completamente al riparo dallo sguardo dei loro inseguitori. Gli uomini, sembrava che fossero due, parlottarono in cinese senza una particolare urgenza nella voce. Poi, dopo soltanto un minuto o due, fecero un giro del teatro e se ne andarono. La porta dell'ingresso si aprì e si chiuse. Se n'erano andati tutti e due? Sarah fece per parlare, ma Matt la zittì con un dito sulle labbra e l'attirò più vicina. Passarono cinque minuti prima che l'uomo nell'oscurità sottostante si schiarisse la gola e tossisse. «Lo sapevo», mormorò Matt. In quell'istante la porta dell'ingresso si aprì di nuovo. Alcune voci diverse dalle precedenti conversarono con l'uomo che era rimasto di guardia. E a un tratto l'aria scura e stantia fu trafitta da raggi di luce. «Merda.» Matt pronunciò la parola con il semplice movimento delle labbra. Sarah si premette maggiormente contro di lui. Cercò di capire quello che stavano dicendo in cinese, ma riusciva solo a captare qualche parola qua e là e, ogni tanto, una frase. Era chiaro che Tommy Sze-to era spaventato e furioso. Cercando di non muoversi neanche per respirare, osservarono i raggi di luce illuminare il soffitto, la passerella e probabilmente anche le coperte sotto le quali giacevano. Impadronirsene era stato geniale da parte di Sarah, stava pensando Matt. Se fossero riusciti a cavarsela, avrebbe dovuto trovare un modo speciale per ringraziarla. Se... Sotto di loro, luci e voci si avvicinarono al palcoscenico. Un raggio illuminò la passerella, poi un altro. Sarah cominciò a sentirsi tremare. Forse, percependolo, Matt girò lievemente la testa e premette le labbra contro la sua fronte. La passerella tremò quando uno degli uomini sotto di loro afferrò la scala. Poi si inclinò quando salì d'un gradino. Le labbra di Matt premettero ancora di più contro la pelle di Sarah. Un altro gradino. E un altro. La torcia illuminò il punto in cui si trovavano. Un altro gradino. Poi a un tratto la passerella si sollevò e tremò mentre l'uomo saltava a terra.
«Niente», lo sentirono dire. I raggi luminosi, o almeno quanto potevano vedere di essi, cominciarono a spostarsi su altre parti del teatro. Rannicchiati lassù, bagnati ed esausti, Matt e Sarah dominavano il bisogno di muoversi. La ricerca all'interno del teatro continuò per almeno un'altra mezz'ora. Tommy Sze-to se ne andò prima, ma gli altri continuarono a cercare. Per due volte Sarah e Matt sentirono la porta esterna aprirsi e chiudersi. Il teatro era tranquillo. Sarah fece per cambiare posizione, ma Matt la fermò. «Sono ancora giù», sussurrò. «Non muoverti.» Girò lievemente la testa e a un tratto le sue labbra si posarono su quelle di lei. Da qualche parte nell'oscurità sottostante si udì qualcuno strascicare i piedi e schiarirsi la gola. Non volendo, o non osando spostare le labbra da sotto quelle di lui, Sarah fece scivolare il braccio libero in su fino a toccargli il collo. Per le due ore successive giacquero così, con gli occhi chiusi, i respiri sincronizzati. Ogni quindici minuti circa, l'uomo stazionato sotto la passerella produceva una sorta di movimento o di suono. Infine, dopo una penosa eternità, accese il cellulare e parlò in cinese. «Vuole andarsene», sussurrò eccitata Sarah. Lo sentirono stiracchiarsi e grugnire, poi si mosse verso il retro del teatro. Di nuovo la porta dell'ingresso si aprì e si chiuse. Poi ci fu solo silenzio. «Che cosa ne pensi?» si azzardò a chiedere Matt. «Penso che non ci abbiano trovati.» «Credo che se ne sia andato.» «Matt, non riesco a smettere di pensare ad Andrew. Ti prego, non muoverti ancora.» Matt girò la testa e le loro labbra si sfiorarono di nuovo. «Se insisti», sussurrò. Alle cinque e mezzo, la luce nebbiosa del nuovo giorno cominciò a illuminare il teatro. Rannicchiati sulla passerella arrugginita sopra il palcoscenico deserto, Sarah e Matt si erano mossi solo per non far paralizzare i loro arti. Ma non avevano sciolto l'abbraccio né avevano parlato. Uno o forse tutt'e due avevano dormito un po', benché non ne fossero certi. Matt le prese il viso fra le mani e le baciò dolcemente gli occhi. «Sei stata incredibilmente coraggiosa», le disse. «Ho fatto una cosa molto stupida a cercare di interpretare la parte di Green Beret con quel bastar-
do.» «Se ne sono realmente andati?» Matt si mise lentamente a sedere e sbirciò fra le sbarre della passerella. «Non sono sicuro per l'ingresso, ma il teatro è deserto. Credo però che dovremmo aspettare fino alle nove o alle dieci prima di andarcene. Più gente c'è in giro e più probabilità abbiamo di tornare a casa. Anche se, francamente, al posto di Tommy Sze-to, mi starei già dirigendo in qualche posto molto molto lontano da qui.» «Povero Andrew. Stava realmente cercando di aiutarmi.» «Forse l'ha fatto giusto in tempo per reclamare il suo posto in paradiso», disse Matt. «Considerando com'è finito, credo tu debba ammettere che ha compiuto un gesto molto nobile. Mi chiedo se era riuscito a sapere chi finanziava Sze-to. Qualche idea?» «Nessuna», rispose Sarah. «Nessuna idea di chi o perché. Ma adesso sappiamo una cosa importante.» «E cioè che qualcuno sta facendo il possibile per accertarsi che tu appaia colpevole di quei casi di DIC.» «Questo non dimostra tuttavia che Tian-Wen e io siamo innocenti. Ma a quanto pare qualcuno lo pensa. Quando ce ne andremo da qui potremo concentrarci su chi può essere. La prima cosa che farò, comunque, è andare a parlare con Claire Truscott.» «Credevo avessi detto che Andrew l'aveva lasciata.» «È sempre il padre di loro figlio. E intendo aiutare Claire come posso, adesso e in futuro.» Matt guardò l'orologio. «Per ancora due ore», disse, «forse due ore e mezzo, credo che dovremmo rimanere qui e stare tranquilli.» «Ne convengo.» Sarah sorrise e lo sfiorò con un bacio. Lui fece scivolare la mano sotto la camicia, sulla sua schiena, e gliel'accarezzò. «Sai», disse, «questa non è esattamente la situazione romantica che avevo sognato di vivere con te.» «E io che ho pensato tutta la notte che fosse un'elaborata messinscena perché sapevi che ho un debole per i posti insoliti ed esotici.» «Sarah, prometti di non denunciarmi all'Ordine degli avvocati?» «Se tu mi prometti di non scaricarmi come cliente.» Lo baciò di nuovo, questa volta più appassionatamente. Poi allungò una mano e lo accarezzò dolcemente.
«Eri molto macho ieri sera, Cat», sussurrò. «Ti ha fatto male quel codardo?» «Non ricordo», rispose lui, guardandola con occhi sbarrati. «Un po', forse. Dio, quello che mi stai facendo proprio ora mi aiuta molto, però. Moltissimo.» Lei gli sorrise di nuovo. L'orrore della notte appena trascorsa aveva ceduto il posto a pensieri sul futuro e sull'uomo i cui dolci occhi erano fissi nei suoi. «Questo è soltanto l'inizio», mormorò Sarah. «Sono un medico, ricordalo. Quando riterrò che sia clinicamente opportuno, bacerò e farò guarire tutte le tue ferite.» 27 9 ottobre «Bisturi... Tampone, per favore... Stetoscopio pronto, per favore... Come va, Kristin? Sente qualcosa? Perfetto, perfetto... Vuole ancora assistere al procedimento sul monitor? D'accordo, allora. Ecco, cominciamo...» La giovane donna sul tavolo operatorio, una madre di tre figli, aveva chiesto un'anestesia locale invece di quella totale. Anche se quest'ultima era di norma, Sarah aveva acconsentito. Aveva effettuato la sua prima legatura delle tube con laparoscopia alla fine del suo ultimo anno di internato. L'intervento era avvenuto senza un intoppo, come i venti o venticinque che aveva effettuato in seguito. Era davvero un ottimo chirurgo. Tecnicamente e clinicamente uno dei migliori, se non il migliore, che il suo programma di formazione avesse mai avuto. Perché allora la sua vita all'ospedale era diventata un simile inferno? «Va bene, Kristin. Quello che sta vedendo è il suo utero. C'è una piccola ma potentissima luce sulla punta di questo laparoscopio. Una fibra ottica di fianco alla luce trasferisce le immagini sul monitor televisivo. In questo momento vede il suo ovaio sinistro; quella cosina rosa in mezzo allo schermo. Fantastico, no?» Fibre ottiche. Sarah si scoprì momentaneamente a chiedersi dello scienziato responsabile di una simile scoperta rivoluzionaria che aveva cambiato per sempre le comunicazioni mondiali. La vita aveva ricompensato l'inventore? Era ricco? Era in pace? Una controversia, una malattia o le macchinazioni di altri gli avevano reso le cose difficili?
Sarah aveva inserito un cauterio bipolare attraverso una piccola incisione appena sopra il pube di Kristin e, guardando attraverso il laparoscopio, guidò la punta del cauterio intorno alla stretta tuba di Falloppio. Poi seguì la tuba da dove entrava nell'utero alla punta sfrangiata di fianco all'ovaio. «Va bene, Kristin, la sua tuba è completamente libera. Adesso gliela cauterizzerò. Ammesso che voglia ancora guardare, è probabile che veda cellule di grasso sfrigolare e scoppiettare. Questa cauterizzazione dovrebbe rendere meno sensibili i nervi oltre che il tessuto della tuba, per cui quell'area non dovrebbe risentirne troppo una volta finito... Se dovesse sentire male...» Facciamo... Una volta finito... Le frasi usate al plurale suonavano imbarazzate esattamente come si sentiva Sarah in quel momento. Guardò le infermiere. Un tempo amavano lavorare con lei; parlavano e scherzavano durante gli interventi. Adesso, che fosse intenzionale o no, c'era distanza. Lei e Matt avevano denunciato alla polizia l'omicidio di Andrew, ma l'ispettore assegnato al caso non aveva trovato il corpo né altre prove del misfatto. Non era riuscito a localizzare Tommy Sze-to né a trovare un testimone desideroso di collaborare. Il caso di negligenza contro di lei procedeva e, alimentato dal suo inconsistente racconto della notte a Chinatown, stava ancora riscuotendo molta attenzione da parte dei media. Circolavano diverse chiacchiere in ospedale. Una di queste era che Andrew avesse lasciato la moglie per Sarah e che fosse partito per l'Australia quando lei l'aveva abbandonato per un altro uomo. Un'altra era che Sarah avesse ucciso Andrew dopo una lite con l'amante e che si fosse poi inventata la storia della banda criminale cinese nel caso che fosse stato ritrovato il corpo. Era terribilmente frustrante sapere che senza prove concrete non aveva modo di convincere chi dubitava della verità. Sui giornali, la pubblicità su Sarah e il Medical Center di Boston da denigratoria era diventata spietata. Ma la cosa peggiore era che nulla era cambiato. Assolutamente nulla. Desideroso di salvaguardare il nome di Sarah, e di fare chiarezza sulla sua reputazione ora piuttosto traballante, Matt aveva assunto un investigatore privato. Dopo quasi tre settimane, e più di duemila dollari, l'uomo aveva riferito che Tommy Sze-to non era più a Boston e probabilmente neanche nel paese. Nessuno a Chinatown sapeva qualcosa del dottor Andrew Truscott. «Ecco fatto, Kristin. Un paio di cerotti e si riprenderà presto», disse Sarah. «Grazie a tutti. Grazie mille.» Ci furono alcune farfugliate risposte, ma nessuna lode per un lavoro che
era stato eccezionalmente eseguito. Sarah si tolse i guanti e si precipitò nello spogliatoio delle infermiere, sentendosi molto sola e pericolosamente vicina alle lacrime. Si sentiva tuttora impegnata a rimanere al lavoro, soprattutto dalla morte di Andrew. Ma dubitava che si sarebbe sentita di nuovo a suo agio all'MCB. Non avrebbe mai creduto come potesse essere fragile la reputazione di un medico o il rispetto professionale. Indossò degli indumenti puliti e si fermò a controllare la posta. Fra le molte lettere di carattere professionale, c'era un biglietto di Rosa Suarez con la data di quella mattina, in cui le chiedeva di mettersi in contatto con lei. C'era anche una lettera del presidente del consiglio d'amministrazione dell'ospedale. La lettera informava educatamente Sarah che, a causa della confusione e dell'incertezza che circondava lei e il suo futuro, era stato richiesto al primario di Ostetricia e ginecologia, dottor Randall Snyder, di proporre una candidatura alternativa per il posto di primario interno dell'anno successivo. «Dannazione!» Sarah infilò la lettera nel camice e pestò il pugno sul banco. «Perché, dannazione?» Eli Blankenship, con la sommità della testa che brillava sotto la luce fluorescente, le sorrise. Vedendolo, la rabbia di Sarah si attenuò immediatamente. Durante quella terribile prova, il primario era stato una delle poche costanti dell'ospedale, sempre ottimistico e incoraggiante, sempre pronto ad applicare il suo incredibile intelletto ai vari problemi. Non c'erano dubbi, le aveva detto, che la storia che lei e Matt avevano riferito su Tommy Sze-to e Andrew Truscott fosse era. Un vero studioso di misteri l'avrebbe capito immediatamente. «Buongiorno, dottor Blankenship», disse l'impiegato postale, porgendogli un mucchio di annunci, rapporti di laboratorio, giornali e riviste. «Buongiorno a lei, Tate. Come sta sua moglie?» «Molto bene, grazie.» Blankenship sorrise compiaciuto e guidò Sarah lontano dalla finestra. «Che cosa sta succedendo?» chiese. Lei tirò fuori la lettera degli amministratori dell'ospedale e gliela passò. Blankenship la lesse in pochi secondi. «È ridicolo», esclamò. «Rob McCormick e il resto di quei bellimbusti del consiglio di amministrazione trascorrono così tanto tempo a preoccuparsi delle apparenze che si dimenticano dei risultati. Ergo, non ne raggiungono. Idioti! Sarah, non abbiamo una riunione fissata con lei e il suo
avvocato?» «Sì, signore. Domani sera.» «Bene. Prometto che per allora avrò parlato con McCormick. Non posso garantirle un'inversione di rotta, ma so essere molto persuasivo quando devo. Le prometto anche una lunga dissertazione sulla DIC di cui sono diventato un esperto. Sono convinto che è al lavoro una forza diversa o addizionale al suo integratore prenatale. E giuro che scopriremo che cos'è.» Studiò la rabbia e la frustrazione nei suoi occhi. «Sarah, deve tenere il mento alzato durante tutto questo. Sono in molti a sostenerla in quest'ospedale, compreso il dottor Snyder. Mi sorprenderebbe che avesse qualcosa a che fare con questa lettera.» «E come può non essere?» chiese Sarah. «Solo qualche mese fa mi ha offerto una collaborazione. Adesso è gelido e formale come non mai. Ho la sensazione che molte persone qui intorno, compreso lui, sarebbero felici di vedermi sparire.» «Ma non sarà così, giusto?» «No, dottor Blankenship. No, perché indipendentemente da quello che pensa molta gente, non credo di aver fatto niente di male; né a quelle tre donne né ad Andrew.» Blankenship le passò un braccio rassicurante intorno alle spalle. «Arriveremo in fondo a questa faccenda», disse con ferma convinzione. «Scopriremo ciò che ha colpito quelle donne, e scopriremo il responsabile della morte di Andrew Truscott. Qualcosa si chiarirà presto, Sarah. Me lo sento nelle viscere», si accarezzò la parte bassa del ventre, «che, incidentalmente, sono il mio punto più sensibile. Nel contempo intendo fare quello che posso per assicurarmi che nessuno in quest'ospedale prenda posizione contro di lei a causa di quello che ritengono possa essere la verità.» «Grazie», disse Sarah. «Grazie di tutto.» «Bene, allora», fece Blankenship. «Ci vediamo domani sera, con delle buone notizie, speriamo, da parte del consiglio d'amministrazione. Dov'è diretta ora?» «A telefonare a Rosa Suarez. Ha evidentemente scoperto qualcosa di cui vuole parlarmi.» «Bene, può riferirlo domani sera», disse Blankenship. «O, meglio, può convincere la nostra riservata epidemiologa a venire a riferircelo di persona.» «Speriamo», rispose Sarah, sentendosi più determinata di quanto non fosse da settimane. «Speriamo di riuscirci.»
«Rosa, che cosa vuol dire che le è stata sottratta l'indagine?» Seduta in una poltrona a dondolo in fondo al letto di Rosa Suarez, Sarah fissava incredula la donna più anziana. «Le ho già detto che il mio supervisore e io non vediamo spesso le cose nello stesso modo.» «Quello studio che ha fatto a San Francisco...» «Precisamente.» «Ma i suoi dati sono stati alterati.» «Non ci crede. Comunque ha citato la mia carenza di progressi e l'assenza di ulteriori casi di DIC, e mi ha rispedita in biblioteca fino al pensionamento, che avverrà fra quattro mesi. Per il momento non verrò sostituita.» «È terribile.» Sarah provò una sensazione di panico. Aveva sperato e creduto che la caparbia, diligente piccola donna avrebbe in qualche modo risolto il mistero che stava minacciando la sua carriera. «Dopo le cose che mi ha riferito, ho realmente sperato in un passo avanti. Adesso se ne va. Io proprio...» Rosa Suarez la interruppe con la mano alzata. Poi sedette sul bordo del letto e la guardò. «Abbiamo fatto un passo avanti, Sarah», disse. «E stia pur certa che non me ne vado.» «Ma...» «Mi spettano sei settimane di malattia. Così, da oggi, sono ufficialmente a casa per riprendermi da un'ernia del disco. Un amico ortopedico che mi deve un favore ha gentilmente fornito la documentazione ufficiale delle mie condizioni fisiche.» Il morale di Sarah si risollevò di colpo. «Grazie», disse rauca. «Grazie per non aver rinunciato. Ma non capisco. Come può il suo caporeparto interrompere l'indagine se è stato compiuto un passo avanti?» «Perché», disse Rosa sorridendo, «non lo sa. E non lo saprà finché non sarà inattaccabile. Sento che sebbene in questo caso non sia coinvolto l'esercito degli Stati Uniti come lo era a San Francisco, potrebbero esserlo alcune persone molto potenti e intraprendenti.» «Mi spieghi.» «Il problema che ha affrontato ha due aspetti. Primo, non sono stati riscontrati casi di DIC che non siano in relazione con lei. Secondo, i tre casi di DIC del suo ospedale non mostrano fattori di grosso rischio comune fat-
ta eccezione per il suo integratore vegetale.» «Sì, questo lo capisco.» «Be', dopo molti vicoli ciechi, ho dissotterrato un altro fattore significativo che hanno in comune i nostri tre casi.» «Vale a dire?» chiese eccitata Sarah. «Vale a dire, il loro peso.» Rosa non ci impiegò più di quindici minuti a descrivere gli sforzi che erano culminati con la scoperta del diario di Constanza Hidalgo e la rivelazione dell'incredibile dimagrimento della ragazza, raggiunto con il preparato di un medico «straniero» dell'MCB, a cui faceva riferimento nel diario semplicemente con «dottor S.» «Armata di quest'informazione», spiegò, «sono tornata sui miei passi attraverso il passato di Alethea Worthington e poi di quello di Lisa Summer. C'è voluto più tempo di quanto avrei voluto, perché la famiglia di Alethea è quasi inesistente, e Lisa e suo padre sono stati via per buona parte dello scorso mese. Ma quello che ho appreso è più che intrigante. Alethea, un tempo, aveva un terribile problema di peso. Centoventi chili, mi ha detto uno dei suoi vicini. Ed ecco un paio di fotocopie che ho fatto del suo annuario di liceo. Questa è Alethea. Come può vedere, era molto grassa.» «Sappiamo se prendeva lo stesso preparato di Connie Hidalgo?» chiese Sarah. «Non esattamente, ma sono stata in grado di accertare che il suo dimagrimento è avvenuto circa quattro anni e mezzo fa; nello stesso approssimativo periodo di quello di Connie. E le pagine che coprono questo periodo di tempo sono state anch'esse strappate dalla sua cartella clinica all'MCB.» «E non ne ha parlato con nessuno?» Rosa scosse la testa. «Dopo quello che è accaduto a San Francisco, non è facile dividere quest'informazione nemmeno con lei», disse. «Ma so come ha sofferto. E benché mi consideri tutt'altro che un'esperta sull'argomento fiducia, di lei mi fido.» «Grazie», disse Sarah. «Oh, Dio, grazie mille.» Blankenship aveva ragione. Un colpo di fortuna era imminente. «C'è di più», proseguì Rosa come se le leggesse nei pensieri. «Molto di più.» «Lisa?» «Esattamente. Non ho parlato con lei, ma ho compiuto diverse visite alla
sua casa di Boston. I suoi coinquilini erano molto sospettosi nei miei confronti, soprattutto in vista del processo contro di lei. Ma alla fine hanno ceduto. Mi hanno dato alcune sue fotografie. Le prime sono di quando si era appena trasferita nella casa. Le ultime due sono più recenti.» «Deve aver perso almeno venticinque chili!» «Trentacinque, a dire il vero», fece Rosa. «Solo una delle persone nella casa era lì quattro anni e mezzo fa quando dimagrì tanto, ma è sicura che c'è riuscita grazie a un preparato. Stesso periodo, probabilmente stesso preparato. Sarah, non abbiamo a che fare con una coincidenza, qui. Le garantisco che non lo è.» «Ha controllato la cartella clinica di Lisa per le pagine mancanti?» «Non c'è nessuna prova fisica che le pagine siano state rimosse, ma questo non significa niente. Non ci sono pagine di quell'anno.» «Rosa, questa è una scoperta sensazionale. Ha idea di chi potrebbe essere questo dottor S.?» «Qualcuna. Gli indizi forniti dal diario di Constanza Hidalgo suggerivano un uomo, probabilmente straniero. Ho aggiunto a quest'equazione il preciso momento in cui l'affascinante prodotto è stato dispensato e l'iniziale 'S'. Poi ho controllato gli schedari dell'Ufficio personale.» Frugò nella cartella e tirò fuori un libretto d'appunti. «Ammesso che i parametri che ho scelto siano tutti esatti, ci sono tre buoni candidati. Non ero completamente certa di che cosa fare con la sua impressione che l'uomo fosse straniero. Non sembrava esserne sicura. Il primo nome è ancora fra il personale dell'MCB. Gli altri due non ci sono più da diversi anni.» Passò il libretto a Sarah. «Gilberto Santiago, medico... Sun Soon, professore... Peramod Sing, medico ayurvedico», lesse Sarah. «Nessun campanellino per nessuno di loro. Nemmeno per Santiago.» «Che cosa significa?» chiese Rosa. «Che l'ultimo uomo ha una laurea?» «Probabilmente è dottore in medicina ayurvedica. È un antico sistema di cura indiano...» Le venne meno la voce. «Che cosa c'è, Sarah? Si direbbe che lei abbia visto un fantasma.» Lentamente, gli occhi di Sarah incontrarono i suoi. «Quello che posso aver visto, Rosa, è la verità. Devo fare una telefonata.» «Usi il telefono che c'è lì. Se la telefonata è in un altro Stato, usi questa carta di credito. Sarò in pensione quando qualcuno si renderà conto che una donna in malattia ad Atlanta ha effettuato questa chiamata da Boston.» La via più rapida per mettersi in contatto con Annalee Ettinger era che
Sarah lasciasse un messaggio urgente alla centralinista dello Xanadu. Diede il nome di Rosa invece del suo e sottolineò diverse volte l'importanza della situazione. «Adesso», disse Rosa dopo che Sarah ebbe riagganciato, «sembra che tocchi a lei dare spiegazioni.» Sarah divise quel poco che sapeva di Pramod Singh e del Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico. Aveva tracciato un'immagine di Peter Ettinger il più fedelmente possibile, ma Rosa colse immediatamente la tensione che l'uomo aveva apportato nella sua voce. «Ha tutta l'aria di un megalomane da manuale», osservò Rosa. «Ho sempre saputo che era orgoglioso. Ma lo consideravo più un visionario.» «La mia esperienza dice che entrambe le cose coincidono spesso con i primi passi verso la megalomania.» Quando suonò il telefono, Sarah alzò ansiosa il ricevitore. «La dottoressa Suarez?» Sarah riconobbe la voce di Annalee. «Annalee, sono Sarah. Come stai?» «Ehi, che bella sorpresa. Stiamo bene, grazie. Il bambino si sta preparando al grande tuffo.» «Quanto manca?» «Sei, sette settimane. Per me andrebbe bene anche domani. Peter ha fatto venire due levatrici dal Mali che mi si librano continuamente intorno. Visto che non ho nessun problema passano il loro tempo a cucinare, spolverare e a sbattere l'una contro l'altra.» «Annalee, sono molto eccitata per te.» «Sì. Peter è stato comprensivo questa volta. Non ha deluso le aspettative. Che cosa c'è dunque di tanto urgente? E chi è Rosa Suarez?» «A dire il vero è la dottoressa Suarez. È proprio qui, anzi. Sta studiando programmi di dimagrimento per il governo. Le ho parlato del programma di Peter e del dottor Singh.» «Quei due stanno facendo soldi a palate», disse Annalee. «Peter ha aggiunto un'intera area di spedizione a questo posto. Venti o più impiegati che imballano e spediscono. Sembra che metà dell'America sia sovrappeso e guardi la televisione a tarda notte.» «Annalee, hai idea di come potremmo metterci in contatto con il dottor Singh?» «No. Viene qui ogni tanto con una nuova provvista di vitamine da unire a ciascun ordine. Ma non lo vedo quasi mai. Posso tentare di chiederlo a
Peter senza dirgli che interessa a te. È furioso che il tuo avvocato gli abbia imposto di testimoniare.» «Mi dispiace», mormorò Sarah. «Senti, Annalee, non metterti nei guai. Ma ci sarebbe di grande aiuto parlare con il dottor Singh.» «Vedrò quel che posso fare. C'è altro?» «Potresti mandarmi un campione di quel preparato?» «Vuoi dire che non vuoi sborsare quarantanove dollari e novantacinque né aspettare dalle tre alle sei settimane per la consegna? Be', per questa volta penso di poterlo fare.» Sarah diede ad Annalee l'indirizzo di Rosa, la ringraziò e la pregò di nuovo di non entrare in conflitto con suo padre. Poi rimase a guardare fuori il bel pomeriggio autunnale. «Rosa, crede proprio che questo prodotto dimagrante sia associabile ai casi di DIC?» chiese. «Partendo dai presupposti che abbiamo», rispose Rosa, «è certamente una causa probabile quanto il suo integratore prenatale.» «Non ha senso.» «Questo perché non disponiamo di tutti gli elementi. Vorrei vedere una di quelle televendite di cui mi ha parlato.» «Farò del mio meglio. Il mio avvocato ha delle conoscenze in televisione. Vedrò se riesce a farsi dare una registrazione per l'incontro di domani sera. A proposito, ci viene?» «Non era nelle mie intenzioni. Ma adesso che non mi occupo più ufficialmente del caso, credo che ci verrò. Soprattutto se una delle attrazioni principali è la registrazione. E poi, con quello che mi ha detto e quello che ho sentito proprio ora, credo che le probabilità siano salite.» «Non capisco.» «La sua amica Annalee ha preso quel preparato, giusto?» «Sì.» «E partorirà fra poche settimane, giusto?» «Non ci avevo pensato.» «Con tutto quello di cui ha dovuto occuparsi in quest'ultimo periodo, è comprensibile. E poi, c'è tempo. Non moltissimo, ma un po'. Ci vediamo domani sera nell'ufficio del suo avvocato.» Sarah abbracciò Rosa a lungo e con affetto, e promise di non dividere con nessuno quello che avevano appreso. Poi scese di corsa le scale e tornò all'MCB. Si stava di nuovo schiudendo uno spiraglio, e si sentiva più eccitata e stimolata di quanto non si sentisse da settimane.
Sola nella sua stanza, seduta a gambe incrociate sul letto, Rosa Suarez cercò di incorporare la nuova informazione con quanto già sapeva. Sarah aveva ragione. Col legare i casi di DIC all'assunzione di un preparato vegetale avvenuta anni prima non aveva senso... Eppure... Non era ricollegabile neppure alla sparizione delle cartelle cliniche. Tracciando linee e frecce sul blocco, Rosa cercò di mettere in ordine tutti i fatti finché non cominciò a sentire evaporare la sua concentrazione. Esausta, si lasciò ricadere sul cuscino. Niente di concreto. Niente. Avrebbe tanto voluto accantonare il problema e mettersi a dormire. Invece chiamò Ken Mulholland al laboratorio dei CDC. «Ehi, Rosa, come va la schiena?» chiese. Le bastò sentire la sua voce per sorridere. Di tutti quelli che lavoravano con lei, solo Ken sapeva dove si trovava e come stava realmente. «Peggiora di giorno in giorno, grazie a Dio», rispose. «Hai niente per me?» «Sì e no. Non so che cosa ci sia fra lei e il suo capo, ma mi è arrivato un appunto in cui mi si dice che la sua indagine è ufficialmente chiusa. Nessuno nel nostro reparto vi dedicherà più del tempo. Il mio caposezione mi ha persino fatto una visita. Sa che l'ho aiutata. Io... uhm... sono stato prontamente informato.» «Avvertito, vuoi dire. Il mio capo vuole assicurarsi che fallisca. Mi dispiace, Ken. Senti, non correre rischi, ma ho veramente bisogno del tuo aiuto.» «E ce l'ha. Non è la sola persona che si è data per malata, sa. Se sarà necessario, mi farò venire l'influenza e verrò a lavorare per lei. Ha detto che aveva accesso alle attrezzature.» «Non come te, ma sì. Un intero laboratorio, completo di tecnico. Che cos'hai scoperto, dunque?» «A sufficienza da poter dire che la sua ragazza aveva una specie di virus del DNA quando le è stato prelevato il sangue lo scorso luglio. Ma non disponiamo di sufficiente terreno di coltura per classificarlo. E non potremmo farlo comunque. Il nostro ultimo campione è bruciato ieri. Se vuole andare avanti, avremo bisogno di altro sangue.» «Allora dovremo trovare il modo di procurarlo.» «E avrò bisogno del nome e del numero del tecnico a cui si è appoggiata lì a Boston. Forse dovrò fargli fare delle colture.» «Nei limiti delle mie possibilità, avrai tutto ciò che vuoi.»
«Così importante, eh?» «Sono seduta sul Vesuvio qui, Ken. Te lo giuro. E presto, molto presto, credo che erutterà.» 28 10 ottobre «È Johnny Norman che vi parla da Television City e chiede al pubblico dello studio e ai milioni di spettatori che sono a casa: siete pronti a cambiare in meglio la vostra vita?» «Sì!» «Siete pronti ad afferrare l'occasione e a tenerla stretta?» «Sì!» «Siete pronti a percorrere la strada della snellezza e della salute?» «Sì!» «Un po' più forte, per favore. Non vi ho sentiti.» «Sì!» «Bene, d'accordo, allora. Siete venuti nel posto giusto. Cominciamo. È di nuovo ora di salutare la nostra guida, l'uomo che ha allenato la squadra per due Super Bowl ma non è riuscito a stare lontano dalle coppe di gelato. Un caloroso saluto al coach Tom 'Orso' Griswold!» Alto, mascella di granito e snello come un giunco, il coach Tom Griswold balzò sul palco battendo le mani. Stipati nella sala d'aspetto dello studio di Matt, gli otto spettatori assistevano alla televendita registrata, quasi morbosamente affascinati mentre Griswold raccontava la storia della sua vita, accompagnata da sorprendenti fotografie della sua carriera, reputazione e giro vita in espansione. «Avevo più denaro in banca di quanto avrei mai desiderato spenderne, una famiglia che mi amava, una carriera come commentatore sportivo e quasi centocinquanta chili di peso! Dapprima i medici mi consigliarono pacatamente di dimagrire. Poi si fecero più minacciosi. Mi dissero che se non fossi dimagrito, avrei rischiato grosso... Bene, guardatemi adesso!» Si girò in una sgraziata piroetta, con l'accompagnamento di rumorosi applausi da parte del pubblico adorante. «È fantastico», mormorò meravigliato Glenn Paris. «No, è l'America», disse Eli Blankenship. «Il paese dove non si può essere troppo ricchi o troppo magri.»
«E ora, Johnny», proseguì il coach, «prima di incontrare l'uomo che ha effettuato questa straordinaria scoperta per l'America, aggiorniamo la cifra totale.» Un immenso tabellone vistosamente illuminato riempì lo schermo, gli spazi vuoti in attesa dell'annuncio di Johnny Norman. «Va bene, coach. Ecco: fino a oggi, il numero delle persone nel paese e nel mondo che si sono unite a noi sulla strada della snellezza e della salute è di 571.619!» Applausi. «A quarantanove dollari e novantacinque al pezzo», aggiunse l'avvocato Arnold Hayden. «Davvero incredibile. E da quanto tempo smerciano questa roba?» «Da circa sei mesi», rispose Matt. «Ma non dimentichi, Arnold», gli rammentò Colin Smith, «che dalle indicazioni che abbiamo questa roba funziona sul serio. Non spenderebbe dunque cinquanta dollari per dimagrire, soprattutto se non deve sottostare a una dieta?» «Grazie, Johnny Norman», stava dicendo il coach Griswold. «Adesso voglio presentarvi l'uomo che mi ha ridato anni di vita, per non parlare di quello che ha fatto per il mio tennis e per la mia vita affettiva, la mia bella moglie Sherry si affretterà a confermarlo» Seguirono alcuni mormoni. «Ma prima ascoltiamo una canzone cantata da una delle vere figlie del Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico. Betty Wilson era una star di centoquindici chili. Ma sarà lei la prima a dirvi come odiava guardarsi allo specchio. Oggi è ancora una star. Ma guardate quello che vede ora riflesso allo specchio!» Fischi e applausi per la cantante, il cui abito di paillette azzurre pareva essere stato cucito addosso al suo corpo perfettamente proporzionato. «Signore e signori, ecco a voi la signorina Betty Wilson che canterà la canzone del suo nuovo spettacolo di Broadway.» Durante la canzone Matt galoppava con il pensiero mentre gli altri nella sala d'aspetto borbottavano frasi di incredulità e forzata ammirazione. Poi il coach, dopo una sciropposa introduzione di novanta secondi, trascinò Peter Ettinger sul palcoscenico mentre il pubblico gli tributava un'ovazione. Vedendolo, Sarah sentì i muscoli della mascella irrigidirsi, ma anche lei dovette ammettere che l'uomo, per quanto fosse apparso imponente in molte occasioni, in televisione lo era ancora di più. Muovendosi da un capo all'altro del palcoscenico con eleganza, Peter raccontò con meticolosità di quando fece la scoperta del dottor Pramod Singh di Nuova Deli, in India, e del suo fantastico prodotto vegetale per
dimagrire. Poi ci furono una serie di testimonianze da parte di clienti accuratamente selezionati, che non erano riusciti a ottenere i medesimi risultati con gli altri programmi di dimagrimento. E infine, su uno sfondo che era chiaramente l'India, arrivò un messaggio da parte di Pramod Singh stesso. Le erbe segrete incluse nel prodotto vegetale dimagrante erano solo parzialmente responsabili, disse. Anche se rappresentavano una parte importante del programma di dimagrimento. «Usate correttamente il nostro prodotto, mangiate con moderazione, evitate i cinque cibi proibiti», ammonì con il suo musicale accento, «e perderete il peso che vorrete indipendentemente da che cos'altro farete. Meditate cinque minuti al giorno, seguite gli alti principi basilari di Ayurveda spiegati nel vostro manuale e conoscerete molte altre libertà oltre a quella di essere snelli. Conoscerete la libertà dello spirito. Mi dispiace di non poter essere con tutti voi di persona, ma sto sovraintendendo al raccolto di dodici importanti componenti del nostro preparato. Aspetto con ansia di vedervi tutti fra poche settimane. E adesso, rieccovi il dottor Peter Ettinger.» «Dottore in che cosa?» domandò Matt, spegnendo il televisore. «Peter Ettinger ha un certo numero di dottorati conseguiti in diversi istituti», spiegò Sarah. «Ma francamente non so se qualcuno di essi ha lo stesso valore di un titolo conseguito in un'università tradizionale.» «Non si direbbe che quell'uomo le piaccia molto», osservò Colin Smith. «Se volete il mio parere, è un asino borioso», disse Glenn Paris. Sarah sorrise fra sé sapendo che quasi certamente Peter avrebbe scelto le stesse parole per descrivere il presidente dell'ospedale. «Bene», fece Matt. «Credo che dovremo iniziare. Ho già detto la mia riaffermando che il racconto della spaventosa notte a cui siamo sopravvissuti Sarah e io a Chinatown è assolutamente reale e che, voci o non voci, corpo o non corpo, Andrew Truscott è morto. La polizia non ha scoperto nulla di nuovo, e neppure l'investigatore privato che ho assunto io, un ottimo investigatore. Non abbiamo rinunciato a provare la nostra storia, ma siamo anche incerti su che strada intraprendere. Qualche suggerimento? Ebbene, allora, a meno che non ci siano domande, propongo di continuare. «Finora, in questa faccenda, Jeremy Mallon ha segnato tutti i punti, e noi siamo rimasti perlopiù sulla difensiva. Domani, con la deposizione formale di Peter Ettinger, spero che le cose cambino. Prima del video, la signora Suarez vi ha dato un'idea di quale tipo di prove utilizzeremo per inchiodarlo. Spero che entrerà in maggiori dettagli fra breve. Prima, però, vorrei conoscere l'opinione del dottor Snyder e del dottor Blankenship. Nell'ordi-
ne che preferite.» Sarah colse lo sguardo di Matt per un breve secondo. Era sicuro di sé e aveva il controllo della situazione. Che progressi aveva fatto dalla prima riunione nella Milsap Room dell'MCB. Silenziosamente anelava al giorno in cui avrebbe potuto stare con lui apertamente sia come amica sia come amante, al giorno in cui Willis Grayson, la sua rabbia e i suoi avvocati sarebbero stati una cosa del passato. «Potrei parlare prima io, Eli», propose Randall Snyder. «Non ci impiegherò molto a esporre quello che ho da dire.» Si schiarì la gola. «Ho fatto mandare dall'American College di Ostetricia e ginecologia alcune lettere per richiedere informazioni ai primari di ogni reparto di Ostetricia del paese su eventuali casi inspiegabili di DIC in gravidanza o travaglio. Finora non se n'è appurato nessuno in cui non ci fosse già una certa predisposizione. Devo dire, Sarah, che avendo inviato queste lettere, seguite poi da decine di telefonate, la mancanza di un paziente colpito da DIC che non abbia preso il suo integratore vegetale rimane un dato allarmante, e vorrei dire incriminante.» «Grazie», disse Matt freddamente. «Può dire ciò che vuole. Qualcuno si è dato una gran pena e ha causato molto disagio per fare apparire l'integratore prenatale di Sarah come il responsabile di questi casi. Questo fatto, più di ogni altro, mi suggerisce che non lo è. Dottor Blankenship?» Il primario di Medicina interna batté pensosamente la matita contro il palmo prima di raccogliere un fascio di appunti che aveva posato sul pavimento accanto a sé. «Ebbene», disse infine, «il mio compito era di diventare uno dei massimi esperti sulla coagulazione intravascolare disseminata. Si scopre ora che questa non è l'umile mansione che sembrava essere sulle prime. Ho scoperto che tutti, nel campo della coagulazioni, sanno quando si verifica un caso di DIC ma ignorano perché. Il nome più comune per questa condizione è 'coagulopatia di consumo' perché, mentre è in atto, tutti gli elementi di coagulazione del sangue vengono consumati. Nei casi più gravi, la DIC è quasi sempre fatale. Questo fatto rende l'operato dell'imputata Sarah Baldwin per salvare la vita della querelante Lisa Grayson ancora più eccezionale. Le persone affette da DIC in forme gravi come quella della querelante in genere non si salvano. Se fosse necessario testimoniarlo in tribunale, signor Daniels, sarei pronto a farlo.» I suoi modi e il suo tono, che erano stati molto decisi, si intensificarono drammaticamente. «Farei qualunque cosa in mio potere per collaborare. Sono molto turbato da questo
caso e dalla mancanza di sostegno che Sarah ha ricevuto dalla nostra istituzione. Avevamo promesso a lei e a noi stessi mesi fa, quando ci incontrammo inizialmente, che avremmo presentato un fronte unito e che Sarah sarebbe stata considerata innocente fino a prova contraria. Randall, Glenn, ho parlato con Rob McCormick della lettera che ha inviato per richiedere la sostituzione di Sarah come primario di Ostetricia interno per l'anno prossimo. Dice che sarà felice di ritirarla se voi due acconsentirete a farlo.» «Eli», intervenne Paris, «questo non è il momento né il luogo per...» «Glenn, la prego. Non voglio iniziare una battaglia qui né mettere Sarah in imbarazzo. Ma se dovremo presentare il fronte unito per il quale ci siamo accordati, allora dovremo anche far cambiare idea a McCormick, no?» L'irritazione di Paris era palese. Che acconsentisse o meno alla richiesta di Blankenship, in ogni caso appariva irritato da! fatto che gli si dicesse che cosa fare. Infine, dopo una lunga pausa durante la quale riconquistò la sua compostezza, sorrise e annuì. «Ha ragione, Eli. Non so come a Rob sia venuto in mente di fare quello che ha fatto, ma gli telefonerò domani per dirgliene quattro.» «Perfetto. Randall?» «Nessun problema», ripose Snyder poco entusiasta. «In questo caso, avanti con lo spettacolo», disse Blankenship. «C'è un'ultima categoria di cause della DIC che ho pensato di dover menzionare, vale a dire i veleni. L'immissione di un agente naturalmente coagulante, la trombina, può causare un quadro simile a quello della DIC, come possono causarlo taluni veleni di serpente. La tossina rinvenuta in almeno cinque specie di crotali può causare DIC letale.» «Crotali?» chiese Matt. «Mi perdoni, Matt. Serpenti a sonagli.» «Ma non credo che i veleni da lei descritti siano efficaci per bocca», asserì Sarah. «E Lisa era a casa quando è cominciata la sua DIC. Non riesco a immaginare come abbia potuto esserle iniettata una cosa del genere.» «O essere morsa da un serpente a sonagli», sghignazzò Arnold Hayden. Nessun altro rise. «Come ho detto», rispose Blankenship, «ho incluso la possibilità del veleno solo per completezza. Può esserci una tossina orale che non conosciamo in grado di causare la DIC. Forse qualcuno ha una simile sostanza e sta tramando una vendetta contro quest'ospedale o il reparto di Ostetricia.
