MARGARET MILLAR CHI PERDE UN AMICO... (The Soft Talkers, 1957) 1 L'ultima volta che sua moglie aveva visto Ron Galloway ...
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MARGARET MILLAR CHI PERDE UN AMICO... (The Soft Talkers, 1957) 1 L'ultima volta che sua moglie aveva visto Ron Galloway era stato un sabato sera, verso la metà di aprile. «Mi è sembrato fin troppo allegro» osservò più tardi «come se avesse avuto in mente qualche cosa, un piano forse: qualcosa di più importante di una spedizione di pesca al capanno, voglio dire. Non gli è mai piaciuto andare a pesca, dopo tutto: aveva una paura morbosa dell'acqua.» Era vero, anche se Galloway non si sarebbe mai piegato ad ammetterlo. Cercava disperatamente di essere uno sportivo. Andava a pesca, d'estate giocava a golf e a cricket, e durante l'inverno a curling al Granite Club, portava i capelli tagliati a spazzola e andava in giro con la capottina della Cadillac abbassata anche quando era costretto a tenere il riscaldamento acceso al massimo per non congelarsi. Anche adesso che era ormai vicino ai quaranta, i suoi movimenti mancavano di coordinazione malgrado tutta la ginnastica che faceva e il suo viso rotondo mostrava ancora tracce di acne giovanile e di insicurezza. Mentre preparava una borsa di tela, sua moglie Esther entrò in camera da letto. Stava per uscire a cena e indossava un abito di taffetà rosa ricamato di perline con una stola di visone bianco che le copriva le spalle. Galloway le rivolse un'occhiata ammirata ma non fece commenti: non c'era motivo di viziare le donne coi complimenti. «Eccoti qua, Ron» disse la moglie, come se fosse un avvenimento sorprendente e interessante trovare un uomo nella sua stessa camera da letto. Galloway non rispose. «Ron?» «Esther, angelo mio, sono qua, come tu hai appena osservato. Se hai qualche cosa da dire, dimmelo.» «Dove stai andando?» Esther sapeva dove stava andando, ma era il tipo di donna a cui piaceva fare domande di cui conosceva già le risposte: le dava un senso di sicurezza. «Te l'ho già detto la settimana scorsa: vado a Weston a prendere Harry Bream, poi proseguiremo insieme per il capanno dove resteremo a pescare con un paio di altri amici.»
«Non mi piace la moglie di Harry Bream.» «La moglie di Harry non viene con noi.» «Lo so, era solo un'osservazione. Secondo me è un po' stramba. La settimana scorsa mi ha telefonato per chiedermi se c'era qualcuno tra i trapassati con cui volessi mettermi in contatto. Lì per lì non mi è venuto in mente nessuno a parte lo zio John, e non sono affatto sicura che a lui farebbe piacere mettersi in contatto con me. Non ti pare che fosse una telefonata un po' strana?» «Harry è lontano da casa per molto tempo, e Thelma deve pur fare qualcosa per non annoiarsi.» «Perché non hanno bambini?» «Non so perché non abbiano figli» rispose Ron con impazienza «non gliel'ho chiesto.» «Tu e Harry siete tanto amici che potresti anche trovare il modo di chiederglielo.» «Forse potrei farlo, ma non ne ho nessuna intenzione.» «Se Thelma avesse dei figli, non avrebbe tempo di andare in giro a fare la parapsichica innervosendo gli altri. Io per esempio non ho tempo per queste cose.» «Grazie al cielo!» Galloway strinse le cinghie della borsa e andò a posarla vicino alla porta. Il gesto era un chiaro invito alla moglie a salutarlo e andarsene, ma Esther non raccolse il messaggio: attraversò invece la stanza facendo frusciare la seta del suo abito e andò a guardarsi allo specchio lisciandosi i capelli scuri. Alle sue spalle vedeva il marito che seguiva le sue mosse contrariato. Era decisamente buffo. «Mi sono stufata di questi capelli scuri: credo che diventerò bionda. Una bionda interessante e parapsichica come Thelma.» «Sei abbastanza psicotica anche come sei! E poi non mi piacciono le finte bionde.» «E le bionde naturali, come Thelma?» «Thelma mi piace» ribatté Ron ostinatamente «è la moglie del mio migliore amico, come potrebbe non piacermi?» «Solo per questo?» «In nome del cielo, Esther! Thelma è una piccola Hausfrau grassottella a cui manca qualche rotella. Neanche la tua spigliata immaginazione potrebbe trasformarla in una femme fatale!» «Forse hai ragione.»
«Quando la finirai con questi folli sospetti?» «Dorothy.» Deglutì a fatica mentre pronunciava quel nome, lasciando il marito a guardarla incuriosito. «Dorothy non aveva sospetti.» «Che cosa c'entra lei, adesso?» «Lei non sospettava di niente e intanto io e te, alle sue spalle...» «Smettila!» Era pallido di rabbia e di disgusto. «Se la coscienza comincia a rimorderti adesso, dopo tanto tempo, peggio per te, ma lascia la mia tranquilla. E per l'amor del cielo, cerca di non farmi una scenata!» Negli ultimi tempi Esther ne aveva fatte parecchie di scenate, beccando qua e là nel loro passato, come un uccellino in un pezzo di pane ammuffito. Ron si augurò che si trattasse soltanto di una fase passeggera e che fra non molto sarebbe stata superata. Il passato non veniva spesso a turbare Ron Galloway. Quando ripensava a Dorothy, la sua prima moglie, lo faceva senza pietà, né rimpianto. Anche il suo rancore contro di lei a causa del divorzio si era attenuato con gli anni. In Canada i divorzi non sono comuni né facili da ottenere, e lo scandalo Galloway era stato dei peggiori, largamente pubblicizzato dai giornali in tutto il paese. Esther si voltò lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. «Ho sentito dire che sta morendo.» «Sono anni che Dorothy sta morendo. Chi te l'ha detto?» «Harry.» «Harry è un commerciante di pillole; gli fa piacere pensare che tutti stiano per morire.» «Ron!» «Senti, non voglio sembrarti sgarbato, ma se non mi muovo gli amici dovranno aspettarmi al capanno.» «Il guardiano può farli entrare.» «Come padrone di casa, comunque, dovrei arrivare per primo.» «Saranno in ogni caso troppo sbronzi per accorgersene.» «Hai deciso di litigare?» «No, niente affatto. Vorrei solo poter venire con te.» «A te non piace pescare: tutto quello che fai è lamentarti per quei poveri pesciolini e chiederti che cosa hanno fatto di male per meritarsi di avere un amo conficcato nella gola!» «D'accordo, Ron, d'accordo.» Si avvicinò a lui timidamente, gli mise le mani sulle spalle e gli baciò una guancia. «Divertiti e non dimenticarti di salutare i bambini prima di uscire. Chissà, forse la prossima volta potremo andare al capanno tutti insieme.»
«Chissà.» Quando Esther uscì dalla stanza sul suo viso c'era un'ombra di tristezza, come se anche lei avesse qualcuna delle facoltà parapsichiche di Thelma e avesse capito che non ci sarebbe più stata una "prossima" volta. Galloway rimase immobile sulla soglia della stanza ascoltando il frusciare del suo abito e il rumore dei tacchi alti attutito dal folto tappeto della scala. Improvvisamente, senza neppure sapere perché, uscì di corsa sul pianerottolo chiamandola affannato: «Esther! Esther!» Ma la porta d'ingresso si era già richiusa alle sue spalle, e Galloway ne fu quasi contento, perché non avrebbe saputo che cosa dirle. Quel grido gli era sfuggito suo malgrado, senza che riuscisse a rendersi conto del motivo. Si appoggiò allo stipite della porta: era senza fiato, la testa gli girava, come se si fosse appena svegliato da un incubo in cui sognava di soffocare; e ora il sogno era già stato dimenticato, ma i sintomi fisici del panico continuavano. "Sto male" pensò. "Non avrebbe dovuto piantarmi qui in questo modo. Forse farei meglio a stare a casa e chiamare un dottore." Il respiro nel frattempo era tornato normale e la testa non gli girava più. Pensò che fintanto che c'era Harry nei dintorni, non sarebbe stato necessario chiamare un dottore. Harry lavorava per una casa farmaceutica: le sue tasche erano sempre piene di pillole e la sua cartella di opuscoli che magnificavano le più recenti scoperte mediche, che neanche i medici conoscevano fino a quando Harry non provvedeva a illustrarle. Harry era molto generoso nel distribuire pillole, diagnosi e consigli. In qualche occasione si era dimostrato più efficiente di un vero dottore perché non si sentiva impacciato dall'esperienza, dall'etica medica o dalla prudenza e alcune delle sue cure si erano dimostrate miracolose. Ed erano solo queste che gli amici ricordavano. "Mi farò dare una pillola da Harry" si disse Galloway e bastò quel pensiero a farlo star meglio. Harry aveva una pillola per tutte le occasioni, anche per chi aveva richiamato affannosamente la moglie che stava uscendo senza neppure saperne il perché: "Sono solo i nervi, vecchio mio; la mia casa farmaceutica ha appena messo sul mercato un prodotto...". Galloway si mise sul braccio il trench, afferrò la borsa e andò in fondo al corridoio per salutare i bambini. Erano a letto, la porta della loro stanza era aperta e la luce centrale spenta, ma i piccoli erano ben lontani dall'essere addormentati. Le loro voci, basse ma rabbiose, rimbalzavano da un letto
all'altro: «La mamma ha detto che il cane può dormire sul mio letto questa notte. Lascialo andare!» «Ho detto no, no e no!» «Mi metterò a urlare fino a quando non verrà Annie.» «E io le dirò che tu mi hai dato un pizzicotto. Dirò a Annie, alla signora Browning, al vecchio Rudolph, alla mamma e alla mia maestra che...» «Perché non lo dici anche a me?» chiese Galloway accendendo la luce. I due piccoli lo guardarono in silenzio, sbalorditi. Non lo vedevano spesso e, osservando la borsa che teneva in mano, non sapevano se stesse partendo o arrivando. Greg, che a sette anni era già un piccolo opportunista, prese una rapida decisione: «Papà è a casa, papà è a casa!» si mise a gridare. «Che bello, che bello, c'è papà! Mi hai portato un regalo, papà? Che cosa mi hai portato?» Galloway fece un passo indietro come se l'avessero colpito in pieno petto. «Ma non ero in viaggio.» «Be', allora ci stai andando adesso.» «Infatti.» «Quindi se vai via, dopo devi ritornare.» «Penso che sia così.» «E quando tornerai, mi porterai un regalino?» Galloway si sentì avvampare e un tic nervoso gli contrasse un angolo della bocca. "Ecco cosa sono per loro e anche per Esther" pensò. "Sono quello che porta un regalo." «Potresti portare qualche cosa a tutti» suggerì Marvin che aveva cinque anni e mezzo «a Annie, alla signora Browning, al vecchio Rudolph e alla mia maestra.» «Penso che sia possibile. E che cosa credi che desidererebbero?» «Un cane. Tutti vogliono un cane.» «Tutti? Ne sei certo?» «Gliel'ho chiesto» mentì Marvin spudoratamente «ho chiesto che regalo volevano e tutti hanno detto un cane.» Per dimostrare la veridicità delle sue parole si precipitò sul letto del fratello e mise le braccia al collo del loro piccolo Dachshund. Il cane si era ormai abituato a queste esplosioni di affetto e continuò a rosicchiare tranquillamente un angolo della coperta. «Così tutti potrebbero avere un bel cagnolino come Petey nel loro letto
tutte le notti. Anche il vecchio Rudolph.» «Veramente Rudolph dice che i cani scavano buche nelle aiuole dove lui pianta i fiori.» «Petey non scava mai buche; sono io che le scavo. Ne scavo quasi un milione alla settimana.» «È un mucchio di lavoro per un ometto come te» ribatté Galloway sorridendo tristemente. «Devi essere molto robusto.» «Senti i miei muscoli!» «Senti anche i miei» intervenne Greg. «Se volessi potrei scavare anch'io un milione di buche.» Galloway tastò coscienziosamente i muscoli dei due figli fino a che sulla porta non comparve Annie, la cameriera incaricata di occuparsi dei bambini. Durante il giorno, con la sua uniforme bianca e blu, Annie aveva un aspetto serio, riservato e rispettabile. Ora, pronta per la sua serata di libertà, Galloway stentava a riconoscerla. Le labbra erano sottolineate da un rossetto vermiglio, le sopracciglia segnate con la matita nera e gli occhi erano quasi nascosti da un pesante strato di mascara. «Oh, è lei, signor Galloway! Credevo che i ragazzi stessero ancora litigando per il cane.» «Non litigheranno più ancora per molto: ho ricevuto ordine di portare un altro cane quando ritorno.» «Davvero?» «Sono certo che anche lei vorrà che io le porti qualche cosa, signorina Annie. Lo vogliono tutti.» La ragazza lo guardò stupita. «Io ricevo uno stipendio» ribatté in tono di disapprovazione. «Grazie, signore.» «Sono certo che ci sarebbe qualche cosa che può farle piacere. Provi a pensarci: una collana? O un profumo che stordisca i giovanotti locali?» «Portale un cane» gridò Marvin «Annie vuole un cane.» «Io non desidero affatto un cane» ribatté seccamente la ragazza. «Anzi non desidero assolutamente niente. E adesso voi due tornatevene nel vostro letto e basta con le sciocchezze. Il mio amico mi sta aspettando, ma non metterò il naso fuori di casa fino a quando voi due non vi sarete messi tranquilli.» Poi sottovoce, aggiunse rivolta a Galloway: «Qualche volta si eccitano.» «Vuole che li lasci soli, vero?» «Credo che sarebbe meglio, signore; li ho messi a letto più di un'ora fa.»
Galloway si voltò a guardare i due ragazzini: per un attimo, prima che Annie comparisse sulla scena, si era sentito molto vicino a loro, aveva pensato che erano due splendidi e adorabili bambini. Ma adesso erano tornati a essere due estranei: due piccoli selvaggi che volevano da lui solo dei doni, che erano contenti di vederlo andare via perché pensavano che ci sarebbe stato un regalo per loro quando sarebbe ritornato. La testa cominciò di nuovo a girargli e si sentì uno strano sapore acido in bocca. «Buona notte ragazzi» disse frettolosamente e scese barcollando le scale. La borsa di tela che teneva tra le mani gli sembrava di piombo e muoveva faticosamente i piedi come un vecchio. "Devo farmi dare qualche pillola da Harry. Harry ha pillole per tutte le occasioni." In garage mancava la De Soto rosa e panna di Esther, ma la Cadillac cabriolet di Galloway era al suo posto con la capote abbassata, pulita e scintillante. Era Rudolph che amava tenerla così, come se fosse stata un insostituibile pezzo antico invece di un'automobile che sarebbe stata cambiata l'anno dopo. Sebbene fosse già aprile faceva freddo, ma Galloway tremando sedette al posto di guida lasciando la capote abbassata. Al piano di sopra i bambini continuavano a discutere, ma l'argomento era cambiato: «E se si dimentica di portarci i cani?» «Non può dimenticarsene.» «Potrebbe non tornare più, come la moglie del vecchio Rudolph.» «Oh, piantala» tagliò corto Gregory severamente. «Quando uno parte deve tornare; dove vuoi che vada altrimenti? Deve tornare.» Per Greg non c'erano dubbi. 2 Quando Galloway pensava al gruppetto dei suoi amici, usava chiamarli "i ragazzi". Due dei ragazzi, Bill Winslow e Joe Hepburn, partirono insieme da Toronto e arrivarono al capanno, che si trovava sulla Georgian Bay, pochi chilometri dopo Wiarton, alle dieci circa. Un terzo, Ralph Turee, arrivò da solo qualche minuto più tardi. Il guardiano li fece entrare e ciascuno si dedicò immediatamente al suo compito specifico. Turee portò i bagagli al piano di sopra, Hepburn accese il fuoco nel grande caminetto di pietra e Winslow si diede da fare per apri-
re l'armadio dei liquori. Poi, come Esther aveva previsto, i ragazzi si dedicarono al loro passatempo preferito, ossia sbronzarsi. Questi erano gli amici del cuore di Galloway, tutti più o meno della stessa età e con lo stesso scopo nella vita: divertirsi il più possibile quando potevano allontanarsi dalle preoccupazioni degli affari e della famiglia. Bill Winslow era uno dei direttori nell'industria tessile del padre, Joe Hepburn era manager in una fabbrica di giocattoli in plastica e piccoli oggetti regalo e Ralph Turee insegnava economia all'università di Toronto. A parte Turee, avevano tutti un reddito superiore alla loro intelligenza, cosa che Turee non si stancava mai di sottolineare. Perennemente al verde, Turee li sfotteva per tutti i loro soldi e non esitava a farseli prestare: fornito di un'istruzione molto superiore alla loro, si prendeva gioco della loro ignoranza che sfruttava a proprio vantaggio. Nel complesso però il gruppo era molto affiatato, soprattutto dopo che l'alcool aveva provveduto ad appianare le piccole differenze. Fu Turee ad accorgersi che ormai erano al capanno da un bel po' e Galloway e Harry Bream non si erano ancora fatti vivi: «Strano che Galloway non sia ancora arrivato; per lui è un punto d'onore essere puntuale.» «Detesto la puntualità» proclamò Winslow «è lo spauracchio delle menti ristrette. Dico bene, ragazzi?» Hepburn ribatté che veramente era la castità lo spauracchio delle menti ristrette. Turee li corresse entrambi dicendo che in realtà si trattava della coerenza, poi tornarono tutti a occuparsi di Galloway. «Ieri sera Galloway mi ha telefonato» disse Turee «mi ha detto che sarebbe passato a prendere Harry a Weston e poi sarebbero venuti qui insieme verso le nove e trenta.» «Ah, ecco, adesso si spiega tutto» esclamò Winslow. «Che cosa vuoi dire?» «Ma sì, il nocciolo della questione, il motivo del ritardo: Harry! Harry è sempre in ritardo in ogni occasione.» La teoria era logica e tutti l'accettarono con entusiasmo. Dopo un istante stavano già brindando a Harry, il motivo e la causa di quel ritardo. Fu proprio Harry che involontariamente guastò il loro entusiasmo presentandosi davanti a loro alle undici e trenta. Indossava un mackintosh, un berretto da caccia col paraorecchie abbassato e stringeva in mano le canne da pesca. «Scusate se sono in ritardo» cominciò allegramente «ma mi si è guastata la pompa della benzina dalle parti di Owen Sound.» Tutti ammutolirono e si voltarono a guardarlo così sconcertati che persi-
no Harry, poco incline alle sottigliezze, si accorse che c'era qualche cosa che non andava. «Ehi, ragazzi, che cosa vi piglia? Vi ho per caso disturbati mentre stavate guardando la pubblicità alla TV?» «Dov'è Galloway?» chiese Turee. «Credevo che fosse già qui.» «Non dovevate venire insieme?» «Questo era il piano originale, ma poi ho dovuto fare una visita inaspettata in una clinica di Mimico e perciò ho lasciato detto a Thelma di dire a Galloway di venire avanti senza di me. Lo so che Ron detesta arrivare in ritardo. Pensate che Thelma se ne sia dimenticata?» Era convinzione generale tra gli amici che a Thelma mancasse qualche rotella, ma nessuno lo affermava apertamente per non ferire Harry. Harry la adorava; non si stancava mai di meravigliarsi per le sue piccole eccentricità e non smetteva di riferire agli amici tutte le sue opinioni e le esperienze della moglie. Harry era un figlio unico che aveva dovuto provvedere al mantenimento degli anziani genitori. Questo aveva fatto sì che non si sposasse fino a quando entrambi non erano morti. Poi non aveva perso tempo: la notizia del suo matrimonio a 35 anni con la segretaria di un dottore era arrivata come un fulmine a ciel sereno per gli amici, soprattutto per Galloway che si era ormai abituato ad avere Harry pronto ad accorrere a un suo cenno. Harry, lo scapolo senza pensieri, si era improvvisamente trasformato in un marito senza speranze, soggetto a regole e restrizioni e vittima dei capricci e delle fisime della moglie. Sebbene Thelma ed Esther non andassero molto d'accordo, i due uomini erano rimasti grandi amici, un po' perché a Thelma Galloway era simpatico e incoraggiava Harry a frequentarlo e un po' perché i due erano amici fin dal tempo delle scuole superiori. Durante l'ultimo anno, Harry era stato rappresentante di classe e aveva ancora tra i suoi cimeli il libro ricordo della scuola con la fotografia della classe nel giorno del diploma: "Henry Ellsworth Bream. Un futuro glorioso è previsto per il nostro Harry che occupa un posto particolare in tutti i nostri cuori". Harry godeva ancora di un posto particolare in molti cuori, ma il suo futuro era stato deludente. Aveva perso molte volte il treno; qualche volta per pochi secondi, qualche altra per uno scherzo del destino: una gomma a terra, un ingorgo nel traffico, una tempesta di neve, un numero di telefono sbagliato.
"Povero Harry" diceva la gente "è sempre stato sfortunato." Tutti si aspettavano che quando fossero morti i vecchi genitori, il destino sarebbe finalmente cambiato e lo avrebbe ricompensato per tutti i torti subiti con un vero colpo di fortuna. Harry era convinto che fosse accaduto proprio questo: la sua fortuna era stata Thelma. «Forse tua moglie si è dimenticata di riferirgli il messaggio» disse Turee «oppure ha improvvisamente deciso di andare al cinema o da qualche altra parte e Galloway è ancora lì che ti aspetta.» «No, Thelma non farebbe mai una cosa simile» disse Harry scuotendo la testa. «Non l'ha certo fatto apposta.» «No, neanche per distrazione: Thelma ha una memoria prodigiosa.» «Davvero?» «Quella ragazza non si è mai dimenticata niente in vita sua.» «D'accordo, d'accordo, mi sembrava una spiegazione logica, tutto qui.» Nel frattempo si era fatta mezzanotte, e Bill Winslow, che non reggeva l'alcool, ma che sarebbe morto provandoci, aveva raggiunto il punto di saturazione. L'eccesso di alcool sembrava uscirgli dagli occhi in forma di lacrime. «Povero vecchio Galloway, seduto tutto solo nella sua vecchia bagnarola, mentre noi ce ne stiamo qui a sbevazzarci i suoi liquori e a divertirci. Vi pare giusto ragazzi? Io vi chiedo: vi pare giusto?» Turee lo zittì severamente: «Per l'amor del cielo, vuoi stare zitto? Sto cercando di concentrarmi.» «Povero Galloway, non è giusto. Noi siamo qui a divertirci e lui è là seduto nella sua vecchia...» «Hepburn, vedi un po' se ti riesce di trascinarlo a letto.» Hepburn prese sottobraccio Winslow e riuscì a metterlo in piedi. «Forza Billy, ragazzo mio, andiamo a fare la nanna.» «Non voglio andare a letto: voglio restare qui e divertirmi insieme a voi.» «Senti Billy, noi non stiamo affatto divertendoci.» «Davvero?» «Proprio così; quindi, perché non vai a nanna? Dove hai lasciato la tua valigia?» «Non lo so.» «È di sopra, insieme alla mia, nella stanza accanto a quella di Galloway» disse Turee.
«Non voglio andare a letto, sono troppo triste.» «Già, lo vedo...» Winslow cercò di asciugarsi il sudore con la manica della giacca: «Non posso fare a meno di pensare a quel povero vecchio Galloway e a quella povera principessa Margaret.» «Cosa c'entra la principessa Margaret in questa storia?» «Avrebbe dovuto sposare Townsend, avere dei bambini ed essere felice. Tutti dovrebbero essere felici.» «Certamente.» «Io sono felice.» «Certo che lo sei.» «Io sto divertendomi un mucchio insieme a voi, non è vero?» «Adesso però basta, Billyboy, andiamo a letto.» Con gli occhi pieni di lacrime, Winslow si trascinò attraverso la stanza e si accinse a salire le scale a quattro zampe come un cane addestrato a salire una scala a pioli. A mezza strada però crollò miseramente e Hepburn fu costretto a trascinarlo fino in camera. «E adesso che cosa facciamo?» chiese Turee dando nervosamente un calcio a un tronco del caminetto. «Non so» rispose cupamente Harry «non è nello stile di Ron fare aspettare la gente.» «Potrebbe avere avuto un incidente.» «È un eccellente guidatore, e poi ha la mania della sicurezza: allaccia le cinture e pensa a tutto il resto.» «Anche i bravi guidatori possono avere un incidente. Il fatto è che se fosse successo qualche cosa noi non avremmo modo di saperlo a meno che Esther non spedisca un telegramma a Wiarton perché vengano a consegnarlo qui.» «Esther sarebbe troppo sconvolta per pensare di fare una cosa del genere.» «Hai ragione; supponiamo allora che Galloway non si sia neanche mosso da casa. Potrebbe avere avuto un attacco di mal di stomaco e aver deciso di non venire.» «Questo mi sembra più ragionevole» esclamò Harry con entusiasmo. «L'ultima volta che l'ho visto si lamentava per il mal di stomaco. Gli ho dato delle pillole per l'ulcera che la mia ditta ha messo sul mercato di recente.» «Ma Galloway non ha l'ulcera!»
«Quelle pillole hanno fatto miracoli.» Turee voltò la testa disgustato: era l'unico del gruppo che si rifiutava di avere qualcosa a che fare con le diagnosi o con le pillole di Harry. «Okay, supponiamo che l'ulcera di Galloway abbia cominciato a tormentarlo e che sia andato all'ospedale; che cosa te ne pare?» «Ottima idea.» Quando Hepburn ricomparve, i tre tennero consiglio e decisero che Turee, il più intelligente, e Harry, il più sobrio, sarebbero andati in macchina a Wiarton e avrebbero telefonato a casa di Galloway per controllare se la loro teoria sull'ulcera reggeva. La strada, lungo le insenature della baia era difficile e Turee dovette concentrarsi nella guida mentre Harry, nel caso la loro teoria sull'ulcera fosse sbagliata, aguzzava gli occhi per vedere se c'era qualche Cadillac in panne. Si imbatterono soltanto in due macchine, e nessuna delle due era una Cadillac. Quando finalmente raggiunsero la città di Wiarton, le luci erano ormai spente. Finalmente scorsero una cabina telefonica in un piccolo hotel che aveva appena aperto per la stagione. Vedendoli vestiti da pescatori, il direttore li accolse molto cordialmente, ma il suo umore cambiò quando si accorse che volevano soltanto telefonare e per di più dovette anche cambiare in moneta cinque dollari. Rimase seduto dietro il bancone a fissarli severamente mentre Turee entrava nella cabina. Ci vollero circa dieci minuti per ottenere la comunicazione con la casa di Galloway a Toronto e quando finalmente l'ottennero, la linea era molto disturbata. «Esther?» «Ron?» «No, non sono Ron; sei tu Esther?» «Si può sapere chi parla?» «Sono Ralph, Ralph Turee; sei tu Esther?» «Sì» rispose piuttosto freddamente Esther, prima di tutto perché era stata svegliata bruscamente e poi perché non provava molta simpatia per Turee né per sua moglie né per i suoi marmocchi «non ti pare che sia piuttosto tardi?» «Non ti sento; potresti alzare la voce?» «Sto già gridando.» «Ascoltami Esther, che cos'è questo baccano? Centralino! Centralino!
Non potrebbe fare qualcosa per questo baccano? Esther, sei sempre lì? Ron sta bene?» «Certo che sta bene!» «Non ha avuto un attacco di mal di stomaco o qualcosa del genere?» «Sei sbronzo per caso?» Questa era una delle domande favorite di Esther. A furia di ripeterla, aveva imparato a dirla strascicando la a di caso perché si sentisse di più il suo disprezzo. «Non sono affatto sbronzo; perché mai dovrei esserlo?» gridò Turee. «Senza dubbio avrai le tue buone ragioni. Che cos'è questa storia di Ron?» «Le cose stanno così: Harry è su al capanno insieme a noi.» «E allora?» «Ron non è arrivato, Harry è venuto da solo. All'ultimo momento ha dovuto andare a Mimico per un appuntamento d'affari e ha incaricato Thelma di dire a Ron di venire senza di lui. Be', adesso Harry è arrivato, ma di Ron non abbiamo notizie. I ragazzi cominciavano a essere in pensiero, perciò ho deciso che era meglio telefonarti.» Esther soffriva di gelosia cronica e quindi il suo primo pensiero non fu che Ron fosse morto tra le lamiere contorte della sua macchina, ma piuttosto che fosse comodamente alloggiato nel letto di Thelma. «Forse Ron è stato trattenuto» disse. «Dove?» «A Weston.» «E da chi?» «Chiedilo a Harry; è lui il marito di quella donna.» «Andiamo!» sbottò Turee irritato. «Questa è l'osservazione più stupida che abbia mai sentito. Che cosa ti piglia, Esther?» «Era solo un'idea.» «In nome del cielo, credevo che avessi più buon senso. Adesso non posso dire altro perché Harry è a un paio di metri da me. Capisci?» «Certo.» A questo punto la centralinista intervenne chiedendo a Turee di inserire delle altre monete. Turee obbedì imprecando ad alta voce e infine chiese: «Sei sempre lì, Esther?» «Naturalmente.» «Credo che dovresti chiamare la polizia.» «E perché mai? Potrei mettere Ron in imbarazzo: non gli farebbe piacere essere scoperto a letto con la moglie di un altro.»
«Per l'amor del cielo, Esther, piantala con quell'idea fissa! In questo momento Ron potrebbe trovarsi all'ospedale o magari all'obitorio.» «Ha con sé tutti i possibili documenti; a quest'ora mi avrebbero già avvertita.» «Allora non sei preoccupata?» «Preoccupata? Sono preoccupata, ma non si tratta di quel tipo di preoccupazione che mi va di comunicare alla polizia.» «Questo tuo atteggiamento mi lascia sbalordito, Esther, veramente sbalordito.» «Vedi un po' tu! Io non posso certo impedirti di esserlo.» «Ma allora, Ron?» «Ron tornerà a casa quando gli farà comodo con una storia plausibile che per un po' io stessa potrò anche credere. Ti assicuro che dovunque si trovi in questo momento non si sta certo preoccupando né per te, né per me, né tantomeno per Harry.» «Questo significa che potrebbe anche essere morto.» «Il guaio con voi ragazzi è che quando siete ubriachi diventate piagnucolosi.» C'era così tanta verità nelle sue parole che Turee non osò contraddirla. «La tua osservazione non mi sembra molto gentile» si limitò a replicare. «Il fatto è che in questo momento non mi sento molto gentile verso nessuno. Facciamo una cosa: voi siete andati al capanno per un fine settimana di pesca. Se Ron torna a casa gli dirò che siete preoccupati per lui e che vi mandi un telegramma. Se invece dovesse raggiungervi, lo pregherete di telegrafare a me. Va bene?» «Va bene» rispose Turee, anche se non gli sembrava che andasse bene per niente. Era tutto sbagliato: l'assenza di Galloway, l'atteggiamento di Esther, i singhiozzi da ubriaco di Winslow. "Che razza di weekend" pensò. "Quasi quasi giro la macchina e me ne torno a casa!" L'aria nella cabina si era fatta calda e irrespirabile e quando Turee uscì aveva gli occhi rossi, era sudato e di pessimo umore. Harry, in piedi accanto alla finestra, fissava la baia come se ci fossero molte cose interessanti da vedere, ma la baia era immersa nell'oscurità, non c'era niente da vedere e Turee sapeva che Harry era rimasto in ascolto e forse aveva sentito. «Bene» cominciò Turee fingendosi rassicurato «a quanto pare ci eravamo preoccupati per niente.»
«Allora Ron è a casa?» «Non esattamente, ma ti assicuro che Esther non è per niente preoccupata per lui.» «Si direbbe che sia preoccupata per qualcos'altro.» «Sai com'è Esther; è convinta che Ron si sia concesso una scappatella. Chi lo sa, forse ha ragione.» «Forse.» Harry si era nuovamente voltato verso la finestra e stringeva le mascelle con tanta forza che la sua voce sembrava quella di un ventriloquo. «Mi è sembrato di sentirti fare il mio nome.» «Cosa? Ah, sì, certamente. Le ho spiegato del malinteso dell'appuntamento, che tu sei dovuto andare a quell'incontro di affari e...» «Non volevo dire questo.» «D'accordo; che cosa hai sentito?» «Hai detto a Esther che non potevi parlare perché io ero a pochi metri dalla cabina.» «Esatto.» «Che cosa intendevi dire?» «Ecco, in realtà le cose stanno così» Turee era un pessimo bugiardo e in quel momento l'ora tarda, i bicchierini che aveva bevuto e la presenza del direttore dell'albergo dietro il banco contribuivano a renderlo ancora più impacciato «il fatto è che Esther sospettava che tu e Ron foste andati a caccia di ragazze insieme.» «Esther dovrebbe conoscermi abbastanza per non pensare una cosa del genere. Un tempo forse sarebbe anche potuto succedere, ma adesso sono un uomo sposato.» «Lo so, ma tra quello che dovrebbe sapere Esther e quello che sospetta ci sta di mezzo il mare.» «Stai dicendomi la verità?» «Su cosa?» «Andiamo, Ralph, siamo amici!» «E allora, da amico, io suggerisco che ce ne torniamo al capanno e ci facciamo una bella dormita.» Turee fece qualche passo verso la porta, ma poi, vedendo che Harry non si muoveva, tornò indietro. «Senti vecchio mio, non possiamo restare qui tutta la notte!» «Perché no?» «I folli sospetti di Esther non dovrebbero ormai turbare più nessuno. Torniamocene al capanno; qui non abbiamo più niente da fare.» «C'è una cosa che voglio fare» lo interruppe Harry «voglio telefonare a
Thelma.» «Ma perché?» «Non c'è bisogno di un motivo particolare per telefonare alla propria moglie. Inoltre voglio chiederle se Ron si è fatto vedere.» «Ma è tardi, probabilmente Thelma sta dormendo; potrebbe persino non sentire il telefono.» «Ne ha uno sul comodino.» «E allora telefonale, ma poi non dirmi che non ti avevo avvertito.» «Avvertito?» «Voglio dire che se io telefonassi a mia moglie nel bel mezzo della notte penserebbe che sono sbronzo e la prossima volta che Ron mi invitasse qui pianterebbe una grana d'inferno per non farmi venire.» «Thelma non la pensa così: lei vuole che io mi diverta. È una persona estremamente altruista.» Turee preferì non ribattere. Era una delle più belle qualità di Harry quella di attribuire agli altri le virtù che aveva lui. Restò a guardare Harry che entrava nella cabina telefonica chiudendo la porta dietro di sé e pensò: "Signore! E se per una volta Esther avesse ragione e Ron fosse a letto con Thelma? No, impossibile: Thelma è pazza di Harry quanto lui lo è di lei". Si mise a fischiettare sottovoce una canzoncina che diceva: "Ho perso la testa per Harry". 3 Thelma non era addormentata come Turee aveva previsto; rispose al telefono al secondo squillo e la sua voce era normale, come se fosse stata in attesa della telefonata: «Parla casa Bream.» «Lo so, tesoro» rispose Harry scoppiando a ridere. «Oh, sei tu Harry?» «In persona. Spero di non averti svegliato.» «No.» «Sei contenta di sentire la mia voce?» «Naturalmente.» «Giuramelo sulla tua vita.» «Lo giuro» ripeté Thelma stancamente «sulla mia vita. Ma non ti stanchi mai di giocare, Harry? Sei proprio un bambino. Non è un po' tardi adesso per fare giochi? Non dovrebbero essere a letto a quest'ora i bambini? Do-
mani potrai fare tutti i giochi che vuoi.» In tre anni di matrimonio Thelma non gli aveva mai parlato con quel tono condiscendente; Harry arrossì come se lo avessero schiaffeggiato. «Thelma, che cosa ti succede?» «Niente.» «Non è vero! Dimmi che cosa succede, dillo al tuo Harry.» L'unica risposta fu un lungo e profondo sospiro. «Thelma, ascoltami, se tu vuoi vengo a casa subito. Parto immediatamente.» «No! Non voglio che tu venga a casa!» «Che cosa succede, Thelma? Ti senti bene?» Di nuovo nessuna risposta. Harry si sentì soffocare da quel silenzio; aprì la porta della cabina telefonica e respirò profondamente; ora che la porta era aperta Turee avrebbe potuto sentirlo, ma a Harry non importava niente. Il fatto di dividere i suoi guai con gli amici non lo metteva in imbarazzo, visto che tante volte lui aveva condiviso i loro. «Non mi sento bene» disse infine Thelma «è tutta la sera che non mi sento bene.» «Chiama un medico, chiamalo immediatamente.» «Non ho bisogno di un dottore, so benissimo che cosa ho.» «Di che cosa si tratta, tesoro?» «Non te lo posso dire ora, non è né il momento né il posto giusto.» «Senti Thel, non ti affaticare. Adesso sdraiati e riposati; io torno a casa immediatamente.» «Se lo fai me ne vado.» «In nome del cielo, Thelma!» «Dico sul serio, Harry, vado via. Ho bisogno di stare un po' da sola e di pensare. Non venire a casa, Harry, promettimelo.» «Ma io...» «Promettimelo.» «D'accordo, lo prometto: non verrò a casa. Non subito per lo meno.» La promessa parve rinfrancarla e quando parlò di nuovo il tono era affettuoso: «Da dove telefoni?» «Da un albergo di Wiarton.» «Non sei ancora stato al capanno?» «Certo, ma io e Turee siamo tornati in città per telefonare a casa di Ron.»
«E perché volevate telefonare a Ron a quest'ora?» «Per scoprire come mai non è venuto qui.» «Non è arrivato? Hai detto che non è arrivato?» «Non ancora.» «Ma se n'è andato da qui da ore! È arrivato poco prima delle otto, gli ho riferito il tuo messaggio, abbiamo bevuto insieme qualche cosa e poi...» Tacque. «E poi che cosa?» chiese Harry ansiosamente. «Io... l'ho implorato di non andare al capanno.» «Perché?» «Perché avevo un presentimento; era così forte che per poco non sono svenuta. Avevo un presentimento!» Cominciò a piangere e il resto delle parole si perse tra i singhiozzi. «Oh mio Dio! Dovevo avvertirlo, è tutta colpa mia, e adesso Ron è morto. Ron, Ron!» «Thelma, cosa stai dicendo?» «Ron!» continuava a ripetere Thelma tra i singhiozzi; Harry l'ascoltava impietrito col cuore che gli batteva furiosamente in petto. Turee si avvicinò alla cabina e aprì la porta: «È successo qualche cosa?» «Sì, ma non capisco cosa.» «Lascia che provi a parlarle io.» «Non credo che serva.» «Lasciami provare, e tu vai a sederti Harry, hai un aspetto terribile.» Harry si fece da parte. «Pronto, Thelma?» disse Turee impossessandosi rapidamente del ricevitore «sono Ralph.» «Vai via.» «Ascoltami, Thelma, non so che cosa stia succedendo, ma cerca di calmarti un momento, vuoi?» «Non posso.» «Perché non bevi qualche cosa? Io ti aspetto al telefono mentre tu ti prepari un bicchierino.» «Non voglio un bicchierino.» «D'accordo, d'accordo, era solo un suggerimento.» «Non riuscirei comunque a tenerlo. Sto male, non ho fatto che vomitare.» «Forse ti è venuta un po' d'influenza.» «No, non ho l'influenza.» Esitò un istante. «Harry è lì vicino a te?» «No, è uscito.»
«Sei sicuro?» «Lo vedo che passeggia avanti e indietro sulla veranda.» «Sono incinta.» «Che cosa? Cosa hai detto?» «Aspetto un bambino.» «Che mi pigli un accidente! Ma è splendido, Thelma, meraviglioso.» «Credi?» «L'hai detto a Harry?» «Non ancora.» «Non starà più in sé dalla gioia quando lo saprà.» «Forse, all'inizio.» «Che cosa vuol dire all'inizio?» «Quando comincerà a rifletterci sopra forse non sarà più così contento.» «Non capisco.» «È ormai un anno che Harry e io facciamo in modo di non avere bambini» rispose lentamente Thelma. «Harry non vuole che rimanga incinta perché ha paura che insorgano complicazioni, visto che ho più di trentacinque anni.» «Nessun metodo è sicuro al cento per cento. Potrebbe essere un incidente.» «Non è stato un incidente, è stato fatto volontariamente, almeno da parte mia. Volevo un bambino, tra poco sarò troppo vecchia per averne. Ne ho parlato con Harry, gli ho spiegato quali sono i miei sentimenti, ma lui è terrorizzato all'idea che possa succedermi qualche cosa. Almeno, questo è quello che dice lui. Forse la vera ragione è più profonda, forse è geloso all'idea di dover dividere il mio affetto. Comunque, quali che siano le sue ragioni, adesso sai che cosa ne penso io. Voglio questo bambino, lo amo già.» «Lo ami già?» «Sento che sarà un maschietto. Lo chiamerò Ron.» «In nome del cielo!» esclamò Turee «Ron? Ron Galloway?» «Esattamente.» «Ma ne sei sicura?» «Questo mi sembra piuttosto offensivo: si direbbe che io vada a letto con chiunque.» «Volevo solo dire che in un caso del genere devi essere assolutamente certa.» «Lo sono.»
«In nome del cielo!» ripeté Turee. «Che terribile pasticcio! Hai pensato a Esther, a Harry?» «Non posso pensarci, devo pensare al mio bambino. Esther comunque non è mai stata innamorata di Ron; l'ha sposato per i suoi soldi. È stato lui a dirmelo. Quanto a Harry, mi dispiace, naturalmente; è un brav'uomo e mi dispiace fargli del male, ma...» «Ma glielo farai?» «Devo farlo, devo pensare al mio bambino.» «Ma proprio per questo, Thelma, rifletti un momento, per il bene del piccolo. Non credi che sarebbe meglio tenere tutta questa storia segreta? Harry sarebbe un padre meraviglioso e il bambino potrebbe crescere senza scandali.» «Impossibile! Non ho nessuna intenzione di tenere questa storia segreta.» «Ti consiglio sinceramente di pensarci su.» «Non ho pensato a niente altro da tre settimane, fin dal primo momento in cui mi sono accorta di essere incinta. E c'è una cosa di cui sono sicura: non posso continuare a vivere con Harry. Non mi sembra più neanche di conoscerci. Non so come spiegartelo: l'unica cosa che mi sembra reale è il bambino dentro di me, il bambino di Ron. Adesso sono loro la mia vita: Ron e il suo bambino.» Questa frase, pronunciata con profonda convinzione, lasciò Turee talmente sbigottito che per un momento non riuscì nemmeno a ribattere. Quando riprese a parlare, la sua voce fredda esprimeva tutta la sua disapprovazione. «Non riesco a credere che anche Ron la pensi in questo modo. Dopo tutto ha avuto un figlio dalla prima moglie, e due dalla seconda: non mi pare che questo evento sia poi così eccezionale per lui.» «Se stai cercando di farmi diventare gelosa o di irritarmi, lascia perdere. Ron ha avuto altre donne e altri figli, lo so. Ma questo è speciale: il piccolo è speciale, io sono speciale.» Che cosa poteva rispondere a un'affermazione del genere? Turee rimase a fissare in silenzio il microfono, rammaricandosi di non essere rimasto a casa a imbiancare il garage come sua moglie avrebbe desiderato. «Ralph, sei sempre lì?» «Sì.» «Senti, non voglio che tu pensi che questa sia un'idea che mi sono messa in testa, che io l'abbia pianificata. Non è così. È successo, semplicemente,
ma quando è successo ho capito che questa era la cosa giusta per me.» «Giusta? Ma hai perso la testa? Quello che hai fatto, quello che stai facendo, è completamente e ingiustificatamente immorale!» «Ora non farmi la predica, tanto non cambia niente.» «In nome di Dio! Ma hai pensato a Harry? Lo ucciderai.» «Non lo credo affatto; certo, per un po' di tempo sarà sconvolto, ma prima o poi troverà una donna che si abbarbicherà a lui, che gli permetterà di soffocarla di attenzioni e che ingoierà senza protestare tutte le sue pillole.» Turee era sconcertato. «Si direbbe che tu lo odi.» «No, odio solo le pillole; Harry mi tratta come un'invalida, in realtà io sono una donna forte. Il dottore dice che avrò un bambino sano e robusto, e questo è ciò che ho desiderato per tutta la vita. Io sono figlia unica e ho trascorso la mia infanzia con una zia zitella: non immagini quanto mi sia sentita sola! Sognavo che quando sarei diventata grande mi sarei sposata e avrei avuto una dozzina di bambini, così non mi sarei sentita più sola.» «Potresti sentirti più sola che mai; da queste parti la gente ha idee piuttosto ristrette...» «Oh, la gente! Non mi importa niente della loro opinione. Tutto quello che voglio è Ron e il suo bambino.» «Sei molto sicura di te, Thelma.» «Infatti.» «Sei altrettanto sicura di Ron?» «Sì. Gli ho detto del bambino questa sera quando è passato a prendere Harry. Mi è sembrato giusto parlargliene.» Turee non era certo di essere d'accordo con lei. «E come ha preso la notizia?» «Naturalmente non mi aspettavo che all'inizio fosse entusiasta del mio annuncio» rispose Thelma sulla difensiva. «Ha bisogno di un po' di tempo per pensarci, per abituarsi all'idea. Qualsiasi uomo reagirebbe così.» «Mi fa piacere che tu te ne renda conto» disse seccamente Turee. «Mi ama, e questa è la cosa più importante. Non preoccuparti, vedrai che tutto andrà per il meglio, lo sento.» Thelma non si accorgeva neanche che stava contraddicendosi: questo nuovo presentimento, che tutto sarebbe andato per il meglio, cancellava quello vecchio che qualcosa di terribile fosse successo a Ron. Thelma sovrapponeva i suoi presentimenti l'uno sull'altro come se si trattasse di mattoni, ed era sempre l'ultimo, il più recente, a essere valido.
