TESS GERRITSEN CORPI SENZA VOLTO (The Sinner, 2003) A mia madre, Ruby J.C. Tom, con amore. RINGRAZIAMENTI Il mio grazie ...
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TESS GERRITSEN CORPI SENZA VOLTO (The Sinner, 2003) A mia madre, Ruby J.C. Tom, con amore. RINGRAZIAMENTI Il mio grazie più sentito a: Peter Mars e Bruce Blake, per le informazioni sul dipartimento di Polizia di Boston. Margaret Greenwald, per avermi avvicinata al mondo della medicina legale. Gina Centrello, per il suo instancabile entusiasmo. Linda Marrow, l'editor che ogni scrittore vorrebbe avere. Selma Walker, la mia maga oltreoceano. Jane Berkley, Donald Cleary e alla fantastica équipe della Jane Rotrosen Agency. Meg Rusley, la mia agente, la mia sostenitrice e il mio faro nella notte. Nessuno è meglio di lei. E a mio marito Jacob, che dopo tanti anni è ancora il mio migliore amico. PROLOGO Andhra Pradesh India L'autista si rifiutò di portarlo oltre. Un chilometro e mezzo più indietro, appena superato lo stabilimento chimico abbandonato della Octagon, la strada asfaltata aveva ceduto il posto a una pista sterrata, fiancheggiata da una fitta vegetazione. L'autista temeva che la boscaglia graffiasse la carrozzeria della macchina e, dopo le recenti piogge, c'era anche il rischio di restare impantanati nei punti più fangosi. E allora cos'avrebbero fatto? Sarebbero rimasti bloccati, a centocinquanta chilometri da Hyderabad. Howard Redfield ascoltò la lunga litania di obiezioni sapendo che erano solo una scusa per nascondere la vera ragione per cui l'autista non voleva proseguire. Nessun uomo ammette fa-
cilmente di avere paura. Redfield non aveva scelta; da lì in poi avrebbe dovuto camminare. Si protese verso l'autista per parlargli all'orecchio e sentì una zaffata di sudore acre. Nel retrovisore, ornato di file di perline ondeggianti, vide gli occhi scuri dell'uomo che lo fissavano. «Mi aspetterà qui, va bene?» domandò Redfield. «In questo punto esatto, sulla strada.» «Per quanto?» «Un'ora, forse. Per il tempo che serve.» «Gliel'ho detto, non c'è niente da vedere. Non c'è più nessuno.» «Lei mi aspetti qui, d'accordo? Quando torneremo in città, la pagherò il doppio.» Redfield afferrò lo zaino, uscì dall'auto con l'aria condizionata e si ritrovò davanti un muro di umidità. Non portava uno zaino dai tempi del college, quando viaggiava per l'Europa con pochi soldi in tasca, e mentre se lo metteva sulle spalle ormai non più muscolose, con i suoi cinquantun anni si sentì un adolescente troppo cresciuto. Ma per nulla al mondo sarebbe andato in giro in quei Paese dalla calura soffocante senza la sua bottiglia d'acqua purificata, la lozione antizanzare, la crema solare e i medicinali contro la diarrea. E la macchina fotografica: non se ne sarebbe mai separato. Rimase in piedi, grondante di sudore, nel caldo del tardo pomeriggio, alzò gli occhi al cielo e pensò: splendido, il sole sta calando e al tramonto arriveranno le zanzare. La cena è servita, piccole bastarde. Poi s'incamminò. L'erba alta nascondeva la strada e Redfield finì in un solco affondando nel fango fino alla caviglia con le sue scarpe leggere da trekking. Su quella pista, evidentemente, non passavano veicoli da mesi e madre natura se n'era subito riappropriata. Redfield si fermò per un istante, ansimando, scacciando gli insetti. Quando lanciò un'occhiata dietro di sé e notò che l'auto non era più visibile, si sentì pervadere da un senso d'inquietudine. L'autista lo avrebbe aspettato? Lo aveva portato fin lì con riluttanza e, mentre percorrevano la strada sempre più sconnessa, era diventato via via più nervoso. Lì c'erano persone cattive, gli aveva detto, in quella zona erano successe brutte cose. Se fossero scomparsi, chi sarebbe venuto a cercarli? Affrettò il passo. L'aria umida sembrava avvolgerlo in una cappa sempre più stretta. Udiva lo sciaguattare dell'acqua nello zaino e aveva già sete, ma non si fermò a bere. Con un'ora o poco più di luce che gli restava, doveva muoversi. Gli
insetti ronzavano nell'erba e tra le fitte chiome degli alberi vicini udì quelli che gli parvero richiami di uccelli, anche se erano piuttosto insoliti. Tutto in quel Paese era insolito e surreale e lui camminava come in trance, col sudore che gli colava sul petto. La frequenza del suo respiro accelerava a ogni passo. Mancavano poco più di due chilometri secondo la cartina, eppure gli sembrò di dover camminare all'infinito e persino dopo l'ennesima applicazione di repellente le zanzare continuarono ad assalirlo. Nelle orecchie aveva solo il loro ronzio, e il suo volto era una maschera pruriginosa di punture. Incespicò in un altro solco profondo e cadde in ginocchio nell'erba alta. Mentre se ne stava accovacciato per terra a riprendere fiato, ne sputò un ciuffo che gli era finito in bocca. Era tanto esausto e scoraggiato che pensò fosse tempo di tornare indietro, di salire su un aereo per Cincinnati con la coda tra le gambe. La vigliaccheria era, dopo tutto, molto più sicura. E più comoda. Sospirò, mise una mano in terra per rialzarsi, ma rimase immobile a fissare l'erba. Tra i fili verdi brillava qualcosa, forse di metallo. Era solo un bottone di latta, ma in quel momento gli sembrò un segno. Un talismano. Se lo infilò in tasca, si alzò in piedi e continuò a camminare. Alcune decine di metri più in là la strada si aprì all'improvviso in un'ampia radura circondata da alberi alti. Dall'altra parte dello spiazzo si ergeva una struttura solitaria, un tozzo edificio di blocchi di calcestruzzo con un tetto di lamiera arrugginita. I rami e l'erba frusciavano mossi dalla brezza. Questo è il luogo, pensò Redfield. Qui è accaduto. D'un tratto il suo respiro gli parve troppo rumoroso. Col cuore che gli martellava nel petto si tolse lo zaino, lo aprì ed estrasse la macchina fotografica. Documenta tutto, pensò. La Octagon cercherà di farti passare per bugiardo. Faranno di tutto per screditarti, perciò devi essere pronto a difenderti. A dimostrare che stai dicendo il vero. Redfield avanzò nella radura verso un mucchio di rami bruciati. Toccò quelli più sottili con la scarpa e avvertì un puzzo di legno carbonizzato. Allora arretrò sentendo un brivido lungo la schiena. Erano i resti di una pira funeraria. Con le mani sudate tolse il copriobiettivo e iniziò a fotografare. Tenendo rocchio premuto sul mirino, scattò una foto dopo l'altra: i resti di una capanna bruciata, il sandalo di un bambino in mezzo all'erba, un pezzetto di stoffa strappata di un sari di colore vivace. C'era morte ovunque guardasse. Si voltò a destra e la macchina inquadrò un muro di vegetazione. Stava
per scattare un'altra foto quando il dito gli si bloccò sul pulsante. Una sagoma sgattaiolò oltre il rettangolo del mirino. Redfield abbassò la macchina fotografica e si raddrizzò, scrutando gli alberi. Adesso non vedeva più nulla, solo i rami che ondeggiavano. Laggiù... cos'era stato, un rapido movimento al limite del campo visivo? Aveva scorto soltanto qualcosa di scuro che ballonzolava tra gli alberi. Una scimmia? Doveva continuare a scattare. La luce stava calando rapidamente. Superò un pozzo di pietra e si diresse verso l'edificio col tetto di lamiera. I suoi pantaloni frusciavano a contatto con l'erba e, mentre avanzava, Redfield lanciava occhiate a destra e a sinistra. Gli alberi sembravano avere occhi, lo stavano osservando. Quando fu più vicino, vide che i muri della costruzione erano stati bruciacchiati dal fuoco. Davanti alla porta c'era un mucchio di cenere e di rami anneriti. Un'altra pira funeraria. Ci girò attorno e sbirciò oltre la soglia. All'inizio vide ben poco nell'oscurità. La luce stava scomparendo velocemente e l'interno dell'edificio era ancora più buio, costituito solo da una gradazione di grigi e nero. Redfield si fermò per un istante, per lasciare che gli occhi si adattassero, poi con gran stupore notò un luccichio d'acqua in un vaso di terracotta. E un aroma di spezie. Com'era possibile? Alle sue spalle udì lo schiocco di un ramoscello spezzato. Si girò di scatto. Una figura solitaria si stagliava nella radura. Tutt'intorno, gli alberi si ergevano immobili e persino gli uccelli tacevano. La figura avanzò con un'andatura strana, a scatti, fino a pochi metri da lui. La macchina fotografica gli cadde di mano. Redfield arretrò con uno sguardo d'orrore negli occhi. Era una donna. Priva di volto. 1 La chiamavano la Regina dei morti. Nessuno glielo diceva in faccia, ma la dottoressa Maura Isles sentiva talora bisbigliare quel soprannome alle sue spalle, quando faceva tristemente la spola tra il tribunale, la scena di un crimine e l'obitorio. Talvolta percepiva anche un pizzico di sarcasmo: Ah ah, eccola, la nostra regina dark, a caccia di nuove prede. Talaltra i mormorii erano esitanti, venati d'inquie-
tudine, come quelli dei devoti alla vista di un empio. Era l'inquietudine di chi non capiva perché avesse scelto di seguire le orme della morte. Le piace?, si chiedevano. Il contatto con la carne fredda, il puzzo della decomposizione l'affascinano a tal punto da indurla a voltare le spalle ai vivi? Non era una cosa normale, pensavano, e le lanciavano occhiate nervose, notando particolari che servivano solo a corroborare l'idea che fosse una persona strana. La pelle eburnea, i capelli neri con un caschetto alla Cleopatra, il rosso vivo del rossetto. Chi mai porta il rossetto sulla scena di un crimine? Ma era soprattutto la sua calma a turbarli, lo sguardo impassibile, regale, con cui scrutava orrori che essi stessi stentavano a guardare. A differenza di loro, Maura Isles non distoglieva lo sguardo, anzi si chinava e osservava più da vicino, toccava, annusava. E dopo, sotto le luci intense della sala autopsie, tagliava. Adesso stava tagliando. Il bisturi incideva la pelle fredda e il grasso sottocutaneo brillava giallo, untuoso. A quell'uomo piacevano hamburger e patatine fritte, pensò, mentre con un paio di cesoie da potatura tagliava le costole e sollevava il manubrio dello sterno con lo stesso atteggiamento di chi apre un armadio per scoprirne i tesori. Il cuore era alloggiato nel suo letto di tessuto polmonare spugnoso. Per cinquantanove anni aveva pompato sangue nel corpo di Samuel Knight, magro e muscoloso in gioventù, fortemente appesantito nella mezza età. Tutte le pompe prima o poi cedono e anche quella del signor Knight aveva ceduto, mentre si trovava seduto nella sua stanza d'albergo a Boston, con il televisore acceso e un bicchiere di whisky del minibar appoggiato sul comodino. Maura Isles non si soffermò a chiedersi quali fossero stati i suoi ultimi pensieri o se avesse provato paura o dolore. Anche se ne esplorava le cavità più recondite, se ne asportava la pelle e ne teneva il cuore in mano, Samuel Knight restava per lei un emerito sconosciuto, un essere muto, senza pretese, disposto a svelarle i suoi segreti. I morti sono pazienti: non si lamentano, non minacciano, non circuiscono. I morti non ti fanno del male, solo i vivi ti feriscono. Lavorò con pacata efficienza resecando i visceri toracici e posando infine il cuore su un tagliere. Fuori, la prima neve di dicembre scendeva vorticando, i fiocchi bianchi sfioravano le finestre per poi scivolare giù, nei vicoli. Nel laboratorio, tuttavia, gli unici rumori che si udivano erano lo scroscio dell'acqua corrente e il sibilo del ventilatore. Yoshima, il suo assistente, si muoveva in quello strano silenzio anticipando le sue richieste,
materializzandosi là dove serviva. Lavoravano insieme da un anno e mezzo soltanto, ma agivano già come fossero una cosa sola, due menti logiche in grado di comunicare telepaticamente. Maura non aveva bisogno di chiedergli di spostare la lampada: era tutto già pronto, la luce orientata nel modo giusto, a illuminare il cuore gocciolante di sangue, le forbici predisposte all'uso. La parete picchiettata di scuro del ventricolo destro e la cicatrice apicale bianca le rivelarono la triste storia di quel cuore. Un infarto miocardico di vecchia data, risalente a mesi o ad anni prima, aveva già distrutto parte della parete ventricolare sinistra; poi, nelle ultime ventiquattr'ore, si era verificato un secondo infarto. Un trombo aveva occluso la coronaria destra, privando la muscolatura del ventricolo destro dell'apporto di sangue. Maura resecò un frammento di tessuto per l'esame istologico, già sapendo che cosa avrebbe visto al microscopio. Coagulazione e necrosi. L'invasione dei globuli bianchi, mobilitatisi come un esercitò in difesa del corpo. Forse Samuel Knight pensava che il dolore al petto fosse dovuto a un'indigestione: a pranzo aveva esagerato, non avrebbe dovuto mangiare tutte quelle cipolle. Forse il Pepto-Bismol l'avrebbe aiutato. O forse aveva avuto segnali più preoccupanti, che aveva però preferito ignorare: il senso di costrizione al petto, la mancanza di fiato. Di certo, non aveva capito che stava per avere un infarto. Né che, il giorno dopo, sarebbe morto di aritmia. Il cuore era stato sezionato e giaceva ora sul tagliere. Maura guardò il busto dell'uomo, svuotato di tutti gli organi. Così finisce il tuo viaggio d'affari a Boston, pensò. Qui non ci sono sorprese, né segni di violenza, solo l'abuso ripetuto che hai perpetrato sul tuo stesso corpo, signor Knight. L'interfono ronzò. «Dottoressa Isles?» Era Louise, la sua segretaria. «Sì?» «C'è il detective Rizzoli in linea, per lei. Può prendere la telefonata?» «Me la passi.» Maura si tolse i guanti e si avvicinò al telefono a muro. Yoshima, intento a sciacquare gli strumenti nel lavandino, chiuse il rubinetto e si voltò a guardarla con i suoi occhi silenziosi da tigre, conoscendo già il significato di quella chiamata. Quando infine riagganciò, Maura notò il suo sguardo interrogativo. «Oggi s'inizia presto», commentò. Poi si tolse il camice e uscì dall'obitorio per andare a prendere un nuovo ospite.
La nevicata mattutina si era trasformata in un insidioso nevischio, e degli spazzaneve non c'era la minima traccia. Maura guidò con prudenza lungo Jamaica Riverway con gli pneumatici che sciaguattavano nell'abbondante strato di neve sciolta e i tergicristalli che grattavano il vetro ricoperto di brina. Era la prima bufera della stagione e gli automobilisti dovevano ancora abituarsi alle nuove condizioni di guida. Si erano già verificati numerosi incidenti. Maura superò un'auto della polizia ferma, con le luci lampeggianti accese: un agente era accanto al conducente di un carro attrezzi ed entrambi stavano guardando una vettura finita in un fossato. In quell'istante gli pneumatici della sua Lexus iniziarono a slittare e il paraurti anteriore a puntare verso i veicoli provenienti dalla direzione opposta. In preda al panico, Maura premette il freno attivando il sistema automatico antislittamento e riportando la macchina nella carreggiata. Maledizione, pensò con il cuore che le martellava nel petto, io me ne torno in California. Rallentò fin quasi a procedere a passo d'uomo, incurante di quanti le suonavano o della coda che stava creando. Andate pure avanti e superatemi, idioti, ne ho visti troppi come voi stesi sul tavolo settorio. La strada la condusse a Jamaica Plain, un quartiere orientale della città noto per le antiche ville signorili e i vasti prati, i parchi tranquilli e i sentieri sul lungofiume. In estate, con il suo verde, rappresentava un vero rifugio dal rumore e dalla calura di Boston, ma quel giorno, sotto un cielo cupo, con il vento che spazzava i prati secchi, aveva un'aria desolata. L'edificio a cui era diretta sembrava il più inquietante di tutti, arretrato rispetto alla strada e protetto da un alto muro di pietra, su cui era abbarbicata una folta edera. Una barriera per escludere il mondo, pensò Maura. Dalla strada scorgeva solo le guglie in stile gotico del tetto di ardesia e un'imponente finestra sormontata da un timpano, che sembrava scrutarla come un occhio scuro. Un'auto della polizia parcheggiata davanti al cancello principale le confermò che si trovava all'indirizzo giusto. Fino a quel momento erano arrivati solo pochi altri veicoli: le truppe d'assalto avevano preceduto l'esercito, più numeroso, della Scientifica. Maura posteggiò dall'altra parte della strada e si preparò ad affrontare la prima folata di vento. Quando uscì dall'auto, il piede le scivolò e lei riuscì a stento a reggersi alla portiera. Mentre recuperava l'equilibrio, sentì l'acqua gelida gocciolarle sui polpacci dall'orlo del cappotto, finito nella neve. Rimase ferma per qualche istante con il nevischio che le sferzava il volto, sconvolta dalla rapidità con cui tutto era accaduto. Lanciò un'occhiata all'agente seduto in macchina, dall'altra parte della
via, e vide che anche lui la stava osservando. L'aveva sicuramente vista scivolare. Ferita nell'orgoglio, prese il kit dal sedile anteriore, chiuse la portiera con forza e attraversò la strada ricoperta di brina con tutta la dignità che poté dimostrare. «Tutto bene, dottoressa?» gridò l'agente dal finestrino con un interessamento che non le fu molto gradito. «Tutto bene.» «Stia attenta con quelle scarpe. Nel cortile si scivola ancor di più.» «Dov'è il detective Rizzoli?» «Sono tutti nella cappella.» «E dov'è?» «Non può sbagliare. È la porta con la grossa croce sopra.» Maura proseguì verso il cancello principale, ma lo trovò chiuso a chiave. Sul muro c'era una campana di ferro. Tirò la corda e il suo rintocco medievale si affievolì a poco a poco, sovrastato dal tic tic più flebile del nevischio. Sotto la campana c'era una targa di bronzo con una scritta parzialmente coperta da un ramo d'edera marrone. GRAYSTONES ABBEY SORELLE DI NOSTRA SIGNORA DELLA DIVINA LUCE La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. Dall'altra parte del cancello comparve all'improvviso una donna vestita di nero. Si era avvicinata tanto silenziosamente che Maura trasalì quando vide il suo volto che la fissava oltre le sbarre. Era un volto antico, tanto segnato che sembrava quasi accartocciarsi su se stesso, anche se gli occhi erano vivi e acuti come quelli di un uccellino. La suora non parlò, formulando la domanda con lo sguardo. «Sono la dottoressa Isles dell'Ufficio del coroner», disse Maura. «Mi ha chiamata la polizia.» Il cancello si aprì cigolando. Maura entrò nel cortile. «Cerco il detective Rizzoli. Credo sia nella cappella.» La suora indicò un punto dall'altra parte del cortile, poi si voltò e si avviò con passo strascicato verso la porta più vicina, lasciando che Maura trovasse la strada da sé.
I fiocchi di neve scendevano vorticando e mulinando tra gli aghi di ghiaccio, come farfalle bianche che volteggiavano attorno a insetti incapaci di volare. La via più diretta sarebbe stata attraversare il cortile, ma le pietre erano ricoperte di ghiaccio e le sue scarpe con le suole lisce si erano già rivelate più che inadatte per quel terreno. Maura allora imboccò lo stretto portico che correva lungo il perimetro del cortile. Pur riparandola dal nevischio, questo non la proteggeva dal vento che le penetrava sotto il cappotto. Maura era sconvolta dal freddo di quella giornata, che le aveva ricordato per l'ennesima volta quanto fosse rigido il mese di dicembre a Boston. Aveva vissuto gran parte della sua vita a San Francisco, dove le nevicate erano una piacevole rarità, non un tormento come quegli aghi ghiacciati che s'infilavano sotto il portico per punzecchiarle il viso. Si accostò di più al muro e si strinse nel cappotto mentre superava una serie di finestre buie. Da dietro il cancello proveniva il debole rumore del traffico che avanzava nella neve sciolta su Jamaica Riverway. Tra quelle mura, tuttavia, Maura udiva solo silenzio. Fatta eccezione per l'anziana suora che l'aveva fatta entrare, l'edificio sembrava abbandonato. Pertanto sobbalzò quando vide tre volti che la fissavano da una finestra. Le suore erano in piedi in silenzio, come in un quadro, tre spettri vestiti di nero dietro a un vetro, intenti a osservare l'intrusa che entrava nel loro santuario. Mossero sincronicamente lo sguardo, seguendola mentre avanzava. L'ingresso della cappella era sbarrato dal nastro giallo della polizia, che in corrispondenza della soglia aveva ceduto lievemente e si era ricoperto di neve. Maura lo sollevò, s'infilò sotto e aprì la porta. Un flash l'accecò e lei s'immobilizzò mentre la porta si richiudeva con un sibilo alle sue spalle. Sbatté le palpebre e attese che l'immagine le scomparisse dalle retine. Quando la vista le si schiarì, notò diverse file di panche di legno, pareti bianche e, nella parte anteriore della cappella, un crocifisso enorme appeso sopra l'altare. Era un ambiente freddo, austero, reso ancor più buio dalle finestre di vetro colorato che lasciavano filtrare solo una debole luce. «Ferma lì. Attenta a dove mette i piedi», disse il fotografo. Maura abbassò lo sguardo sul pavimento di pietra e vide che era sporco di sangue. Impronte, un vero groviglio di orme, miste alle tracce dei soccorritori: cappucci di siringhe, involucri strappati. I resti dell'equipe dell'ambulanza. Ma non c'erano corpi. Mosse lo sguardo, notando un pezzo di stoffa bianca calpestata nel corridoio tra le panche schizzate di sangue. In quell'ambiente gelido vedeva il
suo stesso alito condensarsi. Quando studiò le macchie di sangue, quando vide la serie di chiazze che si susseguivano lungo le file di panche e capì che cosa fosse successo, la temperatura parve diminuire ancora, il freddo aumentare. Il fotografo ricominciò a scattare, ferendo ogni volta gli occhi di Maura. «Ehi, dottoressa!» Nella parte anteriore della cappella fece capolino una chioma nera: il detective Jane Rizzoli si alzò da terra e le fece un gesto di saluto. «La vittima è qui.» «E questo sangue, vicino alla porta?» «È dell'altra vittima, di suor Ursula. L'hanno portata al St. Francis. C'è altro sangue lungo il corridoio centrale, insieme ad alcune impronte che vorremmo conservare, perciò farebbe meglio a passare sulla sinistra. Si tenga vicina al muro.» Maura si fermò per mettersi le soprascarpe, poi avanzò lungo il perimetro della cappella, accanto al muro. Solo quando superò la prima fila di panche vide il corpo della suora, steso con la faccia all'insù. Il tessuto della veste formava una macchia nera che si fondeva con un'altra, più grande, rossa. Entrambe le mani erano già state infilate nei sacchetti, per preservare eventuali prove. La giovane età della vittima colse Maura di sorpresa: la suora che l'aveva fatta entrare e le tre che l'avevano osservata dalla finestra erano tutte anziane. Questa era molto più giovane e aveva un volto etereo, gli occhi azzurri fissi in uno sguardo stranamente tranquillo. Aveva il capo scoperto e i capelli biondi non più lunghi di un paio di centimetri. Il cuoio capelluto recava i segni di numerosi colpi. La corona cranica era sfondata. «Si chiamava Camille Maginnes, suor Camille. Città natale: Hyannisport», disse Jane con tono professionale, da detective. «Era la prima novizia che avevano da quindici anni. Doveva prendere i voti definitivi a maggio.» Dopo un attimo silenzio aggiunse: «Aveva solo vent'anni», e la rabbia incrinò per un istante la sua maschera d'imperturbabilità. «È così giovane.» «Sì. Pare sia stata percossa a morte.» Maura s'infilò i guanti e si accovacciò per esaminare lo scempio. L'arma del delitto aveva causato lacerazioni grossolanamente lineari sul cuoio capelluto. Alcuni frammenti ossei sporgevano dalla pelle squarciata ed era fuoriuscito un grumo di materia grigia. La cute del viso era per lo più integra, ma aveva assunto un color porpora scuro. «È morta con la faccia all'ingiù. Chi l'ha girata sulla schiena?» «Le suore che l'hanno trovata», spiegò Jane. «Volevano sentirle il pol-
so.» «A che ora hanno trovato le vittime?» «Verso le otto di questa mattina.» Jane Rizzoli diede un'occhiata all'orologio. «Quasi due ore fa.» «Sa che cos'è successo? Che cosa le hanno detto le suore?» «È stato arduo cavar loro di bocca qualcosa di utile. Ne sono rimaste solo quattordici e sono tutte sotto shock. Qui dentro pensavano di essere al sicuro, protette da Dio. E invece arriva un pazzo.» «Ci sono segni di effrazione?» «No, ma non è molto difficile introdursi nel convento. L'edera ricopre tutti i muri: si riesce a scavalcarli senza troppi problemi. E c'è anche un cancello sul retro, che porta in un terreno dove hanno il giardino. Un criminale potrebbe passare anche da lì.» «Impronte?» «Alcune qui dentro. Ma fuori sono state tutte coperte dalla neve.» «Perciò non sappiamo se si sia davvero introdotto di nascosto. Potrebbero averlo fatto entrare dal cancello principale.» «È un ordine di clausura, dottoressa. Nessuno può entrare qui dentro, tranne il sacerdote della parrocchia quando viene per la messa e le confessioni. C'è anche una signora che lavora nella canonica: le permettono di portare la figlia quando non trova una baby-sitter. Questo è quanto. Nessun altro può entrare senza l'approvazione della badessa. Le suore restano sempre chiuse dentro, escono solo per andare dal medico o per emergenze familiari.» «Con chi ha parlato finora?» «Con la badessa, madre Mary Clement. E con le due suore che hanno trovato le vittime.» «Che cosa le hanno detto?» Jane scosse la testa. «Non hanno visto né sentito niente. Non penso che le altre ci potranno dire di più.» «Perché no?» «Ha visto che età hanno?» «Questo non significa che non siano in grado di ragionare.» «Una è ridotta a un vegetale dopo un ictus e due hanno l'Alzheimer. Gran parte dormono in stanze che danno dalla parte opposta del cortile, perciò non avranno visto niente.» All'inizio Maura rimase semplicemente china sul corpo di Camille, senza toccarla, per concederle un ultimo istante di dignità. Ora nulla ti può fe-
rire, pensò. Poi cominciò a palpare il cuoio capelluto e sentì lo scricchiolio dei frammenti ossei che si muovevano sotto la pelle. «Colpi multipli. Tutti sferrati sulla corona o sulla nuca...» «E l'ecchimosi sul volto? Ipostasi?» «Sì, ed è fissa.» «Quindi i colpi sono stati inferti da dietro, e dall'alto.» «L'aggressore era probabilmente più alto della vittima.» «Oppure lei era in ginocchio e lui in piedi sopra di lei.» Maura tacque, le mani a contatto con la carne fredda, paralizzata per un attimo dalla visione straziante della giovane suora, in ginocchio con il capo chino davanti all'aggressore che la massacrava di botte. «Ma chi è quel bastardo che va in giro a picchiare a morte le suore? Che cosa c'è che non va in questo mondo?» urlò Jane. Maura trasalì a quelle parole. Non ricordava l'ultima volta che aveva messo piede in chiesa e da anni non credeva più, ma sentire un tono così furioso in un luogo sacro la infastidiva. Tale era il potere dell'educazione religiosa che aveva ricevuto da bambina. Lei, che riteneva ormai santi e miracoli una pura invenzione, non avrebbe mai alzato la voce davanti alla croce. Jane Rizzoli, tuttavia, era troppo infuriata per misurare il tono delle frasi che le uscivano precipitose di bocca, persino in quel luogo sacro. Aveva i capelli più scarmigliati del solito, una chioma nera, selvaggia, che luccicava per i fiocchi di neve che si stavano sciogliendo. Le ossa del suo viso sporgevano formando angoli acuti sotto la pelle chiara. Nel buio della cappella aveva due occhi come carboni ardenti, pieni di rabbia. Una giusta ira era sempre stata il suo stimolo, la forza che la spingeva a dare la caccia ai mostri. Quel giorno però aveva uno sguardo quasi febbrile e il volto ancora più sottile, come se un fuoco la consumasse dentro. Maura non voleva alimentarlo ulteriormente e mantenne un tono di voce calmo, ponendo domande professionali, da scienziata abituata a occuparsi dei fatti, non dei sentimenti. Allungò la mano verso il braccio di suor Camille e palpò l'articolazione del gomito. «È flaccida. Non c'è rigor mortis.» «Allora è morta da meno di cinque, sei ore?» «Qui dentro però fa freddo.» Jane sbuffò, esalando una nube di vapore nell'aria gelida. «Altro che!» «Penso ci siano solo pochi gradi sopra zero. Il rigor mortis viene ritardato.»
«Di quanto?» «Quasi a tempo indeterminato.» «E il volto? L'ipostasi fissa?» «L'ipostasi può essere comparsa nell'arco di mezz'ora. Non ci è di grande aiuto per stabilire l'ora della morte.» Maura aprì il kit e prese il termometro chimico per misurare la temperatura ambiente. Scrutò i diversi strati di vestiti della vittima e decise di non registrare la temperatura rettale finché il corpo non fosse stato portato all'obitorio. La cappella era scarsamente illuminata e non era di certo il posto più adatto per poter escludere con certezza un'aggressione sessuale prima di inserire il termometro. Anche scostare gli abiti avrebbe potuto alterare eventuali prove. Prese invece alcune siringhe per prelevare l'umor vitreo e analizzare i livelli postmortem di potassio: in quel modo avrebbe potuto stimare l'ora del decesso. «Mi dica dell'altra vittima», disse mentre forava l'occhio sinistro e prelevava lentamente l'umor vitreo con la siringa. A quella vista Jane emise un gemito di disgusto e si voltò. «La vittima trovata accanto alla porta è suor Ursula Rowland, sessantotto anni. Doveva essere una tipa davvero in gamba: dicono che muovesse le braccia quand'è stata caricata sull'ambulanza. Io e Frost siamo arrivati nel momento stesso in cui la stavano portando via.» «Quanto sono gravi le sue lesioni?» «Non l'ho vista. L'ultimo bollettino che abbiamo avuto dall'ospedale St. Francis riferiva che la stavano operando. Fratture craniche multiple ed emorragia cerebrale.» «Come questa vittima.» «Sì, come Camille.» Nella voce di Jane era ricomparsa la rabbia. Maura si alzò in piedi, tremando. L'orlo del cappotto, fradicio d'acqua gelida, le aveva bagnato i pantaloni e le sembrava di avere i polpacci sotto ghiaccio. Al telefono le avevano detto che la scena del crimine era all'interno, perciò non aveva preso la sciarpa o i guanti di lana dall'auto. In quel locale, privo di riscaldamento, faceva solo un po' più caldo che nel cortile tutto innevato. S'infilò le mani in tasca e si chiese come il detective Rizzoli, anche lei senza sciarpa e guanti, potesse stare da tanto tempo in quella cappella gelida. Pareva quasi avere in sé una fonte di calore, il fuoco della rabbia che la divorava e, malgrado le labbra cominciassero a diventarle blu, non sembrava intenzionata a cercare un ambiente più caldo. «Perché fa tanto freddo qui dentro?» domandò. «Non riesco a credere
che la usino per la messa.» «Non la usano infatti. Questa parte dell'edificio non viene mai utilizzata d'inverno: riscaldarla costa troppo. Le suore rimaste sono davvero poche. Per la messa usano una piccola cappella della canonica.» Maura pensò alle tre suore che aveva visto al di là della finestra, tutte anziane, esili fiammelle che si stavano estinguendo a una a una. «Se questa cappella non viene usata», chiese, «cosa facevano qui le vittime?» Jane emise un sospiro, esalando una nube di vapore degna di un drago. «Nessuno lo sa. La badessa dice che l'ultima volta che ha visto Ursula e Camille è stato ieri alla preghiera serale, verso le nove. Quando non le hanno viste alla preghiera mattutina, sono andate a cercarle. Non si sarebbero mai aspettate di trovarle qui.» «Tutti quei colpi in testa. Sembra pura rabbia.» «Ma guardi il viso», affermò Jane indicando Camille. «Non l'ha colpita in faccia. La faccia, l'ha risparmiata. Questo rende la cosa molto meno personale. Come se non colpisse lei in particolare, ma quello che è, quello che rappresenta.» «Autorità?» chiese Maura. «Potere?» «È buffo. Io avrei detto qualcosa come fede, speranza, carità.» «Be', vengo da una scuola cattolica.» «Lei?» sbuffò Jane. «Non l'avrei mai detto.» Maura inspirò una profonda boccata d'aria gelida e guardò la croce, ricordando gli anni trascorsi alla Holy Innocents Academy. E i particolari tormenti che le infliggeva suor Magdalene, la sua insegnante di storia. Non si trattava di tormenti fisici, ma psicologici, studiati da una donna molto abile a individuare le ragazze che, a suo parere, manifestavano un'eccessiva e indecorosa sicurezza di sé. A quattordici anni Maura aveva come migliori amici i libri, non altri esseri umani. Imparava facilmente e ne andava fiera: proprio per questo si era attirata le ire di suor Magdalene. Per il suo bene, quell'orgoglio per le sue spiccate capacità intellettive andava stroncato a favore di un atteggiamento d'umiltà. La suora la ridicolizzava in classe, scriveva giudizi tranciami sui fogli dei suoi ottimi compiti in classe, sospirava palesemente ogniqualvolta Maura alzava la mano per fare una domanda. Alla fine era riuscita a ridurla al silenzio. «Usavano l'intimidazione», spiegò Maura. «Le suore.» «Non pensavo che qualcosa potesse spaventarla, dottoressa.» «Molte cose invece mi spaventano.»
Jane scoppiò a ridere. «Ma non i cadaveri, vero?» «A questo mondo ci sono cose ben più spaventose dei cadaveri.» Lasciarono il corpo di Camille sul suo letto di pietre gelide e si avviarono lungo il perimetro della cappella, in direzione della zona sporca di sangue dov'era stata trovata, ancora viva, suor Ursula. Il fotografo aveva terminato il suo lavoro e se n'era andato; nella cappella restavano solo Maura e Ja ne, due donne sole, e le loro voci echeggiarono sui muri spogli. Maura aveva sempre considerato le cappelle alla stregua di santuari universali, in cui persino lo spirito del non credente poteva trovare conforto, ma in quel posto tetro in cui aveva messo piede la morte, sprezzante di ogni simbolo sacro, non esisteva conforto. «Qui hanno trovato suor Ursula», disse Jane. «Era distesa con la testa verso l'altare e i piedi verso la porta.» Come se si fosse inchinata davanti al crocifisso. «È una fottuta bestia», sbottò il detective Rizzoli e le sue parole infuriate tagliarono l'aria come schegge di ghiaccio. «Con questo abbiamo a che fare, con una bestia uscita di senno. O con un coglione strafatto, in cerca di qualcosa da rubare.» «Non sappiamo se si tratti di un uomo.» Jane indicò con un gesto il corpo di suor Camille. «Crede che sia opera di una donna?» «Una donna è in grado di impugnare un martello e di fracassare un cranio.» «Abbiamo trovato un'impronta. Là, a metà corridoio. Sembra un quarantacinque da uomo.» «Uno dell'ambulanza?» «No, può vedere qui le impronte dell'equipe medica, vicino alla porta. Quella nel corridoio è diversa. È sua.» In quell'istante arrivò una folata di vento che fece tremare le finestre e cigolare la porta, come se due mani invisibili la stessero tirando nel tentativo disperato di entrare. Le sue labbra erano ormai cianotiche dal freddo e il suo viso aveva assunto un pallore cadaverico, eppure Jane non aveva intenzione di trasferirsi in un ambiente più caldo. Quella era Jane Rizzoli, una donna troppo caparbia per cedere per prima, per ammettere di aver raggiunto il limite. Maura guardò il pavimento di pietra dove fino a poco prima giaceva suor Ursula e ammise che con il suo istinto Jane aveva visto giusto, che si trattava dell'aggressione di un pazzo. Quella che vedeva davanti a sé, in
quelle macchie di sangue, nei colpi inferti al cranio di suor Camille, era follia. Follia o malvagità. Ebbe la sensazione che una corrente gelida le investisse la schiena. Si raddrizzò, rabbrividendo, lo sguardo immobile sul crocifisso. «Sto congelando», disse. «Possiamo andare in un luogo più caldo? E prenderci una tazza di caffè?» «Qui ha finito?» «Ho visto quello che mi serviva. L'autopsia ci dirà il resto.» 2 Riemersero dalla cappella e calpestarono il nastro della polizia che, caduto ormai a terra, era stato inglobato dal ghiaccio. Il vento sferzò loro il cappotto e il volto mentre imboccavano il portico e socchiudevano gli occhi per ripararsi dalla nevicata furiosa. Quando entrarono in un locale buio, Maura avvertì un vago senso di calore sul viso intorpidito. Sentì un odore di uova, di vernice vecchia e di muffa proveniente da un impianto di riscaldamento antiquato, che irradiava polvere oltre al calore. Attirate da un tintinnio di stoviglie, percorsero un corridoio buio e arrivarono in una stanza illuminata a giorno da lampade a fluorescenza, un dettaglio straordinariamente moderno per quell'ambiente. Brutali e spietate, queste inondavano di luce i volti segnati delle suore sedute attorno al tavolo malconcio della canonica. Erano tredici, un numero sfortunato, tutte occupate a maneggiare teli a fiori dai colori vivaci, nastri di seta e vassoi di lavanda e petali di rosa essiccati. Era l'ora del lavoro, pensò Maura, osservando le mani artritiche delle donne prendere le erbe e avvolgere i nastri attorno ai sacchetti. Una di loro era accasciata in una sedia a rotelle, inclinata di lato, la mano sinistra piegata ad artiglio sul bracciolo, il viso flaccido come una maschera semifusa. I postumi crudeli dell'ictus. Eppure, fu la prima a notare le due intruse e a emettere un gemito. Le altre allora sollevarono lo sguardo e si voltarono verso Maura e Jane. Osservando quei volti rugosi, Maura restò colpita dalla fragilità che vi scorse. Non erano affatto l'immagine severa dell'autorità che ricordava dall'adolescenza, ma la personificazione dello stupore. Erano i volti di chi le chiedeva di spiegare la ragione di quella tragedia. Maura si sentì a disagio nella sua nuova posizione, proprio come un figlio adulto quando s'accorge che i genitori, invecchiando, sono tornati bambini. «Qualcuna sa dirmi dove posso trovare il detective Frost?» chiese Rizzo-
li. La risposta venne da una donna dall'aria tesa, uscita in quel momento dalla cucina con un vassoio di tazze e piattini puliti. Indossava un grembiule blu, scolorito e macchiato d'unto. Sulla mano sinistra, tra la schiuma del detersivo per piatti, spiccava un minuscolo brillante. Non è una suora, pensò Maura, ma l'inserviente della canonica, la donna che si prende cura di questa comunità sempre più inferma. «Sta ancora parlando con la badessa», spiegò l'inserviente. Indicò con il capo la porta e una ciocca di capelli castani le ricadde sulla fronte accigliata. «Il suo studio è in fondo al corridoio.» Jane annuì. «Conosco la strada.» Lasciarono la luce accecante della sala e proseguirono lungo il corridoio. Lì Maura avvertì una corrente d'aria, una bava di vento freddo, come se uno spirito l'avesse appena superata. Non credeva nella vita nell'aldilà, ma quando seguiva le orme di persone morte da poco, talvolta si chiedeva se nell'andarsene non avessero lasciato dietro di sé qualche traccia, una lieve alterazione dell'energia percepibile da chi ne ripercorreva i passi. Jane bussò alla porta della badessa e una voce tremula rispose: «Avanti». Entrando nella stanza, Maura sentì un aroma di caffè, delizioso come una fragranza per il corpo, e notò i pannelli di legno scuro che ricoprivano le pareti, con un semplice crocifisso appeso sopra la scrivania di quercia. Dietro a essa sedeva, curva, una suora i cui occhi azzurri, coperti dagli occhiali, sembravano due grandi pozze. Appariva vecchia e fragile come le consorelle della canonica, e portava un paio di occhiali tanto pesanti che il viso sembrava quasi inclinarsi verso il tavolo, ma lo sguardo era vivo e intelligente. Il collega del detective Rizzoli, Barry Frost, posò subito la tazza di caffè e si alzò in piedi per educazione. Frost aveva l'aria di uno che andava d'accordo con tutti ed era l'unico detective della Omicidi capace di entrare nella stanza degli interrogatori e di far credere al sospetto d'essere il suo migliore amico. Era anche l'unico che non pareva turbato dal fatto di lavorare con la volubile Rizzoli, che persino in quell'occasione trovò modo di accigliarsi per via della tazza di caffè: mentre loro due congelavano nella cappella, lui se ne stava seduto comodo in una stanza riscaldata. «Reverenda madre», affermò Frost. «Questa è la dottoressa Isles, dell'Ufficio del coroner. Dottoressa, questa è madre Mary Clement.» Maura diede la mano alla badessa. Era nodosa e la pelle le ricopriva le
ossa come fragile pergamena. Notò un polsino beige che sporgeva dalla manica nera. Ecco come le suore riuscivano a sopportare il freddo di quell'edificio: sotto la veste di lana la badessa portava una lunga tunica a mo' di sottoveste. Due occhi deformati dalle lenti spesse la fissarono. «L'Ufficio del coroner? Allora lei è un medico?» «Sì, un patologo.» «Indaga sulle cause del decesso?» «Esatto.» La badessa tacque per un istante, come per trovare il coraggio di porre la domanda seguente. «È già stata nella cappella? Ha visto...» Maura annui. Voleva evitare la domanda che sapeva le avrebbe fatto, ma era incapace di usare un tono scortese con una suora. Anche a quarant'anni la vista di un abito monacale la innervosiva. «Ha...» La voce di Mary Clement si ridusse a un sussurro. «Suor Camille ha sofferto molto?» «Mi spiace, non glielo so dire ancora. Non finché non avrò terminato l'esame.» Maura non disse autopsia: quella parola le sembrava troppo fredda, troppo cinica per le orecchie innocenti di Mary Clement. Né voleva rivelare la spaventosa verità, ossia che si era fatta un'idea precisa di ciò che era successo a suor Camille. Qualcuno l'aveva affrontata nella cappella. Qualcuno l'aveva inseguita mentre fuggiva terrorizzata nel corridoio tra le panche e le aveva strappato il velo bianco da novizia. Mentre i colpi le laceravano il cuoio capelluto e il sangue schizzava sulle panche, la giovane aveva ugualmente continuato ad avanzare barcollando, finché era crollata in ginocchio, vinta, ai piedi dell'aggressore. E anche allora questi non si era fermato, anche allora aveva continuato a colpire, fracassandole il cranio come un uovo. Evitando lo sguardo di Mary Clement, sollevò brevemente gli occhi al crocifisso appeso alla parete, ma guardare quel simbolo imponente non le fu di nessun conforto. «Non abbiamo ancora visto le stanze da letto», intervenne Jane. Come sempre, aveva un tono assolutamente professionale, la mente rivolta solo a ciò che andava fatto. Mary Clement sbatté le palpebre per soffocare le lacrime. «Sì, stavo proprio per accompagnare il detective Frost di sopra, nel dormitorio.» Jane annui. «Quando vuole.»
La badessa fece loro strada su per una scala illuminata solo dalla luce naturale che filtrava da una finestra di vetro colorato. Nelle giornate luminose il sole dipingeva sui muri un arazzo di colori, ma in quel mattino d'inverno le pareti erano scure, tinte di diverse tonalità di grigio. «Le stanze del piano superiore sono quasi tutte vuote. Con gli anni abbiamo dovuto trasferire le suore dabbasso, una a una», spiegò Mary Clement salendo lenta, tenendosi al corrimano come per issarsi, gradino dopo gradino. Maura si aspettava quasi che cadesse e si mise alle sue spalle, preoccupandosi ogniqualvolta si fermava barcollando. «In questo periodo suor Jacinta ha problemi con il ginocchio, perciò anche lei scenderà di sotto. E a suor Helen manca il fiato. Siamo rimaste così poche...» «È un edificio piuttosto grande da mantenere», commentò Maura. «E vecchio.» La badessa si fermò per riprendere fiato. Poi, con una risata triste, aggiunse: «Vecchio come noi, e tanto costoso da mantenere. Pensavamo di doverlo vendere, invece Dio ha fatto in modo di lasciarcelo». «Come?» «L'anno scorso abbiamo ricevuto una donazione così abbiamo iniziato i restauri. Le tegole del tetto sono nuove, e abbiamo isolato l'ultimo piano. Poi dovremo cambiare la caldaia.» Guardando Maura, affermò: «Che ci creda o no, quest'edificio è molto più confortevole di un anno fa». La badessa inspirò profondamente e riprese a salire le scale, facendo tintinnare i grani del rosario. «Un tempo eravamo cinquantuno. Quando sono arrivata a Graystones, tutte le stanze erano occupate, in entrambe le ali. Oggi invece siamo una comunità che invecchia.» «Quando è arrivata qui, reverenda madre?» domandò Maura. «Sono entrata come postulante quando avevo diciotto anni. C'era un giovanotto che voleva sposarmi e temo di averlo ferito nell'orgoglio quando l'ho rifiutato preferendo Dio.» L'anziana suora tacque, ferma su un gradino, e si guardò indietro. Per la prima volta Maura notò la forma rotondeggiante di un apparecchio acustico sotto il soggolo. «Probabilmente non riesce a immaginarselo, vero, dottoressa Isles? Che sia stata giovane?» No, Maura non ci riusciva. Non immaginava Mary Clement se non come l'anziana decrepita che ormai era diventata. Di certo, non la immaginava come una ragazza desiderabile, corteggiata dagli uomini. Giunsero in cima alle scale e si ritrovarono davanti un lungo corridoio. Lassù faceva più caldo, si stava quasi bene poiché il calore veniva trattenuto dai soffitti bassi. Le travi a vista sembravano avere almeno un secolo. La badessa si avvicinò alla seconda porta ed esitò tenendo la mano sulla
maniglia. Alla fine la girò e la porta si aprì. La luce grigia della stanza le illuminò il volto. «Questa è la stanza di suor Ursula», disse piano. La camera riusciva a malapena a contenerli tutti e tre. Frost e Rizzoli entrarono, Maura invece rimase sulla soglia a scrutare gli scaffali pieni di libri e le splendide viole africane in vaso. Con la sua finestra a colonnine e il soffitto basso, la stanza aveva un'aria medievale. La camera mansardata di una studentessa ordinata, arredata con un letto semplice e un cassettone, con un tavolo e una sedia. «Il letto è rifatto», osservò Jane guardando le coperte ben rimboccate. «Stamattina l'abbiamo trovato così», rispose Mary Clement. «Non è andata a letto ieri sera?» «È più probabile che si sia alzata presto. Lo fa sempre.» «Quanto presto?» «Alcune ore prima delle Lodi.» «Delle Lodi?» «Le preghiere del mattino, alle sette. La scorsa estate usciva sempre presto per andare in giardino. Le piaceva lavorare in giardino.» «E d'inverno?» domandò Jane. «Che cosa faceva tanto presto il mattino?» «In ogni stagione c'è sempre qualche lavoro da sbrigare, per chi è ancora abile. Molte sorelle sono ormai deboli. Quest'anno abbiamo dovuto assumere la signora Otis in cucina e anche con il suo aiuto facciamo fatica a svolgere tutte le faccende.» Jane aprì la porta dell'armadio. Dentro vide appesa una serie di abiti austeri neri e marrone. Niente note di colore, niente accessori. Era il guardaroba di una donna per la quale contava solo l'opera del Signore, per la quale la fattura degli abiti era funzionale alla sua missione. «Sono gli unici abiti che possiede?» «Quando entriamo nell'ordine facciamo voto di povertà.» «Significa che rinunciate a possedere qualsiasi cosa?» Mary Clement rispose con il sorriso paziente che si rivolge a un bambino quando fa una domanda assurda. «Non è poi tanto dura, detective. Conserviamo i libri, alcuni ricordi personali. Come può vedere, suor Ursula amava le viole africane. Ma sì, quando entriamo qui dentro ci lasciamo quasi tutto alle spalle. È un ordine contemplativo e non amiamo le distrazioni del mondo esterno.» «Mi scusi, reverenda madre», disse Frost. «Non sono cattolico e non so che significhi. Che cos'è un ordine contemplativo?»
Aveva posto la domanda con tono pacato, rispettoso, e Mary Clement gli dispensò un sorriso più caloroso di quello che aveva rivolto a Jane. «È un ordine che conduce una vita di riflessione, di preghiera, di devozione e di meditazione. Per questo ci rifugiamo dietro a queste mura e non riceviamo visitatori. Per noi l'isolamento è un conforto.» «E se qualcuna infrange le regole?» chiese Jane. «La cacciate via?» Maura vide Frost trasalire all'espressione infelice della collega. «Le nostre sono regole volontarie», rispose Mary Clement. «Le rispettiamo perché desideriamo farlo.» «Ma di tanto in tanto ci dev'essere qualche suora che un mattino si alza e dice: 'Oggi avrei voglia di andare al mare'.» «Non succede.» «Deve succedere, sono essere umani.» «Non succede.» «Nessuna infrange le regole? Nessuna salta dall'altra parte del muro?» «Non abbiamo bisogno di lasciare l'abbazia. La signora Otis va a fare la spesa. Padre Brophy si occupa dei nostri bisogni spirituali.» «E le lettere? Le telefonate? Persino nelle carceri di massima sicurezza è possibile fare ogni tanto una chiamata.» Frost scuoteva la testa con un'aria afflitta sul volto. «Abbiamo un telefono, per le emergenze», rispose Mary Clement. «Tutte possono usarlo?» «Perché dovrebbero volerlo usare?» «E la posta? Potete ricevere lettere?» «Alcune scelgono di non ricevere posta.» «E se volete mandare una lettera?» «A chi?» «Ha importanza?» Mary Clement aveva stampato sul viso un sorriso forzato, come se pensasse: Dio, dammi la pazienza di sopportare. «Posso solo ripeterle quello che le ho già detto, detective: non siamo prigioniere. Scegliamo noi di vivere in questo modo. Chi non approva le regole se ne può andare.» «E che cosa fa, fuori, nel mondo?» «Mi sembra che lei pensi che non conosciamo affatto il mondo esterno. Alcune sorelle hanno lavorato nella scuola o negli ospedali.» «Credevo che, quando si è di clausura, non si potesse lasciare il convento.» «Talvolta Dio ci chiama a svolgere compiti al di fuori di queste mura.
Qualche anno fa suor Ursula ha sentito la vocazione di servire all'estero e ha ricevuto una dispensa, ossia il permesso di vivere nel mondo esterno pur conservando i voti.» «Ma è tornata.» «L'anno scorso.» «Fuori non si trovava bene?» «La sua missione in India non è stata facile. C'è stato un episodio di violenza, un attacco terroristico al suo villaggio. È tornata in quell'occasione: qui si sentiva di nuovo al sicuro.» «Non aveva una famiglia a cui riunirsi?» «Il parente più stretto era un fratello, che è morto due anni fa. Adesso siamo noi la sua famiglia e Graystones è la sua casa. Quando lei è stanca del mondo e ha bisogno di conforto, detective», domandò con gentilezza la badessa, «non va forse a casa?» La domanda parve turbare Jane, che spostò lo sguardo sul muro dov'era appeso il crocifisso. Con altrettanta rapidità, tuttavia, lo distolse. «Reverenda madre?» La donna con il grembiule blu macchiato d'unto era in piedi in corridoio e li stava guardando con aria apatica, indifferente. Dalla coda di capelli castani erano fuoriuscite altre ciocche che le incorniciavano, flosce, il volto ossuto. «Padre Brophy sta venendo qui per occuparsi dei reporter, ma stanno arrivando così tante chiamate che poco fa suor Isabel ha staccato il telefono. Non sa che cosa dire.» «Vengo subito, signora Otis.» La badessa si voltò verso Jane. «Come può vedere, siamo travolte dagli eventi. Resti pure finché vuole. Io scendo di sotto.» «Prima di andarsene», ribatté Jane, «mi può dire qual è la stanza di suor Camille?» «È la quarta porta.» «Non è chiusa a chiave?» «Non ci sono serrature alle porte», spiegò Mary Clement. «Non ce ne sono mai state.» L'odore di candeggina e di Murphy's Oil Soap fu la prima cosa che Maura notò quando entrò nella stanza di suor Camille. Come quella di suor Ursula, aveva una finestra a colonnine che dava sul cortile e Jo stesso tetto spiovente, con le travi di legno. Se però la camera di suor Ursula aveva un'aria vissuta, quella di Camille era stata pulita e disinfettata a tal punto da
sembrare sterile. Le pareti bianche erano spoglie, fatta eccezione per un crocifisso di legno appeso di fronte al letto. Era il primo oggetto su cui Camille posava lo sguardo quando si svegliava il mattino, simbolo della sua esistenza dedicata a Dio. La sua era la stanza di una penitente. Maura osservò il pavimento e vide alcuni punti in cui, a forza di sfregare, la laccatura era stata abrasa e il legno appariva più chiaro. S'immaginò allora la giovane e delicata Camille in ginocchio, con in mano un pezzo di lana d'acciaio, intenta a grattar via... cosa? Cent'anni di macchie? Tutte le tracce delle donne vissute lì prima di lei? «Caspita», esclamò Jane, «se la pulizia è indice di santità, questa donna era una santa.» Maura si avvicinò al tavolo accanto alla finestra, su cui era posato un libro aperto. Santa Brigida d'Irlanda: la biografia. Immaginò Camille assorta a leggere a quel tavolo immacolato, con la luce della finestra che danzava sui tratti fini del suo volto, e si chiese se nei giorni più caldi non si togliesse il velo bianco da novizia, restando a capo scoperto, lasciando che la brezza le accarezzasse i biondi capelli a spazzola. «Qui c'è del sangue», affermò Frost. Maura si voltò e lo vide in piedi accanto al letto, intento a fissare le lenzuola stropicciate. Jane le scostò e vide alcune macchie di sangue rosso sul lenzuolo di sotto. «Sangue mestruale», commentò Maura notando che Frost arrossiva e si voltava dall'altra parte. Persino gli uomini sposati diventavano schifiltosi quando si parlava delle funzioni dei corpo femminile. Il rintocco della campana richiamò l'attenzione di Maura verso la finestra. Vide una suora uscire dall'edificio per andare ad aprire il cancello e quattro visitatori con gli impermeabili gialli entrare nel cortile. «È arrivata la Scientifica», annunciò. «Scendo e vado a prenderli», disse Frost uscendo dalla stanza. Nevischiava ancora e i fiocchi gelati ticchettavano contro il vetro. Lo strato di brina sulla finestra le alterava la visione del cortile sottostante. Maura scorse vagamente Frost che usciva per accogliere i tecnici della Scientifica, i nuovi invasori che violavano la santità dell'abbazia. Dietro al muro altri attendevano di profanarla: Maura vide il furgoncino di una televisione varcare furtivo il cancello, con le telecamere sicuramente già in funzione. Come avevano fatto ad arrivare così presto? L'odore della morte era tanto forte?
Si voltò a guardare il detective Rizzoli. «Lei è cattolica, Jane, non è vero?» Jane rispose sbuffando mentre frugava nell'armadio di Camille. «Io? Non ho neanche terminato il catechismo.» «Quando ha smesso di credere?» «Quasi nello stesso momento in cui ho smesso di credere a Babbo Natale. Non sono mai arrivata alla cresima, cosa che manda tuttora in bestia mio padre. Gesù, che guardaroba triste. Vediamo un po', cosa metto oggi, quello nero o quello marrone? Perché mai una ragazza sana di mente desidera farsi suora?» «Non tutte le suore portano l'abito monacale, non dopo il Concilio Vaticano secondo.» «Sì, ma la storia della castità non è cambiata. Provi a immaginare: niente sesso per il resto della vita.» «Però non saprei», osservò Maura. «Smettere di pensare agli uomini potrebbe essere un sollievo.» «Non so se sia possibile.» Jane chiuse l'armadio e ispezionò con calma la stanza alla ricerca di... che cosa?, pensò Maura. Della chiave per leggere la personalità di Camille? Della spiegazione di una fine così precoce e brutale? Lì non c'erano indizi che Maura riuscisse a vedere. Era una stanza pulita, da cui erano state rimosse tutte le tracce della sua occupante. Il che era, forse, l'indizio più rilevante sulla personalità di Camille: una giovane donna intenta a pulire, a pulire sempre ogni sporcizia. Ogni peccato. Jane si avvicinò al letto e si mise gattoni per guardarvi sotto. «Diamine, qui sotto è così pulito che ci si potrebbe mangiare.» Il vento scosse la finestra e il nevischio picchiettò sul vetro. Maura si girò e vide Frost e i tecnici della Scientifica dirigersi verso la cappella. Uno dei tecnici scivolò all'improvviso sulle pietre e allargò le braccia come un pattinatore, per cercare di mantenere l'equilibrio. Stiamo tutti cercando di mantenerci in equilibrio, pensò. Resistendo alla tentazione, proprio come resistiamo alla forza di gravità. E quando infine cadiamo, è sempre una gran sorpresa. I tecnici entrarono nella cappella e lei se li immaginò, disposti in cerchio, silenziosi, a fissare il sangue di suor Ursula, mentre il loro alito si condensava. Poi alle sue spalle udì un tonfo. Si voltò allarmata e vide il detective Rizzoli seduta sul pavimento accanto alla sedia rovesciata, con la testa tra le ginocchia.
«Jane.» Maura le si inginocchiò accanto. «Sto bene, sto bene...» «Che è successo?» «Penso... penso d'essermi alzata troppo in fretta. Mi gira solo un po' la testa...» «Dovrebbe stendersi.» «Non ce n'è bisogno. Mi lasci tranquilla, devo solo rilassarmi un momento.» Maura allora ricordò che nella cappella Jane non sembrava star bene: era troppo pallida e aveva le labbra scure. In quel momento aveva pensato che fosse per il freddo, ma ora si trovavano in una stanza calda e lei aveva la stessa espressione tirata. «Ha fatto colazione stamattina?» domandò Maura. «Uh...» «Non ricorda?» «Sì, credo di aver mangiato qualcosa.» «Che vuol dire?» «Un pezzo di pane tostato, va bene?» Jane scostò la mano di Maura, insofferente a ogni profferta di aiuto. Era proprio quel grande orgoglio che talvolta rendeva difficile lavorare con lei. «Credo mi stia venendo l'influenza.» «È certa che sia influenza?» Rizzoli si scostò i capelli dal volto e si raddrizzò lentamente. «Sì, e stamattina non avrei dovuto bere tutto quel caffè.» «Quanto ne ha bevuto?» «Tre tazze, forse quattro.» «Non è troppo?» «Avevo bisogno di caffeina, ma adesso ho un buco allo stomaco e mi viene voglia di vomitare.» «L'accompagno in bagno.» «No.» Jane l'allontanò. «Ce la faccio, va bene?» Si mise lentamente in piedi e restò ferma per un istante, poi raddrizzò le spalle e, recuperato il suo solito piglio, uscì dalla stanza. Un secondo rintocco della campana richiamò l'attenzione di Maura verso la finestra. Vide la suora anziana uscire dall'edificio e attraversare il cortile lastricato con passo strascicato per andare ad aprire. Il nuovo visitatore non aveva bisogno di annunciarsi: la suora aprì subito il cancello. Un uomo vestito con un lungo cappotto nero entrò nel cortile e posò la mano sulla spal-
la della suora. Era un gesto confidenziale e di conforto. I due si diressero insieme verso l'edificio. L'uomo camminava lento, adattandosi al passo artritico dell'anziana, con il capo chino verso di lei come se non volesse perdere una sola parola di quello che diceva. A metà cortile si bloccò all'improvviso e sollevò lo sguardo, come se avvertisse la presenza di Maura che lo guardava. Per un istante i loro sguardi s'incrociarono oltre la finestra. Maura vide un volto magro, incredibilmente bello, una chioma di capelli neri arruffati dal vento e una macchia bianca sotto il colletto sollevato del cappotto nero. Un prete. Quando la signora Otis aveva annunciato che padre Brophy sarebbe arrivato di lì a poco, Maura si era immaginata un uomo anziano, con i capelli grigi. Ma quell'uomo che la fissava era giovane, non aveva più di quarant'anni. Insieme alla suora prosegui verso l'edificio, poi Maura li perse di vista. Il cortile era di nuovo deserto, ma a testimonianza di tutte le visite di quel mattino restavano le orme nella neve. Presto sarebbero arrivati anche gli addetti dell'obitorio con la barella e avrebbero aggiunto le loro impronte a quelle già esistenti. Maura inspirò profondamente, paventando l'idea di tornare nella cappella gelida e di affrontare il triste compito che l'aspettava. Uscì dalla stanza e scese ad aspettare la sua squadra. 3 Jane Rizzoli rimase in piedi davanti al lavandino del bagno a fissare la sua immagine nello specchio, scontenta di ciò che vedeva. Non poteva fare a meno di paragonarsi all'elegante dottoressa Isles, che sembrava avere la compostezza e la padronanza di una nobile, con i suoi capelli neri sempre a posto e il rossetto vivo che risaltava sulla pelle perfetta. L'immagine che Jane vedeva allo specchio era tutt'altro che composta e perfetta: aveva i capelli arruffati come quelli di una strega, una massa di riccioli neri che nascondeva un viso pallido e tirato. Non sono io, pensò. Non riconosco la donna che mi sta guardando. Quando sono diventata un'altra? In quell'istante si sentì travolgere da un'altra ondata di nausea e chiuse gli occhi per contrastarla, per controllarla con tutte le sue forze, come se la sua vita dipendesse da quello. Ma la mera forza di volontà non bastava a evitare l'inevitabile. Coprendosi la bocca con la mano, Jane schizzò verso
la toilette più vicina e ci arrivò giusto in tempo. Anche dopo essersi liberata, rimase con la testa china sulla tazza, incerta se lasciare la sicurezza della toilette, pensando: dev'essere influenza. Per favore, fa' che sia influenza. Quando infine la nausea passò, si sentì tanto esausta che si mise a sedere sulla tazza, accasciandosi di lato contro la parete. Pensò a tutto il lavoro che l'aspettava, a tutti i colloqui da fare, alla frustrazione di ricavare qualche informazione utile da una comunità di donne mute e stordite. E, peggio di tutto, all'idea di dover restare sul posto, allo sfinimento di assistere mentre la Scientifica andava a caccia di tracce microscopiche. Di solito era lei quella più ansiosa di recuperare il maggior numero di prove, quella che tentava di assumere il controllo di ogni scena del crimine. Adesso invece era lì, rintanata in una toilette, riluttante a buttarsi nella mischia come faceva di solito. Avrebbe voluto restare nascosta lì dentro, in quel silenzio benedetto, in cui nessuno poteva cogliere il turbamento sul suo volto. Si chiese fino a che punto la dottoressa Isles avesse capito, forse non aveva notato niente di niente. Maura si era sempre interessata ai morti più che ai vivi e, in presenza di un omicidio, era il cadavere a richiamare la sua attenzione. Finalmente Rizzoli si alzò e uscì dalla toilette. Adesso sentiva di avere la mente lucida e che lo stomaco si era calmato. Stava tornando a essere la solita, vecchia Jane. Andò al lavandino e con la mano si portò un po' d'acqua alla bocca per cancellare il sapore acre del vomito, poi si rinfrescò il volto. Forza, ragazza, non fare la pappamolla. Se si accorgono che la tua corazza si è incrinata, tenteranno subito di colpirti. Succede sempre. Prese una salvietta di carta, si tamponò il viso e, proprio mentre la stava gettando nel cestino, si bloccò pensando al letto di suor Camille. Alle macchie sul lenzuolo. Il cestino era pieno quasi a metà. In mezzo a un mucchio di salviette appallottolate c'era un piccolo fagotto di carta igienica. Soffocando il disgusto, lo aprì. Anche se sapeva già che cosa conteneva, trasalì ugualmente alla vista del sangue mestruale di un'altra donna. Aveva sempre a che fare con il sangue, e ne aveva appena visto un lago attorno al corpo di Camille. Eppure, restò molto più scossa dalla vista di quell'assorbente. Era completamente impregnato. Per questo ti sei alzata dal letto, pensò. Per quel liquido caldo che ti si era riversato tra le cosce, per la sensazione di bagnato a contatto con le lenzuola. Ti sei alzata e sei venuta in bagno a cambiarti l'assorbente, gettando quello sporco nel cestino. E poi... che hai fatto?
Uscì dal bagno e tornò nella stanza di Camille. La dottoressa Isles se n'era andata e Jane era sola nella camera. Fissò accigliata le lenzuola sporche di sangue, l'unica macchia di colore in quella stanza immacolata. Si avvicinò alla finestra e guardò in basso, verso il cortile. Adesso nella neve mista a fanghiglia si notavano diverse serie di impronte. Al di là del cancello, accanto al muro, era parcheggiato un secondo furgoncino della televisione e gli addetti stavano montando un'antenna satellitare. La storia della suora morta, direttamente a casa tua. Al notiziario delle cinque sarà di certo la notizia d'apertura, pensò; quando si tratta di suore siamo tutti curiosi. Rinunci al sesso, ti ritiri dietro ad alte mura e tutti si chiedono che cosa nascondi sotto la veste. È la castità che ci affascina: ci meravigliamo di qualsiasi essere umano che rifugga dall'istinto più potente, che rinunci a ciò che la natura ci ha predisposti a fare. È la purezza che suscita la nostra attenzione. Lo sguardo di Jane vagò nel cortile posandosi infine sulla cappella. Lì dovrei essere ora, a congelare insieme ai tecnici della Scientifica, invece di attardarmi quassù, in una stanza che sa di Clorox. Ma solo da quella stanza riusciva a vedere ciò che Camille aveva visto tornando dal bagno in un buio mattino d'inverno: probabilmente una luce che brillava oltre i vetri colorati della cappella. Una luce che non doveva esserci. Maura assistette mentre due inservienti stendevano un lenzuolo pulito e vi trasferivano delicatamente suor Camille. Aveva visto gli addetti rimuovere altri corpi da altre scene del crimine. Talora svolgevano il loro compito con meccanica efficienza, talaltra con palese disgusto, ma di tanto in tanto li vedeva spostare la vittima con particolare dolcezza. I bambini piccoli erano oggetto di speciali attenzioni: ne reggevano la testolina con cura, ne accarezzavano il corpo immobile avvolto dal sacco salma. Suor Camille fu oggetto della stessa attenzione, dello stesso dolore. Maura tenne aperta la porta della cappella mentre spingevano fuori la barella e la seguì nel suo lento avanzare verso il cancello. Oltre il muro si accalcavano le troupe televisive, con le telecamere pronte a catturare la classica immagine della tragedia: il corpo sulla barella, il sudario di plastica che avvolge una sagoma umana. Il pubblico non avrebbe visto la vittima, ma avrebbe saputo che si trattava di una giovane donna e avrebbe guardato quel sacco, sezionandone mentalmente il contenuto. La loro spietata immaginazione avrebbe violato la privacy di Camille come mai il bi-
sturi di Maura avrebbe fatto. Mentre la barella usciva dal cancello dell'abbazia, la cerchia di reporter e di cameramen avanzò ignorando l'agente che urlava loro di stare indietro. Fu il prete che alla fine riuscì a tenere a bada l'orda. Imponente nel suo abito nero, varcò il cancello e si mescolò alla folla, sovrastandone il clamore con voce infuriata. «Questa povera suora merita il vostro rispetto! Perché non gliene dimostrate almeno un po'? Lasciatela passare!» Persino i cronisti a volte provano vergogna, e alcuni arretrarono per far passare i barellieri. Le telecamere però continuarono a filmare mentre la barella veniva issata nel furgone. Poi si voltarono verso la seconda preda: Maura, che era appena sgattaiolata fuori e si stava dirigendo verso l'auto, ben stretta nel cappotto, come se ciò la rendesse invisibile. «Dottoressa Isles! Ha qualche dichiarazione da fare?» «Qual è la causa del decesso?» «... ci sono prove che si sia trattato di un'aggressione a sfondo sessuale?» Assediata dai reporter, Maura frugò nella borsa per cercare la chiave e premette il telecomando. Aveva appena aperto la portiera quando udì qualcuno urlare il suo nome, ma stavolta era un grido di allarme. Guardò dietro di sé e vide un uomo accasciato sul marciapiede, con numerose persone chine su di lui. «C'è un cameraman a terra!» gridò qualcuno. «Serve un'ambulanza!» Maura richiuse la portiera con un colpo secco e corse verso l'uomo a terra. «Che cos'è successo?» chiese. «È scivolato?» «No, stava correndo... ed è come crollato a terra...» Maura gli si accovacciò accanto. Lo avevano già voltato sulla schiena: vide così un uomo di cinquant'anni con il volto che stava diventando cianotico. Una telecamera, con la scritta WVSU, giaceva nella neve al suo fianco. Non respirava. Maura gli reclinò la testa, estendendo il collo taurino per liberare le vie respiratorie, poi si chinò per iniziare la rianimazione. Un odore di caffè rancido e di sigarette per poco non le fece venire il vomito. Pensò all'epatite, all'AIDS, a tutti gli altri orrori invisibili che si potevano contrarre dai fluidi corporei, e si sforzò di posare la bocca su quella dell'uomo. Insufflò un po' d'aria e vide il petto sollevarsi mentre i polmoni si riempivano. Insufflò altra aria per due volte, poi senti il polso carotideo. Niente.