A questo punto, chissà?» «Non ci manca che questo», commentò Glenn Paris. «Uno psicopatico.» «Qualche domanda per Eli?» chiese Matt. «Va bene. Allora, Rosa, lei ci ha gentilmente resi partecipi di alcuni significativi sviluppi avvenuti nella sua ricerca. Può dirci quali sono a questo punto le sue conclusioni?» Il giorno prima, Sarah aveva parlato con Rosa per più di un'ora. L'epidemiologa era dibattuta fra il disperato bisogno che avevano tutti i partecipanti di apprendere informazioni e idee, e il suo radicato rifiuto di svelare i risultati di una ricerca ancora in corso. Finché questi venivano controllati, ricontrollati e riposti sotto chiave, era contraria a confidare a qualcuno i particolari del suo lavoro. Alla fine le due donne avevano deciso che Rosa avrebbe assistito all'incontro e rivelato i dati e le teorie che riteneva opportuno rivelare. Nient'altro. «Devo innanzitutto sottolineare quanto ha già fatto presente il dottor Snyder», cominciò Rosa. «La connessione, significativa o meno, fra i tre casi di DIC e l'ingestione dell'integratore prenatale di Sarah appare chiaramente stabilita. Vorrei aggiungere, però, che il mio lavoro di ricerca e di laboratorio non suggerisce una diretta relazione tossica fra la DIC e l'ingestione di un'erba. Un'allergia a qualcuno dei suoi componenti, o forse la contaminazione con una tossina sarebbe molto più probabile. Ma nutro seri dubbi su entrambe queste possibilità. Come è già stato accennato, trovare una paziente in travaglio affetta da DIC che non abbia mai fatto uso di vitamine vegetali prenatali assolverebbe ovviamente la dottoressa Baldwin da ogni responsabilità.» «Che cosa pensa di questo prodotto dimagrante vegetale?» chiese Paris. «Speravo che potesse aiutarci lei in questo senso, signor Paris», disse Rosa. «Che cosa può dirci di Pramod Singh?» «Non molto, in verità. Sei anni fa, quando venne all'MCB, presi la decisione di incorporare nel nostro ospedale diversi aspetti di quella che viene definita medicina olistica. Stavo cercando un'identità per l'MCB, qualcosa che facesse desiderare al pubblico di venire da noi. Pramod Singh era un medico ayurvedico molto stimato che aveva saputo quello che stavamo cercando di fare e si era messo in contatto con me. Lavorò nel nostro ambulatorio specialistico per quasi due anni, poi se ne andò senza nessun preavviso. Nemmeno una lettera di spiegazione. Solo un biglietto succinto. Non sentii più parlare di lui finché non lo vidi in uno di questi stupidi programmi. «Avevo inizialmente sperato che Singh potesse far parte di un reparto o-
listico più ampio in ospedale, ma fino al giorno della sovvenzione elargitaci dalla Fondazione McGrath, siamo stati finanziariamente in difficoltà troppo gravi per poter garantire qualcosa. In ogni modo, visto che siamo in argomento, spero che sarete miei ospiti alla demolizione del Chilton Building prevista per la fine del mese. Spero anche che alcuni di voi tenteranno la fortuna con la nostra lotteria, per poter essere il prescelto a premere il bottone. Un'opportunità unica, oserei dire.» «Nessuno di voi sa se il dottor Singh usasse il preparato dimagrante quando era all'MCB?» chiese Rosa, ignorando volutamente il discorso altisonante di Paris. «Be', potreste chiedere in giro.» «Pensa davvero che quel prodotto e i casi di DIC siano collegati?» domandò Snyder. «Ricordi, dottore», disse Rosa, «il mio lavoro si basa sulle probabilità. Più una determinata connessione ha luogo, e più è probabile che sia significativa. Oltre agli aspetti in comune che ho scoperto fra i nostri tre casi, possiamo probabilmente aggiungere il collegamento di quattro o cinque anni fa al dottor Singh e al suo prodotto. Ma ricordi, come il signor Paris ha appena spiegato, egli aveva espressamente istituito una struttura dove potevano esistere prodotti come l'integratore di Sarah e il preparato di Singh. Così, alla fine, la scelta delle nostre tre donne di farsi seguire al Medical Center di Boston può rivelarsi l'elemento comune più significativo di tutti.» «Dio, non ci mancava che questo!» esclamò Paris. «Rosa, non avrà intenzione di parlarne alla stampa, vero?» Lei sorrise. «È stato un po' come cavarmi un dente venire qui, stasera», disse. «Non sono propensa a confidare a un pubblico più ampio le mie scoperte, non ancora almeno.» «D'accordo», fece Matt. «Se non ci sono altre cose da discutere concludiamo pure. Io devo terminare di prepararmi per la nostra prima offensiva. Arnold, la deposizione di Ettinger avrà luogo alle undici nello studio di Mallon. Gradirei che vi presenziasse.» «Può darsi», rispose l'avvocato. «Gliela faccia vedere lei, Daniels», disse Paris. A uno a uno il gruppo dell'MCB sfilò fuori, finché non rimasero che Matt, Sarah e Rosa. «Mi sembra che sia andata molto bene, Matt», commentò Sarah. «Via. Non abbiamo combinato niente, e lo sai.» Si avvicinò alla finestra, i pugni chiusi per la frustrazione. «Mancano parti di cartelle cliniche; ven-
gono pagate bande cinesi per incastrare te e un innocuo vecchio; uno strano balbuziente ti segue. Qualcuno, in qualche luogo, sa che diavolo sta succedendo qui intorno. E io sono stanco e nauseato di non essere quel qualcuno.» «Forse potrei darvi una mano», disse piano Rosa. «Che cosa sta dicendo?» Matt smise di camminare avanti e indietro. «C'è qualcosa che so e di cui non ho affatto parlato. Avevo deciso di metterne a parte voi ma nessun altro, per il momento. Vi prego, non parlatene con nessuno.» Matt guardò Sarah. «Ha la nostra parola», disse. «Va bene. Lisa Grayson aveva una specie di virus del DNA nel sangue quando ha avuto quella crisi. Il tecnico che l'ha scoperto non sa esattamente che cosa fosse, ma sa che non è comune. Vuole dell'altro sangue di Lisa.» «Anche se non ha sintomi di DIC?» chiese Sarah. «Prenderà quello che gli daremo. Se non crescerà niente, cercherà anticorpi e vedrà se gli sarà possibile arrivare a una identificazione. È molto bravo in quello che fa. Uno dei migliori. Ma temo che non si possa arrivare a Lisa senza passare attraverso il suo avvocato.» «Nel qual caso, allora, dovremmo forse chiederglielo prima di cominciare a sezionare Ettinger», disse Matt. «È molto importante», asserì Rosa. «Non credo che né il preparato dimagrante né le vitamine di Sarah siano da sole responsabili di quanto è accaduto. Possono entrambe aver giocato un ruolo, ma avrebbe più senso qualche infezione. Ho la terribile sensazione che, a meno che non si arrivi presto a capo delle cose, altre donne moriranno.» Circa ottanta chilometri a ovest, Annalee Ettinger giaceva sul suo letto a baldacchino, rannicchiata fra le braccia del suo fidanzato, Taylor. «Tay», disse. «Sta accadendo di nuovo. Ecco, senti qui. Giuro che sto avendo delle contrazioni.» 29 11 ottobre Non ci furono educate presentazioni né civili strette di mano. Una volta
che i combattenti furono presenti e seduti al massiccio tavolo delle riunioni nella biblioteca dello studio di Jeremy Mallon, una volta che la stenografa ebbe preparato la macchina e sciolto le dita, la battaglia ebbe inizio. Senza un giudice presente, Sarah si chiese fino a che estremi avrebbe potuto arrivare. «Dichiari nome e cognome», disse Matt, dopo aver dettato ora, data, luogo, elenco dei presenti e scopo della riunione. «Peter David Ettinger.» «Occupazione?» «Sono antropologo e guaritore.» «Studi?» «Ho un diploma universitario al Reed College e un master all'Università del Michigan, entrambi in antropologia, ed entrambi con lode.» «Nelle pubblicità televisive per il suo prodotto dimagrante si rivolgevano spesso a lei chiamandola 'dottore'. Ha un titolo a tale livello?» «Ho un dottorato ad honorem in Erboristeria dell'Holbrook College di Chiropratica, e diversi altri dottorati ad honorem.» «Ha anche un dottorato di ricerca?» «No.» «È laureato in Medicina?» «Certamente no.» «E qual è la sua attuale occupazione?» «Sono direttore esecutivo della Xanadu Holistic Health Community e presidente della Xanadu Corporation.» «Ed esattamente che cosa fa la Xanadu Corporation?» «Creiamo e distribuiamo il Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico.» La chiave per una deposizione di successo, aveva spiegato Matt a Sarah, consisteva nel non rivolgere mai una domanda di cui non si conoscesse già la risposta. Sfortunatamente, le domande che avrebbe rivolto a Peter Ettinger quel giorno erano quelle di cui non aveva risposta. Sarah si fissò le mani strette saldamente sul tavolo di fronte a sé. Sperava che Peter non vedesse quanto saldamente erano strette. Quando sulle prime era tornata a Boston, aveva quasi sperato di poter ristabilire una sorta di relazione professionale o platonica con lui. Adesso riusciva a stento a guardarlo. Non aveva mai fatto niente con più tenacia che spingere la sua vita in direzioni che non includessero lui. Eppure ecco che ora Peter stava aiutando a orchestrare un'azione legale contro di lei che avrebbe potuto danneggiarla molto in campo professionale, e magari mandarla anche in
prigione. «Ha detto poco fa di essere un guaritore, signor Ettinger. Oh, mi scusi, preferisce che la si chiami signore o dottore?» «È uguale. Signore va benissimo.» «Non tormenti quest'uomo, avvocato», l'ammonì deciso Mallon, «né con le parole né con il tono. Se lo farà, questa deposizione potrà concludersi molto prima di quanto si aspetti.» «Signor Mallon, la prego di non minacciarmi», ribatté Matt. «È qualcosa che ha già fatto nella bottega di un vecchio malato mesi fa. E lei e i suoi esperti fareste meglio a badare ai fatti vostri.» In un angolo della stanza, la stenografa sussurrava distrattamente nel microfono di un registratore oltre che battere a macchina lo scambio di frasi dei due. Arnold Hayden, seduto alla destra di Matt, gli fece cenno che la risposta era appropriata e necessaria. Alla sua sinistra, il socio di Jeremy Mallon replicò sussurrando qualcosa all'orecchio dell'avvocato. Sarah lanciò un'occhiata furtiva a Peter, ma vide soltanto una maschera priva di emozione. Un'ora prima della deposizione, la mattinata litigiosa si era già presentata. Mallon si era decisamente rifiutato di permettere alla sua cliente, Lisa Grayson, di farsi prelevare il sangue o di essere contattata da Matt, Sarah, Rosa Suarez o chiunque altro senza prima chiarire il motivo di tale richiesta. Matt si era mostrato controllato e aveva smesso di muovere accuse al Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico. Ma era chiaro a Sarah che prima che quella riunione si concludesse, la miniera d'oro di Peter sarebbe stata di nuovo attaccata. Arnold Hayden, che era con loro dall'inizio della giornata, mostrava di possedere un notevole acume pratico e teorico che Matt trovava chiaramente utile, e modi tranquilli che aiutavano lei a stare calma. La sua presenza e la sua posizione sembravano aggiungere credibilità e forza all'esame di Matt. Il suo aiuto sarebbe inoltre stato rilevante qualora l'obiettività compromessa di Matt fosse apparsa troppo palese. Non volendo infatti rinunciare né a Sarah né al caso, Matt gli aveva chiesto di assisterlo con in mente proprio questo. E sebbene non avesse esplicitamente raccontato ad Hayden della sua relazione con Sarah, sospettava che il legale dell'ospedale se ne fosse fatto un'idea. «Bene, dunque, signor Ettinger», disse Matt. «Per tornare sull'argomento in questione, le dispiacerebbe darci la sua definizione di che cos'è un gua-
ritore?» Per quasi mezz'ora Matt chiese, richiese e rivolse domande più finalizzate a riempire dei vuoti che ad arrivare a qualcosa di realmente importante. La strategia sulla quale lui, Sarah e Hayden si erano accordati era di cercare di indurre Peter ad ammettere che il metodo di Sarah di prescrivere e dispensare erbe non era molto diverso dal suo. Una volta raggiunto il punto, avrebbe essenzialmente trasformato Peter in un testimone a loro favore. Allora avrebbero cominciato ad analizzare la connessione fra Ettinger, il Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico di Xanadu e Pramod Singh. «Quando arriverò a quel punto gli darò una stoccata», aveva detto facendo dondolare l'amuleto egiziano. «Che possibilità ha, voglio dire, contro duemila anni di magia nera?» Dopo novanta minuti, fecero una pausa durante la quale Mallon ordinò a una delle segretarie di servire caffè. «Matt, forse dovresti scambiare la tazza con Mallon», sussurrò Sarah. «Non si sa che cosa può averti messo dentro.» «Sciocchezze», commentò lui. «Lo intimidisco quanto un coniglietto intimidisce un puma. L'ultima cosa che vorrebbe fare a questo punto è togliermi di mezzo. Si diverte troppo a giocare con me. Ma da questo momento comincerò a stringere le viti sul suo esperto. Otterremo la misura dell'effetto che produrrò su di lui dalla frequenza e dall'intensità con la quale Mallon obietterà alle mie domande. Arnold, ha dei suggerimenti da dare?» «Nessuno, per la verità», rispose Hayden. «Senonché ritengo sia ora di chiarire alcune cose su questo dottor Singh. Finora sono rimasto molto ben impressionato da come ha affrontato le questioni.» «Grazie. Gentile da parte sua, soprattutto considerando che non ho arrecato danni di sorta.» «Quelle che ha assestato finora sono manate», rispose il legale più anziano. «Nessuno vi presta molta attenzione, si preparano per i pugni in testa. Se la sta cavando molto bene.» Quando la seduta ricominciò, diede un colpetto incoraggiante sulla schiena di Matt. «Va bene, signor Ettinger», disse quest'ultimo. «Vorrei parlare un po' di più di questo suo Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico.» «Perché?» chiese Mallon. «È lei che ha presentato quest'uomo come un esperto», ribatté Matt. «Io sto solo cercando di documentare le sue qualifiche.» «Peter, non vedo come questa linea di domande sia rilevante. Se non
vuole rispondere, non lo faccia.» «Francamente io due ragioni le vedo, signor Ettinger», disse Matt, calmo ma deciso. «Innanzitutto, se rifiuta, le assicuro che prima della fine della giornata mi rivolgerò a un giudice perché la induca a rispondere. E in secondo luogo», guardò Sarah e poi Mallon prima di alzare di nuovo lo sguardo su Peter, «ho una buona ragione di credere, accidenti, no, ho la prova, che come Lisa Grayson ha preso il preparato vegetale di Sarah Baldwin prima del suo infelice parto, così ha preso anche il suo prodotto dimagrante vegetale!» «Ma...» «Ho detto prova.» «Un momento!» scattò Mallon. «Peter, aspetti, non risponda. Signor Daniels, non intendo abboccare, ma visto che quello che asserisce è nuovo per me, vorrei parlare con il signor Ettinger in privato, prima di continuare.» «Faccia pure», disse Matt. Arnold Hayden girò le spalle a Mallon e alzò il pugno all'altezza della mascella. Il tempismo di Matt era stato perfetto. Il suo primo pugno in testa perfettamente assestato. Sarah osservò il suo ex amante alzarsi in piedi. Lui la guardò con espressione irritata. Per un momento si sarebbe detto che stesse per compiere un gesto osceno. «Cresci», mormorò lei. Fu, grazie a Dio, incerta della risposta. «Bene», disse Mallon al loro ritorno. «Non solo approvo che il signor Ettinger risponda a questa linea di domande, ma lo incoraggio a farlo.» La sua espressione era compiaciuta, i suoi modi di nuovo sicuri; anche troppo sicuri. Sarah cercò di capire perché. «Signor Ettinger, come ha conosciuto Pramod Singh?» proseguì Matt. «Seguivamo una serie di seminari insieme, alcuni anni fa quando faceva parte del personale del Medical Center di Boston. Mi raccontò di alcune antiche regole ed erbe dietetiche ayurvediche che usava per alcuni pazienti, e con notevole successo, allo scopo di farli dimagrire.» «Lisa Summer era una di queste pazienti?» «Non lo so.» «Constanza Hidalgo?» «Non...»
«Taccia, Peter», scattò Mallon. «Signor Daniels, si attenga all'argomento e alla paziente in questione.» «Signor Ettinger, Pramod Singh desiderava vendere al pubblico il suo prodotto?» «Sì.» «Con lei come portavoce, prestanome?» «Fra le altre cose.» «E così voi due vi siete messi in affari?» «Obiezione al tono ostile della domanda», intervenne Mallon. «Non risponda, Peter.» «Signor Ettinger, che cos'è esattamente questo prodotto?» «Un insieme di erbe, piante e radici. Dodici, per l'esattezza. Singh le procura in India e altrove in Estremo Oriente, e me le spedisce. Disponiamo di un centro di produzione dove le sostanze presenti naturalmente vengono combinate con un prodotto proteico per formare un sostitutivo nutrizionale bilanciato e un moderatore dell'appetito.» «Ma non avete nessuna verifica scientifica della composizione del prodotto, no?» Ettinger guardò Jeremy Mallon. Quando si volse nuovamente verso Matt sorrideva fiducioso. «Per la verità», disse, «contrariamente al preparato della dottoressa Baldwin, disponiamo di una verifica scientifica, analisi FDA e approvazione del prodotto. Li ho richiesti prima di permettere che venisse usato il nome Xanadu, e insistiamo perché il prodotto venga nuovamente testato in base a normative vigenti.» Un altro pugno in testa, ma questa volta dalla parte del querelante. Matt trafficò con gli appunti. Sarah sentiva che si sforzava di mantenersi calmo mentre si preparava alla domanda successiva. «Questo centro di preparazione e imballaggio del prodotto», chiese infine, «si trova nella stessa area della comunità Xanadu?» «Sì.» «E anche il reparto spedizione?» «In un edificio separato, ma sì. Anche la spedizione viene effettuata da Xanadu.» «Signor Ettinger, quanto ricavate da questo prodotto?» «Obiezione!» esclamò Mallon. «Peter, non risponda. Signor Daniels, la forma e il contenuto di queste domande sono mediocri; in termini di baseball forse mi capirebbe meglio: da dilettanti. Finora le ho fatto delle con-
cessioni perché, a parte la causa per un molare o qualcosa del genere, questo è il suo primo vero caso di negligenza...» Matt avvampò. Sotto il tavolo, Sarah gli accarezzò dolcemente la coscia. «Calma», sussurrò. Matt si calmò con una lenta e profonda inspirazione. «Signor Ettinger, parli brevemente di quello che accade in questo suo impianto di produzione.» «È molto semplice, in realtà», spiegò Ettinger. «Le piante e le radici grezze che arrivano lì vengono accuratamente lavate, esaminate e sterilizzate. Poi macinate o polverizzate, proporzionate secondo l'antica ricetta ayurvedica e combinate con una base proteica commercialmente preparata. Infine, la mistura viene di nuovo sterilizzata e impacchettata.» «E poi spedita?» «Il prodotto finale spedito include il preparato per quattro mesi, un manuale su Ayurveda, i principi dietetici ayurvedici e una fornitura di vitamine.» «Vitamine?» Matt ringalluzzì visibilmente. «Sì.» «Vitamine vegetali? Come quelle della dottoressa Sarah Baldwin?» Peter sorrise di nuovo con fare compiaciuto. «Direi di no. Gli integratori della dottoressa Baldwin sono della dottoressa Baldwin. Le nostre multivitamine vengono prodotte per noi dalla Huron Pharmaceuticals.» Matt si sgonfiò. «Pillole?» chiese. «Capsule di gelatina, per la verità. Se ne scioglie una al giorno nel frappé dimagrante.» Jeremy Mallon simulò uno sbadiglio. «Signor Daniels, per favore», disse, «la sua rete da pesca si è impigliata e lo sa. Il signor Ettinger è stato con lei molto più paziente del necessario. Molto più tollerante di quello che sarei stato io al suo posto.» «Signor Ettinger, lei e il dottor Singh siete soci?» chiese Matt ignorando la protesta di Mallon. «Sì.» «Come posso trovare il suo socio?» «Basta!» ringhiò Mallon. «Va tutto bene», disse Ettinger. «La verità è che Pramod trascorre molto del suo tempo in India, ora. E perlopiù viaggiando. Comunico con lui grazie a un American Express di Nuova Deli. Se vuole quest'indirizzo sarò
lieto di farglielo mandare dalla mia segretaria.» «Basta così», disse Mallon. «Trovi un'altra linea di domande, o si conclude qui.» «In realtà, ho finito. Ma ho qualcos'altro da dire sia a lei sia al signor Ettinger. Qualcosa di strettamente confidenziale.» «Evelyn, abbiamo finito. Grazie.» Mallon bisbigliò qualcosa con il suo socio finché la stenografa non se ne andò. «D'accordo, dica pure», fece poi. «Anche se non le abbiamo nominate, e non desidero che rientrino in questo caso, sappiamo tutti che altre due donne oltre a Lisa Grayson hanno sofferto di questa forma di DIC.» «E allora?» «Ho detto prima che abbiamo la prova che alcuni anni fa Lisa Grayson ha preso quello che riteniamo essere il Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico prescrittole dal dottor Singh. Ebbene, abbiamo la prova che anche le altre due donne affette da DIC erano dimagrite grazie a questo prodotto.» «Che cosa!» esclamò Ettinger. Anticipando la rivelazione di Matt, Sarah concentrò la propria attenzione sull'uomo di fronte a lei. La sua sorpresa sembrò genuina. Tuttavia, rammentò a se stessa, aveva male interpretato Peter Ettinger anche in precedenza. «Calma, Peter», disse Mallon. «È tutta la mattina che quest'uomo imbroglia le carte. Questo ha tutta l'aria di essere un inganno per farci parlare.» «Non è un inganno», intervenne Sarah. «Voglio vedere la sua cosiddetta prova», disse Mallon. «E noi vogliamo avere un campione del sangue di Lisa Grayson», ribatté arrabbiata Sarah. «Via, facciamola finita!» esclamò Mallon. Sbatté i documenti nella valigetta e trascinò Peter Ettinger alla porta il più in fretta possibile. «Questo non è un gioco», protestò Matt. «Qui c'è di mezzo la vita della gente. Non gliene importa?» «Vada a farsi fottere», rispose l'avvocato. «Peter», tentò Sarah, «è importante. Ricorda che anche Annalee ha preso il tuo prodotto.» «Ma non ha preso quelle tue erbe fasulle. Sta' lontano da lei e andrà tutto
bene.» La sua cattiveria la ferì profondamente. «Peter?» disse invece dolcemente. «Sì.» «Non dirmi quello che devo fare.» 30 17 ottobre L'autunno a Long Island era ancora molto bello. Vestita con una tuta turchese, Lisa Grayson camminava a grandi passi attraverso il tunnel di luccicante fogliame, su per la collina di Kennesaw Road, e poi lungo il tratto ghiaioso che la riportava a Stony Hill. Stava sudando, ma non eccessivamente, considerando il fatto che, una volta arrivata a casa, avrebbe completato la sua prima mezza maratona. Fantastico! pensò. Venti chilometri per una donna che non molto tempo prima considerava una camminata fino al negozio all'angolo il suo limite fisico. «Troppo... troppissimo», canticchiava. La maratona di Boston era a metà aprile, e avrebbe potuto essere pronta per allora. La sua fisioterapista conosceva gli organizzatori della corsa. Se Lisa fosse riuscita a coprire i quaranta chilometri in più in meno di quattro ore e mezzo, Judy avrebbe fatto in modo che il tempo documentato necessario per l'iscrizione ufficiale e il numero non venisse registrato. «Guarda come corre... Guarda come corre...» Il sudore le colava dalla fronte sugli occhi. Rallentando leggermente, Lisa si toccò la mano destra nella tasca della giacca. Pugno, pensò intensamente. Pugno. La mano mioelettrica di Otto Boch era veramente incredibile, ma non aveva input sensorio. Lisa doveva allenarsi ancora per riuscire a impartire ordini alla mano. «Su, mano falsa», disse ansimando. «Fa' quel che devi.» Liberò il braccio dalla tasca e sentì senza vederle che le dita stringevano un fazzoletto appallottolato. «Devi farne di strada, mano», disse asciugandosi la fronte senza fermarsi. Da quando aveva ricevuto l'arto, due mesi prima, aveva fatto notevoli progressi. Con il tempo, le era stato promesso dalla sua terapista, sarebbe
stata in grado di raccogliere la cenere di una sigaretta senza sbriciolarla. Sentiva ancora terribilmente la mancanza del bambino e pensava diverse volte al giorno a come sarebbe stata la sua vita con lui. Ma sapeva anche che in un certo senso tutto quello che aveva sopportato era stato una sorta di passaggio. Affrontando la tragedia, vincendo il dolore, stava crescendo in altri ambiti che non erano cambiati dal giorno in cui era scappata da casa. E poi, naturalmente, c'era suo padre. La trasformazione di Willis Grayson nei mesi successivi al suo ritorno a Stony Hill era ancora più straordinaria della sua. Era più dolce di quanto lo ricordasse; molto meno autoritario e più disposto ad ascoltare. E faceva il possibile per stare con lei. Non aveva mai realmente creduto che quell'uomo fosse capace di un simile cambiamento, ma era successo. Passò sul ponte in fondo al viale ghiaioso che conduceva alla casa. Il cancello monitorato da una telecamera era chiuso, ma lo stretto passaggio accanto no. Ancora mezzo chilometro. I muscoli delle sue gambe cominciavano a irrigidirsi, ma ce l'avrebbe fatta. «Signorina Grayson», una voce maschile chiamò dietro di lei. Lisa si fermò e si voltò, continuando a correre sul posto. Un giovanotto in uniforme e berretto grigio sbucò da dietro un albero. Stringeva una busta della Federal Express sotto il braccio. «Venga a casa», gli disse ansimando, mantenendo la distanza e chiedendosi dove avesse il furgone. «Voglio finire questa corsa.» «Non posso», rispose lui incalzante. «Sono stato pagato per consegnarle personalmente questa busta. È il terzo giorno che cerco di incontrarla. Gli agenti della sicurezza di suo padre mi conceranno per le feste se mi sorprenderanno di nuovo, e saranno qui da un momento all'altro. Dobbiamo sbrigarci.» Stupita, Lisa guardò l'orologio, rifletté un momento, poi smise di correre. «Va bene, che cos'è?» chiese, mantenendo una ventina di metri di distanza dall'uomo. «Non lo so. Sono stato pagato per trovare il modo di consegnargliela. Tutto qui. La prego, sento arrivare una macchina.» «La posi lì», ordinò lei, «e se ne vada.» Il giovane esitò, poi posò la busta sull'erba accanto alla strada. «Non se la lasci portare via», disse. Quindi si girò allontanandosi di corsa.
Attraverso la calma aria mattutina, Lisa sentì in effetti avvicinarsi una macchina proveniente da casa. Raccolse la busta e corse indietro lungo la strada finché non trovò un boschetto abbastanza fitto per nascondersi. Celata lì, con il respiro affannoso, osservò i due agenti del padre percorrere la strada lentamente. Quando il ronzio del motore si fu affievolito, si era ripresa a sufficienza per aprire la busta della Federal Express. Sulla busta bianca allegata c'era il suo nome annotato in meticolosa grafia femminile. Il biglietto all'interno era battuto a macchina. Cara Lisa, l'uomo che le ha consegnato questa busta non è della Federal Express. L'ho assunto nella speranza che riuscisse a trovare un modo per farle avere la lettera. Il mio nome è Rosa Suarez. Forse mi ricorda, sono l'epidemiologa incaricata dai Centers for Disease Control di studiare i tre casi di DIC al Medical Center di Boston. Ho bisogno del suo aiuto, ma finora non sono riuscita a mettermi in contatto con lei né telefonicamente né per posta. Dopo averle lasciato diversi messaggi telefonici, mi sono accorta che avevano nel frattempo cambiato il numero e che quello nuovo non era disponibile; almeno non per me. Mi sono state rispedite le ricevute di due raccomandate. È possibile che le abbia avute, ma nutro seri dubbi. Non credo che il suo avvocato o suo padre vogliano che senta quello che ho da dirle; e quello che devo chiederle... «Signor Daniels?» «Sì...» «Parla Phelps, Roger Phelps. Sono lieto di averla trovata.» Io no, pensò Matt. Il liquidatore della MMPO poteva essere responsabile di avergli assegnato il caso di Sarah, ma c'era qualcosa in quell'ometto, qualcosa nel suo modo di parlare, forse, o nei suoi occhi, che lo metteva a disagio. «Sì, signor Phelps. Che cosa posso fare per lei?» La scrivania di Matt era coperta da volumi di ricerca, tomi di legge e fotocopie di cartelle cliniche. Nelle due settimane successive avrebbe ricevuto deposizioni da due degli esperti di Mallon, oltre che dalla stessa Lisa Grayson. La parte avversa, vale a dire Mallon, avrebbe interrogato Sarah e Kwong Tian-Wen. Non c'erano state reazioni da parte dell'uomo a seguito della deposizione di Peter Ettinger. Non una parola. Matt aveva quasi sperato che il suo avversario potesse suggerire di lasciare tutto in sospeso fin-
ché non fossero state valutate le affermazioni sul prodotto dimagrante di Ettinger. Ma niente. Sembrava che, malgrado quello che i fatti e le rivelazioni facevano affiorare, Mallon non fosse intimidito. «Signor Daniels», disse Phelps, «innanzitutto voglio ringraziarla per avermi tenuto al corrente degli sviluppi nel caso Baldwin. Ci è stato più facile valutare le cose e prendere una decisione su come procedere.» «Decisione?» «Sì, signor Daniels. Dopo aver accuratamente soppesato tutti gli aspetti e le eventualità del caso, abbiamo deciso di arrivare a un accordo.» «Che cosa?» «Lei ha fatto un ottimo lavoro, e posso assicurarle che in futuro verrà richiesto molto spesso il suo intervento...» «Signor Phelps, mi scusi, ma non capisco.» «Non capisce che cosa, signor Daniels? Abbiamo valutato i costi di continuare, la potenziale proporzione del premio della giuria e la possibilità di perdere. Allora abbiamo preso la decisione di arrivare a un accordo, abbiamo proposto una cifra a Mallon, a nome della sua cliente, e ha accettato. Naturalmente, l'accordo includerà il riconoscimento di non colpevolezza della dottoressa Baldwin.» Matt fissò incredulo il telefono. «Signor Phelps», disse il più pacatamente possibile, «Sarah Baldwin non è colpevole di nessuna negligenza. Ci sono stati degli sviluppi, sviluppi significativi. Vinceremo il caso.» «Ah, la storia della banda cinese. Mi dispiace, signor Daniels, ma abbiamo preso in considerazione anche quella. Stando così le cose, alla giuria non manca che ascoltare quel povero vecchio e...» «Per quanto vi siete accordati?» «Signor Daniels, non c'è bisogno che si irriti.» «Quanto?» «Duecentomila dollari.» «E Willis Grayson ha accettato?» «Così sembra.» «Signor Phelps, Willis Grayson se ne infischia di una cifra simile. Voleva la dottoressa Baldwin dietro le sbarre. Era alla sua pelle che mirava. Perché mai avrebbe acconsentito a un accordo se ritenevano di essere dalla parte della ragione?» «Signor Daniels, la prego. Non ho chiamato per intavolare una discussione. La decisione è già stata presa.»
«E le altre due donne? Che cosa accadrà quando le loro famiglie verranno a saperlo?» «Lo affronteremo quando accadrà. Adesso, se non ha altre domande...» «La dottoressa Baldwin può rifiutarsi di abbandonare il caso.» «Allora sarebbe personalmente responsabile di tutte le spese processuali e della ricompensa alla giuria. Perché diamine vorrebbe arrivare a questo?» «Perché è innocente, ecco perché, dannazione.» «Signor Daniels, so della sua relazione con la dottoressa Baldwin. Se la convincerà a continuare sarò costretto a considerarlo una grave mancanza di etica.» «Che cosa ne sa lei dell'etica legale?» «Sono avvocato e appartengo all'Ordine, signore. Ecco. Spero di aver chiarito la nostra posizione. Per quanto riguarda la Mutual Medical Protective Organization, il caso è chiuso.» Nel corso dei ventitré anni come epidemiologa del governo, Rosa Suarez aveva incontrato segretari di gabinetto, governatori e due vicepresidenti. Aveva tenuto testa a un capo che voleva crocifiggerla e affrontato il sottocomitato congressuale che indagava sulle sue asserzioni. Ma mai si era sentita così intimidita, aveva misurato così le parole, come quella sera con Willis Grayson. L'elicottero della WNG Corporation l'aveva prelevata sul tetto del padiglione di Chirurgia del Medical Center di Boston e aveva poi fatto una gratuita virata sopra l'area scintillante prima di dirigersi a sudest verso Long Island. L'elicottero era più opulento e silenzioso di quanto Rosa avesse immaginato. Il pilota e il copilota erano separati dal resto della cabina da un'anta scorrevole insonorizzata. L'unico altro passeggero dell'elegante compartimento accanto a Rosa era Grayson. I suoi modi gelidi e il suo persistente sguardo torvo sottolineavano che trasferirla da Boston a New York e ritorno solo per prelevare il sangue a sua figlia non era stata una sua idea. Aveva accennato un saluto mentre il suo assistente di volo l'aiutava a salire, poi le aveva fatto cenno di legarsi la cintura. «Non capisco perché abbia insistito a voler prelevare personalmente il sangue a mia figlia quando avrebbe potuto farlo chiunque altro», disse dopo una vaga conversazione. «In situazioni cruciali per il mio lavoro, ho imparato che niente può essere completamente creduto a meno che non l'abbia fatto io.» Il sorriso di Grayson era ironico. «Quest'affermazione la mette al di so-
pra del novanta per cento dei miei dirigenti. Non sembra molto a suo agio. Ha paura di volare?» «No.» Rosa si strinse nelle spalle. «Lei è molto ricco, molto potente e nient'affatto rassicurante.» «Non sono abituato a sentirmi dire quello che devo fare, signora Suarez. A causa della sua lettera e di quella trovata della Federal Express, mia figlia mi impartisce ordini come un generale con cinque stellette. Non mi resta che fare quel che mi chiede, o rischio di perderla di nuovo.» «Signor Grayson, le sue azioni non mi hanno lasciato scelta. Ha firmato la posta indirizzata a Lisa, ha fatto cambiare il numero di telefono per impedirmi di parlarle.» «Ebbene, ora le ho dato il nuovo numero, oltre che la mia promessa di collaborare con lei in quello che mi chiederà.» «Sono sicura che Lisa apprezza molto il significato di queste azioni.» «Lo spero. Ha figli, signora Suarez?» «Tre figlie.» «Se qualcuno facesse del male a una delle sue figlie, lo punirebbe, se potesse, giusto?» «Farei tutto quello che è in mio potere attraverso canali legali per vedere che sia adeguatamente punito, se è questo che intende dire.» «A volte i miei metodi sono più diretti», asserì Grayson. «Oggi mi ha chiamato l'avvocato e mi ha raccomandato di accettare un'offerta da parte della compagnia di assicurazioni per arrivare a un accordo amichevole con la dottoressa Baldwin. In vista delle rivelazioni che riguardano Lisa e questo prodotto dietetico, il mio avvocato ritiene che potremmo non essere in grado di convincere una giuria della colpevolezza della dottoressa Baldwin. Io, tuttavia, rimango del parere che è responsabile della menomazione di mia figlia e della morte di mio nipote.» «È certamente libero di pensarlo, signore.» «Mia figlia non ne è altrettanto certa.» «Basandoci su quanto sappiamo fino a questo punto, non credo che dovrebbe. E neanche lei, se per questo.» «Signora Suarez, che cosa sa esattamente?» Toccò a Rosa sorridere. Guardò le luci che scivolavano via duemila metri sotto di loro. «Signor Grayson», disse. «Ho imparato per esperienza personale che non è saggio discutere con qualcuno circa i risultati di un'indagine ancora in corso, a meno che non sia assolutamente inevitabile.»
«Ah, sì, il suo fallimento di San Francisco.» Rosa si girò a guardarlo. «Lei, signore, è esattamente il genere di persona da cui ho imparato a proteggermi. Non mi piace essere controllata, signor Grayson. Questa sua iniziativa avrebbe potuto mettere a repentaglio il mìo lavoro.» «Le assicuro che la mia gente è famosa per la discrezione. Ha molta pratica.» «Ne sono certa. Ebbene, se sono così bravi, deve capirmi a sufficienza per sapere che non è il caso di continuare questa discussione.» «Quello che so è che il suo caporeparto rimarrebbe sconvolto nell'apprendere come si è miracolosamente ripresa dalla sua ernia del disco, senza tuttavia averlo informato.» Rosa gli lanciò un'occhiataccia, avvampando. «Signor Grayson», disse, «vedo che la sua fama se l'è guadagnata. Ebbene, signore, se desidera abbattere la forza del suo immenso impero finanziario sulla testa di una signora sessantenne, faccia pure. Le assicuro che i guai che mi causerebbe sarebbero ben poca cosa rispetto a quelli che altri mi hanno già causato. Ma ricordi, potrei anch'io causarle dei problemi.» Willis Grayson la studiò per un momento. Poi all'improvviso scoppiò a ridere, allungò una mano e le accarezzò il braccio. «Forse, signora Suarez», disse, «quando avrà completato quest'indagine e si ritirerà a vita privata, potrà prendere in considerazione l'ipotesi di venire a lavorare per me.» 31 25 ottobre Erano le otto e un quarto del mattino quando Sarah s'immise in una delle corsie che portavano fuori città e s'infilò lentamente nel William Callahan Tunnel. «Ovejas», disse Rosa gesticolando verso i guidatori dalle facce cupe che si destreggiavano per conquistare il loro posto in coda. «Pecore.» «È impressionante, specialmente considerando che il traffico dell'ora di punta viene dalla parte opposta», osservò Sarah. Lei e Rosa si stavano recando al Logan Airport a prendere Ken Mulholland. Il viralogo dei CDC, che aveva analizzato il sangue di Lisa Grayson,
aveva scoperto qualcosa. Ma su di lui si erano intensificate le pressioni affinché passasse ogni informazione sui casi di Boston al caporeparto di Rosa Suarez e non l'aiutasse ulteriormente. «Ci sono coinvolti troppi ego», aveva spiegato Rosa. «Il mio capo andrà nella tomba credendo che gli abbia rovinato la carriera. Onestamente penso preferirebbe che questo mistero restasse irrisolto piuttosto che vedermi trovare una soluzione. Ken è diventato immune alle pressioni dei suoi superiori, ma non voglio che si cacci in un guaio. Ha moglie e due figli piccoli che deve mantenere. Ecco perché l'ho pregato di lasciar sbrigare a noi qui più lavoro possibile. È stato in parte coinvolto nel caso BART; alcuni dei rapporti sulle colture che sono stati alterati provenivano dal suo reparto. Da allora ha nutrito come me assai poca fiducia nella politiche del posto. Così si prende una giornata libera per venire a Boston. Ha sistemato le cose con un amico a un terminale di Atlanta. Si collegheranno via tnodem con la banca dati e con il circuito nel suo laboratorio. Ken lavorerà sui computer del suo reparto, ma lo farà in absentia.» «E tutto quello che vuole da noi è una stanza libera con un computer IBM compatibile?» «E un modem.» «In questo caso, siamo a posto», disse Sarah. «Paris ci ha procurato un ufficio nell'unità elaborazione dati.» «Senza fare domande?» «Senza fare domande. Rosa, crede che questo rappresenti qualcosa di significativo?» «Ho continuato a pensare che una sorta di infezione sia la spiegazione più probabile, anche se non la sola, per i casi di DIC. Dunque, sì, credo che questa giornata potrebbe rivelarsi molto interessante e ricca di avvenimenti.» Anche la settimana precedente era stata ricca di avvenimenti. Era iniziata con la decisione a sorpresa del liquidatore Roger Pheips della Mutual Medical Protective Organization di raggiungere un accordo sul caso di Sarah. Poi c'era stato il volo di Rosa a Long Island per prelevare il sangue a Lisa Grayson. E infine, il giorno prima, c'era stata la lettera di Sarah a Pheips; una notifica formale nella quale optava per respingere la cifra di duecentomila dollari proposta dalla MMPO con il riconoscimento di non colpevolezza. O il caso contro di lei veniva completamente abbandonato, oppure sarebbe andata in tribunale a sue spese. Non ci sarebbe stato alcun accordo.
