Luigi Graziano
CLIENTELISMO E S I S T E M A POLITICO IL CASO DELL'ITALIA
Franco Angeli Editore
In copertina: Corrad...
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Luigi Graziano
CLIENTELISMO E S I S T E M A POLITICO IL CASO DELL'ITALIA
Franco Angeli Editore
In copertina: Corrado Vidau, Domenica ad Orgosolo, 1973, particolare.
Copyright © 1980 by Franco Angeli Editore, Milano, Italy E ' vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, n o n autorizzata.
INDICE
Prefazione
Pag.
9
Parte I - Schema concettuale per lo studio del clientelismo Introduzione
15
1. Il comportamento clientelare 1. Associazioni clientelari come strutture diadiche. Critica di alcune definizioni 2. Clientelismo e teoria dello scambio 3. Clientelismo e legittimazione del potere
19
2. Clientelismo e sistema politico 1. Alcune osservazioni sulla letteratura sul "patronage" Problema del livello d'analisi Consenso e legittimità 2. Definizione di sistema politico. La politica come processo di emancipazione dalla società civile Clientelismo, mercato e Stato Definizione di sistema politico
57 57 59 61
19 29 47
63 63 65
Parte I I - Clientelismo e sviluppo politico in Italia Introduzione
73
1. Processo di unificazione nazionale e classe politica 1. Nord e Sud nel processo di unificazione. Il modello Lipset-Rokkan 2. Il Risorgimento come rivoluzione nazionale mancata 3. Struttura della classe politica italiana dopo il 1860
79 79 82 85
2. I partiti politici e il trasformismo 1. La riforma elettorale del 1882 2. Il mancato partito borghese 3. La teoria italiana del centrismo 4. Mezzogiorno e trasformismo 3.1 fondamenti strutturali del clientelismo nell'Italia meridionale 1. Impatto del mercato sul sistema clientelare 2. Impatto dello Stato sullo sviluppo delle clientele locali e politiche
pag. "
92 94 98 104 109 113 114 123
Parte I I I - Rapporti clientelali in una città meridionale Introduzione La Piana del Sele. Comunità "rappresentativa" e comunità "significativa" 1. Struttura e crisi del clientelismo dei notabili 1. Corvino. Struttura sociale e economica 2. Rapporti clientelari tradizionali e loro crisi 3. La "rivoluzione elettorale" del 1952 Dal clientelismo tradizionale al clientelismo del partito 1. Ascesa al potere del boss Dc 2. La Dc in provincia di Salerno 3. Corvino 1954-1968. Le risorse del potere clientelare
131 131 137 137 141 " 149 152 152 155 160
3. Partito comunista e mutamento politico 1. Pci. I leader e il partito 2. L'ascesa del Pci al potere (1970-73) 3. La politica comunista delle alleanze 4. Corvino dopo il 1973
166 166 173 176 180
Conclusione breve. Corvino, "machine politics" e prospettive di mutamento 1. Corvino e machine politics 2. Le prospettive di mutamento
188 188 192
Appendice - Ritratto di un notabile trasformista
197
A Susan e a Paolo
PREFAZIONE
Ogni ricerca nasce, credo, da premesse di valore che hanno saputo combinarsi con una prospettiva d'analisi. Questo lavoro non fa eccezione. Nasce dall'interesse per un tema politicamente rilevante, per l'analisi del quale disponiamo di un certo numero di acquisizioni teoriche in campo sociologico e politologico. Un secondo motivo d'interesse sta nel taglio comparativo che la problematica del clientelismo suggerisce. Clientelismo è fenomeno italiano e mediterraneo, ma che si manifesta, sotto nomi e forme diverse politica della "macchina", caciquismo, ecc. -, nei più diversi sistemi, "sviluppati" e in via di modernizzazione. Il primo problema, contestuale alla ricerca sul campo, era quindi quello di dare una definizione precisa e per quanto possibile operativa del fenomeno. E di darla ai due livelli a cui esso si presenta nelle sue manifestazioni tipiche: il livello della società civile, come comportamento, e a livello del sistema politico, come modo di esercizio del potere. La letteratura esistente, di derivazione essenzialmente antropologica, si è molto interessata al clientelismo come forma di associazione e di rapporto interpersonale, assai meno come attributo, fra gli altri, del sistema politico. Come in altri campi della ricerca comportamentista, l'analisi si è focalizzata sull'azione a scapito del contesto strutturale in cui essa si svolge. La parte teorica del lavoro (Parte I) cerca di colmare, almeno in parte, questa lacuna, analizzando il clientelismo sia nei suoi aspetti micro-sociologi ci che nelle sue connessioni con il sistema politico. I rapporti clientelari si prestano ad un'utile applicazione della teoria dello scambio, teoria che permette di chiarire tanto la logica della reciprocità clientelare come alcune delle sue conseguenze disfunzionali, specie in rapporto alla legittimità del sistema. L'analisi sistemica del fenomeno induce, poi, a dare del sistema politico una definizione in parte diversa da quelle correnti basate sulla Systems Theory. Sul piano degli strumenti di analisi, è questo uno
10 degli stimoli forse più fecondi del nostro oggetto di studio. Il clientelismo è indice — almeno nelle sue forme più spiccate e durature — di una confusione strutturale fra società e Stato e di carente istituzionalizzazione del sistema politico, e porta a concepire quest'ultimo nei suoi rapporti con la società civile, più che come mera categoria di analisi (come avviene negli approcci sistemici classici). D i qui la definizione di sistema politico accolta nella Parte I di questo lavoro, come processo di emancipazione del politico dalla società civile, e di clientelismo come indice di emancipazione politica mancata. La prospettiva di analisi che informa la Parte I I è, per contro, essenzialmente storica, nella convinzione che non si possa comprendere un fenomeno come il clientelismo in Italia — la sua durata e capacità di condizionare lo sviluppo politico del paese —, se non alla luce delle modalità storiche assunte dallo sviluppo in Italia. Sotto questo profilo, vengono in rilievo problemi strutturali — modalità dell'unificazione, mancato partito borghese, sviluppo capitalistico e questione meridionale, ecc. —, che credo vitalmente connessi (come causa e come effetto) al fenomeno oggetto di studio. L'unità concettuale delle due parti (Parte I e II) non è difficile da individuare. Nella prima, il clientelismo è studiato come concetto generale che illumina la morfologia del fenomeno in astratto (a prescindere da concreti contesti storici); è visto, cioè, per riprendere la terminologia weberiana, come mezzo di conoscenza che arricchisce "il nostro sapere costituito da concetti di genere" (1). Nella Parte I I il clientelismo è analizzato invece come aspetto di una specifica connessione storico-causale — modalità dello sviluppo in Italia —, come oggetto e non come mezzo di conoscenza. Si tratta di due approcci distinti e complementari che permettono di cogliere il fenomeno clientelare secondo quella doppia prospettiva — nomotetica e storica — propria della conoscenza sociologica (2). La terza parte, frutto di una ricerca sul campo in una città meridionale, mira a dare fondamento empirico all'analisi del fenomeno clientelare, secondo quel canone di verifica empirica che mi sembra uno dei contributi più vitali della "rivoluzione comportamentista" nelle scienze sociali. D i questa ricerca, vorrei qui sottolineare soprattutto i limiti; che sono quelli, più volte rilevati, comuni agli studi di comunità e i limiti specifici di uno studio condotto in una piccola comunità, dove si 1. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, trad. it., Einaudi, Torino 1958 p. 167. 2. Ibid., pp. 146 e segg.
11
colgono con chiarezza alcune manifestazioni del fenomeno, mentre altre, di natura più spiccatamente macro-politica, vengono assai meno in rilievo. (Per fare un solo esempio, tutta la problematica relativa all'assoc cattolico e al "collateralismo", qui non emerge che in modo sfumato). Si tratta quindi dello studio di un aspetto del sistema di potere D C a livello locale e dei vincoli che esso comporta, insieme ad altre caratteristiche di una "società clientelare", per una strategia del mutamento. L'augurio è che questa ricerca si affianchi ad altre, di cui è venuta arricchendosi la scienza politica in questi ultimi anni (3), nel fondare una più certa conoscenza dei meccanismi di dominio e di consenso nel Sud d'Italia. (Questo lavoro trae origine da una tesi di dottorato presentata al Dipartimento di scienza politica dell'Università di Princeton nel 1977. Desidero anzitutto ringraziare i miei advisors, prof. Henry Bienen e prof. Nicholas Wahl, per il loro costante e premuroso incoraggiamento, che mi ha aiutato a superare pause e incertezze, inevitabili, credo, in un lavoro durato più anni. Sidney Tarrow, dell'Università di Cornell, ha letto l'intero manoscritto formulando critiche e suggerimenti che mi sono stati preziosi nel lavoro di revisione. Altri colleghi hanno letto e commentato parti diverse del lavoro. Ringrazio Carl H.Landé, Joseph Lopreato, Giovanni Sartori, James C. Scott e Alberto Spreafico, per i commenti e i suggerimenti sul primo capitolo del libro. Mario Caciagli, dell'Università di Catania, ha letto l'intera Parte III, relativa alla ricerca sul campo, mentre alcune conversazioni con Alessandro Pizzorno mi hanno aiutato a dare una migliore sistemazione concettuale al materiale empirico che venivo raccogliendo. A d entrambi, il mio più sentito grazie. Sono infine grato a tutti i colleghi che hanno svolto critiche e osservazioni nel corso di discussioni su varie parti dell'opera in seminari e incontri, e in particolare ai membri del Gruppo di ricerca sui rapporti fra centro e periferia presso l'Università di Cornell, dove ho discusso alcune sezioni del libro nel corso dell'anno accademico 1974-75. La formula consueta secondo la quale la responsabilità dell'opera è 3. P.A. Allum, Politica e società a Napoli nel dopoguerra, trad. it., Einaudi, Torino, 1975; M. Caciagli et al., Democrazia cristiana e potere nel Mezzogiorno. Il sistema democristiano a Catania, Guaraldi, Rimini-Firenze, 1977; J.A. Chubb, The Urban Politicai Machine, tesi inedita di Ph.D., Mit, Cambridge (Mass.), 1978, che riguarda Palermo.
12 interamente dell'autore mi è tanto più gradita trattandosi di un lavoro da cui ho imparato moltissimo. Una riconoscenza particolare va alle persone a cui è dedicato il libro. Parti di questo lavoro sono state già fatte oggetto di pubblicazione. Della Parte I, il cap. 1 è apparso come introduzione alla mia antologia Clientelismo e mutamento politico (Angeli, 1974), ed è qui ripresa con poche varianti. La Parte I I è inedita in italiano, salvo il cap. 3 che è tratto dal saggio "Clientela e politica nel Mezzogiorno", Il sistema politico italiano, a cura di P. Farneti, Il Mulino, 1973, riportato nella citata antologia. Della ricerca sul campo (Parte III), ho anticipato alcuni risultati in "Clientela e politica nel Mezzogiorno", cit., e nel saggio " T h e Crisis of Clientelistic Consensus and the Role of the Pci in Southern Italy: A community study", Mediterranean Peoples, aprile-giugno 1978. Milano, giugno 1979
Parte prima SCHEMA CONCETTUALE PER LO STUDIO D E L CLIENTELISMO
INTRODUZIONE
I rapporti clientelari costituiscono da tempo oggetto d'indagine da parte degli antropologi, che li hanno studiati soprattutto a livello di piccole comunità rurali. L'analisi di tali rapporti ha ormai un posto consolidato fra gli oggetti di studio dell'antropologia e ha portato a risultati analitici pregevoli. Per converso, lo studio del clientelismo nei suoi rapporti con il sistema politico è molto più recente e analiticamente assai meno affinato. Uno degli obiettivi di questo lavoro è di contribuire a colmare parte delle carenze che lo studio politologico del clientelismo tuttora presenta. Possiamo iniziare la nostra analisi chiedendoci che cosa s'intende nel linguaggio corrente con il termine clientelismo. Una buona descrizione che ritrae il fenomeno in tutta la sua complessità è la seguente. Si tratta di una descrizione basata su un'intervista a un uomo politico siciliano, ma che mi sembra applicabile ad altre società ad un livello di sviluppo analogo a quello della Sicilia. Clientelismo è una parola ormai vecchia e che bisognerà al più presto sostituire. Evoca infatti la lettera di raccomandazione del notabile, che ancora è pratica esistente e frequente in Sicilia, ma sempre meno. D a almeno quindici anni il clientelismo è andato mutando il suo volto, e da verticale che era, discendeva cioè dal notabile al postulante, è diventato orizzontale, investe ora intere categorie, blocchi d'interessi, gruppi di impiegati, dipendenti di uffici pubblici o aziende regionali. E ' un clientelismo di massa, organizzato, efficiente, fatto di leggi, leggine, provvidenze straordinarie, provvedimenti di emergenza, contributi e concessioni non più dirette al singolo ma ai molti del ceto favorito. Per mettere in funzione questa possente macchina, la Democrazia Cristiana ha dovuto procedere nel tempo alla collocazione di uomini di partito in ogni livello del potere, in ogni posto chiave, in ogni ganglio minimamente vitale. [Il clientelismo è oggi} un rapporto di massa con il potere pubblico (1). 1. G. Saladino: " G u a r d a n d o dentro la D e siciliana. L'accalappia voti", L'Ora
(Palermo), 23
16 Da questa descrizione emerge subito la difficoltà di definire un fenomeno che si manifesta in fasi molto diverse dello sviluppo di una società e con modalità altrettanto differenziate. La difficoltà può formularsi cosi: è possibile (cioè significativo) denotare con lo stesso termine tanto il rapporto tradizionale contadino-notabile quanto il tipo di esercizio del potere da parte di un partito che promuove leggi "particolaristiche" in cambio di consenso elettorale? Cosa vi è in comune fra il clientelismo "verticale" che legava proprietario e cafone e il clientelismo " o r i z o n t a le" di massa praticato da un partito al potere? Questa complessità reale del fenomeno trova riflesso nella diversità di accezioni con cui il termine è stato usato in sede accademica. Weingrod (2) ha giustamente rilevato che antropologi e politologi impiegano lo stesso termine ma si riferiscono a cose molto diverse. Mentre per i primi clientelismo denota un tipo di rapporto interpersonale, i politologi intendono con tale termine un modo di esercizio del potere da parte del partito politico. Più precisamente, nell'accezione degli antropologi lo
"studio del clientelismo è l'analisi di come persone d'ineguale potere, e tuttavia legate da vincoli d'interessi e d'amicizia, organizzano i loro rapporti per conseguire i loro fini" In scienza politica, invece, lo studio del clientelismo è tipicamente lo "studio dei modi in cui leaders di partito cercano di utilizzare le istituzioni e le risorse pubbliche ai propri fini, e di come favori di vario genere sono scambiati contro voti"
Queste accezioni differiscono perché i due gruppi di studiosi colgono il fenomeno in fasi diverse di sviluppo della società e a livelli diversi dei sistemi sociale e politico. Gli antropologi sono tipicamente (anche se non esclusivamente) interessati a studiare i rapporti clientelari nell' ambito di piccole comunità "primitive", mentre i politologi li studiano piuttosto in quanto caratteristica di sistemi politici in via di modernizzazione. Gli uni e gli altri analizzano del fenomeno manifestazioni che si situano in punti diversi di un'ipotetica scala di modernizzazione. Accanto a questa difficoltà di "comparare nel tempo" i mutevoli aspetti del fenomeno, vi è una difficoltà relativa al "comparare nello spazio" Nel cercare di elaborare uno schema interpretativo per lo studio del fenomeno clientalare, non ci limitiamo all'Italia, ma teniamo luglio 1973. L ' u o m o politico intervistato è Emanuele M a c a l u s o , ex segretario regionale siciliano del Pei. 2. A . Weingrod: "Patrons, Patronage and Politicai Parties", Comparative Studies in Society and History, luglio 1968, p. 379 (saggio riportato nell'antologia Clientelismo e sviluppo politico, a cura di L. Graziano, Angeli, M i l a n o , 1974).
17 anche conto di fenomeni analoghi in altri sistemi politici, sviluppati e non. Come stabilire se parliamo di fenomeni omogenei o se invece estendiamo in modo arbitrario ad altri paesi un termine storicamente connesso al bacino del Mediterraneo? Occorre cioè evitare quel malvezzo che Sartori chiama "stiramento dei concetti" e che consiste appunto nell'estendere a dismisura il numero di cose che un concetto denota, sacrificando ciò che il concetto significa. Sartori, in un importante contributo alla metodologia della formazione dei concetti (3), distingue due tipi di logica: logica classificatoria e quella che potremmo chiamare logica gradualistica. La logica classificatoria è una logica dicotomica di identità-differenza che permette di distinguere i concetti sulla base di differenze di genere. La logica gradualistica è la logica del più e del meno, e fa disporre i concetti lungo un continuo secondo differenze di grado. Per esemplificare con riferimento al nostro tema: la logica dicotomica implica che in tanto si sia definito il clientelismo in quanto si sappia che cosa il clientelismo non è. La logica gradualistica significa considerare il clientelismo come una variabile e approdare a proposizioni trite del tipo: tutti i sistemi politici sono clientelari, alcuni più clientelari di altri. Sulla base delle mie ricerche sul campo e per ragioni metodologiche più generali, ritengo che uno dei compiti prioritari negli studi sul clientelismo sia quello di definire il concetto secondo i canoni della logica classificatoria. Oggi sappiamo vagamente che cosa il clientelismo sia, ma non sappiamo che cosa il clientelismo non sia. Qui non si ha l'ambizione di formulare una compiuta teoria, ma essenzialmente uno schema concettuale per lo studio del fenomeno clientelare. Se una teoria può essere definita una serie di proposizioni nelle quali si enunciano relazioni fra le proprietà empiriche dei fenomeni studiati (4), uno schema concettuale consiste nella specificazione di tali proprietà. Le proprietà che mi sembra importante analizzare sono tre: 1 .proprietà strutturali dell'associazione clientelare in quanto tipo di struttura diadica; 2. proprietà politiche dell'associazione clientelare in quanto fondata su rapporti di potere; 3. proprietà dell'associazione clientelare in quanto fattore condizionante lo sviluppo socio-politico di una società. 3. G. Sartori: " L a politica comparata, premesse e problemi", Rivista itali na di scienza politica, aprile 1973. 4. G.C. H o m a n s , "Autobiographical Introduction", in Sentiments and Activities, Routledge and Kegan Paul, Londra, 1962, p. 43.
18 Sarà questo l'oggetto del primo capitolo, dedicato al comportamento clientelare. Qui saranno pure prese in esame alcune delle più importanti definizioni del clientelismo in quanto rapporto inter-personale. Oltre a designare un tipo di rapporto sociale, il fenomeno clientelare rinvia pure, come si è detto, a una particolare modalità di esercizio del potere da parte dei partiti. Come tale, esso va visto anche in rapporto al sistema politico nel suo complesso e non semplicemente come forma di associazione. L'analisi sistemica svolta nel cap. I I mira appunto a completare a livello macro-analitico l'analisi comportamentista del primo capitolo. Si delineerà una definizione di sistema politico — come emancipazione del politico dalla società civile — che credo sia più utile della corrente Systems Theory, allo studio del fenomeno in esame e più in generale della tematica relativa allo sviluppo.
1. I L C O M P O R T A M E N T O
CLIENTELARE
1. Associazioni clientelari come strutture diadiche. Critica di alcune definizioni I due tentativi a mio avviso più interessanti (fra i pochi esistenti) di dare una sistemazione concettuale alla nozione di clientelismo, sono quelli di James C. Scott e Cari H. Landè (5). Scott contrappone il "modello clientelare" a due altri modelli d'interazione sociale: il modello delle classi e quello delle solidarietà primarie (solidarietà fondate sulla comunanza di etnia, linguaggio, religione, o sulla parentela). Il modello delle classi ha valore esplicativo con riferimento ai settori più moderni della società, settori nei quali operano gruppi organizzati determinati (prevalentemente) dalla struttura economica. Il modello delle solidarietà primarie ha invece valore esplicativo per i settori sociali più "tradizionali" Né l'uno né l'altro sono di grande ausilio, a giudizio di Scott, per spiegare quanto avviene in società di "transizione", società nelle quali i gruppi ascrittivi perdono progressivamente gran parte delle loro funzioni (economiche, protettive, d'identità personale, ecc.), ma dove la società non si è ancora cristallizzata in classi sociali antagonistiche. E ' in questa fase intermedia di modernizzazione che il modello dei rapporti clientelari assume, secondo Scott, la massima utilità per l'analisi. Questo modello si differenzia dagli altri due da un altro punto di vista: mentre i modelli delle classi e delle solidarietà primarie sono di tipo conflittuale, quello clientelare è un modello d'integrazione sociale basa-
5. J.C. Scott: "Patron-Client Politics and Politicai Change in Southeast Asia", Americ Politicai Science Review, marzo 1972; C.H. Landé: " N e t w o r k s and G r o u p s in Southeast Asia: S o m e Observations o n the G r o u p Theory o f Politics", American Politica! Science Review, marzo 1973, entrambi in Clientelismo e sviluppo politico, cit. Le citazioni si riferiscono alla versione italiana.
20 to sull'acquisizione del consenso mediante scambio di favori personali. Questa prima distinzione attiene al valore esplicativo dei diversi modelli in rapporto alle diverse fasi della modernizzazione. M a che cos'è specificamente il rapporto clientelare? " I l rapporto clientelare, rapporto di scambio fra ruoli, può essere definito — scrive Scott (6) — come un caso speciale di rapporto diadico (fra due persone), che implica un'amicizia largamente strumentale, e in virtù del quale un individuo di status socio-economico più elevato (patrono) usa la sua influenza e le sue risorse per procurare protezione e vantaggi, o entrambe le cose insieme, ad una persona di status inferiore (cliente), che a sua volta ricambia offrendo al patrono appoggio generico e assistenza, compresi servizi di natura personale" Il rapporto clientelare appartiene anzitutto al genere dei rapporti diadici (rapporti fra due soggetti). Sono esempi di rapporti diadici, oltre alla clientela, l'amicizia e la parentela (7). Secondo Scott, il rapporto clientelare si distingue da altri legami diadici per le seguenti caratteristiche: 1) reciprocità diretta: il rapporto clientelare si fonda su uno scambio diretto di servizi; come tale si differenzia dai rapporti di pura coercizione o di puro imperio, entrambi non fondati sullo scambio (né il bandito né lo Stato devono dare alcunché, lo Stato almeno immediatamente,in cambio della refurtiva o delle imposte incamerate) (8); 2) reciprocità ineguale, dovuta allo squilibrio di ricchezza, potere e status fra patrono e cliente; 3) carattere "faccia-a-faccia", ossia intimo, del rapporto, spesso caratterizzato da forme rituali di parentela (comparaggio) che ne rafforzano la componente affettiva; 4) diffusività: si tratta di un rapporto polivalente e non funzionalmente specifico, diversamente dal rapporto contrattuale. Il fatto, infine, di essere visto come scambio fra ruoli anziché fra persone, implica che lo stesso attore possa essere simultaneamente patrono (verso il basso) e cliente di patroni più potenti. Ora, è facile vedere che questa caratterizzazione del fenomeno non definisce la specificità del clientelismo in tutte le sue manifestazioni. Costruita sulla base della sola letteratura antropologica, essa si riferisce 6. Scott, "Natura e di amica della politica clientelare" in Clientelismo e sviluppo politico, cit., p. 128. 7. E. Wolf, " K i n s h i p , Friendship, and Patron-Client Relations in Complex Societies", in The Social Anthropology of Complex Societies, a cura di M . Banton, Tavistock Publications, Londra, 1966. 8. J.D. Powell, "Peasant Society and Clientelist Politics", American Political Science view, giugno 1970.
Re-
21 essenzialmente al clientelismo in quanto specie di rapporto interpersonale che tipicamente appare nelle comunità "primitive" studiate dagli antropologi. E ' facile costatare che la definizione di Scott non si applica al ''clientelismo di massa fatto di leggi, leggine, provvidenze straordinarie non più dirette al singolo ma ai molti del ceto favorit o " a cui si riferiva l'uomo politico siciliano più sopra citato. Quest'ultimo tipo di clientelismo è altamente organizzato, opera a livello del sistema politico (e non solo a livello di rapporti interpersonali), e si attua mediante scambi che sono sempre diretti ma in gran parte impersonali. Se la definizione della specie clientelare proposta da Scott è carente, l'inclusione di questa specie nel genere diadico è invece corretta e analiticamente feconda. Il contributo più importante all'elaborazione di un modello diadico della politica si trova nella critica di C.H. Landé alla "teoria del gruppo" (v. oltre) (9). Prima di passare a discutere il contributo di Landé è opportuno aggiungere alcune osservazioni sul genere diadico, che ci serviranno nel seguito del nostro ragionamento. Definire un genere come diadico significa assumere il numero dei componenti come criterio per distinguere i diversi generi di associazione. La classificazione dei gruppi secondo la dimensione è un criterio che era stato già adottato da Georg Simmel (10), autore curiosamente negletto tanto da Scott quanto da Landé, ma che ha dato a mio avviso un contributo importante alla teoria della diade. La diade è per Simmel una formazione sociologica specifica, che si differenzia da tutti gli altri tipi di associazione, dalla triade in poi. Degli elementi che Simmel pone in luce, interessano ai nostri fini i seguenti tre: 1) la caratteristica essenziale della diade, consistente in ciò che il rapporto diadico non dà vita a un'entità super-personale; 2) gli aspetti di debolezza e di forza che ne conseguono per questo tipo di formazione sociale; 3) il fatto che la specificità della diade rimane tale qualunque sia la complessità dei suoi membri (che possono essere individui, famiglie, organizzazioni complesse, Stati). La diade non è un'entità super-personale, diversamente dal grande gruppo che è una "unità oggettiva" al di sopra dei suoi membri. Scrive Simmel al riguardo (11): " L a struttura sociale [della diade] si fonda
9. Landé, " M o d e l l o diadico e approccio dei gruppi", in Clientelismo e mutamento politico, cit. 10. G. Simmel, The Socio/ogy of Georg Simmel, The Free Press, Glencoe, 1950, Parte II, cap. 3-4. 11. Ibid., p. 123.
22
immediatamente sull'uno e sull'altro dei due [soggetti], e la defezione di uno dei due distruggerebbe il tutto. La diade, quindi, non raggiunge quella vita super-personale che l'individuo sente come indipendente da se stesso. M a non appena vi sia un'associazione di tre, un gruppo continua ad esistere anche nel caso in cui uno dei membri si ritiri" Questa assenza di autonomia della diade rispetto ai suoi componenti è un fattore al contempo di debolezza e di forza. E ' un fattore di debolezza perché il rapporto diadico può facilmente perdere quel carattere di individualità che lo contraddistingue, e scadere quindi, come dice Simmel, nel "triviale". In un'unità superindividual il contenuto del rapporto trascende l'individualità — scrive Simmel (12) —, l'individualità nel senso di unicità o rarità non sembra svolgere alcun ruolo, e la sua inesistenza, quindi, non sembra produrre l'effetto di trivialità. M a nelle relazioni diadiche il tono della trivialità diventa spesso disperato e fatale" ciò appunto perché nella diade, in assenza delle mediazioni che spersonalizzano il grande gruppo, il venir meno dell'intimità e immediatezza del contatto fra i due attori non lascia più alcun residuo associativo. E ' questa una debolezza che ha una dimensione temporale e una spaziale. Il tempo "routinizza" (ci si scusi per il termine) il rapporto e lo consuma. M a soprattutto le strutture diadiche hanno limiti intrinseci come strutture di aggregazione. La vita associata di società complesse vive di mediazioni (mediazioni di valori, di comandi, ecc.). La mediazione comporta in genere una progressiva perdita di efficacia del messaggio mediato, perché il messaggio produce effetti non solo per la validità oggettiva del suo contenuto ma soprattutto per l'alone affettivo che l'accompagna, alone che decresce con l'aumentare dei passaggi che il messaggio percorre (13). Questo problema, che è generale, è esasperato nel caso dei rapporti diadici, nei quali il contenuto "oggettiv o " è minimo e l'intimità del legame massimamente esaltata. I rapporti diadici presentano anche punti di forza, ai quali accenno rapidamente perché vi ritornerò fra breve. La struttura impersonale del grande gruppo consente e richiede ai singoli membri di delegare doveri e responsabilità a chi agisce in nome del gruppo. Ne consegue u n rapporto fra membro e associazione che è tanto più anonimo quanto maggiore è la dimensione del gruppo. Ciò attenua il senso di responsabilità dei membri e pone il difficile problema di come assicurare contributi individuali ad associazioni spersonalizzate (vedi oltre). Questa 12. lbid., p. 126. 13. Ibid., p. 147.
23 difficoltà, notava Simmel (14), non esiste per la diade, la cui "caratteristica fondamentale sta in ciò che ciascuno dei due [soggetti] deve effettivamente compiere qualcosa, e nel fatto che in caso d'inadempienza soltanto l'altro rimane e non una forza super-individuale come avviene in un gruppo anche solo di tre" persone. Notiamo, infine, che tutte queste caratteristiche funzionali persistono qualunque sia la natura e complessità dei due soggetti. Questo è per noi importante, perché se la struttura diadica è propria di tutte le associazioni clientelari, la natura dei patroni e dei clienti muta profondamente con il procedere della modernizzazione (si passa, grosso modo, dai rapporti inter-individuali del clientelismo tradizionale ai rapporti inter-burocratici delle nuove clientele). Dopo questo richiamo a Simmel, ritorniamo alle specifiche applicazioni del modello diadico allo studio del clientelismo. Concepita l'associazione clientelare come specie del genere diadico, il problema diventa quello di precisare la specificità delle associazioni diadiche rispetto ad altri generi di associazione. Tanto Scott quanto Landé fanno ciò contrapponendo l'associazione diadico-clientelare al gruppo categoriale. J.C. Scott scrive al riguardo (15): " I l carattere specifico dei grappoli clientelari [raggruppamenti costituiti dal patrono e dai suoi diretti clienti] credo derivi dal fatto che, diversamente dalle organizzazioni categoriali, a) in essi il fondamento dell'associazione è specifico a ciascun anello della catena clientelare, e dal fatto che b) si fondano su legami individuali con un leader piuttosto che su caratteristiche comuni o legami orizzontali fra seguaci" E ' questa la conclusione a cui era giunto Landé nel saggio già richiamato (16). Per definire la diade, Landé ha costruito due tipologie a diversi livelli di astrazione: la prima consta di tre tipi molto generali di gruppi d'azione (gruppo categoriale, associazione diadica, collettività), la seconda di sottotipi delle due associazioni (gruppo e diade) che più interessano per definire le strutture clientelari (associazione categoriale come sottotipo del gruppo categoriale, associazione clientelare come sottotipo dell'associazione diadica). Il criterio generale per distinguere il gruppo dall'associazione diadica consta dei seguenti principi: composizione, modalità d'azione e fini dei gruppi (17). Il gruppo categoriale è configurato da Landé come un'associazione 14. 15. 16. 17.
Ibid., p. 134. Scott, art. cit., p. 136. Landé, art. cit. Ibid.
24
che si fonda sulle caratteristiche comuni degli appartenenti, e che svolge un'azione comune ai membri finalizzata ad un numero limitato di obiettivi categoriali. L'associazione diadica, per contro, non ha alcuna base precostituita nella struttura sociale, ma nasce come coalizione di amici o per iniziativa di un leader; essa genera scambi di servizi e persegue i diversi fini specifici dei membri. Per genesi, legami interni e obiettivi la diade è quindi un'associazione particolaristica, il gruppo un'associazione categoriale. Individuare la specificità delle strutture diadiche in contrapposizione ai gruppi categoriali (gruppi di pressione o classi sociali), sembra intuitivamente corretto. N o n vi è chi non veda la differenza fra il rapporto paternalistico che lega il singolo operaio al padrone, da un lato, e il rapporto che intercorre fra un sindacato operante come organizzazione di massa e la controparte dall'altro. Ma non sempre ciò che è utile a fini descrittivi è anche adeguato a fini di definizione. La distinzioneparticol insufficiente perché da un lato le associazioni clientelari sono anche categoriali, e dall'altro il carattere categoriale del gruppo non esclude (anzi esige come vedremo) un particolarismo corporativo qualitativamente non diverso dal particolarismo della diade. La contrapposizione diade-gruppo, nei termini in cui è concepita da questi autori, non tiene cioè conto della natura categoriale delle nuove clientele e sconta inoltre tutta la debolezza del concetto politologico di gruppo (vedi oltre). Le associazioni clientelari sono anche categoriali. Né può dirsi che tale forma sia una caratteristica secondaria, una minore deviazione empirica dal tipo analitico. Il fatto è che le nuove clientele sono per loro natura "clientele di categoria"; il clientelismo del partito politico investe "intere categorie, blocchi d'interessi, gruppi di impiegati" — per riprendere i termini della descrizione riportata all'inizio con "favori di massa", elargiti non più solo a livello amministrativo ma anche a livello legislativo. Con riferimento al Sud d'Italia, Tarrow ha osservato ad esempio (18) che "la politica moderna del Mezzogiorno funziona tramite la manipolazione di blocchi di voti ottenuta attraverso la distribuzione di progetti di sviluppo economico da parte dello Stato"; progetti destinati a intere comunità e che il deputato converte in voti pubblicizzando opportunamente la propria mediazione (cfr. oltre Parte III). I casi sono due: o non includiamo nel concetto di clientelismo questo tipico esercizio di patronage, ovvero rinunciamo alla distinzione 18. S. Tarrow, Partito comunista 1972, p. 302.
e contadini nel Mezzogiorno,
trad. it., Einaudi, Tori
25 particolaristico-categoriale per definire ciò che è da ciò che non è clientelare (19). A questa difficoltà se ne aggiunge un'altra, che deriva dal modo in cui Landé imposta il rapporto fra il tipo da definire (diade clientelare) e quello scelto come suo opposto (gruppo categoriale). L'impostazione è di tipo gradualistico (più o meno) e non dicotomico (o... o). tipologia in cui si definiscono comparativamente associazioni categoriali e clientelari, Landé scrive (20): "Per molte caratteristiche, anche se non per tutte, questi due tipi sono antitetici, le loro caratteristiche distintive potendosi collocare agli estremi opposti degli stessi continui" E ' precisamente questo l'errore logico, consistente nel definire un concetto in termini di " p i ù o m e n o " e non secondo la logica dicotomica (vedi sopra), che limita l'utilità delle definizioni sinora proposte; errore che il ricercatore sul campo costata immediatamente trovandosi ad operare con un concetto non abbastanza discriminante. Tutto è clientelare giacché tutto è più o meno particolaristico. Per apprendere la realtà in modo preciso la mente ha bisogno, come dice Sartori, di "tagli" concettuali, di distinzioni di genere e non solo di grado. Abbiamo visto che nel binomio: clientela-gruppo vi sono difficoltà che attengono al primo termine, altre al rapporto fra i due termini. Resta da esaminare il concetto di gruppo. Q u i il problema è che non abbiamo in scienza politica un concetto empirico (che abbia referenti identificabili nella realtà) su cui fondare una teoria della genesi e del funzionamento dei gruppi. L'unica teoria esistente è quella marxiana delle classi sociali, alla quale Landé non si richiama, e che comunque illumina assai più la genesi che la dinamica interna delle classi. La teoria marxiana, inoltre, è a un livello di astrazione tale da ridurne di molto l'operatività. Nella politologia non marxiana il concetto di gruppo formulato dai teorici del gruppo (Bentley, Truman, Latham), è un concetto puramente analitico (ossia astratto), e mal si presta come tale a definire a contrario alcunché. David Truman (come del resto Bentley) distingue due accezioni del termine: gruppo come "insieme di individui che hanno qualche caratteristica in comune" (gruppo nel senso di 19. L a tipologia di Landé n o n consente di concettualizzare in m o d o appropriato neanche il clientelismo tradizionale, nella misura in cui questo si presenta in forme più complesse del rapporto interpersonale. Sydel Silverman, in u n o studio su una comunità dell'Italia centrale, ha notato ad esempio come "la diade n o n [ s i a ] l'unica forma [ d i rapporto sociale] e neanche la più frequente" C ' e r a n o proprietari che fungevano da patroni dell'intera famiglia mezzadrile e altri che agivano da patroni dell'intera comunità. S. Silverman, "Patroni tradizionali come mediatori fra comunità e nazione", in Clientelismo e mutamento politico, cit., p. 296. 20. Landé, cit., p. 95.
26 Landè) e come interazione abituale (Bentley diceva: "massa di attività"). M a per Truman ciò che è analiticamente essenziale per definire il gruppo "è l'interazione non la caratteristica condivisa" (21). Landé è ben consapevole di tali carenze, che lo hanno indotto a concepire un modello alternativo, ma scegliendo come termine di confronto un concetto così impreciso, egli indebolisce l'intera struttura della sua tipologia. Potremmo lasciare a questo punto la discussione del modello di Landé e dell'approccio del gruppo. Senonché tale approccio è stato sottoposto a molteplici revisioni critiche, una delle quali interessa da vicino il nostro tema. Alludo all'opera di Mancur Olson: La logica dell'azione collettiva (22), opera che sotto il profilo del rigore analitico costituisce, a mio avviso, uno dei contributi recenti più importanti allo studio del comportamento sociale. L'analisi di Olson poggia sull'assunto del comportamento razionale dell'individuo (nel senso di razionalità economica), e ha, ai nostri fini, una duplice importanza. Da un lato, conferma che la razionalità dell'azione di gruppo non è qualitativamente diversa da quella che guida cliente e patrono. Soprattutto, nel chiarire i problemi che questo tipo di razionalità (individualistica) comporta per l'azione collettiva, mette in luce le ragioni che spiegano la forza della struttura più particolaristica di tutte: la diade clientelare. Come indica il suo sottotitolo ( " B e n i pubblici e teoria dei gruppi"), il lavoro di Olson è una teoria dei gruppi che si fonda sulla teoria dei beni collettivi elaborata dagli studiosi della finanza pubblica. (Sono esempi di beni collettivi i beni e i servizi pubblici prodotti dallo Stato: difesa, opere pubbliche, ecc.). Si tratta di beni che presentano questa caratteristica fondamentale: l'impossibilità di limitarne il godimento a particolari membri della società ad esclusione di altri (23). Per la loro natura indivisibile, sono beni che "devono essere disponibili per tutti se sono disponibili per qualcuno" (Olson). E poiché si gode di essi per il solo fatto di appartenere alla collettività, si tende a non contribuire al loro costo. D i qui la necessità per lo Stato d'imporre in modo
21. Per tutta la problematica relativa al gruppo e a l l ' o m o n i m o approccio rinvio al mio "Bentley e la scienza politica comportamentista", in Annali della Fondazione Luigì Einaudi, vol. I X , Torino, 1976. 22. M . Olson, The Logic of Collective Action, Schocken Books, New York, 1968 (1 ed 1965). 23. L a seconda caratteristica dei beni collettivi è che sarebbero comunque prodotti anche se il singolo n o n vi contribuisse. C i ò per l'impossibilità del membro di un grande gruppo di esercitare un qualsiasi effetto percettibile sull'attività della associazione di cui fa parte. Ibid., p. 14.
27 autoritativo tributi che il singolo non verserebbe spontaneamente. La teoria dei beni collettivi è stata elaborata, come si è detto, dai teorici della finanza pubblica con riferimento ai servizi resi dallo Stato. M a questi studiosi, osserva Olson (24), hanno "trascurato il fatto che la realizzazione di qualsiasi fine comune significa che è stato fornito un bene pubblico o collettivo a quel gruppo" In altri termini, i beni collettivi non caratterizzano solo la produzione dello Stato ma l'attività di qualsiasi organizzazione. Il gruppo è parificato allo Stato nel senso che entrambi forniscono beni comuni il cui godimento è indivisibile. L'analogia fra gruppo e Stato sotto il profilo appena accennato, e il rapporto fra natura collettiva dei beni e forma imperativa del potere statale (vedi sopra), indicano che fra Stato e gruppo devono anche esserci problemi organizzativi comuni. Se lo Stato tipicamente fonda il proprio potere sulla coercizione, come potrà un'associazione (sindacato, partito, ecc.) organizzarsi nonostante il carattere collettivo, quindi disincentivante, dei beni che persegue? (Un gruppo privato, ad esempio un'azienda, risolve parte del problema avvalendosi di obbligazioni contrattuali. Vedi oltre). Può far ciò ricorrendo a qualche forma di coercizione (ad esempio alla pratica del closed shop dei sindacati americani) ovvero non perseguendo solo beni collettivi. Olson dimostra appunto che per realizzarsi liberamente, un gruppo deve fornire individualmente ai suoi membri "qualche incentivo distinto dall'interesse comune o di gruppo" Si tratta di incentivi che operano " n o n indiscriminatamente a vantaggio dell'intero gruppo come nel caso del bene collettivo, ma selettivamente nei confronti degli individui" che lo compongono (26). Chi non appartiene al gruppo o chi, appartenendovi, non contribuisce all'attività comune, rimane escluso da questo tipo selettivo d'incentivo. E ' quindi il principio dello scambio, più precisamente dello scambio di benefici "individualizzati" che regola il gruppo categoriale non diversamente da quanto avviene nella diade. Il che non vuol dire che fra diade e gruppo non vi siano differenze fondamentali. Per Olson, come per Simmel (vedi sopra), una delle variabili essenziali per comprendere le modalità di formazione e funzionamento delle strutture associative è appunto la dimensione. Ciò discende, nella teoria di Olson, dalla stessa definizione di bene collettivo. L a duplice caratteristica di questi beni è 1) la non esclusività del loro godimento; 2) l'irrilevanza dell'azione del singolo ai fini della loro produzione (il bene sarebbe comunque prodot24. Ibid., p. 15. 25. Ibid., p. 51. 26. Ibid.
28 to anche se il singolo non vi contribuisse). La ragione per la quale il membro non è incentivato a concorrere all'attività comune, dipende da ciò che, in un grande gruppo, il contributo del singolo non produce effetti percettibili — non fa alcuna differenza per il gruppo e non è riconosciuto dagli altri membri come contributo. Questa difficoltà decresce con il decrescere della dimensione del gruppo. Si consideri, ad esempio, un gruppo di poche persone. Il vantaggio derivato dal bene collettivo, dividendosi fra pochi membri, rende ciascuno di essi molto interessato all'attività del gruppo. D'altro canto, la piccola dimensione fa si che il contributo di ogni membro incida visibilmente sulla possibilità o meno di perseguire il fine, il che rende il controllo dei singoli contributi possibile ed efficace. V i sarà quindi un forte incentivo a partecipare. Nella più piccola formazione sociale — la diade — l'incentivo sarà massimo, perché la diade non persegue beni collettivi, ma servizi esclusivamente e immediatamente destinati ai due scambisti (27). Dall'analisi di Olson discendono due corrollari. Olson dimostra anzitutto che la logica dell'azione collettiva volontaria è una logica individualistica basata sullo scambio diretto di benefici, non diversamente da quanto avviene nello scambio diadico. Posto che l'azione sociale risponde normalmente all'interesse personale degli attori (28), ne consegue, in secondo luogo, che la diade è, da questo punto di vista, la forma più "naturale" di associazione. La forza dell'asso dazione diadica sta in ciò che i servizi in essa scambiati sono direttamente e senza residui omogenei alla razionalità individualistica degli scambisti, mentre il
27. In questo senso la definizione, corrente nella letteratura antropologica, dei raggruppamenti diadici come "gruppi n o n corporativi" o "quasi gruppi", è particolarmente calzante. Cf. P.T Schneider, "Coalition Formation and Colonialism in Western Sicily", European Journal of Sociohgy, 1972, n. 2. Schneider definisce il gruppo n o n corporativo " u n gruppo di persone che sono reciprocamente interdipendenti e che hanno un comune orientamento in fatto di valori, ma che n o n hanno un interesse comune in una proprietà (in senso lato) appartenente al gruppo in quanto tale" Cf. A.C. Mayer, " T h e Significance of Quasi-Groups in the Study o f Complex Societies", in The Social Anthropology ofComplex Societies, a cura di M . Banton, cit.; II. Hess, Mafia, trad. it. Laterza, Bari, p. 109. Cf. quanto detto sopra a proposito dell'analisi della diade fatta da Simmel. 28. E ' forse utile precisare che cosa s'intende per interesse personale. O l s o n ipotizza che l'individuo sia razionale ma n o n necessariamente egoista. E 1 egoista il comportamento di chi mira a massimizzare il proprio profitto individuale (come nello scambio economico); razionale il comportamento di chi persegue i propri obiettivi, di natura sia egoista che non egoista, mediante mezzi efficaci per la loro realizzazione. Olson, op. cit., pp. 64-65. E ' chiaro che questa congruenza fra mezzi e fini, che definisce la razionalità nel senso di Olson, é più immediatamente percepibile nella diade che nel gruppo categoriale.
29 gruppo categoriale deve ovviare al disincentivo rappresentato dalla natura collettiva dei beni che esso persegue, e non può ovviarvi che in modo indiretto e incompleto. Rimangono da affrontare due problemi che ci eravamo inizialmente proposti di studiare: l'analisi teorica (alla luce cioè di un principio esplicativo) dello squilibrio di potere che caratterizza i rapporti fra patrono e cliente; l'analisi degli effetti che le associazioni clientelari esercitano sullo sviluppo socio-politico. Entrambi questi problemi saranno analizzati nelle sezioni che seguono sulla base della teoria dello scambio' di Homans-Blau.
2. Clientelismo e teoria dello scambio Finora siamo giunti a una sola conclusione ferma: che l'associazione clientelare è un'associazione diadica e che l'associazione diadica ha importanti proprietà strutturali. La determinazione delle categorie che permettono di fissare la specificità dell'associazione clientelare all'interno del genere diadico, da un lato, e la specificità del genere diadico rispetto a altri generi di strutture, deve ancora essere fatta. Se si vuole dare una caratterizzazione unitaria a un fenomeno complesso, non vi è che una via: salire nella "scala di astrazione" dei concetti (29) alla ricerca di una categoria abbastanza generale da comprendere tutte le manifestazioni tipiche del fenomeno in esame. Ora chiediamoci se c'è qualche proprietà che accomuni i diversi aspetti del fenomeno clientelare, e se essa è abbastanza importante da conferire un'omogeneità significativa alla categoria "clientelismo" Si può rispondere sì a entrambe le domande. V i è in effetti un elemento che unifica tutti gli aspetti — sociale e politico, "tradizionale" e " m o d e r n o " — del fenomeno. Questo elemento è lo scambio. Clientelismo come rapporto interpersonale e come modo di esercizio del potere da parte del partito politico, hanno almeno questo in comune: di basarsi sullo scambio diretto di favori (30). L'esistenza nella letteratura sociologica di una "teoria dello scambio", consente di valorizzare appieno questo elemento in quanto strumento di analisi.
29. Cf. Sartori, " L a politica comparata ecc.", cit. 30. Il concetto di favore implica un elemento di arbitrarietà e richiama subito, per contrapposizione, il concetto di diritto. Si vedano le interessanti osservazioni di B.B. Gardner e W.F. Whyte, " T h e M a n in the Middle: Position and Problems of the Foreman", Applied Anthropology, voi. 4, n.-2 (primavera 1945).
30 Della teoria dello scambio abbiamo due formulazioni complementari, dovute rispettivamente a George C. Homans e Peter Blau. Il "paradigma dello scambio" (31), consiste nel concepire l'interazione di un individuo con altri individui in termini di "valori" (stimoli positivi che invogliano a persistere nello scambio) e di " c o s t i " (stimoli negativi). Il fine è quello di "enunciare proposizioni che colleghino le variazioni nei valori e nei costi di ciascun individuo, alla distribuzione della frequenza del comportamento fra comportamenti alternativi" (32). In altre parole, la teoria dello scambio mira a determinare l'incidenza che il variare dei benefici e dei costi di un'azione ha sul comportamento effettivo di un attore (distinto, cioè, dal comportamento prescritto dalle regole formali di un'organizzazione e dai ruoli sociali). Homans ha studiato lo scambio soprattutto con riferimento ai piccoli gruppi (33). Blau ne ha esteso l'applicazione allo studio delle organizzazioni complesse. In particolare Blau ha analizzato i processi che consentono a una società di organizzarsi in strutture sempre più complesse — di passare cioè da microstrutture come la diade a burocrazie "anonime" come la grande impresa o l'amministrazione pubblica. All' inizio del volume Scambio e potere nella vita sociale (34), Blau precisa che il problema è quello di "derivare i processi sociali che regolano le strutture complesse ..., dai processi più semplici che pervadono i rapporti quotidiani fra gli individui e le loro relazioni interpersonali" Lo scambio è appunto il processo elementare che permette di cogliere le "proprietà emergenti" (Blau) delle relazioni sociali, in quanto strutture autonome dai soggetti che le pongono in essere. L'interesse di questo modello è per noi duplice. In primo luogo Blau si sofferma sul rapporto fra scambio sociale e potere — scambio come mezzo di accumulazione del potere. Le associazioni clientelari nascono in genere in contesti di accentuata stratificazione sociale e si reggono sullo squilibrio di risorse fra clienti e patroni. Il modello può quindi contribuire a chiarire i meccanismi di accumulazione del potere indispensabili al funzionamento dell'associazione clientelare. In secondo luogo, la teoria di Blau è una teoria genetica delle organizzazioni com-
31. G.C. Homans, "Social Behavioras Exchange", American Journal of Sociologv, 1958, pp. 597-606. Il fascicolo in cui questo articolo apparve era dedicato a Georg Simmel. L'articolo è riprodotto in H o m a n s , Sentiments and Activitie. cit. 32. H o m a n s , "Social Behavior as Exchange" cit. 33. Cf. H o m a n s , Social Behavior. Its Elementary Forms, Routledge and Kegan Paul, L o n dra, 1961. 34. P. Blau, Exchange
and Power in Social
Life, Wiley, New York, 1964, p. 2.
31 plesse proprie delle moderne società di massa. Queste organizzazioni, per sorgere e funzionare, implicano il diffondersi di valori comuni capaci di estendere l'ambito dei rapporti sociali ben oltre il cerchio dei contatti personali; implicano cioè una sempre maggiore diffusione di scambi indiretti (mediati da valori) rispetto allo scambio diretto proprio della diade (vedi oltre). Tale modello permette infine di precisare l'incidenza sullo sviluppo dell'uno e dell'altro tipo di scambio, e quindi le peculiarità dello scambio clientelare — in quanto tipo di scambio diretto — come fattore condizionante lo sviluppo di una società. E ' forse opportuno a questo punto, prima di passare all'applicazione del modello di Blau allo studio del clientelismo, indicare la mappa concettuale che ci guiderà nel seguito della nostra analisi. Schematicamente essa si presenta come segue:
Questa mappa risponde alla logica classificatoria e si fonda su concetti desunti dalla teoria dello scambio. Indica che tale teoria consente di: 1) studiare lo scambio clientelare in quanto fondato sull'asimmetria di potere; 2) includere tale scambio in un genere ("scambio diadico diretto") che si contrappone, quanto alle conseguenze sullo sviluppo del sistema, allo "scambio indiretto" proprio delle moderne società di massa; 3) di distinguere la logica "consensuale" dello scambio dalla logica "conflittuale" delle associazioni ideologiche. Per essere analiticamente utile, il concetto di scambio sociale deve essere precisamente delimitato. Una prima distinzione è quella fra benefici intrinseci e benefici estrinseci. Sono intrinseci quei benefici che in linea di principio non si possono separare dall'associazione che li procura; estrinseci quelli che ammettono una tale dissociazione. " L a differenza fondamentale — scrive Blau in proposito (35) — è fra associazio35. Ibid.. p. 35-36.
32 ni considerate dai partecipanti fine a se stesse, e quelle che essi considerano mezzi per qualche altro fine" Il concetto di scambio sociale è limitato da Blau al solo scambio di benefici estrinseci. In questa accezione restrittiva, lo scambio sociale esclude l'"amicizia espressiva" (intrinsecamente gratificante), ma comprende l'"amicizia strumentale" su cui si basa il rapporto clientelare tradizionale (36). Esclude l'azione wertrational (nel senso di Weber) — azione ispirata da convinzioni profonde o dal valore di una "causa", e perseguita senza riguardo al suo costo —, ma include l'azione zweckrational che adegua i fini ai mezzi. (Nel caso dell'azione wertrational, si avrebbe uno scambio "rigido" che esclude il mercanteggiamento proprio di tutti i rapporti strumentali — rientrino essi o meno nel concetto di scambio di Blau —, compresi i rapporti che legano un cliente a un patrono "sovrannaturale": Dio, Madonna, santi) (37). Il concetto di scambio sociale si applica infine a un tipo di partito "pragmatico" ma non a un partito "ideologico", che è tenuto caratteristicamente insieme da principi piuttosto che da vantaggi strumentali. Come si desume dagli esempi fatti, la ricettività all'uno o all'altro tipo di benefici ha conseguenze importanti per il funzionamento del sistema. I benefici estrinseci rendono possibili giudizi di fatto, ma solo giudizi di valore si applicano ad associazioni instrinsecamente gratificanti (38). I primi si suppone generino uno stile pragmatico che facilita il compromesso, i benefici intrinseci uno stile intransigente che rafforza il conflitto. A livello di sistema politico, la distinzione corrisponde a due diversi "stili politici" esemplificati da un lato dai partiti "pragmatici" anglosassoni, e dall'altro dai partiti "ideologici" (Weltanschauungsparteien). Tenuto conto della dimensione politica della tipologia dei benefici di Blau, può pertanto dirsi che il termine contrapposto a scam36. La distinzione fra "amicizia espressiva" Eric Wolf, art.
"amicizia strumentale" è stata formulata da
37. A stretto rigore il rapporto fra un cliente e u n patrono sovrannaturale, studiato dagli antropologi, n o n rientra nella definizione di Blau. Blau comprende nello scambio solo il comportamento mirante a perseguire lì i realizzabili tramite interazione con altre persone. Blau, op. cit., p. 5. Cf. G . M . Poster, " T h e Dyadic Contract in Tzintzuntzan, II: Patron-Client Relationship", American Anthropologist.dicembre 1963. Pertinente invece alla distinzione: vantaggi intrinseci/estrinseci, è la distinzione fra religione e magia, Cf. G. D e Rosa Vescovi, popolo e magia nel Sud, Guida, Napoli, 1971, pp. 11 ss. De Rosa contrappone "la razionalità fondata sull'esperienza dell'assoluto" propria dell'esperienza religiosa, alla strumentalità delle pratiche magiche e al "devozionismo estrinseco" che caratterizza il culto popolare dei santi nell'Italia meridionale. Ibidem. 38. Blau, op. cit., pp. 36-37.
33 bio sociale è ideologia (39). Per Blau, quindi, il concetto di scambio ha un campo di applicazione ben definito: non serve a spiegare i rapporti coercitivi, né quelli basati su vantaggi intrinseci ad un'associazione. Esso si riferisce a rapporti che richiedono qualche forma di reciprocità. Ma non tutti i rapporti reciproci rientrano nella categoria dello scambio sociale. Un contratto sinallagmatico (ad esempio la compravendita) si fonda anch'esso su obbligazioni corrispettive, ma la reciprocità contrattuale è ben diversa dalla reciprocità dello scambio sociale. Ciò emerge chiaramente se si compara scambio sociale e scambio economico, quest'ultimo essendo il solo dei due suscettibile di definizione contrattuale. La prima e fondamentale differenza fra scambio sociale e scambio economico consiste in ciò che il primo comporta prestazioni non definite, il secondo prestazioni specifiche. Nel contratto si precisa natura e quantità delle prestazioni; lo scambio sociale è invece basato sul una persona rende un favore a un'altra, e anche se esiste una generica aspettativa di qualche futura ricompensa, l'esatta natura di
39. La distinzione scambio-ideologia è valida in prima approssimazione e n o n è l'unica possibile. Intanto anche nello scambio c'è un elemento ideologico, che assume la forma di ideologia della competenza e del prestigio nello scambio indiretto (vedi oltre), e di ideologia della "mobilitazione individualistica" nel caso dello scambio clientelare. E ' stato ad esempio giustamente rilevato, a questo riguardo, che " n o n è possibile comprendere i successi della Dc negli anni '60 se n o n si riconosce l'importanza della componente ideologica... - il mito della crescita continua e del c o n s u m i s m o - , accanto all'uso degli P. Lange, "Il Pci e i possibili esiti della crisi italiana", ne La crisi italiana, a cura di L. Graziano e S. Tarrow, Einaudi, Torino, 1979, p. 712. Sull'ideologia della mobilitazione clientelare cfr. A. P i z z o m o , " I ceti medi nei meccanismi del consenso", ne II caso italiano, a cura di F.L. Cavazza e S.R. Graubard, Garzanti, M i l a n o , 1974, voi. 2, e P Farneti, " I partiti politici e il sistema di potere", ne L'Italia contemporanea 1945-1975, a cura di V. Castronovo, Einaudi, Torino, 1976. In secondo luogo, il concetto di ideologia è vago e come altri termini attinenti alla cultura politica (ma forse più di altri) è di difficile rilevazione empirica come determinante dell'azione. Forse un concetto più adeguato è quello di interessi ideali o aspettative generali di vita, proposto da Farneti e mutuato da Weber. P Farneti, "'Partiti', 'Stato' e 'mercato': appunti per un'analisi comparata", relazione presentata al Seminario sulla crisi italiana, Torino, F o n dazione Einaudi, 24-27 marzo 1977, ciclostilato. S i tratta di aspettative " d i riorganizzazione dei rapporti sociali e morali, che fanno parte della politica, ma n o n vengono riassorbiti (o non vengono riassorbiti interamente) dalla soddisfazione di domande contrattuali, tra le quali s o n o preminenti quelle di distribuzione dei compensi" Ibid., p. 14. In pratica, tali aspettative rinviano a d o m a n d e di riorganizzazione politica ( " n u o v o modo di governare", ecc.) e sociale che, sebbene generalmente accompagnate da domande di compensi immediati, s o n o analiticamente distinte da questi ultimi e ad essi irriducibili.