Stava per aprirgli il giaccone, ma si accorse che qualcun altro lo stava già facendo. Alzò lo sguardo e vide il sacerdote inginocchiato di fronte a lei che, con le sue grandi mani, tastava il petto del cameraman in cerca dei punti di riferimento. Posò quindi i palmi sullo sterno e la guardò, per essere certo di poter iniziare le compressioni toraciche. Maura scorse due occhi azzurri incredibili. E un'espressione di cupa determinazione. «Inizi le compressioni», disse. «Forza.» Lui cominciò all'istante, contandole a voce alta in modo che Maura potesse coordinare le insufflazioni. «Mille, duemila...» Non c'era panico nella sua voce, solo il ritmico contare di un uomo che sapeva ciò che faceva. Maura non aveva bisogno di guidarlo: agivano come se fossero da sempre una squadra, scambiandosi di posizione per alleviare la fatica. Quando arrivò l'ambulanza, Maura aveva la parte anteriore dei pantaloni fradicia di neve ma, nonostante il freddo, stava sudando. Si alzò in piedi irrigidita e guardò, esausta, mentre il personale inseriva una linea endovenosa e un tubo endotracheale e, nel contempo, caricava la barella sull'ambulanza. La telecamera caduta di mano all'uomo era stata recuperata da un dipendente della WVSU. Lo spettacolo deve continuare, pensò, osservando i reporter che sciamavano attorno all'ambulanza, anche se adesso a far notizia è il malore di un collega. Si voltò verso il prete che le stava a fianco, con le ginocchia dei pantaloni bagnate di neve. «Grazie per l'aiuto», disse. «Immagino abbia già fatto qualche CPR.» Lui le sorrise e scrollò le spalle. «Solo su un manichino. Non avrei mai pensato di usarla su un uomo.» Poi le diede la mano. «Mi chiamo Daniel Brophy. Lei è il medico legale?» «Maura Isles. Questa è la sua parrocchia, padre Brophy?» Lui annuì. «La mia chiesa è a tre isolati da qui.» «Sì, l'ho vista.» «Secondo lei l'abbiamo salvato?» Lei scosse il capo. «Quando si continua la CPR tanto a lungo, in assenza di polso, la prognosi non è molto favorevole.» «Ma c'è qualche probabilità che sopravviva?» «Non molte.» «Anche se è così, mi piace pensare che con il nostro intervento abbiamo fatto la differenza.» Poi lui guardò i cronisti televisivi, ancora concentrati sull'ambulanza. «Lasci che l'accompagni alla macchina, così se ne potrà
andare senza che le sbattano una telecamera in faccia.» «Subito dopo si getteranno su di lei. Mi auguro sia pronto ad affrontarli.» «Ho promesso di fare una dichiarazione, anche se non so che cosa vogliano sentirmi dire.» «Sono cannibali, padre Brophy. Non vogliono nulla di meno di una libbra della sua carne. Se possibile, anche dieci.» Il sacerdote rise. «Allora dovrei avvertirli: è una carne molto fibrosa.» Dopo di che l'accompagnò all'auto. I pantaloni bagnati le si appiccicavano alle gambe e la stoffa si stava già congelando al vento freddo. Una volta tornata all'obitorio, avrebbe dovuto indossare una divisa e lasciarli asciugare. «Se devo fare una dichiarazione», proseguì lui, «c'è qualcosa che dovrei sapere? Qualcosa che mi può dire?» «Deve parlare con il detective Rizzoli. È lei a capo dell'indagine.» «Crede si tratti di un'aggressione isolata? Le altre parrocchie dovrebbero stare in guardia?» «Mi occupo solo delle vittime, non degli aggressori. Non so spiegarle il movente.» «Sono donne anziane, incapaci di difendersi.» «Lo so.» «Allora cosa raccontiamo a tutte le suore che vivono nelle comunità religiose? Che non sono al sicuro nemmeno dietro le mura dei conventi?» «Nessuno di noi è mai completamente al sicuro.» «Non è la risposta che voglio dar loro.» «Ma è l'unica possibile.» Maura aprì la portiera dell'auto. «Ho ricevuto un'educazione cattolica, padre, e pensavo che le suore fossero intoccabili, ma ho appena visto quello che hanno fatto a suor Camille. Se una cosa del genere può capitare a una suora, allora nessuno è intoccabile», disse infilandosi in macchina. «Buona fortuna con la stampa, ha tutta la mia solidarietà.» Il sacerdote richiuse la portiera e rimase a guardarla oltre il finestrino. Per quanto bello fosse il suo volto, lo sguardo di Maura fu attratto dal colletto ecclesiastico: era una striscia bianca così sottile, eppure lo distingueva da tutti gli altri uomini. Lo rendeva irraggiungibile. Brophy sollevò la mano in segno di saluto, poi guardò la folla dei reporter che lo stava già accerchiando. Maura lo vide raddrizzarsi e inspirare profondamente, per poi avviarsi a grandi passi verso di loro.
«Alla luce dei reperti anatomici macroscopici e dell'anamnesi positiva per ipertensione, ritengo che il decesso sia avvenuto per cause naturali. Secondo la sequenza più probabile di eventi, ventiquattr'ore prima del decesso si è verificato un infarto miocardico acuto, seguito da aritmia ventricolare, l'evento terminale. Causa presunta di morte: aritmia letale secondaria a infarto miocardico acuto. Dettato da Maura Isles, Ufficio del coroner, Commonwealth del Massachusetts.» Maura spense il dittafono e fissò gli schemi prestampati su cui poco prima aveva registrato i punti di repere di Samuel Knight. La vecchia cicatrice dell'appendicectomia. Le ipostasi sui glutei e sulla parte inferiore delle cosce, là dove il sangue si era raccolto durante le ore in cui era rimasto seduto, esanime, sul letto. Non c'erano testimoni che raccontassero gli ultimi momenti che Samuel Knight aveva trascorso nella sua stanza d'albergo, ma Maura immaginava quello che gli poteva essere passato per la mente. Un'improvvisa fibrillazione al petto, forse qualche attimo di panico quando capisce che a fibrillare è il suo cuore, poi il graduale annebbiamento fino al buio totale. Sei tra quelli che ci hanno messo poco, pensò. Poche frasi dettate e Samuel Knight sarebbe stato messo da parte. La loro breve conoscenza sarebbe terminata con la firma di Maura scarabocchiata sul verbale autoptico. Nel contenitore della posta in arrivo c'erano altri verbali, una pila di trascrizioni che attendevano d'essere verificate e firmate. Nella cella frigorifera c'era un'altra persona che aspettava di fare la sua conoscenza: Camille Maginnes, l'autopsia della quale era prevista per le nove del mattino seguente, ora a cui sia Jane Rizzoli sia Frost potevano essere presenti. Anche mentre scorreva i verbali, apportando correzioni a margine, la sua mente restava concentrata su Camille. Il gelo che aveva sentito quel mattino nella cappella non l'aveva abbandonata e per lavorare alla scrivania si era tenuta addosso il maglione, come per proteggersi dal ricordo di quella visita. Si alzò per vedere se i pantaloni di lana, appesi sopra il calorifero, si fossero asciugati. Quasi, pensò; si slacciò rapida la cintura dei pantaloni della divisa che aveva indossato per tutto il pomeriggio e se li sfilò. Lasciandosi cadere di nuovo sulla sedia, rimase per un istante a osservare una delle stampe floreali appese alla parete. Per controbilanciare gli aspetti più cupi della sua professione, aveva arredato l'ufficio con simboli di vita, non di morte. Un ficus cresceva rigoglioso nell'angolo della stanza, oggetto costante di cure e attenzioni da parte sua e di Louise. Sulla parete
vi erano diverse stampe incorniciate di fiori: un bouquet di peonie bianche e di iris blu, un vaso di centofoglie con i fiori tanto grandi da piegare i gambi. Quando la pila di carte sul tavolo cresceva troppo, quando il peso della morte sembrava schiacciarla, Maura sollevava lo sguardo su quelle stampe e pensava al suo giardino, all'odore della terra ricca e al verde intenso dell'erba di primavera. Pensava a ciò che cresceva, non a ciò che moriva, che si decomponeva. In quel giorno di dicembre, tuttavia, la primavera non le era mai parsa tanto lontana. La pioggia gelida tamburellava sul vetro e Maura paventava l'idea di dover guidare fino a casa. Si chiese se avessero già sparso il sale sulle strade o se queste fossero ancora piste da pattinaggio, con le macchine che scivolavano come dischi da hockey. «Dottoressa Isles?» chiese Louise all'interfono. «Sì?» «C'è un certo dottor Banks al telefono. Sulla linea uno.» Maura s'irrigidì. «... il dottor Victor Banks?» domandò piano. «Sì. Ha detto che lavora per la One Earth International.» Maura non disse nulla, lo sguardo fisso sul telefono, le mani immobili sul tavolo. Non si rendeva quasi più conto del nevischio che batteva sui vetri, sentiva solo il martellare del cuore nel petto. «Dottoressa Isles?» «Chiama da lontano?» «No. Ha già lasciato un messaggio. È al Colonnade Hotel.» Maura deglutì. «Ora non posso prendere la chiamata.» «È la seconda volta che chiama. Dice di conoscerla.» Sì, certo che mi conosce. «Quando ha chiamato?» domandò Maura. «Questo pomeriggio, quand'era sulla scena del crimine. Le ho lasciato un messaggio sul tavolo.» Maura trovò tre post-it rosa con la scritta quando eri fuori... nascosti dalla pila di cartelline. Eccolo lì: 12.45. Ha chiamato il dottor Victor Banks. Fissò quel nome e sentì un rimescolio allo stomaco. Perché ora?, si chiese. Dopo tutti questi mesi, perché mi chiami all'improvviso? Che cosa ti fa pensare di poter rientrare nella mia vita? «Che cosa gli devo dire?» domandò Louise. Maura inspirò profondamente. «Che lo richiamerò io.» Quando mi sentirò pronta, maledizione. Appallottolò il post-it e lo gettò nel cestino dei rifiuti. Pochi istanti dopo,
incapace di concentrarsi sul lavoro, si alzò e si mise il cappotto. Louise fu sorpresa di vederla uscire dall'ufficio, già infagottata per affrontare il freddo. Maura era di solito l'ultima ad andarsene e non metteva mai piede fuori dalla porta prima delle cinque e mezzo. Adesso non erano nemmeno le cinque e Louise stava spegnendo il computer. «Voglio evitare il traffico», spiegò Maura. «Credo sia troppo tardi. Ha visto che tempo? In città hanno già chiuso gran parte degli uffici.» «Quando?» «Alle quattro.» «Perché è ancora qui? Sarebbe già dovuta uscire.» «Viene a prendermi mio marito. Ho la macchina dal meccanico, ricorda?» Maura sussultò. Sì, Louise le aveva detto dell'auto quel mattino, ma naturalmente lei se n'era dimenticata. Come sempre, la sua mente era focalizzata a tal punto sui morti da non prestare quasi attenzione alle voci dei vivi. Osservò Louise avvolgersi la sciarpa attorno al collo e infilarsi il cappotto, pensando: non presto abbastanza attenzione agli altri. Non mi sforzo di conoscere le persone quando sono ancora vive. Anche dopo un anno di lavoro in quell'ufficio, sapeva ben poco della vita privata della sua segretaria. Non aveva mai incontrato il marito, sapeva solo che si chiamava Vernon. Non ricordava dove lavorasse, che cosa facesse per vivere, in parte anche perché Louise non parlava molto di sé. È colpa mia?, si chiese Maura. Sente che non sono capace di ascoltare, che mi trovo più a mio agio con bisturi e dittafoni che con i sentimenti di chi mi circonda? Insieme, percorsero il corridoio dirette all'uscita che conduceva al parcheggio del personale, senza scambiare nemmeno due chiacchiere: erano solo due persone dirette nella stessa direzione. Il marito di Louise l'attendeva in macchina, con i tergicristalli che lottavano furiosi contro il nevischio. Maura salutò lei e il marito con un gesto della mano e incrociò lo sguardo perplesso di Vernon, che probabilmente si domandava chi fosse quella donna che lo salutava come se lo conoscesse. Come se conoscesse veramente qualcuno. Maura attraversò il parcheggio scivolando sull'asfalto ghiacciato, la testa china per proteggersi dai fiocchi di neve gelati, duri come pallottole. Doveva andare ancora in un posto. Aveva ancora un'incombenza da svolgere prima di terminare la giornata.
Si diresse all'ospedale St. Francis per verificare le condizioni di suor Ursula. Non aveva più. lavorato in un reparto ospedaliero dai tempi dell'internato, ma il ricordo della rotazione finale nell'unità di terapia intensiva le era rimasto sgradevolmente impresso nella mente. Aveva ancora davanti agli occhi i momenti di panico, la fatica di mantenersi lucida e di vincere la mancanza di sonno. Ricordava la notte in cui, durante il suo turno, erano morti tre pazienti, in cui tutto all'improvviso era andato storto. Da allora non riusciva a entrare in un'unità di terapia intensiva senza sentirsi perseguitata dal fantasma delle antiche responsabilità e dei vecchi fallimenti. L'unità di terapia intensiva chirurgica del St. Francis aveva al centro la stanza delle infermiere e tutt'intorno dodici stanze per i pazienti. Maura si fermò al banco dell'impiegata per mostrare il documento. «Sono la dottoressa Isles, Ufficio del coroner. Posso vedere la cartella di una vostra paziente, suor Ursula Rowland?» L'impiegata la guardò perplessa. «Ma la paziente non è morta.» «Il detective Rizzoli mi ha chiesto di verificare le sue condizioni.» «Oh... La cartella è in quel vano. La numero dieci.» Maura si avvicinò al mobile ed estrasse il contenitore di alluminio contenente la cartella del letto numero dieci. L'aprì al verbale operatorio preliminare, un testo sintetico, scribacchiato dal neurochirurgo subito dopo l'intervento: «Ematoma subdurale esteso, identificato e drenato. Frattura cranica comminuta aperta del parietale destro, sbrigliata, riparata. Lacerazione durale suturata. Verbale operatorio completo dettato. Dottor James Yuen». Maura passò alle annotazioni delle infermiere e lesse brevemente dei progressi della paziente dopo l'intervento. Le pressioni endocraniche si erano mantenute costanti grazie alla somministrazione endovenosa di Mannitolo e Lasix e all'iperventilazione forzata. Sembrava avessero fatto tutto il possibile; adesso bisognava solo aspettare e verificare l'entità dei danni neurologici. Portando con sé la cartella, si avvicinò alla stanza numero dieci. Riconoscendola, il poliziotto seduto fuori dalla porta le fece un cenno di saluto. «Salve, dottoressa Isles.» «Come va la paziente?» «Come sempre, credo. Non penso si sia svegliata.» Maura guardò le tende chiuse. «Chi c'è con lei?» «I medici.»
Bussò sullo stipite della porta e oltrepassò la tenda. Accanto al letto c'erano due uomini. Uno era alto, asiatico, con uno sguardo cupo e penetrante e una folta chioma di capelli argentei. Il neurochirurgo, pensò, notando la targhetta col nome: Dr. Yuen. L'uomo che gli stava a fianco era più giovane, sulla trentina, con due spalle tanto muscolose da riempire completamente il camice. Aveva i capelli biondi lunghi, ordinatamente raccolti in una coda. Il medico rubacuori, pensò Maura, guardando il volto abbronzato e gli occhi grigi infossati dell'uomo. «Scusate l'interruzione», disse. «Sono la dottoressa Isles, Ufficio del coroner.» «L'Ufficio del coroner?» domandò Yuen sconcertato. «La sua visita non è un po' prematura?» «Il detective a capo dell'indagine mi ha chiesto di esaminare la vostra paziente. C'è stata un'altra vittima, come saprete.» «Sì, abbiamo sentito.» «Domani effettuerò l'autopsia. Volevo confrontare la tipologia delle lesioni delle due vittime.» «Non credo possa vedere molto qui. Non ora, dopo l'intervento. Ne capirà di più vedendo le radiografie e le tomografie al momento del ricovero.» Maura guardò la paziente e non poté dargli torto. La testa di Ursula era tutta avvolta in bende, e le lesioni erano state ormai alterate, riparate dalla mano dei chirurgo. In coma profondo, Ursula respirava artificialmente. A differenza dell'esile Camille, Ursula era una donna corpulenta, massiccia, dalle ossa grosse, con un volto semplice e rotondo da contadina. Aveva le braccia robuste ricoperte di linee endovenose e al polso sinistro portava un bracciale con la scritta ALLERGICA ALLA PENICILLINA. Una brutta cicatrice, spessa e bianca, le deturpava il gomito destro, postumo di una vecchia lesione mal suturata. Un souvenir del suo lavoro all'estero?, si chiese. «In sala operatoria ho fatto il possibile», disse Yuen. «Adesso speriamo che il dottor Sutcliffe, qui, possa far fronte alle eventuali complicanze mediche.» Guardò il medico con la coda di cavallo che salutò Maura con un cenno e un sorriso. «Mi chiamo Matthew Sutcliffe, sono il suo internista», disse. «Non si è più fatta vedere da molti mesi. Fino a poco fa non sapevo nemmeno che fosse stata ricoverata.» «Hai il numero di telefono del nipote?» gli domandò Yuen. «Quando mi ha chiamato, mi sono dimenticato di chiederglielo. Mi ha detto che ti vole-
va parlare.» Sutcliffe annuì. «Ce l'ho. Sarà più semplice se terrò io i contatti con la famiglia. Li aggiornerò sulle sue condizioni.» «Quali sono le sue condizioni?» chiese Maura. «Direi che dal punto di vista medico è stabile», rispose Sutcliffe. «E da quello neurologico?» Yuen scosse la testa. «È troppo presto per dirlo. In sala operatoria è andato tutto bene, ma stavo proprio dicendo al dottor Sutcliffe che anche se riprende conoscenza - ma potrebbe non farlo - probabilmente non ricorderà alcun particolare dell'aggressione. Nei traumi cranici si verifica spesso un'amnesia retrograda.» In quell'istante abbassò lo sguardo verso il cercapersone che suonava. «Mi scusi, è una telefonata urgente. Il dottor Sutcliffe l'aggiornerà sull'anamnesi della paziente.» Poi con due lunghi passi uscì dalla stanza. Sutcliffe porse lo stetoscopio a Maura. «La può visitare, se vuole.» Lei lo prese e si avvicinò al letto. Per un attimo restò a guardare il petto di Ursula che s'innalzava e s'abbassava. Di rado esaminava una persona viva e dovette recuperare tutte le vecchie nozioni di clinica, consapevole che Sutcliffe avrebbe notato subito la sua scarsa dimestichezza con un corpo il cui cuore batteva ancora. Lavorava da tanto con i morti che aveva finito per sentirsi a disagio con i vivi. Sutcliffe rimase ai piedi del letto, una presenza imponente con le sue spalle larghe e il suo sguardo penetrante. La osservò mentre esaminava gli occhi della paziente con la penna luminosa, le palpava il collo, le sfiorava la pelle calda con le dita. Era così diversa dalla carne gelida conservata in cella frigorifera. D'un tratto si fermò. «A destra non c'è polso carotideo.» «Cosa?» «A sinistra è forte, ma a destra non si sente.» Prese la cartella e l'aprì alla pagina che recava le note operatorie. «Oh, l'anestesista lo ha segnalato: 'Arteria carotide comune destra assente. Molto probabilmente si tratta di una normale variante anatomica'.» Lui si accigliò e nonostante l'abbronzatura arrossì. «Me ne ero scordato.» «Allora è un reperto di vecchia data? La mancanza di polso su questo lato?» Lui annuì. «È congenita.» Maura si mise lo stetoscopio nelle orecchie e sollevò la camicia di Ursula, scoprendole i grossi seni. Malgrado i suoi sessantotto anni, la pelle era
ancora chiara e giovanile. Protetta per anni e anni dall'abito monacale, non era invecchiata sotto i raggi del sole. Quando premette il diaframma dello stetoscopio sul petto della suora, udì un battito forte e vigoroso. Il cuore di una sopravvissuta, che continuava indomito a pompare sangue. Un'infermiera fece capolino nella stanza. «Dottor Sutcliffe? Hanno chiamato da radiologia per informarla che la radiografia toracica è pronta. Se vuole può scendere a esaminarla.» «Grazie.» Guardando Maura, Sutcliffe aggiunse: «Se lo desidera, possiamo dare un'occhiata alle radiografie craniche». Scesero in ascensore con sei giovani infermiere volontarie dal volto fresco e dai capelli lucidi, che ridacchiarono tra loro lanciando occhiate d'ammirazione al dottor Sutcliffe. Pur essendo un uomo attraente, questi sembrò ignorare del tutto le loro attenzioni e tenne lo sguardo fisso sui numeri dei piani che si susseguivano. Il fascino del camice, pensò Maura, ricordando gli anni dell'adolescenza in cui aveva fatto volontariato al St. Luke di San Francisco. I medici allora le parevano intoccabili. Inavvicinabili. Ora che anche lei era un medico, aveva capito fin troppo bene che il camice non proteggeva dagli sbagli, che non rendeva infallibili. Guardò le giovani volontarie con le loro uniformi pulite e si rivide a sedici anni: non ridacchiava scioccamente come quelle ragazze, ma era seria e tranquilla. Già allora percepiva il lato cupo della vita, attratta istintivamente dalle melodie in chiave minore. Le porte dell'ascensore si aprirono e le ragazze si riversarono all'esterno, uno stormo allegro tutto bianco e rosa, lasciando Maura e Sutcliffe soli. «Sono estenuanti», disse lui. «Tutta quell'energia. Vorrei averne un decimo, soprattutto dopo un turno di notte.» Lanciandole un'occhiata, aggiunse: «Voi ne avete molti?» «Di turni di notte? Li facciamo a rotazione.» «Suppongo che i vostri pazienti non si aspettino che accorriate in gran fretta.» «Non è come la vostra vita in trincea.» Lui scoppiò a ridere e all'improvviso si trasformò in un biondo asso del surf con due occhi allegri. «La vita in trincea, sì, a volte è proprio così. La prima linea.» Le lastre erano già pronte sul banco dell'impiegato. Sutcliffe portò la grossa busta nella sala radiografie, ne appese una serie con le apposite clip e accese l'interruttore. La luce illuminò l'immagine di un cranio. Le linee di frattura solcavano
le ossa come fulmini. Maura vide due punti distinti d'impatto: il primo colpo era stato sferrato al temporale destro e aveva prodotto una singola e sottile frattura in direzione dell'orecchio. Il secondo, più potente, era stato infarto posteriormente al primo e aveva compresso il tavolato cranico, schiacciandolo verso l'interno. «L'ha colpita prima sulla parte laterale della testa», commentò Maura. «Come fa a dire che sia stato quello il primo colpo?» «Perché la prima linea di frattura arresta la linea di propagazione della frattura causata dal secondo colpo, che la interseca.» Indicò quindi le due linee. «Vede che questa linea si ferma qui, nel punto in cui tocca la prima linea di frattura? La forza dell'impatto non è riuscita a superarla. Questo mi dice che il colpo alla tempia destra è stato il primo. Forse si stava voltando. Oppure non l'ha visto mentre si avvicinava di lato.» «L'ha colta di sorpresa», osservò Sutcliffe. «E sarebbe bastato a farla barcollare. Poi è arrivato il secondo colpo, in una zona più posteriore del capo, qui», disse Maura indicando la seconda linea di frattura. «Un colpo più forte», affermò Sutcliffe. «Ha compresso il tavolato cranico.» Tolse quindi le radiografie e appese le TAC. La tomografia assiale computerizzata consentiva di osservare l'interno del cranio umano e di studiarne il cervello «a fette». Maura vide un accumulo di sangue dovuto alla lacerazione dei vasi. La pressione in aumento avrebbe finito per comprimere il cervello. Era una lesione potenzialmente devastante, come quella subita da Camille. Ma l'anatomia e la resistenza umane sono variabili. Se la suora più giovane non era sopravvissuta alle ferite, il cuore di Ursula aveva continuato a battere, il suo corpo si era rifiutato di cedere. Non si trattava di un miracolo, solo di uno scherzo del destino, come quando un bambino cade da una finestra del sesto piano e riporta soltanto qualche graffio. «Mi meraviglio che sia sopravvissuta», mormorò Sutcliffe. «Anch'io.» Maura lo guardò. La luce gli illuminava metà volto, mettendo in risalto gli angoli decisi della guancia. «Questi colpi erano mirati a uccidere.» 4 Camille Maginnes aveva ossa giovani, pensò Maura, guardando le ra-
diografie appese allo schermo luminoso dell'obitorio. Gli anni non avevano ancora eroso le articolazioni della novizia, fatto collassare le vertebre o calcificato le cartilagini costali. Ormai non l'avrebbero più fatto. Camille sarebbe stata posta nella terra e le sue ossa sarebbero rimaste giovani, arrestate per sempre nella crescita. Yoshima aveva radiografato il corpo quand'era ancora completamente vestito, una precauzione standard utile a individuare proiettili e altri frammenti metallici intrappolati negli abiti. Fatta eccezione per il crocifisso e per quelle che erano chiaramente spille da balia appuntate al petto, le radiografie non rivelavano la presenza di altri oggetti metallici. Maura tolse le lastre rigide del busto che emisero un sonoro boing quando le si piegarono in mano. Prese quindi quelle craniche e le appese con le clip allo schermo. «Gesù», mormorò il detective Frost. I danni cranici erano spaventosi. Un colpo era stato tanto forte da spostare i frammenti ossei ben al di sotto del livello cranico. Maura non aveva ancora praticato alcuna incisione, ma intuiva già le lesioni che avrebbe trovato all'interno: vasi lacerati, raccolte emorragiche, il cervello erniato dalla pressione crescente del sangue. «Ci racconti, dottoressa», disse Jane con tono deciso e diretto. Sembrava star meglio quel mattino ed era entrata nell'obitorio con il suo solito passo brusco. L'amazzone di nuovo in azione. «Che cosa vede?» «Tre colpi distinti», rispose Maura. «Il primo è stato inferto qui, sulla corona», aggiunse indicando un'unica linea di frattura che correva diagonalmente in direzione anteriore. «Gli altri due sono successivi, qui, sulla nuca. Suppongo che a questo punto si trovasse con la faccia all'ingiù. A terra, prona e inerme. È stato allora che il terzo colpo le ha fracassato il cranio.» Era un finale tanto brutale che sia lei sia i due detective restarono muti per qualche istante immaginando la ragazza a terra, con il volto premuto al pavimento di pietra, il braccio dell'aggressore che si sollevava, la mano che stringeva l'arma letale. Il rumore delle ossa fratturate che squarciava il silenzio della cappella. «Come pestare a morte un cucciolo di foca», disse Jane. «Non ha avuto alcuna possibilità.» Maura si voltò verso il tavolo autoptico su cui giaceva Camille Maginnes, ancora vestita con il suo abito inzuppato di sangue. «Svestiamola.» Yoshima, il fantasma della sala autopsie, già con il camice e i guanti ad-
dosso, aspettava d'iniziare. Con silenziosa efficienza aveva preparato il vassoio degli strumenti, orientato le luci e predisposto i contenitori per i campioni. Maura non aveva quasi bisogno di parlare: con uno sguardo lui le leggeva la mente. Dapprima le tolsero le scarpe di pelle nera, brutte e funzionali. Poi si fermarono, vedendo i molteplici strati di vestiti, preparandosi a un compito che non avevano mai affrontato: spogliare una suora. «Prima il davantino», disse Maura. «Che cos'è?» domandò Frost. «La mantellina, solo non vedo i fermagli sul davanti. E non ho visto zip sulle lastre. Giriamola sul fianco, in modo che possa esaminare la schiena.» Il corpo, ormai rigido per il rigor mortis, era leggero come quello di un bimbo. La spostarono su un fianco e Maura staccò i bordi della mantellina. «Velcro», esclamò. Frost scoppiò in una risata di sorpresa. «Sta scherzando.» «Il Medioevo incontra l'era moderna.» Maura tolse la mantellina, la piegò e la posò su un foglio di plastica. «Da un certo punto di vista è davvero una delusione. Le suore che usano il velcro.» «Vuoi che restino nel Medioevo?» domandò Jane. «Pensavo solo fossero un po' più tradizionaliste.» «Mi spiace deluderla, detective Frost», affermò Maura mentre toglieva la catena con il crocifisso, «ma oggi alcuni conventi hanno persino il sito web.» «Oh, diamine. Le suore in internet. Questo sì che è davvero eccitante.» «Sembra che ora sia il turno dello scapolare», proseguì Maura indicando il capo senza maniche che dalle spalle scendeva fino all'orlo della veste. Lo sfilò delicatamente dalla testa. Il tessuto era rigido, impregnato di sangue. Lo posò su un altro foglio di plastica, poi tolse la cintura di cuoio. Erano arrivati all'ultimo strato di lana: una tunica nera ampia, che copriva le esili forme di Camille. L'ultima barriera del suo pudore. In tutti gli anni in cui aveva svestito cadaveri, Maura non aveva mai provato tanta riluttanza a denudare una vittima. Quella donna aveva scelto di vivere nascosta dagli sguardi maschili; ora sarebbe stata crudelmente esposta a occhi estranei, il suo corpo sarebbe stato esplorato, dai suoi orifizi avrebbero prelevato tamponi. L'idea di un simile oltraggio le fece venire l'amaro in bocca e dovette fermarsi per riacquistare la sua compostezza.
Notò allora lo sguardo interrogativo di Yoshima: se era a disagio, non lo dava a vedere. Il suo volto impassibile era un elemento tranquillizzante in quella stanza, in cui l'aria stessa sembrava carica di emotività. Si riconcentrò sul suo compito. Insieme, lei e Yoshima sollevarono la tunica sulle cosce e sui fianchi. Era larga e riuscirono a sfilarla senza compromettere la rigidità cadaverica delle braccia. Sotto c'erano altre vesti: un cappuccio di cotone bianco che le era scivolato lungo il collo, i cui lembi anteriori erano appuntati con spille da balia alla maglietta sporca di sangue. Le spille evidenziate dalle radiografie. Le gambe erano coperte da pesanti calze nere. Tolsero dapprima queste, che rivelarono un paio di mutande bianche di cotone. Erano assurdamente pudiche, concepite per coprire il più possibile, un capo adatto a un'anziana signora non a una ragazza nubile. Sotto il cotone si notava la sagoma di un assorbente. Come Maura sospettava per via delle macchie sulle lenzuola, la vittima aveva le mestruazioni. Poi prese la maglietta. Aprì una spilla da balia, staccò un altro velcro e tolse il cappuccio. La maglietta sarebbe stata difficile da togliere, a causa del rigor mortis. Afferrò quindi le forbici e la tagliò nel centro. Il tessuto si divise, rivelando la presenza di un altro strato. Vedendolo, Maura restò sorpresa. Fissò la fascia di tessuto che avvolgeva stretta il petto della giovane, fissata davanti con due spille da balia. «A che serve?» chiese Frost. «Sembra che si fasciasse il seno», rispose Maura. «Perché?» «Non ne ho idea.» «Un surrogato del reggiseno?» suggerì Jane. «Non riesco a immaginare perché abbia scelto di portare una cosa del genere al posto di un reggiseno. Guardate com'è stretto. Doveva essere scomodo.» Jane sbuffo. «Sì, perché un reggiseno è comodo?» «Non è qualcosa di religioso, vero?» domandò Frost. «Una parte della veste?» «No, sono bende standard, le stesse che comperi in farmacia per fasciarti una caviglia slogata.» «Ma come facciamo a sapere che cosa portano davvero le suore? Voglio dire, per quanto ne sappiamo, sotto tutti quegli strati potrebbero indossare biancheria di pizzo nero o calze a rete.» Nessuno rise.
Maura guardò Camille e all'improvviso colse il simbolismo del seno fasciato: la volontà di nascondere i tratti femminili, di sopprimerli, di soggiogarli. Che cosa era passato per la mente di Camille quando si era avvolta quelle bende attorno al petto, tendendo bene il tessuto elastico a contatto con la pelle? Aveva provato disgusto per quel segno di femminilità? Si era sentita più pulita, più pura, mentre i seni scomparivano sotto la fasciatura, mentre le curve si appiattivano, mentre la sua sessualità veniva negata? Sfilò le due spille di sicurezza e le posò sul vassoio. Poi con l'aiuto di Yoshima iniziò a sbendarla, scoprendo a ogni giro una striscia in più di pelle. Nemmeno gli elastici soffocanti erano riusciti a rovinare quella carne sana. Quando l'ultimo pezzo di benda scivolò via, rivelò due seni giovani e sodi, la cui pelle recava il segno del tessuto. Altre donne sarebbero state fiere di quei seni, Camille Maginnes invece li nascondeva, quasi se ne vergognasse. C'era un ultimo capo da togliere. Le mutande di cotone. Maura le prese per l'elastico e le sfilò lungo i fianchi e le cosce. L'assorbente, che vi era attaccato, aveva solo una piccola macchia di sangue. «Un assorbente quasi pulito», commentò Jane. «Sembra lo avesse cambiato da poco.» Maura, tuttavia, non stava guardando l'assorbente, aveva lo sguardo fisso sull'addome privo di tono, flaccido e infossato tra le ossa sporgenti delle anche. La cute pallida era deturpata da striature argentee. Per un attimo rimase in silenzio, a elaborare il senso di quelle striature. E del seno ben stretto dalle bende. Poi si voltò verso il vassoio dove aveva posato il mucchio di bende, e lentamente le srotolò, esaminando il tessuto. «Che cosa sta cercando?» chiese Jane. «Macchie», rispose Maura. «Le ha già viste.» «Non parlo delle macchie di sangue...» Maura tacque. La benda stesa sul vassoio presentava alcuni cerchi scuri là dove il liquido si era essiccato. Dio mio, pensò. Com'è possibile? Guardò Yoshima. «Prepariamola per l'esame pelvico.» Lui si accigliò. «Alterando la rigidità cadaverica?» «Non ha una massa muscolare molto sviluppata.» Camille era una donna esile, il che avrebbe facilitato il compito. Yoshima si portò all'estremità del tavolo. Mentre Maura teneva fermo il bacino, lui infilò le mani sotto la coscia sinistra e fece forza per flettere
l'anca. Alterare la rigidità cadaverica era un atto brutale proprio come l'idea stessa suggeriva: implicava lacerare a forza le fibre muscolari irrigidite. Procedura mai piacevole, sconvolse profondamente Frost che impallidendo si allontanò dal tavolo. Yoshima tirò con decisione e Maura sentì, trasmesso attraverso il bacino, lo strappo dei muscoli che si laceravano. «Oh, cavolo», esclamò Frost, voltandosi dall'altra parte. Fu però Rizzoli che si avvicinò barcollando alla sedia accanto al lavandino per accasciarvisi sopra e prendersi la testa tra le mani. Jane la stoica, che non si lamentava mai degli odori o degli spettacoli della sala autopsie, sembrava incapace di sopportare persino i preliminari. Maura girò dall'altra parte del tavolo e tenne di nuovo fermo il bacino mentre Yoshima ripeteva la procedura con la coscia destra. Anche lei ebbe un attacco di nausea mentre cercavano di forzare la rigidità del corpo. Di tutte le prove che aveva dovuto superare durante il tirocinio, quella che l'aveva turbata di più. era stata la rotazione in chirurgia ortopedica: l'uso dei trapani e delle seghe che penetravano nelle ossa, la forza bruta necessaria a disarticolare le anche. Adesso, mentre sentiva i muscoli strapparsi, provava lo stesso orrore. L'anca destra si fletté all'improvviso, e persino il volto imperturbabile di Yoshima lasciò trapelare un senso di disgusto. Non c'era, d'altronde, altro modo per visualizzare i genitali e Maura aveva una certa urgenza di confermare quanto prima i suoi sospetti. Ruotarono entrambe le cosce verso l'esterno, e Yoshima puntò la luce direttamente sul perineo. Nel canale vaginale si era raccolto del sangue, normale sangue mestruale, avrebbe ipotizzato Maura fino a pochi istanti prima. Cercò una garza e lo pulì delicatamente per rivelare la mucosa sottostante. «A ore sei c'è una lacerazione vaginale di secondo grado», disse. «Vuole effettuare un tampone?» «Che succede?» domandò Frost. Maura lo guardò. «Non lo faccio molto spesso, ma ho intenzione di asportare gli organi pelvici tutti insieme. Taglierò l'osso pubico e li estrarrò.» «Pensa abbia subito violenza carnale?» Maura non gli rispose. Si diresse al vassoio portastrumenti e prese un bisturi, poi si avvicinò al busto per iniziare l'incisione a Y. In quel momento l'interfono ronzò. «Dottoressa Isles?» esclamò Louise attraverso l'apparecchio.
«Sì?» «C'è una telefonata per lei sulla linea uno. È di nuovo il dottor Victor Banks, dell'organizzazione One Earth.» Maura s'immobilizzò, il bisturi in mano, la punta a contatto con la pelle. «Dottoressa Isles?» chiese Louise. «Non posso.» «Gli dico che lo richiamerà?» «No.» «È la terza volta che chiama oggi. Mi ha chiesto se può telefonarle a casa.» «Non gli dia il mio telefono di casa.» Maura aveva risposto con un tono più duro di quanto avrebbe voluto e vide Yoshima voltarsi a guardarla. Sentiva che anche Frost e Rizzoli la stavano osservando. Allora inspirò e, più calma, aggiunse: «Dica al dottor Banks che non posso. E continui a ripeterglielo finché non smette di chiamare». Ci fu un attimo di silenzio. «Sì, dottoressa Isles», rispose infine Louise, piuttosto offesa da quello scambio di parole. Era la prima volta che Maura le parlava bruscamente e avrebbe dovuto trovare il modo di appianare il contrasto e riparare il danno. Quell'episodio la lasciò molto agitata. Guardò in basso, il busto di Camille Maginnes, cercando di concentrarsi sulla procedura, ma la sua mente vagava e la presa sul bisturi si era fatta incerta. Gli altri lo notarono. «Perché la One Earth la sta tormentando?» domandò Jane. «La stanno infastidendo perché faccia una donazione?» «Non ha niente a che fare con la One Earth.» «Allora di che si tratta?» incalzò Jane. «Quell'uomo la sta importunando?» «È solo una persona che cerco di evitare.» «Mi sembra sia piuttosto insistente.» «Lei non ne ha idea.» «Vuole che glielo tolga dai piedi? Che gli dica il fatto suo?» Non stava parlando solo Jane Rizzoli la detective, ma anche Jane Rizzoli la donna, che non sopportava gli uomini prepotenti. «È una faccenda personale», rispose Maura. «Se le serve aiuto, tutto quello che deve fare è chiedere.» «Grazie, me la caverò da sola.» Maura premette il bisturi contro la pelle. Non c'era niente che desiderasse di più che lasciar perdere quell'argomento. Inspirò e trovò ironico il fatto che l'odore della carne morta fosse meno
fastidioso del suono di quel cognome, che i vivi la tormentassero più di quanto i morti avrebbero mai potuto fare. Nell'obitorio nessuno la feriva, nessuno la tradiva. Nell'obitorio era lei ad avere il controllo. «Allora, chi è quel tizio?» domandò Jane. Tutti se lo stavano ancora chiedendo, ed era una domanda a cui prima o poi Maura avrebbe dovuto rispondere. Affondò la lama e osservò la carne aprirsi come una tenda bianca. «Il mio ex marito», rispose. Praticò l'incisione a Y, poi ripiegò i lembi di cute pallida. Yoshima usò un paio di comuni cesoie da potatura per tagliare le costole, poi sollevò costole e sterno, che rivelarono un cuore e due polmoni normali, un fegato, una milza e un pancreas sani. Gli organi puri, integri, di una giovane che non abusava di tabacco né di alcol, e che non aveva vissuto abbastanza perché le sue arterie si restringessero e si ostruissero. Maura fece alcuni commenti mentre rimuoveva gli organi e li poneva in una bacinella di metallo, procedendo rapida verso il suo obiettivo: l'esame degli organi pelvici. L'escissione degli organi pelvici in blocco era una procedura che di solito riservava ai casi di stupro, dato che permetteva una dissezione molto più accurata rispetto a quella usuale. Non era una procedura gradevole, l'estrazione in massa del contenuto pelvico. Lei e Yoshima segarono i rami dell'osso pubico. Maura non si stupì quando vide Frost girarsi dall'altra parte. Anche Rizzoli tuttavia si allontanò dal tavolo. Nessuno adesso chiedeva delle telefonate dell'ex marito, nessuno insisteva per sapere ulteriori particolari. L'autopsia era diventata all'improvviso troppo raccapricciante per fare conversazione e Maura ne fu perversamente sollevata. Prelevò l'intero gruppo degli organi pelvici, genitali esterni e osso pubico compresi, e lo posò su un tagliere. Ancor prima di sezionare l'utero capì, dall'aspetto, che i suoi sospetti erano confermati: l'organo era più grande del normale, il fondo ben al di sopra del livello dell'osso pubico e le pareti spugnose. Lo aprì per osservare l'endometrio, ancora spesso e pieno di sangue. Sollevò lo sguardo verso Jane e chiese brusca: «Questa donna è uscita dall'abbazia la scorsa settimana?» «L'ultima volta che ha lasciato l'abbazia è stato in marzo, per far visita alla famiglia a Cape Cod. Questo mi ha detto Mary Clement.» «Allora dovete cercare nell'abbazia. Subito.» «Perché? Cercare cosa?»
«Un neonato.» La frase sembrò colpire Jane in modo inaudito. Bianca in volto, fissò Maura, poi guardò il corpo di Camille Maginnes, steso sul tavolo. «Ma... era una suora.» «Sì», disse Maura. «E ha partorito di recente.» 5 Stava di nuovo nevicando quando nel pomeriggio Maura uscì dall'edificio. Fiocchi morbidi, simili a merletti, svolazzavano come bianche falene per posarsi delicati sulle auto parcheggiate. Questa volta si era preparata per il freddo e indossava un paio di stivaletti con la suola di gomma. Ciononostante, attraversò cauta il posteggio mentre gli stivaletti scivolavano sul ghiaccio ricoperto dalla neve e il suo corpo si preparava a contrastare un'eventuale caduta. Quando infine raggiunse l'auto, emise un sospiro di sollievo e frugò nella borsa in cerca delle chiavi. Distratta dall'operazione, non notò il rumore sordo di una portiera sbattuta a breve distanza. Solo quando sentì dei passi, si voltò ad affrontare l'uomo che le si stava avvicinando. Arrivò a pochissimo da lei e si fermò, senza dire nulla. Rimase semplicemente lì a guardarla, le mani infilate nel giaccone di pelle, i fiocchi di neve che gli cadevano sui capelli biondi e sulla barba ben curata. Guardò la Lexus di Maura e disse: «Immaginavo che l'auto nera fosse tua. Vesti sempre di nero. Ami sempre il lato oscuro. E poi chi altri mai tiene un'auto così pulita?» Alla fine lei ritrovò la voce, che le uscì roca, come quella di un'estranea. «Che fai qui, Victor?» «Sembra sia l'unico modo per vederti.» «Tendermi un'imboscata nel parcheggio?» «È così che la pensi?» «Sei rimasto seduto qui ad aspettarmi. Io la chiamo imboscata.» «Non mi hai lasciato molta scelta. Non hai risposto a nessuna delle mie chiamate.» «Non ho potuto.» «Non mi hai mai dato il tuo nuovo numero.» «Non me lo hai mai chiesto.» Lui sollevò lo sguardo, osservò i fiocchi che cadevano come coriandoli e sospirò. «Be', è proprio come ai vecchi tempi, non credi?» «Fin troppo.» Maura si girò verso la macchina e l'apri col telecomando.
La chiusura scattò. «Non vuoi sapere perché sono qui?» «Devo andare.» «Sono venuto fino a Boston e non mi chiedi nemmeno perché.» «D'accordo», rispose lei guardandolo. «Perché?» «Tre anni, Maura.» Victor si avvicinò e lei sentì il suo profumo. Di cuoio e di sapone. La neve si scioglieva a contatto con la sua pelle calda. Tre anni, pensò, e non è quasi cambiato: lo stesso modo da ragazzino di inclinare la testa, le stesse rughe attorno agli occhi. Persino in dicembre i suoi capelli sembravano schiariti dal sole: le ciocche più chiare parevano davvero appartenere a un uomo che passava ore e ore all'aperto. Victor Banks sembrava emanare una forza gravitazionale tutta sua e lei ne era succube, come chiunque. Sentì di nuovo la vecchia attrazione. «Non ti sei chiesta, anche solo per una volta, se non sia stato un errore?» domandò lui. «Il divorzio? O il matrimonio?» «Non è evidente? Visto che sono qui a parlarti.» «Hai aspettato un bel po' a dirmelo», rispose lei voltandosi verso la macchina. «Non ti sei risposata.» Maura si bloccò e lo guardò. «E tu?» «No.» «Be', vuol dire che siamo entrambi due partner insopportabili.» «Non sei rimasta abbastanza per scoprirlo.» Lei scoppiò a ridere. Era una risata amara, sgradevole, in quel silenzio bianco. «Eri tu quello che andava avanti e indietro dall'aereoporto, sempre pronto a salvare il mondo.» «Non sono stato io a mettere fine al matrimonio.» «Non sono stata io ad avere una relazione.» Maura si girò e spalancò la portiera. «Maledizione, non puoi aspettare un attimo? Ascoltami!» Victor le strinse il braccio e Maura restò sorpresa dalla rabbia che percepiva in quella stretta. Lo fissò, gelida, per segnalargli che era andato troppo oltre. Lui mollò la presa. «Scusami. Gesù, non volevo andasse così.» «Cosa ti aspettavi?» «Che tra noi fosse rimasto qualcosa.» Ed era rimasto, pensò Maura. Fin troppo, per questo non poteva più sop-
portare quella conversazione. Temeva di essere di nuovo risucchiata, anzi sentiva che stava già accadendo. «Senti», disse lui. «Mi fermo in città per qualche giorno. Domani ho una riunione alla facoltà di Sanità pubblica di Harvard, ma dopo non ho programmi. È quasi Natale, Maura, ho pensato che potevamo passare le vacanze insieme, se sei libera.» «E dopo te ne andresti con il primo volo.» «Potremmo almeno cercare di recuperare un po' di tempo perduto. Non riesci a prenderti qualche giorno di ferie?» «Ho un lavoro, Victor, non posso mollarlo così.» Lui lanciò un'occhiata all'edificio ed emise una risata incredula. «Non so nemmeno perché tu voglia fare un lavoro del genere.» «Il lato oscuro, ricordi? È la mia natura.» Victor la guardò e la sua voce si addolcì. «Non sei cambiata, neanche di una virgola.» «Nemmeno tu, è questo il problema», replicò lei infilandosi in macchina e chiudendo la portiera. Lui bussò sul finestrino. Maura lo guardò mentre la fissava con i fiocchi di neve che gli brillavano sulle ciglia e non poté far altro che abbassare il vetro e proseguire la conversazione. «Quando potremo continuare il discorso?» «Adesso devo andare.» «Allora più tardi. Stasera.» «Non so nemmeno a che ora rientrerò.» «Dai, Maura», esclamò lui avvicinandosi di più, poi aggiunse dolcemente: «Corri il rischio. Sono al Colonnade. Chiamami». Lei emise un sospiro. «Ci penserò.» Victor allungò la mano e le strinse il braccio. Di nuovo il suo profumo le evocò ricordi vivi di notti passate insieme sotto lenzuola fresche di bucato con le gambe intrecciate, di baci lenti, lunghi, dal sapore della vodka e di limone. Due anni di matrimonio lasciano ricordi indelebili, sia belli sia brutti, e in quel momento, con la mano di Victor sul braccio, prevalevano quelli belli. «Aspetto la tua chiamata», disse lui presumendo già d'aver vinto. Crede sia tanto facile?, si chiese Maura mentre usciva dal parcheggio e si dirigeva verso Jamaica Plain. Mi sorride, mi tocca il braccio ed è tutto perdonato? Gli pneumatici slittarono all'improvviso sulla strada ricoperta di ghiaccio
e Maura strinse il volante, concentrandosi all'istante sulla guida per recuperare il controllo dell'auto. Era tanto agitata che non si era accorta di quanto stava correndo. La Lexus sbandò e gli pneumatici girarono a vuoto nel tentativo di far presa. Solo quando la raddrizzò Maura si concesse di respirare. E d'infuriarsi. Prima mi spezzi il cuore. Poi per poco non mi ammazzo per colpa tua. Un pensiero irrazionale, ma non c'era da stupirsi: Victor ispirava pensieri irrazionali. Quando accostò dall'altra parte della strada, davanti alla Graystones Abbey, si sentì sfinita dalla guida. Rimase per un attimo seduta in macchina, cercando di controllare il turbine di sentimenti. Controllare era la parola chiave della sua vita. Quando usciva dall'auto, era un personaggio pubblico, seguito dalle forze dell'ordine e dalla stampa. Tutti si aspettavano che fosse calma e logica, e così lei sarebbe apparsa. Buona parte del suo lavoro comportava recitare una parte. Maura scese, e questa volta attraversò la strada con sicurezza grazie agli stivaletti che facevano presa sul suolo. La strada era contornata di auto della polizia e due troupe televisive stavano sedute nei loro furgoni, in attesa di sviluppi. La luce invernale stava già cedendo il posto alle ombre della sera. Suonò la campana al cancello e poco dopo comparve una suora. Una veste nera emersa dalle ombre. La religiosa la riconobbe e la fece entrare senza dire una sola parola. Nel cortile la neve era smossa da decine di impronte. Era un luogo diverso da quello in cui Maura era entrata, quel mattino. Ogni parvenza di pace era scomparsa, cancellata dalla perquisizione in corso. Dietro ogni finestra le luci erano accese e udiva voci maschili riecheggiare sotto le arcate. Quando entrò nell'atrio, percepì un odore di salsa di pomodoro e di formaggio, un odore sgradevole che le ricordava le lasagne insipide e coriacee che servivano spesso nella mensa dell'ospedale in cui aveva fatto il tirocinio. Lanciò un'occhiata nella sala da pranzo e vide le suore sedute al tavolo della canonica, intente a consumare in silenzio il pasto serale. Vide mani tremanti portare le forchette alle bocche sdentate e il latte gocciolare sui menti raggrinziti. Per gran parte della loro vita quelle donne erano vissute dietro a un muro, invecchiate in isolamento. Chissà se qualcuna rimpiangeva ciò che aveva perso, la vita che avrebbe potuto condurre se fosse uscita dal cancello per non tornare più indietro?
Continuando lungo il corridoio, udì alcune voci maschili, estranee e sorprendenti in quella casa di donne. Due poliziotti la salutarono, riconoscendola. «Salve, dottoressa.» «Avete trovato qualcosa?» domandò lei. «Non ancora. Tra poco smettiamo per la notte.» «Dov'è il detective Rizzoli?» «Di sopra. Nel dormitorio.» Salendo la scala, Maura incontrò altri due agenti addetti alla perquisizione che stavano scendendo, allievi della polizia che sembravano appena usciti dalle superiori: un giovane con il viso ancora segnato dall'acne e una ragazza con quella maschera di distacco che tante agenti sembravano dover indossare per poter sopravvivere. Quando la riconobbero, abbassarono entrambi lo sguardo per rispetto. Guardando quei giovani scostarsi per lasciarla passare in segno di deferenza si senti vecchia. Incuteva tanto timore che nessuno vedeva la donna celata, con tutte le sue insicurezze, dietro al medico legale? Maura aveva perfezionato il numero dell'invincibilità e anche in quel momento recitava la sua parte. Mosse il capo in segno di saluto e guardò subito oltre, conscia che, anche mentre saliva le scale, era osservata. Trovò Jane nella stanza di suor Camille, seduta sul letto con le spalle curve per lo sfinimento. «Sembra che se ne siano andati tutti, tranne lei», osservò Maura. Jane si voltò a guardarla. Aveva gli occhi infossati, cerchiati di nero, e sul suo volto Maura scorse segni di una stanchezza che non aveva mai notato. «Non abbiamo trovato niente. Stiamo perquisendo il convento da mezzogiorno, ma ci vuole tempo per passare al setaccio ogni armadio, ogni cassetto. Poi c'è il terreno, e il giardino... chissà che cosa c'è sotto la neve? Forse lo ha avvolto in qualcosa e lo ha gettato nel bidone dei rifiuti qualche giorno fa. O lo ha dato a qualcuno attraverso il cancello. Potremmo passare giorni a cercare qualcosa che potrebbe, o non potrebbe, essere qui.» «Che cosa dice la badessa?» «Non le ho detto che cosa stiamo cercando.» «Perché no?» «Non voglio che lo sappia.» «Potrebbe aiutarci.»
«Oppure fare in modo che non lo troviamo. Pensa che l'arcidiocesi abbia bisogno di altri scandali? Pensa che vogliano che si risappia che una suora ha ucciso il suo bambino?» «Non sappiamo se il bambino è morto. Sappiamo solo che è scomparso.» «Lei è assolutamente certa dei reperti autoptici?» «Sì. Camille era nella fase avanzata della gravidanza. E no, non credo nell'immacolata concezione», rispose Maura sedendosi sul letto accanto a Jane. «Il padre potrebbe essere una figura chiave nell'aggressione. Dobbiamo identificarlo.» «Sì, pensavo proprio a quella parola: padre. Come sinonimo di sacerdote.» «Padre Brophy?» «Un bell'uomo. Lo ha visto?» Maura ricordò i magnifici occhi blu che l'avevano guardata quand'era accanto al cameraman. E come il sacerdote, a mo' di guerriero nerovestito, avesse varcato deciso il cancello per sfidare l'orda di cronisti. «Ha avuto ripetutamente accesso al convento», proseguì Jane. «Dice messa, confessa le suore. Che cosa c'è di più intimo che condividere i propri segreti in un confessionale?» «Con ciò ipotizza che il rapporto sia stato consensuale.» «Dico solo che è un bell'uomo.» «Non sappiamo se il bambino sia stato concepito in quest'abbazia. Camille non è andata a trovare la famiglia in marzo?» «Sì, quand'è morta la nonna.» «È l'epoca giusta. Se lo ha concepito in marzo, ora sarebbe al nono mese di gravidanza. Potrebbe essere successo durante la visita a casa.» «Ma anche qui. Dentro queste mura.» Jane sbuffo, con aria cinica. «Alla faccia del voto di castità.» Rimasero sedute per un istante senza parlare, fissando entrambe il crocifisso alla parete. Quanto siamo imperfetti noi uomini, pensò Maura. Se c'è un dio, perché ci impone standard tanto irraggiungibili? Perché ci affida obiettivi impossibili? «Una volta volevo farmi suora», disse. «Pensavo non fosse credente.» «Avevo solo nove anni e avevo appena scoperto di essere stata adottata. Mia cugina si era lasciata sfuggire la verità, una di quelle perfide rivelazioni che all'improvviso mi chiarirono tutto: perché non assomigliavo ai
miei genitori, perché non esistevano foto di me neonata. Passai l'intero fine settimana a piangere in camera mia.» Maura scosse la testa. «I miei poveri genitori. Non sapevano che fare, perciò per tirarmi su mi portarono al cinema a vedere Tutti insieme appassionatamente per soli settantacinque centesimi, perché era un vecchio film.» Dopo un attimo di silenzio aggiunse: «Trovavo Julie Andrews bellissima e volevo essere come Maria. In convento». «Ehi, dottoressa, vuol sapere un segreto?» «Quale?» «Anch'io.» Maura la guardò. «Vuole scherzare!» «Avrò mollato il corso di catechismo, ma chi può resistere al fascino di Julie Andrews?» Al che scoppiarono entrambe e ridere, ma era una risata impacciata che ben prestò si smorzò nel silenzio. «E che cosa l'ha spinta a cambiare idea?» domandò Jane. «A non diventare suora?» Maura si alzò e si avvicinò alla finestra. Guardando il cortile buio, rispose: «Il semplice fatto di crescere. Ho smesso di credere a quello che non vedevo, non sentivo e non toccavo. Alle cose che non potevano essere dimostrate scientificamente». Dopo un istante disse: «E ho scoperto i ragazzi». «Oh, sì, i ragazzi», rise Jane. «È sempre la solita storia.» «È il vero scopo della vita, sa? Dal punto di vista biologico.» «Il sesso?» «La procreazione. È ciò che ci chiedono i geni: andate e moltiplicatevi. Pensiamo di avere il controllo della nostra esistenza e invece siamo sempre schiavi del nostro DNA, che ci dice di fare figli.» Maura si voltò e restò stupita di vedere le lacrime brillare sulla ciglia di Jane; un attimo dopo, tuttavia, scomparvero, prontamente asciugate con un gesto della mano. «Jane?» «Sono solo stanca. Non dormo molto bene in questo periodo.» «Davvero non c'è nient'altro?» «Che altro dovrebbe esserci?» La risposta fu troppo rapida, troppo difensiva, persino Jane se ne accorse e arrossì. «Devo andare in bagno», mormorò e si alzò, quasi desiderosa di scappare. Sulla porta si fermò e guardò indietro. «A proposito, sa quel libro sul tavolo, laggiù? Quello che
Camille stava leggendo. Ho controllato il nome.» «Quale?» «Santa Brigida d'Irlanda. È una biografia. Buffo, c'è un santo patrono per tutto, per qualsiasi occasione. Uno per i cappellai, uno per i tossicodipendenti, pazzesco, e anche uno per le chiavi perse.» «E Brigida, che santa è?» «Dei neonati», disse sommessamente Jane. «Brigida è la santa dei neonati.» Poi uscì dalla stanza. Maura guardò il tavolo su cui si trovava il libro. Solo un giorno prima si era immaginata Camille seduta a quel tavolo, a sfogliare rapida le pagine, per trarre ispirazione dalla vita di una giovane irlandese vocata alla santità. Ora emergeva invece un quadro diverso: non Camille la serena, ma Camille l'afflitta, che pregava santa Brigida per la salvezza del suo bambino morto. Ti prego, prendilo tra le tue braccia misericordiose. Portalo nella luce, anche se non è battezzato. È un innocente, è senza peccato. Guardò la stanza spoglia con una nuova consapevolezza. I pavimenti immacolati, l'odore della candeggina e della cera, tutto assumeva un nuovo significato. La pulizia come metafora dell'innocenza. Camille, la peccatrice, aveva cercato disperatamente di cancellare i suoi peccati, le sue colpe. Sapeva probabilmente da mesi di portare in grembo un bambino, nascosto sotto le ampie pieghe della veste. O invece si era rifiutata di accettare la realtà? Aveva negato tutto come fanno alcune adolescenti che non vogliono ammettere nemmeno con se stesse di avere il pancione? Cos'hai fatto quando il bambino e venuto al mondo? Ti sei lasciata prendere dal panico? O hai eliminato con calma e freddezza la prova del tuo peccato? Maura udì alcune voci maschili all'esterno. Al di là delle finestre vide le sagome scure di due agenti uscire dall'edificio. Si fermarono entrambi per chiudersi bene il cappotto e osservare i fiocchi che cadevano come una pioggia di brillantini dal cielo, poi lasciarono il cortile. I cardini cigolarono quando il cancello si richiuse alle loro spalle. Maura restò in ascolto per captare altri rumori, altre voci, ma non sentì nulla, solo la quiete di una sera nevosa. È tutto così silenzioso, pensò. Come se fossi l'unica persona rimasta nell'edificio. Sola e dimenticata. Udì uno scricchiolio e percepì un vago movimento, un'altra presenza nella stanza. Le si rizzarono tutti i peli sulla nuca e poco dopo scoppiò in una risata. «Santo cielo, Jane, non mi venga alle spalle come...» Girandosi, la voce le morì in gola.
Non c'era nessuno. Rimase immobile per un istante, senza respirare, fissando lo spazio vuoto. C'erano solo aria e il pavimento lucidato. Questa stanza è stregata, fu il suo primo pensiero irrazionale, poi subentrò la logica e ristabilì il controllo. I vecchi pavimenti scricchiolavano spesso, e i tubi del riscaldamento borbottavano. Non era stato un passo, ma le assi che si contraevano per il freddo. C'erano fattori perfettamente razionali che potevano spiegare perché aveva pensato che ci fosse qualcuno nella stanza. Ma sentiva ancora quella presenza, si sentiva osservata. Adesso le si erano rizzati anche i peli sulle braccia, e ogni nervo del corpo era in allerta. Qualcosa si mosse leggero sopra la sua testa, sembravano artigli a contatto col legno. Sollevò all'istante lo sguardo al soffitto. Un animale? Si sta allontanando da me. Uscì dalla stanza e il martellare del suo cuore in preda al panico coprì quasi del tutto i rumori che provenivano dall'alto. Eccolo là... si muoveva più in giù, lungo il corridoio! Tump-tump-tump. Seguì il rumore, lo sguardo puntato al soffitto, camminando tanto rapida che per poco non investì Jane che era appena uscita dal bagno. «Ehi», esclamò. «Perché tanta fretta?» «Shhh!» Maura indicò il soffitto di travi scure. «Cosa?» «Ascolti.» Attesero, tendendo le orecchie per captare qualsiasi suono ma, fatta eccezione per il battito del suo cuore, Maura udì solo silenzio. «Forse ha sentito solo un po' d'acqua nei tubi», osservò Jane. «Ho usato il water.» «Non erano i tubi.» «Allora, cos'ha sentito?» Lo sguardo di Maura si spostò fulmineo sulle antiche travi che correvano lungo il soffitto. «Lassù.» Di nuovo un raspare, in fondo al corridoio. Jane guardò in alto. «Che diavolo sono? Ratti?» «No», sussurrò Maura. «Qualsiasi cosa sia, è più grande di un ratto.» Poi si avviò silenziosa lungo il corridoio, seguita a breve distanza da Jane, raggiungendo il punto in cui avevano sentito per l'ultima volta il rumore. All'improvviso udirono una serie di tonfi sul soffitto, che tornavano nel-
la direzione da cui erano venute. «Sta andando nell'altra ala!» disse Jane. Con lei in testa, si precipitarono verso una porta al termine del corridoio. Il detective Rizzoli premette l'interruttore della luce e si ritrovarono di fronte a un corridoio deserto. Lì dentro l'aria era gelida, umida e stantia. Oltre le porte aperte videro diverse stanze abbandonate e le sagome spettrali dei mobili coperti da lenzuola. Qualsiasi cosa si fosse rifugiata in quell'ala, era ormai silenziosa. Non c'era modo di capire dove si trovasse. «La sua squadra ha perquisito questa parte dell'edificio?» chiese Maura. «Abbiamo passato in rassegna tutte queste stanze.» «Che c'è di sopra? Sopra il soffitto?» «I solai.» «Be', lassù c'è qualcosa che si muove», disse piano Maura. «Ed è abbastanza intelligente da capire che lo stiamo inseguendo.» Maura e Jane si accucciarono sul ballatoio della cappella studiando il pannello di mogano che, come aveva spiegato Mary Clement, portava ai solai. Il detective Rizzoli diede una lieve spinta e il pannello silenziosamente cedette. Fissarono il buio davanti a loro, tendendo le orecchie per cogliere eventuali movimenti, e sentirono un tepore sul viso. Nel solaio si accumulava il calore che saliva dall'edificio e ora questo si stava riversando all'esterno, oltre l'apertura. Jane illuminò il vano con la torcia. Notarono varie grosse travi, il materiale isolante rosa da poco installato e numerosi cavi elettrici che correvano tortuosi sul pavimento. Jane fu la prima a entrare. Maura accese la torcia e la seguì. Il solaio non era abbastanza alto per consentirle di stare in piedi: doveva tenere la testa china per evitare le travi di quercia sul soffitto. La luce delle loro torce tracciava un ampio arco, un cerchio nel buio oltre il quale si trovava una frontiera invisibile. Maura sentiva di avere il respiro accelerato. Il soffitto basso e l'aria stantia le davano l'impressione di essere in una tomba. Quando sentì una mano toccarle il braccio, per poco non sobbalzò. Senza parlare Rizzoli le indicò di andare a destra. Le assi scricchiolarono sotto il loro peso mentre avanzavano nell'ombra, con Jane in testa. «Aspetti», sussurrò Maura. «Non chiama rinforzi?» «Perché?»
«Per qualsiasi cosa ci sia quassù.» «Non chiamo rinforzi se quello che stiamo inseguendo è uno stupido procione...» Si fermò e con la torcia illuminò dapprima alla sua sinistra, poi a destra. «Credo che ci troviamo sopra l'ala ovest. Si sta bene quassù, fa caldo. Spenga la torcia.» «Cosa?» «La spenga. Voglio verificare una cosa.» Con riluttanza Maura la spense, e Jane fece lo stesso. In quel buio improvviso Maura sentì il polso batterle forte. Non vediamo quello che ci circonda. Quello che potrebbe avvicinarsi. Sbatté le palpebre cercando di adattare gli occhi all'oscurità, poi notò la luce: strisce sottili che filtravano tra le fessure del pavimento. Qua e là, nei punti in cui le assi erano sconnesse o in cui i buchi dei nodi si erano ritratti per l'aria secca dell'inverno, penetrava un fascio più ampio. I passi del detective Rizzoli si allontanarono tra uno scricchiolio e l'altro. All'improvviso Maura vide la sua sagoma scura accucciarsi e la testa avvicinarsi al pavimento. Jane rimase per un istante in quella posizione, poi rise piano. «Ehi, è come sbirciare nello spogliatoio maschile a scuola.» «Che cosa sta guardando?» «La stanza di Camille. Ci siamo proprio sopra. Qui c'è il buco di un nodo.» Maura si fece strada nel buio fino al punto in cui il detective Rizzoli era accovacciata. Inginocchiandosi, guardò attraverso il foro. E si ritrovò a osservare il tavolo di Camille. Si raddrizzò e sentì un brivido freddo correrle su per la schiena. Chiunque fosse quassù, mi poteva vedere nella stanza. Mi stava osservando. Tump-tump-tump. Jane si girò tanto velocemente che la urtò con il gomito. Maura armeggiò per accendere la torcia e poco dopo il fascio di luce schizzò in tutte le direzioni alla ricerca di qualsiasi cosa o persona si trovasse in quel vano con loro. Scorse fugacemente soffici ragnatele, grosse travi incrociate, basse sopra la loro testa. Lassù faceva tanto caldo, l'aria era afosa, opprimente, e il senso di soffocamento che provava non fece che aumentare il panico. Lei e Rizzoli si erano messe istintivamente sulla difensiva, schiena contro schiena, e Maura percepiva i muscoli tesi di Jane, la sua respirazione accelerata, mentre scrutavano il buio. In cerca di un bagliore d'occhi, di un volto ferino.
Maura ispezionò tanto rapidamente lo spazio circostante che la prima volta non la notò. Solo quando ripassò con la torcia, l'estremità del fascio luminoso s'increspò in corrispondenza di un'irregolarità del pavimento di assi grezze. La fissò, senza credere ai suoi occhi. Avanzò di un passo e, mentre si avvicinava, sentì aumentare l'orrore a mano a mano che la torcia illuminava altre sagome simili, affiancate. Così tante... Dio santo, è un cimitero. Un cimitero di bambini morti. Il fascio della torcia ondeggiò. Lei che impugnava il bisturi con mano ferma sul tavolo settorio non riusciva a non tremare. Poi si calmò e la luce illuminò con chiarezza un volto. Due occhi azzurri la fissavano, lucenti come marmo. Maura li osservò, assimilando lentamente la visione. E scoppiò in una risata. In una risata brusca, sbigottita. Nel contempo Jane l'aveva raggiunta e la sua torcia stava ispezionando la pelle rosa, la bocca disegnata, lo sguardo vitreo. «Che diamine», esclamò, «è solo una dannata bambola.» Maura illuminò gli altri oggetti che la circondavano: pelle liscia di plastica, arti paffuti. Il brillio di numerosi occhi di vetro che la fissavano. «Sono bambole», disse. «Un'intera collezione.» «Vede come sono allineate, tutte in fila? Come in una strana nursery.» «O per un rito», aggiunse piano Maura. «Un rito pagano nel santuario di Dio.» «Oh, Dio. Ora è lei a spaventare me.» Tump-tump-tump. Si girarono di scatto e con le torce squarciarono il buio senza trovare nulla. Il rumore era più debole. Qualsiasi cosa si trovasse nella soffitta con loro, adesso si stava allontanando, si stava ritirando oltre il raggio di luce. Maura s'impressionò quando vide Jane estrarre la pistola: era accaduto tutto rapidamente, tanto che non se n'era nemmeno accorta. «Non penso sia un animale», disse Maura. «Nemmeno io», rispose dopo qualche istante Jane. «Usciamo di qui. Per favore.» «Sì.» Jane inspirò profondamente e nella sua voce Maura percepì il primo fremito di paura. «Sì, d'accordo. Uscita controllata: faremo un passo alla volta.» Mentre ripercorrevano i loro passi, rimasero vicine. L'aria si fece più fredda e umida, o forse era la paura che congelava la pelle di Maura. Quando furono vicine al pannello, si trattenne dallo spiccare un balzo.
Uscirono dall'apertura e sbucarono sul ballatoio della cappella. Alle prime boccate di aria fredda, Maura avvertì la paura svanire. Lì, nella luce, sentiva di avere di nuovo il controllo della situazione. Di essere di nuovo capace di pensare logicamente. Che cosa avevano visto davvero in quello spazio buio? Una fila di bambole, nient'altro. Corpi di plastica, occhi di vetro e capelli di nylon. «Non era un animale», disse Rizzoli. Era accovacciata e osservava il pavimento del ballatoio. «Cosa?» «Qui c'è un'impronta», spiegò Jane indicando alcune chiazze di polvere. Segni inconfondibili di una scarpa da ginnastica. Maura guardò dietro di sé e vide che anche lei aveva lasciato tracce di polvere sul ballatoio. Chiunque aveva lasciato quell'impronta, era uscito dalla soffitta poco prima di loro. «Be', ecco la nostra creatura», disse Jane, scuotendo il capo. «Gesù, sono contenta di non aver sparato. Non oso pensare...» Maura guardò l'impronta e rabbrividì. Era di un bambino. 6 Grace Otis sedeva al tavolo da pranzo del convento e scuoteva la testa. «Ha solo sette anni. Non potete fidarvi di quello che dice. A me mente in continuazione.» «Vorremmo parlarle lo stesso», disse il detective Rizzoli. «Con il suo permesso, naturalmente.» «Parlarle di cosa?» «Di quello che faceva su, in soffitta.» «Ha rovinato qualcosa, vero?» Grace guardò nervosa madre Mary Clement, che l'aveva chiamata dalla cucina. «La punirò, reverenda madre. Cerco di tenere gli occhi aperti, ma quando ne combina qualcuna è sempre così silenziosa. Quando si allontana, non me ne accorgo nemmeno...» Mary Clement posò una mano nodosa sulla spalla di Grace. «Per favore, lasci che la polizia le parli.» Grace rimase seduta per un istante, indecisa. La pulizia serale della cucina aveva lasciato il segno sul grembiule, sporco di unto e di salsa di pomodoro. Dalla coda di cavallo erano fuoriuscite diverse ciocche di capelli che ora le ricadevano sul volto sudato. Era un volto grossolano, stanco, che probabilmente non era mai stato bello e che ora era anche segnato dall'a-
marezza. Mentre tutti attendevano la sua decisione, era lei ad avere il controllo, lei a detenere il potere e sembrava goderne. Sembrava voler protrarre la decisione il più a lungo possibile, per tenere Maura e Jane sulla corda. «Di che cosa ha paura, signora Otis?» le domandò pacatamente Maura. La domanda parve suscitare la sua ostilità. «Io non ho paura di niente.» «Allora perché non vuole che parliamo con sua figlia?» «Perché non è affidabile.» «Sì, sappiamo che ha solo sette...» «Racconta bugie.» Le parole che le uscirono di bocca ebbero l'effetto di una frustata e il suo viso, già sgraziato, s'imbruttì ulteriormente. «Racconta bugie su tutto, s'inventa anche cose stupide. Non si può crederle, non si può credere a nulla di ciò che dice.» Maura lanciò un'occhiata alla badessa, che scosse perplessa la testa. «La bambina di solito è tranquilla, non dà fastidio», disse Mary Clement. «Per questo permettiamo a Grace di portarla con sé all'abbazia quando lavora.» «Non mi posso permettere una baby-sitter», intervenne Grace. «A dire il vero, non mi posso permettere proprio niente. È l'unico modo per riuscire a lavorare, tenerla qui dopo la scuola.» «E la bambina l'aspetta?» domandò Maura. «Finché non finisce la giornata?» «Che cosa dovrei fare di lei? Io devo lavorare, sa? Mio marito, non se lo tengono gratis. Oggi non puoi nemmeno morire se non hai un po' di soldi.» «Mi scusi?» «Mio marito. È ricoverato al St. Catherine's Hospice. Dio solo sa quanto ci dovrà restare.» Grace lanciò un'occhiata alla badessa, penetrante come una freccia avvelenata. «Lavoro qui, fa parte dell'accordo.» Non era di certo un accordo che la rendeva contenta, pensò Maura. Grace non aveva più di trentacinque anni, ma aveva probabilmente la sensazione che per lei la vita fosse già finita. Era schiacciata dagli obblighi, verso una figlia per cui non nutriva molto affetto, e un marito che impiegava troppo tempo a morire. Per Grace Otis, la Graystones Abbey non era un santuario, ma una prigione. «Perché suo marito si trova al St. Catherine's?» chiese gentilmente Maura. «Gliel'ho detto. Sta morendo.» «Di che cosa?» «Ha il morbo di Gehrig. ALS.» Grace lo disse senza sentimento, ma
Maura sapeva la terribile realtà che si celava dietro a quel nome. Da studentessa aveva esaminato un paziente affetto da sclerosi amiotrofica laterale. Pur perfettamente vigile e capace di provare dolore, non si poteva muovere perché i muscoli si erano logorati, riducendolo a poco più di un cervello intrappolato in un corpo inutile. Lei gli aveva auscultato il cuore e i polmoni e palpato l'addome, aveva percepito il suo sguardo che l'osservava e non aveva voluto incrociarlo perché sapeva quanta disperazione vi avrebbe letto. Quando infine era uscita dalla stanza, aveva provato sollievo e nello stesso tempo un vago senso di colpa. Ma solo vago. La sua tragedia non la riguardava. Lei era soltanto una studentessa che entrava e usciva fugacemente dalla sua vita, non era costretta a condividere il fardello della sua sventura. Era libera di andarsene, e così aveva fatto. Grace Otis invece non poteva andarsene, e il risultato lo si vedeva nel volto segnato dal risentimento, nelle ciocche precocemente ingrigite dei capelli. «Per lo meno vi ho avvertite, lei non è affidabile. Racconta storie, a volte anche assurde.» «Lo sappiamo», rispose Maura. «I bambini lo fanno spesso.» «Se volete parlarle, devo essere presente. Solo per essere sicura che si comporti bene.» «Certo. È suo diritto, come madre.» Alla fine Grace si alzò in piedi. «Noni si sarà nascosta in cucina. Vado a prenderla.» Passarono vari minuti prima che Grace ricomparisse trascinando per mano una bambina dai capelli scuri. Era chiaro che Noni non voleva uscire dal suo nascondiglio e che aveva opposto resistenza per tutto il tragitto: ogni fibra del suo corpicino cercava di contrastare la forza implacabile di Grace. Alla fine questa la prese sotto le braccia e la sollevò per metterla di peso su una sedia: non con delicatezza, ma con la stanchezza e il disgusto di una donna che aveva raggiunto il limite. La ragazzina rimase seduta immobile per un istante, stupita di ritrovarsi sconfitta con tanta facilità. Era una sorta di folletto riccioluto con la mascella quadrata e due occhi scuri che studiarono rapidi tutti i presenti nella stanza. Lanciò solo un'occhiata a Mary Clement, poi il suo sguardo si soffermò un po' più a lungo su Maura prima di posarsi sul detective Rizzoli. E lì rimase, come se Jane fosse l'unica degna d'essere osservata. Come un cane che decide di infastidire l'unico asmatico fra i tanti, Noni aveva deciso di rivolgere l'attenzione all'unica persona che non aveva una predilezione per i bambini. Grace le diede un colpetto con il gomito. «Devi parlare con loro.»