Sarah imboccò la rampa d'uscita che portava all'aeroporto. L'annuvolamento del primo mattino stava iniziando a dissiparsi, la giornata prometteva di essere quasi perfetta. Sarah aveva alcuni incarichi da sbrigare in ambulatorio e del lavoro di ricerca da fare, ma non aveva interventi chirurgici, e aveva deciso di trascorrere più tempo possibile con Rosa e il suo virologo. «Ancora cinque minuti», disse fermandosi di fronte al Delta terminal. «Aspetto qui. Immagino che non avrà bagaglio da ritirare.» «Direi di no. È prenotato sul volo delle tre e cinquanta per Atlanta.» Rosa si precipitò nel terminal. Ne uscì poco dopo, sottobraccio a un giovanotto dalle guance arrossate che era un po' più alto della media, ma accanto a lei sembrava un gigante. Dall'angolo della bocca gli penzolava una pipa di schiuma e assomigliava più a un sindaco di qualche paese della Baviera che a uno scienziato. Quand'ebbero attraversato il Summer Tunnel e furono tornati in città, però, Sarah capì perché Rosa parlava della dedizione di Ken Mulholland con un'ammirazione che rasentava la meraviglia. «Non c'è molto del nostro piccolo amico virus nel sangue della sua signorina», disse Mulholland, «ma è lì, vivo e vegeto. Per ora, finché non abbiamo in mano qualcosa di più scientifico, lo chiameremo George. Anche se avremmo potuto facilmente farne una Georgia. La prima prova che abbiamo avuto è stata indiretta, un anticorpo antivirale che non è uguale a nessuno di quelli che conosciamo. Quest'oggi cercheremo di completare la dissezione chimica del suo DNA. Ma finora è un uguale perfetto della sequenza del DNA del precedente campione di sangue di Lisa Grayson che ci ha mandato. Quanto dista ancora l'ospedale, dottoressa Baldwin?» «Dieci minuti. Meno, a dire il vero. Senta, però, penso che quando mi rivolge la parola qualcuno a cui devo già molta riconoscenza, debba insistere per farmi chiamare Sarah.» «D'accordo. Sarà meglio che impieghi il tempo che ci rimane prima di arrivare alla meta per illustrarvi il background con il quale abbiamo a che fare, e quello che cercheremo di attuare oggi. Sono lieto di aver deciso di occuparmi di questa faccenda quaggiù. Sarà molto più facile per me operare senza dovermi guardare alle spalle ogni due minuti. Ho nascosto il modem sotto un mucchio di carte. Il mio caporeparto o il suo, Rosa, potrebbero trovarsi a un metro e mezzo di distanza senza rendersi conto della fuga di dati.» «Grazie per essersi preso tanta pena», disse Sarah. «Sto solo prendendo precauzioni. Questa donna è una star. È ora che
certa gente laggiù oltre a me lo riconosca. Dunque, non ci sono dubbi che la sua signorina Grayson abbia un'infezione virale di qualche natura.» «Non è un virus comunemente noto?» chiese Rosa. Mulholland scosse la testa. «Improbabile. Finiremo di tracciare il DNA di George non appena potremo servirci del suo computer. Ma anche a questo punto, posso dire che qualunque cosa sia George, non è nei testi che ho controllato. Potrebbe essere tuttavia qualcosa di naturale che non conosciamo ancora, ma ne dubito. Più probabile che si tratti di qualcosa creato dall'uomo. Con un po' di fortuna dovremo saperlo per l'ora di pranzo.» «E poi?» chiese Sarah. «Be', ammettendo di finire la sequenza del nostro DNA e di sospettare che George sia ancora un prodotto dell'uomo e non di Dio, credo che allora sarà tempo di fare un corso accelerato su Diamond contro Chakrabarty.» «Vale a dire?» chiese Sarah. Il virologo annuì rispettosamente verso Rosa Suarez. «Bene», disse, «è a proposito di quelle affamate bestioline batteriche che divorano i leggeri strati d'olio sull'acqua. Penso che, quando arriveremo a questo punto, la dottoressa Rosa le dirà tutto, visto che è lei la responsabile per averlo introdotto nella nostra unità. Prima di poter fare qualcosa con Diamond contro Chakrabarty, però, dovremo avere un quadro biochimico più dettagliato di George.» Sarah aprì il cancello del campus dell'MCB. «Ci andiamo solo per lasciare alcune cose, Joe», mentì. «Usciremo fra mezz'ora. Forse meno.» Trovare parcheggio nel campus recintato non era mai un grosso problema, ma passare accanto all'agente di sicurezza richiedeva spesso astuzia e sfacciataggine. Quella mattina Sarah aveva entrambe. Trovò un posto libero proprio dietro il Thayer Building. «Benvenuto al Medical Center di Boston, dottor Mulholland», disse. Sul lato più lontano del campus, alcuni operai stavano erigendo barriere tutt'intorno al vecchio, cadente Chilton Building. «È quello l'edificio che hanno intenzione di far saltare?» chiese Rosa. «Far crollare, da quello che mi risulta», disse Sarah. «Una implosione, sabato prossimo. Il comunicato stampa dell'ospedale diceva che l'esperto che si occuperà della demolizione è il migliore del mondo. Sostiene che non cadrà neanche un mattone al di là delle barriere.» «Sarà uno spettacolo», osservò Mulholland. «Quasi tutto quel che accade qui intorno è uno spettacolo. Glenn Paris, il
presidente dell'ospedale, è il principale responsabile di quest'atmosfera. Questa volta farà erigere veramente delle tribune. Sta anche raccogliendo denaro con la lotteria: chi vincerà avrà l'onore di essere quello che preme il bottone. Ho comprato anch'io cinque biglietti.» «Sembra molto eccitante», osservò Rosa. «Be', se sarò ancora qui, forse ci verrò con lei.» A mezzogiorno erano prossimi a identificare il virus prodotto dall'uomo che Ken Mulholland aveva chiamato George. Seduta alla sua destra, altrettanto immersa nel puzzle in evoluzione, Rosa Suarez determinava varie probabilità con un calcolatore e prendeva appunti su un blocco giallo. Sarah, sentendosi a volte come una ruota di scorta, andava e veniva, visitando pazienti in ambulatorio e cercando di compiere delle letture per un articolo che stava scrivendo. Tornava nel piccolo ufficio ogni volta con un caffè o una Coca-Cola e una brioche; sempre educatamente rifiutati da Rosa e inevitabilmente trangugiati da Mulholland, che di rado staccava gli occhi dallo schermo per vedere quello che stava mangiando. Era più giovane di Rosa di circa vent'anni, ma era chiaro che i due erano felici di lavorare insieme. Provò un senso di rabbia verso coloro che avevano avuto l'audacia, l'arroganza e l'immoralità di interferire con i risultati ottenuti dall'indagine BART. «Va bene», disse Mulholland, ancora attaccato allo schermo, «questa è la prossima sequenza. A-T, A-T, C-G, A-T.» A-T: adenina e timina; C-G: citosina e guanina. Le basi appaiate di desossiribosio che erano il codice della vita. Dai corsi alla scuola medica, Sarah conosceva i rudimenti della struttura, funzione e riproduzione del DNA. Ma quei due, lavorando con il biochimico amico di Mulholland ad Atlanta, stavano operando nella stratosfera del soggetto. Al collegamento modem ad Atlanta il chimico, una donna di nome Molly, aveva usato specifici enzimi per tagliare il DNA del virus in piccoli segmenti. Quei segmenti erano stati identificati e stavano ora per essere trasmessi dal computer per ricreare il complesso tridimensionale DNA a doppia elica che era, sostanzialmente, il virus. Mulholland e Rosa indugiavano a ogni nuovo set di dati per estendere il modello che stavano costruendo sullo schermo e confrontarlo con una raccolta più ampia di elementi noti. Sarah osservò Ken Mulholland nascosto dietro un panino mentre ripeteva a Rosa l'ultima sequenza di fosfati e unità di desossiribosio.
QUESTO È TUTTO CIÒ CHE HA SCRITTO, KEN. QUELLO CHE HAI È QUELLO CHE È GEORGE. SONO DISTRUTTA... E AFFAMATA. BUONA FORTUNA. MOLLY Il messaggio apparve sullo schermo e fu seguito da una vignetta di Gary Larson in cui due strani scienziati che guardavano attentamente nei loro microscopi erano anch'essi sotto le immense lenti del microscopio di qualcuno. Fu il turno di Rosa alla tastiera. Dopo qualche minuto scosse la testa. «Non qui», disse. Fregandosi gli occhi, Mulholland girò la poltroncina verso Sarah. «George è una specie di adenovirus a cui sono state aggiunte delle parti», disse «È biocostruito», disse Rosa. «No es de Dios. Ora dobbiamo scoprire da chi è stato costruito, e se George non ha niente a che vedere con i casi di DIC.» «Diamond contro...» Sarah avrebbe tentato di pronunciare l'altro nome, ma Mulholland le risparmiò lo sforzo. «Chakrabarty», disse. «Rosa, vuole spiegare lei?» «No, no. Fallo tu, per favore.» «È troppo modesta», disse Mulholland. «Va bene, Diamond contro Chakrabarty è la pietra miliare per brevettare nuove forme di vita. Ananda Chakrabarty era un microbiologo che lavorava per la General Electric. Agli inizi degli anni Settanta alterò geneticamente il batterio naturale Pseudomonas aeruginosa. Il risultante germe biocostituito poteva digerire un certo numero di idrocarburi trovati nel petrolio grezzo, infrangendo legami chimici e trasferendo, in effetti, una disastrosa quantità di olio nel pesce commestibile. La scoperta valeva potenzialmente centinaia di milioni. Ma l'ufficio brevetti degli Stati Uniti si rifiutò di permettergli di brevettare l'animaletto. Nel 1980, la Corte Suprema degli Stati Uniti invertì la decisione, dicendo che in effetti non c'era differenza fra inventare una migliore trappola per topi oppure un miglior mutante.» «In che modo ci aiuta, ora?» chiese Sarah. «Be', potrebbe non aiutarci affatto», rispose Mulholland. «Ma potrebbe anche farlo. Ecco dov'è subentrata Rosa. Con industrie di bioingegneria che spuntano dal mare come funghi, la possibilità dell'insorgere di una malattia causata da una nuova forma di vita sembrava più che possibile. Non è più fantascienza, ormai. In verità, non è più necessario spingerci tanto
lontano in cerca di guai. Così Rosa ha fatto un patto con l'ufficio brevetti degli Stati Uniti affinché dividano con noi i loro dati. Ogni volta che viene brevettata una nuova forma di vita, noi ne otteniamo la descrizione.» «Per legge», spiegò Rosa, «la descrizione brevettata deve essere abbastanza dettagliata perché la forma di vita possa essere identificata e riprodotta da un esperto in materia. Adesso un gran numero di industrie di bioingegneria genetica collabora con noi direttamente sottoponendoci descrizioni dei loro nuovi microbi, e spesso anche del lavoro in corso, in modo da poterli includere nelle nostre banche dati.» «Fantastico», disse Sarah. «Così ora potete attingere alla vostra banca dati di Atlanta e vedere se riuscite a trovare un equivalente. Avete così tante forme di vita nuove in archivio?» «Non può immaginare quante», rispose Mulholland. «Volete fare una pausa prima di iniziare quel controllo?» chiese Sarah. «Dobbiamo considerare almeno un'ora per riaccompagnarla all'aeroporto.» «In questo caso, pranzerò sull'aereo», disse il virologo. «Oppure ho già pranzato? Non importa. Questa parte non dovrebbe prendere troppo tempo infatti, grazie alla promessa di nuove ricchezze, abbiamo convinto lo Zio Sam a investire nel nostro elaboratore elettronico. Rosa, perché non fa gli onori?» «Sería mi placer», rispose la donna. «Quello che faremo, Sarah, è iniziare con i più comuni, in questo caso il tipo di virus inizialmente usato.» Digitò ADENOVIRUS sulla tastiera e lo inserì. «Poi lavoreremo al contrario. Se non si ottiene un equivalente, il gioco è finito. La verità è che il computer potrebbe probabilmente compiere l'intero processo, ma mi piace l'avventura.» «Le piace l'avventura», fece eco riverente Mulholland. Pezzo per pezzo, Rosa inserì la sequenza del DNA di George e chiese all'elaboratore di Atlanta di ricercare un equivalente. Sarah era sbalordita da quanti virus ricombinati c'erano. Rapidamente, però, il numero di equivalenti del loro virus si ridusse sempre di più. «D'accordo», disse Rosa. «La prossima serie di dati dovrebbe essere determinante.» Inserì un'altra sequenza di George, e un secondo più tardi apparve sullo schermo la scritta NESSUN EQUIVALENTE. «Maledizione», mormorò Rosa. Aveva appena pronunciato la parola quando sullo schermo apparve un altro messaggio:
SOSPETTATO ERRORE DI STAMPA. CONTROLLARE IMMISSIONE DATI O RIPETERE RICHIESTA. «Dovremo trovare la programmatrice e darle un aumento», commentò Mulholland. «Non sono mai stata brava a battere a macchina», borbottò Rosa studiando i suoi appunti e reinserendo la sequenza. «La prossima volta lascerò fare tutto al computer.» Dopo pochi secondi, i dati cominciarono ad apparire sullo schermo. SCONOSCIUTO EQUIVALENTE AL NUMERO DI ACCESSO ACX9934452; PROBABILITÀ DI CONFLUENZA 100%. DIGITARE NUMERO DI ACCESSO E VOSTRO CODICE DI SICUREZZA PER CONTINUARE. «Bingo!» esclamò Rosa. Fece come richiedeva l'elaboratore, e quasi istantaneamente George ebbe un nuovo nome... e una casa. CRVL 13 - BIO-VIR CORPORATION, 4256 NEW PARK, CAMBRIDGE, MA 02141; (617) 445-1500; BREVETTO USA # 5.665.297; RDV332.210 (1984) ADENOVIRUS UNITO A TROMBINA-TROMBOPLASTINA PRODUCENTE GENI; POTENZIALE APPLICAZIONE; RAPIDA GUARIGIONE FERITE, EMOSTASI. NESSUNA ULTERIORE INFORMAZIONE DISPONIBILE. Rosa si girò verso Sarah. L'espressione della donna era allo stesso tempo trionfante e cupa. «La trombina», disse, «a meno che non mi sbagli, è anche 'fattore due' nella precipitazione biologica di coagulazione del sangue.» «E la tromboplastina è anch'essa un fattore coagulante», disse eccitata Sarah. «Rosa, è così. So che è così.» Rosa stava già componendo il numero telefonico delle BIO-Vir Corporation. «Be', questo è stato abbastanza facile», disse, dopo una breve conversazione. «Ho un appuntamento domani mattina alle dieci con il dottor Dimi-
tri Athanoulos, presidente della BIO-Vir Corporation.» «Vorrei poter venire con lei», disse Sarah. «Ma ho un caso, e sono di servizio.» «Fortunatamente non ho simili obblighi», commentò Mulholland. «Mia moglie e i miei figli saranno felici che me ne stia un po' alla larga. Non mi perderei questo per nulla al mondo. Quella sua affittacamere ha delle stanze libere?» «Se non ne ha», disse Rosa ammiccando, «dispongo di un letto matrimoniale.» 32 Black Cat Daniels si stava muovendo su ghiaccio molto sottile, e lo sapeva. Sarah aveva respinto la decisione del liquidatore della MMPO, Roger Phelps, di arrivare a un accordo. Tutte le accuse contro di lei dovevano essere ritirate, insistette, né pagata alcuna somma, o sarebbe andata in tribunale a sue spese. E malgrado la relazione sentimentale che si stava intensificando ogni giorno di più fra lui e la sua cliente, Matt aveva scelto di continuare a rappresentarla. La verità era, ammise in quel momento, che avrebbe voluto che fosse tutto finito. In fondo in fondo, avrebbe voluto che Sarah gli avesse semplicemente detto: «Paga quell'uomo. Paga i duecentomila dollari e chiudi il libro. Voglio trascorrere un po' di tempo a conoscere questo mio innamorato senza avere una causa pendente sulle nostre teste». Sulla sua scrivania la sfera di cristallo per predire la fortuna fungeva da fermacarte. Era un regalo di Harry per la festa del papà di alcuni anni addietro. Nelle parti più sensate e pratiche del suo intelletto, Matt sapeva che era un semplice oggetto decorativo, fabbricato e venduto per decenni a milioni di esemplari. E non aveva certamente più capacità premonitrici delle altre. «Vinceremo questa battaglia?» chiese in quel momento, soppesandola nella mano. Se qualcuno venisse a sapere quante decisioni importanti ho preso consultandola, sarei probabilmente radiato dall'albo degli avvocati, pensò. «Richiedimelo dopo», rispose la sfera. Come si aspettava, Roger Phelps era furioso per il fatto che, nonostante la sua offerta di arrivare a un accordo, Sarah avesse scelto di continuare a lottare contro l'accusa di negligenza che le era stata rivolta. La sua ostina-
tezza, sapeva Matt, lasciava nell'incertezza l'MMPO circa i duecentomila dollari da assegnare. Quei dubbi avrebbero indugiato per tutti i mesi, o gli anni, che ci sarebbero voluti perché il caso arrivasse in tribunale. Poi, se Sarah fosse stata costretta a versare una grossa ricompensa alla giuria, Phelps sarebbe diventato eroe per un giorno. Ma se Sarah avesse vinto, Phelps avrebbe anche potuto ricevere uova in faccia per un ammontare di duecentomila dollari. Matt sapeva che la posta che aveva in palio personalmente non era inferiore a quella di Phelps. Innanzitutto, qualora le sue ragioni e la sua etica fossero state messe in discussione, avrebbe dovuto far pagare l'onorario a Sarah per salvare le apparenze. A causa persa, avrebbe potuto essere accusato di aver convinto la sua cliente a continuare per poter fatturare si più; una vittoria, e il meglio che poteva sperare, personalmente, era una pubblicità positiva. In ogni caso, avrebbe intascato anche l'ultimo dollaro dalla causa Grayson contro Baldwin. Inoltre, Matt sapeva che in ogni caso quella sarebbe stata l'ultima causa affidatagli dalla MMPO. A causa dell'insistenza di Phelps per anivarc a un accordo, quella che era iniziata come una grande opportunità per lui era ora finita in una disfatta. Afferrò guantone e palla e cominciò a camminare. Con le sue carte di credito che avevano raggiunto il massimale e buona parte del suo tempo dedicato alla causa di Sarah, far venire Harry per la festa di Ringraziamento o per Natale sarebbe stato finanziariamente un grande sacrificio. Senza l'intervento di Phelps avrebbe potuto vincere il caso di Sarah, continuando a ricevere un buon reddito dal suo lavoro. Perché diamine Phelps non lo aveva lasciato in pace? Le sue spese per difendere Sarah sarebbero rimaste sotto i duecentomila dollari e, a poco a poco, il caso di Mallon si sarebbe sgretolato. Come mai Phelps non era stato in grado di capirlo? Cominciò a ripetersi che qualcosa non quadrava in tutta quella faccenda, qualcosa che già sapeva ma che non riusciva a mettere a fuoco. Come poteva Phelps non pensare che le famiglie di Alethea Worthington e Constanza Hidalgo non avrebbero preteso liquidazioni simili? Era chiaro che sarebbe stato così. Il prezzo della sua mossa non era di duecentomila dollari, bensì di seicentomila. Con il caso che Matt stava cominciando a costruire, e con le possibilità create dalle scoperte di Rosa Suarez, un premio di seicentomila dollari era tutt'altro che un voto di non fiducia. Qualcosa non quadrava.
Camminò avanti e indietro per cinque minuti, sbattendo la vecchia palla contro il guantone. La fonte della sua preoccupazione rimaneva vaga; una nebbiolina che gli turbinava nella mente. Si concentrò sulla deposizione di Peter Ettinger. Aveva trascorso buona parte della giornata, buona parte della settimana, in realtà, a leggere e rileggere il documento. Lo sapeva quasi tutto a memoria. Forse ciò che lo turbava non era Phelps, bensì qualcosa che Ettinger aveva detto. Qualcosa... I colpi della palla contro il guantone erano come fucilate, adesso. Sotto di esso, il palmo di Matt cominciava a bruciare. Che cosa lo turbava tanto? Qualche strana frase nelle risposte di Ettinger? Qualche strano riferimento? Qualcosa... L'interfono suonò. «Signor Daniels», disse Ruth, «sto andando via. Ricorda che avevo detto che avrei dovuto andare via presto?» «Non ricordo, Ruth, ma va bene. Sono sicuro che me l'ha detto. Si diverta.» Ruth è un altro problema che dovrò affrontare, pensò. Era con lui dal primo giorno, e le era affezionato. Ma non si era sforzata di frenare la sua tendenza a chiacchierare troppo con i clienti. Quello che alcuni di loro gli avevano riferito era piuttosto imbarazzante. E poi, da come stavano andando le cose, il suo stipendio sarebbe potuto servire a pagare un biglietto aereo per Harry. Accidenti, Phelps! «Signor Daniels che cosa intendeva dire con 'Si diverta'? Le ho fatto presente che devo andare dal dentista. Nessuno si diverte dal...» «Ruth, ecco!» «Che cosa?» «Il dentista. Ecco! Ecco che cosa mi stava rodendo. Mi chieda un aumento... O meglio, si prenda un altro giorno di libertà.» La segretaria borbottò qualche parola di ringraziamento, ma Matt non la udì. Aveva posato guantone e palla su una sedia e stava di nuovo scorrendo la deposizione. Ma questa volta non era una risposta di Peter Ettinger che cercava. Era qualcosa che aveva detto Jeremy Mallon. Ci impiegò quasi venti minuti, ma alla fine lo trovò. Sapeva che l'avrebbe trovato. DANIELS: Fate anche la spedizione? ETTINGER: In un edificio separato, ma sì. Anche la spedizione viene effettuata da Xanadu.
DANIELS: Signor Ettinger, quanto ricavate da questo prodotto? MALLON: Obiezione! Peter, non risponda. Signor Daniels, la forma e il contenuto di queste domande sono mediocri; in termini di baseball forse capirebbe meglio: da dilettanti. Finora le ho fatto delle concessioni perché, a parte la causa per un molare o qualcosa del genere, questo è il suo primo vero caso di negligenza... Matt prese un evidenziatore giallo dalla scrivania e segnò le parole di Mallon. Come aveva potuto sapere il suo avversario del suo unico caso di negligenza? C'era una risposta a questa domanda che aveva senso. Una soltanto. Afferrò il telefono e fece il numero della Mutual Medical Protective Organization. «Phelps, ascolti. Ho parlato con Sarah Baldwin, e credo che sia disposta a cambiare idea riguardo all'accordo. Che cosa ne direbbe se ci incontrassimo per discutere dei particolari domattina? Alle otto nel mio ufficio? Perfetto, Roger. Magnifico. Sarà un sollievo chiarire finalmente questa faccenda.» Posò il ricevitore e aggiunse: «A cominciare da perché mai ha assunto me». Matt prese di nuovo in mano la sfera di cristallo. «Sono proprio un pollo per non aver capito quello che stavano per combinarmi?» chiese a voce alta. «La risposta è sicuramente sì.» «CRV113 nel sangue di Lisa Grayson all'epoca del suo caso di DIC e tre mesi e mezzo dopo.» Seduta al banco delle infermiere sul piano di Ostetricia, Sarah scribacchiò i caratteri CRV113 su un taccuino. «CRV113, virus creato dall'uomo, costruito anni prima da un laboratorio di Cambridge.» Aveva giri di visite da fare e un certo numero di appunti da prendere, ma l'importante scoperta del virus le rendeva quasi impossibile concentrarsi. Come accadeva da mesi ormai, la maggior parte delle infermiere si tenevano a distanza da lei, sia fisicamente sia emotivamente. Sarah era consapevole della loro freddezza, lo era sempre stata. Ma quel pomeriggio non ne risentiva come in precedenza. I pezzi cominciavano ad andare al loro posto. Stava per avvicinarsi la fine dell'incubo. «CRV113, creato per accelerare la coagulazione del sangue.» Come poteva l'infezione di un simile virus non essere in qualche modo responsabile della DIC di Lisa? «Dottoressa Baldwin?»
L'infermiera che le stava parlando, Joanne Delbanco, aveva più o meno l'età di Sarah. Un tempo andavano piuttosto d'accordo ed erano persino uscite a cena insieme. Adesso non esisteva più conversazione fra loro. Un'altra vittima del CRV113. «Oh, salve, Joanne», disse Sarah con eccessiva allegria. «Dottoressa Baldwin, ha una visita. Una donna. È molto ansiosa di vederla, ed è molto sconvolta. L'ho sistemata nella stanza del medico di guardia. Non vuole dirmi qual è il problema.» «Grazie.» L'infermiera si voltò e si allontanò. La stanza del medico di guardia nel reparto di Ostetricia era in fondo al corridoio. Mentre vi si dirigeva, Sarah passò in rassegna un elenco di donne che avrebbero potuto aspettarla. L'elenco non includeva Annalee Ettinger. «Oh, Dio, sono contenta che tu sia qui», disse Annalee. Era sdraiata sullo stretto lettino, con una camicia da notte e una vestaglia trapuntata. Aveva le ginocchia sollevate. Tracce di lacrime brillavano sulle sue guance. Sarah le sedette accanto e istintivamente posò la mano sul suo addome gravido. Anche attraverso la vestaglia poté sentire la massa solida e irregolare di una contrazione uterina. «Stringimi le mani finché non è finita», disse. «Non avere paura, Annalee. Andrà tutto bene.» Passò quasi un minuto prima che il male cominciasse a diminuire. Durante quel minuto, Sarah fece un calcolo del tempo trascorso dalla loro conversazione alla conferenza stampa del 5 luglio e cercò di determinare a quanti mesi di gravidanza potesse essere. Trentatré settimane, forse trentaquattro, pensò. «Ogni quanto hai le contrazioni?» «Ogni otto o nove minuti», rispose Annalee. «Vanno e vengono da settimane. Ma sono così ormai da dodici ore.» «Ti si sono rotte le acque?» «No.» «Febbre, brividi?» «No.» «Nessun tipo di emorragia?» «No.» «Dov'è Taylor?» «Che tu lo creda o no, è nell'Africa orientale. La band è in giro per altre due settimane. Non ho esattamente idea di dove siano ora. Voleva cancel-
lare la tournée e rimanere a casa perché avevo queste strane contrazioni. Ma io gli ho detto di andare. Sono stata stupida.» «Calma, Annalee. Non essere così dura con te stessa. Hai fatto bene. E Peter?» «Non sa dove sono. Si è rifiutato di accompagnarmi in un ospedale, anche se gli avevo detto che era troppo presto per il parto. Ho finito con il chiamare un'amica e passare dalla finestra della mia camera da letto. Mi ha raccolta per strada e accompagnata qui. Sarah, Peter è pazzo.» Le si riempirono gli occhi di lacrime. «Ha fatto venire quelle due levatrici dal Mali. Mi hanno somministrato una specie di tisana che, a loro dire, avrebbe dovuto fermare il travaglio. Ho fatto il tuo nome una volta, soltanto una, e lui è esploso. Ha detto che se ti avessi rivista, per qualunque ragione, avrei fatto meglio a non tornare a casa.» Sarah prese fra le braccia la donna spaventata e singhiozzante. «Annalee, non pensare a Peter né a nessun'altra cosa. Pensa solo al bambino. Sei sicuramente in travaglio, e sei comunque in anticipo di sei o sette settimane. Partorire ora è preoccupante, ma non drammatico. Idealmente, vorremmo che il bambino restasse dov'è ancora per un paio di settimane.» «Che cosa posso fare? Puoi interrompere il travaglio? Io non ho alcuna assicurazione sanitaria. Peter pagava per... Sarah, credo che ne stia arrivando un'altra.» «Va bene, calma, Annalee», sussurrò di nuovo Sarah, accarezzandole la fronte. «Una contrazione alla volta e una domanda alla volta.» Guardò l'orologio. Sei minuti e mezzo dall'ultima contrazione. Questa volta, rispondendo forse alle parole rassicuranti di Sarah, Annalee chiuse gli occhi e inspirò tranquillamente durante la contrazione. «Annalee, non preoccuparti per l'assicurazione», disse Sarah. «Non preoccuparti di niente. Ti farò ricoverare qui e seguire da uno degli ostetrici del personale. Sto anzi pensando di rivolgermi al primario. Si chiama dottor Snyder.» «Che cosa farà?» «Be', penso che innanzitutto ti farà un trattamento per via endovenosa allo scopo d'interrompere queste contrazioni e prolungare la gravidanza. Dipende, però. Ci sono modi per scoprire non solo a che punto della gravidanza ti trovi, ma anche di quant'è il bambino in termini di sviluppo dei polmoni. Lo stato dei polmoni è la chiave per capire se una donna in travaglio prematuro debba partorire oppure no.» «Potete misurare i polmoni del bambino prima che nasca?»
«Possiamo», rispose Sarah. «Anzi, siamo molto bravi.» Annalee si tirò su e le buttò le braccia al collo. «Sapevo di fare la cosa giusta venendo da te», disse. «Lo sapevo.» Sarah chiamò la centralinista e la pregò di rintracciare Randall Snyder. Poi chiamò l'accettazione e chiese di mandare qualcuno in Ostetricia. Infine, prese un fetoscopio dal gancio della porta e auscultò il ventre di Annalee. «Il bambino sta benissimo», disse dopo circa mezzo minuto. «Benissimo.» «Una bella notizia. Lo sento scalciare. Ti prego, Sarah, non avvertire Peter.» «Ehi, piccola, io lavoro per te. Questo significa che dai tu gli ordini. Forse però dovresti trovare un modo per chiamarlo e fargli sapere che stai bene. Non devi dire dove sei. So che ti vuole molto bene. È me che non sopporta.» «Be', questo è un suo problema. Sai, mentre eri al telefono, ti guardavo e pensavo alle cose incredibili che sai fare. E ricordavo com'eri quando sei venuta a vivere con noi.» «E allora?» «Diciamo che hai fatto molta strada. Molta, molta strada.» Sarah abbracciò di nuovo la donna. A parte l'addome moderatamente prominente e i seni gonfi, non esistevano protuberanze sul suo corpo; né pelle rilasciata o grasso di alcun genere. «Anche tu hai fatto molta strada, Annalee», disse, sforzandosi di nascondere la preoccupazione. «Un'altra cosa, quando hai preso il preparato dimagrante, e per quanto tempo?» «Circa quattro anni fa, e per circa tre mesi. Il dottor Singh aveva già testato il prodotto su un certo numero di persone. Ma prima che Peter acconsentisse ad associare il suo nome a esso, fece prendere il prodotto a una decina di persone che conosceva. Tutti insieme, abbiamo perso mezza tonnellata. Perché? C'è qualcosa che non va a questo proposito?» «No, no. Me lo stavo solo chiedendo. Non c'è niente che non vada. Niente.» «Be', spero di no», disse Annalee. «Perché, secondo le ultime cifre che ho visto, da quando hanno cominciato a vendere il prodotto, circa sette mesi fa, migliaia di persone hanno deciso di utilizzarlo.» «Lo so», disse Sarah, rivedendo un'immacolata bacinella chirurgica e lo scuro braccio amputato di una giovane donna. «Lo so.»
33 26 ottobre Matt arrivò in ufficio alle sette e un quarto del mattino provando il genere di nervosa energia che una volta associava al gioco. Appena alzato aveva corso per quattro chilometri e mezzo, parte dell'esercizio fisico che si era imposto dopo essere stato così surclassato da Sarah a Chinatown. Aveva anche letto diverse pagine di Globe e la pagina sportiva dell'Herald, e passato quindici minuti facendo pratica sul Nintendo con un gioco di baseball. Dopo quattro difficili mesi, i pezzi del puzzle Grayson contro Baldwin cominciavano ad andare a posto. Rosa Suarez e un virologo dei CDC avevano identificato il virus geneticamente alterato che circolava nel sangue di Lisa Grayson e lo avevano rintracciato in un laboratorio al di là del fiume, a Cambridge. Il virus, qualificato come CRV113 della BIO-Vir Corporation, era stato sviluppato per aumentare la coagulazione del sangue e la guarigione delle ferite. Più tardi, quella mattina, Rosa e Ken Mulholland si sarebbero incontrati con il direttore del laboratorio. Il virus della BIOVir avrebbe potuto rivelarsi un bluff per ciò che riguardava il DIC di Lisa Grayson. Ma, dato lo scopo della sua creazione, tale possibilità sembrava remota. E con un po' di fortuna, prima dello scadere dell'ora, un altro pezzo del puzzle sarebbe andato a posto. Matt aveva svolto il suo compito a casa e rivisto mentalmente lo scenario. Adesso era il momento dello show. A meno che non si sbagliasse, Roger Phelps aveva due talloni d'Achille: l'arroganza e la cupidigia. Il trucco era di esporne uno o anche tutti e due senza farglielo capire. Se non ci fosse riuscito, restava sempre il piano B, l'assalto frontale che aveva usato con maestria contro Tommy Sze-to. Sentì una fitta all'inguine al ricordo. Stava prendendo nervosamente il guantone e la palla quando, bussando lievemente alla porta, Phelps entrò nell'anticamera dell'ufficio. «Daniels?» «Qui, Roger. Venga qui.» Il liquidatore batté scherzosamente sulla porta dello studio ed entrò. Malgrado l'aspetto da dandy, Matt sapeva che era calcolatore e intelligente; un uomo da prendere con le molle. Gli offrì un caffè, poi gli fece cenno
di sedere dall'altra parte della scrivania. «Dunque», disse Phelps accomodandosi, «c'è stata un'inversione di rotta, vero?» «La dottoressa Baldwin è spaventata all'idea di un processo.» «Può chiamarla Sarah. Mi sono giunte delle voci su come voi due vi chiamate, uhm, per nome, diciamo.» «Via, Roger, che diamine dovrei rispondere a questa battuta?» «Niente. È molto attraente, anche se un po' maschiaccio. Non la biasimerei di certo qualora se l'intendesse con lei.» «A dire il vero, Roger, questo è un pensiero che mi ha attraversato la mente. Ma mi creda, non accadrà assolutamente niente su questo fronte finché il caso non sarà risolto.» «Astuto. È questa una delle ragioni per cui vuole arrivare a un accordo?» «Forse. Le ho già detto che, francamente, penso che potremmo vincere.» «Be', noi, ovviamente, non ne siamo altrettanto sicuri. Una graziosa giovane donna con un figlio morto e un moncherino al posto del braccio è un argomento molto persuasivo per una giuria. E quando le giurie decidono in favore dei querelanti, tendono a decidere alla grande.» «Capisco.» «Ne sono lieto. Qual è dunque la sua richiesta?» «Nell'interesse della mia cliente, sono disposto ad aderire alla sua proposta di accordo con il riconoscimento di non colpevolezza per la dottoressa Baldwin. Ma sono anche un po' preoccupato per la mia reputazione in tutta questa faccenda. Grayson contro Baldwin è stato un caso di grande risonanza. Se vado in tribunale e vinco, mi assicuro probabilmente lavoro per anni; se non da parte della MMPO, da parte del querelante. Dio sa quanto più denaro si può fare perseguitando i medici che non difendendoli.» «Allora?» «Allora, vorrei una lettera di referenze da parte sua. Magari una specie di anticipo su eventuali prestazioni future.» «Signor Daniels, sa benissimo che non facciamo niente di simile.» «C'è sempre una prima volta. Mi creda, per una cifra equa posso essere conciliante o meno, a seconda di come mi desidera.» Matt vide che la sua osservazione aveva fatto centro. Roger Phelps impallidì visibilmente, ma riacquistò in fretta il controllo. «Credo che farebbe meglio a fermarsi qui», disse. Matt spinse indietro la sedia e si fregò stancamente gli occhi. «Roger, la prego. Ho bisogno del suo aiuto», disse. «È umiliante parlarle così, ma so-
no finanziariamente a terra.» «Credevo fosse una grande star del baseball.» «Mai stato grande, mi creda. Qualche anno fa mi hanno convinto a mettermi nel campo immobiliare, ma non ho sfondato. Sa come vanno queste cose. Adesso mi mantengo a malapena a galla. Così, come le ho detto, ho veramente bisogno di aiuto.» «Mi dispiace, non posso. Niente anticipi. Ma mi ricorderò di lei se si presenterà qualche caso interessante.» Matt vide il sospetto negli occhi dell'uomo. Non sarebbe stato facile coglierlo in fallo. «Vede», disse, «c'è questa domanda che continuo a rivolgermi. 'Perché Roger Phelps ha scelto proprio me per questo caso?' Soprattutto con un avversario come Jeremy Mallon. Perché? Infine, quando la risposta non veniva ma la domanda persisteva, ho cominciato a effettuare qualche controllo. Sapeva che Jeremy Mallon va in tribunale più spesso di qualsiasi altro legale di Boston per casi di negligenza? Si direbbe che quell'uomo non conosca il significato della parola 'accordo'.» «Ma nel nostro caso vuole venire a un accordo», osservò Phelps. «Sa che cos'altro ho appreso?» proseguì Matt come se non avesse sentito. Sperava che se avesse parlato abbastanza in fretta e con abbastanza autorità, Phelps non sarebbe riuscito a capire che stava improvvisando. «Ho appreso che non uno degli avvocati avversari di Mallon in quei processi aveva più esperienza di me in fatto di casi di negligenza. Capisce adesso che cosa intendo dire sull'essere conciliante o meno? Roger, non ho bisogno di una fetta del premio della giuria o di cose del genere. Non sono avido. Un onorario andrà altrettanto bene. Una garanzia che questo lavoro continuerà anche nel futuro.» «Daniels, non accetto bonariamente questo genere di insinuazioni. E poi, quello che sta dicendo è una sciocchezza. Come le ho fatto presente prima, Mallon intende trovare un accordo su questo caso.» «Questo perché perderà», ribatté Matt con gelida calma. «Lo sa lui e lo sa anche lei. Roger, se lo ficchi bene in testa. Non voglio metterla in croce, voglio lavorare con lei. Ho bisogno di lavorare con lei.» Phelps lo osservò per un momento, soppesando chiaramente le variabili, poi disse: «Va' al diavolo!» Vaffanculo, pensò Matt. Si stava avvicinando al piano B. Si alzò, infilò il guantone e cominciò a sbatacchiare la palla che teneva in tasca. «La prova è là fuori, Roger», disse. «Qualsiasi investigatore legale con
un briciolo di cervello in testa farà uno più uno e arriverà a lei.» Cominciò a sbattere la palla con più forza. «Che porzione di torta le riserva Jeremy Mallon? Il quindici per cento?» «Daniels, lei è pazzo.» «Il venti? Il venticinque? Mallon sapeva del dentista, Rog, il mio unico caso di negligenza. Ne ho parlato con un paio di persone all'ospedale, ma odiano tutti Mallon. Non gliel'avrebbero mai detto. È stato lei, Rog. Mallon aveva bisogno di un altro zimbello per riconquistarsi il premio della giuria, e lei gliel'ha fornito.» Girò la schiena al liquidatore. Stava completamente improvvisando, ma non aveva importanza. «Non ha nessuna fottutissima prova. Neanche mezza...» Matt si girò e senza un attimo di esitazione lanciò la palla verso la testa del liquidatore. L'uomo non ebbe il tempo di reagire. La palla gli sfrecciò accanto, a due centimetri dall'orecchio, e mandò in frantumi il vetro di un'immensa stampa con il panorama di Boston a notte fonda. La palla stava già rimbalzando indietro verso Matt quando Phelps si buttò sul tappeto. «Gesù!» gridò. «È veramente pazzo!» «Ma, fortunatamente, sono anche molto preciso.» Matt raccolse la palla con la mano nuda e la lanciò sulla sedia che Phelps aveva appena lasciato libera. Il sedile di legno di ciliegio esplose come balsa. «Adesso mi dica, Roger. Quanto la paga Mallon?» Phelps cercò di rimettersi in piedi, ma Matt lo respinse facilmente sul pavimento. Raccolse di nuovo la palla e indietreggiò attraverso l'ufficio. Il liquidatore si stava rannicchiando contro la scrivania. «Sono molto preciso, Rog», disse. «Ma le prometto che continuerò a giocare finché non mancherò il colpo; o non rimarrò privo di mobili. Ha tentato di farmi passare per scemo, ma per sua sfortuna, questa volta non ha funzionato. Adesso voglio partecipare a questo piccolo imbroglio che lei e Mallon state imbastendo.» «Va' al diavolo!» gridò di nuovo Phelps. «Va bene, credo che questo sarà un full windup», disse con un'intonazione da cronaca. In genere è una mossa che si usa poco. Devo fare pratica. E non ho granché bisogno di quel fermacarte proprio lì accanto alla sua testa.» «Lei è pazzo!» «Ecco... Ecco il windup di Daniels.»
«Un momento! Stia calmo.» «Rimanga lì, Rog», disse Matt, congelando le braccia con guantone e palla all'altezza della spalla. «Parliamo.» «Va bene, va bene. Ha ragione. Mallon e io abbiamo un accordo. Mi fa sapere quando gli arriva un buon caso, e io gli assegno un...» «Continui. Lo dica, Rog: un perdente.» «Un avvocato inesperto come avversario.» «E poi si rifiuta di venire a un accordo e insiste per il premio della giuria. Oh, è bravo, Rog. Molto bravo. Mallon ha mai perso uno di questi casi?» «Mai.» «Finora. Quanto prende?» «Questi non sono affari suoi. Adesso mi lasci in pace.» «La tensione è così densa, fan del baseball, che potreste tagliarla con il coltello.» Matt adottò di nuovo l'intonazione da telecronista. «Daniels sta per effettuare il windup...» «Un terzo del quaranta per cento di Mallon», si affrettò ad aggiungere Phelps. Matt abbassò il guantone. «Questo può quadrare!» L'assicuratore si rimise in piedi, spazzolandosi via le schegge di legno e di vetro dall'abito. «Senta», gli disse, «se vuole entrarci, farò in modo di farla entrare. Mi conceda qualche giorno per chiarire i dettagli.» Matt sfilò la mano dal guantone. «Ho la sua parola?» «Sì, sì. Ha la mia parola. È realmente pazzo, lo sa?» «Voglio avere sue notizie entro la settimana, Rog.» «Stia calmo.» «Starò calmo. Starò calmo.» Phelps indietreggiò verso la porta. «Dico sul serio», fece. «Stia calmo.» «Roger, perché non comincia a darmi qualche briciola di questo premio? Offre duecentomila dollari. Può darsi che Mallon rappresenti le altre due famiglie e raggiunga lo stesso accordo. Che cosa ne direbbe di darmi la metà del suo terzo del quaranta per cento di Mallon? Sarebbero, vediamo, quarantamila.» «Va bene, va bene. Dopo che saranno conclusi tutti e tre i casi. Adesso mi lasci andare via.» «Vada pure», disse semplicemente Matt.