«Oh, lo so che non sarà tutto facile» aggiunse Thelma. «Il divorzio, per esempio.» «Ron non può ottenere il divorzio da Esther: non ci sono i presupposti.» «Ron le darà dei soldi e lei gli concederà il divorzio.» «E se Esther rifiutasse?» «Che sciocchezza! A Esther i soldi piacciono. E poi, perché dovrebbe rifiutare?» «Ci sono delle donne» disse Turee con pesante ironia «che non si sentono particolarmente eccitate all'idea di buttare a mare la propria casa e la propria famiglia.» «Non farti delle idee sbagliate su Esther: io non sto facendo a lei niente di diverso di quello che lei ha fatto alla prima moglie di Ron; solo che i miei motivi sono diversi.» «E come ha preso Ron l'idea di doversi presentare un'altra volta in tribunale sotto l'accusa di adulterio?» «In nome del cielo! Ma non riesci proprio a pensare a qualcosa di più allegro?» «Non mi viene in mente proprio niente di allegro» rispose Turee con sincerità. «Questa non è una situazione che eccita il mio sense of humour. Forse a Harry verrà in mente qualcosa di allegro; è sempre fuori sulla veranda: vuoi che lo chiami?» «No!» «Come farai a dirglielo, Thelma?» «Non lo so. Ci ho provato, ho cercato di portarlo sull'argomento, ma è così difficile.» «Avresti dovuto pensarci quando tu e Ron vi rotolavate a letto insieme.» «Che osservazione volgare!» «Neanche la situazione mi sembra molto elegante.» «Senti Ralph, a proposito di Harry: voi siete tanto amici, mi chiedevo se non avresti potuto parlargliene tu.» «Sii così gentile da non immischiarmi in questa faccenda.» «Pensavo solo... tu che hai tanto tatto...» «In questa occasione preferisco non averne.» «Come vuoi, ma io non glielo dirò. Non posso. Non voglio nemmeno vederlo più.» «In nome del cielo, ma non ti pare di dovergli almeno una spiegazione, di doverti scusare con lui?» «E perché dovrei scusarmi? Non sono per niente pentita di quello che ho
fatto. Quanto a una spiegazione, come posso spiegargli qualcosa che io stessa non capisco? Non potevo sapere che mi sarei innamorata di Ron. Se l'avessi previsto avrei forse chiesto a Harry una pillola contro il mal d'amore.» Scoppiò in una risatina amara. «Lui ha pillole contro tutto.» «Quando è cominciata questa storia?» «Un paio di settimane prima di Natale. Sono andata in città per comprare un regalo per Harry e ho incontrato per caso Ron. Abbiamo fatto colazione insieme al Park Plaza e dopo siamo usciti ad ammirare la città che scintillava sotto la neve. Era così bello! Io sono cresciuta nel West, a Vancouver, e Toronto prima di allora non mi era mai piaciuta molto. Non ci siamo messi a flirtare, non siamo rimasti mano nella mano: niente di tutto questo, ma quando sono tornata a casa non ne ho parlato con Harry; non avevo motivo di non farlo, ma ho preferito tacere. Il giorno successivo sono tornata con l'autobus a Toronto perché mi ero dimenticata di comprare il regalo a Harry. Almeno, questa era la scusa con cui mi sono convinta a tornare. Sono andata nello stesso negozio, alla stessa ora, e ho aspettato per quasi un'ora davanti all'ingresso dove avevo incontrato Ron. Avevo un fortissimo presentimento che sarebbe apparso. Invece non venne, però più tardi mi raccontò che avrebbe desiderato moltissimo venire, ma che non aveva potuto perché Esther aveva organizzato un pranzo al Club.» "Sono una coppia di scriteriati" pensò Turee con sarcasmo "che, per sfuggire alla noia, si sono inventati una situazione romanzesca che ora non sono più in grado di controllare." «E Harry non ha sospettato di niente?» chiese. «No.» «Per tua informazione sappi che invece Esther ha dei seri sospetti.» «Lo immaginavo. È stata molto fredda con me quando la settimana scorsa le ho telefonato per invitarla a uno spettacolo. Io cercavo solo di essere gentile.» «Perché?» «Ma per Ron, naturalmente. Non voglio che rompa i rapporti con i figli di Esther come ha fatto con la sua prima moglie. Non è giusto.» «Ai tribunali sembra di sì.» «Ai tribunali di questo paese, lo so. Oh, questo è un posto così rozzo e provinciale! Vorrei tanto che Ron, il mio piccolo e io potessimo vivere negli Stati Uniti!» La porta dell'albergo si spalancò e Harry rientrò nell'atrio barcollando, come un marinaio appena sbarcato da un lungo viaggio che sente ancora
oscillare il ponte della nave sotto i suoi piedi. Sebbene l'aria della notte fosse dolce, aveva le labbra bluastre e lo sguardo vitreo, come se le lacrime che si era sforzato di trattenere gli si fossero gelate negli occhi. «... in qualche posto dove non ci siano questi interminabili inverni» stava dicendo Thelma. «Oh, come li odio! Sono arrivata al punto che non mi godo più neppure la primavera perché so che sarà terribilmente breve, poi tornerà l'autunno e tutto morirà di nuovo.» «Parleremo di questo un'altra volta» la interruppe bruscamente Turee. «Ron guidava la Cadillac quando è venuto a casa tua?» «Mi pare di sì.» «Aveva la capote abbassata?» «Mi pare di sì; anzi, è così senz'altro: ricordo che mentre lo salutavo quando è partito mi sono chiesta se non si sarebbe beccato qualche cosa con tutto quel vento addosso. Si era già lamentato di non sentirsi troppo bene.» «Non stento a crederlo.» «Si è lamentato prima che gli parlassi del bambino. Senti Ralph, mi pare che tu sia di pessimo umore questa notte.» «Chissà come mai!» «Dopo tutto non è il tuo funerale.» Harry si stava avvicinando alla cabina e, malgrado Turee cercasse di impedirglielo, spalancò la porta. «Fammi parlare con lei.» «Thelma, qui c'è Harry che vuole parlare con te.» «Non voglio parlare con lui, non ho niente da dirgli.» «Ma...» «Digli la verità oppure raccontagli una bugia, non me ne importa niente. Adesso basta Ralph, e non richiamarmi perché non risponderò al telefono.» «Thelma aspetta!» Gli rispose inesorabile il clic del ricevitore. «Ha riattaccato.» «Perché?» «Non aveva voglia di parlare, immagino. Non preoccuparti vecchio mio, qualche volta le donne sono capricciose.» «Voglio richiamarla.» «Ha detto che non avrebbe risposto.» «Conosco Thelma» ribatté Harry con un debole sorriso «non resiste allo
squillo del telefono.» I due uomini si scambiarono di posto e Harry chiese una comunicazione a carico del destinatario per la signora Bream a Weston. La centralinista lasciò squillare il telefono una dozzina di volte, poi, non avendo ottenuto risposta, chiese a Harry se desiderava che riprovasse dopo una ventina di minuti. «No, no, grazie.» Harry uscì dalla cabina asciugandosi la fronte con la manica della giacca. «Porca miseria! Non capisco che cosa stia succedendo. Che cosa le ho fatto?» «Niente; torniamo al capanno e facciamoci un drink.» «Di che cosa avete parlato tu e Thelma in tutto quel tempo?» «Della vita» rispose Turee, e in fondo era vero. «Della vita? Alle tre del mattino e in interurbana?» «Thelma aveva voglia di parlare; sai come sono le donne. Qualche volta hanno bisogno di sfogarsi con qualcuno più imparziale, che non sia della famiglia. Mi è sembrata piuttosto turbata.» «Sa che può sempre contare sulla mia comprensione.» «Lo spero» rispose Turee sottovoce «lo spero veramente.» «È questa incertezza che mi angoscia: perché non vuole parlare con me? Perché continua a parlare di Ron?» «È... affezionata a Ron, e adesso è preoccupata; non lo siamo forse tutti?» «Sì, certo. Ron è il mio migliore amico; lo sapevi che quando andavamo a scuola insieme una volta gli ho salvato la vita?» «Sì» rispose Turee, anche se non era vero. Ma per quel giorno ne aveva abbastanza dell'ironia del destino, non era in grado di tollerare altro. Si sentiva la gola irritata e riarsa. «Andiamo, Harry, hai l'aspetto di uno che ha bisogno di bere qualche cosa.» «Forse dovrei restare in città, prendere una camera qui in albergo, e fra un paio d'ore provare di nuovo a telefonare a Thelma.» «Lascia in pace quella donna per un po'. Dalle la possibilità di riflettere.» «Forse hai ragione. Spero solo che si ricordi di prendere quelle pillole arancioni che le ho lasciato; sono ottime per allentare la tensione. Mi hanno detto che sono le stesse che hanno dato al Papa quando ha avuto quel terribile attacco di singhiozzo.» Turee si sentì assalire simultaneamente da un po' di simpatia per Thelma e da una leggera impazienza verso Harry. Avrebbe voluto fargli notare che
i disturbi di Thelma non avevano niente a che fare con il singhiozzo e ci voleva ben altro che qualche pillola arancione, rosa o azzurra per farglieli passare. «Non c'è altro che possiamo fare qui» disse infine «a meno che non decidiamo di informare la polizia che Ron è sparito.» «Forse non è sparito per niente. Forse quando torneremo al capanno scopriremo che ci sta aspettando. Non credi?» «È possibile» disse Turee, "ma non probabile" aggiunse tra sé. Se si fosse trovato nei panni di Ron l'ultima cosa che avrebbe desiderato sarebbe stato di trovarsi faccia a faccia con Harry. Forse Ron si era fermato in un albergo da qualche parte, o era andato nel cottage che aveva a Kingsville, o forse stava semplicemente girellando in macchina tutto solo come faceva qualche volta quando aveva litigato con Esther. Ron non sopportava le scenate, lo facevano stare male. Una volta che Turee e Winslow avevano avuto una feroce discussione politica, era semplicemente sparito, e più tardi Esther l'aveva ritrovato che vomitava dietro la legnaia. Harry diede un'occhiata all'orologio e bastò che leggesse l'ora per mettersi a sbadigliare: «Mio Dio! Sono quasi le quattro. Tra un paio d'ore i ragazzi si alzeranno e pretenderanno di andare a pesca. Sarà meglio rientrare.» «Non potrei essere più d'accordo.» «Per Giove, Ralph, sai una cosa? Mi sento meglio, molto meglio. Non so che cosa tu abbia fatto o detto, ma adesso mi sembra di vedere le cose in una prospettiva migliore.» «Bene» rispose Turee sforzandosi di sorridere. «Ma certo, mi hai aperto gli occhi: perché dovremmo preoccuparci per due persone adulte come Ron e Thelma? Dopo tutto nessuno dei due farebbe una sciocchezza.» «Bravo, questo è lo spirito.» «Torniamo al capanno e beviamoci qualcosa per celebrare.» «Celebrare cosa?» «Non lo so, ma prima mi sentivo tremendamente depresso e adesso invece tutto va bene e ho voglia di celebrare.» Si avviò alla porta sorridente e con passo sicuro. «Per Giove, che splendida notte. Senti come profuma l'aria?» Turee annusò l'aria: gli parve di sentire l'odore dell'inverno e della pioggia, dell'inganno e del tradimento.
4 Il viaggio di ritorno fino al capanno si svolse tranquillamente. Dopo un breve tentativo di conversazione, Harry si accoccolò sul sedile posteriore e cadde addormentato. Turee guidava lentamente, oppresso dal pensiero di dover dire la verità a Harry, nel modo meno doloroso possibile. Il dolore sarebbe stato inevitabile, non era possibile risparmiarglielo, ma voleva almeno fare in modo di evitare che lo shock fosse troppo forte. Fino a quella notte Turee aveva sempre considerato Thelma un cervello di gallina. Solo adesso si rendeva conto di come era stata abile nel manovrarlo in modo da far sì che adesso fosse lui il custode del suo segreto. Gli sembrava di essere il custode di un pezzo di uranio. Se non se ne fosse liberato nel più breve tempo possibile avrebbe potuto scoppiargli tra le mani. Il problema era: come scaricarlo a poco a poco con tutte le precauzioni che bisogna usare per un potente esplosivo? "Digli la verità oppure raccontagli una bugia" aveva detto Thelma, ma era chiaro che voleva che lui gli dicesse la verità, non perché fosse convinta che Turee l'avrebbe fatto con più tatto e più gentilmente, ma perché non voleva accollarsi lei questa seccatura. Thelma non voleva avere più niente a che fare con Harry; non aveva rimorsi nei suoi riguardi, né pensava di dovergli delle scuse o delle spiegazioni. Turee non riusciva a spiegarselo ma era così. Per tre anni i Bream erano stati considerati una coppia modello. Non discutevano e non si rimbeccavano mai in pubblico; non si lanciavano frecciate velenose e non confidavano agli amici le manchevolezze della loro metà. Turee li aveva sempre un po' invidiati, perché lui e sua moglie Nancy si lasciavano spesso trascinare in frequenti e accese discussioni che culminavano abitualmente in accuse di carattere psicologico del tipo: "Del resto tuo zio Carlo soffre della tua stessa paranoia. Sei un depresso ciclico, ecco tutto. Non c'è da meravigliarsi se anche le bambine soffrono delle tue stesse manie depressive ecc. ecc.". Invece di tirarsi in testa vasi e portacenere i Turee, secondo l'uso moderno, si lanciavano accuse di complessi d'Edipo, di fissazioni ereditarie e di altre nevrosi. Harry cominciò a russare sommessamente, come se volesse chiedere scusa e si aspettasse da un momento all'altro di essere zittito e costretto a voltarsi sull'altro fianco. Per qualche ragione, quel rumore esasperò Turee: gli sembrava il guaito di un cucciolo malato.
«Harry» disse bruscamente. Harry si svegliò di soprassalto come se gli avessero dato una gomitata nello stomaco. «Cosa c'è? Che cosa è successo?» «Svegliati!» «Mi dispiace, devo essermi appisolato.» «Smettila di scusarti, mi dai sui nervi.» «Mi pare che tutto ti dia sui nervi» rispose Harry sospirando pazientemente. «Non voglio criticarti, vecchio mio, ma sei troppo teso, tutto qui. Dovresti imparare a rilassarti. Ti ricordi le pillole arancioni di cui ti ho parlato? Quelle che hanno fatto passare il singhiozzo al Papa?» «E come potrei dimenticarle?» «Credo di averne qualcuna in tasca. Dovresti provarne una e lasciare che guidi io.» Turee aveva altrettanta fiducia nella guida di Harry di quanta ne aveva nelle sue pillole. «No, grazie, preferisco restare teso.» Harry tornò a sistemarsi sul sedile anteriore e, secondo un'abitudine che era ormai diventata una mania, ricominciò a parlare di Thelma e delle sue preziose virtù. Harry non affermava che tutte le altre donne fossero delle povere zoticone; lo lasciava intuire. «... e così Thelma ha fatto entrare il vecchio in casa e gli ha fatto una tazza di tè. Thelma è fatta così, sempre pronta ad aprire il suo cuore a chiunque.» «Harry!» «... anche a un perfetto sconosciuto. Poi ha telefonato alla nuora del vecchio e...» «Harry! Devo dirti una cosa.» «D'accordo vecchio mio, tanto avevo quasi finito. Dimmi tutto.» «Non credere di trovare Ron al capanno.» «Perché no?» «Non credo che abbia intenzione di farsi vedere né al capanno né in nessun luogo dove potrebbe incontrare te.» «Che cosa c'entro io?» «Credo che Ron desideri evitarti.» «Evitarmi? E perché mai?» «Perché vuole bene a tua moglie.» «Ma ha sempre voluto bene a Thelma! Sono andati d'accordo fin dal
primo momento.» «Adesso vanno un po' troppo d'accordo.» Turee distolse per un istante gli occhi dalla strada e guardò Harry immerso nella semioscurità: stava sorridendo. «Te l'ha raccontato Thelma, naturalmente.» «Sì.» «Non preoccuparti, è una cosa senza importanza» disse Harry con sicurezza. «Mi sembri estremamente fiducioso.» «Ascoltami, Ralph, non confiderei a nessun altro quello che sto per dirti, ma tu sei mio amico, posso rivelarti un segreto.» Turee abbassò il vetro del finestrino: aveva la sensazione che la macchina fosse ferma e che la notte passasse velocemente attorno a loro avvolgendoli in un turbinio di segreti. La luna si rispecchiava nella baia illuminando le onde che si rincorrevano ammiccando e sussurrandosi segreti. «Vedi» riprese Harry «Thelma ha l'abitudine di sognare a occhi aperti; niente di serio, naturalmente, ma di tanto in tanto le viene l'idea che qualcuno si sia innamorato di lei. Naturalmente non c'è niente di vero, e dopo una settimana anche lei se ne è dimenticata.» «Capisco.» «Questa volta è Ron, la volta scorsa eri tu.» «Io? Per Giove, ma non ho nemmeno...» «Lo so, lo so. Thelma lavora di fantasia, non può farne a meno: è il lato romantico del suo carattere. La riempie di soddisfazione pensare che qualcuno è perdutamente innamorato di lei, la fa sentire una donna fatale. E così adesso pensa che Ron sia innamorato di lei? È questo che ti turba tanto? È questo che ti ha detto?» «Sì, fra le altre cose.» «Povera Thelma! Questi sogni a occhi aperti... Sono come le sedute spiritiche che ha cominciato a frequentare; Thelma non ci crede veramente e inoltre non c'è nessun trapassato con cui voglia comunicare, ma le piace sentirsi diversa. Capisci, Ralph?» «Credo di sì.» «Non ho mai parlato così di mia moglie» disse Harry gravemente «spero che tu non mi consideri sleale.» «No, certo.» «Le sedute sono l'ultima scoperta. È stata una vicina a convincerla ad andarci. Ma i sogni a occhi aperti ha cominciato a farli quand'era ancora
una ragazzina e non è mai riuscita a liberarsene. Forse cerca di sopperire alla mancanza di romanticismo e di eccitazione della sua vita. Io cerco di fare del mio meglio, ma... insomma, io vendo pillole, non c'è niente di affascinante nel mio mestiere, e Thelma supplisce con qualche sogno.» "Altro che sogni" pensò Turee sempre più depresso. «Non credi che tutti questi sogni possano essere pericolosi?» chiese. «Non per me e Thelma; come potrebbero esserlo?» «Un sogno troppo prolungato potrebbe confondersi con la realtà.» «Sta' a sentire, Ralph, tu hai la tendenza a essere troppo critico. Lo so che lo fai senza cattiveria, ma qualche volta può essere spiacevole. Thelma e io ci sentiamo felici così come siamo; se questi sogni servono a supplire...» «Ora ti contraddici.» «D'accordo» esclamò Harry mostrando segni di impazienza per la prima volta nella serata. «Questi sono affari miei e se ho voglia di contraddirmi mi contraddico finché mi pare.» «Fai come credi.» Harry si accese una sigaretta e dopo qualche boccata riprese a parlare in tono più dolce. «Ralph, tu sei un uomo intelligente, profondo, hai avuto un'educazione superiore a quella di tutti noi. Solo che...» «Solo cosa?» «Non cercare di analizzare Thelma. Io l'amo così com'è; lasciale fare i suoi sogni.» «Per quello che mi riguarda, può sognare finché vuole.» «Il matrimonio è la cosa più bella che mi sia mai capitata. Non farei mai niente che possa mettere in pericolo il mio matrimonio con Thelma.» «Non sarà necessario» rispose Turee, ma il rumore del motore e le onde che si infrangevano contro gli scogli cancellarono le sue parole. Turee non ritenne opportuno ripeterle: se Harry voleva continuare a vivere nelle nuvole, facesse pure. Il resto della strada proseguì, se non proprio in silenzio, perché Harry si era messo a fischiare, per lo meno senza conversazione. Turee cercò di non ascoltare il fischiettio e riandò col pensiero alle diverse immagini di Thelma che gli si erano presentate quella sera. Prima di tutto naturalmente c'era quella di Thelma moglie di Harry: una donna piccola e placida, dall'aspetto gradevole, cuoca eccellente e abile donna di casa, che pareva non avesse altri interessi al di fuori della casetta
in mattoni rossi che lei e Harry avevano comprato. Turee l'aveva sempre considerata una donna banale, incapace di esprimere un giudizio personale, di prendere una decisione, ma sempre pronta ad associarsi a quello che diceva il marito: "Harry ha perfettamente ragione; come diceva Harry proprio ieri; sono perfettamente d'accordo con Harry". La seconda immagine era quella di Thelma la sognatrice a occhi aperti, che frequentava le sedute spiritiche e che nutriva la propria mediocrità con sogni assurdi. Da questo punto di vista, diventava una donna dotata di grandi poteri psichici, una femme fatale di cui gli uomini si innamoravano perdutamente. Ma i sogni a occhi aperti sono roba da ragazzine, e Thelma non era più una ragazzina. Forse non era neanche una sognatrice; Turee fu assalito dal dubbio che Harry avesse inventato quella storia per difendersi dalla verità, e cioè che Ron Galloway era veramente innamorato di sua moglie. Tutto questo lo portava a una terza immagine di Thelma, confusa e distorta ancora, e tuttavia più reale delle altre due: quella di una donna che voleva con tutte le sue forze un bambino e con fredda determinazione e senza alcuno scrupolo morale era andata avanti per la propria strada e aveva trovato un modo per concepirlo. Harry aveva smesso di fischiettare e guardava fuori dal finestrino. «Perché hai l'impressione che se io mi mettessi ad "analizzare", come dici tu, Thelma, potrebbe accadere qualcosa al tuo matrimonio?» chiese improvvisamente Turee. «Io non ho detto niente del genere.» «Era sottinteso.» «Oh, Ralph, ti prego, non ricominciare! Lasciamo stare certi argomenti. Analizza i tuoi studenti, la tua famiglia, se vuoi, ma lascia stare Thelma. Forse non sarà completamente felice, ma io sto facendo del mio meglio perché lo diventi. Ci sono certi problemi nei quali non voglio addentrarmi.» «Thelma vuole un bambino.» «Come fai a saperlo?» chiese Harry guardandolo sorpreso. «Me l'ha detto.» «Per telefono? Questa notte?» «Sì.» «Per questo era così sconvolta. Deve essere stata svegliata da un altro di quei suoi terribili incubi. Le è capitato più di una volta questa primavera. Sogna di avere un bambino, ma qualche cosa non va bene: è deforme, op-
pure si ammala e muore. Una volta ha sognato che un cinese glielo portava via. Quel giorno era passata dalla lavanderia cinese, per questo c'era un cinese nei suoi sogni. Ancora non ne ho parlato con Thelma perché voglio che sia una sorpresa, ma questa settimana sono stato a informarmi in due agenzie che si occupano di adozioni. Potrebbe esserci qualche cambiamento, tra poco.» "Il cambiamento c'è stato qualche mese fa, Harry, e tu non te ne sei neanche accorto" pensò Turee. Il capanno era stato costruito da Ron Galloway in parte come dono di nozze per Esther, e in parte per potercisi nascondere fino a che lo scandalo del suo divorzio non si fosse calmato. In realtà invece di un nascondiglio si rivelò un'attrazione che gli abitanti del luogo, da Penetanguishene a Tobermory, venivano ad ammirare o a criticare. L'architettura infatti era troppo elaborata per la posizione e la funzione. Il piano terreno era stato costruito con la pietra del luogo, e il secondo in stile inglese, con grosse travi di legno e un tetto spiovente molto inclinato per far scivolare via la neve durante i lunghi inverni. L'abitazione del guardiano, situata sopra il garage, che era una copia in miniatura della casa padronale, era occupata, da primavera fino all'autunno, da un vecchio, scorbutico ex meccanico di nome MacGregor. In teoria il compito di MacGregor era di tenere pulita la casa e il giardino, preparare la legna per i caminetti e occuparsi dell'impianto idraulico. In realtà passava la maggior parte del tempo in darsena ad armeggiare con il motore dell'Estron, la motolancia diesel di Galloway. Soltanto MacGregor poteva mettere in acqua la lancia. Il vecchio non faceva niente per far valere questa sua prerogativa, semplicemente aveva lasciato capire che si trattava di una barca capricciosa e di cattivo carattere e, come tutte le femmine di quel tipo, aveva bisogno di una mano forte che la guidasse se si volevano evitare disastri. Nessuno, neppure sua moglie, sapeva perché Galloway avesse comprato quella barca. Ron odiava l'acqua e ne era terrorizzato; la più piccola increspatura gli faceva venire il mal di mare e non aveva alcun interesse e nessun talento per i pregi meccanici dell'Estron. Quando MacGregor si metteva al volante, Galloway sedeva accanto a lui coi pugni stretti, guardandosi attorno con disagio e sobbalzando a ogni onda. Quando finalmente la gita era finita e ritornavano a terra, scendeva pallido ma eccitato, come se avesse provato a se stesso di aver avuto la meglio su un nemico di vecchia data.
Le origini di MacGregor erano sconosciute. Quando, durante i fine settimana, al capanno davano qualche ricevimento, lui se ne stava in disparte, sdegnoso verso quelle che lui chiamava "buffonate", e si faceva vivo soltanto quando qualcuno degli ospiti desiderava provare la barca. Turee parcheggiò la macchina tra due pini, poi i due uomini si avviarono verso la casa, uno dietro l'altro e al passo, come due ergastolani legati da invisibili catene. Soltanto la luce del salone al piano terreno era rimasta accesa, e nel caminetto il fuoco stava per spegnersi. Hepburn si era addormentato sulla grande poltrona di pelle rossa con un libro sulle ginocchia. Quando sentì aprire la porta d'ingresso aprì un occhio e disse in tono aggressivo: «Era ora che tornaste! Ho l'impressione di essere rimasto da solo a fare una veglia funebre.» «Forse è proprio così» rispose Turee sardonico. «Non avete avuto fortuna con Ron?» «Nessuna: a casa non c'è; abbiamo telefonato a Esther e lei non l'ha visto né sentito al telefono e pare che non gliene importi niente. Poi abbiamo telefonato a Thelma» diede un'occhiata a Harry per vedere se reagiva in qualche modo, ma Harry era in piedi davanti al caminetto e voltava le spalle alla stanza. «Thelma dice che Ron è passato a prendere Harry. Hanno bevuto insieme qualche cosa, fatto quattro chiacchiere, poi Ron se n'è andato, presumibilmente per venire qui.» Questa era solo una parte della verità; ci sarebbe voluto un esperto per mettere insieme tutta la storia, strappando i particolari con fatica e dolore a Thelma, Harry, Ron ed Esther. La verità è una cosa complicata, quasi come gli uomini. Mettere insieme uno scheletro non è sufficiente: bisogna farlo vivere. "E adesso" pensò Turee "che cosa faccio adesso?" Ci pensò Hepburn a fornire una risposta, almeno per il momento: «Qualcuno di voi vuole qualcosa da bere?» Harry aveva abbandonato il suo posto davanti al fuoco e stava guardando una vecchia rivista abbandonata sul tavolo fin dal precedente ottobre, quando erano venuti al capanno l'ultima volta. La vista di quella pubblicazione gli diede una fitta al cuore. "L'anno scorso" pensò Tanno scorso ero un uomo felice. Ero convinto di avere tutto il mondo ai miei piedi. Soltanto un anno fa..." Afferrò la rivista e in un impeto di rabbia la gettò tra le fiamme. La carta prese immediatamente fuoco. «Perché diavolo l'hai bruciata?» chiese Hepburn. «C'era un articolo che
mi interessava.» «Scusami, mi dispiace.» Le fiamme ormai stavano divorando quello che restava della rivista: Harry rimase a osservarle con amara soddisfazione. L'anno precedente ormai non c'era più; era finito. «È tardi, vado a dormire. Sono molto stanco.» «Ti ho appena versato da bere.» «Non voglio bere.» «Ne hai bisogno, vecchio mio.» «No, grazie. È stata una giornata molto lunga. Buona notte.» «Non te la prendere, vecchio mio.» «No, certo.» Si trascinò per le scale aggrappandosi al passamano come se le gambe non lo sorreggessero. Dopo qualche minuto Turee sentì il rumore delle scarpe che cadevano, le molle del letto che gemevano e infine un lungo sospiro. «Che diavolo gli prende?» chiese Hepburn porgendo a Turee un bicchiere. «Come ha detto Harry, è stata una lunga giornata.» «Balle! In tutta la mia vita non ho mai sentito Harry dire che era stanco.» «C'è pur sempre una prima volta,» «Una ragione deve esserci; forse c'è qualcosa che non va con Thelma.» «Forse.» «Quella è una strana ragazza, credi a me.» «Non hai bisogno di dirmelo» rispose Turee fissando cupamente il suo bicchiere mentre cercava di immaginare che cosa stesse facendo in quel momento Thelma. Faceva dei piani? Singhiozzava? Ritornava sulle sue decisioni o stava tranquillamente dormendo convinta di aver avuto ragione fin dal primo momento? Impossibile dirlo. «Del resto, tutte le donne sono uguali.» «Niente affatto» ribatté Turee. «Nancy è del tutto diversa.» Turee ne era assolutamente convinto, e avrebbe continuato a esserlo fino al prossimo litigio con la moglie. Hepburn finì di bere il suo drink e posò il bicchiere vuoto sulla mensola del caminetto: «Comunque per fortuna io non sono sposato. E dopo questa confortante considerazione me ne andrò a letto.» «Vai avanti. Penso io a spegnere le luci.» «Forse è meglio se ne lasci qualcuna accesa, caso mai Ron...»
«D'accordo.» «Buona notte, Ralph.» «Buona notte.» Hepburn esitava, strofinandosi il mento. Avrebbe dovuto rasarsi; aveva gli occhi rossi per la mancanza di riposo e per l'eccesso di alcool. La camicia di flanella era macchiata e mancava un bottone. "Sembra un barbone" pensò Turee "e forse lo è; forse lo sono tutti e questo non è un posto per me. Dovrei essere a casa, con la mia famiglia: non qui, a far finta di essere come loro." «Vai a letto e fatti una dormita» disse bruscamente, irritato dai suoi stessi pensieri. «Dio, che notte è stata...» «E non è ancora finita.» «Vai a letto e piantala!» «Okay, ma non farti venire uno dei tuoi proverbiali malumori, tanto non servirebbe a niente. Siamo coinvolti tutti in questa faccenda.» 5 Il mattino successivo, erano da poco passate le otto, Turee si svegliò di soprassalto al rumore del pesante batacchio della porta d'ingresso, contemporaneamente a quello del vecchio campanaccio che serviva a chiamare per il pranzo. Borbottando fra sé, cercò le scarpe e se le infilò. Era completamente vestito perché, come gli altri, aveva dormito senza spogliarsi. Questo faceva parte della tradizione dei fine settimana passati al capanno, tradizione iniziata tanti anni prima da Harry Bream. "Mi fa sentire più sportivo" aveva detto Harry "e anche un po' selvaggio." Sentendosi niente affatto sportivo, Turee si affacciò nel corridoio dove incontrò Winslow tremante e con gli occhi sbarrati, che si sorreggeva appoggiandosi al muro con la schiena. «Mio Dio!» gemette. «Sto morendo! Morendo!» «Ci deve essere del bromo in bagno.» «Quella campana! Falla smettere, mi sta spaccando le orecchie.» «Andiamo, datti un contegno.» «Sto morendo» ripeté Winslow e scivolò a terra lungo il muro come una marionetta a cui avessero tagliato i fili. Turee lo scavalcò disgustato e scese le scale. Quell'incontro non aveva fatto che aumentare la sensazione provata la notte precedente di trovarsi in un posto sbagliato con la gente sbagliata. Malgrado fossero tutti suoi vec-
chi amici, ora, in un'emergenza, erano diventati degli sconosciuti e il loro modo di vivere o, nel caso di Winslow, di morire, gli era del tutto estraneo. Mentre scendeva le scale gli arrivò alle narici l'odore dell'aria viziata che stagnava da basso: un odore di bicchieri vuoti e di sogni svaniti. Spalancò la pesante porta di legno dell'ingresso, quasi aspettandosi di trovarsi davanti Ron. Durante le prime ore del mattino, il vento era cessato e la temperatura era scesa di parecchi gradi. Adesso il suolo era coperto di brina che scintillava talmente alla luce del sole che, per contrasto, la pelle di Esther Galloway sembrava molto scura. Sembrava che Esther si fosse vestita in fretta e furia, e non per un viaggio: era senza cappello, portava dei sandali estivi aperti davanti, e il cappotto scuro che si stringeva addosso era chiaramente vecchio. Esther teneva talmente alla propria eleganza che vederla così trasandata fu per Turee uno shock. «Esther!» «Salve Ralph! Sorpresa, sorpresa!» «Entra.» «È esattamente quello che intendo fare.» Turee si fece da parte mentre Esther cominciava a togliersi i guanti e a scuotere la testa come se dovesse scrollarsi la brina dai capelli. «Mi fanno male le orecchie; ho guidato col finestrino aperto per restare sveglia. È stata una sciocchezza.» Appoggiò i guanti sulla mensola del caminetto vicino a due bicchieri vuoti. Ne prese in mano uno e lo annusò. «Gin! Quando si deciderà a imparare Billy Winslow?» «La tua è una domanda difficile.» «È stata una bella festa?» «Non molto.» «Ron... non è qui, naturalmente.» «No.» «Nessuna notizia?» «Nessuna.» «Che il diavolo se lo porti!» Durante la notte il fuoco si era spento e ora nella stanza faceva così freddo che il fiato, uscendo dalla bocca di Esther, formava delle nuvolette di vapore, come il fuoco dalla bocca di un drago. Turee pensò che l'immagine si addiceva perfettamente all'umore di Esther. «Che il diavolo se lo porti all'inferno! Perché non trovi delle scuse in suo
favore? Non lo fai sempre, forse?» Turee preferì non rispondere, nel timore di dire una cosa sbagliata. «Il modo in cui vi spalleggiate sempre tra di voi mi manda letteralmente in bestia!» «Perché non ti siedi Esther? Vado a mettere su un po' di caffè.» «Non ti disturbare.» «Nessun di...» «MacGregor sarà qui tra un momento per accendere il fuoco e preparare la prima colazione.» Si guardò attorno per esaminare la stanza e arricciò il naso. «Bisogna cambiare aria in questa stanza: puzza!» «Non me ne sono accorto» replicò Turee, ma non era vero. «Non mi aspettavo di trovarlo qui, naturalmente; a dire il vero non so neanche perché sono venuta fin qua, se non per il fatto che dopo la tua telefonata non riuscivo più ad addormentarmi. E poi io odio aspettare, aspettare senza far niente. Adesso che sono qui, mi rendo conto che non c'è niente che io possa fare, se non, forse, aiutarvi a superare la sbornia. Come va la tua?» «Non mi sono sbronzato» rispose Ralph freddamente. «Non è stata una festa molto riuscita, allora.» «Ti ho già detto che non lo è stata.» «Potreste farne un'altra oggi. Tanto per cambiare, potrei persino essere invitata anch'io.» «Questa è casa tua.» «Benissimo, allora mi autoinvito; staremo qui tutti insieme a divertirci fino a che Sua Altezza non deciderà di ricomparire.» «Credi che sia così semplice?» Si voltò a guardarlo: «Ron ha carte d'identità e di credito nel portafoglio» disse parlando lentamente e scandendo le parole come se parlasse con qualcuno molto sordo o molto stupido. «Sul volante c'è una piastrina con la targa della macchina. Non credi che se ci fosse stato un incidente mi avrebbero già avvertito?» «Suppongo di sì.» «Qui non si tratta di supporre. Quando accade un incidente, la famiglia viene immediatamente avvertita. È la legge.» Esther non pensò nemmeno, e Turee si guardò bene dal farglielo notare, che qualche volta la legge può essere infranta. Un rumore di piatti e tazze smosse proveniente dalla cucina indicò che MacGregor era al lavoro. Questo non faceva parte delle sue mansioni abi-
tuali e Turee sapeva per passate esperienze che MacGregor non avrebbe dimostrato la minima collaborazione: il caffè sarebbe stato una brodaglia amara e le uova bruciacchiate e irriconoscibili, non fosse stato per quei pezzetti di guscio che si infilavano tra i denti. «MacGregor è di pessimo umore» osservò Turee «forse finiremo tutti avvelenati.» «In questo momento, la cosa non mi preoccupa molto.» «Esther, per l'amor del cielo!» «Oh, lo so! Tu pensi che io sia una piaga che non fa che lamentarsi. Sei convinto che vada sempre in giro col muso lungo per guastare la gioia degli altri.» «Io non...» «Tu e Ron siete amici, ed è naturale che tu prenda le sue difese. Devo ammettere che Ron riesce a farsi dei buoni amici, ma come marito è un disastro.» «Risparmiami i dettagli.» «Non stavo affatto scendendo nei dettagli» ribatté freddamente «stavo anzi cercando di generalizzare.» «Vai avanti.» «Lo so che tu non ami le generalizzazioni, Ralph, che preferisci le statistiche. Per esempio quante tonnellate di sgombri vengono spedite ogni mese in Newfoundland.» Turee si lasciò sfuggire un debole sorriso: «Andiamo avanti con le generalizzazioni.» «Okay. Vedi, certi uomini non dovrebbero sposarsi, perché non hanno niente da dire a una donna, nemmeno che ore sono. Certo, qualche volta le regalano un costoso orologio di diamanti perché possa guardare da sola che ore sono, ma non vogliono dividere niente con lei.» Si lasciò cadere sullo sgabello di pelle davanti al caminetto, come se quello sfogo l'avesse stremata. «Desideravo molto venire con Ron al capanno questo weekend; non perché sia particolarmente amante della pesca o della vita all'aria aperta, ma pensavo che sarebbe stato divertente cucinare, mangiare di fronte al caminetto e poi fare delle passeggiate nei boschi con i ragazzi. Gli ho chiesto se potevo venire qui con lui, ma non mi ha neppure presa sul serio; l'idea gli sembrava assurda.» Tacque, per riprendere fiato. «I bambini conoscono appena questo posto; sono stati qui soltanto tre
volte. Ron trova continuamente delle scuse: che potrebbero cadere dalla scogliera, che potrebbero essere morsi da un serpente o affogare. Ma il vero motivo, quello di cui non parla mai, è che potrebbero interferire con quello che lui vuole fare, potrebbero chiedergli qualche minuto del suo tempo o, peggio ancora, della sua attenzione.» «Esther...» «Basta, ho finito.» «Non intendevo farti tacere.» «Certo che lo volevi, comunque è gentile da parte tua affermare il contrario. Sto perdendomi in chiacchiere, vero? Ma non lo faccio con tutti: non mi sognerei di parlare di queste cose con Bill Winslow o Joe Hepburn e nemmeno con Harry. Sono un gruppo di stupidi.» Turee era d'accordo con lei, ma non gli parve il caso di insistere su questo argomento. «Abbiamo bisogno di mangiare qualcosa e di bere un bel caffè caldo; vado a vedere cosa sta combinando MacGregor.» MacGregor stava facendo tutto quello che Turee aveva previsto: il bacon era già bruciato, le uova occhieggiavano nerastre nella padella e il caffè era una brodaglia acida. MacGregor, in grembiule e cappello da cuoco, stava cercando di migliorare le uova cospargendole abbondantemente di sale e pepe. «Me ne occupo io» intervenne Turee. «Come ha detto?» «Ho detto che vado avanti io. Lei può andare ad accendere i caminetti.» «Mi pare che si siano un po' bruciacchiate» commentò allegramente MacGregor, togliendosi il grembiule e porgendolo a Turee. «Sia fatta la volontà di Dio.» «È strano che tutte le volte che il Signore decide di bruciare qualche cosa, scelga sempre lei come suo strumento.» «Eh, sì, è strano» ribatté MacGregor, e si avviò verso il salotto fischiando allegramente attraverso i due denti che gli rimanevano. Aveva vinto, non solo per sé, ma anche per tutti i dipendenti nei confronti dei loro padroni. Che quei bastardi mangiassero il bacon bruciacchiato! Questa era la volontà del Signore! Dopo colazione sedettero davanti ai ceppi di abete che MacGregor aveva messo nel caminetto bevendo il terribile caffè versato nelle pesanti tazze di terracotta. Il cibo e il calore avevano migliorato l'atmosfera; l'espressione
disgustata sul viso di Esther era sparita e le farfalle che Turee aveva sentito svolazzare nello stomaco erano scomparse. Dal piano superiore non giungeva alcun suono: o Winslow si era di nuovo addormentato o, come lui stesso aveva previsto, era morto. Comunque stessero le cose, in quel momento a Turee non importava niente. Il calore e il guizzare delle fiamme gli davano un gradevole senso di torpore. Gli giungeva il suono della voce di Esther che parlava, ma non riusciva a distinguere le parole. Sentiva, come una musica di sottofondo, Esther che parlava dei suoi figli, Marv e Greg, e delle loro ultime trovate, ma Turee era in un tale stato di torpore che non se la sentiva neppure di parlare delle proprie bambine. «Mi stai ascoltando, Ralph?» «Oh, sì, certamente.» «Non credi che abbia ragione?» «Assolutamente.» La risposta sarebbe comunque andata bene. Non c'è donna che non voglia sentirsi dire che ha assolutamente ragione, soprattutto se ha qualche dubbio in proposito. «Quella donna è del tutto irragionevole: afferma che comunque non dovrei sculacciare i bambini. Dice che distruggo la fiducia che loro hanno in me, e che in realtà sfogo soltanto la mia rabbia. Ma dimmi tu: come è possibile allevare due bambini normali e vivaci senza una sculacciata di tanto in tanto?» «Non lo so, io ho quattro femmine.» «Allora è diverso; con le bambine si può ragionare.» Turee la guardò sorpreso: «Credi?» «E poi ci vuole una bella faccia tosta per venirmi a dire come devo allevare i miei figli!» Esther tacque per sorseggiare il caffè: «È strano, però» disse infine. «Che cosa è strano?» «Se le piacciono tanto i bambini, perché non ne ha di suoi?» «Di chi stai parlando?» «Della persona di cui abbiamo parlato fino a ora.» «Temo che mi sia sfuggito il nome.» «Thelma. Le piacciono tanto i bambini; è strano che non ne abbia.» Turee si alzò, si avvicinò al caminetto e spinse un ceppo con la punta di un piede. Il gradevole senso di torpore si era dissipato e la musica di sottofondo si era trasformata in una sgradevole cacofonia che era suo malgrado costretto ad ascoltare.
«Dopo tutto è giovane e sana» stava dicendo Esther «Harry ha uno stipendio più che decente e anche lui va matto per i bambini. Non ti pare?» «Veramente non ci ho mai pensato.» «Nemmeno io, veramente, ma dal modo con cui gioca con i miei figli, è evidente che i bambini gli piacciono. Sono convinta che un bambino farebbe bene a tutti e due.» "Un bambino, certo" pensò Turee "ma non questo bambino." Gli tornò in mente quello che aveva detto Harry mentre tornavano al capanno: "Non ho detto niente a Thelma perché volevo che fosse una sorpresa, ma ho già parlato con due agenzie che si occupano di adozioni". «Be' non credi anche tu, Ralph, che avrebbero bisogno di un bambino?» «Ma sì! In nome del cielo, sì!» «Che cosa ti prende? Ho detto qualcosa che non andava?» chiese Esther guardandolo sorpresa. «No, niente; solo mi sembra che questa sia una faccenda che non mi riguarda.» «E che non riguarda neanche me; è questo che volevi dire? Bene, non parliamone più» aggiunse freddamente «del resto, se vuoi sapere la verità, Thelma non mi è molto simpatica.» «Me ne ero accorto.» «È così evidente?» «Abbastanza.» «E a te?» «A me cosa?» «A te è simpatica Thelma?» «Questa mattina non mi piace nessuno, nemmeno me stesso.» Esther sorrise tristemente: «Allora siamo pari. Ehi, hai sentito una macchina?» «No.» «Sono certa di averla sentita.» Corse verso la porta d'ingresso e la spalancò stringendosi attorno il cappotto scuro. «Forse è Ron. Sono sicura che è Ron.» Malgrado tutto quello che aveva detto fino a quel momento del marito, sembrava ansiosa ed eccitata all'idea di rivederlo. Turee la seguì fin sulla porta. Adesso il rumore di un motore si sentiva distintamente e qualche secondo più tardi una macchina bianca e nera della polizia provinciale dell'Ontario apparve sul piazzale lasciando dietro di sé sul ghiaccio due strisce scure parallele. Senza parole, Esther voltò le spalle e rientrò in casa.
Turee aspettò che i due poliziotti in uniforme scendessero pesantemente dalla macchina e gli venissero incontro. "Ci siamo" pensava intanto. "Ron ha avuto un incidente, forse è morto, e loro vengono a dircelo." I due poliziotti avanzavano lentamente guardandosi attorno come due agenti delle tasse venuti a valutare la proprietà. Il più anziano era un uomo massiccio con una cicatrice sul viso rossastro che gli tagliava la guancia partendo dalla bocca, come se stesse sempre sorridendo. Fu lui a parlare per primo: «Salve. Abita qui il signor Ronald Galloway?» «Sì.» Quell'unica sillaba gli uscì dalla bocca con difficoltà. Fino a quel momento i suoi contatti con la polizia si erano limitati a qualche piccola contravvenzione e adesso si sentiva imbarazzato e impacciato come se fossero venuti ad accusarlo di un crimine che aveva commesso senza saperlo. «È per caso lei il signor Galloway?» «No, io sono un ospite.» «Allora il signor Galloway è qui?» «No. Noi, io e gli altri ospiti, l'abbiamo aspettato per tutta la notte. Quando vi ho visto, ho pensato che foste venuti a portarci qualche notizia.» «Solo una denuncia di scomparsa, se questa può dirsi una notizia. Io sono l'ispettore Cavell e questo è il mio collega, il sergente Newbridge. Posso chiederle chi è lei, signore?» «Sono Ralph Turee, professore associato all'università di Toronto.» Il tono era snob e pretenzioso, come se si stesse nascondendo dietro un manto di rispettabilità, come fanno i bambini, che si nascondono sotto una coperta convinti che nessuno li veda. Eppure non aveva commesso nessun delitto, non aveva niente da nascondere, nessuna ragione per sentirsi colpevole. L'ispettore Cavell lo guardò socchiudendo gli occhi e la cicatrice sulla guancia si approfondì mentre sorrideva; sembrava piuttosto divertito dalla risposta. «Davvero, signore? E se adesso entrassimo un momento per parlare del signor Galloway? Newbridge, tu intanto dai un'occhiata attorno.» «Sì, signore» rispose pronto Newbridge, ma sembrava piuttosto stupito, come se non sapesse che cosa doveva cercare. Quando Turee e Cavell entrarono, Esther aveva ripreso il suo posto ac-
canto al caminetto e sedeva compunta, con le gambe accavallate e le mani strette in grembo. Troppo compunta: a Turee venne il sospetto che fosse rimasta dietro l'uscio a origliare. Ascoltò la presentazione di Cavell educatamente, ma non si alzò e neppure gli tese la mano; non sembrava neanche troppo ansiosa di sapere che cosa aveva da dire. «Conosco soltanto i fatti essenziali» cominciò Cavell. «Meno di un'ora fa ho ricevuto un messaggio radio dalla divisione di Toronto che mi comunicava che la signora Galloway aveva denunciato la scomparsa di suo marito. So l'ora e il luogo dove è stato visto l'ultima volta, il tipo di macchina che guidava, ma questo è tutto. Non sono io che devo occuparmi del caso; mi è stato solo chiesto di controllare se era arrivato e se si era fatto vivo con qualcuno.» «Niente» intervenne Esther bruscamente. «Non abbiamo nessuna notizia.» «Be', secondo me, se è ancora per la strada non sarà difficile individuarlo: l'ultimo modello di Cadillac decapottabile non è molto comune tra i nostri boschi. Se poi aveva abbassato la capote con questa temperatura, darà ancora più nell'occhio di un camion rosso dei pompieri. D'altra parte, anche se si fosse fermato a riposarsi in un motel, non sarà difficile rintracciarlo. Non sono molti i motel qui attorno.» «E se non fosse da queste parti?» «Perché pensa una cosa del genere, signora Galloway? Aveva intenzione di venire qui, mi pare.» «I programmi si possono anche cambiare.» «Era un tipo imprevedibile, capace di andarsene da qualche altra parte senza avvertire nessuno?» «No» Esther scosse il capo «non fino a ora, almeno.» «È un forte bevitore?» «Qualche volta si ubriaca, ma in tal caso semplicemente si addormenta.» «Mi dispiace doverle fare questa domanda, signora, ma è mio dovere: ha motivo di credere che ci fosse un'altra donna nella sua vita?» Prima di rispondere Esther rivolse una rapida occhiata a Turee. «Assolutamente no.» Il tono era così deciso che Cavell la guardò confuso. Poi, per nascondere in qualche modo il suo imbarazzo cavò fuori di tasca un piccolo taccuino scuro. «Secondo le mie informazioni, l'ultima persona che ha visto il signor
Galloway è una certa signora Bream che abita a Weston. Si tratta di una sua amica, signora?» «Mio marito e il signor Bream sono amici fin dai tempi di scuola. Ron è andato a Weston a prendere Harry, ossia il signor Bream, ma Harry era dovuto andare improvvisamente a un appuntamento d'affari e poi è venuto qui da solo. È di sopra che dorme; può svegliarlo se desidera.» Turee fece una smorfia di protesta, ma Esther non gli prestò attenzione. «Non credo che Harry possa dirle più di quanto lei già non sappia, ispettore. Io suggerirei di lasciarlo dormire; ha avuto una nottataccia.» «Nottataccia? In che senso?» chiese Cavell inarcando le sopracciglia. "Bisogna che impari a controllare la mia lingua" pensò Turee "e a non fornire informazioni che non mi vengono richieste. Prima o poi scopriranno comunque tutto di Thelma, di Ron e del bambino, ma non sta a me parlarne." «Siamo rimasti alzati tutta notte cercando di rintracciare Ron» disse cautamente. «Siamo?» «Harry Bream, io e gli altri due ospiti: Bill Winslow e Joe Hepburn.» «E in che modo avete cercato di rintracciarlo?» «Harry e io siamo andati in macchina a Wiarton e da lì abbiamo telefonato a Esther... la signora Galloway, per sapere se Ron era rimasto a casa per qualche ragione. Quando ci ha detto che era uscito, abbiamo telefonato alla moglie di Harry la quale ci ha detto che Ron era arrivato puntualmente, era rimasto giusto il tempo di bere qualche cosa e poi se ne era andato.» «Nient'altro?» «Be', Thelma, la signora Bream, ha detto che Ron si era lagnato di non sentirsi molto bene. Questa potrebbe essere un'eventualità, non le pare?» «Sarebbe a dire?» «Ron si preoccupava molto della propria salute; potrebbe essersi fermato per consultare un dottore, o potrebbe addirittura essere finito in un ospedale.» «Ron è sano come un torello.» «Sì, ma è convinto del contrario.» «E poi ha una paura nera degli ospedali. Quando sono nati i nostri figli hanno dovuto trascinarcelo.» Cavell la studiò attentamente: «Signora, mi sembra che lei non sia disposta ad accettare nessuna teoria.» «Disposta sì, ma non convinta. Conosco molto bene mio marito, e nes-
suna delle teorie suggerite fino a ora mi sembra plausibile.» «Ha per caso una sua teoria, signora?» «Potrei averla.» «E in tal caso, vuole dirci quale sarebbe?» «Credo che, per qualche ragione, Ron stia cercando di evitarmi.» Era andata così vicino alla verità che mancò poco che Turee si lasciasse sfuggire un gesto di sorpresa. «Perché suo marito dovrebbe sfuggirla, signora Galloway?» chiese Cavell. «Non lo so.» Lanciò un'altra occhiata a Turee come se sospettasse che lui avrebbe potuto fornire la risposta, se avesse voluto. "È una donna troppo intelligente" pensò Turee "ed è troppo onesta per nasconderlo. Non mi meraviglia che fra lei e Ron le cose non vadano bene." «Potrebbe chiederlo a Harry Bream; lui e mio marito sono amici per la pelle» aggiunse Esther con un sorriso di scherno. «Se Ron ha un segreto, la persona a cui potrebbe confidarlo è Harry.» Turee fece un ultimo tentativo per risparmiare a Harry questa penosa esperienza. «Non più di quanto lo confiderebbe a me. Non credi, Esther?» «Molto di più, Ralph, e tu lo sai benissimo.» 6 Harry dormiva ancora, prono e senza cuscino come un neonato; e come un neonato succhia la prima cosa che gli capita per rassicurarsi, così Harry si teneva premuto contro la bocca un lembo della coperta. Sul comodino vicino al letto c'era un flacone aperto pieno di capsule rosse e un bicchiere d'acqua. «Harry. Svegliati, Harry!» Né il suono del suo nome né la mano di Turee che lo scuoteva lo riscossero. Con uno sforzo notevole, Turee riuscì a farlo girare sulla schiena, poi gli mise una mano sotto il mento e gli fece girare la testa più volte fino a che Harry non aprì gli occhi. «Lasciami in pace...» «Andiamo, svegliati.» «Ho freddo.» «Di sotto fa più caldo; infilati le scarpe, abbiamo visite...»