34 quest'ultima non è mai stipulata in anticipo" (40). Il contratto definisce diritti e obblighi, lo scambio comporta favori discrezionali. E ' importante notare che il carattere generico dei servizi socialmente scambiati deriva dall'impossibilità, intrinseca a tali servizi, di una loro misurazione, diversamente dagli scambi economici che consentono una quantificazione monetaria. Nel primo caso non esiste quindi un mezzo liberatorio, rappresentato nei contratti dal pagamento del prezzo convenuto. La seconda differenza attiene ai meccanismi che assicurano la restituzione della prestazione. La restituzione della cosa prestata è assicurata nello scambio dagli obblighi personali, dalla gratitudine e dalla fiducia che il rapporto genera, elementi assenti nel contratto, dove la natura delle prestazioni è tecnica (non personale) e la controprestazione garantita dalla coercizione giuridica. Come forma arcaica di contratto, lo scambio sociale è storicamente prevalso in società caratterizzate dall'inesistenza o inefficacia di garanzie giuridiche (41), e ha reso possibile l'interazione sociale anche in assenza di tali garanzie. Un'ultima differenza attiene alle conseguenze istituzionali: lo scambio sociale, diversamente da quello economico, non dà vita a istituzioni specifiche. Come è stato rilevato (41 bis), la simmetria nelle prestazioni socialmente scambiate " n o n è che un espediente sociologico, che non dà origine ad istituzioni separate, ma si limita a fornire modelli per l'interpretazione delle istituzioni esistenti" Per contro, lo scambio economico, "essendo collegato ad un proprio motivo particolare, il motivo del baratto, è in grado di creare un'istituzione specifica, e cioè il mercato" Ciò spiega, sia detto per inciso, la grande importanza del mercato per l'intera organizzazione della società e il rapporto, su cui ritornerò, fra scambi diadici e grado di commercializzazione dell' economia (cfr. Parte II, cap. III). Resta da dire delle funzioni dello scambio sociale, che sono essenzialmente due: generare amicizia, da un lato, e rapporti di super-ordinazione/subordinazione, dall'altro (42). In ciò esso si distingue ancora nettamente dallo scambio economico. Quest'ultimo, per realizzarsi come modo generale di scambio, postula il prevalere di quelle condizioni 40. Blau, op. cit., p. 93. Cf. la tipologia della reciprocità elaborata da M . D . Sahlins, " L a sociologia dello scambio primitivo", in L'antropologia economica, a cura di E. Grendi, Einaudi, Torino, 1972. 41. Cfr. B. Malinowski: Crime and Custom in Savane Society, Kegan Paul, Trench, Trubner & Co., Londra, 1926, particolarmente cap. XI, ( " A n Anthropological Definition of Law"). 4Ibis. K. Polanyi, La grande trasformazione, 42. Blau, op. cit., p. 89.
trad. it., Einaudi, Torino, 1974, p. 74.
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economiche e giuridico-politiche messe in luce da Marx e Weber: in breve, la separazione dei produttori dai mezzi di produzione, che obbliga i lavoratori a offrirsi sul mercato e fa del mercato il meccanismo tipico di accumulazione della ricchezza; uno Stato capace d'imporre una normativa generale e certa, essenziale per l'esigenza di "calco del modo di produzione capitalistico. Diversamente dallo scambio sociale, quello economico non abbisogna quindi di rapporti personalizzati, ma spersonalizza tutti i rapporti umani. Esso inoltre non dà luogo, come il primo, a rapporti di dipendenza personale, perché le condizioni dell'accumulazione sono precostituite dall'espropriazione dei produttori, e l'unica forma di dominio necessaria si esercita sul lavoratore in quanto tale e non in quanto persona (43). L o scambio sociale, si è detto, serve anzitutto a generare vincoli di amicizia e di fedeltà personale. E ' questa una funzione fondamentale che rende possibile l'interazione sociale in società dove la penetrazione del mercato e l'esercizio del potere statale non hanno creato le condizioni per l'emergere di una fiducia generalizzata. In società "primitive" pervase da una rivalità senza limiti, che non conoscono altre alternative, per dirla con Mauss (44), fra la festa e la guerra; in società contadine caratterizzate da una concezione fortemente antagonistica dei rapporti sociali (45); in società, infine, dove lo Stato ha dato prova d'impotenza e/o arbitrarietà nel suo operare; in tutti questi casi, l'amicizia è uno dei principali fattori di coesione sociale, il solo che possa genera43. L a situazione è radicalmente diversa nei m o di di produzione precapitalistici. E 1 "evidente scriveva M a r x che in tutte le forme in cui il lavoratore diretto rimane 'possessore 1 dei mezzi di produzione delle condizioni di lavoro..., il rapporto di proprietà deve al tempo stesso affermarsi come u n rapporto diretto di signoria e servitù... In tali condizioni, il pluslavoro per il proprietario nominale delle terre può essere loro estorto [ai produttori] soltanto con una coercizione extra-economica... Sono quindi necessari rapporti personali di dipendenza, mancanza di libertà personale..., una servitù nel vero e proprio senso della parola... " (il corsivo è mio). Citato da N. Poulantzas, Potere politico e classi sociali, trad. it., Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 27. 44. M . M a u s s : "Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche", M a uss, Teoria generale della magia e altri saggi, trad. it., Einaudi, Torino, 1965. 45. G. Foster, "Peasant Society and the Image o f the Limited G o o d " , American Anthropologist, aprile 1965; F.G. Bailey, " T h e Peasant View of the Bad Life", The Advancement of Science, dicembre 1966. Per quanto concerne l'Italia: J. Loprealo: " H o w W o u l d Y o u Like T o Be a Peasant?", Human Organization, 1965, pp. 298-307, e Peasants No More, Chandler, Scranton (Penn.), 1967, particolarmente capp. III e IV. Sulle condizioni di estrema precarietà psicologica dei contadini, e sui tentativi di farvi fronte sul piano della magia, rimane classico il lavoro di Ernesto D e Martino, Sud e magia, Feltrinelli, M i l a n o , 1971 (la ediz.: 1959).
36 re la fiducia necessaria alla cooperazione economica (46). L'importanza dello scambio sociale come generatore di fiducia può essere meglio apprezzata se consideriamo lo scambio come forma arcaica di contratto. Il contratto, in quanto fonte tipica di obbligazioni, può considerarsi, con Weber, la caratteristica essenziale della moderna vita giuridica. La sua importanza non è che il riflesso, sul piano del diritto, dello sviluppo dei rapporti di mercato e monetari (47). Ora chiediamoci: in assenza dei presupposti politici (coercizione giuridica) e economici (sviluppo del mercato) del contratto, che cosa spinge a restituire la cosa ricevuta e in genere ad eseguire i contratti reali? Era questo il problema che si poneva Mauss nello studiare la funzione del dono in società "primitive" Ciò che in tali società obbliga a restituire è il legame personale che le cose, circolando, creano fra gli uomini; più precisamente, la credenza magica nello spirito delle cose. La "cosa ricevuta — scriveva Mauss (48) — non è inerte. Anche se abbandonata dal donatore, è ancora qualcosa di lui. Per mezzo di essa egli ha presa sul beneficiario, così come per mezzo di essa ha presa, in quanto proprietario, sul ladro" In tali società operano quindi "meccanismi obbligatori attraverso le cose" (Mauss), in quanto cose non inanimate ma pregne di uno spirito (quello dell'originario donatore) che perseguita tutti i possessori sino al ritorno della cosa al "focolare d'origine" Il beneficiario non potrà riscattarsi che restituendo l'oggetto ricevuto. Il vincolo giuridico è quindi un legame personale che la cosa donata, in quanto cosa animata, crea fra donatore e donatario. Quello che a noi importa rilevare è che in una società pre-contrattuale il meccanismo che assicura la restituzione delle cose serve al contempo a far presa su altri individui, a "legarli a sé" Il dono consente di impegnare il donatario nel tempo e, in assenza di un mezzo liberatorio, di creare un legame bilaterale e indissolubile. Il dono mette in atto quindi un meccanismo non solo di restituzione delle cose, ma anche di collaborazione diadica. Esso risponde mirabilmente a un'esigenza che è acutissima nelle società arcaiche, nelle società contadine e in quelle in via di modernizzazione: fondare un minimo di fiducia, e 46. Schneider, "Coalition Formation and Colonialism in Western Sicily", c/7.; J.N. Anderson, "Buy-and-Sell and Economie Personalism: Foundations for Philippine Entrepreneurship", Asian Sutvey, settembre 1969; L . M . Hanks, " T h e Corporation and the Entourage: A Comparison o f Thai and American Social Organization", Catalyst, estate 1966. 47. M . Weber, Economia e società, trad. it., Comunità, M i l a n o, 1968, vol. II, pp. 20 e segg. 48. M a u s s , op. cit., p. 170.
37 quindi un minimo di cooperazione, in contesti dove prevale la disorganizzazione sociale e un forte antagonismo. Il dono è il mezzo con cui l'antagonismo è mutato in un forma obbligatoria di cooperazione. L'obbligo di ricambiare ha quindi, nel regime del dono, un fondamento strettamente personale. Fondare questo obbligo sulla credenza magica nello spirito della cosa non è che un modo, proprio delle società arcaiche, di assicurare la restituzione del donativo. Col tempo, questo obbligo può essere istituzionalizzato in quella che Gouldner chiama "la norma di reciprocità" (49), norma che assicura l'adempimento degli impegni anche in assenza di credenze magiche, ma sempre per effetto di una fiducia strettamente personale. In mancanza di coercizione giuridica, e in presenza di un'accentuata stratificazione sociale, il subordinato sa che l'unico modo per continuare a fruire della protezione e delle altre risorse del potente, è di restituire lealmente i benefici ricevuti. La restituzione avverrà in servizi personali e, per compensare lo squilibrio di risorse, in acquiescenza al volere del patrono. Per il potente, dare equivale a creare un seguito di clienti a lui personalmente obbligati e a salire nella gerarchia dell'autorità sociale. Dove il mercato non si è ancora tradotto in un meccanismo generalizzato di accumulazione della ricchezza, la generosità è la forma più razionale d'investimento; essa permette infatti di massimizzare quella risorsa che in un contesto pre-mercantile definisce il potere: il rango sociale (50). Elargendo opportunamente le proprie risorse, si accumula u n credito fatto di obbligazioni personali e ci si afferma superiore a tutti coloro che dispongono di minori mezzi di liberalità. Questo nesso fra scambio sociale e potere - nesso già notato dal primo formulatore di una teoria politica dello scambio, Hobbes (51) — 49. A. Gouldner: " T h e Norrn o f Reciprocity: A Preliminary Statement", American Sociologica! Review, aprile 1960. 50. M . Weber, "Class, Status, Party", in From Max Weber, a cura di H . H . Gerth e C. Wright Mills, Oxford University Press, New York, 1958, pp. 186 e segg. Cf. anche R. Firth, "Capitale, risparmio e credito nelle società contadine: osservazioni dal punto di vista dell'antropologia economica", in L'antropologia economica, cit., partic. p. 161. 51. In Hobbes il rapporto fra scambio sociale e potere discende dalla definizione di potere. Hobbes distingueva u n potere naturale e u n potere strumentale. Il primo consiste n e l l ' e m i nenza" delle facoltà naturali di un u o m o rispetto a altri uomini; il secondo in "quei poteri che acquisiti per mezzo di queste [facoltà naturali], o della fortuna, sono mezzi e strumenti per acquistarne di più: come ricchezza, reputazione, amici... buona fortuna" Il potere si accumula dando risorse rare in cambio dell'acquiescenza dei beneficiari: " A n c h e le ricchezze, unite alla liberalità, s o n o potere, poiché procurano amici e servi; ma n o n cosi, quando sono senza liberalità, poiché in questo caso n o n difendono, ma espongono gli u o m i n i all'invidia, come una preda. L a reputazione del potere è potere, poiché essa attira l'adesione di
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è particolarmente evidente in una forma di scambio studiata da Malinow e da Mauss: il potlàc. Il potlàc è un tipo antagonistico di scambio praticato in Melanesia, in Polinesia e presso tribù indiane della costa nord-occidentale degli Stati Uniti. Esso si regge su tre obblighi: di dare, ricevere e ricambiare. L'obbligo di dare è l'essenza del potlàc U n capo deve dare dei potlàc — scrive Mauss (52) - per se stesso, per il figlio, per il genero per i suoi morti. Egli perde la sua autorità sulla tribù e sul villaggio, ed anche sulla famiglia, perde il suo rango fra i capi se non prova di essere frequentato e favorito dalla fortuna ...; né può provare di possedere la fortuna, se non profondendola umiliando gli altri, mettendoli all'ombra del suo nome'.
Il potlàc - è una "guerra di proprietà" (Mauss) che mira a fissare la gerarchia sociale attraverso un uso calcolato della ricchezza. Ricevere un dono è pericoloso (nell'antico diritto e idioma germanico gift significava sia dono che veleno) (53) e tuttavia obbligatorio: solo il potente può rifiutare un dono senza che ciò comporti un'ammissione d'inferiorità. Infine l'obbligo di ricambiare, e di ricambiare ad usura, è il fondamento di tutto il potlàc. Si restituisce per pagare un debito e al contempo per obbligare a propria volta il donatore originario, per accrescere il proprio credito sociale, alimentando cosi un'enorme circolazione di ricchezza a fini di potere. La razionalità che regge questo tipo di scambio e lo scambio sociale in generale, è stata descritta da Mauss in questi termini (54): Il "motivo di questi doni e di questi sperperi forsennati non è in nessun grado disinteressato, soprattutto nelle società dove è in uso il potlàc. E ' attraverso i doni che si stabilisce la gerarchia tra capi e vassalli, tra vassalli e seguaci. Donare, equivale a mostrare la propria superiorità, valere di più, essere più in alto ...; accetta-
coloro, che hanno bisogno di protezione... Anche qualsiasi qualità che rende un u o m o amalo o temuto da molli, o la reputazione di tale qualità, è potere, poiché è un mezzo per avere l'aiuto ed il servizio di molti" Citato da C.B. Macpherson, The Politicai Theo/y of Possessive Individualism, Clarendon Press, Oxford, 1962. Adattamento della traduzione italiana di M . Vinciguerra, // Leviatano, Laterza, Bari, 1911-12, pp. 69-70. 52. M a u s s , cit., p. 217. Sebbene l'analisi del potlàc di M a u s s sia stata criticata sul piano etnografico, essa si presta bene ad illustrare il principio della generosità che regola lo scambio sociale. Cf. Thurnwald, Economics in Primitive Communities, 1932 e K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., cap IV. 53. M a u s s , cit., p. 265. 54. Ibid., p. 281.
39 re senza ricambiare o senza ricambiare in eccesso, equivale a subordinarsi, a diventare cliente o servo Il rituale magico del Kula [tipo di potlàc praticato in Melanesia] (55) è pieno di formule e di simboli che dimostrano come il futuro contraente ricerchi, prima di tutto, il vantaggio costituito dalla superiorità sociale e, si potrebbe dire, brutale.
Il principio del dono — che si riassume nell'uso produttivo e calcolato della generosità consente di chiarire alcuni importanti aspetti delle associazioni clientelari, tradizionali e moderne, in particolare la natura del paternalismo che le caratterizza e la tendenza a generare un tipo "assolutistico" di esercizio del potere. Che le strutture clientelari siano associazioni paternalistiche è evidente nei rapporti clientelari tradizionali (si pensi al rapporto proprietario-mezzadro), ma non è meno vero in formazioni clientelari moderne come il partito-macchina (56). Il paternalismo è quello che Mauss dimostra essere: un mezzo brutale di produzione del potere. Si dà per imbrigliare la conflittualità che permea società altamente stratificate, in una rete di obblighi personali, per schiacciare clienti e rivali sotto il peso di obbligazioni sanzionate con la subordinazione personale della parte inadempiente. Si dà, insomma, perché questo è un mezzo razionale di accumulazione del potere, mezzo tipico nelle società primitive e sussidiario (accanto al mercato) nelle società capitalisticamente avanzate. Affinché la generosità possa esplicarsi, occorrono individui abbastanza ricchi per dispensarla e altri abbastanza poveri per sollecitarla ("ricchi" e "poveri" in rapporto alle risorse decisive per il funzionamento di un dato sistema socio-politico). Sta qui la radice della diseguaglianza come requisito funzionale del clientelismo. Tanto il potlàc, che i rapporti clientelari tradizionali e la macchina politica si fondano sull'accentra-
55. Clr. B. Malinowski, Argonauti of the Western Pacific, Dutton, New York, 1950 (1° ed. 1922). 56. Il paternalismo della macchina emerge chiaramente dalla seguente descrizione fatta da un importante boss statunitense dell'800, George Washington Plunkitt: " C i ò che permette di mantenere il controllo del proprio distretto [elettorale] è l'andare direttamente fra le famiglie povere e aiutarle nei m o d i in cui hanno bisogno. Per questo, ho un metodo regolare... Se una famiglia è colpita da u n incendio, non chiedo se sono repubblicani o democratici, né li m a n d o alla società di beneficienza Procuro loro una casa, acquisto abiti E ' filantropia, ma è anche politica accorta, potente politica. C h i può dire quanti voti uno di questi incendi mi procura? I poveri s o n o le persone più grate al m o n d o L. Riordon, Plunkitt of Tammany Hall, New York, 1963 (la ediz. 1905), pp. 27-28, cit. da F.L. Greenstein, " T h e C h a n g i n g Pattern o f U r b a n Party Politics", The Annals of the American Academy of Political and Social Science, maggio 1964 (fascicolo dedicato al tema: "City Bosses and Politicai Machines").
40 mento delle risorse: della proprietà nel potlàc, delle risorse — soprattutto ma non solo economiche — che consentono ai patroni tradizionali di agire come mediatori fra comunità locale e Stato, monopolio degli uffici pubblici nel caso del partito-macchina (vedi oltre). Il principio del dono è stato formulato da Mauss per rendere conto della natura dei vincoli giuridici (in senso lato) e dell'interazione sociale in società arcaiche, in contrapposizione al principio del mercato proprio delle società capitalistiche. M a il principio di obbligare e di obbligare in modo tale che si possa solo imperfettamente contraccambiare, si riscontra in forme contemporanee di esercizio del potere, soprattutto dove prevale la cosi detta machine politics. Si pensi in effetti a cosa avviene quando un deputato attribuisce alla propria mediazione politica il compimento di opere da parte dello Stato, pratica corrente, ad esempio, nel Sud d'Italia ("Grazie all'intervento del deputato X , il Ministro ha disposto un finanziamento di x lire per la costruzione dello stadio municipale"), (cfr. Parte III). Il deputato rende un "servizio" a beneficiari che nella loro stragrande maggioranza non glielo hanno mai chiesto, e di cui essi si potranno sdebitare, e solo parzialmente, con il voto. Il deputato riesce ad "imporre" questa sua mediazione "privatizzando" in qualche modo la produzione di un bene pubblico, usando cioè a fini di generosità privata le risorse dello Stato. Questo esempio mostra che se il principio del dono è applicabile anche a società contemporanee, in tali società le risorse che occorre organizzare a fini di potere sono molto più complesse e cospicue che nelle società arcaiche. Soprattutto nei sistemi politici di transizione — sistemi nei quali le associazioni primarie (famiglia, etnia, ecc.) hanno perso gran parte delle loro funzioni (produttive, protettive, d'identità), ma dove non sono ancora sorte associazioni "orizzontali" atte a sostituirle — vi è un grande bisogno di protezione, ma la protezione è ivi fornita in modo organizzato, coerentemente al livello di mobilitazione della società. In tali contesti, la protezione è spesso assicurata dalla macchina politica. Della macchina politica, i politologi hanno analizzato soprattutto le variabili contestuali che ne spiegano genesi, funzionamento e funzioni (57). A noi interessa qui indagare il principio organizzativo sul quale la
57. Fra l'ampia letteratura sull'argomento si veda in particolare J.C. Scott, "Corruption, M a c h i n e Politics and Political Change", American Political Science Review, dicembre 1969, riportato in Clientelismo e mutamento politico, cit.; M . Shefter, " T h e Emergence of the Political Machine: New York City, 1884-1897, as a Test Case", Ithaca (New York), 1975, ciclostilato.
41 macchina si regge, più precisamente la forma d'imprenditorialità politica che ne consente l'organizzazione. Per far ciò applicheremo alla macchina la teoria dello scambio, avvalendoci della teoria imprenditoriale del partito di Weber. U n o dei fenomeni che ha accompagnato l'avvento della democrazia di massa è stato l'emergere di leaders politici professionisti. Il suffragio universale ed altri processi di modernizzazione, nell'integrare masse già marginali nel sistema socio-politico, richiedono un'organizzazione permanente del consenso di massa. Per questo, ai politici dilettanti, come i notabili (vedi oltre), subentrano politici di "vocazione" (o professionisti). Secondo Weber (58), vi sono due modi per fare della politica la propria vocazione: vivere " p e r " la politica o vivere " d i " politica. Chi vive " p e r " la politica ne fa una ragione intima di vita, o perché gode del "puro possesso" del potere esercitato, o perché identifica il senso della propria esistenza con una "causa" a cui dedicarsi. In termini di teoria dello scambio: chi vive " p e r " la politica ne ritrae benefici intrinseci (o ideologici), chi vive " d i " politica ne ritrae benefici estrinseci (o strumentali).
Sotto il profilo economico, la distinzione è semplice: vive " d i " politica chi fa della politica "una fonte permanente di reddito", mentre vive " p e r " la politica chi non ne ricava un tale reddito. Infine chi vive professionalmente " d i " politica, può farlo come "prebendario", se riceve rimunerazioni per servizi resi in proprio, o come funzionario stipendiato. Esempio di politico "prebendario" è il boss di partito, che è un vero "imprenditore politico"; esempio di funzionario è il funzionario di partito. Q u i ci interessiamo del solo politico professionista "prebendario" in quanto organizzatore del partito clientelare o macchina politica. Secondo Weber (59), in un'economia di mercato e in una società di massa, le prebende e altri profitti sono le ricompense "tipiche" del politico professionista. In cambio dei servizi resi al partito dagli attivisti, " i leaders di partito distribuiscono cariche di ogni genere", nel partito, in imprese private e soprattutto nelle Amministrazioni pubbliche. Tutte le lotte di partito sono lotte per impadronirsi delle spoglie, ossia per "sfruttare i dominati attraverso la monopolizzazione delle cariche", come pure per realizzare fini obiettivi (60). Questo modo di essere del partito si accompagna in genere a una sua totale "deideologizzazion
58. M . Weber, "Politics as a Vocation", in From Max 59. IbicL, p. 87. 60. Ibki.
Weber, cit., p. 84.
42 Trasponendo alla politica i meccanismi operanti in un'economia capitalistica, secondo una procedura tipica dell'analisi weberiana della società, Weber riteneva inconcepibile l'organizzazione del consenso elettorale di massa senza l'intervento d'imprenditori politici intenti a massimizzare la loro influenza. Ciò sia per ragioni intrinseche alle nuove organizzazioni di partito, che richiedono mezzi finanziari ingenti, sia perché i cittadini si distinguono, in base alle loro propensioni individuali, in politicamente attivi e politicamente passivi. Il carattere imprenditoriale della moderna leadership politica era quindi per Weber uno specifico adattamento dell'organizzazione di partito alla società di massa. Il partito macchina è tipicamente succeduto ai "partiti di notabili" In una società " n o n mobilitata", come erano ad esempio le società europee prima dell'estensione del suffragio elettorale, un "partito di notabili" era sufficiente a inquadrare i pochi elementi politicamente rilevanti. I notabili erano portatori di una "dignità sociale" derivata dal loro "stile di vita" e comandavano, in quanto tali, la deferenza dei loro concittadini (61). Erano politici dilettanti, non di professione, con un interesse ideologico nelle tradizioni del partito, e servivano a dirigere localmente quel tanto di azione politica che i parlamentari ritenevano opportuno organizzare. Il centro decisionale rimaneva nel parlamento e il costo dell'incentivazione dell'azione politica era tanto più basso quanto maggiore era la deferenza che i notabili ispiravano. L'organizzazione burocratica del partito era ridotta al minimo (essenzialmente: i deputati eletti, pochi impiegati, alcuni giornalisti al soldo del partito). Il ruolo politico dei notabili era una conseguenza della loro eminente posizione sociale. La "massificazione" della politica, in particolare l'estensione del suffragio, ha fatto sorgere politici professionisti che vivono interamente " d i " politica. Molti di essi vivono di politica secondo la tipica vocazione capitalistica dell'imprenditore. Il centro decisionale cessa comunque di essere localizzato nel parlamento e si sposta nella società civile, dove il leader costruisce il suo potere organizzando una nuova risorsa di massa: il voto (61 bis). I voti non sono ottenuti sulla base della "deferenza", che il nuovo uomo politico non ispira, né attraverso la mobilitazione ideologica, che il boss abbonisce. L'imprenditore politico è "pragmatico", senza principi; egli " c o m p r a " voti, distribuendo incarichi e altri vantaggi materiali. Il partito si burocratizza e diventa un'organizzazione complessa, anche se il suo coordinamento a livello nazionale è reso difficile dall'autonomia di cui i leader locali 61. Weber, Economia e società, cit., vol. II, p. 254. 61bis. Cf. G. Sartori, Parties and Party Systems, Knopf, N e w York, 1976.
43 abbisognano come imprenditori. I notabili da un lato, e i boss della macchina politica dall'altro, sono i perni organizzativi di due tipi distinti di sistemi clientelari, noti nella letteratura come clientelismo dei notabili e clientelismo del partito politico (62). Le condizioni in presenza delle quali è probabile che tali tipi di sistemi clientelari sorgano, gli strumenti di controllo politico ad essi peculiari, e il tipo di rapporto fra leader e seguaci, sono schematicamente indicati nella tab. 1. I I processo di transizione dal clientelismo dei notabili al clientelismo del partito sarà illustrato empiricamente nel seguito del nostro lavoro, con particolare riferimento al Mezzogiorno (cf. Parte III). Si ritornerà pure ampiamente sul ruolo dello Stato e del mercato come fattori che condizionano lo sviluppo del clientelismo (cfr. Parte II). Qui basta ricordare che l'avvento del clientelismo del partito ha due conseguenze importanti: sul costo dell'incentivazione dell'attività politica, attività che richiede un dispendio tanto maggiore di risorse quanto più elevato è il grado di partecipazione politica; e in fatto di autorità dei nuovi leader, che non godono della legittimità tradizionale dei notabili, né di quella moderna che il leader "ideologico" deriva dal proprio "progett o " per la società. La figura tipica d'imprenditore politico è il boss dei partiti statunitensi (a cui corrispondono altri tipi di agenti elettorali nei partiti europei) (62 bis). Il boss è " u n imprenditore politico capitalista che per proprio conto e a proprio rischio fornisce voti" (63). Egli "considera i suoi costi come capitali d'investimento che fa fruttare attraverso lo sfruttamento della sua influenza" (64). Il boss utilizza questa influenza per monopolizzare cariche pubbliche da distribuire agli attivisti del partito. Il suo potere deriva dal controllo dei voti di coloro che gli sono personalmente obbligati, e dal controllo dei mezzi finanziari. Deriva tali mezzi: 1) dai contributi degli iscritti al partito; 2) dalle tangenti che impone a coloro ai quali ha procurato un posto di lavoro; 3) da finanziamenti illeciti versatigli da chi vuole circonvenire la legge; 4) 62. Va sottolineato il carattere analitico della distinzione. Nella realtà i due tipi di sistemi clientelari si presentano raramente in forma pura, ma in vario grado frammisti.. 62bis. Il boss è l'organizzatore della struttura di base dei partiti americani: il comitato elettorale o caucus Ha alle sue dipendenze agenti elettorali (captains) che consentono al partito di tenere i rapporti con l'elettorato. Per un'analisi delle diverse strutture di base dei partiti (comitati, sezioni, cellule, ecc.), cfr. M . Duverger, Ipartiti politici, trad. it., Comunità, Milano, 1970 , pp. 53-79. 63. Weber, "Politics as a Vocation", cit., p. 109. 64. Ibidem, p. 86. Cf. R.H. Salisbury, " I gruppi come luoghi di scambio", in Partiti e gruppi di pressione, a cura di D. Fisichella, II M u l i n o , Bologna, 1972.
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dalla vendita pura e semplice degli uffici. Il boss è un imprenditore "capitalista" in un duplice senso: da un lato, la razionalità della sua azione politica è quella propria dell'accumulazione capitalista; dall'altro, il boss per la sua "giudiziosa discrezione" nel maneggiare i finanziamenti ricevuti, " è l'uomo naturale di quei circoli capitalisti che finanziano le elezioni" (65). Egli concepisce la lotta politica in termini prossimi allo scambio economico: come si è 65. Weber, "Politics as a Vocation", cit., p. 109.
45 detto, non difende principi ma compera voti. Per operare con profitto, ha bisogno di una totale "mercificazione della politica" Il boss è l'organizzatore di un partito — "macchina politica" — che presenta queste caratteristiche. E ' un partito "pragmatico" che non tiene in alcun conto i principi, o non solo quelli di natura ideologica (66). N o n è propriamente un partito anti-ideologico, perché anche il pragmatismo è un'ideologia che implica l'accettazione e la difesa dello status quo. E ' un partito elettoralistico: tutta l'attività è centrata su quelle elezioni che sono determinanti per l'assegnazione degli uffici. Negli Stati Uniti, la massima attenzione era prestata alle elezioni presidenziali, perché il presidente disponeva (sino a fine ' 8 0 0 ) di 300.000-400.000 posti da distribuire discrezionalmente. L'altro tipo di elezioni importanti erano quelle municipali, l'arena locale essendo in America — diversamente da quanto avviene in Italia e nelle nazioni di nuova indipendenza — l'arena tipica del "sistema delle spoglie" (vedi oltre). Sotto il profilo degli incentivi che legano leaders e sostenitori, la macchina è caratterizzata dal tipo personale e materiale degli incentivi distribuiti. In ciò sta la sua forza e il suo limite. La forza della macchina politica è dovuta alle stesse ragioni, che fanno la forza della diade. Dal punto di vista di un individuo razionale, razionale nel senso di Olson (vedi sopra), la macchina è in effetti l'unico tipo di partito a cui abbia senso aderire. Nel rendere conto della scarsa consistenza dei partiti politici statunitensi — quanto a numero di membri e dimensione dell'apparato burocratico —, Olson sottolinea che "la persona media non è disposta a fare sacrifici significativi per il partito favorito, perché una vittoria del proprio partito fornisce un bene collettivo" (67). Questo non è il caso della macchina, che non produce beni collettivi ma vantaggi individuali. La forza quindi della macchina, non diversamente dalla diade clientelare, sta in ciò che entrambe "lottano essenzialmente per ottenere benefici che avvantaggiano particolari individui, piuttosto che per gli interessi comuni di un grande gruppo" (68). I limiti della macchina politica sono di due tipi: economici e funzionali. D a un lato il metodo particolaristico d'incentivazione comporta 66. Sulle pratiche corrotte e illiberali della macchina cf.: H.F. Gosnell, Machine Politics, Chicago University Press, Chicago, 1968 (la ed. 1937), specialmente pp. 190-191. Per interessanti testimonianze sul comportamento fazioso del gruppo dirigente di un partito-macchina, si veda: G. Pansa, "Il ministro feudatario di Palermo", Corriere della sera, 1 novembre 1973, e dello stesso autore Bisaglia, una carriera democristiana, Sugarco, M i l a n o , 1975. 67. Olson, op. cit., p. 164. 68. Ibid., p. 165.
46 una corruzione e uno spreco che Weber giudicava "insostenibili", giudizio confermato da successive ricerche sul campo (69). La macchina genera un processo d'inflazione della domanda che, tollerabile in una economia in forte espansione, diventa insostenibile in altre circostanze. E ' questo uno dei fattori che ne spiega il fallimento nei paesi di nuova indipendenza (70). Il secondo fattore è ancora più importante: la macchina comporta un uso patrimoniale (personale, discriminatorio, dilettantistico) dell'ufficio che viola due principi fondamentali dell'ufficio burocratico: netta separazione fra sfera "privata" e sfera "ufficiale", e regolamentazione astratta (non "caso per caso") delle pratiche e delle materie disciplinate. U n sistema politico in cui la struttura predominante di articolazione e aggregazione degli interessi sia la macchina politica, può essere assimilato a quel tipo di Stato che Weber chiama Stato patrimoniale. (Questo vale per il solo aspetto indicato e non anche per quanto riguarda il fondamento della legittimità: lo stato patrimoniale si fonda infatti su un'autorità personale tradizionale, mentre la macchina esercita un potere non tradizionale basato sullo scambio di favori). Nello Stato patrimoniale, scrive Weber (71), al "posto della oggettività burocratica e dell'ideale di un'amministrazione 'senza riguardo alla persona' — fondata sulla validità astratta di un eguale diritto oggettivo — vale il principio opposto. Tutto poggia esplicitamente sulla 'considerazione della persona', cioè sulla presa di posizione rispetto al richiedente concreto e alla sua istanza concreta, nonché su relazioni puramente personali, su concessioni di grazia, su promesse e su privilegi" Questa è anche la descrizione del funzionamento di quello che potremmo chiamare in prima approssimazione Stato clientelare (cf. Parte II) (72). 69. Cf. A.R. Zolberg, One-Party Government in the Ivory Coast, Princeton University Press, Princeton, 1969 (ed. riveduta, 1a ed. 1964), particol. la sezione intitolata: " T h e P.D.C.I. [ Partì démocratique de la Còte d ' I v o i r e ] as a Machine", pp. 184-198; M . Weiner, Party-Building in a New Nation, The Indian National Congress, The University of Chicago Press, Chicago, 1967, passim. La testimonianza di Weiner è particolarmente importante, perché egli è l'A. che con più insistenza ha proposto la macchina come modello per i paesi in via di modernizzazione. 70. Cf. Scott, "Corruzione, machine politics e mutamento politico", in Clientelismo e mutamento politico, cit. A.J. Heidenheimer, Political Corruption, Holt, Rinehart & Winston, New York, 1970. Sul costo dei "governi degli speculatori", fondati più sull'astuzia e sulla corruzione che sulla forza, aveva già insistito Pareto. Trattato di sociologia generale, G. Barbera, Firenze, 1923, vol. 3, paragrafi 2257 e segg., particolarmente nn. 2276, 2305 e 2307. 71. Weber, Economia e società, cit., vol. II, p. 343. 72. Cf. G. Roth, "Personal Rulership, Patrimonialism and Empire Building in the New States", World Politics, gennaio 1968.
47 3. Clientelismo e legittimazione del potere Facciamo il punto. Abbiamo concettualizzato l'associazione clientelare — dalle più semplici strutture diadiche al partito-macchina — come un'associazione asimmetrica fondata sullo scambio di favori. Il problema è ora quello di distinguere lo scambio clientelare da altri tipi di scambio. Da Olson sappiamo che qualsiasi gruppo, "particolaristico" o "categoriale" che sia, deve ricorrere a incentivi selettivi; la via da battere è quindi quella di diversi tipi d'incentivi selettivi. La distinzione che fa Blau fra scambio diretto e scambio indiretto risponde a questo criterio. Essa consente di recuperare la distinzione diade-gruppo fondandola su tipi distinti d'incentivi selettivi (diretti nel caso della diade clientelare, indiretti nel gruppo) (73). L o scambio diretto si basa su uno scambio di benefici immediati, personali e prevalentemente materiali. Il subordinato si conforma ai comandi del superiore, e l'attivista alle direttive del leader, in risposta a servizi loro direttamente resi o promessi dall'autorità o dal leader. L o scambio indiretto è invece mediato da norme e valori che portano a conformarsi alle direttive comuni per l'approvazione sociale che ne deriva, o in vista di vantaggi collettivi. Il primo è basato su un meccanismo verticale di controllo (del superiore sul subordinato o del leader sull'attivista). Il secondo su u n controllo orizzontale esercitato dalla stessa collettività di subordinati (o membri), che offre ottemperanza alle direttive impartite in cambio del contributo dato dal " c a p o " al benessere del gruppo. Il burocrate che compie un servizio facendo intendere che ciò impegna il superiore ad un atto di restituzione personale, agisce in base allo scambio diretto. Il funzionario che compie correttamente le mansioni del proprio ufficio perché una trasgressione comporterebbe la disapprovazione dei suoi colleghi, agisce secondo i canoni della reciprocità indiretta. Il funzionario infine che si conforma al suo ruolo in ossequio all'etica burocratica, non agisce sulla base dello scambio (né diretto né indiretto), ma in un modo che può dirsi "ideologico" La distinzione che fa Blau fra scambio diretto e indiretto mi sembra più dicotomica di quella fra associazioni particolaristiche e associazioni categoriali. La prova sta nel suo potere esplicativo. Essa permette infatti di specificare le conseguenze che comporta per la società il prevalere di 73. Per un'analoga concettualizzazione dell'associazione clientelare, si veda R.R. Kaufman, " T h e Patron-Client Concept and Macro-Politics: Prospects and Problems", Comparative Studies in Society and History, giugno 1974.
48 un tipo o dell'altro di scambio. Scambio diretto e scambio indiretto hanno un'incidenza opposta su due processi fondamentali, di legittimazione del potere da un lato, e di opposizione organizzata all'esercizio del potere, dall'altro (74). L a legittimazione del potere, che trasforma il potere in autorità, e il sorgere di un'opposizione organizzata sono processi intrinsecamente collettivi che richiedono, come vedremo, il superamento dei rapporti diadici. Più in generale, solo lo scambio mediato da valori comuni rende possibile il funzionamento (necessariamente impersonale) di complesse strutture sociali, e quel processo di istituzionalizzazione della vita sociale che caratterizzano le società di massa stabili ed efficienti (vedi oltre) (75). Ricordiamo anzitutto che ha senso parlare di scambio sociale solo in quanto non si sia in presenza di un potere puramente coercitivo o autoritario. Tipicamente, rapporti di scambio intercorrono fra leader e membri di associazioni volontarie (gruppi di pressione, partiti, sindacati). M a anche strutture di tipo imperativo come lo Stato, o fondate su obblighi contrattuali come l'impresa, non possono contare soltanto sui rispettivi poteri formali. Uno Stato che si regga solo sulla forza è difficilmente concepibile, e comunque il suo livello di funzionalità sarebbe tale da renderne precaria l'esistenza. Analogamente, un'efficace direzione aziendale sarebbe "impossibile — come ha notato Blau (76) - entro i limiti della sola autorità formale" Anche nelle associazioni fondate sul potere d'imperio o sul contratto, occorre quindi un meccanismo che stabilizzi e amplii l'esercizio del potere. A questa funzione adempie lo scambio sociale, ma in modo molto diverso a seconda che la legittimazione del potere avvenga per effetto dello scambio diretto o di quello indiretto. La posizione del leader (formale e informale) nei confronti dei sottoposti può configurarsi, in generale, come puro potere, influenza personale o autorità. Il potere non richiede scambio, l'influenza personale si basa su uno scambio diadico diretto, l'autorità su uno scambio collettivo indiretto. U n rapporto di potere, in quanto tale, non richiede scambio perché si traduce in un'imposizione unilaterale di volontà (77).
74. Blau, op. cit., cap. 8 e 9. 75. Ibici., cap. 10 e H o m a n s , Socia! Behavior, cit., cap. 18 ( " T h e Institutional and the S u b institutional"). 76. Blau, op. cit., p. 206. 77. Aderiamo qui a quella che Friedrich definisce la concezione "sostantiva" del potere del potere come capacità di esercitare u n controllo su altri - e n o n del potere come relazione fra due persone. La prima concezione si rifà alla tradizione del pensiero di Hobbes e Marx ,
49 Esso può derivare dai poteri formali di u n superiore o dal potere di fatto di un leader informale (come ad esempio in una gang). Il superiore può voler ampliare il suo potere fornendo servizi individuali ai sottoposti in modo da obbligarli a rispettare "volontariamente" i suoi ordini. In tal caso il potere è rafforzato dall'influenza personale, influenza che sorge per effetto di scambi diretti fra leader e subordinati, e degli obblighi che tali scambi generano. A d esempio, in un'azienda ove imperi quello che Bennet chiama "paternalismo economico" (78), il datore di lavoro fonderà la sua influenza sui mille servizi che può rendere individualmente ai suoi operai (assistenza in tempo di difficoltà familiari, applicazione "flessibile" del regolamento, permessi "eccezionali", ecc.). Talvolta un padrone offre ai propri lavoratori servizi comuni per rafforzare l'idea dell'azienda come "grande famiglia" (il caso tipico osservato sul campo è l'offerta di grandi pranzi natalizi). Ciò non muta la natura diadica e diretta dello scambio. C o n riferimento ai servizi sui quali si basa l'influenza personale, il punto importante infatti non è che questi servizi siano materialmente resi alla singola persona, ma il fatto che, comunque resi, essi non generano aspettative di gruppo rivendicate dai membri del gruppo come diritti comuni da difendersi, all'occorrenza, con azioni comuni (79). la seconda a Locke. Cf. C.J. Friedrich: Constitutional Government and Democracy, G i n n & Co., Boston, 1950 (ed. riveduta, la ed. 1937), p. 23 (trad. it., Neri Pozza, Venezia, 1950). D i Hobbes si veda il cap. 10 del Leviathan; di Locke, An Essay Concerning Human Understanding, libro II, cap. X X I ( " O n the Idea o f Power"). 78. J.W Bennett, "Paternalism", in International Encyclopedi of the Socia! Sciences, MacMillan, New York, 1968. 79. C o n questo n o n si vuole dire che in u n sistema clientelare non vi siano valori comuni e aspettative di gruppo. Questi valori esistono e sono particolarmente evidenti nel caso del clientelismo tradizionale. Per di più, come ha osservato J.C. Scott in una comunicazione personale, "questi valori n o n implicano soltanto la nozione di ciò che costituisce un giusto scambio individuale, ma anche di quello che l ' u o m o di potere deve alla comunità come contributo al benessere collettivo" Ciò detto, quello che sostengo è che in un sistema clientelare anche in presenza di aspettative di gruppo i clienti di fatto non rivendicano i loro diritti con azioni comuni. Ciò per ragioni che non derivano necessariamente da mancanza di coscienza, ma spesso da valutazioni del tutto razionali della realtà. La "struttura della situazione" (ossia il quadro delle condizioni obiettive e delle concrete alternative aperte all'attore) può infatti essere tale da consigliare una strategia di rapporti diadici anche a chi è consapevole di operare in un sistema di sfruttamento collettivo. Sul rapporto fra determinanti psicologiche e "situazionali" dell'azione, si veda D. Easton, Il sistema politico, trad. it., Edizioni di comunità, M i l a n o , 1963, pp. 182 e segg., specialmente p. 189. Cf. pure le penetranti osservazioni di Pizzorno sulla razionalità dell'inazione di gruppo in una comunità emarginata. A. Pizzorno, " F a m i l i s m o amorale e marginalità storica, ovvero perché n o n c'è niente da fare a M o n t e g r a n o " , Quaderni di sociologia, vol. X V I (1967), n. 3.
50 L o stesso può dirsi di una burocrazia, come quella tailandese descritta da Edgar Shor (80), dove alle linee di autorità formali si sovrappongono cricche personali che sono il vero locus del potere e della fedeltà burocratica. Il funzionario tailandese sa di non potere contare sui soli poteri gerarchici, e deve costruirsi una cricca di impiegati-seguaci presso i quali ha influenza nella misura in cui fornisce vantaggi esclusivi (di carriera, economici, ecc.). In questo caso, l'influenza personale non rafforza i poteri formali ma li sostituisce con nuove linee di potere informale. L'influenza personale - al pari dell'autorità - assicura la volontaria osservanza dei comandi del superiore, ma non è ancora autorità. L'autorità può essere definita, con Weber (81), "la probabilità che certi comandi (o tutti i comandi) provenienti da una data fonte saranno ubbiditi da un gruppo di persone" L'autorità si esercita quindi nei confronti di una collettività di persone. Si noti che il fondamento collettivo dell'autorità non è solo postulato in via di definizione, ma sembra convalidato dai risultati delle ricerche sui piccoli gruppi e sulle grandi organizzazioni che Blau richiama. Rispetto all'influenza personale, l'autorità si differenzia per il modo in cui sorge, il modo in cui si attua e per le conseguenze che comporta quanto all'esercizio del potere. L'autorità è una forma di legittimazione collettiva del potere. Essa non sorge sulla base di obblighi individuali verso il superiore (caso dell'influenza personale), ma per effetto di una norma di gruppo che sia capace di tradursi in reale attività di gruppo dei sottoposti. L'autorità, legittima e al contempo limita il potere del superiore; essa presuppone il superamento dei rapporti diadici, l'attivazione di collegamenti orizzontali fra i subordinati e un meccanismo collettivo di controllo. Scrive Blau al riguardo (82): "L'autorità può sorgere soltanto in strutture sociali. Il potere o l'influenza personale esercitata nell'ambito di relazioni bilaterali non può mai svilupparsi in autorità legittima. Questo perché solo le norme comuni di una collettività di subordinati possono legittimare i poteri di controllo di un superiore e dar luogo al volontario adempimento delle sue direttive, nel senso di rendere tale adempimento, in quanto assicurato dagli stessi subordinati, indipendente da qualsiasi incentivo o 80. E.L. Shor, " T h e Thai Bureaucracy", Administrative Science Quarterly, giugno 1960; cfr. Hanks, " T h e Corporation and the Entourage", cit. 81. Weber, Economia e società, cit., voi. II. 82. Blau, op. cit., p. 211.
51 atto d'imposizione del superiore" (Il corsivo è mio). Mentre l'influenza personale si basa su uno scambio diretto fra leader e sottoposti, l'autorità si attua in virtù di processi indiretti di scambio resi possibili dalla mediazione di valori comuni: " L e norme sociali e i valori condivisi dai subordinati — scrive ancora Blau (83) — legittimano il potere d'influenza di un superiore e lo trasformano in autorità. Contemporaneamente, allo scambio diretto fra superiore e singoli sottoposti subentrano processi indiretti di scambio sociale. Prima che si diffondano norme legittimanti, i subordinati adempiono le direttive del superiore in cambio dei servizi che egli procura Le norme sociali che legittimano l'autorità danno vita a due processi di scambio che prendono il posto [dello scambio diretto] L'individuo offre ottemperanza alle direttive del superiore in cambio dell'approvazione sociale dei suoi pari. La collettività dei subordinati offre prevalente adempimento agli ordini del superiore in cambio del contributo" che questi dà al benessere comune. Influenza personale e autorità hanno infine conseguenze molto diverse sulla stabilità e l'ambito di esercizio del potere. L'autorità stabilizza il potere in un modo che l'influenza personale — basata com'è su controlli verticali sui singoli sottoposti — non può fare. Soprattutto, l'autorità consente di ottenere l'adesione dei subordinati (o dei membri di un gruppo volontario) a obiettivi che non procurano vantaggi immediati. L'incentivazione individuale e l'influenza personale che ne deriva, rendono invece la mobilitazione collettiva per fini di lungo periodo infinitamente più difficile. Ritornerò sul punto trattando del sistema politico (v. oltre, cap. II). Il processo di formazione di un'opposizione organizzata risponde a una dinamica del tutto analoga a quella che spiega il sorgere dell'autorità. I due processi hanno in comune il fatto di essere reazioni collettive all'esercizio del potere. " I valori sociali che legittimano l'opposizione ai poteri dominanti — scrive Blau (84) — possono emergere soltanto in una collettività i cui membri condividano l'esperienza di essere sfruttati e oppressi Le vittime isolate dell'oppressione sono impotenti nella loro futile collera, ma un'intera collettività non è impotente" All'abuso dell'influenza personale corrisponde la rivolta personale; alla violazione delle aspettative collettive su cui si basa l'autorità, l'opposizione organizzata dei subordinati. Un'opposizione organizzata richiede la mediazione di valori che con83. Ibid., p. 209. 84. Ibid., p. 231.
52 sentano a persone e gruppi di collegarsi e di reagire collettivamente, specie in caso di " a b u s o " del potere. E ' questo collegamento basato su interessi comuni che ha reso possibile, ad esempio, l'organizzazione dell'opposizione operaia nei sindacati. E d è appunto questo collegamento che associazioni diadicamente strutturate impediscono di realizzare. Il tipo di rapporto che il notabile o il boss intrattengono è, come si è detto, un rapporto diretto con i clienti, e la logica del sistema vuole la cooptazione di chiunque minacci di rendere tali rapporti inoperanti con l'organizzazione di legami orizzontali (85). Sulla base di quanto precede, possiamo dire che la legittimazione del potere e l'opposizione organizzata sono reazioni collettive all'esercizio del potere che presuppongono il superamento dello scambio diretto e vasti collegamenti orizzontali. Legittimazione e opposizione sono i due fondamentali processi che condizionano rispettivamente l'organizzazione e la riorganizzazione della società. Il loro imperfetto realizzarsi in società dominate da strutture clientelari spiegherebbe le ragioni dell'immobilismo che caratterizza tali società; società da un lato incapaci di darsi quella stabile organizzazione sociale e politica che solo una leadership autorevole può assicurare, e incapaci altresì di riorganizzarsi per la tendenza delle forze di opposizione a confondersi con quelle di governo secondo la pratica del trasformismo. Per concludere sul punto — incidenza delle associazioni clientelari sul processo di legittimazione — si deve aggiungere che ostacolando la legittimazione del potere il clientelismo ostacola anche l'istituzionalizzazione dell'autorità. Un'istituzione può essere definita un insieme di "norme esplicite che regolano il comportamento di molte persone" (86). Si fonda su norme condivise da una collettività d'individui e su processi di scambio indiretto simili a quelli che ho delineato trattando della legittimazione del potere e dell'opposizione organizzata. L'istituzionalizzazione è il processo che conferisce valore e stabilità a tali norme; ha come effetto quello di dissociare i ruoli di autorità dalle
85. Sulla cooptazione come tecnica di potere della macchina, si veda Zolberg, op. cit., pp. 188-194 e il cap. IlI di questo volume. Cf. Pareto, Trattato di sociologia, cit., paragrafi 2477 e segg., particolarmente nn. 2482-2483. La cooptazione era per Pareto uno dei quattro strumenti di cui la classe governante dispone per eliminare chi può nuocere al suo dominio (gli altri mezzi essendo morte, persecuzione, esilio dei capi avversari). Strumento efficacissimo a breve termine, ma esiziale a lungo termine. C i ò perché la cooptazione comporta un mero ampliamento dell'élite, impedendo quel rinnovamento qualitativo della classe governante che era per Pareto l'effetto caratteristico della "circolazione delle elites" Ibid., paragrafo n. 2483. 86. H o m a n s , Social
Behavior, cit., p. 382 e tutto il relativo capitolo (cap. 18).
53 persone che li esercitano, consentendo di perpetuare i principi organizzativi di una società mediante la "socializzazione" delle nuove generazioni (87). Una volta istituzionalizzate, le norme vengono ad essere osservate per principio e non per i vantaggi sociali che il loro adempimento comporta. E ' questa la ragione per la quale l'istituzionalizzazione dell'autorità, particolarmente nelle istituzioni governative e politiche (partiti, sindacati, ecc.), accresce notevolmente il capitale di una società. Per capitale intendo qualsiasi risorsa atta a far "posporre azioni che comportano ricompense immediate, a vantaggio di altre azioni, i cui frutti, sebbene potenzialmente maggiori, siano al contempo incerti e differiti" (88). Un'istituzione può in effetti essere comparata ad un investimento: richiede la previa accumulazione di capitale, specialmente fiducia fra gli uomini e genera nuovo capitale, nel senso che rende possibili innovazioni a lungo termine di natura politica (come nuovi assetti costituzionali) e sociale (ad es. riforme nella struttura socio-economica). L'autorità istituzionalizzata è autorità sorretta da tanto credito sociale da permettere ai leader di attuare, all'occorrenza, anche iniziative temporaneamente impopolari. L a pratica del clientelismo, basata com'è su un uso strettamente personale del potere, impedisce quella dissociazione fra ruoli e titolari dei ruoli che è la prima caratteristica dell'autorità istituzionalizzata. Essendo fondato sul principio anti-burocratico della "considerazione della persona", esso mina la fiducia nelle "regole del gioco" e nelle istituzioni che dovrebbero assicurarne il rispetto. Il deputato che promette favori in cambio di voti, il pubblico impiegato che "vende" i servizi del proprio ufficio, il leader sindacale che non ingaggia azioni collettive ma persegue vantaggi personali o destinati solo a singoli lavoratori: tutti questi attori minano istituzioni come il partito e il parlamento, l'amministrazione pubblica e il sindacato. Inoltre, la loro azione, alimentando aspettative di vantaggi immediati e personali, è di ostacolo a quegli investimenti sociali (differimento di consumi sociali) tanto essenziali per lo sviluppo politico quanto l'accumulazione di risorse materiali è necessaria per lo sviluppo economico (89). 87. Clr. Blau, op. cit., pp. 273-280 c S.P Huntington, Politicai Order in Changing Societies, Yale University Press, New Haven, 1968, cap. P'; D. Easton, " A n Approach to the Analysis of Politicai Systems" World Politics, aprile 1957 (riportato in appendice a D. Easton, Il sistema politico, cit). 88. H o m a n s , Social Behavior, cit. p. 386. 89. Ibid., cap. 18.
54 Per completare l'illustrazione della mappa concettuale che ha guidato questa analisi, devo dire infine della contrapposizione: scambio-ideologia (90). Scambio diretto, di cui lo scambio clientelare è un sottotipo, e scambio indiretto hanno questo in comune: di basarsi su benefici estrinseci, ossia su vantaggi individualizzati (non collettivi). Per riprendere l'esatta formulazione di Blau (91), " l o scambio sociale si riferisce ad azioni che dipendono da reazioni gratificanti di altre persone, e che cessano quando tali attese reazioni non si manifestano prontamente" Questa definizione dello scambio implica una razionalità strumentale, individualistica e di breve periodo. V i è un altro tipo di razionalità che possiamo chiamare normativa e che corrisponde al concetto di benefici intrinseci in Blau e alla nozione weberiana di atto wertrational. E ' questa una razionalità "rispetto ai fini" che rende l'attore sensibile ad incentivi di tipo generale (non solo individualistico) e a vantaggi di lungo periodo. L'azione dell'uomo politico o dell'attivista che vivono " p e r " una causa, o l'attività di un'organizzazione (partito, sindacato, ecc.) rivolta a conseguire beni collettivi (come ad esempio le riforme), sono comportamenti che non si spiegano sulla base della teoria dello scambio né di quella delle "scelte razionali" (tipo teoria di Olson; vedi sopra). In pari modo, tali teorie spiegano un'opposizione "pragmatica" all'interno del sistema, ma non un'opposizione "radicale" mirante alla trasformazione del sistema. Questi tipi di comportamento possono essere tutti ricondotti a una motivazione ideologica, ove per ideologia s'intende semplicemente un insieme di credenze aventi valore intrinseco e incidenza sul comportamento di chi le condivide. L'ideologia si contrappone allo scambio nel senso preciso che lo scambio ancora l'attore a una logica strumentale che ne facilita il controllo sociale e politico, mentre l'ideologia assegna all'individuo fini autonomi che sfuggono alla presa d'incentivi materiali e immediati. "L'ideologia scrive Blau (92) — libera le risorse e le energie che sono necessarie per dar vita a un'opposizione attiva, perché la dedizione agli ideali rende gli uomini disposti a sacrificare ricompense materiali nell'interesse della causa comune" Cosi come lo scambio sociale si basa su incentivi materiali che non mettono in causa lo status quo, l'ideologia ha un valore espressivo e rende possibile la trasformazione del sistema. Senza il potere coesivo dell'ideologia non si spiegherebbe la persistenza di partiti condannati a 90. Vedi nota 39. 91. Blau, op. cit., p. 6. 92. Ibid., p. 251.