«Così?» «Così. Sono sicuro che se dice che abbiamo fatto un accordo, l'abbiamo fatto.» Matt attese finché Phelps non ebbe aperto la porta dell'ufficio, poi aggiunse: «Naturalmente, dovrò addebitarle altri due dollari e novantotto centesimi per la sua copia del nastro souvenir». Con un largo sorriso, aprì la giacca. Il registratore in miniatura era appeso alla cintura, proprio accanto alla zampa di coniglio e al nastrino azzurro. Il dottor Dimitri Athanoulos, il presidente della BIO-Vir, accolse cordialmente Rosa Suarez e Ken Mulholland. Il suo ufficio era al quarto piano di un bell'edificio sulla sponda del fiume, uno di quei palazzi in vetro e mattoni dell'inizio degli anni Ottanta. Era sulla cinquantina inoltrata, notò Rosa, bello e cortese. I folti capelli ondulati erano del colore del suo camice da laboratorio. «Siete dunque entrambi dei Centres for Disease Control?» «Sì», rispose Rosa. «Sono un'epidemiologa. Ken è un microbiologo.» «Un virologo, se non vado errando.» «Qualcuno dice così.» «Da Duke.» «Questo è stato dodici anni fa», spiegò Mulholland, chiaramente colpito. «Se ricordo correttamente, lei ha svolto un magnifico lavoro sul fago che infetta il tabacco.» «Accarezzi il mio ego e sono suo», osservò Mulholland. «Be', io sono un biochimico del DNA, principalmente», aggiunse Athanoulos. «Ma ho sempre nutrito interesse per i virus e la bacteriofagia. Da quando ho lasciato l'Accademia tre anni fa per diventare direttore qui, il mio interesse per entrambi si è intensificato.» Rosa, notando come i due uomini avessero legato in fretta, sentiva che il capo della BIO-Vir, cortese o non cortese, tendeva a prendere gli uomini più seriamente delle donne. La decisione di Ken di trattenersi per la notte si stava rivelando un'altra grossa opportunità per le indagini. Sedette pazientemente per altri cinque minuti durante la conversazione a carattere scientifico dei due, poi si alzò e si schiarì la gola. Athanoulos capì al volo. «Dunque», disse, «che cosa può fare la BIO-Vir per i nostri amici di Atlanta?» «Sono a Boston da oltre quattro mesi ormai», dichiarò Rosa, «per svolgere delle indagini su tre insoliti casi di ostetricia al Medical Center.» «La giovane interna che ha somministrato erbe tossiche alle pazienti,
giusto?» Rosa sospirò. «La potencia de la prensa», commentò. «Il potere della stampa. Dottor Athanoulos, nonostante quello che lei o milioni di altri abbiate letto, non direi che queste erbe svolgono un ruolo così importante nel dramma. Sebbene debba aggiungere che la possibilità rimane. Ken, vuoi illustrare gli studi fatti finora?» «Dimitri», disse Mulholland, «la nostra qui presente Rosa è troppo modesta per ammetterlo, ma ha svolto un ottimo lavoro nella valutazione di questi casi. Per molti anni è stata la persona migliore in campo ai CDC.» «Continui.» «Mi ha mandato del sangue di una delle vittime di questa DIC, la paziente che è sopravvissuta. Abbiamo organizzato una coltura virale e identificato un anticorpo indicativo dell'infezione sopita. Ieri abbiamo finito di sequenziare il DNA del virus. La sua composizione equivale a un virus costruito qui, nel suo laboratorio.» Le folte sopracciglia bianche di Athanoulos s'inarcarono lievemente. Mulholland gli passò la copia che descriveva il CRV113, e il direttore del laboratorio vi diede un'occhiata. «Venite», disse alzandosi bruscamente. «Facciamo due passi fino all'unità dei nostri primati. Non so assolutamente niente di questo CRV113. La data del brevetto è precedente al mio arrivo qui. E ammesso che un tempo ce ne interessassimo, adesso non ci interessiamo più a questi virus. Ne sono assolutamente certo. Da quando sono arrivato io, ci siamo specializzati nella costruzione di virus che producono gammaglobulina e virus che producono alcuni ormoni. Ma niente di tutto questo. Cletus Collins si occupa dei primati che usiamo da quando è stato aperto il BIO-Vir negli anni Ottanta. Se c'è qualcuno che può sapere qualcosa di questo CRV113, quello è lui.» Presero l'ascensore e scesero nel seminterrato. Ancora prima che si aprissero le porte, Rosa sentì odore di animali. Il corridoio, pressoché silenzioso fuori dell'ascensore, era isolato da vetro molto spesso. Dietro al vetro c'erano tre lunghe file di gabbie, occupata ognuna da una scimmia. Un vecchio dalle spalle ricurve stava fregando il pavimento di fronte alle gabbie. Athanoulos batté sul vetro. «Dov'è Clete?» chiese. Il vecchio, leggendogli sulle labbra, si sforzò di capire la domanda, poi sorrise. Puntò il dito verso il fondo del corridoio e farfugliò qualcosa che a Rosa sembrò «sala di registrazione». Athanoulos aprì la porta in fondo al
corridoio e i tre entrarono in una gabbia di vetro, di un metro e mezzo per tre. Intorno alla gabbia c'era un enorme locale a due piani, pieno di giocattoli, corde, rami e scale per arrampicarsi. Al centro della stanza, con un bel scimpanzé sulle spalle e un altro più piccolo aggrappato alla gamba, c'era Cletus Collins. Rosa notò che l'uomo, con i lineamenti e il portamento scimmiesco, avrebbe quasi potuto passare per uno dei suoi protetti. Ken Mulholland aveva chiaramente fatto la stessa considerazione. «Straordinario», mormorò. «Sì, vero?» fece Athanoulos. «Mi sorprende che lo lasci vivere così in comunione con i primati.» «Per via dei virus che possono trasmettere gli animali? Le assicuro, Ken, che dopo tanti anni, ogni virus che hanno loro ce l'ha anche lui.» Poi parlò nell'interfono sul muro. «Clete, le possiamo parlare per un minuto?» L'uomo si liberò delle scimmie, venne avanti e accettò le presentazioni degli ospiti di Atlanta. Una certa preoccupazione oscurava il suo stranissimo volto. «Noi li facciamo esercitare bene, molto bene questi animali», disse. «Ogni giorno. Io mi curo di loro come se fossero miei parenti. Gliel'assicuro.» «Signor Collins, non siamo dell'Associazione per i diritti degli animali», intervenne Rosa. «Stiamo cercando di raccogliere dati su una ricerca che è stata effettuata qui su un virus chiamato CRV113. Aveva a che fare con i...» «Coaguli. So a quale lavoro si riferisce.» «Ci sono degli schedari?» chiese Athanoulos. «Chissà? Dovrebbero essercene. Almeno le cartelle cliniche degli animali. Probabilmente nei vecchi armadietti di metallo dell'archivio presso la sala delle caldaie.» «Non sapevo neppure che ci fosse quella sala o che esistessero quegli schedari.» «Progetti abbandonati, perlopiù. Nessuno se n'è mai interessato molto.» «Io invece sono molto interessato. Potrebbe condurci lì, Clete?» «Certamente. Aspettate nel corridoio esterno mentre risistemo i ragazzi nelle gabbie. Vi morderebbero o vi graffierebbero la faccia. Fanno così con tutti tranne che con me e il vecchio Stan che pulisce le gabbie.» I tre scienziati osservarono dal vetro di protezione l'uomo che faceva rientrare gli animali nelle gabbie. Rosa avrebbe giurato che poco prima di lasciargli il collo, uno di essi gli avesse dato un bacio sulla guancia. «Mi piaceva Fezler», disse Collins guidando i tre verso lo stanzino, «ma
odiavo quello che i suoi maledetti esperimenti facevano alle mie scimmie. È sicura di non appartenere a una di quelle associazioni per gli animali? Mi creda, mi prendo molta cura di questi ragazzi. Molta cura. È doloroso per me quando... be', sa, quando non ce la fanno.» «Non ha nulla di cui preoccuparsi», disse Rosa. «Chi è Fezler?» Collins staccò la chiave dell'archivio da un anello che ne conteneva un centinaio. «Warren Fezler. Il CRV113 è stato uno dei suoi progetti. Ne aveva circa una decina, pareva. Non uno ha funzionato, da quello che mi risulta. Peccato che il suo lavoro non riguardasse il modo di uccidere le scimmie. Avrebbe avuto molto successo, allora.» La risata catarrosa di Collins fu interrotta da un colpo di tosse. Rosa indietreggiò istintivamente di un passo. Si chiese quante malattie legate al lavoro avesse potuto contrarre negli anni. Accese la luce, rivelando una piccola stanza completamente spoglia fuorché per una decina di armadietti. «Fezler non era il miglior archivista del mondo», osservò, «ma era un gran lavoratore. Fine settimana, due del mattino, vacanze... Se ne fregava, il vecchio Warren.» «Sono solo il direttore qui», farfugliò Athanoulos, chiaramente sgomento. «Perché dovrei sapere che esiste questa stanza? O che una volta avevamo alle nostre dipendenze un assassino di scimmie di nome Fezler?» «Cos'accadeva alle scimmie?» chiese Rosa mentre Collins usava una delle sue chiavi per aprire un armadietto. «Si ammalavano e morivano. Fezler le anestetizzava, poi usava il bisturi in strani modi e prelevava loro il sangue. Quindi stava a vedere come si rimarginavano le ferite, e in quanto tempo.» Tentò di aprire un cassetto senza riuscirci, e passò a un altro. «Siete sicuri di non essere di quei gruppi di animalisti?» «Sicurissima», rispose Rosa. «Bene, non so dirle esattamente che cosa accadesse alle scimmie. Ma si raggrinzivano e morivano. Non veniva fatto apposta, però. Questo ve l'assicuro.» Sfogliò fra i registri nel cassetto, poi passò a un altro. «A Fezler piacevano le scimmie, e a loro piaceva lui. Era l'unico oltre a me e a Stan che amassero veramente. Portava sempre indumenti protettivi quando era con loro. Ma indumenti protettivi o meno, non l'hanno mai morso. Giocavano con lui come giocano con me. A loro piaceva saltargli sulla pancia. E, mi creda, aveva una grossa pancia. Forse avevano l'impressione di giocare con uno di loro.»
La sua risata fu di nuovo interrotta da un colpo di tosse. «Gli schedari?» chiese Athanoulos, ancora irritato e anche un po' impaziente, adesso. «Non ci sono. Eppure c'è scritto che dovrebbero esserci. È la mia grafia.» «Non potrebbero essere da qualche altra parte?» «Se è questo che pensa, non mi conosce. Guarderò, ci vorrà un po' di tempo, ma guarderò.» «Lo faccia, per favore», disse Athanoulos. «Chiederò anche ad altri scienziati e tecnici di laboratorio.» «E anche al personale», suggerì Rosa. «Clete, sa per caso quando e perché Warren Fezler ha lasciato la BIO-Vir?» «Direi che sono passati almeno sei anni, forse di più. Ma non sono certo del perché. Penso che si fosse ammalato.» «Perché dice questo?» «Non lo so di sicuro.» Si fregò il mento come avrebbe potuto fare uno dei suoi protetti. «Dall'uomo grassoccio di un tempo era diventato solo pelle e ossa. Ecco perché. Le scimmie smisero di saltare su di lui perché, a essere sinceri, non c'era più molto su cui saltare.» Rosa e Mulholland si scambiarono una rapida occhiata. La sera prima, lei lo aveva informato del contenuto del diario di Constanza Hidalgo e della scoperta che Connie, Alethea Worthington e Lisa Grayson erano tutte molto dimagrite. «Cercherò di sapere ciò che posso su quest'incredibile uomo che dimagriva sempre di più e il suo lavoro», promise Athanoulos mentre lasciavano lo stanzino e percorrevano il corridoio. «E ve lo comunicherò appena possibile.» «Molto gentile», osservò Rosa, assente. Dietro ai grandi vetri, i suoi occhi scuri si serrarono cercando di collegare alcuni pensieri. Avevano raggiunto l'ascensore quando si fermò bruscamente, si girò e chiamò Cletus Collins. «Clete, mi dica una cosa. Ricorda qualcos'altro su Warren Fezler? Qualcosa d'insolito?» «Non capisco che cosa voglia dire...» L'uomo scoppiò a ridere. «Oh, sì», disse. «Credo di sapere a che cosa sta alludendo. Era il modo in cui parlava. Non riusciva a pronunciare bene le parole, specialmente quando era turbato o qualcosa del genere. Non riesco a trovare la parola giusta...» «Capisco», fece Rosa decisa. «Balbettava, forse?»
«Sì, ecco», disse Clete Collins. «Balbettava. Balbettava paurosamente.» 34 27 ottobre «Tutto bene, dunque», disse Sarah, «questa è una delle nostre due sale parto. Per le donne che lo desiderano, e che non presentano rischi o complicazioni, abbiamo anche una sala parto che è un po' meno formale. Ve la faccio vedere dopo.» Gli studenti del terzo anno di Medicina si scossero nervosamente mentre guardavano le attrezzature monitorate, le luccicanti apparecchiature per l'anestesia e il lettino per il parto. Prima che il loro internato di dieci settimane al reparto di Ostetricia e ginecologia si concludesse, avrebbero effettuato ognuno un parto senza assistenza dall'inizio alla fine; magari anche più di uno. La rotazione all'MCB offriva più responsabilità e più opportunità cliniche di quante ne offrissero gli altri ospedali, e di conseguenza era molto ambita. Uno dei compiti di Sarah, quale futuro primario, era la supervisione degli studenti. «Nessuna domanda, finora?» chiese. «Eseguite parti in casa?» domandò uno studente. «Due di noi eseguono parti in casa con l'aiuto di una persona dello staff qualora ci siano problemi.» Non valeva la pena di aggiungere che le era stato richiesto dal primario in carica di non eseguire altri parti in casa finché non fossero state chiarite le accuse rivoltele. «Ho sentito parlare di lei», disse un secondo studente. «Mi interessano molto le terapie alternative. Insegna agopuntura?» «Temo di non averne il tempo durante i corsi convenzionati, ma mi raggiunga pure nell'ambulatorio di Terapia del dolore. Le farò avere i miei orari. Qualcos'altro prima che ci spostiamo nell'ambulatorio specialistico?» «Sì», rispose un terzo studente, indicando il corridoio. «L'uomo che è appena uscito da quella stanza, non è il tizio del metodo dimagrante a base di erbe che si vede alla televisione?» Sarah si girò di colpo. Peter Ettinger era appena uscito dalla stanza di Annalee e stava venendo verso di lei. I pugni stretti lungo i fianchi, il volto paonazzo e così teso e rabbuiato che sembrava stesse ringhiando. Gli studenti indietreggiarono di un passo. Sarah si sforzò di rimanere dov'era.
«Perché non mi hai chiamato?» scattò Ettinger. «Perché ho dovuto cercarla in tutta la città prima di trovarla qui?» «Se desideri parlarmi, credo sia meglio farlo nel mio ufficio», disse Sarah. «Non c'è bisogno di parlare. Voglio che mia figlia venga dimessa immediatamente da... questo pseudospedale. Che cosa le hai somministrato?» «Peter, ti prego. Andiamo da qualche parte e sediamoci a discutere da adulti.» Ettinger guardò gli studenti. «Che cosa ti succede?» le chiese. «Hai paura che queste menti vergini si insudicino nel venire a sapere quello che fai ai tuoi pazienti? Di' loro quello che sta succedendo. Di' loro esattamente che cosa metti nella fleboclisi di mia figlia. Su, diglielo. Ascolterò anch'io.» Sarah si morse il labbro inferiore e cercò di pensare a un modo per venirne fuori alla meno peggio. Non poteva competere con l'intensità, la rabbia e il carisma di Peter. A pochi metri di distanza, due infermiere si erano fermate a guardare. Forse perché riconobbero Peter o sentirono il disagio di Sarah, nessuna delle due intervenne. Lei fece un profondo respiro per calmarsi e si rivolse ai suoi studenti. Lo vuoi, Peter? Eccoti servito. «La figlia del signor Ettinger, Annalee, è una ventitreenne alla prima gravidanza», disse calma. «La data del suo ultimo ciclo mestruale è incerta, ma dall'ecografia e altri studi, sembra essere di trenta settimane. Il feto è femminile, approssimativamente di duecentoquaranta grammi. Annalee è stata ricoverata in questo reparto due giorni fa in travaglio prematuro, con contrazioni che variavano dai quindici ai sette minuti l'una dall'altra. Le membrane sono intatte, la cervice è chiusa e non mostra alcun segno d'infezione. Un'amniocentesi effettuata ieri ha dischiuso i livelli di surfattante fetale, che sono un po' sotto il normale. Questo significa che i polmoni del bambino dovrebbero farcela, se partorisse ora. Ma più riusciamo a ritardare il parto e più le possibilità del bambino aumentano.» Si voltò lievemente verso Peter, grata che le avesse concesso di arrivare fin lì. «Il dottor Snyder, il suo medico personale, primario del reparto di Ostetricia e ginecologia», continuò, «sta tentando di arrestare il travaglio con terbutalina. Finora ha vagamente reagito al trattamento, sebbene continui ad avere regolari contrazioni uterine. Adesso, signor Ettinger, se vuole scusarci, dobbiamo fare una visita agli ambulatori specialistici. Il dottor
Snyder è in ospedale. Se desidera rivolgere altre domande, le consiglio di mettersi in contatto con lui.» «Ho chiamato un'ambulanza», disse Ettinger. «Ho discusso della situazione con mia figlia. Desidera lasciare immediatamente quest'ospedale. Sto prendendo accordi perché venga visitata al White Memorial prima di ritornare a casa con me.» Sarah era sbalordita. «Non credo che acconsentirebbe.» «Chiediglielo se vuoi», disse Ettinger malignamente. Guardò i tre studenti con un certo disprezzo. «Le risposte non sono nei vostri bei libri o nei vostri cervelli», disse. «Sono nella mente e nello spirito dei vostri pazienti. Tenete le vostre menti aperte a questo e capirete quello che voglio dire. E quando un giorno un vostro superiore vi dirà di somministrare a un paziente questo o quel medicamento che un rappresentante farmaceutico l'ha convinto a usare, voi vi girerete verso di lui e gli chiederete: 'Perché?'» «Signor Ettinger, sono sicura che questi studenti sono lieti di aver sentito i suoi punti di vista sulla loro professione», disse Sarah, esasperata. «Adesso, la prego, voglia scusarmi. Devo andare a parlare con Annalee. Da sola. Se si rifiuta di permettermi di farlo, chiamo la Sicurezza.» «Faccia pure», disse Ettinger sussiegoso. «Dubito che riuscirà a farle cambiare di nuovo idea. Una volta convinta che vuole andarsene da questo posto, voglio che le dimissioni siano messe per iscritto.» Gli studenti si scambiarono occhiate sgomente e imbarazzate. Anche Sarah era sorpresa che Ettinger trasudasse tanta sicurezza. Si chiedeva che cos'avesse detto ad Annalee; che cosa le avesse promesso per convincerla ad abbandonare l'MCB. Doveva essere parecchio. Altrimenti era impossibile capire... In quel momento Annalee Ettinger cominciò a gridare. «Oh, mio Dio, aiuto! Oh, Dio, per favore! Per favore, aiutatemi!» Le due infermiere, Sarah ed Ettinger si precipitarono verso la stanza, con dietro i tre studenti. Le grida di Annalee riempivano il corridoio. Sarah entrò per prima. Annalee, appoggiata su un fianco, scalciava e gemeva penosamente. La flebo era stata strappata e il sangue, che fluiva copiosamente dall'accesso venoso, stava inzuppando il lenzuolo e formando una grossa macchia rossa. «Le mie mani», gridò. «Le mie mani mi stanno uccidendo. Tutt'e due.» «Chiamate il dottor Snyder», ordinò Sarah. Infilò i guanti, afferrò una salvietta ed esercitò una certa pressione sull'accesso venoso, sforzandosi di tenere Annalee sdraiata sul fianco, perché l'utero gonfio di liquido non
comprimesse l'arteria principale e le vene dell'addome. «Susie, prepari un altro accesso venoso per favore», ordinò Sarah con calma forzata. «Che cosa sta succedendo qui?» chiese Peter. «Che cos'è questa storia delle mani?» «Le mie mani, le mie mani», continuava a gemere Annalee. Sarah riusciva a vedere la carne sotto le unghie della ragazza: i letti ungueali erano scuri. Le dita avevano ancora un certo movimento, ma erano immobilizzate in una specie di artiglio protettivo. «Ho appena richiamato il dottor Snyder», disse ansimante l'infermiera. «Viene subito. È in laboratorio. Qui ci sono cinquanta unità di Demerol e cinquanta di Vistaril. Ha detto di somministrarglieli per intramuscolare se non sanguina troppo. Altrimenti trentacinque di Demerol per infusione. Le portano il monitor fetale.» Un rivoletto di sangue cominciò a fluire da una narice. «Prepariamo l'accesso venoso adesso», disse Sarah. «Anche un termometro. Per me è calda. Molto calda.» «Ho chiesto di sapere che cosa sta succedendo», ripeté Ettinger. Sarah lo guardò torva. «Sta male. Lo puoi vedere anche tu. Eri qui con lei. Non ti sei accorto che qualcosa non andava?» «Io... lei... uhm... Ha detto che aveva mal di testa e le braccia pesanti.» «Oh, tutto qui?» fece irritata Sarah. «Peter, per favore, aspetta in corridoio e lasciaci lavorare.» «Voglio che ci sia qui il suo medico personale.» «Susie, vuole per favore chiamare la Sicurezza...» «Va bene, me ne vado. Ma starò qui fuori. E ascolterò.» «Mi dispiace di essere così frignona», disse Annalee. «Ma fa male. Molto male.» Nei minuti successivi, il caos organizzato che solitamente ha luogo durante una crisi in ospedale, si intensificò. Sarah e le infermiere non riuscivano a impedire ad Annalee di contorcersi, ma con compostezza, lavoro di squadra e abilità, riuscirono a preparare l'accesso venoso. Prima di somministrarle Ringer lattato, Sarah usò l'accesso per estrarre una grossa siringa di sangue da mandare in laboratorio. Un accesso in meno di cui preoccuparsi, un punto che non avrebbe sanguinato. Le era appena stata fatta l'iniezione calmante di Demerol quando entrò nella stanza Randall Snyder, che prese immediatamente in mano la situazione.
«Oh, no», sussurrò, ma non abbastanza piano. «L'ho vista quarantacinque minuti fa e stava bene», disse Sarah. «C'è qui suo padre. È fuori in corridoio.» «Lo so. L'ho visto.» «Era qui con lei quindici minuti fa. Si lamentava di un mal di testa e di pesantezza alle braccia. Poi, a un tratto, ha cominciato a gridare. I prelievi sono già stati fatti. Ho ordinato quattro unità di sangue compatibile.» «Facciamo otto», disse lui. «Cielo, sta bruciando.» C'era malcelato e insolito panico nella sua voce. «Ha quasi quaranta. Gliel'abbiamo appena misurata», disse Sarah. «Ho chiamato il dottor Blankenship. Dovrebbe essere qui a momenti.» «Bene, Annalee. Senti? Tieni duro. Ti abbiamo appena dato qualcosa per il dolore. Ti sentirai meglio, fra poco.» Sarah le asciugò nuovamente la fronte e il rivolo di sangue che le scorreva sul volto, che si riformò subito. «Mi dispiace di essere così bambina», singhiozzò di nuovo Annalee. «Ma le mani mi fanno molto male. E adesso cominciano anche i piedi. Che cosa mi sta succedendo?» «Non lo so ancora», disse Sarah. «E smettila di scusarti. Sei incredibilmente coraggiosa. Sta per arrivare un internista ad aiutarci.» «Sarah», domandò Snyder, «ha preso il suo preparato prenatale?» Sarah scosse il capo. «Ma ha preso quello che ho annotato sulla sua cartella clinica», rispose piano. «Quattro anni fa.» Annalee cominciava a respirare meglio. Si girò su un fianco. Le sue pupille ristrette dicevano che il Demerol stava facendo effetto. «È questo che è successo alle altre donne, vero?» chiese. «Quelle che sono morte.» «Non lo sappiamo», mentì Sarah. «Annalee, stiamo facendo il possibile per affrontare quanto ti sta succedendo. Stiamo anche tenendo d'occhio il bambino. Se ci fossero complicazioni, siamo pronti per intervenire con un cesareo.» Guardò il monitor. «Qualcuno può chiamare di nuovo il dottor Blankenship?» Dopo qualche secondo, il medico entrò nella stanza. «Che cosa fa Ettinger là fuori?» chiese. «Annalee è sua figlia», rispose Sarah. «Annalee, questo è il dottor Blankenship, il primario di Medicina.» «Ci siamo già conosciuti», rispose lui. «L'ho vista poco tempo fa. Annalee fa parte del programma di studio che abbiamo istituito: preleviamo
quotidianamente sangue a ogni paziente di Ostetricia. Il suo nome da sposata è Barnes?» Annalee scosse la testa. «Abbiamo scelto quel nome perché suo padre non approva gli ospedali», disse Sarah. «Specialmente il nostro. Annalee non voleva che potesse rintracciarla. Ma, chissà come, l'ha rintracciata lo stesso.» «E presto molta attenzione a quello che sta avvenendo qui», disse Peter dalla soglia. «Be', lei non s'intrometta», scattò Blankenship mentre cominciava il suo esame. «Peter, per favore», disse Annalee. «Fa' come dice. I medicinali stanno facendo effetto. Le mie mani vanno meglio.» «Grazie per averglielo detto», disse Blankenship. «Le prometto che uscirò a parlare con lui non appena sarò in grado di capire quello che sta succedendo.» Il sangue aveva ricominciato a scorrere da entrambe le narici. «Dannazione», sussurrò Snyder. «Eli?» «Tylenol rettale, aumentate la velocità della flebo e accertatevi che in laboratorio eseguano immediatamente le analisi», proseguì Blankenship. «Controllate la pressione e il polso ogni minuto, procurate due unità appena possibile e dieci unità di piastrine. Non voglio rimanere indietro. Scoprite anche chi è l'ematologo di turno.» Fece cenno a un'infermiera di prendere il posto di Sarah accanto al letto, poi condusse lei e Snyder su un lato della stanza. A qualche metro di distanza, i tre studenti di medicina stavano appiattiti contro una parete. «Non è ancora in travaglio attivo come le altre», disse Blankenship, «ma sta progredendo più in fretta di tutte loro.» «Non ricordo che nessuna delle altre avesse avuto febbre», osservò Sarah. «Non ne hanno avuta.» «Anche se così, è certamente un caso di DIC.» «Ne convengo.» «Vede, Sarah», fece Snyder, «ammesso che il laboratorio lo confermi, abbiamo il caso di cui stava parlando Rosa Suarez. Il caso che la scagionerebbe completamente.» Sarah si trattenne a stento dal criticare il suo capo per aver fatto quell'osservazione in un momento così inappropriato, ma rammentò a se stessa che Annalee per lui era una semplice paziente, non un'amica, e che le accuse
contro il futuro primario interno avevano scombussolato notevolmente il suo reparto. «Mentirei se dicessi che non ci ho pensato», asserì invece. «Ma ciò che mi preoccupa di più è Annalee. Credo che dovremmo sottoporla a un cesareo. Ricordate come Lisa si riprese in fretta dopo l'intervento?» «Che cosa ne pensa, Randall?» chiese Blankenship. «Da come stanno le cose è ancora troppo instabile perché si possa intervenire. Il monitor fetale tiene, per il momento. Credo che con un feto di circa trenta settimane e mezzo e un travaglio rallentato, dovremmo cercare di tenere sotto controllo emorragia e coagulazione.» «Sono d'accordo», disse Blankenship. Sarah sapeva che in una discussione medica con due professori, la sua opinione contava, purché non contrastasse con la loro. In questo caso, probabilmente, contrastava. Il cesareo, qualunque fosse stata la ragione, aveva salvato Lisa Summer. Si scusò e tornò accanto al letto. L'iniezione di Demerol aveva calmato notevolmente Annalee, ma era inzuppata di sudore e l'emorragia dal naso e dall'accesso venoso si erano intensificate. I letti ungueali erano scuri almeno quanto lo erano stati quelli di Lisa. Eppure, mentre effettuava l'esame, non riusciva a respingere la sensazione che i due casi fossero sotto certi aspetti diversi. Innanzitutto, c'era la febbre. Né Lisa né l'altra paziente avevano mai avuto un rialzo di temperatura. C'era anche la rapidità con la quale i sintomi di Annalee si stavano sviluppando. E, infine, c'era la debolezza nei punti dell'agopuntura. Sarah cercava di attribuire lo strano quadro che rinveniva al flusso alterato del sangue. Ritornò dai due primari e si strinse nelle spalle. «Nessun suggerimento?» chiese Snyder. «Non saprei. Potrei tentare qualcuna delle cose che ho sperimentato con Lisa. Ma nessuna garanzia.» Snyder guardò il monitor. «Eli, ho l'anestesista e il pediatra qui accanto. Ma voglio sperimentare ogni possibilità prima di arrivare a un cesareo.» Un tecnico entrò di corsa e porse a Eli uno stampato. «Questi studi sulla coagulazione assomigliano molto a quelli fatti su Lisa Summer», disse. «È quasi sicuramente un caso di DIC. Dobbiamo somministrarle eparina. Sarah, se vuole le concedo dieci minuti; quindici se non peggiora.» «Non posso promettere niente, ma farò quello che posso», disse Sarah. «Qualcuno parli con suo padre e lo informi su ciò che sta succedendo.» Con i pensieri in subbuglio, passò di corsa accanto a Peter e davanti alla
sala parto. Per mesi aveva sperato che Rosa si fosse sbagliata nel dire che stavano vedendo solo la punta di un iceberg; aveva pregato di essersi imbattuta per l'ultima volta nella tragedia di una terribile complicazione da parto. Adesso la vita di Annalee Ettinger e di sua figlia erano in pericolo. Ma avendo studiato così accuratamente i casi precedenti, Sarah si stava interrogando ora. Perché la febbre alta? Perché la debolezza nei punti dell'agopuntura? Perché la rapida evoluzione dei sintomi? Imboccò il tunnel per il Thayer Building, tralasciò l'ascensore e salì di corsa le cinque rampe di scale fino al suo armadietto. «Due giri a destra, poi pausa sul tre... A sinistra sul quaranta...» Come sempre, Sarah mormorò la combinazione fra sé mentre la eseguiva. A metà del quaranta, il quadrante si inceppò momentaneamente. Imprecò a voce alta. Con Annalee in quelle condizioni le sue dita erano fredde e rigide. Stava per ripetere l'operazione quando notò dei graffi sulla portina di metallo. Le pulsavano le orecchie per l'agitazione quando riuscì infine ad aprirla. La sua cassetta di mogano laccata con gli aghi per l'agopuntura era sparita e anche l'elettrostimolatore di cui a volte si serviva. Al loro posto c'era una scatola ancora chiusa della Federal Express indirizzata a lei presso l'MCB. In cima alla scatola, una piccola busta di carta marrone. Con mani tremanti frugò nell'interno ed estrasse una fialetta di vetro, un foglio e una ricetta. La fiala era vuota ma l'etichetta chiariva quello che stava succedendo. Rispondeva anche alle rodenti domande sul quadro clinico di Annalee Ettinger. VELENO DI CROTALIDE (FAMIGLIA SERPENTE A SONAGLI), SOLO PER SCOPI DI RICERCA, ATTENZIONE: ALTAMENTE VELENOSO, ANTIVELENO DISPONIBILE E ISTRUZIONI PER L'USO. La ricetta, di una casa farmaceutica di Houston, era indirizzata a lei. Sarah lasciò cadere la fiala nella tasca del camice e aprì il pacchetto della Federal Express. Non aveva dubbi su ciò che conteneva. Antiveleno crotaliano polivalente. Venti fiale in tutto. Molto scossa, Sarah rimase in piedi presso il suo armadietto aperto nel corridoio scarsamente illuminato del quarto piano del Thayer Building. Nella tasca teneva probabilmente la causa della terribile, pressoché letale situazione di Annalee. Nelle sue mani c'era la cura. Nessuno avrebbe probabilmente creduto alla sua storia della fiala vuota
e dell'antiveleno che erano stati messi nel suo armadietto da chi aveva somministrato il veleno ad Annalee. Se il suo racconto della morte di Andrew aveva intaccato la sua credibilità all'MCB, quest'ultima storia l'avrebbe distrutta. Aveva infatti molto più senso credere che Sarah stessa le avesse somministrato veleno di serpente per creare un caso di DIC con travaglio indotto privo di qualsiasi legame con il suo preparato vegetale. Che Annalee fosse sua amica non avrebbe colpito nessuno; tantomeno quando Peter avesse raccontato la sua versione della storia. Perché, allora, Sarah aveva fornito l'antiveleno? Le opinioni a questo proposito avrebbero potuto essere molteplici. Ma, chiaramente, esisteva una e una sola logica spiegazione per la miracolosa scoperta di Sarah. Solo lei doveva avere somministrato precedentemente la tossina. Nessuno con un briciolo di cervello avrebbe creduto altrimenti. Per un momento tale pensiero le attraversò la mente al solo scopo di disfarsi della fiala vuota e dell'antiveleno. Avrebbe potuto raccontare che il suo armadietto era stato forzato e che gli aghi dell'agopuntura erano spariti. Nessuno, eccetto la persona che l'aveva raggirata, avrebbe pensato che era falso. Con un po' di fortuna e un trattamento aggressivo, Annalee e sua figlia, o almeno una di loro, sarebbe probabilmente sopravvissuta. E, come aveva detto Randall Snyder, con un caso di DIC non collegabile al suo prodotto vegetale se la sarebbe finalmente cavata. Quando Sarah si rese conto di avere elaborato tali pensieri, stava scendendo le scale di corsa con la preziosa scatola della Federal Express sotto il braccio. La scena nella stanza di Annalee era più o meno la stessa di quando l'aveva lasciata, fatta eccezione per l'ematologo, Helen Stoddard, che stava adesso discutendo con Eli e Randall Snyder. Sarah borbottò qualcosa nel vederla. Dal giorno del loro conflitto a causa di Lisa Grayson, pur passandosi accanto nei corridoi o sedendo vicine ai convegni, non si erano più rivolte la parola. Bene, dottoressa Stoddard, pensò Sarah mentre si avvicinava ai tre medici, se mi considerava una ciarlatana prima, adesso mi considererà completamente pazza. E una pazza omicida! «Ho bisogno di parlare con tutti voi», sussurrò Sarah indicando l'unico angolo libero della stanza. «È molto importante.» «Ci risiamo», gemette Helen Stoddard. «Eli, credevo avessi promesso...» «Helen, o taci o te ne vai», scattò lui con insolita impazienza. «La ragazza è in grosse difficoltà. Dobbiamo fare tutto il possibile per salvarla.»
«Che cosa sta succedendo?» chiese Snyder. «Avete intenzione di somministrarle l'eparina o no?» «Sì», rispose Helen Stoddard, rapida e decisa. «Fareste meglio ad ascoltare quello che ho da dire, prima», ribatté Sarah. Descrisse brevemente quello che aveva scoperto nel suo armadietto e mostrò ai tre medici il contenuto del pacchetto della Federal Express. «Ero preoccupata per la temperatura di Annalee, la rapidità con cui i sintomi si sviluppavano e anche per il quadro dei suoi dodici punti per l'agopuntura. Il veleno di crotalide può spiegare tutto questo.» «Lei è assolutamente pazza!» esclamò la Stoddard. «Qualcuno l'avrebbe dunque messo di proposito nel suo armadietto? Come può aspettarsi che ci beviamo una frottola simile?» «Dannazione, Helen», tagliò corto Eli. «Vuoi ascoltare per una volta?» La donna gli lanciò un'occhiataccia, poi guardò Sarah e uscì precipitosamente dalla stanza. Un momento dopo entrò Peter Ettinger. «Che diavolo sta succedendo qui? Perché l'ematologo se n'è andato in quel modo?» chiese. Blankenship si mosse per pararglisi davanti, ma Sarah lo fermò con la mano alzata. «Aspetti, dottore», disse. «La prego. So quanto Annalee sia importante per Peter, e so come lui è preoccupato per quello che sta succedendo. Lasci che gli parli un momento.» Sussurrò qualche parola nell'orecchio di Annalee e ritornò verso il gruppo. «Annalee dice che per lei va bene se resta.» «Bene», borbottò Blankenship. «Ma una parola fuori posto, Ettinger, ed esce di qui.» «Peter, Annalee è stata avvelenata», disse Sarah. «Qualcuno ha immesso veleno di crotalide nella sua fleboclisi. Non m'intendo abbastanza di veleno di crotalide per sapere come o quando è stato fatto. Ma sono assolutamente certa di quello che sto dicendo. È essenziale che le si inietti l'antiveleno il più presto possibile.» «Questo è semplicemente pazzesco», disse Ettinger. «Come facciamo a sapere che l'antiveleno è quello che c'è nelle fiale?» chiese Randall Snyder. «Be', innanzitutto sono sigillate. E poi, se non fosse antiveleno, non avrebbe senso che qualcuno me l'avesse consegnato.» «Ammesso che qualcuno l'abbia fatto», osservò Peter. «Dottor Blankenship», chiese Sarah ignorando Ettinger, «sa se ci sono effetti collaterali nell'antiveleno?»
«Una reazione allergica al siero di cavallo, direi, ma nient'altro», rispose Blankenship. «Siamo in grado di affrontarlo.» «Ecco, mi lasci vedere le istruzioni.» Randall Snyder guardò di nuovo il monitor fetale. «Eli, c'è stato un leggero calo nelle pulsazioni del bambino. Dobbiamo prendere una decisione.» «Veleno di crotalide», fece Peter. «Sarah, sei pazza.» «Ettinger, questo problema è stato risolto», intervenne Blankenship lanciandogli un'occhiataccia da sotto le folte sopracciglia. «O resta accanto al letto, o se ne va.» Peter esitò e poi fece mitemente come gli era stato ordinato. Blankenship sbirciò frettolosamente le istruzioni e aspirò il contenuto di dieci fiale in una grossa siringa. Sarah spiegò la situazione ad Annalee. Regnava assoluto silenzio quando il professore introdusse l'ago nel gommino del deflussore della fleboclisi e lentamente immise il liquido opaco nel sangue. La reazione all'antiveleno fu immediata. In meno di cinque minuti, Annalee riferì che l'intenso dolore alle estremità aveva cominciato a diminuire. Ventisei minuti dopo l'emorragia dal naso e dagli accessi venosi smise completamente. Nel primo pomeriggio la febbre sparì e quasi tutti i test della coagulazione si rivelarono normali. Sei ore dopo la somministrazione dell'antiveleno, Glenn Paris indisse una riunione d'emergenza. Dopo aver sentito il racconto di Randall Snyder, Eli Blankenship, Helen Stoddard e le infermiere del reparto, i partecipanti votarono all'unanimità affinché Sarah Baldwin venisse allontanata dall'ospedale fino a quando i particolari del suo coinvolgimento nel caso di Annalee non fossero stati chiariti. Il cadavere rimase all'obitorio tre giorni prima che venisse effettuata un'identificazione definitiva. In realtà, il corpo era ridotto a uno scheletro. Una settimana prima, l'equipaggio di un motopeschereccio che operava a settantacinque miglia dalla costa del Massachusetts l'aveva trascinato a bordo con diverse centinaia di chili di pesce. Allo scheletro non era più attaccato un brandello di carne né di tessuto, a eccezione di un po' di cartilagine sulle costole e su alcune giunture. Tuttavia, il medico legale fu in grado di far risalire il momento della morte agli ultimi sei mesi. E non ebbe problema a classificarla come morte per omicidio. Erano state infatti riscontrate fratture e lussazioni di due vertebre
cervicali. La natura dei frammenti ossei suggeriva un corpo contundente. Le corde e i pesi da sub, ancora legati alle estremità dello scheletro e a quello che era stato un tempo il torace, servirono ad annullare ulteriori dubbi in proposito. Da un accurato esame dentale fu inoltre possibile stabilire l'identità dell'uomo. «Credo che possiate chiamare la famiglia dello scomparso e riferire che l'abbiamo trovato», disse il medico legale. «Sfortunatamente il vostro dottor Truscott sembra aver eseguito il suo ultimo intervento.» 35 Era il primo pomeriggio quando la signora Annie Frumanian bussò alla porta di Rosa. «È quell'affascinante signor Mulholland. Chiama da Atlanta», cinguettò. L'uomo, che soffriva d'insonnia, si era conquistato la simpatia della signora Frumanian restando alzato fin dopo mezzanotte ad ascoltare storie della sua vita. In seguito raccontò a Rosa che nessun sonnifero aveva mai funzionato meglio su di lui. «Ken, hai trovato qualcosa?» chiese Rosa una volta sicura che la padrona di casa avesse riagganciato il suo telefono. «Un indirizzo di tre anni fa è quanto di meglio sono riuscito a scovare finora», rispose il virologo. «Qualora trovasse il nostro signor Fezler, forse dovrebbe informarlo, ammesso che il numero della Sicurezza sociale sia quello giusto, che abbiamo inavvertitamente avvisato l'Ufficio imposte che da quattro anni non fa la dichiarazione dei redditi.» Fezler, il creatore del virus CRV113, era quasi certamente l'ometto ritroso e balbuziente che aveva cercato di mettersi in contato con Sarah. Tuttavia, i più vecchi alla BIO-Vir, sebbene lo ricordassero come loro collega per almeno cinque anni, non sapevano niente della sua vita privata, né c'era alcun documento all'Ufficio personale che attestasse che aveva lavorato per il laboratorio. Dalle poche informazioni che la loro indagine aveva dissotterrato, Rosa e Ken si erano formati il quadro di un Fezler estremamente solitario, molto brillante e maledettamente grasso, forse sui quarant'anni inoltrati, o cinquanta. Mentre lavorava per la BIO-Vir, aveva perso una notevole quantità di peso. Aveva perso anche molte scimmie e, con gran sbigottimento del custode degli animali, Cletus Collins, le cartelle cliniche di quei primati,
come quelle della vita personale di Fezler, erano sparite. Fu un'idea di Mulholland usare il programma di ricerca veloce per localizzarlo. Il Fastfind Computer Network era stato installato nel 1981 da una commissione segretamente incaricata dal Presidente. Il suo scopo era semplicemente quello di rintracciare individui per il governo. Installarlo era costato dodici milioni di dollari, ma nel suo primo anno operativo, gli evasori fiscali che individuò pagarono assai più di quella cifra. Funzionava inserendo rapidamente dati dell'Ufficio imposte, FBI, esercito, polizia, Sicurezza sociale, Questura, Ufficio immigrazione, uffici di collocamento e Motorizzazione. Il reparto di Rosa si era servito di quel sistema diverse volte per localizzare persone che erano state esposte a processi infettivi e a pericolose tossine. «L'indirizzo che ho è a Brookline», disse Mulholland. «So dov'è Brookline.» «Beech 331; appartamento 2-F.» Rosa annotò l'indirizzo e poi lo localizzò su una cartina stradale. «L'ho trovato», disse. «Un'altra corsa in taxi. Non so che cosa mi spaventi di più in tutti questi taxi che prendo, se la spesa o i tassisti. Forse dovrei noleggiare una macchina.» «O prenderne una in prestito. Si ricordi, Rosa, è in malattia. Non può addebitare noleggi di automobili allo Zio Sam. Senta, c'è un'altra cosa interessante. Mentre ero a Boston, uno dei miei uomini ha effettuato qualche altro test sul sangue di Lisa. Siamo un po' sopra il normale livello di interferone.» «Interferone?» Rosa ci impiegò un momento per valutare le implicazioni. Interferone. Una proteina antivirale prodotta naturalmente, era molto nota e ampiamente studiata, ma ancora troppo poco capita. Nelle dosi più elevate aveva effetto anticancro. Nelle dosi più basse, prodotte dal corpo umano, svolgeva quasi certamente un ruolo nel mantenere le infezioni virali croniche come herpes e vaiolo sotto controllo. «Ken», disse infine, «dimmi, che cosa ne pensi?» «Be', da come la vedo io, Lisa è stata contagiata dal virus CRV113 e non mostrava sintomi. La crescita dei virus è tenuta sotto controllo dal suo stesso interferone, dagli anticorpi, o più probabilmente da entrambi. Penso che tutti abbiano diverse infezioni virali latenti nel proprio corpo. In ogni modo, in questo specifico caso, l'infezione da CRV113 non peggiora e non migliora. Poi subentra uno stress specifico ad alterare il delicato equili-
brio...» «Come il parto.» «...E bum! Il virus ha il sopravvento.» «E inizia a fare tutte le cose che il suo DNA dice di fare. Nei nostri casi, inappropriata attivazione del ciclo di coagulazione.» «Esattamente. Poi lo stress è superato e l'organismo produce altro interferone e altri anticorpi finché non viene ristabilito un equilibrio.» «Ma non avvengono mai delle eliminazioni del virus?» «Qualcuno magari», rispose Mulholland. «Molti forse. Ma il modello di herpes simplex, quello che conosciamo meglio, suggerisce che esistono diverse manifestazioni. Chiunque abbia mai avuto raffreddori o eczemi causati dal sole può confermarlo. L'intero campo di infezioni virali croniche è ancora troppo nuovo per sapere con esattezza come funziona.» «Ken, questo comincia ad avere un senso.» «Può darsi. Ci sono ancora molte domande.» «Solo ora sappiamo chi probabilmente ha le risposte.» «013-32-0885...» «013-32-0885», fece eco Rosa. «Matt Daniels per il signor Mallon», disse Matt. Guardò al di là della centralinista, attraverso la libreria a vetri e fuori verso il Boston Harbor. Diversi anni prima aveva inviato un curriculum vitae alla Wassermann e Mallon. Gli era stato accordato un colloquio con un collaboratore, che gli aveva chiesto l'autografo e gli aveva rivolto forse una o due domande non collegate con lo sport durante l'incontro che durò circa venti minuti. L'uomo, di cui Matt non ricordava il nome, non si era neppure curato di assicurargli che la sua richiesta sarebbe stata presa in seria considerazione. Non era stato necessario per Matt spiegare a Jeremy Mallon la ragione di quell'incontro. Roger Phelps aveva chiaramente preparato il terreno. E, potendo scegliere in fatto di luogo, Matt aveva optato per l'ufficio di Mallon, forse in una specie di ironico gesto verso quell'ottuso collaboratore. «Il signor Mallon la riceverà subito», annunciò la segretaria con marcato accento inglese. «Certo che lo farà», borbottò Matt, chiedendosi se l'accento non fosse stato un requisito all'epoca dell'assunzione. Il Jeremy Mallon che accolse Matt sulla porta del suo studio era piuttosto malconcio. Faccia tirata e pallida, occhi iniettati di sangue e circondati
da profonde occhiaie grigie. L'odore del collutorio era tale che Matt sospettò avesse trascorso buona parte della notte alzando il gomito. «Attrezzato per registrare anche questa volta?» chiese Mallon dopo aver chiuso la porta. «Perché dovrei preoccuparmene, ho già il nastro che mi interessa.» «Ha minacciato Phelps per quel nastro. Gli ha tirato in testa una palla da baseball.» «Jeremy, a due centimetri. Se avessi mirato alla testa, il vecchio Roger a quest'ora sarebbe ricoverato in rianimazione.» «Come faccio a sapere che ha registrato? Come faccio a sapere che c'è qualcosa su quel nastro?» Matt sorrise stancamente. «L'eterno avvocato», osservò. «Innanzitutto, Jeremy, non fa differenza che io abbia quel nastro oppure no. Una volta che un investigatore legale è orientato nella direzione giusta, non dovrà essere un genio per immaginare quello che sta succedendo. E, in secondo luogo, non sono venuto qui per ricattarla. Sono venuto per chiudere il caso della mia cliente una volta per tutte.» «Fatto», si affrettò a ribattere Mallon. «Sta parlando per i Grayson?» «Facile da immaginare.» «Voglio anche sapere esattamente che cosa l'ha indotta all'improvviso a ordinare a Phelps di venire a un accordo.» «Potrei essere disposto a dirglielo. Prima, però, vorrei trovare un punto d'intesa.» «Tipo?» domandò Matt. «Tipo la disponibilità di un posto in questo studio. Se lo vuole, è suo. Collaboratore per due anni, poi socio a tutti gli effetti. Uno e mezzo all'anno, per cominciare.» «Miliardo?» «Naturalmente.» Mallon tirò fuori un documento dalla scrivania. «Ho già il contratto redatto e firmato. Apponga la sua firma e troverà il suo nome sulla porta.» Matt guardò le due pagine. Sopra c'era scritto semplicemente: CONTRATTO. Avrebbe potuto esserci scritto: GARANZIA PER LA VITA. Pensò ad Harry e a che cosa un'entrata del genere, in quella fase del gioco, avrebbe significato per entrambi. «Non ha la faccia del giocatore di poker», osservò Mallon.