«Non me ne importa niente.» Chiuse gli occhi di nuovo. «Non me ne importa un accidente.» «Quante capsule rosse hai preso, Harry?» «Non me lo ricordo, non ha importanza.» «Sì che ha importanza.» Turee lo prese sotto le ascelle e lo costrinse a sedersi. La testa ciondolava da una parte all'altra come se avesse il collo spezzato. «Perché» borbottò Harry «perché ha importanza?» «C'è un poliziotto da basso e vuole parlare con te.» «Perché?» «Stanno ancora cercando di rintracciare Ron. Esther ha denunciato la sua scomparsa alla polizia, poi è venuta qui.» «Esther è qui?» Allontanò da sé la mano di Turee e si mise a sedere da solo. Ora parlava più speditamente e gli occhi cominciavano a mettere a fuoco le cose. «Esther non avrebbe dovuto venire qui.» «Perché no?» «La casa è tutta in disordine ed Esther odia il disordine. Dobbiamo fare pulizia.» Come tutti gli altri amici di Ron, Harry aveva soggezione di Esther. Non perché fosse sgarbata con loro, ma aveva un certo modo di dimostrare che aveva sempre ragione che li lasciava confusi e imbarazzati. Anche senza dire una parola, bastava che entrasse in una stanza e, solo alzando un sopracciglio, metteva in evidenza le ragnatele sulle travi e la polvere sotto i tappeti. Harry guardò sospettoso l'orologio. «Non sono ancora le nove!» «Lo so.» «Esther... deve essere rimasta alzata tutta la notte.» «Sì, praticamente.» «Perché ha deciso di venire qui?» «Per controllare personalmente se Ron era arrivato.» «Non si fida di noi, mi pare.» «Non molto.» «Che cosa pensa che facciamo? Che portiamo qui delle donne?» «Può darsi.» «Mio Dio, questa è proprio buffa.» «Non per Esther, evidentemente.» «Esther è una strana ragazza! Se penso a Thelma... questa sarebbe l'ulti-
ma cosa che sospetterebbe. A Thelma fa piacere che io mi diverta, non è assolutamente egoista.» Turee avrebbe voluto mettergli una mano sulla bocca per farlo stare zitto. Invece con tutta la calma di cui era capace disse: «Sbrigati e scendi.» «Okay.» Buttò le gambe giù dal letto e cominciò ad allacciarsi le scarpe. «Un poliziotto, hai detto? Che tipo di poliziotto?» «Della polizia provinciale della zona. Ha ricevuto un messaggio radio ed è venuto a controllare.» «Hai detto che è stata Esther a fare la denuncia?» «Già.» «Strano. Quando tu le hai parlato ieri sera, sembrava che non fosse affatto preoccupata e che non avesse alcuna intenzione di chiamare la polizia.» Anche Turee aveva notato questa contraddizione, ma l'aveva attribuita all'imprevedibilità delle donne. Harry si alzò, si pettinò e si abbottonò la camicia di flanella: «Dovrei rasarmi, se c'è Esther.» «Non ne abbiamo il tempo.» «Thelma non vorrebbe che io...» «Thelma non c'è.» «Va bene, d'accordo.» «Ah, Harry... questo ispettore è un tipo molto astuto, stai attento.» «Che cosa significa?» «Non parlare troppo.» «Di cosa?» «Di quello di cui abbiamo parlato la notte scorsa.» «Abbiamo parlato di un mucchio di cose la notte scorsa.» «Sai bene a cosa alludo.» «No, non lo so; aiutami tu.» «Di Thelma, di Ron che è innamorato di lei. Non parlarne.» «E perché dovrei farlo?» chiese Harry spalancando gli occhi. «Non è vero! Te l'ho detto ieri sera; a Thelma piace sognare a occhi aperti, inventarsi le cose. Te l'ho già detto.» «Sì, me l'hai detto.» «Ma tu non ci credi?» «Ma sì, ti credo, ti credo» rispose Turee cercando di nascondere l'irritazione «ma l'ispettore potrebbe non crederci. Lui non conosce Thelma come la conosciamo noi. Quindi parla poco, d'accordo?» «Tu sei convinto che io non abbia un briciolo di buon senso; mi conside-
ri un deficiente.» «Tutti ogni tanto ci comportiamo da deficienti.» «Sarebbe a dire?» «Niente, non vuole dire niente» rispose Turee uscendo dalla stanza con Harry che lo seguiva ingrugnato, a piccoli passi. Al piano di sotto Esther e l'ispettore avevano evidentemente esaurito tutti gli argomenti di conversazione. Cavell, con la pipa spenta stretta in pugno, stava esaminando i libri sugli scaffali mentre Esther, che adesso voltava le spalle al fuoco, lo fissava in silenzio. Teneva tra le dita una sigaretta dalla quale aspirava furiosamente come se ci fossero un mucchio di cose che avrebbe potuto dire, ma non volesse farlo e si servisse della sigaretta per tapparsi la bocca. Turee presentò Harry all'ispettore, poi si voltò e disse a Esther: «Tu e io possiamo aspettare nella stanza da gioco: forse l'ispettore preferisce parlare a Harry da solo.» Esther lo guardò freddamente, ma non fece obiezioni quando Turee la prese sottobraccio e la guidò verso il corridoio. La stanza da gioco, che si trovava di fronte alla cucina, era la dimostrazione che gli amici non erano entusiasti solo della pesca ma anche di molti altri sport. In un angolo c'era un tavolo da poker coperto di fiche, una roulette, un elaborato tavolo da biliardo accanto al quale, lungo la parete ricoperta di legno di pino, erano allineate una dozzina di stecche. Esther si arrampicò sul bordo del biliardo facendo oscillare nervosamente una gamba come se avesse voglia di prendere a calci qualcuno o qualcosa. «Avanti, sputa il rospo» sbottò. «Quale rospo?» «La ragione per cui mi hai trascinata via da Harry e dall'ispettore.» «Mia cara Esther, nessuno ti ha trascinata via. Sei ormai troppo grande perché ti si possa trascinare via» disse Turee con un sorriso. «Non lanciarti in giochi di parole; perché eri così ansioso di liberarli di me?» «Non ero affatto ansioso, mi è solo parso più cortese lasciare che Harry e l'ispettore parlassero da soli.» «Cortesia? È questa l'unica ragione?» «Certamente.» «E quali sono le altre?» «Altre?»
«Tu hai sempre un secondo motivo, Ralph, qualche volta più di uno. Mi ricordi le scatole cinesi con cui giocavo quando ero piccola: ne apri una e dentro ce n'è una più piccola e poi un'altra e così via.» «Non sono sicuro di seguirti.» «Tutte le volte che mi dai un motivo per fare qualche cosa, so che dietro ce n'è un altro, e poi un altro ancora. Dentro ogni scatola c'è un nuovo motivo.» «Non si può andare avanti all'infinito. Che cosa c'è nella scatola più piccola?» «Il tuo piccolo ego presuntuoso.» La risata di Turee si incrinò leggermente. «Tu mi fai apparire estremamente complicato.» «O subdolo.» «Be', ti prometto una cosa, Esther: se mai riuscirò ad aprire l'ultima scatola, ti inviterò a vedere che cosa c'è dentro. Verrai?» «A vele spiegate; non mi perderei lo spettacolo per niente al mondo.» «Non posso però prometterti che ci sarà dentro una grossa sorpresa; forse soltanto un piccolo ego presuntuoso.» Turee si accorse che Esther apprezzava il suo piccolo scherzo; stava cominciando a divertirsi anche lui. «A che cosa pensi che assomiglierà il mio ego?» «A una... bambola; una di quelle bamboline di celluloide che si comprano sulle bancarelle.» «Non è molto lusinghiero.» «Sì che lo è, se lo confronti al mio o a quello di Ron.» «Cosa mi dici di quello di Ron?» «Ron non arriverebbe mai all'ultima scatoletta, o, se ci arrivasse, non mi inviterebbe mai ad assistere allo spettacolo. Sarebbe una cosa strettamente personale.» «Vorrei che tu avessi una migliore opinione di tuo marito.» «Lo vorrei tanto anch'io» disse Esther sottovoce. «Si dà il caso che io lo ami.» MacGregor aveva nel frattempo acceso il fuoco nel caminetto e la stanza si era riscaldata tanto che i vetri delle finestre erano appannati. Turee sentì l'impulso puerile di tracciare il proprio nome sul vetro, o disegnare un cuore trafitto da una freccia e sotto scriverci "Esther ama Ron". «Io non sono un tipo giudizioso» annunciò Esther in tono distaccato. «Qualche volta do l'impressione di essere un tipo pratico ed efficiente, ma
è solo la facciata. In realtà sono un'incosciente della peggiore specie, del tipo che prevede tutte le sciocchezze che sta per fare e le fa lo stesso. Mi sono innamorata di Ron la prima volta che l'ho visto; sapevo che aveva moglie e una figlia; sapevo che era viziato dall'eccesso di danaro e dai genitori eccessivamente arrendevoli, sapevo che i nostri gusti e l'ambiente in cui eravamo cresciuti erano molto diversi. Eppure mi sono buttata a capofitto in questa avventura: non è stato difficile, Ron era una trappola perfetta. E lo è ancora.» «Che cosa intendi dire?» «Che, se ci sono caduta io, qualsiasi altra donna ci può cadere.» «Andiamo Esther, le circostanze in cui ti sei trovata tu sono del tutto diverse da quelle di Dorothy!» «D'accordo, erano diverse; ma erano forse migliori?» Questo era forse il momento migliore per parlare a Esther di Thelma e di Ron, ma Turee non ne aveva il coraggio e neanche la voglia, e poi non conosceva bene neppure i fatti. Gli sembrava una vera ironia del destino che Esther si trovasse adesso esattamente nelle condizioni in cui, molti anni prima, lei stessa aveva messo Dorothy. Qualcuno prima o poi avrebbe dovuto dirglielo; chi l'aveva detto a Dorothy? Erano anni che Turee non incontrava la prima moglie di Galloway. Dorothy era una bionda ricciuta, figlia di un fabbricante di mobili, tanto viziata dai suoi quanto lo era Ron. Ipocondriaca patologica fin dai tempi della prima giovinezza, quando a ventidue anni si era sposata era già la vittima di tutti i ciarlatani della città. Le rare uscite che faceva col marito per andare a qualche cena, a teatro o a un concerto, venivano spesso interrotte durante l'intervallo o al momento del dolce da dolori improvvisi e misteriosi che la costringevano a rientrare a casa. Di solito da sola. La sua unica gravidanza, che aveva trascorso in gran parte a letto, si era conclusa, con grande sorpresa di tutti e in special modo di Dorothy, con la nascita di una bella bambina perfettamente normale. La piccola era stata immediatamente affidata a una governante, in modo che Dorothy potesse dedicare tutto il tempo ai suoi vari malanni. Se Ron era stato una trappola perfetta per Esther, questo era senza dubbio in gran parte dovuto a Dorothy. Le ultime notizie che Turee aveva avuto di Dorothy gli erano state riferite da Harry che, in memoria dei vecchi tempi, un paio di volte all'anno andava a trovarla. Harry gli aveva raccontato che ora Dorothy viveva in casa della madre nella zona nord della città, con due infermiere che si alternavano al suo fianco. Viveva come una reclusa e non aveva ancora qua-
rant'anni. Aveva confidato a Harry, che le era sempre stato simpatico, forse perché si occupava di medicine, che soffriva di un'oscura malattia del sistema circolatorio e che non sarebbe sopravvissuta neppure un anno. Lo aveva invitato al suo funerale e Harry, che non sapeva dire di no, aveva accettato. Dorothy ed Esther non avevano niente in comune, e Turee si chiedeva come aveva potuto Ron sposarle tutte e due. Forse l'estrema fragilità di Dorothy aveva esaltato la virilità di Ron, ma dopo una dose massiccia di questo trattamento aveva sposato Esther come un antidoto, come qualcuno a cui potersi appoggiare. «Ti andrebbe di fare una partita a biliardo?» chiese Esther improvvisamente. «Veramente non molto.» «Nemmeno a me, pensavo solo che ci avrebbe aiutato a passare il tempo. Ho fatto male a venire qui: non c'è niente che io possa fare.» «Adesso che è arrivata la polizia, è meglio se lasciamo fare a loro. Un gruppo di poliziotti dilettanti come noi farebbe solo confusione.» «Ma sì, la vecchia brava polizia!» «Vieni qui» disse Turee che si era intanto tolto un fazzoletto di tasca e aveva ripulito un angolo del vetro. «Guarda!» Fuori Newbridge, il poliziotto più giovane, stava attentamente esaminando le tracce dei copertoni sul viale d'accesso. «E allora?» «La polizia sa quello che sta facendo.» «Davvero? Possono esaminare tutte le tracce che vogliono, ma non sarà così che ritroveranno Ron.» «Sei un po' cinica, ma almeno hai avuto il buon senso di chiamarli.» «Ti sembra che sia stata una buona idea?» «Certamente.» «Forse hai ragione; ma non è stata mia.» «Come hai detto?» «Non ho chiamato io la polizia; io non ho chiamato nessuno.» 7 Non appena depose il ricevitore, si rese conto di aver commesso una sciocchezza. Non per la telefonata, quella era necessaria, ma per aver affermato di essere la signora Galloway. Sì, quello era stato un errore. Eppu-
re, mentre era al telefono, le era sembrato così naturale spacciarsi per la moglie di Ron. Dopo la telefonata tornò di sopra e si rimise a letto sperando di dormire, ma un'ora dopo un brutto sogno la svegliò di soprassalto. Non ricordava i particolari del sogno, ma solo che lei, Ron, il bambino e Harry erano stati travolti da un'alluvione e venivano trascinati, urlanti, verso il mare. Si svegliò madida di sudore. Il suo primo pensiero non fu per Ron o per Harry, ma per il bambino che stava crescendo dentro di lei. Si premette gentilmente una mano sullo stomaco per calmare il piccolo qualora fosse stato disturbato dal suo incubo. Stesa sul letto, a occhi spalancati, cercò di immaginare i contorni del bambino, la testolina, il collo inclinato, la posizione del corpicino. Thelma, che prima di sposare Harry aveva lavorato nell'ufficio di un dottore sapeva bene che il feto, durante le prime settimane, ha un aspetto abbastanza repellente e non assomiglia per niente a un corpo umano. Ma quando pensava al proprio bambino, lo immaginava bello, perfettamente formato e proporzionato, come una bambolina. Tenne la mano sullo stomaco fino a che non le parve di sentire un leggero movimento, poi buttò le gambe giù dal letto e si alzò. Immediatamente fu assalita dalla nausea. Aprì la bocca e cominciò a respirare profondamente, guardandosi nello specchio. Com'era buffa! Era una fortuna che Harry non fosse lì a vederla, a farle domande o a darle consigli. Per tutta la vita, Thelma aveva sofferto di un complesso di inferiorità per il suo aspetto. Sapeva di non essere carina, e adesso che cominciava a guadagnare peso sembrava perfino tozza. Ma l'illimitata ammirazione di Harry aveva contribuito a crearle una certa sicurezza così che, nel complesso, dava un'impressione di grazia e di femminilità. I suoi amici la definivano "attraente" soprattutto per la sua espressione che era amichevole, calda e spiritosa. I bambini che passavano per la strada le sorridevano, i commessi nei negozi erano particolarmente cortesi con lei e gli sconosciuti che incontrava alle fermate dell'autobus talvolta le confidavano i loro segreti convinti che Thelma fosse veramente interessata ai loro problemi. In realtà quella era un'espressione naturale, che non aveva niente a che fare con i suoi sentimenti. Turee lo chiamava l'"insulso sorriso di Thelma". Harry lo chiamava "dolce", Ron non l'aveva mai notato. Quando la nausea fu passata, Thelma indossò il suo abito da casa domenicale, spazzolò con cura i lunghi capelli e li legò con un nastro in tinta con l'abito. Aveva ancora gli occhi gonfi per il pianto della notte preceden-
te; le palpebre erano trasparenti e violacee come la buccia di una cipolla. Li bagnò con acqua fredda e fece degli impacchi calmanti prima di uscire sulla veranda a prendere il giornale e la bottiglia del latte. Era una bella giornata di primavera, piena di allettanti promesse. Nel giardino accanto la signora Malverson, una vedova, era intenta a curare le giunchiglie. «Salve, Thelma!» «Buon giorno, signora Malverson.» «Che bella giornata, non è vero?» «Bella, sì.» «Non ha un bell'aspetto, mia cara.» «Sto bene.» Fino a un momento prima era stato vero, ma adesso la luce del sole le feriva gli occhi e il tepore la faceva sentire febbricitante. Si strinse la bottiglia del latte al petto. «Scommetto che si sente stanca. Ho visto la sua luce accesa fino alle ore piccole, stanotte.» "Ficcanaso!" pensò Thelma. "Brutta vecchiaccia ficcanaso. Però non può aver visto Ron entrare in casa; va sempre al cinema il sabato sera." «Non riuscivo a dormire.» «Non poteva dormire? Ma avrebbe dovuto chiedere a suo marito una pillola, mia cara! Quelle che mi ha dato il mese scorso per la mia nevralgia sono state miracolose.» «Mio marito è andato a pescare.» «Davvero? Non avrebbe potuto sperare in un tempo migliore. Ha visto le mie giunchiglie?» «Me le ha mostrate ieri.» «Bisogna riparare le radici con del terriccio, questo è il segreto. Lei e suo marito dovreste piantare un'aiuola di fiori misti. Quanto tempo starà via suo marito?» «Non lo so con certezza.» La signora Malverson sollevò il largo cappello di paglia asciugandosi il sudore con il guanto da giardinaggio che le lasciò un segno scuro sulla fronte. «Perché non andiamo in chiesa stamattina?» «No, la ringrazio, ma non mi sento...» «Dovrebbe conoscere meglio la nostra piccola chiesa. Oggi avremo una funzione molto speciale: il nostro capo spirituale ci leggerà i fiori.» «Leggerà i fiori?»
La signora Malverson rise allegramente: «L'ha detto proprio come farebbe una miscredente! Ma io non ci faccio caso: fino a non molto tempo fa ero una miscredente anch'io. Anch'io ho detto proprio come lei: "Leggere i fiori?". Ma è proprio quello che fa il nostro capo: legge i fiori che noi gli portiamo, e in ogni fiore c'è un messaggio di qualcuno che ci è stato molto caro e che adesso non è più con noi.» Thelma, con il giornale e la bottiglia del latte, che le sembrava stesse diventando pesantissima, stretta al cuore, la guardava indecisa. Eppure non riusciva ad andarsene. Lo sguardo e le parole della signora Malverson la tenevano inchiodata sulla veranda come lo spillo di un collezionista inchioda un lepidottero. «Thelma, lei è cambiata» disse dolcemente la signora Malverson. «Che cosa le è successo?» «Niente.» «Mi sembra di scorgere tanto dolore nei suoi occhi, in questi ultimi tempi. Ha forse perso i contatti con qualcuno che le era caro?» Thelma la fissava, pallida e muta. «Ah, è così. Ha perso i contatti con qualcuno che le era caro e adesso vorrebbe ricevere un messaggio. Ma sì, vedo benissimo che lei vorrebbe comunicare. Ma è facile! Venga in chiesa con me e porti un fiore da leggere.» «No, veramente...» «Fresco. Il fiore dev'essere fresco e se può portare anche la radice che profuma della terra del buon Dio ancora meglio. Spesso i messaggi giungono più chiari quando le radici sono attaccate. Questa persona da cui vorrebbe un messaggio è una donna?» «No.» «Un uomo allora. No, Thelma, non voglio essere indiscreta, ma ho bisogno di sapere un ultimo dettaglio perché il colore del fiore che dovrà portare dipende da quello.» «Il colore?» «Il colore è importante; se la persona è viva il fiore dev'essere rosso come il sangue; se è morta... a noi non piace usare questo termine, è così fuorviante, ma se è morta il fiore deve essere bianco.» Thelma chiuse gli occhi; la testa le girava. Sentì la bottiglia del latte che le scivolava dalle mani e andava in mille pezzi, e il grido della signora Malverson. "Se è morta... a noi non piace usare questo termine... se è morta..."
«Santo cielo! Spero di non aver detto qualche cosa che l'ha turbata.» La signora Malverson sollevò la sottana e scavalcò la bassa siepe di bosso, attraversò il vialetto e salì i pochi scalini della veranda. «Su, lasci che l'aiuti a ripulire questo pasticcio.» «No!» «È il minimo che possa fare, visto che...» «Se ne vada! Vada via!» «Perbacco, in questi ultimi tempi perde facilmente le staffe. Si direbbe quasi che lei sia incinta.» «Chiuda il becco e mi lasci in pace!» «Molto bene!» disse acidamente la signora Malverson ritornando nel suo giardino a grandi passi, con il cappello di paglia che le sobbalzava sulla testa. «Questo è il ringraziamento che si ottiene quando si vuol fare del bene.» Incurante del latte sparso sulla veranda, Thelma rientrò in cucina e sedette al tavolo. Un paio di mosche si inseguivano dentro e fuori dalla finestra. Thelma le osservò pensando che Harry avrebbe dovuto mettere le retine alle finestre. Le era capitato spesso in quegli ultimi giorni di considerare il futuro come se fosse una replica del passato. Ma non sarebbe stato così: ora sapeva che lei e Harry non avrebbero continuato a vivere in quella casa. Qualcuno avrebbe messo le retine alle finestre, ma non sarebbe stato Harry. Sapeva che per lei ci sarebbero stati altri grandi cambiamenti nel futuro. Non poteva evitare di pensare a quei cambiamenti che si stavano inesorabilmente avvicinando, anche se una parte di lei era ancora tenacemente attaccata al passato. "Harry farà..." No, Harry non avrebbe fatto niente. Doveva abituarsi all'idea che Harry non sarebbe più stato vicino a lei. Qualche estraneo avrebbe messo le retine alle finestre, e sarebbe vissuto insieme alla moglie in quella casa, e quella avrebbe cessato di essere la loro casa. Ma non doveva lasciarsi trascinare dal sentimentalismo. Del resto quella casa non le era mai piaciuta molto. Era come tante altre nell'Ontario: un cubo di mattoni rossi. Lei avrebbe vissuto in una casa senza scale e in un clima senza inverni. Il telefono nella sala da pranzo cominciò a squillare. Era sicura che fosse Harry che la chiamava, ma non abbastanza sicura da non rispondere. «Pronto?» «Thelma, sei tu tesoro?»
«Sì.» «Ti senti meglio stamattina?» «Sì.» «Senti cara, ti sto telefonando da Wiarton. Ron non si è fatto vedere; immagino che tu non abbia avuto sue notizie.» «No.» «Be', non preoccuparti, vedrai che andrà tutto bene.» «Lo credi?» chiese Thelma e riappese. Dopo un istante il telefono riprese a squillare; Thelma gli voltò le spalle e tornando verso la cucina sì mise a contare gli squilli, come una bambina capricciosa che conta il numero delle volte che la chiamano per cena. Il telefono taceva già da molto, ma l'eco degli squilli restava nelle sue orecchie, risvegliando vecchi ricordi. "Thelma, mi senti? Thelma!" "Sì, zia May, ti sento. Tutti in città ti sentono." "Vieni immediatamente a casa e finisci di lavare i piatti!" "No, zia May." "Ti stai nascondendo di nuovo, vero? Fai finta di non sentirmi. Ma non puoi imbrogliarmi, Thelma." "Posso imbrogliarti quando voglio." "Sei una cattiva bambina. Se non torni a casa immediatamente scriverò a tua madre di venire a prenderti. Sa il cielo che mangi come un lupo e lei non manda neanche un centesimo per il tuo mantenimento. Finiremo tutti in un ospizio. Ti piacerebbe, principessina che non si degna di lavare i piatti?" "Thelma Schaefer, dove ti sei nascosta?" "Sotto il portico, ma se mi tocchi ti mordo." "Che cosa ci si poteva aspettare da quella poco di buono di mia sorella se non una poco di buono di figlia?" Erano anni ormai che zia May era morta, ma ogni suono acuto ricordava a Thelma la sua voce, che era la voce dell'autorità, del richiamo al dovere. Alzati e lavora, alzati e rispondi al telefono, alzati e parla con Harry. La bambina nascosta sotto il portico era rimasta imprigionata per sempre in Thelma. Cominciò a prepararsi la colazione con cupa efficienza come se qualcuno avesse osato mettere in dubbio la sua abilità. La zia May si era sbagliata: lei non sarebbe finita in un ospizio. C'erano i soldi di Ron, un mucchio di soldi. Il suo bambino avrebbe avuto amore e
sicurezza. Nessuna zia May l'avrebbe chiamato, per lui non ci sarebbe stata povertà né paura. Avrebbe avuto una casa senza scale, un clima senza inverni, avrebbe avuto le cure migliori, le scuole migliori e i vestiti più belli. Fece colazione come in sogno, non perché avesse fame, non sentiva neppure i sapori, ma per il bambino che era dentro di lei, e che doveva essere nutrito. Poi, con una tazza di caffè in mano andò a sedersi in salotto. La stanza era fredda e buia. Le tende erano ancora chiuse dalla notte precedente, quando era rimasta lì, in attesa del rumore della macchina di Ron sul vialetto. Ormai era primavera, ma nella stanza stagnava ancora l'odore dell'inverno, un odore che non si riusciva mai a dissipare. Thelma tirò le tende e spalancò le finestre. Da fuori le giunsero i rumori della primavera: bambini che discutevano per una bicicletta, il rumore dei pattini sull'asfalto, il battere di un martello. Il giovane che abitava nella casa di fronte era intento a fissare le retine alle finestre sotto lo sguardo orgoglioso della moglie che lo osservava come se stesse compiendo un'impresa eccezionale. Il sole aveva fatto uscire tutti di casa come un magnete: chi lavava la macchina, chi dipingeva gli infissi, chi portava a spasso i bambini, chi chiacchierava tranquillamente. Thelma, osservandoli, si chiedeva che cosa sapessero veramente di lei. "Quando la notizia comparirà sui giornali" pensò "e devo rassegnarmi all'idea che comparirà, resteranno tutti sorpresi o affermeranno di averlo sempre sospettato perché avevano visto spesso qui la macchina di Ron?" Il telefono in sala da pranzo ricominciò a squillare; questa volta era certa che si trattava di Harry. Avrebbe voluto lasciarlo suonare senza rispondere, ma ormai tutte le finestre erano spalancate e i vicini sapevano che lei era in casa, l'avevano vista sulla veranda, e si sarebbero chiesti perché non andava a rispondere. La gente in quel quartiere era fatta così; particolari del genere non passavano inosservati. Corse in sala da pranzo e sollevò il ricevitore, seccata per l'insistenza di Harry. «Pronto?» «Parla casa Bream?» «Sì.» La voce femminile era bassa e modulata: la voce di una persona colta. «C'è per cortesia il signor Bream?» «No. Io sono sua moglie.» «Sono Joyce Reynold, signora Bream. Non so se lei ricorda che ci siamo incontrate due o tre anni fa. Naturalmente conosco Harry da molti anni. È
stato sempre molto gentile con la povera Dorothy, mia figlia. Pensa che Harry rientrerà presto?» «Temo di no, ma se posso fare qualche cosa...» «Lei è molto gentile, mia cara, ma non ne sono sicura. La notte scorsa è successa una cosa molto strana, ma mi è sembrato troppo tardi per telefonare a Harry, e poi non ero certa di fare la cosa giusta. In realtà non lo sono neppure ora. Per caso, non ha ricevuto una strana telefonata da Ron Galloway la notte scorsa?» «No.» Thelma trattenne il respiro. «Che cosa intende dire con "strana"?» «Confusa, sconnessa, così ha detto Dorothy. Vede, la telefonata non era per me, ma per Dorothy. Stavo aiutandola a prepararsi per andare a letto quando è squillato il telefono: era Ron che voleva parlare con Dorothy. Erano anni che non si faceva vivo e ho pensato che doveva trattarsi di una cosa importante, così ho lasciato che Dorothy gli parlasse. Aveva passato una buona giornata e si sentiva più in forze del solito, così ho pensato che un diversivo potesse servire a distrarla e non le avrebbe fatto male. Ma mi sbagliavo. Avrei dovuto accorgermi che quell'uomo era ubriaco o fuori di sé. Da ieri sera Dorothy è in un terribile stato di agitazione.» «Che cosa c'entra in tutto questo Harry, signora Reynold?» «Ha fatto il nome di Harry più di una volta. Diceva che doveva chiedergli scusa per qualcosa di terribile che gli aveva fatto. Questo mi sembra assolutamente insensato, non crede? Ron non farebbe mai niente di male a Harry: quei due sono amici per la pelle fin da quando erano piccoli. E poi perché, dopo tanti anni, Ron ha deciso di telefonare a Dorothy e di mettersi a piagnucolare per il modo in cui l'aveva trattata?» «Io... non so.» «Quella povera bambina ha già sofferto abbastanza. Avevo pensato che se Harry fosse stato in casa, avrebbe potuto venire qui a parlarle. Forse sarebbe riuscito a calmarla. Dorothy è sempre stata affezionata a Harry, ed è convinta di aver capito dalla conversazione con Ron che lui voleva che gli parlasse.» «Perché?» «Pare che Ron sia convinto di avergli fatto qualche cosa di terribile. È così?» «No.» La risposta era secca e perentoria. «Ha avuto occasione di vederlo di recente?» «Sì.» «E le è sembrato normale.»
«Sì, assolutamente normale.» «È molto curioso. Certo non è normale che un uomo telefoni alla sua ex moglie dopo molti anni per dirle che vuole scusarsi con lei prima di andarsene.» «Andarsene?» «Ha detto che stava per andarsene, e quando Dorothy gli ha chiesto dove, ha risposto che non poteva dirglielo, che si trattava di un paese sconosciuto. Dorothy ha avuto l'impressione che stesse recitando i versi di una poesia.» Thelma chiuse gli occhi e si appoggiò alla sedia: "Il paese sconosciuto dai cui confini nessuno è mai tornato". «Signora Bream, è ancora lì?» «Sì.» La risposta era un sussurro. Quando zia May la chiamava, Thelma poteva nascondersi e far finta di non aver sentito. Ma questa volta non c'era nessun posto dove nascondersi. «Sì, signora Reynold, l'ascolto.» «Sa per caso se Ron ha parlato con Harry di questo suo viaggio?» «No.» «Non so cosa pensare. Ron è stato veramente avventato a fare una telefonata del genere e non mancherò di dirglielo la prima volta che lo vedo. Di fatto ho telefonato a casa sua poco fa, ma non mi ha risposto nessuno. Crede che possa essere già partito?» «Non saprei.» «Un paese sconosciuto!» borbottò la madre di Dorothy. «Ora devo lasciarla, signora Reynold.» «Ma certo, mia cara. Mi scusi se le ho fatto perdere tanto tempo. Spero di non averla turbata con questa notizia.» «Riferirò a Harry della sua telefonata non appena rientra.» «Grazie, cara. Sono certa che Harry saprà cosa fare.» Dopo aver deposto il ricevitore, Thelma si strofinò accuratamente la mano con un fazzoletto come se avesse toccato qualcosa di infetto. Poi si alzò e si trascinò su per le scale: il bimbo che portava in grembo le sembrava pesante come un macigno. Esausta si buttò sul letto a braccia spalancate. I giorni di scuola, l'odore dei libri e dei pavimenti tirati a cera. Oggi a scuola si ripete a memoria. Tocca a te, Thelma. Prova a ripetere. Silenzio in classe mentre Thelma recita la poesia! Thelma recita le prime due strofe e poi si ferma. "Vai avanti, Thelma."
"Non posso, non me la ricordo." "Vai avanti, Thelma." '"Il terrore di quello che accadrà dopo la morte. Il paese sconosciuto dai cui confini nessuno è mai tornato'." "Che bei versi" aveva detto l'insegnante. "Ma dovresti metterci più sentimento, Thelma, più sentimento." 8 Erano le dieci di una domenica mattina e una donna del tutto estranea ai personaggi fino a ora apparsi in questa vicenda si stava preparando per andare in chiesa. Si chiamava Celia Roy e viveva sola alla periferia della piccola città di Thornbury sulla Georgian Bay; era una vedova con due figlie ormai sposate che viveva della sua pensione e che ormai non si aspettava più molto dalla vita. Era quel tipo di persona a cui nella vita non era mai capitato niente di straordinario. Certo, aveva visto gente nascere e morire, era stata testimone di errori, tragedie, sacrifici, ma questa era ordinaria amministrazione per Celia. Quello che sognava, nell'autunno della sua vita, era di vincere un'automobile partecipando a qualche quiz radiofonico, oppure un viaggio pagato a Hollywood, o magari mille dollari per la migliore ricetta dell'anno. In fondo si sarebbe anche accontentata di una serata fortunata alla tombola parrocchiale; ma neppure quella si era mai verificata. Andò a mettersi il cappello davanti allo specchio dell'ingresso; erano tre anni che portava quel cappello e avrebbe saputo infilarselo anche nel buio più nero, ma lo faceva sempre davanti allo specchio per abitudine, senza vedere in realtà né se stessa né il cappello. Le mani le tremavano per l'eccitazione e la paura: stava andando in chiesa e aveva fatto qualche cosa di male, forse di molto male. Ma quel che era peggio era che non aveva intenzione di parlarne con nessuno. Il cane era morto; lei stessa l'aveva seppellito di notte, al buio, e nessuno si era accorto di niente. Sentì il motore della vecchia macchina di Mabel, sua figlia, che starnutendo si fermava davanti a casa. Tutte le volte che sentiva quel rumore, Celia pensava che la macchina stesse per esalare l'ultimo respiro, ma tutte le volte, grazie alle esperte manovre di Mabel, il vecchio motore ricominciava a pulsare vigorosamente, come se volesse ribellarsi a tutte le accuse di vecchiaia e di acciacchi.
Mabel spalancò rumorosamente la porta d'ingresso: era una giovane donna allegra e vivace che manifestava poca pazienza per quelli che, come usava dire, si trascinavano nella vita. «Ciao, mamma! Pronta?» «Quasi» rispose Celia. «Sembro uno spaventapasseri. La colpa è di questo cappello; non ha più forma.» «Hai ragione» rispose Mabel ridendo «te l'avevo detto di comprartene uno nuovo per Pasqua.» «Già, e i soldi?» «A proposito di soldi: non ho neanche un centesimo in tasca per la colletta. John non ha ancora ricevuto la paga questa settimana. È la terza volta che ritardano.» Vide la borsa della madre appoggiata sul portafiori di bambù. «Ti dispiacerebbe prestarmi un quarto di dollaro?» Celia diventò bianca come un morto: «Fermati, aspetta!» «Che cosa ti piglia?» «Non mi va di veder frugare nella mia borsetta.» «Non me l'hai mai detto prima d'ora.» «Be', adesso te lo dico. Dammela.» «Accidenti, non penserai che voglia rubarti qualche cosa?» «Non voglio sentire questi discorsi. Dammi la borsa.» «Non capisco proprio il tuo atteggiamento. Mi tratti come se fossi una ladra. Che cos'hai questa mattina? Sei pallida come uno straccio.» «Mostra più rispetto per tua madre, e adesso dai qua.» «Va bene, va bene, riprenditi la tua borsaccia.» E Mabel gliela tirò. I riflessi di Celia non erano più quelli di un tempo e la borsa cadde ai suoi piedi, sparpagliando attorno il suo contenuto: un fazzolettino di pizzo, un portacipria d'argento annerito, un borsellino di pelle sdrucito, una fotografia spiegazzata dei bambini di Mabel, un libro di preghiere e un portafoglio di coccodrillo. «Scusa mamma, mi dispiace. Pensavo che la prendessi al volo. Aspetta, raccolgo io tutto.» Ma Celia era già in ginocchio e stava rimettendo gli oggetti nella borsa con rabbiosa determinazione. «Mamma!» «Sei una sciocca, ecco che cosa sei, una sciocca.» «Non sapevo che tu avessi un portafoglio, mamma.» «Ci sono un mucchio di cose che non sai, incluso come ci si comporta con le persone più vecchie di te.»
«Dove l'hai preso?» «Me l'hanno dato; è un regalo.» «Mi è sembrato vero coccodrillo.» «E allora?» «Mamma, andiamo, chi potrebbe regalarti un portafoglio di vero coccodrillo?» «Un uomo. Un uomo molto ricco» rispose Celia alzandosi in piedi con la borsa stretta al petto «e questo è tutto. Sono faccende che non ti riguardano.» «Tu non conosci nessun uomo molto ricco.» «E invece sì.» «E dove l'hai incontrato?» «Per strada, proprio qui di fronte.» «Mamma!» «È vero, come è vero Iddio. Mi è venuto incontro, si è tolto il cappello e mi ha detto: "Signora, io sono un uomo molto ricco. Prenda il mio portafoglio di vero coccodrillo".» «Mammal» «Smettila di dire mamma in quel modo.» «Questa storia non ha senso.» «Che modo di parlare! Ecco che cosa succede a sposare un uomo di condizione inferiore. Te l'avevo detto io: è un semplice operaio, ti farà scendere al suo livello. E tu, che hai un'educazione superiore...» «Non cambiare argomento, mamma. Voglio saperne di più su quest'uomo ricco; mi incuriosisce.» «Non cercare di fare la spiritosa. Si dà il caso che io stia dicendo la verità, e non mi va che mia figlia faccia dello spirito su quello che dico.» «Che farai quando anche gli altri noteranno il tuo nuovo portafoglio? Racconterai anche a loro la storia che hai raccontato a me?» «Nessuno se ne accorgerà.» «Com'è possibile?» «Perché lo butterò via, ecco perché.» «Buttarlo via? Mamma, ma sei pazza? Qualcuno ti regala un portafoglio di coccodrillo e tu vuoi buttarlo via? Varrà almeno dieci dollari e ti...» «Smettila di tormentarmi!» Si fissarono in silenzio: Celia pallida e accigliata, sua figlia rossa e sbalordita. «Terrò solo i soldi» disse Celia infine.
«Quali soldi?» «Quelli che ci sono dentro.» «E quanti sono?» «Quasi cento dollari.» «Cento dollari?» «Ho detto quasi.» Celia si attaccò a quella parola come a un salvagente. «Mamma, dove li hai presi?» «Te l'ho detto: quell'uomo me li ha dati.» «Quando?» «La notte scorsa.» «E perché?» «Per Laddie. Per pagare per Laddie.» «Che cosa c'entra Laddie in tutto questo?» «Non alzare la voce con me! Non ho fatto niente di male.» «È successo qualcosa a Laddie?» «Sì.» «È morto?» «Sì.» «E tu non ne sei neanche dispiaciuta? Era il tuo cane!» «Certo che ne sono dispiaciuta, ma non è stata colpa mia. È corso in strada, ormai non ci vedeva più molto bene, e la macchina l'ha messo sotto.» «Quale macchina?» «Una di quelle macchine sportive senza tetto.» «Una decapottabile.» «Penso di sì. C'era un uomo al volante; portava uno di quei berretti a quadretti che si vedono al cinema qualche volta. Ha capito subito di avere investito Laddie. Probabilmente mi ha anche sentito gridare. Ha rallentato, ha urlato qualcosa come "Mi dispiace" e ha buttato qualche cosa fuori dalla macchina. Sul momento non ho capito nemmeno che cosa fosse.» «Ma poi l'hai scoperto?» «Non mi piace il tuo modo di parlare, non è rispettoso.» «Smettila di preoccuparti del mio modo di parlare! Che cosa è successo poi?» «La macchina ha proseguito e io sono andata a raccogliere Laddie che giaceva sul ciglio della strada. Ho capito subito che era morto. E così l'ho sepolto in giardino.» «E ti sei tenuta il portafoglio.»
«E perché non avrei dovuto?» Mabel scosse la testa. «Non mi sembra ben fatto; mi sembra un sotterfugio, se vuoi che ti dica la verità.» «I soldi sono miei. Mi sono stati dati chiaramente per ripagarmi del cane. Laddie era un cane che valeva molto.» «Era un bastardino di dieci anni mezzo cieco, lo sai bene!» «Che cosa importa?» «Mamma, ieri sera, quando è successo, perché non mi hai chiamata?» «Perché? Ecco perché: non avevo voglia di subire un interrogatorio.» «Sto solo cercando di chiarire i fatti, così potremo decidere sul da farsi.» «Io ho già deciso: mi sbarazzerò del portafoglio, così i ficcanaso non lo vedranno e non si metteranno a fare domande, e mi terrò i soldi. Me li hanno dati per il mio cane.» «Come fai a saperlo?» «Come faccio a sapere cosa?» chiese Celia stringendo le labbra. «L'uomo della macchina potrebbe averteli dati per farti tenere la bocca chiusa, perché tu non dicessi a nessuno di averlo visto.» «E perché avrebbe dovuto fare una cosa del genere?» «Forse era un criminale che scappava dalla scena del delitto.» Celia rimase turbata, ma si rifiutò di ammetterlo. «Sciocchezze! Quell'uomo ha investito Laddie e non si è nemmeno fermato per dirmi il suo nome o per chiedere se poteva fare qualche cosa. È un pirata della strada, ecco cos'è!» La fantasia di Mabel era come la sua macchina: quando incominciava a muoversi, non c'era più verso di fermarla. «Come fai a sapere che non sia stato il rapinatore di una banca che fuggiva con il bottino?» «Sciocchezze! Le banche sono chiuse il sabato.» «O un assassino! Chi ti dice che non ritornerà?» «Perché dovrebbe tornare?» «Per assicurarsi che tu tenga la bocca chiusa.» «Oh, mio Dio!» Celia si lasciò cadere pesantemente su una poltroncina di vimini facendosi aria con un fazzoletto «non mi sento bene, credo... credo di stare per svenire.» «Vado a prenderti un bicchiere d'acqua; non ti muovere.» L'acqua venne bevuta e, visto che non c'erano liquori in casa, anche un sorso di menta selvatica: Mabel, che cantava da soprano nel coro, la usava
per aiutarsi nelle note più alte. «Ti senti meglio, mamma?» «Grazie a te sono quasi morta; farmi prendere una paura del genere, alla mia età!» «Stavo soltanto cercando di farti ragionare.» «Ragionare secondo te vuol dire buttar via quasi cento dollari. Se essere ragionevoli vuol dire questo, preferisco essere pazza, grazie tante.» «Ti sto solo chiedendo di raccontare a qualcuno quello che è successo.» «E a chi?» «Il reverendo Wilton potrebbe dirti cosa fare.» «Neanche morta! Non vado d'accordo praticamente su niente con quell'uomo!» «Allora l'agente Leachman.» «L'agente Leachman soffre di epilessia.» «Ma che cosa c'entra questo?» «Me l'ha detto sua sorella. Mi ha detto anche» aggiunse Celia con aria di trionfo «che gli viene la schiuma alla bocca.» Mabel era diventata così rossa che sembrava stesse per scoppiare. «Vuoi smetterla di cambiare argomento?» «Non sto cambiando argomento. Sei stata tu a parlare dell'agente Leachman. Io ho detto solo che ha delle crisi; delle brutte crisi.» «Sono solo pettegolezzi.» «Pettegolezzi, eh? Come mai quando tu scopri qualche cosa si tratta di informazioni mentre se lo scopro io sono pettegolezzi?» «Metti il cappotto, mamma, o faremo tardi in chiesa.» «Non me la sento di venire in chiesa.» «Forse non te la senti, ma certamente ne hai bisogno. Forse ne ho bisogno anch'io. E dopo la funzione andremo a cercare il signor Leachman. E non mi importa niente se fa le bolle come un bagno di schiuma: gli racconterai del portafoglio e gli descriverai l'uomo sulla macchina.» «Non ho potuto vederlo bene alla luce dei lampioni.» «Nel portafoglio non c'era un nome?» «Sì, Galloway. Ronald Gerard Galloway.» «Secondo me è un nome falso» disse Mabel. «Andiamo, è ora.» 9 La notizia che Ron Galloway era stato visto vivo circa alle dieci della se-
ra di sabato venne riferita a Esther nel tardo pomeriggio di domenica. Era appena ritornata dal capanno e stava prendendo il tè coi bambini nella stanza dei giochi. I piccoli si comportavano in modo orrendo: sentendo che Esther era preoccupata e distratta, usavano tutti i possibili accorgimenti per attirare la sua attenzione. Si buttavano addosso i dolcetti del tè, si scambiavano insulti, si mettevano a piangere. Esther cercava di mantenersi calma e gentile, ma la tensione accumulata nelle ventiquattr'ore precedenti l'aveva quasi ridotta in lacrime, quando entrò Annie ad annunciare che il signor Bream la stava aspettando in biblioteca. «Le avevo ordinato di dire che non ero in casa per nessuno» ribatté bruscamente Esther trasferendo sulla ragazza il proprio nervosismo. «Non ho potuto farlo, signora Galloway. Mi ha detto che aveva delle notizie molto importanti; e poi... sì tratta del signor Bream.» Calcò la voce sul nome per sottolineare l'importanza del visitatore e anche perché Harry le era simpatico: la trattava sempre con rispetto. «Va bene; si occupi lei di questi selvaggi: non mi riesce di tenerli tranquilli.» Annie le rivolse uno sguardo che significava: "E quando mai le è riuscito?", ma Esther fece finta di non notarlo. Sapeva benissimo che Annie aveva molto più ascendente di lei sui ragazzi: li trattava con la tranquilla sicurezza di un domatore che conosce le possibilità dei suoi ammali e non si aspetta da loro niente di più di quanto essi non siano in grado di dare. «Sono dei bambini molto buoni» affermò Annie. «Certamente.» Harry la stava aspettando in biblioteca. Prima ancora di entrare nella stanza, Esther lo sentì passeggiare nervosamente avanti e indietro come se fosse di pessimo umore. «Annie mi ha detto che hai delle notizie» disse subito. «In un certo senso.» «Si tratta di Ron?» «In parte.» «Senti Harry, smettila di parlare per indovinelli! Non mi pare il momento.» «Non posso farne a meno: questo è tutto un indovinello.» Era spettinato e con gli abiti in disordine. Il viso era arrossato come se avesse un febbrone. Harry non era molto alto, ma di solito camminava dritto e impettito, così nessuno notava la sua bassa statura. Eppure, quel giorno, con le spalle curve, la testa piegata, sembrava un vecchietto minuscolo e rassegnato.
