Luigi Capogrossi Colognesi
CITTADINI E TERRITORIO Consolidamento e trasformazione della 'civitas Romana'
LA SAPIENZA EDITRICE ROMA
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Luigi Capogrossi Colognesi
CITTADINI E TERRITORIO Consolidamento e trasformazione della 'civitas Romana'
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Inverti et dixi 'dominae servabimus istos ' (Ον., Met., 13.837)
INDICE
CAPITOLO I
La formazione della città-stato come momento di separazione e di coagulo del tessuto sociale 1. Fusioni e processi di assorbimento individuali e collettivi alle origini della città-stato 2. L'assorbimento forzato delle comunità minori 3. La funzione delle leghe religiose 4. Il rafforzamento della 'pòlis' e la fine dei sinecismi 5. Religione e diritto nella protezione dello straniero 6. Le due forme di tutela dello straniero: la creazione di nuove norme e la assimilazione 7. 'Commercium' 8. 'Conubium' ... 9. I limiti della assimilazione
CAPITOLO Π
I Latini 1. 2. 3. 4. 5. 6.
La lega latina e P'isopolitèia' 'Commercium' e 'conubium' tra i Latini Il nuovo assetto del 338 a.C La 'civitas sine suffragio' Le altre forme di «autonomia dipendente» Gli albori dell'ordinamento municipale e il valore unificante del diritto romano
vi
Indice Capitolo ΠΙ Alle origini dello Hus gentium'
■1. 2. 3. 4.
Una tutela per gli stranieri senza forme di assimilazione Il primo trattato tra Roma e Cartagine La condizione giuridica dei Romani in Cartagine ... e nell'ambito dei territori e delle popolazioni controllate da Cartagine 5. La condizione dei Cartaginesi in Roma e nelle città latine. ... 6. Il 'foedus Cassianum': alle origini dello cius commercii' ο un caso di istituti 'iuris gentium'?
103 106 112 117 119 123
CAPITOLO IV
/ / diritto romano e le città italiche sino alla guerra sociale e oltre 1. Le colonie latine 2. 'Prisci Latini' e latini coloniali: i limiti esterni dell'autonomia 3. Il diritto romano e l'ordinamento interno delle colonie latine e delle 'civitates sine suffragio' sino alla Mex Iulia de civitate'. ... 4. 'Fundus fieri' 5. Una pluralità di diritti 6. La differenziazione delle comunità dipendenti e gli statuti giuridici locali 7. La persistenza dei diritti locali nel sistema municipale e coloniario sino alla guerra sociale ed oltre 8. Diritti, lingue e giudici locali 9. Il cittadino romano e le 'due patrie'
127 134 140 148 154 162 168 174 178
CAPITOLO V
Alcuni problemi di storia romana arcaica: i agerpublicus\ (gentes'e clienti 1. Le 'gentes' e la loro terra
185
Indice 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
vii
La contesa intorno alP'ager publicus' L'esclusione della plebe La natura delP'ager publicus' arcaico L'episodio dei Claudi Il contenuto dell' 'ager' gentilizio I termini del problema Una ipotesi interpretativa
188 194 200 206 214 218 223
CAPITOLO VI
La città e la sua terra 1. La distribuzione romulea della terra 2. L' 'heredium' e le terre gentilizie 3. La primitiva agricoltura romana 4. La 'gens' e la 'civitas' 5. L"ager compascuus' 6. 'Pagi' gentilizi e tribù territoriali 7. Le tribù territoriali e F'ager publicus' 8. Le genti e le tribù 9. La leggenda dei Claudi e il territorio della tribù rustica lO.Guerre e territorio
: ....
229 232 236 239 242 245 248 252 255 259
CAPITOLO VII
'Ager publicus ' e 'ager gentilicius9 nella riflessione storiografica moderna 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
Il punto di partenza Il modello niebuhriano Terre pubbliche e terre gentilizie Altre strade: la ricostruzione di Schwegler ... e quella di R. v. Jhering La 'Storia' mommseniana La storiografia del '900 Ai margini del recente dibattito
263 266 272 277 281 284 289 294
viii
Indice
9. La discussione attuale
296
CAPITOLO VHI
/ 'mores gentium9 e la formazione delle strutture cittadine 1. 2. 3. 4. 5.
I 'mores' gentilizi I 'sacra' gentilizi Un ordinamento gentilizio? 'Gentes' e 'pagi' Pietro de Francisci: un'eredità da sfruttare
Abbreviazioni di riviste ed enciclopedie Bibliografia
;
305 307 311 315 319 325 327
Prefazione Ho raccolto, in questo libro, due linee di ricerca portate avanti nel corso di molti anni, sia pure in modo affattoframmentarioe disordinato. La prima riguarda alcuni aspetti del, diciamo così, 'diritto internazionale privato' roma no, in età arcaica e sino alla tarda età repubblicana: il mio problema è essen zialmente quello della condizione reciproca di stranieri e cittadini rispetto alla sfera del diritto privato di Roma. I primi tre capitoli erano apparsi a grande distanza di tempo tra loro: il contenuto dell'attuale terzo capitolo risale infatti agli inizi degli anni '70 - la prima redazione era stata addirittura pubblicata negli Studi in onore di Edoardo Volterra, il rimpianto Maestro che proprio verso questi interessi mi aveva avviato —; mentre i primi due capitoli facevano parte di un' opera miscellanea assai più tarda(l). Il quarto capitolo è affatto inedito ed è frutto di una mia più recente riflessione su tali temi. Risale invece agli anni '80 il corpus centrale della seconda parte di que sto libro dedicata ad un tema apparentemente lontano e che parrebbe attene re piuttosto alla storia della proprietà romana: un altro filone centrale dei miei interessi. Si tratta dell'insieme abbastanza disordinato dei miei saggi dedica ti al problema dell'ager publicus arcaico e alle vicende patrizio-plebee sino alle leggi Licinie Sestie(2). Vi è un forte motivo che mi ha indotto a unire insieme temi apparente mente abbastanza lontani tra loro. Si tratta del problema centrale, ai miei occhi, della formazione dell'ordinamento giuridico statale romano: un tema a molte facce, in effetti, e di cui ho cercato di esplorare alcuni limitati aspet ti che attengono alla nebulosa zona di confine tra quello che potremmo chia mare il 'diritto pubblico' e la sfera del diritto privato. La mia tesi di fondo, in ordine a quello che chiamiamo Vager publicus romano tra la fine dell'età monarchica e i primi due secoli della Repubblica, è che le vicende ad esso relative attestano non solo un evidente conflitto sociale e politico tra le diverse componenti di una pòlis il cui definitivo asset(,)
Cfr. CAPOGROSSI, 1971, 171 ss., quanto al terzo capitolo; e CAPOGROSSI, 1994a, 3 ss., per ciò che riguarda i primi due. (2 'G!i attuali capp. V-VIII riproducono pressoché integralmente il testo dei saggi a suo tempo pubblicati, nell'ordine, in CAPOGROSSI, 1980,1988, e 1983, ora in CAPOGROSSI, 1994, capp. I-IV.
χ
Prefazione
to è legato anche alla soluzione di tale nodo. Esse parrebbero altresì eviden ziare il contrapporsi di quelli che potremmo chiamare addirittura due diversi diritti: uno, di stampo arcaico e 'precivico', per usare un linguaggio un po' datato, di cui sono portatrici e titolari le genti aristocratiche. L'altro proprio della civitas, pienamente consacrato come forma esclusiva della città dalle XII Tavole, nel pieno della crisi patrizio-plebea di V secolo. Con la traduzione delle antiche forme gentilizie e comunitarie di appro priazione delle terre agricole in termini di ager publicus, non si intaccavano solo le fondamenta economiche della supremazia politica del patriziato, ma si sradicava totalmente sbanco la memoria di un sistema di poteri di cui le gentes erano autonome titolari, indipendentemente dalla mediazione della città e del suo diritto. Un sistema di poteri che, pertanto, io ritengo irriducibile alla coppia 'pubblico-privato' e, conseguentemente alle due nozioni di terre in pro prietà privata ο di terre pubbliche: entrambe più tarde rispetto alla realtà delle terre gentilizie, e pertanto prodotte dal diritto cittadino e ad esso interne. Naturalmente non ho mancato di evidenziare la debolezza degli indizi a favore di un'interpretazione siffatta e la difficoltà di giungere, per problemi del genere, a ipotesi ricostruttive abbastanza sicure: difficoltà peraltro che vale anche per le interpretazioni correnti in argomento, in genere abbastanza lontane dalle mie. Si tratta insieme di una provocazione e di un tentativo di riflettere sulla preistoria dell'ordinamento privatistico romano: di come la sua affermazione dovesse necessariamente passare attraverso la dissoluzione e l'annullamento di forme, diciamo, di un predroit legato alle strutture preesi stenti alla civitas e dal cui sinecismo la civitas sarebbe sorta. In tal senso, nel corso del capitolo VII ho cercato di recuperare alla nostra consapevolezza alcuni aspetti più significativi di quanto già nella riflessione storiografica, soprattutto di quel glorioso XIX secolo, era emerso ο più chiaramente messo a fuoco. Il carattere fortemente ipotetico di questa parte del mio libro non è mai stato da me celato: esso tuttavia mi sembra tale da conservare tuttora almeno la legittimità del dubbio: le critiche avanzate in proposito, anche di recente, sono state debitamente da me ricordate e discusse. Più importante, decisa mente, là complessiva- riconsiderazione* di recente avanzata da Mantovani,
Prefazione
χι
sull'intero argomento0*. Ma, debbo dire, la prospettiva centrale del suo sag gio mi sembra investire altri obiettivi dai miei, pur destinati essi stessi a inci dere non marginalmente su questi ultimi(4). Per quanto concerne invece la prima parte del libro, com'è mia abitudi ne di vecchio bricoleur di idee e di frammenti di verità ricavate da quello straordinario patrimonio di sapere storico e di conoscenze che la nostra tra dizione di studi conserva, non ho fatto altro, ancora una volta, che aggirarmi in modo abbastanza disordinato neLrnuseo grande della memoria costruito con i libri di un sapere antico e sempre rinnovato. Non mi sembra che nulla, in queste pagine, possa considerarsi un apporto veramente nuovo, coinciden do con un'idea originale: ma non è questa un'annotazione umiliante per chi cerca semplicemente di essere il devoto custode della grande eredità che il passato ci ha trasmesso. E, d'altra parte, rispetto alla dimensione dei proble mi sfiorati ο presupposti ed all'imponenza di una tradizione storiografica che si arricchisce dei nomi più autorevoli dell'intera nostra tradizione di studi, da Mommsen, Beloch, De Sanctis, Steinwenter, Kornemann, Rosemberg, a Rudolph, Sherwin-White, Fraccaro, Schònbauer, Tibiletti, Sartori, Luzzatto, De Martino, Bernardi e Gabba, sino infine ai vasti e comprensivi lavori di Humbert e Luraschi, io sono ben consapevole, non tanto e non solo dell'ina deguatezza del mio contributo, ma dell'insufficiente capacità di cogliere i nessi significativi di un dibattito che coincide quasi con la storia stessa dei nostri studi. (3)
(4)
Cfr. MANTOVANI, 1997, 575
ss.
In effetti Mantovani mira soprattutto ariesaminarecriticamente le vecchie e fondamenta li ipotesi di Tibiletti suWager publicus arcaico circa l'esistenza di antichi costumi volti a regolare l'occupazione di tali terre nei limiti delle possibilità effettive di una loro coltivazione e della sua successiva modificazione con l'estensione di tali possessi commisurati ora alla sola spes colendi dell'occupante. Il saggio, molto articolato e insieme confortato dall'uso agguer rito di forti strumenti analitici, su più punti sfiora indubbiamente i nodi tematici da me affron tati. Non mi sembra tuttavia che le conclusioni complessive cui l'a. perviene siano di per sé incompatibili con la mia interpretazione. Al contrario, la radicale revisione dell'interpretazio ne proposta da Tibiletti del passo di Columella, re rust., 1.3.12, relativo all'episodio di Licinio Stolone potrebbe indirettamente rafforzare la mia stessa ricostruzione, permettendo (non necessitando, si badi) una cesura tra la realtà precedente e la disciplina introdotta nel 367 a.C: cfr. in particolare MANTOVANI, 1997, 588. Quanto alla successiva analisi ivi effettuata del con tenuto della lex Icilia de Aventino publicando (p. 592 ss.), la mancata discussione di tale testo evidenzia piuttosto una mia divergenza di fondo con l'amico e collega maior Feliciano Serrao, dal quale tuttavia lo stesso Mantovani dissente.
Prefazione
Xll
E tuttavia se mi sono avventurato in simile intrapresa è perché, anche qui, volevo meglio evidenziare, proprio rispetto all'immenso materiale sto riografico di cui disponiamo, un particolare aspetto del processo di romaniz zazione dell'Italia che attiene direttamente alle vicende del diritto romano. Un aspetto, coinè vedremo, solo echeggiato nelle fonti antiche e ripreso certo, ma assai più episodicamente e quasi marginalmente dai moderni di quanto non avrebbe meritato, anche per le sua grandi implicazioni teoriche. Sino a che punto la costruzione di una entità politica unitaria e sino a che punto lo spostamento della sovranità su popolazioni sempre più vaste e sulle varie comunità italiche ha comportato, insieme all'estensione dei vincoli di citta dinanza ο semicittadinanza ο dei rapporti federativi, l'espansione delle forme del diritto privato romano? Nel cercare di penetrare in questo terreno abbastanza poco battuto io mi sono mosso secondo le linee direttive tracciate già da tempo dai grandi stori ci del passato. Penso ad esempio a quel maestro italiano che segna tuttora, a più di mezzo secolo di distanza, un punto di riferimento irrinunciabile in que sto tipo di studi: Plinio Fraccaro. Per molti versi le mie pagine appaiono semplicemente lo svolgimento dei temi da lui individuati e secondo gli schemi di fondo delineati nel suo famoso saggio sull' Italia romana. Lì infatti, come si ricorderà, si ribaltava la prospet tiva che privilegiava una storia della crescita politica di Roma come fondata su un sistema federativo per sottolineare piuttosto quella primitiva tendenza immediata alla incorporazione delle comunità finitime che io ho richiamato nel corso del primo capitolo di questo libro. «Quando Roma si scosta da questa linea, lo fa - aggiunge Fraccaro - non in omaggio a primordiali concezioni federalistiche, ma per necessità insuperabili allo stato-città»(5>. È chiara la reazione alla vecchie idee ottocentesche e a quei modelli che autori come Freeman avevano a suo tempo proposto. Così come non meno netta e salutare è la reazione ad una interpretazione del sistema di alleanze romano-latino come un fatto 'prepolitico', scaturente dal profondo di una unità di stirpe assunta come fondamento di assetti politici e di relazioni giuridico-istituzionali. Si tratta di linee di pensiero tanto più forti in quanto, (5)
FRACCARO, 1933,
104.
Prefazione
χιπ
come al solito, il presente si rifletteva immediatamente sulla interpretazione del più lontano passato, in rappresentazioni di cui non sfugge la forte com ponente ideologica. Così lo ius Latii, di cui mi occupo nel corso dei capitoli II e IV del libro viene assumendo il suo effettivo significato di un risultato politico e di un'o perazione istituzionale realizzata nel tempo. Esso si associa alla storia di una alleanza, destinata progressivamente a definirsi in termini di un crescente squilibrio, come strumento egemonico di Roma, sino appunto alla conclusio ne del 338 a.C. in cui «la forma federativa subì... un inevitabile regresso» in concomitanza appunto con l'affermarsi di «una politica romana più ampia ed energica»(6), di cui vanno sottolineati due momenti essenziali: il sistema di fondazione delle colonie e l'assorbimento di molte comunità più vicine mediante la civitas sine suffragio. Estenderei a entrambe le forme quanto Fraccaro specificamente affermava per quest'ultima figura: rappresentare essa «una forma di dominio politico diretto su una comunità e il suo territo rio; (che) esclude sia la distruzione dei vinti, sia l'alleanza con essi e vi sosti tuisce la sudditanza»(7). Ciò nella sostanza, perché poi sappiamo che, ester namente, la colonia restava legata alla città fondatrice da un vincolo for male di carattere federativo. Si tratta, appunto del tema centrale di questa parte del mio libro, i cui risvolti privatistici sono affrontati soprattutto nel corso del IV capitolo. Tale capitolo è dedicato essenzialmente a sviscerare un problema che lo stesso Fraccaro aveva menzionato per queste comunità: riconoscendo come 'il diritto privato' dei cives sine suffragio fosse «assai oscuro»<8). Gli orizzonti in cui io mi sono mosso sono stati dunque tracciati più di sessantanni or sono, così come più di mezzo secolo ci separa da quell'altro capolavoro di Santo Mazzarino dedicato al passaggio Dalla monarchia allo stato repubblicano, che ha egualmente segnato altre linee al mio percorso. Egli infatti era in grado di dar conto e, in qualche modo, di dominare le anti nomie scaturenti dall'opposta visione della realtà italica che potremmo asso-
(6)
FRACCARO, 1933,
m
FRACCARO, 1933,107.
(8)
FRACCARO, he.
106. uh. cit.
Prefazione
XIV
ciare ai nomi di Rosemberg, il grande indagatore dello 'Stato degli antichi Italici' da un lato, di Rudolph, lo studioso della romanizzazione degli Italici dall'altro. Ma ancor più egli ci ha offerto un'occasione fondamentale per ripensa re alle linee di forza di una tradizione di studi dominata dalla visuale di Mommsen e dal non meno imponente sforzo di integrare, forse più che di radicalmente innovare e modificare questa stessa visuale da parte di Beloch. Il punto di partenza è dato appunto dalla sua convinzione «che la conquista delle città laziali e italiche in genere non fu svolta da Roma secondo un piano preordinato, né, come Athena dal cervello di Zeus, gli istituti municipali pote vano uscire ex novo dal 'cervello' di Roma»(9). Le mie pagine appaiono in effetti uno sviluppo particolare di tale assunto, di cui, peraltro, è difficile esplorare le concrete implicazioni in tutti i loro aspetti. E in verità le ombre numerose che questa ricerca non riesce a dissolvere sono certo anzitutto frut to della mia insufficienza, ma anche, io credo, attestano la difficoltà e la tor tuosità della strada intrapresa da Roma, riflessa nelle incertezze e nelle con traddittorie testimonianze delle fonti antiche. Così, alla relativa liberalità con cui Roma appare concedere la sua citta dinanza a nuovi soggetti, in un processo di integrazione che costituì, per gli antichi e per i suoi stessi nemici oggetto di ammirazione(10), parrebbe tuttavia corrispondere una maggiore gradualità nella generalizzazione ai nuovi citta dini di quel diritto che, tuttavia, appare come proprium civium Romanorum. Che non è affatto segno di rispetto delle altrui identità politiche: giacché, quando entravano in gioco gli interessi politici di Roma, disinvolta ed effica ce diveniva la sua capacità di comando e di legiferare nei riguardi di tutte le comunità il cui carattere subalterno appariva allora fuor di ogni maschera mento formale00. Si tratta piuttosto di una linea di cautela che rifletteva le intime logiche e la natura stessa della città-stato. Di tale orientamento non mancano importanti testimonianze nelle fonti classiche, pur di non sempre agevole interpretazione e tra loro discordi, come <9) Cfr. MAZZARINO, 1945,
124 s.
Cfr. GABBA, 1973, 352 ss. (I1)
Si v. in modo esemplare LAFFI, 1990, 292.
Prefazione
xv
ho giàricordato,così come su di esso gli storici più sensibili proprio alla vita lità delle antiche società italiche non hanno mancato di richiamare la nostra attenzione. Da essi ho ripreso il discorso, e da quella messa a punto che Luraschi, sulla scia di Tibiletti, di Sherwin-White e di pochi altri - tra cui non va dimenticato Giuseppe Ignazio Luzzatto — ha proposto alla nostra attenzione(12). Sul punto, più che pervenire a nuovi risultati, mi sembra di avere mostrato la straordinaria complessità dei problemi ingenerati da questo parti colare processo di integrazione degli Italici in ambito romano. Il lettore potrà rendersi conto che al centro della prospettiva perseguita nel corso dei primi quattro capitoli del libro si impone il ricco e così com plesso processo di espansione di Roma e del suo diritto tra il 338 a.C. e gli anni successivi alla guerra sociale. È in questa singolare fase della storia romana che noi infatti incontriamo larinnovatatendènza alla assimilazione ed all'assorbimento, almeno altrettanto, se non più importante dei meccani smi di tipo confederale, ma perseguita con strumenti parzialmente nuovi. Di qui il valore centrale assunto dall'interna eterogenesi da me ipotizzata dei tipici strumenti che possiamo definire di 'diritto internazionale privato' con sistenti nella reciproca concessione del commercium e del conubium tra comunità indipendenti, 'tradotti' ora nell'unilaterale legame costituito dalla civitas sine suffragio. Pressoché insolubili tuttavia appaiono i problemi che gli schemi messi allora in atto dai Romani comportano. Se, come vedremo soprattutto nel corso dei primi due capitoli del libro, già le conseguenze pratiche dei due isti tuti ora citati del commercium e del conubium, restano tuttora incerte e ampiamente discusse tra gli specialisti - divisi tra una solo parziale assimila-
(,2) LURASCHI, 1980, 212, ancora per la situazione immediatamente successiva al 90-89 a.C. si interroga giustamente su quali fossero le condizioni concrete in cui vennero a trovarsi le civitates Transpadanae costituite in colonie latine. «Quali i limiti di autonomia delle singole comunità? Quale la loro amministrazione interna? ... E ancora ... le terre vennero centuriate? In caso affermativo ... a chi furono date? ... Ed in ogni caso, a che titolo furono assegnate: ex iure Quirìtium, ex iure peregrinorum ovvero in semplice possesso?». E si interroga poi sugli effetti della lex Pompeia: nella latinizzazione della Traspadana, ebbe essa a introdurre «l'uso del diritto e della lingua di Roma?». L'a. concentra lo sguardo su aree e aspetti specifici dei processi di romanizzazione dell'Italia: ma tale tipo di quesiti a me appare senz'altro genera lizzabile, sia pure in termini e secondo prospettive tra loro differenziate.
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XVI
zione dello straniero alle forme giuridiche proprie dei cittadini e una più piena identificazione sino alla legittimazione alle legis actiones - ancora più oscura appare la condizione giuridica dei Latini e degli stessi cives sìne suf fragio. Certamente per i primi, verosimilmente per i secondi, le forme del diritto romano restano loro estranee, almeno parzialmente. Senza tuttavia che sia chiaro né il diritto di cui le colonie latine dovettero fruire, né in che misu ra, per i municipi sine suffragio, le forme giuridiche autoctone dovettero con tinuare a coesistere accanto agli istituti giuridici romani che, soprattutto attra verso la presenza dei praefecti iure dicundo, venivano espandendosi. Ma non sono questi i punti su cui voglio qui richiamare l'attenzione del lettore, quanto su un altro aspetto che contribuisce a dare unità a queste mie pagine. E mi riferisco alla intima correlazione - anzitutto, com'è ovvio, cro nologica - tra il momento in cui la costituzione cittadina appare definitiva mente completata con l'introduzione del pretore titolare della iurisdictio, contestualmente alla formazione dell'unità politica e sociale sancita dalle leggi Licinie Sestie, e questa singolare, nuova sperimentazione di una 'dila tazione' della stessa struttura cittadina. Per uno storico delle istituzioni che pur si è interrogato sulla antica, ma non totalmente obliterata problematica della 'formazione' dello stato cittadi no si viene così aprendo un panorama che la separatezza dei nostri filoni sto riografici e delle aree tematiche ha contribuito a celare. E assume nuovo significato la stessa insistenza con cui si è da sempre sottolineata la singola re liberalità di Roma, rispetto alle altre pòleis dell'antichità classica nella assimilazione degli stranieri: ne ho accennato or ora. Di recente Gabba ha nuovamente richiamato l'attenzione sulla «tipica, fondamentale pratica di governo impiegata da Roma, vale a dire l'assimila zione del nemico vinto» che costituiva «un aspetto nuovo e inusitato nei com portamenti dei vincitori antichi», atta a colpire «profondamente gli osserva tori greci, politici e storici, abituati a una ben diversa concezione esclusivi stica della cittadinanza nelle pòleis greche»(13). Ma, a ben vedere, la singola rità è proprio data dalla vicenda romana e dai suoi tempi storici: giacché l'e-
(,3)
GABBA, 1990, 45; cfr. anche GIARDINA, 1997, 7 ss.
Prefazione
χνπ
sclusivismo proprio della città-stato di per sé costituisce la naturale necessità di un organismo che si definisce in quanto tale; come autonomo politica mente e giuridicamente. Ciò contribuisce da una parte a sradicare i legami naturalistici e tribali in nome di un 'diritto eguale5 e specifico della città, dalFaltra ad affermare la sua piena sovranità su un'area territoriale e sugli indi vidui e dissolvendo quindi, come sua prima necessità, i gruppi 'precivici' potenzialmente antagonistici allo Stato: su questo Bpnfante ha visto assolu tamente bene. Il paradosso, appunto, è Roma. Essa nel momento stesso in cui viene con cludendo la sua costituzione oplitica, con il perfezionamento dell'assetto isti tuzionale della respublica accetta consapevolmente le premesse per la disso luzione ο la crisi almeno di questo stesso modello. La forma della città-stato, per esistere (e si tenga presente il rapporto organico tra le istituzioni militari e l'assemblea politica dei cittadini) postula limiti dimensionali che, alla lunga, contraddicono le esigenze di una politica di potenza. Certo, l'alternativa alla rapida parabola delle città greche poteva, in una certa misura, essere offerta dalla grande avversaria occidentale della stessa Roma: Cartagine. Ma la solu zione consisteva, sempre ai fini della politica di potenza, nella creazione di un esercito di mestiere. Con tutti i vantaggi e gli svantaggi: la strada opposta, comunque, a quella imboccata dall'oligarchia romana(14). E così, nel mentre che la costituzione politica romana viene rinforzan dosi e perfezionandosi, e nel mentre che si sono create le premesse per il sin golare sviluppo dell'unico sistema di sapere e di organizzazione sociale vera mente autoctono - il diritto romano - Roma appare avviarsi su una strada destinata a dissolvere alla lunga la sua stessa natura di 'città-stato'. Non si tratta, sono convinto, di un disegno concepito consapevolmente e a freddo: in tal senso non vi erano neppure le premesse culturali nell'oligarchia romana del IV ο del III sec. a.C. Forse si è trattato di un minore timore di cambiamenti, di un senso più fortemente empirico, volto a risolvere di volta in volta singoli problemi con (l4)
Si v. Poi., fast, 6.52.2 ss., sulla superiorità militare romana rispetto alla cartaginese, per quanto concerne le forze di terra, associate all'impiego dei mercenari da parte di Cartagine di contro all'impiego dei propri cittadini e degli alleati da parte di Roma. Cfr. GIARDINA, 1997, 7.
XV111
Prefazione
elementi e strumenti già noti, destinati tuttavia, nel tempo, ad assumere nuove valenze in contesti e strutture modificate. Io credo che già i Romani alla fine della Repubblica fossero incapaci (ma quanto poi a ciò veramente interessa ti?) a ricondurre la complessa strumentazione del sistema di potere e di governo costruito in Italia tra la metà del IV e gli inizi del I secolo a.C. ad un quadro unitario e concettualmente coerente. La grande sistematizzazione sto riografica di fine ottocento ha cercato, forse, di andare più avanti su questa strada, conrisultatisolo parzialmente accettabili. Certo, vi erano linee di indirizzo, si imponevano lentamente soluzioni privilegiate e, nel tempo, i processi di unificazione e di semplificazione della complessità originaria facevano dimenticare le incertezze e gli aspetti con traddittori del quadro di partenza. Ma questi pur sempre restavano alla base di istituti e di modelli che, ancor oggi, difficilmente possiamo inquadrare con sufficiente esattezza storica, sulla base dei nostri schemi. Per questo, io credo, quando noi parliamo per la realtà italica di quel periodo di comunità 'sovra ne' di relazioni 'internazionali', della stessa unità cittadina, e di molte altre situazioni, dobbiamo sempre tener presente il grado più ο meno alto di approssimazione alla effettiva realtà delle situazioni descritte che tali schemi verbali e concettuali comportano. E nulla può esser più foriero di equivoci che portare alle estreme conseguenze un'affermazione valida hic et nunc. Quasi che quel Cicerone che in modo apparentemente definitivo negava ai Romani la possibilità di esser cittadini di due città, non fosse lo stesso auto re che affermava l'esistenza delle 'due patrie'. Resta infine da accennare alla ragione del mio appassionante, anche se faticoso e disordinato bricolage di antichi problemi e di sempre rinnovate interpretazioni di cui parlavo poco più sopra. Che è non solo e non tanto lega to al mio pur costante desiderio di recuperare le strutture portanti della nostra tradizione di sapere, quanto, in questo caso, di cogliere quasi una sfiimatura particolare presente nelle pagine che la migliore e più avvertita storiografia moderna ha dedicato alla ricostruzione del sistema di organizzazione interna del regime municipale romano nella sua fase più antica, e sino almeno alla guerra sociale. Si può dunque cogliere in esse, direi quasi una incertezza, se il termine non fosse troppo netto o, forse, una rapidità di accenni abbastanza
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sintomatica. Io non credo che ciò si spieghi solo con la povertà delle indica zioni contenute nelle testimonianze antiche: anzi, a ben vedere, in esse si tro vano vari e significativi cenni alla pur singolare sopravvivenza della res publica nelle città gratificate della piena cittadinanza romana ο della civitas sine suffragio. Così come non mancano i riferimenti al suis legibus uti da parte dei loro cittadini. E non meno importante appare il complesso di indi cazioni relativo dXfundus fieri da parte delle colonie latine ο delle città fede rate, ma anche dei municipi. Ho l'impressione insomma che il così poco insistito rilievo della par ticolare condizione giuridica di questi nuovi cittadini ο semicittadini roma ni e della singolare condizione delle colonie latine, quanto al diritto priva to vigente in ciascuna di esse, sia dovuto a due fattori. Il primo, che verrà ricordato ancora nel prosieguo di questo mio discorso, mi sembra derivi dal taglio essenzialmente pubblicistico dell'ottica e della stessa formazione degli studiosi moderni che si sono soprattutto impegnati in tali problemi. Ciò che non poteva non accentuare il loro interesse verso i pur colossali problemi politico-istituzionali relativi alla costruzione dell'Italia romana anteriormen te alla guerra sociale e immediatamente successiva a tale evento, in qualche modo facilitando la relativa marginalità del nostro specifico quesito. Incontriamo, sotto questo profilo, una situazione abbastanza paradossa le: da una parte infatti gli storici si spingono sino a indicare i termini reali della questione,riconoscendo,soprattutto ad opera di Tibiletti, la realtà di un'autonomia delle singole comunità che giunge sino al suis legibus uti, dal l'altra i romanistifinisconocol dissolvere - ad eccezione di G. I. Luzzatto e, in parte, di De Visscher, di Schonbauer, e di pochissimi altri - la dimensione e la gravità dei problemi che siffatta autonomia viene a proporre, all'interno di una discussione riferita anche ad una fase storica più tarda e ad aree geo grafiche diverse e diversamente organizzate nella forma delle provincie, per dendo di vista almeno in parte la peculiarità dell'esperimentoromanoin Italia (,5)
Sottoscriverei, comunque, la definizione del nucleo essenziale della politica istituziona le romana sino al I sec. a.C. che ne ha data ancora di recente D E MARTINO, 1996, 418, secon do cui la politica romana in Italia «impiegava le forme possibili per lo scopo finale di fare di Roma la communis patria di tutti gli Italici, riconoscendo ad un tempo l'appartenenza ad una cittadinanza locale», attenuandosi così «il principio della cittadinanza esclusiva, con il conse guente divieto della doppia cittadinanza». V. anche ivi, p. 419 s.
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tra IV e I sec. a.C. Ma ho il sospetto che, su tutte queste incertezze, abbia dovuto pesare anche un altro elemento: che è la radicale estraneità del modo in cui i Romani parrebbero aver costruito il sistema di integrazioni delle comunità loro sog gette all'interno di un ordinamento politico unitario,rispettoagli schemi pro pri della nostra esperienza. L'idea di una formazione politica unitaria che non perseguisse un parallelo processo di unificazione del proprio ordinamento giuridico è estranea alla storia dello stato nazionale di cui tutti noi siamo tri butari e su cui si sono formati i nostri schemi di riferimento. Solo ora, forse, col deperire di questo stesso modello, può affiorare una maggiore sensibilità per soluzioni molto lontane dalla esperienza storica dell'Europa moderna e una crescente attenzione per le straordinarie conseguenze che tali diversità comportano. Anzitutto una consapevole scelta in direzione opposta alla razio nalizzante semplificazione tipica dello Stato moderno e della sua più eviden te forma di razionalizzazione costituita dal modello napoleonico. Volta a recuperare e governare una complessità di forme giuridiche e di fonti norma tive, una molteplicità di statuti personali che, per quello che la esperienza sto rica romana dimostra, non necessariamente debbono aver funzionato peggio e con esiti meno felici della nostra storia moderna. E, di fronte agli sforzi che i paesi europei vengono effettuando per anda re oltre la comune moneta europea, nel progetto di una comune cittadinanza europea, l'esperienza dell*unificazione politica dell'Italia romana assume un singolare valore pedagogico. In essa infatti e nelle 'due patrie' ciceroniane, e nel coesistere di statuti personali e di sfere di appartenenza a due sistemi giu ridici diversi, cogliamo dal vivo le tracce di un'operazione il cui empirismo e i cui margini di casualità nulla tolgono alla consapevole volontà di mini mizzare le tensioni e i fattori locali di resistenza alla unificazione politica. Con una straordinaria chiarezza nel cogliere e nel privilegiare quanto di essenziale v'era per realizzare tale obiettivo e quanto invece vi era di irrile vante e che sacrificato, avrebbe così contribuito indirettamente a rafforzarne il successo in termini diflessibilitàe di adattabilità dell'intera costruzione. Alla costante durezza, all'intima brutalità nel controllo efficace del potere, corrispondevano tempi lunghi, cautele, incertezza nei processi di omologa-
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zione culturale, di espansione della latinità e di quell'intimo prodotto cultu rale di Roma che è, appunto, il suo diritto. E tuttavia, al termine di questo mio girovagare resta chiara la percezio ne di quanto poco si riesca a penetrare molti problemi non solo della storia romana arcaica, ma addirittura temi illuminati dalle fonti antiche, come la conquista dell'Italia romana. Quante zone d'ombra non solo continuino a nasconderci tanta parte della storia antica, ma, man mano che approfondiamo un argomento, sembri no quasi ulteriormente accentuarsi: si pensi ad es. a come si accresce la com plessità di un istituto come il conubium apparentemente così lineare, ma così oscuro nelle sue conseguenze. In una classica ricerca lontana da noi quasi mezzo secolo, Franco Sartori ha potuto analizzare lafisionomiapolitico-isti tuzionale delle città della Magna Grecia nell'ambito della sovranità romana (16) . Io credo che non un libro, ma neppure un articolo sia possibile redigere descrivendo quanto sappiamo della vita di queste stesse città sotto il profilo del diritto privato e delle forme di accesso dei loro cittadini al diritto roma no. Così, per concludere, questo librofiniscecol porre piccoli interrogativi piuttosto che avanzare grandi ipotesi interpretative. Con il sapore ambiguo di chi vede i problemi, senza tuttavia poterne dare una soluzione chiara, univo ca e convincente.
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Cfr. SARTORI, 1953 passim.
Nel consegnare all'amico editore e al suo pazientissimo tipografo la redazioi finale del libro, è doveroso da parte miarivolgereunringraziamentocalorose tutti coloro che mi hanno aiutato in molteplici forme nella preparazione e testo. La mia affettuosa gratitudine va anzitutto a Patrizia Calafiori, per la s sempre efficace collaborazione, a Carolina Mammucari, Gianpiero Mancinel Francesca Rizzi, Alessandro Rovegno e Cristina Simonetti, per l'attenta con zione delle bozze, per il controllo del testo e per i molteplici interventi d'or ne redazionale. Elena Tassi, oltre a tali aiuti, è stata poi preziosa fonte di infi mazioni bibliografiche, mentre Floriana Cursi è stata l'accurata e intelligei regista del complicato lavoro preparatorio del libro, governando le mie inde sioni sino a dare al lavoro una forma accettabile.
Capitolo I La formazione della città-stato come momento di separazione e di coagulo del tessuto sociale
1. Fusioni e processi di assorbimento individuali e collettivi alle ori gini della città-stato Da parte degli storici moderni si è molto insistito sul forte esclusivismo della città antica. La comunità cui si estende la protezione e l'efficacia rego lamentare della città e della sua legge tende a identificarsi con i cittadini della pòlis: agli stranieri, ai membri di altre città, non solo sarebbe stata preclusa la sfera della politica, ma anche l'applicazione del diritto cittadino. Essi ten dono così ad essere, almeno in partenza, esclusi da possibili rapporti giuridi ci con i cittadini di quella. L'originaria chiusura verso l'esterno della città, particolarmente evidente soprattutto per le età più antiche, avrebbe indotto gli storici del secolo scorso, anzitutto Mommsen(1), a teorizzare come normale lo stato di ostilità tra le cittàstato e la totale assenza di tutela degli stranieri da parte di ciascuna di esse. Solo il mitigarsi degli aspri costumi attraverso la religione primitiva avrebbe aperto la strada alle prime forme di protezione dello straniero indifeso. Non è mio interesse riprendere qui la vecchia discussione circa l'origi naria assenza di ogni diritto da parte dello straniero rispetto alla primitiva (I) Cfr. su questi aspetti CATALANO, 1965, 8 ss., 51 s. Per l'età più antiche v. anche KUBLER, 1927, 643, con lett. precedente.
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Capitolo I
città-stato. Cercherò piuttosto di mettere a fuoco, forse con qualche maggior chiarezza di quanto talvolta si sia fatto, come il variegato articolarsi del pro cesso di formazione della città-stato, almeno nel caso romano, abbia diretta mente inciso sul modo in cui la comunità politica ha definito i suoi rapporti 'all'esterno', con individui ο con altre entità autonome. Quello infatti che è dato di osservare alla luce di un numero abbastanza elevato di testimonianze antiche, tanto più significative per la complessità dei riferimenti in esse contenuti, è il carattere relativamente 'aperto5 delle strut ture politiche e sociali arcaiche. È questo un carattere che si può ricavare anzitutto da quanto sappiamo in ordine alla più antica storia romana e che non può essere sottovalutato, anche se, di per sé, esso non era certo atto ad annullare la stessa connotazione dello 'straniero'. La fase iniziale dell'affermazione della comunità politica nel Lazio evi denzia infatti la facilità di circolazione di gruppi gentilizi e di individui. Non solo ci troviamo di fonte al caso di spostamenti individuali, ο di interi clan gen tilizi da una comunità all' altra, ma anche - e il fenomeno a mio giudizio corri sponde ad una logica analoga, sebbene il suo significato, ai nostri fini, sia anco ra più importante - all'assorbimento di intere entità politiche -populi, oppida: città 'in formazione' insomma - da parte di altre più forti comunità, a seguito di guerre vittoriose. Del resto, a ben considerare, lo stesso generalizzato fenomeno presente sia nella storia greca che italica, e di cui gli antichi avevano chiara coscienza, rappresentato dai sinecismi cittadini, si colloca in questa stessa dimensione. È proprio attraverso tale forma che la primitiva città di Roma venne a for marsi attraverso la fusione dei montes - villaggi ed entità minori ancora orga nizzate sulla base di forme parentali e gentilizie, situati sul Palatino e poi sugli altri colli - nonché dei pagi, i distretti territoriali e di popolazione peri ferici. Ma sugli infiniti e complessi problemi delle origini di Roma e della civiltà laziale possiamo ora rifarci all'opera di Andrea Carandini che, io credo, svolgerà un sicuro ruolo nei nostri studi(2). Vorrei piuttosto richiamarmi, ancora per l'età delle origini cittadine, ad
(2)
VI.
Cfr. CARANDINI, 1997, parte III, 267 ss. V anche PALLOTTINO, 1993 in particolare capp. III-
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un altro 'mito di fondazione' associato alla figura del fondatore della città, Romolo. Miriferiscoal 'ratto delle Sabine' ed alla conseguente reazione bel lica dei Sabini, interrotta per l'intervento delle donne rapite e ormai sposate ai Romani. I tratti leggendari dell'evento coprono tuttavia la realtà del carat tere dualistico della struttura di Roma in età monarchica, sia sotto il profilo topografico che della composizione della primitiva civitas, derivante dalla fusione di due entità originariamente separate: la comunità latina, stanziata sul Palatino e la comunità sabina sita sul Quirinale*3*. La violenza del ratto è volta tuttavia alla costituzione di vincoli matrimoniali, la guerra tra i Sabini, guidati da Tito Tazio, con i seguaci di Romolo non sfocia solo nella pace, ma nella fusione dei due contendenti. E ancora poco più che una leggenda, ma anch'essa ricca di una sostan za non eliminabile è la vicenda, associata ad un altro re guerriero Tulio Ostilio, della vittoria romana sull'antica madre-patria, Alba Longa e il suo assorbimento da parte di Roma stessa. Il nucleo centrale di questa vicenda è rappresentato dal declino di un sistema proto-urbano, quello di Alba(4), di fronte ai fenomeni in corso nel Latium vetus che vedono il precoce affermar si di forti strutture cittadine: non solo Roma, ma Praeneste, Tibur, tra le più importanti in questo tempo remoto. Ma in questa fase ancor più numerosi sono gli echi di processi analoghi che investono le minori comunità più vicine a Roma: sul punto torneremo nel corso del paragrafo successivo. Qui mi interessa sottolineare, in linea gene rale, che tali processi appaiono indicare in modo abbastanza esplicito come, nell'età delle origini cittadine, l'isolamento delle varie comunità non fosse tale da rendere impermeabile la comunità politica allo ο agli 'stranieri'. Al contrario ci troviamo difrontead una relativa facilità di circolazione e di assor bimento all'interno delle strutture cittadine di individui e gruppi estranei. Vi è quasi un paradosso in questo tipo di circolazione 'forzata', frutto essa stessa, quasi sempre, di una pregressa ostilità. Ed esso consiste appunto nel fatto che l'entità politica avversaria va distrutta alla radice, ma le sue (3)
Cfr. ora CARANDINI, 1997, 341 ss. V. anche, soprattutto sotto il profilo istituzionale, DE
FRANCISCI, 1959,478 s. e 561 ss. (4) Uso questa espressione in forma più lata di quanto non feccia nella sua ottima opera A. Carandini. V. per la realtà albana CARANDINI, 1997, n. 71,101 s., n. 148, 231 s. e add. ΙΠ, 533 ss.
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energie, le sue ricchezze, soprattutto in termini di uomini, non vengono disperse, ma integralmente assorbite dal vincitore. Quasi con un processo di 'cannibalismo': per quel significato 'magico' di assorbimento delle energie del nemico vinto e 'mangiato' che gli antropologi hanno soventeritenutodi cogliere in simili pratiche. Lasciando perdere questiriferimentisimbolici, è chiara la ragion pratica di siffatti processi volti a rafforzare le comunità già più forti. D'altronde la sem plicità con cui vincitori e vinti si pongono di fronte alla possibile fusione mi sembra bene evidenziata dalla secca alternativa con cui i Romani tagliano corto alle esitazioni dei dirigenti albani di fronte al prospettato spostamento degli Albani in Roma. Si tratta di un passo di Dionigi d'Alicarnasso, dove, a conclu sione dell'annunciato assorbimento degli Albani da parte di Roma, Tulio Ostilio, per superare le esitazioni degli Albani, chiarisce l'alternativa posta dai Romani. Dion. Hai., 3.30.3: «accettate dunque le condizioni a voi proposte e divenite quindi Romani. Giacché voi potete fare due cose: ο vivere a Roma ο non avere altra patria». Indipendentemente dall'autenticità, che in sé è senz'al tro da escludere, del discorso attribuito a Tulio Ostilio, è significativa la conce zione che questo presuppone. Essa appare lontana da quell'esclusivismo gelo so della città-stato che sarà così evidente in una fase successiva, anche per Roma. Qui invece sembrerebbe che con egual facilità, in questa prima età, il nemico vinto, possa essere ucciso ο asservito, comunque annullato come entità politica autonoma, o, invece, addirittura assorbito senza particolari difficoltà all'interno della comunità dei vincitori, divenendone cittadino a tutti gli effetti. Le varie comunità non appaiono ancora separate da un abisso profondo come sarà in seguito. Questi episodi che costellano la prima espansione di Roma possono dunque essere interpretati come dei sinecismi(5) forzati che si diversificano per modalità e specifici aspetti ma che, in una più ampia visuale, appaiono (5)
Si tratta di un termine di origine greca che indica la fusione, anche materiale, oltre che politi ca, di due comunità minori in una più vasta entità: da syn e oikèo: «abitare insieme». Per quanto concerne i processi di assorbimento di comunità minori da parte di Roma, nel corso della sua prima vicenda storica, si v. già Fesatta impostazione di HUMBERT, 1978, 76 s., ivi, con riferimento alla vicenda di Alba, leggiamo come si formasse allora, «une veritable fusion par rannexion du peuple deplacé. Politorium, sous Ancus Marcius,tóledulliaet Ficana subirent le meme sort: déportation massive des habitants et integration immediate dans la citoyenneté romaine».
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svilupparsi in termini relativamente omogenei. Essi infatti presuppongono tutti una facilità di trasformazione del primitivo status civitatis che appare, per l'età successiva, soprattutto sotto l'influenza dei nostri moderni schemi eccessivamente rigidi, impensabile. Tornando dunque all'episodio di Alba Longa, voglio ancora una volta insistere sul complesso rapporto che intercorre tra la violenza bellica e la integrazione politico-sociale dei vinti. Qualcosa che appare forse più di un semplice racconto leggendario, proprio per la distanza che separa anche il tipo di futuri rapporti, non dico dei Romani con le popolazioni vinte, ma anche con le stesse comunità del Latium vetus, l'antichissima unità etnicoculturale cui Roma stessa appartiene. Così Livio (1.29.1) ci racconta come da Roma, dopo la vittoria su Alba, praemissi Albam erant equites qui multitudinem traducerent Romam; legiones deinde ductae addiruendam urbem*, e alla drammatica descrizione della distruzione completa della città(6) fa seguito la conclusione di questa brutale operazione. In Liv., 1.30.1, leggiamo infatti come Roma interim crescitAlbae ruinis. Duplicatur civium numerus; Caelius additur urbi mons, etf quo jrequentius habitaretur, eam sedern Tullus regiae capii, ibique deinde habitabit**. Questa crescita quantitativa della popolazione corrisponde alla espan sione topografica della città con l'assorbimento del Celio ove verranno stan ziati gli antichi abitanti di Alba. La piena integrazione giuridica e sociale di questi nuovi cittadini appare ribadita dallo stesso spostamento della reggia * Tr. it.: già in quel tempo era stata inviata ad Alba la cavalleria per trasportare a Roma l'in sieme della popolazione; fu poi fatto entrare l'esercito per distruggere la città. (6) Liv., 1.29.1. Questo passaggio era stato già preceduto dal racconto dell'annuncio della volontà romana di dissolvere la comunità albana fatto da Tulio Ostilio e che troveremo assai più ampiamentericordatoin Dionigi d'Alicarnasso (v. nt sg.). Liv., 1.28.7:... rex cetera ut orsus erat peragit: 'Quod bonum faustum felixque sitpopulo Romano ac mihi vobisque, Albani, populum omnemAlbanum Romam traducere in animo est, civitatem dare plebi, primores inpatres legere, unam urbem, unam rem publicam facere; ut ex uno quondam in duos populos divisa Albana res est, sic nunc in unum redeat \ [Come aveva incominciato, il re conclude: «Sia ciò buono e fau sto e felice per il popolo romano e per me e per voi: ο Albani, io intendo trasferire in Roma tutto il popolo albano, largirgli la cittadinanza, crear senatori i suoi maggiorenti, formare una città sola, uno Stato solo. Come una volta lo Stato albano fu diviso in due, così ora torni uno»]. ** Tr. it.: dalla rovina di Alba deriva la crescita di Roma. Il numero dei cittadini è raddop piato; si include nella città il monte Celio, ed ivi, perché venga più popolato, Tulio stabilisce la propria reggia e va ad abitarvi.
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menzionato da Livio. Il re infatti si pone anchefisicamentein relazione con la nuova comunità,riconoscendonecosì l'importanza. Ma soprattutto questa integrazione è precisata sia dall'inserimento degli Albani anche nei ranghi degli equites, che dei loro maggiorenti tra ìpatres. Tulio Ostilio infatti principes Albanorum in patres, ut ea quoque pars rei publicae crescerei, legit: Iulios, Servilios, Quinctios, Geganios, Curìatios, Cloelios; templumque, ordini ab se auctOy Curiamfecit, quae Hostilìa usque adpatrum nostrorum aetatem appellata est. Et, ut omnium ordinum viribus aliquid ex novopopulo adiceretur, equitum decem turmas ex Albanis legit; legiones et veteres eodem supplemento explevit, et novas scripsit ( Liv., 1.30.2-3*/ È del tutto verosimile che questa radicale fusione delle due comunità, sia pure a seguito della vittoria militare dei Romani sugli Albani(7), fosse faci litata da quella preesistente assimilazione giuridica e addirittura politica, evo cata da Strabone(8). In tal modo si evoca il particolare rapporto preesistente tra
* Tr. it: accolse (sempre Tulio Ostilio) tra i senatori, per incrementare anche questo ele mento dello Stato, i maggiorenti degli Albani: i Giulii, i Servilii, i Quintii, i Geganii, i Curiazii, i Cieli; e, come tempio, (per leriunioni)di questo ordine (senatorio) fece costruire la Curia, che fino air età dei nostri padri fu chiamata Ostilia. E perché alla consistenza di tutti gli ordi ni si aggiungesse una "parte del nuovo popolo, scelse tra gli Albani dieci squadroni di cavalle ria, e con integrazione analoga ingrandì le antiche legioni e ne costituì di nuove. ω Sull'assorbimento di Alba Longa, v. anche la testimonianza di Dionigi d'AIicarnasso (3.29.5-7), dove esso è descritto attraverso la delibera annunciata ai vinti dal re Tulio Ostilio: ίστε δη ταύτα δεδογμένα Τωμαίοις τη παρελθοΰση νυκτι συναναγόντος έμοΰ την βουλήν και τα δόξαντα τοις συνέδρου γραψαμένου, την μεν πόλιν υμών καθαιδήναι κα\ μήτε των δημοσίων μήτε των ιδιωτικών κατασκευασμάτων ορθόν τι έάσαι διαμένειν μηθέν έξω των ιερών τους δ* εν αύτη πάντας έχοντας ους και νυν έχουσι κλήρους άνδραπόδων τε και βοσκημάτων και των άλλων χρημάτων μηθεν άφαιρεθέντας εν 'Ρώμη τον από τούδε χρόνον οικεΤν οσην τε το κοινον υμών έκέκτητο νήν τοις μηθένα κλήρον εχουσιν Αλβανών διαμερισθήναι χωρίς τών ιερών κτημάτων, εξ ών αϊ θυσιαι τοις θεοίς ένίνοντο. οίκων δε κατασκευής, εν όΐς τους βίους ιδρΰσεσθε οι μετανιστάμενοι, καθ' ους έσονται της πόλεως, τόπους έμε ποιήσαυθαι πρόνοιαν συλλαμβάνοντα τοΊς άπορωτάτοις υμών της εις τα έργα δαπάνης. και το μεν άλλο πλήθος υμών μετά τών παρ' ήμιν δημοτικών συντελείν εις φυλάς και φράτρας καταμερισθέν, βουλής δε μετέχειν και αρχάς λαμβάνειν και τοις πατρικίοις προσνεμηθήναι τουσδε τους οίκους Ιουλίους, Σερυιλίους, Κορατίους, Κοιυτιλίους, Κλοιλίους, Γεγανίους, Μετιλίους*[« sappiate che i Romani la notte scorsa hanno preso le seguenti decisioni. Io stesso, riunito il Senato ho proposto di decretare che sia decisa la demolizione della vostra città e che nessun edificio sia pubblico che privato sia risparmiato ad eccezione dei templi; che tutti gli abitanti, mentre con serveranno il possesso dei lotti di terra che hanno già, non verranno pri-
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di esse e che sembra discendere dalle stesse origini di Roma. E in effetti que sto, come la maggior parte degli altri processi di fusione e di migrazioni col lettive ο individuali di cui è traccia in quel periodo, investe un'area cultural mente omogenea ed è grandemente da ciò agevolato.
2. L'assorbimento forzato delle comunità minori La vicenda di Alba è quella su cui l'interesse degli antichi si è a ragio ne concentrato, sia per il valore simbolico, dell'antica 'colonia' che assorbe la sua 'madre patria', sia, soprattutto, per le conseguenze politiche che Roma può far valere, dato il ruolo preminente assolto in precedenza dalla capitale federale nell'ambito dell'arcaica alleanza latina. Tuttavia questo processo
vati di alcuno dei loro schiavi, animali ed altri beni e risiederanno d'ora in poi in Roma; che le vostre terre pubbliche siano divise tra coloro [degli Albani] che non possiedono alcun terre no ad eccezione delle terre destinate alla sfera religiosa con cui si provvede ad assicurare i sacri fici agli dei; che io mi incaricherò della costruzione delle case in cui i nuovi venuti verranno a inse diarsi, definendo in quale parte della città dovranno situarsi, e aiuterò i più poveri tra voi a paga re le costruzioni; che la massa della vostra popolazione sarà collocata tra i nostri plebei e verrà distribuita nelle tribù e curie, ma che le seguenti genti saranno accolte in Senato, saranno elevate alle magistrature e apparterranno ai patrizi: i Giulii, i Servilii, i Curiati, i Quintilii, i Cloelii, i Geganii e i Metilii...»]. Si tratta di una serie di indicazioni che coincidono sostanzialmente con la versione liviana. Non vi si menziona tuttavia un insediamento unitario degli Albani sul Celio, quasi che lo spostamento dei nuovi cittadini fosse avvenuto attraverso una loro sparsa distribuzio ne in tutto l'ambito della città. Importante poi in questa stessa narrazione il ricordo della distribu zione ai nuovi cittadini di una porzione di terra pubblica e la loro collocazione nelle varie tribù e curie. Commento abbastanza inevitabile e ovvio, ma probabilmente frutto di una ricostruzione posticcia degli avvenimenti, la diversa reazione del popolo minuto rispetto agli aristocratici alba ni: questi ultimi sofferenti per il decretato abbandono della loro patria e delle loro signorie, i primi soddisfatti per la promessa delle terre daripartire:cfr. Dion. Hai., 3.30.1. Cfr. anche, per le con seguenze materiali e politiche di tale fusione, Dion. Hai., 3.33.3, e 34.1; Liv, 1.28.7; Serv., Aen., 2.113. Cfr. HULSEN, 1894,1302; BELOCH, 1926,159 s. (8) Cfr. Strab., 5.3.4: 'Αλβανοί δε κατ* άρχος μεν ώμονόουν TÒÌC Τωμαίονς, όμόγλωττοί τε δντες και Λατίνοι, βαδιλευομενοι δ' έκάτεροι χωρίς ετυγχανον ούδεν δ1 ήττον èmναμίαι τε ήδαν προς αλλήλους και ιερά κοινά τα έν "Αλβα και άλλα δίκαια πολιτικά* [Quanto agli Albani, inizialmente intrattenevano buoni rapporti con i Romani, giacché parlavano la stessa lingua ed erano di stirpe latina, ma avevano dei propri re; tuttavia tra loro intercorrevano matrimoni e sacrifici comuni in Alba e molti diritti politici comuni].
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trova altre e molteplici espressioni di cui occorre dar rapidamente conto. Ricorderemo così, anzitutto, il probabile assorbimento di Crustumerium e di Antemnae^. Particolarmente rilevante, indipendentemente dal momento pre ciso della sua incorporazione in ambito romano, è il caso di Crustumerium collegato talvolta all'analogo evento che ha interessato Fidenae - in conside razione della creazione dell'omonima tribù, da datarsi con ogni verosimi(9)
Cfr. sempre Plut, Rorn., 17.1: Μετά δε την Καινινητών αλωσιν ετι των άλλων Σαβίνων έν παραοκευαίς δντων, συνέστησαν οι Φιδήνην και Κρουδτουμέριον και Άντέμναν οικουντες έπα τους "Ρωμαίους", και μάχης γενομένης ήττηθέντες" ομοίως, τάς τε πόλεις Τωμύλω παρήκαν έλειν κα\ την χώραν δάδαδθαι κα\ μετοικίσαι σφάς αυτούς* ^ic Τώμην-fDopo la presa di Cenina, mentre gli altri Sabini erano ancora impegnati nei preparativi, gli abitanti di Fidenae, di Crustumerium e di Antemnae si coalizzarono contro i Romani. Attaccata battaglia essi furono sconfitti e non poterono impedire che Romolo conqui stasse le città, dividesse il territorio e trasferisse loro stessi a Roma]. Qui la narrazione appare divergere dal racconto liviano, in cui si distingue la vicenda di Crustumerium e Antemnae da quel la di Fidenae. Di Antemnae infatti Liv., 1.9.8 e 1.1,ricordala sconfìtta da parte di Romolo e insie me il fatto che la di lui moglie Ersiliaprecibus raptarumfatigata orai (lo stesso Romolo) utparentibus earum dei veniam et in cmtatem accipiat: ita rem coalescere concordia posse. Facile impetratum. [a Romolo esultante per la duplice vittoria sua moglie Ersilia, stimolata dalle supplicazio ni delle altre rapite, chiede che conceda venia ai loro genitori e li accolga cittadini; così nella con cordia s'accrescerà lo Stato. Questo fu facilmente impetrato]. La preghiera infatti trova orecchio benevolo in Romolo, descritto all'inizio di questo passaggio come duplici Victoria ovantem. La duplice vittoria è appunto quella su Antemnae e quella, menzionata immediatamente prima, in Liv., 1.10, su Caenina. Il che fa appunto ritenere che la successiva ammissione alla cittadinanza riguardasse entrambe. Ma i problemi che derivano dal testo liviano non terminano qui, giacché, ancora di seguito, tale autore menziona il successivo scontro con Crustumerium (Liv., 1.11.3-4) e indicando come, dopo la vittoria, utroque coloniae missae; plures inventi qui, propter ubertatem terrae, in Crustuminum nomina darent Et Romam inde frequenter migratum est, a parentibus maxime a propinquis raptarum. Pn entrambe le città furono mandate colonie; maggiore si trovò il numero di quelli che si arruolarono per il Crustumese, in considerazione dell'ubertà del territo rio. E di là fu poifrequentel'immigrazione, particolarmente dei genitori e dei consanguinei delle rapite]. Dove il duplice fatto della fondazione di colonie (sicuramente civium Romanorum) e la immigrazione in Roma degli antichi membri delle comunità vinte, evidentemente come nuovi cit tadini romani, appareriferitoza Antemnae e a Crustumerium. Vutroque con cui è introdotto il rac conto esclude infatti la precedente, terza città costituita da Caenina che parrebbe quindi destinata a un regime diverso. Egualmente la trasformazione di Caenina e di Antemnae in colonie romane - con la fusione dei loro antichi abitanti con i nuovi venuti da Roma - è menzionata da Dionigi d'Alicarnasso in relazione agli stessi eventi (2.35.4). Per quanto concerne Crustumerium va detto come, in un altro passaggio di Dionigi d'Alicarnasso, si faccia riferimento alla sua incorpora zione nella cittadinanza romana come anteriore al regno di Tarquinio Prisco. In Dion. Hai., 3.49.6, si ricorda come ai suoi abitanti si conservasse il godimento dei loro possessi e si per mettesse il godimento della cittadinanza romana «come in precedenza»: ospròteron. La dipen-
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glianza agli inizi della Repubblica00*. Ma, più in generale, vi è un'area di pic coli insediamenti, prossimi a Roma, i cui nomi sopravvivono nella famosa lista pliniana dei populi del Latium vetus, destinati quasi tutti a sparire in età stori ca senza lasciar traccia, comericordanogli stessi scrittori antichi00erispettoai quali il processo di assorbimento romano dovette avere precoce efficacia02'. Come s'è accennato in apertura di discorso, questi episodi di dissoluzio ne di minori entità all'interno della civitas Romana emergono dalla leggenda sin dalle origini di questa. Certo la narrazione di Plutarco relativa alla vittoria su Caenina e al suo assorbimento da parte di Roma, in età romulea lascia molto incerti per la mancanza diriscontrinella restante tradizione03': di nuovo ci troviamo di fronte alla fase oscura e leggendaria della 'fondazione' della denza di Crustumerium dai Romani è ricordata ancora in Dion. Hai., 3.49.4. Giustamente HUMBERT, 1978, 78, sostiene che «la condition de Crustumerium dut erre partagée par bien des petits noyaux urbains proches de Rome et restés, après leur incorporation, des centres habités». (,ϋ) Cfr. in particolare GELZER, 1934,950; BELOCH, 1926,159 SL; Ross TAYLOR, 1960,36 s. e ntt 4 e 5. (11) Mi riferisco a Plin., nat. hist, 3.68-70: in prima regione praeterea fiiere in Latio darà oppida Satricum, Pometia... Sulmo, et cum iis carnem in monte Albano soliti accipere populi Albenses: Albani, Aesolanix.... Ita ex antiquo Latio LUI populi interiere sine vestigiìs. [Inoltre nella prima regione si trovavano un tempo le seguenti illustri città: nel Lazio, Sadico, Pomezia etc,... e i popoli albani che con queste solevano prendere la carne (a seguito di sacrifìci reli giosi comuni) sul monte Albano: gli Albani, gli Esulani etc. Così 53 popoli scomparvero dal l'antico Lazio senza lasciar traccia]. Sulla lista si v. in particolare WERNER, 1963,415 ss. ed ora CARANDINI, 1997, nn. 149 ss., 233 ss. Eccessivamente critico invece BELOCH, 1926, 148 ss. (12) CARANDINI, 1997, n. 150, 235, rileva come non sia facile intendere cosa sia propriamente il tipo di aggregato umano indicato nella lista in questione con il termine populus. A suo avviso si tratta probabilmente di una comunità tribale di modeste dimensioni, giunta al massimo grado di sviluppo consentito dalle condizioni sociali pre-urbane, che vive in vici ο nuclei insediativi fra loro aggregati intorno a una rocca ο sito egemone che dà all'insediamento un'impronta di unità. Va anche sottolineato che, sebbene il processo di assorbimento delle comunità minori da parte di Roma sia particolarmente vistoso, data la granderilevanzaassunta precocemente da questa città nell'area laziale, nondimeno è tutt'altro che esclusivo. Esso, al contrario, si colloca all'interno di un più generalizzato fenomeno di concentrazione per cui i centri più forti, evolvendosi verso le forme cittadine, tendono ad inglobare le minori e più deboli realtà insediative a loro vicine. im
Caenina appare tra i clara oppida menzionati in Plinio, scomparsi senza lasciare traccia. Cfr. PluL, Rom., 16.3, dove si narra come Romolo, dopo aver vinto in duello il re di Cenina, Acrone, avesse conquistato anche la città di Cenina, e «tuttavia non recò oltraggio ai prigionieri, ma ordinò loro di abbattere le case e di seguirlo a Roma, dove sarebbero divenuti cittadini con pieni diritti». Tuttavia, sempre con riferimento a queste stesse vicende d'età romulea, in Livio, 1.10.4, incontriamo la menzione della vittoria su Cenina, e soprattutto l'uccisione in duello del Hi 1f»ì ΓΡ ÀP.mni* (\\ ramtn è* irmv\rti»nti» f» ct/\ri/»am#Miti» cifmi-firatii/r* rw»r ΓαοοηΛία-ζΐΛηο r»fi#» fai*» t*r\i-
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città romulea. Né troppo diversa, qualitativamente, anche se qui lo spessore delle fonti è ben maggiore, la vicenda giàricordatadel ratto delle Sabine. Così, tra le altre minori comunità incorporate da Roma già nel corso del l'età monarchica si possono annoverare Politorium, Ficana, MedullictlA,\ non ché Bovillae, Castrimonium e CabcfsK Più complesse appaiono invece altre situazioni. Miriferiscoanzitutto ai rapporti con Gabii il cui interesse, comun que, non è certo minore degli altri episodi. In tal caso rileva anzitutto la par ticolare configurazione del relativo territorio e soprattutto il fatto che anche per questa comunità si parli di un trattato con Roma con la concessione delYisopolitèia: situazione su cui dovremo approfondire il discorso nel corso del successivo capitolo(,6). Problemi non minori derivano poi dal fatto che si ha talvolta a che fare con entità di cui si narra l'assorbimento da parte di Roma, già in età monarchica, ma che, poi, appaiono nuovamente come soggetti auto nomi - si pensi a Nomentum ο a Fidenae{ì7) - ο con una individualità munici pale ο coloniaria che fa immaginare un diverso processo di assorbimento. In effetti l'insieme dei processi che sembrano caratterizzare questa fase che definirei di 'coagulo cittadino' nel mondo laziale è perfettamente espres so da una indicazione che incontriamo in Livio (1.33.1) a proposito della sodio ha con la figura degli spolia opima), ma non vi è poi esplicita indicazione dell'assorbi mento dei vinti nella cittadinanza romana. Sull'episodio v. inoltre Val. Max., 3.2.3, e Prop., 4.10, nonché Fest, s.v. opima spolia (LINDSAY, 202), nonché Yelogium di Romolo, CIL, Ι.Γ, p. 189, n. IV. È da ritenersi che in una certa fase il sinecismo si sia pur verificato con il trasferimento in Roma degli antichi sacra della comunità: cfr. sul punto HOLSEN, 1899, 1278 s. E d'altra parte la prosecuzione del racconto liviano potrebbe farci sospettare che, successivamente alla sua vitto ria, Romolo abbia proceduto alla fusione delle due comunità: cfr. sul punto la nota seguente. {I4) Su Politorium, Medullia, Ficana e sulla stessa Tellena, v. HUMBERT, 1978, 76 s. e nt. 89. (15) Per queste, ma più in generale per la complessa realtà costituita dalle innumerevoli pic cole comunità 'preciviche' e dal loro rapporto con la conquista romana, così come, in modo talvolta contraddittorio, è attestato dalle fonti antiche, si rinvia alla ancora sicura analisi di BELOCH, 1926, 165 ss., nonché a GELZER, 1924, 950 s. (16)
Cfr. WEISS, 1912, 420 s.; DE SANCTIS, 1907, 410 e gli autori ivi cit in nt 2. Cfr. infine
SHERWIN-WHITE, 1973,19, con una puntuale discussione delle particolarità che avrebbero caratte rizzato l'assorbimento di questo comune: dall'apposito foedus, all'autonomia àaYager Gabinus. Giustamente tale a, he. cit., 20,riferendosiall'incorporazione di Gabii e Crustumerium, sottolinea come tali eventi segnassero «the opening of a new era in the history of Rome. The days of simple destruction and aggrandizement at the expense of ihepopuli latini were over. The reason for this is that villages, or groups of them, have grown up into politicai self-conscious townships». (,7)
Cfr. BELOCH, 1926,166.
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politica di Anco Marcio, dove appunto si ricorda come questo re secutus morem regum priomm, qui rem Romanam aiccerant hostibus in civitatem accipiendis, multitudinem omnem Romam traduxit*. Su questa rappresentazione ci fermeremo dunque per riflettere sulla complessità dei fenomeni che hanno accompagnato il definirsi del modello statale realizzato nell'antichità 'classica' attraverso la pòlis: la 'città-stato', appunto. La piena affermazione di una struttura politica compiuta - e quindi, 'chiusa' - è stata infatti preparata dalla presenza di insediamenti minori dispersi in aree territoriali relativamente circoscritte e tenuti insieme da vincoli di caratte re religioso e sociale, facilmente avviati a saldarsi in unità più ampie. La concen trazione dovette essere poi agevolata dalla disparità tra queste entità: comunità più dinamiche e forti costituivano così un polo atto ad attrarre strutture minori, più deboli o, addirittura, anche per via di vicende politico-militari sfortunate, in via di 'disgregazione'. D'altra parte solo apparentemente paradossale è il fatto che codeste 'fusioni' siano state facilitate non solo dal tessuto di alleanze e di soli darietà religiose e più latamente culturali, ma anche e forse soprattutto dalle osti lità e dal conflitto. Insomma, come sovente avviene, la guerra non meno della pace appare un fattore di sviluppo e di trasformazione.
3. La funzione delle leghe religiose Fermiamoci anzitutto sul fattore di coagulo costituito dalla sfera reli giosa e dalle leghe religiose che appaiono unire la miriade di piccole comu nità sin dalle origini della storia laziale. Se torniamo a quella che forse è una delle più antiche di queste leghe religiose e politiche - i 'trenta popoli Albensi' evocati in Plinio, noi ci troviamo di fronte ad un insieme di micro scopiche comunità che non corrispondono ancora a quelle città che domine ranno il Lazio in età storica: di molte di esse sappiamo invece che verranno assorbite dalle maggiori comunità che si affermeranno in seguito, come appunto la stessa Roma. La forza di coesione della lega religiosa, la comu* Tr. it.: seguì la pratica dei re precedenti, che avevano ingrandito la potenza di Roma acco gliendo nella città i suoi nemici, e portò un grande quantità di popolazione in Roma.
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nità di riti - primo tra tutti il grande festino comune in Monte Albano - age volano un processo di circolazione culturale e un sentimento di comuni valo ri destinati a loro volta ad accelerare ulteriori e più definitivi processi di fusio ne politica. Sotto questo profilo è quindi di granderilievoil fatto che la storia laziale sia caratterizzata dalla presenza di una molteplicità di queste stesse leghe: ho oraricordatola antichissima lega dei trìginta populi presieduta da Alba Longa e che aveva la sua sede sul Monte Cavo, unita nel culto di Iuppiter Latiarism. Ma vanno ancoraricordatiil culto di Diana, che si svolgeva sul monte Come, presso Tuscolo, difficilmente identificabile con il culto di Diana in nemore Aricino{l9), che univa varie comunità del Lazio e, non solo certamente molto risalente, ma anche di particolare rilevanza storica(20). A sua volta è incerto se questo culto comune vada poi identificato con il Concilium Latinorum, dove effettivamente Ariccia assumerà un ruolo importante, in senso antiromano(21). E infine, in una complessa stratigrafia temporale di cui è difficile cogliere le
(18)
Sul succedersi di queste leghe di carattere preminentemente politico-religioso, v. anzitutto ALFÓLDY, 1971, capp. I-II. Del caput Ferentinae parla spesso Dionigi: 3.34.3; 3.51; 4.45 (molto importante); 5.61, con l'elenco delle città latine alleate per la guerra che porterà alla battaglia del Regillo. L'assemblea viene ancora ricordata in connessione ad avvenimenti del 349 a.C. (Liv., 7.25). Sulla complessa problematica si v. BELOCH, 1926,182 s.; AMPOLO, 1981, 219 ss., nonché SHERWIN-WHITE, 1973, 11 ss. Del culto di Giove Laziare in monte Cavo e del succedersi alla guida di esso di Roma ad Alba, di cui trattano Dion. Hai., 4.49.2; Varr., lìng. Lai., 6.25; v. GELZER, 1924, 947 e, in un contesto più ampio, CARANDINI, 1997, nn. 141-148, 220 ss. (,9>Cfr. Plin, nat hisL, 16.242 r 0)
- V. in particolare, GORDON, 1934; ALFÓLDY, 1960, 37ss.; LATTE, 1960,169 ss.; SCHILLING,
1964, 650 ss.; PAIRAULT MASSA, 1969,425 ss.; COARELLI, 1987, 165 ss..
^Cfr. Cat., orig., 58; Fest, s.v. praetor (LINDSAY, 276), su cui RUDOLPH, 1935, 12 s.; ALFOLDY, 1971, 34 s., 47 ss.; SHERWIN-WHITE, 1973, 12 s. Sull'intreccio delle diverse leghe e centri religiosi nel Lazio e sul loro significato rispetto ai differenziati rapporti tra le comunità del Latium vetus si è sviluppato un ampio e approfondito dibattito, soprattutto nel corso dei primi decenni del secolo. Esso si è inevitabilmente polarizzato sulle diverse posizioni di MOMMSEN, 1887, 607 ss. (1889, VI.2, 226 ss.) e di BELOCH, 1880, 178 ss. (su cui v. anche: TÀUBLER, 1913, 276 ss.; STEINWENTER, 1917a, 1264 ss.; GELZER, 1924, 944 ss.). Questa pro
blematica si collega altresì strettamente alla discussione sulla possibile diretta derivazione della comunità politica laziale (e conseguentemente anche della relativa comunanza di tutela giuridica e di diritti tra i membri delle varie città) dalla unità di stirpe: un altro tema costante mente richiamato dagli storici e su cui giustamente lo stesso Beloch ebbe ad assumere un atteggiamento di grande cautela.
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scansioni, vannoricordatialtri culti minori che vedono un variegato contatto di popolazioni e comunità(22). Le grandi festività annuali, i grandi sacrifici comuni di cui è ancora ricordo in epoca storica servono così a rafforzare vincoli che possono assu mere carattere politico e che possono trovare consistenza ed efficacia sul piano militare: la difesa contro comuni minacce ο operazioni militari aggres sive ed espansioniste: tali relazioni tendono inoltre, seppure in forma diffe renziata, a sostanziarsi, sul piano economico e sociale, rafforzando canali di comunicazione aperti nel corso di tutto Tanno, ma esaltati appunto in occa sione delle festività<23). Queste dunque le condizioni più vaste all'interno delle quali le comuni cazioni e gli spostamenti di cui ho parlato più sopra risultano facilitate. Ed è significativo, sotto questo profilo, che il sistema delle leghe non impedisca affatto il conflitto tra i membri di queste, semmai, come ho già sottolineato, ne facilita l'esito positivo. Così come esso assicura — le vicende romane lo indicano chiaramente — il modificarsi di rapporti di forza e di influenza anche politico-militare all'interno di esse: esemplare in proposito il trasferimento del culto di Diaria sull'Aventino. È evidente come, attraverso tale 'sposta mento', Servio perseguisse un preciso intento politico volto ad accrescere l'influenza e il ruolo di Roma. Ed è in questa stessa prospettiva che si collo ca il rilancio, da parte di Tarquinio il Superbo, di antichissime tradizioni reli giose, legate alla memoria dei populi Albenses, ora anch'esse concentrate in
^ Cfr. ALFÒLDY, 1971, 265 (23)
ss.
In genere sulle leghe religiose latine, v. BELLINI, 1961, 167 ss.; BERNARDI, 1978, 19 ss. Sulla funzione aggregante dèi santuari arcaici ci sono le considerazioni di ALFÒLDY, 1961,27 ss. e di TORELLI, 1984, 199 ss., che notano la localizzazione extraurbana di tutti i santuari più importanti, e la spiegano con il bisogno di 'diritti di extraterritorialità' del centro federale di Diana, come degli altri santuari citati. Accanto e insieme alle grandi occasioni di incontro costituite dalle comuni cerimonie religiose vannoricordatialtri aspetti ad esse connessi, quali i mercati e le forme embrionali di 'fiere'. Tornando ancora una volta al ratto delle Sabine, è da ricordare come esso, stando a Liv., 1.9.7, intervenga in occasione di una festività. Cfr. in generale SCULLARD, 1981, 177. Tende a differenziare fortemente il diverso contenuto e la varia portata politica di tali leghe BELOCH, 1926, 179 ss. FRACCARO, 1933, 104, acutamente sottolinea come «durante la celebrazione del Latiar vigeva nel Lazio la tregua d'armi, ciò che presupponeva come fatto ordinario la guerra fra le comunità latine partecipanti alle ferie albane».
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Roma. Si tratta delrinnovatoculto di Iuppiter Latiaris, che ho già avuto occa sione di evocare per la fase precedente*24*.
4. Il rafforzamento della 'pòlis' e la fine dei sinecismi Non appare tuttavia legittimo interpretare l'insieme dei fenomeni di aggregazione e di fusione in maggiori unità politiche e sociali come il risul tato meccanico e unilaterale dell'influenza - pur presente in buona parte dei casi - di aree culturalmente e politicamente uniformi e quindi più agevol mente unificabili. Il problema delle migrazioni e dei sinecismi primitivi è anzitutto un problema politico e strutturale, non deve essere ricondotto ad una specie di razionalizzazione di potenzialità già esistenti, quasi come una linea di naturale e necessario sviluppo, secondo una prospettiva implicita mente evoluzionistica. I fenomeni di cui veniamo discorrendo riguardano infatti anche forme di circolazione che uniscono aree culturalmente, lingui sticamente ed etnicamente eterogenee sebbene, da sempre, tra loro comuni canti. La nostra analisi e le nostre ipotesi interpretative dei fenomeni in que stione debbono così tener conto ed applicarsi all'insieme eterogeneo del materiale e delle vicende considerate. È a proposito del ratto delle Sabine e della sua conclusione pacifica che Cicerone, tanti secoli più tardi avrebbe scritto un lucido commento che mi sembra opportunoriportaretestualmente. Cic, Balb., 31 : illud vero sine ulla dubitatione maxime nostrum fimdavit imperium et populi Romani nomen auxity quod princeps ille fundator huius urbis, Romulusy foedere Sabino ο
docuit etiam hóstibus recipiendis augeri hanc civitatem oportere; cuius auctoritate et exemplo numquam est intermissa a maioribus nostris largitio et communicatio civitatis*. Cicerone, ai fini della tesi sostenuta nella sua ora<24> Cfr. SHERWIN-WHITE, 1978,11 s. e ALFÒLDY, 1971, 30 s.
* Tr. ìt.: ciò che invero ha senza dubbio rafforzato al massimo il potere ed ha ampliato la fama e il prestigio del popolo Romano è (il fatto) che Romolo, il primo (dei nostri re) e il crea tore stesso di questa città ha insegnato con l'alleanza sabina ad accrescere questa stessa città accogliendovi anche i nemici. Alla luce del suo autorevole esempio, i nostri antenati non hanno mai cessato di concedere la cittadinanza.
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zione, aveva interesse a sottolineare la liberalità con cui Roma aveva gestito nel corso dei secoli la politica di concessione agli stranieri della cittadinanza. Né è poi da sottacere che il concreto delle vicende storiche, per forza di cose, ci mostra un diverso alternarsi di tendenze anche per l'emergere di problemi non solo politici ma anche tecnici diversi a seconda delle varie fasi della sto ria romana. E tuttavia questa indicazione sembra, nel complesso, evidenziare una tendenza profonda nella storia di Roma, - di certo uno tra i primi fattori del suo eccezionale successo politico -: e non tanto per l'estendersi del suo pote re, quanto per l'averlo poi consolidato in un arco assai lungo di tempo. Già uno dei grandi avversari politici di Roma, nell'età della sua espansione medi terranea, Filippo V di Macedonia aveva individuato il segreto del successo di Roma nella relativa liberalità con cui ammetteva nuovi soggetti alla sua cit tadinanza, di fronte al geloso esclusivismo delle città greche che ne segnava irrimediabilmente i limiti politici. Il tipo di espansionismo attraverso l'incorporazione dei vinti costituisce così la forma più elementare e la prima che i Romani applicarono nella loro vicenda storica. Tuttavia, come è stato giustamente osservato, «questo era un metodo antiquato e poco sofisticato, destinato molto presto a trovare i suoi limiti naturali, a causa delle crescenti difficoltà ingenerate dalle distanze e dalle diversità nazionali»(25). Esso in linea di massima non dovette superare l'arco di tempo che va dalle origini delle istituzioni cittadine alla loro matu ra fioritura che, in Roma non diversamente dal mondo delle pòleis greche, possiamo far coincidere con l'affermazione dell'ordinamento oplitico e che si sviluppa in un ambito geografico relativamenteristretto.Con ciò si giunge all'età di Servio e dell'esercito centuriato. La monarchia etnisca sembra in effetti segnare lo spartiacque tra il mondo vecchio, in cui erano ancora possibili quelle forme di circolazione degli individui e quegli spostamenti di interi gruppi cui abbiamo sopra accen nato e una nuova realtà, assai più impermeabile. In effetti, verso lafinedell'età monarchica, la rafforzata unità della/70//.: rendeva sempre più difficile il ripetersi di tali fenomeni: ormai la guerra e h ^BADIAN, 1967,25.
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vittoria, anche definitiva, sul nemico vinto non agevolano la trasformazione di questo in cittadino: almeno per l'immediato. Così come in quest'epoca cessano quelle altre forme di circolazione e di spostamento dei gruppi genti lizi e il facile assorbimento degli stranieri all'interno della civitas. L'episodio del Claudi(26) è il più noto, ma anche l'ultimo di una serie di eventi del gene re presenti invece nella storia precedente di Roma: si pensi solo alla venuta di Tarquinio Prisco in Roma(27) e alla successiva ascesa di Servio Tullio(28), nonché ad altre importanti testimonianze di questa mobilità orizzontale dei vari clan gentilizi tra le comunità primitive(29). L'età della costituzione centuriata e del pieno definirsi delle strutture della città-stato, in Roma, l'età delle grandi riforme serviane, era destinata infatti a incidere immediatamente e in profondità sul tipo di rapporto che lega l'individuo alla comunità d'appartenenza e sul modo in cui le strutture poli tiche, gli ordinamenti cittadini 'in formazione' interagiscono tra loro. È allo ra che il consolidarsi della civitas comporta una più netta e meno facilmente superabile differenziazione tra i suoi membri e chi ne cè fuori': gli stranieri, ο peregrini per Γ appunto e, insieme, si delinea una distanza più radicale con le altre entità politiche autonome. Tutto ciò è il frutto immediato dell'accen tuata identità che la costituzione cittadina viene assumendo in questa fase sto rica: il pieno fiorire del nuovo ordinamento statale. e6)
Su tale episodio cfr. infra, cap. VI, § 5. Cfr. Liv., 1.34.6, dove si narra appunto dell'etrusco Lucumone, figlio del greco Demarato, che emigra in Roma, dove poi diventerà re con il nome di Tarquinio. Egli è indotto a trasferir si dalla considerazione che «in quel popolo nuovo, dove la nobiltà era del tutto recente e fon data sul valore individuale, avrebbe trovato posto un uomo operoso e animoso». e8) Sull'identificazione di Servio Tullio con l'etrusco Mastarna vi è un'intera letteratura: si v. da ultimo il bel contributo di VALDITARA, 1989,41 ss. p9) Su questi aspetti si v. anzitutto DE FRANCISCI, 1959, 506. Il fenomeno trascende ovvia mente l'area laziale: per quanto concerne il mondo etrusco è da ricordare - anche in conside razione degli stretti rapporti tra questo e Roma - come, ancora in età repubblicana sia attesta ta la presenza di un nucleo di membri della gens Claudia a Caere, attestata in un sepolcro gen tilizio attribuito dalle iscrizioni ai Clavtie, sposati con donne etnische (Ursui di Caere) e con latine con nome etruschizzato (Luvcili=Lucilia): TORELLI, 1981, 222. V. anche CAVAGNANO a7)
VANONI, 1969,318 ss.; PALLOTTINO, 1969, 79 ss.; FRASCHETTI, 1977, 1 ss. Sull'integrazione di
soggetti di etnie diverse all'interno della città arcaica (VII-VI sec), TORELLI, 1981, 135 s., che ricorda l'esempio dei Veturii a Praeneste. Più in generale, cfr. tutto il cap: 5, § 5, per l'inte grazione di stranieri nel corpo sociale delle città etnische.
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5. Religione e diritto nella protezione dello straniero In verità il processo che si cerca qui, in via molto ipotetica, dì ricostrui re, non si presenta nelle forme di un facile schematismo: quasi che il caratte re esclusivista dello Stato - e dello Stato antico forse più del moderno - sia ilrisultatodi una mera crescita nel tempo di forme solo latenti in una prima fase, e quindi menorigide.A mio giudizio almeno, la realtà si propone in ter mini più complessi e contraddittori . Cercherò di chiarire meglio il mio pensiero: ho parlato, nel corso dei precedenti paragrafi, della relativa facilità di circolazione dei vari gruppi sociali all'interno di aree culturali e demografiche più vaste. Questo non significa però che, sin da allora, il valore protettivo e disciplinare della comunità non fosse efficace né contribuisse a definire una separazione tra coloro che ad essa appartenevano e coloro che vi erano estranei. Si trattava solo, come ho cercato di evidenziare più sopra, di una maggiore facilità di assimilazione dell'estraneo all'interno del gruppo e della relativa facilità di circolazione di individui e di interi gruppi e comunità in una più vasta koinè politica e sociale. La religione interviene sin dall'età delle origini cittadine con un ruolo che trascende i rapporti tra i soli partecipanti ai culti comuni, come condizio ne di comunicazione e di scambio tra soggetti estranei. Ancora una volta pos siamorichiamarcial sostrato culturale comune all'antichità classica, ed evo care il comportamento dello straniero che, approdato in un lido sconosciuto chiede ospitalità e benevolenza in nome degli dei. Il pensiero corre immedia tamente alla immagine del 'viaggiatore' più affascinante che la cultura classi ca ci ha tramandato. Quante volte Ulisse, nel suo straordinario pellegrinaggio, si volge agli dei per chiedere ospitalità: presso i Feaci, nel momento in cui egli, ospite sconosciuto, varca la soglia che fu sua un tempo e via dicendo(30). E anche nell'evocare le forme più primitive di vita: quelle che nella visuale di Omero e dei suoi lettori costituiscono le origini ferine della società umana, presso i Ciclopi, Ulisse e i suoi compagni fanno appello, sia pure invano, alla sfera religiosa dell'ospitalità(31). (30)
Cfr. Hom., Od, 7.165: Zeus che è sempre al fianco dei supplici ed essi sono sacri.
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Quando scherzosamente noi stessi richiamiamo un'antica formula come 'l'ospite è sacro', evochiamo inconsapevolmente uno degli aspetti più remo ti del nostro patrimonio culturale, dove diritto, religione e forme sociali sono ancora fuse in unità inscindibile. E il diritto interviene infatti, ancora una volta sotto forma religiosa ο governato dalla religione, come 'dovere di scam bio'. Se io ο mio padre od un avo fummo accolti e protetti da uno straniero nella sua terra, noi e i nostri discendenti siamo tutti impegnati a offrire simi le e se possibile ancora migliore accoglienza ove questi od uno dei suoi discendenti od associati venga a trovarsi nella nostra terra. È un obbligo di reciprocità che si dipana nel corso del tempo e unisce più generazioni(32), fon dato sulla fides: sull'impalpabile legge morale che governa la propria con dotta di fronte agli dei, prima che di fronte a se stessi e agli altri(33). In questo mondo primitivo, laddove la sfera giuridica viene a sorgere e a manifestarsi ancora indistinta dalle più vaste pratiche sociali e dalle manifesta zioni religiose, non sempre si hanno forme di coercizione esterna: solo il timo re degli dei disciplina la coscienza individuale e la guida nelrispettodelle prati che consuetudinarie e di quei comportamenti che, nel tempo, diventano doveri morali, religiosi e, infine, giuridici. Per questo lo straniero che si trova indifeso lontano dalla sua patria, in paesi stranieri, si rivòlgerà agli dei del luogo. Questa protezione reciproca, questa concessione dell'ospitalità allo straniero è anzitutto ruolo precipuo del capo del gruppo: del sovrano primi tivo. Ma all'interno della primitiva comunità, ancora modellata sul sistema aristocratico dei clan e delle gentes, ogni 'signore' assolve a tali funzioni. Ed è l'unico modo, si consideri, in cui lo straniero viene ad essere protetto: egli (3,)
Cfr. Hom., Od, 9.268, dove egualmente si incontra il richiamo a Zeus protettore dei sup plici e degli ospiti. Cfr. anche, //., 6.212 ss., che evoca un altro esempio clamoroso di ospita lità omerica: Glauco e Diomede si riconoscono mentre stanno per iniziare il combattimento e, richiamandosi ai vincoli di ospitalità che avevano legato i loro progenitori, interrompono subi to il duello e si scambiano le armi. (32) Nel già ricordato episodio dell'incontro tra Glauco e Diomede riportato dell'Iliade, è importante il discorso di Diomede (//., 6.215 ss.) in cui si tracciano le regole dell'ospitalità omerica. Ivi è ben chiaro che il rapporto costituitosi tra i due gruppi gentilizi è più forte delle alleanze politiche che possono portare gli ospiti a militare in schieramenti diversi. (33) Su questo aspetto si v. principalmente le acute considerazioni di NÒRR, 1991, 32 ss., senz'altro applicabili al nostro ambito di riflessioni, anche se ispirate ad episodi collocati in un più tardo contesto storico.
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può fruire delle leggi e dei giudici che regolano, comunque, la comunità pri mitiva. Così, in Roma, sin dall'età più antica vediamo attestato un istituto che ha e sempre più avrà valore legale, per tutta l'età repubblicana, costi tuendo un elemento caratteristico delle relazioni di carattere internazionale della città; ma la cui genesi è da rintracciare appunto in pratiche più antiche proprie delle grandi casate gentilizie che dalle strutture cittadine dovevano prescindere. Mi riferisco a quell 'hospitìum su cui torneremo nel successivo paragrafo*34*. Quanto ciò sia importante, mi sembra sia indirettamente attestato da una indicazione contenuta in Dionigi d'Alicarnasso, il cui valore più ο meno leg gendario qui non interessa gran che. Mi riferisco alla notizia secondo cui, Romolo, non appena fondata la città, provvide e dividere il nuovo 'popolo' in due categorie: i patrizi e i clienti. Questi ultimi dipendevano dai primi per quanto concerneva la tutela giuridica presso i tribunali della città<35). Ora, sem pre per questa fase più arcaica, se i patrizi dovevano e potevano assistere i loro clienti in giudizio, è assai probabile che, egualmente, avessero potuto farlo anche per gli stranieri loro 'ospiti' (e non a caso Mommsen collega così strettamente l'ospitalità internazionale alle origini della clientela arcaica). D'altra parte è pur vero che la stessa indicazione delle fonti relativa a questa origine della distinzione tra patrizi e plebei, per tanti versi, appaia fantasiosa: ma fantasiosa non è la difficoltà che, anche in seguito, avranno gli stessi cit tadini ad accedere ai tribunali perfruiredi un'efficace tutela della legge. Essa soprattutto ci fa riflettere sull'enorme valore e sul carattere rivoluzionario ma anche e proprio per questo sulla difficoltà e sulla gradualità di questo stes so processo - del principio che sarà poi tipico delle costituzioni politiche cit tadine dell'antichità classica, sia in Grecia che in Roma, dell' isonomia. Non è certo possibile allargare qui la nostra prospettiva al così difficile e centrale problema rappresentato dalla effettiva origine della plebe e dal fonda mento della distinzione tra patrizi e plebei, ad alcuni di questi aspetti, del resto, sarà appositamente dedicata la successiva parte di questo libro. Qui mi limito a (34) In relazione a questo aspetto va menzionato anche un dato della topografia arcaica di Roma rappresentato dall 'asylìa, giàricordatain età romulea, come hospitìum pubblico e situata nella sella tra l'arx e il Campidoglio: cfr. COARELLI, 1983,105. (35 >Crr.Dion.Hal.,2.9.
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sottolineare come, se precocemente l'esperienza giuridica romana si avvia ad affermare la validità delle nonne del proprio ordinamento per tutti i cittadini, patrizi e plebei e se, sotto questo profilo, la svolta rappresentata dalle XII Tavole, verso la metà del V sec. a.C. costituisce un fondamentale balzo in avan ti, tuttavia sussistono elementi che fanno pensare ad un diverso carattere origi nario dello stesso patrimonio giuridico ancestrale. Basti pensare quanto insi stentemente si riferisca una forma matrimoniale, la confarreatio, ai soli patrizi, mentre la coemptio viene associata alla plebe(36). Il divieto ο l'assenza di conubium tra i due ordini si colloca in questa stessa direzione(37). Ma, in misura ancora più netta, uno squilibrio significativo rispetto al valore delle norme della città appare delinearsi a proposito di una specifica componente 'non patrizia' della comunità arcaica rappresentata dai clienti dei patrizi. Una situazione di dipendenza che, verosimilmente, alle origini, ren deva impossibile l'intervento tra patrono e cliente del giudice esterno affer matosi con la civitas. Il versetto delle XII Tavole che punisce con la sacertà - una pena che ha una forte componente religiosa — il patrono qui fraudem fecerit al suo cliente conferma a contrario tale squilibrio(3S). L'eguaglianza di tutti (nel mondo antico di tutti, ma solo dei cittadini, s'intende) di fronte alla legge ancor oggi appare così solennemente afferma ta nei nostri tribunali giacché essa costituisce uno dei principi fondatori dello Stato moderno. Un principio che elimina quelle differenze di status, quelle diversità di condizione sociale e giuridica che sono tipiche della maggior parte delle organizzazioni sociali che si sono affermate nel corso della storia. Se la concezione moderna si impone contro le gerarchie proprie delle società feudali europee, diversità di ceto, di status e di condizione legale sono pre senti in una molteplicità di altre esperienze storiche, sino all'irrigidirsi più
(36)
Sul punto si v. da ultimo Γ importante discussione in PEPPE, 1997, 144 ss. Sulla portata di questo divieto e sulla sua collocazione in un più vasto contesto storico, si v. per una prima approssimazione FRANCIOSI, 1984b, 121 ss., 159 ss.; CAPOGROSSI, 1990, 225 i37)
ed ora PEPPE, 1997, (38)
146.
Cfr. però da ultimo SERRAO, 1987, § 15, p. 66 ss., che coglie un mutamento nella norma tiva arcaica relativa alla clientela, dalla legge regia riferita da Dion. Hai., 2.10.3, rivolta sia al patrono che al cliente, alla norma decemvirale, riferita da Serv., Aen., 6.609, relativa al solo patrono, come risultato di una pressione plebea volta ad emancipare la situazione di dipen denza dei clienti.
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radicale nel sistema di caste affermatosi nelle civiltà dell'estremo Oriente. Laddove queste diversità sussistono, lì non esiste una 'legge eguale', ma, appunto, tante diverse regole valide ciascuna per ciascun gruppo presente all'interno della stessa comunità politica. Né si deve interpretare questa realtà solo in termini eurocentrici come 'arretratezza' ο 'barbarie', immaginandosi che solo questa 'isonomia' possa coincidere con i valori della civiltà, della libertà e della tolleranza. Questi criteri, come ha visto con tanta chiarezza Max Weber, hanno piuttosto a che fare con quella particolare forma di razionalizzazione dei rapporti sociali e di 'modernizzazione' che è stata propria dell'Occidente*39*. Si trattava infat ti di scardinare l'individuo dalle sue stesse radici costituite dai vincoli fami liari, dai legami tribali, dal contesto culturale e religioso di appartenenza e che, in ogni società primitiva, lo definisce integralmente (come non ricor dare la famosa enunciazione mainiana «dallo status al contratto»?)(40) per farne esclusivamente un 'cittadino': un individuo cioè che è 'solo' di fron te alle leggi della città, in un rapporto diretto e immediato con il potere sovrano. Questa operazione probabilmente si è realizzata per la prima volta, in forma relativamente compiuta, solo nelle città dell'antichità classica e si svi lupperà ulteriormente solo all'interno delle società occidentali, a partire dal Medioevo. Torneremo a riflettere su questi aspetti più avanti, nelPesaminare la trasformazione dell'ordinamento giuridico romano in un sistema 'univer sale' e potremo allora meglio valutare il valore relativo di questa classifica zione. Per ora limitiamoci a riconoscere che proprio la rottura dei vincoli arcaicizzanti e la 'creazione' dell'individuo come soggetto autonomo rispet to allo Stato permetteranno al sistema delle pòleis classiche e, in particolare a Roma, di sviluppare uno straordinario dinamismo che inciderà in profondo sull'intera storia occidentale. E in effetti, con il precoce tramonto della fondamentale differenza di casta tra patrizi e plebei, già avviato potentemente, come ho detto, con le XII Tavole e conclusosi pienamente nella prima metà del IV sec. a.C, l'ordinamento giu-
(39)
Cfr. CAPOGROSSI, 1997, cap.
m
Cfr. MAINE, 1861,
X.
168 ss. (180 ss.) [128 ss.], su cui v. CAPOGROSSI, 1997a, 161
ss.
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ridico romano appare ormai, e non solo nel campo del diritto privato, regolare individui 'eguali', realizzando il difficile equilibrio tra una società destinata a conservare unafisionomiaintimamente aristocratica e un sistema giuridico che si fonda sull'autonomia e sulla formale eguaglianza di coloro - i patres familias - individuati come i soggetti attivi della vita giuridica. Tutto ciò segna insieme il distacco da una realtà più arcaica, in cui per sistevano ancora le tracce di quel sistema 'prestatuale' in cui restava vitale quell'insieme di vincoli più vasti, all'interno dei quali le forme di sinecismo e di mobilità individuale erano fiorite. In questa fase infatti non è solo l'in dividuo che deve ancora divenire solo e soprattutto il 'cittadino': il membro individuale dello Stato-città in un rapporto diretto ed esclusivo con questo, ma è la stessa comunità cittadina che, in fase ancora embrionale, stenta ad assumere una peculiare individualità rispetto alle entità consimili e a strut ture difformi ma con funzioni ancora non differenziate (penso ai semplici pagi la cui unità deve essere ancora fondata sui vincoli parentali e gentilizi). La grande 'rivoluzione' cittadina non svincola solo il 'cittadino' dagli anti chi e molteplici legami di sangue e di casta, ma emancipa la città stessa dal l'autonomo potere delle gentes e dal tessuto indifferenziato degli èthne, dei nomina, anch'essi riferiti a vincoli di stirpe e religiosi. Allora, tuttavia, parallelamente alla piena definizione del 'cittadino' cui ora facevo cenno, si impone la compiuta fisionomia dello 'straniero'. Ed è ora che s'accentua una sempre più netta contrapposizione tra questi due termini che appare dissolvere le brume di una primordiale realtà sociale e, direi, 'amicale' di consorterie guerriere, più legate all'avventura comune e alla soli darietà dell'impresa militare, che non alla 'città' ancora in divenire: gruppi che potevano concepire facilmente come estranei tutti i 'non compagni' i non sodales, secondo l'espressione latina che echeggia ancora siffatta antichissi ma realtà. Solo con il pieno superamento di queste forme, lo 'straniero' divie ne tale rispetto alla città-stato e al suo diritto e solo allora il riconoscimento della sua esistenza e la necessità di una sua tutela legale porrà problemi di natura strettamente tecnico-giuridica che esclusivamente la città appare in grado di risolvere.
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6. Le due forme di tutela dello straniero: la creazione di nuove norme e la assimilazione Come s'è accennato nel precedente paragrafo, in ragione della sua stes sa storia e del modo in cui in concreto la città-stato si è affermata attraverso la radicale rottura del tessuto dei precedenti vincoli di carattere arcaico, con la relativa emarginazione delle strutture sociali 'preciviche' di tipo naturali stico, il legame del cittadino con la pòlis assume un carattere affatto peculia re ed esclusivo. Sia sul piano della sfera religiosa, della partecipazione poli tica e dei ruoli militari che, infine, su quello della sfera giuridica, il cittadino e solo il cittadino è legato alla sua città da vincoli e doveri affatto esclusivi. E per questo stesso motivo lui solo, diversamente da ogni altro individuo non cittadino, può vantare diritti ed esercitare funzioni. Così, man mano che la rottura dei vincoli preesistenti veniva portata avanti dalla pòlis isolando il cit tadino e integrandolo compiutamente, le forme di esclusivismo vennero pro gressivamente accentuandosi. D'altra parte, sin dall'inizio della storia cittadina, ci si trova di fronte all'intreccio di conflitti semipermanenti con i vicini, di guerre e di tempora nei accordi che sembrano esprimere l'intrinseca aggressività, se non addirit tura la tendenziale intolleranza della città antica e, in particolare di Roma. Essi appaiono addirittura come elementi costitutivi dello stesso processo di formazione della pòlis. E tuttavia proprio la loro esistenza ed il loro progres sivo intensificarsi, man mano che le forme di circolazione analizzate nel corso delle precedenti pagine si bloccavano, postula dei meccanismi di ammortizzamento e di stabilizzazione. Si impone così l'esigenza di temperare e modificare la sempre più accentuata distanza tra le varie entità statali e, parallelamente, la sempre più netta esclusione dello straniero dalle leggi della città. Data da allora il valore crescente delle pratiche di ospitalità del re ο dei grandi signori aristocratici e, con ciò, la loro tendenza ad assumere in misura sempre maggiore una valen za giuridica. Ma, ancor prima e con non minor rilievo si definisce anche un sistema di relazioni internazionali atto ad assicurare anche rapporti pacifici tra gli Stati, tale da regolarne tregue, accordi, alleanze. Sotto questo profilo, antichi quanto la guerra appaiono i trattati internazionali. Si tratta di accordi
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intercorsi, spesso a conclusione di una fase di ostilità e di conflitti armati, che non necessariamente si concludeva con la scomparsa di uno dei due conten denti e il suo assorbimento da parte dell'altro, anzi, che più sovente sfociava in un riequilibrio dei precedenti rapporti. Si tratta anche del rafforzarsi degli aspetti giuridici e più strettamente politici di quelle leghe religiose di cui si è già parlato: una traccia non del tutto evanescente di questo processo mi sembra si possa cogliere proprio in relazione all'antica alleanza dei Latini la cui sede originaria era presso il caput aquae Ferentinae(*x\ Sino infine alriconsacratovincolo, anche e ormai soprattutto politico, tra Romani e Latini agli inizi della Repubblica con Mfoedus Cassianum su cui si tornerà ben più ampiamente nel corso del successi vo capitolo. Sovente in questi accordi si sancisce solo un rapporto di pace e di 'amicizia' che assicuri relazioni tra le due comunità; ma non meno spesso si stringono accordi che impegnano le parti in una più stretta alleanza: foedera, appunto. In entrambi i casi poi si inseriscono in codesti accordi inter nazionali delle clausole relative alla salvaguardia dei propri cittadini nel l'ambito di influenza e di sovranità della controparte. Si stabiliscono rego le relative alla reciperatio internazionale, attraverso cui gli stati stessi ο i singoli loro cittadini possano 'recuperare' e ottenere soddisfazione per quanto loro sottratto illegalmente ο con la violenza(42). Le forme di tutela dei cittadini dell'altro stato sono così l'oggetto di un impegno di carattere inter nazionale. (41)
Gli aspetti ormai fortemente istituzionalizzati e di natura essenzialmente politico-militare della Lega che ha sede presso il caput aquae Ferentinae, sono evidenti già in Dion. Hai., 3.34, e, soprattutto, in Fest, s.v.praetor (LINDSAY, 276). Cfh anche Liv., 1.50.1. Ma un carattere poli tico ancora più accentuato hanno da una parte i tentativi romani di spostare il santuario federa le di Diana sull'Aventino (cfr. Liv., 1.45; Dion. Hai., 4.26; Varr., ling. Lat., 5.43) e l'alleanza, chiaramente antiromana che avrebbe avuto sede in Ariccia (si tenga presente già il racconto liviano dello scontro 'politico' delParicino Turno Erdonio con Tarquinio il Superbo: Liv., 1.50), Cat, orig., 58. Per un'analisi strutturale dell'insieme delle relazioni intercorse tra i Latini, anco ra valido appare il contributo di CATALANO, 1965,151 ss. Altre indicazioni supra, nt 15. (42) Sulla reciperatio internazionale si v. HUSCHKE, 1826,208 ss.; Id., 1837, 861 ss.; SELL, 1837, 44 ss., 57 ss., VOIGT, 1856, 93; KARLOWA, 1872, 218 ss.; PHILLIPSON, 1911, II, 83 ss.; GIRARD,
1901, 101 s.; JÒRS-KUNKEL, 1987, 409 ss. Di particolare rilievo per la problematica qui conside rata sono poi le pagine di LUZZATTO, 1948, 231 ss. e III, 92 ss., I l i s. La letteratura più recente non offre grandi novità: v. per tutti BROGGINI, 1957,44 ss.; BONGERT, 1952,101 ss.; 117 ss., 123 ss.; SCHMIDLIN, 1963, 3, si interessa solo marginalmente del nostro problema.