Matt piegò il documento e se lo infilò nella tasca interna della giacca. «Dovrò studiarlo», disse. «Adesso, voglio sapere perché si è offerto di abbandonare il caso Baldwin.» «Perché avreste finito con il vincere. Ecco perché.» «Stronzate.» Matt si alzò per andarsene. «Un momento, un momento. Vuole calmarsi un po'?» Matt rimase dov'era. Non si rimise a sedere. «Va bene», disse Mallon. «Le garantisco che il caso ha tuttora probabilità pari. Ma lei stava esagerando. Esagerando. Inoltre mi ero accorto di aver commesso un errore nella preparazione del caso.» «Vale a dire?» «Vuole rimettersi a sedere, per favore? Grazie. Non avrei mai dovuto farmi coinvolgere da quell'eccentrico di Ettinger. È stato per un puro caso che mi sono rivolto a quel bastardo. Era spesso in televisione, pensavo che fosse un gigante nel campo delle cure olistiche.» «Lo è.» «No, Daniels. Quello è soltanto un bugiardo. Un bugiardo vendicativo. Non è stato che dopo la visita al negozio di quel cinese che Ettinger ha ammesso che lui e la Baldwin erano stati amanti per tre anni. Ha detto che non riteneva che fosse importante. Che non fosse importante? La mia impressione è che ciò che voleva disperatamente era vendicarsi di lei. Ecco perché ha insistito tanto a voler far parte della squadra. Poi ha trascurato convenientemente di dirmi che quel suo maledetto prodotto dietetico era stato inventato da un tale che, guarda caso, lavorava al Medical Center di Boston.» «Allude a Pramod Singh?» «Sì, alludo a Pramod Singh. Oh, questo Ettinger è magnifico, Matt, magnifico.» «Che cosa sa del prodotto?» «Non capisco a che cosa stia mirando. Non so un bel niente del prodotto.» Matt fece di nuovo per alzarsi. «D'accordo», si affrettò ad aggiungere Mallon, indicando a Daniels di rimettersi a sedere. «Dove diavolo l'ha scovata Phelps, fra l'altro? In qualche discarica a sud di Chicago?» «Mi ha sottovalutato.» «Ne convengo. Be', l'unica cosa che so del prodotto di Ettinger, e questa è la verità, è che sta succedendo qualcosa di molto strano con il denaro che
tutta quella gente in sovrappeso invia.» «Continui.» «Dopo che lei ha tirato in ballo la faccenda del prodotto dietetico alla deposizione di Ettinger, gli ho chiesto di parlarmene. Non l'ha fatto, naturalmente, ma non mi aspettavo realmente che lo facesse. Eccentrico com'è. Così ho cominciato a far effettuare dei controlli da un paio dei miei uomini migliori. Secondo le tabelle informative appese nell'ufficio di Ettinger e la quantità di prodotto che esce ogni giorno dal suo centro di spedizione, quel preparato sta decollando come una navicella spaziale. Diecimila ordini alla settimana, e sono in aumento. Quattro milioni di dollari al mese.» «Allora?» «Allora, non riusciamo a trovare il denaro.» «Che cosa?» «Quelle televendite vengono trasmesse in tutto il paese, ma i recapiti a cui mandare gli assegni e i numeri di telefono da chiamare per le ordinazioni sono diversi per ogni zona. Ce ne sono almeno otto: Los Angeles, Chicago, Florida, New York. Gli ordini trovano, per così dire, la loro strada per la dimora di Ettinger a Hillsborough... Xanadu, capisce. Ma il denaro va altrove.» «Si spieghi.» «Suppongo che accetterà quell'offerta di società, Matt.» «È un'eccellente supposizione. Mi dica del denaro.» «Si muove più rapidamente di una pallina in un flipper. C'è un ufficio in ogni area; almeno otto, forse di più. Il denaro viene depositato in una banca di una determinata zona. Poi viene trasferito per telefono in un'altra. Alla fine finisce in banche dei Caraibi o dell'Europa; una decina, forse. Quindi inizia a ritornare a Ettinger. Ma da quello che possiamo dire finora, l'importo che ritorna a lui non si avvicina all'importo che esce. È come se lui fosse un collaboratore in tutto questo. Noi stessi non abbiamo abbastanza denaro per corrompere tutti i banchieri che dovremmo per conoscere meglio il gioco. Tuttavia è venuta alla luce una cosa, una cosa che per noi è molto interessante. In aggiunta agli assegni che arrivano a Ettinger, la Xanadu Foundation ha ricevuto ampio sostegno da qualcuno di nome T.J. McGrath. Forse un milione di dollari, finora.» «E...» «E l'MCB è stato a sua volta salvato dalla bancarotta da una cospicua sovvenzione proveniente da qualcosa chiamata Fondazione McGrath. Fino alla scorsa settimana, quel dannato di Paris custodiva il nome della fonda-
zione come se si trattasse della combinazione della sua cassaforte di famiglia. Sabato prossimo farà saltare in aria un edificio sul terreno dell'ospedale e comincerà i lavori per un nuovo centro di ricerca. E, guarda caso, pagherà l'intera opera fantasmagorica con i soldi della Fondazione McGrath. Non è una coincidenza?» «Sembrerebbe.» «Ettinger sta facendo denaro a palate con quel prodotto, e anche il Medical Center di Boston. Inoltre il preparato è risultato inizialmente ideato e testato da un medico che lavorava lì. Credo che quando sapremo che cosa sta realmente succedendo, saremo in grado di eliminare Paris e la sua eterogenea combriccola una volta per tutte. Conosce l'ammontare del premio che ci aspetta se riusciamo a dipanare la matassa per la Everwell. Sa che cosa significa la parola 'yacht'?» Matt sorrise. «Sono sempre stato bravo con le parole», rispose. «È tutto quel che sa sul prodotto?» «Finora. La mia gente ci sta ancora lavorando. Quando ritiene di farmi avere quel documento firmato?» «Nel giro di un giorno. Prometto.» «Perfetto. Siamo tutti ansiosi di averla nel nostro consiglio di amministrazione.» «Appropriata figura retorica.» Matt cercò invano di trovare un modo per evitare di stringere la mano all'uomo. «Arrivederci», disse alla centralinista mentre percorreva il corridoio e usciva per prendere l'ascensore. Lasciò l'elegante edificio e non aveva percorso neppure mezzo isolato, quando s'imbatte in un uomo brizzolato che spingeva un carrello della spesa pieno di sacchetti di plastica, bottiglie vuote e ciarpame vario. «Buongiorno», disse Matt porgendogli un biglietto da cinque dollari. «Come sta?» «Non posso lamentarmi, giovanotto. Non posso lamentarmi», disse il vecchio con un largo sorriso. Portava un fazzoletto rosso intorno ai capelli grigi e aveva un sacchetto di plastica verde arrotolato intorno al collo. Oltre a una cravatta nuova, magari, aveva assolutamente bisogno di cure dentali. «Come si chiama?» chiese Matt. «Siggins», rispose l'uomo. «Alfie Siggins.» «Bene, signor Siggins, ho delle buone notizie per lei.» Tirò fuori il do-
cumento di Mallon, cancellò con una riga il suo nome, scrisse quello di Alfie e lo aiutò a firmare. «Vede quel palazzo laggiù? Salga al ventinovesimo piano, mostri il contratto alla centralinista e le dica che è il nuovo socio del signor Mallon. Se quelli della Sicurezza cercassero di fermarla, glielo mostri. Glielo restituisca, se vuole. Ma a caro prezzo.» «Che cosa ho da perdere, giovanotto?» domandò Alfie Siggins. «Non ha niente da perdere», rispose Matt. «Assolutamente niente. Ecco, prenda questa zampa di coniglio come portafortuna.» Matt osservò l'uomo e il carrello sparire all'interno del 100 di Federal Plaza, poi si diresse verso lo spiazzo dove aveva posteggiato la macchina. Il nastro di Phelps sarebbe stato nelle mani della commissione di investigatori legali entro un giorno. Adesso era ora che Sarah sapesse che, grazie alla testimonianza dell'esperto del querelante, non era più l'imputata in un processo di negligenza. Poi, ammesso che non fosse di servizio, l'avrebbe pregata di festeggiare la vittoria andando a fare una passeggiata insieme, tenendosi sfacciatamente per mano in pubblico. Sarah venne chiamata nell'ufficio di Glenn Paris, dove fu informata che fino a diversa comunicazione, non doveva più considerarsi un medico del personale del Medical Center di Boston. La decisione del comitato esecutivo non fu una sorpresa, e lei l'accolse con ben poca emozione. In verità non provava più emozioni di sorta. A questo punto non le restava che tornarsene a casa. Più tardi avrebbe chiamato Matt. Lui avrebbe capito che era stata di nuovo raggirata... o almeno avrebbe potuto. Prima di andare a sgomberare il suo armadietto, Sarah passò dalla Maternità per vedere Annalee. Una guardia della Sicurezza in uniforme era in piedi presso la porta e si rifiutò di lasciarla entrare. Sarah ritornò presso il banco delle infermiere e scrisse un biglietto per Annalee, riaffermando la sua innocenza e spiegando come meglio poté che cos'era stato fatto a entrambe. Aveva appena terminato di scrivere il biglietto e stava cercando una busta, quando una delle infermiere gliene porse una. Stava per ringraziarla allorché realizzò che sulla busta c'era scritto DOTTORESSA SARAH BALDWIN. «Gliel'ha lasciata una signora con la divisa rosa», le disse l'infermiera, riferendosi a una delle volontarie con la giacca color salmone. Quindi si voltò e se ne andò prima che Sarah potesse dire qualcosa. Se le interessa sapere di più sul veleno dei serpenti a sonagli, vada nel-
la stanza 512 del Thayer Building. La chiamerò lì alle sei esatte... Non ne parli con nessuno finché non saprà quello che ho da dirle. È stata accusata ingiustamente. Il biglietto era battuto a macchina e non firmato. Sarah guardò l'orologio. Cinque e cinquantacinque. Piegò il biglietto e quello che aveva scritto per Annalee, e li infilò in tasca. Poi si precipitò attraverso il tunnel che portava al Thayer Building e prese l'ascensore fino al quinto piano. La stanza 512 era in fondo. Quando raggiunse la porta erano esattamente le sei. Nell'interno, il telefono stava suonando. Senza bussare, Sarah si precipitò nella stanza buia fino al comodino. Mentre alzava il ricevitore, la porta sbatté dietro di lei chiudendosi. L'oscurità fu immediata e totale. Prima che potesse reagire le fu gettata addosso una coperta e cadde a faccia in giù sul letto. Gridò e tentò di resistere, ma la coperta e il peso dell'aggressore rendevano quasi impossibile il movimento. «Per favore, no!» gridò. L'uomo sopra di lei esercitò una pressione contro le sue natiche. Poi l'afferrò per i capelli e le premette la faccia nel cuscino. Un istante dopo sentì la puntura di un ago sulla parte posteriore della testa. «La prego!» gridò di nuovo. «La prego, no!» La sua voce era attutita dal morbido cuscino di piume. Qualche secondo dopo, un'ondata di stordimento e di nausea la travolse. Braccia e gambe cominciarono a tremarle violentemente e il suo respiro si fece affannoso. L'uomo rimase sopra di lei, benché non dovesse più lottare per tenerla giù. Era impotente e stava perdendo rapidamente la battaglia per rimanere cosciente. Per rimanere viva. «La prego», gemette. «La prego.» Ma questa volta non emise alcun suono. I suoi pensieri si dispersero velocemente e l'oscurità si fece ancor più oppressiva. Per qualche secondo udì il gorgoglio dell'aria che veniva risucchiata disperatamente nei suoi polmoni. Poi anche quel suono sparì. Implacabile, l'oscurità l'avvolse. Quindi a un tratto, misericordiosamente, il terrore svanì. 36 Erano quasi le sei quando Rosa tornò dal condominio di Brookline in cui, fino a due anni prima, aveva abitato Warren Fezler. Aveva parlato con tutti gli inquilini che avevano risposto al campanello ed era poi tornata alla
BIO-Vir per vedere se non avessero trascurato qualcuno che poteva aggiungere qualcosa al poco che aveva appreso sull'uomo. Finora i suoi sforzi erano stati infruttuosi. Secondo alcuni vicini con i quali Rosa era riuscita a parlare, Fezler era stato un inquilino tranquillo e discreto fino al giorno in cui, semplicemente, non era più tornato a casa. I suoi mobili erano stati immagazzinati e poi venduti all'asta. La segretaria dell'agenzia immobiliare giurò che nessun contratto di locazione veniva eliminato per almeno cinque anni dopo che un inquilino se n'era andato. Ma, evidentemente, Warren Fezler era un'eccezione. Rosa alzò lo sguardo sul condominio. Era l'ora di cena: forse adesso avrebbe trovato più gente in casa. Forse uno di quelli con cui aveva parlato aveva ricordato qualcosa. Tuttavia, riluttante a suonare di nuovo i campanelli, vagò nella sera che si stava addensando alla ricerca di qualche altra mossa che avesse un senso. Dettagli, pensò mentre camminava assente lungo la strada. Pensa all'uomo... Pensa a Warren Fezler. Aveva già superato il piccolo supermercato quando si fermò. L'aria era satura di aromi di pane fresco, fiori recisi e cassette di frutta. Cibo! A giudicare dalle descrizioni, prima della sua notevole trasformazione Fezler doveva pesare più di centoventi chili. Probabilmente il cibo era stato l'epicentro della sua vita. Se così, un supermercato a non più di un isolato da casa sua doveva essere stato l'equivalente di un posto di ritrovo. Rosa cominciò con le cassiere e arrivò agli inservienti del negozio. Con la quarta persona che interrogò, un uomo anziano che lavorava dietro il banco della carne, fece centro. «Certo che conosco Warren», disse il macellaio. «Era la persona più gentile che venisse in questo posto. Un vero tesoro. Non parlava mai troppo, balbettava un po', vede. Ma le avrebbe regalato anche la camicia che indossava.» «È stato qui di recente?» «È un po' che non lo vedo. Qualche mese, forse. Probabilmente dall'estate scorsa.» Qualche mese. Fezler aveva lasciato l'appartamento due anni prima, ma continuava a frequentare il piccolo supermercato. «Ha idea del perché abbia smesso di venire a far compere qui, o di dove potrei trovarlo?» chiese Rosa. «No. Ma scommetto che la signora Richardson lo sa. È una cara vecchia signora. Non ci vede molto e non cammina neppure molto bene. Credo non
abbia nessuno. Warren era solito portarle la spesa per farle risparmiare qualcosa. Da quando ha smesso di venire qui gliela consegnamo noi a casa. Poverina. Tre dollari a sacchetto incidono, nella sua situazione.» «Certamente!» osservò Rosa. Quindici minuti dopo, stava preparando il tè e rassettando la cucina di Elsie Richardson. La zitella, che doveva essere sulla novantina e magari anche più, viveva in un ingombro appartamentino di due stanze nel seminterrato, insieme a tre gatti, nessuno dei quali sembrava più giovane di lei. Si muoveva con penosa lentezza su piedi e caviglie gonfi, e la vista le permetteva solo di muoversi in casa sua. Ma sembrava cavarsela. E oltre a una perfetta lucidità mentale possedeva anche un sorprendente umorismo. «Signorina, non signora», aveva corretto Rosa. «Sono sempre rimasta in attesa di sposare un uomo più in gamba di me, ma non si è mai fatto avanti... O almeno finché non è comparso il signor Fezler. Mi fa piacere sentire che sta bene», disse poi. «Non si fa sentire da settimane.» «Non so se sta bene o no, signorina Richardson. Sto cercando di rintracciarlo.» «Prendo un po' di latte e limone, cara. Il limone è sull'ultimo ripiano del frigorifero. A sinistra. So dov'è il limone, ma non so dov'è il signor Fezler. Non me l'ha mai detto. Un uomo così gentile. Sa come ci siamo conosciuti? Proprio di fronte al supermercato. Mi ha aiutata a portare la spesa a casa. E quella è stata l'ultima volta che ho dovuto recarmi al negozio. Sei dollari la settimana, ecco che cosa mi faceva risparmiare. Per non parlare del denaro che mi dava. Cercavo di rifiutare, ma me lo lasciava lo stesso.» «Sembra davvero un'ottima persona», osservò Rosa, ripensando alle orribili descrizioni delle donne che erano morte di DIC. «Signorina Richardson, non sa dove potrebbe essere andato... Se era in qualche guaio? Nessun amico o parente?» «Nessuno che riesca... Aspetti. Ha una sorella. Si chiama Mary. No, non Mary. Martha. 'Mia sorella Martha', diceva, quando parlava di lei. Non posso credere di non averlo ricordato subito. Oh, mi dispiace.» «Sta andando bene, signorina Richardson», disse Rosa, posando un biscottino sul piatto della donna. «Il cognome di Martha era Fezler, vero?» «No. Temo che...» A un tratto s'illuminò. «Il calendario!» «Il calendario?» «Il signor Fezler disse che era una pubblicità del posto di sua sorella. Me lo regalò perché i numeri erano grandi, ma credo di non averlo mai guardato. È laggiù, cara.»
Indicò un punto al di là della porta della sua camera da letto. Il calendario, appeso a una parete laterale, mostrava la fotografia di una modella biondo platino tutta curve. Portava un paio di attillati pantaloncini e stringeva in mano una lattina di benzina. Stampato sul calendario c'era: CANTIERE DI RIPARAZIONI NAUTICHE E MECCANICHE PROPRIETÀ DI MARTHA FEZLER SPECIALIZZATI IN MERCRUISER L'indirizzo del cantiere in fondo era di Gloucester, una città che si trovava circa quarantacinque chilometri a nord di Boston. Lo annotò con il numero di telefono. Poi sistemò la camera da letto come meglio poté, abbracciò Elsie Richardson, le diede venti dollari e si diresse nuovamente alla pensione. Se Martha Fezler non stava nascondendo il fratello, doveva almeno sapere almeno dove si trovava. Rosa raggiunse a piedi la più vicina strada transitabile e fermò un taxi. Si sentiva euforica. Presto, molto presto la sua carriera di epidemiologa si sarebbe conclusa. Ma non prima che il fantasma del caso BART fosse messo a riposo. «Ruth, salve, sono Matt. Scusi se la chiamo a casa.» «Per carità! Com'è andato il suo incontro con il signor Mallon?» «Stanno rinunciando alla causa contro Sarah Baldwin.» «Oh, magnifico. Magnifico, congratulazioni.» «Grazie, Ruth. Senta, sono al Medical Center e non riesco a trovare Sarah. L'ha per caso sentita?» «Sì. Ha chiamato poco prima che uscissi, circa un'ora fa. Le ho lasciato il messaggio sulla scrivania. Ha detto che stasera non è di servizio. Rimane all'ospedale fin verso le sei e poi torna a casa. Sembrava turbata.» «Da quello che sono riuscito a sapere, ha motivo di esserlo. Grazie, Ruth. Ci vediamo domani. E grazie per tenermi in ordine l'ufficio.» «C'è qualcos'altro che posso fare?» «No. Ha collegato il telefono alla segreteria telefonica?» «Lo faccio sempre, signor Daniels.» «Lo so, lo so. Buonanotte. Ruth. Ci vediamo domani.» Matt posò il ricevitore del telefono a gettoni e si guardò intorno all'affaccendato vestibolo. Erano le sei e mezzo. Sarah aveva detto che avrebbe lasciato l'ospedale alle sei, ma la sua bicicletta nuova era ancora legata
fuori. Non aveva risposto alle chiamate del centralino dell'ospedale e, quando l'aveva chiamata a casa, aveva risposto la segreteria telefonica. In più, non c'erano suoi messaggi sulla segreteria di Matt. Era successo qualcosa di spiacevole che aveva coinvolto Sarah e una paziente. Questo era quanto Matt aveva appreso, sebbene nessuno all'MCB sembrasse ansioso di renderlo partecipe dei dettagli. Evidentemente, le era stato chiesto di prendersi una licenza. Glenn Paris, a cui Matt si era rivolto per maggiori informazioni, era occupato in una sorta di riunione d'emergenza. Adesso, sentendosi via via più ansioso e preoccupato, Matt andò di nuovo a cercarlo nel suo ufficio al Thayer Building. «Mi dispiace, il signor Paris sta telefonando», disse infastidita la sua segretaria. «Lo interrompa. Gli dica che c'è qui Matt Daniels e che si tratta di un'emergenza.» «Ma...» «Lo faccia, per favore. O lo farò io stesso.» Meno di un minuto dopo fu fatto entrare nello studio di Paris. «Non può pensare che abbia fatto una cosa simile!» esclamò Matt dopo che Paris gli ebbe raccontato gli avvenimenti riguardanti Annalee Ettinger. «Mallon e Grayson hanno rinunciato a perseguirla per negligenza. Questo non le dice niente?» «Senta, tutto ciò che so è che quest'ospedale ha ricevuto più pubblicità negativa negli ultimi sei mesi di quanta ne abbia ricevute nei precedenti sei anni. E la sua cliente c'è dentro fino al collo. Abbiamo dovuto dirle di prendersi una licenza finché le acque non si saranno calmate e non riusciremo a capire che cos'è realmente successo.» «Non è chiaro quello che è successo? Qualcuno ha cercato di accusarla ingiustamente.» «Per il bene di Sarah, spero sia vero. Mi piace, Daniels. Mi piace molto. Ma da come stanno le cose, dobbiamo agire nell'interesse dell'MCB e dei nostri pazienti. Sono in molti, sia fra il personale sia nel consiglio di amministrazione, a pensare che sia una persona molto malata e pericolosa.» «Questo è semplicemente ridicolo.» «Lo spero. Ma a questo punto non c'è niente che possa o voglia fare.» «Senta, è più di un'ora che Sarah non risponde alle chiamate del suo cercapersone. Ha idea di dove possa trovarsi?» «No.» «Lei sta commettendo un errore», disse Matt.
«Come ho detto, lo spero», ribatté Paris. Matt si stava già dirigendo fuori della porta. Controllò di nuovo le segreterie telefoniche di casa e dell'ufficio, e lasciò un altro messaggio su quella di Sarah. Poi chiamò la centralinista dell'ospedale, che tentò di nuovo di rintracciarla. «Mi dica», le chiese Matt, «quando non riesce a rintracciare gli interni che dovrebbero essere di servizio, a che cosa è dovuto di solito?» «Questo non accade molto spesso», rispose la donna. «Ma quando accade?» «Se un medico interno è di turno e non risponde significa che il suo cercapersone è spento o che sta dormendo nelle stanze riservate al personale. Non può sentirmi con l'altoparlante perché lì non ce ne sono. Usiamo i telefoni in camera.» «Dove sono queste camere? Può telefonare?» «Si trovano nel Thayer Building, al quarto e quinto piano. Ma non posso chiamare ogni stanza. Ce ne sono circa venti o venticinque.» «Senta», disse Matt, «in via eccezionale, potrebbe continuare a chiamare la dottoressa Baldwin con il cercapersone ogni due minuti? È molto, molto importante. Ha il mio nome in caso chiamasse lei. Le ritelefono fra poco. E grazie... Grazie mille.» Probabilmente sarà andata a fare una passeggiata, o starà dormendo in una delle stanze dei medici, continuava a ripetersi Matt mentre si dirigeva al quarto piano del Thayer Building. Entrambe le possibilità hanno perfettamente senso. È sconvolta per quello che è successo. Un sonnellino o una lunga passeggiata. Io farei l'uno o l'altra cosa... Anche lei farebbe così... Cominciò a passare di stanza in stanza, bussando a ogni porta e abbassando la maniglia. Perlopiù le stanze dei medici erano aperte e vuote. Due erano chiuse a chiave, ma in entrambe una voce assonnata rispose al suo richiamo. Una terza, per quanto non chiusa a chiave, era anch'essa occupata. La persona all'interno, completamente vestita, con braccia e gambe allargate su un piccolo letto, era così profondamente addormentata che si mosse appena quando Matt bussò ed entrò. Ne avevi proprio bisogno, pensò Matt, abbassando lo sguardo sul giovane medico esausto. Chiuse la porta con superflua cura e salì al quinto piano. La sesta e settima porta che provò erano chiuse. Bussò e attese la sonnolenta risposta. Non ci fu. Bussò di nuovo, questa volta un po' più forte. Solo la visione dell'uomo con gambe e braccia allargate al quarto piano gli impedì di prendere a calci la porta. Decise di controllare il resto del piano
prima di bussare con più decisione. Ma poi, proprio mentre stava per girarsi, sentì una voce di donna all'interno della stanza. «Dottoressa Baldwin. Dottoressa Sarah Baldwin. La prego, chiami il centralino... Dottoressa Baldwin, dottoressa Sarah Baldwin, il centralino, per favore.» «Sarah!» gridò Matt, sferrando un calcio alla porta. Indietreggiò e piantò con violenza la suola della sua scarpa al centro della porta. Il legno si scheggiò. Un secondo calcio aprì un buco abbastanza largo da permettergli di sbirciare nella stanza scarsamente illuminata. Sarah giaceva tranquilla e immobile sul letto. Accanto a lei, su un supporto per la fleboclisi, una sacca di infusione venosa stava rilasciando lentamente la sua soluzione nel braccio della donna. Matt infilò la mano nel buco e aprì la porta dall'interno. Sarah era calda, ma il suo colorito era cinereo. E non respirava. Trovò una valvola e chiuse la flebo. Gridò il suo nome e le controllò collo e polso per le pulsazioni. Non ce n'erano. Le piegò indietro la testa, le chiuse il naso e tentò una respirazione bocca a bocca. Al terzo tentativo, gli sembrò di sentire la mascelle muoversi. Gridò nuovamente il suo nome. Poi, d'impulso, la schiaffeggiò forte in viso. Lei rispose con un'unica gorgogliante inspirazione. La schiaffeggiò di nuovo e lei inspirò di nuovo. Respingendo la paura, Matt afferrò il telefono e chiamò la centralinista. «Ho trovato la dottoressa Baldwin», disse ansimante. «Ha avuto un arresto cardiaco. Quinto piano. Thayer Building. Per favore, faccia venire subito una squadra di soccorso!» 37 28 ottobre Era un incubo in un incubo. A un certo livello della sua mente, Sarah lottava per crederlo; per ricordare che da bambina si era sempre svegliata, ritrovandosi sana e salva nel suo letto. Ma non c'era niente che potesse fare con quei pensieri, e assolutamente niente che potesse fare con il suo corpo per arginare l'impotenza, il dolore, l'ininterrotto terrore. Come negli innumerevoli sogni della sua fanciullezza, rozze mani la tenevano giù, poi la legavano. Lei lottava per liberarsi finché braccia e gambe non le bruciavano, ma i lacci erano d'acciaio. Allora dita forti e robuste cominciavano a spingerle fra i denti uno strac-
cio appallottolato. Si sforzava di respingerlo con la lingua. Scuoteva violentemente la testa di qua e di là. Ma lo straccio le veniva conficcato sempre più in profondità, ostruendole la gola, strozzandola. Cercava di respirare attraverso le narici dilatate, ma i suoi sforzi erano sempre più deboli. Pregava per precipitare nell'incoscienza, morire persino. Ma c'era sempre abbastanza aria da permetterle di vivere, da prolungare l'agonia. «Ti prego, fammi morire! Ti prego, fammi addormentare e morire...» «Sarah... Tesoro, ascoltami. Sono Matt... Cerca di stare calma e ascoltami... Brava. Così va meglio. Puoi tenere gli occhi chiusi, ma ti prego, ascolta... Sarah, ti hanno intubata. Una macchina ti aiuta a respirare. E ti hanno legata. Stringimi la mano se mi capisci... Bene. Bene. Cerca di stare calma, tesoro. Vado a dire all'infermiera che ti stai svegliando.» Sarah sentì la grande, confortante mano di Matt stringere la sua e poi svanire. Cercò di separare l'incubo dall'incubo. E un po' alla volta ricordò. Mentre la sua consapevolezza aumentava, così aumentava l'indescrivibile disagio del tubo endotracheale e la spaventosa sensazione di mancanza d'aria. Sentiva il ventilatore ronzare e opporsi ai suoi tentativi di respirare. Chiaramente, doveva respirare per lei, non necessariamente con lei. Rallenta, si disse. Non opporti... Ricorda quello che dici ai pazienti intubati. Piano, adesso... Seguilo. Rilassati e seguilo... Medita... Trova il cigno... Trova il tuo spirito... Trovalo e osservalo volare... «Sarah, riesci a sentirmi? Sarah, apri gli occhi. Sono Alma. Alma Young... Ecco, così...» Sarah batté le palpebre per ripararsi dalla luce, e a poco a poco la sua visione si schiarì. L'infermiera della rianimazione chirurgica la stava guardando, preoccupata. «Erano al completo alla rianimazione di Medicina», disse. «La volevamo tutti qui, comunque, e il dottor Blankenship ha acconsentito. Una delle altre infermiere ha chiamato per dirmi quello che era successo, e io sono tornata proprio per lei. Mi capisce?... Bene. Adesso le tolgo i lacci ai polsi. La prego, non tocchi il tubo... Capito?... Bene.» Sarah attese pazientemente che le venissero tolti i lacci. Il mal di testa stava diminuendo. Era completamente sveglia, adesso, e stava rapidamente riacquistando il controllo. Qualcuno aveva cercato di ucciderla! Qualcuno le aveva iniettato sotto il cuoio capelluto qualcosa che agiva velocemente ed era incredibilmente potente. Adesso era intubata. Tutti gli psicologi e gli psichiatri che l'avevano visitata si erano sbagliati: i sogni ricorrenti che avevano un tempo così tormentato e rovinato la sua vita non erano mai sta-
ti una conseguenza distorta di qualche terribile avvenimento nascosto nel suo passato. Erano stati invece una profezia, come il rattrappito guaritore thailandese, Louis Han, aveva lasciato intendere che potessero essere. Questa era la lotta per cui i sogni la stavano preparando. Questa era la battaglia della sua vita. Ed era sopravvissuta; prima a Chinatown e ora nel reparto di rianimazione. Grazie, in un certo senso, agli orribili incubi, stava continuando a resistere contro qualunque male stesse cercando di schiacciarla. Sarah fletté la mano, poi la alzò e indicò il tubo endotracheale. «Lo so, lo so», disse Alma. «Non appena abbiamo i risultati dell'emogas, chiamo l'anestesista e il dottor Blankenship, e vediamo se possiamo toglierle il tubo. Tutto bene, per ora? Ho regolato il sistema di ventilazione in modo che possa respirare come vuole. È sicura di stare bene? Sarah, volevo dirle che, di qualunque cosa si tratti, passerà se la lascerà passare. Non c'è mai bisogno di fare quello che pensava di fare. Ma ascolti, possiamo parlarne più tardi. Sono contenta che stia meglio.» Entrò un terapista della respirazione e fece un prelievo di sangue dall'accesso dell'arteria radiale di Sarah. Durante l'interminabile mezz'ora che seguì, Matt le rimase accanto, facendo quello che poteva per tenerla calma e informandola sugli eventi che circondavano la sua rinascita. «C'era morfina nella sacca dell'infusione», disse. «Le fiale vuote erano sul pavimento. Il dottor Blankenship dice che ti abbiamo trovata appena in tempo. La squadra di soccorso ha lavorato incredibilmente bene. In realtà sei rimasta sveglia per quasi tutta la notte, ma le infermiere ti hanno dato della roba per mantenerti ventilata. La cassetta con gli aghi dell'agopuntura che avevi detto che ti era stata rubata si trovava sulla scrivania di quella stanza, insieme a una fiala di veleno di serpente a sonagli non ancora aperta e un bigliettino privo di firma con su scritto: 'Mi dispiace'. La porta della stanza era chiusa dall'interno. Al momento sono l'unica persona di quest'ospedale che non crede che tu abbia cercato di ucciderti... Ho ragione?» Sarah gli strinse la mano più vigorosamente che poté. «Lo sapevo», sussurrò Matt. «Sono almeno, oh, tre o quattro mesi che una donna innamorata di me non cerca di uccidersi... Stringimi la mano se pensi che sia buffo... Oh, capisco... Senti, stanno accadendo alcune strane cose in quest'affare del preparato ayurvedico, fra cui il fatto che Mallon dirà ai Grayson di abbandonare la causa contro di te. Non accordarsi, abbandonare. Ti racconterò tutti i particolari più tardi. «Rosa ti ha detto di aver scoperto chi ha creato quel virus, vero? L'uomo
che balbetta. Ma non vuole rivelare né a te né a nessun altro il suo nome, giusto? Bene, adesso pensa di sapere dov'è. Ha cercato di chiamarti a casa e all'ospedale per ragguagliarti. Alla fine una delle infermiere le ha riferito quello che era successo e dove ti trovavi esattamente, ed è piombata qui ieri sera verso le undici. È tornata alle due di questa mattina. Tiene molto a te. Non mi sorprenderebbe che non avesse dormito più di quanto ho dormito io. Non vuol dire dove si trova quest'uomo del virus, ma oggi si recherà lì per tentare di trovarlo. Stiamo cercando di farle avere una macchina dell'ospedale, senza rivolgere domande... «Ehi, tieni duro, amica. Sta arrivando Alma e credo che ci sia l'anestesista con lei.» Le notizie dal laboratorio erano eccellenti. L'emogas di Sarah andava sufficientemente bene da poterle togliere il tubo. La sensazione che le venisse aspirata la trachea e poi strappato il tubo endotracheale fu un'esperienza che Sarah si augurò di non dover fare mai più. Farfugliò, si strozzò e tossì spasmodicamente. Ma Matt era di nuovo lì con lei, le accarezzava il braccio e le baciava la fronte. «Attento a non farti espellere dall'albo», gracchiò quando la tosse si fu un po' calmata. «Te l'ho detto, stanno rinunciando alla causa. Non sarò più il tuo avvocato. Adesso possiamo renderlo pubblico. Ho anche noleggiato un camioncino con altoparlante per andare ad annunciare per le strade di Boston che ti amo e che arriveremo in fondo a questa storia.» «Anch'io ti amo, Matt. Davvero. Ehi, che ore sono?» «Le sei o poco più.» «Dio, dodici ore della mia vita sfumate così.» «Avrebbe potuto sfumare tutta», le rammentò Matt. La risposta di Sarah fu interrotta da qualcuno che si schiariva educatamente la gola. In piedi in fondo al letto c'era un uomo dall'aspetto trasandato e i capelli brizzolati, che portava un cravattino rosso a farfalla. Teneva su un braccio la cartella clinica di Sarah e la sbirciava attraverso gli occhiali. Sebbene non avesse mai conosciuto né visto quell'uomo, Sarah intuì chiaramente chi fosse ancor prima che si presentasse. «Sono il dottor Goldschmidt», disse. «Uno psichiatra. Signore, se vuole scusarci per qualche minuto...» «Questo è Matt Daniels», si affrettò a dire Sarah. «È il mio... il mio avvocato.» Goldschmidt osservò Matt per qualche secondo.
«Forse dovrebbe rimanere, allora», disse. «Se le va bene.» «Prego», fece rauca Sarah. «Benissimo, allora. So che ha passato un brutto momento e che le hanno appena tolto il tubo per respirare. Per cui sarò il più breve possibile.» Si umettò le labbra sottili e azzurrine con la lingua. «Mi dica, dottoressa Baldwin, ha mai tentato di farsi del male prima di ieri sera?» Gli occhi di Sarah brillarono. Guardò Matt, che le fece cenno di stare calma. «La risposta è no. Ma non ho cercato di farmi del male, ieri sera, dottor Goldschmidt. Qualcuno ha cercato di uccidermi e farlo passare per un suicidio.» «Capisco», disse il medico, annotando qualcosa sulla sua cartella. «Ma come spiega che la porta era chiusa all'interno?» «Qualcuno aveva una chiave.» «Forse. Ma da quanto mi è stato riferito, neanche gli addetti al guardaroba o alla manutenzione dispongono delle chiavi di quelle stanze.» «Non ho cercato di uccidermi.» «Dottoressa Baldwin, desidero semplicemente aiutarla.» «Allora mi lasci tornare a casa.» «Sa che non posso farlo.» «Perché?» chiese Matt. «Mi è stato assegnato il caso della dottoressa Baldwin dal dottor Blankenship perché è politica dell'ospedale assegnare uno psichiatra per ogni tentato suicidio, e oggi per questo reparto sono in servizio io. La sua attuale diagnosi è», lesse dalla cartella, «overdose di narcotici, tentativo di suicidio. Ho sia il potere che l'obbligo di ricoverarla in un reparto di malattie mentali finché non sarò convinto che non potrà più nuocere a se stessa o agli altri. Sicuramente lei, come avvocato, può apprezzare l'importanza del mio operato.» «Sì, certo», fece Matt. Pensò a tutto quello che voleva fare quel giorno per chiarire il legame fra Peter Ettinger, la Fondazione McGrath e il Medical Center di Boston. In quale posto avrebbe potuto Sarah essere più al sicuro che in un reparto d'isolamento severamente controllato? «Sarah», disse, «credo che tu debba farlo. Almeno per ora.» Se lo psichiatra apprezzò il suo appoggio, non lo lasciò trapelare dal viso, che appariva teso. Stava per parlare quando Eli Blankenship gli si affiancò.