55 restare a lungo all'opposizione, e ai quali sono quindi negate le risorse che fanno la forza della macchina. L'ideologia implica un disegno consapevole di trasformazione della realtà e, nella misura in cui riflette i bisogni esistenziali delle masse, rende "razionale" il perseguimento di fini altrimenti "irrazionali". M i riferisco a quella razionalità senza la quale tutte le grandi rivoluzioni — dalla rivoluzione calvinista nell'Inghilterra del '500-'600 a quelle del X X secolo —, sarebbero state inconcepibili e inattuate. Vediamo molto brevemente come opera l'ideologia. Si consideri, ad esempio, l'azione dei sindacati in Italia dopo il 1968. E ' un'azione caratterizzata, fra l'altro, dalla lotta per le riforme. Le riforme, se attuate, si materializzano in beni collettivi, beni contraddistinti, come sappiamo, dalla natura non-esclusiva del loro godimento (tutti possono avvantaggiarsene; vedi sopra). Per esemplificare: se fosse attuata la riforma della casa, potrebbe beneficiarne tanto il lavoratore sindacalizzato che ha per essa lottato, quanto il più passivo dei cittadini. Se prevalesse la razionalità strumentale teorizzata dagli studiosi dello scambio e da Olson, nessun lavoratore "razionale" dovrebbe essere disposto a sacrificarsi per un tale bene sociale. Come si spiega allora l'ampia mobilitazione a cui abbiamo assistito in Italia intorno alle riforme di struttura? La risposta va cercata nel ruolo espressivo dell'ideologia delle riforme. Essa ha funzione mobilitante perché fa identificare sempre più i lavoratori con organizzazioni che lottano per una "giusta causa" (giudizio quindi di valore e non di fatto). L'organizzazione "riformista" sceglie la propria strategia sulla base di una teoria della realtà che deve presentare il sistema come un insieme di rapporti necessari. L'ideologia, con la sua funzione espressiva o d'identificazione, è l'elemento che consente di colmare il divario fra soggettività riformatrice del sindacato e oggettività del sistema, assicurando l'adesione dei membri anche in assenza di risultati immediatamente appropriabili dai singoli attivisti (93). Pertanto l'ideologia, al pari dell'autorità istituzionalizzata, costituisce una riserva di credito sociale per i leader e si risolve in capacità di mobilitazione delle masse. A l pari dell'autorità, essa consente investimenti a lungo termine, perché il costo dovuto al differimento dei consumi diventa accettabile in presenza di leader legittimati da un progetto di trasformazione sociale. E ' precisamente questa capacità di mobili-
93. Ringrazio Alessandro Pizzorno per avere attirato la mia attenzione su questo punto.
56 tazione di massa e di lungo periodo — una delle risorse di base per una strategia delle riforme - che la macchina politica e in genere le associazioni clientelari non posseggono.
2. C L I E N T E L I S M O E S I S T E M A P O L I T I C O
Nel capitolo precedente ho illustrato alcuni aspetti del clientelismo in quanto tipo di comportamento, sotto il profilo, cioè, della logica dell'azione sociale. In questa sezione, mi propongo di studiare il fenomeno nei suoi rapporti con il sistema politico. E ' questa la problematica di gran lunga più trascurata nella letteratura, che è stata soprattutto attenta agli aspetti micro-sociologici del fenomeno. A quali caratteristiche sistemiche il clientelismo si accompagna? Quali effetti ha sullo sviluppo del sistema politico? Vedremo dapprima brevemente cosa dice in merito la letteratura specializzata. Esporrò, in secondo luogo, una concettualizzazione di sistema politico che m i sembra più adeguata, rispetto alle definizioni correnti, allo studio del clientelismo politico e, più in generale, dei problemi attinenti allo sviluppo.
1. Alcune osservazioni sulla letteratura sul "patronage" In termini generali, la letteratura tratta del clientelismo in uno dei seguenti tre modi: 1. clientelismo a livello di comunità locale. D i natura prevalentemente antropologica, questi studi sono soprattutto focalizzati sugli aspetti micro-sociali, interpersonali dei rapporti clientelari. Come tali, sono di limitato interesse per lo studioso interessato agli aspetti macropolitici del clientelismo. Includerei in questo gruppo i lavori di J. Pitt-Rivers e M . Kenny sulla Spagna, di J. Boissevain sulla Sicilia e Malta, di G.M. Foster sul Messico, di J.A. Barnes sulla c.d. network analysis, e di molti altri antropologiche hanno studiato le strutture informali del potere in piccole comunità rurali (1); 1. J. Pitt-Rivers, Il popolo della Sierra, trad. it., Rosenberg e Sellier, Torino, 1976 (la ed.
58 2. clientelismo come forma di intermediazione fra comunità locale e sistema nazionale. Includerei qui lavori come il saggio di Sydel Silverman sui rapporti comunità-nazione nell'Italia centrale, i lavori di Benno Galjart su classe e clientela in Brasile, di Eric Wolf sul Messico e di Weingrod (2). Questi studi analizzano il ruolo dei mediatori locali nei rapporti fra centro e periferia. Sebbene più utili dei lavori di cui al punto 1), per la prospettiva essenzialmente antropologica che li ispira, si prestano solo in parte ad illuminare gli aspetti macro-sistemici del clientelismo; 3. clientelismo politico. Esiste infine un certo numero di buoni studi più strettamente politologi, e fra questi: i lavori di Landé e Scott sul Sud-Est asiatico già richiamati (vedi sopra, cap. I), quelli di Lemarchand, Bienen e Zolberg sull'Africa tropicale, il libro di Nobutaka Ike sul sistema politico giapponese (3). In merito all'Italia, vanno almeno ricordati i contributi di Pizzorno, Tarrow e Allum, e la recente ricerca sul potere democristiano a Catania condotta da Mario Caciagli e dai suoi collaboratori (4).
1954); M . Kenny, "Pattcrns of Patronage in Spain", Anthropological Quarterlv, gennaio 1960; J. Boissevain, Saints and Tircworks: Religion and Politics in Rural Malta, Athlone Press, L o n dra, 1965 e "Patronage in Sicily" Man, marzo 1966 (riportato in Clientelismo e mutamento politico, cil.).(T.(i.M. 1 osici T he Dyadic Contract: A Model for the Social Structure of a Mexican Peasant Villagc" American Anthropologist, dicembre 1961 e " T h e Dyadic Contract in T/int/unt/an, II: Patron-Client Relationship" cit., J.A. Barnes,"Networks and Politicai Proccss in I.oca l-level Politics, a cura di M.J. Swartz, Aldine, Chicago, 1968. 2. S. Silverman "Patroni tradizionali come mediatori fra comunità e nazione" in Clientelismo c mutamento politico, cit., B. (ìaljart, "Class and Following' in Rural Brazil" America Latina, voi. 7, pp. 3-23; F.R. Wolf: "Aspects o f G r o u p Relations in a Complex Society: M e x i American Anthropologist, voi. 58, pp. 1065-1078; Weingrod, "Rapporti clientelali tradizionali e clientelismo del partito politico" in Clientelismo e mutamento politico, cit. A questi lavori va aggiunta la raccolta di saggi Intermediate Societies, Social Mobility and Commiifiication, a cura di V.F Ray, American Fthnological Society, Seattle, 1959. 3. J.C Scott. "Natura e dinamica della politica clientelare nell'Asia sud-orientale" e " C o r ruzione, machine politics e mutamento politico", in Clientelismo e mutamento politico, cit., R. Lemarchand, "Politicai Clientelism and Fthnicity in Tropical Africa: Competing Solidarities in Nation-Building", American Politicai Science Review, marzo 1972; H. Bienen, "One-Party Systems in Africa" in Autolioritarian Politics in Modem Society. The Dynamics of Estàblished One-Party Systems, a cura di S.P H u n t i n g t o n e C.II. Moore, Basic Books, New York, 1970; A. Zolberg, One-Party Government in the Ivory Coast, cit. N. Ike, Japanese Politics. PatronClient Democracy, Knopf, New York, 1972. 4. A. Pizzorno e L. Balbo, Studio sulla struttura de! potere locale a Sassari. Rapporto sulla situazione politica e sociale, 2 voll., s.d. (ma ca. 1969), ciclostilato; S. Tarrow: Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, cit. e Between Center and Periphery. Grassroots Politici Italy and Trance, Yale University Press, New Haven, 1977; M . Caciagli et al., Democrazia stiana e potere nel Mezzogiorno, Guaraldi, Rimini-Firenze, 1977.
cri-
5() Sebbene molto utili sotto il profilo descrittivo, i lavori sub 3) lasciano irrisolti alcuni importanti problemi di analisi. Ne distinguerei schematicamente tre: un problema di livello di analisi; l'importanza eccessiva annessa al fattore "consenso" (distinto dalla legittimità del sistema); un'inadeguata concettualizzazione del sistema politico.
Problema del livello di analisi Rapporti clientelari si riscontrano ai più svariati livelli del sistema sociale, dal paternalismo in una piccola impresa alle pratiche di sottogoverno al vertice della burocrazia. Possiamo distinguere almeno cinque livelli di analisi: rapporti interpersonali, piccoli gruppi, organizzazioni complesse (burocrazia, ecc.), sistema nazionale e sistema internazionale (5). Si va dagli studi focalizzati sui primi due livelli, che sono i più numerosi, alla nozione di "Stato clientelare" di John Duncan Powell (6). U n autore giunge ad estendere il concetto di clientela ai rapporti internazionali di dipendenza (7). La maggior parte degli studiosi tratta di clientelismo in termini di orientamenti individuali degli attori e di rapporti interpersonali. Ciò è dovuto senza dubbio alla forte influenza esercitata dall'antropologia culturale e dal comportamentismo imperante degli anni cinquanta e sessanta, quando si è avuta una forte ripresa d'interesse nel nostro campo di studi (8). Sotto il profilo che qui interessa, il fenomeno clientelare è stato concepito o come un attributo variabile di tutte le società (J.C. Scott, J.D. Powell e altri) (9), ovvero come fattore paradigmatico che permette di classificare i sistemi sociali a seconda dei tipi di rapporti clientelari che li caratterizzano (R. Lemarchand, K. Legg) (10). Cf. Kaufman, " T h e Patron-Clicnt Concept" cit. 6. Powell, "Peasant Society and Clientelisi Politics" cit. 7. R. Lemarchand, "Politicai Exchange, Clientelism and Development in Tropical Africa", relazione presentata alla riunione annuale della Southern Politicai Science Association, Atlanta, 1970. 8. Paradigmatica è l'analisi di E. Banfield, The Moral Basis of a Backward Society, The Free Press, GÌ eneo e, 1958 (trad. it. Il M u l i n o , Bologna, 1967). 9. D i Scott oltre agli articoli citati si veda Comparative Politica/ Corruption, Prenticc-Hall, Englewood Cliffs (N.J.), 1972; J.D. Powell, "Peasant Society and Clientelisi Politics", cit. 10. R. Lemarchand e K. Legg, "Politicai Clientelism and Development: A Preliminari' Analysis", Comparative Politics, gennaio 1972. Un'altra caratteristica c o m u n e a quasi tutti gli autori menzionati è quella di essere studiosi di paesi in via di sviluppo, n o n di sistemi industrializzati. D i qui l'accento sugli strati tradi-
60 Il primo gruppo di autori distingue diverse dimensioni o aspetti del rapporto clientelare,, e li usa come criteri di comparazione fra i diversi jjaesi. J.C. Scott (11) distingue ad esempio le seguenti variabili: risorse del patrono (proprietà di beni reali come la terra; competenze e conoscenze legate a ruoli notabiliari — avvocato, dottore, ecc.; uso di uffici pubblici); le risorse del cliente (prestazioni economiche; servizi militari a difesa del patrono; servizi politici e elettorali); rapporto fra componente affettiva e strumentale nel legame patrono-cliente; grado di volontarietà o costrizione; durata nel tempo e grado di omogeneità della clientela. A queste variabili, J.D. Powell (12) aggiunge il ventaglio di servizi inclusi nello scambio (si va da rapporti onnicomprensivi a cui il cliente ricorre per la generalità dei suoi bisogni, a situazioni in cui il cliente ricorre a patroni specifici per servizi specifici). Secondo questi autori, i sistemi politici possono essere comparati in termini di "stili clientelari", definiti sulla base di queste variabili, e di "densità" della rete clientelare (quanta parte di una popolazione è coinvolta nel sistema clientelare (13) ). La seconda scuola distingue quattro tipi di rapporti clientelari: signore/vassallo; sovrano/funzionari; elite/masse; burocrati/gruppi di pressione, che caratterizzerebbero altrettanti tipi di società (rispettivamente, società feudale, patrimoniale-tradizionale, patrimoniale-modernizzante, società industriali) (14). V a subito notato che questo uso del termine per denotare i tipi più diversi di rapporti di potere conosciuti nella storia, è un buon esempio di "stiramento del concetto" nel senso di Sartori (15). Agli effetti dell'analisi si guadagna semplicemente nulla sussumendo tutti i tipi di rapporti di potere, compresi i rapporti feudali, in un'unica tipologia di sistemi clientelari. La principale critica a cui entrambe le scuole prestano il fianco è che non specificano in che modo una serie di rapporti diadici si tradu-
zionali (contadini) o recentemente inurbati come clientela tipica della macchina. In sistemi più sviluppati entrano in gioco altri strati sociali, soprattutto i ceti medi, come ho cercato di mettere in luce in altra sede. Cfr. L. Graziano, " L a crise d ' u n régime libéral-démocratique: l'Italie" Revue française de science politique, aprile 1977; J.A. C h u b b , The Organization of Consensus in a Large Southern Italian City: The Social Bases of an Urban Political Machine, tesi di P h : D., Cambridge (Mass.), Mit, 1978. 11. Scott, "Natura e dinamica della politica clientelare", cit., pp. 136-144. 12. J.D. Powell, "Peasant Society and Clientelist Politics", cit. Cf. S. Silverman, "Patroni tradizionali come mediatori fra comunità e nazione", cit. 13. Scott, "Natura e dinamica della politica clientelare", cit., p. 144. 14. Lemarchand e Legg, "Politicai Clientelism and Development", cit. 15. Sartori, " L a politica comparata", cit.
61 ce in caratteristiche sistemiche del sistema politico. Né vale introdurre concetti come "reti estese di rapporti clientelari" o "Stato clientelare", come fa J.D. Powell (14). U n o Stato clientelare è una contraddizione in termini. Come è stato giustamente notato (17). in ogni sistema politico vi sono istituzioni che esorbitano o non possono essere ridotte alla pratica clientelare. Basti pensare all'apparato giudiziario e ai codici, alla Chiesa come gerarchia, agli apparati istituzionali di coercizione, alla burocrazia preposta alla politica estera e alle grandi scelte di politica internazionale, strutture e processi che richiedono un apparato concettuale che includa ma non si esaurisca nel clientelismo. Le conclusioni di Kaufman su questo punto m i sembrano del tutto corrette: "Quanto maggiore è l'unità d'analisi, tanto più è necessario introdurre nel sistema proprietà e assunti che non rientrano nel concetto di clientela, né possono essere da esso derivati ( 1 8 ) "
Consenso e legittimità Quanto alle funzioni che assolve, il clientelismo è stato visto soprattutto come meccanismo per la formazione del consenso. La seguente citazione, tratta da uno studio di R. Lemarchand (19), riassume un orientamento prevalente nella letteratura: nella misura in cui il clientelismo comporta un'adesione di principio a certi 'strumenti e a certe procedure per il conseguimento dei fini [dei singoli attori] e per la regolazione dei conflitti', può fornire almeno alcuni degli ingredienti necessari per la formazione del consenso a livello nazionale"
Ciò può essere più o meno vero a seconda dei casi, come sappiamo dalla stessa esperienza italiana (20). Nel caso studiato da Lemarchand — problema etnico in Africa — la pratica clientelare sembra avere acuito, più che attenuato i conflitti. " L ' i r o n i a della sorte ha voluto - scrive questo autore (21) - che gli stessi fattori che hanno favorito la nascita 16. Powell, "Peasant Society and Clientelisi Politics", cit. 17. Kaufman, " T h e Patron-Client Concept", cit. 18. Ibici. 19. Lemarchand, "Politicai Clientelism and Ethnicity in Tropical Africa", cit., p. 71. Lemarchand si richiama qui alla teoria dell'integrazione di Weiner. Cf. M . Weiner, "Politicai Integration and Political Development", Anna/s of the American Academy of Politicai and Socia! Science, marzo 1965, p. 53. 20. Cfr. P i z z o m o , " I ceti medi nei meccanismi del consenso", cit. 21. Lemarchand, "Political Clientelism and Ethnicity in Tropical Africa", cit., p. 83.
62 della macchina politica [frammentazione delle etnie], hanno pure contribuito ad attivare le solidarietà etniche che in molti casi hanno distrutto la macchina " Ci si può chiedere se questa "ironia" non sia il naturale esito di forme altamente particolaristiche di gestione del consenso. M a vi è una seconda e più importante difficoltà da rilevare. Anche nel caso in cui il clientelismo genera consenso, esso genera "sostegno" (support) e non legittimazione (22) - può servire cioè a procacciare voti, ma non a suscitare quell'adesione di principio al sistema che associamo all'idea di legittimità. Sostegno è consenso organizzato dalla classe politica e concesso da un aggregato di singoli individui (il "pubblico", l'elettorato, ecc.) alla stessa classe politica. Si manifesta tipicamente attraverso il voto. Legittimazione è consenso dato "spontaneamente" da gruppi organizzati e istituzioni sociali (famiglie, scuola, chiesa, intelligentsia, sindacati, stampa, ecc.) al regime e ai suoi rappresentanti ufficiali, più che alla classe dominante com'è tale. La legittimazione si manifesta non solo attraverso il voto, ma in valori e atteggiamenti favorevoli al regime politico (23). Mentre non tutte le azioni di sostegno politico sono clientelari, per loro natura gli incentivi clientelari mirano a generare essenzialmente consenso elettorale. Ciò emerge chiaramente, ad esempio, nella definizione di clientelismo (patronage) data da Sorauf, come "moneta politica con cui comprare attività e risposte politiche", ossia voti (24). Mentre si possono comprare voti, non si può comprare legittimità. Se per legittimità intendiamo "la credenza che un regime (e il governo abilitato a prendere decisioni in virtù di certe regole) abbia diritto all'obbedienza dei suoi cittadini ... anche quando le sue decisioni non
22. Il valore analitico di questa distinzione è sottolineato da P F:arneti: Sistema politico e società civile, Giappichelli, Torino, 1971, pp. 18, 54. V pure D. Easton: A Systems Analysis of Politica! Life, New York, Wiley, 1965, pp. 298-299, eJ.J. Linz: " T h e Breakdown of Democratic Politics", relazione presentata al Congresso mondiale di sociologia, Varna, 14-17 settembre 1969, ciclostilato, pp. 4,9. La distinzione fra sostegno e legittimazione è parallela, a livello di sistema politico, a quella più sopra richiamata fra influenza e autorità (v. sopra cap. I).
23. Oltre alle opere citate alla nota precedente, clr. S. Tarrow, "The Italian Party System Between Crisis and Transition", American Journal of Politica! Science, maggio 1977. 24. F Sorauf: " T h e Silent Revolution in Patronage" in Urban Government, a cura di E.C. Banfield, The Free Press, New York, 1961, p. 309, cit. da A. Weingrod: "Rapporti clientelari tradizionali e clientelismo del partito politico", cit. p. 192. Si veda anche P.B. Clark-J.Q. Wilson: "Incentive Systems: A Theory of Organizations", Administrative Science Quarterly, settembre 1961, pp. 129-166.
63 coincidono con gli interessi personali del singolo" (25), allora non si può dare contemporaneamente legittimità e consenso clientelare. Peraltro, come ricorda Juan Linz (26), " l a funzione principale e essenziale di un sistema politico ...[è] di creare un sistema legittimo di autorità capace di mediare ... in una data società! conflitti d'interesse senza frequenti e intensi turbamenti dell'ordine pubblico". Ciò che occorre, quindi, è una definizione del sistema politico come locus del potere legittimo.
2. Definizione di sistema politico: la politica come processo di emancipazione dalla società civile Clientelismo, mercato e Stato Per introdurre una materia complessa, iniziamo con una illustrazione semplice, tratta dall'esperienza quotidiana nel Sud. Nell'Italia meridionale, come in altri paesi sottosviluppati, si ha spesso l'impressione di essere "imbrogliati" Si prende un taxi (o si acquista una merce) e dopo una laboriosa trattativa non si è mai certi se il prezzo concordato sia un prezzo "giusto" Se pago lo stesso prezzo per lo stesso servizio a Milano (o anche un prezzo superiore), mi sento più rassicurato. La ragione è che a Milano vi sono tariffe standard; nel Sud, di regola, o tali tariffe non esistono o, quando esistono, non possono essere fatte osservare (il tassametro è inutilizzabile, ecc.). (Esagero il contrasto a fini dimostrativi). L a ragione sociologica di queste diverse reazioni è che contrattare ad ogni nuova transazione lascia i contraenti, per cosi dire, alla mercé l'uno dell'altro. Rapporti sociali diretti, non mediati, creano incertezza e tensione. D i qui la necessità di meccanismi di regolazione sociale, i più importanti dei quali sono lo Stato e il mercato. I rapporti clientelari e gli elaborati riti che li accompagnano, specie in contesti tradizionali (27), sono un mezzo per mitigare tali tensioni in assenza di questi meccanismi. 25. Linz: " T h e Breakdown ecc.", p. 9. L i n z riprende la definizione di Weber. 26. Ìbidem, p. 3. 27. La necessità di forme rituali deriva dal fatto che gli stessi fattori che determinano rapporti personalizzati scarsa fiducia, non istituzionalizzazione del contratto, carenza di garanzie giuridiche - rendono impossibile il ricorso, in caso di conflitto, a meccanismi regolatori di "ultima istanza" D i qui il bisogno di procedure che assicurino la continuità del rapporto e il controllo delle tensioni che ne derivano. Ne è un b u o n esempio l'istituto detto "hiya "
64 S e b b e n e sia u n r i m e d i o , il c l i e n t e l i s m o n o n p u ò e f f i c a c e m e n t e gare m e c c a n i s m i argomentato
più
generali di regolazione
da D u r k h e i m
in u n contesto
sociale.
Il punto
surroè stato
leggermente diverso, trattan-
d o della solidarietà contrattuale. Scrive D u r k h e i m
(28):
L a m a g g i o r parte delle nostre relazioni c o n gli altri s o n o di natura contrattuale. Se q u i n d i fosse necessario o g n i volta ricominciare le lotte e intavolare le trattative necessarie per stabilire esattamente tutte le c o n d i z i o n i dell'accordo immobilizzati.
M a il diritto contrattuale è là appunto
saremmo
per determinare le
conse-
guenze giuridiche dei nostri atti, che n o n avevamo determinate. E s s o esprime le c o n d i z i o n i normal i dell'equilibrio, quali s o n o spontaneamente
scaturite ... dalla
media dei casi. Il
mercato,
portante heim
nel
nei suoi riflessi e c o n o m i c i e giuridici, è d u n q u e u n
strumento passo
im-
d i r e g o l a z i o n e , m a p e r le r a g i o n i i n d i c a t e d a D u r k -
citato,
è uno
strumento
parziale,
perché
si limita a
registrare l'equilibrio delle forze o p e r a n t i nella società. C i ò che o c c o r r e è u n m e c c a n i s m o politico
capace di emancipare i soggetti dalla struttu-
ra d e l p o t e r e n e l l a s o c i e t à c i v i l e . Lo S t a t o e a l t r e a s s o c i a z i o n i (sindacati
e
partiti)
questa funzione: lo pazione,
in
primo
sono
gli
adenti
Stato, mediante luogo
che
hanno
politiche
storicamente
svolto
l'estensione dei diritti di parteci-
il s u f f r a g i o e l e t t o r a l e , f a c e n d o
cioè in
modo
che i cittadini fossero considerati unità f o r m a l m e n t e uguali, a prescindere " d a i l o r o particolari r u o l i nella
struttura della s o c i e t à " ( 2 9 ) ;
s i n d a c a t i e i partiti, s p e c i a l m e n t e i partiti d i classe, attraverso
i
un'azione
(imbarazzo, vergogna) che regola nelle Filippine i rapporti economici fra partners fidati. "L'espressione Tagalog... ' M i deve un debito ma ho vergogna di riscuoterlo', è un esempio eccellente di hiya. Nelle Filippine i debiti non sono puramente economici, ma hanno profonde implicazioni sociali. Il prestilo in denaro o in merci crea un legame di fedeltà che ha qualche somiglianza con la 'parentela fittizia', nella quale il debitore è si in posizione subalterna, ma in cui permangono anche obblighi reciproci. Se il creditore facesse pressioni per il pagamento del debito, causerebbe nel debitore hiya, perché implicherebbe con ciò che il debitore è riluttante a pagare e immemore dei suoi obblighi. L'espressione: 'ho vergogna di riscuotere il debito' implica la 'paura' di riscuoterlo, perché se il debitore venisse 'svergognato', potrebbero seguirne atti di violenza" Di qui il frequente ricorso a bambini e mediatori per ottenere la restituzione dei prestiti. R.B. Fox: "Social Organization", Area Handbook on the Philippines, vol. 1, University of Chicago for the H u m a n Relations Area Files, Chicago, 1956, p. 433; citato da J.N. Anderson: "Buy-and -Sell and Economie Personalism", cit., pp. 657-658. 28. E. Durkheim: La divisione del lavoro sociale, trad. it., Edizioni di Comunità, Milano, 1971, p. 221. 29. S. Rokkan: " M a s s Suffrage, Secret Voting and Politicai Participation", Archives Européennes de Sociologie, voi. 2 (1961), p. 133.
65 volta a eliminare le diseguaglianze che permangono anche dopo la parificazione formale dei cittadini. Secondo la felice espressione di R o k kan, i partiti di classe pongono in atto "contropoteri" al potere dell' élite economica (30). Definizione
di sistema politico
Ciò premesso, possiamo dare la seguente definizione di sistema politico: Il sistema politico può essere inteso, dinamicamente, come una formazione storica che si emancipa dalla società civile, soprattutto, nei suoi due aspetti della legittimità e della efficacia [Il] sistema politico si emancipa nella misura in cui riesce a sviluppare risorse proprie di legittimità 1 cioè di integrazione politica dei soggetti [Nation-building] ..., e nella misura in cui riesce a sviluppare risorse proprie di efficacia, prima fra tutte una burocrazia capace di attuare le direttive politiche dal 'centro' alla 'periferia' del sistema politico e della società civile (State-building) (31).
Questa nozione di sistema politico, che dobbiamo a Paolo Farneti, mi sembra più utile della nozione di sistema che troviamo nella Systems Theory (sistema politico come categoria di analisi). Ciò per diverse ragioni. Il primo punto da sottolineare è che il sistema politico come è qui concepito, è visto come formazione storica la cui legittimità dipende dall'efficace mediazione politica delle principali fratture della società. In generale può dirsi che più profondi sono i conflitti e le linee di divisione in una società, maggiore è il ruolo dello Stato e degli altri attori politici organizzati. Si può qui utilmente trasporre il principio elaborato da Gerschenkron in tema di arretratezza economica: l'ampiezza della sfida determina la natura della risposta (32). Inoltre, come suggerisce Farneti (33), " i l grado di estensione del sistema politico nella società civile" può diventare " u n a tematica generale e di inquadramento teorico della politica comparata, in particolare della politica comparata europea" (34). 30. Ibid., p. 149. Cf. anche A. Pizzorno: " I n t r o d u z i o n e allo studio della partecipazione politica", Quaderni di sociologia, voi. 15 (1966), pp. 235-287. 31. Farneti: Sistema politico e società civile, cit., p. 60. 32. A . Gerschenkron, Il problema storico dell'arretratezza economica, trad. ital., Einaudi, Torino, 1974. 33. Farneti, Sistema politica e società civile, cit., p. 58. 34. C h e oggi si assista a una rivalutazione della prospettiva storica in politica comparata, con cenni autocritici rispetto al passato, n o n è dubbio.
66 U n elemento determinante ai fini del ruolo dello Stato è il momento in cui è avvenuta l'unificazione nazionale. N o n è casuale che le teorie della classe politica siano sorte e abbiano attecchito in due paesi — Italia e Germania — che sono, politicamente parlando, "late comers" (in Germania nella forma di Staatslehre o dottrina generale dello Stato). L'essenza di tali teorie è che lo Stato è costitutivo della società civile, non è solo, cioè, uno degli aspetti dell'attività sociale, ma precondizione di tutte le altre attività (35). Ciò in netto contrasto con l'intera tradizione del pluralismo americano, ben riassunta dall'aforisma di Bentley: " l o Stato è un divertimento intellettuale del passato" (36). E ' questo il secondo vantaggio della definizione proposta. Essa implica che lo sviluppo del sistema politico ha una dimensione strutturale che differenzia tale sviluppo da tutti gli altri processi della società. Scrive ancora Farneti (37): nella misura in cui la dimensione politica non è costitutiva della società civile, l'emancipazione del sistema politico ... diventa un processo da descrivere empiricamente e non da analizzare problematicamente. In altre parole, esso diventa un processo simile a quello della specializzazione e della professionalizzazione che avviene nei vari settori di una società civile in sviluppo. Viceversa, nella misura in cui la dimensione politica ... è costitutiva della società civile, il processo di emancipazione del sistema politico diventa problematico e indicherà all'analisi... contraddizioni e tensioni. Infatti, si tratterà di una emancipazione strutturale, nel senso di specializzazione e professionalizzazione dei ruoli politici, ma non funzionale, in quanto rimarrebbe il carattere globale della sua costitutività per la società civile, diversamente da ogni altro settore della società
Si fissa in tal modo un ordine di priorità all'analisi che è assente nello schema funzionalista di Almond, e in altre definizioni sistemiche del sistema politico (38). L o sviluppo del sistema politico consiste pertanto in due processi distinti: Cf. Ci.A. A l m o n d et. al. (eds.): Crisis, Choice, and Chance. Little, Brown, Boston, 1973, specie il capitolo introduttivo; e nella "Princeton Studies in Politicai Development", The Formation of National State. Western Europe, a cura di C. Tilly, Princeton University Press, Princeton, 1975. 35. Farneti, Sistema politico e società civile, cit. cap. 1. 36. Cfr. Graziano, "Bentley e la scienza politica comportamentista", cit. 37. Farneti, Sistema politico e società civile, cit., pp. 5-6. CIV. anche Pizzorno: "Introduzione allo studio della partecipazione politica" cit., pp. 251 e seguenti. 38. G. A l m o n d e G.B. Powell, Politica comparata, trad. il. Il M u l i n o , Bologna, 1970; Easton, A Systems Analysis of Politicai Life, cit.; O. Young, Prospettive di analisi in scienza politica, trad. it., Il M u l i n o , Bologna, 1972.
67 — un processo di emancipazione strutturale, relativo alla genesi e alla istituzionalizzazione di strutture come l'esercito. l'amministrazione, i partiti e una classe di politici di professione; — un processo di emancipazione istituzionale, mediante il quale il sistema dà vita nel tempo alle istituzioni ritenute idonee a far fronte alle diverse crisi dello sviluppo (crisi di identità, legittimità, partecipazione, distribuzione, ecc.). Questo secondo processo, regola lo status di individui e gruppi nei loro diversi ruoli di cittadini, di consumatori (distribuzione del reddito), e come soggetti di cultura (scuola, mass media, ecc.) (39). In rapporto al nostro oggetto di studio, la definizione di sistema politico ora analizzata orienta l'analisi secondo alcune direttrici, di cui vorrei dire brevemente prima di concludere. Il clientelismo emerge come un problema di boundary maintenance fra società civile e sistema politico, ma in un senso diverso che in Almond. La politica clientelare può assumere due forme distinte; privatizzazione della politica e "colonizzazione" della società civile. Il modello di Almond, incentrato com' è sui processi politici di input più che sulle funzioni di governo (40), attirerebbe l'attenzione sul primo aspetto del clientelismo, assai meno sui processi di colonizzazione politica della società, che è la forma più importante del clientelismo oggi in Italia. La politica è "privatizzata" quando gruppi organizzati hanno accesso diretto e privilegiato all'autorità, che essiusanocomemerostrumento per la realizzazione dei propri fini. "Clientela" e "parentela" nel senso di La Palombara (41) rientrerebbero in questo tipo di politica. Colonizzazione della società civile è il processo inverso. Si verifica quando rapporti sociali già regolati da istituzioni diverse dallo Stato cadono sotto il dominio dei partiti al potere. Il suo fine è quello di ridurre l'ambito d'azione dei partiti avversari, mediante il controllo di istituzioni-chiave della società civile (banche, ospedali, enti mutualistici, ecc.) (42). 39. Farneti, Sistema politico e società civile, cit., p. 91. Cf. L. Binder et al., Crises and Sequences in Politicai Development, Princeton University Press, Princeton (N.J.), 1971. 40. A l m o n d e Powell, Politica comparata, cit. A n c h e in quest'opera, nonostante le correzioni rispetto a lavori precedenti degli stessi autori, mi sembra prevalga l'attenzione prestata alle funzioni rispetto alle strutture, connotalo probabilmente ineliminabile di uno shema funzionalista della politica. 41. J. LaPalombara, Clientela e parentela. Studio sui gruppi d'interesse in Italia, trad. it., C o munità, M i l a n o , 1967. 42. Cf. Caciagli et. al., Democrazia cristiana e potere, cit., specialmente capp. 6 e 7.
68 In entrambi i casi assistiamo ad una confusione di ruoli fra Stato e società. Quando una situazione di questo tipo si protrae a lungo nel tempo ed assume forme patologiche, come nel caso italiano, si è in presenza di debolezze strutturali del sistema politico (e specularmente della società civile). Il clientelismo può in tali casi essere visto come emancipazione politica mancata, come effetto di uno sviluppo politico che ha lasciato irrisolti fondamentali problemi d'integrazione nazionale e di costruzione dello Stato. Alcuni di questi " n o d i " nello sviluppo politico italiano saranno analizzati nella seconda parte di questo lavoro. Q u i preme sottolineare un altro aspetto della distinzione in esame (privatizzazione della politica e colonizzazione della società), in quanto strumento di analisi comparata fra sistemi politici diversi. L o schema di Farneti consente infatti di distinguere, in prima approssimazione, diverse modalità nazionali di politiche clientelari, e segnatamente la machine politics americana e la versione italiana del clientelismo, oggetto dei capitoli successivi. La macchina americana di fine '800 rappresentava il tentativo di adattare una società civile eterogenea e particolaristica (soprattutto gli immigrati) ad un sistema politico in via di crescente istituzionalizzazione. Essa incarnava la "giustizia dei poveri", dei loro concreti bisogni di contro alle regole impersonali del sistema. A l contempo la macchina era espressione, come si è detto (v. sopra), d'interessi di tutt'altra specie, quelli di un'elite finanziaria e capitalistica che trovava nel boss uno strumento efficace di rappresentanza. Rispetto al modello americano, il clientelismo in Italia presenta molte peculiarità, una delle quali consiste in ciò che il rapporto fra società e Stato si presenta, in Italia, rovesciato rispetto all'esperienza statunitense (43). D a un lato, i tempi e le modalità dell'unificazione nazionale, hanno conferito alla classe politica italiana — come sarà a suo luogo chiarito - funzioni particolari, funzioni cioè non solo di rappresentanza ma anche di guida, come fattore di "incivilimento" di una società ancora in parte semi-feudale. L'estendersi, in epoca più recente, dell'intervento statale, e soprattutto il monopolio di potere Dc nell'Italia del dopoguerra, hanno poi di molto accentuato questo dominio del politico sul sociale, differenziando ancora più il modello clientelare italiano da quello americano. D i nessuna grande città americana si sarebbe ad esempio potuto dire quello che è stato recentemente scritto per Catania, città in cui "tutta la vita economica sembra dipendere dall'azio43. Riprendo qui alcuni punti sviluppati nella voce "Clientelismo", // mondo neo, voi. I X : Società e politica, 1, La N u o v a Italia, Firenze, 1979.
contempora-
69 ne clientelare del partito dominante" (44). In un caso - Stati Uniti - abbiamo quindi un sistema clientelare essenzialmente limitato a livello locale, strumento (almeno in parte) degli interessi più forti di un vigoroso sistema capitalistico: nell'altro. partiti che tendono a monopolizzare tutte le leve dello Stato e a "politicizzare" un numero crescente di istituzioni civili, tanto più vulnerabili in quanto espressione, specie nel Mezzogiorno, di una gracile società civile. Ritornerò sul punto in sede di conclusione al volume. C o n linguaggio più preciso e concludendo: mentre il patronage americano configura un caso classico di "privatizzazione della politica" (connivenza fra Stato e interessi privati), in situazioni come quella italiana assistiamo piuttosto alla "statalizzazione della società civile", al tentativo di trasformare le istituzioni della società in centri di potere partitico (dei partiti al potere). D i qui maggiori occasioni per lo sviluppo di pratiche clientelari, ma anche ben maggiore disfunzionalità delle stesse per lo sviluppo complessivo del paese, in ispecie per la legittimità del sistema politico e della classe politica.
44. Caciagli et a l : Democrazia cristiana e potere, cit., cap. 7.
Parte seconda CLIENTELISMO E SVILUPPO POLITICO IN ITALIA
INTRODUZIONE E ' più facile fare una rivoluzione politica che una riforma sociale ... cambiar di regime che di coscienza. E la rivoluzione italiana fu trasformazione del diritto e della società. D i qui la ragion prima di tutte le nostre incertezze, forse anche di tutti i nostri traviamenti, non appena l'esercizio della libertà viene alle prese col vecchio concetto e la vecchia pratica dell'autorità. G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano (1895).
Nel capitolo precedente si è prospettata una definizione di sistema politico centrata sul concetto di emancipazione della politica dalla società civile. Il sistema politico si emancipa integrando politicamente i membri di una comunità nazionale — creando una "nazione" — e dandosi gli strumenti per intervenire efficacemente nella società in nome di un "interesse generale" E ' questa mediazione generale, che solo un soggetto come lo Stato può avere mezzi e interesse a compiere, che conferisce all'elite legittimità politica (vedi sopra, Parte I, cap. 2). U n o dei vantaggi di questa definizione è che assume esplicitamente il punto di vista dello sviluppo come quello più adatto ad evidenziare la specificità politica di un sistema sociale. Essa inoltre richiama l'attenzione sugli agenti storici dello sviluppo, sulle strutture, cioè, che concretamente operano per l'emancipazione della società e per l'istituzionalizzazione di forme moderne di vita politica. Tali agenti sono stati identificati nello Stato, nel mercato e nei partiti (vedi sopra). In ciò la definizione proposta di sistema politico si differenzia dalle teorie sistemiche derivate dalla Systems Theory. che sono dichiaratamente astoriche, astratte e funzionaliste. Se definiamo sistema, con uno dei suoi primi teorici L. von Bertalanffy, un insieme " d i elementi in interazione" (1), sarà possibile indagare rapporti di interdipendenza e le modalità di funzionamento del sistema, assai meno problemi genetici e di causazione storica (2)
1. L. v o n Bertalanffy, "General System Theory", in General Systems, voi. 1 (1956), p. 3. 2. L a teoria dei sistemi ha come fine quello di identificare isomorfismi. M a dal punto di vista di tale teoria, "i più importanti isomorfismi consistono in uniformità funzionali (più
74 Le due prospettive indirizzano l'analisi verso problemi diversi e portano a conclusioni diverse. In rapporto al nostro tema, il punto di vista funzionalista induce a considerare l'uso di metodi clientelari come risorse del sistema e dei leader politici, nei loro rapporti con gli elettori, nei rapporti fra amministrazioni locali e autorità centrale, ecc. Da questo punto di vista si può giungere alla conclusione, in sé non errata, ma certamente parziale, secondo la quale " è in virtù di tali rapporti [clientelari] a livello locale e nazionale che un sistema politico altrimenti centrifugo come quello italiano, può funzionare" (3). Da un punto di vista genetico-strutturale, la problematica clientelare viene invece in rilievo essenzialmente come problema storico delio sviluppo. gotto questo profilo si è portati ad interrogarsi sul perché un tipo di associazione in gran parte pre-moderno abbia potuto durare cosi a lungo, in che rapporto ciò stia con la tradizionale debolezza dei partiti borghesi in Italia, con il carattere dualistico dello sviluppo italiano ("questione meridionale"), e via dicendo. Il modello di sviluppo sotteso alla definizione proposta è quello di una classe politica che non si sostituisce alla società civile, ma che incontra, per così dire, a metà strada i processi di modernizzazione sociale, operando per rimuovere gli ostacoli al loro libero dispiegarsi. E ' mediando le fratture storiche della società (fratture di classe, territoriali, rapporti Stato-Chiesa, ecc.) nei tempi e nei modi che sta alla "prudenza" della classe politica individuare, che questa si auto-legittima, contribuendo al contempo alla razionalizzazione della società e della politica (secolarizzazione, associazionismo di massa, controllo dell'uso "privato" della forza, ecc.) (4). L'accento cade quindi, nella prospettiva qui svolta, sulle strutture politiche (in senso lato) che consentono all'elite di governo d'intervenire efficacemente nella società, anzitutto burocrazia e partiti organizzati, e sul grado di sviluppo della società vista al contempo come comunità nazionale (Nation-Building) e locus del "mercato". E ' l'interazione fra
che strutturali) fra sistemi diversi, ossia le somiglianze fondamentali nei principi guida o nei processi dei sistemi" O. Young, Systems of Politica! Science, Prentice-Hall, Englewood ClifTs, N.J., 1968, p. 17 (trad. il. Il M u l i n o , 1972). Per una breve comparazione fra le due definizioni di sistema politico (come formazione Storica e categoria d'analisi) rinvio alla mia Introduzione alla scienza politica, Celid, Torino, 1978, parte II. 3. S. Tarrow, "Partisanship and Politicai Exchange in French and Italian Locai Politics: A Contribution to the Typology o f Party Systems", Sage Professional Papers in Contemporary Politicai Sociology, voi. 1 (1974), p. 49. 4. P. Farneti, Sistema politico e società civile, Torino, Giappichelli, 1971, parte II.
75 elites, strutture politiche e società, e le modalità che tale interazione assume nel tempo, che definiscono il grado di "emancipazione" di un sistema politico. Come tutti i processi sociali, lo sviluppo politico ha un costo - un costo per l'élite che deve procedere a innovazioni istituzionali (creazione di partiti moderni, uso non partigiano della burocrazia, ecc.) e un costo per i membri della comunità nazionale. Un'élite "razionale" evita di pagare questo costo, se ha modo di farlo, se dispone cioè di altre alternative. Il punto importante a questo riguardo è che il clientelismo è più " n o r m a " che "eccezione" in quanto forma immediatamente più economica di esercizio del potere (5). Esso può quindi essere visto come la linea di minore resistenza, come tecnica politica che sfrutta le aggregazioni più "naturali" della società, quali sono appunto le associazioni clientelari (cf. Parte I, cap. 1). Il problema è quindi quello di vedere in quali condizioni un'élite ha interesse e possibilità di optare per questa variante clientelare dello sviluppo e, correlativamente, quando non può farlo (6). Avuto riguardo all'esperienza italiana, una prima condizione, è da individuarsi nello stato della società meridionale al momento dell'unificazione, e nell'unificazione italiana come "conquista regia" Le modalità dell'incontro fra Nord e Sud hanno costituito la premessa, come sarà chiarito nel seguito di questo lavoro, per il successivo sviluppo del clientelismo come tratto caratteristico della lotta politica in Italia. N o n soltanto il modo in cui è avvenuta l'unificazione ha contribuito a dar vita a quella problematica che si è convenuto di chiamare, dalla seconda metà dell'Ottocento in poi, "questione meridionale" Cosa per noi più importante, la "disponibilità", per le élites dominanti, di un' arena cosi permeabile alle tecniche clientelari come il Mezzogiorno, ha finito per scoraggiare anche nel resto del paese la creazione di strutture e forme moderne di lotta politica. Si è così innescato un processo circolare di sotto-sviluppo, a cui Depretis darà assetto stabile e duraturo con il trasformismo. U n importante riflesso istituzionale di questo stato di cose, è stata la mancanza in Italia di un vero partito borghese. Le clientele locali al Sud e l'accesso diretto allo Stato da parte dei grandi interessi finanziari al Nord (7), rendevano in larga misura superflua la creazione di struttu5. Cfr. M . Shefter, Patronage and Its Opponents: A Theoty and Some European Cases, Cornell University, Western Societies Program Occasionai Paper n. 8, Ithaca (New York), 1977. 6. Ibid. 7. S i riconnette a questo problema - permeabilità dello Stato agli interessi particolaristici
76 re specializzate nell'acquisizione del consenso. E quando il problema del partito si pose in termini perentori in seguito all'allargamento del suffragio (1882), vi si fece fronte non già rafforzando i partiti, ma estendendo all'intero paese le tecniche clientelari del Sud. L'allargamento del suffragio, che in altri paesi è stato all'origine dei moderni parti ti di massa, ha portato invece in Italia alla dissoluzione dei partiti storici (Destra e Sinistra storica). Le ragioni di questo peculiare sviluppo, per il quale il Sud è riuscito in definitiva a "meridionalizzare" l'Italia più di quanto lo Stato non abbia "razionalizzato" il Mezzogiorno, non possono peraltro essere ricercate solo a livello dei partiti e del sistema politico. Se non si trattasse che di questo, non si capirebbe come il Sud, un secolo dopo l'unificazione, continui ad essere così diverso dal resto del paese, nella coscienza dei suoi cittadini (8) come nei comportamenti e nelle strutture. D o p o tutto, i partiti, ad onta della loro debolezza, sono stati anche fattori di modernizzazione, come Weingrod ha sostenuto per il periodo fascista e Galasso, con maggiore fondatezza, per quello repubblicano (9). La spiegazione va ricercata a u n livello più " p r o f o n d o " , nella incompletezza della rivoluzione italiana sul piano sociale e sul piano dei rapporti economici. Riforma dei rapporti economico-sociali nei decenni successivi all' Unità, voleva dire estendere al Sud quel processo di sviluppo capitalistico già avviato al. Nord o quanto meno porne le premesse. Solo cosi si sarebbero dissolti quei "residui feudali" che hanno pesantemente condizionato il Mezzogiorno ben oltre l'abolizione formale del feudalesimo n o n solo il tema dell'influenza dell'oligarchia finanziaria sulle grandi scelte politiche (si pensi alla politica ferroviaria sotto Depretis), ma anche quello dell'accentramento dello Stato liberale, causa n o n ultima della debolezza dei partiti in Italia. Effettive autonomie locali avrebbero fatto venir m e n o (almeno in parte) l'immagine e la realtà dello Stato come dispensatore di tutte le provvidenze, obbligando al contempo i partiti ad organizzarsi. E ' stata questa la tesi di studiosi come Stefano Jacini e Cattaneo, recentemente ripresa da Galli e da altri autori. G. Galli, I partiti politici in Italia 1861-1973, Utet, Torino, 1975; E. Roteili, " L e componenti istituzionali del sistema politico dell'Italia liberale", Alternative, dicembre 1975, pp. 3-10. 8. Cfr. "Settentrionali e meridionali", Bollettino della Doxa, 10 marzo 1976. Degli intervistati nati nel Sud, il 59 per cento si considera "arretrato", mostrando una severità maggiore degli abitanti del resto del paese, eccetto che nell'Italia nord-occidentale (dove il 65 per cento degli intervistati ritiene i meridionali "arretrati"). Ibid., tav. 8, p. 40. Il sondaggio era basato su 2.054 interviste effettuate in 150 comuni. 9. A. Weingrod, "Rapporti clientelari tradizionali e clientelismo del partito politico", in Clientelismo e mutamento politico, a cura di L. Graziano, Franco Angeli, M i l a n o , 1974; G. Galasso, " M e z z o g i o r n o e modernizzazione", ne La crisi italiana, a cura di L. Graziano e S. Tarrow, Torino, Einaudi, 1979.
77 (prima metà dell'Ottocento). Come si chiarirà più avanti, se ciò non è avvenuto è perché il blocco di potere consolidatosi dopo l'Unità non lo consentiva. Una rivoluzione capitalistica al Sud avrebbe in gran parte minato il potere parassitario della borghesia terriera meridionale. D i qui la natura essenzialmente politica della rivoluzione italiana (10). Ciò fa giustizia di tante tesi, "classiche" e recenti, sullo sfruttamento "coloniale" del Mezzogiorno ad opera del N o r d (11). Sfruttamento ci fu, ma fu qualcosa di diverso dallo sfruttamento del capitale. Come ha messo bene in luce Rosario Villari (12), il Sud ha sofferto non tanto a causa dello sfruttamento capitalistico, quanto per la sua mancanza, per la mancanza, cioè, di una vera rivoluzione economica, che insieme allo sfruttamento avrebbe portato con sé i mutamenti radicali propri del modo di produzione capitalistico. Il Sud ha enormemente sofferto dopo il 1860, in fatto di uomini (emigrazione) e di risorse. M a ha sofferto, ripeto, meno per quanto gli è stato sottratto per mezzo del mercato e dell'oppressione fiscale, che per quanto gli è stato impedito di produrre a causa del perdurare di rapporti semi-feudali. Sono questi alcuni dei temi che saranno analizzati nei capitoli che seguono: modalità dell'unificazione nazionale e struttura della classe politica (Cap. I); mancato partito borghese e trasformismo (Cap. II); fondamenti strutturali del clientelismo meridionale, con particolare riguardo al ruolo dello Stato e del mercato (Cap. III). Il periodo abbracciato è quello dei primi quattro decenni dopo l'Unità, nella convinzione che l'assetto del potere e della società nelle prime fasi di sviluppo di un sistema politico abbia effetti duraturi e decisivi per lo sviluppo
10. Cfr. per tutti G. Fortunato, // Mezzogiorno e lo Stato italiano (1911), Vallecchi, Firenze, 1973. 11. La tesi dello sfruttamento, già avanzata da Fortunato, Nitti e altri, è stata recentemente riproposta da due antropologi americani. Cfr. J. Schneider e P Schneider, Culture and Politicai Economy in Western Sicily, Academic Press, New York, 1976. Estremizzando la tesi e retro-datandola al periodo del dominio spagnolo, gli autori g i u n g o n o alla conclusione, anacronistica e aberrante, chela salvezza per la Sicilia (e per implicazione, dell'intero S u d ) risiederebbe nella "deliberata chiusura" al m o n d o esterno. Ibid., p. 3. Per una più compiuta critica rinvio alla mia recensione del volume degli Schneider in The American Journal of Socio logy, luglio 1979. 12. R. Villari, "Liberalismo e squilibrio economico italiano", in Conseivatori e democratici nell'Italia liberale, Laterza, Bari, 1964.
78 successivo (13). L'esperienza italiana, come emerge anche dal presente lavoro, sembra confermare la fondatezza di questo assunto teorico.
13. Sulle ragioni teoriche che consigliano di focalizzare l'analisi sulle prime tappe dello sviluppo cfr. S . M . Lipset e S. Rokkan, "Cleavage Structure, Party Systems, and Voter Alignments: A n Introduction", in Party Systems and Voter Alignments, a cura di S . M . Lipset e S. Rokkan, N e w York, The Free Press, 1967; I L Daalder, "Parties, Elites, and Politicai Developments in Western Europe", in Politicai Parties and Politicai Development, a cura di J. La Palombara e M . Weiner, Princeton University Press, Princeton, 1966; Shefter, Patronage and Its Opponents, cit.
1. P R O C E S S O D I U N I F I C A Z I O N E N A Z I O N A L E E CLASSE POLITICA
1. Nord e Sud nel processo di unificazione. Il modello di Lipset-Rokkan
U n buon punto di riferimento per l'analisi del processo di unificazione in Italia è il modello elaborato da Lipset-Rokkan in tema di sistemi di partito in Europa (1). Il modello è incentrato sull'analisi delle basi sociali dei partiti politici visti nella loro duplice funzione di agenti del conflitto e di strumenti d'integrazione. I partiti danno espressione organizzata alle "fratture" della società, e per ciò stesso strutturano e regolano il conflitto, contribuendo a risolvere un problema centrale per il funzionamento di qualsiasi sistema sociale: la dialettica conflitto-integrazion La regola al riguardo è quella espressa dal noto aforisma di E.A. Ross: "la società è tenuta insieme dai suoi conflitti interni" (2). Dal punto di vista dei loro rapporti con la società civile, i partiti possono essere considerati come "alleanze che si formano nel corso di conflitti sul tipo di politiche da adottare e sugli orientamenti politici e ideali dei diversi partiti, all'interno del sistema politico" (3). Il problema consiste pertanto nell'individuare quali tipi di conflitti e di alleanze si sono via via affermati nel corso del tempo in un determinato paese, e quali alleanze sono emerse come dominanti in rapporto alla direzione politica dello Stato. Come notano Lipset e R o k k a n (4), " i n ciascun sistema esiste una
1. S . M . Lipset-S. Rokkan, "Cleavage Structures, Party Systems ecc.», cit. 2. E.A. Ross, The Princip/es of Sociology, T h e Century Co., New York, 1920, p. 165Cf. pure G. Simmel, Conjlict. The Web of Group Affìliations, The Free Press, New York, 1964; L. Coser, The Functions of Social Conjlict, The Free Press, New York, 1956 (tr. it„ Feltrinelli, Milano, 1967). 3. Lipset e Rokkan, "Cleavage Structures ecc.", cit., p. 5. 4. Ibidem, p. 6.
80 gerarchia di 'fratture' sociali, e quest'ordine di priorità politica varia non solo fra sistemi politici diversi", ma, all'interno di uno stesso sistema in momenti storici diversi. Essi distinguono due fondamentali tipi di conflitto, che tenderebbero a succedersi nel tempo: il conflitto culturale-territoriale e il conflitto funzionale. Si tratta di conflitti che nascono nell'ambito delle due rivoluzioni che definiscono la "modernità": rispettivamente, la rivoluzione nazionale e la rivoluzione industriale. Nella fig. 1 diamo una rappresentazione grafica del modello.
Fig. 1 Dimensione storica del conflitto sociale (da S.M. Lipset S. Rokkan (eds.), Party Systems and Voter Alignments: Cross-National Perspectives, The Free Press, New York, 1967, p. 10)
L'asse 1-g rappresenta la dimensione territoriale del conflitto. All'estremità 1, troviamo forze locali che si oppongono alla penetrazione nella "periferia" del governo e della burocrazia. Ne sono esempio i partiti di difesa territoriale e culturale che sorgono specialmente nelle prime fasi del processo di unificazione nazionale, ma che non vengono necessariamente meno nel seguito dello sviluppo (Sùdtiroler Volksp Adige, partiti etnici in Belgio, ecc.). Per contro, all'estremità g dell'asse territoriale, il conflitto non è più fra gruppi regionali, ma assume dimensione nazionale. Qui il conflitto verte sulle grandi scelte della politica nazionale, con particolare riguardo alla distribuzione terri-
81 toriale delle risorse. Per esemplificare con riferimento al problema Nord-Sud in Italia: al polo l troveremmo élites che non avvertono l'esistenza di una "questione meridionale", ma che sono piuttosto interessate ad ottenere potere a livello locale. A l polo g, troveremmo invece élites che considerano il problema del Sud come uno dei problemi fondamentali della nazione e dello Stato italiano. Vedremo che, salvo rare eccezioni, l'opposizione meridionale è stata essenzialmente di tipo localeregionale (v. oltre). La dimensione funzionale del conflitto (asse a-i) si riferisce a conflitti che trascendono le unità territoriali della nazione. La distinzione cardine al riguardo è fra contrapposizione ideologica (Chiesa-stato, politica di classe, ecc.) e conflitti su interessi specifici. Secondo Lipset e Rokkan, il passaggio da u n tipo all'altro di conflitto come dato caratterizzante un sistema politico, è legato all'estensione del suffragio e all'industrializzazione, processi che "universalizzano" la vita e la lotta politica. La "modernità" si configurerebbe quindi come crescente "nazionalizzazione" della politica (l->g) e "deideologizzazione" del conflitto (i->a). Alla luce di questo modello e con riferimento al problema che qui interessa — rapporti fra Nord e Sud —, la storia italiana presenta l'importante peculiarità di non aver visto affermarsi, neanche nei primi stadi dell'unificazione nazionale, un'opposizione politica a base territoriale, diversamente da quanto è avvenuto in altri paesi europei ("contro-cultura di sinistra" nella Norvegia meridionale e occidentale, appoggio ai Liberali nel Galles, ecc.) (5). Com'è noto, dopo il 1860 scoppiarono nel Sud conflitti estesi e profondi (una guerra contadina — il brigantaggio — seguita da un'emigrazione di proporzioni bibliche), ma nessun "partito meridionale" ha saputo dare espressione organizzata a tali conflitti (6). A l contrario, le élite meridionali hanno sempre chiesto la più dura repressione dei moti contadini, attuandola quando ebbero il potere di farlo (Crispi e i fasci siciliani, 1894). Da questo punto di vista, il successo della classe politica settentrionale è stato completo. Per il paese nel suo complesso, si è trattato di un successo ottenuto a caro prezzo. Il Sud è stato non tanto integrato nel nuovo Stato,
5. Ibid., p. 12. 6. La Sinistra storica aveva bensì la sua massima base elettorale nel Sud (vedi oltre), ma tutto rappresentò fuorché gli interessi generali del Mezzogiorno. Fortunato ebbe a definirla "grande espressione della incoscienza della borghesia". Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, cit., p. 333.