Il volto di Noni si contrasse in segno di protesta e dalla sua bocca uscirono due parole, roche come il gracidare di una rana. «Non voglio.» «Non m'importa se non vuoi. Loro sono la polizia.» Lo sguardo della bambina rimase fisso su Jane. «Non sembrano la polizia.» «Be', lo sono», replicò Grace. «E se non dici la verità, ti metteranno in prigione.» Era proprio quello che i poliziotti non amavano sentir dire da un genitore, perché induceva i bambini a temere le persone di cui invece si dovevano fidare. Jane Rizzoli fece un rapido cenno a Grace per dirle di tacere. Si accucciò davanti a Noni, in modo che si potessero guardare negli occhi. Erano straordinariamente simili, tutte e due con i capelli neri e ricci e uno sguardo intenso, tanto che Jane sembrava quasi avere di fronte un suo piccolo clone. Se Noni fosse stata testarda come lei, di lì a poco si sarebbero scatenati fulmini e saette. «Mettiamo subito in chiaro una cosa, va bene?» disse Rizzoli alla bambina con tono brusco e pratico, come se non stesse parlando a una ragazzina, ma a un adulto in miniatura. «Io non ti metterò in prigione. Non metto mai i bambini in prigione.» La ragazzina la studiò dubbiosa. «Nemmeno quelli cattivi?» obiettò. «Nemmeno quelli cattivi.» «Nemmeno quelli molto, molto cattivi?» Jane esitò, con un lampo d'irritazione negli occhi. Noni non avrebbe mollato facilmente. «D'accordo», ammise. «Quelli molto, molto cattivi, li mando in una casa di correzione.» «Ma è una prigione per bambini.» «Esatto.» «Allora tu mandi i bambini in prigione.» Jane lanciò un'occhiata a Maura, come per dirle: pazzesco! «D'accordo», sospirò. «Hai vinto. Ma non metterò te in prigione. Voglio solo parlarti.» «Perché non hai l'uniforme?» «Perché sono un detective. Noi non dobbiamo mettere l'uniforme. Ma sono un vero poliziotto.» «Sei una donna.» «Sì, va bene. Una poliziotta. Mi vuoi dire allora che cosa facevi lassù, in soffitta?»
Noni si rannicchiò sulla sedia e rimase a fissare la sua interrogatrice con la stessa espressione di una gargouille. Per un buon minuto si fissarono, ognuna in attesa che l'altra rompesse il silenzio. Grace infine perse la pazienza e diede alla bambina una pacca sulla spalla. «Forza! Diglielo!» «La prego, signora Otis», disse Jane. «Non è necessario.» «Ma non vede com'è? Con lei non c'è mai niente di facile. È sempre una lotta, per tutto.» «Stiamo calmi, d'accordo? Io ho tempo.» Ho tanto tempo quanto te, ragazzina, le comunicò Jane con lo sguardo. «Forza, Noni, raccontaci dove hai trovato quelle bambole. Quelle con cui giocavi là sopra.» «Non le ho rubate.» «Non ho mai detto che tu l'abbia fatto.» «Le ho trovate. Una scatola intera.» «Dove?» «In soffitta. Lassù ci sono anche altre scatole.» «Non dovevi andare lassù. Tu devi restare vicino alla cucina e non dar fastidio a nessuno.» «Ma non davo fastidio a nessuno. Anche se lo volessi, non c'è nessuno in questo posto a cui dar fastidio.» «Così hai trovato le bambole in soffitta», disse Jane, riportando la conversazione sull'argomento d'interesse. «Un'intera scatola.» Il detective Rizzoli rivolse uno sguardo interrogativo a Mary Clement, che rispose: «Facevano parte di un progetto di beneficenza di qualche anno fa. Cucivamo vestiti per bambole, per un orfanotrofio in Messico». «Così hai trovato le bambole», disse Jane a Noni. «E giocavi lassù?» «Nessun altro le usava.» «Come hai scoperto l'ingresso della soffitta?» «Ho visto l'uomo che ci entrava.» L'uomo? Jane lanciò un'occhiata a Maura e si avvicinò alla bambina. «Quale uomo?» «Aveva delle cose alla cintura.» «Cose?» «Un martello e altre cose», rispose Noni, poi indicando la badessa aggiunse: «Anche lei lo ha visto. Gli ha parlato». Sorpresa, madre Mary Clement scoppiò a ridere. «Oh! So di chi sta parlando. Negli ultimi mesi abbiamo fatto diversi lavori di restauro. In soffitta
hanno lavorato vari uomini, per installare il materiale isolante.» «Quando è stato?» chiese Jane. «In ottobre.» «Ha i nomi di tutti gli operai?» «Posso controllare il registro. Registriamo tutti i pagamenti alle ditte.» Perciò non era una notizia sensazionale. La ragazzina aveva spiato gli operai che si erano intrufolati in un vano nascosto di cui non conosceva l'esistenza. Un vano misterioso, raggiungibile solo attraverso una porta segreta. Sbirciare li dentro sarebbe stata una tentazione irresistibile per qualsiasi bambino, figuriamoci per una ragazzina tanto curiosa come Noni. «Non ti preoccupava il buio lassù?» domandò Jane. «Ho una torcia, sai?» Che domanda stupida, sembrò sottintendere la piccola con il suo tono di voce. «Non avevi paura? Tutta sola?» «Perché?» Perché mai?, pensò Maura. Quella ragazzina era impavida, non bastavano né il buio né la polizia a intimorirla. Sedeva fissando con sguardo fermo la sua interrogatrice come se fosse lei, non Jane, a porre le domande. Ma per quanto padrona di sé, restava sempre una bambina, e anche mal messa. I suoi capelli erano un groviglio di riccioli, tutti ricoperti di polvere della soffitta. La felpa rosa, di un paio di taglie troppo grande, aveva un'aria logora e smessa, e i polsini rimboccati erano sporchi. Solo le scarpe sembravano nuove di zecca: un paio di Keds con chiusure in velcro. Noni non toccava il pavimento con i piedi e continuava a dondolarli su e giù con ritmo monotono, come un metronomo caricato all'eccesso. «Credetemi, non sapevo che andasse lassù. Non posso correrle dietro tutto il tempo. Devo servire in tavola e poi devo pulire. Non usciamo di qui prima delle nove di sera e non riesco a metterla a letto prima delle dieci», disse Grace, poi guardò Noni. «Questo è in parte il problema. È sempre stanca e irrequieta, perciò qualsiasi cosa si trasforma in un conflitto. L'anno scorso mi ha fatto venire l'ulcera: mi sono agitata tanto che il mio stomaco ha iniziato ad autodigerirsi. Mi piegavo in due dal male e a lei non importava. Fa sempre un sacco di storie quando deve andare a dormire o fare il bagno. Non le interessa di nessuno. Così sono i bambini, dei grandi egoisti. Il mondo intero ruota attorno a lei.» Mentre Grace dava sfogo alla sua frustrazione, Maura osservava le reazioni di Noni. La bambina era rimasta perfettamente immobile: non dondolava più le gambe e aveva la mascella contratta con un'aria d'ostinazione
sul volto. Ma gli occhi scuri brillarono per un istante, lucidi di lacrime. Poco dopo, con altrettanta rapidità, queste scomparvero, cancellate da un fugace movimento del polsino sporco. Non è insensibile, pensò Maura. Percepisce la rabbia nella voce della madre. Ogni giorno, in una miriade di modi diversi, Grace le comunica il suo disgusto e la bambina capisce. Non c'è da stupirsi che sia difficile e che la faccia arrabbiare. La rabbia è l'unico sentimento che riesce a suscitare nella madre, l'unica prova che tra loro esista un legame. Ha solo sette anni e sa già di aver perso la sua futile lotta per avere un po' d'amore. Sa più di quello che gli adulti pensano, e quello che vede e sente le fa male. Rizzoli era accovacciata davanti alla bambina da troppo tempo. Si alzò e si stirò le gambe. Erano già le otto, avevano saltato la cena e l'energia di Jane pareva ormai al minimo. Rimase in piedi a osservare la bambina. Entrambe avevano i capelli arruffati, entrambe un'aria determinata sul viso. Con la pazienza che nasceva dalla stanchezza, chiese: «Allora, Noni, sei andata molte volte in soffitta?» La chioma impolverata sobbalzò in un cenno d'assenso. «Che cosa fai lassù?» «Niente.» «Hai appena detto che giochi con le bambole.» «Questo, te l'ho già detto.» «Che altro fai?» Lei si strinse nelle spalle. Jane incalzò. «Dai, deve essere noioso lassù. Non riesco a capire perché ti piaccia gironzolare in soffitta se non c'è niente di interessante da vedere.» Noni abbassò lo sguardo. «Non guardi mai le suore? Non guardi quello che fanno?» «Le vedo sempre.» «E quando sono nelle loro stanze?» «Non ho il permesso di andare lassù.» «Ma le guardi quando loro non ti vedono? Quando non lo sanno?» Noni aveva ancora il capo chino. «Quello è sbirciare», disse parlando alla sua felpa. «E sai che non devi farlo», affermò Grace. «È una violazione della privacy, te l'ho detto.» Noni incrociò le braccia e ripeté con voce stentorea: «Una 'lazione della privacy». Sembrava fare il verso alla madre. Grace arrossì e le si avvicinò
come se volesse colpirla. Jane prontamente la fermò. «Signora Otis, le spiacerebbe uscire dalla stanza per un minuto insieme a madre Clement?» «Aveva detto che potevo restare», protestò Grace. «Credo che con Noni servano i metodi persuasivi della polizia. Funzionerà meglio se non siete presenti.» «Oh.» Grace annuì e gli occhi le brillarono di una luce sgradevole. «Certo.» Jane l'aveva inquadrata bene: a Grace non interessava proteggere la figlia, voleva solo vederla disciplinata. Domata. Le lanciò un'occhiata come per dirle: adesso, preparati alla punizione, e uscì dalla stanza seguita dalla badessa. Per un istante nessuno parlò. Noni rimase seduta con la testa china e le mani in grembo, vera immagine dell'obbedienza. Che grande attrice. Jane prese una sedia e le si sedette di fronte, poi rimase in attesa senza parlare, lasciando fare al silenzio. Alla fine, da sotto un ricciolo ribelle, Noni lanciò una timida occhiata a Jane. «Che cosa aspetti?» «Che mi dica che cos'hai visto nella stanza di Camille, perché so che la sbirciavi. Io facevo lo stesso quand'ero bambina. Spiavo gli adulti. Guardavo le cose strane che facevano.» «È una 'lazione della privacy.» «Sì, ma è divertente, non credi?» Noni sollevò la testa, lo sguardo cupo, intenso, fisso su Jane. «È un trucco.» «Io non faccio trucchi, d'accordo? Mi serve il tuo aiuto. Penso che tu sia una ragazzina molto in gamba e scommetto che vedi cose che gli adulti non notano nemmeno. Tu che ne dici?» Noni si scrollò all'improvviso le spalle. «Forse.» «Allora dimmi alcune delle cose che fanno le suore.» «Cose strane?» «Sì.» Noni si chinò verso Jane e disse piano: «Suor Abigail porta il pannolino. Si fa pipì nelle mutande perché è molto, molto vecchia.» «Quanti anni pensi che abbia?» «Cinquanta.» «Uau. Sono davvero tanti.» «Suor Cornelia si mette le dita nel naso.» «Bleah.»
«E butta le caccole per terra quando crede che nessuno la veda.» «Doppio bleah.» «E mi dice di lavarmi le mani perché sono una piccola bambina sporca. Ma lei non se le lava e le ha piene di caccole.» «Mi stai rovinando l'appetito, ragazzina.» «Così le ho chiesto perché non si lava le caccole e lei è andata su tutte le furie. Mi ha detto che parlo troppo. Anche suor Ursula dice così perché le ho chiesto come mai quella signora non aveva le dita, e lei mi ha detto di stare zitta. E la mamma mi obbliga a chiedere continuamente scusa. Dice che per lei sono un imbarazzo. Perché vado dove non dovrei andare.» «Va bene, va bene», osservò Jane con l'aria di chi cominciava ad avere mal di testa. «Sono cose davvero interessanti, ma sai che cosa voglio sapere?» «Cosa?» «Quello che hai visto nella stanza di Camille. Attraverso quel buco. Tu la guardavi, vero?» Noni abbassò lo sguardo. «Forse.» «Non è così?» Stavolta fece un cenno di sottomissione con il capo. «Volevo vedere...» «Vedere cosa?» «Quello che portano sotto i vestiti.» Maura dovette trattenersi per non scoppiare a ridere. Si ricordò degli anni all'Holy Innocents in cui anche lei si chiedeva che cosa indossassero le suore sotto la veste. Le sembravano esseri così misteriosi, dal corpo informe, nascosto, con i loro abiti neri che le proteggevano dagli sguardi dei curiosi. Che cosa portava una sposa di Cristo a contatto con la pelle? Maura si era immaginata orrendi mutandoni bianchi che arrivavano all'ombelico, reggiseni di cotone studiati per mascherare e ridurre, collant spessi che comprimevano le gambe come il budello gli insaccati, gonfiandone le vene. Si era immaginata corpi imprigionati da strati e strati di cotone leggero, poi un giorno aveva visto la rigida suor Lawrencia sollevare la gonna mentre saliva le scale e con stupore aveva scorto sotto l'orlo qualcosa di scarlatto. Non era solo una sottoveste rossa, ma una sottoveste di satin rosso. Da allora non aveva più guardato suor Lawrencia, né nessun'altra suora, nello stesso modo. «Sai», disse Jane protendendosi verso la ragazzina, «anch'io mi sono sempre chiesta che cosa portino sotto la veste. Tu l'hai visto?» Seria, Noni scosse la testa. «Non si toglieva mai i vestiti.»
«Nemmeno per andare a letto?» «Io devo andare a casa prima che loro vadano a letto, non ho mai visto.» «Allora che cos'hai visto? Che cosa faceva Camille lassù, tutta sola, nella stanza?» Noni alzò gli occhi al cielo, come se la risposta fosse troppo noiosa da dare. «Puliva. Sempre. Era la signora più pulita.» Maura ricordò il pavimento pulito con la laccatura abrasa, ridotto a una superficie di legno grezzo. «Che altro faceva?» domandò Jane. «Leggeva il suo libro.» «Che altro?» Noni tacque per un istante. «Piangeva tanto.» «Sai perché piangeva?» La bambina si morse il labbro inferiore mentre pensava, poi, quando trovò la risposta, s'illuminò. «Perché soffriva per Gesù.» «Perché pensi questo?» La ragazzina emise un sospiro esasperato. «Non lo sai? È morto in croce.» «Forse piangeva per qualcos'altro.» «Ma continuava a guardarlo. Appeso al muro.» Maura pensò al crocifisso, montato alla parete opposta al letto di Camille. E s'immaginò la giovane novizia prostrata davanti alla croce, assorta a pregare per... cosa? Per essere perdonata per i suoi peccati? Per essere liberata dalle conseguenze? Ma mese dopo mese il bambino le cresceva in grembo, lo sentiva muoversi, scalciare. Nessuna preghiera e nessuna frenetica pulizia avrebbe potuto cancellare quella colpa. «Ho finito?» chiese Noni. Rizzoli si appoggiò alla sedia con un sospiro. «Sì, ragazzina. Abbiamo finito. Puoi andare dalla mamma.» La bambina saltò giù dalla sedia e atterrò con un fragoroso clomp che fece ondeggiare la chioma ricciuta. «Era anche triste per le anatre.» «Mmm, che bell'idea per cena», disse Jane. «Anatra arrosto.» «Dava da mangiare alle anatre, ma poi sono volate tutte via per l'inverno. La mamma dice che alcune non torneranno perché vengono mangiate, giù, al sud.» «Sì, be', è la vita.» Jane la congedò. «Va', la mamma ti aspetta.» La ragazzina era quasi sulla porta della cucina quando Maura chiese: «Noni? Dove stavano le anatre a cui Camille dava da mangiare?»
«Nello stagno.» «Quale stagno?» «Sai, sul retro. Anche quando erano volate via, continuava ad andare là a cercarle, ma la mamma diceva che perdeva tempo, perché probabilmente erano già in Florida. Dove c'è Disney World», aggiunse Noni e uscì saltellando dalla stanza. Ci fu un lungo silenzio. Lentamente, Jane si voltò e guardò Maura. «Ha sentito quello che ho sentito io?» «Sì.» «Pensa che...» Maura annuì. «Deve scandagliare lo stagno delle anatre.» Erano quasi le dieci quando Maura imboccò il vialetto d'accesso. Le luci del salotto erano accese, dando l'illusione che in casa ci fosse qualcuno ad aspettarla, ma lei sapeva che in realtà era vuota. La casa che l'accoglieva era sempre vuota e le luci venivano accese non da mani umane, ma da tre timer automatici da 5,99 dollari, che aveva comprato nel Wal-Mart della zona. Nelle corte giornate invernali le programmava per le diciassette, in modo da non rientrare in una casa buia. Aveva scelto la cittadina residenziale di Brookline, poco a ovest di Boston, per il senso di sicurezza che le davano le sue strade silenziose, alberate. Gran parte dei vicini erano professionisti che, come lei, lavoravano a Boston e la sera si rifugiavano nella loro dimora fuori città. Da un lato viveva il signor Telushkin, un ingegnere israeliano specializzato in robotica, dall'altro Lily e Susan, due legali che si occupavano di diritti civili. In estate tutti curavano il giardino e inceravano l'auto in quella che era la versione moderna del sogno americano, in cui lesbiche e immigrati si salutavano con cordialità oltre le siepi ben potate. Era il luogo più sicuro che si potesse trovare nei pressi della città, anche se Maura sapeva quanto fosse illusorio il concetto di sicurezza. Le strade dei sobborghi residenziali potevano essere percorse da vittime e da predatori. Il suo tavolo settorio era una meta democratica: spesso accoglieva anche le casalinghe di quei sobborghi. Le lampade del soggiorno le diedero un caloroso benvenuto, ma la casa era pur sempre gelida. O forse aveva semplicemente portato con sé l'inverno, come quei personaggi dei cartoni animati che hanno sempre una nube temporalesca sopra la testa. Alzò il termostato e accese la fiamma nel caminetto a gas: all'inizio lo aveva trovato disgustosamente finto, ma con il
tempo aveva finito per apprezzarlo. Il fuoco era fuoco, che venisse acceso con un interruttore o, dopo tanti sforzi, con legna e combustibile. Quella sera aveva un bisogno disperato del suo calore, della sua luce allegra, e fu lieta d'esserne subito gratificata. Si versò un bicchiere di sherry e si sedette su una poltrona accanto al caminetto. Dalla finestra vedeva le luci natalizie della casa di fronte, simili a ghiaccioli luccicanti appesi alle grondaie, che le ricordarono fastidiosamente quanto fosse estranea allo spirito delle feste. Non aveva ancora comprato l'albero né i regali, e nemmeno una confezione di biglietti di auguri. Era il secondo anno di fila che faceva l'orsa. Lo scorso inverno era appena arrivata a Boston e, tra la sistemazione della casa e l'ambientamento sul lavoro, non si era quasi accorta del Natale. Le restava solo una settimana per acquistare l'albero, appendere le luci e preparare il liquore d'uovo. Se non altro, avrebbe potuto suonare i canti di Natale al piano, come faceva quand'era bambina. Lo spartito doveva essere ancora nella panca del pianoforte, dove stava dal... Dall'ultimo Natale che ho passato con Victor. Guardò il telefono sul tavolino. Sentiva già l'effetto dello sherry e sapeva che qualsiasi decisione avesse preso sarebbe stata alterata dall'alcol. Dall'avventatezza. Eppure prese il ricevitore. Mentre l'operatore dell'albergo le passava la stanza, restò a fissare il caminetto pensando: è un errore. Servirà solo a spezzarmi il cuore... «Maura?» rispose lui. Senza che avesse detto una sola parola, aveva capito che era lei. «So che è tardi», disse Maura. «Sono solo le dieci e mezzo.» «Comunque sia, non avrei dovuto chiamare.» «Allora perché lo hai fatto?» chiese dolcemente Victor. Lei tacque e chiuse gli occhi. Anche così vedeva il chiarore della fiamma. Anche se non le vedi, anche se fai finta che non esistano, le fiamme continuano a bruciare. Che tu le veda o no, loro bruciano. «Penso sia ora che smetta di evitarti», rispose. «Altrimenti non mi ricostruirò mai una vita.» «Be', è una ragione molto incoraggiante per chiamare.» Lei sospirò. «Mi sono espressa male.» «Non penso esista un modo gentile per dirlo, per dirmi quello che hai in mente. Almeno fallo di persona, non al telefono.»
«Sarebbe più gentile?» «Sarebbe molto più coraggioso.» Era una sfida, un attacco al suo coraggio. Maura raddrizzò la schiena e tornò a fissare il fuoco. «Perché, parlarne di persona cambierebbe le cose?» «Perché, diciamocelo, tutti e due dobbiamo ricostruirci una vita. Siamo fermi, bloccati, dato che nessuno sa veramente che cosa sia andato storto. Io ti amavo e penso che anche tu amassi me, eppure guarda come siamo finiti. Non riusciamo nemmeno a essere amici. Dimmi perché. Perché due persone che sono state sposate non possono parlare in modo civile? Come con chiunque altro?» «Perché tu non sei chiunque altro.» Perché ti amavo. «Non possiamo farlo, vero? Parlare soltanto, a quattr'occhi. Seppellire i fantasmi. Non resterò molto in città: o adesso o mai più. O continuiamo a nasconderci o veniamo allo scoperto e parliamo di quello che è successo. Da' pure la colpa a me, se vuoi: lo ammetto, in buona parte è mia. Ma smettiamo di fingere che l'altro non esista.» Lei guardò in basso, il bicchiere vuoto di sherry. «Quando ci vediamo?» «Anche adesso.» Dalla finestra Maura vide le luci natalizie spegnersi all'improvviso, i ghiaccioli luccicanti scomparire nella notte nevosa. Mancava una settimana a Natale e in tutta la sua vita non si era mai sentita tanto sola. «Vivo a Brookline», disse. 7 Vide i fari dell'auto attraverso la neve che cadeva. Guidava lentamente, in cerca della casa, e si fermò all'imboccatura del vialetto. Anche tu hai qualche dubbio, Victor?, pensò. Ti chiedi se sia un errore, se non sia il caso di fare inversione e tornare in città? L'auto accostò al marciapiede e si fermò. Maura si allontanò dalla finestra e rimase in piedi in soggiorno, conscia del cuore che le martellava nel petto e delle mani sudate. Al suono del campanello trattenne il fiato, sorpresa. Non era pronta ad affrontarlo, ma ormai lui era lì e non poteva lasciarlo fuori al freddo. Il campanello trillò di nuovo. Aprì la porta e la neve entrò in casa turbinando. I fiocchi luccicavano sul suo giaccone, sui suoi capelli, sulla sua barba. Era una classica scena da
film, il vecchio innamorato sulla porta, con lo sguardo pieno di desiderio fisso su di lei, e a Maura non venne in mente altro da dire se non «entra». Nessun bacio, nessun abbraccio, nemmeno un lieve contatto con la mano. Lui entrò e si tolse il giaccone. Mentre Maura lo appendeva, quell'odore familiare di pelle, di Victor, le fece venire un nodo alla gola. Chiuse il guardaroba e si girò a guardarlo. «Vuoi bere qualcosa?» «Che ne dici di un caffè?» «Quello buono?» «Sono passati solo tre anni, Maura. C'è bisogno che me lo chieda?» No, non ce n'era bisogno. Forte e nero, così lo beveva. Provò un inquietante senso di familiarità quando lo condusse in cucina e prese una confezione di caffè in grani Mt. Sutro Roasters dal freezer. Era la loro marca preferita quando vivevano a San Francisco, e ogni due settimane lei se lo faceva mandare ancora dal negozio. I matrimoni possono finire, ma a certe cose non si può rinunciare. Macinò il caffè e accese la caffettiera, percependo che Victor stava osservando con calma la cucina, il frigorifero di acciaio inossidabile Sub-Zero, il piano cottura Viking e i banconi di granito nero. L'aveva ristrutturata poco dopo aver acquistato la casa e provava un senso d'orgoglio per il fatto che ora lui si trovasse nel suo territorio, per il fatto di essersi guadagnata tutto ciò che vedeva col duro lavoro. Da quel punto di vista il divorzio era stato relativamente semplice: nessuno aveva preteso nulla dall'altro. Dopo solo due anni di matrimonio ognuno aveva semplicemente recuperato le sue cose e proseguito per la sua strada. Quella casa era soltanto sua, e ogni sera, quando vi entrava, sapeva che tutto si sarebbe trovato là dove l'aveva lasciato, che ogni mobile era stato un suo acquisto, una sua scelta. «Sembra che finalmente tu abbia la cucina che sognavi», commentò Victor. «Mi piace», rispose lei. «Allora dimmi, il cibo è più buono quando viene cucinato su un elegante piano a sei fuochi?» Maura non apprezzò la vena di sarcasmo e replicò brusca: «In effetti, è proprio così. E ha un sapore migliore se viene servito su piatti Richard Ginori». «Che fine hanno fatto i vecchi Crate and Barrel?» «Ho deciso di concedermi qualche vizio, Victor. Ho smesso di sentirmi in colpa per il fatto di avere e di spendere denaro. La vita è troppo breve per continuare a viverla come una hippie.»
«Dai, Maura. Così vedevi la vita con me?» «Avevo sempre la sensazione che concederci qualche lusso equivalesse a tradire la causa.» «Quale causa?» «Per te, tutto era una causa. C'è gente che muore di fame in Angola, perciò è una colpa comperare lenzuola eleganti. O mangiare bistecche. O possedere una Mercedes.» «Credevo che anche tu la pensassi così.» «Sai una cosa, Victor? L'idealismo alla fine diventa estenuante. Io non mi vergogno di avere un po' di denaro e non mi sento in colpa se lo spendo.» Maura gli versò il caffèchiedendosi se si accorgesse della sottile ironia: Victor, dipendente dal marchio Mt. Sutro, beveva un caffè proveniente dall'altra parte del Paese (che spreco di carburante!). E la tazza in cui glielo serviva recava il logo di una ditta farmaceutica (quanti intrighi e corruzioni!). Ma quando la prese, Victor non disse nulla. Era un atteggiamento stranamente sottomesso per un uomo da sempre pervaso da un forte idealismo. Era stato proprio quel fervore a suscitare l'interesse di Maura. Si erano conosciuti a una conferenza sulla medicina nel Terzo Mondo, a San Francisco. Lei aveva presentato un lavoro sui tassi autoptici, lui aveva tenuto un discorso programmatico descrivendo le infinite tragedie umane in cui s'imbattevano le équipe di One Earth. In piedi davanti al pubblico elegante, Victor assomigliava più a un escursionista stanco, con la barba lunga, che a un medico. In effetti, era sceso poco prima da un aereo proveniente da Città del Guatemala e non aveva avuto nemmeno la possibilità di cambiarsi la camicia. Era entrato nella sala portando con sé soltanto un contenitore di diapositive. Non aveva un testo scritto, niente appunti, solo una raccolta preziosa di immagini che si susseguivano sullo schermo in una tragica sequenza: la giovane madre etiope, agonizzante per il tetano, il bambino peruviano affetto da palatoschisi, abbandonato lungo il ciglio di una strada, la bambina kazaka, morta di polmonite e avvolta in un sudario. Erano tutti decessi evitabili, aveva sottolineato. Erano tutte vittime innocenti della guerra, della povertà e dell'ignoranza, e la sua organizzazione, la One Earth, avrebbe potuto salvarle. Ma i soldi e i volontari non bastavano mai a coprire tutte le necessità delle numerose crisi umanitarie. Persino a metà sala, al buio, Maura era rimasta commossa dalle sue parole, dall'enfasi con cui descriveva le tende ospedale, i centri di distribu-
zione viveri e i poveri dimenticati che morivano ogni giorno in solitudine. Quando si erano accese le luci, non aveva visto più solo un medico malvestito sul podio, ma un uomo dalla determinazione incredibile. Lei, amante dell'ordine e della razionalità nella vita, si era ritrovata attratta da un uomo dalla personalità tanto intensa da fare quasi paura, che per lavoro finiva nei luoghi più problematici del mondo. E Victor che cos'aveva visto in lei? Di certo, non una compagna di lotta. Maura aveva portato calma e stabilità nella sua esistenza. Era lei che gestiva le finanze e la casa, lei che aspettava mentre lui si spostava da una zona di crisi all'altra, da un continente all'altro. Victor viveva con la valigia in mano, all'insegna dell'adrenalina. È stato molto più bello senza di me?, si chiese Maura. Non aveva un'aria particolarmente felice, lì seduto al tavolo di cucina, intento a sorseggiare il caffè. Da numerosi punti di vista era sempre lo stesso Victor. Aveva i capelli un po' lunghi, la sua camicia era tutta stropicciata e aveva il colletto liso, tutti segni del suo disprezzo per le cose poco importanti. Ma per altri aspetti era diverso: era un Victor più vecchio e stanco, che pareva calmo, persino triste, il fuoco della passione smorzato dalla maturità. Maura si sedette con la sua tazza di caffè e si guardarono da una parte all'altra del tavolo. «Avremmo dovuto parlare tre anni fa», disse lui. «Tre anni fa non mi avresti ascoltata.» «Ci hai mai provato? Per una volta hai tentato di dirmi che non ne potevi più di essere la moglie dell'attivista?» Lei guardò il suo caffè. No, non glielo aveva detto. Aveva tenuto tutto dentro, col suo solito modo di reprimere i sentimenti che detestava. Rabbia, risentimento, disperazione: la facevano sentire priva di ogni controllo e non poteva sopportarlo. Quando infine aveva firmato le carte del divorzio, si era sentita stranamente distaccata. «Non ho mai saputo quanto sia stato difficile per te», disse. «Avrebbe cambiato qualcosa se te lo avessi detto?» «Avresti potuto tentare.» «E che cosa avresti fatto? Avresti lasciato la One Earth? Non c'era modo di trovare un compromesso. Ami troppo essere san Victor, con tutti i riconoscimenti e le lodi. Nessuno finisce in copertina su People perché è un buon marito.» «Pensi lo faccia per questo? Per l'attenzione, la pubblicità? Gesù, Maura. Sai quanto importante sia! Almeno, riconoscimi un po' di merito.»
Lei sospirò. «Hai ragione, non è giusto da parte mia. Ma sappiamo tutti e due che ti mancherebbe.» «Sì, certo», ammise Victor, poi aggiunse pacatamente: «Ma non sapevo quanto mi saresti mancata tu». Maura lasciò che quelle parole le scivolassero addosso senza rispondere, lasciò che il silenzio si ponesse tra loro. In realtà, non sapeva che dire, la sua dichiarazione l'aveva colta alla sprovvista. «Stai benissimo», disse lui. «E sembri contenta della tua vita. È così?» «Sì.» La risposa fu troppo rapida, troppo automatica, e Maura si sentì arrossire. «Il nuovo lavoro va bene?» le domandò lui. «È una sfida continua.» «È più divertente che terrorizzare gli studenti di medicina alla U.C.?» Lei scoppiò a ridere. «Io non terrorizzavo gli studenti di medicina.» «Loro forse la pensavano diversamente.» «Imponevo loro standard più elevati, nient'altro. E quasi sempre li raggiungevano.» «Eri una brava docente, Maura. Sono certo che l'università sarebbe contenta di riaverti.» «Be', si deve andare avanti nella vita, non ti pare?» Maura sentiva addosso il suo sguardo e mantenne volutamente un'espressione impassibile. «Ieri ti ho vista in televisione», prosegui lui. «Al telegiornale. Parlavano dell'aggressione alle suore.» «Speravo non mi inquadrassero.» «Ti ho riconosciuta subito. Ti hanno ripresa mentre uscivi dal cancello.» «È uno dei rischi del mestiere. Sei sempre sotto gli occhi di tutti.» «Soprattutto in questo caso, credo. Ne parlavano su ogni canale.» «Cosa dicono?» «Che la polizia non ha un sospetto. Che il movente resta sconosciuto.» Victor scosse il capo. «Aggredire delle suore, sembra assurdo. A meno che non si sia trattato di un'aggressione a sfondo sessuale.» «Perché, questo la renderebbe razionale?» «Sai quello che intendo.» Sì, lo sapeva e conosceva Victor tanto bene da non risentirsi per quel commento. C'era chiaramente una differenza tra il predatore sessuale, che pianifica con freddezza le sue azioni, e lo psicotico che non ha alcuna cognizione della realtà. «Ho fatto l'autopsia stamattina», disse Maura. «Fratture craniche multi-
ple. Lacerazione dell'arteria meningea media. L'ha colpita più volte, probabilmente con un martello. Non credo che un'aggressione simile si possa considerare razionale.» Lui scosse la testa. «Come fai, Maura? Sei passata dall'effettuare autopsie su pazienti normali, morti in ospedale, a una cosa del genere.» «I morti in ospedale non sono del tutto normali o piacevoli.» «Ma un'autopsia sulla vittima di un omicidio! Ed era anche giovane, vero?» «Aveva solo vent'anni.» Poi Maura tacque, quasi sul punto di rivelargli che cos'altro aveva scoperto durante l'autopsia. Quand'erano sposati, si scambiavano sempre informazioni mediche, certi che ognuno le avrebbe tenute per sé. Ma quel caso era troppo macabro e Maura non voleva lasciare ulteriore spazio alla morte in quella conversazione. Si alzò per riempire di nuovo le tazze e, quando tornò al tavolo con la caffettiera, esclamò: «Ora dimmi di te. Che cosa ha combinato san Victor?» «Per favore, non chiamarmi così.» «Una volta ti divertiva.» «Adesso penso sia di malaugurio. Quando la stampa inizia a darti del santo, significa solo che aspetta l'occasione buona per demolirti.» «So che i notiziari parlano spesso di te e della One Earth.» Lui sospirò. «Purtroppo.» «Perché purtroppo?» «È stato un brutto anno per le organizzazioni internazionali. Ci sono così tanti conflitti, così tanti rifugiati che si spostano. Questa è la sola ragione per cui i notiziari parlano di noi, perché siamo quelli che devono intervenire. Siamo fortunati perché quest'anno abbiamo avuto una grossa donazione.» «Frutto di tanta buona pubblicità?» Lui si strinse nelle spalle. «Ogni tanto qualche grande società scopre di avere una coscienza e stacca un assegno.» «O forse non è insensibile ai vantaggi delle deduzioni fiscali.» «Ma i soldi svaniscono in fretta. Basta un pazzo che scateni una guerra e all'improvviso ci ritroviamo con un milione in più di profughi, con centomila bambini in più che muoiono di tifo o di colera. È questo che mi tiene sveglio la notte, Maura. Il pensiero dei bambini.» Victor bevve un sorso di caffè, poi posò la tazza come se non potesse più sopportarne il sapore. Lei lo osservò, seduto così tranquillo, e notò alcune ciocche grigie nei
capelli fulvi. Poteva sì invecchiare, pensò, ma non perdeva mai il suo idealismo. Ed era proprio il suo idealismo che all'inizio l'aveva attratta e che in seguito li aveva separati. Maura non poteva competere con il bisogno che il mondo aveva di Victor e non avrebbe mai dovuto provarci. La sua relazione con l'infermiera francese non era stata, in fondo, una gran sorpresa: era una sfida, un modo per affermare la sua indipendenza da lei. Rimasero in silenzio senza guardarsi, due persone che un tempo si erano amate e che ora non sapevano che dire. Maura lo udì alzarsi e lo guardò mentre lavava la sua tazza al lavandino. «E Dominique come sta?» domandò. «Non lo so.» «Lavora ancora per One Earth?» «No, se n'è andata. Non era più facile per nessuno dei due... dopo...» rispose scrollando la spalle. «Non vi siete tenuti in contatto?» «Lei non era importante per me, Maura, lo sai.» «Buffo. Ma lo è diventata molto per me.» Lui si voltò a guardarla. «Non smetterai mai di infuriarti così per causa sua?» «Sono passati tre anni, perciò credo ormai di doverlo fare.» «Questo non risponde alla mia domanda.» Lei abbassò lo sguardo. «Tu hai avuto una relazione. Dovevo infuriarmi. Era l'unico modo.» «L'unico modo?» «Per lasciarti. Per cancellarti dalla mia vita.» Lui si avvicinò e le mise le mani sulle spalle. Il suo tocco era caldo, confidenziale. «Io non voglio che mi cancelli dalla tua vita», disse. «Anche se ciò significasse che mi odi. Almeno proveresti qualcosa. Proprio questo mi ha sempre sconvolto: il fatto che tu te ne sia andata così, la freddezza che hai dimostrato.» Per me è l'unico modo di reagire, pensò Maura, mentre le braccia di lui la cingevano e il suo alito le scaldava i capelli. Aveva imparato da tempo a controllare i sentimenti più problematici. Erano così male assortiti come coppia: l'esuberante Victor sposato con la Regina dei morti. Perché mai avevano pensato che potesse funzionare? Perché volevo il suo fuoco, la sua passione. Volevo quello che io non potrò mai essere. Allo squillare del telefono le mani di Victor s'immobilizzarono. Si allon-
tanò da lei e Maura sentì la mancanza del suo calore. Si alzò e si diresse al telefono della cucina. Con una sola occhiata al display capì che quella telefonata l'avrebbe buttata fuori, nel cuore della notte e della tormenta. Mentre parlava con il detective e annotava l'indirizzo, vide Victor scuotere rassegnato la testa. Quella sera era lei a essere chiamata per lavoro e lui quello che restava a casa. «Mi spiace, devo andare», disse dopo aver riagganciato. «La Mietitrice chiama?» «Un delitto a Roxbury. Mi stanno aspettando.» Lui la seguì nell'atrio fino alla porta d'ingresso. «Vuoi che venga con te?» «Perché?» «Per tenerti compagnia.» «Credimi, sulla scena di un crimine la compagnia non manca.» Lui guardò fuori dalla finestra del soggiorno, osservando la neve che cadeva fitta. «Non è una notte ideale per guidare.» «Per nessuno dei due.» Maura si chinò per infilarsi gli stivali. Era lieta che non la vedesse in volto mentre diceva: «Non c'è bisogno che torni in albergo. Perché non ti fermi?» «Intendi per la notte?» «È la soluzione migliore. Puoi usare il letto nella camera degli ospiti. Probabilmente starò via un paio d'ore.» Il suo silenzio la fece arrossire. Sempre senza guardarlo, si abbottonò il cappotto e, improvvisamente ansiosa di scappar via, aprì la porta. In quell'istante lo sentì dire: «Ti aspetterò alzato». Le luci blu lampeggiavano sotto la coltre di neve. Maura si fermò dietro a una delle auto della polizia e un agente le si avvicinò, il volto seminascosto dal colletto sollevato, come una tartaruga con la testa ritratta nel guscio. Lei abbassò il finestrino e restrinse gli occhi alla luce intensa della torcia. La neve entrò nell'abitacolo, posandosi sul cruscotto. «Dottoressa Isles, Ufficio del coroner», si qualificò. «Va bene, può parcheggiare qui, dottoressa.» «Dov'è il corpo?» «Dentro.» L'agente indicò con la torcia un edificio al di là della strada. «La porta principale è chiusa con il lucchetto, deve entrare da quella sul vicolo. Manca l'elettricità, perciò stia attenta a dove mette i piedi. Avrà bi-
sogno della torcia. In quel vicolo hanno buttato ogni sorta di scatole e di porcherie.» Maura scese dall'auto e si ritrovò in una coltre di pizzo bianco. Quella sera era ben vestita contro il freddo, lieta di avere i piedi asciutti e caldi nei suoi stivali Thinsulate. Sulla strada c'erano almeno quindici centimetri di neve fresca, ma i fiocchi erano soffici e leggeri e non offrivano la minima resistenza mentre avanzavano tra i cumuli. Davanti all'ingresso sul vicolo accese la torcia e vide un nastro pendulo della polizia, il giallo quasi nascosto dallo strato di neve bianca. Lo scavalcò e provocò una pioggia di fiocchi. Il vicolo era ostruito da numerosi ammassi informi ricoperti di neve. Con lo stivale urtò qualcosa di solido e udì un tintinnio di bottiglie. Quel vicolo veniva usato come discarica e Maura si chiese quali oggetti disgustosi si nascondessero sotto il manto bianco. Bussò alla porta ed esclamò: «Salve! Sono il medico legale». La porta si spalancò e una torcia l'accecò. Non vedeva l'uomo che la teneva in mano, ma riconobbe la voce del detective Darren Crowe. «Ehi, dottoressa, benvenuta nel regno delle blatte.» «Le spiace accecare qualcun altro?» Il fascio di luce si abbassò e Maura vide la silhouette di Crowe, spalle larghe e un'aria vagamente minacciosa. Era uno dei detective più giovani della Omicidi e, ogniqualvolta lavorava a un caso con lui, aveva la sensazione di trovarsi su un set televisivo: Crowe era la star della serie, il tipico poliziotto del piccolo schermo che si faceva la piega ai capelli e aveva un atteggiamento impertinente e sicuro di sé. L'unica cosa che gli uomini come lui rispettavano in una donna era la fredda professionalità ed era proprio questa che lei gli dimostrava. Se un medico legale di sesso maschile poteva permettersi di scherzare con lui, Maura no: le barriere andavano mantenute, i confini ben definiti, altrimenti avrebbe trovato modo di minare la sua autorità. S'infilò i guanti e le soprascarpe ed entrò nell'edificio. Ispezionando la stanza con la torcia, vide varie superfici metalliche che riflettevano la sua immagine: un frigorifero enorme e alcuni ripiani. Una cucina e vari forni professionali. «Era un ristorante italiano, il Mama Cortina», disse Crowe. «Finché Mama non chiuse e non fu accusata di bancarotta. L'edificio è stato confiscato due anni fa e a entrambi gli ingressi sono stati messi i lucchetti. A quanto pare, la porta sul vicolo è stata forzata un po' di tempo fa. Tutti gli
elettrodomestici e gli arredi della cucina devono essere messi all'asta, ma non so proprio chi se li possa comprare. Sono sudici.» Al che puntò la torcia sui fornelli a gas, dove anni e anni di unto avevano formato una crosta nera. Alcuni scarafaggi scapparono via dalla luce. «L'edificio pullula di blatte, con tutto quel buon grasso da mangiare.» «Chi ha trovato il corpo?» «Uno dei ragazzi della Narcotici. Stavano seguendo uno spacciatore, a circa un isolato da qui. Il sospetto è fuggito e loro hanno pensato si fosse imbucato in questo vicolo. Hanno notato la porta forzata, sono entrati alla ricerca del colpevole e hanno avuto una bella sorpresa», spiegò Crowe. Orientando la torcia sul pavimento, aggiunse: «Ci sono alcuni segni nella polvere, qui. Come se il colpevole avesse trascinato la vittima nella stanza». Poi con il fascio di luce indicò l'altra estremità della cucina. «Il corpo è laggiù. Dobbiamo attraversare la sala da pranzo.» «Avete già filmato tutto?» «Sì. Ho dovuto usare due confezioni di batterie per avere abbastanza luce. E le ho già esaurite. Perciò là dentro sarà un po' buio.» Maura lo seguì verso la porta della cucina, tenendo le braccia vicine al corpo per non toccare niente... come se poi lo volesse. Tutt'intorno, nell'ombra, sentiva frusciare: ebbe l'impressione che un esercito d'insetti zampettasse sulle pareti e sul soffitto sopra la sua testa. Poteva anche fare la stoica di fronte a scene cruente e grottesche, ma per gli insetti che si cibavano di cadaveri aveva una vera repulsione. Entrando nella sala da pranzo, percepì lo stanco bouquet di odori che aleggiava sempre nei vicoli dietro ai vecchi ristoranti: rifiuti e birra andata a male. Ma lì c'era anche qualcos'altro, un odore sinistramente familiare che fece accelerare il battito del suo cuore. Era il motivo della sua visita, e le suscitava curiosità mista a terrore. «Sembra che sia stato il rifugio di qualche senzatetto», disse Crowe puntando la torcia sul pavimento, dove Maura vide una vecchia coperta e alcuni pacchi di giornali. «E laggiù ci sono alcune candele. Per fortuna non hanno dato fuoco alla casa, con tutta questa spazzatura.» La luce della torcia illuminò un mucchio di contenitori per cibi e di lattine vuote. Due occhi gialli li fissarono dalla cima del cumulo: un ratto intrepido, persino sfacciato, li sfidava a proseguire. Ratti e blatte. Con tutti questi saprofagi, che cosa sarà restato del corpo?, si chiese Maura. «È dietro quell'angolo.» Crowe si fece strada con piglio sicuro e atletico
oltre i tavoli e le sedie accatastati. «Si tenga da questa parte. Ci sono alcune impronte che vogliamo preservare. Qualcuno ha sparso in giro il sangue del cadavere. Scompaiono proprio laggiù.» La condusse in un breve corridoio. Da una porta in fondo penetrava una debole luce. Proveniva dalla toilette degli uomini. «È arrivato il medico legale», annunciò Crowe. La luce di un'altra torcia comparve sulla soglia. Il collega di Crowe, Ed Sleeper, uscì dal bagno e salutò Maura con un gesto stanco. Sleeper era il detective più anziano della Omicidi e, ogni volta che lo vedeva, le sembrava che avesse le spalle un po' più curve. Maura si domandò quanto del suo scoraggiamento fosse dovuto al fatto di lavorare in coppia con Crowe. Saggezza ed esperienza non bastavano a tenere a freno l'aggressività giovanile, e Sleeper aveva da tempo ceduto il comando al collega prepotente. «Non è una bella visione», disse Sleeper. «Sono solo contento che non siamo in luglio. Non oso pensare a quanto puzzerebbe se qui dentro non facesse così maledettamente freddo.» Crowe scoppiò a ridere. «Qualcuno è pronto per andarsene in Florida.» «Ehi, ho un grazioso appartamentino in un condominio, proprio ben messo. A un solo isolato dalla spiaggia. Starò in costume da bagno tutto il giorno. E adesso, che mi dici?» Spiagge calde, pensò Maura. Sabbia fine come zucchero. Non avrebbero forse voluto tutti essere laggiù invece che in quel tetro corridoio, illuminato solo dalle loro torce? «È tutto suo, dottoressa», esclamò Sleeper. Maura oltrepassò la soglia e la torcia illumino le piastrelle sporche, bianche e nere, del locale. Erano tutte imbrattate di sangue e recavano varie impronte. «Resti lungo la parete», raccomandò Crowe. Maura entrò nel bagno e fece subito un balzo all'indietro, spaventata da un movimento accanto al suo piede. «Gesù», disse e scoppiò a ridere per l'agitazione. «Sì, questi ratti sono proprio delle bestie», osservò Crowe. «E qui dentro hanno trovato di che banchettare.» Maura vide una coda infilarsi sotto la porta di una toilette e le venne in mente la vecchia leggenda metropolitana, secondo cui i ratti nuotavano nelle fogne per emergere dai water. Lentamente indirizzò il fascio di luce oltre i due lavandini privi di rubinetti, oltre un orinatoio con lo scarico otturato da rifiuti e da mozziconi di
sigarette. Poi lo abbassò sul corpo nudo, steso sul fianco, sotto l'orinatoio. La torcia ne illuminò le ossa facciali che sporgevano sotto una massa di capelli neri arruffati. Gli scarafaggi avevano già goduto di quella manna, e il busto del cadavere era perforato da numerosi morsi di ratti. Ma non fu il danno causato dai denti affilati a sconvolgerla, bensì le piccole dimensioni del corpo. Un bambino? Maura si accucciò accanto al cadavere. Era steso con la guancia destra premuta contro il pavimento. Quando si chinò maggiormente, vide due mammelle ben sviluppate: non era affatto un bambino, ma una donna adulta di bassa statura, priva dei lineamenti. Gli scarafaggi famelici ne avevano rosicchiato il lato sinistro del volto, divorando la pelle e persino la cartilagine nasale. La cute residua del busto era fortemente pigmentata. Razza ispanica?, si chiese ispezionando con la torcia dapprima le spalle ossute e poi la cresta bitorzoluta della colonna vertebrale. Il busto nudo era disseminato di noduli scuri, quasi purpurei. Maura puntò la luce sul fianco e sul gluteo sinistri e vide altre lesioni. La violenta eruzione correva lungo l'intera coscia e il polpaccio fino a... Il fascio di luce si fermò sulla caviglia. «Mio Dio», esclamò. Il piede sinistro mancava. La caviglia finiva con un moncherino, il margine scorticato nero per la putrefazione. Maura diresse il fascio sull'altra caviglia e vide un altro moncherino. Mancava anche il piede destro. «Adesso guardi le mani», disse Crowe, che le si era affiancato e puntava ora la torcia nella stessa direzione in modo da illuminare meglio le braccia, nascoste nell'ombra del busto. Al posto delle mani Maura vide altri due moncherini dai bordi laceri, rosicchiati dai saprofagi. Vacillò all'indietro, sbigottita. «Presumo non siano stati i ratti», osservò Crowe. Lei deglutì. «No, no, si tratta di amputazioni.» «Pensa glieli abbia amputati quand'era ancora viva?» Maura fissò le piastrelle macchiate e vide solo due piccole pozze nere di sangue secco accanto ai moncherini, non schizzi a raggiera. «Non c'era pressione arteriosa quando sono state praticate le incisioni. Le parti sono state rimosse dopo il decesso.» Guardando Crowe, aggiunse: «Le avete trovate?» «No, le ha portate via con sé. Chissà perché?»
«C'è una ragione logica per cui potrebbe averlo fatto», intervenne Sleeper. «Così non abbiamo le impronte. Non possiamo identificarla.» «Se voleva cancellarne la identità...» Maura osservò il volto del cadavere, il biancore delle ossa, e a quella vista si sentì attraversare da un nuovo brivido d'orrore. «Devo girarla.» Prese un lenzuolino monouso dal kit e lo stese accanto al corpo. Insieme, Sleeper e Crowe la girarono e la posarono sopra di esso. Sleeper ansimò e arretrò di scatto. Il lato destro della faccia, fino a poco prima premuto contro pavimento, era ora ben visibile, come del resto il singolo foro di proiettile nel seno sinistro. Ma non fu la ferita da proiettile a lasciare Sleeper inorridito, bensì il viso della vittima, l'occhio privo di palpebra che li fissava. A contatto con le piastrelle del bagno, la parte destra del volto avrebbe dovuto risultare inaccessibile ai ratti, eppure era priva di pelle. I muscoli esposti si erano seccati, a mo' di tante funi coriacee, dalle quali spuntava la protuberanza perlacea dello zigomo. «Nemmeno questo è opera dei ratti», disse Sleeper. «No», confermò Maura. «Queste lesioni non sono state inferte da animali.» «Cristo, l'ha scorticata? Come se asportasse una...» Maschera. Solo che non si trattava di una maschera di gomma o di plastica, ma di pelle umana. «Le ha rimosso il volto, le mani. Non ci ha lasciato alcuna possibilità di identificarla», osservò Sleeper. «Ma perché portar via i piedi?» domandò Crowe. «Questo non ha senso. Nessuno viene identificato in base alle impronte delle dita dei piedi. Inoltre, non sembra il tipo di vittima di cui viene denunciata la scomparsa. Chi era? Una nera? Una latina?» «Che cosa c'entra la razza con il fatto che ne venga o meno denunciata la scomparsa?» chiese Maura. «Intendo solo dire che non è una casalinga di una zona residenziale. Altrimenti perché sarebbe finita in questo quartiere?» Maura si alzò, provando un disprezzo tanto forte per Crowe che trovò difficile restargli accanto. Mosse la torcia nella stanza, illuminando lavandini e orinatoi. «C'è del sangue là, sul muro.» «Ritengo l'abbia picchiata qui», disse Crowe. «La trascina dentro, la sbatte contro il muro e preme il grilletto. Poi effettua le amputazioni, nello
stesso punto in cui è caduta.» Maura fissò le macchie di sangue sulle piastrelle. Erano poche perché la vittima era già morta. Il cuore aveva smesso di battere, di pompare. Lei non sente niente mentre il killer le si accovaccia accanto e le affonda la lama nel polso, spezzando le articolazioni, mentre taglia la carne e le scortica la faccia come se scuoiasse un orso. E quando termina di raccogliere i suoi trofei, la lascia lì come una carcassa, un'offerta per i saprofagi che infestano l'edificio abbandonato. Nel giro di pochi giorni, senza abiti che la proteggano dai denti affilati, i ratti arrivano ai muscoli. Nel giro di un mese, alle ossa. Maura guardò Crowe. «Dove sono i suoi abiti?» «Tutto quello che abbiamo trovato è una scarpa. Una scarpa da tennis, misura trentacinque. Penso gli sia caduta mentre usciva. Era per terra in cucina.» «Era sporca di sangue?» «Sì. Schizzata sulla parte superiore.» Maura guardò il moncherino dove ci sarebbe dovuto essere il piede destro. «Perciò l'ha spogliata qui, in questa stanza.» «Aggressione sessuale post mortem?» disse Sleeper. Crowe sbuffo. «Chi mai si farebbe una donna con questo schifo sulla pelle? Ma poi, è un'eruzione? Non è mica infettiva, vero? Come il vaiolo o roba del genere?» «No, sembrano lesioni croniche, non acute. Vede che alcune hanno formato una crosta?» «Be', non riesco a immaginare che qualcuno volesse toccarla, tanto meno scoparsela.» «È pur sempre possibile.» «Oppure potrebbe averla svestita per esporre il corpo», disse Maura. «Per accelerarne la distruzione da parte dei saprofagi.» «Perché allora prendersi la briga di portare via gli abiti?» «Potrebbe essere un ulteriore modo per impedirne l'identificazione.» «Io credo semplicemente che li volesse», osservò Crowe. Maura lo guardò. «Perché?» «Per la stessa ragione per cui ha preso mani, piedi e faccia. Voleva dei souvenir.» Crowe la guardò e, nelle ombre oblique, parve ancor più alto. Più minaccioso. «Penso che il nostro uomo sia un collezionista.»
La luce del portico era accesa. Ne vedeva il bagliore giallo attraverso la coltre di neve. La sua era l'unica casa del quartiere ancora illuminata a quell'ora. Tante notti era rientrata in una casa illuminata non da una mano umana ma da timer elettrici. Quella notte, pensò, qualcuno mi sta veramente aspettando. Poi notò che l'auto di Victor non era più parcheggiata davanti a casa. Se n'è andato, pensò. Rientro, come sempre, in una casa vuota. La luce accesa del portico, poco prima tanto accogliente, ora le parve fredda e anonima. Mentre imboccava il vialetto si sentì svuotata per la delusione. Quello che la infastidiva di più non era che se ne fosse andato, ma la sua reazione. È bastata una serata in sua compagnia, pensò, per tornare indietro, a tre anni fa: la mia determinazione vacilla e la mia indipendenza s'incrina. Premette il telecomando del garage. La porta si aprì rimbombando e Maura rise di sorpresa quando vide una Toyota blu parcheggiata nel posto di sinistra. Victor aveva semplicemente messo la macchina in garage. Parcheggiò accanto alla Toyota presa a noleggio e, mentre la porta del garage si richiudeva alle sue spalle, rimase seduta per un istante, conscia del polso che accelerava, della sensazione di attesa che la stava pervadendo come una droga iniettata nel sangue. Dalla disperazione all'esultanza in dieci secondi esatti. Dovette ripetersi che tra loro niente era cambiato, che niente poteva cambiare. Uscì dall'auto, inspirò profondamente ed entrò in casa. «Victor?» Nessuna risposta. Diede un'occhiata in salotto, poi si diresse in cucina, lungo il corridoio. Le tazze del caffè erano state lavate e messe via. Ogni traccia della sua visita era stata cancellata. Sbirciò nelle stanze da letto e nello studio: di Victor ancora nessuna traccia. Solo quando tornò in soggiorno notò i suoi piedi, saggiamente protetti da un paio di calzettoni bianchi, che sporgevano da un lato del divano. Rimase in piedi a guardarlo mentre dormiva, il braccio abbandonato sul pavimento, il volto sereno. Quello non era il Victor che ricordava, l'uomo le cui passioni vulcaniche l'avevano dapprima attratta e poi respinta. Ciò che ricordava del matrimonio erano le liti, le ferite profonde che solo un innamorato sa infliggere. Il divorzio aveva deformato il ricordo che aveva di lui, rendendolo più cupo, più cattivo, e lei lo aveva alimentato, se ne era nutrita per così tanto tempo che il fatto di vederlo lì, indifeso, fu per lei
una rivelazione sconcertante. Una volta ti guardavo dormire. Una volta ti amavo. Andò nel guardaroba a prendere una coperta e gliela stese addosso. Poi si protese per toccargli i capelli, ma si bloccò con la mano a mezz'aria, sopra la sua testa. Victor aveva gli occhi aperti e la guardava. «Sei sveglio», disse Maura. «Non volevo addormentarmi. Che ore sono?» «Le due e mezzo.» Lui emise un gemito. «Stavo per andarmene...» «Puoi anche restare. Nevica forte.» «Ho messo l'auto in garage, spero non ti dispiaccia. Stava arrivando lo spazzaneve...» «Se non l'avessi spostata, te l'avrebbero portata via. Hai fatto bene», rispose lei sorridendo, poi aggiunse piano: «Torna a dormire». Si fissarono per un istante. Presa tra il desiderio e il dubbio, lei non disse nulla, conoscendo troppo bene le conseguenze di una scelta sbagliata. Di certo, stavano entrambi pensando la stessa cosa: che la sua camera da letto era in fondo al corridoio. Ci volevano solo pochi passi, un abbraccio, e si sarebbe ritrovata nella stessa situazione di un tempo. Una situazione da cui era uscita solo con grande difficoltà. Maura si alzò, atto questo che le richiese una forza immensa, quasi si dovesse liberare dalle sabbie mobili. «Ci vediamo domani mattina», disse. Era forse delusione quella che vide nei suoi occhi?, si chiese. Ma non poté non provare un pizzico di gioia all'idea. A letto, non riuscì a dormire sapendo che lui si trovava sotto lo stesso tetto. Il suo tetto, il suo territorio. A San Francisco erano vissuti nella casa che Victor possedeva prima di sposarsi e Maura non l'aveva mai sentita sua. Quella sera i ruoli si erano invertiti ed era lei ad avere il controllo. Ciò che sarebbe accaduto dipendeva da lei. Le alternative la tormentavano. Solo quando si svegliò di soprassalto si accorse di essersi addormentata. La luce del giorno già entrava dalla finestra. Rimase per qualche istante a letto, poi udì la porta del garage aprirsi fragorosamente e il rombo del motore di un'auto che faceva retromarcia nel vialetto. Scese dal letto e guardò dalla finestra, giusto in tempo per vedere la macchina di Victor che si allontanava e scompariva dietro l'angolo.
8 Jane Rizzoli si svegliò alle prime luci dell'alba. La strada davanti al condominio era ancora silenziosa: il traffico frenetico dei pendolari non era ancora iniziato. Guardò l'oscurità, pensando: dai, devi farlo. Non puoi tenere quella maledetta testa ficcata nella sabbia. Accese la lampada e si mise a sedere sul bordo del letto con lo stomaco sconvolto dalla nausea. Anche se la stanza era gelida, lei stava sudando e la maglietta le si era appiccicata sotto le ascelle bagnate. Era tempo di prendere il toro per le corna. Andò a piedi nudi in bagno. La confezione era su una mensola, dove l'aveva lasciata la sera prima per evitare di scordarsela il mattino. Come se avesse bisogno di un promemoria. Aprì la scatola, strappò la busta di stagnola ed estrasse lo stick. La sera precedente aveva letto le istruzioni più volte, tanto che in pratica le sapeva quasi a memoria. Ciononostante, si soffermò a rileggerle ancora. Per guadagnare un altro po' di tempo. Finalmente si sedette sul water e, tenendo lo stick tra le cosce, urinò in modo che la punta si imbevesse della prima orina del mattino. Aspettare due minuti, dicevano le istruzioni. Jane posò lo stick sul ripiano e andò in cucina dove si versò un bicchiere di succo d'arancia. Quella stessa mano che sapeva impugnare una pistola e sparare tutti i colpi centrando il bersaglio, ora stava tremando mentre sollevava il bicchiere e lo avvicinava alle labbra. Jane fissò l'orologio di cucina, osservando la lancetta dei secondi compiere a scatti il suo giro. Quando i due minuti stavano quasi per scadere, sentì il polso accelerarle. Non era mai stata vigliacca, non si era mai rifiutata di affrontare il nemico, ma quella era una paura diversa, profonda, snervante. La paura di prendere la decisione sbagliata e di passare il resto della vita a subirne le conseguenze. Dannazione, Jane. Va' avanti. Improvvisamente infuriata con se stessa, disgustata dalla sua stessa vigliaccheria, posò il succo e tornò in bagno. Non si fermò nemmeno sulla porta per farsi coraggio, puntò dritta al ripiano e prese lo stick. Non aveva bisogno di leggere le istruzioni per sapere che cosa significasse quella striscia porpora. Non ricordava d'essere tornata in camera: si ritrovò seduta sul letto con lo stick in grembo. Non le era mai piaciuto il porpora: era un colore troppo femminile, troppo vistoso. Adesso il solo fatto di vederlo la faceva star male. Pensava di essere assolutamente pronta ad affrontare il risultato, ma
in realtà non lo era affatto. Le gambe le si intorpidirono tanto era rimasta seduta nella medesima posizione, eppure non sembrava in grado di muoversi. Persino il cervello le si era fermato: qualsiasi pensiero era bloccato dallo shock e dall'indecisione. Jane non sapeva che fare. Il primo pensiero che le passò per la mente fu infantile e del tutto irrazionale. Voglio mia madre. Aveva trentaquattro anni ed era una donna indipendente. Nella sua vita aveva sfondato porte e inseguito assassini, e aveva anche ucciso un uomo. Ed eccola lì, all'improvviso desiderosa del conforto materno. Squillò il telefono. Lo guardò stupita, come se non sapesse che cosa fosse. Al quarto squillo infine sollevò il ricevitore. «Ehi, sei ancora a casa?» chiese Frost. «La squadra è tutta qui.» Jane si sforzò di concentrarsi sulle parole. La squadra. Lo stagno. Si voltò a guardare l'orologio sul comodino e restò sorpresa nel vedere che erano già le otto e un quarto. «Rizzoli? Stanno per iniziare a dragarlo. Vuoi che intanto cominciamo?» «Sì, arrivo subito», rispose e riagganciò. Il rumore sordo del ricevitore fu come lo schiocco delle dita di un ipnoterapeuta. Uscita dalla trance, Jane raddrizzò all'istante la schiena. Il lavoro richiedeva di nuovo tutta la sua concentrazione. Gettò lo stick nel cestino dei rifiuti, si vestì e andò a lavorare. La Signora dei ratti. A questo si riduce un'intera vita, pensò Maura mentre osservava il corpo steso sul tavolo, con i suoi orrori coperti dal lenzuolo. Senza nome, senza volto, la tua esistenza riassunta in quattro parole che descrivono soltanto l'indegnità della tua fine, ridotta come sei a mangime per roditori. Era stato Darren Crowe a soprannominare così il cadavere la notte prima, nella casa, mentre erano circondati dagli insetti che zampettavano nel buio, dove non arrivava la luce delle torce. Aveva buttato lì il soprannome parlando con la squadra dell'obitorio addetta al recupero e il mattino seguente, quando Maura era entrata nel suo studio, il personale chiamava già la vittima la Signora dei ratti. Sapeva che era soltanto un espediente dettato dalla praticità, per indicare una sconosciuta che altrimenti sarebbe stata chiamata Jane Doe, eppure non poté fare a meno di trasalire quando lo sentì usare persino dal detective Sleeper. Così riusciamo a vincere l'orrore,
pensò, così teniamo le vittime a distanza. Le chiamiamo con un soprannome, con una diagnosi o con il numero di un caso: in questo modo non ci sembrano più persone e la loro sorte non ci spezza il cuore. Maura sollevò lo sguardo quando Crowe e Sleeper entrarono nel laboratorio. Sleeper era esausto per le fatiche lavorative della notte e le luci violente della sala autopsie ne misero spietatamente in risalto le borse sotto gli occhi e le guance cadenti. Al suo fianco, Crowe sembrava invece un giovane leone, abbronzato, in forma, sicuro di sé. Crowe era il tipo che stavi bene attento a non umiliare: l'arroganza di un uomo nascondeva di solito una certa crudeltà. Il giovane detective guardava il cadavere con le labbra increspate per il disgusto. Non sarebbe stata un'autopsia piacevole, e persino lui sembrava considerare la prospettiva con una vaga apprensione. «Le radiografie sono appese», disse Maura. «Diamo un'occhiata prima di cominciare.» Attraversò la sala fino alla parete in fondo e girò un interruttore. Lo schermo si accese illuminando forme spettrali: costole, colonna vertebrale, pelvi. Disseminati all'interno del torace, a mo' di una galassia di stelle tra i polmoni e il cuore, c'erano numerosi frammenti metallici radiotrasparenti. «Sembra una cartuccia a pallettoni», osservò Sleeper. «È quello che all'inizio ho pensato anch'io», affermò Maura. «Ma se guarda qui, vicino a questa costola, vede quest'ombra opaca? Si perde quasi a contatto con il profilo della costa.» «Una camicia metallica?» chiese Crowe. «È ciò che sembra.» «Così non è una cartuccia a pallettoni.» «No, pare una Glaser. A giudicare dal numero di proiettili che vedo qui, molto probabilmente è una blue-tip. Camicia in rame, riempita di pallini numero dodici.» Studiate per causare danni molto più devastanti di quelle convenzionali, le pallottole tipo Glaser colpivano il bersaglio intere e si frammentavano dopo l'impatto. Maura non aveva bisogno di aprire il busto della donna per sapere che le lesioni provocate da quell'unico proiettile erano spaventose. Tolse le radiografie toraciche e ne appese altre due. Erano immagini in certo qual modo più inquietanti, per quel che mancava. Stavano osservando gli avambracci destro e sinistro. Normalmente il radio e l'ulna, le due ossa lunghe dell'avambraccio, si estendevano dal gomito al polso dove si univano col complesso delle ossa carpali, minuscole come sassolini. Quelle ossa invece terminavano all'improvviso.