«Grazie per essere venuto così prontamente, Mel», disse Blankenship. «Sarah, stai bene?» «Mi sento meglio a ogni istante che passa, dottor Blankenship. La prego, dica al dottor Goldschmidt che non sono pazza e che non ho cercato di uccidermi.» «Nessuno ha mai detto che sei pazza.» «Senta, qualcuno mi ha iniettato qualcosa proprio qui sotto i capelli, e ha cercato di far apparire il tutto come se volessi suicidarmi.» Blankenship studiò il suo cuoio capelluto con una lampadina tascabile e poi scosse il capo. «Niente.» «Era un ago molto sottile. Un diametro 29 o anche meno. Mi tagli i capelli se vuole», lo implorò Sarah. «Lo troverà.» «Sarah, ti prego. Cerca di essere paziente con noi e lasciaci fare il nostro lavoro. Alma dice che i tuoi polmoni sono liberi e i tuoi segni vitali stabili. Fra un'ora o due, quando saremo sicuri che la tua laringe non sarà soggetta a spasmo, vorrei trasferirti nel reparto del dottor Goldschmidt. I letti scarseggeranno qui, quando inizieremo a operare.» «Dove andrò?» «L'unico posto dove potrai stare in quest'ospedale è l'Underwood Six.» «Matt, ti prego. È un reparto d'isolamento. Non permettergli di farmi questo.» «Sarah, non sarà per molto. E poi, con quello che è successo ieri sera, mi preoccuperei se ti trovassi altrove. Ho un po' di cose da fare e gente da vedere, per chiarire questa faccenda del preparato. Sarà solo per oggi. Poi vedremo che cosa fare.» «Ve lo sto dicendo, c'è il segno della puntura di un ago sotto i miei capelli! L'uomo che ha tentato di uccidermi mi ha iniettato qualcosa.» «La prego, dottoressa Baldwin», disse Goldschmidt. «Mi dispiace se ha qualcosa contro gli psichiatri o non si fida di me in particolare. Desidero semplicemente aiutarla. Ma sono le sei e mezzo del mattino. Sono rimasto alzato tutta la notte e mi aspetta un'intera giornata di pazienti e consulti. Cerchi di non rendere la situazione più difficile di quello che è già.» «Sarah, senti», disse Blankenship, «tutto mi dice che stai bene e che stai dicendo la verità. Ma non c'è veramente nient'altro che possiamo fare, per ora. Ascoltami. Ventiquattr'ore di osservazione e farò tutto ciò che è in mio potere per convincere Goldschmidt e il personale a rimandarti a casa. Promesso.» Sarah studiò le espressioni determinate sulle facce dei tre uomini e ac-
consentì con riluttanza a essere trasferita. Lo psichiatra annotò qualcosa sulla sua cartella clinica e promise di passare a vederla all'Underwood Six non appena avesse avuto una pausa. Uno degli psichiatri interni avrebbe provveduto ad accoglierla e ad annotare i suoi dati. «Non ne vedo l'ora», disse Sarah. Le strisce di vinile giallo sulla porta della stanza 512 al quinto piano del Thayer Building non erano diverse da quelle che erano state usate per il negozio di Kwong Tian-Wen. Anche la porta con il pannello centrale sfondato era chiusa. Matt si accertò di non essere osservato, poi staccò la striscia ed entrò. Il supporto della flebo era ancora lì, ma la sacca dell'infusione era sparita, come la cassetta laccata di Sarah. Non c'era un armadio o nessun posto dove nascondersi all'infuori del letto. Qualcuno aveva trovato un modo per andarsene e chiudere la porta dietro di sé. Matt ispezionò la serratura, che non sembrava diversa dalle altre sul piano. Naturalmente, di chiunque si trattasse, avrebbe potuto chiamare un fabbro e farsi fare una copia della chiave. Ma per l'assassino creare un simile testimone era un gesto abbastanza improbabile. Si avvicinò alle uniche due vecchie finestre, quasi opache a causa della fuliggine che vi si depositava da mesi, se non da anni. Al di là, poté vedere l'edificio successivo, a trenta o cinquanta metri di distanza. Alcune sedi di viti gli dissero che, in un remoto passato, le finestre avevano avuto un chiavistello. Sostituirlo era stato indubbiamente un fatto di scarsa importanza per gli addetti alla manutenzione dell'MCB. A cinque piani da terra non c'era questo grande bisogno di sicurezza dall'esterno. Poi Matt guardò giù. A meno di novanta centimetri dal davanzale, per tutta al lunghezza dell'edificio c'era il malandato tetto d'ardesia di una specie di portico del quarto piano. La lieve pendenza del tetto era irrilevante. Matt aprì la finestra e uscì all'esterno comodamente. Sforzandosi di non guardare verso il basso, camminò sbirciando nelle altre stanze del quinto piano finché non ne vide una vuota. La finestra, come quella della camera 512, non era chiusa con il chiavistello. Qualche attimo dopo era di nuovo in piedi nell'atrio deserto. «Addio mistero», borbottò. Era possibile che la sua scoperta, abbinata alle proteste di Sarah, fosse sufficiente per farla dimettere. Ma Matt sapeva che era nel suo interesse trascorrere almeno quel giorno in un posto sicuro. E quello era difficilmente il giorno in cui voleva preoccuparsi per lei. Aveva tuttora poche risposte
per il mistero del Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico. Ma adesso, se non altro, conosceva le domande. E aveva un breve elenco di chi poteva riempire certi vuoti; a cominciare dal direttore amministrativo dell'ospedale, Colin Smith. Chiuse la porta dietro le strisce gialle e si precipitò lungo il corridoio. 38 «Sarah, sei sicura che Paris ti abbia parlato della Fondazione McGrath?» chiese Matt. «Sicurissima. È più di un anno che sa di una possibile sovvenzione dalla fondazione. Me l'ha detto lui stesso. Ha detto che contava su quel denaro per aiutare l'MCB a trarsi d'impaccio. Penso che ne abbia accennato anche a Colin Smith; se è in arrivo una simile somma, ritengo che il direttore amministrativo debba esserne a conoscenza. Forse ci sono dentro lui, Glenn e Peter. Forse lui si arrotonda lo stipendio prima che arrivi all'ospedale.» «Glielo chiederò. È il numero uno sulla mia lista di quest'oggi.» «Matt, ti prego, ascoltami. Sto bene e posso badare a me stessa. Non voglio essere spedita in quel dannato reparto per matti. E poi Peter è dentro fino al collo in tutta questa faccenda, e voglio contribuire a inchiodarlo.» Erano quasi le nove e mezzo del mattino. Sarah era appena stata avvertita che portantini e Sicurezza stavano venendo per trasferirla dal reparto di Chirurgia intensiva a Psichiatria nell'Underwood Six. «Sarah, so che non è quello che desideri», disse Matt, «ma la verità è che hai appena passato un inferno. Ti hanno tolto l'intubazione da un paio d'ore e non ti ho mai vista così stanca. Se non vai volontariamente in Psichiatria, Goldschmidt ti farà ricoverare con la forza. Finché è convinto che hai tentato di suicidarti non hai molta scelta. E c'è qualcos'altro che non dovremmo dimenticare. Dato che sappiamo entrambi che non hai tentato di suicidarti, sappiamo anche che qualcuno là fuori ha tentato di ucciderti.» «Correzione», disse Sarah, la voce tuttora rauca. «Qualcuno là fuori ha tentato di far apparire le cose come se avessi tentato di uccidermi. Questo ha a che fare con il fatto di aver somministrato quel veleno ad Annalee, Matt. Non capisci? Doveva apparire come se avessi tentato di suicidarmi perché mi sentivo colpevole di aver causato quei casi di DIC oltre al fatto di aver cercato di crearne uno in lei. Uccidermi in un altro modo avrebbe significato il contrario. Stiamo toccando il nervo scoperto di qualcuno. Forse di Peter, forse di Glenn, forse di questo dottor Singh. Forse di tutti
loro insieme. Non saprei. Ma ci stiamo avvicinando alla verità. Cercare di raggirarmi è stata una mossa disperata. Dobbiamo arrivare in fondo a tutto questo prima che chiunque l'abbia fatto tenti qualcos'altro. Posso essere d'aiuto, Matt. Te l'assicuro.» «Lo so. Ma ti prego, non sono in posizione di fare niente. Detesto quanto te l'idea di saperti chiusa in quel reparto d'isolamento. Ma per un giorno devi adeguarti. Anche se riuscissimo a farti dimettere, cosa che non possiamo, sarei terrorizzato per te in ogni istante che non trascorressimo insieme. Ho parlato con Rosa ed Eli prima di andare nel tuo appartamento a ritirare le tue cose. Lavoreremo come dei forsennati per scoprire chi c'è dietro tutto questo. E oggi dovremo muoverci parecchio. Rimani lì almeno per un giorno. Poi ti prometto che faremo il possibile per farti mandare a casa.» Il breve incontro con Blankenship era stato fruttuoso. Matt gli aveva confidato alcuni particolari del suo incontro con Jeremy Mallon e il convincimento di Mallon che Peter Ettinger e Glenn Paris fossero in qualche modo collegati con la Fondazione McGrath e il metodo dimagrante ayurvedico. Blankenship sapeva che la Fondazione McGrath aveva base a New York e che i capi dell'organizzazione filantropica avevano preso inizialmente contatto con Glenn Paris e Colin Smith quattro o cinque anni prima. Non aveva mai visto la richiesta che Paris aveva sottoposto all'agenzia né i reali termini dell'accordo. Ma sapeva che c'erano coinvolti milioni di dollari. Si era assunto l'incarico di cercare di localizzare e indagare sulla fondazione. Avrebbe anche provveduto alla macchina promessa a Rosa. L'epidemiologa, agendo sempre con la massima segretezza, non specificò dove fosse diretta o chi stesse cercando, limitandosi ad asserire che non era tuttora sicura dell'indirizzo. La strategia che avevano deciso di adottare era che Matt parlasse prima con Colin Smith, poi con Peter Ettinger e, infine, con Glenn Paris. Secondo Blankenship, Smith era quello che avrebbe ceduto più facilmente. Se così, avrebbero potuto metterli uno contro l'altro. E naturalmente, aggiunse Matt, se quell'approccio non avesse funzionato, c'era sempre il buon vecchio piano B, uno spontaneo attacco frontale. «I portantini sono qui», disse un'infermiera. Matt tirò la tenda e attese fuori mentre Sarah s'infilava i jeans e il maglione che le aveva portato da casa. «Bene, mai stata così pronta», disse lei.
L'agente di sicurezza mantenne una rispettosa, forse imbarazzata distanza mentre un portantino spingeva una sedia a rotelle di fianco al letto di Sarah. «Le ore di visita all'Underwood Six sono dalle sei alle otto di sera», disse Matt. «Ho controllato.» «Tutto qui? Solo due ore?» Matt le prese la mano. «Agli uomini più giovani occorrono giorni per fare quello che noi più vecchi e più esperti possiamo fare in due ore», disse. «Sii forte. D'accordo?» Con riluttanza, Sarah scivolò dal letto sulla sedia a rotelle. «Oh, non preoccuparti per me. Starò bene», disse. «Purché non lasci che mi trattengano più di un giorno.» Indicò l'uscita della rianimazione. «A casa, ragazzi.» Il reparto d'isolamento dell'Underwood Six era dipinto e arredato di fresco. Ogni stanza conteneva due letti singoli. L'eccezione era rappresentata dalla stanza di fianco a quella delle infermiere, che non conteneva mobili all'infuori di un materasso sul pavimento e pareti imbottite. Sarah era nel reparto da due ore quando notò che alle finestre c'erano le inferriate e che all'interno delle porte non esistevano maniglie. A parte il breve esame fisico fatto da uno psichiatra interno che usò stetoscopio, luce tascabile, e oftalmoscopio, ma sembrò riluttante a toccare qualsiasi parte del suo corpo con le mani, fu lasciata quasi sempre sola. Il secondo letto nella stanza, almeno per il momento, era libero. Per un po' si sdraiò sul letto cercando di leggere una rivista di ostetricia; poi, non riuscendoci, tentò con un giallo di Sue Grafton. Infine, quando non riuscì a concentrarsi neanche su una rivista d'arredamento, uscì dalla stanza e si unì alle otto o nove persone che bighellonavano nella sala comune. «Riunione qui in sala comune fra quindici minuti», disse una donna con un'allegra cantilena. «Ordine di servizio.» Sarah guardò assente fuori da una delle finestre. Era sul lato dell'edificio che dava sul campus dell'MCB. Attraverso il vetro, il sole autunnale era ancora molto caldo. In fondo al viale erboso alcuni operai stavano completando la costruzione di una tribuna temporanea. Altoparlanti erano montati su pali dall'altra parte della tribuna. Sarah si stava interrogando sulla sistemazione quando guardò attraverso il campus: il Chilton Building, sul lato più distante rispetto all'Underwood, era in piena attività. Era venerdì 28 ottobre, si rese a un tratto conto. Mancava solo un giorno
alla demolizione. Il vecchio edificio era sempre stato recintato da quando Sarah si trovava all'MCB, il prato intorno a esso notevolmente meno curato di quello del viale. L'indomani, in pochi spettacolari secondi, la cadente struttura avrebbe cessato di esistere. La vista dall'Underwood Six sarebbe stata fantastica; forse l'unico vantaggio di essere un paziente del reparto d'isolamento. Sul davanzale della finestra era posato un vecchio binocolo dalle lenti sorprendentemente buone. Il Chilton Building era isolato da due anelli concentrici di cavalietti. Immensi teli erano stati disposti sui vicini garage. Un piccolo gruppo di uomini in luccicanti elmetti di metallo stava chiacchierando e gesticolando in direzione della struttura condannata. Ma sembrava che la maggior parte degli operai stesse raccogliendo i propri attrezzi. Evidentemente la preparazione dell'edificio e la disposizione delle cariche erano state completate. Sarah si chiese se sarebbe stato presente ai festeggiamenti del giorno dopo anche qualche rappresentante della Fondazione McGrath. Proprio allora notò un furgoncino con un pannello bianco allontanarsi dal lato deserto della costruzione. Lentamente e discretamente passò attraverso una piccola apertura nelle barriere e si allontanò. Grazie al binocolo non fu difficile distinguere la scritta in rosso sul camion: HURON PHARMACEUTICALS. La scritta, a lettere più piccole, spiccava anche sulle portiere dell'automezzo. Quel nome risvegliò qualcosa in lei... Ma perché? «Va bene, riunitevi tutti», annunciò la voce cantilenante. «Ordine di servizio. Non sono ammesse eccezioni. Forza.» Huron Pharmaceuticals, rimuginò Sarah mentre sedeva nel posto all'apparenza meno visibile. Dove diavolo l'aveva già visto? Dove? «D'accordo», disse la capogruppo alla ventina di pazienti del reparto d'isolamento. «Abbiamo due persone nuove con noi, oggi, così penso sia opportuno che ognuno nel gruppo si presenti per nome. Io sono Cecily, uno dei coordinatori del gruppo dell'Underwood Six.» «Marvin», disse l'uomo di colore accanto a lei. «Lynn.» «Io sono Nancy. Non chiamatemi mai Nan.» «Pete...» Peter! Sarah non sentì più nessuno dei nomi che seguirono e dovette essere incalzata a dire il suo quando venne il suo turno. A un tratto aveva ricordato perché il nome Huron Pharmaceuticals le era sembrato familiare. «...le nostre multivitamine vengono prodotte per noi dalla Huron Phar-
maceuticals.» Peter Ettinger aveva pronunciato quelle parole alla sua deposizione. Sarah ne era assolutamente certa. Le udì adesso pronunciate con la sua voce, e con l'occhio della mente vide la sua espressione compiaciuta mentre le diceva: prima la Fondazione McGrath e adesso la Huron Pharmaceuticals. Due connessioni dirette fra Peter Ettinger, il Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico e il Medical Center di Boston. Coincidenza? Sarah serrò forte i pugni in grembo. Bastardo, no! «Molto bene, Sarah», disse Cecily. «Se non vuoi partecipare quest'oggi, capiremo benissimo. Ma devo aggiungere che disapproviamo le parolacce durante...» 39 Era quasi mezzogiorno. Il traffico diretto a sud sull'arteria centrale che portava fuori città era scarso. Ciononostante Matt, conoscendo bene la natura vendicativa dei guidatori bostoniani, rimase sulla corsia di mezzo, attento a non offendere nessuno. Colin Smith non sarebbe stato in ospedale per il resto della giornata, aveva riferito la sua segretaria. Accanito velista, trascorreva in barca ogni venerdì pomeriggio da metà aprile ai primi di novembre. Comunque, aveva aggiunto la donna, una riunione si era prolungata e aveva lasciato l'ufficio solo una ventina di minuti prima. Se il problema di Matt era importante, poteva telefonargli al South Boston Yacht Club. Invece di telefonare, Matt aveva deciso di presentarsi al porto senza preavviso. Conosceva la strada, essendoci stato diverse volte durante gli anni con i Red Sox. E Colin Smith non sembrava il tipo da gradire le sorprese. Prima di recarsi da Smith, Matt era passato dall'ufficio di Eli Blankenship. Il primario aveva chiamato il servizio informazioni di New York per cercare di mettersi in contatto con la Fondazione McGrath. Non rimasero sorpresi che non fosse sull'elenco. La fondazione era stata indubbiamente istituita anni prima con l'unico intento di prepararsi a riciclare gli enormi profitti previsti dalle vendite del Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico. Chiunque avesse ideato quell'operazione era indubbiamente dotato di notevole preveggenza. Ben pubblicizzato, un prodotto dimagrante che non imponeva una dieta,
con o senza efficacia provata, era virtualmente una miniera d'oro. E il prodotto non solo era ben pubblicizzato, ma sembrava funzionare. Per quanto ne sapeva Matt, il prodotto vegetale era stato introdotto e probabilmente sviluppato all'MCB da un misterioso medico indiano ayurvedico, Pramod Singh. Circa quattro anni e mezzo prima, il preparato era stato testato con successo da Singh su almeno tre persone: Alethea Wortington, Constanza Hidalgo e Lisa Summer. Probabilmente anche su altri soggetti ma, fortunatamente, nessun'altra donna era rimasta incinta ed era entrata in travaglio. In seguito, Singh aveva unito le forze con Peter Ettinger e poi con un'agenzia di marketing che conosceva il potere commerciale della televisione. Re Mida stesso non sarebbe riuscito a trasformare le erbe e le proteine in oro con maggior bravura. Una parte dei profitti della vendita del prodotto stava adesso facendosi strada nei forzieri dell'ospedale, forse una sorta di pagamento per il lavoro iniziale svolto lì. Altro denaro stava favorendo l'affermazione di Xanadu e del restante impero olistico di Ettinger. Ma il resto? Secondo i collaboratori di Jeremy Mallon, le somme riservate allo Xanadu e al Medical Center di Boston erano granellini di sabbia rispetto all'enorme successo di vendita che stava producendo. Era molto probabile che Colin Smith non avesse il quadro completo di quello che stava succedendo. Ma doveva sapere qualcosa. Il South Boston Yacht Club, per molti decenni punto di riferimento per i naviganti, era un ampio edificio in legno a tre piani, costruito su palizzate, e di non facile accesso. Al parcheggio adiacente al club c'era un guardiano al quale Matt infilò in mano un biglietto da dieci dollari perche lo lasciasse entrare e fare una sorpresa al suo vecchio compagno d'università, Colin Smith. Seguendo le direttive del guardiano, Matt parcheggiò la macchina e si avviò a piedi verso il molo cinque dov'era ormeggiata la Red Ink, la barca di Colin Smith. La più bella barca del club, aveva precisato l'uomo. Smith stava riordinando alcune cime a poppa e sembrava solo. La sua espressione nel vedere Matt avvicinarsi non fu di piacere. «Daniels», disse, pulendosi le mani nei jeans e guardandolo insospettito. «Qual buon vento la porta qui?» «Affari», rispose semplicemente Matt. «Con me?» «Le dispiace se mi siedo per un paio di minuti?» «Non di più, però.» Gli indicò la cabina. «Questa è la giornata più bella
da settimane. Sono già in ritardo e desidero uscire in mare.» «La conduce da solo?» «A occhi chiusi.» «Accidenti. Senta, Colin. Ha visto il giornale di stamattina?» «Allude al ritrovamento del corpo di Andrew Truscott?» «Ciò che è rimasto di esso.» «Che cos'ha a che fare con me?» «Forse molto. Sarah Baldwin e io avevamo sparso la voce che Truscott era stato assassinato, nessuno voleva crederci. Adesso lo faranno. Dal giorno in cui Sarah è stata citata in giudizio da Willis Grayson, qualcuno si è preso la briga di assicurarsi che apparisse colpevole d'aver causato quei casi di DIC. Truscott è stato assassinato mentre cercava di provare che era stata accusata ingiustamente. Poi, ieri sera, qualcuno ha cercato di ucciderla e di farlo passare per un suicidio. A essere sincero, Colin, credo che lei vi sia coinvolto.» «È pazzo?» «Credo che sia stato lei, o che sappia chi è stato.» Smith si alzò e cominciò a slegare una delle cime di poppa. «Si faccia ricoverare», disse. «Colin, che cosa sa sulla Fondazione McGrath? Perché invia denaro al suo ospedale e contemporaneamente alla società di Peter Ettinger? Chi ha cominciato? Chi si sta realmente arricchendo?» L'uomo finì di srotolare la cima e cominciò a srotolarne un'altra. Matt si aspettava di vedere rabbia sul suo viso, ma vi riscontrò solo paura e confusione, difficilmente l'espressione di un uomo che aveva preso attivamente parte a un omicidio. «Salpo ora, Daniels», disse. «Se ha delle accuse da rivolgermi, credo che dovrebbe parlare con la polizia o con un avvocato. Non con me.» «Merda, non di nuovo il piano B», sospirò Matt. Afferrò Smith per la camicia e lo fece alzare. La scintilla di paura negli occhi dell'uomo si intensificò. «Mi ascolti, e mi ascolti bene», disse l'avvocato quasi a denti stretti. «Quel maledetto preparato che sta arricchendo tutti sta anche uccidendo della gente. Uccidendo! Giovani donne, bambini e Dio sa chi altri. Può anche non saperlo, ma qualcuno con cui è legato lo sa. E a questo qualcuno non importa niente che la gente muoia o no, purché i quattrini continuino ad arrivare. Mi capisce?» La faccia segnata dalle intemperie di Smith era pallidissima. «Mi lasci
andare», disse rauco. Matt allentò la stretta, poi lentamente lo lasciò. «Più continua a tenere la bocca chiusa e più si sporca. Non so se lei abbia qualcosa a che fare con tutta questa gente che muore, Colin. Mi sono interrogato a lungo sul suo conto mentre venivo qui, ma adesso capisco che non c'entra. In realtà penso che lei sia una brava persona.» «Lo sono. Adesso se ne vada.» Matt gli porse il suo biglietto da visita. «È Paris, non è vero?» disse. «Glenn Paris, Ettinger, e quel dottor Singh.» «Se ne vada.» «Può non aver saputo prima d'oggi che la gente moriva», disse Matt, salendo sulla banchina, «ma adesso lo sa. Per cui la ritengo responsabile di qualunque cosa accada d'ora in poi. Si ricordi, donne e bambini muoiono: è colpa sua. Capito? Mi chiami quando si deciderà a dirmi quello che sa... E buona navigazione.» Senza aspettare una risposta, Matt si voltò e se ne andò. Era a una ventina di metri dalla banchina quando sentì avviarsi il motore della Red Ink. Matt rallentò ma continuò a camminare, gli occhi fissi davanti a sé, la concentrazione accentrata sull'uomo dietro di lui. Forza, lo incalzava, certo di aver toccato Smith, pur non sapendo fino a che punto. Chiamami, Colin. Chiamami. «Daniels, un momento!» «Sì?» fece Matt. Si girò e aveva mosso un unico passo in direzione della Red Ink quando questa esplose. Fu un'esplosione violenta alla quale nessuna cosa vivente sarebbe sopravvissuta. Detriti gli ricaddero intorno e sibilarono sull'acqua. Qualche secondo dopo, anche la barca di fianco a quella di Smith esplose, portando con sé quel che restava dei dieci metri di pontile. Un incidente? si domandò Matt. Qualcosa collegato all'accensione? Qualcosa comandato a distanza via radio? Si alzò in piedi e si pulì. Si avvicinò al bordo sbriciolato della banchina e si assicurò che non ci fosse traccia di Colin Smith. Poi si girò verso il club. Sei o sette persone stavano correndo verso la banchina. Alzò lo sguardo al di là degli uomini, verso il posteggio, proprio mentre una Jaguar XJS verde giada indietreggiava e si allontanava sollevando polvere e sabbia. Matt non riuscì a vedere chi fosse al volante. «Torno subito!» mentì agli uomini mentre passava loro accanto.
A testa bassa corse lungo il pendio fino al posteggio. Ma la Jaguar era veloce, potente e in posizione di vantaggio. Doveva raggiungerla, e in fretta, prima di perderla. Matt imprecò mentre trafficava con la chiavetta dell'accensione. Sollevando polvere e ghiaia, passò come un razzo accanto al guardiano sgomento, uscì dal parcheggio e imboccò la strada d'accesso. La Jaguar era sparita. Cominciò immediatamente a interrogarsi sulle possibilità. Probabilmente era andata a sinistra verso l'autostrada. Matt slittò intorno alla prima curva, poi evitò quella successiva attraversando un prato. Il motore della Subaru, di solito molto silenzioso, stava adesso stridendo paurosamente. Nessuna Jaguar in vista. Un altro bivio, altre possibilità. A destra, oppure continuare a puntare verso l'autostrada. Alla sua sinistra, sopra gli alberi, Matt scorse una nuvola di fumo nero che si stava espandendo, sollevata dalla brezza; la brezza che Colin Smith solo qualche minuto prima, si aspettava gli gonfiasse le vele. «Oh, Dio», mormorò Matt mentre afferrava l'orrore di quello che era appena accaduto. L'autostrada era poco più avanti, e la caccia sul punto di finire. Poi, lontano sulla destra, Matt scorse la Jaguar sulla sopraelevata, che stava sfrecciando a nord verso la città. Quand'ebbe superato mezza dozzina di macchine e un autocarro, ed ebbe imboccato la corsia di sinistra, la XJS era di nuovo sparita. Passò accanto a una rampa d'uscita, poi a un'altra. Ora non poteva far altro che proseguire verso nord e pregare che fossero ancora sulla stessa traiettoria. Il traffico rallentò nell'avvicinarsi all'uscita di Massachusetts Avenue e al tunnel di South Station. La distanza fra le macchine si accorciò rapidamente. Ingorgo di mezzogiorno. La caccia era finita. Matt pestò il pugno sul volante. Avrebbe dovuto trovare un modo per risalire al proprietario della Jaguar. Difficile, forse, pensò, ma non certo impossibile... Poi, ancora una volta, Matt individuò l'automobile. Era a un centinaio di metri di distanza, ma stava per imboccare un lungo viale circolare che portava al Massachusetts Turnpike. Matt si piegò sul clacson e cominciò a gridare «Emergenza!» ai pochi che gli prestarono attenzione. A poco a poco riuscì ad avvicinarsi. Con i pneumatici che stridevano imboccò la rampa circolare d'ingresso e stava andando quasi ai novanta quando raggiunse il casello. La Jaguar era di nuovo sparita, ma questa volta Matt era più rilassato. L'uscita per Back Bay era a circa un chilometro e mezzo. Se il guidatore l'avesse imboccata, non avrebbe potuto far nulla, altrimenti, il casello di Cambridge-Allston li avrebbe certamente avvicinati. Infatti Matt era di-
versi chilometri al di là di Allston, quasi al casello di Newton sulla Route 128, quando individuò la sua preda. Credo che dovesse andare così. Si appoggiò al sedile, rallentò e superò il dispensatore di biglietti automatico a nove o dieci macchine dalla Jaguar. Il trucco ora era di seguire l'autista alla sua destinazione senza farsi vedere. Per un anno si era chiesto se installare un telefono nella Subaru. Adesso, con un giorno di ritardo come al solito, decise che l'avrebbe fatto. Una telefonata alla polizia di Stato avrebbe offerto loro un indizio sul comando radio a distanza che aveva innescato la bomba sulla Red lnk. Da come stavano le cose, Matt aveva ancora una possibilità di ritrovarlo, ammesso che il guidatore si sentisse libero e non tentasse di seminarlo. La Jaguar lasciò l'autostrada a est di Worcester. Muovendosi adesso senza particolare fretta, si addentrò nella bella campagna ondulata del Massachusetts centrosettentrionale. Matt, continuando a restare indietro, teneva d'occhio l'autista, ma a ogni chilometro che passava gli sembrava meno necessario farlo. A una ventina di chilometri, infatti, c'era il famoso centro Xanadu e il Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico. E a meno che Matt non si sbagliasse, l'uomo nella macchina verde giada di fronte a lui era alto quasi due metri, con folti capelli grigi e un ego grande quanto Greenland. XANADU INGRESSO A UN CHILOMETRO COMUNITÀ RESIDENZIALE ESCLUSIVA BASATA SUI PRINCIPI CURATIVI DI AYURVEDA VIVETE SPIRITUALMENTE... VIVETE PIÙ A LUNGO... VIVETE QUI CASE A PARTIRE DA UN MINIMO DI $ 450.000 Il grande cartello, a caratteri eleganti sullo sfondo di un tramonto himalayano, includeva anche un numero telefonico per un giro e un colloquio introduttivi. Matt si fermò presso il cartello e scese dall'auto mentre l'uomo che pensava fosse Peter Ettinger percorreva la strada deserta e asfaltata di recente che portava all'ingresso. Dall'altra parte della strada due lunghi steccati convergevano in quello che era probabilmente un angolo di Xanadu. Xanadu, sapeva Matt, traeva il nome da una terra magica e mistica di qualche poesia che un tempo era stato costretto a studiare. Ricordava persino qualche verso a memoria:
A Xanadu, Kubla Kahn emise un decreto per una dimora di gioia... Con l'occhio della mente vide le parole annotate con mano leggera sulla lavagna di un maestro. Milton? Wordsworth? Coleridge, forse? Non riusciva a ricordare l'autore né ricordava altro della poesia. L'immagine, però, di Peter Ettinger nelle vesti di Kubla Kahn non fu difficile da richiamare. Matt stava valutando le sue possibilità quando udì una macchina avvicinarsi; stessa direzione dalla quale lui e Ettinger erano appena arrivati. Si abbassò dietro la Subaru e ispezionò la gomma anteriore destra mentre il pannello bianco di un camion gli passava accanto, proseguendo lungo la strada perpendicolare a quella che aveva preso Ettinger. Avendo letto la deposizione di Ettinger e conoscendola quasi a memoria rilevò il nome sulla fiancata del camion. La Huron Pharmaceuticals produceva le capsule di vitamine incluse nel Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico. Ammettendo che il furgone dovesse fare una consegna, e che il cartello indicasse l'ingresso principale, doveva esserci un ingresso di servizio allo Xanadu. Matt salì in macchina e lo seguì. Tenendosi a distanza, continuò a stargli dietro finché non svoltò a destra in una strada di terra battuta. Poi abbandonò la Subaru in un punto nascosto e si precipitò nella direzione in cui il furgone aveva svoltato. Il cancello era a una trentina di metri dalla strada battuta. E, ovviamente, era aperto. Matt si guardò intorno, poi scivolò attraverso il cancello e si diresse verso Xanadu. Per un centinaio di metri la strada serpeggiava attraverso un fitto bosco. Gli alberi e i cespugli risentivano della stagione autunnale, ma quell'anno l'autunno era stato mite ed erano ancora tutt'altro che spogli. Il bosco finì all'improvviso. Proprio di fronte a dove si trovava Matt c'era un grande lago, probabilmente artificiale. Sull'altra sponda, spiccavano nuove sontuose dimore; alcune apparivano finite, altre erano ancora in costruzione. Il furgone della Huron Pharmaceuticals era parcheggiato dietro un complesso di basse casette bianche collocate in un fitto boschetto a breve distanza, sulla sinistra di Matt. Alla sua destra, forse a duecento metri, c'era una grande fattoria a due piani, anch'essa bianca, con un'ala che si proiettava verso il punto in cui si teneva nascosto Matt. Parcheggiata sul viale di fronte alla fattoria, c'era la Jaguar. Fu il ronzio del macchinario proveniente dagli edifici che indusse Matt a
pensare che ospitassero la fabbrica del prodotto dimagrante. Ma non c'era nessuno in vista, né lì né alla fattoria. Dai boschi alla fattoria non c'erano che sei metri, e da lì alla Jaguar non più di quattro. Sembrava possibile raggiungere la macchina senza farsi vedere: se fosse stata aperta avrebbe tentato di trovare il detonatore. Se invece non ci fosse riuscito, avrebbe dato un'occhiata in giro e sarebbe tornato da dove era venuto. Anche se non fosse stato in grado di trovare un legame fra la morte di Colin Smith ed Ettinger, sussisteva sempre la possibilità che il posteggiatore dello Yacht Club avesse visto e ricordasse la Jaguar, e magari lo stesso Ettinger. Tenendosi basso e al di qua degli alberi, si introdusse nel retro della fattoria e si appiattì conto il muro. Poi girò intorno all'angolo dell'edificio e stava valutando la distanza con la Jaguar quando udì delle sirene avvicinarsi dalla parte dell'ingresso principale. Si nascose nuovamente. Non più di trenta secondi dopo, due macchine della polizia, a sirene spente adesso, si fermarono davanti alla fattoria e sui due lati della macchina di Ettinger. Due agenti rimasero presso la Jaguar, mentre altri due si precipitarono all'interno della fattoria. Uno di essi aveva estratto la pistola. Matt indietreggiò pian piano nel bosco e si nascose in un punto ombroso. Passò qualche minuto. Infine la porta della fattoria si aprì e ne uscirono i due agenti a fianco di un agitato Ettinger. Aveva le mani ammanettate dietro di sé. «C'ero, lo ammetto», Matt sentì Ettinger protestare. «Ma dannazione, non ho fatto niente! Colin Smith mi aveva chiamato per dirmi di andare allo Yacht Club. O almeno aveva detto di essere Smith...» «Ricordi, signor Ettinger», fece uno degli agenti. «Come le ho fatto presente poco fa, qualunque cosa dica può essere usata contro di lei in tribunale. È questa la macchina che stava guidando?» «Sì, naturale.» «E queste sono le chiavi che mi ha appena dato?» «Sì, sì. Ora la apra, dannazione. Non c'è assolutamente niente dentro.» Totalmente sgomento, Matt si nascose ancor più nell'anfratto coperto di foglie. Come poteva la polizia essere arrivata lì così in fretta? si chiese. Ettinger era una celebrità nazionale, e la Jaguar una macchina che non passava certamente inosservata. Forse il posteggiatore o qualcun altro al club lo avevano riconosciuto. «Eccolo», disse l'agente che stava perquisendo la macchina dopo un minuto o giù di lì. «Sotto il sedile anteriore.» Stringeva in mano quello che era chiaramente il comando del detonatore. «Signor Ettinger, pensa proprio che siamo degli sciocchi?»
Ettinger, a un tratto ingobbito, guardava dal poliziotto al comando e viceversa. Anche a distanza, Matt vedeva la confusione nei suoi occhi. «Voglio chiamare il mio avvocato.» «Lo farà dalla Centrale, signor Ettinger.» Peter fu aiutato a salire su una delle macchine della polizia. La portiera che sbatteva riecheggiò nel tranquillo pomeriggio. Matt attese finché non furono spariti, prima di avvicinarsi alla fabbrica. Immaginava che ci fossero agenti della Sicurezza, ma senza Ettinger intorno a identificarlo, poteva essere un po' più sfrontato. Meglio comunque non farsi beccare. Qualora fosse accaduto, la storia dell'ispettore sanitario avrebbe funzionato. C'era una piccola anticamera vicino a dove era parcheggiato il camion. Matt si guardò intorno alla ricerca dell'autista, poi si affiancò al muro e sbirciò dalla finestra. Il luogo era deserto fuorché per due celle frigorifere aperte. Entrambe avevano la scritta HURON PHARMACEUTICAL dipinta sopra. Un ultimo controllo e Matt scivolò all'interno. La porta a vetri dell'ingresso all'edificio principale era chiusa. Al di là, Matt vide una ventina di donne o più, ognuna a un banco di lavoro, intente a riempire scatoloni con quello che pensava fossero i componenti del prodotto dimagrante. Si staccò dalla porta e si avvicinò a una cella frigorifera, che non era nella visuale delle donne, MANTENERE LE VITAMINE SURGELATE FINO ALLA SPEDIZIONE, c'era scritto sul coperchio. Cautamente abbassò la maniglia e aprì la cella. La rastrelliera contenente capsule di vitamine la riempiva completamente. Matt le studiò per un momento. Erano identiche a quelle che Sarah aveva ricevuto da Annalee Ettinger. Ogni confezione conteneva novanta capsule, la provvista per tre mesi. Stava per abbassare il coperchio quando, senza una particolare ragione, alzò una delle rastrelliere. Il corpo sottostante, un uomo, giaceva serenamente supino; con gli occhi aperti fissava Matt senza vederlo. Indossava un abito scuro e una cravatta di seta rossa. Le mani e il viso bronzeo con i baffi erano coperti di una leggera brina. Ma Matt non ebbe difficoltà a riconoscere quell'uomo. L'aveva visto diverse volte sul videotape e si era interrogato spesso su di lui nelle recenti settimane. Pramod Singh, il fattore X del puzzle ayurvedico, non era più un fattore. A un tratto nauseato, Matt abbassò il coperchio e ripulì la maniglia con la giacca. Poi scivolò fuori dalla porta del retro e si appoggiò al muro, respirando profondamente e deliberatamente per respingere l'immagine e la
nausea. Sarah quasi assassinata. Colin Smith e Pramod Singh morti. Peter Ettinger colpevole di averli uccisi o, più probabilmente, incastrato perché apparisse tale. Qualcuno stava annodando in fretta i fili ancora pendenti. Qualcuno che era nel panico. Rilassati, si raccomandò Matt. Vattene e torna da Sarah. Sentì una presenza dietro di sé un istante prima di vedere l'ombra sul muro; l'ombra di un braccio che si abbatteva sulla sua testa. Reagì, ma era troppo tardi. Un oggetto pesante e rigido si abbatté proprio dietro il suo orecchio destro. Strinse i denti mentre un dolore paralizzante gli esplodeva nella testa e nel collo. L'ultima cosa che vide fu il terreno che veniva verso la sua faccia. 40 Rosa Suarez aveva superato il rondò di Gloucester in fondo alla Route 128 quando la vecchia Chevy wagon del Medical Center cominciò a comportarsi in maniera strana. Accelerò chiedendosi se non fosse rimasto impigliato un ramo, ma il problema non fece che peggiorare. Imprecando a bassa voce in spagnolo, si fermò. Purtroppo si era messa in viaggio molto più tardi di quanto avesse desiderato. Se Martha Fezler avesse chiuso presto il suo cantiere, la giornata o probabilmente l'intero fine settimana sarebbero andati perduti. Prendendosela con se stessa per non aver noleggiato una macchina invece di farsela prestare, scese sul bordo erboso della strada nella nebbiosa luce pomeridiana. Il problema fu immediatamente chiaro: la gomma posteriore destra appariva tagliata in più punti. Rosa non aveva mai cambiato una gomma in vita sua. Aprì il baule e individuò il cric e la ruota di scorta, poi tirò fuori il libretto delle istruzioni da sotto un mucchio di ricevute di riparazioni accatastate nel cruscotto. Se la procedura le fosse sembrata chiara, decise, ci avrebbe provato. Altrimenti avrebbe fermato qualcuno. Tornò sul retro della macchina, assorta nel manuale. «Salve.» Il saluto dell'uomo la fece talmente sussultare che lasciò cadere il libretto delle istruzioni. Stava a pochi passi da lei, a braccia conserte, sorridendo cordialmente. Sui venticinque anni, con un bel viso e occhiali dalla montatura di metallo. Indossava un berretto di lana da marinaio e una giacca a vento scura. La sua macchina era parcheggiata poco lontano dalla Chevy wagon, le luci
d'emergenza lampeggiavano. «Scusi se l'ho spaventata», disse. «Mi sono fermato per vedere se aveva bisogno di una mano.» «Oh, cielo», esclamò Rosa, portandosi una mano al petto, «certo che mi ha spaventato. Ma grazie per essersi fermato. È stato molto gentile. Per la verità, se devo cambiare questa ruota, sarà la prima volta per me.» «Sarò lieto di farlo io.» L'uomo venne avanti e tirò fuori il cric e la ruota di scorta. Camminava zoppicando vistosamente. La gamba sinistra sembrava irrigidita all'altezza del ginocchio. Rosa si augurò che il problema fosse temporaneo. «Una vecchia ferita riportata al college giocando a football», disse sistemando il cric. «Oh, mi dispiace molto. Non intendevo fissarla.» «Non mi stava fissando, in realtà. È solo che noto le cose. Anche se a suo tempo non ho notato il difensore. Se mi fossi spostato a sinistra invece che a destra, chissà dove sarebbe finita la mia vita. Sta andando a Gloucester?» «Per la verità, sì. Abita lì?» «Momentaneamente. Sono un biologo del dipartimento di Pesca marina. Stiamo ideando un progetto per le aragoste.» «Interessante. Anch'io sono uno scienziato del Governo. Un'epidemiologa dei Centers for Disease Control.» «Atlanta è un bel posto», disse lui, «anche se fa un po' troppo caldo per i miei gusti. Dov'è diretta a Gloucester?» «In un posto chiamato Cantiere Fezler.» «Mai sentito nominare.» L'uomo si tolse il berretto e si asciugò la fronte con il dorso della mano. I suoi capelli erano del colore del sole. Possedeva tutti gli attributi fisici di una stella cinematografica o di un modello, notò Rosa. E invece era uno scienziato di prim'ordine. Ne rimase colpita. «È in Breen Street», aggiunse. «Mai sentita nominare neanche la via», disse lui. «Forse dovrei prestare più attenzione a dove vivo.» «Immagino che abbia per la mente cose più importanti. Vorrei ricompensarla per l'aiuto. Sono molto...» «Sciocchezze. Accetterei volentieri una tazza di caffè, però, se lo desidera.»