82 quanto "assorbito" in un sistema dominato dal Nord. Quel tanto di integrazione che ne è seguita, è avvenuta in modo tale da violare la dialettica conflitto-integrazione indispensabile per un vero processo di unificazione nazionale (v. sopra). Il problema presenta due aspetti. A livello di società civile, l'integrazione fra Nord e Sud, anziché essere frutto del convergere di ampi interessi regionali, si è risolta nell'imposizione degli interessi della borghesia settentrionale al resto del paese. livello politico, l'unificazione è sfociata nel trasformismo, sistema di governo nato al Nord, ma reso possibile dalla "disponibilità" dei deputati meridionali. Esaminiamo i due aspetti nell'ordine.
2. Il Risorgimento come rivoluzione nazionale mancata La tesi che il Risorgimento ii sia stato una rivoluzione nazionale mancata, è uno dei temi centrali dell'opera di Guido Dorso (7). Per Dorso, il Risorgimento non fu un movimento nazionale perché aveva portato alla conquista del Sud da parte del Nord ("conquista regia"). N o n fu una rivoluzione perché non aveva espresso ideali capaci di coinvolgere le masse. Lungi dall'aver mobilitato il paese, aveva ulteriormente devitalizzato la società italiana. " L a caratteristica essenziale del nostro Risorgimento — scrive Dorso (8) — è costituita dal dissolvimento di tutte le correnti ideali, che si disputarono la direttiva della rivoluzione, nel grigio incedere della conquista piemontese" La conquista non fu solo militare, ma anche morale e politica. Il meccanismo che la rese possibile fu uno stile di governo basato sulle "transazioni politiche" e la cooptazione delle elite meridionali. Cavour era stato il primo artefice di questo "processo di eviramento della rivoluzione mercé le transazioni personali con i capi" (9). Il risultato fu lo spegnersi di ogni rigore morale e ideologico nelle élite meridionali e la repressione di quei leader che rifiutavano di essere cooptati nel sistema. A ciò si era giunti per la "profonda immaturità politica delle masse italiane" (10), ed ancor più per l'atteggiamento delle elites del Sud verso l'unificazione nazionale. La classe dirigente era nel Mezzogiorno
7. G . D o r s o , La rivoluzione meridionale (1925), Einaudi, Torino, 1972 e " L a classe dirigente dell'Italia meridionale", in Dittatura classe politica e classe dirigente, Einaudi, Torino 1949. 8. D o r s o , La rivoluzione meridionale, 9. Ibid., p. 47. 10. Ibid., p. 46.
pp. 45-46.
83 la borghesia rurale. Il possesso della terra era il fondamento del potere e la stessa ragion d'essere di questa classe. D i norma, i proprietari meridionali davano le proprie terre in affitto. Se fossero stati produttori in proprio, anziché rentiers, il loro "spirito di conservazione sarebbe stato temperato da una specie di progressismo, che avrebbe escluso il trasformismo, poiché la partecipazione attiva al processo di produzione li avrebbe condotti a comprendere la vita generale del paese", almeno per quanto era richiesto dalla difesa dei loro interessi (11). L'essere rentiers limitava invece grandemente l'orizzonte e le ambizioni politiche della borghesia meridionale. Ciò che i borghesi meridionali chiedevano al nuovo Stato era essenzialmente il riconoscimento dei diritti di proprietà sulla terra contro i vecchi baroni (le cui terre avevano usurpato) e soprattutto contro i contadini. A tal fine, essi avevano bisogno di maggiore libertà e di maggiore potere locale, soprattutto del potere di disporre, attraverso le amministrazioni locali, dei demani comunali (vedi oltre). Qui stava l'essenza e il principale limite del liberalismo della borghesia meridionale: la tendenza a "risolvere, nel generale problema dell'unificazione d'Italia, la necessità del suo dominio regionale" (12). Essa ottenne il controllo pressoché esclusivo delle amministrazioni locali, ma "ad un prezzo assai caro: l'abbandono di ogni pretesa di controllo sullo Stato e l'adesione incondizionata alla politica dei ceti dominanti del N o r d " (13). Il trasformismo fu lo strumento con cui le élite meridionali furono cooptate nel blocco di potere come partners subalterni. Dorso comprese molto bene la dialettica conflitto-integrazione a cui si è fatto più volte riferimento. Egli contrappone il libero dispiegarsi degli interessi in gioco, premessa per un'efficace composizione del conflitto, al penchant italiano per le transazioni segrete e la manipolazione del conflitto "la sintesi che precede la lotta"), in cui vedeva un segno 11. Ibid., p. 294. Cf. D o r s o , " L a classe dirigente dell'Italia meridionale", ci(. Secondo il censimento del 1901, della popolazione maschile impiegata in agricoltura (di 9 o più anni), coltivava la propria terra il 31,1 per cento al Nord, il 22,3 per cento al Sud. Le percentuali più elevate di proprietari coltivatori si riscontravano in Piemonte (55,3 percento) e Liguria (47,8), quelle più basse in Puglia ( 15,1 ), Sicilia (14,6) e Calabria ( 13,9). Cf. F. Sereni, Capitalismo e mercato nazionale in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1966, p. 115. 12. D o r s o : La rivoluzione meridionale, cit. p. 115. Giudizio analogo in Nitti. " U n trattato di commercio ha quasi sempre per essi [ u o politici meridionali] meno importanza che non la permanenza di un delegato di pubblica sicurezza" Nitti aggiungeva che "politicamente Tltalia meridionale è assente: non ò né conservatrice, né liberale, né radicale: è apolitica" F.S. Nitti, Nord e Sud, in Scritti sulla questione meridionale, Laterza, Bari, 1958, voi. II, pp. 452-453. 13. D o rso, La rivoluzione meridionale, cit., p. 117.
84 dell'"immaturità italiana" alla moderna vita dei partiti (14). Come soluzione, proponeva l'autonomismo, termine con il quale intendeva non solo decentramento, ma soprattutto autonomia dell'individuo da qualsiasi forma di autorità che non fosse liberamente accettata. Individui " a u t o n o m i " sarebbero stati capaci di dar vita a una libera attività associativa, anziché essere costretti ai legami semi-coattivi che l'individualismo estremo paradossalmente genera (15). A livello locale autonomismo significa autogoverno; nella politica nazionale, esigenza di "partiti autonomisti" a base regionale: Forse uno dei sintomi maggiori dell'immaturità italiana è stato l'assenza di particolarismi politici pur dopo l'unificazione di sette stati: indice questo, che all'infuori del Piemonte, in nessun'altra regione d'Italia era maturata una classe politica nettamente definita, e che l'unità dell'azione statale restò lungamente affidata soltanto alla burocrazia (16). Dorso aggiungeva che erano occorsi settanta anni di vita unitaria (17) per mostrarci che l'Italia deve farsi, prima che al centro, alla periferia; prima che nelle leggi dei governanti, nello spirito dei governati. I partiti autonomisti, mirando a colmare questa lacuna, sono gli unici che postulano la fondamentale unità del popolo italiano contro le deviazioni particolaristiche dello Stato storico. Sembrerebbe un paradosso, ma è la verità (18). 14. Ibid.. pp. 219, 49. 15. La carenza di autonomia nella personalità meridionale è anche il tema conduttore degli studi di [-mesto De Martino sulla cultura popolare nel Sud. Cfr. lì. De Martino, Sud e magia. Feltrinelli, Milano, 1971. " D a questa analisi egli scrive è risultato come... [la magia sia] da ricondurre alla insicurezza della vita quotidiana, alla enorme potenza del negativo e alla carenza di prospettive di a/ione realisticamente orientata per fronteggiare i momenti critici dell'esistenza, e soprattutto al riflesso psicologico di essere-agito-da con i suoi connessi rischi psichici... L ' 'ssere-agito-da costituisce infatti la contropartita individuale e psicologica dei limiti dell'agire civile e laico in una data società» e favorisce il ricorso a tecniche mitico-rituali merce le quali " u o m i n i incerti in una società insicura surrogano, per ragioni pratiche di esistenza, l'autentica luce della ragione" Ibid.. pp. 137-139. 16. D o r s o , La rivoluzione meridionale, pp. 217-218. 17 D o r s o scriveva intorno al 1925. 18. Ibid., p. 253. U n effettivo pluralismo regionale ha anche importanti conseguenze per la "qualità" della democrazia. H a n s Daalder scrive, ad esempio, che in paesi come l'Inghilterra la Svizzera e l'Olanda, i tentativi di fondare una "monarchia assoluta... fallirono per l'opposizione congiunta di interessi particolaristici, di natura corporativa, regionale o sociale. Poiché l'ordine politico poggiava, in un senso molto concreto, su delle parti, l'idea che gli individui potessero parteggiare per tendenze diverse fu presto accolta, ancor prima dell'avvento di una politica di partito in un senso stretto. [ In tali paesi) non vi fu mai un'assetto monocromatico, unicentrico', nel senso di Sartori, che si ponesse come ostacolo alla for-
85 3. Struttura della classe politica italiana dopo il 1860 Il tema del trasformismo può essere utilmente introdotto partendo da una descrizione della classe politica venuta al potere nel 1876. Il 1876 segna, come è noto, la fine del dominio della Destra storica e l'inizio del dominio della Sinistra. Segna pure un mutamento radicale nella composizione del personale parlamentare e di governo. Nel 1876 la Destra aveva realizzato la maggior parte dei suoi obiettivi. C o n la conquista di Roma, si era compiuta l'unificazione nazionale. Il problema della Chiesa era stato temporaneamente risolto con la legge delle guarentigie. Cosa ancora più importante, il nuovo Stato aveva trovato una più solida base finanziaria: poco prima di dimettersi dalla carica di primo ministro (1876), Minghetti poteva annunciare con orgoglio che era stato raggiunto il pareggio del bilancio. Com'è noto, il pareggio costituiva uno dei principali obiettivi politici della Destra. Se lo Stato si era rafforzato, larghi settori del paese continuavano a sentirsi estranei alla nuova entità politica. Da un lato, solo il 2 per cento della popolazione aveva diritto di voto (vedi oltre). M a anche all'interno del "paese legale", il risentimento contro la classe dirigente del tempo era diffuso. E ' ad esempio significativo che la Destra sia caduta in parlamento per l'opposizione congiunta di due gruppi di carattere in gran parte regionale : i moderati toscani, ostili alla politica ferroviaria del governo ( 19), e la Sinistra che rappresentava soprattutto l'elettorato meridionale sino allora escluso dal potere (20). mazione dei partiti" (mio corsivo). H. Daalder: "Parties, Elites, and Politicai Developments in Western Europe", cit., pp. 47-48. 19. L'ostilità dei moderati toscani alla politica ferroviaria della Destra si spiega con il fatto che Firenze era il centro d'importanti interessi finanziari legati alla gestione privata delle ferrovie (soprattutto la società delle Meridionali). La Destra aveva optato per il controllo statale delle ferrovie. Cf. G. Carocci, Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Einaudi, Torino, 1956. Sui conflitti regionali che dividevano la Destra, si veda R. Bonghi, " I partiti politici nel parlamento italiano" (1868), in Come cadde la Destra (a cura di F. Piccolo), Milano, Treves, 1929; R. D e Mattei, Il problema della democrazia dopo l'Unità, Roma, Istituto nazionale fascista di cultura, 1934, p. 63. 20. Il carattere prevalentemente meridionale della Sinistra storica emerge dalla seguente tabella,che riporta la distribuzione dei deputati eletti nelle elezioni del 1874:
86 Il mutamento di governo nel marzo 1876 fu pienamente sanzionato dall'elettorato nelle elezioni generali del novembre successivo. Il governo di Depretis aveva proceduto ad una vasta epurazione di perfetti (21), che ebbe i suoi benefici effetti elettorali (414 deputati per la Sinistra, 94 per la Destra) (22). Il bisogno d'interferenze governative era tanto più grande, in quanto l'elettorato della Sinistra era assai meno omogeneo di quello moderato (23). Ne risultò, come si è detto, un profondo mutamento nel personale parlamentare (1/3 dei deputati risultarono eletti per la prima volta) e nella sua composizione sociale. La tab. 1 mostra l'ampiezza di questo mutamento per quanto riguarda il personale di governo. (Dati sulla composizione del parlamento sono disponibili solo dal 1892 in poi, e saranno riportati in seguito). personale della Sinistra è comparato a quello della Destra (1861-1876) e al personale del periodo giolittiano (1903-1913). Con riferimento alla tab. 1, occorre sottolineare i seguenti punti: 1. la Destra rappresentava soprattutto il ceto militare e i proprietari terrieri: la Sinistra, il ceto degli avvocati e dei pubblici funzionari. Questo cambiamento fa ritenere che dopo il 1876 la risorsa politica fondamentale non fosse più la terra, ma la competenza. La competenza maggiormente richiesta era presumibilmente la familiarità con l'apparato burocratico dello Stato (24); 2. anche sotto la Sinistra, industriali e commercianti continuavano a svolgere un ruolo trascurabile nel reclutamento del personale di governo. Vedremo che lo stesso vale per i deputati (v. oltre tab. 3). Ciò è tanto più degno di nota se si considera il rapido sviluppo della finanza e dell'industria in Italia dopo il 1880. Fa supporre che la borghesia capitalistica disponesse di altri canali non istituzionali di accesso all'autorità (v. oltre); Istituto centrale di statistica e Ministero per la Costituente: Compendio delle statistiche elettorali italiane dal 1848 al 1934, Stab. Tip. F Failli, Roma, 1946-47, voi. II, p. 102. Cf. anche G. Procacci, Le elezioni del 1874 e l'opposizione meridionale, Feltrinelli, Milano, 1956; C. Morandi: / partiti politici nella storia d'Italia, Le Monnier , Firenze, 1957, p. 30. 21. R.C. Fried, Il prefetto in Italia, trad. it. Giuffré, M i l a n o , 1967, cap. I l i; F. Roteili, " G o verno centrale e governo locale nell'età della Sinistra", relazione presentata al convegno su Agostino Depretis, Pavia, maggio 1977, ciclostilato, pp. 13 e segg. 22. Solo nel 1924 (prime elezioni organizzate dal fascismo) i si registrò una maggioranza parlamentare di dimensioni comparabili. Cfr. M . Vinciguerra, I partiti italiani dal 1848 al 1955, Centro editoriale dell'Osservatore, Roma, 1955, p. 69. 23. G. Carocci, Agostino Depretis, cit. p. 122; C. Ghisalberti: Storia costituzionale d'Italia 1849-1948, Laterza, Bari, 1974, cap. V. 24. Cf. sopra Parte I, cap. 2 (proprietà e competenza come risorse alternative di patronage).
Il
87
3. il minor numero di deputati che ebbe parte nel Risorgimento, rispetto a quelli della Destra, indica il venire meno di un'importante fonte di legittimazione (25). Contribuisce a spiegare l'affievolirsi di quel "senso dello Stato'' che era stata la caratteristica peculiare dei politici e degli statisti della Destra. Il minor ruolo dell'aristocrazia è indice del minor peso della Corona; 4. dopo il 1887 la natura del personale di governo mutò solo marginalmente. Anche sotto Giolitti (1903-1913), un paese sempre meno agricolo continuerà ad essere governato da una classe politica nella quale gli avvocati primeggiano e il ceto mercantile-industriale è quasi assente. Un'altra caratteristica del personale di governo dell'Italia liberale merita menzione. La Sinistra aveva la sua roccaforte elettorale, come si è detto, nel Mezzogiorno, ma potè far poco per invertire il tradizionale predominio piemontese e settentrionale nella direzione dello Stato (v. tab. 2). Come notava Nitti nel commentare questi dati, se le cinque regioni meridionali (26,5 per cento della popolazione italiana nel 1900) avesse25. D i ciò vi è ampia traccia nella cultura letteraria del tempo. Cf. A. A s o r Rosa, " L a cultuStoria d'Italia, Einaudi, Torino, 1975, voi. 4°, tomo 2°, cap. 1°.
88
ro avuto la stessa proporzione di ministri della Liguria (3 per cento della popolazione), il Mezzogiorno avrebbe dovuto avere, nel periodo di tempo considerato, 119 ministri anziché 41. La composizione socio-professionale del parlamento presenta analogie con quella del governo. L'importanza di avvocati e altri liberi professionisti è ancora più accentuata, i due gruppi rappresentando nel loro insieme il 50-60 per cento della classe parlamentare (v. tab. 3). Le peculiarità della classe politica italiana emergono chiaramente da un confronto con Francia e Germania (tab. 4). Il ruolo dell'industria e della finanza, come base di reclutamento dei deputati, è molto più importante nel Reichstag tedesco e nella Camera dei deputati francese che in Italia. L o stesso vale per i pubblici funzionari. Per contro, i liberi professionismi, che rappresentano la maggioranza assoluta fra i deputati italiani, sono molto meno numerosi nel Reichstag, sebbene
90 essi costituiscano quasi il 50 per cento dei deputati francesi (26). Infine, mentre l'avvocato era il professionista tipico nei parlamenti italiano e francese, in Germania prevalevano i giornalisti (27). Sappiamo da Weber che il giornalismo è il classico trampolino di lancio per una carriera professionale in politica. Per riassumere e concludere. I dati sulla composizione del governo e del parlamento nell'Italia liberale mostrano che la classe politica subì un mutamento radicale e duraturo intorno al 1876. Anche la natura del rapporto fra eletti e elettori venne a configurarsi in modo diverso. Si passò dalla "rappresentanza organica" della Destra a quella che può chiamarsi la "rappresentanza contrattuale" della Sinistra. Come ha notato Gramsci (28), i moderati "erano un'avanguardia reale, organica delle classi alte, perché essi stessi appartenevano economicamente alle classi alte: erano organizzatori politici e insieme capi d'azienda, grandi agricoltori o amministratori di tenute, imprenditori commerciali e industriali, ecc." Essi esercitavano una leadership "potente" e "spontanea" nei confronti di ampi strati della popolazione, appunto perché erano parte di una classe che aveva svolto una funzione progressiva sia in campo politico (Risorgimento e unità nazionale) che in quello economico. . Sinistra si trovava in una situazione molto diversa. Essa rappresentava essenzialmente strati di borghesia media e piccola, specie nel Sud, la cui principale ambizione era quella di avvantaggiarsi delle risorse del nuovo Stato, soprattutto delle nuove occasioni di lavoro offerte da una burocrazia in rapida espansione (29). Di fronte a questi strati, e in assenza degli attributi che conferivano alla Destra una lead-
26. Per un periodo precedente (1876-1880), Turiello aveva calcolato che vi fossero 170 avvocali nella Camera dei deputati italiana, 48 nell'Assemblea nazionale francese, 30 nella Camera dei comuni e 18 nel Reichstag tedesco. P Turiello, Governo e governati in Italia, Zanichelli, Bologna, 1882, voi. 1, p. 297. 27. Farneti, Sistema politico e società civile, cit., Parte II. 28. A. Gramsci, Il Risorgimento, Editori Riuniti, Roma, 1971, p.. 95. 29. " L ' e v o l u z i o n e dei capi della Sinistra rifletteva quella del paese ola sollecitava: i giovani della media e piccola borghesia professionista che... erano accorsi numerosi nelle schiere garibaldine o mazziniane, ora venivano assorbiti dagli impieghi che si creavano di giorno in giorno nella febbrile organizzazione del nuovo Stato, facevano cioè il loro ingresso nella burocrazia In realtà, quella smobilitazione di forze combattive, concluso il ciclo del Risorgimento, era pur necessaria, ed era compito peculiare dello Stato immetterle nei propri quadri,... normalizzarle,... col desiderio... di calmarle i bollori giovanili". C. Morandi, /partiti politici, cit., p. 30.
91 ership per così dire "naturale", il consenso doveva essere organizzato mediante la distribuzione politica di compensi e favori. E' in questo senso che si può parlare, nel caso della Sinistra, di una rappresentanza di tipo "contrattuale" L o strumento moderno che consente di aggregare un elettorato eterogeneo è il partito politico gestito da politici di professione. Nell'Italia liberale, notiamo invece il prevalere di un tipo di personale politico — soprattutto avvocati — che non rappresenta vasti interessi privati o istituzionali (caso dei proprietari terrieri, dei capitalisti e pubblici funzionari nel Reichstag), né può essere facilmente organizzato in un corpo " a u t o n o m o " di politici di professione. Il risultato fu un sistema di rappresentanza in cui i deputati operavano non tanto come uomini di partito, ma come espressione di fazioni e dei grandi elettori. In questo, l'Italia liberale presentava alcune analogie con la Terza Repubblica, salvo che i partiti politici italiani non avevano (nel bene e nel male) la coesione ideologica che tanto divideva i partiti e l'Assemblea nazionale francese (30). Sia in Italia che in Francia, venne a prevalere una rappresentanza atomistica e localistica. (31). N o n si sviluppò alcuna vera "divisione del lavoro" fra società civile, sistema politico e Stato. Specie in Italia, dove la burocrazia aveva un grado di istituzionalizzazione e un'efficienza ben minori che in Francia, ciò portò alla crescente "privatizzazione" della politica e alla degenerazione frazionistica dei partiti.
30. F Goguel, La politique des partis sous la III° République, Seuil, Parigi, 1946. 31. Per l'Italia, cf. G. Galli, / partiti politici, cit., p. 18. Galli attribuisce l'orientamento localistico dei deputati italiani alla ristrettezza del suffragio, che non favoriva la creazione di partiti organizzati, e alla forte eterogeneità fra regione e regione; P. Farneti, Sistema politico e società civile, cit. p. 125. Per la Francia, oltre all'opera di Goguel citata alla nota precedente, H.W. E h r m a n n , Politics in France, Little, Brown, Boston, 1971, capp. I V e V I I I ; O. Kirchheimer, " T h e Trasformation of the Western European Party Systems", in Politicai Parties and Politicai Development, cit., p. 180.
2. I P A R T I T I P O L I T I C I E I L T R A S F O R M I S M O
Nella sezione precedente abbiamo brevemente analizzato le modalità del processo di unificazione nazionale in Italia, mettendo in evidenza come tale processo abbia posto le premesse per l'integrazione subalterna del Sud nel nuovo Stato. Si è inoltre considerato la composizione della classe politica — parlamentare e di governo — rilevandone la scarsa attitudine ad essere inquadrata in moderni partiti di massa. Per quanto importanti, questi fattori non sono di per sé sufficienti a spiegare il particolare tipo di sviluppo che ha segnato l'Italia liberale e post-liberale. La posizione subalterna del Sud avrebbe potuto essere "corretta" da un'apposita politica dello Stato e della burocrazia, volta ad "emancipare" il Mezzogiorno e ad impedire così lo sviluppo dualistico del paese. L o Stato ha invece agito in modo tale, come Nitti ha dimostrato in un'opera rimasta classica (1), da acuire il divario fra 1. F.S. Nitti, Il bilancio dello Stato dal 1862 a! 1896-97 e Nord e Sud, in Scritti sulla questione meridionale, cit. La tesi centrale di Nitti è che il peso fiscale imposto al S u d dopo il 1860, è stato nettamente superiore alla parte di spese riservata al M e z z o g i o r n o (difesa, pubblica istruzione, giustizia, lavori pubblici). Indico qui una sola serie di dati, particolarmente significativi in rapporto al nostro tema. I dati riguardano le sovvenzioni statali per l'istruzione elementare, che fu in Italia (diversamente dalla Francia) a carico dei c o m u n i sino a circa il 1910. Dimostrano che le regioni del N o r d furono nettamente avvantaggiate rispetto a quelle meridionali.
93 Nord e Sud, anziché attenuarlo. L o stesso vale per la debolezza dei partiti. Nelle aspettative di molti leaders del tempo, l'ampliamento del suffragio elettorale avrebbe dovuto stimolare i partiti italiani a darsi una moderna organizzazione di massa, atta ad incanalare il consenso dei nuovi elettori. Riforma elettorale ci fu, ma i partiti ne risultarono ulteriormente devitalizzati. In effetti e paradossalmente, la riforma elettorale del 1882 coincise con la scomparsa dei partiti organizzati dalla scena politica italiana (vedi oltre). Per rendere conto di questi aspetti "devianti" dello sviluppo politico in Italia, occorre farsi un'immagine complessiva del sistema politico italiano dell'Ottocento — delle sue caratteristiche strutturali e modalità di funzionamento. E ' quanto sarà tentato nelle pagine che seguono sulla base di un'analisi del sistema trasformistico sotto Depretis. archetipo e fondamento di una politica che durerà ben oltre la persona di Depretis. Il termine trasformismo designa nella letteratura tre fenomeni distinti e complementari: — un tipo di comportamento e di tecnica del consenso, volta a devitalizzare il conflitto mediante transazioni personali, sia in Parlamento che nella società civile (vedi sopra sezione su Dorso) (2); — in termini strutturali, trasformismo indica il venir meno delle distinzioni fra i partiti e dei partiti come strutture organizzate. Esso favori la fusione dei vecchi partiti — Destra e Sinistra storica —, in un unico fronte borghese, impedendo al contempo la nascita di un moderno partito della borghesia (3); — trasformismo sta infine per progetto conservatore di governo; fu una Lazio Marche Basilicata Umbria Sicilia Abruzzi-Molise Sardegna Campania Calabria
4.279 3.984 3.668 2.078 1.202 1.122 650 641 80
Fonte: F.S. Nitti, Il bilancio dello Stato, cit., p. 240. Cfr. anche G. Salvemini, " L a questione meridionale", in Scritti sulla questione (1896-1955), Einaudi, Torino, 1955.
meridionale
2. Questa è l'accezione in cui il termine è stato essenzialmente usato dal pensiero liberale. Cfr. G. Carocci, " N o t a sul trasformismo", Nuovi Argomenti, 1955, n. 12, pp. 43-54. 3. R. D e Mattei, Il problema della democrazia dopo l'Unità, cit. e Dal trasformismo al socialismo, Sansoni, Firenze, 1941.
94 reazione difensiva delle classi dominanti, specie nel Nord, di fronte al nuovo radicalismo delle masse, reazione che lasciò ampia traccia nei contenuti della legislazione e nelle politiche adottate (4). Presi insieme, queste tre manifestazioni costituiscono quella che possiamo chiamare la sindrome del trasformismo.
1. La riforma elettorale del 1882 Il trasformismo, nel senso di maggioranza parlamentare esplicitamente sorretta da entrambi i partiti storici della democrazia italiana (Destra e Sinistra), ebbe ufficialmente inizio nel maggio 1883. La riforma elettorale dell'anno precedente fu il fatto che, più di ogni altro, spinse alla "trasformazione" dei vecchi partiti (di qui il nome) in un unico fronte borghese. F u il catalizzatore di un processo già in atto, volto a fronteggiare i problemi posti dall'ingresso di nuove masse nell'arena elettorale e nello Stato. Sino al 1882, il corpo elettorale non superava il 2,2 per cento della popolazione. Fra tutte le nazioni dell'Europa centro-occidentale, ntalia era quella che aveva la più bassa percentuale di cittadini con diritto di voto (5). E poiché i votanti erano generalmente al di sotto del 60 per cento degli aventi diritto, un deputato veniva eletto, in media, prima del 1882, da circa 500 elettori (6). Molti attribuivano alla ristrettezza 4. Carocci, Agostino Depretis, cit. e "Nota sul trasformismo", cit. Secondo Carocci, è la compresenza dei tre aspetti indicati che definisce il fenomeno, e che consente di distinguere il trasformismo nella sua forma canonica o classica (Depretis) da altri tipi di politica solo in parte simili (sistema giolittiano e D C di De Gasperi). Negli ultimi due casi, c'è tecnica trasformistica di governo ma il progetto politico era, almeno in parte, non conservatore. " N o t a sul trasformismo", cit. 5. I dati sull'estensione del suffragio elettorale in Europa intono al 1880 forniscono il quadro seguente:
95 dell'elettorato l'accentuato personalismo della vita politica italiana, e vedevano nell'allargamento del suffragio un possibile fattore di rigenerazione dei partiti (7). La riforma elettorale del 1882 ampliò il corpo elettorale da 621.896 a 2.1 12.563 (dal 2,2 al 7,39 per cento della popolazione in termini percentuali). Le modifiche principali furono tre: il diritto di voto fu esteso a chi pagava almeno 19,80 lire all'anno in imposte dirette (rispetto a 40 lire prima del 1882); la frequenza dei primi due anni di scuola elementare era titolo sufficiente per l'esercizio dell'elettorato attivo, anche in assenza del requisito censitario di cui al punto precedente; l'età per votare fu portata da 25 a 21 anni. Relativamente a questa riforma, vanno fatte due osservazioni. In primo luogo, i diffusi timori della classe dominante in fatto di suffragio universale - "il grande delirio del secolo'; com'era allora chiamato (8) fecero si che il diritto di voto fosse esteso in misura molto limitata. Come ebbe a dire Depretis, il suffragio fu reso "universale nella misura del possibile" I margini di manovra erano ristretti perché le domande delle masse che venivano per la prima volta incorporate nello Stato — domande di ceto e non più individuali —, non erano facilmente conciliabili con il paternalismo e gli interessi dell'oligarchia dominante, e perché quest'ultima era priva di strutture organizzate per canalizzare il consenso (soprattutto partiti). Ciò vale per la Sinistra non meno che per i moderati. Mette conto qui rilevare una significativa inversione di ruoli. Sino a circa il 1880 era la Sinistra che premeva per l'introduzione del suffragio universale. Dopo, chi prospettò l'esigenza di un drastico allargamento del suffragio furono soprattutto conservatori "illuminati" come Sonnino e Fortunato, che vedevano nel voto delle masse contadine e cattoliche un antidoto al radicalismo delle masse urbane. La seconda osservazione è che il nuovo regime elettorale, oltre ad essere limitato, avvantaggiava le diverse parti del paese in modo ineguale. E ' probabilmente sotto questo profilo, più ancora che nella limitatezza 7. Si veda per esempio M. Torraca, Politica e morale. De Angelis, Napoli, 1877, p. 10; S. Spaventa, "L'allargamento del suffragio e i parliti politici", in La politica della Destra Laterza, Bari, 1910. Sulla problematica relativa ai partiti cfr. R. De Malici, I! problema della democrazia, cit., F. Manzoni, "I partiti politici italiani dal 1861 al 1918", in Nuove Questioni di storia del Risorgimento e dell'unità d'Italia, Marzorati, Milano, 1961. 8. Cfr. F Chabod, Storia della politica estera italiana, Laterza, Bari, 1971, voi. I, cap. Ili, che fornisce un finissimo ritratto della classe politica del tempo di fronte al problema dell'allargamento del suffragio.
96 Tab. 1 - Densità della popolazione elettorale (Nord, Centro, Sud, 1882
1870 Densità media
Indice
Densità media
Densità media
Indice
Nord Centro Sud continentale Sicilia e Sardegna
2,1 1,9
105 95
8,2 6,7
118,8 97,1
23,7 24,3
102,2 104,7
1,9
95
5,5
79,7
22,2
95,7
1,8
90
5,4
78,3
22,3
96,1
Italia
2,0
100
6,9
100,0
23,2
100,0
Indice
1870-1919) 1919
1913
*Densità Indice media 26.5 27.6 28,3 27.7 27,3
97,1 101,1 103,7 101,5 100,0
Fonte: Istituto centrale di statistica e Ministero per la Costituente: Compendio delle statistiche elettorali italiane dal 1848 al 1934, Roma, Failli, 1946-1947, voi. I, p. *77.
dell'estensione del voto, che vengono in chiaro i caratteri di questa legge in rapporto al sistema di potere che andava in quegli anni consolidandosi in Italia. V a anzitutto notato che il Sud beneficiò dell'ampliamento del corpo elettorale in misura minore che il resto del paese (v. tab. 1). Ciò era l'inevitabile conseguenza di un regime "capacitario" applicato a regioni nelle quali il numero degli analfabeti rimaneva altissimo (circa il 70 per cento della popolazione meridionale a fine secolo, contro una media nazionale al di sotto del 50 per cento). L'equilibrio elettorale fra Nord e Sud non si ristabilì che nel 1913 (suffragio quasi universale), per invertirsi a vantaggio del Mezzogiorno con l'introduzione del suffragio universale maschile nel 1919. Penalizzato in fatto di "densità elettorale", il Sud venne ad essere invece avvantaggiato sotto il profilo della rappresentanza parlamentare. La legge del 1882 dispose una nuova suddivisione elettorale del paese, istituendo 135 collegi plurinominali in luogo dei 508 collegi preesistenti (il numero dei deputati rimase 508). Introdotta con l'intento di rompere i tradizionali legami personalistici fra elettori e eletti (vedi sopra), la nuova ripartizione diede vita a collegi di diversa entità demografica, che avvantaggiavano il Mezzogiorno (e più in generale le zone rurali). Il fatto, poi, che le circoscrizioni introdotte nel 1882 siano rimaste immutate sino al 1913, nonostante i forti spostamenti di popolazione e l'emigrazione in massa di quegli anni, ha accentuato col tempo la sovrarappresentanza politica del Meridione (v. tab. 2 p. 99). Sotto questo profilo, l'effetto della legge fu di favorire quelle aree,
97 fra cui il Sud, nelle quali condizioni sociali e meccanismi di dominio si prestavano a diffuse manipolazioni del consenso. DI ciò si ha conferma nel tradizionale rapporto, dopo il 1876, fra deputazione meridionale in Parlamento e orientamento prevalentemente ministeriale della stessa (vedi sopra e oltre). Altro fatto caratteristico che emerge dalla tab. 2, è la più alta partecipazione elettorale al Sud rispetto al resto del paese, almeno sino al 1913. Le teorie della partecipazione politica di cui disponiamo (9) e il buon senso farebbero supporre il contrario, ossia un più alto tasso di partecipazione al "centro" che alla "periferia" (intesa, quest'ultima, come area periferica ai centri di potere). L a spiegazione più corretta è probabilmente quella suggerita dai primi studiosi di sociologia elettorale in Italia (10), che individuavano nei rapporti di notabilato e clientela un sistema di pressioni e sollecitazioni che convergevano nel gonfiare il voto: pressioni di notabili che, nella scarsità, al Sud, di carriere professionali alternative (alta burocrazia, industria, ecc.) affidavano gran parte delle loro speranze alla mobilità politica (11), e sollecitazione di elettori privi di canali alternativi di rappresentanza, per la carenza di partiti organizzati e di altre strutture associative nel Mezzogiorno (vedi oltre Parte II, cap. 3). In teoria, e negli intendimenti di non pochi fautori della riforma, questa personalizzazione del voto avrebbe dovuto venir meno con la nuova normativa. A ciò mirava l'ampliamento delle circoscrizioni (dimensione media nel 1882 14.948 elettori, contro 1.222 prima della riforma) e l'introduzione dei collegi plurinominali di lista? che potevano eleggere, a seconda della dimensione, sino a 5 deputati. Senonché, l'assenza di veri partiti rendeva impossibile la "predeterminazione di liste omogenee di candidati per orientare il voto dell'elettorato" (12), che erano essenziali per il buon funzionamento del sistema. Di qui il frequente ricorso a accordi personali fra i leader e a preesistenti aggregazioni clientelari. D i qui ancora quella perversa coincidenza per la
9. Cfr. ad esempio A. Pizzorno, "Introduzione alla partecipazione politica" in Quaderni di sociologia, 1966, pp. 235-287. 10. Clr. A. Mastropaolo, "Electoral Processes, Politicai Behaviour and Social Forces in Italy from the Rise o f the Left to the Fall of Giolitti", relazione presentata al seminario su " M o vimenti elettorali nella storia europea" Berlino, maggio 1978, pp. 16-17 11. E' questa la tesi avanzata da Farneti per spiegare alcune caratteristiche della deputazione meridionale (forte anzianità parlamentare, ministerialismo). Cfr. Farneti, Società civile e sistema politico, cit., pp. 262-267 e l'interà sezione "Centro e periferia: aspetti del rapporto fra N o r d e S u d " , ibid., pp. 257-275.
12. C. Ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia, cit., p. 187.
98 quale l'introduzione del suffragio allargato, lungi dal rigenerare i partiti, fu potente spinta al loro ulteriore disfacimento.
2. Il mancato partito borghese Il trasformismo non "uccise" i partiti italiani, come spesso si ritiene: ne affrettò semplicemente la dissoluzione. L'esigenza di una radicale "trasformazione" dei partiti era largamente diffusa ben prima dell'avvento di Depretis al potere. In effetti, la prima proposta di fusione dei partiti era venuta non da Depretis, ma dalla Destra. Sin dal 1873 Minghetti aveva suggerito la costituzione di un partito unico, o "partito dei due centri" com'egli lo chiamò, di una forza politica che avrebbe escluso le ali radicali (di destra e di sinistra) di entrambi i partiti (13). Come in altri casi, il contributo specifico di Depretis fu di assecondare e portare a compimento processi già in atto nel Parlamento e nel paese. Molte ragioni consigliavano questa "trasformazione". I vecchi partiti si stavano disintegrando, degenerando in un coacervo di fazioni. Per restare alla Sinistra, subito dopo l'avvento al potere, il partito si divise in cinque fazioni, che coprivano un ampio arco di posizioni politiche (Nicotera, Depretis, Crispi, Cairoli, Bertani). Fra il 1876 e '79 vi furono non meno di cinque governi, volta a volta costretti a dimettersi da coalizioni unite solo nell'opposizione al leader in carica. Delle divisioni di carattere soprattutto (ma non solo) regionale nella Destra, si è già detto (v. sopra). Il motivo più profondo del malessere era che i partiti, nella loro forma storica, non avevano più vera ragione d'essere. Destra e Sinistra riflettevano essenzialmente due diverse concezioni del Risorgimento, specie in rapporto alla questione del Papato. Il compimento dell'unità (presa di Roma) e il consolidamento del nuovo Stato avevano reso le vecchie distinzioni obsolete, mentre altri eventi, come la Comune di Parigi e l'incipiente "questione sociale", stavano portando alla ribalta problemi del tutto diversi, rispetto ai quali c'era fra i due partiti non tanto distinzione quanto quasi completa identità (14).
13. Carocci, Agostino Depretis, cit., p. 64. 14. Era questa un'opinione diffusa dopo il 1876. Cfr. il già citato lavoro di R. De Malici, Il problema della democrazia dopo l'Unità e Carocci, Agostino Depretis, cit. Valga per tutte questa testimonianza di Fortunato, fatta anche a nome dell'influente gruppo fiorentino della Rassegna settimanale: «io giunsi da più tempo... nella convinzione prò-
100 All'avvicinarsi della riforma elettorale (1882), organi d'opinione e autorevoli leader politici convenivano sulla necessità di fondare u n nuovo "partito nazionale", il cui compito sarebbe stato quello di difendere l'Italia, secondo l'espressione di Minghetti, dai "pericoli che minacciano le istituzioni" (15). Depretis, favorevole all'idea sin dal 1876 (16), aveva soprasseduto perché la Sinistra aveva ancora significative riforme da realizzare (in particolare, abolizione del macinato e riforma elettorale).L'allargamentodelsuffragiomutòradicalmentelasituazionespingendo Depretis a formulare esplicitamente la sua strategia trasformista. " N o i siamo un Ministero progressista, e se qualcuno vuol trasformarsi e accettare il mio moderatissimo programma, posso respingerlo?" (17), ebbe a dire in un famoso discorso elettorale del 1882. Nel maggio 1883 due ministri dissidenti furono licenziati dal governo (il dissenso verteva sulla politica ferroviaria) e il trasformismo veniva ufficialmente inaugurato. Di fatto, ciò che venne in essere non fu un nuovo partito, ma una nuova maggioranza parlamentare. A ciò contribuivano i tradizionali metodi di governo di Depretis, che avevano precisamente per scopo quello di scoraggiare il formarsi di forti organizzazioni politiche, e la natura della borghesia italiana, troppo debole per dare espressione organizzata ai propri interessi di classe (18). La "grande coalizione" di Depretis fu fonda, che la presente divisione de' partiti parlamentari è illogica,... falsa... [ e ] dannosa.... La Destra e la Sinistra, il grande partito liberale che ha dato a noi il bene inestimabile di una patria dopo un passato di lotte feconde... col Unire dell'opera loro, quattro anni or sono I l 8 7 6 ] , cessarono pure di esistere nell'antica forma di partiti storici. U n a trasformazione era inevitabile, poiché all'unità politica e all'assetto amministrativo della patria [e ai problemi di politica estera], era stato sacrificato tutto quanto si attiene alle questioni di ordine sociale e di vita interna, le soli capaci di mutar forma al costume e di elevare il carattere nazionale" Fortunato, " L a 'dissidenza' e le elezioni del 16 maggio 1880" ne li Mezzogiorno e io Stato, cit., p. 15. Sulla natura conservatrice della Sinistra cf. Procacci, Le elezioni del 1874 e l'opposizione meridionale, cit. 15. Citato da Carocci, Agostino Depretis, cit., p. 270. Si veda anche l'importante discorso del maggio 1883 in cui Minghetti difendeva il trasformismo adducendo l'obsolescenza dei vecchi partiti, parzialmente riportato in S. Cilibrizzi, Storia Parlamentare, Politica e Diplomatica d'Italia, Soc. ed. Dante Alighieri, Milano, 1925, voi. II, pp. 269-270. Sull'atteggiamento della stampa, cfr. Carocci, Agostino Depretis, cit., cap. V 16. Ci. Spadolini, "Storia del trasformismo" IJ^Mondo, 23 settembre 1950, p. 11. 17. Citato da Cilibrizzi, Storia Parlamentare, Politica ecc., cit., voi. II, p. 264. 18. Il fronte trasformistico nasceva in una situazione nella quale, come ha notato Carocci, la "classe dirigente n o n era capace di organizzarsi politicamente in veri e propri partiti, cioè ad esprimere, attraverso un'ideologia e un'azione coerenti, un programma positivo, affondante le radici nei grandi interessi generali della borghesia. La borghesia italiana n o n era da tanto. Il suo schierarsi in u n fronte unico, che era... un progresso,... era un fatto, per cosi di-
101 quindi al contempo una risposta al pericolo radicale e al problema del dominio politico della borghesia. Ciò è tanto più vero se si considera che Depretis concepì la nuova maggioranza non solo come coalizione dei vecchi gruppi dominanti, ma come strumento di governo aperto ai nuovi interessi finanziari e industriali, interessi che non si identificavano in nessuno dei partiti risorgimentali. U n accenno al ruolo degli interessi finanziari (19) nel sistema depretisino è indispensabile per capire la natura del trasformismo e il problema oggetto della presente sezione (mancato partito borghese). Consente inoltre di meglio comprendere le ambiguità di un progetto che fu al contempo strumento di progresso economico (20) e fattore di decadenza politica. Depretis fu forse il primo statista italiano ad accettare democrazia e capitalismo come aspetti essenziali della modernità (il secondo con più convinzione della prima). L'allargamento del suffragio fu a lungo una delle rivendicazioni cardine della Sinistra e tratto distintivo del suo programma (vedi sopra). In tema di sviluppo economico, Depretis riteneva fosse compito del governo incoraggiare in tutti i modi la formazione della ricchezza privata, differenziandosi in ciò dai più austeri propositi della Destra. L'aumento della ricchezza era per Depretis la sola via d'uscita dal dilemma che aveva tormentato i moderati: come attenuare il rigore della pressione fiscale (21) senza ricadere nel deficit del bilancio. Il fatto stesso che l'arrivo al potere dello statista piemontese fosse stato salutato con grandi speranze in ambienti così diversi come l'alta finanza e molte associazioni operaie, attesta l'ambiguità ma anche la modernità del suo progetto di governo. Sotto questo profilo la Sinistra era indubbiamente più progressista
re, negativo, subito per far fronte al cosiddetto pericolo radicale, realizzato quotidianamente attraverso compromessi fra gli opposti interessi particolari, compromessi che restavano tali, senza che dal loro insieme, come avveniva nei paesi più avanzati, scaturisse, al di sopra degli uomini la difesa degli interessi generali della classe e del paese" Carocci, Agostino Depretis, cit., p. 267. 19. Sulla rapida espansione del settore finanziario dopo il 1860, specie della banca e delle assicurazioni, cfr. E. Sereni, Capitalismo e mercato nazionale, cit., pp. 191-192; R. Romeo, Riso rgimento e capitalismo, Laterza, Bari, 1974, parte II; G. Are, Alle origini dell'Italia industriale, Guida, Napoli, 1974. U n a delle ragioni dell'espansione del settore finanziario era da ricercare nell'enorme debito pubblico, retaggio del processo di unificazione. 20. R o m e o , Risorgimento e capitalismo, particolarmente pp. 161 e segg. 21. Nel periodo 1861-1876 la pressione fiscale in Italia era la più elevata in Europa. Cfr. Romeo, Risorgimento e capitalismo, cit., p. 122. Il S u d , che aveva avuto sotto i Borboni un'imposizione tenue, ne risenti particolarmente. Fortunato, " L a questione meridionale e la riforma tributaria", ne II Mezzogiorno e lo Stato italiano, cit.
102 della Destra. L'indiscussa probità dei leader moderati e il loro culto per lo Stato aveva come contropartita un distacco dai bisogni della società che era tanto virtuoso quanto anacronistico. Per le due grandi ideologie dell'Ottocento — democrazia e capitalismo — i moderati avevano limitata simpatia se non un netto senso di ripulsa (22). La civiltà moderna appariva loro come sinonimo di politica di potenza, legge del mercato, dominio delle masse — principi inaccettabili per una classe radicata nei valori morali del mondo rurale, e per la quale l'agricoltura rappresentava "l'unica base per la struttura politica del paese" (23). Emblematico di queste diversità era il contrasto sulla politica ferroviaria, una delle questioni cardine della politica economica del tempo. Depretis era favorevole alla gestione privata, mentre la Destra propendeva per il controllo statale delle ferrovie (24). Dato il ritardo dello sviluppo capitalistico in Italia e la necessità di stimolare la formazione della ricchezza privata, la scelta di Depretis non era senza fondamento. Ma il modo in cui vennero strutturandosi, sotto e dopo Depretis, i rapporti fra interessi economici e finanziari (vitalmente interessati alla privatizzazione), da un lato, e autorità politica fu tale da configurare fra i due poteri una vera e propria collusione. U n solo esempio, rappresentativo di una prassi non limitata al settore ferroviario, chiarirà il punto. Nel 1877 furono create per iniziativa del governo due società ferroviarie per la gestione dell'intera rete nazionale, in sostituzione di società in parte controllate da capitale straniero (Rothchild). L'operazione incontrò forti resistenze (il Parlamento non l'approvò che otto anni dopo), e il suo successo era legato al concorso del capitale finanziario privato, italiano e non. Depretis chiese la collaborazione, fra gli altri, dei Rothchild di Parigi, già azionisti di una società rilevata nel 1875 22. Importanti eccezioni erano uomini come C a v o u r e Quintino Sella. Cfr. Chabod, Storia della politica estera, cit., voi. I, cap. Ili; Are, "Il problema dello sviluppo economico dell'Italia nel pensiero e nell'opera di Quintino Sella", in Alle origini dell'Italia industriale, cit. 23. Chabod, Storia della politica estera, cit. p. 409. 24. Silvio Spaventa così argomentava l'opposizione della Destra alla gestione privatistica delle ferrovie: " C o l nostro organismo sociale, col m o d o come è costituita la fortuna privata e pubblica in Italia, e col m o d o come sono composte le pubbliche amministrazioni, grandi società anonime, costituite con il credito dello Stato, che... abbiano frequenti e vistosi affari con lo Stato medesimo, e contatti continui... col pubblico sopra tutti i punti del territorio, sono creazioni mostruose, contro la cui potenza... n o n credo si trovi sufficiente resistenza in nessuna parte" S. Spaventa, " L e ferrovie e lo Stato", in La politica della Destra, cit., p. 217 Le convinzioni di Depretis in materia erano diametralmente opposte. Cfr. Carocci, Agostino Depretis, p. 179.
103 (Alta Italia). La risposta di Rothchild fu che egli era "disposto a fare tutto il possibile pel Governo italiano alla condizione però che la liquidazione [dell'Alta Italia] proced[esse] il più rapidamente possibile" (25). Rothchild aggiungeva di sapere che nel Ministero dei Lavori Pubblici esistevano due "correnti", una delle quali avversa alla società. N o n c'era dubbio che se la liquidazione dell'Alta Italia fosse stata affidata a questo gruppo, "infinite sarebbero [state] le quistioni" (26). Il funzionario indicato da Rothchild come amico della società divenne nel giro di poco tempo segretario generale del Ministero. In segno di protesta contro questo e altri esempi di pressioni e connivenze con il potere economico, Zanardelli si dimise dalla carica di ministro dei lavori pubblici (27). L'episodio è rappresentativo, dicevo, di un'intera prassi, che finì col tempo per screditare il ministero Depretis sotto l'accusa di "affarismo" (Sonnino ricorreva all'immagine del pantano). Il punto da sottolineare è che pratiche come queste, ovunque debilitanti per l'autorità pubblica, hanno effetti distruttivi per un regime politico in via di formazione, com'era lo Stato italiano negli anni di cui stiamo trattando. Il parlamento venne a perdere gran parte della sua autorità, perché " i gruppi dominanti e le clientele locali più forti presso il potere centrale raggiunge[vano] i favori dello Stato attraverso il legame diretto col governo, impersonato nel Depretis, scavalcando la mediazione del parlament o " (28). E ' significativo che fu proprio in quegli anni (ultimi decenni dell'800), che la polemica antiparlamentare mise solidi radici nella cultura politica e nella letteratura italiana (29). Queste pratiche, che possiamo definire di "privatizzazione della politica" (vedi sopra), ebbero effetti, oltre che sul parlamento, anche sui partiti, che videro sminuita la loro funzione e la loro stessa ragion d'essere come tramiti fra società e Stato. Il trasformismo riuscì nei suoi propositi "distruttivi" — liquidare partiti che avevano esaurito la loro funzione storica ma non a dar vita a quel partito nazionale 25. D a l resoconto dell'emissario di Depretis a Parigi (agosto 1876), citato da Carocci, Agostino Depretis, cit., p. 171. 26. Ih hi. 27. Ibid. 28. Iòide., p. 608. 29. Cfr. M . Delle Piane, Liberalismo e parlamentarismo, Macrì, Città di Castello-Bari, 1946, capp. I e IV; R. D e Matlei, Da! trasformismo a! socialismo, cit., specie l'Appendice (Cultura e letteratura antidemocratiche dopo l'Unificazione); Fortunato, "Il regime parlamentare e la X X Legislatura", in II Mezzogiorno e lo Stato italiano, cit.
104 borghese che pure era nei voti della maggioranza della classe politica. Se cosi è stato, è anche perché la borghesia aveva trovato nell'accesso diretto allo Stato un equivalente funzionale del partito di massa. Lo Stato, o più esattamente l'uso partigiano degli organi di governo, e non il partito, divenne il principale strumento di consenso e di direzione politica della borghesia italiana (30). Il punto importante è che l'uso partigiano dello Stato può risolvere i problemi del dominio borghese, ma non quelli dello sviluppo politico. Lo sviluppo politico implica, come si è visto, la progressiva emancipazione di masse sempre più vaste d'individui nei loro ruoli di cittadini. produttori e membri di una comunità culturale (vedi sopra, Parte I, cap. 2). In un sistema democratico, questo è essenzialmente (anche se non esclusivamente) compito dei partiti, ossia di meccanismi generali di rappresentanza capaci di comporre le domande particolaristiche della società in un progetto di governo. "Privatizzazione della politica" è politica con nessun o scarso potenziale di emancipazione. Nelle sue forme più estreme, essa fa sì che i gruppi dominanti non siano neppure in grado di rappresentare gli interessi generali e i valori della propria classe, per non dire di quelli della società nel suo complesso.
3. La teoria italiana del centrismo L'emergere di una maggioranza centrista fu accompagnata da una serie di teorizzazioni sul ruolo del "centro" che è opportuno brevemente richiamare, non foss'altro perché il centrismo ha rappresentato la forma storicamente prevalente delle coalizioni di governo in Italia. L'opinione dominante nel pensiero liberale consisteva nel ritenere che un sistema bipartitico fosse l'assetto ottimale in regime parlamentare. Poteva variare il paese a cui si guardava come modello (la Destra
30. L a situazione italiana n o n faceva che radicalizzare una difficoltà comune ad altre borghesie europee. C o m e ha notato Kirchheimer a proposito dei partili moderati in Francia, Germania e Italia, " [ n o n ] c'erano che incentivi limitati alla formazione di partiti borghesi organizzati. Anche dopo la-estensione di diritti formali ai cittadini, l'accesso ai favori dello Stato restava condizionato dall'istruzionce da altri privilegi di classe. Ciò che alla borghesia faceva difetto sul piano del numero, poteva essere compensato da rapporti privilegiati con l'esercito e la burocrazia" I gruppi dominanti "potevano trovare utile rinviare la creazione di organismi contrapposti ai partiti [operai] di massa, usando al contempo l'apparato dello Stato per impedire che tali partiti esercitassero tutta la loro influenza sul mercato politico" O. Kirchheimer, " T h e Transformation of the Western European Party Systems", cit., pp. 183-184.
105 inclinando verso l'esperienza britannica, la Sinistra verso il modello americano) (31), ma l'opinione concorde era che l'alternanza al potere fra i due " p o l i " del sistema (polo conservatore e progressista) fosse la regola fisiologica del parlamentarismo. I partiti dovevano essere due e dovevano essere disciplinati, pena l'ingovernabilità delle assemblee elettive. Una coalizione centrista non era quindi una soluzione ideale, ma un accorgimento per dare funzionalità a regimi nei quali non ricorrevano le condizioni predette. In ciò, si sosteneva (32), l'Italia presentava condizioni più favorevoli di altri paesi, ad esempio la Francia, paese anch'esso privo di un sistema bipartitico ma lacerato da profonde divisioni" ideologiche, che rendevano più difficile la convergenza al centro. Troviamo un'esplicita teorizzazione del centro negli scritti di Giustino Fortunato, forse il più lucido fra i fautori di una trasformazione dei partiti risorgimentali in un "partito medio" sperata premessa alla ricomposizione dei partiti in Italia. Che tale ricomposizione nel senso del bipartitismo non sia seguita, nulla toglie all'interesse di tali teorizzazioni. Quando, per una ragione qualsiasi, la costituzione di due partiti bene distinti e bene organizzati non può aver luogo scrive Fortunato (33) , né avere effetto quell'ideale del sistema rappresentativo che è l'alternarsi al potere di due partiti contendenti nell'orbita delle istituzioni, allora sorgono i centri parlamentari, i quali perciò significano un periodo di necessaria transizione. La omogeneità di due forti opposti partiti impedisce assolutamente ogni tentativo di partito medio; la loro eterogeneità li crea e li propaga [L'esistenza] dei centri è più che utile in tutti quei casi, nei quali la opposizione è numericamente e moralmente debole, la maggioranza multicolore e enorme: salvaguardia dell'una, son freni all'altra perché non trasmodi cieca e tirannica. Se allora essi non fossero, e non minacciassero di far a un tratto traboccare altrove la bilancia, l'abuso e la licenza dei ministeri non avrebbero più limiti, e i Governi costituzionali precipiterebbero a livello dei Governi assoluti"
Il passo citato permette anzitutto di evidenziare la peculiarità del centrismo in Italia rispetto ad altre esperienze nazionali. In Francia, la 31. S i veda per tutti Minghctti, I partiti politici e la pubblica amministrazione (1881), Cappelli, Bologna, 1969. 32. Cfr. La Perseveranza, 1 gennaio 1886, citato da R. De Mattei, Dal trasformismo al socialismo, cit., p. 37. 33. Fortunato, "I partiti storici e la X I V Legislatura", in Il Mezzogiorno cit., p. 111.
e lo Stato italiano,
106 funzione storica del centro è da ricollegarsi, secondo una nota analisi (34), all'estrema polarizzazione della società francese, più esattamente al duplice trauma dalla Rivoluzione e della Reazione. Come ha notato Duverger (35), lo "shock del 1789 e del 1814 avevano frantumato la comunità nazionale", con la conseguenza che "né la destra né la sinistra potevano governare se non con la forza, schiacciando l'avversario, cioè metà del paese. Solo un compromesso fra i moderati di entrambe le parti poteva ripristinare una certa stabilità" In quest'ottica, il centrismo nasce come convergenza al centro delle parti moderate dei due poli, entrambi divisi al loro interno dalla discriminante sistema/anti-sistema (conservatori reazionari e moderati a destra, liberali moderati e giacobini a sinistra). In questo senso si può dire che "l'unione dei centri [sia] stato il fondamento della democrazia in Francia ( 3 6 ) " l'alternativa al centrismo essendo la dittatura. Nulla di tutto questo in Italia. L'Italia non aveva conosciuto né la rivoluzione né eventi traumatici come la Comune di Parigi, eventi che hanno segnato il corso dell'intera Terza Repubblica francese (30.000 esecuzioni capitali nel 1871). In Italia, analogamente a quanto avveniva nella Spagna della Restaurazione (1876-1923) (37), il problema era opposto a quello della Francia: non già come riconciliare partiti sull'orlo della guerra civile, ma come tenere in vita due partiti distinti, che trovassero nella struttura della società, negli interessi rappresentati e nei rispettivi programmi ragioni effettive di esistenza. La ragione prima di questa non-vitalità, che in Italia ha portato al trasformismo e in Spagna alla rotazione concordata al governo di conservatori e liberali (c.d. Patto del Pardo, 1885), va ricercata nell'arretratezza della struttura sociale, in ispecie nella debolezza di una borghesia che non ha saputo o potuto differenziarsi, per valori e funzione economica. dalle vecchie classi aristocratiche (la "feudalizzazione della borghesia" di cui parla Linz (38) ). (Vedi sopra, e oltre Parte II, cap. 3).