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Ancora in età avanzata incontriamo, in Roma, l'istituto àelV hospitium, cui avevo fatto rapido cenno poco più sopra: un'Ospitalità5 che può essere 'pubblica', decretata dallo Stato a favore di singoli stranieri, di singoli peregrini, ο 'privata', di cui cioè si vengono a far carico singoli gruppi familia ri, singole gèntes all'interno della comunità politica cittadina(43). E ancora per la tarda Repubblica sopravvivono i documenti di questa concessione di ospitalità che ha un carattere unilaterale (anche se, almeno in origine, si collegava a forme di reciprocità): le tesserae hospitales attribuite a singoli peregrini allorché già costoro si trovavano all'interno dell'universo politico romano(44). Quanto si è detto circa la diversa natura (pubblica ο privata) di questo istituto e l'eventuale obbligo da parte di Roma (e viceversa) di assicurare tale protezione in virtù di un trattato internazionale ancora non ci dice nulla circa il modo in cui, concretamente, la protezione allo straniero era così assicura ta. E questo, in particolare, per il caso deìV hospitium privatimi: come pote vano infatti dei privati cittadini assicurare la condizione giuridica dello stra nierorispettoalle leggi della città che, in partenza a lui non si applicavano? E, del resto, lo stesso hospitium publicum significava forse che lo Stato citta dino assimilava il beneficiario di questa concessione ai suoi stessi cittadini? Giacché - e questo è il punto di partenza dal quale non dobbiamo mai pre scindere - intimamente connesso alla logica stessa della città-stato era il carat tere esclusivo della appartenenza ad essa. In altre parole il diritto della città in linea di massimariguardavasolo ed esclusivamente i membri di questa. Una volta stabilita la volontà dello Stato di assicurare la protezione (43)
Un altro caso ancora è Vhospitium esistente tra un cittadino romano e una città ο comu nità straniera ο dipendente: ma siamo già nell'ambito pieno del patronato. Su\Y hospitium pri vato (che si può ritenere la forma più antica) e sui suoi rapporti con la clientela, si v. soprat tutto MOMMSEN,1859, 326 ss. (ma per la tutela giudiziaria v. soprattutto 348 s.) e MOMMSEN, 1887, 76 s. e nt 4; 602 (1889, VI.l, 84 e nt 4; VI.2, 220). Più in generale su questo istituto si v. la già citata indagine, per tanti versi precorritrice di nuovi orizzonti di SELL, 1837, 117 ss., nonché l'ottimo contributo di LÉCRIVAIN, 1990a, 298 ss.; v. anche PHILLIPSON, 1911,1,217 ss.; TÀUBLER, 1913,402 ss. (opera importante e densa di materiale e di riflessioni, ma, com'è noto, dominata da un'eccessiva impostazione sistematica che fa di essa più un momento terminale di una tradizione che un fattore di suo intimo rinnovamento) e HUVELIN, 1929, 8. Cfr. ora DE MARTINO, 1973,23 ss. e CATALANO, 1965,192 (con altra lett in nt 3). (44) Cfr. sul punto, LÉCRIVAIN, 1900a, 298; LEONHARD, 1913,2495, ed ora un rapido cenno in BADIAN, 1967,
12.
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dello straniero all'interno della comunità, si trattava dunque di definire in concreto le modalità attraverso cui ciò poteva realizzarsi. Questo proble ma doveva a maggior ragione essere risolto allorché lo Stato stesso, non per scelta unilaterale e quindi autonoma, ma in virtù di un accordo inter nazionale di amicitìa ο di alleanza con un altro stato si impegnava a for nire tutela legale (ovviamente sulla base della reciprocità) ai cittadini di quest'ultimo. 11 carattere esclusivo da me ripetutamente richiamato dell'antico diritto 'civile' (e cioè 'della città', 'dei cittadini', dunque) rendeva possibile alla città antica percorrere solo due diverse strade: ed è ciò che vediamo effettuato da Roma con la coerenza e con l'articolazione rese possibile dallo straordinario^ e relativamente precoce sviluppo che nel corso della sua storia hanno avuto le tecniche legali. Era possibile infatti assimilare lo straniero al cittadino solo per quanto concerne la fruizione di alcune particolari regole del diritto citta dino. Oppure creare nuove norme destinate a regolare anche ο solo i rappor ti tra i cittadini romani e gli stranieri. La creazione di un sistema di regole atte ad applicarsi egualmente a stra nieri e cittadini, distinte quindi dagli antichi istituti del 'diritto della città, lo ius civile, e indicate in ragione della loro stessa funzione come iuris gentium, coincide con il secondo dei criteri suesposti. Fermiamoci per il momento ad approfondire il primo dei criteri ora accennati: quello dell'assimilazione par ziale dello straniero al cittadino ai fini della tutela dei rapporti di diritto pri vato. Si tratta da parte di Roma della concessione dèi.ius commerci!, unita talvolta a quella dello ius conubil
7. 'Commercium' In effetti si è discusso ampiamente e tuttora sussiste una qualche incer tezza sul preciso contenuto delle concessioni del ius commercii effettuate dai Romani. Già nel testo fondamentale relativo a tale istituto, Tit Ulp,, 19.4-5, è insita la difficoltà di fronte a cui si sono trovati gli studiosi: mancipatio locum habet inter cives Romanos et Latinos coloniarios Latinosque Iunianos eosque
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peregrinos, quibus commercium datum est Commercium est emendi vendendique invicem ius{*5). Un po' poco,francamente,questa definizione conclusiva di Ulpiano, se non altro per farci comprendere sino in fondo il titolo di legittima zione dei peregrini ad effettuare la mancipatìo: un negozio per eccellenza dello stretto ius civile. Non mi addentrerò nella discussione abbastanza estenuante che la moderna romanistica ha svolto, sovente con egregi contributi, sull'argo mento. Un problema al centro del dibattito era ed è costituito dal tipo di tutela che la concessione del ius commercii comportava: si trattava di una generica garanzia legale dello straniero, ο consisteva nella sua assimilazione ai Romani per quanto concerne la partecipazione ai negozi dell'antico ius civile? Nel complesso mi sembra che la riflessione più recente, e a ragione, si sia orientata a considerare nel modo più tecnico la concessione del commer cium. Non già come semplice ammissione dello straniero ad un traffico commerciale adeguatamente tutelato dall'ordinamento romano, ma come vera e propria legittimazione a prender parte agli actus legitimi: ai negozi del ius civilei46\ Se questa è oggi l'opinione dominante circa l'attività negoziale legittimata dal ius commercii, più cauta appare la dottrina in ordine a due aspetti non meno importanti e a quella direttamente collegati. Mi riferisco anzitutto alla possibile titolarità, da parte dello straniero munito di commer(45) Tr. it: la mancipatìo si ha tra cittadini romani e i Latini coloniari e i Latini iuniani e que gli stranieri con cui esiste il commercium. Il commercium è il diritto reciproco di vendere e di comprare. Sulla portata effettiva di questo passo e del valore tecnico del riferimento ivi conte nuto al commercium e, soprattutto, sulla portata delle altre menzioni di codesta figura che si incontrano nelle testimonianze antiche si rinviano alle pagine esemplari di CATALANO, 1965, 108 ss. (46) Almeno agli atti per aes et libram: in tal senso depone abbastanza chiaramente l'espres sione ius nexi mancipiique, o, come ritiene CATALANO, 1965, 111 s. e nt. 41, ius mancipii nexique, riferita ai Forcti e ai Sanates, due gruppi tuttora abbastanza misteriosi, ma che ci riporta no comunque alle aggregazioni primitive del Lazio (su cui v. tuttavia MITTEIS, 1908, 118 nt 18, ma soprattutto ora WIEACKER, 1988, 264 e nt. 134, con ampia lett., diversamente invece, solo tuttavia sulla specifica portata della norma decemvirale relativa ai Forcti et Sanates, rispetto ai Prisci Latini, GUARINO, 1973,279 ss., ma v. ora LURASCHI, 1979, 265 s.), cfr. inol tre Cic, Caec, 102. Anche su questo aspetto si v. l'orientamento di BETTI, 1942, 44 ss., che limitava Γ efficacia del commercium ad alcuni dei negozi iuris civilis, escludendone tanto la sponsio che la in iure cessio. Questo orientamento mi sembra condiviso da KASER, 1953, 134 ss.; Id., 1971, 35. Ancora più restrittivo rispetto alla legittimazione ai negozi iuris civilis e molto argomentato è MITTEIS, 1908, 116 ss. Una radicale scissione tra commercium e negozi iuris civilis, è postulata poi da HUVELIN, 1929, 8 ss.; nello stesso senso* ma abbastanza confu so resta il più recente contributo di SAUTEL, 1952,1 ss., 33 ss. Per l'ammissione dei Latini alla testamenti factio v. ora LURASCHI, 1979, 281 ss.
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cium, anche dei diritti ex iure Quiritium che da tali negozi derivano. Un orientamento importante tra i moderni, sostenuto tra l'altro da studiosi del livello di Ludwig Mitteis ed Emilio Betti e più recentemente da Giovanni Pugliese, tende ad escludere una possibilità del genere(47). Per quanto concer ne infine la tutela di codesti diritti nel processo civile romano per legis action nes, questa eventualità appare ancora più incerta tra gli studiosi moderni(48). E tuttavia io credo che entrambi questi aspetti siano necessariamente inerenti alla ammissione ai negozi propri del ius civile, a. meno di non pensare a uno stravolgimento della forma, oltre che del contenuto, di questi ultimi ancora (47) MITTEIS, 1908, 117, distingue nettamente tra la legittimazione agli atti del diritto civile romano (la mancipatio quindi) e la titolarità dei diritti derivatine, anch'essi ex iure Quiritium. Quest'ultima infatti è affatto esclusa per gli stranieri titolari del commercium. Cfr- in partico lare p. 120: poiché il commercium legittima solo all'acquisto attraverso un negozio giuridico, da tale limitazione deriva che il diritto reale così acquisito dal non Romano, sia esso Latino ο peregrino, non è ex iure Quiritium. Per quanto concerne in particolare la eventuale comunan za (e quindi, in alternativa, l'estensione) di diritti tra Latini e Romani, sono illuminanti - pur potendosi non convidivere - le considerazioni dell'a., ibìd., 4 ss. Questa posizione ha avuto notevole seguito, specie in Germania: si v., tra l'altro, STEINWENTER, 1917a, 1276; WLASSAK, 1907, 123 ss., che giunge a immaginare due diverse figure di mancipatio, una iuris civilìs pro pria dei soli Romani, l'altra comune anche ai Latini, KASER, 1953, 140 e nt. 25 con altro lett. e, di recente, WERNER, 1963, 451 s.; meno significativo invece PHILLIPSON, 1911, I, 239 con altre indìcaz. Ma si v. soprattutto BETTI, 1942, 44, che riprenderà questa impostazione, alme no nei suoi punti essenziali, escludendo che i negozi di trasmissione della proprietà cui erano ammessi gli stranieri titolari del commercium legittimassero al dominio ex iure Quiritium. Al contrario, egli scrive, «lo straniero non acquista, in virtù della mancipatio a lui fatta da un romano, il dominium ex iure Quiritium, quale spettava sulla cosa al romano: perché, non essen do cittadino, non ha la capacità di diritto che si collega allo status civitatis Romanae». Egli infine si spinge sino - e questo è il punto dal quale si deve partire per verificare, come farò nel testo, la coerenza e la forza dell'intera ricostruzione proposta da tali autori - a concludere che lo straniero con commercium acquista «la proprietà secondo il suo proprio ius civile, mentre il dominium ex iure Quiritium del romano si estingue»: cfr. anche op. cit., p. 43. Sembrano cau tamente recepire questa impostazione, ο quanto meno, non prendere posizione contro di essa i recenti curatori della riedizione di JORS-KUNKEL, 1987, 147 nt. 2 ed ora PUGLIESE, 1991, 89 s. e, più cautamente, TALAMANCA, 1990, 105. Un'opinione radicalmente opposta era invece seguita da MOMMSEN, 1887,630 s. (1889, VI.2,253), ed anche, parrebbe, da WIEACKER, 1988, 264. Importanti infine, le considerazioni contenute in GUARINO, 1973,267 ss., che tuttavia poi sono ricondotte all'interno di un più generale quadro ricostruttivo dei più antichi rapporti cit tadini assai meno condivisibile: cfr. in particolare p. 279 ss. (48) La revisione più autorevole delle vecchie idee del secolo scorso secondo cui i Latini e, in generale, i titolari del commercium erano ammessi alle legis actiones (riprese con forza e con notevoli argomenti da GIRARD, 1901, 103 s., 206 s. e nt. 1, 211 s. e 1928, 121) è opera di WLASSAK, 1894, 183 ss. e soprattutto 1907, 114 ss. Cfr. l'accurata informazione sulla discus sione in KUBLER, 1937, 650 s. V. però, ora, WIEACKER, 1988, 264 e altra lett. ivi nt. 133; GUARINO, 1973,268 s. e nt 18*e TALAMANCA, 1990,
105 e
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più grave della ammissione del singolo straniero alla comunità di diritto con i Romani. In effetti a me sembra che soprattutto l'esclusione degli effetti ordi nari degli atti del ius civile romano - e cioè l'acquisto di diritti e in partico lare della proprietà ex iure Quiritium - salvaguardi solo in apparenza quella 'coerenza dommatica', che probabilmente ha ispirato gli autori di tale inter pretazione. Costoro infatti hanno apparentemente sottovalutato l'impatto profondamente negativo che una soluzione come quella da loro propugnata avrebbe avuto sul sistema giuridico e sociale romano. La mia critica si fonda su tre elementi tra loro strettamente interrelati: a) occorrericordareanzitutto che questa problematica si riferisce ad una fase relativamenterisalentedelle 'esperienze intemazionali' di Roma, tra la tarda età monarchica e la prima età repubblicana. Esperienze dunque che investono quasi esclusivamente i rapporti tra Romani e i popolifinitimi:i Latini anzitutto, forse alcune città etnische e della Magna Grecia, oltre che i commercianti d'oltremar re, primi tra tutti i Cartaginesi. Molto giustamente Guarino annotava come, oltre ai Latini, le ammissioni di stranieri al commercium «dovettero essere, oltre che relativamente più recenti, piuttosto rare e, soprattutto, a carattere specifico»(49); b) in questo contesto il regime del commercium dovevarisponderea un sistema internazionale in cui l'egemonia romana non si era ancora pienamente affermata e dove quindi operava in tutta la sua efficacia il principio della reciprocità; e) la complessità delle situazioni derivanti da tale regime doveva essere tanto più grande in quanto, sempre in questa prima fase come ho già accennato, i casi di applicazione del commercium non dovevano riguardare prevalente mente quei viaggiatori stranieri, con radici lontane da Roma e interessati quindi solo a rapporti di carattere commerciale: importanti ma destinati a sor tire i loro effetti lontano dalla sede in cui i negozi con i Romani avevano avuto luogo. Il commerciante si portava nelle sue terre ο altrove le merci acquistate e sotto questo profilo era quindi pressoché indifferente che fosse diventato, per i Romani, dominus ex iure Quiritium ο no; era sufficiente che l'acquisto fosse considerato legittimo nel Foro di Roma e fosse tutelato dai magistrati giusdicenti. Ma, dobbiamoricordarloe lo vedremo meglio nei capitoli seguenti, l'i<49> GUARINO, 1973,278.
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stituto stesso del commercium come parziale assimilazione dello straniero al cittadino (secondo quanto ammesso del resto dagli illustri autori qui da me criticati) non riguardava questo tipo di rapporti. Questi ultimi infatti rien travano piuttosto nei sistemi di tutela realizzati attraverso le forme rudimen tali del ius gentium: la creazione di norme egualmente valide per cittadini e stranieri. Questo ad es. è il caso probabile dei rapporti introdotti ο conferma ti con il primo trattato tra Roma e Cartagine del 509 a.C * . In questo conte sto piùrisalentedunque, a finire del reciproco ius commercii dovevano esse re anzitutto i vicini Latini. In questo caso infatti i rapporti potevano essere più stretti e non solo di carattere commerciale. Il Romano che era proprietario a pieno diritto di un fondo nel territorio di Veio (si ricordi la grande distribu zione in proprietà quiritaria di tali terre dopo la conquista di Veio, nel 396 a.C.) poteva essere interessato ad acquistare è a sfruttare un fondo nel terri torio di Ariccia ο di Tivoli che si trovava, rispetto all'agro veiente, a non mag gior distanza da Roma, così come l'inverso poteva darsi per un cittadino di Ariccia ο di Tivoli. Ora la soluzione proposta dagli illustri romanisti che ho sopra ricordato era perfettamente adatta al caso che in genere non rientrava in questa sfera risalente del commercium: quello del commerciante punico ο greco che, acquistato lo schiavo ο altro bene mobile in Roma, secondo un negozio del diritto civile romano, ne fosse diventato proprietario secondo il suo proprio diritto, punico ο greco, e non ex iure Quiritium. L'assenza di una proprietà ex iure Quiritium infatti era irrilevante una volta compiuta l'attività commercia le, giacché lo schiavo ο gli altri beni così acquisiti, erano destinati a perveni(50)
Su cui v. infra cap. IV. In effetti già alla fine dell'età monarchica doveva essere notevole l'intensità dei rapporti commerciali intrattenuti da Roma, pienamente inserita in un sistema di traffici di carattere internazionale. Tuttavia in genere gli storici individuano in essa un centro di commercio 'passivo': destinato ad ospitare più i commercianti stranieri che non a gestire autonomamente il commercio attraverso un'adeguata attività oltremare dei propri commer cianti. Anche se essa poteva avvalersi dell'esperienza e delle potenzialità marinare delle città laziali, come Anzio, sue alleate ο subalterne. Si pensi, in tal senso, al significato di toponimi arcaici della città come il vicus Tuscus, in ordine alla presenza di comunità anche di una certa rilevanza quantitativa di stranieri nella città. Ma proprio la eterogeneità dei commercianti stra nieri e la loro estraneità alle radici culturali romano-laziali deve indurci a ritenere che fossero meccanismi rudimentali del ius gentium e non i processi di assimilazione dello straniero al Romano che regolassero i rapporti di costoro con i Romani. E, del resto, come accennavo nel testo, una conferma in tal senso la abbiamo appunto dal primo trattato tra Roma e Cartagine che si colloca alla fine dell' età monarchica.
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re nella sua patria lontana. Ma se il commercium valeva anzitutto, se non esclusivamente, tra i popoli vicini, esso doveva poter regolare in modo effi cace anche situazioni durature nel tempo: come la proprietà fondiaria che ho sopra ricordato. II che significa, se ho ben capito l'impostazione degli autori da me criticati, che i tribunali di Roma avrebbero dovuto farsi carico di tute lare le forme proprietarie e gli altri diritti acquistati dagli stranieri fruenti del commercium con Roma, con regolari negozi iuris civilis intercorsi con citta dini romani, secondo i molteplici regimi propri degli ordinamenti cui ciascu no di questi stranieri apparteneva (si immagini ad es. un diverso regime del l'usucapione. Secondo questa idea i vari regimi proprietari, ad es., dei beni acquistati in Roma dagli stranieri con commercium, sarebbero stati non quel li romani ma quelli propri dei sistemi giuridici cui ciascuno di questi stranie ri apparteneva. Insomma, a Roma, il Tiburtino avrebbe avuto la proprietà del suo fondo secondo il diritto particolare di Tivoli, affermando ovviamente poi in un tribunale romano, di fronte a eventuali turbative, che quel fondo era 'suo secondo il diritto di Tivoli', il cittadino di Ariccia lo avrebbe posseduto secondo il diritto di Ariccia, quello di Palestrina secondo il diritto di que st'ultima città e via dicendo, mentre poi il cittadino romano, avrebbe avuto la proprietà del fondo acquistato ad Ariccia ο a Palestrina sempre e soltanto ex iure Quiritium. Così, in verità, il principio della personalità del diritto, portato ai suoi ultimi sviluppi logici, secondo del resto la grande forza concettuale degli autori qui considerati, si sarebbe concluso di fatto con dei risultati assai dif ficili da gestire in pratica<5l). Si pensi, ad es., a cosa avrebbe significato la gestione da parte di un tri bunale romano di una serie di possibili controversie tra cittadini romani e (5,)
Quando si parla di 'personalità del diritto' nel mondo antico si fa riferimento all'origina rio esclusivismo dell'ordinamento politico cittadino, diversamente dagli ordinamenti moderni in cui vige l'opposto principio della territorialità del diritto. In questi ultimi infatti i cittadini dello stato e gli stranieri sono assimilati e sottoposti tutti alla vigenza delle leggi dello Stato, almeno per quanto concerne la sfera dei diritti privati. Nel mondo antico invece il diritto pri vato proprio di ciascuna città-stato si applicava esclusivamente ai membri di essa, essendone esclusi gli stranieri. Costoro, in teoria, e nella misura in cui ciascun ordinamento lo ammette va, continuavano a vivere secondo le leggi dello stato di appartenenza e non secondo le leggi dello stato nel cui territorio venivano a trovarsi. In Roma, il praetor peregrinus, in una certa misura dovette tener conto di tali principi nel fornire tutela processuale agli stranieri. Sulla ricca letteratura ottocentesca in materia, oltre gli autori già citati, ricorderò BARON, 1892, 3 ss.
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membri di altre comunità titolari del commercium, se si fosse ammesso che i diritti da questi conseguiti in Roma fossero stati regolati dagli ordinamenti di loro appartenenza. E cosa avrebbe significato l'eventuale contrasto, ad es., tra un Tiburtino e un cittadino di Praeneste: questo avrebbe significato che il giudice romano era chiamato ad applicare i singoli diritti di appartenenza? Ora, proprio la condizione relativamente rudimentale della scienza giuridica romana, tra la fine dell'età monarchica e la prima età repubblicana avrebbe reso praticamente impossibile una soluzione siffatta. Soluzione, del resto, che si presenterebbe quanto mai difficile da gestire persino all'interno di un moderno ordinamento, purriccodi tanti strumenti, anzitutto conoscitivi, di cui oggi si dispone. Quanto si è detto sinora tende a confermare l'idea che la concessione del ius commercii doveva assimilare lo straniero così gratificato al cittadino non solo per certi negozi iurìs civilis ma anche per gli effetti di questi stessi nego zi da far valere nei tribunali romani. Ciò non esclude tuttavia che non ci si trovi egualmente di fronte ad una certa complessità dei processi così posti in essere, soprattutto per la più antica fase del diritto romano. Vediamo ora come, secondo la mia interpretazione (e cioè che così si permettesse l'acces so da parte dello straniero ai diritti propri dei Romani e viceversa), doveva in concreto operare il regime del commercium. Dobbiamo immaginare dunque un duplice effetto: che, stante la reciprocità del commercium, il Latino di Praeneste ο di Tibur potrà acquistare un immobile in Roma mediante mancipatio ed affermarsene quindi dominus ex iure Quiritium. Così come il citta dino romano, acquistando un immobile a Tivoli ο a Palestrina, lo acquisterà adottando le forme negoziali opportune previste dai diritti di queste due città latine, e ne diventerà quindi proprietario iure Tiburtino ο iure Praenestino. E qui tuttavia incontriamo anche un limite intrinseco all'istituto in questio ne: giacché l'assimilazione dello straniero al Romano e viceversa resta circo scritta alla realtà immediatamente posta in essere. Ma cosa succederà, ad es., alla di lui morte? Il fondo romano di proprietà del prenestino passerà al successore secondo le regole di successione di Palestrina? Ma in questo caso, di nuovo, come nell'ipotesi opposta da me criticata or ora, si avrebbe una vera e propria recipro ca recezione di una fetta di un ordinamento straniero da parte di un altro ordina mento. E questo, si noti, nel caso più semplice: quello di una partecipazione glo bale di una comunità al ius commercii con l'altra. Ma dove si ha a che fare con
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un beneficiario del commercium recepito a titolo individuale da Roma, cosa acca drà alla sua morte? Con certezza possiamo limitarci ad affermare che i suoi suc cessori, estranei al diritto romano, non potranno acquisire i diritti che il defunto aveva ex iure Quiritium. Mi sono dilungato in questa casistica unicamente per mostrare come, in ragione delle conseguenze formali poste in essere dal regime giuridico del commercium, questo istituto aveva un limite intrinseco alla sua piena efficacia lega to al carattere relativamente omogeneo dell'ambiente giuridico rispetto a cui era venuto a formarsi ed aveva avuto le sue prime applicazioni. Esso potrà anche in seguito pienamente esplicare la sua efficacia solo in un ambito forte mente romanizzato. Del resto questa considerazione sarebbe ancora più strin gente se si accogliesse l'idea che i diritti acquisiti in Roma dal titolare del ius commercii fossero regolati dai principi del suo proprio ordinamento. Il che significa, come ho già accennato più sopra, per il complesso di rapporti intercorrenti tra Romani e stranieri non appartenenti a comunità immediatamente vicine, culturalmente prima che geograficamente, a Roma, che lo schema seguito dai Romani dovette verosimilmente distanziarsi note volmente da quello assimilatorio proprio del ius commercii. Ma sul punto torneremo più estesamente alla fine del presente capitolo. Ora volgiamoci piuttosto a considerare un altro meccanismo di assimilazione delle straniero al Romano, ancor più penetrante nella sfera più interna della natura stessa della cittadinanza: la concessione del diritto di contrarre legittimi matrimoni tra membri di diverse comunità politico-statuali.
8. 'Conubium' Passando dunque al conubium vorrei anzitutto invitare il lettore ad abbandonare le proprie abitudini mentali. Nel mondo moderno infatti la libertà matrimoniale che i vari ordinamenti prevedono è assoluta, salve alcu ne specifiche e ben circostanziate limitazioni. E tuttavia Lévy Strauss ci ha ricordato che nella storia sono state forse più numerose le società che tendono a stabilire in positivo con chi ci si può
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sposare. È un'affermazione un po' paradossale e, certamente, neppure per gli antichi Greci ο i Romani valevano le complesse regole di scambio matrimo niale che in modo così raffinato - ma anche cosi limitativo per i gruppi e gli individui - sono state elaborate da altre e più 'primitive' popolazioni. E tutta via, anche se l'obbligo di sposarsi all'interno della gens è una ipotesi moderna derivante dal fraintendimento di un'indicazione di Livio(52), l'endogamia di ceto (il divieto di connubio tra patrizi e plebei) appare affermata - né interessa qui che sia stata formalizzata, come è stato supposto da vari studiosi, una pratica corrente ed efficace nel corso della storia precedente*53* ο si sia trattato di mera innovazione - e non meno netta appare l'endogamia cittadina. In origine forse ci si poteva sposare solo tra patrizi (e conseguentemen te tra plebei) certo, solo tra membri della stessa città. Il requisito del conubium - il diritto di stringere validi matrimoni secondo il diritto civile con con seguente nascita di figli legittimi - è, come ci ha insegnato Volterra, richiesto positivamente per ogni matrimonio romano(54). In ordine ai rapporti internazionali dobbiamo dire che la figura del ius conubii è meglio definita e, insieme, ancora più complessa, se possibile, di quella del ius commercii. Più sicura, giacché la portata del conubium non suscita particolari diffi coltà. Si tratta dunque dell'ammissione dello straniero ad un legittimo rappor to matrimoniale con il cittadino romano. Il che significherà, dato il sostanziale carattere patriarcale dell'ordinamento giuridico romano (e, probabilmente, in (52) Lo spunto principale, in tal senso è offerto dal noto episodio destinato a sfociare nel Senato consulto de Bacchanalibus: come premio alla liberta Hìspala Facennia per le rivelazioni sul presunto complotto fatte al Senato, a costei sarebbe stato concesso, tra l'altro, secondo quanto narra Livio, 39.19.3-4, il diritto di sposarsi al di fuori della gens del suo patrono: la gentis enuptio, appunto. Sin dal secolo scorso si è ricavata quindi l'idea di un vincolo esistente in linea generale, sebbene superabile legalmente, di contrarre vincoli matrimoniali all'interno della gens di appartenenza: sino appunto alla formulazione di un sistema di endogamia gentilizia su cui ha insistito di recente soprattutto Franciosi. Un radicale, e da me condiviso, ridimensionamento di questa prospettiva è stato proposto a suo tempo da WATSON, 1974, 331 ss. (53) Ancora una volta concordo con quanto da ultimo appare propenso a ritenere in proposito CATALANO, 1965, 97 s. Sulla portata effettiva di questo divieto di conubium tra patrizi e plebei (e bene in coerenza pertanto con la possibilità che, già in precedenza, le gentes patrizie potes sero autonomamente assumere una decisione del genere) si v. CAPOGROSSI, 1990, 225 s. (54) p e r gu innumerevoli contributi del compianto Maestro su tale questione, si rinvia ora alla raccolta dei suoi scritti effettuata a cura di Talamanca nella collana diretta dall'amico Labruna: cfh VOLTERRA, 1991, in particolare al secondo e terzo volume.
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genere degli altri ordinamenti con cui i Romani erano a contatto, anzitutto quel li dei Latini cui codesto rapporto fii ab antiquo applicato) che il matrimonio si dovrebbe costituire secondo il diritto dello Stato cui appartiene il marito (e non sempre secondo il diritto romano, comeritenevaun tempo il Savigny55)). Solo se questi è il cittadino romano si applicherà dunque il ius civile romano e, pertanto, sui figli sussisterà la patria potestas del diritto romano. Viceversa, nel caso in cui sia una cittadina romana a stringere legittimo matri monio con uno straniero titolare del ius conubii con Roma, è da concludersi che codesto matrimonio sarà regolato dal diritto proprio del marito, e i figli legittimi che ne nasceranno saranno cittadini dello Stato cui il marito appar tiene. Ricordo di passaggio che, secondo il diritto romano, i figli illegittimi quindi anzitutto coloro non nati da nozze iustae, fondate cioè sul reciproco conubium — seguono invece la condizione della madre(56). (55)
Già VOIGT, 1871, 97 s., si era distaccato dall'impostazione di SAVIGNY, 1805, 17, che aveva concepito il conubium come legittimante lo straniero e specificamente i Latini a giuste nozze secondo il diritto romano, acquisendo comunque i poteri derivanti dal sistema familia re romano. Al contrario, egli chiaramente sottolinea il carattere di reciprocità delPistituto, ipo tizzando che un valido matrimonio tra un cittadino romano e uno straniero munito di conubium sarebbe stato regolato dalle forme giuridiche proprie dell'ordinamento cui appartiene lo sposo. Il diritto romano si sarebbe applicato dunque solo nel caso di un matrimonio tra un Romano e una peregrina, fondante quindi, solo in tal caso, la romana patria potestas. Cfr. poi con lo stes so orientamento di Voigt, KARLOWA, 1901,70 S. Sul significato del conubium e sulla sua ampia applicazione nel tessuto dei rapporti romano-latini, si v. in generale rottima ricerca di LURASCHI, 1979, 238 ss. La prospettiva ivi seguita dalPa. è abbastanza diversa, da quella per seguita da me in queste pagine, perché proiettata cronologicamente verso un periodo più avan zato. Anche per la fase più antica non sfugge tuttavia la notevole importanza di un'indagine che appare esemplare e, ormai a distanza di tre lustri, per nulla invecchiata. (56) Cfr. Gai. 1.55: item inpotestate nostra sunt liberi nostri quos iustis nuptiis procreavimus. Quod ius proprium civium Romanorum est... Gai 1.56: <patriam potestatem habent cives Romani>, si cives Romanas uxores duxerint vel etiam Latinas peregrinale cum quibus conu bium habeant; cum enim conubium id efficiat, ut liberi patris condicionem sequantur, evenit, ut non <solum> cives Romani fiant, sed etiam in potestate patris sint [Egualmente sono nella nostra potestà i figli che abbiamo avuto da giuste nozze. Ciò che è un diritto particolare dei cit tadini romani. 56: (i cittadini romani hanno la patria potestà) se abbiano sposato cittadine romane ο latine ο straniere con cui esiste il conubium:, poiché il conubium ha per effetto che i figli seguano la condizione del padre, si ha che essi non solo siano cittadini romani, ma anche soggetti alla patria potestas]. E infine Gai. 1.64: ergo si quis nefarias atque incestas nuptias contraxerit (cioè matrimoni in assenza di reciproco conubium, secondo quanto definiti nel pre cedente § 55), neque uxorem habere videtur neque liberos; itaque hi qui ex eo coitu nascuntur, matrem quidem habere videntur, patrem vero non utique; nec ob id in potestate eius suntt quales sint hi quos mater vulgo concepii; nam et hipatrem habere non intelleguntur, cum is et incertus sit. [Se uno abbia contratto nozze empie ed incestuose, non sembra avere né moglie né figli; e così coloro che nascono da quel rapporto, risultano avere la madre, ma non il padre
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Più complessa è anche, come ho detto or ora, la applicazione, concreta del ius conubii, per due diversi ordini di motivi. Anzitutto perché, in linea generale, i meccanismi matrimoniali sono tra i più delicati e gelosamente esclusivi all'interno di ciascun ordinamento, proprio per la loro incidenza sociale affatto particolare. In secondo luogo perché il principio della recipro cità gioca in questo settore un ruolo ancora più singolare. Di ciò possiamo immediatamente renderci conto ove si approfondisca l'analisi delle conseguenze derivanti dal matrimonio tra uno straniero con conubium ed un Romano. Abbiamo dunque visto che, secondo la mia ipote si, un matrimonio siffatto dovrebbe essere disciplinato secondo le regole del l'ordinamento cui appartiene il marito e questo anzitutto a proposito dell'a spetto più importante del matrimonio stesso: la cittadinanza e la condizione della prole. Il matrimonio in questo caso segue una regola diversa dagli atti regola ti dal ius commercii cui si applica il diritto del luogo in cui sono avvenuti. D'altra parte anche se accogliamo l'idea che il matrimonio romano, sin dal l'età arcaica, si fondasse sul semplice consenso degli sposi, resta fermo che esso aveva inizio erisultavaalla coscienza comune attraverso un complesso rituale in cui aspetti religiosi coesistevano con elementi culturali e sociali. Si pone dunque un primo quesito: se il coniuge straniero potesse essere ammes so a tali riti ancestrali. Ma ancora più gravi sono i problemi in ordine alle conseguenze del matrimonio stesso. È infatti mia convinzione, malgrado l'esistenza di oppo ste, anche recenti valutazioni, che in origine sussistesse un organico rappor to tra matrimonio romano e manus. Se, come io credo, il matrimonio più anti co era matrimonio cum manu, essendo la coemptio e la confarreatio forme negoziali che, se non esse stesse costituivano il matrimonio, ne erano com-
e, per questo, non sono in potestà di lui, bensì sono come coloro che la madre concepì con rappori promiscui: anche costoro, infatti, non si ritiene che abbiano un padre, tanto più che è anche incerto]. (57) V. però PHILLIPSON, 1911,1, 241 s., con altra lett. Quanto alla disciplina del matrimonio cum marni ed alla efficacia degli atti a.ciò riferiti neirambito del diritto romano, confarreatio e coemptio, si eviterà per quanto possibile, in questa sede di addentrarci in una discussione adeguata dell'imponente letteratura che ha conosciuto, di recente, una nuova e feconda discus sione: v. per tutti PEPPE, 1997,127 ss.
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ponente essenziale, occorre immaginare che la sposa straniera partecipasse a tali negozi solenni(57). Del resto, per quanto concerne la coemptio, costituendo essa una pecu liare forma di mancipatio, si rientra nei negozi solenni per aes et libram, cui si era già ammessi in virtù del commercium (e sicuramente chi aveva il conubium aveva anche il commercium, non viceversa: con il che, ovviamente, non voglio dire che si potesse effettuare la coemptio in virtù del ius commercii). Egualmente, ove tali atti non fossero intercorsi al momento iniziale del matri monio tra la sposa straniera e il Romano, ο fossero stati viziati, si potrebbe supporre che quest'ultimo egualmente acquisisca la manus sulla sposa col decorso dell'anno, mediante Vusus{5*\ Ma con la manus, noi sappiamo, il marito ο il di lui pater acquista anche la patria potestas sulla moglie che viene così a trovarsi loco filiae all'interno della famiglia del marito: di una famiglia romana(59).
(58)
Gai., 1.110-111: olim ìtaque tribus modis in manum conveniebant, usu, farreo, coemptione. 111 : usu in manum conveniebat quae anno continuo nupta perseverabat; quia enim veluti annua possessione usucapiebatur, ìnfamiliam viri transibat filiaque locum optine bai. ìtaque lege XII tabularum cautum est, ut si qua nollet eo modo in manum mariti convenire, ea quotannis trinoctio abesset atque eo modo usum cuiusque anni interrumperet. Sed hoc totum ius partim legibus sublatum est, partim ipsa desuetudine oblitteratum est. [Un tempo le donne entravano in manum in tre modi: per uso, con la confarreatio, per compera. 111 : per uso-entra va in manum colei cherimanevamoglie per un anno ininterrotto: poiché infetti veniva usucapi ta come per annuo possesso, passava nella famiglia del marito e otteneva la condizione di figlia Perciò dalla legge delle XII tavole fu stabilito che, se una non volesse in tal modo entrare in manum del marito, ogni anno si allontanasse per tre notti, interrompendo così l'uso anno per anno. Ma tutto questo diritto, in parte è stato tolto di mezzo dalle leggi, in parte cancellato dalla desuetudine]. <59) Gai. 1.114: potest autem coemptionem facere mulier non solum cum marito suo, sedetiam cum extraneo; scilicet aut matrimonii causa facta coemptio dicitur autfiduciae; quae enim cum marito suo facit coemptionem, ut apud eum filiae loco sit, dicitur matrimonii causa fecisse coemptionem; quae vero alterius rei causa facit coemptionem aut cum viro suo aut cum extra neo, veluti tutelae evitandae causa, dicitur fiduciae causa fecisse coemptionem. [La donna può fare la 'coemptio 'non solo col proprio marito, ma anche con un estraneo. La 'coemptio 'la si dice fatta ο per causa di matrimonio ο a titolo fiduciario: colei che fa la 'coemptio 'col proprio mari to, per essere in luogo di figlia presso di lui, si dice che ha fatto la 'coemptio'*. causa di matri monio; quella invece che per altra ragione fa la 'coemptio Ό col proprio marito ο con un estra neo, ad esempio per evitare la tutela, si dice che ha fatto la 'coemptio'a. titolo fiduciario].
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62 9.1 limiti della assimilazione
In verità i problemi che sono venuto sfiorando, a questo livello di speci ficazione, appaiono pressoché insuperabili e, dato il silenzio delle fonti, ben difficilmente permettono una piena comprensione degli effetti e della con creta disciplina applicata ai vari istituti e, in primo luogo ai rapporti matri moniali, posti in essere tra cittadini di diverse comunità collegate tra loro dal ius commercii et conubii. Soprattutto perché le varie ipotesi si fondano neces sariamente su postulati pressoché indimostrati. Io stesso ho richiamato un generico e aprioristico 'criterio patriarcale' per immaginare che al matrimonio tra due stranieri muniti di conubium, dovesse applicarsi il diritto del marito: ma questo assunto, a sua volta, non va contro il principio che ho adottato a proposito del commercium, secondo cui si sarebbe applicato piuttosto lo ius loci, tenendo conto dell'ordinamento nel cui ambito era stato effettuato il negozio in questione? In verità si tratta di due opzioni possibili, ma non certe e neppure suffragate in modo adeguato dalle indicazioni degli antichi di cui possiamo disporre. A ben riflettere si comprende la resistenza dei grandi romanisti del passato, che ho già ricordato più sopra, a riconoscere gli effetti iurte civilte dei negozi cui gli stranieri sarebbero stati ammessi in virtù del commer-, cium. E la difficoltà di tale soluzione appare pienamente proprio conside rando quanto profondamente si incida sulla struttura del ius civile romano ove si riconosca anche al conubium l'effetto di assimilare lo straniero al cit tadino, non solo quanto alla partecipazione ai negozi, ma in ordine alla tito larità dei diritti conseguenti. Occorre in proposito distinguere il caso di un matrimonio tra uno straniero ed una cittadina romana da quello di un citta dino con una straniera. Nella prima ipotesi infatti, l'acquisto della manus sulla donna (nonché della patria potestas sui figli) sarebbe escluso non già dall'argomento recen temente addotto da Peppe: «in quanto la manus è ius proprium civium Romanorum»m, ma dal criterio della reciprocità che è insito nella natura stes(60) Cfr. PEPPE, 1997, 147, ma v. già WLASSAK, 1907, 116. È un argomento che prova troppo, giacché dà per scontato proprio ciò che è in discussione: escludendo cioè in partenza che l'as similazione dello straniero al cittadino possa estendersi sino alla titolarità dei diritti e non solo alla partecipazione agli actus legitimi del ius civile.
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sa del commercium e del conubium. In altre parole, come ho già immaginato più sopra, il marito titolare del conubium con la straniera acquisterà i poteri che gli conferisce il suo ordinamento: se è cittadino romano la manus, appun to, ma se è uno straniero i diritti stabiliti dal proprio ordinamento. E tuttavia le difficoltà non si dissolvono certo: immaginiamoci infatti che il diritto familiare di Praeneste ο di Jìbur sia analogo a quello di Roma: ipotesi del resto non del tutto peregrina(6I). Questo significa che la cittadina romana sposata al Prenestino od al Tiburtino si troverà nella famiglia del marito secondo il diritto di Tivoli ο di Palestrina. Ma come potrà conservare allora il suo status cmtatis essendo ìnpotestate di uno straniero e secondo il suo diritto? E, d'altra parte, la donna di Tivoli ο di Palestrina come conser verà il suo originario status civitatìs, restando quindi estranea all'ordinamen to romano ed alla sua cittadinanza, se viene ad essere locofiliae di un pater familias romano? Ma, d'altra parte, è proprio l'esistenza del conubium tra appartenenti a diversi ordinamenti a rendere possibile la costituzione di un rapporto vali do per questi, senza che abbia a mutare lo status civitatis dei due coniugi. Poteri familiari e cittadinanza verrebbero a subire, in questo caso, una scis sione molto significativa, destinata peraltro ad attenuarsi con l'affermarsi, dopo le XII Tavole, del matrimonio sine manu. Resta peraltro una tensione irrisolta tra un meccanismo assimilativo dello straniero al cittadino e le con seguenze che, nel caso del conubium, diversamente che per il commercium, appaiono atte a incidere sullo statuto personale dei partecipanti al rapporto giuridico. Ci troviamo anzitutto di fronte a un limite delle nostre conoscenze, ma anche, io credo, di fronte ad un meccanismo che potrebbe avere contribuito ad avviare il processo di rottura di quel rigido sistema familiare che, almeno per Roma, appare imperniato sul rapporto tra matrimonio e totale integrazio(6,)
È molto importante un rilievo fatto dal Volterra circa la probabile presenza di diritti fami liari e regimi matrimoniali diversi da quello romano nelle città del Latium vetus, come si può ricavare da un episodio di cui è molto difficile mettere in dubbio l'autenticità, relativo alla città di Ardea, che si sarebbe verificato nel 444-443 a.C. Cfr. sul punto VOLTERRA, 1967,109 ss. Altra letteratura in WIEACKER, 1988,264 nt. 128. Nello stesso senso mi sembra deponga anche la testi monianza contenuta in Geli, noct. Att., 4.4, malgrado l'opposta valutazione fattane invece, dallo stesso VOLTERRA, 1963,491 ss. Altra letteratura sulla fanciulla di Ardea: OGILVIE, 1962,477 ss.; TORELLI, 1984,219 ss.
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ne nella famiglia del marito. Ancor prima dell'introduzione del trìnoctìum^, pur riconoscendo che, nel diritto romano arcaico, manus e matrimonio erano tra loro indissolubilmente intrecciati, si potrebbe far leva sulla relativa auto nomia di questi due istituti. In effetti proprio Vusus, che pure esplicita l'inti ma connessione tra di essi, ci fa cogliere una realtà di partenza (o comunque affatto risalente) per cui, un rapporto di convivenza, socialmente qualificato, tra uomo e donna veniva ad essere concepito come matrimonio - sia pure in qualche modo 'lacunoso', non atto ad assicurare tutte le conseguenze legali ad esso 'naturali' - anche in assenza della manus. Partendo da questa considerazione ed ove si ammetta che un potere come la manus non possa gravare su un soggetto straniero, sia pure titolare del conubìum, si potrebbe arrivare alla conclusione che il matrimonio, nel l'ambito di applicazione del diritto romano, potesse essere validamente costi tuito tra stranieri muniti di conubìum senza che intercorresse né confarreatio né coemptio, ma quei-rituali che socialmente si identificavano con l'inizio del matrimonio stesso(63>. Il che significa che esso esplicava tutti i suoi effetti in ordine allo status della prole, non dando luogo tuttavia aWusus e non congiugendosi quindi, alla fine dell'anno, alla manus stessa. D'altra parte occorre anche rilevare come l'età successiva al foedus Cassìanum ed alla piena espansione dei reciproci conubia commerciaque tra le città latine e Roma veda anche quella che io ritengo la emancipazione della donna dalla manus resa possibile dal trìnoctìum. A quel punto i problemi che abbiamo rapidamente esaminato, si attenuano notevolmente, sino a venir meno. Che questi nodi siano in buona parte restati in ombra anche nella moderna let teratura, io credo sia dovuto ad una deformazione prospettica cui ho già rapi damente accennato. Si tratta di una tendenza, del resto mai troppo evidenzia ta, a rappresentare il regime e i contenuti del commercium e del conubìum in termini unilaterali: dal solo punto di vista dell'ordinamento romano(64). Del <W)
Ho già ricordato come manus e matrimonio arcaico fossero tra loro indissolubilmente intrecciati e che Yusus appunto ne costituisca il punto di sutura, insieme alla specifica eviden za. Mi sembra si possa condividere appieno la formulazione contenuta in PUGLIESE, 1991, 101 ss. Non mi sembra invece accettabile la sua tendenza a svalutare gli effetti del trìnoctìum come fattore non di trasformazione del rapporto matrimoniale, ma solo di disintegrazione del vinco lo stesso. Più articolato ed in una prospettiva più realistica appare TAL AMANCA, 1991, 133 s. (M) Cfr. sul punto, per una prima approssimazione, CAPOGROSSI, 1994, 210 ss. (64) Questo equivoco appare abbastanza chiaramente nelle formulazioni che in genere si
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resto, un orientamento del genere trova oggettivo supporto nelle fonti che, soprattutto per un periodo più tardo, ci danno un'indicazione in tal senso: sono i Romani che 'concedono' il ius commerci ο il ius conubii a singoli indi vidui ο ad intere comunità. E tuttavia, anche tra i moderni, resta chiara - ma in qualche modo isolata: non operativa - la consapevolezza della originaria reciprocità di tali meccanismi. Ed è a questo carattere originario che dobbia morisalireper comprendere la parallela azione messa così in opera, da parte dei due ordinamenti coinvolti, chiamati appunto a fornire tutela - mediante un sisterria assimilativo - allo straniero nei suoi rapporti con i propri cittadi ni. Il che significa che, in tali rapporti, e, almeno formalmente, per quanto riguarda alcune città del Latìum vetus, anche dopo il 338 a.C. non significa va che solo il diritto romano si espandesse a nuovi soggetti, ma che anche gli altri diritti locali potessero governare i cittadini romani che si fossero trovati nell'ambito di tali ordinamenti a negoziare con i cittadini ad essi appartenen ti. Torniamo ora rapidamente a riconsiderare i due meccanismi alternativi elaborati dai Romani: quello dell'assimilazione dello straniero attraverso la concessione del commercium e del conubium e quello della creazione di aree giuridiche, diciamo cosi, 'nuove' rispetto all'antico sistema del diritto civile: con istituti iuris geniium. È interessante sottolineare come queste due strade siano state battute dai Romani, con risultati tra loro qualitativamente assai diversi per importanza e per conseguenze anche al di fuori della sfera stretta mente giuridica. In linea di massima possiamo dire sin d'ora che, nel com plesso, questi processi hanno avuto un'importanza determinante nella costru zione dell'ordinamento politico romano e nella sua affermazione come potenza 'imperiale'. Entrambe queste strade, poi, ponevano, sia pure in modo diverso com plessi problemi di equilibri nella gestione dell'intero sistema giuridico che i Romani dovettero affrontare e risolvere. Intanto infatti l'originario esclusividanno di tale istituto: cfr. ad es., PUGLIESE, 1991, 89 s.; ma soprattutto esso si può cogliere, nel l'impostazione che PEPPE, 1997, 127 ss., recepisce da STURM giacché in tal modo sembrebbe venir meno quel carattere di reciprocità che tale istituto, non meno del commercium presup poneva, almeno all'origine.e in relazione a situazioni internazionali paritetiche ο quasi, come appunto quelle tra Roma e i Latini sino al IV sec.a.C. Più equilibrato DE MARTINO, 1973, 74 ss. e soprattutto TAL AMANCA, 1990, 104.
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Capitolo I
smo giuridico della città-stato poteva sussistere, conservando il principio di quella che noi chiamiamo la 'personalità del diritto', in quanto si fosse lascia to un sufficiente significato all'originario ius civile: il diritto esclusivo dei cit tadini. Ove infatti il meccanismo di assimilazione del ius commercii e del conubium si fosse esteso a tutelare un numero eccessivo di stranieri, oppure ove il sistema e gli istituti del ius gentium fossero venuti a regolare la più gran parte degli istituti giuridici romani, allora l'antica differenza e lo stesso regi me della personalità del diritto avrebbe perso significato. In effetti i Romàni, nel corso di più secoli, conservarono un equilibrio che potremmo chiamare 'dinamico'. Man mano che aumentavano i benefi ciari del commercium (ma in verità, come accennerò di seguito, non sarà tanto il numero di singoli individui ο di comunità cui sia attribuito in seguito da Roma il ius commercii, quanto l'estensione della latinità che al commer cium egualmente legittimava, nonché, nella mia concezione, anche la con cessione della civitas sine suffragio) si allargava ancor più il numero degli stranieri che rientravano nell'ambito di influenza romano e che si trovavano anche in relazioni giuridiche con i Romani, restando tuttavia estranei al siste ma del ius commercii. In effetti, con l'ampliarsi dell'ambito di influenza di Roma, veniva ad accentuarsi la difficoltà che un sistema come quello del commercium incon trava, nella sua vigenza, dovendosi estendere a soggetti sempre più estranei al patrimonio culturale, linguistico, oltre che giuridico romano(65). Le parole solenni e predeterminate in un latino arcaico, i rituali incomprensibili diveni vano un ostacolo sempre più grave ad un'estensione del ius commercii a popolazioni troppo estranee alla cultura e alle tradizioni dei Prisci Latini. Il sistema del ius civile insomma, poteva divenire una barriera piuttosto che uno struHientd di comunicazione allorché, accanto agli antichi Latini e ai popoli (65) A più riprese, nel corso di questi primi due capitoli si ripropone il problema dello speci fico significato dell'originaria comunità di stirpe dei Latini e di Roma nel definirsi dei vinco li politici e delle forme di tutela assicurati ai cittadini della varie comunità nei loro rapporti reciproci. Nel rinviare alla ricca letteratura che si è accumulata su tali questioni; ritengo tutta via che, in questa sede, ancora una volta, sia opportuno sottolineare come, nel definirsi di un sistema 'assimilatorio' tipico del commercium e del conubium (quest'ultimo soprattutto in relazione alle forme arcaiche di organizzazione familiare romana), fossero importanti quelle affinità culturali e linguistiche che, entro certi limiti appaiono addirittura una condizione necessaria perché esso potesse funzionare.
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con analoghe ο identiche radici culturali, si affacceranno sulla scena di Roma stranieri di altre lingue e altre culture. Per questo l'altro tipo di tutela costituito dalla formazione di un insieme di regole appositamente a ciò destinate e appartenenti alla sfera del ius gentium appare caratterizzato da un dinamismo maggiore e, alla lunga, destinato ad assumere un ruolo determinante nell'evoluzione dell'intero ordinamento giuridico romano. Del resto, almeno dagli ultimi secoli della repubblica, que sto settore era anche quello direttamente collegato alla sfera più dinamica dell'intera società romana costituita dalle attività mercantili e finanziarie, mediate e regolate più dall'Editto del pretore che dall'antico ius civile. Così, non è irrilevante che, a partire dal 242 a.C. una specifica figura fosse istitui ta a regolare questi rapporti tra Romani e stranieri: il praetor peregrinus. E tuttavia non è da trascurare il fatto che, mentre la sfera giuridica attenente alla vita commerciale sempre più si arricchiva con regole e istituti del ius gentium, restava solidamente ancorato alle forme del ius civile il nucleo centrale del sistema proprietario e dei diritti reali. Quel sistema che, più di ogni altro, definiva forme di gerarchia sociale e di ricchezza, riaffermandosi così un ben definito ordine dei cittadini, dei Latini, degli Italici e, infine, dei peregrini: ormai in gran parte sudditi dell'Impero mediterraneo.
Capitolo II I Latini
1. La lega latina e I"isopolitèia' Il caso probabilmente più antico e certamente il più noto di concessione reciproca del commercium e del conubium ci riconduce alla Lega latina. La moderna storiografia giuridica è sostanzialmente unanime in proposito: più incerta invece essa appare sul fatto che tali relazioni derivino dal tessuto ori ginario dei rapporti tra Romani e Latini, cui la comunanza di stirpe, di lingua e di tradizioni culturali e religiose veniva a far da cemento. Una indiscutibile conferma della comunanza di conubia e di commercia tra Latini e Romani è data dagli stessi provvedimenti assunti da Roma nel 338 a.C, con la dis soluzione della Lega e su cui torneremo più ampiamente in seguito. Ma, com'è ovvio, tale evento nulla ci dice sui momenti costitutivi di questi stessi rapporti, che è il punto su cui ora ci stiamo interrogando. Per un certo verso è indubbio che l'unità dei popoli latini, il Nomen Latinum,risalgaalle origi ni stesse delle varie comunità cittadine. Ed è senz'altro possibile che questo vincolo originario fosse giunto a sostanziarsi, oltre che sul piano religioso e politico, anche in una comunanza di regole e pratiche giuridiche. E tuttavia il problema è reso immediatamente più complesso dal fatto che le testimonian ze antiche fanno trasparire l'esistenza di una pluralità di legami e sistemi di relazioni tra le antiche comunità latine: oltre alla presenza di più alleanze
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Capitolo II
comuni di tipo federativo, v'èricordodi una serie di alleanze e accordi inter nazionali tra singole città. Tra l'altro, per quanto concerne gli aspetti giuridici, proprio in quest'ultimo tipo di rapporti sembra sussistere traccia di un regola mento delle relazioni legali intercorrenti tra irispettivicittadini0*: il che contra sterebbe con l'ipotesi di un regime giuridico comune a tutti i Latini ab origine. D'altra parte il punto di svolta, il riferimento costante che verrà effet tuato per le relazioni giuridiche tra le antiche città del Lazio è senz'altro costituito dal foedus Cassianwn. Com'è noto questo trattato ristabiliva l'ac cordo tra i Romani e i Latini dopo una drammatica crisi intercorsa alla fine della monarchia etnisca in Roma. In tal modo si concludeva una fase di rin novati conflitti tra Romani e Latini, tanto più pericolosa in quanto coincide va con la rottura o, comunque, un profondo cambiamento delle relazioni interne e internazionali di Roma, allora in una situazione di relativo isola mento anche a seguito delle prime battute d'arresto della potenza etnisca nel suo espansionismo verso l'Italia meridionale. Al foedus Cassianum, il trattato stipulato da Spurio Cassio nel 493 a.C. e destinato a reggere per un secolo e mezzo i rapporti tra Romani e Latini, dobbiamo quindi rivolgerci per cogliere il fondamento di quella peculiarità che è destinata a caratterizzare nel tempo la posizione dei Latini rispetto all'ordinamento romano. Questa, come ho già accennato, e comerisulteràin, modo abbastanza chiaro negli ultimi secoli della Repubblica, ebbe infatti il suo fondamento nel foedus Cassianum stesso: se non altro come momento di legittimazione e di conferma di pratiche e diritti almeno in parte ad esso pree sistenti e risalenti all'età monarchica(2). (1) Cfr. già MOMMSEN, 1887, 615 s. (1889, VI.2, 235 s.)- Sui rapporti tra le città del Lazio e Roma, anteriormente al foedus Cassianum, si v. l'ampia ed esaustiva trattazione contenuta in WERNER, 1963, 370 ss., 415 ss. Con particolare riguardo al problema qui considerato, v. infi ne CATALANO, 1965, 151 ss. Importante per questa problematica anche FREZZA, 1938, 368 ss. Particolarmente interessanti appaiono le indicazioni contenute in Liv., 1.32.3, e in Dion. Hai., 3.34.5 e 37.3, circa altri foedera tra più città latine che si contrappongono a loro volta al ricor do dei singoli trattati di pace stipulati di volta in volta da Roma con le varie città del Lazio. <2) Sul foedus Cassianum e sul suo autore, la importante personalità di Spurio Cassio, anche se in parte oscurata dalla leggenda, si v. in generale MOMMSEN, 1871, 158 ss.; TÀUBLER, 1913,
276 ss.; STEINWENTER, 1917a, 1262 ss.; BELOCH, 1926,
179 ss., 189 ss.; WERNER, 1963,
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ss. e CATALANO, 1965,249 ss. Altra lett. in DE MARTINO, 1973, 73 nt. 2. Di grande rilievo, per gli aspetti qui considerati e che saranno ripresi nel § 6 del prossimo capitolo, è ROSEMBERG, 1920, 340 ss.
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Ma il primo problema deriva proprio da ciò: Wfoedus in questione si limitava a restaurare una unità politico-giuridica che esisteva in precedenza? E se sì, questa unità, come si è già accennato all'inizio del paragrafo, doveva considerarsi espressione di una originaria unità 'etnica' del Nomen, dei Latini, ο non era piuttosto il risultato dì precedenti accordi internazionali intercorsi tra le varie comunità latine? In generale è questa seconda ipotesi ad essere privilegiata, e a ragione, da moderni studiosi. In tal senso gioca il fatto che anche coloro che, come Mommsen, hanno insistito sul valore fondante, anche sotto il profilo della formazione delle strutture cittadine, della originaria unità 'politica' della stir pe, hanno poi riferito il sistema di protezione dei Latini, all'interno delle varie città del Nomen, al ruolo dei singoli trattati intercorsi tra codeste città nei loro reciproci e particolari rapporti(3). Tuttavia il riferimento alla unità originaria della stirpe mi sembra che abbia avuto un'influenza non del tutto positiva in ordine a un altro tipo di
(3)
Cfr. MOMMSEN, già cit. in nt 1: ivi infatti si citano i particolari trattati di cui si ha ricordo, come quelli di Roma con Gabi e Lavinio, esempio della organica coesistenza del patto federale («Bundesvertrag»,) con il generale trattato tra Roma e la Lega. L'autore ritiene infatti che'siano i singoli trattati tra le varie città con ogni probabilità a fondare formalmente la comunità giuridica tra i vari membri: nella sostanza essendo lo stesso Mommsen convinto che essa derivasse dalla originaria comunanza etnicc-nazionale («urspriinglichen national-politischen Gemeinschaft»), secondo un'idea assai diflusa tra gli studiosi dell'epoca: v. per tutti TÀUBLER, 1913, 284 ss., 301 ss. Da tali accordi particolari sarebbe derivata dunque la concessione del ius commercii e, in certi casi, anche del conubiunu È da sottolineare l'interesse di questa ultima considerazione relativa alla non generalizzata estensione del ius conubii, che tuttavia appare fondata su argomenti non irresistibili: cfr. MOMMSEN, 1887,633 s. (1889, VI. 1,256 s.). Non troppo diversamente orienta to appare ora SHERWIN-WHITE, 1973, 33 s., che tuttavia, rispetto a Mommsen, sembra accentua re il momento costitutivo dell'originaria comunità di stirpe ai fini del commercium e del comibium tra i Latini: «the ideathat the numerous villages of the Prisci Latini were each cut off totally from its neighbour... is not convincing», a suo avviso la clausola giudiziaria nel testo del foedus Cassianum presuppone essa stessa l'esistenza del commercium. Cfr. altra lett nello stesso senso di Sherwin-White in CATALANO, 1955, 55 (soprattutto Grosso e Kaser): essa ci conferma nell'idea di una maggiore cautela, non senza tuttavia da una certa ambiguità di queste più recen ti posizioni rispetto all'impostazione di Mommsen. Quest'ultimo infatti fonda esplicitamente il commercium e il conubium su accordi internazionali, non sulla pur da lui valorizzata unità di stir pe. In questi altri autori invece non si capisce bene se lo schema seguito sia quello di Mommsen ο non facciano derivare invece il commercium e il conubium, in ultima istanza, proprio da code sta 'unità' originaria (v. ad es. GROSSO, 1965,30 s., 118, 261 s.: più esplicito, ma anche più con fuso è SAUTEL, 1952, 75 ss.). Nel senso da me criticato v. anche a suo tempo STEINWENTER, 1917a, 1276: «auf Grund der Stammeszubehorigkeit besitzen sie [i Latini] jedoch seitjeher des commercium mit der Romer». V. anche ROSEMBERG, 1920, 340 e 352 s.
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Capitolo II
problema che continua tuttora ad essere dibattuto in termini abbastanza ambi gui. Miriferiscoprecisamente all'idearicorrentedi una piena isopolitèia sus sistente, almeno a partire dal foedus Cassiamoti tra Romani e Latini. In effetti, proprio in relazione alla situazione assicurata dal foedus Casssianum tanto ai Latini che, con il suo successivo allargamento agli Ernici, in Dionigi d'Alicarnasso si impiega insistentemente questo termine. Così gli storici moderni si sono volti a considerare le pratiche internazionali del mondo greco, per comprendere appieno il riferimento di Dionigi: pratiche che evidentemente erano a lui ben presenti e dalle quali egli ha ricavato tale terminologia. Secondo la maggior parte degli studiosi, nell'ambito delle città greche, isopolitèia avrebbe indicato una specie di 'doppia cittadinanza', con la facoltà, per il beneficiario, di rendere effettiva la nuova cittadinanza attri buitagli, e restata solo 'virtuale', trasferendosi nella nuova pòlis. Ora in una fase più avanzata dei rapporti tra Romani e Latini appare effettivamente attestata la legittimazione riconosciuta ai Latini ad acquisire la cittadinanza romana: trasferendo la propria residenza in Roma: il ius migrando Nulla di più facile quindi che vedere in questo ius migrandi la 'traduzio ne' latina dell'istituto greco, tanto più che, accanto a questa facoltà, almeno per il periodo più avanzato, ai Latini che si fossero trovati a Roma era con cesso di partecipare al voto nei Comizi, iscrivendosi in una tribù. «Questo alto grado di comunità di diritto, la possibilità di acquistare la cittadinanza di Roma con la migratio ha fatto pensare agli scrittori greci che si trattasse di una isopolitèia»: così De Martino. Ma in verità lo stesso Maestro napoletano mostra una grande cautela sulla esatta interpretazione delle notizie forniteci in proposito dagli antichi(4). In effetti più di una difficoltà si frappone a che il possibile valore origi nario dell'espressione greca usata da Dionigi possa integralmente trasferirsi a descrivere i rapporti tra Romani e Latini nell'età àt\ foedus Cassianum. Anzitutto, una certa insicurezza nella precisa definizione del contenuto origi nario di questa stessa isopolitèia: sino a che punto si trattava di una effettiva (4)
Cfr. DE MARTINO, 1973, 76 ss., dove si esprimono dubbi sia sulla applicabilità della nozio ne greca di isopolitèia alla realtà dei rapporti romano-latini nei primi secoli della Repubblica, sia sulla possibilità che già con Wfoedus Cassianum, agli inizi del V sec. a.C, fosse concesso il voto nei Comizi, non esistendo questo neppure per i Romani (si tratta in effetti dei Comizi tributi).
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concessione di 'doppia cittadinanza', sia pure restando, uno di questi due sta tus civitatis solo potenziale, ο non di una mera gratificazione formale(5)? Ma molto più seri sono i dubbi intorno al contenuto complessivo dei rapporti tra Romani e Latini del V e ancora nella prima metà del IV sec.a.C. In effetti, fermi restando i conubia commerciaque abbastanza bene attestati dalle fonti, la maggioranza degli studiosi, oggi, appare assai cauta, sovente affatto negativa, sull'idea di proiettare nella prima età repubblicana l'esisten za del ius migrarteli e del diritto di votare nei Comizi romani. Il primo di que sti infatti appare attestato solo per un'età relativamente più tarda, quando già i rapporti tra Roma e i Latinirientravanonettamente all'interno della sovra nità politica di quella. Che poi sia da pensare al diritto di partecipare ai Comizi con l'iscrizione in una tribù romana, quando, nel 493 a.C. all'epoca in cui avrebbe dovuto essere introdotto ο ristabilito dal foedus Cassianum, questi comizi ο non esistevano ancora ο erano ai loro inizi, è un aspetto su cui da sempre, e a ragione, si sono avute ancora più gravi perplessità*6*. (5) La riflessione contemporanea sulla concessione dell'isopolitèia ai Latini è stata forte mente influenzata dalla definizione di tale istituto, effettuata dagli studiosi dei diritti greci. In particolare è d'obbligo la citazione delle ricerche di Szanto e di Busolt, oltre che di qualche autore più recente come l'autorevolissimo L. Robert. Debbo dire che questa cittadinanza del tutto 'virtuale' e solo faticosamente traducibile in uno statuto effettivo mi lascia perplesso per questa fase dei rapporti romano-latini, inducendomi ad un'attenzione particolare verso le diverse posizioni di PAOLI, 1930, 286 ss. e 1963, 174 e di CATALANO, 1965, 99. Ma, ripeto, il problema per quanto grave e immediatamente atto a influenzare la nostra discussione intorno alla condizione dei Prisci Latini, trascende totalmente i confini di questa mia analisi, mentre esso diventerà assai più significativo per l'età successiva, su cui rinvio al capitolo IV. Interessante infine l'interpretazione di LÉCRIVAIN, 1900a, 586, sul valore particolare assunto dal termine nella rappresentazione che Dionigi fa delle vicende romane. (6) Su tali questioni si v. per tutti DE MARTINO, 1973, 75 e ntt 7 e 8 con lett. (con qualche apertura sull'introduzione del ius migrarteli da parte del foedus Cassianum); v. ora CURSI, 1996,21 s.e nt 11. È netta ivi, DE MARTINO, 1973,76 s., la esclusione della assimilazione della posizione dei Latini alla greca isopolitèia. Sull'inesistenza del ius migrandi - ma soprattutto per una corretta interpretazione del termine isopolitèia all'interno del linguaggio e della rap presentazione di Dionigi d'Alicarnasso - si rinvia a Dion. Hai., 7.18.3, dove è ricordata l'of ferta fatta ai Romani di emigrare e acquistare la cittadinanza delle altre città latine vicine a Roma. Offerta, si noti, di qualcosa di cui i Romani non disponevano ancora e che doveva quin di essere allora appositamente deliberata dalle varie città latine evidentemente. Ciò che esclu de l'esistenza, di un 'diritto' garantito da un preesistente trattato intemazionale (il foedus Cassianum, appunto). Si noti infine, circa una anticipazione dell'ammissione dei Latini ai comizi alla prima età repubblicana, che contro tale idea depone il fatto che non dei Comizi centuriati, ma dei tributi si trattava, come ho già accennato in nt 4, il che deve quanto meno spo stare il dies a quo in epoca postdecemvirale.
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Né infine è da trascurarsi l'incertezza che pur si può nutrire circa la con sapevole volontà, da parte dello stesso Dionigi di tradurre analiticamente con adeguata attenzione per gli aspetti tecnico-giuridici le istituzioni romane in termini greci e non semplicemente di farsi capire da un pubblico di lettori greci, dando un'idea di massima delle istituzioni romane per costoro semi sconosciute. Che questo dubbio sia più che giustificato lo prova a mio avvi so una sfasatura che, comunque, si può cogliere tra la qualificazione dei rap porti tra Romani, Latini ed Ernici definiti dai foedus Cassìanum come isopolitèia e Γ effettivo contenuto originario di quest'istituto. Come infatti a me sembra sia riconosciuto pur dai sostenitori dell'im piego in senso tecnico di tale termine da parte di Dionigi(7), esso, in ambito greco, definiva un rapporto tra una comunità e uno ο più individui da essa gratificati per particolari ragioni o, diversamente, tra due comunità che reci procamente avessero stabilito tale principio a favore dei cittadini dell'altra. Nel caso dei foedus Cassìanum noi dobbiamo invece ricordare che esso rego lava non già rapporti bilaterali tra due città, ma un insieme di relazioni 'mul tilaterali' tra tutte le città della Lega. Ma in questo caso diventa praticamente impossibile applicare in modo rigido lo schema greco che non mi sembra si sia riferito a sfere più ampie dell'accordo tra sole due parti. Al contrario, Visopolitela, nel nostro caso, diventerebbe una realtà affatto singolare in base alla quale ciascun Latino e ciascun Romano sarebbe stato contemporaneamente titolare, oltre che della sua cittadinanza d'origine, di tutte le altre cittadinanze dei membri della Lega: un vero e proprio monstrum giuridico cui, probabil mente, neppure lo stesso Dionigi ha mai realmente pensato00. {7)
Cfh in particolare HUMBERT, 1978,123 ss. V. anche PHILLIPSON, 1911,1, 141 ss.; FREZZA, 1938,1,388 ss. ^ (8) Un aspetto che credo debba essere tenuto presente più di quanto non sia stato fatto da alcuni autori recenti è il carattere, diciamo 'circolare' dei vincoli e delle posizioni giuridiche definite nel Foedus Cassìanum. In primo luogo nel senso che in generale trattavasi di una serie di rapporti reci proci e poi, soprattutto, cheriguardavanoegualmente tutti i membri del trattato. Il che ovviamen te non fa venir meno la possibilità di un comune ius migrandi di cui ciascun Latino avrebbe potu to fruire neiriguardidi ogni città della Lega. Egualmente una reciproca isopolitèia, nel suo valo re tecnicoriferitoalla realtà greca, avrebbe potuto sussistere per tutti i Latini e neiriguardidi tutte le città della Lega. E questa infatti la necessaria conseguenza di quella logica paritaria e comuni taria che è alla base dèi foedus Cassìanum e che del resto si può inferire da precise clausole 'pri vatistiche' (il regolamento delle controversie private: v. infra § sg. e cap. Ili, § 6) e 'pubblicisti che' (la divisione del bottino ad es.). Ma, come ho detto nel testo, la situazione che ne derivereb be si allontana affatto dagli stessi modelli greci ed appare, per ciò stesso, ancor meno plau-
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Così, malgrado l'impegno soprattutto da parte di Humbert nelPillustra re questa trasposizione in sede italica di pratiche greche quali appunto Visopolitela®? si ha quasi l'impressione di un'ambigua interazione tra i due diver si riferimenti costituiti da una parte daWisopolitèia, che Dionigi, in verità, sembra spargere un po' dappertutto a proposito delle più antiche relazioni internazionali dei Romani(,0), e dall'altra dall'ancora più difficile regime del ins migrarteli, effettivamente attestato per i Latini, ma di cui ignoriamo trop pi aspetti, anzitutto la sua stessa origine e le successive vicende, perché possa essere a sua volta assunto come strumento interpretativo del regime giuridico scaturito, per Latini e Romani, nei loro rapporti reciproci, dal foedus Cassianwn. Giacché questo aspetto mi sembra fondamentale: la natura stes sa del trattato (ma già il carattere dei precedenti rapporti tra Romani e Latini nel corso dell'età monarchica), pur tollerando uno squilibrio tra Roma e le singole città del Lazio, presuppone e sancisce un carattere paritetico e colle giale tra le parti contraenti. E la reciprocità delle condizioni è, sotto questo profilo, elemento essenziale. Altra cosa sarà, loripeto,la situazione successi va al 338 a.C.
2. 'Commercium' e 'conubium' tra i Latini Per concludere questo aspetto dell'analisi relativa all'esistenza del commercium e del conubium tra Romani e Latini converrà sottolineare come tali situazioni non siano richiamate direttamente nel testo parziale del foedus Cassiamoti che è riportato da Dionigi (e in cui, tra l'altro, non è affatto pre sente ilriferimentoaìVisopolitèia). Al contrario, in esso èriferitaun'unica clausola relativa ai rapporti di dirit to privato tra i membri della città dell'alleanza che a prima vista parrebbe con traddire alla logica 'assimilatrice' che codesti istituti presuppongono e su cui si sibile. Molto più plausibile, proprio per il sopravvenuto carattere 'bilaterale' di talirapporti,appa re ilriferimentoaìVisopolitèia nel definire le relazioni romano - latine dopo il 338 a. C. Su ciò v. anche il capitolo seguente. <9> Cfr. HUMBERT, 1978, cap. (,0)
III.
Si v. in proposito i brani citati in CATALANO, 1965, 98.
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è ampiamente insistito soprattutto nel corso del precedente capitolo. Si tratta di Dion. Hai., 6.95.2: «i litigi e le controversie relative ai con tratti privati dovranno essere decisi entro dieci giorni presso quelle comunità nelle quali è stato stipulato il contratto». Si afferma, insieme, un principio di giurisdizione che stabilisce il tribu nale competente a giudicare delle future controversie tra i diversi membri della Lega e crea un vincolo temporale entro cui questi litigi dovranno avere soluzione giudiziaria: un vincolo probabilmente stabilito a tutela dei comuni interessi commerciali. Tuttavia, conTè stato giustamente sottolineato dagli studiosi moderni che si sono interessati di questo problema, siffatta normati va non interviene sui contenuti e sulle modalità della reciproca tutela affer mata a favore di cittadini delle varie comunità della Lega. In qualche modo i rapporti di commercium, lungi dall'essere esclusi, sono da essa presupposti. La norma del Trattatoriportatada Dionigi deve così essere interpretata alla luce delle altre indicazioni che, in modo unanime00, ci ragguagliano sul l'esistenza di quei commercia che, poi, i provvedimenti unilaterali assunti da Roma nel 338 a.C, modificheranno, almeno per quanto concerne le relazio ni delle città latine tra loro. Sotto questo profilo il meccanismo regolatore delle controversie tra Latini di diverse città deìfoedus, appare rafforzare una tutela il cui contenu to è fondato sul richiamo ai diritti locali che dovrebbero essere applicati dal tribunale evocato dalla clausola del Trattato. Questo, com'è ovvio, se si segue l'idea, da me nettamente condivisa, che, anche sul piano sostanziale, i Latini e i Romani che fruivano del commercium tra loro erano partecipi delle norme di diritto sostanziale dei vari ordinamenti in cui si trovavano ad effet tuare i loro negozi e ne acquistavano conseguentemente i diritti secondo que sti stessi ordinamenti. Semmai la clausola processuale potrebbe farci pensa re a una procedura giudiziaria semplificata e regolata in modo unitario dal foeduSy tale da sostituirsi all'ordinario processo civile: insomma una vaghis sima indicazione nel senso di una possibile esclusione dei Latini dalle legis actiones.
(,,)
Cfr., oltre a Liv., 8.14.10, su cui si tornerà ampiamente, Liv., 1.45.2; Dion. Hai., 4.26; Strab.,fi5.3.4. Su tutto ciò v. anche infra, cap. Ili, § 6.
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Indiscutibile poi e ampiamente attestata dalle fonti l'esistenza recipro ca dei legittimi rapporti matrimoniali(12): anche qui i conubia tra i Latini verrano interrotti autoritativamente da Roma con la svolta del 338 a.C. Su que sta svolta occorre ora concentrarci giacché essa ci aiuta a cogliere non solo la vicenda successiva dei Prisci Latini nei loro rapporti con Roma, ma getta anche luce sulla fase che allora si era conclusa. I fatti sono noti: nel corso dei decenni precedenti la stretta dei Romani su tutta l'area laziale si era accentuata pesantemente. Le antiche città del Lazio, si erano venute trovando in una posizione obiettiva di crescente subal ternità politica, con lo straordinario balzo in avanti che la potenza romana aveva conosciuto a partire dagli inizi del IV sec. a.C, interrotta solo per un brevissimo tratto dalla crisi gallica (390 a.C). Ricorderò i momenti più signi ficativi del consolidamento del potere romano nell'Italia centrale, alla vigilia di una nuova stagione dell'espansionismo politico militare verso le strategi che aree campane. Un punto saliente è certo costituito, anche nella memoria dei Romani, dalla conquista di Veio (396 a.C), cui farà seguito un lungo sfor zo volto a contrarre e poi a seriamente intaccare — non ancora a liquidare: il che avverrà solo nel 338 a.C. - la potenza dei Volsci, un altro fattore impor tante per il controllo del Lazio meridionale (377-358 a.C). Non meno rile vante, ai fini del complessivo rafforzamento di Roma, è il consolidamento delle strutture politiche e sociali cittadine, con la definitiva conclusione del secolare conflitto interno tra patrizi e plebei (367 a.C). La crisi con gli alleati Latini era già affiorata nel corso di questo perio do: una prima secessione, guidata da Tivoli e da Palestina, le due città più potenti della Lega, si era verificata nel momento di debolezza romana a seguito della catastrofe gallica. Singole defezioni erano poi intervenute: come quella di Tuscolo, nel 381 a.C, che verrà allora incorporata nella civitas romana. Ed infine il temporaneo superamento di questa crisi strisciante, con ilrinnovodell'antico trattato tra Roma e i Latini nel 358 a.C. Che tuttavia non reggerà alle tensioni ingenerate negli anni successivi e che vanno ricondotte al concentrarsi degli interessi romani verso la Campania settentrionale ed ai
(,2>
Si v. anzitutto Liv., 1.26.2, e 49.9; 4.3.4; 8.14.10; 9.43; 41.8; Strab., 5.3.4. Dion. Hai., 4:45.1; 6.1.2; Cic., rep., 2.63, oltre, ovviamente a Tit Ulp., 5.4.
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rapporti intessuti con le ricchissime città di quella regione che a Roma si erano rivolte per aver protezione dalla minaccia sannitica proveniente dagli altipiani appenninici. Così, nel 340 a.C, si evidenzia la rottura definitiva e lo scontro militare tra Roma e i Latini alleatisi ai Volsci. Il conflitto bellico, ancora una volta, fu vinto con relativa facilità e si concluse con una vera e propria resa da parte dei Latini- In quel momento il valore àz\Y antico foedus Cassianum, da poco rinnovato, viene definitivamente meno. Il Senato romano, ora, assume unila teralmente le decisioni intorno alla nuova condizione delle varie città latine: ed anche nel caso di comunità per cui non si dia nulla di nuovo rispetto alla condizione precedente (salvo, ad es., una 'multa' di una parte del loro terri torio 'espropriato' dai Romani), anche in questo caso la situazione ad es. di Tivoli ο di Preneste non è più fondata su un trattato internazionale che pre suppone la rispettiva sovranità dei partecipanti, come appunto nel foedus Cassianum, ma sulla autonoma e sovrana volontà di Roma, che unilateral mente, potrà anche decidere di continuare ad applicare questo stesso trattato, senza però essere da esso vincolata come invece, almeno in teoria, lo era stata in precedenza. Ma leggiamo anzitutto il fondamentale racconto di Livio a ciò relativo: 8.14.: principes senatus relationem consulis de summa rerum laudare, sed, cum aliorum causa alia esset, ita expediri posse consilium, dicere, si ut prò merito cuiusque statueretur, de singulis nominatim referrentpopulis. Relatum igitur de singulis decretumque. Lanuvinis civitas data sacraque sua reddita cum eo ut aedes lucusque Sospitae Iunonis communis Lanuvinis municipibus cumpopulo Romano esset. Aricini Nomentanique et Pedani eodem iure quo Lanuvini in civitatem accepti. Tusculanis servata civitas quam habebant, crimenque rebellionis a publica fraude in paucos auctores versum. In Veliternos, veteres cives Romanos, quod totiens rebellassent, graviter saevitum: et muri deiecti et senatus inde abductus iussique trans Tiberim habitare, ut eius qui cis Tiberim deprehensus esset usque ad mille pondo assium clarigatio esset, necpriusquam aere persoluto is qui cepisset extra vincula cap timi haberet. In agrum senatorum coloni missi, quibus adscriptis speciem antiquae frequentiae Velitrae receperunt. EtAntium nova colonia missa, cum eo ut Antiatibus permitteretur, si et ipsi adscribi coloni vellent; naves inde
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longae abactae interdictumque mari Antiati populo est et civitas data Tibwrtes Praenestinique agro multati neque oh recens tantum rebellionis commune cum aliis Latinis crimen sed quod taedio imperli Romani cum Gallis, gente efferata, arma quondam consociassent. Ceteris Latinis populis conubia commerciaque et concilia inter se ademerunt. Campanis equitum honoris causa, quia cum Latinis rebellare noluissent, Fundanisque et Formianis, quod per fines eorum tuta pacataque semper fuisset via, civitas sine suffragio data. Cumanos Suessulanosque eiusdem iuris condicionisque cuius Capuam esse placuit Naves Antiatium partim in navalia Romae subductae, partim incensae, rostrisque earum suggestum, in foro extructum adornari placuit, Rostraque idtemplum appellatimi* È questo un brano fondamentale nel campo dei nostri studi giacché in esso emerge uno dei problemi che ancor oggi è al centro di un dibattito di grande rilievo che ha visto e vede tuttora impegnati quasi tutti i migliori sto* Tr. it.: i capi del senato approvarono in linea di massima la relazione del console; dissero però che, siccome la posizione delle varie città nei rapporti con Roma non era uniforme per tutte, bisognava, se si voleva rimanere nel giusto, prendere decisioni particolari per i singoli popoli. Si fece quindi un rapporto e si fecero decreti diversi per ogni caso singolo. Al popolo di Lanuvio si concesse il diritto di cittadinanza e il ristabilimento del loro culto: in più, si sta bilì che il tempio e il bosco di Giunone salvatrice fossero comuni alle genti di Lanuvio e al popolo romano: quelli di Arida, di Nomento e di Pedo ebbero pure la cittadinanza con lo stes so titolo dei Lanuvini. I Tusculani conservarono la cittadinanza che avevano prima, e il crimi ne di ribellione non fu considerato di carattere pubblico ma ne furono accusati solo i pochi sobillatori. Si agì invece con grande severità contro i Veliterni, antichi cittadini romani, tante volte ribellatisi: ne furono smantellate le mura ed il senato ne fu deportato, obbligato ad abi tare al di là del Tevere, con l'aggravante che un membro di esso, se fosse colto al di qua del fiume, doveva essere multato per mille assi, né poteva essere scioltq dai ceppi da colui che lo aveva catturato se non dopo aver pagato la intera somma. Nei terreni di proprietà dei senatori furono mandati coloni, dopo l'aggregazione dei quali Velletri riprese il carattere popoloso di prima. Ad Anzio fu mandata una nuova colonia con la concessione, per gli Anziati, di entrare a far parte della colonia stessa, se lo volessero: le navi da guerra furono condotte via e il mare fu precluso agli Anziati: fu però data ad essi la cittadinanza. A Tivoli ed a Preneste venne con fiscato parte del territorio, e questo non soltanto per il recente fatto di essersi ribellati, il che si poteva dire di altri Latini, ma anche perché l'insofferenza della supremazia romana li aveva spinti ad associarsi militarmente con i Galli, popoli barbari. Agli altri popoli latini fecero divie to di contrarre matrimonio, di esercitare commercio e di tener adunanze tra loro. Ai Campani a titolo di onore per i loro cavalieri che non avevano preso parte alla ribellione dei Latini: ai cittadini di Fondi e di Formia che avevano dato loro libertà e sicurezza di transito sui loro ter ritori, fu accordata la cittadinanza senza diritto di voto: i Cumani e quelli di Suessola ebbero la stessa posizione giuridica e le stesse condizioni dei Capuani. Una parte delle navi degli Anziati fu condotta nei cantieri di Roma, una parte bruciata, e con i rostri di queste si adornò la tribuna costruita nel Foro che ebbe poi il nome di Rostri.
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rici e romanisti moderni. In esso infatti incontriamo un importante riferimen to alla concessione della civitas sine suffragio attribuita dai Romani ai cava lieri Campani e ai due centri di Formia e di Fondi, in premio della loro fedeltà (Liv., 8.14.10). Emerge così il fondamentale problema, non solo della natura di questo particolare legame con Roma, ma della formazione del primo ordinamento municipale. Ma, almeno per ora, non è a questo colossale argomento che dobbiamo dedicare Ja nostra attenzione. Volgiamoci piuttosto a considerare le altre situazioni giuridiche che sono evocate nel testo in questione.
3. D nuovo assetto del 338 a.C. Incontriamo così, anzitutto, alcuni casi che parrebbero corrispondere ad una piena concessione della cittadinanza romana: si tratta di Lanuvio, che invece conserverà quella parte così importante delta propria vita sociale e della propria identità culturale che sono i suoi sacra. La cittadinanza romana appare poi estesa ad Arida, Nomentum e Pedum (Liv., 8.14.2 ), e, parrebbe, anche agli abitanti di Anzio: sia che essi volessero aderire alla nuova colonia (evidentemente civium Romanorum) fondata da Roma allora in territorio anziate, sia in via autonoma (Liv., 8.14.8). Diversa la condizione di Velletri che parrebbe aver già avuto la cittadinanza romana anteriormente al 338 a.C. (veteres cives Romanost quot totiens rebellassent): la repressione è molto dura verso il senato locale, mentre nei riguardi del municipio si provvede ad abbatterne le strutture difensive, ma non si ha una modifica dello statuto per sonale degli abitanti (Liv., 8.14.5). Tutti gli altri comuni latini appaiono con servare la loro precedente situazione legale: solo nei riguardi di Tivoli e di Preneste si procede anche ad una acquisizione di parte del loro territorio a favore di Roma (Liv., 8.14.9). Per tutti gli altri si stabilirà solo la cessazione dei conubia commerciaque et concilia tra loro: non ovviamente quelli invece intercorrenti con Roma che diventerà così l'unico punto di riferimento di que ste minori comunità (Liv., 8.14.10). Questi ultimi rapporti quindi dovrebbe ro essere regolati ancora secondo i principi prececedenti, che risalivano
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alla normativa stessa del foedus Cassianum. Così come dovrebbero egual mente persistere, per ciascuna di tali comunità, le istituzioni cittadine - magi strati, collegi di notabili, assemblee cittadine - preesistenti, nulla essendo stato formalmente modificato in proposito da Roma, almeno sulla base della descrizione liviana. E infine, come ho già accennato, ai Fundani ed ai Formiani è data la civitas sine suffragio (Liv., 8.14.10). Le indicazioni di Livio sono straordinariamente importanti, anche se non sempre di specchiata evidenza. Ad es., io resto incerto di fronte al riferi mento di Liv., 8.14.11, dove all'improvviso si richiama la posizione giuridi ca di Capua, cui si sarebbe ispirato il Senato per stabilire, allora, con il prov vedimento che qui stiamo esaminando, del 338 a.C, la condizione di altre due popolazioni campane: di Cuma e di Suessa. Ma in verità nelle fonti non è chiara la condizione giuridica di Capua anteriormente alla notizia che abbiamo letto, salvo, com'è ovvio, quanto sappiamo a proposito dell'offerta deditio da parte di Capua stessa ai Romani per salvarsi dalla pressione sannita, nel 342 a.C, e del successivo foedus a chiusura dell'intervento Romano contro i Sanniti: ma non credo che Livio si potesse riferire ad esso. È possibile che tale menzione abbia a che fare con la concessione della civitas Romana ai cavalie ri di tale città, avvenuta nel 340 a.C.(13), anche se ciò è lungi dal disegnare la complessiva posizione della città che avrà la civitas sine suffragio - insieme a Suessa e a Cuma - solo nel 334 a.C, stando almeno a una più generale indi cazione di Velleio(14). Né più rassicurante è il rapido passaggio liviano, che ho già ricordato, relativo a Velletri: siamo proprio sicuri che, anteriormente al 338, codesta comunità fosse stata integralmente gratificata di quella che sembrerebbe la civitas optimo iure? I moderni sono abbastanza incerti in proposito e, ancora una volta, le indicazioni più sicure ci sono offerte da quel grande storico che è stato J. Beloch(15). il3) Liv. 8.11.16; ma questi stessi cavalieri, secondo Liv. 8.14.10, nel 338 saranno premiati, per la loro continuata fedeltà a Roma, con la civitas sine suffragio: una retrocessione! (l4) Cfr. Veli., 1.14.3: Spurio Postumio Veturio Calvino Coss. (a. 334) Campanis data est civitasque Samnitium sine suffragio. Sulla posizione di queste città la pur bella indagine di HUMBERT, 1978, 171 s., 173 ss., 195,439 s., è abbastanza oscura; v. piuttosto BELOCH, 1926,382. (,5) Cfr. BELOCH, 1926, 380 s., v. ivi, 375 ss. sull'analisi della complessiva situazione deli neatasi con i provvedimenti del 338 a. C. Cfr. anche KORNEMANN, 1933, 577 s.
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Infine la situazione di Anzio, città con cui da tempo i Romani avevano problemi e per cui occorreva sminuirne il ruolo marinaro importante (essa ha un ruolo di un certo rilievo anche nel quadro che emerge nel secondo Trattato tra Romani e Cartaginesi). Da Liv., 8.14.8, ricaviamo con certezza due indi cazioni: che sussiste la vecchia comunità anziate e che, accanto ad essa, è fondata una colonia (probabilmente rivium Romanorum) alla quale potranno associarsi gli stessi Anziati. Sono tuttavia, queste indicazioni, per noi insuffi cienti. QuaFè anzitutto lo statuto della sopravvissuta Anzio? Livio ci dice che ad essa è data la civitas: si è interpretato in genere questo riferimento come una civitas sine suffragio, probabilmente a ragione. Sarebbe stato infatti ben difficile che, accanto a una comunità di cittadini romani optimo iure si fon dasse una colonia civium Romanorum che offrisse tali vantaggi da attrarre i vecchi anziati. Ma vi è ancora altro: in Liv., 9.20.10, pochi anni dopo la siste mazione del 338 a.C. e in chiara connessione con essa, leggiamo dunque che Antiatibus quoque, qui sine legibus certis, sine magistratibus agere quaerebanturf dati ab Senatu ad iura statuenda ipsius coloniae patroni; nec arma modo, sed iura etiam Romana late pollebant*. Un passo importante questo anche per l'ultima considerazione, su cui torneremo in seguito. Esso infatti non può rife rirsi alla nuova colonia: anzi i magistrati che avevano presieduto alla fondazio ne della colonia diventeranno, per volere del Senato, anche i patroni che pre siederanno alla riorganizzazione della vecchia comunità anziate. In verità a me sembra abbastanza verosimile la valutazione di Toynbee, secondo cui la condizione in cui volutamente erano stati lasciati da Roma gli Anziati - un trattamento assai duro invero - era volto a creare «a locai administrative vacuum» che verrà superato solo una ventina d'anni più tardi, dopo l'organizzazione della colonia romana in quella stessa località. E si tratterà, anche in questo caso, con ogni probabilità di un municipio sine suffragio^\ "Tr. it.: anche gli Anziati che si lagnavano di non avere accordi ben definiti né magistrati, ebbero dal senato patroni scelti tra gli stessi coloni per regolare i reciproci diritti. Così la poten-* za romana si andava largamente difiFondendo non solo per la forza delle sue armi ma anche per le sue norme di diritto. <16) In questo senso cfh SHERWIN-WHITE, 1973, 81 s.; TOYNBEE, 1965, I, 223 s., 406 s.; SALMONI, 1969, 75 s.; BRUNT, 1971, 541 ed ora HUMBERT, 1978, 187 ss. Cfr. già MOMMSEN, in CIL, X, p. 660. V. però HULSEN, 1894 a, 2562; BELOCH, 1926, 380; RUDOLPH, 1935, 142. In
verità io non trovo le due notizie completamente contraddittorie: da una parte il Senato opera la dissoluzione radicale dell'antica comunità politica anziate, togliendo ad essa qualsiasi capa-
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Ma l'aspetto per noi più interessante, in questo caso, è il fatto che da Liv. 8.14.8, relativo alla sistemazione data ad Anzio dal Senato nel 338 a. C , non si ricaverebbe in nessun modo la ulteriore informazione circa la contestuale disgregazione della loro res publica. Fatto questo che appare occasionale e per nulla discendere di per sé dalla concessione della civitas sine suffragio e derivante sicuramente da uno specifico intervento romano in tal senso, volto appunto a lasciare Anzio, per anni,«senza leggi e senza magistrati». Anche così si conferma che Roma, insomma, ha assunto integralmente il potere costituente per Γ insieme di città, sino ad allora sovrane, ed ora da lei dipen denti, ed è su questa base che si viene delineando il nuovo assetto istituzio nale. Queste considerazioni restano peraltro ancora al margine del punto cen trale quale emerge dal quadro offertoci da Livio la cui portata si chiarisce sia alla luce dei provvedimenti assunti negli anni successivi, che sulla base delle ulteriori indicazioni provenienti da altre fonti. In effetti, con il 338, noi vedia mo che i Romani sono venuti realizzando una profonda trasformazione della loro stessa organizzazione statale ed è a tale processo, colto nelle sue grandi linee, che converrà dedicare queste ultime pagine. Ciò che nel corso della seconda metà del IV secolo è avvenuto, è infat ti il superamento sostanziale dei confini propri alla città-stato. In modo straordinariamente precoce (e ancor più questa 'precocità' risalta se conside riamo come ancora un paio di generazioni or sono si tendeva a datare la piena realizzazione delle strutture e istituzioni cittadine in quello stesso secolo!)<17). cita di autorganizzazione (sine magistratibus etc), dall'altra la concessione della civitas, vero similmente sine suffragio finisce con l'operare nella stessa direzione, contribuendo allo sradi camento di Anzio dai suoi statuti ancestrali e creando una figura di statuto incerto: non troppo diversamente da quei Latini luniani che l'ordinamento romano, un secolo e mezzo più tardi creerà. (I7) Ma questa rapidità si può cogliere egualmente se si considera come la definitiva chiusu ra della crisi intema alla Repubblica, costituita dalla presenza di due ordini sociali contrappo sti e titolari di diritti e legittimazioni politico-istituzionali di diverso livello, sia databile poco più di un trentennio prima: il 367 a.C. con le Leggi Licinie Sestie. Scansione non meno signi ficativa nel processo di formazione del sistema giuridico romano, giacché allora appare il magistrato titolare di iurisdictio, supremo regolatore del processo civile romano e fattore essenziale della sua successiva evoluzione. Verrebbe quasi fatto di pensare che il processo di costruzione dello Stato, per dirla con termini nostri, avvia immediatamente di seguito la con sapevole costruzione di un sistema di relazioni intemazionali che presuppone un uso straordi nariamente dinamico e innovatore delle stesse categorie giuridiche direttamente legate alla ridirmi» Hi una dimensione statale. Penso in primo luogo alla categoria della cittadinanza ed
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Roma supera i confini intrinseci al modello organizzativo della pòlis dell'an tichità classica: quei confini che hanno segnato, se ben si considera, il carat tere sostanzialmente effimero, di breve momento, delle forme di espansioni smo politico-militare di quasi tutti gli stati-città antichi(18). In genere essi non erano mai andati oltre il sistema delle alleanze e delle leghe politiche caratterizzato dalla centralità della città egemone. Sotto que sto profilo la stessa creazione di colonie nell'Italia meridionale da parte delle maggiori città greche aveva mancato il suo obiettivo politico di rafforzamen to di queste ultime, per diversi fattori, non ultimi la eccessiva distanza geo grafica e la stessa dimensione dello sviluppo precoce assunto da queste 'colo nie'. Roma è appena giunta alla piena integrazione dei due ordini sociali, non ha ancora completato il suo quadro istituzionale interno con un sistema di governo, magistrature, sacerdozi adeguato alle ambizioni ed alle esigenze bene evidenti, e già dispone di uno straordinario strumentario atto a organiz zare un'architettura del tutto nuova del potere politico in Italia. Consideriamolo più da vicino, per quello che ci dicono effettivamente le testimonianze antiche. In quel periodo dunque si conferma anzitutto una inno vazione che aveva preso corpo, forse per la prima volta, con la attribuzione (così, secondo Livio, 6.26.8: ma probabilmente un'incorporazione forzata della città vinta all'interno dello Stato vincitore) a Tuscolo della civitas Romana, Prosegue in qualche modo la vecchia tradizione, che abbiamo visto nel corso del primo capitolo, dell'assorbimento dei vinti da parte del vincitore con le immediate con seguenze in termini di forza numerica e di potenza politica. Ma, ora, il processo costitutivo della città-stato si è concluso, almeno dal punto di vista urbanisticoterritoriale e, conseguentemente, non si ha lo spostamento forzato dei nuovi cit tadini nelle strutture urbane del vincitore. L'irradiamento della cittadinanza ora avvienerispettandogli insediamenti demici esistenti e il conseguente sistema urbanistico: siamo agli inizi dunque del sistema municipale. alla geniale rottura di essa nelle due sfere della dimensione privatistica del complesso di dirnV ti di cui il cittadino può fruire in quanto legittimato alla vita giuridica della città e della dimen sione pubblicistica del cittadino come membro di una comunità politica sovrana, questa sì gelosamente chiusa al suo interno. (l8> Questo è certamente il caso di tutte le vicende della Grecia 'classica'. Forse uno dei pochi esempi di organizzazione imperiale attuata con successo da parte di una struttura politica cit tadina è quella cartaginese: ma non a caso essa è stata precocemente individuata da Roma come direttamente a lei antagonistica.
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Anche qui l'aspetto più innovativo è rappresentato dal modo in cui Roma viene miscelando elementi già presenti nell'esperienza politica del mondo classico. Ho già accennato al sistema coloniario ed alle differenze strutturali e geografiche che avrebbero condizionato in modo diverso la vicenda romana da quella delle città greche. E tuttavia come non rilevare il carattere istituzionalmente differenziato di queste esperienze? Alle potenti e floride colonie greche dell'Italia meridionale e della Sicilia si contrappone il duplice schema di piccole unità politico-militari - presidi e sistemi fortifica ti in territorio potenzialmente ostile od ai confini del potere romano - di cit tadini romani e di più vasti centri di popolazione e di occupazione agricola del territorio conquistato: le colonie latine. Centri subalterni, privi di identità politica che non sia direttamente derivata da Roma e dal suo ordinamento, a partire dalla lex data che costituiva lo statuto stesso della nuova comunità. Ma, soprattutto, militarmente deboli e legati alla potenza romana proprio per la loro stessa sicurezza rispetto a popolazioni locali estranee e più ο meno pesantemente danneggiate dalla presenza stessa di queste nuove comunità coloniarie. Decisamente più innovativa appare invece la politica di trasformazione istituzionale di antichi alleati, di comunità lentamente assoggettate alla supre mazia romana attraverso vincoli di alleanza di natura sempre più squilibrata a favore di Roma ο immediatamente assoggettate marni militari al potere romano. L'introduzione dell'intera comunità alle pratiche legali romane con la civitas sine suffragio^ la meno frequente ma non meno significativa assi milazione piena della ditta straniera mediante la concessione della civitas optimo iure appaiono strumenti relativamente nuovi nell'esperienza dell'an tichità classica e costituiscono, nel corso della media età repubblicana, un meccanismo importante ai fini del rafforzamento politico-militare di Roma in vista della sua successiva trasformazione in grande potenza imperiale. In tal modo infatti si allargava la base di una piramide che non cessava di vedere, al vertice, un gruppo dirigente estremamente ristretto e attenta mente selezionato, mentre il corpo di coloro che effettivamente condiziona vano la vita politica della città non era così grandemente mutato come la più generale composizione dei partecipanti al diritto romano e degli stessi citta dini optimo iure. L'immutata forma della vita politica cittadina, la necessità
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di una partecipazione diretta dei cittadini ai Comizi, costituivano infatti un incisivo fattore frenante di fronte alla potenziali trasformazioni che il sistema municipale avrebbe potuto ingenerare. Quando infatti gli uomini delle cam pagne, i cittadini romani sparsi nella Penisola furono effettivamente chiama ti a partecipare ai comizi nel corso dei drammatici eventi scatenati dalla poli tica graccana, fu la stessa costruzione repubblicana ad entrare rapidamente e irreversibilmente in crisi con le forme stesse della democrazia diretta. Sotto il profilo dell'organizzazione politica e sociale il nuovo sistema presenta alcuni evidenti vantaggi. Anzitutto la sua elasticità: esso in teoria è moltiplicabile su vasta scala e in un ambito territoriale molto ampio, senza che ciò comporti la spoliazione di interi territori della loro popolazione con il suo spostamento nell'unico centro urbano che, nella fase precedente, si identificava con lo statuto di cittadini. Ora i centri abitativi si possono molti plicare senza che l'unità legale e politica venga messa in crisi. L'unica sostan ziale modifica sarà l'accrescimento del numero delle tribù territoriali nonché, in altri casi, l'incorporazione nelle tribù già esistenti delle aree territoriali e dei nuovi cittadini-proprietari così assorbiti all'interno della civitadX9\ Certo, vi era già un precedente in età anteriore: le colonie romane. Ma queste comportavano in generale una 'fuoriuscita' di cittadini già tali da Roma, con un relativo indebolimento demografico di questa. Anche in segui to, del resto, l'organico delle colonie romane resterà molto ristretto avendo esse essenzialmente la funzione di presidi politico militari, e non anche quel la di popolamento e di spostamento di popolazioni direttamente con finalità economico-sociali. Nel nostro caso, invece, ci troviamo di fronte alla ripresa della vecchia politica di assorbimento di nuovi venuti nell'organico cittadino con un più esteso controllo territoriale. Con il 338 a.C. questa soluzione appa re istituzionalizzata e trova nuove applicazioni: siamo agli inizi di un capito lo fondamentale nella costruzione del nuovo potere romano attraverso il gra duale disegnarsi di una entità politica che già trascende, nella sua sempre più complessa architettura, le forme 'classiche' della pòlis. Quelle forme che, ad es., una città come l'Atene di Pericle, giunta al suo massimo splendore e all'apogeo della sua potenza, tendeva a preservare con il consapevole conm
Su questi aspetti si rinvia soprattutto alle due classiche opere di Beloch e di Ross Taylor.
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senso dei suoi stessi dirigenti. Ma che, appunto, segnano in modo netto il carattere così rapido nella parabola discendente della forza politica di tutte le . città del mondo greco.