«Mi dispiace. Sarei felice di saperne di più sul suo lavoro, ma devo assolutamente andare. Sono terribilmente in ritardo.» «Ehi, nessun problema. Il mio nome è Darryl. È stato un piacere.» «Rosa», disse lei. «Grazie mille.» L'uomo sorrise cordialmente e le strinse la mano, poi ritornò zoppicando alla sua macchina e si allontanò. Rosa guardò l'orologio. Aveva impiegato quindici minuti. «Díos hace las cosas», disse mentre scivolava dietro il volante e si dirigeva verso Gloucester. Dio provvede. Dopo le indicazioni di due stazioni di servizio e due svolte mancate, Rosa trovò finalmente Breen Street. Il Cantiere di riparazioni nautiche e meccaniche Fezler era un grande capannone di legno in rovina, con accanto due magazzini altrettanto in rovina. L'intera area assomigliava a una polveriera prossima a esplodere. Rosa percorse altri due isolati prima di trovare una strada abbastanza ampia per posteggiare. Le due porte che davano sulla strada e un piccolo ingresso appena svoltato l'angolo dell'edificio erano chiusi. Rosa bussò una volta e attese, bussò di nuovo e attese ancora, quindi entrò richiudendo la porta dietro di sé. Fu come se avesse mosso un passo indietro nel tempo. L'interno del cantiere era ingombro e scarsamente illuminato. Attrezzi, alcuni abbastanza moderni, altri molto antiquati, riempivano il capannone. L'atmosfera era pesante e c'era un pungente odore di olio, benzina e grasso. Su un lato del cantiere spiccava una grande scrivania ingombra di ricevute, riviste e cataloghi. Sopra la scrivania c'era lo stesso calendario che Rosa aveva visto nella camera da letto di Elsie Richardson. Da qualche parte proveniva musica classica. Quasi certamente Mozart, pensò Rosa. «Salve!» disse. Non rispose nessuno. Dal lato che dava sull'acqua c'era un solaio a cui si accedeva da una scala aperta. Rosa guardò in su nel momento in cui qualcuno chiudeva la porta in cima alla scala. «Salve», ripeté. «C'è nessuno?» «Sul retro», disse una voce stridula. Rosa seguì la voce verso la musica e l'acqua. Le immense porte sul retro della costruzione si aprivano sul porto. Rotaie d'acciaio salivano dall'acqua, attraversavano una stretta piattaforma e giungevano sul pavimento del cantiere. A sessanta centimetri dalle rotaie c'era sospeso un grande motore nautico. Accanto al motore, intenta a lavorarci, c'era una donna. Non era
particolarmente alta, ma era fisicamente imponente sotto ogni altro profilo. Grossa fu l'unica parola che venne in mente a Rosa. Non grassa. Neanche pesante, anche se quasi certamente lo era. Solo grossa. Spalle e schiena larghe facevano apparire tese le bretelle della sua tuta macchiata di grasso. Le maniche della maglietta nera erano tese al massimo. I capelli, sotto un berretto Mobil, erano legati indietro in una corta coda di cavallo. «Benvenuta», disse. Alzò lo sguardo su Rosa a sufficienza da squadrarla, poi riconcentrò l'attenzione sul motore. «Sto cercando Martha Fezler», disse Rosa. «L'ha trovata.» Allentò alcuni bulloni e li lasciò cadere in una scatola del caffè mezza piena di un liquido dall'odore acre. «Il famoso sgrassatore Fezler», spiegò. «Benzina, acido borico e la giusta quantità di saliva.» Alzò di nuovo lo sguardo su Rosa, sorrise maliziosa e ammiccò. «La radio è laggiù vicino alle scale. Spenga pure se vuole che senta quello che ha da dire.» Rosa fece come la donna le aveva ordinato. Quando ritornò, Martha Fezler si era appropriata di una pesante spranga macchiata di olio e stava alzando il motore sopra la sua testa. «Quanto pesa?» chiese Rosa. «Senza l'invertitore? Ottantacinque, forse novanta chili.» «Mi lascia senza fiato.» «Non è il caso. Con l'attrezzatura che ho qui, potrei alzarne due alla volta se proprio lo volessi o dovessi farlo... O almeno penso che potrei.» Agganciò al muro la corda unta e formò un cappio per assicurarla. Rosa stentava a credere a ciò che stava vedendo. «Quel cappio è sufficiente a sostenerlo?» chiese mentre la donna allungava una mano verso l'alto e prendeva la coppa dell'olio. «Sì, se non si fanno pasticci», rispose Martha. «E dato che lavoro sola qui, nessuno ne fa.» La sua faccia da luna piena era priva di rughe e allegra. E, benché i suoi modi fossero bruschi e la sua voce gracchiante, c'era in lei un qualcosa di attraente. Rosa si presentò. «Signorina Fezler, ho bisogno del suo aiuto», disse. «Sono Martha. E a meno che non abbia guai con una macchina o una barca, non vedo come potrei...» «Martha, ho bisogno di trovare suo fratello Warren. È molto, molto urgente.» La donna abbassò le mani e se le pulì in uno straccio che sembrava inca-
pace di assorbire altro grasso. Per un momento Rosa pensò che avrebbe negato di avere un fratello e le avrebbe chiesto di andarsene. Poi, altrettanto in fretta, l'espressione della donna mutò. «Forse faremmo meglio a sederci», propose. «Gradisce un po' di caffè?» Il piccolo tavolino di metallo guardava placido sul porto da un punto accanto alle rotaie. Seduta di fronte a Martha Fezler, Rosa narrò come fosse rimasta coinvolta nello studio dei casi di DIC al suo arrivo al Medical Center di Boston. Prima la scoperta del diario di Constanza Hidalgo, poi Ken Mulholland e i loro sforzi per risalire alla fonte del virus CRV113. «Ho la sensazione che le donne sulle quali ho svolto le mie indagini siano rimaste in qualche modo infettate dal virus che ha creato suo fratello», concluse. «È possibile che un componente di questo prodotto dietetico di cui hanno fatto uso sia stato contaminato. Non lo so. Spero che lo sappia Warren. Una volta contagiate le donne, le loro difese immunitarie hanno combattuto il virus, ma mai completamente eliminato. È rimasto in equilibrio con i loro corpi finché lo stress del parto non ha sbilanciato tale equilibrio.» «Quante donne sono morte per questo?» «Due che io sappia. E i loro figli. Una terza, quella dalla quale abbiamo fatto la coltura del virus, ha perso il bambino e un braccio. Temo che non sarà l'ultimo caso, Martha. Ecco perché ho bisogno di trovare suo fratello.» Martha Fezler guardò verso l'acqua e le ombre del pomeriggio che si stavano allungando. Infine porse a Rosa un blocco e una matita. «Annoti il suo nome, il luogo da dove proviene, il nome del virus e il nome di quella malattia», disse. Attese che Rosa l'avesse fatto, poi strappò il foglietto e se lo infilò nella tasca della tuta. «Aspetti qui», aggiunse. Salì pesantemente la scala e scomparve attraverso la porta del solaio. Rosa scarabocchiò assente sul blocco mentre osservava un paio di gabbiani battersi per una cozza. Solo quando riabbassò lo sguardo si rese conto che stava sfumando la parola BART. Passarono cinque minuti. Una volta fu certa di sentire Martha Fezler gridare. I gabbiani ripresero la loro disputa e si allontanarono attraverso il porto. Infine la porta del solaio si aprì e ne uscì Warren Fezler seguito dalla sorella. Era anche più esile di come lo ricordasse Rosa dalla volta che le era passato di corsa accanto al campus dell'MCB. Paragonata a lui, Martha appariva decisamente pesante e goffa. L'uomo si avvicinò a Rosa e le sorrise timidamente. «S-spiacevole di averle c-causato tanti guai», disse. «Ero m-molto spa-
ventato.» Sedette di fronte a lei. Martha portò un'altra sedia pieghevole e vi sedette, guardando i binari. «Warren dice che va bene se resto», aggiunse. «D'accordo», rispose Rosa. «Mi creda, Warren, farsi avanti è l'unica cosa giusta da fare.» «Anche se v-vengo ucciso?» «Faremo in modo che non accada. Quando il mio caposezione scoprirà quello che sta succedendo, lei otterrà tutta la protezione necessaria. Se ho ragione, Warren, altri sono già morti a causa di questo virus. Ci sono buone probabilità che facendosi avanti lei possa salvare molte vite.» «Onestamente non s-sapevo che avesse nuociuto a qualcuno. Ha detto che era stata la d-dottoressa Baldwin a causare il loro problema. N-non il virus.» «Chi l'ha detto, Warren?» Fezler si fregò gli occhi, che apparivano fissi e stanchi. Si girò verso Martha, che gli fece un cenno d'incoraggiamento. «Blankenship», disse all'improvviso. «Eli B-Blankenship.» Rosa lo fissò incredula. Blankenship! L'unica persona, a parte Sarah e Matt Daniels, a cui aveva confidato le sue informazioni. Si sentì una morsa allo stomaco. «Mi spieghi», disse. «B-balbetto molto. Mi dispiace.» «Non c'è niente di cui dispiacersi, Warren. Non ci pensi neppure. Mi parli del CRV113 e di Eli Blankenship.» «Se p-parlo lentamente, non va tanto male.» «Sta andando benissimo.» Fezler trasse un respiro per calmarsi. Quando ricominciò a parlare, sembrava più composto e più sciolto. «Il CRV è un virus legato alla coagulazione. Mi sono imbattuto per caso nella sua proprietà dimagrante. C-credo sia dovuta a una sorta di gene che è strettamente legato al cromosoma di uno di quelli a cui stavo lavorando. Il gene in questione interferisce con la digestione e il deposito cellulare di grasso bloccando uno specifico enzima. Isolando i geni della coagulazione dai loro cromosomi, separo evidentemente i geni che provvedono al controllo e all'equilibrio di quello che inibisce il grasso. Le mie s-scimmie cominciarono a dimagrire. Molte morirono. Dopo essermi reso conto di quello che stava succedendo loro ho apportato dei mutamenti alle quantità
delle sostanze inoculate. Smisero di morire e si limitarono a perdere peso. Alla fine ingerii io stesso il virus. Funzionò perfettamente. Persi una cinquantina di chili in pochi mesi senza nessun tipo di p-problema né altri effetti collaterali.» «Ma Collins ha detto che tutte le sue scimmie sono morte.» «Mi v-vergogno di ammetterlo, ma le ho uccise io per proteggere il segreto. È stata un'idea di Blankenship. Eravamo compagni di scuola. Lui è dottore in Medicina, io sono laureato in Medicina e ho un dottorato di ricerca. Giuro che non ho mai pensato di nuocere a nessuno. Deve credermi.» «Ti crede, Warren», disse mestamente Marma. «Continua.» «Raccontai a Eli del virus e di q-quello che avevo scoperto. Disse che saremmo potuti diventare molto ricchi. C'erano due p-problemi, però.» Per Rosa i pezzi stavano già andando al loro posto. «Il brevetto», fece. «Esattamente. La BIO-Vir è proprietaria del virus.» «E immagino che il secondo sia stato il Food and Drug Administration.» «È molto intelligente», ammise Fezler. Rosa pensò a tutto quello che aveva confidato a Blankenship; soprattutto negli ultimi due giorni. «No, non così intelligente», disse. «Dunque, Blankenship inventò il Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico per evitare un lungo protocollo di ricerca con l'FDA.» «Che non a-avrebbero mai approvato comunque. Eli predispose tutto quanto. È incredibilmente b-brillante, ma è un demone. È bugiardo, scaltro e molto, molto astuto. Nessuna persona coinvolta sapeva mai che cosa facesse l'altra. Né Singh né Ettinger né Paris, nemmeno io.» «Nessuno sapeva del virus?» «Solo io... ed Eli.» «Ma è nel prodotto dietetico!» «N-no, non nel prodotto. Nelle vitamine. Una delle capsule di vitamine, la n-numero nove, è diversa dalle altre. Le ho preparate io stesso in un laboratorio organizzato per me. Sulle prime ho creduto alla versione che la dottoressa Baldwin fosse responsabile di quei casi di DIC. P-poi ho cominciato ad avere dei dubbi. H-ho avuto paura di quello che stavamo facendo. Specialmente con t-tanta gente che acquistava il prodotto.» «Così Blankenship ha cercato di ucciderla?» «Non lui. Un uomo da lui assoldato. Alto e b-biondo con...»
«No!» Rosa stava per dire la stessa parola quando Martha Fezler la gridò. I suoi occhi erano sbarrati dal terrore. In quell'istante, udì uno schiocco alla sua destra. Martha gridò e volò all'indietro come se fosse stata colpita da una pallonata. Warren e Rosa si chinarono su di lei. Respirava a fatica e i suoi occhi erano vitrei. «Oh, Dio!» esclamò Warren, toccando il foro più grande di una moneta nella pettorina della sua tuta, che si stava già inzuppando di sangue. «Le hanno sparato.» «Eccellente deduzione, Warren.» Si girarono verso la voce, che Rosa aveva riconosciuto ancor prima di vedere l'uomo. Darryl stava comodamente appoggiato a una trave, sorridendole come le aveva sorriso sull'autostrada. La pistola dotata di silenziatore che stringeva in mano era puntata verso di loro. «È l'u-uomo», disse Fezler stando in ginocchio, «l'uomo di BBlankenship. Perché hai s-sparato a mia sorella, bastardo? Perché?» «Si tratta di affari, Warren», rispose Darryl, muovendo un passo verso di loro. «Sono sicuro che Rosa capisce. Non ce l'ha con me perché le ho sparato alla gomma. Sa che si trattava di affari. Un modo per sapere esattamente dov'era diretta. Non ce l'ho con te se mi hanno spappolato il ginocchio l'ultima volta che eravamo insieme, e se resterò zoppo per il resto della mia vita. Io lo considero un rischio del mestiere. Adesso, però, è il tuo turno.» «F-figlio di p-puttana!» gemette Fezler. «Alzati, su!» Intontito, lo scienziato fece come gli era stato richiesto. Sembrava un uomo rassegnato a morire. La pistola di Darryl si levò e Rosa si rese conto che Fezler non aveva intenzione di muoversi. Si tuffò verso di lui e lo spinse più forte che poté. Lui incespicò, poi ruzzolò dalla piattaforma del retro fra le rotaie e l'edificio. Il proiettile scheggiò il pavimento dove poco prima c'era stato Fezler. «Scappa, Warren, scappa!» gridò Rosa. Darryl si girò verso di lei e sorridendo in maniera calma e malevola, le sparò al petto. In un grottesco balletto, Rosa girò quasi su se stessa, le braccia che sbattevano come quelle di una bambola di pezza, gli occhiali che volavano via. Cadde pesantemente a terra, vicino a dove si trovava Martha. Il dolore esplose attraverso la sua schiena da un punto poco al di sopra del suo seno destro. Gridò, ma non emise alcun suono. Anche una
piccola inspirazione era come una pugnalata attraverso il petto, la spalla e la mascella. Darryl, ignorandola completamente, si era spostato dove Warren era caduto dalla piattaforma. Stringeva mollemente la pistola dotata di silenziatore mentre guardava verso l'acqua. Adagiata su un fianco, ansimante, Rosa pregava che Fezler si fosse dato alla fuga. «P-per favore, n-non sparare», lo sentì dire all'improvviso. «In piedi», ordinò Darryl. «Lentamente, ora. In piedi.» Rosa imprecò in silenzio contro entrambi. Controllando il dolore lancinante si trascinò verso di loro. «Su, Warren, da questa parte. Su... su, ragazzo.» Rosa si mosse, dapprima sul ventre, poi aiutandosi con le mani e le ginocchia. Il polmone aveva subito un collasso, ne era sicura. Sentiva sapore di sangue e lo sentiva sgorgare dal petto. Era stordita e vedeva in modo sfocato. Poi, mentre si chiedeva se poteva muoversi di qualche altro centimetro, la sua mano sfiorò il barattolo del caffè di Martha Fezler. Udendo il fruscio, Darryl si girò. Con tutta la sua forza, Rosa gli tirò il solvente in faccia. Lui barcollò all'indietro gridando, fregandosi freneticamente gli occhi con la mano libera e sparando selvaggiamente con l'altra. Un proiettile s'infilò nel braccio di Rosa, ma lei non ci fece quasi caso. Si era tirata su con una corda e stava incespicando verso il muro. «Warren, aiuto!» gridò rauca. Darryl, che si stava adesso contorcendo a terra accanto ai binari, sparò istintivamente alla sua voce. Il proiettile scheggiò il capannone a pochi centimetri dal viso di Rosa. «Aiutami, per favore!» Un altro proiettile si conficcò nel muro accanto a lei. Il sangue che le gorgogliava in gola stava cominciando a soffocarla. La sua tosse era incredibilmente debole e stava per perdere coscienza. La stanza girava incessantemente mentre lei scivolava a terra. A un tratto, attraverso l'incessante foschia, udì un rumore assordante, seguito istantaneamente da uno spaventoso gemito di Darryl. Poi, altrettanto improvvisamente, ci fu silenzio. Rosa giaceva accanto al muro, a malapena cosciente. La sua mano era a pochi centimetri dagli occhi. Tuttavia, le ci volle un po' per capire che stava stringendo la corda che Martha aveva legato mollemente. Scrutò attraverso il buio che andava aumentando: a qualche metro di distanza, il killer di Blankenship giaceva a faccia in giù completamente immobile. Il grande motore entrobordo riposava sopra la sua schiena.
«Warren?» sussurrò Rosa, quasi impercettibilmente. «Venga qui.» Non ci fu risposta mentre lei lottava contro l'invadente oscurità. Ma a poco a poco i suoi occhi si chiusero. «Rosa?» Fezler sussurrò piano il suo nome nel toccarle la spalla. «Rriesce a sentirmi?» Rosa annuì ma non poté parlare. Sentiva il sangue sgorgarle dalla bocca. «Tenga duro. Chiamo un'ambulanza.» «Aspetti», ansimò. «Che cosa?» «Blocco... matita... laggiù.» Sbalordito, Fezler prese il blocco e poi le alzò la testa e l'appoggiò al suo grembo. Penosamente, lentamente, Rosa gli dettò un numero di telefono. «Chiami... subito», cercò di dire. «Gli spieghi... Sarah... è... all'MCB... Quest'uomo... l'aiuterà.» «Chiamo l'ambulanza», disse Warren. «Rosa? Dannazione, Rosa, no!» I muscoli della donna si rilassarono. Le sue labbra si atteggiarono in un sorriso. «Chiami...» disse. 41 29 ottobre Ogni ora di reclusione nel reparto d'isolamento dell'Underwood Six era per Sarah più traumatica e spiacevole della precedente. Il personale sembrava determinato a non riservarle alcun trattamento speciale solo perché era un medico. E alcuni di loro gioivano chiaramente di avere potere e controllo su un dottore. Ogni richiesta che faceva, anche la più insignificante, era proibita o modificata da una sorta di regolamento. I suoi principali antagonisti erano gli operatori della salute mentale, giovani laureati che si specializzavano in psicologia o sociologia, e che sembravano aver preso il lavoro come una soluzione provvisoria in attesa di decidere che cosa fare delle loro vite. «Il mio medico non è venuto a vedermi per tutto il giorno. È molto importante che gli parli. Può chiamarlo, per favore?» «Mi dispiace. Non chiamiamo mai i medici a meno che non si tratti di un'emergenza o di un problema con i farmaci. Verrà più tardi, stasera o domattina, come tutti gli altri dottori.»
«Ehi, mi dispiace disturbarla, ma vorrei vedere il Testo di riferimenti medici delle infermiere, per favore. Sto cercando di trovare una casa farmaceutica chiamata Huron Pharmaceuticals.» «Mi dispiace. I libri del personale non possono essere prestati ai pazienti.» «Be', potrebbe controllare lei per me?» «Forse più tardi, dopo la riunione, se ci sarà il tempo.» Alla fine, una riduzione a sorpresa della coda in attesa di usare l'unico telefono a gettoni aveva permesso a Sarah di chiamare un amico della farmacia dell'ospedale. Non esisteva alcuna società chiamata Huron Pharmaceuticals. Quell'informazione fece scattare di nuovo Sarah contro gli operatori della salute mentale. «Ero certa che il mio avvocato sarebbe venuto durante le ore di visita. Adesso sono finite e non è comparso. Posso vederlo per un minuto se viene più tardi? È molto importante.» «Mi dispiace, non è possibile.» «Se telefona al banco delle infermiere, potreste passarmelo?» «Le chiamate dall'esterno arrivano attraverso il telefono a gettoni dei pazienti.» «Ma il telefono a gettoni è rimasto occupato tutta la sera e poi è stato disattivato alle dieci. Nessuno mi aveva avvertita. Posso usare il telefono del banco delle infermiere per cercare di rintracciarlo?» «Sarà tutto uguale anche domattina, Sarah. Può non crederci, ma è così. Perché non prende la medicina che le ha ordinato il dottor Goldschmidt, non legge un po' e cerca di dormire?» Dopo aver saputo che il telefono a gettoni veniva disattivato alle dieci, Sarah rinunciò all'idea di sentire Matt prima dell'indomani. Ma con il passare delle ore la sua preoccupazione per lui aumentava. Perché non aveva almeno chiamato? Si calmò pensando che doveva essersi lasciato inavvertitamente sfuggire le due ore di visita e poi era rimasto vittima del segnale di occupato del telefono a gettoni. Forse era venuto tardi nel reparto ed era stato allontanato da uno degli operatori della salute mentale. Le ore all'Underwood Six trascorrevano minuto per minuto. Erano le due e mezzo del mattino e Sarah sedeva in una consunta poltrona di pelle accanto alla finestra della sala comune, grata che nessuno si fosse precipitato a proibirglielo. Aveva ancora la gola irritata a causa del tubo endotracheale e, in aggiunta alla sensazione di stanchezza e debolezza, le era venuta una brutta tosse.
Ma si sentiva costretta a rimanere alzata anche tutta la notte, se necessario. Se e quando il furgone dell'Huron Pharmaceuticals fosse ritornato al Chilton Building, voleva saperlo. Se i segreti sarebbero rimasti sepolti sotto il pietrisco oppure rimossi prima che l'esplosione rendesse impossibile farlo. Forse quelli della Huron avevano già concluso i loro affari all'interno dell'edificio, ma forse no. Un fascio di luce, un'occhiata all'autista del camion avrebbe potuto chiarire molte cose. «Come sta?» Sarah sussultò nel sentire la voce. «Oh, salve», disse. L'uomo, Wes, era un assistente del reparto. Sui quarant'anni, era più anziano degli assistenti del turno di giorno e di quello della sera, ma Sarah pensava che il suo ruolo sul piano avesse più a che fare con la sicurezza che con la terapia. Aveva la struttura snella e muscolosa di un ginnasta o di un sollevatore di pesi, e il tatuaggio di un teschio e un pugnale su una spalla che sembrava determinato a mostrare. L'impressione di Sarah era che fosse molto pieno di sé. Dubitava anche seriamente che la sua istruzione andasse oltre la scuola superiore. Dal suo arrivo alle undici, quella era la terza volta che veniva a parlarle. «Sta osservando qualcosa di interessante?» «Non proprio. Quell'edificio verrà fatto saltare domani.» «Lo so. Resti qui a guardare, questi sono i posti migliori. Ha mai lavorato lì?» «Che cosa? Oh, no. Non è mai stato aperto da quando sono qui. Sono piuttosto curiosa, ecco tutto.» Sarah continuò a guardare attraverso il campus, pensando a Matt. La logica le diceva che stava bene, ma una sgradevole sensazione, totalmente illogica, le diceva invece che qualcosa non andava. «Sta con qualcuno?» chiese Wes, scrutandola apertamente. Oh, no! pensò Sarah. «Sì, sì, sono fidanzata», si affrettò a rispondere. L'assistente le stava chiaramente facendo delle avance. Non le mancava che questo. Pensò a come sarebbe stato utile che a ogni medico venisse richiesto di trascorrere un po' di tempo come paziente. «Ehi, a me non importa, se non importa a lei», disse Wes, sistemando la manica della sua maglietta in modo da esporre completamente il teschio. «Ci sono un sacco di regolamenti qui. Posso aiutarla ad aggirarli.» Sarah pensò per un momento che stesse per toccarla. La prospettiva la nauseò. Ma se l'avesse respinto troppo bruscamente avrebbe potuto acca-
derle qualunque cosa. La stanza imbottita era quasi esclusivamente occupata da chi criticava in qualche modo l'autorità del personale. «Senta, Wes, apprezzo molto che venga a chiacchierare con me. Ma ho bisogno di prendere le cose lentamente... Se capisce ciò che voglio dire.» La faccia dell'uomo s'illuminò. «Oh. Oh, sì. Capisco quel che vuole dire. Desidera qualcosa, ora? Una bibita fresca? Qualcosa di dolce? Magari qualcosa di bianco e farinoso? Non ha compagne di camera e la stanza accanto alla sua è vuota.» La nausea di Sarah aumentò. Se quell'incubo fosse mai finito sarebbe tornata all'Underwood Six come medico. E in nome di tutte le donne che vi erano state rinchiuse, gliel'avrebbe fatta vedere lei a quel farabutto. Se... Rifiutò per il momento ogni favore, chiedendogli che avrebbe gradito una sua visita più tardi, ammesso che fosse stata ancora sveglia, e continuò a guardare fissamente attraverso il campus. Con il passare dei minuti si sentiva sempre più determinata, prima della grande esplosione, a trovare un modo per andarsene dall'Underwood Six e fare una capatina al Chilton Building. Quell'idea, ammise con un sorrisetto, era pazzesca. Alle tre e mezzo stava cominciando a perdere la sua battaglia con lo sfinimento. Sapeva di addormentarsi ogni tanto, ma intendeva usare il binocolo e continuava a pungolarsi per rimanere sveglia. Rosa, Matt ed Eli avevano trascorso buona parte della loro giornata a cercare di dipanare la matassa del mistero del CRV113. Lei aveva trascorso la giornata in gruppo e la notte a respingere un operatore della salute mentale che era più disturbato di molti pazienti. Il suo stato di impotenza era intollerabile. In qualche modo devo cercare di apportare il mio contributo, insisteva fra sé. In qualche modo troverò una via per... Sarah scosse la testa per schiarirsi le idee e si passò sul volto una salvietta bagnata che era stata la sua unica alleata durante la lunga notte di veglia. C'era un certo movimento sul lato più lontano del Chilton Building. Spense le luci del soffitto fluorescenti, prese il binocolo e puntò i gomiti fra il davanzale e la finestra. Non esisteva illuminazione intorno al Chilton Building, ma la luna, anche se calante, era quasi piena e le luci nei viottoli del campus erano abbastanza numerose da attenuare l'oscurità. Sarah attese che i suoi occhi si adattassero alle tenebre, ma era già sicura di quello che stava vedendo. Il camion della Huron era tornato.
Black Cat Daniels sapeva che stava per morire. E a volte, durante le brutali ore che aveva trascorso come prigioniero di Eli Blankenship, aveva pregato che accadesse. Dopo aver perso i sensi a seguito del colpo, si era scoperto a faccia in giù sul retro di quello che pensava fosse il furgone della Huron Pharmaceuticals. Aveva le mani legate dietro la schiena con sottili fili di ferro e le caviglie assicurate a una parete. La testa gli pulsava penosamente e nausea e stordimento si rifiutavano di diminuire. Il furgone era parcheggiato all'interno di una struttura buia; probabilmente un garage. Si udivano rumori di strada, un'occasionale macchina che passava, ma niente voci. La posizione in cui era stato lasciato era terribilmente scomoda. Anche il più piccolo movimento gli procurava un dolore lancinante alle braccia dove il fil di ferro gli penetrava nei polsi. Blankenship effettuò la sua prima visita al furgone molto dopo che Matt aveva riacquistato conoscenza. C'era stata una certa sorpresa nel constatare che era lui ma, in verità, nemmeno troppa. «Avrei dovuto saperlo», disse Matt. «Sì, sì, immagino che avresti dovuto.» «Ha ucciso lei Colin Smith.» «Ho dovuto farlo.» «E Pramod Singh.» «Ho dovuto farlo.» «E ha predisposto le cose in modo che la colpa ricadesse su Ettinger.» «Be', era questo che volevo fare. Dunque, ho risposto alle tue domande. Ammettiamo che tu adesso risponda a qualcuna delle mie. Ho bisogno di sapere se ci sono altri, diciamo, fili pendenti che devo annodare. C'è qualcun altro di cui mi devo preoccupare? Qualcuno con cui hai parlato? Jeremy Mallon? Paris? Che cosa ti hanno detto?» Matt fece del suo meglio per girarsi, ma Blankenship si limitò a scuotergli il gomito facendolo gridare di dolore. «Non so niente», strillò. «Non so nient'altro.» Blankenship gli tirò su la testa afferrandolo per i capelli. «Spero che tu stia dicendo la verità», fece. «Lo vedremo.» Lo lasciò andare all'improvviso e la sua faccia sbatté sul pavimento di metallo. Quando tornò la volta successiva, portò una droga, una sorta di iniezione. Matt svenne quasi per il dolore quando gli mosse il braccio per introdurgli l'ago. Poi, qualche attimo dopo, il dolore svanì. Per un lasso di tempo che avrebbe potuto essere minuti o giorni, sentì soltanto parole e
frasi isolate, prima con la voce di Blankenship, poi con la sua, che gli fluttuavano attraverso la mente come piume. Infine oscurità e silenzio scesero e lo avvilupparono. Quando riacquistò conoscenza, sedeva sul pavimento di un'umida stanza completamente buia, le gambe tese, le caviglie legate insieme. Le mani erano assicurate dietro di lui ad un tubo di metallo. L'aria era polverosa e sapeva di cemento e di muffa. La sua faccia era gonfia e malridotta. Aveva un dente rotto. L'unico pensiero positivo era che era ancora vivo, ma sapeva che tale condizione non sarebbe durata a lungo. Qualche minuto dopo, completamente sveglio, apprese esattamente quanto. Una voce maschile proveniva dagli altoparlanti che erano montati da qualche parte nell'oscurità. «Attenzione, attenzione, per favore», diceva. «Quest'edificio verrà fatto esplodere fra tre ore. Nessuno deve restare all'interno della struttura o delle barriere protettive. Ripeto. Quest'edificio verrà demolito...» «Aiuto!» gridò Matt. «Vi prego, aiutatemi!» La sua voce riecheggiò debolmente intorno a lui. Non c'era nessuna speranza che qualcuno lo sentisse. Nessuna speranza. Silenziosamente imprecò contro Eli Blankenship e la propria avventatezza. Poi abbassò il mento sul petto e attese. 42 Alle sei e mezzo, quando un sistema di campanelli annunciò la sveglia, Sarah si era già lavata e cambiata ed era di nuovo nella sala comune a bere caffè. Se tutto fosse andato secondo il suo piano, nel giro di un'ora sarebbe stata all'interno del Chilton Building. L'orologio stava ancora ticchettando verso la demolizione delle nove del mattino, ma la posta era considerevolmente salita: nascosto da qualche parte all'interno della costruzione, probabilmente nel seminterrato o nello scantinato, c'era un corpo. Il furgone della Huron Pharmaceuticals era rimasto presso l'edificio per mezz'ora. L'autista, un uomo grande e grosso, aveva tirato giù il corpo dal retro del furgone, se l'era gettato in spalla e l'aveva trascinato nel seminterrato. Attraverso il binocolo, Sarah aveva goduto della chiara, inequivocabile visione delle braccia della vittima che penzolavano dalla schiena dell'autista. Trenta minuti dopo, l'uomo aveva fatto ritorno al camion e si era allontanato. Qualche minuto dopo l'accaduto, Sarah si avvicinò a Wes. Conquistare
l'assistente era stato facile. Conquistarlo senza farsi toccare un po' meno. Flirtò come non faceva da molti anni. Fece promesse sottilmente velate. Posò le labbra sul bordo della tazzina del caffè come se contenesse Dom Perignon d'annata. All'alba aveva appreso quanti pasti erano organizzati all'Underwood Six. Il gruppo A era formato dai pazienti meno equilibrati. Scendevano per i pasti nella caffetteria, ma con non più di due pazienti per sorvegliante. Comunque, il personale del turno serale aveva deciso che Sarah non era abbastanza equilibrata nemmeno per il gruppo A. La prima colazione doveva esserle mandata al piano. Il turno di giorno avrebbe potuto decidere per il pranzo. Adesso qualche lusinga, qualche promessa e qualche sorriso invitante le avevano procurato una promozione. Wes aveva spostato un paziente del gruppo B e aggiunto il suo nome all'elenco del gruppo A. Avrebbe mangiato nella caffetteria dalle sei e quarantacinque alle sette e un quarto. Un'allusione non del tutto sottile ai segreti anatomici noti soltanto a un medico, e Wes le concesse persino di usare il telefono nell'ufficio riservato al personale. Prima che Wes le facesse cenno che l'infermiera di turno aveva finito di preparare le medicine e Sarah doveva sgombrare l'ufficio, era riuscita a fare due telefonate. La prima fu a casa di Matt; quando udì che era inserita la segreteria telefonica si sentì morire. La seconda al centralino dell'ospedale, che funzionava da segreteria telefonica per Eli Blankenship. Sarah aveva annotato il messaggio che voleva che la centralinista gli passasse. Tuttavia, dopo un minuto di attesa, e con suo grande stupore, fu il primario stesso a rispondere. Aveva trascorso la notte in ospedale, disse, e stava sonnecchiando sul divano del suo ufficio. «Sarah, come stai?» chiese non appena udì la sua voce. «Come hai fatto a telefonare a quest'ora?» «Glielo dirò quando la vedrò, dottore. E no, non sto bene. Ho bisogno di uscire da questo reparto, e in fretta.» «Sarah, il dottor Goldschmidt è l'unico a poterti dimettere da un reparto di isolamento. Mi dispiace, ma questo è...» «La prego, dottor Blankenship. Non posso stare molto al telefono. Proprio ieri ha detto che mi credeva, e questo prima ancora che scoprissero che avevo detto la verità su Andrew. Deve credermi anche adesso. Sta succedendo qualcosa di terribile in quest'ospedale. C'è di mezzo un gruppo chiamato Huron Pharmaceuticals, il gruppo che fornisce vitamine alla so-
cietà del prodotto dimagrante di Peter Ettinger. Posso provarlo.» «Come?» «Sarò nella caffetteria per la prima colazione alle sei e quarantacinque. Può trovarsi lì?» «Sì, ma...» «Mi tenga d'occhio. Saprò che cosa fare.» «Hai detto prova.» «Lei può farci entrare al Chilton Building?» «Io... sì. Sì, posso.» «La prova è lì. Dottor Blankenship, devo andare. La prego, mi creda. Venga.» «Contaci», rispose Eli Blankenship. Uno degli operatori della salute mentale fece l'appello del gruppo A. Sarah si avvicinò a dove si stavano riunendo presso la porta controllata elettronicamente. Dopo una breve discussione fra il personale, che Sarah sentì che aveva a che fare con lei, la porta si aprì e la processione formata da sei pazienti e tre sorveglianti uscì dal reparto d'isolamento. Wes, da una parte, le strizzò l'occhio e fece il segno di vittoria. La caffetteria dell'MCB era modestamente frequentata, a quell'ora, e perlopiù da interni e infermiere. Sarah si sentì osservata mentre si accodava al suo gruppo. Ma dopo quasi i sei mesi di inferno che aveva sopportato, non ci fece quasi caso. Guardate pure, pensò. Fra qualche minuto, avrete di che guardare. Scelse alcune cose senza l'intenzione di mangiarle, e continuò a guardare in cerca di Blankenship. Gli assistenti assegnarono ciascun paziente a uno dei due tavoli. Sarah si posizionò in modo da godere di un'ampia visuale della caffetteria. Fu allora che notò l'infermiera del reparto Maternità, Joanne Delbanco, che stava prendendo un caffè al tavolo vicino. «Joanne», disse in un mezzo bisbiglio. «Oh, salve, Sarah.» L'infermiera distolse velocemente lo sguardo, ma non prima che lei avesse visto l'espressione di disgusto sul suo volto. Sarah sapeva che i sorveglianti la stavano osservando. Un segno che stava importunando il personale dell'ospedale e avrebbe potuto tornare dritta all'Underwood Six. Tuttavia doveva tentare. «Joanna, dimmi come sta Annalee. Sta bene?» L'infermiera esitò per alcuni interminabili secondi, poi si volse parzial-
mente, parlando quasi dietro di sé. «Se proprio lo vuol sapere», disse freddamente, «è in travaglio attivo. Partorirà probabilmente stamattina o nel primo pomeriggio.» Sarah rimase di stucco. «Ma la terbutalina che dovevano somministrarle?» chiese. Vide i due sorveglianti al suo tavolo scambiarsi occhiate. Adesso si stava comportando al limite della loro tolleranza, e Blankenship non era ancora comparso. «Il dottor Snyder le ha sospeso tutti i trattamenti», rispose Joanne. «Ha deciso che lo stress sopportato era sufficiente. Il bambino è abbastanza grosso e il livello di surfatante è...» «Joanne», intervenne eccitata Sarah, «devi trovare il dottor Snyder. Deve effettuare immediatamente un cesareo prima che sia troppo tardi.» «Devo fare che cosa?» «Sarah, ora basta», disse uno dei sorveglianti. «Joanne, ti prego. È...» «Sarah, se non la smette immediatamente, torniamo subito al reparto. E verrà punito tutto il gruppo per il suo comportamento.» Sarah lo udì a stento. L'immensa figura di Eli Blankenship era appena apparsa sulla soglia. Grazie a Dio, sospirò. La notizia di Joanne Delbanco aveva cambiato tutto. Non era più convinta di entrare al Chilton Building. Adesso l'unica cosa che importava veramente era spiegare a Blankenship la situazione e farlo salire al reparto Maternità. Con la sua influenza, e forse anche con quella di Rosa Suarez, sarebbero probabilmente riusciti a convincere Snyder a effettuare un cesareo su Annalee prima che si verificasse il disastro. Se, in aggiunta, fossero riusciti a fermare la demolizione del Chilton Building, tanto meglio. Ma Annalee e il suo bambino avevano priorità su tutto, o su chiunque potesse essere sepolto sotto i detriti. Bene, signore e signori, pensò Sarah, è il momento dello spettacolo. «Non mi sento bene», piagnucolò. «Che cosa c'è?» «Non... non saprei. Sono stordita e continuo a vedere queste piccole scintille.» «Le è mai successo in precedenza?... Sarah, le ho chiesto se le è mai successo in precedenza!» Lei cominciò a battersi ritmicamente le mani sui polsi. Poi mosse in su e
in giù la testa. Le tremolarono le palpebre, e sotto di esse gli occhi si rovesciarono. «Sarah!» gridò qualcuno. In quell'istante, emettendo uno spaventoso gorgogliante gemito, si gettò all'indietro, dimenandosi in modo da non battere la testa contro il linoleum. «Sta avendo una crisi!» sentì esclamare da un operatore della sanità mentale. «Fate largo! Fate largo!» Asino, pensò Sarah. Girami sul fianco! «State lontani», sentì tuonare Blankenship. «Giratela sul fianco prima che si strozzi!» Le infilò la solida mano sotto la testa a mo' di cuscino, la girò su un fianco e poi le fece scivolare un portafogli fra i denti. Sarah lo strinse, inscenò la crisi per un altro mezzo minuto e poi si concesse di rallentare. Il prossimo passo sarebbe stato verso «l'incoscienza». «Sono il suo medico curante», spiegò Blankenship con calma e autorità. «Ha avuto in passato episodi di epilessia. Non c'è nulla di cui preoccuparsi. Assolutamente nulla. Andrà tutto bene. Credo, comunque, che dovremmo trasportarla al pronto soccorso. Qualcuno può far mandare su una barella?» Uno dei sorveglianti si precipitò a fare quanto richiesto. «Che cosa dobbiamo fare?» chiese un altro sorvegliante. «Riferite al dottor Goldschmidt quanto è successo. Ditegli che per il momento trasferiamo la dottoressa Baldwin al pronto soccorso. Sono il dottor Blankenship.» «Sì, dottore. Lo so.» Sarah sentì il gruppo di astanti cominciare a disperdersi. Blankenship si chinò e le sussurrò all'orecchio che si stava comportando magnificamente bene, e di tenere gli occhi chiusi finché non le avesse detto che era tutto a posto. Lei gemette. Circa un minuto dopo arrivarono i portantini e la deposero sulla barella. «Bene, si sta riprendendo», disse Blankenship. Sarah continuò a lasciar ciondolare la testa di qua e di là mentre veniva spinta fuori della caffetteria, poi lungo il corridoio e sull'ascensore. Sebbene la caffetteria fosse al pianterreno, Sarah sentì l'ascensore scendere. Cercò di immaginare dov'erano mentre uscivano su un altro corridoio. «Bene, puoi aprire gli occhi, adesso, amica mia», disse Blankenship. «È stata una rappresentazione da Oscar.» Sarah si mise a sedere e si guardò intorno: lei e il primario erano soli nel tunnel del seminterrato. Si trovavano all'esterno di una porta di sicurezza
di metallo coperta da un telo. Un grosso cartello segnalava l'ora e la data della demolizione e richiedeva che chiunque entrasse nel Chilton Building prima del 29 ottobre fosse accompagnato dalla Sicurezza dell'ospedale. C'era un telefono a muro presso la porta. Stampato sopra, un biglietto dava il numero della compagnia di demolizione e dell'ufficio della Sicurezza dell'ospedale. «Dov'è l'inserviente?» chiese Sarah. «Abe ci ha lasciati all'ascensore», rispose Blankenship, aprendo la porta. «Gli ho trovato lavoro un milione d'anni fa, e mi prendo cura della sua famiglia. Mi fa dei piccoli favori quando può.» «Dottor Blankenship, è tutto vero. C'è una connessione fra il prodotto dietetico di Peter Ettinger e quei casi di DIC. È una sorta di virus. Rosa Suarez è andata ieri a parlare con l'uomo che l'ha creato.» «Lo so. Le ho dato io la macchina.» «Bene, adesso Annalee è in travaglio e la terbutalina è stata interrotta. Dottor Blankenship, Peter ha testato quel prodotto dietetico su di lei diversi anni fa. Se non le fanno subito un cesareo, rimarrà vittima del DIC come le altre. Ne sono certa. Dobbiamo salire in Maternità a parlare con il dottor Snyder.» «Ehi, calma, calma», disse Blankenship. «Hai appena avuto un attacco epilettico, ricordi?» «Dottore, è una cosa seria.» «Ebbene, che cosa sai del furgone dei prodotti farmaceutici di cui mi hai parlato? La prova.» «Questo è più importante. È in grado di far rimandare la demolizione?» «Forse, a patto che possa addurre una buona ragione. Il sindaco, il governatore e una decina di pezzi grossi saranno lì nella tribuna. Questo è il giorno più grande della carriera di Paris. Ma ascolta, Sarah, abbiamo usato il Chilton Building come magazzino. Ecco perché ho le chiavi di queste porte. Circa una settimana fa ero qui ad aiutare a rimuovere le ultime cose. C'è soltanto un ammasso di detriti e calcinacci. Nient'altro.» «Be', c'è un corpo là dentro, ora. Glielo garantisco. Questa è una ragione sufficiente per rinviare le cose, non le pare? Ma, per favore, Annalee ha preso quel prodotto dimagrante. Più si aspetta e più sarà pericoloso. Dobbiamo aiutarla.» Sarah era ancora seduta sulla barella. Con mossa troppo rapida perché potesse reagire, Blankenship aprì la porta di sicurezza, spinse dentro la barella e sbatté la porta dietro di loro. Istantaneamente si trovarono in un'o-
scurità quasi totale. «Che cosa sta facendo?» gridò Sarah mentre Blankeship richiudeva a chiave. Ma in quel momento capì. La grande mano che le sosteneva la testa nella caffetteria... Il distinto, sgradevole miscuglio di sudore e colonia. Aveva già sentito entrambi. Era lui l'uomo, il suo aggressore della camera 512. «Aiuto!» gridò. «Aiuto!» La tirò giù dalla barella e la spinse lungo il corridoio buio. «Urla quanto vuoi», disse. «È terapeutico. Non c'è nessuno qui intorno.» Le torse il polso per farla stare ferma e accese una potente torcia. Erano alla seconda porta di sicurezza, quasi identica alla prima. «Il telo per proteggere dalla polvere durante l'esplosione», spiegò Blankenship prendendo l'anello con le chiavi dalla tasca del camice. «L'ultima cosa che desideriamo in questo ospedale è la polvere, giusto?» L'intensa paura di Sarah fu rapidamente sostituita dalla rabbia. Gli sferrò un pugno in faccia, ma lui si limitò a stringerle maggiormente il polso fino a farla piegare su un ginocchio. «Sanno che sono con lei», disse. «Lo sanno tutti.» «Ti sei liberata, sei scappata e sei sparita», osservò lui semplicemente. «Eli, la ragazza sta morendo.» «Tutti muoiono.» La trascinò oltre la seconda porta di sicurezza, che richiuse dietro di loro. Il corridoio era cosparso di detriti, pezzi di cemento, cocci di vetro e rubinetteria. Blankenship spense la pila, facendole provare un senso di opprimente, totale oscurità. Poi, da qualche parte lungo il corridoio, un altoparlante annunciò che mancavano novanta minuti alla demolizione e che nessuno doveva trovarsi all'interno o intorno al Chilton Building. «Credo che farò bene a non perdere queste chiavi», disse Blankenship. Accese la pila. «Adesso, dunque, andiamo a cercare quel corpo di cui sei così curiosa.» 43 «Eli, per favore», implorò Sarah mentre la trascinava nel sottosuolo del Chilton Building. «È stato un medico e un maestro eccezionale. Deve fermare tutto questo prima che Annalee e molti altri muoiano.» «Sai che nei nove giorni successivi alla prima televendita ho fatto più soldi di quanti ne avessi fatti in vent'anni di professione e insegnamento?