"Forse anch'io sono cambiata come lui" pensò Esther, e si rallegrò che in quella stanza non ci fossero specchi. «Sono cattive notizie, naturalmente» disse con aria distaccata. «No, non esattamente. Non per quanto riguarda Ron, per lo meno.» «E allora parla.» «Una donna, nella cittadina di Thornbury, l'ha visto la notte scorsa verso le dieci. Ha investito il suo cane.» «Che cosa ha fatto?» «Ron ha investito il cane di quella donna e l'ha ucciso. Ha rallentato, ha visto quello che era successo e le ha buttato dei soldi per risarcirla della perdita. La donna ha descritto la macchina, Ron, il berretto che portava e altri dettagli. Non ci sono dubbi: era lui.» «Come fai a esserne sicuro?» «Nel portafoglio c'erano un mucchio di documenti. Penso che non avesse tempo di fermarsi, perciò ha buttato dalla macchina il portafoglio con dentro i soldi e tutto il resto. Uno di quei gesti impulsivi che Ron fa senza riflettere.» «Senza riflettere? Oh, no! Ron ha pensato, come al solito, che con i soldi si può pagare tutto.» «Andiamo Es! Avrei potuto fare esattamente la stessa cosa, se avessi avuto una furia terribile.» «E perché avrebbe dovuto avere tanta furia?» «Non lo so, ho detto che è possibile.» «E secondo te è per questo che non si è fermato, perché aveva fretta?» Harry esitò: «Avrebbe anche potuto essere spaventato.» «Questo mi sembra più probabile; si addice meglio al temperamento di Ron; commette un errore e scappa, poi butta i soldi senza neanche scendere di macchina. Ma sì, deve proprio essere stato Ron. Anche se non ci fossero stati documenti nel portafogli, l'avrei riconosciuto dal modo di agire. Si deciderà mai a crescere? Ad affrontare le cose?» «Andiamo, Es...» «Dov'è Thornbury?» «È sulla strada per andare al capanno. Dovresti averla vista questa mattina.» «Può darsi, ma non l'ho notata.» Si lasciò sfuggire un lungo sospiro. «Sono queste le notizie?» «Sì.» «È peggio di niente.»
«Perché dici così?» Esther gli voltò le spalle e quando riprese a parlare lo fece fissando una finestra. «Per tutto questo tempo, fino a quando sei arrivato tu, ho pensato che Ron se ne fosse andato volontariamente per evitarmi, pensavo che fosse andato a Detroit e che dopo aver combattuto con la sua coscienza mi avrebbe telefonato, mi avrebbe detto dove si trovava e tutto si sarebbe sistemato. Per lo meno sarebbe tornato com'era prima. Pensavo che avesse commesso un errore, che non avesse avuto il coraggio di affrontarmi e che fosse scappato.» «È possibile.» «No, ora non più. Se avesse voluto fuggire non sarebbe certo andato nell'unico posto dove lo avrei sicuramente cercato. Se è stato visto a Thornbury, significa che era diretto al capanno, oppure che c'era già stato e stava tornando. In che direzione andava quando ha attraversato Thornbury?» «Non ho pensato a chiederlo. L'ispettore è tornato al capanno quando tu te ne eri appena andata. Ho pensato che ti facesse piacere essere informata e sono venuto qui immediatamente.» «Avresti potuto telefonare.» «Cercavo comunque una scusa per andarmene.» «Perché?» «Stavo cercando di mettermi in contatto con Thelma. Quando le ho telefonato, ha riagganciato subito. Ho provato molte altre volte, ma il telefono suonava senza che nessuno rispondesse. Adesso so perché.» Il tono di voce era così strano che Esther si voltò a guardarlo: «Che cosa succede, Harry?» «Mi ha lasciato» sussurrò Harry e improvvisamente, senza far rumore, si mise a piangere. Si era coperto il viso con le mani, ma le lacrime gli scivolavano tra le dita e andavano a finire nei polsini della camicia. Esther non aveva mai visto un uomo adulto piangere, e quella vista la immobilizzò lasciandola senza parole. Il suo primo pensiero fu che Harry aveva bisogno di un fazzoletto; qualcuno doveva dare un fazzoletto al povero Harry che stava bagnandosi tutta la camicia. Quando finalmente riuscì a parlare, la voce risuonò stranamente tesa e sottile: «Harry! Vado a prepararti qualcosa da bere, eh, Harry?» «No, adesso va meglio, concedimi ancora un minuto.» Esther si voltò e come aveva fatto migliaia di volte lasciò vagare lo sguardo fuori dalla finestra e, come sempre, ebbe l'impressione che là fuo-
ri, al di là della siepe, al di là del cancello, la danza della vita andasse avanti senza che lei fosse stata invitata a partecipare. «Sono tornato a casa» stava intanto dicendo Harry «ma lei non c'era; ho trovato una lettera in cui ha scritto che mi lasciava.» «E non ti ha detto perché?» «No, non l'ho capito. Dice che ha bisogno di riflettere; ma noi eravamo così felici!» La voce gli tremò ma si riprese. «Lo sanno tutti che eravamo felici. Su che cosa deve riflettere?» «Forse su molte cose.» «Ma cosa?» «Non ti sembra una coincidenza interessante che siano scomparsi tutti e due contemporaneamente, Ron e Thelma?» «Non vorrai insinuare che sono scappati insieme?» «Forse tu e io ci siamo comportati in modo molto stupido a questo riguardo.» «No, non sono insieme» ribatté Harry con decisione. «Io so dov'è Thelma. Nella lettera ha scritto che andava a stare da una cugina che abita in Ellington Avenue. Mi ha detto di non cercare di mettermi in contatto con lei, ma io l'ho fatto. Ho telefonato a Marian, la cugina, e mi ha detto che era lì, ma non voleva parlare con me.» «Le cugine possono anche dire le bugie» ribatté seccamente Esther. «Non Marian; e poi lei e Thelma non sono molto intime.» «Non ho mai saputo che Thelma avesse una cugina in città.» «Come ti ho detto, non si vedono spesso. Fanno colazione insieme un paio di volte all'anno ed è tutto. Marian non è venuta nemmeno una volta a casa nostra.» «E allora perché Thelma è andata a stare con lei proprio adesso?» «Forse perché non aveva nessun altro posto dove andare.» Sembrava che stesse per rimettersi a piangere, ma non lo fece; inghiottì un paio di volte, poi riprese: «Doveva essere disperata, per andare da Marian. Non le è nemmeno simpatica; povera Thelma!» Esther si voltò bruscamente stringendo i pugni. «Povera Thelma! Sono stufa marcia di sentir ripetere povera Thelma e povero Ron! Perché nessuno dice mai povera Esther o povero Harry?» «Non essere troppo dura!» «Sarebbe il momento di esserlo.» «Non è mai il momento, se vuoi bene a qualcuno. Non so quale sia il problema di Thelma; quello che so è che se si trova nei guai, voglio aiutar-
la.» «E se tu non potessi?» «Devo farlo» rispose Harry con tranquilla fermezza «è mia moglie. Se lei ha bisogno di me, io farò qualsiasi cosa per aiutarla.» Esther sapeva che era proprio così. Pallida e immobile, guardava Harry pensando che se Ron le avesse detto una cosa del genere almeno una volta, sarebbe stata la donna più felice del mondo, avrebbe finalmente avuto la sensazione di essere stata invitata alla danza della vita. «Vorrei avere la fiducia che dimostri tu, Harry» disse infine. «Non ci sono nato con questa fiducia, Esther; me la sono costruita mattone per mattone, fino al punto che adesso non riesco più a vedere al di là del muro.» «Tu non vuoi vedere, Harry.» «Thelma non ha fatto niente di cui debba vergognarsi. Quali che siano i tuoi sospetti su lei e Ron, credimi, sono infondati.» «Vorrei poterlo fare.» Harry tirò fuori dalla tasca una lettera e gliela porse. «Leggi.» «No, non voglio, è una lettera privata.» «Thelma non avrebbe niente in contrario.» «Non voglio» ripeté Esther, ma al tempo stesso cercava di leggere al rovescio la scrittura a inchiostro verde del foglio che Harry le porgeva. Finalmente la prese: l'eleganza della grafia era sciupata da qualche errore di grammatica e da qualche grossolana cancellatura. In un angolo l'inchiostro si era sciolto, forse a causa di una lacrima. Caro Harry, sono andata ad abitare con Marian per qualche giorno. È così difficile spiegarti e io mi sento così confusa! Ho pensato che se avessi potuto starmene un po' da sola per riflettere sarebbe stato meglio per tutti, anche per te. Non è facile trovare le risposte giuste quando si è così turbati. Non sono ancora in condizione di parlare con te, perciò, per favore, non telefonarmi. Se la signora Malverson o qualcuno dei vicini ti chiedesse dove sono, di' semplicemente che sono andata a trovare una cugina; dopo tutto è la verità. So che starai chiedendoti che cosa mi succede, se ho perso la testa o qualche cosa del genere. In questo momento non sono si-
cura di niente, se non che ho bisogno di riflettere senza dovermi preoccupare di nessuno. Il passato è passato e ora devo pensare al futuro. Devo trovare la soluzione giusta e attenermi a quella. Cerca di avere pazienza con me, Harry. Mi metterò in contatto con te non appena mi sentirò abbastanza tranquilla da poter fare un discorso sensato senza scoppiare a piangere. A proposito, Marian non sa niente, quindi non cercare di far pressioni con lei per avere notizie. Le ho detto che avevamo avuto un piccolo litigio. Thelma P.S. La signora Reynold ha telefonato questa mattina e ha detto che Dorothy ha bisogno di parlarti il più presto possibile a proposito di Ron. Per poco Esther non fece cadere la lettera. «La signora Reynold? E perché mai dovrebbe voler parlare con te?» «Non lo so; la conosco appena. Quanto a Dorothy, di tanto in tanto vado a trovarla, ma il cielo mi è testimone che non parliamo mai di Ron. Se facessi il suo nome, si farebbe venire un attacco di cuore.» «Credi che abbia saputo qualche cosa su Ron che noi non sappiamo?» «In che modo?» «Magari per errore; è ancora la signora Galloway. Potrebbero aver mandato a lei invece che a me un messaggio.» L'idea la eccitava, le aveva persino fatto tornare un po' di colore sulle guance. «Non ti sembra possibile?» «Forse sì...» «Devi andare da lei e scoprirlo, Harry.» Harry si appoggiò stancamente alla scrivania a capo chino. «No, non adesso.» «Devi andare.» «Non sono in grado di affrontare nessuno, in questo momento.» «Hai affrontato me.» «Perché siamo nella stessa situazione.» «Non esattamente» ribatté Esther con durezza. «Tu sai dov'è tua moglie. Sai che è viva e sta bene. Come vedi non siamo esattamente nella stessa situazione.» Sollevò il capo pian piano, con uno sforzo: i loro occhi si incontrarono, ma Harry rimase in silenzio.
«Harry, ho bisogno del tuo aiuto. Andrai a parlare con Dorothy?» «Ci andrò.» «Subito?» «Subito» rispose stancamente. 10 Allungò un braccio e accese l'autoradio; il notiziario delle sei era appena cominciato: disordini in Israele, un incidente ferroviario in California, il mercato azionario andava su, ma nessuna notizia della sparizione di Ron. "Forse perché è domenica" pensò Harry. "In questa maledetta città tutto si ferma alla domenica." Forse Thelma aveva ragione a volersi trasferire negli Stati Uniti. L'avrebbe chiamata per dirglielo... No, non doveva telefonare, Thelma gli aveva detto di aspettare; doveva essere paziente. All'incrocio si diresse verso nord, e dopo due miglia si trovò davanti a quella che la mamma di Dorothy chiamava la casa di città. Intorno il quartiere cominciava a deteriorarsi, ma la casa era rimasta intatta come una fortezza, con le sue torrette e le finestre sbarrate. "Sembra un castello medievale" pensò Harry mentre parcheggiava la macchina sul viale d'accesso "e dentro c'è la principessa rinchiusa nella torre d'avorio. Non la Bella Addormentata, però, dato che la povera Dorothy soffre d'insonnia." Poteva permettersi di ridere di quella casa, prendere in giro Dorothy e persino provare pietà e disprezzo per lei, ma al tempo stesso si sentiva imbarazzato e pieno di rancore davanti a tanta ricchezza, come un nano nel covo dei giganti. Premette il campanello come se dovesse prepararsi all'attacco della pesante porta di mogano, e gli venne quasi da ridere nel vedersi davanti, quando la porta venne aperta, una donnina anziana, vestita di nero, non più grande né coraggiosa di lui, che lo squadrò dal basso in alto con meraviglia come se i visitatori maschi in quella casa fossero una rarità da guardare con sospetto. «La signora Galloway desidera vedermi; sono Harry Bream.» La vecchietta rimase muta e solo un leggero cenno del capo indicò che aveva sentito parlare di lui. Aprì la porta un po' di più e Harry interpretò il gesto come un invito a entrare. Poi, con un piccolo inchino, si incamminò rapida per le scale voltandosi di tanto in tanto come se la preoccupasse il
fatto di essere seguita. L'ingresso sembrava quello di un museo, con un alto soffitto a volta e i pavimenti di marmo lucido su cui facevano bella mostra delle statue: Harry avrebbe avuto voglia di fumarsi una sigaretta, ma non c'erano portacenere in vista e gli parve di scorgere sui muri degli invisibili cartelli con scritto "Non fumare". L'unico segno di vita nella stanza erano un paio di consunti pattini a rotelle abbandonati ai piedi della scala. Gli ricordarono che Dorothy aveva una bambina e che la piccola viveva ancora nella casa, anche se preferiva starsene nascosta. Erano anni che Harry non la vedeva. Stava aspettando da qualche minuto quando la vecchia domestica ridiscese in gran fretta le scale facendo sobbalzare la crestina bianca che aveva in testa. «La signora Galloway la riceverà nella sua stanza.» Parlava lentamente e in modo un po' confuso come se, per qualche malattia, avesse perso temporaneamente l'uso della parola e l'avesse poi faticosamente riconquistato. La seguì al piano di sopra; la donna camminava così velocemente che Harry arrivò ansante al secondo piano. L'appartamento di Dorothy si trovava nella torretta sud, e la porta era aperta. Stava sdraiata su una poltrona, sorretta da una profusione di cuscini di raso, con indosso un négligé di pizzo bianco come una giovane sposa che aspetta inutilmente il suo compagno. Ormai aveva quasi quarant'anni, ma conservava l'aspetto di una bambina fragile e capricciosa. L'estrema magrezza e i molti anni di semireclusione avevano sciupato il suo aspetto senza però invecchiarla. Il sole, il vento e la pioggia delle strade non erano mai penetrati attraverso le alte finestre di quella casa. Sua madre era seduta su una seggiolina alla destra di Dorothy e tra le due, su un tavolinetto, c'era il cartellone dello Scarabeo con il gioco non ancora finito. «Harry, mio caro, sei stato gentile a venire!» Harry strinse tra le sue la lunga mano scarna che gli veniva tesa e che gli faceva pensare a un artiglio. Le guance della donna gli parvero insolitamente rosee e gli occhi troppo lucidi, tanto che per un momento temette che avesse la febbre. Ma la mano era fresca, la voce ferma e ben presto Harry si accorse che non si trattava di febbre, ma di furia repressa. «Harry, tu ti ricordi di mia madre, naturalmente?» «Certo; buona sera, signora Reynold.» «Buona sera, Harry. La ringrazio di essere venuto.»
«Per carità; spero di non aver interrotto la vostra partita.» Dorothy fece una smorfia. «Che partita! Quest'oggi sono più indietro del solito!» La signora Reynold arrossì imbarazzata. «Andiamo cara, non è assolutamente vero.» «Ma sì che è vero! E poi detesto giocare a Scarabeo: mi fa venire il mal di testa.» «Non posso impedirmi di vincere ogni tanto se mi vengono le lettere giuste.» «Non mi importa affatto di perdere! Sono sempre stata abbastanza sportiva nei giochi, anzi, mi faccio un punto d'onore di esserlo. Quello che non riesco a sopportare è la tua sfacciata fortuna. Devi scusarci» aggiunse rivolta a Harry «ma la mamma prende lo Scarabeo molto sul serio.» «Non conosco il gioco.» «Be', non ci provare; è molto stancante. A me fa venire il mal di testa, soprattutto quando gli altri hanno la fortuna dalla loro. Non vuoi sederti? Ordino il tè.» «Non disturbarti.» «È comunque l'ora della medicina e non posso prenderla senza tè: ha un sapore orribile.» «Penso io al tè» disse la signora Reynold. «Mi dispiace disturbare la signora Parks per qualcosa che posso fare io.» «Essere disturbata fa parte del suo lavoro.» «Preferisco comunque farlo io: qualche volta dimentica di scaldare la teiera.» La signora Reynold sembrava felice di avere una scusa per allontanarsi e al tempo stesso colpevole per averne approfittato. Quando passò vicino a Harry gli lancio un'occhiata supplichevole perché fosse gentile con Dorothy o per lo meno tollerante. Dorothy aspettò che uscisse, poi disse: «La mamma è stufa di questa vita da ospedale, e lo sono anch'io, ma sono costretta ad accettarla. Non sopravviverei una settimana senza le cure di personale esperto.» «Hai un bell'aspetto, Dorothy.» Si accorse immediatamente che questa osservazione era un errore. Dorothy infatti si accigliò, conficcando le unghie in un cuscino di raso: «Non vedo come questo sia possibile. Questa mattina ero talmente agitata che la signora Parks è stata costretta a chiamare il medico. Ho un nuovo medico adesso; l'ultimo era decisamente poco aggiornato. Parlava solo di psicolo-
gia. Ma a che cosa serve la psicologia quando il tuo cuore batte come un martello pneumatico e basta la minima emozione per farti svenire?» «Qual è stata la causa di tanta emozione?» «La telefonata di Ron. Credevo che tua moglie te ne avesse parlato.» «No.» «Questa sera sono molto più tranquilla, anche il polso non raggiunge le novanta pulsazioni; il dottore mi ha fatto un'iniezione. Con tutte queste iniezioni mi hanno ridotta come un colabrodo.» «Che cosa è successo a Ron?» «Ha telefonato la notte scorsa e ha detto alla mamma che voleva parlare con me. Non so bene perché, ma la mamma me l'ha passato. La mamma pensa sempre di fare bene.» Il tono di voce lasciava intendere "e invece sbaglia sempre". «Comunque non mi sentivo molto bene ed erano già passate le nove, ora in cui di solito vado a letto; inoltre avevo avuto un noioso doloretto a un rene per tutta la giornata.» «Da quanto tempo erano passate le nove?» «Da pochi minuti. Mi ricordo di aver controllato il polso dopo la telefonata» aggiunse con soddisfazione «e avevo più di centoventi pulsazioni al minuto.» «Come mai la telefonata ti ha tanto turbata?» «Prima di tutto era assolutamente inattesa. Erano anni che Ron non mi telefonava o non si metteva in contatto con me. Non ne aveva ragione. Al momento del divorzio non gli ho chiesto niente altro che l'affidamento di Barbara e naturalmente così è stato, a causa anche di quell'orribile donna... che cos'era, una stenografa o qualcosa del genere... Molto banale, comunque.» «Era una copywriter in un'agenzia pubblicitaria.» Dorothy inarcò le sopracciglia. «Abbastanza banale, non ti pare? Comunque, non mi aspettavo assolutamente la sua telefonata. Anzi, avevo quasi dimenticato che esistesse. Non ha mai avuto una forte personalità, non è il tipo d'uomo che resta impresso nella memoria. Io, per esempio, ho perso mio padre quando avevo dieci anni, eppure me lo ricordo molto più vividamente di quanto non ricordi Ron.» «Che cosa ha detto nella telefonata?» «Chi lo sa. Parlava confusamente.» «Che cosa gli era successo?» «Secondo me si trattava semplicemente di una sbronza. Era ubriaco, u-
briaco fradicio. Lo sai com'è Ron: non ha mai retto l'alcool come un gentiluomo.» Nelle ultime ventiquattrore gli parve che gli avessero detto almeno una dozzina di volte: "Lo sai com'è Ron". Sì, conosceva Ron, forse meglio di chiunque altro, e una delle cose che sapeva bene era che quando Ron si metteva a bere, si sentiva male prima ancora di ubriacarsi del tutto. Questo lo faceva tornare immediatamente sobrio. Se non era molto forte di testa, Ron era ancora più debole di stomaco. «Mi è sembrato terribilmente contrito» riprese Dorothy «mi ha chiesto scusa per il male che mi aveva fatto e ha detto che avrebbe rimesso le cose a posto, che voleva pagare tutti i suoi debiti. Mi pare che abbia detto proprio così. Mi ha chiesto di Barbara, e gli ho risposto che non aveva il diritto nemmeno di chiedere sue notizie. Che a Barbara era stato detto che suo padre era morto.» «Non ti sembra di essere stata un po' crudele, Dorothy?» Sorrise: «Tu credi? Ho pensato che visto che voleva pagare i suoi debiti, io avrei potuto riscuoterne uno mio. Per tutte le volte che stavo tanto male da non poter nemmeno muovermi e lui se ne andava a pranzi e ricevimenti. Era quell'anno in cui ho avuto guai con il fegato; i medici dicono che ancora non mi sono rimessa. Non più di una settimana fa ho dovuto sottopormi a un altro esame: ancora iniezioni! Mi sembra di essere diventata un puntaspilli. Per quello che servono, poi. Ormai non mi resta molto da vivere. I medici lo sanno, ma si rifiutano di ammetterlo.» «Dorothy.» La voce dura, quasi sprezzante, per qualche istante la fece ammutolire. Lo guardò a bocca aperta, come se Harry le avesse ordinato di stare zitta. Ma non rimase zitta per molto: lei era abituata a dare ordini, non a riceverli. «Lo so che pensi che io mi stia autocommiserando, che non dovrei parlare così delle mie malattie. Ma di che cos'altro potrei parlare? Che cosa succede a me, chiusa in questa orribile casa con una vecchia e due infermiere incompetenti che non sanno neanche misurarmi la febbre? È normale, non fanno che dirmi, quando io so perfettamente di avere la febbre e mi sento bruciare il viso. E stanno attente, sai, a non lasciare il termometro in giro, perché non possa misurarmela da sola!» Harry rimase turbato notando il cambiamento avvenuto in Dorothy: all'egocentrismo e all'ipocondria che aveva sempre avuto adesso si era aggiunta anche una mania di persecuzione. La principessa non stava più a
crogiolarsi nella sua torre d'avorio: adesso era prigioniera in un'orribile casa, in balia di una vecchia e di due infermiere incompetenti che le mentivano e nascondevano il termometro. Continuava a parlare sempre più in fretta e Harry ebbe l'impressione che non sarebbe riuscita a fermarsi se qualcuno non l'avesse aiutata. Si chiese come avrebbe potuto distrarla dai suoi problemi senza irritarla e ridurla sull'orlo di una crisi isterica o di uno svenimento, piccoli trucchi a cui Dorothy ricorreva abitualmente. «Ron è scomparso la notte scorsa» disse improvvisamente. Dorothy tacque nel bel mezzo di una frase e lasciò ricadere le mani in grembo. «Perché non me l'hai detto prima?» «Ci ho provato.» «Scomparso? Può significare qualsiasi cosa.» «Nel caso particolare significa che non si è presentato a un appuntamento, un appuntamento a cui teneva molto, e da quel momento in poi nessuno ha più saputo niente di lui.» «Neanche... quella donna?» «Il suo nome è Esther» rispose Harry visibilmente irritato. «Non c'è bisogno che tu ti arrabbi; ho già abbastanza guai...» «Esther non ne sa niente.» La risposta parve divertirla. «Bene, bene; molto interessante. Hai una sigaretta, Harry?» «Credevo che tu...» «Posso fumare, se voglio; e adesso ne ho voglia.» Le offrì una sigaretta e gliela accese. Dorothy osservò sorridendo il fumo che le usciva dalle labbra. «Molto interessante» ripeté «non ti ricorda niente?» «No.» «Al telefono mi ha detto che si accingeva a fare un viaggio; ebbene, l'ha fatto davvero e ha lasciato lei a casa.» «Che cosa vuoi dire?» «Ha piantato lei esattamente come ha piantato me.» Per la prima volta da quando Harry l'aveva conosciuta, Dorothy aveva un aspetto soddisfatto. Lo sguardo era sereno e anche le pieghe amare ai lati della bocca si erano distese. Quando riprese a parlare la voce era sognante. «Mi chiedo come si senta "lei" adesso. Com'è buffa la vita qualche volta:
una burla gigantesca. Allora sono stata io il bersaglio, oggi tocca a lei.» «Dorothy, questo non...» «Chi è l'altra donna questa volta?» «Non c'è un'altra donna» rispose Harry bruscamente. «Come fai a esserne sicuro?» «Ne sono sicuro come si può essere sicuri di qualsiasi altra cosa. A questo mondo non ci sono garanzie scritte. Ma ho occhi e orecchie per formarmi un'opinione.» «Dimmi una cosa, Harry: quando Ron ha cominciato a interessarsi di quella donna, Esther, ne ha parlato con te? Ti ha fatto le sue confidenze?» «No.» Era una bugia, ma se le avesse detto la verità avrebbe distrutto quel filo di amicizia che li legava. Harry era stato il primo a sapere di Esther: "Ho incontrato una ragazza la notte scorsa, è molto carina e incredibilmente sveglia. Lo so che mi sto comportando in modo indegno, ma ho voglia di rivederla. Che cosa dovrei fare?". E Harry gli aveva suggerito quello che il buon senso suggeriva a lui: "Hai moglie e figlia, non prendere decisioni affrettate, cerca di dimenticarla". Ron si era sinceramente dichiarato d'accordo con tutto quello che Harry gli aveva detto, e altrettanto sinceramente il giorno dopo aveva telefonato a Esther, l'aveva invitata a colazione e si era innamorato di lei. «Vedi?» stava intanto dicendo Dorothy «se Ron non ti aveva parlato di Esther, perché adesso avrebbe dovuto parlarti dell'altra donna?» «Non esiste un'altra donna.» «Aspetta e vedrai.» «Non c'è altro da fare.» «So che cosa farò io. Vuoi che te lo dica?» «Va bene.» «Lancerò la polizia contro di lui, e quando lo acciufferanno lo farò pagare, pagare e pagare.» "Scommetto che lo farebbe" pensò Harry; si sentiva troppo debole per continuare a discutere. Dorothy al contrario sembrava più vivace e più allegra che mai, come se i guai degli altri la facessero rifiorire. Questa per lei era una festa: Ron sparito, Esther abbandonata e Harry addolorato. Guardò Harry avidamente, sperando che avesse ancora qualche particolare da raccontarle. «Povera Esther. Immagino che abbia preso molto male questa storia.
Be', è la vita. Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Resti per il tè, naturalmente.» «No, devo andare; grazie lo stesso.» «Che peccato; è stato un piacere chiacchierare con te. Sei un tonico per me, Harry: mi sento meglio di quanto non mi sia sentita da settimane. Vorrei proprio che tu potessi trattenerti.» «Mi dispiace, ma devo andare a casa.» «A casa, naturalmente. Dimentico sempre che ora sei sposato. Temo di aver dimenticato anche le buone maniere: come sta tua moglie?» «Thelma sta bene, grazie.» «Thelma, che nome grazioso! Le si addice proprio. A proposito, ho dimenticato di riferirti un'altra cosa che Ron mi ha detto al telefono. Io non ho capito bene, ma forse per te sarà chiara.» «Proviamo.» «Aveva l'impressione di averti fatto del male. Vediamo se mi ricordo le parole esatte: "Ho fatto qualcosa di terribile al povero Harry e me ne rammarico. Voglio che sappia che mi dispiace". Sai di che cosa parlasse?» «No.» «Avrai pure un'idea.» «Nessuna.» Harry si alzò; era esausto e aveva l'impressione che se si fosse mosso sarebbe andato a pezzi. «Non so di che cosa parlasse.» «È piuttosto strano, non ti pare?» «Sì, strano.» «Ma non voglio trattenerti con le mie chiacchiere.» Gli tese la mano e Harry la prese leggermente nelle sue, ma questa volta avrebbe voluto stringergliela forte fino a spezzarle le ossa. «C'è qualcosa che non va, Harry? Sei così pallido.» «Va tutto bene.» «Salutami Thelma. Sei un uomo fortunato: tua moglie è una donna deliziosa.» «Per favore, saluta tua madre per me.» «Certamente. È stato carino da parte tua venire qui, Harry. Dobbiamo vederci più spesso.» Harry uscì nel corridoio lasciando la porta della camera di Dorothy aperta come l'aveva trovata. Avrebbe dovuto chiuderla: mentre scendeva le scale, infatti, gli parve di sentirla ridacchiare; si augurò che si strozzasse. 11
Marian Robinson era rimasta nubile fino ai trent'anni per libera scelta. Adesso che ne aveva già compiuto quaranta non si trattava più di una scelta. La reazione di Marian a questa amara realtà era stata tipica: aveva cominciato a odiare gli uomini, tutti gli uomini, con uno zelo quasi religioso. Ritagliava persino dai giornali gli articoli in cui si parlava di uomini che erano assassini, imbroglioni, sequestratori, che picchiavano le mogli, che erano crudeli con gli animali o che comunque commettevano qualche azione secondo lei riprovevole. Si mostrò perciò particolarmente ben disposta quando sua cugina Thelma le telefonò per chiederle se poteva andare a stare con lei per qualche tempo. Per Marian questo poteva significare soltanto una cosa: che la povera Thelma si era finalmente accorta di avere sposato un bruto, un libertino, o per lo meno un alcolizzato, e che ora aveva bisogno di un rifugio. L'appartamento era piccolo, lo spazio negli armadi minimo e la biancheria di casa del tutto insufficiente, ma Marian era disposta a fare qualunque sacrificio per una buona causa, come lo scioglimento di un matrimonio. Quando, poco dopo il suo arrivo, Thelma mise bene in chiaro che Harry non era affatto un bruto e neanche un alcolizzato, Marian inghiottì il disappunto insieme a un paio di aspirine e a una tazza di tè bollente. Thelma non aveva creduto opportuno mettere Marian al corrente delle sue attuali condizioni, né del modo poco ortodosso con cui ci era arrivata; si era limitata a dirle che lei e Harry avevano avuto una discussione. Le due donne avevano fatto una cena leggera in cucina e ora Marian stava lavando i piatti mentre Thelma li asciugava quando suonò il campanello dell'ingresso. «Io non aspetto nessuno, e tu?» chiese Marian. Thelma scosse il capo. «Pensi che possa essere tuo marito? Mi sembra di avergli fatto capire abbastanza chiaramente al telefono che per quanto lo riguarda tu non esisti più. Be', ora andrò a dirgli quello che penso di lui» aggiunse strofinandosi le mani nel grembiule. «No, no, Marian, vado io. Tu resta seduta e beviti un'altra tazza di tè; ti farà bene.» «Non preoccuparti per me» rispose Marian vivacemente «è di te che devi preoccuparti: sembri uno spettro.» «Sono in grado di cavarmela; tu aspetta qui.» Marian non avrebbe mai ammesso apertamente che, tanto per cambiare,
le faceva piacere sentirsi dire quello che doveva fare. Nella compagnia di assicurazioni dove lavorava ormai da ventitré anni, era lei che dava gli ordini; non sempre era facile, ma andava fatto. Era a capo di dodici ragazze e sapeva bene che nessuna di loro la poteva soffrire; le più giovani si prendevano gioco di lei e la chiamavano "Il vecchio dragone". Le altre si auguravano solo che un giorno cadesse e si rompesse una gamba. Marian sapeva anche che senza di lei l'ufficio sarebbe andato a rotoli, perciò stava molto attenta a non cadere e continuava a dare ordini anche quando non la rendevano popolare. In passato Marian non aveva mai prestato molta attenzione a Thelma, ma adesso si accorgeva di quanto fosse diversa dalle ragazze dell'ufficio: non era una sciocca e niente affatto timida, solo dolce in modo femminile. Marian si versò la terza tazza di tè e sedette al tavolo della cucina per godersela. Non aveva nessuna intenzione di origliare, ma era incredibile come, in quel piccolo appartamento, le voci passavano facilmente da una stanza all'altra. Quando Thelma aprì la porta, Harry non aspettò che l'invitasse a entrare. Si precipitò dentro come uno zelante viaggiatore di commercio e rimase con le spalle contro la porta chiusa con un puerile sguardo di sfida. Era così buffo che a Thelma venne voglia di ridere, ma sapeva che se avesse riso, poi si sarebbe probabilmente messa a piangere. Il riso e il pianto per lei erano legati indissolubilmente. «Non saresti dovuto venire qui» disse sottovoce. «Dovevo farlo.» «Ti avevo detto di aspettare. Io non... non mi sento pronta a discutere con te in modo ragionevole.» «Okay, sii irragionevole.» «Harry, non scherzare.» «Mi sembra che stia scherzando tu» ribatté Harry con un sorriso per mitigare il rimprovero. «Messaggi misteriosi, accenni, presentimenti. Io sono un uomo semplice, non capisco i messaggi misteriosi e in tutta la mia vita non ho mai avuto un presentimento. Che cosa sta succedendo, Thelma?» Invece di rispondere, Thelma si rifugiò all'altra estremità della stanza, come se temesse un eccesso di intimità o di rabbia. Le sembrava più facile affrontare Harry dopo aver messo tra di loro il divano verde di Marian. «Non siamo più ragazzini, Thelma» riprese Harry alzando la voce per superare la distanza «siamo due persone sposate. Abbiamo affrontato in-
sieme tanti momenti difficili. Se c'è qualche cosa che ti turba in questo momento, voglio dividerla con te.» «Non è possibile.» «Perché no?» «Devo dividerlo... con qualcun altro.» «Con Marian?» «Marian?» Si mise a ridere e quasi immediatamente si accorse che gli occhi le si riempivano di lacrime. Harry si voltò contro la parete per darle il tempo di ricomporsi. «D'accordo, non si tratta di Marian; chi allora?» «Ti avevo detto di non venire; di non costringermi a parlare prima che fossi pronta, prima che sapessi.» «Ma che cosa devi sapere?» «Che cosa è successo a Ron. Non posso, non posso parlare prima di sapere dov'è Ron.» «Che cosa c'entra Ron?» Il viso le si contrasse come un foglio di carta velina spiegazzata. «Oh, Signore! Ti avevo pregato... perché sei venuto? Perché non mi lasci in pace? Perché Ralph non ti ha detto niente?» «Che cosa avrebbe dovuto dirmi?» Ma Thelma continuava a gemere. «Oh, Signore» ripeteva, coprendosi il viso con le mani. Harry aspettò, osservandola in silenzio, e per la prima volta si accorse del leggero gonfiore del suo ventre. "Ho capito" pensò. "Non c'è bisogno che mi dica niente. Ora so." Quello che aveva detto Ralph, i sospetti di Esther, le insinuazioni di Dorothy, tutto serviva a spiegare quella piccola sporgenza del ventre di Thelma. «Aspetti un bambino» disse infine. «È di Ron?» «Sì.» «Da quanto... da quanto tempo sei in attesa?» «Tre mesi e mezzo.» «E Ron lo sa?» «Gliel'ho detto. L'ultima sera.» Si appoggiò alla porta, fissando le rose del tappeto di Marian che improvvisamente gli parvero delle facce corrucciate di bambini. «Che cosa intende fare Ron?» «La cosa giusta, naturalmente.»
«Dopo tante cose sbagliate che ha fatto, credi che sarà facile per lui fare la cosa giusta?» «Non c'è bisogno di fare del sarcasmo, non serve a niente. Ci ho pensato a lungo e so che non sarà facile, ma Ron e io chiederemo il divorzio e poi ci sposeremo.» «Prima di allora il bambino che nascerà sarà un bastardo.» La parola la colpì in pieno come una mazzata: vacillò, ma non c'era posto per cadere nella piccola stanza. «Thelma!» Si mosse per sorreggerla, ma con un gesto della mano lei lo fermò: «No, sto bene.» «Lascia che ti aiuti.» «No.» Si aggrappò allo schienale del divano e si raddrizzò, assumendo un'espressione dignitosa. «Non usare quella parola. Non usare mai più quella parola per mio figlio.» Harry la guardava pensando: "Ha già organizzato tutto; due divorzi, un matrimonio, persino il sesso del bambino". Sarebbero state dette un mucchio di parole che non le sarebbero piaciute, per quel bambino; era meglio che cominciasse ad abituarcisi fin da ora. «Non me ne importa niente di quello che dicono gli altri di me.» «Sì che ti importa; cerca di affrontare la realtà.» «Sto facendolo, questa è la realtà.» Premette la mano sul ventre. «Questo bambino è la mia realtà. Ho sempre desiderato avere un figlio e ora ne ho uno che sta crescendo dentro di me.» «La realtà non è costituita da un solo fatto, ma da migliaia, milioni di piccoli fatti.» «Tu mi hai negato un figlio, Harry, hai detto che ero troppo vecchia per averne uno, avevi paura che mi succedesse qualche cosa e che mi avresti perduto. Ma io volevo un bambino più di ogni altra cosa al mondo e vedevo gli anni che mi sfuggivano tra le dita come sabbia; diventavo vecchia e mi sentivo già morta dentro, inutile. Non parlarmi della realtà, Harry. Non mi importa niente di quello che potrà succedermi, non sono pentita; non voglio esserlo. Ora ho mio figlio che mi terrà viva.» Sembrava che stesse recitando un discorso provato per giorni davanti allo specchio, in modo da essere pronta quando l'occasione si fosse presentata. «Avevi organizzato tutto fin dal principio?»
«Questo non è vero.» «Per dirla brutalmente, l'hai accalappiato.» Lo guardò con disprezzo. «Credi pure quello che vuoi; ormai è troppo tardi per cambiare.» «Ma perché? Perché proprio Ron, il mio migliore amico, un uomo con moglie e figli? In nome del cielo, ma non ti sei fermata un momento a riflettere? Non potevi parlarmene, dirmi quali erano i tuoi sentimenti?» «Ho cercato, ma tu non mi ascoltavi; tu sentivi solo quello che volevi sentire. Per te tutto era idilliaco: avevi una casa, una moglie che se ne occupava, l'orario dei pasti era regolare e i tuoi abiti in ordine.» «Io ero soddisfatto perché avevo te. Non avevo bisogno di niente e di nessuno perché ti amavo, e ti amo ancora. Oh, Dio, Thelma! Non possiamo dimenticare questo incubo e far tornare tutto come prima?» «Io non voglio che tutto torni come prima, neanche se fosse possibile. Forse mi sono messa in un guaio, ma almeno sono viva; ho un futuro e un bambino che lo dividerà con me. E Ron» la voce le tremò come se di quest'ultimo fosse meno sicura, ma subito aggiunse: «Ron, naturalmente.» «Naturalmente.» «Lo so a cosa stai pensando; a quello strano presentimento che avevo che fosse morto. Ma non è vero. La colpa è della signora Malverson che mi ha turbato con i suoi discorsi sui messaggi dall'aldilà. Sciocchezze: lo so che non è morto, so anche dov'è.» «E dov'è?» «Non lo so con precisione; so che si sta nascondendo da qualche parte perché è spaventato. Probabilmente ha paura di Esther; è chiaro che lei farà il diavolo a quattro su questa storia, ma bisogna che Ron l'affronti. So già che creerà delle grane; Esther è il tipo che fa così.» «Dimmi chi non lo farebbe in queste circostanze.» «Esther è un tipo speciale: così decisa... Be', anch'io sono decisa: pianti pure tutte le grane che vuole, tanto Ron e io non resteremo a vivere qui, comunque. Quando tutto sarà finito andremo in California. Io non ci sono mai stata, ma dicono che i bambini allevati in California sono i più sani e robusti del mondo.» Dal mutamento del suo tono di voce, Harry capì che Thelma si era messa a sognare, che in quel momento si trovava su un treno diretto verso la California. Niente poteva fermare quel treno: se ci avesse provato sarebbe stato stritolato. Harry lo sapeva per esperienza. Si piantò davanti al treno con l'audacia di chi non ha niente da perdere.
«Basta, Thelma, smettila!» «Perché dovrei farlo?» «Non sognare come sarà la tua vita tra un anno, quando ancora devi affrontare la realtà di questa sera, di domani, della prossima settimana.» «Ce la farò, Harry, non preoccuparti per me. Arrabbiati se vuoi, insultami, ma ti prego di non preoccuparti per me.» «Non posso concedermi il lusso di arrabbiarmi, potrei farti male.» Dalla cucina si udì il rumore di un piatto che andava in pezzi. «Mio Dio, Marian! Mi ero dimenticata di lei.» Come se non avesse aspettato altro che la sua battuta, Marian si precipitò nella stanza come un montone infuriato. Non guardò neppure Harry, come se non esistesse. «Brutta piccola sporcacciona!» gridò rivolta a Thelma. «Prendi la tua roba e vattene da qui.» Thelma la guardò, pallida ma dignitosa, come se avesse visto il suo bel sogno californiano infrangersi contro le asperità del presente: «Stai sempre ad ascoltare i discorsi dei tuoi ospiti, Marian?» «Origliare è una cosa, fare becco il marito un'altra. E non ho intenzione di tollerare le tue insolenze, è chiaro?» «Chiarissimo. Mi sembra di sentire zia May.» «Non mescolare il suo nome con questa storia. Noi siamo una famiglia rispettabile e tu hai buttato fango sul nostro buon nome. Non voglio avere più niente a che fare con te. Puoi anche andare a battere i marciapiedi, se credi.» «Può darsi che lo faccia, e se avrò dei clienti in soprannumero, te ne manderò qualcuno. L'esperienza non potrà farti che bene.» «Ah brutta... sporca...» «Basta!» ordinò Harry. «Piantatela tutte e due. Thelma, vai a preparare la tua roba, e tu Marian, siediti.» Thelma sparì immediatamente, ma Marian si piantò davanti a Harry con le mani sui fianchi prosperosi e gridò: «Non prendo ordini dagli uomini, io, e non ho nessuna intenzione di sedermi.» «Per quello che mi riguarda puoi anche stare a testa in giù e gambe in su, ma smettila di gridare come una pescivendola. Ci sono dei vicini qui attorno, e hanno tutti le orecchie.» «Mi ha insultata, l'hai sentita anche tu, mi ha insultata!» «Ma tu l'hai insultata per prima.» «Se lo meritava. Dopo quello che ti ha fatto come puoi prendere ancora
le sue difese?» «È mia moglie.» «Moglie! Una bella parola, ma senza significato. Ti ha usato, ti ha tradito, ti ha fatto fare la figura dello stupido, e adesso voleva fare la stessa cosa con me! Mi aveva conquistato con quel sorriso dolce e le sue parole carezzevoli: "Siediti, Marian, prendi una tazza di tè, ti farà bene". Come se gliene importasse un accidente. Bugie, bugie; queste acque chete sono le peggiori. Ci sono già cascata una volta, avrei dovuto imparare la lezione.» La voce si spezzò e il viso le si coprì di macchie rosse. Guardandola, Harry si rese conto che più che arrabbiata, Marian era delusa. Aveva accarezzato l'idea di avere per qualche tempo Thelma con sé per alleviare la solitudine e mettere nella propria vita una nota di allegria. La visita di Thelma sarebbe stata una trasfusione di vitalità. E invece la trasfusione era cessata prima ancora di cominciare. Era stata proprio Marian a interrompere il flusso: non poteva accettare il sangue di una sgualdrinella, preferiva morire. «Le ragazze in ufficio sono forse delle stupidelle, maliziose qualche volta, ma nessuna è come lei, nessuna si è cacciata in un guaio simile.» Senza convinzione, Harry ribatté: «Thelma non è una cattiva ragazza: ha commesso un errore.» «Quando le persone commettono un errore, se ne dispiacciono, non ne sono fiere come lei. Io non vado in giro vantandomi del viaggio in California che farò. Anche a me piacerebbe andarci; sono anni che lo sogno, ma puoi scommettere che troverò un sistema più rispettabile del suo per arrivarci.» «Ne sono convinto.» L'ironia nel tono della risposta lasciava intendere che secondo lui Marian non aveva altra scelta. «Quest'uomo, questo Ron, chi è?» «Temo che queste siano faccende che non ti riguardano.» «Notizie come queste volano; stai tranquillo che lo scoprirò.» «Sono convinto anche di questo» rispose Harry. Marian non sarebbe stata la sola a scoprirlo. Quando la notizia della sparizione di Ron avrebbe raggiunto le prime pagine dei giornali, tutto il paese l'avrebbe saputo, e a Thelma sarebbe toccato affrontare termini assai più brutali di "bastardo" o "sgualdrina". Harry si chiese stancamente se qualcuno avrebbe osato stampare la parola "cornuto". Thelma ricomparve con indosso il cappotto blu che si era fatta per Pasqua e in mano la valigia di cuoio, regalo di nozze di Ralph e Nancy Ture-
e. Ignorò Marian, che in un angolo la guardava, pronta per il secondo round, e rivolta a Harry disse: «Possiamo andare.» «Sono felice che tu te ne vada» disse Marian. «Anch'io.» «Andiamo, Thelma» la interruppe bruscamente Harry «ti porto a casa.» «Non voglio venire a casa. Puoi lasciarmi in un albergo.» «La casa è tua e tu ne hai più bisogno di me. Non ti darò nessuna noia.» «Vorrei che tu la piantassi di comportarti in modo così nobile. Non riesco a sopportarlo.» «Non sono nobile, ma sarò più tranquillo sapendo che hai cura di te. Io... posso sistemarmi da tutte le parti. Da Ralph, o Billy o Joe Hepburn. Sono abituato a dormire sui divani. Tu invece no, e adesso devi avere cura di te più del solito.» Thelma si mordeva un labbro, indecisa tra il salvataggio del suo orgoglio e il benessere del bambino. «Non ti darò nessun fastidio» ripeté Harry «ti accompagnerò a casa e metterò in valigia le cose che mi sono necessarie.» «D'accordo.» La voce le uscì stridula dalla gola secca. «Grazie, Harry.» Harry prese la valigia e la seguì sul pianerottolo. Avrebbe voluto dirle qualcosa di carino prima di lasciarla, ma Thelma gli aveva voltato le spalle e camminava a piccoli passi veloci. Era come se avesse chiuso una cassaforte di cui Harry non conosceva la combinazione. Fuori aveva cominciato a cadere una leggera e insistente pioggia primaverile, ma i due parvero non accorgersene. Camminavano in silenzio, consci solo di quello che stava accadendo dentro di loro. «Harry?» «Sì?» «Dove andrai ad abitare? Caso mai succedesse qualche cosa e avessi bisogno di mettermi in contatto con te...» «Non so, non ho ancora deciso. Con Ralph e Nancy, forse.» «Ma hanno quattro bambini.» «Lo so, mi piacciono i bambini...» 12 Un'epidemia di morbillo aveva costretto a due settimane di chiusura l'asilo privato frequentato dai piccoli Galloway. Uno dei modi che Esther a-
veva escogitato per mantenerli occupati e, con un po' di fortuna, fuori dai guai, era stato di assegnare loro delle piccole incombenze che di solito venivano sbrigate dagli adulti. L'incombenza più ambita dai bambini, perché concedeva loro un'insolita libertà, era di andare a ritirare la posta. Erano autorizzati ad andare da soli, scortati solo da Petey, il bassotto, fino in fondo al viale d'ingresso, e aspettare al cancello che passasse il postino. Quando l'uomo porgeva loro la posta, i piccoli ritenevano che si trattasse di un dono e quindi ogni giorno gli portavano a loro volta un regalo: talora si trattava di un biscotto rubato alla signora Browning, la governante, altre era un disegno eseguito da Marvin, o la sorpresa trovata nella scatola dei biscotti. Quel lunedì avevano un dono speciale per il postino: il primo lombrico che avevano trovato quella primavera. Un esemplare piuttosto stiracchiato e rinsecchito per la lunga permanenza nella tasca della maglietta di Greg. Quel mattino il postino era in ritardo, così che i bambini, arrivati in anticipo, ebbero tutto il tempo di esercitarsi nelle solite discussioni su chi avrebbe dovuto consegnare il dono, chi avrebbe riportato a casa la posta e chi doveva occupare il posto d'onore in cima alla cancellata. Ma quella mattina i piccoli sembravano risentire dell'insolita tensione che regnava in casa. Nessuno aveva parlato loro della misteriosa sparizione del padre, né avevano motivo di capire la strana preoccupazione della mamma, il nervosismo della governante, l'improvviso mutismo della bambinaia o l'insolita indulgenza del vecchio Rudolph, il giardiniere. Rudolph, che viveva in un appartamentino sopra il garage, era la presenza maschile più di frequente a contatto con i bambini. Quando lo videro riempire senza protestare le buche che il bassotto aveva scavato nell'aiuola delle rose, capirono che doveva esserci qualche cosa che non andava. La loro reazione fu istintiva: invece di continuare a litigare tra di loro per ottenere un posto privilegiato in famiglia, si allearono contro l'intero mondo degli adulti. Si arrampicarono sulla cancellata facendo le linguacce a tutti coloro che abitavano nella loro casa. «Io sono il re del castello» cantilenò Greg ed elencò tutte le persone che erano invece i malvagi nel castello. Marvin avrebbe voluto annoverare tra i cattivi anche papà, ma Greg gli ricordò bruscamente che papà aveva promesso di portare loro in dono un nuovo cagnolino quando fosse tornato. «Ma se se ne dimentica, sarà anche lui uno dei cattivi. Perché non ce lo mettiamo subito?» «Non se lo dimenticherà; vedrai che ci porterà qualche cosa: lo fa sem-
pre.» «E se portasse un gatto? Non mi dispiacerebbe un gattino.» «Petey non lo vorrebbe: lui odia i gatti. È un vero divoratore di gatti.» Petey, che non aveva mai visto un gatto in vita sua, accolse questo immeritato apprezzamento abbaiando gioiosamente. Ormai il problema era risolto: se papà avesse portato per errore un gatto, l'avrebbero dato al vecchio Rudolph che l'avrebbe scambiato con un cane. Fino al giorno prima qualsiasi cane avrebbe fatto la loro felicità, ma ora, al pensiero che un cane grosso avrebbe infastidito gli adulti, decisero che avrebbero voluto un San Bernardo. «Potremmo insegnargli a mordere Annie» suggerì Greg. «Quando lei vuole mandarci a letto, noi gli diciamo: "Dai, mordila!" e lui, boiing, la morde e poi, boiing, morde la signora Browning, boiing, boiing, e morde tutti!» «Meno noi.» «Meno noi.» Scoppiarono a ridere eccitati e Petey si unì alla loro gioia, mettendosi ad abbaiare allegramente. Quando finalmente arrivò il postino erano talmente eccitati che Marvin era rosso come un pomodoro e a Greg era venuto il singhiozzo, come gli capitava sempre quando rideva troppo. «Ehi, signor postino, signor postino!» «Ciao bambini» rispose l'uomo sorridendo «come mai non siete a scuola stamattina?» «Morbillo!» «Non dovreste essere qui, se avete il morbillo.» «Ma noi non abbiamo il morbillo! Sono gli altri bambini che ce l'hanno.» «Ma guarda un po'. Quando io ero piccolo non mi capitava mai una simile fortuna. Avrebbe potuto esserci la peste in città, ma le scuole restavano sempre aperte. Ecco come ho avuto un'istruzione: me l'hanno imposta. Io non la volevo» aggiunse posando per terra il pesante sacco della posta. «Che cos'è la peste?» chiese Greg arrampicandosi sul cancello. «Come il morbillo, ma più grave.» «C'è qualcosa per noi nel suo sacco?» «Certamente.» «Anche noi abbiamo una cosa per lei.» «Ma guarda, ma guarda!»