«La mano sinistra è stata disarticolata qui, proprio all'altezza dell'articolazione tra processo stiloideo del radio e osso scafoide», spiegò Maura. «L'assassino ha rimosso tutte le ossa carpali insieme alla mano. Nelle altre radiografie potete persino vedere alcune scalfitture sul bordo dello scafoide, dove ha sfregato. Ha separato la mano nel punto esatto in cui le ossa dell'arto si congiungono con quelle del polso», aggiunse, poi indicò l'altra radiografia. «Adesso osservate la mano destra. Qui, non è stato altrettanto preciso. Non ha tagliato l'articolazione del polso e, quando ha rimosso la mano, ha lasciato l'uncinato. Vedete come il coltello ha tagliato, qui. Sembra quasi che non riuscisse a trovare l'articolazione e che abbia tagliato alla cieca, fino a trovarla.» «Perciò le mani non sono state semplicemente amputate, diciamo, con un'ascia», disse Sleeper. «No. Ha usato un coltello. Ha asportato le mani come se disarticolasse un pollo. Fletti l'arto per esporre lo spazio articolare e tagli i legamenti. In questo modo non devi segare l'osso.» Sleeper fece una smorfia. «Credo che stasera non mangerò pollo.» «Che tipo di coltello ha usato?» domandò Crowe. «Potrebbe trattarsi di un coltello per disossare o di un bisturi. Il moncherino è stato ampiamente rosicchiato dai ratti, perciò non possiamo stabilirlo dal margine della ferita. Dovremmo asportare i tessuti molli mediante bollitura ed esaminare i segni dei tagli al microscopio.» «Credo che stasera non mangerò nemmeno minestra.» Crowe lanciò un'occhiata all'addome rotondo del collega. «Forse dovresti frequentare di più l'obitorio. Potresti perdere un po' di ciccia.» «Vuoi dire, invece di perdere tempo in palestra?» ribatté secco Sleeper. Maura lo guardò, sorpresa dalla replica del detective. Anche il malleabile Sleeper non sopportava più di tanto il collega. Crowe si limitò a ridere, ignaro dell'irritazione che suscitava negli altri. «Ehi, quando deciderai di irrobustirti un po', intendo al di sopra della vita, sarai il benvenuto.» «Ci sono altre radiografie», intervenne Maura, togliendo le lastre con efficienza professionale. Yoshima le porse le radiografie seguenti e lei le appese con le apposite clip. Le immagini della testa e il collo della Signora dei ratti s'illuminarono sullo schermo. La sera precedente, osservandole il volto, aveva visto solo carne viva, martoriata dai saprofagi affamati. Ma sotto la carne scorticata le ossa facciali erano stranamente intatte, fatta eccezione per la punta dell'osso nasale, tranciata là dove l'assassino aveva
prelevato il suo trofeo. «Le mancano i denti anteriori», osservò Sleeper. «Non penserà che abbia preso anche quelli?» «No, sembra un caso di atrofia ed è proprio questo che mi sorprende.» «Perché?» «Queste alterazioni si associano di solito all'età avanzata e a problemi dentali, ma non si riscontrano in una donna dall'aspetto altrimenti abbastanza giovane.» «Le radiografie della colonna vertebrale non rivelano alcun segno dei processi degenerativi che si osservano di solito con l'età. Non ha capelli né peli pubici grigi, niente arco senile negli occhi.» «Quanti anni pensa possa avere?» «Direi non più di quaranta.» Maura guardò la lastra appesa sullo schermo. «Ma queste radiografie sono compatibili con una donna di età avanzata. Non ho mai visto un riassorbimento osseo così grave in nessuno, tanto meno in una giovane. Non avrebbe mai potuto portare una protesi, anche se avesse avuto i soldi per pagarla. Questa donna non ha ricevuto nemmeno le cure dentistiche di base.» «Perciò non abbiamo le radiografie dentali per un confronto.» «Credo che la vittima non vedesse un dentista da tempo.» Sleeper sospirò. «Niente impronte, niente volto, niente radiografie dentali. Non la identificheremo mai. Il che è probabilmente il nocciolo della questione.» «Ma non spiega perché le abbia tagliato i piedi», proseguì Maura, lo sguardo ancora fisso sul cranio anonimo illuminato dallo schermo. «Credo lo abbia fatto per altre ragioni. Per il potere, forse. Per rabbia. Quando asporti la faccia di una donna, ti prendi qualcosa di più di un souvenir: ne rubi l'essenza, ti appropri della sua anima.» «Sì, be', però ha raschiato il fondo del barile», disse Crowe. «Chi mai vorrebbe una donna senza denti e con un'eruzione su tutta la pelle? Se avesse intenzione di cominciare a collezionare facce, ne sceglierebbe una che sia bella da vedere sul caminetto.» «Forse è agli inizi», osservò pacato Sleeper. «Forse è il suo primo omicidio.» Maura si voltò verso il tavolo. «Possiamo cominciare.» Mentre Sleeper e Crowe si mettevano la mascherina, lei scostò il lenzuolo e sentì un forte odore di decomposizione. La notte prima aveva analizzato i livelli di potassio dell'umore vitreo, e dai risultati aveva appurato che
la vittima era morta approssimativamente trentasei ora prima che venisse ritrovata. Era ancora in rigor morris, e gli arti non si manipolavano con facilità. Nonostante la scena del crimine fosse quasi una ghiacciaia, la decomposizione era già iniziata: i batteri avevano cominciato la loro opera, scomponendo le proteine e gonfiando gli spazi aerei. La bassa temperatura aveva solo rallentato, non fermato, il processo. Maura aveva già visto quel volto devastato, eppure rivedendolo trasalì ancora. Lo stesso effetto le fecero le numerose lesioni cutanee che, sotto le luci intense, apparivano come noduli scuri, infiammati, perforati dai morsi dei ratti. In quel quadro di devastazione la ferita del proiettile sembrava irrilevante: solo un forellino d'entrata a sinistra dello sterno. I proiettili Glaser erano concepiti per ridurre al minimo i rischi del rimbalzo e per infliggere il massimo danno una volta penetrati nel corpo. Alla penetrazione netta segue l'esplosione dei pallini di piombo contenuti nella camicia di rame. Quella piccola ferita non lasciava affatto intuire la distruzione perpetrata all'interno del torace. «Allora, cos'è quella porcheria sulla pelle?» domandò Crowe. Maura si concentrò sulle zone non danneggiate dai denti dei roditori. I noduli purpurei erano disseminati sul busto e sulle estremità, e alcuni erano ricoperti da una crosta. «Non so che cosa sia», disse. «Certamente è un disturbo sistemico. Potrebbe essere la reazione a un farmaco o la manifestazione di un cancro.» Dopo un attimo, aggiunse: «Oppure una malattia di origine batterica». «Vuol dire, infettiva?» chiese Sleeper arretrando dal tavolo. «Per questo vi ho suggerito di indossare le maschere.» Maura passò un dito protetto dal guanto su una crosta, da cui si staccarono alcune squame bianche. «Alcune lesioni ricordano vagamente la psoriasi, ma la distribuzione è diversa. La psoriasi colpisce soprattutto gomiti e ginocchia.» «Ehi, ma per quella cosa non c'è una cura?» domandò Crowe. «L'ho sentita reclamizzare in televisione: la fine della psoriasi.» «È una malattia infiammatoria, perciò risponde alle creme a base di steroidi. Anche la terapia con la luce ultravioletta è utile, ma guardi la dentatura: questa donna non aveva denaro per comperarsi creme costose o per pagare le parcelle dei medici. Se è psoriasi, probabilmente non è stata trattata da anni.» Che tremenda piaga doveva essere stata quella malattia cutanea, pensò Maura, soprattutto d'estate. Persino nei giorni più caldi la vittima portava
probabilmente pantaloni e camicette a maniche lunghe per nascondere le lesioni. «Non solo il nostro uomo sceglie una vittima sdentata», commentò Crowe, «ma scortica una faccia con una pelle del genere.» «La psoriasi tende a risparmiare il volto.» «Pensa sia rilevante? Forse ha tagliato solo le parti in cui la pelle era sana.» «Non saprei», rispose lei. «Non riesco ancora a capire perché qualcuno dovrebbe fare una cosa simile.» Poi si concentrò sul moncherino del polso destro. Tra la carne spiccava un osso bianco. I roditori affamati avevano rosicchiato la ferita aperta, distruggendo i segni lasciati dal coltello ma, esaminata al microscopio elettronico a scansione, la superficie ossea tagliata avrebbe potuto rivelare le caratteristiche della lama. Maura sollevò l'avambraccio per analizzare la parte inferiore della ferita e un frammento giallo attirò la sua attenzione. «Yoshima, mi passi le pinzette?» «Che cos'è?» domandò Crowe. «C'è una specie di fibra attaccata al margine della ferita.» Yoshima si mosse tanto silenziosamente che le pinzette parvero comparire per magia nella sua mano. Maura orientò la lente d'ingrandimento sul moncherino e con le pinzette prelevò il frammento dal sangue incrostato e dalla carne secca, posandolo quindi su un vassoio. Alla lente d'ingrandimento vide un filo spesso ritorto, di uno strano giallo canarino. «Appartiene ai vestiti?» domandò Crowe. «Sembra troppo rozzo per essere una fibra d'abito.» «A un tappeto, forse?» «Un tappeto giallo? Stento a immaginarlo.» Maura infilò il frammento in una busta per le prove che Yoshima le aveva già aperto e chiese: «Sulla scena del crimine non c'era niente di compatibile?» «Niente di giallo», rispose Crowe. «Una corda gialla?» chiese Maura. «Potrebbe averle legato i polsi.» «E poi si è portato via le corde tagliate?» Sleeper scosse la testa. «È incredibile la precisione di quest'uomo.» Maura osservò il cadavere, piccolo come quello di un bambino. «Non aveva bisogno di legarle i polsi. Era facile da soggiogare.» Come doveva essere stato facile toglierle la vita. Con braccia così sottili non sarebbe riuscita a contrastare a lungo la stretta dell'aggressore, e con
gambe così corte non avrebbe mai potuto sfuggirgli. Sei già stata più volte oltraggiata, pensò. E ora anche il mio bisturi lascerà la sua traccia su di te. Maura lavorò con serena efficienza mentre la lama incideva cute e muscoli. La causa del decesso era chiara quanto i pallini del proiettile rilevati in radiografia e, quando infine il busto si aprì e vide il pericardio teso e varie raccolte emorragiche nei polmoni, Maura non restò sorpresa. La pallottola Glaser aveva perforato il torace ed era esplosa, sparpagliando i pallini letali in tutto il petto come uno schrapnel. Il metallo aveva lacerato arterie e vene, lesionato cuore e polmoni. Il sangue si era raccolto nel sacco che circonda il cuore, comprimendolo fino a impedirne l'espansione, fino a bloccarne la funzione di pompaggio. Si era così verificato un tamponamento pericardico. La morte era stata relativamente rapida. In quell'istante ronzò l'interfono. «Dottoressa Isles?» Maura si voltò verso l'apparecchio. «Sì, Louise?» «C'è il detective Rizzoli sulla uno. Può rispondere?» Maura si tolse i guanti e si avvicinò al telefono. «Rizzoli?» esclamò. «Ehi, dottoressa. Pare che qui ci sia bisogno di lei.» «Che c'è?» «Siamo allo stagno. Ci è voluto un po' per rimuovere tutto il ghiaccio.» «Avete finito di dragarlo?» «Sì. Abbiamo trovato qualcosa.» 9 Il vento spazzava il campo aperto, scompigliandole il cappotto e la sciarpa di lana mentre superava il cancello posteriore del chiostro e si avviava verso il malinconico crocchio di poliziotti che l'aspettava ai bordi dello stagno. Sulla neve caduta da poco si era formato uno strato di ghiaccio che scricchiolava sotto gli stivali come una glassa di zucchero. Maura sentì che tutti la stavano osservando: le suore alle sue spalle, dal cancello, gli agenti davanti a lei, in attesa. Era una figura solitaria che si muoveva in un mondo bianco e, nel silenzio di quel pomeriggio, ogni rumore sembrava amplificato, dallo scricchiolio degli stivali al sibilo del suo respiro. Il detective Rizzoli emerse dal capannello di uomini e le andò incontro. «Grazie per essere venuta così presto.» «Dunque Noni aveva ragione a proposito dello stagno.»
«Sì. Dato che Camille passava molto tempo qui fuori, non sorprende che abbia pensato di usare lo stagno. Il ghiaccio era ancora abbastanza sottile. Probabilmente si è consolidato solo negli ultimi giorni», disse Jane, poi guardando lo stagno aggiunse: «Lo abbiamo trovato al terzo passaggio». Era uno stagno piccolo, un ovale piatto e nero che in estate rifletteva le nubi, il cielo azzurro e gli uccelli di passaggio. A un'estremità spuntavano stiancie simili a stalagmiti ghiacciate. Tutt'intorno alle sponde la neve era stata calpestata e il suo biancore si mescolava al marrone del fango. Accanto all'acqua c'era una minuscola sagoma coperta da un lenzuolino monouso. Maura si accovacciò e il detective Frost, cupo in volto, lo scostò per mostrarle un fagotto di bende sporco di fango. «Sembra l'abbia appesantito con dei sassi», disse. «Per questo si trovava sul fondo. Non l'abbiamo ancora aperto. Abbiamo preferito aspettarla.» Maura si tolse i guanti di lana e infilò quelli di lattice. Non offrivano alcuna protezione dal freddo e le dita le si congelarono quasi subito mentre svolgeva gli strati esterni di mussola. Ne uscirono due pietre grandi quanto un pugno. Lo strato successivo era altrettanto fradicio, ma non sporco di fango. Era una coperta di lana color blu cobalto. Un colore che una donna sceglierebbe per un bambino, pensò. Una coperta in cui avvolgerlo, per tenerlo al caldo e al sicuro. Maura aveva ormai le dita intorpidite e si muoveva maldestramente. Scostò un angolo della coperta, quel tanto da scorgere un piede. Minuscolo, quasi di bambola, la pelle scura, marezzata di blu. Non le serviva altro. Lo ricoprì col lenzuolo. Alzandosi in piedi, guardò Jane. «Portiamolo direttamente in obitorio. Finiremo di svolgerlo lì.» L'altra si limitò ad annuire e guardò in silenzio il piccolo fagotto. Le fasce bagnate stavano già iniziando a congelarsi al vento gelido. Fu Frost a parlare. «Come ha potuto? Buttare così il figlio nello stagno?» Maura si tolse i guanti di lattice e infilò le dita intirizzite in quelli di lana. Pensò alla coperta blu cobalto avvolta attorno al bambino. Una coperta di lana calda, come i suoi guanti. Camille avrebbe potuto avvolgerlo in qualsiasi cosa, giornali, vecchie lenzuola, stracci, ma aveva scelto una coperta, come per proteggerlo, per isolarlo dall'acqua gelida dello stagno. «Voglio dire, annegare suo figlio», continuò Frost. «Doveva essere fuori di sé.» «Il bambino poteva essere già morto.»
«D'accordo, allora significa che prima lo ha ucciso. Anche in questo caso era fuori di sé.» «Non possiamo fare supposizioni. Non prima di aver effettuato l'autopsia.» Maura guardò verso l'abbazia. Tre suore stavano immobili a guardarle, tre spettri neri sotto l'arco. «Lo ha detto a Mary Clement?» chiese a Jane. Lei non rispose. Aveva ancora lo sguardo fisso su ciò che lo stagno aveva appena restituito. Ci vollero solo un paio di mani per infilare il fagotto nel sacco salma, enorme per le sue dimensioni, e sigillarlo bene con la zip. A quel rumore trasalì. «Le suore sanno?» chiese ancora Maura. Alla fine Jane la guardò. «Sanno che cos'abbiamo trovato.» «Avranno idea di chi sia il padre.» «Negano addirittura la possibilità che fosse incinta.» «Ma la prova è qui.» Jane sbuffò. «La fede è più forte di ogni prova.» Fede in cosa?, si domandò Maura. Nella virtù di una giovane donna? C'era un castello di carte più vacillante della fede nella castità umana? Tacquero tutti mentre il sacco veniva portato via. Non c'era bisogno di avvicinare una barella: l'addetto aveva preso il sacco tra le braccia con la stessa tenerezza con cui avrebbe stretto suo figlio e si era incamminato con cupa determinazione per il campo sferzato dal vento, verso l'abbazia. In quell'istante il cellulare di Maura squillò, rompendo il lugubre silenzio. Lei lo aprì e rispose con tono sommesso: «Dottoressa Isles». «Mi spiace essermene andato senza salutarti stamattina.» Maura si sentì arrossire e il suo cuore raddoppiò i battiti. «Victor.» «Dovevo andare alla riunione a Cambridge. Non volevo svegliarti. Spero tu non abbia pensato a una fuga.» «A dire il vero, sì.» «Ci possiamo vedere più tardi, a cena?» Maura tacque rendendosi conto all'improvviso che la Rizzoli la stava osservando. E stava notando la sua reazione al suono della voce di Victor: il polso accelerato, la piacevole sensazione di aspettativa. Sta già rientrando nella mia vita, pensò. Mi ritrovo già a pensare alle possibilità. Si voltò per evitare lo sguardo di Jane e la sua voce si ridusse a un sussurro. «Non so quando potrò liberarmi. C'è molto da fare in questo momento.» «Potresti raccontarmi la tua giornata a cena.»
«È un caso molto strano.» «Prima o poi dovrai mangiare, Maura. Ti posso portare fuori? Nel tuo ristorante preferito?» Lei rispose con troppa fretta, con troppa smania. «No, ci vediamo da me. Cercherò di arrivare per le sette.» «Non voglio che cucini per me.» «Allora lascerò a te il compito.» Lui rise. «Splendido!» «Se ritardo, puoi entrare dalla porta laterale del garage. Probabilmente sai dove trovare la chiave.» «Non mi dire che la nascondi ancora in una vecchia scarpa.» «Finora nessuno l'ha mai trovata. Ci vediamo stasera.» Maura riagganciò e si voltò scoprendo che ora sia Rizzoli sia Frost la stavano osservando. «Appuntamento galante?» domandò Jane. «Alla mia età è già tanto che abbia un appuntamento», rispose Maura infilando il telefono in tasca. «Vi aspetto in obitorio.» Mentre riattraversava a fatica il campo seguendo le proprie tracce nella neve, si sentiva i loro occhi addosso. Oltrepassare il cancello posteriore e rifugiarsi tra le mura dell'abbazia le fu quindi di grande sollievo. Aveva fatto solo pochi passi nel cortile quando udì chiamare il suo nome. Si voltò e vide padre Brophy uscire da una porta e avanzare verso di lei, una figura grave, vestita di nero. Contro il cielo grigio e malinconico i suoi occhi apparivano di un blu sorprendente. «Madre Mary Clement vorrebbe parlarle», disse. «La persona a cui dovrebbe rivolgersi è il detective Rizzoli.» «Preferirebbe parlare con lei.» «Perché?» «Perché non è una poliziotta. Quanto meno, lei sembra disposta ad ascoltare le sue preoccupazioni, a capire.» «Capire cosa, padre?» Lui tacque. Il vento agitò i loro cappotti e sferzò i loro volti. «Che la fede non è qualcosa da ridicolizzare», rispose. Per questo Mary Clement non voleva parlare con Jane, che non riusciva a nascondere il suo scetticismo, il suo disprezzo per la chiesa. Qualcosa di tanto personale come la fede non poteva essere oggetto del disprezzo altrui. «Per lei è importante», continuò padre Brophy. «Per favore.»
Maura lo seguì all'interno dell'edificio, lungo il corridoio buio, pieno di spifferi, fino allo studio della badessa. Mary Clement era seduta alla scrivania. Quando entrarono sollevò lo sguardo e gli occhi che fissavano Maura oltre le lenti spesse degli occhiali erano infuriati. «Si accomodi, dottoressa Isles.» Gli anni della Holy Innocents Academy erano ormai lontani, ma la vista di una suora infuriata riusciva ancora a scuotere Maura, perciò obbedì in silenzio, sedendosi sulla sedia come una scolaretta colpevole. Padre Brophy rimase in piedi, di lato, muto osservatore della prova che l'aspettava. «Non siamo mai state informate del motivo della perquisizione», esordì Mary Clement. «Voi ci avete scombussolato la vita, avete violato la nostra privacy. Fin dall'inizio abbiamo collaborato in ogni modo, eppure ci avete trattate come fossimo il nemico. Dovevate almeno usare la cortesia di informarci di quello che stavate cercando.» «Penso che di questo dovrebbe parlare con il detective Rizzoli.» «Ma è stata lei a richiedere la perquisizione.» «Mi sono limitata a comunicare quello che avevo scoperto durante l'autopsia. Ossia che suor Camille aveva partorito da poco. Quella di perquisire l'abbazia è stata una decisione del detective Rizzoli.» «Senza dirci perché.» «Le indagini di polizia vengono sempre svolte in gran segretezza.» «Questo perché non vi fidate di noi, vero?» Maura incrociò lo sguardo accusatore di Mary Clement e senti di non poter dire altro se non la verità. «Non potevamo che procedere con cautela.» Invece di irritarla ancor di più, quella risposta onesta parve placare le ire della badessa. Improvvisamente svuotata di ogni forza, questa si appoggiò allo schienale della sedia trasformandosi nella donna fragile e anziana che era. «Ma che mondo è se nemmeno noi siamo degne di fiducia?» «Voi come chiunque altro, reverenda madre.» «Proprio questo è il punto, dottoressa Isles. Noi non siamo come chiunque altro.» La badessa lo disse senza tono di superiorità, anzi, nella sua voce Maura colse tristezza e stupore. «Vi avremmo aiutati. Avremmo collaborato se avessimo saputo che cosa cercavate.» «Davvero non avevate idea che Camille fosse incinta?» «Come potevamo? Quando il detective Rizzoli me lo ha detto, stamattina, non ci ho creduto. Stento tuttora a crederci.»
«Mi spiace, ma la prove era nello stagno.» La badessa parve farsi ancor più piccola nella sua sedia e si guardò le mani rose dall'artrite. Rimase muta e le fissò come se non le appartenessero. Poi con voce sommessa disse: «Come potevamo saperlo?» «Una gravidanza può essere nascosta. Molte adolescenti nascondono la loro condizione alla madre, alcune donne la negano, persino a se stesse, finché non partoriscono. Camille stessa potrebbe averlo fatto. Devo ammetterlo, durante l'autopsia sono rimasta completamente spiazzata. Non era affatto quello che mi aspettavo di trovare in...» «Una suora», disse Mary Clement guardando negli occhi Maura. «Ciò non significa che le suore non siano umane.» «Grazie per il riconoscimento», rispose lei con un debole sorriso. «Era così giovane...» «Crede che solo le giovani lottino con le tentazioni?» Maura pensò alla notte agitata, a Victor che dormiva in fondo al corridoio. «Per tutta la vita», proseguì Mary Clement, «siamo tentate da una cosa o dall'altra. Le tentazioni cambiano, naturalmente. Quando sei giovane, è un bel ragazzo, poi sono i dolci o il cibo. O, quando diventi vecchia e stanca, la voglia di dormire un'ora di più il mattino. Tanti futili desideri e noi siamo vulnerabili come chiunque altro, solo che non possiamo ammetterlo. I voti che prendiamo ci distinguono. Portare il velo può essere una gioia, dottoressa Isles, ma la perfezione è un fardello che nessuna di noi è in grado di portare fino in fondo.» «Tanto meno una giovane.» «Con l'età non diventa più facile.» «Camille aveva solo vent'anni. Avrà probabilmente avuto qualche dubbio prima di prendere i voti finali.» Dapprima Mary Clement non rispose. Fissò fuori dalla finestra, che dava su un muro spoglio. Una visione che, ogniqualvolta guardava fuori, le ricordava che il suo mondo era circondato da pietre. «Avevo ventun anni quando ho preso i voti finali.» «E aveva dubbi?» «Nemmeno uno», rispose la badessa guardando Maura. «Io sapevo.» «Come?» «Perché Dio mi ha parlato.» Maura non disse nulla. «So che cosa sta pensando», disse Mary Clement. «Che solo i pazzi sentono le voci, gli angeli che parlano con loro. Lei è un medico e probabil-
mente vede tutto con gli occhi dello scienziato. Mi dirà che è stato soltanto un sogno, uno squilibrio chimico, un attacco momentaneo di schizofrenia. Conosco tutte le teorie, so che cosa dicono di Giovanna d'Arco: che hanno bruciato una pazza sul rogo. È questo quello che pensa, non è vero?» «Mi spiace, non sono religiosa.» «Ma una volta lo era?» «Ho ricevuto un'educazione cattolica. I miei genitori adottivi erano credenti.» «Allora conoscerà le vite dei santi. Molti hanno sentito la voce di Dio. Come lo spiega?» Maura esitò, sapendo che quello che avrebbe detto avrebbe probabilmente offeso la badessa. «Le allucinazioni uditive vengono spesso interpretate come esperienze religiose.» Mary Clement non sembrò offendersi come Maura si aspettava. Ricambiò semplicemente lo sguardo, fissandola con decisione. «Le sembro forse pazza?» «Per niente.» «Eppure le sto dicendo che una volta ho sentito la voce di Dio.» Il suo sguardo vagò, spostandosi ancora sulla finestra, sul muro grigio le cui pietre luccicavano per il ghiaccio. «Lei è la seconda persona a cui lo racconto, perché so cosa pensa la gente. Nemmeno io ci avrei creduto se non mi fosse capitato di persona. Quando hai solo diciotto anni e Lui ti chiama, che scelta hai se non ascoltare?» La badessa si appoggiò allo schienale e aggiunse piano: «Avevo un innamorato, sa? Un uomo che mi voleva sposare». «Sì», rispose Maura, «me lo ha detto.» «Lui non ha capito. Nessuno capisce perché una ragazza voglia scappare dalla vita. Così lo ha definito: scappare come una vigliacca. Piegare la mia volontà a quella di Dio. Naturalmente ha cercato di farmi cambiare idea, come del resto mia madre. Io però sapevo ciò che facevo. Lo sapevo fin dal momento in cui ero stata chiamata, mentre mi trovavo nel giardino posteriore di casa ad ascoltare i grilli. Ho udito la Sua voce, chiara come una campana. E ho capito.» La badessa guardò Maura che si stava dimenando sulla sedia, ansiosa di porre termine alla conversazione. A disagio con tutti quei discorsi di voci divine. Lanciò un'occhiata all'orologio. «Reverenda madre, mi spiace, ma ora devo andare.» «Si chiederà perché le stia raccontando tutto questo.»
«Sì, è così.» «L'ho raccontato solo a un'altra persona. Sa chi era?» «No.» «Suor Camille.» Maura guardò gli occhi azzurri, deformati dalle lenti, che la osservavano. «Perché Camille?» «Perché anche lei ha sentito la voce. Per questo è venuta da noi. È cresciuta in una famiglia molto ricca, in una villa a Hyannisport, non lontana da quella dei Kennedy. Ma è stata chiamata a questa vita, proprio come me. Quando vieni chiamata, dottoressa Isles, sai che ricevi una benedizione e rispondi con la gioia nel cuore. Lei non aveva dubbi sul fatto di prendere i voti. Era totalmente devota a quest'ordine.» «Allora, come si spiega la gravidanza? Com'è successo?» «Il detective Rizzoli mi ha già posto questa domanda, ma tutto quello che voleva sapere erano nomi e date. Quali operai sono entrati nell'abbazia? In quale mese Camille è andata a trovare la famiglia? La polizia si interessa solo di dettagli pratici, non di questioni spirituali, non della chiamata di Camille.» «È rimasta incinta. O è stato un momento di tentazione o uno stupro.» La badessa rimase in silenzio per un istante e abbassò lo sguardo sulle sue mani. Poi rispose pacatamente: «C'è una terza spiegazione, dottoressa Isles». Maura si accigliò. «E quale sarebbe?» «Adesso mi deriderà, lo so. Lei è un medico. Probabilmente si affida ai test di laboratorio, a quello che vede al microscopio. Non ha mai visto fenomeni inspiegabili? Il caso di un paziente che, una volta morto, resuscita? Non ha mai assistito a un miracolo?» «Ogni medico resta sorpreso almeno qualche volta nella sua carriera.» «Non intendo solo sorpreso, parlo di qualcosa che ti lasci veramente sbalordito.» Maura ripensò agli anni di internato al San Francisco General. «C'era una donna con un cancro al pancreas.» «È incurabile, vero?» «Sì. È quasi una condanna a morte. Non pensavamo sopravvivesse. Quando l'ho vista per la prima volta, era già in fase terminale: itterica e in stato confusionale. I medici avevano deciso di non alimentarla più perché era prossima a morire. Ricordo gli ordini sulla cartella: garantire il comfort della paziente. Tutto quello che si può fare, alla fine, è attenuare il dolore.
Pensavo morisse di lì a pochi giorni.» «Invece l'ha sorpresa.» «Un mattino si è svegliata e ha detto all'infermiera che aveva fame. Quattro settimane dopo è andata a casa.» La badessa annuì. «Un miracolo.» «No, reverenda madre», rispose Maura incrociando il suo sguardo. «Remissione spontanea.» «Che è un altro modo per dire che non sapete che cosa sia successo.» «Le remissioni sono possibili. I tumori possono regredire da soli. Oppure la diagnosi era sbagliata fin dall'inizio.» «Oppure era qualcos'altro. Qualcosa che la scienza non sa spiegare.» «Vuole che le dica che è stato un miracolo?» «Voglio che consideri altre possibilità. Tante persone che hanno vissuto un'esperienza di morte apparente hanno riferito di aver visto una luce intensa o i propri cari, che li informavano che non era ancora il loro momento. Come spiegate queste visioni universali?» «Come allucinazioni di un cervello che non riceve più una quantità sufficiente di ossigeno.» «O come prova del divino.» «Mi piacerebbe trovare una prova del genere. Sarebbe confortante sapere che c'è qualcosa oltre la vita fisica, ma non posso accettarlo solo per fede. È questo che vuol dirmi, vero? Che la gravidanza di Camille è stata una sorta di miracolo? Un'altra prova del divino?» «Lei afferma di non credere nei miracoli, ma non sa spiegare perché la sua paziente con il cancro al pancreas sia sopravvissuta.» «Non c'è sempre una spiegazione semplice.» «Perché la scienza medica non sa spiegare completamente la morte, giusto?» «Ma sappiamo spiegare il concepimento. Sappiamo che sono necessari lo sperma e un ovulo. È biologia pura e semplice, reverenda madre. Io non credo nell'Immacolata concezione. Potrebbe essere stata costretta, oppure potrebbe essere stato un atto consensuale, ma il bambino è stato concepito nel modo consueto. E l'identità del padre potrebbe avere qualche correlazione con l'omicidio.» «E se non si trova il padre?» «Abbiamo il DNA del figlio. Ci serve solo il nome del padre.» «È tanto sicura della sua scienza, dottoressa Isles. È la risposta a tutto!» Maura si alzò dalla sedia. «Ma, almeno, a quelle risposte posso credere.»
Padre Brophy accompagnò Maura fuori dallo studio e s'incamminò con lei nel corridoio buio, mentre le vecchie assi del pavimento scricchiolavano sotto i loro passi. «Possiamo affrontare subito il discorso, dottoressa Isles», affermò. «Quale discorso?» Lui si fermò e la guardò. «Se il bambino sia mio o no.» Il sacerdote sostenne il suo sguardo senza esitazione. Fu lei che provò il desiderio di voltarsi, di sfuggire all'intensità di quell'occhiata. «È questo che si sta chiedendo, vero?» «Ne capirà la ragione.» «Sì. Come ha detto un attimo fa, le leggi inevitabili della biologia richiedono un po' di sperma e un ovulo.» «Lei è l'unico uomo che ha regolarmente accesso all'abbazia. Dice la messa, confessa le suore.» «Sì.» «Conosce i loro segreti più intimi.» «Solo quelli che decidono di rivelarmi.» «Lei è un simbolo di autorità.» «Alcuni vedono così i preti.» «Per una giovane novizia, certamente lei lo è.» «Il che fa di me automaticamente un sospetto?» «Non sarebbe il primo sacerdote a infrangere i voti.» Lui sospirò e per la prima volta abbassò lo sguardo. Non per evitarla, ma per fare un triste cenno d'assenso. «Di questi tempi non è facile, con le occhiate che la gente ci lancia, le battute dietro la schiena. Quando celebro la messa, guardo le facce delle persone in chiesa e so che cosa pensano. Si chiedono se metta le mani addosso ai ragazzini o se concupisca le bambine. Tutti se lo chiedono, proprio come sta facendo lei. E presumete il peggio.» «È suo il bambino, padre Brophy?» I suoi occhi blu la fissarono di nuovo con sguardo fermo. «No, non è mio. Non ho mai infranto i voti.» «Capirà ovviamente che non possiamo limitarci a crederle sulla parola?» «No, potrei mentire, giusto?» Anche se non alzò la voce, Maura percepì una nota di rabbia. Brophy le si avvicinò e lei rimase perfettamente immobile, resistendo alla voglia di arretrare. «Potrei aggiungere peccato a peccato. Secondo lei a che cosa conduce questa spirale, questa serie di peccati?
Menzogna, violenza carnale su una suora, omicidio?» «La polizia deve valutare tutti i moventi, persino il suo.» «Vorrà il mio DNA, suppongo.» «La escluderebbe quale potenziale padre del bambino.» «Oppure farebbe di me il principale sospettato dell'omicidio.» «Una delle due cose, a seconda del risultato.» «Lei, cosa pensa emergerà?» «Non ne ho idea.» «Ma avrà almeno un presentimento. È qui davanti a me: ha di fronte un omicida?» «Io mi fido solo delle prove.» «Numeri e fatti. Questo è tutto ciò in cui crede.» «Sì.» «E se le dicessi che sono assolutamente d'accordo a darle il mio DNA? Un campione del mio sangue, qui, ora, se è disposta a prelevarlo?» «Non è necessario un campione di sangue, basta un tampone orale.» «Un tampone, allora. Voglio solo sia chiaro che mi offro volontario.» «Lo dirò al detective Rizzoli. Lo preleverà lei.» «Questo le farà cambiare idea a proposito della mia colpevolezza?» «Come ho detto, lo saprò quando vedrò i risultati.» Poi Maura aprì la porta e uscì. Lui la seguì in cortile. Non indossava il cappotto, eppure sembrava non sentire il freddo, concentrato solo su di lei. «Ha detto di aver ricevuto un'educazione cattolica», riprese. «Ho frequentato un liceo cattolico. La Holy Innocents, a San Francisco.» «Ma crede solo alle sue analisi del sangue, nella sua scienza.» «E su che cosa dovrei fare affidamento?» «Sull'istinto? Sulla fede?» «In lei? Solo perché è un prete?» «Solo perché?» Brophy scosse il capo e scoppiò in una triste risata, mentre il suo alito formava una condensa bianca nell'aria gelida. «Immagino sia una risposta più che chiara alla mia domanda.» «Non tiro a indovinare. Non faccio supposizioni sugli altri esseri umani perché troppo spesso ti sorprendono.» Raggiunsero il cancello principale. Brophy glielo aprì e Maura uscì. Poco dopo il cancello si richiuse, ponendosi tra loro, separando all'improvviso il mondo di lui da quello di lei. «Sa quell'uomo che si è sentito male sul marciapiede?» disse. «Quello a
cui abbiamo fatto la CPR?» «Sì.» «È vivo. Sono andato a trovarlo stamattina. È sveglio e in grado di parlare.» «Mi fa piacere sentirlo.» «Lei non credeva che ce l'avrebbe fatta.» «Le probabilità non erano molte.» «Allora vede? Talvolta i numeri, le statistiche sbagliano.» Maura si girò per andarsene. «Dottoressa Isles!» gridò lui. «Lei è cresciuta nella chiesa. Non resta niente della sua fede?» Lei lo guardò. «La fede non richiede prove», rispose. «Io sì.» L'autopsia di un bambino era una procedura che ogni patologo temeva. Mentre s'infilava i guanti e preparava gli strumenti, Maura evitò di guardare il piccolo fagotto sul tavolo, tentando di prendere il più possibile le distanze dalla triste realtà che l'aspettava. Fatta eccezione per il tintinnare degli strumenti, la sala era silenziosa. Nessuno dei presenti, in piedi accanto al tavolo, aveva voglia di parlare. Maura richiedeva da sempre un atteggiamento di rispetto nel suo laboratorio. Da studentessa aveva assistito alle autopsie di pazienti che lei stessa aveva seguito e, nonostante i patologi li considerassero emeriti sconosciuti, lei non riusciva a guardarli, lì stesi sul tavolo, senza risentirne la voce o ricordarne lo sguardo. La sala autopsie non era il luogo adatto per scambiarsi battute o parlare delle conquiste della sera precedente: Maura non tollerava comportamenti simili. Bastava una sua occhiata severa per zittire persino l'agente più irrispettoso. Sapeva bene che i poliziotti non erano senza cuore, che l'umorismo era il modo con cui tentavano di contrastare la tristezza del loro lavoro, ma esigeva che lo lasciassero fuori dalla porta. In caso contrario non avrebbe esitato a riprenderli con durezza. Quando però sul tavolo c'era un bambino, non era necessario ammonire nessuno. Maura guardò i due detective. Barry Frost aveva, come sempre, un pallore cadaverico sul volto e si teneva a una certa distanza dal tavolo, quasi si preparasse alla fuga. Quel giorno non erano i cattivi odori a rendere problematica l'autopsia, bensì l'età della vittima. Jane Rizzoli gli stava a fianco, l'espressione decisa; con la sua corporatura minuscola, scompariva quasi nel camice di parecchie taglie più grande. Jane era accanto al tavolo,
in una posizione che sembrava voler dire: sono pronta, affronto qualsiasi cosa. Aveva lo stesso atteggiamento che Maura aveva visto nelle donne chirurgo. Per gli uomini erano delle emerite stronze, ma lei le vedeva per ciò che erano: donne forti che avevano lavorato sodo per affermarsi in una professione dominata dagli uomini, tanto da assumere loro stesse un modo di fare arrogante e mascolino. Jane aveva l'aria di chi era di casa in sala autopsie, eppure il suo volto contrastava con l'atteggiamento impavido: era bianco, teso, e la pelle sotto gli occhi era scura per la fatica. Yoshima aveva orientato la lampada verso il fagotto ed era rimasto in attesa accanto al vassoio degli attrezzi. La coperta era fradicia e l'acqua gelida dello stagno gocciolò sul tavolo mentre Maura la svolgeva con delicatezza, rivelando un altro strato di tessuto. Il minuscolo piede che aveva scorto in precedenza ora era pienamente visibile e sporgeva da sotto i teli bagnati. Avvolta attorno al corpo del neonato, a mo' di sudario, c'era una federa bianca, fermata con spille di sicurezza. Alcuni frammenti rosa erano attaccati alla stoffa. Maura prese le pinze, li raccolse e li posò su un piccolo vassoio. «Che cos'è quella roba?» chiese Frost. «Sembrano coriandoli», disse Jane. Maura infilò le pinze in una piega della stoffa bagnata, in profondità, e ne estrasse un ramoscello. «Non sono coriandoli», spiegò. «Ma fiori secchi.» L'implicazione di quel reperto fece calare di nuovo il silenzio nella sala. Un simbolo d'amore, pensò Maura. O di lutto. Si ricordò di quanto si fosse commossa, anni prima, nell'apprendere che gli uomini di Neanderthal seppellivano i morti con i fiori. Era un segno del loro dolore e, quindi, della loro umanità. Questo bambino, pensò, è stato pianto. Avvolto in teli, cosparso di petali di fiori secchi e chiuso in una coperta di lana. Non era un'eliminazione, ma un funerale. Un addio. Si concentrò sul piede, che sporgeva dal sudario come quello di una bambola. La pelle della pianta dei piedi era raggrinzita per la lunga immersione nell'acqua fredda, ma non c'erano tracce evidenti di decomposizione, nessuna marezzatura delle vene. Lo stagno aveva raggiunto una temperatura prossima allo zero e il corpo poteva essersi conservato discretamente per settimane. Sarebbe stato difficile, se non impossibile, stabilire l'ora del decesso, pensò. Posò le pinze e tolse le quattro spille da balia che chiudevano l'apertura della federa. Quando le appoggiò su un vassoio, emisero un lieve suono
musicale. Sollevato il tessuto, prese a svolgerlo con delicatezza dal basso verso l'alto. Apparvero entrambe le gambe, con le ginocchia flesse e le cosce divaricate a mo' di piccola rana. Le dimensioni erano compatibili con un feto a termine. Maura scoprì i genitali, poi un pezzo di cordone ombelicale rigonfio, legato con un nastro rosso di satin. All'improvviso ricordò le suore sedute al tavolo da pranzo, che con le mani nodose prendevano fiori secchi e nastri per preparare i sacchetti profumabiancheria. Un bebè-sacchetto, pensò, cosparso di fiori e legato col nastro. «È un maschio», disse Jane e la voce d'un tratto le si spezzò in gola. Maura sollevò lo sguardo e vide che era ulteriormente sbiancata in volto e che ora si appoggiava al tavolo, come per sorreggersi. «Vuole uscire?» Jane deglutì. «È solo...» «Cosa? Sono difficili da sopportare, lo so. Le autopsie dei bambini sono sempre difficili. Se vuole sedersi...» «Gliel'ho detto, sto bene.» Ma il peggio doveva ancora venire. Maura sollevò la federa sul petto estendendo con delicatezza prima un braccio e poi l'altro, in modo che non s'impigliassero nel tessuto bagnato. Aveva le mani perfettamente formate, minuscole dita fatte per toccare il volto di una mamma, per afferrarle una ciocca di capelli. Dopo il viso, la parte più prettamente umana del corpo sono le mani, e osservarle faceva quasi male. Maura tastò all'interno della federa per sostenere la nuca del bambino mentre sfilava l'ultimo pezzo di stoffa. Capì subito che qualcosa non andava. La sua mano stringeva un cranio che non era normale, che non sembrava umano. Si fermò e si accorse di avere la gola del tutto secca. In preda a un senso d'orrore, rimosse la stoffa scoprendo la testa del bambino. Jane ansimò e schizzò via dal tavolo. «Gesù», esclamò Frost. «Che diavolo gli è capitato?» Troppo sconvolta per parlare, Maura riuscì solo a fissare inorridita il cranio spaccato, col cervello esposto, e il volto grinzoso come una maschera di gomma schiacciata. Un vassoio metallico si rovesciò e cadde all'improvviso. Maura sollevò lo sguardo appena in tempo per vedere Jane Rizzoli, bianca in volto, accasciarsi lentamente per terra.
10 «Non voglio andare al pronto soccorso.» Maura pulì l'ultima traccia di sangue e si accigliò di fronte alla lacerazione di più di due centimetri che Jane aveva sulla fronte. «Non sono un chirurgo plastico. Posso suturarla, ma non posso garantire che non resti una cicatrice.» «Lo faccia e basta. Non voglio restare seduta per ore nella sala d'attesa di un ospedale. Dove, tra l'altro, mi affibbierebbero probabilmente uno studente.» Maura deterse la cute con Betadine, poi prese una fiala di Xylocaina e una siringa. «Prima di tutto anestetizzerò l'area. Sentirà una lieve puntura, ma dopo non dovrebbe sentire più niente.» Il detective Rizzoli era stesa sul divano, perfettamente immobile, gli occhi fissi sul soffitto. Anche se non trasalì quando l'ago perforò la cute, chiuse la mano a pugno e la tenne stretta mentre le veniva iniettato l'anestetico locale. Non le sfuggì nemmeno un gemito, nemmeno un lamento. Era già stata umiliata abbastanza dalla caduta in laboratorio e, come se non bastasse, dallo stordimento che le aveva impedito di camminare, tanto che Frost l'aveva presa in braccio e portata nello studio di Maura come fosse una sposa. Adesso se ne stava distesa con la mascella contratta, fermamente determinata a non dimostrare alcuna debolezza. Mentre Maura perforava i margini della lacerazione con l'ago curvo da sutura, Jane chiese con voce perfettamente calma: «Mi dice che cos'è successo a quel bambino?» «Non gli è successo niente.» «Ma non è affatto normale. Gesù, gli manca mezza testa.» «È nato così», rispose Maura tagliando il filo da sutura e facendo un nodo. Cucire la pelle umana era come cucire un tessuto, anche se vivo: lei era semplicemente una sarta che avvicinava i bordi e annodava il filo. «Quel bambino è anencefalico.» «Che significa?» «Che il suo cervello non si è mai sviluppato.» «Ma sembra qualcosa di peggio della mancanza del cervello. È come se gli fosse stata asportata l'intera parte superiore della testa», disse Jane deglutendo. «E il viso...» «Fa tutto parte dello stesso difetto congenito. Il cervello si sviluppa da
una struttura di cellule chiamata tubo neurale. Se la sommità del tubo non si chiude come previsto, il bambino nasce privo di gran parte del cervello, del cranio e persino del cuoio capelluto. Questo significa anencefalia: senza testa.» «L'ha già vista prima?» «Solo in un museo dedicato alle scienze mediche. Ma non è così rara. Si verifica in un caso su mille.» «Perché?» «Nessuno lo sa.» «Allora... potrebbe succedere a qualsiasi bambino?» «Esatto.» Maura legò l'ultimo punto e tagliò il filo eccedente. «Quel bambino è nato con una grave malformazione. Se non era già morto, quasi certamente è deceduto poco dopo il parto.» «Perciò Camille non l'ha annegato.» «Analizzerò i reni alla ricerca delle diatomee. Così sapremo se il bambino è morto per annegamento. Ma non credo sia un caso di infanticidio. Penso che il bambino sia morto di morte naturale.» «Grazie a Dio», disse piano Jane. «Se quella cosa fosse sopravvissuta...» «Non poteva.» Maura terminò la procedura applicando un cerotto alla ferita e togliendosi i guanti. «Finito, detective. I punti verranno via tra cinque giorni. Può passare di qui, glieli toglierò io. Ma penso sempre che dovrebbe andare da un medico.» «Lei è un medico.» «Io lavoro con i morti, ricorda?» «Mi ha ricucita alla perfezione.» «Non sto parlando di mettere un paio di punti. Mi preoccupa il resto.» «Che intende?» Maura si protese, lo sguardo fisso su Jane. «È svenuta, ricorda?» «Non ho pranzato. E quella cosa... il bambino... mi ha sconvolta.» «Ci ha sconvolti tutti, ma lei è quella che ha perso i sensi.» «Non avevo mai visto niente del genere.» «Jane, lei ha visto ogni sorta di orrori in sala autopsie. Li abbiamo visti insieme, li abbiamo annusati insieme. È sempre stata forte di stomaco. I suoi colleghi, quelli li devo tenere d'occhio perché crollano come sacchi di patate, ma lei ha sempre tenuto duro. Finora.» «Forse non sono tanto forte come pensa.» «No, credo che ci sia qualcosa che non va. È così?» «Per esempio?»
«Giorni fa ha avuto un giramento di testa.» Jane si strinse nelle spalle. «Devo iniziare a far colazione.» «Perché non la fa? Ha nausea? E ho notato che va in bagno praticamente ogni dieci minuti. Mentre preparavo la sala, ci è andata due volte.» «Ma che diavolo è, un terzo grado?» «Deve andare da un medico. Sottoporsi almeno a una visita completa e a una conta ematica, per escludere un'eventuale anemia.» «Mi serve solo un po' d'aria fresca.» Jane Rizzoli si mise a sedere, poi lasciò cadere la testa tra le mani. «Dio, che razza di mal di testa!» «Ha picchiato il capo piuttosto duramente sul pavimento.» «Me la sono pestata tante volte nella vita.» «Mi preoccupa di più la ragione dello svenimento, della sua grande stanchezza.» Rizzoli sollevò la testa e la guardò. In quell'istante Maura ebbe la risposta. Lo sospettava già e ora ne trovava conferma negli occhi di Jane. «La mia vita è un tale casino», sussurrò Jane. Le sue lacrime colsero Maura di sorpresa. Non l'aveva mai vista piangere, pensava fosse troppo forte, troppo caparbia per poter cedere, eppure ora aveva il volto rigato di lacrime, e Maura era tanto stupefatta che poté solo restare a guardare in silenzio. Trasalirono entrambe quando bussarono alla porta. Frost fece capolino nello studio. «Come va qua dentro...» La voce gli morì in gola quando vide il volto bagnato di lacrime della collega. «Ehi, ehi, stai bene?» Jane si asciugò il viso con un gesto stizzoso. «Sì, sto bene.» «Che cos'è successo?» «Ho detto che sto bene!» «Detective Frost», disse Maura, «abbiamo bisogno di un po' di tempo per noi. Potrebbe lasciarci, per favore?» Frost arrossì. «Scusatemi», mormorò e scomparve chiudendo piano la porta. «Non avrei dovuto urlargli», disse Jane. «Ma a volte è così maledettamente ottuso.» «È solo preoccupato per te.» «Sì, lo so, lo so. Almeno è uno di quelli che valgono.» La voce le si spezzò. Sforzandosi di non piangere, Jane chiuse le mani a pugno, ma le lacrime le sgorgarono comunque, seguite dai singhiozzi. Erano singhiozzi soffocati, imbarazzati, che non riusciva a trattenere. Assistere al cedimento
di una donna di cui aveva sempre ammirato la forza turbò non poco Maura. Se Jane Rizzoli cadeva a pezzi, allora non c'erano più sicurezze. Poi, all'improvviso, Jane pestò i pugni sulle ginocchia e fece alcuni respiri profondi. Quando infine sollevò la testa, le lacrime le inondavano ancora gli occhi, ma l'orgoglio aveva trasformato il suo volto in una rigida maschera. «Sono quei dannati ormoni, mi stanno fottendo il cervello.» «Da quanto lo sai?» «Non saprei, da un po'. Alla fine ho fatto un test di gravidanza, a casa, stamattina, ma è come se lo sapessi da settimane. Sentivo la differenza. E non mi è venuto il ciclo.» «Che ritardo hai?» Jane si strinse nelle spalle. «Almeno un mese.» Maura si appoggiò allo schienale della sedia. Adesso che Jane aveva recuperato il controllo, poteva rifugiarsi nella sua veste di clinico. Di medico distaccato, pronto a dispensare consigli pratici. «Hai ancora abbastanza tempo per decidere.» Jane sbuffò e si passò la mano sul viso per asciugarselo. «Non c'è niente da decidere.» «Che hai intenzione di fare?» «Non lo posso tenere. Sai che non posso.» «Perché no?» Rizzoli le lanciò l'occhiata che riservava agli idioti. «Cosa farei con un bambino?» «Quello che fanno tutti.» «Mi vedi come mamma?» chiese Jane scoppiando a ridere. «Sarei un disastro. Il bambino non sopravvivrebbe un mese tra le mie mani.» «I bambini sono incredibilmente resistenti.» «Sì, be', io non ci so fare.» «Quel giorno, con quella bambina, Noni, sei stata molto brava.» «Sicuro.» «Davvero, Jane. E lei ha reagito di conseguenza. Ha ignorato me e ha evitato la madre. Voi due invece eravate in perfetta sintonia.» «Questo non significa che sia la mammina ideale. I bambini piccoli mi terrorizzano. Non so che fare con loro, se non darli prima possibile a qualcun altro.» Jane espirò bruscamente, come se la questione fosse chiusa, risolta. «Non posso, non posso e basta.» Poi si alzò dalla sedia e si diresse alla porta.
«Lo hai detto all'agente Dean?» Rizzoli si fermò, la mano sulla maniglia. «Jane?» «No, non gliel'ho detto.» «Perché no?» «È un po' difficile iniziare una conversazione quando non ci si vede quasi.» «Washington non è dall'altra parte del mondo. Ha addirittura lo stesso fuso orario. Potresti anche prendere un telefono. Lui probabilmente vorrebbe saperlo.» «O magari no. Forse sarebbe una di quelle complicazioni di cui preferirebbe non venire a conoscenza.» Maura sospirò. «D'accordo, lo ammetto. Non lo conosco molto bene, ma nel breve tempo in cui abbiamo lavorato insieme, mi è sembrato il tipo che si assume le sue responsabilità.» «Responsabilità?» Jane infine si voltò e la guardò. «Oh, certo. Questo è quello che sono, che il bambino è. E lui è il bravo boy scout che fa il suo dovere.» «Non intendevo dire questo.» «Hai assolutamente ragione. Gabriel farebbe il suo dovere. Be', al diavolo. Io non voglio essere il problema, la responsabilità di chicchessia. Inoltre, la decisione non è sua, è mia. Sono io che dovrei crescerlo.» «Non gli hai dato nemmeno una chance.» «Una chance per cosa? Perché s'inginocchi davanti a me e chieda la mia mano?» osservò Jane con una risata. «Perché, è così inverosimile? Vi ho visti insieme, ho visto come ti guarda. È qualcosa di più di un'avventura di una notte.» «Sì, è un'avventura di due settimane.» «Per te è stato questo?» «Che altro potremmo fare? Lui è a Washington e io sono qui», rispose Jane scuotendo la testa per lo stupore. «Gesù, non posso credere d'esserci cascata. Queste cose succedono solo alle ragazzine stupide», disse, poi tacque e scoppiò di nuovo a ridere. «Ma certo. Perciò, questo cosa fa di me?» «Sicuramente non una stupida.» «Ma una donna sfortunata sì, e anche troppo fertile.» «Quando gli hai parlato l'ultima volta?» «La scorsa settimana. Mi ha chiamata lui.»
«Non hai pensato di dirglielo?» «Allora non ne ero certa.» «Ma adesso lo sei.» «Non ho lo stesso intenzione di dirglielo. Devo scegliere quello che è bene per me, non per gli altri.» «Che cosa temi ti direbbe?» «Mi convincerebbe a incasinarmi la vita, a tenere il bambino.» «È davvero questo che ti fa paura? O hai più paura che ti dica che non lo vuole? Che ti rifiuti prima che tu abbia la possibilità di rifiutare lui?» Jane guardò Maura. «Sai una cosa, doc?» «Cosa?» «A volte non sai quello che dici.» E a volte, pensò Maura mentre la guardava uscire dallo studio, faccio centro. Frost e Rizzoli erano seduti in macchina. Dalle bocchette del riscaldamento fuoriusciva aria fredda e i fiocchi di neve scendevano mulinando sul parabrezza. Il cielo grigio rispecchiava l'umore di Jane. Era seduta nell'abitacolo buio, claustrofobico, dell'auto, tutta tremante, e ogni fiocco che cadeva sul vetro era un altro frammento che le occludeva la visuale, che la chiudeva lì dentro, che la seppelliva. «Ti senti meglio?» chiese Frost. «Ho solo un po' di mal di testa, nient'altro.» «Sei sicura di non voler andare al pronto soccorso?» «Devo solo prendere un po' di Tylenol.» «D'accordo.» Frost innestò la marcia, poi cambiò idea e la tolse. «Rizzoli?» disse guardandola. «Sì?» «Se ti va di parlare... di qualsiasi cosa, io ti ascolto con piacere.» Lei non rispose, spostò solo lo sguardo sul parabrezza, sui fiocchi di neve che formavano una filigrana bianca sul vetro. «Lavoriamo insieme da quanto, due anni ormai? Mi sembra che tu non parli molto della tua vita personale», proseguì lui. «Io probabilmente ti bombardo di chiacchiere quando ti racconto di me e di Alice: sai di tutte le nostre discussioni, che tu lo voglia o no. Non mi dici mai di stare zitto, perciò penso che non ti dispiaccia ascoltare. Ma sai, mi sono accorto di una cosa: tu ascolti molto, ma non parli quasi mai di te.» «Non c'è molto da dire.»
Lui rifletté per un istante su quelle parole. Poi, quasi imbarazzato, disse: «Non ti ho mai vista piangere, prima». Jane si strinse nelle spalle. «Bene, ora mi hai vista.» «Senti, non siamo sempre andati d'amore e d'accordo...» «Tu non credi?» Frost arrossì, come sempre quando si sentiva a disagio.Al primo cenno d'imbarazzo diventava rosso con la velocità di un semaforo. «Quello che intendo è che non siamo grandi... amici.» «Cosa vorresti, che lo diventassimo?» «Non mi dispiacerebbe.» «Va bene, da ora saremo grandi amici», rispose lei brusca. «Forza, adesso andiamo.» «Rizzoli?» «Che c'è?» «Io sono qui, d'accordo? Voglio solo che tu lo sappia.» Lei sbatté le palpebre e si voltò verso il finestrino perché non vedesse l'effetto che quelle parole le avevano fatto. Per la seconda volta in un'ora sentì le lacrime sgorgarle negli occhi. Quei maledetti ormoni. Non capiva perché le parole di Frost la facessero piangere: forse era solo perché le stava dimostrando una grande gentilezza. A dire il vero, Frost era sempre stato gentile con lei, ma ora Jane era più sensibile a tali manifestazioni. Una piccola parte del suo cuore avrebbe tuttavia voluto che il collega fosse insensibile come una pietra, ignaro del suo tumulto interiore. Le sue parole la facevano sentire vulnerabile, allo scoperto, e non era così che voleva gli altri la vedessero. Non era quello il modo per guadagnarsi il rispetto di un collega. Inspirò e contrasse la mascella. L'attimo di commozione era passato e le lacrime erano scomparse. Ora poteva guardarlo in faccia con la sua solita compostezza. «Senti, devo prendere il Tylenol», disse. «Dobbiamo star seduti qui per tutto il giorno?» Lui annuì e innestò la marcia. I tergicristalli spazzarono la neve dal parabrezza, offrendo loro una vista del cielo e delle strade imbiancate. Per tutta l'estate rovente Jane aveva desiderato l'inverno, la purezza della neve. Adesso, mentre osservava quel tetro paesaggio cittadino, pensò che non avrebbe mai più maledetto la calura d'agosto. Il venerdì, il J.P. Doyle era strapieno, tanto che non ci sarebbe potuto en-
trare nemmeno un poliziotto in più. Situato poco più in là della stazione di Jamaica Plain, a Boston, e a soli dieci minuti dal quartier generale della polizia di Schroeder Plaza, il locale era il luogo dove gli agenti fuori servizio usavano ritrovarsi per bere una birra e fare due chiacchiere. Perciò, quando quella sera il detective Rizzoli vi entrò all'ora di cena, si attendeva di vedere una schiera di facce familiari. Ciò che invece non si aspettava di vedere era Vince Korsak seduto al bar a sorseggiare una birra. Korsak era un detective in pensione del dipartimento di Newton e il Doyle era fuori dal suo territorio. La notò non appena varcò la soglia e le fece un cenno di saluto. «Ehi, Rizzoli! Quanto tempo che non ci si vede.» Poi, indicando la medicazione sulla sua fronte, chiese: «Che cosa ti è successo?» «Oh, niente. Sono scivolata all'obitorio e mi hanno messo un paio di punti. Allora, come mai in questo quartiere?» «Mi trasferisco qui.» «Cosa?» «Ho appena firmato il contratto d'affitto per un appartamento in fondo alla strada.» «E la tua casa a Newton?» «È una lunga storia. Senti, ti va di mangiare qualcosa? Ti racconterò tutto», disse lui prendendo la sua birra. «Cerchiamo un tavolo nell'altra sala. Questi coglioni di fumatori mi stanno avvelenando i polmoni.» «Prima non ti dava fastidio.» «Sì, be', quando anch'io facevo parte dei coglioni.» Solo un infarto poteva trasformare un fumatore accanito in un salutista, pensò Jane mentre avanzava alle spalle di Korsak, nel varco che questi creava tra la folla. Anche se dopo l'attacco cardiaco aveva perso peso, era ancora grosso il doppio di un giocatore di football: proprio quella era l'immagine che evocava nella mente di Jane mentre l'altro si faceva largo nella calca del venerdì sera come un bulldozer. Oltrepassarono una porta ed entrarono nella sezione non fumatori, in cui l'aria era vagamente più respirabile. Korsak scelse un tavolo sotto la bandiera irlandese. Alla parete erano appesi vari ritagli incorniciati del Boston Globe, articoli su vecchi sindaci e politici scomparsi, sui Kennedy e su Tip O'Neill e altri prodi figli dell'Eire, molti dei quali avevano servito nella polizia di Boston. Korsak s'infilò tra il tavolo e la panca, comprimendo la sua grossa pancia. Pur ancora molto pesante, sembrava davvero dimagrito da agosto, e-
poca in cui avevano lavorato insieme su un caso di omicidi seriali. Jane non riusciva a guardarlo senza pensare all'estate passata insieme, al ronzio delle mosche tra gli alberi, agli orrori che i boschi avevano rivelato in mezzo al fogliame. Aveva ancora dei flashback di quel mese, in cui due assassini si erano associati per dar sfogo alle loro spaventose fantasie su alcune coppie benestanti. Korsak era stato uno dei pochi ad aver capito l'impatto che quel caso aveva avuto su di lei. Insieme, avevano combattuto i mostri ed erano riusciti a sopravvivere; tra di loro esisteva un legame, nato proprio dalla situazione di crisi che caratterizza un'indagine. Eppure, c'erano molte cose di Korsak che Jane trovava ripugnanti. Lo osservò bere una sorsata di birra e passarsi la lingua sulle labbra per togliersi la schiuma. Ancora una volta la colpì il suo aspetto scimmiesco: le sopracciglia folte, il naso grosso, i peli neri, irsuti, che gli ricoprivano le braccia. E il modo in cui camminava, dondolando le braccia e tenendo le spalle in avanti, proprio come le scimmie. Jane sapeva che aveva un matrimonio infelice e che, da quand'era andato in pensione, aveva fin troppo tempo libero. Ora, guardandolo, provava un vago senso di colpa: Korsak le aveva lasciato vari messaggi in segreteria, proponendole di cenare insieme, ma lei era stata troppo occupata per rispondergli. Arrivò una cameriera che, riconosciutala, disse: «Prende la solita Sam Adams, detective?» Jane guardò il bicchiere di birra di Korsak. Se n'era rovesciata un po' sulla camicia, dove ora si notava una scia di macchie. «Oh, no», rispose. «Solo una Coca.» «Volete ordinare?» Jane aprì il menu. Non aveva voglia di birra quella sera, ma era afifamata. «Prenderò l'insalata dello chef con un bel po' di salsa Thousand Isiand. Pesce e patatine fritte, e una porzione di anelli di cipolla. Mi può portare tutto insieme. Oh, e con il pane mi può portare un po' di burro in più?» Korsak rise. «Non ti controllare, mi raccomando.» «Ho fame.» «Sai cosa fa quella roba fritta alle tue arterie?» «D'accordo, allora non ti darò nemmeno un assaggio di anelli di cipolla.» La cameriera guardò Korsak. «E lei, signore?» «Salmone alla griglia, senza burro. E un'insalata con salsa vinaigrette.» Mentre la cameriera si allontanava, Rizzoli lanciò a Korsak un'occhiata incredula. «Da quando mangi pesce alla griglia?» chiese.
«Da quando qualcuno là sopra mi ha dato una botta in testa di avvertimento.» «Mangi davvero in questo modo? Non è solo un'esibizione?» «Ho già perso cinque chili, nonostante abbia smesso di fumare, perciò, sai, sono dimagrito veramente. Non mi sono solo sgonfiato.» Korsak si appoggiò alla sedia con un'aria un po' troppo compiaciuta. «Adesso uso anche il tapis roulant.» «Stai scherzando?» «Mi sono iscritto in una palestra, faccio esercizi cardiovascolari. Sai, controllo il polso, tengo d'occhio il cuore. Mi sento dieci anni in meno!» Dimostri dieci anni in meno era quello che probabilmente voleva sentirsi dire, ma Jane tacque perché non era vero. «Cinque chili, complimenti», commentò. «Devo solo continuare così.» «Ma allora, perché bevi birra?» «L'alcol fa bene, non lo sai? Ultime notizie dal New England Journal of Medicine. Un bicchiere di vino fa bene al cuore. Poi con un cenno indicò la Coca Cola che la cameriera aveva posato davanti a Jane. «Come mai quella? Bevevi sempre una Adams Ale.» Lei si strinse nelle spalle. «Non stasera.» «Stai bene?» No, non sto bene. Sono a pezzi e non riesco nemmeno a bere una birra senza avere i conati. «Sono molto presa», fu tutto ciò che rispose. «Sì, ho sentito. Cosa sta succedendo dalle suore?» «Ancora non lo sappiamo.» «Ho sentito che una di loro ha avuto un figlio.» «Dove l'hai sentito?» «Sai com'è, in giro.» «Che altro hai sentito?» «Che hai ripescato un bambino da uno stagno.» La fuga di notizie era inevitabile. I poliziotti parlavano: tra loro, con le mogli. Jane pensò a tutte le persone presenti allo stagno, agli addetti dell'obitorio, al tecnici della Scientifica. Bastavano un paio di lingue lunghe e nel giro di poco anche un poliziotto in pensione di Newton conosceva i dettagli. Temeva le dichiarazioni dei giornali del mattino: un omicidio era già abbastanza affascinante per i lettori. Ora che si aggiungeva anche l'elemento del sesso proibito, il caso sarebbe rimasto a lungo in prima pagina. La cameriera arrivò con l'ordine. I piatti di Jane occuparono gran parte
del tavolo, disposti tutt'intorno a lei come a una festa di famiglia. Avventandosi sul cibo, Jane addentò una patatina fritta tanto calda che si bruciò la bocca e fu costretta a bere un sorso di Coca Cola. Dopo tutti i suoi commenti sui cibi fritti, Korsak rimase tristemente a fissare gli anelli di cipolla. Poi spostò lo sguardo sul pesce alla griglia, sospirò e prese la forchetta. «Ne vuoi un po'?» gli domandò lei. «No, sono a posto, davvero. Te l'ho detto, sto cercando di cambiare vita. Quell'infarto è stato forse la cosa migliore che mi sia mai capitata.» «Parli sul serio?» «Sì, sto perdendo peso, ho smesso di fumare. Ehi, credo anche che mi stiano ricrescendo un po' di capelli», aggiunse Korsak abbassando la testa per mostrarle la calvizie. Se i capelli gli stavano ricrescendo, pensò Jane, era solo nella sua testa. «Sì, sto facendo tanti cambiamenti», disse Korsak. Poi tacque e si concentrò sul salmone. Non sembrava molto contento di quel piatto e Jane, per pietà, gli avvicinò gli anelli di cipolla. Quando tuttavia lui risollevò la testa, stava guardando lei, non il cibo. «Anche a casa ci sono cambiamenti.» Qualcosa nel tono della sua voce la fece sentire a disagio. Era il modo in cui la guardava, come se volesse mettersi a nudo. Jane detestava i discorsi troppo personali, ma capiva quanto bisogno avesse Korsak di parlare. «Che sta succedendo?» gli chiese immaginando già ciò che le avrebbe detto. «Io e Diane... sai com'era. Tu l'hai vista.» Aveva conosciuto Diane all'ospedale, quando Korsak si stava riprendendo dall'attacco cardiaco. Al loro primo incontro aveva notato che parlava biascicando e che aveva lo sguardo vitreo. Quella donna era una farmacia ambulante, imbottita di Valium, codeina e di tutto ciò che riusciva a farsi dare dai medici. Era un problema di vecchia data, le aveva spiegato Korsak, eppure lui le era rimasto al fianco perché quello era il dovere di un marito. «Come sta adesso Diane?» chiese Jane. «Come sempre. Costantemente stordita.» «Ma dicevi che c'erano dei cambiamenti.» «È vero. L'ho lasciata.» Sapeva che aspettava una sua reazione. Jane lo fissò, incerta se gioire o affliggersi, non capendo che cosa lui volesse sentirsi dire.
«Gesù, Korsak», disse infine. «Ne sei sicuro?» «Non sono mai stato così sicuro di qualcosa in tutta la mia dannata vita. La prossima settimana trasloco. Ho trovato un appartamentino da scapolo, qui, a Jamaica Plain. Me lo arrederò come voglio. Sai, televisore a grande schermo, casse stereo da spaccarti i timpani.» Ha cinquantaquattro anni, ha avuto un infarto e si butta in una cosa più grande di lui, pensò Jane, come un adolescente che non vede l'ora di andare a vivere da solo. «Non si accorgerà nemmeno che me ne sono andato. Finché continuerò a pagarle i conti dei farmaci, starà bene. Dio, non so perché abbia impiegato tanto a fare questo passo. Ho buttato via la mia vita, ma d'ora in poi mi godrò ogni minuto.» «E tua figlia? Lei, cosa dice?» Korsak sbuffo. «Pensi gliene importi qualcosa? Tutto quello che fa è chiedere soldi. Papà, mi serve un'auto nuova. Papà, vorrei andare a Cancun. Tu sei mai stata a Cancun?» Jane si appoggiò allo schienale, fissandolo al di sopra degli anelli di cipolla che si stavano raffreddando. «Sai quello che fai?» «Sì. Sto assumendo il controllo della mia vita», rispose Korsak, dopo di che tacque per qualche istante. Con una vena di risentimento, aggiunse: «Pensavo fossi contenta per me». «Lo sono, certo.» «Allora perché quello sguardo?» «Quale sguardo?» «Sembra quasi che mi siano spuntate le ali.» «Devo abituarmi al nuovo Korsak, è come se non ti conoscessi più.» «È un male?» «No. Almeno non mi fumi più in faccia.» A quella battuta scoppiarono entrambi a ridere. A differenza di un tempo, il nuovo Korsak non le avrebbe appestato la macchina di fumo. Vince infilzò una foglia di lattuga e la mangiò in silenzio, come se masticarla richiedesse tutta la sua concentrazione. O come se cercasse il coraggio per fare la domanda che aveva in mente. «Allora, come va fra te e Dean? Vi vedete ancora?» La domanda, posta con tanta noncuranza, la colse alla sprovvista. Era l'ultimo argomento di cui Jane avrebbe voluto parlare, l'ultima cosa che pensava le avrebbe chiesto. Korsak non le aveva nascosto la sua antipatia per Gabriel Dean. Anche lei aveva provato lo stesso sentimento all'inizio,
quando Dean era comparso durante le indagini di agosto e, sfoderando il distintivo dell'FBI, ne aveva assunto il controllo. Poche settimane dopo, però, tra loro era cambiato tutto. Jane guardò il cibo nel piatto, mangiato a metà. All'improvviso non ebbe più appetito. Si sentiva gli occhi di Korsak addosso. Quanto più aspettava, tanto meno credibile sarebbe stata la sua risposta. «Tutto bene», disse. «Vuoi un'altra birra? Io prenderei un'altra Coca.» «Ti è venuto a trovare di recente?» «Dov'è la cameriera?» «Quand'è stato? Alcune settimane fa? Un mese fa?» «Non lo so...» Jane fece un cenno alla cameriera, che non la vide e si diresse verso la cucina. «Come, non te ne ricordi?» «Ho altre cose da fare, come sai», rispose lei brusca e fu proprio il tono di voce a tradirla. Korsak si appoggiò allo schienale e la fissò con uno sguardo da poliziotto. Con uno sguardo che vedeva sin troppo. «Un bell'uomo come lui, probabilmente pensa di far strage tra le donne.» «Che cosa vorresti dire con questo?» «Non sono così idiota come sembro. So che c'è qualcosa che non va, lo sento dalla tua voce. E questo mi preoccupa, perché tu ti meriti di meglio, molto meglio.» «Preferirei non parlarne.» «Non mi sono mai fidato di lui. Te l'ho detto già allora, in agosto. Mi sembra che anche tu, a quel tempo, non ti fidassi di lui.» Jane fece di nuovo cenno alla cameriera e di nuovo questa non la vide. «Hanno qualcosa di sfuggente, quelli dell'FBI. Tutti quelli che ho conosciuto. Sono in gamba, ma non sono mai diretti con te. Fanno i loro giochetti. Si credono migliori della polizia, hanno la testa piena di tutte quelle stronzate sulla superiorità dei federali.» «Gabriel non è così.» «No?» «No.» «Lo dici perché ti sei presa una cotta per lui.» «Perché stiamo parlando di questo?» «Perché sono preoccupato per te. È come se stessi per cadere in un precipizio e non chiedessi nemmeno aiuto. Non penso tu abbia qualcuno con cui parlarne.» «Sto parlando con te.»