34. M . Duverger, "L'èternel marais: essai sur le centrisme français", in Revue française de science polìtique, (ebbraio 1964, pp. 33-51. 35. Ibid., p. 41. 36. Ibid., p. 44. 37. J. Linz, " T h e Party System o f Spain: Past and Future", in Party Systems and Vater A/ignments, cit. 38. Ibid., p. 204. La conclusione di Linz, estensibile all'Italia, è che la "storia del sistema bipartitico in Spagna dimostra che la mancanza di differenziazione sociale fra la base elettorale e sociale dei partiti p u ò essere dannosa per lo sviluppo di una vera democrazia tanto quanto un'eccessiva polarizzazione..." Ibid., p. 208. Cfr. G. Lavau, Partis politiques et realités sociales, A. Colin, Parigi, 1953.
107 Va notato, in secondo luogo, che il trasferimento dei meccanismi di controllo dall'esterno all'interno del partito (la soluzione di Fortunato al problema della mancata dialettica fra maggioranza e minoranza), non poteva che esasperare il frazionismo. Ciò perché un partito di centro, per essere garante dei diritti della minoranza, deve essere alla mercé, come indica Fortunato, di mutevoli equilibri interni. Infine, questo processo di "interiorizzazione" dell'opposizione fa sì che ogni forza che resista ai tentativi di cooptazione del partito dominante, tenda ad essere vista come opposizione "sleale" e respinta come tale al di fuori del sistema. Per convincersi di ciò basta ricordare, per tornare al nostro tema, che il trasformismo nacque come tentativo, per controllare i conflitti sociali e politici in una società sempre più " d i massa", attraverso la cooptazione, impedendo cioè il libero manifestarsi degli interessi in gioco (vedi sopra). U n partito trasformista cerca di svuotare l'opposizione "assorbendone" i potenziali leader nel proprio sistema di potere, attraverso una tecnica del consenso che potremmo chiamare "a macchia d ' o l i o " (39). Non conosce altro modo di affrontare il conflitto. E poiché il conflitto è un dato ineliminabile della vita sociale, l'elite al potere deve mettere "fuori legge" il conflitto mettendo "fuori legge" i partiti e i gruppi che non stanno al gioco clientelare. E ' significativo al riguardo che Silvio Spaventa, autorevole esponente della Destra, nel vivo del dibattito sul "partito medio" si chiedesse
39. Questa tecnica può essere illustrata con la politica di Depretis verso i radicali. D o p o il 1882 Depretis " n o n mancò di fare una sapiente opera di scelta fra radicali e radicali, fra quelli più moderni e più legati ai ceti popolari, primi tra tutti i socialisti, che egli combatteva degnamente, e quelli 'recuperabili' i cui legami con i ceti popolari erano più gracili e che traevano le ragioni della loro opposizione soprattutto da motivi elettoralistici o da avversioni personali" C\ " N o t a sul trasformismo" cit., p. 53. Questo orientamento ebbe precisi riflessi nella strategia elettorale di Depretis, che si può schematizzare nel m o d o seguente: elezioni 1882: candidati moderati e progressisti contro candidati radicali; elezioni 1886: a. moderati e progressisti contro Pentarchia e radicali (dove non c'era pericolo di vittoria radicale); b. ministeriali e pentarchia contro radicali "pericolosi"; c. ministeriali, pentarchia e radicali "borghesi" contro socialisti (dove i socialisti erano forti). Ibid. Sulla Pentarchia, oltre nota n.45.
108 (1882) (40): " S o n o possibili due partiti, uno conservatore e uno liberale in Italia? o non vi può essere che un partito medio, conservatore insieme e progressivo, monarchico e liberale, rigettando fuori la cerchia legale gli elementi rigidamente conservatori e furiosamente progressivi? " (corsivo mio). Una volta avviato, il funzionamento del sistema tende a rafforzare le tendenze monopolistiche del partito dominante. Per la natura stessa dei metodi di governo su cui si regge, il trasformismo genera corruzione e irrazionalità nelle scelte di governo (41), quindi perdita di legittimità e di efficienza, per, compensare le quali deve accreditare l'idea dell'assenza di alternative "legittime" al proprio dominio. Il punto importante è che un partito trasformista ha bisogno di partiti anti-sistema. Se non esistessero, dovrebbe crearli per giustificare il proprio potere. Ma se questo è vero, la teoria sartoriana della "democrazia centrifuga" (42) dovrebbe essere rovesciata: non è la presenza di partiti estremi che rende un "centro" indispensabile; all'opposto, è il partito di centro che per la stessa logica del suo sistema di potere confina gli oppositori nella semi-illegalità. Ciò vale per il sistema depretisino (trasformismo e radicalismo), ma vale anche per un altro importante caso di sistema clientelare: il sistema democristiano (clientelismo e comunismo come opposizione "sleale"). (Vedi oltre, Parte III). 40. S. Spaventa, La politica nazionale e il partito liberale, M i l a n o , Treves, 1912, citato da R. De Mattei, Il problema della democrazia, cit. pp. 74-75. 41. C h e una politica basata sulle fazioni comporti un processo decisionale "irrazionale" è provato da numerosi esempi storici (si veda, fra i molti, la politica della sinistra in materia di tassa sul macinato; cfr. Carocci, Agostino Depretis, special, pp. 230-240). Sul piano dell'analisi sociologica, possiamo distinguere due metodi decisionali, che gli studiosi delle organizzazioni chiamano rispettivamente cooperative problem-solving e conflictual bargaining. Nel primo, "si presume che vi siano obiettivi condivisi e che il problema decisionale consista nell'individuare una soluzione capace di soddisfare tali criteri" Nel secondo, invece, dà per scontato il disaccordo sui fini, e si ricerca un accordo senza persuasione reciproca" Clr. R.D. Putnam, The Beliefs oj Politicians, Yale University Press, New Ilaven, 1973. p. 150. Il bargaining è la tecnica decisionale propria del trasformismo. Di qui una caratteristica della politica italiana per la quale, come dice Putnam, "accordi possono essere raggiunti ma i problemi rimangono insoluti" e una preferenza per l'"ordinaria amministrazione" a danno di progetti di più ampio respiro. «Convinti che questi [progetti] comportino irriconciliabili conflitti d'interessi, gli u o m i n i politici si accontentano di spartire 'torte' più piccole. La collaborazione nel dividere le spoglie è relativamente facile, perché è più chiara la possibilità di vantaggi reciproci" Ibid., pp. 152, 154. Progetti a lungo termine richiedono u n grado di istituzionalizzazione dell'autorità che, come sappiamo, è molto difficile da realizzare in contesti clientelari (cfr. sopra, Parte I, cap. 1). 42. Sartori, "Bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato?", Tempi moderni, autunno 1967, pp. 1-34.
109 4. Mezzogiorno e trasformismo Nel concludere questa breve analisi del trasformismo, è opportuno richiamare l'attenzione sul ruolo svolto dal Sud nel sistema depretisino. Com'è noto, il trasformismo ha una fondamentale dimensione regionale; lo possiamo definire un sistema nazionale di potere basato sull'arretratezza del Sud. Una delle ragioni che ne spiegano il successo sta nel fatto che il Mezzogiorno era stato tagliato fuori, politicamente e economicamente (vedi oltre), da quei processi strutturali che definiscono lo sviluppo. A sua volta, esso ha grandemente contribuito alla mancata emancipazione del Meridione perpetuandone l'integrazione subalterna nel nuovo Stato. Sebbene sia in genere riferito alla vita politica meridionale, il trasformismo non nacque nel Sud. Nacque al Nord come strategia difensiva contro un fenomeno quasi esclusivamente settentrionale: il radicalismo di cui cominciavano a dar segno le masse urbane e rurali. A causa dell'arretratezza della società meridionale, movimenti organizzati di protesta sociale erano nel Sud ancora embrionali o assenti (43). A d esempio, dei trenta deputati dell'Estrema eletti nel 1882 (radicali, repubblicani, socialisti), quasi nessuno fu eletto nel Mezzogiorno. Parimenti, liste elettorali comuni ai due partiti e altri accorgimenti trasformistici che caratterizzarono le elezioni dell"82, ebbero luogo soprattutto nel Nord Italia. Ve ne era scarsamente bisogno nel Sud, dove la Destra era stata fortemente ridimensionata sin dalle elezioni del 1874 (vedi nota 20, Parte II, cap. 1 ). Infine, i due principali artefici del nuovo sistema, Depretis e Minghetti, erano entrambi settentrionali (piemontese il primo, emiliano il secondo). E ' vero, tuttavia, che, se il trasformismo nacque al Nord fu il Mezzogiorno a renderlo politicamente possibile. Il Mezzogiorno divenne il serbatoio di voti per tutte le maggioranze governative, sotto Depretis come sotto Crispi e Giolitti. Il paradosso può essere facilmente spiegato. Il trasformismo incarnava un progetto di governo che incontrava forti resistenze in almeno tre settori della società, tutti concentrati al Nord, e cioè: gli ambienti industriali (44), specie quelli di Milano, che criticavano il venir meno dei partiti e i rapporti preferenziali di Depretis con l'alta finanza (v. sopra); la Sinistra di Zanardelli e Baccarini,
43. Cf. G. Procacci, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Editori Riuniti, Roma, 1972. 44. Are, Alle orìgini dell'Italia industriale, cit., passim.
110 che obiettava l'erosione del programma storico e progressista del partito; i radicali. Anche larghe frange dell'élite politica meridionale si opposero inizialmente al trasformismo, ma per ragioni del tutto diverse, essenzialmente perché il Sud non riceveva una quota adeguata di lavori pubblici, e perché il governo continuava ad essere diretto da esponenti settentrionali (v. sopra). Una volta che queste ragioni d'insoddisfazione, soprattutto la prima, fossero state rimosse, l'opposizione meridionale si sarebbe esaurita, come attesta la vicenda della Pentarchia (45). Carocci descrive l'opposizione pentarchica nel Sud come "un'opposizione che aveva bisogno solo della concessione di pochi favori per diventare ministeriale" (46), mentre un altro autore ne parla come di una "cospirazione di baroni" (47). La natura e la fragilità di questa opposizione fecero presto del Mezzogiorno il punto di forza per battere le resistenze antitrasformistiche nel resto del paese. Carocci cosi descrive la funzione che la borghesia meridionale venne a svolgere nel sistema depretisino (48): Nel Mezzogiorno il Depretis trovava... allo stato naturale quella situazione che., egli... si sforzava di creare nell'intera penisola: il depotenziamento di ogni spinta dal basso, l'eliminazione di ogni contrasto personale. Là non c'era un 'pericolo' radicale al quale dover opporre il fronte unico del trasformismo. Ma c'era, in grado ignoto alle altre regioni, corrispondente alla mancanza di omogeneità della borghesia, la tendenza al personalismo e al compromesso, che rappresentavano il dato preliminare e la tecnica del trasformismo. Proprio perché nel Sud non esistevano le condizioni di fatto che spingevano il Depretis sulla via del trasformismo, la borghesia meridionale fu il cemento unificatore, la forza decisiva che permise il pieno attuarsi di quella politica.
Carocci aggiunge a titolo esemplificativo che "due candidati baresi... concorrenti che si accordavano per spartirsi i voti, non solo rafforzavano il dominio della borghesia pugliese sui suoi contadini affamati di terre, ma anche, e soprattutto, quello dell'intera borghesia italiana sugli operai
45. La Pentarchia (1882-87) era un gruppo di opposizione a Depretis facente capo a cinque leader (di qui il nome), fra cui due meridionali (Crispi e Nicotera). Essa costituì soprattutto un movimento di protesta meridionale. Prese fine nel 1887 quando Crispi subentrò a Depretis nella carica di primo ministro. Cf. R. De Mattei, " M o m e n t i di storia italiana: la Tentar-
chia"', in Studi politici, 1954, pp. 573-585. 46. Carocci, Agostino Depretis, cit., p. 348. 47 M . Vinciguerra, I partiti italiani, cit., pp. 74-75. 48. Carocci, Agostino Depretis, cit., p. 300.
Ili di Milano e sui contadini della Val Padana" (49). A partire dagli anni Ottanta il Mezzogiorno divenne, pertanto, un fattore decisivo per gli equilibri della politica italiana, ma lo divenne non perché Depretis e i suoi successori riconoscessero la priorità della "questione meridionale" e il bisogno di emancipazione politica del Sud. Il S ud divenne importante proprio perché, e in quanto, arretrato, perché era ancora in gran parte al riparo dalle tensioni e dai conflitti di una moderna società di massa. Nel momento in cui il dominio della borghesia subiva le prime incrinature ad opera della protesta contadina e di quella delle masse inurbate (intorno al 1880 scoppiavano i primi grandi scioperi nelle campagne del Nord), il Mezzogiorno diventava un pilastro indispensabile di tale dominio. D a allora in poi il Sud costituì la chiave di volta di ogni fronte parlamentare conservatore, come "argine" alle pressioni radicali del N o r d (50). Ritornerò sul tema del ruolo dello Stato nel capitolo successi vo. Questo appoggio in parlamento dei settori meno progrediti della classe dominante italiana ebbe effetti sul contenuto della legislazione, e effetti. di più lunga portata. Sul piano della legislazione, Depretis si trovò impotente a realizzare alcuni dei progetti che più gli stavano a cuore, e in cui era racchiuso il suo più genuino progressismo. N o n potè attuare quelle riforme sociali che egli riteneva compito primo di un governo moderno realizzare (assicurazione contro gli infortuni, pensioni, ecc.). Soprattutto, dovette piegarsi alle richieste protezionistiche degli agrari meridionali, introducendo la nuova tariffa doganale del 1887. Il protezionismo, richiesto da più parti con motivazioni diverse (51), attestava il nuovo peso 49. Ibid., p. 301. 50. Mastropaolo ha recentemente documentato il "ministerialismo" della deputazione meridionale dopo il 1876, fornendo il seguente quadro statistico.
51. Nel protezionismo agrario confluivano istanze diverse a seconda dei gruppi che l'invocavano. Mentre al Nord era essenzialmente uno strumento per il potenziamento produttiv
112 del ceto dominante meridionale e ne confermava la vocazione economicamente parassitaria. A l contempo esso amalgamava, come ha notato Carocci, tutti i settori della borghesia italiana - agraria e industriale, meridionale e settentrionale —, creando vincoli d'interesse ben più forti di quelli personalistici del trasformismo. Nel lungo periodo i l trasformismo, proprio per questa "centralità" politica riconosciuta a una parte del paese che era e restava marginale, diede una spinta decisiva allo sviluppo dualistico dell'Italia, nel senso di sviluppo differenziato delle sue parti e nel senso, più importante, di un condizionamento duraturo della "periferia" sul resto della nazione. Era questo il senso dell'ammonimento, enfatico ma lucido, che Giustino Fortunato andava rivolgendo in quegli anni alla classe dirigente dell'Italia liberale: " D o p o l'unità e la libertà d'Italia non avete più scampo: o voi riuscite a rendere noi [meridionali] felici o noi riusciremo a rendere barbari voi" (52).
delle campagne e l'ammodernamento capitalistico, nel S u d esso esprimeva secondo Carocci "l'immobilismo della maggioranza dei proprietari cerealicultori [ e ] la loro riluttanza... a combattere la crisi [agraria] con un attivo... spirito imprenditore" Carocci, Agostino Depretis, cit. p. 447. 52. Citato da M . Rossi Doria, Introduzione a Fortunato, il Mezzogiorno e lo Stato, cit., p. IX.
3. I F O N D A M E N T I S T R U T T U R A L I D E L C L I E N T E L I S M O NELL'ITALIA MERIDIONALE
Lo studio del sistema clientelare come caratteristica saliente della vita politica nel Mezzogiorno, consente di verificare alcune ipotesi sulla dinamica dei rapporti clientelari e, più in generale, di far luce sul nesso fra clientelismo e sviluppo. Una delle caratteristiche più importanti del clientelismo meridionale è stata la sua persistenza e la sua capacità di condizionare l'intero sistema politico italiano (vedi sopra, Introduzione alla Parte II). La questione meridionale, di cui il clientelismo è uno specifico e fondamentale aspetto politico, maturò nel corso dello sviluppo del moderno Stato italiano, e la sua soluzione è oggi ritenuta il più urgente problema nazionale. In pari modo, il sistema clientelare nel Mezzogiorno, lungi dallo scomparire per effetto di agenti modernizzanti come il mercato e lo Stato, ha contribuito a determinare un modello complessivo di sviluppo in cui l'elemento clientelare occupa un posto di rilievo. Un acuto meridionalista dell'Ottocento, Pasquale Turiello, aveva già chiaramente percepito la capacità di espansione del clientelismo meridionale. Nel commentare gli effetti che l'introduzione di nuovi istituti elettivi nelle amministrazioni locali avrebbe avuto nel Mezzogiorno, Turiello scriveva (1 ): E ' più facile prevedere che le clientele locali (legami che solo possono progredire con siffatti istituti [locali] fra gli interessi individuali e privati) progrediscano dal mezzodì al settentrione col tempo, anziché col tempo si propaghi a rovescio la coscienza collettiva ed obiettiva nella cerchia delle amministrazioni elettive meridionali.
Posto nel più ampio contesto dello sviluppo politico italiano, lo studio del sistema clientelare può aiutarci a comprendere alcune caratteristiche "pre-moderne" del nostro sistema politico. Tutte queste caratteristiche 1. P. Turiello, Governo e governati
in Italia,
voi. 1, p. 97.
114 si tratti del modello d'intervento dei gruppi di pressione nella burocrazia che La Palombara chiama "parentela" (2) o del tipo "premoderno" di partecipazione analizzato da Di Palma (3), o ancora dei rapporti fra autorità locali e potere centrale (4), — possono ricondursi ad un aspetto fondamentale della politica italiana: il particolarismo. Il rapporto clientelare tradizionale e la sua versione "moderna" — clientelismo del partito politico — possono essere considerati come la forma paradigmatica tale particolarismo, dal punto di vista strutturale e culturale (vedi sopra Parte I). Nelle sezioni precedenti abbiamo esaminato la parte dello Stato e dei partiti nella mancata emancipazione del Sud. Qui occorre investigare l'altro fondamentale fattore di modernizzazione, il mercato capitalistico, che ha svolto un ruolo di Pari se non di maggiore importanza nella genesi del dualismo (5). La tesi che qui s'intende svolgere è che il clientelismo va visto soprattutto come prodotto dell'incompiuta razionalizzazione capitalistica dell'economia meridionale. A lungo andare, l'incompiutezza della rivoluzione italiana sul piano economico e sociale ha fatto sì che la "periferia" in Italia condizionasse — caso unico in Europa — l'intera evoluzione politica e economica del paese, diversamente da altre nazioni industriali nelle quali altri fenomeni di sottosviluppo " n o n hanno influito che in modo impercettibile sul processo generale di sviluppo dei singoli paesi" (6). In questa dimensione nazionale sta dunque la specificità della periferia italiana e delle sue modalità di comportamento politico.
1. Impatto del mercato sul sistema clientelare Analiticamente e in larga misura praticamente, la politica moderna è politica di gruppo. Il bargaining e la lotta politica si svolgono essenzialmente fra gruppi volontari (gruppi associativi, partiti, movimenti) che rappresentano interessi condivisi da una pluralità di persone. Affinché tali interessi e gruppi possano emergere, i rapporti particolaristici di di2. J. LaPalombara, Clientela e parentela. Studio sui gruppi d'interesse in Italia. trad. it. Comunità, Milano, 1967, cap. IX. 3. G. D i Palma, Apathy and Participation. Mass Politics in Western Societie., The Free Press, New York, 1970. 4. S. Tarrow, Between Center and Periphety. Grassroots Politicians in Italy and Frante, Yale University Press, New Haven, 1977. 5. R. Villa ri, "Liberalismo e squilibrio economico italiano", cit., p. 7. 6. Ibid. Cf. S. Tarrow, P.J. Katzenstein, L. Graziano (eds.). Territorio/ Politics in Industriai Nations, Praeger, New York, 1978.
115 pendenza personale devono cessare di essere predominanti. Storicamente, il mercato capitalistico è stato il fattore più potente nel processo di dissoluzione di tali rapporti particolaristici (7) Le relazioni di mercato sono anonime, generali e astratte; esse tendono a spersonalizzare tutti i rapporti sociali. L o studio del processo di razionalizzazione capitalistica può quindi fornire elementi esplicativi quanto alla sopravvivenza di rapporti diadici e in ispecie clientelari (8). D o p o il 1860, il primo compito della borghesia italiana era quello di creare u n mercato nazionale: compito tanto più urgente e necessario, in considerazione del basso grado di commercializzazione — intra- e interregionale — dell'economia italiana, particolarmente al Sud (9). La creazione di un tale mercato richiedeva a) l'espansione della rete di comunicazioni per facilitare la circolazione delle merci (10); b) la divisione sociale del lavoro (separazione dell'industria dall'agricoltura e specializzazione industriale), senza la quale non c'è stimolo allo scambio. A sua volta il processo b) implicava la trasformazione tanto della proprietà feudale che dei metodi feudali di conduzione agricola. Quest'ultima duplice trasformazione è avvenuta nel Mezzogiorno in modo molto incompleto. Vediamone rapidamente le ragioni (11). La nascita della classe media terriera è legata nel Sud alle leggi eversive della feudalità. Nel Mezzogiorno continentale, le leggi del 1806 (12) ed 7 Cf. B. M o o r e , Le origini sociali della dittatura e della democrazia, trad. it., Einaudi, Torino, 1969; K. Polanyi, La grande trasformazione, trad. it. Einaudi, Torino, 1974; E.J. H o b sbawm, G. Rude, Rivoluzione industriale e rivolta nelle campagne, trad. it., Editori Riu iti, Roma, 1973. 8. U n a prospettiva in parte simile distruzione dei residui feudali nel S u d come presupposto dello sviluppo si trova nel pensiero socialista a cavallo del secolo. Cfr. G. Are, "Alla ricerca di una filosofia dell'industrializzazione", in L'imprenditorialità italiana dopo l'Unità, Etas Kompass, M i l a n o , 1970, p. 50. 9. E. Sereni, Capitalismo e mercato nazionale, cit. 10. R. R o m e o , " L o sviluppo del capitalismo in Italia dal 1861 al 1887", in Risorgimento e capitalismo, cit. La rete stradale era particolarmente carente nel S u d (1863: 15.000 km. di strade contro 67.000 nel Centro-Nord). Ibid., p. 137. Cf. Relazione della Giunta parlamentare per l'inchiesta sulle condizioni della Sicilia, Eredi Botta, Roma, 1876. 11. La sezione che segue è basata soprattutto su Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1947), Einaudi, Torino, 1968. Cf. V. Castronovo, " L a storia economica", in Storia d'Italia, Einaudi, Torino, 1972-76, voi. 4, special, pp. 33-35; R. Zangheri, " L a mancata rivoluzione agraria nel Risorgimento e i problemi economici dell'Unità" in Studi gramsciani, Editori Riuniti, Roma, 1969, pp. 369-383. 12. Il testo della legge napoletana del 1806 è riportato in G. D e Rosa e A. Cestaro (a cura di), La questione meridionale. Antologia di scritti e documenti, Libreria Editrice Ferraro, N a poli, 1970. In Sicilia, l'abolizione formale del feudalesimo risale al 1812. In entrambi i casi fu determinante il ruolo di agenti esterni (Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat a N a p o li, pressioni del governo britannico in Sicilia).
116 altre successive divisero le terre feudali in due parti: una parte fu lasciata ai baroni in libera proprietà, il resto fu attribuito ai comuni come demanio comunale. Il demanio avrebbe dovuto essere diviso e assegnato in piccole quote ai contadini senza terra, a titolo di compenso per i diritti comunali (usi civici) sino allora esercitati dalle popolazioni sulle terre baronali. E ' noto che la divisione del demanio comunale, ha originato le lotte sociali più lunghe, diffuse e feroci di tutta la storia del Sud (13). Le rivendicazioni su queste terre svolsero un ruolo importante nello sviluppo del brigantaggio, la guerra contadina esplosa nel 1860, come pure in successivi tumulti contadini. In genere, i gruppi dominanti nei singoli comuni cercarono di procrastinare l'assegnazione di queste terre al fine di usurparle. Ouando i contadini effettivamente ricevevano piccoli appezzamenti erano ben presto costretti a alienarli per mancanza di capitali e a causa dell'usura. Come ha osservato Giustino Fortunato (14), leggi destinate a creare una piccola proprietà contadina finirono in realtà per accrescere il monopolio terriero dei medi e grandi possidenti. D i qui la duplice caratteristica della proprietà fondiaria nel Sud: a) parassitismo dei proprietari, più inclini ad ingrandire i loro possedimenti con la forza e l'inganno, che a migliorarli; b) incerta condizione legale e difetto di legittimità di gran parte delle terre ( 15). U n altro aspetto caratteristico della proprietà terriera borghese e della classe media nel Sud è il seguente: tale proprietà non si sviluppò a spese delle libere terre baronali. Anche dopo il 1860, quando la classe dominante volle compensare i galantuomini (classe media del Sud) per il ruolo svolto nel processo di unificazione nazionale, le terre che i galantuomini ricevettero non provenivano dalla proprietà semifeudale; provenivano essenzialmente dalla commercializzazione della manomorta (demanio comunale e statale, terre della Chiesa e di istituzioni religiose) (16). Le terre 13. Fortunato, " L a questione demaniale nell'Italia meridionale" (1879), in II Mezzogiorno e lo Stato italiano, cit., pp. 55-69; Sereni, Il capitalismo ecc., cit. Per lo studio di un caso (Sassano nella Valle di D i a n o ) cf. L. Cassesc, " U n a lega di resistenza di contadini nel 1860 e la questione demaniale in u n comune del Salernitano», in Scritti di storia meridionale, Pietro Laveglia Editore, Salerno, 1970. 14. Fortunato, " L a questione demaniale", cit., p. 64. 15. Turiello, Governo e governati in Italia, cit. vol. 1, pp. 3 11-312; cf. Il Sud nella storia d'Italia, a cura di R. Villa ri, Laterza, Bari, 1966, voi. 1, pp. 161 e segg. Caso "forse unico nella storia dell'Occidente europeo", nota Villari, nel M e z z o g i o r n o "la formazione della proprietà privata borghese n o n è mai stata accettata come u n fatto compiuto e definitivo" D i qui il carattere spesso "anacronistico" della lotta di classe nelle campagne meridionali. Ibid., p. 161. 16. Sereni ha calcolato che intorno al 1860-70 il patrimonio della manomorta rappresentava circa un sesto del totale delle terre italiane. Sereni, Il capitalismo ecc., cit., p. 136.
117 baronali furono risparmiate perché erano troppi " i nuovi proprietari borghesi che avevano, per via di acquisto o di usurpazione, preso il posto degli antichi conti e baroni" (17). Effetto non secondario di tale processo fu d'introdurre un elemento di coesione — l'anti-clericalismo — in una classe dirigente altrimenti molto frammentata (18). L'origine, cosi rapidamente descritta, della classe media e della borghesia terriera meridionale e la sopravvivenza di un'estesa proprietà baronale ebbero due effetti fondamentali: impedirono da un lato la nascita di una classe di contadini proprietari, e dall'altro contribuirono "potentemente a conservare a tutti i rapporti agrari e sociali nel Mezzogiorno un carattere ritardatario, semifeudale" (19). Sebbene questa fosse una caratteristica generale del Sud, è ragionevole attendersi che i rapporti sociali non fossero uniformemente "arretrati" in tutto il Mezzogiorno. Occorre quindi considerare possibili variazioni locali significative per una tipologia di rapporti clientelari all'interno del Sud. E ' possibile distinguere ai nostri fini due prevalenti modelli di relazioni sociali, il modello siciliano e il modello napoletano, a cui corrispondono due diversi tipi di strutture clientelari: clientela mafiosa e clientela napoletana. La Sicilia non aveva sperimentato gli effetti "modernizzanti" del dominio francese, come fu il caso del Mezzogiorno continentale dal 1805 al 1815. La prima legge eversiva della feudalità fu approvata in Sicilia nel 1812 in seguito a forti pressioni britanniche, ma legalmente il feudalismo non vi fu completamente abolito sino al 1838. Ancora nel 1860 la proprietà ex baronale, che comprendeva nove decimi di tutte le terre siciliane, era in gran parte indivisa. L'economia del feudo, come il latifondo continuava ad essere significativamente chiamato, conferiva alla struttura sociale siciliana un'organiz17. Ibid., pp. 135-136. S i può citare il caso dell'Agro romano, che Sereni ritiene "abbastanza rappresentativo" per l'intera Italia meridionale. Ibid., pp. 144-145. 1860 (%) Terre di proprietà nobiliare Manomorta Proprietà borghese
55 30 15
c. 1900
(%)
53 7 40
18. L. Sturzo, " I l M e z z o g i o r n o e la politica italiana" in D e Rosa e Cestaro, La questione meridionale, cit. pp. 235-291. 19. Sereni, Il capitalismo ecc., cit., p. 145. Per lungo tempo, le terre demaniali usurpate non vennero registrate nel catasto, esentando di fatto i possessori dal pagamento delle imposte. F u questo u n elemento di divisione della classe dirigente liberale, che creò non poche tensioni nei primi due decenni dell'Unità (questione della "perequazione fondiaria"). Carocci, Agostino Depretis, cit., pp. 428-439.
118 zazione ed una coesione assenti altrove nel Sud. Il Mezzogiorno continentale poteva, e può ancora essere definito, in termini gramsciani "una grande disgregazione sociale", in Sicilia non si poteva, invece, parlare in generale di disgregazione sociale, " m a gli elementi di organizzazione e di coesione... resta [vano] essenzialmente quelli dell'epoca della feudalità" (20). Poiché il feudo svolgeva un ruolo così importante nella società siciliana, è opportuno considerarne brevemente la struttura economica e sociale. La terra del feudo, era generalmente suddivisa in due parti. Il proprietario (o l'affittuario) si dedicava all'allevamento del bestiame e ad alcune coltivazioni specializzate (tipicamente olive e uva). La parte a coltura cerealicola veniva affittata in piccoli appezzamenti a contadini (borgesi) che coltivavano la terra con i propri attrezzi, necessariamente primitivi. Il borgese poteva poi a sua volta subaffittare a "piccoli mezzadri" Di qui le due prevalenti caratteristiche del feudo: ridotta funzione imprenditoriale del proprietario e bassissima produttività. Il padrone otteneva dal feudo anche un profitto capitalistico, ma soprattutto una rendita in natura, in denaro e in servizi personali dal borgese. Dopo il 1860, i proprietari presero sempre più a cedere l'intero feudo "a gabella" ad affittuari detti gabelloti. Il gabelloto svolgeva una funzione capitalistica maggiore del proprietario; il primo pagava al secondo una rendita generalmente in danaro e spesso coltivava più grandi estensioni di terra mediante lavoro salariato. Al contempo, il gabelloto viveva di estorsioni; egli approfittava della sua posizione strategica fra contadini e proprietari assenteisti, e costruiva le sue fortune sfruttando entrambi. Il gabelloto è pertanto il simbolo di quella imprenditorialità feudale che riassume l'incontro della Sicilia con il capitalismo (21). E' certo oltremodo significativo che il gabelloto, principale agente del capitalismo nelle campagne siciliane, sia stato al contempo il perno della nuova mafia, di una struttura cioè che incarna una concezione feudale (violenta, arbitraria, personale) del potere. In effetti, dopo il 1860 la mafia divenne sempre più lo strumento di una classe media in fieri. Mentre il gabelloto rappresentava la mafia rurale, si sviluppava una parallela mafia cittadina con funzioni d'intermediazione fra comunità locale e 20. Sereni, // capitalismo ecc., cit., p. 149. 21. S u i gabelloti cf. Schneider e Schneider, Culture and Politica! Economy in Western Sici/y, cit., cap. I V ; R. Gentile, " M a f i a e gabelloti in Sicilia; il Pci dai decreti G u l l o al lodo D e Gasperi" in Archivio storico per la Sicilia orientale, voi. 69 (1973), pp. 491-508. H.lì. Malefakis, Agrarian Reform and Peasant Revolution in Spain, Yale University Press, New Haven, 1970, descrive una figura di intermediario della Spagna del Sud, detto arrendador. che presenta analogie con il gabelloto. Ibid., pp. 88 ss.
119 Stato. Molto spesso, il mafioso cittadino era il figlio istruito di un gabelloto (22). Per completare questo rapido quadro del feudo, occorre dire della condizione del contadino. Il feudo era strutturato in mode rigidamente gerarchico. Gabelloti, soprastanti e campieri (guardie armate) vigilavano, usando spesso la forza, affinché il borgese onorasse i suoi obblighi contrattuali e consuetudinari. N o n soltanto gli obblighi contrattuali favorivano il padrone in misura esorbitante (23), ma soprattutto il loro contenuto era indeterminato e variabile, prestandosi quindi a molti abusi. E' importante notare che è proprio questa indeterminatezza di tutte le obbligazioni del contadino (non solo di quelle consuetudinarie), che assicura il margine di arbitrarietà di cui una classe dominante pre-capitalista abbi-
22. Sulla mafia e i ceti medi cfr. L. Franchetti, La Sicilia nel 1876, G. Barbera, Firenze, 1877; G. Mosca, Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare. Laterza, Bari, 1949; F.S. Romano, Storia della mafia, Mondadori, Verena, 1966. Cfr. inoltre E.J. Hobsbawn, / ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, trad. il., Einaudi, Torino, 1966 (sull'impatto dei nuovi rapporti capitalistici sulla mafìa); II. Hess, Mafia, trad. ìt., Lalerza, Bari, 1973; F Brancato, " L a mafìa nell'opinione pubblica e nelle inchieste dall'unità d'Italia al fascismo", in Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno mafioso al termine della V legislatura. Camera dei deputati, Roma, V Legislatura, Documento X X I I I n. 2-septies, 1972 (atti della C o m m i s sione parlamentare d'inchiesta sulla mafia in Sicilia). 23. All'interno del feudo, i due contratti tipici erano il terratico e la metateria. In entrambi l'affitto era pagato in natura. La quantità di grano corrisposta al conduttore dipendeva, nel primo caso, dalla quantità di terra data in affitto, era invece proporzionale al raccolto nel secondo (due terzi nella metateria). Cfr. J.S. M a c D o n a l d , "Agricullural Organization, Migralion and Labcur Militancy in Rural Italy" The Economie flisto/y Review, voi. 16 (1963), pp. 61-75. U n quadro delle mediazioni che ancora nel secondo dopoguerra gravavano sul contadino siciliano, può desumersi dalla seguente descrizione: "è accaduto che in molti casi il gabelloto sia stato tentato di imitare il padrone; si è scelto così il suo 'picciotto d'onore' che gli garantisse una rendita sufficiente al suo benessere ed al versamento delle quote al feudatario e s'è chiuso a sua volta in un palazzotto di Palermo... Il subgabelloto... sempre al fine di non occuparsi eccessivamente di questioni tecniche ed amministrative affida ad un 'grosso mezzadro' la terra. In questo caso il primo gabelloto assume la denominazione di 'compagno padrone' Tra il subgabelloto e il grande mezzadro che viene chiamato 'borgese' (borghese) il rapporto economico fondamentale è la divisione dei prodotti a metà... Il grande mezzadro... concede a sua volta la terra ai 'piccoli mezzadri' a queste condizioni: il 50 per cento dei prodotti deve passare in blocco al subgabelloto più il 25 per cento che tiene per se. Al piccolo mezzadro resta ordinariamente un quarto della produzione. S u questo quarto... gravano poi i 'pedaggi' che sono innumerevoli e vanno dal diritto di pascolare il gregge in una data zona, al pagamento del diritto di percorrere una certa strada, al pedaggio più comune detto di camperia che consiste nel pagare da tre a quattro tumuli di grano per ettaro ai campieri, ai pedaggi sull'acqua... N. Carlesi, " U n a catena di servitù medievali grava sui contadini della Sicilia", in L'Unità della Sicilia, 23 novembre 1949, cit. da Gentile, " M a f i a e gabelloti", cit., p. 505.
120 sogna per perpetuare il proprio ruolo parassitario e di dominio. Il carattere semifeudale della Sicilia e del Sud in genere, è attestato dal fatto che il Mezzogiorno poteva, e in una certa misura può ancora essere considerato una società pre-contrattuale (vedi Parte III). I contadini erano inoltre soggetti a obblighi consuetudinari di origine feudale detti angherie (24). Anche qui, l'elemento vessatorio non consisteva soltanto nella pesantezza delle imposizioni, ma nell'"incertezza, varietà e mutabilità continua" delle stesse (25), in una parola nell'arbitrarietà dei rapporti economici e sociali. Il contadino si sentiva alla mercé della volontà altrui e di accadimenti su cui non aveva alcun potere, di gabelloti " b u o n i " o esosi, di campieri più o meno spietati e così via. Occorre aggiungere che la natura dei raccolti del feudo, prevalentemente cerealicoli, e altri fattori di tecnica agraria (maggese) contribuivano ad accentuare la dipendenza del borgese e del contadino. Il grano veniva raccolto una volta all'anno e in attesa della mietitura successiva, il contadino era spesso costretto a prendere a prestito denaro dall'usuraio o grano dal padrone. In quest'ultimo caso, il meno oneroso dei due, gli interessi spesso ammontavano al 25 per cento (26). In questo tipo di società, dove non esiste alcuna nozione di bene comune e la violenza è la fondamentale regola del gioco i rapporti di dipendenza tendono ad essere molto personalizzati e altamente "morali": rapporti di lealtà, solidarietà "verticale" e omertà. Non vi è contraddizione fra la violenza che permea il clientelismo siciliano e l'accentuato paternalismo che lo caratterizza. In effetti, quando lo squilibrio di potere é grande, e il cliente è socialmente isolato, una relazione fortemente affettiva è il miglior mezzo per mitigare il rigore di scambi ineguali. La deferenza che questo rapporto genera può peraltro divenire col tempo un meccanismo culturale compensativo che perpetua questa stessa ineguaglianza di reciprocità (27). In Sicilia, la fondamentale risorsa del patrono era il controllo diretto della terra. Gli stessi intermediari nelle città provenivano dalla classe media terriera. C o n il progredire dell'integrazione dell'isola nella struttu-
24. Esempi di diritti angarici erano il diritto di messa (tassa pagata al prete che andava a dir messa sul feudo); diritto di "cuccia e del maccherone" (diritto del campiere ad essere ospitalo e nutrito dal contadino); jus primae noctis. 25. P Vii la ri, La Sicilia e il socialismo, Treves, M i l a n o , 1896, p. 69. 25. Ibid. Un'usura ancora peggiore era praticata ai danni dei minatori nelle miniere di zolfo. Ibid., pp. 13-14. 27. A. Gouldner, " T h e N o r m of Reciprocily: A Preliminary Statement", Americ n Sociologica/Review, voi. X X V (1960), n. 6.
121 ra burocratica dello Stato unitario, i contatti con la burocrazia e l'abilità professionale presero sempre più il posto della terra come risorsa di patronato, facendo dei titolari di tali risorse, soprattutto professionisti e ayvocati, i patroni più potenti. I clienti, dal canto loro, offrivano essenzialmente lavoro e servizi personali, occasionalmente l'assistenza fisica necessaria nelle dispute fra fazioni; essi mostravano la deferenza che ci si attende dai subordinati. Infine, i rapporti clientelari si presentavano nell' isola in modo relativamente stabile. Avuto riguardo all'organizzazione generale del sistema, non era necessario creare in Sicilia un'apposita rete clientelare; un tale sistema era, per cosi dire, "spontaneamente" suggerito dalla struttura economica e sociale dell'isola e da una cultura regionale in gran parte antagonistica a quella nazionale. Turiello ha notato, al riguardo, che il primo istinto del napoletano è di abusare della legge, laddove il siciliano disprezza una legge che non riconosce sua. Nel Sud continentale l'impulso a volgere la legge a proprio vantaggio, "crea il bisogno di legami speciali, di camorre in basso, di clientele più in alto" (28). In Sicilia, la mafia forniva sia il codice morale che l'organizzazione sociale necessari per mantenere in vita una rete di rapporti clientelari. In altri termini, la mafia appare come la forma specifica della clientela tradizionale siciliana. Se rivolgiamo ora la nostra attenzione al Mezzogiorno continentale, i termini del problema mutano considerevolmente. In genere, la disintegrazione del sistema feudale procedette sul continente ben più rapidamente che in Sicilia. La divisione del demanio comunale, la commercializzazione della manomorta ed una maggiore erosione della proprietà ex-baronale da parte della classe media in ascesa, avevano comportato una più spinta commercializzazione dell'economia ed una più diversificata stratificazione sociale. Il contadino si presentava con maggiore frequenza sul mercato, il feudo non era un'unità così autosufficiente come in Sicilia, le rendite erano pagate spesso in denaro, la propensione a investire più diffusa. Nel Mezzogiorno continentale, oltre ai proprietari ex feudali, si riscontrava una classe importante di ricchi proprietari borghesi, nonché una classe di contadini benestanti (massari) che coltivavano ampie tenute con lavoro salariato e che praticavano spesso l'usura nei confronti dei contadini poveri. Come ha notato Sereni, l'usura in denaro (distinta dall'usura in natura praticata da gabelloti e proprietari in Sicilia) è stata " u n o dei più potenti agenti di disgregazione e di differenziazione della massa contadina" nel Sud continentale. La classe media era più numerosa e social28. Turiello, Governo e governali
in Italia, cit., voi. 1, p. 244.
122 mente importante che in Sicilia; molti suoi membri, in quanto amministratori locali, avevano reso possibile l'usurpazione delle terre demaniali, ricevendone una parte in proprio. Questa classe, formata soprattutto da liberi professionisti, controllava molte amministrazioni locali e istituzioni di beneficienza, svolgendo in tal modo un fondamentale ruolo politico (vedi oltre). C'era infine la massa dei contadini, legata alla terra da una grande varietà di contratti e privi, come classe, di coesione interna. Comparato alla rete della clientela mafiosa, il sistema clientelare sul continente fungeva meno da "sistema di sopravvivenza" che come mezzo per mitigare l'estrema povertà di vita associativa nel Sud. Come già accennato, alcuni dei problemi fondamentali del Mezzogiorno continentale derivavano dalla "disgregazione" della società civile. Turiello ha ripetutamente sottolineato l'"eccessiva scioltezza" dei meridionali e l'assenza nel S u d di vincoli morali al di fuori della famiglia, e considerava la clientela come il rimedio specifico per una società disarticolata. Le clientele, egli scrisse, sono " i soli sodalizi che nel fatto mostrano vera energia operativa in un ambiente civile così disciolto da secoli; ed in cui si direbbe che non sia più nessun consorzio civile che non si risenta sforzato" (29). Nel Sud continentale il ruolo di mediazione era svolto essenzialmente dalla borghesia intellettuale (30), il cui potere derivava, in particolare, dal controllo delle risorse municipali. Contatti personali e abilità professionale consentivano inoltre a questa classe di fungere da indispensabile cerniera fra comunità locale e società nazionale (31). Diversamente dal modello siciliano, i rapporti clientelari erano più instabili e strumentali, e la coercizione svolgeva un ruolo minore. Il cliente offriva essenzialmente lavoro 29. Ibid., p. 148. In Turiello troviamo anche un'interessante teorizzazione della clientela in rapporto allo sviluppo. " L a clientela, naturale transizione dagli infimi legami della camorra e della mafia a quelli nobilissimi del partito politico egli scrive (ibid., pp. 255-256) è la forma nella quale riapparisce il periodo feudale, per quel che non è esaurito delle condizioni e necessità sue, nelle convivenze italiane meno progredite e più disciolte. D o v e la legge sola troncò i rami della feudalità e del governo assoluto, e dove si riforma molto lentamente il costume, quivi rimane un grande intervallo di anarchia tra l'azione limitata dello Stato e quella prepotente degli individui; quel campo che dovrebbe essere occupato da organismi cordiali, dalla disciplina del costume e degli interessi" E' appunto questo lato fra campo dell'attività statale e azione sociale organizzata, che costituisce il terreno ideale per lo sviluppo delle clientele. 30. A. Gramsci, " A l c u n i temi della questione meridionale", in La questione meridionale. Editori Riuniti, Roma, 1970, p. 152; Dors o " L a classe dirigente meridionale", cit. 31. S. Silverman, "Patroni tradizionali come mediatori fra comunità e nazione", in Clientelismo e mutamento politico, cit. Il ruolo e le prepotenze di questi notabili sono stati magistralmente descritti da Silone in Fontamaro.
123 e altri servizi al proprietario, accrescendo con la propria deferenza e lealtà il credito del patrono. Il cliente dava infine appoggio politico agli amministratori, specie in tempo di elezioni.
2. Impatto dello Stato sullo sviluppo delle clientele locali e politiche Tenuto conto della concezione e della pratica "totalitaria" del potere proprie di una società semifeudale, non è difficile immaginare gli effetti prodotti nel Sud dall'introduzione di istituti di autonomia locale (32). A l comune lo Stato unitario riconobbe importanti competenze in molti settori amministrativi (strade, scuole, istituti di beneficienza, demanio comunale, ecc.). Il potere, condiviso in epoca borbonica da notabili locali e funzionari regi, venne ad essere largamente concentrato nelle mani del sindaco. D i conseguenza, la posta in gioco nella lotta per il controllo dei municipi si accrebbe notevolmente. All'interno dei comuni, la classe media e la borghesia esercitavano u n potere pressoché incontrastato nella certezza che lo Stato non voleva e non poteva intervenire. I prefetti erano più impegnati nella politica elettorale che interessati alla buona amministrazione dei comuni. Poiché essi (prefetti) dovevano contare sull'influenza dei notabili locali per l'elezione di deputati "ministeriali", l'amministrazione locale si svolgeva senza seri controlli. In queste condizioni, non sorprende che il comune divenisse centro di ogni sorta di abusi, dalle iniquità fiscali più gravi alle usurpazioni del demanio pubblico e alla manomissione dei fondi destinati agli istituti di beneficienza (33). Fra le molte testimonianze della degenerazione della lotta politica a livello locale, è particolarmente significativa quella di Marco Minghetti, attento studioso e statista. Nelle province e nei comuni, specie in quelli 32. La solidarietà politica, base dei moderni partiti, sembrava estranea a una società nella quale, "fuori la famiglia, n o n trovi quasi altri legami morali: ma invece caratteri solitari... e gruppi d'associati per necessità, n o n per fiducia, e però distinti sempre in protettori e protetti La clientela n o n si piega poi agli ordini nuovi, al C o m u n e e allo Stato... ma piuttosto si veste di questi istituti, nuovi e quasi artificiosi nel M e z z o g i o r n o , e ne abusa essa a suo prò, talora senza accorgersene" Turiello, Governo e governati in Italia, cit., voi. 1, pp. 147-148. 33. Oltre ai lavori di Turiello, Franchetti e D o r s o già citali, si veda: Fortunato. Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, cit., pp. 27-36 (politica dei monti frumentari) e 261-283; Carocci, Agostino Depretis, cit., cap. VIII (politica fiscale nei c o m u n i meridionali raffrontata a quella nel Nord); Minghetti, I partiti politici, cit.; I socialisti al commissario civile per la Sicilia. Memorandum (1896), in Villari, Il Sud nella storia d'Italia, cit., pp. 249-269.
124 meridionali, scriveva Minghetti (34), il partito vincitore occupa il Municipio, la Provincia, i Consigli direttivi delle opere pie, delle scuole, e talvolta anche degli istituti di credito, escludendone interamente i suoi oppositori; e quivi scapestra a suo libito. Le tasse sono votate nell'interesse del partito trionfante, e la sproporzione che si vede in qualche luogo fra imposte dirette e le indirette n'è argomento manifesto. Le rendite del Municipio alimentano i parenti e gli amici: dandosi loro gli appalti delle opere pubbliche. La polizia essendo in mano del sindaco, i certificati di buona condotta, le informazioni al pretore per le ammonizioni, i provvedimenti urgenti di sicurezza e di igiene, servono al partito. La lista elettorale è compilata nell'intento di iscrivervi i nomi dei partigiani, e di cancellarne gli avversari. Se altri ricorre, la sentenza della Corte d'Appello che ne ordina la rettificazione, spesso arriva tardi o ad elezioni già fatte.
L'introduzione nell'arena politica locale di nuove risorse ebbe due effetti sul sistema clientelare. Il primo fu d'intensificare grandemente la lotta per la conquista del potere locale. Tale potere non era più ricercato come strumento per affermare una superiorità feudale, ma come mezzo di arricchimento per una classe media in ascesa. In assenza di qualsiasi nozione del municipio come istituto creato per il bene collettivo, e di un concetto di vantaggio comune condiviso dai gruppi organizzati della piccola classe dominante, la lotta politica doveva necessariamente assumere la forma di lotta fra fazioni clientelari. La concezione "totalitaria" del potere faceva sì che l'unirsi ad una clientela fosse l'unico rimedio all' esercizio discriminatorio dell'autorità. Il secondo effetto, in apparente contraddizione col primo, fu un notevole restringimento della rete clientelare. Anche se è difficile addurre prove in merito, ritengo che ciò avvenne per due ragioni. Da un lato, dopo il 1860 i rapporti di forza fra galantuomini e contadini mutarono in modo così radicale a vantaggio dei primi, da lasciare probabilmente ben poca reciprocità nei loro mutui rapporti. L'introduzione di un suffragio elettorale amministrativo ristretto ad una piccola minoranza, contribuì ad alterare l'equilibrio (35). D'altro canto, la nuova classe media al potere godeva di una legittimità molto limitata agli occhi dei 34. Minghetti, I paniti politici, cit. Analoga descrizione in Dorso, La rivoluzione le, cit., pp. 118-119.
meridiona-
La lotta politica nelle regioni del N o r d aveva, almeno in parte, connotati diversi, svolgendosi fra gruppi più organizzati e meno particolaristici. Anche il sistema delle imposte locali era diverso. Le sovrimposte comunali, istituite per finanziare lavori pubblici, erano più alte al N o r d , mentre l'opposto valeva per le imposte indirette. Cfr. Carocci, Agostino Depretis, cit., pp. 471, 510-515; Procacci, La lotta di classe Italia, cit. 35. Nel 1889 l'ufficio di sindaco, sino allora di nomina statale, fu reso elettivo nei comuni più grandi. Nel 1896 l'elettività fu estesa a tutti i comuni. Fu pure reso elettivo l'ufficio di presidente della deputazione provinciale. Cfr. Roteili, " G o v e r n o centrale e governo locale
125 contadini, che ora potevano imputare direttamente agli amministratori, vecchi e nuovi abusi. L ' o d i o prima avvertito nei confronti di una distante autorità centrale, odio peraltro mitigato dal paternalismo dei Borboni veniva ora concentrato sulla nuova classe dominante locale (36). Prova indiretta del ridimensionamento della rete clientelare può essere considerato il parallelo aumento di forme violente di lotta sociale: camorra, brigantaggio e altri tipi di comportamento anomico (incendi di boschi e di archivi comunali, assalti a municipi, ecc.) (37). N o n solo clientela, camorra e brigantaggio sembrano tutti derivare da una stessa fondamentale realtà — disgregazione sociale e mancanza di disciplina degli interessi privati —, ma possono essere considerati, insieme all'emigrazione (38), mezzi alternativi a cui le classi subalterne possono far ricorso per mitigare la propria miseria. Le stesse condizioni che davano luogo a questo tipo "totalitario" di politica a livello locale, producevano una certa immagine del governo e del suo ruolo. Leopoldo Franchetti ha notato, a questo riguardo, che in Sicilia "ognuno istintivamente e sinceramente considera l'autorità pubblica in tutte le sue manifestazioni come una forza brutale alleata o nemica dell'una o dell'altra persona, per tutti i suoi fini buoni o cattivi". Similmente, Turiello ha scritto di una "barbarica intolleranza" nel Sud per l'impero legale ed impersonale dello Stato. N o n sorprende quindi che le classi dominanti meridionali chiedessero allo Stato lo stesso tipo di protezione (parziale, violenta, arbitraria) già esercitata dalla mafia (39). Questa nell'età della Sinistra", ci!., pp. 12-12. A ciò va aggiunta la crescente concentrazione della ricchezza. In particolare, gli affitti delle terre aumentarono in m o d o considerevole, come riflesso dello sviluppo generale dell'agricoltura (1860-1880), giungendo nel S u d a raddoppiare (Napoli) o a triplicare (Bari). Romeo, " L o sviluppo del capitalismo in Italia" cit., pp. 118120. 36. E ' plausibile che molti condividessero il giudizio di un contadino riportato da Turiello: "Sotto Franceschiello stava meglio la povera gente. Quest'altro re Vittorio Emanuele] venne e si chiamò Re galantuomo, perché i galantuomini l'han voluto per Re loro. Ora il C o m u n e è roba loro: questi boschi se l'affittano tra loro: prima ce ne potevamo servire tutti senza pagare, ed ora guai a pigliarvi un po' di legna" Turiello, Governo e governati, cit. voi. l,p. 362. 37. Cfr. I- Molfese, Storia del brigantaggio dopo l'Unità, Feltrinelli, Milano, 1964. 38. M a c D o n a l d , "Agricultural Organization, Migration and Labour Militancy", cit. Secondo questo A., esiste una significativa correlazione tra tasso di emigrazione e grado di organizzazione e militanza dei contadini. Regioni povere, come la Puglia, ma ricche di movimenti organizzati, hanno dato un contributo nettamente minore all'emigrazione di altre regioni. L o stesso vale per l'Italia centrale. Ibid., p. 62. Cfr. Malefakis, Agrari n Reform and Peasant Revolution in Spain, cit., p. 105, per una conferma della stessa tesi. 39. Cf. Villari. Il Sud nella storia d'Italia, cit., special, pp. 312-313, e più in generale sul pro-
126 concezione dello Stato spiega la tendenza delle clientele locali a trasformarsi in clientele politiche e a "privatizzare" lo Stato secondo la logica che le caratterizza. Tale "conquista" dello Stato fu cosa fatta nel 1876. La vittoria parlamentare e elettorale delia Sinistra (vedi sopra) fu anche la vittoria delle clientele sui partiti, una sorta di "rivincita" del Sud inorganico su un Nord socialmente più strutturato. Come è stato messo in luce più sopra, in termini di composizione di classe, la Sinistra non rappresentava interessi diversi dalla Destra, ma piuttosto le istanze di mutamento di élites sino allora escluse dal potere. Dopo pochi anni, questa stessa omogeneità fra i due partiti e i forti timori sollevati dall'ingresso di nuove masse nello Stato (vedi sopra), portarono al trasformismo, che può considerarsi l'aspetto parlamentare del clientelismo. Graficamente la struttura clientelare del sistema politico italiano dopo il 1876 può rappresentarsi come in fig. 1. I grandi elettori erano di tre tipi (40): 1) prefetti; 2) grandi elettori individuali (proprietari fondiari e grandi affittuari nelle campagne; liberi professionisti, capitalisti e persone di censo nelle città); 3) associazioni politiche. Queste ultime operavano principalmente nelle città ed erano organizzate da persone che pur avendo " u n certo valore elettorale" (Mosca) non ne avevano abbastanza per agire individualmente come patroni. Erano strutturate in modo gerarchico e composte in genere da lavoratori che barattavano il proprio voto con servizi loro resi o promessi dai capi. Le difficoltà incontrate nel Sud per organizzare strutture associative di qualsiasi tipo, l'evidente vantaggio di chi controllava un centinaio di voti e la forza delle ben coese strutture tradizionali di potere facevano si che le associazioni politiche fossero non raramente espressione della mafia e della camorra (41). I deputati provinciali costituivano un anello essenziale nel sistema clientelare dell'Italia liberale. Alle deputazioni provinciali competeva in particolare la supervisione dei comuni e delle istituzioni di beneficienza. Esse controllavano inoltre ingenti fondi per lavori pubblici ed erano, come tali, importanti centri di patronage. In ciascuna provincia c'era in genere un patrono che controllava la rete provinciale di clientele (42). blema dei rapporti fra problema meridionale e centralismo dello Stato E. Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell'Italia unita, Laterza, Bari, 1967; R. RulTilli, La questione regionale, G i ù fi ré, M i l a n o , 1971. 40. M o s c a , Teorica dei governi e governo parlamentare (1884), Giuffré, M i l a n o , 1968. 41. Ibid. 42. Fra numerosi altri esempi si può citare quello di un prefetto sotto Depretis che definiva la Deputazione provinciale di Caltanisetta "centro direttivo di tutte le lotte e... supremo dispensatore di tutti i favori". Citato da Carocci, Agostino Depretis, cit., p. 477.