«Indovini che cos'è.» «Io dico che è un biscotto.» «No.» «Una mela?» «No, non è una cosa che si mangia. Almeno, le persone non la mangiano.» «E che cosa ne fa una persona?» «La tiene come cucciolo di casa.» «Va bene, mi arrendo. Che cos'è?» «Lascia che glielo dica io» urlò Marv. «È un lombrico!» Il postino si tolse il berretto e si grattò il cranio. «Un lombrico? Fate un po' vedere.» Il povero lombrico, ormai moribondo, venne estratto dal taschino di Greg e depositato con cura sul palmo del postino. «Ma guarda quant'è carino! E pensare che nessuno prima d'ora mi aveva regalato un lombrico.» «Avrà cura di lui, vero?» chiese Greg ansiosamente. «Potete scommetterci! Lo metterò nel mio giardino dove troverà degli altri lombrichi con cui giocare. Non c'è niente di peggio di un lombrico solo e triste.» «Come fa a sapere che troverà altri lombrichi simpatici con cui giocare?» «I lombrichi sono di buon carattere.» Il postino aprì il sacco e distribuì il più imparzialmente possibile la posta tra i due ragazzi. «E adesso devo proprio andare.» «Un giorno ci lascia venire con lei e portare il sacco della posta?» «Un giorno lo faremo certamente. Ciao bambini, arrivederci.» Rimasero a guardarlo fino a che non lo videro sparire dietro l'angolo, poi si avviarono verso casa. Di solito affrettavano il passo, perché portare la posta li faceva sentire molto importanti, ma quel giorno si avviarono trascinando i piedi e voltandosi indietro più volte, nella speranza che il postino fosse tornato e avesse deciso di portarli con sé nel suo giro. La madre li aspettava sulla porta di casa: «Quanta posta! Dev'essere molto pesante!» Se volessi potrei portare tutto il sacco «rispose Greg.» Il postino ha detto che uno di questi giorni me lo farà fare. «Ha detto che lo faremo tutti e due» protestò immediatamente Marv. «Sono sicura che sarà molto divertente» rispose Esther distrattamente, sfogliando la posta: i conti da pagare da una parte, gli opuscoli pubblicitari
dall'altra. C'era una sola lettera. Esther rimase immobile a fissare la calligrafia sulla busta, poi, con voce calma e fredda, disse: «Bambini, è meglio che andiate da Annie.» Avevano paura di quella voce, ma non l'avrebbero mai ammesso: «Detesto Annie» urlò Marv «non voglio...» «Fai quello che ti ho detto, Marv.» «No, non voglio, non la voglio più vedere.» «Anch'io non la voglio più vedere» urlò Greg «insegneremo al nuovo cane a morderla. Boiing!» «Boiing, boiing! Tutti morsi.» «Oh Dio!» gemette Esther e si precipitò in biblioteca. La fuga improvvisa della mamma e il colpo secco della porta della biblioteca che si richiudeva alle sue spalle per un momento lasciarono i due fratelli perplessi. «Boiing!» ripeté incerto Marv. «Piantala» lo zittì il fratello «sei proprio un marmocchio.» Marv cominciò a piangere: «Voglio la mamma! Voglio la mia mammina!» La lettera, indirizzata a Esther e spedita da Collingwood, era scritta con la grafia di Ron. Aveva capito subito che conteneva cattive notizie e si era preparata ad affrontare il peggio: che intendeva abbandonarla per un'altra donna. Ma aveva solo parzialmente ragione: Cara Esther, ormai saprai già che cosa è successo: Thelma è incinta di un figlio mio. Non voglio tentare di scusarmi o di darti delle spiegazioni. È successo, non so dire altro. Non sapevo niente del bambino fino a questa sera. È stata una terribile sorpresa, troppo terribile perché possa affrontarla. Mio Dio! Che cosa ho fatto a te e a Harry! Non chiedo il tuo perdono, ma ti prometto che non farò mai più male né a te né a nessun altro. Non sono fatto per questa vita: sono malato nella mente, nel corpo e nell'anima. Che il cielo mi assista. Ron Esther non svenne, non urlò, non pianse. Rimase immobile come una
pietra: solo gli occhi si muovevano leggendo e rileggendo le parole della lettera. Non si accorse neppure che qualcuno aveva aperto la porta e quando alzò gli occhi ebbe difficoltà a mettere a fuoco Annie. «Signora Galloway?» «Per favore, non voglio essere disturbata, non adesso.» «Non so più cosa fare con i bambini; sembrano impazziti: ridono, urlano, si agitano. Marvin mi ha morso» aggiunse mostrando il polso ferito. «Ho paura che gli stia venendo la febbre. Crede che sia meglio chiamare il dottore?» «Sì.» «Ha l'aria di non stare molto bene nemmeno lei, signora. Posso fare qualche cosa per lei?» «Sì, chiami la polizia.» «La polizia?» «Ho ricevuto una lettera. Di mio marito. Credo che si sia ucciso.» Marvin entrò di corsa nella stanza gridando: «Boiing! Boiing! Boiing!» Esther con un singhiozzo lo sollevò e lo strinse forte tra le braccia. Troppo forte. E Marvin fece l'unica cosa che in quel momento gli sembrò logica: la morsicò. 13 Mentre i due piccoli Galloway erano in attesa del postino a Toronto, Aggie Schantz stava raggiungendo la piccola scuola di campagna nei pressi di Meaford. Durante l'inverno, quando lasciare la strada maestra sarebbe stato una follia a causa della neve, Aggie seguiva la strada più breve e più diretta. Ma adesso era primavera e la neve era rimasta soltanto nei tronchi vuoti degli alberi, fra le rocce e lungo le palizzate inclinate dal peso del lungo inverno. Aggie era una tranquilla ragazzina di undici anni che si comportava decentemente a scuola ed era obbediente in famiglia. Nessuno avrebbe mai sospettato che spirito avventuroso si nascondeva sotto le sue trecce castane e il suo cappuccio nero, e che piedini irrequieti erano rinchiusi nelle soprascarpe di tela cerata. Aggie proveniva da una famiglia di menoniti che aveva rari contatti con il mondo esterno e i cui unici spostamenti, su un carrettino tirato da un cavallo, erano quelli da casa alla chiesa o da una fattoria all'altra. Aggie sognava un mondo più vasto; talvolta, quando a scuola
la maestra mostrava una carta geografica, la ragazzina si sentiva girare la testa al pensiero di tutti i posti che avrebbe voluto visitare. Erano tutti posti speciali: le montagne più alte, gli oceani più profondi, i paesi più freddi e i deserti più caldi. Aggie aveva la ferma intenzione di visitarli tutti. Mentre i suoi sogni erano pazzi, i piani di fuga erano pieni di buon senso e di intraprendenza. Da saggia ragazzina di campagna, sapeva che i cavalli, come mezzi di trasporto, sono lenti e insoddisfacenti: i cavalli devono essere nutriti, abbeverati e tenuti al riparo. Anche i treni e gli autobus erano fuori dalla sua portata, perché non aveva soldi. E così Aggie aveva deciso per il lago, per le flottiglie di pescherecci e le navi da trasporto, che erano tanto grandi che una piccola clandestina sarebbe passata inosservata. Non riusciva a stare lontana dal lago: teneva gli occhi fissi sulla sua superficie come un naufrago, intirizzito e affamato, scruta l'orizzonte in attesa di qualcuno che lo salvi. Non appena il sole tiepido della primavera aveva cominciato a sciogliere la neve sulle scogliere che circondavano il lago, Aggie aveva abbandonato la strada più breve verso la scuola. Con i libri e la colazione chiusi in una sacca di tela, si arrampicava fino in cima alla scogliera e poi giù, verso la spiaggia, lungo un sentierino ripido usato solo dai cani e dai ragazzini più agili. La spiaggia, da quelle parti, era lunga e stretta, due metri nei punti più larghi, e cosparsa di rocce e massi di tutti i generi. Per non bagnarsi i piedi, era costretta a saltellare da un sasso all'altro, ma questo era piuttosto faticoso, così, alla fine, sedette su una roccia, coprendosi le gambe con la lunga gonna di cotone. Il suo intuito le diceva che se non si fosse sbrigata avrebbe fatto tardi a scuola, e la sua coscienza le suggeriva di muoversi. «Oh, all'inferno!» disse ad alta voce, e il suono di quella parola proibita la inebriò come una bevanda esotica. «Forse ci andrò a finire davvero; dopo tutto è il posto più caldo.» Spaventata e divertita dalla propria audacia, cominciò a ridacchiare tra di sé e voltò la testa da una parte, nascondendola tra le pieghe del cappuccio nero. Fu allora che, con la coda dell'occhio, vide il berretto a quadretti bianchi e rossi che spuntava tra due rocce. Le capitava spesso di trovare qualche cosa tra le pietre, soprattutto durante l'estate. Qualche volta si trattava di un pezzo di copertone, una vecchia scarpa piena d'acqua, una lattina o una bottiglia rotta, ma erano tutte cose senza alcun valore, gettate dai loro proprietari e strapazzate dalle onde. Il berretto invece era asciutto, e a nessuno sarebbe venuto in mente di buttarlo via perché era nuovo di zecca. Aveva una visiera di plastica e un
pon-pon rosso e ad Aggie, che non aveva mai avuto un indumento colorato in vita sua, sembrava una meraviglia. Si tolse il cappuccio nero lasciandolo penzoloni sulla schiena e si mise il berretto a scacchi in testa. Era troppo grande e le calava grottescamente fin sugli occhi e sulle orecchie, ma Aggie non sapeva che non si portava così. E non sentiva nemmeno la mancanza, come capita di solito alle ragazzine della sua età, di uno specchio. Gli specchi erano banditi dalla casa in cui viveva e le uniche volte che le era capitato di vedere la propria immagine riflessa era in una finestra illuminata dal sole o nello stagno dietro la stalla. Non si rendeva conto perciò di avere un'aria comica; sapeva solo che il berretto era bello e che quindi non poteva che stare bene a chiunque lo portasse. Ma, per la sola ragione di essere bello, era anche proibito. Si guardò attorno per accertarsi che nessuno la stesse spiando e, quando fu certa di essere sola, se lo tolse e lo nascose sotto il camiciotto. Con tutti quegli abiti che la infagottavano il berretto si notava appena e sarebbe sfuggito all'attenzione di chiunque se Aggie, un po' per il piacere di possederlo, un po' perché le dava fastidio, non fosse stata così consapevole della sua esistenza. Quando finalmente raggiunse il piccolo edificio in mattoni rossi della scuola, l'ultima campanella era già suonata e gli scolari si stavano mettendo in fila per due per entrare. Rossa e ansante, con le braccia incrociate sul petto, Aggie prese il suo posto in fila e insieme ai compagni entrò nell'aula più piccola. Qui la signorina Barabou insegnava, o cercava di insegnare, alle ultime quattro classi. Nel gruppetto degli alunni il divario era grande, non solo per età e capacità, ma anche per religione e ambiente sociale. Personalmente, la signorina Barabou era una presbiteriana di discendenza francese, ma tra i suoi alunni c'erano degli anglicani, battisti, menoniti, metodisti e persino due dukhobor che venivano dalla provincia di Alberta. Come molti insegnanti, la signorina Barabou sceglieva i suoi favoriti tra i ragazzini più obbedienti. I bambini menoniti erano di solito docili e obbedienti, non mettevano mai in discussione l'autorità degli adulti e non ne criticavano il comportamento. Perciò, sebbene avesse poca stima della religione menonita, la signorina Barabou era soddisfatta dei risultati che otteneva e Aggie era la sua preferita. La posizione di Aggie presentava tuttavia anche degli svantaggi, poiché la signorina Barabou si aspettava molto dai suoi favoriti e spesso si innervosiva molto quando non riusciva a ottenerlo. Dopo che la classe, a capo chino, ebbe mormorato la preghiera del mat-
tino, tutti sedettero nei banchi a due posti e cominciarono a estrarre i libri dalla cartella. La signorina Barabou prese posto in cattedra; era larga e imponente, e sebbene raramente punisse i suoi scolari molti di loro la temevano. «È arrivata la primavera» annunciò come se fosse in parte merito suo. «Nessuno ha visto un pettirosso venendo a scuola?» Alcune mani si alzarono e furono contati sette pettirossi. Boris, un ragazzino dukhobor, affermò di aver visto un'aquila americana, ma la sua affermazione fu respinta perché la cosa era improbabile. «Non ci sono aquile americane in questa parte del paese, Boris. In nessuna stagione.» «Ma io ne ho vista una.» «Davvero? Descrivila, allora.» Boris descrisse l'aquila con tanta dovizia di particolari che la signorina Barabou ne rimase scossa. Ma era anche testarda. «Non ci sono aquile americane in questa parte del paese. E adesso qualcuno vuole segnare i pettirossi sulla nostra tabella? Vuoi farlo tu, Agatha?» Aggie rimase muta e immobile. «Agatha, sto parlando con te; lo sai dove teniamo la tabella degli uccelli?» «Sì, signorina.» «E allora, vuoi per favore annotare sette pettirossi?» «Non posso.» «E come mai?» «Non trovo le mie matite.» «Be', smettila di agitarti e cercale meglio.» «Non posso.» «Che cosa significa: che non puoi smettere di agitarti o che non puoi dare un'altra occhiata?» Aggie non rispose; aveva il viso scarlatto e la lingua impastata. «Agatha, se hai prurito ti consiglio di andare nello spogliatoio e di porvi rimedio» insistette esasperata la signorina Barabou. Intanto pensava: "Che modo assurdo di vestire questi poveri bambini. Non c'è da meravigliarsi se hanno prurito. Deve avere addosso almeno sette strati di indumenti". «Agatha» aggiunse più gentilmente «c'è qualcosa che non va?» «No, signorina.» Fu allora che la signorina Barabou si accorse che sul banco di Aggie non c'era niente. «Dove sono i tuoi libri, Agatha?»
«Io... non lo so.» Il resto della classe aveva cominciato a sussurrare e ad agitarsi. La signorina Barabou ordinò a tutti severamente di cominciare il riassunto del libro di lettura assegnato, poi si avviò tra i banchi per avvicinarsi ad Agatha. Il rumore dei suoi passi pesanti era un monito per tutti. Era sicura che Agatha aveva qualche cosa che non andava: la piccola aveva un colorito strano e tremava tutta. "Che stia per venirle qualche cosa?" si chiese la maestra. "Ci mancherebbe solo un'epidemia, adesso. Oh, be', se così fosse potrebbero chiudere la scuola e farei qualche giorno di vacanza." «Ti senti poco bene, Agatha?» chiese piuttosto allettata all'idea di una vacanza. «Fammi vedere la lingua.» Aggie tirò fuori la lingua e la maestra la studiò con aria professionale: «A me sembra a posto; ti fa male la testa?» «Credo di sì.» «Vediamo un po', l'anno scorso hai avuto il morbillo e la varicella; niente orecchioni?» «No, signorina.» «Be', prova a pensare a un limone.» «Che cosa?» «Fai finta di stare mangiando un limone, o un cetriolino sotto aceto. Riesci a immaginarlo?» «Credo di sì.» «Bene; e adesso non senti una sensazione strana in gola proprio sotto il mento?» «No, signorina.» «Forse non ti concentri abbastanza. Continua a pensare al cetriolo; è molto, molto acido e tu lo stai mangiando. E adesso senti niente?» «No, signorina.» Sylvia Kramer alzò una mano per annunciare che in cartella aveva davvero un cetriolo sottaceto per pranzo, e che sarebbe stata disposta a sacrificarlo per il bene della ricerca. La maestra replicò che non sarebbe stato necessario, e portò Aggie nello spogliatoio per una diagnosi più accurata. «Per caso qualcuno dei tuoi fratelli è ammalato, Agatha?» «Billy ha mal di denti.» «Quello non è contagioso; ma perché continui ad agitarti e a stringerti le mani sul petto?» Aggie scosse la testa.
«Ti fa male lì?» «No, signorina.» «Santo cielo, il modo in cui vi mandano in giro vestiti è criminale! Porti ancora le mutande lunghe di lana?» «Sì, signora.» «Mi viene voglia di scrivere un biglietto ai tuoi genitori. È già abbastanza difficile insegnare a voi bambini, anche quando non avete il prurito. Secondo me tu hai i pidocchi.» Le lacrime apparvero negli occhi di Aggie, ma la piccola riuscì a ricacciarle. «Agatha» disse con gentilezza la signorina Barabou «adesso dimmi la verità: che cosa sta succedendo?» «Ho perduto la cartella.» «Forse te la sei dimenticata a casa.» «No, l'ho perduta, sulla spiaggia.» «E quando sei andata sulla spiaggia?» «Questa mattina, mentre venivo a scuola.» «La strada per la scuola non passa vicino alla spiaggia; e poi, quante volte vi ho detto che non dovete andare sulla spiaggia da soli? In un posto solitario come quello può succedere di tutto.» La signorina Barabou la scrutò attentamente. «È per caso successo qualcosa?» Aggie si limitò a fissarla sbalordita e la signorina Barabou si accorse che la bambina non capiva a che cosa stava alludendo. Con pazienza cercò di spiegarle che le ragazzine non devono andare sulle spiagge solitarie, perché potrebbero incontrare uomini cattivi pronti a far loro delle brutte cose. «Hai incontrato un uomo sulla spiaggia?» «No.» «Agatha, non mi piace dover fare la sospettosa o la ficcanaso, ma ho la netta impressione che tu non mi stia dicendo la verità.» Sebbene la voce della maestra fosse gentile, il suo sguardo aveva una tale intensità che Aggie ebbe la sensazione che attraverso la camicetta vedesse il berretto a quadretti rosso e bianco. «Che cosa è successo sulla spiaggia, Agatha?» «Niente.» «Lo sai che bisogna sempre dire la verità. Che cosa succede a casa quando non la dici?» «Mi picchiano con la cinghia.» «Tu sai bene che io non ho una cinghia, e anche se l'avessi non la userei.
Non ti metterai mica a piangere, adesso?» In verità Aggie piangeva: le lacrime le colavano sulle guance e dovette asciugarle con la manica della camicia. Fu proprio allora, quando Aggie alzò il braccio, che la signorina Barabou vide il rigonfio sotto i vestiti. «Che cosa ti sei infilata dentro la camicia? Ecco perché continuavi a dimenarti. Hai nascosto qualche cosa là dentro.» Aggie scuoteva sconsolata la testa. «Agatha, non sarai punita se dici la verità, è una promessa. E adesso smettila di piangere e dimmi, anzi mostrami, di che cosa si tratta.» «Non è niente. L'ho trovato.» «Nessuno trova niente» ribatté la signorina Barabou «è sgrammaticato e impossibile dal punto di vista logico. Che cosa hai trovato?» «Un berretto; un vecchio berretto che qualcuno ha abbandonato sulla spiaggia perché non lo voleva più.» «Ma perché non l'hai detto prima? Tutta questa storia e questo mistero per un vecchio berretto. Qualche volta mi chiedo davvero che razza di vita conduciate a casa vostra per aver paura anche di parlare. Adesso togli da lì il berretto, lascialo su uno scaffale dello spogliatoio e lo riprenderai quando andremo a casa.» Aggie voltò le spalle alla maestra, tolse il berretto dalla camicetta e lo porse alla signorina Barabou che lo osservò sorpresa. «Che strano berretto, non ne ho mai visto uno simile. Dove l'hai trovato, Agatha?» «Si era incastrato tra due sassi; probabilmente qualcuno l'ha buttato via.» «Ma non è un berretto vecchio; anzi mi sembra quasi nuovo.» «A me sembra vecchio.» La signorina Barabou adesso sembrava disinteressarsi di Aggie: stava esaminando l'interno del berretto e quando parlò di nuovo era più con se stessa che con Aggie: «C'è un'etichetta: Abercrombie & Fitch, New York. Non ci sono molti americani in questa stagione, da queste parti. Il berretto mi sembra nuovo e anche piuttosto caro. Abercrombie & Fitch... mi sembra che vendano articoli sportivi. Mi chiedo in quale sport venga usato: il curling forse, o il golf; ma mancano ancora dei mesi prima che riaprano i campi da golf.» «Signorina Barabou...» «Puoi tornare al tuo posto, Agatha.» «Visto che l'ho trovato io, adesso è mio?» «Questo non te lo posso promettere; devo prima parlarne con la signori-
na Wayley.» La maestra riaccompagnò Agatha in classe, assicurò a tutti che Aggie non aveva nessuna malattia contagiosa e che potevano starle vicino senza paura. Poi, affidata la classe a uno dei ragazzi più grandicelli, andò a far visita alla signorina Wayley nella stanza accanto. Le visite tra insegnanti erano severamente proibite durante le ore di lezione, ma l'ispettore era lontano centinaia di miglia e il suo arrivo era previsto soltanto per il mese successivo. La signorina Wayley, messa al corrente della situazione, ordinò a tutta la classe, anche a quelli che ancora non sapevano scrivere, di fare un tema: "I miei progetti per le prossime vacanze", quindi, insieme alla collega, andò a rifugiarsi nella stanzetta dove le due insegnanti consumavano il pasto di mezzogiorno o si preparavano il caffè durante gli intervalli. La stanza era fredda, brutta e soffocante, ma godeva di due grandi vantaggi: una serratura alla porta che fino ad allora aveva resistito anche alle dita esperte di Boris e un telefono installato l'inverno precedente quando una tempesta di neve aveva isolato la scuola per quasi ventiquattro ore. La signorina Wayley accese una sigaretta, aspirò furtivamente tre o quattro volte e poi la spense prima che il fumo uscisse da sotto la porta causando curiosità o spavento tra i bambini. Il mozzicone fu riposto con cura in una scatola di cerotti nell'armadietto del pronto soccorso. «Credo che dovremmo telefonare a qualcuno» suggerì la signorina Barabou. La signorina Wayley era occupata a provarsi il berretto davanti a un pezzo di specchio rotto appeso al muro. «Non ti sembra che mi dia un'aria estremamente sportiva? Accidenti, è proprio bello, non mi dispiacerebbe averne uno simile. Mi fa sentire di dieci anni più giovane.» «Sii seria!» «Lo sono.» «Secondo me è un berretto da uomo; hai visto per caso qualche straniero in giro per la città in questi ultimi tempi?» «Se l'avessi visto» rispose allegramente la signorina Wayley «sarei in congedo illimitato per andare a cercarlo.» «Ma vuoi essere seria!» «Non posso, mi sento sportiva. Dài, provalo anche tu, Marie.» «Io? Ma non ci penso neanche!» «Andiamo, provalo, per divertimento.»
La signorina Barabou diede un'occhiata alla porta per assicurarsi che fosse chiusa, poi si mise in testa il berretto a quadri. Per un istante, lo specchio rotto le rimandò l'immagine di una donna sportiva, ma immediatamente fu sopraffatta da anni di provato buon senso. «Ridicolo! Non mi metterei mai in testa una cosa simile.» «Io invece sì; già mi vedo sfrecciare al volante di una grintosa decapottabile.» «Perché una decapottabile?» «Perché è a questo che serve il berretto, per andare in giro in una decapottabile con la capote abbassata. L'ho visto al cinema.» «Allora è così che è successo.» «Successo cosa?» «Qualcuno guidava a bordo di una decapottabile lungo la costa e il suo berretto è volato via ed è andato a finire sulla spiaggia dove Agatha l'ha trovato.» «Non è il tipo di berretto che vola via facilmente. Per questo c'è una fascia elastica dietro: perché calzi stretto e il vento non lo porti via.» «Che strano.» Per la prima volta la signorina Barabou sembrava turbata. «Lo so che può sembrare sciocco, ma non credi che possa trattarsi di un delitto?» «Sarebbe troppo bello.» «Ti prego, non scherzare.» «Non scherzo. Ho detto che sarebbe troppo bello perché non succede mai niente, da queste parti.» «C'è sempre una prima volta.» Il rumore proveniente dalle due classi abbandonate a se stesse aumentava di minuto in minuto, ma le due maestre non ci facevano attenzione: il fracasso faceva parte del loro mestiere, e qualche decibel in più non poteva turbarle. «Farei la figura della stupida se chiamassi la polizia e poi tutto si risolvesse in niente.» «Telefona lo stesso.» La signorina Wayley scelse con cura uno dei mozziconi nascosti nella scatola dei cerotti e l'accese con aria spavalda. «Tanto vale smuovere un po' le acque visto che se ne presenta l'occasione. Tieni, scegliti un mozzicone.» «No, grazie, non sarebbe igienico.» «Spiacente, ma non posso offrirtene una nuova. Come sarebbe bello poter comprare le sigarette a buon mercato come negli Stati Uniti.»
«Non so neanche a chi dovrei telefonare.» «Chiama l'agente locale. Lo sai, comincio a sentirmi eccitata...» «Vuoi stare zitta! Non riesco nemmeno a pensare.» «Non devi pensare, lascia che sia la polizia a farlo. Noi siamo insegnanti, non ci pagano per pensare ma per insegnare, e fra le due cose c'è una differenza abissale.» «Smettila, Betty!» La signorina Barabou alzò il ricevitore. Verso le nove e trenta arrivò alla scuola l'agente Lehman; era un uomo piccolo, sulla cinquantina, con un viso buffo, che prendeva molto sul serio il proprio lavoro, ma solamente quello. Arrivò con la sua macchina personale, una vecchia Buick, un trucco che sarebbe servito a non suscitare la curiosità degli scolaretti. Purtroppo il trucco non servì: una buona parte degli studenti della classe della signorina Barabou lo riconobbero immediatamente e nella scuola l'eccitazione crebbe al punto tale che fu necessario concedere un periodo di pausa. I bambini, a eccezione di Aggie Schantz, vennero fatti uscire in cortile come dei puledrini scalpitanti e fu organizzato un gran consiglio nella classe della signorina Barabou, con il berretto a quadretti in bella mostra sulla cattedra. Invece di essere nervosa, come la maestra aveva temuto, Aggie si godeva ogni istante dell'attenzione che stava ricevendo. Raccontò la sua storia con tutti i particolari e Lehman, che avendo dei figli non mancava di esperienza, non la interruppe nemmeno quando Aggie cominciò a dilungarsi in dettagli superflui descrivendo quello che aveva mangiato per la prima colazione, o quanti pettirossi aveva visto mentre veniva a scuola. «Contiamo i pettirossi» si scusò la signorina Barabou «e poi li annotiamo su una tabella; è per la lezione di storia naturale, capisce?» Il cenno di testa di Lehman significava che capiva perfettamente e anzi che lui stesso aveva la vecchia abitudine di contare i pettirossi. «Io ne vedo sempre più di tutti» disse Aggie con modestia «perché devo fare più strada degli altri per venire a scuola. Boris ha visto un'aquila americana.» «Davvero?» chiese Lehman incuriosito. «Si dice che il numero dei turisti americani da queste parti cresca di anno in anno; perché non dovrebbero crescere anche le aquile? Potresti mostrarmi il sentierino che fai per scendere alla spiaggia, Aggie?» «Certo, posso mostrarglielo, ma lei non può scendere.»
«Non posso? E perché no?» «Perché è troppo vecchio.» «Questo non si può negare» sospirò Lehman e strizzò l'occhio alla signorina Barabou. La signorina, che non era abituata a vedersi strizzare l'occhio dagli uomini, arrossì e, imbarazzata, si rivolse a Aggie: «Certo che mostrerai il sentiero all'agente, Agatha. Sarai giustificata per la tua assenza per tutta la mattina. E ora vai con il signor Lehman.» «Non voglio andarci.» «Vai a prendere il cappotto e le soprascarpe.» Aggie non si mosse. «Agatha, mi hai sentito?» «Non voglio andare se non viene anche lei.» «Sai benissimo che devo stare qui con il resto della classe.» «Potrebbe mandare tutti a casa; ne saranno felici.» «No, sono certa che non sarebbe così; e poi come potrei spiegare questa improvvisa vacanza a trenta genitori indispettiti? Perché mai non vuoi andare con l'agente?» «Per gli uomini cattivi.» «Quali uomini cattivi?» «Quelli che fanno le brutte cose alle bambine sulla spiaggia.» «Oh, santo cielo!» la signorina Barabou arrossì fino alla punta delle orecchie. «Prima ho cercato di spiegarle che... be' non importa, ci rinuncio. Verrò anch'io, è inutile discutere.» La signorina Barabou sedette tutta sola e impettita sul sedile posteriore della macchina, cercando di resistere a quel senso di avventura che si sentiva nascere dentro ogni volta che guardava il profilo dell'agente riflesso sullo specchietto retrovisivo. "È proprio un bell'uomo, e anche spiritoso. Betty dice di aver sentito dire che è un vedovo, che i suoi figli sono ormai grandi e che vive da solo. Certo, avrebbe bisogno di andare dal parrucchiere." Cercò di tenere a freno la fantasia pensando a quale tema di storia avrebbe dato agli allievi dell'ottava classe, ma non riusciva a concentrarsi. Il ponpon rosso del berretto appoggiato sul sedile accanto a lei pareva che le dicesse: "Andiamo, vivi! La Magna Charta è un foglio ammuffito e il re Giovanni è molto, molto morto! Svegliati!". «Siamo quasi arrivati» annunciò Aggie eccitata «proprio dopo l'ultima curva.»
«Roger» rispose Lehman. «Che cosa vuol dire?» «Vuol dire "ricevuto" , "obbedisco", "agli ordini".» «Oh, lei mi fa ridere.» «Ci tengo a essere simpatico.» Fermò la macchina sul ciglio della strada e tutti e tre scesero. Aggie continuava a ridacchiare coprendosi la bocca con una mano, mentre la signorina Barabou se ne stava seria e dignitosa, come se volesse fare ammenda per l'allegria degli altri. Guardando l'acqua a circa trecento metri sotto di loro e l'angusto sentiero che forse avrebbe dovuto percorrere, rivolse al cielo una silenziosa preghiera. Aggie scalpitava, impaziente di scendere. «Aspetta un momento, piccola» le disse l'agente. «Quando hai trovato il berretto, era proprio qui sotto?» «No, signore; avevo già camminato un bel po'. Poi mi sono sentita stanca e mi sono seduta. È allora che l'ho visto.» «Per quanto avevi camminato?» «Non lo so; posso farglielo vedere, se scendiamo.» «Mostramelo prima da qui.» «Non so se ci riuscirò.» «Prova. Comincia a camminare.» Si avviarono in fila indiana, con Aggie che li precedeva come un generale deluso dalle sue truppe. Era una strada secondaria e sebbene sulla mappa fosse indicato che era stata riparata, il gelo e l'inverno avevano da un pezzo avuto la meglio sulle riparazioni. Era tutta piena di buche e pozzanghere, alcune grandi come la testa di Aggie. Lehman faceva attenzione a dove metteva i piedi, senza curarsi minimamente della signorina Barabou. Aggie saltellava avanti, senza neanche guardare la strada, ma evitando ogni buca come se le conoscesse tutte a memoria. «Comincio a essere stanca» disse infine Aggie. «Penso che debba essere più o meno qui.» Alzò la testa verso Lehman, come se si aspettasse un encomio, ma l'agente era troppo preoccupato per accorgersene. Stava fissando il fango sui bordi della strada, riparandosi gli occhi dalla luce del sole. «Ebbene?» chiese la signorina Barabou quando li ebbe finalmente raggiunti. Era senza fiato. «Guardi lì, signorina.»
«Non vedo niente di straordinario.» «No?» «Solo dei segni di copertoni. Ma, visto che siamo su una strada, mi sembra normale.» «Sono tracce che arrivano fin sull'orlo della scogliera.» Lehman si voltò verso Aggie che gli saltellava attorno. «Fai la brava bambina e non stare nel mezzo. Anzi, perché non torni fino alla macchina e mi aspetti lì?» «Ma non le ho ancora mostrato niente.» «Mi hai mostrato molte cose, invece, più di quanto avessi immaginato.» «Ma cosa?» «Se stai ferma un momento te lo dico: li vedi quei segni sulla strada? Sono stati fatti dai copertoni di un'automobile; nuova e molto pesante, una Lincoln o una Cadillac, direi. Ora, lo vedi dove portano?» «Da nessuna parte; si fermano.» «Esattamente, si fermano.» Lehman si avvicinò alla scogliera e la signorina Barabou lo seguì, ansante e nervosa. «Che cosa significa tutto questo?» «Significa che là in fondo c'è una macchina, forse con delle persone dentro.» «Persone? Ma bisogna fare subito qualche cosa, allora. Chiedere aiuto...» «Temo che sia ormai troppo tardi: le tracce non sono recenti e l'acqua è profonda.» «Forse lei è troppo pessimista. Potrebbe trattarsi di qualcuno che si è fermato a guardare il panorama e poi se n'è andato.» «Non c'è segno che l'automobile abbia invertito la marcia.» «Forse è meglio se accompagno Aggie in macchina» mormorò la signorina Barabou portandosi una mano alla gola. Rimase invece a fissare l'acqua ai piedi della scogliera, sperando di distinguere la sagoma di una vettura, i contorni di una persona. Il riverbero del sole l'accecò e fece un passo indietro, inciampando. Lehman l'afferrò per un braccio: «Attenzione, sarebbe una brutta caduta.» «Grazie.» «Deve trattarsi di una macchina che viene dalla città.» «Come fa a saperlo?» «Dalle nostre parti, la gente che guida auto costose avrebbe ancora i co-
pertoni da neve. Con gli inverni che abbiamo noi, ce n'è bisogno. Ma in città le strade vengono ripulite e i pneumatici da neve non sono necessari. Mi chiedo...» «Che cosa?» «Che cosa spinge una persona a buttarsi giù da un burrone...» Lehman ricondusse Aggie e la sua insegnante a scuola e le lasciò con la raccomandazione di non parlare a nessuno di quanto era successo. Poi telefonò alla polizia regionale e infine ritornò sulla scogliera. Trovò che c'erano già ad aspettarlo tre macchine della polizia, un'ambulanza e i vigili del fuoco, tutti pronti a entrare in azione. Ma non fu necessario fare nulla. Due barconi armati di carrucole e ganci localizzarono l'automobile in sei metri d'acqua proprio dove Lehman aveva visto che finivano le tracce dei copertoni sulla strada. Era appena ammaccata, i finestrini e il parabrezza intatti, e Ron Galloway era ancora dentro, trattenuto saldamente al posto di guida dalle cinture di sicurezza. 14 Ralph Turee rientrò in ufficio dopo il seminario delle undici affamato ed esausto. Non aveva riposato abbastanza durante la notte e si era alzato troppo tardi per fare colazione. Harry aveva passato la notte a casa sua ed erano rimasti alzati fino alle tre del mattino a parlare, parlare, parlare, senza concludere niente che non sapessero già: Galloway era sparito e Thelma stava aspettando che tornasse per chiedergli di diventare suo marito. Sedette alla scrivania e stava per aprire il sacchetto con la colazione che Nancy gli aveva preparato quando la porta si aprì e Nancy stessa apparve sulla soglia. Turee la guardò stupito: non c'era nessuna regola che vietasse alla moglie di venire durante le ore d'ufficio, ma le sue visite erano così rare che vederla lì gli fece una strana impressione. Era una donna piccola e graziosa, con un visetto da cherubino e le gambe piuttosto corte. Turee soleva dire che erano gambe "razionali" in contrasto con la scarsa razionalità della sua testolina. Indossava il tailleur violetto che aveva comprato per Pasqua e questo significava che, qualunque fosse il motivo della visita, doveva trattarsi di una cosa importante. Si alzò e andò a sfiorarle la fronte con un bacio. «Come sei arrivata fin qui?»
«Ho preso un taxi.» «Un taxi! In nome del cielo, Nancy, ti ho detto che questo mese siamo un po' a corto di quattrini per gli acquisti che abbiamo fatto a Pasqua e...» «Risparmiami la predica; si tratta di un'emergenza.» Fu il tono, più che le parole, a fermarlo: «Si tratta delle bambine?» «Niente del genere; mi ha telefonato Esther, vuole che vada a passare la giornata da lei.» «Perché?» «Hanno trovato Ron.» «Morto?» «Sì.» Fino a quel momento Ralph si era sentito come una corda di violino che era stata troppo tirata; ora la corda si era spezzata e provò quasi un senso di sollievo. La tensione era cessata e Ron in un certo senso era al sicuro: al sicuro dal gelido disprezzo di Esther, dalle pretese di Thelma, dai rimproveri di Harry e dallo scherno del mondo. «Com'è successo?» «È andato a finire con la macchina giù dalla scogliera lungo la baia. Esther ha detto che il poliziotto che è andato a darle la notizia le ha riferito che ci sarebbero voluti giorni e giorni per ritrovarlo se non fosse stato saldamente legato con le cinture di sicurezza. Aveva la capote abbassata.» Strinse le labbra come un bimbo che sta per mettersi a piangere e cominciò a tremare. «Non so, ma mi pare che ci sia qualche cosa di... buffo in questa storia. Ron è sempre stato un maniaco delle misure di sicurezza.» «Non ti metterai a piangere, Nancy...» «Non riesco a trattenermi.» «Allora piangi.» La guardò con distacco mentre si asciugava gli occhi; com'erano strane le donne! Il fatto che Ron fosse precipitato dalla scogliera sembrava sconvolgerla molto meno del particolare che aveva le cinture di sicurezza agganciate. «L'ha fatto apposta?» «Sì. Esther ha ricevuto una lettera questa mattina che era stata imbucata sabato notte in una cittadina del nord. Me l'ha raccontato poco fa al telefono.» «E poi?» «Be', questo ti lascerà di stucco; Ralph, ma... Thelma aspetta un bambino di Ron. È incredibile, assolutamente incredibile: Ron e Harry erano tan-
to amici. Non riesco a crederci, e tu?» Turee le voltò le spalle senza rispondere. «Ralph! Non sei neanche sorpreso; vuoi dire che lo sapevi già? Che l'hai sempre saputo? E non mi hai detto niente?» «Di questo parleremo un'altra volta.» «Ma tu...» «Come sta reagendo Esther?» «Non so; mi è sembrata abbastanza calma. Era ansiosa che andassi a passare la giornata con lei, perciò ci andrò.» «Brava ragazza.» «Non avrei potuto rifiutarmi. A proposito, mi sono messa d'accordo con la signora Sullivan perché vada incontro a Janie quando scende dal pullmino della scuola. Le altre ragazze sono abbastanza grandi da cavarsela da sole.» «Non sarà necessario: la mia ultima lezione finisce alle tre e potrò essere a casa prima delle quattro.» «No, caro, non ci sarai.» Ralph la guardò esasperato: «Che cosa significa "No, caro, non ci sarai"?» «Qualcuno deve dare la notizia a Thelma. Non sarebbe umano farglielo sapere dalla TV o domattina dai giornali. Qualcuno deve andare a Weston e dirglielo a voce.» «E quel qualcuno sono io, a quanto pare.» «Tu sei la persona più razionale; avevo pensato a Harry, ma è così difficile rintracciarlo durante le ore d'ufficio, e poi... non mi sembrava molto delicato che fosse proprio Harry a dirglielo. Quindi non resti che tu.» «Ovviamente.» «Non ti secca, vero?» «Mi secca moltissimo!» «Qualcuno deve pur farlo. Sarei andata io, ma non mi fido di me stessa; sono troppo arrabbiata con lei; non riuscirei nemmeno a fingere un po' di simpatia nei suoi riguardi.» «E io invece?» «Ma tu puoi provarla davvero» rispose Nancy con sincerità. «Tu sei molto più comprensivo di me verso le debolezze umane.» Quando raggiunse Weston erano le cinque e Turee aveva i nervi a pezzi sia per il traffico, sia per la prospettiva di quello che l'aspettava. Era già al-
la periferia della cittadina e ancora si stava chiedendo se non c'era una buona scusa per tornarsene a casa e passare la patata bollente a Bill Winslow o a Joe Hepburn. Sebbene la giornata fosse ancora chiara e luminosa, le tende erano già abbassate nella piccola casa in mattoni rossi dove viveva Thelma. Turee dovette suonare una mezza dozzina di volte prima che Thelma venisse ad aprirgli. Col viso pulito senza ombra di trucco e i lunghi capelli biondi tirati indietro tipo Alice nel Paese delle Meraviglie, sembrava ancora più giovane e vulnerabile di quanto Turee ricordasse. Sebbene avesse avuto occasione di parlarle più di una volta al telefono, non si erano più incontrati da quando, un mese prima, si erano tutti riuniti in casa di Harry. Quella volta, come sempre in simili occasioni, Thelma era stata silenziosa e discreta; passava i vassoi con le tartine, riempiva i bicchieri: un'ottima cameriera più che una padrona di casa. Guardandola ora, Ralph cercò di ricordare se quella sera aveva osservato qualcosa di speciale tra lei e Ron: un'occhiata furtiva, uno sfiorarsi con le mani, lo scambio di un sorriso complice. Ma l'unico incidente che gli tornò in mente fu che Ron aveva lasciato cadere un bicchiere e Thelma aveva ripulito il pasticcio. Nessuno ci aveva fatto caso al momento, né aveva attribuito alcun significato simbolico alla vista di Thelma, docilmente inginocchiata ai piedi di Galloway, che raccoglieva i pezzi di vetro e con uno strofinaccio di carta asciugava il tappeto. Galloway non si era nemmeno offerto di aiutarla; sembrava impietrito, come se, invece di un banale bicchiere di vetro, avesse rotto un pregevole cristallo di Steuben. «Salve, Ralph.» «Ciao, Thelma, come stai?» «Bene, almeno credo.» Teneva in mano una camicia da uomo a righe e un ago infilato. «Non vuoi entrare? Stavo dando qualche punto.» Tutte e tre le lampade nel soggiorno erano accese, ma la stanza aveva lo stesso un aspetto tetro e l'atmosfera era fredda e umida come se fosse rimasta chiusa tutto il giorno, forse per ripararsi dal sole o dagli sguardi indiscreti dei vicini. Thelma sedette su una poltrona accanto a un mucchio di biancheria da uomo. «Harry ha telefonato oggi a mezzogiorno; ti ringrazio per averlo ospitato questa notte.» «È il benvenuto tutte le volte che lo desidera. Le ragazze sono pazze di
lui.» «Oh.» «Anche a lui piacciono. Non protesta nemmeno quando gli si arrampicano sul letto alle sei e mezzo del mattino. Quella è la prova del nove.» «Davvero?» «Secondo me Harry sarebbe un padre meraviglioso; ha tutti i requisiti per...» «Stai perdendo il tuo tempo» lo interruppe freddamente Thelma. «Harry non è il padre del mio bambino e non posso continuare a vivere insieme a lui facendo finta che lo sia. È questo che mi stai suggerendo di fare?» «Non solo te lo sto suggerendo; ti raccomando calorosamente di rifletterci. Harry e io abbiamo parlato a lungo la notte scorsa: è disposto, anzi è desideroso di assumersi la responsabilità del bambino. Harry ti ama, Thelma.» «Lo so, ma io non amo lui, e se dovessi continuare a vivere con lui fingendo di amarlo finirei per odiarlo. Nessun bambino deve vivere in una casa dove regna l'odio, com'è capitato a me. No, Ralph, non insistere: ormai il mio futuro è deciso. Lo so, ci saranno un mucchio di pettegolezzi, anche lo scandalo, ma prima o poi tutto si acquieterà. Allora Ron e io potremo andarcene da qualche parte e ricominciare la nostra vita in un'altra città.» Parlava velocemente, senza indecisioni, come se si fosse ripetuta quelle stesse parole un numero infinito di volte, cercando di convincersi che era tutto vero. «Non ti dispiace se continuo a cucire, vero? Harry passerà a prendere la sua roba dopo il lavoro e voglio che sia tutto in ordine. Per un po' non ci sarà nessuno a occuparsi di lui.» «Per un po'?» «Un giorno o l'altro si risposerà. Lo so che è convinto che il suo amore per me è unico ed eterno, ma io conosco bene Harry. Troverà una brava ragazza che gli darà il tipo di vita a cui lui aspira.» «Tu gli hai dato la vita che voleva.» «Harry si accontenta facilmente, io no.» «Be', sei riuscita a nasconderlo bene.» «Ho anch'io il mio orgoglio; lo so che ti sembrerà strano detto da me, ma è la verità. Non potevo certo venire a raccontare a persone come te o Nancy che mi annoiavo a starmene qui seduta giorno dopo giorno, sapendo che sarebbe sempre stato così. L'unica persona con cui ne ho parlato è stata Ron. Anche lui mi ha confidato alcune cose: mi ha detto che Esther era molto più intelligente di lui e che si sentiva sempre imbarazzato quando
andavano insieme da qualche parte e lei era sempre quella che dominava la conversazione. Mi ha detto che lo faceva sentire come il figlio idiota che la madre è costretta a tirarsi dietro.» Per Turee quello era un nuovo modo di vedere il rapporto dei Galloway, eppure si accorse immediatamente che c'era qualcosa di vero in quanto aveva detto Thelma. «L'ho tranquillizzato; con me non avrebbe avuto niente da temere: io non sono molto intelligente o, se lo sono, nessuno l'ha mai notato...» Improvvisamente posò il lavoro di cucito che aveva in mano e guardò Turee dritto negli occhi: «Che cosa sei venuto a fare qui, Ralph? Di solito a quest'ora sei già a casa. So che mangiate presto per via delle bambine. Sei venuto fin qui soltanto per sentirmi chiacchierare?» «No.» «L'ho capito fin dall'istante in cui ho aperto la porta e ti ho visto. Deve trattarsi di qualche cosa di importante. Si tratta di Ron?» «Sì.» «Se fosse stata una buona notizia me l'avresti già detta; quindi è cattiva: quanto cattiva?» «È morto.» «Non è... non può esserci un errore?» «No.» Si piegò in avanti fino ad appoggiare la testa sulle ginocchia e rimase immobile, come se avesse perso ogni voglia di muoversi. Dalla strada giungevano suoni e sottili strisce di sole. Turee avrebbe voluto trovarsi fuori, in mezzo alla luce e al rumore, e non in quella stanza dove improvvisamente tutto sembrava senza vita: non si sentiva neanche il ticchettio di un orologio o il ronzio di una mosca. Finalmente gli giunse la voce di Thelma, soffocata dal tessuto dell'abito. «La macchina?» «Come?» «Ha avuto un incidente?» «C'è ragione di credere che l'abbia fatto apposta.» «Quale ragione?» «Ha spedito una lettera a Esther prima di morire.» «A Esther!» alzò la testa di scatto come una marionetta attaccata a un filo. «Perché non a me? Non a me? Sono io quella che lui amava, quella che ha rinunciato a tutto per lui, alla mia casa, a mio marito, al mio buon nome, a tutto quello che avevo. Oh, Dio, perché non ha scritto a me? Non
posso sopportarlo! Ron, Ron, non lasciarmi sola, ho paura, ho paura, torna da me!» «Thelma, ti prego...» «Ron, Ron, amore mio!» Continuò a gemere e a lamentarsi stringendo tra i denti il labbro inferiore come se volesse inconsciamente punirsi, finché non si ferì. Si portò alle labbra una camicia di Harry per asciugare il sangue e le lacrime e Turee pensò all'ironia della sorte che voleva che proprio Harry, che non aveva fatto niente di male a nessuno, dovesse asciugare quel sangue e quelle lacrime. «Ti preparo qualcosa da bere.» «No.» «Forse Harry avrà da qualche parte una pillola che ti aiuterà a calmarti.» «Pillole!» La parola le uscì di bocca come uno sputo disgustato. «Harry ha milioni di pillole. Puoi anche mandarle giù tutte, per quello che mi riguarda.» «Maledizione! Ne prenderei davvero una, se sapessi dove cercarla» ribatté Turee, sollevato dallo scatto di nervi di Thelma: significava che non era così sopraffatta dal dolore da non reagire a uno stimolo naturale. Sempre con la camicia di Harry premuta contro la bocca, Thelma chiese: «Che cosa c'era nella lettera che ha scritto a... Esther?» «Non lo so.» «Non l'hai vista?» «No.» «Allora potrebbe mentire, deliberatamente, per farmi sentire colpevole?» «Non ti sembra un po' assurdo?» «Tu non conosci Esther.» «Solo da dieci anni.» «Nessuno sa quello che succede nella testa degli altri.» «Ci sono prove indiziarie: quando vedi una persona che divora con gusto la sua cena, puoi presumere che ha fame e che il cibo è di suo gusto.» «Fra presumere e sapere c'è un abisso; e io in quell'abisso ci sono cascata.» Le lacrime cominciarono di nuovo a scorrere abbondantemente sulle sue guance. «Quella notte, sabato notte, quando ho detto a Ron del bambino, mi sono accorta che era sorpreso, scioccato forse; ma io supponevo che fosse anche felice, perché mi amava e il piccolo sarebbe stato il legame che univa il nostro amore e che ci avrebbe permesso di costruire insieme il nostro futuro. Supponevo. Quello che invece adesso so è che non voleva
avere alcun futuro con me, che preferiva morire, morire!» «Non tormentarti così, Thelma.» «E con chi altri dovrei prendermela?» il labbro aveva cominciato a gonfiarsi e gli occhi erano rossi e semichiusi. «Come ha potuto farlo? Come ha potuto lasciarmi qui sola ad affrontare tutto?» «Thelma...» «Credevo che fosse un uomo, non uno sporco vigliacco. Oh, mio Dio, che cosa sto dicendo! Non era un vigliacco. Non so più quello che dico: oh, Ron, Ron, amore mio!» Ondeggiava come un pendolo tra l'odio e l'amore, tra la disperazione e la furia. «Non posso andare avanti così; non posso vivere senza di lui.» «Devi farlo.» «No, non posso.» «Devi pensare al tuo bambino.» Si strinse le braccia attorno al ventre, come per proteggere il feto da tutto quello che c'era di ostile nel mondo esterno. «Che cosa ne sarà di noi, Ralph, di me e di lui?» «Non lo so.» «Avevo tante speranze, tanti piani meravigliosi.» Questa era la vera Thelma, ridotta all'essenziale, come una macchina di Formula 1 a cui sia stata tolta la carrozzeria: "Io, io, io!". Tutte le sue speranze erano basate su delle illusioni e i suoi piani meravigliosi erano stati fatti a spese degli altri. Qualcosa colpì il vetro della finestra e cadde sulla veranda. Thelma sobbalzò, come se avesse sentito il rombo di un cannone. «Probabilmente è solo il giornale della sera. Se vuoi vado a prenderlo» propose Turee. «No, non voglio. Credi che parlerà... di Ron?» «Può darsi.» «E anche di me?» «Non so chi sapesse di te. A parte Harry, Esther e io.» "E l'intero corpo di polizia" aggiunse tra sé. Il resoconto della morte di Ron occupava la prima pagina del giornale: EMINENTE CITTADINO DI TORONTO RINVENUTO MORTO NELLA GEORGIAN BAY. Esther evidentemente si era rifiutata di fornire una fotografia recente del marito e il giornalista ne aveva scovata una fatta anni prima durante una festa di Capodanno. Ron sorrideva con delle stelle filan-
ti appese al collo e i coriandoli tra i capelli e sulle spalle dello smoking. "Galloway in un momento migliore" diceva con incredibile cattivo gusto la didascalia. Turee si augurò che Esther non vedesse quel servizio, che avrebbe offeso il suo senso del decoro. Sebbene Thelma all'inizio avesse cercato di impedirgli di andare a prendere il giornale, ora si torceva le mani grassottelle con nervosa impazienza. «E allora? Che cosa dice?» «Leggi tu stessa.» «Non posso, ho gli occhi gonfi.» «D'accordo: prima dà un resoconto accurato di come e dove è stato ritrovato. Non mi pare il caso di leggertelo ad alta voce, non servirebbe che a sconvolgerti.» «Leggi quello che c'è scritto dopo.» «"È stata ordinata un'autopsia. Le autorità stanno ancora investigando sulla possibilità di una morte accidentale, anche se le prove fino a ora accertate fanno pensare a un suicidio. Una lettera ricevuta questa mattina dalla moglie, Esther Ann Billings, indica che Galloway aveva intenzione di mettere fine alla propria vita. Questa lettera si trova ora nelle mani della polizia che, dato il carattere personale del contenuto, si è rifiutata di mostrarla alla stampa."» «Ha consegnato la lettera alla polizia?» chiese Thelma incredula. Anche Turee era stupito, gli sembrava poco verosimile che Esther lo avesse fatto davvero: una fuga di notizie dagli uffici della polizia era cosa che accadeva ogni giorno ed Esther era troppo smaliziata per non saperlo. Forse non aveva potuto farne a meno: gli investigatori l'avevano richiesta come prova dell'intenzione di Ron di suicidarsi. O forse Esther l'aveva fatto espressamente, senza pensare alle conseguenze per sé e per i bambini, per coinvolgere immediatamente e pubblicamente Thelma. «Immagino che nella lettera abbia parlato di me» disse Thelma. «Sì.» «Con nome e cognome?» «Credo di sì.» «Quindi è solo questione di tempo prima che tutta la città lo sappia.» «Hai degli amici.» «Sono amici di Ron, o di Harry. Io non ho amici.» «C'è ancora una soluzione, se l'accetti, se ti dimostri ragionevole.» Gli voltò le spalle, sorda alla voce della ragione: «No, non voglio.»