«Sì, ma non mi dici niente.» «Che cosa vuoi che dica?» «Di recente non ti è venuto a trovare, vero?» Lei non rispose, non lo guardò nemmeno, fissando il murale alle sue spalle. «Siamo stati entrambi molto occupati.» Korsak sospirò e scosse il capo, in segno di compatimento. «Non ne sono innamorata o che», aggiunse lei e, ritrovato l'orgoglio, riuscì infine a sostenere il suo sguardo. «Pensi che vada in pezzi solo perché qualcuno mi scarica?» «Be', non saprei.» Lei scoppiò in una risata, che tuttavia suonò forzata alle sue stesse orecchie. «È solo sesso, Korsak. Hai un'avventura, ma continui la tua vita. Gli uomini lo fanno sempre.» «Mi stai dicendo che non sei diversa dagli uomini?» «Adesso non tirar fuori quelle cazzate sulle differenze tra i sessi.» «No, dai. Vuoi dirmi che non soffri? Lui se ne va e tu stai bene?» Lei lo guardò con durezza. «Starò bene.» «Ottimo, perché per lui non ne valeva la pena, Rizzoli. Non vale un solo minuto di dolore. E la prossima volta che lo vedo glielo dirò.» «Perché lo fai?» «Faccio cosa?» «Interferisci. Mi assilli. Non ne ho bisogno, ho già abbastanza problemi.» «Lo so.» «Non fai altro che peggiorare le cose.» Lui la fissò per un istante, poi abbassò lo sguardo. «Scusami», disse piano. «Sai, cerco solo di esserti amico.» Di tutto quello che avrebbe potuto dire, niente l'avrebbe colpita di più. Jane si ritrovò a controllare le lacrime mentre fissava la calvizie sulla sua testa china. A volte provava repulsione per lui, a volte rabbia. E a volte scorgeva, meravigliata, l'uomo che era in lui, un uomo gentile, dal cuore generoso, e si vergognava di quando perdeva la pazienza. Rimasero in silenzio mentre s'infilavano il capotto e uscivano dal Doyle, passando dalla cappa di fumo a un paesaggio notturno rilucente di neve fresca. Più in là, lungo la strada, un'auto della polizia uscì dalla stazione di Jamaica Plain, con le luci blu offuscate dalla coltre di fiocchi che scendevano. La osservarono allontanarsi veloce. Jane si chiese quale emergenza l'attendesse. Una coppia che litigava e si picchiava, un bambino scompar-
so, due persone stordite, raggomitolate accanto alle loro auto sfasciate. Così tante vite si incrociavano in una miriade di modi diversi. Gran parte delle persone viveva chiusa nel suo angolino di universo, ma un poliziotto sovrintendeva a tutto. «Che fai a Natale?» chiese lui. «Vado dai miei. Mio fratello Frankie è in città per le vacanze.» «È quello che è nei Marines, vero?» «Sì. Ogni volta che arriva, sembra che l'intera famiglia lo debba venerare in ginocchio.» «Ohi-ohi, c'è un po' di rivalità tra fratelli o sbaglio?» «No, ho perso questa battaglia molto tempo fa. Frankie è il re. E tu, che fai a Natale?» Lui si strinse nelle spalle. «Non lo so.» In quella risposta c'era un'inconfondibile supplica: salvami da un Natale di solitudine. Salvami dal disastro della mia vita. Ma lei non poteva salvarlo. Non poteva salvare nemmeno se stessa. «Ho qualche idea», aggiunse lui subito dopo, troppo fiero per lasciare che il silenzio si prolungasse. «Forse andrò in Florida a trovare mia sorella.» «Mi sembra una buona idea», disse Jane sospirando, e il suo alito formò una nube di vapore. «Be' ora vado a casa a dormire un po'.» «Se ti fa piacere uscire ancora, hai il mio cellulare, vero?» «Sì. Passa un felice Natale.» Jane si avviò alla macchina. «Ehi, Rizzoli?» «Sì?» «So che provi ancora qualcosa per Dean. Mi spiace di aver detto quelle cose su di lui. Penso però che ti meriti di meglio.» Lei rise. «Ho una fila di uomini che mi aspettano fuori dalla porta.» «Be'», rispose lui fissando la strada ed evitando all'improvviso il suo sguardo. «Un uomo c'è.» Lei restò assolutamente immobile e pensò: per favore, non mi fare questo. Non costringermi a ferirti. Prima che potesse rispondere, Korsak si voltò bruscamente verso la sua macchina. Mentre raggiungeva la portiera e saliva, la salutò con un gesto incurante. Jane lo guardò allontanarsi, con le gomme che sollevavano una nube scintillante di neve. 11
Erano le sette di sera passate quando Maura arrivò a casa. Svoltando nel vialetto, vide la casa tutta illuminata: non dal banale chiarore di qualche lampada accesa da un timer, ma dall'allegro sfavillio di una miriade di luci accese, di qualcuno che l'aspettava. E, attraverso le tende del salotto, scorse una piramide di luci multicolori. Un albero di Natale. Era l'ultima cosa che si aspettava di vedere e si fermò nel vialetto ad ammirare quei colori luccicanti che le ricordavano i Natali in cui preparava l'albero per Victor, in cui prendeva le delicate palle dalle confezioni e le appendeva sui rami che le lasciavano sulle dita un forte odore d'abete. E i Natali precedenti, quand'era bambina e suo padre la prendeva in spalla in modo che potesse sistemare la stella d'argento in cima all'albero. Non una volta i genitori avevano scordato quella lieta tradizione, eppure con quanta facilità lei l'aveva abbandonata. Era troppo complicato, c'era troppo da fare. Portare in casa l'albero, portarlo fuori finché non si trasformava nell'ennesimo rifiuto marrone sul marciapiede, pronto per essere prelevato dalla nettezza urbana. Si era lasciata sopraffare dagli aspetti più problematici del rito, dimenticandosi della gioia. Dal gelido garage mise piede in casa e fu accolta da un profumo di pollo arrosto, aglio e rosmarino. Che bello essere accolta dall'odore della cena, che bello avere qualcuno che l'aspettava. Udì la televisione in salotto e seguì il suono, togliendosi il cappotto mentre percorreva il corridoio. Victor sedeva a gambe incrociate sul pavimento, accanto all'albero, e cercava di districare un groviglio di addobbi scintillanti. La vide e scoppiò in una risata di rassegnazione. «Non sono migliorato da quando eravamo sposati.» «Non mi aspettavo niente di tutto questo», disse lei osservando le luci. «Be', siamo al diciotto dicembre e tu non avevi ancora preparato l'albero.» «Non ho avuto tempo.» «Per Natale c'è sempre tempo, Maura.» «È un bel cambiamento. Di solito eri tu quello che era troppo occupato per le vacanze.» Lui sollevò lo sguardo dal groviglio argentato. «E me lo rinfaccerai sempre, non è vero?» Lei tacque, dispiaciuta per quell'ultimo commento. Rivangare gli antichi rancori non era un bel modo di iniziare la serata. Si voltò per appendere il
cappotto nel guardaroba e, dandogli la schiena, esclamò: «Ti preparo un drink?» «Lo stesso che prendi tu.» «Anche se è una roba da donne?» «Sono mai stato sessista in tema di cocktail?» Lei rise e andò in cucina. Dal frigo prese alcuni lime e del succo di mirtillo. Calcolò le dosi di Triple Sec e di Absolut Citron e le versò nello shaker. In piedi davanti al lavandino, agitò liquore e ghiaccio, sentendo il recipiente metallico diventare sempre più freddo. Agita, agita, agita, come i dadi nel bicchiere, prima di lanciarli. Tutto è un gioco d'azzardo, e l'amore più di ogni altra cosa. L'ultima volta che ho giocato, ho perso, pensò. E questa volta, per cosa gioco? Per la possibilità di risistemare le cose? O per farmi spezzare di nuovo il cuore? Versò il liquido gelido in due bicchieri da cocktail e, mentre stava per uscire, notò che la pattumiera era piena di contenitori per cibi da asporto. Sorrise. Allora, Victor non si era trasformato magicamente in uno chef. La cena era stata gentilmente fornita da New Market Deli. Quando entrò in salotto, scoprì che Victor aveva rinunciato a districare gli addobbi e stava riponendo le scatole vuote delle palle. «Ti sei dato troppo disturbo», gli disse posando i bicchieri sul tavolino. «Luci, lampadine e tutto il resto.» «Non ho trovato nessun addobbo natalizio in garage.» «Li ho lasciati a San Francisco.» «Non ne hai comprati altri?» «Non ho mai fatto l'albero.» «Sono passati tre anni, Maura.» Lei si sedette sul divano e sorseggiò lentamente il cocktail. «E quand'è stata l'ultima volta che tu hai preso in mano una scatola di addobbi?» Lui non rispose concentrandosi sul compito di impilare le scatole vuote. Quando infine lo fece, non la guardò. «Nemmeno io ero in gran vena di festeggiamenti.» Il televisore era ancora acceso con l'audio abbassato, ma le immagini che apparivano sullo schermo davano ugualmente fastidio. Victor prese il telecomando e premette il tasto OFF. Poi si sedette sul divano, a distanza di sicurezza, senza toccarla, ma pur sempre abbastanza vicino da lasciare aperte tutte le possibilità. Guardò il bicchiere che Maura gli aveva portato. «È rosa», disse con voce sorpresa.
«Un Cosmopolitan. Ti avevo avvertito che era roba da donne.» Lui ne bevve una sorsata. «Sembra che le cose piacevoli se le godano tutte le donne.» Rimasero seduti in silenzio per un po', a sorseggiare i drink, con le luci natalizie che si accendevano e si spegnevano. Un quadro domestico, familiare, ma Maura si sentiva tutt'altro che rilassata. Non sapeva che cosa attendersi da quella serata e non sapeva nemmeno che cosa Victor si attendesse. Tutto di lui era incredibilmente familiare, il suo odore, il modo in cui la luce delle lampade si rifletteva sui suoi capelli, e i piccoli particolari che le suscitavano sempre tenerezza perché rispecchiavano la sua mancanza di vanità: la camicia logora, i jeans sbiaditi, lo stesso vecchio Timex che portava da quando lo aveva conosciuto. Victor, l'uomo della Mancha, che combatteva contro il mulino a vento della povertà. Lei si sarebbe stancata di combattere molto tempo prima, lui invece era ancora pieno di energie. Da quel punto di vista non poteva che ammirarlo. Victor posò il bicchiere. «Oggi ho visto altri servizi sulle suore, al telegiornale.» «Cosa dicono?» «La polizia ha dragato uno stagno dietro al convento. Di che si tratta?» Lei si appoggiò allo schienale. L'alcol iniziava ad allentarle la tensione alle spalle. «Hanno trovato un bambino nello stagno.» «Della suora?» «Aspettiamo la conferma dal DNA.» «Tu però non hai dubbi che sia suo?» «Deve esserlo, altrimenti il caso diventerebbe spaventosamente complicato.» «Allora potrai identificare il padre. Se hai il DNA.» «Prima ci serve un nome. E anche se stabiliamo la paternità, c'è sempre da appurare se il rapporto sia stato consensuale o se si sia trattato di stupro. Come dimostrare l'uno o l'altro senza la testimonianza di Camille?» «In ogni caso, è un possibile movente per l'omicidio.» «Certamente.» Maura finì il cocktail e posò il bicchiere. Era stato un errore bere prima di cena. L'alcol e la mancanza di sonno stavano cospirando per annebbiarle la mente. Si sfregò le tempie, cercando di restare lucida. «Ti porto da mangiare, Maura. Hai l'aria di chi ha avuto una giornata pesante.» Lei si sforzò di ridere. «Sai quel film in cui il ragazzino dice di vedere i
morti?» «Il sesto senso.» «Be', io li vedo costantemente e comincio a esserne stufa. È questo che mi rovina l'umore. Siamo quasi a Natale e io non ho nemmeno pensato a fare l'albero perché nella mia testa ho ancora la sala autopsie. Ne sento l'odore sulle mani. Torno a casa in una giornata come questa, dopo due autopsie, e non riesco a pensare alla cena. Non posso nemmeno guardare un pezzo di carne senza pensare alle fibre muscolari. Tutto quello che riesco a buttar giù è un cocktail. Allora mi verso un drink, sento l'odore dell'alcol e d'un tratto eccomi di nuovo in laboratorio: alcol, formalina, hanno lo stesso odore penetrante.» «Non ti ho mai sentita parlare così del tuo lavoro.» «Non mi sono mai sentita tanto travolta dal mio lavoro.» «Non sembri affatto l'invincibile dottoressa Isles.» «Sai bene che non lo sono.» «Sei molto brava a calarti nella parte. Sei in gamba, una donna d'acciaio. Ti rendi conto di quanto intimorissi gli studenti alla U.C.? Erano terrorizzati da te.» Lei scosse la testa e rise. «La Regina dei morti.» «Cosa?» «Così mi chiamano i poliziotti. Non in faccia, lo so dalle voci che corrono.» «Mi piace. La Regina dei morti.» «Be', io lo detesto.» Maura chiuse gli occhi e si appoggiò ai cuscini. «Mi fa sentire un vampiro, un essere grottesco.» Non lo udì alzarsi dal divano e portarsi dietro di lei, perciò trasalì quando sentì all'improvviso la pressione delle sue dita sulle spalle. S'immobilizzò, ogni terminazione nervosa in allerta, deliziosamente sensibile al suo tocco. «Rilassati», mormorò lui massaggiandole i muscoli. «È una cosa che non hai mai saputo fare.» «No, Victor.» «Non abbassi mai la guardia, devi apparire sempre più che perfetta.» Le sue dita affondavano nelle spalle e nel collo, in profondità, sondanti, invadenti. Lei rispose contraendosi ancor di più: i suoi muscoli si tesero come corde, per difesa. «Non c'è da meravigliarsi che tu sia stanca», disse lui. «Hai gli scudi sempre alzati. Non riesci a star seduta tranquilla, a provare piacere quando
qualcuno ti tocca.» «No!» Maura si scostò e si alzò. Quando si voltò a guardarlo, sentiva ancora la pelle formicolare per il suo tocco. «Che sta succedendo, Victor?» «Volevo che ti rilassassi un po'.» «Sono già abbastanza rilassata, grazie.» «Sei così tesa che i tuoi muscoli sembrano sul punto di spezzarsi.» «Be', che cosa ti aspettavi? Non so che fai qui, non so cosa vuoi.» «E se provassimo a essere soltanto amici?» «Ci riusciremmo?» «Perché no?» Incrociando il suo sguardo, Maura si sentì arrossire. «Perché tra noi c'è troppo vissuto. Troppa...» Attrazione era quello che avrebbe voluto dire, ma Maura censurò la parola. «Tra l'altro, non sono sicura che tra un uomo e una donna ci possa essere solo amicizia», aggiunse invece. «È triste che tu pensi una cosa del genere.» «È realistico. Lavoro a contatto con gli uomini tutto il giorno. So di intimorirli e voglio che sia così. Voglio che mi vedano come una figura autoritaria, un cervello con un camice bianco. Perché quando iniziano a vedermi come donna, s'intromette sempre il sesso.» Victor sbuffò. «E questo contamina tutto.» «Sì, è così.» «Non importa il tipo di autorità che dimostri. Gli uomini ti guardano e vedono tutti una bella donna. A meno che non ti metta un sacchetto in testa, questo vedono. Il sesso è sempre presente, non lo puoi escludere.» «Per questo non possiamo essere soltanto amici», concluse Maura e, presi i bicchieri vuoti, tornò in cucina. Lui non la seguì. Maura rimase in piedi davanti al lavandino, a fissare i bicchieri, il sapore del lime e della vodka ancora forte in bocca, l'odore di Victor ancora vivo nella sua mente. Sì, il sesso era sempre presente e ordiva le sue trame, evocando nella sua mente immagini che lei cercava invano di scacciare. Ripensò alla sera in cui erano tornati tardi dal cinema e avevano iniziato a spogliarsi a vicenda non appena varcata la soglia. Avevano fatto l'amore in modo frenetico, brutale, sul pavimento di legno: Victor l'aveva penetrata tanto profondamente che si era sentita posseduta, come una prostituta. E la cosa le era piaciuta. Si aggrappò al lavandino e sentì il respiro accelerare, il corpo prendere le sue decisioni, ribellarsi alla logica che l'aveva indotta a vivere sola per tutti
quei mesi. Il sesso è sempre presente. La porta principale si chiuse con un tonfo. Maura si voltò, stupita. Si precipitò in soggiorno dove trovò solo l'albero luccicante. Victor non c'era più. Dando un'occhiata fuori dalla finestra, lo vide salire in macchina e udì il rombo del motore che si avviava. Schizzò fuori dalla porta, scivolando con le scarpe sul sentierino ghiacciato mentre correva verso l'auto. «Victor!» Il motore si fermò e i fari si spensero. Lui scese e la guardò. La sua testa era solo una sagoma scura che sporgeva dal tetto della macchina. Il vento soffiava e Maura socchiuse gli occhi per proteggersi dai cristalli acuminati di neve. «Perché te ne vai?» chiese. «Va' dentro, Maura. Si gela.» «Ma perché te ne vai?» Nonostante il buio, vide la condensa del suo respiro. Un respiro esalato per frustrazione. «È chiaro che non mi vuoi qui.» «Torna dentro. Voglio che resti.» Maura si avvicinò all'auto e gli si mise di fronte. Il vento le penetrava sotto la camicetta leggera. «Non facciamo che punzecchiarci, come sempre», rispose lui e fece per risalire in macchina. Lei lo afferrò per il giaccone e lo attirò a sé. In quell'istante, mentre Victor si girava a guardarla, capì che cosa sarebbe successo dopo. Sconsiderato o no, in quel momento voleva che accadesse. Lui non ebbe bisogno di avvicinarla a sé: era già stretta dal suo abbraccio, immersa nel suo calore, alla ricerca delle sue labbra. Percepirono sapori familiari, odori familiari. I loro corpi si fusero perfettamente, come sempre. Adesso Maura tremava, sia per il freddo sia per l'eccitazione. Lui la cinse con le braccia e col corpo la protesse dal vento mentre camminavano, baciandosi, verso la porta. Fecero entrare una folata di vento e neve in casa, e una manciata di fiocchi cadde luccicando sul pavimento mentre Victor si toglieva il giaccone. Non arrivarono mai in camera. Lì, nell'ingresso, Maura armeggiò con i bottoni della sua camicia e gliela sfilò dai pantaloni. La pelle di Victor era bollente a contatto con le sue dita intirizzite. Scostò la stoffa, bramandone il calore, desiderando spasmodicamente di sentirla a contatto con la sua. Quando entrarono in salotto,
Maura aveva la camicetta sbottonata e i pantaloni aperti. Felice, lo accolse di nuovo nel suo corpo, nella sua vita. Le luci dell'albero brillavano come stelle multicolori mentre era stesa sul pavimento sotto di lui. Chiuse gli occhi, ma anche allora vedeva quelle luci ammiccanti in un firmamento di colori. I loro corpi si muovevano sincroni in una danza ben nota, senza goffaggini, senza le esitazioni della prima volta. Maura conosceva il suo tocco, le sue mosse e, quando il piacere la sopraffece ed emise un grido, non provò alcun imbarazzo. Era bastato quell'atto a cancellare tre anni di separazione; dopo, rimasero stesi insieme in mezzo al groviglio di vestiti. L'abbraccio di Victor era familiare, come una vecchia coperta. Quando riaprì gli occhi, scoprì che lui la stava guardando. «Sei il regalo più bello che abbia scartato sotto l'albero», disse. Lei osservò un addobbo luccicante appeso a un ramo. «Proprio così mi sento», mormorò. «Scartata. Esposta.» «Da come lo dici non sembra piacevole.» «Dipende da quel che succede dopo.» «E che succede dopo?» Maura sospirò. «Non lo so.» «Che cosa vuoi che succeda?» «Non voglio più essere ferita.» «Temi possa fare questo?» Lei lo guardò. «È quello che hai fatto in passato.» «Ci siamo feriti a vicenda, Maura. In mille modi diversi. Le persone che si amano lo fanno sempre, senza volerlo.» «Tu hai avuto una storia. Io che cos'ho fatto?» «Questo non ci porta da nessuna parte.» «Voglio saperlo», disse lei. «In che modo ti ho ferito?» Lui si girò per stendersi al suo fianco, senza toccarla, lo sguardo fisso su un punto del soffitto. «Ricordi il giorno in cui sono dovuto partire per Abidjan?» «Me lo ricordo», rispose lei sentendo ancora l'amarezza di quel momento. «Lo ammetto, era un periodo atroce per lasciarti sola, ma dovevo andare. Ero l'unico che poteva condurre le trattative. Dovevo essere presente.» «Il giorno dopo il funerale di mio padre?» Maura lo guardò. «Io avevo bisogno di te, avevo bisogno che restassi a casa con me.» «Anche la One Earth aveva bisogno di me. Avremmo potuto perdere un
intero container di rifornimenti medici. Non si poteva aspettare.» «Be', io l'ho accettato, o no?» «Proprio qui sta il punto. L'hai accettato, ma sapevo che eri incazzata nera.» «Perché era sempre così: anniversari, funerali, niente ti teneva a casa. Io venivo sempre al secondo posto.» «E questo era il nocciolo della questione, vero? Io dovevo scegliere tra te e la One Earth e non volevo farlo. Non pensavo fosse il caso di farlo, non con una posta tanto alta in gioco.» «Non puoi salvare il mondo da solo.» «Ma posso fare del bene. Anche tu lo pensavi.» «Ma alla fine tutti mollano. Tu passi anni a dedicarti ossessivamente alle persone che muoiono in altri Paesi, poi un giorno ti svegli e decidi, per cambiare, di pensare alla tua vita, di avere dei figli. Ma non hai mai avuto il tempo nemmeno per questo.» Maura inspirò profondamente e sentì un groppo in gola al pensiero dei figli che avrebbe voluto e che probabilmente non avrebbe mai avuto. Al pensiero di Jane Rizzoli, la cui gravidanza le rendeva ancor più doloroso quel fatto. «Ero stanca di essere sposata a un santo. Volevo un marito.» Passò qualche istante e le luci natalizie sopra la sua testa si confusero in una macchia di colori. Lui le prese la mano. «Credo d'essere io quello che ha sbagliato», disse. Lei deglutì e i colori tornarono a fuoco, trasformandosi di nuovo nelle luci degli addobbi. «Abbiamo sbagliato entrambi.» Victor non le lasciò la mano, gliela tenne stretta come se temesse che, lasciandola andare, non avrebbe più avuto la possibilità di ritrovarne il contatto. «Possiamo parlare quanto vogliamo», osservò Maura, «ma non mi sembra che niente sia cambiato tra noi.» «Sappiamo quello che non andava.» «Questo non significa che ora siamo in grado di far meglio.» «Non dobbiamo fare nulla, Maura. Possiamo semplicemente stare insieme. Non basta, per il momento?» disse lui con tono pacato. Semplicemente stare insieme. Sembrava facile. Stesa accanto a lui, mentre solo le loro mani si toccavano, pensò: sì, questo, lo posso fare. Posso essere abbastanza distaccata da dormire con te senza lasciare che tu mi ferisca. Il sesso senza amore: per gli uomini era piacevole. Perché non poteva esserlo anche per lei?
E forse stavolta, le sussurrò una vocina maligna, sarà lui a restare col cuore spezzato. 12 Il viaggio a Hyannisport avrebbe dovuto richiedere solo un paio d'ore lungo la Route 3, in direzione sud, poi lungo la Route 6 fino a Cape Cod, ma Jane dovette fermarsi due volte per andare in bagno, perciò non raggiunsero il Sagamore Bridge prima delle tre di pomeriggio. Superato il ponte, si ritrovarono all'improvviso nella terra delle vacanze estive, con la strada che conduceva a una serie di piccoli centri, simili a tante perle di una collana disseminate lungo Cape Cod. Rizzoli si era sempre recata a Hyannisport nel periodo estivo, quando le strade erano intasate di auto e schiere di turisti in maglietta e pantaloncini uscivano dalle gelaterie. Non vi era mai stata in una fredda giornata invernale come quella, in cui metà dei ristoranti erano chiusi e solo pochi coraggiosi camminavano sui marciapiedi, con i cappotti ben allacciati per il vento. Frost svoltò in Ocean Street e mormorò, stupito: «Dio, guarda la dimensione delle case». «Stai pensando di trasferirti?» domandò Jane. «Forse, quando avrò guadagnato i miei primi dieci milioni.» «Allora di' a Alice che è meglio che si dia da fare per guadagnarsi il primo milione, perché tu con il tuo salario non ce la farai mai.» Le indicazioni li condussero oltre due pilastri di granito, lungo un ampio viale d'accesso che portava a una bella casa vicina all'acqua. Rizzoli scese dall'auto e si fermò, tremando per il vento, ad ammirare le assi di legno con le incrostazioni argentee di sale e le tre torrette poste di fronte al mare. «Riesci a credere che abbia lasciato tutto questo per farsi suora?» domandò. «Quando Dio chiama, penso tu debba rispondere.» Lei scosse la testa. «Io? Lo lascerei suonare a lungo alla porta.» Salirono i gradini del portico e Frost premette il campanello. Rispose una donna piccola con i capelli scuri, che socchiuse la porta quel tanto da poterli scrutare. «Dipartimento di polizia di Boston», disse Jane. «Abbiamo telefonato. Siamo qui per vedere la signora Maginnes.» La donna annuì e si scostò per lasciarli entrare. «È nella Stanza del mare. Vi faccio strada.»
Camminarono su pavimenti di teak lucidati, accanto a pareti a cui erano appesi dipinti di navi e di mari in tempesta. Jane cercò di immaginarsi la giovane Camille crescere tra quelle mura, correre sui pavimenti splendenti. Ma correva? O le era consentito solo camminare con passo lento e tranquillo, in mezzo a tutte quelle antichità? La donna li condusse in un'ampia stanza le cui finestre alte fino al soffitto davano sul mare. La vista di quella distesa d'acqua grigia, spazzata dal vento, era tanto emozionante da catturare all'istante l'attenzione di Jane, che all'inizio non vide altro. Ma, pur assorta a osservare l'acqua, percepì un odore acre che aleggiava nell'aria. Un odore di orina. Si voltò verso la fonte dell'odore: un uomo steso in un letto d'ospedale accanto alle finestre, disposto come se fosse un'opera d'arte vivente. Seduta su una sedia al suo fianco c'era una donna dai capelli castano-ramati, che si alzò per salutare i visitatori. Nel volto di quella donna Jane non riconobbe niente di Camille. La bellezza della giovane era delicata, quasi eterea, quella donna invece era tutta appariscente e curata, con il suo caschetto di capelli ben tagliati e le sopracciglia perfette, a V rovesciata. «Sono Lauren Maginnes, la matrigna di Camille», disse tendendo la mano a Frost. Alcune donne ignorano le rappresentanti del loro stesso sesso e si concentrano solo sugli uomini presenti. Lauren era una di quelle donne e rivolse tutta l'attenzione a Barry Frost. «Buongiorno, ci siamo parlate a telefono. Sono il detective Rizzoli e questo è il detective Frost. Siamo entrambi molto spiacenti per la perdita che avete subito», affermò Jane. Solo allora Lauren la degnò di considerazione. «Grazie», fu tutto ciò che disse e lanciò un'occhiata alla donna dai capelli scuri che li aveva fatti entrare. «Maria, puoi dire ai ragazzi di scendere e di raggiungerci? È arrivata la polizia.» Poi si rivolse di nuovo agli ospiti e indicò loro un divano. «Prego, accomodatevi.» Jane si ritrovò seduta accanto al letto d'ospedale. Guardò la mano dell'uomo, contratta tanto da ricordare un artiglio, e il volto, metà del quale era flaccido, deformato in una maschera immobile, e rammentò gli ultimi mesi di vita di suo nonno, costretto a letto in una casa di cura, lo sguardo perfettamente consapevole e infuriato. Imprigionato in un corpo che non obbediva più ai suoi comandi. Nello sguardo di quell'uomo vide la stessa consapevolezza. L'uomo la fissava negli occhi, osservava quella visitatrice sconosciuta e Jane colse in lui disperazione e umiliazione. La disperazione di un uomo a cui era stata rubata la dignità. Non aveva più di una cinquan-
tina d'anni, ma il suo corpo lo aveva già tradito. Un filo di bava gli colava sul mento e gocciolava sul cuscino. Su un tavolino adiacente c'era tutto l'armamentario del caso: boccette di integratore Ensure, guanti di gomma, fazzolettini umidi, un pacco di pannoloni. Un'intera vita ridotta a un tavolino di prodotti sanitari. «L'infermiera di notte è un po' in ritardo, perciò spero non vi spiaccia restare qui mentre assisto Randall», disse Lauren. «Lo abbiamo spostato in questa stanza perché ha sempre amato il mare. Adesso lo può vedere ogni giorno.» Prese un fazzolettino e gli pulì con delicatezza la bava. «Ecco, ecco qui.» Poi si voltò e guardò i due detective. «Ora capite perché vi ho detto che non volevo venire in macchina fino a Boston. Non amo lasciarlo a lungo solo con le infermiere. Si agita. Non può parlare, ma so che quando non ci sono sente la mia mancanza.» Lauren si appoggiò allo schienale e si concentrò su Frost. «Ci sono progressi nelle indagini?» Ancora una volta fu Jane a rispondere, decisa a conquistarsi l'attenzione della donna e irritata dal fatto che questa continuasse a ignorarla. «Abbiamo alcune piste», rispose. «Ma non siete venuti fino a Hyannisport solo per dirmi questo.» «No, siamo venuti per parlare di alcune questioni che ritenevamo opportuno affrontare di persona.» «E volevate conoscerci, suppongo.» «Volevamo farci un'idea dell'ambiente da cui veniva Camille. Della sua famiglia.» «Be', siamo qui.» Lauren fece un gesto col braccio. «Questa è la casa in cui è cresciuta. Difficile da immaginare, vero? La ragione per cui ha lasciato tutto questo per un convento. Randall le aveva dato tutto quello che una ragazza avrebbe potuto desiderare: una BMW nuova di zecca per il compleanno, un pony tutto suo, un armadio pieno di vestiti che nemmeno metteva, e invece lei sceglie di portare il nero per il resto della vita. Sceglie...» Lauren scosse la testa. «Non riusciamo ancora a farcene una ragione.» «Disapprovavate la sua decisione?» «Oh, per me non era un problema. In fondo, si trattava della sua vita. Ma Randall non l'ha mai accettata. Sperava sempre che cambiasse idea, che si stancasse di quel che fanno le suore tutto il giorno e che tornasse a casa.» Guardò il marito, muto, a letto. «Penso che per questo gli sia venuto l'ictus. Era la sua unica figlia e non riusciva a credere che lo avesse lasciato.»
«Che mi dice della madre di Camille, signora Maginnes? Al telefono mi ha spiegato che è morta.» «Camille aveva solo otto anni quando successe.» «Quando successe cosa?» «Be', la definirono overdose accidentale, ma questi casi sono davvero accidentali? Randall era già vedovo da molti anni quando l'ho conosciuto. Possiamo definirci una famiglia ricostituita: io ho avuto due figli dal primo matrimonio, Randall aveva Camille.» «Da quanto lei e Randall siete sposati?» «Da ormai sette anni.» Lauren guardò il marito e con una nota di rassegnazione aggiunse: «Nel bene e nel male». «Lei e la sua figliastra eravate legate? Condivideva molte cose con lei?» «Con Camille?» Lauren scosse la testa. «Sarò del tutto onesta: tra noi non c'è mai stato un legame affettivo, se è questo quello che intende. Lei aveva già tredici anni quando ho conosciuto Randall, e sapete come sono i ragazzi a quell'età. Non vogliono avere niente a che fare con gli adulti. Non che mi trattasse come la matrigna cattiva, è solo che non siamo... be'... entrate in contatto. Io ho cercato, davvero, ma lei era sempre così...» Lauren tacque all'improvviso, come se temesse di dire qualcosa che non doveva. «Che parola sta cercando, signora Maginnes?» Lauren rifletté per un istante. «Strana», disse infine. «Camille era strana.» Guardò il marito che la stava fissando e aggiunse rapida: «Mi spiace, Randall, so che è brutto dire una cosa del genere da parte mia, ma questi sono poliziotti. Vogliono sapere la verità». «Che cosa intende per strana?» domandò Frost. «Ha presente quando arriva a una festa e vede qualcuno che se ne sta tutto solo?» domandò Lauren. «Qualcuno che non la guarda in faccia? Lei se ne stava sempre per conto suo in un angolo o chiusa nella sua stanza. Non abbiamo mai capito che cosa facesse lì dentro. Pregava! Si metteva in ginocchio e pregava. Leggeva i libri che le dava una di quelle ragazze cattoliche a scuola. Noi non siamo nemmeno cattolici, ma presbiteriani, eppure lei si chiudeva lassù, si frustava con una cintura, sapete? Per purificarsi. Dove mai vanno a pescare idee simili?» Fuori, il vento spruzzava l'acqua salata del mare sulle finestre. Randall Maginnes emise un debole gemito e Jane notò che la stava guardando. Ricambiò lo sguardo, chiedendosi quanto avesse capito quell'uomo della conversazione. Capire tutto sarebbe stata la peggiore maledizione, pensò:
sapere tutto ciò che ti accade attorno, che tua figlia, la tua unica figlia naturale, è morta, che tua moglie è provata dalle cure che richiedi, che l'odore terribile che sei costretto a respirare è il tuo. Udì alcuni passi, si voltò e vide due giovani entrare nella stanza. Erano chiaramente i figli di Lauren, con gli stessi capelli castano-ramati e gli stessi tratti eleganti del volto. Per quanto fossero entrambi vestiti in modo casual, con un paio di jeans e una felpa, emanavano come la madre un senso di elegante sicurezza. Jane tese loro la mano e gliela strinse. Lo fece vigorosamente, per affermare la sua autorità. «Sono il detective Rizzoli», disse. «I miei figli, Blake e Justin», affermò Lauren. «Sono a casa dal college, per le vacanze.» I miei figli, aveva detto, non i nostri figli. In quella famiglia la ricostituzione non aveva amalgamato del tutto gli affetti: anche dopo sette anni di matrimonio, i suoi figli erano sempre suoi, e la figlia di Randall era sempre di Randall. «Sono i due avvocati in erba della famiglia», continuò Lauren. «Con tutte le liti che scoppiano a tavola, hanno già un bel po' di pratica di dibattimenti.» «Discussioni, mamma», intervenne Blake. «Noi le chiamiamo discussioni.» «A volte non vedo la differenza.» I due ragazzi si sedettero con grazia atletica e guardarono Jane, come in attesa che il divertimento iniziasse. «Al college, eh?» chiese lei. «In quale andate, ragazzi?» «Io all'Amherst», rispose Blake. «E Justin al Bowdoin.» Entrambi erano a breve distanza da Boston. «E volete diventare avvocati? Tutti e due?» «Ho già fatto domanda ad alcune facoltà di Giurisprudenza», rispose Blake. «Mi orienterò sul ramo dello spettacolo. Forse andrò a lavorare in California. Sto seguendo un corso di studi cinematografici, credo sia una buona base.» «Sì, e spera anche di uscire con le attrici più carine», commentò Justin prendendosi un'affettuosa gomitata nelle costole. «Be', certo!» Jane pensò perplessa a quei due fratelli che riuscivano a scherzare sereni mentre la sorellastra, morta da poco, giaceva in un obitorio. «Quando avete visto vostra sorella per l'ultima volta?» Blake e Justin si guardarono e, quasi all'unisono, risposero: «Al funerale
della nonna». «Che è stato in marzo?» domandò Jane guardando Lauren. «Quando Camille è tornata a casa per farvi visita?» Lauren annuì. «Abbiamo fatto domanda alla chiesa perché la lasciassero venire a casa per la funzione. È come chiedere la libertà su cauzione per un prigioniero. Sono rimasta stupefatta quando non l'hanno lasciata tornare in aprile, dopo che Randall aveva avuto l'ictus. Si trattava di suo padre! E lei ha semplicemente accettato la decisione, ha fatto quello che le hanno detto di fare. Viene proprio da chiedersi che cosa accada in quei conventi, vista la paura che hanno a lasciarle uscire. Che razza di abusi nasconderanno? Ma probabilmente era questa la ragione per cui amava stare là dentro.» «Perché pensa questo?» «Perché era quello che desiderava. La punizione, il dolore.» «Camille?» «Gliel'ho detto, detective, era strana. A sedici anni, un giorno si è tolta le scarpe ed è andata in giro scalza. Era gennaio. Fuori c'erano dodici gradi sotto zero! La cameriera l'ha trovata a piedi nudi in mezzo alla neve. Naturalmente, ben presto l'hanno saputo tutti i vicini. Abbiamo dovuto portarla in ospedale perché aveva un principio di congelamento. Ha raccontato al medico di averlo fatto perché i santi avevano sofferto e anche lei voleva provare dolore. Pensava così di avvicinarsi a Dio.» Lauren scosse la testa. «Che si può fare con una ragazza così?» Amarla, pensò Jane, cercare di capirla. «Desideravo vedesse uno psichiatra, ma Randall non ne voleva sentir parlare. Non ha mai, mai voluto ammettere che sua figlia fosse...» Lauren tacque per un istante. «Dillo, mamma», affermò Blake. «Era pazza. Lo pensavamo tutti.» Il padre di Camille emise un flebile lamento. Lauren si alzò per asciugargli un altro filo di bava sulla bocca. «Dove diavolo è l'infermiera? Doveva essere qui alle tre.» «Quando Camille è tornata a casa in marzo, quant'è rimasta?» chiese Frost. Lauren lo guardò, perplessa. «Circa una settimana. Sarebbe potuta restare di più, ma ha scelto di rientrare presto in convento.» «Perché?» «Immagino non amasse stare in mezzo a tutta quella gente. Al funerale c'erano molti dei miei parenti di Newport.» «Ha detto che era schiva.»
«È un eufemismo.» «Aveva molti amici, signora Maginnes?» «Se ne aveva, non li portava mai a casa per farceli conoscere.» «E a scuola?» Jane guardò i due ragazzi, che si scambiarono un'occhiata. «Solo timidoni come lei», rispose Justin con cattiveria gratuita. «Intendevo dire se avesse un ragazzo.» Lauren scoppiò in una risata, stupita. «Un ragazzo? Quando tutto quello che sognava era diventare la sposa di Cristo?» «Era una ragazza attraente», disse Jane. «Forse voi non ve ne eravate accorti, ma sono certa che qualche ragazzo sì. Qualche ragazzo si sarà interessato a lei», aggiunse guardando i figli di Lauren. «Nessuno voleva uscire con lei», osservò Justin. «Per non essere preso in giro.» «Perché continua a chiederci se avesse un ragazzo?» domandò Lauren. Jane pensò che non c'era modo di evitare la verità. «Mi spiace dovervelo dire, ma poco prima di essere uccisa Camille ha dato alla luce un bambino. Un bambino che è nato morto», disse guardando i fratelli. Questi la fissarono con un'espressione altrettanto stupefatta. Per un istante l'unico rumore nella stanza fu quello del vento che spazzava il mare e faceva tintinnare le finestre. «Non legge le notizie? Con tutte quelle orribili cose che fanno i preti? Ha passato gli ultimi due anni in convento! Era sotto la loro supervisione, la loro autorità. Dovrebbe parlare con loro.» «Abbiamo già interrogato l'unico prete che aveva accesso al convento. Ci ha fornito spontaneamente il suo DNA. Il test è in corso.» «Perciò non sapete nemmeno se sia lui il padre. Perché allora ci tormentate con queste domande?» «Il bambino è stato concepito in marzo, signora Maginnes. Nel mese in cui Camille è venuta a casa per il funerale.» «E pensate sia accaduto qui?» «La casa era piena di ospiti.» «Che cosa volete che faccia? Che chiami tutti gli uomini che erano qui quella settimana? 'Oh, tra l'altro, hai per caso dormito con la mia figliastra?'.» «Abbiamo il DNA del bambino. Con il suo aiuto potremmo riuscire a identificare il padre.» Lauren balzò in piedi. «Ora, per cortesia, andatevene.» «La sua figliastra è morta. Non vuole che troviamo l'assassino?»
«State cercando nel posto sbagliato», ribatté Lauren dirigendosi verso la porta dove gridò: «Maria! Puoi accompagnare i signori all'uscita?» «Il DNA ci darebbe la risposta, signora Maginnes. Con pochi tamponi, potremmo fugare tutti i sospetti.» Lauren si voltò e l'affrontò. «Allora cominciate dai preti e lasciate in pace la mia famiglia.» Il detective Rizzoli s'infilò in macchina e chiuse la portiera. Mentre Frost scaldava il motore, Jane guardò la casa e ricordò quanto l'avesse ammirata all'inizio. Prima di conoscere le persone che l'abitavano. «Adesso so perché Camille ha lasciato questa casa», disse. «Immagino come sia stato crescere tra quelle mura, con quei fratelli, con quella matrigna.» «Sembravano molto più sconvolti dalle nostre domande che dalla morte della ragazza.» Mentre oltrepassavano i due pilastri di granito, Jane diede un'ultima occhiata alla villa e immaginò una ragazzina svolazzare da una stanza enorme all'altra come un fantasma. Una ragazzina derisa dai fratelli, ignorata dalla matrigna, i cui sogni e le cui speranze venivano ridicolizzati da chi avrebbe dovuto amarla. Ogni giorno in quella casa era una ferita all'anima, molto più dolorosa delle fitte da congelamento che provavi quando camminavi scalza nella neve. Volevi essere più vicina a Dio, conoscere il calore incondizionato del Suo amore. Per questo ti deridevano o ti compativano, o ti dicevano che saresti finita in cura da uno psichiatra. Non c'era da meravigliarsi che le mura del convento le apparissero tanto accoglienti. Jane sospirò e si voltò a guardare la strada che si estendeva davanti a lei. «Andiamo a casa», disse. «La diagnosi mi ha sconcertata», affermò Maura. Dispose una serie di fotografie digitali sul tavolo della sala riunioni. I quattro colleghi non trasalirono nemmeno, abituati com'erano a spettacoli ben peggiori di quelle immagini di cute mordicchiata dai ratti e deturpata da orrendi noduli. Sembravano molto più interessati alla scatola di muffin freschi ai mirtilli che Louise aveva comperato quel mattino per la riunione, omaggio di cui i medici stavano allegramente approfittando nonostante le foto rivoltanti che avevano di fronte. Chi lavora con i morti impara ben
presto a salvaguardare l'appetito da ciò che, per motivi professionali, è costretto a vedere e ad annusare. Tra i patologi seduti al tavolo uno era noto per essere particolarmente amante del fois gras, piacere che nemmeno l'abitudine di sezionare fegati gli aveva rovinato. A giudicare dalla rotondità del suo ventre, niente poteva rovinare l'appetito del dottor Abe Bristol che, mentre Maura posava l'ultima foto, addentò soddisfatto il terzo muffin. «Questa è la tua Jane Doe?» chiese il dottor Costas. Maura annuì. «Femmina, dai trentacinque ai quarantacinque anni circa, con una ferita d'arma da fuoco al petto. È stata trovata approssimativamente trentasei ore dopo la morte in un edificio abbandonato. La faccia è stata asportata dopo il decesso, come del resto le mani e i piedi, per amputazione.» «Uau! Hai per le mani un vero sciroccato.» «Sono queste lesioni cutanee che mi lasciano perplessa», disse lei indicando la serie di foto. «I roditori l'hanno in parte danneggiata, ma resta abbastanza cute integra per poter osservare l'aspetto macroscopico di queste lesioni primarie.» Il dottor Costas prese una fotografia. «Non sono un esperto», disse con tono grave, «ma mi sembra un tipico caso di tumefazioni rosse.» Scoppiarono tutti a ridere. Quand'erano incerti sulla natura di una lesione, i medici si limitavano spesso a descrivere l'aspetto della cute senza individuare le cause del problema. Le tumefazioni rosse potevano essere causate da qualsiasi cosa, da un'infezione virale come da una malattia autoimmune, e poche lesioni cutanee erano tanto specifiche da consentire la formulazione immediata della diagnosi. Il dottor Bristol smise di masticare il muffin per il tempo necessario a indicare una foto e affermare: «Qui ci sono alcune ulcerazioni». «Sì, certi noduli presentano ulcerazioni poco profonde con formazione di croste. Altri presentano squame argentee simili a quelle della psoriasi.» «Colture batteriche?» «Non è cresciuto niente d'insolito, solo Staph. epidermidis.» Lo Staphilococcus epidermidis era un comune batterio della cute e Bristol si limitò a stringersi nelle spalle. «Un contaminante.» «E le biopsie cutanee?» domandò Costas. «Ho guardato ieri i vetrini», rispose Maura. «Ci sono alterazioni infiammatorie acute. Edema, infiltrazione granulocitaria, alcuni microascessi profondi. Ci sono anche alterazioni infiammatorie dei vasi sanguigni.» «E nessuna crescita batterica?»
«Sia la colorazione di Gram sia la Fite-Faraco sono negative per i batteri. Sono ascessi sterili.» «Conosciamo già la causa del decesso, giusto?» chiese Bristol mentre le briciole del muffin gli cadevano sulla barba scura. «Importa davvero sapere che cosa siano questi noduli?» «Odio l'idea di trascurare qualcosa di ovvio. Non possiamo identificare la vittima, non sappiamo niente di lei se non la causa del decesso e il fatto che è ricoperta di queste lesioni.» «Allora, qual è la tua diagnosi?» Maura abbassò lo sguardo sulle orribili tumefazioni, sulla catena montuosa di pustole che si ergeva dalla pelle della vittima. «Eritema nodoso», rispose. «Causa?» Maura si strinse nelle spalle. «Idiopatico.» Il che, in termini più semplici, significava che l'origine era sconosciuta. Costas scoppiò a ridere. «Conoscendoti, è una diagnosi da ultima spiaggia.» «Non saprei in quale altro modo definirlo.» «Nemmeno noi», disse Bristol. «Per me eritema nodoso va bene.» Tornata alla scrivania Maura rilesse il verbale dell'autopsia della Signora dei ratti che in precedenza aveva dettato, e mentre lo firmava si sentì insoddisfatta. Conosceva l'ora approssimativa e la causa del decesso, sapeva che molto probabilmente si trattava di una donna povera e che di certo soffriva per il suo aspetto. Guardò il contenitore di vetrini, etichettati con il nome Jane Doe e il numero del caso. Ne prese uno e lo mise sotto la lente del microscopio. Nell'oculare apparvero ghirigori di rosa e porpora, la colorazione eosinaematossilina della cute. Maura vide la punteggiatura scura delle cellule colpite da infiammazione acuta, l'anello fibroso di un vaso sanguigno infiltrato da leucociti, segno che l'organismo si stava difendendo, che stava inviando le cellule immunitarie a combattere... cosa? Dov'era il nemico? Si appoggiò allo schienale pensando a ciò che aveva visto durante l'autopsia. Una donna senza mani né faccia, mutilata da un assassino ladro d'identità oltre che di vite. Ma perché i piedi? Perché prendere i piedi? È un assassino che sembra operare con fredda logica, pensò, non animato da qualche oscura perversione. Spara per uccidere usando un proiettile
dal sicuro effetto letale, spoglia la vittima, ma non ne abusa sessualmente, le amputa le mani e i piedi, e le rimuove la faccia. Poi abbandona il corpo in un luogo in cui sa che la pelle verrà presto rosicchiata dai saprofagi. E si tornava sempre ai piedi. L'amputazione dei piedi non era logica. Cercò la busta con le radiografie della Signora dei ratti e appese le lastre della caviglia allo schermo luminoso. Ancora una volta restò sconvolta dalla netta demarcazione del taglio, ma non notò niente di nuovo, nessun indizio che spiegasse il motivo dell'amputazione. Tolse le radiografie e appese quelle craniche, frontali e laterali. Studiò le ossa facciali della vittima e cercò di immaginare come fosse il suo volto. Non avevi più di quarantacinque anni, pensò, eppure avevi già perso i denti superiori. Avevi già la mascella di un'anziana, le ossa della tua faccia si stavano disgregando dall'interno e il naso si stava trasformando in un cratere sempre più grande. Hai il busto e gli arti ricoperti di noduli ripugnanti, anche solo guardarti fugacemente allo specchio era doloroso. Uscire di casa, sotto gli occhi di tutti... Maura fissò le ossa illuminate e pensò: ora so perché l'assassino ti ha amputato i piedi. Mancavano solo due giorni a Natale e, quando Maura entrò nel campus di Harvard, lo trovò quasi deserto. Lo Yard era un'ampia distesa bianca, attraversata da ben poche impronte. Avanzò a fatica lungo il vialetto, portando con sé la valigetta e un bustone pieno di radiografie, e sentì nell'aria l'odore acre, metallico, di una nevicata imminente. Poche foglie morte erano rimaste aggrappate, tremolanti, agli alberi spogli. Per alcuni sarebbe stata un'immagine da cartolina natalizia, Maura però vide solo la monotona gamma di grigi dell'inverno, una stagione di cui era già stanca. Quando raggiunse lo Harvard's Peabody Museum of Archaeology, aveva i collant bagnati d'acqua gelida e l'orlo dei pantaloni fradicio. Uscì goffamente dalla neve ed entrò in un edificio che odorava di storia. I gradini di legno scricchiolarono mente scendeva nel seminterrato. La prima cosa che notò quando mise piede nell'ufficio buio della dottoressa Julie Cawley furono i crani umani, almeno una decina, disposti sulle mensole. Un'unica finestra, collocata nella parte superiore della parete, era semicoperta di neve, e la luce che riusciva a passare illuminava proprio la testa della dottoressa Cawley. Era una bella donna, con i capelli grigi raccolti sulla sommità del capo che, alla luce invernale, assumevano un color peltro. Si strinsero la mano, salutandosi in modo stranamente mascolino per es-
sere due donne. «Grazie per avermi ricevuta», disse Maura. «Sono proprio curiosa di vedere quello che mi ha portato», rispose la dottoressa Cawley accendendo una lampada. Grazie alla luce giallognola la stanza apparve subito più calda. «Mi piace lavorare a buio», aggiunse indicando lo schermo del laptop sul tavolo. «Mi aiuta a concentrarmi, ma è dura per i miei occhi non più giovani.» Maura aprì la valigetta e prese la cartellina con le foto digitali. «Queste sono le fotografie che ho scattato alla morta. Mi spiace, ma non sono un bello spettacolo.» La dottoressa Cawley aprì la cartellina e tacque osservando il volto mutilato della Signora dei ratti. «È un po' che non assisto a un'autopsia ed è una cosa che sicuramente non mi è mai piaciuta», commentò sedendosi al tavolo con un profondo respiro. «Le ossa sono molto più pulite, meno personali in certo qual modo. È la vista della carne che rivolta lo stomaco.» «Ho portato anche le radiografie, se preferisce iniziare da quelle.» «No, devo prima guardare le foto, mi è utile esaminare la pelle», rispose la Cawley e lentamente passò all'immagine seguente. A quel punto si fermò e guardò inorridita. «Dio mio», mormorò, «che cosa le è successo alle mani?» «Sono state asportate.» La Cawley le lanciò un'occhiata stupefatta. «Da chi?» «Dall'assassino, presumiamo. Ha amputato entrambe le mani, e parte dei piedi.» «Il volto, le mani, i piedi: sono le prime parti che esaminerei per formulare la diagnosi.» «Il che potrebbe spiegare il motivo dell'amputazione. Ma vi sono altre foto che potrebbero aiutarla. Delle lesioni cutanee.» La Cawley passò alla serie successiva di immagini. «Potrebbe certamente trattarsi del...» Lo sguardo di Maura si posò sui crani collocati sulle mensole e si chiese come l'altra potesse lavorare in quell'ufficio, con tutte quelle orbite vuote che la fissavano dall'alto. Pensò al suo studio, con le piante e i disegni dei fiori. Sulle pareti non c'era niente che le ricordasse la morte. La Cawley invece aveva scelto di circondarsi dei segni della sua stessa mortalità. Docente di storia della medicina, era sia un medico sia uno storico, una donna in grado di leggere un'intera vita di disgrazie nelle ossa dei morti. Guardava i crani sugli scaffali e vedeva in ognuno una storia di do-
lore: una vecchia frattura, un dente del giudizio incuneato, una mandibola infiltrata da un tumore. Molto tempo dopo la scomparsa della carne le ossa raccontano ancora la loro storia e, a giudicare dalle numerose foto che aveva scattato in vari siti archeologici del mondo, la dottoressa Cawley andava a caccia di tali storie da decenni. Sollevando lo sguardo da una fotografia delle lesioni cutanee, disse: «Alcune ricordano molto la psoriasi. Capisco perché l'ha considerata tra le possibili diagnosi. Potrebbero anche essere infiltrati leucemici, ma qui stiamo parlando di un'abile trasformista: di una malattia che può assumere l'aspetto di molte altre. Suppongo abbia effettuato delle biopsie cutanee.» «Sì, comprese le colorazioni per i bacilli acido-resistenti.» «E allora?» «Non ne ho trovati.» La Cawley si strinse nelle spalle. «Potrebbe aver ricevuto qualche terapia. Nel qual caso le biopsie non rivelerebbero la presenza di bacilli.» «Per questo sono venuta da lei. Senza una malattia attiva, senza bacilli da identificare, non so come arrivare a una diagnosi.» «Mi faccia vedere le radiografie.» Maura le porse il bustone con le lastre. La dottoressa Cawley la portò accanto a uno schermo luminoso appeso alla parete: in un ufficio pieno zeppo di cose antiche - ossa, libri e fotografie di decenni prima - quello strumento spiccava per la sua straordinaria modernità. La Cawley scorse le radiografie e infine ne appese una con le clip. Era una radiografia cranica frontale. Sotto i tessuti molli mutilati, le strutture ossee della faccia erano intatte e rilucevano come il teschio sullo sfondo nero di una bandiera. La dottoressa studiò l'immagine per qualche istante, la tolse e appese la radiografia laterale, che rappresentava il profilo cranico. «Ah, ecco», mormorò. «Cosa?» «Vede qui? Dove ci dovrebbe essere la spina nasale anteriore?» chiese tracciando con il dito il profilo del naso inesistente. «C'è un'atrofia ossea avanzata, anzi, c'è un'obliterazione quasi completa della spina nasale.» Poi si diresse a una mensola e prese un cranio. «Guardi qui, lasci che le faccia un esempio. Questo cranio, in particolare, è stato riesumato da una tomba medievale in Danimarca. Era stato sepolto in un luogo desolato, molto lontano dal cimitero. Vede qui, dove le alterazioni infiammatorie hanno distrutto il tessuto osseo a tal punto da lasciare solo un buco al posto del na-
so? Se rimuovessimo per bollitura i tessuti molli dalla sua vittima...» aggiunse indicando la radiografia «... il suo cranio risulterebbe molto simile a questo.» «Non è una lesione post mortem? Non è possibile che la spina nasale sia stata distrutta al momento della rimozione della faccia?» «Ciò non spiegherebbe la gravità dei danni che ho visto in quella radiografia. Ma c'è di più..» La dottoressa Cawley posò il cranio e indicò la radiografia. «Ci sono atrofia e recessione dell'osso mascellare. Sono tanto gravi che i denti anteriori superiori ne sono stati lesi e sono caduti.» «Pensavo fosse dovuto alla cattiva igiene dentale.» «Questa potrebbe aver contribuito al problema, ma la causa è diversa. È ben altro di una parodontopatia avanzata.» Guardando Maura, la studiosa chiese: «Ha effettuato le radiografie nelle altre proiezioni che le avevo suggerito?» «Sono nella busta. Abbiamo effettuato una proiezione di Waters e una serie periapicale per evidenziare i punti mascellari di repere.» La Cawley frugò all'interno della busta ed estrasse altre radiografie. Allo schermo ne appese una pericapicale che mostrava il pavimento della cavità nasale. Per un istante non disse nulla, lo sguardò incollato all'immagine luminosa delle ossa. «Non vedo un caso simile da anni», mormorò stupita. «Allora le radiografie hanno valore diagnostico?» La dottoressa Cawley parve uscire dalla trance. Si voltò e prese il cranio dal tavolo. «Qui», disse capovolgendolo per mostrarle il palato duro. «Vede l'infossatura e l'atrofia del processo alveolare dell'osso mascellare? L'infiammazione ha eroso l'osso. Le gengive si sono ritratte a tal punto che i denti anteriori sono caduti, ma l'atrofia non si è fermata qui: l'infiammazione ha continuato a erodere l'osso, a distruggere non solo il palato, ma anche i turbinati all'interno del naso. La faccia è stata letteralmente smangiata, dall'interno, finché il palato duro non si è perforato ed è collassato.» «Fino a che punto era sfigurata?» La Cawley si voltò e guardò la radiografia della Signora dei ratti. «Se fossimo nel Medioevo, sarebbe stata oggetto d'orrore.» «Allora ha elementi sufficienti per fare una diagnosi?» La dottoressa annuì. «Quasi certamente questa donna aveva il morbo di Hansen.»
13 Il nome sembrava innocuo a chi non ne conosceva il significato, ma la malattia aveva anche un altro nome, che rievocava antiche immagini d'orrore: lebbra. Immagini medievali di intoccabili avvolti in panni, con il volto coperto, di reietti e paria che chiedevano l'elemosina. Di campanelli che annunciavano agli incauti che si stava avvicinando un mostro. Un mostro che in realtà era soltanto la vittima di un microscopico invasore: il Mycobacterium leprae, un bacillo a crescita lenta che, moltiplicandosi, sfigura e deturpa la pelle con orrendi noduli. Un bacillo che distrugge i nervi di mani e piedi, tanto che la vittima non sente più dolore, non si ritrae più quando si fa male, diventando vulnerabile a ustioni, traumi e infezioni. Con il passare degli anni la mutilazione avanza: i noduli s'ingrossano, il dorso del naso cede, le dita delle mani e dei piedi, ripetutamente lesionate, cadono e, quando il malato infine muore, non viene sepolto nel cimitero della chiesa, ma viene bandito, relegato a notevole distanza dalle sue mura. Persino da morto il lebbroso resta un reietto. «Vedere un paziente in uno stadio tanto avanzato della malattia è quasi una rarità negli Stati Uniti», osservò la dottoressa Cawley. «Le cure mediche moderne bloccherebbero la malattia ben prima che causi una simile deturpazione. La terapia basata sull'associazione di tre farmaci è in grado di guarire anche i casi peggiori di lebbra lepromatosa.» «Presumo che questa donna sia stata sottoposta a trattamento», disse Maura. «Dato che nelle biopsie cutanee non c'erano bacilli attivi.» «Sì, ma nel suo caso il trattamento è stato ovviamente effettuato troppo tardi. Guardi queste deformità. La perdita dei denti e il cedimento delle ossa facciali. È stata infettata molto tempo - probabilmente decenni - prima di sottoporsi alla terapia.» «Anche il paziente più povero del Paese avrebbe avuto la possibilità di curarsi.» «C'è da augurarselo, visto che il morbo di Hansen è un rischio per la salute pubblica.» «Allora è probabile che questa donna fosse un'immigrata.» La Cawley annuì. «La malattia è ancora presente in alcune popolazioni rurali del mondo. Gran parte dei casi si registrano in cinque Paesi.» «Quali?» «In Brasile e Bangladesh, in Indonesia e Myanmar. E, naturalmente, in
India.» La dottoressa Cawley ripose il cranio sullo scaffale, poi raccolse le foto sul tavolo e le riordinò. Maura, tuttavia, non prestava quasi attenzione a ciò che faceva. Fissava assorta la radiografia della Signora dei ratti e pensò a un'altra vittima, a un'altra scena del crimine. Al sangue versato, all'ombra di un crocifisso. L'India, pensò. Suor Ursula ha lavorato in India. La Graystones Abbey sembrava più fredda e desolata che mai quando, quel pomeriggio, Maura varcò il cancello. L'anziana suor Isabel le fece strada nel cortile. Dal suo abito nero spuntava incongruamente un paio di doposci L.L. Bean: quando l'inverno si faceva rigido, persino le suore si affidavano al comfort del Gore-Tex. Suor Isabel la condusse nell'ufficio vuoto della badessa, dopo di che svanì nel corridoio buio accompagnata dal clomp-clomp sempre più fievole dei suoi stivali. Maura toccò il calorifero di ghisa al suo fianco. Era gelido, perciò non si tolse il cappotto. Passò così tanto tempo che cominciò a chiedersi se non si fossero scordate di lei, se l'anziana suor Isabel, svanendo nel corridoio con il suo passo strascicato, non l'avesse cancellata dalla mente. Mentre ascoltava gli scricchiolii dell'edificio e le folate del vento che facevano tremare le finestre, Maura s'immaginò come fosse trascorrere un'intera vita sotto quel tetto. Gli anni di silenzio e di preghiera, i riti che non cambiavano mai. Era confortante, pensò: la serenità di sapere, a ogni alba, come sarebbe andata la giornata. Niente sorprese, niente agitazioni. Ti alzi dal letto e indossi gli stessi vestiti, ti inginocchi per dire le stesse preghiere, percorri gli stessi corridoi bui per andare a fare colazione. Fuori da quelle mura la lunghezza delle gonne aumentava e diminuiva, le auto cambiavano forma e colori, un'intera galassia di star del cinema appariva e scompariva dagli schermi, ma lì dentro i riti continuavano immutati, anche quando il corpo diventava infermo, le mani incerte e il mondo più silenzioso per l'indebolirsi dell'udito. Consolazione, pensò, e appagamento. Sì, quelle erano le ragioni per ritirarsi dal mondo, ragioni che lei ben capiva. Non sentì arrivare Mary Clement e trasalì quando la vide in piedi sulla soglia, intenta a osservarla. La finestra vibrò all'improvviso, scossa da una folata. Al di là del vetro il
mondo appariva incolore: un muro grigio, sovrastato da un cielo grigio. «Vorrei saperne di più sulla missione in India di suor Ursula», domandò Maura. Mary Clement annuì. «Un villaggio tanto povero da non avere il telefono né l'elettricità. Ci vivevano quasi cento persone. Ben pochi estranei ci andavano. Era la vita che si era scelta la nostra sorella: servire i più miseri della terra.» Maura pensò all'autopsia della Signora dei ratti, al suo cranio deformato dalla malattia. «Era un villaggio di lebbrosi», disse piano. Mary Clement annuì. «In India sono considerati i più impuri di tutti. Sono temuti e disprezzati, ripudiati dalla famiglia. Vivono in villaggi appositi, dove possono stare lontani dalla società, dove non devono coprirsi il volto, dove gli altri sono deformi come loro.» Guardò Maura. «Nemmeno questo li ha protetti dall'aggressione. Il villaggio di Bara non esiste più.» «Mi diceva che c'è stato un massacro.» «Così l'ha definito padre Doolin: un massacro.» «Da parte di chi?» «La polizia non li ha mai identificati. Potrebbe essersi trattato di un massacro per questioni di casta. Oppure potrebbero essere stati i fondamentalisti indù, infuriati per la presenza di una suora cattolica nella comunità. O ancora i tamil o uno qualsiasi dei gruppi separatisti che si combattono in quelle regioni. Hanno ucciso tutti, dottoressa Isles. Donne, bambini. Due infermiere dell'ambulatorio.» «Ma suor Ursula è sopravvissuta.» «Perché quella sera non era a Bara. Era partita il giorno prima per andare a prendere dei medicinali a Hyderabad. Quando è tornata, il mattino seguente, ha trovato il villaggio in cenere. Erano già arrivati gli operai della fabbrica vicina, stavano cercando i sopravvissuti, ma non ne hanno trovato nemmeno uno. Persino gli animali - i polli, le capre - sono stati massacrati e bruciati. Quando ha visto i cadaveri, suor Ursula è stata male e un medico della fabbrica ha dovuto ricoverarla nel suo ambulatorio fino all'arrivo di padre Doolin. Era l'unica sopravvissuta di Bara. L'unica fortunata.» L'unica fortunata, pensò Maura. Risparmiata dal massacro solo per tornare a casa, alla Graystones Abbey, e scoprire che la morte non l'aveva dimenticata. Che persino lì non poteva sfuggirle. Lo sguardo di Mary Clement incrociò quello di Maura. «Nel suo passato non troverà niente di indegno. Solo una vita passata al servizio di Dio. Rispetti la sua memoria, dottoressa Isles. La lasci in pace.»
Maura e Jane erano ferme sul marciapiede di fronte a quello che un tempo era stato il ristorante Mama Cortina, e il vento penetrava come una lama gelida nei loro cappotti e oltre. Era la prima volta che Maura vedeva quel luogo di giorno: davanti a lei si apriva una strada di edifici abbandonati con una fila di finestre che la guardavano come orbite vuote. «In che bel quartiere mi hai portata», commentò il detective Rizzoli sollevando lo sguardo verso l'insegna sbiadita di Mama Cortina. «La tua Jane Doe è stata trovata lì dentro?» «Nella toilette degli uomini. Era morta da circa trentasei ore quando l'ho esaminata.» «E non hai niente che ti consenta d'identificarla?» Maura scosse il capo. «Considerato lo stadio avanzato del morbo di Hansen, ci sono buone probabilità che fosse immigrata da poco, forse clandestinamente.» Jane si strinse nel cappotto. «Mi viene in mente Ben Hur», mormorò. «A questo mi fa pensare: alla Valle dei lebbrosi.» «Ben Hur è solo un film.» «Ma la malattia è vera. Quello che fa alla faccia, alle mani.» «Può causare gravi mutilazioni. Per questo terrorizzava gli antichi. Per questo alla sola vista di un lebbroso la gente scappava urlando.» «Gesù. Pensare che l'avevamo qui a Boston.» Jane rabbrividì. «Sto congelando. Andiamo dentro.» Imboccarono il vicolo e le loro scarpe scricchiolarono nel solco ghiacciato formato dall'andirivieni di tanti poliziotti. Lì erano al riparo dal vento, ma all'ombra degli edifici faceva ancora più freddo e l'aria era sinistramente immobile. Il nastro della polizia sbarrava l'accesso di servizio al ristorante. Maura prese la chiave e la inserì nel lucchetto, ma questo non scattò. Si accucciò armeggiando con la chiusura ghiacciata. «Perché cadono le dita?» domandò Jane. «Cosa?» «Quando si prende la lebbra, perché cadono le dita? Attacca la pelle, come i batteri saprofagi?» «No, agisce in modo diverso. Il bacillo della lebbra colpisce i nervi periferici, cosa che ti fa perdere la sensibilità delle dita delle mani e dei piedi. Non senti più dolore, che è il nostro campanello d'allarme, parte del meccanismo con cui ci difendiamo dalle lesioni. Senza di esso potremmo im-
mergere per sbaglio le dita nell'acqua bollente senza accorgerci che ci ustioniamo. O non sentiamo che su un piede si sta formando una vescica. Possiamo ferirci ripetutamente e quindi sviluppare infezioni secondarie. Una cancrena.» Maura tacque, disperata per l'ostinazione del lucchetto. «Dai, lascia che provi io.» Maura si fece da parte e infilò contenta le mani in tasca, pur già protette dai guanti, mentre Jane maneggiava la chiave. «Nei Paesi poveri», disse Maura, «sono i ratti che causano i veri danni alle mani e ai piedi.» Jane le rivolse uno sguardo accigliato. «I ratti?» «La notte, quando dormi, i ratti salgono sul letto e ti rosicchiano le dita.» «Parli sul serio?» «E tu non senti niente perché la lebbra ti ha reso insensibile. Quando ti svegli il giorno dopo, scopri di non avere più le punte delle dita, ma solo dei moncherini sanguinolenti.» Jane la guardò, poi girò bruscamente la chiave. Il lucchetto scattò e la porta si aprì di pochi centimetri, rivelando un ambiente dalle diverse tonalità di grigio che a poco a poco viravano al nero. «Benvenuta da Mama Cortina», esclamò Maura. Il detective Rizzoli si fermò sulla soglia e il fascio della sua Maglite squarciò la tenebra all'interno del locale. «C'è qualcosa che si muove», disse. «Ratti.» «Basta parlare di ratti.» Maura accese la sua torcia e la seguì nel buio che puzzava di grasso rancido. «L'ha portata qui, nella sala da pranzo», disse Maura indicando con la torcia il pavimento. «Hanno trovato alcuni segni di trascinamento sul pavimento impolverato, lasciati probabilmente dai tacchi delle sue scarpe. Deve averla presa per le ascelle e trascinata all'indietro.» «Non penso l'avrebbe mai toccata.» «Credo indossasse i guanti, perché non ha lasciato impronte.» «Ma è venuto a contatto con i suoi vestiti, esponendosi all'infezione.» «Pensi come la gente di un tempo. Come se il tocco di un lebbroso ti possa trasformare in un mostro. Non è una malattia così facilmente trasmissibile come credi.» «Ma la puoi prendere, ti puoi infettare.» «Sì.»
«E poi ti cadono il naso e le dita.» «La puoi trattare, ci sono gli antibiotici.» «Non mi interessa se la puoi trattare», rispose Jane, che si stava muovendo lentamente per la cucina. «Stiamo parlando di lebbra, di qualcosa che sa di flagello biblico.» Superarono la porta a vento ed entrarono nella sala da pranzo. La Maglite di Rizzoli tracciò un cerchio e una catasta di sedie brillò in fondo alla stanza. Anche se non ne vedevano la causa, sentivano un debole fruscio. Il buio era vivo. «Da che parte?» domandò Jane con la voce ridotta a un sussurro, come se fossero entrate in un territorio ostile. «Vai avanti. C'è un corridoio a destra, in fondo alla sala.» Le luci delle torce ballonzolarono sul pavimento. Gli ultimi segni di trascinamento erano stati cancellati dal passaggio degli agenti che avevano perlustrato il luogo. La notte in cui era giunta sulla scena del crimine, Maura vi aveva trovato i detective Crowe e Sleeper e sapeva che di lì a poco sarebbe arrivato l'esercito della Scientifica, armato di lenti, macchine fotografiche e di polvere per il rilevamento delle impronte. Quella notte non aveva avuto paura. Ora invece si ritrovava a respirare affannosamente, a stare attaccata a Jane, conscia di non avere nessuno che le guardasse le spalle. Senti i peli del collo rizzarsi e si concentrò con estrema attenzione sui rumori, pronta a cogliere qualsiasi movimento dietro di lei. Il detective Rizzoli si fermò e puntò la torcia a destra. «È questo il corridoio?» «La toilette è in fondo.» Jane avanzò mentre la luce ondeggiava ora su una parete, ora sull'altra. Davanti all'ultima porta si arrestò, come se sapesse già che quello che avrebbe trovato al di là sarebbe stato sgradevole. Illuminò il locale e rimase a osservare le macchie di sangue sul pavimento di piastrelle. Poi la luce scivolò rapida sulle pareti, oltre la toilette, oltre gli orinatoi e i lavandini incrostati di ruggine, poi, quasi attratta da una forza magnetica, tornò sul pavimento, là dove un tempo si trovava il corpo. I luoghi di morte hanno un potere speciale. Molto tempo dopo che il cadavere è stato rimosso e il sangue lavato, serbano il ricordo di quanto vi è successo: echi di urla, l'odore aleggiante della paura. E, come buchi neri, risucchiano nel vortice l'attenzione rapita dei vivi che non riescono a voltarsi dall'altra parte, a resistere alla tentazione di dare una sbirciatina all'in-
ferno. Jane si accucciò per osservare le piastrelle imbrattate di sangue. «È stato uno sparo preciso, al cuore», disse Maura, accovacciandosi al suo fianco. «Tamponamento pericardico, seguito in breve da arresto cardiaco. Per questo c'è poco sangue sul pavimento. Non c'era battito, né sangue in circolo. Quando ha effettuato le amputazioni, stava lavorando su un cadavere.» Rimasero in silenzio, gli sguardi fissi sulle macchie marrone. Lì, in quel bagno, non c'erano finestre. Una luce accesa non sarebbe stata visibile dalla strada. Chiunque avesse impugnato quel coltello, avrebbe potuto prendersi tutto il tempo necessario, operare indisturbato sulla vittima da macellare. Non c'erano urla da soffocare, nessun rischio di essere scoperto. Poteva tagliare a piacimento pelle e articolazioni, per prelevare i suoi trofei di carne. Una volta finito, aveva lasciato il corpo in quel luogo infestato, un vero banchetto per ratti e blatte che avrebbero eliminato la carne residua. Maura si alzò in piedi ansimando. Anche se l'edificio era gelido, aveva le mani sudate sotto i guanti e il cuore le martellava nel petto. «Adesso possiamo andare?» chiese. «Aspetta, lasciami dare un'altra occhiata in giro.» «Non c'è altro da vedere.» «Siamo appena arrivate, doc.» Maura lanciò un'occhiata al corridoio buio e rabbrividì. Sentì uno strano tremolio nell'aria, un alito freddo che le fece rizzare tutti i peli sul collo. La porta, pensò all'improvviso, abbiamo lasciato la porta sul vicolo aperta. Jane era ancora accucciata a osservare le macchie e la Maglite si muoveva lenta sul pavimento. Tutta la sua attenzione era rivolta al sangue. Non è tesa, pensò Maura, perché dovrei esserlo io? Calmati, calmati. Si avvicinò di poco alla porta e, impugnando la torcia a mo' di sciabola, la spostò rapida da un lato all'altro del corridoio buio. Niente. Ma i peli sul collo erano ancora irti. «Rizzoli», disse. «Possiamo uscire di qui?» Solo allora Jane captò la tensione nella sua voce. Sempre restando calma, chiese: «Che c'è?» «Voglio andar via.» «Perché?» Maura fissò nel corridoio buio. «C'è qualcosa che non va.»