127
Fig. 1 - Struttura clientelare del regime parlamentare liberale
Dal canto suo il deputato del parlamento, col tempo sempre più svincolato dalla disciplina di partito, fungeva da elemento centrale dell'intero sistema. Le "piramidi" clientelari costituenti tale sistema facevano capo a deputati che rappresentavano interessi e richieste ad altri, più potenti parlamentari. I deputati avevano infatti accesso al governo in misura disuguale e tendevano a gravitare intorno ai più influenti fra i loro colleghi. I ministri, scelti fra questi ultimi, compensavano l'appoggio dei deputati-clienti fornendo servizi di natura invariabilmente particolaristica; questo perché il parlamentare non aggregava le domande di molti elettori, ma essenzialmente quelle dei suoi grandi elettori. I quali, a loro volta, erano interessati solo a quei servizi che si prestassero ad accrescere la propria influenza personale, e "grati" solo per i benefici direttamente imputabili all'intervento di un deputato. L'assenza, in società clientelari di una diffusa consapevolezza d'interessi comuni si traduce in disinteresse per i beni collettivi, in quanto beni improduttivi in termini d'influenza politica (vedi sopra, Parte 1, cap. 1 ). La natura particolaristica degli incentivi che consentono al sistema di funzionare esigeva che i ministri disponessero di ricompense e sanzioni anch'esse di natura particolaristica; il capo di un ministero doveva essere cioè il più libero possibile da norme burocratiche di comportamento. Questa esigenza funzionale è confermata dall'enorme discrezionalità, legalmente e di fatto riconosciuta ai ministri in materia di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione. Mosca notava al riguardo che " i l Ministro è l'arbitro assoluto di tutto quanto può sperare di bene o temer
128 di male un povero funzionario dello Stato" (43). Quanto al funzionamento della burocrazia, la conseguenza fu che l'amministrazione statale divenne sempre più simile a un gigantesco spoils system a beneficio delle clientele politiche. Migliaia di pubblici impieghi, l'aggiudicazione dei lavori pubblici, le condizioni dei contratti conclusi dallo Stato, la concessione di onorificenze, diventarono altrettante merci in questo colossale mercato. Col tempo, quasi tutte le funzioni statali vennero ad essere assolte con parzialità, compreso l'amministrazione della giustizia, l'imposizione fiscale e il servizio militare (44). A l fine di porre un limite al potere dei deputati, il governo ricorreva ai prefetti nella loro qualità di grandi elettori. Il ruolo fondamentale delle autorità governative locali nella manipolazione delle elezioni è troppo noto per essere discusso in questa sede (45). Cosi operando, i prefetti svolgevano una funzione essenziale nel ristabilimento di una sorta di equilibrio di potere fra deputati e governo. I deputati creavano il governo al quale spesso imponevano la loro volontà, il governo reagiva creando a sua volta un certo numero di deputati "ministeriali" (46). Il ruolo svolto dal prefetto nel funzionamento del regime parlamentare liberale può essere considerato come il simbolo di un metodo di governo particolaristico e arbitrario che tende a perpetuarsi. N o n ci si trova di fronte ad un sistema che genera stabilità in un contesto di mutamento, ma ad un sistema che produce stabilità in un contesto d'immobilismo. D i tale sistema Gaetano Mosca sottolineava "l'inerzia" e Turiello "l'immobilismo amministrativo", immobilismo dovuto alle influenze contrastanti di notabili uniti dal solo interesse di conservare un potere esclusivo il più a lungo possibile. 43. Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare, cit. M o s c a metteva l'accento sulla "irresponsabilità burocratica" di funzionari che erano "puri strumenti" nelle mani dei ministri. La stessa mancanza di garanzie valeva, in larga misura, per la magistratura. Cfr. M . Torraca. Politica e morale, cit.; G. Mirabelli, L'inamovibilità della Magistratura nel Regno d'Italia Considerazioni. Tipi di Salvatore Marchese, 1876; M . S . Giannini, "Parlamento e amministrazione" Amministrazione civile, aprile-agosto 1961, pp. 151-159; G. Maranini, Storia del potere in Italia, Firenze, Vallecchi, 1967. cap. VI. 44. Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare, passim. La testimonianza di Crispi (1886) concorda con la descrizione di Mosca: "Bisognerebbe vedere il pandemonio di M o n tecitorio quando si avvicina il momento di una solenne votazione. Gli agenti del Ministero corrono per le sale e per i corridoi, onde accaparrare voti. Sussidi, decorazioni, canali, ponti, strade, tutto si promette; e talora un atto di giustizia, lungamente negato, è il prezzo del voto parlamentare Citato da Cilibrizzi, Storia Parlamentare ecc., cit., p. 290. 45. Oltre agli studi classici di Salvemini e Mosca , si veda R.C. Fried, Il prefetto in Italia, cit. e da ultimo Rotelli, " G o v e r n o centrale e governo locale nell'età della Sinistra", cit. 46. Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare, cit., passim; A. Caracciolo, Stato e società civile. Problemi dell'unificazione italiana, Einaudi, Torino, 1960.
Parte terza RAPPORTI C L I E N T E L A R I IN UNA CITTA' M E R I D I O N A L E
INTRODUZIONE
L o studio empirico dei rapporti clientelari, di cui le due prime parti di questo lavoro devono considerarsi momento propedeutico, è stato condotto in una città del Salernitano nel corso del periodo 1970-74 (1). Situata al limite settentrionale della Piana del Sele (o Piana di Salerno), la città, che chiamerò Corvino (2), partecipa delle caratteristiche che fanno della Piana del Sele una delle zone più prospere del Salernitano, la " p o l p a " della provincia, insieme all'Agro nocerino-sarnese. S i tratta di un comprensorio in gran parte agricolo, che ha conosciuto uno sviluppo in senso capitalistico nettamente superiore sia alle "aree interne" della provincia e della regione campana (Cilento, Irpinia, ecc.), che alle aree classiche del latifondo meridionale (Sicilia, Calabria). Come tale, si presta bene allo studio di rapporti che abbiamo visto essere strettamente connessi all'evoluzione del mercato capitalistico (v. Parte I e Parte II, cap. 3).
La Piana del Sele. Comunità "rappresentativa" e comunità "significativa" La scelta di Corvino come luogo dell'indagine è stata dettata anzitutto da quelle esigenze pratiche (accessibilità, dimensione, ecc.) che costituiscono uno dei vincoli degli studi di comunità, soprattutto di ricerche ad opera di singoli studiosi. All'interno di questi limiti, si è naturalmente cercato d'individuare una comunità-città che apparisse signifi1. Si è trattato di un periodo continuativo di "osservazione partecipante" durato sette mesi (settembre 1970-marzo 1971) e di visite effettuate nel corso del 1972 e 1974. . Corvino, circa 17.000 abitanti, è situato lungo la fascia costiera a sud di Salerno.
132 cativa in rapporto al problema oggetto di studio. U n primo elemento emergeva dalla stessa storia politica del Comune^ che aveva conosciuto, in momenti successivi, il dominio "notabiliare" di un'influente famiglia locale, fenomeni di bossismo ad opera di un politico Dc e, a partire dal 1 9 7 0 , un'amministrazione retta da un Sindaco comunista, solo esempio nel Salernitano, a quel tempo, di amministrazione di sinistra. Come mutano i rapporti di consenso e di dominio al mutare del tipo e del colore della rappresentanza politica? Come incidono tali rapporti, di natura prevalentemente clientelare, su un "partito del mutamento" come il Pci, una volta giunto al potere? Tali domande nascevano spontanee dalle vicende amministrative del Comune, e tali vicende consentivano di dare una prima risposta, circoscritta ma precisa. A questa ragione se ne affiancherà, nel corso del lavoro, una seconda, di natura più propriamente metodologica, che attiene al "significato" della comunità studiata nel più ampio contesto meridionale. Detto in breve: nella misura in cui si costatava, nel caso prescelto, una certa diffusione di strutture capitalistiche, ciò avrebbe dovuto di tanto ridurre presenza e ruolo del clientelismo, per la già rilevata antinomia fra rapporti capitalistici e rapporti clientelari (v. sopra Parte II, cap. 3). Se i rapporti di clientela emergono invece come decisivi, come risulterà essere il caso di Corvino, ciò dovrebbe valere a maggior ragione per altre aree meno sviluppate capitalisticamente. E ' questa un'applicazione, necessariamente approssimativa (3), del procedimento noto nella letteratura come crucial case analysis (4); procedimento che consente di aggirare il problema, altrimenti insolubile, della "rappresentatività" dell'universo studiato, quando il numero dei casi presi in esame è piccolo o si riduce a uno. Ciò mi porta a dire, brevemente, degli aspetti strutturali generali e dei rapporti agrari nella Piana del Sele (5). 3. Applicazione approssimativa, perche è difficile stabilire con precisione il grado di sviluppo capitalistico di un'area specifica. Il metodo vorrebbe che si fosse scelta una comunità le cui condizioni fossero tali da minimizzare le chances di presenza del fenomeno studiato; nel nostro caso, una comunità (A) caratterizzata da rapporti "integralmente" capitalistici, per poi dar corso al ragionamento: se la politica di (A) è di tipo clientelare, la politica di altre comunità meno sviluppate capitalisticamente sarà a fortiori clientelare (per quanto dipende dal mercato). 4. Cfr. II. Eckstein, "Case Study and Theory in Politicai Science", in Handbook of Politicai Science-VIl, a cura di F.I. Greenstein e N . W Polsby, Addison-Wesley, Reading (Mass.), 1975, pp. 96-123. 5. Cf. S. Alinovi, Problema contadino e lotte per la terra nel Salernitano (1943-1953), Laveglia, Salerno, 1 9 7 5 ; A A . W . , Mezzogiorno e fascismo, 2 voli., a cura di P Laveglia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1978, soprattutto i saggi di P. Villani e S. Levrero.
133 Per assetto produttivo, struttura fondiaria e tipo di contratti agrari, l'area considerata ha caratteristiche che la distinguono tanto dall'economia del latifondo quanto dalle zone a più spiccato sviluppo capitalistico (Puglia ecc.). Si tratta di un'area segnata dalle profonde trasformazioni connesse alla bonifica integrale del periodo fascista (bonifica del Sele), ma in cui coesistono latifondo e proprietà parcellare, moderne aziende capitalistiche e forme primitive di reclutamento jbracciantile, colture industriali (tabacco, pomodoro, prodotti ortofrutticoli) e colture arcaico-speculative (terre a bufala). La bonifica e la riforma agraria dell'inizio degli anni Cinquanta hanno certo favorito l'evoluzione in senso capitalistico dell'agricoltura silentina v ma ciò non ha eliminato, come vedremo, caratteristiche e rapporti arcaici, in un intreccio di forme capitalistiche e residui feudali che è il connotato più tipico della zona in parola. L a struttura della proprietà fondiaria nel comprensorio del Sele prima e dopo la riforma agraria (v. tab. 1), evidenzia una prima caratteristica di fondo: l'importanza della grande proprietà (oltre 100 ha.), a cui fa riscontro una diffusa proprietà parcellare. Le proprietà di oltre 100 ha. sono state ridimensionate, in numero e superficie occupata, dalla legge stralcio di riforma agraria (6), ma rappresentano pur sempre il 40 per cento del comprensorio. Per contro, e in parte per effetto della concentrazione della proprietà, si è ulteriormente espansa la piccola e piccolissima proprietà, che aveva già conosciuto un grande sviluppo sotto il fascismo (c.d. processo di contadinizzazione) (7). Nel '54, oltre il 65 per cento delle aziende del comprensorio non superava 1 ha. di estensione; aggiungendovi quelle con superficie fino a 10 ha. si arriva a oltre il 90 per cento del numero delle aziende (20 per cento della superficie del comprensorio). Il punto da sottolineare, in proposito, è che si tratta nella grande maggioranza dei casi di aziende non autosufficienti, al di fuori delle ristrette plaghe dotate dei terreni più fertili e irrigui (es. Agro nocerino). Questa caratteristica della proprietà contadina spiega perché il piccolo proprietario sia in genere costretto a svolgere altri lavori, che in In forza della Legge-stralcio, nella Piana del Sele sono stati distribuiti 1.727 poderi a altrettante famiglie contadine, per un totale di 8.376 ettari (circa 5 ha. per podere). I comuni interessati furono 9, fra cui Corvino. C o n i successivi provvedimenti per la formazione della piccola proprietà contadina, si giunge a circa 15.000 ettari. (T. Alinovi, Problema contadino, cit., pp. 115-117, 141; G.E. Marciani, " L ' e v o l u z i o n e del regime fondiario alla Piana del Sele", Il Picentino, settembre 1959. 7 Villani, " L a provincia di Salerno: società e politica, 1924-1950", in Mezzogiorno e fasci, cit., vol. 1, p. 256.
134 Tab. 1
Struttura della proprietà fondiaria. Piana del Sele (1939-54) 1939 N. aziende
1954 Superficie
N. aziende
Superficie
Fino a
1 ha
57%
3,28%
65,62%
4,49%
Fino a
10 ha
33%
12,84%
26,57%
16,92%
Fino a 50 ha
9%
19,35%
5,77%
23,26%
10,01%.
1,14%
15,16%
54,52%
0,87%
40,11%
Fino a 100 ha Oltre
100 ha
1%
Fonte: Consorzio di bonifica in Destra del Sele, cit. da S. Alinovi, Problema contadino e lotte per la terra nel salernitano (1943-1935), P. Laveglia Editore, Salerno, 1975, p. 161.
campo agricolo vanno dall'affitto a varie forme di compartecipazione, e l'importanza delle figure miste (proprietari-braccianti-coloni) (8). Delle tre principali forme di conduzione agricola — diretta coltivatrice, con lavoro salariato, vari tipi di colonia parziaria - , l'impresa contadina, per le ragioni dette, ha sempre avuto importanza marginale nella Piana del Sele (18-20 per cento della superficie), diversamente da altre zone irrigue, dove è la forma tipica di conduzione (Agro nocerino). La conduzione a salariato è quella prevalente, ma sotto forma non tanto di braccianti fissi quanto d'avventizi, reclutati giornalmente sulle piazze dei paesi con il sistema del caporalato (vedi oltre). Resta infine la compartecipazione, contratto generalmente più precario della colonia (in genere annuale) e che investe il solo contadino (non l'intera famiglia contadina, anche se di fatto quest'ultima presta ugualmente la propria opera) (9). La compartecipazione ha avuto grande impulso sotto il fascismo, che dettò in materia una nuova regolamentazione, sviluppandosi soprattutto in rapporto alle nuove colture industriali (tabacco e pomodoro, anni '30), e conserva una grande importanza. Ne parlerò più diffusamente trattando di queste colture, che sono tipiche dell'economia di Corvino. Questa descrizione, pur sommaria, va integrata con le profonde trasformazioni colturali e strutturali avvenute sotto il fascismo (bonifica integrale) e per effetto della riforma agraria. La sistemazione idraulica della bassa Valle del Sele (c. 1923-1934), ha consentito di recuperare
8. Ibid., pp. 261 ss. 9. Ibid., p. 263.
135 migliaia di ettari, attraverso un'opera di colmatura di terre situate al di sotto del livello del fiume, e di recuperare parte delle acque del Sele a fini di irrigazione, grazie a una diga di sbarramento. La bonifica è importante sotto due profili: perché ha consentito l'avvio di colture specializzate e delle relative industrie di trasformazione, soprattutto quella del tabacco, dando impulso allo sviluppo capitalistico della Piana; e perché ha rappresentato il primo intervento massiccio dello Stato, il primo incontro fra capitale pubblico e capitalisti e agrari locali. Molte fortune, a cominciare da quella di Carmine De Martino, industriale del tabacco (vedi oltre), hanno qui la loro origine. Le trasformazioni dell'assetto produttivo non sono meno importanti. In generale si è assistito, fra gli ultimi anni del fascismo e la prima metà degli anni '50, a un'inversione nel rapporto fra superficie a seminativo e a pascolo: la prima è notevolmente aumentata (da circa 50 per cento al 65 per cento della superficie), mentre i pascoli si sono drasticamente ridotti (dal 40 al 17 per cento, fra il 1939 e il '54). In particolare, è notevolmente aumentata la produzione di foraggi per il bestiame, il che ha reso possibile una maggiore integrazione fra coltura del suolo e allevamento, tipica dell'azienda capitalistica. Parallelamente a queste trasformazioni, si è ridotta la transumanza stagionale del bestiame, il cui polo estivo era rappresentato dai terreni demaniali della collina e dell'interno elemento "quasi intatto di un sistema pastorale arcaico" (10) —, ed il cui luogo invernale era il pascolo brado in pianura. E ' progredito, in altre parole, quel processo di restrizione nell'uso dei terreni comuni e di "fissazione" del bestiame sul territorio, che costituisce uno degli aspetti più caratteristici della moderna agricoltura capitalistica. L o sviluppo dell'agricoltura silentina, nel ventennio che va dalla bonifica alla Legge stralcio, è quindi un dato certo, su cui gli studiosi concordano. M a c'è anche accordo sul fatto che tale sviluppo, lungi dal comportare, come in altre situazioni, un avanzamento generale della società e il superamento di rapporti arcaici, si è combinato con tali rapporti, incorporandoli, per cosi dire, nel proprio modo di produzione, secondo un processo di assorbimento del vecchio nel nuovo che abbiamo visto essere tipico dell'incontro del Mezzogiorno con il capitalismo (vedi Parte II, cap. 3). N o n potrei dire meglio, al riguardo, di quanto ha recentemente scritto Silvano Levrero (11), uno dei leader del movimento per la terra nella 10. Alinovi, Problema contadino, cit., p. 19. 11. Levrero, Intervento in Mezzogiorno e fascismo,
cit., voi. 1, p. 2957.
136 Piana del Sele (1949-50), a proposito della parte più avanzata dell'agricoltura silentina. Si tratta di terre investite da " u n processo di trasformazione agraria portata a livelli capitalistici sotto la spinta (per cosi dire "alla prussiana' [cioè dall'alto]) di una bonifica integrale... e saldata alla creazione di aziende agrarie 'moderne' In tale processo... lo sviluppo di tecnologie produttive moderne ha potuto utilizzare rapporti sociali arcaici (caporalato, sottosalario, 'lavoro dei fanciulli'...) traendone più alti profitti con minori investimenti" Né si è trattato "solo di residui latifondistici-arcaici del tipo [di quelli] esistenti nelle 'aree interne' o nel 'profondo' Sud [ma] piuttosto di una componente del modo di produzione capitalistico chesfruttavacosìfasceproduttivearretrate in combinazione con produzioni moderne — una sorta di zona di 'sottosviluppo' interna e funzionale a un più dinamico processo di produzione e di accumulazione capitalistica" E ' questo il contesto in cui si inserisce la storia sociale e politica di Corvino, contesto di cui quella storia è, sotto più aspetti, puntuale verifica.
1. S T R U T T U R A E C R I S I D E L C L I E N T E L I S M O D E I N O T A B I L I
1. Corvino. Struttura sociale e economica
Subitodopoil1945(1),lacomunitàstudiatapor di rapporti sociali molto arretrati. Sotto il profilo economico, la comunità era prevalentemente agricola, con quasi il 50 per cento della popolazione attiva impegnata in attività primarie (vedi tab. 2) (2). L'industria aveva un peso non trascurabile (c. il 30 per cento della popolazione attiva^ ma era di creazione recente e essenzialmente stagionale. Le industrieprincipalisonoquelledelpomodoroedeltabacco,coninpiù un importante pastificio. La terra era generalmente data in affitto in appezzamenti di dimensione varia. Quando la destinazione era in prevalenza a pascolo, il contratto includeva tipicamente alcune clausole cautelative imposte dal 1. Sappiamo poco di C o r v i n o durante il fascismo. La città sembra sia vissuta sotto il dominio incontrastato del podestà, un ricco proprietario terriero, che faceva da paciere nelle dispute, combinava matrimoni, ecc. Intervista, 13 novembre 1970. Per il periodo fascista, si può ora consultare il ricco materiale contenuto nell'opera collettiva Mezzogiorno e fascismo, cit., che raccoglie gli atti di un convegno dedicato al movimento democratico e anti-fascista nel M e z z o g i o r n o e nel Salernitano, tenutosi a Salerno nel 1975. Ne ho potuto tener conto solo in parte in questo lavoro, pressoché ultimato al momento dell'uscita del volume in parola. 2. C o m e emerge dalla tab. 2, la struttura occupazionale presenta due caratteristiche. La prima riguarda l'alto tasso di popolazione attiva 45 per cento della popolazione residente nel decennio 1951-61 , alto in rapporto ai valori medi della provincia (circa il 40 percento nel 1936, anche se questo dato, come ha osservato Villani, sottovaluta il peso del lavoro femminile), e alto in rapporto al S u d in generale. Cf. Villani, " L a provincia di Salerno", cit., p. 754. Ciò si spiega, probabilmente, con l'elevato numero di lavoratori stagionali in agricoltura e nelle industrie connesse (industria del pomodoro e del tabacco). Nel '71 la popolazione attiva era scesa al 38 per cento e da allora si è ulteriormente ridotta, soprattutto per la crisi del tabacco. L'altra caratteristica riguarda il ruolo delle donne, che erano il 40 per cento dell'intera forza lavoro nel 1951-61 e il 35 per cento dieci anni dopo.
138 Tab. 2
Struttura occupazionale di Corvino per sesso e attività economica 1951 M F
1961 M
M F
(1951-1971) 1971
M
MF
M
Agricoltura e pesca Industria Edilizia Elettricità, gas e acqua Trasporti e comunicazioni Commercio e altri servizi Banca e assicurazioni Amministrazione pubblica
2.994 1.919 262 10 157 655 11 162
2.057 944 262 10 150 437 9 125
2.679 2.689 626 12 167 726 15 159
1.659 1.132 623 12 157 542 13 104
1.927 2.611 551 26 174 1.083 22 170
1.220 1.444 547 24 162 697 18 144
Totale popolazione attiva
6.170
3.994
7.073
4.242
6.564
4.256
Totale popolazione
13.204
15.144
17.239
Fonte: Istituto centrale di statistica.
proprietario. Tali clausole erano dovute a ciò che la terra affittata era normalmente dotata di bestiame, da restituire al proprietario allo scadere del contratto. La carenza di concimi chimici, di semenze selezionate ed altre risorse della moderna zootecnica, e la pessima condizione delle strade, facevano si che il bestiame potesse essere alimentato solo con foraggio prodotto nell'azienda; di qui la necessità di riservare parte del fondo all'alimentazione degli animali. Queste condizioni di arretratezza tecnica e lo stato ancora parzialmente malarico della pianura del Selef non facilitavano nella zona studiata un'attiva economia di scambio. Una seconda clausola contrattuale di frequente uso riguardava la concessione di crediti all'affittuario. Tipicamente, il proprietario anticipava denaro al locatario che se ne serviva per la coltivazione della terra. L'anticipo accentuava di molto la dipendenza dell'affittuario dal proprietario. Anticipi erano pure concessi da industriali locali ai loro fornitori (di latte, pomodori, ecc.). In genere, i crediti erano accordati a tassi così elevati da provocare il permanente indebitamento del coltivatore (3). L'industriale s'impegnava ad acquistare annualmente una quantità fissa di prodotto a prezzi da lui stabiliti; i coltivatori accetta-
3. Intervista a u n agrario della zona, 23 aprile 1972.
139 vano l'offerta come garanzia contro l'aleatorietà di un mercato ristretto (4). Con lo sviluppo dellecoltivazioniindustriali(pomodoroetabacco), venne a prevalere un tipo particolare, di colonia, la così detta compartecipazione stagionale. In virtù di questo contratto, una famiglia contadina prende in affitto un piccoloappezzamentodadestinarsiauna specifica coltivazione. L'affitto dura generalmente un anno, poichè le caratteristiche tecniche di tali colture impediscono di ripeterle per due anni consecutivi sullo stesso fondo. D i qui la precarietà del rapporto. Il proprietario, o il sub-locatario, forniscono la maggior parte dei capitali (per aratura, attrezzi, irrigazione, concimi, ecc.), mentre altre spese minori sono condivise dal contadino. Infine, tale contratto "addossa in gran parte al contadino — come ha scritto Villani (5) — la parte di imprenditore ponendolo nella necessità di anticipare senza alcun compenso il suo lavoro in attesa della ripartizione del prodotto'' L a compartecipazione ha conosciuto durante il fascismo, in questa ed in altre zone del Sud, un'ampia diffusione, per ragioni che non sono estranee al nostro argomento (intreccio fra forme capitalistiche e residui feudali). Rispetto al contratto tradizionale, la nuova regolamentazione fascista, che in provincia di Salerno risale al 1930, ha accresciuto il contributo del conduttore (6), stimolandone al tempo stesso il ruolo di "direzione dell'azienda", ossia il ruolo imprenditoriale. Ciò è avvenuto, non a caso, soprattutto in rapporto alle nuove colture specializzate (pomodoro e tabacco), materia prima d'importanti industrie di trasformazione. A fronte del maggiore impegno del conduttore, la nuova normativa prevedeva infatti non solo il consueto forte impegno lavorativo del compartecipante e la divisione delle spese di coltivazione; soprattutto escludeva, in molti casi, "la libera disponibilità da parte [del contadino] della propria quota di prodotto, che...[il] padrone vendeva a propria discrezione, accreditando ai compartecipanti la somma corrispondente alla loro percentuale di merce" (7). In altri termini, si accentuava il ruolo direttivo del proprietario in 4. Il sistema dell'anticipo è diffuso anche nell'Agro nocerino. Cfr. M . Calise, //sistema De, De Donato, Bari, 1978, p. 55. L'anticipo - in sementi, concimi, ecc. - è effettuato soprattutto da mediatori, che defalcano il prestito dal prezzo del prodotto dell'anno successivo. Ne risulta un sistema nel quale, secondo l'A., "totale è la subordinazione... del contadino alla discrezionalità del mediatore" Ibid. 5. Villani, " L a provincia di Salerno", cit., p. 263. 6. Il conduttore doveva provvedere, oltre ai capitali di cui ho detto (concimi, ecc.), alla lavorazione del terreno, concimazione e semina del pascone. Cf. Alinovi, Problema contadino, cit., p. 27. 7. Cf. G. Giorgetti, Contadini 468.
e proprietari nell'Italia
moderna, Einaudi, Torino, 1974, p.
140
rapporto a colture vitali per l'industria, ma allo stesso tempo lo si metteva al riparo " d a qualsiasi rischio proprio del rapporto di sfruttamento capitalistico, affidandogli un dominio sul titolare della forza lavoro, cioè sul colono e sulla sua, famiglia di tipo precapitalistico'' (8), insieme alla libera disponibilità del prodotto. Era questo il modo in cui si favoriva la centralizzazione del rifornimento e della contrattazione della materia prima secondo le esigenze dell'industria e dei proprietari, sfruttando rapporti di produzione arcaici. Nella zona investigata, il metodo tradiizionale_di_ reclutamento dei braccianti è il caporalato. La natura dell'economia agricola nella Piana del Sele genera una domanda di manodopera stagionale Il caporale è l'intermediario che si reca nei paesi collinosi dell'interno per ingaggi il numero richiesto di braccianti; egli svolge in tal modo una funzion insostituibile per i conduttori dei fondi. La sua posizione di forza verso i braccianti deriva dai suoi poteri di reclutamento in una terra di forte disoccupazione, e dal controllo dei mezzi di trasporto (autobus) (9). Si può affermare che il caporale attua, nel senso letterale del termine, un collegamento essenziale fra i contadini dell'interno e le attività economiche della pianura costiera. Questo ruolo di mediazione, che è stato importante per lo sviluppo capitalistico della Piana( 10), contiene tuttavia importanti elementi precapitalistici. Ancora recentemente, il bracciante non era pagato direttamente dal datore di lavoro ma dal caporale, che fissava e tratteneva il prezzo dell'ingaggio, e del trasporto. Soprattutto, il caporale tende a monopolizzare i rapporti del contadino con il mondo esterno, penalizz a n d o chi non rispetta tale monopolio. Sindacati e caporalato, che presuppongono opposte condizioni di organizzazione dei lavoratori, tendono pertanto ad escludersi, perché il caporale può punire il bracciante sindacalizzato negandogli il lavoro. Il caporale fornisce occasionalmente servizi speciali ad alcuni braccianti, che possono corromperlo per ottenere un lavoro migliore; ma finché il caporalato prevale? i rapporti più vitali che il contadino intrattiene con il mondo esterno non possono che essere diadici e gerarchici. In altri termini, un inter-
8. Alinovi, Problema contadino, cit., p. 28. 9. U n modo in cui i caporali cercavano di mantenere la loro posizione di intermediari esclusivi, era di lare cambiare spesso itinerario ai propri autobus, per raggiungere la stessa azienda. L o scopo era di confondere i braccianti e impedirne il contatto diretto con il datore di lavoro. Intervista, 24 novembre 1970. 10. Cf. G. Accardi, G . Mottura, E. Pugliese, "Braccianti, sindacato e mercato del lavoro agricolo", Rassegna italiana di Sociologia, voi. 12 (1971), n. 1.
141 mediario può o v v i a r l a discontinuità sociali e geografiche solo per preservarle indefinitamente. Una diffusa mentalità anti-mercantile, limitato spirito imprenditoriale e carente autonomia dei contadini, dimostrano quanto superficiale fosse stata nell'area studiata la penetrazione dei rapporti capitalistici. A d esempio, la impersonalità del prezzo non era facilmente accettata: vendere ad un prezzo più basso un prodotto di qualità inferiore era considerato una perdita di prestigio. I commercianti preferivano mantenere i prezzi più o meno agli stessi livelli, salvo differenziarli con sconti individuali praticati proporzionando il computo della tara alla qualità della merce (tara più alta per merce inferiore, tara più bassa per prodotti migliori) (11). L o spirito imprenditoriale, che anche nella Piana del Sele aveva sofferto per il modo di formazione della ricchezza fondiaria (12), è stato ulteriormente sminuito dalla massiccia emigrazione dei contadini più attivi e dalla perdurante propensione della classe media e della borghesia per le carriere statali e le libere professioni (13). Infine, la subordinazione sociale dei contadini (cafoni) ed il loro stato di estraniazione dal mondo dei padroni, impediva loro di dare un contributo autonomo al processo produttivo (14).
2. Rapporti clientelari tradizionali e loro crisi Dal punto di vista politico, il paese studiato non era meno stagnante. Proprietari fondiari e liberi professionisti ne erano i "grandi elettoli. Per pratiche simili nel nocerino cf. Calisc, Il sistema De, cit. p. 55. 12. Fortunato aveva già notato che la divisione dell'estesissimo demanio di Eboli " n o n servito se non a creare due o tre de 1 maggiori latifondisti della piana di Salerno" G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Vallecchi, Firenze, 1973, p. 65. Cf. Alinovi, Problema contadino, cit., Parte I, cap. 2. Secondo un altro autore, due terzi delle maggiori proprietà della Piana del Sele (oltre 200 ha.) provengono dalla divisione del demanio pubblico (per metà dal demanio comunale e per l'altra metà da quello statale). G.F. Marciani, " L ' e v o l u z i o ne del regime fondiario alla Piana del Sele" cit. 13. Secondo un informatore, cospicui investimenti in agricoltura implicavano rischi che la maggior parte degli imprenditori di C o r v i n o avrebbe considerato "inaccettabili" Il lutto andava ricondotto, a suo giudizio, alla "mentalità" meridionale, mentalità di "conservazione risparmio, n o n di c o n s u m i e investimenti" Intervista, 23 aprile 1973. 14. Questo punto può essere illustrato con u n piccolo episodio. U n imprenditore agricolo chiede ai suoi contadini: quali vacche dell'azienda sono, seicondo voi, le migliori? Sono tutte vostre, fu la risposta. Intervista, 23 novembre 1972. Si vedano anche, da un punto di vista storico, le osservazioni di Leopoldo Cassese in "Contadini e operai del Salernitano nei moti del Quarantotto", Scritti di storia meridionale, Pietro Laveglia Editore, Salerno, 1970, pp. 189-269.
142 r i " ; è significativo che uno dei notabili intervistati abbia parlato di "elezioni di secondo grado" per descrivere il ruolo tradizionalmente svolto dai suoi pari nell'"orientare" il voto dei contadini. Tale stagnazione politica non fu scossa dalla ripresa della vita democratica e dei partitidopola caduta del fascismo, ripresa che fu, nel Salernitano, "lenta, stentata, piena di difficoltà" (15). E ' nota la debolezza dei Cln nel Sud e dei partiti che li costituivano, spesso creazione, questi ultimi, di membri di una stessa famiglia, in uno sforzo interessato e artificiale dei gruppi dominanti locali di adeguarsi alla nuova realtà dell'esarchia (16). Salerno non fece eccezione, anche per l'assenza, in quasi tutti i partiti, di dirigenti politici capaci di cogliere i nuovi aspetti di una politica di massa ( 17). La vita politica di Corvino rifletteva pienamente questo immobilismo. Le prime elezioni post-fasciste (1946) si svolsero senza alcuna competizione politica, circostanza peraltro eccezionale avuto riguardo al Sud nel suo complesso. Nel referendum istituzionale del '46, la repubblica ottenne nel paese, che allora contava circa 12.000 abitanti, 40 voti, caso estremo in una provincia che pure aveva massicciamente votato per la monarchia (75,2 per cento per il re, 24,8 per la repubblica). L'unica lista elettorale presentata nel 1946 fu una lista di orientamento monarchico organizzata dal primo sindaco del paese (18), possidente liberale e avvocato di professione. Questo notabile riuscì a persuadere cittadini più giovani e meno conservatori ad entrare nella sua delle ragioni per le quali le persone più importanti di Corvino vollero una sola lista, fu la loro ripugnanza ad essere "giudicati" dalla popolazione. 15. A. Cestaro, " L a provincia di Salerno: società e politica (1943-1950)", in Mezzogiorno e fascismo, cit., voi. 1, p. 282. 16. P Alluni, "Il M e z z o g i o r n o e la politica nazionale dal 1945 al 1950", in Italia 1943-50. La ricostruzione, a cura di S.J. Woolf, Laterza, Bari, 1975, p. 181. 17. Alinovi, Problema contadino, cit. Parte II, capp. 1-2. Il " C l n di Salerno... dal '44 al '46 si dedicò particolarmente, se non esclusivamente, alla distribuzione degli incarichi amministrativi dei vari centri della provincia tra i sei partiti [ R i m a s e r o ] quasi totalmente estranei alla sua considerazione... i problemi sociali del momento: quello degli alloggi, quello della terra, quello dell'approvvigionamento" Ibid., p. 56. La notazione è interessante, provenendo dal figlio di A b d o n Alinovi, giovane dirigente del Pci salernitano negli anni del dopoguerra e in seguito responsabile per il M e z z o g i o r n o del Pei. Cf. G. D i M a r i n o , R. D i Blasi e F. Fichera, La Democrazia Cristiana net Salernitano, Laveglia, Salerno, 1975. 18. Il C o m u n e è di recente istituzione (1911), come altri nella zona, la Piana del Sele essendo stata a lungo infestata dalla malaria.
143 Tenuto conto di queste condizionieconomicheepolitiche,nonsorprende che il potere locale fosse esercitato attraverso una rete di rapporti clientelari. La differenza di fondo rispetto al periodo prefascista era la concentrazione del potere economico nelle mani di una nuova classe d'imprenditori industriali. A partire dal 1920 circa, si svilupparono in loco, come si è detto, alcune importanti industrie, in ispecie del tabacco e del pomodoro (19), Mentre la prima fu iltrampolinoperla carriera parlamentare di un industriale che si presentò come candidato liberale nel 1946 e democristiano nel '48 (Carmine De Martino, vedi oltre), l'industria del pomodoro era concentrata nelle mani di una famiglia che esercitò un potere incontrastato nel paese sino al 1952 (20). Fra il 1945 e il 1952, ed ancora dal ' 5 4 al '59, il sindaco appartenne a questa famiglia. Il potere di tale famiglia, che chiamerò Amabile, era forse di natura più finanziaria che industriale. Amabile esercitava grande influenza sui produttori di pomodoro, che generalmente si rivolgevano a lui per le loro necessità finanziarie. I crediti venivano concessi con l'intesa che i produttori avrebbero ceduto la loro merce, a Amabile a prezzi fissati da quest'ultimo. Nel 1946, in seguito al crescere delle esportazioni verso gli Stati Uniti, Amabile ottenne l'istituzione in paese di una filiale di banca. Negli anni '50 è fra i vice-presidenti dell'Associazione industriale di Salerno. Quando si aggiunge che Amabile esercitava pure molta influenza sulle due principali banche di Salerno, il quadro della sua potenza economica è completo. Questa posizione di potere si rifletteva nel "naturale rispetto" dimostrato da gran parte della popolazione vero un uomo di tanto successo. Il vecchio Amabile, sindaco dal 1954 al 1959, è ancora ricordato come l'uomo che attirava su di sé la deferente attenzione dei concittadini ogni qualvolta passeggiava per il corso di Corvino. La deferenza era massima fra i suoi operai e in genere nelle masse lavoratrici, mentre favori venivano dispensati alla piccola borghesia per ottenerne il consenso (impieghi, licenze commerciali e edilizie, ecc.). I coltivatori di prodotti agricoli erano soggetti ai condizionamenti economici di cui si è detto. Quando deferenza "spontanea", favori e pressioni economiche 19. Queste industrie hanno entrambe carattere stagionale. Nei tabacchifici, il rapporto fra lavoratori a tempo pieno e stagionali è di circa 1 a 20. E ' questo un fattore di debolezza che accresce le possibilità di pressioni clientelari sui lavoratori. 20. Questa famiglia possiede un pastificio e un'industria conserviera. Agli inizi degli anni cinquanta, si calcola che desse lavoro in alta stagione a 800-1000 persone (su una popolazione attiva a quel tempo di circa 6000 unità). Intervista, 23 aprile 1972. Oggi non occupa più di 60 persone.
144
non bastavano per assicurarsi il voluto controllo politico, Amabile ricorreva alla corruzione, come fece nel 1952 allorché cercò d'impedire la formazione di liste elettorali di sinistra, peraltro senza successo. A questi strumenti, va aggiunta l'influenza della Chiesa, su cui non sappiamo molto, ma che deve essere stata certamente grandissima, a Corvino e nel Salernitano. A l crollo del regime fascista, e in presenza di partiti deboli e ancora disorganizzati, la Chiesa emerge come "l'unico punto di riferimento, di difesa e di rappresentanza delle popolazioni" (21), oggetto d i riconoscimenti da parte delle autorità alleate, che investono personalità cattoliche d'importanti funzioni pubbliche. Si tratta di una Chiesa fortemente conservatrice, più interessata al mantenimento dei vecchi rapporti sociali e alla lotta contro le sinistre, che all'emancipazione delle masse nelle nuove condizioni di regime democratico. Le stesse attività del laicato cattolico continuano ad essere essenzialmente indirizzate "verso le tradizionali opere caritative, assistenziali e religiose" (22), non discostandosi di molto dalla pratica seguita sotto il fascismo. Si comprende bene come un orientamento di questo genere fosse congeniale al sistema paternalistico instaurato da Amabile fuori e dentro la fabbrica. Cosi non stupisce apprendere cheilparrocodeltempo incensasse pubblicamente Amabile, agendo inoltre da paciere fra i leader politici locali (23). In tale modo, il paternalismo religioso veniva a rafforzare il paternalismo secolare, secondo una prassi osservata da molti studiosi del clientelismo in società tradizionali (24). Il 1952 fu un punto di svol rapporti clientelari, esso segna la transizione dal clientelismo dei notabili al clientelismo del partito politico (v. Parte I); o, più esattamente, l'avvio di un processo, di superarnento del clientelismo tradizionale ad operadellaDcche sarà compiutamente realizzato in tutto il Sud, nella seconda metà degli anni Cinquanta. Segnò anche l'inizio, a Corvino, di una rapida successione di amministrazioni comunali in una città che era stata sino allora quasi completamente spoliticizzata. E ' opportuno riassumere, a questo punto, in forma sinottica questi mutamenti, prima di passare a parlare delle vicissitudini politiche di Corvino dopo il 1952. La tab. 3 riassume la turbolenta storia ammini-
21. Di M a r i n o , " L a Dc a Salerno", in La Democrazia Cristiana nel Salernitano, cit., p. 15. 22. Ibid., p. 13. Cf. D. Ivone, Carlo Petrone. Un cattolico intransigente del Mezzogiorno, Libreria Internazionale Editrice, Salerno, 1973. 23. Intervista, 15 ottobre 1971. 24. Cf. per tutti W. Foote Whyte, Little Italy, trad. it., Laterza, Bari, 1968.
145 Tab. 3 - Cronologia delle amministrazioni comunali di Corvino Tipo di amministrazione
(1946-1975)
Caratteristiche salienti
Ifase (1946-52): paternalismo tradizionale Indipendente-monarchica
Nessuna opposizione Sindaco: Amabile Junior
1952-53
Psi-Pci
Maggioranza assoluta delle sinistre. Sindaco socialista (Martuscelli)
1953-54
Commissario prefettizio
Giunta di sin. sospesa per irregolarità amministrative
Dc, monarchici, neofascisti
Sindaco: Amabile Senior Assessore ai Llpp: boss Dc (Rota)
1946-52 II fase (1952-53): "rivoluzione elettorale"
III fase (1954-68): clientelismo del partito 1954-59 1959-61
Dc, Psdi, liberali
Sindaco Rota
1961-62
Commissario prefettizio
Rota sospeso per irregolarità amministrative
1963-65
Socialisti dissidenti, Pei, Psdi
Sindaco socialista (Martuscelli), vicesindaco Pci. 1964: sindaco sospeso per irregolarità amministrative. 1964-65: sindaco f.f. comunista
1965-68
Dc, socialisti
Sindaco Rota, vicesindaco socialista (Martuscelli)
1968-70
Commissario prefettizio
Giunta di centro-sinistra sospesa per irregolarità amministrative
Pci, liste civiche, socialdemocratici dissidenti
Sindaco Pci, vicesindaco indipendente. Tre diversi sindaci Pci per crisi della Giunta. 1973: sindaco Pci sospeso per irregolarità amministrative 1972-73: vicesindaco indipendente f.f. di sindaco
IV fase (1970-75): Pci al potere 1970-75
146 Tab. 4
Corvino. Risultati elettorali. Elezioni politiche e amministrative
25 maggio 1952
Elettori
Votanti
Voti validi
(A)
7.214
6.036
6.036
n
Dc
972
(1952-1976) Pci
403
Psi
2.429
7 giugno 1953
(P)
7.247
6.744
6.216
1.176
574
2.048
6 giugno 1954
(A)
7.379
6.734
6.613
2.105
490
2.446
25 maggio 1958
(P)
8.455
7.903
7.616
2.695
861
2.496
7 giugno 1959
(A)
8.686
7.955
7.827
3.166
401
2.465
11 novembre 1962
(A)
9.156
7.987
7.867
2.704
620
467
28 aprile 1963
(P)
9.275
8.408
8.203
2.648
1.936
917
22 novembre 1964
(A)
9.378
8.337
8.121
3.112
1.508
1.644
19 maggio 1968
(P)
9.771
9.058
8.793
3.104
2.894
816
7 giugno 1970
(A)
10.065
9.252
8.913
2.258
2.264
917
7 maggio 1972
(P)
10.435
9.656
9.337
3.041
3.021
544
15 giugno 1975
(A)
11.772
10.855
10.529
3.305
3.553
971
20 giugno 1976
(P)
11.884
10.992
10.694
4.486
3.772
669
(A) Elezioni amministrative (P) Elezioni politiche (Camera dei deputati)
Psdi
Msi
Pli
Pri
Pnm
Pmp
Psiup
2.011 198
409
610
20
987
Altre liste 156
1.025
59
647
Altre liste 14
159
414
491
597
367
831
651
357
684
2.384 ("Gallo")
1.326
527
465
Altre liste 16
495
531
390
792
246
52
163
652
195
239
Altre liste 21
229
179 193
1.555
233
854
117
1.097
553
" I l fiume" 784 , "Campana" 708
350 465
Altre liste 144
441
687
214
64
275 178
158
59
662
" I l fiume" 951
211
Altre liste 278
148 strativa del Comune a partire da quell'anno. Quella successiva (tab. 4) riporta i dati elettorali relativi alle elezioni politiche e amministrative dal 1952 in poi. La cronologia esposta mette in evidenza alcune caratteristiche della vita politica di Corvino e alcune costanti della lotta politica locale: 1) improvviso rovesciamento dei rapporti di forza nel 1952: da un'amministrazione conservatrice, priva di opposizione alla maggioranza assoluta delle Sinistre; 2) frequenza di amministrazioni commissariali, indice di diffuse irregolarità amministrative ma anche di un metodo di lotta - denuncia all'autorità giudiziaria degli avversari - a cui si fece sempre più ricorso dopo il '52; 3) ascesa al potere dopo il '54, del boss Dc (25) attraverso una spregiudicata politica delle alleanze (dai monarchici ai socialisti); 4) ascesa al potere del Pci (1970) grazie ad una politica di ibride alleanze con nemici personali del boss Dc. Esamineremo in dettaglio questi diversi aspetti della vita politica locale. Per quanto riguarda i dati elettorali (tab. 4), occorre richiamare l'attenzione sui seguenti elementi: 1.crollo dei monarchici (Pnm), sino al '52 formazione politica più importante di Corvino e partito degli Amabile; 2. assorbirmento del voto monarchico nella Dc, secondo le regole del "sistema meridionale" descritto da Allum (confluenza dei notabili nel nuovo blocco di potere facente capo alla Dc) (26). Dalla metà degli anni '50, la Dc diventa il più importante partito di Corvino; 3 • grandi fluttuazioni nel voto socialista: il crollo di voti del Psi nel 1962, anno in cui il leader locale lascia il partito per formare una lista civica ("Gallo"), è segno del carattere prevalentemente personalistico del voto socialista ; 4. forte crescita del Pci, che riceveva in media 500 voti negli anni '50 e sette volte tanto nel '75. Nel '70 il Pci era diventato il più grande partito di Corvino; 5. crescente importanza delle liste civiche, capeggiate da trasfughi della Dc. Come vedremo, dopo il 1970 tali liste verranno a svolgere un ruolo fondamentale (e in gran parte nefasto), come ago della bilancia fra Dc e Pci. 25. U s o il termine boss nel senso tecnico indicato da J.C. Scott, per indicare un leader che sia 1) l'attore più potente nell'arena politica locale e 2) il cui potere si fonda più su incentivi materiali e sanzioni, che su sentimenti di affetto e sullo status. Il boss deve ricorrere a incentivi materiali e a minacce, perché è privo della legittimità tradizionale del notabile. Cfr. J.C. Scott, "Natura e dinamica della politica clientelare", in Clientelismo e mutamento politico, a cura di L. Graziano, Angeli, M i l a n o , 1974, p. 134. Vedi anche sopra, Parte I, cap. 1. 26. A l l u m , "Il M e z z o g i o r n o e la politica nazionale", cit., pp. 172 e seguenti.
149 3. La "rivoluzione elettorale" del 1952 Nello specifico caso studiato, la crisi del clientelismo dei notabili si manifestò con una rottura che veniva a "rivoluzionare" tutti i dati della politica locale. Alle elezioni comunali del ' 5 2 il Psi, prima debolissimo. ottenne il 40 per cento deivotieinsiemealPcilamaggioranza assoluta dei seggi (20 seggi su r3Q, di cui 17 ai socialisti e 3 al Pei). Tre fattori sembrano avere contribuito a quella che nel paese è detta la "rivoluzione, elettorale." del 195?.: l ì le prandi lotte, ner la terra del 1949/50 1 ne Ila Piana del Sele, che pur avendo toccato Corvino in modo so lo m argin ale, ebbero vasta risonanza, in tutta la Piana (27) ; 2 ) rivolta J ^ n o g o j i Q di potere dei fratelli Amabile, capilista nel '52 rispettivamente della lista, monarchica e di quella De; 3) una sorta di protesta della frazione collinare e nucleo storico del Comune, di cui era nativo il principale esponente socialista, contro il crescente peso .economico del capoluogo sito in pianura. Si tratta, peraltro, della razionalizzazione ex-post di un fenomeno che si manifestò come un movimento spontaneo di protesta. Il leader socialista diventato sindaco nel '52, rievocando i fatti, parla del "clima irreale" in cui si svolse la battaglia di quell'anno. Nel corso della campagna elettorale sembra che migliaia di persone partecipassero ai comizi socialisti, in netto contrasto con la diffusa spoliticizzazione degli anni precedenti. M a quale era il legame fra leader e elettori? Secondo uno dei capi della "rivolta", il legame non era molto diverso dal tradizionale atteggiamento remissivo dei contadini verso proprietari e padroni. A suo avviso, il coraggio dimostrato.nel denunciare pubblicamente, per la prima volta, ì notabili della comunità, deve avere suggerito il seguente ragionamento: se giovani indifesi si espongono di persona attaccando i "galantuomini" di Corvino, vuol dire che sono ben coraggiosi e degni di essere seguiti (28). ,za la grande debolezza. I contadini furono mobilitati elettoralmente ma non ne derivò alcuna vera presa di coscienza politica. L'obbiettivo della rivolta, come avverrà altre volte nella storia di Corvino, era essenzial27. Il centro delle lotte per la terra nella Piana del Sele, fu la zona di Eboli-Capaccio. A Corvino sembra si sia registrato un solo caso di occupazione alla fine del '49, quando 500 persone occuparono unagrossa tenuta. Cf. Alinovi, Problema contadino, cit., p. 108. E 1 peraltro verosimile che la generale ondata di consensi avuti dalla Sinistra nel '52 (la sinistra risultò maggioritaria in 14 comunidel Salernitano, fra cui due c o m u n i centro della lotta, Eboli e Battipaglia), abbia interessato di riflesso anche Corvino. 28. Intervista, 10 dicembre 1970.
150 mente negativo: una protesta incanalata da figure carismatiche contro i l potere della famiglia A m a b i l e . Né i leader socialisti fecero alcun serio sforzo per politicizzare le masse attraverso l'azione e l'informazione politica (L'Avanti! era praticamente sconosciuto a Corvino in quegli anni). V a aggiunto che il comportamento dei nuovi amministratori non facilitò le cose; contribuì, piuttosto, a rafforzare quella sfiducia nell'autorità pubblica tanto radicata nel Sud. Il Comune divenne sempre più "centro di clientelismo e di favori", secondo l'espressione di uno degli assessori del tempo (29), la leva politica che consentì a alcuni giovani amministratori di accumulare piccole fortune personali. Questo fu certamente il caso del sindaco geometra di professione, che inaugurò la prassi, diventata poi abituale, di utilizzare l'ufficio tecnico per le proprie attività professionali. E ' significativo che, dopo il '53, egli sia stato incriminato un paio di volte e condannato per interesse privato in atti di ufficio. Guardando agli eventi del '52 da una diversa angolazione, ci si può chiedere come l'ambiente conservatore reagì al fenomeno nuovo di un' opposizione politica organizzata. La loro reazione è importante, perché può dirci qualcosa sulla percezione e le modalità di controllo del conflitto in una società clientelare, problema su cui ho ripetutamente richiamato l'attenzione nella parte analitica di questo studio (v. Parte I, cap. 1) (30). L'atteggiamento di questi ambienti, così come emerge dai documenti che ho potuto consultare (soprattutto propaganda elettorale Dc), può riassumersi sotto tre etichette: anti-comunismo, paternalismo, minacce personali. L'anticomunismo fu un tema dominante, comune a monarchici e Dc. In un comizio del 5.5.52, l'oratore Dc disse ad esempio: " E ' evidente che non abbiamo scelto noi la lotta contro i monarchici, perché il nostro programma ha un punto in comune: quello di lottare il comunismo ovunque si trovi" Aggiungeva che la "bandiera italiana, con o senza lo stemma sabaudo, ha una storia che si può riassumere in tre parole: Dio, famiglia e patria". valori che erano per i comunisti, presumibilmente, anatema. Il secondo elemento — paternalismo — è più originale. Del sindaco uscente, Amabile junior, si sottolineava soprattutto la grande generosità. Sotto la sua amministrazione — si assicurava con linguaggio fin troppo crudo —, "l'assistenza è stata sempre in piena efficienza" (comi29. Intervista, 25 novembre 1970. 30. S i veda anche il mio saggio "Clientelismo e sviluppo politico: il caso del Mezzogiorno", in Clientelismo e mutamento politico, cit., pp. 356-357.
151 zio Dc). M a il tema del paternalismo emergeva anche nel modo in cui si mettava in guardia il paese, descritto come "una sola, compatta famiglia", dai tentativi socialisti di provocare divisioni al suo interno. Erano particolarmente invise le incursioni di propagandisti elettorali provenienti dall'esterno; la lotta per il Comune — proclamava un altro volantino Dc — non autorizzava nessuno " a d oltrepassare il Picentino e venirci a mettere l'un contro l'altro" (il Picentino divide Corvino da Salerno). La campagna elettorale doveva conservare una "dimensione paesana", tanto più in un comune così giovane come Corvino, che aveva bisogno di "cure...materne..[e] graduali" non di misure drastiche come quelle auspicate dai socialisti. Paternalismo, aperte minacce e ideologia convivevano in un ultimo messaggio, che riassume tutti gli altri. Il messaggio, sotto forma di ammonimento ai giovani capi socialisti, diceva: " d a ubbidienti giovani, figli dei nostri amici e dei nostri fratelli, sappiate comprendere che i programmi compromettono sempre chi li stende, perché lasciano prendere la mano... Lasciate che gli uomini maturi, e con responsabilità e esperienza, vadano sul [sic] C o m u n e " , concludendo: "se credete di portare al Comune la bandiera rossa, noi scenderemo in piazza ed ammaineremo quel simbolo sanguinario che non è italiano" (comizio Dc, 17.5.52). C'erano metodi più prudenti e realistici del dogmatismo politico: " s i potrà fare [molto] ma con un processo graduale... sfruttando le amicizie in campo nazionale, sollecitando interventi e contributi statali", per il bene del paese e senza spremere le risorse locali (propaganda Dc, 18.5.52).
2. D A L C L I E N T E L I S M O T R A D I Z I O N A L E A L CLIENTELISMO DEL PARTITO
1.
Ascesa al potere del boss Dc
Nonostante i limiti rilevati, la svolta del 1952/53 ebbe un importante risultato: l'avvento nel paese della competizione elettorale e dei partiti organizzati. Ciò avvenne parallelamente, ed in parte come conseguenza dell'emergere di un nuovo tipo di leader locale. L'esponente democristiano che giunse a Corvino dalla vicina Eboli intorno al '52, era il primo uomo politico con estesi contatti nell'apparato di un partito, a partecipare alla lotta politica cittadina. Questo uomo, che chiameremo Rota, era stato sul finire della guerra direttore dei lavori in un tabacchificio dell'industriale e parlamentare menzionato sopra (C. De Martino), di cui aveva poi assecondato altre attività, specie nel campo dell'edilizia. In tale modo, il futuro boss aveva stabilito contatti che, come vedremo, si dimostreranno utilissimi per la creazione di una rete clientelare. Nel '47, lo troviamo nella Giunta provinciale della Dc salernitana, come uomo di Carmine De Martino, che sta in quegli anni conquistando il partito (1) (vedi oltre). Rota era quindi in grado di valutare tutta la precarietà del vecchio sistema paternalistico imperante a Corvino, in un periodo di mobilitazione elettorale e di rapidi mutamenti economici. La carriera di Rota a Corvino inizia con un atto di sfida e un abile uso dei suoi contatti con Roma. Nel corso della campagna per le elezioni politiche del '53, accusa pubblicamente la Giunta di sinistra di irregolarità amministrative e chiede di poter controllare gli atti della Giunta. Con l'assenso degli amministratori socialisti, si reca in Comune in un clima di tensione, che giustifica lo stazionamento, all'esterno del palazzo municipale, di forze di polizia. Dalle interviste fattegli, emerge 1. Ivone, Carlo Petrone, cit., pp. 84-85.