«Non hai nemmeno...» «Nascondermi dietro Harry, è questa la tua soluzione?» «Harry è disposto a farlo, te l'ho detto. Tu non lo stimi abbastanza: Harry è un uomo buono e generoso.» «Oh, lo so. Il buon vecchio Harry, sempre pronto a regalare la sua ultima camicia a un amico, o a perderla giocando a poker: Harry sa perdere così bene! È per questo che piace tanto a tutti? Perde con tanta eleganza, con tanta grazia... Ma perde. Perde sempre il treno; mi sai dire perché?» «Forse perché non vuole andare da nessuna parte.» «Io invece voglio andare, e me ne andrò. Qualsiasi cosa sarà meglio che vivere con Harry in questa casa, in questa città.» Il tono era definitivo, e quasi per mostrargli che l'argomento era concluso riprese in mano l'ago e il filo. Con movimenti rapidi e precisi, senza tremori, l'ago entrava e usciva dai quattro buchi del bottone. Turee si alzò e attraversò la stanza; si sentiva le gambe intorpidite e mille aghi gli bucavano i piedi, tutti più aguzzi e dolorosi di quello che stringeva Thelma. Thelma alzò la testa e lo guardò interrogativamente. «Smettila di preoccuparti per me» disse con decisione «tutto andrà bene fino a che mi terrò occupata. Domani stesso comincerò il corredino. Tutto dovrà essere fatto a mano. Non te ne vai, vero?» «Si è fatto tardi.» «Speravo che tu restassi fino a che Harry non verrà a prendersi la biancheria. Probabilmente avrà visto i giornali e sarà sconvolto. Si emoziona facilmente su certe cose: gli amici, la casa, la mamma, i cani abbandonati...» «Tu invece no?» «Io? Non ho amici e non ho mai avuto né una casa né una mamma e tantomeno un cane. Questo risponde alla tua domanda?» «Non in modo soddisfacente.» «Ti piace tanto analizzare le persone, vero, Ralph? Ma, per favore, non farlo con me.» Turee si ricordò che anche Harry gli aveva detto le stesse parole, la notte in cui stavano ritornando al capanno: "Non cercare di analizzare Thelma; io l'amo così com'è. Lasciale i suoi sogni". Be', glieli aveva lasciati. Che pazzo e cieco era stato Harry! Non si era comportato come un marito, ma come un genitore troppo permissivo, sempre pronto a coprire gli sbagli del figlio e ad accettare le spiegazioni che
gli facevano più comodo. «Ti preparo un po' di tè, Ralph; ti andrebbe anche qualche panino?» «No, grazie. Aspetterò Harry, se vuoi.» «Sei molto gentile.» Raccolse il mucchio di biancheria e si alzò goffamente dalla poltrona, come se ancora non si fosse abituata alle nuove proporzioni del suo corpo. «Se non ti spiace vado a finire di fare le valigie per Harry.» «Dove andrà ad abitare?» «Mi ha detto che avrebbe preso una camera in albergo, ma non so quale, non gliel'ho chiesto.» «Manterrà il suo impiego in città?» «Non gli ho chiesto nemmeno quello.» Si fermò davanti alla porta. «Vedi, tu non vuoi capire, ma fra me e Harry non c'è più niente; fa parte del mio passato, ormai. La cosa migliore per tutti e due è che cominciamo a dimenticarci a vicenda. Ormai la mia decisione è presa; gli auguro buona fortuna e tanta felicità.» «Sei davvero magnanima!» L'ironia le sfuggì. «Non ho niente contro Harry; perché dovrei? Ha fatto del suo meglio.» Quando Thelma uscì, Turee raccolse il giornale, ma non riusciva a leggere: la sentì che saliva pesantemente le scale, con passo incerto, che apriva e chiudeva armadi e cassetti parlando da sola. "È una stupidella spaventata" pensò Ralph. "Se Harry riuscisse ad assumere una posizione ferma, certamente lei finirebbe per cedere, per appoggiarsi a lui. Forse quello di cui Thelma ha paura è che Harry non sia in grado di sorreggerla." Il telefono squillò nella stanza accanto e Thelma scese le scale per venire a rispondere, lentamente, come se sapesse in anticipo che non poteva trattarsi di una telefonata importante. Tutto ciò che era importante era già successo. «Pronto? Sì, sono io... È ferito? Capisco... No, non posso venire personalmente; cercherò di mandare qualcuno. Grazie per avermi avvisato. Arrivederci.» Turee le andò incontro sulla porta del salotto: «Harry è rimasto ferito?» «Non gravemente; è andato a finire contro un tram e ha qualche taglio alla testa. È al pronto soccorso del Toronto General. Gli faranno passare la notte lì.» «Ma perché, se non ha niente di serio?»
«Perché?» Le labbra pallide assunsero un'espressione amara. «Perché è troppo ubriaco per reggersi in piedi.» 15 Il cubicolo, circondato da tendine bianche, era talmente stretto che Turee aveva a malapena il posto per stare in piedi vicino al letto. Harry giaceva sdraiato sul dorso, a occhi chiusi, con la testa completamente coperta da una fasciatura bianca così stretta che gli contraeva la pelle della fronte in una smorfia corrucciata. «Harry.» «È incosciente» disse l'infermiera. Era una donna di mezza età, massiccia ed efficiente con una falsa aria materna che non avrebbe tratto in inganno nessun bambino, ma che spesso invece illudeva gli adulti. «Ogni tanto dice qualche parola» aggiunse l'infermiera «poi perde di nuovo conoscenza.» «Credevo che si trattasse di ferite leggere. Tutte quelle bende...» «No, quello non significa niente; le ferite alla testa sanguinano abbondantemente e così il dottore ha preferito bendarlo strettamente per un paio di giorni, onde evitare emorragie. In realtà gli hanno dato soltanto undici punti. Soffrirà di più per il doposbornia. E per tutto il resto.» «Il resto?» «Non appena lo dimetteranno dall'ospedale lo metteranno dentro per guida in stato di ubriachezza. Si beccherà una bella multa; peccato, ora che è senza lavoro e con una moglie incinta. Forse è per questo che l'ha fatto.» «Fatto cosa?» «Si è ubriacato. Certi uomini diventano un po' melodrammatici all'annuncio del primo bambino. Credo che sia perché si sentono cadere addosso un mucchio di responsabilità. Pensa di restare qui per un po'?» «Sì.» «Bene. Io ho altre cose da fare: se dovesse diventare agitato, suoni il campanello.» «D'accordo.» «Il mio nome è signorina Hutchins.» Turee rimase in silenzio ai piedi del letto osservando l'effetto che la mancanza di coscienza produceva sul viso di Harry: la sua abituale affabilità si trasformava in debolezza, il suo desiderio di rendersi gradito in an-
sietà. Questo è ciò che vede Thelma, pensò Turee; Harry che ha abbassato la guardia. Per questo ha preso quella decisione: non può permettersi di avere come sostegno un fuscello di paglia. «Harry.» Harry si agitò sul cuscino come se volesse allontanare da sé il suono del proprio nome che lo riportava in un mondo che voleva solo dimenticare. «Sono Ralph, Harry. Non c'è bisogno che parli; voglio solo che tu sappia che sono qui.» «Thelma?» «Sta bene; è a casa e una vicina le fa compagnia.» «Mi fa male la testa. Voglio tirarmi su.» «Non so se...» «Voglio tirarmi su!» Turee girò la manovella ai piedi del letto finché Harry non fu quasi seduto: «Va meglio adesso?» «Meglio? Non c'è niente che vada meglio» la voce impastata e lo sguardo vitreo indicavano chiaramente che Harry era ubriaco o sotto l'effetto di uh sedativo. «Niente! Hai capito?» «Certo, certo, non ti agitare.» Harry chiuse gli occhi e cominciò a pronunciare frasi sconnesse. Solo qualche parola era comprensibile, ma dal tono gutturale e bellicoso era chiaro che Harry stava cacciando via qualcuno. Turee si avvicinò al capezzale e gli afferrò leggermente, ma con fermezza, un braccio: «Harry, riesci a sentirmi?» «No, non ti sento, vattene.» «Cosa c'è che ti preoccupa?» «Sono andato a sbattere contro un tram. Quel maledetto non si decideva a muoversi e io avevo fretta.» «Dove stavi andando?» «Da nessuna parte. Non ho nessun posto dove andare.» «Prima che tu andassi a sbattere contro il tram, Harry, che cos'era successo?» «Mi sono fatto un bicchierino...» «Questo lo so.» «Bicchierino... l'ho detto al poliziotto e lo dico anche a te.» «Credevo che tu fossi al lavoro. Di solito non bevi durante le ore di lavoro.» «Niente più ore, niente più lavoro.»
«Che cosa significa?» «Tenetevi le vostre maledette pillole, ho detto. Me ne vado. Potete andare tutti quanti a buttarvi nel lago. Lago!» Ripeté la parola in tono minaccioso, con una smorfia di dolore, come se quella parola lo strappasse suo malgrado all'incoscienza. «Lago! Ero in un bar e ho sentito che parlavano del lago; di Ron. Ecco che cosa ha fatto Ron: si è buttato nel lago. Non è buffo? Non è terribilmente buffo?» Le lacrime gli scendevano copiose sulle guance e fu assalito da una crisi di singhiozzi. «Anch'io volevo buttarmi nel lago. Ma non sono riuscito a trovarlo. Non l'ho trovato quel dannato lago.» «Lo troverai un'altra volta» disse Turee asciutto. «Per il momento cerca di non agitarti.» «Avevo un tram davanti; non voleva muoversi; dài, dannato, cammina, ma lui niente. Allora ho premuto il piede sull'acceleratore: non volevo investirlo, solo spingerlo un po' più avanti; avevo fretta. Ero... Dov'ero? Non me lo ricordo più.» «Non importa, non ha importanza.» Harry si asciugò il viso bagnato di lacrime con un angolo del lenzuolo, poi se lo premette davanti alla bocca, per soffocare il singhiozzo. «Mi fa male la testa; mi sono rotto qualche cosa?» «No.» "In questo momento vorrebbe essersi rotto qualche cosa" pensò Turee "almeno potrebbe attribuire la sua infelicità al dolore fisico." Ma i dolori di Harry erano di un tipo che nessun medico avrebbe potuto curare con un'ingessatura o un impacco. «Harry, ti sei preso un'orribile sbronza; quanto hai bevuto?» «Solo un bicchierino.» «Andiamo, io non sono un poliziotto. Quanto?» «Non lo so, non lo so, non ricordo.» «Va bene, non ti agitare.» «Avevo bisogno di bere; ho lasciato il mio impiego.» «Perché? Ti è sempre piaciuto il lavoro che facevi.» «Niente moglie, niente casa e niente lavoro. Ricomincio da capo.» «Mi sembra una logica abbastanza puerile. Come pensi di vivere?» «Non lo so e non me ne frega niente.» «Credi che la compagnia ti riprenderà? Sono anni che lavori per loro.» «Non voglio tornare là dentro.» «Potresti chiedere di venir trasferito in un'altra città.» «Niente casa, niente moglie, niente lavoro...»
«E anche niente amici, se continui a comportarti così.» «Amici!» La parola gli uscì di bocca come un rospo disgustoso; voltò la testa verso il cuscino e si mise a imprecare sottovoce. Dopo un po' Turee lo interruppe: «Stai cominciando a ripeterti.» «Vuoi chiudere quella tua dannatissima...» «Va bene, va bene.» «Come mai sei venuto qui? Chi ti ha chiesto di venire?» «Thelma; ero con lei quando ha telefonato l'ospedale.» «E che ci facevi? O sono indiscreto?» Turee, pallido per la rabbia, gli spiegò in termini elementari tutto quello che non aveva fatto con Thelma. «È abbastanza chiaro, adesso, o vuoi che ti disegni delle vignette?» «Stai zitto, piantala, piantala!» Richiamata dal baccano, apparve la signorina Hutchins; portava stampato in viso il sorriso professionale che metteva e toglieva come se si fosse trattato di un camice. «Che cosa sta succedendo? Volete svegliarmi tutto l'ospedale? Come va la testa?» Senza aspettare risposta, cominciò a sistemare un vassoio sul letto di Harry. «Ecco qua. Un bel semolino di avena e una tazza di cioccolata con una meringa. Uno dei nuovi dietologi va pazzo per le meringhe e le mette da tutte le parti. E poi due pilloline per aiutare a calmare i nervi.» Harry diede un'occhiata alle pillole: «Cloropromazina» sentenziò. «Come fa a saperlo?» «Non ha importanza, tanto non le prendo. Voglio i miei vestiti.» «Per farne cosa?» «Per andarmene da qui. Dove sono i miei vestiti?» «Dove li ho riposti; signor Bream, vediamo di non lasciarci trascinare in una discussione: in un ospedale, se il dottore le dice di restare, lei resta. Faccia finta di essere un ospite e si comporti educatamente.» «Devo parlare con mia moglie; è urgente.» «Stia a sentire, signor Bream, anche se lei riuscisse a uscire di qui, non avrebbe la possibilità di andare a casa. Stava guidando in stato di ubriachezza e ha avuto un incidente. Là fuori c'è un poliziotto che aspetta di poterla interrogare. Questo non è il Royal York Hotel, ma è sempre meglio di una cella nella prigione locale.» «La cauzione! Potrei uscire su cauzione. Ralph, quanti soldi hai?»
«In tasca un dollaro e 35 centesimi. In banca qualcosa di più.» «Be', c'è Bill Winslow o Joe Hepburn, o Esther; no, Esther non può essere disturbata adesso, ma Bill...» «Niente Bill; non per questa notte, almeno» lo interruppe bruscamente la signorina Hutchins. «Se si comporterà bene potrà restare qui dov'è in un letto caldo e confortevole, e dove c'è qualcuno che l'accudisce. Ma se comincia ad agitarsi, la spedisco al reparto psichiatria. Lì ci sono dei letti che hanno le sbarre attorno. Ora, preferisce passare la notte come una scimmia allo zoo o comportarsi come un bravo ragazzo, mangiare il semolino d'avena, mandar giù le pillole e piantarla di discutere?» Harry, risentito, la guardò di sottecchi da sotto le bende: «Lei è molto sgarbata.» «Davvero?» Per la prima volta il sorriso della signorina Hutchins sembrava sincero. «Sono trent'anni che ho a che fare con gli ubriachi; probabilmente non è il modo migliore di imparare le buone maniere. Crede di poter mangiare da solo?» «Certo che mangio da solo.» «Provi.» Harry ci provò, ma le mani gli tremavano talmente che non tentò nemmeno di portare il cucchiaio alle labbra. Si appoggiò al cuscino e chiuse gli occhi. «Non ho fame.» «Nessuno di voi ha mai fame» ribatté l'infermiera seccamente «ma un po' di proteine aiutano a far passare il tremito. Anche le pillole sono utili. Allora, le prende?» «Penso di sì.» L'infermiera gli porse due pilloline in un minuscolo bicchierino di plastica e Harry le inghiottì da esperto, senz'acqua. «Ecco fatto; adesso le porterò via il vassoio e riproverà a mangiare dopo essersi riposato.» «La cloropromazina non mi fa nessun effetto; l'ho provata decine di volte.» «Staremo a vedere.» Rimise il letto in posizione orizzontale e pochi minuti più tardi Harry era addormentato e russava pesantemente. Turee seguì la signorina Hutchins nel corridoio. «È opportuno che io rimanga qui?» «No, non c'è motivo; adesso starà bene. Con ogni probabilità non si sve-
glierà prima di domani mattina.» «Speriamo» rispose Turee augurandosi di poter fare lo stesso e di non svegliarsi fino a mezzogiorno. Per allora alcune cose si sarebbero sistemate: Harry sarebbe stato libero ed Esther avrebbe superato il primo giorno di vedovanza. Forse i risultati dell'autopsia sarebbero stati resi noti e ogni dubbio sulla morte di Ron dissipato. Stupito, si sorprese a chiedersi se Ron avesse fatto testamento e se, in caso affermativo, si era ricordato di lui e degli altri amici. "Come posso impedirmi di pensarlo" si chiese. "Ho in tasca un dollaro e 35 centesimi!" «C'è qualcosa di strano nel signor Bream» stava intanto dicendo l'infermiera. «Prima di portargli il vassoio, ho controllato i risultati dell'esame del sangue: la percentuale di alcool era solo dello 0,1 per cento. In una persona normale non viene nemmeno considerato stato di ubriachezza, eppure il signor Bream era ubriaco fradicio quando l'hanno ricoverato. Forse è una persona che non regge l'alcool.» «Forse è così.» «Oppure si trova sotto stress psicologico e questo può aggravare l'effetto dell'alcool. Strano che sua moglie non sia venuta a trovarlo.» Il tono della signorina Hutchins era del tutto normale, ma un lampo negli occhi la tradì. «Quando le ho parlato al telefono, mi è sembrata molto fredda e controllata, proprio il tipo di persona che prende in mano la situazione, in caso di emergenza.» "Domani, domani a mezzogiorno" ripeté tra di sé Turee come un bimbo che ripete la filastrocca di Natale "domani a mezzogiorno molte cose si saranno sistemate e la signorina Hutchins sarà solo un ricordo del passato." Come poteva immaginare che molto tempo dopo quell'infermiera gli sarebbe tornata in mente distintamente, proprio come la vedeva adesso che si allontanava per il corridoio verso il banco delle infermiere? Turee si diresse invece verso l'uscita: il poliziotto di cui aveva parlato la signorina Hutchins stava aspettando al banco dell'accettazione, chiacchierando con un giovanotto biondo coi capelli a spazzola che indossava un impermeabile. Quando Turee gli passò davanti, il giovanottone si voltò e sul suo viso apparve un ampio sorriso. «Buona sera, professore.» «Buona sera.» «Lei probabilmente non si ricorda di me; io sono Rod Blake. Ho fre-
quentato il suo corso di scienze politiche due anni fa.» «Blake... Ma sì, certamente.» Gli tornò in mente che Blake era un ragazzo intraprendente, la cui opinione di sé era decisamente più alta dei voti che prendeva. «Che cosa fai quest'anno, Blake?» «Un po' di questo e un po' di quello. Ho in vista un lavoro, un buon lavoro. Perché cominciare dal fondo, dico io?» «Be', buona fortuna.» Turee era impaziente di andarsene, ma il giovanotto gli si parò davanti, impedendogli di muoversi. Fu una mossa esperta, come se Blake fosse abituato a bloccare la gente che cercava di sfuggirgli. «Spero che non sia qui a causa della sua famiglia, professore.» «No, stanno tutti bene, grazie.» «Ne sono felice. Solo che vedendola uscire da qui...» «Ho fatto visita a un amico che ha avuto un incidente.» «Niente di serio, spero...» Turee dette un'occhiata al poliziotto che sembrava annoiato, non era chiaro se per la conversazione, il suo lavoro, o Blake. «No, niente di serio. Buona notte, Blake.» Si strinsero forte la mano, come due vecchi amici o due segretamente nemici. Il vento freddo della notte gli asciugò il sudore sulla fronte e gli fece venire un brivido. "L'ho bocciato l'anno scorso e lui mi detesta con tutta l'anima. Mi chiedo che diavolo volesse!" 16 Era una caratteristica di Blake, quando voleva qualcosa con tutte le sue forze, di perseguirla con tanta impudente determinazione da ridurre le sue possibilità di riuscita. L'impiego al "Globe and Mail" ne era un esempio. Aveva deciso che il giornalismo sarebbe stato il suo mestiere perché aveva fascino, era eccitante e offriva buone possibilità di carriera. «Aspetta fino a che non diventerò direttore del giornale» aveva detto a una delle sue ragazze. Aveva puntato la sua attenzione in particolare sul "Globe" perché era una vecchia e rispettabile testata, con il bilancio in pareggio, e il direttore della cronaca era un certo Ian Richard che Blake rispettava nei limiti delle sue possibilità di rispettare qualcuno.
Durante l'ultimo mese, un paio di volte alla settimana, si era presentato in redazione cercando di convincere Richard, con nuovi racconti, progetti per la pagina sportiva, idee per una più moderna impaginazione, che il "Globe" stava invecchiando e che avrebbe avuto bisogno di una trasfusione di sangue giovane: in particolare del proprio. Come sempre aveva esagerato e Richard, che all'inizio l'aveva guardato con simpatia, adesso non lo poteva più sopportare. Tuttavia, benché Richard gli indicasse chiaramente che non voleva saperne di lui, Blake si rifiutava testardamente di ammetterlo. Quel martedì pomeriggio, sul tardi, Blake comparve nell'ufficio di Richard eccitatissimo. Richard non ci fece caso: era già capitato altre volte e di solito significava soltanto che Blake aveva fatto dei bellissimi sogni su se stesso. «Ti inviterei a sederti, ma ho da fare» disse subito Richard. «Posso parlare anche stando in piedi.» «Per quello che mi riguarda puoi parlare anche a testa in giù e gambe in su, ma io sono occupato.» «Te ne pentirai se non mi ascolti: sto seguendo una pista interessante.» «Di nuovo?» «Questa volta si tratta di una cosa grossa; hai seguito il caso Galloway?» «Leggo il mio giornale, naturalmente. Che cosa c'è di nuovo? I suicidi si vendono a dieci centesimi la dozzina.» «E le storie che ci stanno dietro?» «Sono certo che sono tutte interessantissime, ma non è il tipo di roba che noi pubblichiamo.» «Potrebbe interessarvi pubblicare questa; voi, o un altro giornale. Vi concedo la precedenza. Gentile da parte mia, eh?» «Fantastico.» Richard fece una smorfia come se avesse morso un limone. «Proprio fantastico.» «Be', tutto è cominciato per puro caso. La notte scorsa sono passato dal pronto soccorso del General Hospital. È un buon posto per raccogliere notizie; ci sono sempre in giro dei poliziotti che aspettano di interrogare le vittime degli incidenti e roba del genere. Be', me ne stavo lì a chiacchierare, quando ho visto passare un mio vecchio professore dell'università, Ralph Turee. Ho frequentato uno dei suoi corsi e lui mi ha sbattuto fuori, ma mi sono detto: il passato è passato, non parliamone più. E poi era l'ultimo posto al mondo dove mi aspettavo di incontrare il professor Turee: è un tipo freddo, prudente; probabilmente non si è mai beccato nemmeno
una multa per divieto di sosta; un po' come te, vero, Richard?» «Vai avanti; e allora?» «Pare che Turee fosse andato al pronto soccorso a trovare un amico che aveva avuto un incidente. Questo è ciò che sono riuscito a sapere; il resto me l'ha raccontato l'infermiera di turno. Non ho avuto nessuna difficoltà: le infermiere sono pazze di me. Comunque, le ho fatto il mio trattamento speciale e mi ha aperto il suo cuore. L'amico che Turee era andato a trovare è un certo Harry Bream, che è stato portato all'ospedale ubriaco dopo che era andato a finire contro un tram. Bream vaneggiava durante la medicazione e ha ripetuto più volte alcuni nomi. Uno di questi era Galloway, Ron Galloway. Non appena l'ho saputo un campanellino ha cominciato a suonarmi in testa.» «Il solito vecchio campanello?» Blake liquidò il sarcasmo con un gesto della mano. «Mi sono messo a controllare gli schedari prima in comune e poi i vostri al pianterreno. Ed ecco che cosa ho scoperto: quando Galloway si è sposato con la sua attuale moglie nove anni fa, Bream era il suo testimone. E stai a sentire questa: era testimone anche al primo matrimonio di Galloway, quello con Dorothy Reynold, l'ereditiera. La conclusione è ovvia: Bream e Galloway sono amici intimi da molti anni.» «E allora?» «Allora, adesso Bream ha preso moglie; si è sposato tre anni fa, vivono a Weston e non hanno figli. Il nome della moglie è Thelma. Questo ti dice niente?» «Niente di niente.» «Dovresti essere più informato Richard, come lo sono io. Nella lettera che il suicida ha mandato alla moglie... insomma, diciamo che io ho un buon amico nella polizia.» «E ti ha fatto vedere la lettera?» «No, ma mi ha raccontato il contenuto.» Richard lo guardò torvo: «E quanto ti è costato?» «Neanche un centesimo. Gli piacciono i miei occhioni azzurri.» «A quanto pare anche i poliziotti ti trovano irresistibile come le infermiere.» «Puoi dirlo» ribatté Blake con un sorriso. «Sei un ragazzino presuntuoso, Blake, pieno di idee, qualcuna buona, e pieno di storie, qualcuna vera. Ma soprattutto pieno di te. Non ti darei un lavoro neanche se ce l'avessi. Tu sei solo fonte di guai.»
«Guai o no, io conosco una notizia di grande valore.» «Vuoi un consiglio? Valla a raccontare al "News".» «Il "News" è un giornale che non ha classe, e poi... ho sentito dire che sta per chiudere i battenti. Non mi va di imbarcarmi su una nave che sta andando a fondo: non so nuotare.» «Sarà meglio che impari.» «Okay, vai al diavolo, Richard. Lascia pure che uno stupido pregiudizio contro di me faccia perdere al giornale uno scoop.» «La nostra diffusione non dipende da questo genere di notizie.» «D'accordo; ma scarteresti un'occasione se ti si presentasse?» Richard esitò: «Sta' a sentire, Blake» rispose tamburellando con la matita sulla scrivania «se hai una buona storia può anche darsi che la compri, ma non sono disposto ad assumerti.» «Quanto?» «Questo dipende dalla storia, se è buona e se è vera. E se si può stampare.» «Se io fossi il direttore del giornale, la stamperei.» «Be', non tutti la pensano nello stesso modo. Sentiamo questa storia.» «No, non ancora. Devo controllare qualche cosa prima di essere sicuro al cento per cento. Oh, non preoccuparti, tutto andrà per il meglio. I miei metodi forse non sono ortodossi come quelli dei boy scout, ma funzionano. Lo sai che cosa manca al tuo giornale, Richard? Una scarica elettrica, un po' di vitalità.» «Togliti dai piedi, Blake, ti ho detto che ho da fare.» «Okay, ma tornerò. A meno che qualcun altro non mi faccia un'offerta migliore.» «Se te la fanno, accettala.» Richard raccolse una cartellina dalla scrivania e cominciò a leggere. Blake allungò il collo per dare un'occhiata: «Il rapporto sull'autopsia di Galloway, vero? Scommetto che so già quello che farai: prenderai la matita blu e lo ridurrai a una notizia eccitante come una quotazione di borsa.» «Questi sono affari miei.» Quando finalmente Blake se ne fu andato, Richard si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi: gli bruciavano come se un vento forte glieli avesse riempiti di granelli di sabbia. Era più disgustato che interessato dalle promesse di Blake: se nel dipartimento di polizia c'era una tale fuga di notizie che anche un ragazzotto come quello poteva venire a conoscenza del contenuto di una lettera lasciata da un suicida, questa era una notizia più grave
e interessante di qualsiasi cosa Blake fosse riuscito a scoprire. Si rimise gli occhiali e tornò al rapporto sull'autopsia. A una prima lettura, parve a Richard ancora più noiosa di una quotazione di borsa: la morte era stata causata da annegamento; avevano trovato acqua nello stomaco e nei polmoni e della schiuma nella trachea. L'unica sorpresa contenuta nel rapporto era che Galloway qualche ora prima di morire, aveva fatto un altro tentativo di uccidersi. Nello stomaco e in altri organi vitali era stata trovata una notevole quantità di barbiturici. Il patologo che aveva eseguito l'autopsia, interrogato in proposito, aveva affermato che è abbastanza comune trovare tracce di precedenti tentativi di suicidio, che egli chiamava sommariamente "indicazioni di incertezza". Spesso suicidi che si erano tolti la vita con un rasoio presentavano segni di tagli da coltello o altri strumenti acuminati. «Indicazioni di incertezza» ripeté Richard ad alta voce. Galloway era un uomo, come lui, che viveva la vita di tutti i giorni, fino a che, in un certo giorno, non aveva più trovato un incentivo per andare avanti. Aveva provato a uccidersi, non c'era riuscito e ci aveva provato di nuovo. Tra questi due istanti, c'era stato un "momento di incertezza". In che momento aveva scritto la lettera alla moglie? «E chi era» si chiese Richard «questa Thelma?» 17 Raramente Thelma leggeva i quotidiani; in realtà quello che accadeva agli altri non la interessava. Non che fosse priva di una normale dose di curiosità femminile, ma la sua curiosità non si spingeva al di là di un cerchio molto ristretto. Era come un trenino elettrico che girava sempre in tondo e si fermava soltanto a certe stazioni prestabilite: quelle che in qualche modo concernevano lei stessa. Sul prato davanti a casa il giornale del mattino giaceva abbandonato, la carta un po' ingiallita dai raggi del sole primaverile. Turee aveva provato per ore a telefonarle per metterla in guardia contro un breve paragrafo che dava nell'occhio pubblicato sul "News", in cui si parlava di una "Donna misteriosa coinvolta nel caso Galloway". Thelma aveva sentito suonare il telefono, ma si era rifiutata di rispondere. Era certa che si trattava di Turee ed era convinta che volesse soltanto ripeterle per l'ennesima volta che, almeno per rispetto al buon gusto, era meglio che non partecipasse al funerale di Ron Galloway. Thelma era ostinatamente decisa a non seguire il suo
consiglio. Prima di tutto, anche se inconsciamente, avere qualche cosa contro cui ribellarsi la distraeva dal suo dolore. Il tempo che dedicava a controbattere le argomentazioni di Turee veniva sottratto a quello che avrebbe altrimenti dedicato a compiangersi e a sentirsi colpevole. Il funerale si sarebbe svolto alle tre del pomeriggio e, sebbene non fosse ancora l'una, Thelma si era già vestita per l'occasione: indossava un vecchio abito nero che malamente si adattava alle sue nuove proporzioni, i capelli biondi erano legati strettamente sulla nuca e sul viso, privo di trucco, aveva passato solo un velo di cipria chiara per ridurre il rossore causato dalle lacrime. Aveva più lei l'aspetto della vedova inconsolabile di quanto mai sarebbe riuscito a Esther. Thelma se ne rendeva perfettamente conto e questo le dava un amaro senso di trionfo. Il pensiero di Ron le riempì gli occhi di lacrime e stava per scoppiare in singhiozzi quando il campanello della porta e il telefono si misero a suonare contemporaneamente. «Maledizione!» sussurrò. «Ma perché non vogliono lasciarmi in pace!» Si asciugò gli occhi con la manica del vestito come una ragazzina e, ignorando il telefono, andò ad aprire. Sulla porta c'era un giovanottone biondo con i capelli a spazzola che stringeva tra le mani un fascio di opuscoli pubblicitari su un depuratore d'acqua. Parlava a una tale velocità che Thelma non riusciva neppure a seguire che cosa stava dicendo. «... con solo pochi centesimi al giorno, signora, potrà concedersi il lusso di vedere l'acqua piovana uscire dal suo rubinetto.» «Senta, è inutile che lei perda il suo tempo; in questo momento non ho soldi.» «Un depuratore riduce i costi di saponi e detergenti, il consumo dell'acqua, l'usura dei tessuti e, quello che è ancora più importante, prolunga la durata della caldaia dell'acqua. Se mi permette di entrare anche solo per un minuto...» «Ecco, non so.» Il giovanotto approfittò subito della sua esitazione: finse di lasciar cadere gli opuscoli, si chinò per raccattarli e quando si rialzò si ritrovò già in casa. La manovra era stata così abile che Thelma non poté fare a meno di restarne ammirata. C'era stato un tempo nella sua vita in cui aveva venduto cosmetici di porta in porta; conosceva quindi molti trucchi del mestiere, ma quello le giungeva nuovo. Thelma richiuse la porta, abbastanza divertita all'idea di fingersi una
sciocca e di permettere che il giovanotto l'avesse vinta. Non la sfiorò neppure l'idea che fino a qualche ora prima quel ragazzo non sapeva niente di depuratori e che quegli opuscoli venivano distribuiti gratuitamente dalla Hydro Electric Company. «Il mio nome è Blake, signora, Rod Blake.» «Io sono la signora Bream; si accomodi, se crede.» «Grazie; dunque, a proposito del depuratore, naturalmente all'inizio la spesa potrà sembrarle eccessiva, ma mi creda, si ammortizza in breve tempo. Prendiamo per esempio questo modello: potrei avere un po' più di luce signora?» Thelma tirò le tende senza immaginare che Blake voleva più luce solo per poterla studiare meglio. Osservando il ventre sporgente sotto l'abito teso, il pallore del viso, gli occhi gonfi per le lacrime versate, quell'uomo non provava nessuna pietà, ma solo soddisfazione, perché la sua intuizione si era rivelata esatta. Questa dunque era la donna! Ne fu ancora più sicuro quando vide la fotografia in cornice sul pianoforte: evidentemente si trattava della fotografia di un matrimonio e lo sposo impettito e sorridente era l'uomo che aveva visto nella corsia del pronto soccorso lunedì sera. La sposa era Thelma; che sembrava di dieci anni più giovane, anche se Blake sapeva che i due si erano sposati solo tre anni prima. «La casa è così piccola» stava intanto dicendo Thelma «non c'è posto per un depuratore.» «Be', è quello che dicono sempre tutti, ma poi c'è sempre un angolino a cui non avevano pensato. Le dispiace se do un'occhiata attorno?» Thelma non rispose; rimase immobile davanti alla finestra, con le mani piccole e grassocce strette l'una all'altra come se pregasse. «Signora? Le ho chiesto se...» «Stia zitto.» Sorpreso, Blake seguì il suo sguardo; ma non vide altro che dei bambini che giocavano; una vecchia signora che avanzava sorreggendosi con due bastoni e un uomo che stava imbiancando il portico di casa. «Signora Bream?» «È sua quella macchina parcheggiata davanti al marciapiede opposto?» «Non ho la macchina, signora. Ho appena cominciato a lavorare.» «Quella macchina, non ci vedo molto bene in questi giorni, è una Buick?» «Mi sembra di sì.» «Un modello di cinque anni fa?»
«Più o meno.» «C'è un uomo al volante? I miei poveri occhi... Diventerò cieca se non smetto di piangere. C'è un uomo in quella macchina?» «Sì.» «Oh mio Dio! Mi fa la guardia! Forse sono ore che sta là fuori; perché non può lasciarmi in pace?» Blake si agitò imbarazzato; quello che per lui era cominciato come uno scherzo gli si stava sgretolando tra le mani, come un castello di sabbia sotto il sole. «Credo che sia meglio che vada; se lei pensa che la sua cucina sia troppo piccola...» «Adesso non può andarsene.» «Ma io...» «Non vede che sta uscendo di macchina, che sta venendo qui? Non può lasciarmi qui sola con lui.» «Questi non sono affari miei.» «Sa Iddio che cosa potrebbe pensare vedendola qui in casa con me. Potrebbe credere che io e lei... no, non può andarsene senza prima avergli spiegato che lei è soltanto un rappresentate; avrà pure un documento rilasciatole dalla compagnia per cui lavora...» Blake cominciò a sudare freddo: «Le ho detto che questa è la mia prima giornata di lavoro; sono soltanto un apprendista.» «Bene, potrà dirgli questo.» «No, vede, io non lavoro per nessuna specifica compagnia.» «Gli opuscoli che mi ha mostrato sono quelli della Hydro Electric Company.» «Certamente, ma...» «Non abbia paura» disse Thelma guardandolo con disprezzo «Harry può essere scortese, ma non farebbe male a una mosca.» Harry aveva bussato alla porta, e non ricevendo una risposta immediata aveva aperto con la propria chiave. Si incontrarono in corridoio. «Salve Harry, come stai?» La guardò nella semioscurità, socchiudendo gli occhi, come una persona abituata a portare gli occhiali che trova il mondo un po' strano quando li toglie. «Che strano vestito hai.» «Ti sembra?» «Non me lo ricordo.»
«L'avevo ancora prima di sposarci.» «Nero. Stai andando al funerale?» «Sì. E tu?» Harry scosse la testa: «Turee ha detto che, date le circostanze, sarebbe di cattivo gusto se ci andassimo.» «Turee ha detto questo, Turee ha detto quello... Be', Turee può manovrare la tua vita, se vuole, ma non la mia. Io andrò al funerale: ho il diritto di andarci.» Harry le sorrise tristemente. «Abbiamo tutti dei diritti che non vogliamo, o non possiamo, far valere. Tecnicamente, io ho il diritto di venire a casa mia, baciare mia moglie e magari fare l'amore con lei, se ne ho voglia.» «Questa è un'altra delle idee di Turee?» «No, è un'idea mia.» «È meglio che tu la smetta con questi discorsi. Visto che tu e Turee affermate di essere tanto bene educati, perché non provate a comportarvi come tali? E poi, abbiamo una visita.» «Già, vedo.» «Lui non è nessuno... soltanto un rappresentante di depuratori d'acqua; sostiene che fanno risparmiare. Mi chiedo se sia vero.» «Chi lo sa.» Harry continuava a sorridere, ma adesso il suo era un sorriso strano, circospetto. «Hai tutti i diritti di avere visite, di comprare depuratori, ma, come ho detto prima, ho anch'io i miei diritti. È quando i nostri diritti si scontrano che sorgono i guai.» «Non ho paura delle tue minacce.» «Stai tremando.» «Ammetto che mi rendi nervosa, solo che mi sembra di avere davanti un ragazzino che tira palle di neve. Non mi va di essere colpita dalle palle di neve, ma non è poi così grave.» «È primavera adesso; la neve non c'è più. I ragazzini ora potrebbero usare i sassi.» «Oh, smettila! Fai quello che sei venuto a fare e che non se ne parli più.» «Lo farò, ma prima voglio darti una spiegazione: ho fatto di tutto, Thelma, per salvare il nostro matrimonio: ti ho pregato, implorato, supplicato. Adesso invece ti do un ordine.» Thelma lo fissò torva e silenziosa. «Le mie valigie sono ancora in macchina; sono ancora lì da lunedì pomeriggio.»
«Come mai?» «Perché io torno a casa» rispose Harry tranquillamente «io torno nella mia casa, con mia moglie.» «Smettila di comportarti come un pazzo.» «Non sono un pazzo, e neanche un ragazzino, e ho qualcosa in tasca che mi conferisce più autorità di un sasso o di una palla di neve.» «Che cos'hai?» «Una rivoltella.» «Ma tu sei pazzo! Harry, ti prego, ascoltami» gli posò una mano sul braccio, ma lui le passò davanti senza fermarsi ed entrò in soggiorno. Nella tasca destra della giacca si intravedeva chiaramente la sagoma dell'arma. Blake se ne stava nell'angolo più lontano nella stanza stringendosi al petto gli opuscoli pubblicitari come se fossero il suo passaporto verso il mondo esterno. Gocce di sudore gli scendevano lentamente dalle tempie lasciandogli tracce lucide sulle guance. «Salve!» gli disse Harry allegramente. «A proposito della sua offerta: credo che io e mia moglie potremmo essere interessati. Mi dica un po', un depuratore rende più dolce anche la rasatura?» «Non saprei.» «Come sarebbe a dire? Mi sembra abbastanza grandicello da aver incominciato a farsi la barba. Quanti anni ha?» «Ventuno.» «È un ragazzo! Le piace giocare a palle di neve?» «Io...» «Non ha importanza; deve scusarci se l'abbiamo trascinata in questa nostra piccola divergenza di opinioni. Mia moglie non è stata molto bene in questi ultimi tempi. Aspettiamo un bambino tra qualche mese, è il primo. Questo significa che ci sarà molto di più da lavare, non crede? Io penso che un depuratore d'acqua potrebbe essere un buon investimento. Che cosa ne pensi, Thelma?» «Harry, smettila.» «Perché non prendi una pillola, Thelma? Tu non ti senti bene.» Si voltò verso Blake che aveva furtivamente fatto un passo verso la porta. «Il suo viso mi è familiare: ci siamo già visti?» «No.» "Sì che potrebbe avermi visto" pensò Blake. "Aveva gli occhi chiusi mentre parlavo con l'infermiera, però..." «Come si chiama?» insistette Harry.