«Hai sentito qualcosa?» «Usciamo di qui, va bene?» Jane si alzò in piedi e rispose con tono tranquillo: «Va bene». Superò Maura e uscì in corridoio, poi si fermò come se annusasse l'aria alla ricerca di possibili pericoli. L'impavida Rizzoli, sempre in testa, pensò Maura mentre la seguiva nel corridoio e nella sala da pranzo. Entrarono nella cucina, illuminandola con le torce. Due bersagli perfetti, concluse. Eccoci, arriviamo, con un gran scricchiolio d'assi, e il fascio della torcia è il centro del bersaglio. Sentì un sibilo d'aria fredda e fissò la silhouette di un uomo, in piedi sulla porta. Restò immobile, ascoltando sbigottita due voci urlare nel buio. Jane, già accovacciata in posizione di combattimento, gridò: «Fermo!» «Butta la pistola!» «Ho detto fermo, coglione!» ordinò Jane. «Polizia di Boston! Polizia di Boston!» «Chi diavolo...» La torcia del detective Rizzoli illuminò d'un tratto il volto dell'intruso, che per proteggersi dal bagliore sollevò il braccio e socchiuse gli occhi. Ci fu un lungo silenzio. Jane sbuffò disgustata. «Cazzo!» «Sì, il piacere è tutto mio», replicò il detective Crowe. «Immagino che questo sia il gran centro d'attrazione.» «Potevo farti saltare quella fottuta testa», disse Rizzoli. «Avresti dovuto avvertirci che sareste venuti...» La voce le si smorzò in gola. Jane rimase assolutamente immobile mentre compariva una seconda figura. Un uomo alto superò Crowe con grazia felina ed entrò nel fascio di luce che all'improvviso vacillò. La mano di Jane tremava troppo per reggere saldamente la torcia. «Ciao, Jane», esclamò Gabriel Dean. Il buio sembrò dilatare ulteriormente il lungo silenzio che seguì. Quando Rizzoli riuscì infine a rispondere, aveva un tono stranamente impersonale, professionale. «Non sapevo fossi in città.» «Sono arrivato stamattina.» Jane ripose la pistola e si alzò. «Che fai qui?» «La stessa cosa che fai tu. Il detective Crowe mi sta mostrando la scena del crimine.» «Entra in gioco l'FBI? Perché?»
Dean si guardò attorno scrutando l'ambiente buio. «È meglio parlarne da un'altra parte. In un posto caldo, almeno. Mi interessa capire in che modo il tuo caso s'intrecci con il mio, Jane.» «Se parliamo, lo scambio d'informazioni deve essere reciproco.» «Certo.» «Tutte le carte in tavola.» Dean annuì. «Ti dirò tutto quello che so.» «Senti», intervenne Crowe. «Lascia che finisca di mostrare la scena all'agente Dean. Ci incontreremo nella sala riunioni. Lì almeno c'è abbastanza luce da vederci in faccia. E non saremo costretti a stare in piedi a gelarci il culo.» Jane annuì. «In sala riunioni, alle due. Ci vedremo lì.» 14 Jane frugò in cerca delle chiavi dell'auto e le lasciò cadere nella neve. Mentre si chinava a raccoglierle, lanciò un'imprecazione. «Stai bene?» le chiese Maura. «Mi ha preso alla sprovvista. Non mi aspettavo...» Jane si alzò e sbuffò formando una nube di condensa. «Dio, che cosa è venuto a fare qui? Che accidenti è venuto a fare?» «Il suo lavoro, presumo.» «Non sono pronta per questo. Non sono pronta a lavorare di nuovo con lui.» «Potresti non avere scelta.» «Lo so ed è proprio questo che mi fa incazzare, il fatto di non avere scelta.» Jane aprì l'auto e salirono entrambe, sedendosi sui sedili gelidi. «Glielo dirai?» domandò Maura. Cupa in volto, Jane accese il motore. «No.» «Vorrà saperlo.» «Non penso. Nessun uomo vorrebbe saperlo.» «Allora rinunci al lieto fine? Non vuoi nemmeno tentare?» Jane sospirò. «Forse, se fossimo due persone diverse, tenterei.» «La relazione non è nata tra altre persone, ma tra voi due.» «Certo. Incredibile, eh?» «Perché?» Per un istante Jane rimase in silenzio, lo sguardo fisso sulla strada davanti a lei. «Sai come mi chiamavano sempre i miei fratelli quand'eravamo
ragazzini?» domandò con voce sommessa. «Il rospo. Mi dicevano che nessun principe avrebbe voluto baciare un rospo, tanto meno sposarmi.» «I fratelli possono essere crudeli.» «Ma a volte ti dicono la verità nuda e cruda.» «Quando l'agente Dean ti guarda, non penso proprio che veda un rospo.» Jane si strinse nelle spalle. «E chi lo sa che cosa vede?» «Una donna intelligente?» «Sì, è davvero una cosa molto sexy.» «Per alcuni uomini lo è.» «O così dicono, ma sai cosa? Io non ci credo. Se possono scegliere, preferiscono sempre tette e culo.» Jane si concentrò con feroce determinazione sulla guida mentre percorrevano strade in cui la neve sporca incrostava i marciapiedi e i vetri delle macchine parcheggiate erano bianchi di ghiaccio. «Lui ha visto qualcosa in te, Jane. Qualcosa di desiderabile.» «È stato il caso su cui lavoravamo. L'eccitazione della caccia. Ti fa sentire viva, sai? Quando sei alle battute finali, l'adrenalina ti scorre nelle vene e vedi tutto in modo diverso, vivi tutto in modo diverso. Lavori con qualcuno ventiquattr'ore al giorno, gomito a gomito, tanto da conoscere il suo profumo, come prende il caffè e come si annoda la cravatta. Poi il caso si fa allarmante, condividi rabbie e paure, e ben presto ti sembra che sia amore, ma non lo è. Si tratta solo di due persone che lavorano in preda a una tensione tale da non saper più distinguere il desiderio dall'eccitazione della caccia. Questo penso sia accaduto. Ci siamo incontrati davanti a una serie di cadaveri e dopo un po' persino io gli sono sembrata bella.» «Per te è stato solo questo? Qualcuno che ti è sembrato bello?» «Be', cazzo, lui è davvero bello.» «Allora, se non lo ami, se non ti interessa minimamente, vederlo ora non dovrebbe farti tanto male, o no?» «Non lo so!» rispose esasperata Jane. «Non lo so che cosa provo per lui!» «Dipende dal fatto che lui ti ami o no?» «Non ho di certo intenzione di chiederglielo.» «È un modo per avere una risposta chiara.» «Com'è quel vecchio detto? 'Non chiedere se non vuoi la risposta'.» «Non si sa mai. La risposta potrebbe sorprenderti.» A Schroeder Plaza si fermarono al bar a prendere alcuni caffè e li portarono di sopra, nella sala riunioni. Mentre aspettavano l'arrivo di Crowe e Dean, Maura osservò Jane frugare tra le carte e i dossier come se contenessero qualche segreto di
fondamentale importanza. Alle due e quindici udirono infine il flebile campanello dell'ascensore e poco dopo la risata di Crowe in corridoio. La schiena di Jane s'irrigidì all'istante. Mentre le voci dei due uomini si avvicinavano, mantenne lo sguardo fisso sulle carte. Quando Dean apparve sulla soglia, non lo sollevò subito, quasi si rifiutasse di ammettere il potere che aveva su di lei. Maura aveva conosciuto l'agente speciale Gabriel Dean a fine agosto, quando si era unito alla Omicidi per indagare sull'uccisione di alcune coppie benestanti nella zona di Boston. Uomo di notevole statura e di profonda intelligenza, Dean aveva ben presto assunto il controllo della squadra e lo scontro con il detective Rizzoli, a capo delle indagini, era stato fin da subito inevitabile. Maura era stata la prima a vedere l'ostilità trasformarsi in attrazione. Aveva osservato le prime scintille della loro relazione, i loro sguardi incrociarsi sopra i corpi delle vittime, i rossori di Jane, la sua incertezza. Le prime fasi dell'amore si accompagnano sempre a una gran confusione. Come del resto le ultime. Dean entrò nella stanza e il suo sguardo fissò immediatamente Jane. Indossava un completo con la cravatta, e la sua eleganza contrastava nettamente con la camicetta stropicciata e i capelli arruffati di Jane. Quando infine lei sollevò lo sguardo, lo fece quasi con aria di sfida. Allora, sono qui. Prendere o lasciare. Crowe si diresse con la sua solita boria alla testa del tavolo. «Bene, siamo tutti qui. È ora di scambiarsi un po' d'informazioni», disse guardando Jane. «Sentiamo prima cos'ha da dirci l'FBI», replicò lei. Dean aprì la valigetta che aveva portato con sé, estrasse una cartellina e la porse a Jane. «Quella fotografia è stata scattata dieci giorni fa a Providence, nel Rhode Island», spiegò. Jane aprì la cartellina. Maura, seduta al suo fianco, vide perfettamente l'immagine. Ritraeva una scena del crimine, un uomo raggomitolato in posizione fetale nel baule di un'auto. Sulla moquette color daino c'erano schizzi di sangue. La faccia della vittima era incredibilmente intatta, gli occhi aperti e la pelle della parte sottostante aveva assunto una colorazione purpurea per il livor mortis. «La vittima è Howard Redfield, maschio, bianco, divorziato, di Cincinnati», affermò Dean. «La causa del decesso è un'unica ferita da arma da
fuoco nell'osso temporale sinistro. Aveva inoltre fratture multiple di entrambe le rotule, provocate da un corpo contundente, forse da un martello. Su entrambe le mani, legate con nastro adesivo dietro la schiena, c'erano ustioni gravi.» «È stato torturato», osservò Jane. «Sì, e a lungo.» Il detective Rizzoli si dimenò sulla sedia, pallida in volto. Maura era l'unica persona nella stanza che sapesse la ragione di quel pallore e la osservò preoccupata. Vide sul suo volto la lotta disperata, lo sforzo enorme che compiva per controllare la nausea. «È stato trovato morto nel baule della sua auto», proseguì Dean. «La macchina era parcheggiata a circa due isolati dalla stazione dei pullman a Providence. È soltanto a un'ora, un'ora e mezzo da qui.» «Ma è una giurisdizione diversa», intervenne Crowe. Dean annuì. «Per questo la sua morte non è balzata alla vostra attenzione. L'assassino potrebbe anche aver guidato fino a Providence con la vittima nel baule, aver lasciato la macchina lì e preso un pullman per tornare a Boston.» «Per tornare a Boston? Perché pensa che sia partito di qui?» domandò Maura. «È solo un'ipotesi. Non sappiamo dove si sia verificato in realtà l'omicidio. Non siamo nemmeno sicuri dei movimenti del signor Redfield nelle ultime settimane. Vive a Cincinnati, ma viene ritrovato morto nel New England. La sua carta di credito non ci ha fornito informazioni utili, nessuna traccia di dove sia stato. Sappiamo che un mese fa ha prelevato una grossa somma in contanti dal conto corrente e che poi ha lasciato casa sua.» «Sembra una persona in fuga, che non vuol essere rintracciata», commentò Maura. «Oppure spaventata.» Dean guardò la foto. «Ovviamente, aveva ragione di esserlo.» «Dicci di più della vittima», disse Jane che aveva recuperato il controllo e riusciva a guardare impassibile la foto. «Il signor Redfield era uno dei vicepresidenti della Octagon Chemicals, responsabile delle operazioni estere», spiegò Dean. «Due mesi fa ha rassegnato le dimissioni, a quanto pare per ragioni personali.» «La Octagon?» chiese Maura. «Sono finiti sui giornali. Non sono attualmente sotto inchiesta da parte della commissione Titoli e cambi?» Dean annuì. «La divisione di vigilanza della commissione ha denunciato
la Octagon per violazioni multiple, tra cui transazioni illegali per miliardi di dollari.» «Miliardi?» osservò Jane. «Uau!» «La Octagon è una grande multinazionale con venti miliardi di dollari di vendite l'anno. Parliamo di un pesce molto grosso.» Jane guardò la foto. «E la vittima nuotava nelle sue acque. Conosceva quel che accadeva dietro le quinte. Pensi che costituisse un problema per la Octagon?» «Due settimane fa», rispose Dean, «il signor Redfield ha chiesto un appuntamento per parlare con i funzionari del dipartimento di Giustizia.» «Cavoli», esclamò Crowe con una risata. «Altro che se costituiva un problema.» «Aveva chiesto che i funzionari lo incontrassero qui, a Boston.» «Perché non a Washington?» domandò Jane. «Ha detto che c'erano altre persone intenzionate a rilasciare dichiarazioni, che l'incontro doveva avvenire qui. Quello che non sappiamo è perché abbia contattato il dipartimento della Giustizia invece di andare direttamente alla commissione Titoli e cambi, dato che presumiamo avesse a che fare con l'inchiesta Octagon.» «Ma non ne siete certi?» «No, perché non si è mai presentato all'appuntamento. Era già stato ucciso.» «Ehi, quando puzza di omicidio su commissione e sembra un omicidio su commissione...» «Che cosa ha a che fare tutto questo con la Signora dei ratti?» domandò Jane. «Ci sto arrivando», rispose Dean e guardò Maura. «Lei ha effettuato l'autopsia. Qual è la causa del decesso?» «Una ferita d'arma da fuoco al petto», rispose Maura. «I frammenti del proiettile sono penetrati nel cuore, si è verificata un'emorragia massiva nel pericardio che ha bloccato la funzione di pompaggio del cuore. Si chiama tamponamento pericardico.» «E che tipo di proiettile è stato usato?» Maura ricordò la radiografia toracica della Signora dei ratti, la pioggia di frammenti del proiettile, simili a una galassia di stelle, disseminati in entrambi i polmoni. «Era un Glaser blue-tip», rispose. «Camicia in rame, contenente pallini metallici. Concepito per frammentarsi all'interno del corpo, difficilmente passa da parte a parte.» Dopo un attimo di silenzio,
aggiunse: «E un proiettile che ha effetti devastanti». Dean indicò con un cenno del capo la foto di Howard Redfield, raggomitolato e coperto di sangue nel baule della sua macchina. «Il signor Redfield è stato ucciso con un Glaser blue-tip, sparato dalla stessa arma che ha ucciso la vostra Jane Doe.» Per qualche istante nessuno parlò. Poi Jane obiettò, incredula: «Ma abbiamo appena ipotizzato che si tratti di un omicidio su commissione. Dell'approccio che la Octagon usa per tappare la bocca a chi parla troppo. L'altra vittima, la Signora dei ratti...» «Il detective Rizzoli ha ragione», affermò Maura. «La Signora dei ratti è la vittima meno probabile che si possa immaginare per un omicidio commissionato da una grande industria.» «Eppure», replicò Dean, «la pallottola che l'ha uccisa è stata sparata dalla stessa arma che ha ucciso Howard Redfield.» «Così è entrato in gioco l'agente Dean. Ho richiesto un'analisi Drugfire sulla camicia di rame della pallottola blue-tip che lei ha estratto dal petto della vittima» intervenne Crowe. Analogamente all'Afis, il database nazionale delle impronte dell'FBI, il Drugfire era un archivio centralizzato che raccoglieva le prove concernenti le armi da fuoco: i segni e le striature dei proiettili recuperati sulle scene del crimine venivano immagazzinati, e consultando il database si potevano così individuare i crimini commessi dalla stessa arma. «Il Drugfire ha rilevato una corrispondenza perfetta», concluse Dean. Jane scosse la testa stupita. «Perché queste due vittime? Non vedo il nesso.» «Proprio questo rende la morte di Jane Doe tanto interessante», rispose Dean. A Maura non piacque l'uso di quella parola, interessante. implicava che alcune morti non lo fossero, che non fossero degne di particolare considerazione. Le vittime di certo non sarebbero state d'accordo. Si concentrò sulla foto, una ripugnante macchia di sangue sul tavolo della sala riunioni. «La nostra Jane Doe è estranea al contesto», affermò. «Dottoressa Isles?» «Esiste una ragione logica per l'uccisione di Howard Redfiled: probabilmente aveva intenzione di parlare all'inchiesta della commissione Titoli e cambi. Le torture a cui è stato sottoposto ci dicono che la sua morte non è stata dovuta a una rapina andata male. L'assassino voleva qualcosa da lui: punirlo, forse, oppure estorcergli informazioni. Ma in che modo Jane
Doe - con grande probabilità un'immigrata illegale - sarebbe coinvolta nella vicenda? Perché qualcuno avrebbe voluto ucciderla?» «Questo è il problema, giusto?» Dean guardò Rizzoli. «So che avete un altro caso che potrebbe essere legato a questi due.» Il suo sguardo parve agitarla. Jane scosse il capo nervosa. «È un caso che sembra assolutamente scollegato.» «Il detective Crowe mi ha detto che due suore sono state aggredite nel loro convento», proseguì Dean. «A Jamaica Plain.» «Ma il criminale non ha usato un'arma da fuoco. Le suore sono state percosse, pensiamo con un martello. Sembra un raptus. Opera di uno squilibrato che odia le donne.» «Forse voleva farvi credere proprio questo. Per nascondere il legame con gli altri omicidi.» «Sì, be', ha funzionato. Finché la dottoressa Isles non è arrivata a formulare la diagnosi di lebbra per Jane Doe. È emerso che una delle religiose aggredite, suor Ursula, ha lavorato in un villaggio di lebbrosi in India.» «Un villaggio che non esiste più», aggiunse Maura. Dean la guardò. «Cosa?» «Potrebbe essersi trattato di un massacro dovuto a motivi religiosi. Sono state uccise quasi cento persone e il villaggio è stato ridotto in cenere.» Dopo un po', Maura aggiunse: «Suor Ursula è l'unica sopravvissuta». Non aveva mai visto Gabriel Dean tanto sorpreso. Di solito, era lui quello che serbava i segreti ed elargiva le informazioni. Quella notizia sembrava averlo lasciato momentaneamente senza parole. Allora sferrò un secondo colpo. «Credo che Jane Doe venisse proprio da quel villaggio indiano.» «Mi aveva detto di ritenere che fosse latina», disse Crowe. «Era solo un'ipotesi, basata sulla pigmentazione della cute.» «Cambia ipotesi in relazione alle circostanze?» «No, le ho cambiate in base a quanto è emerso dall'autopsia. Ricorda quel frammento di filo giallo che aveva attaccato al polso?» «Sì. La Capelli e fibre ha detto che è di cotone, probabilmente un semplice cordino.» «Portare un cordino al polso è un modo per allontanare il malocchio: è un'usanza indù.» «Di nuovo l'India», commentò Dean. Maura annuì. «Torniamo sempre lì.» «Una suora e un'immigrata illegale con la lebbra?» domandò Crowe.
«Come le colleghiamo all'omicidio commissionato da un'industria?» Scosse la testa. «I professionisti non entrano in gioco se non c'è molto da guadagnare.» «O molto da perdere», precisò Maura. «Se sono tutti omicidi su commissione», affermò Dean, «potete star certi di una cosa: che i progressi delle vostre indagini sono seguiti con molta attenzione. Dovete controllare ogni informazione sui casi perché qualcuno sta osservando ogni mossa della polizia di Boston.» E sta osservando anche me, pensò Maura, raggelata all'idea. Era così in vista: sulle scene del crimine, al telegiornale, quando saliva in macchina. Era sempre sotto gli occhi dei media, ma ora pensava ad altri occhi che forse la sorvegliavano, la seguivano. Ricordava la sensazione provata al buio, da Mama Cortina: la fredda percezione di terrore della preda che s'accorge all'improvviso d'essere inseguita. «Devo vedere l'altra scena del crimine. Il convento dove sono state aggredite le suore», affermò Dean e, guardando Jane, chiese: «Mi puoi accompagnare?» Per un istante il detective Rizzoli non rispose. Rimase immobile, lo sguardo fisso sulla foto di Howard Redfield raggomitolato nel baule dell'auto. «Jane?» Lei inspirò e raddrizzò la schiena, come se avesse improvvisamente trovato una nuova fonte di coraggio, di forza d'animo. «Andiamo», rispose e si alzò. Guardando Dean, esclamò: «Suppongo siamo di nuovo una squadra». 15 Posso affrontare la situazione. Posso affrontare Gabriel. Jane Rizzoli guidò fino a Jamaica Plain con lo sguardo fisso sulla strada e la mente su Gabriel Dean. Senza preavviso, era ricomparso nella sua vita e lei era ancora troppo stordita per capire che cosa provasse. Aveva un peso allo stomaco e le mani intorpidite. Solo un giorno prima si era convinta di aver superato il momento peggiore di nostalgia, che con un po' di tempo e molte distrazioni si sarebbe forse gettata la loro storia alle spalle. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Adesso invece Gabriel era di nuovo in vista, e ben radicato nella sua mente.
Fu la prima ad arrivare alla Graystones Abbey. Rimase seduta nell'auto parcheggiata e lo aspettò con i nervi tesi, mentre la sensazione d'ansia si trasformava in nausea. Forza, maledizione, concentrati sul lavoro. Vide l'auto che Gabriel aveva noleggiato parcheggiare dietro la sua. Jane scese subito e sentì con gioia il vento che le sferzava impietoso il viso. Quanto più terribile era il freddo, tanto meglio sarebbe stato, le avrebbe messo un po' di giudizio. Lui usci dall'auto e lei lo salutò con un cenno deciso del capo, come si fa tra colleghi. Poi si voltò e suonò la campana. Niente chiacchiere, niente parole imbarazzate. Jane passò subito al lavoro perché era l'unico modo che conosceva per affrontare quell'incontro. Fu sollevata quando una suora spuntò subito dall'edificio e avanzò nella neve verso il cancello. «È suor Isabel», disse Jane. «Ti sembrerà strano, ma è una delle più giovani.» La suora li guardò furtiva tra le sbarre, gli occhi fissi sul partner del detective Rizzoli. «Questo è l'agente Gabriel Dean dell'FBI», disse lei. «Devo mostrargli soltanto la cappella. Non vi disturberemo.» Suor Isabel aprì il cancello per farli entrare e questo, richiudendosi, emise un inesorabile clang. Un suono freddo e definitivo, di reclusione. La religiosa rientrò immediatamente nell'edificio lasciando i due visitatori nel cortile. Soli. Jane affrontò subito quel silenzio riepilogando il caso. «Non siamo sicuri del punto d'accesso», disse. «La neve ha coperto eventuali impronte, ma non abbiamo trovato pezzi d'edera spezzati che indicassero uno scavalcamento del muro. Il cancello principale è sempre chiuso a chiave, perciò se è passato di lì, qualcuno all'interno dell'abbazia gli deve aver aperto. Il che è una violazione delle regole del convento. Avrebbe dovuto farlo di notte, quando nessuno poteva vedere.» «Non avete testimoni?» «Nessuno. All'inizio abbiamo pensato che fosse stata la suora più giovane, Camille, ad aver aperto il cancello.» «Perché Camille?» «Per quanto abbiamo scoperto all'autopsia.» Jane girò lo sguardo verso il muro, per evitare quello di Gabriel, quando disse: «Era incinta. In uno stagno dietro l'abbazia abbiamo trovato un neonato morto». «E il padre?»
«Ovviamente, chiunque sia, è uno dei principali sospettati. Non lo abbiamo ancora identificato. Stiamo aspettando i risultati del test del DNA. Ma ora, dopo quello che ci hai appena detto, sembra che abbiamo seguito la pista sbagliata.» Jane fissò i muri che li circondavano, il cancello che sbarrava il passo al mondo, e davanti ai suoi occhi iniziò a svolgersi una sequenza alternativa di eventi, una sequenza diversa da quella che aveva immaginato quando aveva messo piede per la prima volta sulla scena del crimine. Se non è stata Camille ad aprire il cancello... «Allora, chi ha fatto entrare l'assassino nell'abbazia?» chiese Dean leggendole incredibilmente nel pensiero. Jane si accigliò guardando il cancello, pensando alla neve che spazzava il cortile acciottolato. «Ursula indossava stivali e cappotto...» Si voltò e guardò l'edificio, lo immaginò nelle ore buie prima dell'alba, le finestre scure, le suore addormentate nelle stanze. Il cortile silenzioso, fatta eccezione per il vento. «Quando è uscita stava già nevicando», disse. «Era vestita per proteggersi dal freddo. Ha attraversato il cortile, diretta al cancello, dove qualcuno la stava aspettando.» «Là fuori c'era qualcuno che conosceva», osservò Dean. «Qualcuno che sapeva di dover incontrare.» Rizzoli annuì. Poi si voltò verso la cappella e prese a camminare, creando profondi buchi nella neve con i suoi stivali. Dean la seguiva a brevissima distanza, ma Jane non pensava più a lui: stava ripercorrendo le tracce di una donna condannata a morire. Una notte di bufera, cade la prima neve della stagione. Le pietre sono scivolose sotto i tuoi stivali. Cammini senza far rumore perché non vuoi che le altre sorelle si accorgano che incontri qualcuno. Qualcuno per il quale sei disposta a infrangere le regole. Ma è buio e non ci sono lampade per illuminare il cancello. Perciò non lo vedi in faccia, non puoi essere certa che il visitatore che aspetti sia... Alla fontana, Jane si fermò all'improvviso e sollevò lo sguardo verso la fila di finestre che davano sul cortile. «Che c'è?» chiese Dean. «La stanza di Camille», spiegò lei indicandogliela. «Lassù.» Lui alzò lo sguardo verso la camera. Il vento pungente gli aveva arrossato il volto e scompigliato i capelli. Guardarlo fu un errore, perché all'improvviso Jane sentì un tale desiderio delle sue carezze che dovette voltarsi
dall'altra parte e premersi il pugno sul ventre per contrastare il senso di vuoto che avvertiva. «Potrebbe aver visto qualcosa dalla stanza», commentò lui. «La luce nella cappella. Era accesa quando sono stati trovati i corpi.» Jane sollevò lo sguardo verso la finestra di Camille e si ricordò del lenzuolo macchiato di sangue. Si sveglia perché si deve cambiare l'assorbente. Scende dal letto, va in bagno e si cambia. Quando torna in camera, nota la luce che brilla oltre le finestre dai vetri colorati. Una luce che non deve essere accesa. Si voltò verso la cappella, attirata dall'immagine che ora vedeva: la giovane Camille che usciva dall'edificio principale e percorreva tremando il passaggio coperto, pentendosi forse di non aver indossato il cappotto nonostante la brevità del tragitto. Seguì quel fantasma all'interno della cappella. Lì si fermò, in piedi, al buio. Le luci erano spente e le panche altro non erano che strisce orizzontali d'ombra. Dean le rimase accanto silenzioso, anch'egli ridotto a un fantasma, mentre osservava lo svolgersi dell'ultima scena. L'eterea Camille varca la soglia, bianca in volto come il latte. Abbassa lo sguardo inorridita. Suor Ursula è stesa ai suoi piedi e le pietre sono macchiate di sangue. Forse Camille non capisce subito che cos'è accaduto, all'inizio pensa che suor Ursula sia semplicemente caduta e abbia battuto la testa. O forse sa già, quando vede la prima chiazza di sangue, che il male è penetrato tra le loro mura, che ora le sta alle spalle, vicino alla porta, e la osserva. Sa che le si avvicina. Il primo colpo le fa perdere l'equilibrio. Pur stordita, riesce ugualmente a scappare. Avanza nell'unica direzione libera, lungo il corridoio, verso l'altare, dove incespica, cadendo in ginocchio, in attesa del colpo finale. Quando tutto è finito e la giovane Camille giace morta, l'assassino si volta e si avvicina alla prima vittima. A Ursula. Ma non finisce il lavoro, la lascia viva. Perché? Jane guardò le pietre su cui Ursula era caduta. Immaginò l'aggressore che si chinava per verificare che fosse morta. Al che s'immobilizzò, ricordando ciò che le aveva detto Maura. «L'assassino non ha sentito il polso», disse. «Cosa?» «Suor Ursula non aveva il polso carotideo destro», spiegò Jane guardan-
dolo. «L'assassino ha creduto che fosse morta.» Percorsero il corridoio superando le file di panche, seguendo gli ultimi passi di Camille, e arrivarono al punto in cui era caduta, vicino all'altare. Rimasero lì in silenzio, gli occhi incollati al pavimento. Anche se al buio non le potevano vedere, nelle fessure tra le pietre c'erano sicuramente ancora tracce di sangue. Tremando, Jane sollevò lo sguardo e vide che Dean la stava osservando. «È tutto quel che c'è da vedere», disse. «A meno che tu non voglia parlare con le suore.» «Io voglio parlare con te.» «Sono qui.» «No, non è vero. Il detective Rizzoli è qui. Io voglio parlare con Jane.» Lei scoppiò a ridere. Era un suono blasfemo in quella cappella. «Lo dici come se avessi una doppia personalità.» «Questo non si discosta molto dal vero. Ti sforzi tanto di recitare la parte della poliziotta che finisci per cancellare la donna. Ed è la donna che sono venuto a trovare.» «Hai aspettato un bel po'.» «Perché ce l'hai con me?» «Non ce l'ho con te.» «Hai uno strano modo di accogliermi a Boston.» «Forse perché non ti sei degnato di avvertirmi del tuo arrivo.» Lui sospirò, emettendo uno sbuffo di vapore. «Non possiamo sederci e parlare un momento?» Jane si diresse alla prima panca e si lasciò cadere sul sedile di legno. Quando Gabriel le si sedette accanto, fissò dritta davanti a sé, terrorizzata dall'idea di guardarlo. Dai sentimenti che Dean risvegliava nel suo cuore. Il solo fatto di sentire il suo profumo la faceva star male dal desiderio. Quell'uomo aveva condiviso il suo letto e le sue carezze, il suo sapore e le sue risate la ossessionavano ancora in sogno. Il frutto della loro unione cresceva dentro lei. Si premette la mano sul ventre per lenire un dolore segreto, improvviso. «Come stai, Jane?» «Bene. Sempre presa.» «E la medicazione sulla testa? Cos'è successo?» «Oh, questa», disse lei toccandosi la fronte e stringendosi nelle spalle. «Un piccolo incidente all'obitorio. Sono scivolata e caduta.»
«Hai l'aria stanca.» «I complimenti non sono il tuo forte, eh?» «Era solo un'osservazione.» «Sì, be', sono stanca, certo. È una di quelle settimane terribili. Oltretutto il Natale si avvicina e non ho ancora comperato i regali per i miei.» Lui la osservò per un istante e lei distolse lo sguardo, non volendo guardarlo negli occhi. «Non sei contenta di lavorare di nuovo con me, vero?» Lei non rispose. Non negò. «Perché non mi dici che diavolo c'è che non va?» sbottò infine Dean. La rabbia nella sua voce la colse alla sprovvista. Gabriel non era un uomo che rivelava spesso i suoi sentimenti. Era una cosa che un tempo la faceva infuriare, perché aveva sempre l'impressione di essere lei quella priva di autocontrollo, quella sul punto di scoppiare. La loro relazione era iniziata perché lei aveva fatto la prima mossa, non lui. Lei aveva corso tutti i rischi, messo in gioco il suo orgoglio, e adesso? Si ritrovava innamorata di un uomo che ai suoi occhi restava un mistero e che le aveva dimostrato un unico sentimento: la rabbia che ora percepiva nella sua voce. Anche Jane s'arrabbiò. «Non ha senso rivangare», rispose. «Dobbiamo lavorare insieme, non abbiamo scelta. Tutto il resto... adesso non sono in grado di affrontarlo.» «Che cosa non sei in grado di affrontare adesso? Il fatto che abbiamo dormito insieme?» «Sì.» «Allora non sembrava turbarti.» «È successo, e basta. Sono certa che per te è stato lo stesso.» Dean tacque. Punto sul vivo?, si chiese Jane. Ferito? Non credeva fosse possibile ferire un uomo senza sentimenti. Quando Gabriel scoppiò improvvisamente a ridere, restò stupita. «Quante stronzate racconti, Jane.» Lei si voltò e lo guardò - lo guardò davvero - e restò senza fiato per gli stessi motivi per cui un tempo si era sentita attratta da lui: la mascella forte, gli occhi blu, l'aria autorevole. Poteva insultarlo quanto voleva, ma aveva sempre la sensazione che fosse lui a condurre il gioco. «Di che cosa hai paura?» chiese lui. «Non so di che parli.» «Che ti ferisca? Che sia io a decidere di andarmene?» «Tanto per cominciare, non sei mai stato presente.»
«D'accordo, questo è vero. Non ho potuto. Non con il lavoro che abbiamo.» «E tutto si riduce a questo, vero?» chiese Jane alzandosi in piedi per riattivare la circolazione nei piedi intirizziti. «Tu sei a Washington, io sono qui. Tu hai il tuo lavoro, a cui non rinunceresti. Io ho il mio. Nessun compromesso.» «Messa così sembra una dichiarazione di guerra.» «No, è solo logica. Sto cercando d'essere pratica.» Jane si avviò verso l'uscita della cappella. «E di proteggerti.» «Non dovrei?» chiese voltandosi a guardarlo. «Il mondo intero non è lì per ferirti, Jane.» «Perché io non glielo permetto.» Uscirono dalla cappella, riattraversarono il cortile e oltrepassarono il cancello che si richiuse con un forte rumore metallico. «Be', non vedo lo scopo di cercare di scalfire quella corazza», affermò Dean. «Io ti voglio venire incontro, ma tu devi fare la tua parte. Anche tu devi cedere un po'.» Le voltò le spalle e si diresse alla macchina. «Gabriel?» Lui si fermò e la guardò. «Che cosa pensavi sarebbe successo stavolta tra noi?» «Non lo so. Almeno, che saresti stata contenta di vedermi.» «E poi?» «Che avremmo scopato come ricci.» Al che Jane scoppiò a ridere e scosse la testa. Non mi tentare, non mi ricordare quello che mi e mancato. Lui la guardò al di sopra del tetto dell'auto. «Mi accontenterò della prima cosa, Jane», disse. Poi salì in macchina e chiuse la portiera. Lei lo guardò allontanarsi e pensò: è proprio scopare come ricci che mi ha messa nei guai. Tremando, sollevò lo sguardo al cielo. Erano solo le quattro, ma la sera sembrava già calare, portarsi via l'ultima luce grigia del giorno. Jane non aveva i guanti e il vento era tanto pungente che le gelò le dita mentre prendeva le chiavi e apriva la portiera. Infilandosi in macchina, armeggiò per inserire la chiave nel blocchetto di accensione, ma aveva le mani intirizzite e non sentiva quasi più le dita. Poi si fermò, con la chiave inserita. Pensò d'un tratto alle mani dei lebbrosi, alle dita smangiate, ridotte a
moncherini. E ricordò vagamente una domanda riguardante le mani di una donna, una frase tra le tante che al momento aveva ignorato. Mi ha detto che parlo troppo... perché le ho chiesto come mai quella signora non aveva le dita. Il detective Rizzoli scese dall'auto e tornò al cancello dove suonò più volte la campana. Alla fine apparve suor Isabel. L'anziano volto che la scrutò tra le sbarre di ferro non sembrava lieto di vederla. «Devo parlare con la bambina», disse Jane. «Con la figlia della signora Otis.» Trovò Noni seduta tutta sola in una vecchia aula in fondo al corridoio. Dondolava le gambe robuste e, di fronte a lei, sulla cattedra malconcia, aveva un arcobaleno di matite colorate. Faceva più caldo nella cucina dell'abbazia, dove la signora Otis stava preparando la cena per le suore, e l'aroma di biscotti al cioccolato appena sfornati aveva raggiunto persino quella tetra ala dell'edificio, eppure Noni aveva scelto di rintanarsi in quella stanza fredda, lontano dalla lingua tagliente e dagli sguardi di rimprovero della madre. Non sembrava nemmeno accorgersi del gelo. Teneva in mano una matita verde lime, nella tipica posa dei bambini, e aveva la lingua fuori tanto era concentrata a disegnare una serie di scintille che scaturivano dalla testa di un uomo. «Sta per esplodere», disse. «I raggi di morte gli stanno cuocendo il cervello. Lui esploderà. Come quando cuoci le cose nel microonde ed esplodono, così.» «I raggi di morte sono verdi?» domandò Jane. Noni sollevò lo sguardo. «Devono essere di colore diverso?» «Non lo so. Ho sempre pensato che fossero, ehm, argentati.» «Non ho l'argento. Conrad me l'ha preso a scuola e non me l'ha più ridato.» «Andranno bene anche i raggi verdi.» Rassicurata, Noni riprese a disegnare. Scelse la matita blu e allungò i raggi, che ora assomigliavano a una pioggia di frecce scagliata sul malcapitato. Sul tavolo c'era una lunga serie di malcapitati: i disegni mostravano astronavi che sparavano fuoco e alieni blu che tagliavano teste. Non erano affatto amichevoli E.T. Agli occhi di Jane, la stessa bambina che li disegnava era una creatura aliena, un piccolo gremlin con due occhi castani da
zingara che si nascondeva in una stanza dove nessuno l'avrebbe disturbata. Aveva scelto un luogo deprimente come rifugio. L'aula pareva inutilizzata da tempo, e le sue pareti spoglie erano rovinate da una sfilza di impronte e pezzi di nastro adesivo ingiallito. I vecchi banchi per gli scolari erano impilati nell'angolo più lontano e sul pavimento di legno si notavano chiaramente i segni dell'usura. L'unica luce entrava dalle finestre e tingeva ogni cosa di un grigio invernale. Noni aveva iniziato l'ennesimo disegno con cui raffigurava le atrocità compiute dagli alieni. La vittima dei raggi verde lime aveva ora uno squarcio in testa, da cui fuoriuscivano grumi purpurei. Sopra di lui c'era un fumetto con un grido di morte. AHHHHHH! «Noni, ricordi la sera in cui abbiamo parlato?» I riccioli castani ondeggiarono su e giù, in segno di assenso. «Non sei tornata a trovarmi.» «Sì, be', ho dovuto correre di qua e di là.» «Dovresti smettere di correre dappertutto, e imparare a stare seduta tranquilla.» In quell'affermazione si coglieva il rimprovero di una adulto. Smetti di correre dappertutto, Noni! «E non dovresti essere tanto triste», aggiunse, prendendo un'altra matita. Jane osservò in silenzio la bambina che disegnava altri schizzi rosso sangue tutt'intorno alla testa che esplodeva. Gesù, pensò. Questa ragazzina lo vede. Questo impavido, piccolo gremlin vede più di chiunque altro. «Hai una vista molto acuta», commentò. «Vedi molte cose, eh?» «Una volta ho visto esplodere una patata. Nel microonde.» «La volta scorsa ci hai detto alcune cose, su suor Ursula. Hai detto che ti aveva rimproverata.» «Sì, è vero.» «Ha detto che eri stata scortese perché avevi fatto domande sulle mani di una donna, ricordi?» Noni sollevò lo sguardo, sbirciandola da sotto la massa di riccioli. «Pensavo ti interessasse solo sapere di suor Camille.» «Mi interessa sapere anche di Ursula. E della donna che aveva un problema alle mani. Che cosa intendevi dire?» «Non aveva le dita.» Noni prese una matita nera e disegnò un uccello sopra l'uomo che esplodeva. Un uccello da preda, con enormi ali nere. «Avvoltoi», disse. «Ti mangiano quando sei morto.»
Guarda un po', pensò Jane, mi ritrovo a basarmi sulla parola di una bambina che disegna alieni e raggi di morte. Chinandosi verso di lei, le chiese con tono calmo: «Dove hai visto questa donna, Noni?» Noni posò la matita ed emise un sospiro esasperato. «D'accordo, visto che lo devi sapere.» Poi saltò giù dalla sedia. «Dove vai?» «Ti mostro dov'era la donna.» Il giubbotto era troppo grande per lei, tanto da farla sembrare un piccolo Bibendum che avanzava a fatica nella neve. Jane seguì le impronte dei suoi stivali di gomma, sentendosi come una recluta che marciava dietro all'ostinato generale. Noni la condusse nel cortile dell'abbazia, oltre la fontana dove la neve si era accumulata fin quasi a trasformarla, strato dopo strato, in una torta nuziale. Al cancello principale si fermò e indicò con il dito. «Era là fuori.» «Fuori dal cancello?» «A-ha. Aveva una grossa sciarpa sulla faccia, come un rapinatore di banche.» «Allora non l'hai vista in faccia?» La bambina scosse la testa, facendo ondeggiare i riccioli. «Questa signora ti ha parlato?» «No, lo ha fatto l'uomo.» Jane la fissò. «C'era un uomo con lei?» «Mi ha chiesto di farli entrare, perché dovevano parlare con suor Ursula. Ma è contro le regole e io gliel'ho detto. Se una suora non rispetta le regole, viene buttata fuori. La mamma dice che le suore non hanno altro posto dove andare, perciò rispettano sempre le regole perché hanno paura di andare fuori.» Noni tacque per un istante. Poi sollevò lo sguardo e con tono orgoglioso aggiunse: «Io invece vado sempre fuori». Questo perché non hai paura di niente, pensò Jane. Sei coraggiosa. Noni iniziò a camminare nella neve in linea retta, pestandola con i suoi stivali rosa come un piccolo soldato. Formò una traccia, fece dietro front e tornò indietro, sempre a passo di marcia, creando una seconda traccia parallela. Si crede invincibile, pensò Jane, ma è così piccola e vulnerabile. Una ragazzina con un giubbotto troppo grande per lei. «Poi cos'è successo, Noni?» La bambina tornò indietro pestando i piedi nella neve e si bloccò d'un
tratto, con lo sguardo fisso sugli stivali ricoperti di neve. «La signora mi ha passato una lettera attraverso il cancello.» Chinandosi in avanti, sussurrò: «E ho visto che non aveva le dita». «Hai dato a suor Ursula la lettera?» La bambina annuì, e i suoi riccioli ondeggiarono come se in testa avesse una serie di molle Slinky. «E lei è uscita. Subito.» «Ha parlato a quelle persone?» La bambina scosse il capo. «Perché no?» «Perché quand'è uscita, se n'erano già andate.» Jane si voltò e guardò il marciapiede dove i due visitatori si erano fermati a implorare una bambina riluttante affinché li facesse entrare. All'improvviso le si rizzarono tutti i peli sul collo. La Signora dei ratti. È stata qui. 16 Il detective Rizzoli uscì dall'ascensore dell'ospedale, superò il cartello TUTTI I VISITATORI SI DEVONO REGISTRARE e varcò spedita la doppia porta dell'unità di terapia intensiva. Era l'una del mattino e le luci del reparto erano abbassate per permettere ai pazienti di dormire. Venendo dal corridoio illuminato a giorno, si ritrovò in una sala in cui le infermiere le apparvero come sagome senza volto. Solo una stanza dei pazienti era bene illuminata e, come un faro, attirò la sua attenzione. La poliziotta di colore a guardia fuori dalla stanza la salutò. «Ehi, detective, è arrivata presto.» «Non ha ancora detto niente?» «Non può. Ha ancora il tubo in gola. Ma è sicuramente sveglia. Ha gli occhi aperti e ho sentito un'infermiera dire che risponde ai comandi. Tutti sembrano molto sorpresi che si sia risvegliata.» Il fischio acuto d'allarme dell'apparecchio per la ventilazione assistita indusse Jane a guardare oltre la soglia, verso il capannello di medici radunati attorno al letto. Riconobbe il neurochirurgo, il dottor Yuen, e l'internista, il dottor Sutcliffe. La sua coda di cavallo bionda era l'unico dettaglio sconcertante in quella riunione di professionisti dall'aria cupa. «Che succede là dentro?» «Non lo so. Forse hanno un problema con la pressione sanguigna. Il dottor Sutcliffe è arrivato non appena la situazione ha cominciato a sfuggire a
ogni controllo. Poi è arrivato il dottor Yuen e da quel momento sono sempre stati con lei.» La poliziotta scosse il capo. «Non penso sia buon segno. Quelle macchine continuano a squillare come matte.» «Gesù, non mi dica che la perdiamo proprio ora che si è risvegliata.» Jane entrò nella minuscola stanza dove le luci erano tanto intense da ferirle gli occhi stanchi. Non riuscì a vedere suor Ursula, nascosta dalla fitta schiera di personale, ma scorse i monitor sopra il letto, il battito cardiaco che rimbalzava come un sasso a pelo d'acqua. «Sta cercando di togliersi il tubo endotracheale!» esclamò un'infermiera. «Legatele meglio la mano!» «...Ursula, si calmi. Cerchi di stare tranquilla.» «La sistolica è scesa a ottanta...» «Perché è così rossa in volto?» chiese Yuen. «Guardate.» Lanciò un'occhiata di lato e l'apparecchio per la ventilazione assistita fischiò. «C'è troppa resistenza nelle vie aeree», rispose un'infermiera. «Sta contrastando la macchina.» «La pressione sta scendendo, dottor Yuen. La sistolica è a ottanta.» «Una flebo di dopamina, subito.» Un'infermiera notò all'improvviso il detective Rizzoli in piedi sulla soglia. «Signora, deve uscire.» «È cosciente?» chiese lei. «Esca dalla stanza.» «Me ne occupo io», disse Sutcliffe. Afferrò Jane per un braccio e la sua presa non fu gentile quando la condusse fuori dalla stanza. Poi chiuse la tenda, impedendo a chiunque di vedere la paziente. In piedi al buio Rizzoli si sentì osservata dalle altre infermiere presenti dell'unità. «Detective Rizzoli», disse Sutcliffe, «ci deve lasciar fare il nostro lavoro.» «Anch'io cerco di fare il mio. Lei è l'unica testimone.» «Ed è in condizioni critiche. Dobbiamo aiutarla a superare la crisi prima che qualcuno le possa parlare.» «Ma è cosciente?» «Sì.» «Capisce quello che succede?» Lui tacque per un istante. Nella luce fioca dell'unità di terapia intensiva Jane non riusciva a cogliere la sua espressione. Tutto ciò che vedeva era la sagoma delle sue ampie spalle e il riflesso dei suoi occhi, illuminati di ver-
de dai monitor adiacenti. «Non saprei. Francamente, non credevo avrebbe ripreso conoscenza.» «Perché la pressione sanguigna sta scendendo? Sta accadendo qualcosa di nuovo?» «Poco fa ha avuto un attacco di panico, probabilmente dovuto al tubo endotracheale. Fa paura, sentirsi un tubo in gola, ma lo dobbiamo mantenere per aiutarla a respirare. Le abbiamo dato un po' di Valium quando la pressione è salita alle stelle e dopo è crollata di colpo.» Un'infermiera scostò la tenda della stanza e chiamò dalla soglia: «Dottor Sutcliffe?» «Sì?» «La pressione non risponde, nemmeno con la dopamina.» Sutcliffe rientrò nella stanza. Dalla porta aperta Jane osservò il dramma che si svolgeva a pochi metri di distanza. Le mani della suora erano chiuse a pugno e i tendini delle braccia apparivano in rilievo, come corde tese, mentre cercava di liberarsi i polsi legati alle sponde del letto. L'anziana donna aveva la sommità del capo avvolta da bende e la bocca nascosta dal tubo endotracheale, ma il volto era chiaramente visibile. Appariva gonfio e le guance avevano assunto un color rosso vivo. Intrappolata sotto una massa di garze e tubi, come una mummia, Ursula aveva gli occhi di un animale braccato, le pupille dilatate dalla paura, lo sguardo che schizzava frenetico di qua e di là, come se cercasse una via di fuga. Le sponde del letto emettevano un forte suono metallico ogni volta che strattonava le cinghie. Poi il busto della donna si sollevò dal letto e scattò l'allarme del monitor cardiaco. Lo sguardo di Jane si posò all'istante sull'apparecchio, dove la linea si era appiattita. «Tutto a posto, tutto a posto!» gridò Sutcliffe. «Ha staccato un elettrodo», aggiunse rimettendolo a posto. Il battito riapparve sul monitor, un rapido bip-bip-bip. «Aumentate la flebo di dopamina», ordinò Yuen. «Somministriamole liquidi.» Rizzoli rimase a guardare mentre l'infermiera apriva interamente la valvola della linea endovenosa, e una cascata di soluzione salina si riversava nelle vene di Ursula. Lo sguardo della suora incrociò quello di Jane in un ultimo sprazzo di consapevolezza. Poco prima che i suoi occhi si appannassero e l'ultima scintilla di coscienza si spegnesse, quello che Jane vi scorse fu una paura immane.
«La pressione ancora non sale! È a sessanta...» I muscoli del volto di Ursula si rilassarono e le mani divennero immobili. Sotto le palpebre che si abbassavano gli occhi erano fissi. Non vedevano più. «Extrasistole!» urlò l'infermiera. «Extrasistole!» Tutti gli sguardi andarono al monitor cardiaco. Il tracciato del cuore, che fino a poco prima batteva rapido ma uniforme sullo schermo, presentava ora una serie di punte. «Tachicardia ventricolare!» esclamò Yuen. «Non c'è pressione! Assenza di perfusione.» «Abbassate la sponda del letto, forza, forza, iniziate le compressioni.» Jane fu spintonata oltre la soglia da un'infermiera che si sporse all'esterno gridando: «Abbiamo un codice blu!» Dalla finestra della stanza, Jane guardò il tumulto che si stava scatenando attorno a Ursula. Vide la testa di Yuen alzarsi e abbassarsi mentre effettuata la CPR, vide iniettare un farmaco dopo l'altro nelle linee endovenose e le confezioni sterili utilizzate cadere sul pavimento. Fissò il monitor. Ora il tracciato si era trasformato in una linea dentellata che attraversava lo schermo. «Carica a duecento!» Nella stanza tutti arretrarono mentre un'infermiera si chinava con le piastre del defibrillatore. Jane vide chiaramente il seno scoperto di Ursula, la pelle rossa, a chiazze, e le parve in certo qual modo sorprendente che una suora avesse un petto tanto prosperoso. Le piastre rilasciarono la scarica. Il busto di Ursula sobbalzò, nonostante fosse tenuto fermo dalle cinghie. La poliziotta a fianco di Jane mormorò: «Ho una brutta sensazione. Non ce la farà». Sutcliffe sollevò ancora una volta lo sguardo verso il monitor, poi incrociò quello del detective Rizzoli oltre la finestra e scosse il capo. Un'ora più tardi Maura arrivò in ospedale. Dopo la telefonata di Jane, era scesa dal letto lasciando Victor addormentato sul cuscino accanto e si era vestita senza farsi la doccia. Mentre saliva in ascensore fino all'unità di terapia intensiva, sentiva il suo profumo sulla pelle e stette quasi male al ricordo del sesso sfrenato di quella sera. Era arrivata in ospedale con ancora l'odore sublime del sesso addosso, con la mente ancora rivolta a corpi caldi, non freddi. Ai vivi, non ai morti. Appoggiandosi alla parete dell'ascen-
sore, chiuse gli occhi e assaporò ancora un po' quei ricordi. Un momento in più di piacere. L'apertura delle porte la fece trasalire. Si raddrizzò di scatto e sbatté le palpebre quando vide le due infermiere in attesa di entrare, poi uscì rapida dalla cabina, tutta rossa in volto. Chissà se si nota?, pensò mentre percorreva il corridoio. Avrò stampata sul volto l'aria colpevole di chi ha fatto sesso. Jane era nella sala di attesa dell'unità di terapia intensiva, seduta scomposta sul divano a sorseggiare un caffè da un bicchiere di plastica. Quando Maura entrò, le lanciò una lunga occhiata come se anche lei avesse percepito qualcosa di diverso. Uno strano rossore sul viso in quella notte in cui una tragedia le aveva chiamate. «Dicono abbia avuto un attacco cardiaco», spiegò Jane. «Le prospettive non sono buone. La stanno mantenendo in vita artificialmente.» «A che ora è scattato il codice blu?» «Verso l'una. Hanno lavorato su di lei per quasi un'ora e sono riusciti a riattivare il battito cardiaco, ma ora è comatosa. Non respira spontaneamente e le pupille non reagiscono.» Jane scosse il capo. «Non penso sia più tra noi.» «Che cosa dicono i medici?» «Be', ci sono pareri contrastanti. Il dottor Yuen non è ancora disposto a staccare la spina, ma il nostro amico hippie pensa che sia già subentrata la morte cerebrale.» «Vuoi dire il dottor Sutcliffe?» «Sì. Il figone con la coda di cavallo. Ha richiesto un EEG in mattinata, per verificare se ci sia attività cerebrale.» «Se non c'è, sarà difficile giustificarne il mantenimento in vita.» Rizzoli annuì. «Supponevo l'avresti detto.» «Ci sono testimoni dell'accaduto?» «Cosa?» «Quando il cuore si è fermato, erano presenti i medici?» A quel punto Jane s'irritò, infastidita dalla freddezza con cui Maura poneva le domande. Posò il bicchiere rovesciando un po' di caffè sul tavolino. «Un'intera schiera. E c'ero anch'io.» «Che cos'ha scatenato il codice blu?» «Hanno detto che la pressione sanguigna prima è salita alle stelle e che poi il polso è impazzito. Quando sono arrivata, la pressione stava già scendendo. Poi il cuore si è fermato. Perciò, sì, l'intero accaduto ha avuto dei
testimoni.» Passarono alcuni istanti. Il televisore era acceso, senza audio. Lo sguardo di Jane si posò sulle notizie della CNN che scorrevano ai piedi dello schermo. Impiegato impazzito spara a quattro persone in una fabbrica di auto nella Carolina del Nord... Fuoriuscita di sostanze chimiche tossiche durante il deragliamento di un treno in Colorado.... Una sequela di disastri nel Paese e noi, eccoci qua, due donne stanche che lottano per superare anche questa notte. Maura si sedette sul divano accanto a lei. «Come stai, Jane? Hai l'aria esausta.» «A pezzi. È come se mi succhiasse tutte le energie. Per me non ne restano più.» Jane fini il caffè in un'unica sorsata e lanciò il bicchiere vuoto nel cestino dei rifiuti mancandolo. Restò semplicemente a fissarlo, troppo stanca per alzarsi e raccoglierlo. «La bambina lo ha identificato», disse Jane. «Cosa?» «Noni.» Rizzoli tacque per un istante. «Gabriel è stato incredibilmente bravo con lei. Mi ha sorpresa: non pensavo ci sapesse fare con i bambini. Sai com'è, è così indecifrabile, così rigido. Invece si è seduto lì con lei ed è riuscito a farla parlare...» Allontanò triste lo sguardo, poi si riprese. «Ha riconosciuto Howard Redfield in fotografia.» «Era lui l'uomo che è andato alla Graystones? Quello con Jane Doe?» Jane annuì. «Ci sono andati insieme. Hanno cercato di entrare, di vederla.» Maura scosse la testa. «Non capisco. Che cosa lega queste tre persone?» «È una domanda a cui solo Ursula avrebbe potuto rispondere», disse Jane alzandosi e infilandosi il cappotto. Poi si voltò verso la porta e si fermò, guardando Maura. «Era sveglia, sai?» «Suor Ursula?» «Poco prima del codice blu, aveva aperto gli occhi.» «Pensi fosse veramente cosciente? Consapevole di quello che succedeva?» «Ha stretto la mano dell'infermiera. Rispondeva ai comandi. Ma non sono mai riuscita a parlarle. Ero lì e lei mi ha guardata poco prima...» tacque, come scossa all'idea. «Sono l'ultima persona che ha visto.» Maura entrò nell'unità di terapia intensiva superando i monitor cardiaci con i loro tracciati verdi, pulsanti, e le infermiere che bisbigliavano fuori
dalle stanze. Quando, durante l'internato, le avevano assegnato i pazienti critici, le visite a tarda notte all'unità di terapia intensiva erano sempre state fonte d'ansia, tra pazienti in extremis ed emergenze che richiedevano decisioni rapide. Anche a molti anni di distanza, quando entrava di notte in un'unità del genere, il polso le accelerava. Quella notte, tuttavia, nessuna crisi l'aspettava: era lì per esaminarne solo i postumi. Trovò il dottor Sutcliffe accanto al letto di Ursula, intento a compilare la cartella. La sua penna terminò lentamente di scrivere e la punta rimase premuta contro il foglio, quasi che lui avesse difficoltà a formulare la frase successiva. «Dottor Sutcliffe?» domandò. Lui la guardò. Il volto abbronzato era segnato dalla fatica. «Il detective Rizzoli mi ha chiesto di venire. Ha detto che pensa di staccarla dagli apparecchi.» «Ancora una volta, la sua visita è un po' prematura», rispose lui. «Il dottor Yuen ha deciso di aspettare un paio di giorni. Vuole innanzitutto vedere l'EEG.» Poi abbassò lo sguardo, concentrandosi sugli appunti. «Ironico, non trova? Ci sono pagine e pagine dedicate ai suoi ultimi giorni sulla terra, ma la sua intera vita può essere riassunta in un breve paragrafo. C'è qualcosa che non va in tutto questo. Qualcosa di odioso.» «Almeno lei conosce i suoi pazienti quando ancora respirano. Io non ho nemmeno quel privilegio.» «Non credo mi piacerebbe il suo lavoro, dottoressa Isles.» «Ci sono giorni in cui anche a me non piace.» «Allora perché lo ha scelto? Perché i morti invece dei vivi?» «Meritano un po' d'attenzione. Vogliono che capiamo perché sono morti.» Sutcliffe guardò Ursula. «Se si sta chiedendo che cosa sia andato storto, glielo posso spiegare. Non abbiamo agito con sufficiente prontezza. Siamo rimasti a guardare mentre cadeva in preda al panico quando invece avremmo dovuto sedarla. Se l'avessimo calmata prima...» «Mi sta dicendo che il codice blu è stato scatenato dal panico?» «Così è iniziato. Prima un aumento brusco della pressione sanguigna, poi una diminuzione altrettanto brusca. Subentra l'aritmia. Ci sono voluti venti minuti per ripristinare il battito.» «Che cosa mostra l'ECG?» «Infarto miocardico acuto. Adesso è in coma profondo. Niente reazioni pupillari, nessuna risposta al dolore profondo. Quasi sicuramente ha subito
danni cerebrali irreversibili.» «È un po' presto per dirlo, non crede?» «Sono realista. Il dottor Yuen spera di recuperarla, ma lui è un chirurgo: vuole le sue belle statistiche. Finché un paziente sopravvive a un intervento, può annoverarlo tra i successi anche se è ridotto a un vegetale.» Maura si avvicinò al letto e si accigliò osservando la paziente. «Perché è edematosa?» «Durante l'emergenza le abbiamo infuso liquidi, per cercare di aumentare la pressione. Per questo è edematosa in volto.» Maura guardò le braccia e vide alcuni ponfi rossastri, rilevati. «Qui sembra esserci un'orticaria in fase di remissione. Che cosa le avete somministrato?» «Il solito cocktail che somministriamo durante le emergenze. Antiaritmici. Dopamina.» «Credo che dovrebbe richiedere un esame farmacologico e tossicologico.» «Come?» «È un caso di arresto cardiaco inspiegato. E quest'orticaria sembra una reazione a un farmaco.» «Non richiediamo un tossicologico solo perché un paziente ha una crisi.» «In questo caso dovreste.» «Perché? Pensa che abbiamo commesso un errore? Che le abbiamo dato qualcosa che non avremmo dovuto?» Ora Sutcliffe era sulla difensiva e la sua fatica si stava trasformando in rabbia. «È la testimone di un crimine», precisò Maura. «L'unica testimone.» «Abbiamo passato un'ora a cercare di salvarle la vita e adesso lei insinua che non siamo affidabili.» «Senta, sto solo cercando di agire in modo accurato.» «D'accordo», rispose lui chiudendo di scatto la cartella. «Richiederò un tossicologico, solo per lei», disse e uscì. Maura rimase nella stanza, lo sguardo fisso su Ursula che giaceva nel suo letto immersa nella luce tenue, sepolcrale, della lampada del comodino. Maura non vide nessuna traccia della CPR: le siringhe usate, le fiale dei farmaci, le confezioni sterili impiegate nel tentativo di rianimarla erano state tutte rimosse. Il petto della paziente si sollevava e si abbassava solo perché l'aria le veniva immessa nei polmoni a ogni whoosh dell'apparecchio.
Prese una penna luminosa e gliela puntò negli occhi. Nessuna delle due pupille reagì alla luce. Mentre si raddrizzava, si sentì all'improvviso osservata. Si voltò e sobbalzò vedendo padre Brophy sulla soglia. «Mi hanno chiamato le infermiere», disse. «Hanno pensato fosse l'ora.» Aveva gli occhi cerchiati di nero e una sottile barba gli scuriva la mascella. Come sempre, indossava l'abito talare, ma a quell'ora tarda aveva la camicia stropicciata. Maura lo immaginò, appena svegliato, mentre si buttava giù dal letto e incespicava alla ricerca dei vestiti. Mentre afferrava come un automa quella camicia e lasciava il calore della stanza. «Vuole che me ne vada?» chiese. «Posso tornare dopo.» «No, prego, entri, padre. Stavo solo rivedendo i dati della cartella.» Lui annui ed entrò nella stanza. All'improvviso, quello spazio sembrò troppo piccolo, troppo intimo. Maura prese la cartella che Sutcliffe aveva lasciato. Mentre si sedeva su uno sgabello accanto al letto, lo senti di nuovo e si chiese se anche Brophy lo sentisse. L'odore di Victor. Di sesso. Padre Brophy iniziò a mormorare una preghiera e lei si sforzò di concentrarsi sulle annotazioni delle infermiere. 00.15: segni vitali: pressione sanguignafino a 130/90, polso 80. Occhi aperti. Compie movimenti finalizzati. Stringe la mano destra a comando. Vengono chiamati i dottori Yuen e Sutcliffe in seguito a una variazione delle condizioni mentali. 00.43: pressione sanguigna fino a 180/100, polso 120. Il dottor Sutcliffe è presente. La paziente è agitata e cerca di togliersi il tubo endotracheale. 00.50: pressione sistolica 110. Paziente arrossata e molto agitata. Il dottor Yuen è presente. 00.55: sistolica 85, polso 180. Massima velocità di infusione IV... A mano a mano che la pressione sanguigna scendeva, le note si facevano più concise e la calligrafia più frettolosa fino a trasformarsi in scarabocchi illeggibili. Maura immaginava gli eventi che si erano svolti in quella stanza, i movimenti frenetici alla ricerca delle sacche per infusione e delle siringhe, le infermiere che correvano su e giù dalla sala farmaci a prendere i medicinali. Le buste sterili che venivano strappate, le fiale svuotate, le dosi corrette calcolate in fretta. Il tutto mentre la paziente si divincolava e la pressione crollava. 01.00: dichiarato codice blu. Adesso la calligrafia era cambiata. Un'altra persona era stata incaricata
di documentare gli eventi. Le nuove annotazioni erano chiare, metodiche, opera di un'infermiera il cui compito durante l'emergenza era soltanto quello di osservare e registrare. Fibrillazione ventricolare, cardioversione a corrente continua, 300 joule. Infusione IV di lidocaina aumentata a 4 mg/min. Cardioversione ripetuta, 400 joule. Ancora in fibrillazione ventricolare. Pupille dilatate, ma ancora reattive alla luce... Non rinunciavi ancora a combattere, pensò Maura. Non se le pupille reagivano. Non quando c'era ancora una possibilità. Ricordò il primo codice blu che aveva coordinato in qualità di medico interno e quanto fosse stata riluttante a dichiarare la sconfitta, anche quand'era ormai chiaro che il paziente non poteva essere salvato. Ma la famiglia di quell'uomo era rimasta in attesa fuori dalla stanza - la moglie e i due figli adolescenti - ed erano proprio i volti dei ragazzi a cui Maura aveva continuato a pensare mentre applicava le piastre del defibrillatore, più e più volte. Entrambi erano abbastanza alti da sembrare uomini maturi, avevano piedi enormi e volti foruncolosi, ma piangevano come bimbi. Maura aveva proseguito la rianimazione oltre ogni logica, pensando: dagli ancora una scossa. Una sola ancora. In quell'istante si accorse che padre Brophy aveva smesso di bisbigliare. Sollevando gli occhi, notò che la stava osservando con uno sguardo tanto penetrante da farla sentire trasparente. E, nello stesso tempo, stranamente eccitata. Chiuse la cartella con un gesto molto professionale, per nascondere l'imbarazzo. Era appena uscita dal letto di Victor e ora eccola lì, attratta da quell'uomo. Le gatte in calore attiravano i maschi con il loro odore. Era quello il segnale che inviava, l'odore di una femmina ricettiva? Di una donna che aveva fatto a meno del sesso per tanto tempo da essere diventata insaziabile? Si alzò e fece per prendere il cappotto. Brophy le si avvicinò per aiutarla. Le si mise alle spalle e le tenne il cappotto mentre lei infilava le braccia nelle maniche. Maura sentì la sua mano sfiorarle i capelli. Era solo un contatto casuale, ma le diede un brivido inquietante. Allora si allontanò e se lo abbottonò, rapida. «Prima che vada», disse lui, «vorrei mostrarle una cosa. Mi vuol seguire?» «Dove?» «Giù, al quarto piano.»
Perplessa, lo seguì all'ascensore. Entrarono e, ancora una volta, si ritrovarono in uno spazio chiuso che sembrava sin troppo angusto. Maura tenne le mani in tasca e guardò stoicamente i numeri dei piani che si susseguivano, chiedendosi: è un peccato trovare attraente un prete? Se non era un peccato, era certamente una follia. Finalmente la porta dell'ascensore si aprì e Maura lo seguì lungo il corridoio, oltre una doppia porta, fin all'interno dell'unità coronarica. Come in quella di terapia intensiva, le luci erano abbassate per la notte. Brophy le fece strada nella semioscurità sino ai monitor dell'ECG. La robusta infermiera seduta davanti a essi sollevò lo sguardo dai numerosi tracciati cardiaci e sfoderò un sorriso tutto denti. «Padre Brophy. Fa il giro di notte?» Lui le posò una mano sulla spalla con un gesto sereno, familiare, che denotava una cordiale amicizia. Maura ricordò la prima volta che lo aveva visto, mentre attraversava il cortile innevato sotto la stanza di Carnille, quando aveva posato la mano sulla spalla dell'anziana suora che gli era venuta incontro, per confortarla. Brophy era un uomo che non aveva paura di offrire il calore del suo tocco. «'Sera, Katheen», disse e all'improvviso la sua voce rivelò la dolce cadenza degli irlandesi bostoniani. «La notte è tranquilla, allora?» «Finora sì, tocchiamo ferro. Le infermiere l'hanno chiamata per qualcuno?» «Non per uno dei vostri pazienti. Eravamo di sopra, nell'unità di terapia intensiva chirurgica. Volevo accompagnare qui la dottoressa Isles, per una visita.» «Alle due del mattino?» Katheen scoppiò a ridere e guardò Maura. «Guardi che la sfinirà. Quest'uomo non conosce riposo.» «Riposo?» chiese Brophy. «Che cos'è?» «Una cosa di cui noi umili mortali abbiamo bisogno.» Brophy guardò il monitor. «Come sta il nostro signor DeMarco?» «Oh, il suo paziente speciale. Domani verrà trasferito in un letto normale. Direi che sta a meraviglia.» Brophy indicò la linea ECG del letto numero sei che bippava tranquilla sullo schermo. «Ecco», disse toccando il braccio di Maura mentre il suo alito le sfiorava i capelli. «Era questo che volevo mostrarle.» «Perché?» «Il signor DeMarco è l'uomo che abbiamo salvato, sul marciapiede.» Guardandola, lui aggiunse: «L'uomo che secondo lei non sarebbe soprav-
vissuto. È il nostro miracolo, mio e suo». «Non è necessariamente un miracolo. Mi capita di sbagliare.» «Non è minimamente sorpresa che quest'uomo tra un po' lascerà l'ospedale?» Lei lo guardò nella serena intimità della penombra. «Mi spiace doverlo ammettere, ma ormai non c'è molto che mi sorprenda.» Non voleva apparire cinica, ma le sue parole suonarono tali. Per Brophy sembrava in un certo qual modo importante che esprimesse almeno un po' di meraviglia, invece tutto quello che lei aveva saputo fare era rispondere con l'equivalente di una scrollata di spalle. Nell'ascensore che li portava all'atrio Maura disse: «Mi piacerebbe credere ai miracoli, padre. Davvero. Ma temo non possa far cambiare idea a una vecchia scettica». Lui rispose con un sorriso. «Le è stata data una mente brillante di certo perché la usasse. Perché si ponesse domande e trovasse le risposte.» «Sono certa che si porrà le stesse domande che mi pongo io.» «Tutti i giorni.» «Però lei accetta l'idea del divino. La sua fede non vacilla mai?» Ci fu un attimo di silenzio. «La mia fede no. Su quella, ci posso contare.» Maura captò una vaga nota d'incertezza nella voce e lo guardò. «Allora, che cosa mette in dubbio?» Lui incrociò il suo sguardo e sembrò leggerle nella mente, cogliere quei pensieri che Maura non voleva scoprisse. «La mia forza», disse sereno. «Talvolta metto in dubbio la mia forza.» Fuori, da sola, nel parcheggio dell'ospedale, quasi per autopunirsi, Maura inalò alcune boccate d'aria gelata. Il cielo era terso e le stelle brillavano di una luce fredda. Salì in macchina e restò per qualche istante seduta mentre il motore si scaldava, cercando di capire che cosa fosse appena successo tra lei e padre Brophy. Niente di niente, per la verità, eppure si sentiva colpevole come se fosse accaduto qualcosa. Colpevole ed euforica. Guidò fino a casa lungo strade patinate di ghiaccio pensando a padre Brophy e a Victor. Quand'era uscita di casa, era stanca, adesso era vigile, agitata, i nervi tesi. Da mesi non si sentiva tanto viva. Parcheggiò in garage. Si tolse il cappotto ancor prima di entrare in casa e si sbottonò la camicetta ancor prima di raggiungere la camera. Victor dormiva profondamente, ignaro che Maura si stesse spogliando al suo fianco. Negli ultimi giorni aveva passato più tempo a casa sua che in albergo e ora
sembrava quasi appartenere a quel letto. Alla sua vita. Tremando, Maura s'infilò sotto le coperte deliziosamente calde e, a contatto con la sua pelle fredda, Victor si mosse. Bastarono un paio di carezze, un paio di baci, per svegliarlo del tutto. E per eccitarlo. Maura lo accolse dentro di sé, lo incitò quasi, e pur trovandosi sotto di lui non lo visse come un atto di sottomissione. Ebbe la sua dose di piacere, come del resto Victor, e rivendicò i suoi diritti con un flebile grido di vittoria. Quando però chiuse gli occhi e lo sentì venire dentro di lei, non vide solo il volto di Victor, ma anche quello di padre Brophy. Era un'immagine vaga, indefinita, che andava e veniva, finché non seppe più di chi si trattasse. Di entrambi, e di nessuno. 17 In inverno le giornate più terse sono le più. fredde. Maura si svegliò con il sole che brillava accecante sulla neve e, per quanto fosse lieta di vedere per una volta il cielo azzurro, il vento soffiava furioso e il rododendro davanti a casa pareva raggomitolarsi come un vecchio, con tutte le foglie pendule e piegate, per ripararsi dal freddo. Bevve un caffè mentre andava al lavoro, socchiudendo gli occhi per il sole, con una gran voglia di fare inversione e tornare a casa. Di infilarsi a letto con Victor e passare l'intera giornata lì, con lui, al caldo sotto la trapunta. La sera precedente avevano cantato alcuni canti di Natale, lui con la sua bella voce baritonale, lei cercando di armonizzare la sua, un po' stonata, di contralto. L'effetto era stato disastroso e avevano finito per ridere più che cantare. Ora stava cantando di nuovo, stonata come sempre, mentre percorreva strade adorne di ghirlande, superando vetrine piene di manichini con luccicanti abiti da sera. All'improvviso, i segni del Natale sembravano essere dappertutto. Addobbi e ghirlande esistevano ovviamente da settimane, ma lei non li aveva mai notati. Quando mai la città era stata così allegra? Quando mai il sole aveva illuminato con tanta intensità la neve? God rest ye merry gentlemen, let nothing you dismay. Maura entrò nell'edificio di Albany Street, sede dell'Istituto di medicina legale. PACE IN TERRA annunciava nell'atrio una scritta a caratteri cubitali di stagnola.