4. La 'civitas sine suffragio9 Con i provvedimenti del 338 il Senato parrebbe avere introdotto una nuova figura di grande importanza e che ha costituito e costituisce uno dei temi centrali della riflessione storiografica moderna: la civitas sine suffragio. Questa infatti, insieme alle città gratificate della civitas optimo iure ed alle nuove colonie latine si pone alle origini dell'ordinamento municipale roma no. Eviteremo in questo contesto di impegnarci direttamente su questo tema su cui si sono venuti misurando, con approcci e angoli visuale sovente assai distanti, i migliori e più competenti tra i nostri studiosi di storia istituzionale e di storia politica. Ma su questo punto tornerò comunque nel corso dei suc cessivi capitoli. Vorrei tuttavia ricordare, a proposito della civitas sine suffragio conces sa ai Latini e agli Ernici anzitutto, e poi, dopo pochi anni, anche ad altre città dell'Italia centro-meridionale, le città volsche e poi le città campane, un fatto molto noto. Si tratta della prima menzione di tale figufa giuridica, relativa alla attribuzione che ne sarebbe stata fatta ai Ceriti, negli anni successivi all'ospitalità da loro fornita ai sacra e ai sacerdoti romani in occasione del l'incendio Gallico(20). Si discute sulla data precisa della concessione: se nel momento immediatamente successivo alle vicende galliche, nel 390, quando tuttavia Livio colloca invece la concessione ai Ceriti dell'hospitium publicum, se nel 353 ο in una data ancora intermedia tra questa e il 338 a.C.(21) E (20)
Si ν anzitutto SORDI, 1960. Sui possibili precedenti storici, risalenti sino all'incorpora
zione di Tuscolo, v. BELOCH, 1880, 120 e TÀUBLER, 1913, 22 s. (21) D'altra parte Liv., 7.20.8, non menziona per il 353 la civitas sine suffragio, ma colloca allora l'esistenza di un trattato con una tregua di cent'anni. Egli, in precedenza, aveva men zionato la concessione dell'hospitium publicum da parte di Romani ai Ceriti, come espressio ne della loro gratitudine per l'ospitalità offerta all'epoca dell'invasione gallica: cfr. Liv., 5.50.3. Sono in verità Strabone e Gellio a menzionare la civitas sine suffragio: Strab., 5.2.3; Geli., noct. Att, 16.13. Particolarmente importante quest'ultima testimonianza che ci ricondu-
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si discute ancor più sul significato e il contenuto effettivo di tale concessio ne. Eviterò un dibattito siffatto che trascende sia i miei orizzonti che le mie forze, per concentrarmi su alcuni punti specifici. Il quadro in cui si colloca tale innovazione effettuata da Roma nei suoi rapporti internazionali è quello di una forte espansione in Italia centrale e verso PEtruria stessa. Caere, per quanti motivi di benevolenza abbia potuto vantare verso i Romani, è un comune etrusco molto esrjosto al Γ offensiva romana verso il nord: dopo la caduta di Veio non ci troviamo forse, con quel la città di mare, allo stesso parallelo della città così duramente guerreggiata e ora conquistata dai Romani? L'evoluzione dei rapporti tra le due città deve dunque anche interpretarsi alla luce delle linee generali della politica romana e della sua crescente pressione sui vicini. Certo questo rafforzato rapporto tra Roma e Cerveteri non poteva e non doveva sfociare in un processo di immediata assimilazione della minore: quello che chiamerei il 'modello Tuscolo' era una delle innovazioni rispetto ad una vecchia pratica del Γ incorporazione che non era mai stata esclusiva nel campo delle relazioni internazionali di Roma e della sua precoce politica di egemonia. D'altra parte è di grande importanza sottolineare in maniera ade guata il carattere particolare che, in origine, la concessione della civitas sine suffragio avrebbe potuto assumere rispetto alla natura nettamente bilaterale delle forme di reciproca concessione del commercium e del conubium ed alla totale 'unilateralità', diciamo così, dell'assorbimento di una comunità da parte di Roma mediante la di lei incorporazione nella piena cittadinanza romana. Ma prima di approfondire questa mia particolare interpretazione vorrei preliminarmente richiamarmi a quanto già la più avvertita storiografia è ce anch'essa esplicitamente all'incendio gallico (oltre e, ancor più per il valore ai fini di quel la storia dei municipia Romana che, tuttavia, esula dalla nostra visuale). Geli., noct. Att., 16.13.7: primos autem municipes sine suffraga iure Caerites esse factos accepimus concessumque illis, ut civitatis Romanae honorem quidem caperent sed negotiis tamen atque oneribus vacarentpro sacris bello Gallico receptis custoditisque. [Ci risulta che per primi sia stato concesso ai membri di Cerveteri di divenire cittadini di un municipio (avente la cittadinanza romana) senza diritto di voto e che essi ricevessero l'onore della cittadinanza romana ma che non fossero gravati degli inconvenienti e degli oneri a causa del fatto che, all'epoca della inva sione dei Galli essi avevano accolto i sacra (dei Romani)]. Si v. l'ampia discussione del pro blema e le indicazioni sulla letteratura precedente in SORDI, 1960, 37 ss., cui adde HUMBERT, 1978, 27 ss., 141 s., 164 s., 405 ss. V. anche infra, cap. IV, § 7 s.
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venuta mettendo a fuoco nel corso di questa metà del secolo circa l'intimi rapporto esistente tra la stessa cìvitas sine suffragio e il tipo di-integrazioni degli stranieri nell'ordinamento romano mediante la concessione del iti commercii e del ius conubii: in una linea di pensiero che va da Konopka < Sherwin-White a Sordi, da Torrent e Luzzatto a Tibiletti. In sostanza si tratti dell'idea che l'originario carattere di questo tipo di cittadinanza limitati costituisca un gradino intermedio tra comunità autonome alleate e la pieni incorporazione dell'una all'interno della sfera politica e giuridica dell'altra(22) Secondo questa linea interpretativa, insomma, il concreto sostanziarsi dell; cìvitas sine suffragio sarebbe divenuto effettivo solo con lo spostamento de semicittadino all'interno di Roma, come una cittadinanza romana soli 'potenziale'. In effetti, in sé, come annota Sherwin-White, risulta difficile «t< see any difference between the status of municipes enjoying the origina form of cìvitas sine suffragio and the status of Latins enjoying conubium commercium, and ius civitatis mutandae»{23\ Questa impostazione è stata di recente contestata da Michel Humber nel suo fondamentale lavoro sulla genesi e la configurazione del sistem; municipale romano e il significato della cìvitas sine suffragio. Richiamandos con forza al valore dell'hospitiumpublicum come diritto 'di residenza privi legiata', diritto in sostanza «de se fondre dans le corps des citoyens» di cu già godevano i Ceriti prima della concessione della cìvitas sine suffragio^ egli postulava che l'innovazione da ciò rappresentata corrispondesse ad un: diversità di contenuto che non poteva esaurirsi dunque in quello che i Cere tani avevano già prima rispetto a Roma, secondo un sistema di reciprocit evidenziato appunto dalla vicenda di quei Clavtie recepiti in ambito cerite(25 La considerazione dell'illustre collega parigino è valida: ma meno pei suasivo tuttavia è il suo conseguente tentativo di superare tutte le difficolt che le difformi indicazioni delle fonti presentano in ordine alla mera identifi (22) Di grande rilievo, in tal senso, la posizione di SORDI, che già ho avuto occasione di ricoi dare e che insiste particolarmente sul carattere onorario della concessione della cìvitas sin suffragio che lascerebbe intatta l'autonomia e la sovranità delle città così gratificate. Sugli ed delle tesi della Sordi si v. HUMBERT, 1978, 27 nt. 55.
™ SHERWIN-WHITE, 1973,46. ™ HUMBERT, 1978, p5)
140 s.
HUMBERT, 1978, 141 s. Cfr. anche sopra, cap. I, nt 29.
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cazione della civitas sine suffragio come semplice inserimento della nuova comunità all'interno della cittadinanza romana(26). E tuttavia su alcuni punti io credo si possano utilmente valorizzare i risultati cui egli perviene nella sua ampia analisi. Anzitutto la svalutazione di una possibile identificazione di tale situazione giuridica con la greca isopolitèia. È un punto questo che abbiamo già sfiorato nel corso delle pagine precedenti e su cui si può piena mente concordare con Humberf27). Ma soprattutto, a mio avviso, appare feconda la sua insistenza sul carattere bilaterale dell'isopolitèia rispetto allo schema della civitas sine suffragio, di carattere essenzialmente unilaterale(28). Ma proprio questo, a mio giudizio, è l'elemento che può aprirci una linea di riflessioni diversa che, in queste ultime pagine, cercherò di evidenziare. Piuttosto infatti che discutere sulla natura meramente strumentale della civitas sine suffragio, come ponte per l'acquisto della piena cittadinanza romana da parte del singolo municipale, nonché sul rapporto tra munera a favore di Roma e tale figura, io riprenderò il discorso sulla apparente omo geneità di contenuti tra civitas sine suffragio e l'insieme del conubium, del commercium e dello ius migrandi, già riconosciuto ai Latini, per mettere bene a fuoco quanto di innovativo è comunque costituito proprio dalla nuova attri buzione della civitas sine suffragio. Che consiste nel venir meno di quella bilateralità che era propria di tali concessioni (almeno per quanto concerne la loro attribuzione a intere comu nità e non a singoli individui), fondata appunto sulla reciprocità delle rela zioni internazionali di cui esse erano elemento costitutivo. Con la concessio ne della civitas sine suffragio da parte di Roma si escludono in partenza quei meccanismi di reciprocità che erano propri degli istituti precedentemente menzionati e che'facevano sì che i cittadini delle due comunità di volta in volta partecipassero dei diritti dell'altra nel momento in cui si fossero trova ti nell'ambito della sua sfera di sovranità. Una modificazione così radicale ben si colloca nel lasso di tempo che vede accentuarsi la supremazia romana e che assume piena evidenza con la svolta del 338 a.C. Allora quello che si modifica è appunto l'originario rapp6)
Cfr. in particolare HUMBERT, 1978, 139 ss.
<27> Cfr supra, §§ 1, 2. w
Cfr. HUMBERT, 1978,206 s., 280 s.
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porto tra i vari ordinamenti: insomma, mentre prima di tale concessione il cit tadino romano che si fosse stabilito a Cerveteri ο a Formia avrebbe parteci pato degli istituti di tali comunità, come i cittadini di queste, successivamen te ciò non sarebbe avvenuto. Al contrario, egli, in queste, come in tutte le altre città gratificate delle civitas sine suffragio avrebbe continuato ad avvalersi degli istituti del diritto romano, pur nei suoi rapporti con i cittadini di esse. In sostanza a me sembra che il contenuto della civitas sine suffragio non faccia che riprendere quella forma di assimilazione dello straniero al civis Romanus per quanto concerne tutta la sfera del diritto privato che era già pro pria del commercium (inteso ovviamente nella sua efficacia più estesa) e del conubium, cui si sarebbe venuto aggiungendo l'esercizio effettivo del ius migrando l'altro elemento di questo nuovo statuto della latinità e della civitas sine suffragio. Ma, come ho detto, la grande novità è che, ora, non è più vero il contrario per quanto concerne gli stessi Romani che si fossero trovati fuori del loro ordinamento d'appartenenza. Vi è certo un ampliamento della sfera giuridica cui è ammesso il nuovo civis: non solo per quegli aspetti processuali (non invece per la titolarità di diritti ex iure Quiritium che, a mio giudizio, già derivava dall'ammissione al commercium) rappresentati dalla piena legittimazione alle legis actiones, ma anche per una serie di situazioni personali che dovevano essere comunque estranee alla sfera del ius commercii. Penso anzitutto al diritto delle persone: ai vincoli familiari, alla titolarità della romana patria potestas sui figli legit timi nel caso del matrimonio del civis sine suffragio con una cittadina roma na, da cui invece era escluso il semplice straniero titolare del ius conubiL La grande svolta che caratterizza la seconda metà del IV secolo, secon do questa mia ipotesi, non concerne dunque l'introduzione di una situazione giuridica nuovarispettoalle pratiche precedenti, ma un uso nuovo di una vec chia situazione. Eventualmente integrata e potenziata nei suoi singoli aspetti. Si tratta cioè del venire meno dell'antica reciprocità e dell'affermarsi del pote re unilaterale di regolare il rapporto tra due comunità (Roma decide unilate ralmente e, quindi, non dipende da un accordo internazionale) definendone i caratteri e il contenuto anch'esso in senso 'unidirezionale': solo con l'espan sione del diritto romano. Alla vecchia reciprocità che presiedeva alle conces sioni del commercium e del conubium, con tutte le complesse conseguenze che
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siamo venuti esaminando nel corso del precedente capitolo, si viene ora sosti tuendo una nuova centralità romana. Roma concede l'ammissione alla sfera del diritto civile romano al di fuori del diritto pubblico - e, a partire da una certa data, verso la fine del VI sec. a.C, i beneficiari continuano a fruire dei vecchi meccanismi di assimilazione, senza tuttavia che ciò comporti una situa zione di reciprocità. Probabilmente, da allora sarà vero il contrario: che i cit tadini romani che si trovino in un comune che ha la civitas sine suffragio, potranno anche lì usare dei negozi del diritto civile romano e diventeranno conseguentemente titolari di diritti propri del loro ius civile, non invece secon do Fantico diritto di quelle città nel cui ambito si trovino a stringere rapporti. Rispetto alla concessione reciproca degli antichi iura, due mi sembrano dunque le innovazioni intervenute nel corso del IV sec. a.C: una terminolo gica e una, assai più gravida di conseguenze, di sostanza. Terminologica: consistente nella sostituzione dell'elencazione degli specifici meccanismi d'assimilazione posti in essere tra due città per legitti mare i propri cittadini ai matrimoni e alle relazioni giuridiche tra loro con un unico termine di riferimento: la civitas sine suffragio esprime meglio e più compiutamente (estendendone forse la concreta applicazione rispetto ad alcu ni limiti esistenti nel caso del commercium) questo stesso processo*29*. Di sostanza: nel senso che codesta concessione, effettuata ormai per decisione unilaterale e non sulla base di un accordo internazionale, opera ο tende ad operare solo in una direzione: quella dell'assimilazione del cittadi no straniero al Romano. E qui occorre accennare ad un ulteriore aspetto di questa figura della civitas sine suffragio: il fatto cioè che essa sembra essere attribuita in rela zione a situazioni sempre più eterogenee. È indubbio che questo punto potrebbe essere adeguatamente approfondito solo affrontando appieno la più vasta questione dell'origine e della formazione del ο dei modelli municipali romani: ciò che qui si è escluso in partenza di fare. Mi limiterò dunque ad evi denziare alcuni momenti che ci fanno cogliere una sostanziale eterogenesi di significato di questa figura, o, quanto meno, un suo articolarsi di funzioni.
e9)
Questo spiega laricorrentee diffusa tentazione di interpretare tale situazione secondo gli schemi dell 'isopolitèia delle città greche.
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Abbiamo già ricordato, all'inizio stesso di questa vicenda, l'attribu-zione di tale status ai Ceriti con un chiaro valore di gratificazione. Seppure quest'a spetto mascherava una sostanziale evoluzione dei rapporti di forza a favore di Roma, è chiaramente indicato dagli autori antichi che ad esso si richiamano nell'associarlo al trattato tra Roma e i Ceriti del 353 a.C.ricordatoda Livio(30). Nel 338 a.C. abbiamo invece visto assai bene il netto carattere unilaterale del l'attribuzione di questa stessa cìvitas che già segnala, più che uno squilibrio politico, una vera e propria subalternità e uno stato anche formale di dipen denza. Pochi anni dopo, nel 306 un nuovo tentativo di sottrarsi all'egemonia romana da parte degli Anagnini viene severamente represso dai Romani, come narra Liv., 9.43.23, che nei riguardi di costoro quique arma Romanis intulerant cìvitas sine suffraga lattone data, concilia conubiaque adempia et magistratibus praeterquam sacrorum curatione interdictum* Marta Sordi vede in questo episodio il punto di svolta della degradazio ne della stessa cìvitas sine suffragio, da statuto semiprivilegiato ο privilegia to rispetto a Roma, ad una situazione deteriore(3I). Ciò è confermato da un aspetto già ben colto dagli storici moderni e che consiste nel fatto che, con temporaneamente a tale attribuzione, i Romani avevano provveduto a disgre gare la stessa struttura politica di Anagni, rendendo impossibili sia i concilia (anche le assemblee interne alla città, sia vietando l'elezione di magistrati cit tadini, ad eccezione che per l'adempimento di funzioni meramente religio se^. Qui infatti la cessazione delle magistrature locali significava la paralisi, se non la dissoluzione della stessa res publica, con la conseguenza che pro prio la cìvitas sine suffragio contestualmente concessa a tale provvedimento, (30) Liv., 7.20.8: movit populum non tam causa praesens quam vetus meritum, ut malefica quam benefica potius immemores essent. Itaque pax populo Caeriti data indutìasque in centum annosfactas in aes referri placuit. [Il ricordo delle benemerenze passate, più forte che non l'offesa recente, indusse il popolo romano a dimenticare questa più che non quelle. Perciò il popolo di Cere ebbe la pace e una tregua di cento anni che si volle eternare nel bronzo]. Su cui v. esattamente LURASCHI, 1979,240 s. * Tr. it: gli Anagnini e gli altri che avevano fatto guerra ai Romani ebbero la cittadinanza senza il diritto di voto, con la proibizione di tenere assemblee e di stringere connubi fra di loro, di avere magistrati propri, tranne che per la celebrazione dei riti sacri. (3, >Ctr. SORDI, 1960,47. w
Cfr. TORRENT, 1970, 32 s.; TIBILETTI, 1973, 349 s.
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diveniva l'unico punto di riferimento anche per i rapporti dei cittadini di Anagni tra loro. Viene tuttavia in mente il trattamento degli Anziati ad opera del Senato nel 338 a.C. e, soprattutto, il riferimento a tale situazione effettuato dai moderni studiosi del successivo passaggio livianó, sempre relativo agli Anziati, già da noi considerato nel corso del precedente paragrafo: ... sine legibus certis, sine magistratibus. E in effetti, data l'analogia dei casi, giac ché anche per questi ultimi si trattava di un provvedimento punitivo da parte del Senato romano, troverebbe conferma la interpretazione dei moderni che civitas data di Liv., 8.14.8, riguardasse per l'appunto la civitas sine suffragio™. In tal caso il processo di rivalutazione di quest'ultimo statuto potrebbe essere fatto risalire al 338 a.C: anche sotto questo profilo dunque accentuan dosi il significato di 'svolta' dei provvedimenti allora assunti dal Senato. Secondo questa mia interpretazione tale contraddizione si spiegherebbe anche in relazione ad un possibile modificarsi della posizione di ciascuna comunità rispetto a Roma: migliorativa in alcuni casi, relativamente al prece dente statuto (così la attribuzione della civitas sine suffragio appare ancora un premio per i cavalieri campani e per Fondi e Formia: Liv., 8.14.10 s.), stabi le ο peggiorativa in altri. In quest'ultimo caso la concessione avrebbe avuto come suo significato ultimo quello di rafforzare il ruolo centripeto di Roma parallelamente - mi riferisco di nuovo al caso di Anzio - alla disgregazione interna della comunità dipendente, privata delle condizioni necessarie per il suo stesso funzionamento.
5. Le altre forme di «autonomia dipendente» Nel 338 vediamo infine ristituzione di nuove colonie civium Romanorum: ma qui ci troviamo di fronte alla mera prosecuzione di una politica tra dizionale, il cui carattere strategico-militare resterà a lungo l'elemento quali ficante. Molto più importante, ai fini di quel mutamento complessivo di oriz-
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zonti dovuto alle nuove funzionalità di vecchie istituzioni, l'ulteriore svilup po della colonizzazione latina. A mio giudizio infatti, già prima della defini tiva assunzione della sovranità di Roma sui membri dell'antica Lega Latina, da parte della città egemone si era venuta sviluppando una politica che, di fatto forse più che di diritto, si era sostituita alla volontà generale della Lega come titolare del potere di fondare nuove colonie latine. Certamente, a parti re da tale data, questa sarà anche formalmente la situazione corrente: con il che, in maniera definitiva, va sottolineato, la latinità coloniaria non è più una forma di cittadinanza autonoma da Roma e la giustificazione interna di una comunità sovrana, ma esclusivamente uno statuto giuridico personale nel l'ambito della sovranità e della sempre più articolata e ricca organizzazione statale romana. Vi è un complessivo processo di romanizzazione dell'Italia centrale e della Campania che corrisponde al delinearsi di un nuovo sistema politico statuale che, serbando il modello della città-stato, già ne supera la sostanza e l'intima struttura organizzativa, almeno per quanto concerne sia l'organizza zione territoriale dei suoi cittadini, sia il profilo dell'efficacia stessa della sua sfera sovrana. L'ultimo elemento di questo sistema sono ancora le città latine che continuano a godere della condizione preesistente: Tivoli, Palestrina, espropriate di una parte del loro territorio, e le altre città latine ed erniche, cui sono tolti i reciproci conubia, commercia e concilia. Ovvia la funzione preventiva di quest'ultimo provvedimento, onde rendere più difficili le aggregazioni e i contatti organici tra le varie comunità, poten zialmente in senso antiromano. Ma più interessante il fatto che anche la persistenza degli ordinamenti giuridici di ciascuna di queste città, ora, non deriva dall'autonomia sovrana di ciascuna di esse, ma dal benvolere e dalla libera decisione del Senato romano. Lo statuto, ο meglio, tutti i vari statuti di queste città latine sono ormai, né più né meno come gli sta tuti dati da Roma alle nuove colonie, espressione della sua sovranità e, in ultima analisi, elementi singolari di quello che possiamo definire il nuovo ordinamento dello Stato 'federale' romano. Ormai la condizione del Latino e la stessa più comprensiva figura del peregrinus, lo 'stranie ro', tendono a indicare categorie giuridiche esistenti all'interno dell'or-
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dinamento giuridico romano e che della volontà sovrana di Roma sono, come quella del civis optimo iure e del civis sine suffragio, diretta espressione(34). Questo colossale rimescolamento dei vecchi modelli e sistemi di rela zioni interstatali, lo svuotamento dall'interno della loro natura internaziona le senza che sovente l'apparenza esterna, la fisionomia venisse a mutare in modo immediatamente percepibile, costituiscono una fase, nella storia della costituzione romana, straordinariamente dinamica. Non è un quadro stabile che si delinea in modo netto e ben definito sin dall'inizio. Al contrario, un tentativo di razionalizzarlo attraverso categorie troppo rigide e un sistema concettuale troppo preciso rischierebbe di imprigionarlo in una visione astratta e per ciò stesso, statica e incapace di evidenziare la stessa comples sità e il rapido articolarsi temporale dei processi di trasformazione che carat terizzano questa fase dell'organizzazione del. potere romano a livello istitu zionale. Quanto in verità fosse in rapido mutamento la situazione di quegli anni e quanto 'processuale', con un grado più ο meno accentuato di pragmaticità che alla nostra tendenza alle categorie giuridiche (tendenza inevitabile: altri menti in che modo potremmo cercare di intepretare e 'tradurre' i fenomeni considerati?) rischia di sfuggire, lo provano diversi indizi. Si pensi, ad es., a un passaggio come quello di Liv., 34.42.5, dove si narra della temporanea esclusione di alcune comunità etniche dal conubium (mentre ad esse, ed è cosa su cui riflettere, è attribuita contestualmente la civitas sine suffragio), evidentemente tra loro. Ebbene, ivi immediatamente si indica come siffatto provvedimento fosse del tutto temporaneo: quod aliquamdiu soli Hernicorum. Esclusione dunque che «fu per un certo tempo degli Ernici», venendo poi, evidentemente soppressa con la loro riammissio ne ai (precedenti?) conubia. Nel medio periodo si delineano certamente delle soluzioni stabili e pren dono corpo categorie e regimi giuridici diversi degli individui all'interno del sistema politico romano. Ma questo proprio a costo di una continua 'speri mentazione' con modifiche ο innovazioni che si susseguono a proposito delle (34)
Su questo aspetto v. anche infra, cap. IV, § 2.
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stesse comunità e individui e in ordine alla definizione degli stessi statuti per sonali elaborati dai Romani. Così ho appena accennato alla situazione delle civitates sine suffragio: al tipo di diritto che, in fatto, veniva ad applicarsi nel loro stesso ambito. Ed anche qui si deve immaginare un processo in fieri: che ha inizio dai, del tutte marginali, problemi derivanti dai rapporti tra cives Romani optimo iure e membri di quelle civitates sine suffragio, nell'ambito giuridico di queste ulti me. Ed ho già accennato all'idea che, in prevalenza se non necessariamente, fosse il diritto romano ad aver già vigore per codesto tipo di rapporti. Senonché il processo di allargamento del campo di applicazione del primo a danno dei diritti locali venne realizzandosi in forme e con tempi diversi, ma in modo sicuro, per tutti questi municipi. È sufficiente pensare al fatto che, anche se non immediatamente, il governo di queste comunità passò ai magistrati romani cum imperio ο a loro rappresentanti periferici. È chiaro che sempre più i tribunali sotto il control lo di costoro tendessero ad applicare il diritto romano ο schemi su di esso modellati. Così, in tempi abbastanza rapidi, prese corpo la romanizzazione delle comunità già politicamente assorbite all'interno dell'impero di Roma. È vero infatti che, secondo questa mia ricostruzione, la civitas sine suffragio giocava solo per i rapporti tra i Romani e gli abitanti locali, non avendo inve ce modificato il regime giuridico secondo cui vivevano questi ultimi, nei loro rapporti intemi. Ma è anche vero che la giurisdizione superiore per queste comunità risentisse dell'azione delle magistrature romane(35). Ciò che dovette agevolare l'espansione dei modelli giuridici romani, favorendo gli esiti fina li di tale processo, con il passaggio di tali comunità dalla titolarità della civi tas sine suffragio alla civitas optimo iure.
(35)
Sul punto v. anche infra, cap. IV, § 6 s. BELOCH, 1888,119 s., insiste particolarmente sulla giurisdizione delegata romana con ìpraefectì su questi più antichi municipi sine suffragio, ma secondo una linea interpretativa complessiva tutt'altro che pacifica, che tenta di spiegare la presenza di una duplice configurazione dei municipi sine suffragio. Perplessi lascia indubbia mente l'interpretazione dell'autonomia municipale in termini direttamente ispirati ai moderni ordinamenti: sul punto la mia interpretazione diverge integralmente.
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6. Gli albori dell'ordinamento municipale e il valore unificante del diritto romano L'intervento unificatore dei nuovi titolari della giurisdizione locale, di investitura romana, era, tra l'altro, reso opportuno, se non necessario, dalla complessità delle situazioni che essi si trovavano a dover regolare. Si pensi solo, sempre in relazione al quadro latino-campano successivo al 338 a.C, alla diversità di situazioni statutarie che si riflettevano su una sostanziale incertezza del diritto da applicare in una serie di possibili casi derivanti dai rapporti tra membri di comunità vicine e con antichi legami tra loro. Mi limi to, ad alcuni esempi: a) negozi tra un cittadino romano e un cittadino di Arida, di Nomentum ο di Lanuvio, comunità gratificate della civitas optimo iure. Il diritto che si applica, tanto in Roma che nelle altre città è sempre il diritto romano. Così come è affatto verosimile che lo stesso diritto si applichi ai rapporti tra loro dei cittadini di queste diverse comunità. Più incerto resterei invece sulla pos sibilità che, sin dall'inizio (in prosieguo di tempo ciò appare invece affatto probabile) egualmente il diritto romano si applicasse necessariamente, a regolare i rapporti interni alla stessa comunità, tra i Lanuvini ο tra gli Aricini, in radicale sostituzione dei loro antichi ordinamenti; b) negozi tra un cittadino romano e un abitante di Caere, di Fondi ο di Formia, gratificate e confermate nella titolarità della civitas sine suffragio. A me sembra che la situazione sia affatto analoga a quella esposta sub a), come analoga anche la soluzione nel caso di rapporti tra loro dei membri di queste varie comunità ο di quelle ricordate sub a); e) rapporti con Roma dei membri di città latine che, come Tivoli e Palestrina, hanno conservato la preesistente condizione, fondata sul foedus Cassianum o, comunque ad esso riconducibile. Parrebbe doversi ammettere che, in tal caso, restasse in vigore l'antico sistema del reciproco commercium e conubium, applicandosi dunque il diritto della città in cui la transazione si fosse verificata: stando infatti a Liv., 8.14.10, nulla parrebbe innovato in pro posito dal Senato romano rispetto alla situazione preesistente. Lo stesso cri terio mi sembra poi valere per il rapporti tra i Tiburtini e i Prenestini tra loro ed, egualmente, per i rapporti tra i Romani e i cittadini di tutte le comunità
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latine che hanno conservato la loro preesistente condizione: ovviamente nel caso di Tivoli e Palestrina, ma anche per quelle città cui il Senato aveva tolto i conubia commerciaque et concilia inter se. Tra loro, appunto, ma non certo con Roma; d) tenderei aritenere,ma con grande cautela, che tale esclusione non si applicasse al caso di rapporti tra tali Latini e i cittadini di Praeneste e Tibur, giacché per queste ultime il dettato liviano dovrebbe farci escludere che si applicasse il provvedimento senatorio che aveva tolto i conubia commercia que et concilia inter se. In questo caso solo una delle due parti era priva ormai di questa comunità di diritto, ma senzariferimento,appunto, né a Tivoli né a Preneste; e) per tali città, private dei conubia commerciaque tra loro, si pone infi ne il problema dell'eventuale rapporto tra i loro cittadini e i membri delle altre comunità gratificate della civitas optimo iure ο sine suffragio, da me richiamate sub a) e sub b). Il tessuto comune, in tal caso, non mi sembra più costituito dall'antico ius commerci et conubii (che avrebbe comportato l'ap plicazione dei vari diritti locali, relativamente alla sede in cui il negozio era posto in essere), ma dal diritto romano, esteso a queste ultime città, al quale, però, indirettamente partecipano anche le altre città latine in virtù del loro legame giuridico conservato con Roma e solo interrotto tra loro. Ho già accennato, sub a) al problema rappresentato dai possibili rapporti tra cittadi ni di comunità gratificate entrambe dalla civitas Romana, sia optimo iure che sine suffragio. Vorrei rapidamente tornare sul punto, giacché esso evidenzia una tensione tra vecchia e nuova realtà che è dato più intuire, in base ad un ragionamento deduttivo, che non cogliere nel concreto di una realtà storica che dovette troppo rapidamente evolversi per lasciare traccia consistente, con il dilatato applicarsi delle forme giuridiche del vincitore. In effetti le due situazioni che evidenzierò immediatamente di seguito troveranno soluzione, diversa a seconda del contenuto che si riconosca alla stessa civitas sine suffragio. Essa in effetti era atta a disciplinare il comples sivo statuto giuridico del nuovo cittadino all'interno dell'ordinamento politi co romano, ma significava anche che il diritto romano avrebbe sostituito all'improvviso e in forma esclusiva il vecchio ordinamento locale senza che esso continuasse a disciplinare la posizione dei propri cittadini al suo inter-
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no? Anche sulla base di quanto abbiamo visto a proposito di Anzio, dove la civitas romana (non rileva poi troppo se sine suffragio ο no) e la contempo ranea dissoluzione del locale ordinamento cittadino ebbero a ingenerare una evidente (e del resto programmata) situazione di crisi, io tendo a immagina re un'ipotesi più complessa. Sospetto infatti che, nella prima fase di applica zione - direi di 'sperimentazione' - di questa nuova situazione giuridica, la civitas sine suffragio fosse utilizzata primariamente come strumento di inte grazione della comunità locale in una più vasta koinè istituzionale che Roma veniva costruendo nell'Italia centrale, fondata sulla sua centralità non solo politica, ma anche giuridica. Si potrebbe dunque immaginare che, per un certo periodo, la concessio ne della civitas sine suffragio non dovette escludere in modo radicale e improvviso la persistenza interna degli ordinamenti e delle tradizioni locali, destinate tuttavia rapidamente a tramontare, ma forse non a dissolversi inte gralmente, se consideriamo come ancora i giuristi dell'età imperiale richia massero, sia pure senza eccessivo interesse, i mores regionis come criteri nor mativi atti a integrare e rendere concreti gli schemi generali del diritto roma no al centro del loro interesse. Io comunque tendo a pensare a una persistenza dei vecchi statuti citta dini, e quindi alla possibilità che le relazioni 'intercittadine' (espressione orrenda: ma non oso più parlare per questo periodo di relazioni 'internazio nali'), fossero disciplinate sulla base degli eventuali preesistenti rapporti di commercium o, comunque, sulla base di preesistenti prassi. E tuttavia non può non colpire il fatto che, in relazione a questa sempre più vasta koinè di comunità e di individui, l'assetto di fine IV secolo abbia introdotto un tessu to unificanterappresentatodall'attribuzione a tutti della partecipazione al ius civile di Roma. Come il latino diventerà la lingua dei Volsci non meno che dei Falisci e degli Etruschi sino ad un oblio delle loro lingue originarie, così il diritto romano diventa lo strumento più ovvio e facile di circolazione e di comunicazione giuridica. Oltre ad essere - e non è poca cosa: lo vediamo noi con la crescente penetrazione dei modelli giuridici anglosassoni - anche il diritto dei padroni del momento. Infine va menzionato il caso di un rapporto negoziale tra un membro di una delle sempre più numerose colonie latine e un membro di una città che continui a godere o.no della sua autonomia giù-
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ridica, ma sia comunque titolare della civitas sine suffragio attribuitagli dai Romani. È pensabile che, in questo caso l'elemento di mediazione e il terreno negoziale oggettivamente imposto in tale rapporto sia altro dal diritto romano? Nel corso del IV sec. a.C. il potere politico romano si era garantito il controllo di un complesso di popolazioni molte delle quali già legate da vin coli giuridici, di alleanza, di amicitia con Roma e molte delle quali fruivano con essa di una comunanza di negozi giuridici e di reciproche forme di tute la dei propri cittadini. Una volta definito il quadro politico-militare venne gradualmente prendendo corpo un mutamento interno di significato di queste stesse istituzioni che avevano avuto origine, quasi tutte, da rapporti interna zionali fondati sul presupposto della reciproca sovranità delle parti. Esso fu il più efficace veicolo dell'ulteriore processo di assimilazione giuridica dei governati ai governanti, non imposta dall'alto con forzature e con strappi, ma come crescita di comportamenti concreti, di una domanda dal basso e dalla periferia (... sine legibus certis sine magistratibus agere quaerebantur) che Roma si limita a registrare e, se del caso, a soddisfare. Così il geloso particolarismo delle comunità locali, il loro attaccamento ai propri culti, alla propria lingua, alle istituzioni e alla cultura ancestrale viene superato senza strappi. Se alcuni ancora vorranno continuare a suis legibus uti, saranno in molti ad accogliere le nuove istituzioni e ad integrarsi anche trop po rapidamente nella nuova realtà. E dei primi — i pochi — resterà forse più memoria oggi, perché piùricordatitra i loro stessi contemporanei per la loro singolarità e, forse, più ammirati in segreto per la loro costanza, mentre dei molti conformisti che seguirono mode e accolsero con facilità i modelli e le forme dei più forti, non si fece discorso allora, né resta consapevolezza oggi. Certo, dopo qualche generazione, delle stesse vetuste tradizioni di quel le che erano state grandi civiltà, della loro lingua e, meno che meno, del loro diritto, non resterà praticamente più traccia. E penso al faticoso interrogarsi dell'Imperatore Claudio sulla storia e sulla lingua degli Etruschi da cui pur tanti membri della stessa classe dirigente romana erano venuti, ripiegato sul deserto di una memoria ormai totalmente occupata dagli orizzonti dei tempi nuovi e dell'Italia romana. Ma cerchiamo, appunto, di cogliere ancora qualche vaga traccia di questo processo di dissoluzione e della progressiva romanizza zione delle comunità italiche.
Capitolo III Alle origini dello 'ius gentiumy
1. Una tutela per gli stranieri senza forme di assimilazione Sinora abbiamo soprattutto considerato lo schema seguito dai Romani nella costruzione di una serie di rapporti giuridici con le popolazioni più affini culturalmente e geograficamente più vicine. Abbiamo visto in propo sito come i sistemi di tutela reciproci e poi, in misura crescente, di caratte re unilaterale assicurati ai membri delle città vicine si fondassero su mec canismi di tipo 'assimilativo'. In una misura più ο meno ampia - e siamo incerti sino a che punto — lo straniero veniva ad essere posto nella stessa condizione del cittadino. Se un sistema del genere poteva essere assai efficace per realizzare l'inte grazione di popolazioni stanziate in aree culturali relativamente omogenee esso appariva meno adatto arisolvereun altro fondamentale problema che si pone va per Roma almeno sin dalla fine dell'età monarchica. Miriferiscoalla esi genza di procurare protezione ad una crescente moltitudine di commercianti stranieri di varia provenienza, spesso appartenenti a tradizioni giuridiche e ad aree culturali e linguistiche anche molto lontane. Per costoro infatti sarebbe stato particolarmente arduorispettareilrigidoformalismo dell'arcaico ius pro prio dei cittadini romani. Senza contare che la loro estraneità alla unità cultu rale laziale non avrebbe giustificato quei meccanismi di assimilazione propri
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Capitolo-III
dello ius commerciL In sostanza il sistema del ius commercìi poco si adattava a favorire lo sviluppo di un grande sistema commerciale di carattere internazio nale. Non può dunque meravigliare che sin dalla sua formazione come 'ordi namento compiuto' il diritto romano abbia avviato la formazione di meccani smi giuridici che definirei 'integrativi5 ο 'aggiuntivi' rispetto al sistema chiuso e coerente del ius civile. Il sistema del ius civile infatti restava essenzialmente concepito come esclusivo per i cittadini romani ο ad essi assimilati. Le forme integrative destinate ad agevolare i contatti anche giuridici tra i commercianti stranieri e i cittadini romaniriguardavanoalcune specifiche tran sazioni ed essenzialmente quei rapporti legati allo scambio: dalla compraven dita al mero trasferimento della disponibilità materiale dei beni, da alcuni con tratti obbligatori alla tutela dei diritti personali. È in questo ambito che si viene sviluppando il nucleo originario di quello che gli stessi Romani in seguito indi cheranno come ius gentium: una sfera nuova del diritto, nuovi istituti più sem plici e caratterizzati da un minor formalismo, più immediatamente orientati a evidenziare la diretta volontà delle parti interessate. Questo nuovo complesso di istituti - non diversamente dagli altri aspet ti delle relazioni internazionali di carattere politico - traeva fondamento ed esaltava \&fides: la buona fede delle parti contraenti. È a difesa della buona fede delle parti piuttosto che per il rispetto della forma dei negozi che il pre tore interveniva a rendere vincolanti gli impegni così assunti. Si avviava così, in stretta dipendenza dal ruolo crescente della giurisdizione del pretore, una nuova dimensione della realtà giuridica romana e un vero e proprio nuovo sistema destinato ad avere un valore fondamentale nel definirsi della stessa fisiononia del diritto romano nell'età classica tra fine Repubblica e Principato. Si capisce d'altra parte come il sistema dei diritti reali, sia tocca to assai meno dei rapporti obbligatori da questa nuova realtà. I commercian ti si trovano infatti in Roma e vi sono protetti per vendere e comprare beni che non resteranno all'interno dell'ordinamento romano ma che verranno portati anche molto lontano. D'altra parte le merci da essi venduti ai cittadi ni romani rientreranno nella sfera di signoria di questi stessi cittadini e7 non richiederanno forme di tutela particolari. Nell'accezione che più immediatamente rileva si dovettero venire enu-
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cleando un insieme di regole e di procedure processuali e negoziali che dovettero innestarsi su pratiche ancora più antiche legate all'arcaico sistema dell'hospitiwn e della clientela internazionale. Di fronte a questa realtà lo stesso sistema del ius commercii appare a sua volta come un 'sistema chiuso', applicabile solo sulla base di una espressa volontà del potere statale a favore di soggetti da lui specificamente predeter minati, tanto che si tratti di concessioni individuali che di concessioni ad inte re comunità: in questo caso in base ad un rapporto di reciprocità. Lo ius gen tium invece è aperto a tutti, sin dall'inizio ai suoi istituti accede qualsiasi stra niero si trovi in Roma ed egualmente di esso potranno fruire gli stessi citta dini romani. Si tratta in effetti di una sfera aggiuntiva al sistema giuridico preesistente, non di una integrazione in questo di soggetti originariamente estranei. Proprio in ragione di quanto si è detto si può meglio valutare come il sistema del ius gentium si distingua da quello del ius commercii per la sua unilateralità. La costruzione di un sistema di regole destinate a proteggere e a disciplinare tutti gli stranieri in Roma non poteva essere il risultato di impe gni internazionali della stessa Roma. Anche se è vero che una volta costruite queste regole, Roma, in particolari trattati internazionali, avrebbe potuto impegnarsi a rispettarle nei riguardi dei membri di singole comunità. Per questi motivi diventa abbastanza comprensibile la diversa e opposta parabola temporale che caratterizza questi due sistemi di tutela degli stranie ri. Da una parte il sistema del ius commercii conoscerà la sua massima vita lità nel periodo dell'espansione italica di Roma, confondendosi in seguito con la più comprensivafiguradel ius Latii, destinata invece a restare un principio organizzativo estremamente importante ancora nel corso della prima età imperiale. Il ius gentium al contrario diventerà un fattore dinamico di primaria importanza a partire dalla tarda età repubblicana: mi limito a citare in proposi to una data simbolica rappresentata dal 242 a.C, allorché fu introdotta una figu ra particolare di magistrato, il praetor peregrinus, avente giurisdizione sui rap porti tra il cittadino romano e lo straniero e che evidentemente operava secon do criteri assai più lati di quelli applicati nei rapporti tra cittadini romani.
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2. Il primo trattato tra Roma e Cartagine Già in età regia abbiamo vaghe notizie di particolari accordi tra città per la tutelarispettivadei propri membri. Ma di gran lunga più importante appa re un documento che con ogni probabilità risale al 509-508 a.C, secondo le indicazioni di Polibio che ne riporta il testo. Per molto tempo si è dubitato di tale datazione, proponendosi da parte degli studiosi moderni un'età assai meno antica cui far risalire il trattato(1). Ma oggi da parte della maggior parte <,} Sulla datazione dei trattati tra Roma e Cartagine si è raccolta, nel corso di quasi due seco li, una letteratura enorme il cui esame rischia - come spesso avviene in casi del genere - di disorientare il lettore senza permettergli di raggiungere un convincimento fondato su dati con creti. È merito di WERNER, 1963, 299 ss., di aver esposto in modo notevolmente approfondito e accurato lo status della dottrina su tale questione, senza rinunciare ad un completo riesame dei termini del problema e, più in generale, di tutte le clausole e del significato stesso del testo dei due trattati riferiti da Polibio. Ivi molto importanti, dopo le precisazioni sulla validità delle notizie di Polibio (p. 308 ss.), le argomentazioni di carattere sostanziale circa la datazione effettiva risalente ai primi decenni del V secolo a.C. (p. 39 s.). Per quanto riguarda le indica zioni degli autori che, in diverse epoche, hanno ritenuto di poter negare il valore della crono logia di Polibio, ai nomi menzionati nel ricchissimo elenco di WERNER, 1963, 305 nt. 1,
aggiungeremo, GERNET, 1955, 225 s.; CARY, 1962, 104 nt. 11; ALFÓLDY, 1971, 121, 349 e
soprattutto, 350 ss., con ulteriori indicazioni bibliografiche (350 nt. 2); PALLOTTINO, 1965, 6 ss. Alcune considerazioni fatte valere dall'Alfoldi sono indubbiamente degne di rilievo, e tut tavia non ci sembra che l'evidente inattendibilità dei riferimenti al consolato di Bruto, ο alla stessa esistenza di magistrature repubblicane (op. cit., 351 s.) sia di per sé argomento atto a far dubitare della datazione di Polibio. Né, d'altra parte, la condizione di Anzio e di Terracina ο la stessa assenza di una tradizione marinara nella Roma del VI secolo (op. cit., 352 s.) tolgo no valore all'ipotesi di pretese romane di tipo territoriale, nell'ambito del Lazio, riconosciute da Cartagine e, soprattutto, all'esistenza di un interesse di quest'ultima potenza a garantire con uno schema-tipo di trattato intemazionale, i suoi rapporti con Roma. Gli elementi di dubbio, nei riguardi della datazione di Polibio sono essenzialmente di due ordini. In primo luogo è da ricordare la perplessità sollevata dalla mancata concordanza delle informazioni fornite da que sto storico con quelle che ricaviamo da altre fonti, in particolare da Liv., 7.27.2, e da Diod., 16.69.1. In secondo luogo si èripetutamentedubitato che le effettive dimensioni politiche ed economiche di Roma già alla fine del VI secolo a.C. potessero giustificare rapporti interna zionali del livello di quelli attestati dal primo trattato con Cartagine. Ma gli argomenti di Alfòldi sono già stati specificamente discussi in modo convincente da HEURGON, 1969,386 ss. (1972, 379 ss.), in un contributo importante e sulle cui conclusioni circa il valore della testi monianza polibiana relativa al primo trattato tra Roma e Cartagine come «un document dont Fautorité eclipse toutes les combinaisons de l'hypercritique» si può pienamente concordare. Ivi egli ha egualmente analizzato criticamente la posizione di AYMARD, 1957, 277 ss., rimasta del resto .relativamente isolata. Per quanto concerne poi la diversa datazione che la tradizione storiografica rappresentata soprattutto da Livio e da Diodoro Siculo sembrerebbe dare del primo trattato tra Roma e Cartagine non è un elemento di valutazione che abbia un carattere definitivo. Dalla narrazione dello stesso Livio sembrerebbe emergere infatti qualche indica zione che potrebbe, sia pure indirettamente, confermare quanto sappiamo da Polibio: cfr. su
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degli studiosi si tende ad accettare la datazione polibiana(2), confermata del resto anche da dati di diversa provenienza come ad esempio le recenti sco perte archeologiche di Pyrgi(2bis). Alla narrazione di Polibio non solo si collega tale datazione ma, cosa ancor più importante, ad essa appartiene l'esposizione del contenuto stesso del trattato. Non è facile stabilire a tale proposito se lo storico greco riporti tutto il testo o, come forse è più probabile, solo alcune tra le più interessanti - ο le più comprensibili - delle clausole in esso contenute*3*. Indubbiamente un argomento abbastanza significativo a favore di questa seconda ipotesi è costituito dal silenzio che il testo di Polibio mantiene a pro posito della condizione giuridica dei Cartaginesi che si trovino nel territorio romano. Ciò appare tanto più singolare in quanto le disposizioni del trattato riportato dallo storico greco si riferiscono estesamente alla condizione dei Romani e dei loro alleati latini in territorio cartaginese. E da molti autori si è così rilevato come, in quell'età, fosse soprattutto da pensare ad una presenza relativamente importante di commercianti e navi-
ciò WALBANK, 1957, 337. In secondo luogo si deve considerare come la più recente tendenza a rivalutare la testimonianza di Polibio sembrerebbe collegarsi anzitutto al generale orientamento a rivalutare l'attendibilità delle fonti antiche. La credibilità riconosciuta alle indicazioni offerte da Polibio dipende soprattutto dalla preoccupazione assai diflusa tra gli storici contemporanei di non incorrere nell'errore - un tempo egualmente generalizzato - di attribuire alla Roma dell'ultima età monarchica caratteristiche assai più arretrate e 'primitive' di quanto non dovesse essere effettiva mente. Atteggiamento questo che, ad esempio, permette di comprendere il cambiamento che, a proposito del primo trattato tra Roma e Cartagine, ha subito il pensiero di uno dei più autorevoli studiosi del diritto e della società romana arcaica quale DE FRANCISCI, 1939,388 e ni 1 ; 1959,714. In verità, perriprenderel'immagine di Heurgon, la storia di Roma arcaica non appare tanto come una continua linea ascendente da un'entità insignificante sino allafiorituramedio-repubblicana, quanto una 'sinusoide' con alti e bassi: e l'epoca del trattato si colloca appunto nella fase termi nale di quella che PASQUALI, 1942,1 ss., giustamente chiamò la «grande Roma dei Tarquinii». p)
Si v. l'ampia elencazione di WERNER, 1963, 304 n t l ; BENGSTON, 1975, 19 s. nt. 121.
Vanno inoltre ricordati alcuni contributi di particolare rilievo, tra gli altri: GSELL, 1928, 67 ss.; TOYNBEE, 1965,1,519 ss.; SHERWIN-WHITE, 1973,15 ss.; AMPOLO, 1988,204 e nt 4, e soprat tutto 231 ent. 82. *** A A . W , 1981; COLONNA, 1985, 127 ss.; COLONNA, 1996, con indicazione della biblio grafia più recente. (3) Cfr. in particolare MELTZER, 1879, 173 s.; v. anche WALBANK, 1957, 338, dove si riconosce tuttavia che il testoriportatoda Polibio «is much more than a summary». In polemica col Meltzer cfr. in particolare SAUTEL, 1952,63 ss. Altri dubbi sulla forma in cui il testo del trattato è stato tra dotto da Polibio sono avanzati da GERNET, 1955,226: «... on supconne des télescopages de lécture; le texte est du moins dans un état de confusion qu'il serait peut-etre vain d'essayer d'éclaircir».
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ganti punici nelle coste del Lazio e in Roma, piuttosto del contrario. Ma converrà ora, prima di analizzare più approfonditamente alcuni aspet ti di tale trattato, riportare per esteso il testo che ne dà Polibio, hist., 3.22: 1.Γίνονται τοιγαρουν συνθήκαι ΤΡωμαίοις και Καρχηδονίοις πρώται κατά Λεΰκιον Ίοΰνιον Βροΰτον και Μάρκον Ώράτιον, τους πρώτους καταοταθέντας ύπατους μετά την των βασιλέων, κατάλυσιν, ύφ'ών συνέβη καθιερωθήναι και το του Albe ιερόν του Καπετωλίου. 2. Ταύτα δ' εστί πρότερα της Ξέρξου διαβάσεως εις την Ελλάδα τριάκοντ' ετεσι λείπουσι δυειν. 3. *Ας καθ' όσον ην δυνατόν ακριβέστατα διερμηνεύσαντες ημείς ύπογενράφαμεν. τηλικαΰτη γαρ ή διαφορά γέγονε τήο διαλέκτου και παρά 'Ρωμαίοις της νυν προς την άρχαίαν ώστε τους συνετωτάτους ένια μόλις εξ έπιστασεως διευκρινειν. 4. Εισι δ' ai συνθήκαι τοιαίδε τίνες· 'έπι τοισδε φιλίαν είναι Τωμαίοις και τοις 'Ρωμαίων συμμάχοις και "Καρχηδονίοις και τοις Καρχηδονίων συμμάχοις· 5. μη πλειν 'Ρωμαίους μηδέ τους Ί?ωμαίων συμμάχους έπέκεινα του Καλοΰ ακρωτηρίου, έαν μη υπό χειμώνος η πολεμίων άναγκασθώσιν εάν δέ τις βία κατενεχθή, μη έξεστω αύτω μηδέν άγοράζειν μηδέ λαμβάνειν πλην οσα προς πλοίου έπισκευήν ή προς ιερά, 7. (εν πέντε δ' ήμέραις άποτρεχέτω). 8. Τοις δέ κατ7 έμπορίαν παραγινομένοις μηδέν έστω τέλος πλην έπι κήρυκι ή γραμματει. 9.'Όσα δ' αν τούτων παρόντων πραθή, δημοσία πίστει όφειλέσθω τω άποδομένω, οσα αν ή εν Λιβΰη η εν Σαρδόνι πραθή. 10. Έαν Τωμαίων τις εις Σικελίαν παραγίνηται, ης Καρχηδόνιοι έπάρχουσιν, ίσα έστω τα 'Ρωμαίων πάντα. 11. Καρχηδόνιοι δέ μη άδικείτωσαν δήμον Άρδεατών, Άντιατών, Λαρεντίνων, Κιρκαιιτών, Ταρρακινιτών, μηδ' άλλον μηδένα Λατίνων, όσοι αν υπήκοοι" 12. εάν δέ τίνες μη ώσιν υπήκοοι, των π ό λεων άπεχέσθωσαν αν δέ λάβωσι, 'Ρωμαίοις άποδιδότωσαν άκε'ραιον. 13. Φρούριον μη ένοικοδομείτωσαν έν τη Λατίνη. έαν ώς πολέμιοι εις την χώραν εισέλθωσιν, έν τη χώρα μη έννυκτερευέτωσαν\(4) (4)
Tr. it.: il primo trattato tra Romani e Cartaginesi fu stipulato al tempo di Lucio Giunio Bruto e Marco Orazio, i primi consoli eletti dopo la cacciata dei re, sotto i quali avvenne anche la dedicazione del tempio di Giove Capitolino 2. Ciò avvenne ventotto anni prima del pas saggio di Serse in Grecia. 3. Questo trattato l'ho riportato più sotto, cercando di interpretarlo il più esattamente possibile, perché c'è una tale differenza tra la lingua romana attuale e quel la antica, che anche i più esperti riescono a capirne solo qualche parte con grande difficoltà e dopo attento esame. 4. Il testo dice pressappoco così: «L'amicizia tra i Romani e i loro allea ti, e i Cartaginesi e i loro alleati è garantita da questi patti. 5. Né i Romani né i loro alleati dovranno navigare oltre il Promontorio Kalòs, a meno che non vi siano costretti da una tem-
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È degno di rilievo il fatto che, la prima clausola, dopo la solenne dichiarazione di amicizia tra Romani e Cartaginesi, insieme ai rispettivi alleati, riguardi le limitazioni alla navigazione dei primi nelle acque libi che. I Romani e i loro alleati - e la norma forse è destinata a valere più per questi ultimi che per gli stessi Romani(5) - non possono oltrepassare con i loro battelli il capo Kalòs: probabilmente l'attuale Capo Farina(6). Questo divieto permette di individuare uno dei motivi della politica cartaginese e, insieme, costituisce forse una conferma, sia pure indiretta, della datazione di Polibio del trattato in questione. È probabile infatti che il divieto di navigare oltre il capo Kalòs fosse imposto ai Romani e ai loro alleati per impedire l'intervento di interessi e di influenze esterne in zone che si vole vano conservare nel modo più completo sotto il controllo cartaginese. Non è a credere a tale proposito che sin dalla fine del VI secolo a.C. Cartagine avesse già aifermato la sua egemonia, oltre che sugli empori fenici situati ad ovest di Capo Farina, anche sulle popolazioni locali stanziate nell'en-
pesta ο da nemici. 6. Se poi qualcuno sarà condotto per forza oltre questo promontorio, non gli sarà lecito né fare acquisti, né portarsi via alcunché, ad eccezione di quanto gli possa servire per la ripa razione della nave ο per la celebrazione dei riti sacri 7. (e dovrà andarsene entro cinque giorni). 8. Coloro che vengono per affari, non potranno concludere nessun contratto senza la presenza di un araldo ο di un pubblico ufficiale 9. e il pagamento del prezzo di tutte le merci vendute alla presen za di questi, sia in Libia che in Sardegna, sarà garantito al venditore dallo Stato. 10. Se qualcuno dei Romani arriva in qualche parte della Sicilia che sia sotto la giurisdizione cartaginese, godrà di tutti gli stessi diritti degli altri. 11. Da parte loro, i Cartaginesi non faranno torti alle popolazioni di Ardea, di Anzio, di Laurento, di Circeo, di Terracina né ad alcun'altra fra le città dei Latini che sono soggette a Roma 12. Si terranno inoltre lontani dalle città non soggette ai Romani e, qualora ne prendano qualcuna, la restituiranno intatta ai Romani. 13. Non costruiranno alcuna fortezza in ter ritorio latino e, se vi dovessero entrare in armi, non potranno passarvi la notte». (5) Le città alleate di Roma ricordate espressamente nel trattato si affacciano tutte sul mare: ciò fa pensare che le clausole del trattato relative alla navigazione nelle acque cartaginesi si applicassero più ad Ardea, Circei, Terracina ed Anzio che non ai Romani stessi certamente, ancora agli inizi del V secolo, del tutto estranei alla navigazione marittima. Il che, se non per mette di escludere che lo schema del trattato fosse imposto dai Cartaginesi ai Romani (cfr. TÀUBLER,1880, 263 s., il quale peraltro si basa su argomenti diversi anche se non tutti egual mente persuasivi) fa per lo meno apparire le clausole del trattato aderenti alla situazione effet tiva in cui si trovavano i due contraenti. Su ciò diversamente (posticipando quindi la datazio ne del trattato) SCHACHERMEYR, 1930, 360. Cfr. da ultimo WERNER, 1963, 347 s. (6) Sul complesso problema rappresentato dall'esatta identificazione del Capo Kalòs v. da ultimo WERNER, 1963,313 ss. Indipendentemente dalla probabile identificazione di questo con il Capo Farina, è comunque certo doversi escludere l'ipotesi che tale promontorio fosse loca lizzato sulle coste spagnuole. Al contrario è del tutto verosimile che la disposizione del tratta to mirasse ad escludere i Romani dalle coste africane ad ovest di Cartagine.
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troterra(7). Questa situazione doveva probabilmente verificarsi in modo definitivo soltanto in un momento successivo verso la fine del V secolo a.C. Quello che conta peraltro è che anche in precedenza Cartagine pre cludesse l'accesso in tale zona alle potenze estranee (probabilmente non solo ai Romani) avendo già chiari i suoi obiettivi e probabilmente avendo
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Com'è noto il progressivo affermarsi dell'egemonia cartaginese corrisponde al tra monto di Tiro, la madrepatria di cui Cartagine stessa era una colonia, caduta sotto l'in fluenza assira e, dalla fine del VII secolo a.C, sotto il dominio babilonese. Cartagine, di fronte all'indebolimento di Tiro, assume il compito di guidare i Fenici di Occidente in una politica comune di fronte ai pericoli incombenti, soprattutto a causa dell'espansione greca. Si deve comunque tener presente come non tutti gli empori fenici accettassero ugualmente e nello stesso lasso di tempo la guida di Cartagine. Sotto questo profilo è inte ressante ricordare come proprio le comunità fenicie stanziate sulla costa africana, ad ovest di Cartagine, dovessero conservare una loro autonomiarispettoai rapporti internazionali, come risulta da Diod., 17.113.2, dove vengonoricordati,nell'elencazione delle ambasce rie inviate dalla Libia ad Alessandro Magno, accanto ai Cartaginesi, i Libifenici e «tutti quelli che abitano sulla costa sino alle Colonne d'Ercole». Ma se le comunità fenicie ad ovest di Cartagine, pur rientrando nella sfera politica cartaginese, devono aver conservato una certa autonomia che, ci sembra esattamente, GSELL, 1928, 423 nt. 1, qualifica come «una sorte de souveraineté ... avec l'assentiment de Carthage», diverso è^il rapporto che, almeno sino al V secolo, intercorre tra quest'ultima città e le popolazioni indigene della Libia. Non solo infatti sino a tale epoca Cartagine, tutta protesa al controllo del Mediterraneo occidentale, non esercita verso tali popolazioni alcuna egemonia, ma essa stessa paga loro un tributo per il terreno su cui è fondata. Questa almeno è l'indicazione che ripetutamente viene fornita da Giustino, ep.9 18.5.14; 19.1.3-4; 19.2.4. È assai signi ficativo quanto narra Giustino negli ultimi due testi, circa leripetuteostilità intercorse tra le popolazioni africane e Cartagine per via del tributo in questione cui quest'ultima cer cava di sottrarsi. Il fatto stesso che ciò non sia stato affatto agevole e che la definitiva libe razione di Cartagine dal pagamento di siffatti tributi si sia verificata relativamente tardi, solo nel V sec. a.C. (cfr. GSELL, 1928,463), mostra con notevole evidenza quale fosse l'ef fettiva situazione dei rapporti di Cartagine con queste popolazioni anteriormente a tale epoca. Una conferma della completa indipendenza delle popolazioni locali da Cartagine è data dal fatto che l'espansione territoriale di Cartagine nell'entroterra africano sembre rebbe far seguito agli insuccessi della sua politica siciliana di cui l'evento piùrilevanteè la sconfitta cartaginese nella battaglia di Imera, nel 480 a.C, ad opera di Gelone, cfr. JULIEN, 1931, 68. Come si vede, all'epoca del primo trattato tra Roma e Cartagine, que st'ultima è ancora lungi dall'aver acquisito un'effettiva supremazia politica sulle popola zioni indigene stanziate ad ovest del Capo Kalòs: semmai solo in quel periodo veniva affermandosi, da parte di Cartagine, un nuovo atteggiamento verso tali popolazioni che avrebbe portato questa stessa città, nel corso del V secolo, a liberarsi dal tributo ad esse erogato e, pochi anni più tardi, ad iniziare una politica di espansione territoriale in Africa e di assoggettamento delle popolazioni indigene. Significativo sotto questo profilo è il carattere delle ostilità tra Cartagine e gli indigeni. Sino al V secolo si tratta infatti di guer re combattute tra stati sovrani (cfr. Iust., ep,, 18.7.2, 19.1.13), successivamente si tratta invece di ribellioni contro il dominio cartaginese.
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già iniziato un'opera di espansione della sua influenzai Se confrontiamo tali divieti di navigazione e di commercio imposti ai Romani e ai loro alleati nel primo trattato con quelli stabiliti nel secondo, tro viamo assai estesi i limiti entro cui era fatto divieto di navigazione e di com mercio imposti ai Romani(9) rispetto a quelli che abbiamo considerato a pro posito del primo trattato. Ciò conferma, ammettendo di trovarci di fronte ad una politica imperialistica abbastanza costante, la ben diversa condizione di supremazia e la assai più estesa zona di influenza raggiunte dai Cartaginesi all'epoca del secondo trattato. Mentre quindi, come vedremo nelle pagine seguenti, il secondo trattato va indubbiamente collocato nella seconda metà del IV secolo a.C, la diversa situazione cui fa riferimento il primo trattato induce ad attribuire quest'ultimo ad un'epoca notevolmente più remota: con il cherisaliamonecessariamente agli albori dell'età repubblicana(10). (8) In via meramente ipotetica si potrebbe avanzare una diversa interpretazione del divieto posto ai Romani ed ai loro alleati di oltrepassare il Capo Kalòs. Tenendo presente quanto abbiamo avuto occasione di sottolineare nel corso della nota precedente, si potrebbe immagi nare che la clausola in questione avesse una funzione essenzialmente difensiva. È possibile cioè che Cartagine, garantita in questo anche dalla sua superiorità navale, si preoccupasse che nessuna potenza estranea, neppure alleata quale gli Etruschi ο i Romani, entrasse in contatto con le popolazioni africane, non già perché sin da allora essa vantasse su tali territori una con solidata supremazia politica, ma perché essa aveva tutto da temere da un possibile collega mento delle popolazioni africane con altre potenze mediterranee. Collegamento che avrebbe potuto aprire la possibilità a coalizioni politiche ostili a Cartagine nel territorio stesso ad essa circostante. Tuttavia questa interpretazione 'difensiva' suscita qualche perplessità. Non tanto per i motivi che adombra Polibio, hist., 3.23.2, consistenti cioè in una pretesa di carattere poli tico su tali territori, quanto per il tipo di politica commerciale, rigidamente protezionista, seguito sin da allora dai Cartaginesi. Ciò che ci sembra chiaramente confermato dal testo del secondo trattato tra Roma e Cartagine, dove i divieti imposti ai Romani riguardano territori pienamente sottoposti all'egemonia di Cartagine e sui quali questa evidentemente vuol riser varsi un sostanziale monopolio commerciale. w Come abbiamo già accennato nella nota precedente questa estensione delle limitazioni imposte ai Romani si collega ad una precisa politica commerciale di Cartagine, volta ad uno sfruttamento essenzialmente economico dei territoririentrantinella sfera della sua supremazia politica. Sfruttamento che consisteva in una gestione di carattere monopolistico delle attività commerciali, riservate essenzialmente ai Fenici. Sotto questo profilo si deve far presente che l'ampliamento delle limitazioni imposte ai Romani non deve considerarsi esclusivamente lega to alla semplice estensione dell'egemonia politica cartaginese (le coste della Sardegna, ad es., già all'epoca del primo trattato con Roma erano sotto l'influenza politica di Cartagine). È pro babile che le modifiche che possono individuarsi nel secondo trattato con Roma siano dovute, almeno in parte, ad una più chiara e rigorosa impostazione di una certa politica economica che, all'epoca del primo trattato, era ancora meno precisata e meno coerentemente sviluppata. (l0) Su questo aspetto insiste esattamente TOYNBEE, 1965,1, 536 ss., mentre invece non mi sembra di poter concordare con altri autori, quali PARIBENI, 1954, 133 ss. e GANDOLFI, 1960,
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3.- La condizione giurìdica dei Romani in Cartagine Ma la clausola per noi più interessante che ci è pervenuta del primo trattato tra Roma e Cartagineriguardail diritto privato: precisamente la con dizione dei commercianti romani in Libia e in Sardegna00. In queste regio ni infatti, riferisce Polibio, nessun affare potrà essere concluso da costoro se 329, che interpretano il maggior rigore delle clausole del secondo trattato nei riguardi dei Romani come un sintomo dell'indebolimento politico di questi. In realtà quando si dice che la posizione di Roma nel 348 era peggiore di quella che la città aveva alla fine del VI sec. &C. si commette un errore di prospettiva storica: per rendersene conto è sufficiente pensare, non solo agli eventi immediatamente antecedenti ai due trattati (e neppure sotto questo profilo sarebbe giustificata la tesi che qui critichiamo), ma a quelli immediatamente successivi. È vero che Roma nell'ultimo decennio del VI sec. a.C. poteva ancora godere dei riflessi della precedente situazione politica e dello splendore raggiunto sotto la monarchia etnisca. E tuttavia è un dato abbastanza pacifico che proprio alla fine del VI secolo, all'epoca del primo trattato con Cartagine, con la reazione delle popolazioni latine essa andasse incontro ad una grave crisi e fosse seriamente impegnata a difendere la sua posizione nel Lazio. Anche se verso la metà del IV sec. a.C. Roma si trova a dover fronteggiare una situazione politica abbastanza confusa e se, non molto tempo prima, essa ha dovuto subire l'aggressione dei Galli, il suo potere nel Lazio è enormemente aumentato. La stessa lotta tra Roma e i Latini, richiamata dagli autori citati sopra, è il frutto dell'ultimo tentativo di questi di sottrarsi alla sempre più pesante ege monia romana. Egemonia che nel 338 a.C, un decennio solo dopo la conclusione del secondo trattato con Cartagine, era destinata a realizzarsi nel modo più definitivo ed esplicito con lo scioglimento della stessa Lega latina effettuato da Roma. In realtà la diversa estensione delle limitazioni imposte ai Romani nel secondo trattato, come abbiamo già accennato nella nota precedente, riflette più le modificazioni della politica cartaginese che non la mutata condizio ne politica di Roma. Quest'ultima potenza del resto, ancora verso la metà del IV sec. a.C. restava completamente volta verso l'espansione territoriale per disinteressarsi dei limiti impo sti ad un commercio marittimo cui, al massimo, potevano essere interessate alcune comunità alleate e con le quali, tuttavia, essa in quel momento era in lotta. (,,) Il testo fa riferimento ai commercianti romani «in Libia e in Sardegna». Per quanto riguarda la condizione dei Romani in Sardegna, con ogni probabilità il trattato fa riferimento essenzialmente agli insediamenti fenici sulla costa. È assai difficile che esso si riferisse anche alle popolazioni indigene. Più complesso invece è il problema rappresentato dal riferimento alla Libia, solo che si consideri l'ampiezza di valori che tale indicazione geografica asssume negli antichi scrittori, da Erodoto a Strabone. Questo punto ci sembra tuttavia già sufficiente mente chiarito da WERNER, 1963, 314 s. Ritengo ora si debba meglio precisare il tipo di popo lazioni con cui i Romani erano ammessi a commerciare. È interessante segnalare a tale pro posito come in Polibio ed in altri autori si riscontrino due termini che indicano le popolazioni autoctone: Λφυες e Νομάδες. Su ciò cfr. GSELL, 1928, 99 s. E tuttavia è abbastanza improba bile che Λιβύη, nel testo riportato da Polibio, comprendesse anche queste due popolazioni non solo in considerazione degli argomenti di carattere geografico addotti dal Werner e perché, come abbiamo visto, gli indigeni, all'epoca del primo trattato, erano ben lungi dall'essere sottomessi all'autorità di Cartagine, ma anche perché è poco verosimile che gli istituti giuridici fenici doves sero essere estesi a popolazioni di cultura radicalmente diversa. Probabilmente la clausola del primo trattato dovevariferirsialle comunità fenicie stanziate in quella parte della Libia ad est del
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non alla presenza di un κήρυξ e di un γραμματεύς*. Ciò che, d'altra parte costituirà a favore del venditore una garanzia pubblica per il pagamento del prezzo. Il punto per noi più interessante è rappresentato dal controverso proble ma della natura di questa garanzia da parte dello Stato per siffatti negozi(12): se pure infatti si volesse ammettere l'idea che con δημοσία πίστει si inten desse non già la tutela giuridica fornita dallo Stato a tali negozi ma una vera e propria garanzia per il pagamento del prezzo, questa particolarità non fareb be che confermare ulteriormente la più rilevante singolarità della struttura stessa di tali negozi. Singolarità questa che non sembra sia stata sinora messa nel suo giusto rilievo. Capo Kalòs. I membri di tali città infatti erano in genere distinti dai Λίβυες ed erano designati come ΑιβυφοινικείΓ: cfr. in tal senso Poi., hist, 3.33.15; il significato preciso di tale termine è spiegato in Diod., 20.55.4. Trascurando una indicazione che potrebbe ingenerare equivoci circa i legami matrimoniali intercorrenti tra Libifenici e Cartaginesi, si deve sottolineare come in tale passo Diodoro contrapponga gli abitanti autoctoni rappresentati dai Libici e dai Numidi a tutti gli altri. Del resto dalla narrazione della spedizione di Agatocle in Africa, l'unico costante riferi mento viene effettuato ai Cartaginesi, ai Libici e, più di rado, ai Numidi. Le altre città fenicie assalite dallo stesso Agatocle sono indicate per nome. Poiché i Fenici, per Diodoro, si identifi cano con Cartagine, è chiaro che le popolazioni di queste altre città costiererientravanonella categoria dei Libifenici. Con l'indicazione meramente geografica di Libia è comunque certo che si potevanoricomprendereanche queste ultime popolazioni. Nel nostro caso, dobbiamo aggiun gere, è addirittura probabile che l'indicazione si riducesse a queste ultime. Cfr. su ciò anche WALBANK, 1957, (12)
344.
L'interpretazione proposta da diversi autori secondo cui la clausola implicherebbe una garan zia assunta dallo Stato per il pagamento del commerciante straniero solleva serie difficoltà: cfr. tut tavia DAVID, 1946, 237; SAUTEL, 1952, 67. D'altra parte ci sembra, allo stato attuale delle nostre conoscenze, ancor più inadeguata la tendenza della maggior parte degli studiosi a vedere nella clau sola il semplice impegno assunto da Cartagine di offrire una tutela legale ai negozi compiuti dai Romani e dai loro alleati nelle forme stabilite. Cfr. in tal senso, da ultimo, WERNER, 1963,319 e nt 4, nonché FREZZA, 1949,269 ss., ma soprattutto DE MARTINO, 1973,70 s. Ivi, nt 166, sirilevacome io non avessi tenuto conto, a suo tempo, della più semplice ipotesi che il demosìa pìstei altro non indicasse che «la protezione statale, dopo l'adempimento degli obblighi da parte del venditore». In effetti la miaricostruzione,che cerca dirisponderead un altro quesito, come vedremo immediata mente di seguito, può perfettamente coesistere con l'interpretazione ora accennata, come anche escluderla: ma si tratta di due piani diversi e per questo io a suo tempo non l'ho adeguatamente presa in considerazione. Per De Martino infatti la 'pubblica fede' si sostanziava infatti nella prote zione offerta dallo stato ai negozi effettuati nelrispettodi date formalità: si tratta in sostanza di una particolare formulazione della interpretazione più riduttiva della portata dell'espressione greca, rispetto all'ipotesi di una garanzia da parte dello Stato, non della semplice efficacia del negozio, ma addirittura del pagamento del prezzo. Nulla è detto tuttaviarispettoal problema che, come vedre mo immediatamente di seguito, mi interessa particolarmente: la presenza del banditore e dello scri ba. Una presenza, che, a mio avviso, definisce non solo la peculiarità dei contratti tra Cartaginesi e
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115
Ma è ancora più importante forse che forme analoghe si incontrino, nel Mediterraneo orientale, anche in età successiva, sia nei diritti greci che in tutto il mondo ellenistico. E tuttavia il punto centrale è costituito dal fatto che, in tutti i casi attestati, l'intervento di siffatte formalità, sempre aventi un fine precipuo di pubblicità riguardavano particolari categorie di beni: sarei tenta to di definirli, con la lingua di Gaio, pretiosiores. E, a differenza delle res mancipi romane si tratta effettivamente di una tipologia di beni che corri sponde addirittura meglio a quelle cose che anche nei moderni ordinamenti circolano sulla base di particolari forme di pubblicità: i terreni, le abitazioni, cui talvolta si aggiungono gli schiavi. Da tale regime appaiono invece esclu si gli altri beni(,7), ciò che ben giustifica l'interesse di un civilista del livello di Pugliatti per tali forme(,8). Ora è proprio questo il problema: ad eccezione degli schiavi è da escludersi che il tipo di beni oggetto delle possibili compravendite da parte dei mercanti romani e latini venisse, ordinariamente, trasferito secondo le forme previste dal trattato in oggetto. La particolare solennità delle forme di trasferimento della proprietàriguardavainfatti, in questi diritti, i beni immobili e, talvolta, gli schia vi: non vi è motivo di pensare che radicalmente diverso fosse lo schema adotta to dall'ordinamento giuridico cartaginese. Oggetto delle transazioni tra Romani e Fenici erano invece, ovviamente, beni mobili e, eventualmente anche schiavi. Ad eccezione quindi di questi ultimi si deve concludere che la norma ricordata nel trattato, relativa ai negozi tra Romani e Cartaginesi non corrispondesse al tipo di normale applicazione degli istituti giuridici cartaginesi. È probabile inoltre che la stessa funzione di queste particolari formalità venisse ad essere diversa nel caso dei rapporti commerciali tra Romani e Cartaginesi. Mentre infatti questa forma negoziale, per i negozi tra cittadini cartaginesi, doveva avere prevalentemente una funzione di pubblicità, la sua estensione ai negozi con i Romani doveva dipendere soprattutto dalla volontà di Cartagine di controllare, indirettamente, mediante la presenza indispensaqueste su cui dovette esercitare un influsso preponderante la arcaica concezione del ruolo del sovrano nelle più antiche società mesopotamiche, caratterizzate, per qualche profilo, da una struttura che si è sovente avvicinata a quella feudale. <17) Cfc: PAKTSCH, 1921, 77-203; WEISS, 1923,246 ss.; PREAUX, 1939, 307, 317 ss.; PRINGSHEIM,
1950,233. (,8
> Cfr. PUGLIATTI, 1957,46 ss.
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117
4. ... e nell'ambito dei territori e delle popolazioni controllate da Cartagine Un altro problema particolare sollevato da tale disposizione, la cui solu zione appare tutt'altro che agevole, riguarda la legittimazione di Cartagine a garantire la condizione giuridica dei Romani, non solo nell'ambito del suo ordinamento, ma, come ci informa Polibio, in Libia, in Sardegna e nella parte ( della Sicilia sotto il controllo dei Fenici. Come abbiamo già accennato data la antichità del trattato, le indica zioni relative alla Libia e alla Sardegna dovevano in realtà riferirsi solo agli stanziamenti fenici sulla costa, non anche alle popolazioni nei cui riguardi Cartagine doveva difficilmente aver già esteso il suo imperio(23). Il fatto di rilievo è che Cartagine fosse in grado di stabilire il regime giu ridico applicato dalle città ad essa subalterne ai negozi tra i loro membri e i Romani. Ma anche questo si spiega per le strette analogie dei sistemi legali di tali diverse popolazioni, legate comunque ad una comune origine e della stessa area culturale. In effetti sulla natura stessa dei rapporti intercorrenti tra i Cartaginesi e le altre comunità soggette al loro imperio e sul tipo di influenza esercitato dalla città egemone abbiamo un'importante testimo nianza in un altro passo di Polibio, benché indubbiamente riferita ad un'e poca più tarda. Poi., hist., 7.9.5: ... ύπο βασιλέοχ; Φιλίππου και Μακεδόνων και υπό των ά λ λ ω ν Ε λ λ ή ν ω ν , δσοι εισιν α υ τ ώ ν σύμμαχοι, ^ p i o u c KapxnSoviouc και Άννίβαν τον στρατηγον και τους μετ' αύτοΰ και TOÌJC Καρχηδονίων ύπάρχους\ δσοι τόκ αύτοις νόμονζ χρωνται, και Ίτυκαίουζ^ και οσαι πόλεκ: και έθνη Καρχηδονίων ύπήκοα.(24) In questo brano, che appartiene all'esposizione fatta da Polibio del trattato tra Filippo il Macedone ed Annibale, si introduce una precisa <23)
Cfr. supra, nt. 11. Tr. it.: l'amicizia tra le parti è condizionata dall'adempimento di questi obblighi fìssati: che, cioè, siano protetti dal re Filippo, dai Macedoni e dagli altri Greci, loro alleati, i cittadini cartaginesi il generale Annibale e coloro che stanno con lui, i sudditi dei Cartaginesi che adot tano le loro stesse leggi; così pure i cittadini di Utica, nonché tutte le città e le popolazioni sog gette a Cartagine. (24)
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11
cato ai Romani nei possedimenti siciliani di Cartagine(27). Nelle città sic liane infatti, ci informa Polibio, i Romani godranno diritti uguali ag «altri». Il problema pregiudiziale che si pone naturalmente è di sapere ci siano tali «altri». Una spiegazione possibile, e che è stata effettivamente avanzata, è que la secondo cui tale norma equiparava i Romani ad altre categorie di straniei È più probabile però che essa assimilasse i Romani agli stessi Fenici del parte della Sicilia soggetta ai Cartaginesi*28*. Ed infatti in tal modo si potrei be riscontrare una non casuale corrispondenza tra le disposizioni contenu nel primo trattato e quelle appartenenti al secondo trattato tra Roma Cartagine. In quest'ultimo l'equiparazione dei Romani ai Cartaginesi è stat lita in modo più esplicito e sicuro(29). Accogliendo questa nostra ipotesi si dovrebbe concludere che il regin dei Romani in Sicilia costituirebbe, già nel primo trattato, una soluzione an tetica a quella fatta valere per i Romani in Libia e in Sardegna e che abbian avuto già occasione di esaminare in maniera approfondita. Mentre in qu st'ultimo caso ci troviamo di fronte alla formulazione di un regime giuridi destinato a valere esclusivamente per i rapporti tra i Punici e gli stranieri, ρ quanto riguarda la Sicilia sembrerebbe invece che i Romani, nell'ambito e diritto privato, venissero assimilati ai cittadini cartaginesi e fossero quir assoggettati all'ordinamento proprio di questi ultimi.
5· La condizione dei Cartaginesi in Roma e nelle città latine Se il testo del primo trattato riferitoci da Polibio ci permette di cogli» alcuni aspetti dei sistemi cartaginesi di tutela giuridica degli stranieri est (27) Sui motivi del probabile diverso regime stabilito dal trattato nei rapporti commerciali Romani con le città fenicie della Sicilia, ci sembrano assai pertinenti le osservazioni fatte
DAVID, 1946, 238 s. (28)
Una valutazione eccessivamente cauta di tale clausola è quella di WERNER, 1963, 3 \\ <29) Cfr. Poi., hist., 3.24.5 e 15. Troppo rigida è invero l'affermazione di WERNER, 1963, ; secondo cui non risulterebbero legittime «alle Konjekturen... die den 1. Vertrag aus dem 2 ergànzen suchen».
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Capitolo HI
anche ai Romani, insolubile resta il problema parallelo costituito dalla tutela giuridica offerta da questi ultimi ai Cartaginesi nel loro territorio e in quello delle altre città latine alleate ο soggette a Roma. Ed infatti il trattato non sembra contenere alcuna clausola relativa a que st'ultimo punto anche se è possibile che il testo originario offrisse una qual che indicazione in proposito*30*. Se peraltro non si volesse ammettere la pur possibile caduta, nella tra scrizione di Polibio o, addirittura, nella precedente traduzione del testo con servato presso il tempio di Giove Capitolino, di una clausola riguardante la condizione dei Cartaginesi nel Lazio, si dovrebbe accogliere, l'interpretazio ne che il David propone circa il significato del silenzio conservato a tale pro posito nel primo trattato. Si potrebbe quindi supporre che con tale trattato, non si facesse altro che rinnovare tacitamente la situazione preesistente ad esso circa la posizione dei Cartaginesi nel Lazio: che questi cioè sin da epoca precedente intrattenessero rapporti commerciali con le popolazioni latine della costa e con i Romani e che, a tale proposito, nulla venisse innovato con il primo trattato, che invece sarebbe stato diretto esclusivamente a regolare nuove situazioni*30. Si potrebbe aggiungere a tale proposito, che il patto, di amicizia stretto tra Romani e Cartaginesi alla fine del VI secolo a.C, non facesse altro che rendere obbligatorio da parte dei Romani il rispetto della tutela giuridica già in precedenza offerta, liberamente, da Roma ai commercianti cartaginesi. Il regime di tale tutela non veniva peraltro modificato dal trattato, dovendo già {30) Del tutto inaccettabile appare la vecchia idea di VOIGT, 1858, 579 s., secondo cui l'as senza di clausole relative alla condizione dei Cartaginesi in Roma sarebbe dovuta al diverso interèsse che, verso questi aspetti economici dei rapporti internazionali avevano i due con traenti. Si deve inoltre tenere presente che la condizione dei Cartaginesi nel Lazio propone un triplice ordine di problemi. Si tratta cioè di accertare quale fosse la tutela fornita ai commer cianti fenici in Roma, quale fosse quella fornita nelle città latine alleate dei Romani con cui Cartagine nel primo trattato viene a stringere un rapporto di amìcitia; e quale la posizione dei Cartaginesi nelle città latine considerate nel trattato quali soggette alla sovranità di Roma. i3,) Cfr. DAVID, 1946, 247, cfr. anche, più indirettamente, FRANK, 1959,1, 8. Ipotesi questa tanto più stimolante in quanto appare inaccettabile l'idea che il testoriportatoda Polibio ripro ducesse solo le clausole relative a Cartagine, e fossero omesse quelle relative a Roma (cfr. SAUTEL, 1952, 63), né molto più plausibile appare l'ipotesi di una semplice omissione di una ο più clausole da parte di Polibio, poiché nessun elemento formale, nella parte del testo che qui ci interessa, può essere addotto a conferma di ciò.
Alle orìgini dello 'ins gentium '
essere soddisfacente per entrambe le parti. Soccorre in effetti quanto già De Martino suggerisce più in gè circa la recezione nei primi trattati internazionali stretti da Roma - e colare spazio lo stesso maestro napoletano dà appunto al primo tratta Cartagine - di una «prassi, che si era andata formando ancor prima d< tati» e consistente in un «diritto dei traffici» regolato non «dai princi malistici del sistema quiritario, ma da principi più liberi, corrispond rapporti tra popoli diversi; e non è da escludere che il fondamento ι fosse \afides»{32). E tuttavia un'interpretazione del genere lascia comunque qualche vo di incertezza. Non solo un silenzio resta comunque - e soprattutto ir sione di un accordo di tali dimensioni e importanza (soprattutto per che era agli inizi del V sec. a.C. una città come Roma) - nient'altro < silenzio. Ma anche perché, alla fine di tale ragionamento, dovremmo diatamente interrogarci sul motivo per cui questo silenzio - ipotizzato come sufficiente e soddisfacente - sia stato poi rotto in occasione del do trattato, circa un secolo e mezzo più tardi. Poi., hist., 3.24.12-13: Έν Σικελία τ\ζ Καρχηδόνιοι έπαρχου» εν Καρχηδόνι πάντα και ποιείτω και πωλείτω δσα και τω π εξεστιν. ωσαύτως δε και ό Καρχηδόνιος ποιείτω έν ΤΡώμτ).(33) Potremmo ammettere indubbiamente che l'ultima clausola riportata solo in apparenza vada contro la logica che sembrerebbe ave rato il primo trattato e che l'esplicita menzione della condizioi Cartaginesi in Roma sia dovuta qui al netto distacco tra le condizi Roma all'epoca del primo trattato da quelle dell'ambiziosa e ben più i tante città all'epoca del secondo. Quasi che il ricordo di una preesi tradizione giuridica non fosse più sufficiente e necessitasse di espress ferma nel contesto delle trattative tra Romani e Cartaginesi. A questa ficazione avrebbe inoltre potuto contribuire l'accentuarsi del ca sinallagmatico del secondo trattato. In questo infatti diritti e obbligh (E
' D E MARTINO, 1973,69.
(33)
Trad. it: «in quelle parti della Sicilia soggette ai Cartaginesi e nella città di Ca potrà fare e vendere tutto quello che è permesso ad un cittadino cartaginese. 13. Alt potrà fare un Cartaginese a Roma».
122
Capitolo HI
tra loro assai più coerentemente e strettamente collegati di quanto non fos sero nel primo trattato(34). Ciò che avrebbe potuto più facilmente ispirare il parallelismo esplicito fra la posizione dei Romani in Cartagine e quella dei Cartaginesi in Roma. Tuttavia più probabili, ci sembrano due diverse ipotesi tra loro alternative: quella secondo cui anche il primo trattato avrebbe contenuto una clausola relati va alla condizione dei Cartaginesi in Roma, caduta poi nel testoriferitocida Polibio. Oppure, tenendo fermo che il mancatoriferimentoalla condizione dei Cartaginesi nel primo trattato confermasse semplicemente un preesistente regime giuridico già vigente in Roma, ritenere che fosse l'esplicita menzione contenuta nel secondo trattato a costituire un'innovazionerispettoal regime preesistente. In quest'ultimo caso converrà partire proprio dalla determinazione pre cisa della situazione posta in essere dal secondo trattato per vedere di risali re al diverso regime ad esso anteriore. Ci sembra fuor di ogni dubbio che la condizione dei Cartaginesi in Roma, così come essa ci vien riferita in Polibio, hist., 3.23.13, fosse retta dal criterio che sembrerebbe trovarsi alla base dell'istituto del commercium: l'as similazione cioè dello straniero al cittadino per quanto riguarda l'applicazio ne di alcuni aspetti del diritto privato romano(35). In base a quanto sopra si è detto si dovrebbe quindi ipotizzare che, in precedenza, questa non fosse la situazione che regolava i Cartaginesi in Roma. Con il che siamo indotti a immaginare che quella assimilazione dei Cartaginesi ai cittadini romani, prevista nel secondo trattato, fosse esclusa per il periodo precedente. Ci troveremmo così necessariamente di fronte ad un tipo di regolamentazione la cui logica non differirebbe da quella che, abbia mo visto, si trova probabilmente alla base del regime dei Romani in Cartagine previsto dal primo trattato.
(34)
Se ne veda lo schema fatto da WERNER, 1963, 314 s. 05) p e r FREZZA, 1949, 263 s., nel primo trattato per i Romani in Sardegna e probabilmente anche in Cartagine sarebbe previsto un trattamento identico a quello dei cittadini Cartaginesi: mi sembra si tratterebbe in tal caso di un sistema ispirato agli stessi principi del ius commercii romano. Lo stesso varrebbe per i Cartaginesi in Roma in base alla clausola di reciprocità «implicita nel primo trattato» ed «espressamente stipulata nel secondo trattato».
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123
6. D 'foedus Cassianum': alle orìgini dello 'ius commerciP ο un caso di istituti 'iuris gentium'? Questa nostra ipotesi d'altra parte appare tanto più suggestiva in quanto essa sembrerebbe trovare una sia pur indiretta conferma in un altro docu mento relativo ai sistemi di diritto internazionale privato adottati in Roma nella stessa epoca del primo trattato tra Roma e Cartagine. Ciriferiamopre cisamente al testo del foedus Cassianum la cui datazione tradizionale ci ripor ta circa verso il 493 a.C. Com'è noto Dionigi d'Alicarnasso riporta alcune clausole di tale trattato: l'unica che riguarda i rapporti di diritto privato è la seguente: Dion. ItaL, 6.95.2: Των τ' ιδιωτικών συμβολαίων αι.κρίσεις έν ήμέραις γιγνεσθωσαν δέκα, παρ' οις αν γένηται το συμβόλαιον.(36) La norma è abbastanza generica e non ci aiuta molto a determinare il regime giuridico applicato dalle città della Lega ai rapporti tra i loro membri e i cittadini delle altre città alleate. Da tale norma non risulta infatti, né quale fosse il tribunale competente per tali giudizi né il diritto applicato: sotto que sto profilo la precedente indicazione da parte di Dionigi dei rapporti tra Romani e Latini con il termine ισοπολιτεία (37) non può in alcun modo con siderarsi come una precisa determinazione del regime giuridico stabilito per i membri della Lega nell'ambito delle altre città alleate, né, tantomeno, come la prova dell'esistenza delle reciperatio tra Romani e Latini come invece si è ritenuto da parte di alcuni(38). Abbiamo già considerato nel corso del precedente capitolo la successiva storia dei rapporti romano-latini e la definitiva sistemazione datane dal Senato romano nel 338 a.C. In tale occasione si è considerata come pacifica l'esistenza di quel ius commercii,richiamatoda Livio proprio in relazione a questo stesso esito. Va anche detto che, in genere, la dottrina moderna tenda a fondare l'esi(36)
Trad. it: «le sentenze sui contratti privati vengano pronunciate entro dieci giorni, presso la popolazione in cui sia stato fatto il contratto». (37) Dionigi d'Alicarnasso impiega tale termine sia a proposito di singoli individui cui sia con cessa la piena cittadinanza (4.22.3 e 4), sia a proposito dei foedus Gabinum (4.58.3), così come della condizione dei Latini (7.53.5) e in particolare della Lega latina (8.35.2, 70.2 e 74.2; cfr. anche 6.63.4 e 8.77.2) di cui facevano parte anche gli Ernici (8.74.2; 76.2; 11.2.2; cfr. anche 8.69.2). Su ciò v. già supra, cap. II, § 1.
Capitolo III
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stenza di tale vincolo, se non sull'originaria comunità giuridico-culturale del Latium vetus, almeno sull'atto dirifondazionedella Lega costituito appunto dal foedus Cassianum. E tuttavia qualche motivo di dubbio potrebbe pur avanzarsi in proposito se consideriamo proprio le specifiche testimonianze relative al conte nuto di tale trattato, e in primo luogo proprio quella di Dionigirichiamatapiù sopra. Questa infatti attesta effettivamente l'esistenza di una particolare norma processuale relativa alle controversie sorte tra cittadini di città diverse della Lega. Queste dovranno cioè essere sottoposte al tribunale della città in cui il negozio è stato effettuato, entro dieci giorni (da quando la controversia è sorta)(39). Se ben si considera, tale norma in realtà tende ad escludere, almeno sul piano processuale, quel tipo di meccanismo proprio del ius commercii: inte so questo come estensione degli istituti del ius civile a determinate categorie di stranieri. Ed infatti la norma introduce autoritativamente, in base al tratta to tra Latini e Romani, un particolare sistema processuale (o per lo meno una particolare disciplina dei termini processuali) destinato ad imporsi a tutte le città della Lega. Egualmente, se riportiamo, come in genere è opinione dei moderni, la voce di Festo, s.v. nancitor (LINDSAY, 166): item infoedere Latino: 'pecuniam quis nancitor, habeto'et 'si quidpignoris nanciscitur, sibihabeto', al foedus Cassianum, dobbiamo ammettere che in esso fossero contenute disposizioni di diritto sostanziale atte a regolare i rapporti intercorrenti tra i membri di tale comunità. Ciò che, insieme ad altri indizi di un certorilievoi40),potrebbe far pensa re che una tutela generale e comune dei Romani e dei Latini nelle diverse città unite dal foedus si sia realizzata in base alla formazione di una serie di norme poste dalla stessa Lega latina e applicate dalle singole città, piuttosto
(38
> Si v., ad es., GIRARD, 1901,
{39)
101 ss.; WENGER, 1914,
413.
L'esistenza di particolari termini processuali è ampiamente attestata nei trattati tra le città greche che prevedono forme particolari di protezioni per i propri cittadini: cfr. HITZIG, 1907, 54 ss. m Una notizia assai interessante, anche se non risulta agevole valutarne il reale fondamento, è quella fornita da Dionigi d'Alicarnasso, (4.26.3), secondo cui, con la costituzione di un culto fede rale di Diana sull'Aventino ad opera di Tarquinio, sarebbe stato posto in funzione un tribunale che giudicasse le divergenze che potessero sorgere tra le diverse città latine. Contrasti che, si può ' benissimo immaginare, potevano riguardare anche rapporti di diritto internazionale privato. Scettico su tali indicazioni è STEINWENTER, 1917a, 1265.
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che con l'estensione ai Latini e ai Romani delle singole norme proprie degli ordinamenti delle diverse città. Uisopolitèia menzionata da Dionigi in questo caso potrebbe indicare non già, rispetto all'ordinamento romano, l'assimila zione dei Latini ai cives, bensì un comune godimento di particolari regole, appositamente elaborate per regolare in modo uniforme la posizione dei membri delle varie città del Lazio. In questo caso peraltro la testimonianza àeìfoedus Cassianum ci pre senterebbe uno schema non dissimile da quello che abbiamo visto caratteriz zare il regime giuridico stabilito nel primo trattato dai Cartaginesi a favore dei Romani che si trovavano nel loro territorio. Questo potrebbe altresì con fermare l'ipotesi del David e soprattutto l'idea che anche i Cartaginesi nel Lazio venissero tutelati senza essere assimilati ai cittadini delle varie città latine e di Roma.
Capitolo IV // diritto romano e le città italiche sino alla guerr sociale e oltre
1. Le colonie latine Non sembra possibile concludere questo quadro problematico, sen prima avere accennato ad un'altra situazione sinora restata ai margini del nostra visuale. Mi riferisco alle colonie fondate da Roma ed al loro possit le regime giuridico, sia al loro interno, che nei rapporti con i Romani e c< le altre comunità. Nel corso delle pagine precedenti si è avuto occasione di fare più di richiamo a questa realtà che, nella sua forma generale, non è certo esclusi dell'esperienza romana, tutt'altro. In effetti i processi di crescita delle pòh - nel mondo greco come nelle altre aree culturali organizzate in questa fon (si pensi ad es. ai Fenici ed alle loro 'colonie' tra cui la grande Cartagine) infine, nella Penisola italica e in Roma - piuttosto che attraverso una dila zione eccessiva delle strutture cittadine, si sono realizzati mediante la cmo! plicazione' dello stesso modello cittadino, con la fondazione di colonie, tratta di piccole 'copie' della città-madre, organizzate anch'esse in forma ( tadina e costituite da un certo numero di antichi abitanti della città-madre t piantati in una nuova località(1). Ricorderò ancora come, in Roma, questo ρ cesso appaia estremamente risalente, riferito dagli antichi addirittura ζ
128
Capitolo IV
prima età monarchica, con la fondazione della colonia romana di Ostia. Ma, accanto alle colonie romane, sono fondate nel Lazio anche una serie di colonie latine. Nell'arco di tempo successivo ufoedus Cassianum, lungo tutto il V e gli inizi del IV sec. a.C, la Lega aveva infatti proceduto alla costi tuzione di nuove comunità costituite da colonie latine, integrate tra i membri della Lega stessa(2). Tuttavia, con il rapido prevalere del peso di Roma, ancor prima della dissoluzione della Lega, nel 338 a.C, nuove colonie latine erano state istituite su unilaterale ed autonoma volontà di Roma e ad opera di essa(3). In questa prospettiva vi è un elemento di continuità che la svolta politico-isti tuzionale del 338 a.C. nei rapporti romano-latini non fa che evidenziare. Con l'assunzione di una piena sovranità di Roma sull'insieme delle città dell'an tica Lega, la istituzione di nuove colonie latine dipenderà esclusivamente, e ormai anche formalmente, dal volere sovrano di Roma stessa(4). E in effetti, nel periodo successivo e lungo tutto il corso del ΙΠ e del II sec. a.C, la poli tica di colonizzazione della penisola italica sarà estremamente intensa(5). In linea generale si insiste sul numero molto circoscritto dei cittadini costituenti l'organico di una colonia romana di fronte alle dimensioni assai più elevate delle colonie latine. Da parte dei moderni studiosi si tende soven te ad associare le prime ad una funzione di presidio politico-militare, mentre il più elevato numero di cittadini delle colonie latine parrebbe corrispondere (,) Si v., con grande espressività, SHERWIN-WHITE, 1973, 80, in un'opera che resta straordi nariamente centrale per tutto il tipo di problematica affrontata in questo capitolo, ed ora BANDELLI, 1995, 147 s. Cfr. anche NIEBUHR, 1853, 376 s. (1830, III, 60 s.), ed il vecchio
HOUDOY 1876,40 ss. p)
Cfr. MARQUARDT, 1881, 48 ss. (1889, 64 ss.); BELOCH, 1880, 135 ss.; KORNEMANN, 1900,
514; PAIS, 1924, 311, che non ha perduto di valore, nonché, ALFÒLDY, 1971,392 s.; SHERWINWHITE, 1973, 36 s.; D E MARTINO, 1973, 95 ss., ed ora WIEACKER, 1988, 369 e SPAGNUOLO
VIGORITA, 1996, 47 s. Molto chiaro il quadro tracciato da BANDELLI, 1995,153 ss., 157 ss., in un contributo di notevole rilievo e di grandissima utilità anche per la prospettiva cronologica riferita ad epoca relativamente risalente. Ivi, p. 161, Fa. conclude, circa le colonie fondate suc cessivamente al foedus Cassianum (in particolare Norba, Antiurti, Ardea, Labici, Vìtellia, Satrìcum, Setta, Sutrium e Nepet), «che si trattasse, in ogni caso, di colonie 'federali', aggre gate, quali stati di diritto latino, alla lega latina», concordando in ciò con la dottrina più auto revole e che mi sembra si possa senz'altro accogliere. (3)
MARQUARDT, 1881, 48 s. (1889, 65); MADVIG, 1882,26 nt. (1883, 29 nt); GELZER, 1924,
957 s.; SALMON, 1969, 40 ss. <4)
Sul punto si rinvia al paragrafo successivo.
<5) Cfr. in particolare MARQUARDT, 1981, 49 ss. (1989, 65 ss.); BELOCH, 1880, 135 ss.; SALMON, 1969, 5 ss. e D E MARTINO, 1973, 96 nt. 61.
// diritto romano e le città italiche
129
ad una funzione prevalentemente economica, di popolamento con l'acquisi zione di nuovi territori all'organizzazione fondiaria ed alla economia agraria romana. Sin dal secolo scorso si è rilevato, tra l'altro, la localizzazione delle colonie romane successive al 338 a.C. in zone marittime, a difesa e presidio contro minacele esterne(6). Varicordatopoi come i cittadini romani che veni vano a far parte della nuova colonia latina perdevano il loro originario statu to per acquistare la condizione giuridica di Latini: precisamente di Latini coloniali. Ma non sono questi gli aspetti su cui vorrei riflettere in queste ultime pagine e tanto meno vorrei indugiare su una storia della colonizzazione roma na che verrebbe ad essere, inevitabilmente, tanto sommaria quanto inutile rispetto allo stato delle nostre conoscenze™. Il punto invece su cui vedo una certa disattenzione della dottrina riguar da un particolare aspetto dello statuto interno di queste stesse colonie. Un ele mento tutt'altro che irrilevante per comprendere l'intima natura del processo di espansione delle forme cittadine e, insieme, dei modelli giuridico-istituzionali atti a governare e inquadrare la condizione dei singoli membri della comunità. Mi riferisco al sistema di regole e di istituti destinato a disciplina re la condotta dei propri cittadini nei rapporti reciproci: insomma il 'diritto privato' di queste nuove comunità. In effetti, nel corso del precedente capitolo, ho dato per scontato che le più antiche città latine partecipanti dXfoedus Cassianwn fossero, non diver(6)
Ma v. le importanti precisazioni volte a evitare una troppo meccanica ripartizione di ruoli tra colonie romane e latine, riprendendo del resto già un atteggiamento presente in alcuni dei nostri più attenti studiosi (penso anzitutto alla visuale di FRACCARO, 1933,112 ss., relativa alle dodici colonie latine fondate tra il 334 e il 291 a.C, come una «cintura fortificata» finalizzata alla «sistemazione militare difensiva del nuovo stato esterno dalla Selva Ciminia al Vesuvio» e di LURASCHI, 1979, 61 nt
105).
^ Si rinuncia a proporre una bibliografia sull'argomento, come su quello, ad esso stretta mente associato e che verrà più volte sfiorato nel corso di queste pagine, relativo alle origini dell'ordinamento municipale italico e sul suo complesso articolarsi in situazioni tra loro diffe renziate. Sui singoli punti e su specifici aspetti mi limiterò a richiamare la letteratura più immediatamente rilevante. Cfr. in generale, oltre alle fondamentali opere di Mommsen e di Beloch, utilmente MARQUARDT, 1981, 51 ss. (1889, 69 ss.); RUDOLPH, 1935, 129 ss. e DE Μ ^ Ή Ν Ο , 1973, 97 ss. Ma è soprattutto agli ormai classici contributi di Sherwin-White, Humbert e di Luraschi che ci si dovrà rivolgere, praticamente per ogni punto toccato nel corso di queste pagine, l'utilità dei quali, soprattutto per quanto concerne Luraschi, va ben al di là delle specifiche citazioni effettuate.
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samente da Roma, dotate di un loro proprio ordinamento: un insieme di norme e tradizioni atte a organizzare non solo la vita 'pubblica' della comu nità e il suo governo, ma anche l'insieme dei rapporti privati socialmente rile vanti: dalla proprietà dei vari beni, ai vincoli ed agli accordi possibili tra sin goli cittadini, alle forme dei procedimenti giudiziari atti a regolare i conflitti ed a punire i delitti, infine alle regole matrimoniali e familiari e a quelle volte a disciplinare la successione dei beni alla morte del titolare. Si tratta appun to dei vari contenuti del 'diritto privato5 della singola città la cui esistenza è connaturata alla autonomia sovrana di ciascuna di queste comunità. Sono perfettamente d'accordo con Talamanca che gli ordinamenti delle varie città del Latium vetus dovessero tra loro «largamente coincidere, perché fondati su un identico substrato socio-economico e culturale»***, pur doven dosi inevitabilmente riscontrare differenze di cui resta, in effetti, qualche vago ricordo(9). Differenze che è presumibile si fossero venute accentuando nel tempo, in un processo di progressiva diversificazione, secondo logiche evolutive peculiari ai differenti centri e influenzate dalle loro diverse vicende politiche e sociali e dai diversi tempi del loro stesso sviluppo(10). Ma il punto che qui ci interessa è un altro. (8 > TALAMANCA, 1990, 108. Cfr. già MADVIG, 1882, 33 (1883, 37), che in modo assai equili brato afferma che la costituzione delle colonie latine doveva modellarsi sullo schema «des autres villes latines; elle devait d'ailleurs offrir une grande analogie avec celle des colonies de citoyens». Ma v. soprattutto MITTEIS, 1908, 4 ss., che giustamente insiste sul significato stes so dell'arcaica esistenza del commercium tra Latini e Romani (un punto del resto ben battu to soprattutto dalla letteratura meno recente) come rivelatore di una affinità di partenza tra i diversi ordinamenti. Ivi vi è un'ampia e importante discussione delle varie testimonianze esi stenti - anzitutto la manus iniectìo e i vari istituti romani evocati nella lex Salpensana che si dovrà comunque valutare alla luce dei più generali orientamenti metodologici dell'a chiaramente presenti in tali pagine. Sempre in ordine alla lex Salpensana, sugli istituti ana loghi a quelli del diritto romano, quali la manus la potestas e il mancipium restano impor tanti le pagine di DIRKSEN, 1856, 376 ss. Cfr anche WLASSAK, 1907, 121 s. ed infra, nt 25. (9) Cfr. già quanto considerato supra, cap. I, nt. 61. (10) Sul valore anche politico-istituzionale dell'originaria unità di stirpe si è molto insistito da parte degli studiosi moderni, a partire da MOMMSEN, 1887, 607 s., 615 s. (1889, VL2, 226 s., 236). Così STEINWENTER, 1917a, 1263, sulla scia di Beioch e di De Sanctis, parla di una «Einheit der Stamme» fondata su «gemeinsame Sprache, Sitte und religiose Vorstellungen», sino ad esprimere una primitiva forma statuale comune. V. anche TÀUBLER, 1913, 284 ss. e supra, capp. I, nt, 21 e II, nt. 3. Sulla natura di questa primitiva colonizzazione federale si v. il sempre puntualissimo SHERWIN-WHITE, 1973, 36 s. V. inoltre BANDELLI, 1995, 147 ss., senza tuttavia che in nessuno di questi due pur ottimi contributi si metta a fuoco il problema degli ordinamenti interni alle nuove realtà politico-istituzionali. Sul punto v. anche supra, cap. II, § 1 e nt. 3. Per la letteratura più antica v. anche GELZER, 1924, 943 s.