«Rod Blake.» «Strano, giurerei di averla vista da qualche parte. Forse all'ospedale. È stato all'ospedale di recente?» «No.» «Be', non ha importanza: mi dica qualcosa di più sul depuratore.» «Abbiamo diversi modelli.» «Va bene, me ne parli; faccia il discorsetto che si era preparato.» «Ecco, come stavo dicendo a sua moglie, questa è la mia prima giornata di lavoro.» «E allora?» «Ancora non sono molto pratico.» Sebbene sentisse il sudore che gli colava dalla fronte, Blake si era messo a tremare, come se un vento freddo scuotesse la casa dalle fondamenta. «Mi è venuta un'idea.» «Sentiamo.» «Potrei lasciarvi gli opuscoli; voi potete studiare i prezzi e i modelli, e quando vi sarete decisi...» «Ma io ho già deciso, ne compriamo uno.» «Quale... quale modello?» «Uno qualsiasi» rispose Harry accomodante «abbiamo bisogno di molta acqua dolce per gli indumenti del nostro bambino. Poiché probabilmente qualche volta toccherà a me fare il bucato, la mia decisione non è del tutto disinteressata. È sposato, ragazzo?» «No, signore.» «Non c'è fretta, ha ancora tempo davanti a sé. Io avevo già compiuto trent'anni quando mi sono sposato; mi ci è voluto molto tempo per trovare la ragazza giusta, ma alla fine l'ho trovata e adesso non intendo perderla.» «Be', adesso sarà meglio che vada.» «Che cos'è tutta questa fretta?» «Io... ecco, devo trovare un tecnico che venga a fare le misurazioni.» Blake cominciò a scivolare lentamente verso la porta, respirando affannosamente come se avesse fatto una corsa agli ostacoli. «Provvederò immediatamente a inoltrare la sua ordinazione e manderò qualcuno per l'installazione.» «Oh, non c'è fretta» disse Harry guardando affettuosamente la moglie «non si può fare fretta a Madre Natura, le pare?» «Harry, ascoltami.» «Andiamo, mia cara, non c'è niente di cui essere imbarazzati, si tratta di un processo del tutto naturale.»
«Stai zitto.» Thelma andò a piantarsi davanti alla porta d'ingresso in modo che Blake non potesse in nessun modo svignarsela. «Non vogliamo un depuratore dell'acqua; mio marito si sta soltanto divertendo alle sue spalle... e alle mie. Probabilmente ha bevuto.» «Non bevuto, cara, riflettuto.» «Bevuto» ripeté Thelma sottovoce a Blake come se gli confidasse un segreto «e ha una rivoltella.» «Lo so, lo so, ma che diavolo vuole che faccia? Voglio andarmene da qui.» «Non può lasciarmi sola con lui.» «Prima ha detto che non aveva paura.» «Allora non sapevo che avesse una pistola.» «Gesù mio» sussurrò Blake sentendo le ginocchia che gli si piegavano sotto «se riesco ad andarmene da qui intero, andrò in chiesa tutte le domeniche per un anno.» «Vedi, mia cara, tutto quello che ho fatto in questi giorni è stato riflettere» riprese Harry. «Niente di speciale, soltanto comune buon senso, e ho deciso che non sei in grado di prendere decisioni che coinvolgano tutta la famiglia, adesso che saremo in tre. Sei troppo emotiva perché ti si possa concedere la libertà di scelta. Tocca a me prendere una posizione ferma, ed è quello che farò. Sono io il capofamiglia, ed è bene che tu cominci a rendertene conto. Io deciderò del nostro futuro. Hai capito Thelma?» «Sì, ho capito.» «Sono contento che tu cominci a ragionare; non voglio offenderti, ma tu sei sempre stata un po' instabile.» Thelma lo guardò contrariata. «Tu credi?» «Adesso tocca a me assumermi le responsabilità e prendere le decisioni, e la prima decisione che prendo è che compreremo il depuratore. Mi sono spiegato?» «Sì.» «Hai visto come sarà facile da ora in poi? Tutto quello che devi fare è essere d'accordo con me.» «Sì, Harry.» «Ti risparmierà un mucchio di fatica; è troppo faticoso per una donna prendere decisioni, fare il capo. È pesante per tutti.» Si passò il dorso della mano sulla fronte. «Sono stanco, molto stanco. Non ho dormito molto in questi ultimi tempi. Di giorno al lavoro e di notte pensare, pensare, pensa-
re!» «Dovresti sdraiarti per un po', Harry, farti una bella dormita.» Thelma attraversò la stanza e andò a sistemare i cuscini sul divano. «Ecco qua, Harry, sdraiati.» Non ci fu bisogno che glielo ripetesse; si lasciò cadere sui cuscini sopraffatto dalla stanchezza. «Vieni a sdraiarti vicino a me.» «Adesso non posso, devo uscire.» «Non andrai al funerale. Non devi andare.» «Certo che no; se tu non vuoi che vada non andrò. Sei tu che comandi, Harry.» «Dove vai, allora?» «Al supermercato; se tu torni a casa bisogna che faccia un po' di provviste. Che cosa vuoi mangiare per cena?» «Non lo so» rispose Harry chiudendo gli occhi «sono così stanco.» «Pollo fritto?» «Non lo so. Baciami, Thelma.» Gli sfiorò con le labbra la fronte: bruciava, come se si fosse scottato al sole, o fosse stato messo ad arrostire nel forno. «Adesso riposati, Harry. Tutto questo pensare, decidere, ordinare, ti ha fatto venire la febbre.» Spalancò gli occhi, addolorato, come se fosse stato punto dalla sua ironia. «Non te ne importa niente di me. Non te ne importa niente di niente.» «Ti sbagli, mi importa molto.» «Non è vero! E adesso stammi bene a sentire: voglio pollo fritto questa sera; hai capito?» «Certo.» «Da ora in avanti sono io che prendo le decisioni: chiaro?» «Naturalmente.» Con un gemito si voltò su un fianco e nascose il viso tra i cuscini. Thelma rimase in piedi accanto a lui, fissandolo freddamente. «Ho bisogno delle chiavi della macchina per andare al supermercato; sono nella tasca della tua giacca?» Harry non rispose; Thelma aspettò qualche minuto, immobile come una statua, fino a che Harry non cominciò a russare; poi si chinò su di lui e con dita leggere gli tolse le chiavi da una tasca e la rivoltella dall'altra, poi si rialzò e le mise in borsetta. Blake la guardava affascinato con l'espressione
di uno che vede un artificiere disinnescare una bomba. Quando, voltandosi, Thelma lo vide, fece una smorfia di disappunto. «Credevo che se ne fosse andato.» «Non ancora.» «È libero di andarsene quando vuole.» Andò in corridoio e si mise un cappello nero, calandosi una veletta scura sul viso. «È libero di andarsene» ripeté «era così ansioso di andare via qualche minuto fa!» «Naturalmente. Che cosa credeva, che volessi mettermi a scherzare con un pazzo?» «Non è pazzo; è emotivamente esausto.» «Per quello che mi riguarda è lo stesso. Sarà meglio che lei stia attenta, signora Bream.» Sembrava che fosse riluttante ad andarsene, come se si vergognasse di quello che aveva fatto. «Che cosa ne farà della rivoltella?» «Non ne ho idea; che cosa si fa delle rivoltelle?» «La prima cosa è scaricarla; mi faccia vedere.» Thelma aprì la borsetta: non sapeva niente di rivoltelle, ma le parve molto leggera, poco robusta. «Non è vera» disse Blake con una voce che rasentava il falsetto. «Come dice?» «È un giocattolo, una pistola giocattolo.» Si sentì avvampare per la vergogna e per la rabbia. «Un giocattolo, e io ci sono cascato come un...» "Come un codardo" pensò "ho avuto paura di un giocattolo e di un uomo che ha il doppio della mia età. Un coniglio, ecco che cosa sono!" «Ne sono davvero sollevata; avrei dovuto immaginarlo, naturalmente. Harry non è tipo da far del male a qualcuno anche se lo volesse. La gente non può comportarsi diversamente da come è in realtà neanche se ci prova.» «Lei crede?» «Povero Harry, una pistola giocattolo. Fra qualche tempo, quando ripenseremo a questo episodio ci faremo tutti una risata. Insomma, io me ne stavo lì, morta di paura, e lei... Per un momento ho avuto paura che svenisse.» «Non ho avuto paura neanche per un istante.» Le rivolse uno sguardo carico d'odio e corse via, inseguito dalla vergogna e dalla propria stessa ombra. Thelma stava per richiamarlo, per dirgli di non preoccuparsi per il depuratore, ma proprio in quel momento il telefono squillò. Questa volta corse a rispondere per paura che Harry si svegliasse.
«Pronto?» «Thelma, sono Ralph, sono ore che cerco di mettermi in contatto con te.» «Ero fuori» mentì. «C'è qualche cosa che non va?» «Può darsi; questa mattina Harry è venuto nel mio ufficio; aveva un aspetto terribile, come se fosse stato sbronzo da una settimana. So che non può essere vero perché è andato in ufficio ogni giorno. Sono preoccupato.» «Perché?» «Parlava in modo... poco realistico, ecco. Diceva di voler tornare a casa da te, e che voleva riprendere in mano le redini della situazione. Cose del genere.» «E allora?» «Ho pensato che fosse meglio metterti in guardia; è un ragazzo buono come il pane, Thelma. Tocca a noi impedirgli di mettersi nei guai.» «Non a noi» rispose Thelma seccamente. «A voi.» «Che cosa intendi dire?» «Adesso è qui che dorme sul divano, dopo aver fatto una scena deliziosa davanti a un perfetto estraneo. Questa è l'ultima goccia. Se volete tenerlo fuori dai guai, dovrete pensarci voi. Tu, Bill e Joe. Siete voi i suoi amici, non io.» «Che cosa dovremmo fare?» «Io adesso vado al funerale di Ron; ed è inutile che tu ti metta a dire che non sta bene o che è di cattivo gusto, perché tanto vado lo stesso. E quando torno, voglio non trovare più Harry in casa. Se lo trovo ancora qui chiamerò la polizia e lo denuncerò per avermi minacciato con una pistola.» «Una pistola?» «Oh, era soltanto una pistola giocattolo, ma la minaccia era vera e ho anche un testimone. Harry potrebbe venire arrestato.» «Non puoi farlo!» «Tu credi? Ascoltami, ne ho abbastanza, sono stufa marcia. Queste scene mi sconvolgono; devo pensare alla mia salute e al mio bambino. Ho bisogno di pace e di serenità, e come faccio con un lunatico che mi gira attorno? Sono pronta a tutto pur di liberarmi di lui. E lo farò; nessuno riuscirà a impedirmelo.» «Farò del mio meglio.» «Lo porterai via di qui prima del mio ritorno?» «Te lo prometto.» «Immagino che dovrei ringraziarti, ma quello che fai è per amore di
Harry, non per me. Io non chiedo favori a nessuno.» «Ho capito: pensi solo a te stessa, Thelma.» «Ora ho anche qualcun altro a cui pensare» rispose riagganciando. In salotto, semisepolto tra i cuscini, Harry russava dolcemente, sognando vittorie e sconfitte, interrompendosi di tanto in tanto, solo per sospirare. "Che sopracciglia lunghe ha" pensò Thelma, e aggiunse: "Addio, Harry." 18 Harry dormì per tutta la durata del funerale, un po' per un inconscio desiderio di sfuggire alla realtà e un po' per vera stanchezza. Quando Turee e Bill arrivarono a casa sua, si era appena svegliato e stava seduto sul divano ancora un po' intontito. «Come siete capitati qua, voi due?» «Thelma ha lasciato la porta aperta.» «No, voglio dire: come mai siete qui?» «Azione prima e spiegazioni poi. Forza, Harry.» «Dove andiamo?» «A casa mia.» «Non voglio venire a casa tua. Voglio restare qui e aspettare Thelma.» «Thelma non tornerà a casa fino a che tu non te ne sarai andato.» «Ma deve farlo! Mi ha promesso di prepararmi pollo fritto, stasera. Gliel'ho ordinato.» «Oh, fantastico!» Dopo il funerale Winslow aveva tracannato tre Martini che avevano affogato il suo dolore ma gli avevano lasciato un nodo di rabbia in gola come il nocciolo di un'oliva. «Glielo hai ordinato? E come, con una pistola giocattolo? Si può sapere perché fai queste pagliacciate?» «Volevo soltanto dimostrare...» «Tra quello che volevi dimostrare e quello che hai dimostrato passano anni luce. Minacci una donna e la spaventi, ma poi, quando la paura è passata, che cosa resta? Desiderio di vendetta.» «Non Thelma...» «Proprio Thelma; vuoi metterti in quella tua testa dura che lei vuole che tu ti tolga dai piedi? Dopo le pagliacciate che hai fatto, non mi sento neanche di biasimarla. Adesso sbrighiamoci e andiamocene di qui: ho bisogno di bere qualche cosa.» «Accidenti! Si può sapere perché siete tutti incavolati?» «Chi è incavolato?»
«Tu lo sei.» «E chi l'ha detto?» «State buoni voi due» intervenne Turee. «Vieni, Harry, Bill ha qui fuori la sua macchina; ci accompagnerà a casa mia.» «E dov'è andata a finire la mia macchina?» «Thelma ha detto che la lascerà da me. Nancy ci sta aspettando, andiamo.» «Non voglio venire; non sono più un bambino a cui si fa fare quello che si vuole.» «Stai comportandoti come un bambino.» «Credevo che voi foste miei amici.» «Se non lo fossimo a quest'ora saremmo a casa nostra a goderci una cenetta tranquilla. E adesso andiamo.» «Okay, okay.» Harry si diresse verso la porta bofonchiando tra sé. Si fermò ai piedi della veranda e si voltò, nell'assurda speranza di vedere comparire Thelma che gli chiedeva di restare. La signora Malverson stava innaffiando l'aiuola dei narcisi. Quando vide Harry lo salutò scherzosamente agitando il tubo dell'acqua. «Salve, signor Bream! Tempo splendido per i narcisi, non le pare?» «Penso di sì. Ah, signora Malverson» disse Harry lasciando che gli altri lo precedessero di qualche passo «io dovrò assentarmi per un po' di tempo... gli affari, sa... Potrebbe di tanto in tanto dare un'occhiata a Thelma per distrarla un po'? Non è stata molto bene negli ultimi tempi.» «Lo so; gliel'ho detto anch'io domenica. Le ho detto: bambina mia, lei ha un aspetto orribile, come se fosse stata alzata tutta la notte a piangere. Sono certa che fosse domenica, perché le ho chiesto se voleva venire in chiesa con me. Era così nervosa! Ha lasciato cadere la bottiglia del latte. E poi per tutta la settimana ha cercato di evitarmi, proprio me, che sono sua amica. Naturalmente questo capita alle donne in certe circostanze...» «Circostanze?» «Andiamo, signor Bream, certo sospetta anche lei che un piccolo estraneo sta per entrare nella sua vita.» «Estraneo? Sì, questa è la parola giusta.» Si voltò così bruscamente che per poco non perse l'equilibrio. La signora Malverson rimase a guardarlo a bocca aperta per la sorpresa. Che cosa significava tutto questo? Forse non avrebbe dovuto parlargliene così apertamente, ma santo cielo, viviamo in tempi moderni! La gente
non nasconde il fatto di aspettare un bambino, anzi va in giro gridandolo a tutti. A meno che... «È ridicolo» disse ad alta voce dando uno strattone al tubo dell'acqua «non ho mai visto una moglie tanto affezionata come Thelma Bream. Mai un litigio tra quei due; Harry dice questo, Harry dice quest'altro, come se il marito fosse un Dio, invece che un ometto come tutti gli altri che va in giro a vendere pillole, alcune delle quali non servono neanche a niente. A meno che... Ridicolo! Assolutamente ridicolo. Dovrei vergognarmi di me stessa.» Quando arrivarono davanti alla casa di Turee, Nancy andò loro incontro per dare il benvenuto. «Salve, Harry. Dov'è Billy? Non viene a bere qualcosa con noi?» «Non questa sera» rispose suo marito. «La moglie ha il raffreddore e Bill vuole prenderlo anche lui, così avrà una buona scusa per avere gli occhi rossi.» «Non mi sembra il momento di fare lo spiritoso.» «Sono serissimo.» «Be', smettila lo stesso. Harry, dov'è la tua valigia?» «Nella mia macchina, che sa Dio dove si trova.» «Thelma l'ha parcheggiata nel vialetto. Eccoti le chiavi; vai a prendere la valigia.» «Non posso rimanere, vi ho già disturbato abbastanza.» «Sciocchezze. Sei il benvenuto e potrai dormire sulla veranda. È l'unico periodo dell'anno in cui ci si può stare senza congelarsi o morire di caldo. Che cosa ne dici della mia offerta?» «Ecco...» «Ma certo che resti. Sarà come ai vecchi tempi, quando non eri ancora sposato.» Le battute infelici di Nancy erano famose quanto la sua ospitalità. Imbarazzato, Harry rimase a capo chino a fissare il tappeto, che portava le tracce fangose lasciate dalle biciclette delle bambine. Nancy gli sfiorò gentilmente un braccio. «Dico sempre le cose sbagliate, ma tu sai che cosa intendevo. Vieni, vi ho preparato la cena; Ralph si occuperà della tua valigia più tardi.» Le bambine avevano già cenato ed erano state mandate di sopra con l'ordine di divertirsi, e i due uomini rimasero soli attorno al grande tavolo di quercia nella grande cucina vecchio stile. Erano tutti e due affamati e preoccupati e il pranzo fu disturbato soltanto dai rumori che venivano dal pia-
no superiore: passi affrettati, risatine, gridolini soffocati, di tanto in tanto un urlo. C'era qualcosa di strano nei loro giochi, come se qualcuno avesse confidato loro qualcosa di terribile e terrificante e loro stessero istericamente cercando di cancellarlo. Nancy le aveva chiamate e aveva detto con voce calma: «Lo zio Ron è morto. Se qualcuno ha qualche domanda da fare, cercherò di rispondere nel modo migliore possibile.» Era come chiedere a degli scolaretti delle elementari se avevano qualcosa da chiedere sulla bomba all'idrogeno. Nessuna domanda venne fatta. Il rumore al piano di sopra si fece più forte, più concitato, fino a che la voce di Nancy, tagliente come una lama, non le zittì: «Si può sapere che cosa state facendo voi quattro?» Improvviso e completo silenzio. «Voglio una risposta: che cosa stavate facendo?» La voce di una ragazzina, con tono di sfida, rispose: «Niente.» «Era un niente molto rumoroso.» «Era niente.» «Be', per favore, fate niente più sottovoce.» Sussurri, un gemito, una risatina repressa, poi la cantilena a quattro voci: "Lo zio Ron è stato messo nella fossa con il vestito della festa addosso". Il suono giunse fino in cucina e Harry rabbrividì. «L'ho perso.» «Che cosa?» «Il funerale.» «Non ha importanza; sono usi barbarici.» «Thelma c'era?» «Sì.» «Ci sono state scenate? Con Esther, voglio dire.» «Le signore» rispose Turee con ironia «non fanno scenate ai funerali.» «Ero preoccupato.» «Tu ti stai preoccupando troppo.» «Hai ragione.» «Devi smetterla.» «Lo so.» «Prova a pensare ai lati positivi di questa vicenda: sei giovane, sano, competente nel tuo lavoro, hai un futuro davanti a te.» «Non riesco a immaginarlo.»
«Non se ti ostini a tenere gli occhi chiusi e a pensare solo a Thelma. Prova a guardarti attorno: in cielo ci sono ancora le stelle, la città pullula di vita e il sangue ti scorre nelle vene. Tieni, prova questo porto: mio zio me ne ha mandato dodici bottiglie. Ha dovuto decidere tra me e la sua ulcera.» Harry guardò il bicchiere con sospetto. «No, grazie. È una settimana che non tocco alcool.» «Perché?» «Ho paura che interferisca con i miei pensieri.» «Qualche cosa deve però averlo fatto.» Turee bevve un sorso e fece una smorfia. «Ora capisco perché il vecchietto ha l'ulcera: questo porto è infernale. Provalo.» Harry lo provò. «Non è poi così male.» Arrivò Nancy dalla cucina e chiese a Ralph di andare di sopra a imporre un po' di disciplina alle bambine. Turee non sembrò affatto turbato dalla richiesta, come se fosse una cosa abituale. «Che cosa vuoi che faccia?» «Non lo so; però fai qualche cosa.» «Sii più precisa.» «Se sono sempre io quella che deve imporre la disciplina in famiglia, le ragazze si convinceranno che io sia un orco e si faranno venire dei complessi.» «Orchessa, e si faranno venire i complessi comunque.» «È Sandra che le istiga; avrei voglia di farle il sedere rosso come un pomodoro.» «Fallo allora.» «Non sei di nessun aiuto.» Turee si alzò, la baciò gentilmente su una guancia e la spinse verso la porta. Il porto, il tepore della cucina, la scenetta domestica a cui aveva assistito turbarono Harry. Si mise a giocherellare nervosamente con il bicchiere che teneva in mano mentre gli occhi gli si inumidivano. «Non posso restare qui, Ralph; mi piacerebbe, ma vedere te, Nancy, le bambine... non riesco a sopportarlo. Mi capisci?» «Sei tu che devi decidere» rispose Turee gravemente «io cercavo solo di aiutarti.» «Nessuno può aiutarmi; devo farcela da solo.»
Era la stessa cosa che aveva detto Thelma, e Turee si chiese quanto profondamente fossero convinti di quello che stavano dicendo e se veramente ce l'avrebbero fatta. Fino a che erano rimasti uniti, erano riusciti a sostenersi a vicenda, come covoni di paglia contro il vento. «Ti ricordi quello che mi hai detto lunedì» chiese Harry «a proposito di lasciare questa città e chiedere un trasferimento? Non mi sembra una cattiva idea.» «Bene.» «Sono certo che non avranno difficoltà a trasferirmi; sono un buon rappresentante e il mio curriculum è ineccepibile, a parte quella sciocchezza di lunedì. Forse, se me ne andassi per un po', Thelma potrebbe sentire la mia mancanza.» «Forse.» «Potrebbe persino cambiare idea. Potrei dirle di venire a raggiungermi; col bambino, naturalmente. Voglio dire: non è impossibile.» «No, affatto.» «Ha sempre desiderato andarsene da Toronto.» "Non insieme a te" pensò Ralph riempiendogli di nuovo il bicchiere. «Sai una cosa Ralph? Dopo tanti giorni, per la prima volta ho la sensazione che le cose si rimettano a funzionare. Non credi anche tu, Ralph, che tutto si aggiusterà?» «Certamente.» «Insomma, io stavo per perdere la testa: la notte non chiudevo occhio cercando di trovare una soluzione, non mangiavo, non vedevo più nessuno! Adesso mi sento un altro: comincio quasi a nutrire delle speranze.» Si interruppe per bere un sorso di porto e per asciugarsi la fronte col dorso della mano. «Ho detto quasi? Mi sono sbagliato; ho molte speranze. Avevi ragione, Ralph, io ho davanti a me un futuro, non lo credi anche tu?» «Naturalmente.» Turee osservò il sorriso di Harry e il suo sguardo acceso e si sentì riassalire dall'ansietà; Harry si stava abbandonando alle sue folli speranze e, come una falena impazzita, volava sempre più vicino alla fiammella che l'avrebbe bruciato. «Ascolta Harry, non farti troppe illusioni» e l'altro lo fissò in modo strano. «Non ti capisco: cinque minuti fa stavi cercando di rincuorarmi e adesso che mi sento rincuorato vuoi deprimermi. Che intenzioni hai? Di pungermi con uno spillo come un palloncino gonfiato? Be', non ci riuscirai vecchio mio; mi sento in gran forma e...»
«Prima di lasciare la città, credo che dovresti consigliarti con un avvocato.» Harry lo guardò a bocca aperta. «Un avvocato? E perché mai?» «Per Thelma.» «Perché possa ottenere il divorzio? È questo che intendi dire?» «No, no» replicò Ralph impaziente «ha bisogno di qualcuno che tuteli i suoi interessi, tutto qui.» «Ma perché? Ci sono io a proteggere i suoi interessi! Le manderò ogni soldo che riesco a risparmiare.» «Lo so, ma supponi che ti succeda qualche cosa: che ti ammali e non possa lavorare, che rimanga ferito in un incidente, che cosa succederebbe allora? Thelma resterebbe sola e senza aiuto.» «Non vedo che cosa c'entri in tutto questo un avvocato.» «Cerca di riflettere, Harry: il bambino è di Ron. Lui stesso ne ha ammesso la paternità, quindi il suo patrimonio deve provvedere anche al mantenimento e agli studi di suo figlio.» «Thelma non accetterebbe mai neanche un centesimo da Esther: è troppo orgogliosa.» «Qui l'orgoglio non c'entra; non c'è niente di personale in questa situazione. Thelma è orgogliosa, Esther sarà forse riluttante, tu sei indeciso, ma resta il fatto che questo piccolo ha legalmente il diritto di essere mantenuto con l'eredità del padre. Per questo ci vuole un legale, perché agisca nell'interesse del nascituro. Del resto, gli conviene; ho sentito dire che quando si tratta di patrimoni ingenti, gli avvocati lavorano a percentuale.» «Che cosa vuoi dire con "patrimoni ingenti"?» «Niente di specifico; dico solo che Thelma deve rivolgersi a un avvocato.» «Ma allora ci sarà un processo, ne parleranno anche tutti i giornali.» «Se i legali di Esther le consiglieranno di opporsi sì, ma non credo che lo faranno. Esther in questo momento è furiosa contro Thelma, ma non è una donna vendicativa; prima che il bambino nasca, il suo risentimento si sarà calmato.» «E questo che cosa significa? Che Thelma dovrà elemosinare il suo danaro?» «Harry, cerca di essere ragionevole; perché vuoi privare quel bambino del suo buon diritto? Lo so che tu sei disposto a mantenerlo, ma i figli costano cari. Credi a me che sono un esperto; da 14 anni non riesco a mettere
da parte un centesimo.» «D'accordo, d'accordo» rispose Harry stancamente «stai cercando di dirmi che non sono in grado di mantenerlo.» «No, io sto solamente dicendo che non devi farlo. Thelma e il piccolo hanno diritto a questo aiuto economico e solo l'orgoglio tuo e di Thelma può impedire che l'abbiano.» «Non ho bisogno della carità di nessuno.» «Non ti immischiare in questa faccenda, Harry, perché tu non c'entri: devi deciderti a guardare in faccia la realtà.» Turee premette le mani aperte sulle tempie, come per riordinare i pensieri. «In queste ultime settimane hai cercato di convincerti che non è successo niente tra Thelma e Ron, e che di fatto il bambino è tuo. Ma adesso devi smetterla, può essere pericoloso.» «Ma se...» «Non ci sono se. Il bambino è di Ron: devi accettare questo fatto e ripartire da lì. Se continuerai a farti delle illusioni non riuscirai mai a concludere niente. Perché non vuoi guardare in faccia la verità?» «Temo che non mi resti altro da fare.» Il volo folle della falena era terminato, le sue ali avevano sfiorato la fiammella ed era precipitata a terra. «Non ho potuto darle il figlio che desiderava tanto. Ho provato, Dio sa quanto ci ho provato. Sono stato in cura da un dottore per un anno senza dirle niente; fingevo di non volere un figlio perché temevo per lei, per la sua salute...» «Perché non le hai detto la verità, Harry?» «All'inizio non ero sicuro che fosse colpa mia; poi, quando ne sono stato certo, ho avuto paura. Per un po' ho sperato che qualcosa cambiasse. Ed è cambiata, eccome!» aggiunse cupamente. «In un modo in cui non avrei mai creduto: mia moglie con il mio migliore amico...» «Non è la prima volta che succede.» «Lo so. Ma non hanno pensato neanche per un istante a me e a Esther?» «Ci sono dei momenti in cui non si pensa a niente» rispose Turee. 19 Per quello che riguardava il caso Galloway, i giornali smisero di occuparsene dopo aver stampato i necrologi, ma i pettegolezzi continuavano a volare per la città come aquiloni col filo spezzato. Una volta accadde persino che uno sciacallo chiamasse Esther per accusarla di uxoricidio e per
chiederle cinquemila dollari come prezzo del suo silenzio. Dopo quell'episodio, Esther si rifiutò di rispondere al telefono o di vedere qualcuno, a meno che non si trattasse degli avvocati che si occupavano dell'omologazione del testamento di Ron. Era un testamento molto semplice per un uomo con la fortuna di Galloway: a parte alcuni piccoli legati, tutto era stato lasciato a Esther come se Ron avesse più fiducia nella sua saggezza e nel suo buon senso che nel proprio. Gli avvocati andavano e venivano con documenti da mostrarle e da farle firmare e per un po' quelli furono gli unici contatti di Esther con il mondo esterno. Restava in casa, vagando da una stanza all'altra alla ricerca di qualche cosa da fare: raddrizzava quadri che erano già perfettamente dritti, spolverava posacenere che non erano stati usati e leggeva libri di favole ai bambini con una voce sommessa e distaccata che aveva il potere di tranquillizzarli. Il dolore e la rabbia che l'avevano tormentata durante i primi tempi della vedovanza a poco a poco si andavano calmando, ed Esther cominciava ad accettare la nuova realtà e a guardarsi di nuovo attorno. Si rese conto che non era lei l'unica persona ferita dalla morte di Ron: c'era anche Thelma, che forse sarebbe stata quella che ne avrebbe sofferto più di tutti. Avrebbe voluto telefonarle, un po' per pietà e un po' per curiosità, ma si sentiva imbarazzata a farlo, perché non sapeva come avrebbe interpretato la sua telefonata. Cercò allora di mettersi in contatto con Harry in ufficio, ma le risposero che aveva lasciato il paese una settimana prima e che non conoscevano la sua sede di lavoro attuale perché era l'ufficio di Detroit che si occupava dei trasferimenti negli Stati Uniti. Il giorno successivo ricevette una lettera malamente scritta a macchina che portava il timbro postale di Kansas City, Missouri. Cara Esther, ho telefonato per salutarti, ma mi hanno detto che non stavi bene. Spero che ora ti senta meglio e sia in grado di sopportare la terribile sciagura che ti è successa. Come ormai avrai saputo, Thelma e io abbiamo deciso di separarci, ho chiesto al mio ufficio di trasferirmi in altra sede e sono finito proprio qui. Tutto assomiglia molto a Toronto, persino il clima, anche se credo faccia un po' più caldo perché non c'è il lago. Mi sembra di essere tornato ai primi tempi del collegio, quando mi sentivo come svuotato dentro per la nostalgia di casa. La notte
è il momento peggiore; di giorno sono molto occupato; la città è grande e devo imparare a conoscerla bene se voglio essere utile alla Compagnia. Mi hanno dato una macchina della ditta e tutti sono molto gentili con me in ufficio. Se solo potessi farmi passare questa nostalgia di casa! Ho appena riletto quello che ho scritto e per uno che non ha niente di cui lagnarsi mi sono certo lagnato parecchio. Perdonami, Esther. Tu hai già i tuoi problemi e io sono una bestia ad aggiungerci anche i miei. Ho spedito a Thelma tre espressi, ma non mi ha risposto. So che voi due non avete molte probabilità di incontrarvi, ma se tu avessi sue notizie da Ralph, Billy o Joe, ti prego, fammele sapere. Vorrei dirti tante cose, ma non so da che parte cominciare. Voglio tuttavia che tu sappia una cosa: mi assumo io tutta la responsabilità di quanto è successo. È stata tutta colpa mia: avrei dovuto essere più attento, più sospettoso, più... tutto. La colpa è stata mia e solo mia. Ron sarebbe vivo oggi se io non fossi stato così debole e sciocco. La notte scorsa ho sognato di essere un assassino. Probabilmente è così che mi sento dentro. La prossima volta cercherò di essere più allegro. Abbi cura di te. Con affetto Harry Era la seconda volta in una settimana che si imbatteva nella parola "assassino". Rilesse la seconda parte della lettera, pensando a quanto era ingenuo Harry a pensare che una simile catastrofe potesse essere causata da una sola persona. Molte persone erano coinvolte, e non soltanto i protagonisti, ma anche i figuranti e le comparse. Quello stesso giorno ricevette una busta con un'elegante intestazione a caratteri in rilievo da un importante studio legale. Conteneva poche righe stranamente informali: Cara Esther, passerò da lei venerdì mattina, non per farle firmare dei documenti, ma per discutere con lei di alcuni problemi. Suo Charles
Charles Birmingham era un uomo alto e austero, sulla sessantina, con un forte accento britannico che aveva preso durante gli anni di università passati a Oxford e che, dopo quarant'anni, non aveva ancora perduto. Il modo formale con cui si vestiva abitualmente dava sempre l'impressione che stesse andando a un matrimonio o a un funerale, e l'espressione fredda del suo viso indicava che per lui l'uno o l'altro era lo stesso. A Esther non era simpatico e Birmingham la considerava una sciocca; non avevano quindi molti punti in comune. Arrivò subito al motivo della visita senza perdersi in preliminari: «La signora Bream si è rivolta a un avvocato.» «Già; proprio ieri ho ricevuto una lettera di Harry in cui mi diceva che avevano deciso di separarsi.» «Temo che lei non abbia capito.» Il tono indicava che secondo lui capitava spesso alle donne. «Questo non riguarda la separazione. Riguarda il figlio che la signora Bream porta in grembo. Se Ron non fosse stato tanto idiota da scrivere quella lettera e lei non fosse stata tanto precipitosa nel consegnarla alla polizia, avremmo avuto eccellenti possibilità di vincere la causa.» «Vincere la causa? Ha intenzione di andare in tribunale?» «Naturalmente. Come suo legale è mio compito difendere i suoi interessi.» «Ho diritto a esprimere la mia opinione?» «Certo, ma in questo caso è normale che il cliente segua il consiglio del proprio avvocato.» «Davvero?» il sorriso di Esther era gelido. «Be', io non sempre faccio quello che è normale.» «Non lo metto in dubbio; comunque, nel caso in oggetto, mi auguro che non si lascerà guidare dalla spontanea antipatia che nutre verso di me.» «Non mi piace affatto l'idea di essere trascinata in tribunale.» «Se le faranno causa, sarà costretta a...» «Faccia in modo che non accada. Non si può accomodare la vertenza in modo civile e amichevole?» L'espressione di Birmingham indicava chiaramente quello che pensava di una tale proposta. «Mia cara Esther...» «Non voglio scandali e pettegolezzi.» «Lo scandalo c'è già.»
«Lo so.» Le tornò in mente quella voce al telefono e il terrore che aveva provato. Ne era rimasta talmente paralizzata da non avere neanche la forza di rispondere o di interrompere la comunicazione. «Tutto questo deve finire: ho paura di uscire, paura di mandare i bambini a scuola e ho sempre la sensazione di essere osservata.» «Da chi?» «Non lo so,» «Che cosa propone di fare?» «Offra a Thelma dei soldi perché lasci la città; quando se ne sarà andata tutto verrà dimenticato e io potrò ricominciare a vivere.» «Quanto intende offrirle?» «Cinquantamila dollari; vale la pena per saperla lontana da qui.» «E se rifiutasse?» «Non vedo perché dovrebbe; non ha niente da guadagnare stando qui, se non vergogna, umiliazioni e il ridicolo.» «Forse è questo che vuole, come autopunizione.» «Thelma è troppo sensibile per voler affrontare una situazione del genere.» «Cara Esther, una delle cose che si imparano nella mia professione è che non si può giudicare dall'esterno quello che pensa una persona. Da ciò che mi pare di capire la signora Bream non è una femme fatale abituata alle relazioni extraconiugali, ma una donna ordinaria che ha fatto qualche cosa che non avrebbe dovuto fare, e adesso sta soffrendo per l'errore commesso. Dubito che se le cose stanno davvero così accetterà il tipo di liquidazione che lei intende offrirle.» «Perché?» «Potrebbe sembrare un consenso per qualche cosa che lei si pente amaramente di aver fatto.» «Lei legge troppi libri di psicologia.» «Niente affatto» ribatté Birmingham con un sorrisetto «io la metto in pratica.» «Comunque, credo che si stia sbagliando su Thelma.» «È possibile; le ho parlato solo una volta, ieri, in presenza del suo avvocato. Ha detto poche parole e mi è sembrata distaccata, poco interessata. Alla fine ha detto di sentirsi poco bene, di avere dei crampi, dei giramenti di testa... Puramente psicosomatico, è naturale.» «Ha mai provato a essere incinta, signor Birmingham?» chiese Esther freddamente.
«Fortunatamente no. Quando me ne sono andato, la signora Bream cercava di rintracciare il suo medico e l'avvocato saltellava per l'ufficio come una cicogna spaventata. Indecoroso. A proposito: l'avvocato ha accennato alla possibilità di un piccolo assegno mensile fino a quando il piccolo sarà nato. Questo è impossibile, naturalmente.» «Perché?» «Qualsiasi tipo di pagamento, anche quello che lei ha suggerito, sarebbe un'implicita ammissione della responsabilità di suo marito. Naturalmente» aggiunse in tono allegro «c'è sempre la possibilità che la signora Bream non porti a termine la gravidanza, o che il bambino nasca morto. In tal caso tutte le nostre responsabilità verrebbero a cessare.» «Che ipotesi mostruosa!» Esther impallidì per il disgusto e si accese una sigaretta con le mani tremanti. «Questa era solo un'ipotesi.» «Stia a sentire, Birmingham, chiariamo questa storia una volta per tutte: io non ho nessuna simpatia per Thelma; non l'ho mai avuta, ma sento di avere degli obblighi nei suoi confronti perché...» esitò, arrossendo leggermente «perché capisco la sua posizione. Sono cose che succedono, che sono successe anche ad altre donne. Non intendo oppormi alle sue richieste sul patrimonio di Ron.» Birmingham non era ancora il legale di Galloway all'epoca del suo primo divorzio, ma si ricordava di quel caso e del ruolo che aveva avuto Esther. Capì allora che era inutile continuare a discutere: che Thelma Bream le fosse simpatica o no, in quel momento Esther si identificava con lei. "Questo è successo anche a me" stava pensando "solo che io sono stata più fortunata." «Molto bene» disse il legale alzandosi «per il momento lasceremo le cose come stanno.» "Le lascerà lei, non io" pensò Esther. Ad alta voce disse cordialmente: «Benissimo; l'accompagno alla porta.» «Non è necessario.» «È un piacere per me.» Rimase a guardarlo mentre si allontanava, rigido e impettito come un pinguino sulla banchisa. Sebbene Birmingham non le fosse mai stato simpatico, non aveva mai osato tenergli testa. Adesso, come un bambino che ha dichiarato la propria indipendenza, si sentiva piena di forze, di nuove energie e di vitalità. Ordinò a Rudolph di preparare la macchina e di portargliela davanti alla porta,
poi salì a cambiarsi per andare in città. Per la prima volta da quando Ron non c'era più, passò davanti alla porta della camera da letto senza sentirsi il cuore in gola. «È tanto che non guida» osservò Rudolph «è meglio che l'accompagni io in città.» «No, grazie, è meglio che lei resti qui e dia una mano ad Annie con i bambini. Dica loro che domani torneranno a scuola.» Di solito, quando Esther andava in centro, evitava con cura le strade dove il traffico era più pesante. Stavolta invece ci si buttò allegramente godendo di una rassicurante sensazione di anonimato. Non c'era niente in lei che potesse attirare l'attenzione, che potesse indurre qualcuno a voltarsi a guardarla. Solo uno psicopatico al telefono poteva pensare che avesse ucciso suo marito. Si fermò in banca, ritirò duecento dollari in biglietti da venti, poi li mise in busta e li spedì a Thelma. Non lo aveva fatto per carità o gentilezza, era stato un atto impulsivo, dietro al quale però si nascondevano sentimenti più forti della pietà o della gentilezza. Per Esther quello fu il primo passo verso una vita normale. Ne seguirono altri, mentre la primavera si trasformava in estate. Fece spesso colazione fuori con amici in posti eleganti; insieme a Nancy portò i bambini a Sunnyside per una giornata all'aria aperta e scrisse spesso a Harry brevi lettere allegre e impersonali, alle quali lui rispondeva nello stesso tono. Una sera andò a cena a casa di Winslow e a diversi concerti all'aperto con Joe Hepburn, che sebbene fosse stonato come una campana amava l'aria aperta e la gente. Durante la prima settimana di luglio portò Annie e i due bambini al capanno e promise loro di portarceli ancora prima che ricominciassero le scuole a settembre. A parte i soldi che le mandava una volta al mese, Esther non aveva alcun rapporto con Thelma, ma Turee le aveva raccontato che la gravidanza procedeva con difficoltà e che aveva affittato la casa di Weston per stabilirsi in un piccolo appartamento non lontano dal suo medico, qualora fossero sorti dei problemi. Esther aveva preso nota del nuovo indirizzo di Thelma e il giorno dopo, una mattina calda e soffocante dei primi di giugno, era passata lentamente in macchina davanti all'appartamento situato a Spadina senza trovare il coraggio di fermarsi. La macchina aveva proseguito per la sua strada, come se avesse una volontà indipendente da quella di Esther. "Comunque non avrei trovato da parcheggiare" pensò Esther "e poi è una giornata così calda! Ed è troppo presto: forse non si è ancora nemme-
no alzata. E non ho niente di particolare da dirle, nessun conforto, nessuna garanzia da offrirle." Era tutta l'estate che escogitava scuse simili a questa, sufficienti a tranquillizzarla momentaneamente, ma non a tacitare i suoi scrupoli. Di notte era tormentata da sogni in cui si identificava con Thelma, perseguitata da tutti, che cercava invano di difendersi e di giustificarsi, sempre alla mercé dello sguardo freddo di uno sconosciuto o del sorriso infido di un falso amico. I personaggi che l'accusavano non erano sempre gli stessi: talvolta si trattava di Birmingham, altre di Turee o di un poliziotto sconosciuto che aveva il viso di suo padre, di un suo vecchio professore che aveva sempre detestato: ma l'accusata era sempre lei, Thelma-Esther, come in una fotografia dove le immagini erano state sovrapposte. Durante l'ultima settimana di agosto portò di nuovo i bambini al capanno sul lago e al ritorno cominciò a provvedere al loro guardaroba invernale. L'incontro che aveva cercato e temuto al tempo stesso avvenne per caso in Eaton's College Street. Aveva appena imboccato la scala mobile che portava al reparto ragazzi di un grande magazzino quando vide che una donna, già arrivata in cima, era inciampata. Quando Esther raggiunse il piano, attorno alla donna si era formato un piccolo capannello: la donna era stata fatta sedere su una sedia mentre un commesso le faceva aria con un fazzoletto nella speranza di farle respirare un po' più di ossigeno e un altro era andato alla ricerca di un bicchiere d'acqua. La donna, in stato di avanzata gravidanza, sembrava imbarazzata da tutta quella confusione, e quando tornò il commesso con il bicchiere d'acqua l'allontanò con un gesto e cercò di alzarsi, goffamente ma con dignità. Si avvicinò al bancone più vicino e si appoggiò. «Thelma?» disse Esther andandole vicino. La donna si voltò di scatto, come se fosse stata richiamata da un altro mondo. «Ti senti bene, Thelma?» «Sì, sto benissimo.» Aveva il viso gonfio come pasta da pane lievitata, le gambe sfigurate dal gonfiore. Il vestito premaman, unto attorno al collo, era segnato da larghe chiazze di sudore. Anche il trucco del viso si stava sciogliendo per i rivoli di sudore che le colavano dalla fronte. «Mi fa piacere vederti; ho pensato spesso a te.» «Davvero?» sorrise debolmente. «Grazie.» «Senti, perché non andiamo da qualche parte a prendere una tazza di tè? Non è possibile parlare qui.»
«Io non ho niente da dire; e poi non posso bere molti liquidi; grazie lo stesso.» «Senti, Thelma, ammetto di aver nutrito del risentimento verso di te all'inizio, ma ora non è più così. Vorrei che fossimo amiche.» «Amiche!» Thelma si voltò verso il bancone, ingombro di giocattolini per neonati. «Me la sono cavata da sola, finora, e penso che ce la farò fino in fondo.» «Quanto tempo ti manca ancora?» «Come mai questo improvviso interesse?» «Non è improvviso; senti, perché non andiamo a prendere qualche pasticcino o un toast?» «Sono a dieta.» «D'accordo; allora una foglia di insalata con un pezzettino di formaggio.» «Perché insisti tanto?» «Voglio parlarti, Thelma» rispose Esther con accento sincero «è tutta l'estate che voglio farlo, ma non ne ho mai avuto il coraggio.» «Coraggio?» «Insomma, chiamalo come ti pare. Mi sentivo... piuttosto imbarazzata.» «Questa è una parola che conosco bene.» «È stato molto difficile per te?» Gli occhi di Thelma si riempirono di lacrime, ma riuscì ostinatamente a ricacciarle indietro. «Perché ti interessa?» «Non lo so esattamente, ma mi interessa.» «È stato un inferno.» «Mi dispiace.» «Ti prego, non mostrarti compassionevole, è una cosa che non posso sopportare. Oh, cielo, tutti ci stanno guardando! Fra un po' mi metto a piangere.» Non pianse però, e prima di raggiungere la caffetteria più vicina, sembrava aver ripreso il controllo di sé. A quell'ora del mattino il locale era quasi deserto. Scelsero una tavola ben lontana dalle vetrine ed Esther ordinò tè con biscotti al burro, mentre Thelma chiese un'insalata di pollo, che assaggiò appena, sebbene la guardasse con occhi famelici, come se fosse conscia delle dolorose conseguenze che la sua golosità le avrebbe arrecato. «Ho la pressione alta» spiegò «e il dottore teme che... Devo fare atten-
zione a ogni goccia di liquido e a ogni grammo di sale di troppo.» «Harry è al corrente?» «Di cosa?» «Del fatto che non stai bene.» «Io sto bene» ribatté lei con ostinazione. «Devo solo fare attenzione, tutto qui. Harry» ripeté il nome, con la fronte aggrottata, come se cercasse di ricordare chi era «no, Harry non sa niente. È da giugno che non gli scrivo.» «Ma lui ti scrive?» «Oh, sì. Mi manda dei quattrini due volte al mese: un vaglia da Kansas City e duecento dollari da qui. Immagino che me li faccia avere tramite il suo ufficio. Mi sembra un sistema strano, ma gli sono grata per quei soldi. Deve avere avuto un aumento di stipendio.» Esther non batté ciglio: «È possibile; gli stipendi sono più alti negli Stati Uniti.» «Le sue lettere sono cambiate negli ultimi tempi: oh, niente di definito... Sente la mia mancanza e tutto il resto, ma ho la sensazione che se la stia cavando bene da solo. O forse non da solo.» «Che cosa significa?» «Forse ha trovato un'altra» rispose Thelma a bassa voce. «Non che lo biasimi per questo. Io volevo che succedesse.» «Ne sei sicura?» «No, è solo un'intuizione, ma io conosco bene Harry; se una donna gli fa gli occhi dolci durante un picnic, non è certo il tipo che scappa: si lascia fare gli occhi dolci e se la gode,» «Senti, non voglio negare la tua intuizione, ma arrivare a immaginare un picnic e una donna che gli fa gli occhi dolci non è spingersi troppo avanti?» «Il picnic organizzato dal suo ufficio c'è stato veramente: me ne ha parlato nella sua ultima lettera. Non che a me importi, naturalmente. Io desidero che sia felice, se lo merita. Solo che...» «Che?» «Vorrei che non me ne parlasse. Io mi sento così a terra, così a terra!» Si asciugò gli occhi con un fazzolettino di carta. «Un picnic... che vada al diavolo!» «Non piangere.» «Non posso farne a meno.» «Pensa al futuro, al bambino. Quanto manca ancora al parto?»