Louise sollevò lo sguardo e le sorrise. «Oggi ha l'aria felice.» «Sono contenta di vedere un po' di sole.» «Se lo goda finché dura. Domani sera arriverà altra neve.» «La neve la vigilia di Natale mi va bene», disse Maura e prese alcuni cioccolatini dalla ciotola posta sul tavolo di Louise. «Oggi cosa c'è in programma?» «Ieri sera non ci sono stati nuovi arrivi. Immagino che nessuno voglia morire prima di Natale. Il dottor Bristol deve essere in tribunale alle dieci, dopo di che potrebbe andare direttamente a casa se lei riuscisse a sostituirlo.» «Se la giornata prosegue tranquilla, probabilmente anch'io andrò via prima.» Louise inarcò un sopracciglio, sorpresa. «Mi auguro per qualcosa di bello.» «Ci può scommettere», rispose lei con una risata. «Vado a far spese.» Entrò nel suo ufficio, dove la pila di verbali e di trascrizioni in attesa di revisione non riuscì a rovinarle l'umore. Seduta alla scrivania, mangiucchiò felice i cioccolatini lavorando fino al primo pomeriggio, pausa pranzo compresa, augurandosi di poter scappare alle tre per andare dritta dritta da Saks Fifth Avenue. La visita di Gabriel Dean giunse del tutto imprevista. Quando entrò nel suo studio alle due e trenta di quel pomeriggio, Maura non avrebbe mai immaginato come sarebbe cambiata la sua giornata. Come sempre, lo trovò indecifrabile e, come sempre, fu colpita dall'inverosimiglianza di un legame tra la volubile Rizzoli e quell'uomo freddo ed enigmatico. «Rientro a Washington oggi pomeriggio», disse lui posando la valigetta. «Prima di andarmene volevo il suo parere su una questione.» «Certo.» «Per prima cosa, posso vedere i resti di Jane Doe?» «È tutto nel verbale dell'autopsia.» «Vorrei ugualmente esaminarli di persona.» Maura si alzò. «La devo avvertire», disse, «non è uno spettacolo piacevole.» La refrigerazione può solo rallentare, non arrestare, il processo di decomposizione. Mentre Maura apriva la cerniera del sacco salma bianco, dovette farsi forza per affrontare gli odori. Aveva già avvertito Dean dell'aspetto del cadavere e, quando il sacco di plastica si aprì rivelando la carne viva al posto della faccia, lui non ebbe alcun sussulto.
«È stata asportata completamente», spiegò Maura. «La cute è stata incisa lungo l'attaccatura dei capelli, all'altezza della corona cranica, poi distaccata con una trazione verso il basso e rimossa con un'altra incisione sotto il mento. Come fosse una maschera.» «E ha portato via la pelle con sé?» «Non è l'unica cosa che ha preso.» Maura aprì il resto del sacco da cui uscì un puzzo tanto forte che pensò avrebbe fatto meglio a indossare una maschera e una visiera. Dean aveva richiesto solo un esame superficiale, non uno completo, perciò avevano infilato solo i guanti. «Le mani», disse lui. «Sono state rimosse entrambe, come del resto parte dei piedi. All'inizio abbiamo pensato di avere a che fare con un collezionista. Parti anatomiche a mo' di trofei. L'altra possibilità era che volesse occultare l'identità della vittima: niente impronte, niente faccia. Una valida ragione per asportarle.» «Ma resta il problema dei piedi.» «Proprio questo non mi tornava. A quel punto mi sono accorta che ci poteva essere un altro motivo per praticare le amputazioni: occultare non l'identità, ma la diagnosi di lebbra.» «E le lesioni sulla pelle? Sono anch'esse dovute al morbo di Hansen?» «L'eruzione cutanea si chiama eritema nodoso leproso. È una reazione alla terapia medica. Questa donna è stata chiaramente trattata con antibiotici per il morbo di Hansen. Per questo non abbiamo rilevato batteri attivi nella biopsia cutanea.» «Allora non è la malattia in sé che causa queste lesioni?» «No. Sono un effetto collaterale di una terapia antibiotica recente. In base alle radiografie risulta che ha avuto il morbo di Hansen per un certo periodo, probabilmente per anni, prima di essere sottoposta a una terapia.» Sollevando lo sguardo su Dean, Maura chiese: «Ha visto abbastanza?» Lui annui. «Ora le voglio mostrare una cosa.» Tornati di sopra, nell'ufficio, Dean aprì la valigetta e prese una cartellina. «Ieri, dopo il nostro incontro, ho chiamato l'Interpol e ho chiesto informazioni sul massacro di Bara. Questo è quello che la Divisione crimini speciali del Central Bureau of Investigation indiano mi ha faxato. Mi hanno anche spedito per e-mail alcune foto digitali che voglio mostrarle.» Maura aprì la cartellina e osservò il primo foglio. «È un dossier della polizia.» «Dello stato indiano dell'Andhra Pradesh, in cui si trovava il villaggio di Bara.»
«A che punto sono le indagini?» «In corso. Il caso risale a un anno fa e non hanno fatto molti progressi. Dubito che lo risolveranno. Non sono nemmeno certo che sia tra le loro priorità.» «Sono state massacrate quasi cento persone, agente Dean.» «Sì, ma deve considerare l'evento nel contesto.» «Un terremoto è un evento, un uragano è un evento. Un intero villaggio di persone massacrate non è un evento: è un crimine contro l'umanità.» «Guardi quello che sta succedendo in Asia meridionale: nel Kashmir le stragi a opera di indù e mussulmani, in India le uccisioni di tamil e sikh, per non parlare degli omicidi legati alle caste, delle bombe dei guerriglieri maoisti-leninisti...» «Madre Mary Clement ritiene si tratti di un massacro dovuto a motivi religiosi. Di un attacco contro i cristiani.» «Attacchi del genere si verificano certamente in quella zona. Ma l'ambulatorio in cui lavorava suor Ursula era finanziato da un'organizzazione laica. Le altre due infermiere, quelle morte nel massacro, non erano legate ad alcuna chiesa. Per questo la polizia dell'Andhra Pradesh non ritiene che il movente sia religioso. Politico, forse. O dettato da odio, visto che le vittime erano lebbrosi. Era un villaggio di disperati.» Indicando la cartellina che Maura teneva in mano, Dean proseguì: «Ci sono alcuni verbali autoptici che vorrei leggesse, e anche foto della scena del crimine». Lei voltò la pagina e fissò una fotografia. Stupefatta, non riuscì a dire una sola parola, né a distogliere lo sguardo da quell'orrore. Era una visione dell'Armageddon. Ammucchiati su un cumulo di legna e di cenere fumanti, c'erano moltissimi cadaveri bruciati. Il calore del fuoco aveva ritratto i muscoli flessori e i corpi avevano assunto pose da pugile. In mezzo ai resti umani c'erano capre morte, con il pelo annerito. «Hanno ucciso tutto», spiegò Dean. «Persone, animali, persino i polli sono stati massacrati e bruciati.» Maura si sforzò di guardare la seconda fotografia. Vide altri corpi, ancor più consumati dalle fiamme, ridotti a mucchi d'ossa carbonizzate. «L'attacco è avvenuto di notte», affermò Dean. «Ma i corpi sono stati scoperti solo il mattino seguente. Gli operai del turno di giorno della fabbrica vicina hanno notato una grossa colonna di fumo levarsi dalla valle sottostante. Quando sono arrivati per controllare, si sono trovati davanti
questo spettacolo: novantasette morti, molti dei quali erano donne e bambini, tra cui anche le due infermiere dell'ambulatorio, entrambe americane.» «Lo stesso ambulatorio in cui lavorava Ursula.» Dean annuì. «Adesso viene il particolare davvero interessante», disse. Lei sollevò lo sguardo, incuriosita dal cambiamento di tono nella sua voce. «Cioè?» «La fabbrica, vicino al villaggio.» «Sì?» «Era della Octagon Chemicals.» Maura lo fissò. «La Octagon? La società per cui lavorava Howard Redfield?» Dean assentì. «Quella posta sotto inchiesta dalla commissione Titoli e cambi. Ci sono così tanti nessi tra le tre vittime che sembrano quasi dar vita a una gigantesca ragnatela. Sappiamo che Howard Redfield era il vicepresidente incaricato delle operazioni estere della Octagon, proprietaria dello stabilimento vicino al villaggio di Bara. Sappiamo che suor Ursula ha lavorato al villaggio di Bara. Sappiamo che Jane Doe era affetta dal morbo di Hansen, perciò forse viveva anche lei a Bara.» «Tutto riconduce al villaggio», commentò Maura. «Al massacro.» Maura guardò le fotografie. «Che cosa spera che trovi nei verbali autoptici?» «Scopra se i patologi indiani hanno ignorato qualcosa. Qualcosa che possa far luce sull'attacco.» Lei guardò i corpi bruciati e scosse la testa. «Sarà difficile. L'incenerimento distrugge quasi tutto. Ogniqualvolta c'è di mezzo il fuoco, la causa del decesso è spesso impossibile da stabilire a meno che non ci siano altre prove. Proiettili, per esempio, o fratture.» «In base ai verbali, numerosi crani sono stati fracassati. Hanno concluso che gran parte delle vittime siano state prese a randellate nel sonno. I corpi sarebbero poi stati trascinati fuori dalle capanne e ammucchiati in diversi punti per essere bruciati.» Maura passò a un'altra foto, a un'altra visione infernale. «Tutti questi morti», mormorò. «E nessuno è riuscito a scappare?» «Dev'essere accaduto molto in fretta. Molti erano probabilmente invalidi per la malattia e incapaci di correre. In fondo, era un ricovero per malati. Il villaggio era isolato dalla società, in una valle in fondo a una strada. Un
nutrito gruppo di aggressori poteva benissimo penetrarvi e massacrare un centinaio di persone senza che nessuno udisse le grida.» Maura passò all'ultima foto della cartellina. Mostrava un piccolo edificio bianco con il tetto di lamiera, le pareti annerite dal fuoco. Davanti alla porta c'era un altro mucchio di cadaveri, con gli arti intrecciati e i lineamenti resi irriconoscibili dal fuoco. «L'ambulatorio è l'unico edificio a essere rimasto in piedi perché era costruito con blocchi di calcestruzzo», spiegò Dean. «I resti delle due infermiere americane sono stati trovati in quel mucchio laggiù. È stato necessario l'intervento di un antropologo per identificarle. Ha detto che il processo di bruciatura è stato tanto radicale che gli aggressori devono aver usato un accelerante. Lei è d'accordo, dottoressa Isles?» Maura non rispose. Non era più assorta a guardare i corpi e fissava qualcosa che riteneva molto più inquietante. Qualcosa che, per pochi secondi, le impedì di respirare. Sopra la porta dell'ambulatorio era appeso un cartello con un logo inequivocabile: una colomba in volo, le ali aperte in segno di amorevole protezione di una sfera azzurra. Un logo che riconobbe all'istante. Era un ambulatorio della One Earth. «Dottoressa Isles?» esclamò Dean. Lei sollevò lo sguardo, sbigottita, accorgendosi che lui attendeva ancora una risposta. «I corpi... non sono così facili da incenerire», disse. «Il contenuto idrico è molto elevato.» «Quei corpi sono bruciati fino alle ossa.» «Sì, è vero. Perciò un accelerante... lei ha ragione, hanno probabilmente usato un accelerante.» «Benzina?» «La benzina potrebbe andare. Ed è il mezzo più facilmente reperibile.» Maura abbassò di nuovo lo sguardo sulla foto dell'ambulatorio bruciato. «Inoltre, si vedono chiaramente i resti di una pira, che in seguito è crollata. Questi rami carbonizzati...» «Fa qualche differenza? Usare una pira?» chiese Dean. Maura si schiarì la voce. «Sollevare i corpi da terra fa sì che il grasso che si scioglie goccioli nel fuoco e... lo alimenti.» All'improvviso radunò le fotografie e le infilò nel dossier. Poi rimase seduta con le mani giunte sulla cartellina, liscia a contatto con le sue dita, con il cuore già stretto in una morsa. «Se non le spiace, agente Dean, vorrei esaminare i verbali con
calma, poi glieli restituirò. Posso tenere l'intero dossier?» «Certo», rispose Dean alzandosi. «Mi può trovare a Washington.» Maura stava ancora fissando la cartellina e non lo vide avvicinarsi alla porta, né si accorse che si era girato e la stava guardando. «Dottoressa Isles?» Lei sollevò lo sguardo. «Sì?» «Ho un'altra cosa da chiederle. Non riguarda il caso, ma una questione personale. Non so nemmeno se sia la persona giusta a cui rivolgermi.» «Di che si tratta, agente Dean?» «Parla molto con Jane?» «Sicuro. Durante quest'indagine...» «Non di lavoro, di quello che la preoccupa.» Maura esitò. Potrei dirglielo, pensò. Qualcuno glielo deve dire. «È sempre molto tesa», proseguì Dean. «Ma c'è anche qualcos'altro. Sento che è sottoposta a una grande pressione.» «L'aggressione all'abbazia è un caso difficile.» «Non si tratta dell'indagine. C'è qualcos'altro che la preoccupa, qualcosa di cui non vuole parlare.» «Non sono io la persona a cui chiedere. Dovrebbe parlarne con lei.» «Ci ho provato.» «E?» «La mette sul professionale. Sa bene come può essere Jane, una dannatissima robocop», sospirò Dean, poi aggiunse pacato: «Credo di averla perduta». «Mi dica una cosa, agente Dean.» «Sì?» «Tiene a lei?» Dean sostenne il suo sguardo senza esitare. «Non le farei una domanda del genere se non fosse così.» «Allora deve credere a quello che le dirò. Non l'ha perduta. Se le sembra distante, è solo perché ha paura.» «Jane?» Dean scosse il capo e rise. «Lei non ha paura di niente, tanto meno di me.» Maura lo guardò uscire dallo studio e pensò: ti sbagli. Abbiamo tutti paura di chi ci può ferire. Da bambina Jane amava l'inverno. Aspettava per tutta l'estate la prima nevicata, il mattino in cui, aperte le tende della camera, avrebbe visto il
terreno imbiancato, puro, non ancora deturpato dalle impronte. Rideva quando usciva di casa correndo per buttarsi nei cumuli di neve formati dal vento. Adesso, mentre lottava con il traffico di punta di mezzogiorno insieme a tutti quelli che, come lei, erano andati a fare compere, si chiese chi avesse rubato la magia d'un tempo. La prospettiva di passare la vigilia di Natale in famiglia non la risollevava affatto. Sapeva come sarebbe andata la serata: si sarebbero ingozzati di tacchino, riempiendosi la bocca tanto da non poter parlare. Suo fratello Frankie si sarebbe comportato in modo chiassoso e sgradevole per il troppo eggnog al rum, suo padre, armato di telecomando, avrebbe alzato il volume del canale sportivo ESPN sino a tacitare qualsiasi conversazione dotata di senso, e sua madre, Angela, esausta per aver cucinato tutto il giorno, avrebbe sonnecchiato sulla poltrona. Ogni anno ripetevano lo stesso rito, ma proprio questo significava essere una famiglia, pensò. Facciamo le stesse cose, nello stesso modo, che ci rendano o meno felici. Non aveva alcuna voglia di comperare i regali, ma non poteva più rimandare quell'incombenza molesta: non ti potevi presentare a casa Rizzoli la vigilia di Natale senza un carico di doni. Non importava se fossero o no azzeccati, purché avessero un bel pacchetto e ce ne fossero per tutti. L'anno scorso suo fratello Frankie, il coglione, le aveva regalato un rospo essiccato proveniente dal Messico, lavorato a mo' di portamonete, crudele ricordo del soprannome con cui la sbeffeggiava da bambina: un rospo a un rospo. Quest'anno Frankie l'avrebbe pagata. Jane spinse il carrello in mezzo alla calca di Target, alla ricerca di un equivalente del rospo. Dagli altoparlanti del grande magazzino si riversavano canti natalizi e Babbi Natale meccanici la salutavano mentre avanzava con cupa determinazione tra i corridoi addobbati con ghirlande scintillanti. Per suo padre prese un paio di pantofole foderate di lana, per la madre una teiera irlandese decorata con minuscoli boccioli di rosa, per il fratello minore Michael un accappatoio dal disegno scozzese e per la sua nuova fidanzata, Irene, un paio di orecchini pendenti di cristallo austriaco rosso sangue. Comperò persino un regalo per i bambini di Irene, due tutine invernali a strisce. Ma per Frankie, lo stronzo, non sapeva ancora che cosa scegliere. Passò in rassegna il reparto biancheria da uomo. Le alternative erano: un perizoma rosa per Frankie il macho? No, troppo disgustoso. Nemmeno lei
sarebbe giunta a tanto. Continuò l'esplorazione, oltre la sezione slip, e rallentò di fronte a quella dei boxer pensando all'improvviso non più a Frankie, ma a Gabriel, con i suoi vestiti grigi e le sue cravatte noiose. Un uomo dai gusti sobri e tradizionali, biancheria compresa. Un uomo in grado di far ammattire una donna, che non capiva mai che cosa pensasse o se sotto quel vestito grigio battesse un cuore. Si allontanò velocemente dal reparto e proseguì il giro. Concentrati, maledizione. Ci vuole qualcosa per Frankie. Un libro? Aveva in mente un titolo giusto: Guida rapida per smettere di fare il coglione. Peccato che nessuno avesse pensato a scriverla, ci sarebbe stato ampio mercato. Percorse il corridoio e passò a quello seguente, a caccia disperata di un regalo. D'un tratto si bloccò. Sentì un nodo in gola e le dita intorpidirsi tanto stringevano il carrello. Era arrivata al reparto neonati. Vide minuscole tutine di flanella con sopra ricamate delle paperette, guanti e stivali da bambola, berrettini di lana con pompon. Pile di copertine rosa e azzurre in cui avvolgere i piccoli. La sua attenzione si concentrò proprio sulle coperte: pensò al modo in cui Camille aveva avvolto il suo bambino in quella coperta di lana azzurra: con l'amore di una madre, con il dolore di una madre. Il cellulare squillò a lungo prima che si scuotesse dalla trance. Lo prese dalla borsa e rispose stordita: «Rizzoli». «Ehi, detective. Sono Walt DeGroot.» DeGroot lavorava alla sezione DNA della Scientifica. Di solito era Jane a chiamarlo, per blandirlo e indurlo ad accelerare i tempi di qualche esame. Quel giorno invece rispose alla sua chiamata senza alcun interesse. «Allora, che cos'hai per me?» chiese mentre il suo sguardo si posava di nuovo sulle copertine da bebè. «Abbiamo confrontato il DNA materno con quello del bambino che avete trovato nello stagno.» «Sì?» «La vittima, Camille Maginnes, è indubbiamente la madre.» Jane emise un sospiro stanco. «Grazie, Walt», mormorò. «È quello che ci aspettavamo.» «Aspetta. C'è dell'altro.» «Dell'altro?» «Questo non credo ve l'aspettavate. Riguarda il padre del bambino.» D'un tratto Jane si concentrò solo sulla voce di Walt, su ciò che stava per dirle.
«Che mi dici del padre?» domandò. «So chi è.» 18 Jane guidò per tutto il pomeriggio fino alle prime luci grigie del crepuscolo, osservando la strada davanti a sé con lo sguardo offuscato dalla rabbia. I doni che aveva da poco comperato erano ancora impilati sul sedile posteriore, insieme ai rotoli di carta da regalo e ai nastri luccicanti, ma la sua mente non era più rivolta al Natale, bensì a una ragazza che camminava scalza nella neve. Una ragazza che ricercava il dolore del congelamento per nascondere una sofferenza interiore ben più. profonda. Niente tuttavia avrebbe potuto eguagliare il suo tormento, nessuna preghiera e nessuna autoflagellazione avrebbero potuto tacitarne le grida segrete di dolore. Quando infine superò i due pilastri di granito e imboccò il viale d'accesso della casa dei genitori di Camille, erano quasi le cinque del pomeriggio e Jane aveva le spalle rigide per la tensione del lungo viaggio. Uscì dall'auto e inalò una boccata d'aria salata, pungente. Poi salì i gradini e suonò il campanello. Venne ad aprire Maria, la governante dai capelli scuri. «Mi spiace, detective, ma la signora Maginnes non è in casa. Era attesa?» «No. Quando rientrerà?» «Lei e i ragazzi sono andati a fare spese. Dovrebbe rientrare per cena. Tra un'ora, credo.» «Allora l'aspetterò.» «Non sono sicura...» «Farò compagnia al signor Maginnes. Se non disturbo.» Con riluttanza Maria la fece entrare. Una donna abituata a tenere un atteggiamento deferente non avrebbe sbarrato il passo a un rappresentante delle forze dell'ordine. Jane non ebbe bisogno di farsi indicare la strada; ripercorse gli stessi pavimenti lucidati, superò gli stessi quadri dai soggetti marinari ed entrò nella Stanza del mare. Il Nantucket Sound appariva minaccioso con le sue acque agitate dal vento e le onde dalla cresta bianca. Randall Maginnes era steso sul fianco destro nel suo letto d'ospedale, il viso rivolto alle finestre in modo da poter guardare la tempesta in arrivo. Un posto in prima fila per assistere alla turbolenza della natura. L'infermiera privata che gli stava seduta accanto notò la visitatrice e si
alzò. «Buona sera.» «Sono il detective Rizzoli, polizia di Boston. Sto aspettando la signora Maginnes e ho pensato di passare a salutare il signor Maginnes, di vedere come sta.» «Più o meno come sempre.» «Ha fatto progressi dopo l'ictus?» «Fa fisioterapia ormai da mesi, ma i danni sono piuttosto gravi.» «Sono permanenti?» L'infermiera lanciò un'occhiata al paziente, poi fece un gesto a Jane invitandola a seguirla fuori dalla stanza. Nel corridoio disse: «Non mi piace parlare di lui quando ci può sentire. So che capisce». «Come lo sa?» «Dal modo in cui mi guarda, in cui reagisce. Anche se non può parlare, la sua mente è lucida. Questo pomeriggio ho messo un CD della sua opera preferita, La Boheme, e ho visto che gli sono venute le lacrime agli occhi.» «Potrebbe non essere la musica, ma la frustrazione.» «Ha sicuramente ragione di sentirsi frustrato. Dopo otto mesi non c'è quasi segno di recupero. La prognosi è molto sfavorevole. Di certo non camminerà più. Resterà sempre paralizzato da un lato e per la fonazione, be'...» L'infermiera scosse tristemente il capo e aggiunse: «È stato un ictus massivo». Jane si voltò verso la Stanza del mare. «Se vuol prendersi un caffè o qualcos'altro, resto io con lui per un po'.» «Non le spiace?» «A meno che non abbia bisogno di cure particolari.» «No, non serve che faccia niente. Gli parli soltanto, gli farà piacere.» «Sì, senz'altro.» Jane tornò nella Stanza del mare e avvicinò una sedia al letto. Si sedette in modo da vedere Randall Maginnes negli occhi e far sì che lui non potesse evitare il suo sguardo. «Salve, Randall», disse. «Si ricorda di me? Detective Rizzoli. Sono l'agente che indaga sull'omicidio di sua figlia. Sa che è morta, vero?» Vide un'ombra di tristezza offuscargli gli occhi grigi, segno che era in grado di comprendere. Che soffriva per la sua perdita. «Era bella sua figlia Camille. Ma questo lo sa bene, vero? Come può non saperlo? L'ha osservata ogni giorno, in questa casa. L'ha vista crescere e trasformarsi in una giovane donna.» Dopo un attimo di silenzio affermò:
«E poi cadere a pezzi». I suoi occhi la fissavano ancora, attenti a cogliere ogni parola. «Quando hai iniziato a scopartela, Randall?» Fuori dalla finestra le folate di vento sferzavano le acque del Nantucket Sound. Persino nella luce ormai scarsa del giorno le creste bianche delle onde luccicavano, bianchi segni di tempesta nel mare nero. Randall Maginnes non la stava più guardando. Il suo sguardo si era spostato e ora fissava in basso nel tentativo disperato di evitare gli occhi di Jane. «Ha solo otto anni quando sua madre si uccide. All'improvviso Camille non ha nessuno se non suo padre. Ha bisogno di te, si fida di te. E tu che fai?» Jane scosse la testa disgustata. «Sapevi quanto fosse fragile, sapevi perché camminava scalza nella neve, perché si chiudeva in camera. Perché è scappata in convento. Scappava da te.» Jane si chinò, avvicinandoglisi al punto da sentire una zaffata dell'orina che gli inzuppava il pannolone. «L'unica volta in cui è tornata a casa per una visita, pensava probabilmente che non l'avresti toccata, che per una volta l'avresti lasciata in pace. Avevi la casa piena di parenti per il funerale, ma questo non ti ha fermato, vero?» Gli occhi di lui continuavano a evitarla, sempre rivolti in basso. Jane si protese tanto che, in qualsiasi direzione avesse guardato, lui avrebbe visto la sua faccia. «Era tuo il bambino, Randall», continuò. «Non abbiamo nemmeno dovuto prelevare un campione del tuo DNA per dimostrarlo. Madre e figlio sono fin troppo identici. È tutto scritto lì, nel DNA del bambino. Il figlio dell'incesto. Sapevi di averla messa incinta? Sapevi di aver distrutto tua figlia?» Jane rimase seduta sulla sedia per alcuni lunghi istanti, a fissarlo. Nel silenzio sentì il suo respiro accelerare, il rantolare affannoso di un uomo che vorrebbe disperatamente scappare, ma non può. «Sai, Randall, io non credo in Dio, ma tu mi fai quasi pensare di aver torto. Perché guarda cosa è successo a te: in marzo ti scopi tua figlia, in aprile ti viene un ictus. Non camminerai più, né parlerai più. Sei solo un cervello in un corpo morto, Randall. Se questa non è giustizia divina, non so cos'è.» Adesso Randall piagnucolava cercando di muovere i suoi inutili arti. Jane si chinò ulteriormente e gli sussurrò all'orecchio: «Ti senti marcire
a poco a poco? Mentre te ne stai disteso qui, cosa pensi stia facendo tua moglie Lauren? Probabilmente si sta divertendo. Probabilmente si sta cercando qualcuno che le tenga compagnia. Pensaci. Non hai bisogno di morire per andare all'inferno». Con un sospiro soddisfatto si alzò in piedi. «Ti auguro una vita serena, Randall», disse, uscendo dalla stanza. Mentre si dirigeva alla porta principale, udì Maria chiederle: «Se ne va già, detective?» «Sì, ho deciso di non aspettare più la signora Maginnes.» «Che cosa devo riferirle?» «Solo che sono passata.» Poi, voltandosi a guardare verso la Stanza del mare: «Oh, le dica una cosa». «Sì?» «Penso che a Randall manchi Camille. Perché non mette una sua foto dove lui possa vederla sempre?» Sorridendo, Jane aprì la porta e fece per uscire. «Ne sarebbe felice.» Le luci di Natale brillavano in soggiorno. La porta del garage si sollevò e Maura vide che l'auto noleggiata da Victor era parcheggiata nello spazio a destra, come se appartenesse alla casa. Come se ora quella fosse anche casa sua. Posteggiò a fianco e spense il motore girando furiosa la chiave. Attese un istante che la porta si richiudesse, cercando di calmarsi in vista di ciò che l'attendeva. Poi afferrò la valigetta e scese dalla macchina. Una volta in casa appese con calma il cappotto e posò la borsetta. Portando con sé la valigetta entrò cucina. Victor sorrise mentre metteva un po' di ghiaccio nello shaker. «Ehi, ti stavo giusto preparando il tuo cocktail preferito. La cena è già in forno. Sto cercando di dimostrarti che un uomo può essere davvero utile in casa.» Lei lo osservò mentre shakerava la bevanda e la versava in un bicchiere. Dopo di che glielo porse. «Per la grande lavoratrice di questa casa», disse baciandola sulle labbra. Lei rimase perfettamente immobile. A poco a poco lui si scostò e la osservò perplesso. «Che c'è?» Maura posò il bicchiere. «È ora che tu sia onesto con me.» «Pensi che non lo sia stato?» «Non lo so.» «Se parli di quello che tre anni fa è andato storto... degli sbagli che ho
fatto...» «Non si tratta di allora, ma di adesso. Del fatto che tu sia stato onesto o no con me adesso.» Lui scoppiò in una risata sbigottita. «Stavolta cos'ho fatto? Per che cosa dovrei chiederti scusa? Perché, se è questo che vuoi, sono disposto a farlo. Cavolo, sono disposto a scusarmi anche per cose che non ho fatto.» «Non sto chiedendo le tue scuse, Victor.» Al che, Maura frugò nella valigetta ed estrasse il dossier che Gabriel Dean le aveva dato e glielo porse. «Voglio che mi parli di questo.» «Che cos'è?» «Un dossier della polizia, trasmesso dall'Interpol. Riguarda un massacro compiuto l'anno scorso in India. In un piccolo villaggio nella zona di Hyderabad.» Lui aprì la cartellina e guardò la prima fotografia trasalendo di fronte a ciò che raffigurava. Senza dire una parola passò alla seconda, poi alla terza. «Victor?» Lui chiuse il dossier e la guardò. «Che cosa ti dovrei dire?» «Tu sapevi di questo massacro, vero?» «Certo che lo sapevo. Quello che hanno attaccato era un ambulatorio della One Earth. Abbiamo perso due volontarie laggiù. Due infermiere. È mio compito sapere queste cose.» «Non me lo hai detto.» «È successo un anno fa, perché avrei dovuto?» «Perché è rilevante per le nostre indagini. Una delle suore aggredite alla Graystones Abbey ha lavorato proprio in quell'ambulatorio della One Earth. Tu lo sapevi, vero?» «Quanti volontari pensi che lavorino per One Earth? Abbiamo migliaia di medici e paramedici in più di ottanta Paesi.» «Dimmi solo questo, Victor: tu sapevi che suor Ursula aveva lavorato per One Earth?» Lui si voltò e si avvicinò al lavandino dove rimase a fissare fuori dalla finestra anche se non c'era nulla da vedere, solo il buio. «È interessante», prosegui Maura. «Dopo il divorzio non ti sei mai fatto vivo, nemmeno una parola.» «C'è bisogno che ti ricordi che nemmeno tu ti sei presa la briga di contattarmi?» «Non una lettera, non una telefonata. Se volevo sapere qualcosa di te,
dovevo leggerlo su People. Victor Banks, il santo delle cause umanitarie.» «Non mi sono consacrato da solo, Maura, non me ne puoi fare una colpa.» «Poi, all'improvviso, spunti dal nulla, arrivi qui a Boston ansioso di vedermi. Proprio mentre inizio a occuparmi di questo caso di omicidio.» Lui si voltò a guardarla. «Non pensi che avessi voglia di vederti?» «Hai aspettato tre anni.» «Sì, tre anni di troppo.» «Perché ora?» Maura lo scrutò in viso, quasi sperando di cogliere un indizio. «Mi sei mancata, Maura, davvero.» «Ma questa non è la prima ragione per cui sei venuto a cercarmi, giusto?» Ci fu un lungo silenzio. «No, non lo è.» Sentendosi improvvisamente sfinita, Maura si accasciò su una sedia accanto al tavolo di cucina e fissò la cartellina contenente le fotografie incriminanti. «Allora perché mi hai cercata?» «Ero nella mia stanza d'albergo e mi stavo vestendo. La TV era accesa. Ho sentito la notizia dell'aggressione al convento. Ti ho vista, ripresa dalle telecamere, sulla scena del crimine.» «Quello è il giorno in cui mi hai lasciato il primo messaggio in segreteria. Quello stesso pomeriggio.» Lui annuì. «Dio, eri splendida in televisione, tutta avvolta nel tuo cappotto nero. Mi ero scordato quanto fossi bella.» «Ma non è questo il motivo per cui mi hai chiamata, giusto? Era l'omicidio che ti interessava. Mi hai chiamata perché sono il medico legale del caso.» Victor non rispose. «Sapevi che una delle vittime lavorava per One Earth e volevi scoprire che cosa sapesse la polizia. Che cosa sapessi io.» Ancora nessuna risposta. «Perché non me lo hai chiesto apertamente? Che cosa stai cercando di nascondere?» Lui si raddrizzò e il suo sguardo divenne all'improvviso di sfida. «Hai idea di quante vite salviamo ogni anno?» «Non stai rispondendo alla mia domanda.» «Di quanti bambini vacciniamo? Di quante donne incinte ricevono l'unica assistenza prenatale a cui possono accedere nei nostri ambulatori? Di-
pendono da noi perché non hanno alternative. E la One Earth sopravvive per la benevolenza dei suoi benefattori. La nostra reputazione deve essere immacolata. Basta un'insinuazione, una cattiva pubblicità sulla stampa, e i nostri fondi svaniscono così», disse Victor, schioccando le dita. «Che cosa ha a che fare tutto questo con l'indagine?» «Ho passato gli ultimi vent'anni a costruire la One Earth dal nulla. Non si è mai trattato di me, ma di loro, della gente a cui nessun altro s'interessa. Sono loro che contano. Per questo non posso permettere che qualcosa comprometta le nostre fonti di finanziamento.» Soldi, pensò Maura, tutto ruota attorno ai soldi. Lo fissò. «La società che vi ha fatto la donazione.» «Cosa?» «Me ne hai parlato. Mi hai detto di una grossa donazione ricevuta l'anno scorso da una società.» «Riceviamo donazioni da molte fonti...» «Era la Octagon Chemicals?» L'espressione sconvolta del suo viso fu una risposta sufficiente. Maura lo senti inspirare all'improvviso, come se volesse negare, ma poco dopo espirò senza dire niente. Tacitato dall'inutilità di qualsiasi obiezione. «Non è difficile averne conferma», disse Maura. «Perché non mi dici la verità?» Lui abbassò lo sguardo e annuì stancamente. «La Octagon è uno dei nostri principali donatori.» «E che cosa vogliono in cambio? Che cosa deve fare One Earth per ricambiare tutto quel denaro?» «Perché pensi che dobbiamo fare qualcosa? Il nostro lavoro parla da sé. Perché credi che in tanti Paesi ci accolgano così bene? Perché la gente si fida di noi. Non facciamo proselitismo e non ci invischiamo nelle politiche locali. Andiamo lì per aiutarli, ed è questo che in fondo conta, non credi? Salvare vite?» «E la vita di suor Ursula? Per te era importante?» «Certamente!» «Adesso vive solo grazie alle macchine. Un altro EEG e probabilmente staccheranno la spina. Chi la vuole morta, Victor?» «Come faccio a saperlo?» «Sembri sapere molte cose che non ti sei mai curato di dirmi. Sapevi che una delle vittime lavorava per te.» «Non credevo fosse rilevante.»
«Avresti dovuto lasciare che fossi io a decidere.» «Hai detto che ti interessava soprattutto l'altra suora, quella giovane. Lei era l'unica vittima di cui parlavi. Pensavo che l'aggressione non avesse niente a che fare con Ursula.» «Mi hai nascosto delle informazioni.» «Adesso stai parlando come un maledetto sbirro. Hai per caso intenzione di sbattermi in faccia il distintivo e di tirar fuori le manette?» «Sto cercando di evitare di coinvolgere la polizia. Di darti la possibilità di spiegare.» «Perché darti tanta pena? Hai già emesso la sentenza.» «E tu ti stai già comportando da colpevole.» Victor rimase immobile, distogliendo lo sguardo e stringendo con la mano il ripiano di granito. I secondi passavano ticchettando nel silenzio. All'improvviso, lo sguardo di Maura si posò sul portacoltelli di legno che si trovava esattamente alla sua portata. Otto coltelli Wusthof da cuoco, sempre affilati e pronti all'uso. Prima non aveva mai avuto paura di Victor, ma l'uomo in piedi accanto a quei coltelli era un estraneo, una persona che non riconosceva nemmeno. «Credo sia il caso che te ne vada», disse calma. Lui si voltò a guardarla. «Che hai intenzione di fare?» «Vattene e basta, Victor.» Per un istante lui non si mosse. Maura lo fissò con il cuore che le martellava nel petto e tutti i muscoli in tensione. Gli osservò le mani, in attesa della sua prossima mossa, pensando continuamente: no, non mi farebbe del male. Non credo mi farebbe mai del male. E, nello stesso tempo, ben consapevole della forza delle sue mani. Si chiese se quelle mani avrebbero potuto impugnare un martello e fracassare il cranio di una donna. «Io ti amo, Maura», fece lui. «Ma ci sono cose più importanti di noi. Prima di fare qualsiasi cosa, pensa a ciò che potresti distruggere. A quante persone, a quanti innocenti, potresti fare del male.» Lei trasalì quando le si avvicinò, ma Victor non si fermò: le passò accanto. Udì i suoi passi allontanarsi in corridoio, poi la porta d'ingresso che sbatteva. Si alzò di colpo e andò in soggiorno. Dalla finestra vide la sua auto fare retromarcia nel vialetto. Allora andò alla porta d'ingresso e mise il fermo. Poi inserì il chiavistello della porta che dava accesso al garage. Aveva chiuso fuori Victor. Tornò in cucina e inserì anche il chiavistello della porta posteriore. Men-
tre lo infilava, la mano le tremò. Si voltò e osservò una stanza che le era diventata estranea, dove aleggiava ancora un senso di minaccia. Il cocktail che Victor le aveva versato era ancora posato sul bancone. Lo prese - ormai non era più freddo - e lo versò nel lavandino, quasi fosse contaminato. Lei stessa si sentiva contaminata ora, dal suo tocco, dalle notti d'amore passate insieme. Andò dritta in bagno, si tolse i vestiti e s'infilò sotto la doccia. Lì rimase, sotto il getto dell'acqua calda, cercando di togliersi ogni traccia di Victor dalla pelle, ma non riuscì a lavar via i ricordi. Quando chiudeva gli occhi, vedeva ancora il suo volto, ricordava ancora le sue carezze. In camera da letto tolse le lenzuola che diffusero nell'aria il suo profumo. Rifece il letto con lenzuola pulite, che non avevano l'odore del sesso. Sostituì gli asciugamani in bagno e buttò via il cibo che aveva comperato in rosticceria e messo a scaldare in forno: una casseruola di melanzane alla parmigiana. Quella sera non mangiò niente per cena; si versò un bicchiere di zinfandel e lo portò in soggiorno. Accese il caminetto a gas e si sedette a guardare l'albero di Natale. Buone vacanze, pensò. Posso aprire un torace ed esporne il contenuto. Posso tagliare a fette un polmone e, al microscopio, diagnosticare un cancro, la tubercolosi o un enfisema, ma i segreti racchiusi nel cuore umano sfuggono al mio bisturi. Il vino servi da anestetico e leni il dolore. Maura finì il bicchiere e andò a letto. Durante la notte si svegliò di soprassalto e udì la casa scricchiolare per il vento. Respirava affannosamente e il cuore le batteva impazzito mentre gli ultimi strascichi dell'incubo scomparivano. Corpi bruciati, impilati come rami neri su una pira. Fiamme che illuminavano col loro bagliore un cerchio di persone in piedi, e lei che cercava di tenersi nell'ombra, di nascondersi dalla luce del fuoco. Anche nei sogni, pensò, non riesco a non pensare a quelle immagini. Vivo con il mio inferno dantesco in testa. Allungò il braccio tra le lenzuola fresche, là dove fino a poco prima aveva dormito Victor, e in quel momento avvertì la sua mancanza. La sua assenza le sembrò tanto dolorosa che incrociò le braccia sul ventre, quasi per colmare il vuoto che sentiva dentro di sé. E se si sbagliava? Se le aveva detto la verità? All'alba scese infine dal letto, stordita e per nulla riposata, e andò in cucina a preparare il caffè. Si sedette a tavola, a sorseggiarlo nella fioca luce
del mattino. Lo sguardo le cadde sul dossier con le fotografie, rimasto lì. Lo aprì e vide la causa degli incubi notturni: i corpi bruciati, i resti carbonizzati delle capanne. Così tanti morti, pensò, uccisi in una sola notte di sfrenata violenza. Quale rabbia tremenda deve aver spinto gli assassini a massacrare persino gli animali? Osservò le capre e gli esseri umani morti che formavano un groviglio di cadaveri. Le capre? Perché le capre? Rimuginò la questione cercando di capire che cosa avesse portato a una devastazione tanto insensata. Animali morti. Passò alla foto seguente che raffigurava l'ambulatorio della One Earth, con le pareti di calcestruzzo annerite e la pila di cadaveri bruciati davanti alla porta. Ma il suo sguardo non si concentrò sui corpi, bensì sul tetto dell'ambulatorio, di lamiera ondulata, ancora intatto. Prima non l'aveva esaminato con attenzione. Adesso guardava invece quelle che le parevano foglie morte. Sul metallo ondulato c'erano varie macchie scure, troppo piccole perché potesse osservarne i dettagli. Portò allora la fotografia nello studio e accese le luci. Frugando nella scrivania, trovò una lente d'ingrandimento. Sotto la luce intensa del tavolo studiò l'immagine, soffermandosi sul tetto di lamiera mentre la lente evidenziava ogni particolare delle foglie morte. Le macchie scure assunsero d'un tratto una parvenza nuova, terribile. Maura sentì un brivido gelido risalirle lungo la schiena. Lasciò cadere la lente d'ingrandimento e rimase seduta, stupefatta. Uccelli. Erano uccelli morti. Andò in cucina, prese il telefono e chiamò il detective Rizzoli sul cercapersone. Quando il suo apparecchio squillò pochi minuti dopo, Maura trasalì. «C'è qualcosa che ti devo dire», esordì. «Alle sei e mezzo?» «Avrei dovuto dirlo all'agente Dean, ieri, prima che lasciasse la città. Ma non ho voluto farlo, non prima di aver parlato con Victor.» «Victor? Il tuo ex marito?» «Sì.» «Che cos'ha a che fare con questo?» «Penso sappia che cos'è successo in India. In quel villaggio.» «Te l'ha detto?» «Non ancora. Per questo credo dobbiate interrogarlo.»
19 Erano nell'auto di Barry Frost, parcheggiata proprio davanti al Colonnade Hotel. Frost e Rizzoli sedevano davanti, la dottoressa Isles dietro. «Lasciate che gli parli io per prima», disse Maura. «Sarebbe meglio se rimanesse qui, dottoressa», rispose Frost. «Non sappiamo come reagirà.» «Se gli parlo io, ci sono minori probabilità che opponga resistenza.» «Ma se è armato...» «Non mi farà del male», replicò Maura. «E non voglio che voi gliene facciate, chiaro? Non lo state arrestando.» «E se decidesse di non venire?» «Verrà.» Maura spalancò la portiera. «Lasciate che me ne occupi io.» Presero l'ascensore fino al quarto piano, dividendolo con una giovane coppia che restò probabilmente sconcertata dall'aria cupa di quel terzetto. Fiancheggiata da Rizzoli e da Frost, Maura bussò alla porta della stanza 426. Passò un istante. Stava per bussare di nuovo, quando la porta si spalancò e si ritrovò di fronte Victor che la fissava. Aveva gli occhi stanchi e un'espressione infinitamente triste sul volto. «Mi chiedevo che cosa avresti deciso», disse. «Iniziavo a sperare che...» Scosse la testa. «Victor...» «Ma, in fondo, non mi sorprende.» Guardò Rizzoli e Frost in piedi in corridoio e rise con amarezza. «Avete portato le manette?» «Non servono le manette», disse Maura. «Vogliono solo parlarti.» «Sì, certo. Solo parlarmi. Posso chiamare un avvocato?» «Fa' come vuoi.» «No, dimmelo tu. Avrò bisogno di un avvocato?» «Tu sei il solo che lo può sapere, Victor.» «È questo il test, vero? Solo il colpevole insiste per avere un avvocato.» «Avere un avvocato non è mai una cattiva idea.» «Be', solo per darti una dimostrazione: non lo chiamerò.» Victor guardò i due detective. «Devo mettermi le scarpe, se non avete obiezioni.» Poi si voltò e si diresse all'armadio. «Potreste aspettare qui fuori?» chiese Maura a Jane, lasciando che la
porta si richiudesse alle sue spalle per avere un ultimo istante di privacy. Victor era seduto su una sedia, intento ad allacciarsi gli stivali. Maura notò la valigia sul letto. «Sei in partenza», osservò. «Ho prenotato un volo alle quattro, ma immagino che i miei piani subiranno una variazione, giusto?» «Ho dovuto dirglielo, mi dispiace.» «Sono certo che sia così.» «Non avevo scelta.» Lui si alzò in piedi. «Avevi una scelta e hai preso la tua decisione. Immagino che questo chiarisca tutto.» Attraversò la stanza e aprì la porta. «Sono pronto», annunciò e porse a Jane un portachiavi. «Suppongo vorrete perquisire l'auto che ho noleggiato. È la Toyota blu, parcheggiata nel garage al terzo piano. Poi non dite che non collaboro.» Fu Frost ad accompagnarlo in corridoio. Jane tirò Maura per la manica, trattenendola mentre i due uomini proseguivano verso gli ascensori. «Tu ti fermi qui», le disse. «Sono stata io a portarvi da lui.» «Per questo devi restarne fuori.» «Era mio marito.» «Infatti. Devi farti da parte e lasciare che ce ne occupiamo noi, lo sai.» Certo che lo sapeva. Maura li seguì ugualmente di sotto. Salì in macchina e li pedinò fino a Schroeder Plaza. Vedeva Victor seduto sul sedile posteriore. Solo una volta, mentre erano fermi a un semaforo, si voltò a guardarla dal lunotto posteriore. I loro sguardi si incrociarono soltanto per un istante. Poi lui si girò e non guardò più. Quando trovò un parcheggio ed entrò nel quartier generale della polizia di Boston, avevano già condotto Victor di sopra. Maura prese l'ascensore fino al secondo piano e si diresse subito alla Omicidi. Barry Frost la intercettò. «Non può entrare, dottoressa.» «Lo stanno già interrogando?» «Se ne stanno occupando Rizzoli e Crowe.» «Sono stata io a portavi da lui, maledizione. Lasciate almeno che ascolti quello che ha da dire. Potrei assistere dalla stanza vicina.» «Deve aspettare qui», insistette lui. Poi aggiunse con gentilezza: «Per favore, dottoressa Isles». Maura incrociò il suo sguardo comprensivo: di tutti i detective dell'unità
era l'unico che, con un'occhiata gentile, riusciva a tacitare le sue proteste. «Perché non si siede qui, al mio tavolo? Ora le porto un caffè.» Maura si accasciò sulla sedia e fissò la foto sulla scrivania di Frost: sua moglie, pensò. Una bella bionda dagli zigomi aristocratici. Un attimo dopo il detective tornò con il caffè e glielo posò davanti. Maura non lo toccò. Continuò a fissare la foto della signora Frost e pensò ad altri matrimoni. Alle storie a lieto fine. A Jane Victor Banks non piacque. Sedeva al tavolo della stanza interrogatori con le spalle rilassate e l'atteggiamento quasi noncurante, sorseggiando tranquillo il suo bicchiere d'acqua. Era un uomo affascinante e sapeva di esserlo. Troppo affascinante. Jane studiò il logoro giaccone di pelle, i pantaloni cachi, e vide davanti a sé un Indiana Jones più raffinato, senza la frusta. Banks, inoltre, aveva una laurea in medicina e ottime credenziali data la sua vocazione umanitaria. Oh, sì, era proprio il tipo che faceva impazzire le donne. Persino la dottoressa Isles, sempre impassibile e padrona di sé in sala autopsie, si era fatta rubare il cuore da quell'uomo. E tu l'hai tradita, gran figlio di puttana. Darren Crowe sedeva alla sua destra. In base agli accordi presi, Jane avrebbe condotto gran parte dell'interrogatorio. Fino a quel momento Victor si era dimostrato freddo, ma aveva collaborato, rispondendo alle domande iniziali con il tono sbrigativo di chi vuol far presto. Di chi non ha particolare rispetto per la polizia. Ma quando Jane avesse finito di torchiarlo, altro che se l'avrebbe rispettata. «Allora, da quanto tempo si trova a Boston, signor Banks?» gli domandò. «Dottor Banks. E gliel'ho detto, sono qui da circa nove giorni. Sono arrivato in aereo domenica sera.» «Ha detto che è venuto a Boston per una riunione?» «Con il preside della facoltà di Sanità pubblica di Harvard.» «La ragione dell'incontro?» «La mia organizzazione ha accordi di studio e di lavoro con numerose università.» «La sua organizzazione è la One Earth?» «Sì. Siamo un'organizzazione internazionale che si occupa di assistenza medica. Gestiamo ambulatori in tutto il mondo e, naturalmente, accoglia-
mo con piacere studenti di medicina e di scienze infermieristiche che vogliano fare volontariato nelle nostre strutture. Gli studenti possono fare pratica sul campo. Noi, in cambio, beneficiamo delle loro capacità.» «Chi ha organizzato l'incontro ad Harvard?» Banks si strinse nelle spalle. «Era una semplice visita di routine.» «Chi ha fatto la telefonata per la precisione?» Silenzio. Toccato nel vivo. «Lei, non è vero?» disse Jane Rizzoli. «Due settimane fa lei ha chiamato Harvard e ha detto al preside che sarebbe comunque dovuto venire a Boston e che avrebbe fatto un salto a trovarlo.» «Devo mantenere vivi i contatti.» «Qual è la vera ragione della sua visita a Boston, dottor Banks? Non c'era un altro motivo?» Ci fu un attimo di silenzio. «Sì.» «E quale?» «La mia ex moglie vive qui. Volevo vederla.» «Ma non le parlava da... quanto? Quasi tre anni?» «Ovviamente le ha già raccontato tutto. Perché ha bisogno di parlare con me?» «All'improvviso lei ha così tanta voglia di vederla che prende un aereo e attraversa il Paese senza nemmeno sapere se lei è disposta a incontrarla?» «A volte per amore si devono correre dei rischi. È una questione di fede, di credere in qualcosa che non vedi e non tocchi con mano. Bisogna buttarsi», rispose Victor e, guardandola negli occhi, chiese: «Non crede, detective?» Jane si sentì arrossire e per un istante non le venne in mente niente da dire. Victor le aveva rigirato la domanda, facendo in modo che d'un tratto la conversazione si spostasse su di lei. A volte per amore si devono correre dei rischi. Crowe ruppe il silenzio. «Ehi, è davvero una bella donna la sua ex moglie», disse, non con antagonismo, ma con il tono rilassato di un uomo che parla con un altro uomo. In quel momento per loro il detective Rizzoli non esisteva. «Capisco perché sia venuto fin qui a cercare di sistemare le cose. E ci è riuscito?» «Si stavano mettendo a posto.» «Sì, ho sentito che negli ultimi giorni stava da lei. Mi pare un bel progresso.» «Perché non parliamo della verità?» intervenne Jane.
«Della verità?» chiese Victor. «Della vera ragione per cui è venuto a Boston.» «Perché non mi dice quale risposta vuole così gliela do? Risparmieremmo entrambi un bel po' di tempo.» Rizzoli aprì una cartellina posata sul tavolo. «Dia un'occhiata a queste.» Lui l'aprì e vide che si trattava della serie di fotografie del villaggio devastato. «Le ho già viste», disse e la richiuse. «Maura me le ha mostrate.» «Non sembra molto interessato.» «Non sono esattamente piacevoli da vedere.» «Non intendono esserlo. Dia un'altra occhiata», replicò lei aprendo la cartellina e pescando una foto. «A questa, in particolare», aggiunse sbattendogliela davanti. Victor guardò Crowe quasi cercasse un alleato contro quella donna sgradevole, ma Crowe si strinse nelle spalle come per dire: «Che ci posso fare?» «La foto, dottor Banks», insistette Jane. «Esattamente, che cosa dovrei dirle?» «C'era un ambulatorio della One Earth in quel villaggio.» «È una cosa tanto sorprendente? Andiamo là dove la gente ha bisogno di noi. Il che significa che a volte ci troviamo in situazioni scomode o perfino pericolose.» Victor continuava a non guardare la foto, a evitare quell'immagine terribile. «È il prezzo che noi operatori umanitari paghiamo. Corriamo gli stessi rischi dei nostri pazienti.» «Che cos'è successo in quel villaggio?» «Penso sia abbastanza ovvio.» «Guardi la fotografia.» «È tutto scritto nel verbale della polizia, ne sono certo.» «Guardi quella maledetta fotografia! E mi dica quello che vede.» Finalmente il suo sguardo si posò sull'immagine. Dopo qualche istante Victor disse: «Corpi bruciati. Stesi davanti al nostro ambulatorio». «E come sono morti?» «Mi è stato detto che si è trattato di un massacro.» «Lo sa con certezza?» Banks sollevò all'improvviso lo sguardo. «Io non c'ero, detective, ero a casa mia, a San Francisco, quando ho ricevuto la telefonata dall'India. Perciò non può pretendere che le dia i dettagli.» «Come sa che si è trattato di un massacro?» «Dal verbale della polizia dell'Andhra Pradesh. È stato un attacco dovu-
to a motivi politici o religiosi e non ci sono testimoni, dato che il villaggio era relativamente isolato. La gente tende a evitare i contatti con i lebbrosi.» «Eppure hanno bruciato i corpi. Non lo trova strano?» «Perché?» «I corpi sono stati ammucchiati in grossi cumuli prima di essere bruciati. È logico presumere che nessuno tocchi volentieri un lebbroso, perciò perché ammassarli?» «Immagino fosse più efficace: bruciarli a gruppi.» «Efficace?» «Sto cercando di considerare la cosa da un punto di vista logico.» «E qual è la ragione logica per bruciarli tutti?» «Rabbia? Vandalismo? Non lo so.» «Tutta quella fatica per trascinare i cadaveri, per portare le taniche di benzina, per costruire le pire di legno. E sempre con il rischio di essere scoperti.» «Dove vuole arrivare?» «Dico che i corpi dovevano essere bruciati per distruggere le prove.» «Prove di che? È chiaramente un massacro. Nessun fuoco può nasconderlo.» «Ma il fuoco può nascondere quello che non è un massacro.» Jane non fu sorpresa quando Banks distolse lo sguardo, riluttante a guardarla in faccia. «Non capisco perché mi chiede queste cose», disse. «Perché non crede al verbale della polizia?» «Perché o si sono sbagliati o sono stati comprati.» «Lei lo sa, non è vero?» Il detective Rizzoli picchiettò il dito sulla foto. «Guardi meglio, dottor Banks.» «Preferirei di no.» «Qui non hanno bruciato solo corpi umani. Sono state massacrate e bruciate anche le capre, le galline. Che spreco, tutta quella carne sostanziosa. Perché uccidere gli animali e poi bruciarli?» Victor scoppiò in una risata sarcastica. «Perché anche loro potevano avere la lebbra? Non lo so!» «Questo non spiega quant'è successo agli uccelli.» Victor scosse la testa. «Cosa?» Jane indicò il tetto di lamiera ondulata dell'ambulatorio. «Immagino non l'abbia neanche notato. A prima vista sembrano foglie morte. Ma non è
strano che lì ci siano delle foglie quando tutt'intorno non sembrano esserci alberi?» Banks non disse nulla. Rimase seduto, perfettamente immobile, la testa china in modo da nascondere il viso. Bastò il linguaggio del corpo a farle capire che si stava preparando all'inevitabile. «Non sono foglie, dottor Banks. Sono uccelli morti, una specie di corvi, credo. Tre si trovano ai margini della foto. Come lo spiega?» Lui scrollò le spalle con noncuranza. «Saranno stati uccisi con armi da fuoco.» «La polizia non fa menzione di sparatorie. Non c'erano fori di proiettile nell'edificio, né sono stati ritrovati bossoli. Hanno invece rilevato che molti cadaveri avevano il cranio fratturato, perciò hanno ipotizzato che le vittime siano state uccise a bastonate nel sonno.» «Anch'io ipotizzerei la stessa cosa.» «Allora come si spiegano gli uccelli? Di certo quei corvi non se ne sono stati appollaiati sul tetto in attesa che qualcuno si arrampicasse lassù e li prendesse a bastonate.» «Non capisco dove voglia arrivare. Che cosa c'entrano alcuni uccelli morti con tutto questo?» «C'entrano, eccome. Non sono stati uccisi a bastonate e nemmeno con armi da fuoco.» Victor sbuffò. «Inalazione di fumo?» «Quando il villaggio è stato dato alle fiamme, gli uccelli erano già morti. Tutto era morto. Il bestiame, la gente. Niente si muoveva, niente respirava. La zona era stata rasa al suolo, devastata.» Banks rimase muto. Il detective Rizzoli si protese mettendoglisi davanti. «Quanti soldi ha donato la Octagon Chemicals alla sua organizzazione quest'anno, dottor Banks?» Victor portò il bicchiere d'acqua alla bocca e prese tempo, sorseggiandola. «Quanti?» «Una somma nell'ordine di... varie decine di milioni», rispose e, guardando Crowe, disse: «Se non vi spiace, ne vorrei un altro bicchiere». «Decine di milioni?» chiese Rizzoli. «Perché non dice ottantacinque milioni di dollari?» «Potrebbe essere la cifra giusta.» «E l'anno prima non vi hanno dato niente. Allora, cos'è cambiato? La
Octagon ha scoperto all'improvviso di avere una coscienza?» «Lo chieda a loro.» «Lo chiedo a lei.» «Vorrei davvero un altro bicchier d'acqua.» Crowe sospirò, prese il bicchiere vuoto e uscì. Ora, nella stanza, c'erano soltanto Rizzoli e Victor. Jane si protese ulteriormente, sferrando un attacco frontale, invadendo il suo spazio personale. «È tutta questione di soldi, vero?» domandò. «Ottantacinque milioni di dollari sono una signora bustarella. La Octagon doveva avere molto da perdere. E voi, ovviamente, molto da guadagnare a collaborare con loro.» «Collaborare come?» «Con il vostro silenzio. Per mantenere il segreto.» Jane prese un'altra cartellina e la gettò sul tavolo davanti a lui. «Sulla fabbrica di pesticidi che possedevano. A due chilometri e mezzo dal villaggio di Bara la Octagon stoccava tonnellate di isocianato di metile nel suo stabilimento. Lo hanno chiuso l'anno scorso, sa? Subito dopo l'attacco al villaggio di Bara la Octagon ha abbandonato la fabbrica: ha richiamato il personale e demolito la struttura. Timore di attacchi terroristici, è stata la motivazione ufficiale. Ma lei non penserà sia vero, o mi sbaglio?» «Non ho altro da aggiungere.» «Non è stato un massacro a cancellare il villaggio di Bara. Non è stato un attacco terroristico.» Jane tacque per qualche istante, poi aggiunse con tono pacato: «È stata una catastrofe industriale». 20 Victor sedeva immobile, senza guardare Jane. «Il nome 'Bhopal' le dice qualcosa?» chiese lei. Banks attese un attimo prima di rispondere. «Certo che sì», rispose con tono sommesso. «Mi dica quello che sa.» «Bhopal, India. L'incidente della Union Carbide nel 1984.» «Sa quante persone sono morte in quell'occasione?» «... migliaia, credo.» «Seimila persone», replicò Jane. «Dalla fabbrica di pesticidi della Union Carbide si è sviluppata una nube tossica che si è diffusa sulla città addor-
mentata di Bhopal. Il mattino dopo c'erano seimila morti e centinaia di migliaia di feriti. Con così tanti sopravvissuti e testimoni, la verità non poteva essere nascosta. Non poteva essere tacitata.» Guardando la foto, aggiunse: «Come hanno fatto a Bara». «Posso solo ripetere quello che ho già detto. Io non c'ero, non ho visto.» «Ma sono certa che può presumere ciò che è accaduto. Stiamo aspettando che la Octagon ci fornisca l'elenco dei dipendenti di quella fabbrica. Uno di loro alla fine parlerà. Uno di loro lo confermerà. Parliamo del turno di notte e un operaio sovraccarico di lavoro diventa facilmente sbadato. O si addormenta su una leva e, puf!, scappa una nube di gas tossici che viene poi trasportata dal vento.» Jane tacque per pochi attimi. «Sa che effetti ha un'esposizione acuta all'isocianato di metile, dottor Banks?» Certamente lo sapeva. Doveva saperlo, ma Victor non le rispose. «È corrosivo, se solo lo tocchi ti brucia la pelle. Immagini allora che cosa fa ai tessuti delle vie respiratorie, ai polmoni, quando lo respiri. Inizi a tossire e ti fa male la gola. Ti senti stordito, ma non riesci a respirare perché il gas ti distrugge le mucose. I liquidi s'infiltrano, invadendo i polmoni. Si chiama edema polmonare. Anneghi, dottor Banks, nelle tue stesse secrezioni. Ma sono sicura che lei lo sa perché è un medico.» Victor annuì con un'aria sconfitta. «Anche la Octagon lo sa. Non impiegano molto a capire che hanno commesso un terribile errore. Sanno che l'isocianato di metile è più denso dell'aria e si raccoglie nelle aree più basse, così corrono a controllare al villaggio dei lebbrosi nella valle, sottovento rispetto a loro. Al villaggio di Bara. E quello che trovano è una zona morta. Persone, animali, non c'è più niente di vivo. Si trovano di fronte i corpi di quasi un centinaio di persone e sanno di essere responsabili della loro morte. Sanno di essere nei guai. Saranno accusati e forse arrestati. E cosa crede abbiano fatto, dottor Banks?» «Non lo so.» «Si sono lasciati prendere dal panico, naturalmente. Perché, a lei non accadrebbe? Vogliono eliminare il problema, cancellarlo. Ma come fare con tutte quelle prove? Non si possono nascondere cento cadaveri. Non si può far scomparire un villaggio. Inoltre, c'erano quelle due americane morte, le due infermiere: la loro morte non sarebbe passata inosservata.» Jane dispose le foto sul tavolo in modo che fossero tutte contemporaneamente visibili. Tre foto, tre mucchi distinti di cadaveri. «Li hanno bruciati», disse. «Si sono messi all'opera per coprire l'errore.
Forse hanno anche fracassato qualche cranio, per confondere gli investigatori. Quello che è accaduto a Bara non era inizialmente un crimine, dottor Banks, ma lo è diventato.» Victor scostò la sedia. «Sono in arresto, detective? Perché adesso me ne vorrei andare. Ho un aereo che mi aspetta.» «Lei lo sa da un anno, vero? Ma è rimasto zitto perché la Octagon l'ha comprata. Un disastro del genere sarebbe costato loro centinaia di milioni di dollari in multe, cause e perdite azionarie, per non parlare delle accuse di reato penale. Comprarla era la soluzione più economica.» «Sta parlando con la persona sbagliata Glielo ripeto, io non c'ero.» «Ma lo sapeva.» «Non sono l'unico.» «Chi gliel'ha detto, dottor Banks? Come l'ha scoperto?» Jane gli si avvicinò ulteriormente e lo scrutò oltre il tavolo. «Perché non ci dice la verità, così forse riuscirà a prendere quell'aereo per San Francisco?» Victor rimase muto per qualche istante lo sguardo fisso sulle foto disposte sul tavolo davanti a lui «Mi ha chiamato», rispose infine. «Da Hyderabad.» «Suor Ursula?» Lui annuì. «È stato due giorni dopo il fatto Sapevo già dalle autorità indiane che nel villaggio c'era stato un massacro. Che due delle nostre infermiere erano state uccise e che ritenevano si fosse trattato di un attacco terroristico.» «Suor Ursula le ha dato un'altra versione?» «Sì, ma la sua telefonata mi ha lasciato perplesso. Sembrava confusa, agitata. Il medico della fabbrica le aveva dato un tranquillante e ho pensato che le pìllole avessero aumentato lo stato confusionale.» «Che cosa le ha detto esattamente?» «Che c'era qualcosa di molto strano nelle indagini. Che la gente non diceva la verità. Aveva visto un paio di taniche vuote di benzina su un camion della Octagon.» «Ursula lo ha riferito alla polizia?» «Deve capire la situazione in cui si trovava. Quando quel mattino è arrivata a Bara, c'erano corpi bruciati dappertutto, i corpi di persone che conosceva. Era l'unica sopravvissuta ed era circondata dai dipendenti dello stabilimento. Poi è arrivata la polizia e lei ha preso un agente da parte indicandogli le taniche di benzina. Presumeva che avrebbero indagato.» «Ma non è successo.»
Victor annuì. «A quel punto ha avuto paura e si è chiesta se la polizia fosse affidabile. Solo quando padre Doolin l'ha accompagnata in macchina a Hyderabad si è sentita abbastanza al sicuro da chiamarmi.» «E lei cos'ha fatto? Dopo la telefonata?» «Che potevo fare? Ero dall'altra parte del mondo.» «Suvvia, dottor Banks. Non posso credere che sia rimasto seduto tranquillo nel suo studio di San Francisco come se niente fosse. Non è il tipo d'uomo da ricevere una notizia tanto devastante e da non far nulla.» «Che cosa avrei dovuto fare?» «Quello che ha finito per fare.» «Cioè?» «Tutto quello che mi serve è verificare i suoi tabulati telefonici. Ci deve essere da qualche parte la telefonata che ha fatto a Cincinnati. Al quartier generale della Octagon.» «Ma è ovvio che li abbia chiamati! Mi avevano appena detto che i loro dipendenti avevano bruciato un villaggio con due delle mie volontarie!» «Con chi ha parlato alla Octagon?» «Con un uomo. Un vicepresidente.» «Ricorda il nome?» «No.» «Era Howard Redfield o sbaglio?» «Non ricordo.» «Che cosa gli ha detto?» Victor lanciò un'occhiata alla porta. «Perché ci vuole tanto tempo per andare a prendere un po' d'acqua?» «Che cosa gli ha detto, dottor Banks?» Victor sospirò. «Che circolavano voci sul massacro di Bara. Che i dipendenti della fabbrica potevano essere coinvolti. Lui ha detto di non saperne niente e mi ha promesso di verificare.» «Poi che è successo?» «Un'ora dopo ho ricevuto una telefonata dall'amministratore della Octagon, che voleva sapere dove avessi sentito quelle voci.» «È stato allora che le ha offerto la bustarella multimilionaria?» «Non è stata messa in questi termini!» «Non la biasimo per aver trovato un accordo con la Octagon, dottor Banks», disse Rizzoli. «In fondo il danno era già fatto. Nessuno può riportare in vita i morti, perciò si può benissimo sfruttare una tragedia per un bene più grande.» La voce di Jane si abbassò assumendo un tono quasi
confidenziale. «Non è così che la vede? Invece di lasciare che centinaia di milioni di dollari finiscano nelle tasche degli avvocati, perché non usarli a buon fine? È perfettamente logico.» «Questo lo ha detto lei, detective, non io.» «E come hanno fatto a comperare il silenzio di suor Ursula?» «Lo chieda all'arcidiocesi di Boston. Sono certo che abbiano trovato un accordo anche con loro» Jane tacque pensando all'improvviso alla Graystones Abbey. Al tetto nuovo, ai lavori di restauro. Come poteva una comunità impoverita di suore conservare e mantenere una proprietà di tale valore? Si ricordò le parole di Mary Clement a proposito di un generoso donatore che era venuto loro in aiuto. La porta si aprì e Crowe entrò con un bicchiere pieno d'acqua, che posò sul tavolo. Victor ne bevve una sorsata, nervoso. L'uomo che all'inizio era tanto calmo e persino insolente aveva ora un'aria sfinita e sembrava aver perso tutta la sua sicurezza. Era tempo di spremergli le ultime gocce di verità. Jane si avvicinò ancor di più per sferrare l'attacco finale. «Qual è la vera ragione per cui è venuto a Boston, dottor Banks?» «Gliel'ho detto, volevo vedere Maura...» «La Octagon le ha chiesto di venire qui, non è vero?» Banks bevve un'altra sorsata d'acqua. «Non è vero?» «Erano preoccupati.» «Di che cosa?» «Sono oggetto di un'indagine della commissione Titoli e cambi. Non ha niente a che fare con quant'è successo in India. Ma a causa dell'entità della donazione che la One Earth ha ricevuto, la Octagon temeva che la commissione s'insospettisse. Che potessero fare domande. Volevano essere certi che dessimo tutti la stessa versione, in caso fossimo stati interrogati.» «Le hanno chiesto di mentire per loro?» «No, solo di stare zitto. Nient'altro. Solo di non... parlare dell'India.» «E se le fosse stato chiesto di testimoniare? Se le avessero posto domande dirette su quel fatto? Avrebbe detto la verità, dottor Banks? Che ha preso del denaro per aiutarli a coprire un crimine?» «Non stiamo parlando di un crimine, ma di un incidente industriale.» «Questa è la ragione per cui è venuto a Boston? Per convincere Ursula a tacere? Per mantenere un fronte unito di menzogne?»
«Non di menzogne, di silenzio. È diverso.» «Ma a un tratto la faccenda si complica. Un vicepresidente della Octagon di nome Howard Redfield decide di parlare e lo fa con il dipartimento di Giustizia. Ma non basta: presenta anche una testimone indiana. Una donna che ha portato dall'India perché possa rilasciare una dichiarazione.» Victor sollevò la testa e la fisso con sincero sbigottimento. «Quale testimone?» «Era lì, a Bara. Una lebbrosa che è sopravvissuta. È sorpreso?» «Non sapevo ci fossero testimoni» «Ha visto quello che è accaduto nel suo villaggio. Ha visto i dipendenti della fabbrica ammucchiare i corpi e accendere i fuochi. Li ha visti fracassare le teste di amici e familiari. Quello che ha visto, quello che sapeva poteva mettere la Octagon in ginocchio.» «Non so niente di tutto questo. Nessuno mi ha detto che c'era una sopravvissuta.» «Stava per venire a galla. L'incidente, la copertura, le bustarelle. Lei poteva essere disposto a mentire, ma suor Ursula? Come costringere una suora a mentire sotto giuramento? Lì sta il problema, giusto? Una suora onesta avrebbe potuto far crollare il castello di carte. Apre la bocca e gli ottantacinque milioni di dollari svaniscono dalle sue mani, in un soffio. E il mondo intero vede san Victor cadere dal piedestallo.» «Abbiamo finito», disse lui alzandosi in piedi. «Devo prendere un aereo.» «Lei aveva l'opportunità e il movente.» «Movente?» Banks scoppiò in una risata incredula. «Per uccidere una suora? Se è per questo, perché non accusa l'arcidiocesi: immagino che anche loro siano stati pagati molto bene.» «Che cosa le ha promesso la Octagon? Altro denaro se fosse venuto a Boston e si fosse occupato del problema per conto loro?» «Prima mi accusa di omicidio e adesso sostiene che la Octagon mi abbia assoldato? Secondo lei un amministratore rischia di persona d'essere accusato di omicidio solo per coprire un incidente industriale?» Victor scosse il capo. «Nessun americano è finito in carcere per Bhopal. E nessun americano ci finirà per Bara. Adesso posso andare o no?» Jane lanciò un'occhiata interrogativa a Crowe che rispose con un cenno scoraggiato, segno che aveva già avuto una risposta dalla Scientifica. Mentre interrogavano Victor, i tecnici della Scientifica avevano esaminato l'auto che questi aveva noleggiato. Ovviamente non avevano trovato nulla.
Non c'erano abbastanza elementi per trattenerlo. «Per il momento è libero di andare, dottor Banks, ma dobbiamo sapere esattamente dove trovarla.» «Vado a casa, a San Francisco. Avete il mio indirizzo.» Sulla porta Victor si fermò e si voltò. «Prima che me ne vada», disse, «voglio che sappia una cosa di me.» «Cosa, dottor Banks?» «Io sono un medico. Se lo ricordi, detective. Salvo vite, non le sopprimo.» Maura lo vide mentre lasciava la stanza interrogatori. Camminava con lo sguardo dritto davanti a sé e non guardò nemmeno nella sua direzione mentre si avvicinava al tavolo a cui era seduta. «Victor?» Maura si alzò. Lui si fermò, ma non si voltò, come se non riuscisse a guardarla. «Che cos'è successo?» chiese lei. «Che cosa pensi sia successo? Ho detto quello che sapevo. Ho detto la verità.» «Era l'unica cosa che ti chiedevo. Non pretendevo altro.» «Ho un aereo che mi aspetta.» In quell'istante il cellulare di Maura squillò. Lei lo guardò con la voglia di scaraventarlo via. «Faresti meglio a rispondere», osservò lui con tono rabbioso. «Qualche cadavere potrebbe aver bisogno di te.» «I morti hanno diritto alle nostre attenzioni.» «Lo so ed è questa la differenza tra te e me, Maura: tu ti interessi dei morti, io dei vivi.» Lei lo guardò allontanarsi. Non si voltò nemmeno una volta. Il cellulare smise di suonare Maura lo aprì e vide che la chiamata proveniva dall'ospedale St. Francis. Aspettava di conoscere i risultati del secondo EEG di Ursula, ma in quel momento non aveva la testa per pensarci: stava ancora smaltendo il colpo delle ultime parole di Victor. Jane usci dalla sala interrogatori e le si avvicinò con un'aria rammaricata sul volto. «Mi spiace di averti dovuta escludere», disse. «Capisci perché, vero?» «No, non capisco.» Maura lasciò cadere il cellulare nella borsa. «Sono stata io a portarvelo, io a fornirvi la risposta.»