Tutti credono che appena laureati si possa andare a spasso in Cadillac e frequentare i country club. Se vuoi prendertela con qualcuno, prenditela con coloro che ci danno false speranze. Vedi, non avevo nemmeno una maledetta pensione. Adesso ce l'ho.» «Eli, la prego, non permetta che accada questo a tutte quelle donne.» «Oh, non essere così drammatica. La scienza troverà un modo per superare il loro problema. È sempre andata così. E poi, sai quante persone sono già state salvate da quel miscuglio che abbiamo escogitato? Adesso, senti, non abbiamo molto tempo. Vuoi vederlo o no?» Sarah gli tirò un calcio in uno stinco. «Smettila!» ordinò lui stringendola più forte. «Così va meglio. Facciamo un giretto dell'edificio. Poi ti sistemerò con quel corpo che sei tanto desiderosa di ritrovare.» «Chi è?» chiese Sarah, spaventata dalla mole e dalla forza dell'uomo, ma ancor più dalla mancanza di sensibilità nelle sue parole. Forse l'uomo più brillante che aveva conosciuto era assolutamente pazzo. «Chi è? Be', chi pensi che sia?» chiese lui spingendola e trascinandola lungo il corridoio buio. «Dunque, dietro quella porta c'era il nostro laboratorio virologico. Il centro nevralgico del Prodotto dimagrante vegetale ayurvedico, se vuoi.» Aprì la porta con un calcio e illuminò con la torcia un ampio laboratorio ben attrezzato. «Dov'è?» «Dottoressa Baldwin, vuole prestarmi attenzione? Ci sono voluti quasi due anni per avviare quest'operazione. Nessuno a parte il mio virologo, meglio il mio ex virologo, e io abbiamo visto questa stanza fino a stamattina. Ti rendi conto di com'è stato difficile farla franca?» «Dannazione, dov'è Matt? Che cosa gli ha fatto?» «Ti rendi conto che quel Singh e quel dandy di Ettinger credevano veramente che le erbe che preparavano facessero dimagrire tanto la gente? Ho passato una settimana in biblioteca e ho trovato questa mistura ayurvedica di cui, devo ammettere, Maharishi stesso sarebbe stato orgoglioso. Ma una settimana, tutto qui. Ho escogitato tutta la faccenda, ogni erba. Ho detto a Singh che un amico aveva portato quella roba dall'India e che avevo bisogno di testarla. Nel momento stesso in cui ha sentito la parola 'ayurvedico' l'ha adottata come sua. Nessuna domanda. Non è fantastico? In seguito, dopo che il primo gruppo era dimagrito, ho suggerito che Singh chiedesse al tuo ex amante di fare da portavoce per l'intera faccenda in cambio
di una modesta parte di profitti. Ed Ettinger ha abboccato subito. Perché non avrebbe dovuto? Era medicina alternativa, e la amava. E l'avrebbe reso molto ricco, e amava questo ancora di più. Conosci la natura umana, no?» Aprì un'altra porta con un calcio, illuminò la stanza con la torcia e fece voltare la testa di Sarah, costringendola a guardare. «Ecco la piccola suite dove il mio ex virologo ha vissuto mentre confezionava il prodotto», continuò. «Abitava in ospedale e nessuno sapeva che fosse qui. Non è prodigioso?» «Dov'è Matt?» «Ogni cosa a suo tempo.» «Attenzione, per favore. Quest'edificio verrà fatto esplodere fra settantacinque minuti. Nessuno deve trovarsi all'interno della struttura o delle barriere protettive. Ripeto...» «Giusto in tempo», disse Blankenship. «Quell'asino di Paris cavalca una tigre di carta.» Suo malgrado, Sarah cominciò a piangere. «Bastardo. Folle bastardo», gemeva. «Adesso taci», tuonò il medico. La sua voce risuonò lungo il corridoio. «Se non hai la cortesia di ascoltare e apprezzare quello che sono stato in grado di fare, tieni almeno la bocca chiusa. Ho già aiutato mezzo milione di persone a dimagrire, vivere più a lungo e sentirsi meglio, e ho accumulato quasi ventun milioni di dollari in otto mesi. Se non ne sei colpita, è segno che non hai ascoltato.» «Dov'è Matt?» «Oh, ne ho abbastanza di te», disse. «Mi aspettavo di più da una donna della tua statura.» La trascinò per qualche altro metro lungo il corridoio. «Ti restituisco il tuo cavaliere dall'armatura scintillante», annunciò. «Sfortunatamente, in questo momento è un po' malconcio.» Con la torcia illuminò Matt, che sedeva sul pavimento con un largo nastro adesivo sulla bocca. Aveva le mani legate a un tubo di scolo dietro di sé, la faccia che mostrava i segni di percosse. Ma era vivo. «Aspettava qui pazientemente nel caso in cui la mia campagna di pulizia s'inceppasse all'ultimo minuto. Ma a parte il tuo scampato tentativo di suicidio dell'altra sera, non s'è verificato niente.» Blankenship allentò la presa. Sarah si precipitò verso Matt e gli staccò dolcemente l'adesivo. Lui respirò affannosamente la polverosa aria stantia. Gli accarezzò il viso e gli baciò la tumefazione scura sopra gli occhi.
«Matt, mi dispiace. Mi dispiace molto», fu tutto ciò che riuscì a dire. «Ti amo», cercò di dire lui. «Pregavo che non ti facesse più del male.» «Ci troveranno, Eli», disse arrabbiata Sarah. «Scoveranno questo posto, ci troveranno e lo prenderanno. Non è in gamba come crede. Ci sono troppi fili pendenti.» «Nessuno», ribatte lui. «Nessuno che io non possa affrontare, specialmente con intorno Peter Ettinger a prendersi la colpa di tutto. Il babbeo caduto dal ciclo, è così che lo chiamo. In galera e assolutamente senza un appiglio. Adesso, se vuoi essere così gentile da unire le mani dietro la schiena, mi è rimasto abbastanza filo metallico.» Sarah rimase dov'era, le braccia intorno alle spalle di Matt. Il dottore stava per riafferrarla quando Matt gli sferrò un calcio che buttò a terra la torcia, poi continuò ad alzarsi finché non sbatté contro il mento di Blankenship. «Scappa, Sarah!» gridò mentre il dottore barcollava indietro di qualche passo. «Scappa.» Matt urlò quando Blankenship lo colpì, ma Sarah aveva già superato la soglia. Il corridoio del sotterraneo era buio pesto. Sbatté contro un muro, vacillò momentaneamente e poi vi passò sopra la mano, muovendosi il più in fretta possibile nella direzione opposta al tunnel e alle porte di sicurezza chiuse. Se fosse riuscita a raggiungerne una e a togliere le assi, avrebbe avuto una possibilità. Le finestre e le porte del primo piano erano tutte coperte di assi. Dietro di lei, sentì Blankenship ridere. «Che bella torcia», esclamò l'uomo. «Appena mi capita, scrivo una lettera di congratulazioni al fabbricante. Sarah, rinunciaci!» Lei continuò ad avanzare lungo il muro mentre il potente raggio della torcia cominciava a illuminare il corridoio, cercandola. Nel momento in cui la trovò, fece luce sulle scale a pochi passi da lei, alla sua sinistra. Sarah si precipitò come un fulmine, finendo contro il muro del pianerottolo, rimbalzando indietro, e poi correndo su, a livello del pianterreno. Dietro di lei vedeva la luce muoversi a scatti e sentiva i pesanti passi di Blankenship. Le macerie erano un problema, adesso. Grossi pezzi di cemento e di assi la facevano inciampare, mentre correva verso il primo piano. «Rinunciaci, Sarah», disse di nuovo lui. Se solo fosse riuscita a distanziarlo, pensava Sarah; trovare un posto dove nascondersi finché non avesse dovuto lasciare l'edificio... Ogni piano significava per Blankenship maggiori possibilità di ripensarci prima di
portare avanti fiducioso il suo piano. Cadde di nuovo ma si rialzò in piedi e, il più silenziosamente possibile, arrivò al secondo piano. Era lì che si sarebbe fermata, decise. Era lì che si sarebbe nascosta. Passava la mano sul muro mentre camminava sopra le macerie e attraverso l'opprimente oscurità alla ricerca di un riparo. Su in alto, attraverso quella che doveva essere una finestra coperta da assi, scorse un debolissimo raggio di luce. Dietro di lei i passi di Blankenship e il suo respiro affaticato si stavano avvicinando. A un tratto il pavimento sotto il suo piede sinistro crollò. Quasi nello stesso istante la sua mano sinistra scivolò dal muro nel nulla. Si sentì cadere e, istintivamente, spinse in fuori il piede destro lanciandosi in avanti. Cadde pesantemente a terra, pezzi di cemento le sfregarono mento e ginocchia. Poi ruzzolò in quello che si rese conto in quell'istante era il pozzo dell'ascensore. Stava riprendendo la caduta quando la sua mano destra, poi la sinistra, trovarono il bordo di qualcosa in metallo. Le sue dita vi si aggrapparono, le braccia si allungarono in tutta la loro estensione, e la presa tenne. E a un tratto si trovò a penzolare sopra un abisso nero. Disperatamente cercò di valutare la situazione. Era aggrappata a un'intelaiatura di metallo che una volta sosteneva le porte dell'ascensore. Il cemento si era staccato dall'intelaiatura, lasciando una breccia di diversi centimetri fra essa e il pavimento. Attraverso l'oscurità, sentì Blankenship lasciare il primo piano seguire il rumore della sua caduta al secondo. Il metallo le tagliava le dita. Aveva solo pochi secondi per decidere. O cercava di tirarsi su o si lasciava cadere. Tre piani fino al sottosuolo, pensò. Sette metri, forse otto. Aveva qualche possibilità cadendo attraverso il buio impenetrabile fino a un pavimento di cemento? La risposta era chiara. Piantando la suola della sua scarpa da ginnastica contro la parete del pozzo dell'ascensore e spingendo con una forza che non avrebbe mai creduto di possedere, alzò un piede verso la porta e sopra l'intelaiatura. La breccia al di sopra dell'intelaiatura era ampia, in verità; otto o nove centimetri. Infilando il tallone nello spazio riuscì a fare abbastanza leva per sollevarsi. «Attenzione, attenzione, per favore. Quest'edificio verrà fatto esplodere fra sessanta minuti...» Coperta dal rumore dell'altoparlante, Sarah sgattaiolò su mani e ginocchia attraverso il corridoio. Si teneva contro il muro, in un piccolo anfratto di fronte al pozzo dell'ascensore, quando la luce di Blankenship fendette
l'oscurità dal pianerottolo delle scale. «Su, Sarah», chiamò, spostandosi lentamente. «Parliamone... Forse arriveremo a un accordo... Non me ne andrò finché non mancheranno che un minuto o due. Non hai possibilità senza di me. E neanche Matt. È ferito, lo sai... Ferito gravemente. Puoi aiutarlo...» C'era una possibilità, realizzò Sarah mentre si avvicinava. Soltanto una. Si puntellò contro il muro. Se l'avesse scorta prima di raggiungere il pozzo aperto dell'ascensore, per lei sarebbe stata la fine. Altrimenti... Quattro metri, Tre... Il raggio non l'aveva ancora trovata... Due... Fai un altro passo, lo incalzò. Ancora uno, e... Nel momento in cui la luce la illuminò, balzò in avanti, gettandosi contro il petto di Blankenship con tutta la sua forza. Era come scontrarsi contro una lastra di granito. Prima ancora di rendersi conto d'aver totalmente fallito, le braccia dell'uomo la circondarono, stritolandola. «Non hai alcuna possibilità», ripeté lui, ridendo forte. Poi, a un tratto, lei sentì la sua mole spostarsi e la sua stretta allentarsi. Aveva mosso un passo indietro. Lo sapeva. Ma poi era accaduto qualcosa. Blankenship perse l'equilibrio, cadendo all'indietro, nel pozzo dell'ascensore. Continuando a stringere Sarah troppo saldamente perché potesse liberarsi, cominciò a urlare. «La mia gamba!... Gesù, la mia gamba!» Urlò più e più volte, mugghiando mentre ruzzolava indietro al rallentatore, o così sembrò a lei. Stava cercando disperatamente di capire che cosa stesse succedendo, quale azioni avrebbe potuto intraprendere, quando le ossa della tibia di Blankenship schioccarono. Nel momento in cui udì quello schiocco e il suo terribile grido, Sarah capì. Era finito con un piede nello spazio fra l'intelaiatura di metallo e il pavimento di cemento. La poca forza esercitata contro il suo petto era stata sufficiente a impedirgli di ritrovare l'equilibrio. Roteò rapidamente all'indietro, la gamba piegata in modo strano a qualche centimetro dalla caviglia. Ancora cosciente e urlante, penzolava a testa in giù nel pozzo nero, continuando a stringere il polso destro di Sarah. Poi, gemendo in modo straziante, la lasciò andare. Sarah ebbe un breve presentimento prima che la presa di Blankenship si allentasse. In quel secondo innumerevoli pensieri e frammenti di consigli su come cadere e atterrare le passarono per la mente. Rotola... Rilassati... Atterra in piedi... Atterra sul sedere... Atterra di fianco... Muoviti appena
tocchi terra... Appiattisciti... Era così ansiosa di fare qualcosa pur di non morire che arrivò completamente impreparata all'impatto, che avvenne dopo una caduta libera di qualche secondo, e coprì meno di due metri. Atterrò pesantemente su una montagnola di detriti che si elevava nel pozzo per quasi due piani dal sottosuolo. Per mezzo minuto giacque lì, respirando a fatica. Si era fatta male in più punti, ma nessuna delle ferite sembrava seria. Sopra di lei, avviluppato dall'oscurità, Blankenship continuava a gemere. Non era svenuto, perché era sospeso a testa in giù. Guardò attraverso il buio. Adattando la sua visione alle circostanze, notò i piccoli mutamenti nel pozzo sopra e sotto di lei, in quelle che dovevano essere state le porte del primo piano e del pianterreno. Stava procedendo a tentoni verso il basso quando si ricordò all'improvviso delle chiavi. Blankenship le aveva infilate nella tasca del camice. Di questo era quasi certa. Senza di esse non le restava che trovare una finestra e cercare di passare attraverso le assi. Ancora cinquanta minuti. Forse meno. Con Blankenship sospeso a quel modo, sarebbe riuscita ad arrivare alla sua tasca? Si girò e cominciò a risalire la montagnola di pezzi di cemento. Decise di concedersi una mezz'ora per cercare di impadronirsi delle chiavi. Poi avrebbe tentato con le finestre del primo piano. «Eli», chiamò. «Eli, ascoltami, per favore. Sono sotto di te. Ho bisogno delle chiavi. Riesci a toglierti il camice e lasciarlo cadere?» Il lieve gemito sovrastante continuò. Sarah si spinse in su di altri trenta centimetri. Si trovava di fronte all'apertura del primo piano, adesso. Ma il pendio di detriti era finito. Era arrivata nel punto più alto. Blankenship era vicino, pochi centimetri sopra di lei. Cercò d'immaginare le sue braccia allungate vero il basso e come potesse penzolare il suo camice. Se avesse spiccato un salto all'insù e all'infuori, ci sarebbe arrivata? Avrebbe potuto aggrapparsi a sufficienza da sfilargliele? E se le chiavi fossero già cadute? Stava in cima alla montagnetta, la schiena premuta contro la parete del pozzo dell'ascensore. Il respiro pesante di Blankenship sembrava quasi a portata di braccia. Eppure sapeva che non era così. Un tentativo. Un tentativo e basta. Premette un piede contro la parete dietro di sé e compì il salto. Blankenship gridò, quando le sue braccia tese, sbattendo alla ricerca del camice, gli finirono addosso. Si lanciò in alto attraverso l'oscurità, atterrando pesantemente sulla montagnola e ruzzolando più volte verso la porta del pianter-
reno. In fondo al pendio finì fuori del pozzo, cadendo dopo diversi metri sul pavimento del pianterreno. Nell'impatto sentì l'aria esplodere dai suoi polmoni. Giacque lì, malconcia e singhiozzante, cercando di respirare; di riacquistare il controllo di sé; di costringersi a muoversi. E a un tratto si rese conto che stava stringendo fra le mani il camice. L'anello con le chiavi era nella tasca destra. Penosamente zoppicò fino alle scale e poi scese nel seminterrato. Chiamò Matt, e seguì la voce di lui fino alla stanza che stava per diventare la loro tomba. L'oscurità era soffocante. «È finita», sussurrò, toccandogli il viso con la punta delle dita. «Ho le chiavi di Blankenship. Adesso dobbiamo farti uscire di qui, e devo raggiungere Annalee.» Lo baciò e poi gli passò la mano dietro, dov'era legato al tubo. «È fil di ferro», disse lui. «Mi sta segando i polsi. Non sono sicuro che tu riesca a fare qualcosa con questo buio e senza pinze.» «Lasciami provare.» «Sarah, Blankenship è un demonio. Ha ucciso Rosa e Warren Fezler. Ha collegato dell'esplosivo all'accensione della barca di Colin Smith e poi ha organizzato le cose in modo che venisse arrestato Ettinger. Ha congeniato tutto; tutto... Anche Singh è morto. Blankenship gli ha sparato e ha fatto sì che Ettinger apparisse colpevole anche di questo. C'era quasi riuscito. Tu eri l'ultimo anello della catena e... Ahi! Attenta, mi fa veramente male.» «Scusa, Matt, non ci riesco. È troppo stretto...» «Be', abbiamo ancora circa quaranta minuti. Va' a chiamare Paris. Inducilo a fermare il conto alla rovescia e a mandare qualcuno qui. Blankenship è morto?» «Può darsi. Non lo so. Senti, c'è un telefono nel tunnel appena fuori della porta. Torno subito.» «Meglio che tu non lo faccia», disse. «Non mi piace troppo qui. Credo sia un posto molto sfortunato.» Lo baciò sulla fronte, poi percorse il corridoio il più in fretta possibile e superò le due porte di sicurezza. Finché non prese in mano il ricevitore, non la sfiorò il pensiero che il telefono fuori della seconda porta avrebbe potuto essere disattivato. Il suono che le giunse fu un inno per le sue orecchie. «Ho bisogno di parlare con il signor Paris», disse alla centralinista. «Sono la dottoressa Baldwin. È un'emergenza.» «È nel suo ufficio», rispose la donna. «Gli ho appena passato una telefo-
nata. Sta ancora parlando, infatti.» «Lo interrompa», scattò Sarah. Dopo qualche secondo, l'amministratore era in linea. Nel momento in cui udì la sua voce, Sarah capì che l'incubo era veramente finito. L'ultimo problema, il conto alla rovescia per il Chilton Building, era sotto controllo. Gli raccontò brevemente quello che era successo e gli chiese di mandare qualcuno giù nel seminterrato della costruzione con torce e tenaglie. «Avremo anche bisogno di una barella per il dottor Blankenship», disse. «E magari una anche per Matt. Non sono sicura che sia in grado di camminare. E credo che avremo bisogno di un ortopedico. Non so come faremo a tirare giù Eli da dov'è.» «Non si preoccupi», disse Paris. «Mi prenderò cura di tutto. Rimanga dov'è, presso la porta di sicurezza. Fermerò il conto alla rovescia e scenderò fra un minuto con gli aiuti.» «Grazie.» «E, Sarah...» «Sì?» «Ha fatto un magnifico lavoro.» «Grazie, signore. La prego, si affretti. C'è un altro problema in atto con Annalee Ettinger. E per superarlo, avrò probabilmente bisogno che intervenga con il dottor Snyder.» «Veniamo giù subito.» Sarah trasse un sospiro e si afflosciò sul pavimento. Aveva jeans e maglietta strappati. Faccia, gambe e braccia sanguinavano da decine di tagli e graffi. Ma ancor più penosa delle ferite era la notizia della morte di Rosa Suarez che le aveva dato Matt. Rosa aveva tanto desiderato che le cose si risolvessero. Dopo qualche minuto, Sarah udì dei passi precipitarsi verso di lei lungo il tunnel. Qualche attimo dopo, Glenn Paris entrò nel braccio del Chilton. Sorrideva e agitava le torce che aveva portato. «È tutto fermo di sopra», disse ansimante. «Grazie a Dio, mi ha trovato. Stavo per recarmi alla cerimonia.» «Be', ero pronta ad arrivare alla tribuna, se ne fossi stata costretta.» Paris la ricondusse indietro nell'oscurità profonda del sotterraneo del Chilton Building. «Credo che non abbia saputo della morte di Colin Smith avvenuta ieri», disse girando la luce intorno. «Sedevo nel mio ufficio a pensare a lui quand'è successo.»
«Me l'ha appena detto Matt. Ha detto che l'ha ucciso Blankenship e che ha cercato di incastrare Peter Ettinger.» «Quel figlio di puttana.» «Matt è laggiù a sinistra», disse Sarah. «Matt, caro, stiamo arrivando.» «Ti ho sentita.» Paris si fermò sulla soglia della stanza e la illuminò con la torcia. «Quelli della manutenzione stanno arrivando con le pinze, Matt», gli disse. «Dovrebbero essere qui tra un minuto. Nel frattempo, se resisti, vorrei che Sarah mi portasse da Blankenship.» Lei esitò. «Forza», disse Matt. «Sono qui da ore. Andrà tutto bene.» Sarah prese la torcia e guidò Paris su per il pozzo dell'ascensore che si apriva al livello del seminterrato. «È appeso alla porta del secondo...» Sarah s'interruppe a metà frase, diresse la luce verso il suo avambraccio e ansimò. Era stata schizzata da diverse gocce di sangue. Si chinò verso il pozzo e diresse il raggio in su, verso il secondo piano. Il primo terzo della gamba di Blankenship era incuneato come prima. Ma il medico era sparito. «Non c'è...» Ringhiando di dolore e di rabbia, Eli Blankenship uscì capitombolando dall'oscurità lungo la montagnetta di detriti. Sbatté contro Sarah, facendola volare fuori del pozzo dell'ascensore sul cemento. Lei gridò quando l'uomo le afferrò la caviglia. Paris si precipitò in avanti e gli piantò un piede sul polso, tenendovelo finché Sarah non si liberò. Poi puntò il raggio della torcia dritto in faccia a Blankenship. Il primario sembrava un'apparizione, macchiato di sangue, ma pallidissimo e chiaramente più morto che vivo. «Gli infermieri stanno arrivando?» chiese Sarah. Paris non rispose. Tirò invece un calcio in bocca a Blankenship. «Mi hai rovinato, figlio di puttana», disse. «Ho investito ogni centesimo che il mio ospedale riusciva a ottenere in quella tua merda di prodotto dietetico perché mi avevi giurato che non c'erano problemi. Non hai mai fiatato sul fatto che ci fosse dentro un virus, bastardo. Niente!» «Lo sapeva?» chiese Sarah, sbalordita. «Sì, lo sapevo. Non sono stupido. Ma quando mi sono reso conto di ciò che quel prodotto stava facendo alle donne era troppo tardi. C'eravamo dentro fino al collo. So anche di tutto il denaro, Eli. Colin ha controllato te
e quella tua fottuta fondazione fin dal primo giorno. E quel maledetto laboratorio là sotto l'ho scoperto mesi fa. Siamo già arrivati a due dei tuoi conti. Non appena torno in ufficio faccio piazza pulita. Poi deciderò se dovrò chiedere la libertà su cauzione o no. Avevo intenzione di andarmene per via di quello che stava succedendo. La mia carriera e la mia reputazione all'aria; tutti che mi biasimavano per quelle donne. Ma adesso, da quanto mi dice Sarah, sembra che chiunque potesse collegare me a te e a quel dannato preparato sia morto. È questo che ha detto, vero, Sarah?» Sferrò un altro calcio, questa volta nel petto di Blankenship. Poi, prima che Sarah potesse reagire, si girò e l'afferrò per i capelli. «Mi dispiace», disse, ignorando le sue grida di dolore. «Mi dispiace molto.» Le infilò la mano nella tasca e tirò fuori le chiavi di Blankenship. «Mi dispiace anche di non aver interrotto quel conto alla rovescia», aggiunse. «Solitamente non mento su cose così importanti.» Costrinse Sarah a mettersi a pancia in giù e le legò le mani dietro la schiena con il nastro adesivo. Poi la trascinò in piedi e nuovamente lungo le scale dello scantinato. «Ho cambiato idea riguardo al padiglione di ricerca», disse. «Credo che lo riempiremo invece di terra e ne faremo un parcheggio, o magari dei campi da tennis. Immagino che preferisca restare giù con il suo avvocato piuttosto che lassù con quel mostro.» «La prego, Glenn», lo implorò mentre la spingeva lungo le scale. «La prego, non lo faccia. So che lei non ha fatto realmente del male a nessuno. Potrò testimoniarlo.» «Spiacente, Sarah, non ho scelta. Le prometto che non soffrirà.» La spinse nella stanza che stava nuovamente per diventare una tomba. Ignorando le suppliche di Matt e i richiami al buon senso di Sarah, la legò a una trave di fronte all'avvocato e le assicurò le caviglie. Poi, senza girarsi a guardare, li lasciò al buio e si precipitò fuori dal Chilton Building. Un istante dopo, gli altoparlanti annunciarono che mancavano quindici minuti alla demolizione. 44 «...Noi speriamo e sognamo che questo nuovo istituto di studi e cure mediche formerà un ponte d'oro per la nostra tecnologia in rapida avanzata e le arti curative più mistiche che risalgono nei secoli e appartengono a tut-
to il mondo...» Glenn Paris accettò orgoglioso un altro giro di applausi dai circa duecento dignitari e ospiti paganti seduti in tribuna. La mattinata era limpida, scintillante, e quasi senza vento; le condizioni perfette per l'imminente spettacolo. Tutt'intorno al campus pazienti, personale e semplici spettatori guardavano dai tetti e dalle finestre. Dall'altra parte del viale, il Chilton Building era solo, come un monarca deposto di fronte alla folla con quel po' di dignità che era riuscito a racimolare in attesa della ghigliottina. «...E ora, prima che il vincitore della nostra lotteria si alzi in piedi facendoci vibrare tutti d'emozione, vorrei che osservassimo un minuto di silenzio in onore del signor Colin Smith, il direttore amministrativo di quest'ospedale, deceduto ieri in un tragico incidente nautico... È mia intenzione raccomandare al consiglio d'amministrazione di dedicare un'ala di questo nuovo istituto a Colin. Sentiremo la sua mancanza... E ora, governatore, signor sindaco, stimati colleghi e tutti voi che siete stati così devoti negli anni al Medical Center di Boston, è con immenso piacere che annuncio il vincitore della nostra lotteria. Grazie ai fervidi sforzi di chi ha venduto i biglietti, questo concorso ha raccolto quasi trentatremila dollari da devolvere al nuovo istituto... Grazie, grazie. Il vincitore è qui con me, ed è», abbassò lo sguardo su un cartoncino, «...la signora Gladys Robertson di West Roxbury.» All'educato applauso che seguì, una signora di mezz'età, con un sorriso un po' nervoso e un vestito a fiori, salì di fianco a Paris e gli sussurrò all'orecchio. «Oh, le mie scuse», disse Paris nel microfono. «La nostra vincitrice è la signorina Gladys Robinson. Non sono un medico, ma evidentemente scrivo come se lo fossi.» Paris sfruttò la risata che seguì più che poté. «Dunque, signorina Gladys Robinson di West Roxbury», disse infine, «questo è il suo momento. Qui c'è il pulsante che azionerà le cariche d'esplosivo disposte dalla nostra squadra di famosi specialisti e che le assegnerà un posto nella storia. Signor Crocker, abbiamo semaforo verde?... Perfetto. Signorina Robinson, se ci permette un piccolo rullo di tamburo...» Puntò il dito alla sua destra, e fra gli spettatori, cinque uomini si alzarono con tamburi militari legati sul davanti. La sorpresa sollevò un mormorio di approvazione da parte della folla. Il rullo di tamburo cominciò pian piano e poi salì in un crescendo. Paris attese... e attese, finché la tensione nell'aria non fu quasi palpabile.
«Adesso!» gridò. Un migliaio di paia d'occhi erano fissi sul Chilton Building mentre la signorina Gladys Robinson premeva il pulsante che era stato sistemato sul podio. Per un momento ci fu silenzio, solo silenzio. Poi, annunciato da sbuffi di fumo tutt'intorno alla base delle fondamenta e lungo le pareti di mattoni, un sordo rimbombo ebbe inizio e si espanse rapidamente. Il terreno vibrò quando il rumore accrebbe. Un'immensa, densa nuvola di polvere grigia eruppe, avviluppando i primi due piani. Poi con un portentoso boato le mura dell'edificio crollarono in un ondeggiante abisso grigio. Qualche secondo dopo ci fu di nuovo soltanto silenzio. La folla fissava intimorita la densa nuvola di polvere che fluttuava verso l'alto e cominciava lentamente a dissolversi. Poi ci fu un applauso, esclamazioni, fischi e manate sulle spalle. Glenn Paris accettò tutto con la sicurezza e la disinvoltura di un uomo abituato ai successi. Il governatore gli strinse la inano, poi il sindaco. Orgoglioso, con la mascella infuori, Paris si volse per osservare il suo ospedale. A un tratto, impallidì. Il suo sorriso svanì. Due uomini e una donna che certo non si aspettava di vedere, si stavano avvicinando alla tribuna attraverso il campus erboso. Dietro di loro venivano altri due uomini. Entrambi erano alti, con le spalle larghe, e si muovevano come le guardie del corpo che ben conosceva. «Splendido lavoro, Glenn, splendido», disse qualcuno battendogli sulla schiena. Ma Paris, con gli occhi fissi sul quintetto che si avvicinava, non rispose. Il gruppo aveva raggiunto la base della tribuna quando Willis Grayson, il braccio intorno alle spalle della figlia, gli fece cenno di scendere. Dall'altra parte di Lisa Grayson, zoppicante ma non troppo, c'era Matt Daniels. Era sporco e scarmigliato, il viso gonfio e pallido. Alzò lo sguardo sull'uomo che lo aveva lasciato lì a morire, e attraverso labbra screpolate e coperte di sangue, si sforzò di sorridere. «Ti è andata male, Glenn», disse rauco. «Ti è proprio andata male.» «Sono molto deluso di lei, signor Paris», disse Willis Grayson. «Molto deluso.» Paris si guardò freneticamente intorno alla ricerca di una via di scampo. «Non ci pensi nemmeno», l'ammonì Grayson. «I miei uomini potrebbero correre all'indietro e acciuffarla lo stesso. Cinque minuti, Paris. Era tutto il tempo che ci restava quando siamo arrivati nel seminterrato di quell'edifi-
cio. Cinque minuti! Ha lasciato lì la dottoressa Baldwin e il signor Daniels, legati e impotenti. Ha girato loro le spalle e se n'è andato, li ha lasciti lì a morire! Lei è un uomo molto rozzo, Paris.» Il gruppo intorno a Glenn Paris indietreggiò e fissò i nuovi arrivati. Chiaramente, una parte di loro riconobbe l'uomo conosciuto come il Ross Perot del Nordest. Il governatore, che era sceso dalla tribuna, si avvicinò a Grayson, parlò brevemente con lui e Matt, e poi alzò lo sguardo verso il presidente dell'ospedale. «Credo sia meglio che venga giù», disse bruscamente. Glenn Paris, il volto teso e cinereo, esitò. Poi, con spalle e lo sguardo abbassati, scese lentamente le scale coperte dal tappeto rosso. «Ovviamente, se avessimo s-saputo in che guaio vi trovavate lei e il suo a-amico, avremmo c-cercato di venire qui prima», disse Warren Fezler. Lui e Sarah stavano correndo come meglio potevano attraverso i tunnel che portavano al reparto Maternità. «È già tanto che sia arrivato quando è arrivato», ribatté Sarah. «È sicuro che Rosa stia bene?» «Ha p-passato sei ore in sala operatoria, ma quando siamo venuti via per scendere qui, ci hanno detto che le sue condizioni erano stazionarie.» «Grazie a Dio.» «Dopo che Rosa è stata c-colpita, poco p-prima che p-perdesse conoscenza, ha annotato il numero di casa di G-Grayson. Non appena ho spiegato quello che stava succedendo, è volato qui con il suo e-elicottero. Rosa mi ha salvato la vita. Vorrei che avesse potuto s-salvare anche quella di mia s-sorella.» «È molto triste. Mi dispiace. Ma sono anche molto arrabbiata con Blankenship e tutti voi.» «Capisco. Non so che cosa posso fare.» «Semplicemente aiutarmi, ora, e poi cercare di sistemare alcune cose con quel suo dannato virus.» Sarah avrebbe voluto salire a piedi in Maternità, ma il suo corpo malridotto le disse di prendere l'ascensore. «Come ha fatto a trovarci?» chiese mentre aspettavano. «Non è s-stato così difficile p-per un uomo come Grayson. Sa come mmuovere la gente.» Rifletté un momento, e aggiunse: «A eccezione f-forse di Eli. Abbiamo cominciato con la Rianimazione e poi siamo saliti a Psichiatria. Un uomo lì, un certo Wes, ci ha detto che lei aveva avuto una crisi
a colazione e che era al pronto soccorso. Ha anche detto che aveva ppassato tutta la notte a guardare il Chilton Building con il binocolo. Poi aabbiamo scoperto che era stata portata via con la sedia a rotelle da Eli e un inserviente. E quando abbiamo s-scoperto che non era mai arrivata al pronto soccorso, abbiamo cominciato a sospettare di dove poteva essere. Il signor G-Grayson ha affrontato l'inserviente e abbiamo saputo che non ci eravamo sbagliati». «Così siete scesi nel seminterrato della costruzione attraverso la porta sul retro!» «A-avevo le chiavi. Un tempo era stata casa mia, ricorda? Il signor GGrayson ha preferito cercare lei invece di tentare di fermare l'esplosione.» Superarono le porte della Maternità e sentirono immediatamente un urlo che Sarah aveva già sentito in precedenza; Annalee Ettinger stava gridando di dolore. Senza curarsi delle infermiere, Sarah afferrò la mano di Warren e lo trascinò lungo il corridoio fino alla stanza di Annalee. La guardia in uniforme se n'era andata; congedata, pensò Sarah, quando la cattiva dottoressa Baldwin era stata rinchiusa nell'Undenvood Six. Randall Snyder, chiaramente agitato e in preda al panico, stava controllando la frequenza del polso di Annalee. «Qualcuno di voi può avvertire di nuovo il dottor Blankenship?» stava dicendo alle infermiere che la assistevano. «Può avvertirlo finché vuole», intervenne Sarah, «ma le garantisco che non le risponderà. Né ora né mai. Annalee, cara, posso parlarti un momento, per favore? È molto importante.» «Hanno detto che hai cercato di farmi del male.» «Si sbagliavano. Vuoi parlare con me?» «Puoi aiutarmi a farmi passare il dolore alle braccia e ai piedi?» «Posso fartelo passare.» Rannicchiati in un angolo della sala d'attesa di Ostetricia, Willis Grayson, Lisa, Matt e Warren Fezler osservarono attentamente il monitor. Glenn Paris vi aveva installato un video come parte del servizio d'avanguardia di Ostetricia e ginecologia. La telecamera era montata direttamente sopra il tavolo operatorio. Il campo che proiettava ora era occupato da due paia di mani, quelle di Randall Snyder e di Sarah, e dal ventre morbido e gravido di Annalee Ettinger. «Bene, la trasfusione è in corso?» sentirono chiedere da Snyder. «La trasfusione è in corso», rispose le voce di un'infermiera.
«I valori sono stabili?» «Tutti i sistemi funzionano», disse l'anestesista. «Pronta, Sarah?» «Pronta.» Lisa Grayson diede a Matt una scherzosa gomitata. «D'accordo, allora», fece Snyder. «È un suo paziente, dottoressa. Io l'assisterò.» «Ma...» «Presto!» «Va bene, va bene.» I quattro spettatori videro Sarah e Randall Snyder sparire dallo schermo, e poi riapparire, dopo aver cambiato posto presso il tavolo. Sarah fletté una prima volta le mani guantate, poi una seconda. «Va bene, cominciamo», disse. «Bisturi, per favore.» Epilogo 30 ottobre «Sarah Ettinger West, ecco la tua madrina.» Raggiante nel suo letto d'ospedale, Annalee scostò a sufficienza la bimba dal seno perché Sarah la vedesse. «Hai dato alla luce una splendida bambina», osservò lei. «Sono onorata di essere la sua madrina.» Dopo un inizio piuttosto difficile sia per la madre che per la figlia, stavano ora tutte e due bene. Come Sarah aveva predetto, il cesareo aveva essenzialmente curato Annalee dalla sua forma di DIC. Prima Lisa, adesso Annalee. Due cesarei, due casi risolti. Se non altro avevano un punto di partenza per affrontare il virus. «Quante donne pensi siano in queste condizioni?» chiese Annalee, come se le leggesse nella mente. «Stanno facendo dei controlli, ma posso dirti che saranno molte. A Blankenship non importava. Non importava affatto. Continuo a non capire.» «La pazzia non dev'essere necessariamente capita. Tutto qui.» «Penso sia così. Fortunatamente, sembra che tuo padre conservi le schede di chi prendeva il preparato e le vitamine.» «È sempre stato un tipo meticoloso.»
«Il prodotto è sul mercato da quasi otto mesi, ormai. Questo significa che i primi casi di donne infette che stanno per entrare in travaglio potrebbero verificarsi da un momento all'altro.» «Posso darti l'elenco delle persone su cui Peter ha sperimentato il prodotto all'epoca in cui l'ha dato a me.» «Magnifico. Rimarrà così solo il resto del gruppo di Singh all'ambulatorio; il gruppo iniziale di cavie. Con Singh morto dobbiamo cercare le schede del lavoro di Blankenship. Credo che avesse un elenco, è per questo che ha saputo che le prime donne che avevano preso il prodotto stavano avendo dei problemi. Se non riusciremo a trovare le sue schede dovremo ricorrere alla pubblicità per rintracciarle.» «E tutto per denaro.» «Tutto per denaro», le fece eco mestamente Sarah. «Più l'eccitazione che Blankenship traeva dall'usare il suo intelletto per manovrare e controllare la gente.» «A proposito...» Sarah capì che cosa sarebbe seguito. «Com'è la situazione?» chiese. «Peter è ancora in prigione. Ha telefonato il suo avvocato poco fa. C'è una specie di udienza fissata per oggi sul tardi. Dice che se tu andassi a parlare con il giudice, Peter potrebbe almeno uscire su cauzione. Se non gli dirai che Blankenship ha ammesso di aver ucciso quell'uomo sulla barca, Peter potrebbe essere trattenuto.» «Un pensiero che non è completamente sgradevole.» Le due donne si scambiarono un sorriso d'intesa. «È il nonno della tua figlioccia, ricordalo.» «Lo so, lo so. Mi chiedo quanto abbia inciso questa faccenda sul suo indomabile ego. Blankenship l'ha messo nel sacco.» «E Peter ci si è lasciato mettere senza nemmeno rivolgere domande.» «Tutto per denaro», disse Sarah. «Xanadu è in difficoltà. Credo che per lui contasse anche l'orgoglio e il suo ego, oltre che il denaro.» «Bene, insisterò affinché il denaro che riusciremo a recuperare da questo disastro venga impiegato per trovare una cura definitiva. E questo include anche l'aiuto di Peter.» «Sono d'accordo.» «Accidenti, credo che gli piacesse davvero la pubblicità di quelle dannate televendite.» «È così», ammise Annalee sollevando la neonata e portandola dolce-
mente all'altro seno. «Forse un'altra settimana di prigione potrebbe non fargli male... Va bene. Telefonerò al suo avvocato e vedrò quello che potrò fare.» «Grazie, dottoressa.» «Annalee, fammi un favore, però», disse. «Qualunque cosa.» Sarah si chinò a baciare prima la madre, poi la figlia. «Fa' in modo che Peter non dimentichi mai.» PRENDERE O LASCIARE di Axel Devlin 3 luglio Ieri avevo appuntamento con il mio agopuntore. Il suo nome è dottoressa Sarah Baldwin Daniels. Quando la schiena mi va fuori posto, cosa che capita in genere ogni volta che intraprendo qualcosa di più che schiacciare il telecomando, il mio agopuntore mi dice di rilassarmi, infila in me alcuni dei suoi immacolati aghi speciali, e mi toglie il dolore. Aiutare la gente come me con la sua agopuntura è una specie di hobby per la dottoressa Baldwin Daniels. La sua vera professione è la chirurgia. Infatti, da due giorni, è il nuovo primario interno di Ostetricia e ginecologia al Medical Center di Boston. Per coloro che non conoscono la mia rubrica, cioè per coloro che sono vissuti su Marte negli ultimi dieci anni, lasciatemi spiegare che per buona parte dello scorso anno non sono stato un sostenitore del mio agopuntore o del suo ospedale. Pensavo fosse una ciarlatana. Non è una ciarlatana. Mi infila i suoi aghi speciali e il mal di schiena va meglio. E per quanto riguarda quest'incompetente, è tutto quello che conta. Fatemi sentir meglio senza qualche orribile effetto collaterale che è peggiore della malattia, e siete amici miei. Così mi sbagliavo. Questa è la mia rubrica e la uso come meglio credo. E oggi, un anno dopo che la dottoressa Baldwin e quell'atroce prodotto dietetico hanno iniziato a illuminare lo schermo del mio computer, la uso per dire che mi sbagliavo. Grazie a lei, dottoressa, eseguire un cesareo prima del travaglio attivo ha salvato innumerevoli vite. E ora abbiamo appreso che c'è un esame del sangue e un prossimo trattamento per quell'orribile virus. Dio volendo, forse presto tutti quei cesarei non saranno più necessari.
Così ieri ho visto il mio agopuntore. Sono andato da lei sei mesi fa per farle un'intervista e conoscere tutta la storia del famigerato prodotto dietetico. E per caso, per puro caso, ho accennato al mio mal di schiena. È stato allora che la dottoressa Baldwin Daniels si è fatta avanti. «Potrei essere in grado di aiutarla», disse. «Potrei essere in grado di fare qualcosa per il suo dolore.» Così ieri pomeriggio, poche ore dopo che la mia ex nemica mi aveva infilato i suoi aghi speciali, ho terminato per la prima volta il percorso al mio Golf Club con meno di novanta colpi. Ciarlatano! FINE