«Circa tre settimane.» «Non è poi tanto.» «A me sembra un'eternità.» «C'è qualche cosa che posso fare per te?» «No, grazie.» Mangiò ancora un boccone di insalata, poi spinse il piatto lontano da sé. «La prossima volta che riceverò una sua lettera non voglio neanche leggerla; non la aprirò nemmeno.» «Non ti sembra di essere un po' irragionevole?» «Sì, lo sono, e sono anche egoista: io non voglio più Harry. Non potrei più vivere con lui; è solo che il pensiero che vada in giro con altre donne, che passi da una festa all'altra...» «Era un picnic organizzato dal suo ufficio.» «Questo è quello che mi ha detto lui.» Si asciugò nuovamente gli occhi. «Non ce l'ho con Harry; voglio che sia felice. Gli concederò il divorzio perché possa sposarla.» «Chi? La donna che gli faceva gli occhi dolci al picnic e che ora lo insegue da una festa all'altra?» «Non c'è niente da ridere» ribatté Thelma offesa. «So leggere tra le righe, io.» «Certe persone diventano così esperte nel leggere tra le righe, che dimenticano di leggere quello che è scritto sulle righe. Ti stai lasciando trascinare dalla fantasia: hai trasformato un picnic organizzato dall'ufficio in una serie di orge.» «No, a Harry non piacciono le orge. È solo il tipo d'uomo che deve avere una moglie.» «Ha già una moglie.» «No, non più.» «Può darsi che un giorno voi due vi rimettiate insieme.» «No, mai.» «Come fai a esserne tanto sicura?» «Perché io non l'ho mai amato. Quando ci siamo sposati avevo ormai più di trent'anni. Sapevo che quella era la mia ultima possibilità e volevo tanto avere una vita completa, una casa, un bambino. Dio, come desideravo un bambino!» Abbassò gli occhi sul ventre dilatato che premeva contro il bordo del tavolo e sorrise debolmente. «Non immaginavo che sarebbe stato tanto difficile...» 20
Il figlio di Thelma nacque al Women's College Hospital in una fredda mattina verso la fine di settembre. Era andata all'ospedale da sola in taxi, nel cuore della notte, senza avvertire nessuno. Ralph Turee fu il primo a esserne informato: il dottore di Thelma gli telefonò una mattina prima che uscisse per recarsi all'università e gli annunciò che Thelma aveva partorito un bel bambino sano e robusto di quattro chili e che le condizioni della puerpera, dopo due trasfusioni di sangue, erano stazionarie. Per il momento la madre non poteva ricevere visite, ma il piccolo poteva essere visto attraverso il vetro della sala neonati. Pensando che la notizia andasse festeggiata, Ralph telefonò agli amici per incontrarsi a pranzo al Plaza. Mentre bevevano Martini e divoravano una bistecca, Turee accennò al fatto che bisognava dare la notizia a Harry. «Credo che dovremmo mandargli un telegramma.» «Perché» chiese Joe Hepburn «per congratularci?» «No, certo, ma pensavo che dovremmo dirgli che Thelma e il bambino stanno bene.» «Ho l'impressione che, date le circostanze, un telegramma sarebbe fuori posto.» «Harry non ci bada, a queste sottigliezze: l'unica cosa che gli sta a cuore è Thelma. Probabilmente quel poveretto è là che si mangia le unghie per l'angoscia.» Per la prima volta, fu Billy Winslow a intervenire; il tempo cattivo, il Martini e una discussione con la moglie durante la prima colazione l'avevano messo di cattivo umore: «No, quello non si mangia le unghie proprio per nessuno.» «Che cosa vuoi dire?» «Lasciamo perdere.» «Neanche per sogno» intervenne rudemente Turee. «Sentiamo, cos'è il grande segreto? Che cosa sai?» «Ne so abbastanza.» «Ossia?» «Ossia che Harry non se ne sta in un angolo ad angustiarsi per Thelma. Non sta in un angolo proprio per niente.» «Si direbbe che tu abbia delle notizie molto precise.» «Certo che le ho. Ho ricevuto una lettera proprio ieri. Non ci siamo scritti spesso e non capisco perché abbia scelto proprio me per fare le sue confidenze.»
«Allora, vuoi dirci di che cosa si tratta?» «Leggete voi stessi; devo averla da qualche parte. Sono rimasto sbalordito.» Turee ed Hepburn lessero insieme la lettera, il contenuto era abbastanza semplice: Harry aveva incontrato una ragazza, meravigliosa naturalmente, che si chiamava Anne Former. Era divorziata, anche se non per colpa sua, ma di quel bruto di suo marito. Malgrado tutto quello che aveva passato, Anne era rimasta dolce, affettuosa e gentile ecc. ecc. Harry voleva ottenere il divorzio per sposare questa campionessa di virtù e sperava che i suoi amici gli augurassero buona fortuna. Non che ne avesse bisogno, perché Anne era così meravigliosa, comprensiva, ecc. ecc. «Gesù mio!» esclamò Turee buttando la lettera in mezzo alla tavola. Winslow la raccolse e se la mise in tasca. «Ha scelto il momento giusto, non vi pare?» «Non riesco a crederci.» «Be', provaci.» «Nelle lettere che ha scritto a me non ha mai parlato di una donna. Credevo che passasse tutto il suo tempo lavorando.» «È caduto nella rete, e noi non siamo lì per proteggerlo. Il marito di lei è un bruto, è naturale: tutti gli ex mariti sono dei bruti e tutti i futuri mariti sono angeli. Col tempo le cose cambiano.» «Stai zitto; sto cercando di pensare» lo interruppe Turee. «Ormai è tardi per pensare.» «Sentite, dopo tutto è meglio mandare un telegramma a Harry. Pensate se gli venisse in mente di mandare a Thelma una lettera come questa! Lo shock potrebbe ucciderla. Il dottore ha detto che le sue condizioni sono stazionarie; nel gergo ospedaliero significa che potrebbe succedere qualsiasi cosa. È meglio mettere in guardia Harry.» Insieme prepararono un telegramma che diceva: THELMA HA PARTORITO UN BAMBINO SANO. LE SUE CONDIZIONI SONO PIUTTOSTO SERIE. NON FARE NIENTE CHE POSSA TURBARLA. SEGUE LETTERA. Quel pomeriggio Nancy comprò delle rose per Thelma e andò all'ospedale, poi si fermò davanti alla sala neonati per vedere il nuovo arrivato. Un'infermiera col viso coperto da una mascherina spinse la culla vicino al vetro e Nancy vide un bel pupo con gli occhi azzurri spalancati e un ciuf-
fetto di capelli scuri sulla fronte. Nancy batté con un dito contro il vetro per attirare la sua attenzione e rimase a guardarlo sorridendo, senza accorgersi di essere a sua volta osservata. «Ciao, Nancy» disse improvvisamente una voce dietro di lei. Nancy sussultò per la sorpresa. «Esther! Che cosa fai tu qui?» «Sono venuta anch'io; volevo vedere con i miei occhi.» Il suo impermeabile giallo gocciolava sul pavimento. «Sto combinando un guaio» aggiunse guardando per terra. «Con questo tempo non puoi evitarlo.» «È un bel bambino, ti pare?» «Molto bello.» «Assomiglia a suo padre. Non pare anche a te che assomigli a Ron?» Sembrava anche a Nancy, che però non disse nulla. «Dovevo vederlo con i miei occhi» ripeté Esther. Dopo un'ultima occhiata alla culla voltò le spalle e si allontanò per il corridoio mentre l'impermeabile giallo le frusciava attorno alle gambe come un mucchio di foglie morte trasportate dal vento. Due settimane più tardi Thelma poté uscire dall'ospedale. Se ne andò in taxi, come era arrivata, ma questa volta non era più sola: teneva stretto tra le braccia suo figlio con un orgoglio e con una gioia che non aveva mai conosciuto prima. Ritornò nella casa di Weston. Ormai i vicini sapevano o sospettavano la verità, ma erano brava gente, soprattutto la signora Malverson della casa accanto, che si buttò con entusiasmo nel ruolo della nonna. Aiutava Thelma con la spesa, con il bucato, coccolava il piccolo e lo portava a fare lunghe passeggiate nella carrozzina. Inoltre misurava gli ingredienti delle pappe con la precisione di un farmacista. La signora Malverson era convinta di essere la più cara amica di Thelma, rimase quindi estremamente sorpresa quando, verso la fine di ottobre, vide piantato sul praticello davanti alla casa di Thelma un cartello che diceva: VENDESI. Trovò Thelma di sopra che tirava fuori della roba da un vecchio baule, mentre il piccolo dormiva nella culla accanto a lei. «Ho visto il cartello» disse freddamente. «L'hanno già messo? Bene; avevo chiesto all'agenzia di sbrigarsi.» «Lei ha pianto!»
«No, solo qualche lacrima; la vista di queste vecchie cose mi mette malinconia. Non so perché, visto che non sono mai stata tanto felice come ora in tutta la mia vita.» «E così se ne va?» «Sì.» «Quando?» «Il più presto possibile.» «Dove?» «Nevada.» «Ma è negli Stati Uniti!» «Infatti; ho un appuntamento al consolato americano venerdì mattina. Chiederò un visto permanente.» «Bene, bene» disse la signora Malverson mettendosi a sedere sul letto. «Mi lasci riprendere fiato: tutto ciò è così improvviso.» «Non per me.» «Ronnie è troppo piccolo per un viaggio così lungo.» «Veramente il dottore ha detto che è il momento migliore, soprattutto se andiamo in aereo.» «Ma la causa, il tribunale...» «Non ci sarà nessuna causa: Esther ha accettato di sistemare le cose in modo amichevole. È stata molto gentile dopo quella volta che ci siamo incontrate per caso in un grande magazzino. Io non volevo, ma il mio avvocato ha detto che sarei una sciocca a non accettare tutti quei soldi.» «Lo credo bene.» La signora Malverson stava per chiedere a quanto ammontava la cifra, ma si trattenne sperando che Thelma glielo dicesse spontaneamente. Thelma se ne guardò bene. «Comunque, adesso è tutto sistemato: ho già firmato i documenti.» «Ma perché, dico io, perché proprio il Nevada? Ho sentito dire che è un luogo di perdizione: giocano d'azzardo anche nel giorno del Signore.» «È il posto adatto per ottenere un divorzio» rispose severamente Thelma. «Sei settimane ed è tutto fatto.» «Divorzio?» «Sì; mio marito» esitò arrossendo «si è innamorato di un'altra donna.» «Bene, bene.» «Non deve essere stupita, io non lo sono affatto. A dire la verità mi aspettavo che accadesse da un momento all'altro. Adesso quasi mi sento sollevata.»
«Povera bambina!» «No, non mi importa più niente di lui. Temevo che quando avrei risentito la sua voce... ma l'altra sera, al telefono, avevo l'impressione di parlare con uno sconosciuto. Lei si chiama Anne.» «Lei?» «Sì, la donna.» Richiuse rabbiosamente il baule, ma, come per il vaso di Pandora, ormai era troppo tardi. Troppi ricordi erano sfuggiti da là dentro. Aggiunse bruscamente: «Tutta questa robaccia di Harry! Dovrò buttarla via.» Partì nella prima settimana di novembre; Turee si offrì di accompagnarla all'aeroporto, ma Thelma rifiutò. Salutò tutti brevemente per telefono, come se temesse di poter cambiare idea. Spedì delle lettere via aerea alla signora Malverson, ai Turee e a Esther per informarli che era felicemente arrivata. Il viaggio era stato gradevole, Ronnie si era comportato come un angioletto, ma Las Vegas non le piaceva. Il paesaggio era desolato e la città piena di gente molto strana. Non appena i documenti per il divorzio fossero stati sistemati, si sarebbe trasferita probabilmente nella California del sud. Non accennava a solitudine, nostalgia, rimpianti, e neanche a Harry. A Natale mandò degli elaborati cesti di frutta a tutti i suoi amici, cinture indiane ornate di turchesi alle piccole Turee e fondine di cuoio cucito a mano ai due bambini di Esther. Sul cartoncino di auguri per Joe Hepburn, scrisse che ormai i documenti per il divorzio erano pronti e che lei e Ronnie si erano temporaneamente sistemati in un motel, di cui non dava il nome, di Pacific Palisades. Sembrava che i Bream, che un tempo erano stati tanto uniti, cercassero adesso di allontanarsi il più possibile l'uno dall'altro. Nella lettera che Harry scrisse a Turee in febbraio, annunciava che aveva ottenuto di essere trasferito in Florida. Il clima del Kansas era troppo rude per Anne che era piuttosto fragile di salute. Dentro alla busta c'era anche il cartoncino che annunciava formalmente le nozze. «Be', ora è fatta» osservò Ralph mostrando il cartoncino alla moglie. «Sì, pare anche a me.» «Non mi sembri molto contenta; credevo che ti piacesse la gente che si sposa e vive felice e contenta, fino alla fine dei suoi giorni.» «Sì, ma c'è qualcosa di così irrevocabile in un cartoncino come questo...» «Speriamo che sia veramente per sempre.»
«Non riesco a... insomma, Harry e Thelma sembravano fatti l'uno per l'altra; ho continuato a sperare fino all'ultimo che si riappacificassero.» «Tu sei una grande sognatrice.» Nancy rilesse la lettera, facendo delle smorfie di disapprovazione. «Fragile! Ma se è nata e cresciuta a Kansas City! E adesso, improvvisamente, non ne sopporta più il clima. Oh, Harry si è trovata una vera piaga, te lo dico io.» «Nancy, amore...» «Inoltre, ho sentito dire che d'estate il clima della Florida è infernale e che la gente si perde di frequente nelle paludi.» La nuova signora Bream non affondò nelle paludi della Florida, ma ben presto si accorse che il suo clima non le si addiceva. Questa volta, tramite dei parenti di Anne, Harry ottenne un lavoro in una compagnia petrolifera in Bolivia, dove sarebbe certamente stato molto occupato, visto che di petrolio non se ne intendeva affatto e non avrebbe avuto modo di scrivere spesso agli amici. Prima che arrivasse il Natale successivo, le lettere di Harry erano cessate. 21 Gli auguri di Natale di Thelma dell'anno successivo consistevano in un ingrandimento di una fotografia di suo figlio, in piedi in una bassa piscina, che guardava tutto serio l'obiettivo. Ormai aveva quindici mesi ed era un bel bambino, coi capelli scuri del padre e il corpo solido della madre. La lettera che accompagnava la fotografia non assomigliava per niente alle altre lettere di Thelma; persino la grafia era cambiata: più alta, più estrosa e leggermente inclinata verso destra. Cari Nan e Ralph, avreste mai riconosciuto Ronnie? Scommetto di no: è diventato talmente grande che ho difficoltà a portarlo in braccio. Fortunatamente non è necessario, perché è bravissimo ad andare in giro da solo. È passato tanto tempo da quando vi ho scritto l'ultima volta che non so nemmeno da dove cominciare. Dunque, la settimana prossima mi sposerò e sono felice da scoppiare. Si chiama Charley, è vedovo con dei figli già grandi ed è la più cara persona che io ab-
bia mai conosciuto. L'ho incontrato la scorsa estate sulla spiaggia di Malibu. Portava a passeggio il suo cane che mi ha morso. Non è molto romantico, vero? Abiteremo nella casa di Charley a Santa Monica e vi prego di comunicare queste buone notizie anche a Esther, ai Winslow, a Joe e alla signora Malverson. Passerà molto tempo prima che vi possa scrivere ancora. Il fatto è che Charley non sa niente della mia vita passata. È convinto che sia una vedova: gliel'ho detto una volta, quando ci eravamo appena incontrati, e adesso non posso più cambiare la mia storia. Spero che non ne sarete offesi e che mi capirete. Charley è un uomo meraviglioso e anche se sapesse la verità sono certa che mi perdonerebbe, ma non posso correre rischi, lo amo troppo. Ho l'impressione che stia per cominciare una nuova vita per me, e anche per Ronnie, che ha tanto bisogno di un padre. Vedeste com'è buffo quando segue Charley da tutte le parti. Non posso fare niente che metta in pericolo la nostra felicità, anche se questo significa perdere i contatti con i miei amici più cari. Con affetto Thelma La notizia fece immensamente piacere a Nancy. «Mi sembra terribilmente romantico.» «Come fai a sapere che non la sposa per i suoi soldi?» «Quali soldi? Tutto quello che ha sono i soldi che le ha dato Esther per il bambino.» «Ma tu sai quanti erano?» «No, e non lo sai nemmeno tu, furbacchione. Esther non ne vuole parlare.» «Altre persone sono meno riservate; uno degli assistenti del dipartimento di francese è parente di Martindale, l'avvocato di Thelma. Pare che dopo la partenza della nostra amica, Martindale, con la percentuale dovutagli per la transazione, si sia comprato una nuova casa e una nuova macchina. Deve quindi essersi trattato di un bel malloppo.» «Anche se così fosse, non vedo perché dovremmo pensare che Charley la sposa per danaro. Thelma ci ha detto che la casa è sua, quindi non deve proprio essere un nullatenente. Tu sei un cinico incurabile, questa è la verità.» «Davvero?»
«A me sembra tutto molto romantico.» «Va bene, va bene, non c'è bisogno di gridare. Comunque, se io fossi Charley, sarei un po' insospettito dal fatto che mia moglie non ha nessun contatto con persone che conosceva prima.» Quella primavera Turee ricevette l'invito a tenere una serie di lezioni durante l'estate nel campus di Santa Barbara dell'università di California. Lo stipendio era eccellente e non intendeva rifiutare l'offerta, però non poteva permettersi di trasferire la famiglia e di trovare un alloggio adeguato. Tutti naturalmente desideravano andare con lui e in famiglia si era creata una certa tensione, quando inaspettatamente Esther si fece avanti con la soluzione del problema. Aveva deciso di passare i mesi di luglio e agosto insieme ai bambini in Europa e quindi offriva a Nancy l'uso del capanno sul lago durante la sua assenza. Nancy accettò con gratitudine e l'atmosfera in casa Turee tornò più o meno normale. Le lacrime e i musi lunghi scomparvero e cominciarono i preparativi per le vacanze. Turee partì nella prima settimana di giugno; intendeva spendere il meno possibile durante l'estate per poter far ritorno in autunno, non solo con delle interessanti esperienze e qualche ricordo, ma anche con un gruzzoletto di quattrini. Affittò quindi un minuscolo appartamento ammobiliato in una vecchia casa in mezzo a un agrumeto non lontano dal campus. Il tempo passò in fretta: il lavoro era parecchio e durante il tempo libero andava a visitare le antiche cittadine spagnole strette tra il mare e le montagne. I membri della facoltà e le loro mogli erano molto cordiali con lui e lo invitavano spesso a cene, concerti e barbecue. Restavano però molte serate solitarie, soprattutto durante i fine settimana, che i suoi colleghi passavano in famiglia. Fu proprio durante una di queste serate che gli venne in mente che l'indomani, un sabato, sarebbe potuto andare a Santa Monica e cercare di rintracciare Thelma. Era un'idea che l'aveva già sfiorato ancora prima di partire, e infatti si era messo in valigia gli auguri di Natale di Thelma con la fotografia di Ronnie. Non ne aveva parlato nemmeno con Nancy, ma fin dal primo momento in cui gli avevano offerto quel lavoro in California, aveva deciso che avrebbe cercato Thelma. Non sapeva neppure se voleva rivederla per pura curiosità, in memoria dei vecchi tempi, o semplicemente per assicurarsi che stesse bene e che non avesse bisogno di niente. Rilesse con cura la lettera di Thelma, poi tirò fuori una carta geografica della California del sud e la guida dell'Automobile club.
Non conosceva il cognome di Charley e non sapeva che occupazione avesse; per quello che ne sapeva, poteva essere un cacciatore di donne. Era un vedovo con figli grandi, il che significava che doveva essere tra i 45 e i 50 anni. Non di più, vista l'infatuazione di Thelma. Era proprietario di una casa a Santa Monica, di un cane che mordeva e ogni tanto andava a spasso sulla spiaggia di Malibu. Gli bastò un'occhiata alla carta e alla guida per accorgersi che attorno a Malibu c'erano miglia e miglia di spiaggia e che Santa Monica era una cittadina di 71 mila abitanti. Le probabilità di rintracciare Charley e il suo cane erano minime. Dalla lettera era impossibile trarre qualche spunto. Non restava che la fotografia: era stata scattata da qualcuno più abile di Thelma, forse da Charley. Probabilmente Charley era un patito della fotografia, ma questo non restringeva il campo delle ricerche: in California i patiti di fotografia sono altrettanto numerosi delle ragazze ossigenate. Mentre studiava la foto del piccolo, un'idea cominciò a germogliare nel suo cervello: era un bambino grazioso, dall'aspetto sano e forte. Thelma probabilmente lo proteggeva come un falco e lo portava dal medico almeno una volta al mese. Ma non da un medico qualunque: da uno specialista, un pediatra. Ma certo, un pediatra! Come mai non ci aveva pensato prima? Al diavolo Charley, chi aveva bisogno di lui? Prese le pagine gialle di Santa Barbara e consultò l'elenco dei pediatri; ce n'erano 8. In proporzione Santa Monica, che aveva 21 mila abitanti in più, avrebbe dovuto averne una dozzina. Una dozzina di pediatri e la fotografia di un bambino: forse, con un po' di fortuna, sarebbe stato sufficiente. Consultò l'orario degli autobus in partenza per Santa Monica, scrisse una lettera entusiasta a Nancy, spiegandole il suo piano, mise la sveglia alle cinque e andò a dormire. Quella notte, in sogno, vide Thelma che camminava lungo una spiaggia desolata, con i capelli biondi al vento; improvvisamente, da dietro una roccia, compariva un uomo con un cagnolino. L'uomo indicava il mare e Thelma cominciava a camminare verso la riva, poi si inoltrava nell'acqua fino a scomparire tra le onde. L'uomo rideva, il cagnolino abbaiava e l'aria risuonava dello stridio dei gabbiani e dello sbattere delle ali dei cormorani. Si svegliò di soprassalto allo squillo della sveglia, con un'inspiegabile angoscia nell'animo.
Fuori era ancora buio e una nebbiolina fredda, carica del profumo dolce dei limoni, aveva invaso la stanza. Turee si alzò e richiuse le finestre. Quell'odore dolciastro gli dava la nausea. Ripensò a Thelma che nel suo sogno affogava e all'ultima lettera che aveva scritto, con quella strana grafia alterata. Nancy aveva detto che la scrittura delle persone cambia a seconda dell'umore e che secondo lei adesso Thelma era veramente felice. Forse non era stata lei a scrivere, forse già allora era morta e Charley aveva mandato la lettera per tenere tranquilli gli amici di Thelma e distoglierli dall'idea di cercarla. E Ronnie, il bambino, se anche lui... La colpa era di quei maledetti limoni. «Il bambino sta benissimo» disse ad alta voce, come se nella stanza ci fosse qualcuno che potesse contraddirlo. Raggiunse Santa Monica che erano da poco passate le nove; si procurò una mappa della città e con l'aiuto di un elenco del telefono fece una lista dei pediatri della città. Con un paio di telefonate appurò che due di essi si sarebbero trattenuti in ufficio solo fino a mezzogiorno, visto che era sabato. Questo gli dava un paio d'ore per le sue ricerche; chiedendo silenziosamente perdono a Nancy per la sua prima stravaganza in tutta l'estate, prese una macchina a noleggio. Invece di organizzare le visite in ordine alfabetico, raggruppò i pediatri a seconda della zona della città in cui abitavano. Cinque vennero immediatamente eliminati perché lavoravano tutti all'Ospedale dei Bambini e nessuno di loro ricordava di avere mai visto il bambino della fotografia. Il sesto era in vacanza in Montana; il settimo era andato a Los Angeles a visitare un piccolo paziente. Erano ormai le dieci e mezzo quando Turee passò a occuparsi del dottor Hamilton che aveva lo studio in una clinica diagnostica. All'ingresso gli dissero che in quel momento il dottore non c'era, ma sarebbe stato di ritorno da un momento all'altro. Desiderava parlare con la sua segretaria? La segretaria del dottor Hamilton era una bionda dall'aspetto affannato che portava gli occhiali e un'uniforme attillata. «Sono la signorina Gillespie; lei desidera parlare con il dottore?» «Sì.» «Dovrebbe essere qui da un momento all'altro; ha un appuntamento alle 10,45. Si accomodi.»
Turee diede un'occhiata all'orologio e cominciò a passeggiare nervosamente per la saletta, fino a che la signorina Gillespie gli chiese: «Posso esserle d'aiuto?» «Forse sì. È da molto che lavora per il dottore?» «Da più di tre anni.» «Io sono Ralph Turee; sono venuto da Toronto nella speranza di ritrovare una mia vecchia amica. So che abita, o per lo meno abitava, a Santa Monica, ma ho perduto l'indirizzo e non conosco il cognome del suo nuovo marito.» «È sicuro di essere venuto nel posto giusto? Il dottor Hamilton è un pediatra.» «Appunto, ora le spiego. La signora che sto cercando ha un bambino; la mia sola speranza di trovarla è tramite il piccolo. Mi ha mandato una sua fotografia a Natale; ormai dovrebbe avere quasi due anni e si chiama Ronnie.» «Abbiamo dozzine di Ronnie» disse la signorina Gillespie, come se ogni Ronnie che entrava in quello studio fosse per lei una grana. «Conosco meglio io i pazienti del dottore di quanto non li conosca lui. E se crede che sia una cosa facile tenerli tranquilli fino a che non viene il loro turno, con il telefono che squilla, il campanello della porta che suona e...» «Capisco perfettamente: ho quattro figlie.» Turee le porse la fotografia di Ronnie e la donna la studiò attentamente per qualche minuto: «Sì, è uno dei nostri pazienti, ne sono certa. Soffre di allergia: cioccolata, uova, latte e cose del genere.» «Chi lo accompagna qui?» «Sua madre; una di quelle donne sempre preoccupate, che non si fa scrupolo di tirar fuori dal letto il dottore all'una di notte per il più lieve disturbo. Una donna iperprotettiva.» Questo corrispondeva esattamente all'idea che Turee si era fatto di Thelma; dunque non era morta! La colpa era stata dell'odore intenso dei limoni. «Che aspetto ha?» «Niente di speciale; è difficile descrivere una donna comune. A parte i capelli: quelli sono davvero belli.» La signorina Gillespie osservò ancora attentamente la fotografia. «Ha detto che il piccolo si chiama Ronnie?» «Sì.» «Sono certa che lei si sbaglia. A meno che non mi sbagli io.» «Perché?»
«Il nome del piccolo è Harry Bream.» 22 La casa era adagiata sulla cima di una collina alle spalle della città. La cassetta delle lettere, all'inizio del vialetto asfaltato, aveva la forma di una vecchia diligenza. Sopra non c'era il nome, soltanto il numero civico. Dal canyon soffiava un po' di vento che scuoteva le cime degli alberi di eucaliptus e le bacche profumate cadevano sul tetto della macchina e rotolavano via come topolini affannati. La casa era semplice ed elegante, in rosso legno di sequoia con un largo patio davanti che era stato di recente bagnato. Dalle pietre umide si alzava un denso vapore come se fuochi nascosti le arroventassero. La casa sembrava disabitata. Turee suonò il campanello una volta, aspettò, lo suonò ancora ripetutamente, ma nessuno venne ad aprire. Attraversò allora il patio e si avviò per un ripido sentiero che scendeva fra i gerani sul retro della casa fino a che non scoprì un secondo patio, più riparato del primo, coperto da un tetto di ondulato plastico e decorato da camelie sistemate in cassette di legno di sequoia. Vide immediatamente il piccolo, seduto in un recinto pieno di sabbia, intento a giocare con un camioncino. Poi vide la donna: forse aveva sentito suonare il campanello, o dei passi sconosciuti sul sentiero; sembrava comunque che lo stesse aspettando. Stava seduta, rigida e impettita in una sedia a sdraio di tela. Stringeva le dita attorno alle ginocchia come se le mani si fossero pietrificate in quel gesto. «Ciao, Thelma!» L'unica risposta fu un cenno con gli occhi. «Quanto tempo che non ci vediamo.» «Non abbastanza.» Lo guardò stancamente mentre Ralph si avvicinava. «Come hai fatto a trovarmi?» «Con la fotografia del bambino.» «Sì, è stato un errore, vero? Be', ormai è troppo tardi.» Si adagiò sulla sedia e alzò gli occhi al cielo, come se stesse rivolgendogli una silenziosa preghiera. «Temevo che un giorno o l'altro, mentre me ne stavo qui seduta, avrei alzato gli occhi e ti avrei visto. Adesso che è successo, mi sembra impossibile.» «Invece è proprio così. Come sta Charley?» Nessuna risposta.
«E Anne?» Questa volta Thelma rispose stringendosi nelle spalle. «Non c'è mai stato nessun Charley e nessuna Anne, vero?» disse Turee «Non ci sono mai state... tante altre cose.» «Come al solito, hai ragione.» «Soltanto tu e Harry?» «Solo io e Harry.» «E Ron?» «Ron!» pronunciò il nome come se le avessero parlato di qualcuno che non vedeva più da tanto tempo. «Naturale, tu vuoi parlare di Ron, non è vero?» «Tu no?» Sorrise, ma era più una smorfia di dolore che un sorriso. «Non esattamente. Siediti, Ralph, è meglio che metta prima a letto il piccolo per il suo riposino.» Si alzò faticosamente dalla sdraio, si avvicinò al recinto dove il bambino stava giocando e tese le braccia. «Vieni, tesoro; lascia lì il tuo camioncino, per il momento, e andiamo a fare la nanna.» Il tesoro emise un risoluto ruggito di protesta. «Andiamo, Harry, non fare i capricci; abbiamo un ospite. Fai ciao al signore.» Harry si arrampicò a quattro zampe fuori dal recinto, sorrise timidamente a Ralph e poi corse in casa precedendo la madre. «Non ci metterò molto» disse Thelma «non fa mai capricci; è un... vorrei che...» si portò una mano alla gola come se quelle parole non dette la ferissero profondamente, poi gli voltò le spalle e rientrò in casa di corsa. Turee si chiese che cosa Thelma stava per dirgli: "È un bambino meraviglioso. Vorrei che tu te ne andassi e ci lasciassi in pace. Vorrei che tu non mi avessi mai trovata"? Dalla cucina gli giungeva il rumore di armadietti che si aprivano e si chiudevano, poi quello di uno spremitore elettrico: «Ecco la tua spremuta di arancia, Harry.» «Voglio latte.» «Non puoi bere il latte, tesoro; lo sai che cosa ha detto il dottore.» «Voglio latte.» «Sai una cosa, Harry, quando ero piccola io, non avevamo le arance come hai tu qui adesso. Soltanto a Natale mi davano un'arancia, e mi sem-
brava troppo bella per mangiarla. E così la tenevo nella mia stanza e la guardavo, pensando al momento in cui l'avrei mangiata. Ma poi andava a finire che l'arancia si avvizziva e non era più buona.» Sembrava che stesse parlando non con il bambino, ma con Turee, per spiegargli, per scusarsi: l'arancia dorata che aveva colto si era avvizzita tra le sue mani. «Bravo! Hai visto che hai finito tutto? E adesso andiamo a fare la nanna.» Intanto nella mente di Turee si accavallavano miriadi di immagini, come bolle di sapone che si scontrano una con l'altra rompendosi, fino a che non ne rimase che una, limpida e precisa. L'immagine dell'infermiera con il sorriso di circostanza che aveva incontrato all'ospedale dopo l'incidente di Harry. La signorina Hutchins. L'aveva incontrata una volta sola, più di due anni prima, e non si erano più rivisti, ma la sua voce gli tornava adesso, nel patio della casa di Thelma, vivida nella memoria: "... era ubriaco fradicio quando l'hanno portato qui, eppure quando gli abbiamo fatto l'esame del sangue abbiamo trovato un tasso alcolico dello 0,1 per cento; in una persona normale non si potrebbe nemmeno parlare di intossicazione; evidentemente il suo amico non regge l'alcool". Ma Harry aveva sempre sopportato i liquori molto bene. Molto tempo dopo che Winslow era scivolato sotto la tavola, che Galloway vomitava al di là della ringhiera del portico e che lo stesso Turee aveva raggiunto uno stato di semincoscienza, Harry saltellava ancora per la stanza, tenendo tutti allegri con le sue battute. Non era dunque sbronzo quel giorno, aveva solo fatto finta. Aveva continuato a recitare una serie di scene in cui sosteneva il ruolo tragico della vittima, ma solo per distrarre l'attenzione dalla vera vittima: Ron Galloway. Tutto era stato accuratamente pianificato, dalla prima telefonata fatta a Thelma da Wiarton fino all'ultima lettera che parlava del suo viaggio in Bolivia. E il pubblico credulone aveva bevuto tutto. Atto primo: il povero Harry, un così bravo ragazzo che aveva ricevuto un colpo terribile. Atto secondo: il buon Harry si mette coraggiosamente al lavoro per ricominciare una nuova vita. Atto terzo: la nuova vita ha inizio e Harry a poco a poco scompare fra i pozzi di petrolio della Bolivia. Ma sì, la Bolivia! Mio Dio, che stupidi erano stati; non avevano dubitato nemmeno per un secondo. Thelma che rinunciava a Harry, i tentativi falliti di quest'ultimo per riconquistare la moglie, l'orgoglioso comportamento di
Thelma che non voleva l'aiuto di nessuno e la sua reazione alla notizia del matrimonio di Harry. Era stata tutta una menzogna! Più i Bream davano a vedere di allontanarsi l'uno dall'altro e più si legavano tra di loro, non solo con legami amorosi, ma con quelli ancora più forti della colpa. Thelma uscì di casa: si era messa un golf abbottonato fino al collo, come se la giornata fosse diventata improvvisamente fredda. «Ho telefonato a Harry allo studio: verrà subito a casa.» «Ha un lavoro?» «No, era dal dottore. Non è stato molto bene, recentemente» rispose esitando. «Tu hai un ottimo aspetto, Ralph. E Nancy, le bambine? Sono qui con te?» «No, passano l'estate al capanno.» «Il capanno! Come mi sembra lontano, quanto tempo è passato. Vorrei... be', non ha importanza, adesso.» Sedette sul divano a dondolo di tela verde e cominciò a ondeggiare dolcemente, come un bambino piccolo che prova conforto nel sentirsi cullato. «Hai fatto tutta questa strada per venire a cercare me, e Harry?» «No, non Harry: te.» «Non ti aspettavi di trovare Harry qui?» «No di certo» rispose Turee arrossendo leggermente. «Credevo, tutti noi credevamo che fosse in Bolivia.» «Naturalmente.» La voce era grave, ma nei suoi occhi si accese per un istante una luce sardonica. «È stata un'idea di Harry quella del lavoro in Bolivia. Harry ha molta... fantasia.» Esitò ancora una volta, come se le fossero venuti in mente altri termini, forse più precisi e taglienti, ma li avesse scartati. Si accorse che la sua esitazione aveva suscitato la curiosità di Turee e aggiunse subito: «È molto difficile descrivere qualcuno che si ama profondamente. Prova.» «Non mi sembra questo il momento adatto. Chi ha inventato Charley?» «Harry.» «Quello è stato un boomerang; è a causa di Charley che mi trovo qui. Quel tipo mi insospettiva; volevo assicurarmi che tu e il bambino steste bene.» «Sei venuto fin qui a causa di Charley? Questo è buffo, molto buffo.» Non si mise a ridere però, si limitò a dondolarsi un po' più forte, tenendo gli occhi fissi su Turee. «E adesso che cosa farai?» «Non lo so. È una situazione molto complessa.» «Non fare del male a Harry, ti prego, non fare male a Harry.»
«Come posso evitarlo?» «Butta tutta la colpa su di me; io sono la sola responsabile, ho pianificato tutto io.» Turee non le credeva, ma tenne per sé i suoi dubbi. «Perché?» «Perché? Non c'è una ragione precisa, ce ne sono dozzine che risalgono a molti anni fa. Non ho mai potuto sopportare Ron e il fatto che tutto gli veniva presentato su un piatto d'argento. E il modo in cui trattava Harry, dandogli ordini; mi irritava vedere il modo in cui Harry gli scodinzolava attorno. Povero Harry, è sempre stato sfortunato.» Forse per Harry la sfortuna più grossa era stata incontrare Thelma, ma evidentemente questo sospetto non la sfiorava. «Per esempio, il fatto che tu sia venuto qui e ci abbia trovati: pura sfortuna.» «Prima o poi qualcuno l'avrebbe fatto.» «No, tu eri l'unica persona abbastanza interessata da provarci. E non mi avresti mai trovato se non ti avessi mandato la fotografia del piccolo Harry. Ne ero così fiera, non ho potuto fame a meno. Ho commesso un errore per orgoglio e vanità.» «Il tuo errore è stato la cupidigia.» «Non volevo niente per me stessa, solo per mio marito e per il mio bambino.» «E il bambino di chi è?» «Di Harry» rispose con decisione «è il figlio di Harry. Ron non mi ha mai sfiorata neppure con un dito fino a che non sono stata sicura di essere incinta. A questo punto naturalmente ho dovuto darmi da fare. Faceva parte del nostro piano, la parte più dura per me, ma anche la più importante. Ron doveva essere convinto che il figlio fosse suo, altrimenti Harry non avrebbe mai potuto convincerlo a scrivere quella lettera a Esther, che era essenziale perché il suicidio fosse credibile.» «Convincerlo?» «Non è stato necessario usare la forza. Ron aveva cominciato a bere prima di arrivare a casa nostra. Poi abbiamo bevuto ancora dello scotch insieme. Era facile fargli fare qualunque cosa quando era ubriaco. Inoltre, appena ha saputo del bambino, era così sopraffatto dalla vergogna e dal senso di colpa che voleva confessare, per liberarsi del peso di quello che aveva fatto a Harry e a me.» «Harry gli ha detto di scrivere?»
«Glielo ha suggerito; Ron era troppo sconvolto per pensare. Voleva molto bene a Harry, sai? Tutti gli volevano bene! Gli vogliono bene; che stupida sono, ad avere usato il passato, come se fosse morto.» «O fosse cambiato.» «Non è cambiato, neanche un po'.» Ma il diniego era troppo forte e accalorato e Turee si chiese che effetto avevano avuto su Harry quegli anni di menzogne e di inganni, di colpa e di rimorso. «E la telefonata che Ron ha fatto a Dorothy la sera in cui è morto?» «Non è stato Ron a telefonare, ma Harry. Faceva parte, come la lettera, della messa in scena per il suicidio. L'idea del suicidio doveva essere già radicata nella mente di tutti, molto prima che si affacciasse l'idea del delitto. Se qualcuno ci avesse pensato, se avessero aperto un'inchiesta, Harry e io saremmo stati smascherati. Nessuno dei due poteva rendere conto di quello che aveva fatto la sera di sabato. Harry non aveva avuto nessun appuntamento urgente nella clinica di Mimico; era rimasto con me tutto il tempo ad aspettare Ron per portare avanti il nostro piano. E la sua macchina non aveva avuto nessun guasto, come ha detto a voi per giustificare il ritardo con cui era arrivato al capanno. Io li seguivo in macchina, così, quando fosse stato il momento opportuno, Harry avrebbe preso il volante e vi avrebbe raggiunti al capanno. Avevamo i minuti contati. Dopo, Harry mi ha accompagnato a Meaford e io sono tornata con l'autobus delle 10,30. Ero a casa da pochi minuti quando è arrivata la vostra telefonata da Wiarton.» «Anche quella faceva parte del piano, naturalmente?» «Ogni parola.» Turee la guardò frastornato, confuso. «Non riesco a crederci.» «Qualche volta non riesco a crederci neppure io.» Si voltò improvvisamente come se avesse udito un rumore che stava aspettando e che conosceva bene. Era un po' più pesante, un po' più calvo di come lo ricordava, ma il passo era sempre elastico e il sorriso giovanile. Sembrava veramente felice di rivedere un vecchio amico. Attraversò il patio con la mano tesa: «Ralph, vecchio mio, che piacere vederti; non sei invecchiato neanche di un giorno, non sembra anche a te, Thelma? Che cosa ne diresti di bere qualche cosa? Che cosa ti andrebbe?» «Non perdiamo tempo in chiacchiere, Harry» lo interruppe bruscamente
Thelma. «Andiamo, dolcezza, bisogna essere gentili. Cosa c'è di male in un bicchierino per una gola secca?» «Non sono sicura che Ralph accetterebbe qualcosa da bere dalle nostre mani.» «Sciocchezze, è un nostro amico.» Nessuno parlò, ma le parole "anche Galloway lo era" rimasero sospese nell'aria. Finalmente Turee chiese: «Galloway l'ha fatto?» «Ha fatto cosa?» Una piccola ruga preoccupata era apparsa tra le sopracciglia di Harry. «Non capisco di che cosa stai parlando!» «La notte in cui è morto, Galloway ha accettato da bere da voi?» «Be', ha bevuto due whisky.» «Pieni di barbiturici.» «Puro e semplice scotch.» «Come sei riuscito a drogarlo?» «Drogarlo? Che assurdità! È entrato dicendo che non si sentiva bene e che voleva qualche cosa che gli rimettesse a posto lo stomaco. E io gliel'ho dato. Forse ho un po' esagerato nella dose, ma è stato del tutto accidentale.» «Harry...» «Dobbiamo proprio parlare di questo? Ormai è fatto, finito, finito ormai da anni. E poi ho mal di testa. Tutte le volte che vado dal dottore mi viene il mal di testa. Lo odio quell'uomo, è uno stupido e un chiacchierone.» «Perché ci vai, allora?» «Thelma ci tiene; non c'è niente che non va, mi sento benissimo. Vado solo per fare piacere a Thelma, non è vero, cara?» Silenzio. «Be', diglielo, Thelma, digli che vado dal dottore solo per fare piacere a te.» Thelma rimase muta, con lo sguardo perso verso il cielo come se aspettasse da lassù un segno di aiuto. «Digli la verità, Thelma; coraggio, diglielo.» «Che Dio ci aiuti.» Thelma si alzò e si avviò verso la casa. «Thelma, vieni qui!» «Ti prego, Harry...» «Ti ordino di tornare qui e tu devi obbedirmi. Sono io il capo. Questo l'abbiamo stabilito tanto tempo fa, ti ricordi? Il capo sono io.»
Thelma esitò, mordicchiandosi un labbro, poi disse sottovoce: «Certo, Harry, sei tu.» «Non puoi voltarmi le spalle in questo modo, non è rispettoso, non ho intenzione di tollerarlo. Hai capito?» «Sì, Harry.» Tese le mani verso di lei, con le palme verso l'alto, e Turee vide su ogni polso una cicatrice rossa a forma di croce. «Lo sai che cosa sono costretto a fare se tu non mi tratti bene, se non ti comporti come devi.» «No, Harry, ti prego, non farmi ancora soffrire.» «Soffrire tu? Thelma, ma non hai capito! Sono io che devo lavare i miei peccati con il mio sangue. E adesso siediti e sii gentile; Ralph ha fatto tutta questa strada per venire a trovarci. È un vecchio amico, vero, Ralph? Da quanti anni ci conosciamo?» «Circa una dozzina.» «Soltanto dodici? Io e Ron ci conoscevamo da più di vent'anni. Adesso Ron è morto» disse come se annunciasse una novità. «Adesso è venuto il mio turno.» «Che cosa te lo fa pensare?» «Thelma e il dottore non fanno che ripetermi questa domanda. Non è qualcosa che io penso, è qualche cosa che so. Ci sono delle persone che sanno queste cose, senza una ragione speciale. Verrà un giorno e io lo riconoscerò: ci saranno segni nel cielo, nell'aria, tra gli alberi. Io capirò e dirò: "Ci siamo, questo è il giorno che stavo aspettando".» «Non pensi a tua moglie e al tuo bambino?» «Il mio bambino? Allora anche tu le hai creduto? Non posso biasimarti, la storia che racconta è molto convincente; peccato che non sia vera. Il piccolo è di Galloway: Thelma ha mentito per salvare il mio orgoglio; è bravissima nel raccontare menzogne. Per molto tempo le ho creduto anch'io quando mi ha detto che era già incinta quando ha permesso a Galloway di toccarla. Le ho creduto perché volevo crederle. Ho cercato di convincermi che tutti i test che avevo fatto a Toronto erano sbagliati, che io non ero sterile, che ero come tutti gli altri uomini. Poi, un giorno, mentre facevo il bagno al bambino, mi sono accorto che l'orecchio sinistro sporgeva più del destro, proprio come quello di Ron. Allora ho capito che Thelma mi aveva mentito. Le sue ragioni erano nobili, senza dubbio, ma mi aveva mentito, mi aveva ingannato, fatto passare per stupido. Aveva peccato. Dovevo fare qualche cosa: dovevo salvare Thelma. Ho cercato di
lavare anche i suoi peccati con il mio sangue» mostrò i polsi feriti «ma lei non ha capito: ha chiamato quello sciocco dottore e mi hanno portato all'ospedale. Ma non potevano trattenermi là: io sono troppo intelligente. Sono stato educato, mi sono comportato bene, ho risposto alle loro domande e dopo un paio di settimane mi hanno lasciato andare. Il trucco sta nel dire loro abbastanza, ma non tutto. Ho parlato loro di quando ero bambino, ma non del mio bambino, soprattutto se non è davvero mio.» Thelma alzò gli occhi su di lui; erano occhi puri e limpidi come se fossero stati lavati da fiumi di lacrime. «Non lasciarmi sola, Harry, io ti amo.» «Lo so» rispose stancamente Harry «anch'io ti amo. Ma è venuto il momento in cui devo sapere la verità; sono vissuto fino adesso con troppe menzogne. Non riesco più nemmeno a distinguere quello che è vero da quello che è falso. Come Charley, tuo marito. Qualche volta mi sembra di vederlo seduto nella mia poltrona, alla guida della mia macchina o mentre entra nella tua camera e chiude la porta. E se tendo l'orecchio, sento che bisbigliate, poi il letto che cigola, e so che state facendo l'amore. E allora mi viene voglia di entrare e ucciderlo, per la stessa ragione per cui ho ucciso Ron, perché aveva osato toccarti.» «Smettila ora, non devi più pensarci.» «Questo non lo sapevi, vero, Thelma? Io non volevo i soldi di Ron, volevo la sua vita. L'ho ucciso per odio, rabbia e gelosia. Mentre lui, incosciente, se ne stava abbandonato sul sedile posteriore e io guidavo la sua macchina, indossavo il suo berretto e avevo in tasca il suo portafoglio, mi sentivo veramente un uomo. È buffo, vero? Dopo tutto Galloway non valeva molto, ma aveva qualche cosa che io non avevo e che desideravo. Più tardi, in cima alla scogliera, mentre gli allacciavo la cintura di sicurezza e Thelma mi aspettava nella nostra macchina, l'unica cosa che riuscivo a pensare era: "Adesso non la toccherai più, Galloway, non toccherai più nessun'altra donna, non farai più becco un amico, non metterai al mondo un altro bastardo".» «Smettila, Harry, smettila!» «No, non adesso: è venuto il momento della verità. Tu menti con tanta naturalezza, Thelma, menti come le altre persone respirano, senza pensarci...» «No!» «Ma adesso devi dirmi la verità; non ci resta più molto tempo: il bambino, il mio bambino, non è veramente mio, vero, Thelma?»
«Ho mentito per amor tuo, perché volevo che tu fossi felice.» «È di Ron?» «Sì» rispose lei con un sussurro. «Non odiarmi per questo, ti prego, non odiarmi.» «Thelma, Thelma, amore mio, come potrei odiarti? Ora mi hai detto la verità, è il primo passo.» «Il primo passo?» «Verso la pace, l'oblio.» Alzò gli occhi al cielo, tranquillo e sorridente. «Vedi quella nuvoletta là in cielo, Thelma? È uno dei segni che stavo aspettando.» «È soltanto una nube, Harry, non immaginare...» «Soltanto una nube? Ah, no! È arrivato il giorno.» «Smettila.» «Non ti accorgi che oggi è una giornata diversa dalle altre? E tu, Ralph, non lo senti?» «È una giornata come tutte le altre. Cosa ne diresti di bere qualche cosa come mi avevi offerto prima?» «Non adesso; ti servirai da solo quando me ne sarò andato.» «Ma sei appena arrivato. Non vorrai andartene?» «Devo andare. Guarda, Ralph, vedi quell'uccellino che è passato davanti alla nube? Se avessi avuto qualche dubbio, ora non ne avrei più.» Turee cercò lo sguardo di Thelma per chiederle come riprendere sotto controllo la situazione, ma la donna aveva gli occhi chiusi; stringeva convulsamente le mani mentre lacrime silenziose le rigavano le guance. «Non puoi abbandonare Thelma.» «No» rispose Harry «non lascerò Thelma sola; lei verrà con me. Lei vuole venire» le sfiorò le spalle amorevolmente. «Vuoi venire, vero, Thelma? Abbiamo passato tanti momenti difficili insieme. Quest'ultimo non sarà più difficile degli altri.» «Smettila con queste pazzie e lascia che ti aiuti» intervenne Turee. «È troppo tardi per fare qualcosa per me. Aiuta il bambino, se puoi; è un bravo ragazzino, merita di crescere e di diventare un uomo. Non hai motivo di temere che possa diventare come me.» «Non permetterò che voi...» «Non puoi fermarci. E poi non credo che tu lo voglia veramente. C'è ancora la pena di morte in Canada: impiccano la gente, lassù.» Si chinò e baciò lievemente la moglie sulla fronte. «Andiamo, amore.» Thelma si alzò, attaccata al suo braccio.
«Per l'amor del cielo, Thelma, non andare con lui. Fermati e rifletti!» gridò Turee. «Ci ho già pensato.» Attraversarono il patio tenendosi per mano e si avviarono per lo stretto vialetto in salita. Turee rimase a guardarli: impiccano ancora la gente in Canada. Forse per il bambino è meglio così; ha ancora una vita davanti a sé e io farò in modo che la viva serenamente. Buon Dio, chissà che cosa dirà Nancy... FINE