«E lui ha confermato tutto. Avevi ragione sugli uccelli morti.» «Eppure mi hai tagliata fuori. Come se non ti fidassi di me.» «Stavo cercando di proteggerti.» «Da che cosa, dalla verità? Dal fatto che mi ha usata?» Maura scoppiò in una risata amara e si voltò per andarsene. «Quello lo sapevo già.» Guidò fino al St. Francis in mezzo a una bufera sempre più intensa. La Regina dei morti andava a reclamare un altro corpo. Quando entrò nel garage, era pronta a recitare la parte che sapeva così bene, a indossare l'unica maschera con cui si mostrava in pubblico. Uscì dalla Lexus e il cappotto svolazzò al vento. Gli stivali risuonarono sul cemento mentre attraversava il parcheggio diretta all'ascensore. Le luci al sodio conferivano alle auto un bagliore strano e Maura ebbe l'impressione di camminare in una foschia arancione. Se si fosse sfregata gli occhi, pensò, la foschia sarebbe scomparsa. Non vide nessun altro nel garage e udì solo il riecheggiare dei suoi passi. Nell'atrio dell'ospedale passò accanto all'albero di Natale scintillante di luci multicolori e al banco dei volontari, dove un'anziana donna dai capelli grigi sedeva con un cappello da Babbo Natale in testa, che le dava un'aria sbarazzina. Gli altoparlanti diffondevano le note di Joy to the World. Persino nell'unità di terapia intensiva si respirava paradossalmente un'aria di festa. La sala infermiere era addobbata con finte ghirlande di pino e l'addetta al reparto aveva due minuscole palline di Natale d'oro come orecchini. «Sono la dottoressa Isles dell'Ufficio del coroner», disse. «C'è il dottor Yuen?» «È stato appena chiamato d'urgenza per un intervento. Ha chiesto al dottor Sutcliffe di venire a staccare le macchine.» «Mi avete preparato la fotocopia della cartella?» «È tutto pronto.» L'impiegata le indicò un bustone sul banco con sopra scarabocchiato «Per il medico legale». «Grazie.» Maura aprì la busta e prese le fotocopie. Lesse la triste serie di dati che decretavano l'impossibilità di salvare suor Ursula: due diversi EEG non avevano rilevato alcuna attività cerebrale e una nota scritta a mano dal neurochirurgo, il dottor Yuen, dichiarava la sconfitta: «Paziente tuttora non responsiva al dolore profondo, non respira spontaneamente. Le pupille restano fisse, in posizione intermedia. EEG ripetuti mostrano assenza di at-
tività cerebrale. Enzimi cardiaci confermano infarto miocardico. Il dottor Sutcliffe informerà la famiglia delle condizioni. Valutazione: coma irreversibile secondario ad anossia cerebrale prolungata dopo arresto cardiaco recente». Passò infine ai fogli contenenti i risultati delle analisi di laboratorio. Vide, stampati in colonne ordinate, conte cellulari, valori ematici e urinari. Che ironia, pensò mentre chiudeva la cartella, morire con gran parte dei parametri ematici perfettamente normali. Si diresse quindi alla stanza numero dieci, dove la paziente stava per essere lavata per l'ultima volta. Ai piedi del letto Maura osservò l'infermiera scostare il lenzuolo e toglierle la camicia da notte. Ursula non aveva un corpo da asceta, ma di una persona amante del cibo, con due grossi seni che ricadevano di lato e due cosce grasse, dalla pelle chiara e infossata. Da viva doveva incutere un certo rispetto, e la sua figura robusta doveva apparire ancor più imponente con gli abiti monacali. Adesso, senza le vesti, era una paziente come le altre. La morte non discrimina: santi o peccatori alla fine sono tutti uguali. L'infermiera strizzò il panno e le lavò il busto lasciando la pelle lucida, bagnata. Poi passò alle gambe e, dopo avergliele piegate, lavò anche i polpacci. In corrispondenza delle tibie la pelle di Ursula era segnata da vecchie cicatrici, antiestetica conseguenza di morsi d'insetti infettatisi. Ricordo di una vita vissuta in Paesi lontani. Terminato il suo compito, l'infermiera prese la bacinella e uscì dalla stanza lasciando Maura sola con la paziente. Che cosa sapevi, Ursula? Che cosa ci avresti potuto dire? «Dottoressa Isles?» Maura si voltò e vide il dottor Sutcliffe in piedi alle sue spalle. Aveva uno sguardo molto più diffidente rispetto alla prima volta che si erano incontrati. Non era più il medico hippie con la coda di cavallo e l'aria amichevole. «Non sapevo che sarebbe venuta», disse «Mi ha chiamato il dottor Yuen. Il nostro ufficio prenderà in custodia il corpo.» «Perché? La causa del decesso è più che ovvia. Vi basta dare un'occhiata all'elettrocardiogramma.» «È la procedura. Prendiamo sempre in custodia i corpi in caso di aggressione criminale.» «Be', in questo caso penso sia uno spreco di soldi dei contribuenti.»
Lei ignorò il commento e guardò Ursula. «So che ha chiesto alla famiglia l'autorizzazione per staccare le macchine.» «Il nipote ha dato il consenso. Aspettiamo solo che arrivi il prete. Le suore del convento hanno chiesto che fosse presente padre Brophy.» Maura guardò il petto di Ursula sollevarsi e abbassarsi ciclicamente, seguendo il ritmo dell'apparecchio. Il cuore continuava a battere, gli organi a funzionare. Se si fosse prelevata una provetta di sangue dalla vena di Ursula e la si fosse mandata in laboratorio, nessun test, nessuna attrezzatura sofisticata avrebbe potuto scoprire che la sua anima aveva già lasciato il corpo. «Le sarei grata se potesse inviare al mio ufficio il verbale del decesso.» «Se ne occuperà il dottor Yuen. Glielo riferirò.» «Insieme a eventuali risultati dei test di laboratorio.» «Dovrebbero essere tutti nella cartella.» «Manca il tossicologico. È stato fatto, vero?» «Dovrebbe. Verificherò con il laboratorio e la chiamerò per i risultati.» «Il laboratorio me li dovrà mandare direttamente. Se non è stato fatto, lo effettueremo noi in obitorio.» «Fate il tossicologico a chiunque?» chiese Sutcliffe scuotendo la testa. «Mi sembra un altro spreco di soldi dei contribuenti.» «Solo quando è indicato. Penso all'orticaria che ho visto, la notte in cui ha avuto la crisi. Chiederò al dottor Bristol di effettuarlo durante l'autopsia.» «Credevo se ne occupasse lei.» «No. Passerò il caso a un collega. Se dopo le vacanze avrà qualcosa da chiederci, si dovrà rivolgere al dottor Abe Bristol.» Maura si sentì sollevata quando Sutcliffe non le domandò perché non facesse lei l'autopsia. Che cosa avrebbe risposto? Il mio ex marito è attualmente un sospetto in auesto caso. Non posso permettere neanche lontanamente che si metta in dubbio la mia correttezza. La mia integrità. «Il sacerdote è qui», disse Sutcliffe. «Immagino sia il momento.» Maura si girò e si sentì arrossire quando vide padre Brophy in piedi sulla soglia. Si guardarono con istantanea familiarità, nei loro occhi lo sguardo di due persone che all'improvviso si erano accorte, pur in un momento triste, della scintilla scoccata tra loro. Quando il sacerdote entrò nella stanza, Maura abbassò lo sguardo e insieme a Sutcliffe si scostò per lasciare che somministrasse l'estrema unzione. Dalla finestra osservò Brophy in piedi accanto al letto di Ursula, le sue
labbra che si muovevano in preghiera mentre l'assolveva da tutti i peccati. E i miei peccati, padre?, si chiese lei mentre ammirava il suo incredibile profilo. Resteresti sconvolto se sapessi quel che penso e provo per te? Mi assolveresti e mi perdoneresti per le mie debolezze? Brophy unse la fronte di Ursula tracciando il segno della croce, poi sollevò lo sguardo. Era tempo di lasciarla morire. Brophy uscì e si mise a fianco di Maura, dietro alla finestra. A quel punto Sutcliffe e un'infermiera entrarono nella stanza. Quello che seguì fu un gesto fastidiosamente meccanico: spensero alcuni tasti, nient'altro. L'apparecchio per la ventilazione assistita tacque, i soffietti cessarono di sibilare e si arrestarono. Quando i bip cominciarono a rallentare, l'infermiera guardò il monitor cardiaco. Maura sentì padre Brophy avvicinarsi alle sue spalle, quasi volesse ricordarle che era presente in caso avesse avuto bisogno di conforto. Ma non era conforto ciò che lui le ispirava bensì confusione. Attrazione. Maura tenne lo sguardo fisso sul dramma che si stava svolgendo al di là del vetro pensando: sempre gli uomini sbagliati. Perché sono attratta da uomini che non posso, o non devo, avere? Sul monitor apparve il primo battito affannoso, poi il secondo. Privo d'ossigeno, il cuore di Ursula lottava anche se le sue cellule stavano morendo. Adesso il battito era irregolare e si deteriorò via via fino a trasformarsi negli ultimi sussulti della fibrillazione ventricolare. Dopo tanti anni di pratica medica Maura dovette reprimere l'istinto di intervenire. Quell'aritmia non sarebbe stata trattata, quel cuore non sarebbe stato salvato. La linea alla fine si appiattì. Maura si soffermò fuori dalla stanza per assistere agli istanti successivi al trapasso di Ursula. Non persero tempo a compiangerla o a ricordarla: il dottor Sutcliffe le premette lo stetoscopio sul petto, poi scosse il capo e uscì dalla stanza. L'infermiera spense il monitor e scollegò gli elettrodi e le linee endovenose, preparandola per il trasferimento. Gli addetti dell'obitorio erano già per strada. Il compito di Maura in quel luogo era finito. Lasciò padre Brophy davanti alla stanza e tornò nella sala infermiere. «C'è una cosa di cui mi sono scordata», disse all'impiegata. «Sì?» «Per nostra documentazione, ci servono i recapiti dei parenti più stretti. L'unico numero che ho visto sulla cartella è quello del convento. Ho sapu-
to che ha un nipote. Avete il suo telefono?» «Dottoressa Isles?» Maura si voltò e vide padre Brophy in piedi dietro di lei. Era intento ad abbottonarsi il cappotto e le rivolse un sorriso di scusa. «Mi spiace, non volevo origliare, ma posso esserle d'aiuto. Nell'ufficio della parrocchia teniamo tutti i recapiti delle famiglie delle suore. Cercherò il numero e la chiamerò più tardi.» «È davvero gentile, grazie.» Maura prese la cartella fotocopiata e si voltò, pronta ad andarsene. «Oh, dottoressa?» Lei lo guardò. «Sì?» «So che forse non è il momento più adatto, ma desidero dirglielo ugualmente», fece lui, sorridendo. «Buon Natale.» «Anche a lei, padre.» «Ci verrà a trovare un giorno? Solo per salutarci?» «Cercherò», rispose lei sapendo, già mentre lo diceva, che si trattava di un'educata bugia. Che allontanarsi da quell'uomo senza voltarsi era la mossa più sensata che potesse fare. E così fece. Quando uscì dall'ospedale, la ventata d'aria fredda la stordì. Si premette la cartella al petto e affrontò il vento gelido. In quella notte santa, Maura camminava sola; il suo unico compagno era quel fascio di carte che portava con sé. Attraversando lo spiazzo per raggiungere il garage, non vide nessuno e sentì solo il rumore dei suoi passi che riecheggiavano sul cemento. Camminò più velocemente, fermandosi due volte a guardarsi indietro per accertarsi di non essere seguita. Quando arrivò alla macchina aveva il respiro affannoso. Vedo così spesso la morte, pensò, che adesso mi sembra sia dappertutto. Salì in auto e chiuse le portiere con la sicura. Buon Natale, dottoressa Isles. Raccogli quello che semini, e stasera hai raccolto solitudine. Mentre lasciava il posteggio dell'ospedale, socchiuse gli occhi al riflesso dei fari di un'auto nel retrovisore. Un'altra macchina usciva dietro di lei. Padre Brophy? E dove andava la vigilia di Natale, a casa, nella sua parrocchia? O si sarebbe fermato in chiesa per assistere le pecore solitarie del suo gregge in cerca di conforto? In quell'istante squillò il cellulare.
Lo estrasse dalla borsa e lo aprì. «Dottoressa Isles.» «Ehi, Maura», esclamò il suo collega, Abe Bristol. «Ma che bella sorpresa mi hai mandato dal St. Francis!» «Non posso occuparmi io dell'autopsia, Abe.» «E me la passi la vigilia di Natale? Simpatico.» «Mi spiace. Sai che non sono una scaricabarile.» «È la suora di cui ho sentito?» «Sì. Non c'è fretta. L'autopsia può aspettare fino alla fine delle vacanze. Dopo l'aggressione è rimasta in ospedale e hanno staccato le macchine solo poco fa. È stata sottoposta a un vasto intervento neurochirurgico.» «Perciò l'esame endocranico non ci sarà molto utile.» «No, rileveremmo variazioni postoperatorie.» «Causa del decesso?» «Ieri mattina ha avuto una crisi, in seguito a infarto miocardico. Dato che ho familiarità con il caso, ho già raccolto i dati preliminari. Ho una copia della cartella clinica, te la porterò domani.» «Posso chiederti perché non te ne occupi tu?» «È meglio che sul verbale non ci sia il mio nome.» «Perché?» Maura tacque. «Maura, perché rinunci a questo caso?» «Motivi personali.» «Conoscevi la paziente?» «No.» «Allora perché?» «Conosco uno dei sospetti», rispose. «Ero sposata con lui.» Chiuse la comunicazione e gettò il cellulare sul sedile, dopo di che si concentrò sul pensiero di tornare a casa, di rifugiarsi in un posto sicuro. Quando svoltò nella sua strada, i fiocchi di neve cadevano grossi come batuffoli di cotone. Erano una visione magica, quella coltre spessa e quei cumuli argentei che ricoprivano i prati. La quiete di una notte santa. Accese il caminetto e si preparò una cena semplice: zuppa di pomodoro e formaggio fuso con pane tostato. Si versò un bicchiere di zinfandel e portò il tutto in soggiorno dove le luci dell'albero scintillavano. Ma non riuscì a finire nemmeno quel pasto frugale. Scostò il vassoio e finì l'ultimo sorso di vino fissando il caminetto. Soffocò la voglia di alzare il telefono e chiamare Victor. Aveva preso l'aereo per San Francisco? Non sapeva nemmeno dove fosse quella sera né che cosa gli avrebbe potuto dire. Ci
siamo traditi a vicenda, pensò. Nessun amore può sopravvivere a questo. Si alzò, spense le luci e andò a dormire. 21 Il ragù di vitello bolliva lentamente da quasi due ore sul fornello e l'aroma di pomodori maturi, aglio e carne tenerissima sopraffaceva quello più blando del tacchino da otto chili che troneggiava, dorato e lucido, nella sua teglia sul bancone. Jane era seduta al tavolo, nella cucina di sua madre, intenta ad amalgamare uova e burro fuso in una terrina di patate calde che aveva appena bollito e schiacciato. A casa aveva di rado tempo per cucinare e i suoi pasti erano composti da qualsiasi cosa riuscisse a trovare negli armadietti o nel freezer. Ma lì, nella cucina della madre, nessun pasto veniva preparato in fretta. Cucinare era un atto di profondo rispetto, di venerazione per il cibo stesso, per quanto poveri fossero gli ingredienti. Ogni fase, dal tagliare al mescolare al cuocere al forno, faceva parte di un rito solenne che culminava con la parata dei piatti e le doverose esclamazioni di meraviglia. Nella cucina di Angela non si andava mai di corsa. Perciò Jane procedeva con calma quando aggiungeva la farina alle patate e alle uova, che poi mescolava a mano. Impastare le patate calde le dava conforto, la induceva ad accettare serenamente il fatto che si trattava di un'attività che non poteva essere svolta in fretta. Non accettava tante cose nella sua vita. Impiegava tante energie a cercare di essere più veloce, più abile, più efficiente. Era bello per una volta cedere ai requisiti indispensabili per preparare bene gli gnocchi. Aggiunse un altro po' di farina e impastò il tutto concentrandosi sulla consistenza morbida dell'impasto che le scivolava tra le dita. Nella stanza accanto, dov'erano riuniti gli uomini, la televisione era sintonizzata su ESPN con il volume al massimo. Lì dentro, tuttavia, con la porta chiusa che la isolava dai boati da stadio e dal cicaleccio dei commentatori sportivi, Jane lavorò con tranquillità affondando le mani nell'impasto che ormai aveva assunto una consistenza elastica. L'unico momento di distrazione fu quando uno dei gemelli di Irene entrò trotterellando dalla porta a vento e sbatté la testa contro il tavolo, mettendosi a urlare. Irene accorse e lo prese in braccio. «Angela, sei sicura di non aver bisogno di una mano in cucina?» domandò Irene con il tono disperato di chi voleva fuggire dal baccano del salotto. Angela, intenta a friggere i cannoli, rispose: «Non ci pensare nemmeno!
Resta pure con i bambini». «Può tenerli Michael. Non sta facendo niente, guarda la TV.» «No, vai a sederti in soggiorno e stai tranquilla. Io e Janie abbiamo tutto sotto controllo.» «Se proprio non ti serve una mano...» «Non mi serve, non mi serve.» Irene sospirò e uscì con il bambino che si dimenava tra le sue braccia. Jane iniziò ad arrotolare l'impasto. «Sai, mamma, vorrebbe davvero dare una mano qui in cucina.» Angela estrasse i cannoli croccanti e dorati dall'olio e li posò su alcuni tovagliolini di carta per lasciarli scolare. «È meglio se guarda i bambini. Io ho il mio sistema, lei non saprebbe cosa fare in questa cucina.» «Già, perché io sì?» Angela si voltò e la guardò con il mestolo forato gocciolante d'olio in mano. «Certo che sì.» «So solo quello che mi hai insegnato.» «E non basta? Avrei dovuto fare di meglio?» «Sai che non intendevo dire questo.» Angela la osservò con sguardo critico mentre tagliava l'impasto in pezzetti di un paio di centimetri. «Pensi che la sua mamma le abbia insegnato a fare gli gnocchi così?» «Ne dubito, mamma, visto che è irlandese.» Angela sbuffò. «Ecco un'altra ragione per non farle mettere piede in cucina.» «Ehi, ma'!» esclamò Frankie spalancando con forza la porta. «Hai ancora qualcosina da sgranocchiare?» Jane sollevò lo sguardo e vide il fratello maggiore avanzare con aria tronfia. Era in tutto e per tutto un marine, con due spalle fin troppo muscolose, larghe come il frigorifero in cui stava sbirciando. «Non avrai già fatto fuori l'intero vassoio?» «No, quelle due pesti hanno toccato tutto il cibo con le loro luride manine. Adesso non mi va di mangiarlo.» «Sull'ultimo ripiano ci sono ancora un po' di formaggio e di salame», rispose Angela. «E dei bei peperoni arrosto, in quella terrina sul banco. Prepara un altro piatto, vuoi?» Frankie prese una birra dal frigorifero e tirò la linguetta. «Non puoi farlo tu, ma'? Non vorrei perdermi l'ultimo quarto.» «Janie, ci pensi tu, per favore?»
«Perché io? Lui non sta facendo niente di utile», precisò Jane. Ma Frankie era già uscito dalla cucina e si era probabilmente già riseduto davanti alla televisione a tracannarsi la birra. Jane andò al lavandino per lavarsi le mani sporche di farina. La serenità di pochi istanti prima era svanita, rimpiazzata da un familiare senso d'irritazione. Tagliò un paio di mozzarelle fresche e cremose a dadini e un po' di salame a fette sottilissime, poi dispose il tutto su un piatto da portata. Vi aggiunse un mucchietto di peperoni arrosto e una cucchiaiata di olive. Se avesse abbondato con le dosi, si sarebbero rovinati l'appetito. Dio, mi sono messa a ragionare come la mamma. Perché diamine mi dovrebbe importare se si rovinano l'appetito? Portò il piatto in soggiorno, dove il padre e i fratelli erano stravaccati sul divano come tre babbei, con la bocca aperta e lo sguardo vitreo incollato alla TV. Irene era inginocchiata sul pavimento accanto all'albero di Natale a raccogliere briciole di cracker, «Mi spiace tanto», disse. «Dougie le ha fatte cadere sul tappeto prima che potessi fermarlo...» «Ehi, Janie», disse Frankie. «Ti puoi spostare? Non riesco a vedere la partita.» Lei posò il piatto di antipasti sul tavolino e prese il vassoio ormai contaminato dai bambini. «Sapete», esclamò, «qualcuno di voi potrebbe aiutare Irene con i bambini.» Michael alla fine sollevò lo sguardo, con l'occhio annebbiato. «Eh? Oh, sì...» «Janie, spostati», ripeté Frankie. «Non prima che tu mi abbia detto grazie.» «Per cosa?» Jane afferrò il piatto di stuzzichini che aveva appena posato. «Dato che non te ne sei nemmeno accorto...» «Va bene, va bene. Grazie.» «Prego.» Jane posò il piatto con forza e tornò in cucina. Sulla soglia si fermò e si voltò a guardare la scena in soggiorno. L'albero di Natale, scintillante di luci, con una montagna di doni ai piedi, di offerte al grande dio dell'eccesso. I tre uomini incollati alla televisione, che si stavano abboffando di salame. I gemelli che giravano per la stanza come due trottole e Irene che raccoglieva scrupolosamente ogni briciola di cracker, mentre alcune ciocche dei suoi splendidi capelli rossi le ricadevano sul viso. Non fa per me, pensò Jane. Meglio morire che finire in un incubo del
genere. Si precipitò in cucina e posò il vassoio. Poi rimase immobile per qualche istante a inspirare profondamente, scuotendosi di dosso un terribile senso di claustrofobia. Consapevole, nello stesso tempo, del peso che le gravava sulla vescica. Non posso lasciare che mi accada, pensò. Non posso diventare come Irene, sfinita, distrutta da un paio di manine sudice che toccano tutto. «Che c'è?» chiese Angela. «Niente, mamma.» «Dai, so che c'è qualcosa che non va.» Lei sospirò. «Frankie mi fa davvero incazzare, sai?» «Non puoi usare un termine più educato?» «No, è proprio la parola giusta per descrivere quello che mi fa. Non vedi che razza di coglione è?» Angela tirò fuori gli ultimi cannoli dall'olio e li mise a scolare. «Sai che inseguiva me e Mickey per casa con l'aspirapolvere? Gli piaceva spaventare Mickey a morte, dicendogli che l'avrebbe risucchiato nel tubo. Mike urlava come un matto. Ma tu non l'hai mai sentito perché lo faceva sempre quando tu non c'eri. Non hai mai saputo quanto fosse perfido con noi.» Angela si sedette al tavolo e guardò i piccoli cilindri di pasta che la figlia stava tagliando. «Lo so invece», rispose. «Cosa?» «So che sarebbe potuto essere più gentile con voi, un fratello migliore.» «Ma gliele hai perdonate tutte. Questo ci dava fastidio. E a Mike dà ancora fastidio il fatto che Frankie sia da sempre il tuo preferito.» «Tu non sai di Frankie.» Jane scoppiò a ridere. «So quanto basta.» «Siediti, Janie. Dai, prepariamo insieme gli gnocchi. Così si fa prima.» Lei sospirò e si lasciò cadere sulla sedia di fronte alla madre. Risentita, senza dire una parola, prese a cospargere gli gnocchi di farina e a schiacciarli uno a uno col dito. Un'impronta rabbiosa non era forse il segno più personale che un cuoco potesse lasciare sui suoi manicaretti? «Devi essere indulgente con Frankie», affermò Angela. «Perché? Lui con me non lo è.» «Non sai quello che ha passato.» «Sui marine ho sentito più di quello che avrei voluto.» «No, io parlo di quand'era bambino. Di quello che è successo quand'era
bambino.» «È successo qualcosa?» «Mi vengono ancora i brividi... al pensiero di come ha battuto la testa sul pavimento.» «Cosa, è caduto dalla culla?» chiese Jane scoppiando in una risata. «Questo potrebbe spiegare il suo QI.» «No, non c'è da ridere. È stata una cosa seria, molto seria. Tuo padre era fuori città e io ho dovuto portare Frankie di corsa al pronto soccorso. Gli hanno fatto una radiografia che ha rilevato una frattura, proprio qui», disse Angela toccandosi la tempia e sporcandosi di farina i capelli scuri. «Nel cranio.» «Ho sempre detto che aveva un buco in testa.» «Te l'ho detto, Jane, non è divertente. Ha rischiato di morire.» «È troppo perfido per morire.» Angela fissò la ciotola di farina. «Aveva solo quattro mesi.» Jane si fermò, con un dito premuto nella pasta molle. Non riusciva a immaginare Frankie da bambino, non riusciva a immaginarselo inerme, vulnerabile. «I medici hanno dovuto estrargli del sangue dal cervello. Hanno detto che c'era la possibilità...» Angela tacque. «Quale possibilità?» «Che non crescesse sano.» A Jane venne subito in mente una battuta sarcastica, ma si trattenne. Quello, pensò, non era il momento per i sarcasmi. Angela non la stava guardando, si fissava la mano che stringeva un pezzo di pasta. Evitava di proposito lo sguardo della figlia. Quattro mesi, pensò Jane. Qui c'è qualcosa che non torna. Se aveva solo quattro mesi, non riusciva nemmeno a gattonare. Non poteva cadere dalla culla o scendere dal seggiolone. L'unico modo in cui un bambino tanto piccolo poteva cadere era dalle braccia di un adulto. Jane guardò la madre sotto una nuova luce. Si chiese quante notti Angela si fosse svegliata in preda all'orrore, ricordando l'attimo in cui aveva perso la presa, in cui il bambino le era scivolato dalle braccia. Frankie, il giovane di grandi speranze, che per poco non veniva ucciso dalla madre sbadata. Allungò la mano e le toccò il braccio. «Ehi, ma è cresciuto sano, no?» Angela respirò profondamente e prese a infarinare e preparare altri gnocchi, lavorando d'un tratto a velocità sorprendente.
«Mamma, Frankie è il più forte del gruppo.» «No, non lo è.» Angela posò gli gnocchi su un vassoio e guardò la figlia. «Sei tu la più forte.» «Sì, come no.» «Lo sei, Jane. Quando sei nata, ti ho dato un'occhiata e ho pensato: per lei non mi dovrò mai preoccupare. È una che sa combattere, in qualsiasi situazione. Mickey, lo so, lo avrei dovuto proteggere di più. Non è capace di difendersi.» «Mike è sempre stato una vittima e si comporterà sempre come tale.» «Ma tu no.» Un lieve sorriso increspò le labbra di Angela mentre guardava la figlia. «Quando avevi tre anni, ti ho vista inciampare e cadere di faccia sul tavolino.» «Sì, ho ancora la cicatrice.» «Il taglio era tanto brutto che ti hanno dovuto mettere dei punti. Sanguinavi su tutto il tappeto e sai cos'hai fatto? Indovina.» «Mi sarò messa a urlare come una disperata.» «No, hai iniziato a colpire il tavolino. A prenderlo a pugni, così!» Angela colpì il tavolo con un pugno sollevando uno sbuffo di farina. «Come se fossi infuriata con quel mobile. Non sei corsa da me, non piangevi per il sangue. Eri troppo occupata a combattere con l'oggetto che ti aveva ferito.» Angela rise e si passò la mano sugli occhi, lasciandosi una striscia bianca sulla guancia. «Eri la bambina più singolare che esistesse. Dei miei figli, eri quella di cui andavo più fiera.» Jane fissò sua madre. «Non l'ho mai saputo. Non ne avevo idea.» «Ah! I bambini! Non hai idea di che cosa passino i genitori. Aspetta di averne e vedrai. Allora capirai quello che si prova.» «E cosa si prova?» «Amore», rispose Angela. Jane guardò le dita rovinate della madre e all'improvviso sentì gli occhi bruciarle e un nodo in gola. Si alzò e andò al lavandino, poi riempì una pentola d'acqua per cuocere gli gnocchi. Mentre aspettava che l'acqua si scaldasse, pensò: forse non so davvero che cosa si provi ad amare perché sono stata troppo occupata a combattere l'amore, come combatto qualsiasi cosa che mi può ferire. Lasciò la pentola sul fornello e uscì dalla cucina. Di sopra, nella camera dei genitori, prese il telefono. Per un istante restò seduta sul letto con il ricevitore in mano cercando di trovare il coraggio di fare quella telefonata.
Fallo, lo devi fare. Iniziò a comporre il numero. Il telefono squillò quattro volte, poi udì il messaggio registrato, breve e funzionale: «Ciao, sono Gabriel, adesso non sono in casa. Per favore, lasciate un messaggio». Attese il bip e inspirò profondamente. «Sono Jane», affermò. «Ti devo dire una cosa e penso sia meglio così, per telefono. È meglio che parlarti di persona perché non credo proprio di voler vedere la tua reazione. Allora: ho... combinato un casino.» Scoppiò improvvisamente a ridere. «Gesù, mi sento davvero stupida, ho fatto l'errore più vecchio del mondo. Non prenderò mai più in giro le ragazzine sprovvedute. Quello che è successo è, be'... sono incinta. Di circa otto settimane, credo. Il che significa, in caso te lo stia domandando, che è sicuramente tuo. Non ti chiedo niente. Non voglio ti senta obbligato a fare quello che un uomo dovrebbe fare. Non c'è nemmeno bisogno che mi richiami. Pensavo però che avessi diritto di saperlo perché...» Tacque per un istante, la voce all'improvviso rotta dal pianto. Poi, schiaritasi la gola, aggiunse: «Perché ho deciso di tenere il bambino». Riagganciò. Rimase immobile a lungo a fissarsi le mani, travolta da un turbine di emozioni: sollievo, paura, attesa. Ma non ambivalenza: era una scelta che la faceva sentire profondamente bene. Dopo un po' si alzò sentendosi all'improvviso leggera, libera dal peso dell'incertezza. C'erano tante cose di cui preoccuparsi, tanti cambiamenti a cui prepararsi, eppure mentre scendeva le scale e tornava in cucina senti una nuova levità nel suo passo. L'acqua nella pentola stava bollendo e il vapore che si levava le riscaldò il viso, come la carezza di una madre. Aggiunse due cucchiai di olio di oliva, poi vi versò gli gnocchi. Altre tre pentole stavano bollendo sul fuoco e diffondendo i loro profumi. Il bouquet della cucina di sua madre. Jane inspirò gli odori percependo quel luogo sacro in modo nuovo, un luogo in cui il cibo era amore. Raccolse col mestolo gli gnocchi via via che affioravano in superficie, li dispose sul piatto da portata e aggiunse il ragù. Aprì il forno ed estrasse le varie teglie tenute in caldo: patate arrosto, fagiolini, polpette, cannelloni. Il trionfo dell'abbondanza. Insieme alla madre portò il tutto allegramente in soggiorno. Alla fine arrivò, ovviamente, il tacchino, che fu collocato regalmente da solo, al centro della tavola, circondato dai cibi italiani. Era più
di quanto l'intera famiglia potesse mangiare, ma proprio quello era il punto: abbondanza di cibo e di amore. Jane si sedette a tavola di fronte a Irene e la osservò mentre dava da mangiare ai bambini. Un'ora prima, quando l'aveva guardata in salotto, aveva visto una giovane donna stanca, la cui vita era già finita, con la gonna sformata per il continuo tirare di quattro piccole mani. Adesso guardava la stessa donna e vide un'Irene diversa, che rideva mentre infilava cucchiaiate di salsa di mirtillo nelle bocche dei figli, che assumeva un'aria affettuosa, quasi persa, mentre avvicinava le labbra alle loro teste ricciolute. Vedo una donna diversa perché sono io a essere cambiata, pensò. Non Irene. Dopo cena, mentre aiutava Angela a preparare il caffè e a riempire di panna montata i cannoli, si ritrovò a guardare anche sua madre con occhi diversi. Vide alcune ciocche argentee nei suoi capelli e la pelle che iniziava a cedere sulle guance. Ti sei mai pentita di averci avuti, mamma?, si chiese. Non ti soffermi mai a pensare di aver fatto un errore? O eri sicura come lo sono io di questo bambino? «Ehi, Janie», urlò Frank dal soggiorno. «Ti sta suonando il cellulare, in borsa.» «Lo puoi prendere?» urlò lei di rimando. «Stiamo guardando la partita!» «Ho le mani piene di panna montata! Riesci almeno a rispondere?» Lui entrò a grandi passi in cucina e in pratica le tirò il telefono. «È un uomo.» «Frost?» «No, non so chi sia.» Gabriel, fu il suo primo pensiero. Ha sentito il messaggio. Andò al lavandino e si lavò le mani senza fretta. Quando infine prese il telefono, riuscì a rispondere con voce calma. «Pronto?» «Detective Rizzoli? Sono padre Brophy.» Ogni tensione le svanì d'un tratto dal corpo e si lasciò cadere su una sedia. Percepiva lo sguardo della madre che l'osservava e cercò di nascondere la delusione. «Sì, padre?» «Mi spiace disturbarla la vigilia di Natale, ma sembra che il telefono della dottoressa Isles abbia qualche problema e... be', ho scoperto qualcosa che credo debba sapere.» «Di che si tratta?»
«La dottoressa Isles desiderava avere i recapiti dei parenti più stretti di suor Ursula e io mi sono offerto di procurarglieli. Ma i nostri documenti parrocchiali sono un po' antiquati. Abbiamo il vecchio numero di telefono del fratello, a Denver, ormai scollegato.» «Madre Mary Clement mi ha detto che è morto.» «Le ha anche detto che suor Ursula ha un nipote che vive fuori dallo stato?» «La badessa non me ne ha mai parlato.» «Pare si sia messo in contatto con i medici. Così mi hanno riferito le infermiere.» Jane guardò il vassoio con i cannoli che si stavano rammollendo a contatto con la panna montata. «Cosa mi vuol dire, padre?» «So che sembra un problema irrilevante rintracciare un nipote che non vede sua zia da anni. So quanto sia difficile trovare qualcuno che non risiede nello stesso stato quando non si conosce nemmeno il suo nome proprio. Ma la Chiesa ha risorse che nemmeno la polizia possiede. Un buon sacerdote conosce il suo gregge, detective. Conosce le famiglie e i nomi dei loro figli. Perciò ho chiamato il sacerdote della parrocchia di Denver a cui apparteneva il fratello di suor Ursula. Se lo ricorda molto bene. Ha celebrato lui la messa funebre.» «Gli ha chiesto di altri parenti? Del nipote?» «Sì.» «E?» «Non c'è nessun nipote, detective. Non esiste.» 22 Maura sognò pire funerarie. Era accovacciata nell'ombra e osservava le fiamme arancioni lambire i corpi impilati come legna da ardere, la carne consumarsi al calore del fuoco, le sagome degli uomini attorno ai cadaveri che ardevano, un cerchio di spettatori silenziosi che non riusciva a vedere in volto. Nemmeno loro la vedevano, dato che era nascosta, ben rannicchiata nel buio. Dalla pira si levavano scintille, alimentate dal carburante umano, che salivano a spirale nel cielo nero accendendo la notte, illuminando una scena ancor più terribile: i cadaveri si muovevano ancora. Le loro membra annerite si agitavano nell'agonia del fuoco. Uno degli uomini in cerchio si voltò lentamente e fissò Maura. Era un
volto noto, un volto dagli occhi senz'anima. Il volto di Victor. Maura si svegliò di soprassalto con il cuore che le martellava nel petto e la camicia da notte fradicia di sudore. Una folata investì la casa. Udì le finestre vibrare con un rumore secco di ossa e le pareti gemere. Ancora in preda al panico per l'incubo, rimase perfettamente immobile mentre il sudore cominciava a raffreddarsi sulla sua pelle. Era stato solo il vento a svegliarla? Si mise in ascolto e ogni scricchiolio della casa sembrò trasformarsi in un passo. C'era un intruso e si stava avvicinando. All'improvviso si contrasse, allarmata da uno strano rumore: un graffiare d'artigli sui muri, come se un animale cercasse di entrare. Guardò il quadrante luminoso dell'orologio. Erano le undici e quarantacinque. Scese dal letto e la stanza le sembrò gelida. Cercò tastoni la vestaglia, senza accendere la luce per mantenere gli occhi adattati all'oscurità. Andò alla finestra e vide che aveva smesso di nevicare. Il terreno riluceva, bianco, alla luce della luna. Eccolo di nuovo, il rumore di qualcosa che grattava il muro. Si avvicinò il più possibile al vetro e scorse fugacemente un'ombra in prossimità dell'angolo anteriore della casa. Un animale? Uscì dalla camera e a piedi nudi percorse cauta il corridoio in direzione del soggiorno. Girando attorno all'albero di Natale, sbirciò fuori dalla finestra. Il cuore per poco non le si fermò nel petto. Un uomo stava salendo i gradini del portico anteriore. Non lo vedeva in volto, perché era avvolto nell'ombra. Quasi sentisse di essere osservato, l'uomo si voltò verso la finestra dietro cui si trovava Maura e lei vide la sua silhouette. Le spalle larghe, la coda di cavallo. Si allontanò dalla finestra e finì in mezzo ai rami spinosi dell'albero, dove restò cercando di capire perché Matthew Sutcliffe si trovasse lì, davanti alla sua porta. Perché arrivare a quell'ora, senza preavviso? Non si era ancora scrollata completamente di dosso la paura dell'incubo e quella visita a tarda sera la mise in agitazione, la indusse a riflettere bene prima di aprire la porta a chicchessia, anche a un uomo di cui conosceva il nome e il volto. In quell'istante squillò il campanello. Maura trasalì e una palla dell'albero cadde fracassandosi sul pavimento di legno. Fuori, l'ombra si spostò in direzione della finestra.
Lei non si mosse, ancora incerta sul da farsi. Non accenderò la luce, pensò. Alla fine rinuncerà e mi lascerà in pace. Il campanello squillò di nuovo. Va' via, pensò lei. Va' via e chiamami domani mattina. Quando udì i passi scendere i gradini del portico tirò un sospiro di sollievo. Si avvicinò di poco alla finestra e guardò fuori ma non lo vide. Né vide auto parcheggiate davanti alla casa. Dov'era andato? Adesso sentiva dei passi, uno scricchiolio di stivali che affondavano nella neve, che si dirigevano verso il lato della casa. Che diavolo stava facendo, aggirava la casa? Sta cercando un modo per entrare. Maura si allontanò di scatto dall'albero soffocando un grido di dolore quando pestò la palla in frantumi e una scheggia di vetro le tagliò il piede nudo. La sagoma incombente di Sutcliffe apparve all'improvviso in una finestra laterale. Stava guardando dentro, cercando di scrutare il soggiorno buio. Maura arretrò in corridoio trasalendo a ogni passo, con la pianta del piede ormai tutta insanguinata. È ora di chiamare la polizia. Chiama il 911. Si voltò e zoppicò fino in cucina, tastando la parete in cerca del telefono. Nella fretta urtò il ricevitore che cadde dal supporto. Lo afferrò e se lo premette all'orecchio. Non c'era linea. Il telefono della camera, pensò: era forse fuori posto? Riagganciò l'apparecchio e tornò zoppicando in corridoio. Mentre la scheggia le penetrava sempre più in profondità nella pianta, ripercorse il tratto già imbrattato del suo sangue. In camera, sforzandosi di vedere al buio, avanzò sul tappeto finché non picchiò con la tibia contro il letto. Poi a tastoni seguì il materasso fino alla testiera. Fino al telefono sul comodino Niente linea. Maura sentì il terrore penetrarle fin nelle ossa come un vento gelido. Ha tagliato i fili. Lasciò il ricevitore e rimase in ascolto, ansiosa di capire che cosa avrebbe fatto. La casa scricchiolava per il vento, coprendo tutti i rumori tranne il battito del suo cuore. Dov'è? Dov'è? Poi pensò: il cellulare.
Si precipitò alla cassettiera, dove aveva lasciato la borsa. Vi frugò dentro tastando il contenuto, in cerca del telefonino. Estrasse il portafoglio e le chiavi, un paio di penne e un pettine. Il telefono, dov'è quel fottuto telefono? In macchina. L'ho lasciato sul sedile anteriore dell'auto. Quando udì un rumore di vetri rotti, sollevò di scatto la testa. Proveniva dal davanti o dal retro? Da che parte stava arrivando? Corse fuori dalla camera, in corridoio, senza più badare al dolore della scheggia che le penetrava sempre più nel piede. La porta del garage era in fondo al corridoio. La spalancò e s'infilò nel locale proprio mentre udiva un altro rumore di vetri che s'infrangevano e cadevano sul pavimento. Chiuse la porta e si diresse verso la macchina con il respiro accelerato, affannoso, e il cuore al galoppo. Calmati, calmati. Sollevò lentamente la maniglia della portiera e si fece piccola per la paura quando sentì il click della serratura che scattava. Spalancò la portiera e s'infilò dietro al volante, per emettere poco dopo un gemito soffocato di frustrazione quando si accorse di aver lasciato le chiavi in camera. Non poteva accendere il motore con uno schiocco di dita. Guardò il sedile del passeggero e, grazie alla luce dell'abitacolo, individuò il cellulare, infilato nello spazio tra i sedili. Lo aprì e lo vide illuminarsi. La batteria era carica al massimo. Grazie, Dio, pensò, e compose il 911. «Emergenza.» «Qui è il 2130 di Buckminster Road», sussurrò. «Qualcuno si sta introducendo in casa mia!» «Mi può ripetere l'indirizzo? Non ho sentito.» «2130, Buckminster Road! Un intruso...» Tacque di colpo, lo sguardo fisso sulla porta che conduceva in casa. Ora, sotto di essa, brillava una luce. È dentro. Mi sta cercando. Uscì in fretta dall'auto e chiuse piano la portiera, spegnendo la luce dell'abitacolo. Era di nuovo al buio. La scatola dei fusibili era solo a pochi metri di distanza, sulla parete del garage. Maura considerò la possibilità di girare tutti gli interruttori e di togliere la corrente alla casa. In quel modo avrebbe goduto della protezione del buio, ma lui avrebbe capito dove si trovava e si sarebbe diretto immediatamente in garage. Resta ferma, si disse. Forse penserà che sono fuori. Forse crederà che la casa è vuota. Poi si ricordò del sangue. Si era lasciata dietro una scia di sangue.
Sentiva dei passi. Di scarpe che si muovevano sul pavimento seguendo le sue impronte insanguinate. Tracce confuse, che andavano su e giù per il corridoio. Alla fine le avrebbe seguite fino in garage. Pensò a come era morta la Signora dei ratti, alla gragnola di frammenti disseminati nel suo petto. Pensò alla devastazione che un proiettile Glaser con camicia in rame creava nel corpo umano. All'esplosione e ai pallini che laceravano gli organi interni, alla rottura dei vasi, all'emorragia massiva nella cavità toracica. Scappa. Esci dalla casa. E poi? Cerco aiuto dai vicini? Busso alle loro porte? Non sapeva nemmeno chi fosse in casa quella sera. I passi si stavano avvicinando. Ora o mai più. Maura corse verso la porta laterale e, mentre l'apriva, fu investita dall'aria gelida. Si buttò fuori, in giardino. Affondò fino al polpaccio nella neve, che si riversò all'interno, contro lo stipite, impedendole di richiuderla. La lasciò socchiusa e avanzò a fatica fino al cancello, dove strattonò il catenaccio congelato. Il cellulare le cadde di mano mentre lottava per aprire il cancello bloccato dalla neve. Alla fine riuscì a smuoverlo quel tanto da passare e da raggiungere il giardino anteriore. Tutte le case della strada erano buie. Si mise a correre affondando con i piedi nudi nella neve. Aveva appena raggiunto il marciapiede quando udì il suo inseguitore lottare con il cancello per aprirlo di più. Sul marciapiede era spaventosamente allo scoperto. Maura si portò allora tra le siepi, nel giardino del signor Telushkin, ma lì i cumuli di neve erano ancor più alti, le arrivavano quasi alle ginocchia, e doveva faticare anche solo per fare un passo. Sentiva i piedi intorpiditi e muoveva maldestramente le gambe intirizzite. Contro il riflesso intenso della luna sulla neve era un facile bersaglio, una sagoma scura in un mare spietato di bianco. Mentre avanzava a fatica, con le gambe ormai quasi bloccate, si chiese se in quel momento l'altro stesse già prendendo la mira. Affondò fino alla coscia e cadde, sentendo il sapore della neve in bocca. Si mise in ginocchio e cominciò a gattonare, rifiutandosi di cedere. Di accettare la morte. Con le gambe ormai insensibili avanzò ancora scavando un solco nella neve, mentre udiva dei passi scricchiolare nella sua direzione. Si stava preparando a uccidere.
Una luce squarciò all'improvviso il buio. Maura sollevò lo sguardo e vide il luccichio di due fari in avvicinamento. Una macchina. La mia unica possibilità. Con un singhiozzo, balzò in piedi e prese a correre verso la strada agitando le braccia, urlando. L'auto inchiodò slittando proprio davanti a lei. Il guidatore scese. Era una figura alta, imponente, che le si avvicinava in quel biancore spettrale. Maura la fissò e iniziò ad arretrare. Era padre Brophy. «Va tutto bene», mormorò. «Va tutto bene.» Lei si voltò e guardò verso casa, ma non vide nessuno. Dov'è? Dov'è andato? Adesso altre luci si stavano avvicinando. Altre due macchine arrivarono e si fermarono. Maura vide la luce blu intermittente di un'auto della polizia e sollevò la mano per proteggersi dal bagliore dei fari e cercare di individuare le figure che venivano nella sua direzione. «Doc, stai bene?» sentì Jane gridare. «Mi occupo io di lei», disse padre Brophy. «Dov'è Sutcliffe?» «Non l'ho visto.» «In casa», rispose Maura. «È entrato in casa.» «La porti nella sua macchina, padre», disse il detective Rizzoli. «Resti con lei.» Maura non si era ancora mossa e rimase immobile mentre Brophy le si avvicinava. Il sacerdote si tolse il cappotto e glielo mise sulle spalle. Poi, cingendola con un braccio, l'aiutò a salire in macchina, sul sedile del passeggero. «Non capisco», sussurrò lei. «Perché è qui?» «Shhh. Prima mettiamoci al riparo dal vento.» Brophy le si sedette accanto. Mentre la bocchetta dell'auto le soffiava aria calda alla massima velocità sulle ginocchia e sul viso, Maura si strinse nel cappotto nel tentativo di scaldarsi, battendo i denti a tal punto da non riuscire a parlare. Dal parabrezza vide alcune sagome scure muoversi in strada. Riconobbe la silhouette di Barry Frost che si avvicinava alla porta della sua casa. Vide poi Jane e un agente aggirare il recinto in direzione del cancello laterale, con le armi in pugno.
Si voltò a guardare padre Brophy. Malgrado non ne vedesse l'espressione, percepì l'intensità del suo sguardo con la stessa forza con cui sentiva il calore del suo cappotto. «Come ha fatto a capire?» mormorò. «Quando non sono riuscito a contattarla telefonicamente, ho chiamato il detective Rizzoli», disse prendendole la mano e tenendola tra le sue. Quel contatto le fece venire le lacrime agli occhi. D'un tratto Maura non poté più guardarlo; fissò davanti a sé, verso la strada, che si trasformò in una macchia di colori indistinti quando Brophy avvicinò la sua mano alle labbra e gliela baciò a lungo, con calore. Maura trattenne le lacrime e la strada tornò a essere a fuoco. Ciò che vide l'allarmò. Figure che correvano, la sagoma del detective Rizzoli, scura contro le luci blu lampeggianti, che attraversava fulminea la strada. Frost, con la pistola in pugno, che si accucciava dietro la macchina della polizia. Perché tutti si stanno muovendo verso di noi? Che cosa sanno che noi non sappiamo? «Chiuda la sicura», gli disse. Brophy la guardò, stupito. «Cosa?» «Chiuda la sicura!» Jane stava gridando loro qualcosa dalla strada, un avvertimento. Lui è qui. È accucciato dietro la nostra macchina! Maura si piegò di lato e con la mano tastò la portiera in cerca del pulsante, frenetica, perché al buio non riusciva a trovarlo. L'ombra di Matthew Sutcliffe comparve dietro al suo finestrino. Maura trasalì quando la portiera si spalancò ed entrò una ventata d'aria fredda. «Scenda dalla macchina, padre», ordinò Sutcliffe. Il sacerdote rimase immobile. «Le chiavi sono nel cruscotto. Prenda l'auto, dottor Sutcliffe. Io e Maura adesso scendiamo», disse con tono calmo, tranquillo. «No, solo lei.» «Io non scendo se Maura non viene con me.» «Esca da questa cazzo di macchina, padre!» Maura si sentì tirare di lato per i capelli e premere una pistola alla tempia. «Per favore», mormorò a Brophy. «Faccia come dice. Ora.» «D'accordo!» esclamò Brophy in preda al panico. «Lo farò. Ora scendo...» Spalancò la portiera e uscì. «Mettiti al volante», ordinò Sutcliffe a Maura. Tremante e maldestra, Maura scavalcò la leva del cambio e si mise al
posto di guida. Lanciò un'occhiata di lato e vide Brophy ancora in piedi accanto all'auto, che la fissava impotente. Il detective Rizzoli gli stava urlando di allontanarsi, ma lui sembrava paralizzato. «Vai», disse Sutcliffe. Maura innestò la marcia e tolse il freno. Premette il piede nudo sull'acceleratore, ma subito dopo lo tolse. «Non mi puoi uccidere», disse. La razionale Maura Isles aveva ripreso il controllo. «Siamo circondati dalla polizia. Ti servo come ostaggio, per guidare l'auto.» Passarono alcuni secondi. Un'eternità. Maura trattenne un grido quando lo vide abbassare l'arma e premerle la canna con forza nella coscia. «Ma a te non serve la gamba sinistra per guidare. Vuoi salvarti il ginocchio?» Lei deglutì. «Sì.» «Allora andiamo.» Maura premette l'acceleratore. La macchina iniziò lentamente a muoversi e superò quella della polizia dietro cui si trovava accovacciato Frost. La strada buia si estendeva davanti a loro, libera. L'auto continuò ad andare. All'improvviso Maura vide nel retrovisore padre Brophy, che correva verso di loro illuminato dalle luci blu intermittenti della polizia. Afferrò la portiera di Sutcliffe e la spalancò. Allungò il braccio e lo afferrò per la manica tentando di trascinarlo fuori. L'esplosione dello sparo scagliò il sacerdote all'indietro. Maura spalancò la sua portiera e si gettò giù dalla macchina in corsa. Atterrò sull'asfalto gelido e vide un lampo intenso quando batté la testa sul terreno. Per un istante non riuscì a muoversi. Rimase stesa al buio, intrappolata in un luogo freddo, ottenebrante, senza sentire dolore né paura, consapevole solo del vento che le gettava la neve soffice sul viso. Poi udì una voce che la chiamava da molto lontano. Adesso era più forte, più vicina. «Doc? Doc?» Maura aprì gli occhi e sussultò alla luce intensa della torcia di Jane. Voltò la testa dall'altra parte e vide la macchina a una decina di metri di distanza, il paraurti anteriore schiacciato contro un albero. Sutcliffe giaceva steso sulla strada con la faccia all'ingiù e cercava faticosamente di alzarsi
con le mani ammanettate dietro la schiena. «Padre Brophy», mormorò la dottoressa. «Dov'è padre Brophy?» «Abbiamo già chiamato l'ambulanza.» Lentamente Maura si mise a sedere e guardò la strada, là dove Frost era accovacciato accanto al corpo del prete. No, pensò. No. «Non ti alzare ancora», disse Jane cercando di tenerla ferma. Ma Maura la scostò e si alzò con le gambe vacillanti e il cuore in gola. Non sentì quasi la strada gelida sotto i piedi nudi mentre incespicava verso Brophy. Frost sollevò lo sguardo quando si avvicinò. «È ferito al petto», la informò sommessamente. Inginocchiandosi accanto a lui, Maura strappò la camicia del sacerdote e vide dov'era penetrata la pallottola. Udì il rumore sinistro dell'aria risucchiata nel torace e premette la mano sulla ferita, toccando sangue caldo e carne appiccicaticcia. Brophy tremava dal freddo. Il vento spazzava la strada, tagliente come una lama. E ho io il tuo cappotto, pensò. Il cappotto che mi hai dato perché mi scaldassi. Tra l'ululare del vento Maura udì il gemito dell'ambulanza in arrivo. Brophy aveva lo sguardo annebbiato, stava perdendo conoscenza. «Resta con me, Daniel», disse Maura. «Mi senti?» La voce le si spezzò. «Tu vivrai.» Poi si chinò e, mentre con le sue lacrime gli bagnava il viso, gli sussurrò all'orecchio, supplicandolo. «Per favore. Fallo per me, Daniel. Devi vivere. Devi vivere...» 23 Il televisore in ospedale era sintonizzato, come sempre, sulla CNN. Maura sedeva con il piede bendato posato su una sedia, io sguardo fisso sulle notizie che scorrevano nella parte bassa dello schermo anche se non recepiva una sola parola. Ora indossava un maglione di lana e un paio di pantaloni larghi di velluto a coste, ma sentiva ancora freddo e pensava che non si sarebbe scaldata mai più. Quattro ore, pensò, è sotto i ferri da quattro ore. Si guardò la mano: vedeva ancora il sangue di Daniel Brophy sotto le unghie, sentiva ancora sotto il palmo il suo cuore pulsare come un uccellino che si dibatteva. Non aveva bisogno di vedere una radiografia per conoscere i danni causati dal proiettile: aveva visto la traiettoria letale che la Glaser blue-tip aveva seguito nel petto della Signora dei ratti e sapeva a che cosa si trovassero di fronte i chirurghi. Un polmone dilaniato da uno
shrapnel, il sangue che fuoriesce da una decina di vasi, il panico che ti assale quando vedi la vita svanire, emorragia dopo emorragia, e non riesci a clampare abbastanza in fretta. Maura sollevò lo sguardo quando Jane entrò nella stanza con una tazza di caffè e un cellulare. «Abbiamo trovato il tuo telefono vicino al cancello laterale», disse porgendoglielo. «E il caffè è per te. Bevi.» Maura ne bevve un sorso. Era troppo dolce, ma quella sera ne fu contenta. Avrebbe apprezzato qualsiasi fonte di energia in grado di rinfrancare il suo corpo stanco e ammaccato. «Ti posso portare qualcos'altro?» domandò Jane. «Hai bisogno di qualcosa?» «Sì.» Maura sollevò lo sguardo dal caffè. «Vorrei che mi dicessi la verità.» «Io dico sempre la verità, doc, lo sai.» «Allora dimmi che Victor non ha niente a che fare con tutto questo.» «È così.» «Ne sei assolutamente certa?» «Certa come non mai. Il tuo ex potrà anche essere un emerito stronzo, ti potrà anche aver mentito, ma sono più che certa che non ha ucciso nessuno.» Maura si accasciò sullo schienale del divanetto e sospirò. Fissando la tazza fumante, chiese: «E Matthew Sutcliffe? È davvero un medico?» «Sì. Si è laureato all'Università del Vermont. Ha fatto l'internato a Boston. È interessante, doc: se hai quel titolo davanti al nome tutti ti rispettano. Entri in un ospedale, dici al personale che un tuo paziente è appena stato ricoverato e nessuno ti fa domande. Non quando i parenti del paziente chiamano e confermano la tua versione.» «Un medico che fa il killer prezzolato?» «Non sappiamo se la Octagon lo abbia pagato. A dire il vero, credo che la società non abbia nulla a che fare con questi omicidi. Sutcliffe potrebbe averli commessi per ragioni sue.» «Quali?» «Per proteggersi. Per nascondere la verità su quanto è successo in India.» Vedendo lo sguardo perplesso di Maura, Jane aggiunse: «La Octagon ci ha infine fornito l'elenco del personale impiegato nello stabilimento in India. C'era un medico nella fabbrica». «Era lui?» Jane annuì. «Il dottor Matthew Sutcliffe.»
Maura fissò il televisore, ma la sua mente non era concentrata sulle immagini che scorrevano sullo schermo. Pensava alle pire funerarie, ai crani barbaramente fracassati. E ricordava l'incubo del fuoco che consumava carne umana, dei corpi che ancora si muovevano, contorcendosi tra le fiamme. «A Bhopal sono morte seimila persone», disse. Jane annuì. «Ma il mattino dopo c'erano centinaia di migliaia di persone ancora vive.» Maura la guardò e chiese: «Dove sono i sopravvissuti di Bara? La Signora dei ratti non poteva essere l'unica». «E se non lo era, che cos'è successo agli altri?» Si fissarono negli occhi capendo infine che cosa Sutcliffe avesse disperatamente tentato di nascondere. Non l'incidente in sé, ma le conseguenze, e il ruolo che vi aveva avuto. Maura pensò all'orrore a cui si era trovato di fronte quella notte, dopo che la nube tossica si era diffusa sul villaggio. Intere famiglie morte nei loro letti. Corpi stramazzati a terra, pietrificati negli ultimi istanti d'agonia. Il medico della fabbrica era stato probabilmente il primo a essere inviato a controllare i danni. Forse Sutcliffe non si era reso conto che alcune vittime erano ancora vive finché non avevano preso la decisione di bruciarle. Forse era stato un gemito a insospettirlo o la contrazione di un arto mentre trascinavano i corpi verso la pira accesa. Con l'odore di morte e di carne bruciata che si levava nell'aria, la presenza di persone vive lo aveva gettato in preda al panico. A quel punto però non potevano tornare indietro, si erano spinti troppo in là. Era questo che non volevi far sapere al mondo: quello che hai fatto ai vivi. «Perché ha cercato di aggredirti questa notte?» chiese Jane. Maura scosse la testa. «Non lo so.» «Lo hai visto in ospedale, gli hai parlato. Che cos'è successo?» Maura ripensò alla conversazione con Sutcliffe. Erano rimasti a osservare Ursula e avevano parlato dell'autopsia. Dei test di laboratorio e del verbale che ne avrebbe accertato la morte. E dell'esame tossicologico. «Credo sapremo la risposta quando faremo l'autopsia.» «Che cosa pensi di scoprire?» «La ragione per cui ha avuto un arresto cardiaco. Tu c'eri quella sera. Mi hai detto che, poco prima di avere la crisi, ha avuto un attacco di panico.
Che aveva un'aria terrorizzata.» «Perché Sutcliffe era lì.» Maura annuì. «Ha capito che cosa stava per accadere e non poteva parlare, non con un tubo in gola. Ho visto tante emergenze e so come vanno le cose: tutti si precipitano nella stanza, c'è una gran confusione. Si iniettano cinque o sei farmaci nello stesso tempo.» Dopo un attimo di silenzio, aggiunse: «Ursula era allergica alla penicillina». «Risulterà dall'esame tossicologico?» «Non lo so. Ma per lui poteva essere un problema, non credi? E io ero l'unica a insistere perché venisse effettuato il test.» «Detective Rizzoli?» Si voltarono e videro un'infermiera della sala operatoria in piedi sulla soglia. «Il dottor Demetrios desidera informarvi che è andato tutto bene. In questo momento lo stanno suturando. Tra un'ora il paziente verrà spostato nell'unità di terapia intensiva chirurgica.» «La dottoressa Isles, qui, sta aspettando di vederlo.» «Ci vorrà un po' prima che possa ricevere visite. Lo terremo intubato e sedato. È meglio se torna più tardi, forse dopo pranzo.» Maura annuì e si alzò lentamente in piedi. Jane la seguì. «Ti accompagno a casa», disse. Era già l'alba quando Maura entrò in casa. Guardò la scia di sangue secco che aveva lasciato sul pavimento, ricordo del brutto momento vissuto. Entrò in tutte le stanze, come se volesse strapparle all'oscurità, riaffermare che quella era sempre casa sua e che tra quelle pareti non c'era posto per la paura. Andò in cucina e scoprì che la finestra rotta era già stata sbarrata con assi contro il freddo. Senza dubbio, per ordine di Jane. Da qualche parte un telefono stava squillando. Maura staccò il ricevitore dall'apparecchio a muro, ma non c'era segnale. La linea non era stata ancora riattivata. Il cellulare, pensò. Andò in soggiorno dove aveva lasciato la borsa. Quando lo recuperò, aveva tuttavia smesso di suonare. Premette allora il tasto per sentire il messaggio registrato in segreteria. La chiamata era di Victor. Maura si lasciò cadere sul divano, sbalordita di sentire la sua voce. «So di chiamarti troppo presto e tu ti starai probabilmente chiedendo
perché diavolo dovresti ascoltarmi dopo... be', dopo tutto quello che è successo. Ma adesso è tutto chiaro, alla luce del sole. Sai che non ho niente da guadagnarci, perciò forse mi crederai quando ti dico che mi manchi tantissimo, Maura. Penso che tra noi potrebbe funzionare. Potremmo darci un'altra possibilità. Dammi un'altra possibilità, vuoi? Per favore.» Maura rimase a lungo seduta sul divano tenendo il telefono con le mani intorpidite e lo sguardo fisso sul caminetto spento. Alcune fiamme non possono essere riaccese, pensò. Alcune fiamme è meglio che restino spente. Infilò il telefono in borsa, poi si alzò e andò a pulire il pavimento dal sangue. Alle dieci il sole aveva finalmente squarciato le nubi e, mentre guidava verso casa, Jane dovette socchiudere gli occhi per proteggersi dal riflesso sulla neve appena caduta. Le strade erano tranquille, i marciapiedi di un bianco incontaminato. In quel mattino di Natale si sentiva rinnovata, liberata da tutti i dubbi. Si toccò il ventre e pensò: a noi due, piccolo. Parcheggiò davanti a casa e scese dall'auto. Si fermò per un istante nella fredda luce del sole e inspirò una boccata di quell'aria cristallina. «Buon Natale, Jane.» S'immobilizzò all'istante e il cuore prese a martellarle nel petto. Poi lentamente si voltò. Gabriel Dean era in piedi di fronte all'ingresso del palazzo. Lo osservò avvicinarsi, ma non le venne in mente niente da dirgli. Una volta erano stati intimi come un uomo e una donna possono essere, eppure ora erano lì, impacciati come due estranei. «Ti credevo a Washington», disse infine Jane. «Sono arrivato circa un'ora fa. Ho preso il primo volo.» Dopo un attimo di silenzio aggiunse con tono tranquillo: «Grazie per avermelo detto». «Sì, be'», rispose lei con una scrollata di spalle. «Non ero nemmeno certa che volessi saperlo.» «Perché?» «È una complicazione.» «La vita è tutta una serie di complicazioni. Dobbiamo affrontarle una alla volta, quando capitano.» Era una risposta così funzionale. L'uomo con il vestito grigio, così aveva definito Gabriel la prima volta che si erano conosciuti e così ora lo vedeva,
in piedi davanti a lei, con il suo cappotto scuro. Calmo e distaccato. «Da quanto lo sai?» chiese. «Non ne ero sicura fino a qualche giorno fa. Ho fatto uno di quei test di gravidanza, ma dentro di me lo sentivo da varie settimane.» «Perché hai aspettato tanto a dirmelo?» «Non volevo neanche dirtelo, perché non pensavo di tenerlo.» «Perché no?» Jane scoppiò a ridere. «Tanto per cominciare, con i bambini sono un disastro. Quando qualcuno mi dà un neonato, non so che fare. Bisogna fargli fare il ruttino o lo devo cambiare? E come faccio ad andare a lavorare se devo badare a un figlio a casa?» «Non sapevo che i poliziotti facessero voto di non avere figli.» «Ma è così difficile. Guardo le altre mamme e non so come facciano. Non so se io ce la farò.» Jane sbuffò e il suo alito creò una piccola nube di condensa. Poi raddrizzandosi, affermò: «Almeno, la mia famiglia vive qui. Sono sicura che mia madre sarà felice di fare da baby-sitter e ad alcuni isolati da qui c'è un asilo. Mi informerò, per sapere a che età li prendono». «Allora è così, hai già programmato tutto.» «Più o meno.» «Persino chi terrà il nostro bambino.» Il nostro bambino. Jane deglutì pensando alla vita che cresceva dentro di lei e che era anche parte di Gabriel. «Ci sono ancora vari dettagli a cui devo pensare.» Dean era sempre immobile, sempre l'uomo con il vestito grigio. Ma quando parlò Jane percepì una nota di rabbia che la lasciò stupita. «E io dove sto?» domandò. «Hai fatto tutti questi progetti e non mi hai nominato neanche una volta. Non che la cosa mi sorprenda.» Lei scosse la testa. «Perché ti dà tanto fastidio?» «È la solita vecchia storia, Jane. Quella che non riesci a non ripetere. Jane Rizzoli si gestisce la sua vita, ben protetta dalla sua corazza. Chi mai ha bisogno di un uomo? Accidenti, tu no.» «Che cosa dovrei dire? Per favore, oh, per favore, salvami? Non posso allevare un bambino senza un uomo?» «No, probabilmente ce la faresti. Troveresti il modo, anche ammazzandoti.» «Allora, cosa vuoi che dica?» «Hai una scelta Jane.» «E l'ho fatta. Te l'ho detto, terrò il bambino.» Jane s'incamminò verso i
gradini, avanzando fiera nella neve. Lui la prese per un braccio. «Non sto parlando del bambino. Sto parlando di noi.» Poi, dolcemente, disse: «Sceglimi, Jane». Lei si voltò a guardarlo. «Che significa?» «Significa che possiamo farlo insieme. Significa che tu mi lasci passare oltre quella corazza. È l'unico modo in cui può funzionare: tu lasci che io ti ferisca e io lascio che tu mi ferisca.» «Splendido. Così finiamo tutti e due a pezzi.» «O finiamo per fidarci l'uno dell'altra.» «Non ci conosciamo quasi.» «Ci siamo conosciuti abbastanza bene da fare un figlio.» Jane si sentì arrossire e d'un tratto non poté più guardarlo in faccia. Abbassò lo sguardo verso la neve. «Non ti sto dicendo che ci riusciremo», proseguì Gabriel. «Non so nemmeno come affrontare la cosa, tu qui e io a Washington.» Tacque per un attimo. «E, per essere sinceri, a volte, Jane, sai essere proprio una stronza.» Lei scoppiò a ridere e si passò la mano sugli occhi. «Lo so, Gesù, lo so.» «Ma altre volte...» Gabriel allungò la mano e le sfiorò il viso. «Altre volte...» Altre volte, pensò lei, mi vedi come sono. E questo mi spaventa. No, mi terrorizza. Potrebbe essere la cosa più coraggiosa che faccio nella vita. Alla fine sollevò la testa e lo guardò, poi inspirò profondamente. E disse: «Credo di amarti». 24 Tre mesi dopo Maura era seduta in seconda fila nella chiesa di St. Anthony e il suono dell'organo le risvegliò ricordi d'infanzia. Si ricordò della messa domenicale con i genitori, di quanto dure e sconfortevoli fossero le panche dopo mezz'ora. Di come si dimenasse per stare comoda e di come il padre la prendesse in braccio, il miglior posto visto che le garantiva una stretta protettiva. A quel tempo guardava sempre le finestre di vetro colorato, decorate con immagini che la spaventavano: Giovanna d'Arco legata sul rogo, Gesù sulla croce, vari santi prostrati davanti ai loro carnefici. E sangue,
tanto sangue, versato in nome della fede. Quel giorno però la chiesa non aveva un'aria minacciosa. La musica d'organo era allegra e ghirlande di fiori rosa ornavano le panche, lungo i corridoi. Maura vide bambini felici rimbalzare sulle ginocchia dei genitori, bambini che non erano turbati dalle immagini di sofferenza incise sui vetri colorati. L'organo iniziò a suonare l'Inno alla gioia di Beethoven. Nel corridoio centrale comparvero due damigelle in giacca e pantaloni grigio chiaro. Maura le riconobbe come due agenti del dipartimento di Polizia di Boston. Quel giorno la chiesa era piena di agenti. Voltandosi, vide Barry Frost e il detective Sleeper seduti proprio nella fila dietro alla sua, entrambi sereni e rilassati. Troppo spesso, quando i poliziotti e le loro famiglie si trovano in chiesa, è per piangere un collega. Quel giorno invece Maura vedeva sorrisi e vestiti colorati. Poi apparve Jane al braccio del padre. Per una volta la sua chioma scura era stata domata, raccolta in un elegante chignon. Il completo giacca e pantaloni di satin bianco, con la giacca molto ampia, non riusciva a nascondere del tutto il pancione. Quando raggiunse la fila di Maura, i loro sguardi s'incrociarono brevemente e Maura la vide alzare gli occhi al cielo come per dire: Non è incredibile che lo stia facendo? Poi Jane guardò verso l'altare. Verso Gabriel. A volte, pensò Maura, le stelle si allineano, gli dei sorridono e l'amore ha una chance. Una chance soltanto: è tutto ciò in cui si può sperare. Non ci sono garanzie, né certezze. Osservò Gabriel prendere la mano di Jane, poi entrambi si voltarono in direzione dell'altare. Quel giorno erano uniti, ma ci sarebbero stati altri giorni in cui sarebbero volate parole dure o in cui il silenzio li avrebbe divisi. Giorni in cui l'amore sarebbe sopravvissuto a stento, come un uccellino con un'ala sola, in cui il carattere impetuoso di Jane e l'indole più fredda di Gabriel avrebbero fatto a pugni e in cui entrambi si sarebbero interrogati sulla fondatezza di quell'unione. Ma ci sarebbero stati anche giorni come quello. Giorni perfetti. Era tardo pomeriggio quando Maura uscì dalla chiesa di St. Anthony. Il sole splendeva e per la prima volta sentì un vago tepore nell'aria. Il primo accenno di primavera. Guidò con il finestrino aperto lasciando entrare gli odori della città, diretta non a casa ma al quartiere di Jamaica Plain. Alla parrocchia di Nostra Signora della Divina Luce. Quando varcò la porta massiccia, si ritrovò in un ambiente scuro e silen-
zioso, le cui finestre colorate catturavano l'ultima luce del sole. Vide solo due donne, sedute vicine su una panca della prima fila, le teste chine in preghiera. Entrò silenziosa in una cappella laterale, dove accese tre candele per tre donne. Una per suor Ursula, una per suor Camille e una per la lebbrosa senza volto di cui non avrebbe mai saputo il nome. Non credeva nell'inferno e nel paradiso, e non era nemmeno certa di credere nell'anima immortale. Eppure restò in quel tempio e accese tre candele, gesto che le diede conforto perché una cosa in cui credeva era proprio la forza del ricordo. Solo i dimenticati muoiono davvero. Uscì dalla cappella e vide che, accanto alle due donne, ora c'era padre Brophy, intento a sussurrare loro parole di conforto. Mentre gli ultimi bagliori di luce filtravano dalle finestre, i loro sguardi s'incrociarono. Per un solo istante entrambi dimenticarono dove fossero e chi fossero. Poi Maura sollevò la mano in segno di addio. E uscì dalla chiesa, tornando nel suo mondo. FINE