153 chiaramente che Rota attribuisce non piccola parte delle sue fortune in città a questa iniziativa teatrale. Egli era deciso a combattere la sinistra, colpevole, a suo avviso, di discriminazioni politiche (in fatto di licenze edilizie, commerciali, ecc.) e di rapacità fiscale (si voleva introdurre l'imposta di famiglia) (2). C o n l'aiuto tecnico del segretario comunale, lo stesso nominato sotto il fascismo (3), fu in grado di documentare una serie di irregolarità — da irregolarità contabili a acquisti a prezzi maggiorati, all'accusa al sindaco di aver costruito su terreno comunale —, che porteranno allo scioglimento della Giunta e del Consiglio (4). Cosa più importante, Rota trovò alleati in Prefettura. Nell'azione intrapresa per provocare la caduta della Giunta, egli potè operare in stretta unione con 'ispettore prefettizio inviato a Corvino come attesta la seguente lettera. La lettera è indirizzata all'on. Carmine De Martino e porta la data 27.8.1953. Stim. Onorevole, per le cose di Corvino stiamo a buon punto, nonostante la resistenza degli Amministratori socialcomunisti... Io e il comm. Amabile stiamo continuamente a contatto con l'amico Ferro [l'ispettore prefettizio] e tutta l'azione viene svolta in perfetta identità d'intesa. E ' necessario però interessare il Prefetto di Salerno di non dar corso alla deliberazione riguardante l'apertura di un Cantiere scuola, pregandolo di tenerla ancora in sospeso, mentre si rende necessario intervenire subito presso il Ministero del Lavoro affinché conceda un'ulteriore proroga all'apertura del Cantiere..., in modo che i lavori possano essere iniziati dal Commissario prefettizio e non da quei signori, i quali indubbiamente approfitterebbero per avviare al lavoro soltanto i loro seguaci. In attesa di conoscere i passi che andrete a fare gradite anche dal comm. Amabile e da Ferro tanti devoti saluti. Rota (5)
2. Interviste, 13 e 18 novembre 1970. 3. Più di u n informatore ha sottolineato l'importanza fondamentale del segretario comunale nell'amministrazione dei piccoli comuni. U n leader politico del posto, riferendosi all'episodio del '53, ha notato come "il segretario comunale [ possa ] abbattere qualunque a m m i n i strazione n o n accorta" Interviste, 25 novembre 1970 e 10 dicembre 1970. Prima di dimettersi (1953), gli amministratori di C o r v i n o censurarono ufficialmente il comportamento del segretario. 4. E ' appena il caso di ricordare che questo n o n fu, nel Salernitano e nel Sud, un caso isolato. Per casi analoghi a Salerno (commissario prefettizio dal '52 al '56) e a Castellamare di Stabia (1953) cfr. P A l l u m , " L a Campania: potere e politica 1945-1975", in La Voce della Campania, 10 aprile 1977. 5. Cfr. anche due lettere di D e Martino al prefetto di Salerno, una in data 14 giugno 1953
154 La lettera documenta gli stretti rapporti di Rota con Amabile, Amabile essendo a quel tempo un'importante pedina nella strategia politica di Rota. Insediatosi di recente nel paese, il futuro boss era infatti ancora troppo debole per dare battaglia su due fronti, i socialisti da un lato e Amabile dall'altro. L'accordo con il notabile non fu difficile: Amabile avrebbe abbandonato i monarchici per la Dc mentre Rota avrebbe contribuito con il suo talento organizzativo. Insieme avrebbero combattutto quello che Rota chiamava il "regime del terrore" instaurato dalle sinistre a Corvino. L'operazione ebbe pieno successo. Nelle elezioni comunali del '54, svoltesi in un clima di intensa ostilità e di recriminazioni personali, la Dc ebbe come capolista il vecchio Amabile, Rota figurando solo all'ottavo posto. La Dc più che raddoppiò i suffragi del ' 5 2 (da 972 a 2.105), mentre i monarchici, privati dell'appoggio dell'industriale, persero più dei due terzi dei voti (da 2.011 a 647). N o n potrebbe esserci prova migliore della natura personalistica e notabiliare del seguito politico degli Amabile. L'alleanza fra Dc e il notabilato locale non deve peraltro fare trascurare le importanti novità introdotte dai cattolici al loro apparire come partito organizzato. Una prima novità attiene al tipo di ideologia populista da essi propugnato, assai più articolata di quella tradizionale. Se carità e repressione, come è stato notato (6), erano le due componenti principali della vecchia ideologia notabiliare, i cattolici mettevano soprattutto l'accento sull'esigenza di giustizia sociale. Alcuni dicono notava un documento Dc del tempo (7), — che "la Dc sia più comunista degli stessi comunisti" C'era un grano di verità nell'affermazione, continuava il documento, se con ciò si voleva dire che la Dc sta dalla parte del lavoratore e opera per nuovi rapporti sociali, tali per cui "il lavoratore non veda nel proprio principale un nemico, ma il fratello maggiore" a cui rivolgersi in caso di bisogno, anziché essere "costretto a correre alla sede locale del partito comunista o alla camera del lavoro" Il documento proseguiva con un esplicito attacco ai metodi dei gruppi padronali locali: " S e la minaccia di una vittoria socialcomunista circa l'opportunità di prolungare la sospensione del sindaco socialista "il più a lungo possibile"; la seconda del 14 ottobre '53 in cui si suggerisce il nome di un Consigliere di prefettura per l'incarico di commissario a Corvino. 6. M . Castelli, "Aspetti umani del lavoro in provincia di Salerno", in Aggiornamenti sociali, febbraio 1958, pp. 81-97. 7. Documento di propaganda elettorale De, 15 maggio 1952.
155 mette in apprensione alcuni uomini, la colpa non è del lavoratore, ma unicamente... [dell'] inqualificabile sistema di oppressione instaurato da alcune aziende" L'adesione al comunismo era la "logica conseguenza" di un sistema in cui i lavoratori erano mal pagati e sfruttati oltre l'orario di lavoro. (Il riferimento, più che trasparente, era soprattutto alle fabbriche di Amabile). Sebbene paternalistica, un'ideologia di questo tipo era indubbiamente più moderna e allettante del chiuso conservatorismo della vecchia elite. Una seconda novità era l'importanza annessa, e l'uso elettorale fatto dello state patronage (espressione che non ha un esatto equivalente in italiano). Nelle riunioni politiche ed in altre occasioni veniva ripetuto con insistenza che solo un partito di governo era in grado di procurare alla comunità i fondi pubblici di cui aveva bisogno. "Mandando al comune gli uomini della Dc diceva ad esempio un deputato Dc nel '52 —, in stretta collaborazione dei rappresentanti politici, questo comune può più facilmente ottenere benefici dal governo", sfruttando le provvidenze previste per i comuni meridionali. Anche se non esplicitamente detto, questo era il vantaggio decisivo della Dc rispetto a partiti come quello monarchico (8). I riferimenti a mediazioni politiche a Salerno e a Roma, evidenziano come il sistema di potere che Rota andava costruendo fosse strettamente legato agli equilibri della Dc_salernitana, in particolare al potere che in essa venne ad esercitare subito dopo il '45 Carmine Martino. Una breve disgressione sulla Dc salernitana servirà a precisare la natura di quel partito, le trasformazioni da esso subite e il più ampio contesto in cui Rota si trovò ad operare negli anni '50 e '60.
2. La Dc in provincia di Salerno La storia della Dc salernitana nell'immediato dopoguerra è in gran parte la storia dello scontro fra Carlo Petrone, esule anti-fascista e fra i fondatori del partito a Salerno, e Carmine De Martino. Si trattò dello scontro di due linee che potremmo chiamare, schematizzando, integralismo antifascista di stampo sturziano la prima (Petrone), l'altra una linea mirante a ricostituire, intorno alla Dc, il fronte clerico-agrario-industriale (De Martino) (9). L'interesse per noi di questa vicenda sta nel significato della vittoria di De Martino, leader incontrastato del partito 8. Per riferimenti in questo senso a Rota, cf. La Voce di Salerno, 2 giugno 1954. 9. S u tutta la vicenda, cf. Ivone, Carlo Petrone, cit.
156 a Salerno per circa un quindicennio (1947-60), e nella tecnica di potere che egli importò nella Dc. D i questi metodi dirò dopo un breve accenno a Carlo Petrone.
Figura di spicco dell'antifascismo meridionale, Petrone è l'uomo che ha dato un'organizzazione alla Dc in provincia di Salerno. Segretario provinciale del partito (1945-46), è anche membro della Consulta e della Direzione centrale della Dc. Il suo integralismo lo porta a dare una definizione restrittiva della politica di unità antifascista in seno al Cln salernitano, come della linea di unità sindacale, che vorrebbe limitata a "problemi puramente tecnici e questioni contingenti" (10). All' interno di questi limiti, Petrone è per una Dc partito di massa? strumento, insieme ai sindacati, di emancipazione popolare. Antifascismo e difesa intransigente della_moralità della classe politica (la sua battaglia parlamentare più nota resterà quella sulle incompatibilità fra mandato parlamentare e incarichi in enti pubblici), completano il quadro sommario di quest'uomo, che finirà fuori dalla Dc su posizioni reazionarie. D i fronte al partito che Petrone sta ricostruendo e verso il quale la Curia ha un interessamento vivo ma ambiguo, i vecchi gruppi dominanti seguono due strategie diverse (11). U n primo gruppo, è per l'attacco frontale al Cln e alla collaborazione della Dc con i partiti di sinistra, attacco che investe personalmente Petrone accusato di avere collaborato da Radio Londra con gli Alleati nel piano di bombardamenti su Salerno. U n secondo gruppo, composto dai settori capitalistici più avveduti e in cui spicca De Martino, è per una politica di "entrismo" nella Dc: i nquantopartitopopolareestrumentopotenzialmentepreziosissimo nel quadro della democrazia di massa che si andava allora delineando. Q u i s'innesta il conflitto che opporrà, in una lotta aspra (1946-48), Petrone e De Martino, contrasto legato essenzialmente al passato fascista di quest'ultimo. Petrone non rifiuta l'appoggio finanziario di De Martino al giornale Dc di Salerno, L'Ora del Popolo, ma "l'intesa era — come egli stesso scriverà (12) — che la Democrazia cristiana, dato il passatodilui[DeMartino], non lo avrebbe mai potuto accogliere nellesuefile
Perquestosiopposevigorosamenteall'inclusione per la Costituente, nonostante le pressioni dell'alto 10. 11. 12. 13.
Cit. da Ivone, op. cit., p. 9. D i Marino, " L a D.C. a Salerno", cit., p. 20. Cit. da Ivone, op. cit., p. 67. Vescovo di Campagna, cit. da Ivone, op. cit., p. 69.
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lità verso De Martino. Nella scalata di De Martino al vertice della Dc salernitana, che sarà cosa fatta nel '47, bisogna distinguere la base reale del suo potere dai metodi utilizzati per estromettere Petrone {essenzialmente, gonfiamento e acquisto di tessere). Il potere di De Martino derivava non solo dal fatto di essere uno deipiùimportantiagrarieimprenditorisalernitani e dell'intero Sud (14), ma anche dall'essere l'organizzatore del fronte imprenditoriale nella fase cruciale della ricostruzione, in base alla felice idea che sarà intorno alla ricostruzione materiale del paese che si giocheranno le fortune economiche e politiche della provincia. Una delle sue prime iniziative sarà l'organizzazione sul finire della guerra, di una grande impresa edile e nel '45 di una Rassegna della Ricostruzione a Salerno, che raccoglie il fior fiore dell'imprenditoria locale. Oltre all'appoggio dei g r u p p ieconomici,l'uomogodedell'appoggio decisivo del Vescovo e dell'alto clero. Che il clero di fatto saboti il cattolico intransigente Petrone per appoggiare un notabile di sospette tendenze massoniche, è un fatto che va spiegato. In effetti, la stampa della Curia vescovile, nelle elezioni per la Costituente, appoggia De Martino, presentatosi nelle liste dell'Unione democratica nazionale, a scapito del Dc Petrone, che sarà il primo dei non eletti (anche grazie alla corruzione e alle intimidazioni poste in atto dal suo avversario). La solo spiegazione che emerge dall'accurata ricostruzione recentemente fatta di questi eventi (15), è che la gerarchia puntava sul cavallo vin causa nostra — come diceva un vescovo (16) —, anche se, dato e non concesso, il Comm. De Martino fosse un indegno qualunque"
Il cambio di segreteria e la conquista della Giunta provinciale Dc_è del '47, e alla fine di quell'anno DeMartinosaràammessonelgruppo parlamentare democristiano. Del resto, va detto che, senza la complicità della Direzione del partito, partito d i cui De Martino non era ancora membro, difficilmente sarebbe riuscita l'emarginazione dei petronian nelle forme "truccate" e contestate in cui avvenne Alla fine dell'operazione, la Dc è molto più forte, ma è anche qual14. U n a ricostruzione dell'impero economico di D e Martino, consolidatosi sotto il fascismo grazie al regime delle concessioni speciali per il tabacco, in Ivone, op. cit., cap. 4. Cfr. Villani, " L a provincia di Salerno", cit. p. 265. 15. Alludo al lavoro di Diomede Ivone, più volte richiamato. 16. Vescovo di Campagna, cit. da Ivone, op. cit., p. 69.
158 Tab. 1 - Elezioni politiche in provincia di Salerno 1946-1948
(%)
Costituente Dc Unione democratica nazionale-Pli Uomo qualunque Blocco nazionale della libertà Pnm-Msi Pci Psi Partito d'azione Pri Cdr Psdi Altre liste
29,83 23,34 10,38 6,28 -
7,38 6,95 2,50 2,17 2,26 -
8,6
18 aprile '48 53,5 6,3 -
15,7
0,8 -
2,0 5,2
Fonte: S. Alinovi, Problema contadino e lotte per la terra nel Salernitano, Laveglia, Salerno, 1975, pp. 89, 104.
cosa di fondamentalmente diverso. L'operazione De Martino era infatti la versione locale di un processo trasformistico che andava attuandosi in tutto il Mezzogiorno: l'assorbimento, cioè, nella Dc dei notabili liberali e la ricostruzione del "sistema meridionale". Il raffronto fra i dati elettorali per la Costituente, quando quel processo era solo agli inizi, e i risultati del 18 aprile '48 in provincia di Salerno, documenta il travaso di voti e il ruolo del blocco conservatore nella vittoria democristiana (tab. 1). Con De Martino, la Dc non è ancora il "partito clientelare di massa" quale diventerà negli anni '50 (e ne vedremo le differenze), ma è certo un partito che rilancia i metodi clientelari tradizionali su una base di massa, nel quadro del processo di democratizzazione avviato con la caduta del fascismo. I poli dell'assistenzialismo sono le "provvidenze statali", sbandierate come una sorta di panacea, e la capacità di dispensare posti di lavoro nelle innumerevoli imprese di De Martino, che occupavano a quel tempo circa 7.000 addetti (otto tabacchifici, un'industria casearia, filovia Scafati-Battipaglia, ecc.). Il motto è: "la Dc dà lavoro, i comunisti danno chiacchiere" (17). 17. D i M a r i n o , " L a Dc a Salerno", cit., p. 25. C'è ampio consenso sui metodi paternalistici in vigore nelle fabbriche D e Martino (feste natalizie per i lavoratori, visite periodiche alle loro famiglie, ecc.). Rota, suo stretto collaboratore, concorda con questo giudizio. Aggiunge che nelle elezioni del '48, quando D e Marti-
159 Il programma di De Martino, un misto di demagogia e di capacità di prevedere esigenze popolari largamente sentite come la casa (in un momento in cui l'attenzione delle sinistre si polarizza sul problema della terra), comprendeva diversi punti che è sufficiente richiamare (18): grande porto di Salerno e nuovo ospedale (non ancora completato trent'anni dopo); costruzione di case popolari, compito a cui era preposta un'apposita società del gruppo; istituzione di scuole ovunque e ripristino dell'Istituto di Magistero a Salerno; richieste municipalistiche come l'istituzione di una nuova regione irpino-salernitana (19) e l'idea della "grande Salerno", che sarà ripresa in seguito dal Sindaco Menna (vedi oltre). Il modo migliore per caratterizzare il ruolo di De Martino nella Dc meridionale, alla luce di quella che sarà l'evoluzione successiva del partito, è di dire che egli ha impersonato una forma di transizione: transizione dai vecchi metodi notabiliari, pre-politici, alla Dc come a Salerno con Menna, sindaco della città dal '58 al '70. A grandi linee le differenze sono, mi sembra, essenzialmente due. La prima attiene alla centralità del partito e dei suoi rapporti con lo Stato. La Dc di De Martino è ancora un'associazione di notabili che riconoscono l'autorità di De Martino e del Vescovo, più che della Dc come tale. La centralità del partito s'imporrà invece negli anni '50 con uomini come Menna, che non hanno, inizialmente, alcun potere nella "società civile" (Menna è uomo della burocrazia, segretario comunale a Salerno sotto il fascismo). La seconda e connessa differenza attiene all'ambito di attività e ai fini del partito. La Dc di Fanfani degli anni '50 tenderà alla "conquista della completa direzione d e l l ' e c o n o m i a e della società" al fine di garantire " u n a gestione efficiente e sociale del sistema capitalistico" (20), l'intervento regolatore dello Stato ponendosi in questo disegno come fondamentale. Il disegno di De Martino, convinto antistatalista in teoria se non nella pratica, era più limitato e non poteva non scontrarsi con il progetto fanfaniano, per lottare contro il quale l'uomo politico salernitano darà vita, all'inizio degli anni '50, ad una corrente Dc di respiro nazionale ( " L a Vespa"). no ottenne ben 110.000 voti di preferenza, il voto dei suoi operai (30.000 persone contando i familiari) fu decisivo. Interviste, 13 e 18 novembre 1970. 18. Cf. D i M a r i n o , " L a Dc a Salerno", cit., p. 25. 19. C. D e Martino, u L a regione Irpino-Salernitana", in Annuario della II Rassegna della Ricostruzione, Grafica di Salerno, Salerno, 1947. 20. D i M a r i n o , " L a Dc a Salerno", cit., p. 28.
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160 Questi sono peraltro eventi che vanno al di là dell'oggetto e dell'ambito del nostro lavoro. Qui era sufficiente richiamare il contesto provinciale in cui ebbe luogo l'ascesa al potere del boss Dc di Corvino, e il tipo di sistema di potere in cui egli venne ad inserirsi.
3. Corvino 1954-1968. Le risorse del potere clientelare
Nel 1954 Amabile senior fuelettosindacodaunagiuntadicentro-destravmediante pressioni ese dipendevano economicamente, ma il vero uomo forte della nuovaamministrazio timità tradizionale derivata dallaricchezza e da una riconosciuta leader-sh ruolo politico e amministrativo di Amabile era il corollario della sua supremazia economica, Rota usò il potere politico-amministrativo per legittimare il suo ruolo di leader e consolidare la sua posizione eco ai lavori pubblici; come tale Rota controllava quell'ufficio tecnico che in un periodo di intensa urbanizzazione e rinnovamento edilizio diverrà il centro della lotta politica locale.
E ' difficile sopravvalutare l'importanza economica e politica dell'attività edilizia a Corvino, come nel resto del Sud, negli anni '50. D o p o la guerra, che colpì pesantemente la Piana del Sele (tanto i lavori di bonifica che i centri abitati), il problema della casa era il problema più urgente. Come un sindaco del tempo notava (1953) (22), buona parte della popolazione corvinese viveva in "locali che non possono dirsi per nulla confacenti ad esseri umani" La media, nel '51, era di un vano ogni tre persone (23). L a situazione era aggravata dalla rapida con un aumento del 20 per cento), anche per effetto dello il numero di vani è quasi triplicato, attenuando considerevolmente il problema del sovraffollamento (1961: 1,37 per vano).
21. Nelle elezioni comunali del '54, Rota ottenne il secondo maggior numero di voti di preferenza (577 contro 943 a Amabile), nonostante fosse all'ottavo posto nella lista Dc. 22. Verbale dì deliberazione della Giunta comunale, Corvino, 10 marzo 1953. 23. C o m u n e di Corvino: Programma di fabbricazione. Relazione, 1969, p. 12.
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Questa febbrile attività si svolse in gran parte al di fuori di ogni regolamentazione urbanistica (il primo piano di fabbricazione della città risale al 1970). N e derivò, per l'amministrazione, un grande potere discrezionale, che fu usato per ricompensare amici e punire avversari. E ' comunque certo che molti aspetti della vita politica locale sarebbero incomprensibili se non si tenesse conto delle alleanze politiche che si sono venute intrecciando sulla base degli interessi legati allo sviluppo edilizio del comune. La carriera del leader socialista del '52 né è esempio probante. Nel '62, Martuscelli (questo il suo nome), preferì rompere con il Psi piuttosto che allearsi, come richiedeva la nuova strategia del centro-sinistra, con un leader tanto discusso come il boss Dc di Corvino. Nel '65 entrava invece come vice-sindaco nell'amministrazione di Rota, di cui è rimasto da allora fedele alleato. Il revirement è generalmente attribuito ai rapporti d'affari nel frattempo maturati fra Martuscelli, nella sua qualità di geometra, e il costruttore Rota (24). Si potrebbe anche citare il caso di due altri consiglieri Psi, che dopo il '70 respinsero, contro le direttive del partito, ogni idea di alleanza con il neo-sindaco comunista. Anche qui, la spiegazione più diffusa fa perno sui rapporti d'affari fra i consiglieri socialisti (uno dei quali è costruttore) e Rota. Sta di fatto che l'espansione edilizia divenne la chiave di volta del programma della_Giunta. Secondo Rota, Corvino avrebbe dovuto svilupparsi soprattutto come centro residenziale dell'area di sviluppo industriale di Salerno, e ancor più come centro turistico lungo il litorale (25).Questoprgam vames oinrap ort conlapolitcadei"polidi sviluppo" allora imperante (1960-70), politica cioè diconcentrazioneterritorialedei Salerno ebbe come epicentro il capoluogo e come protagonisti alcune grandi imprese multinazionali, installatesi intorno al '60 proprio a ridosso del territorio di Corvino (Pennitalia, Ideal Standard, Landis e
24. Questa era anche l'opinione del segretario provinciale del Psi. Intervista, 2 luglio 1974. 25. Cf. C o m u n e di Corvino-Università popolare di Salerno, " C o n v e g n o di studio sul tema agricoltura e turismo. Saluto del Sindaco", 29 ottobre 1967. Rota argomentò, in quell'occasione, che lo sviluppo del turismo residenziale avrebbe potuto trovare sfogo lungo la costa a S u d di Salerno, ancora disponibile, diversamente da altre zone di più antico insediamento turistico (Paestum e Costa amalfitana). La sua previsione era che vi si potevano costruire case per 70.000-80.000 persone. Ibidem., p. 5. Cf. Programma di fabbricazione, cit. Oltre che nel C o n s o r z i o per l'area di sviluppo industriale di Salerno, Corvino fu incluso nel Comprensorio turistico Cilento-Golfo di Policastro.
162 Gyr) (26). N o n sorprende, quindi, che l'industria edile abbia rappresentato il settore più dinamico dell'economia corvinese (1951: 262 adetti; 1961: 626, circa il 10 per cento della popolazione attiva), e che il potere dei costruttori si sia anch'esso di molto accresciuto. (La popolazione del posto ha un termine pittoresco: "baroni del mattone"). Oltre alle licenze edilizie, il boss Dc disponeva di un'altra fondamentale risorsa, legata alla politica delle assunzioni nei tabacchifici. All'inizio degli anni '50, tre dei quattro tabacchifici di Corvino, già di De Martino, furono ceduti al Monopolio statale dei tabacchi. Rota conosceva molti direttori di quelle fabbriche, reclutati in genere, al tempo di De Martino, presso un unico circolo cattolico salernitano (27), e fu quindi facile per lui influenzarne la politica del personale. Egli afferma di avere "sistemato" nei tabacchifici fra il 1954 e il '59 più di 600 persone (28). Senza prendere alla lettera l'affermazione, forse superiore alla realtà, si tratta comunque di un numero cospicuo. Va solo aggiunto che questo non era un comportamento atipico, ma la versione locale e su scala ridotta di un processo più generale, mediante il quale la Dc fonte di finanziamento per il partito (29). Rota poteva disporre, infine, di una terza risorsa, cioè dei suoi contatti con uomini politici influenti a R o m a (vedi sopra). Questi contatti gli consentivano d'intervenire per conto di clienti locali, al fine di "sistemare" pratiche e pendenze (30). Cosa più importante, gli permettevano di assicurare a Corvino fondi pubblici e statali, fondi che altrimenti non sarebbero probabilmente mai arrivati o sarebbero arrivati tardi e in quantità ridotta (31). Invariabilmente, alla mediazione di 26. Cf. C. D e Seta, "Città e territorio. Gli squilibri programmati (1950-1975)" Campania, 27 marzo 1977; S. Casillo, "Svilupp o economico e vicende politiche vincia meridionale: il caso del Salernitano", estratto da Basilicata, nn. 7-12/1973 nerale G. Bona/zi et al.. Industria e potere politico in una provincia meridionale, Edizioni, Torino, 1972.
Voce della in una proe più in geL'Impresa
27. Interviste, 13 e 18 novembre 1970. Cf. Ivone, Carlo Petrone, cit. p. 57. 28. Stesse interviste della nota precedente. 29. Cf. il mio saggio "Clientelismo e sviluppo politico", cit., pp. 354 e seguenti. 30. U n caso, a cui ho assistito di persona, riguardava una pendenza fra un industriale del posto e l'Agenzia aiuti internazionali (Aai), a cui il primo aveva fornito, in ritardo, una partita di merci. L'intervento di Rota doveva servire a sbloccare la parte del prezzo (1/3) trattenuta dalla Aai a titolo di penale per ritardata consegna. Al posto dell'interessato, presente ma muto, espose il caso il suo accompagnatore (presumibilmente un sub-mediatore). 31. La politicizzazione dei rapporti fra autorità locali, burocrazia e governo in Italia, è uno dei temi centrali della ricerca di S. Tarrow, Between Center and Periphe/y, Yale University Press, New Haven (Conn.), 1977.
163 entrambi i patroni — locale e nazionale — era data pubblicità attraverso manifesti e stampa, secondo una pratica molto diffusa nel Sud ma non limitata al Sud (32) (Cfr. Parte I, dove ho parlato di "privatizzazione" dei beni collettivi). Il manifesto che segue è uno fra i tanti esempi, che evidenzia, fra l'altro, la confusione di ruoli che la pratica comporta (un sottosegretario agli Esteri che si occupa di fondi per lavori pubblici). Democrazia Cristiana Corvino S.E. l'On.le Carmine De Martino, Sottosegretario agli Esteri, ha comunicato all'amico Rota che - in seguito al suo costante e continuo interessamento - il Ministro dei L.L.P.P. ha concesso lo stanziamento di lire 85 milioni per il completamento di due edifici scolastici di Corvino... Con detto finanziamento vengono così a realizzarsi due importanti opere che da decenni attendevano di essere costruite, e il ringraziamento più vivo va all'amico On.le De Martino - unico nostro Sostenitore il quale durante questi anni ha dato la possibilità a questa Amm.ne Comunale di realizzare il programma impostato. 2 marzo 1959
Il
Segretario
Il boss democristiano impiegava queste diverse risorse per acquistare voti. Diversamente dall'industriale-notabile, Rota era un uomo politico che doveva crearsi un seguito elettorale in un contesto partitico sempre più competitivo, anche per la crescita impetuosa (a partire dal 1960) del Pci. In un simile contesto, l'elettore sa di non doversi più appellare alla generosità dei potenti, come avveniva al tempo dei notabili; ora egli prevalentemente contrattuali con il boss. Quest'ultimo, a sua volta, ha perfettamente adattato il suo stile alla nuova situazione competitiva. Amabile riceveva l'omaggio più o meno spontaneo di una popolazione deferente; il boss democristiano al contrario viveva quasi letteralmente "per strada", come egli sottolinea, per conquistare consensi, pronto ad aiutare il lavoratore povero, il disoccupato e i "bisognosi" in genere, gente per la quale organizzava banchetti natalizi presenziati dal vescovo (33).
32 Cf. G. Pansa, Bisaglia
una carriera democristiana, 33
Sugarco, M i l a n o , 1975. Koia faceva anche ricorso a
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Per affermarsi politicamente, Rota aveva bisogno di uno strumento che nel 1954 era quasi sconosciuto a Corvino: il partito politico. Ne aveva bisogno, perché come nuovo venuto non poteva combattere la leadership di Amabile su basi puramente personali. Egli doveva contrapporre al potere economico e alla legittimità tradizionale di quest'ultimo, un potere politico organizzato capace di conferirgli una legittimità moderna. I suoi concittadini dovevano comprendere, Rota disse all'intervistatore, che quello che si faceva in paese era possibile perché lui, il boss della Dc, era il rappresentante locale di una potente organizzazione nazionale (34). E fu precisamente nel contesto del partito cheRota,po vasti contatti, riuscì a liquidare politicamente il suo alleato-nemico Amabile. Nel_ 1959 il boss era abbastanza forte da guidare da solo la Dc verso un notevole successo elettorale, divenendo sindaco (35). Com'era organizzata la vita interna nella Dc di Rota? Una parola su questo punto prima di concludere. Nel '70/71, al tempo del lavoro sul campo, la Dc aveva circa 580 membri, dato fornito da Rota e probabilmente un pò gonfiato. Il partito era strettamente controllato dalla famiglia del boss. U n nipote, studente in legge, era il segretario di sezione, mentre il fratello di questi (a quel tempo 22enne) fungeva da capogruppo Dc in Consiglio comunale. Era anche l'esponente democristiano di gran lunga più attivo nelle riunioni consigliari a cui ebbi modo di assistere. Incontri con gli iscritti avvenivano ogni due mesi circa. Secondo Rota, la sezione di Corvino era fra le più attive nella provincia, non tanto per virtù propria, quanto per il lamentevole stato del partito nel Salernitano (36). Una caratteristica su cui tutti convenivano, era che il partito era un affare di famiglia che lasciava ben poco spazio ad altri leader. Intorno al 1960 il potere municipale di Rota era incontrastato, ma poggiava sulle basi precarie di un esteso patronage. Come lo stesso boss ritorsione. Si trattava in genere di lettere riservate a funzionari di aziende in cui erano impiegati esponenti e attivisti locali di sinistra, da biasimare per il loro comportamento politico. Se n o n si fossero presi provvedimenti contro questi "irresponsabili", ne sarebbero seguiti danno o discredito per l'azienda in parola ecc. 34. Cf. M . Caciagli et al., Democrazia cristiana e potere nei Mezzogiorno, Guaraldi, Rimi Firenze, 1977, cap. 2, per simili sviluppi nella Dc catanese. 35. Amabile sembra sia passato al Psdi, fatto che aiuterebbe a spiegare la crescita elettorale di quel partito a partire dal 1960 circa (cfr. tab. 4, Parte III, cap. 1). Cf. La Guida de! Popolo (Salerno), 15 maggio 1959. 36. Secondo Rota, su 220 sezioni Dc della provincia, 100 erano "sulla carta", 50 permanentemente chiuse e le restanti attive solo in periodo elettorale. Nella città di Salerno, "di fatto le sezioni n o n esistono". Interviste, 13 e 18 novembre 1970.
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ammette, il municipio era ormai diventato una "casa assistenziale" Egli decise allora di "spersonalizzare il ruolo di sindaco", essenzialmente rinviando i postulanti alla Cisl locale. Il risultato fu che la stessa conc molto sensibile a questi metodi particolaristici (37), fu quindi coinvolta nella macchina clientelare. E ' noto, ad esempio, che questo sindacalista ca del resto non limitata alla Cisl (38).
Avuto riguardo alla situazione del partito, Rota non solo doveva sempre più far fronte alla ribellione interna di leader in cerca va rivelarsi un nuovo concorrente, ben organizzato e ideologicamente coeso, sino allora quasi assente dalla lotta politica locale: il Pci. L o studio del ruolo del Pci dopo il 1960 e il suo impatto sulla struttura del potere locale, formano oggetto del capitolo conclusivo di questo lavoro.
37. Il sindacalista in parola, fu espulso dalla Cisl nel 1970 e passò alla Uil. Sostiene di essere stato seguito, nel cambio di sindacato, da 400-500 lavoratori, fatto confermato da altri sindacalisti. Intervista, 8 novembre 1970. Per gli sviluppi nella Cisl negli anni '50 cf. G. Acocella, "Aspetti del movimento sindacale cattolico a Salerno nel primo e nel secondo dopoguerra", in Mezzogiorno e fascismo, cit. voi. Il, pp. 27 e segg. In genere, l'evoluzione fu nel senso di una crescente autonomia della Cisl dalla D e demarimiana. ìbidem. 18. La stessa Cgil n o n era aliena da corruzione e personalismi. Secondo il segretario del IVi, il responsabile della Cgil di C o r v i n o negli anni '50 e '60 aveva una "concezione assistenale del sindacalo" Anch'egli era solito incassare tangenti, oltre i regolari contributi. Interviste, 24 novembre 1970 e 18 novembre 1970.
3. P A R T I T O C O M U N I S T A E M U T A M E N T O P O L I T I C O
A causa di irregolarità amministrative legate soprattutto alla politica urbanistica (1), Rota f u , costretto a dimettersi dalla carica di sindaco (1968). Inizia da allora una fase di relativo declino della Dc, all'origine del quale vi sono due fattori, uno tecnico e l'altro politico. Nel '62 viene nominato un nuovo segretario comunale nella persona di un funzionario giovane, estremamente competente e orientato a sinistra. I contrasti che ne seguirono con il sindaco Rota, privato dell'ausilio di impiegati tradizionalmente malleabili, è elemento non secondario della crisi Dc, a conferma dell'importanza del fattore burocratico nel potere locale (vedi sopra). Il fatto specifico che obbligò Rota a dimettersi, fu una delibera irregolare sottoposta al Consiglio senza che fosse stata redatta, come vuole la legge, dal segretario comunale, né discussa dalla Giunta. Seguirono le dimissioni per protesta di due consiglieri di maggioranza e della Giunta. Il secondo fattore, più indiretto ma più importante, fu il '50, ma che ha conosciuto da allora una crescita impetuosa soprattutto per impulso di un abile quadro ebolitano, insediatosi a Corvino verso la fine degli anni '50.
1. Pci. I leaders e il partito Fino al 1960, il partito comunista era stato uno dei gruppi politici più piccoli di Corvino, con una media di 500 elettori e 1-2 consiglieri. La roccaforte del partito era costituita da un nucleo compatto di braccianti (circa 100 famiglie) alloggiati in una delle frazioni più povere del 1. U n a serie di tredici villette costruite dal sindaco su terreno demaniale.
167 comune, in edifici fatiscenti costruiti durante la guerra. Questo nucleo viveva essenzialmente dei frutti ricavati da terre demaniali loro assegnate nel '45 in forza dei decreti Gullo (2). Molti attribuiscono lo sviluppo e la persistenza di un orientamento comunista fra questi contadini, alla non-dipendenza da proprietari privati, che li metteva al riparo dalle pressioni solitamente esercitate sui braccianti dai padroni (3). Per vent'anni, queste famiglie hanno continuato ad eleggere in Comune lo stesso consigliere, anch'egli bracciante e primo leader del movimento comunista a Corvino. Queste origini sociali del comunismo locale e la successiva stagnazione degli anni '50, inducono a richiamare brevemente alcuni aspetti della lotta per la terra nel Salernitano, elemento centrale della strategia comunista nel dopoguerra, di cui evidenziano punti di forza e debolezze. Detto schematicamente (4), la strategia Pci nelle campagne conobbe due fasi che hanno come spartiacque il '48. La prima mirava essenzialmente alla divisione delle terre incolte, specie quelle demaniali, ed era diretta soprattutto ai contadini senza terra. Si svolgeva in un momento (1944-46 circa) in cui erano ancora vive le attese di una svolta politica radicale, svolta a cui venivano rinviate le trasformazioni più profonde. Soprattutto, la strategia in parola coinvolgeva essenzialmente una fascia contadina (i contadini poveri), mobilitati sull'obiettivo tradizionale della spartizione delle terre. La seconda fase, che sarà propria delle lotte del '49-50, quindi dopo le delusioni, per la sinistra, del 2 giugno e del 18 aprile, ha obiettivi politici e sociali diversi. La nuova strategia mira a coinvolgere il mondo delle campagne nel "rinnovamento democratico del Mezzogiorno" (5), a radicare cioè la nuova democrazia, oltre che a mobilitare per la terra; si promuovono, a questo fine, ampie alleanze di classe, estese ai piccoli e medi agricoltori, ai coloni e compartecipanti (e non più ai soli contadini poveri); ha come obiettivo più generale le "terre malcoltivate" e non solo quelle incolte, nel quadro di una strategia articolata capace di riflettere i diversi assetti produttivi e fondiari presenti talvolta in uno stesso comprensorio (6). Il motto diventa: "togliere la terra ai parassi2. Prima del '45, queste terre erano date in affitto a grandi affittuari che le sub-affittavano, sistema che ricordava ai braccianti locali quello siciliano dei gabelloti. Intervista 15 ottobre l ( J7l. 3. Intervista, 9 dicembre 4. Cf. Alinovi, Problema contadino, cit.; Levrero, Intervento in Mezzogiorno e fascismo I, cil.
voi
5. Alinovi, Problema contadino, cit., p. 90. 6. Questa strategia di "differenziazione del movimento nei vari contesti", che sembra il
168 ti" (7) (che è cosa diversa dalla semplice spartizione della terra). Nella Piana del Sele, questa linea avrà come epicentro la zona compresa fra Eboli e Capaccio, zona caratterizzata, come ho già detto (vedi sopra), da un'agricoltura capitalistica relativamente avanzata, cresciuta però in forza di rapporti contrattuali arcaici. Qui il fine che i dirigenti del movimento si pongono — come sappiamo dalla testimonianza di Levrero — non è semplicemente un fine redistributivo (la terra a chi lavora), ma andava nel senso delle trasformazioni produttive possibili nella zona. Per cui le terre occupate, nella Piana, non furono solo di agrari assenteisti, ma anche di proprietari produttori e imprenditori affittuari, ovvero terre demaniali sotto il controllo di questi ultimi. L o sbocco prospettato, e in gran parte mancato, fu quello di cooperative a conduzione collettiva, per contrapporre all'azienda capitalistica "organizzazioni collettive del lavoro suscettibili di elevate tecnologie... rovesciando con esse le parti arcaiche conservate [nel] processo di "modernizzante" e riformatore della linea comunista nelle campagne, il cui primo effetto, se avesse avuto successo, sarebbe stato quello di dissociare capitalismo e residui feudali. L'obiettivo, posto in questi termini, fallì, anche se è aperto il dibattito storiografico sul contributo dato dalle lotte per la terra al processo di sfaldamento del così detto "blocco agrario" meridionale (9). Le cooperative (quattro in numero nella Piana dopo i decreti Gullo, di cui una comunista), non ebbero sviluppo. Si assiste anzi ad un rilancio di contratti arcaici e in ispecie della compartecipazione, "nell'area capitalista della Piana come una sua forma di organizzazione del lavoro" (10), secondo il modulo già descritto. L'obiettivo fallì sia per le modalità con cui venne attuata la riforma agraria, che accentuava i l frazionacenlro della linea Pci, così come emerge dalla ricostruzione di Levrero, faceva sì che la strategia fosse diversa da regione a regione. Grosso modo, si possono identificare tre strategie, riassumibili nelle formule: 1) "terra a chi lavora" per le aree del feudo (Sicilia, Calabria, glia: lotta per i prezzi dei prodotti, per i salari, e per opere di irrigazione ma non per distribuzione di terre); 3) "togliere al capitalismo gli aspetti arcaici" (Piana del Sele, ecc.). Levrero, Intervento, in Mezzogiorno e fascismo, cit. 7. A b d o n Alinovi, nella relazione al 1° Congresso regionale della terra, Eboli, 15 dicembre 1947. Cit da S. Alinovi, op. cit., p. 99. 8. Levrero, Intervento in Mezzogiorno e fascismo, cit., p. 297 (mio corsivo). 9. Cf. R. Villari, " L a crisi del blocco agrario", in L'Italia contemporanea 1945-1975, a cura di V. Castronovo, Einaudi, Torino, 1976; E. Renda, Intervento in Mezzogiorno e fascismo, cit., voi. 1°, pp. 479^90. 10. Levrero, Intervento, cit., p. 301.
169 mento contadino (piccole proprietà organizzate intorno alla casa colonica) , che per le difficoltà incontrate nell'organizzare le terre nizzative del movimento per la terra nel comprensorio del Sele,_riflesso della più generale debolezza delle sinistre nel Salernitano.
Questo fallimento nel campo dei cambiamenti della struttura socioeconomica, che sono poi i cambiamenti che contano, rende anche conto delle difficoltà con cui verrà a scontrarsi il Pci nella comunità studiata e che avremo modo di esaminare in dettaglio. Una prima difficoltà, relativa alla debolezza dei quadri dirigenti locali, fu affrontata di petto con l'invio nel '58 a Corvino di un abile organizzatore di Eboli, centro tradizionale di reclutamento dei dirigenti comunisti salernitani (11). Ascoli, avvocato di professione, proveniva dalla Scuola centrale quadri del partito di Bologna e aveva preso parte al movimento di occupazione delle terre nell'Agro nocerino come funzionario della Federazione comunista; come tale, era in grado di fornire al Pci corvinese una leadership molto più sofisticata rispetto al bracciante di cui ho detto poc'anzi. Secondo il leader comunista, al momento del suo arrivo in città, l'economia di Corvino stava entrando in una nuova fase caratterizzata dai seguenti fattori (12): 1) fine della fase pre-capitalistica; 2) inizio dell'industrializzazione, specie nella città di Salerno, modernizzazione dell'agricoltura e proletarizzazione dei braccianti; 3) ruolo decisivo dei "baroni del mattone" (vedi sopra), in genere "agganciati" ai partiti (Dc, Psi, Psdi), che avevano preso il posto della vecchia classe dirigente degli agrari. Per il Pci, si trattava di sviluppi promettenti, ma non tali da compensare le tradizionali carenze della sinistra, specie comunista, a Corvino. La stessa debolezza dei sindacati, che Ascoli considera il più importante fattore di mobilitazione politica (più importante del partito), non facilitava le cose. Tutto ciò faceva sì che il partito, anziché essere espressione del movimento di classe, dovesse esso stesso "creare le basi sociali del movimento" (13); fatto che spiega, almeno in parte, iltipodistrategiachesarà
11. Cf. Alinovi, Problema contadino, cit., pp. 68 e segg., sulla funzione del "gruppo Mezzogiorno e fascismo, cit., voi. 1, pp. 508-510. 12. Intervista, 9 dicembre 1970. 13. Stessa intervista.
170 vedi oltre), ragione non ultima delle ambiguità di tale strategia, su cui ritornerò ampiamente. Una prima occasione di inserimento nel gioco politico cittadino si presentò nel '62. L'intensa animosità che allora opponeva il leader socialista al boss Dc, aveva impedito di varare una giunta di centro-sinistra. Il leader del Psi (lo stesso del '52), non aveva dimenticato che la prima giunta di sinistra (1952-53) era caduta sotto i colpi di Rota (vedi sopra). Il Pci si alleò a Martuscelli (Psi) e grazie all'abilità di Ascoli divenne ben presto il partner principale della coalizione. Da un lato, due consiglieri socialisti passarono al Pci, dall'altro l'incriminazione del sindaco Martuscelli per irregolarità amministrative (1964) consentì a Ascoli di subentrargli come sindaco facente funzione. Intorno al '64, e nonostante il passeggero insuccesso comunista alle amministrative di quell'anno, era chiaro che il Pci stava diventando il partito meglio organizzato di Corvino, fatto confermato dai risultati elettorali del '68 (il Pci quasi raddoppiò i voti, da 1.508 nel ' 6 4 a 2.900, mentre l'elettorato socialista veniva dimezzato; vedi tab. 4, Parte III, cap. 1). Quali le ragioni di questa crescita elettorale? Il fattore più generalmente concordano nel ritenere Ascoli uno dei più abili uomini politici in città. Diversamente da altri leader, la sua forza non nasce da una legittimità tradizionale (prestigio e ricchezza), né dal tipo di risorse su cui Rota aveva costruito la propria carriera (contatti personali e di partito). Ascoli è un uomo formato dal partito e che si rapporta ad esso in modo del tutto nuovo. Se i leader provinciali e nazionali di partiti come la Dc e il Psi sembrano incapaci o reticenti a dare un orientamento coerente ai propri rappresentanti periferici, anche a causa delle lotte di corrente, l'opposto vale per il Pci. Ascoli godeva di sufficiente autonomia per destreggiarsi nella situazione locale (forse anche troppo, come vedremo), pur rimanendo legato alla linea nazionale del Questo legame con il partito è, nelle condizioni del Sud, un'innovazione importante sotto più punti di vista (14). Anzitutto è un antidoto contro quelle tendenze personalistiche che sono uno dei mali storici della vita politica meridionale. Inoltre, "professionalizzando" l'attività dell'uomo politico, il partito lo protegge — almeno entro certi limiti — 14. Cf. le pertinenti osservazioni di Galasso sul ruolo dei partiti nella cultura meridionale, nel saggio " M e z z o g i o r n o e modernizzazione (1945-75)", in La crisi italiana, a cura di L. Graziano e S. Tarrow, Einaudi, Torino, 1979, pp. 349 e segg.
171 daindebitepressionidi gruppi locali. Nel caso personale di Ascoli, quando all'inizio degli anni '60 perse gran parte dei suoi clienti, "dissuasi" dal servirsi del suo studio legale da uomini di Rota, egli potè ripiegare su un lavoro di consulenza part-time presso la Cgil di Salerno. Secondo Ascoli, il tipo di pressioni contro uomini politicidisinistraè tale nel Sud che "nessun, professionista potrebbe resistere a queste del leader socialista di Corvino (vedi sopra). Il secondo fattore nella crescita comunista è l'organizzazione. Il numero dei membri cominciò a crescere verso la fine degli anni '60, quando erano circa 150 (184 nel '70 e 310 nel '71, subito dopo la nomina a sindaco del leader Pci, cosa che lascia adito a dubbi sulle motivazioni di alcuni nuovi iscritti). Come termine di confronto, possiamo prendere Eboli, città più grande e con tradizione di sinistra ben più radicata, che contava nel '71 710 iscritti (16). Nel '76, il Pci contava a Corvino 3 sezioni e circa 500 iscritti (17). La Federazione aveva fissato (1973) per la stampa comunista i seguenti obbiettivi (la diffusione effettiva era quindi inferiore): 100 abbonamenti a La Voce di Salerno, 5 a Rinascita, 100 copie de L'Unità per la diffusione speciale della domenica (18). La struttura del partito presentava ancora, peraltro, non poche — sproporzione fra numero di voti e iscritti (meno di un iscritto su 7 — forte rotazione dei membri, dovuta anche all'emigrazione (o più esattamente a fenomeni di immigrazione dalle zone interne e partenze per Salerno e il Nord). Il ricambio annuale degli iscritti era valutato intorno al 50 per cento (19). Tutto ciò accentua la frammentazione sociale e costringe il partito ad uno sforzo costante di "risocializzazione" dei membri; — maggioranza di iscritti di origine non-proletaria: nel '70 i braccianti rappresentavano il 40 per cento del partito (20), cifra che sembra un 15. Intervista, 9 dicembre 1970. 16. Federazione comunista salernitana, "Tesseramento", ciclostilato (anni'69, 7 0 , '71). 17. Intervista, 8 luglio 1976. 18. Bollettino delle sezioni di organizzazione e di propaganda, Federazione comunista salernitana, n. 1, 16 giugno 1973. 19. Intervista, 15 ottobre 1971. Fra il '51 e il '71, 10.000 nuovi residenti si s o n o insediati a Corvino, contro i 1.500 che hanno lasciato la città. 20. Intervista al segretario locale Pci, 24 novembre 1970.
172 po' gonfiata. Il resto era composto da professionisti, impiegati, tabacchini, commercianti, casalinghe. La situazione è migliorata dopo il '70, con un maggior reclutamento fra i lavoratori del tabacco in seguito agli scioperi in quell'industria (vedi oltre);
-leadershipsoloinpiccolaparteproletaria.Nel '70 il com commercianti (di cui 2 ambulanti), 1 agente di assicurazione e 2 liberi professionisti (21). Il leader del partito era, come sappiamo, un avvocato, il capogruppo consigliare un commerciante, il segretario un impiegato statale recentemente immigrato dalla Sicilia (22). Come sottolineano i dirigenti locali, l'attività del partito è resa difficile da condizioni oggettive e atteggiamenti radicati. La precarietà della struttura occupazionale, dovuta, fra l'altro, alla crisi del tabacco (vedi oltre), indebolisce i sindacati, e indirettamente il partito ("dove non esiste organizzazione sindacale non esiste organizzazione politica" (23)). Recenti episodi confermano che la vecchia pratica di cooptare i leader del sindacato è viva e vegeta. Una sindacalista Cgil che ebbe un ruolo importante negli scioperi del '71 nei tabacchifici (vedi oltre), ha recentemente lasciato il sindacato, sembra perché corrotta dalla direzione della fabbrica. C'è, infine il vecchio timore di "compromettersi" iscrivendosi al partito, specie se questo è ostile al padrone. D i qui una sorta di paura della tessera ("feticismo della tessera", come la chiama il segretario 21. Stessa intervista. 22. A queste difficoltà, va aggiunta la grave crisi che ha paralizzato la Federazione salernitana nel 1969-70. C f Partito comunista italiano-federazione salernitana, Documento del Comitato federale per la Conferenza provinciale di organizzazione, Salerno, 21-22-23 maggio 1971. Nel 7 0 , il gruppo di dirigenti che aveva diretto per anni la Federazione aveva lasciato il partito per confluire nel Psdi e in altri gruppi. L'accusa poi mossa nei loro confronti fu quella di essere u n gruppo clientelare interessato solo al rafforzamento del proprio potere: to alla organizzazione del N o r d o dei grandi centri, l'assegnazione alla Federazione di Salerno di un ruolo difensivo... e a livello politico il compito di farsi carico di un generico patronato di interessi eterogenei, sovente in termini frammentari e persino personali. La politica [del partito] troppo spesso è venuta cosi decadendo a livelli dell'assistenza e del collegamento episodico e personalistico" Il documento aggiunge che in "luogo del collettivo di partito è venuto prendendo spicco il ruolo del 'personaggio' che si colloca quasi al di sopra e al di fuori del partito" Infine le sezioni, anziché essere centri d'iniziativa e di lotta, " s o n o state talora ridotte a strumenti di procacciamento di preferenze [ e ] di gestione ed organizzazione di gruppi clientelari" Ibidem, pp. 6-7, 8, 23. 23. Intervista con il segretario Pci, 24 novembre 1970.
173 Pci). Secondo un bracciante, molti contadini e lavoratori che votano Pci esitano ad entrare nel partito. Si chiedono: " D o v e manderanno la mia tessera? A R o m a ? A quale fine? " (24). U n atteggiamento di questo genere rivela non solo forti riserve verso qualsiasi struttura organizzata, ma anche profonda sfiducia in chi è in politica, per quanto progressista possa essere l'orientamento del partito.
2. L'ascesa del Pci al potere (1970-73) A seguito delle elezioni comunali del 1970, Ascoli divenne il primo sindaco comunista di Corvino, Da allora la città è stata ininterrottamente amministrata da giunte dirette dal Pci, in forza di coalizioni molto eterogenee il cui elemento unificante è dato dalla comune ostilità a Rota. Nella parte restante di questo lavoro, affronterò tre problemi che mi sembrano fondamentali per valutare il ruolo svolto dal Pci a Corvino e più in generale nel Sud: che cosa è cambiato dal ' 7 0 ? Perché così poco è cambiato? Quali sono le prospettive della politica di Corvino oggi ? Per comune consenso, il più importante risultato conseguito dalla Giunta Ascoli (1970-73) è nel campo dell'occupazione industriale. Intorno al '71-'72, la situazione dell'industria tabacchicola, che restava uno dei pilastri dell'economia locale, si era drammaticamente deteriorata. minacciava di fare altrettanto con altre due aziende. Se questo non è avvenuto, parte del merito va all'amministrazione Ascoli.
U
Per valutare nelle sue giuste proporzioni la gravità della crisi e l'esasperazione dei lavoratori, è utile richiamare alcuni dati sull'industria tabacchicola nel Salernitano. Iintorno al 1960, il numero complessivo dei Iavoratori del tabacco in provincia di Salerno era di circa 9.000addetti.Ne paesi, soprattutto la Grecia (26). I lavoratori aggiungono, come fattore di crisi, l'insufficiente modernizzazione degli impianti. Le ripercussioni nella Piana del Sele, dov'è concentrata la maggior parte dei tabacchifici,
24. Intervista, 24 novembre 1970. 25. Cf. C o n v e g n o di studio sulla piena occupazione di Corvino e nella Piana del Sele, Corvino, 24 novembre 1970. 26. Intervista, 16 ottobre 1971.
174 furono esplosive. Nel '69, a seguito della chiusura di uno stabilimento, gravissimi disordini scoppiarono a Battipaglia, trovando sindacati e partiti largamente impreparati (27).
L'amministrazione di Corvino affrontò la situazione in modo in quegli anni da una seria crisi, i leader comunisti agirono a due livelli. sciopero che paralizzò per giorni l'intera città (marzo 1971), frenandone al contempo le forme più estremistiche (blocco stradale e ferroviario). Il problema era appunto quello di controllare una situazione potenzialm fatti, "la mobilitazione dal basso è la vera arma contrattuale delle amministrazioni di sinistra nel trattare con le autorità centrali" (28).
A livello politico, furono cercati contatti con il Prefetto, mentre una delegazione di operai, amministratori comunali e sindacalisti si recava a R o m a al Ministero dell'industria. Ascoli ebbe un appoggio decisivo dai sindacati di Salerno, che fecero tutto il possibile per impedire che la protesta degenerasse, come era avvenuto a Battipaglia. Ascoli agì anche di concerto, e non senza difficoltà, con un comitato nominato dagli scioperanti. Fece infine ricorso, specialmente nel caso dell'industria conserviera, a membri comunisti della Commissione Agricoltura della Camera, alcuni dei quali conosceva personalmente mentre altri furono raggiunti attraverso la Federazione salernitana (29). Il punto che vorrei qui sottolineare è duplice. Anzitutto lo sciopero avrebbe potuto degenerare e rivolgersi contro l'amministrazione comunale, come a Battipaglia due anni prima. La protesta di massa, che si mantenne entro limiti civilissimi, fu invece occasione di maturazione
27. I fatti di Battipaglia del '69 trovarono il Pci impreparato, fattore n o n ultimo della crisi nella Federazione di cui si è detto (v. nota 22). Battipaglia "mise in luce, insieme a limiti del sindacato e del tessuto democratico di massa, l'esistenza di gravi degenerazioni in seno al [Partito comunista], che avevano pressoché interrotto il legame... partito-mase,... quasi cancellato i connotati e indebolito la natura stessa del partito" Pci-Federazione salernitana, Documento de! Comitato federale, cit., p. 2. 28. Intervista, 15 ottobre 1971. 29. Stessa intervista. 30. U n o scioperante 18enne, disoccupato, disse nel corso della protesta: "la maturazione politica sarà effettiva quando la gente saprà per chi votare sulla base di considerazioni politiche e di una conoscenza delle forze politiche in lotta, e n o n di personalismi" Questo voglio dire per "maturazione politica" di massa.
175 leva per ottenere risorse dallo Stato e salvare una delle principali industrie della zona. Intorno al '75-'76, i due stabilimenti del Monopolio erano funzionanti, occupando complessivamente circa 800 addetti. Il più grande era stato dotato di efficienti servizi sociali (ambulatorio, mensa, giardino d'infanzia), indispensabili dato il grande numero di donne impiegato nei tabacchifici. L'altro aspetto è che per la prima volta la principale risorsa nelle mani degli amministratori locali non fu il "contatto" personale con Roma, ma una responsabile mobilitazione popolare. Mediazione certamente vi fu (e come potrebbe non esserci in circostanze del genere? ), ma fu mediazione fatta da leader politici non a titolo personale, e da agenti istituzionali — i sindacati — che rappresentavano diverse tendenze politiche. Ascoli non fu certo visto come il "santo in paradiso" in contatto con i potenti di R o m a (né ne aveva la possibilità, se lo avesse voluto); egli si limitò piuttosto a svolgere un'azione — decisiva ma circoscritta — volta a "orientare" un movimento ispirato e sostenuto dalla popolazione. L o poteva fare perché, diversamente dagli amministratori Dc, non aveva mai detto che l'industria del tabacco era condannata (31). Aveva, in una parola, l'abilità e la legittimità necessarie per attuare una strategia collettiva, non-clientelare, di "estrazione" Che significato ebbero questi eventi sul piano della gestione del potere? Furono il segno di un mutamento nella gestione del potere locale o un fatto isolato? La domanda fu posta a un certo numero di esponenti locali nel '72 e '74, nel tentativo di fare un bilancio della Giunta Ascoli. Il quadro che ne è emerso non è univoco. Il leader neofascista riteneva che l'amministrazione Ascoli fosse "profondamente diversa" da quella di Rota. Differivano nella diversa concezione dello sviluppo di Corvino e nel modo in cui si tenevano i contatti con Roma. Rota aveva promosso un tipo di sviluppo (edilizia, turismo, ecc.) "secondo le proprie convenienze, e sbandierava i finanziamenti ricevuti dal centro" come frutto delle proprie amicizie; il Pci faceva piuttosto ricorso alla mobilitazione ideologica. Il clientelismo non era però scomparso. A l "grande clientelismo" di Rota era subentrato un "piccolo clientelismo" legato soprattutto alle assunzioni di personale in Comune (32). 31. E ' al di là delle competenze di chi scrive giudicare nel merito l'opera di "salvataggio", se si trattava cioè di aziende decotte (cosa n o n da escludere) o meno. C i ò che interessa qui è il metodo seguito, al di là del problema, importante ma distinto, del fondamento economico dell'operazione. 32. Intervista, aprile 1972.