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Quale infatti veniva ad essere l'ordinamento attribuito ad una città di nuova istituzione: mi riferisco alla colonia fondata dalla Lega stessa? È mai pensabile che le varie città della Lega, con la loro fisionomia sia pur molto limitatamente diversa, avessero costruito artificialmente uno statuto-tipo rica vato dal loro stesso patrimonio giuridico e imposto in forma standardizzata alla nuove comunità? Ο è invece da immaginarsi che questa acquisisse piut tosto il modello derivato da quella ο da quelle città preesistenti che maggior mente, tra i membri della Lega, si fossero venute impegnando nella sua isti tuzione? Di tutto ciò noi non sappiamo niente. E questa nostra ignoranza si accentua ulteriormente, spostandoci in avanti nel tempo, prendendo in esame i processi avviati unilateralmente da Roma già prima del 338 a.C. e poi, in modo sistematico, a partire da quella data. Anche qui noi conosciamo abbastanza bene i meccanismi 'esterni' che presiedono alla costituzione di una nuova colonia: la delibera senatoria e la partecipazione dei Comizi, le funzioni dei magistrati a ciò delegati e il ruolo della ed. lex datdn). Sappiamo insomma che Roma, nel momento stesso in cui provvedeva a creare una nuova colonia, le attribuiva anche uno statuto che ne avrebbe regolato la vita interna e il funzionamento(,2). Ma sappiamo assai poco dei contenuti di questo stesso statuto: e miriferiscoqui non tanto al fun-
(U)
(,2)
Cfr. soprattutto D E MARTINO, 1973, 97 ss. e SPAGNUOLO VIGORITA, 1996, 53 ss.
Com'è noto è una dibattuta questione, sin dal secolo scorso, resistenza di uno schema legislativo di carattere generale relativo all'organizzazione interna dei municipi. Da ultimo la scoperta della tavola Irnitana ha contribuito ad un rinnovata discussione in proposito: cfr. sul punto LAMBERTI, 1993, cap. IV. e già COSTABILE, 1984, 113 ss. Ma il nodo del problema che più direttamente investe i nostri argomenti, è stato, come quasi sempre, toccato dai maestri del secolo scorso e, in particolare, da Mommsen. Miriferiscoalla discussione svoltasi, soprattut to tra lui e Savigny, in ordine alla esistenza delle leges municipiorum e delle leges coloniarum, con una serie di statuizioni interne, anche relativamente alla posizione giuridica dei loro cittadini. Contro lo scetticismo di SAVIGNY, 1838,354 s., reagisce nettamente MOMMSEN, 1855, 286 s. e nt.10 (ma v. già RUDORFF, 1952, 332 ss.) che insiste sulla presenza di singole leggi costitutive per ciascun municipio, in coincidenza con il suo ingresso nella civitas roma na: leggi che, appunto, avrebbero introdotto uno specifico «diritto cittadino» per queste comu nità. E, quello che per noi è più importante, egli sottolinea proprio come tale ordinamento loca le fosse stabilito, in linea generale, non solo per i municipi romani ma anche per le colonie latine: «allein im Wesentlichen kann es doch keinen Zweifel leiden, dass nicht bloss fìir jede in den ròmischen Burgerverband eintretende, sondem auch fìir jede mit Latinischen, ja sogar fìir jede mit Unterthanenrecht bewidmete Gemeinde das Stadtrecht festgestellt ward». D'altra parte BELOCH, 1926, 489 ss., insiste piuttosto, per le colonie latine fondate direttamente da Roma, su un loro assetto istituzionale formulato sul modello della madrepatria.
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zionamento politico-istituzionale della colonia: giacché, anzi, di questo noi abbiamo qualche nozione, sia pure per una fase immediatamente successiva. Miriferisco,piuttosto, al sistema di istituti e regole relative al 'diritto priva to' vigente nella nuova comunità. Per le colonie di cittadini romani, il problema semplicemente non esiste (o sarebbe più prudente scrivere che non dovrebbe esistere?): si estende in pieno l'intero sistema del diritto romano anche a queste nuove comunità. Ciò che non avviene per le colonie latine, alle quali, tuttavia, appare difficile si estendesse un 'diritto privato latino' che, in quanto tale, non è mai esistito (e lo provano proprio i rapporti di commercium e di conubium intercorrenti anche dopo il 338 a.C. tra le città latine, ο tra alcune di esse, che non avreb bero senso se i loro cittadini avessero tutti fruito dello stesso diritto privato). Nei nostri manuali ci limitiamo a dire che i nuovi latini coloniali, non diver samente dai Prisci Latini, avevano il commercium e il conubium con i Romani, nonché, con ogni probabilità, anche il ius migrandi. Il che è esatto, ma non sufficiente: e in effetti in tal modo conosciamo il regime dei rappor ti tra i Latini coloniari e i cittadini di Roma, ma non quello relativo ai rapporti interni tra i membri della colonia stessa. Continuiamo così a ignorare quale fosse il 'diritto' vigente all'interno di queste colonie. Perché, ripeto, non c'era un 'diritto privato latino' ma un 'diritto di Tivoli', uno 'di Preneste' e via dicendo. Certo, alla distanza, queste differenze si appannano e ci appare un generico ius Latifì3). E si appannano non solo per la distanza che ci separa da una realtà così remota, ma anche per la intrinseca difficoltà, che nell'età più tarda si doveva incontrare nel distin guere tra le istituzioni dei vari popoli latini e l'ordinamento di Roma in cui, nell'arco che va dal 338 all' 89 a.C, essi erano confluiti. Mi riferisco alle antiche città della Lega: mentre, in parallelo, le più recenti colonie latine venivano ad esserericompresenel processo di unificazione dei modelli colo niari e del nuovo assetto municipale. Si tratta in generale di aspetti significa-
(,3) Che, tuttavia, serve essenzialmente a definire la posizione dei Latini rispetto a Roma e air intemo del suo ordinamento: ciò che conferma appunto le annotazioni qui esposte nel testo. Cfr. su tale problematica, in generale, STEINWENTER, 1917a, 1268; LURASCHI, 1979, 331 ss., v. anche GONZALES, 1987, 317 ss. Sulla posizione giuridica dei Latini rispetto a R o m a - evocata appunto con l'espressione ius Lata - si v. HUMBERT, 1978, 85 ss.; BANDELLI, 1995, 162 s.
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tivi, del resto, del progressivo cancellarsi della identità culturale, oltre che politica e istituzionale, del mondo italico di fronte alla pressione dei modelli dei vincitori. Già alla fine di questo processo, negli anni succeissivi alla grande tra sformazione seguita alla guerra sociale, dovette divenire difficile rispondere con precisione al quesito che io qui mi pongo - in modo tanto legittimo quan to insoddisfacente - di quale fosse la situazione di partenza, anteriore non solo ad essa, ma anche alla stessa svolta del 338 a.C. E non è mera curiosità erudita, ma esigenza di comprendere gli strumenti concettuali e le soluzioni pratiche e organizzative di cui i Romani disponevano in una fase molto deli cata della loro storia, quando già venivano gettandosi le premesse della suc cessiva avventura imperiale con il coagulo, sotto la loro egemonia, del mondo italico. La relativa disattenzione della moderna storiografia per il tipo di pro blemi che ci stiamo qui ponendo, si spiega d'altra parte con la centralità di un altroOTdinedi questioni, indubbiamente di grande rilievo su cui in effetti la dottrina si è da molto tempo e accanitamente concentrata. Mi riferisco all'e sistenza di una posizione differenziata, rispetto a Roma, delle nuove colonie, non solo rispetto ai Prisci Latini, ma anche tra di loro(14). Si tratta di una discussione che a sua volta tocca il problema delle diverse posizioni dei membri dei vari tipi di colonie e municipi rispetto al livello difruizionedel diritto romano in Roma e nei loro rapporti con i cittadini romani. Essa tutta via nonriguardala prospettiva da me qui perseguita, relativa invece al tipo di diritti di cui fruivano i membri di queste varie comunità, alloro interno, e non rispetto a Roma. Nel generalizzato silenzio dei moderni si incontra peraltro qualche improvvisa indicazione, ma anch'essa ci appare tutt'altro che univoca. Così non appare facile cogliere il fondamento della recisa affermazione di Piganiol, secondo cui in queste colonie latine «leur droit prive était identique au droit romain»(15). Ma, ripeto, si tratta di brevi aperture: in generale, come <"> Cfr. RUDORFF, 1860,3 ss.; MOMMSEN, 1860, 317 ss. (1873,188 ss.) e 1887, 624 s. (1889, VI.2, 245 ss.); MARQUARDT, .1881, 57 s., 63 (1889, 77 e 84); BELOCH, 1880, 154 ss.; STEINWENTER, 1917a, 1267 ss., e SHERWIN-WHITE, 1973, 102 ss.
P5) PIGANIOL, 1967, 242 (1971, 214). Molto più cauto ed equilibrato appare DE SÀNCTIS, 1907a, 438, che si limita a riconoscere come, rispetto alle più antiche città latine, la costitu-
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ho già accennato, si può dire che questo specifico problema èriassorbito(e celato), dalla questione, in verità più settoriale della posizione di questi colo nirispettoai cittadini romani optimo iure ed in Roma, quasi dimenticandosi che la sfera quotidianamente più importante, per questi stessi coloni, era rap presentata dalla loro condizione nella colonia d'appartenenza.
2. Trisci Latini' e latini coloniari: i limiti esterni dell'autonomia D'altra parte il silenzio degli antichi su tali aspetti rende pressoché impos sibilericostruirein modo soddisfacente la condizione, sotto il profilo della sfera privatistica, del regime di tali colonie anche per l'età successiva. E in effetti, nel l'ambito del potere romano, le colonie latine, lungi dal dissolversi come le c/vztates sine sttffhagio, continuarono ad avere una identitàrispettoall'ordinamento municipale ben oltre la lex Mia de civitate. Il tipo di indicazioni forniteci dalla documentazione, soprattutto dai testi epigrafici, relativamente alle vicende inter ne delle comunità destinate a dar vita al nuovo ordinamento municipale dell'Italia romana,riguardaessenzialmente gli aspetti che noi definiremmo istituzionali e amministrativi. Ma, appunto, sono quelli che investono la storia della genesi e degli sviluppi dell'ordinamento municipale romano e delle sue strutture: grande tema, ampiamente trattato da una letteratura pressoché sterminata e sovente di alta qualità, ma che trascende ampiamente il mio orizzonte. Rispetto a tali processi l'interesse dei moderni, come ho già accennato, si è così concentrato essenzialmente sul carattere delle strutture istituzionali dei municipi stessi e delle colonie06*, impegnandosi soprattutto in una discus
sone delle colonie latine «s'accostava di più a quella di Roma». Importante anche, come quasi sempre, TOYNBEE, 1965.1, 182 s., dove si sottolinea come i cittadini delle nuove colonie lati ne «were foreigners in terms of Roman law». appartenendo a comunità «organised as a" citystate that was not only self-goveming but was sovereign»; cfr. anche, ibid., p. 314. Cfh il già dimenticato TANFANI, 1906, 19 e nettamente DE FRANCISCI, 1938, 33: «le leges romane non sono applicabili nelle colonie latine». V. anche infra, nt. 18 e soprattutto la posizione di Tibiletti illustrata infra § 8 e nL 74. (,6)
Si v. ad es., tra i più attenti, RUDOLPH, 1935,27 ss., 47 ss.; MANNI, 1947,63 s.; TOYNBEE,
1965,1,209 ss.
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sione sulla diversa gamma dei rapporti istituzionali tra le comunità dipendenti e Roma. Volgendoci a contemplare un arco relativamente lungo di tempo che abbraccia il volgere di più secoli, l'aspetto, diciamo così, 'internazionale' di tali relazioni tende progressivamente ad attenuarsi. A seguito del crescente squilibrio politico a favore di Roma, soprattutto a partire dalla fine del IV sec.a.C, i soggetti originariamente esterni al suo ordinamento politico ven nero infatti man mano inglobati all'interno della sua sfera. Qui ci interessa appunto il modo in cui il loro assorbimento nell'ambito della sovranità roma na ebbe a riflettersi in modo più ο meno immediato sulla loro sfera giuridica interna. Ma debbo preliminarmenteriprendereun altro elemento già sfiorato nel corso del paragrafo precedente. Avevo parlato, allora, di un'assunzione della sovranità sulle città della Lega latina da parte di Roma, a partire dal 338 a.C. Vorrei fermarmi ancora su questo punto per mettere in evidenza l'intrinseca ambiguità del rapporto successivamente costruito tra tali soggetti. Un'ambiguità che non ha manca to di influenzare i moderni studiosi. Come siricorderàRoma, nel 338 a.C, aveva stabilito un regime diffe renziato per le varie città della Lega latina. Alcune città come Tivoli e Preneste conservano la situazione preesistente, con Laurento parrebbe essere formalmente rinnovato il trattato, in generale quasi tutte le altre città del Latium vetus appaiono aggregate a Roma mediante il vincolo della civitas sine suffragio{xl). Ora, mentre per queste ultime città è fuor di dubbio il loro assorbimento all'interno della sovranità romana, si afferma in genere che, anche dopo il 338 a.C, le città latine non incorporate nella civitas romana abbiano conservato la loro precedente condizione già definita in base al foedus Cossianum ed eventualmente anche a seguito di eventuali integrazioni dell'alleanza intervenute in occasione dei suoi successivi rinnovi: il che è abbastanza pacifico. Ma - e questo è il punto - secondo tale logica, siffatta situazione presupporrebbe la persistenza, anche successivamente al 338 a.C,
(,7) Cfr. supra, p. 74 ss. v. in generale STEINWENTER, 1917a, 1266 s.; PAIS, 1918, 358 s.; Vrrucci, 1947, 433. Un caso ancora diverso è quello di Tuscolo, cui probabilmente era stata attribuita la civitas Romana (sine suffragio?) già prima dello scioglimento della Lega, Cfr. KORNEMANN, 1933, 576 s. V. anche ivi la posizione di Lanuvio e di Ariccia,
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del carattere federale e quindi formalmente sovrano dei rapporti tra queste stesse città e Roma. Il che, a mio giudizio, è vero solo in parte(18). Certo, Tivoli, Palestrina, forse Cora, pur avendo perduto parte del terri torio a favore di Roma e a titolo di sanzione, restano nella condizione forma le precedente, quindi definita in base all'antico trattato. E la loro posizione, rispetto a Roma, è stabilita dunque dall'antico foedus. Ma di che foedus si tratta? E presuppone esso l'indipendenza sovrana della controparte? (,8)
Questo è in genere il punto di vista degli studiosi. Così WILLEMS, 1919, 109 s., afferma, estendendosi apparentemente anche oltre il 338 a.C, che «les cités du nomen Latinum sont considérées par le peuple romain comme des villes alliées» e pertanto esse «forment des civitates indépendentes». Non governate dai magistrati romani, esse «n'adoptent les lois romaines que si élles y consentent Elles ont droit de battre monnaie, droit qui fut cependant restreint à dater du 268». In effetti sul punto Willems non fa che seguire Mommsen, il quale aveva insi stito sull'autonomia delle comunità italiche e delle stesse antiche città latine come Tivoli e Preneste, proprio partendo dall'esame della loro monetazione: un punto delicatissimo quanto al rapporto con il potere sovrano. Cfr. MOMMSEN, 1860, 322 e nt. 84 (1873, 196 e nt. 1), (v. anche la decisa forzatura fatta in MOMMSEN, 1903, 358 [1979, II, 440]). In seguito GELZER, 1924, 963, afferma che Cora, Tivoli, Preneste e Lavinio, dopo il 338, conservarono «die staatliche Selbstàndigkeit», insistendo su un 'rinnovo' degli antichi trattati di alleanza, con una espressione che, a mio avviso, distorce l'effettiva indicazione di Livio, salvo forse per Lavinio (Liv., 8.11.15). Appare invece accettabile la formula 'autonomia statale', se riferita alla capa cità di autonoma autorganizzazione, ed escludendo che essa possa invece riferirsi ad una auto nomia 'sovrana'. E questo appare chiaramente allorché, riprendendo già un orientamento di Mommsen, STEINWENTER, 1917a, 1266, ribadisce, per quelle città, successivamente al 338 a.C. il loro carattere di «selbstSndige Staaten», specificando che si era conservato il loro rapporto di tipo federativo con Roma, dato peraltro non contestabile. Egli giunge poi ad, affermare espli citamente la persistenza della loro «Souveranitat», fondandosi appunto sulla persistenza dell' «Exilrecht». Questa stessa espressione relativa ai «selbstandige Staaten» latini la si incontra già in WALTER, 1860, 340, che aveva insistito sulla persistenza dei loro «Landrechte», mitiga ta tuttavia dalla possibilità di una recezione del diritto romano nei vari ambiti del diritto pri vato e criminale. Ma v. anche, sempre in questo senso, GELZER, 1924, 963, dove si parla di «rinnovo del trattato», nonché CARDINALI, 1936,615, che si limita ad affermare per le più anti che città della Lega non incorporate da Roma, che esse «conservano il diritto latino», e BONFANTE, 1934, 245 s., il quale tuttavia, per le colonia latine, parla di una loro «sovranità», collegata «con Roma sulla foggia delle città confederate». Mi sembra meno impegnativa Γ af fermazione di BELOCH, 1880, 170 s., il quale, per sette città della Lega che avrebbero conser vato la loro antica condizione: Laurentum, Cora, Praeneste, Tibur, Aletrium, Ferentinum e Verulae, si limita ad affermare come non sia intervenuto con il 338 a.C. un mutamento rispet to alla precedente situazione. Resto perplesso di fronte alla circostanziata affermazione di BANDELLL, 1995, 171 s., che pur parte da una premessa da me pienamente condivisa: e cioè che, dopo il 338 a.C, le antiche città della lega, non assorbite all'interno dell'ordinamento romano (egli elenca, oltra a Gabi, Tibur, Praeneste e Cora, le antiche colonie di Ardea, Signia, Norba, Setia e Circeii, nonché le alleate erniche) «mantennero un'indipendenza puramente nominale». Secondo tale a. la nuova condizione di ciascuna di tali città, venuto meno l'antico foedus Cassianum, sarebbe stata regolata separatamente da un singolo trattato bilaterale «con
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Per dare una risposta adeguata a tali quesiti occorre partire dalla coni derazione che, con la sistemazione unilaterale da parte del Senato romano d rapporti con le città latine, è venuta meno l'indipendenza formale di una del due parti che, originariamente, era la condizione stessa e il presupposto d trattato internazionale. Questa situazione, in verità, è abbastanza diversa < quella che, in generaleriguardai sodi italici. Anche nel caso di \mfoedus ir quum il trattato, se pure squilibrato, è stretto bilateralmente, tra due sogge formalmente indipendenti. Semmai la relativa subalternità dell'uno rispet all'altro è sancita appunto con il trattato stesso. Nel caso delle antiche città latine è quasi il contrario: il trattato che reg< la i rapporti di queste con Roma, il vetusto foedus Cassianum, presuppone^ in effetti, non solo l'indipendenza sovrana delle parti contraenti, ma anche loro originaria pariteticità. E tuttavia il riferimento all'antico trattato è effe tuato in base all'unilaterale e sovrana delibera di Roma che, stando alla na razione di Livio, prescinde dalla volontà e sinanco dalla richiesta di Tivol Preneste etc. La forma insomma resta quella di un rapporto internazional ma manca proprio il carattere negoziale del trattato stesso*19). La contropali è solo il destinatario di una decisione unilaterale: quasi un prowedimenl interno - direi con linguaggio moderno - all'ordinamento che lo assume ed h il potere di assumerlo. I destinatari non sono neppure in grado di 'accettare la decisione del Senato romano: vi sottostanno, quale che sia la loi
la dominante, che, mentre gli garantiva lo ius Latii, lo assoggettava alla politica estera di que la». Questa formulazione mi sembra troppo rigida anche se deriva da quanto a suo tempo e; stato rilevato esattamente da HUMBERT, 1978, 190 s., che aveva evidenziato gli effetti del sostanziale dissoluzione della Lega, con l'assunzione da parte di Roma del ruolo di esclusrv punto diriferimentodelle relazioni delle varie città latine «qui ne pouvaient plus étre que bilati rales». Ivi egli tra l'altro mette in rilievo il fatto che la rottura dei vincoli di commercio e di coi nubio, oltre che i concilia, stando, al dato testuale di Livio,riguarderebbegli altri latini non inco porati da Roma, non anche Tivoli e Palestrina. Più cauto appare infine SHERWIN-WHI"TE, 197: 96, che, relativamente alle città latine non assorbite da Roma, si limita a riconoscere come «wh; was the legai form by which these were joined to Rome is most obscure», escludendosi comui que che il loro status potesse farsi risalire formalmente ad un trattato. Un quadro ancora util della situazione successiva al 338 a. C. è fornito da PAIS, 1931, 99 SS. (19) LECRIVAIN, 1904, 977, scrive giustamente, per l'epoca successiva alla dissoluzione dell Lega che, le città latine «gardent théoriquement leur souveraineté politique, mais puremei illusoire, elles sont soumises, comme les autres villes». SHERWIN-WHITE 1973, 97, mi sembi che abbia ragione nel precisare come «apart from Lavinium it is incorrect to speak of th Latins asfoederati», malgrado l'episodico uso fattone da Cicerone.
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volontà. E del resto, se torniamo al testo di Livio, possiamo constatare il mero valore 'residuale' che, nei provvedimenti del Senato, assume la posi zione di Tivoli e Preneste. Ivi non si parla affatto di un rinnovo dell'antico trattato, per queste città, ma solo della multa di terre a loro carico. La man cata estensione della cittadinanza e il più generale provvedimento dei conubia commerciaque tolti ai Latini tra loro, fa dedurre indirettamente la persi stenza della condizione originariamente prevista dal foedus Cassianum. È proprio sul mancato rinnovo bilaterale (si pensi di contro al rinnovo dell'al leanza nel 358 a.C. menzionato da Livio, 7.12.7, con il duplice riferimento alla, pax data Latinis petentibus, ed il loro susseguente intervento militare a favore di Romani ex foedere vetusto) che vorrei insistere giacché, mancando questo, il Senato e il popolo Romano in nessuno modo mi sembrano vinco lati, neppure, diciamo così, 'moralmente' alla loro decisione di lasciare i Tiburtini e i Prenestini nella loro precedente condizione che pertanto appare revocabile ad libitum delle autorità romane(20). Sotto tale aspetto sarei tentato di avvicinare la posizione di queste comunità, sotto il profilo del livello di garanzia loro concessa da parte dei Romani, a qualcosa di mezzo tra le civitates sine foedere liberae et immunes e le civitates foederatae che avremo nelle provincie. Una condizione, la prima, dipendente dalla unilaterale volontà di Roma, non vincolata ad alcun trattato, la seconda più garantita dallo statuto federale concesso da Roma e, tuttavia, anch'esso revocabile unilateralmente senza che si possa considerare ciò una violazione di un accordo tra stati sovrani. Anche nel caso delle civi tates sine foedere liberae noi abbiamo testimonianza di una revoca unilatera le di questa condizione da parte di Roma(21), quasi si trattasse di uno statuto i20) MOMMSEN, 1887, 625 (1889, VI.2, 24): «la sovranità teorica delle diverse città latine non fu intaccata dalla dissoluzione della lega, ma la sua assenza di effetti pratici reagisce poco a poco sui principi del diritto pubblico». ^ Per le civitates foederatae cfr. Svet, Aug., 47, su cui MARQUARDT, 1881, 74 e nt. 4 (1889, 101 e nt 2). Per quanto concerne le possibili revoche degli statuti concessi alle civitates sine foedere liberae, si v. per Cizico, Dio Cass., 54.7, e 23; 57.24; Tac, ann., 4.36; Svet., Tib., 37, e per Bisanzio, Dio Cass., 74.14. Esemplare infine il riferimento di Tacito, per l'età neroniana, alla mutevole condizione di Rodi, Tac, ann., 12.58: redditur Rhodiis libertas, adempia saepe aut firmata, prout bellis externìs meruerant aut domi seditione delinquerant. La revo cabilità della propria posizione giuridica è per MOMMSEN, 1887, 657 e nt. (1889, VI.2, 282 s. e nt.) il criterio distintivo tra i due tipi di città. Cfr. anche MARQUARDT, 1881, 77 (1889, 104 s.). Ancora una volta appare esemplare (e perfettamenteriferibile alla nostra specifica proble-
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'amministrativo' octroyé dall'autorità sovrana, che resta valido finché e solo se persiste la volontà di essa. Anche se non va sottovalutata una differenza di fondo, quanto al contenuto specifico delle varie situazioni giuridiche, signifi cativo sotto diversi profili. Miriferiscoalla fondamentale affinità che, ab origine, i diritti delle varie città latine dovettero avere tra loro e, quindi, con l'or dinamento romano. Tali considerazioni ci aiutano arifletteresu un altro punto messo in evi denza soprattutto da Emilio Gabba, nelle sue fondamentali ricerche sul pro cesso di romanizzazione delle comunità italiche. L'insigne storico infatti, nel trattare dei possibili interventi romani negli affari interni delle varie comu nità, sia sotto il profilo criminale, sia come eventuale estensione della propria legislazione anche in altri settori, immaginava che la legittimità cfi tali inter ferenze fosse predeterminata da possibili clausole contenute nei trattati inter corsi tra Roma e queste comunità ο nelle leggi istitutive delle colonie latine(22). L'ipotesi è senz'altro plausibile e pone un problema reale che dovette essere affrontato dai Romani nel composito disegno che venne tracciandosi, a partire almeno dal III sec. a.C, nel paesaggio politico delle loro alleanze italiche. Tuttavia io credo che, da una parte, essa postuli una consapevole pre visione di interventi che vennero invece maturando man mano nel corso delle vicende successive e che trovarono fondamento nella supremazia politica di Roma, senza che fosse indispensabile un previo riconoscimento formale a livello di accordi internazionali. Ma soprattutto, per quello che qui specifica mente ciriguarda,in ordine alla condizione delle colonie latine, io non credo che, nelle leggi istitutive di queste, i Romani si preoccupassero di definire ex ante una facoltà che, in verità, era già presupposta dallo stesso potere costitutente da loro esercitato ed entro cui si collocava l'autonomia della colonia. Debbo aggiungere che, in base a quanto ho detto più sopra, è da ritenersi, almeno in linea teorica, che la stessa capacità di intervento avrebbe da loro potuto essere esercitata anche nei riguardi di quelle città della Lega restate autonome dopo il 338 a.C.(23). matica) SHERWIN-WHITE, 1973, 179 ss. Ma forse l'analogia più immediata è con i municipi federati, su cui v. anche infra, nt. 26. (22
> Cfr. GABBA, 1994,34, 39, 40, e 46.
C3)
In effetti GABBA, 1994, 39, partendo da premesse che io, almeno per le colonie latine non condivido, finisce col sostenere che gli interventi in materia criminale ο sollecitati da qualche
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3. Il diritto romano e l'ordinamento interno delle colonie latine e delle 'civitates sine suffragio9 sino alla 'lex Iulia de civitate' Sgombrato dunque il campo da questo specifico problema, siamo così in grado di tornare all'argomento già accennato relativo al regime giuridico che doveva applicarsi ai membri della colonie latine. In effetti abbiamo in proposito indicazioni tra loro abbastanza contrastanti e il quadro che ne risul ta appare piuttosto incerto e lacunoso. Anche sulla base di alcuni riferimenti presenti negli antichi, primo tra tutti nella prò Balbo, su cui tornerò nel para grafo seguente, si afferma in generale che solo per espressa volontà della colonia stessa le leggi private romane potevano estendersi anche ai suoi cit tadini. E qui l'argomento si intreccia con la figura relativamente oscura dei ed. municipi fundemi su cui torneremo più avanti. Ora è indiscutibile che, formalmente, la colonia latina fosse libera (anzi, in qualche misura vi fosse necessitata) di assumere, anche dopo il 338 a.C, un sistema di norme diverso dal diritto romano. Il problema è quale, visto il carattere composito dellla comunità raccolta a costituire al colonia stessa, di diversa origine e con diversi statuti giuridici d'appartenenza. Si tratta, come cittadino della colonia ο della città federata, erano legittimati dal fatto che essi erano «previsti e contemplati nei trattati bilaterali tra Roma e i singoli stati alleati e nelle leggi istitutive della colonia». Ripeto, per quanto riguarda almeno i rapporti con le colonie latine, una ipotesi del genere, a mio avviso, finisce col deformare la effettiva natura del rapporto tra l'autonomia della colonia e il controllo esercitato da Roma. Sino al punto di sostenere una mancanza di 'libertà' della colonia nel «procedere autonomamente ad una revisione della propria legisla zione interna», costretta in sostanza a recepire la legislazione romana, dipendendo in proposi to da un «beneplacito di Roma» (p. 40). Quasi che tali processi derivassero da un progetto poli tico di Roma e non dalla intrinseca natura del rapporto instaurato con la fondazione stessa della colonia latina. E, d'altra parte, la «piena legittimità» dei provvedimenti in questione, almeno per le colonie latine, non è data, come pensa GABBA, 1994,57, dalla previsione contenuta nelle leggi istitutive della colonia, ma della stessa autorità del soggetto sovrano che queste leggi aveva adottato e imposto. Su tali aspetti mi sembra possibile aderire alla impostazione di MOMMSEN, 1887, 694 (1889, VL2, 325), che insiste sulla possibilità di estendere l'efficacia della legislazione romana, non solo alle città latine (che vi sarebbero soggette in quanto, dopo il 338 a.C, Roma avrebbe sussunto i poteri originariamente spettanti, alla Lega stessa) ma anche ai sodi. Non è del tutto chiaro però se ciò sarebbe avvenuto solo sulla base dell'unila terale volontà del legislatore, ο per l'iniziativa di fimdits fieri da parte della comunità alleata ο latina, né se, come suppone ora Gabba, ciò avrebbe postulato una preesistente statuizione all'interno del foedus stesso («la stessa idea - quella della possibile estensione delle leggi romane alle città latine — avrebbe dovuto essere applicata nei trattati conclusi con il resto delle città italiche»).
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ho già sottolineato nel corso del § 1, della difficoltà di 'inventare' ex novo l'intero sistema giuridico privatistico della colonia: un problema che non si poneva per le preesistenti città latine, come non si poneva neppure per quel le civitates gratificate da Roma della civitas sine suffragio. Queste altre due realtà infatti, almeno sino alla loro incorporazione nella cittadinanza romana, erano rette suis legibus, dalle loro ancestrali tradizioni giuridiche. Per quanto concerne invece le colonie latine è presumibile che lo statu to attribuito alla colonia all'atto della sua fondazione richiamasse alcune principali figure istituzionali, predisponendo un nucleo di regole di fondo. Restava poi nel potere della comunità coloniaria - anzitutto attraverso quelle assemblee di cittadini che lo statuto stesso prevedeva - la libertà di mutuare ulteriormente il modello romano ο di sviluppare forme locali autonome, anche sotto l'influenza di esigenze particolari ο delle tradizioni di cui fosse ro stati partecipi i membri stessi della colonia, in base alla loro specifica pro venienza. Certo, la lacuna così profonda e vasta delle nostre informazioni non ci permette di addentrarci ulteriormente in ipotesi, tanto più evanescenti quanto più articolate. Tuttavia il buio dei due secoli e mezzo che separano la fine della Lega latina (ma, come abbiamo visto più sopra, noi ignoriamo anche quali fossero i regimi delle colonie latine anche anteriormente al 338 a.C.) dall'estensione della cittadinanza agli Italici è in qualche modo illuminato proprio da quanto si puòricavarein ordine a quest'ultimo evento. Qui soccorre appunto la fon damentale testimonianza ciceroniana contenuta nella prò Balbo. Da essa infatti possiamo dedurre due fatti: anzitutto che le colonie latine e le altre città latine potevano effettivamente adottare liberamente leggi e ordinamenti romani. In secondo luogo che ciò, anche se frequente, non dovette in genere esaurire la totalità dei processi normativi della colonia stessa. Essi restavano autonomi e potevano, e non di rado, differenziarsi sostanzialmente dalle linee del diritto romano. La colonia latina, in questo, restava sovrana e titolare di una autonoma legislazione anche in campo privatistico e di una propria giu risdizione a tutela del suo stesso ordinamento. Nella stessa orazione cicero niana infatti troviamo testimonianza di forme di recezione di singoli provve dimenti normativi piuttosto che dell'intero sistema privatistico romano che, anzi, appare sia pure indirettamente escluso.
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Tutto ciò è evocato incisivamente da Cicerone, Balb.9 21, allorché egli menziona alcune delle leggi relative appunto al diritto privato romano: la lex Voconia de mulierum hereditate, la lex Furia de testamentis, e sottolineando come, delle innumerabiles aliae leges de civili iure... latae, sino all' 89 a.C. i Latini, quas voluerunt, adsciverunt. Liberamente, appunto, e in modo rela tivamente episodico, non come un intero sistema mutuato da Roma. E in effetti non a caso Cicerone si richiama alle leggi piuttosto che ai vetusti isti tuti del ius civile: non che questi non potessero essere mutuati dai Latini e dai sodi. Qui però interveniva ancora un altro problema rappresentato dallo svi luppo e dalla morfologia stessa degli istituti civilistici legati alla interpretatio prudentium ed ancor prima a quella dei pontefici. Come sarebbe stato possi bile far proprie, non già precise norme, ma l'impalpabile e così articolato insieme di saperi e di soluzioni empiriche? Per non parlare poi di quella parte del diritto privato sviluppatasi ad opera dell'editto pretorio ed assicurata essenzialmente attraverso il momento giurisdizionale. Si ponevano così barriere pratiche difficilmente superabili e che limita vano di fatto l'attitudine a far proprio, da parte delle singole comunità, il sistema giuridico romano. Lo stesso fondamento federale del rapporto tra le colonie latine e Roma, con la conseguente formale autonomia delle prime rispetto all'ordinamento costituzionale di questa rendeva impossibile che tutti i meccanismi propulsori e innovatori nel campo del diritto romano fossero egualmente efficaci nelle città latine<24). Malgrado questi aspetti, nell'insieme, appare verosimile che i sistemi giuridici interni a queste varie colonie tendessero in una certa misura, e sem pre di più nel tempo, a modellarsi sugli schemi romani, seppure semplificati e impoveriti(25). In effetti un ordinamento istituito ex nihilo (giacché la colop4)
MARQUARDT, 1881,26 e 48 (1889, 35 e 64), insiste sul carattere federale del rapporto tra le colonie latine e Roma. Nello stesso senso v. BELOCH, 1880, 153 s. Non è convincente tutta via la menzione di Liv., 26.9, a conferma del carattere di ager peregrinus del loro territorio. Esattamente BONFANTe, 1934, 246, considera le nuove colonie latine collegate a Roma in una «nuova federazione», organizzate «in comuni autonomi e sovrani collegati con Roma sulla foggia delle città confederate». Esse hanno un proprio censo e propria leva e, soprattutto, per quello che qui ci interessa, «le leggi romane non valgono per queste colonie se non quando esse le abbiano accettate, non altrimenti di quel che avviene circa i confederati». ^ GIRARD, 1901, 44 e ntt. 1 e 2, esamina con grande acutezza le possibili tracce di una comunanza di istituti, anche richiamandosi alle pur più tarda lex Salpensana (su cui v. già supra, nt. 8), nonché alla testimonianza relativa ad una manus iniectio nella colonia latina di
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nia era una nuova comunità cittadina) doveva verosimilmente derivare i suoi modelli dalla istituzione stessa che ne era alle origini: nel nostro caso, da Roma. Né, d'altra parte, sussiste qualche sia pur vago indizio che i giuristi romani avessero provveduto ad elaborare uno statuto-tipo del Latino e del sistema di diritti privati a luiriferibile.Del resto, anche più tardi, quando un modello del genere verrà forse emergendo, esso riguarderà l'organizzazione istituzionale del municipio, il suo funzionamento politico-amministrativo insomma, molto di meno l'insieme di regole che disciplinano la vita dei suoi abitanti: il contenuto privatistico di quella iurisdictio di cui parlano sovente i gromatici. Il che tra l'altro si spiega con la relativa marginalità (sul piano sostanziale) del problema dovuto alla profonda e originaria affinità di tali sistemi giuridici con il romano da me giàrichiamatapoco più sopra. Fattore questo, a sua volta, che dovette contribuire non poco alla assimilazione indo lore degli ordinamenti coloniali al modello della madrepatria cui dianzi face vo riferimento. In assenza di dirette informazioni dalle fonti, io sono indotto ad avanza re un'ipotesi generale volta a tracciare una analogia con la rapida avanzata, nel tessuto dell'Italia centro-meridionale, delle forme giuridiche romane, anzitutto attraverso la concessione della civitas sine suffragio. Gli schemi così approntati dovettero infatti operare nella stessa direzione, soprattutto se si segue la mia idea di una sua derivazione proprio dai precedenti istituti del commercium e del conubiumi26\ Sono indotto cioè a supporre che, almeno per Luceria contenuta in CIL, IX, 782. Anche LECRIVAIN, 1904, 977, sostiene la somiglianza tra i diritti latini e il diritto romano, «sur les points essentiels, mariage, propriété, puissance paternelle» richiamandosi alla lex Salpensana. V. anche, nello stesso senso, HUMBERT, 1887a, 1309. c6) Sul punto v. supra, p. 58 ss. Per questo, malgrado le obiezioni di HUMBERT, 1978, 23 ss., io sono molto vicino alla interpretazione di SHERWIN-WHITE, 1973, 40 s., 47 s., che, ispiran dosi alla definizione festina dei municipes (su cui v. anche infra, nt. 32), vede nella civitas sine suffragio essenzialmente una «citizenship only conditional»: legata cioè all'effettivo sposta mento del municeps in Roma. Talché egli sostiene che «it is difficult to see any difference between the status of municeps enjoying the originai form of civitas sine suffragio and the sta tus of Latins enjoying conubium, commercium, and ius civitatis mutandae» (p. 46). Ma qui vorrei aggiungere anche qualche sommaria considerazione a proposito di una figura abbastan za oscura richiamata nelle fonti relativamente all'organizzazione municipale romana in età repubblicana. Mi riferisco ai municipi federati su cui è da registrare un'ampia discussione tra gli autori moderni: v. per tutti HUMBERT, 1978, 251 ss.; accettabile è ora la valutazione fattane da CASSOLA, 1989,248 s., ma v. già MOMMSEN, 1887, 577 nt 1 (1889, VI.2, 190 nt 3), in una
interpretazione molto riduttiva, nonché, diversamente orientati, BELOCH, 1880, 117 ss. e 1926, 377 s.; TOUTAIN, 1904, 2026; KORNEMANN, 1933, 577.s.; BONFANTE, 1934, 240 s. e diversa-
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quelle parti del sistema giuridico privatistico per cui sussisteva l'organica relazione con Roma costituita dal ius commerci! e dal ius conubii, le forme interne alle singole comunità coloniarie tendessero a modellarsi sugli schemi del ius civile romano. I meccanismi 'assimilatoli' del commercium e del conubium con i Romani potevano, direi, 'attrarre' le istituzioni locali verso i model li civilistici romani. Al di fuori di quell'insieme di rapporti coincidenti, come ho detto, con la sfera del commercium e del conubium è poi verosimile che, anche in ragione della stringatezza delle stesse leges datae (malgrado il loro articolarsi in una molteplicità di previsioni) restassero ampi silenzi colmati essenzialmente dalle pratiche locali e dall'impatto normativo dei procedimenti giudiziari: un punto quest'ultimo che, come invece appare pienamente attesta to dalle fonti epigrafiche, gli statuti coloniali dovevano regolamentare più chia ramente e articolatamente, insieme allafisionomiadella magistrature giudican ti ed alla definizione delle varie competenze in materia. Nel senso di questo progressivo avvicinamento degli ordinamenti priva tistici interni delle colonie latine al modello romano dovettero giocare infine ancora altri fattori come la stessa organizzazione gromatica del territorio della colonia latina. Giacché, anche se per essa potrebbe forse escludersi che la terra divisa e assegnata fosse originariamente oggetto del dominium ex iure Quìritium come nelle colonie civium Romanorum, lo schema territoriale appariva analogo. Molto verosimilmente, nel corso del tempo, ciò contribuì ad avvicinare il regime della proprietà 'latina' al modello del dominio quiritario(27). Né meno significativa in tal senso dovette essere la presenza di una forte componente di cittadini romani proprio al vertice della nuova colonia mente DE SANCTIS 1907a, 411 s., che tende a limitare in generale il valore autonomo dell'or dinamento municipale. Ma fondamentale, ai fini della revisione della sistematica mommseniana, inevitabilmente riduttiva dell'implicita ambiguità contenuta in tale riferimento, è BELOCH, 1880,117 ss., nonché 1926, 376 ss. Ebbene, se insistiamo in una lettura della cìvitas sine sufi-agio come orientata primariamente a integrare i beneficiari all'interno di un organi co sistema di rapporti giuridici con i cittadini romani, ma non atta anche a sopprimere imme diatamente e automaticamente tutte le preesistenti tradizioni giuridiche all'interno delle sin gole comunità e dei rapporti in esse tessuti, allora possiamo comprendere più agevolmente come tale concessione non escludesse una certa rilevanza internazionale della città beneficia ria: tale da legittimare la possibilità di \mfoedw tra di essa e Roma e non solo, come pur ragio nevolmente si è sostenuto, come ultimo atto, diciamo così, 'internazionale' della città assorbi ta in tal modo ali'interno dell'organizzazione municipale e della sovranità romana. (27> Cfr. sul punto, seppure indirettamente, TIBILETTI, 1973, 174. V. già WALTER, 1860, 340 e ntt. 83-85; v. però KORNEMANN, 1900, 583, e soprattutto GROSSO, 1965, 248: «nelle colonie
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latina(28). Certo, si insegna, essi cessavano di essere tali per assumere lo statu to di Latini: ma questo non vuol dire che essi si spogliassero altresì delle loro tradizioni per sottoporsi ad un diritto civile nuovo - quello latino - che, in quanto tale non esisteva e non era mai esistito, come ho già avuto occasione di sottolineare più sopra. Secondo questa ipotesi, che a me appare la più plausibile in assenza di dirette indicazioni delle fonti, la più ο meno massiccia derivazione del siste ma dei diritti privati adottato dalle varie colonie latine dai modelli romani non dovette essere tanto il risultato di una - probabilmente inesistente - delibera ta volontà di Roma di estendere i suoi modelli e il suo patrimonio giuridico, quanto della crescente debolezza e della difficoltà di un adeguato sviluppo autonomo delle realtà giuridiche periferiche. In effetti, man mano che le forme arcaiche delle istituzioni giuridiche romane vennero ammodernandosi e arricchendosi per il gioco concomitante di più fattori - dallo specializzarsi di uno ο più magistrati nello ius dicere, allo sviluppo di una scienza della interpretatio da parte di un gruppo coeso di sapienti, prima nei segreti del collegio pontificale, poi ad opera di una giuri sprudenza laica - si dovette accentuare la superiorità tecnica ed il valore esemplare del diritto romano rispetto alle altre tradizioni giuridiche*29*. Ed è
latine, per la loro posizione di città indipendenti, si acquistava la proprietà ex iure Latinorum». Interessante e più articolata mi sembra invece la posizione di LURASCHI, 1979, 280 s., che ricorda come «i Latini, e forse gli Italici, al pari dei Romani ... avevano la capacità di riceve re viritim assegnazioni di terreno», con il che Vager publìcus «veniva costituito in proprietà privata». Da ciò, mi sembra correttamente, l'a. deduce che, nel silenzio delle fonti si debba presumere che tali assegnazioni viritane ponessero i Latini nelle stesse condizioni dei Romani, come domini ex iure Quiritium* Naturalmente la partecipazione dei Latini alle assegnazioni viritane di terre in piena proprietà non attesta immediatamente la natura delle divisioni coloniarie, ma è un indizio importante da tenersi in conto adeguato. V. già LUZZATO, 1953,212 ss., 220 ss. ed anche LUZZATO, 1974, 550. (28
> Cfr. MARQUARDT, 1881,
1989, 278; GABBA, 1994, 37,
51 e nt. 10 (1889, 69 e nt. 6); BELOCH, 1880,
152; CORNELL,
50.
ο Mi sembra che, sotto questo profilo, l'idea di GABBA, 1994, 40, di una pressione romana esercitata sugli Italici anche attraverso vincoli ad essi imposti sia forse eccessiva (ma v. anche SARTORI, 1993, 261). Al contrario, si potrebbe essere sorpresi che addirittura essi tollerassero la coesistenza della cittadinanza loro concessa, sia pure sine suffragio, con la persistenza degli ordinamenti locali. L'unico vincolo di carattere generale che, prima della lex Mia dovette veramente giocare è quello costituito dalla sfera di competenza dei praefectì e dei magistrati romani rispetto alle magistrature locali. Ma su ciò v. infra, §§ 4, 5. È invece esatto che, in sin goli interventi, i Romani effettivamente mirassero ad una normativa uniforme anche all'inter-
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questo il punto che ebbe un ruolo determinante nel segnare la diversa forza espansiva ed i tempi diversi che caratterizzarono la sfera giuridica privatisti ca delle singole colonie latine rispetto alla vicenda romana. Lì, come in tante altre pòleis del mondo antico, la vita giuridica dovette restare relativamente stazionaria: le innovazioni dovettero passare, oltre che attraverso specifiche delibere delle magistrature e delle assemblee locali, attraverso la recezione delle più importanti innovazioni comiziali introdotte nella stessa Roma, men tre dovette in genere mancare l'elaborazione del patrimonio giuridico locale ad opera di un gruppo di specialisti nella riflessione scientifica e nelle tecni che del diritto. In virtù anche di questo aspetto così importante già negli ulti mi secoli della Repubblica, Roma diveniva inevitabilmente il punto di riferi mento di queste molteplici realtà ed un fattore trainante dei loro processi di trasformazione e di crescita. Di qui dunque la sua forza di irradiazione, nel corso della media età repub blicana, costruendosi, con la molteplicità dei centri cittadini che caratterizza il processo di romanizzazione della Penisola, anche l'impasto istituzionale di quel le che in qualche modo vediamo come le fondamenta stesse del sistema di pote re di Roma che si affaccia infine, per divenirne immediatamente il· protagonista, sul palcoscenico della grande politica mediterranea del III sec. a.C. E tuttavia in questi stessi fattori di successo del diritto romano è dato di cogliere una difficoltà quanto ad una rapida e indolore espansióne di esso. Il lettore mi perdonerà se debborichiamarmiad una considerazione già avan zata poco più sopra, ma mi sembra necessario ribadire come, proprio quella che io definirei la 'separatezza istituzionale' sia dei Prisci Latini che delle colonie latine, successivamente al 338 a.C,rispettoall'ordinamento romano
no di queste comunità. LECRIVAIN, 1904, 977, cita in proposito la lex Fannia cibaria del 161 e la lex Didia sumptuaria dei 143 a.C. (ROTONDI, 1912, 287 s., 295). Di particolare interesse è un'altro intervento legislativo romano, citato da Lecrivain, volto a reprimere forme di prestiti usurari e destinato ad applicarsi in Roma come nelle città federate e nelle città latine. Mi rife risco alla lexSempronia de pecunia eredita, del 193 a.C. (ROTONDI, 1912, 271). Stando anche a quanto leggiamo in proposito (cfr. soprattutto Liv., 35.7.2) questo intervento è assunto dai Comizi romani senza che si ponga nessun problema in ordine alla sua legittimità quanto all'ambito di applicazione. Alla luce della discussione svolta nel corso del precedente § 2, è plausibile che tutti i trattati con gli Italici prevedessero ex professo la unilaterale legittimità di Roma ad estendere le sue leggi? Io non lo credo. Su questi punti si v. ora GALSTERER, 1976, 131 ss., che tuttavia appare riduttivo, almeno nel caso della lex Sempronio.
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rendeva inapplicabile in loco, non già la mera recezione, in teoria, dell'inte ro corpus legislativo romano, ma del 'diritto privato romano' che, già alla fine del IV secolo e sempre più in seguito, era altra e più vasta cosa: dagli antichi mores non consacrati in leggi, alla interpretatio pontificale e laica, alla iurisdictio magistratuale. Non si deve pensare che questi problemi si ponessero solo per le colo nie latine, anche se, in questo caso, il vuoto istituzionale doveva essere comunque affrontato nel momento stesso della loro costituzione. Processi più ο meno analoghi dovettero preparare una graduale trasformazione della fisio nomia giuridica anche delle sopravvissute città del Latium vetus e, soprattut to, dovettero investire le stesse civitates sine suffragio. Questo naturalmente ove si ammetta, per queste ultime, la legittimità di una interpretazione come quella da me seguita circa la persistenza al loro interno dei preesistenti ordi namenti,riguardandola stessa civitas sine suffragio, essenzialmente la collo cazione dei cittadini di tali comunità rispetto a Roma. In effetti dello stesso valore della civitas sine suffragio sappiamo relati vamente poco: anche se appare abbastanza verosimile un mutamento ed un abbassamento del suo significato originario^ un'idea sostenuta da molti e autorevoli autori. Pur evitando di accogliere le idee di Saumagne in tutta la loro portata e pur riconoscendo l'esattezza delle valutazioni di Fraccaro in proposito(30), dobbiamo tenere presente il carattere relativamente transitorio di talefigura.Non tanto nel senso che essa, in quanto tale, fosse destinata a dis solversi rapidamente nella storia istituzionale romana: una realtà durata quasi tre secoli ha infatti in sé sostanza e radici sufficienti. Ma nel senso che i suoi confini erano facilmente superati con la rapida elevazione di molte delle comunità cui essa era stata attribuita, e in primo luogo del nucleo più antico di esse, alla piena cittadinanza romana. Né è comunque da sottovalutarsi il fatto che con il più organico assetto dato alla realtà italica da Roma, successiva mente alla guerra sociale, talefiguravenne definitivamente a tramontare. In genere non sembra che la dottrina moderna si sia particolarmente inte ressata del regime interno di queste comunità, nell'arco di tempo più ο meno (30)
Cfr. SAUMAGNE, 1965, soprattutto capp. 1 e II. V. peraltro FRACCARO, 1933, 107. Ma sul carattere di 'passaggio' della civitas sine suffragio per la piena incorporazione nella cittadi nanza optimo iure, v. già molto nettamente MADVIG, 1881, 39 S. (1882, 43 s.).
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lungo intercorso tra l'attribuzione della civitas sine suffragio e il passaggio alla piena cittadinanza romana. Sul punto tornerò più avanti: per ora mi limito ad accennare alla mera possibilità che le comunità gratificate della civitas sine suffragio continuassero, per i loro rapporti interni, a suis legibus utì. In tal senso, come vedremo, doveva giocare la persistenza delle lingue e dialetti locai?30.
4. 'Fundus fieri' Alla luce di queste mie considerazioni si può dunque ammettere che, nell'arco di tempo dalla dissoluzione della Lega alla guerra sociale vennero gradualmente maturando le condizioni per quella profonda svolta istituziona le costituita dalla lex Mia de civitate Latinis et sociis ciancia e dai successivi provvedimenti con cui si venne a concludere tra il 90 e Γ 88 a.C. la questione della cittadinanza agli Italici e la sanguinosa guerra che ne era seguita. In effetti non semplici e non pochi dovettero essere i problemi pratici ingenera ti da tali provvedimenti e dalla colossale trasformazione che ne seguì. In queste poche pagine che mi restano eviterò tuttavia di affrontare i più ampi e complessi temi costituiti dalla costruzione dell'ordinamento munici pale dell'Italia romana e dalla tormentata questione dei diversi regimi giuri dici e della diversa e molteplice configurazione delle colonie latine e dei municipi civium Romanorum. Cercherò piuttosto di completare la mia anali si delle forme e dei margini in cui l'espansione del diritto privato romano venne realizzandosi, limitata ο talvolta intrecciandosi con il vario persistere dei diritti locali(32>. Anche questo punto specifico evidenzia immediatamente (31)
Sul punto v. infra, § 6. La discussione parte dalle formulazioni di Festo e della epitome fattane da Paolo Diacono, s.v. municeps, municipium e praefectwae (LINDSAY, 117 [Paul.], 126, 155 [Paul.], e 262). Sull'altra indicazione di Geli., noci. Att,, 16.13.6, v. infra. Su questo tema centrale la letteratu ra è immane: gli autori più significativi sono comunque citati nel corso di queste pagine, tra cui va espressamente richiamato il contributo di BELOCH, 1880, 117 ss. e KORNEMANN, 1933, 573 ss.; v. anche, per un rapido elenco della bibliografia meno remota, MANNI, 1969, 65 ss., cui vanno ora aggiunti i lavori di Humbert e di Luraschi. Risulta indubbiamente innovativa l'inter pretazione proposta da KONOPKA, 1929, 591 ss., mentre, in una prospettiva evolutiva, giusta mente DE FRANCISCI, 1938, 44, ha soprattutto insistito sulla progressiva scomparsa delle diver sità tra municipi optimo iure, civitates sine suffragio ed anche di quella tra municipi e colonie. (32)
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alcuni problemi di particolare difficoltà. A tal uopo occorrerà anzitutto approfondire l'analisi di alcuni passaggi ciceroniani, in particolare alcuni brani contenuti nella prò Balbo. Il più importante è senz'altro costituito, a tal fine, da Cic, Balb., 21-22, che ho già sommariamenterichiamatonel precedente paragrafo ed in cui si fa menzione della lex Mia de civitate. Leggiamolo in tutta la sua estensione: ipsa denique Iulia, quae lege civitas estsociis etLatinìs data, quifunài populi facti non essent, civitatem non haberent In quo magna contentio Heracliensium et Neapolitanorumfuit, cwn magna pars in his civitatibusfoederis sui Ubertatem civitati anteferret. Postremo haec vis est istius et iuris et verbi, utfiindipopuli beneficio nostro, non suo iurefiant. Cum aliquiàpopulus Romanus iussit, id si est eiusmodi ut quìbusdam populis sive foederatis sive liberis permittendum esse videatur, utstatuant ipsi non de nostris, sedde suis rebus, quo iure uti velini, tum utrum funài facti sint an non quaerendum esse videatur: de nostra vero republica, de nostro imperio, de nostris bellis, de Victoria, de salute fundos populosfierinoluerunt*. L'aspetto che più direttamente interessa la mia ricerca concerne la pre cisa portata di un'espressione assai oscura comefundusfieri, che non da oggi, del resto, ha attirato l'attenzione dei moderni studiosi, con una molteplicità di interpretazioni che, tuttavia, qui tralascerò di discutere. A me sembra abba stanza plausibile la tendenza dominante a vedere in questa formula un riferi mento all'adeguarsi di una comunità ad un principio organizzativo romano, come elemento del suo sistema territoriale e, conseguentemente, a indicare l'accettazione di una norma propria di tale ordinamento*33'. Fundusfieri,par* Tr. it: infine proprio con la legge Giulia, con la quale si concesse la cittadinanza agli allea ti ed ai Latini, si stabiliva che quei popoli che non avessere aderito {fiindi facti essent), non godessero della cittadinanza. A tal proposito vi fu una grande discussione ad Eraclea ed a Napoli, poiché in quelle due città molti abitanti preferivano alla cittadinanza romana la libertà (in base al) trattato. Infine questo è il senso del termine: un popolo aderisce per questa nostra concessione non per suo diritto. Quando il popolo romano ha decretato una legge, se essa è tale che appaia possibile permettere a certi popoli sia federati che liberi di stabilire di qual legge vogliano avvalersi non nei lororapporticon noi, ma nei loro affari interni, in tal caso è legitti mo esaminare se vi hanno aderito (fiindi facti) ο no. Non si è voluto che (essi) aderissero al nostro stato, alla nostra sovranità, alle nostre guerre, alle vittorie ed alla nostra sicurezza. (33) V. soprattutto GABBA, 1994, 193 s., dove si recupera parzialmente l'antica valutazione di RUDOLPH, 1935, 176 ss. Ivi si incontra altresì un interessante richiamo ad una vecchia idea di Weber, relativa al valore originario ai fundus, su cui v. TORRENT, 1970, 58. Sul punto v. già CAPOGROSSI, 1990,
35.
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rebbe dunque indicare, per Cicerone, quelle comunità che assumono come proprie, liberamente, parti dell'ordinamento romano. In effetti il testo ciceroniano, nella sua prima parte - e con altri riscon tri anche nel seguito del discorso(34)- sembra identificare il contenuto del fun dus fieri con la recezione, da parte dell'ordinamento della colonia ο della città federata, di una ο di un'altra particolare norma romana: ora la Lex Furia, ora la lex Voconia ο qualche altre delle innumerabiles ... leges de civili iure ... latae. E questa è l'interpretazione ancora non troppo tempo fa riaffermata in un importante saggio di Bernardo Albanese. Egli infatti, partendo dalla esatta interpretazione dei passi ciceronia ni secondo cui «l'espressionepopuliis fundus factus alluda ad una accetta zione espressa, da parte dei municipes (già cives Romani, nella specie), d'una specifica lex Populi Romani», polemizza contro l'idea che, a propo sito della lex Mia gli Italici si fossero fatti fundi, come richiesto dalla legge stessa, in quanto avessero accettato la concessione della cittadinan za come un commodum ο un beneficium{35\ secondo una tesi mutuata da una particolare interpretazione di un'espressione contenuta in Cic, Ball·., 20(36). Farsi fundus, accettando, con espressa delibera, «costituzionalmente presa», la cittadinanza significa giustamente, per Albanese, che si richiama in proposito all'opposta scelta di Eraclea e di Napoli, l'avere perso con ciò anche la propria libertas, trasformandosi così in un municipium(37K All'uopo sarebbe dunque intercorsa una «accettazione espressa, da parte di una comu nità ... ο del regolamento giuridico posto da una legge romana, ο di un bene ficio ο commodum ... offerti da una legge romana»(38) Di qui anche la dupli ce interpretazione del possibile rapporto tra l'espressione fundus fieri, ricor rente anche in riferimento alla lex Mia de civitate, e la tanto dibattuta figuw d r . Cic, Balk, 27, 38, 42 e 48. <35> ALBANESE, 1973,9. 06) j v j cicerone afferma che il fatto di farsi fiindus, da parte di un qualche popolo, non com porta una diminuzione della condizione giuridica dei Romani, sed ut UH populi aut iure eo quod a nobis esset constitutum, aut aliquo commodo aut beneficio uterentur. Su questa alter nativa gli storici moderni si sono fondati per interpretare il fundus fieri previsto dalla lex Mia, secondo quanto di seguito indicato dallo stesso Cicerone, come riferito alla accettazione da parte degli Italici di un benefìcio loro concesso da parte di Roma. (37)
ALBANESE, 1973, 5 S.
«^ALBANESE, 1973,
17 s.
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ra dei municipia fundana che incontriamo, tra l'altro, nella tabula Heracleensis. Che sarebbero, appunto, le comunità che, in base alle legge suddetta ο ad altra legge, avessero acquisito la cittadinanza romana per i loro membri. Richiamandosi dunque alla sua interpretazione di fundus fieri, Albanese tende piuttosto a riferire la qualificazione in oggetto anche ο forse solo a «quei municipi che abbiano accettato, a prescindere da ogni problema di cit tadinanza, uno specifico regolamento giuridico elaborato da una lex romana per i cittadini romani»(39). In sostanza, piuttosto che interpretare il municipio fundano come inglobato nella comunità romana e riorganizzato sotto il pro filo istituzionale ad opera di un «commissario romano» istituito a tale scopo, Albanese sembra propendere per una interpretazione in parte diversa. Tale indicazione evocherebbe cioè la facoltà concessa dalla legge romana di 'appropriarsi' delle disposizione in essa contenute, autorizzando un magi strato ad «emanare delle leges datae (ovviamente corrispondenti, nella sostanza, alla legge romana m questione) da valere per il municìpiwn il cui popolo, facendosi fundus rispetto alla legge in discorso, avesse dichiarato di volersi avvalere della normativa romana»(40). In sostanza, conclude l'insigne romanista palermitano, con fundus fieri i Romani non avrebbero evocato l'accettazione della cittadinanza romana da parte delle varie comunità beneficiarie del provvedimento, ma la loro «accet tazione di una singola legge ο di un singolo plebiscito elaborato da Roma per i cittadini romani»(41). <39) ALBANESE, 197*,
19.
"
(40)
Cfr. ALBANESE, 1973,21. Da ciò egli conclude come la disposizione contenuta nella tavo la di Eraclea (CIL, 1.2", p. 482, n. 593) alle 11. 159 ss., «avrebbe attribuito a codesti magistrati delegati a dare leges la facoltà di modificare le loro stesse leges datae». {41) ALBANESE, 1973,22. L'a. prosegue nella pagina successiva, immaginando che i municipi fiindani fossero così designati in quanto comunità di cittadini romani, «in generale legibus suis et suo iure utentes - ma municipia che hanno accolto la possibilità, contenuta in una disposi. zione legislativa romana, di recepire un regolamento giuridico stabilito da Roma per i propri cittadini; e che con questa recezione, hanno accettato anche le modalità imposte da Roma: l'in sediamento del commissario e l'attribuzione ad esso di poteri molto ampi». Nel senso della possibilità di una parziale recezione della legislazione romana da parte di chi fundus fit, v. già TOUTAIN, 1904,2027, che estende questa duplice valenza anche all'età successiva alla lex Mia. Per lui infatti i municipia fundana citati da tale legge sono quelli «qui chez eux substituaient, totalement ou partiellement, le droit romain à leur ancien droit particulier». Su questo riferi mento si v. KORNEMANN, 1933, 585 ss.
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È indubbio che l'accento così riportato sul rapporto tra la singolare e oscura formula del fimdus fieri e l'aprirsi della comunità locale alle norme romane costituisce un notevole momento di chiarificazione di una proble matica peraltro assai oscura e non ben chiarita neppure dalla moderna sto riografia. E si comprende pertanto l'interesse e la sostanziale adesione che ha espresso, ancora di recente, Emilio Gabba, che tuttavia, mi sembra, nel dare una particolare lettura delle formulazioni di Albanese, ci aiuta a com piere un altro passo nella direzione giusta. Egli infatti rende più chiaro un punto restato in parte implicito nel discorso dello studioso palermitano allor ché precisa come, alla base delle due nozioni di municipiumfundanum e di fimdus fieri «sta una precisa e preliminare volontà d'accettazione da parte di chi cittadino romano non è, tanto più impegnativa quando, come nel caso delle ammissioni alla cittadinanza romana, questa preliminare accettazione significava larinunciacompleta ad uno status precedente di autonomia e di libertà»(42): E questa 'rinuncia completa' che mi interessa particolarmente e che, a mio avviso — ma credo anche per Gabba —, nonriguardasolo le capacità di autogoverno e le forme amministrative dalla comunità, ma anche il suo siste ma giuridico, ormai assimilato a quello romano e da Roma quindi dipenden te. In questo senso mi sembra esatta la correzione che De Martino aveva fatto a suo tempo della interpretazione di Albanese: nel senso che Wfundus fieri previsto dalla lex Mia ed a cui era subordinata l'estensione della cittadinan za, non era già l'accettazione di una qualche norma dell'ordinamento roma no, ma più in generale, di tutto questo ordinamento. E si capisce come, in tal modo, l'acquisizione della civitas romana venisse a sostituire con un nuovo sistema (il diritto privato romano nella sua totalità) quello originario delle varie comunità(43). Diventare cittadini romani significava, insomma, rinuncia re alla propria identità ed autosufficienza legale, accettare tutte le norme ed (42) GABBA, 1994,194, Cfr. anche p. 45 s., nonché, nello stesso senso, anche MANNI, 1947,81 ss., con discussione tuttavia priva di rilievo. Più importante invece, com'è ovvio, SHERWIN-WHITC, 1973, 130, e soprattutto l'esatta panoramica contenuta in KORNEMANN, 1933, 585 ss. V. ora LURASCHI, 1979, 31 e nt. 23 con altra lett, nonché GALSTERER, 1976, 162 ss. (43 > Cfr. DE MARTINO, 1973a, 54,357 s. e nt. 54. Cfr. già BONFANTE, 1934,240, nonché, GROSSO,
1960, 260 nt 2; TORRENT, 1970, 57 ss., nonché SESTON, 1973,42, e da ultimo HUMBERT, 1978,
296 ss., su cui v. infra, § 7. Meno preciso invece appare BRUNT, 1971, 521 e nt 4.
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istituzioni di un altro ordinamento che potevano essere estese, cessando così di suis legibus uti: il che spiega perfettamente la diversa scelta di città come Eraclea ο Napoli. Insomma, secondo questa ipotesi, per me la più verosimile, la lex Mia de civìtate sanciva la piena estensione della cittadinanza romana, con tutti gli effetti anche politici, a quelle comunità che avessero accolto - vincolandovisi - l'ordinamento romano nella sua interezza. È pur vero che il testo di Cicerone presenta sul punto una sostanziale ambiguità, insistendo piuttosto sulla recezione della singola legge, piuttosto che dell'intero sistema normativo di Roma, mascherando così quella che io ritengo essere la cesura intervenuta, con la lex Iulia, nel significato stesso delV espressione fimdus fieri. E tuttavia la portata della lex Iulia, cui del resto lo stesso Cicerone riconosce un valore di svolta, mi sembra abbastanza univo ca. Che senso avrebbe avuto, da parte dei Romani, subordinare l'efficacia dell'estensione della loro civitas alle comunità italiche alla accettazione, da parte di queste, di una ο di un altra qualsiasi norma del loro ordinamento: la lex Furia appunto ο la lex Voconial E perché allora, rinunciare a tale così limitata recezione avrebbe potuto significare quella libertas che Eraclea e Napoli antepongono alla civitas? Si capisce molto bene invece che la lex Iulia subordinasse la concessio ne della cittadinanza romana alla, diciamo così, 'autodissoluzione' del pree sistente ordinamento giuridico locale con la sua totale sostituzióne con il diritto romano. Un diritto romano esteso, con tutte le possibili mediazioni e adattamenti (penso all'ipotesi dei magistrati appositamente incaricati di ema nare gli statuti di ciascuno di questi nuovi municipi), ma sostitutivo, non inte grativo e con esso coesistente, del vecchio diritto di ciascuna comunità. Si sarebbe trattato, come ho ora accennato, di una profonda innovazione rispet to alle pratiche precedenti ed un mutamento di valore della stessa nozione di fundus fieri. L'unico modo, tra l'altro, di dare senso e di riempire di contenuto l'af fermazione ciceroniana sull'impossibilità di appartenere a due diversi ordi namenti: duarum civitatum civis noster esse iure civili nemopotest.
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5. Una pluralità di diritti Questa interpretazione, tuttora Tunica possibile ai miei occhi, si scontra tuttavia, almeno ad una prima approssimazione, con un'altra testimonianza costituita da un ben noto e non facile passo di Gellio che converrà riportare: Geli., noci Att., 16.13.6: municipes ergo sunt cives Romani ex municipiis, legibus suis et suo iure utentes, muneris tantum cum populo Romano honorari participes, a quo munere capessendo appellati videntur, nullis aliis necessitatibus neque ullapopuli Romani lege adstricti, nisi in quampopulus eorumjundusfactus est*. In effetti ha un certo fondamento la rivalutazione di questo passo fatta da Albanese, anche in considerazione del fatto che la definizione che ho qui riportato della nozione di municipio appare in qualche modo risalire ad Adriano, rispondendo alla richiesta di Italica di passare dalla condizione di municipio a quella di colonia(44). Sorprende tuttavia che proprio un giurista del calibro dello stesso Albanese mostri tanta sorpresa di fronte alla decisa svalu tazione che di questo passo era stata effettuata da molti autori, primo tra tutti dallo stesso Mommsen che aveva usato in proposito parole molto pesanti. In effetti i problemi che esso solleva sono addirittura drammatici e possono ben giustificare la tentazione di vedere nel testo di Gellio un «capolavoro di con fusione storico-giuridica e di commistione di antico e nuovo linguaggio»(45). La reazione mommseniana appare invero ben comprensibile, se si con sidera la portata pratica dell'indicazione di Gellio, sottovalutata, almeno a me pare, nella pur così sottile analisi di Albanese. Stando ad essa, infatti, dovremmo dunque concludere che, ancora nel secondo secolo d.C. esisteva un'ampia categoria di cittadini romani che non fruivano del diritto romano
* Trad.it.: (cittadini) municipali sono quei cittadini romani dei municipi che vivono secon do le loro leggi e il loro diritto, soltanto dividendo con il popolo romano gli oneri a titolo di onore, dal quale onere essi appaiono aver derivato la loro denominazione e non legati ad altro vincolo ο ad altra legge del popolo romano se non quelle recepite espressamente dalla loro comunità {populus fiindus factus). (44) Cfr. ALBANESE, 1973,7 ss., con ampia e persuasiva analisi anche del contesto in cui si col loca l'episodio citato da Geli., noci. Atu, 16.13.4 s. <45> Così MOMMSEN, 1887,796 nt. 3 (1889, VL2,444 nt. 3). Ma v. giàNiEBUHR, 1853, 387 nt. 121 (1830, 85 s. nt. 121). V. ora alcune interessanti considerazioni in VITTINGHOFF, 195la, 460 nt82.
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ma che vivevano secondo sistemi giuridici diversi, costituiti dalle leggi ance strali di ciascuna città e popolo dell'Impero. E questo, in fondo, non solo nella lontana Iberia, ma, perché no?, anche nella Penisola italica, che apparirebbe quindi tutt' altro che unificata - sotto il profilo del diritto vigente - ancora seco li dopo gli ormai remoti provvedimenti seguiti alla guerra sociale. Ora io non credo che neppure Γ illustre romanista palermitano sia dispo sto a trarre tali conclusioni dalla testimonianza gelliana, il che, tuttavia, ci costringe a rinunciare ad interpretarla in forma generalizzante, come valida per ogni tempo e per ogni tipo di municipio. D'altra parte è pur Vero che la radicale critica di Mommsen all'intera portata del testo di Gellio è senz'altro riconducibile anche all'impostazio ne di fondo del grande storico fortemente orientato, soprattutto nel suo Staatsrecht, a dare un quadro sistematico troppo omogeneo e coerente del l'intera organizzazione municipale romana. Il che lasciava poco spazio a quelle ombre ed a quelle apparenti contraddizioni nella documentazione antica che costituiscono verosimilmente la traccia significativa di grandi e complessi processi di trasformazione di forme talora anche molto primiti ve, in un arco di tempo che copre non pochi secoli, sino all'età del Principato. L'età alla quale, in genere, questi stessi documenti - è il caso di Gellio - appartengono, pur sovente proiettati a rappresentare situazioni più antiche. Ed è proprio a questa 'stratificazione' di riferimenti che è invece rivolta la mia attenzione, al fine di avvalermi di tali contraddizioni come evidenze sintomatiche di una trasformazione più antica, piuttosto che di un'incomprensione dell'osservatore. Un orientamento, il mio, del resto ben presente in quella nuova sensibi lità per le interne contraddizioni e la disomogeneità del processo di romaniz zazione delle realtà italiche che ha segnato la storiografia di questo secolo: da Rosemberg a Sherwin-White ed ai molti altri autori che siamo venuti consi derando nel corso di queste pagine. È proprio in questa prospettiva che a me sembra possibile trovare una chiave di interpretazione volta aridurrela portata del testo di Gellio nella sua stessa prosecuzione. Immediatamente di seguito a quanto abbiamo letto, Gellio infatti richiama il primo caso di municipes sine suffragio rappresenta to dalla concessione fatta dai Romani della loro civitas sine suffragio a
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Cerveteri, come ricompensa per aver ospitato i sacra romani durante l'inva sione gallica(46). Ammettendo, come abitualmente si ritiene, che la nozione di municipio comprenda in verità più situazioni giuridiche tra loro differenziate, ci si potrebbe rivolgere a quella che probabilmente è la più antica di esse e la meno duratura nella vicenda romana - il municipio dei cives sine suffragio per identificare in questo la singolare situazione di «Doppelburgerschaft» così singolarmente rappresentata in Geli., noci Att., 16.13.6. Del resto que sto trova fondamento anche nella notissima indicazione festina fondamenta le per la nostra conoscenza del regime ο dei regimi municipali. Paul.-Fest, s.v. municipium (LINDSAY, 155): municipium id genus hominum dicitwr, qui cum Romam venissent, neque cives Romani essente participes tamen fuerunt omnium rerum ad munus fungendum una cum Romanis civibus, praeterquam de suffragio ferendo, aut magistratu capiendo; sicut fuerunt Fundani, Formiani, Cumani, Acerrani, Lanuvini, Tusculani, qui post aliquot annos cives Romani effecti sunt*. Si è in genererilevatocome tale indicazioneriguardassepiuttosto la posi zione personale del membro di tali città, nel suo rapporto con Roma, che non la fisionomia giuridico-istituzionale della città stessa. Tanto da circoscrivere l'in dicazione a quegli «individus, originaires des cités italiques, qui sont venus s'installer, élire domicile à Rome»(47). Ma d'altra parte, quanto al contenuto, il secon do tipo di municipi indicato da Festo pan-ebbericalcareil modulo ora conside rato, salvo che si tratterebbe, in questo caso, di una condizione dell'intera comu nità e non del singolo: alio modo, cum id genus hominum definitur, quorum civi<46)
Cfr. Geli, noci. Att., 16.13.7: primos autem municipes sine suffraga iure Caeritesfactos accepimus concessumque illis ut civitatis Romanae honorem quidem caperent, sednegotiis tamen atque oneribus vacarent, prò sacris bello Gallico receptis custoditisque. [Tr. it: noi sappiamo che gli abi tanti di Cerveteri sono stati i primi municipes senza il diritto di voto, e che fu concesso loro di avere l'onore della cittadinanza romana, senza esser gravati dai doveri e dagli oneri, come compenso per aver accolto e custodito i sacra (dei Romani) durante la guerra con i Galli]. * La traduzione italiana del lemma festino potrebbe essere la seguente: municipio è detto quel la categoria di persone che, essendo venute a Roma e non essendo cittadini romani, partecipasse ro insieme ai Romani di tutto ciò che comportava la cittadinanza romana quanto alle funzioni {munus è stato egualmente interpretato come 'carichi' ο come 'onori') senza tuttavia avere il dirit to di voto ο di assumere delle magistrature, così furono gli abitanti di Fondi, di Formia, di Cuma, di Acerra, di Lanuvio, di Tuscolo, che dopo qualche anno sono stati fatti cittadini romani. (47) Così TOUTAIN, 1904, 2023; v. anche BERNARDI, 1938, 239 ss.
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tas universa in civitatem Romanam venti, ut Ariani, Caerites, Anagnini. È questa seconda notizia che ciriguardapiù direttamente, evocando la situazione delle comunità cui era stata concessa, nella loro globalità, la cratas sine suffragio, come, appunto, in origine Caere, e poi, nel 338 a.C, diver se altre città latine(48). Ebbene anche qui sembra che tale statusriguardiessen zialmente il rapporto con Roma e non investa in alcun modo la persistenza ο meno dell'antica res publìca con le sue istituzioni interne e le sue tradizioni. Persistenza che appare invece evocata in un altro ben noto lemma festino, nel quale si richiama il pensiero di Servio. Fest., s.v. municeps (LINDSAY, 126): ... at Servius filius aiebat initio fuisse, qui ea conditìone cives fuissent, ut semper rempublicam separatim a populo Romano haberent, Cumanos, Acerranos, Atellanos, qui aeque < cives Romani erant et in legione merebant, sed dignitates non capiebant > (49). Si tratta, qui, di una formula che coinciderebbe perfettamente con l'idea, già accennata nel corso dei precedenti paragrafi, per cui la stessa concessio ne della civitas sine suffragio ad una comunità cittadina, non necessariamen te segnava l'estinzione del suo preesistente ordinamento, costituendo piutto sto un rafforzamento della integrazione giuridica tra tale comunità e Roma, ma lasciando che i cittadini di quella continuassero a fruire delle loro prece(48)
E opinione corrente che le varie indicazioni degli antichi attengano alla presenza di due diversi livelli delle comunità di cives sine suffragio. Il problema che si pone tuttavia è la con dizione inferiore di quelle comunità di 'diritto cerite' che appare contraddittorio col carattere di beneficio a titolo di ricompensa per l'ospitalità fomite da Cere ai Romani durante l'inva sione gallica e che, pur tuttavia, rappresenta una condizione inferiore all'altro tipo di civitas sine sufi-agio. Cfr. MOMMSEN, 1887,233 ss. 572 s. e nt. (1889, V I I , 262 ss.; VI.2, 184 s. e nt 1), MANNI, 1947, 57 ss., e soprattutto SORDI, I960,passim, spec. p. 107 ss. V. anche TIBILETTI, 1961, 242 ss. (49) L'integrazione dell'editore è ragionevolmente effettuata in base al corrispó'ndente pas saggio di Paul.-Fest., s.v. municeps (LINDSAY, 117). Sia in BRUNS, 1887, 344, e 1909, 15, seguito da MOMMSEN, 1887,235 nt 1 (1889, VI.l, 265 nt.1), che in SECKEL, 1908, 36, Servius Sulp. n. 18, si recupera il testo a Servio, sottraendolo a un ipotetico 'figlio', frutto di una cat tiva tradizione manoscritta (v. MANCINI, 1996, 110 s. ntt. 250-251). Il problema delle testimo nianze festine è radicalmente e compiutamente riconsiderato nell'interessante contributo di MANCINI, 1996, 43 ss. La sua problematica trascende comunque il mio punto di vista, salvo, appunto, che sul contenuto della definizione serviana in ordine dMhabere rempublicam sepa ratim su cui tornerò nel corso del successivo paragrafo. Le testimonianze festine, anche in considerazione della loro obiettiva importanza e per la intrinseca difficoltà, sono state al cen tro di un ampia discussione, sin dal secolo scorso che non appare certo in via di superamento ο essersi attenuata nel corso del tempo. V. per tutti KORNEMANN,- 1933, 573 s., soprattutto con riferimento alle diverse figure di municipes.
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denti tradizioni giuridiche nei rapporti tra loro(50). Non solo, ma in questo contesto così fluido si inquadra anche un'altra indi cazione contenuta nella/?ro Balbo, e ripetuta nel testo di Gellio, che non possia mo certo dimenticare. Mi riferisco a questo farsi fimdus da parte dei vanpopuli e comunità, relativamente a singole norme e istituti romani. Ho già affrontato la situazione delle colonie latine: ma più in generale anche per gli altri tipi di mimicipia è possibile che, anteriormente alla guerra sociale, il processo di sostituzio ne del sistema giuridico romano ai vari ordinamenti locali sia avvenuto in forma graduale e, direi, a 'macchia di leopardo'. È possibile cioè che persino nel caso di municipi cui sia stata attribuita la piena cittadinanza romana ο che siano pas sati a questa dalla cmtas sine suffragio, - ciò che, come noi sappiamo, avvenne per buona parte delle città sine suffragio pochi anni dopo il 338 a.C - , l'acquisi zione della cittadinanza romana non abbia immediatamente ed automaticamente comportato la soppressione degli ordinamenti locali. (50) Di fatto questa tesi sviluppa una prospettiva ben presente nella nostra tradizione e che aveva avuto la sua formulazione più netta con la Sordi, la cui generale interpretazione della originaria attribuzione della civìtas sine suffragio riconduce questa ad un carattere di recipro cità e, evidentemente, di natura internazionale. Il riferimento implicito è alVisopolitèia greca che ho già ricordato in precedenza (v. anche supra, p. 53 ss. nonché GABBA, 1990, 54). Tenderei ad escludere che di vera reciprocità si trattasse, bensì di una trasformazione in senso unilaterale dello spazio - quello sì tipicamente bilaterale - garantito ai cittadini delle due parti mediante il commercium e il conubium. È questo, mi sembra, il margine di coincidenza con il brillante tentativo di Konopka di ricondurre la stessa originaria configurazione della civìtas sine suffragio e la natura dell'organizzazione municipale ad uno schema di carattere interna zionale (v. in particolare KONOPKA, 1929, 596, 599, e soprattutto 602), che tanta incidenza ha avuto sulla storiografia più recente. Anch'io, come del resto a più riprese ho accennato, aderi sco a questo schema, trascurando tuttavia la possibile assimilazione ai modelli greci, e, soprat tutto, insistendo sul sostanziale modificarsi dello schema base costituito dalle reciproche con cessioni di commercium e conubium. Ritengo infatti, come ho già accennato, che l'attribuzio ne della civìtas sine suffragio facesse venir meno la reciprocità della forma di tutela assicura ta allo straniero mediante la sua assimilazione al cittadino (e quindi la formale pariteticità dei due ordinamenti). Si impone così il carattere univoco del legame - che tuttavia resta, se voglia mo, all'interno di un sistema di 'diritto internazionale privato' - che unisce i cittadini apparte nenti alle due diverse comunità e che, ora, a mio avviso, è costituito solo dal diritto romano. MOMMSEN, 1887, 582 ss. e 778 (1889, VI.2, 197 ss. e 423 s.), riconosce alle città sine suffra gio del livello 'superiore' una capacità di autorganizzazione con loro magistrati e assemblee e tuttavia esclude anche per queste «l'esistenza di un diritto proprio»; nello stesso senso si era espresso anche MADVIG, 1881, 39 (1882,43 s.). Sul punto v. anche MANNI, 1947, 57 ss., 63 s. BELOCH, 1926,498, egualmente insiste sulla conservazione del loro precedente statuto da parte dei municipi (anche optimo iure) dopo la loro incorporazione nella cittadinanza romana. Posseggo la copia di RUDOLPH, 1935, che era di proprietà di de Francisci, densa di note auto grafe dell'indimenticabile Maestro romano, in genere piuttosto critiche nei riguardi dell'auto re (ciò che del resto è confermato in DE FRANCISCI, 1913, 137 e soprattutto 1938, 24: tra Tal-
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Con la grande cautela postulata dallo stato delle nostre conoscenze sarei tentato di identificare il contenuto della cesura costituita dalla lex Mia e dagli altri provvedimenti successivi alla guerra sociale nella compiuta identifica zione della concessione della cittadinanza romana con la dissoluzione degli statuti giuridici locali a seguito di una delibera di fimdns fieri da parte della singola comunitàfinalizzataalla ricezione dell'intero sistema giuridico roma no. È un punto che ho già indicato allafinedel precedente paragrafo: per l'età precedente si potrebbe invece immaginare, sulla base delle singolari indica zioni degli antichi, che tale radicale alternativa non fosse ancora proposta in modo così coerente. In tal fase Mfundusfierioperato non solo dalle colonie latine (a ciò, in effetti, perfettamente legittimate dal loro statuto formalmen te indipendente) ma anche dai municipi di cives sine suffragio avrebbe potu to riguardare singoli istituti giuridici romani, conservandosi in vigore, per il resto, il vecchio ordinamento locale(51). tro ivi è di grande significato l'inciso dell'a., che per le più antiche comunità sine suffragio, di 'diritto cerite', parla dei loro cittadini come aventi il commercium e il conubium coi cittadini romani: ponendosi quindi, mi sembra, sulla stessa linea interpretativa che io qui ho ripreso). È interessante come vi si possano leggere due annotazioni che parrebbero testimoniare un deciso convincimento nel senso della persistenza degli ordinamenti locali. A p. 44, airaffermazione di Rudolph «so scheinen die betreffenden e/c», de Francisci annota infatti «e quindi si deve pre supporre sempre una tradizione locale, da cui dipendono le differenze!!», ed a p. 48, alla frase «auch die Drei-Aedilen-Ordnung ist demnach ròmischen Ursprungs», il nostro Maestro annota egualmente: «ma non potevano esistere prima? perché i Romani avrebbero introdotto tante varietà se non per adattarsi a tradizioni locali?». Questo tuttavia solo indirettamente vale per gli aspetti del regime giuridico privatistico interno a tali comunità. Sotto questo profilo non si può dire che de Francisci sia andato oltre la posizione di Mommsen ο di Marini. Su tali questioni, oltre alla chiara esposizione di KORNEMANN, 1933, 578 s., cfr. anche supra p. 125 ss., ma v. soprattutto la chiarissima posizione di LUZZATO, 1960,800, in adesione alla interpretazione pro posta dalla Sordi dell'originaria natura della civìtas sine suffragio riconosciuta ai Ceriti: «che la civitas sine suffragio sia stata, originariamente, anziché una forma di annessione, una condizio ne di privilegio, conferita ad una comunità che conservava la più piena indipendenza, sia sul piano deiramministrazione intema che dei rapporti internazionali ... tenderei a ritenerlo, più ancora che un'ipòtesi estremamente convincente, unrisultatopressoché acquisito» da cui Γ in dimenticabile maestro concludeva, sempre in adesione alla interpretazione «delle autonomie locali» data da Sordi, Sherwin-White e dallo stesso De Visscher (su cui v. infra, § 9), sottoli neando Γ «importanza che le comunità italiche attribuivano alla conservazione dei propri ordi namenti interni, a preferenza del vincolo che le legava a Roma» e ribadendo come questo stes so «vincolo non era, originariamente, sentito come una forma di sudditanza». (5,)
Un autore che sembra essersi mosso nella stessa direzione di quella da me ripresa appare anche SESTON, 1976, 34 ss., 42, 44 s. e 1978, 31. Per quantoriguardala situazione determina tasi a seguito della lex Mia, v., sia pure con ottica prevalente per le istituzioni amministrative e le strutture territoriali, LAFFI, 1973, 40. Ma v. soprattutto, per il punto qui considerato, SAUMAGNE, 1965, 27; LURASCHI, 1983, 265 nt. 13 e 1986, 509
ss.
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Secondo questo schema ci troveremmo di fronte ad una situazione dif ferenziata e non solo dal punto di vista cronologico: per l'età anteriore alla lex Iulia infatti si avrebbe un'espansione episodica e saltuaria del diritto romano ali'interno delle varie comunità subordinate a Roma. Non solo le colonie lati ne e ancor più i residui Prisci Latini continuavano a fruire di loro propri auto nomi ordinamenti. Il che, come ho detto, dovette aversi anche per i municipi sine suffragio. È chiaro che un'ipotesi del genere, non solo legittima l'idea di una qualche forma di 'doppia cittadinanza', ma postula in generale un'efficacia relativamente limitata delle concessioni della civitas sine suffragio: quel l'efficacia da me precedentemente accennata e orientata soprattutto a defi nire i rapporti dei membri del municipio con Roma, piuttosto che i loro interni rapporti. Più incerto resto di fronte all'ipotesi che una situazione analoga ο simi le caratterizzasse anche le civitates optimo iure. Insomma io continuo a nutri re qualche dubbio che, sulla base di Geli., noci. Att., 16.13.6, si possa soste nere che, sinanco dopo la progressiva elevazione, soprattutto nel corso del III sec. a.C, dei municipi sine suffragio alla cittadinanza romana optimo iure, fosse stata tollerata la persistenza degli statuti privatistici locali, ma su questo punto avremo occasione di tornare ulteriormente poco più avanti(52). A maggior ragione questa eventualità mi sembra da scartarsi per la situazione successiva all'estensione della cittadinanza agli Italici. Come si è (52)
Sarebbe molto importante, se sicuro, contro tale eventualità quanto sostenuto da KONOPKA, 1929, 598, circa la contrapposizione tra la concessione della cittadinanza optimo iure e il suis legibus uti: evidentemente incompatibile con la civitas Romana stessa. In propo sito si richiama la condizione degli Ernici successivamente al 306 a.C. Essa attesterebbe indi rettamente che la concessione della civitas cum suffragio comportasse Γ impossibilità di con servare la propria civitas. Ma il passo di Dionigi, citato in proposito, non è affatto pertinente perché ci riporta all'indietro alla condizione originaria del foedus Cassianum ed alle oscure vicende dei conflitti intorno alle terre pubbliche (Dion. Hai., 8.72), mentre Liv., 9.45.7 s., con trappone sì le suae leges degli Ernici alla civitas romana. Esso tuttavia, contrariamente alla let tura di Konopka, e sulla base della precedente trattazione di Liv., 9.43.23 (su cui v. infra, nt. 67), quasi sicuramente si riferisce non già alla civitas optimo iure, ma a quella sine suffragio. Ove non si desse all'intera contrapposizione tra la cittadinanza romana e la autonomia giuri dica il valore di riferimento ad una piena autonomia sovrana, sarebbe la nostra stessa ricostru zione della relativa autonomia istituzionale dei municipi sine suffragio a venir meno. E ancor più radicalmente sconfessata sarebbe l'idea ancor più radicale dello stesso Konopka di un vero e proprio carattere intemazionale tra i municipi sine suffragio e Roma: di qui il valore strate gico dell'interpretazione del testo liviano ora ricordata.
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visto nel corso di queste pagine io non sono orientato ad escludere in par tenza un'ipotesi del genere, pur così lontana dalla nostra stessa esperienza. Ma, ove si escluda, come è senz'altro legittimo, tale ipotesi, anche in ragio ne dell'insufficiente valore probatorio del testo di Gellio, allora si dovrà ripiegare su una interpretazione più riduttiva del suo significato, forzandone la portata letterale, come quella da me qui tentata, spostandone la rilevanza verso la più antica fase della formazione del sistema municipale romano, anteriormente alla sistemazione del 90/89 a.C. ο agli anni a questa di poco successivi: Si tratta di problemi difficilmente esplorabili per lo stato delle fonti anti che. Ma soprattutto, ancora una volta, suscita qualche perplessità il modo abbastanza distratto con cui tali difficoltà sono state sfiorate dalla letteratura moderna. Un disinteresse che è, per certi versi, un problema esso stesso, così consistente e generalizzato all'interno di una letteratura - quella relativa appunto all'ordinamento municipale - di un impressionante spessore e ric chezza sia per gli aspetti quantitativi che qualitativi. Io credo che una ragione di ciò sia dovuta proprio al peso che ha avuto, in questa letteratura, il problema della dimensione diciamo così 'politica' del l'autonomia municipale come da ultimo è stata così efficacemente evocata nel saggio della Mancini(53). Era del resto in qualche modo inevitabile che, ratione materiae, l'intero dibattito fosse pressoché monopolizzato da studio si primariamente, se non esclusivamente, impegnati ad approfondire gli aspetti del diritto pubblico, se non quelli direttamente afferenti alla storia politica di Roma. E, del resto, per laricostruzionedel processo di espansio ne del potere romano nella penisola italica, tra la seconda metà del IV e gli inizi del I sec.a.C. appare di per sé evidente l'assoluta centralità della proble matica affrontata da chi ha studiato la storia della colonizzazione romana e la genesi e i primi sviluppi dell'ordinamento municipale. A ciò si deve anche aggiungere che non poco ha continuato a pesare nell'indirizzo dei nostri studi la grande sistemazione mommseniana da me giàrichiamatapoco più sopra.
*53> Cfr. MANCINI, 1996,112 ss.
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6. La differenziazione delle comunità dipendenti e gli statuti giuridici locali Il punto di vista che ho cercato di privilegiare in queste pagine è, in qual che modo, diverso: ο meglio, volto a integrare la prospettiva ora accennata e che, soprattutto nel corso di questo secolo è venuta concentrandosi sul com plesso rapporto tra le realtà istituzionali italiche e il processo espansivo roma no. Ma sempre, da Rosemberg a Sartori ed a Sherwin-White e sinanco ad Humbert, prevalentemente, se non esclusivamente circoscritta a quegli aspet ti politico-istituzionali che segnavano indubbiamente nel modo più evidente le dimensioni e le forme di persistenza di un sistema di autonomie. Anche in queste pagine ci si è venuti interrogando su questo problema, ma affrontandolo da un altro punto di vista. Si è così cercato di riflettere, non già sulla forma istituzionale e sui livelli di autorganizzazione lasciati all'autono mia delle popolazioni e delle comunità investite dalla espansione romana, ma sugli effetti di questa: più specificamente sul modificarsi, sul persistere ο sul radicale cancellarsi della forme che regolavano i rapporti di diritto privato all'interno di ciascuna comunità e popolo. Non che la nostra tradizione di studi non si sia riferita anche a questo aspetto, come vedremo di seguito: ma la rapidità con cui essa vi ha fatto cenno si spiega proprio per le difficoltà di partenza che si pongono al mio stesso tipo di interesse. Non possiamo infatti dimenticare quanto poco sap piamo di queste realtà, scomparse praticamente senza lasciar traccia per l'e norme superiorità che il sistema giuridico romano doveva avere acquisito già negli ultimi secoli della repubblica. Una scomparsa relativamente indolore, certo assai più indolore del cancellarsi delle lingue e dei dialetti locali, e pro babilmente più rapida e radicale del complessivo dilacerarsi dei culti, delle tradizioni, in una parola, delle culture di queste popolazioni. Se, come tendo a ritenere e come ho già sostenuto nel corso delle pagi ne precedenti, il fundus fieri della lex Mia introduceva un'alternativa più netta e radicale tra la prosecuzione del suis legibus uti e il diritto romano di quanto non fosse in precedenza, l'opzione non solo era facilitata dal lungo processo di assimilazione e dal reticolo di relazioni politiche, sociali, econo miche e quindi anche giuridiche, tra le élites locali e i Romani già da tempo
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esistente. Essa appariva quasi inevitabile se si considera il livello di sviluppo affatto particolare - persino rispetto ai grandi modelli delle pòleis greche che il diritto, come insieme di norme e di saperi, aveva avuto in quella Roma in cui aveva già operato più di una generazione di giuristi, sino a Mucio Scevola. E se si confronta ciò con il verosimile livello cui le pratiche locali erano restate: ma di ciò ho già fatto cenno in precedenza. Certo la relativa arretratezza di questi sistemi giuridici 'locali' resta abbastanza ipotetica; ipo tesi fondata più 'in negativo', in considerazione della relativa facilità della loro dissoluzione, che non sulla base di una documentazione reale in propo sito: con tutte le debolezze di questa forma di argomentare e silentio. Ma anche su questo punto abbiamo incertezze e dubbi: giacché non siamo ben certi che da un giorno ad un altro questo processo si sia realizzato ο non abbia piuttosto coperto un arco di tempo più lungo, anche per l'intrin seca difficoltà di estendere in modo troppo radicale e improvviso un sistema così articolato e, direi, 'stratificato' nei suoi diversi elementi costitutivi, come quello che noi chiamiamo il 'diritto romano' alle più remote aree ed alle comunità alla periferia della Penisola. Mi sembra almeno più prudente rinun ciare a vedere nei provvedimenti seguiti alla guerra sociale l'equivalente di quei tipi di modernizzazione forzata e accentrata cui la nostra esperienza sto rica più ci avvicina: a partire dalle vicende napoleoniche, che in pochissimi anni hanno cambiato faccia e struttura delle società che ne furono investite. Il nostro interesse maggiore, peraltro, nonriguardaciò che è seguito alla guerra sociale, ma si volge piuttosto al lungo processo intercorso nella fase precedente e che appare, appunto, dominato dal sistema delle colonie da una parte, dall'altra dalla concessione della civitas optimo iure ο sine suffragio alle comunità preesistenti. Per cercare di chiarire ulteriormente questi aspetti converrà riprendere rapidamente le fila complessive del discorso, giacché esso si è venuto dipa nando in una serie di problemi, in parte paralleli, ma diversamente proponi bili a seconda delle diverse fattispecie con cui Roma, sin dal IV sec.a.C. almeno, è venuta intrecciando a sé la complessa realtà del Latium vetus prima, dell'Italia peninsulare poi. E a tal fine il lettore dovrà nuovamente scu sarmi per il mio tornare a temi già sfiorati nel corso di questo capitolo, ma anche, come per la civitas sine suffragio, nei capitoli precedenti.
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Sintetizzerò le pur caute e provvisorie conclusioni cui ho ritenuto, sin qui, di poter pervenire: a) tutte le città appartenenti alla lega Latina,, anterior mente al 338 a.C. sono soggetti autonomi dal punto di vista internazionale e fruiscono ciascuna di un loro specifico ordinamento anche privatistico; b) sin dalla costituzione del foedus Cassianum si pone tuttavia un problema parti colare per le colonie della Lega, verosimilmente ammesse, una volta costi tuite, alla partecipazione della Lega stessa. Noi ignoriamo infatti in modo radicale quale fosse lo statuto - s i a politico-istituzionale che relativo alla sfera dei rapporti di diritto privato - imposto alla nuova colonia dai fondato ri ο successivamente adottato dagli organi stessi della colonia; e) quest'ulti mo problema si propone egualmente anche per le colonie latine fondate da Roma successivamente al 338 a.C. Esse, diversamente da quelle civium Romanorum, godono di un loro proprio statuto giuridico, non solo, com'è ovvio, dal punto di vista politico-amministrativo, ma anche sotto la sfera del diritto privato e di una loro propria autonomia normativa: ma ancora per que sta età successiva nulla sappiamo circa il contenuto effettivo dei diritti secon do cui vivevano i cittadini di tali colonie; d) l'insieme delle facoltà concesse ai loro cittadini e indicato in seguito come ius Latii - sia che fossero eguali a quelle di cui fruivano originariamente i membri della lega Latina prima della sua dissoluzione, sia che fossero diverse - è l'unico aspetto, bene illuminato dalle fonti antiche e ampiamente trattato dai moderni. Esso tuttavia nulla ha a che fare con il problema della condizione giuridica dei Prisci Latini ο dei Latini coloniali nella loro comunità. Questo insieme di diritti di cui stiamo qui parlandoriguardainfatti la posizione dei Latini rispetto a Roma ed al suo ordinamento. In altre parole la prospettiva in cui èriguardatala condizione dei Latini ha privilegiato in maniera esclusiva la condizione di costoro rispet to ai cittadini romani e la loro posizione all'interno dell'ordinamento roma no, trascurando il regime che doveva pur regolare la loro condizione alVinterno della loro stessa comunità d'appartenenza; e) con ogni probabilità le colonie latine tendevano ad adottare singoli istituti ο addirittura interi blocchi normativi, mutuandoli dal più evoluto diritto romano: un'operazione del genere viene evocata dagli antichi con la singolare espressione fiindus fieri; f) un parziale mutamento di significato di tale formula avviene, secondo la mia ipotesi con i provvedimenti di concessione della cittadinanza agli Italici,
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dopo la guerra sociale. Allora infatti la civitas romana è estesa a quelle comu nità che accettano di fiindus fieri rispetto alle leggi romane. In tal caso si trat ta non già di recepire l'una ο l'altra norma romana, ma l'intero ordinamento (privatistico) di Roma in sostituzione delle proprie tradizioni giuridiche, del proprio 'diritto civile' locale. Problemi non troppo dissimili, almeno in parte, ho ritenuto di poter cogliere nella singolare figura della civitas sine suffragio. Senza infatti segui re sino in fondo l'impostazione più radicale di Saumagne ο di Schònbauer*54* mi sembra possibile cogliere un ordine di idee che si viene imponendo in modo decisamente persuasivo nella storiografia contemporanea che tende a sdrammatizzare il nodo complessivo costituito dalla figura del ο dei municipia, nonché quello della natura stessa delle diverse condizioni collegate alla civitas sine suffragio. Si tratta, a ben vedere, di una prospettiva che tende a evitare le secche della costruzione di un sistema coerente ma statico, che urta con il carattere contraddittorio delle fonti antiche, per insistere piuttosto sulle dinamiche interne ai singoli istituti e sulla loro ricollocazione in un più gene rale processo di trasformazione dei rapporti tra Roma e gli Italici atto a riflet tersi sul significato stesso della singola figura. Così, in modo esemplare, ancora una volta Sherwin-White ci ricorda come gli «interpreters of early Roman history are open to the dangér of giving too static an account of Roman institutions», sia per la proiezione all'indietro del successo politico del modello romano e della sua centralità, che per il fatto che «the institutions which Rome employs do not change their names with the change in their meaning». E questo, a detta del bravo storico, riguarda particolarmente proprio la figura della civitas sine suffragio^. Ciò che, appunto, mi trova pienamente consenziente. (54>
E ben nota la stimolante tesi di SAUMAGNE, 1965, 37 ss., che tende a individuare nella Latinitas essenzialmente una situazione transitoria, funzionale al processo di assorbimento delle comunità peregrina all' interno della civitas Romana, nel complessivo processo di muni cipalizzazione dell'Impero. SCHÒNBAUER, 1950, 124 ss., insiste piuttosto sulla qualificazione di municipium in termini relazionali rispetto all'ordinamento romano, isolando tuttavia que sto aspetto dalla condizione interna dei membri di tale comunità che assumevano così una forma di duplice fisionomia giuridica. La tesi della doppia cittadinanza dei municipes che suis legìbus utuntur e che tuttavia appartengono alla civitas Romana viene così formulata nei suoi termini più radicali. Essa, restando tuttavia isolata nella letteratura successiva, costituisce comunque un punto di riferimento non obliterabile. ^ <55) SHERWIN-WHITE, 1973,
39.