176 Paradossalmente, un consigliere ex-socialdemocratico membro della maggioranza era più scettico. Non molto era cambiato, a suo avviso, se non per il fatto che era venuto meno il "servilismo" della popolazione, che ora provava "rispetto ma non era più succube dell'autorità" (33). U n terzo intervistato, comunista, rilevava che il bilancio avrebbe potuto essere migliore se non si fosse "troppo condizionati dalle alleanze" (34). Il che mi porta a dire di quella che ho più sopra definito l'ibrida politica delle alleanze del Pci.
3. La politica comunista delle alleanze Ascoli è stato eletto sindaco (1970) da quattro gruppi: — — — —
Pci (9 consiglieri); due socialdemocratici; due aclisti appartenenti a una lista civica ("Campana"); due membri di una lista civica detta " I l Fiume"
L'importanza delle liste civiche per la maggioranza, l'esclusione del Psi e la presenza di socialdemocratici richiede qualche chiarimento. Il Psdi aveva come leader locale un uomo che aveva rotto con Rota all'inizio degli anni '60. Da allora, i suoi rapporti con il boss democristiano erano stati contrassegnati da forte animosità personale. Nel '70, preferì essere espulso dal Psdi, che obiettava il voto favorevole al sindaco comunista, piuttosto che perdere l'occasione di appoggiare un'amministrazione anti-Rota. Motivazioni opposte ma simmetriche, valgono a spiegare l'atteggiamento socialista, contrario alla Giunta Ascoli. Dal '65-'68, quando fu inaugurata una coalizione Dc-Psi, i socialisti hanno mantenuto stretti rapporti con Rota, rapporti che vanno visti anche nel quadro della rete di interessi legati all'edilizia e allo sviluppo urbanistico di Corvino (vedi sopra). La solidarietà con Rota era cosi forte, che due consiglieri Psi preferirono essere espulsi dal partito (1974) piuttosto che appoggiare l'amministrazione (35). Il risultato fu che la Giunta fu lasciata alla mercé delle liste civiche, con gravi conseguenze per la coesione, efficienza e legittimità della maggioranza. L'orientamento delle liste civiche, capeggiate da ex-democristiani,
33. Intervista, 1 luglio 1974. 34. Intervista, 27 g i u g n o 1974. 35. Intervista con il segretario provinciale Psi, 2 luglio 1974.
177 rispondeva, come ormai è facile intuire, a motivazioni non meno particolaristiche. Gli aclisti della "Campana" non erano tanto a favore di uno specifico programma, quanto interessati a combattere Rota, con cui avevano rotto anni prima. La Weltanschauung politica di questi consiglieri, entrambi insegnanti elementari, ben esemplifica il tradizionale trasformismo della piccola borghesia meridionale, e si esprime in giudizi di questo tipo: "Tutta la classe politica è composta da ladri. Perché tanta gente vuol fare il dirigente se non vi fosse l'interesse? " (36). Nel '72 il capolista della "Campana" fu costretto a dimettersi dalla carica di consigliere per avere illegalmente aggiunto un piano ad un edificio di sua proprietà, in violazione dei regolamenti vigenti (vedi oltre). L'altra lista civica — " I l F i u m e " — era, se possibile, ancor meno qualificata, politicamente. " I l Fiume" è un raggruppamento creato da un giovane avvocato che ammette di aver lasciato la Dc perché Rota gli negava " u n posto al sole" Suo padre è l'ufficiale sanitario di Corvino, e ha ricoperto quell'influente incarico ininterrottamente dal 1940. Come tale, controlla un'ampia clientela che ha costituito il nucleo iniziale della clientela politica del figlio. Questo consigliere, che si proclama anti-comunista ( " S t o con i comunisti per farli andar via"), è stato vice-sindaco quasi ininterrottamente dal 1970 al '75 e sindaco facente funzione nel ' 7 2 - 7 3 durante la sospensione di Ascoli (vedi oltre). U n più dettagliato ritratto dell'uomo, quintessenza del notabilato trasformistico, si trova nell'intervista riportata in appendice. Oltre ad essere eterogenea, la maggioranza era anche precaria. Poteva inizialmente contare su 15 consiglieri, ma per governare Corvino ne occorrono almeno 16. Di qui una ricerca febbrile di voti alla vigilia di votazioni importanti (specie il voto sul bilancio). D i qui, ancora, il ricorso a transazioni poco chiare e a continui ricatti da parte delle liste civiche. A d esempio, nel '71 la ricerca del 16° voto per l'approvazione del bilancio portò a un riuscito tentativo di cooptazione di un terzo consigliere de " I l Fiume" entrato nell'organico del Comune insieme alla madre a seguito di concorso pubblico della cui regolarità molti dubitano. U n secondo e più grave episodio risale al '72, allorché la maggioranza fece votare una variante al regolamento edilizio in virtù della quale "le costruzioni comunque... ultimate alla data di entrata in vigore del Regolamento Edilizio [1970] sono ritenute ammesse... anche se queste costruzioni dovessero risultare in contrasto con il detto Regola36. Intervista 18 novembre 1970.
178 mento Edilizio e [il] programma di fabbricazione" (37) (il corsivo è mio). La variante mirava in particolare a sanare le irregolarità commesse dal leader de " L a Campana" (v. sopra), ricambiando l'appoggio alla Giunta. Esistevano altre ragioni di dissidio all'interno della maggioranza, che portarono alla sua progressiva paralisi, specialmente il problema delle assunzioni in Comune e quello delle licenze edilizie. Coerentemente alla sua filosofia clientelare, il vice-sindaco premeva per nuove assunzioni (v. appendice). Nel '74, poco prima dell'elezione di un nuovo sindaco comunista, questo consigliere, nella sua qualità di assessore al personale, chiese e ottenne l'assunzione di 10 nuovi netturbini. Si può legittimamente sospettare che questo fosse parte del prezzo che il Pci dovette pagare nel fare eleggere il sindaco, posto al quale aspirava lo stesso vice-sindaco (38). In fatto di politica urbanistica, fra comunisti e i rappresentanti de " I l Fiume", non c'era maggiore convergenza, avendo gli uni e gli altri concezioni opposte sullo sviluppo di Corvino. Mentre il Pci voleva limitare l'espansione sulla costa e favorire l'edilizia pubblica e quella sovvenzionata, " I l F i u m e " era per il tipo di lottizzazioni che aveva caratterizzato la politica edilizia dei due decenni precedenti. Nel '74 il vice-sindaco disse all'intervistatore che se la Giunta non avesse dato corso ad un grosso progetto d'insediamento sul litorale, avrebbe fatto cadere la Giunta (v. appendice). Per spiegare il corso comunista in fatto di alleanze e l'accettazione dei pesanti condizionamenti che ne derivavano, ci sono, certo, delle attenuanti, una delle quali è che nel '70 Corvino era la sola amministrazione di sinistra della provincia (nel '72 giunte "rosse" furono elette anche a Eboli, Nocera Inferiore, Amalfi e in altri centri). Inoltre la nuova Giunta, per quanto incapace di attuare un programma coerente, non cedette mai al tipo di politica clientelare caratteristico di Rota: favori a singoli consiglieri sono qualcosa di qualitativamente diverso da un'intera politica urbanistica dettata dagli interessi degli amministratori, caso appunto delle Giunte precedenti. Infine, in alcuni casi, come ad esempio nella crisi dei tabacchifici, la Giunta seguì una strategia opposta a quella propria del potere clientelare. Detto questo, va anche aggiunto che il Pci probabilmente sottovalutò i rischi e i limiti dell'operazione. 37. Verbale di deliberazione de! Consiglio comunale, Corvino, marzo 1972. 38. C o r v i n o contava 108 impiegati comunali nel 7 1 . Nel 7 6 si aggiravano sui 140 (stima).
179 I rischi divennero evidenti nel '72, quando Ascoli fu sospeso dalla carica di sindaco per irregolarità che erano tanto minori quanto significative. Nel '71 l'amministrazione aveva acquistato 135 alberi da un' aziendadelposto senza prima consultare le altre ditte del ramo. (Per tutti gli acquisti di entità superiore alle 500.000 lire, il comune è tenuto a sollecitare offerte dalle ditte accreditate). Il costo era insignificante (1.305.000 lire), ma si dà il caso cheladittapresceltaappartenesse al fratello di un consigliere Dc di sinistra. La mossa fu interpretata come un tentativo di cooptare un consigliere democristiano nella maggioranza,timorenondeltuttoinfondato(questoconsigliere votò ad esempio a favore della variante al regolamento edilizio di cui si è detto sopra). Conformemente a una prassi consolidata (ricorso all'auto rità giudiziaria contri i propri oppositori), la Dc avviò il procedimento penale che doveva portare alla sospensione del sindaco (39). La reazione democristiana va vista nel quadro più generale dei rapporti fra maggioranza e opposizione a partire dal 1970. L'orientamento anti-Rota dell'Amministrazione, e anche le forme punitive che ess_o finiva in parte per assumere verso la persona dell'ex-sindaco Dc (ritardato rilascio di licenze edilizie, ecc.), crearono un clima sempre più simile a una faida. Nel '71 la Dc aveva preso l'iniziativa di un foglio bisettimanale sul quale si lanciavano attacchi violentissimi contro la Giunta. Nel '72 fu presentata una mozione con cui si chiedeva la nomina di una Commissione consigliare d'inchiesta sull'attività della Giunta, indirizzata anche al ministro degli interni e al prefetto, in cui si denunciavano, fra le molte cose, discriminazioni politiche (nell'assunzione del personale, licenze, tributi, ecc.), il "terrore comunista" nelle fabbriche e la "catastrofe amministrativa" della città. La situazione del Comune era sempre più prossima alla paralisi, mentre la vita politica del paese degenerava in una "spirale di odio e di personalismi", come ebbe a dire più tardi un consigliere. La Dc porta parte della responsabilità, come attesta ad esempio la sproporzione fra le irregolarità commesse da Ascoli e l'azione legale avviata a suo carico. Il comportamento punitivo di Ascoli, in un momento in cui il Pci 39. L ' a z i o ne contro il sindaco fu interpretata come una ritorsione di parte della Dc contro la politica edilizia della Giunta, che n o n aveva "consentito che si portasse avanti il disegno della mafia dell'edilizia... Essi n o n h a n no potuto gestire la legge sulla casa... [ n è ] mettere le mani sulla litoranea, e vogliono in un m o d o o nell'altro metterle" Dall'intervento di un consigliere di maggioranza, Verbale di deliberazione del Consiglio comunale, Corvino, dicembre 1972. L'interpretazione del consigliere M s i n o n era molto diversa ("manovra politica di Rota, che si è avvalso del suo potere in prefettura"). Intervista, aprile 1972.
180 spingeva a livello nazionale per una politica di unità antifascista, fece anch'esso la sua parte, rivelandosi impolitico e controproducente (40). Tutto questo non fa che confermare i forti condizionamenti che la politica locale, specialmente al Sud, esercita sui leader politici, compreso uomini politici sensibili e intelligenti come l'esponente comunista di Corvino.
4. Corvino dopo il 1973 I fatti che ho riportato risalgono al 1972-73. Nel '74 sono ritornato nella comunità per intervistare alcuni leader. Il neo-fascista disse (41): " L e i vede riprodursi a Corvino quello che avviene in Italia: egemonia del Pci e compromesso storico" Poteva trattarsi di una boutade polemica di un uomo di destra, ma lo stesso boss della Dc sorprese l'intervistatore dicendo (42): " S i potrebbe fare un accordo con il Pci. N o n con Ascoli, certo, ma con Mandia sì". L o stesso valeva, aggiunse, a livello nazionale. Il solo problema serio era un problema di leadership: "Potremmo andare al potere con il Pci, se avessimo una classe dirigente adeguata. Loro [Pci] sono troppo bravi. La Dc è un partito di analfabeti" II segretario della sezione Dc era non meno critico: "L'accordo con il Pci potrà avvenire solo quando in alto, nella Dc, si porrà termine al correntismo sfrenato. La verità è che la Dc fa ancora troppo clientelismo; il politico locale è collegato a politici più importanti che contano nella misura in cui sanno emergere a R o m a " (43). Per comprendere questa nuova vena autocritica fra i dirigenti democristiani, occorre ricordare, due avvenimenti che influenzarono profondamente la vita politica di Corvino e della Piana del Sele intorno al 1973-74. M i riferisco al ruolo svolto dal successore di Ascoli nella carica di sindaco, Mandia, e soprattutto a una protesta di massa scoppiata a Eboli nel '74, non dissimile, nelle motivazioni di fondo, da altre recenti sommosse inc i t t àmeridionali(Reggio,Battipaglia,ecc.). 40. Questo era il giudizio anche del segretario provinciale del Pci: per "la strategia c o m u nista verso la Dc sarebbe suicida condannare in blocco la Dc come clientelare. E ' questo l'errore del Pc a Corvino: personalizzando la lotta contro Rota, Ascoli non ha compreso il punto centrale: che la lotta al clientelismo passa all'interno della D c " Intervista, 1 luglio 1974. 41. Intervista 27 giugno 1974. 42. Intervista, 7 agosto 1974 (a). 43. Intervista, 7 agosto 1974 (b).
181 Comincerò da Eboli. Nel maggio '73 il Governo aveva dato la propria approvazione a un piano di investimenti Fiat per il Sud, che prevedeva una fabbrica d'auto da installarsi nell'ebolitano (circa 3.000 posti di lavoro). Nei mesi successivi, la crisi petrolifera aveva costretto la Fiat a rivedere i propri piani (più autobus per il trasporto pubblico e meno auto). Ma nulla fu detto ufficialmente circa possibili cambiamenti nella scelta dell'area dove la fabbrica in questione avrebbe dovuto sorgere. Nel maggio ' 7 4 il Cipe annunciava che gli impianti Fiat sarebbero stati costruiti a Grottaminarda (Avellino), mentre niente fu detto a proposito di Eboli. La reazione fu immediata, massiccia e violenta. Furono erette barricate sulla Napoli-Reggio Calabria e il traffico ferroviario fu anch'esso interrotto. Per giorni, le comunicazioni tirreniche fra il Nord e il Sud rimasero bloccate. F u indetto uno sciopero generale per protestare contro il "tradimento" del Governo. Il maggior risentimento era verso l'allora ministro dell'industria. De Mita, accusato di avere "dirottato" ad arte l'investimento verso il suo feudo elettorale (44). La protesta avrebbe potuto facilmente degenerare come a Battipaglia o a Reggio Calabria. L'elemento nuovo fu il ruolo svolto dai sindacati e dal Pci, che insieme agli altri partiti tennero ben in mano la situazione. Cgil, Cisl e Uil riuscirono a rintuzzare i tentativi della destra neofascista volti a istigare una rivolta di tipo municipalistico (Eboli contro Grottaminarda). Più volte si sottolineò, nei comizi e nelle conversazioni, che la lotta non era contro la provincia di Avellino, che si riconosceva ancora più bisognosa di industrie della Piana del Seler ma contro un metodo clientelare di governo e di distribuzione delle risorse. La posizione dei sindacati era tanto più forte, in quanto l'investimento F I A T era stato deciso anche su pressione dei sindacati dei metalmeccanici, che chiedevano maggiori investimenti Fiat al Sud. Il risultato fu qualcosa di inedito per il Mezzogiorno. Come ha rilevato il segretario della Cigl salernitana (45), "per la prima volta nella storia delle lotte meridionali abbiamo assistito ad un movimento di tale ampiezza 44. L a dichiarazione di u n o studente universitario sembra ben esprimere l'atteggiamento prevalente fra gli ebolitani: "Tutti abbiamo pensato che quel famoso comunicato del Cipe che ci toglieva le industrie in realtà voleva significare una sola cosa: voi di Eboli n o n avrete mai nulla perché n o n tenete santi in paradiso e, dunque, n o n contate niente" Cit. da A. Padellaro, " A d Eboli la logica delle clientele ha sopraffatto quella dell'economia", Corriere della Sera, 10 maggio 1974, p. 7. 45. "Spendere bene la vittoria di maggio. Intervista a Claudio Milite, segretario provinciale della Cgil", Espresso del Sud (speciale Eboli), 13 luglio 1974.
182
condotto con civiltà e con senso democratico, diretto dal Sindacato con l'appoggio dei partiti democratici e che si è sviluppato evitando incidenti e scontri". Dopo che il governo ebbe assicurato investimenti per un numero di posti vicino a quello del progetto Fiat, si pose termine alla protesta con una manifestazione alla quale parteciparono circa 30.000 lavoratori provenienti da tutta la regione. Va aggiunto che diversamente da Battipaglia, il Pci non era stato colto di sorpresa. Il partito era forte a Eboli (vedi sopra) e la Federazione salernitana aveva organizzato nel '73 u n convegno appositamente dedicato all'insediamento Fiat (46). La linea comunista era che l'insediamento non dovesse restare un fatto "isolato" e "esterno" alla realt della Piana, ma "parte di uno sviluppo complessivo della... provincia e della regione" (47). Soprattutto, non doveva essere "concesso" attraverso i consueti canali clientelari. Il Pci metteva inoltre in guardia contro la "caoticità e la non governabilità dei processi" messi in moto dalla "febbre Fiat" (48), ammonimento che alla luce dei fatti doveva mostrarsi fondato. La sola soluzione corretta era la contrattazione e la programmazione democratica di concerto con gli enti locali, Regione e sindacati (49). Il partito che soffrì maggiormente dando mostra di tutte le sue lacerazioni interne, fu la Dc, partito di governo a Roma e a Eboli. La rivolta divise la Dc a tutti i livelli. Per protesta contro le decisioni del governo, i dirigenti locali chiusero tutte le sezioni del partito, astenendosi dal partecipare alla campagna per l'allora imminente referendum sul divorzio. A livello regionale, la decisione di De Mita di "dirottare" la Fiat a Avellino fu vista come parte di uno scontro senza esclusione di colpi per il controllo del partito, fra lo stesso De Mita e il più forte leader della Dc salernitana, Scarlato, scontro che per essere rettamente inteso va inquadrato nelle lotte apertesi nella Dc campana nel '70 con l'istituzione della regione (apertura cioè di una nuova arena, con le nuove risorse e equilibri che essa rendeva possibile). Per l'aspetto che qui interessa (distribuzione territoriale del potere e suoi riflessi sugli insediamenti industriali), il nuovo assetto regionale si sposa, nella Dc, con una nuova linea programmatica di cui sono temi centrali l'industrializzazione ("una fabbrica per ogni comune") e il rie46. Partito comunista italiano-Federazione di Salerno, C o n v e g n o sul tema "Insediamento Fiat e sviluppo economico", Eboli, 13 luglio 1973 (relatore F. Fichera). 47. Ibid., p. 9. 48. Ibid., p. 7. 49. Ibid.
183 quilibrio del territorio, a vantaggio delle "aree interne" sino allora sacrificate alla costa. La scelta di Eboli e poi della Valle dell'Ufita (Grottaninarda) per l'insediamento Fiat, sono parte di questo processo di riequilibrio territoriale, " s u cui si sono giocate e si stanno giocando le fortune dei vari leader campani della D c " (50). Tutto questo ha comportato non solo la valorizzazione di nuovi leader, come l'avellinese De Mita, ma anche una frantumazione territoriale del potere che ha avuto precisi riflessi nella Dc salernitana. " S i sostituiscono a Menna [sindaco di Salerno sino al '70] diversi ed atomizzati centri di potere, organizzazioni elettorali, clientelari, intorno ai vari leader; così alla linea di Salerno, centro gerarchico superiore, si sostituisce quella del riequilibrio fra Salerno e le altre zone, tra fascia costiera ed interno... La Dc intende in tal modo rispondere alla crisi di una linea politica nazionale e meridionale con una operazione di redistribuzione del potere a livello provinciale nel partito e nel rapporto tra Salerno e le altre parti della provincia e... della regione" (51). Lo scontro fra De Mita e Scarlato, allora entrambi appartenenti alla corrente di Base, va visto all'interno di questo rimescolamento delle carte, che autorizza nuove ambizioni e "invasioni di campo" nei feudi altrui. E ' nel quadro di questa situazione che De Mita cerca di estendere la propria influenza nel Salernitano e sugli stessi delegati di Scarlato (52), di cui vuole ridimensionare il potere all'interno della corrente di Base, che ha in Campania una delle sue roccheforti (53). Eboli, per tornare al nostro episodio, è parte di questa lotta d'influenza, tentativo di "mortificare il m i t o " dell'uomo — Scarlato — che si era attribuito il merito principale dell'insediamento C54). Ancora più interessante, dal nostro punto di vista, è il modo in cui 50. F. Fichera, " L e scelte di politica economica della Dc dal 1970 ad oggi", in D i M a r i n o et al, La Dc nel Salernitano, cit. p. 107. 51. Dalla relazione di F. Fichera al convegno su " L a Dc in provincia di Salerno", cit. da A. Musi, "Potere e società a Salerno. D a M e n n a al 20 giugno", La Voce della Campania, 10 aprile 1977, p. 53. 52. F i n o a u n terzo, sembra, alla vigilia del X I I Congresso provinciale della Dc salernitana (dicembre 73). Cf. R. D i Blasi, "Approccio al sistema di potere della Dc in provincia di Salerno", in D i M a r i n o et al., La Democrazia cristiana nel Salernitano, cit., p. 57. 53. L o scontro D e Mita-Scarlato va anche visto alla luce dei seguenti dati (riportati da D i Blasi, ibid., p. 55). Nel 7 3 la sinistra di Base aveva una forza nazionale pari a 140.000 voti-delega, di cui 50.000 in Campania (soprattutto province di Avellino e Salerno). D i questi 50.000 voti, Scarlato ne controllava circa 23.000. In altre parole, Scarlato poteva disporre di quasi il 50 per cento delle deleghe della Base campana e 1/6 di quelle dell'intera corrente. 54. " D e M i t a ha cercato di mortificare il mito Scarlato", Intervista a u n leader Dc di Corvino, 28 giugn o 1974.
184 l'originaria decisione del governo relativa a tale insediamento, era stata comunicata alla popolazione. Nel maggio '73, pochi giorni dopo la decisione di localizzare nella Piana del Sele la Fiat, Scarlato aveva invitato a Eboli l'allora presidente del gruppo Dc alla Camera Flaminio Piccoli, per un discorso pubblico nel quale Piccoli esaltò l'iniziativa come esempio dell'"incisiva politica meridionalistica" del governo (55). Perché Piccoli? Perché egli era stato ministro delle partecipazioni statali nel 1971-72 quando un altro importante progetto dapprima "promesso" a Eboli — l'Aeritalia —, era stato poi "dirottato" in Puglia, e cosi "riparare il torto dell'Aeritalia" (56). Si trattava insomma d'impegnare pubblicamente il partito per "paura che gli impegni non sarebbero stati mantenuti" come era avvenuto pochi anni, prima (57). La mossa di Scarlato illustra un importante principio della politica clientelare su cui vorrei dire una parola prima di concludere. Quando un partito di governo non pianifica e non attua una politica di investimenti secondo priorità esplicite e generali, ma assegna fondi e risorse secondo mutevoli equilibri interni di potere, il singolo deputato è naturalmente molto apprensivo per il timore che le promesse non saranno mantenute. D i qui la necessità d'impegnare il partito in modo specifico, immediato e autorevole, attraverso pronunciamenti pubblici per assicurarsi contro l'imprevedibilità del sistema, con ovvi rischi di reazioni anche violente nel caso in cui gli impegni fossero ugualmente disattesi (58). N o n solo Eboli sentì Piccoli dire quello che ho riportato, ma la città fu invasa da manifesti nei quali i leader locali si attribuivano il Cf. D. D e Stefano, " D e Mita: 'Gl i investimenti non erano stati dirottati 1 , Corriere della Sera, 9 maggio 1974; D e Stefano, " A n c h e industrie metalmeccaniche nel 'pacchetto 1 discusso per Eboli", Corriere della Sera, 11 maggio 1974 (risposta di Scarlato a D e Mita); Roma, 24 maggio 1974 (intervista con D e Mita, in cui si accusa Scarlato di essere stato l'organizzatore della rivolta); " L a Valle del Sele aspetta e spera", // Gazzettino del Sud, giugno 1974. 55. Cit. in Deliberazione del Consiglio Comunale, Eboli, 27 maggio 1974. 56. Intervista con il sindaco di Eboli, 3 luglio 1974 (a). U n funzionario della Dc di Salerno ha definito la vicenda dell'Aeritalia del '72 un "punto di svolta verso un ritorno alla politica clientelare" come metodo di governo. Intervista, 28 giugno 1974. Sulla vicenda Aeritalia, si veda l'intervento del consigliere Giuseppe Amarante (Pci) al Consiglio Regionale della Campania, 23 novembre 1971 (ciclostilato); Bonazzi et al., Industria e potere, cit. 57. Intervista, 3 luglio 1974 (b). 58. Il sistema ha l'ulteriore difetto di spingere a fare affermazioni demagogiche, nel tentativo di magnificare la portata dell'intervento dei patroni, piccoli e grandi. Nel caso di Eboli, le attese suscitate, in parte ad arte, dall'insediamento Fiat, generarono quello che è stato definito " u n mito texano dell'industrializzazione" come panacea per tutti i mali di Eboli (che non s o n o pochi, dalla disoccupazione all'impressionante degrado del centro storico). Intervista, 2 luglio 1974 (a).
185 merito più o meno esclusivo della decisione (fra questi, Scarlato e il senatore socialista del collegio). N o n stupisce che passata la rivolta, Scarlato sia stato sentito dire: "Prima facevamo la gara a mettere manifesti; ora la faremo per metterli per ultimi" (59). Questo per Eboli. Come reagì la Dc di Corvino? In modo contradditorio. Nei primi giorni della rivolta, la Dc pubblica un manifesto che dice, grosso modo: " E b o l i ottiene perché lotta, Corvino non ottiene nulla perché è passiva" Il manifesto era a dir poco incauto, perché poteva essere interpretato come incitamento alla ribellione. A seguito di un intervento del deputato comunista D i Marino presso il leader della corrente a cui Rota fa capo a Salerno (D'Arezzo), la Dc uscì con un secondo manifesto a parziale correzione del primo (60). Dopo più matura riflessione, la Dc di Corvino venne ad assumere verso i fatti di Eboli un atteggiamento più critico e problematico. Rota attribuiva tutti i mali alla "radicalizzazione delle correnti", che stavano mortificando e insterilendo il partito (61). Suo nipote disse quello che ho già riportato, e cioè che De Mita, "stritolatore di uomini", voleva umiliare Scarlato. Il segretario Dc aggiunse (62): " C ' è un discredito della classe politica. N o n ci credono più... La gente oggi discute, rifiuta la passività", citando come esempio il forte interesse per il referendum sul divorzio allora appena concluso. A Eboli la Dc aveva trovato nel Pci un prezioso alleato, che aveva dato un contributo decisivo affinché i moti si svolgessero in modo al contempo responsabile e politicamente efficace. Il sindaco di Eboli si era spinto a dire che "l'unione tra tutti i partiti" e i sindacati era stato "l'aspetto più qualificante della rivolta" (63). La rivolta sembrava avere modificato profondamente i rapporti Dc-Pci, e la cosa n o n fu senza effetti per Corvino. Ci sono indizi che fanno ritenere che l'autocritica che i fatti di Eboli indussero nella Dc corvinese, ne modificarono in parte l'atteggiamento verso il Pci, sebbene vada considerato anche unsecondofattorepiùstrettamentelocale,il ruolo del nuovo sindaco comunista. Il successore di Ascoli impresse un nuovo stile all'amministrazione e ai suoi rapporti con la minoranza. Mentre Ascoli lasciava generalmente inevase le interrogazioni dei consiglieri Dc, Mandia per principio cerca-
59. 60. 61. 62. 63.
Intervista, 2 luglio 1974 (b). Intervista con il segretario Dc di Corvino, 7 agosto 1974 (b). Intervista, 7 agosto 1974 (a). Intervista 7 agosto 1974 (b). Deliberazione del Consiglio Comunale, Eboli, cit., p. 1.
186 va di darvi pronta risposta. Il suo obiettivo era quello di mutare la polemica anti-Rota in una corretta dialettica politica, di "spersonalizzare lo scontro" (64). Sebbene la Dc non sembrasse rispondere positivamente, sul momento, al nuovo approccio di Mandia, continuando a boicottare gran parte delle riunioni del Consiglio comunale, ci sono prove che il cambiamento fu apprezzato. Il capogruppo Dc parlò di "svolta", e un altro consigliere democristiano di "avvenimento molto importante" per la vita politica di Corvino (65). Se la Dc continuava a disertare il Comune, fu spiegato, ciò era dovuto non tanto ad ostilità verso il nuovo sindaco, quanto a atteggiamenti e pratiche contratte sotto il suo predecessore. Cambiando stile, Mandia rese le cose difficili per tutti. La Dc fu costretta a riesaminare il suo atteggiamento verso il Pci, una volta venuto meno il movente anti-Ascoli come cemento della minoranza. All'interno della Giunta, Mandia, privo della duttilità di Ascoli, non poté impedire che affiorassero tutte le contraddizioni di una coalizione tanto eterogenea. Egli era stato sin dall'inizio molto critico verso l'alleanza con le liste civiche, e aveva accettato l'incarico a condizione che la Giunta elaborasse un preciso programma di governo. Lo scontro fu particolarmente duro in fatto di politica urbanistica, settore in cui Mandia perseguiva una linea intransigente che il vicesindaco (lo stesso della Giunta Ascoli) non avrebbe mai potuto accettare. Mandia voleva infatti: 1) la demolizione in massa delle costruzioni abusive sorte lungo la costa; 2) era risolutamente contrario alle nuove lotizzazioni caldeggiate dal vice-sindaco sul litorale; 3) consentiva a altre lotizzazioni purché inquadrate nella politica edilizia comunale
(66). Con suo grande disappunto, Mandia non fu sostenuto dal partito, che riteneva i suoi metodi troppo rigidi, giudizio condiviso dalla Federazione di Salerno (67). Il problema, per Mandia, non stava tanto in gelosie personali verso la sua persona, quanto nella natura del partito, a Corvino come nella Federazione. D o p o il "momento storico" della lotta nei tabacchifici, il partito non aveva più saputo mobilitare, si era, a suo avviso, "staccato dalla base e burocratizzato" (68)..
64. Intervista, 26 g i u g n o 1974. 65. Intervista, 27 giugno 1974. 66. Stessa intervista. 67. Mandia aveva capito e corretto l'errore di Ascoli (antagonismo personale verso Rota), ma era "troppo intransigente" Intervista con il segretario provinciale Pci, 1 luglio 1974 68. Intervista, 27 giugno 1974.
187 Per quanto amare possano essere le recriminazioni di quest'uomo verso il Pci, partito da cui si è dimesso, non c'è dubbio che egli abbia contribuito nei sette mesi del suo incarico a impostare nuovi e più costruttivi rapporti fra maggioranza e minoranza. Il suo lavoro è stata continuato, sebbene con stile molto diverso, dal nuovo sindaco Pci, entrato in carica nel '74. Due commissioni consigliari (urbanistica e sanità) sono state affidate a presidenti democristiani. Recentemente la Giunta ha istituito quattro consigli di zona, uno dei quali è presieduto da un Dc (gli altri rispettivamente da un comunista, un socialista e da un repubblicano). Corvino sembra così liberarsi, almeno in parte, da quelle faide personalistiche che ne hanno avvelenato per decenni la vita politica. E ' auspicabile — come auspicio del ricercatore che finisce una storia "partecipata" e ormai fin troppo lunga —, che questi nuovi rapporti politici mettano capo a costruttive regole del gioco, tali per cui la comunità possa conoscere una vita più democratica e una democrazia più efficiente.
C O N C L U S I O N E B R E V E . C O R V I N O , MACHINE E PROSPETTIVE DI MUTAMENTO
POLITICS
A prima vista la storia di Corvino non ha nulla in sé di molto originale, e potrebbe essere considerata semplice variante di un tema quasi universale: machine politics. Gli incentivi politici sono di natura in granparteparticolaristica e materiale, l'ideologia ha un ruolo secondario, i rapporti con il centro avvengono attraverso canali partitici e secondo una prassi che gli americani chiamano parish pump politics. Tuttavia, non si può sfuggire alla conclusione che il sistema clientelare in Italia ha tratti peculiari, che lo differenziano dalla pratica americana delle "spoglie" sia dal punto di vista funzionale che strutturale. Compito di queste brevi considerazioni conclusive è di mettere in evidenza queste peculiarità, e di abbozzare una risposta alla domanda: come uscirne.
1. Corvino e machine politics Nella letteratura politologica, la persistente vitalità della "macchina politica" è in genere ricondotta alle funzioni che essa adempie per la società. Le funzioni più frequentemente menzionate sono quella di socializzare strati subalterni alla politica (immigrati, contadini, ecc.), strati di cui la macchina favorisce la mobilità sociale; stabilire un legame fra cittadino e autorità; fornire alla classe politica un mezzo per coordinare società caratterizzate dalla dispersione del potere (1). S u tutti questi punti, l'esperienza di Corvino e del Mezzogiorno in generale sembra essere radicalmente diversa, sia sotto il profilo dell'immagine 1. R.E. Wolfinger, " W h y Politicai Machines Have N o t Withered Away and Other Revisionist Thoughts", The Journal of Politics, maggio 1972, pp. 365-398.
189 che la gente ha della politica, che delle funzioni svolte dal sistema clientelare. Anzitutto l'immagine del boss è molto più negativa. I n America il ,boss, pur non avendo mai goduto di buona stampa, è stato generalmente visto come un leader che svolge funzioni di "mediazione culturale", ossia di acculturamento e emancipazione dei clienti. Per milioni di immigrati, la "macchina" è stata il mezzo, distorto ma efficace, che ha consentito l'ingresso a pieno titolo nella vita politica. A Corvino e altrove nel Sud, il patrono è visto non tanto come un mediatore culturale, quanto come un monopolista del potere che controlla risorse decisive, e che cerca in tutti i modi di preservare questa sua posizione monopolistica. L'atteggiamento del caporale verso i braccianti, più sopra richiamato, è a questo riguardo emblematico (cf. Parte III, cap. 1). Il timore di essere esclusi dalla benevolenza del patrono, che spesso significa esclusione da risorse vitali come il posto di lavoro, spiega un'altra caratteristica della vita sociale meridionale: un grado patologico di sospetto e sfiducia reciproca. Questo atteggiamento nasce dalla fondata credenza che nel Sud motivazioni manifeste e latenti, ruoli formali e informali, raramente coincidono, o comunque sono ben più divaricati che altrove. I rapporti sociali si conformano non raramente alla regola del "gioco delle parti", termine che sta a indicare non solo manipolazione del conflitto, ma anche inutilità della partecipazione i n situazioni nelle quali gli esiti sono largamente precostituiti (la sintesi che precede la lotta, come diceva Dorso). V a notato che una "mentalità" di questo tipo mina quel senso di fiducia sociale senza la quale non c'è azione collettiva organizzata. Oltre che nell'esperienza quotidiana, questa immagine disincantata dei rapporti sociali trova fondamento nella logica dei rapporti clientelari, quale ci siamo sforzati di ricostruire nella parte analitica di questo lavoro (Parte I). La teoria dello scambio chiarisce che la funzione della "generosità'' del patrono è di stabilire rapporti di dipendenza personale, generando nel cliente obblighi che egli non ha modo di contraccambiare su un piano di parità. Dare è un modo efficace di dominare il conflitto in società caratterizzate da penuria di risorse e forti tensioni e di accumulare potere su chi disponediminorimezzi. Non pochi uomini politici avvicinati nel corso di questo lavoro, vedono il clientelismo precisamente in questa luce. Il vice-sindaco di Corvino era il più candido a questo riguardo: " C ' è una molteplicità di bisogni negli amministrati e io li favorisco: distribuendo licenze commerciali, licenze edilizie, ti fai un amico, u n vassallo" (cf. Appendice). Questo elemento di potere personale, presente in tutti i rapporti di
190 clientela, è particolarmente evidente e importante in società ancora in parte pre-capitalistiche, nelle quali il ritardato sviluppo dell'economia solo in parte consente di accumulare potere nelle forme impersonali proprie del modo di produzione capitalistico. Come si è visto, è questo il caso della società meridionale, retaggio di un'incompiuta rivoluzione anti-feudale (cf. Parte II, cap. 3 e Parte III). Il clientelismo ha effetti disfunzionali per due processi cardine della società: la legittimazione del potere e la creazione di opposizioni organizzate. Mina l'autorità in almeno due modi: comportando un uso privato delle risorse pubbliche, come metodo di gestione del consenso; impedendo, per ciò stesso, quella dissociazione fra ruoli di autorità e le persone che li ricoprono che è il primo requisito dell'autorità istituzionalizzata. Quando il sistema si generalizza e diventa come in Italia, metodo tipico di gestione del potere statale, possiamo parlare fondatamente di "privatizzazione dello Stato". I fatti di Eboli illustrano perfettamente questo processo. La decisione del governo di autorizzare un insediamento Fiat, fu immediatamente "confiscata" da parlamentari che presentarono l'iniziativa come frutto dei propri interventi a Roma. N o n solo le pretese di paternità erano fra di loro contraddittorie, ma soprattutto privavano, per così dire, la decisione governativa di ogni contenuto pubblico. Una volta "privatizzato" l'investimento non poteva più essere visto come parte di un progetto generale di sviluppo del Sud. Se a ciò si aggiunge il tentativo, che sembra sia stato reale (2), di giocare una città contro l'altra secondo la regola della guerra fra poveri, si ha il quadro completo degli effetti nefasti di questa politica per l'autorità del governo (cf. Parte III). Concludendo sul punto, possiamo quindi dire che in Italia i metodi clientelari, lungi dall'avvicinare cittadini e autorità, hanno rafforzato l'estraneità delle masse dallo Stato. Di più, hanno creato una situazione che non esiterei a definire di illegittimità morale della politica, tale per cui ogni iniziativa connessa con l'attività di governo e dei partiti tende ad essere vista come fornite di favoritismi e corruzione, comprese le iniziative miranti a rimediare, con mezzi politici, alle diseguaglianze sociali (3). Come ho più sopra chiarito, la logica del consenso clientela2. Cf. le dichiara/ioni del sindaco Dc di Battipaglia, in Espresso del Sud, 13 luglio 1974, p. 7. "Il nodo centrale dello scontro di Eboli era quello del clientelismo manovriero, che giocando sui bisogni delle popolazioni [ e ] sulle richieste dei partiti democratici, voleva mettere contro le miserie della Valle del Sele e quelle della Valle dell'Ufita" Ibid. 3. P Allum, Politica e società a Napoli nel dopoguerra, trad. it., Einaudi, Torino, 1975, cap. 4.
191 re è tale per cui si elargiscono favori senza per questo guadagnare in autorità, così come la logica del potere legittimo non richiede distribuzione di compensi, almeno nel breve periodo, per mantenere intatta la propria legittimazione a governare (cf. Parte I). Una parola sulla razionalità del sistema come meccanismo di allocazione delle risorse. L'allocazione delle risorse, per quanto dipende dalla logica " p u r a " del sistema clientelare, non segue criteri oggettivi o norme di giustizia distributiva. Né il modo in cui le risorse sono ripartite risponde alle procedure prescritte dalla struttura formale dell'autorità. Il clientelismo è un metodo di governo che consiste, secondo l'espressione di un funzionario Dc di Salerno (4). "nell'ottenere tutto e solo quello che si può ottenere per via di contatti politici con il potere centrale". U n sindaco può ottenere uno o anche più ospedali ricorrendo all'assessore regionale dei llpp, se questi appartiene allo stesso partito o alla corrente amica, oppure, in caso contrario, "tagliandolo fuori" e avvalendosi di contatti con Roma. Se invece una città non ha patroni a livello regionale o nazionale — prosegue lo stesso funzionario —, resterà senza ospedali, per quanto urgenti possano essere i bisogni della popolazione. Ne risulta una politica distributiva contraria ai canoni sia della giustizia che della razionalità. L'esperienza italiana suggerisce un ultimo emendamento alle teorie correnti sul clientelismo. Nella letteratura americana, i movimenti di riforma della politica urbana sono stati in genere descritti come movimenti di classe media (5), quanto a ideologia (etica del lavoro, efficienza, onestà, ecc.) e composizione sociale. In Italia e nel Sud in particolare, i ceti medi, lungi dall'essere un fattore di riformismo, costituiscono una componente fondamentale della struttura clientelare del potere (6). Questi ceti sono stati coinvolti, e hanno assecondato politiche e legami corporativi, strutturalmente non diversi dal particolarismo proprio della diade clientelare (cf. Parte I, cap. 1). La riforma in Italia dovrà quindi essere promossa da altri gruppi sociali, con il consenso di larghi strati di ceto medio, punto su cui ritornerò. Corvino non fa eccezione. L e classi medie, specie quelle professionali (medici, avvocati, insegnanti), svolgono un ruolo fondamentale, ma la
4. Intervista, 28 giugno 1974. 5. Classi medie, nel linguaggio americano, è termine come è noto ambiguo, comprendendo in genere anche la borghesia. 6. Rinvio al mio saggio " L a crise d ' u n régime libéral-démocratique: l'Italie", Revuefrancaise de science politique, aprile 1977, pp. 259-289, per il ruolo dei ceti medi nel sistema clientelare e relativa letteratura.
192 loro Weltanschauung dista anni luce da qualsiasi etica universalistica. Il vice-sindaco di Corvino è l'estremo esempio di un tipo sociale — cinico, autoritario, paternalistico e in fondo reazionario — tutt'altro che raro fra i ceti medi meridionali. Il loro concetto di solidarietà è ancora imbevuto della nozione feudale di vassallaggio, così come la loro concezione delle istituzioni è priva di ogni ideale di servizio pubblico.
2. Le prospettive di mutamento La teoria funzionalista, in questo come in altri casi, può illuminare solo parte del problema. Chiarisce alcuni aspetti importanti del funzionamento del sistema clientelare, ma non consente di studiarlo in rapporto ai problemi storici dello sviluppo. Ora, il clientelismo in Italia, come ho ripetutamente detto, per la stessa durata del fenomeno e la vasta partelità delstoriche paese dello che ha coinvolto, va visto nel quadro delledi modasviluppo in Italia. Il clientelismo è frutto deficien-
ze strutturali dello Stato e della società italiana (politicizzazione della burocrazia, mancato partito borghese, dualismo territoriale, ecc.). deficienzechehaa sua volta potentemente contribuito a rafforzare (cf. Parte II). E ' questo inquadramento nell'intero corso dello sviluppo nazionale e delle sue peculiarità, che dà senso compiuto alle manifestazioni comportamentali del fenomeno quali emergono dalla ricerca sul campo. La prospettiva storica aiuta anche a capire perché tipi analoghi di gestione del consenso possono avere effetti diversi a seconda dei paesi in cui si attuano. C'è ad esempio una grande differenza fra un sistema in cui il clientelismo, come tecnica generale di governo, è coevo alla nascita dello Stato (caso dell'Italia e dei paesi di recente indipendenza), e paesi nei quali il patronage si è sviluppato su basi di massa dopo che governo e burocrazia hanno conosciuto un elevato grado di istituzionalizzazione (Usa). In questo secondo caso, l'uso clientelare delle risorse statali incontra maggiori ostacoli, e nella misura in cui si ricorre a questi metodi, essi hanno effetti meno distruttivi sulla legittimità del sistema, per la maggiore robustezza delle istituzioni. Qui le teorie "sequenziali" dello sviluppo p o s s o n o dirci molto (7). Spiegano, fra l'al7. L. Binder et ai, Crises and Sequences in PoliticaI Development, Princeton University Press, Princeton (N.J.), 1971, specialmente il saggio di Verba; M . Shefter, Patronage and Its Opponents: A Theory and Some European Cases, Cornell University, Western Societies Program Occasionai Paper n. 8, Ithaca (New York), 1977.
193 tro, quel curioso fenomeno nel campo della sociologia della conoscenza per il quale lo stesso problema è stato fatto oggetto di valutazioni così diverse, sulle due sponde dell'Atlantico, generalmente positive in America, unanimemente critiche in Italia. Il giudizio è diverso perché le implicazioni storiche del fenomeno clientelare sono diverse. Anche l'ambito e l'estensione delle pratiche clientelari sono un importante fattore di differenziazione. U n sistema nel quale i rapporti clientelari permeano molte istituzioni a tutti i livelli della società, è qualcosa di diverso da un sistema di patronage essenzialmente limitato alla politica locale, come è stato il caso degli Usa a partire dalla riforma della burocrazia federale (seconda metà dell'800). Qui vengono in rilievo i rapporti fra società civile e Stato, nel senso che una società civile debole offrirà un terreno più propizio al diffondersi del clientelismo politico. Nel caso estremo del combinarsi di un protratto monopolio di potere, come quello Dc nell'Italia del dopoguerra, e di una società civile relativamente arretrata, com'è quella meridionale, si assiste ad una vera e propria "occupazione" della società e delle sue istituzioni da parte dei partiti di governo. Tutto questo aiuta a spiegare la persistenza e la forza di condizionamento che i rapporti clientelari esercitano al Sud, anche per un partito del mutamento come il Pci. Mette qui conto richiamare una distinzione fatta dal leader comunista di Corvino, fra "clientelismo oggettivo" e "clientelismo soggettivo" attinente il primo a fattori culturali generali, il secondo alle propensioni dei leader. Il clientelismo oggettivo "è ambientale, culturale: avendo i cittadini sfiducia nelle pubbliche istituzioni, non riconosciute come 'equanimi', essi vanno alla ricerca di strumenti per ottenere in via corrotta dei favori. II cittadino chiede in effetti favori anche quando vanta diritti acquisiti" (8). C o n questa C u l t u r a " , anche i partiti di sinistra devono, come si dice, fare i conti. Per superare questi condizionamenti o quanto meno avviare un processodi riforma, occorrono mutamenti strutturali e un'accorta strategia politica, specialmente verso i ceti medi, su cui vorrei dire una parola prima di terminare. Le modifiche più importanti riguardano la politica economica del governo, nel senso di una conversione, come è stato autorevolmente sostenuto (9), da una politica redistributiva a una polit i c a produttivistica; da una politica, cioè, in gran parte indifferente all'uso produttivo delle risorse perché rivolta anzitutto a procacciare 8. Intervista, 26 giugno 1974. 9. Cf. "Per u n rilancio della politica meridionalistica", Mondo economico, 15 gennaio 1977, pp. 52-55 (documento di economisti e sindacalisti).
194 consensi, quale è stata essenzialmente quella della Dc, a una politica capace di rafforzare la base produttiva del Mezzogiorno. E ' la persistente debolezza di questa base che ha fatto parlare, con riferimento al Sud, di modernizzazione senza sviluppo (10). Come ogni politica di investimenti e di institution-building, la ricostruzione dell'economia implica sacrifici, e non potrà non incontrare forti resistenze. La nuova strategia non potrà che porre un freno alla politica delle mance e dei facili finanziamenti, come pure alla "giungla" di privilegi che è parte essenziale del clientelismo oggi in Italia. Le resistenze saranno molto forti specie fra i settori privilegiati del pubblico impiego (privilegiati più dal lassismo che in termini di reddito), e in genere fra le classi medie. Gli esponenti comunisti con cui sono venuto a contatto sono pienamente consapevoli del problema, ma non lo ritengono insuperabile. Essi sottolineano che la posizione delle classi medie è ambivalente, nel senso che esse sono al contempo privilegiate e penalizzate dal sistema in atto. Tali ceti da un lato beneficiano di posti di lavoro che altrimenti probabilmente non avrebbero, ma dall'altro sono nell'impossibilità di svolgere un ruolo produttivo nell'economia. Il problema del parassitismo nella società italiana, sollevato, fra gli altri, da Sylos Labini e dal dibattito che ne è seguito, ha qui una delle sue radici. La difficoltà, ma anche le nuove occasioni per un partito riformista stanno nell'estendere questa consapevolezza ad ampi settori delle classi medie, senza farne oggetto di una condanna indiscriminata. Un modo per far sì che i ceti impiegatizi sostengano, anziché boicottarle, la riforma della burocrazia e altre riforme di struttura, secondo questi leader, è di rendere tali ceti consapevoli del divario fra pletoricità degli organici, livello dei salari e scarsissima efficienza delle istituzioni in cui si trovano ad operare (ospedali, trasporti pubblici, ecc.). Il problema non è tanto quello di sfoltire gli organici, cosa politicamente improponibile nelle attuali condizioni del mercato del lavoro, specie al Sud, quanto di organizzare le istituzioni in modo più produttivo, nel quadro di un progetto di rinnovamento tendente a dare un nuovo scopo ai lavoratori del pubblico impiego e di altri settori dell'economia. Se questo sia un progetto più o meno illuministico, dipende dalle condizioni politiche generali del paese e soprattutto dai rapporti di forza fra i partiti nei prossimi anni. M a è certamente uno dei nodi 10. G. Galasso, " M e z z o g i o r n o e modernizzazione (1945-75)", in La crisi italiana, a cura di L. Graziano e S. Tarrow, Einaudi, Torino, 1979, voi. 1.
195 fondamentali da sciogliere, dato il peso sociale e direi morale delle classi medie nel Mezzogiorno. E d è anche un nodo, insieme ad altri aspetti della crisi e della disgregazione meridionale, di cui, paradossalmente, il partito da trent'anni al potere porta massima e grave responsabilità, ma che per la loro stessa gravità nessun partito può pretendere o aspirare a risolvere da solo. La questione meridionale è nata come problema nazionale della nuova Italia, e oggi sono difficilmente concepibili "soluzioni" al di fuori di uno sforzo che mobiliti tutte le energie della nazione.
Appendice RITRATTO DI UN NOTABILE TRASFORMISTA
(Avvocato 35enne al momento dell'intervista. Ex-Dc e leader dal '70 di una lista civica denominata " I l Fiume" Vice-sindaco di Corvino dal '70 in poi). Nel 1970 non fui io a volermi presentare [candidato], ma mio padre, medico da 40 anni, che ha posizione sociale e contatti con il popolo. Oggi mi sono fatto una mia clientela. Me la sono costruita come professionista e come amministratore. Diversamente dalla Dc che poteva contare su solidarietà automatiche, noi [de 'Il Fiume'] non possiamo non coltivare una clientela. C'è una molteplicità di bisogni negli amministrati e io li favorisco: distribuendo licenze commerciali, licenze edilizie, ti fai un amico, un vassallo. Purtroppo non abbiamo il potere di dare il lavoro, perché ci sono le commissioni di collocamento. Ho fatto assumere al Comune molte persone, tutte amiche: che vuole, che faccia dar lavoro a dei nemici? Anche il Pci punta al clientelismo, ma come quello della Dc è un clientelismo discriminatorio: si favorisce solo il comunista, il democristiano, ecc. Per me sono tutti amici: democristiani, fascisti, comunisti. Se si avessero in Italia tutte liste civiche! La forza della lista civica è la sua indipendenza dai partiti, il suo potere contrattuale. Lasciai la Dc perché Rota mi negava 'un posto al sole' Oggi ho costruito una forza politica. Il calibro grosso sono io oggi a Corvino. Io sono disponibile: con la Dc o il Pci a seconda di chi ricompensa meglio la mia forza contrattuale. E' questa la forza delle liste civiche. Il rapporto lista civica-cittadino non è un rapporto ideologico, ma un rapporto fiduciario, fiducia nella persona del rappresentante. La rappresentanza dei partiti è tutta una farsa. Prendiamo i voti da tutti i ceti.
Problemi della maggioranza Nel '70 feci una campagna conservatrice perché dovevo sottrarre voti a Rota. Nel '75 farei una campagna completamente diversa. Il Pci, che è guidato da ignoranti, non capì la finezza della mia campagna anti-Rota. Si rivolse ai socialisti; dopo il loro rifiuto, si rivolsero a me. Sta bene, dissi, ma voglio gli assessori più importanti che conservo tuttora: Personale, Lavori Pubblici, Polizia Urbana, Annona. Abbiamo tutto in mano. Io sto con i comunisti per farli andar via. Ho dovuto farla finita con l'ostraci-
198 smo del Pci nei confronti dell'edilizia privata, che è il motore dell'economia. Sono a favore delle lottizzazioni private, e fra queste della lottizzazione X. Per la lottizzazione X sono pronto a giungere allo scioglimento del Consiglio, se il Pci farà resistenza... Sono stato sindaco facente funzione per quasi due anni. Le mie realizzazioni più importanti: 1. disciplina dell'organico comunale 2. sviluppo industriale. Ho ottenuto l'insediamento dell'Automar [v. manifesto seguente], che darà lavoro a 50-60 operai, mentre il Pci si è opposto all'insediamento dell'industria conserviera Y 3. edilizia privata
Opinioni politiche Con la Dc sarebbe più facile governare. Io sono democratico. Se la democrazia è nella Dc, io vado nella Dc. Il Pci non è democratico. Vedi i paesi dell'Est, dove c'è una sorta di fascismo. Se il Pci andasse al potere eliminerebbe la democrazia, la libertà. L'obiettivo del Pci è: tanto peggio, tanto meglio. Il Pci ha dato una mano alla Dc a Eboli nel controllare la piazza? Puro tatticismo. Quello che rovina l'Italia è il sindacato, oltre che il Pci. Prenda la questione dei braccianti. Chiedono un aumento di stipendio. Chiedono 10.000 lire al giorno. Io vorrei darne 20.000, ma prima bisogna rivalutare il prodotto agricolo. Per risanare l'Italia bisogna abolire l'immunità parlamentare. La politica è potere da conservare. Intervista, 1 luglio 1974
199 COMUNICAZIONE Cittadini, Ho il piacere di informarvi che a seguito di mio personale interessamento per risolvere il grave problema della crisi occupazionale del nostro paese ove tanti giovani e valenti concittadini sono disoccupati, in data odierna 23-11-73, S.E. l'On. A w . Vincenzo Scarlato Sottosegretario ai LL.PP., da me all'uopo interessato, ha fatto pervenire il seguente telegramma: Avvocato Franco Pozzi Corvino Lieto comunico che at seguito mio personale intervento comitato controllo atti Regione abet approvato deliberazione Giunta Regionale autorizzazione costruzione stabilimento Automar codesto comune stop - cordialità Vincenzo Scarlato Sottosegretario Stato LL.PP. Finalmente dopo circa 20 anni di abulia ed inerzia la popolazione di Corvino riesce ad ottenere l'insediamento nel Comune di un nuovo Opificio industriale e ciò grazie all'autorevole intervento di S.E. Vincenzo Scarlato. Siamo così anche noi incamminati verso nuove prospettive economiche e siamo certi che altre iniziative del genere si potranno ancora verificare se l'amico Scarlato opererà al nostro fianco e nel nostro interesse. Invito pertanto i cittadini tutti a voler rendere grazie a S.E. Scarlato che col suo gesto ha conquistato certamente la nostra riconoscenza. Avv. Franco Pozzi Corvino, li 23-11-1973
Saggi e ricerche dell'Istituto di Scienze Politiche "Gioele Solari" - Università di Torino 1. Luciano Bonet, Gli impiegati-studenti. Il caso di Scienze Politiche. 2. Maurilio Guasco, Fascisti e cattolici in una città rossa. I cattolici alessandrini
di fronte al fascismo: 1919-1939 3. Donatella Marocco Stuardi, Libertà religiosa e autorità dello Stato negli Usa 4. Marcello Messori, Sraffa e la critica dell'economia dopo Marx 5. Luigi Bonanate (a cura di), Dimensioni del terrorismo politico. Aspetti interni e internazionali, politici e giuridici
6. Luigi Bonanate (a cura di), La violenza politica nel mondo contemporaneo. Bibliografia internazionale sul terrorismo, i movimenti di ribellione, la guerriglia, le guerre di liberazione, le lotte antimperialistiche. La mappa del terrorismo nel mondo contemporaneo
7. Emanuele Bruzzone, Progetto e ricerca sociale: due inchieste sul territorio. Prefazione di Filippo Barbano
8. Alessandro Passerin D'Entreves, Il palchetto assegnato agli statisti 9. Ezio Marra, Flavio Bonifacio, La scuola tra sistema politico e società 10. Barbara Bertini, Stefano Casadio, Clero e industria a Torino
11. Nunzio Dell'Erba, Le origini del socialismo a Napoli 12. Piero Bairati, Benjamin Franklin e il Dio operaio 13. Elio Roggero, La secolarizzazione controversa 14. Edoardo Ballone, Cultura della cascina 15. Luciano Saffirio, La definizione del problema sociale 16. Luigi Graziano, Clientelismo e sistema politico. Il caso dell'Italia
Stampa Tipomonza V. le Monza, 129 - Milano