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Ora se noi partiamo dall'idea che «the acceptance ofcivitas sine suffra gio did not destroy the separate existence of the res publica of the folk concerned»(56>, questo si applica inevitabilmente anche all'insieme di regole e tradizioni giuridiche della comunità: come ho già accennato a più riprese, la cìvitas sine suffragio assume significato nel definire il rapporto della comunità stessa, anzi dei suoi membri, con Roma. Ed è proprio in questa prospettiva che abbiamo visto come Sherwin-White giungesse ad affermare, giustamente a me sembra, l'inesistenza di una sostanziale diversità «between the status ofmunicipes enjoying the originai form of cìvitas sine suffragio, and the status of Latins enjoying conubium, commerciwn, and ius civitatis mutandae»iS7). Anche qui, le rade indicazioni delle fonti e la stessa complessafiguradei praefecti Capuam Cumas evocano, piuttosto che l'improvviso e radicale annullamento dei singoli ordinamenti locali con l'estensione della cittadi nanza romana, sia pure sine suffragio(5i\ un processo più complesso. Un pro cesso caratterizzato dall'azione di erosione di strutture più forti messe a con tatto con sistemi più deboli. Che d'altra parte le nuove città romane di diritto inferiore non potesse ro considerarsi dei semplici recipienti del sistema giuridico romano lo prova in modo indiscutibile, come ho già accennato più sopra, la lenta diffusione della lingua latina, verificatasi in modo tutt'altro che immediato e uniforme, di contro alla persistenza delle lingue locali(59). E, si noti, non una persistenza (56)
SHERWIN-WHITE, 1973, 42: sul punto l'insigne storico recepisce e sviluppa ulteriormente la felice impostazione di Konopka. (57) SHERWIN-WHITE, 1973,46; v. anche supra, cap. II; ma questa impostazione emerge già nella logicaricostruttivaperseguita soprattutto da KONOPKA, 1929, 587 ss., seguito in sostanza da numerosi autori moderni, tra cuiricorderòSordi, Torrent e lo stesso Sherwin-White. Soprattutto a proposito di Capua quest'ultimo autore tende a mostrare come «neither at the beginning nor at the end of the period in which Capua enjoyed cìvitas sine suffragio wàs there any deliberate suspension of the ordinary institutions of the Oscan city-state» (SHERWIN-WHITE, 1973, 42 ss.). Certo i legami con Roma fanno immaginare che «Capua, and the others too, tended to adopt various Roman laws»: ma questi sono anche i limiti della romanizzazione (p. 45 s.). ($8) Sul punto v. infra, nt. 67. (59) È ben chiara alla storiografia moderna rimportanza dell'espansione del latino a danno delle lingue locali come fattore fondamentale della romanizzazione dell'Italia e come precisa testimonianza insieme di tale fenomeno. Sulla relativamente debole resistenza di situazioni anche importanti come l'etrusco e la sua cultura ha richiamato di recente l'attenzione GABBA, 1994, 24 s., 41, ma per noi sono più importanti altri aspetti, direttamente connessi al proble ma della diffusione del diritto romano e della sua sostituzione alle lingue locali. E qui inter viene quanto sappiamo, non tanto sulla resistenza di queste, ma addirittura su una politica romana relativamente restrittiva in proposito. In generale infatti il municipio sine suffragio
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diciamo così 'marginale5 come semplice resistenza di realtà ancestrali ai modelli del vincitore: ma una persistenza di tipo 'istituzionale'. Non solo ammessa, ma addirittura voluta dai Romani, com'è, sia pure indirettamente, confermato dalricordodi esplicite concessioni da parte dei Romani a singo le comunità di poter usare il latino (evidentemente come lingua ufficiale). Ciò che fa pensare ad una mancata generalizzazione di tale lingua, se non addi rittura ad una esclusione formale sancita da Roma(60). Ma come sarebbe possibile immaginare una fruizione generalizzata e sistematica degli istituti del ius civile -non solo gli istituti del diritto sostan ziale ma i corrispondenti atti negoziali e le relative forme di tutela proces suale con il loro rigido formalismo - senza l'uso del latino? Ci immaginiamo la formula della mancipatio tradotta in osco ο in etrusco: è un palese non senso e non credo possa essere sostenuta da alcuno(6l). Se infatti, insieme all'ovvio impiego della comune lingua da parte dei Latini che avevano acquiconserva la sua lingua: MARQUARDT, 1881, 32 (1889, 43), rilevante anche nella giurisdizione dei magistrati locali (TIBILETTI, 1973, 171). Su questi aspetti ha giustamente insistito ROSEMBERG, 1913, 110 ss. Mi sembrano invece poco consistenti le considerazioni di GOHLER, 1939, 23 s. Ma v. già MOMMSEN, 1887, 588 s. (1889, VI.2, 202 ss.), e ancor più 1860, 338 s. (222 s.), dove è ben tracciato il parallelo andamento della persistenze linguistiche e di una par ziale sopravvivenza dei diritti locali. Ivi si riconosce che questi 'semicittadini' «vivevano secondo il diritto romano, ma non secondo il comune diritto territoriale («nach gemeinen Landrecht»)», bensì secondo un diritto modellato su quello romano ma ricavato dalle loro stes se tradizioni. Come uno 'stato nello stato', recuperandosi così la specificazione sulla 'separa tezza' della singola res publica affermata da Festo. In tal modo lo sforzo di sistemazione e di organizzazione della sua analisi non gli impedisce di cogliere in modo esemplare la tensione tra due elementi antinomici quali la formazione di una unità politica e le forme di grande auto nomia dei singoli soggetti politici: v. in particolare MOMMSEN, 1860, 340 (224). (60)
(6,)
Cfr. Liv., 40.42.13, su cui SHERWIN-WHITE, 1973, 43.
TIBILETTI, 1973, 187 s., giustamente ricorda come «la lingua ufficiale del municipi {optimo iure ο sine suffragio) era, nelle zone culturalmente più sviluppate... quella indigena», rica vando da ciò la difficoltà, per i magistrati locali, di applicare il diritto romano «traducendo di questo in una lingua indigena il rigido e spesso vetusto linguaggio (anzi il rituale) latino ori ginale». È per lui altamente improbabile un «lavorìo di traduzione delle norme del diritto civi le (peraltro non riunite in un corpus e in parte ancora non scritte, è da ritenere, nemmeno da privati: si pensi allo sviluppo dell'editto), negli innumerevoli e svariatissimi dialetti d'Italia, alcuni dei quali senza dubbio inadeguati a esprimere certi concetti». Da ciò la sua conclusio ne per cui, anche traducendo le istituzioni giuridiche romane nei dialetti locali, se ne avrebbe un sostanziale allontanamento. Un diritto applicato in traduzione, insomma, sarebbe comun que altra cosa dal «diritto romano vero e proprio». Anche se ne fosse «un'espressione fedele» costituendo semplicemente «un'imitazione stretta e profonda». A questo modo di porsi il pro blema non mi sembra di avere nuli'altro da aggiungere, recependolo integralmente. Sul signi ficato delle lingue locali v. anche GABBA, 1994,41 s.
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sito la civitas sine suffragio nel 338 a.C, è possibile immaginare un loro accesso immediato e integrale al sistema giuridico romano, dobbiamo sup porre l'opposto per quelle nuove civitates sine suffragio estranee alla unità latina ed appartenenti ad altre lingue e culture. In parallelo alla sopravviven za delle lingue ancestrali dovevano persistere molti di quegli istituti locali che con tali lingue erano evocati e posti in essere. Anche qui si tratta di un processo articolato e che, in forme varie e con tempi difformi, ha permesso l'espandersi, con la lingua dei dominanti, anche delle forme giuridiche romane destinate a emarginare quei diritti italici che sarebbero scomparsi senza lasciar traccia.
7. La persistenza dei diritti locali nel sistema municipale e color iario sino alla guerra sociale ed oltre A conclusione di questa mia analisi vorrei tornare ancora una volta sul problema della autonomia legislativa delle comunità assorbite all'interno del l'ordinamento romano. E all'uopo partirò dalle considerazioni, in generale affatto persuasive di Michel Humbert nella sua monumentale opera sui municipia romani. Egli infatti, proprio relativamente alla questione aéifiindus fieri delle comunità cui estendevasi la cittadinanza romana e della correlata figu ra dei municipia fimdana, tende a proporre una formulazione il cui carattere radicale non mi sembra sia stato sempre pienamente valutato. Il caro e illustre collega francese parte infatti da una valutazione della testimonianza cicero niana relativa al fimdus fieri assai plausibile ed alla quale, del resto, io stesso nel corso del precedente § 5, mi sono richiamato. Con tale espressione si indi cherebbe «l'acte d'aliénation - en échange de la loi de citoyenneté re^aie» della propria costituzione originaria da parte del nuovo municipio romano, che, appunto, veniva così indicato come fiindanusi62\ È questa un'interpreta zione delle antiche testimonianze che, superando le secche in cui, a mio giu dizio, era restata la precedente lettura di Albanese, può essere pienamente accolta: ciò che, appunto, non ho mancato di fare nelle pagine precedenti. (62)
Così HUMBERT, 1978,299 e nt 50.
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Ma i problemi iniziano ora: sino a che punto infatti tale interpretazione si può estendere, recependo all'interno di essa la stessa complessa testimo nianza di Gellio che già abbiamo incontrato? Humbert infatti, tracciando le linee generali della politica romana, distingue, anche qui molto ragionevol mente, una sfera della sovranità romana sulle comunità dipendenti 'assoluta5 perché atta a regolare liberamente la condizione di queste - anche su tale aspetto ho avuto occasione di esprimermi in termini non dissimili - da un'au tonomia lasciata a tali comunità. Un'autonomia, sottolinea Humbert, che, non minacciando Pimperialismo romano, giunge ad assumere la fisionomia di una «souveraineté locale ou municipale». In virtù di questa condizione le stesse «matiéres de droit prive ... ne seront introduites qu'après un effacement, une aliénation volontaire qui exprime bien la souveraineté du municipe dans la sphère de compétence qui lui a été autoritairement concédée»(63). Ora qui io inizio a dissentire dall'illustre amico: giac ché la libertà lasciata alla comunità di aderire ο meno all'ordinamento romano è incontestabile. Ma la scelta, come nel caso di Eraclea, di continuare a suis legibns uti, significa per l'appunto non divenire municipio, restando quindi escluso dalla civitas Romana. Insomma il fundus fieri della lex Mia rappre senta una libera scelta di una comunità 'ancora' sovrana, ma, con il suo farsi fundus, essa si spoglia appunto di tale autonomia per 'dissolversi' in qualche modo all'interno della leggi (e della sovranità) di Roma. In effetti si tratta più di una incertezza sulle formulazioni, forse, che sulla sostanza della interpretazione delle diverse posizioni giuridiche delle comunità incorporate. Ciò che parrebbe confermarsi nel seguito dell'analisi di Humbert, laddove egli, a ragione, dopo aver sottolineato la perdita di auto nomia di queste comunità rispetto agli effettivi nodi della sovranità interna zionale, insiste piuttosto sulla persistenza, in esse, delle loro antiche tradizio ni giuridiche. Anche se in questa rappresentazione, a me sembra, si sfuma troppo il valore di cesura che, comunque,rispettoalla complessità della situa zione precedente e di cui lo stesso Humbert mi sembra dia ben conto(64), io credo abbia rappresentato la grande sistemazione successiva alla guerra sociale. <"> HUMBERT, 1978,299. i64 > Cfr. HUMBERT, 1978, 304 ss.
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Altro problema sollevato dallo stesso Humbert è se questa stessa auto nomia nonnativa che parrebbero conservare i municipi sine suffragio, carat terizzi anche le comunità cui sia stata estesa la cittadinanza romana optimo iuare, e per cui, come nel caso di Tuscolo dopo il 381a.C, si dice egualmente che abbiano conservato la loro res publìca. Lo studioso francese su questo punto accoglie integralmente la formulazione di Gellio e riconosce anche ai municipii optimo iure la stessa autonomia normativa che parrebbe aver carat terizzato le civitates sine suffragiom. Il punto è di grande difficoltà e gravi le conseguenze che ne discendono: esso soprattutto non può trovare una solu zione sicura senza una previa interpretazione del significato e del ruolo assol to dai praefecti iure dicundo: un'altra realtà istituzionale romana su cui si è addensata una letteratura imponente. In queste pagine finali non vi è spazio per ulteriori approfondimenti in proposito: ancora una volta ci troviamo di fronte all'intera questione dell'or dinamento municipale e del suo rapporto con le praefecturae. E quanto la testimonianza festina evoca senza ombra di dubbi, laddove i due tipi di pre fetti inviati da Roma riguardano da una parte Capua, Cumae e le altre città campane, dall'altra Funài, Formia, Caere:riferendosicosì indifferentemente a municipi optimo iure e sine suffragio^. L'immagine del municipium come una comunità che conserva la sua res publica e la sua autonomia è in apparente, forte contrasto con l'idea di una giurisdizione locale dei magistrati romani e delegata dal centro, soprattutto perché, come nel caso dei praefecti Capuam Cumas - il caso piùrisalente— la loro istituzione, appare legata all'indebolimento della capacità di autogo verno delle stesse comunità*67*- E tuttavia proprio questa costituisce la chiave (65) Cfr. HUMBERT, 1978, 297. Una conferma di tale interpretazione potrebbe essere offerta dalla presenza, in Arpino, di specifiche norme relative alla successione ereditaria di cui parla Catone per un'epoca in cui tale comunità doveva essere già pienamente romanizzata: cfr.
BERNARDI, 1938,258. (66)
Fest., s.v. praefecturae (LINDSAY, 262), su cui v. soprattutto MARQUARDT, 1881,42 (1889,
57), ed ora HUMBERT, 1978, 356 (67)
ss.
In effetti la creazione dei prefetti Capuam Cumas appare, in Liv., 9.20.5, quasi il risulta to di un collasso istituzionale interno, piuttosto che l'automatica conseguenza dell'estensione della cittadinanza romana: eodem anno {sciL il 318 a.C.) primum praefecti Capuam creari coepti legibus a L Furio praetore datis, cum utrumque ipsi prò remedio aegris rebus discor dia intestina petissent. [tr. it.: in quello stesso anno furono nominati per la prima volta prefet ti per Capua e stabilite leggi dal pretore L. Furio, essendo entrambi (tali provvedimenti) richie—
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di lettura di un processo dinamica in cui l'espansione dei modelli giuridicoistituzionali romani appare avvenire più attraverso meccanismi di erosione e di sovrapposizione rispetto alle strutture tradizionali in fase recessiva, che non per mera sostituzione. Se quest'ultimo aspetto diverrà prevalente, lo sarà, lo ripeto ancora una volta, solo successivamente alla generalizzata conces sione della, cittadinanza agli Italici dopo la guerra sociale. sti dagli stessi [Capuani] come rimedio per la crisi derivante dalle lotte intestine]. Ma se la sostituzione del diritto romano ai diritti originari delle nuove civitates sine suffragio fosse stato un fenomeno generalizzato, la creazione di magistrati a ciò preposti sarebbe stata automatica e non avrebbe senso la giustificazione addotta da Livio. Che tuttavia suscita qualche perples sità per il fatto di far derivare il collasso istituzionale da semplici lotte politiche, quasi che esse rendessero inapplicabili le leggi della città. Più che di leggi civili si tratta verosimilmente delle istituzioni politiche interne. V. anche BERNARDI, 1938, 246 s., 252 s., che propone una inter pretazione riduttiva delle funzioni di tali figure, limitandone il ruolo giurisdizionale per gli anni successivi al 339 aC. affermatosi solo nel 211 a.C. Quanto alla dissoluzione interna della comunità, ad opera diretta dei Romani, analogamente a quanto verificatosi per Anzio, succes sivamente al 338 a.C. (v. anche supra, cap. II, § 3). Il passo di Livio circa lo specifico prov vedimento assunto dai Romani rispetto ad Anagni, relativo alla sistemazione degli Ernici dopo il 306 a.C, è per noi di particolare interesse per più aspetti: leggiamolo. Liv., 9.43.23-24: Hernicorum tribus populis Aletrinatì Verulano Ferentinati, quia maluerunt quam civitatem, suae leges redditae conubiumque inter ipsos, quod aliquamdiu soli Hernicorum habuemnt, permìssum, Anagninis quique arma Romanis intulerant civitas sine suffagii latione data con cilia conubiaque adempia et magistratibus praeter quam sacrorum curatione interdictum (tr. it: ai tre popoli degli Ernici di Alatri, Veroli e Ferentino furono ripristinate le loro leggi per ché [le] avevano preferite alla cittadinanza [romana], e permessi i matrimoni tra loro che da tempo, soli tra gli Ernici, avevano avuto. Agli Anagnini che avevano guerreggiato contro i Romani venne data la cittadinanza romana sine suffragio e tolte le assemblee e i rapporti matri moniali {conubia) e vietata l'istituzione di magistrati salvo che per funzioni religiose). Cfr. DE SANCTIS, 1907a, 321 e BRUNT, 1971, 529 s. Tre punti vanno messi in evidenza: anzitutto il carattere antinomico della cittadinanza romana e del suis legibus ufi, che parrebbe contraddi re alla ipotesi di fondo, da me ripresa nel corso di queste pagine, circa la persistenza, almeno anteriormente all'89 a.C, dei diritti locali anche in comunità gratificate della cittadinanza romana (almeno di quella sine suffragio). Ma la perplessità potrebbe essere superata dalla spe cifica valenza, in questo contesto, dello stesso riferimento al suis legibus uti come forma piena di autonomia sovrana (cfr. anche supra, nt 54). In secondo luogo la perplessità che sorge al divieto di connubio irrogato agli Anagnini, che evidentemente di riferisce - analogamente a quanto vedemmo per i Latini dopo il 338 a.C: supra, cap. II, § 2) non già ai rapporti interni ad essi, malgrado la genericità dell'espressione, ma ai loro rapporti con le altre comunità erniche evocate nella prima parte della frase, cui invece tali conubia erano stati, appunto, restitui ti. E infine la destrutturazione interna di Anagnini: privata sia delle assemblee che di magistrati aventi funzioni politico-amministrative. Anche qui diventa di primaria importanza una piena comprensione del testo: che evidenzia l'eccezionalità di tali provvedimenti, specificamente ricordati dallo storico patavino, come appunto nel caso di Anzio. Il che indica in modo evi dente che, questa intema dissoluzione della comunità politica originaria non è l'effetto ordi nario della concessione della cittadinanza romana, sia optimo iure che sine suffragio. D'ordinario, anche per quest'ultima, restavano le istituzioni precedenti alla estensione della cittadinanza romana.
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Ed è in questo quadro dunque che assume evidenza quanto a suo tempo scriveva uno dei migliori studiosi di tali problemi, Gianfranco Tibiletti, erede di quella grande tradizione di studi sull'Italia romana cui si associa nel tempo il nome di Plinio Fraccaro. Partendo infatti dalla duplice presenza della giu risdizione dei magistrati locali e di quella dei magistrati delegati da Roma, egli sottolineava in modo brillantissimo una differenza profonda con i diver si gradi di giurisdizione che si potrebbero incontrare in un moderno ordina mento, rispetto a cui «il diritto vigente, sia per la competenza alta che per quella bassa sia uno solo»(68). Al contrario, egli giustamente ritiene, che la diversa giurisdizione, nel nostro caso, esercitata in due lingue diverse - quella locale da una parte, quel la romana dall'altra - coinciderebbe con la presenza di «due diritti diversi, l'autentico diritto romano e un diritto locale (diverso da municipio a munici pio)»^. In sostanza - e il parallelo è, ancora una volta, estremamente per suasivo - si poneva così e si dovette porre per secoli interi, «il problema ... della duplicità del diritto, mentre l'esistenza del bilinguismo ufficiale è stata già accertata da tempo». Una duplicità, questo è il nodo, cui del resto accen na lo stesso Tibiletti, non definita una volta per tutte e, direi, di carattere 'sta tico': al contrario. Incessantemente il patrimonio locale dovette rifluire e rimodellarsi nelle forme più forti del diritto romano: politicamente e cultu ralmente più forti(70). Giacché era pressoché inevitabile che l'autorità romana, titolare della giurisdizione «superiore, imponesse, quasi insensibilmente, con i68)
TIBILETTI, 1973,185.
m
TIBILETTI, 1973,188. L'a. suppone che i diritti locali, nell'Italia centro-meridionale siano consistiti nei diritti indigeni depurati «di quegli elementi che contrastino con la mentalità giu ridica romana», mentre nel settentrione si sarebbe trattato di «un complesso di istituti dichia ra derivazione romana e nelle colonie latine di un diritto eguale a quello romano». Anche in quest'ultimo caso esso tuttavia «non era formalmente il diritto romano», giacché il magistrato locale lo applicava «nell'ambito della sua competenza ed autonomia, e non rappresentava il pretore urbano il quale solo era competente ad applicare il diritto romano». Solo su quest'ul timo aspetto, come risulta da quanto ho precedentemente esposto (cfr. supra, § 6), posso nutri re qualche dubbio non tanto sull'esistenza di forme analoghe a quelle del diritto romàno, quan to sulla loro estensione che l'insigne studioso mi sembra generalizzi eccessivamente: ma si tratta di ricostruzioni ipotetiche abbastanza marginali, che nulla tolgono al valore complessi vo del modello proposto e che io tendo a recepire integralmente. V. per un'interessante analo gia con il regime vigente in una realtà affatto particolare come l'Egitto romano, ARANGIORUIZ, 1950,67. ™ TIBILETTI, 1973,
189.
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le sue equivalenze (e magari forzature) adeguamenti eripensamentiinterpre tativi del diritto indigeno in chiave romana». Senza che ciò, appunto, segnas se «imposizioni improvvise e repentine», ma attraverso «un lavorìo lento e quasi inconscio» destinato a sfociare, nel corso di un processo continuo e penetrante, «nell'adesione totale da parte degli indigeni al diritto romano» coincidente e integrata dall'«adozione spontanea della lingua latina»(7,). È il processo appunto che si definisce e si accentua con la svolta - subita più che imposta da Roma- successiva alla guerra sociale, quando ormai nell'insieme dei popoli che avevano imposto alla vincitrice, con la forza delle armi, l'e stensione della cittadinanza, questa azione profonda e coinvolgente aveva già prodotto i suoi frutti in termini di assimilazione culturale e di assuefazione ai modelli ora generalizzati. Quasi in filigrana, attraverso la ricomposizione delle tessere sparse e apparentemente così contraddittorie di un mosaico perduto, si può rintraccia re il carattere, direi quasi 'fluttuante' di una realtà giuridica e di pratiche profondamente lontane dal nostro modo di concepire sia le entità statali che i sistemi giuridici. Una realtà tutt'altro che episodica se si considera che cor risponde ad un arco di circa tre secoli, che va dal IV al I secolo a.C, in coin cidenza con una fase straordinaria della storia di Roma e del suo potere. Per questa valgono, in conclusione, le parole già usate da quel grande Maestro di scienza e di vita che è per tutti noi Francesco De Martino, e che ritengo opportuno riprodurre integralmente. «L'estensione della cittadinanza romana - scrive egli dunque - poneva il problema dell'applicazione del diritto romano ai nuovi cittadini. Tale pro blema non venne sempre risolto nel senso che di un tratto si abbandonassero gli antichi principi e ricevessero i nuovi. Gellio sottolinea che i municipes erano cittadini romani, i quali vivevano secondo le loro leggi ed il loro dirit to tenuti soltanto ai munera del popolo romano. E più oltre egli riferisce un discorso dell'imperatore Adriano, nel quale viene attestato che vi erano municipi, i quali suis morìbus legibusque uti possent. Sarebbe difficile com prendere come si potesse improvvisamente imporre ad un popolo il diritto romano, che aveva proprie caratteristiche, abrogando il diritto nazionale. Per quanto concerne le istituzioni pubbliche, negli antichi municipi soprawisse^TIBILETTI, 1973,189.
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ro gli organi nazionali e non subentrarono affatto le magistrature romane. A maggior ragione bisognaritenereche ciò accadesse per il diritto privato assai più strettamente legato alla vita sociale ed economica». Ed è proprio per que sto, conclude De Martino, che la lexlulia richiedeva, per l'acquisto della cit tadinanza, che funài populi Jacti ... essent. Che si sottopponessero cioè al diritto romano: il che attesta, al contrario, che anteriormente a tale legge si potesse acquistare la cittadinanza, senza rinunciare al proprio diritto(72).
8. Diritti, lingue e giudici locali Nel corso di queste mie pagine, ho cercato di applicare il tipo di pro spettive maturate nella moderna storiografia relativamente al significato della civitas sine suffragio ed al sistema delle autonomie municipali ad uno speci fico ordine di questioni, pur straordinariamente rilevante per una piena com prensione dei meccanismi di assimilazione e delle forme di indipendenza ed autonomia che il processo di romanizzazione dei popoli italici ha comunque tollerato, ο meglio, su cui si è fondato. Mi riferisco al tipo di diritto che dovet te continuare a vigere all'interno della comunità cui era stata estesa la citta dinanza romana sine suffragio. All'uopo mi sono limitato arileggerele fonti e la moderna letteratura, cercando di inquadrare il modo in cui il 'diritto pri vato' dei Romani venne man mano ampliando la sua sfera di applicazione nella Penisola e, ancor più, venne assumendo un valore di riferimento nelle trasformazioni interne dei singoli ordinamenti, sino alla loro intrinseca dis soluzione. Una storia tuttavia celata, nel suo concreto divenire, ai nostri occhi e che possiamo solo immaginare. È interessante tuttavia come, attraverso un adeguato gioco di luci, s'im ponga in primo piano una singolarità che non può non riflettersi sulla nostra interpretazione del significato stesso del diritto nell'esperienza di Roma, in ^ DE MARTINO, 1973, 90 s. V. già BONFANTE, 1934, 246. Tenendo conto del valore essen ziale dell'estensione dell'uso del latino come condizione per una piena romanizzazione delle istituzioni e delle pratiche giuridiche locali, occorre tener presente l'accelerazione nella pene trazione del latino nella realtà italica successivamente alla guerra sociale: cfr. da ultimo GIARDINA, 1997,43 s. e lett ivi, nt. 191 (p. 102).
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una fase che va dal suo consolidarsi come organismo politico unitario, secon do i moduli tipici dell'antichità classica rappresentati dalla città-stato, al suo affermarsi come impero mediterraneo e tendenzialmente già 'universale'. Si tratta del fatto che, rispetto alla sfera dell'antico diritto civile romano, la cittadinanza romana appare scomporsi in più strati, tra loro permeabili, ma non identificabili. Sicché si potrebbe affermare che questo iusproprium civium Romanorum, per secoli, non si applicherà formalmente a un notevole numero, se non alla maggior parte di individui pur definiti anch'essi come cives Roma ni. Non si applica, lo abbiamo visto a piùriprese,a quei cittadini romani dive nuti latini coloniali: ma questo non ci meraviglia gran che, né costituisce una singolarità per cui sarebbe valsa la pena spendere tutte queste pagine. Ma non si applica neppure ai cives sine suffragio e, forse, su questo sono un pò'più cauto di altri autori, neppure ai cittadini dei municipi optimo iure. Non che costoro fossero tagliati fuori integralmente dal diritto romano: tutt'altro. E anzitutto - ciò vale anche per i Latini coloniari come per i Prisci Latini in virtù del commercium e del conubium — in ambito romano tutti costoro accedevano pienamente alla sfera del ius civile ed avevano piena tute la nella giurisdizione del Pretore urbano. Ma all'interno della loro singola comunità municipale e nei rapporti interni alla loro comunità d'origine essi hanno continuato a fruire dei loro ancestrali sistemi giuridici, non dissoltisi con la concessione della civitas Romana. Una situazione peculiare e, per molti versi, ambigua: foriera anche di incertezze e contraddizioni, soprattut to perché essa, lungi dall'apparire meramente transeunte, quasi sospesa in un momento di passaggio tra un sistema che veniva abbandonato ad uno nuovo, appare dilatarsi nel tempo, coprendo sovente l'arco di più generazioni. È proprio la singolarità di questa situazione che spiega molti dei tenta tivi di interpretazione proposti dai moderni, sia che si rifacessero all'idea di una doppia cittadinanza all'interno dell'Impero, sia che sirichiamasseropiut tosto allo schema greco dell'isopolitèia, che già a più riprese ho ricordato nelle pagine precedenti, sia infine che, come Saumagne, insistessero sul carattere onorario della cittadinanza romana concessa alle nuove comunità, appaiono tutti egualmente significativi. In tal modo infatti si è tentato di dare una risposta, con strumenti per quanto possibile adeguati, ad una situazione profondamente diversa dalla nostra esperienza, ammettendosi che ad una
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stessa cittadinanza potessero corrispondere più forme di vita giuridica. L'opposto insomma di quella identificazione di ordinamento statale e sistema giuridico che è un'aspirazione generalizzata degli stati nazionali e dell'espe rienza giuridica moderna. E qui io richiamerei un'immagine recentemente riproposta alla nostra attenzione, ricavata essa stessa dalla rappresentazione ciceroniana delle 'due patrie' su cui torneremo nel successivo paragrafo. Roma in sostanza avrebbe introdotto un «originale concetto di cittadinanza, non doppia, ma a due livelli: quello inferiore, cherispettavale tradizioni della società locale, e quello superiore, che inglobava il precedente livello e impli cava la partecipazione alla vita nazionale, rappresentata dallo stato romano»(73). Per questo motivo il diritto privato romano si espande assai meno e, soprattutto, con tempi più lenti del potere e della sovanità politica di Roma. La sua crescita è comunque assicurata, nel tempo, dalla sua superiorità tecni ca e corrisponde ad una forza di irradiamento crescente, con la conseguente capacità di assorbimento e di annullamento delle realtà giuridiche locali. Se accettiamo l'insieme di ipotesi e di indizi discussi nel corso di queste pagine, la forza assimilatrice del diritto romano e l'unificazione giuridica delle comu nità italiche, che io tendo a considerare giunta ad uno stadio molto avanzato, se non compiuta con la legislazione successiva alla guerra sociale, si sono realizzate per gradi. Tale processo parrebbe essersi attuato, piuttosto che con una ammissione massiccia di intere comunità (non solo i municipi optimo iure, ma anche sine suffragio^/nonché le colonie latine) alla fruizione del sistema del diritto privato romano nella sua interezza, attraverso l'azione di quello che chiamerei un duplice statuto giuridico dei suoi membri. Forse gli stessi cives appartenenti al primo tipo di municipi qui citato, sicuramente i cives sine suffragio, i Prisci Latini sopravvissuti alla sistemazione del 338 a.C. e i Latini coloniali, dovettero continuare a fruire dei loro regimi origina ri all'interno della loro comunità, mentre nei loro rapporti con gli altri citta dini romani fruirono del diritto civile romano e della relativa protezione giu diziaria: e questo sia in Roma che nell'ambito del loro municipio d'apparte nenza. Non solo, ma anche all'interno dei vari ordinamenti municipali, dovet te essere operante la duplice giurisdizione dei magistrati romani da una parte,
^ C o s l SCUDERI, 1989, 123.
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dei magistrati locali dall'altra: e qui possiamo rifarci pienamente a quanto sostenuto in proposito da Tibiletti(74). In effetti, già assai prima della svolta segnata dalla guerra sociale e destinata a sua volta ad accelerare ulteriormente tale processo, in modo pres soché definitivo, sul piano del diritto dovette aversi la stessa vicenda che caratterizzò più in generale, sul piano culturale, le società italiche di fronte alla crescita romana. Sin nelle loro lingue ebbe inizio un processo di pro gressiva atrofizzazione che è immaginabile, almeno con la stessa intensità, per quanto concerne la formazione ο la preservazione di una sfera giuridica privatistica. Nel caso poi delle nuove colonie mi sembra si possa parlare piut tosto di incapacità di sviluppo autonomo. Ovviamente furono le élites locali a utilizzare maggiormente questo 'bilinguismo giuridico', in un processo di assimilazione che dovette contri buire grandemente al deperimento degli ordinamenti locali(75). In effetti pro prio la maggior 'debolezza' di questi rispetto al forte sviluppo del diritto romano li condannava nella misura in cui essi non riuscirono a chiudersi all'interno di sistemi autosufficienti e straniati dalla circolazione culturale in aree più ampie. Ma, appunto, il tipo di meccanismi operanti in un'area sem pre più ampia e in cui i sistemi convergenti dello ius commercii, del corrubium, della civitas sine suffragio, rendevano in partenza impossibile queste forme di chiusura autarchica, erano destinati ad operare in profondità e in forma relativamente indolore nel senso della dissoluzione interna dei singoli ordinamenti locali. Il carattere graduale di tale processo, d'altra parte, presenta anche un altro vantaggio, oltre l'evidente abbassamento delle tensioni derivanti da (74)
TIBILETTI, 1973, 188, è estremamente deciso - ed io concordo pienamente con le sue con clusioni - nel sostenere che «esistevano ... due .diritti, applicati agli stessi soggetti»: il diritto romano, associato alla giurisdizione del pretore urbano e dei suoi delegati locali, e il diritto locale affidato alla giurisdizione dei magistrati locali: diritti espressi in due lingue diverse e da magistrati parlanti due lingue diverse. Così se il confine tra le due giurisdizioni era segnato da un certo valore, «di 8.000 sesterzi, se si litigava per un fondo di 8.100 sesterzi, la causa era di competenza del pretore urbano (cioè del suo rappresentante) e si svolgeva ex iure Quiritium, in latino; se si trattava di 8.000 sesterzi era competente il magistrato locale che applicava, in osco, il diritto locale». σ5) SCUDERI, 1989,124 ss., rileva giustamente come il processo di municipalizzazione favorì la mobilità delle élites locali, che egli spiega con la disseminazione delle loro proprietà fon diarie in più municipi. Ma che, a mio giudizio, si accompagna anche alla loro attitudine a tes sere relazioni anche legali con fili altri cittadini romani.
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troppo espliciti e diretti conflitti culturali. Esso infatti ha salvaguardato l'in terno sviluppo dello stesso sistema giuridico romano in condizioni, diciamo così, ottimali. Permettendo cioè la piena e indisturbata azione di quei fattori che costituiscono la premessa, già matura nella tarda età repubblicana, per l'affer marsi di un esperienza unica ed eccezionale in Occidente, e per quello che è dato di sapere, nella storia universale, con la creazione di una 'scienza' del dirit to. Il relativo 'isolamento' dell'originaria cittadinanza romana e il lento filtrag gio di nuovi soggetti ammessi alla fruizione degli istituti privatistici romani ha permesso a tali fattori che essi potessero operare in Roma secondo le loro pro prie logiche e senza turbative 'esterne'. Senza cioè che si esercitasse la pres sione di nuovi interessi e dell'esigenza di nuove mediazioni rispetto a pratiche locali estranee alla tradizione romana. Senza risentire altresì l'influsso di prati che 'volgari', atte a riflettersi sulla purezza dei modelli dello ius civile.
9. Il cittadino romano e le 'due patrie9 Certo, un processo del genere può essere solo percepito nelle sue gran di linee e, nella documentazione antica, appaiono più i punti oscuri che le linee di evidenza, contribuendo alle incertezze dello storico. Di ciò, a me sembra, e con ciò concludo veramente il mio discorso, resta traccia in un altro aspetto del dibattito storiografico che fu particolarmente vivace in questo immediato dopoguerra. Mi riferisco appunto al problema della doppia citta dinanza cui ho già fatto riferimento più sopra. Ma prima di riprendere, nelle sue grandi linee, il dibattito che sull'argo mento si è sviluppato, occorrerà rivolgerci ancora una volta a quella ricca miniera che è per noi costituita dalle opere di Cicerone. La testimonianza centrale, in ordine al presunto divieto di doppia cittadinanza da parte di Roma, ancora una volta è offerta dalla ciceroniana prò Balbo. Ivi infatti, Balb., 28, si incontra la netta affermazione secondo cui duarum cmtatum civis noster esse iure civili nemo potest. Il cittadino romano non può essere, secondo il diritto civile, cittadino di due città(76). ™ Cfr. anche Cic, Balb. 27; Caec, 100, su cui v. ora CURSI, 1996, 27 ss.
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È molto probabile, tuttavia, che la chiarezza stessa di tale enunciato e la sua semplicità abbia potuto indurre la storiografia moderna verso una perico losa semplificazione dell'intera questione. In effetti, sul punto a me sembra abbastanza convincente l'interpretazione proposta da un autore che è a più riprese intervenuto sull'argomento: Fernand De Visscher*77*. L'illustre roma nista belga ha infatti ricondotto l'enunciato orariportatoall'interno di un più complesso volgere del discorso ciceroniano. È vero dunque che il grande ora tore afferma, come abbiamo visto, che duarum civitatum civis noster esse iure civili nemo poteste e pertanto non esse huius civitatis, qui se olii civitati dicarit, potest. Questo principio serve a Cicerone tuttavia ad affermare la pos sibilità di mutare civitatem volontariamente e abbandonando il suolo stesso della propria città d'origine: emigrando nella nuova patria. Oppure iure postliminii, come nel caso ben noto di Menandro(78), sive exilio. Ma quello che De Visscher mette in rilievo è proprio il seguito del discorso ciceroniano, Balb. 29, laddove, dopo la solenne affermazione della più ampia possibilità di circolazione da una città all' altra, si conclude soste nendo che ceterae cfvitates omnes non dubitarent nostros homines recipere in suas civitates, si idem nos iuris haberemus quod ceteri. Sed nos non possumus et huius esse civitatis et cuiusvis praeterea; ceteris concessum est*. Agli altri è concesso dunque ciò che è negato ai cittadini romani: restare tali acqui stando all'un tempo la cittadinanza di un'altra città. Mi sembra che in proposito abbia ragione lo stesso De Visscher, secon do cui «il principo non si oppone dunque per nulla alla conservazione della cittadinanza locale, malgrado l'acquisto della cittadinanza romana». Questo principio (il divieto della doppia cittadinanza cioè) si doveva applicare essen zialmente «ai cittadini romani d'origine», mentre si applicherà ai nuovi citta dini d'origine straniera solo nel caso in cui essi si siano effettivamente tra sferiti a Roma, essendo allora considerati «rispetto al ius commune mutandarum civitatum illustrato da Cicerone, come aventi rinunciato al loro statuto locale e governati ormai esclusivamente dalle norme romane». Mentre, al ™ Cfr. in particolare DE VISSCHER, 1949, 112 ss.; 1955, 113 ss.
™ Sul punto v. da ultimo CURSI, 1996, 27 ss. * Tr. it.: tutte le altre città non hanno dubitato di poter accogliere i nostri cittadini nella loro cittadinanza, se noi fruissimo dello stesso regime giuridico degli altri. Ma noi non possiamo essere di questa cittadinanza (la romana) e di una qualsiasi altra: agli altri è connesso.
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contrario* per quegli «individui gratificati dalla cittadinanza romana, ma restati nella loro città d'origine, tale principio è inapplicabile, dipendendo così la persistenza dello statuto locale esclusivamente» da questa stessa città™. Insomma, per De Visscher, la testimonianze ciceroniane (egli richiama infatti anche Cic, Arch, 9) dimostrerebbero l'esistenza di «une difference fondamentale dans la situation des nouveaux citoyens romains, suivant qu'ils conservent leur domicile d'origine ou s'établissent à Rome». Nel primo caso essi avrebbero conservato il loro statuto locale, con la conseguente presenza di una duplicità di situazione giuridica, destinata a favorire la persistenza della vita stessa dei municipi. Nel secondo caso invece, con la mutatio civitatis, l'acquisto della piena cittadinanza romana avrebbe comportato l'estin zione della vecchia cittadinanza. È il mutamento di domicilio, non il vigore generalizzato del divieto di una doppia cittadinanza a comportare in tal caso la perdita delle cittadinanza originaria(80). Io tendo a sottoscrivere queste conclusioni che appaiono coincidere con i dati che sinora abbiamo considerato. Eviterò tuttavia di addentrarmi in una disamina della ricca letteratura che, intorno al problema della doppia cittadi nanza, è fiorita, come ho accennato, verso la metà di questo secolo(81). Mi limiterò a prendere in considerazione un importante contributo di un altro dei maestri della mia giovinezza, Vincenzo Arangio-Ruiz, ai miei occhi partico larmente significativo proprio per il rigore con cui egli appare aver contrasta to l'impostazione di De Visscher. Mi riferisco in particolare al suo lontano saggio pubblicato nel 1950, e particolarmente importante per la ricchezza della documentazione ivi utilizzata(82). A me sembra in effetti che le precisazioni di Arangio-Ruiz, circa l'at teggiamento romano in ordine alla possibile conservazione della precedente cittadinanza da parte del neo civis Romanusm, non siano tali da annullare <*> Cfh D E VISSCHER, 1956, 54 s.
<*> DE VISSCHER, 1956,59. (8,)
Cfh, oltre al già citato SCHÓNBAUER, 1950, 124 ss.; LEWALD, 1946, 30 ss.; WENGER, 1948,
251 ss.; VITTINGHOFF, 1951, 1 e TORRENT, 1970, 53. (82
> Cfh ARANGIO-RUIZ, 1950, 55 ss.
m
ARANGIO-RUIZ, 1950, 57. Ma v. a p. 59, come Pa. riconosca che Balbo, neocittadino romano si fosse trasferito a Roma: il che, anche per De Visscher, avrebbe comportato la per dita della cittadinanza di Cadice.
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radicalmente gli elementi di valutazione addotti da De Visscher e dagli altri teorici della 'doppia cittadinanza'. Se approfondiamo Panalisi svolta da Arangio-Ruiz ci possiamo infatti rendere conto di una sfasatura prospettica che, del resto, è agevolata dalla stessa genericità delle enunciazioni del roma nista belga. Consideriamo in proposito la interpretazione del privilegium fori atte stato in più di un documento di concessione della cittadinanza romana(84). Per Arangio-Ruiz esso si spiegherebbe in coerenza con quanto già era permesso ai cittadini romani «residenti in città più ο meno soggette»: quello di poter adire ai tribunali locali o, alternativamente, di poter portare «la controversia alla cognizione del governatore romano»(85). Insomma il privilegio in questio ne non sarebbe altro che l'applicazione di un principio generalizzato. Il che, tuttavia, può valere a proposito di pratiche vigenti in quelle città libere situa te nelle provincie: ed infatti è alla realtà delle provincie orientali ed ellenisti che nella prima età imperiale che l'attenzione dell'insigne romanista, anche per il tipo di documentazione da lui utilizzato, si rivolge. Ma il problema dal quale siamo partiti riguarda un'altra fase storica, coincidente ο immediatamente anteriore all' epoca in cui si situa lapro Balbo. E la possibile doppia cittadinanza di cui ci occupiamo è esattamente riferibi le alla condizione di quei municipes partecipi ancora di una loro res publica e tuttavia atti ad accedere al diritto romano, già nell'ambito della stessa loro città d'appartenenza e a maggior ragione nel recarsi a Roma. Ed è interes sante come Arangio-Ruiz, riconoscesse il progressivoriemergeredi forme di doppia cittadinanza ο a tali schemi riconducibili, nella fase del «progressivo scadimento delle città già sovrane (e formalmente riconosciute come tali) ad enti autarchici territoriali»(86). Il che chiarisce appunto l'ambito di riferimen to della sua stessa analisi: che appare essenzialmente e correttamente riferita al rapporto tra entità formalmente sovrane (ο 6semi-sovrane'), nel sistema imperiale romano, in ambito provinciale. Estranea quindi alla nostra sfera di problemi riferiti a quelle civitates sine suffragio, ed a quei municipia dell'età precedente e situati essenzialmente in ambito italico. <M> ARANGIO-RUIZ, 1950, 62 s. (85)
ARANGIO-RUIZ, 1950,
(86)
ARANGIO-RUIZ, 1950,72.
68.
Capitolo IV
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E in effetti, nel prosieguo del suo discorso il nostro autore riconosce implicitamente la opposta condizione «degli abitanti delle città italiane, che a partire dallariorganizzazionesuccessiva alla guerra sociale erano stati tutti, oltre che cives Romani, municipes e si usava dire anche cives, delle antiche comunità politicamente assorbite da Roma»(87). L'unica correzione che farei riguarda il riferimento cronologico che può estendersi perfettamente anche alla fase anteriore alla guerra sociale. Ma sul punto di sostanza ci troviamo, proprio ad opera di uno dei critici di un'estensione indifferenziata della nozione di doppia cittadinanza, di fronte alla indiretta conferma della validità di tale concetto in ordine alla situazione da noi indagata. Per questo possia mo concludere che il paradigma della doppia cittadinanza, forse inapplicabi le, come ritiene Arangio-Ruiz, all'età successiva, può esprimere l'immediata e intricata realtà anteriore all' 89 a.C, secondo cui l'estensione della cittadi nanza romana, soprattutto di quella sine suffragio, non aveva soppresso la persistenza, sia pure sempre più precaria, dei diritti locali. Si tratta, in effetti, di un riferimento atto a interpretare un limitato aspet to, non 'politico' del rapporto tra singole comunità all'interno dell'ordina mento romano e la stessa Roma, nel suo progressivo superamento della ori ginaria fisionomia della città-stato. E, forse, la lettura più convincente di que sta situazione è data da uno dei maggiori studiosi della generazione dei miei maestri che, non a caso, univa alla vivissima sensibilità di storico delle realtà locali, la sua formazione giuridica, Giuseppe Ignazio Luzzatto. Egli infatti, accogliendo in linea generale l'impostazione di Sherwin-White, per quanto concerne la persistenza dell'autonomia delle città soggette, specificava «che in questo caso, si trattava di autonomia interna e di diritto privato; non certo di autonomia sul terreno politico, come quella della pòlis nelle provineie»(8S). È ciò che appunto separa l'età successiva da quella di cui ci siamo specifica mente interessati in questa sede e definisce in modo convincente quella situa zione che ho cercato di mettere a fuoco nel corso di queste pagine. Di ciò, infine, come avevo detto, abbiamo una notevole traccia proprio in un altro testo ciceroniano, ricavato dal de legibus, dove, appunto, parreb be delinearsi quasi una gerarchia di situazioni e di appartenenze che, se vali($7)
ARANGIO-RUIZ, 1950,
73.
<«> LUZZATO, 1952,192 nt. 29.
Il diritto romano e le città italiche
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da ancora nell'età di Cicerone, appare proiettarsi verso una realtà ancora più antica. In effetti il grande oratore aveva ben chiaro come, successivamente al 90 a.C, la natura stessa della città-stato, quale era stata sino ad allora Roma, era venuta a mutare in profondità. E come totalmente diversa ormai, rispetto ad essa, fosse la posizione delle varie città italiche cui era stata estesa la civitas romana. Ne è chiara testimonianza Cic, leg., 2.5: (Atticus) (sed illud tamen quale est quodpaulo ante dixisti, hunc locum - id enim ego te accipio dicere, Arpinum — germanam patriam esse yestram? Numquid duas habetis patrias? an est una illa patria communis? Nisi forte sapienti illi Catoni fuit patria non Roma sed Tusculum '. (Marcus) 'Ego mehercule et illi et omnibus municipibus duas esse censeo patrias, unam naturam civitatis: ut Mie Caio, quom esset Tusculi natus, in populi Romani civitatem susceptus est; ita quom ortu Tusculanus esset, civitate Romanus, habuit alteram loci patriam, alteram iuris;... sic nos et eampatriam dicimus ubi nati, et qua excepti sumus '*. Non sono annullate le radici d'appartenenza e il rapporto con la comu nità territoriale cui esse si riferiscono, ma ad esse s'accompagna una nuova appartenenza alla comune cittadinanza romana in cui tutti sono ormai accol ti. È da questa nuova civitas che, ora, «prende il nome di Stato tutta la comu nità»: e qua reipublicae nomen universae civitati est%9\ Immagine carica di forza simbolica ed evocatrice di valori forti, ma anche, io credo, tale da andare oltre l'aspetto meramente politico per investi re, come del resto è pacifica idea, la condizione giuridica dei singoli cittadi ni. Essi infatti sono tutti uniti all'interno dello stesso ordinamento e sottopo sti alle stesse leggi: quelle, appunto, di Roma, e tuttavia, conservano le loro radici locali, in una identità che può spingersi ad assicurare a ciascuno di essi * Tr. it: (Att.) «Ma che senso ha, tuttavia, quel che tu poco fa dicevi che questo luogo intendo che tu parli di Αφίηο - è la vostra vera patria: avete forse due patrie, ο non è unica la patria comune? A meno che di quel savio Catone non fosse patria Roma, maiuscolo». (Marc.) «Io penso, per Ercole, che lui e tutti i cittadini di un municipio hanno due patrie, una natura le, l'altra quanto alla cittadinanza; così Catone, essendo nato a Tuscolo, fu accolto nella citta dinanza del popolo Romano, e dunque, poiché era Tuscolano di nascita, Romano per cittadi nanza, ebbe una patria quanto al luogo (di nascita) ed una giuridica ... così noi chiamiamo patria il luogo dove siamo nati e quella in cui siamo accolti». V. sul testo le osservazioni di TORRENT, 1970, m
59 ss.
Cfr. CRAWFORD, 1995, 49: «questo processo contribuì a creare una generale persuasione secondo cui una doppia patria, quella locale e Roma, era una cosa normale».
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Capitolo IV
l'accesso peculiare ad un insieme di tradizioni municipali, anche di carattere legale, non contraddittorie, ma supplementari e subalterne ormai a quelle romane. Ma qui incontriamo solo una prima sistemazione di una realtà dalle molte faccie che appaiono variamente articolarsi, sia in relazione alle molte plici condizioni delle comunità esistenti all'interno del potere romano, sia nella lunga sua storia(90). Io mi sono limitato ad accentuare alcuni interrogati vi che già nelle ricostruzioni degli storici moderni erano affiorati, cercando di coglierne le non marginali conseguenze nella vita giuridica di queste stesse comunità.
(90) Questa analisi si ferma agli anni successivi alla grande svolta seguita alla guerra sociale, restando in verità aperto il problema dei tempi dell'integrazione delle città italiche nella citta dinanza romana e, soprattutto, se questa si sia estesa integralmente sin dall'inizio. Ma soprat tutto è restata fuori dal mio ambito di osservazione la documentazione relativa agli statuti municipali che si riferisce ad un periodo successivo. Anche qui resta aperto il problema se la recezione del sistema giuridico romano nei municipi e nelle colonie civium Romanorum sia stata integrale ο non si siano piuttosto affermate forme più semplificate di vigenza degli isti tuti del diritto romano. Problemi riaperti dalla lex Irnitana, pur riferita ad un municipio latino in cui peraltro vediamo ormai recepito appieno il diritto romano. Cfr. comunque sul punto, oltre a LAMBERTI, 1993, cap. IV, con orientamento parzialmente diverso, GONZÀLES, 1987,320;
GALSTERER, 1987,
195; LURASCHI, 1989, 364; STURM, 1992,482 ss.; KRANZLEIN, 1993,
182 s.
Capitolo V Alcuni problemi di storia romana arcaica: 'ager publicus \ 'gentes ' e clienti
1. Le 'gentes' e la loro terra Fondamento economico della potenza gentilizia, lungo Γ età monarchi ca e ancora nella prima età repubblicana, è il controllo dell'agerpublicus romano e la possibilità di far partecipare allo sfruttamento di tale territorio i gruppi sociali dipendenti rappresentati dai clienti. Questo, in pochissime parole, è l'assunto degli storici di Roma, sin da Savigny e da Niebuhr, che in queste pagine cercherò di analizzare in alcune sue implicazioni, senza voler ne peraltro mettere in discussione la generale validità. Naturalmente, proprio in ossequio agli obiettivi ora enunciati, non mi addentrerò in un'analisi specifica delle varie ipotesi avanzate dagli storici moderni circa il carattere e la dinamica del processo che avrebbe portato all'emersione e alla esaltazione di questo particolare rapporto fra strutture gentilizie, ager publicus e clientela. Non ha molto interesse, in questa sede, discutere se tale interrelazione avesse assunto il suo più netto significato già in età monarchica, attenuando si poi, sin dalla prima età repubblicana, oppure, al contrario, si fosse delinea ta in tutta la sua evidenza solo dopo la cacciata dei Tarquini. Limitiamoci per ora a sottolineare con forza il quadro di partenza di questa mia breve discus-
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Capìtolo V
sione critica. Esso è costituito dall'esistenza di un'aristocrazia, organizzata nella forma delle gentes, e dal duplice fondamento della sua potenza costi tuito dal controllo di ampi territori e da gruppi più ο meno vasti di clienti. Un'idea, anch'essa, ampiamente diffusa tra i moderni studiosi. Terre gentili zie e clienti poi sono tra loro intimamente connessi sia perché le terre dei gen tili sarebbero state lavorate dai clienti, sia perché, anche a compenso di tali servigi, la loro fedeltà e la loro dipendenza sarebbero state sancite dall'asse gnazione a costoro di parte del territorio della gens. Nel corso di queste pagine, distanziandomi dall'orientamento dominan te nella moderna storiografia, cercherò tra l'altro di chiarire che Yager genti lizio ora evocato deve identificarsi con Yager publicus menzionato già per l'età monarchica e, ancor più, per la prima età repubblicana, dagli autori anti chi. È mia opinione, in sostanza che un demanio di terre pubbliche in senso proprio, con il valore che tale categaria avrà in età più avanzata, si dovette formare solo nel corso del V sec. a.C.? per assumere solo allora la sua defini tiva fisionomia, come insieme di agri occupatone di terre sottoposte a vectigal, a scriptum etc. Ma vediamo anzitutto quali indicazioni ci sono fornite da questi stes si autori. Ci volgeremo così a considerare essenzialmente il regime della terra della prima età cittadina e i suoi possibili rapporti con l'ordinamen to gentilizio. A più riprese tuttavia, nel corso della trattazione, sarò costretto a rivolgermi ad un altro aspetto della costituzione sociale primi tiva consistente nel rapporto di subordinazione che lega i clienti all'ari stocrazia gentilizia. Che intrinseco al porsi della gens come realtà aristocratica fosse la pre senza di gruppi dipendenti costituiti dai clienti, ce lo dice in modo partico larmente insistente Dionigi d'Alicamasso che tale processo riconduce, com'è noto, allo stesso momento genetico della comunità cittadina*0. Ed è chiara la funzione di supporto della clientela all'interno del gioco politico cittadino(2), ma anche del suo ruolo in funzione dell'iniziativa auto(I) Fondamentale in tal senso è Dion. Hai., 2.8-11 ; cfr. anche Liv., 6.18.6, e il noto passo cice roniano rep., 2.16. <2> Cfr. in particolare, Liv., 2.35.4; 2.56.3; 2.64.1-2; 3.14.4; Dion. Hai., 4.23.6; 7.19.2; 7.53.3; 9.41.5; 10.15.5; 10.40.2 e 41.5; 11.22.3.
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noma della gensrispettoalla comunità politica più ampia(3). Vi è anche l'epi sodio della migrazione dei Claudi in Roma, insistentemente ricordato dagli antichi, che sembrerebbe ribadire la costante presenza dei clienti in ogni momento significativo.della gens: Attius Clausus, il capo della gens, abban dona la sua comunità d'origine e si sposta in Roma, accompagnato dai suoi amici e dai suoi clienti. Ma proprio questo episodio, su cui si avrà occasione di tornare più avanti, mi permette di chiarire il motivo di questo mio riferi mento ai vincoli di clientela. In esso infatti evocandosi il rapporto tra la gens e la terra, interviene questo ulteriore elemento: il vasto territorio dato dai Romani ad Attius, trans Anienem,riguardanon solo i gentili, ma anche tutti i suoi seguaci: i clienti. Direttamente dalla vicenda dei Claudi non possiamo sapere di più: da esso non emerge infatti alcuna diversità interna al gruppo tra membri optimo iure della gens e clienti subalterni, atta ariflettersi in una dif ferenziazione di funzioni in ordine ai ruoli militari e allo sfruttamento delle terre agricole. Tuttavia la ribadita presenza dei clienti che risulta soprattutto nei momenti di crisi ο di mutamento di ruolo della stessa gensi4\ ci induce ad una più generale riflessione volta a individuare una chiave di lettura attraverso cui il rapporto delle genti con il loro territorio possa essere adeguatamente inter pretato..Sin dal secolo scorso infatti - e in forme diverse nel corso delle varie generazioni e ad opera di vari storici - è emersa la tendenza a interpretare secondo schemi 'feudali' l'organizzazione del territorio gentilizio. Sfruttato (3)
L'episodio più significativo in tal senso è costituito dalla ben nota spedizione dei Fabi; si v. per tutti la brillante, ma un po' ardita analisi di GAGÉ, 1976, 195 ss. (4) Mi riferisco anzitutto alla vicenda adombrata da Dionigi nel narrare lo stratagemma orga nizzato daTarquinio il Superbo per conquistare Gabi. L'allontanamento del figlio Sesto e il suo rifugio in quest'ultima città non sembrano infatti riguardare un singolo individuo, come forse parrebbe attestato in Liv., 1.53.5-11, ma tutto un ramo gentilizio. Dion. Hai., 4.55.3, scrive infatti che Sesto Tarquinio si sposta a Gabi accompagnato dai suoi amici e clienti. È interes sante accennare che lo stesso schema era già stato utilizzato da Dionigi nel narrare la migra zione in Roma di Tarquinio Prisco (Dion. Hai., 3,47.2), che per l'appunto avrebbe portato con sé, oltre a tutte le sue ricchezze e alla moglie, gli amici e clienti (oikèton) che avessero voluto seguirlo. In questo caso la narrazione di Livio, come sempre assai più scarna, non sembra offri re una conferma diretta a tale rappresentazione: cfr. Liv., 1.34.5-6 e l i . Anche la dipartita di Gaio Claudio da Roma sembra segnare, nella narrazione di Dionigi (11.22.4-5), un evento non solo privato, che spezza la stessa unità della gens Claudia. Tale accadimento si attua in diret ta polemica con Appio Claudio, il capo dei decemviri. Un punto fermo, nella visuale degli anti chi, è che qualsiasi importante iniziativa politica di un personaggio eminente della gens avve niva con l'appoggio attivo di seguaci e clienti.
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Capitolo V
questo dalle genti attraverso una forma di lavoro dipendente fornita appunto dal ceto dei clienti i quali avrebbero ricevuto da queste stesse genti singoli lotti di terra, in concessione precaria, quale compenso della loro fedeltà 'poli tica' e del lavoro fornito per la coltivazione delle terre gentilizie. In verità è tutta la vicenda della contestata supremazia dell'aristocrazia gentilizia in Roma, specie a partire dall'età repubblicana, che si ricollega alla ricorrente controversia intorno alla terra. Larichiestaplebea, ben netta sin da Spurio Cassio, di una divisione dell'ager publicus, sfruttato allora in modo esclusivo dai patres e dai loro clienti, si propone insistente sino all'improv viso scioglimento del conflitto nel 367 a.C. Si noti: i plebei non chiedono di essere ammessi anche loro a beneficiare dell5ager publicus, ma sempre e solo che questo venga diviso in proprietà quiritaria.
2. La contesa intorno all''ager publicus9 Volgiamoci ora a considerare più da vicino il quadro che, in ordine ai problemi ora indicati, ci offrono gli autori antichi e in particolare Livio e Dionigi che, tra l'altro, presentano una significativa convergenza di orienta menti. Risulta evidente innanzitutto il fatto che l'apparizione in primo piano, nella storia di Roma, dellafiguradell'ager publicus coincide con l'età del più vivo contrasto fra patrizi e plebei: il primo secolo della Repubblica. È indub bio che, anche per l'epoca precedente troviamo già menzione dell'ager publicus™, così come ricorrono notizie di distribuzione al popolo, da parte dei re, oltre che di terre di loro pertinenza, anche di parte àélYager publicus^. {5) Cfh Dion. Hai., 2.7.4, per l'età romulea, e Dion. Hai., 2.62.4; 74.4, per il regno di Numa. Interessante anche un'altra menzione dell'ager publicus di Alba, da distribuire fra i suoi citta dini più poveri con il loro trasferimento in Roma, in Dion. Hai., 3.31.3, relativo sempre allo stes so episodio. Non riesce però agevole distinguere fra la terra della comunità albana e Vager publicus di Roma, essendo del resto la primariassorbita,per il diritto di conquista, nel secondo. (6) In Dion. Hai., 2.62.3-4, si fa menzione di una distribuzione effettuata da Numa di terre che possiamo definire 'della corona', in quanto provenienti al nuovo re dal suo predecessore e, tut tavia, apparentemente distinte dal patrimonio personale di questi. A tali terre, dice Dionigi, si aggiunsero anche territori appartenenti aWager publicus vero e proprio. È interes-
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Tuttavia gli antichi sembrano concordi nel far risalire alla proposta di Spurio Cassio - salvo un significativo precedente in età di Servio Tullio<7) - il momen to iniziale e acutissimo della crisi intorno all''ager publicus. Non mi addentrerò in un'analisi approfondita di tale vicenda che resta un punto centrale nella oscura storia romana del V sec. a.C. Mi limiterò qui a mettere in evidenza il duplice aspetto della politica di Cassioricordatoa tale proposito dagli storici antichi: da una parte i rapporti con gli alleati, per quan to concerne la divisione del bottino e quindi anche dei territori di nuova con quista, dall'altra la destinazione del territorio romano: dell'agerpublicus. La prima questione è estranea ai nostri più immediati interessi (per quanto essa possa ricondurre tutta la vicenda del V sec. all'età graccana). Cosa ci dicono invece le fonti circa il secondo punto per noi più direttamen te significativo? Possiamo affermare che, in proposito, la vicenda di Cassio esprime in modo esemplare tutto il contenuto della lotta plebea per Υ ager publicus svol tasi lungo il corso del V secolo. Contenuto che mi sembra di poter sintetiz zare nel modo seguente: a) Va. publicus è oggetto di uno sfruttamento esclu
s a l e sottolineare come, nel passo ora ricordato, lo storico greco riferisca tale distribuzione a gruppi più recenti di cittadini che erano quindi restati esclusi dalle precedenti distribuzioni di terre da parte di Romolo. In questo si delinea già un potenziale contrasto tra i 'poveri' della plebe, i clienti più direttamente legati alle vicende dei patrizi (e che tuttavia non dovevano esaurire il numero dei plebei già titolari di quelle minime proprietà cui accederanno ora anche questi 'più recenti' plebei beneficiati daNuma) e gli stessi patrizi. L'equilibrio è così realizza to evitando di intaccare gli interessi di questi ultimi: Dionigi infatti si preoccupa di sottolinea re come l'iniziativa di Numa non andasse a danno dei patrizi, la cui situazione continuava ad essere quella assicurata loro in precedenza (il che però fa pensare a un pericolo in tal senso). È tuttavia da rilevare come, in questa primissima fase le terre pubbliche fossero disponibili senza apparentemente intaccare gli interessi del patriziato e dei suoi clienti. Di qualche inte resse infine il richiamo alle terre che Romolo aveva posseduto, distinte dalle terre pubbliche, e distribuite da Numa. Esso infatti fa pensare alla presenza di aree di pertinenza dei capi clan e in qualche modo associabili alle terre gentilizie vere e proprie. Anche su un altro punto tali testi anticipano uno schema che, come vedremo meglio in nt. 9, riappare costantemente in Dionigi: l'associazione dell'idea di povertà con la plebe. Cfr., limitata alle terre 'della corona', la notizia di un'altra distribuzione in Dion. Hai. 3.1.45; v. anche, per la distribuzione della terra pubblica, Dion., 4.13.1, nonché 1.46.1. Cfr. inoltre rep., 2.33, e 7.9. ^ Cfr. Liv., 1.46.1 e 2 (significativa anche qui la posizione dei patres; soprattutto 1.47.11, dove la distribuzione dell'ager publicus ai plebei è esplicitamente affermata come a danno dei patrizi: ereptum prìmoribus agrum sordidissimo cuique divisisse). Ancora più chiaramente Dionigi applica all'età di Servio gli schemi poi ripetuti per il primo secolo della Repubblica: 4.9.8; 10.3 e 13.1.
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sivo dei patrizi{8) (il fatto che Dionigi parli talvolta di 'più ricchi' non ci deve ingannare(9)); b) questo possesso è sostanzialmente 'ingiusto'00*; e) esso quin di deve essere eliminato e all'uopo non si sostiene mai, nel racconto degli antichi, l'idea di una redistribuzione più equa delYager publicus in quanto tale fra patrizi e plebei, ma di una redistribuzione attraverso l'assegnazione in proprietà privata dell'urger publicus (e quindi la sua trasformazione in ager privatus) a favore di tutti ο dei più poveri fra i cittadini(11). La lunga lotta plebea contro Va. publicus, come ho detto, è tutta rac chiusa in questa enunciazione iniziale. Spesso, è vero, specie da parte di Livio ci si limiterà a richiamare succintamente le leggi agrarie sempre riproposte dai tribuni(l2). E fuori di dubbio però che il loro contenuto e i loro (8 > Cfr. Liv., 4.48.2; 51.5-6; 6.5.4; Dion. Hai., 8.70.5; 73.4; 74.3; 10.36.2; 37.5. Cfr. anche Liv., 2.41.2; Dion. Hai., 9.2.2; 5.1.4; 12.1.7. Da molti di questi passi e da vari altri (cfr., ad es., Dion. Hai., 10.37.4) è ancora meglio evidenziata la esclusione plebea da tale ager. Ma v. soprattutto 4.48.2, dove è citata una delle tante proposte di legge filoplebea che proponeva la distribuzione dei territori «tolti ai nemici... singolarmente a ogni individuo». Ed è interessan te il successivo commento liviano secondo cui essa «implicava quindi la confisca di una gran parte dei beni dei nobili - perché nella città [di Roma] fondata su terra d'altri [Livio ivi qui richiama la tradizione secondo cui Roma sarebbe stata fondata su terra di Alba], non v'era si può dire, un palmo di terreno che non fosse di conquista, e soltanto la plebe aveva in legittima proprietà quello che era stato venduto ο assegnato dallo Stato». (9) Cfr. ad es. Dion. Hai., 8.69.3; 73.4; 9.17.4; 44.5; 46.1. L'identificazione dei patrizi con i ceti più ricchi è evidente, fra l'altro, in Dion. Hai., 8.82.5-6. La stessa valutazione è presente in Dion. Hai., 11.45.3, dove tuttavia sirichiamanoinsieme i plebei e i poveri demotikaì kaìpènetes si trat ta forse di un'endiadi?). Questo aspetto, che del resto è abbastanza ovvio, ci può aiutare a riflet tere sul particolare angolo visuale di Dionigi, fortemente influenzato non dalle più tarde vicen de della storia romana, ma dalla storia della sua patria. Questa a mio giudizio può essere una chiave di lettura di quella particolare interpretazione delle vicende del V sec. che dà lo storico greco quando attribuisce ai patrizi e al Senato romano l'idea che la divisione dell' ager publicus rappresenta non già un danno solo per chi ne ha il monopolio ma per la stessa comunità. Quasi che si fosse di fronte ad un'aggressione al regime proprietario stesso e alla espropriazione dei beni detenuti in base alle stesse leggi della città. Cfr. ad es. Dion. Hai., 9.32.2; 52.2. <10>Cfir. Liv., 4.51.5; 53.6; 6.39.9-10; Dion. Hai., 4.9.8; 8.70.5; 74.3; 9.51.4-5. Ricorre poi in alcuni di questi passi e in altri ancora l'idea che questa 'ingiustizia' sia realizzata con la vio lenza dell'acquisizione. Il richiamo alla vis è esplicito, secondo la lettura più probabile, in Liv., 4.51.6 ed è riproposto in modo assai significativo in Dion. Hai., 10.36.2 e 37.5. Il termine dominus usato a difesa dei patrizi possessori di ager publicus in Liv., 6.41.11, è insufficiente a definire la legittimità di tali possessi. Liv., 1.46.1; 47.11; 2.41.1; 48.2; 3.1.2; 4.12.4; 36.2; 44.7; 47.6; 48.2; 51.6; 6.5.4; Dion. Hai., 8.69.4; 70.5; 71.2; 71.4; 72.1-3; 73.3-4; 75.1; 82.4; 87.3-4; 89.3; 91.3; 9.1.3; 2.2; 5.1; 7.3; 9.3; 17.4; 27.4; 37.1-2; 51.1-3 e 6; 52.1-6; 59.1; 69.1; 10.31.2; 32.2-3; 36.2. (12 > Cfr. Liv., 2.42.1 e 6; 43.3; 44.1; 52.2-3; 54.2; 63.2; 4.43.6; 47.8; 49.11; 52.2; 53.2 e 4; 5.12.3; 6.5.1; 11.8. Minori richiami in Dionigi, la cui narrazione è ben più articolata di quella di Livio: Dion. Hai., 10.36.1 e 39.2.
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obiettivi, per tutto il V sec. siano quelli ora enunciati03*. Di fronte alla signi ficativa concordanza di indicazioni relative al duplice punto costituito dalla esclusivapossessio dell'or, publicus da parte dei patrizi e dalla richiesta ple bea di una divisione di questo in proprietà privata, non troviamo nelle fonti alcuna incertezza. Di qui, come si è detto, la singolare contraddizione costi tuita dall'eco di una effettiva esclusione plebea dall'a. publicus a cui corri sponde un apparente disinteresse della plebe a superare tale esclusione. Vedremo quindi le fragili testimonianze circa una esclusione di diritto della plebe dall'a. publicus. Quanto poi ad una sua inferiorità di fatto dovuta alla mancanza di mezzi economici necessari per il suo sfruttamento, va ricor dato come, sia pure in modo fuggevole, tale inferiorità sia citata dagli autori antichi addirittura in senso inverso: come un ostacolo alla espansione della proprietà privata dei plebei{,4). Per ora possiamo limitarci a concludere che, quale che fosse la posizio ne giuridica dei plebei rispetto ali 'a. publicus, essi erano esclusivamente orientati a sviluppare il regime della proprietà privata della terra e a limitare l'estensione e l'importanza dell'a. publicus. Da questo punto di vista appare chiaramente la parziale chiusura rappresentata dalla controproposta di Appio Claudio alla mediazione tra Cassio e Virginio effettuata da Gaio Rabuleio, sostanzialmente favorevole alla plebe, e il significato diverso delle integra zioni suggerite da A. Sempronio Atratino allo schema di Appio. Queste ulti me appaiono infatti realmente capaci di rappresentare una efficace mediazio ne fra gli interessi plebei e quelli del patriziato. Stando alla narrazione di Dionigi, si prevedeva così una complessiva
(,3) Questo collegamento si può cogliere sia pure in modo implicito in molti dei passi citati nella nota precedente. Esso appare ancora più evidente in Liv., 2.41.3, dove per l'appunto la prima menzione liviana della lex agraria riguarda la proposta di Spurio Cassio, e in Liv., 2.44.7 e 9; 2.61.1-2; 4.47.6; 6.5.1 e 4, dove, in modi diversi, appare comunque ribadito il con tenuto di queste varie proposte di legge, volte alla divisione dell'agerpublicus romano ο di sue parti più limitate. Si v. in generale sulle richieste plebee e sulle varie proposte di leggi agrarie il fondamentale contributo di HUMBERT, 1978, 61 ss. (,4) Liv., 6.5.5, riferendosi all'impegno della plebe nella costruzione dei suoi edifici urbani sottolinea che essa, in quel frangente, fosse exhaustam impensis, eoque agri immemorem, ad quem instruendum vires non essenti disinteressata cioè della divisione dell'agro pubblico in proprietà privata. Valore analogo ha Dion. Hai., 8.73.5, dove si afferma che i poveri non avreb bero avuto i mezzi per coltivare i lotti di terra assegnati in proprietà privata.
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ridefinizione dell 'a publicus e della sua estensionerispettoalle possibili appro priazioni da parte dei privati(15) e la sua suddivisione in due blocchi: uno destina to ad essere affittato per un quinquennio, l'altro diviso e assegnato in proprietà privata06*. Da questa proposta si ricava tuttavia l'impressione che, intomo al 484 a.C. affiorasse una nuova configurazione delPa. publicus, potendosi quindi immaginare che, in precedenza, all'appropriazione dei patrizi di tale territorio non avesse neppure corrisposto l'onere di pagamento di un canone07*. Certo, proprio nella narrazione di Dionigi si deve riconoscere un aspet to di debolezza rappresentato dalla presenza di elementi che parrebbero atte stare una proiezione all'indietro di fatti e situazioni assai più recenti. Così la presenza in Roma di Ernici e Latini a supporto delle proposte di Cassio e che ricorda chiaramente gli eventi d'età graccana. Ma anche il richiamo alla par tecipazione di questi ultimi alle assemblee romane, effettuato dallo stesso Dionigi, si presta a seri dubbi. È infatti abbastanza improbabile che, succes sivamente dXfoedus CassianumQ sulla base di questo, vi fosse una reciproca ammissione di Romani e Latini (e successivamente degli Ernici) ai diritti politici delle varie città della lega: condizione per l'ammissione ai comizi romani dei Latini e degli Ernici, secondo il racconto di Dionigi. Ma l'equi(15)
Secondo Dionigi la proposta di Appio, ripresa poi da Sempronio Atratino, riguardava in primo luogo la nomina di una commissione con il compito di stabilire i confini dell' ager publi cus e di individuare tutti i casi di appropriazione di tale terra da parte dei privati, recuperan dola così alla comunità. Cfr. Dion. Hai., 8.73.3; 75.3; 76.1; 87.4; 9.1.3. (16) Cfr. in particolare Dion. Hai., 8.73.3; 75.3; 76.1-2. La diversità tra la proposta di Appio e la modifica apportata ad essa da Atratino sembrerebbe consistere nell'alternativa fra la vendi ta ο la distribuzione gratuita ai plebei di una parte dell'a. publicus. Ma il punto per noi più inte ressante è un altro eriguardail destino della parte di ager esclusa, secondo le proposte ora cita te, dall'assegnazione in proprietà privata. Questa parte infatti avrebbe dovuto essere concessa in affitto di durata quinquennale. Ora, accogliendo l'esattezza dell'informazione di Dionigi, ciò dovrebbe far concludere che tale proposta presupponesse che, in precedenza, coloro che sfruttavano l'agro pubblico, non pagassero alcun affitto allo Stato. Ciò che, fra l'altro, spie gherebbe l'insistenza di Dionigi nel richiamare l'immagine di 'ingiustizia' o, addirittura, di 'violenza' in ordine a tali possessi. Va anche detto che il progetto non fu attuato, malgrado l'ap provazione del Senato, restando quindi in vigore il regime precedente. (17) Cfr. Liv., 4.36.2: fra le proposte dei candidati all'elezione a tribuni militari per il 424 a.C. oltre alla consueta divisione àz\Yager publicus, si ricorda l'imposizione di un vectigal ai pos sessori di tale ager. Le considerazioni avanzate nella nota precedente, a proposito del significa to di Dion. Hai., 8.73.3 e 75.3, sono ulteriormente confermate da Dion. Hai., 8.74.3, dove l'in giustizia del beneficio tratto dai patrizi nello sfruttamento dell'ager publicus sembrerebbe vani ficarsi con la presenza di unricavo(mediante affitti) da questo ager. Cfr. anche Dion. Hai., 4.9.8 e 10.37.4.
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voco con ogni probabilità, deriva dalla stessa terminologia dello storico greco che, a definire il rapporto intercorrente tra questi vari soggetti, impiega il ter mine greco di isopolitèia. Ora il punto centrale è che tale termine, proprio in Dionigi, oltre che in altri autori coevi, tende ad assumere il valore di 'piena cittadinanza politica': quello espresso a rigore con politela. Un valore che io, seguendo in questo il grande Niebuhr, tenderei ad escludere, per Roma arcai ca, supponendo un uso relativamente improprio da parte di Dionigi, volto a indicare, più semplicemente, i meccanismi di assimilazione dello straniero al cittadino per quantoriguardala sfera del diritto privato(18). Insomma si tratta va di quel reciproco commerciume conubium che noi sappiamo sussistere tra Romani e Latini. Una volta tradotto in greco tale riferimento perdeva il suo originario valore passando da 'comunanza di diritto privato' a 'piena cittadi nanza'. In tal modo Dionigi finiva col dare una rappresentazione dei rappor ti tra Romani e Latini inesatta e che sviava la stessa narrazione delle contese intorno alle terre pubbliche romane. Ma lasciamo ora questo punto particolare, tuttavia non marginale ai fini della nostra valutazione dell'attendibilità di Dionigi, e torniamo alla contesa tra patrizi e plebei in ordine alla quale converrà sottolineare un altro aspetto ancora che emerge dalla narrazione degli antichi. E cioè che alla richiesta plebea di sopprimere o, almeno, di ridurre l'estensione dell'a. publicus, si opponeva una difesa altrettanto accanita di questa figura da parte dei patrizi(19). Ciò che appare addirittura ovvio del resto se si considera l'esclusivo vantaggio arrecato loro da tale ager. Livio ci dice con chiarezza che una legge volta a distribuire in proprietà Va. publicus avrebbe di fatto significato una massiccia espropriazione dei patrizi(20). m Cfr. supra, cap. I, § 6 ss. ™ Cfr. in tal senso, fra gli altri, Liv., 2.41.2; 61.2; 3.1.3; 44.7; 48.2; 51.5-6; Dion. Hai., 8.73.1-2; 8.81.1; 9.27.4; 32.1-2; 37.2; 52.1-6; 10.38.3-4; 43.1. (20) Liv., 4.48.2-3: ei cum rogationem promulgassent ut ager ex hostibus captus viritim divideretur, magnaeque partis nobilium eo plebiscito publicarentur fortunae — nec enim ferme quicquam agri, in urbe alieno solo posita, non armis partum erat, nec quod venisset adsignatumve publice esset praeterquam plebs habebat- atrox plebi patribusque propositum videbatur certamen. La traduzione di questo brano è la seguente: «la legge da loro proposta stabiliva che tutti i territori tolti ai nemici fossero redistribuiti singolarmente ad ogni cittadino, com portando l'espropriazione di una gran parte delle ricchezze dei patrizi - né infatti vi era alcu na parte della terra cittadina, che si trovava in territorio [originariamente] straniero, che non fosse stata conquistata [ai nemici] né che fosse stata assegnata come pubblica salvo quella che ifiià] aveva la plebe - ciò che faceva prevedere un feroce conflitto fra plebei e patrizi».
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Da quanto si è detto occorre infine concludere che la legislazione de modo agrorum del 367 a.C. non sembra porsi in termini di continuità con i precedenti tentativi, se non per il risultato sostanziale di limitare la capacità di appropriazione delPa. publicus da parte dei patrizi e dei più ricchi cittadi ni e quindi, indirettamente, fare partecipare anche la plebe allo sfruttamento di tali territori. Da sottolineare ancora il fatto che l'antica richiesta di asse gnare in proprietà tali terre sembra essere improvvisamente e radicalmente venuta meno da parte dei plebei. Anche di questa netta svolta*20, che in gene re non è stata particolarmente rilevata dagli storici moderni, dovremo cerca re di trovare una spiegazione adeguata.
3. L'esclusione della plebe Il punto centrale di questa vicenda è, a ben vedere, il rapporto - ο meglio le possibili trasformazioni di un rapporto in origine tutto negativo -frai ple bei e Va. publicus. È indubbio che tutte le indicazioni degli antichi concordano, come abbiamo p,) Non mi addentrerò nell'analisi dei possibili contenuti della seconda delle leggi Licinie Sestie de modo agrorum e sull'ampia discussione svoltasi sin dal secolo scorso intorno al suo contenuto preciso o, addirittura, sulla sua autenticità. Degli autori antichi fondamentale appa re la narrazione liviana, dalla quale veniamo informati che tale legge avrebbe stabilito un limi te allepossessiones individuali di cinquecento iugeri (Liv., 6.35.5). Sull'abbondante letteratu ra, oltre alle consuete trattazioni manualistiche e ad alcuni interventi di particolare interesse (tra i quali vanno ricordati I?ABRUNA, 1971, 267 ss., e soprattutto il rapido ma preciso panora
ma offerto da TOYNBEE, 1965, II, 558 ss., nonché DE MARTINO, 1979, 155 ss. e FERENCZY,
1976, 48 s.), ha ovviamente un particolare risalto la discussione affrontrata dal Tibiletti su cui ritornerò in seguito (cfh infra nt. 22). Resta di non poca utilità l'ampia trattazione svolta a suo tempo da DE RUGGIERO, 18§2, 763 ss. Di recente l'intera questione è stata affrontata in modo assai puntuale da SERRAO, 1987, 158 ss. Ivi, p. 177, altre indicaz. bibliogr. Quanto al mancato rilievo dato dai moderni alla peculiarità della soluzione adottata nella lex de modo agrorum rispetto alla pretesa plebea ricordata nelle pagine precedenti, ciò in parte si può spiegare col fatto che in costoro era presente, in modo più ο meno coerente, il presupposto di una esclu sione legale della plebe dall'a publicus, anteriormente al 367 a. C. Il superamento del contra sto sarebbe quindi costituito dall'avere le stessi leggi Licinie Sestie eliminato tale esclusione. Una volta ammessa anche la plebe 2$\& possessio dell'a. publicus, si spiegherebbe la scompar sa della sua precedente ostilità verso tale figura. Va osservato tuttavia che anche questa com plessa giustificazione verrebbe meno ove si supponesse che l'esclusione della plebe dall'ut. publicus, prima del 367 aC. non fosse basata su elementi legali ma su una situazione di fatto.
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visto, nel senso di una originaria e durevole esclusione della plebe dallo sfrutta mento di tale ager. Esse tuttavia non ci permettono di comprendere con eguale facilità e sicurezza il fondamento di tale esclusione. Ed è questo un problema su cui si evidenzia, da più di un secolo, una sostanziale incertezzafragli storici. L'ipotesi più semplice, quella che sembrerebbe aver raccolto i maggiori consensi, tenta di fondare l'esclusione su una base legale. Contro di essa gio cano tuttavia due importanti argomenti (che verrebbero meno in effetti solo accogliendo l'idea di un'originaria esclusione dei plebei dalla civitas e dalle curìae). Ho già sottolineato infatti come la polemica plebea contro i patres, per quanto concerne lo sfruttamento dell' a. publicus non si esprima mai in una richiesta di partecipazione al godimento di tali beni nella loro preesistente condizione giuridica. Pur denunciando infatti l'iniquo impossessamento delVCL publicus da parte dei patrizi e dei loro clienti, i plebei non chiedono mai di poter fruire anch'essi di tale ager, in quanto publicus, ma solo e sempre che esso, mutando il regime, venga redistribuito in proprietà privata. Piuttosto che lottare contro un'esclusione giuridica che deve essere superata e abbattu ta, i plebei sembrano dunque impegnati a limitare ed eliminare una situazio ne svantaggiosa, imponendo l'estensione di un regime giuridico (la proprietà privata della terra) a loro più favorevole. Come, del resto, gli antichi nonricordanounarichiestaplebea di fruire delPa publicus in quanto tale, così non sembra afiFatto casuale che, su questo punto, manchi completamente, nelle fonti, una indicazione sul momento e sulla natura dell'equiparazione dei plebei ai patrizi. Mentre cioè per tutti gli altri stati di inferiorità legale della plebe (divieto di conubium con i patres, esclusione dalle magistrature, dai collegi sacerdotali) gli scrittori antichi ci informano in modo piuttosto accurato di quelle delibere che misero fine alla sperequazione, nulla di tutto ciò abbiamo nel caso - e solo nel caso - dell'a publicus. Per questo motivo mi sembra molto debole il tentativo effettuato, in modo più ο meno esplicito, da molti e autorevoli storici di attribuire alle leggi Licinie Sestie il merito di aver soppresso l'esclusione legale dei plebei dal l'or. publicu&-\ In tal modo non solo si attribuisce ad esse qualcosa che gli (22) Cfh fra gli altri TIBILETTI, 1948,215 ss., 223,235; BURDESE. 1952,52 ss.; GROSSO, 1955, 105. Di notevole rilievo appare anche la trattazione di SCHWEGLER, 1870,449 s., su cui tornerò
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antichi non menzionano mai, ma soprattutto si dà un segno a tale legislazio ne che, a mio giudizio, va contro la logica stessa della precedente battaglia plebea come ci è narrata dalle fonti. Battaglia che, lo ripeto nuovamente, non è tanto volta a superare in questo caso una barriera legale (l'esclusione dalVa. publicus) quanto a instaurare una situazione più favorevole di fatto ai ple bei e che sarebbe rappresentata dalla proprietà privata della terra.(23). Si dovrà dunque cercare un'altra strada che possa aiutarci a comprende re il deciso orientamento plebeo a favore del regime del a. divisus et adsU gnatusrispettoa quello dell' a. publicus. Solo così potrà individuarsi il reale motivo dello svantaggio che la plebe sembra incontrare nello sfruttamento
più ampiamente nelle pagine seguenti. Più incerta la Bozza che, in un primo momento, sem bra sostenere decisamente l'idea di un'ammissione legale dei plebei ali 'a. publicus ad opera delle leggi Licinie Sestie (BOZZA, 1930,207), per poi giungere a dubitare non solo della legge Licinia de modo agrorum, ma addirittura della stessa legittimazione formale della plebe allo sfruttamento dell'a. publicus (BOZZA, 1938, 167 ss.). Cfh infine le altre indicazioni contenute in CAPOGROSSI, 1974, 347 nt. 20. Va tuttavia riconosciuto che non pochi dubbi sono stati for mulati sulla validità di una interpretazione siffatta. Accennerò così alla critica molto esplicita rivolta a suo tempo da MARQUARDT, 1881, 99 e nt. 6 (1889, 134 e nt. 2), all'idea di una origi naria esclusione legale della plebe, esclusione che il Marquardt tende invece ad associare ad un'inferiorità di natura economica. Cfh per un'epoca più recente, oltre, alla posizione del KASER, 1942, 28, la sostanziale cautela che nella sua più tarda riflessione sembra caratterizza re GROSSO, 1970, 155 e nt. 22. Scetticismo sull'idea di tale esclusione legale mostra infine DE RUGGIERO, 1892, 737 ss., 769 s., nel quadro di una ricostruzione forse più originale che con vincente, volta ad associare il regime ddVoccupatio del primitivo a. publicus a quello della divisione e assegnazione. È indubbio che la supposta esclusione legale dei plebei dall' a. publi cus trovava più ο meno diretto fondamento nell'idea «che il patriziato rappresenti la cittadi nanza primitiva», come giustamente è stato osservato da DE SANCTIS, 1916, 323 nt. 178. Da ultimo FERENCZY, 1976, 48 s., sembra ritenere che l'esclusione, lungi dall'essere legale, riguardasse solo gli strati inferiori della plebe. (23) L'unico modo di ricollegare il significato di tale legge alla precedente battaglia plebea è quello, suggerito da diversi studiosi, di riconoscere che, comunque, la limitazione imposta alle possessiones di a. publicus rappresentava di fatto una garanzia per l'accesso effettivo dei plebei a tale tipo di ager. Cfh ad es., da ultimo, nel senso, FREZZA, 1974,251 ss. Alla luce di queste con siderazioni appare quindi abbastanza incomprensibile la posizione del DE MARTINO, 1972, 401, secondo cui il potere di signoria sulle terre pubbliche «era riservato ai soli patrizi, non poteva essere esercitato dalla plebe». Ciò che spiegherebbe perché essa «non ponga mai tra le sue riven dicazioni la possessio, ma soltanto la adsignatio delle terre pubbliche». Mi sembrerebbe esatto proprio il contrario: se un dato potere fosse statoriservatoai patrizi, si dovrebbe supporre che la plebe, nella sua lotta per l'equiparazione giuridica e sociale, avrebbe preteso di essere ammessa a fruirne. In tal caso essa non si sarebbe limitata a richiedere la divisione dell'a. publicus, ma avrebbe comunque richiesto di essere anche ammessa allei possessio di questo. Ammissione che del resto gli stessi sostenitori dell'interpretazione difesa dal De Martino suppongono si "sia comunque realizzata con la lex Licinia de modo agrorum.
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dell'a. publicus o, addirittura, della sua esclusione propterplebitatem secon do la formulazione di Nonio(24). Formulazione che, a sua volta, evidenzia la fondamentale impasse di fronte a cui ci troviamo. Ho già sottolineato infatti la debolezza di una ricostruzione che faccia risalire al 367 a.C. l'estensione ai plebei del diritto di sfruttamento dell'a. publicus: d'altra parte è pur vero che resta indiscutibile e insistente ricordo di una precedente loro esclusione da tale ager. Né sembra molto agevole spiegare siffatta esclusione sulla base di una possibile inferiorità materiale della plebe in ordine alle possibilità di sfruttamento dell'ir, publicus, quale ad es. la maggior disponibilità dei capi tali necessari etc. Ciò che pure, da parte di vari autori, si è talvolta supposto. Sebbene la distinzione fra patrizi e plebei richiami senz'altro, per l'epoca qui considerata, una differenziazione anche economica, questa non spiega a mio avviso una radicale esclusione dei plebei dall'a publicus né una loro siste matica emarginazione. Semmai ciò potrebbe valere per alcuni specifici tipi di utilizzazione di tale ager e non in assoluto. Vi è un altro aspetto di cui tener conto, che forse potrebbe offrirci una soluzione delle difficoltà ora evidenziate. Mi riferisco alla diversa organizza zione dei patrizi e dei plebei, solo i primi essendo uniti in gentes. Si potreb be infatti immaginare che fossero proprio gruppi abbastanza ampi e forti come le gentes a trovarsi avvantaggiati nello sfruttamento dell'a. publicus, rispetto ai plebei strutturati essenzialmente nella forma della familia proprio iure. Forma quest'ultima più congeniale al regime della proprietà quiritaria verso il quale, come abbiamo visto, non a caso i plebei mostrano il loro accentuato favore(25). Ma ilrichiamoalle gentes e alla familia proprio iure ci permette di tor nare a considerare la stessa legislazione del 367 a.C. da un altro punto di vista.
p4) Non. Marc, comp. doctr., s. v. plebitatem (LINDSAY, 217): plebitatem, ignobilitatem ... Hemina in Ann alibus: quicumque propter plebitatem agro publico eiecti sunt. (25) Si tenga presente che tutto il sistema giuridico romano, per quanto concerne la sfera priva tistica, sin dalle XII Tavole, appare solidamente e pressoché esclusivamente incentrato sulla figu ra del paterfamilias e dà quindi un eccezionale rilievo alla struttura della familia proprio iure. Questo vale naturalmente anche per il regime arcaico della proprietà, comunque esso si voglia configurare alla luce del dibattito tuttora aperto sui poteri (unitari ο meno) del paterfamilias.
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La seconda delle leggi Licinie Sestie, come ben sappiamo, stabiliva un limite al possesso dell'a publicus da parte dei singoli cives sui iuris. Limite tanto elevato, secondo quanto ci dicono gli antichi, da suscitare notevoli per plessitàfragli studiosi moderni sulla plausibilità stessa della notizia(26). Ammettiamo per ipotesi l'esattezza di tali indicazioni. Cerchiamo d'al tra parte di individuare in questa legge l'elemento di novità, di svolta politi ca che deve caratterizzarla, come nel complesso caratterizza tutte le leggi Licinie Sestie. È indubbio anzitutto che, quali che fossero i limiti stabiliti alle singole possessiones, con tale legislazione si prendevano in considerazione i possessi dei singoli patres delle familiae proprio iure (cioè dei cittadini sui iuris). Questo è infatti il presupposto di una legislazione che allarga i limiti della terra acquisibile in caso in cui il possessore abbia uno ο piùfigliinpotestate. A questo punto qualsiasi possibile rapporto fra le gentes patrizie e Va. publicus viene ad essere necessariamente mediato dalle famiglie e dal ruolo autonomo dei patres familias. Proprio questo, dunque, potrebbe essere l'ele mento di novità soprarichiamato:la sostituzione della singola famiglia ο del l'individuo sui iuris, come protagonista dello sfruttamento dell'a.publicus, al gruppo gentilizio. E proprio questo potrebbe essere il meccanismo di sostan ziale (e non formale solo giuridica) equiparazione dei plebei ai gruppi patrizi. A ben vedere si è sempre parlato di un possesso dell'a publicus da parte delle genti patrizie, senza che tuttavia si evidenziasse chiaramente il signifi cato ultimo che ciò rappresentava, sia sul piano funzionale che dal punto di vista meramente giuridico. Quasi che il regime di sfruttamento di tale ager, anteriormente al 367, potesse considerarsi in termini di continuità con la situazione più tarda, successiva al tramonto della supremazia patrizia.
°® Questo è stato uno degli elementi su cui a suo tempo ha fatto leva il Niese nella sua cri tica demolitrice della storicità della lex Licinia de modo agrorum. Merita ricordare come tale aspetto sia nuovamente proposto, pure in una prospettiva affatto diversa, da JONES, 1954, 539 s. Per quanto concerne le tesi del Niese e la successiva discussione nella più recente dottrina cfh TOYNBEE, 1965, II, 559 ss. V. anche, più decisamente polemico con lo stesso Niese, CARDINALI, 1965,131 ss. V. inoltre, sul punto, DE MARTINO, 1972,396 ss.; DE MARTINO, 1976, I, 183 ss.; D E MARTINO, 1979, 28 s., ma soprattutto, CASSOLA, 1991, 220 s., e i due saggi di MUSTI, 1988,327 s. e nt. 8 e di CASSOLA, 1988,439.
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Non mi sembra che la storiografia giuridica moderna abbia adeguata mente approfondito la notevole differenza esistente tra un sistema impernia to sugli organismi gentilizi e un sistema riferito invece al modello della famiHa proprio iure. È quindi opportuno, a questo punto del discorso, ribadire esplicitamente la sostanziale eterogeneità - se non l'antinomia - tra una forte struttura gentilizia e la piena espansione della,familiaproprio iure come sog getto esclusivo dei rapporti regolati dall'ordinamento cittadino. L'elemento comunitario proprio del primo organismo presuppone infatti una limitata autonomia dei singoli patres familias. Più in generale, del resto, il modo di operare della gens, nell'ambito dei rapporti sociali e giuridici di sua compe tenza, appare diverso da quello tipico della familia proprio iure cui si riferi sce, già in modo pressoché esclusivo, il sistema delle XII Tavole. Partiamo dunque dall'opinione assai diffusa secondo cui, anteriormente al 367 a.C, Va. publicus sarebbe stato oggetto di appropriazione da parte delle gentes patrizie in quanto tali. Questa prospettiva dovrà essere analizza ta, alla luce del carattere eminentemente collettivo (non trovo termine meno inadeguato) della gens. Quando infatti affermiamo che un dato territorio 'è di una certa gens\ noi in sostanza intendiamo affermare che esso non è giàripartitoin proprietà dei singoli componenti della gens, dei singoli patres familias. Indipendentemente da quello che sarà il modo concreto del suo sfruttamento - con eventuali assegnazioni anche permanenti nel tempo ai suoi singoli membri - noi dobbiamo supporre che la pertinenza del territorio sia della gens in quanto tale. È proprio il fatto che un dato territorio sia sottratto all'arbitrio e alla libera disponibilità dei singoli e sia sotto il diretto controllo di un gruppo gen tilizio che costituisce il fondamento ultimo e la base materiale dell'unità di questo stesso gruppo. E ciò vale anche per l'effettiva subordinazione dei clienti. Essi infatti - non diversamente dal resto dai gentiles stessi - potranno partecipare allo sfruttamento éélYager gentilizio sulla base di un loro preci so rapporto con l'organismo comunitario, magari rappresentato dal pater gentis. Solo se esistono queste condizioni è quindi possibile affermare, come sovente si fa, che l'aristocrazia patrizia in Roma ha fondato la sua forza sulla struttura gentilizia.
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Lasciamo per il momento impregiudicato il problema se le terre della gens, Va. gentilicius, siano ο no da identificare integralmente con Υ a. publi cus. Ammettendo comunque che questo fosse oggetto di appropriazione della gens, che la gens 'possedesse', insieme ai suoi clienti, le varie estensioni di a. publicus, noi dobbiamo allora evitare di rappresentarci tale possessio in termini di continuità con la situazione successiva alle leggi Licinie Sestie, essa sì destinata a prolungarsi sino all'età graccana ed oltre. Questo punto che, forse più di altri, era stato intuito dalla Bozza, neces sita tuttora di essere adeguatamente sviluppato*27*. La differenza fondamentale fra il più arcaico tipo di pertinenza delFa. publicus e il successivo sistema delle possessiones consiste nel fatto che, nel primo caso, la spettanza della terra, come ho già sottolineato,riguardanella sua interezza l'organismo comunitario che è ÌSLgens, o, al massimo - ed è per me meno probabile - il suo rappresentante: il pater gentis, che ne assume la titola rità. Nel secondo caso invece, a partire al più tardi dalle leggi Licinie Sestie, Va. publicus è di spettanza esclusiva dei singoli individui sui iuris, venendo quindi meno ogni diretto rapporto tra la comunità gentilizia e tale ager.
4. La natura dell''ager publicus9 arcaico /. Alla luce di queste considerazioni mi sembra possa dunque apparire più evidente l'ambiguità sostanziale che caratterizza in proposito la moderna riflessione storiografica e le formulazioni dei romanisti. Da una parte infatti si tende, come abbiamo visto, per l'età più arcaica a collegare il possesso di tale territorio alle gentes patrizie in quanto tali, dall'al tra però, con l'uso estensivo dell'immagine às&àpossessio, sifiniscecon lo sfup7)
Le tesi portate avanti in questo articolo si ricollegano in effetti molto strettamente ai risul tati a suo tempo raggiunti dalla Bozza nelle sue ricerche su\V ager publicus, che hanno visto la luce lungo il corso degli anni '30. Sulla loro portata precisa e sul valore di rottura - mai trop po sottolineato - rispetto ad una interpretazione regressiva del predominante filone niebuhriano-savignano, cui peraltro anche la Bozza si richiama, si v. anche gli accenni contenuti nel successivo cap. VII. Va anche ricordato come DE MARTINO, 1972, 1,253 e 401 s., colga assai bene, sia pure senza specifici approfondimenti, il nucleo più fecondo della ricostruzione della studiosa napoletana.
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mare ogni differenza fra la situazione più arcaica e il tipo di pertinenza dell'a publicus quale verrà configurandosi in età più avanzata. In tal modo non è appar so quasi mai evidente il fatto che l&possesssio dell'a publicus in senso stretto (cui siricollegatra l'altro, da parte di numerosi studiosi, l'origine della tutela interditele), quale troverà piena esplicazione in età successiva al 367 a.C, da un punto di vista funzionale, non si differenzia affatto dal modello del dominium, essendo sia l'ima che l'altro incentrati esclusivamente e necessariamente sulla figura del paterfamilias, del cittadino sui iuris. Ma se questo fosse stato da sem pre il regime giuridico dell'a publicus, allora si deve riconoscere con grande chiarezza che l'ordinamento giuridico romano non avrebbe ammesso, neppure per l'età delle origini cittadine, un ruolo autonomo delle gentes e un rapporto diretto tra queste e il territorio agricolo. Sia Γα publicus, infatti, che Va. divisus et adsignatus avrebbero fatto capo non già al gruppo gentilizio in quanto tale, ma ai singoli cittadini indipendentemente dalla loro appartenenza ο meno ad una gens. Secondo questa rappresentazione non vi sarebbe stato spazio per un ager di effettiva pertinenza della gens, ad esclusione di altri tipi di titolari (i singoli patres familias)riconosciuticome tali e tutelati dall'ordinamento statuale. Al massimo, come del resto è implicito nel pensiero di Niebuhr, ma come diventa poi evidente nella riflessione di altri storici ottocenteschi(28), l'organizzazione gentilizia, tutta interna alla ctvitas, non avrebbe costituito altro che un sistema di organizzazione della popolazione in base al quale, non diversamente dalle tribù e dalle curie, sarebbe stata originariamenteripartitala terra. Quanto poi al rapporto di clientela, anche in questo caso il vincolo esi stente è fra la gens e i clienti; la sua forza di coagulo trovava fondamento (28) Mi riferisco soprattutto al complesso tentativo dello SCHWEGLER, 1870, II, 44 ss., di rife rire la notizia di Dionigi, relativa ad una ripartizione della terra da parte di Romolo in trenta parti uguali, assegnate ciascuna ad una delle trenta curie in cui era divisa la popolazione, ad una forma di comunità agraria («dass die Flur jeder Curie ein geschlossenes und zusammenhàngendes Ganzes gebildet hat ...»), dove il significato stesso della distribuzione degli heredia finisce con l'essere capovolto: sulla portata effettiva del testo di Dionigi e delle altre indicazioni relative all'originario assetto del territorio romano, rinvio al già citato CAPOGROSSI, 1974, 314 s. e 333 ss., ntt 4, 5, 9-11. Considerando poi le gentes come una ripartizione inter na alle curie (10 gentes per curia), lo Schwegler giungeva a supporre che anche il territorio delle curie fosse suddiviso in tanti lotti corrispondenti alle gentes: che «eine zusammenhangende und geschlossene Unterabtheilung (ein Zehntel) einer Ackercenturie bildeten». Terra questa che avrebbe compreso gli heredia di dieci patres (dovendosi concludere quindi che ogni gens a sua volta comprendesse al suo interno dieci Datres\
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materiale nelle concessioni precarie di lotti di ager gentilizio. Sebbene qui la mediazione dei singoli patres della gente sia più probabile e certo più preco ce, si è indotti a sospettare che, almeno nel momento di massima forza della struttura gentilizia, tali rapporti di dipendenza sussistessero essenzialmente fra il gruppo signorile e la massa dei clienti. Su questo punto già il Mommsen aveva in modo molto significativo mostrato un orientamento del genere(29). Vorrei però aggiungere che il regime della clientela arcaica e il conte nuto originario di tale rapporto appaiono nel complesso abbastanza incerti. Benché iriferimentiall'istituto, negli storici moderni, siano numerosi e ten dano a dare una interpretazione non problematica di siffatto legame, dobbia moriconoscereche, sino all'età più recente, le questioni inerenti a questa ipo tetica figura siano restate relativamente trascurate nella nostra tradizione di studi(30). Ora tuttavia possiamorinviareagli approfondimenti effettuati soprat tutto da alcuni romanisti italiani, ai quali ormai appare indispensabile far riferimento per sviluppare ulteriori analisi in proposito(3,). Alcuni punti restano tuttora, a mio giudizio, relativamente poco chiariti. Penso anzitutto al rapporto con la clientela gentilizia efratale istituto e le altre P9
> Cfr. MOMMSEN, 1887,70 (1889, VII, 77). V. inoltre BLOCH, 1883,107 ss., e, più di recen te, DE FRANCISCI, 1931,117, lievemente più sfumato DE FRANCISCI, 1959, 185. (30) Ancora le analisi più significative risalgono a MOMMSEN, 1859, 358. Cfr. anche PREMERSTEIN, 1900, 24 ss.; SIBER, 1951,162 ss. V. oltre ai contributi del de Francisci citati nella nota precedente, FREZZA, 1938, 423 ss. Chiara e assai utile la sintesi della condizione giuridica dei clienti contenuta in WATSON, 1975,100 ss. Essendo tale trattazione sostanzialmente orienta ta a evidenziare il rapporto di tipo individuale fmpatromts e cliens, inevitabilmente Γ a. è indot to a dubitare che in origine sussistesse una restrizione del rapporto di patronato ai soli patrizi. (31) Cfr. anzitutto FRANCIOSI, 1988, 134 ss., con una efficace revisione critica dei vari idola dei moderni in relazione a tale rapporto. Importante ivi anche la netta distinzione tra la figura del jcliente arcaico e quella del liberto. V. anche FRANCIOSI, 1992, 105 ss. Infine, a proposito dell'isolata testimonianza delle XIITavole relativa alla clientela arcaica costituita dalla norma che irrogava la pesante sanzione della 'sacertà*, con la conseguente esclusione dalla comunità, del patrono che avesse tenuto una condotta fraudolenta verso il suo cliente (Tav., VIII.21: patronus, si clienti fraudemfecerit, sacer estó) varichiamatala peculiare posizione di SERRAO, 1984, 66 ss. Tale studioso infatti, confrontando siffatta normativa con la precedente regola, attribuita da Dion. Hai., 2.10.3, a Romolo, che sanciva l'obbligo di rispettiva lealtà e fedeltà tra gentili e clienti, giungeva infatti alla conclusione di un mutamento generale di temperie. Mentre infatti in epoca regia potrebbe rilevarsi una tendenza a rafforzare la comunità gentili zia, mantenendo «il vincolo dei clienti verso le genti», con le XII Tavole prenderebbe sostan za una «dialettica tra le classi di una civitas politicamente unitaria» (p. 68). Tale norma in sostanza sarebbe il risultato della consapevole politica plebea di creare i presupposti per una alleanza con gli antichi clienti delle genti patrizie offrendo a questi una garanzia legale a loro oortlnoiuA -fcn/r»r/» n/»1 rannnrtn rifui Ift oetTìtì nfltrizie (Ό. 6 9 S.V
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forme primitive di dipendenza (fermo restando che esso non può riallacciarsi alla più tardivafiguradel liberto, essa stessa, forse, modellata in parte su quel la del cliente primitivo*32». Ma mi riferisco soprattutto allo stesso processo di dissoluzione della clientela ed all'insignificanza della documentazione giuridi ca ad essa relativa. Si potrebbe dunque immaginare che, in linea generale, il rapporto fra le gentes patrizie e Va. publicus, in età anteriore alle leggi Licinie Sestie, seguisse una logica e avesse caratteri radicalmente diversi dal tipo di possessio che, in seguito, sarà costituito a favore dei singoli patres familias. Questo tipo di rapporto più arcaico avrebbe dovuto in qualche modo garantire il carattere collettivo della gens, escludendo per l'appunto l'appropriazione diretta da parte dei singoli patres: ciò che invece, dopo il 367 a.C, diverrà la norma. L'elemento di novità della lex de modo agrorum potrebbe esser costitui to per l'appunto dalla sostituzione, come protagonista del possesso e dello sfruttamento dell'a. publicus, della familiaproprio iure allage/w. Naturalmente non è necessario supporre che la sostituzione sia stata improvvisa e radicale. È quanto meno verosimile che, già prima di tale data, si fosse avviato un processo destinato allora a giungere a maturazione. È pos sibile, cioè, che in una fase in cui la costituzione gentilizia aveva iniziato la sua parabola discendente, la titolarità del possesso dell'a publicus finisse con l'essere attribuita ai singoli patres della gens ed eventualmente anche ai loro clienti. In questa fase di passaggio l'elemento comunitario costituito dalla terra si sarebberipartitofratutti i nuclei familiari (sia pure in misura diffe renziata in relazione al loro peso): dove traccia della originaria coesione sarebbe forse rappresentata dall'essere situati tutti i lotti di una stessa gens in un'area geografica compatta. (32)
In verità è l'esistenza stessa delle manomissioni che può essere messa in dubbio per l'età più antica: sotto questo profilo è molto interessante la notizia di Dionigi d'Alicarnasso che fa risalire la regolamentazione degli effetti giuridici della manomissione (acquisto della cittadi nanza), non già al mitico tempo delle origini, come tanti altri istituti destinati anch'essi a per sistere in età storica, ma all'età di Servio Tullio. Cfr. Dion. Hai., 4.22.4; 23.4. Neppure GUARINO, 1975, 58 ss., 277 ss., pur escludendo giustamente qualsiasi diretto collegamento fra clientele tardo-repubblicane e clientele arcaiche, analizza poi in-concreto e cerca di interpre tare i motivi dell'analogia fra la condizione giuridica dei liberti e il regime degli antichi clien ti descritto da Dionigi. "" —-
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A questo punto tuttavia sarebbe in atto un processo centrifugo che inde bolisce progressivamente la gens come organismo coeso. E soprattutto que sto stesso processo presupporrebbe un punto di partenza diverso, in cui la figura delle gens còme realtà aggregata si presenta in tutta la sua forza. Come ho già accennato, in un primo periodo 'classico' la fedeltà dei clienti non dovevariguardaretanto i singoli patres, ma il gruppo gentilizio nel suo com plesso ed era esso,.in quanto possessore della terra, che assegnava i lotti ai singoli clienti e li ammetteva alle varie forme possibili di sfruttamento dell'or. publicus. Ma per l'appunto, da tale situazione di partenza si vennero sviluppando una serie di rapporti che privilegiavano la posizione dei singoli patres e, soprattutto, quando ciò si generalizzò, probabilmente già prima del 367 a.C, vennero meno i presupposti sia della fedeltà dei clienti, sia della coesione stessa dei gentili, essendo ormai la terra oggetto di un'appropriazione da parte delle singole famiglie, anche di clienti, non più mediata dalla gens, ma derivata da un diretto rapporto con la comunità cittadina. A quel punto le con dizioni economiche dei plebei e quelle dei clienti venivano ad essere presso ché identiche e simili i loro interessi. Comunque sia, anche per quanto concerne le forme di appropriazione dell'a. publicus, la legislazione del 367/366 a.C. potrebbe assumere il valore di una svolta, ove sirinuncia cercare in essa un'impossibile ammissione della plebe alPa. publicus, ma si metta a fuoco il significato rivoluzionario di un mutato sistema di appropriazione di tale territorio. Sistema che, per conclu dere, lungi ormai dal contrapporsi, non si distinguerebbe più, sotto il profilo del significato socio-economico dei rapporti posti in essere, dalla forma del dominium. Sia per quest'ultimo, infatti, che per lapossessio dell'a. publicus, titolare e protagonista esclusiva sarebbe stata ormai la figura del pater familias. L'aver sottolineato con forza il carattere comunitario della struttura gen tilizia, nel suo momento di massima espansione, non vuole affatto significa re che tale organismo realizzasse al suo interno forme effettivamente parita rie. Al contrario, con le gentes patrizie della tarda età monarchica e della prima età repubblicana (altro discorso può valere per le strutture gentilizie 'preciviche') noi ci troviamo di fronte a organismi profondamente diSeren-
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ziati al loro interno. Non solo, come è ovvio, la prima radicale distinzione riguarda i gentili veri e propri e i clienti, gruppo sociale subalterno; anche fra le varie famiglie e lignaggi di gentili venivano progressivamente accentuan dosi i processi di differenziazione sociale ed economica. Un primo fattore in tal senso, che giuoca un ruolo importante sin dalla fase più antica, è il fatto che solo alcuni fra i gentili più autorevoli e potenti, accedevano al consesso dei patres, al Senato monarchico. Non mi tratterrò molto su questo punto, già sfiorato in altra sede: qui occorre sottolineare che la stessa scelta del re e più tardi l'ascesa alle magistrature repubblicane attra verso la designazione dei comizi sanciscono, oltre all'eventuale prestigio per sonale acquistato con la guerra, la crescita, anche economica, di singoli nuclei familiari all'interno della gens. Non si deve infatti trascurare che, accanto alla autonoma potenza eco nomica della gens in quanto struttura unitaria, sono operanti nella società romana, sin dalla più antica età regia, processi economici collegati alla atti vità dei singoli cives e destinati ad accentuare l'importanza dei rapporti socia li ed economici riferiti alle familiae proprio iure ed ai loro patres. Se in un primo momento la proprietà privata (cioè dei cittadini sui iuris) della terra è attestata ancora in forma relativamente limitata, con l'età serviàna appare evi dente una espansione di talefiguracon un sostanzialeridimensionamentodei precedenti assetti comunitari. Ma la proprietà della terra, per quanto impor tante, non è che uno degli elementi dell'organizzazione economica della società arcaica: tutta la ricchezza mobiliare, legata alla guerra e alle attività commerciali e artigianali, sin dall'inizio ha caratteri strettamente individuali. È proprio attraverso tali meccanismi che si realizza un processo sempre più accentuato di differenziazione economica, non solo all'interno del mondo patrizio, ma fra, gens e gens e tra le varie famiglie all'interno di ciascuna delle gentes e fuori di esse. I crescenti livelli di ricchezza individuale delle più importanti famiglie delle varie gentes patrizie, come ho detto, di fatto tendono a facilitare il for marsi di una gerarchia all'interno della stessa gens. La torma dei clienti e la gestione delle terre della gens finiranno con l'essere assunte dai patres più importanti del gruppo gentilizio. E tuttavia converrà renderci conto che Γ am ministrazione di un potere e di un patrimonio di spettanza della gens sono,
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dal punto di vista formale, una cosa ben diversa dalla frantumazione di que sto e dalla sua attribuzione ai singoli patres. Col realizzarsi di questa secon da situazione - già chiara nel corso del V sec. - il patriziato nel suo comples so perde compattezza e si preparano le condizioni istituzionali per una più generale trasformazione sociale(33).
5. L'episodio dei Claudi Possiamo ora approfondire l'episodio dei Claudi. La loro migrazione in Roma, all'inizio della repubblica, e l'acquisizione di una parte del territorio romano, come ho già ricordato, sono fra i dati più importanti cui in genere i moderni sirifannoper le ipotesi circa l'organizzazione delle gentes e il regime del loro ager e dei loro clienti. In questa sede io mi limiterò ad analizzare le varie versioni dell'episodio che gli antichi ci hanno tramandato, al fine di rica varne le relazioni da loro stessi stabilite fra gli elementi indicati qui sopra. Una prima osservazione riguarda la composizione del gruppo venuto a Roma al seguito di Attius Claustts, che si presenta in termini piuttosto incer ti nella tradizione antica. Claudio infatti migra a Roma con un seguito di clienti, nella narrazione liviana, di amici per Plutarco, di amici e clienti insie me, nella più tarda versione di Servio, ο di familiari, amici e servi in Appiano. Solo Dionigi di Alicarnasso ci dice che Tito [Atto] Clauso viene a Roma (3J) Su questi processi è indubbio l'accentuarsi di interesse nelle più recenti generazioni di storici, stimolato dalle scoperte archeologiche e dalla loro capacità di fornirci un quadro sem pre più esauriente delle condizioni e dei rapporti sociali delle comunità protostoriche, che noi giuristi continuiamo a chiamare 'preciviche'. Basti pensare, a proposito di quest'ultimo aspet to, all'importanza di mostre come quella relativa alla Civiltà del Lazio primitivo (COLONNA-BARTOLONI, 1976), e, ora, quella a cura di A.M. Bietti Sestieri, che espone i risul tati di una Ricerca su una comunità del Lazio protostorico (BIETTI SESTIERI 1979), relativa al sepolcreto dell'Osteria dell'Osa. Per un esempio magistrale di penetrazione e di interpretazio ne dei processi di dissoluzione della originaria comunità gentilizia ci si può ancora rifare a SERENI, 1955. L'opera per tanti versi appare datata e viziata da schematismi evidenti: essa tut tavia costituisce una singolare testimonianza di aperture tematiche e di recuperi e sviluppi con cettuali singolari nella tradizione storiografica italiana ed europea. Quanto poi ai processi di differenziazione sociale dai quali siamo partiti, mi sembra che un contributo particolarmente significativo, anche alla luce delle considerazioni da me esposte in questa nota, sia costituito
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seguito da parenti, amici e clienti: indicando cioè la struttura gentilizia nella sua interezza. Struttura genericamente ma chiaramente indicata anche da Svetonio, con il binomio di gens e clienti(34). Per quanto concerne le concessioni di terre ai Claudi, in linea generale Livio e Dionigi associano la gens con il territorio al di là dell'Amene, che si identificherà con la tribù Claudia. Così ce ne parla Livio, 2.16.3-5: «Un dis senso scoppiato in seno ai Sabini fra i fautori della guerra e coloro che erano favorevoli alla pace fece passare ai Romani un certo numero di questi. Infatti Atto Clauso, che ebbe poi in Roma il nome di Appio Claudio, vedendosi come fautore della pace premuto da quelli che si agitavano per la guerra e non essendo lor pari di forze, passò da Irregillo a Roma con un gran seguito di clienti. Fu loro data la cittadinanza e la campagna al di là dalPAniene, e quan do, più tardi, vi si aggiunsero altri cittadini, ebbero nome di tribù Claudia vecchia quelli che provenivano da quel territorio. Appio, cooptato tra i sena tori, ben presto fu nel Senato uno dei membri più ragguardevoli». E ancora, in 4.3.14, egli ripete più brevemente lo schema di fondo del l'episodio: «E, sempre dopo l'espulsione dei re, abbiamo senz'altro accolto non solo fra i cittadini ma anche nel patriziato la gente Claudia che proveni va certamente dalla Sabina. D'uno straniero abbiamo fatto dunque un patri zio, poi un console»(35). Più prolissa, come sempre, ma sostanzialmente ispirata allo stesso sche ma liviano appare la versione di Dionigi d'Alicarnasso, 5.40.3-5. Leggiamola di seguito: «Tito Claudio, uomo di stirpe sabina abitante nella città di Regillo di nobile origine e potente per ricchezza, passò dalla loro parte (scil. dei Romani) recando con sé vasto stuolo di congiunti, amici e clienti, i quali (34 > Cfh Liv., 2.16.5; Plut, Pubi., 21.9; Serv., Aen., 7.706; App., reg frg., 12; Dion. Hai., 5.40.3-5; Svet, 7z&, 1.1-2.1 testi sonoriportatiper esteso nelle note seguenti. Sull'episodio si
v. comunque AMPOLO, 1971, 37 ss.; BOZZA, 1930, 200; ROMANO, 1984, 107 ss.; FRANCIOSI,
1988, 131 e altra bibl. ivi, nt 8. (35) Liv., 2.16.3-5: Seditio inter belli pacisque auctores orta in Sabinis aliquantum inde virium transtulit ad Romanos. 4. Namque Attius Clausus, cui postea Appio ClaudiofiiitRomae nomen, cum pacis ipse auctor a turbatoribus belli premeretw nec par factioni esset, ab Inregillo, magna clientìum comitattds manu, Romam transfiigit 5. His civitas data agerque trans Anienem; Vetus Claudia tribus - additis postea novìs tribulibus qui ex eo venirent agro appellati. Appius inter patres lectus, haud ita multo post in principum dignationem pervenit. Liv. 4.3.14: Claudiam certe gentem post reges exactos ex Sabinis non in civitatem modo accepimus, sedetiam in patriciorum numerum. Ex peregrinane patricius, deinde consulflat.
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erano emigrati in massa con le loro famiglie ed erano idonei a servire in armi in numero non inferiore a cinquemila. Si narra che la circostanza cogente che lo spinse a trasferire a Roma la propria sede fu, a un dipresso, questa. Ostili alla sua ambizione in campo politico, i più illustri maggiorenti della colletti vità lo incriminarono sotto l'accusa di tradimento, sulla base del fatto che egli non era favorevole a dichiarare guerra contro i Romani e anzi, nell'assemblea comune, contrastava quantiritenevanoche i patti avessero perduto validità e non permetteva che i propri concittadini giudicassero vincolanti le delibera zioni prese dagli altri. Nel timore di questo giudizio (il suo esito doveva infat ti venir deciso dalle altre collettività), raccolti i propri beni e i propri segua ci, si unì ai Romani, arrecò alla loro situazione un sostegno cospicuo e appar ve come l'artefice maggiore del buon esito di questa guerra. Per tale motivo la volontà del senato e del popolo lo ascrisse tra i patrizi e gli permise di appropriarsi di una porzione grande quanto voleva del territorio cittadino per costruirvi abitazioni: gli concesse inoltre la parte dell'agro pubblico compre sa tra Fidene e Picezia, perché avesse la possibilità di distribuire lotti di ter reno a tutti i suoi uomini. Da essi sorse col tempo anche una tribù denomina ta Claudia, e questa continuò ad esistere fino ai nostri tempi, conservando il medesimo nome»(36). Appiano si limita aricordarel'assegnazione di terra alla (36)
Dion. Hai., 5.40.3-5: άνήρ τις έκ του Σαβίνων έθνους πόλιν οικών Τήγιλλον ευγενής και χρήμασι δυνατός Τίτος Κλαύδιος, αυτομολεί προς αυτούς συγγενειάν τε μεγάλη ν επαγόμενος και φίλους και πελάτας συχνούς αύτοις μεταναςτάντας έφεστίοις, ουκ έλάττους πεντακισχιλίων τους δπλα φέρειν δυνα μένους, ή δε καταλαβούσα αυτόν ανάγκη μετενέγκασθαι την οϊκησιν εις 'Ρώμην τοιαύτη λέγεται γενέσθαι, οι δυναστεΰοντες έν ταίς έπιφανεστάταις πόλεσιν άλλοτρίως έχοντες προς τον άνδρα της εις τα κοινά φιλοτιμίας, εις δίκην αυτόν ύπήγον αιτιασάμενοι προδοσίαν, δτι τον κατά 'Ρωμαίων πόλεμον έκφέρειν ουκ ην πρόθυμος, άλλα και έν τω κοινω μόνος άντέλεγε τοις άξιοΰσι τας σπονδας λελύσθαι, και τους εαυτού πολίτας ουκ εΐα κυρία είναι τα δόξαντα τοις άλλοις ήγεισθαι. ταυτην όρρωδών την δίκην έδει γαρ αυτήν ύπο των άλλων δικασθήναι πόλεων άναλαβών τα χρήματα και τους φίλους τοίς 'Ρωμαίοις προστίθεται ροπήν τ' ου μικράν εις τα πράγματα παρέσχε και του κατορθωθήναι τόνδε τον πόλεμον απάντων εδοξεν αίτιώτατος γενέσθαι* άνθ' ών ή βουλή κα\ ό δήμος εις τε τους πατρικίους αυτόν ενέγραψε και της πόλεως μοΐραν εΐασεν όσην έβούλετο λαβείν εις κατασκευήν οικιών χώραν τ' αύτω προσέθηκεν έκ της δημοσίας τήν μεταξύ Φιδήνης και Πικετίας, ως εχοι διανειμαι κλήρους άπασι τοις περί αυτόν, αφ' ών κάί φυλή τις έγένετο σύν χρόνω Κλαυδία καλούμενη και μέχρις εμού διέμεινε το αυτό φυλάττουςα δνομα.
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gens per le abitazioni e i campi da coltivare*37*, mentre ancora più sommaria mente Servio ricorda l'assegnazione dell'area urbana per le abitazioni*38*. Svetonio invece parla di un ager trans Anienem destinato ai clienti e di una località sub Capitolio destinata al sepolcro gentilizio'39*. Molto diversa è inve ce la versione di Plutarco: egli ricorda infatti che i Romani dettero ai nuovi venuti 2 iugeri di terra per ogni seguace e 25 iugeri ad Atto Clauso. Converrà riportarla integralmente di seguito per la sua particolare rile vanza: Plut. Pubi., 21.4 ss.: «v'era tra i Sabini un personaggio, di nome Appio Clauso, potente per le sue ricchezze e celebre per la forza fisica straordinaria, ma eminente nella sua nazione soprattutto per fama di virtù e abilità di parola. Non sfuggiva neppure lui, però, al destino comune di tutti i grandi uomini: era invidiato. Così quando cercò di arrestare la guer ra, i suoi avversari lo accusarono di favorire responsione di Roma per farsi tiranno della propria patria, una volta asservita. Appio si avvide che la massa prestava orecchio volentieri a queste chiacchiere, e di essere inviso ai fautori della guerra e ai militari. Temette un processo, ma, sic-
(37) "Οτι Ταρκΰνιος Σαβίνοuc κατά ^Ρωμαίων ήρέθιζε. KXatfÒioc δε, άνήρ lafftvoc εκ ΊΡηγίλλου πόλεως δυνατό*:, ουκ εια το oc Xapivooc παρασπονοειν, εαχ: κρίνομεvoc επί τωδε εφυγεν èc Τώμην μετά συγγενών και φίλων και δούλων πεντακισχιλίων* die πάσι Τωμαιοι χώραν èc oiKiac εδοσαν και γήν èc γεωργίαν και πολίτη»: εθεντο. τον δε Κλαΰδιον και èc το βουλευτηριον κατέλεξαν, άποδεικνΰμενον έργα λαμπρά κατά των Σαβίνων* κα\φυλήν έπώνυμον αύτοΰ κατέστησαν. (Αρρ., reg.frg., 12). Eccone la traduzione: «Tarquinio incitava i Sabini contro i Romani. Claudio, un influen te Sabino della città di Regillo, non permetteva che i Sabini violassero i patti,finchéproces sato per questo, fuggì a Roma con parenti, amici e cinquemila servi. A tutti questi i Romani diedero un luogo da abitare, terra da coltivare e il diritto di cittadinanza. Scelsero poi Claudio come membro del Senato, poiché aveva compiute splendide azioni contro i Sabini; istituirono una tribù che prese nome da lui». 0Z) Serv., Aeru, 7.706:... nam Clausus, Sabinorum dux exactos reges, ut quidam dicunt, cum quinque milibus clientum et amicorum Romam venti, et susceptus habitandam partem urbis accepit: ex quo Claudia et tribus est et familia nominata. Riporto di seguito la traduzione: «infatti Claudio, capo militare dei Sabini, dopo la cacciata dei re, come alcuni sostengono, venne a Roma con cinquemila clienti e amici e, accolto [dai Romani], iniziò ad abitare in una parte della città: da cui derivò il nome sia la tribù che la gens». (39) Svet, Tìb., 1.1: patricia gens Claudia (futi enim et alia plebeia, nec potentia minor nec dignitate) orta est ex Regillis oppido Sabinorum. Inde Romam recens condtiam cum magna clientium manu commigravit auctore Tito Tatio consorte Romuli, vel, quod magis constai, Att Claudio gentis principe, post reges exactos sextofere anno; atque inpatricias cooptata agrum insuper trans Anienem clientibus locumque sibi ad sepulturam sub Capitolio publice accepit. Questa è la traduzione: «La gens Claudia patrizia (ve ne fu anche un'altra plebea, non inferiore né per potenza né per dignità) ha avuto origine dalla cittadina sabina di Regillo. In seguito essa
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come disponeva di una potente consorteria di amici e parenti in grado di difenderlo, continuò la sua opposizione. Essa impacciò i Sabini e fece rin viare la guerra. Publicola naturalmente si dava da fare non solo per cono scere i particolari della situazione, ma anche per alimentare e incoraggia re i dissenzienti. Scelte delle persone adatte, le mandò da Clauso a rife rirgli da parte sua queste parole: 'Publicola sa che un galantuomo retto come te non si difenderà mai dai propri concittadini facendo loro del male, anche se trattato ingiustamente. Ma potresti desiderare per salvarti di cambiare paese e di fuggire lontano da coloro che ti odiano: in tal caso egli ti riceverà con tutti gli onori pubblici e privati convenienti alla tua virtù e allo splendore dei Romani'. Clauso esaminò più e più volte le pro poste di Publicola; esse gli parvero, nella condizione in cui l'avevano messo gli avversari, il partito migliore. Radunati pertanto gli amici, e quelli a loro volta persuadendo molti altri a seguirli, partì e condusse a Roma cinquemila famiglie, con i figli e le donne, composte dalla gente più mite e tranquilla che ci fosse tra i Sabini, amante dell'ordine e della pace. Publicola, preavvertito, li accolse cordialmente e volentieri a con dizioni più che eque. Infatti ammise subito le famiglie a godere dei dirit ti di cittadinanza e assegnò a ciascuna due plettri di terra lungo il fiume Aniene; Clauso ne ebbe venticinque e fu ammesso in Senato: inizio di una carriera politica, che, saggiamente sfruttata, lo elevò al più presto alla suprema dignità dello stato e gli procurò grande potenza. La stirpe dei Claudi, seconda a nessuna in Roma, discende da lui-»i40). emigrò a Roma, di recente fondata, con grande seguito di clienti, sotto la guida di Tito Tazio col lega di Romolo o, ciò che è più probabile, sotto quella di Atta Claudio princeps gentis, il sesto anno dopo la cacciata dei re, e fu annoveratafrale genti patrizie ericevetteper i suoi clienti della terra trans Anienem 'dal pubblico' ('dalle terre pubbliche' ο 'a spese pubbliche'? Credo più pro babile la prima ipotesi) e per sé ricevette una località per la sepoltura sotto il Campidoglio». m La versione italianariportatanel testo è quella pubblicata da Ampolo nel saggio già citato. Il testo greco è il seguente: Plut Pubi, 21.4 ss.: ην ουν "A7nnoc Κλαύσος εν Σαβίνοις άνήρ χρήμασί τε δυνατός και σώματος ρώμη προς αλκή ν επιφανής, αρετής δέ δόξη μάλιστα και λόγου δεινότητι πρωτεύων, δ δε πάσι συμβαίνει τοϊς μεγάλοις, ου διέφυγε παθειν, αλλ' έφθονείτο, κα\ τοις φθονούσιν αιτίαν παρέσχε καταπαΰων τον πόλεμον αυξειν τα Τωμαίων έπι τυραννίδι κα\ δουλώσει της πατρίδος, αίσθόμενος δε τους λόγους τούτους βουλομένω τφ πληθει λεγόμενους κα\ προσκρούοντα τοις πολλοίς κα\ πολεμοποιοις κα\ στρατιωτικοις εαυτόν, έφοβεΐτο τήν κρίσιν, έταιρείαν δε κα\ δΰναμιν φίλων και οικείων έχων άμυνουσαν περ\ αυτόν έστασίαζε. καΥτοΰτ' ην του
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Il rapporto fra gens Claudia e la terra assegnata dai Romani, a ben con siderare, è tutt5 altro che evidente. Da una parte infatti si pone la rappresenta zione di Plutarco che collega ad Atto Clauso e alle cinquemila famiglie dei suoi seguaci un terreno in proprietà privata: i soliti heredia per queste e un lotto più ampio (ma sempre moltoridotto)per ìlprinceps gentìs. Va sottolineato che le condizioni numeriche contenute in Plutarco - né conta qui evidentemente il loro caratterefittizio,quanto la relazione fra di esse - escludono di trovarci di fron te alla rappresentazione di un insieme di agerprivatus e di ager gentilizio. Se i bina iugera esprimono perfettamente l'immagine della proprietà individua le, venticinque iugeri non indicano certo la terra comune di una grande gens (che parrebbe avere annoverato almeno cinquemila uomini in grado di porta re le armi), ma la proprietà privata del più eminente personaggio della gens stessa. Vi è però una diversa rappresentazione che emerge, soprattutto nel testo di Dionigi, chericollegaο puòricollegarela terra distribuita non già alla pro prietà individuale, ma alla gens nel suo complesso (Pagro pubblico tra Fidene e Picetia): che ci propone cioè l'immagine dell'agir gentilizio. Tuttavia lo stesso Dionigi si guarda bene dal darci una notizia precisa circa il regime giu ridico della terra così assegnata. Se cioè essa fosse oggetto di una proprietà della gens (o del suo princeps gentìs) in quanto tale, o, conservando il suo ori ginario carattere di a. publicus, divenisse oggetto di un semplice anche se esclusivo possesso da parte della gens. πολέμου διατριβή και μέλλησις τοϊς Σαβίνοις. ΤαύΥ ουν ό Ποπλικόλας ου μόνον ειδέναι ποιοΰμενος έργον, άλλα και κινειν κα\ συνεξορμάν την στάσιν, εΐχεν άνδρας επιτηδείους οχ τω Κλαΰσω διελέγοντο παρ' αύτοΰ τοιαύτα, eoe ό Ποπλικόλας άνδρα χρηστον δντα και δίκαιον ούδενι κακω δειν οϊεται τους σεαυτού πολίτας άμΰνεσθαι καίπερ άδικοΰμενον ει δε βοΰλοιο σώζων σεαυτον μεταστηναι και φυγείν τους μισούντας, υποδέξεται σε δημοσία κα\ ιδία της τε σης αρετής άξίως και της Τωμαίων λαμπρότητος. ταύτα πολλάκις διασκοπούντι τφ Κλαΰσω βέλτι στα των αναγκαίων έφαίνετο, και τους φίλους συμπαρακαλών, εκείνων τε πολλούς ομοίως συναναπειθόντων, πεντακισχιλίους οίκους άναστησας μετά παίδων και γυναικών, δπερ ην εν Σαβίνοις άθόρυβον μάλιστα και βίου πρςωυ και καθεστώτος ο'ικειον, εις Τώμην ήγε, προειδότος του Ποπλικόλα και δεχόμενου φιλοφρόνως κα\ προθΰμως έπι πάσι δικαίοις. τους μεν γαρ οίκους ευθύς άνέμειξε τω πολιτεΰματι, και χώραν άπένειμεν έκάστω δυειν πλέθρων περί τον Άνίωνα ποταμόν, τω δε Κλαΰσω πλέθρα πέντε και είκοσι γης εδωκεν, αυτόν δε τί) βουλή προσέγραψεν, αρχήν πολιτείας λαμβάνοντα ταΰτην, ή χρώμενος έμφρόνως άνέδραμεν εις το πρώ τον αξίωμα, και δΰναμιν έσχε μεγάλην, και γένος ούδενος αμαυροτερον εν Τώμΐ] το Κλαυδίων αφ' αυτού κατέλιπε.
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Come ho già accennato all'inizio del paragrafo, la migrazione dei Claudi è assunta in maniera uniforme dagli storici moderni ariprovadel rapporto esisten te fra la. gens, la terra e i clienti. Resta nel vago tuttavia in qual modo l'assegna zione della terra ai gentili e ai clienti sia stata effettuata e quale sia poi la posi zione dei clientirispettoalla terra e alla. gens. Come abbiamo visto, su tali aspet ti gli antichi sono abbastanza oscuri e relativamente contraddittori. Mi sembra dunque necessarioribadirecon la massima chiarezza un punto che sinora è restato forse un po' implicito nel mio discorso: che, per quello che sappiamo delle forme giuridiche romane, il dominium ex iicre Quiritium, tipo del tutto individuale di appropriazione, in nessun modo appare istituto atto a confermare la unità dei gentili e la subordinazione dei clienti alla gens. Al con trario, esso tende ad esaltare l'autonomia del singolo individuo sui iuris e delle famiglie proprio iurerispettoai gruppi gentilizi, almeno per quantoriguardail rapporto con la terra e più in generale la sfera economica. Se dunque si dovesse accertare che la terra concessa ai nuovi venuti sia da identificarsi tutta con le assegnazioniricordateda Plutarco, dovremmo allora con cludere, senza molte incertezze, che lungi dal trovarci difrontealla testimonian za di un ager gentilizio, troveremmo attestata la sostanziale autonomia dei singoli seguaci di Atto Clauso, messi tutti, gentili e clienti, sullo stesso piano da parte di Roma. Tutti (salvo Atto, il capo destinato ad essere assunto tra ìpatres) proprie tari di un'uguale dimensione di agerprivatus: la dimensione spettante per l'ap punto ai cives romani sin dalla prima leggendariaripartizioneromulea. Si può certo far leva, nelPanalizzare la vicenda dei Claudi, sul diverso filo ne narrativo che fa capo principalmente a Dionigi, e che non sembra trovare discorde lo stesso Livio: verosimilmente la versione più autorevole dell'episo dio. Come abbiamo visto, in questa prospettiva, veniamo a sapere solo che un'ampia area di terreno trans Anienem, secondo Dionigi a. publicus, sarebbe stata attribuita in blocco alla gens, ο meglio al suo capo, che avrebbe provvedu to a redistribuirla fra tutti i membri del gruppo. Nulla sappiamo né della natura del diritto attribuito alla gens, né del diritto attribuito poi ai singoli gentili. Si potrebbe supporre in modo senz'altro legittimo che, specie per il secondo, si trat tasse di una semplice forma precaria(41). Fondendo poi insieme le due versioni, (4,) Dion. Hai., 5.40.5, dice infatti, come abbiamo visto, che i Romani dettero a Tito Clauso la terra pubblica fra Fidene e Picetia, affinché egli potesse ripartire lotti di terra fra i suoi
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quella di Dionigi e quella di Plutarco - ma la cosa, se pur suggestiva, appare in verità molto avventurosa - si potrebbe giungere addirittura a immaginare un duplice regime del territorio assegnato ai Claudi: da una parte un'area in pro prietà individuale ai singoli gentili e clienti, dall'altra una terra posseduta in comune da tutta la gens. Siriprodurrebbecosì quell'integrazione di terreno indi viduale e di terra comune che la storiografia ottocentesca aveva immaginato come regime normale per la prima storia di Roma(42).
6. II contenuto delP'ager' gentilizio A ben vedere l'episodio dei Claudi non chiarisce affatto i caratteri e le forme di sfruttamento della terra da parte delle genti. In ultima analisi da esso non possiamo neppure ricavare con certezza che la gens in quanto tale - e non già i singoli gentili - avesse la signoria su una terra comune, ma, soprat tutto, esso nulla ci dice sulle forme in cui la titolarità della terra sarebbe stata assicurata alla gens. Direi quasi che è proprio la sostanziale ambiguità deitradizione antica, che abbiamo esaminato nel paragrafo precedente ad aver in qualche modo indotto i moderni in interpretazioni del suo significato che, se legittime, non sciolgono tuttavia i nodi che si celano nel racconto. Vi è soprattutto un aspetto per noi particolarmente importante: in tale vicenda abbiamo infatti incontrato una sostanziale diversità tra ilriferimentoad una proprietà dei singoli gentili e dei clienti e la menzione dell' a. publicus seguaci. Il che non vuol dire necessariamente che la redistribuzione a costoro comportasse la spoliazione della gens e la costituzione di una serie di domini in proprietà quiritaria. La media zione di Tito Clauso, in tale versione, avrebbe potuto essere più durevole e la titolarità della terra restare a lui attribuita. Secondo questa ipotesi, egli sarebbe divenuto il padrone di tutto il territorio concessogli da Roma (in proprietà privata) e lo avrebbe ripartito fra i suoi seguaci nella forma di concessioni precarie. Si può invece interpretare la narrazione di Dionigi nel senso che Tito abbiaripartitofrai suoi, in piena proprietà, il territorio concessogli: in tal caso la versione di Dionigi finirebbe praticamente col coincidere con quella di Plutarco. Un'ultima ipotesi potrebbe essere avanzata a proposito della versione di Dionigi. Che cioè Vagera. Tito (Atto) fosse concesso dai Romani in possesso e che costui ripartisse tale territorio fra i suoi gentili come semplice detenzione precaria: è questa l'ipotesi che più ci avvicina all'immagine dell 'ager gentilizio. (42) Per una nrima annrossimazione a tale Droblema v. infra, can. V.
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assegnato dalla civitas alisi gens. In tal modo possiamo meglio mettere a fuoco un'altra incertezza che non di rado si incontra fra gli storici in ordine all'ipote tico ager gentilizio, che se talvolta sembra identificarsi con Va. publicus, in altri casi sembra assumere il valore di un territorio diverso, in diretta proprietà della gens ο addirittura dei singoli gentili. A questo punto, in ordine a tale figura, finiamo col ritrovarci di fronte agli stessi problemi che abbiamo incontrato a proposito dell'a. publicus. Ο ipotizziamo infatti per Yager gentilizio una proprietà del gruppo in quanto tale (e quindi una situazione giuridica del tutto diversa dalla proprietà individuale), oppurefiniamocol negare un effettivo ruolo da parte della gens. Nel caso opposto infatti ci si ridurrebbe ad identificare Yager gentilizio con l'insieme dei terreni in piena proprietà dei singoli membri della gente e dei loro clientii magari situati nella stessa località e destinati in seguito a designare alcu ne delle tribù territoriali. È però vero che in tal modorisultanoevanescenti, per gli argomenti che abbiamo già visto nei precedenti paragrafi, i vincoli e la com pattezza stessa della gens. Per non parlare poi della sostanziale indipendenza dei clienti legati da unafidespriva di qualsiasi fondamento materiale. In verità, l'orientamento dei moderni appare volto piuttosto ad immagina re Yager gentilizio come oggetto di una signoria della gens in quanto tale e distinta dalla terraripartitain piena proprietà fra i gentili e i clienti(43). È anche vero che, in alcuni autori, questa signoria tende a configurarsi con un significa to politico che trae giustificazione dalle sue origini preciviche(44). Come è noto un carattere politico lo si è del resto voluto vedere persino nelYheredium del sin golo pater familias; ma proprio quest'ultima interpretazione evidenzia a mio avviso la sostanziale debolezza di tale impostazione. Lo schema interpretativo bonfantiano relativo al mancipium del pater familias al quale da ultimo facevoriferimento,indipendentemente dalla sua intrinseca validità, riguardava un sistema di rapporti analogo a quello in seguito destinato ad enuclearsi nel dominium ex iure Quiritium. Ora, per quanto concerne Yager gentilizio, noi dobbiamo invece rinunciare definiti<43) Su tutto ciò cfr. infra, cap.VI, § 3. Questo aspetto è particolarmente presente nelle ricerche della Bozza e in quelle, pur diversamente orientate, dello Zancan dove il richiamo al Bonfante appare del resto effettuato in modo esplicito (ZANCAN, 1935, 9 s.). (44)
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vamente e integralmente a utilizzare i paradigmi propri dell'ordinamento giu ridico romano a noi noti e che ci offrono esclusivamente due schemi ugual mente individualistici quali appunto il dominium (o i suoi ipotetici equiva lenti arcaici: il mancipium ο lapotestas) e la possessioni La contraddizione di fondo che caratterizza la lettura moderna di questa pagina di storia romana arcaica è costituita dalla presenza, sempre evocata mai però definita in tutte le necessarie conseguenze, dell'ager gentìlicius. Sia la possessio in senso 'tecnico' deWager publicus che la proprietà privata si realizzano esclusivamente attraverso un'appropriazione degli individui sui iuris, come qualsiasi altro rapporto preso in considerazione dall'ordinamen to giuridico romano quale si è venuto organizzando nell'età decemvirale. In questo sistema la rilevanza delle gentes è pressoché nulla. La discussione condotta sin qui, piuttosto che chiarire i termini del pro blema, sembrerebbe in qualche modo averli ulteriormente oscurati. Cerchiamo ora diriprenderele fila complessive di questa analisi. Il punto di partenza è costituito dalla lotta plebea, conclusasi positivamen te (lo si puòricavareindirettamente dalle fonti) nel 367 a.C, per la divisione in proprietà privata dell'a publicus, di cui sino ad allora si avvantaggiavano esclu sivamente i patrizi. Da questa premessa si èritenutodi poter concludere che il regime della proprietà privata fosse più favorevole ai plebei. Da ciò due possibi li ipotesi: ο Va publicus è inviso alla plebe perché essa ne è esclusa di diritto, oppure esso comporta un qualche svantaggio di fatto, per la plebe,rispettoalla terra in proprietà privata. Come abbiamo visto in precedenza la prima di tali ipo tesi, almeno nella sua formulazione tradizionale, sembrerebbe improbabile. Di qui l'altra possibile spiegazione costituita da uno svantaggio mera mente di fatto, cui ho già accennato in precedenza. I patrizi, piùricchi,sareb bero gli unici a disporre dei capitali necessari per poter mettere a coltura e sfruttare adeguatamente tale ager. Ma contro una spiegazione del genere, oltre alle osservazioni già avanzate nelle pagine che precedono, può opporsi, mi sembra non invano, l'obiezione che ai plebei sarebbero occorsi uguali (45)
In effetti l'ordinamento decemvirale ο che, comunque, dalle XII Tavole ha preso esisten za, prevede una particolare configurazione del dominium in funzione comunitaria. Mi riferisco alla figura del consortium ercto non cito, che tuttavia fa pensare all'adattamento di strutture di tipo individualistico per realizzare situazioni arcaicizzanti, estranee a tale impostazione. V. però già BRETONE, I960,178 ss. e ora FRANCIÓSI, 1992,11 s.
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capitali per sfruttare un lotto di terra di misure eguali, fosse esso distribuito in proprietà privata ο fosse oggetto di semplice possessio. A meno naturalmente che l'ostacolo fosse rappresentato dal pagamento di pesanti canoni ο di un prezzo iniziale di aggiudicazione, cose del resto abbastanza improbabili(46). Comunque sia, tale ipotesi non può essere del tutto scartata, anche se, a mio avviso, appare più suggestiva l'idea, che ho già avanzato, di una mag giore funzionalità dell'a. publicus ad un'occupazione per gentes, essendo queste esclusive del patriziato. Seguendo la prospettiva ora accennata si dovrà concludere che il rapporto con tale tipo di a. publicus non può identificarsi con il modello della possessio, che troverà applicazione e si svilupperà suc cessivamente alle leggi Licinie Sestie. La lotta per la divisione dell'a publicus in proprietà privata, accogliendo questa mia interpretazione, sarebbe stata sostenuta dalla plebe per imporre un tipo di rapporto giuridico essenzialmen te individualistico e incentrato sulla figura del pater familias, emarginando così non già un rapporto analogo (come sarà per l'appuntoL·possesio), ma una situazione che vedeva una diretta relazione fra un gruppo sociale più ampio (la gens) e un dato territorio. Da queste due ipotesi, le uniche a mio avviso possibili, si possono ricava re due diversi modelli di cui anticiperò qui alcuni aspetti essenziali, riservan domi diritornarepiù analiticamente su tale argomento nel prossimo paragrafo: a) sia la proprietà dell'agir divisus che la possessio dell'a. publicus sono da sempre rapporti di carattere individuale: lo scontro avviene tra una aristocrazia che trae la sua forza economica da tali appropriazioni individua li e che ha come sua struttura centrale non già la gens, ma l'organizzazione familiare (che, come horipetutovarie volte, è funzionale ai diritti individua li). In tal caso il patriziato non ha il suo fondamento legale nella gens, ma nel sistema della familia proprio iure (nonché del consortiwri). La gens costitui sce solo un elemento di solidarietà 'politica' del gruppo aristocratico e di rafforzamento di una egemonia sociale già diversamente realizzata. In questo caso l'unità ha un valore esclusivamente politico e sociale e non si fonda su una base materiale, su condizioni esterne e vincolanti quali l'esistenza di un patrimonio comune e indisponibile. (46)
Su questo punto mi sembra abbia perfettamente ragione la BOZZA, 1930, 152.
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b) la gens costituisce invece, essa, il fondamento effettivo di un dato asset to di rapporti (supremazia patrizia, sfruttamento della terra etc.) all'interno della comunità cittadina. In tal caso laricostruzionedi cui ad a) non è più ammissibi le e si deve postulare che il fondamento economico dell'egemonia patrizia, la terra, sia, nella sua parte più importante, organizzata e gestita sotto il controllo dell'intero gruppo gentilizio. Di qui la necessità di immaginare ο una fonna di signoria collettiva della gens (o di una proprietà imputata al suo princeps) ο un'appropriazione del terreno non diviso in proprietà individuale, da parte di tutta la comunità gentilizia, sotto la direzione del suo princeps e dei suoi anziani. Devo anche aggiungere che le due ipòtesi non sono, a mio avviso,fraloro incompatibili. Solo che, evidentemente, la loro compatibilità è possibile-a con dizione di immaginare un processo di trasformazione di b) in a). I due modelli possono cioè collegarsi in termini diacronici, mentre evidentemente sono del tutto alternativi se posti sullo stesso piano temporale. In sostanza noi possiamo combinare i due modelli ο gli elementi dei due - sempre nella successione da b) ad a) - solo evitando di dare una rappresentazione unitaria nel tempo. Ora invece è proprio questo che si tende a verificare nella moderna sto riografia dove, come sappiamo, si incontrano sovente richiami al ruolo cen trale della gens nella fase della storia arcaica romana caratterizzata da un assetto aristocratico e dove, tuttavia, si tende a fondare questo essenzialmen te su rapporti sociali e giuridici di carattere individuale. Conseguenza non insignificante di tale atteggiamento è l'oscurarsi pro gressivo del carattere comunitario del rapporto fra la terra e la gens, che viene sì continuamente enunciato, ma che poi è descritto e analizzato con gli istituti e le nozioni - prima fra tutte, come abbiamo visto la 'privatistica' possessio che privilegiano il carattere individualistico dell'appropriazione della terra. Altra conseguenza ancor più rilevante, a ciò direttamente collegata, è l'oscurarsi complessivo del significato della clientela. Inutile ricordare infat ti come essa si associ strettamente all'egemonia patrizia e ne costituisca un supporto essenziale. Ma proponendo poi il tipo di rapporti di cui ad a), la .clientela non solo appare riferita essenzialmente alle strutture familiari, ma finisce col collegarsi ad una forma di proprietà e di possesso individuali com patibili tanto con le famiglie plebee che con le patrizie. A questo punto si do vrebbe concludere che non irrilevanti rapporti di clientela dovessero sussi-
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stere, almeno sin dal V sec, in seno alle più importanti famiglie plebee. Ma di ciò nulla sappiamo dagli antichi, mentre i moderni evitano di impegnarsi sull'argomento.
7.1 termini del problema Queste pagine non hanno e non possono avere una conclusione. Esse infatti non mirano a proporre unaricostruzioneorganica del rapporto fra patri ziato, ordinamento gentilizio e regime della terra nei primi quattro secoli di Roma. Anche se evidentemente alcune ipotesi sono state da me privilegiate nel corso di questa analisi e tutto il suo sviluppo si è mosso secondo determinate coordinate, il mio obiettivo principale era quello di evidenziare i limiti e le ambiguità della tradizione storiografica relativa ai problemi ora accennati. Non è facile dire quale sia stato il rapporto preciso fra la crescita di una aristocrazia ereditaria in Roma (che tale è il patriziato) e il fenomeno gentili zio. Del resto sulla natura e sul regime delle gentes non è da oggi che gli sto rici stanno discutendo. Così, proprio l'angolo visuale del giurista, piuttosto che aiutare nello studio della primitiva clientela, rischia di accentuare incer tezze e dubbi<47). Ma il punto centrale del mio discorso riguarda un problema di coerenza interna e di complessiva tenuta delle ricostruzioni storiografiche esistenti. Sotto questo profilo, quindi, l'aver evidenziato certe implicazioni inevitabili, partendo da tali ipotesi, è servito appunto per comprendere a fondo il signifi cato stesso di queste e per verificarne la coerenza e la tenuta cui ora facevo richiamo. Come spesso avviene, il lavoro di smontaggio è forse più facile che non quello della successivaricostruzione.Con la prima operazione si è potuto (47) Se riprendiamo la minuziosa descrizione del regime della clientela arcaica che Dionigi ci fornisce, dovremmo concludere che il contenuto dei rapporti reciproci ivi delineati non si diffe renziava grandemente dal rapporto patrono - liberto di età più tarda. Ciò che, a ben vedere, fini rebbe con l'oscurare la stessa figura della clientela arcaica che perderebbe così la sua specificità. La determinazione del possibile contenuto e della regolamentazione di tale rapporto costituisce tuttavia un problema assai complesso, che qui mi limito semplicemente ad accennare.
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sottolineare con forza la sostanziale contraddizione fra un sistema di appro priazione della terra omogeneo a sia pur limitate forme comunitarie, quali sono rappresentate dal gruppo gentilizio, e i modelli propri dell'esperienza giuridica romana così come si è venuta codificando in età successiva, ma come già erano presenti nella realtà delle XII Tavole. Sotto questo profilo sia lo schema proprietario destinato a formalizzarsi nel dominiwn ex iure Quiritium, sia la signoria materiale dell'individuo sui iuris consistente in una forma di possessio, sono elementi di un sistema giuridico che non conosce più le gentes come momento di mediazione fra il cittadino e la comunità politica. Questa conclusione, per tanti versi abbastanza banale, se portata alle sue necessarie conseguenze ci fa dunque trovare di fronte all'alternativa che ho esposto nel paragrafo precedente. Come ho già accennato, più che la scelta fra diverse ipotesi, a mio giudizio è essenziale tener distinti e nettamente evi denziare i termini stessi del dilemma, perché su questo punto un difficile intreccio di formulazioni poco precise e di punti di vista settoriali ha finito con l'accentuare progressivamente una totale e insignificante genericità. Chi non ha usato, fra noi, espressioni come 'ripresa delle genti patrizie' ο 'ruolo politico delle gentes '? Quanto sovente non abbiamo trovato ribadito il rapporto fra possesso della terra e struttura gentilizia? Ma è inutile dilun garci su questi aspetti. Il punto da sottolineare è che, a siffatte rappresenta zioni ο ad altre ad esse analoghe, in genere raramente ha seguito un adegua to livello di analisi per quanto attiene alle conseguenze che si devono ricava re sul piano più strettamente istituzionale. Per questo motivo le parole che ricorrono nellericostruzionidella storia romana arcaica sono così spesso ric che di significati ambigui, mai pienamente esplorati. Le stesse nozioni basi lari, alcune delle quali or oraricordate- aristocrazia gentilizia, proprietà gen tilizia delle terre, etc. - possono significare e di fatto significano realtà e assetti organizzativi diversi a seconda dello specifico contenuto ad esse attri buito. In particolare, nel corso di queste pagine, ho cercato di richiamare l'at tenzione sulla singolare debolezza di quel costante richiamo al ruolo delle gentes nell'assetto sociale e istituzionale romano arcaico che la moderna sto riografia è venuta effettuando. Così come ho cercato di evidenziare il nodo problematico che si cela dietro la rappresentazione fornitaci dagli antichi circa i conflitti intorno alla terra del V sec. a.C, in modo più chiaro di quan-
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to non sia stato in genere percepito dai moderni. Se questo era il mio obiettivo principale, allora io credo si debba tenere abbastanza distinto questo sforzo di revisione critica dalla mia stessa ipotesi ricostruttiva in ordine alla natura originaria di questa proprietà gentilizia delle terre e alle lotte intorno all'arcaica figura dell'ager publicus. Per qualche verso, infatti, queste mie idee tentano di colmare i vuoti e le contraddizioni che la storiografia antica ci presenta in proposito: ma per ciò stesso esse fanno leva su ipotesi e argomentazioni tutt'altro che certe e sicuramente con testabili. Non si deve però credere che, ove siritengadi respingere per moti vi sicuramente fondati questo mio tentativo di ricostruzione dei processi di epoche così oscure, si possa legittimamenteritenereche vengano meno anche ■>
quei motivi di perplessità che ho avanzato in ordine al modo in cui gli anti chi hanno interpretato le ormai lontane vicende della prima età repubblicana e al tipo diricostruzioniche, conseguentemente, i moderni sono venuti pro ponendo. In sostanza il mio sforzo ha cercato di introdurre un'alternativa reale di fronte alla quale ci troviamo nella nostra lettura delle fonti antiche. E, proprio per questo, resto relativamente poco interessato all'accoglimento della mia stessaricostruzioneche privilegia uno dei corni del dilemma. Più importante infatti — loripetoancora una volta - è il fatto che ci si ponga in modo corret to di fronte a questo stesso dilemma che mi sembra assolutamente centrale per la comprensione dei problemi di fondo di questo periodo storico e del modello istituzionale e sociale ad esso corrispondente. E che all'uopo si veri fichi anzitutto la coerenza interna delle possibili ipotesi, insieme alla loro reciproca incompatibilità. Volendo dunqueriassumereerichiamandomianche a quanto già accen nato nel precedente paragrafo, mi sembra che la prima ipotesi, con la quale si tende a far prevalere gli elementi di continuità rispetto alla situazione suc cessiva al 367 a.C, debba assumere i seguenti dati: a) all'interno della comu nità cittadina il fenomeno aristocratico, pur caratterizzato dalla presenza di forme ereditarie, da lignaggi e dalla funzione sociale delle gentes, si fonda su un sistema di rapporti giuridici ed economici essenzialmente individualistico; b) la proprietà e il possesso della terrariguardanoquindi sin dall'inizio i sin goli patres familias e il ruolo delle consorterie gentilizie si limita così a
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rafforzare e garantire la posizione dei patres nei loro rapporti diretti con l'or dinamento cittadino che derivano i loro possessi fondiari direttamente dal diritto della civitas. In questa prospettiva è il fenomeno gentilizio che appare, in ultima istanza, dipendente dalFaffermarsi di strutture aristocratiche fondate su un sistema di appropriazione individuale degli strumenti di produzione ed è, con ogni probabilità, successivo, come la stessa emersióne di una struttura aristo cratica, al definirsi della costituzione cittadina. Secondo questo schema appa re inesatto parlare di una titolarità da parte del gruppo gentilizio di un dato territorio: la terra gentilizia altro non sarebbe che la somma delle proprietà individuali dei membri della gens. Ho comunque l'impressione che non tutti gli studiosi moderni siano disposti ariconoscersiin un modello del genere. Per molti infatti il fenome no gentilizio, almeno in una fase iniziale della vita cittadina, ha un rilievo maggiore, secondo diverse teorie, risalente addirittura ad epoca anteriore alla stessa civitas. Secondo tale impostazione, le gentes appaiono direttamente come titolari di rapporti di dipendenza degli individui e di forme di signoria sulla terra. A questo punto si potrà tentare di delineare una seconda ipotesi, che tenda ariconoscerequesto ruolo più importante delle gentes, ma che non si venga sfumando nella indeterminazione dei concetti e definizioni pur mutua te delrigorosovocabolario giuridico romano. Vediamo quali possono ο deb bono essere gli elementi del quadro che si vuole ricostruire. Anzitutto il rapporto fra là gens e la terra è diretto, non mediato da un ruolo autonomo dei patres familias. Ciò che, come si è già visto, elimina radi calmente i due schemi del dominium e della possessio di tipo privatistico pre senti nell'ordinamento giuridico romano sin dall'età predecemvirale. Il rap porto fra la gens e la terra è in qualche modo un prius rispetto alla formazio ne dell'a. publicus in senso tecnico, oggetto cioè quest'ultimo di un posses so individuale dei singoli patres e che si sarebbe realizzato solamente in epoca relativamente più recente. La emersione dell'aristocrazia patrizia, in questa prospettiva, se non dipendente, sarebbe comunque strettamente colle gata alle strutture gentilizie che ne assicurerebbero il fondamento materiale. In tal senso il definirsi di un α publicus aperto allo sfruttamento delle singo-
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le famiglie (patrizie e plebee) e addirittura dei singoli cittadini sui iuris costi tuirebbe un elemento di novità rispetto ai caratteri originari di quella parte dell'agir romanus non diviso in proprietà individuale. Queste valutazioni ci riportano al problema centrale costituito dal preci so significato, anche giuridico, della signoria di una. gens su una data area ter ritoriale. Il che presenta qualche difficoltà se si considera come, presso gli antichi, tale signoria non sia mai indicata come una realtà alternativa al dominium ο alla, possessio dei singoli patres. Da una parte insomma manca ogni traccia, a livello delle rappresentazioni formali, della signoria comune della gens. Già con le XII Tavole tutto il sistema dei rapporti reali appare infatti fondato sulle forme individuali di appropriazione: proprietà-possesso. Dall'altra, presso gli stessi storici moderni manca un preciso riferimento alla terra delle gentes: abbiamo visto quanto siano incerti gli echi contenuti nella vicenda dei Claudi, e ugualmente ambigue, anche se di grande interesse, siano le indicazioni relative alle terre dei Tarquini. Tutto ciò non vuol dire ovviamente che forme di proprietà gentilizia non potessero esistere nella Roma arcaica. È infatti possibile che tali risalenti forme di signoria sulla terra, destinate a dissolversi rapidamente con la più generale crisi della società gentilizia, non abbiano potuto conservare, nelle più tarde testimonianze degli autori antichi, una loro sufficiente individualità. Esse inevitabilmente finivano col confondersi con altre realtà destinate a vita più duratura e, quindi, meglio note agli stessi scrittori antichi.
8. Una ipotesi interpretativa A questo punto ha inizio la parte più decisamente ipotetica della mia ricostruzione, il cui carattere è bene sia chiarito preliminarmente. Noi parliamo di una 'proprietà' delVager gentilizio da parte delle gentes, e di un loro 'possesso' dell'a publicus. Come si è già accennato restano poi abbastanza incerti i rapporti fra queste due realtà. Ma, soprattutto, appa re inadeguata ed equivoca la stessa applicazione di termini come 'proprietà' e 'possesso', che corrispondono a precise categorie all'interno dell'ordina-
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mento giuridico romano, a definire la posizione non del singolo pater ma di un soggetto diverso, quale la gens, che non appare mai come titolare col lettiva di diritti rispetto a questo nuovo ordinamento. Va infatti ribadito come, nelle fonti, di fronte al dominium (o ai suoi ipotetici antecedenti di tipo individuale) del civis sui iuris, non sia mai ricordato un altro tipo di proprietà comune della gens, riconosciuta e tutelata come tale dall'ordina mento romano. Salvo alcuni ambigui accenni, presso gli antichi, il rappor to fra la gens in quanto tale e la terra noi lo troviamo sempre realizzato dallo schema delPa publicus. D'altra parte, come abbiamo visto, sarebbe ugualmente scorretto e insufficiente adeguarsi in tutto all'immagine dell'** publicus e al suo regime come si verrà configurando negli ultimi secoli della Repubblica. Esso infatti riproporrebbe gli stessi elementi individualistici del dominium, incompatibi li con una diretta pertinenza della gens. Mi chiedo allora se la chiave interpretativa non sia offerta, non tanto dal richiamo ali'a publicus in sé, quanto dalla contrapposizione a. publicus-a. divisus et adsignatus, oggetto quest'ultimo del dominium quiritario (o del suo antecedente storico). È questa contrapposizione in effetti che, negli antichi, si accompagna costantemente all'antagonismo patrizi-plebei. In tal caso il richiamo all'or, publicus sarebbe giustificato dall'esigenza, in autori vissuti diversi secoli dopo la scomparsa della situazione descritta, di indicare una realtà che non era Vager divisus et adsignatus. Si potrebbe cioè sospettare che gli autori tardo-repubblicani non fossero più in grado di dare una rappresentazione del tutto adeguata della effettiva natura giuridica àtWager gentilizio, perché ormai privi da secoli di punti di riferimento e di parametri diversi dai due schemi rappresentati dall'ager divisus e dall'a. publicus in tutte le sue più recenti determinazioni (dove ormai era anche forzata l'arcaica ed eterogenea figura delVager compascuus). Schemi che ormai da tempo immemorabile, nell'esperienza giuridica romana, esauriva no le diverse possibili forme di appropriazione e di sfruttamento della terra. Di qui l'inevitabile equivoco di una identificazione della terra non in proprietà individuale con Va. publicus, e l'estensione degli schemi possesso ri e individualistici, ad esso relativi in età più avanzata, anche per la storia arcaica di Roma. Una volta effettuata questa equiparazione diveniva abba-
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stanza incerto lo stesso oggetto dell'antagonismo fra patrizi e plebei. Soprattutto, con la contrapposizione a. publicus-a. privatns si echeggiavano vicende molto meno risalenti, dove l'oggetto della contesa, in età graccana, aveva un diretto collegamento con differenziazioni economiche, prima che giuridiche e sociali. Ma quale doveva essere l'effettivo statuto di questo agro gentilizio qui incessantemente evocato? Io non credo sia possibile dare una risposta veramente soddisfacente a tale quesito. Cercherò di mettere a fuoco il punto essenziale, che si trova alla base di tale questione, e di delinearne un possibile schema interpretativo. Nella misura in cui si accentua un ruolo autonomo della gens all'interno della comunità cittadina (e, a maggior ragione, ove si volesse addirittura ricollega re questo stesso ruolo ad originarie funzioni politico-statali di tale organismo, in età precivica), diventa inevitabile riconoscere che i rapporti interni alla gens assumono, rispettò all'ordinamento cittadino, un carattere 'fattuale'. Proprio perché tali rapporti, in primo luogo la signoria sulla terra, sono estra nei al sistema giuridico cittadino a noi noto, tutto essenzialmente orientato verso la figura del singolo pater familias, essi tendono ad assumere un valo re diverso dal sistema, diciamo così, dei diritti soggettivi tutelati dalla pòlis: quindi,rispettoa questi, di mero fatto. Anche da questo punto di vista l'avvi cinamento della signoria gentilizia sull'antico ager Romanus alla possessio dell'a publicus ha dunque una sua giustificazione. D'altra parte la terra di pertinenza delle gentes, sia che risultasse da ori ginarie forme di aggregazioni preciviche, sia che derivasse da successive con cessioni della civitas (come sicuramente attestato nel caso dei Claudi), fa parte certo asWager Romanus e, ugualmente, è sottratta alla divisio et adsignatio. Secondo i criteri, la terminologia e i sistemi di classificazione delle condizioni giuridiche del suolo in vigore nell'età tardo-repubblicana, tale ter ritorio non poteva che considerarsi ager publicus. Si vengono così precisando gli incerti rapporti che a mio avviso sussiste rebbero fra Vager gentilizio e Va publicus. Essi infatti non rappresenterebbero, sino al V sec. a.C, due diversefiguree due forme distinte di sfruttamento della terra da parte delle genti patrizie, ma si identificherebbero fra loro totalmente. D'altra parte, proprio nel corso del V sec, con la crescente pressione
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plebea e nel nuovo assetto repubblicano, Io stesso significato giuridico di una serie di rapporti, fra i quali la signoria sulla terra e quella sui clienti, dovette cambiare gradualmente. In pratica, con l'estendersi e col rafforzarsi delle strutture statuali rispetto ai vecchi organismi 'precivici5 - fenomeno già deci samente in atto sin dall'età serviana (in cui, si ricordi, per la prima volta emerge seriamente un problema di sistemazione dell "a. publicus e di una limitazione del suo godimento da parte dei patrizi) - è l'antica signoria delle genti che viene messa radicalmente in discussione. Gli agri gentilizi, in que sta nuova fase, tendono cioè ad essere considerati, in quanto territorio citta dino, come terre di tutta la comunità e 'posseduti' solo di fatto e in virtù della loro forza, se non di una loro 'ingiusta' prepotenza, dalle genti patrizie. La signoria e la sovranità della civitas si pongono ormai come il punto di riferi mento ultimo di codesti agri. E a questo punto che l'esclusivo godimento di tali terre da parte di alcu ni gruppi di cittadini appare, agli occhi della comunità, sempre più ingiusti ficato e, come ho già ricordato, illegittimo. L'antico diritto delle genti è in crisi e la più recente e funzionale (alla città) nozione di publicus dà un obiet tivo fondamento alle richieste plebee. È in questa fase altresì che l'emergente modello del dominium finisce con l'applicarsi al vecchio sistema della signoria delle gentes: le uniche terre patrizie che non verranno contestate saranno per l'appunto quelle in piena proprietà dei singoli gentili e dei loro clienti. Come ho già detto, que sto è però un momento, neppure iniziale, della crisi definitiva delle struttu re gentilizie. La nozione di publicus con tutte le sue conseguenze sul piano dei rap porti giuridici, emersa sin dall'età di Sp. Cassio, sarebbe stata pienamente e compiutamente applicata con il regime introdotto nel 367 a.C, che prevede va per l'appunto un sistema di attribuzione ai privati - potenzialmente a tutti i privati - cittadini da parte dello Stato. Diventerebbe quindi comprensibile l'apparente sfasatura già da me sottolineata, fra la richiesta plebea, anteriore alla seconda legge Licinia Sestia, e il contenuto di quest'ultima. Se l'oggetto della polemica era il rapporto esclusivo che le genti patri zie pretendevano ed effettivamente avevano, ancora lungo tutto il V secolo, di sfruttamento delVager romano non assegnato in proprietà privata, la soluzio-
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ne affermata nel 367 recepiva, sia pure con un compromesso, l'essenziale della lotta plebea. Questa infatti, come si è visto, voleva rompere il prece dente monopolio patrizio dissolvendo - mediante il sistema della divisione e dell'assegnazione della terra- il fondamento stesso dell'appropriazione col lettiva da parte delle gentes. Con la definizione del regime dell'a. publicus, che troverà piena realizzazione nei secoli successivi, la seconda legge Licinia Sestia sanciva la definitiva e totale dissoluzione dei possessi gentilizi e del conseguente monopolio patrizio della terra non divisa et adsignata contro cui la plebe si era battuta per più di un secolo. Il riconoscimento dei possessi individuali di cu publicus - dal punto di vista funzionale non diversi dalla pro prietà individuale - segnava la sostanziale vittoria plebea e la piena equipara zione, ai fini dello sfruttamento di tale ager, dei due ordini. Gli elevati limiti sanciti dalla legge al possesso individuale temperavano peraltro tale succes so, permettendo di fatto alle genti patrizie più numerose, se non più potenti, di conservare, sia pure ripartito tra i diversi patres, buona parte del territorio da loro già posseduto. Vorrei infine aggiungere come tale ricostruzione permetterebbe di scio gliere o, quanto meno, di sdrammatizzare un altro nodo già messo in eviden za. Mi riferisco al problema del fondamento, legale ο meno, della esclusione plebea dall'a. publicus anteriormente al 367 a.C. Distinguendo infatti netta mente Va. publicus successivo a tale data dal precedente territorio romano non assegnato in proprietà individuale, e identificando quest'ultimo con Vager gentilizio, diventa chiara la posizione dei plebei. Essi infatti, qui gentes non habent, appaiono da sempre esclusi dagli antichi possessi delle genti patrizie. Si tratta quindi, da un certo punto di vista, di un'esclusione giuridi ca. Solo che è proprio questo fondamento legale ad essere messo in discus sione man mano che la comunità cittadina delegittima la stessa struttura gen tilizia. Lungo il corso del V secolo la plebe e alcuni dei più consapevoli diri genti patrizi, sviluppando la logica di fondo dell'ordinamento giuridico citta dino quale si era già definito in età serviana, secondo uh orientamento quasi del tutto estraneo al sistema gentilizio, sostengono la sostanziale 'ingiustizia' degli antichi rapporti gentilizi, su cui si basa ancora in gran parte la forza del patriziato nelle campagne e ne propongono la dissoluzione a favore delle forme giuridiche individualistiche (il dominium), proprie dell'ordinamento
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cittadino. Un vecchio diritto insomma - quello delle genti - è in crisi e diventa 'ingiusto', basato in apparenza sempre più e solo sulla forza, mentre forme nuove di appropriazione della terra, più aderenti ad una società che si viene evolvendo verso modelli accentuatamente individualistici, si impongono a tutta la comunità come più 'giuste' e capaci di assicurare quella concordia, raggiunta appunto nel 367 a.C. con le leggi Licinie Sestie. In questo contesto la natura precisa dell'antichissimo rapporto fra le gentes e il loro territorio veniva perdendo di significato, apparendo essa stessa eterogenea, e quindi sempre meno comprensibile, rispetto ai moduli recepiti nell'ordinamento giuridico patrizio-plebeo già ben definito in età decemvirale. È per lo meno verosimile che già nel V secolo l'antica signoria della gens, intesa, quest'ultima, come organismo essenzialmente comunitario, fosse ormai tradotta in forme più omogenee agli schemi individualistici pro pri di tale ordinamento. Ed è probabile quindi che, formalmente, la signoria sulla terra gentilizia fosse imputata dXprinceps gentis come 'possessore' del l'intera area di a. publicus (del resto, come abbiamo visto, nella versione di Dionigi, Roma avrebbe dato l'area di a. publicus destinata al nuovo gruppo direttamente a Tito (Attius Clausus). In tal caso diventa ancora più chiaro il significato della lex Licinia de modo agrorum: introducendo infatti un limite pur elevato di iugeri acquisibili da parte del singolo pater, si annullava prati camente il ruolo di 'rappresentanza' del capo della gens intaccando così in modo definitivo il presupposto stesso dell'unità gentilizia.
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1. La distribuzione romulea della terra Ogni storia della terra nell'età arcaica di Roma non può non prendere le mosse dalla tradizione relativa alla distribuzione del primitivo ager Romanus effettuata dal mitico fondatore della città. Una storia che costituisce elemento integrante della leggenda e della rappresentazione della 'fondazione' della/rò//s. Sappiamo dunque come Romolo, parallelamente alla divisione della popolazione nelle trenta curie e nelle tre tribù, avesse ugualmente applicato lo stesso sistema ternario al territorio della comunità, assegnandone una parte in proprietà privata ai cittadini, lasciandone un'altra parte in comune 'a tutti' e una terza parte, infine, di pertinenza del monarca e dei templi(1). Come abbia mo già visto nel corso del precedente capitolo, appare di notevole interesse questa concezione della terra in comune che, nella tradizione confluita in Dionigi, potrebbe agevolmente identificarsi con una forma primitiva di ager publicus. Fermiamoci per ora sulla terra assegnata in proprietà ai cittadini. È abbastanza comprensibile come proprio il rapporto fra la divisione della popolazione in curie e la distribuzione della terra abbia indotto gli anti chi ad associare all'età romulea la genesi del sistema della centuriatio.
(,)
Fondamentale in tal senso è Dion. Hai., 2.7.4. Su questa ripartizione si v. infra, cap. V.
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Capitolo VI
Ciascuna unità territoriale ad essa corrispondente ammontava infatti a due cento iugeri: una somma di cento heredia, l'unità fondiaria di bina iugera. In tal modo all'organico dei cento uomini armati della curia avrebbe corrisposto la somma dei cento heredia: alla curia, la centuria territoriale(2). Di qui il tradizionale collegamento dell'unità di cento uomini, la curia, all'unità territoriale costituita dalla centuria. E tuttavia è alquanto improbabi le che il sistema romano della limitatìo sia così risalente come vorrebbe que staricostruzionedegli antichi, dovendosi piuttosto, con gli studiosi moderni, considerarlo esso stesso come il risultato di una fase più evoluta delle forme di organizzazione del territorio nell'antica Roma. Ma l'aspetto che più ci interessa, per il momento, è costituito dal signi ficato dei bina iugera assegnati ai cittadini romani, che a prima vista potreb be attestare la presenza della proprietà individuale - come consacrata poi dal dominium ex iure Quiritium - sin dalle prime origini cittadine. È questo un problema su cui, a partire dalla metà del secolo scorso, si è venuto concen trando il crescente interesse degli storici, di riflesso all'appassionato dibatti to che caratterizzò le scienze sociali dell'epoca sulla preesistenza ο no, in una scala evolutivaritenutavalida in generale per tutte le società, della proprietà individuale rispetto alle forme di proprietà collettiva della terra. Risale all'autorità di Mommsen l'avere proposto una interpretazione aQWheredium che capovolgeva l'immediato suo significato in senso indivi dualistico, cui si è fatto cenno. Nella sua Storia dì Roma eglirichiamavadun que eribadivailrilievodi Niebuhr e di altri storici a lui precedenti circa l'as soluta inadeguatezza delV heredium, di dimensioni corrispondenti circa alla metà di un ettaro, a fornire un sia pur modestissimo sostentamento al pro prietario e alla sua famiglia, per quanto ridotta. Sulla base di tali considerazioni egli dunque avanzava l'ipotesi che, a integrazione della distribuzione dei bina iugera, che avrebbero rappresentato essenzialmente l'orto adiacente all'abitazione urbana, la terra destinata allo sfruttamento agricolo oltre che all'allevamento, fosse restata in comune a favore di tutti i membri del gruppo. P)
Sul punto, cfr. CAPOGROSSI, 1974, 333 s. È importante tuttavia sottolineare come questo collegamento, negli antichi, sia più accennato che non teorizzato esplicitamente. Il che accen tua l'ambieuità del riferimento stesso.
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A questo punto diveniva centrale il quesito di quanto esteso fosse poi in concreto questo stesso gruppo: se doveva cioè identificarsi con tutta la comu nità cittadina, ο con un'entità minore in essa ricompresa. Di gran lunga più plausibile appariva, almeno agli storici del secolo scorso, la seconda ipotesi. Oltre che nelle rapide pagine di Mommsen, essa fu ribadita in modo più netto da uno dei più singolari seguaci del grande storico: il giovane Weber, nella sua Storia agraria romana®. In Italia, del resto, lo stesso Bonfante, che pure si era avventurato verso orizzonti così apparentemente lontani e diversi, cer cando la chiave interpretativa della fondamentale, oscura distinzionefrares mancipi e nec mancipi nelle origini gentilizie dell'ordinamento cittadino, finiva col prospettare una soluzione non dissimile da quella immaginata dalla scuola di Mommsen, seppure in forma per certi versi più cauta(4). Nella stes sa tradizione storiografica cui appartiene Bonfante, a opera del suo antico maestro Vittorio Scialoja, incontriamo una ancor più esplicita formulazione, che identifica chiaramente - per l'età delle origini romane - il soggetto della proprietà collettiva della terra con la gensi5\ Se è vero così che Y«heredium si connette sempre al concetto di pro prietà individuale», è d'altra parte «sicuro che il territorio romano non era tutto ricompreso in questi heredia». Questo significa dunque, almeno secon do Scialoja, che una parte significativa, forse la maggiore, del più antico ager Romanus era sottratta a questo regime individualistico di appropriazione e assoggettata quindi ad una forma di tipo collettivistico. Ora, conclude, il pos sibile titolare di questa proprietà collettiva è «o lo Stato ο le gentes»{6). E tutto fa pensare che fossero queste ultime ad essere titolari di tali terre(7). <3> Cfr. WEBER, 1891, capp. I e IL (4) Cfr. P. BONFANTE, 'Res mancipi'e 'nec mancipi', Roma 1888-89, ripubblicato, con signi ficative modifiche e tagli, con il titolo Forme primitive ed evoluzione della proprietà romana, in BONFANTE, 1926, 69 s. Per una ricostruzione del suo pensiero originario, si veda da ultimo
CAPOGROSSI, 1997a, 319 ss. (5) Scrive dunque SCIALOJA, 1933,243 s., che, verosimilmente, la proprietà individuale, aveva in origine un'applicazione relativamenteristrettadovendosi immaginare «che il grosso del ter ritorio di Roma forse era di proprietà gentilizia», giacché, egli spiega, «vi era nella sfera delle singole Gentes una specie di collettivismo». (6) Ibid: infatti la gens, in quanto titolare di «un'autorità politica che era anche giurisdizio nale» esercitava pure «un'altra autorità territoriale» sulla sua sede, nella forma di «un dominio di natura collettiva». m Anche SCIALOJA, ibid, segue lo schema mommseniano ribadendo come l'heredium andas se identificato con l'orto, attiguo all'abitazione, essendo invece la «cultura agricola dei primi tempi» da identificarsi con il dominio collettivo.
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Oltre mezzo secolo ci separa da queste formulazioni, esse stesse frutto tardivo di una riflessione ancora precedente. E tuttavia non possiamo dire che i decenni successivi abbiano visto un effettivo arricchimento di tale proble matica ο l'introduzione di nuovi dati di fatto, la comparsa di elementi diver si da quelli già tanto battuti. Semmai, nel campo degli studi di diritto roma no, ci si trova di fronte all'affinarsi di una sensibilità storica destinata a inge nerare una crescente cautela nell'impiego di categorie giuridiche elaborate in epoche e in contesti culturali diversi. Soprattutto la più recente generazione di studiosi, che si è venuta impegnando alcuni anni or sono nella riflessione su queste forme comunitarie, ha meglio chiarito la sostanziale peculiarità del rapporto appropriativo che ne costituisce il fondamento. In tal modo si iniziava a rompere quella gabbia concettuale ingenerata dall'applicazione esclusiva delle due nozioni di proprietà e possesso a tutto l'arco cronologico della storia delle istituzioni romane, e che appartengono invece ad una più avanzata fase di questa stessa storia. Vincolo che, come ho cercato di dimostrare nel corso del precedente capitolo, rendeva oscura, se non impossibile, una effettiva comprensione di fenomeni e situazioni ante riori al compiuto definirsi delle categorie ora ricordate, che può datarsi non prima dell'età delle XII Tavole e nei decenni immediatamente successivi.
2. L' 'heredium' e le terre gentilìzie Questo modo di procedere è il più verosimile e, a ragione, quello che vede il massimo consenso fra gli studiosi. Non mi sembra però del tutto inu tile, prima di addentrarci in questa direzione, effettuare qualche rapida consi derazione in un senso in parte diverso. Non si intende qui riprendere quel dibattito ottocentesco intorno alla sufficienza di un terreno di due iugeri ai fini del sostentamento agricolo di una pur modesta unità familiare. A sconsi gliarci in tal senso gioca soprattutto il carattere incerto di questo stesso dibat tito: quasi che esistesse un valore generalizzabile e destoricizzato del prodot to agricolo 'necessario' al sostentamento di una famiglia 'media'. Ma così non è: questa 'necessità', infatti, è essa stessa il risultato della storia, indotta dal
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contesto produttivo in cui si collocano il sistema agrario e la realtà territoriale. Si pensi, del resto, a quante volte, nella storia delle società agrarie susseguitesi in Europa, si sono verificati processi difrantumazionedella proprietà fondiaria sino a dimensioni non diverse dai bina iugera romulei. Anche in questi casi, ovviamente, il sostentamento dei proprietari dovette essere realizzato attraver so integrazioni con altre forme produttive: dall'impiego della forza-lavoro eccedente il fabbisogno del campicello presso altri grandi proprietari, allo sfrut tamento di terre e di 'usi' della comunità del villaggio, allo sfruttamento, mediante affitto, di altre terre ο allo spostamento verso attività extragricole. Nel caso in questione, agli albori della civitas, appare dunque almeno possibile immaginare l'esistenza di un sistema economico ancora quasi esclusivamente fondato sull'allevamento, oltre che su attività primitive, come la raccolta e la caccia, e che viene conquistando i primi spazi a un'agricoltu ra stanziale mediante la 'creazione' di piccoli terreni i cui prodotti sono desti nati a restare, per un certo periodo di tempo, meramente integrativi di altre forme su cui si fondano prevalentemente le possibilità di sostentamento della comunità. Probabilmente, però, già la città romulea si trovava in una fase più avanzata. Lo stesso carattere dell'heredium, destinato a inserirsi in un sistema di rotazione biennale, consacrato in seguito dal biennium necessario all'usuca pione dell'unità fondiaria(8), parrebbe riflettere questo più elevato livello. Almeno sotto il profilo delle tecniche agricole, all'impiego della zappa sem brerebbe essersi già parzialmente sostituito l'uso dell'aratro trainato da un animale severamente protetto dalle più antiche costumanze giuridiche e sacrali romane: il bue(9). La stessa dimensione della primitiva unità fondiaria, Vactus, è in relazione con l'impiego dell'aratro e del bue. A meno d'immaginare una limitata diflusione del bue utilizzato in comu ne da più titolari di diversi heredia nella coltura dei loro campi, si dovrà dun que concludere che un'impiego sistematico dei buoi e dell'aratro comportava una crescita quantitativa della superficie coltivata, essendo la potenzialità di lavoro così realizzata sproporzionata alle dimensioni del singolo heredium. w Gfr. anzitutto SERENI, 1966, p. 83 s.; e, più di recente, per una più sistematica trattazione, la relazione presentata al convegno La formazione della città nel Lazio, 24-26.6.1977, da
AMPOLO, 1980,
18 s., 33,
36.
<9>Cfr. AMPOLO, 1980, 16.
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Queste conclusioni si riallacciano solo parzialmente allo schema di ragionamento che risale a Mommsen e che confina il sistema delVheredium a una sfera non pienamente agricola (il 'giardino', l'orto domestico e lo stes so spazio abitativo urbano). E proprio per questorisaltamaggiormente il dub bio sulla insufficienza dQÌVheredium ai fini del sostentamento della singola famiglia romana. Il contrario, infatti, potrebbe senz'altro essere riconosciuto ove si immaginasse un sistema produttivo e il conseguente equilibrio alimen tare ancora prevalentemente orientato verso risorse non immediatamente agricole. Oppure si immaginasse, ciò che forse appare addirittura più proba bile, in base alle considerazioni appena sviluppate circa il rapporto fra esten sione delle aree coltivate e l'impiego dell'aratro, che lo sfruttamento a fini agricoli della piccola area dei bina iugera fosse integrato dall'accesso ad altre terre anch'esse almeno in parte destinate alle colture agricole. Ammettiamo in via provvisoria che il territorio della primitiva comunità cittadina in via di formazione, per la parte non distribuita in forma di heredia, fosse restato di pertinenza collettiva dei gruppi costitutivi della civitas, delle varie gentes (10). Ne dedurremmo che tali terre siano da identificarsi con quegli agri gentilicii di cui, in verità, sembrano forse parlare più i moderni che non le fonti antiche. SoflFermiamoci brevemente su tale figura, cercando anche di individuarne i principali aspetti, soprattutto in rapporto alla sua evo luzione nella successiva età repubblicana. Nel corso del precedente capitolo ho cercato di sostenere alcune ipotesi interpretative relative a tale ordine di problemi che cercherò qui di sintetiz zare rapidamente. Il primo puntoriguardala estraneità di questa signoria gen tilizia sulla terra agli schemi proprietari. Ed è proprio tale estraneità, già evi dente agli antichi, che dovette ingenerare l'equivoco in cui essi sono incorsi, identificando la terra delle gentes con Yager publicus: cioè la terra non in proprietà. In secondo luogo riterrei questa ipotesi indirettamente suffragata dallo stesso carattere - il più illuminato dalla tradizione antica - del conflit to fra le genti patrizie e la plebe intorno alla terra. La difficoltà e le incon(10) In effetti, come potremo meglio constatare nel corso del capitolo successivo, soprattutto nel § 4, questa rappresentazione coincide, in sostanza, con la complessiva architettura mommseniana, dove l'elemento collettivistico del primitivo assetto territoriale romano tende in sostanza a identificarsi con le strutture gentilizie (e indirettamente quindi con il patriziato).
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gruenze che la documentazione relativa a questa vicenda presenta rendono poco probabile che il contrasto fra i due ordini vertesse - come invece sarà secoli dopo in età graccana - sulla possessio dell'urger publicus concepito come oggetto di appropriazione individuale da parte di ciascun cittadino. Si tratterebbe insomma di un conflitto intorno alle antiche terre genti lizie, viste ormai nell'ottica plebea e nella prospettiva delle forme indivi dualistiche del dominio e della possessio(n\ Secondo tale prospettiva infat ti il tradizionale rapporto fra i gruppi gentilizi e le loro terre, in molti casi risalente agli stessi albori cittadini, veniva ormai, in questo nuovo contesto, interpretato in termini essenzialmente 'fattuali': e quindi come mera sopraffazione e abuso da parte di alcuni nei riguardi di un bene - la terra per cui si rivendicava ora il carattere 'pubblico', di pertinenza di tutta la comunità cittadina. Era questa una rappresentazione fondata sul diritto pro prio della città, consacrato appunto dalle XII Tavole, ma che escludeva e cancellava la presenza di rapporti e di consuetudini diverse, proprie del mondo delle gentes e definite ormai solo come 'fatti ingiusti'. Non si deve dimenticare come la struttura e la stessa esistenza della gens tendessero a prescindere da una superiore autorità della civitas, trovando questa invece in se medesima la sua propria legittimazione e quindi anche il suo diritto(12): un diritto dunque 'diverso' da quello della città. Cosi già gli antichi - e ancor più i moderni - definiranno lerisalentiforme signorili in termini di 'possesso', anzitutto al fine di distanziarle dal 'diritto' per eccellenza costituito dalla proprietà (individuale), e per sottolinearne poi il carat tere di mero fatto, di una materiale appropriazione intesa appunto come ingiu sta. Abbiamo visto come su questo aspetto fattualerispettoall'ordinamento cit tadino abbia giustamente insistito anche la più avvertita storiografia moderna, proprio perché solo in tal modo si poteva tentare di recuperare l'autonomia di tali forme di signoriarispettoagli schemi appropriativi elaborati dal diritto della <"> Cfr. supra, cap. V, § 6. Non a caso, soprattutto da parte degli storici del diritto romano, si è costantemente teso a qualificare le gentes in termini di strutture 'preciviche'. Dove questa connotazione non mira tanto e necessariamente a definire tali organismi in termini cronologici rispetto allo sviluppo cittadino quanto ariaffermarnela sostanziale indipendenza e la, almeno potenziale, autonomia rispetto alla sovranità cittadina. Inutile ricordare, a tale proposito, come tutta la ben nota pro blematica intorno al carattere 'politico' (in senso di 'statuale') delle gentes abbia trovato uno sviluppo particolarmente ampio nell'opera del nostro Bonfante. (,2)
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civitas, tutti - salvo la forma residua del compascuo - di carattere rigidamente individualistico. Di qui anche la connotazione di 'ingiuste' attribuita dai plebei, secondo gli storici antichi, a tali appropriazioni patrizie03*, in quanto ormai non conformi al nuovo assetto istituzionale della civitas, emerso dalle grandi tra sformazioni della precedente età serviana, eribaditopoi definitivamente e com piutamente dalle prime vittorie plebee e dalla legislazione decemvirale. Al cen tro di queste, infatti, si colloca ormai il dominiian (e con esso Impossessici) sul singolo lotto di terra. Talefigura,poi, verrà svincolandosi dal lignaggio, essen do trasferibile già in fase assai precoce con la mancipatio; anche dal punto di vista quantitativo, essa assumerà un'importanza sempre maggiore, sino al gran de salto costituito dalla vasta distribuzione delle terre veienti. Nell'età successiva, con la definitiva parificazione dei due ordini, sanci ta dalle leggi Licinie Sestie, anche questo punto centrale del conflitto viene sanato con la sostanziale vittoria plebea e con la radicale dissoluzione delle antiche signorie gentilizie. Con queste ultime tramontano ormai anche i modelli comunitari nello sfruttamento della terra che vi si associavano. Il quarto secolo, insomma, vede la piena ed esclusiva legittimazione delle forme individualistiche di appropriazione della terra: il dominium sull'ager privatus e lapossessio sull'ager publicus (a quest'ultimo potevano accedere ugualmente i patrizi e i plebei). Lo stesso comportamento verrà, per quanto possibile, riassorbito all'interno di tali categorie.
3. La primitiva agricoltura romana L'aver individuato nelle terre gentilizie l'elemento collettivistico desti nato a integrare le forme appropriative di tipo individuale rappresentate dai bina iugera romulei non ci esime dall'interrogarci sul significato ultimo di questo elemento comunitario. Né, su tale punto, si deve immaginare che si abbiano idee abbastanza omogenee fra gli storici moderni, anche tenuto conto della scarsità delle testimonianze. (,3)
Cfr. in proposito le citazioni supra, cap. V, nt. 10.
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In primo luogo ci rifaremo al forte controllo esercitato dalla gens sulla coltura dei singoli appezzamenti di terra assegnati ai suoi membri (probabil mente a ciascuno dei patres delle famiglie nucleari ad essa appartenenti). Il successivo potere di controllo riconosciuto in proposito al censore non sarà che l'eco impoverita del ruolo assolto con maggiore pregnanza dagli ordina menti gentilizi. Su questo possiamo dunquerifarcia un filone d'idee di note vole autorità(14). Ma ciò non significa ancora che lo sfruttamento delle terre gentilizie fosse poi regolato dalle forme che, storicamente, hanno caratteriz zato altre comunità agrarie, altri sistemi di villaggio. Per spingerci a sostene re un'ipotesi siffatta, mancano in concreto sufficienti elementi. Per questo motivo quindi, non seguirò quelle tendenze, particolarmente accentuate nella storiografia tedesca di fine Ottocento, volte a utilizzare in forma troppo ravvicinata i modelli ricavati dal patrimonio che lo storicismo romantico avevarivalutatoeriaffermato(15).Mi riferisco precisamente a una rappresentazione delle forme comunitarie romane interpretate secondo quel complesso di pratiche che, soprattutto nell'Europa settentrionale e in partico lare nel mondo germanico, nell'età di mezzo, regolavano rigidamente la ripartizione e lo sfruttamento delle terre comuni, la loro eventuale redistribu zione a periodi fissi, onde riaffermare il carattere equalitario della partecipa zione al godimento della terra, il regime uniforme e coordinato delle colture e le scansioni temporali che segnavano le varie fasi della vita agraria con l'in treccio fra pratiche agricole e allevamento. La ricostruzione del villaggio medievale, in sostanza, solo in modo arbitrario può essere proiettata all'indietro a interpretare altre società e altre forme comunitarie. Né, in tal senso, può apparire molto più efficace il richiamo ad altri possibili modelli che la storia ha conosciuto: ad esempio quelli più direttamente fondati sulle struttu re familiari come ci sono stati descritti in particolare per il mondo slavo(,6). (14) Cfr. per tutti PÒLAY, 1971, 236 nt., con ampia citazione della letteratura precedente. Ma v. soprattutto supra, cap. V, § 2. (,5) In sostanza, lo stesso schema mommseniano dell'abitazione domestica circondata dal l'orto dì quasi mezzo ettaro appare influenzato dal villaggio medievale nelle aree settentriona li e centrorientali dell'Europa. (,6) Proprio questi, a suo tempo, furono particolarmente utilizzati e valorizzati dal nostro Bonfante nella sua particolare ricostruzione delle strutture sociali romane arcaiche e delle con nesse forme appropriative. Ma anche in questo caso, se le ipotesi appaiono possibili, i con fronti suggestivi e i modelli interpretativi così ricavati dotati di una loro lorica interna, non
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Eviteremo dunque in questa sede di addentrarci in una descrizione pericolo samente soggettiva di questa ipotetica comunità agraria alle origini di Roma, per cui mancano informazioni adeguate. Sarà sufficiente insistere sulla tito larità collettiva di questo insieme di terre gentilizie e sulla presenza di alcuni elementi organizzativi in cui compare un aspetto collettivo nello sfruttamen to, a differenza delle terre in piena proprietà quiritaria. Questo aspetto si riflette sulla struttura stessa degli insediamenti genti lizi, associati a specifiche località agrarie, probabilmente in una linea di con tinuità con il mondo dei pagi dell'età precivica. Se già nel sistema paganico, che doveva caratterizzare l'assetto del territorio romano nella prima fase del sinecismo cittadino, il carattere delle attività agricole aveva superato la sua fase più rudimentale, è verosimile che nelle terre gentilizie, accanto all'allevamen to e ad altre forme di sfruttamento dellerisorsenaturali della terra (bosco, palu di, raccolta dei frutti e dei prodotti spontanei, caccia, eie.) fosse ampiamente sviluppata una coltura non più limitata, almeno nella tarda età monarchica, ai cereali più poveri, quali l'orzo e la spelta, ma estesa al farro e a vari tipi di granoil7>. Sono prodotti che assumeranno un peso crescente, condizionando i caratteri stessi dell'antico sistema paganico e la sua trasformazione. Tale sviluppo, in cui peraltro, ancora nel VII secolo, l'arboricoltura sem brerebbe abbastanza marginale, non ci consente di addentrarci nella descri zione del sistema produttivo arcaico, tanto più che esso appare ormai inte grato da forme di allevamento sempre più complesso, poiché a quello primi tivo dei suini e della pur importantissima pecora si è aggiunto l'allevamento di bestiame pesante, destinato a essere classificato fra le res pretiosiores del patri monio domestico romano. Ci limiteremo quindi ariconoscerecome fosse presente un dualismo che potrebbe corrispondere alla tipica dualità tra forme comunitarie e individuali stiche che il sistema del villaggio, nelle sue diverse, concrete estrinsecazioni storiche, ha in genere conosciuto. E proprio tale dualismo potrebbe aver segnadobbiamo sottacere l'assenza di un serio fondamento documentario e il rischio di forzature verso forme di comparazione fra entità destoricizzate e decontestualizzate, secondo quelle ingenuità metodologiche che segnarono il destino delle tendenze evoluzioniste e positiviste nelle scienze sociali e nella storiografia giuridica della seconda metà del secolo scorso, che pure grandi e troppo dimenticati meriti presentano ai nostri occhi. (l7) Cfr. per tutti AMPOLO, 1980, 15 ss.
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to anche la storia agraria romana attraverso la polarità costituita dalla terra gen tilizia da una parte, e dall'herediwn dall'altra. Certo, la divisione della terra gentilizia nelle varie aree destinate a diver si tipi di sfruttamento ed a cui accedevano, secondo criteri e regole difficil mente conoscibili da noi, i patrizi ed i loro clienti - unafiguraattestata nelle fonti, ma di cui poco sappiamo(,8) - era destinata a segnare fortemente il pae saggio romano primitivo. E quindi, accanto agli sviluppi urbanistici della 'grande Roma dei Tarquinia, il primitivo configurarsi delPager Romcmus antiquus, con le sue forre, con la vasta espansione dei suoi boschi e degli acquitrini, conosce una crescente limitazione e modificazione. Le terre gen tilizie, al loro interno,ripropongonoprobabilmente, a loro volta, un carattere dualistico: all'insieme dei campi destinati allo sfruttamento agricolo e di per tinenza delle singole famiglie nucleari dei gentili, come pure dei clienti, si contrappone un insieme di aree utilizzate in comune, come i boschi, le palu di e i pascoli, regolati secondo i mores vetusti di ciascuna gens.
4. La 'gens' e la 'civitas' Non dobbiamo nasconderci tuttavia che un modello come quello qui disegnato, orientato a interpretare l'incerta coesistenza, nella tradizione degli antichi, di più elementi, fra loro diversi se non contraddittori, trova ostacoli non insignificanti. Il primo, e più grave forse, è costituito dal fatto che il dua lismo fondamentale dell'originario assetto territoriale romano, rappresentato dal carattere individualistico àéìVheredium in proprietà quiritaria contrappo sto - ma anche integrato - alle terre comuni di ciascuna gens, può essere accolto solo nel caso in cui si accetti l'idea di una piena identificazione della primitiva cittadinanza romana raccolta nelle citriae con le genti che solo in (18) Sulla clientela arcaica cfh in particolare Dion. Hai., 2.8-11; nonché Liv., 6.18.6; Cic, rep. 2.16; e Fest, s. v.patres (LINDSAY, 422). Cfr. anche Liv., 2.35.4 e 56.3, 64.1, 3.14.4; e Dion. Hai, 4.23.6, 7.19.2, 7.54.3, 9.41.5, 10.40.2 e 41.5, 11.22.3; nonché, ovviamente, gli episodi della spedizione dei Fabii al Cremerà e della venuta dei Claudi in Roma (su cui cfr. supra, cap. V, § 5). Cfr. anche là fondamentale indagine su tutto questo complesso di problemi di
RICHARD, 1978,
226 ss.
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seguito connoteremo come patrizie. Ove infatti s'immaginasse la presenza, sin dagli inizi della città, di un elemento 'plebeo' si sarebbe costretti a con cludere nel senso della esclusione di quest'ultimo dalla comunità agraria rife rita, come abbiamo visto, alla titolarità delle singole gentes. Ed è questa una contraddizione assai grave, giacché oggi si è giustamente propensi a imma ginare la storia della città delle origini come comprensiva di gruppi sociali diversi, solo in seguito destinati a irrigidirsi nella contrapposizione fra patri zi e plebei. Lo stesso ordinamento gentilizio appare come il risultato di un processo di aggregazione che non investe e unifica contemporaneamente tutti i membri della comunità cittadina. Anche volendo immaginare che, nel caso dei gruppi sociali non orga nizzati per gentes, la terra comune fosse imputata ad altre strutture minori - ad esempio la "grande famiglia agnatizia', tante volte immaginata dai romanisti -, si dovrebbe concludere nel senso di una disomogeneità delle strutture sociali che vedrebbero coesistere forme vere e proprie di comunità agraria riferite agli ordinamenti gentilizi e forme di comunità domestica. Ma questo ci porterebbe a un modello assai complesso, su cui non dispo niamo di testimonianze adeguate. Si ricorderà come alVheredium attribuito a tutti i cittadini (nella nostra ipotesi quindi anche ai non gentili) corri spondesse la partecipazione alla comunità agraria di pertinenza di ciascuna gens. D'altra parte, anche se si ammettesse che originariamente la civitas fosse da identificare con l'insieme delle gentes, la chiarezza dello schema mommseniano verrebbe presto a oscurarsi e a confondersi. Nel momento stesso in cui fossero stati ammessi nella cittadinanza e nelle curie elementi estranei alle gentes, e tuttavia legittimati alla titolarità dell'heredium, si ver rebbe a ingenerare una discrasia tra comunità agraria (sempre legata alle genti) e proprietà individuale dell 'heredium estesa ora ad altri soggetti che non ai soli membri dell'aristocrazia gentilizia (a meno, appunto, di non ammettere nuove forme comunitarie di tipo consortile e familiare accanto alle antiche strutture gentilizie). Insomma il modello qui preso in esame si addice in linea di massima a una situazione 'di partenza', come del resto appare quella della 'fondazione' romulea ο quella dell'ingresso dei Claudii nella civitas.
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Senza poi considerare che lo stesso schematismo della tradizionale narrazione della distribuzione romulea di cento heredia ai membri di cia scuna curia cela, al suo interno, una profonda contraddizione. L'organico delle curie, infatti, era più numeroso di cento uomini e, insieme, più inde terminato. E poi, Romolo avrebbe distribuito in proprietà singola ciascun heredium: ma allora solo ai patres familias presenti nelle curie stesse, essendo solo essi legittimati alla titolarità di un diritto, di una signoria. In tutti questi casi si rivela l'evidente artificiosità e il carattere posticcio del collegamento dei distretti di popolazione con le unità territoriali. L'unità di cento uomini, se pienamente significativa in funzione dell'esercito primiti vo, non corrisponde né all'organico di tutti gli individui adulti della curia, né a quello dei soli patres familiasm. Sono, questi, interrogativi e dubbi non facilmente superabili e destinati, con ogni probabilità, ad accompagnare a lungo le nostre indagini su età così remote. Ma converrà ora tornare a quel tipo di destinazione economica delle terre gentilizie e al suo sostanziale dualismo, l'allevamento e gli impieghi agricoli. È mia impressione infatti che proprio questa possibile integrazione tra terre comuni della gens e fondi di pertinenza individuale dei suoi membri possa essere fatto rientrare all'interno di uno schema più generale di orga nizzazione fondiaria realizzata dai Romani e destinato ad una ben più grande vitalità: mi riferisco alla figura del compascuo.
(19) In effetti si era talora immaginato che il numero complessivo ài patres familias ricompresi in una singola curia ammontasse appunto a cento. Al contrario proprio il tipo di appartenenza alla curia per genera hominum, in base cioè alla discendenza, rende relativamente indetermi nato il numero di patres che, in ogni momento, faranno parte della curia stessa: variabile non solo a seguito delle morti, ma anche di atti legali quali la emancipazione dei filii familias e la loro conseguente trasformazione in nuovi patres titolari di diritti e ammessi quindi al dominium sulle terre individuali. Recentemente LEVI, 1992, 72 ss., partendo da un'acuta riflessio ne sul carattere del processo formativo della città antica, è venuto proponendo una lettura abbastanza originale (anche se ricca di risonanze di antiche idee tardo-ottocentesche) del ruolo delle genti patrizie nella costituzione di Roma. Così esse appaiono elementi tendenzialmente anticittadini, fortemente incardinati nella realtà agricolo-pastorale estranea alla città. L'organico di questa, invece, legato alle funzioni mercantili e artigianali, sarebbe costituito da un gruppo sociale antagonistico alle genti: la plebe {ibid., pp. 77 ss.). In questa sede non potrebbe affrontarsi in modo adeguato una discussione su tale ipotesi generale senza modifi care radicalmente prospettive e contenuto della nostraricerca.Appare comunque tutt'altro che peregrina l'idea di Levi (da me, tuttavia, fortemente banalizzata in questa rapida citazione) e su di essa dovrà svilupparsi un'adeguata riflessione.
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5.1/'ager compascuus' Com'è noto, questa figura è soggetta a un tipo di sfruttamento che non ne permette l'accesso a ogni cittadino. Ad esso partecipano, infatti, certi tantum homines, plerumque quorundam vicinorum domini, secondo la formula che Mommsen ed Huschke hanno ricavato direttamente dagli scritti dei Gromatici veteres. Solo questi proprietari sono, in quanto tali, i titolari dello iuspascendi su questa peculiare figura di ager: in quanto costitutivi essi stes si, attraverso le loro proprietà fondiarie, di un comprensorio rurale - xmpagus - integrato dalle terre comuni destinate all'allevamento. È questo un sistema vitale sino alla tarda repubblica, e il suo tramonto, almeno nell'Italia centra le, (si pensi in proposito al ruolo assolto dalla lex agraria del 111 a.C.) è forse più legato ad aspetti politici e alla più generale crisi degli antichi tipi di inse diamento agrario, di fronte all'espansione dei vari modelli organizzativi rap presentati dalla villa catoniana, che non a un intrinseco e inevitabile deperi mento. Tali forme costituiscono infatti una semplice ed efficace integrazione fra la piccola e la media azienda contadina, fondata primariamente sull'auto consumo (dove quindi la cerealicoltura continua ad assolvere un ruolo impor tante) e il suo necessario supporto, tanto in funzione dell'impiego degli ani mali da lavoro, quanto della concimazione, costituito dall'allevamento. Ma anche in seguito, sia in relazione a più vaste unità fondiarie, sia, soprattutto, in aree economicamente più marginali della Penisola ο in zone più impervie, la vitalità del compascuo appare attestata, come ad es. fa fede la Tavola di Veleia, sino ad avanzata età imperiale. E del resto è ancor più sin golare il frequente richiamo ad esso nei già citati scritti dei Gromatici e in rife rimento ai processi di divisione e assegnazione delle terre in proprietà privata. Dove sovente esso appare, non già ai margini del compatto reticolo ortogona le della centuriazione, ma al suo interno, a romperne l'ordinata tessitura(20). Che questo stesso schema abbia avuto origine all'interno dei pagi pre civici e delle terre gentilizie, è possibile. Si tratta però di specificare il valo^ S u tutto ciò rinvio a CAPOGROSSI, 1999, 17 ss. V., per una prima approssimazione del l'importante letteratura relativa a tale figura, RUDORFF, 1852, 395 ss. e 1861, 191 s.; BRUGI, 1897, 325 ss. e 1900, 311 ss.; SCHUFFER, 1887, 5 ss.; TRAPENARD, 1908, 153 ss., 168 ss.; BOGNETTI, 1927, 15 s.; BURDESE, 1952,41, e 92, 126 ss. e infine SERENI, 1955.
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re che si può attribuire a questa origine. In effetti, se seguiamo l'idea corren te di una compresenza, nelle terre gentilizie, dell'allevamento e dell'agricol tura, a integrazione di una proprietà individuale sugli heredia concepiti solo come l'orto domestico e la sede abitativa, allora il dualismo così tracciato può apparire analogo a quello che in età storica segnerà il distretto agrario rispet to al suo compascuo. Ma è un'analogia fondata sul carattere dualistico di que sto, come di innumerevoli altri sistemi agrari, con una valenza affatto generi ca, pressoché insignificante. In effetti - ma qui il discorso non potrà essere ulteriormente sviluppato - io ho il sospetto che, analogamente del resto con una figura, se possibile ancora più importante nella storia dell'organizzazione territoriale e delle forme di insediamento delle popolazioni nell'Impero romano: mi riferisco al pagus, lo schema romano, pur ricco di implicazioni anche giuridiche, sia molto ampio, tale da abbracciare realtà al loro interno anche profondamente differenziate. Con questa premessa è tuttavia possibile associare le più antiche forme di compascuo ad un sistema parallelo a quello degli agri gentilizi e destinato ad assicurare la presenza e lo sviluppo di quella proprietà individuale della terra agraria, il cui significato sempre più concorrenziale rispetto agli antichi modelli gentilizi appare attestato almeno a partire dalla rogatio Cassia agra ria, se non già nella costituzione serviana. E tanto più la richiesta plebea per la divisio et adsignatio delle terre pubbliche appare insistente, quanto più la costituzione di nuovi consorzi di proprietari individuali della terra doveva essere agevolata dalla possibilità di utilizzazione del compascuus, sottratta, per la natura stessa di questo, alla prevaricante concorrenza patrizia. La stes sa crescita quantitativa degli antichi heredia verso le nuove unità poderali ple bee, evocate nei septena iugera distribuiti in seguito a quella vera e propria svolta rappresentata, anche per la politica agraria di Roma, dalla vittoria su Veio, dovette - come si è già indicato - trovare un suo preciso fondamento nello sviluppo parallelo delV ager compascuns, base per il bestiame da lavo ro e per le crescenti esigenze di concimazione. Proprio per questo gli ipotetici modelli comunitari che caratterizzano il sistema gentilizio appaiono destinati a scomparire senza lasciare pratica mente traccia. In qualche modo queste antiche forme si dovettero dissolve-
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re, almeno in parte, in questo più generale schema costituito dal compascuo. A differenza delle antiche forme gentilizie, il rapporto di quest'ulti ma figura con la proprietà individuale della terra garantiva all'elemento comunitario che la contraddistingue una durevole presenza ancora nell'età della compiuta e totalizzante affermazione delle forme individualistiche, sia con il modello del dominium, sia con quello della possessio delle terre pubbliche. Che poi il compascuo fosse classificato all'interno di quest'ultima cate goria, è la dimostrazione ulteriore del suo carattere residuale. Le età succes sive, infatti, vennero attribuendo alla figura generale dsìYager publicus tutti quei rapporti non riconducibili allo schema proprietario: così dovette avveni re per l'originaria signoria delle gentes sulle loro terre; così avvenne ugual mente per il compascuo, che tuttavia, nella sua intrinseca natura, sfuggiva al chiaro schema classificatorio, apparentemente onnicomprensivo, ager privatus - ager publicus, per ricondurci a realtà anteriori ad esso e mal costringibili nella gabbia concettuale che esso presupponeva*20. Negli anni che seguirono le leggi Licinie Sestie, la prospettiva venne rapidamente a offuscarsi, mentre il sistema agrario romano finì con l'orga nizzarsi intorno alla nuova polarità rappresentata appunto dalle due figure delVager privatus e delVager publicus. Le terre individuali dei singoli patres, le terre destinate al pascolo comune - tanto all'interno degli agri gentilicii veri e propri quanto nei distretti cui partecipavano proprietari ple bei - e, infine, Υ ager occupatorius e Yager scripturarius (destinato a una crescente importanza nei tempi successivi e pienamente consacrati almeno a partire dalla fine del V secolo) già definivano e accompagnavano il tra monto e la scomparsa dei pagi gentilizi e delle sopravvivenze preciviche. L'avvento delle nuove forme e dei nuovi sistemi di sfruttamento della terra sarebbe avvenuto in modo differenziale e graduale, sovrapponendosi soven te, senza dissolverle, alle precedenti strutture, ma mascherandole e modifi candole radicalmente.
C1)
Anche su questo punto sono costretto arinviarea CAPOGROSSI, 1999, 17 ss.
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6 'Pagi' gentilizi e tribù territoriali Ovviamente è estranea a queste pagine la successiva vicenda che vedrà, per molti versi, un intreccio nuovo e nuovamente complesso di situazioni che com plicheranno lo schema agerprivatus - ager publicus or ora evocato. È giunto invece il momento di considerare la precedente realtà territoriale e le connesse forme di signoria nel loro rapporto con gli assetti organizzativi della città primi tiva: le curie della popolazione, anzitutto, le successive tribù territoriali poi. Non è agevole la definizione del preciso rapporto fra gli insediamenti territoriali delle origini e il sistema delle curie. In questa sede mi limiterò a sottolineare come il rapporto fra centurie territoriali e curie fosse riaffermato con decisione, e con la forza di un'autorità che giganteggia nel tempo, dallo stesso Mommsen. «L'impiego del termine curia per designare topografica mente una parte del territorio deriva già naturalmente dal rapporto delle cu rie con le gentes, giacché ciascuna di queste aveva, in origine, il suo territo rio circoscritto»(22). Idea che saremmo tentati di accogliere nella sua sostanza, anche in con siderazione della portata delle testimonianze antiche addotte in proposito. In particolare, il riferimento varroniano, presente in Dionigi di Alicarnasso, circa la derivazione del nome delle curie dai membri più autorevoli di esse, ο «dai pàgoi», appare di notevole rilievo anche alla luce della parallela testi monianza di Plutarco(23). Sebbene, in concreto, solo di poche curie si ricordi no poi queste denominazioni(24) - dissoltesi con le loro stesse funzioni, circo scritte ormai alle pallide cerimonie della tarda repubblica -, si accentua il nesso fra struttura gentilizia, suo insediamento territoriale, sistema delle curie e loro denominazione. <*» Cfr. MOMMSEN, 1887,94 (1889, VI.1, 104). Contro l'opinione che faceva derivare il nome delle curie da quello delle matrone sabine intervenute, dopo il ratto, a dividere le schiere contrapposte dei Romani e dei Sabini, Dionigi (2.74.3-4) riporta il diverso parere di Vairone, secondo cui la denominazione delle curie risa lirebbe al momento stesso della fondazione della città ad opera di Romolo, «alcuni di tali nomi essendo presi da quelli dei loro capi, e gli altri dai pàgoi». Plutarco (Rom., 20) segue la tessa interpretazione varroniana, insistendo ancor più sul collegamento fra il nome delle curie e quello delle località p4) Cfr. Liv., 9.38.15; Varr., ling. Lai, 6.23; Fest, s. v. novae curiae (LINDSAY, 182), Paul.Fest, s.vv. Titia e Tifata (LINDSAY, 503), Fest., s.v. Popillìa trìbus (LINDSAY, 264), Fesr., s.v. Pupinia tribus (LINDSAY, 264), Paul.-Fest, s.v. Pupinia (LINDSAY, 265). (23)
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Più interessante, per molti versi, il persistere di un rapporto analogo nel l'età successiva, allorché la nuova organizzazione del territorio romano venne a fondarsi sul sistema delle tribù rustiche. Anche in questa nuova fase, infat ti, vediamoribaditala stretta connessione fra assetto territoriale e forme gen tilizie, attestato dall'onomastica delle più antiche sedici tribù rustiche, deri vata - secondo le valutazioni correnti - dal nome di altrettante gentes. Ciò non significa necessariamente che, anche in questa fase più avanzata, le gentes avessero conservato un ruolo assolutamente centrale nell'organizzazione aéìYager Romanus: su questo punto infatti una certa cautela è necessaria, nel definire il quadro d'insieme della società agraria romana nei primi due seco li della repubblica. La persistenza dell'onomastica gentilizia anche in questa età e nelle nuove strutture territoriali allora disegnate, appare infatti, con ogni probabi lità, il retaggio di più antiche situazioni tradottesi e preservate nelle nuove forme. Ci riferiamo ovviamente all'opinione, già a suo tempo sostenuta da Mommsen e diffusa ancora ai nostri giorni, che vedeva un nesso ben preciso fra il numero complessivo dei pagi arcaici e il successivo inquadramento della terra extraurbana nelle prime tribù rustiche(25). Certo, nella fase più arcaica, corrispondente al sistema paganico, non è detto vi fosse un immediato e automatico rapporto fra questo e le terre genti^ Cfr. in particolare Ross TAYLOR, 1960, 6, anche se, ovviamente, è da conciliare il nume ro più elevato di pagi ricordato dagli antichi, probabilmente ventisei, con il numero delle prime tribù rustiche: quindici ο sedici, ivi comprendendo anche la Claudia della prima età repubbli cana. Su questi aspetti cfr. anche le osservazioni di DE FRANCISCI, 1959, 176 s., 171 ss., dove, fra l'altro, è giustamente ricordata la testimonianza costituita la P. Oxy., XVII.2088. Da rile vare tuttavia la particolare posizione assunta sul punto in questione, da uno dei più autorevoli studiosi italiani delle strutture sociali arcaiche. FRANCIOSI, 1988a, 13 s. Tale a., infatti, parten do dal «dato innegabile» costituito dall'origine gentilizia dell'omastica delle più antiche tribù territoriali rustiche, sostiene espressamente che da esso «si è voluto desumere troppo». L'oggetto del riferimento polemico di Franciosi è evidentemente quello che oggi appare come il mito ο il dogma della 'proprietà gentilizia' che è invece questione diversa dalla onomastica, mi sembra, non influenzata, nella prospettiva di Franciosi, da quest'ultimo aspetto. Cfr. anco ra FRANCIOSI, 1992, 107, dove si precisa, ancora di recente, come per le genti si possa pensa re a «una dislocazione tendenzialmente unitaria», attestata, appunto, dalla stessa denomina zione delle tribù territoriali. Il che, tuttavia, non pregiudica la questione della presenza ο meno di una «proprietà collettiva della terra» da parte di queste stesse genti. Il che, di per sé è osser vazione affatto corretta e sulla quale mi sembra di poter concordare. Da menzionare infine la netta presa di distanza di Franciosi dal tentativo abbastanza arduo di ALFÒLDY, 1971, 288 ss., di negare il collegamento dei nomi delle antiche tribù rustiche all'onomastica gentilizia.
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lizie: su tale punto, proprio Mommsen aveva infatti avanzato alcune precise e significative riserve. E all'uopo aveva buon gioco nel sottolineare il nume ro piùristrettodei pagi rispetto a quello delle gentes romane(26). Con queste precisazioni mi sembra tuttavia possibile affermare che, all'interno del singolo pagus, le proprietà private dei membri delle singole gentes e le loro pertinenze comuni si accorpassero in modo organico. È vero cioè che la contemporanea presenza «di un pagus Corneliano, di una gentilì zia proprietà corneliana» e della tribù Corneliana non possono farci conclu dere «che la tribù sia identica al pagus né che il pagus si possa a sua volta identificare con la terra gentilizia», secondo appunto quanto sottolineava Mommsen nel passo citato or ora. Ma altro è escludere - come giustamente il grande storico tedesco fa - una piena identità fra queste diverse forme, e altro è affermare, come qui si tende a fare, una sostanziale relazione. È presumibile che il sistema paganico, sviluppatosi in rapporto con i distretti territoriali delle genti più importanti politicamente ed economica mente o, comunque, più significative per l'assetto del primitivo territorio romano, non assorbisse poi in modo ugualmente uniforme e organico anche le terre delle altre genti. Per queste ultime non è dunque improbabile che le loro terre potessero trovarsi inglobate in due ο addirittura in più pagi vicini. Una lontana eco di queste immaginate situazioni la potremmo rintracciare forse nella ben più tarda Tavola di Veleia, atta comunque, per i caratteri pecu liari dell'area cui si riferiva, ad evocare realtà arcaizzanti(27). Il sistema qui ipotizzato, di un numero ristretto di pagi in cui si suddi videva Vager Romanus più antico, era destinato a persistere nel tempo. Ogni pagus ricomprendeva pienamente Vager di alcune genti, mentre il territorio delle restanti genti, frutto verosimilmente di successive stratificazioni e vicende, sarebbe restato in qualche misura abbastanza marginale (nel senso che esso non coincideva con la denominazione del pagus e poteva ugual mente non coincidere integralmente con la stessa ripartizione territoriale di questo). Il sistema, infatti, parrebbe tradotto in seguito nella forma più moderna delle prime tribù territoriali. L'originario territorio paganico è desti<26> Cfr. MOMMSEN, 1887,117 (1889, VI. 1, 131). ^ Su questo importante documento le interpretazioni più significative, ai fini del problema qui considerato, sono quelle di DE PACHTÈRE, 1920, 31 s. e di SERENI, 1955, 339 s.
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nato a costituire la loro base topografica, travasando in esse anche il vetusto intreccio delle relazioni gentilizie sulle terre. E tuttayia, ora, in queste inno vazioni, non può non vedersi anche l'inizio di un mutato regime giuridico degli antichi territori. Su questo punto soccorre, ancora una volta, una precisa indicazione di Mommsen, il quale riferiva alla svolta segnata dall'introduzione delle prime tribù rustiche il pieno sviluppo della proprietà individuale della terra agrico la, rispetto alle precedenti forme comunitarie più direttamente rapportate alle strutture gentilizie(28). In sostanza, la dissoluzione delle terre gentilizie, con l'espansione alla campagna del sistema degli heredia già applicato nell'area urbana (ricordiamoci del loro carattere di giardini e di 'orti' secondo tale rico struzione), permetteva di fare coincidere la complessiva trasformazione del sistema territoriale romano — dai pagi alle tribù territoriali — e dello stesso inquadramento della cittadinanza nelle tribù, con l'avvento del sistema centuriato. Quest'ultimo, fondato a sua volta su criteri di ricchezza individuali, postulava il passaggio dalla 'proprietà gentilizia' alla proprietà individuale della terra, dall'ordinamento gentilizio alla individualità dettafamiliaproprio iicre. Restava nell'ombra, in questa pur plausibile ricostruzione, il problema dell5ager publicus arcaico: per Mommsen anch'esso ricompreso nell'antica organizzazione pagatim, e però distinto dalle terre gentilizie in senso stretto(29). Converrà riprendere da qui il nostro discorso.
7. Le tribù territoriali e P'ager publicus9 È degno di nota il fatto che, in generale, gli storici che di questi proble mi si sono particolarmente interessati sin dal secolo scorso sembrino fondar si su un assunto non sempre esplicitato, ma presente nella loro riflessione. Ci riferiamo alla tendenza a identificare l'estensione complessiva delYager Romanus con la somma delle tribù territoriali. Tendenza ovvia, e tuttavia destinata a suscitare uno specifico problema in ordine alla situazione di quel<2»> Cfr. MOMMSEN, 1887, 164, 168 (1889, VI.l, 184 s., 188 s.). <"> MOMMSEN, 1887,116(1889, VI.l, 130).
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Vager publicus su cui ritornano costantemente le fonti antiche(30). Per questo tipo di terra infatti era difficile immaginare la sua appartenenza al sistema delle tribù territoriali. Evidentemente questo non era possibile per quell'o rientamento che tendeva a concepire queste come raggruppamenti di indivi dui qualificati sulla base della loro proprietà fondiaria. Neppure per l'ipotesi che si ricollegava all'opposta valutazione di Mommsen appariva plausibile l'inquadramento di tali terre nelle tribù rustiche. Proprio in Mommsen infat ti la circoscrizione territoriale costituita dalla tribù rustica è esplicitamente limitata ai «fondi di terra che sono ο possono essere oggetto di proprietà quiritaria», dovendosi quindi concludere «che l'iscrizione di fondi in una tribù non è ilrisultatodi un incremento territoriale, ma di un'espansione della pro prietà privata»*3 υ. In altre parole, secondo questa concezione, la tribù territo riale era costituita da tutte le proprietà fondiarie private in essa comprese e coincideva quindi con le loro somme complessive. Se questo è vero, allora appare impossibile accogliere l'identificazione deìVager Romanus con la mera somma delle tribù territoriali: ciò che, peraltro, mi sembra sia una ten denza, forse nascosta ma insistente, che si può cogliere negli studi anche recenti su tali questioni. Insomma gli storici moderni sembra che si siano dimenticati di quell'ager publicus arcaico pure ammesso senza discussioni e, così, abbiano trascu rato e quasi fatto dimenticare l'alternativa che questo fatto pone loro. E cioè, che ο si considera l'estensione territoriale complessiva delle tribù rustiche corrispondente all'intero territorio romano, e allora si deve ammettere* che la parte 'pubblica' di questo stesso territorio fosse ricompresa nelle varie tribù; oppure, escludendosi tale eventualità, si dovrà immaginare che la estensione complessiva delle tribù rustiche più l'estensione delle terre 'pubbliche' coin cidesse con l'intero ager Romanus, essendo quindi, da sola, ad esso inferio re. Emerge, dunque, soprattutto in quest'ultimo caso, uno iato fra il prece dente sistema paganico e la nuova organizzazione per tribù. Se ci volgiamo agli schemi mommseniani possiamo ora coglierne appie(30) Nonché, ovviamente, della terra gentilizia, ove si tenda a distinguerla dai lotti in proprietà individuale dei singoli gentili. Su ciò v. supra. (3,) MOMMSEN, 1887, 164 (1889, VI.l, 184 s.), nonché in modo ancor più esplicito, Ross
TAYLOR, 1960, 3, 7 e 37.
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no la coerenza ed apprezzare il tentativo di abbracciare in un disegno com piuto l'incerto panorama delle origini. Anche se, dobbiamo aggiungere, l'a sperità della materia trattata siribellaalla precisione del modello così perse guito, rendendoci impossibile seguire su questo punto il grande maestro. In effetti Mommsen contrappone l'oscuro mondo paganico, associato alle gentes e alle loro terre comuni, al sistema delle tribù territoriali, identificato con la proprietà quiritaria. Nella primitiva comunità agraria mommseniana, gli heredia, come si ricorderà, erano l'orto urbano, il giardino e il luogo dell'a bitazione stessa, di contro alle terre coltivabili, al di fuori del villaggio e tutte restate in comune. Di qui la precoce apparizione delle quattro tribù territoria li urbane: che ricomprendevano appunto le aree in piena proprietà quiritaria sin dalle origini. La successiva estensione del modello tribale alla campagna avrebbe segnatoci ritrarsi delle forme comunitarie e il sostituirsi ad esse della proprietà quiritaria, allargata ormai anche alla terra agricola(32). Non mi sembra possibile ridurre il sistema degli heredia solo alla circo scrizione urbana, secondo il rigido parallelismo con gli schemi del villaggio tedesco medievale (inutile qui insistere su quanto stretta si riveli così l'ana logia di metodo fra queste pagine dello Staatsrecht, e quelle della weberiana Storia agraria)03*. Né possiamo agevolmente immaginarci l'improvvisa e radicale svolta, segnata dallaripartizionedi tutte le terre gentilizie in lotti in proprietà quiri taria di tipo individuale in diretta, immediata corrispondenza con l'istituzio ne delle prime sedici tribù rustiche: ciò che appunto deriva dalPimpostazione mommseniana(34). Ma anche ammettendo - e sul punto tornerò per opporre una diversa ipotesi - l'esattezza del processo così immaginato, non per questo verrebbe meno il rapporto fra l'arcaico pagus e la successiva figura della tribù rusti ca. Al contrario: una totale 'traduzione' delle terre comunitarie delle gentes <32) MOMMSEN, 1887, 161 ss. (1889, VI. 1, 180 ss.). (33)
Su cui rinvio a CAPOGROSSI, 1990, cap. I, e CAPOGROSSI, 1997, 13 ss.
(34)
Tanto più se si tenda a collocare, come la più recente storiografia appare orientata a fare, la stessa istituzione delle prime tribù rustiche nella tarda età monarchica. Più si arretra infatti questo evento e meno sembra plausibile ammettere che, contestualmente, Γ espansione dei nuovi modelli individualistici del dominium ex iure Quiritium fosse già totale, essendo così del tutto scomparse le terre gentilizie, ripartite anch'esse in proprietà individuale. Contro, cfr. MOMMSEN, 1887, 168 (1889, VI.l, 188 s.).
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situate nei vznpagi avrebbe comportato la loro trasformazione globale nella somma delle proprietà fondiarie distribuite fra le varie tribù. Di qui, si potreb be concludere, la persistenza degli antichi nomi gentilizi, che già dovevano designare i più antichi pagi, a indicare le tribù, connotate appunto in modo preminente dall'insieme delle proprietà quiritarie dei gentili. In verità è assai probabile che il passaggio dalle antiche forme al nuovo ordinamento sia stato più graduale e contraddittorio di quanto non permetta no di immaginare gli schemi mommseniani. Con ciò non si vuole negare che le tribù territoriali si riferissero esclusivamente alle terre in dominio quiritario, ma significa ammettere che solo una parte deìYager Romanus, lungo tutto il corso del V secolo, fosse ricompreso nelle prime tribù rustiche. Accanto alla circoscrizione territoriale corrispondente a ciascuna delle prime sedici tribù rustiche e che annoverava anzitutto l'insieme dei lotti dei mem bri delle varie gentes, restati in genere territorialmente compatti, persisteva un'altra parte del territorio agricolo - forse ancora la più ampia - rimasta di pertinenza comune di queste stesse gentes. La mia ipotesi, sviluppata soprat tutto nel corso del precedente capitolo, circa l'ambiguo significato della men zione delle lotte patrizio-plebee intorno all'agir publicus, potrebbe ben accordarsi con tale processo. Il nuovo modello delle tribù territoriali, defi nendo meglio l'area territoriale assoggettata agli schemi individualistici del dominium ex iure Quiritium, e favorendone la probabile espansione, segnò la fine dell'antico sistema paganico nel cui ambito - riteniamo - dovevano coe sistere forme individualistiche e signoria collettiva delle gentes. L'isolarsi e il decontestualizzarsi di quest'ultima potè così indebolire la sua originaria fisio nomia, appannare l'intima sua connessione con gli ordinamenti paganici e gentilizi, favorendo l'emergere delle nuove pretese plebee e l'affermazione del nuovo carattere 'pubblico' di queste stesse terre. Indipendentemente da tale prospettiva, è comunque assai probabile che le aree in piena proprietà, corrispondenti alle sedici più antiche tribù, per tutto il V secolo fossero circondate e spezzate da terre 'pubbliche', siano queste le antiche terre comuni delle gentes, siano terre di recente con quista intorno a cui più viva divampa la contesa fra i due ordini. Terre pub bliche esterne al comprensorio delle tribù territoriali stesse. È questa Puni ca possibile soluzione - lo ripeto ancora una volta - ove si tenga ferma l'i-
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dea che le tribù territoriali siriferivanosolo dXYager privatiti e si ribadisca ugualmente, già per la prima età repubblicana, l'esistenza di parte delV ager Romanus non assegnato in dominio quiritario. Due postulati ugualmente legittimi, che io ritengo abbastanza probabili, e che sono in genere accolti dai moderni studiosi.
8. Le genti e le tribù Sarebbe almeno imprudente cercare di precisare oltre sino a che punto e in quali dimensioni le terre gentilizie persistessero indivise successivamen te all'ordinamento per tribù rustiche, lungo il corso del V secolo, e quanta parte di esse non siriversasseinvece nel sistema tribale con la sua ripartizio ne in piena proprietà fra i singoli gentili. Certo, identificando queste con Vagerpublicus, secondo le mie ipotesi, esse appaiono ancora sino alla metà de\ IV secolo, sia pure ormai come forma residuale. Vi è però una considerazione che potrebbe distogliere la nostra atten zione dalle antiche terre gentilizie per orientarci verso nuove figure colle gate alla più recente accumulazione di nuove aree agricole da parte di Roma. In effetti, a partire dalla stessa proposta di Spurio Cassio, le richieI
ste plebee di divisione e distribuzione della terra pubblica parrebbero rife rirsi prevalentemente a terre di recente conquista. In verità la pressione ple bea sembra accentuarsi in relazione a tali terre ο a eventi bellici che possa no incrementare le dimensioni delle aree conquistate. Ma sulla peculiare relazione tra problemi agrari e politica estera nella storia della più antica età repubblicana si tornerà più oltre. Per ora converrà indugiare ancora breve mente sulla composizione territoriale delle tribù rustiche e sul regime (o i regimi) giuridico corrispondente. A tale proposito vorreiricordareun rilievo di notevole interesse, intro dotto dalle classiche indagini di L. Ross Taylor. A proposito della gens Fabia, l'autrice notava infatti come la sua importanza e il necessario sup porto' di un adeguato numero di clienti non potesse racchiudersi entro lo spazio limitato della tribù Fabia. La Ross Taylor deduceva da ciò l'ipotesi
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che i capi della gente, già nei primi decenni del V secolo, avessero cercato di ripartire i loro più ricchi clienti nelle varie tribù dove la terra fosse disponibile(35). La discussione di questa idea, su cui tenderei peraltro ad esprime re alcune riserve, ci porterebbe troppo lontano. Va tuttavia sottolineato che, accogliendo tale interpretazione, si dovrebbe immaginare la titolarità di una proprietà fondiaria immobiliare in capo almeno ai più autorevoli clienti delle varie gentes, tale appunto da permettere la loro iscrizione in altre tribù. Ciò però renderebbe superflua la concessione di terre gentilizie a questi clienti: concessione in cui si ritiene invece si sia sostanziato lo stesso rappor to di clientela, e che, comunque, deve aver costituito da sempre il supporto economico della fides dei sottoposti verso i gruppi gentilizi. A meno che non si ritenga piuttosto che i clienti siano stati inquadrati in altre tribù territoriali al fine di ottenere in questo modo la proprietà di lotti di terra 'libera' appar tenente a tali tribù(36). L'ipotesi però non sembra trovare alcun fondamento nelle testimonianze antiche e finisce addirittura col capovolgere la logica che, comunque, parrebbe ispirare la distribuzione dei cittadini romani in tribù ter ritoriali. Essa non sarebbe avvenuta in base alla distribuzione della loro pro prietà nell'ambito territoriale delle varie tribù, ma, al contrario, facendo piut tosto discendere l'acquisizione della proprietà di nuova terra al loro interno dall'appartenenza dei cittadini a queste stesse tribù. Un'ipotesi francamente abbastanza improbabile. Come ho già accennato, è invece mia opinione che, in linea generale, la maggior parte della ricchezza fondiaria dei membri delle varie gentes restas se concentrata in aree territoriali omogenee, in una linea di continuità che va dai pagi arcaici alle prime tribù rustiche. E ciò indipendentemente dal rap porto, destinato a modificarsi nel tempo, fra territorio gentilizio ancora in comune e singoli lotti in proprietà quiritaria. È questo il sistema che, nelle sue grandi linee, si ripropone nel caso della venuta dei Claudii in Roma, nelle forme che le varie testimonianze degli antichi ci riferiscono. In tal caso infat ti l'insieme degli heredia attribuiti a tutti i membri della nuova gens si con= (35
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> Ross TAYLOR, 1960,298. j (36) A ciò in effetti farebbe pensare la stessa, Ross Taylor impiegando in proposito l'espres sione 'available'.
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centrò nel territorio trans Anienem, che costituirà, almeno in parte, l'area della corrispondente tribù. Certo, la logica stessa della ripartizione dei proprietari fondiari fra le tribù rustiche permetteva che il singolo pater potesse trovarsi separato dalla sua gens, nel caso in cui egli avesse in precedenza acquisito altre proprietà fondiarie al di fuori della circoscrizione originaria. Ma questa ipotesi dovreb be prevalentemente riguardare i più autorevoli e ricchi fra i gentili, in grado di procacciarsi nuove proprietà in modo autonomo, piuttosto che i clienti, come immaginato dalla Ross Taylor. Quanto poi alle considerazioni della studiosa circa lo squilibrio riscontrabile fra una gente potente come i Fabii e la dimensione ristretta della corrispondente tribù, ci si deve richiamare alle considerazioni prece dentemente avanzate a proposito dei pagi, che evidenziano questa discre panza, ma nel senso opposto. E infatti evidente, dato il numero circoscrit to di tribù territoriali e il ben più elevato numero delle gentes ancora vigo rose in Roma tra la fine dell'età monarchica e gli inizi della repubblica cui deve aggiungersi un ancora più elevato numero di proprietari fondiari, estranei alle strutture gentilizie, di rango 'plebeo' - , che l'area territoriale della singola tribù ricomprendesse le proprietà fondiarie di più gentes e di un certo numero di cittadini ad esse estranei. Sotto questo profilo, il nuovo sistema delle tribù introduce una forma organizzativa della popolazione che tende ad allontanarsi dagli schemi gentilizi ed è, potenzialmente alme no, ad essi antagonista (anche se, non solo per la denominazione, dalla ancor forte presenza della genti non può prescindere). Come del resto, almeno secondo la nostra concezione, la stessa espansione del dominio quiritario, fondamento del sistema delle tribù, appare operare nella mede sima direzione, in funzione di un assetto 'più moderno' della società agra ria romana. Ma, appunto, vi sono probabilmente terre in dimensioni pres soché eguali a quelle ricomprese entro i distretti delle tribù territoriali e che ad essi sono estranee perché non oggetto di dominium ex iure Quiritium.
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9. La leggenda dei Claudi e il territorio della tribù rustica Sebbene lo schema sinora seguito - le tribù rustiche identificate con le terre in proprietà quiritaria, lasciando al di fuori tanto le antiche terre comu ni delle gentes, che subiscono un processo di progressiva erosione a favore dei nuovi modelli proprietari, quanto la nuova figura delVager publicus appaia senz'altro il più verosimile, non si può neppure escludere del tutto che la dissoluzione delle terre gentilizie si sia invece verificata all'interno della tribù rustica. In questa infatti, stando almeno alle valutazioni dei moderni stu diosi - ai nostri occhi peraltro non del tutto giustificate - sembrerebbero sus sistere alcuni elementi comunitari. Ancora di recente L. Ross Taylor citava infatti la probabile presenza di una proprietà della tribù e, soprattutto, quella di sepolcri della tribù stessa(37). Accogliendo quest'ultima indicazione, non si può non accostarla ai sepolcri gentilizi,ricordatianch'essi dagli antichi, e anco ra attestati dalla tradizione(38), ai quali potrebbero essere aggiunti anche i ricordi, c37,
In verità su queste proprietà comuni si può esprimere qualche riserva. In effetti resta qual che dubbio che l'iter privatimi tribus Camilliae (DEGRASSI, ILLRP, n. 488) possa attestare in modo univoco la esistenza di una terra della tribù Camilla, come sembrerebbe essere orienta ta a ritenere la Ross TAYLOR 1960, 14 s. e nt 34, sulla scorta peraltro dello stesso autorevole parere di Degrassi. Suirambiguità della qualifica di 'privato' riferita ad un iter, senza ulterio ri qualificazioni, si veda CAPOGROSSI, 1976, 65 ss., 197 ss. Forse troppo recise, anche se rela tivamente probabili, appaiono le mie conclusioni di p. 220: se accolte confermerebbero però Γ interpretazione della Ross Taylor. In questo caso, comunque, ci si troverebbe di fronte ad una situazione abbastanza particolare che non mi sembra corrispondere appieno a quelle forme comunitarie su cui ci si viene qui interrogando. Quanto poi ai sepolcri comuni della tribù Pollià, occorre rilevare come la menzione delle epigrafi, relative effettuata da MOMMSEN, 1887, p. IX nt 1 (1889, VI.1, 215 nt 2) non comporti necessariamente siffatta interpretazione. Interpretazione che, in considerazione del dato testuale, può suscitare in effetti più di una per plessità. Degli altri testi epigrafici citati dalla Ross Taylor, sempre in ordine all'ipotetica tomba della tribù Pollia, mentre CIL, VI, 37945, appare poco pertinente, gli editori ribadiscono questa eventualità per CIL, VI, 37846. Interessanti appaiono anche CIL, VI, 38125 e 38460, la cui per tinenza a dei colombari potrebbe in effetti conciliarsi con siffatta ipotesi, pur non potendosi con siderare un indizio definitivo in tal senso. Per questo motivo, infine, ritengo di dover sottolinea re la mia cautela verso formulazioni come quelle di ALFÒLDY, 1971,307 ss., che accentuano l'im postazione della Ross Taylor. Pure a malincuore, dato il deciso orienamento in senso 'collettivi sta' di questo contributo su cui sostanzialmente concordo, ritengo di dover riconoscere che, allo stato, non si possa affermare con sicurezza l'esistenza di una «collective landed property of the tribes, which is attested». Questa proprietà è possibile, ma non certa, come invece ritiene l'auto re (ibid, p. 307), senza peraltro dame alcuna giustificazione ulteriore. i38) Sui sepolcri gentilizi, ben diversamente (e meglio) attestati di quelli comuni alla tribù, si rinvia ai contributi di FRANCIOSI, 1984,37 ss., 45 ss.; 1992,113 ss., e infine 1999, 301 ss.
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giustamente evocati ancora di recente da Franciosi*39*, di centri di riferimento della gente, di loca munita, che potrebbero essere l'ultima traccia di aree terri toriali compatte sotto il loro controllo. Ciò, naturalmente, non porta alla identi ficazione di queste strutture territoriali gentilizie con la formazione delle tribù rustiche: su tali aspetti è indispensabile la massima cautela e precisione. Resta tuttavia il fatto che, nell'episodio dei Claudi noi incontriamo insieme la menzione di un territorio compatto assegnato al nuovo gruppo gentilizio, l'esistenza di un sepolcro gentilizio e, infine, il conseguente con figurarsi di una nuova tribù territoriale che dalla gens, per l'appunto, trae il suo nome e che, ovviamente, alla gente appare quindi associarsi strettamen t e ^ fy[a i'interesse dell'episodio trascende la pure importante evidenza in ordine al possibile rapporto sussistente tra la formazione delle tribù rustiche e insediamenti gentilizi, per investire piuttosto la questione centrale qui affrontata, relativa al rapporto fra le antiche terre gentilizie e le nuove tribù territoriali. All'uopo converrà tornare a considerare la leggendaria distribu zione di heredia ai cinquemila seguaci di Appio Claudio. Leggendario, h verità, è proprio questo numero che non corrisponde affatto a quanto sappia mo sui complessivi livelli demografici di Roma e delle altre comumità dell'Italia centrale fra il VI e il V secolo e sulla consistenza delle altre gentes romane, come appare all'interno della stessa tradizione storiografica che ci propone quella cifra cosi elevata di membri della gens Claudia. Mi sembra, tuttavia, che il caratterefittizioe apparentemente esagerato di questo numero di cinquemila heredia assegnati ai seguaci di Appio(4,) celi un significato che non sempre risulta adeguatamente sottolineato dagli storici moderni. Miriferiscoalla pregnanza e alla sostanziale plausibilità delle dimen sioni così implicitamente evocate per l'estensione del territorio della tribù (39)
Cfh Varr. ling. Lat., 5.46, che parla appunto dei 'luoghi sopraelevati' controllati da diverse, numerose genti, mentre i Caelii dovevano scendere in planarti, essendo le alture tutte già occupa te. Ben nota è la turhs Mamilia (cfr. Paul.-Fest, s.v. Mamilia turris [LINDSAY, 117]; e Fest, s.v. October equus [LINDSAY, 190]; e DESSAU, ILS, n. 7242 [CIL, VI, 33837]), come anche la fortez za dei Valeri appare ampiamente menzionata nelle fonti. Su ciò cfr. FRANCIOSI, 1992, 107. (40) Cfr. Liv., 2.16.5; Dion. Hai., 5.40.4; e soprattutto Serv., Aen., 7.706. Sull'episodio v. anche supra, cap. Ili, § 5. (41) La ricorrenza di questo numero anche a proposito della spedizione dei Fabi al Cremerà (Paul.-Fest, s.v. Scelerata porta, [LINDSAY, 451]) lascia, sotto questo profilo, ancora più per plessi: cfr. DE SANCTIS, 1907,223; 1907a, 123.
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Claudia, che corrisponderebbe a venticinque chilometri quadrati. Proprio alla luce di quanto sappiamo ο immaginiamo circa l'estensione complessiva del ter ritorio romano agli inizi della repubblica, nell'epoca in cui vennero istituitale prime sedici tribù rustiche, possiamo renderci conto della singolare congruità delle possibili dimensioni della tribù Claudia, su cui di recente alcun&piu diret te indicazioni possiamo ricavare dalle indagini di Lorenzo e StefaneHa Quilici dedicate al territorio di Fidene(42). È pur vero infatti che da parte di altri autori si è supposta una dimensione media delle prime tribù intorno ai cinquanta chilometri quadrati: il doppio di quelli che potremmoricavaredalla tradizio ne relativa ai Claudii(43). Ma tale valutazione è precisamente il risultato di quella deformazione che ho già sottolineato, volta a identificare l'intero ter ritorio romano con la somma delle tribù rustiche, e incapace quindi di dare conto adeguato deWager publicus e delle terre, come quelle comuni delle gentes, sottratte alla proprietà quiritaria(44). Se parlavo di 'congruità' a proposito delle dimensioni territoriali quali emergono dall'episodio dei Claudii, ciò deriva dal fatto che da esse - sia pure in modo affatto rudimentale, data la evidente irregolarità quan titativa delle aree corrispondenti alle singole tribù - si ricaverebbbe una sostanziale parità fra terre in proprietà individuale e terre restate indivise (senza ora discutere circa lo specifico regime di queste ultime: cui posso<42) Cfr. QUILICI, 1986,42 s., 385 ss., 391 s., 394 s., 397, con ampia utilizzazione della più recen te letteratura sulFargomento. Forse non pienamente condivisibile la tendenza, che mi sembra affiorare in queste pagine, ad associare cronologicamente la stessa migrazione dei Claudii alla costituzione della tribù, in conformità peraltro, come ben sappiamo, con le fonti antiche. (43) Cfr. in tal senso Ross TAYLOR, 1960, 38, che si richiama sul punto ai calcoli di Beloch. In effetti BELOCH, 1926,620 s., analizzando l'espansione territoriale romana in Italia, traccia una serie cronologica il cui punto di partenza è dato dall'estensione delle sedici tribù rustiche (822 Kmq) cui somma i 50 Kmq di Fidene, i 37 di Ficulea, i 39 deWager Clustuminum e, infine, i 562 deWager veiente, per giungere alla somma di 1510 per il territorio romano all'epoca della catastrofe gallica. Non ci sembra d'altra parte che, in sedes materiae, l'illustre storico tedesco abbia ulteriormente precisato questa piena identificazione dell'originario territorio romano con le aree di pertinenza delle sedici tribù rustiche (cfr. p. 169 ss., 200 ss.), per cui si può almeno dubitare della portata precisa delle indicazioni contenute a p. 620. (44) Gran parte delle più recenti valutazioni sembrano ispirarsi ai calcoli di Beloch. Cfr. Ross TAYLOR, 1960, 38 e nt 8. La letteratura, sul punto è, ovviamente, assai ampia: mi limiterò ad aggiungere la menzione delle prospettive parzialmente divergenti di ALFOLDY, 1971, 296 ss. Altra bibliografia in AMPOLO, 1980,28 e nt. 66, dove peraltro mi sembra sia da correggere, a proposito delle valutazioni di Beloch, il riferimento alla «fine della repubblica» con la «fine della monarchia», trattandosi appunto delle prime sedici tribù rustiche.
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no senz'altro applicarsi anche le mie particolari ipotesi circa la natura dei primitivi agri gentilizi). In ogni caso si rimane sempre all'interno delle cifre complessive relative al territorio romano agli inizi della repubblica, che ricaviamo dai calcoli di Beloch, se teniamo ferma, accanto ai venticinque chilometri quadrati di terra assegnata in proprietà individuali, un'uguale proporzione di territorio comune e di ager publicus. La successiva raziona lizzazione delle antiche tradizioni relative alla migrazione dei Claudii, col legando l'evento con l'istituzione dell'omonima tribù, dovette utilizzare allora un dato reale - l'estensione territoriale di questa - per ricostruire la consistenza numerica della migrazione stessa. Ci si richiamava così alla forse non fittizia assegnazione àsWheredium a ciascun nuovo cittadino: evento che, tuttavia, se mai si era verificato per i Claudii, dovette probabil mente proporsi in età anteriore alla costituzione della tribù Claudia. Da tutto ciò possiamo ricavare due conclusioni, sia pure con la cautela e la consapevolezza del loro carattere ipotetico, data la grande oscurità delle fonti antiche. In primo luogo, confermandosi la stretta e totale associazione fra tribù rustiche e terra in proprietà quiritaria, le antiche aree di terre gentilizie, insie me con la nuova figura di terra 'pubblica' in senso stretto e rivendicata come tale dalla plebe - destinata ad ampliarsi ulteriormente con il compromesso patrizio-plebeo del 367 - si situavano fuori e accanto alle terre delle tribù. La loro riduzione, sino alla scomparsa definitiva delle terre gentilizie, dovette comportare la crescita delle aree ricomprese nelle tribù territoriali. Un secondo aspetto da sottolineare - e ciò in sostanziale accordo con gli orientamenti già presenti nella nostra storiografia - è l'esigenza di far uso di grande cautela nella considerazione dell'episodio dei Claudii per giungere a conclusioni circa la composizione dei gruppi proprietari dell'interno della tribù. Sebbene infatti l'andamento immediato dell'episodio evochi una sostanziale identificazione di questi con i membri della gens Claudia, né lo stesso dato testuale, né, soprattutto, il nostro complessivo quadro ricostrutti vo ci permettono di muoverci con decisione in tal senso. L'idea infatti di una fusione cronologica della migrazione con l'istituzione della tribù ci può orientare verso una diversa rappresentazione. Dove appunto, anche in questo :aso, i proprietari fondiari appartenenti alla gens dovettero costituire, con i
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loro campi, il nucleo centrale del comprensorio territoriale della tribù, che tuttavia era venuto abbracciando anche terre in proprietà di cittadini estranei alla gente, secondo quella dinamica e quei processi di stratificazione cui ho fatto cenno nelle pagine precedenti.
10. Guerre e territorio La venuta dei Claudii, seppure collocata in un contesto generale di guer re fra Romani e Sabini, costituisce un episodio in sé pacifico. Essa però adombra altri spostamenti, ancora più antichi, di popolazioni della città inve stite dalla prima espansione di Roma in età monarchica e da questa distrutte: città evidentemente più 'deboli' e meno consolidate nella struttura cittadina, sovente oppiaci e comunità minori, di cui solo restano tracce a vari livelli: dalla sfera sacrale alla peculiare condizione del loro antico territorio, ο a livelli ancora più vaghi nella successiva tradizione. E tuttavia appare eviden te, nella memoria storica dei Romani, l'importanza di questi processi. È attra verso di essi infatti, e in virtù di una sistematica attività bellica, che Roma è in grado di realizzare una crescita territoriale e demografica, con il conse guente ampliamento della sua base produttiva, ben superiore ai saggi di cre scita garantiti dallo sviluppo demografico naturale e dalla conquista pacifica di nuove terre all'agricoltura. Ma su tutto ciò ci siamo già intrattenuti nel corso del primo capitolo. Questa considerazione ci riporta nuovamente all'annotazione circa la stretta associazione che la storia arcaica della città sembrerebbe presentare fra i problemi della distribuzione e dello sfruttamento della terra cittadina e le conquiste militari. Ho già accennato a Spurio Cassio e al suo duplice ruolo di garante del nuovo equilibrio romano-latino, realizzato successivamente agli anni oscuri e confusi seguiti alla caduta della monarchia, e di autore di un progetto di legislazione agraria che segnerà la prima storia repubblicana. In proposito non si deve dimenticare come la crisi politica di Spurio Cassio e la sua rovina siano associate all'offensiva condotta contro di lui dai patrizi a seguito della sua proposta di far partecipare anche i nuovi alleati, gli Ernici,
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alla divisione della terra agraria recentemente acquisita dai Romani(45). Ci troviamo difrontea un episodio che presenta lati oscuri: non solo per la diversa versione delle fonti antiche a proposito della caduta di Cassio, ma anche per le stesse circostanze in cui le sue proposte si collocano. Neppure le terre cui esse si riferiscono appaiono individuate con chiarezza. Più di un dubbio si può infatti nutrire a proposito della versione di Dionigi, allorché sembra riferirsi alla distribuzione di quelle stesse terre strappate allora dai Romani agli Ernici, una parte delle quali, secondo le intenzioni di Cassio, avrebbero dovuto essere così riconsegnate agli antichi signori in virtù della loro nuova alleanza con i Romani(46). In verità il contesto internazionale in cui si colloca il Foedus Cassianum e la sua immediata estensione agli Ernici non fa pensare a nuove crescite ter ritoriali di Roma. Esso infatti coincide con una fase di crisi politica e di dif ficoltà militari: molta dell'influenza già raggiunta sotto i re etruschi, attesta ta ancora nel primo trattato fra Roma e Cartagine, restava più come pretesa che come effettiva realtà riconosciuta dai vicini. Gli stessi particolari che por teranno alla condanna di Cassio appaiono tutt'altro che evidenti: sia sotto il profilo formale, sia, soprattutto, per quanto concerne l'attribuzione a Cassio di un ruolo ambiguorispettoagli interessi romani, orientato piuttosto a favo rire i nuovi alleati. Sotto questo profilo resta il dubbio che, in tale rappresen tazione, abbia gettato un'ombra determinante la memoria del rapporto di Caio Gracco con gli Italici. Il punto centrale, comunque, che si ripropone nel corso di tutto il V secolo e che, pertanto, non può essere eluso, è costituito dal rapporto fra l'e spansionismo territoriale romano e l'acutizzarsi del conflitto patrizio-plebeo intorno alla destinazione del nuovo demanio agrario. Perché, a mio giudizio, l'antico contenzioso intorno alla terra controllata in modo esclusivo dalle (45
>Cfr. Liv., 2.41; Dion. Hai., 8.69 ss. (in particolare 8.71.5-6; 8.72.2-3; 8.74.2-3). Cfr. Dion. Hai., 8.68.2-3: sull'assoggettamento degli Ernici da parte di Spurio Cassio e sulla loro successiva alleanza (dove però non si parla di terre tolte loro dai Romani, ciò che invece è ricordato in Liv., 2.41.1), con l'estensione del foedus con i Latini: Dion. Hai., 8.69.2. La distribuzione dclYager publicus romano anche agli Ernici, in applicazione appunto del foe dus allora concluso, è infine ricordata in Dion. Hai., 8.69.4 e in Liv., 2.41.6. Quest'ultimo ne sottolinea il carattere quasi di restituzione rispetto alla precedente espropriazione effettuata dai Romani: quid attinuisse Hernicis, paulo ante hostibus, capti agripartem tertiam reddi, nisi ut eae gentes prò Coriolano duce Cassium habeant (46)
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genti e dai loro clienti fa da sfondo all'effettivo nodo politico. Se infatti per territori di antica occupazione, e da tempo nelle mani delle genti patrizie, 1J pretesa plebea, pur formalmente ribadita, doveva senz'altro essere men acuta, diversa era la situazione per le nuove conquiste. In Livio e in Dionigi questo nessofraguerra e lotte intorno alla terra app* rericorrente.Non solo perché è continuamenteribaditala lamentela dei plebe esclusi da quelle terre la cui conquista è avvenuta con la loro partecipazione il loro sangue. In alcuni passi sembra quasi delinearsi una distinzione fra 1 terre in legittima proprietà dei plebei e quelle strappate ai nemici e in possess dei patrizi(47). Di contro, a più riprese, i tribuni della plebe cercano di forzar l'opposizione dei patres alla divisione e assegnazione delle terre pubblichi bloccando le attività necessarie alla leva dell'esercito da schierarsi contro 1 minaccia nemica(48). È infatti di fronte a nuove guerre e alla conseguente previ sione di nuove conquiste territoriali che la plebe si irrigidisce e sirichiamaζ contenzioso apertosi negli anni di Spurio Cassio e ancora irrisolto. La pleb vuole cioè garanzie che, di fronte al suo crescente impegno militare nell'esei cito centuriato e ai costi conseguenti, non siriproponganoi meccanismi acqui sitivi che hanno assicurato la preponderanza delle genti patrizie nel controllo d gran parte dell'aver Romanus. Di qui la cadenza che sembra segnare tutto il > secolo con un andamento parallelo fra le conquiste belliche e larichiestad distribuzione delle terre così conseguite(49), sino alla conquista di Veio. Agli inizi del nuovo secolo - quello in cui maturerà il definitivo supera mento del conflitto ora accennato - la situazione di stallo, che aveva caratte rizzato l'età precedente, muta in modo radicale. Non sappiamo quanta terr acquisita da Roma con la vittoria su Veio sia andata ad incrementare i pos sessi patrizi degli agri non divisi e assegnati in proprietà quiritaria. Ma sap piamo che la parte di territorio divisa e assegnata è stata così rilevante da fa conseguire a tutti i cittadini romani la proprietà di un nuovo modello di uniti fondiaria costituito dai septem iugera^. <47>Cfr. in particolare Liv., 4.48.2 e 51.5; Dion. Hai., 4.9.9, 8.70.5, 10.36.2, 10.37.4. w»Cfr, per esempio Liv., 4.53.6; Dion. Hai., 9.5.1, 10.43.1-2. (49) Cfr. per esempio Liv., 4.47.6, ma gli episodi sono ben più numerosi. (50) Liv., 5.30.8: adeoque ea Victoria {sciL: su Veio) laeta patribus fiiit, ut postero die refe rentibus consulibus senatus consultum fieret ut agri Veìentani septena iugera plebi divideren tur nec patribus familiae tantum, sed ut omnium in domo liberorum capitum ratio haberetur,
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Con questa unità poderale, dagli antichi immediatamente riferita alla 'plebe' e che, in effetti, segna la piena affermazione dei modelli proprietari da leirivendicati,le antiche caratteristiche dell'organizzazione agraria, il tipo di integrazione di terre regolate da un diverso regime giuridico, la persistenza delle antiche forme comunitarie appaiono tutti fenomeni ormai obliterati dalla piena affermazione di quella piccola proprietà contadina autosufficiente, eventualmente integrata dal sistema ancora vitale - anzi, diremmo, ora più che mai vitale proprio in funzione di quest'ultima - del compascuo. È questo il modello che esprime sin dagli inizi del IV secolo la vittoria plebea, consacrata definitivamente qualche decennio più tardi con la lex Licinia de modo agrorum, e che appare destinato a plasmare l'intero assetto agrario nell'età della piena fioritura della repubblica. È il modello su cui il nuovo blocco patrizio-plebeo viene fondando le strutture politiche e militari della città nel momento in cui si accentua, anche a seguito della pacificazio ne dei due ordini, la spinta espansionistica: esso ne assicurerà la prolungata tenuta sino all'età di crisi e di trasformazione che seguirà alla guerra anniba lica e alle conquiste mediterranee. Quando ormai la figura del vir bonus colendi peritus sarà evocata come nostalgia per il passato e come valore da conservare, pure in condizioni affatto mutate, per il presente.
vellentque in eam spem liberos tollere. La traduzione è la seguente: «I senatori furono cosi feli ci per questa vittoria che il giorno successivo, su proposta dei consoli, deliberarono che dalle terre di Veio fossero assegnati sette iugeri a ciascun plebeo: e non solo ai patres familias [cioè coloro che, soli, secondo l'antico ius civile potevano essere titolari della piena proprietà che da tali assegnazioni sarebbe derivata] ma calcolando anche tutti i figli di famiglia, affinché tutti fossero indotti ad allevare figli».
Capitolo VII 'Ager publìcus ' e 'ager gentilicius ' nella riflessione storiografica moderna
1. Il punto di partenza Cercherò di dare un quadro abbastanza esauriente, anche se sintetico, degli schemi ricostruttivi proposti dagli storici ottocenteschi, sulla scorta delle non troppo numerose indicazioni degli autori antichi circa il rapporto esistente nell'età arcaicafragentes e terra coltivabile. I punti di forza mi sem brano essenzialmente quattro: a) esiste la gens che è titolare di un territorio di sua pertinenza, che si può identificare nella terra gentilizia; b) tale territo rio è integrato dall'appropriazione di ampie quote di ager publìcus'che appa re monopolizzato, sino a tutto il V sec. a.C, dall'aristocrazia gentilizia e dai suoi clienti; e) i plebei sono esclusi, almeno di fatto, dallo sfruttamento di questo tipo di ager-essi quindi ne richiedono la divisione e assegnazione in proprietà privata. Con le leggi Licinie Sestie però la pacificazione fra i due ordini è raggiunta con la prescrizione di un limite massimo alle appropria zioni di ager publìcus da parte dei privati e forse con una esplicita ammis sione dei plebei al suo sfruttamento; d) le terre pubbliche acquisite dalla sin gola gens e Υ ager gentilizio sono lavorate con l'ausilio di un gruppo dipen dente rappresentato dai clienti, che vengono compensati per i loro servigi (anche politici e militari) con l'assegnazione di piccoli lotti di terra da sfrut tare individualmente, ritagliati dagli agri sopra citati.
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Accanto all'a. publicus - ma non sempre da esso chiaramente distinto si pone dunque il vero e proprio ager gentilizio. A sua volta non è chiaro se quest'ultimo sia oggetto di una signoria peculiare della gens concepita come organismo unitario ο non consista nella semplice sommatoria delle proprietà individuali (heredid) dei singoli patres familias appartenenti allageras. Nel primo caso si avrà addirittura un triplice regime della terra: ager publicus, ager gentilizio ed heredia in piena proprietà individuale, nel secondo caso si dovrà invece identificare la seconda con la terza figura. Non mi fermerò in questa sede a ribadire la diversa tesi da me già soste nuta secondo cui sarebbe piuttosto da identificare Va. gentilizio con Γα publicus®. Anche al fine di renderci meglio conto della legittimità di un'ipo tesi siffatta, converrà piuttosto approfondire il tipo di analisi sviluppata nella nostra tradizione storiografica, che ha portato alle alternative precedente mente esposte e che si riflettono poi sulle ipotesi relative alla genesi di alcu ni importanti istituti privatistici. Ricorderò a tale proposito come lafiguradel precarium sin dal Savigny e dal Niebuhr sia ricondotta alle concessioni di terra fatte dai gentili ai clienti(2). Egualmente è ben nota l'ipotesi che gli inter detti possessori avessero trovato una prima applicazione nella tutela delle appropriazioni di a. publicus e fossero sorti in funzione di ciò. Anche su que sto punto è al binomio Savigny - Niebuhr che varicondottatale ipotesi(3). Ora proprio questo filone che ai due grandi nomi qui citati si riconduce ha pesato in modo decisivo sulla successiva tradizione storiografica. Ed è un peso che, per un certo verso, mi sembra costituisca ancora oggi un limite alla piena comprensione della natura effettiva delle forme di appropriazione della terra in Roma nell'età arcaica e al tipo di trasformazione da esse successiva mente subito. È proprio in virtù di tale impostazione infatti che i tipi di signoria sul-
(,)
Cfr. supra, cap. V, § 3 ss. Rinvio su questo punto all'esauriente esposizione di ZAMORANI, 1969, 15 ss. « Cfr. B. G. NIEBUHR, 1853, 436 e nt. 316, 438, (1830, III, 200 s. e nt. 316, 204), dove si fa esplicito richiamo, per questa ipotesi, al Savigny. V. anche SAVIGNY, 1865, §12a, 198 s. (1870, 179 s.). Gli intensi rapportifraSavigny e Niebuhr sono attestati sin dalla prima edi zione dell'opera niebuhriana, dove già appare la succitata interpretazione dell'origine del l'interdetto utìpossidetis e dove si menziona già Savigny: cfr. NIEBUHR, 1812, II, 370 ss. e nt. 88. p)
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Va. publicuus finiscono con l'essere rappresentati in termini unitari nel tempo e sono quindi ricondotti agli schemi individualistici della possessio. Con il che, per l'età più risalente in Roma, proprio mentre si riconosce il preminen te rapporto fra a. publicus e organizzazione gentilizia, si perde poi la possi bilità di interrogarsi sull'esistenza di meccanismi atti ad assicurare alle gentes una signoria su tali terre non di carattere individuale ma più aderente alla natura unitaria e 'collettiva' che li caratterizza. L'ipotesi del Niebuhr e del Savigny infatti, col ricondurre la genesi degli interdetti possessori alla tutela àéiVa. publicus, non evidenziava la possibilità di una cesura nella pur lunga storia del regime giuridico di questo tipo di terre. Al contrario, nel Niebuhr soprattutto, essendo essa affacciata nel corso di una trattazione relativa ad una età molto risalente quale il V sec. a.C.(4), poteva sorgere facilmente l'idea di una continuità nelle forme ài possessio di tale ager almeno per tutto il corso dell'età repubblicana: dall'epoca di Spurio Cassio a quella postgraccana. Una rappresentazione così esplicitamente 'con tinuista', come ho già accennato, non poteva che associarsi all'idea di una appropriazione dell'a publicus arcaico secondo forme individualistiche pro prie appunto degli istituti del diritto privato romano. L'elemento di debolezza di tale ricostruzione non è dunque costituito dalla complessiva ipotesi niebuhriano - savigniana relativa alla genesi e all'o riginario ambito di applicazione degli interdetti possessori, che, su questo punto specifico, appare ancor oggi del tutto plausibile. Ciò che invece, come ho già accennato, appare inaccettabile è la tendenza a proiettare all'indietro, sin dalla fase iniziale, siffatta condizione dell 'a. publicus, oscurando in modo a mio giudizio definitivo il rapporto fra questo e le gentes. Ma converrà ora allargare l'analisi e approfondire la riflessione condot ta dal Niebuhr sulle arcaiche forme di sfruttamento della terra, al fine di meglio valutare la successiva vicenda della storiografia ottocentesca. Riflessione, quella del grande storico tedesco, sovente richiamata in modo generico, ma quasi mai adeguatamente indagata, ai nostri giorni e sui nostri temi, nella sua complessità, se non nella sua intrinseca difficoltà. (4) I testi ricordati nella nota precedente appartengono alla trattazione dedicata dal Niebuhr eli9 a. publicus, che introduce l'analisi delle vicende relative a Spurio Cassio ed al conflitto fra patrizi e plebei nei primi decenni del V sec. a.C.
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2. Il modello niebuhrìano Per l'età delle origini Niebuhr parte dalla tradizione antica che attribui sce al fondatore stesso della città una distribuzione della terra parallela a quella della popolazione*5*, in un sistema che va dalla tribù alle curie, sino alle singole gentes e alle centurie territoriali. Egli quindi, ponendo come è noto in
(5) Forse il testo più significativo, per quanto concerne il rapporto fra divisione della popolazio ne e la terra è costituito da Dion. Hai., 2.7.2-4 (ma v. anche Varr., lìng. Lat., 5.55) dove si descri ve laripartizioneeffettuata dallo stesso fondatore della Città. Romolo, una volta suddiviso il popo lo in tre tribù e trenta curie, avrebbe provveduto aripartireuna parte del territorio cittadino in tren ta parti uguali, ognuna attribuita ad una curia della popolazione. Le altre due parti del territorio romano non distribuite da Romolo restavano destinate ai templi l'una, l'altracome terra comune. L'organico collegamento fra curie di popolazione e terra agricola appare ulteriormente definito dallafiguradegli heredia: i lotti di due iugeri ottenuti dai singoli cittadini a seguito della distribu zione romulea (cfr. Varr., re rust, 1.10.2; Plin., nat. hist., 18.2.7, e soprattutto PauL-Fest, s.v. Centuriatus ager, (LINDSAY, 47); con il che diveniva fra l'altro immediato il rapporto (del resto esplicito nel testo di Festo) fra centurie territoriali e le trenta curie in cui era divisa la cittadinanza romana Questo collegamento fra le unità di cento uomini e le aree di duecento iugeri lo troviamo espressamente formulato nei Gromatici: cfr. Hig., limit. (LACHMANN, 110.4); Sic. Flacc, cond. agn (THULIN, 117.26-118. 2 = LACHMANN, 153.26-30). Si deve comunque adeguatamente valutare la diversa interpretazione dell'originario significato del termine centuria, che incontriamo in Varrone, ling. Lat., 5.35 e poi in Columella, re rust., 5.1.7, sino ad Isidoro di Siviglia, orig., 15.15.7, come giustamente ha sottolineato SCHULTEN, 1900,189: cfr. però CASTAGNOLI, 1955, 8. L'associazione delle curie con le centurie territoriali nella storiografia moderna appare sostanzialmente recepita, sin dalla ricostruzione del Niebuhr. Rinviando alle note seguenti per una più attenta verifica delle posizioni di questo autore, mi limiterò a citare qui alcuni altri nomi come KUBITSCHEK, 1960, e soprattutto HUMBERT, 1877,138 s. e 1887,1917. In questi studiosi quasi mai, una volta asserito il collegamento fra centurie territoriali e curie, appare approfondito il problema dell'oiganico com plessivo di tali curie. Altri autori invece, come SCHULTEN, 1900, 189, si limitano più cautamente ad associare la centuria territoriale a cento uomini, evitando di identificare senz'altro questo con la totalità della curia. Altri infine sembrerebbe ugualmente muoversi in questa ottica, assumendo che la distribuzione romulea dei bina iugera sarebbe la mera anticipazione di una realtà in vigore per la fondazione di colonie in epoca più tarda DE RUGGIERO, 1900,437. Il punto debole dell'i potizzato organico collegamento fra curie e centurie territoriali è costituito appunto dall'esigenza di individuare un organico di cento beneficiari della distribuzione romulea per ogni curia. Ora è vero che questo poteva appunto essere l'organico militare fornito da ogni curia: ma è anche vero che, sin dal primitivo ordinamento cittadino, sussiste una radicale scissione fra ruolo politico (e quindi militare) del civis e suarilevanzadal punto di vista del diritto privato. Scissione, se non ten sione, che è poi quella che separa le strutture del nascente stato cittadino dal sistema familiare romano: la contrapposizione fra la città-stato, insomma, e le più antiche forme politico-familiari (o gentilizie?). l'proprietari', come ben sappiamo, sono sin dall'età più risalente - e lo resteranno poi per tutta l'età classica, malgrado gli allargamenti successivi - solo le persone sui iuris, i patres familias. Ora, se la terra fosse stata distribuita in origine nel rapporto di una centuria (100 here dia) per ogni curia, si dovrebbe immaginare, come ho già accennato, che tale distribuzione pren desse in considerazione i cento uomini armati forniti dalla curia. Ma non si
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relazione il Senato di cento membri e la originaria città dei Ramnes, tende a iden tificare questa con un'unica tribù, accresciuta solo in seguito, con la fusione di nuovi gruppi etnici, sino alla struttura tripartita, attribuita invece da Dionigi allo stesso Romolo(6). D'altronde, come ben sappiamo, per il Niebuhr, della primitiva città fanno parte solo le genti patrizie: la comunità plebea si forma, anche fisica mente, fuori della civitas arcaica™. Poiché quindi populus e patriziato, in origine, si identificano, ecco che Yager diviso fra le curie e quindi assegnato ai singoli gentili - a. publicus nel senso che è del populus in quanto tale - appare di perti nenza esclusiva di coloro che verranno annoverati fra i patrizi. Due sono gli elementi costitutivi di questa rappresentazione: da una parte l'esistenza delle tribù come organismi unitari, e in origine autonomi, ricompresi solo nel corso del processo storico all'interno di una comunità più ampia, la civitas, dall'altra, per l'età piùrisalente,l'identificazione del populus con le genti patrizie. Da ciò Niebuhr si spinge verso una più complessa ricostruzione di cui cercherò di delineare la non facile architettura. Il passaggio centrale, per quanto concerne il rapporto fra l'organizza zione territoriale primitiva e l'ordinamento cittadino è costituito da un nucleo fondamentale contenuto nel secondo volume della sua opera e già presente, in una prima formulazione, nella prima edizione del 1812(8). In esso Niebuhr, partendo dalla tradizionale narrazione della divisione romulea della terra, accerta la corrispondenza del territorio di ogni curia ad una centuria: corri spondenza che, come ho già indicato in precedenza, resterà un punto abbapuò supporre che tale organico fosse composto solo ààpatresfamilias e non invece, addirittura in maggioranza, da giovani ancora sottoposti dW&potestas del padre. Si dovrebbe quindi concludere che, volendo tener fermo l'originario rapporto fra curie e centurie territoriali (ma di questo, appun to, io dubito) il criterio di assegnazione dei lotti prescindesse dagli schemi privatistici'secondo cui solo i patres avrebbero potuto acquistare la proprietà di tali lotti. L'unica soluzione possibile, volendo difendere tale collegamento, finisce con l'essere costituita dagli schemi niebuhriani volti a interpretare le curie e le gentes come organismi sorti all'intemo della civitas, in modo artificia le e quindi legati ad un sistema numerico definito (dieci gentes per ogni curia e poi, come meglio evidenzierà ad es. Io Schwegler, dieci famiglie per gens)', soluzione che peraltro solleva almeno per un'età immediatamente successiva a quella delle origini cittadine, problemi assai gravi e appa rentemente insolubili. (6) Cfr. in particolare NIEBUHR, 1853, 164 ss., 168, 192 s. (1830,1, 408 ss., 416; II, 50 ss.). m Cfr. soprattutto NIEBUHR, 1853, 182 ss., 227 ss. (1830, II, 24 ss., 135 ss.). <8>Cfr. NIEBUHR, 1812, II, 349 ss. V. però la formulazione definitiva in NIEBUHR, 1853, 424 ss. (1830, III, 175 ss.) e in particolare il capitolo'dedicato alle assegnazioni di terre prima di Sp. Cassio: ibid, 445 ss. (1830, II, 209 ss.).
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stanza pacifico nella successiva tradizione storiografica. Il che, per la organiz zazione primitiva di Roma, permetterà di concludere che, «per ogni curia, si avevano cento famiglie», essendo uguale il territorio di ogni curia ed essendo il numero complessivo dei tremila guerrieri*9*. Non è facile capire fino in fondo il rapporto che Niebuhr stabilisce, rispet to ai processi di distribuzione della terra, fra le tre tribù e le curie. Incontriamo infatti da una parte alcune precise indicazioni nel senso di un ruolo centrale assolto dalle prime. In particolare dalla più antica tribù dei Ramnes, giacché, com'è noto, lo storico tedesco tendeva a concepire il sistema delle tre tribù (e di conseguenza delle trenta curie) come ilrisultatodi un processo di crescita che avrebbe tri plicato una struttura originariamente unica e che si identificava dunque air ori gine con l'intera comunità. È quindi comprensibile che i processi di distribu zione della terra abbiano fattoriferimentoalla più antica tribù che in origine coincideva integralmente, nella sua unità, con la comunità cittadina. Anche se, occorre aggiungere, tali sistemi di distribuzione fondiaria si riferivano egual mente all'altra unità organizzativa costituita dalle curie. In effetti, gli storici antichi(10) ricordano come Romolo non avesse distribuito tutto il primitivo ager romanus sotto forma di heredia alle ori-
wCfr. NIEBUHR, 1853, II, 440 (1830, III, 210). (,0) Mi sembra giunto il momento diriportareper esteso il testo di Dionigi così spesso richia mato, in queste pagine, nel quale si dà conto della distribuzione romulea Dion. Hai., 2.7.2-4: ην δε τοιόσδε* τριχή νείμας την πληθύν άπασαν έκαστη των μοιρών τον έπιφανέστατον επέστη σεν ηγεμόνα, έπειτα των τριών πάλιν μοιρών εκάστη ν εις δέκα μoίpαc διελών, ίσους ηγεμόνας κα\ τούτων απέδειξε τους άνδρειοτάτους* έκάλει δε τας μέν μείζους μoίpac τρίβους, TOC δ* έλάττους κουρίας, ώς και κατά τον ήμέτερον βίον έτι προσαγορεΰονται. εϊη δ' αν Ελλάδι Υλώττη τ ά ονόματα ταύτα μεθερμηνευόμενα φυλή μεν και τριττυς ή τρίβους, φράτρα δε και λόχος ή κουρία, και των ανδρών οι μεν TOC τών τριβών ήγεμovίac έχοντα φυλαρχοι τε και τριττύαρχοι, ους καλοΰσι Τωμάίοι τριβοΰνους* οι δε τάίς κουρίαις έφεστηκóτεc και φρατρίαρχοι και λοχαγοί, ους εκείνοι κουρίωνας όνομάζουσι. διηρηντο δε κάί εις δεκάδας ai φράτραι προς αυτού, κάί ήγεμών εκάστη ν έκόσμει δεκάδα, δεκου— ρίων κατά την έπιχώριον γλώτταν προσαγορευόμενος. ώς δε διεκρίθησαν άπαντες και συνετάχθησαν εις φυλάς κάί φράτρα*:, διελών την γήν sic τριάκοντα κλήρους ίσους εκάστη φράτρα κλήρον άπέδωκεν ένα, έξελών την αρκούσαν εις ιερά κάί τεμένη καί τίνα κάί τω κοινώ γήν καταλιπών. μία μέν αυτή διαίρεσις υπό Τωμΰλου τών τε ανδρών κάί της χώρας ή περιέχουσα την κοινή ν κάί μεγίστη ν ισότητα, τοιάδε τις ην. Ecco la traduzione: «suddivisa l'intera collettività umana in tre gruppi, pose a capo di ognuna delle treriparazioniΓ individuo che più si segnalava per fama: distinta poi ancora ognuna delle suddivisio-
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ginarie dieci curie, ma avesse conservato una parte della terra per scopi religiosi, lasciando infine una parte del territorio in comune a tutti. Ed è proprio a proposito di tale complessivo assetto territoriale che emerge, dalla tradizione degli antichi, il ruolo centrale assolto dalle tre tribù gene tiche. All'interno di ciascuna di queste unità organizzative della città Niebuhr individuava non solo l'assegnazione delle terre centuriate redi stribuite ai membri delle gentes in singoli lotti di due iugeri e di cui ci siamo interessati poco più sopra. Egli immaginava ancora che all'interno di ciascuna tribù si riproducesse la ripartizione fra i diversi tipi di terre descritta dagli antichi in ordine al primitivo assetto romuleo. Si trattava quindi della presenza in ciascuna tribù anche di un'area di terra di perti nenza dei templi e del re, oltre ad altro territorio restato in comune. In ogni tribù si aveva dunque un assetto territoriale che parrebbe presentare due elementi di diretto interesse per la vita delle gentes: le centurie di territo rio da una parte, le terre 'comuni' non divise dall'altra. Prendiamo dunque in esame anzitutto il rapporto fra organico delle curie e il sistema degli heredia nelle centurie di territorio. Sul punto partirò da un passaggio del testo di Niebuhr particolarmente illuminante. In esso si affer ma che «Vager romanus, in quanto proprietà delle gentes (il corsivo è mio) consisteva in tre regioni divise in trenta centurie», ovvero in «seimila iugeri di campi limitati»00. Lo schema numerico alla base di questa rappresentazio ne è chiaramente riferito al rapporto fra le trenta curie di popolazione e le trenta centurie territoriali a queste corrispondenti, secondo la versione tradi-
ni in dieci parti, assegnò analogamente anche a queste ultime come capi gli uomini più valorosi, chiamò leripartizionipiù ampie 'tribù* e quelle minori 'curie', secondo la denominazione che esse conservano anche al nostro tempo. [Questi vocaboli, ove tradotti in lingua greca, corrisponderebbero le tribù a 'file' e a 'trittia' e la curia a 'fratria' e a 'loco'. Gli individui, poi, preposti alle tribù, che i Romani designano come tribuni, corrisponderebbero ai 'filarelli' e ai 'trittiarchi', mentre quelli che sono a capo della curia, che (i Romani) chiamano curioni, corrisponderebbero ai 'fratriarchi'e ai 'locaghi'. Per sua iniziativa, lefratriefurono poi ulteriormente divise in dieci parti e governava su cia scuna di esse un capo, designato in lingua indigena con il termine di 'decurione'. Quando tutti furo no organicamente suddivisi in 'file' e 'fratrie',ripartitoil territorio in trenta lotti di estensione corri spondente, ne assegnò uno a ciascuna 'fratria'], dopo aver riservato ai templi e ai sacri recinti terreno in misura adeguata e aver lasciato anche del suolo disponibile per le necessità collettive. Tale fìi la ripartizione unitaria romulea sia degli uomini che del territorio, informato all'uguaglianza dei diritti generalizzata e più ampia». Su tale vicenda efr inoltre Plia, nat. hist, 18.2.6 e Plut, Rom., 273. (,I) Cfr. NIEBUHR, 1853,441 e 442 (1830, III, 212 s., 214).
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zionale che ho riferito in apertura di discorso. Il conseguente rapporto fra i cento heredia della centuria territoriale e i cento cittadini di ciascuna curia cui sono assegnati i bina iugera risulta mediato da un sistema organizzativo fon dato sulle strutture gentilizie: le curie e l'originaria tribù dei Ramnes. Per questo motivo Niebuhr appare spingersi sino a indicare la gens addirittura come la proprietaria dell'intero territorio su cui i lotti individuali - gli here dia - insistono. Forse, più che al modello tradizionale della proprietà romana, verrebbe fatto di pensare ad una forma di signoria 'eminente' delle gentes, che comun que rende assai difficile applicare lo schema del dominium ο il suo antece dente storico alla titolarità dell5heredium da parte del singolo cittadino. Per cogliere sino in fondo tale sfasatura fra lo schema privatistico della proprietà individuale esaltato dall'ordinamento decemvirale e da tutta la successiva evoluzione del diritto romano e il primitivo regime degli heredia romulei, soccorrono altre due osservazioni di Niebuhr. L'unariguardaappunto la intra sferibilità stessa degli heredia al di fuori della singola curia che conserva verso di essi, analogamente a ciascuna delle gentes ad essa appartenenti, una latente signoria02*. L'altra riguarda invece il carattere comunitario del rappor to fra la stessa curia e la sua centuria di territorio che appare oggetto di uno sfruttamento unitario ο che, comunque, presuppone un forte vincolo comuni tario03*. Se queste assegnazioni nella ricostruzione di Niebuhr, hanno come cen tro organizzativo e punto di riferimento unitario il sistema della tribù primi tiva, è anche vero che rispetto ad esse, poi, prende consistenza il ruolo delle minori unità di popolazione all'interno della tribù, le curie, che costituiscono, nel primitivo ordinamento cittadino, una corporazione intermedia fra tribù e gentes. È infatti a questa corporazione che l'unità territoriale rappresentata dalla centuria è attribuita ed è la curia che provvede a distribuirla ai gruppi (,2) NIEBUHR, 1853,440 (1830,111,210 s.): «è un'impensabile contraddizione che la proprietà del cittadino defunto passasse alla sud. gens (cioè: in assenza di adgnati), mentre l'entità di una gens che si estingueva non pervenisse alla curia cui quella apparteneva». (,J) NIEBUHR, 1853,440 (1830, III, 210): «ciascuna centuria era una comunità ('Gesamtheit') che tutelava i suoi membri». V. soprattutto la nf 334 collegata a tale affermazione con una interpretazione della controversia de modo particolarmente significativa. V. anche la nota seguente.
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familiari e gentilizi che essa ricomprende(14). La vicenda romulea dunque non ci riporta meccanicamente, per Niebuhr, a una assegnazione di terra da parte dello Stato in proprietà individuale dei singoli cittadini, al contrario. Tale distribuzione infatti appare realizzarsi mediante un sistema di successive mediazioni la prima delle quali investe la (e poi le) tribù, la seconda riguarda il ruolo delle curie come organismo intermedio fra tribù e genti. Infine va ricordato il ruolo delle genti, distribuite in numero di dieci per ogni curia, come abbiamo visto in precedenza. Passando ora all'altrafiguradi terre all'interno della tribù, le 'terre comu ni', sebbene nulla di esplicito sia affermato in tal senso da Niebuhr, sarebbe almeno possibile chiedersi se la forma originaria dell'ager publicus sia da iden tificarsi con questo tipo di terre 'comuni'. Sino a che punto Niebuhr abbia evi tato di trattare in termini di continuità questafigurarispettoall'a. publicus di età storica resta abbastanza incerto. Nel complesso sembrerebbe che le trasfor mazioni su cui maggiormente insiste lo storicoriguardinonon tanto la natura di questo tipo di territorio, la sua condizionerispettoall'ordinamento cittadino, ma l'area dei soggetti ammessi al suo sftuttamento(15). Senza cioè che ci si impe gnasse nella più difficile questione se questa arcaica terra comune fosse ogget to di diretta appropriazione di carattere individuale da parte di ciascun citta dino, come sarà in seguito, ο non fosse sfruttata anche in questo caso attra verso la necessaria mediazione delle gentes che ne sarebbero rimaste le tito lari ultime. Dato l'intimo rapporto fra struttura delle tribù e organizzazione gentilizia si potrebbe pensare che, anche in questo caso, Niebuhr propendes se per quest'ultima ipotesi.
(14) Stando alle formulazioni del Niebuhr sembrerebbe dunque doversi concludere che l'a. Romanus ripartito nelle tre regioni e organizzato nella forma delle centurie territoriali non venisse assegnato direttamente dal rex in proprietà individuale, ma ripartito fra le curie o, al loro intemo, fra le gentes. Ciò appare chiaro del resto se si considera come, di seguito, il Niebuhr parli di «cantoni territoriali (Fluren) delle curie», e soprattutto come egli esplicita mente associ Γ originaria distribuzione degli heredia ad una ripartizione in lotti uguali fra le curie: NIEBUHR, 1853, 442 s. (1830, III, 214, 216). (,5) Come abbiamo visto, in origine, Va. publicus si identifica per Niebuhr con le gentes patri zie, che tuttavia si identificavano, allora, nel loro insieme, con l'organico cittadino. Sembrerebbe che, in seguito, per lo storico tedesco, lo sfruttamento dell'ir, publicus, gravato ora dal pagamen to della decima, fosse aperto a tutti i cittadini, anche se, di fatto, esso conveniva solo «ai potenti che disponevano di molti subordinati»: NIEBUHR, 1853,443 (1830, III, 216 s.).
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3. Terre pubbliche e terre gentilizie Se questa è la situazione di partenza, profondi sono però i cambiamenti che intercorrono poi con la formazione della plebe, all'interno della città, e il suo inquadramento nell'esercito centuriato. In tal modo infatti questo gruppo sociale acquista di fatto il diritto a partecipare alle terre conquistate che sono indicate come ager publicusm. In tale seconda fase il meccanismo di redistribuzione della terra cittadi na costituito dalle curie si inceppa. Esso infatti non appare più in grado di assicurare l'eguaglianza nella partecipazione alla distribuzione della terra da parte di tutti i cittadini. L'identità numerica delle curie (composte in origine da cento uomini ognuna) viene meno, mentre la successiva distribuzione di terre non appare più realizzata secondo una ripartizione di aree omogenee per ciascuna curia: e ciò proprio per evitare il formarsi di squilibri troppo gravi fra i membri delle varie curie(17). E in questa fase che si sviluppa quindi un tipo di conflitto nuovo all'in terno della comunità cittadina, costituito dall'antagonismo fra gli antichi cit tadini - i patrizi e i loro clienti - e i nuovi cittadini, ormai all'interno della costituzione serviana, i plebei. Questo antagonismo si riflette anzitutto sulla forma stessa della proprietà: la nuova proprietà plebea si presenta con diver se dimensioni quantitative: i sette iugeri 'forensia'che corrisponderanno alla centuria 'plebea' di cento actus (e cioè cinquanta iugeri), divisa in sette lotti. Di contro alla centuria originaria di cento iugeri ripartita in cento heredkF*. (,6) Espressione che, secondo il Niebuhr, risaliva all'epoca «in cui solo il popolo (delle gentes) era lo Stato» (1853, 443 [1830, III, 217]). La differenza fra i due ordini consisterebbe quindi nel fatto che i plebei avrebbero ricevuto in proprietà perpetua i lotti assegnati indivi dualmente, essendo costoro presenti nelle tribù «senza corporazioni intermedie» (le curie e le gentes). <17> Dal passaggio niebuhriano già citato (1853,443 [1830, III, 216]), si ricava un altro aspet to molto significativo della ricostruzione del grande storico tedesco, secondo cui, in origine la ripartizione della popolazione (e delle genti) in numero eguale fra le varie curie corrisponde va e giustificava Γ identità dei lotti a queste assegnate, con il risultato che a ciascun cittadino, in ultima istanza, sarebbe pervenuto un lotto di dimensioni analoghe i {bina iugera romulei). Con la successiva evoluzione, variando il numero dei membri di ciascuna curia, non sarebbe però variato il criterio di distribuzione della terra, ciò che avrebbe comportato una distribuzio ne ineguale, essendo le curie meno popolate in grado di distribuire aree più grandi ai propri membri.
<18> NIEBUHR, 1853, 444 (1830, III, 218).
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Ma questo conflitto, come è ovvio, si sviluppa soprattutto in ordine alle terre non divise e assegnate: intorno dìYager publicus. Ho accennato alla mia idea che già la terra 'comune' all'interno delle tribù fosse da identifi carsi con la prima forma di ager publicus ο con un suo diretto antecedente. Si capirebbe d'altra parte come, in età preserviana, l'accesso ad essa fosse esclusivo per le gente patrizie, identificandosi queste con l'organico stesso dei cittadini. E tuttavia l'andamento complessivo del discorso niebuhriano, sul punto, presenta qualche elemento di incertezza. Esso infatti finisce col porre l'accento - al fine del costituirsi del demanio di terre pubbliche intor no a cui si svolgerà la contesa tra patrizi e plebei - più sulle nuove terre con quistate militarmente da Roma, che sull'antico demanio delle terre 'comu ni' della tribù. A questo punto dunque possiamo tornare al tema centrale del capitolo e cercare di mettere a fuoco il rapporto fra a. publicus, ager gentilizio e terra in proprietà individuale nell'ordinamento romano arcaico, rapporto che, nel l'interpretazione del Niebuhr, appare non privo di ambiguità. Sul significato delle centurie assegnate alle curie e alle gentes e ripar tite sotto forma di heredia si è già richiamata l'attenzione del lettore. Occorre ora sottolineare il fatto che, rispetto al regime giuridico di tali terre, si evidenzi una vera e propria incertezza nella interpretazione propo sta. Da una parte infatti abbiamo visto il riferimento alla 'proprietà' delle genti. Dall'altra però è dato di cogliere un elemento di continuità della tito larità degli herediarispettoalla piena proprietà individuale che, almeno nel caso dei sette iugeri 'plebei', seppure per l'età immediatamente successiva, appare fuori discussione: su questo punto ho già richiamato il pensiero di Niebuhr. Ma ancora più gravi incertezze gravano intorno alla formazione e alla natura del primitivo a. publicus. Abbiamo visto infatti come sia abbastanza probabile una soluzione di continuità fra le originarie terre comuni e il primo demanio di terre pubbliche. Ma allora almeno due problemi verreb bero a porsi: anzitutto si tratterebbe di definire la natura e il tipo sfrutta mento di quelle stesse terre comuni che verrebbero a costituire un tertium genus fra gli heredia dei membri gentilizi delle curie e il successivo ager publicus oggetto delle contese fra i due ordini. In secondo luogo si tratte-
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rebbe di meglio valutare il vantaggio patrizio in ordine alla appropriazione del nuovo demanio pubblico, rispetto a cui Niebuhr tende a dare chiari menti forse troppo rapidi. Ho già parlato di 'ambiguità' nel considerare alcuni punti specifici della ricostruzione niebuhriana: più in generale io credo che elementi di incertez za e tensioni interne caratterizzino nell'insieme tutta questa parte dell'opera del grande storico tedesco. Se infatti le forme di appropriazione dell'a publicus arcaico restano abbastanza indeterminate, per le centurie di ager 'priva to' possiamo lamentare un difetto opposto: l'enunciazione da parte del Niebuhr di troppi titolari. In particolare appare abbastanza oscura la contem poranea affermazione di una signoria gentilizia su di esso e la ripartizione degli heredia fra le singole famiglie. È vero che ciò è giustificato da quell'aspetto della tradizione antica che imputava a Romolo la assegnazione ai cittadini della terra, attraverso una distribuzione per curie. È anche vero però che, in tal modo, i bina iugera rischiavano di non rappresentare più la prima forma di pur limitata proprietà individuale sulla terra, ma - volendosi parlare di una proprietà gentilizia in senso stretto - tendevano ad assumere il valore di una mera redistribuzione 'possessoria' all'interno della comunità gentilizia. Questa contraddizione fra il ruolo delle singole famiglie e dei loro patres e quello della comunità gentilizia appare in modo esemplare già nel Niebuhr; ed è una tensione che tuttora risulta per qualche verso irrisolta. Ho riportato la frase di Niebuhr con cui viene affermata la 'proprietà' dell'insie me degli heredia da parte delle geritesi ma abbiamo anche visto nel corso di queste pagine altri riferimenti alla condizione dei lotti di terra che sembra collegarsi alle forme tradizionali della proprietà individuale che l'ordina mento giuridico romano è destinato ad esaltare. Ci troviamo dunque di fron te ad una chiave di lettura non univoca di un problema centrale, anche al fine di individuare la presenza ο meno, nel pensiero di Niebuhr, di una identità autonoma rappresentata da un possibile ager gentilizio distinto dalle terre 'comuni5 all'interno della tribù genetica. Resta fermo il fatto che, rispetto alla terra assegnata alle curie e redistribuita come heredia ai vari cittadini(19), si i,9)
Cfr, ancora una volta, in tal senso, NIEBUHR, 1853, 441 s. (1830, III, 213 s.).
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poneva al Niebuhr un dilemma abbastanza chiaro che noi stessi dobbiamo continuare ad avere ben presente. Ο tale terra cioè è considerata effettiva pro prietà della gens oppure essa appare oggetto di una proprietà individuale da parte dei singoli patres. Malgrado le incertezze della formulazione niebuhriana, sarei propen so a concludere che in essa si tendesse a privilegiare la prima di queste due ipotesi, con la conseguenza di far coincidere poi l'emersione di una vera proprietà privata della terra solo con l'età serviana e con la distribu zione di nuova terra (nella forma, secondo Niebuhr, dei sette iugeri) ai ple bei^. In tal caso dovremmo giungere a identificare l'oscuro ager gentilizio delle origini con le centurie degli heredia ora ricordate. Se poi ci volgiamo a considerare quella terra distribuita da Romolo e lasciata 'in comune' (restan do incerta, come s'è detto, la possibilità di attribuire ad essa la qualifica di publica), fruita dalla primitiva comunità cittadina formata dai soli patrizi, era inevitabilericonoscere,come ho già accennato, una profonda cesura fra que stafigurae le terre conquistate da Roma e restate 'pubbliche' nell'età imme diatamente successiva. Niebuhr, d'altra parte, nulla ci dice sul possibile rap porto (di affinità, di derivazione o, al contrario, di eterogeneità) tra le antiche teire 'comuni' e questo nuovo tipo di terre che, nella tarda età monarchica, possiamo effettivamente identificare in una prima forma di ager publicus. Figura che parrebbe già assumere i caratteri che incontreremo nelle età anco ra successive. Come si vede le difficoltà che si ripresenteranno costantemente alle suc cessive generazioni di storici sono presenti, già nella grande opera niebuhria na, seppure oscurate, in certo qual modo, dalla ricchezza stessa dei riferi menti e degli elementi in essa introdotti. È con questa opera che possiamo appunto datare, con l'inizio della moderna storiografia di Roma antica, la definizione di un filone interpretativo che giunge sino ai nostri giorni. (20) A completamento delle considerazioni contenute in nt 16, converrà sottolineare come il Niebuhr abbia a più riprese, se pure in modo diversamente evidente, ribadito che la proprietà privata è una figura tipicamente plebea. Ciò appare soprattutto in NIEBUHR, 1853,236 s., 254, (1830, II, 161; 206), ma cfr. anche p. 238, 296 (1830, II, 164, e 311). Nei primi due passi qui citati è chiaramente affermata l'organica connessione detta.possessio delPagerpublicus con le genti patrizie e l'assegnazione in proprietà privata come pertinenza esclusiva dei plebei.
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Su un altro punto infine il Niebuhr aveva aperto una problematica destinata anch'essa a riproporsi costantemente - come del resto abbiamo visto nel corso del primo capitolo - sino ad oggi. Mi riferisco alla questio ne della originaria esclusione dei plebei dall'a. publicus. Com'è noto, è indiscusso merito dello storico tedesco l'aver definitivamente liquidato la vecchia interpretazione delle leggi agrarie romane, concepite come un limi te posto non tanto al possesso dell'o. publicus, quanto alle dimensioni della stessa proprietà privata. Idea che era entrata in crisi solo relativamente pochi anni prima, come risposta più ο meno diretta alle vicende della Rivoluzione francese*20. In tal modo lo stesso Niebuhr, nel momento in cui escludeva che il carat tere 'popolare' e democratico della legislazione agraria, e in particolare quel lo della seconda legge Licinia Sestia, si esplicasse nella sostanziale aggres sione alla sfera della proprietà privata, era costretto a cercare tale carattere in altri aspetti di questa stessa legislazione. E quindi ecco apparire l'idea di una conquista plebea consistente nella sua equiparazione con i patrizi per quanto concerne lo stesso sfruttamento dell'ir, publicus. Idea non certo peregrina, vista l'insistenza con cui le fonti romane parlano di una precedente esclusio ne della plebe da tale territorio. E tuttavia, come abbiamo visto nel corso dei precedenti capitoli, contro di essa potevano essere fatti valere non pochi dubbi e ostacoli. Ciò che regolarmente avvenne, già negli anni immediatamente suc cessivi alla pubblicazione dell'opera di Niebuhr, aprendosi così una discussione che si è prolungata sino ad oggi. Come, del resto, più in gene rale, sino ad oggi appaiono pressoché immutati i termini più generali della stessa problematica relativa alle strutture territoriali arcaiche romane ed alla ipotesi di una primitiva comunità agraria fondata sull'ordinamento gentilizio^
(2I)
La svolta, com'è noto, fu segnata dall'opuscolo di HEYNE, 1793, 350 ss., il cui com plessivo atteggiamento verso gli eventi contemporanei traspare sin dal titolo. La polemica dello Heyne è infatti posta in diretta relazione con la Rivoluzione francese (NIEBUHR, 1853, 246 [1830, III, 178]). Essa vuol dimostrare, esplicitamente criticando l'uso dei modelli romani fatto dai rivoluzionari, che mai vi furono in Roma leggi agrarie quae fortunae omnino aequerentur.
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4. Altre strade: la ricostruzione di Schwegler Se pure non sempre in modo del tutto evidente, Niebuhr sembrava col legare il primitivo assetto territoriale romano con forme comunitarie fondate essenzialmente sul sistema gentilizio e sulla ripartizione per curie. Una vera forma di proprietà individuale sembrerebbe essersi affermata solo in relazio ne alle distribuzioni di terra alla plebe effettuate in età postromulea. In tal modo veniva insinuandosi nella storiografia tedesca l'idea di una priorità, almeno cronologica e storica, delle forme comunitarie di pertinenza della terra rispetto al modello individualistico rappresentato dalla proprietà privata. Non è questa certo la sede per evocare il valore ideologico e addirit tura politico costituito da tale problematica; mi limiterò a ricordare come, sul punto, si aprisse nelle generazioni successive di storici una discussione di notevole ampiezza che occupa un posto di rilievo nella seconda metà del secolo. Ma, in questa sede, non ci inoltreremo nell'analisi, pure cosi stimolan te, di tale dibattito, limitandoci piuttosto alle interne vicende della storiografia romanistica. Su questo piano dunque è degno di nota come, in uno spazio tem porale estremamente limitato, fra il 1852 e il 1856, vedessero la luce in Germania alcune opere di grandissimorilievonel campo della storia di Roma e del suo dirit to e che in qualche modo erano destinate a segnare i termini del successivo dibat tito. Mi riferisco da una parte alla Ròmische Geschichte di Fr. C. A. Schwegler, dall'altra al primo volume del Geist des romischen Rechts di R. von Jhering e, infine e soprattutto, alla Ròmische Geschichte di Th. Mommsen. Schwegler, per molti versi, nella sua ampia e accurata trattazione dei problemi della terra in Roma arcaica, arricchita da un analitico panorama della discussione svoltasi nei decenni precedenti, appare muoversi ancora nell'ambito di idee del Niebuhr. Vi è certo un allargamento tematico, insie me, forse, a uno sforzo di semplificazione attraverso una più coerente orga nizzazione dei vari elementi oggetto dell'analisi: ciò che si vede in particola re nel tentativo di collegare la questione atWager gentilizio alla figura delVa publicns. E tuttavia, proprio su questo punto, si possono anche cogliere i limiti effettivi della trattazione dello Schwegler che non riesce sostanzial mente a spingersi al di là degli orizzonti già tracciati da Niebuhr. Nel primo
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vi è certo la polarizzazione fra Υ a. publicus indicato come 'terra comune' e Yheredium in piena proprietà: ma proprio qui si avverte in tutto il suo peso l'influenza del Niebuhr, giacché allo Schwegler non riesce ciò che invece in quegli stessi anni Jhering, in esplicita polemica con lo stesso Niebuhr, riusci va a realizzare- E cioè la individuazione, all'interno di tale polarizzazione, della figura dell'aver gentilizio. Ο meglio, lo Schwegler non fa altro che ricalcare strettamente gli schemi niebuhriani, rinunciando quindi a dare a quest'ultima figura una sostanziale autonomia dall'a. privatus assegnato nella forma degli heredia romulei. Lo storico tedesco infatti, riprendendo la tradizione relativa alla primiti va distribuzione della terrarisalentea Dionigi, partiva dal ruolo centrale giuocato in tal senso dalle curie. Come abbiamo visto a ognuna di queste sarebbe stata assegnata una unità territoriale compiuta e coerente, come mostrerebbe il termine centuria. Corrispondente appunto al numero di cento uomini che era quello «normale dei patres familias ο dei cittadini di ogni curia»(22). Così come la centuria territoriale è il territorio di una curia, ad ogni gens corri sponderebbe una parte più limitata, ma ugualmente «compatta e coerente», di territorio(23). E precisamente, conclude lo Schwegler, essendo ogni curia costi tuita da dieci gentes, tale territorio gentilizio sarebbe costituito da un decimo di centuria territoriale. Eccofinalmenteriapparireanche qui Yager gentilizio: che tuttavia non è altro che la somma degli heredia individuali dei patres familias appartenenti alla gens. Non è casuale fra l'altro che, proprio a tale proposito, il nostro autore citi l'episodio dei Claudi. Ho già sostenuto infatti in precedenza che una certa lettura delle testimonianze antiche ad esso rela tive possa portare a identificare Yager assegnato alla gens con gli heredia individuali dei suoi membri(24). ^ SCHWEGLER, 1870, 442: «Nun war aber eine solche Ackercenturie, wie naturlich, ein geschlossenes Ganzes, und zwar, wie auch dem Verfahren bei der Limitation nothwendig folgt, ein rechtwinklichtes Parallelogrammi es war diess folglich auch die Flur jeder Curie». Cfr. anche SCHWEGLER, 1867, 451. Significativa la posizione critica sull'identificazione del rap porto fisso di 10 a 1 ùagentes e curie di MOMMSEN, 1887, 1, 12 s. (1889, VI.l, 12). q3) Cfr. SCHWEGLER, 1870, 442: «... dass ursprunglich auch jene Gens ihre besonderte und geschlossene Flur besessen hat, und dass die Eintheilung in Gentes sogleich eine Bodentheilung gewesen ist». Cfr. ivi anche nt. 7. <24) Cfr. SCHWEGLER, 1870, 442 nt. 7. Per la discussione dell'episodio dei Claudi V. supra, cap. V, § 5.
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Meno complesso e forse meglio costruito: ma nella sostanza il discorso dello Schwegler non sembra per nulla distaccarsi dalla impostazione che abbiamo visto in Niebuhr. Semmai in qualche modo appare ancor più accen tuata la corrispondenza fra l'artificialità della divisione numerica della popo lazione (tremila cittadini divisi in tre tribù, in trenta curie e in trecento genti) e del suo rapporto con Va. divisus (una centuria territoriale per ogni curia) e Partificialità della stessa organizzazione gentilizia. Che appare essa pure, quale insieme convenzionale di dieci patres familias: il precisorisultatodun que di una più generale organizzazione della cittadinanza(23). Non è certo questa la sede per discutere la complessiva interpretazione delle gentes e della loro natura 'cittadina' proposta dal Niebuhr eripresa,fra gli altri, dallo Schwegler. È significativo che poi lo Schwegler si impegni in una teorizzazione sostanziale della immobilità del sistema degli heredia, destinato a restare collegato ai vari lignaggi, indipendentemente dal numero dei discendenti dei singoli patres. All'uopo ci si richiama così alla figura del consorzio inter fratreSy in una prospettiva, allora, forse non pienamente sfrut tata, ma che potrebbe tuttora rivelarsi interessante. All'immobilità di tale sistema risulta poi necessario supporto l'inalienabilità negoziale dello stesso heredium'. ipotesi questa che, com'è noto, appare abbastanza diffusa nella romanistica del secolo scorso(26). Mi sembra abbastanza evidente che, in siffatta rappresentazione, Yager gentilizio finisca col dissolversi, in un sistema di pertinenze dei patres e si identifichi totalmente con la parte del territorio romano assegnata nella forma della centuriatio. Come si può agevolmente intuire, le precedenti incertezze che su questo punto Niebuhr mostrava sono effettivamente superate: la perti nenza degli heredia è dei singoli patres e il ruolo della gens in proposito è assicurato solo attraverso la sostanziale indisponibilità della signoria sul sin golo heredium (alla quale ho fatto ora cenno). Va anche detto che, in tal (25)
Cfr. SCHWEGLER, 1870, 443, dove affiora un interessante interpretazione dei dieci heredia come «eine zusammenhangende und geschlossene Unterabtheilung (ein Zehntel) einer Ackercenturie», che in quanto tali erano posseduti da dieci patres. Questi poi «wurden als eigene Korperschaft, als Gens constituirt, und es wurde ihnen in Folge hiervon eine gemeinschaftlicher Gentilname beigelegt». Dove appunto appare evidente, in questa rappresentazio ne, il carattere artificiale e secondario della gens. p6)
Cfr. SCHWEGLER, 1870, 444
ss.
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modo, la terra delle genti e la terra 'comune', come lo stesso Schwegler qua lifica esplicitamente Va. publicus, appaiono totalmente differenziate. E que sto, a mio avviso, è uno dei punti più deboli di tutta la rappresentazione ora analizzata. È vero infatti che definire Va publicus in senso tecnico come pertinen za 'comune' di tutti i cittadini di per sé non è affermazione scorretta: essa tut tavia, per la sua stessa genericità, rendeva impossibile allo Schwegler di ten tare un'interpretazione delle forme di appropriazione e sfruttamento dell' ager publicus arcaico secondo una prospettiva che si allontanasse dal carat tere individualistico della possessio dell'età più trada. Quelle possibilità che, pure le prospettive niebuhriane non avevano totalmente escluso, appaiono infatti precluse dal fatto che in Schwegler non veniva a sussistere altro titolare di tali terre 'comuni' che l'insieme dei cives. Il che reintroduce un rapporto individuale di sfruttamento fra i singoli patrizi e Va. publicus, tale da rendere ancora più incerta la stessa mediazione genti lizia. Parrebbe cogliersi in alcuni passaggi di tale autore una relazione fra la partecipazione dell' a. publicus e la titolarità dei singoli keredia, in un siste ma integrato di proprietà individuale e di partecipazione all'Allmende, alla terra comune. Ma sono spunti solo accennati (semmai destinati a ben altra fortuna in una successiva stagione della storiografia tedesca) e, comunque, confermano il distacco fra a publicus e ager gentilizio. In ultima istanza infatti, anche se mediato dall'heredium, lo sfruttamento delPa. publicus sem bra implicare un rapporto fra il singolo pater ed una comunità più vasta della gens e chefiniscecon Pidentificarsi con la civitas stessa(27). L'antinomia heredium - ager publicus, nello Schwegler, riconduce irri mediabilmente Vager gentilizio (che pure in sé non è una realtà ben messa a fuoco) nell'ambito del primo, indebolendo così il rapporto fra le gentes e Vager Romanus nel suo complesso. Non mi sembra infatti che emerga mai suffi cientemente l'esclusiva pertinenza di un lotto di a publicus ad un gruppo gen tilizio e, in fondo, neppure alle curie nella loro individualità. La mediazione (27)
Sin dalle prime pagine di questa parte della sua trattazione lo Schwegler tende a parlare di una terra comune (gemeine Feld) identificata con Va. publicus e destinata al pascolo (op. cit., 402). Ed è questo territorio indicato come Allmende: espressione tecnica che indica il territo rio comune all'interno dell'organizzazione propria della comunità agraria nella tradizione tedesca.
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finisce dunque con l'esserricondottasempre alle sìngole familiae ed al singo lo titolare dell5heredium. Tutto ciò ha una conseguenza abbastanza importante sul piano della complessiva interpretazione del rapportofragentes e a. Romafrus: rapporto che, a mio giudizio, nella rappresentazione dello Schwegler, risulta indebolitorispettoa quello a suo tempo proposto dal Niebuhr. L'accentuarsi della signoria individuale sugli heredia da parte delle famiglie partecipanti alla gens, senza che questa esplichi una diretta e auto noma signoria sull'altra parte del territorio costituita dall'a publicus, non può che spingerci verso tali conclusioni. Si può solo aggiungere che tale impostazione, nel suo complesso, non faceva che sviluppare temi ed eviden ziare difficoltà già presenti in Niebuhr. In effetti si potrebbe sostenere che Schwegler avesse cercato di superare, senza peraltro riuscirvi, le difficoltà che la stessa complessa forma espositiva di quest'ultimo autore in qualche punto aveva in parte celato.
5.... e quella di Rudolph von Jhering Una vera e propria svolta, nel 1852, mi sembra quella costituita dal primo volume del Geist di R. von Jhering. Ricollegandosi ad alcuni importanti spun ti presenti in Ph. Huschke, tale autore, sviluppando una linea di tendenza sem pre più lontana dell'impostazione savigniana - cui invece appare ispirato il filo ne storiografico che va da Niebuhr a Schwegler - tende ariproporrela proble matica relativa aiVager gentilizio, alle terre comunitarie e al valore dell'ir. publicus, e a svilupparla verso direzioni parzialmente nuove. , Lo Jhering parte, in tal senso, da una compiutaridefinizionedel significajo'storico della gens. Lungi infatti dal considerare questa come elemento interno alla cxvitas, egli individua in talefigurauna realtà anteriore allo Stato stesso e su cui questo si era venuto modellando(28>. D'altra parte egli si distac ca con ancora maggiore decisione dalla rappresentazione abbastanza indeter-
p8)
Cfh JHERING, 1907,183 ss. (1886,1,184 ss.) e già JHERING, 1852,169 ss. In generale le cita zioni effettuate nel corso di questo paragrafo corrispondono al testo della prima edizione.
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minata che Niebuhr e i suoi seguaci erano venuti facendo del regime fondia rio romano arcaico, che era in fondo concepito esclusivamente di tipo comu nitario: ciò che è evidente per Va. publicus, ma che vale anche per Va. divi siti, essendo esso sì ripartito in forma di heredia fra i vari patres, ma tenuto poi insieme dall'organica coesione di questi nelle varie gentes e curie. Circostanza che del resto abbiamo visto confermata dall'idea niebuhriana che solo con le distribuzioni alla plebe si sarebbe pienamente affermata in Roma la proprietà privata della terra. Per Jhering, al contrario, proprietà individuale e proprietà comunitaria sono realtà che coesistono sin dall'inizio della storia di Roma o, addirittura, ad essa preesistono all'interno appunto della gens che della città è il modello anticipatore(29). Questa impostazione appare ricca di conseguenze: essa infatti svalutava indirettamente il valore dellaripartizioneromulea della terra divisa per curie (e quindi costituente il legame fra terra e gentes), mentre la stessa figura delVa. publicus trova maggiore evidenza e una ben diversa collocazione con l'affermazione che questa realtà, lungi dall'essere limitata allo Stato (e quin di alla comunità cittadina nel suo complesso),riproducevaun rapporto pro prio in origine di ciascuna gens. Il che del resto ben si inquadra nella stretta analogia tracciata complessivamente da Jheringfragens e ordinamento stata le. Anzi, conclude in proposito il grande giurista, tale situazione è stata «tra piantata nello Stato dalle gentes»m. La revisione critica che Jhering viene effettuando delle idee sino ad allo ra prevalenti nella storiografia tedesca non si svolge certo senza fatica e in modo del tutto lineare.- Giova sottolineare fra l'altro il dipanarsi costante del discorso del nostro autore fra rappresentazioni aprioristiche e ideologizzanti, tutte fortemente impregnate di giudizi di valore e di analisi quasi 'psicologisti che', e improvvise e quasi folgoranti percezioni dei nessi reali, dei nodi che avvincono strettamente la trama delle forme ideali, delle figure e delle formu lazioni giuridiche alla forza concreta degli interessi e delle forze in gioco. Non è affatto casuale dunque che, io credo, per primo, in modo così chiaro, R. von
^ S u questi aspetti V. CAPOGROSSI, 1997, 106 ss. TO Cfr. JHERING, 1907,200 (1886,201). Cfr., con insignificanti differenze, JHERING, 1852,185.
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Jhering colga un punto debole dell'identificazione della terra gentilizia con la somma degli heredia: punto centrale sul quale già horichiamatol'attenzione. Si tratta del fondamento materiale della coesione del gruppo: che appun to egli non vede solo in una titolarità esclusiva della terra, ma anche nell'esi stenza di forti poteri di controllo e di intervento da parte del gruppo nei riguardi della gestione di tali beni da parte dei singoli titolari*31}. Ma questi poteri, aggiunge ancora lo stesso Jhering, non potevano avere che una limita ta efficacia: è per questo che, accanto alla proprietà privata, sia pure assog gettata alle limitazioni ora ricordate, e che il grande romanista mi sembre rebbe in ultima istanza individuare negli heredia romulei, doveva esistere una proprietà della gens, in quanto tale, atta ad assicurarne l'autonomia e la forza. E qui, come ho già accennatogli nostro autore si rifa essenzialmente al modello dell'a. publicus: a un ager più antico, che non sarebbe stato comune di tutto il popolo, ma della singola gens. Ecco dunque che l'originario regime del suolo romàno sarebbe consistito nella coesistenza del «principio della pro prietà pubblica» (che ciascuna gens avrebbe realizzato attraverso la sua signo ria su parte del suolo) con «quello della proprietà privata sottoposta a limita zioni nell'interesse della gens»{32\ In questa rappresentazione Va publicus in senso tecnico sembrerebbe apparire solò più tardi e si presenta comunque come un terzo elemento, accanto dXVager in proprietà privata e a quello comu ne alle singole genti: esso corrisponde all'avvento della cìvitas ed ha, rispetto a questo, la stessa funzione dell'agir gentilizio rispetto alla gens. Negli anni '50 si definisce dunque con grande chiarezza uno schema interpretativo che cerca di superare alcune contraddizioni contenute nell'o pera di Niebuhr e, insieme, rida con forza uno spazio alla proprietà indivi duale, come modello originario dell'ordinamento romano, che era stato in qualche modo eroso dalla lettura niebuhriana. La terra gentilizia cessa così di essere associata a quella parte dell'agir Romanus diviso e assegnato in forma di heredia, per rientrare invece chiaramente nell'ambito dell'a publicus ο meglio dell'antecedente 'gentilizio' di quello che sarà Va publicus di tutta la (31) Cfh JHERING, 1907,197 (1886,199): «perché unage/w fosse solida e stabile occorreva che essa avesse una forte base materiale, che sussistesse un certo sicuro legame fra la stessa e i beni patrimoniali ad essa soggetti». Tale formulazione appare già in JHERING, 1852, 182. <32>Cfr. JHERING, 1907, 200 (1886, 201).
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città. Come abbiamo visto, vi erano possibili spunti in tal senso già nella stes sa opera di Niebuhr, ma del tutto impliciti e confusi fra altre indicazioni ivi pre senti. Rispetto al precedente panorama è indubbio che il Geist appare orienta to con maggiore determinazione e univocità verso un modello .più coerente.
6. La 'Storia' mommseniana Negli anni in cui, come abbiamo visto, la realtà comunitaria delle primiti ve strutture agrarie romane restava in ombra nellariflessionedi Jhering rispetto ad una più articolata analisi delPa publicus, sin dalle prime edizioni, la Storia di Roma di Th. Mommsenriproponevacon molta forza l'immagine delle terre comuni strettamente e coerentemente associate alle strutture gentilizie. In verità il grande storico tedesco, almeno in questa fase della suariflessione,partiva anch'egli dalla contrapposizione tra la terra comune, di pertinenza della gens, e la terra in proprietà privata dei singoli cives. Questa lineare antinomia si fonda va sulla considerazione abbastanza plausibile e, del resto, presente all'attenzio ne degli storici sin dal Niebuhr, secondo cui la dimensione dell'heredium diffi cilmente poteva sopperire al fabbisogno alimentare di unafemiglia.Ne conse guiva quindi che la proprietà individuale della terra (Vheredium appunto) dove va essere integrata dalla partecipazione allo sfruttamento di terre comuni*33*. Ma, come dicevo, più che questo aspetto, il punto veramente significa tivo appare il ribadito rapporto tra strutture gentilizie e terre comuni(34). Un rapporto, va sottolineato, che anche in Mommsen appare mediato dal sistema delle curie, anch'essorilevanteai fini della distribuzione della terra, che par rebbero costituire i soggetti titolari di un demanio, a sua volta, apparente mente più antico della stessa cjvitas°S). (3 »Cfr. MOMMSEN, 1903,1, cap. 13, p. 183 e nt. (1979,1, 231 e 251 nt 3). <*>Cfr. MOMMSEN, 1903,1, cap. 13, p. 182 s. (1979,1, 230 s,). (35) Cfh MOMMSEN, 1903,1, cap. 3 e 5, p. 35 s., 66 (1979,1,49 ss., 83). Anche qui il presup posto fondamentale dell'intera prospettiva mommseniana è Torginaria identificazione dell'or ganico cittadino con le gentes. Estranei alla cìvitas e conseguentemente ai diritti da ciò derivan ti sono gli altri individui insediati nel territorio romano: i 'coabitanti' ('Insassen'). La loro con dizione è diversa da quella degli stranieri, estranei alla protezione giuridica romana, perché clien ti dei membri di pieno diritto della città. Solo in una fase più avanzata si verrà avviando un
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Non chiarissima, peraltro, appare la relazione genetica tra questo e Vager publicus vero e proprio, di pertinenza di tutta la comunità politica che, almeno a partire dall'età serviana, quando lo stesso Mommsen riconosce necessariamente l'esistenza di una proprietà immobiliare ormai di carattere c moderno'(36), dovrebbe essere pienamente enucleato in ambito cittadino. Non a caso il Mommsen si sofferma su tale figura essenzialmente in un diverso contesto e per avanzare, fra l'altro, un'ipotesi suggestiva sull'esclusione ple bea, fondata essenzialmente sul processo di differenziazione economica fra grandi famiglie plebee e popolo minuto(37). Con maggiore chiarezza, nel quadro di una riflessione più organica, Mommsen tornerà in seguito su tali problemi, cercando di chiarire meglio la natu ra di queste forme comunitarie contrapposte e integrate agli heredìa individuali. Soprattutto nello Staatsrecht infatti, il grande maestro tedesco ripropo ne con forza l'ipotesi di una originaria comunità della terra in Roma. In que sta prospettiva la stessa presenza degli heredia, assegnati in proprietà priva ta, per quanto limitati all'abitazione e all'orto, segnerebbe a suo avviso già uno stadio iniziale di dissojuzione di questa stessa comunità agraria, rappre sentandone una prima limitazione(38), sebbene, come si è detto, essa non inci desse sull'assetto del territorio agricolo. Quest'ultimo infatti restava di perti nenza esclusiva della gens, giacché Mommsen negava ad esso il carattere di ager publicus. Ciòrisultainfatti dalriconoscimentomommseniano del carat-
processo di integrazione dei cittadini con questi 'coabitanti' destinato a sfociare nella costituzio ne serviana e, esso stesso, alla base della formazione di un ordine plebeo all'interno della città: cfr. MOMMSEN, 1903,1, cap. 6,84 ss. (1979,1, 106 ss.). (36) Cfr. in particolare MOMMSEN, 1903,1, cap. 6,88 s. (1979,1,111 ss.). È interessante come, in tale contesto, si evochi, relativamente alla prima classe delle centurie, la nozione di titola rità di 'fondi interi' di non meno di venti iugeri (cfr. anche MOMMSEN, 1903,1, cap. 13, 184 [1979, I, 231], dove parla, per l'appunto di «gewhonliche Flaschenmass di esere romischen Vollhufe»): un tema poi ampiamente sviluppato sia da Weber che, soprattutto, da Meitzen: cfr. sul punto CAPOGROSSI, 1990a, cap. 9, 292 ss. <37>Cfr MOMMSEN, 1903,1, cap. 13, 191 (1979, 238). (38) Cfr. MOMMSEN, 1887, 23 s. (1889, VI.l, 24 s.). In queste pagine Γ a. riconosce che «l'ori ginaria esclusione della terra dalla proprietà privata è sostanzialmente affermata, così come però anche modificata dalla leggenda romana sull'origine della proprietà fondiaria». Poche righe dopo, in modo ancora più esplicito, lo stesso autore tende a indicare, sia pure in modo ipotetico, l'esistenza di due stadi successivi: il primo, più risalente, in cui la proprietà indivi duale della terra sarebbe stata del tutto esclusa, il secondo in cui questo tipo di proprietà, sia pure limitato alVheredium, sarebbe già apparso.
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tere di proprietà privata dell'ager gentilizio (carattere analogo dunque a quel lo degli stessi heredia). In un passaggio molto importante della sua analisi noi vediamo che MommseiL, nel definire la natura dell'ager gentilizio, partiva da una alternativa molto chiara. Due infatti sono i possibili titolari della terra non distribuita nella forma degli heredia: ο lo Stato (o parte di esso: qui è evidente il riferimento alle tribù e alle curie, già oggetto di attenzione privilegiata da parte degli storici precedenti39*), oppure la gens. Nel primo caso la terra sarà agerpublicus^ nel secondo, ager privati^. E di una effetti va signoria delle gentes egli tornerà a trattare in modo esplicito, ponendola in diretto parallelismo con il dominium individuale*40. Rispetto all'evidente approfondimento e arricchimento che le pagine orarichiamatedello Staatsrecht rappresentano, troviamo tuttavia una sostanziale uniformità nell'architettura complessiva del discorso, rispetto alla ormai lontana impostazione della Storia Ciò a mio avviso è verificabile allorché si passi a considerare la posizione relativamente defilata, rispetto alla tematica ora riportata, assunta anche nello Staatsrecht dallafiguradell'a publicus. Certo, a prima vista diveniva abbastanza lineare e semplice la contrapposizione di questa figura rispetto agli heredìa e aìYager gentilizio identificati come due forme di proprietà pri vata (sia pure imputata a soggetti qualitativamente diversi). E tuttavia, malgrado la lieve sfasatura cronologica fra Υ ager gentilizio la cui formazione risale addirittura ad età precivica, destinato a dissolversi probabilmente nella forma della proprietà indivi(39)
Come abbiamo visto già negli spunti presenti in Niebuhr, ma soprattutto nello Schwegler, proprio attraverso la mediazione delle curie sembrerebbe realizzarsi la proprietà delle gentes e quindi le forme comunitarie di sfruttamento della terra. Th. Mommsen, implicitamente, tende ad abbandonare tale impostazione, recuperando così un'autonomia effettiva della gens rispet to tanto alla proprietà individuale costituita dagli heredìa, che all' ager publicus vero e proprio. «°> Cfr. MOMMSEN, 1887, 25 (1889, VL1, 26). (4I)
MOMMSEN, 1887,28 (1889, VI. 1,30): «aus dem Sammtbesitz der Geschlechtsgenossen ist das personale Bodeneigenthum hervorgegabgen». Dunque una cosa è la proprietà individuale e una cosa è questo possesso collettivo della gens dal quale appunto, secondo la formulazione di Mommsen, «è derivata la proprietà fondiaria individuale». In questa prima fase gli indivi dui dovettero al massimo poter disporre separatamente di un lotto di terra gentilizia. Lo stori co tedesco evita, in questa formulazione, di usare il termine 'Eigentum' a proposito della signoria gentilizia sulle terre, il che potrebbe indicare quel carattere 'pregiuridico' su cui, vedremo, è da ultimo tornato G. Diósdi. Tuttavia il fatto che in altri passi egli impieghi a desi gnare tale signoria gentilizia il termine proprietà cr costringe ad essere molto cauti su questo punto: cfr. MOMMSEN, 1887, 85 (1889, VI.1, 94), e soprattutto 86 nt. 1 (= 95 nt 1), dove si afferma in modo assai netto l'ipotesi che il territorio primitivo fosse 'Privateigenthum' delle gentes patrizie, contrapposto al territorio più recente diviso fra terre pubbliche e terre in pro prietà individuale dei singoli patres.
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duale, e Va publicus originato dalle conquiste militari romane, si può avere l'impres sione che, dal punto di vista funzionale, la distinzione fra le due realtà rischi in qual che modo di attenuarsi, sino a dissolversi. Sia Υ ager gentilizio che il publicus erano infetti oggetto di appropriazione esclusiva delle gentes patrizie. Proprio per evitare ciò, Mommsen si affietta a fondare l'appropriazione delle terre pubbliche da parte dei patrizi più su presupposti di fatto che su ragioni giuridiche, anche in questo confer mando le vecchie impostazioni della Storia4®. Del resto, egli aggiungeva, la stessa effettiva dimensione dell'a. publicus, in un primo periodo, dovette essere abbastanza modesta. La proprietà della terra assunta nell'ambito della sovranità romana sovente venne attribuita direttamente alle gentes e, in seguito, ai nuovi cittadini, ai plebei(43). Proprio in questo contesto Mommsen finisce col ribadire in forma anco ra più esplicita il coordinamento della proprietà individuale alla proprietà gentilizia, sottolineando qui in modo chiaro che la prima tende a sostituirsi alla seconda, ponendosi quindi come uno stadio più avanzato di un processo interpretato in senso unitario(44). E questo il massimo sforzo di coordinamento e di interpretazione di una serie abbastanza esigua e sovente contraddittoria di dati. Neppure il grande storico tedesco sembra essere riuscito a superare tutte le difficoltà e le con traddizioni che essi comportano(45). Mi sembra tuttavia che un modello del genere minimizzi, rispetto agli altri tentativi, gli aspetti negativi, offrendo <42> Cfr. MOMMSEN, 1887, 84 (1889, VI.l, 93). (43)
Cfr. MOMMSEN, loco ult cit.
(44)
Loco ult. cit: ivi si periodizza nettamente una fase in cui 'das Bodeneigenthum' è attribui to alla gens ('Geschlecht'), da una fase in cui tale proprietà era ormai attribuita ai singoli. MOMMSEN, 1887, 85 sub a) (1889, VI.l, 94). (45) Un esempio molto significativo di ciò lo abbiamo proprio nel corso delle pagine che qui ho cercato di analizzare. In MOMMSEN, 1887, 85 sub b) (1889, VI.l, 94 s.) noi infatti incon triamo un'affermazione che ci riporta piuttosto agli schemi niebuhriani, e soprattutto a quelli dello Schwegler. Ivi infatti è detto che nell'epoca primitiva allorché sussisteva ancora una pro prietà fondiaria della gens, quando Va. Romanus veniva trasformato in proprietà privata esso andava esclusivamente nelle mani delle gentes (ovviamente patrizie). Questo, secondo lo sche ma evolutivo che si è giàricordato,in base a cui la proprietà individuale della terra si sarebbe affermata in Roma solo successivamente alla proprietà gentilizia. Ora tale identificazione del primitivo ager Romanus con le terre in proprietà delle genti (salvo aree marginali che Mommsen non individua con maggiore precisione ma che possiamo immaginare siano il nucleo iniziale dell'a. publicus) è possibile solo ammettendosi che della primitiva comunità cittadina facessero parte esclusivamente queste stesse genti patrizie. Per valutare appieno le difficoltà in cui si venivano comunque a trovare quelle generazioni di studiosi, v. anche LANGE, 1876, 155, 159, 214.
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insieme un quadro sufficientemente organico. Il punto più debole, a mio giu dizio, è l'impiego di una medesima categoria (la proprietà) nell'interpreta zione di fenomeni appropriativi estremamente eterogenei. È vero che anche noi, sempre, usiamo espressioni dello stesso tipo, quali appunto 'proprietà collettiva' ο 'proprietà pubblica'. E tuttavia proprio tali abitudini hanno pesato non poca su certe linee di teoria e di pratica giuridica volte a uniformare feno meni qualitativamente diversi e, infine, a far prevalere l'una forma sulle altre celando, nella misura del possibile, larilevanzae la legittimità degli interessi sacrificati. Si mascherava così l'arbitrio ο addirittura l'ingiustizia di certe ope razioni, proprio anche grazie alla apparente uniformità di modelli, falsando e deformando la sostanza delle strutture intaccate e dissolte. In Mommsen, è bene sottolinearlo con forza, non è certo questo l'atteg giamento prevalente. Al contrario, vi è in lui un notevole interesse per la pri mitiva realtà comunitaria. Ed è suo merito precipuo l'aver ripreso e chiara mente definito il carattere essenzialmente comunitario della proprietà genti lizia. Con questo studioso la gens, su cui già Jhering (come abbiamo visto) avevarichiamatocon lucidità l'attenzione, diventa un protagonista importan te della storia romana arcaica. Non solo dal punto di vista politico e cultura le, che in questo senso non vi sarebbe nulla di nuovo, ma dal punto di vista delle strutture sociali e dei rapporti produttivi. In questo senso l'influenza mommseniana va al di là delle pur esplicite adesioni e deirichiamievidenti, anche se taciuti(46). Tutta la svolta che in Italia si preparava, in tema di organismi precivici, negli ultimi due decenni del secolo scorso, già annunciata da Jhering, ripresa nella sua caratteristica, disordinata ma ricca problematica dal Voigt, trovava una sua ulteriore espli-
(46) Schemi analoghi ο direttamente ispirati a quelli mommseniani sono presenti, ad es. in CUQ, 1891, 73 ss., dove non solo possiamo constatare lo sforzo per individuare, nel primitivo sistema agrario romano, uno spazio autonomo dXYager gentilizio, ma dove traspaiono anche le difficoltà che ciò comporta. Cfr. ancora LECRTVAIN, 1896, 1511, che ugualmente recepisce l'interpretazio ne déìVheredium come deirinizio di dissoluzione delle primitive forme comunitarie, nonché BEAUDOUIN, 1894, 273, 276 ss. Più incerto fra le posizioni ora indicate e l'impostazione dello Schwegler appare invece GERSONNET, 1879, 65 s., mentre le difficoltà intrinseche alla triparti zione postulata dal Mommsenrisultanopiù evidenti in un altro seguace italiano del grande mae stro: DE RUGGIERO, 1892 a, 604 s., dove, a poche righe di distanza, incontriamo appunto le aflfermazioni: a) che le gentes romane, anche dopo costituito lo Stato, avevano una proprietà comune; b) che, con la formazione dello Stato, l'antica proprietà gentilizia si trasmette ad esso.
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citazione nel Mommsen(47). Ed è probabile che, sebbene maggiore fortuna abbia poi di fatto arriso agli schemi bonfantiani, siano ancor oggi, prima negli spunti straordinariamente felici dello Jhering, poi nel Mommsen e nei suoi più diretti scolari, da riscoprirsi i semi fecondi e durevoli gettati su tali pro blemi alle generazioni venture.
7. La storiografia del '900 A conclusione di questa mia analisi converrà dedicare alcune rapide pagi ne alla storiografia giuridica dell'ultimo secolo. Ci renderemo facilmente conto che, malgrado alcuni sviluppi importanti, essa non siariuscitaa superare i nodi fondamentali su cui si erano misurate le precedenti generazioni. In particolare mi sembra irrisolto il problema costituito dai rapporti fra le tre figure che in modo più ο meno esplicito si suppongono in genere coesistenti: Va. publicus, Υ ager gentilizio e la terra privata costituita dagli heredia. Questa griglia tematica, intorno a cui ruotano queste pagine, come già i due precedenti capitoli, definisce in partenza l'angolo prospettico affatto limitato dal quale si viene svolgendo la mia analisi della moderna tradizio ne storiografica. Per questo la letteratura più recente, appare lungi dal pre sentarsi con caratteristiche e contenuti autonomi, come invece lo sarebbe se ci volgessimo primariamente al più ampio argomento rappresentato in generale dell'"agerpublicus in età repubblicana. Si tratta piuttosto di coglie re una rinnovata e forse crescente incapacità di comprendere sino in fondo il nesso assai difficile rappresentato dal rapporto tra logiche difformi. Una logica legata alla presenza di forme eterogenee rispetto all'ordi namento cittadino ed alla unità da esso imposto proprio attraverso il valore onnicomprensivo della distinzione tra terre private e terre pubbliche, Populi Romani. Mi riferisco, come si può ben comprendere soprattutto alla luce delle analisi sin qui svolte, anzitutto alla irriducibilità della signoria gentiliza sul proprio territorio a questi schemi, destinati appunto a sradicarne <47> Cfh CAPOGROSSI, 1969, 77 ss. ed ora CAPOGRÓSSI, 1997a, 324 ss.
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sinanco la memoria dalla successiva realtà medio-repubblicana. Ora, sotto questo profilo, persino le vaste indagini di Pietro Bonfante sugli orgnaismi precivici e sulle forme proprietarie ad essi collegate, se sono un formidabile stimolo a riflettere nuovamente su questi aspetti, non ci aiuta no troppo, proprio per la diversa strada così imboccata, con la valorizzazio ne, in origine, di un organismo diverso dalla gens, e, in seguito, per l'insana bile contraddizione tra la grande costruzione originaria e lo spostamento d'accento dalla grande famiglia agnatizia alla struttura della gens (48). E tuttavia i tentativi forse più interessanti di proporre un'interpretazione del primitivo regime fondiario romano li troviamo, non a caso, in un autore che di Bonfante ha indubbiamente risentito la forte influenza, seppure allieva diret ta di Arangio-Ruiz: Francesca Bozza. Le sue indagini infatti ci aiutano a capi re quanto le nuove aperture volte a meglio valutare i fenomeni di trasformazio ne all'interno della generica categoria dell'a publicus nel corso dei molti seco li di storia repubblicana, fossero in ultima istanza bloccate da un assunto gene rale mai definitivamente rimesso in discussione. Assunto che (come ho cercato di mostrare all'inizio di queste pagine) trae la sua fonte diretta dall'origine stes sa della moderna storiografia, da Niebuhr e da Savigny: miriferiscocioè alla rappresentazione ih senso larvatamente 'continuista' dei fenomeni studiati e basata su una idea delle forme appropriative deìVager publicus ispirate alle situazioni e ai modelli più tardi, di tipo individualistico. Nel corso degli anni ς30 la romanista napoletana aveva tentato con indubbia perspicacia di mettere a fuoco il carattere comunitario dei possessi gentilizi, quindi, in ultima analisi, incompatibile con il modello possessorio delineato secondo gli schemi validi per le età successive(49). Quello che tutta via impedisce all'autrice di sviluppare sino alle ultime conseguenze tali giu(48) Sul contenuto specifico delle tesi di Bonfante v. soprattutto CAPOGROSSI, 1969, 64 ss. e 1997, cap. Vili. (49) Tra i più significativi va citato BOZZA, 1930, dove per l'appunto è delineata chiaramente l'i potesi che, in origine, la figura del possesso fosse sorta al di fuori dei rapporti 'privatistici', in relazione allo sfruttamento dell'a. publicus (p. 201). Questo a sua volta sarebbe oggetto di esclu siva appropriazione da parte delle gentes patrizie e, in loro rappresentanza, dei vari patres gentium a seguito di concessione regia (p. 194). Ispirandosi ai ben noti schemi bonfantiani la Bozza tende quindi a introdurre, nell'interpretazione di siffatte relazioni, la nozione di una signoria sulla terra di carattere preminentemente 'politico' da parte di questi stessi gruppi, quindi in generale destinata a venirriassorbitaall'interno degli schemi esclusivamente individualistici (p. 211 ss.).
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ste intuizioni e che la fa ricadere all'interno di una tradizione consolidata, è per l'appunto una applicazione dilatata del modello classico della possessio medio e tardo repubblicana e la conseguente mancata individuazione di un agro gentilizio pur postulato costantemente. F. Bozza in effetti, sin dalle sue prime ricerche in materia, aveva chiara mente intuito un carattere particolare del più antico possesso dell'a. publicus (menzionando così, sulla scia delle tematiche bonfantiane, una signoria poli tica ο economico-politica delle gentes) rispetto alla possessio dell'età più recente. Essa aveva posto così le premesse per una distinzione, del resto non nuova in dottrina, tra la possessio privatistica e quella dell'a. publicus e, cosa assai più interessante, all'interno di quest'ultima figura, prospettando una duplice fase, la cui cesura sarebbe stata segnata dalle leggi Licinie Sestie(50). A tal uopo era stata senz'altro opportuna la svalutazione che la Bozza aveva effettuato di un noto passo appianeo(5,) e ancora più rilevante, momento cen trale di tutta la sua ricostruzione, veniva ad essere il ruolo degli organismi gentilizi: i protagonisti collettivi (eventualmente attraverso il loro pater geniis) dei processi di appropriazione dell'arcaico a. publicus(51\ E tuttavia non sembra che mai la studiosa napoletana si sia spinta sino ad una completa identificazione del primitivo a. publicus con le terre gentili zie: al contrario, sin dalla sua prima teorizzazione, appare una distinzione fra queste e quello, essendo considerato Va. publicus posseduto dalle gentes come elemento aggiuntivo e integrativo aé\Yager gentilizio che, in tal modo, finiva col perdere qualsiasi concreta identità(53). Non solo, nel complesso que<50>Cfr. in tal senso BOZZA, 1930, 204, nonché 1936,47 s.; 1938, 174 s. Su questo punto v. BOZZA, 1930,191 s.; 1938, 19 ss. e 77. La rappresentazione appianea, com'è noto, sin dall'inizio collega la figura dell' ager publicus al pagamento di un vectigal. In verità già da precedenti autori il valore del testo appianeo ai fini della storia del più antico regi me dell'a publicus era stato messo in dubbio. (52) Alle indicazioni presenti in nt 51, va aggiunta BOZZA, 1936,24,26; mentre assai più sfu mata appare la successiva posizione dell'a.: BOZZA, 1938, 127 ss. (53) BOZZA, 1930,1% e nt 4, sviluppa in modo esplicito l'idea che rassegnazione dell'a. publicus da parte del re alia, gens si aggiungesse - e in genereriguardasse- un territorio vicino al territorio «su cui la gens signoreggiava». In precedenza l'a. aveva menzionato le assegnazioni ai singoli cittadini in proprietà individuale nella «nota misura dei due iugeri». Appare dunque inevitabile un sistema tripar tito, a meno che la Bozza (ma non ve ne è traccia comunque significativa) identificasse il territorio assoggettato alla signoria della gens come l'insieme dei bina iugera dei gentili. Nello stesso senso v. infine 1938, 26: «Yager publicus concesso in signoria si incorporava al territorio della gens», quasi con le stesse parole del saggio del '30. E ancora: «poiché il territorio dato in proprietà, in breve \epos<5,)
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sta stessa felice associazione tra la gens e Va. publicus nelle successive, più complesse teorizzazioni elaborate dalla Bozza, rischia di perdersi, finendo col rendere definitivamente oscura la coesistenza di più forme di regime della terra e mostrandosi incapace di dare adeguata spiegazione della triplice forma dell'a. privatus, dell'a gentilizio e dell'a pubIicusP*\ Lo stesso collegamento fra possesso dell'a. publicus e possessio privati stica cheriapparivanelle pagine della Bozza, finiva con l'oscurare la realtà più arcaica,riannodandosipiuttosto a quegli schemi 'continuistici' di cui ho già così ampiamente discorso. Non a caso la Bozza, in un passaggio chiave del suo primo saggio, pur riconoscendo la validità dello schema mommseniano volto a distinguere nettamente la possessio dell'a publicus dalla pos sessio del diritto privato, non solo si affrettava a circoscriverne - del resto in modo plausibile - il valore. Essa soprattutto, in questa prospettiva rinunciava ad approfondire il significato della figura stessa dell'agerpublicus arcaico e di una sua possibile specificità rispetto al più tardo regime. Anche quando, poi, nelle successivericerche,tale studiosa indagherà a fondo sulle forme più risalenti di appropriazione dell 'a. publicus, una serie di ostacoli recepiti da una consolidata tradizione*55' renderà impossibile una precisa e convincente interpretazione del processo di trasformazione del regime dell'a. publicus.
sessiones formarono il grosso del territorio della gens...». Dove appunto ciò presuppone che vi sia un'altra parte, sia pure minore, del territorio della gens che non consiste in a publicus. (54) Mi riferisco in particolare al più tardo contributo di BOZZA, 1938, già più volte citato e dove, come ho accennato già in nt 51, il rapporto fra a. publicus e gentes sembrerebbe deli nearsi meno nettamente, essendo tutto il discorso dell'a., in ordine alla più antica età di que ste possessiones, interamente volto a recuperare una realtà precivica caratterizzata da una strut tura di villaggi e dal ruolo centrale delle familiae (p. 125 ss.). Con la unificazione dei villaggi la terra di ciascuno di essi diventa il primitivo a. publicus, mentre gli Etruschi, sotto la cui influenza viene affermandosi ìapòlis, introducono il dominium dei campi, risultato della centuriatio etnisca (p. 144 s.). Uager del villaggio era soggetto ad una signoria 'economico-poli tica' di cui erano titolari tutti i membri del villaggio (non sappiamo se questo sia da collegare ad una gens) ed era individuato come possessio (p. 146 ss.). Gli Etruschi non fecero che con-, servare siffatta possessio accanto agli agri divisi et adsignati, spogliata peraltro del suo origi nario carattere di signoria politica (p. 148 s.)· Su tali possessiones restarono i preesistenti bene ficiari, ormai però come concessionari del rex, essendo tali possessiones divenute dominium della civitos (p. 151). (55) Anzitutto la spiegazione della lotta plebea del V sec. e del contenuto della seconda legge Licinia Sestia con l'ipotesi della precedente esclusione legale dei plebei dalla fruizione dell'a. publicus. Ugualmente.significativa la rappresentazione àcWager gentilizio parallelo aìVager publicus anch'esso concesso dal rex alle gentes patrizie.
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Ci si limita ariconoscereche la precedente signoria politica si mutò in una signoria sulla cosa parallela a quella della proprietà del diritto privato. Dove tuttavia resta abbastanza indeterminato il cambiamento del soggetto di tale rapporto, da una realtà collettiva come la gens allafigurafortemente indi vidualistica del dominium romano. Cambiamento che invece appare come il nodo centrale del processo che portò al superamento del più antico regime della terra in Roma. Insomma, se da una parte la Bozza aveva impostato esattamente il pro blema della natura dell'a publicus arcaico, proponendo un'ipotesi evolutiva (dalle terre 'preciviche' delle gentes autonome) plausibile, anche se certamen te discutibile, essa poi non erariuscitaa ricavare da tale intuizione tutte le pos sibili e importanti conseguenze, anche sul piano della qualificazione giuridica delle diverse situazioni. Fondandosi infatti su una interpretazione della con trapposizione a. publicus-ager in proprietà, come una costante dell'ordina mento romano, essa, non diversamente del resto dallo stesso Mommsen, fini va col postulare una proprietà gentilizia della terra accanto alle possessiones di ager publicu^S6\ La limitazione prospettica e il conseguente dissolversi di una adeguata percezione della diversità qualitativa delle variefiguregiuridiche in relazione alle differenti situazioni storiche e al diverso tipo dei rapporti sociali corrispondenti, anche in questo caso, derivava a mio giudizio da una insufficiente riflessione sulla possibile evoluzione interna di unafiguraconce pita in termini comunque troppo uniformi quale Va. publicus. È questo il nodo centrale su cui si misura sin dal secolo scorso la rifles sione storiografica moderna. Si può con una certa sicurezza affermare che, per le origini di Roma, si presenta con maggiore evidenza una sostanziale polarizzazione tra la proprietà privata degli heredia e la forma comunitaria di appropriazione della terra {ager gentilizio). In tal caso, come ho cercato di dimostrare soprattutto nel corso del terzo capitolo, sarebbe la figura dell'a. publicus, nella forma che esso assumerà negli ultimi secoli della Repubblica, ad apparire più tardi. Per questo, malgrado l'indubbia originalità e ilrilievoparticolare delle sue ricerche, Francesca Bozza non appare in grado di superare quella barriera che, {56)
Sul punto v. quanto già sostenuto in nt 53.
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sin dall'inizio della nostra moderna tradizione di studi, appare circoscrivere questa particolare problematica, rendendo impossibile fuoriuscire appieno della troppo limitata dialettica tra il modello dell'ager publicus d'età più avan zata e le terre assegnate in piena proprietà quiritaria ai singoli cives. Così l'a spetto più fecondo delle suericercherappresentato dalla derivazione genetica del primitivo ager publicus dalle forme preciviche di controllo del territorio appare insufficientemente sfruttato alfinedi un più profondoripensamentodel processo di formazione e della natura originaria del demanio territoriale roma no, ancherispettoal ruolo autonomo delle gentes nell'ambito della città primi tiva. Pure un punto fermo della granderiflessionebonfantiana.
8. Ai margini del recente dibattito Possiamo così meglio valutare la successiva evoluzione storiografica che si viene svolgendo, in questo campo, essenzialmente in area tedesca. Mi riferi sco anzitutto ad alcuneriflessionidi Franz Wieacker circa la natura delle forme primitive di dominio della terra(57), ma soprattutto mi riferisco all'opera di Max Kaser. Con quest'ultimo autore è lo stesso nodo della tripartizione sopra ricor data che viene perdendo di spessore e il tentativo di una maggiore storicizzazione permette di dare uno spazio più autonomo àlYager gentilizio*58*. (57)
In WIEACKER, 1942, 204 ss., noi incontriamo chiaramente delineata la tendenza a sottrar re le forme primitive di appartenenza della terra agli schemi giuridici romani d'età più avan zata, e in particolare al modello del dominium. (5g) Su tali questioni mi sembra che il più importante contributo del Kaser sia ancora rappresen tato dalla sua opera, coeva al saggio del Wieacker citato alla nota precedente, KASER, 1943, riedi to con semplici appendici nel 1956: vi é un passo molto importante in tale opera in cui, per la lon tanissima età delle origini cittadine, l'autore sembra riconoscere la identità fra Va. publicus e le terre comuni delle genti. Ο meglio egli riprende e sviluppa un'idea già presente nella precedente tradizione romanistica, secondo cui si sarebbe verificata una trasformazione nella titolarità del ter ritorio agricolo: prima di pertinenza della comunità gentilizia e poi della comunità statale (p. 228 s.). Pertinenza, aggiunge il Kaser, che inesattamente è indicata come 'proprietà collettiva': inesat tamente perché si è lontani dallo schema privatistico della proprietà. Naturalmente - e quindi si riprende la tematica mommseniana del significato dei bina iugera, come orto domestico - la comunità agraria della gens non esclude la presenza anche di una proprietà individuale, limitata nella sua estensione, né, d'altra parte, impedisce di far sorgere rapporti organici di sfruttamento su singoli lotti da parte delle varie famiglie (p. 231 ss., 236 ss.). Nel complesso, conclude il Kaser,
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Che gli spunti, non sempre organici e talvolta contraddittori, che riscontria mo nel Kaser fossero destinati a dare buonifrutti,mi sembra confermato,fral'al tro, dal bel libro di Giorgy Diósdi sulla proprietà arcaica romana, che si colloca chiaramente nell'ambito di influenza dello studioso tedesco. Con il Diósdi si evi denzia ormai la maturata convinzione di una difficoltà ad applicare, nell'analisi delle realtà arcaiche, gli schemi giuridici e i modelli propri dell'età successiva. Che autori come Wieacker e Kaser esitassero «to term the landed property of the gentes as ownership», scrive il compianto romanista ungherese, non è affatto casuale. In effetti la signoria delle gentes sulla terra non aveva una protezione legale. «Before the establishment of the state, this kind of property probably only meant that a given territory was subject to the rule of a gens. In the case of an attack, the members of the gens would protect it jointly. Nor do we have any knowledge of a legai protection of gentilic property introduced after the establishment of the state». Ed è quest'ultima osservazione la più importante, perché essa introduce una definitiva rottura tra il regime délV ager gentilizio e la nozione di proprietà. Il carattere fattuale della signoria sul primo avvicina questa in modo molto significativo ai modelli possessori, da sempre riferiti sai9 ager publicn&59\ spiegando così la sempre rinnovata tendenza a fondere e confondere il si è verificato un generale spostamento della terra da forme comunitarie a forme individuali di appropriazione, ed è per questo che si può affermare che, originariamente, tutta la terra era a. publi cus, e che, sin da età risalente, essa in gran parte è venuta trasformandosi in a privatus (p. 238). Dunque «war die Rechtslage des alten Gemeinschaftslandes, als dessen Trager allerdings in vorund fruhstaatlicher Zeit die Verbande erscheinen, keine andere als die des spàteren ager publicus». La signoria materiale dei singoli su di esso «wird uns wertvolle Aufschlusse fur die Entwicklung des altr6mischen Besitzrechtes bieten» (p. 239). Di grande interesse per una piena comprensione degli schemi del Kaser e della loro potenzialità, l'esposizione fattane da LEIFER, 1953, 832. CS9) DIÓSDI, 1970, 38, ripropone il quesito se la proprietà collettiva della terra sia imputata alla gens ο allo Stato. Quesito che era già affiorato insistentemente in diversi autori e che lo stes so Kaser aveva in qualche modo ripreso proponendo la interessante periodizzazione e la tra sformazione déìVager gentilizio in ager publicus in senso tecnico che abbiamo visto alla nota precedente. Dopo aver affermato con energia che per i suoi stessi caratteri arcaici la comunità della terra doveva riguardare una realtà precivica come la gens e non dipendere dal momento della formazione dello stato, Diósdi correttamente conclude che è la stessa natura giuridica di tale rapporto a dover essere ridefinita. Poiché infatti le gentes hanno preceduto l'affermazione dello stato, «and consequently of the Law», noi non possiamo parlare della proprietà delle gen tes come di un «diritto» di proprietà. Essa non era che san actual (material) relationship and not yet a legai one\ Di grande interesse e ricche di spunti originali di analisi sono le pagine che il Diósdi dedica ad una rapida storia del dibattito sul carattere collettivo ο individuale della proprietà primitiva della terra (p. 31 ss.). Anche sotto questo profilo si impone la personalità del Mommsen su cui anche io ho cercato di svolgere qualche pur rapida considerazione nel
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primo con il secondo. E tuttavia, attraverso questo processo di chiarificazio ne avviato dal brillante romanista ungherese, si venivano riproponendo quel le premesse che già alcuni filoni ottocenteschi avevano enucleato, per quella diversa interpretazione del significato deìVager publicus arcaico e della vicenda ad esso relativa che ho cercato di proporre nel corso dei precedenti capitoli. Così infatti la lettura in senso 'continuistico' dellapossessio dell'a. publicus era praticamente abbandonata, aprendosi quindi la possibilità di una compiuta e radicale revisione delle interpretazioni date dagli storici e dai giu risti a questa pagina di storia romana arcaica.
9. La discussione attuale In quest'ultimo paragrafo vorrei dar conto dell'attuale stato del dibatti to che solo in parte appare influenzato dalla mia riflessione critica in tema di ager publicus arcaico e sulla natura delle ipotetiche terre gentilizie, le cui prime formulazioni risalgono agli inizi dello scorso decennio*60*. Un dibattito che tuttavia sembra registrare il pur limitato riaccendersi di un interesse che, altrimenti, era in precedenza venuto attenuandosi, in parallelo, del resto con una più generale perdita di interesse per i grandi temi legati alla storia del regime giuridico delle terre romane e, in particolare, con l'eccezione di Alberto Burdese, dell' ager publicus. Ricorderò anzitutto la pur rapida presa di posizione di Giovanni Pugliese che, di recente, nel menzionare una cresci ta progressiva della sfera deiV ager publicus immaginava che esso si fosse venuto sviluppando in sostituzione delle terre gentilizie*60. Una valutazione corso di queste pagine (ma v. anche supra9 cap. VI, § 6). In questa sede mi limiterò ad anno tare come, a mio giudizio, il Diósdi forzi un po' la sua interpretazione collocando lo Jhering e lo stesso Bonfante (p. 32 nt 11) fra gli oppositori delle tesi 'collettivistiche'. Sebbene io non possa concordare su questo punto, mi sembra dunque significativa questa possibile interpreta zione perché potrebbe rivelare quella sostanziale ambiguità della costruzione bonfantiana su cui v. CAPOGROSSI, 1997a, capp. 7 e 8. (60 >Cfr. CAPOGROSSI, 1980,29 ss. (61) PUGLIESE, 1991, 121. Ivi si sostiene infatti che all'inizio della monarchia etnisca era pro babile che più della metà di tutte le terre disponibili fosse ancora di pertinenza delle genti. Solo in seguito alle antiche terre gentilizie si sarebbe venuto sostituendo man mano il demanio di terre effettivamente pubbliche.
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dunque molto sfumata sul piano cronologico e per quanto concerne la sequenza delle varie situazioni, ma non troppo dissimile dalle mie ipotesi che sono venuto esponendo nel corso dei precedenti capitoli. Ben diversamente dunque dalla posizione più ampiamente sostenuta da altri due studiosi italia ni: A. Burdese e F. Serrao. Quest'ultimo autore infatti, direi quasi a conclusione di un vasto pro getto di indagine sulle strutture sociali e territoriali di Roma arcaica(62), da lui ispirato e guidato, ha esplicitamente criticato le mie tesi, ribadendo nella sostanza la legittimità dell'interpretazione tradizionale*63*. Parlare di una pro prietà collettiva gentilizia è possibile, per Serrao, ma solo a condizione di proiettare questa verso l'età precivica, mentre nella fase successiva, già nel corso del periodo regio, le gentes «vennero perdendo i loro caratteri di grup po compatto, che sfruttava collettivamente gli agri impiegando precipuamen te il lavoro dei clientes». Contro la persistenza di una signoria gentilizia delle terre deporrebbe altresì la natura stessa dell'ordinamento cer^turiato, fondato appunto «sul censo dei singoli cittadini» e quindi «inconcepibile ove il pos sesso e lo sfruttamento UeìVager fosse stato esercitato collettivamente dalle gentes e non dai singoli patres»m. Serrao è troppo esperto giurista e avvertito storico per non rendersi conto del pericolo costituito dall'insistenza di altri, primo tra tutti il Tibiletti, sul valo re innovativo delle leggi Licinie Sestie in ordine all'ammissione dei plebei sulPager publicus. Egli cosìritienedi evitare l'ostacolo assimilando l'esclusione plebea dalle terre pubbliche a quella dal governo della prima città repubblica na. «Erano esclusioni di fatto - scrive così tale autore - che derivano dallo squi librio economico, sociale e politicofrale due classi». E per ciò stesso, in segui to, non vi sarebbe stato bisogno «di una norma che espressamente ammettesse i plebei al godimento dell'ager publicus: bastava dar loro la base politica da cui avrebbero potuto trarre la forza, o, se si preferisce, il potere contrattuale, a par tecipare all'occupazione e sfruttamento dell'ager»{65\ (62) Mi riferisco soprattutto alle ricerche da lui dirette e coordinate e sostanziatesi nel volume miscellaneo SERRAO, 1981, di cui vanno ricordati per la tematica che qui rileva soprattutto i contributi di D. Capanelli, S. Borsacchi ed A. Santilli, oltre che dello stesso Serrao.
<63>Cfr. SERRAO, 1987, 149 ss. <"> SERRAO, 1987, 167 s.
<6S> SERRAO, 1987, 165 s.
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È questo un argomento che siritrovanell'altro saggio di A. Burdese che ho precedentemente ricordato. Sebbene la prospettiva di questo saggio sia spostata prevalentemente verso l'età medio-repubblicana(66), nella sua parte iniziale si colloca una discussione abbastanza approfondita della possibile portata della legislazione del 367 a.C. Ma soprattutto esso mi sembra degno di nota giacché tende a sottolineare in modo più netto di quanto sia dato riscontrare nella precedente discussione, tanto nei miei contributi che nello stesso saggio di Serrao, l'importanza periodizzante della distribuzione del territorio veiente a tutti i cittadini romani. Sarebbe infatti tale distribuzione a chiudere nella sostanza, vent'anni prima delle leggi Licinie Sestie, l'annosa diatriba patrizio-plebea intorno all'ager publicus apertasi o, almeno, acuitasi, quasi un secolo prima, con la rogazione agraria di Spurio Cassio, nel 486 a.C.(67). Questa indicazione appa re importante perché giustamentericonducel'evento del 367 a.C. all'interno di un processo più ampio di cui sono colti altri momenti significativi. D'altra parte Burdese, forse più di Serrao, sembraricalcarei vecchi sentieri della tra dizione romanistica proiettando all'indietro, sino almeno all'inizio della Repubblica, la «contrapposizione fra le due fondamentali forme giuridiche di appartenenza della terra,rispettivamenteconsiderata privata ο pubblica». È vero infatti che egli si limita ad affermarne l'efficacia per l'inizio del periodo storico da lui preso in considerazione - il IV sec. a.C. - ma è anche vero che egli esclude la presenza di altre forme per l'età immediatamente preceden te^. Non sembra tuttavia che, nel riprendere l'analisi delle forme arcaiche deìVager publicus,9 a. suo tempo da lui così acutamente sviluppata(69), A. Burdese offra prospettive veramente innovative in ordine al tema che a me continua a sembrare al centro di tutta questa problematica, rappresentato dalla ipotesi di una sostanziale continuità fra le forme arcaiche di terre pub bliche e quelle nella media e della tarda Repubblica. Sotto questo profilo il contenzioso fra patrizi e plebei nel V secolo appare ricondotto alla esclusio(66
>Cfr. BURDESE, 1985,39 ss.
<67>BURDESE, 1985, 48 ss.
t^Si v., appunto BURDESE, 1985, 40 ss. (W)
Mi riferisco, com'è ovvio, al fondamentale saggio di BURDESE, 1952.
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ne, di fatto più che di diritto, della plebe dalle terre pubbliche, come «con suetudinario divieto normativo»™ secondo una formula impiegata dall'auto re. Una formula non del tutto felice in verità perché conserva un margine di incertezza rispetto al piano d'azione di tale divieto e, conseguentemente, anche al ruolo successivo della stessa lex Licinia de modo agrorum che potrebbe continuare ad essere interpretata come formale equiparazione dei due ordini che il precedente assetto costituzionale avrebbe quindi trattato in forma differenziata. Mi sembra comunque che, in questo suo nuovo contributo, Burdese sia venuto leggermente modificando la prospettiva a suo tempo seguita e che più appare orientata a considerare l'esclusione plebea delle terre pubbliche come fondata su elementi di diritto(7,). Era irrisolta allora, e non mi sembra si sian fatti grandi passi in avanti ora, la difficoltà che già altri studiosi avevano indi viduato: perché i plebei, facendo già parte del populus, dovessero subire tale esclusione come necessaria conseguenza della loro posizione all'interno della comunità cittadina(72). Dove invece mi sembra si delinei appieno una forte continuità di pensiero è nella determinazione della fisionomia e delle forme del primitivo ager publicus che viene inevitabilmente raccordato alla figura dell'ager occupaiorius, nonché, in modo peraltro più indeterminato al compascuo(73). Va detto che, sotto diversi aspetti, le precisazioni e le interpretazioni proposte da questi due autori non mi vedono in sostanziale dissenso. Vorrei anzitutto precisare che, anche ai miei occhi, la distribuzione dell'agro veiente nella misura di sette iugeri a tutti i cittadini romani appare il fatto perio dizzante che sancisce la piena e definitiva emersione della forma individuale
™Cfr. BURDESE, 1985,54. pi
»Cfe BURDESE, 1952, 23 SS.
^BURDESE, 1952, 24 s., sostiene che l'esclusione di diritto della plebe in un'epoca in cui essa fa già parte del populus è ammissibile nel caso in cui «i beneficiari del regime occupatorio erano in origine soltanto gli appartenenti a quella classe patrizia cui era riservata la dire zione dello Stato» e quindi «solo con la parificazione politica tra i due ordini e l'ammissione dei plebei alla massima magistratura è pensabile che sia stato aperto anche a loro il diritto di godimento dell'ager occupaiorius». Argomentazione questa che presenta a mio giudizio un aspetto tautologico e che presuppone una diretta assimilazione dell'esclusione dalle magistra ture supreme all'esclusione dal demanio delle terre cittadine, che è altra cosa. ^Cfr.
BURDESE, 1952, 26 ss., 36 ss.
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del dominium ex iure Quiritium come forma dell'organizzazione e dello sfruttamento agrario romano. È questo un primo punto di concordanza sia con Burdese che con lo stesso Serrao. Il che, naturalmente, non esclude che già in età predecemvirale, almeno a partire dall'età serviana, la proprietà indi viduale della terra fosse un elemento centrale non solo del sistema privatisti co, dell'antico iits civile, ma fosse elemento costitutivo dello stesso ordina mento politico cittadino. Ed è sotto questo profilo che, forse, le precisazioni dello stesso Serrao in ordine alla precoce scomparsa delle terre gentilizie sono ispirate ad una interpretazione troppo rigida delle mie stesse ipotesi. D'altra parte lo stesso Serrao, in apertura di discorso mi sembrava aver posto con grande precisione, non solo il problema della natura di queste primordiali 'proprietà' gentilizie della terra, ma anche la possibile loro persistenza nella prima fase della costituzione cittadina(74). Anch'io sono convinto del fatto che questi possessi delle gentes patrizie avessero ormai, nell'epoca dei Tarquini e nel corso del V sec. a.C, un carat tere 'regressivo' rispetto alla nuova forma individualistica del dominium (e dellapossessio delV ager occupatorius e delle prime forme di agerpublicus): in una parola rispetto alFaffermarsi dell'ordinamento centuriato e dell'eser cito oplitico che, ormai, sulla proprietà individuale erano fondati. Nulla però vieta di pensare ad una parabola discendente - malgrado la ripresa patrizia della prima metà del quinto secolo - sino alla loro definitiva e totale scom™SERRAO 1987, 55, sub a, appare giustamente privilegiare l'interpretazione del primitivo ager gentilizio come estraneo sia alla categoria di 'privato' che di 'pubblico'. In seguito, «tale ager potrebbe poi essere stato diviso definitivamente fra i gentili, divenendo proprietà privata individuale ο si sarebbe in qualche modo confuso con l'agerpublicus posseduto dagli stessi». Che è quanto io stesso suppongo: la divergenza sussiste intorno alla datazione di siffatto pro cesso, che io tenderei ad abbassare tra il V e il IV sec. a.C, mentre Serrao tenderebbe piutto sto a collocarla nell'età della monarchia latina (cfr. SERRAO, 1987, 168). Ma di nuovo mi trovo pienamente d'accordo con tale a. nella sua valutazione del significato - ai fini della problema tica qui affrontata - della migrazione dei Claudi, della successione dei gentili e, infine, della «derivazione gentilizia dei nomi delle sedici più antiche tribù rustiche». Sono questi tuttavia elementi - soprattutto gli ultimi due, «la concessione di un territorio alla gens Claudia consi derata nel suo complesso» e l'onomastica delle tribù - determinanti ai fini della datazione del processo di trasformazione suaccennato. Che non può, neppure nella logica di Serrao, una volta sussunti questi elementi probatori, essersi concluso prima della migrazione dei Claudi e della costituzione delle prime sedici tribù rustiche. Con il che scendiamo nuovamente agli inizi dell'età repubblicana: in coincidenza con quella fase acuta di conflitti patrizio-plebei intorno al controllo delle terre pubbliche e alla loro possibile trasformazione in proprietà privata al centro della presente discussione.
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parsa con la lex Licinia de modo agrorum{15\ Ma converrà rinunciare a precisare ulteriormente i margini del dissenso e delle convergenze tra gli autori ora considerati e le mie posizioni, giacché esula dalle prospettive di questo capitolo una diretta discussione delle varie posizioni emerse nell'ambito di una tradizione storiografica dei cui sviluppi nel corso dell'età moderna ho cercato di offrire una rapida e quanto più pos sibile aggiornata panoramica. Nel ripercorrere infatti questo circoscritto filo ne storiografico, pur ovviamente non evitando di ribadire il mio angolo visua le e i principali argomenti, che lo potrebbero supportare, ho cercato soprat tutto di dar conto delle linee di forza e dei percorsi delle varie tradizioni di pensiero. Nonriprenderòdunque in termini analitici la discussione già svol ta in linea generale nel corso dei due precedenti capitoli. In questa sede mi limito quindi aribadireancora una volta che la particolare ipotesi ricostrutti va da me sostenuta conserva un forte valore provocativo anche e soprattutto al fine di evidenziare i punti deboli e le incertezze della precedente tradizio ne storiografica. È comunque indubbio che l'efficacia di questa provocazione appare estremamente circoscritta. Forse più della reazione dei due autori italiani da ultimoricordatiè significativo, sotto tale profilo, l'orientamento più recente di uno dei grandi romanisti di questa seconda metà del secolo, che già avevo avuto occasione di citare per sue ricerche più lontane nel tempo: Franz Wieacker. Nella sua monumentale Storia del diritto romano apparsa pochi anni or sono, egli riprende dunque il vecchio tema della possibile originaria signoria collettiva delle genti sulla terra, in una rappresentazione relativaas> Un problema centrale diviene la valutazione degli aspetti quantitativi costituiti dalle dimensioni di queir «ager captìvus caduto nel potere della città dai tempi della monarchia etnisca in poi, e specie quello conquistato nel V e nel I trentennio del IV secolo» (SERRAO, 1987,168). Mi concentrerei piuttosto sulle terre acquisite in epoca repubblicana, giacché è per esse che si è acceso il contrasto tra patrizi e plebei: ora io non credo che per quello che risul ta dalle fonti antiche, che nel corso del V secolo vi sia stata una grande espansione territoria le di Roma con la conseguente disponibilità di nuove estensioni di ager captìvus. Per il IV secolo poi, il fatto centrale è costituito dalla presa di Veio e dalla grande distribuzione in pro prietà privata dei territori così conquistati. In conclusione il conflitto tra i due ordini, sino alle leggi Licinie potrebbe essersi verificato più intorno alla ridefinizione di situazioni appropriative preesistenti che intorno alla destinazione di nuove entità territoriali. Con la presa di Veio poi ormai gli equilibri appaiono definitivamente modificati a favore della plebe. Ma anche sotto questo profilo, oggi, tenderei a sfumare le divergenze tra la posizione di Serrao e la mia.
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mente rapida ma assai efficace(76). Mi sembra tuttavia che manchi ο non sia sufficientemente delineata la saldatura fra questa situazione di origine e l'e voluzione successiva. Se infatti ancora le prime tribù territoriali derivano il loro nome dalle gentes e se la primitiva figura délVhereditim può anch'essa associarsi alle terre gentilizie, allora si dovrà dedurre che queste ultime sopravvivono ancora verso la fine dell'età monarchica o, addirittura, nella prima età repubblicana? L'insigne romanista non mi sembra dia una risposta precisa a tale quesito, ma, dal complesso del suo discorso, potrebbe forse ricavarsi un orientamen to negativo(77). Con il che, anche nella sua magistrale ricostruzione si ripropo ne il problema del primitivo ager publicus e del fondamento del monopolio patrizio su di esso. Una posizione ancora diversa, per certi versi ancora più complessa, è quellaribaditada Arnaldo Momigliano nel suo contributo sulle "origini di Roma' nella nuova edizione della Cambridge Ancient History. Ivi infatti incontriamo una radicale svalutazione del problema stesso delle terre gentilizie, insieme al sostanziale scetticismo sul significato stesso del possibile carattere precivico delle gentes, secondo quanto già Bonfante e molti autori da lui influenzati avevano sostenuto*78*. Coerentemente a tale impostazione Momigliano accetta come pacifica l'esistenza di terre pubbliche che, sin dalle origini, anzi soprattutto in età moltorisalente,avrebbero potuto assicurare la base per il sostentamento delle famiglie romane, legata al pascolo, di fronte ad un'insufficiente estensione del territorio destinato aH'agricoltura(79). Malgrando l'eleganza della formula zione, torniamo così, nella sostanza, agli schemi che furono già di °6) WIEACKER, 1988, § 9, III.l, 197 s. «indizi di una originaria proprietà comune sulla terra arabile e sui pascoli» da parte della gente «potrebbero essere: il nome gentilizio delle più anti che tribù territoriali», nonché la successione in caso di assenza di agnati e la competenza sui furiosi ™ Cfr. F. WIEACKER, 1988, § 16, 347
ss.
^ MOMIGLIANO, 1981, 420: «it is not impossible that the gens as an institution acquired consistency before the urban development of the archaic ages, as P. Bonfante and others have assumed». D'altra parte il sistema è attestato dall'onomastica successiva a Romolo e, soprat tutto, esso appare destinato a dififondersi in tutta la comunità cittadina, non restando esclusivo dell'aristocrazia patrizia. m Cfr. MOMIGLIANO, 1981, 422. Non vi è invece evidenza che le genti possedessero in pro prio le terre «or other ordinary property». In effetti «toghether with the notion of gentile ownership any illusion of catching Roman private property in statu nascerteli must be abandoned» (MOMIGLIANO, 1981, 421). Il che è amaro, ma probabilmente esatto.
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Mommsen: ma anche questo si spiega bene, non solo per il valore di riferi mento che la sua opera ha giustamente continuato ad avere sino ai giorni nostri e che, io sono convinto, non verrà meno anche in futuro, ma anche per la capacità di semplificazione di una problematica altrimenti assai oscura. La coerente soluzione prospettava dall'indimenticabile maestro ed amico, come ho accennato all'inizio stesso di questa mia trattazione, nel corso del primo capitolo, è l'unica seria alternativa che all'insieme di que stioni che altrimenti non possono essere evitate in ordine al regime del pri mitivo ager Romanus. Perplessità da parte mia non sono dunque avanzate su questo aspetto complessivo del discorso di Momigliano, quanto piuttosto nella insufficiente percezione dei nodi che ho già evidenziato nel corso del primo capitolo e che attengono al modo in cui il conflitto patrizio-plebeo di V secolo viene a svolgersi. E del resto molti di noi ricordano la non sempre celata insofferenza di Momigliano verso quelle che egli tendeva a considera re arzigogolazioni di giuristi. La lunga discussione da me sviluppata in ordi ne alla identificazione della precisa natura giuridica di quelle terre pubbliche che la tradizione riferisce come esclusivo possesso delle genti e dei loro clienti si colloca perfettamente nell'ambito di tali diatribe. Non dobbiamo tuttavia dimenticare come fosse fortemente plasmato dalle categorie giuridiche l'intero universo romano: non solo per l'età più avanzata, ma già in un'epoca come il V sec. a.C, dove appunto intervenne quella pietra miliare costituita dalla legge delle XII Tavole. In verità si rischia in tal modo di sfuocare la stessa questione della trasformazione eventuale delle antiche terre 'comuni' e, insieme, di perdere di vista le possibili cesure di questo stes so processo. Così, ad es., nella comprensiva opera di De Martino, sulla Storia economica di Roma, nuovamente noi vediamo sfuggire il passaggio dalla appartenenza delle terre alle genti alla nuovafisionomiadell'ager publicus di età storica<80). Ma, ripeto, proprio l'autorevolezza degli ultimi studiosi da me ricordati serve a sottolineare l'obiettiva difficoltà ed oscurità delle fonti antiche e la difficoltà di ogniricostruzionedei moderni, e conseguentemente il caratte re ipotetico di tutte laricostruzioniavanzate: in primo luogo la mia. (80)
Cfr. D E MARTINO, 1979, 8, 15, 19, 26, dove non è chiaro il passaggio dalla situazione di partenza (i bina iugera associati alla terra comune della gens) all'esclusivo rapporto di appro priazione dell' ager publicus da parte delle genti.
Capitolo Vili
I 'mores gentium ' e la formazione delle strutture cittadine
1. l'mores' gentilizi In una recente trattazione Giovanni Pugliese sintetizza un'opinione tra dizionale fra gli storici delle istituzioni giuridiche romane, secondo cui «durante i primi tre secoli della storia di Roma gran parte del diritto, in parti colare del diritto privato, sia stato costituito da 'mores ', ossia da costumi e da regole non scritte ad essi conformi». A questo carattere consuetudinario del più antico nucleo di regole giuridiche e, più latamente, sociali di Roma fanno appuntoriferimentoifrequentirichiamia pratiche del mondo romano, rispet tose dell'«antico mos»: dove appunto quest'ultimo termine non indica diretta mente la consuetudine come fonte normativa, bensì il modo in cui essa è regi strata e interpretata dalla scienza pontificale(1). Sottolineo questo punto perché esso ci aiuta a mettere meglio a fuoco il problema centrale che vorrei affron tare in queste pagine. Mi riferisco precisamente alla relazione fra l'insieme delle istituzioni giuridiche e sociali che costituiscono il patrimonio della cratas nella sua fase iniziale e il carattere degli ordinamenti preesistenti su cui questa si è venuta formando: le strutture gentilizie e il mondo dei pagi (1
> PUGLIESE, 1991, 32 S.
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È noto come il problema della identificazione ο meno delle tradizioni e delle istituzioni gentilizie con le forme giuridiche proprie dell'ordinamento cittadino sia stato oggetto, in anni passati, di discussioni anche vivaci: ad esse mi riferisco solo al fine di meglio precisare il tipo di approccio qui seguito. Questo infatti mira a mettere a fuoco il carattere dinamico di un processo sto rico che, percepito in una prospettiva priva di profondità di campo, finirebbe altrimenti con l'appiattire fenomeni, purfraloro strettamente collegati, ma che vanno collocati su piani diversi. Tale appiattimento mi sembra infatti sia in qualche modo percepibile nella discussione cui sopra facevoriferimentoe che ha visto contrapporsi in partico lare due grandi studiosi italiani: Edoardo Volterra e Giuseppe Grosso. In que sta discussione il problema della influenza delle tradizioni gentilizie sulle forme giuridiche dell'ordinamento cittadino,rischiavaaddirittura di vanificar si. Si sfuocava così il nodo centrale costituito dal processo di trasformazione delle une nell'altro, imponendosi invece in primo piano la questione della coe sistenza di più ordinamenti e dell'interazione dell'uno sull'altro(2). Sotto questo specifico profilo si doveva necessariamente concludere affermando, come ebbe a fare Riccardo Orestano, che «agli ordinamenti famigliari e gentilizi si può attribuire valore indiretto nella produzione giuridica, ma non considerare quan to avviene nel loro ambito direttamentefrai fatti di produzione normativa del l'ordinamento romano»(3). Così si chiariva effettivamente un aspetto centrale del confrontofraVolterra e Grosso, ma restava aperto il problema a mio avvi so più importante. Si era infatti messa a fuoco la problematica inerente alla coe sistenza di più centri di produzione normativa all'interno di un determinato sistema; restava però appena sfiorata la questione dell'influenza, nell'evoluzio ne dell'ordinamento giuridico romano, di pratiche e forme di comportamento regolate dai centri minori, come appunto le gentes, coesistenti nell'ambito della pòlis. Restava soprattutto assolutamente fuori di questa prospettiva la questio ne che a quest'ultima direttamente si rapportava e che è invece al centro di que(2)
Cfr. in particolare GROSSO, 1946, 13 ss.; 1950, 495 ss.; 1954, 473 ss.; VOLTERRA, 1949,
179 ss.; 1953, 337 ss.; 1956, 449 ss. Inutile ricordare quanto grande fosse l'incidenza, spe cie in Grosso, delle teorie sviluppate neir ambito dei costituzionalisti italiani, specie ad opera di Santi Romano. Ai nomi qui citati occorre aggiungere almeno quello di G.I. Luzzatto. (3)
Cfr. sul punto ORESTANO, 1967, 60.
/ 'mores gentium '
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sto capitolo: mi riferisco al rapporto tra il contenuto del primo ordinamento cit tadino e le tradizioni e pratiche ad esso preesistenti e formatesi all'interno delle strutture sociali ancora precedenti. E su tali aspetti che verremo qui interrogan doci, sulla base delle esili tracce che l'antichità ci ha conservato. In queste pagi ne, si cercherà dunque di indagare gli aspetti di continuità e di trasformazione che legano le tradizioni religiose e latamente giuridiche delle comunità sociali preciviche all'ordinamento cittadino, costituitosi in gran parte attraverso un complesso fenomeno di 'travaso' e di 'traduzione' in termini di diritto e di reli gione della civitas del più antico materiale istituzionale prodotto all'interno e ad opera degli ordinamenti preesistenti alla genesi cittadina. Questo mio tenta tivo, comunque, cercherà di non ripercorrere ancora una volta, sia pure con for mulazioni più aggiornate, le antiche strade segnate, sin dal secolo scorso, dalle ed. teorie patriarcali, secondo la tipica serie cronologica costituita dallo sche ma evolutivo famiglia-gens-pòlis(4).
2.l'sacra' gentilìzi Proprio per questo motivo, si impone in modo ancora più evidente il problema della individuazione di queste realtà preciviche, una volta che si sia evitato di identificarle immediatamente con le gentes, così come esse ci appa riranno in età cittadina. Mi sembra dunque che, conformemente alle idee seguite da buona parte della nostra più recente storiografia, le formazioni pre civiche vadano individuate essenzialmente nei pagi, nelle comunità tribali organizzate nella forma del villaggio. Sussiste certo un intimo rapporto fra questo e il successivo ordinamento gentilizio. Ed infatti già la comunità del villaggio primitivo, come bene ci hanno insegnato gli altri autori del secolo scorso, si fonda anch'essa, come poi la gens, sull'idea, in genere fittizia e per ciò stesso ancora più significativa, di una comune origine e dei conseguenti vincoli parentali che ne derivano. In realtà questa mia precisazione comporta un aggiustamento, quasi impercettibile forse, delle teorie generalmente rece-
w
S u cui si v. soprattutto CAPOGROSSI, 1997a, cap. 7 e 9.
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pite dagli specialisti in materia. Proprio perché fin dai tempi di Mommsen e di Weber e ancor più chiaramente nelle recenti generazioni di studiosi - si pensi soltanto ai Primordia di de Francisci - si è sempre definito in termini assai stretti il collegamento fra gens e pagus, questo come insediamento materiale di quella. Il piccolo aggiustamento prospettico da me suggerito riguarda dunque in sostanza il fatto che la comunità del pagus ο del villag gio, se presenta caratteristiche strutturali identiche a quelle che saranno pro prie della gens in età storica, ed è dunque destinata nel tempo (e soprattutto nella nostra ben più tarda prospettiva) ad identificarsi con questa, se ne distin gue su un punto specifico. Mancava cioè al villaggio precivico, ed al sistema pseudoparentale che definiva l'unità dei suoi abitanti, il carattere aristocratico di segmento di un gruppo più ampio, che sarà quello assunto poi dalla gens, in concomitanza con il suo inquadramento nell'ambito cittadino ormai impostosi sopra di essa. Ma, concentriamoci ora specificamente sulle strutture gentilizie e su quanto del loro bagaglio culturale originario appare sopravvivere ancora nella prima età cittadina. Di ciò possiamo infatti trovare traccia significativa in quel complesso di costumanze proprie di ciascuna gens ancora in età storica. Esse costituiscono una parte dell'originario patrimonio culturale del mondo paganico preesistente alla genesi cittadina, da cui le gentes nella loro fisionomia sto ricamente definita e già inquadrata all'interno della ctvitas, hanno tratto queste specifiche tradizioni. A queste appartengono anzitutto le forme sepolcrali: il nucleo più resistente delle antichissime costumanze preciviche. Abbiamo a più riprese, nel corso di questo libro, ricordato l'esistenza dei sepolcri gentilizi: un fattore di aggregazione importante della cui fun zione anche gli antichi avevano ben coscienza, stando, a quanto scrive, ancora agli inizi del II sec. d.C, Plinio il giovane,pan., 39.3, sulla loro fun zione di conservazione e di 'raccolta' delle laceras gentilitates: delle ormai sparse e disarticolate realtà gentilizie. Numerosissimi sono i richiami a que sti sepolcri gentilizi che si incontrano nei testi antichi, spesso riferiti ad arcaiche localizzazioni all'interno della città: anteriori quindi al divieto di sepoltura all'interno deH'urbe(5). Più importante per noi è anche il ricordo (5)
Su questi aspetti si v. da ultimo FRANCIOSI, 1984, 37 ss.; 1992,113 ss.
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evidente della coesistenza, in Roma, di due diversi tipi di sepoltura: l'uno fondato sull'inumazione del cadavere, l'altro sulla sua incinerazione. E anche qui vediamo come ogni gente, nella sua unità, segua l'uno ο l'altro rituale(6). Ma converrà, ora, richiamare le tracce di specifiche tradizioni e dei mores che qualificavano, in età storica, ancora lafisionomiadi singole genti. Elencherò rapidamente ed in modo del tutto sommario alcune delle principa li testimonianze di cui disponiamo in ordine al nucleo sopravvissuto in età storica,richiamandoin primo luogo una serie di culti e divinità particolari di pertinenza delle singole gentes. Ancora vitali, in piena età storica, molte di queste pratiche cultuali si presentano con connotazioni singolarmente arcai che, tali da farci risalire ai tempi più remoti, anteriori a Romolo. Per i sacra delle varie gentes, gli autori antichiricordanodunque, fra gli altri, il culto della gens Mia a Venere e, ancora più arcaico, quello a Vediove (trasformatosi poi forse in età ben più recente, nel particolare culto ad Apollo), quello da parte dei Nautii di un signvm aereum - il Palladiani - col legato a Minerva, e quello dei Potitii e dei Pinarii ad Ercole, presso l'Ara MaximcP. Ancora in età ciceroniana, presso un tempietto nelle prossimità del Celio sonoricordatidei sacrificia gentilicia a Diana (della gens Calpurnial). Alla gens Horatia siricolleganoinvece le cerimonie del tigillum sororium, relative ai culti di Iunio sororia e di Ianus curiatus, mentre particolari sacri fici epiamenta sono invece associati alla gens Claudia - il sacrificio piacolare del porcus propudialis e il culto a Saturno - e alla gens Veturia. Alle più antiche forme di religiosità ci riporta infine il culto dei Servila per il triens aereus, nonché il culto solare della gens Aurelia, riconducibile forse a forme totemiche(8) ed il collegamento degli Ogulnii con laficusRuminalis. E infine, forse il più importante, certo quello, fra i sacra gentilizi che maggiormente ha attirato l'interesse dei moderni: i Lupercalia, Come è noto in esso un ruolo particolare ed esclusivo è attribuito ai Fabii (titolari anche di altri culti genti lizi) ed ai Quinctii ed il suo rituale chiaramente ci riporta ad una definizione territoriale dello spazio di una comunità ο di più comunità paganiche saldate (6) Cfr. sul punto FRANCIOSI, 1984, 49 ss. ^Cfr. su questo culto le indicazioni contenute in BIONDO, 1984, 191 ss. {8) Così FRANCIOSI, 1992,116 s., con argomenti di indubbio valore.
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tra loro da vincoli religiosi*9*. Questa antichissima cerimonia ancora una volta appare collegare la società cittadina alle antichissime tradizioni laziali del l'età precedente. Non possiamo certo approfondire ulteriormente il discorso su questa pagina così ricca di interesse per la storia delle origini romane, né tentare di indagare i significati che ciascuno dei sacra ora elencati può rivelare. Su que sto punto sono costretto a rinviare a quanto già la storiografia contemporanea è venuta acquisendo(10). Ciò che si è venuto qui accennando mi sembra comunque sufficiente a dare l'idea dello spessore di questi sacra gentilìcia e del lororilievo,ancora in epoca in cui il complessivo significato delle antiche gentes era ormai radicalmente mutato e indebolito. Buona parte di questo patrimonio cultuale deriva sicuramente, come ho già accennato, da una realtà anteriore alle gentes in età civica. Esso tuttavia ci offre solo un insieme, neppure troppo numeroso, di frammenti di un ben più ampio sistema dissoltosi nel corso della storia. Ο meglio:frantumatosiin più tronconi innestatisi à loro volta in nuove differenziate realtà. Ed infatti i sacra gentilizi rappresentano una parte, probabilmente la minore, delle originarie tradizioni destinate a costituire il fondamento e a for nire il materiale anche dei sacra delle singole curie cittadine e, nella parte principale, il sustrato della stessa religione cittadina nelle sue molteplici manifestazioni0l). L'insieme di queste forme religiose, ancora in età storica, denota chiaramente sia l'antichità che il carattere consuetudinario, stretta mente legato ai mores ancestrali, della loro formazione. È esattamente questo insieme di forme religiose che appaiano comuni ai vanpagi, interessati nel futuro sinecismo cittadino, che sarà destinato a costi tuire il tessuto connettivo della religione della primitiva cìvitas. A tale proposi to mi sembra possibilericordarecome, nel senso della progressiva unificazio(9)
V. ora CARANDINI, 1997, n. 103, 148
(10)
ss.
Ancora interessante su tale argomento l'opera di DE MARCHI, 1903,1 ss.; LECRIVAIN, 1505 s.; (KUBLER, 1910, 1184 ss. e da ultimo DE FRANCISCI, 1959, 169 ss. Fondamentale appare in proposito l'ampia disamina da parte di FIORENTINI, 1988, dedicata appunto ai sacra gentilìcia. Sovente citata, ma di scarso rilievo sul punto, appare invece quella di WISSOWA, 1971, 32 s., nonché i contributi di Franciosi e dei suoi collaboratori citati nelle note precedenti. (,1) Si v. alcune indicazioni in ordine al possibile processo di trasposizione ο di assorbimento di culti gentilizi da parte della comunità cittadina nel contributo di BIONDO, 1984, 204 ss. V. anche FRANCIOSI, 1992, 118.
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^lì
ne del patrimonio religioso delle singole comunità all'interno del nuovo ordi namento cittadino, abbiano potuto operare le antichissime leghe religiose pre senti nel mondo laziale e che si collegano appunto in un contesto storico ante riore alla compiuta formazione della pòli^n\ Questa più antica partecipazione e comunanza di riti e di culti costituisce in effetti uno dei meccanismi che pre sidiano essi stessi al sinecismo che verrà unificando in una più vasta aggrega zione protourbana i vari montes e ipagiV3\ Di fronte a questo processo di fusio ne di un sistema culturale già comune a più villaggi e comunità minori si pone però quell'altra parte del patrimonio culturale e religioso dei singoli gruppi che invece appare specifico a ciascuno di essi e che non trova immediata coinci denza nelle tradizioni delle comunità vicine. I sacra gentilizi di cui si serbò un qualche ricordo costituiscono appunto la parte residuale della tradizione reli giosa degli antichi gruppi precivici, quella parte cioè peculiare a ciascun vil laggio, a ciascun clan, destinata a restare al di fuori del patrimonio comune della civitas. E nemmeno tutta, si badi bene, perché con ogni probabilità pro prio quest'area della religiosità paganica dovette subire la maggiore erosione, nel corso delle grandi trasformazioni, anche culturali, che segnarono l'avvento delle strutture cittadine, dissolvendosi allora in buona parte.
3. Un ordinamento gentilizio? Accanto ai sacra gentilicia cui ora si è fattorapidamentecenno, gli antichi ricordano altre tradizioni e particolaritàritualilegate al nome di singole gentes, e che appaiono almeno più marginali rispetto alla sfera religiosa. Così l'adozione di dati praenomina, certe specifiche forme rituali (il capo coperto nelle cerimo nie religiose da parte della gens Claudia ο il rito dell'inumazione che persiste nella gens Cornelia), così la presenza di tabù: l'esclusione di abiti di lino per le donne degli Atilii Serrani, degli oggetti d'oro per la gens Quinctia, della tunica (,2)
Sulla funzione di tali leghe v. anche supra, cap. I, § 3.
<,3>V. ora CARANDINI, 1997, 244 s., 269, 280 s., 283, 298 s., 301, 310, 312, 322 ss., 332 s. e
nt. 71, 334, 337, 339, 361, 368 s., 370 e nt. 36, 376 ss., 382 ss., 388 s., 391 s., 436 ss., 447, 449,453, 455, 464 s., 466 s., 480.
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per i Cornell Cethegi, e altre usanze ancoraricordatein modo episodico. E tutta via lo stesso de Francisci, nelricordarequeste tradizioni, è costretto a riconosce re come di esse sussistessero, in epoca storica, solo «scarsi rudimenti»04*. È indubbio che il complesso di queste particolarità tragga origine anch'esso, non diversamente dall'insieme dei sacra precedentemente consi derati, da antiche pratiche consuetudinarie preciviche. Esse quindi salvo pos sibili eccezioni, appaiono nettamente distinte - quanto alla loro origine - da altre peculiarità e comportamenti di singole gentes fondati su specifiche deli berazioni assunte dal gruppo: questo è il caso della decisione della gens Manlia di non usare il praenomen Marcus dopo l'uccisione di M. Manlio Capitolino e identificata dagli antichi in un decretimi gentis{ì5\ simile forse al ripudio del prenome Lucio da parte dei Claudi{16). Forse di carattere consue tudinario, malgrado l'impiego a tale proposito di nòmos da parte di Dionigi, è la pratica in vigore presso i Fabi e relativa all'allevamento dei loro nati(17), mentre il carattere normativo della delibera assunta dalla gens si impone in tutta la sua forza nel caso della spedizione dei Fabi contro Veio(,8). Ma proprio questi casi da ultimo indicati mi sembra che possano confer mare la difficoltà che il complesso tessuto culturale, prima che istituzionale, di ciascuna gens, anche al di fuori delle sue tradizioni specificamente religiose e rituali, abbia tratto la sua esistenza principalmente da una siffatta attività nor mativa. Mentrerisultavero precisamente il contrario: e che cioè questa legitti masse e, insieme, permettesse tali interventi a modificare ο a innovare singoli, limitati aspetti del complesso di istituzioni proprie della gens ed appartenenti al suo patrimonio ancestrale: per eccellenza di carattere consuetudinario, appunto. D'altra parte quasi tutte le particolari regole attestate in età storica per sin gole gentes, che non attengano direttamente alla sfera dei sacra e delle tradizio ni religiose, a queste sono comunquericonducibili:basti appunto pensare alle
<,4>Cfr. DE FRANCISCI, 1959, 171. (,5)
Cic, Phil, 1.13.32; Liv., 6.21.14; Paul.-Fest, s.v. Manliae gentis (LINDSAY, 135); cfh anche Plut, quaest. Rom., 51; Geli., noci. Att., 9.2.11. (,6 >Svet, Tib., 1.2. CI7) Cfr. Dion. Hai., 9.22.2, su cui cfh DE SANCTIS, 1956, 225 nt. 19. (,8) Sui Fabi al Cremerà, v. in particolare FREZZA, 1946, 297. Più in generale sulle consuetu dini esposte nel testo v. DE FRANCISCI, 1959, 171 s.; VOLTERRA, 1949, 188 ss. (svalutativo). V. ora LEVI, 1992, 70 s.; ROMANO, 1984,
112 ss.; RUGGIERO, 1984,259 ss.
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forme di tabùrispettoad oggetti ο a particolari materie, forme legate alle sepol ture etc. Ed è proprio questo il punto che non può non far sorgere qualche per plessità, giacché è semplicemente impensabile che Γ originario complesso dei mores delle varie gentes siriducesseessenzialmente alla sfera del sacro e ai suoi immediati circondari, per quanto essa possa essere importante in una comunità primitiva. Contro questa eventualità giocano infatti non pochi argo menti: e in primo luogo il carattere e i meccanismi organizzativi di un siste ma tribale ο paganico la cui esistenza postula una autonomia originaria di tali organismi rispetto alla presenza di forme più mature ed 'evolute' di organiz zazione sociale di tipo statale e cittadino. Ed infatti che possibilità abbiamo di immaginare un villaggio, ancora svincolato dallo stretto tessuto connetti vo rappresentato dal futuro ordinamento cittadino, che esprima la sua neces sità e capacità di autorganizzazione solo nel campo - centrale certo, ma non esclusivo - della vita religiosa? Che forse le forme della vita comune, dal governo àéipagus ai tipi di sfruttamento dei beni fondamentali alla vita stes sa della comunità, il bestiame, la terra, le acque non dovevano sino da quel l'età remota, avere avuto una rudimentale disciplina all'interno del gruppo? E lo stesso quesito non dovrà essere necessariamente risolto nello stesso modo anche per altri momenti fondamentali della vita comunitaria? Mi limiterò a elencare rapidamente alcuni esempi di situazioni siffatte. Così i criteri che regolano le forme di matrimonio e il sistema familiare all'in terno della grande e fittizia parentela corrispondente all'unità stessa del vil laggio, le primitive forme di divisione del lavoro, collegate da una parte alle classi di età, dall'altra ai sessi, il modo di regolare la successione del mem bro defunto sia nei suoi ruoli sociali che nella sua sfera economica, una pri mitiva forma di controllo sociale dei comportamenti individuali pericolosi per il gruppo e molti altri aspetti ancora della vita comunitaria dovettero esse re disciplinati sia pure in forma rudimentale, con un insieme di regole in cui la finzione di legami di sangue, la pervasiva subordinazione alle potenze ultraterrene, la presenza di norme latamente giuridiche di 'prediritto', potremmo dire con Gernet (se la nozione fosse effettivamente utile, oltre che suggestiva), si dovevano presentare come un intreccio indissolubile. E del resto, per meglio evidenziare sul punto il mio pensiero, non sono le testimonianze sepolcrali relative a queste più antiche fasi della storia lazia-
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le, che si moltiplicano nel corso di questi anni, le più atte ad evidenziare que sto intreccio di aspetti religiosi e di forme sociali? Ogni oggetto che trovia mo nel sepolcro e la forma stessa di questo, ogni rito ivi evocato sono infatti legati al cuore stesso dell'esperienza religiosa di queste società: non occorre certo aderire alla prospettiva di Fustel de Coulanges per riconoscere ciò. E tuttavia non è forse questo insieme di oggetti materiali, di simboli ο di ricor di della vita quotidiana anche la più immediata testimonianza della società cui il morto apparteneva e delle forme che ne regolavano la sua appartenen za e il suo ruolo? Sul punto rinvierei ancora una volta alla importantissima documentazione raccolta da Anna Maria Bietti Sestieri relativa alla necropo li di Osteria dell'Osa, laddove l'insieme delle suppellettili sepolcrali rileva una struttura sociale complessa i cui ruoli e rapporti appaiono per molti versi atti a illustrare le forme più arcaiche che, almeno in parte, saranno recepite e consacrate dal primitivo ordinamento romano(19). Ebbene queste pratiche e regole, in parte peculiari a ciascuna entità paganica e a ciascun sistema gentilizio ο a ciascuna comunità allargata a cia scuna curia, e in parte comuni all'insieme dei distretti, era destinato, nell'in sieme, a non sopravvivere al sinecismo cittadino. Ciò che infatti non fu rece pito all'interno di questo ordinamento - e dovette essere in verità la più gran parte - cessò semplicemente di esistere. Si conservò forse in via 'fattuale', come mero Messico familiare', ma perse man mano la sua forza coattiva: e cioè la sua connotazione giuridica. Se riandiamo alla logica che ha ispirato le analisi da me proposte nel corso dei precedenti capitoli di questo libro, possiamo ben capire il mio riferimento a questo valore 'fattuale', connotazione propria delle forme gentilizie all'interno della nuova realtà cittadina. E possiamo così render ci conto del loro progressivo indebolimento, sino alla scomparsa di gran parte di queste. E tale indebolimento dovette avenire in forma più accen tuata proprio rispetto a quelle pratiche e a quelle regole più lontane dalla sfera religiosa: la più conservatrice e la più legittimata a garantire una autonoma persistenza di tradizioni private, delle genti ο delle curie, ο addi-
(19)
. ΒΙΕEΓΠRI, SESTI , 207S,ss.1992,; 1985,785 145ss. es.;1992a, ΒΙΕΤΠ875SESTIss.ERI, 1992a, 43 ss.; BIETTICfrSESTI 1992b,ERI,4941979,ss.;21DEss.SANCTI
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rittura più incarnate nella dimensione territoriale degli antichi to ai culti cittadini.
4. 'Gentes' e 'pagi' Se noi immaginiamo dunque sulle alture del Palatino, del Quirinale e degli altri colli su cui sorgerà Roma la presenza di questa serie di villaggi*20*, dobbiamo supporre altresì una loro iniziale coesione fondata su norme e rea lizzata attraverso istituzioni ancestrali il cui carattere - essenzialmente con suetudinario - non doveva presentarsi in modo troppo difforme da quelle isti tuzioni più immediatamente religiose che abbiamo già ricordato. Queste comunità, d'altra parte, si presentavano come elementi di un tessuto di rap porti e relazioni che esprimevano e a loro volta presupponevano una cultura comune. Non diversamente da inflessioni linguistiche della singola area, che peraltro non impedivano l'esistenza di una lingua comune, ο da specificità rituali che si inserivano in un contesto religioso comune. Ed è proprio questa struttura unitaria, come abbiamo visto, che assicura l'esistenza ab origine di forme aggregative che, in uno stadio più avanzato, si definiranno nella forma di culti e di leghe religiose, di centri e di santuari comuni sino a configurarsi in un numero più ο meno elevato di oppida, di populi. Non è mio interesse in questa sede analizzare i possibili processi che hanno portato, in taluni casi, ad una trasformazione di alcune leghe religio se ο di parte di esse, attraverso fenomeni di sinecismo, in strutture unitarie di tipo cittadino. Su questi aspetti, che del resto ho già considerato nel corso del primo capitolo di questo libro, si è venuta addensando una letteratura non insignificante alla quale possiamo richiamarci. Quello che qui più mi preme evidenziare è che il processo di unificazione degli antichi pagi in un sistema cittadino comporta necessariamente il fatto che buona parte del restante patrimonio culturale della comunità gentilizia e dalla struttura di
<2°) Per la rappresentazione di questa realtà insediativa protourbana, ancora una volta rinvio alla fondamentale opera di CARANDINI, 1997, passim, soprattutto la parte III (267 ss.).
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villaggio (oltre alla sfera più direttamente religiosa che si è già precedente mente considerata) - quella parte cioè che coincide con le tradizioni degli altri gruppi interessati dal sinecismo - diventi il patrimonio della nuova comunità cittadina: la sua lingua, le sue rappresentazioni ideali, i suoi siste mi di organizzazione sociale (rapporto con la terra, sistemi di parentela e loro rilevanza esterna, forme di successione ereditaria etc.) e il suo stesso sistema di potere, oltre che, soprattutto, la sua religione. Naturalmente l'e sistenza stessa della città necessita lo sviluppo di nuove forme di organiz zazione sociale e culturale da una parte, un più rapido processo di deperi mento di antiche forme proprie del mondo gentilizio e paganico dall'altra. Penso ad es. a tutto il sistema di governo della comunità cittadina, che com porta nuove figure e nuovi ruoli, rispetto a quelli esistenti all'interno del vil laggio. Penso ancora alle primitive distinzioni di ruoli per classi di età rapi damente destinate a divenire marginali rispetto ad altre e più complesse divisioni nei rapporti sociali e nel controllo della comunità da parte dei vari gruppi. Così egualmente, considero lo iato che dovette segnare il sistema delle istituzioni religiose e il relativo sistema sacerdotale della città rispetto alle forme culturali dell'età precedente, tanto quelle peculiari ai singoli vil laggi ο alle singole genti e di cui si sono in precedenza ricordate le tracce sopravvissute ancora in età storica, sia quelle che erano venute integrando la comunità dei montes e dei pagi, anticipando il sinecismo cittadino. Ma, appunto, il salto quantitativo oltre che qualitativo che le forme isti tuzionali e i sistemi di organizzazione sociale ebbero a subire con la forma zione della città è per noi un dato di partenza. Qui piuttosto rileva il fatto che, malgrado tali fenomeni di crescita, e malgrado lo sviluppo di un nuovo e più efficace centro di produzione normativa con la figura del rex, nella sua qua lità di supremo giudice (e conseguentemente di depositario e controllore degli antichi mores) e di legislatore, il complessivo tessuto connettivo della nuova civitas fosse ancora composto essenzialmente delle antiche tradizioni sociali e giuridiche del mondo dei villaggi preurbani e delle gentes. Questo risultato, come abbiamo visto, è appunto reso possibile dalla sostanziale omogeneità di gran parte del patrimonio culturale dei singoli gruppi, che si è quindi potuto agevolmente saldare in una superiore unità. Si è però già rilevato come, per un settore 'residuale', le consuetudini religiose
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proprie di ciascun gruppo precivico fossero destinate a permanere, ο comun que a lasciare traccia anche nella fase di persistenza dell'ordinamento genti lizio all'interno della civitas. Si potrebbe pensare che tracce analoghe doves sero ritrovarsi nel tessuto gentilizio, anche per le altre forme istituzionali che dovevano assicurare l'esistenza stessa e l'autonomia dei gruppi in età preci vica. Al contrario, abbiamo dovuto constatare che queste tendono a scompa rire nell'ambito delle gentes man mano che ci si allontani dalla sfera più pro priamente religiosa. Ora - e anche questo si è già detto - ciò non può dipendere da una ori ginaria assenza di questa sfera all'interno della singola gens. Verrebbe fatto di immaginare piuttosto un ostacolo specifico che si è frapposto alla conser vazione di frammenti di tali antichissime, realtà all'interno del nuovo ordina mento gentilizio sviluppatosi entro e, in qualche misura almeno, in aderenza alle strutture cittadine. Tornando all'esame delle pur scarne sopravvivenze delle tradizioni par ticolari delle singole gentes, converrà anzitutto ricordare quanto si ebbe già modo di osservare circa il diradarsi di tali tradizioni, nelle testimonianze anti che, man mano che ci si allontana dalla sfera più propriamente religiosa. Abbiamo visto in proposito come si possano cogliere ancora tracce di tabù e di peculiaritàritualie dei costumi interni alla gens, e pur tuttavia nulla poi sia destinato a sopravvivere di altre forse ancor più significative diversità che dovevano pur sussistere fra gens e gens. Si pensi ad es. a particolarità il cui ricordo pur non ci stupirebbe affatto (anzi ci si dovrebbe piuttosto stupire di una loro assenza sistematica). Non una gens di cui si ricordi qualche specifi ca costumanza nei riti matrimoniali ο nei comportamenti che precedono la cerimonia nuziale. Non una menzione di particolari riti e regole relative alla nascita e alla legittimazione del neonato(21). Né che si citi mai il caso di riti, usanze (o tabù) matrimoniali particolari a qualche gens, né di altre regole interne ai gruppi familiari. Faccio degli esempi in relazione a tipi di compor tamenti e regole sociali che abbiano una qualche rilevanza dal punto di vista giuridico e, insieme, che attengano a un ambito più atto alla conservazione di (21) L'unico caso che potrebbe in qualche modo essere ricondotto al tipo di comportamenti e pratiche qui considerate è l'obbligo per i membri della gens Fabia di contrarre matrimonio subito dopo raggiunta la pubertà (Dion. Hai, 9.22.2).
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antiche pratiche, in cui una diversità loro non solo sarebbe giustificabile, ma addirittura prevedibile. Una diversità dunque abbastanza evidente e non del tutto giustificabile quella che attiene alla sfera dei sacra rispetto alle altre istituzioni giuridiche e sociali. Né, tutto considerato, appare troppo facile tentare una spiegazione in proposito. Non lo è l'idea, che pure potrebbe affiorare, di una diversa forza repres siva esercitata dalla civitas neiriguardidi una serie di elementi culturali delle singole gentes rispetto a cui si sarebbe voluto far valere un 'monopolio' da parte dell'ordinamento cittadino rispetto a questi altri organismi. Il caso tipi co potrebbe essere appunto la sfera più strettamente giuridica di cui gli orga nismi precivici avrebbero potuto essere più radicalmente espropriati a van taggio del potere normativo della civitas. Un'ipotesi del genere può senz'al tro presentare qualche elemento di verità, ma non appare esaustiva. Le parti colarità che ho citato come esempio non sono tali da suscitare l'ostilità della civitas^ e ben difficilmente sarebbero state tolte alle gentes da una consape vole politica normativa dell'ordinamento cittadino. Né, d'altra parte, è immaginabile che, al di fuori della sfera religiosa, la formazione e lo sviluppo dei singoli pagi fosse stato caratterizzato da una tale somiglianza da comportare la totale identità del loro specifico patrimonio istituzionale e di tutte le regole sociali e giuridiche di comportamento e di organizzazione interna. Un'identità tale cioè da comportare la totale sussun zione degli originari ordinamenti paganici nell'ambito istituzionale della civitas. Anche in questo caso specificità di singoli gruppi precivici non potevano non essere presenti in modo da renderne difficile un'integrale recezione da parte del nuovo ordinamento cittadino. Devo però confessare che, su questo punto, è più facile criticare le possibili spiegazioni che vengono alla mente, piuttosto che proporne una veramente persuasiva. Tanto da doversi quasi rassegnare a segnalare la gravità e l'importanza del problema, piuttosto che tentare una spiegazione veramente soddisfacente. Resta comunque assai probabile che il grado di erosione subito dagli antichi mores gentilizi nel passaggio alla costituzio ne cittadina sia stato maggiore quanto più ci si allontanava dalla sfera reli giosa e cultuale. Quasi in questa consistesse il nucleo duro, il fondamento
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ultimo della stessa identità gentilizia. Fenomeno questo accentuato dalla presenza di una comunità giuridica e sociale più ampia - la civitas - tale da indebolire il riferimento del singolo al gruppo gentilizio per gli aspetti ora più nettamente sussunti dalla civitas. Ma non mi illudo che tali considera zioni possano far superare in modo soddisfacente la difficoltà che abbiamo di spingere lo sguardo verso le nebbie delle origini cittadine.
5. Pietro de Francisci: un'eredità da sfruttare Queste difficoltà, accentuate dalla notevole complessità dei fenomeni che qui si vogliono indagare, trova ulteriori conferme non appena ci si impegni in una precisa linea ricostruttiva. Prendiamo ad es. un campo su cui un altro maestro italiano, Pietro de Francisci, ha scritto pagine fondamen tali, e rispetto al quale più di recente io stesso ho cercato di proporre alcu ne ulteriori riflessioni: il regime delle terre gentilizie. In un breve ma denso contributo, de Francisci aveva dunque messo chiaramente a fuoco alcuni punti che converrà qui brevemente richiamare. Il suo punto di partenza si fonda sull'idea che tutto il più antico ordina mento religioso e giuridico romano si sostanziasse essenzialmente nei mores et instituta maiorum. Le stesse XII Tavole sarebbero consistite, in prevalenza, in una «codificazione di mores». E questi a loro volta non avrebbero rappresentato altro che regole e principi «risalenti ad epoca imprecisabile e forse, in parte, anche ad una fase anteriore agli stanzia menti nel Lazio di quelle stirpi dalla cui fusione è nata la popolazione di Roma ... I mores ... erano ... norme giuridiche, che si riconnettevano alle strutture dell'organizzazione precivica, e che costituivano, anteriormente alla legislazione delle XII Tavole l'elemento essenziale dell'ordinamento cittadino». Con l'ordinamento cittadino comunque, questi antichi mores finirono col rientrare all'interno della normativa cittadina e vennero ad essere ammi nistrati dai praetores. Solo quella parte dei mores «in quanto non erano entrati nella legislazione e non erano stati presi in considerazione àalprae-
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tor nel suo diritto, fu lasciata ai censores»{22\ E non è dunque un caso, con clude così de Francisci, che gli interventi che si ricordano da parte dei cen sori abbiano a che fare soprattutto con la vita e l'economia della familia. Confermandosi così l'intuizione dello Jhering «che il prototipo della censura fosse la sorveglianza che la gens esercitava sui suoi membri e che il potere censorio fosse stato preceduto, nella società a base gentilizia, da quello della gens... sulla libertà degli individui che ne facevano parte»(23). Il serrato discorso dell'illustre studioso si conclude così con un'af fermazione che mi trova assolutamente concorde e cioè che «i mores maiorum non erano altro che che le norme sulle quali si fondava l'ordi namento della gens ... il suo ordinamento giuridico», ribadendo così la ben più ampia ed esaustiva dimostrazione svolta sul punto nella sua clas sica opera dedicata ai Primordio civitatis. Salvo appunto le precisazioni che ho ritenuto di dover fare a proposito della conformazione originaria pagatim del sistema gentilizio. Quello che però mi interessa particolar mente è la successiva applicazione che di tale assunto è fatta dal de Francisci. Secondo tale autore infatti, uno degli aspetti privilegiati su cui si sarebbe esplicato in origine questo controllo gentilizio sarebbe stato la terra, dove appunto avrebbe inciso «anche l'elemento economico deter minato dalla comune residenza in un pagus, territorio in parte distribuito tra le famiglie che lo coltivano, in parte, per il pascolo di uso comune {ager compascuus)»{2A). Proprio partendo da queste premesse si spiegherebbe dunque una speci fica competenza dei censori in ordine alla buona coltivazione dei campi: ad essi infatti spettava il potere di punire il cittadino che non avesse rispettato tale dovere, con la grave sanzione del suo trasferimento inter aerarios^K Dai censori dunque sarebbe stato ereditato un potere di controllo esercitato in ori gine dalla società gentilizia neiriguardidei suoi membri, al fine di garantire l'interesse generale delle familiae che ne facevano parte, favorendo la massi ma produzione agraria.
^Cfr. DE FRANCISCI, 1967, 630 s. ^ D E FRANCISCI 1967, 633. P4 >DE FRANCISCI, 1967, 636. m
Cb. Geli, noci. AtL, 4.12.1; Plin., nat hist., 18.3.11 e 18.6.32.
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Ma questo potere di controllo, conclude de Francisci, smentisce appie no le idee tralatizie dei moderni circa l'originaria illimitatezza interna della proprietà fondiaria dei singoli. Esso attesta al contrario la presenza originaria «di un principio di solidarietà manifesta nell Obbligo a tutti comune di atten dere con la massima diligenza alla coltivazione»(26). Ed è questo un risultato tanto più significativo in quanto in tal modo si innovava un tipo di rappre sentazioni quasi rituali, nel loro più ο meno palese accostamento della pro prietà arcaica ai moduli potestativi della signoria politica, se non della sovra nità. Dove appunto de Francisci veniva così chiarendo il superamento (piut tosto che un vero e proprio distacco) del patrimonio culturale della tradizio ne scientifica cui pure egli da sempre apparteneva, un patrimonio culturale, del resto, in particolare derivato da Pietro Bonfante che egli, proprio con il distaccarsi da specifiche e ormai insostenibili formulazioni, riprendeva nel suo nucleo più vivo sia sotto il profilo del metodo che sotto quello della stes sa prospettiva scientifica perseguita. Io credo tuttavia, per tornare alla specifica ipotesi proposta dal de Francisci, che in essa si possa forse individuare un elemento dirigiditàed uno schematismo eccessivo che possono essere corretti accentuando, oltre che gli aspetti di conti nuitàfrail mondo precivico e il patrimonio giuridico della città primitiva, anche i fattori di innovazione e di rottura che pure vi sono stati e che, appunto, il costruirsi autonomo dell'ordinamento cittadino hanno reso possibile. Mi sembra dunque che questo schematismo si possa ravvisare nel postur lato su cui si fonda l'ipotesi oraricordata.E cioè che la polarità fra proprietà individuale di tipo familiare e terre comuni, così come si definirà nell'ordi namento cittadino secondo lo schema agerpublicus - agerprivatiti, già fosse presente nella comunità gentilizia. Già in questa infatti sarebbero state distri buite aree di terreno alle singole famiglie, di contro a una parte della terra restata in comune alla gens e che parrebbe da identificarsi con Yager compascirns. Secondo questo schema, dunque, la signoria individuale sulla terra sarebbe stata assunta poi, insieme a tutte le altre istituzioni gentilizie - ivi compreso il controllo esercitato in ordine alla coltivazione dei campi privati - dall'ordinamento cittadino. Insieme a questa, anche il compascuo sarebbe
« D E FRANCISCI, 1967,
637.
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Capitolo Vili
dovutorientrareormai nel sistema della civitas ed essere da essa riconosciu to. Come ho già detto, implicita in questa ipotesi ricostnittiva è l'idea della totale continuitàfrale forme preciviche e l'assetto cittadino. Idea che, in linea di massima io stesso ho seguito in questo contributo, ma che forse non può essere estesa in modo sistematico. In ordine infatti al problema ora conside rato è almeno possibile immaginare un'ipotesi lievemente diversa. È possibile cioè che nel mondo dei villaggi e delle comunità gentilizie una distinzione netta fra terre destinate allo sfruttamento individuale da parte di ciascuna famiglia e associate air agricoltura e terre lasciate all'uso collettivo del gruppo e destinate all'allevamento non fosse così compiutamente defini ta come immagina il de Francisci. Se ben si considera, la sua ipotesi com porta quasi di necessità il fatto che a lotti molto limitati (i bina iugera romu lei?) destinati all'agricoltura corrispondesse una totale identificazione della terra comune restante con l'allevamento. Ora un'idea del genere finisce con l'irrigidire eccessivamente un determinato assetto socio-economico e, insie me, rende difficile immaginare il pur probabile processo evolutivo che ha pre parato l'avvento della civitas, con l'espansione delle aree interessate all'agri coltura e con il definirsi di un paesaggio più articolato nella realtà dei pagi e del loro territorio. È pur vero dunque che già una parte della terra doveva essere assegnata allo sfruttamento agricolo in una gestione di pertinenza dei piccoli nuclei familiari, sia pure sotto il controllo e la sorveglianza del più vasto gruppo paganico. Ed è probabile che queste forme di assegnazione 'individuali' in qualche modo anticipassero la pienezza della signoria del pater familias sulYheredium assegnatogli dalla città in proprietà individuale. Io però esiterei a contrapporre, nell'ordinamento precivico, il possesso individuale della terra, al compascuo. Nella fase successiva, infatti, la terra che resterà di pertinenza della gens (che io ho identificato a suo tempo con Vager publicus del V sec. a.C.(27)) non si assoderà necessariamente solo alla pastorizia e all'allevamen to. Al contrario buona parte di questa, anche grazie al lavoro dei clienti, verrà sfruttata anche ai fini agricoli. Sotto questo profilo sarei dunque propenso a recepire sì il modello propo-
^Cfr.supra, cap.V.
/ 'mores gentium'
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sto da de Francisci per l'età precivica, ma non immaginandone poi la imme diata trasposizione nelle forme giuridiche cittadine sotto il binomio «pro prietà privata - ager publicus». Entrambe le forme considerate per l'età precivica, a me sembra siano da ricondurre alla figura delYager gentilicius (tra dotto in età cittadina come ager publicus). Insomma per chiarire sino in fondo il mio pensiero, anche in riferimento a quanto già esposto nel corso dei precedenti capitoli, sia pure per una fase suc cessiva, voiTei insistere sul fatto che tutta la terra di cui qui stiamo parlando tanto quella sfruttata dalle singole famiglie del pagus a fini agricoli e che de Francisci identifica con gli heredia, che il compascuo - era di pertinenza ulti ma della comunità paganico - gentilizia. Sotto questo profilo è verosimile che il processo di affermazione di un ordinamento superiore, la civitas, abbia par zialmente indebolito questa compatta signoria gentilizia, esaltando il rapporto fra il singolo pater e il lotto già di fatto attribuitogli dalla comunità gentilizia e rompendo su questo punto il rapporto esistente fra questa e quello. Così la piena proprietà individuale sul singolo heredium, pur avendo radici nell'assetto precedente, appare, ai miei occhi, come una sostanziale innovazione introdotta dall'ordinamento cittadino. È vero che anche questa, in qualche modo, potrebbe derivare dagli antichi mores, ma solo in quanto così si consolida (cambiando in qualche modo natura) un rapporto di sfrutta mento individuale già introdotto negli ordinamenti precivici. Se vogliamo si potrebbe, nel caso in esame applicare quei modelli proposti con tanta auda cia da Weber a proposito della dissoluzione della primitiva comunità agraria romana. Si tratterebbe in definitiva di spostarli all'indietro nel tempo (Weber li propone infatti per una fase storica più avanzata che non quella delle prime origini cittadine) giungendo così a cogliere il momento effettivo del passag gio dalla «quota di partecipazione» alla comunità agraria associata al mero possesso dell'area territoriale corrispondente, al definirsi di un diritto perma nente sul singolo lotto di terra concretamente individuato(28). Così utilizzato lo schema weberiano perde buona parte della sua specificità e il supporto di quel complesso così singolare di analisi degli istituti del diritto romano sviluppa to nel secondo capitolo dell1Agrargeschichte. E però diventa ancor più sug(28)
Sul punto CAPOGROSSI, 1990a, cap. I.
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Capitolo Vili
gestiva la prospettiva così proposta e, forse, anche più persuasiva. Secondo questa mia particolare interpretazione dell'ipotesi di de Francisci, il diretto rapporto fra il controllo della coltivazione da parte della gens e il successivo ruolo del censore si attenuerebbe. Ma neppure nella mia prospettiva esso verrebbe meno del tutto. E in effetti la civitas, con il model lo del dominìum^ non fa cherichiamarsiagli schemi possessori già eleborati dalle gentes attraverso le assegnazioni effettuate a favore delle singole fami glie, rafforzandone l'efficacia. Egualmente al sistema dei controlli gentilizi si richiamerà, nel nuovo contesto, utilizzando ora lafiguradel rex e poi del cen sore. In tal modo realtà nuove in un contesto cittadino e antichi mores preci vici vengono tra loro intrecciandosi e interagendo sino a dissolvere all'inter no dell'ordinamento statuale parte delle antiche tradizioni giuridiche ο a ren derle rapidamente obsolete e permettendo insieme un rigoglioso sviluppo di nuove forme istituzionali in un processo normativo che vede sempre più mar ginali gli aspetti consuetudinari rispetto a una nuova e più 'moderna' gerar chia delle fonti di produzione giuridica: Iex e interpretatio.
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